CAPITOLO XX.
Motivi, progresso ed effetti della conversione di Costantino. Legittimo stabilimento, e costituzione della Chiesa Cristiana, o Cattolica.
Si può risguardare il pubblico stabilimento del Cristianesimo, come una di quelle importanti e domestiche rivoluzioni, che eccitano la più viva curiosità, e somministrano la più efficace istruzione. Le vittorie ed il governo civile di Costantino non influiscono ora più sopra lo stato dell'Europa; ma una considerabil parte del globo ritien tuttavia l'impressione, che ricevè dalla conversione di quel Monarca; e l'ecclesiastiche istituzioni, fatte sotto il suo regno, son sempre connesse, mediante un'indissolubil catena, colle opinioni, colle passioni, e cogl'interessi della presente generazione.
A. D. 306-312
Nella considerazione d'un soggetto, che si può esaminare senza parzialità, ma non può riguardarsi con indifferenza, nasce subito una difficoltà inaspettata, cioè quella di determinare il vero e preciso tempo della conversione di Costantino. L'eloquente Lattanzio, in mezzo alla Corte di lui, sembra impaziente[1] di pubblicare al Mondo il glorioso esempio del Sovrano della Gallia, che fin da' primi momenti del suo regno conobbe e adorò la maestà dell'unico e vero Dio[2]. Il dotto Eusebio attribuì la fede di Costantino al segno miracoloso, che si fece veder in Cielo, mentr'egli meditava e preparava la spedizione dell'Italia[3]. L'istorico Zosimo asserisce maliziosamente, ch'esso aveva imbrattato le mani nel sangue del suo figlio maggiore, avanti di rinunziar pubblicamente agli Dei di Roma e de' suoi maggiori[4]. La dubbiezza, che producono queste discordi autorità, nasce dalla condotta di Costantino medesimo. Secondo il rigore del linguaggio ecclesiastico il primo Imperator Cristiano non fu degno di tal nome che al momento della sua morte; giacchè solo nell'ultima sua malattia ricevè come catecumeno l'imposizion delle mani[5], e quindi fu ammesso, mediante l'iniziante rito del Battesimo, nel numero de' Fedeli[6]. Conviene concedere a Costantino la qualità di Cristiano in un senso molto più vago ed esteso, e si richiede la più minuta esattezza nel determinare i lenti, e quasi impercettibili gradi, pe' quali il Monarca si dichiarò protettore, e finalmente proselito della Chiesa. Era una difficile impresa quella di sradicare gli abiti, ed i pregiudizi della sua educazione, di riconoscere il divino potere di Cristo, e d'intendere che la verità della sua Rivelazione era incompatibile col culto degli Dei. Gli ostacoli, che aveva probabilmente sperimentati nell'animo suo, lo istruirono a procedere con cautela nel momentaneo cangiamento d'una religion nazionale; ed appoco appoco scopriva le sue nuove opinioni, a misura che si trovava in grado di sostenerle con sicurezza e con effetto. In tutto il corso del suo regno, il Cristianesimo s'avanzò con un placido, sebbene accelerato moto; ma la generale progressione di esso fu alle volte raffrenata ed alle volte deviata dalle accidentali circostanze de' tempi, e dalla prudenza, o forse anche dal capriccio del Monarca. Fu permesso a' suoi Ministri d'indicar le intenzioni del Principe nel vario linguaggio, che più si accomodava a' respettivi loro principj[7]; ed egli artificiosamente bilanciò le speranze ed i timori de' propri sudditi, pubblicando nel medesimo anno due editti, l'uno de' quali comandava la solenne osservanza della Domenica[8], ed il secondo dirigeva la regolar consultazione degli Aruspici[9]. Mentre stava tuttavia sospesa quest'importante rivoluzione, i Cristiani ed i Pagani spiavano la condotta del loro Sovrano colla medesima ansietà, ma con sentimenti del tutto contrari. I primi eran mossi da ogni motivo di zelo, non men che di vanità, ad esagerare i segni del suo favore, e le prove della sua fede. Gli altri, finattanto che i loro giusti timori non furon cangiati in disperazione ed in isdegno, procuravano di nascondere al Mondo ed a loro medesimi, che gli Dei di Roma non contavan più l'Imperatore nel numero dei loro devoti. Le stesse passioni e gli stessi pregiudizi hanno impegnato gli scrittori parziali di varj tempi ad unire la pubblica professione del Cristianesimo colla più gloriosa o colla più ignominiosa epoca del regno di Costantino.
Per quanto si potessero scorgere ne' discorsi o nelle azioni di Costantino sintomi di cristiana pietà, ciò nonostante perseverò egli fino all'età di quasi quarant'anni nella pratica della religione stabilita[10]; e quella stessa condotta, che nella Corte di Nicomedia si sarebbe potuta imputare al suo timore, non si poteva attribuire che all'inclinazione o alla politica, quando fu divenuto Sovrano della Gallia. La sua liberalità restaurò ed arricchì i tempj degli Dei; le medaglie, che uscirono dall'Imperiale sua zecca, hanno impresse le figure e gli attributi di Giove e d'Apollo, di Marte e d'Ercole; e la sua figlial pietà, mediante la solenne apoteosi di suo padre Costanzo, accrebbe l'assemblea dell'Olimpo[11]. Ma la devozione di Costantino era particolarmente diretta al genio del Sole, l'Apollo della Greca e Romana mitologia; e si compiaceva di farsi rappresentare co' simboli del Dio della luce e della poesia. Gl'infallibili dardi di quel Nume, lo splendor de' suoi occhi, la sua corona d'alloro, l'immortal bellezza, e gli eleganti ornamenti che l'accompagnano, sembra che lo costituiscano come il Dio tutelare d'un giovane Eroe. Gli altari d'Apollo eran coronati dalle votive offerte di Costantino; e la credula moltitudine inducevasi a pensare, che fosse concesso all'Imperatore di vedere con occhi mortali la visibile maestà del tutelare lor Nume; e che, o vegliando, o in visione, venisse felicitato da' prosperi augurj d'un lungo e vittorioso regno. Si celebrava universalmente il Sole, come la guida invincibile, ed il protettore di Costantino, ed i Pagani avevan ragione d'aspettare, che l'insultata Divinità perseguitato avrebbe con inesorabil vendetta l'empietà dell'ingrato suo favorito[12].
Finattanto che Costantino esercitò una sovranità limitata nelle Province della Gallia, i suoi sudditi Cristiani furon protetti coll'autorità, e forse colle leggi d'un Principe, che saggiamente lasciava agli Dei la cura di vendicare il loro proprio onore. Se si dee prestar fede all'asserzione di Costantino medesimo, egli era stato con isdegno spettatore delle barbare crudeltà che soffrirono per mano de' soldati Romani que' cittadini, l'unico delitto de' quali consisteva nella lor religione[13]. Tanto nell'Oriente quanto nell'Occidente, aveva egli veduto i diversi effetti della severità e dell'indulgenza; e siccome la prima rendevasi viepiù odiosa dall'esempio di Galerio, suo implacabil nemico, così veniva portato ad imitar la seconda dall'autorità e dal consiglio d'un genitor moribondo. Il figlio di Costanzo immediatamente sospese, o rivocò gli editti di persecuzione, o concesse a tutti quelli, che s'erano già dichiarati membri della Chiesa, il libero esercizio delle religiose lor ceremonie. Essi furon ben presto incoraggiati a fidar nel favore non meno che nella giustizia del loro Sovrano, che aveva concepito una segreta e sincera venerazione pel nome di Cristo e pel Dio de' Cristiani[14].
A. D. 313
Intorno a cinque mesi dopo la conquista dell'Italia, l'Imperatore fece una solenne ed autentica dichiarazione de' suoi sentimenti, per mezzo del celebre editto di Milano, che restituì la pace alla Chiesa Cattolica. Nel personal congresso de' due Principi Occidentali, Costantino, per l'ascendente del suo genio e della sua potenza, ottenne facilmente l'assenso del suo collega Licinio; l'unione e l'autorità de' lor nomi disarmò il furore di Massimino, e dopo la morte del Tiranno dell'Oriente fu ricevuto l'editto di Milano come una legge generale fondamentale del Mondo Romano[15]. La saviezza degl'Imperatori ordinò la reintegrazione di tutti i diritti sì civili che religiosi, de' quali i Cristiani erano stati sì ingiustamente spogliati. Fu stabilito, che i luoghi di culto e le pubbliche terre che erano state confiscate, si restituissero alla Chiesa senza disputa, senza dilazione e senza spesa; e questo severo comando fu accompagnato da una graziosa promessa, che se alcuno de' possessori ne avesse sborsato un giusto e adeguato prezzo, ne verrebbe indennizzato dal tesoro Imperiale. I salutevoli regolamenti, che riguardavano la futura tranquillità del Fedele, furon formati su' principj d'una larga ed ugual tolleranza; e tal uguaglianza dovè da una recente Setta interpretarsi come una vantaggiosa ed onorevole distinzione. I due Imperatori manifestano al Mondo, ch'essi hanno conceduto una libera ed assoluta facoltà sì a' Cristiani che a tutti gli altri di seguitar quella religione, che ognuno crede proprio di preferire, che si è posta nel cuore, e che stima la più conveniente al proprio uso. Spiegano esattamente ogni parola ambigua, tolgono ogni eccezione, ed esigono da' Governatori delle Province una rigorosa obbedienza al vero e semplice senso d'un Editto, che tendeva a stabilire e ad assicurare senz'alcun limite i diritti della libertà religiosa. Si compiacciono d'assegnare due forti ragioni, che gli hanno indotti a concedere questa universale tolleranza, cioè la benigna intenzione di provvedere alla pace e felicità del lor popolo, e la pia speranza, che per mezzo di tal condotta saranno per calmare e rendersi propizia la Divinità, che ha la propria sede nel Cielo. Riconoscono con animo grato le molte segnalate prove che han ricevuto del favor Divino, o confidano che la medesima Providenza continuerà sempre a proteggere la prosperità del Principe e del Popolo. Da queste vaghe indeterminate espressioni di pietà posson dedursi tre supposizioni di una diversa, ma non incompatibil natura. Poteva l'animo di Costantino esser fluttuante fra le religioni Cristiana e Pagana. Secondo le libere e condiscendenti nozioni del Politeismo poteva egli riconoscere il Dio de' Cristiani come una delle molte Divinità, che componevano la gerarchia del Cielo; o poteva per avventura aver abbracciato la filosofica e gradevole idea, che nonostante la varietà de' nomi, de' riti, e delle opinioni tutte le Sette e Nazioni del Mondo s'uniscono a venerare il comun Padre e Creatore dell'Universo[16].
Ma influiscono più frequentemente ne' consigli dei Principi le mire del temporale vantaggio, che le considerazioni d'un verità speculativa ed astratta. Il parziale e crescente favore di Costantino può naturalmente attribuirsi alla stima, ch'egli aveva del moral carattere de' Cristiani, ed alla ferma credenza, che la propagazione dell'Evangelio avrebbe inculcata la pratica della pubblica e privata virtù. Sia quanto si voglia estesa la potenza di un assoluto Monarca, sia egli quanto si voglia indulgente per le proprie passioni, è senza dubbio suo interesse che tutti i sudditi rispettino le naturali e civili obbligazioni della società. Ma l'azione delle più savie leggi è imperfetta e precaria. Di rado esse inspirano la virtù; sempre non posson reprimere il vizio. La loro forza non è sufficiente a proibire tutto ciò che condannano, nè posson sempre punire le azioni, che esse proibiscono. I Legislatori dell'antichità chiamarono in loro aiuto il potere dell'educazione e dell'opinione. Ma in un Impero decadente e dispotico era già da gran tempo estinto ogni principio, che aveva mantenuto una volta il vigore e la purità di Roma e di Sparta. La filosofia esercitava sempre il suo moderato dominio sullo spirito umano, ma la Pagana superstizione assai debolmente influiva nella causa della virtù. In tali circostanze, che scoraggiavano, un Magistrato prudente doveva osservar con piacere il progresso d'una religione, che diffondeva nel popolo un puro, benefico ed universal sistema di morale, adattata ad ogni dovere e ad ogni condizione, raccomandata come la volontà e la ragione della Suprema Divinità, ed invigorita dall'espettazione de' premi o gastighi eterni. L'esperienza dell'Istoria Greca e Romana non era da tanto di far conoscere al mondo, quanto si potesse riformare e migliorare il sistema de' costumi nazionali mediante i precetti di una Divina Rivelazione; e Costantino potè con fiducia prestare orecchio alle lusinghiere e in verità ragionevoli assicurazioni di Lattanzio. Pareva che l'eloquente Apologista aspettasse per fermo, e s'arrischiasse quasi a promettere, che lo stabilimento del Cristianesimo avrebbe restituita l'innocenza e la felicità de' primitivi tempi; che il culto del vero Dio avrebbe estinto la guerra e la dissensione fra quelli i quali si risguardavan fra loro come figli d'un comun Padre; che per la cognizione dell'Evangelio si sarebbe tenuto a freno qualunque impuro appetito, qualunque passione d'ira o d'amor proprio, e che i Magistrati avrebber potuto porre nel fodero la spada della giustizia fra un popolo, che tutto quanto sarebbe stato retto da sentimenti di verità e di pietà, di equità e di moderazione, di armonia e d'amore universale[17].
La passiva e docile obbedienza, che si piega sotto il giogo dell'autorità o anche dell'oppressione, dovè apparire, agli occhi di un assoluto Monarca, tra le virtù Evangeliche la più cospicua o vantaggiosa[18]. I primitivi Cristiani facevan derivare l'istituzione del Governo civile non già dal consenso del Popolo, ma da' decreti del Cielo. Quantunque l'Imperatore, che regnava, usurpato avesse lo scettro per mezzo del tradimento e della strage, egli assumeva tuttavia subito il sacro carattere di Vicegerente della Divinità. A questa soltanto dovea render conto dell'abuso del suo potere; ed i suoi sudditi erano, pel giuramento di fedeltà, indissolubilmente legati ad un Tiranno, che avesse violato qualunque legge di natura e di società. Gli umili Cristiani eran mandati nel Mondo, come pecore in mezzo a' lupi; e poichè non era loro permesso d'impiegar la forza, neppure in difesa della lor religione, molto più sarebbero stati rei, se tentato avessero di spargere il sangue de' loro prossimi nel disputare i vani privilegi o i sordidi beni di questa vita transitoria. Attaccati alla dottrina dell'Apostolo, che nel regno di Nerone avea predicato il dovere di una sommissione illimitata, i Cristiani de' primi tre secoli mantennero pura ed innocente la lor coscienza dalla colpa di qualunque segreta cospirazione, non meno che di ogni aperta rivolta. Mentre provavano il rigore della persecuzione, non furono mai tentati o d'affrontare in campo di battaglia i loro tiranni, o di ritirarsi sdegnati in qualche remoto e separato canto del globo[19]. Si sono insultati i protestanti della Francia, della Germania, e dell'Inghilterra, che sostennero sì coraggiosi ed intrepidi la civile e religiosa lor libertà, con l'odioso paragone fra la condotta de' Cristiani primitivi e quella de' riformati[20]. Forse, invece di censura, si sarebbe dovuto applaudire a' sentimenti e allo spirito superiore de' nostri maggiori, che si eran persuasi, che la religione non può abolire gl'inalienabili diritti della natura umana[21]. Può forse attribuirsi la pazienza della primitiva Chiesa alla debolezza, ugualmente che alla sua virtù. Una setta di indisciplinati plebei, senza condottieri, senz'armi, senza fortificazioni, sarebbe stata inevitabilmente distrutta, se avesse fatta una temeraria ed inutile resistenza a chi disponeva delle legioni Romane. Ma quando i Cristiani esecravano la rabbia di Diocleziano, o sollecitavano il favore di Costantino, potevano addurre con verità e fiducia, ch'essi tenevano il principio d'una passiva obbedienza, e che nello spazio di tre secoli la lor condotta era sempre stata conforme a' loro principj. Potevano anche aggiungere, che il trono degli Imperatori si sarebbe stabilito sopra una base fissa e durevole, se tutti i lor sudditi, abbracciando la fede Cristiana, imparato avessero a tollerare e ad ubbidire.
Nell'ordine generale della Previdenza, i Principi ed i Tiranni si risguardan come ministri del Cielo, destinati a regolare, o a gastigar le nazioni della terra. Ma l'Istoria Sacra somministra molti illustri esempi d'una interposizione più immediata della Divinità nel governo del suo popolo eletto. Si affidava lo scettro e la spada alle mani di Mosè, di Giosuè, di Gedeone, di David, de' Maccabei. Le virtù di questi Eroi erano il motivo o l'effetto del favore divino, ed il successo delle loro armi era destinato ad effettuar la liberazione o il trionfo della Chiesa. Se i Giudici di Israello erano accidentali e temporanei Magistrati, i Re di Giuda traevano dalla reale unzione del loro grande Antenato un ereditario ed inviolabil diritto, che non poteva mancare pe' loro vizi, nè revocarsi dal capriccio de' loro sudditi. La medesima straordinaria Providenza, che non si limitava più al popolo Giudaico, potè sceglier Costantino e la sua famiglia per proteggere il mondo Cristiano; ed il devoto Lattanzio annuncia in un tuono profetico le future glorie dell'universale e lungo suo regno[22]. Galerio e Massimino, Massenzio e Licinio erano i rivali, che si dividevan col favorito del Cielo le Province dell'Impero. Le tragiche morti di Galerio e di Massimino presto soddisfecero lo sdegno e adempirono le ardenti speranze de' Cristiani. Il successo di Costantino contro Massenzio e Licinio rimosse i due formidabili competitori, che sempre s'opposero al trionfo del secondo David, e la sua causa pareva che avesse diritto alla particolare interposizione della Providenza. Il carattere del Tiranno di Roma infamò la porpora e la natura umana; e quantunque i Cristiani goder potessero del precario favore di lui, pure si trovavano, col resto de' suoi sudditi, esposti agli effetti della sua lasciva e capricciosa crudeltà. La condotta di Licinio tosto scoprì, che aveva con ripugnanza consentito ai savj ed umani regolamenti dell'editto di Milano. Fu ne' suoi dominj proibita la convocazione de' Concilj Provinciali; i suoi uffiziali Cristiani furon cassati con ignominia; e quantunque egli evitasse la colpa, o piuttosto il pericolo d'una persecuzione generale, le sue particolari oppressioni si rendevano sempre più odiose per la violazione d'un solenne e volontario impegno[23]. Mentre l'Oriente, secondò la viva espressione d'Eusebio, era involto nelle ombre d'una infernale oscurità, i favorevoli raggi di celeste luce riscaldavano ed illuminavan le Province dell'Occidente. Si risguardava la pietà di Costantino come una piena prova della giustizia delle sue armi; e l'uso, ch'ei fece, della vittoria, confermò l'opinion de' Cristiani, che il loro Eroe veniva inspirato e condotto dal Signor degli Eserciti. La conquista dell'Italia produsse un general editto di tolleranza; e tosto che la disfatta di Licinio ebbe investito Costantino solo nel dominio di tutto il Mondo Romano, egli per mezzo di circolari esortò immediatamente tutti i suoi sudditi ad imitare senza dilazione l'esempio del loro Sovrano, e ad abbracciar la divina verità del Cristianesimo[24].
La sicurezza, che l'elevazione di Costantino fosse intimamente connessa co' disegni della Providenza, instillava negli animi de' Cristiani due opinioni, che per mezzi molto diversi fra loro, contribuivano all'adempimento della profezia. L'ardente loro ed attiva lealtà esauriva in favore di lui ogni ripiego dell'industria umana; ed essi aspettavano con fiducia che i gagliardi loro sforzi verrebbero secondati da qualche aiuto divino e miracoloso. I nemici di Costantino hanno imputato a motivi d'interesse la lega, ch'egli contrasse insensibilmente colla Chiesa Cattolica, e che in apparenza contribuì al buon successo della sua ambizione. Al principio del quarto secolo, i Cristiani erano sempre in una piccola proporzione rispetto agli abitatori dell'Impero; ma in mezzo ad un popolo degenerato, che vedeva il cangiamento de' suoi Signori coll'indifferenza propria degli schiavi, lo spirito e l'unione d'un partito religioso poteva assistere il Condottier popolare, al servizio del quale avevan essi per principio di religione consacrato le vite e gli averi[25]. L'esempio del padre aveva ammaestrato Costantino a stimare ed a premiare il merito de' Cristiani; e nella distribuzione de' pubblici uffizi aveva esso il vantaggio di fortificare il suo governo mediante la scelta di Ministri o di Generali, nella fedeltà de' quali poteva egli riporre senza riserva una giusta fiducia. Per l'influsso di questi qualificati Missionari dovevan moltiplicare nella Corte e nell'armata i proseliti della nuova fede; i Barbari della Germania, ch'empivano gli ordini delle legioni, erano d'un'indole negligente, che s'accomodava senza resistenza alla religione del lor comandante; e può ragionevolmente presumersi, che quando passaron le alpi, un gran numero di soldati avesser già consacrato le loro spade al servizio di Cristo e di Costantino[26]. L'abitudine umana e l'interesse di religione appoco appoco tolsero quell'orrore contro la guerra ed il sangue, ch'era tanto prevalso fra' Cristiani; e ne' Concilj, che s'adunarono sotto la graziosa protezione di Costantino, fu opportunamente impiegata l'autorità de' Vescovi per confermare l'obbligazione del giuramento militare, e per dar la pena di scomunica a que' soldati, che durante la pace della Chiesa gettavan le armi[27]. Mentre Costantino accresceva ne' suoi dominj il numero e lo zelo de' suoi fedeli aderenti, poteva contar nell'aiuto d'una potente fazione anche in quelle Province, ch'erano sempre possedute o usurpate da' suoi rivali. Era sparsa fra i sudditi Cristiani di Massenzio e di Licinio una malcontentezza segreta; e lo sdegno, che quest'ultimo non poteva nascondere, non serviva che a sempre più profondamente impegnarli negl'interessi del suo competitore. Quella regolar corrispondenza, che univa insieme i Vescovi delle più distanti Province, li poneva in istato di potersi liberamente comunicare i lor desiderj e disegni; e di trasmetter senza pericolo qualunque utile avviso o delle pie contribuzioni che promuover potessero il servizio di Costantino, il quale dichiarava pubblicamente di avere preso le armi per la liberazione della Chiesa[28].
L'entusiasmo, che ispirava le truppe e forse l'Imperatore medesimo, aveva aguzzate le spade loro nel tempo che soddisfaceva la loro coscienza. Marciavano essi alla guerra con la piena sicurezza, che il medesimo Dio, che aveva già aperto il passaggio agl'Israeliti pel Giordano, e gettato a terra le mura di Gerico al suono delle trombe di Giosuè, avrebbe mostrato la visibile sua maestà e potenza nella vittoria di Costantino. L'istoria ecclesiastica è pronta a far fede, che furon giustificate le loro speranze da quel cospicuo miracolo, al quale si è quasi concordemente attribuita la conversione del primo Imperatore Cristiano. La causa reale o immaginaria d'un fatto così importante merita ed esige l'attenzione della posterità; ed io procurerò di formare una giusta idea della famosa visione di Costantino, mediante un distinto esame dello stendardo, del sogno, e del segno celeste, separando fra loro le parti istoriche, naturali, e maravigliose di questo racconto straordinario, le quali artificiosamente si sono confuse por comporne la splendida e fragile mole di uno specioso argomento.
I. Un istrumento, che serviva per tormentare solamente gli schiavi e gli stranieri, era un oggetto d'orrore agli occhi d'un cittadino Romano; ed erano intimamente connesse coll'idea della croce l'idee di delitto, di pena e d'ignominia[29]. La divozione piuttosto che la clemenza di Costantino abolì ben presto nei suoi dominj quella pena, che s'era compiaciuto di soffrire il Salvatore del Mondo[30]; ma l'Imperatore, prima d'avere appreso a disprezzare i pregiudizi della sua educazione e del suo popolo, non potea risolversi ad erigere nel mezzo di Roma la propria statua con una croce nella destra e con una iscrizione, che riferiva la vittoria delle sue armi e la liberazione di Roma alla virtù di quel segno salutare, vero simbolo della forza e del coraggio[31]. Il medesimo simbolo significava le armi de' soldati di Costantino; la croce risplendeva sopra i loro elmi, era impressa ne' loro scudi, tessuta nelle loro bandiere; ed i sacri emblemi, che adornavano la persona stessa dell'Imperatore, non eran distinti che per la materia più ricca e pel più squisito lavoro[32]. Ma lo stendardo principale, che spiegava il trionfo della croce, chiamavasi Labarum[33]; oscuro, quantunque celebre nome, che in vano si è fatto derivare da quasi tutti i linguaggi del Mondo. Vien questo descritto[34], come una lunga picca intersecata da un'asta traversa. Il velo di seta, che pendeva dall'asta, era elegantemente adornato dalle immagini del Monarca regnante e de' suoi figli. La sommità della picca sosteneva una corona d'oro, che conteneva il misterioso monogramma esprimente nel tempo stesso la figura della croce, e le lettere iniziali del nome di Cristo[35]. Si confidava la sicurezza del Labaro a cinquanta guardie di sperimentato valore e fedeltà; il loro posto era distinto con onori ed emolumenti; e ben presto alcuni accidenti fortunati fecero nascere l'opinione, che finattanto che le guardie del Labaro s'esercitavano in eseguire il loro uffizio, eran sicure ed invulnerabili in mezzo a' dardi dell'inimico. Nella seconda guerra civile, Licinio provò ed ebbe occasione di temere la forza di questa sacra bandiera, la vista della quale, nel forte della battaglia, infiammò d'invincibil entusiasmo i soldati di Costantino, e sparse il terrore e il disordine fra le file delle nemiche legioni[36]. Gl'Imperatori Cristiani, che rispettavan l'esempio di Costantino, spiegavano in tutte le loro militari spedizioni lo stendardo della Croce; ma quando i degenerati successori di Teodosio ebber finito di comparire in persona alla testa de' loro eserciti, il Labaro fu depositato, come una venerabile ma inutil reliquia, nel palazzo di Costantinopoli[37]. Si è sempre conservato l'onore di esso nelle medaglie della famiglia Flavia. La grata lor devozione pose il monogramma di Cristo in mezzo alle insegne di Roma. Si trovano applicati ugualmente sì a' religiosi che a' militari trofei i solenni epiteti di salvezza della Repubblica, di gloria dell'esercito, di restaurazione della pubblica felicità; e tuttavia esiste una medaglia dell'Imperator Costanzo, in cui lo stendardo del Labaro è accompagnato da queste memorabili parole: «mercè di questo segno vincerai[38] ».
II. In ogni occasione di pericolo o d'angustia solevano i primitivi Cristiani fortificare gli spiriti ed i corpi loro col segno della Croce, ch'essi usavano in tutti i riti Ecclesiastici ed in tutte le quotidiane occorrenze della vita, come un infallibil preservativo da ogni sorta di male spirituale o temporale[39]. La sola autorità della Chiesa potè aver avuto sufficiente peso da giustificar la devozione di Costantino, che coll'istesso prudente e gradual progresso riconobbe la verità, ed assunse il simbolo del Cristianesimo. Ma la testimonianza d'uno scrittore contemporaneo, che in un trattato apposta ha difeso la causa della religione, compartisce alla pietà dell'Imperatore un più stupendo e sublime carattere. Afferma egli colla più perfetta sicurezza, che nella notte precedente l'ultima battaglia contro Massenzio, Costantino fu ammonito in sogno di fare imprimere sugli scudi de' suoi soldati il celeste segno di Dio, cioè il sacro monogramma del nome di Cristo; ch'esso eseguì gli ordini del Cielo; o che fu premiato il valore e l'obbedienza di lui colla decisiva vittoria sul ponte Milvio. Alcuni riflessi potrebbero forse indurre uno spirito scettico a sospettare del giudizio o della veracità dell'Oratore, la penna del quale, o per zelo o per interesse, era addetta alla causa della fazion vittoriosa[40]. Pare che egli pubblicasse le sue Morti de' Persecutori a Nicomedia circa tre anni dopo la vittoria di Roma; la distanza però di mille miglia e di mille giorni concede un vasto campo all'invenzione de' declamatori, alla credulità del partito ed alla tacita approvazione dell'Imperatore medesimo, che poteva senza sdegnarsi prestare orecchio ad una maravigliosa novella ch'esaltava la fama, e promoveva i disegni di lui. Anche in favor di Licinio, che tuttavia dissimulava la sua animosità contro i Cristiani, l'istesso Autore produsse una simile visione, indicante uno specie di preghiera, che fu comunicata da un Angelo, e ripetuta da tutto l'esercito prima d'attaccare le legioni del tiranno Massimino. La frequente ripetizione de' miracoli, quando non sottomette la ragione umana, non serve che ad irritarla[41]; ma se voglia considerarsi a parte il sogno di Costantino, può naturalmente spiegarsi o colla politica o coll'entusiasmo dell'Imperatore. Essendo sospesa da un breve ed interrotto sonno la sua ansietà per la prossima giornata, che dovea decidere del destino dell'Impero, potè per avventura presentarsi all'attiva fantasia d'un Principe, che venerava il nome, e forse aveva secretamente implorato il potere del Dio dei Cristiani, la venerabile immagin di Cristo ed il ben noto simbolo della sua religione. Con ugual facilità potè ancora un consumato Politico usare uno di quei militari stratagemmi, una di quelle pie frodi, che avevano adoperate con tant'arte ed effetto Filippo e Sertorio[42]. Generalmente ammettevasi dalle nazioni antiche l'origine soprannaturale de' sogni, ed una gran parte dell'esercito della Gallia era già preparata a collocare la sua fiducia nel segno salutare della religione Cristiana. La segreta visione di Costantino non poteva esser confutata che dall'evento; ma quell'intrepido Eroe, che aveva passato le alpi e l'apennino, poteva risguardare con non curante disperazione le conseguenze d'una disfatta, che gli fosse toccata sotto le mura di Roma. Il Senato ed il Popolo, esultando per la loro liberazione da un odioso tiranno, riconobbero che la vittoria di Costantino sorpassava le forze umane, senz'ardire però di attribuirla alla protezione degli Dei. L'arco trionfale, che fu innalzato circa tre anni dopo il fatto espone con frasi ambigue, ch'egli salvata aveva e vendicata la Repubblica Romana per la grandezza della sua mente e per un istinto o impulso della Divinità[43]. L'oratore Pagano, che antecedentemente avea preso l'opportunità di celebrar le virtù del Conquistatore, suppone ch'egli solo godesse un segreto ed intimo commercio coll'Ente Supremo, il quale ha delegata la cura de' mortali agli altri subordinati suoi Dei; e così viene ad assegnare una ragione molto plausibile, per la quale i sudditi di Costantino non dovessero presumere d'abbracciare la nuova religione del loro Sovrano[44].
III. Il filosofo, che con tranquilla cautela esamina i sogni o gli augurj, i miracoli ed i prodigi della storia profana, ed anche dell'Ecclesiastica, probabilmente concluderà, che se gli occhi degli spettatori sono stati qualche volta ingannati dalla frode, molto più spesso l'intelligenza de' lettori è stata insultata dalla finzione. Ogni avvenimento, apparenza, o accidente, che sembri deviare dall'ordinario corso della natura, s'è temerariamente attribuito all'immediata azione della Divinità; e la sorpresa fantasia della moltitudine qualche volta ha dato figura e colore, linguaggio e movimento alle momentanee ma insolite meteore dell'aria[45]. Nazario ed Eusebio sono i due più celebri oratori che con istudiati panegirici si sono adoperati ad esaltare la gloria di Costantino. Nove anni dopo la vittoria romana, Nazario[46] descrive un esercito di guerrieri divini, che sembravano scender dal cielo; egli ne nota la bellezza, lo spirito, le figure gigantesche, i raggi di luce che uscivano dalle celesti loro armature, la pazienza che avevano in farsi vedere e udir da' mortali, ed il dichiarar che facevano d'essere mandati, e di volare ad assistere il gran Costantino. Per la verità di questo prodigio il Pagano oratore chiama in testimonianza tutta la nazione Gallica, in presenza della quale allora parlava, e sembra, che da questo recente e pubblicato fatto prenda occasione di sperare, che sia per prestarsi fede alle antiche apparizioni[47]. La favola Cristiana d'Eusebio, che nello spazio di ventisei anni potè trarre la sua origine dal sogno, è gettata in una forma più corretta ed elegante. Si dice, che Costantino, in una delle sue marce, vedesse co' propri occhi il trofeo luminoso della Croce posta sopra il sole nel mezzogiorno, colla seguente iscrizione. «Per mezzo di questo vinci». Tal sorprendente oggetto nel cielo fece stupire tutto l'esercito non meno che l'Imperatore medesimo, ch'era tuttavia dubbioso intorno alla scelta d'una religione; ma il suo stupore si convertì in fede, mediante la visione della notte seguente. Comparve Cristo avanti a' suoi occhi, e tenendo il medesimo celeste segno della Croce, ordinò a Costantino di formare uno stendardo simile a quello, e di muovere, sicuro della vittoria, contro Massenzio e tutti gli altri nemici[48]. Sembra che l'erudito Vescovo di Cesarea siasi accorto, che la recente scoperta di questo maraviglioso aneddoto avrebbe eccitato qualche sorpresa e diffidenza anche fra' suoi più devoti lettori. Pure, in cambio di assegnare le precise circostanze del tempo e del luogo, che ordinariamente servono a scuoprire la falsità, od a stabilire la certezza de' fatti[49]; in cambio di raccogliere e di citar la testimonianza di tante persone viventi, che dovettero essere spettatrici di tale stupendo miracolo[50], Eusebio si contenta d'addurre una testimonianza molto singolare, cioè quella di Costantino già morto, il quale molti anni dopo quell'avvenimento, discorrendo famigliarmente con esso, gli aveva raccontato quest'accidente straordinario della sua vita, e con solenne giuramento ne aveva confermata la verità. La prudenza e la gratitudine del dotto Prelato non gli permisero di sospettare della veracità del suo vittorioso Signore; ma egli dà chiaramente a conoscere che, in un fatto di tal natura, non avrebbe prestato fede a qualunque altra minore autorità. Sì fatto motivo di credibilità non potea sopravvivere alla potenza della famiglia Flavia; ed il segno celeste che si poteva in seguito porre in ridicolo dagl'Infedeli[51], fu trascurato da' Cristiani del secolo che immediatamente seguì la conversione di Costantino[52]. Ma la Chiesa Cattolica, sì dell'Oriente che dell'Occidente, ha adottato un prodigio, che favorisce o sembra favorire il popolar culto della croce. La visione di Costantino si mantenne un onorevole posto nelle leggende della superstizione, finattanto che l'ardito e sagace spirito di critica ebbe la fermezza di non apprezzare il trionfo, e di attaccare la veracità del primo Imperatore Cristiano[53].
I lettori protestanti e filosofici del presente secolo saranno disposti a credere che Costantino, raccontando la sua conversione, volontariamente attestasse una falsità con un solenne e deliberato spergiuro. Essi non dubiteranno forse di pronunziare, che nello scegliere una religione fosse determinato l'animo suo solo da un sentimento d'interesse; e che (secondo l'espressione d'un Poeta[54] profano) si servisse degli altari della Chiesa, come di un conveniente gradino al trono dell'Impero. Una conclusione però così aspra ed assoluta non è coerente alla cognizione che abbiamo della natura umana di Costantino o del Cristianesimo. In un tempo di religioso fervore si osserva che i più artificiosi politici sentono in se stessi qualche parte di quell'entusiasmo, che inspirano agli altri; ed i Santi più ortodossi assumono il pericoloso privilegio di difender la causa della verità colle armi della falsità e dell'inganno. Spesso l'interesse personale è lo stendardo della nostra fede, non meno che della nostra condotta, e gli stessi motivi di vantaggi temporali, che valsero ad influire sul contegno pubblico e sulla professione di Costantino, poterono anche insensibilmente disporne lo spirito ad abbracciare la religione così favorevole alla sua fama ed alla sua fortuna. Soddisfacevasi alla sua vanità colla lusinghiera asserzione, ch'egli era stato scelto dal Cielo a regnare sopra la terra; l'evento aveva giustificato il divino di lui titolo al trono, e questo titolo stesso era fondato sulla verità della Rivelazione Cristiana. Siccome qualche volta segue che l'applauso non meritato eccita la vera virtù, così l'apparente pietà di Costantino (se pure a principio fu solo apparente) potè a grado a grado per la forza della lode, dell'abito e dell'esempio ridursi ad una seria fede, e ad una fervorosa divozione. I Vescovi e Dottori della nuova setta, l'abito ed i costumi de' quali non eran molto adattati per comparire in una Corte, furono ammessi alla mensa Imperiale; essi accompagnavano il Monarca nelle sue spedizioni, e l'ascendente, che uno di loro, Egizio o Spagnuolo[55] che fosse, acquistò sopra di lui, attribuivasi da' Pagani all'effetto della magia[56]. Furono ammessi all'amicizia e famigliarità del Sovrano tanto Lattanzio, che adornò i precetti del Vangelo colla eloquenza di Cicerone[57], quanto Eusebio, che in servigio della Religione adoprò la dottrina e la filosofia de' Greci[58]; e questi abili maestri di controversie potevano pazientemente aspettare le facili ed opportune occasioni di persuadere e di applicar con destrezza quegli argomenti, ch'erano più acconci al carattere e all'intendimento di esso. Vantaggi d'ogni sorta potevano trarsi dall'acquisto d'un proselito Imperiale, e lo splendor della porpora, piuttosto che la superiorità nel sapere o nella virtù, lo distingueva dalle molte migliaia di sudditi, che avevano abbracciato le dottrine del Cristianesimo. Nè si dee stimare incredibile che la mente d'un ignorante soldato avesse potuto cedere al peso dell'evidenza, che in un secolo più illuminato ha soddisfatto o sottomesso la ragione d'un Grozio, d'un Pascal, o d'un Locke. Questo soldato, fra i continui travagli del suo grand'uffizio, impiegava o affettava d'impiegar le ore della notte a diligentemente studiare la Scrittura, ed a comporre discorsi teologici, che dipoi recitava ad una copiosa udienza, la quale facevagli applauso. In un discorso assai lungo, che tuttavia sussiste, si diffonde il reale Predicatore sulle diverse prove della Religione: ma si ferma con particolar compiacenza su' versi Sibillini[59] e sull'Egloga quarta di Virgilio[60]. Quaranta anni prima della nascita di Cristo, il vate Mantovano, quasi inspirato dalla celeste musa d'Isaia, aveva celebrato con tutta la pompa della metafora Orientale il ritorno della Vergine, la caduta del serpente, la prossima nascita d'un fanciullo divino, prole del gran Giove, che doveva espiare la colpa dell'uman genere, e governar l'universo pacificamente colle virtù di suo padre; lo spuntare e l'apparire d'una razza celeste, una primitiva nazione sparsa pel Mondo, e la successiva restaurazione dell'innocenza e felicità del secolo d'oro. Il Poeta non sapeva forse il segreto senso ed oggetto di tali sublimi predizioni, che si son tanto indegnamente applicate al piccolo figlio d'un Console o d'un Triumviro[61]; ma se una più splendida e veramente speciosa interpretazione della quarta Egloga contribuì alla conversione del primo Imperator Cristiano, Virgilio merita d'esser posto fra' più efficaci Missionari dell'Evangelio[62].
Si nascondevano i venerandi misteri della fede e del Culto Cristiano agli occhi degli stranieri ed eziandio de' Catecumeni con un'affettata segretezza, la quale non serviva che ad eccitare la lor maraviglia e curiosità[63]. Ma le regole di severa disciplina, che la prudenza de' Vescovi avea stabilite; dalla prudenza medesima vennero mitigate in favore d'un proselito Imperiale, che tanto importava d'indurre ad entrare, mediante ogni gentile condescendenza, nel sen della Chiesa; ed a Costantino fu permesso, almeno con una tacita dispensa, di godere moltissimi privilegi di Cristiano, prima di averne contratta veruna obbligazione. Invece di ritirarsi dall'assemblea, quando la voce del Diacono licenziava la moltitudine profana, esso pregava co' Fedeli, disputava co' Vescovi, predicava sopra i più sublimi ed intricati argomenti di Teologia, celebrava secondo i riti sacri la vigilia di Pasqua, e si dichiarava pubblicamente non solo partecipante, ma in qualche modo sacerdote e gerofante de' misteri Cristiani[64]. La vanità di Costantino potè arrogarsi qualche straordinaria distinzione, ed i suoi servigi l'avevano meritata. Un rigore inopportuno avrebbe potuto annebbiare i frutti non per anche maturi della sua conversione; e se rigorosamente si fosser chiuse le porte della Chiesa in faccia ad un Principe che aveva abbandonato gli altari degli Dei, il dominator dell'Impero sarebbe restato privo d'ogni specie di Culto religioso. Nell'ultima sua visita a Roma disapprovò egli piamente ed insultò la superstizione de' suoi maggiori, ricusando di porsi alla testa della militar processione dell'ordine equestre, e di offerire pubblici voti al Giove del colle Capitolino[65]. Costantino, molti anni prima del suo battesimo e della sua morte, aveva pubblicato al mondo, che non si sarebbe più veduta nè la sua persona nè la sua immagine dentro le mura d'un tempio d'idoli, mentre spargeva per le Province una quantità di medaglie e di pitture, che lo rappresentavano in una umile e supplichevol positura di devozione Cristiana[66].
Non si può facilmente spiegare e scusar l'orgoglio di Costantino, allorchè ricusò i soli diritti di Catecumeno; ma può ben giustificarsi la dilazione del suo battesimo colle massime e colla pratica dell'antica Chiesa. Il Sacramento del battesimo[67] s'amministrava regolarmente dal Vescovo stesso coll'assistenza del Clero nella Chiesa Cattedrale della Diocesi nello spazio de' cinquanta giorni, che passano fra le solennità della Pasqua e della Pentecoste, ed in questo sacro tempo si ammetteva un gran numero d'infanti e di adulti nel seno della Chiesa. La discrezione de' genitori spesse volte sospendeva il battesimo de' loro figliuoli, finattanto che potessero intendere quali obbligazioni per mezzo di esso si contraevano; la severità degli antichi Vescovi esigeva da' nuovi convertiti un noviziato di due o tre anni; ed i Catecumeni stessi, per diversi o temporali o spirituali motivi, di rado erano impazienti di ricevere il carattere di perfetti ed iniziati Cristiani. Si supponeva, che il Sacramento del battesimo contenesse una piena ed assoluta purgazion di ogni colpa; e che l'anima riacquistasse istantaneamente l'originale sua purità ed il diritto alla promessa della eterna salute. Fra' proseliti del Cristianesimo v'erano molti, che stimavano un'imprudenza il precipitare un rito salutevole, che non potea più ripetersi, e lo spogliarsi d'un inestimabile privilegio, che non potea più riacquistarsi. Differendo il battesimo, potevano arrischiarsi a soddisfare liberamente le loro passioni col godere di questo Mondo, giacchè avevano sempre in mano i mezzi d'una sicura e facile assoluzione[68]. La sublime teoria del Vangelo aveva fatto un'impressione molto più debole nel cuore che nella mente di Costantino medesimo. Egli tendeva al grand'oggetto della sua ambizione pe' sanguinosi ed oscuri sentieri della guerra e della politica, e dopo la vittoria s'abbandonava senza moderazione all'abuso della sua fortuna. Invece di sostenere la sua giusta superiorità sopra l'imperfetto eroismo e la profana filosofia di Traiano e degli Antonini, l'età matura di Costantino distrusse la riputazione che aveva acquistata nella sua gioventù. A misura che di grado in grado avanzava nella cognizione della verità, declinava nella pratica della virtù: e quel medesimo anno del suo regno, in cui convocò il Concilio di Nicea, fu macchiato dalla esecuzione o piuttosto dall'assassinio del suo maggior figlio. Questa data è per sè sola sufficiente a confutare le maliziose ed ignoranti suggestioni di Zosimo[69], il quale asserisce, che dopo la morte di Crispo, il rimorso del padre ricevè da' ministri del Cristianesimo quell'espiazione, che aveva inutilmente richiesta ai Pontefici Pagani. Al tempo della morte di Crispo, l'Imperatore non poteva più essere dubbioso intorno la scelta d'una religione, e non poteva più ignorare che la Chiesa possedeva un infallibil rimedio, quantunque egli volesse differirne l'applicazione insino a che l'approssimarsi della morte avesse allontanato il pericolo e la tentazione di ricadere. I Vescovi, che nell'ultima sua malattia aveva chiamati al palazzo di Nicomedia, restarono edificati dal fervore, con cui egli chiese e ricevè il Sacramento del battesimo, dalle solenni proteste, che il rimanente della sua vita sarebbe stato degno d'un discepolo di Cristo, e dall'umil proposito che fece di non portar più la porpora Imperiale dopo d'essersi poste le bianche vesti di neofito. Parve che l'esempio e la riputazione di Costantino rendesse plausibile la dilazione del battesimo[70]. I tiranni, che vennero dopo di lui, presero animo a credere che le macchie del sangue innocente, che avessero potuto spargere in un lungo regno, si sarebbero ad un tratto lavate nelle acque di rigenerazione; e l'abuso della religione pericolosamente attaccava i fondamenti della virtù morale.
La gratitudine della Chiesa ha esaltato le virtù, e scusati i difetti d'un generoso protettore, che collocò il Cristianesimo sul trono del Mondo Romano; ed i Greci, che celebrano la festa del Santo Imperiale, rare volte rammentano il nome di Costantino senza aggiungervi il titolo di uguale agli Apostoli[71]. Tale paragone, se allude al carattere di que' Missionari divini, non può attribuirsi che alla stravaganza d'una empia adulazione; ma se ristringasi all'estensione ed al numero dell'Evangeliche loro vittorie, il successo di Costantino potrebbe forse uguagliarsi a quello degli Apostoli stessi. Cogli editti di tolleranza egli tolse que' temporali svantaggi, che avevan ritardato fin'allora il progresso del Cristianesimo, e gli attivi e numerosi Ministri di questo ebbero una libera permissione ed un generoso incoraggiamento per insinuare le salutari verità della Rivelazione con qualunque sorta d'argomento, che potesse muovere la ragione o la pietà del genere umano. Non sussistè più che un momento la bilancia esatta fra le due religioni; e l'occhio penetrante dell'ambizione e dell'avarizia scoprì ben presto, che la professione del Cristianesimo potea contribuire al vantaggio della vita presente non meno che della futura[72]. Le speranze di ricchezze e di onori, l'esempio d'un Imperatore, e le sue esortazioni, gli irresistibili suoi allettamenti convincevano la venale ossequiosa turba, che ordinariamente riempie gli appartamenti della reggia. Le città che con un pronto zelo si segnalavano, mediante la volontaria distruzione de' loro templi, venivan distinte con privilegi municipali, e premiate con popolari donativi; e la nuova Capitale dell'Oriente gloriavasi del singolar pregio, che Costantinopoli non era stata mai profanata dal culto degl'idoli[73]. Siccome le classi inferiori della società non regolate dall'imitazione, così la conversione di quelli, che avevano qualche superiorità di nascita, di potere o di ricchezze veniva tosto seguìta dalla dipendente moltitudine[74]. Era molto facile conseguir la salvazione del comun popolo, se è vero che a Roma in un anno si battezzarono dodicimila uomini, oltre un proporzionato numero di donne e di fanciulli, e che l'Imperatore aveva promesso ad ogni convertito un abito bianco con venti monete d'oro[75]. Il potente influsso di Costantino non fu ristretto agli angusti limiti della sua vita o de' suoi dominj. L'educazione, ch'egli diede a' suoi figli e nipoti, assicurò all'Impero una famiglia di Principi, la fede de' quali riusciva sempre più viva e sincera, poichè nella più tenera infanzia s'insinuava loro lo spirito, o almeno la dottrina del Cristianesimo. La guerra ed il commercio avevano sparso la cognizione dell'Evangelio oltre i confini delle Province Romane; ed i Barbari, che avevano sdegnato di seguire una setta umile e proscritta, ben presto appresero a stimare una religione, che si era di fresco abbracciata dal Monarca più grande, e della nazione più culta del globo[76]. I Goti ed i Germani, che s'arrolavano sotto gli stendardi di Roma, veneravan la croce, che risplendeva alla testa delle legioni, ed i fieri lor Nazionali ricevevan nel tempo stesso le lezioni della fede e quelle dell'umanità. I Re dell'Iberia e dell'Armenia adoravano il Dio del lor protettore; ed i loro sudditi, che hanno invariabilmente conservato il nome di Cristiani, tosto formarono una sacra e perpetua connessione co' Romani loro fratelli. I Cristiani della Persia in tempo di guerra si sospettava che preferissero la religione alla patria; ma finchè sussisteva la pace fra i due Imperi, lo spirito persecutore de' Magi veniva efficacemente represso dall'intercessione di Costantino[77]. I raggi del Vangelo illuminarono la costa dell'India. Le colonie di Ebrei, ch'erano penetrate nell'Arabia e nell'Etiopia[78], s'opposero al progresso del Cristianesimo; ma il lavoro de' Missionari fu in qualche modo facilitato da una precedente cognizione della Rivelazione Mosaica; e l'Abissinia venera tuttavia la memoria di Frumenzio, che nel tempo di Costantino sacrificò la sua vita per la conversione di que' remoti paesi. Sotto il Regno del suo figlio Costanzo, Teofilo[79], ch'era Indiano d'origine, fu investito del doppio carattere d'Ambasciatore e di Vescovo. Egli s'imbarcò sul mar Rosso con dugento cavalli delle razze più pure della Cappadocia, i quali eran mandati dall'Imperatore al Principe de' Sabei o degli Omeriti. A Teofilo furono affidati molti altri utili o curiosi regali, che potevano eccitare l'ammirazione, e conciliar l'amicizia de' Barbari, ed esso impiegò con vantaggio molti anni in una visita pastorale alle Chiese della Zona torrida[80].
Nell'importante e pericoloso cambiamento della Religion nazionale si manifestò l'irresistibile potere degl'Imperatori Romani. I terrori d'una forza militare imposero silenzio al debole e non sostenuto mormorar de' Pagani, e v'era motivo di credere, che una volontaria sommissione del Clero non men che del popolo Cristiano sarebbe stata l'effetto della coscienza e della gratitudine. Da lungo tempo era già stabilito come una massima fondamentale della costituzione di Roma, che ogni classe di cittadini fosse ugualmente sottoposta alle leggi, e che la cura della Religione fosse un diritto ed un dovere del Magistrato civile. Costantino ed i suoi successori non potevan facilmente persuadersi di aver perduto, mediante la lor conversione, parte veruna delle prerogative Imperiali, o di essere inabili a dar leggi ad una Religione, ch'essi avevan protetta ed abbracciata. Gl'Imperatori continuarono sempre ad esercitare una suprema giurisdizione sopra il ceto Ecclesiastico; ed il libro decimosesto del Codice Teodosiano dimostra in vari Titoli l'autorità, ch'essi assunsero nel governo della Chiesa Cattolica.
Ma il legittimo stabilimento del Cristianesimo introdusse e confermò la distinzione fra la potestà spirituale e la temporale[81], che non erasi mai potuta imporre sullo spirito libero della Grecia e di Roma. L'uffizio di Sommo Pontefice, che dal tempo di Numa fino ad Augusto s'era sempre esercitato da uno dei più eminenti Senatori, restò finalmente unito all'Imperial dignità. Il primo Magistrato dello Stato, ogni volta che la superstizione o la politica lo richiedeva, faceva in persona le funzioni sacerdotali[82]; nè trovavasi o a Roma o nelle Province alcun ordine di sacerdoti, che s'attribuissero un carattere più sacro fra gli uomini, o una più intima comunicazione cogli Dei. Ma nella Chiesa Cristiana, che affida il ministero dell'Altare ad una perpetua successione di sacri Ministri, il Monarca, la cui dignità spirituale è meno onorevole di quella del minimo Diacono, era collocato fuori del recinto del Santuario, e confuso col resto della moltitudine fedele[83]. Pareva salutarsi l'Imperatore come Padre del suo Popolo, ma esso dovea prestare un rispetto ed una reverenza filiale a' Padri della Chiesa; e ben presto l'orgoglio dell'Ordine Episcopale pretese i medesimi segni di ossequio, che Costantino aveva usato verso le persone de' Santi e dei Confessori[84]. Un segreto contrasto fra la Giurisdizione Civile e l'Ecclesiastica imbarazzava le operazioni del Governo Romano; e la colpa ed il pericolo di toccar con mano profana l'arca del Testamento agitava un pio Imperatore. La separazione in vero degli uomini ne' due ordini dello stato clericale e laicale era comune appresso molte antiche Nazioni; ed i Sacerdoti dell'India, della Persia, dell'Assiria, della Giudea, della Etiopia, dell'Egitto e della Gallia riconoscevano da un'origine celeste il poter temporale, ed i beni che avevano acquistati. Queste venerabili istituzioni s'erano a grado a grado assimilate a' costumi e al governo de' respettivi loro paesi[85]; ma l'opposizione o il disprezzo della potestà civile servì ad assodare la disciplina della primitiva Chiesa. I Cristiani erano stati costretti ad eleggere i loro Magistrati, ad esigere e distribuire certe tasse particolari, ed a regolar l'interno governo della loro Repubblica con un codice di leggi, ch'erano state confermate dal consenso del popolo e dalla pratica di trecent'anni. Quando Costantino abbracciò la Fede Cristiana, parve che contraesse una lega perpetua con una distinta e indipendente società; ed i privilegi conceduti o confermati da quell'Imperatore o da' suoi successori si accettavano, non già come favori precarj della Corte, ma come giusti ed inalienabili diritti dell'Ordine Ecclesiastico.
Si amministrava la Chiesa Cattolica dalla spirituale e legittima giurisdizione di mille ottocento Vescovi[86]; mille de' quali trovavansi nelle Province Greche dell'Impero, ed ottocento nelle Latine. L'estensione ed i confini delle respettive lor Diocesi si erano in varie maniere accidentalmente stabiliti dallo zelo e dall'incontro de' primi Missionari, dai desiderj del Popolo, e dalla propagazione del Vangelo. Eransi fondate in abbondanza, le Chiese Vescovili lungo le rive del Nilo, e sulle coste dell'Affrica, nell'Asia Proconsolare, e nelle Province Meridionali dell'Italia. I Vescovi della Gallia e della Spagna, della Tracia e del Ponto, dominavano sopra vasti territorj, e delegavano i rurali, loro suffraganei ad eseguire gl'inferiori doveri dell'uffizio pastorale[87]. Poteva una Diocesi Cristiana estendersi ad una intera Provincia o ridursi ad un solo villaggio, ma tutti i Vescovi godevano un uguale indelebil carattere; traevano tutti le medesime facoltà e privilegi dagli Apostoli, dal Popolo e dalle Leggi. Nel tempo che la politica di Costantino separava la profession militare dalla civile, stabilivasi nella Chiesa e nello Stato un nuovo e perpetuo ordine di Ministri Ecclesiastici, sempre rispettabile, e qualche volta pericoloso. Ciò che v'è da osservar d'importante, rispetto alla costituzione e a' diritti di essi, può ridursi a' seguenti capi: I. all'elezione popolare: II. all'ordinazione del Clero: III. alle sostanze di esso: IV. alla giurisdizione civile: V. alle censure spirituali: VI. all'esercizio di predicar pubblicamente: VII. al privilegio delle assemblee legislative.
I. Durò la libertà dell'elezioni lungo tempo dopo il legale stabilimento del Cristianesimo[88]; ed i sudditi Romani godevano nella Chiesa il privilegio, che avevan perduto nella Repubblica, di eleggere i Magistrati, a' quali dovevano ubbidire. Appena era morto un Vescovo, il Metropolitano dava la commissione ad uno de' suoi suffraganei d'amministrare la sede vacante, e di preparare dentro un certo tempo la futura elezione. Il diritto di dare il voto risedeva nel Clero inferiore, ch'era il più adatto a giudicare del merito de' candidati; ne' Senatori o nobili della città, persone distinte per la dignità o per le ricchezze; e finalmente in tutto il corpo del popolo, che nel giorno stabilito correva in folla dalle più lontane parti della Diocesi[89]; ed alle volte colle sue tumultuose acclamazioni facea tacere la voce della ragione e le leggi della disciplina. Queste acclamazioni potevano accidentalmente cadere sul competitore più meritevole, su qualche vecchio Prete, su qualche santo Monaco, o su qualche laico famoso per lo zelo e per la pietà. Ma si sollecitava la cattedra Episcopale, specialmente nelle grandi e ricche città dell'Impero, piuttosto come una dignità temporale che spirituale. I fini d'interesse, le passioni dell'amor proprio e dell'ira, le arti della perfidia e della dissimulazione, la segreta corruzione, l'aperta ed anche sanguinosa violenza, che avevano un tempo sturbata la libertà d'eleggere nelle Repubbliche della Grecia e di Roma, troppo spesso influivano nella scelta de' successori degli Apostoli. Mentre uno dei candidati vantava gli onori della sua famiglia, un altro allettava i suoi giudici colle delicatezze d'una copiosa tavola, ed un terzo, anche più colpevole de' suoi rivali, offeriva di divider fra' complici delle sacrileghe sue speranze le spoglie della Chiesa[90]. Le leggi Civili ugualmente che l'Ecclesiastiche tentarono d'escludere la plebaglia da tal atto solenne ed importante. I Canoni dell'antica disciplina esigendo ne' Vescovi alcune qualificazioni d'età, di stato ec. ristringevano in qualche modo l'arbitrario capriccio degli elettori. Interponevasi anche l'autorità de' Vescovi Provinciali, che si adunavano nella Chiesa vacante ad oggetto di confermare la scelta del popolo, per moderarne le passioni ed emendarne gli errori. I Vescovi potevan ricusar d'ordinare un candidato indegno, ed il furore de' diversi fra' loro contrari partiti alle volte accettava l'imparziale lor mediazione. La sommissione o la resistenza del Clero e del Popolo in varie occasioni somministrava esempi, che insensibilmente diventavano leggi positive e costumi provinciali[91]; ma da per tutto ammettevasi come una massima fondamentale di religioso governo, che non potesse darsi ed una Chiesa ortodossa alcun Vescovo senza il consenso de' membri della medesima. Gl'Imperatori, come custodi della pubblica pace e come i primi cittadini di Roma e di Costantinopoli, potevano in realtà dichiarare i loro desiderj nell'elezione d'un Primate; ma quegli assoluti Monarchi rispettavano la libertà delle elezioni Ecclesiastiche; e mentre distribuivano e riassumevano gli onori dello Stato e dell'esercito, permettevano che mille ottocento Magistrati perpetui ricevessero i loro importanti uffizi da' liberi suffragi del popolo[92]. Sarebbe stato giusto, che tali Magistrati non abbandonassero un onorevole posto, da cui non potevano esser rimossi; ma la saviezza de' Concilj tentò, senza gran successo, di obbligare i Vescovi alla residenza, e d'impedirne le translazioni. Nell'Occidente, in vero, la disciplina era meno rilassata che nell'Oriente; ma le stesse passioni, che obbligavano a far tali regolamenti, li rendevano inefficaci. I rimproveri che con tanta veemenza si son fatti, nel furor della collera, alcuni Prelati fra loro, non servono che a manifestare la comune lor colpa e la loro vicendevole indiscretezza.
II. I soli Vescovi godevano la facoltà della generazione spirituale; e questo privilegio straordinario compensar poteva in qualche modo il penoso celibato[93], che imponevasi loro come una virtù, come un dovere, e finalmente come una positiva obbligazione. Quelle religioni antiche, le quali stabilirono un ordine separato di Sacerdoti, dedicarono al servizio perpetuo degli Dei una data stirpe, tribù, o famiglia sacra[94]. Instituzioni però di tal genere furon fondate per via di possesso, piuttosto che di conquista. I figli de' Sacerdoti godevano con altera ed indolente sicurezza la sacra loro eredità; ed il feroce spirito d'entusiasmo veniva diminuito dalle cure, da' piaceri e dagli allettamenti della vita domestica. Ma il Santuario de' Cristiani era aperto ad ogni candidato ambizioso, che avesse aspirato alle celesti promesse, od a' beni temporali di esso. L'uffizio di Sacerdoti valorosamente s'esercitava, come quello de' soldati o de' Magistrati, da coloro, l'abilità e temperamento de' quali gli aveva resi atti ad abbracciare la professione Ecclesiastica, o che da un accorto Vescovo si erano scelti come i più abili a promuovere la gloria e l'interesse della Chiesa. I Vescovi[95] potevan costringere (finattantochè dalla prudenza delle leggi non fu represso l'abuso) anche quelli che ripugnavano, e proteggere gli angustiati per tal motivo; e l'imposizione delle mani concedeva in perpetuo alcuni de' più stimabili privilegi della società civile. Tutto il corpo del Clero Cattolico, forse più numeroso delle legioni, s'era per gl'Imperatori esentato da ogni pubblico o privato servizio, da tutti gli uffizi municipali, da tutte le tasse e contribuzioni personali, che aggravavano con intollerabile peso gli altri loro concittadini; e si accettavano i doveri della sacra lor professione come un pieno adempimento degli obblighi loro verso la Repubblica[96]. Ogni Vescovo acquistava un assoluto ed irrevocabil diritto allo perpetua ubbidienza del Cherico che ordinava; il Clero d'ogni Chiesa Episcopale, colle parrocchie da essa dipendenti, formava una costante e regolar società, e le Cattedrali di Costantinopoli[97] e di Cartagine[98] mantenevano il loro stabilito numero particolare di cinquecento Ministri Ecclesiastici. La quantità di essi ed i gradi[99] furono insensibilmente moltiplicati dalla superstizione de' tempi, che introdussero nella Chiesa le splendide ceremonie del Tempio Giudaico o dei Pagani; ed una lunga serie di Preti, di Diaconi, di Suddiaconi, di Accoliti, di Esorcisti, di Lettori, di Cantori, e di Ostiari co' respettivi loro uffizi contribuirono ad accrescer la pompa e l'armonia del Culto religioso. S'estesero il nome ed i privilegi clericali a molte pie confraternite che devotamente sostenevano il trono Ecclesiastico.[100] Seicento parabolani o avventurieri in Alessandria visitavano gli ammalati; mille cento copiati o scavatori di fosse seppellivano i morti a Costantinopoli; e gli sciami de' Monaci, insorti dal Nilo, cuoprirono ed oscurarono la faccia del Mondo Romano.
A. D. 313
III. L'editto di Milano assicurò le rendite ugualmente che la pace alla Chiesa[101]. Non solo i Cristiani ricuperaron le terre e le case, delle quali erano stati spogliati per causa della persecuzione di Diocleziano, ma eziandio acquistarono un pieno diritto a posseder tutti i beni che avevano fin allora goduti per connivenza de' Magistrati. Poscia che il Cristianesimo divenne la religione dell'Imperatore e dell'Impero, il Clero nazionale potea pretendere un decente ed onorevole mantenimento; e la paga d'una tassa annuale avrebbe potuto liberare il popolo dal più opprimente tributo, che la superstizione impone a' suoi devoti. Ma siccome colla prosperità della Chiesa ne crescevano anche i bisogni e le spese, così il ceto Ecclesiastico veniva sempre aiutato ed arricchito dalle volontarie obblazioni de' Fedeli. Otto anni dopo l'editto di Milano, Costantino concesse a tutti i suoi sudditi la libera ed universal facoltà di lasciare i loro beni alla Santa Chiesa Cattolica[102]; e la devota loro liberalità, che nel corso delle lor vite era tenuta in freno dal lusso o dall'avarizia, scorreva senza ritegno nell'ora della morte. I Cristiani ricchi venivano incoraggiati dall'esempio del loro Sovrano. Un assoluto Monarca, che è ricco senza patrimonio, può esser caritatevole senza merito, e Costantino credè troppo facilmente di poter acquistar il favore del Clero col mantenere gli oziosi a spese dell'industria, e col distribuire fra' Santi le ricchezze della Repubblica. Lo stesso corriere, che portò in Affrica il capo di Massenzio, forse portò anche una lettera per Ceciliano Vescovo di Cartagine. L'Imperatore in essa gli fa sapere, che i tesorieri della Provincia hanno l'ordine di pagare nelle sue mani la somma di tremila folli, o diciottomila lire sterline, e di soddisfare le ulteriori sue richieste per sollievo delle Chiese dell'Affrica, della Numidia e della Mauritania[103]. Cresceva la liberalità di Costantino in proporzione appunto della sua fede e de' suoi vizi. Egli assegnò in ogni città una regolar quantità di grano per servir di fondo alla carità Ecclesiastica, e le persone di ambidue i sessi, che abbracciavano la vita Monastica, divenivano i favoriti speciali del Sovrano. I tempj Cristiani d'Antiochia, d'Alessandria, di Gerusalemme, di Costantinopoli ec. dimostrano l'ostentata pietà di un Principe, ambizioso nella sua vecchiezza d'uguagliare le opere perfette dell'Antichità[104]. La forma di questi religiosi edifici era semplice e bislunga, quantunque potessero alle volte sorgere in figura di cupola, ed alle volte dividersi in forma di croce. Il legname per lo più era di cedri del Libano; il tetto era coperto di tegoli, forse di rame dorato; le mura, le colonne, ed il pavimento erano incrostati di varie sorti di marmi. Eran profusamente consacrati al servizio dell'Altare i più preziosi ornati d'oro e d'argento, di seta e di gemme; e tale speciosa magnificenza era sostenuta dalla solida e perpetua base di stabili possessioni. Nella spazio di due secoli, dal regno di Costantino fino a quello di Giustiniano, i frequenti ed inalienabili donativi de' Principi e del Popolo arricchirono le mille ottocento Chiese dell'Impero. Può ragionevolmente assegnarsi un'annuale rendita di seicento lire sterline a que' Vescovi ch'erano in mezzo tra i ricchi ed i poveri[105], ma insensibilmente s'accrebbe la lor ricchezza insieme con la dignità e coll'opulenza delle città ch'essi governavano. Un autentico ma imperfetto[106] catalogo di rendite specifica varie case, botteghe, giardini e fondi, che appartenevano alle tre Romane Basiliche di S. Pietro, di S. Paolo e di S. Gio. Laterano nelle Province dell'Italia, dell'Affrica e dell'Oriente. Questi producevano, oltre la riserva d'una quantità d'olio, di lino, di carta, d'aromati ec., un'annuale entrata di ventiduemila aurei, o dodicimila lire sterline. Al tempo di Costantino e di Giustiniano, i Vescovi non godevan più l'intera fiducia del Clero e del Popolo, e forse non la meritavano. I beni Ecclesiastici di ciascheduna Diocesi furon divisi in quattro parti, che dovevan servire per uso respettivamente del Vescovo stesso, del suo clero inferiore, de' poveri e del Culto pubblico; e fu più volte rigorosamente represso l'abuso di questa sacra amministrazione[107]. Il patrimonio della Chiesa era sempre sottoposto a tutte le pubbliche imposizioni dello Stato[108]. Il Clero di Roma, di Alessandria, di Tessalonica ec. potè chiedere ed ottenere alcune particolari esenzioni; ma il figliuolo di Costantino resistè con vigore al tentativo, non per anche opportuno, del gran Concilio di Rimini, che aspirava alla libertà universale[109].
IV. Il Clero Latino, che eresse il proprio tribunale sulle rovine del Gius civile e comune, ha modestamente riconosciuto come un dono di Costantino[110] quell'indipendente giurisdizione, che fu il frutto del tempo, del caso, e della propria sua industria. Ma la liberalità degli Imperatori Cristiani aveva già insignito il carattere Sacerdotale di certe legali prerogative, che lo assicuravano e lo nobilitavano[111]. Primieramente sotto un governo dispotico i Vescovi erano i soli che godessero e mantenessero l'inestimabile privilegio di non esser giudicati che da' loro pari; ed anche nelle accuse capitali i soli giudici della loro reità od innocenza erano i loro fratelli adunati in un Sinodo. Un tribunale di questa sorte, a meno che non fosse acceso da un odio personale, o da discordia religiosa, poteva esser favorevole o anche parziale all'ordine de' Sacerdoti: ma Costantino era persuaso[112] che l'impunità segreta sarebbe stata meno perniciosa del pubblico scandalo, ed il Concilio Niceno restò edificato da quella sua pubblica dichiarazione, che s'egli avesse sorpreso un Vescovo in adulterio, avrebbe gettato il proprio imperial manto sopra del reo. In secondo luogo, la domestica giurisdizione de' Vescovi era nel tempo stesso un privilegio ed un freno dell'ordine Ecclesiastico, le cause civili del quale potevano decentemente sottrarsi alla cognizione d'un giudice secolare. Le minori loro colpe non erano esposte alla vergogna d'un pubblico processo o gastigo; e s'imponeva dal moderato rigore de' Vescovi quella specie di mite correzione, che i teneri figli posson ricevere da' loro padri o istruttori. Ma se il cherico diveniva reo d'alcun delitto, che non si potesse abbastanza purgare colla degradazione dal posto onorevole e vantaggioso che aveva in quell'ora, il Magistrato Romano, senza riguardo veruno all'Ecclesiastiche immunità, adoperava la spada della giustizia. In terzo luogo, venne da una positiva legge ratificato l'arbitrio de' Vescovi, e fu ordinato a' Giudici d'eseguire senza dilazione o appello i decreti Episcopali, la validità de' quali non si era sin allora appoggiata che al consenso delle parti. La conversione de' Magistrati medesimi e di tutto l'Impero potè appoco appoco allontanare i timori e gli scrupoli dei Cristiani. Ma essi ricorrevan sempre al tribunale dei Vescovi, de' quali stimavano l'integrità e la dottrina; ed il venerabile Agostino aveva la soddisfazione di dolersi che venivano continuamente interrotte le sue spirituali funzioni dall'odioso travaglio di decidere il diritto o il possesso d'argento e d'oro, di terreni e di bestiami. In quarto luogo, fu trasferito l'antico privilegio del Santuario a' Tempj Cristiani, e dalla generosa pietà di Teodosio il Giovane esteso a' recinti de' luoghi sacri[113]. Era permesso a' supplichevoli fuggitivi, ed anche rei, d'implorar la giustizia o la misericordia della Divinità e de' suoi Ministri. Veniva sospesa la dura violenza del dispotismo dalla dolce interposizione della Chiesa; e si potevano proteggere le vite ed i beni de' sudditi più cospicui dalla mediazione del Vescovo.
V. Il Vescovo era il perpetuo censore de' costumi del suo popolo. La disciplina della penitenza era disposta in un sistema di giurisprudenza canonica[114], che definiva esattamente il dovere della confessione pubblica o privata, le regole delle prove, i gradi delle colpe, e la misura delle pene. Era impossibile eseguire questa censura spirituale, se il Pontefice Cristiano, che puniva le oscure colpe della moltitudine, avesse rispettato i vizi cospicui ed i delitti distruttivi del Magistrato; ma pure era impossibile attaccare la condotta di questo senza sindacare l'amministrazione del governo civile. Alcune considerazioni di religione di fedeltà, o di timore proteggevano le sacre persone degl'Imperatori dallo zelo o risentimento de' Vescovi; ma questi arditamente censuravano e scomunicavano i Tiranni subordinati, che non erano insigniti della maestà della porpora. S. Atanasio scomunicò uno de' Ministri d'Egitto, e l'interdetto, ch'egli pronunziò dell'acqua e del fuoco, fu solennemente trasmesso alle Chiese della Cappadocia[115]. Al tempo di Teodosio il Giovane, il colto ed eloquente Sinesio, uno de' discendenti d'Ercole[116], occupava la sede Episcopale di Tolemaide vicino alle rovine dell'antica Cirene[117], ed il Vescovo filosofo sosteneva con dignità il carattere che aveva ricevuto con ripugnanza[118]. Egli vinse il presidente Andronico, mostro della Libia, che abusava dell'autorità d'un uffizio venale, inventava modi nuovi di rapina e di tortura, ed aggravava il delitto dell'oppressione con quello del sacrilegio[119]. Dopo un vano tentativo di ridurre il superbo Magistrato, mediante una dolce e religiosa ammonizione, Sinesio procede a pronunziare l'ultima sentenza della giustizia Ecclesiastica[120], che condanna Andronico co' suoi compagni e le loro famiglie all'esecrazione della terra e del cielo. Gl'impenitenti peccatori, più crudeli di Falaride e di Sennacherib, più dannosi della guerra, della peste o d'un nuvolo di locuste, son privati del nome e de' privilegi di Cristiani, della partecipazione de' Sacramenti e della speranza del Paradiso. Il Vescovo esorta il Clero, i Magistrati ed il Popolo a rinunziare a qualunque commercio co' nemici di Cristo, ad escluderli dalle proprie case o mense, ed a negar loro i comuni uffici della vita ed i convenienti riti della sepoltura. La Chiesa di Tolemaide, oscura e per quanto sembra poco autorevole, manda questa dichiarazione a tutte le altre Chiese del Mondo sue sorelle, dichiarando che qualunque profano rigetterà i suoi decreti, sarà partecipe del delitto e della punizione d'Andronico e degli empi seguaci di lui. Tali spirituali terrori acquistaron forza da una destra rappresentanza alla Corte di Bisanzio; il Presidente implorò tremando la pietà della Chiesa; e il discendente d'Ercole ebbe il piacere d'alzar da terra un prostrato Tiranno[121]. Tali principj ed esempi appoco appoco preparavano il trionfo de' Pontefici Romani, che han posto il piede sul collo dei Re.
VI. Ogni Governo popolare ha provato gli effetti d'una rozza o artificiale eloquenza. Il naturale più freddo viene animato, e la ragione più soda vien mossa dalla rapida comunicazione dell'impeto che prevale; ed ogni uditore si trova spinto dalle sue proprie passioni, e da quelle della moltitudine che lo circonda. La rovina della libertà civile aveva fatto tacere i Demagoghi d'Atene ed i Tribuni di Roma: non s'era introdotto ne' templi dell'antichità il costume di predicare, che par che formi una parte considerabile della devozione Cristiana, e le orecchie de' Monarchi non erano mai state tocche dall'aspro suono della popolar eloquenza, finattanto che i pulpiti dell'Impero furon pieni di sacri Oratori, che godevano alcuni vantaggi incogniti a' profani loro predecessori[122]. Agli argomenti ed alla rettorica del Tribuno immediatamente si opponevano con uguali armi abili e risoluti antagonisti; e la causa della verità e della ragione poteva trarre per accidente qualche vantaggio dal conflitto delle contrarie passioni. Il Vescovo o qualche distinto Prete, al quale aveva esso cautamente delegata la facoltà di predicare, parlava, senza rischio d'esser interrotto o contraddetto, ad una sommessa moltitudine, le cui menti erano già disposte e convinte dalle venerande ceremonie della religione. Era tanto stretta la subordinazione della Chiesa Cattolica, che nel tempo stesso potevan partire da cento pulpiti dell'Italia o dell'Egitto suoni concertati nella medesima forma, qualora essi fossero diretti[123] dalla mano maestra del Primate Romano o Alessandrino. Il disegno di tale instituzione era lodevole, ma i frutti non furono sempre salutari. I predicatori raccomandavano la pratica de' doveri sociali; ma esaltavano la perfezione della virtù Monastica, ch'è penosa per gli individui ed inutile pel genere umano. Le lor caritatevoli esortazioni dimostravano una segreta brama che fosse affidato al Clero il maneggio de' beni de' Fedeli per benefizio de' poveri. Le più sublimi rappresentazioni degli attributi e delle leggi di Dio venivano contaminate da una vana mistura di metafisiche sottigliezze, di riti puerili e di supposti miracoli; e col più fervido zelo si diffondevano sul merito religioso di detestar gli avversari della Chiesa, e di ubbidirne i ministri. Quando l'eresia o lo scisma turbava la pubblica pace, i sacri oratori suonavan la tromba della discordia e forse della sedizione. Per mezzo de' misteri si rendeva perplesso l'intelletto degli uditori; se ne infiammavano le passioni colle invettive; ed essi uscivano da' tempj Cristiani d'Antiochia o d'Alessandria, preparati o a soffrire o a dare il martirio. Nelle veementi declamazioni de' Vescovi Latini si vede chiaramente la corruzione del gusto e della lingua; ma le composizioni di Gregorio o di Grisostomo si son paragonate a' modelli più splendidi dell'Attica o almeno dell'Asiatica eloquenza[124].
A. D. 314-325
VII. I rappresentanti della Repubblica Cristiana ogni anno adunavansi regolarmente nella primavera e nell'autunno; e questi Sinodi sparsero lo spirito della disciplina e legislazione Ecclesiastica per le centoventi Province del Mondo Romano[125]. L'Arcivescovo o il Metropolitano era dalle leggi autorizzato a convocare i Vescovi suffraganei alla sua Provincia, ad invigilare sulla lor condotta, a sostenerne i diritti, a dichiararne la fede, e ad esaminare il merito de' candidati, che venivano eletti dal Clero e dal Popolo, per supplire alla vacanza del collegio Episcopale. I Primati di Roma, d'Alessandria, d'Antiochia, di Cartagine, ed in seguito di Costantinopoli, che godevano una giurisdizione più ampia, adunavano le numerose assemblee de' Vescovi lor dipendenti. Ma era una prerogativa propria del solo Imperatore la convocazione de' Sinodi grandi e straordinari. Ogni volta che le occorrenze della Chiesa richiedevano si venisse a tal passo decisivo, egli mandava una perentoria intimazione a' Vescovi o ai Deputati di ciascheduna Provincia, coll'ordine opportuno per l'uso de' cavalli pubblici, o con assegnamenti convenienti per le spese del loro viaggio. Ne' primi tempi, allorchè Costantino era protettore piuttosto che proselito del Cristianesimo, egli rimise la controversia Affricana al Concilio d'Arles, in cui si trovarono come fratelli ed amici i Vescovi di Yorck, di Treveri, di Milano, e di Cartagine per dibattere nel nativo loro linguaggio il comune interesse della Chiesa Latina e Occidentale[126]. Undici anni dopo, a Nicea nella Bitinia, fu convocata una più celebre e numerosa assemblea, per estinguere con definitiva sentenza le sottili dispute ch'erano insorte nell'Egitto sopra la Trinità. Trecento diciotto Vescovi obbedirono all'intimazione dell'indulgente loro Signore; gli Ecclesiastici di ogni specie, setta o nome, vennero computati fino a duemila quarantotto persone[127]; i Greci vi comparvero personalmente, ed il consenso de' Latini fu espresso da' Legati del Romano Pontefice. Le sessioni, che durarono circa due mesi, frequentemente furon onorate dalla presenza dell'Imperatore. Lasciando esso le guardie alla porta, sedeva (colla permissione del Concilio) sopra una piccola sedia nel mezzo dell'assemblea. Costantino ascoltava con pazienza e parlava modestamente; e nel mentre che influiva sulle discussioni, protestava umilmente, ch'egli era il ministro non il giudice de' successori degli Apostoli, ch'erano stati stabiliti come Sacerdoti e come Dii sulla terra[128]. Tal profonda venerazione d'un assoluto Monarca verso un debole disarmato congresso di propri sudditi, non si può paragonare che al rispetto con cui si trattava il Senato da' Principi Romani, che adottarono la politica d'Augusto. Nello spazio di cinquant'anni, uno spettator filosofico delle umane vicende avrebbe potuto confrontar Tacito nel Senato di Roma, e Costantino nel Concilio di Nicea. Tanto i Padri del Campidoglio, quanto quelli della Chiesa eran degenerati dalle virtù de' lor fondatori; ma siccome i Vescovi avevan gettate radici più profonde nella pubblica opinione, così sostennero con più decente orgoglio la lor dignità, ed alle volte si opposero con virile spirito alle brame del loro Sovrano. Il progresso del tempo e della superstizione ha cancellato la memoria della debolezza, della passione e dell'ignoranza, che oscurava quegli Ecclesiastici Sinodi, ed il Mondo Cattolico si è concordemente sottomesso[129] agl' infallibili decreti de' generali Concilj[130].
CAPITOLO XXI.
Eresia perseguitata. Scisma de' Donatisti. Controversia Arriana. Atanasio. Stato della Chiesa e dell'Impero, turbato sotto Costantino ed i suoi figli. Tolleranza del Paganesimo.
L'applauso del Clero, grato ad un Principe che ne secondò le passioni, e ne promosse il vantaggio, ha consacrato la memoria di Costantino. Questi gli procurò sicurezza, beni, onori e vendetta; e risguardò la difesa della fede ortodossa come il più sacro ed importante dovere d'un civil Magistrato. L'editto di Milano, quella gran carta di tolleranza, avea confermato ad ogni individuo del Mondo Romano il privilegio di scegliere e di professare la propria sua religione. Ma fu ben presto violato questo inestimabile privilegio; l'Imperatore, insieme colla cognizione della verità, apprese anche le massime della persecuzione; e le Sette, discordi dalla Chiesa Cattolica, furono afflitte ed oppresse dal trionfo del Cristianesimo. Costantino crede facilmente che gli Eretici, i quali pretendevano d'opporsi a' comandi, o disputar contro le opinioni di lui, fosser colpevoli della più assurda e rea ostinazione; e che l'uso opportuno di moderati gastighi avrebbe potuto salvare quegl'infelici dal pericolo di un'eterna condanna. Non si perdè un momento ad escludere i ministri e i predicatori delle separate congregazioni da ogni partecipazione delle ricompense e delle immunità, che l'Imperatore aveva sì liberamente concesse al Clero ortodosso. Ma siccome i Settarj potevan tuttavia sussistere sotto il peso della disgrazia reale, si fece immediatamente seguire alla conquista dell'Oriente un editto, che annunziava la totale lor distruzione[131]. Dopo un preambolo pieno di passione e di rimproveri, Costantino assolutamente proibisce le assemblee degli Eretici, e confisca i comuni lor beni, applicandoli o al Fisco o alla Chiesa Cattolica. Le Sette, contro delle quali era diretta la Imperiale severità, pare che fosser composte dagli aderenti di Paolo di Samosata; da' Montanisti della Frigia, che conservavano un'entusiastica successione di profezia; da' Novaziani, che fieramente rigettavano la temporal efficacia della penitenza; da' Marcioniti e Valentiniani, sotto i principali stendardi de' quali appoco appoco riunite s'erano le diverse specie di Gnostici dell'Egitto e dell'Asia; e forse da' Manichei, che di fresco avevan portato dalla Persia una più artificiosa composizione di Teologia Orientale e Cristiana[132]. Si eseguì con vigore e con effetto il disegno di estirpare il nome, o almeno d'impedire i progressi di quegli odiosi Eretici. Si copiarono dagli editti di Diocleziano alcuni regolamenti penali, e tal metodo di conversione fu applaudito da quegli stessi Vescovi, che avevan provato il peso dell'oppressione, e difesi i diritti dell'umanità. Due particolari circostanze, per altro, posson servire a provare che lo spirito di Costantino non era interamente corrotto dallo zelo e dal bigottismo. Avanti di condannare i Manichei e le Sette ad essi aderenti, esaminar volle diligentemente la natura de religiosi loro principj. Siccome diffidava dell'imparzialità de' suoi consiglieri Ecclesiastici, diede tal delicata commissione ad un Magistrato civile, di cui egli giustamente stimava la moderazione e il sapere, e probabilmente ne ignorava il venale carattere[133]. Tosto restò l'Imperatore convinto, che aveva con troppa fretta proscritta l'ortodossa fede e gli esemplari costumi de' Novaziani, che dissentivano dalla Chiesa in alcuni articoli di disciplina, i quali forse non erano essenziali per l'eterna salute. Onde con un editto particolare gli esentò dalle pene generali della legge[134]; compartì loro la facoltà di erigere una Chiesa in Costantinopoli, rispettò i miracoli de' loro Santi; invitò al Concilio di Nicea il loro Vescovo Acesio; e pose gentilmente in ridicolo le rigorose opinioni della sua Setta con un famigliar motto, che dalla bocca d'un Sovrano si dovè ricevere con applauso e gratitudine[135].
A. D. 312
Le querele e le vicendevoli accuse, che assalirono il trono di Costantino, dopo che la morte di Massenzio ebbe sottoposto l'Affrica alle vittoriose sue armi, eran mal acconce a edificare un imperfetto proselito. Ei seppe con sua maraviglia, che le Province di quella gran regione, da' confini di Cirene fino alle Colonne d'Ercole, eran divise per discordie di religione[136]. L'origine della divisione proveniva da una doppia elezione fatta nella Chiesa di Cartagine, che tanto per grado, quanto per ricchezze era la seconda fra le sedi Ecclesiastiche dell'Occidente. I due rivali Primati dell'Affrica eran Ceciliano e Maiorino; e la morte di questo ultimo tosto diede luogo a Donato, che a motivo della sua maggiore abilità ed apparente virtù fu il più stabil sostegno del suo partito. Il vantaggio, che Ceciliano poteva trarre dall'anteriorità della sua ordinazione, veniva tolto di mezzo dall'illegittima o almeno indecente fretta, con cui s'era fatta, senz'aspettare l'arrivo de' Vescovi della Numidia. L'autorità poi di questi Vescovi, che nel numero di settanta condannarono Ceciliano, e consacrarono Maiorino, viene pur anche indebolita dall'infamia di varj loro caratteri personali e dagl'intrighi muliebri, dalle sacrileghe convenzioni e dal tumultuoso procedere, che sogliono imputarsi a questo Concilio Numidico[137]. I Vescovi delle contrarie parti sostenevano con ugual ostinazione ed ardore, che i loro avversari dovessero degradarsi, o almeno infamarsi per l'odioso delitto d'aver date in mano agli uffiziali di Diocleziano le Sante Scritture. Da' rimproveri, che vicendevolmente si fecero, non meno che dall'istoria di quest'oscuro fatto può giustamente inferirsi, che l'ultima persecuzione aveva invelenito lo zelo de' Cristiani dell'Affrica, senza riformarne i costumi. La Chiesa, in tal maniera divisa, non era capace di rendere un giudizio imparziale; la controversia dunque fu solennemente agitata in cinque Tribunali diversi, che furono assegnati dall'Imperatore; e tutta la processura, dal primo appello fino alla definitiva sentenza, durò più di tre anni. Una vigorosa inquisizione fatta dal Vicario Pretoriano e dal Proconsole dell'Affrica; la relazione di due Visitatori Episcopali, che furon mandati a Cartagine; i decreti dei Concili di Roma e d'Arles; ed il giudizio supremo di Costantino medesimo nel sacro suo Concistoro, furono tutti favorevoli alla causa di Ceciliano, ed egli venne di comun consenso riconosciuto dalla civile e dalla ecclesiastica potestà come il vero e legittimo Primate dell'Affrica. Si diedero gli onori ed i beni della Chiesa a' Vescovi suffraganei di lui, e non senza difficoltà Costantino si contentò di punir coll'esilio i principali capi della fazion Donatista. Siccome la loro causa fu esaminata con attenzione, forse fu anche giustamente decisa; e forse non era priva di fondamento la loro querela, che si fosse ingannata la credulità dell'Imperatore dagl'insidiosi artifizi d'Osio suo favorito. L'influenza della falsità o della corruzione potè procurare la condanna dell'innocente, o aggravar la sentenza del reo. Tal atto però d'ingiustizia, se avesse terminato un'importuna disputa, avrebbe potuto annoverarsi fra que' mali transitorj d'un governo dispotico, che non più si risentono, nè si rammentano dalla posterità.
A. D. 315
Ma quest'incidente sì piccolo per se stesso, che appena merita luogo nell'istoria, produsse un memorabile scisma, che afflisse le Province dell'Affrica più di trecento anni, e non vi fu estinto che insieme col Cristianesimo stesso. L'inflessibile zelo di libertà e di fanatismo animava i Donatisti a ricusar d'ubbidire agli usurpatori, de' quali disputavano l'elezione, e negavano la spiritual potestà. Esclusi dal civile e religioso commercio degli uomini, essi arditamente scomunicarono il resto del genere umano, che aveva abbracciato l'empio partito di Ceciliano e de' traditori, da' quali traeva la pretesa sua ordinazione. Asserivano con sicurezza e quasi esultando, che s'era interrotta la successione Apostolica; che tutti i Vescovi dell'Europa e dell'Asia erano infetti dal contagio della colpa e dello scisma; e che le prerogative della Chiesa Cattolica si ristringevano a quella scelta porzione di credenti Affricani, che soli avean conservata intatta la integrità della fede e della disciplina. Questa rigida teoria veniva sostenuta da una men caritatevole condotta. Ogni volta che acquistavano un proselito, anche dalle distanti Province dell'Oriente, reiteravano scrupolosamente i sacri riti del Battesimo[138] e dell'Ordinazione, rigettando la validità di quelli ch'esso avea ricevuti dalle mani degli Eretici o degli Scismatici. I Vescovi, le vergini ed eziandio gl'innocenti bambini eran sottoposti al peso di una penitenza pubblica, prima d'essere ammessi alla comunione de' Donatisti. Se ottenevano il possesso d'una Chiesa, di cui avesser fatto uso i Cattolici loro avversari, essi purificavano il profanato edifizio con la medesima gelosa cura, che avrebbe potuto richiedere un tempio d'idoli. Lavavano il pavimento, radevano le mura, bruciavano l'altare, che ordinariamente era di legno, fondevano i sacri vasi; e gettavano a' cani la santa Eucaristia con tutte le circostanze d'ignominia, che provocar potevano, e perpetuare l'animosità delle religiose fazioni[139]. Nonostante quest'irreconciliabile odio, i due partiti, che insieme trovavansi mescolati e sparsi per tutte le città dell'Affrica, avevano l'istesso linguaggio, gli stessi costumi, l'istesso zelo, la stessa dottrina, l'istessa fede e l'istesso culto. Proscritti dalle potestà civile ed ecclesiastica dell'Impero, i Donatisti si mantennero sempre superiori di numero in alcune Province, specialmente nella Numidia; e quattrocento Vescovi riconoscevano la giurisdizione del loro Primate. Ma l'invincibile spirito di tal Setta qualche volta attaccò anche le sue proprie viscere; ed il seno della scismatica loro Chiesa fu lacerato da intestine contese. Un quarto de' Vescovi Donatisti seguì l'indipendente stendardo de' Massimianisti. Lo stretto e solitario sentiero, che avevan segnato i primi lor Capi, continuava a deviare dalla gran società del genere umano. Anche l'impercettibile Setta de' Rogaziani ardiva d'asserire senza rossore, che quando Cristo sarebbe sceso a giudicare la terra, non avrebbe mantenuta la vera sua religione che in pochi ignoti villaggi della Cesarea Mauritania[140].
Lo scisma de' Donatisti limitavasi all'Africa; ma il male più facile a spargersi della controversia intorno alla Trinità, a grado a grado penetrò in ogni parte del Mondo Cristiano. Il primo fu una querela accidentale cagionata dall'abuso della libertà; il secondo fu un alto e misterioso argomento derivato dall'abuso della Filosofia. Dal tempo di Costantino fino a quello di Clodoveo e di Teodorico, gl'interessi temporali sì dei Romani che de' Barbari furon profondamente involti nelle teologiche dispute dell'Arrianesimo. Può dunque permettersi ad un Istorico di tirar rispettosamente il velo del Santuario, o di seguire il progresso della ragione e della fede, dell'errore e della passione, dalla scuola di Platone fino alla decadenza e rovina dell'Impero.
A. A. C. 360
Il genio di Platone, diretto dalla sua propria meditazione o dalla tradizionale scienza de' Sacerdoti dell'Egitto[141] aveva osato d'esplorare la misteriosa natura della Divinità. Dopo d'aver elevato la sua mente alla sublime contemplazione della necessaria causa dell'universo esistente da se medesima, il saggio Ateniese non era capace d'intendere, come la semplice unità della sua essenza potesse ammetter l'infinita varietà delle distinte e successive idee, che compongono il sistema del Mondo intellettuale; come un Ente puramente incorporeo eseguir ne potesse il perfetto modello, e con mano creatrice dar forma al rozzo e indipendente caos. La vana speranza di sbrigarsi da queste difficoltà, che sempre debbon opprimere le deboli facoltà della mente umana, potè indur Platone a considerar la natura Divina sotto la triplice modificazione, di prima causa, di ragione o di Logos, e di anima o spirito dell'Universo. La sua poetica immaginazione fissò talvolta ed animò queste metafisiche astrazioni; si rappresentano i tre archici, o sia originali principj nel sistema di Platone, come tre Dei, uniti l'uno coll'altro mediante una misteriosa ed ineffabil generazione; ed il Logos fu particolarmente considerato sotto il più accessibil carattere di Figlio di un eterno Padre Creatore e Governatore del Mondo. Tali pare che fossero le segrete dottrine, che venivano misteriosamente insegnate ne' giardini dell'Accademia, e che, secondo i più recenti discepoli di Platone, non potevano perfettamente intendersi che dopo un assiduo studio di trent'anni[142].
A. A. C. 300
Le armi de' Macedoni sparsero la lingua e la dottrina della Grecia nell'Asia e nell'Egitto; e s'insegnava con poca riserva e forse con qualche aggiunta il sistema teologico di Platone nella celebre scuola di Alessandria[143]. Il favore de' Tolomei aveva invitato una colonia numerosa di Ebrei a stabilirsi nella nuova lor capitale[144]. Nel tempo che il grosso della nazione praticava le ceremonie legali, ed attendeva alle lucrose occupazioni del commercio, alcuni pochi Ebrei d'uno spirito più coltivato, si consacravano alla religiosa e filosofica contemplazione[145]. Studiarono essi con diligenza, ed abbracciarono con ardore il sistema teologico del Savio d'Atene. Ma il nazional loro orgoglio, sarebbe rimasto mortificato da una chiara confessione dell'antica lor povertà, e arditamente spacciarono come una sacra eredità de' loro maggiori l'oro e le gioie, che avevano sì recentemente involato agli Egizi loro Signori. Cent'anni avanti la nascita di Cristo gli Ebrei d'Alessandria pubblicarono un trattato filosofico, che manifestamente dimostra lo stile ed i sentimenti della scuola di Platone, e fu di unanime consenso ricevuto come una genuina e stimabil reliquia dell'inspirata sapienza di Salomone[146]. Una simigliante unione della fede Mosaica e della filosofia Greca distingue le opere di Filone, che per la massima parte furon composte nel regno d'Augusto[147].
L'anima materiale dell'Universo[148] poteva offendere la pietà degli Ebrei. Ma essi applicarono il carattere del Logos al Jehovah di Mosè e de' Patriarchi; e fu introdotto il Figlio di Dio sulla terra sotto una visibile ed anche umana figura, per fare que' famigliari uffizi, che sembrano incompatibili colla natura e cogli attributi della Causa Universale[149].
A. A. C. 97
L'eloquenza di Platone, il nome di Salomone, l'autorità della scuola d'Alessandria, ed il consenso dei Greci e degli Ebrei non erano sufficienti a stabilire la verità d'una misteriosa dottrina, che potrebbe piacere ad una mente ragionevole, ma non soddisfarla. Solo un Profeta o un Apostolo, inspirato dalla Divinità, può esercitare un legittimo potere sulla fede degli uomini; e la teologia di Platone sarebbe restata per sempre confusa con le filosofiche visioni dell'Accademia, del Portico e del Liceo, se il nome e i divini attributi del Logos, non si fossero confermati dalla celeste penna dell'ultimo e del più sublime fra gli Evangelisti[150]. La rivelazione Cristiana, che fu consumata sotto il regno di Nerva, scuoprì al Mondo il sorprendente segreto, che il Logos, ch'era con Dio fin dal principio, ed era Dio, che aveva fatto tutte le cose; e per cui tutte le cose erano state fatte, s'era incarnato nella persona di Gesù di Nazaret, che era nato da una Vergine, e morto sulla croce. Oltre il general disegno di stabilire sopra una perpetua base gli onori divini di Cristo, i più antichi e rispettabili Scrittori Ecclesiastici hanno attribuito al Teologo Evangelico l'intenzione particolare di confutar due opposte eresie, che disturbavano la pace della primitiva Chiesa[151]. In primo luogo, la fede degli Ebioniti[152], e forse de' Nazareni[153], era grossolana ed imperfetta. Essi veneravan Gesù, come il più grande fra' Profeti, dotato di virtù e potere soprannaturale. Attribuivano alla persona ed al regno futuro di esso tutte le predizioni degli oracoli Ebrei, che si riferiscono allo spirituale ed eterno regno del promesso Messia[154]. Alcuni fra loro confessavano forse, ch'egli era nato da una Vergine; ma ostinatamente rigettavano la precedente esistenza e le divine perfezioni del Logos, o del Figlio di Dio, che sì chiaramente son definite nel Vangelo di S. Giovanni. Circa cinquant'anni dopo, gli Ebioniti, gli errori de' quali son rammentati da Giustino Martire con minore severità di quella che sembrerebbero meritare[155] formavano una parte molto poco considerabile del nome Cristiano. In secondo luogo, i Gnostici, che si distinguevano coll'epiteto di Dociti, caddero nell'estremo contrario; e volendo sostener la natura divina di Cristo, ne abbandonarono l'umana. Educati nella scuola di Platone ed assuefatti alla sublime idea del Logos, facilmente concepivano, che il più luminoso Eone, o Emanazione della Divinità, potesse assumer l'esterna figura, e le apparenze visibili di un mortale[156]; ma vanamente pretendevano che le imperfezioni della materia fossero incompatibili colla purità di una sostanza celeste. Mentre ancor fumava il sangue di Cristo sul monte Calvario, i Dociti inventarono l'empia e stravagante ipotesi, che invece d'esser nato dal seno della Vergine[157], fosse disceso sulle rive del Giordano in forma d'uomo perfetto; che avesse ingannato i sensi de' suoi nemici e de' suoi discepoli; e che i Ministri di Pilato esercitato avessero l'impotente lor rabbia sopra un aereo fantasma, il quale parve che spirasse sopra la croce, e dopo tre giorni risuscitasse da morte[158].
La sanzione Divina, che l'Apostolo avea comunicata al fondamental principio della Teologia di Platone, trasse gli eruditi proseliti del secondo e del terzo secolo ad ammirare e studiar gli scritti del savio Ateniese, che aveva tanto maravigliosamente annunziato una delle più sorprendenti scoperte della rivelazione Cristiana. Gli ortodossi fecero uso[159], e gli Eretici abuso[160] del nome rispettabile di Platone, come d'un comun sostegno della verità e dell'errore: s'adoperò l'autorità degli abili comentatori di lui per giustificare le remote conseguenze delle sue opinioni, e per supplire al discreto silenzio degli scrittori inspirati. Si agitavano le medesime sottili e profonde questioni sopra la natura, la generazione, la distinzione e l'uguaglianza delle tre Divine persone della misteriosa Triade o Trinità[161], nelle filosofiche e nelle Cristiane scuole d'Alessandria. Un ardente spirito di curiosità le spingeva ad esplorare i segreti dell'abisso; e soddisfacevasi con una scienza di parole l'orgoglio de' professori e de' loro discepoli. Ma il più sagace fra i Teologi Cristiani, l'istesso grande Atanasio, ha candidamente confessato[162] che ogni volta che sforzò la sua mente a meditare sulla divinità del Logos, i suoi laboriosi sforzi riuscirono vani ed inefficaci; che quanto più vi pensava, tanto meno capiva; e che quanto più scriveva, tanto era meno capace d'esprimere i suoi pensieri. Ad ogni passo di tal ricerca noi siam costretti a sentire ed a confessare l'immensa sproporzione che passa fra la natura del soggetto e la capacità della mente umana. Possiam tentare d'astrarre le nozioni di tempo, di spazio e di materia, che sono tanto strettamente congiunte con tutte le percezioni del nostro sperimentale conoscimento. Ma quando pretendiamo di ragionare di sostanza infinita, di generazione spirituale; quando vogliam dedurre qualche conclusione positiva da un'idea negativa, restiamo involti in oscurità, in dubbiezze ed in sicure contraddizioni. Poichè tali difficoltà provengono dalla natura del soggetto, esse opprimono col medesimo insuperabile peso tanto i filosofi quanto i teologi disputanti; ma possiamo peraltro osservare due particolari ed essenziali circostanze, che rendono diverse le dottrine della Chiesa Cattolica dalle opinioni della Platonica scuola.
I. Una scelta società di filosofi, uomini educati liberamente e disposti alla curiosità, poteva meditare in silenzio, o tranquillamente discutere ne' giardini di Atene o nella libreria d'Alessandria le astruse questioni della scienza metafisica. Le sublimi speculazioni, che non convincevano l'intelletto, nè agitavano le passioni degli stessi Platonici, venivan trascurate dalla parte sì oziosa che attiva ed anche studiosa dell'umano genere[163]. Ma dopo che il Logos fu rivelato come il sacro oggetto della fede, della speranza e del religioso culto de' Cristiani, fu abbracciato quel misterioso sistema da una copiosa e sempre crescente moltitudine in ogni Provincia del Mondo Romano. Quelli, che per l'età, pel sesso, o per le occupazioni loro erano i meno atti a giudicare, ed i meno esercitati nell'abitudine di ragionare astrattamente, aspiravano essi pure a contemplar l'economia della natura divina: e Tertulliano[164] vanta che un artefice Cristiano potea facilmente rispondere a tali questioni, che avrebbero imbarazzato il più acuto de' Greci Sapienti. Dove il soggetto è tanto al di là delle nostre forze, la differenza fra il più sublime ed il più debole degli umani ingegni può in vero computarsi per un infinitamente piccolo; pure si può forse misurare il grado di debolezza dal grado d'ostinazione e di dogmatica sicurezza. Queste speculazioni, invece d'esser risguardate come divertimenti di qualche ora disoccupata, divennero l'affare più serio della vita presente, e la preparazione più vantaggiosa per la futura. Una teologia ch'era obbligo credere, di cui era empietà il dubitare, ed intorno a cui sarebbe stato pericoloso ed anche fatale ogni sbaglio, divenne il famigliar argomento delle private meditazioni e de' popolari discorsi. La fredda indifferenza della Filosofia era infiammata dal fervente spirito di devozione; ed eziandio le metafore del linguaggio comune suggerivano fallaci pregiudizi di senso e d'esperienza. I Cristiani, che abborrivano la grossolana ed impura generazione della mitologia Greca[165] furon tentati di trarre argomento dalla famigliare analogia delle relazioni filiale e paterna. Il carattere di figlio pareva che includesse una perpetua subordinazione al volontario autore della sua esistenza[166]; ma siccome bisogna supporre, che l'atto di generare, nel più spirituale ed astratto senso, trasfonda le proprietà d'una natura comune[167], non ardirono di limitar la potenza o la durata del Figlio di un onnipotente ed eterno Padre. Ottant'anni dopo la morte di Cristo, i Cristiani della Bitinia dichiararono avanti al Tribunale di Plinio, ch'essi l'invocavano come Dio; ed in ogni secolo e paese gli si son continuati gli onori divini dalle varie Sette, che hanno assunto il nome di suoi discepoli[168]. La tenera loro venerazione per la memoria di Cristo, e l'orrore che avevano pel culto profano di ogni Ente creato, gli avrebbe impegnati a sostenere l'uguale ed assoluta Divinità del Logos, se il rapido loro volo verso il trono del Cielo non si fosse insensibilmente frenato dal timore di violar l'unità e la sola superiorità del gran Padre di Cristo e dell'Universo. Si può veder la sospensione e l'ondeggiamento prodotto negli animi dei Cristiani da queste contrarie inclinazioni negli scritti de' Teologi, che fiorirono dopo il tempo degli Apostoli, ed avanti l'origine della controversia Arriana. Tanto gli ortodossi quanto gli eretici pretendono con ugual sicurezza d'averli in loro favore; ed i più diligenti critici vanno pienamente d'accordo, che se essi ebber la buona fortuna di conoscer la Cattolica verità, almeno hanno espresso i loro sentimenti con parole indeterminate, inesatte ed alle volte contraddittorie[169].
II. La devozione degl'individui era la prima circostanza che distingueva i Cristiani da' Platonici; la seconda era l'autorità della Chiesa. I discepoli della Filosofia sostenevano i diritti dell'intellettual libertà; ed il rispetto, che avevano pe' sentimenti de' loro maestri, era un libero e volontario tributo che offerivano alla superiorità della religione. Ma i Cristiani formavano una società numerosa e disciplinata; e rigorosamente s'esercitava sugli animi de' Fedeli la giurisdizione delle leggi e de' Magistrati. I liberi voli dell'immaginazione venivano di mano in mano ristretti dalle formule e dalle confessioni di fede[170]; la libertà del giudizio privato era sottoposta alla pubblica dottrina de' Sinodi; l'autorità di un Teologo veniva determinata dal grado che esso tenea nella Chiesa; e gli Episcopali successori degli Apostoli soggettavano all'Ecclesiastiche censure coloro, che deviavan dalla Fede ortodossa. Ma in un tempo di controversie religiose ogni atto d'oppressione accresceva nuova forza all'elastico vigor dello spirito; ed alle volte anche lo zelo o l'ostinazione d'un ribelle spirituale si fomentava da segreti motivi d'ambizione o d'avarizia. Un argomento metafisico diveniva la causa, o il pretesto di contese politiche; si usavan le sottigliezze della scuola Platonica come le insegne delle fazioni popolari, e la differenza, che separava le rispettive loro opinioni, si accresceva o magnificava dall'acrimonia della disputa. Finattanto che l'oscura eresia di Prassea e di Sabellio procurò di confondere il Padre col Figlio[171], il partito Ortodosso fu degno di scusa, se aderiva con maggior vigore ed impegno alla distinzione che all' uguaglianza delle persone divine. Ma tosto che fu sopito il calor della controversia, ed il progresso dei Sabelliani non dava più motivo di temere alle Chiese di Roma, dell'Affrica o dell'Egitto, la corrente della opinione teologica cominciò a voltarsi con un dolce ma costante moto verso l'estremo contrario; ed i più Ortodossi Dottori non si guardarono dall'usare i termini e le definizioni, che in bocca de' Settari s'erano censurate[172]. Dopo che l'Editto di tolleranza ebbe restituito la pace a' Cristiani, insorse di nuovo la controversia della Trinità nell'antica sede del Platonismo, nella dotta, opulenta e tumultuosa città d'Alessandria; e la fiamma della discordia religiosa rapidamente si comunicò dalle scuole al Clero, al Popolo, alla Provincia ed all'Oriente. Si agitaron le astruse questioni dell'eternità del Logos nell'Ecclesiastiche conferenze e ne' discorsi popolari; e furon ben presto fatte pubbliche l'eterodosse opinioni d'Arrio[173] dal proprio zelo di lui, e da quello de' suoi avversari. I più implacabili nemici suoi hanno riconosciuto la dottrina e la vita incorrotta di quell'eminente Prete, che in un'antecedente elezione aveva dichiarate, e forse generosamente soppresse, le sue pretensioni alla sede Episcopale[174], Alessandro, competitore di lui, prese le parti di suo giudice. Fu agitata l'importante causa avanti di esso; e sebbene a principio sembrasse dubbioso, finalmente pronunziò la sua definitiva sentenza, come un'assoluta regola di fede[175]. L'indomito Prete, che ardì resistere all'autorità del suo ardente Vescovo, fu separato dalla comunione della Chiesa. Ma l'orgoglio d'Arrio era sostenuto dall'applauso d'un numeroso partito. Egli contava fra' suoi immediati seguaci due Vescovi dell'Egitto, sette Preti, dodici Diaconi, e (quel che sembra quasi incredibile) settecento Vergini. Un grandissimo numero de' Vescovi Asiatici parve che ne sostenesse, o favorisse la causa; ed i loro passi eran condotti da Eusebio di Cesarea, il più dotto de' Prelati Cristiani, e da Eusebio di Nicomedia, che aveva acquistato la riputazione di uomo di stato senza perder quella di Santo. Si opposero nella Palestina e nella Bitinia de' Sinodi a quelli dell'Egitto. Questa teologica disputa s'attirò l'attenzione del Sovrano e del Popolo, ed al termine di sei anni[176] ne fu rimessa la decisione alla suprema autorità del generalo Concilio di Nicea.
A. D. 318-325
Allorchè i misterj della Fede Cristiana pericolosamente s'esposero alla pubblica discussione, si potè osservare, che l'intelletto umano era capace di formare tre distinti, quantunque imperfetti, sistemi sopra la natura della Trinità di Dio; e fu pronunziato, che nessuno di questi, preso in un senso puro ed assoluto, era esente dall'eresia e dall'errore[177]. Primieramente, secondo l'ipotesi sostenuta da Arrio e da' suoi discepoli, il Logos era una produzione dipendente e spontanea, creata dal nulla per la volontà del Padre. Il Figlio, da cui s'eran fatte tutte le cose[178], era stato generato prima di tutti i Mondi, ed il più lungo periodo astronomico non potea comparire che un passeggiero momento relativamente all'estensione della durata di lui; tal durata però non era infinita[179], e vi era stato un tempo che avea preceduto l'ineffabil generazione del Logos. In quest'unigenito Figlio l'onnipotente Padre avea trasfuso l'ampio suo spirito, ed impresso lo splendore della sua gloria. Visibile immagine di un'invisibile perfezione, vedeva ad un'immensa distanza sotto i suoi piedi i troni de' più fulgidi Arcangeli; pure non risplendeva che una luce riflessa, e simile a' figli de' Romani Imperatori, ch'erano investiti de' titoli di Cesare o d'Augusto[180], ei governava l'universo con ubbidire alla volontà del suo Padre e Monarca. Nella Seconda ipotesi il Logos godeva tutte le inerenti incomunicabili perfezioni, che la Religione e la Filosofia attribuiscono al sommo Dio. La Divina essenza componevasi da tre distinte infinite menti o sostanze, da tre esseri coeguali e coeterni[181] e sarebbe stata una contraddizione che alcuno di loro dovesse non essere stato, o che dovesse mai cessare di esistere[182]. I difensori del sistema, che pareva che stabilisse tre indipendenti Divinità, tentavano di conservar l'unità della prima causa così patente nel disegno e nell'ordine del Mondo, mediante la perpetua concordia di loro amministrazione e l'essenziale conformità del loro volere. Si può vedere (dicevano essi) una debole somiglianza di tale unità d'azione nelle società degli uomini, ed anche degli animali. Le cause, che disturbano la loro armonia, non provengono che dall'imperfezione e disuguaglianza delle lor facoltà; ma l'onnipotenza, ch'è guidata da infinito sapere e bontà, non può mancare di scegliere gli stessi mezzi per l'adempimento de' medesimi fini. In terzo luogo tre Enti, che per propria original necessità di loro esistenza posseggono tutti i divini attributi nel grado più perfetto; che sono eterni nella durata, infiniti nello spazio, ed intimamente presenti l'uno all'altro ed a tutto l'universo; irresistibilmente forzano l'attonita mente a crederli uno stesso Ente[183], che nell'economia della grazia ugualmente che in quella della natura si possa manifestare sotto differenti forme, ed esser considerato in differenti aspetti. Con questa ipotesi una vera sostanzial Trinità si riduce ad una Trinità di nomi e di astratte modificazioni, che sussistono soltanto nella mente che le concepisce. Il Logos non è più una persona, ma un attributo, e non può applicarsi più che in un senso figurato l'epiteto di Figlio all'eterna ragione, che era un Dio fin dal principio, e da cui, non per mezzo di cui furon fatte tutte le cose. L'incarnazione del Logos riducevasi ad una mera inspirazione della Divina Sapienza, che riempì l'anima, e diresse tutte le azioni dell'Uomo Gesù. Così dopo d'aver percorso tutto il cerchio teologico, restiam sorpresi al vedere che il Sabelliano va a terminare dove incominciato avea l'Ebionita, e che l'incomprensibil mistero, ch'eccita la nostra adorazione, sfugge alle nostre ricerche[184].
A. D. 325
Se fosse stato permesso a' Vescovi del Concilio di Nicea[185] di seguire gl'imparziali dettami di lor coscienza, Arrio ed i suoi compagni avrebbero appena potuto lusingarsi con la speranza d ottenere una pluralità di voti a favor d'un'ipotesi tanto direttamente contraria alle due popolari opinioni del Mondo Cattolico. Gli Arriani tosto s'accorsero della pericolosa loro situazione, e prudentemente si vestirono di quelle modeste virtù, che, nel furore delle dissensioni civili o religiose, rare volte son praticate, o anche lodate da altri che dalla parte più debole. Raccomandavano essi l'esercizio della carità e moderazione Cristiana; insistevano nell'incomprensibile natura dello controversia; disapprovavan l'uso di termine, o di definizione alcuna, che non potesse trovarsi nelle Scritture; ed offerivano con proteste molto liberali di soddisfare gli avversari senza rinunziare alla sostanza de' propri loro principj. La fazione vittoriosa ricevè tutte queste proposizioni con altiera diffidenza: ed ansiosamente cercava qualche irreconciliabile segno di distinzione, la condanna di cui potesse involger gli Arriani nella colpa e nelle conseguenze dell'eresia. Fu pubblicamente letta, ed ignominiosamente lacerata una lettera, nella quale il loro Avvocato, Eusebio di Nicomedia, ingenuamente confessava, ch'era incompatibile co' principj del teologico loro sistema l'ammettere la parola Homoousion, o Consustanziale, termine già famigliare ai Platonici. Fu ardentemente abbracciata la favorevole occasione da' Vescovi, che dirigevano le deliberazioni del Sinodo; e secondo la viva espressione d'Ambrogio[186] si servirono della spada, che l'eresia medesima avea tirato dal fodero, per tagliar la testa all'odioso mostro. Dal Concilio Niceno fu stabilita la consustanzialità del Padre e del Figlio, ed è stata la medesima concordemente ricevuta, come un fondamentale articolo della Fede Cristiana, dal consenso delle Chiese Greca e Latina, Orientale e Protestante. Ma se la stessa parola non fosse stata sufficiente a diffamare gli Eretici, e ad unire i Cattolici, non si sarebbe ottenuto l'intento della maggior parte di quell'assemblea, da cui fu introdotta nel simbolo ortodosso. Questa parte maggiore si divideva in due classi, distinte fra loro mediante una contraria inclinazione a' sentimenti dei Triteisti e de' Sabelliani. Ma siccome sembrava, che quegli opposti estremi rovinassero i fondamenti della religione sì naturale che rivelata, essi convenner fra loro di moderare il rigore dei loro principj, e di negare in tal modo le giuste, ma odiose conseguenze, che avrebber potuto trarsi da' loro avversarj. L'interesse della causa comune li faceva inclinare ad unire i loro partiti, ed a nasconder le lor differenze; fu ammollita l'animosità loro da salutari consigli di tolleranza, e restaron sospese le loro dispute mediante l'uso del misterioso Homoousion, che ognuno era libero d'interpretare secondo le proprie particolari opinioni. Il senso Sabelliano, che circa cinquant'anni prima aveva obbligato il Concilio d'Antiochia[187] a proibir quel celebre termine, lo rendeva caro a que' Teologi, che mantenevano una segreta, ma parziale affezione per una Trinità nominale. Ma i Santi, ch'erano più alla moda ne' tempi degli Arriani, l'intrepido Atanasio, il dotto Gregorio Nazianzeno, e le altre colonne della Chiesa, che sostennero con abilità ed effetto la dottrina Nicena, par che risguardassero l'espression di Sostanza, come un sinonimo di quella di Natura; e si avventurarono ad illustrare il loro pensiero con affermare, che tre uomini, in quanto appartengono alla stessa specie loro comune, sono consustanziali, o sia homoousii l'uno coll'altro[188]. Questa pura e distinta uguaglianza, per una parte, veniva temperata dall'interna connessione e penetrazione spirituale, che indissolubilmente unisce le persone divine[189]; e per l'altra dalla preminenza del Padre, che si confessava per quanto essa è compatibile coll'indipendenza del Figliuolo[190]. Dentro questi limiti si lasciò muover con sicurezza la quasi invisibile e tremula palla dell'ortodossia; ed intorno di questo sacro recinto stavano in agguato gli Eretici, ed i demonj per sorprendere e divorare quegl'infelici che gli oltrepassavano. Ma siccome i gradi dell'odio teologico dipendono piuttosto dallo spirito di guerra che dall'importanza della controversia, gli Eretici che degradavan la persona del Figlio, eran trattati con maggior severità di quelli che l'annichilavano. Atanasio consumò la sua vita nell'irreconciliabile opposizione all'empia pazzia degli Arriani[191]; ma difese più di venti anni il Sabellianismo di Marcello d'Ancira; e quando alla fine fu costretto a ritirarsi dalla comunione di lui, rammentava sempre con ambiguo sorriso i veniali errori del suo rispettabile amico[192].
L'autorità d'un Concilio generale, a cui gli Arriani stessi erano stati costretti a sottomettersi, delineò sulle bandiere della parte ortodossa i misteriosi caratteri della parola Homoousion, la quale nonostanti alcune oscure dispute, e certi notturni dibattimenti, essenzialmente contribuì a mantenere e perpetuar l'uniformità della fede, o almen del linguaggio. I Consustanzialisti, che pel loro buon successo avean meritato e conseguito il titolo di Cattolici, si gloriavano della semplicità e fermezza del loro proprio simbolo, ed insultavano le replicate variazioni de' loro avversari, ch'eran privi d'una certa regola di fede. La sincerità o l'astuzia de' Capi Arriani, il timor delle leggi o del popolo, la reverenza che aveano per Cristo, il loro odio verso Atanasio, tutte in somma le cause umane e divine, che possono influire e indur varietà ne' consigli d'un partito teologico, introdussero fra i Settari uno spirito di discordia e d'incostanza, che nel corso di pochi anni produsse diciotto diverse formule di religione[193], e vendicò la violata dignità della Chiesa. Lo zelante Ilario[194], che per causa della particolar durezza di sua situazione era inclinato a diminuire piuttosto che ad aggravare gli errori del Clero dell'Oriente, dichiara che nella vasta estensione delle dieci Province dell'Asia, nelle quali esso era stato esule, potean trovarsi ben pochi Prelati, che avessero mantenuta la cognizione del vero Dio[195]. L'oppressione, che avea provato, i disordini, de' quali era stato spettatore e vittima, quietarono per breve tempo le fervide passioni nell'animo suo; e nel seguente passo, di cui non farò che trascrivere pochi versi, il Vescovo di Poitiers s'abbandona, senz'avvedersene, allo stile d'un Cristiano filosofo; «È una cosa» dice Ilario «ugualmente deplorabile e pericolosa, che vi siano tanti simboli, quante son le opinioni fra gli uomini, tante dottrine, quante inclinazioni, e tante sorgenti di bestemmie, quanti difetti si trovan fra noi, perchè facciamo i simboli arbitrariamente e gli spieghiamo ancora a capriccio. Varj Sinodi hanno successivamente rigettato, ammesso ed interpretato il termine Homoousion. La parziale e total somiglianza del Padre e del Figlio in questi infelici tempi è un soggetti di disputa. Ogni anno, anzi ogni mese facciamo de' nuovi simboli per esporre de' misteri invisibili. Ci pentiamo di ciò, che abbiam fatto, difendiamo quelli che che si pentono, ed anatematizziamo quelli che prima difendevamo. O condanniamo la dottrina degli altri in noi stessi, o la nostra in quella degli altri; e reciprocamente lacerandoci l'uno coll'altro, siamo stati la causa della nostra vicendevol rovina»[196].
Non si aspetterà, e forse neppure si soffrirebbe, che io ampliassi questa teologica digressione con un minuto esame de' diciotto simboli, gli autori de' quali per la maggior parte ricusavano l'odioso nome del loro padre Arrio. Il delineare la forma e descriver la vegetazione d'una pianta riesce assai piacevole; ma il noioso ragguaglio delle foglie senza fiori e de' rami senza frutti stancherebbe tosto la pazienza, e sconcerterebbe la curiosità del laborioso studente. Non deve però tralasciarsi la notizia d'una questione, che in seguito nacque dalla controversia Arriana, mentre servì essa a produrre e distinguer fra loro tre Sette, le quali non convenivano in altro che in una comune avversione all' Homoousion del Sinodo Niceno. 1. Alla questione se fosse il Figlio simile al Padre, risolutamente si rispondeva per la negativa da quegli Eretici, che aderivano a' principj d'Arrio, o anche a quelli della filosofia, che sembra porro un'infinita differenza fra il Creatore e la più eccellente delle sue creature. Si sosteneva quella ovvia conseguenza da Aezio[197], a cui lo zelo de' suoi nemici diede il soprannome di Ateo. Il suo spirito inquieto ed intraprendente lo indusse a provare quasi tutte le professioni della vita umana. Egli fu in diversi tempi schiavo o almeno lavoratore di terra, venditore di vasi per le strade, orefice, medico, maestro di scuola, teologo, e finalmente Apostolo di una nuova Chiesa, che propagossi mediante l'abilità del suo discepolo Eunomio[198]. Armato di testi scritturali, e di arguti sillogismi, presi dalla logica d'Aristotele, il sottil Aezio aveva acquistato la fama d'invincibil disputatore, che non si poteva nè ridurre al silenzio, nè convincere. Tali doti s'attiraron l'amicizia de' Vescovi Arriani, fino a tanto che non furon essi costretti a ricusare, ed anche a perseguitare un pericoloso alleato, che per l'esattezza del suo raziocinio aveva pregiudicato la lor causa nell'opinion popolare, ed offeso la pietà de' loro più devoti seguaci. 2. L'onnipotenza del Creatore somministrava una speciosa e riverente soluzione della somiglianza del Padre e del Figlio; e la fede poteva umilmente ammettere ciò, che la ragione non avrebbe ardito di negare, vale a dire, che il supremo Dio potesse comunicar le infinite sue perfezioni, e creare un Ente simile unicamente a se stesso[199]. Questi Arriani furon potentemente sostenuti dal peso e dall'abilità dei lor Capi, ch'eran successi al maneggio del partito Eusebiano, e che occupavan le sedi principali dell'Oriente. Detestavano essi forse con qualche affettazione l'empietà d'Aezio e professavan di credere, o senza riserva o secondo le Scritture, che il Figlio fosse differente da tutte le altre creature, e simile soltanto al Padre. Ma negavano, ch'egli fosse o della medesima, o di simile sostanza, giustificando alle volte arditamente il loro dissenso, ed alle volte opponendosi all'uso della parola sostanza, che sembra includere un'adeguata, o almeno distinta nozione della natura di Dio. 3. La Setta, che sosteneva la dottrina d'una simil sostanza, era la più numerosa, almeno nelle Province dell'Asia; e quando si adunarono i Capi di ambe le parti nel Concilio di Seleucia[200], potè prevalere la lor opinione mediante il suffragio di cento cinque Vescovi sopra quarantatre. Il Greco vocabolo, che si scelse per esprimere tal misteriosa somiglianza, ha un'affinità così grande al simbolo ortodosso, che i profani d'ogni tempo hanno deriso le furiose dispute, che la differenza d'un semplice dittongo eccitò tra gli Homoousii, e gli Homoiousii. Siccome però frequentemente accade che i suoni ed i caratteri, che sono più vicini fra loro, accidentalmente rappresentano le più opposte idee, tal osservazione sarebbe per se stessa ridicola, se fosse possibile di notare alcuna reale e sensibile distinzione fra la dottrina de' semi-Arriani, come impropriamente si appellano, e quella de' Cattolici medesimi. Il Vescovo di Poitiers che nel suo esilio di Frigia tentò molto saviamente di riunire le parti, procura di provare, che mediante una pia e fedele interpretazione[201] la parola Homoiousion può ridursi al senso di consustanziale. Pure confessa, che tal parola porta un'aria di oscurità e di sospetto, e come se l'oscurità fosse congenita alle dispute teologiche, i semi-Arriani, che più s'accostavano alle porte della Chiesa, le assalirono col più inflessibil furore.
Le Province dell'Egitto e dell'Asia, che apprendevano la lingua ed i costumi de' Greci, avevan profondamente bevuto il veleno della controversia Arriana. Lo studio ad essi famigliare del sistema Platonico, una disposizione alla vanità e all'argomentazione, un copioso e pieghevole idioma somministravano al Clero ed al Popolo dell'Oriente un'inesauribile quantità di parole e di distinzioni; ed in mezzo alle fiere loro contese, facilmente obbliavano il dubitare che si raccomanda dalla filosofia, e la sommissione che dalla religione è comandata. Gli abitanti dell'Occidente erano d'uno spirito meno investigatore; le loro passioni non eran sì fortemente mosse dagli oggetti invisibili; i loro animi eran meno esercitati dall'abitudine di disputare; e tal era la felice ignoranza della Chiesa Gallicana, che Ilario medesimo più di trent'anni dopo il primo Concilio Generale non avea cognizione del simbolo Niceno[202]. I Latini avevan ricevuto il lume della cognizione divina per l'oscuro e dubbioso mezzo di una traduzione. La povertà e durezza della nativa loro lingua non era sempre capace di somministrare i giusti vocaboli, equivalenti a' Greci ed alle voci tecniche della Platonica filosofia[203], che s'erano consacrate dal Vangelo o dalla Chiesa per esprimere i misteri della fede Cristiana; ed un difetto verbale poteva introdurre nella teologia Latina una lunga serie d'errori, o d'ambiguità[204]. Ma poichè le Province dell'Occidente avevano la fortuna di trarre la lor Religione da una sorgente ortodossa, esse mantennero con fermezza la dottrina, che avean ricevuto con docilità; e quando la peste Arriana s'accostò alle loro frontiere, fu applicato ad esse l'opportuno preservativo dell'Homoousion per le paterne cure del Romano Pontefice.
A. D. 360
Si spiegarono i sentimenti, e l'indole loro nel memorabil Sinodo di Rimini, che sorpassò in numero il Concilio di Nicea, mentre vi si trovarono più di quattrocento Vescovi dell'Italia, dell'Affrica, della Spagna, della Gallia, della Gran-Brettagna, e dell'Illirico. Fino da' primi dibattimenti si vide che soli ottanta Prelati aderivano al partito d'Arrio, quantunque affettassero di anatematizzarne la memoria ed il nome. Ma quest'inferiorità era compensata da' vantaggi della perizia, dell'esperienza e della disciplina; ed il minor numero era condotto da Valente ed Ursacio Vescovi dell'Illirico, che avean consumato le loro vite negli intrighi delle Corti e de' Concilj, e che nelle religiose guerre dell'Oriente erano stati attirati sotto la bandiera Eusebiana. Essi per mezzo de' loro argomenti e negoziati imbarazzarono, confusero, ed al fine ingannarono l'onesta semplicità de' Vescovi Latini, che si lasciarono strappar dalle mani il Palladio della fede, più per frode ed importunità, che per aperta violenza. Non fu permesso che si separasse il Concilio di Rimini, finchè i membri di esso non ebbero imprudentemente soscritto un ingannevole simbolo, nel quale furono inserite in luogo dell' Homoousion alcune espressioni, suscettibili d'un senso ereticale. Allora fu che, secondo Girolamo[205], il Mondo con sua maraviglia si trovò Arriano. Ma appena i Vescovi delle Province Latine furon giunti alle respettive lor Diocesi, conobbero il loro sbaglio e si pentirono della lor debolezza. Fu rigettata con abborrimento e con isdegno l'ignominiosa capitolazione; e lo stendardo Homoousio, ch'era stato scosso, ma non atterrato, fu più stabilmente ripiantato in tutte le Chiese Occidentali[206].
Tale fu l'origine ed il progresso, e tali furono le naturali rivoluzioni di quelle teologiche dispute, che disturbaron la pace del Cristianesimo sotto i regni di Costantino e de' suoi figli. Ma siccome questi Principi presunsero di estendere il lor dispotismo sopra la fede non meno che sulle vite e sostanze de' loro sudditi, il peso del loro voto qualche volta fece pender la bilancia Ecclesiastica; e le prerogative del Re del Cielo furono stabilite, cangiate o modificate nel gabinetto d'un Monarca terreno.
A. D. 324
L'infelice spirito di discordia, che invase le Province dell'Oriente, interruppe il trionfo di Costantino; ma l'Imperatore per qualche tempo continuò a guardare con fredda e non curante indifferenza il soggetto della disputa. Ignorando egli ancora la difficoltà di quietare le contese de' Teologi, indirizzò ad ambi i contendenti, Alessandro ed Arrio, una moderata lettera[207] che può attribuirsi con più ragione al libero senso d'un soldato e d'un politico che a' dettami di alcuno de' Vescovi suoi consiglieri. Egli attribuisce l'origine di tutta la controversia ad una minuta e sottile questione intorno ad un punto incomprensibile della legge, questione che fu scioccamente promossa dal Vescovo, e sciolta imprudentemente dal Prete. Si duole, che il popolo Cristiano, che aveva lo stesso Dio, la stessa religione e lo stesso culto, fosse diviso da tali meschine distinzioni; e seriamente raccomanda al Clero d'Alessandria di seguir l'esempio de' Greci filosofi, i quali sapevan sostenere i loro argomenti senza perder la tranquillità, e conservar la libertà propria senza violar l'amicizia. L'indifferenza ed il disprezzo del Sovrano sarebbe forse stato il metodo più efficace di por silenzio alla disputa, se la corrente popolare fosse stata meno rapida e impetuosa, e se Costantino medesimo in mezzo alla fazione ed al fanatismo avesse potuto conservar la calma ed il possesso della sua mente. Ma i suoi Ministri Ecclesiastici presto tentarono di sedurre l'imparzialità del Magistrato, e d'infiammare lo zelo del proselito. Fu egli provocato dagl'insulti fatti alle proprie statue; fu commosso dalla reale o immaginaria grandezza del male, che andava dilatandosi; ed estinse ogni speranza di pace e di tolleranza, dal momento che adunò trecento Vescovi dentro le mura d'un istesso palazzo. La presenza del Monarca accrebbe l'importanza della disputa; la sua attenzione fece moltiplicarne gli argomenti; ed egli espose la sua persona con un'intrepidezza sì paziente, che animò il valore de' combattenti. Nonostante l'applauso, che si è fatto all'eloquenza e sagacità di Costantino[208], un Generale Romano, la cui religione poteva esser sempre dubbiosa, e la cui mente non era stata illuminata nè dallo studio, nè dall'inspirazione, doveva esser poco acconcio a discutere in Greco linguaggio una questione metafisica o un articolo di fede. Ma il credito d'Osio suo favorito, il quale sembra che presedesse al Concilio di Nicea, potè disporre l'Imperatore a favor della parte ortodossa; ed una osservazione fatta a tempo, che quel medesimo Eusebio di Nicomedia, il quale allora proteggeva gli Eretici, aveva innanzi assistito il Tiranno[209], potè inasprirlo contro gli avversari. Il Simbolo Niceno fu ratificato da Costantino, e la sua ferma dichiarazione, che quelli che resistito avessero al divino giudizio del Sinodo, potean prepararsi immediatamente all'esilio, annientò i romori di una debole opposizione, che da diciassette Vescovi Protestanti fu quasi ad un tratto ridotta a due. Eusebio di Cesarea prestò un ripugnante ed ambiguo consenso all' Homoousion[210]; e l'equivoca condotta d'Eusebio di Nicomedia non servì che a differire circa tre mesi la sua disgrazia, ed il suo esilio[211]. L'empio Arrio fu bandito in una delle remote Province dell'Illirico; la sua persona ed i suoi discepoli furono infamati dalla legge coll'odioso nome di Porfiriani; i suoi scritti furon condannati alle fiamme; e fu stabilita la pena capitale contro coloro, appresso i quali si fosser trovati. L'Imperatore s'era allora investito dello spirito di controversia, e l'ardente e satirico stile de' suoi editti era diretto ad inspirare ne' sudditi l'odio che egli avea concepito contro i nemici di Cristo[212].
A. D. 328-337
Ma come se la condotta dell'Imperatore avesse avuto per guida piuttosto la passione che un vero principio, appena eran passati tre anni dopo il Concilio Niceno, ch'ei dimostrò alcuni sintomi di misericordia ed eziandio d'indulgenza verso la setta proscritta, ch'era segretamente protetta dalla sorella sua favorita. Si richiamarono gli esuli; ed Eusebio che appoco appoco riprese la sua autorità sulla mente di Costantino, fu restituito alla Sede Episcopale, da cui era stato ignominiosamente deposto. Arrio stesso fu trattato da tutta la Corte con quel rispetto, che si sarebbe dovuto ad un innocente oppresso. La sua fede fu approvata dal Sinodo di Gerusalemme, e l'Imperatore parve impaziente di riparar l'ingiustizia fattagli, con emanare un assoluto comando, ch'egli fosse solennemente ammesso alla comunione nella Cattedrale di Costantinopoli. Nel medesimo giorno, ch'era stato stabilito pel trionfo d'Arrio, questi spirò; e le strane ed orride circostanze della sua morte potrebbero eccitare qualche sospetto, che i santi Ortodossi avessero contribuito più efficacemente che con le pure preghiere a liberar la Chiesa dal più formidabile de' suoi nemici[213]. I principali tre Capi de' Cattolici, Atanasio d'Alessandria, Eustazio d'Antiochia e Paolo di Costantinopoli sopra varie accuse furon deposti per decreto di numerosi Concilj; ed in seguito furon banditi in lontani paesi dal primo degl'Imperatori Cristiani, che negli ultimi momenti della sua vita ricevè i riti del battesimo dall'Arriano Vescovo di Nicomedia. Non può veramente salvarsi l'ecclesiastico governo di Costantino dalla taccia di leggerezza e di debolezza. Ma il credulo Monarca, inesperto degli stratagemmi nella maniera di guerreggiare teologico, potè restar ingannato dalle modeste e speciose proteste degli Eretici, de' quali non aveva egli mai perfettamente capiti i sentimenti; e nel tempo che proteggeva Arrio, e perseguitava Atanasio, risguardava sempre il Concilio Niceno come il baloardo della fede Cristiana, e la gloria principal del suo regno[214].
A. D. 337-361
I figli di Costantino furono certamente ammessi fino dalla lor fanciullezza nell'elenco de' Catecumeni, ma nel differire il Battesimo imitarono l'esempio del loro Padre. Al pari di lui, essi pretesero di pronunziar il loro giudizio intorno a que' misteri, ne' quali non erano mai stati regolarmente iniziati[215]; ed il destino della controversia sulla Trinità dipendeva in gran parte dai sentimenti di Costanzo, ch'ereditò le Province dell'Oriente, ed acquistò poi tutto l'Impero. Il Prete o Vescovo Arriano, che si era servito in suo vantaggio del segreto del testamento del defunto Imperatore, profittò della fortunata occasione, che avevalo ammesso alla famigliarità d'un Principe, le pubbliche deliberazioni del quale erano sempre dominate da' domestici suoi favoriti. Gli eunuchi e gli schiavi sparsero pel palazzo il veleno spirituale, e fu comunicata la pericolosa infezione dalle serventi alle guardie, e dall'Imperatrice al non sospettoso marito di lei[216]. La parzialità che Costanzo dimostrò sempre verso la fazione d'Eusebio, fu insensibilmente fortificata da' destri maneggi de' capi di essa; e la vittoria, che riportò contro il tiranno Magnenzio, accrebbe la sua inclinazione e la sua abilità in impiegar le armi della forza nella causa dell'Arrianismo. Nel tempo che combattevano i due eserciti nella pianura di Mursa, e dipendeva il destino de' due rivali dalla sorte della guerra, il figlio di Costantino stava ansioso aspettando in una Chiesa di Martiri, sotto le mura della Città. Il suo spirituale confortatore, Valente, Vescovo Arriano della Diocesi, prese le più artificiose cautele per essere informato del successo in tempo da potere assicurarsi o il favore di lui, o la fuga. Una secreta catena di veloci e fedeli nunzj lo rendeva inteso delle vicende della battaglia; e mentre i cortigiani stavan tremanti attorno lo spaventato loro Signore, Valente l'assicurò che le Galliche legioni cedevano; e con qualche presenza di spirito gli fece credere, che gli era stato rivelato il glorioso fatto da un Angelo. Il grato Imperatore attribuì la sua fortuna a' meriti ed all'intercessione del Vescovo di Mursa, la cui fede aveva meritamente la pubblica e miracolosa approvazione del Cielo[217]. Gli Arriani, che risguardavan la vittoria di Costanzo come propria di loro, preferivano la gloria di lui a quella del Padre[218]. Cirillo, Vescovo di Gerusalemme, immediatamente compose la descrizione d'una croce celeste circondata da una splendida iride, che nella festa di Pentecoste, circa l'ora terza del giorno, era apparsa sul monte Oliveto per edificare i devoti pellegrini ed il popolo della santa città[219]. La figura della meteora fu appoco appoco ingrandita; e l'istorico Arriano avventurò di asserire, ch'essa fu visibile nelle pianure della Pannonia ad ambo gli eserciti; e che il Tiranno, ch'egli a bella posta rappresenta come idolatra, fuggì davanti al fausto segno dell'Ortodossa Cristianità[220].
I sentimenti d'un giudizioso straniero, che imparzialmente ha considerato il progresso della discordia civile o ecclesiastica, hanno sempre diritto alla nostra cognizione, ed un breve passo d'Ammiano, che militò nelle armate, e studiò il carattere di Costanzo, è forse più valutabile di molte pagine piene d'invettive teologiche. « Egli confuse (dice quel moderato Istorico) la religione Cristiana, che in se stessa è piana e semplice, co' delirj della superstizione. Invece di conciliare le parti col peso della sua autorità, applaudiva e propagava per mezzo di verbose dispute le differenze che aveva eccitate la sua vana curiosità. Le pubbliche strade eran coperte da truppe di Vescovi che correvano da ogni parte alle assemblee, ch'essi chiamano Sinodi; e mentre ciascheduno procurava di trarre tutta la Setta alle proprie particolari opinioni, da' precipitosi replicati loro viaggi era quasi rovinato il pubblico regolamento delle poste[221] ». La nostra più intima cognizione dell'istoria Ecclesiastica del regno di Costanzo ci somministrerebbe un ampio comentario a questo notabile passo, il quale giustifica i ragionevoli timori d'Atanasio, che l'inquieta attività del Clero, il quale andava girando attorno in cerca della vera fede, non eccitasse il disprezzo e le risa del Mondo infedele[222]. Tosto che l'Imperatore rimase libero da' terrori della guerra civile, consacrò l'ozio de' suoi quartieri d'inverno in Arles, in Milano, in Sirmio ed in Costantinopoli al divertimento ed a' travagli della controversia; fu sguainata la spada del Magistrato ed eziandio del Tiranno per sostenere a viva forza le ragioni del Teologo; e poichè s'opponeva alla fede Ortodossa di Nicea, si convien facilmente che la sua incapacità ed ignoranza ne pareggiavano la presunzione[223]. Gli eunuchi, le donne ed i Vescovi, che regolavano il vano e debole spirito dell'Imperatore, gli avevano inspirato un insuperabil disgusto per l' Homoousion; ma la sua timida coscienza era agitata dall'empietà di Aezio. Si aggravava la colpa di quell'ateo dal sospetto favore dell'infelice Gallo; ed anche le morti de' ministri Imperiali, ch'erano stati trucidati in Antiochia, vennero imputate alle suggestioni di quel pericoloso sofista. Lo spirito di Costanzo, che non poteva esser nè moderato dalla ragione, nè determinato dalla fede, era ciecamente spinto all'uno o all'altro lato dall'orrore che aveva degli opposti estremi; egli abbracciava e condannava le opinioni a vicenda, bandiva e successivamente richiamava i Capi dell'Arriana e Semiarriana fazione[224]. Nel tempo delle occupazioni o solennità pubbliche esso consumava gl'interi giorni ed anche le notti nello scegliere le parole, ed in pesar le sillabe, che componevano i fluttuanti suoi simboli. Il soggetto delle sue meditazioni accompagnava sempre ed occupava i leggieri suoi sonni; si ricevevano gl'incoerenti sogni dell'Imperatore come visioni celesti, ed egli accettava con compiacenza il sublime titolo di Vescovo de' Vescovi da quegli Ecclesiastici, che dimenticavano l'interesse dell'ordine loro per soddisfare le proprie passioni. Il disegno di stabilire una dottrina uniforme che l'aveva impegnato a convocar tanti Sinodi nella Gallia, nell'Italia, nell'Illirico e nell'Asia, restò più volte deluso per la propria sua leggerezza, per le divisioni degli Arriani e per la resistenza de' Cattolici; onde risolvè per un ultimo e decisivo sforzo d'imperiosamente dettare i decreti d'un Concilio generale. Il rovinoso terremoto di Nicomedia, la difficoltà di trovare un luogo conveniente, e forse qualche secreto motivo di politica, servirono ad alterarne l'intimazione. Ai Vescovi dell'Oriente fu ordinato di unirsi a Seleucia in Isauria: mentre quelli dell'Occidente tenevan le loro sessioni a Rimini sulla costa dell'Adriatico; ed invece di due o tre Deputati d'ogni Provincia si volle, che v'intervenisse tutto quanto il ceto de' Vescovi. Il Concilio dell'Oriente, dopo d'aver consumato quattro giorni in fieri ed inutili contrasti, si separò senz'alcuna decisiva conclusione. L'Occidentale fu prolungato fino al settimo mese. Tauro, prefetto del Pretorio, aveva ordine di non lasciar partire i Prelati fino a tanto che non si fossero tutti uniti nella stessa opinione; ed i suoi sforzi furono sostenuti con la facoltà di bandire quindici de' più refrattari, e con la promessa del Consolato, se conduceva a termine un'impresa così difficile.
A. D. 360
Le sue preghiere e minacce, l'autorità del Sovrano, l'arte sofistica di Valente e d'Ursacio, gl'incomodi della fame e del freddo, ed il tristo pensiero d'un esilio senza speranza estorsero alla fine il ripugnante consenso de' Vescovi di Rimini. I Deputati sì dell'Oriente che dell'Occidente si raccolsero intorno all'Imperatore nel Palazzo di Costantinopoli; ed egli ebbe la soddisfazione di dettare al Mondo una professione di fede che stabilirà la somiglianza, senz'esprimer la consustanzialità del Figlio di Dio[225]. Ma la deposizion del Clero Ortodosso, che non fu possibile nè d'intimorire, nè di corrompere, precedè il trionfo dell'Arrianismo; ed il regno di Costanzo restò infamato dalla ingiusta ed inefficace persecuzione del grande Atanasio.
Di rado abbiam l'occasione d'osservare nella vita o attiva o speculativa, qual effetto possa prodursi, o quali ostacoli si possano superare dalla forza d'uno spirito, quando è inflessibilmente applicato al conseguimento d'un solo oggetto. L'immortal nome d'Atanasio[226] non potrà mai separarsi dalla dottrina Cattolica della Trinità; alla difesa di cui consacrò egli ogni momento ed ogni facoltà del suo essere. Educato nella famiglia d'Alessandro, s'era vigorosamente opposto a' primi progressi dell'eresia d'Arrio; egli aveva l'importante uffizio di segretario sotto il vecchio Prelato; ed i Padri del Concilio Niceno videro con maraviglia e rispetto le nascenti virtù del giovane Diacono. In un tempo di pubblico pericolo, gli sciocchi diritti dell'età e del grado alle volte son trascurati; e dentro i cinque mesi dopo il suo ritorno da Nicea, il Diacono Atanasio fu collocato sull'Archiepiscopale Sede dell'Egitto. Egli occupò quell'eminente posto più di quaranta sei anni, e la sua lunga amministrazione fu consumata in un perpetuo combattimento contro le forze dell'Arrianismo. Cinque volte Atanasio fu espulso dalla propria sede; passò venti anni com'esule e fuggitivo; e quasi ogni Provincia del Romano Impero rendè in varj tempi testimonianza al suo merito ed a' suoi patimenti per la causa dell' Homoousion, che esso considerava come l'unico suo piacere, il solo suo affare, come il dovere e la gloria della sua vita. In mezzo alle tempeste della persecuzione, l'Arcivescovo d'Alessandria era tollerante della fatica, avido di fama, non curante di sicurezza; e quantunque il suo spirito fosse attaccato dal contagio del fanatismo, tuttavia Atanasio spiegava una superiorità d'indole e d'ingegno che l'avrebbe reso molto più atto, che i degeneranti figli di Costantino, al governo d'una gran Monarchia. La sua erudizione era molto meno profonda ed estesa di quella di Eusebio di Cesarea, e la sua rozza eloquenza non potrebbe paragonarsi alla culta oratoria di Gregorio o di Basilio; ma ogni volta che il Primate dell'Egitto era chiamato a giustificare i suoi sentimenti o la sua condotta, il suo non premeditato stile, o nel parlare o nello scrivere, era chiaro, forte e persuadente. Egli è stato sempre rispettato nella scuola Ortodossa come uno de' più accurati maestri della teologia Cristiana; e si è supposto che possedesse due scienze profane non adattate al carattere Episcopale, cioè quella della giurisprudenza[227], e quella della divinazione[228]. Alcune felici congetture di futuri eventi, che un imparziale ragionatore avrebbe potuto attribuire all'esperienza ed al giudizio d'Atanasio, da' suoi amici ascrivevansi ad inspirazioni celesti, e, da' suoi nemici ad infernale magia.
Ma siccome Atanasio trovavasi continuamente impegnato a trattare co' pregiudizj e colle passioni d'ogni specie di persone, dal Monaco fino all'Imperatore, la cognizione della natura umana era la prima e più importante sua scienza. Egli conservava una distinta ed intera veduta d'una scena, che andava continuamente mutandosi; e non mancava mai di profittare di que' decisivi momenti, che son già irreparabilmente passati, avanti che possano scorgersi da un occhio comune. L'Arcivescovo d'Alessandria era capace di distinguere, fino a qual segno poteva egli arrischiarsi a comandare, e dove conveniva che destramente s'insinuasse; quando poteva contendere con la forza, e quando si doveva sottrarre alla persecuzione; e mentre scagliava i fulmini della Chiesa contro l'eresia e la ribellione, poteva assumere nel seno del suo partito il flessibile ed indulgente carattere d'un capo prudente. L'elezione d'Atanasio non ha evitato la taccia d'irregolarità e di precipitazione[229]; ma la decenza del suo contegno gli conciliò l'affezione del Clero non men che del Popolo. Gli Alessandrini erano impazienti di prender le armi per la difesa d'un eloquente e generoso Pastore. Nelle sue angustie sempre veniva soccorso o almen consolato dal fedele attaccamento del parrocchiale suo Clero; ed i cento Vescovi dell'Egitto con intrepido zelo aderivano alla causa d'Atanasio. In quel modesto arnese, che suole affettare l'orgoglio e la politica, esso frequentemente faceva le visite Episcopali delle sue Province, dalla bocca del Nilo fino a' confini dell'Etiopia, conversando famigliarmente con gl'infimi della plebe, ed umilmente salutando i santi e gli eremiti del deserto[230]. Nè solamente nelle sacre assemblee fra persone, l'educazione ed i costumi delle quali eran simili a' suoi, Atanasio esercitava l'ascendente del proprio genio, ma comparve ancora con facile e rispettabil fermezza nelle Corti de' Principi; e ne' diversi giri della sua prospera ed avversa fortuna, non perdè mai la confidenza de' suoi amici, o la stima degli avversari.
A. D. 330
Nella sua gioventù, il Primate dell'Egitto resistè al gran Costantino, che aveva più volte significato la sua volontà, che ad Arrio fosse restituita la comunione Cattolica[231]. L'Imperatore rispettò, e potè anche dimenticare l'inflessibile di lui risoluzione; e la fazion contraria, che riguardava Atanasio come il suo più formidabil nemico, fu costretta a dissimular l'odio ed a preparare tacitamente un indiretto e remoto assalto. Si sparsero de' romori e de' sospetti, fu rappresentato l'Arcivescovo come un altiero ed opprimente tiranno, ed arditamente venne accusato di violare l'accordo ch'erasi ratificato nel Concilio Niceno con gli Scismatici seguaci di Melesio[232]. Atanasio avea disapprovato apertamente quell'ignominiosa pace, e l'Imperatore era disposto a credere, ch'egli avesse abusato del suo ecclesiastico e civile potere in perseguitare quegli odiati settari; che avesse rotto un calice sacrilegamente in una delle loro Chiese di Mareotide; che avesse fatto battere, o imprigionati sei de' loro Vescovi; e che fosse stato ucciso, o almeno mutilato Arsenio Vescovo dalla crudel mano del Primate dell'istesso partito[233]. Queste accuse, che attaccavan l'onore e la vita d'Atanasio, da Costantino rimesse furono al Censore Dalmazio suo fratello, che risedeva in Antiochia; vennero successivamente convocati i Sinodi di Cesarea e di Tiro; e fu ordinato a' Vescovi dell'Oriente di giudicar la causa d'Atanasio, avanti di procedere a consacrare la nuova Chiesa della Resurrezione a Gerusalemme. Il Primate poteva esser conscio a se stesso della sua innocenza; ma gli pesava che lo stesso implacabile spirito, che avea dettato le accuse, dovesse compilare il processo, e pronunziar la sentenza. Egli evitò prudentemente il tribunale de' suoi nemici, non curò le citazioni dei Sinodo di Cesarea, e dopo una lunga ed artificiosa dilazione si sottomise a' perentorj comandi dell'Imperatore, che minacciava di punire la sua colpevole disubbidienza, qualora negato avesse di comparire nel Concilio di Tiro[234]. Avanti che Atanasio, alla testa di cinquanta Prelati dell'Egitto, partisse da Alessandria, s'era egli saviamente assicurata l'alleanza de' Meleziani; ed Arsenio medesimo, immaginaria sua vittima e suo segreto amico, era occultamente compreso nel suo seguito. Eusebio di Cesarea dirigeva il Concilio di Tiro con più passione e con minor arte di quel che la sua dottrina ed esperienza avrebbe fatto aspettare: la numerosa fazione di lui iterava i nomi d'omicida e di tiranno; ed i loro clamori venivano incoraggiati dall'apparente pazienza d'Atanasio, che aspettava il decisivo momento di produrre Arsenio vivo e senz'alcun mancamento nel mezzo dell'Assemblea. La natura delle accuse non ammetteva tali chiare e soddisfacenti risposte; pure l'Arcivescovo fu in istato di provare, che nel villaggio, in cui si diceva aver egli rotto un calice consacrato, non poteva realmente trovarsi nè Chiesa, nè altare, nè calice. Gli Arriani, che avevan segretamente determinato di fare apparir delinquente, e di condannare il loro nemico, procurarono ciò nonostante di mascherare la loro ingiustizia coll'imitazione della forma giudiciaria: il Sinodo stabilì una commissione Episcopale di sei Deputati per investigar le prove del fatto sul luogo stesso; e questo passo, al quale vigorosamente si opposero i Vescovi Egiziani, aprì nuove scene di violenza e di spergiuro[235]. Tornati i Deputati da Alessandria, il maggior numero del Sinodo pronunziò contro il Primate dell'Egitto la final sentenza di degradazione e d'esilio. Il decreto, espresso nel più fiero stile della malizia e della vendetta, fu comunicato all'Imperatore ed alla Chiesa Cattolica; ed immediatamente i Vescovi riassunsero un devoto e dolce contegno, qual conveniva al santo loro pellegrinaggio verso il sepolcro di Cristo[236].
A. D. 336
Ma l'ingiustizia di questi giudici ecclesiastici non fu accompagnata dalla sommissione, e neppure dalla presenza d'Atanasio. Ei risolvè di fare un'ardita e pericolosa prova, se il trono fosse accessibile alla voce della verità; e prima che si pronunziasse a Tiro la definitiva sentenza, l'intrepido Primate si gettò in una barca che era pronta a partire per la città Imperiale. La richiesta di una formale udienza avrebbe potuto incontrare opposizioni, od eludersi; ma Atanasio occultò il suo arrivo; aspettò il momento, che Costantino tornava da una vicina villa, ed arditamente si fece incontro al suo sdegnato Sovrano, mentre questi passava a cavallo per la contrada primaria di Costantinopoli. Una sì strana comparsa eccitò in esso la maraviglia e la collera; e fu ordinato alle guardie che facessero allontanare l'importuno querelante; l'ira però fu superata da un involontario rispetto; e l'altiero spirito dell'Imperatore fu sorpreso dal coraggio e dall'eloquenza d'un Vescovo, che imploravane la giustizia, e scuotevane la coscienza[237]. Costantino ascoltò i lamenti di Atanasio con imparziale ed anche graziosa attenzione; i membri del Concilio di Tiro furon citati a giustificare la lor processura; e sarebber restati confusi gli artifizj del partito Eusebiano, se non si fosse aggravata la reità del Primate colla destra supposizione di un imperdonabil delitto, cioè del colpevol disegno di intercettare, e di ritenere le navi del grano d'Alessandria, che somministravan la sussistenza alla nuova Capitale[238]. All'Imperatore non dispiaceva che si assicurasse la pace dell'Egitto, mediante l'assenza d'un Capo del popolo; ma non volle riempire la vacanza della sede Archiepiscopale; e la sentenza che dopo lungo esitare ei pronunziò, fu quella di un geloso ostracismo, anzi che di un esiglio ignominioso. Atanasio passò circa vent'otto mesi nella remota provincia della Gallia, ma nell'ospital Corte di Treveri. La morte dell'Imperatore fece mutar faccia a' pubblici affari; e nella generale indulgenza d'un nuovo regno, fu il Primate restituito al proprio paese, per mezzo di un onorevole editto del giovane Costantino, che dimostrò profondamente sentire l'innocenza ed il merito del venerando suo ospite[239].
A. D. 341
La morte di questo Principe espose Atanasio ad una seconda persecuzione; ed il debol Costanzo, sovrano dell'Oriente, divenne tosto segreto complice degli Eusebiani. Si adunarono in Antiochia novanta Vescovi di quella Setta o fazione, sotto lo specioso pretesto di consacrare la Cattedrale. Essi composero un ambiguo simbolo che leggermente è tinto de' colori del Semiarrianismo, e venticinque canoni, che regolan tuttavia la disciplina dei Greci ortodossi[240]. Fu deciso con qualche apparenza di giustizia, che un Vescovo, deposto da un Sinodo, non riassumesse le funzioni Episcopali finattantochè non fosse assoluto dal giudizio d'un ugual Sinodo; la qual legge immediatamente applicata venne al caso d'Atanasio; il Concilio d'Antiochia ne pronunziò, o piuttosto ne confermò la degradazione; uno straniero, chiamato Gregorio, fu collocato sopra la sua sede, e fu ordinato a Filagrio[241], Prefetto dell'Egitto, di sostenere il nuovo Primate con la forza civile e militare della Provincia. Oppresso dalla cospirazione de' Prelati Asiatici, Atanasio si ritirò da Alessandria, e passò tre anni[242] esule e supplichevole sul sacro limine del Vaticano[243]. Mediante un assiduo studio della lingua Latina, presto si rendè abile a negoziare col Clero dell'Occidente; la sua decente adulazione dominava o dirigeva l'altiero Giulio; il Pontefice Romano s'indusse a considerare l'appello di lui come un particolare interesse della Sede Apostolica; e fu di comun consenso dichiarato innocente in un Concilio di cinquanta Vescovi dell'Italia. In capo a tre anni, il Primate fu chiamato alla Corte di Milano dall'Imperatore Costante, che, in braccio ad illeciti piaceri, professava sempre un vivo rispetto per la Fede Ortodossa. La causa della verità e della giustizia si promosse per l'influenza dell'oro[244], ed i ministri di Costante consigliarono il loro Sovrano a richieder la convocazione d'una Ecclesiastica Assemblea, che potesse agire come rappresentante della Chiesa Cattolica. Si unirono a Sardica, sul confine de' due Imperj, ma dentro gli Stati del protettor d'Atanasio, novantaquattro Vescovi Occidentali e sessantasei Orientali. Le loro dispute degeneraron ben presto in ostili altercazioni: gli Asiatici, temendo per la personale lor sicurezza, si ritirarono a Filippopoli nella Tracia; ed i rivali due Sinodi reciprocamente scagliavano gli spirituali lor fulmini contro i nemici, ch'essi piamente consideravano come nemici del vero Dio. Si pubblicarono e confermarono i loro decreti nelle rispettive Province, ed Atanasio che nell'Occidente riverivasi come un Santo, era esposto come un colpevole all'esecrazione dell'Oriente[245]. Il Concilio Sardicense scopre i primi sintomi di discordia e di scisma fra le Chiese Greca e Latina, le quali si separarono per la differenza di fede in varie occasioni, e per la perpetua distinzione di linguaggio.
A. D. 349
Atanasio, nel tempo del suo secondo esilio nell'Occidente, era frequentemente ammesso alla presenza Imperiale in Capua, in Lodi, in Milano, in Verona, in Padova, in Aquileia, ed in Treveri. Ordinariamente si trovava presente a tali visite il Vescovo della Diocesi; il Maestro degli Uffizj stava fuori del velo o della cortina del sacro appartamento; e questi rispettabili personaggi poteano attestare l'uniforme moderazione del Primate, che solennemente s'appella alla loro testimonianza[246]. La prudenza gli dovea senza dubbio suggerire quel dolce e rispettoso stile, che si conveniva ad un suddito e ad un Vescovo. In queste famigliari conferenze col Principe d'Occidente, Atanasio poteva dolersi dell'error di Costanzo; ma egli arditamente attaccò la malizia de' suoi Eunuchi e degli Arriani Prelati; deplorò l'angustia e il pericolo della Chiesa Cattolica, ed eccitò Costante ad emular la gloria e lo zelo del padre. L'Imperatore dichiarossi risoluto d'impiegar le truppe ed i tesori dell'Europa nella causa ortodossa; e con una breve e perentoria lettera fece sapere al suo fratello Costanzo, che qualora non acconsentisse all'immediato ristabilimento d'Atanasio, egli stesso con una flotta e un esercito avrebbe posto l'Arcivescovo sul trono d'Alessandria[247]. Ma tal guerra di religione, sì contraria alla natura, non ebbe effetto per l'opportuna compiacenza di Costanzo; e l'Imperatore dell'Oriente condiscese a chiedere una riconciliazione con un suddito, che esso aveva ingiuriato. Atanasio aspettò con decente sostenutezza, finchè non ebbe ricevuto successivamente tre lettere, piene delle più forti assicurazioni della protezione, del favore, e della stima del suo Sovrano, che l'invitava a riassumer la propria Sede Episcopale, e che aggiungeva l'umiliante precauzione di impegnare i suoi principali ministri ad attestar la sincerità delle sue intenzioni. Queste si manifestarono in un modo anche più pubblico per mezzo dei rigorosi ordini che furon mandati nell'Egitto di richiamar gli aderenti di Atanasio, di reintegrarli ne' lor privilegi, di promulgar la loro innocenza, e di cancellare dai pubblici registri le illegittime processure, che si eran fatte nel tempo che prevaleva la fazione Eusebiana. Dopo che fu accordata ogni soddisfazione e sicurezza cui la giustizia e anche la delicatezza potesser richiedere, il Primate si pose in viaggio a piccole giornate per le Province della Tracia, dell'Asia e della Siria; e veniva per tutto accompagnato dall'abbietto omaggio de' Vescovi Orientali, che eccitavano il suo disprezzo senza ingannare la sua penetrazione[248]. In Antiochia vide l'Imperator Costanzo; ricevè con modesta fermezza gli abbracciamenti e le proteste del suo Signore, ed eluse la proposizione di concedere agli Arriani una sola Chiesa in Alessandria, col chiedere una simil tolleranza pel suo partito nelle altre città dell'Impero; replica, che solo avrebbe potuto apparir giusta e moderata in bocca d'un Principe indipendente. L'ingresso dell'Arcivescovo nella sua Capitale fu una procession di trionfo; l'assenza e la persecuzione l'avevano renduto caro agli Alessandrini; si era più stabilmente confermata la sua autorità, che egli esercitava con rigore, e la sua fama erasi sparsa dall'Etiopia fino alla Gran-Brettagna, in tutta l'estensione del Mondo Cristiano[249].
A. D. 351
Ma quel suddito, che ha ridotto il suo Principe alla necessità di dissimulare, non può mai sperare un sincero e durevol perdono; e la tragica morte di Costante ben presto privò Atanasio di un potente e liberal protettore. La guerra civile fra l'assassino e l'unico superstite fratello di Costante, che afflisse l'Impero più di tre anni, assicurò un intervallo di riposo alla Chiesa Cattolica; e ciascheduna delle contendenti due parti desiderava di conciliarsi l'amicizia d'un Vescovo, che poteva col peso dalla personale sua autorità determinar le fluttuanti risoluzioni d'una importante Provincia. Egli diede udienza agli ambasciatori del Tiranno, con cui fu dopo accusato di avere tenuta una segreta corrispondenza[250], e l'Imperatore Costanzo più volte assicurò il suo carissimo padre, il Reverendissimo Atanasio, che nonostante i maliziosi romori, che si facevan girare attorno dai comuni loro nemici, aveva egli ereditato i sentimenti ugualmente che il trono del suo defunto fratello[251]. La gratitudine e l'umanità avrebbero disposto il Primate dell'Egitto a deplorare l'acerbo fato di Costante e ad abborrire il delitto di Magnenzio; ma vedendo egli chiaramente che le apprensioni di Costanzo erano l'unica sua salvaguardia, ciò potè forse un poco diminuire il fervor delle sue preghiere pel buon successo della giusta causa. Non si meditava più la rovina di Atanasio dall'oscura malizia di pochi spigolistri od iracondi Vescovi, che abusassero dell'autorità d'un credulo Principe, ma il Monarca medesimo dichiarò la risoluzione, che aveva sì lungamente nascosta, di vendicare i privati suoi torti[252]: ed il primo inverno dopo la sua vittoria, che egli passò in Arles, fu impiegato contro un nemico per esso più odioso, che il soggiogato tiranno della Gallia.
A. D. 353-355
Se l'Imperatore avesse capricciosamente determinata la morte del più sublime e virtuoso cittadino della Repubblica, si sarebbe eseguito, senza esitare, dai ministri dell'aperta violenza o della speciosa ingiustizia il crudele comando. La cautela, la dilazione, la difficoltà, con cui egli procedè nel condannare e punire un Vescovo popolare, manifestò al Mondo, che i privilegi della Chiesa avevan già fatto risorgere nel governo Romano un sentimento d'ordine e di libertà. La sentenza, pronunziata nel Concilio di Tiro e soscritta da un gran numero di Vescovi Orientali, non si era mai espressamente rivocata; e siccome Atanasio era stato una volta deposto dall'Episcopal dignità per giudizio dei suoi confratelli, ogni successivo atto poteva considerarsi come irregolare ed eziandio colpevole. Ma la memoria del costante ed efficace aiuto, che il Primate dell'Egitto avea tratto dall'attaccamento della Chiesa Occidentale, impegnò Costanzo a sospendere l'esecuzione della sentenza, finattantochè non fossero in essa concorsi anche i Vescovi Latini. Si consumarono due anni in Ecclesiastiche negoziazioni; e fu solennemente discussa l'importante causa fra l'Imperatore ed uno dei suoi sudditi, prima nel Sinodo di Arles, e poi nel gran Concilio di Milano[253], ch'era composto di più di trecento Vescovi. Si cercò appoco appoco di sovvertire la loro integrità con gli argomenti degli Arriani, con la destrezza degli Eunuchi, e con le pressanti sollecitazioni di un Principe, che soddisfaceva la sua vendetta a spese della sua dignità, e pubblicava le proprie passioni mentre influiva su quelle del Clero. Si adoperò con successo la corruzione, che è il più infallibil sintomo della libertà costituzionale; si offerirono, e si accettarono onori, doni ed immunità, come prezzo d'un voto Episcopale[254]; e fu artificiosamente rappresentata la condanna del Primate Alessandrino, come l'unico mezzo che restituir potesse la pace e l'unione alla Chiesa Cattolica. Gli amici però d'Atanasio non abbandonarono il lor Capo o la loro causa. Tanto nelle pubbliche dispute quanto nelle conferenze private coll'Imperatore, essi con uno spirito virile, che dalla santità del loro carattere si rendeva meno pericoloso, sostennero l'obbligo eterno di giustizia e di religione. Dichiararono, che nè la speranza del suo favore, nè il timore della sua disgrazia gli avrebbe potuti mai indurre ad unirsi nella condanna d'un innocente, lontano, e rispettabil fratello[255]. Affermavano con apparente ragione, che gl'illegittimi ed antiquati decreti del Concilio di Tiro erano stati già da lungo tempo tacitamente aboliti dagli editti Imperiali, dall'onorevol ristabilimento dell'Arcivescovo d'Alessandria, e dal silenzio o dalla ritrattazione dei suoi più clamorosi avversarj. Adducevano ch'erasi attestata la sua innocenza dai concordi Vescovi dell'Egitto, e ch'era stata riconosciuta ne' Concilj di Roma e di Sardica[256] dall'imparziale giudizio della Chiesa Latina. Deploravan la dura condizion d'Atanasio, che dopo d'aver per tanti anni goduto la propria Sede, la riputazione, e l'apparente confidenza del suo Sovrano, fosse di nuovo chiamato a confutare le più insussistenti e stravaganti accuse. Il loro linguaggio era specioso, ed onorata la loro condotta; ma in questa lunga ed ostinata contesa, che attirava gli occhi di tutto l'Impero sopra d'un solo Vescovo, le fazioni Ecclesiastiche eran pronte a sacrificare la verità e la giustizia al più interessante oggetto di difendere o di deporre l'intrepido campione della fede Nicena. Gli Arriani sempre stimaron prudente consiglio quello di mascherare con ambigue parole i veri lor sentimenti e disegni: ma i Vescovi Ortodossi, armati dal favore del Popolo e da' decreti d'un Concilio generale, in ogni occasione, e specialmente a Milano, insisterono che i loro avversari purgasser se stessi dal sospetto di eresia, prima di pretendere d'attaccar la condotta del grande Atanasio[257].
A. D. 355
Ma la voce della ragione (se pur la ragione era veramente dalla parte d'Atanasio) fu soppressa dai clamori d'un fazioso e venale partito; e non si sciolsero i Concilj d'Arles e di Milano, finattantochè l'Arcivescovo di Alessandria non fu solennemente condannato e deposto dal giudizio della Chiesa Occidentale non meno che dell'Orientale. A' Vescovi, che opposti s'erano alla sentenza, fu richiesta di sottoscriverla, e di unirsi con religiosa comunione a' sospetti Capi della parte contraria. Fu mandata, per mezzo de' nunzi pubblici, una formola di consenso a' Vescovi assenti; e tutti quelli che ricusarono di sottometter la privata loro opinione alla pubblica ed inspirata sapienza dei Concilj d'Arles e di Milano, furono immediatamente banditi dall'Imperatore, che affettava d'eseguire i decreti della Chiesa Cattolica. Fra que' Prelati, che conducevan l'onorevol drappello dei confessori e degli esuli, meritan d'essere particolarmente distinti Liberio di Roma, Osio di Cordova, Paolino di Treveri, Dionisio di Milano, Eusebio di Vercelli, Lucifero di Cagliari, ed Ilario di Poitiers. L'eminente posto di Liberio, che governava la Capital dell'Impero, ed il merito personale e la lunga esperienza del venerabile Osio, che si rispettava come il favorito del Gran Costantino ed il padre della fede Nicena, ponevano questi due Prelati alla testa della Chiesa Latina, ed il loro esempio di sommissione e di resistenza si sarebbe probabilmente imitato dalla turba de' Vescovi. Ma i replicati sforzi dell'Imperatore per sedurre o per intimorire i Vescovi di Roma e di Cordova riuscirono per qualche tempo inefficaci. Lo Spagnuolo si dichiarò pronto a soffrire sotto Costanzo, come sessant'anni avanti aveva sofferto sotto Massimiano suo avo. Il Romano sostenne in presenza del Principe l'innocenza d'Atanasio e la propria sua libertà. Quando fu mandato in esilio a Berea nella Tracia, rimandò indietro una grossa somma, che gli era stata offerta per le spese del viaggio; ed insultò la Corte di Milano con l'orgogliosa riflessione, che l'Imperatore ed i suoi Eunuchi potevano aver bisogno di quell'oro per pagare i loro soldati, ed i loro Vescovi[258]. Lo fermezza però di Liberio e d'Osio finalmente fu superata da' travagli dell'esilio e del confino. Il Pontefice Romano comprò il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze, e dopo espiò con opportuna penitenza la propria colpa. S'impiegarono la persuasione e la violenza per estorcere la ripugnante soscrizione del decrepito Vescovo di Cordova, di cui s'opprimeva la forza, e di cui erano probabilmente indebolite le facoltà dal peso di cent'anni; e l'insolente trionfo degli Arriani provocò alcuni della parte ortodossa a trattare con inumano rigore il carattere, o piuttosto la memoria di un infelice vecchio, agli antichi servigi del quale tanto doveva il Cristianesimo stesso[259].
La caduta di Liberio e d'Osio diede un più splendido lustro alla fermezza di que' Vescovi, che si mantennero aderenti con incorrotta fedeltà alla causa di Atanasio e della verità religiosa. L'ingegnosa malizia dei loro nemici gli aveva privati del benefizio de' vicendevoli conforti ed avvisi, avea separato quegl'illustri esuli in distanti province, e scelto a bella posta i luoghi più inospiti d'un grand'Impero[260]. Contuttocciò essi tosto provarono, che i deserti della Libia, e le più selvagge regioni della Cappadocia erano meno incomode, che la dimora in quelle città, dove un Vescovo Arriano poteva saziare senza ritegno la squisita malignità dell'odio teologico[261]. Essi però traevan motivo di consolarsi dalla coscienza della propria rettitudine e indipendenza; dall'applauso, dalle lettere, dalle visite, e dalle liberali elemosine dei loro aderenti[262]; e dalla soddisfazione che spesso avevano di vedere le interne divisioni dei nemici della fede Nicena. Tal era il minuto e capriccioso gusto dell'Imperator Costanzo, e sì facilmente egli offendevasi per la più tenue deviazione dal suo immaginario sistema di verità Cristiana, che perseguitava con ugual zelo quelli che sostenevano la consustanzialità, quelli che difendevan la simil sostanza, e quelli che negavan la somiglianza del Figlio di Dio. Potevano per avventura trovarsi nel medesimo luogo tre Vescovi deposti e banditi per quelle contrarie opinioni; e secondo la diversità del loro pensare potevan compatire, o insultare il cieco entusiasmo de' loro avversari, i presenti patimenti dei quali non dovevano mai venir compensati dalla futura felicità.
A. D. 356
La disgrazia e l'esilio de' Vescovi ortodossi dell'Occidente furono come tanti passi per preparar la rovina d'Atanasio medesimo[263]. Eran ventisei mesi da che la Corte Imperiale con le più insidiose arti segretamente procurava di allontanarlo dalla città di Alessandria, e di togliergli quei comodi, che davano luogo alla sua popolare liberalità. Ma quando il Primate dell'Egitto, abbandonato e proscritto dalla Chiesa Latina, restò privo d'ogni straniero soccorso, Costanzo mandò due suoi segretari con la verbal commissione d'annunziare, e d'eseguir l'ordine del suo esilio. Siccome pubblicamente si conveniva da ogni parte della giustizia della sentenza, l'unico motivo, che potè ritener Costanzo dal dare a' suoi messi il mandato in iscritto, non può attribuirsi che al dubbio che egli avea dell'evento, e ad una cognizione del pericolo, a cui poteva esporre la seconda Città e la più fertil provincia dell'Impero, se il popolo avesse persistito nella risoluzione di difendere a forza d'arme l'innocenza del proprio Padre spirituale. Tal estrema cautela somministrò ad Atanasio uno specioso pretesto di rispettosamente porre in dubbio la verità di un comando, che ei non potea conciliare nè coll'equità, nè con le precedenti dichiarazioni del grazioso suo Principe. La potestà civile dell'Egitto non si trovò capace di persuadere o di costringere il Primate ad abbandonar l'Episcopale sua sede; e fu costretta a concludere un trattato coi popolari Capi d'Alessandria, in cui fu stipulato che si sospendessero tutte le processure ed ostilità, finchè non si fosse più distintamente saputa la volontà dell'Imperatore. Con tale apparente moderazione i Cattolici furono artificiosamente indotti ad una falsa e fatal sicurezza; mentre le legioni dell'Egitto Superiore, e della Libia si avanzavano per segreti ordini, e con precipitose marce ad assediare, o piuttosto a sorprendere una Capitale, abituata alla sedizione ed accesa da religioso zelo[264]. La situazione d'Alessandria fra il mare ed il lago Mareotide, facilitò l'avvicinamento e lo sbarco delle truppe, che furono introdotte nel cuore della città, prima che alcuno potesse prendere veruna efficace risoluzione o di chiuder le porte, o d'occupare i posti di difesa importanti. Alla mezza notte, ventitre giorni dopo la soscrizione del trattato, Siriano, Duce dell'Egitto, alla testa di cinquemila soldati armati e pronti all'assalto, inaspettatamente investì la Chiesa di S. Teonas, dove l'Arcivescovo con una parte del Clero e del Popolo celebrava gli uffizi notturni. Le porte del sacro edifizio cederono all'impeto dell'attacco, il quale fu accompagnato da ogni più orrida circostanza di tumulto e di strage; ma siccome i corpi degli uccisi ed i frammenti delle armi dei soldati restarono il dì seguente come una indubitata prova in mano dei Cattolici, così può risguardarsi l'intrapresa di Siriano piuttosto come una vantaggiosa irruzione, che come un'assoluta conquista. Le altre Chiese della città profanate furono con simili oltraggi: e per lo spazio almeno di quattro mesi Alessandria fu esposta agl'insulti d'un licenzioso esercito, stimolato dagli Ecclesiastici di un'ostile fazione. Furono uccisi molti Fedeli, che meritar potrebbero il nome di martiri, se non si fossero provocate nè vendicate le loro morti; si trattarono con crudele ignominia e Vescovi e Preti; furono spogliate nude delle sacre Vergini, battute, e violate; le case di ricchi cittadini furono poste a sacco; e sotto la maschera di religioso zelo, impunemente, ed eziandio con applauso si soddisfecero l'incontinenza, l'avarizia, ed il privato rancore. I Pagani d'Alessandria, che formavan sempre un copioso e malcontento partito, furono facilmente persuasi ad abbandonare un Vescovo, che essi temevano insieme e stimavano. La speranza di alcuni particolari favori, ed il timore di restare involti nelle generali pene di ribellione gl'impegnarono a prometter la loro assistenza al famoso Giorgio di Cappadocia, destinato successor d'Atanasio. L'usurpatore, dopo d'essere stato consacrato da un Sinodo Arriano, fu posto sulla Sede Episcopale dalle armi di Sebastiano, che era stato dichiarato Conte d'Egitto per eseguire quell'importante disegno. Il tiranno Giorgio, nell'uso del potere, non meno di quel che aveva fatto nell'acquisto di esso, trascurò le leggi della religione, dell'umanità e della giustizia; e le medesime scene di violenza e di scandalo, che si erano rappresentate nella Capitale, ripetute furono in più di novanta città Episcopali dell'Egitto. Incoraggiato dal successo, Costanzo avventurossi ad approvare la condotta dei suoi ministri. Con una pubblica e patetica lettera l'Imperatore si congratula della liberazione d'Alessandria da un popolare tiranno, che ingannava i suoi ciechi devoti colla magia della sua eloquenza; si diffonde sulle virtù e la pietà del Reverendissimo Giorgio, nuovo Vescovo; ed aspira, come avvocato e benefattore della città, a sorpassare la fama d'Alessandro medesimo. Ma solennemente dichiara la sua inalterabile risoluzione di perseguitare col ferro e col fuoco i sediziosi aderenti dell'empio Atanasio, che fuggendo dalla giustizia ha confessato il proprio delitto, e si è sottratto all'ignominiosa morte, che tante volte avea meritato[265].
Atanasio era in fatti sfuggito al più imminente pericolo; e le avventure di quest'uomo straordinario meritano e fissano la nostra attenzione. In quella memorabile notte, in cui la Chiesa di S. Teonas fu investita dalle truppe di Siriano, l'Arcivescovo, assiso sulla sua cattedra, aspettava con tranquilla ed intrepida dignità l'avvicinarsi della sua morte. Mentre interrompevasi la pubblica devozione dallo strepito della rabbia e dalle grida del terrore, esso animava quella tremante adunanza ad esprimere la sua religiosa fiducia col cantare un Salmo di David, che celebra il trionfo del Dio d'Israello sul superbo ed empio tiranno dell'Egitto. Furono finalmente forzate le porte; fu scaricato un nuvolo di dardi fra il popolo; i soldati andavan correndo colle spade nude pel Santuario; ed i sacri lumi, che ardevano intorno all'altare[266], facean riflettere il terribile splendore delle loro armature. Atanasio rigettò sempre la pietosa importunità de' Preti e dei Monaci, attaccati alla sua persona, e nobilmente ricusò di abbandonare l'Episcopale suo posto, finchè non ebbe posta in sicuro la ritirata di tutta la congregazione. L'oscurità ed il tumulto della notte favoriron la fuga dell'Arcivescovo; e quantunque fosse egli oppresso dagli ondeggiamenti d'un'agitata moltitudine, quantunque fosse gettato a terra, e lasciatovi privo di moto e di sensi, ricuperò sempre l'indomito suo coraggio, ed eluse l'ardente ricerca dei soldati, ai quali si diceva dalle Arriane lor guide, che il capo d'Atanasio sarebbe stato il dono più accetto, che avesser potuto fare all'Imperatore. In quel momento il Primate dell'Egitto disparve dagli occhi dei suoi nemici, e rimase più di sei anni celato in un'impenetrabile oscurità[267].
A. D. 336-362
Il dispotico potere dell'implacabile suo nemico prendeva tutta l'estensione del Mondo Romano; e l'inasprito Monarca avea procurato, con una pressantissima lettera ai Principi Cristiani dell'Etiopia, di scacciare Atanasio anche dalle più remote e distanti regioni della terra. Furono gli uni dopo gli altri impiegati i Conti, i Prefetti, i Tribuni, e gl'interi eserciti per cercare un Vescovo fuggitivo; dagli editti Imperiali si eccitò la vigilanza della civile e militar potestà; furono promessi larghi premj a chiunque presentasse Atanasio o vivo o morto; e si minacciaron le pene più rigorose a coloro, che avessero ardito di proteggere il pubblico nemico[268]. Ma i deserti della Tebaide in quel tempo eran popolati da una razza di fieri ma sottomessi fanatici, che preferivano i comandi del loro Abbate alle leggi del Sovrano. I numerosi discepoli di Antonio e di Pacomio riceverono il fuggitivo Primate come lor padre, ammirarono la pazienza e la umiltà, con la quale s'uniformava ai loro più rigorosi esercizi, raccoglievano tutte le parole che gli cadevan di bocca, come genuine effusioni d'un'inspirata sapienza; ed erano persuasi che le preghiere, i digiuni, e le vigilie loro fossero meno meritorie dello zelo che dimostravano, e dei pericoli che affrontavano in difesa della verità e dell'innocenza[269]. I Monasteri dell'Egitto eran situati in luoghi solitari e deserti, sulla cima delle montagne o nelle isole del Nilo; ed il sacro corno o la trombetta di Tabenna era il ben noto segno, che faceva riunir più migliaia di robusti e risoluti Monaci, i quali erano stati per la maggior parte villani dell'addiacente campagna. Quando la forza militare giungeva ad invader gli oscuri loro ritiri, non essendo possibile di resistere, tacitamente piegavano il collo all'esecutore; e sostenevano il proprio nazionale carattere, che i tormenti non potevano mai strappar di bocca ad un Egizio la confessione d'un segreto, ch'egli avesse risoluto di non rivelare[270]. L'Arcivescovo d'Alessandria, per la salute del quale sacrificavano ardentemente le loro vite, perdevasi in mezzo ad una moltitudine ben disciplinata e uniforme; ed all'avvicinarsi del pericolo le officiose lor mani speditamente lo facevan passare da un nascondiglio in un altro, finchè egli giunse a quei formidabili deserti, che la tenebrosa e credula natura della superstizione avea popolato di demonj, e di mostri selvaggi. Il ritiro d'Atanasio, che non finì se non con la vita di Costanzo, fu consumato per la massima parte in compagnia de' Monaci, che fedelmente gli servivano di guardie, di segretari, e di messi; ma l'importanza di mantenere una più intima connessione col partito cattolico lo tentava, qualora diminuiva la diligenza della persecuzione, ad uscir dal deserto, ad introdursi in Alessandria, e ad affidar la propria persona alla discrezione de' suoi aderenti ed amici. Le sue diverse avventure potrebber somministrare il soggetto d'un romanzo molto piacevole. Una volta fu esso nascosto in una cisterna vota, dalla quale appena era uscito, che fu palesato da una schiava[271]; ed una volta fu celato in un asilo anche più straordinario, in casa cioè d'una Vergine di venti anni, celebre in tutta la città per la sua rara bellezza. Sull'ora di mezza notte, com'ella raccontava molti anni dopo, fa sorpresa dalla comparsa dell'Arcivescovo in un negligente abbigliamento, ed avanzandosi esso con veloci passi la scongiurò a dargli un ricovero, che da una celeste visione gli era stato ordinato di cercare sotto l'ospitale suo tetto. La pietosa fanciulla ricevè e custodì il sacro deposito, che era stato affidato alla prudenza ed al coraggio di essa. Senza comunicare il segreto ad alcuno, subito condusse Atanasio nella più segreta sua camera, ed invigilò alla sicurezza di lui con la tenerezza d'un amica, e coll'assiduità d'una serva. Finattanto che il pericolo continuò, essa lo fornì regolarmente di libri e di provvisioni, lavavagli i piedi, l'assisteva nelle sue corrispondenze, e destramente celava a qualunque occhio sospetto questa famigliare, e solitaria conversazione fra un Santo, il cui carattere esigeva la più irreprensibile castità, ed una femmina, le cui grazie potevano eccitare i movimenti più pericolosi[272]. Nei sei anni di persecuzione e d'esilio, Atanasio replicò le sue visite alla bella e fedele amica; e l'espressa dichiarazione, che egli vide i Concilj di Rimini e di Seleucia[273], ci obbliga a credere, che ei fosse occultamente presente al tempo e nel luogo della loro convocazione. Il vantaggio di trattare personalmente co' suoi amici, d'osservar le divisioni degli avversari, e di profittarne, potrebbe giustificare in un prudente politico sì ardita e pericolosa impresa; ed Alessandria, mediante il commercio e la navigazione, avea relazioni con ogni porto del Mediterraneo. Dal fondo dell'inaccessibile suo ritiro, l'intrepido Primate faceva una continua guerra offensiva contro il protettor degli Arriani; e gli opportuni suoi scritti, che diligentemente si portavano in giro, e con avidità si leggevano, contribuivano ad unire e ad animare la parte Ortodossa. Nelle sue pubbliche apologie, che indirizzò all'Imperatore medesimo, alle volte affettava di lodar la moderazione; ma nel tempo stesso rappresentava Costanzo, nelle sue segrete e veementi invettive, come un debole e malvagio Principe, come il carnefice della sua famiglia, il tiranno della Repubblica, e l'anticristo della Chiesa. Nel colmo della sua prosperità, quel vittorioso Monarca, che avea gastigato la temerità di Gallo, e soppresso la ribellione di Silvano, che aveva tolto il diadema di capo a Vetranione, e vinto in campagna le legioni di Magnenzio, ricevè da mano invisibile una ferita, che egli non potè mai nè medicare, nè vendicare; ed il figlio di Costantino fra' Principi Cristiani fu il primo, che provò la forza di quei principj, che nelle cause di religione posson resistere ai più violenti sforzi del potere civile[274].
La persecuzione d'Atanasio, e di tanti rispettabili Vescovi, che soffrirono per la verità delle loro opinioni, o almeno per l'integrità della loro coscienza, diede un giusto motivo di sdegno e di malcontento a tutti i Cristiani, eccettuati quelli ch'erano ciecamente addetti alla fazione Arriana. I Popoli si dolevano della perdita dei lor fedeli Pastori, l'esilio dei quali era per ordinario accompagnato dall'intrusione d'uno straniero[275] nella cattedra Episcopale; e facevano alti lamenti, che si violasse il diritto d'elezione, e che fosser condannati a ubbidire ad un mercenario usurpatore, di cui era incognita la persona, ed erano sospetti i principj. I Cattolici procuravano di provare al Mondo, che essi non erano involti nella colpa ed eresia dell'Ecclesiastico lor direttore, significando pubblicamente il loro dissenso, o del tutto separandosi dalla comunione di lui. Il primo di questi metodi fu inventato in Antiochia, e praticato con tal successo, che tosto si sparse pel Mondo Cristiano. La Dossologia, o quel sacro Inno, che celebra la gloria della Trinità, è suscettibile di alcune assai minute, ma importanti riflessioni; e si può esprimere la sostanza d'un Simbolo Ortodosso ovvero Eretico mediante la differenza d'una particella disgiuntiva, o copulativa. S'introdussero le alternative risposte, ed una più regolar Salmodia[276] nelle pubbliche preci da Flaviano e da Diodoro, devoti ed operosi laici, ch'erano attaccati alla fede Nicena. Sotto la loro condotta, venne uno sciame di Monaci dal vicino deserto, furon collocate nella Cattedrale di Antiochia varie truppe di ben disciplinati cantori, fu trionfalmente cantato da un pieno coro di voci, Gloria al Padre, ED al Figlio, ED allo Spirito Santo[277], ed i Cattolici, con la purità della loro dottrina, insultarono l'Arriano Prelato, che usurpato aveva la cattedra del venerabile Eustazio. Il medesimo zelo che aveva inspirato il lor canto, indusse i membri più scrupolosi del partito ortodosso a formare separate assemblee, che si governaron dai Preti, finattantochè la morte dell'esiliato lor Vescovo non permise l'elezione e consacrazione d'un nuovo Episcopale Pastore[278]. Le rivoluzioni della Corte moltiplicavano il numero dei pretendenti; e spesso la medesima città, sotto il regno di Costanzo, veniva contrastata fra due, tre o anche quattro Vescovi, ciascheduno dei quali esercitava la spirituale giurisdizione su' propri respettivi seguaci, ed alternativamente perdeva o ricuperava il temporal possesso della Chiesa. L'abuso del Cristianesimo introdusse nel governo Romano nuove cause di tirannia e di sedizione; i vincoli della civil società si spezzarono dal furore di religiose fazioni: e l'oscuro cittadino, che avrebbe potuto sopravviver tranquillamente all'elevazione ed alla caduta di più Imperatori, s'immaginava e provava di fatto, che la propria vita, e le sue sostanze eran congiunte con gl'interessi d'un popolare Ecclesiastico. L'esempio delle due Capitali, Roma e Costantinopoli, può servire a rappresentare lo stato dell'Impero e l'indole del genere umano sotto il regno dei figli di Costantino.
I. Insino a che il Romano Pontefice mantenne il suo posto ed i suoi principj, egli fu guardato dal tenero attaccamento d'un gran Popolo; e potea rigettare con disprezzo le preghiere, le minacce e le offerte di un Principe eretico. Quando gli Eunuchi ebber segretamente determinato l'esilio di Liberio, il ben fondato timor d'un tumulto gl'impegnò ad usar le maggiori cautele nell'eseguir la sentenza. Fu investita da ogni parte la Capitale, e fu comandato al Prefetto di impadronirsi della persona del Vescovo o mediante qualche stratagemma o coll'aperta forza. L'ordine venne eseguito; e Liberio fu colla massima difficoltà precipitosamente di mezza notte involato alla vista del Popolo Romano, avanti che la costernazione di questo si convertisse in furore. Tostochè si seppe il suo esilio nella Tracia, fu convocata una generale assemblea, ed il Clero di Roma obbligossi con un pubblico e solenne giuramento a non abbandonar mai il proprio Vescovo, ed a non riconoscer l'usurpatore Felice, che per la forza degli Eunuchi era stato eletto irregolarmente, e consacrato dentro le mura d'un palazzo profano. Dopo due anni sussisteva tuttavia intera ed incorrotta la pietosa lor ostinazione, e quando Costanzo visitò Roma, fu assalito dalle importune sollecitazioni di un popolo, che aveva conservato, come un ultimo residuo dell'antica sua libertà, il diritto di trattare il proprio Sovrano con famigliare insolenza. Le mogli di molti Senatori e dei più onorevoli cittadini, dopo d'aver pressato i loro mariti ad intercedere in favor di Liberio, risolvettero di prendere sopra di se medesime un assunto, che nelle loro mani sarebbe stato meno pericoloso, e potea riuscire con miglior successo. L'Imperatore ricevè con gentilezza questa deputazione di donne, la ricchezza e dignità delle quali appariva nella magnificenza dei loro abiti ed ornamenti; ammirò la loro inflessibile risoluzione di seguitare il loro amato Pastore nei più distanti paesi della terra; e acconsentì che i due Vescovi, Liberio e Felice, governassero in pace le respettive loro congregazioni. Ma le idee di tolleranza erano sì opposte alla pratica, ed anche ai sentimenti di quei tempi, che quando fu letta pubblicamente nel circo di Roma la risposta di Costanzo, fu rigettato con riso e disprezzo un progetto così ragionevole. L'ardente veemenza, che animava una volta gli spettatori nel decisivo momento d'una corsa di cavalli, allora dirigevasi ad un oggetto diverso; ed il circo risuonava delle grida di migliaia di persone, che replicatamente esclamavano «Un solo Dio, un solo Cristo, un solo Vescovo». Lo zelo del popolo Romano nella causa di Liberio non si ristrinse alle sole parole; e la pericolosa e sanguinosa sedizione, che si eccitò poco dopo la partenza di Costanzo, determinò questo Principe ad accettare la sommissione dell'esiliato Prelato, ed a restituirgli il non diviso possesso della Capitale. Dopo qualche vana resistenza, il suo rivale fu espulso dalla città per la permissione dell'Imperatore, e per la forza dell'opposta fazione; furono crudelmente trucidati gli aderenti di Felice nelle strade, nelle pubbliche piazze, ne' bagni, e sin nelle Chiese; ed al ritorno di un Vescovo Cristiano l'aspetto di Roma rinnovò l'orrida immagine delle stragi di Mario e delle proscrizioni di Silla[279].
II. Nonostante il rapido accrescimento dei Cristiani sotto il regno della famiglia Flavia, Roma, Alessandria, e le altre maggiori città dell'Impero contenevano sempre una forte e potente fazione d'Infedeli, che invidiavano la prosperità, e mettevano in ridicolo anche nei loro teatri le teologiche dispute della Chiesa. La sola Costantinopoli godeva il vantaggio d'esser nata ed allevata in seno alla fede. La Capitale dell Oriente non s'avea mai contaminata col culto degl'idoli; e tutto il corpo del Popolo s'era profondamente imbevuto de' sentimenti, delle virtù e delle passioni, che distinguevano i Cristiani di quel tempo dal rimanente degli uomini. Dopo la morte d'Alessandro, si disputò la Sede Episcopale fra Paolo e Macedonio. Atteso lo zelo e l'abilità loro, ambedue meritavano l'eminente posto, al quale aspiravano; e se il carattere morale di Macedonio era meno soggetto ad eccezioni, il suo competitore aveva il vantaggio d'un'elezione anteriore e d'una più ortodossa dottrina. Il suo stabile attaccamento al Simbolo Niceno, che ha dato a Paolo un posto nel calendario fra' Santi ed i Martiri, l'espose allo sdegno degli Arriani. Fu egli nello spazio di quattordici anni scacciato per cinque volte dalla sua sede, nella quale venne più spesso ristabilito dalla violenza del Popolo, che dalla permissione del Principe; e la potestà di Macedonio non potè assicurarsi che mediante la morte del suo rivale. L'infelice Paolo fu strascinato in catene dagli arenosi deserti della Mesopotamia nei più orridi luoghi del Monte Tauro[280], posto in un'oscura e stretta prigione, lasciato per sei giorni senza cibo, e finalmente strangolato per ordine di Filippo, uno de' principali ministri dell'Imperator Costanzo[281]. Il primo sangue, che macchiò la nuova Capitale, fu sparso in quest'Ecclesiastica contesa; e molte persone restarono uccise da ambe le parti nelle furiose ed ostinate sedizioni del Popolo. Era stata data ad Ermogene, Generale di cavalleria, la commissione di fare eseguire per forza la sentenza d'esilio contro Paolo; ma tal esecuzione riuscì fatale a lui stesso. I Cattolici si sollevarono in difesa del loro Vescovo: fu distrutto il palazzo d'Ermogene; il primo Uffizial militare dell'Impero fu strascinato per li piedi lungo le strade di Costantinopoli, e poscia che fu spirato, ne fu esposto il cadavere ad insulti indecenti[282]. Il destino d'Ermogene ammaestrò Filippo, Prefetto del Pretorio, a diportarsi con più cautela in simigliante occasione. Richiese ne' termini più gentili ed onorevoli un abboccamento con Paolo nei bagni di Zeusippo, che avevano una segreta comunicazione col palazzo e col mare. Un vascello, ch'era pronto allo scalo del giardino, immediatamente fece vela, e mentre il popolo ancora ignorava il tentato sacrilegio, il Vescovo era già imbarcato per Tessalonica. Ad un tratto si videro con meraviglia e con isdegno spalancate le porte del palazzo, e l'usurpatore Macedonio assiso accanto al Prefetto sopra un alto carro, circondato da truppe di guardie con le spade sguainate. La militar processione avanzavasi verso la Cattedrale; tanto gli Arriani quanto i Cattolici corser precipitosamente ad occupar quel posto importante; e tremila cento cinquanta persone perderono la vita nella confusion del tumulto. Macedonio, ch'era sostenuto da una forza regolata, ottenne una decisiva vittoria; ma fu disturbato il suo regno da clamori e da sedizioni; e quelle cause, che sembravano le meno connesse col soggetto della disputa, furon sufficienti a nutrire, e ad accender la fiamma della discordia civile. Poichè la cappella, in cui s'era depositato il corpo del gran Costantino, minacciava rovina, il Vescovo trasportò quelle venerabili reliquie nella Chiesa di S. Acacio. Questo prudente, ed anche pietoso provvedimento fu rappresentato come una maliziosa profanazione da tutto il partito che aderiva alla dottrina dell' Homoousion. Immediatamente le fazioni corsero alle armi, si serviron del luogo sacro come di campo di battaglia, ed ha notato uno degl'Istorici Ecclesiastici come un fatto reale, non come una figura rettorica, che il pozzo, situato avanti alla Chiesa, non essendo capace di più contenerne, allagò con un fiume di sangue i portici e le corti adiacenti. Qualunque Scrittore attribuisse tali tumulti unicamente ad un principio di religione, dimostrerebbe d'avere una ben imperfetta cognizione della natura umana; bisogna però confessare, che il motivo, che traviava la sincerità dello zelo, ed il pretesto, che mascherava la licenza della passione, sopprimevano quei rimorsi che in altre occasioni sarebber succeduti al furore dei Cristiani di Costantinopoli[283].
L'arbitrario e crudele animo di Costanzo, che non sempre aspettava d'esser provocato dalla colpa e dalla resistenza, fu giustamente inasprito dai tumulti della sua Capitale e dalla rea condotta d'una fazione, che opponevasi all'autorità e alla religione del proprio Sovrano. Furono inflitte con particolar rigore le pene ordinarie di morte, d'esilio, e di confiscazione; ed i Greci venerano tuttavia la santa memoria di due Cherici, uno Lettore e uno Suddiacono, che furono accusati dell'uccisione d'Ermogene, e decapitati alle porte di Costantinopoli. Per un editto di Costanzo contro i Cattolici, che non si è stimato degno d'aver luogo nel Codice Teodosiano, quelli che ricusavan di comunicare coi Vescovi Arriani, ed in ispecie con Macedonio, erano spogliati delle immunità Ecclesiastiche e dei diritti dei Cristiani; venivan costretti a lasciare il possesso delle Chiese; ed era loro strettamente vietato di tenere assemblee dentro le mura della città. Nelle Province della Tracia e dell'Asia Minore, fu commessa allo zelo di Macedonio l'esecuzione di questa ingiusta legge; fu ordinato alla potestà civile e militare d'ubbidire a' suoi ordini; e le crudeltà esercitate da questo Semiarriano tiranno in difesa dell' Homoiousion eccederono la commissione di Costanzo, e ne infamarono il regno. S'amministravano i Sacramenti della Chiesa a vittime ripugnanti, che negavano la legittimità dell'elezione, ed abborrivano i principj di Macedonio. Si conferivano i riti del Battesimo a donne e fanciulli, che a tal effetto si erano strappati dalle braccia dei loro amici e parenti; per mezzo di uno istrumento di legno tenevasi aperta la bocca dei comunicanti, mentre s'introduceva loro per forza il pane consacrato nella gola; e con gusci d'ovo infuocati si bruciava il petto di tenere vergini, o crudelmente si comprimeva fra ruvide e pesanti tavole[284]. I Novaziani di Costantinopoli e dei vicini paesi per il loro stabile attacco alla bandiera Homoousiana meritarono d'esser confusi co' Cattolici stessi. Macedonio seppe che un grosso distretto di Paflagonia[285] era quasi tutto abitato da que' Settari. Egli risolse di convertirli o di estirparli; e siccome in tale occasione diffidava dell'efficacia d'una missione Ecclesiastica, ordinò che un corpo di quattromila legionari marciasse contro i ribelli, e riducesse il territorio di Mantinio sotto la sua spirituale giurisdizione. I Novaziani abitanti, animati dalla disperazione e dal furor religioso, arditamente affrontarono gl'invasori del lor paese; e quantunque vi restassero uccisi molti de' Paflagoni, pure le legioni Romane furono vinte da una irregolare moltitudine, armata solo di rusticali strumenti e di legni, ed a riserva di pochi che si salvarono mediante un'ignominiosa fuga, quattromila soldati restarono morti sul campo di battaglia. Il successor di Costanzo ha esposto in una breve ma viva maniera alcune delle teologiche calamità, che afflisser l'Impero, e specialmente l'Oriente, nel regno d'un Principe, che era schiavo delle sue passioni e di quelle de' suoi Eunuchi. «Molti furon posti in prigione, perseguitati, e mandati in esilio. Si trucidarono intere truppe di quelli, che si chiamavano Eretici, particolarmente a Cizico, ed a Samosata. Nella Paflagonia, nella Bitinia, nella Galazia, ed in molte altre Province, intere città e villaggi furono devastati, ed interamente distrutti[286].»
Mentre le fiamme dell'Arriana controversia consumavan le viscere dell'Impero, le Province Affricane venivano infestate dai loro particolari nemici, da quei Selvaggi fanatici, che sotto il nome di Circoncellioni formavan la forza e lo scandalo del partito Donatista[287]. La rigorosa esecuzione delle leggi di Costantino aveva eccitato uno spirito di malcontento e di resistenza; i vigorosi sforzi, che fece il suo figlio Costante per restaurare l'unità della Chiesa, esacerbarono i sentimenti d'odio reciproco, che a principio avea cagionati la separazione; ed i mezzi della forza e della corruzione, impiegati dai due Commissari Imperiali Paolo e Macario, somministrarono agli Scismatici uno specioso contrasto fra le massime degli Apostoli, e la condotta dei pretesi lor successori[288]. Gli abitanti dei villaggi di Numidia e di Mauritania erano una razza di gente feroce, che s'era imperfettamente ridotta sotto l'autorità delle leggi Romane, ed imperfettamente convertita alla fede Cristiana; ma che veniva trasportata da un cieco e furioso entusiasmo nella causa dei Donatisti, loro maestri. Con isdegno soffrivano essi l'esilio dei loro Vescovi, la demolizione delle lor Chiese, e l'interrompimento delle segrete loro assemblee. La violenza degli Uffiziali di giustizia, che ordinariamente eran sostenuti da una guardia militare, fu alle volte rispinta con uguale violenza; ed il sangue di alcuni popolari Ecclesiastici, che si era sparso nella mischia, infiammò i rozzi loro seguaci d'un'ardente brama di vendicare la morte di quei Santi Martiri. I ministri della persecuzione con la loro barbarie e temerità s'attiraron qualche volta la morte, e la colpa d'un accidentale tumulto precipitò i rei nella disperazione e rivolta. Tratti dalle native loro campagne, i Donatisti villani si unirono in formidabili turme all'estremità del deserto Getulio; e facilmente cangiarono l'abitudine del lavoro in una vita oziosa e rapace, che veniva consacrata dal nome di religione, e debolmente condannata dai Dottori della lor Setta. I condottieri de' Circoncellioni presero il titolo di Capitani de' Santi; la principale lor arme, essendo inoltre comunemente provvisti di spade e di lance, era una grossa e pesante clava, ch'essi chiamavano l' Isdraelita; ed il ben noto rimbombo delle parole «sia lode a Dio» che usavano come lor segnale di guerra, spargeva la costernazione per le disarmate Province dell'Affrica. Da principio colorivano le loro depredazioni col pretesto della necessità; ma ben presto passarono la misura della sussistenza; soddisfacevano senza ritegno la loro intemperanza ed avarizia, bruciavano i villaggi che avevano saccheggiati, e dominavano come licenziosi tiranni nell'aperta campagna. Si sospesero i lavori dell'agricoltura e l'amministrazione della giustizia; e siccome i Circoncellioni pretendevano di restituire la primitiva uguaglianza degli uomini, e riformare gli abusi della civil società, così aprivano un asilo sicuro agli schiavi, ed a' debitori che correvano a truppe sotto il santo loro stendardo. Allorchè non trovavano resistenza, ordinariamente si contentavano del saccheggio, ma la minima opposizione serviva per provocarli ad atti di violenza e di strage; ed alcuni Preti Cattolici, che avevano imprudentemente segnalato il loro zelo, furon tormentati da' fanatici con la più raffinata e cruda barbarie. Lo spirito dei Circoncellioni però non si esercitava sempre contro nemici senza difesa. Attaccarono essi, ed alle volte anche disfecero, le truppe della Provincia; e nella sanguinosa azione di Bagai assaltarono in campo aperto, ma con disgraziato valore, una guardia avanzata della cavalleria Imperiale. I Donatisti, ch'erano presi armati, ricevevano, e facilmente meritavano il trattamento che avrebbe potuto farsi alle bestie selvagge del deserto. I prigionieri morivano, senza mandare un lamento, o per mezzo della spada, o della scure, o del fuoco; e si moltiplicarono in una rapida proporzione le rappresaglie, che aggravavan gli orrori della ribellione, ed escludevano la speranza d'un vicendevol perdono. Al principio del presente secolo, si è rinnovato l'esempio dei Circoncellioni nella persecuzione, nell'ardire, ne' delitti, e nell'entusiasmo dei Camisardi, e se i fanatici di Linguadoca sorpassaron quelli di Numidia per le loro azioni militari, gli Affricani mantenner la fiera loro indipendenza con maggiore risolutezza e perseveranza[289].
Tali disordini sono i naturali effetti d'una tirannia religiosa; ma la rabbia dei Donatisti era infiammata da frenesia d'una specie molto straordinaria, la quale, se veramente prevalse fra loro in un grado così stravagante, non se ne può trovar sicuramente l'uguale in alcun paese, o in alcun secolo. Molti di questi fanatici avevano in orrore la vita, desiderando il martirio; e poco importava loro per quali mezzi o per quali mani perissero, qualora la lor condotta santificata fosse dall'intenzione di sacrificarsi per la gloria della vera fede e per la speranza dell'eterna felicità[290]. Alle volte andavano a disturbar villanamente le feste, ed a profanare i tempj del paganesimo, con animo di eccitare i più zelanti fra gl'Idolatri a vendicare gli insulti de' loro Dei. Alle volte, entravan per forza nei Tribunali di giustizia, o costringevano lo spaventato Giudice ad ordinare l'immediata loro esecuzione. Spesso fermavano i viandanti nelle pubbliche strade, e gli obbligavano a dar loro il martirio con la promessa di un premio, se v'acconsentivano, e con la minaccia dell'immediata morte, se ricusavano di largire ad essi un favore tanto singolare. Quando mancava qualunque altro ripiego, essi annunziavano il giorno, in cui alla presenza dei loro amici e fratelli si sarebber gettati a basso da qualche altissima rupe; e si mostravano varj precipizj che eran divenuti famosi pel numero dei religiosi suicidj. Nelle azioni di tali disperati entusiasti, che s'ammiravano da una parte come martiri di Dio, e s'abborrivano dall'altra come vittime di Satana, un imparziale Filosofo può ravvisar l'influenza e l'ultimo abuso di quello spirito inflessibile, che in origine proveniva dal carattere e dai principj della nazione Giudaica.
A. D. 312-361
La semplice istoria delle interne divisioni, che disturbaron la pace e disonorarono il trionfo della Chiesa, servirà a confermare l'osservazione d'un Istorico Pagano, ed a giustificare il lamento d'un venerabile Vescovo. L'esperienza d'Ammiano l'aveva convinto, che l'inimicizia de' Cristiani fra loro sorpassava il furor delle fiere contro degli uomini[291]; e Gregorio Nazianzeno si duole nel più patetico stile, che il regno dei Cieli si era dalla discordia convertito nell'immagine del caos, d'una tempesta notturna e dell'istesso inferno[292]. I fieri e parziali Scrittori di quei tempi, attribuendo a se stessi tutta la virtù, ed imputando tutta la colpa agli avversari, hanno rappresentato la guerra degli Angeli coi Demonj. La nostra più tranquilla ragione rigetterà tali puri e perfetti mostri di vizio o di santità, ed imputerà un'uguale o almeno non molto diversa dose di bene o di male agli ostili Settari, che prendevano i nomi di Ortodossi e di Eretici. Essi erano stati educati nella medesima religione e nella medesima civil società; le speranze ed i timori sì nella vita presente che nella futura, si bilanciavano da loro nella medesima proporzione; sì dall'una che dall'altra parte poteva lo sbaglio esser innocente, la fede sincera, la pratica meritoria o corrotta; le loro passioni venivano eccitate da oggetti simili, e poteano alternativamente abusare del favor della Corte o del popolo. Le metafisiche opinioni negli Atanasiani, e degli Arriani non potevano influire sul lor morale carattere, e tutti erano ugualmente agitati dallo spirito intollerante, che avevano tratto fuori dalle pure e semplici massime dell'Evangelio.
Un moderno Scrittore, che con giusto ardire ha posto in fronte della sua storia gli onorevoli titoli di politica e filosofica[293], accusa la timida prudenza di Montesquieu per aver omesso di enumerare fra le cause della decadenza dell'Impero una legge di Costantino, da cui fu assolutamente soppresso l'esercizio del Culto Pagano, e si lasciò priva di Sacerdoti, di tempj, e d'ogni pubblica religione una considerabil parte di sudditi. Lo zelo dell'Istorico filosofo pei diritti della umanità l'ha indotto ad ammetter l'ambigua testimonianza di quegli Ecclesiastici, che hanno troppo leggermente attribuito il merito di una generale persecuzione all'Eroe lor favorito[294]. Invece di allegar questa legge immaginaria, che avrebbe brillato in fronte a' Codici Imperiali, noi possiamo con sicurezza rimetterci all'epistola originale, che Costantino indirizzò ai seguaci dell'antica religione in un tempo, nel quale non dissimulava più la sua conversione, nè più temeva i rivali dei trono. Esso invita ed esorta ne' termini più pressanti i sudditi del Romano Impero ad imitar l'esempio del loro Principe; ma dichiara, che quelli, che tuttavia ricusano d'aprir gli occhi alla celeste luce, posson liberamente godere i lor tempj e gl'immaginari lor Dei. Vien dunque formalmente contraddetta l'asserzione, che le ceremonie del Paganesimo fossero soppresse dall'Imperatore medesimo, il quale saviamente assegna come principio della sua moderazione l'invincibil forza dell'abitudine, del pregiudizio e della superstizione[295]. Ma senza violare la santità della sua promessa, senza eccitare i timori de' Pagani, l'artificioso Monarca con lenti e cauti passi avanzavasi a distrugger l'irregolare e cadente edifizio del politeismo. Gli atti parziali di severità, che secondo le occasioni esercitava, quantunque segretamente provenissero da uno zelo Cristiano, eran coloriti dai più bei pretesti di giustizia e di pubblico bene; e mentre Costantino tendeva a rovinare i fondamenti dell'antica religione, pareva che ne riformasse gli abusi. Ad esempio dei suoi più saggi predecessori condannò sotto le più rigorose pene le occulte ed empie arti della divinazione, che risveglia le vane speranze ed alle volte i rei tentativi di quelli, che son malcontenti della presente lor condizione. Fu imposto un ignominioso silenzio agli oracoli, ch'erano stati pubblicamente convinti di frode e falsità; furono aboliti gli effeminati Sacerdoti del Nilo; e Costantino eseguì l'uffizio di Censore Romano, allorchè diede ordine che si demolissero i diversi tempj della Fenicia, nei quali si praticava ogni sorta di prostituzione pubblicamente in onore di Venere.[296]. L'Imperial città di Costantinopoli fu in certo modo innalzata a spese de' ricchi tempj della Grecia e dell'Asia, e adornata delle loro spoglie; si confiscarono i beni sacri; si trasportaron con rozza famigliarità le statue degli Dei e degli Eroi in mezzo ad un Popolo, che le risguardava come oggetti non di adorazione, ma di curiosità; si restituì alla circolazione l'argento e l'oro; ed i Magistrati, i Vescovi, e gli Eunuchi profittarono della fortunata occasione di soddisfare nel tempo stesso lo zelo, l'avarizia e lo sdegno. Ma tali depredazioni si ristrinsero ad una piccola parte del Mondo Romano; e le Province da lungo tempo erano assuefatte a soffrire la medesima sacrilega rapacità dalla tirannia di Principi e di Proconsoli, contro i quali non potea nascer sospetto veruno di tendere a sovvertire la religione stabilita[297].
I figli di Costantino calcaron le vestigia del loro padre con più zelo e con minor discrezione. Si moltiplicarono appoco appoco i pretesti dell'oppressione e della rapina[298]; fu accordata ogni sorta di condiscendenza all'illegittima condotta dei Cristiani; qualunque dubbio fu interpretato in disfavore del Paganesimo; e la demolizione de' tempj fu celebrata come uno dei più prosperi avvenimenti del regno di Costante e di Costanzo[299]. È scritto il nome di quest'ultimo in fronte ad una breve legge, che avrebbe potuto render superflua qualunque posteriore proibizione. «Vogliamo che in tutti i luoghi ed in tutte le città immediatamente si chiudano i tempj, o siano diligentemente guardati, affinchè nessuno possa far male. Vogliamo ancora, che tutti i nostri sudditi si astengano da' Sacrifizj. Se alcuno fosse reo di tal atto, provi la spada della vendetta; e dopo la morte i suoi beni siano confiscati a vantaggio del Pubblico. Estendiamo le stesse pene a' Governatori delle Province, se trascureranno di punire i delinquenti»[300]. Ma vi è la più forte ragione di credere, che questo formidabil editto o fosse scritto senza esser pubblicato, o fosse pubblicato senza essere eseguito. L'evidenza dei fatti ed i monumenti, che tuttavia sussistono di bronzo e di marmo, continuano a provare il pubblico esercizio del Culto Pagano in tutto il regno de' figli di Costantino. Tanto nell'Oriente quanto nell'Occidente, sì nelle città che nella campagna si rispettava, o almeno si risparmiava un gran numero di tempj; e la devota moltitudine tuttavia godeva il lusso dei sacrifizj, delle feste e delle processioni per la permissione o per la connivenza del Governo. Circa quattro anni dopo la pretesa data di quel sanguinoso editto, Costanzo visitò i tempj di Roma; e viene commendata da un oratore Pagano la decenza del suo contegno, come un esempio degno dell'imitazione dei successivi Principi. Quell'Imperatore (dice Simmaco) «tollerò che restassero intatti i privilegi delle Vestali; diede le dignità Sacerdotali a' nobili di Roma; concesse la solita prestazione per le spese dei pubblici riti e sacrifizj; e quantunque avesse abbracciato una religione diversa, non tentò mai di spogliar l'Impero del sacro culto dell'antichità»[301]. Il Senato pretendeva sempre di consacrare con solenni decreti la divina memoria dei suoi Sovrani, e Costantino medesimo fu dopo la sua morte associato a quegli Dei, che esso avea rinunziati e insultati in vita. Il titolo, le insegne, e le prerogative di Pontefice Massimo, che s'erano istituite da Numa ed assunte da Augusto, s'accettarono senza esitare da sette Imperatori Cristiani, che venivano investiti di un'autorità più assoluta sulla religione da essi abbandonata, che su quella che professavano[302].
Le divisioni fra i Cristiani sospesero la rovina del Paganesimo[303]; e la guerra sacra, contro gl'Infedeli con minor vigore fu proseguita da Principi e da Vescovi, che erano più immediatamente sbigottiti dal male e dal pericolo della ribellione domestica. Si sarebbe potuta giustificare l'estirpazione dell'idolatria[304] coi principj già stabiliti d'intolleranza; ma le contrarie Sette, che a vicenda regnavano nella Corte Imperiale, temevano di alienare da loro, e forse d'esacerbare gli animi di una forte, sebbene decadente fazione. Militava allora in favore del Cristianesimo ogni motivo di autorità e di moda, d'interesse e di ragione; ma dovettero passare due o tre generazioni, prima che fosse universalmente sentita la sua vittoriosa influenza. La religione, che per sì lungo tempo e recentemente avea dominato nell'Impero Romano, era sempre venerata da molti, meno attaccati invero alle opinioni speculative che all'antico uso. Erano indifferentemente concessi gli onori dello Stato e dell'esercito a tutti i sudditi di Costantino e di Costanzo; ed una parte considerabile di cognizioni, di ricchezze e di valore trovavasi tuttora impegnata in servizio del politeismo. Nasceva da cause molto diverse la superstizione del Senatore e del Villano, del Poeta e del Filosofo; ma con ugual divozione si univano tutti nei tempj degli Dei. Era insensibilmente provocato il loro zelo dall'insultante trionfo d'una Setta proscritta; e si ravvivavan le loro speranze dalla ben fondata fiducia, che l'erede presuntivo dell'Impero, giovane e valoroso Eroe, che avea liberato la Gallia dalle armi dei Barbari, avesse abbracciato segretamente la religione dei suoi maggiori.
CAPITOLO XXII.
Giuliano è dichiarato Imperatore dalle legioni della Gallia. Sua marcia e successo. Morte di Costanzo. Amministrazione civile di Giuliano.
Mentre i Romani languivano sotto l'ignominiosa tirannia degli Eunuchi e dei Vescovi, si ripetevano con trasporto le lodi di Giuliano in ogni parte dell'Impero, fuorchè nel palazzo di Costanzo. I Barbari della Germania avevan provato, e sempre temevano le armi del giovane Cesare. I suoi soldati erano i compagni della sua vittoria. I Provinciali pieni di gratitudine godevano le beneficenze del suo regno. Ma i favoriti che si erano opposti alla sua elevazione, guardavano di mal occhio le sue virtù, ed a ragione consideravan l'amico del popolo come un nemico della Corte. Fintanto che fu dubbiosa la fama di Giuliano, i buffoni del palazzo, periti nel linguaggio della satira, sperimentarono l'efficacia di quelle arti, ch'essi avevano tante volte praticate con felice successo. Facilmente notarono che la sua semplicità non era esente da affettazione; applicarono all'abito e alla persona del filosofo guerriero i ridicoli nomi d'irsuto selvaggio e di scimia vestita di porpora, e le sue modeste relazioni venivan criticate come vane ed elaborate finzioni d'un Greco loquace, e d'uno speculativo soldato, che aveva studiato l'arte della guerra nei giardini dell'Accademia[305]. La voce però della maliziosa follìa finalmente fu fatta tacere dal suono della vittoria; non si potè più dipingere il conquistatore dei Franchi e degli Alemanni come un oggetto di disprezzo; ed il Monarca medesimo era bassamente ambizioso di defraudare il suo luogotenente dell'onorevol premio di sue fatiche. Nelle lettere coronate di lauro, che, secondo l'antico costume, furono mandate alle Province, si omise il nome di Giuliano. «Costanzo avea fatte tutte le disposizioni della guerra in persona, egli avea segnalato il suo valore nelle linee; la sua condotta militare assicurato avea la vittoria, ed il Re dei Barbari gli era stato condotto prigioniero nel campo di battaglia»: dal quale in quel tempo era distante più di quaranta giornate di cammino[306]. Ma una favola sì stravagante non poteva ingannare la pubblica credulità, e neppur soddisfare l'orgoglio dell'Imperatore medesimo. Conoscendo segretamente che l'applauso ed il favor dei Romani accompagnava la nascente fortuna di Giuliano, il suo spirito malcontento era pronto a ricevere il sottile veleno di quegli artificiosi adulatori, che colorivano i lor malvagi disegni con le più belle apparenze di verità e di candore[307]. Invece di abbassare i meriti di Giuliano, essi ne confessavano, ed eziandio n'esageravano la fama popolare, l'eminente ingegno e gl'importanti servigi. Ma oscuramente accennavano, che le virtù di Cesare potevano ad un tratto convertirsi nei più pericolosi delitti, se l'incostante moltitudine preferito avesse le proprie inclinazioni al dovere, o se il Generale d'un vittorioso esercito fosse tentato di anteporre alla sua fedeltà le speranze della vendetta, o di una indipendente grandezza. I personali timori di Costanzo erano interpretati dal suo Consiglio come una lodevole ansietà per la pubblica salute; mentre in privato, e forse anche dentro a se stesso egli mascherava col men odioso nome di timore i sentimenti d'odio e d'invidia, che aveva segretamente conceputi per le inimitabili virtù di Giuliano.
A. D. 360
L'apparente tranquillità della Gallia, e l'imminente pericolo delle Province Orientali somministrarono uno specioso pretesto pei disegni che artificiosamente si concertarono dai ministri dell'Imperatore. Risolvettero essi di disarmar Cesare; di richiamare quelle fedeli truppe che guardavano la sua persona e dignità, e d'impiegare in una guerra lontana contro il Re di Persia i valorosi veterani che sulle rive del Reno avevan vinto le più fiere nazioni della Germania. Mentre Giuliano consumava le laboriose sue ore nei quartieri d'inverno a Parigi, amministrando la potenza che nelle sue mani riducevasi all'esercizio della virtù, fu sorpreso dal precipitoso arrivo d'un tribuno e d'un notaro con positivi ordini dell'Imperatore, ch' essi avevano la commission d'eseguire, ed a' quali egli non dovevasi opporre. Costanzo indicò la sua volontà che quattro intere legioni, vale a dire quelle dei Celti, dei Petulanti, degli Eruli e dei Batavi, si separassero dalle bandiere di Giuliano, sotto di cui acquistato avevano la loro fama e disciplina; che si scegliessero in ciascheduna delle rimanenti trecento dei più valorosi giovani; e che questo numeroso distaccamento, che formava la forza dell'esercito Gallico, si ponesse immediatamente in marcia, e facesse ogni diligenza per arrivare avanti l'apertura della nuova campagna sulle frontiere di Persia[308]. Cesare previde le conseguenze di questo fatal comando, e se ne lagnò. Moltissimi ausiliarii, che volontariamente s'erano ascritti alla milizia, avevano stipulato di non poter essere mai costretti a passar le alpi. Si era impegnata la pubblica fede di Roma, ed il personal onore di Giuliano per l'osservanza di tal condizione. Un simil atto di tradimento e d'oppressione avrebbe distrutto la fiducia, ed eccitato lo sdegno degl'indipendenti guerrieri della Germania, che risguardavan la verità come la più nobile delle virtù, e la libertà come il più stimabile dei loro beni. I Legionari, che godevano il titolo ed i privilegi di Romani, s'erano arrolati per la difesa generale della Repubblica; ma quelle mercenarie truppe udivan con fredda indifferenza gli antiquati nomi di Repubblica e di Roma. Attaccati o per la nascita o per una lunga abitazione al clima ed ai costumi della Gallia, essi amavano ed ammiravan Giuliano, disprezzavano e forse odiavan l'Imperatore, temevano quella marcia laboriosa, i dardi Persiani, e gli ardenti deserti dell'Asia. Risguardavano come loro propria la terra che avevan salvata; e scusavan la loro mancanza di coraggio, adducendo il sacro e più immediato dovere di difender le famiglie e gli amici loro. Le apprensioni dei Galli nascevano da un imminente ed inevitabil pericolo. Tosto che si fossero private le Province della militare loro forza, i Germani avrebber violato un trattato, che non fondavasi che sui loro timori; e nonostante l'abilità ed il valor di Giuliano, il Generale d'un'armata di puro nome, a cui si sarebbero imputate le pubbliche calamità, dovea dopo una vana resistenza trovarsi, o schiavo nel campo dei Barbari, o reo nel palazzo di Costanzo. Se Giuliano ubbidiva agli ordini che avea ricevuti, sottoscriveva la propria sua distruzione e quella d'un popolo, che meritava il suo affetto. Ma una positiva disubbidienza era un atto di ribellione ed una dichiarazione di guerra. L'inesorabil gelosia dell'Imperatore, e la perentoria, e forse insidiosa natura de' suoi comandi, non lasciavan luogo ad una plausibile apologia o candida interpretazione; e la dipendente situazione di Cesare appena gli dava tempo di deliberare. La solitudine accresceva la perplessità di Giuliano; egli non potea più contare su' fedeli consigli di Sallustio, che dall'oculata malizia degli eunuchi era stato rimosso dal suo uffizio; non potea neppure corroborare le sue rappresentanze col concorso de' Ministri, che avrebbero avuto paura o rossore d'approvar la rovina della Gallia. Fu preso il momento, in cui Lupicino,[309] Generale della cavalleria, era stato mandato nella Gran-Brettagna, per reprimer le incursioni degli Scoti, e de' Pitti; e Florenzio era occupato a Vienna nell'esazione del tributo. Quest'ultimo, astuto e corrotto politico, evitando d'essere in alcun modo responsabile in tal pericolosa occasione, eluse i pressanti e replicati inviti di Giuliano, che gli rappresentava, che in ogni risoluzione d'importanza era indispensabile nel consiglio del Principe la presenza del Prefetto. Frattanto Cesare veniva incalzato dalle civili ed importune sollecitazioni de' messaggieri Imperiali, che pretesero di suggerire, che s'egli aspettava il ritorno de' suoi Ministri si sarebbe caricato della colpa d'aver differito, ed avrebbe riservato ad essi il merito dell'esecuzione. Incapace di resistere, e non volendo ubbidire, Giuliano espresse ne' termini più serj il desiderio, ed eziandio l'intenzione che aveva, di dimetter la porpora, ch'egli non potea ritener con onore, ma che non potea per altro abbandonare con sicurezza.
Dopo un penoso contrasto, Giuliano fu costretto a riconoscere, che l'ubbidienza era la virtù propria del suddito più eminente, e che al solo Sovrano toccava di giudicare del pubblico bene. Ei diede gli ordini opportuni per eseguire la volontà di Costanzo; una parte delle truppe incominciò a marciare per le alpi; e dalle varie guarnigioni si mossero i distaccamenti verso i rispettivi luoghi d'unione. Avanzavano essi con difficoltà fra la tremante, e spaventata folla di Provinciali, che procuravan d'eccitare la lor pietà con tacita disperazione o con alti lamenti, nel tempo che le mogli de' soldati, tenendo in braccio i lor figli, accusavano l'abbandono de' loro mariti in un linguaggio misto di dispiacere, di tenerezza, e di sdegno. Questa scena di mestizia afflisse l'umanità di Cesare; egli concesse un numero sufficiente di carri per trasportare le mogli e le famiglie de' soldati[310], procurò d'alleggerire i travagli, ch'era costretto d'imporre, ed accrebbe con le più lodevoli arti la sua popolarità, e il disgusto dell'esuli truppe. La tristezza d'una moltitudine armata presto si converte in furore; i liberi discorsi, che si comunicavan di tenda in tenda sempre con maggiore audacia ed effetto, prepararono i loro animi ai più arditi atti di sedizione, e mediante la connivenza dei Tribuni fu segretamente sparso un opportuno libello in cui dipingevasi con vivi colori la disgrazia di Cesare, l'oppressione dell'esercito Gallico, e gl'imbelli vizi del tiranno dell'Asia. I servi di Costanzo rimasero sorpresi ed agitati dal progresso di tale spirito pericoloso. Stimolarono Cesare ad affrettar la partenza delle truppe; ma imprudentemente rigettarono l'onesto o giudizioso consiglio di Giuliano, che proponeva loro di non muovere le schiere verso Parigi, ed indicava il pericolo e la tentazione d'un ultimo abboccamento.
Tostochè fu annunziato l'avvicinarsi delle truppe, Cesare andò loro incontro e salì sul suo Tribunale che era stato eretto in una pianura fuori delle porte della Città. Dopo d'aver distinto gli Uffiziali ed i soldati, che pei loro posti ed azioni meritavan particolare attenzione, Giuliano si voltò con una studiata orazione alla moltitudine ohe lo circondava; celebrò con grato applauso le loro imprese, gl'incoraggiò ad accettare con allegrezza l'onore di militar sotto gli occhi d'un potente e generoso Monarca, e gli avvertì che i comandi d'Augusto richiedevano un immediata e volontaria ubbidienza. I soldati, che temevan d'offendere il lor Generale con indecenti clamori, o di mentire i lor sentimenti con false e venali acclamazioni, conservarono un ostinato silenzio, e dopo breve posa furono rimandati a' loro quartieri. I principali Uffiziali ammessi furono alla mensa di Cesare, che protestava, col più tenero linguaggio dell'amicizia, il desiderio che aveva, e l'impotenza in cui si trovava di premiare, secondo i lor meriti, i prodi compagni delle sue vittorie. Essi partiron da tavola pieni di dolore e di pensieri, e si dolevano della durezza di loro sorte, che dividevagli dall'amato lor Generale, e dal lor paese nativo. Fu arditamente discusso, ed approvato l'unico espediente, che impedir potesse quella separazione; lo sdegno popolare si ridusse a poco o poco ed una regolare cospirazione; si ampliarono dalla passione i giusti motivi di querela; e siccome nella vigilia della partenza permettevasi alle truppe una licenziosa ricreazione, le loro passioni furono anche infiammate dal vino. Alla mezza notte l'impetuosa moltitudine con spade, con bicchieri, e con faci alla mano corse ne' sobborghi; circondò il palazzo[311]; e non curando il futuro pericolo, pronunziò le fatali e irrevocabili parole: Giuliano Augusto. Il Principe, la cui ansiosa sospensione veniva interrotta dalle disordinate loro declamazioni, assicurò le porte, affinchè non s'introducessero nel palazzo; e per quanto fu in suo potere, non espose la propria persona e dignità agli accidenti d'un notturno tumulto. Allo spuntar del giorno i soldati, lo zelo de' quali era irritato dalla opposizione, entraron per forza nel palazzo; s'impadronirono con rispettosa violenza dell'oggetto della loro scelta, accompagnarono con spade sguainate Giuliano per le strade di Parigi, lo collocarono sul Tribunale, e con replicate grida lo salutarono Imperatore. La prudenza non meno che la fedeltà gl'inculcarono il dovere di resistere a' lor ribelli disegni, e di preparare alla sua oppressa virtù la scusa della violenza. Volgendosi or alla moltitudine, or agl'individui, ora implorava la lor compassione, ora esprimeva il suo sdegno; gli scongiurava a non macchiar la fama di loro immortali vittorie, e si avventurò a promettere, che se immediatamente tornavano al lor dovere, avrebbe procurato d'ottener dall'Imperatore non solo un libero e grazioso perdono, ma anche la rivocazione degli ordini, che avevano eccitato la loro collera. Ma i soldati, che conoscevan la propria colpa, vollero piuttosto dipendere dalla gratitudine di Giuliano, che dalla clemenza dell'Imperatore. Il loro zelo insensibilmente si ridusse ad impazienza, e l'impazienza a furore. L'inflessibil Cesare sostenne fino all'ora terza del giorno le preghiere, i rimproveri e le minacce di essi; nè volle cedere fintantochè non l'ebbero assicurato più volte, che s'egli voleva vivere, bisognava che acconsentisse a regnare. Fu innalzato sopra uno scudo in presenza, e fra le unanimi acclamazioni delle truppe; supplì alla mancanza del diadema[312] un ricco collar militare, che trovarono a caso; la ceremonia si terminò con la promessa d'un moderato donativo[313]; ed il nuovo Imperatore, oppresso da un vero o affettato rammarico, si ritirò ne' più segreti recessi del suo appartamento[314].
Poteva il dispiacer di Giuliano provenire solo dalla sua innocenza; ma questa deve apparire estremamente dubbiosa[315] agli occhi di quelli, che hanno appreso a sospettare de' motivi, e delle proteste dei Principi. Il suo attivo e vivace spirito era suscettibile delle diverse impressioni di speranza e di timore, di gratitudine e di vendetta, di dovere e d'ambizione, d'amor della fama e di timor del biasimo. Ma è impossibile per noi il calcolare il respettivo peso, e l'azione di tali sentimenti, o il determinare i principj agenti, che sfuggir potevano all'osservazione di Giuliano medesimo, mentre ne guidavano, o piuttosto ne spingevano i passi. Il disgusto delle truppe nasceva dalla malizia de' nemici di lui; il loro tumulto era un effetto naturale dell'interesse e della passione; e se Giuliano tentato avesse di nascondere un alto disegno sotto le apparenze del caso, avrebbe dovuto impiegare il più consumato artifizio senza necessità, e probabilmente senza frutto. Egli solennemente dichiara in faccia a Giove, al Sole, a Marte, a Minerva ed a tutte le altre divinità, che sino al termine della sera, che precedè la sua elevazione, fu affatto ignorante dei disegni de' soldati[316]; e potrebbe sembrar poco generoso il non credere all'onor d'un Eroe, ed alla veracità d'un Filosofo. Pure la superstiziosa credenza che Costanzo fosse il nemico, ed egli il favorito degli Dei, poteva fargli desiderare, promuovere, ed anche affrettare il fausto momento del proprio regno, ch'era predestinato a restaurar l'antica religione dell'uman genere. Quando Giuliano ebbe avuto notizia della cospirazione, si abbandonò ad un breve sonno; e dopo raccontava a' suoi amici d'aver veduto il Genio dell'Impero, che aspettava con impazienza alla sua porta, chiedendo con premura d'esser ammesso, e rimproverando la sua mancanza di coraggio, e d'ambizione[317]. Attonito e perplesso indirizzò le sue preghiere al gran Giove, che immediatamente con un chiaro e manifesto augurio indicogli di sottomettersi alla volontà del Cielo e dell'esercito. Allorchè uno spirito di fanatismo, sì credulo nel tempo stesso e sì artificioso, s'è insinuato in un'anima nobile, insensibilmente corrode i vitali principj di veracità, e di virtù.
Moderare lo zelo del suo partito, protegger le persone de' suoi nemici[318], render vane, e disprezzar le segrete intraprese, che si facevano contro la sua vita e dignità, eran le cure che occuparono i primi giorni del nuovo Imperatore. Quantunque fosse fermamente risoluto di mantenersi nel posto, che aveva acquistato, era tuttavia desideroso di salvare lo Stato dalle calamità d'una guerra civile, d'evitar di combattere con le superiori forze di Costanzo, e di liberare il proprio carattere dalla taccia di perfidia e d'ingratitudine. Adornato delle insegne della pompa militare ed Imperiale, Giuliano si mostrò nel campo di Marte ai soldati, che ardevano d'un fervido entusiasmo nella causa del loro pupillo, capitano, ed amico. Egli recapitolò le loro vittorie, si dolse de' loro travagli, ne applaudì la risoluzione, ne animò le speranze, e ne frenò l'impetuosità; nè licenziò l'assemblea finchè non ebbe ottenuto una solenne promessa dalle truppe, che se l'Imperatore d'Oriente avesse voluto divenire ad un discreto trattato, essi avrebbero rinunziato ad ogni mira di conquista, e si sarebbero contentati del tranquillo possesso delle Province di Gallia. Su tal fondamento egli compose in nome proprio e dell'esercito, una speciosa, e moderata lettera[319], che fu consegnata a Pentadio, suo Maestro degli uffizj, e ad Euterio suo Ciamberlano, ch'esso destinò Ambasciatori per ricevere la risposta, ed osservar le disposizioni di Costanzo. In questa lettera egli si dà il modesto nome di Cesare. Ma richiede in una perentoria, sebben rispettosa maniera, la conferma del titolo d'Augusto. Egli confessa l'irregolarità della sua elezione, mentre in qualche modo giustifica il risentimento e la violenza delle truppe, che avevano estorto a forza il suo consenso. Riconosce la superiorità del fratello Costanzo; e s'impegna a mandargli un annuo presente di cavalli Spagnuoli, di reclutarne l'esercito con uno scelto numero di giovani barbari, e di ricever dalle mani di lui un Prefetto del Pretorio di provata discrezione e fedeltà. Ma si riserva l'elezione degli altri Uffiziali civili e militari con le truppe, l'entrate, e la sovranità delle Province oltre l'Alpi. Avverte l'Imperatore a consultare i dettami della giustizia; a diffidare degli artifizi di que' venali adulatori, che non sussistono che per le discordie de' Principi; e ad abbracciare l'offerta d'un equo ed onorevol trattato, vantaggioso alla Repubblica ugualmente che alla casa di Costantino. In questa negoziazione Giuliano non chiedeva più di quello che già possedeva. L'autorità delegata, che da gran tempo esercitava sulle Province di Gallia, di Spagna, e della Gran-Brettagna si continuò a venerare sotto un nome più indipendente ed augusto. I soldati ed il popolo furon contenti d'una rivoluzione, che non venne macchiata neppure dal sangue de' rei. Florenzio fuggì; Lupicino fu arrestato. Quelli, che non amavano il nuovo governo, furono disarmati, e posti in sicuro; e si distribuirono gli uffizj vacanti, secondo la raccomandazione del merito, da un Principe che disprezzava gl'intrighi del palazzo, ed i clamori de' soldati[320].
I trattati di pace venivano accompagnati e sostenuti dalle più vigorose preparazioni per la guerra. L'esercito, che Giuliano teneva pronto per agire immediatamente, fu reclutato ed accresciuto da' disordini de' tempi. La crudel persecuzione del partito di Magnenzio aveva riempito la Gallia di numerose truppe di banditi, e di ladri. Questi volentieri accettaron l'offerta d'un generale perdono da un Principe del quale potevan fidarsi, si sottomisero al rigore della militar disciplina, e non ritennero che un odio implacabile contro la persona e il governo di Costanzo[321]. Subito che la stagione permise d'entrare in campagna, egli comparve alla testa delle sue legioni; gettò un ponte sul Reno nelle vicinanze di Cleves; e si preparò a gastigar la perfidia degli Attuarj, tribù di Franchi, i quali supponevano di poter devastare impunemente le frontiere d'un Impero diviso. La difficoltà, e la gloria di quest'impresa consisteva in una faticosa marcia; e Giuliano ebbe vinto, subito che gli riuscì di penetrare in un luogo che gli antecedenti Principi avevano stimato inaccessibile. Dopo d'aver concessa la pace a' Barbari, l'Imperatore visitò diligentemente le fortificazioni lungo il Reno da Cleves a Basilea; esaminò con particolar attenzione i territorj, che avea ricuperati dalle mani degli Alemanni, passò per Besanzone[322], che aveva molto sofferto dal lor furore, e fissò il suo principal quartiere a Vienna per il seguente inverno. Fu migliorata e fortificata la frontiera della Gallia con nuove fortificazioni; e Giuliano aveva qualche speranza, che i Germani, da esso tante volto soggiogati, potessero in assenza di lui esser tenuti a freno dal terror del suo nome. Vadomair[323] era l'unico Principe degli Alemanni, ch'egli stimava o temeva; e mentre l'astuto Barbaro affettava d'osservar la fede de' trattati, il progresso delle sue armi minacciava lo Stato d'una inopportuna, e pericolosa guerra. La politica di Giuliano condiscese a sorprendere il Principe degli Alemanni con le sue proprie arti; e Vadomair, che sotto il carattere d'amico aveva incautamente accettato un invito da' Governatori Romani, fu arrestato nel mezzo del convito, e mandato prigioniero nel cuor della Spagna. Avanti che i Barbari fosser rinvenuti dalla lor sorpresa, l'Imperatore comparve armato sulle sponde del Reno, ed attraversato un'altra volta il fiume, rinnovò le profonde impressioni di terrore e di rispetto, che si eran già fatte da quattro precedenti spedizioni[324].
Gli Ambasciatori di Giuliano avevano avuto l'ordine d'eseguire colla massima diligenza l'importante lor commissione. Ma nel passar che fecero per l'Italia e l'Illirico fur trattenuti dalle tediose ed affettate dilazioni de' Governatori delle Province; furon condotti a lente giornate da Costantinopoli a Cesarea in Cappadocia; e quando finalmente vennero ammessi alla presenza di Costanzo, trovarono ch'egli avea già concepito da' dispacci de' suoi Uffiziali la più svantaggiosa opinione della condotta di Giuliano e dell'esercito Gallico. Si ascoltarono le lettere con impazienza; i tremanti Ambasciatori furono licenziati con ira e disprezzo; e gli sguardi, i gesti, ed il furioso linguaggio del Monarca esprimevano il disordine dell'animo suo. Il domestico vincolo, che avrebbe potuto riconciliare il fratello e il marito d'Elena, di fresco erasi sciolto per la morte di quella Principessa, di cui la gravidanza era stata più volte infruttuosa, ed alla fine riuscille fatale[325]. L'Imperatrice Eusebia avea conservato fino all'ultimo momento della sua vita il tenero, ed anche geloso affetto, che concepito avea per Giuliano; e la dolce di lei autorità avrebbe potuto moderare lo sdegno d'un Principe, che, dopo la morte di quella, s'era abbandonato alle proprie passioni, ed alle arti de' suoi eunuchi. Ma il timore d'una straniera invasione l'obbligò a sospendere il gastigo d'un nemico domestico; continuò la sua marcia verso i confini della Persia, e stimò sufficiente l'indicare le condizioni, che avrebber potuto render Giuliano ed i suoi rei seguaci, degni della clemenza dell'offeso loro Sovrano. Egli esigeva, che il presuntuoso Cesare espressamente rinunziasse il nome e la dignità d'Augusto, che ricevuto avea da' ribelli; che discendesse all'antico suo posto di limitato e dipendente ministro; che rimettesse le forze dello Stato, e dell'armata nelle mani degli Uffiziali, ch'erano deputati dalla Corte Imperiale; e che affidasse la propria salute alle assicurazioni di perdono, che si portavano da Epitteto, Vescovo Gallico, ed uno degli Arriani favoriti di Costanzo. Inutilmente si consumarono varj mesi in una negoziazione, che si trattava alla distanza di tremila miglia tra Parigi ed Antiochia; e quando Giuliano s'accorse, che il suo moderato e rispettoso contegno non serviva che ad irritare l'orgoglio d'un implacabil nemico, arditamente risolse di commetter la sua vita e il suo stato alla sorte d'una guerra civile. Diede una pubblica, e militar udienza al Questore Leonas; fu letta la superba lettera di Costanzo all'attenta moltitudine; e Giuliano si protestò con la più adulante deferenza, ch'egli era pronto a dimettere il titolo d'Augusto, se poteva ottenere il consenso di quelli ch'ei riguardava come autori della sua elevazione. La timida proposizione impetuosamente fu rigettata, e da ogni parte del campo nel tempo stesso rimbombarono queste acclamazioni «Giuliano Augusto, continua a regnare per l'autorità dell'esercito, del popolo e della Repubblica, che hai salvata», onde spaventato rimase il pallido Ambasciator di Costanzo. In seguito fu letta una parte della lettera, in cui l'Imperatore accusava l'ingratitudine di Giuliano, ch'esso aveva insignito dell'onor della porpora; che aveva educato con tanta cura, e tenerezza; che aveva difeso nella sua infanzia, quando ei restò un orfano senza soccorso; «Orfano!» interruppe Giuliano, che giustificava la propria causa nel tempo che soddisfaceva le sue passioni; «L'assassino di mia famiglia mi rinfaccia che io rimasi orfano? Egli mi spinge a vendicar quelle ingiurie, che lungamente ho procurato di porre in obblio». Fu licenziata l'assemblea; e Leonas, che s'era difficilmente difeso dal furor popolare, fu mandato al suo Signore con una lettera, in cui Giuliano esprimeva co' tratti della più veemente eloquenza i sentimenti d'ira, d'odio, e di disprezzo, ch'erano stati soppressi ed inveleniti dalla dissimulazione di venti anni. Dopo questa ambasceria, che si potè risguardare come il segno d'una irreconciliabile guerra, Giuliano, che poche settimane avanti avea celebrato la festa Cristiana dell'Epifania[326], fece una pubblica dichiarazione ch'egli commetteva la cura della sua salvezza ai Numi immortali; e così rinunziò pubblicamente alla religione, ugualmente che all'amicizia di Costanzo[327].
La situazione di Giuliano richiedeva una vigorosa, ed immediata risoluzione. Egli aveva scoperto per mezzo di lettere intercettate, che l'avversario, sacrificando l'interesse dello Stato a quello del Monarca, aveva di nuovo eccitato i Barbari ad invader le Province dell'Occidente. La disposizione di due magazzini, stabiliti uno sulle sponde del lago di Costanza, l'altro a piè delle Alpi Cozie, pareva che indicasse la marcia di due armate; e la grandezza di que' magazzini, ciascheduno de' quali conteneva seicentomila sacca di grano, o piuttosto farina[328], era una minacciante prova della forza, e del numero de' nemici che si preparavano a circondarla. Ma le legioni Imperiali erano sempre nelle distanti Province dell'Asia; il Danubio era guardato debolmente, e se Giuliano con una repentina invasione riusciva ad occupare le importanti Province dell'Illirico, poteva sperare che sarebbe corso a' suoi stendardi un popolo di soldati, e che le ricche miniere d'oro e d'argento che v'erano, avrebbero contribuito alle spese della guerra civile. Propose quest'audace impresa all'assemblea de' soldati; inspirò loro una giusta fiducia nel Generale ed in se stessi; e gli esortò a mantenere la propria riputazione di esser terribili a' nemici, moderati verso i propri concittadini, ed ubbidienti a' loro Uffiziali. L'animoso di lui discorso fu ricevuto con le più alte acclamazioni, e le medesime truppe, che avean prese le armi contro Costanzo, quando intimò loro di abbandonare la Gallia, ora dichiarano allegramente che avrebber seguitato Giuliano fino alle ultime estremità dell'Europa o dell'Asia. Fu dato loro il giuramento di fedeltà; ed i soldati, facendo strepito con gli scudi, e ponendosi la punta delle spade nude alla gola, si obbligarono con le più orride imprecazioni al servizio d'un Capitano, ch'essi celebravano come il liberator della Gallia ed il vincitor de' Germani[329]. A tal solenne obbligazione, che pareva dettata dall'affetto più che dal dovere, non si oppose che il solo Nebridio, ch'era stato ammesso all'Uffizio di Prefetto del Pretorio. Il fedele Ministro, solo e senz'aiuto, sostenne i diritti di Costanzo in mezzo ad un'armata e fervida moltitudine, al furor della quale poco mancò, che non restasse onorevolmente, ma invano sacrificato. Dopo che un colpo di spada gli ebbe troncata una mano, egli abbracciò le ginocchia del Principe, che aveva offeso. Giuliano cuoprì il Prefetto col suo manto Imperiale, e difendendolo dal zelo de' suoi seguaci, lo mandò alla propria casa con minor rispetto di quello ch'era forse dovuto alla virtù d'un nemico[330]. Il sublime posto di Nebridio fu dato a Sallustio; e le Province di Gallia, che allora si trovavan libere dall'intollerabile oppression delle tasse, goderono dell'equa e dolce amministrazione dell'amico di Giuliano, a cui permettevasi di praticar quelle virtù, che aveva instillato nell'animo del suo allievo[331].
Le speranze di Giuliano dipendevano assai meno dal numero delle truppe, che dalla celerità de' suoi movimenti. Nell'esecuzione d'un'ardita intrapresa, pose in opera ogni precauzione che suggerir potea la prudenza; e dove questa non poteva più accompagnare i suoi passi, affidò l'evento al valore, ed alla fortuna. Egli riunì, e divise il suo esercito[332] nelle vicinanze di Basilea. Ad un corpo di diecimila uomini, sotto il comando di Nevitta Generale di cavalleria, fu ordinato d'avanzarsi verso le parti mediterranee della Rezia e del Norico. Una simil divisione di truppe, sotto gli ordini di Giovio e di Giovino, si preparò a seguitare l'obbliquo corso delle pubbliche strade per le Alpi ed i confini settentrionali d'Italia. Le istruzioni pei Generali eran concepite con energia e precisione: di affrettare cioè la lor marcia in chiuse e serrate colonne, che secondo la disposizione del luogo potessero facilmente cangiarsi in qualunque ordine di battaglia; d'assicurarsi dalle sorprese notturne per mezzo di forti posti, e di vigilanti sentinelle; di prevenire la resistenza coll'inaspettato loro arrivo; e mediante la repentina partenza, eluder le osservazioni; di spargere una grande opinione delle loro forze, ed il terror del suo nome; e di riunirsi al loro Sovrano sotto le mura di Sirmio. Per se Giuliano avea riservato la parte dell'opera più straordinaria, e difficile. Scelse tremila bravi ed attivi volontari, e risolvè, come loro condottiero, di togliere ad essi qualunque speranza di ritirata. Alla testa di questa fedele truppa, senza timore gettossi nell'interno della Marciana, o sia della Foresta Nera, che nasconde la sorgente del Danubio[333], e per molti giorni restò incognito al Mondo il destin di Giuliano. Mediante la segretezza della sua marcia, e per la diligenza e vigore con cui operò, vinse ogni ostacolo; proseguì a viva forza il suo viaggio per monti e paludi, occupò i ponti, passò a nuoto i fiumi, non traviando mai dal retto suo corso[334], senz'avvertire se traversava territorj di Romani o di Barbari; e finalmente sboccò fra Vienna, e Ratisbona, in quel luogo appunto dove avea disegnato d'imbarcar le sue truppe sul Danubio. Mediante un ben concertato stratagemma, s'impossessò d'una flotta di legni leggieri[335], che ivi si trovava sulle ancore; l'assicurò di grosse provvisioni, sufficienti a saziare il non delicato e vorace appetito d'un esercito Gallico; ed arditamente s'abbandonò al corso del Danubio. Gli sforzi de' suoi marinari, che faticavano con diligenza continua, e la stabil costanza d'un vento favorevole, fecero progredir la sua flotta più di seicento miglia in undici giorni[336]; ed aveva già sbarcate le sue truppe a Bologna, distante non più di diciannove miglia da Sirmio, avanti che i nemici avessero alcuna certa notizia, ch'egli avea lasciate le rive del Reno. Nel corso di questa lunga e rapida navigazione l'animo di Giuliano era fisso nell'oggetto della sua intrapresa; e quantunque accettasse le deputazioni di alcune città, che s'affrettavano ad acquistare il merito d'una pronta sommissione, passò davanti alle fortezze nemiche situate lungo il fiume, senza cedere alla tentazione di segnalare un vano ed inopportuno valore. Le sponde del Danubio da una parte e dall'altra erano coronate di spettatori, che ammiravan la pompa militare, prevedevano l'importanza del fatto, e spargevan per le vicine regioni la fama d'un giovin Eroe, che s'avanzava con una velocità più che mortale alla testa delle innumerabili forze d'Occidente. Luciliano, che col grado di Generale di cavalleria comandava la milizia dell'Illirico, rimase agitato e perplesso dalle dubbiose relazioni, ch'ei non poteva nè rigettare, nè credere. Avea egli prese alcune lente ed irresolute misure ad oggetto di levar truppe, quando fu sorpreso da Dagalaifo, attivo Uffiziale, che Giuliano, appena sbarcato a Bologna, avea spedito avanti con qualche corpo d'infanteria leggiera. Il Generale prigioniero, incerto della vita o della morte, fu posto in fretta sopra un cavallo, e condotto alla presenza di Giuliano, che l'alzò cortesemente da terra, e sgombrò il terrore e la sorpresa, che sembrava avessero instupidite le sue potenze. Ma tosto che Luciliano ebbe ripreso lo spirito, dimostrò la sua mancanza di discernimento col pretendere d'ammonire il suo vincitore per essersi temerariamente arrischiato con un pugno di soldati ad esporre la sua persona in mezzo a' nemici. «Riserva coteste timide rimostranze al tuo Signore Costanzo», replicò con un sorriso di disprezzo Giuliano, «quando io ti ho dato a baciare la mia porpora, ti ho ricevuto come un supplichevole, non come un consigliero». Sapendo che il solo successo era quello che giustificar poteva il suo tentativo, e che il solo ardire poteva dominar sull'evento, immediatamente s'avanzò alla testa di tremila soldati ad attaccar la più forte e più popolata città delle Province Illiriche. Entrato nel lungo sobborgo di Sirmio, fu ricevuto dalle liete acclamazioni dell'esercito e del popolo, che coronato di fiori, e tenendo in mano fiaccole accese, conduceva all'Imperial sua residenza il proprio già riconosciuto Sovrano. Furono destinati due giorni alla pubblica gioia, che celebrossi co' giuochi del Circo; ma il terzo giorno di buon mattino Giuliano mosse ad occupare lo stretto passo di Succi nelle angustie del monte Emo, che posto quasi in mezzo fra Sirmio e Costantinopoli, separa fra loro le Province di Tracia e di Dacia, mediante una dirupata discesa verso la prima, ed un dolce declivo dalla parte dell'altra[337]. Fu affidata la difesa di questo importante luogo al bravo Nevitta, il quale non meno che i Generali della divisione Italiana, aveva con buon successo eseguito il piano della marcia e l'unione, che il loro Principe sì saviamente avea divisata[338].
L'omaggio, che ottenne Giuliano dal timore o dalla inclinazione del Popolo, s'estese molto al di là dell'immediato effetto delle sue armi[339]. S'amministravan le Prefetture d'Italia e d'Illirico da Tauro e da Florenzio, che univano quest'importante uffizio ai vani onori del consolato; e siccome que' Magistrati precipitosamente si ritirarono alla Corte d'Asia, Giuliano, che sempre non potea raffrenar la leggerezza del suo naturale, notò la lor fuga coll'aggiungere in tutti gli atti di quell'anno a' nomi de' due Consoli il titolo di fuggitivi. Le Province, che si trovarono abbandonate da' primi lor Magistrati, riconobber l'autorità di un Imperatore, che conciliando le qualità di soldato con quelle di filosofo, era ugualmente ammirato nei campi del Danubio, e nelle Città della Grecia. Dal suo palazzo, o piuttosto da' suoi generali quartieri di Sirmio e di Naisso, mandò alle principali Città dell'Impero un'elaborata apologia della sua condotta; pubblicò i segreti dispacci di Costanzo; e chiese il giudizio del genere umano fra due competitori, l'uno de' quali aveva espulsi, e l'altro chiamati i Barbari[340]. Giuliano, il cui animo era profondamente sensibile alla taccia d'ingratitudine, tendeva a conservare con gli argomenti, non meno che colle armi, la superiorità della sua causa, e ad esser eccellente non solo nell'arti della guerra, ma anche in quelle di scrivere. Sembra che la sua lettera al Senato ed al Popolo d'Atene[341] fosse dettata da un elegante entusiasmo, che gli faceva sottometter le proprie azioni e i motivi di esse a' degenerati Ateniesi de' suoi tempi, con quell'umile deferenza con cui avrebbe arringato, al tempo d'Aristide, avanti il Tribunale dell'Areopago. La sua richiesta al Senato di Roma, al quale tuttavia permettevasi di conferire i titoli dell'Imperial potestà, fu coerente alla forma d'una spirante Repubblica. S'intimò un'assemblea da Tertullo, Prefetto della Città; vi si lesse l'epistola di Giuliano; e siccome si vedeva, ch'egli era padrone d'Italia, i suoi diritti furono ammessi senza che alcun dissentisse. Con minor soddisfazione ascoltossi la sua indiretta censura delle innovazioni di Costantino, e l'appassionata invettiva contro i vizi di Costanzo, ed il Senato, come se Giuliano fosse stato presente, tutto insieme esclamò: «Rispettate, di grazia, l'Autore della vostra fortuna»[342]: artificiosa espressione, che si poteva interpretar differentemente secondo la sorte della guerra, o come una viril disapprovazione dell'ingratitudine dell'usurpatore, o come un'adulante confessione, che quel solo atto, di tanto vantaggio allo Stato, dovea servire a purgare tutti i difetti di Costanzo.
Immediatamente fu data notizia della marcia e del rapido progresso di Giuliano al suo rivale, che, mediante la ritirata di Sapore, aveva ottenuto qualche respiro dalla guerra Persiana. Mascherando l'angustia dell'animo suo coll'apparenza del disprezzo, Costanzo dichiarò la sua intenzione di tornare in Europa, e dar la caccia a Giuliano; giacchè non parlò mai di tal militare spedizione, che come d'una partita di caccia[343]. Nel campo di Gerapoli in Siria comunicò questo disegno all'esercito: toccò di volo la colpa e la temerità del Cesare, ed osò assicurare i soldati, che se gli ammutinati Galli ardivano di venir loro incontro nel campo, sarebbero stati incapaci di sostenere l'ardor de' lor occhi, e l'irresistibile forza de' loro clamori d'attacco. Si fece applauso militare al discorso dell'Imperatore; e Teodoto, Presidente del consiglio di Gerapoli, fece istanza con lacrime d'adulazione che la sua città venisse adornata del capo del soggiogato ribelle[344]. Fu spedito in carri di posta uno scelto distaccamento per assicurare, se fosse stato possibile, il passo di Succi; le reclute, i cavalli, le armi, ed i magazzini, che s'erano preparati contro Sapore, si applicarono all'uso della guerra civile, e le domestiche vittorie di Costanzo inspiravano a' suoi partigiani la più certa sicurezza di buon successo. Il notaro Gaudenzio aveva occupato in suo nome le Province dell'Affrica; fu intercettata la sussistenza di Roma; e s'accrebbe la strettezza di Giuliano per un inaspettato accidente, che avrebbe potuto produrre conseguenze fatali. Giuliano aveva accettato la sommissione di due legioni e d'una coorte d'arcieri, ch'erano di guarnigione a Sirmio; ma ebbe con ragione sospetto della fedeltà di quelle truppe, ch'erano state distinte dall'Imperatore; e fu creduto espediente, sotto pretesto che la frontiera di Gallia era esposta, d'allontanarle dalla scena più importante d'azione. Essi avanzarono con ripugnanza fino a' confini dell'Italia; ma temendo la lunghezza del viaggio e la barbara ferocia de' Germani, risolvettero, instigati da uno de' loro Tribuni, di fermarsi ad Aquileia, e d'innalzar sulle mura di quella inespugnabil città le bandiere di Costanzo. La vigilanza di Giuliano vide nel tempo stesso e l'estensione del male, e la necessità d'applicarvi un immediato rimedio. Giovino dunque ebbe l'ordine di condurre indietro una parte dell'esercito in Italia, e speditamente fu posto l'assedio ad Aquileia e proseguito con vigore. Ma i legionari, che pareva avessero scosso il giogo della disciplina, regolarono la difesa della piazza con perseveranza e sapere; invitarono il rimanente dell'Italia ad imitar l'esempio del coraggio e della fedeltà loro; e minacciarono d'impedire la ritirata di Giuliano, se mai si fosse trovato nella necessità di cedere al numero superiore delle armate di' Oriente[345].
Ma l'umanità di Giuliano fu liberata dalla crudele alternativa, di cui esso pateticamente dolevasi, di distrugger cioè, o d'esser distrutto; e l'opportuna morte di Costanzo risparmiò all'Impero le calamità della guerra civile. L'approssimarsi dell'inverno non potè ritenere il Monarca in Antiochia; ed i suoi favoriti non ardirono d'opporsi al suo desiderio di vendetta. Una lenta febbre, che forse fu cagionata dall'agitazione del suo spirito, s'accrebbe per le fatiche del viaggio; e Costanzo fu obbligato a fermarsi nella piccola Città di Mopsucrene, dodici miglia sopra Tarso, dove spirò dopo una breve malattia nel quarantesimo quinto anno della sua età, e nel ventesimo quarto anno del regno[346]. Si è pienamente spiegato nella precedente narrazione de' fatti, sì civili che ecclesiastici, il suo genuino carattere, ch'era composto d'orgoglio e di debolezza, di superstizione e di crudeltà. Il lungo abuso che fece del potere, lo rendè un oggetto considerabile agli occhi de' suoi contemporanei; ma siccome il solo merito personale può meritar la notizia della posterità, così l'ultimo tra' figli di Costantino può licenziarsi dal Mondo con l'osservazione ch'egli ereditò i difetti senza ereditare l'abilità del padre. Si dice, che Costanzo, avanti di spirare, nominasse per suo successore Giuliano; nè sembra impossibile, che l'ansiosa di lui premura per la sorte di una giovine e tenera moglie ch'ei lasciava gravida, potesse prevalere negli ultimi suoi momenti alle più aspre passioni della vendetta, e dell'odio. Eusebio ed i suoi rei compagni fecero un vano tentativo di prolungare il regno degli Eunuchi, mediante l'elezione d'un altro Imperatore, ma si rigettaron con disdegno i loro intrighi da un esercito, che allora abborriva il pensiero della discordia civile; e furono subito spediti due uffiziali d'alto grado ad assicurar Giuliano, che ogni spada nell'impero si sarebbe adoprata in servigio di lui. Furono prevenuti da questo fortunato accidente i militari disegni di quel Principe, che avea formato tre differenti attacchi contro la Tracia, e senza spargere il sangue de' suoi concittadini, egli evitò i pericoli d'un dubbioso combattimento, ed acquistò i vantaggi d'una compita vittoria. Impaziente di visitare il luogo della sua nascita, e la nuova Capitale dell'Impero, s'avanzò da Naisso per le montagne dell'Emo, e le città della Tracia. Quando giunse in Eraclea, alla distanza di sessanta miglia, tutta Costantinopoli uscì ad incontrarlo; ed egli fece il trionfale suo ingresso fra le rispettose acclamazioni de' soldati, del popolo, e del Senato. Una moltitudine innumerabile s'affollò intorno ad esso con ardente rispetto; e forse restò sorpresa quando vide la piccola statura, ed il semplice abito d'un Eroe, che nella sua inesperta gioventù aveva vinto i Barbari della Germania, e allora aveva traversato con un prospero corso tutto il continente d'Europa, da' lidi del mare Atlantico fino a quelli del Bosforo[347]. Pochi giorni dopo, allorchè fu sbarcato nel porto il corpo del defunto Imperatore, i sudditi di Giuliano applaudirono alla reale, o affettata umanità del loro Sovrano. A piedi, senza diadema, e vestito a lutto, egli accompagnò il funerale fino alla Chiesa de' santi Apostoli, dove fu depositato il cadavere; e se possono interpretarsi questi segni di rispetto, come un tributo fatto in riguardo di se stesso alla nascita ed alla dignità dell'Imperial suo cugino, le lacrime di Giuliano protestarono al Mondo ch'egli aveva dimenticato le ingiurie, e si rammentava solo delle obbligazioni, che professava a Costanzo[348]. Appena le legioni d'Aquileia furono assicurate della morte dell'Imperatore, aprirono le porte della città, e, col sacrifizio de' loro colpevoli Capi, ottennero un facil perdono dalla prudenza, o dalla mansuetudine di Giuliano, che nel trentesimo secondo anno della sua età acquistò l'intero possesso del Romano Impero[349].
La filosofia aveva insegnato a Giuliano a paragonare fra loro i vantaggi dell'azione e del ritiro; ma l'elevatezza della sua nascita, e gli accidenti della sua vita non gli lasciarono mai la libertà della scelta. Può essere ch'egli sinceramente avrebbe preferito i boschi dell'Accademia, o la società d'Atene; ma fu costretto a principio dalla volontà, ed in seguito dall'ingiustizia di Costanzo ad esporre la sua persona e la sua fama a' pericoli dell'Imperiale grandezza, ed a farsi mallevadore al Mondo ed alla posterità della felicità di milioni di uomini[350]. Giuliano rifletteva con terrore a quell'osservazione del suo maestro Platone[351] che il governo de' nostri armenti e de' nostri greggi si commette ad enti d'una specie superiore ad essi; e che la condotta delle nazioni meriterebbe, e richiederebbe le celesti facoltà degli Dei, o de' Genj. Da questo principio a ragione concludeva, che l'uomo il qual pretende di regnare, aspirar dovrebbe alla perfezione della natura divina; che dovrebbe purgare il suo spirito da ogni parte mortale e terrestre, estinguere i suoi appetiti, illuminar l'intelletto, regolar le passioni, e soggiogare la selvaggia fiera, che, secondo la viva metafora d'Aristotile[352], rare volte manca di salire il trono d'un despota. Il trono di Giuliano, che dalla morte di Costanzo fu stabilito sopra una indipendente base, era la sede della ragione, della virtù, e forse della vanità. Ei disprezzava gli onori, rinunziava a' piaceri, ed eseguiva con assidua diligenza i doveri dell'alto suo posto; e pochi vi sarebbero stati tra' suoi sudditi che avessero acconsentito ad alleggerirlo del peso del diadema, se fossero stati costretti a sottoporre il lor tempo e le loro azioni a quelle rigorose leggi, che il filosofico Imperatore imponeva a se stesso. Uno de' suoi più intimi amici[353], che aveva spesso partecipato della frugale semplicità di sua mensa ha osservato che il suo parco e leggiero cibo (ch'era per ordinario di vegetabili) lasciavagli lo spirito e il corpo sempre libero e attivo per eseguire le varie ed importanti incumbenze d'Autore, di Pontefice, di Magistrato, di Generale, e di Principe. In uno stesso giorno dava udienza a più Ambasciatori, e scriveva o dettava un gran numero di lettere a' Generali, ai Magistrati civili, a' suoi privati amici, ed alla diverse città de' suoi Stati. Ascoltava le suppliche che s'erano ricevute, considerava il soggetto della domanda, e indicava le sue intenzioni più rapidamente di quel che se ne potesse prender memoria dalla diligenza de' suoi segretari. Godeva tal flessibilità nel pensare, e tal fermezza d'attenzione, che impiegar poteva la mano a scrivere, l'orecchio ad udire, e la voce a dettare; e seguitare nel tempo stesso tre differenti serie d'idee, senza esitazione e senz'errore. Mentre i suoi ministri dormivano, il Principe agilmente passava da un lavoro all'altro; e dopo un frettoloso pranzo, ritiravasi nella sua libreria, finchè i pubblici affari, che aveva fissati per la sera, lo ritraessero dal proseguire i suoi studi. La cena dell'Imperatore era sempre di minor sostanza del primo cibo; il suo sonno non veniva mai ottenebrato da' fumi dell'indigestione; ed eccettuato il breve intervallo d'un matrimonio, che fu effetto della politica piuttosto che dell'amore, il casto Giuliano non divise mai il proprio letto con femminil compagnia[354]. Egli veniva presto svegliato dall'entrar che facevano i nuovi segretari, che avevan dormito il giorno avanti, ed i suoi servi eran obbligati a vegliare a vicenda, mentre l'instancabile padrone appena lor permetteva altro sollievo che quello di cangiare le occupazioni. Il zio di Giuliano, il fratello, ed il cugino, suoi antecessori, s'abbandonavano al puerile lor gusto per li giuochi del Circo sotto lo specioso pretesto di compiacere alle inclinazioni del Popolo; e spesso restavano la maggior parte del giorno come oziosi spettatori, e come facienti una parte dello splendido spettacolo, fintantochè non fosse compito l'ordinario giro di ventiquattro corse[355]. Nelle feste solenni, Giuliano, che sentiva e confessava un insolito disamore per questi frivoli divertimenti, condiscendeva a comparire nel Circo; e dopo aver gettato un non curante sguardo su cinque o sei corse, tosto si ritirava coll'impazienza d'un filosofo, che risguardava come perduto ogni momento, che non fosse consacrato al vantaggio del Pubblico, od al miglioramento del suo spirito[356]. Mediante quest'avarizia di tempo, sembra che prolungasse la breve durata del suo Regno; e se le date fossero stabilite con minor certezza, ricuseremmo di credere, che non passassero più di sedici mesi fra la morte di Costanzo, e la partenza del suo successore per la guerra Persiana. La diligenza dell'Istorico ha potuto sol conservarci le azioni di Giuliano; ma quella de' suoi voluminosi scritti, che tuttora sussiste, è un monumento dell'applicazione ugualmente che del genio dell'Imperatore. Il Misopogon, i Cesari, varie delle sue orazioni, e la sua elaborata opera contro la religione Cristiana furon composti nelle lunghe notti dei due inverni che passò, il primo a Costantinopoli, ed il secondo in Antiochia.
La riforma della Corte Imperiale fu uno de' primi, e più necessari atti del governo di Giuliano[357]. Appena entrato nel Palazzo di Costantinopoli, ebbe occasione di servirsi d'un barbiere. Gli si presentò subito un uffiziale, magnificamente vestito; «Ho bisogno d'un barbiere (esclamò il Principe con affettata sorpresa) non d'un ricevitor generale di Finanze[358] ». Dimandò a quest'uomo quanto gli rendesse il suo impiego; ed intese, che oltre un grosso salario, ed alcuni valutabili incerti, godeva una quotidiana prestazione per venti servi, ed altrettanti cavalli. Eran distribuiti, ne' varj uffizj di lusso, mille barbieri, mille coppieri, mille cuochi; e il numero degli Eunuchi non poteva paragonarsi che agl'insetti d'un giorno d'estate[359]. Il Monarca che abbandonava a' suoi sudditi la superiorità nel merito, e nella virtù, si distingueva mediante l'oppressiva magnificenza degli abiti, della tavola, degli edifizi, e del suo seguito. I superbi palazzi, eretti da Costantino e da' suoi figli, eran ornati di molti marmi di varj colori, e di finimenti d'oro massiccio. Si procuravano i cibi più squisiti per soddisfare la loro vanità piuttosto che il gusto: uccelli delle più remote regioni, pesci de' mari più distanti, frutti fuori delle stagioni lor naturali, rose d'inverno, e nevi d'estate[360]. La spesa della domestica turba del palazzo sorpassava quella delle legioni; eppure la minima parte di tal dispendiosa moltitudine serviva all'uso, o allo splendore del Trono. Veniva infamato il Monarca, ed offeso il popolo dall'instituzione e dalla vendita d'un numero infinito di oscuri impieghi, ed anche di semplice titolo, ed i più indegni tra gli uomini potevan acquistare il privilegio d'esser mantenuti, senza bisogno di lavorare, dalle pubbliche rendite. Le spoglie d'una enorme famiglia, l'ampiezza delle mancie e degl'incerti, che ben presto si pretendevano come legittimamente dovuti; e i doni ch'estorcevan da quelli, che ne temevano l'inimicizia, e ne sollecitavano il favore, facean presto arricchire questi orgogliosi servi. Essi abusavano della presente fortuna, senza riflettere alla passata o futura lor condizione; e la rapace venalità di costoro non poteva uguagliarsi che dalla stravaganza delle loro dissipazioni. Le vesti di seta che usavano, erano ricamate d'oro, le mense loro servite con delicatezza e con profusione; le case che fabbricavano per loro uso, avrebber occupato l'intiero fondo d'un antico Console; ed i più onorevoli Cittadini eran costretti a smontare da' loro cavalli e rispettosamente salutare un Eunuco, che avessero incontrato nella pubblica strada. Il lusso del palazzo eccitò il disprezzo e lo sdegno di Giuliano, che ordinariamente dormiva sulla terra, che cedeva con ripugnanza a' bisogni indispensabili della natura, e che faceva consister la sua vanità non già in emulare, ma in disprezzar la pompa reale. Mediante la total estirpazione d'un male, che veniva magnificato anche oltre i suoi veri confini, egli era impaziente di sollevare le angustie, e di quietare i romori del popolo, che tollera con minor dispiacere il peso delle tasse, quando è convinto che i frutti della propria industria s'impiegano in servizio dello Stato. Ma nell'esecuzione di quest'opera salutare, viene accusato Giuliano d'aver proceduto con troppa fretta, e con inconsiderato rigore. Con un solo editto ridusse il palazzo di Costantinopoli ad un immenso deserto, ed ignominiosamente licenziò l'intiero treno degli schiavi, e dei dipendenti[361], senza fare alcuna giusta, o almeno benefica eccezione in favor dell'età, de' servigi, della povertà, e de' fedeli domestici della Famiglia Imperiale. Tale in fatti era l'indole di Giuliano, che rare volte si rammentava di quella fondamental massima d'Aristotile, che la vera virtù si trova in egual distanza fra gli opposti vizi. Lo splendido ed effeminato vestir degli Asiatici, i ricci ed il liscio, le collane e gli anelli che parevan tanto ridicoli nella persona di Costantino, furono costantemente rigettati dal filosofico di lui successore. Ma Giuliano, insieme colle superfluità, affettava di non curare neppur la decenza del vestire; e pareva che si facesse un pregio di trascurar le leggi della pulizia. In un'opera satirica, destinata per comparire al pubblico, l'Imperatore decanta con piacere, ed eziandio con vanità la lunghezza dello sue ugne, ed il color d'inchiostro delle sue mani; dichiara, che sebbene la maggior parte del suo corpo fosse coperta di peli, l'uso del rasoio era limitato al solo suo capo; e vanta con visibile compiacenza l'irsuta, e popolata[362] barba, ch'egli ad esempio de' Greci filosofi amava teneramente. Se Giuliano consultato avesse i puri dettami della ragione, il primo Magistrato de' Romani avrebbe deriso l'affettazione di Diogene egualmente che quella di Dario.
Ma sarebbe restata imperfetta l'opera della pubblica riforma, se Giuliano soltanto avesse corretto gli abusi, senza punire i delitti del regno del suo predecessore. «Noi siamo adesso maravigliosamente liberati» dic'egli in una lettera famigliare ad uno de' suoi intimi amici «dalle fauci voraci dell'Idra[363]. Io non intendo d'applicar quest'epiteto al mio fratello Costanzo. Esso non è più; possa la terra esser leggiera sopra il suo capo! Ma gli artificiosi e crudeli suoi favoriti procuravano d'ingannare e di inasprire un Principe, di cui non può lodarsi la natural dolcezza senza qualche sforzo d'adulazione. Ciò nonostante non è mia intenzione, che anche questi uomini vengan oppressi; sono essi accusati, e goderanno il vantaggio d'un giusto imparziale processo». Per dirigere quest'esame, Giuliano deputò sei Giudici del più alto grado nello Stato, o nell'esercito; e siccome desiderava d'evitar la taccia di condannare i suoi personali nemici, stabilì a Calcedonia sulla parte Asiatica del Bosforo quel tribunale straordinario; e diede a' Commissari un assoluto potere di pronunziare, e d'eseguire la lor sentenza definitiva senza dilazione e senz'appello. S'esercitò l'uffizio di presidente dal venerabil Prefetto Orientale, secondo Sallustio[364]. Le sue virtù gli conciliaron la stima dei Greci sofisti, e de' Vescovi Cristiani. Fu egli assistito dall'eloquente Mammertino[365], uno de' Consoli eletti, di cui altamente si celebra il merito dalla dubbiosa testimonianza del suo proprio applauso. Ma il sapere civile de' due Magistrati fu contrabbilanciato dalla feroce violenza de' quattro Generali Nevitta, Agilone, Giovino ed Arbezione. Quest'ultimo, che il Pubblico avrebbe veduto con minor maraviglia a' cancelli, che sul tribunale, si supponeva che avesse il segreto della commissione. Circondavano il Tribunale gli armati ed ardenti Capitani delle bande Gioviana, ed Erculea; ed i Giudici eran dominati a vicenda dalle leggi della giustizia, e da' clamori della fazione[366].
Il ciamberlano Eusebio, che aveva per tanto tempo abusato del favor di Costanzo, espiò con una ignominiosa morte l'insolenza, la corruzione, e la crudeltà del servile suo regno. L'esecuzioni di Paolo e d'Apodemio (il primo de' quali fu bruciato vivo) si riceveron come una non adeguata espiazione dalle vedove e dagli orfani di tante centinaia di Romani, che que' legali tiranni avevan traditi e posti a morte. Ma la giustizia medesima (se è permesso d'usare la patetica espressione d'Ammiano[367] ), parve che piangesse il fato d'Ursulo, tesorier dell'Impero, ed il suo sangue accusò l'ingratitudine di Giuliano, di cui si eran opportunamente sollevate le strettezze dall'intrepida liberalità di quell'onesto ministro. Il furor dei soldati, che egli aveva irritati con la sua indiscretezza, fu la causa e la scusa della sua morte, e l'Imperatore, profondamente colpito da' propri rimorsi e da quelli del pubblico, diede qualche conforto alla famiglia d'Ursulo, mediante la restituzione de' confiscati suoi beni. Avanti la fine dell'anno, in cui vennero decorati delle insegne della Pretura e del Consolato[368], Tauro e Florenzio ridotti furono ad implorar la clemenza dell'inesorabil tribunale di Calcedonia. Il primo fu bandito a Vercelli in Italia, e contro il secondo fu pronunziata sentenza di morte. Un Principe saggio avrebbe premiato il delitto di Tauro. Il fedel ministro, quando non fu più capace d'opporsi al progresso d'un ribelle, erasi rifuggito nella Corte del suo benefico e legittimo Principe. Ma la colpa di Florenzio giustificò il rigore de' giudici; e la sua fuga servì a manifestare la magnanimità di Giuliano, che nobilmente frenò l'interessata diligenza di un delatore, e ricusò di sapere qual luogo celasse il misero fuggitivo dal giusto suo sdegno[369]. Alcuni mesi dopo che fu disciolto il tribunale di Calcedonia, furono decapitati in Antiochia il Vicario pretorio d'Affrica, il notaro Gaudenzio ed Artemio[370] duce d'Egitto. Artemio aveva dominato da corrotto e crudel tiranno sopra una gran provincia; Gaudenzio avea lungamente praticato le arti della calunnia contro gl'innocenti, i virtuosi, ed eziandio contro la persona di Giuliano medesimo. Pure furono così mal maneggiate le circostanze del processo e della condanna loro, che questi malvagi uomini ottennero nella pubblica opinione la gloria di patire per l'ostinata fedeltà, con cui sostenuto avevan la causa di Costanzo. Gli altri suoi servi furon difesi da un atto di generale obblivione; e fu lasciato che impunemente godessero i doni, che aveano accettati o per difender gli oppressi, o per opprimere i nemici. Quest'atto, che secondo i più alti principj di politica può meritar la nostra approvazione fu eseguito in un modo, che parve degradasse la maestà del trono. Giuliano era tormentato dalle importunità d'una moltitudine, in particolare d'Egiziani, che altamente richiedevano i doni, che per imprudenza o illegittimamente avean fatti; egli previde la infinita catena di vessanti liti; e s'obbligò con una promessa, che avrebbe sempre dovuto essere inviolabile, che se fossero essi comparsi a Calcedonia, avrebbe ascoltato in persona, e decise le loro querele. Ma tosto che furono sbarcati, mandò un ordine assoluto che vietava a' marinari di trasportare a Costantinopoli Egizio veruno; e così ritenne i suoi sconcertati clienti sul lido Asiatico, finchè dopo d'aver esausta tutta la lor pazienza, e il denaro, furon costretti a tornare con isdegnosi lamenti al nativo loro paese[371].
Il numeroso esercito di spie, di agenti, e di delatori, ascoltati da Costanzo per assicurare il riposo di un uomo solo, e per turbar quello di milioni d'uomini, fu immediatamente disperso dal generoso di lui successore. Giuliano era lento ne' sospetti, e mite nelle pene, ed il suo disprezzo de' tradimenti era un risultato di giudizio, di vanità e di coraggio. Sapendo di avere un preminente merito, egli era persuaso che pochi fra' suoi sudditi avrebbero ardito d'affrontarlo in campo, d'insidiar la sua vita, o anche di occupare il vacante suo trono. Come filosofo potea scusare le precipitate imprudenze del malcontento; e com'Eroe potea disprezzar gli ambiziosi progetti, che sorpassavano la fortuna o l'abilità di temerari cospiratori. Un cittadino d'Ancira s'era preparato un abito di porpora; e questa imprudente azione, che sotto il regno di Costanzo si sarebbe risguardata come un delitto capitale[372], fu riferita a Giuliano dall'officiosa importunità d'un privato nemico. Il Monarca, fatta qualche ricerca intorno al grado ed al carattere del suo rivale, rimandò l'accusatore col presente d'un paio di scarpe di porpora per compir la magnificenza dell'Imperiale sua veste. Si formò una cospirazione più pericolosa da dieci guardie domestiche, le quali avean risoluto di ammazzar Giuliano nel campo degli esercizi vicino ad Antiochia. La loro intemperanza rivelò il delitto; ed essi furon condotti in catene alla presenza dell'ingiuriato loro Sovrano, che dopo una viva rappresentazione della malvagità e follìa di loro intrapresa, invece d'una tormentosa morte ch'essi meritavano ed aspettavano, pronunziò la sentenza d'esilio contro i due rei principali. L'unico fatto in cui parve che Giuliano si scostasse dalla solita sua clemenza, fu la esecuzione d'un temerario giovane, che aspirato aveva con una debole mano a prender le redini dell'Impero. Ma questo giovane era figlio di Marcello, Generale di cavalleria, che nella prima campagna della guerra Gallica avea disertato dalle bandiere di Cesare e della Repubblica. Senz'apparire di secondare il personale suo sdegno, Giuliano potea facilmente confondere il delitto del figlio e del padre; ma fu acquietato dal dolore di Marcello, e la generosità dell'Imperatore procurò di medicar la ferita ch'era stata fatta dalla mano della giustizia[373].
Giuliano non era insensibile a' vantaggi della libertà[374]. Mercè de suoi studi aveva succhiato lo spirito degli antichi Saggi ed Eroi; la sua vita e fortuna era stata sottoposta al capriccio d'un tiranno; e quando salì sul trono, la sua vanità veniva qualche volta mortificata dalla riflessione che schiavi, i quali non avessero ardito di censurare i suoi difetti, non erano degni d'applaudire alle sue virtù[375]. Egli sinceramente abborriva il sistema d'oriental dispotismo, che Diocleziano, Costantino, e la paziente abitudine d'ottanta anni avevano stabilito nell'Impero. Un motivo di superstizione lo distornò da eseguire il disegno, che più volte avea meditato, di sgravare il suo capo dal peso d'un grave diadema[376]: ma ricusò assolutamente il titolo di Dominus o di Signore[377], voce, ch'era diventata sì famigliare agli orecchi de' Romani, che non si ricordavano più della servile ed umiliante sua origine. S'amava l'uffizio o piuttosto il nome di Console da un Principe, che contemplava con rispetto le rovine della Repubblica; e l'istesso contegno, che Augusto aveva tenuto per prudenza, fu da Giuliano adottato per scelta e per inclinazione. Nelle calende di Gennaio, allo spuntar del giorno, i nuovi Consoli, Mammertino e Nevitta, s'affrettarono d'andare al palazzo per salutare l'Imperatore. Tosto che fu informato del loro arrivo, scese dal trono, s'avanzò in fretta ad incontrarli, e costrinse i Magistrati, pieni di rossore, a ricevere le dimostrazioni della sua affettata umiltà. Dal palazzo si portarono al Senato. L'Imperatore andò a piedi avanti alle loro lettighe, e la moltitudine, osservandolo, ammirava l'immagine dei tempi antichi, ovvero segretamente biasimava una condotta che a' lor occhi avviliva la maestà della porpora[378]. Ma il contegno di Giuliano fu sostenuto con uniformità. Nel tempo de' giuochi del Circo egli aveva, o a caso, o premeditatamente, fatta la manumissione d'uno schiavo alla presenza del Console. Ma quando si sovvenne d'aver invasa la giurisdizione di un altro Magistrato, si condannò al pagamento di dieci libbre d'oro; e prese quest'occasione, per dichiarar pubblicamente al Mondo, ch'egli era soggetto come gli altri suoi concittadini, alle leggi[379] ed anche alle formalità della Repubblica. Lo spirito della sua amministrazione ed il riguardo ch'ebbe al luogo della sua nascita, mossero Giuliano a conferire al Senato di Costantinopoli gli stessi onori, privilegi, ed autorità, che tuttavia si godevano dal Senato dell'antica Roma[380]. Fu introdotta, ed appoco appoco stabilita una finzione legale, che la metà del consiglio nazionale fosse passata in Oriente; e i dispotici successori di Giuliano, accettando il titolo di Senatori, si riconoscevano membri d'un rispettabile Corpo, a cui era permesso di rappresentare la maestà del nome Romano. Da Costantinopoli s'estese l'attenzion del Monarca a' Senati Municipali delle Province. Abolì con più editti le ingiuste e perniciose esenzioni, che avevano tolto tanti oziosi cittadini al servigio della patria; ed imponendo una distribuzione eguale di pubblici tributi, restituì la forza, lo splendore, o secondo la viva espression di Libanio[381], l'anima alle spiranti città dell'Impero. La venerabile antichità della Grecia eccitava nell'animo di Giuliano la più tenera compassione; egli si sentiva rapire, quando si rammentava degli Dei, degli Eroi, e degli uomini superiori agli Eroi ed agli Dei, che avevan lasciato all'ultima posterità i monumenti del loro genio, e l'esempio delle loro virtù. Sollevò le angustie, e restituì la bellezza alle città d'Epiro, e del Peloponeso[382]. Atene lo riconobbe per suo benefattore; Argo per liberatore. L'orgoglio di Corinto, che risorgeva dalle sue rovine con gli onori di colonia Romana, esigeva un tributo dalle vicine Repubbliche per le spese de' giuochi dell'Istmo, che si celebravano nell'anfiteatro con la caccia di orsi, e pantere. Le città d'Elide, di Delfo, e d'Argo, le quali avevano ereditato da' remoti loro Maggiori il sacro uffizio di perpetuare i giuochi Olimpici, Pitj, e Nemei, pretendevano una giusta esenzione da questo tributo. I Corintj rispettarono l'immunità d'Elide, e di Delfo; ma la povertà d'Argo tentò l'insolenza della oppressione, e fu imposto silenzio alle deboli querele de' suoi deputati dal decreto d'un Magistrato provinciale, che pare avesse consultato soltanto l'interesse della capitale in cui risiedeva. Sette anni dopo questa sentenza, Giuliano[383] concesse che la causa fosse rivista in un tribunal superiore; e s'interpose la sua eloquenza, molto probabilmente con successo felice, in difesa d'una città ch'era stata la sede reale d'Agamennone[384], ed avea dato alla Macedonia una stirpe di conquistatori e di Re[385].
La faticosa amministrazione degli affari militari e civili, ch'eran moltiplicati a misura dell'estensione dell'Impero, esercitò l'abilità di Giuliano; ma egli di più frequentemente assumeva i caratteri di Oratore[386], e di Giudice[387], che son quasi incogniti a' moderni Sovrani d'Europa. Le arti della persuasione, sì diligentemente coltivate da' primi Cesari, si trascurarono dalla militar ignoranza e dall'Asiatico orgoglio de' lor successori; e se condiscendevano ad arringare i soldati, ch'essi temevano, trattavan con tacito orgoglio i Senatori, che disprezzavano. Le assemblee del Senato, che s'erano evitate da Costanzo, si risguardarono da Giuliano come il luogo dove spiegar potesse con la maggior decenza le massime di un repubblicano, ed i talenti di un retore. Alternativamente praticava, come in una scuola di declamazione, le varie maniere di lode, di censura, di esortazione; ed il suo amico Libanio ha osservato, che lo studio d'Omero insegnogli ad imitare il semplice e conciso stile di Menelao, la copia di Nestore, di cui le parole cadevano come fiocchi di neve nell'inverno, o la forte e patetica eloquenza d'Ulisse. Le funzioni di Giudice, che sono alle volte incompatibili con quelle di Principe, s'esercitavano da esso non solo come un dovere, ma eziandio come un divertimento; e sebbene potesse fidarsi dell'integrità, e del discernimento de' suoi Prefetti del Pretorio, spesso tuttavia ponevasi loro a lato sul tribunale. L'acuta penetrazione della sua mente piacevolmente s'occupava in discoprire, ed abbattere i cavilli degli Avvocati, che si studiavano di mascherare la verità de' fatti, e di pervertire il senso delle leggi. Qualche volta per altro dimenticò la gravità del suo posto, fece questioni indiscrete o inopportune, e dimostrò coll'alto suo tuono di voce, e coll'agitazione del corpo l'ardente veemenza con cui sosteneva la sua opinione contro i Giudici, gli Avvocati e i loro clienti. Ma la cognizione che avea del proprio temperamento, fece sì che incoraggiasse, ed anche sollecitasse la riprensione de' suoi ministri ed amici; ed ogni volta ch'essi osavano d'opporsi all'impeto sregolato di sue passioni, gli spettatori poterono osservare il rossore, ugualmente che la riconoscenza del loro Monarca. I decreti di Giuliano eran quasi sempre appoggiati a' principi di giustizia; ed egli avea la fermezza di resistere alle più pericolose tentazioni, che assalgono il tribunal d'un Sovrano sotto le speciose apparenze di compassione, e d'equità. Decideva il merito della causa senza pesare le circostanze delle parti; ed il povero, ch'esso desiderava di sollevare, veniva condannato a soddisfar le giuste domande di un nobile e ricco avversario. Distingueva con esattezza il giudice dal legislatore[388]; e quantunque meditasse di fare una riforma necessaria alla Romana Giurisprudenza, pure pronunziava le sentenze secondo la stretta e letterale interpretazione di quelle leggi, che i magistrati obbligati erano ad eseguire, ed i sudditi ad osservare.
In generale, se i Principi, spogliati della porpora, fosser gettati nudi nel Mondo, essi cadrebbero immediatamente nella classe più bassa della società, senza speranza d'uscire dall'oscurità loro. Ma il merito personale di Giuliano era in qualche modo indipendente dalla sua fortuna. Qualunque genere di vita avesse egli scelto, per la forza dell'intrepido suo coraggio, dello spirito vivace, e dell'intensa applicazione, avrebbe ottenuto, o almeno meritato i più alti onori della professione, che avesse abbracciato. Giuliano avrebbe potuto per se stesso innalzarsi al grado di Ministro o di Generale in quello Stato, in cui fosse nato privato cittadino. Se il geloso capriccio del potere avesse deluso le sue speranze; o s'egli avesse prudentemente deviato dal sentiero della grandezza, l'uso degli stessi talenti in una studiosa solitudine avrebbe posto la sua felicità presente e la sua fama immortale al di sopra della giurisdizione dei Re. Quando noi guardiamo con minuta, o forse malevola attenzione il ritratto di Giuliano, sembra che manchi qualche cosa alla grazia, e perfezione dell'intiera figura. Il suo genio era meno potente e sublime di quello di Cesare, nè possedeva la consumata prudenza d'Augusto; le virtù di Traiano appariscono più stabili e naturali, e la filosofia di Marco è più semplice e soda. Nondimeno Giuliano sostenne l'avversità con fermezza, e la prosperità con moderazione. Dopo lo spazio di centoventi anni dalla morte d'Alessandro Severo, i Romani videro un Imperatore, che non distingueva i propri doveri da' suoi piaceri; che procurava di sollevare le angustie, e di far risorgere lo spirito de' suoi sudditi; e che cercava sempre d'unire l'autorità con il merito e la felicità con la virtù. Anche la fazione, e la fazion religiosa fu costretta a riconoscere la superiorità del suo genio in pace ed in guerra, ed a confessare sospirando, che l'apostata Giuliano fu amante della sua patria, e meritò l'Impero del Mondo[389].
CAPITOLO XXIII.
Religione di Giuliano. Tolleranza universale. Tenta di restaurare il culto Pagano: di rifabbricare il tempio di Gerusalemme. Persecuzione artificiosa de' Cristiani. Zelo ed ingiustizia vicendevole. Il carattere d'Apostata ha oltraggiato la riputazione di Giuliano; e l'entusiasmo, che ne adombrò le virtù, ha esagerato la reale o apparente grandezza de' suoi difetti. La nostra parziale ignoranza ce lo può rappresentare come un filosofo Sovrano, che procurò di proteggere con ugual favore le religiose fazioni dell'Impero, e mitigare la teologica febbre, che aveva infiammato le menti del popolo, dagli editti di Diocleziano sino all'esilio d'Atanasio. Un esame però più accurato del carattere e della condotta di Giuliano ci toglierà questa favorevole prevenzione per un Principe, che non fu esente dal general contagio de' suoi tempi. Abbiamo il singolar vantaggio di poter confrontare fra loro le pitture, che ne sono state fatte, sì da' suoi più appassionati ammiratori, che dagl'implacabili suoi nemici. Le azioni di Giuliano son fedelmente riferite da un giudizioso e candido Istorico, imparziale spettatore della vita e della morte di esso. L'unanime testimonianza de' suoi contemporanei viene confermata dalle pubbliche e private dichiarazioni dell'Imperatore medesimo; ed i suoi varj scritti esprimono l'uniforme tenore de' religiosi sentimenti di lui, che la politica avrebbe dovuti fargli piuttosto dissimulare che affettare. Un divoto e sincero attaccamento agli Dei d'Atene e di Roma formava la dominante passion di Giuliano[390]; le facoltà d'un intelletto illuminato furon tradite e corrotte dalla forza d'un superstizioso pregiudizio; ed i fantasmi, ch'esistevano soltanto nella mente dell'Imperatore, produssero un reale e pernicioso effetto sul governo dell'Impero. Il veemente zelo de' Cristiani, che disprezzavano il culto, e rovesciavan gli altari di quelle favolose divinità, trasse il loro devoto in uno stato d'irreconciliabile ostilità con una numerosa porzione di sudditi; ed egli fu qualche volta tentato dal desiderio della vittoria, dalla vergogna della ripulsa, a violar le leggi della prudenza ed anche della giustizia. Il trionfo del partito, ch'egli abbandonò ed a cui s'oppose, ha stampato una macchia d'infamia sul nome di Giuliano; ed il disgraziato Apostata è stato oppresso da un torrente di pie invettive, il segnal delle quali fu dato dalla sonora tromba[391] di Gregorio Nazianzeno[392]. L'interessante natura degli avvenimenti, ammucchiati nel breve regno di quest'operativo Imperatore, merita una giusta e circostanziata narrazione. I motivi, i consigli e le azioni del medesimo, in quanto sono connesse coll'istoria della religione, formeranno il soggetto del presente capitolo.
Può esser derivata la causa della strana e fatale apostasia di Giuliano dal tempo della sua più tenera età, in cui restò orfano nelle mani degli uccisori di sua famiglia. S'associarono tosto i nomi di Cristo e di Costanzo, le idee di schiavitù e di religione in una giovenil immaginativa, suscettibile delle più vive impressioni. Fu affidata la cura della sua puerizia ad Eusebio Vescovo di Nicomedia[393], che gli era congiunto per parte di madre; e fino all'età di vent'anni ricevè da' Cristiani suoi precettori l'educazione non già da eroe, ma da santo. L'Imperatore, meno geloso della corona celeste, che della terrena, si contentava dell'imperfetto carattere di catecumeno, mentre largiva i vantaggi del battesimo[394] a' nipoti di Costantino[395]. I quali furono ammessi fino agli uffizi minori dell'Ordine ecclesiastico; e Giuliano pubblicamente lesse le sacre scritture nella Chiesa di Nicomedia. Lo studio della religione, che assiduamente facevano, parve che producesse i più bei frutti di fede e di devozione[396]. Essi pregavano, digiunavano, dispensavano elemosine a' poveri, doni al Clero, ed oblazioni alle tombe de' martiri, e lo splendido monumento di S. Mamas a Cesarea fu eretto, o almeno intrapreso, congiuntamente per opera di Gallo e di Giuliano[397]; conversavan rispettosamente co' Vescovi più eminenti per la lor santità, e chiedevano la benedizione a' Monaci ed agli eremiti, che avevano introdotto in Cappadocia i volontari travagli della vita ascetica[398]. A misura che i due Principi s'avanzavano verso la virilità, dimostravano ne' religiosi lor sentimenti la differenza de' loro caratteri. Il tardo ed ostinato ingegno di Gallo con implicito zelo abbracciò le dottrine del Cristianesimo, che non influirono mai sulla sua condotta, nè moderarono le sue passioni. La mansueta indole del fratello minore fu meno ripugnante a' precetti del Vangelo, e la sua attiva curiosità potè restar soddisfatta da un sistema teologico, che spiega la misteriosa essenza di Dio, ed apre un infinito prospetto d'invisibili e futuri Mondi. Ma l'indipendente spirito di Giuliano ricusò di cedere alla passiva ed irresistente obbedienza, ch'esigevasi a nome della Religione dagli altieri Ministri della Chiesa. Imponevano essi le loro speculative opinioni come leggi positive, sostenute da terrori di eterne pene; ma mentre prescrivevano il rigido formulario de' pensieri, delle parole, e delle azioni del giovane Principe; mentre facevan tacere le sue obbiezioni; e severamente frenavan la libertà delle sue ricerche, segretamente provocavano l'impaziente suo ingegno a ricusar l'autorità delle sue ecclesiastiche guide. Era egli educato nell'Asia Minore fra gli scandali della controversia Arriana[399]. Le fiere contese de' Vescovi Orientali, le continue alterazioni de' loro simboli ed i motivi profani, che sembravano agire sulla lor condotta, insensibilmente fortificarono il pregiudizio di Giuliano, che essi non intendessero nè credessero la Religione, per la quale sì ardentemente combattevano. In vece di dar orecchio alle prove del Cristianesimo con quella favorevole attenzione che aggiunge peso alla testimonianza più rispettabile, egli ascoltava con sospetto, poneva in dubbio con ostinazione ed acutezza le dottrine, per le quali aveva già concepito un'avversione invincibile. Ogni volta che si faceva comporre ai giovani Principi qualche declamazione sopra le controversie allora correnti, Giuliano si dichiarava sempre avvocato del Paganesimo sotto lo spezioso pretesto, che la sua dottrina o cultura si sarebbe esercitata e spiegata più vantaggiosamente in difesa della causa più debole.
Appena Gallo fu investito dell'onor della porpora, venne permesso a Giuliano di respirar l'aria della libertà, della letteratura, e del Paganesimo[400]. La schiera de' sofisti, ch'erano attratti dal gusto e dalla liberalità del loro Allievo reale, avea formato una stretta lega fra il sapere e la religione della Grecia; ed i poemi d'Omero, invece d'esser ammirati come originali produzioni dell'ingegno umano, venivano seriamente attribuiti alla celeste inspirazione d'Apollo e delle Muse. Le deità dell'Olimpo, quali sono dipinte dal vate immortale, s'imprimono nelle menti anche le meno portate alla superstiziosa credulità. La famigliar cognizione, che abbiamo de' loro nomi e caratteri, le loro forme ed attributi, pare che diano a questi aerei soggetti una reale e sostanzial esistenza, ed il piacevol incanto produce un imperfetto e momentaneo assenso dell'immaginazione a quelle favole, che sono le più ripugnanti alla nostra ragione ed esperienza. Nell'età di Giuliano i magnifici tempj della Grecia e dell'Asia; le opere di quegli artefici, che avevano espresso colla pittura o colla scultura i divini concetti del Poeta; la pompa delle feste e de' sacrifizj; le arti fortunate della divinazione; le popolari tradizioni degli oracoli e de' prodigi, l'antica pratica di duemila anni, ogni circostanza in somma contribuiva ad accrescere e fortificar l'illusione. La debolezza del politeismo era in qualche modo scusata dalla moderazione di ciò che esigeva, e la devozione de' Pagani non era incompatibile col più libero scetticismo[401]. Invece d'un indivisibile e regolar sistema che occupa tutta l'estensione della mente che crede, la mitologia de' Greci era composta di mille sciolte e flessibili parti, ed il servo degli Dei poteva liberamente determinare il grado e la misura della religiosa sua fede. Il simbolo che Giuliano adottò per suo uso, aveva le più ampie dimensioni; e, per una strana contraddizione, sdegnò il giogo salutare del Vangelo, mentre fece una volontaria offerta della sua ragione su gli altari di Giove e d'Apollo. Una delle orazioni di Giuliano è consacrata in onore di Cibele, madre degli Iddii, ch'esigeva dagli effeminati sacerdoti suoi il sanguinoso sacrifizio, sì temerariamente fatto dalla pazzia del fanciullo di Frigia. Il pio Imperatore condiscende fino a riferire senza rossore e senza riso il viaggio della Dea da' lidi di Pergamo all'imboccatura del Tevere, e lo stupendo miracolo, che convinse il Senato ed il Popolo di Roma che il pezzo di terra, che i loro ambasciatori avean trasportato sul mare, avea vita e sentimento e divino potere[402]. Per la verità di tal prodigio egli si appella a' pubblici monumenti della città, e censura, con qualche acrimonia, l'infermo ed affettato gusto di quelli, che impertinentemente deridono le sacre tradizioni de' loro Maggiori[403].
Ma il devoto Filosofo, che sinceramente abbracciava, e caldamente incoraggiava la superstizione del popolo, a se stesso riservava il privilegio di una libera interpretazione; e passava in silenzio dal piè dell'altare all'interior santuario del Tempio. La stravaganza della Greca mitologia proclamava con chiara ed intelligibile voce, che il pio investigatore invece di scandalizzarsi, o soddisfarsi del senso letterale, dovesse diligentemente esplorar la occulta sapienza che s'era nascosta dalla prudenza dell'Antichità sotto la maschera della favola e della follia[404]. I Filosofi della scuola Platonica[405], Plotino, Porfirio, ed il divino Jamblico erano ammirati come i più dotti maestri di quest'allegorica scienza, che cercava di mitigare, e di render coerenti le deformi fattezze del Paganesimo. Giuliano medesimo, che fu diretto nella misteriosa ricerca da Edesio, venerabile successore di Jamblico, aspirava al possesso d'un tesoro, che (se dee credersi alle sue solenni asserzioni) egli stimava molto più dell'Impero del Mondo[406]. In fatti era un tesoro che traeva il suo valore solo dall'opinione; ed ogni artefice che si lusingava d'aver estratto il prezioso metallo dalle scorie che lo circondavano, avea un egual diritto di dargli la figura ed il nome, che più piaceva alla sua particolar fantasia. La favola d'Ati e di Cibele s'era già spiegata da Porfirio; ma le sue fatiche non servirono che ad animar la pietosa industria di Giuliano, che inventò e pubblicò la nuova sua allegoria di quella mistica ed antica favola. Questa libertà d'interpretazione, che parea soddisfare l'orgoglio de' Platonici, manifestò la vanità di lor arte. Senza un noioso ragguaglio, il moderno lettore formar non si potrebbe una giusta idea delle strane allusioni, delle forzate etimologie, delle solenni inezie e dell'impenetrabile oscurità di que' Savi, che si protestavan di rivelare il sistema dell'Universo. Siccome le tradizioni della mitologia Pagana si riferirono in varie maniere, i sacri interpreti erano in libertà di scegliere le circostanze più convenienti; ed interpretando essi una cifra arbitraria, da ogni favola potevan trarre ogni senso che si adattasse al lor favorito sistema di religione e di filosofia. La lasciva figura d'una Venere nuda riducevasi alla scoperta di qualche precetto morale o di qualche fisica verità; e la castrazione di Ati spiegava la rivoluzione del sole fra' tropici, e la separazione dell'anima umana dal vizio e dall'errore[407].
Sembra che il sistema Teologico di Giuliano contenesse i sublimi ed importanti principj della religion naturale. Ma siccome la fede, che non è fondata sulla rivelazione, dee rimaner priva d'ogni stabile sicurezza, il discepolo di Platone imprudentemente ricadde nell'abitudine della volgar superstizione: e pare che si confondessero insieme l'idea popolare e la filosofica della Divinità nella pratica, negli scritti ed eziandio nello spirito di Giuliano[408]. Riconosceva e adorava il pio Imperatore l'Eterna Causa dell'Universo, alla quale attribuiva tutte le perfezioni, d'un'infinita natura, invisibile agli occhi, ed inaccessibile all'intelletto de' deboli mortali. Il supremo Dio, secondo lui, avea creato, o piuttosto, nel linguaggio Platonico, avea generato la successiva serie dogli spiriti dipendenti, degli Dei, de' demonj, degli eroi e degli uomini; ed ogni ente, che immediatamente traeva la propria esistenza dalla Prima Cagione, riceveva inerente a sè il dono dell'immortalità. Affinchè sì prezioso vantaggio non cadesse sopra indegni soggetti, il Creatore affidato aveva all'abilità ed al potere degl'inferiori Dei l'incumbenza di formare il corpo umano, e d'ordinar la bell'armonia de' regni animale, vegetabile e minerale. Alla condotta di tali divini Ministri commise il governo temporale di questo basso Mondo; ma l'imperfetta loro amministrazione non va esente dalla discordia o dall'errore. Si dividon fra loro la terra ed i suoi abitanti, e si posson distintamente rintracciare i caratteri di Marte o di Minerva, di Mercurio o di Venere nelle leggi e ne' costumi de' particolari loro devoti. Finchè le immortali nostre anime sono confinate in una prigione mortale, è nostro interesse e dovere di sollecitare il favore, ed allontanar l'ira delle potestà celesti, l'orgoglio delle quali si compiace della divozione degli uomini; e può supporsi, che le loro parti più grosse ricevan qualche nutrimento dal fumo de' sacrifizi[409]. Gli Dei minori potevano alle volte condiscendere ad animare le statue, e ad abitare i tempj dedicati al lor culto. Potevano accidentalmente visitare la terra, ma i Cieli erano il proprio trono, ed il simbolo della lor gloria. L'ordine invariabile del sole, della luna, e delle stelle fu precipitosamente ammesso da Giuliano come una prova della eterna loro durata; e tal eternità era una sufficiente contrassegno, ch'essi eran l'opera non già d'una Divinità inferiore, ma del Re onnipotente. Nel sistema de' Platonici, il Mondo visibile era una figura dell'invisibile. I corpi celesti essendo animati da uno spirito divino, si potevan considerare come gli oggetti più degni del Culto religioso. Il Sole, di cui la lieta influenza penetra e sostien l'universo, giustamente esigeva l'adorazione degli uomini, come lo splendido rappresentante del Logos, viva, ragionevole e benefica immagine del Padre intellettuale[410].
In ogni tempo si supplisce alla mancanza d'una genuina inspirazione colle forti illusioni dell'entusiasmo e colle comiche arti dell'impostura. Se, al tempo di Giuliano, queste arti non si fossero praticate che da' sacerdoti Pagani per sostenere una causa spirante, si potrebbe forse usar qualche indulgenza all'interesse ed all'abitudine del carattere sacerdotale. Ma può esser soggetto di sorpresa e di scandalo, il vedere che i Filosofi stessi contribuissero ad ingannar la superstiziosa credulità dell'uman genere[411], e che fossero sostenuti i misteri Greci dalla magia o teurgia de' moderni Platonici. Essi arrogantemente pretendevano di sconvolger l'ordine della natura, d'esplorare i segreti del futuro, di comandare agli spiriti inferiori, di goder della vista e della conversazion degli Dei superiori; e sciogliendo l'anima da' materiali suoi vincoli, di riunir quell'immortal particella allo Spirito infinito e divino.
La devota e coraggiosa curiosità di Giuliano tentò i filosofi colla speranza d'una facil conquista; che, attesa la situazione del giovane loro proselito, poteva produrre le più importanti conseguenze[412]. Giuliano apprese i primi rudimenti delle dottrine Platoniche dalla bocca d'Esedio, che avea fissato a Pergamo la perseguitata e vagabonda sua scuola. Ma siccome la decadente forza di quel venerabile Savio non era corrispondente all'ardore, alla diligenza ed alla rapida penetrazione dello scolare, due de' suoi più dotti discepoli, Crisante ed Eusebio, supplirono, secondo il proprio desiderio di lui, all'attempato loro maestro. Sembra che questi filosofi avesser già preparate e si fosser distribuite le respettive lor parti; ed artificiosamente procurarono per mezzo di oscuri cenni e di affettate dispute d'eccitare le impazienti speranze dell' aspirante, finattanto che lo consegnarono al loro compagno Massimo, il più ardito ed il più abile maestro della scienza teurgica. Dalle sue mani Giuliano fu segretamente iniziato in Efeso, nel ventesim'anno della sua età. La permanenza, ch'ei fece in Atene, confermò questa non naturale alleanza di filosofia e di superstizione. Egli ottenne il privilegio d'esser solennemente iniziato a' Misteri d'Eleusi, che nella general decadenza del Culto della Grecia ritenevan qualche vestigio della primiera lor santità; e tale fu lo zelo di Giuliano, che in seguito invitò il Pontefice Eleusino alla Corte della Gallia, pel solo fine di perfezionare mercè di sacrifizi e di riti la grand'opera di sua santificazione. Poichè tali ceremonie si facevano in profonde caverne e nel silenzio della notte, e che la discretezza dell'iniziato conservò l'inviolabil segreto dei Misteri, io non pretenderò di descrivere gli orridi suoni o le apparizioni di fuoco, che si presentarono a' sensi o all'immaginazione del credulo aspirante[413], insino a che non comparvero le visioni di conforto e di cognizione in una fiamma di celeste luce[414]. Nelle caverne d'Efeso e d'Eleusi la mente di Giuliano fu penetrata da un sincero, profondo ed inalterabil entusiasmo; quantunque dimostrasse alle volte le vicende della pia frode e dell'ipocrisia, che osservar si possono, o almen sospettarsi ne' caratteri de' più scrupolosi fanatici. Fino da quel momento esso consacrò la sua vita al servizio degli Dei, e mentre pareva che le occupazioni della guerra, del governo e dello studio richiedessero tutto il suo tempo, era invariabilmente riservata una certa porzione dell'ore della notte per l'esercizio della privata sua devozione. La temperanza, che adornava i rigorosi costumi del soldato e del filosofo, era accompagnata da varie frivole e strette regole di religiosa astinenza; e Giuliano, in onore di Pane e di Mercurio, d'Ecate o d'Iside, in certi giorni s'asteneva dall'uso di alcuni particolari cibi, che avrebber potuto dispiacere alle sue tutelari Divinità. Per mezzo di questi volontari digiuni egli preparava i sensi e l'intelletto alle frequenti e famigliari visite, colle quali veniva onorato dai celesti Poteri. Non ostante il modesto silenzio di Giuliano medesimo, possiamo apprendere dall'oratore Libanio, suo fedele amico, ch'egli viveva in perpetuo commercio con gli Dei e con le Dee; ch'essi discendevano in terra per godere la conversazione dell'eroe lor favorito; che interrompevan gentilmente i suoi sonni toccandogli la mano o i capelli; che l'avvertivano di ogni imminente pericolo, e lo dirigevano con la loro infallibil sapienza in ogni azione della sua vita; e che aveva egli acquistato un'intima cognizione sì grande de' celesti suoi ospiti, che facilmente distingueva la voce di Giove da quella di Minerva, e la figura di Apollo da quella d'Ercole[415]. Tali visioni, o nel sonno o nella vigilia, che sono gli effetti ordinari dell'astinenza e del fanatismo, abbasserebbero quasi l'Imperatore al livello d'un monaco Egizio. Ma le inutili vite d'Antonio e di Panomio si consumarono in queste vane occupazioni, laddove Giuliano potea dal sogno della superstizione passare ad armarsi per la battaglia, e dopo aver vinto in campo i nemici di Roma, tranquillamente ritirarsi nella sua tenda a dettare savie e salutari leggi a un Impero, od a secondare il suo genio in eleganti ricerche di letteratura e di filosofia.
L'importante segreto dell'apostasia di Giuliano era affidato alla fedeltà degl' iniziati, co' quali era egli unito pe' sacri vincoli dell'amicizia e della religione[416]. Cautamente spargevasi questo piacevol rumore fra' seguaci dell'antico culto, e la futura grandezza di lui divenne l'oggetto delle speranze, delle preghiere e delle predizioni de' Pagani in ogni Provincia dell'Impero. Dallo zelo e dalle virtù del loro reale proselito, essi ansiosamente aspettavano la medicina d'ogni male e la restaurazione d'ogni bene, ed invece di disapprovare l'ardore de' loro pii desiderj, Giuliano ingenuamente confessava d'esser ambizioso di giugnere a tal situazione da poter esser utile alla sua patria ed alla sua religione. Ma questa religione medesima si guardava con occhio nemico dal successore di Costantino, le capricciose passioni del quale alternativamente salvarono e minacciaron la vita di Giuliano. Eran severamente proibite le arti magiche e divinatorie sotto un governo dispotico, ch'era portato a temerle; e sebbene a' Pagani fosse di mala voglia permesso l'esercizio della loro superstizione, il grado di Giuliano l'avrebbe eccettuato dalla general tolleranza. L'apostata presto divenne l'erede presuntivo della Monarchia, e la sua morte solamente avrebbe potuto quietare le apprensioni de' Cristiani[417]. Ma il giovane Principe, che aspirava alla gloria d'eroe piuttosto che a quella di martire, provvide alla propria salvezza col mascherar la sua religione, e l'indulgente natura del politeismo gli permetteva d'unire ad esso il Culto pubblico d'una Setta, che internamente spregiava. Libanio ha risguardato l'ipocrisia del suo amico, come un soggetto non di censura, ma di lode. «Siccome le Statue degli Dei (dice quell'oratore) che sono state contaminate con lordure, vengono poste di nuovo in magnifici tempj; così la bellezza della verità era collocata nella mente di Giuliano, poscia che fu essa purificata dagli errori e dalle follie della sua educazione. Aveva mutato i sentimenti; ma siccome sarebbe stato pericoloso il manifestarli, continuò nell'istessa condotta. Molto diverso dall'asino di Esopo, che si cuoprì con la pelle d'un leone, il nostro leone fu costretto a nascondersi sotto la pelle d'un asino: e mentre abbracciava i dettami della ragione, dovè ubbidire alle leggi della prudenza e della necessità[418] ». La dissimulazione di Giuliano durò più di dieci anni, dalla sua segreta iniziazione in Efeso fino al principio della guerra civile, allorchè si dichiarò nell'istesso tempo implacabil nemico di Cristo e di Costanzo. Questo stato di violenza potè contribuire ad avvalorar la sua devozione; ed appena egli avea soddisfatto all'obbligo d'assistere, nelle feste solenni, all'assemblee de' Cristiani, tornava coll'impazienza d'un amante ad ardere il libero e volontario incenso nelle domestiche sue cappelle di Giove e di Mercurio. Ma ogni atto di dissimulazione dee riuscir penoso per un animo ingenuo, ond'è che la professione del Cristianesimo accrebbe l'avversion di Giuliano verso una religione, che opprimeva la libertà di sua mente, e lo costringeva a tenere un contegno ripugnante alla sincerità ed al coraggio, che sono gli attributi più nobili della natura umana.
Potè l'inclinazione di Giuliano fargli preferire gli Dei d'Omero e degli Scipioni alla nuova fede, che il suo zio avea stabilito nel Romano Impero, e nella quale s'era egli santificato col sacramento del Battesimo. Ma come a filosofo, gl'incumbeva di giustificare il proprio dissenso dal Cristianesimo, ch'era sostenuto dal numero de' convertiti, dalla catena delle profezie, dallo splendor de' miracoli e dal peso della evidenza. L'elaborata opera[419], ch'egli compose in mezzo a' preparativi della guerra Persiana, conteneva la sostanza di quegli argomenti, ch'esso avea lungamente meditati nell'animo. Ne trascrisse, e ce ne conservò alcuni frammenti il veemente Cirillo d'Alessandria[420] suo nemico; e questi presentano una mistura ben singolare d'ingegno e di dottrina, di arte sofistica e di fanatismo. L'eleganza dello stile ed il grado dell'autore conciliarono a questi scritti l'attenzione del pubblico[421]; e nella lista de' nemici del Cristianesimo fu cancellato il celebre nome di Porfirio dal merito o dalla riputazione maggiore di Giuliano. Gli animi de' Fedeli furono o sedotti, o scandalizzati, o commossi a timore; ed i Pagani, che alle volte ardivano di impegnarsi in una disputa disuguale, trassero dalle popolari opere del loro Imperial Missionario un inesausto sussidio di fallaci obbiezioni. Ma nel continuo proseguimento di tali teologici studj, l'Imperator de' Romani contrasse gl'illiberali pregiudizi e le passioni d'un teologo polemico. Si credè irrevocabilmente obbligato a sostenere e propagare le sue religiose opinioni; e nel tempo stesso che segretamente applaudiva la forza e destrezza con cui maneggiava le armi della controversia, era tentato a diffidare della sincerità, o a disprezzare l'ingegno dei suoi antagonisti, che ostinatamente resistevano alla forza della ragione e dell'eloquenza.
I Cristiani, che vedevano con orrore e con isdegno l'apostasia di Giuliano, avevano molto più a temere dalla sua potenza che da' suoi argomenti. I Pagani, che erano consapevoli del fervente suo zelo, aspettavano forse con impazienza, che immediatamente s'accendesser le fiamme della persecuzione contro i nemici degli Dei; e che l'ingegnosa malizia di Giuliano inventasse crudeli e raffinate maniere di morti e di tormenti, che non si fosser conosciute dal rozzo ed inesperto furore de' suoi predecessori. Ma, in apparenza, deluse rimasero le speranze ugualmente che i timori delle religiose fazioni, dalla prudente umanità di un Principe[422], che aveva a cuore la sua fama, la pubblica pace e i diritti del genere umano. Istruito dall'istoria e dalla riflessione, Giuliano era persuaso che se i mali del corpo si possono qualche volta curare con una salutevol violenza, nè il ferro nè il fuoco valgono a sradicar dalla mente l'erronee opinioni. Può strascinarsi la ripugnante vittima a piè dell'altare; ma il cuore sempre abborrisce e disapprova il sacrilego atto della mano. La religiosa ostinazione s'indura e si esacerba per l'oppressione; e tosto che la persecuzione cessa, quelli che hanno ceduto, ricevono il perdono come penitenti, e quelli che han resistito, vengono onorati come martiri e santi. Se Giuliano avesse adottato l'infruttuosa crudeltà di Diocleziano e de' suoi colleghi, sentiva bene che avrebbe infamato la sua memoria col nome di tiranno, ed avrebbe accresciute nuove glorie alla Chiesa Cattolica, che avea tratto forza ed aumento dalla severità de' Magistrati Pagani. Mosso da questi motivi, e temendo di turbare il riposo d'un regno non ancora ben fermo, Giuliano sorprese il Mondo con un editto non indegno d'un politico o d'un filosofo. Egli estese a tutti gli abitanti del Mondo Romano i benefizi d'una libera ed ugual tolleranza; e l'unico aggravio, che impose a' Cristiani, fu di privarli del potere di tormentare gli altri sudditi, a' quali davano gli odiosi titoli d'idolatri e di eretici. Ai Pagani si diede graziosamente permissione, o piuttosto un ordine d'aprire tutti i lor tempj[423]; e furono ad un tratto liberati dalle leggi oppressive e dalle arbitrarie vessazioni, che avevan sofferto sotto il regno di Costantino e de' suoi figli. Nel medesimo tempo i Vescovi e Cherici, ch'erano stati banditi dall'Arriano Monarca, furon richiamati dall'esiglio, e restituiti alle respettive lor Chiese, i Donatisti, i Novaziani, i Macedoniani, gli Eunomiani, e quelli che con miglior fortuna aderivano alla dottrina del Concilio Niceno ebbero una sorte medesima. Giuliano che intendeva e derideva le lor teologiche dispute, invitò alla reggia i Capi delle Sette contrarie per poter godere il piacevole spettacolo de' loro furiosi conflitti. Il clamor della controversia qualche volta eccitò l'Imperatore a gridare: «Uditemi; i Franchi e gli Alemanni mi hanno ascoltato»; ma presto conobbe, che allora trattava con nemici più ostinati ed implacabili, e quantunque impiegasse la forza dell'eloquenza a persuaderli di vivere in concordia, o almeno in pace, avanti di licenziarli dalla sua presenza restò perfettamente convinto, ch'ei non aveva che temere dall'unione de' Cristiani. L'imparziale Ammiano attribuì quest'affettata clemenza al desiderio di fomentar l'interne divisioni della Chiesa, ed infatti l'insidioso disegno di sottominare il Cristianesimo era inseparabilmente connesso con lo zelo che Giuliano professava, di restaurar l'antica religion dell'Impero[424].
Appena salito sul Trono, secondo il costume de' suoi predecessori, assunse il carattere di Pontefice Massimo non solo come il più onorevole titolo della grandezza Imperiale, ma eziandio come un sacro ed importante uffizio, i doveri del quale era egli risoluto d'eseguire con pia diligenza. Poichè gli affari dello Stato impedivano all'Imperatore d'unirsi ogni giorno negli atti di pubblica devozione co' suoi sudditi, dedicò una cappella domestica al Sole suo Dio tutelare; i suoi giardini eran pieni di statue e di altari degli Dei; ed ogni appartamento del Palazzo avea l'apparenza d'un magnifico tempio. Ogni mattina ei salutava il padre della luce con un sacrifizio; si spargeva il sangue d'un'altra vittima nel momento, in cui il Sole cadeva sotto l'orizzonte; e la Luna, le Stelle ed i Genj della notte ricevevano i lor respettivi ed opportuni onori dall'instancabile devozione di Giuliano. Nelle feste solenni regolarmente visitava il tempio del Dio o della Dea, a cui quel giorno era particolarmente dedicato, e procurava d'eccitar la religione de' Magistrati e del Popolo coll'esempio del suo proprio zelo. Invece di sostener l'alto stato d'un Monarca, distinto dallo splendor della porpora, e circondato dagli aurei scudi delle sue guardie, Giuliano con rispettoso ardore s'esercitava ne' minimi uffizi che appartenevano al culto degli Dei. In mezzo alla sacra ma licenziosa folla di Sacerdoti, d'inferiori ministri e di femmine danzanti, ch'erano addette al servizio del tempio, l'occupazione dell'Imperatore era quella di portar le legna, di soffiar nel fuoco, di prendere il coltello, d'uccider la vittima, e ponendo le sanguinose sue mani nelle viscere dello spirante animale, di tirar fuori il cuore o il fegato per leggervi, con la consumata abilità d'un aruspice, gl'immaginari segni degli eventi futuri. I più savj fra' Pagani censuravano tale stravagante superstizione, che affettava di disprezzare i ritegni della prudenza e del decoro. Nel regno d'un Principe, che praticava le rigide massime d'economia, la spesa del Culto religioso consumava una gran parte dell'entrata; si trasportava continuamente una quantità de' più rari e più begli uccelli da remoti paesi per ucciderli sugli altari degli Dei; frequentemente si sacrificavano da Giuliano cento bovi nel medesimo giorno; e presto si sparse un detto scherzoso fra il popolo, che se tornava dalla guerra di Persia colla vittoria, la razza del bestiame cornuto insensibilmente sarebbesi estinta. Pure questa spesa può sembrare di niun conto, qualora si paragoni con gli splendidi donativi, che offerti furono dalle mani dell'Imperatore, o per ordine di lui, a tutti i luoghi celebri di devozione nel Mondo Romano; e con le somme concesse per restaurare ed ornare gli antichi tempj, che avevan sofferto o la tacita decadenza del tempo, o le recenti ingiurie dello zelo Cristiano. Incoraggiate dall'esempio, dall'esortazione e dalla liberalità del pio loro Sovrano, le città e le famiglie ripresero la pratica delle trascurate lor ceremonie. «Ogni parte del Mondo (esclama Libanio con devoto trasporto) spiegava il trionfo della Religione, il grato prospetto di altari ardenti e di uccise vittime, il fumo dell'incenso; ed un solenne ordine di Sacerdoti e di Profeti senza timore e senza pericolo. S'udivan sulla cima delle più alte montagne il suono delle preci e della musica, ed il medesimo bove serviva di sacrifizio agli Dei, e di cena pe' lieti loro devoti[425].»
Ma il genio e la potenza di Giuliano non furono sufficienti per l'impresa di restaurare una religione, ch'era mancante di principj teologici, di precetti morali e d'ecclesiastica disciplina; che tendeva rapidamente alla decadenza ed allo scioglimento; e che non era suscettibile d'alcuna solida o stabile riforma. La giurisdizione del Pontefice Massimo, dopo che specialmente quell'uffizio erasi unito all'Imperial dignità, s'estendeva a tutto l'Impero Romano. Giuliano elesse per suoi vicarj nelle diverse Province i Sacerdoti e Filosofi, che stimò più idonei a cooperare all'esecuzione del suo gran disegno; e le sue lettere pastorali[426], s'è permesso d'usare tal nome, tuttora presentano una prova molto curiosa de' suoi desiderj e disegni. Egli ordinò che in ogni città l'ordin Sacerdotale venisse composto, senza distinzione alcuna di nascita o di ricchezze, da quelle persone che fossero le più cospicue pel loro amore verso gli Dei e verso gli uomini. «Se i medesimi (continua) son rei di qualche scandaloso delitto potranno esser censurati o degradati dal Pontefice superiore; ma fintanto che ritengono il loro grado, hanno diritto al rispetto de' Magistrati e del Popolo. Posson dimostrare la lor umiltà nella schiettezza delle domestiche vesti e la dignità nella pompa delle sacre. Quando son chiamati, secondo l'ordine, ad uffiziare avanti all'altare, non dovrebbero pel determinato numero di giorni partirsi dal recinto del tempio; nè soffrir dovrebbero, che passasse un sol giorno senza le preghiere ed il sacrifizio che son obbligati ad offerire per la prosperità dello Stato e degl'individui. L'esercizio delle sacre loro funzioni esige un'immacolata purità sì di mente che di corpo; ed anche allorchè son fuori del tempio, nelle occupazioni della vita comune, incombe loro l'obbligo di sorpassare in decenza e in virtù gli altri loro concittadini. Il Sacerdote degli Dei non dovrebbe mai vedersi ne' teatri o nelle taverne. La sua conversazione dovrebbe esser casta, il suo cibo temperato, i suoi amici d'onesta riputazione; e se qualche volta si fa vedere nel Foro o nel Palazzo, non dovrebbe comparirvi che come avvocato di quelli che hanno chiesto in vano giustizia o pietà. I suoi studj dovrebbero esser coerenti alla santità della sua professione. Le novelle licenziose, le commedie e le satire dovrebbero esser bandite dalla sua libreria, che solo dovrebbe esser composta di scritti storici e filosofici; di storia fondata sulla verità, e di filosofia connessa con la religione. L'empie opinioni degli Epicurei e degli Scettici meritano il suo abborrimento e disprezzo[427]; ma dovrebbe diligentemente studiare i sistemi di Pitagora, di Platone e degli Stoici, che insegnano concordemente, che vi sono gli Dei; che il Mondo è governato dalla lor providenza; che la lor bontà è la sorgente d'ogni bene temporale; e che hanno essi preparato per l'anima umana uno stato futuro di premio o di pena». L'Imperial Pontefice inculca ne' più persuasivi termini i doveri della beneficenza e dell'ospitalità; esorta l'inferiore suo clero a raccomandare la pratica universale di queste virtù; promette d'assister la loro indigenza col tesoro pubblico; e dichiarasi risoluto di stabilire degli ospedali in ogni città, ne' quali potesse il povero esser ricevuto senz'alcuna odiosa distinzione di religione o di patria. Giuliano vedeva con invidia i savj ed umani regolamenti della Chiesa, ed assai francamente confessa l'intenzione che aveva di spogliare i Cristiani dell'applauso e del vantaggio, ch'essi aveano acquistato mediante la pratica esclusiva della carità e della beneficenza[428]. Il medesimo spirito d'imitazione potè disporre l'Imperatore ad adottare varie istituzioni ecclesiastiche, l'uso ed importanza delle quali confermavasi dal buon successo de' suoi nemici. Ma se si fossero realizzati questi immaginari divisamenti di riforma, tal imperfetta e forzata copia sarebbe stata meno giovevole al Paganesimo che onorevole pe' Cristiani[429]. I Gentili, che pacificamente seguivano i costumi de' loro maggiori, restarono piuttosto sorpresi che edificati dall'introduzione di usi stranieri; e nel breve periodo del suo regno Giuliano ebbe frequenti occasioni di dolersi della mancanza di fervore del suo partito[430].
L'entusiasmo di Giuliano gli facea risguardar gli amici di Giove come suoi personali amici e fratelli; e quantunque trascurasse con parzial disprezzo il merito della costanza Cristiana, ammirava e premiava la nobil perseveranza di que' Gentili, che preferito avevano il favor degli Dei a quello dell'Imperatore[431]. Se oltre la religione coltivavano anche la letteratura de' Greci acquistavano un diritto maggiore all'amicizia di Giuliano, che poneva le Muse nel numero delle sue Divinità tutelari. Nella religione, ch'egli aveva abbracciato, eran quasi sinonimo pietà ed erudizione[432]; e una folla di poeti, di retori, e di filosofi correva alla Corte Imperiale ad occupare i posti vacanti dei Vescovi che avean sedotto la credulità di Costanzo. Il suo successore stimava i vincoli dell'iniziazione molto più sacri di quelli della consanguineità, scelse i più favoriti fra' savj, ch'eran profondamente periti nelle occulte scienze della magia e della divinazione; ed ogn'impostore, che pretendea di rivelare i segreti futuri, era sicuro di godere l'accesso agli onori ed alle ricchezze[433]. Fra' filosofi, Massimo ottenne il grado più eminente nell'amicizia del suo reale discepolo, che ad esso comunicava con intera confidenza le sue azioni, i sentimenti ed i religiosi disegni che aveva nel tempo che restava sospesa la guerra civile[434]. Tosto che Giuliano ebbe preso possesso del palazzo di Costantinopoli, mandò un onorevole e pressante invito a Massimo, che in quel tempo dimorava a Sardi nella Lidia con Crisantio, suo compagno nell'arte e negli studi. Il prudente e superstizioso Crisantio ricusò d'intraprendere un viaggio che appariva, secondo le regole della divinazione, in un aspetto il più minaccioso e maligno; ma il compagno, ch'era d'un fanatismo di tempra più ardita, persistè nelle interrogazioni fintanto che non ebbe estorto dagli Dei un apparente consenso a' suoi desiderj ed a quelli dell'Imperatore. Il viaggio di Massimo per le città dell'Asia spiegava il trionfo della filosofica vanità; ed i Magistrati gareggiavan fra loro negli onori che preparavano per ricever l'amico del loro Sovrano. Giuliano, al momento che seppe l'arrivo di Massimo, recitava un'orazione in Senato; immediatamente interruppe il discorso, corse ad incontrarlo, e dopo un tenero abbraccio lo condusse per mano in mezzo dell'assemblea, dove pubblicamente confessò i vantaggi, che aveva tratti dall'istruzioni del filosofo. Massimo[435], che presto acquistò la confidenza di Giuliano, ed influiva ne' suoi consigli, fu insensibilmente corrotto dalle tentazioni d'una Corte. Il suo vestire divenne più splendido, il suo portamento più altero, e sotto un altro regno fu esposto all'odiosa investigazione de' mezzi, co' quali il discepolo di Platone aveva accumulato, nella breve durata del suo favore, una molto scandalosa quantità di ricchezze. Dagli altri Filosofi e Sofisti, che furono invitati alla Corte Imperiale o dalla scelta di Giuliano o dal buon successo di Massimo, ben pochi furono capaci di conservare la loro innocenza o riputazione[436]. I generosi doni di danaro, di terre e di case non furono sufficienti a saziare la rapace loro avarizia; ed era giustamente eccitato lo sdegno del popolo dalla rimembranza dell'abbietta lor povertà e delle disinteressate loro proteste. Non potè sempre ingannarsi la penetrazion di Giuliano; ma ei non voleva avvilire il carattere di quelli, i talenti de' quali meritavano la sua stima; voleva evitare la doppia taccia d'imprudenza e d'incostanza; e temeva d'abbassare, agli occhi de' profani, l'onor delle lettere e della religione[437].
Il favor di Giuliano era quasi ugualmente diviso fra i Pagani, ch'erano stati fermamente attaccati al culto de' loro maggiori, ed i Cristiani che prudentemente abbracciavano la religione del loro Sovrano. L'acquisto di nuovi proseliti[438] soddisfaceva la superstizione e la vanità, dominanti passioni dell'animo suo; e s'udì protestare, coll'entusiasmo d'un Missionario, che quando egli avesse potuto rendere ogn'individuo più ricco di Mida, ed ogni città più grande di Babilonia, non si sarebbe creduto il benefattore dell'uman genere, se nel tempo stesso non avesse anche potuto richiamare i suoi sudditi dall'empia lor ribellione contro gli Dei immortali[439]. Un Principe, che avea studiato la natura umana, e che possedeva i tesori del Romano Impero, poteva adattare gli argomenti, le promesse ed i premj ad ogni ordine di Cristiani[440]; ed il merito d'un'opportuna conversione serviva a supplire a' difetti d'un candidato, o anche ad espiare il delitto d'un reo. Siccome l'esercito è la più forte macchina del potere assoluto, Giuliano applicossi con particolar diligenza a corrompere la religione delle sue truppe, senza il cordial concorso delle quali ogni passo doveva esser pericoloso ed inutile, e l'indole natural de' soldati rendè tal conquista altrettanto facile, quanto era importante. Le legioni della Gallia s'attaccarono alla fede ugualmente che alla fortuna del vittorioso lor Capitano; ed anche avanti la morte di Costanzo egli ebbe il piacere d'annunziare a' suoi amici, ch'essi assistevano con fervente devozione e vorace appetito a' sacrifizj, i quali più volte s'offerirono nel suo campo, d'intere ecatombe di grassi bovi[441]. Gli eserciti dell'Oriente, ch'erano stati tratti allo stendardo della croce e di Costanzo, richiesero una più sottile e dispendiosa specie di persuasione. L'Imperatore, ne' giorni di pubbliche e solenni feste, riceveva l'omaggio, e premiava il merito delle truppe. Il suo trono era circondato dall'insegne militari di Roma e della Repubblica; il santo nome di Cristo era cancellato dal Labaro; ed eran così destramente mescolati i simboli di guerra, di Maestà e di Pagana superstizione, che il suddito fedele incorreva il delitto d'idolatria, quando rispettosamente salutava la persona o l'immagine del suo Sovrano. I soldati passavano, l'un dopo l'altro, avanti di lui; ed a ciascheduno di essi, prima che dalla man di Giuliano ricevesse un liberal donativo proporzionato al suo grado ed a' suoi servigi, imponevasi di gettar pochi grani d'incenso nella fiamma che ardeva sopra l'altare. Alcuni confessori Cristiani poteron resistere, ed altri pentirsi di tal atto; ma la massima parte, allettata dalla vista dell'oro, ed intimorita dalla presenza dell'Imperatore, contrasse il colpevole impegno; ed ogni considerazione di dovere e d'interesse li confortava a perseverare in futuro nel culto degli Dei. Con la frequente ripetizione di tali artifizj, ed a spese di somme che sarebber servite a comprare i servigi della metà delle nazioni della Scizia, Giuliano appoco appoco acquistò l'immaginaria protezion degli Dei per le sue truppe, e per sè lo stabile e reale sostegno delle Romane Legioni[442]. In fatti egli è più che probabile, che la restaurazione e l'incoraggiamento del Paganesimo dovesse scoprire una moltitudine di pretesi Cristiani, i quali per motivi di vantaggi temporali aveano aderito alla religione del precedente regno; e che dopo, con la medesima flessibilità di coscienza, tornarono alla fede professata da' successori di Giuliano.
Mentre il dovuto Monarca continuamente s'affaticava a restaurare e propagar la religione de' suoi antenati, concepì lo straordinario disegno di rifabbricare il tempio di Gerusalemme. In una pubblica lettera[443] alla nazione o comunità degli Ebrei, dispersi per le Province, compassiona le loro disgrazie, ne condanna gli oppressori, ne loda la costanza, si dichiara grazioso lor protettore, ed esprime una pia speranza, che dopo il ritorno dalla guerra Persiana gli sarà permesso di tributare i suoi voti all'Onnipotente nella santa sua città di Gerusalemme. La cieca superstizione e l'abbietta servitù di que' miserabili esuli avrebbe dovuto eccitare il disprezzo d'un filosofo Imperatore; ma essi meritarono l'amicizia di Giuliano pel loro implacabil odio al nome di Cristo. La sterile sinagoga abborriva ed invidiava la fecondità della ribelle Chiesa; la forza degli Ebrei non era uguale alla loro malizia; ma i lor più gravi Rabbini approvavano la privata uccision d'un apostata[444]; ed i lor sediziosi clamori aveano spesso svegliata l'indolenza dei Magistrati Pagani. Sotto il regno di Costantino, gli Ebrei divennero sudditi de' lor ribelli figliuoli; nè passò lungo tempo, che provarono l'amarezza della domestica tirannia. Le immunità civili, che loro erano state concesse o confermate da Severo, furono appoco appoco rivocate da' Principi Cristiani; ed un temerario tumulto eccitato dagli Ebrei della Palestina[445] parve che giustificasse le lucrose maniere d'oppressione, inventate da' Vescovi e dagli Eunuchi della Corte di Costanzo. L'Ebraico Patriarca, al quale veniva sempre permesso d'esercitare una precaria giurisdizione, teneva la sua residenza in Tiberiade[446]; e le vicine città della Palestina erano pieno de' residui d'un popolo, ch'era fortemente attaccato alla Terra Promessa. Ma fu rinnovato ed invigorito l'editto d'Adriano; ed essi guardavano da lontano le mura della santa Città, profanate sotto i loro occhi dal trionfo della croce e dalla devozion de' Cristiani[447].
In mezzo ad un sassoso e steril paese, le mura di Gerusalemme[448] contenevano le due montagne di Sion e d'Acra dentro un ovale recinto di circa tre miglia Inglesi[449]. Verso il mezzodì sorgevano sull'alto del monte Sion la parte più elevata della città e la torre di David; al Settentrione, le fabbriche della più bassa parte cuoprivano la spaziosa cima del monte Acra; ed una parte del colle, distinto col nome di Moriah, e posto a livello dall'industria umana, era coronata dal magnifico tempio della nazione Giudaica. Dopo l'ultima distruzione del tempio operata dalle armi di Tito e d'Adriano, si fece passar l'aratro sopra la Terra Sacra come un segno di perpetuo interdetto. Sionne fu abbandonato, e fu ripieno il voto della più bassa parte della città con pubblici e privati edifizi della Colonia Elia, che si sparsero sull'addiacente monte Calvario. I santi luoghi restaron contaminati da monumenti d'idolatria; e fu dedicata, o a bella posta, o per accidente, a Venere una cappella, in quel luogo appunto ch'era stato santificato dalla morte e dalla resurrezione di Cristo[450]. Quasi trecent'anni dopo tali stupendi avvenimenti, fu demolita la profana cappella di Venere per ordine di Costantino; e lo smuover che si fece della terra e delle pietre scuoprì agli occhi dell'uman genere il santo Sepolcro. Fu eretta una magnifica Chiesa su quella mistica terra dal primo Imperatore Cristiano; e gli effetti della sua pia munificenza s'estesero ad ogni luogo ch'era stato consacrato dalle vestigia de' Patriarchi, de' Profeti e del figlio di Dio[451].
L'ardente desiderio di contemplare i monumenti originali della redenzione tirò a Gerusalemme una folla continua di pellegrini da' lidi del mare Atlantico e dai più distanti paesi dell'Oriente[452]; e la lor pietà fu autorizzata dall'esempio dell'Imperatrice Elena, la quale sembra che unisse la credulità della vecchiezza coi fervidi sentimenti d'una conversione recente. I savi e gli Eroi, che hanno visitato le memorabili scene della gloria o del sapere antico, han confessato di sentire l'inspirazione del Genio del luogo[453]; ed i Cristiani, che si prostravano avanti al santo sepolcro, attribuivano la loro viva fede e fervente devozione all'influsso più immediato del Divino Spirito. Lo zelo, e forse l'avarizia, del clero di Gerusalemme promuoveva e moltiplicava tali benefiche visite. Si fissava, per mezzo d'indubitabile tradizione, la scena d'ogni memorabile avvenimento. Si facean veder gl'istrumenti, ch'erano stati usati nella passione di Cristo; i chiodi e la lancia che ne avea trafitto le mani, i piedi ed il petto; la corona di spine che gli fu posto sul capo; la colonna alla quale fu flagellato; e sopra tutto la croce su cui soffrì, e che era stata dissotterrata nel regno di que' Principi, che inserirono il simbolo del Cristianesimo nelle bandiere delle Romane legioni[454]. Si propagarono appoco appoco senza opposizione tutti que' miracoli, che parvero necessari per render ragione della straordinaria conservazione, e dell'opportuna scoperta di tali cose. La custodia della vera Croce, che solennemente nella Domenica di Pasqua esponevasi al popolo, era affidata al Vescovo di Gerusalemme; ed egli solo potea soddisfare la curiosa devozione de' pellegrini con darne loro piccoli pezzi, ch'essi incassavano in gemme o in oro, e seco portavano in trionfo a' respettivi loro paesi. Ma siccome questo lucroso ramo di commercio avrebbe dovuto presto finire, si trovò conveniente di supporre che quel maraviglioso legno godesse una segreta forza di vegetazione; e che la sua sostanza, quantunque continuamente diminuita, restasse sempre intera e l'istessa[455]. Si sarebbe forse aspettato che l'influsso del luogo e la fede d'un perpetuo miracolo dovessero aver prodotto qualche salutevol effetto ne' costumi e nella fede del popolo. Pure i più rispettabili fra gli scrittori Ecclesiastici sono stati costretti a confessare non solamente che le strade di Gerusalemme eran piene d'un continuo tumulto di negozi e di piaceri[456]; ma che ogni specie di vizio, l'adulterio, il furto, l'idolatria, il veneficio, l'omicidio ec. era famigliare agli abitanti della Santa Città[457]. La ricchezza e preeminenza della Chiesa di Gerusalemme eccitava l'ambizione de' candidati Arriani e degli Ortodossi; e le virtù di Cirillo, che dopo la sua morte è stato onorato col titolo di santo, si fecero conoscer piuttosto nell'esercizio che nell'acquisto della sua Episcopal dignità[458].
Potè la vana ed ambiziosa mente di Giuliano aspirare a ristabilire l'antica gloria del tempio di Gerusalemme[459]. Siccome i Cristiani eran fermamente persuasi, che si fosse pronunziata una sentenza d'eterna distruzione contro tutta la fabbrica della legge Mosaica, il Sofista Imperiale avrebbe convertito il successo della sua impresa in uno specioso argomento contro la fede della profezia e la verità della rivelazione[460]. Gli dispiaceva lo spiritual culto della sinagoga; ma approvava le instituzioni di Mosè, che non avea sdegnato d'adottar molti riti e ceremonie dell'Egitto[461]. La locale e nazional Divinità degli Ebrei era sinceramente adorata da un politeista, che desiderava soltanto di moltiplicare il numero degli Dei[462]; e tal era l'appetito di Giuliano pe' sacrifizi di sangue, che la pietà di Salomone, il quale nella festa della dedicazione aveva offerto ventiduemila bovi, e centoventimila pecore[463], avrebbe potuto eccitar la sua emulazione. Tali riflessioni poterono influire ne' suoi disegni; ma il prospetto d'un immediato ed importante vantaggio non soffriva che l'impaziente Monarca aspettasse il lontano ed incerto evento della guerra Persiana. Ei risolse d'erigere senza dilazione, sulla dominante cima del Moriah, un magnifico tempio; che potesse ecclissar lo splendore della Chiesa della Resurrezione, situata sull'addiacente colle del Calvario; di ristabilirvi un ordine di Sacerdoti, l'interessato zelo de' quali scoprisse le arti, e resistesse all'ambizione de' Cristiani loro rivali; e d'invitarvi una colonia numerosa di Ebrei, il forte fanatismo de' quali sarebbe sempre stato pronto a secondare, ed anche a prevenire le ostili misure del governo Pagano. Fra gli amici dell'Imperatore (se non sono incompatibili i nomi d'Imperatore e d'amico) s'assegnava da Giuliano medesimo il primo luogo al virtuoso e dotto Alipio[464]. L'umanità d'Alipio era moderata da una severa giustizia e da una virile fortezza, e nel tempo ch'esercitava la sua abilità nella civile amministrazione della Gran-Brettagna, imitava nelle sue poetiche composizioni l'armonia e dolcezza delle odi di Saffo. Questo Ministro, al quale Giuliano comunicava senza riserva le sue più minute leggerezze ed i suoi più serj disegni, ricevè la straordinaria commissione di ristabilire nella sua primiera bellezza il tempio di Gerusalemme; e la diligenza d'Alipio richiese ed ottenne il vigoroso aiuto del Governatore della Palestina. Alla chiamata del loro gran liberatore, gli Ebrei da tutte le Province dell'Impero si unirono sulla santa montagna de' loro padri; ed il loro insolente trionfo commosse ed esacerbò i Cristiani abitanti di Gerusalemme. Il desiderio di riedificare il tempio in ogni secolo è stata la passion dominante de' figli d'Israele. In tale propizio momento gli uomini si dimenticaron della loro avarizia, e le donne della loro delicatezza; dalla vanità de' ricchi si provvidero zappe e picconi d'argento, e si trasportavano i sassi in mantelli di seta e di porpora. S'aprì ogni borsa a liberali contribuzioni, ogni mano volle aver parte nel pio lavoro, ed i comandi d'un gran Monarca furono eseguiti dall'entusiasmo d'un intero popolo[465].
Pure in quest'occasione i congiunti sforzi del potere e dell'entusiasmo riuscirono inutili: ed il suolo del tempio Giudaico, che adesso è coperto da una Moschea Maomettana[466], continuò sempre a presentare lo stesso edificante spettacolo di rovina e desolazione. Forse l'assenza e la morte dell'Imperatore, e le nuove massime d'un regno Cristiano spiegar potrebbero l'interrompimento d'una difficile opera, la quale non fu intrapresa che negli ultimi sei mesi della vita di Giuliano[467]. Ma i Cristiani avevano una pia e naturale speranza, che in questa memorabil contesa si sarebbe vendicato l'onor della religione da qualche segnalato miracolo. Che un terremoto, un turbine, ed una eruzione di fuoco rovesciassero e disperdessero i nuovi fondamenti del tempio, s'attesta con qualche variazione da contemporanei e rispettabili testimoni[468]. Questo pubblico fatto è descritto da Ambrogio[469] Vescovo di Milano in una lettera all'Imperator Teodosio, che doveva provocare la severa critica degli Ebrei; dall'eloquente Crisostomo[470], che poteva appellarsene alla memoria de' più vecchi nella sua congregazione d'Antiochia, e da Gregorio Nazianzeno[471], il quale pubblicò il suo ragguaglio del miracolo avanti che spirasse il medesimo anno. L'ultimo di questi Scrittori coraggiosamente ha dichiarato, che questo soprannaturale avvenimento non si contrastava neppure dagl'Infedeli; e per quanto strana sembrar possa tale asserzione, vien confermata dall'indubitabil testimonianza d'Ammiano Martellino[472]. Il filosofo soldato che amava le virtù senza adottare i pregiudizi del suo Signore, ha riportato, nella giudiziosa e candida storia de' suoi tempi gli straordinari ostacoli, che interruppero la restaurazione del tempio di Gerusalemme: «Mentre Alipio, assistito dal Governatore della Provincia, promuoveva con vigore e diligenza l'esecuzione dell'opera, venendo fuori degli orribili globi di fuoco vicino a' fondamenti, renderono quel luogo inaccessibile agli artefici, varie volte da essi abbruciati; e continuando il vittorioso elemento in tale modo ad ostinatamente rispingerli indietro, l'impresa fu abbandonata». Tale autorità deve soddisfare un credente, e sorprendere un incredulo. Pure un filosofo potrà sempre domandare l'original testimonianza d'intelligenti ed imparziali spettatori. In quella crisi importante, ogni singolare accidente di natura potrebbe assumere l'apparenza, e produrre gli effetti di un vero prodigio. Tal gloriosa liberazione si sarebbe messa tosto a profitto, e magnificata dalla pia sagacità del Clero di Gerusalemme, e dall'attiva credulità del mondo Cristiano; ed alla distanza di vent'anni un Istorico Romano, non curante di teologiche dispute, potè bene adornar la sua opera con quello splendido e specioso miracolo[473].
La restaurazione del tempio Giudaico era segretamente connessa con la rovina della Chiesa Cristiana. Giuliano continuava sempre a mantenere la libertà del culto religioso, senza distinguere se questa universale tolleranza dipendeva dalla giustizia o dalla clemenza di lui. Affettava di aver pietà degl'infelici Cristiani, che s'ingannavano sul punto più importante di loro vita; ma la sua pietà era avvilita dal disprezzo, il disprezzo era invelenito dall'odio, e Giuliano esprimeva i suoi sentimenti in uno stile di spirito satirico, il quale cagiona profonde e mortali ferite, quando viene dalla bocca d'un Sovrano. Siccome sapeva che i Cristiani si gloriavano nel nome del loro Redentore, soleva usare, e forse ordinò che si desse loro il titolo men onorevole di Galilei[474]. Dichiarò che per la follia de' Galilei, quali esso descrive come una Setta di fanatici disprezzabili dagli uomini ed odiosi agli Dei, erasi ridotto sull'orlo della distruzione l'Impero, ed in un pubblico editto insinua che un frenetico ammalato può alle volte curarsi con salutare violenza[475]. Giuliano aveva adottato nell'animo e ne' consigli una illiberal distinzione, che secondo la differenza de' religiosi loro sentimenti, una parte de' suoi sudditi meritasse il suo favore e la sua amicizia, mentre l'altra non avesse diritto, che a' comuni benefizi, cui la sua giustizia ricusar non poteva ad un popolo ubbidiente[476]. A norma d'un principio fecondo d'oppressioni e di mali, trasferì a' Pontefici della sua religione il maneggio delle generose prestazioni, che dal pubblico erario avea concesse alla Chiesa la pietà di Costantino e de' suoi figliuoli. L'orgoglioso sistema degli onori e delle immunità clericali, che s'era stabilito con tant'arte e fatica, fu gettato a terra; si tolsero dal rigor delle leggi le speranze delle testamentarie donazioni; ed i Sacerdoti della Setta Cristiana rimaser confusi colla ultima e più ignominiosa classe del popolo. Fra questi regolamenti, quelli che parvero necessari a frenare l'ambizione e l'avarizia degli Ecclesiastici, furon poco dopo imitati dalla saviezza d'un Principe ortodosso. Le speciali distinzioni, introdotte dalla politica, o dalla superstizione profuse nell'ordine Sacerdotale, debbono ristringersi a que' Sacerdoti, che professano la religione dello Stato. Ma la volontà del Legislatore non era esente dal pregiudizio e dalla passione; e l'insidiosa politica di Giuliano tendeva a spogliare i Cristiani di tutti gli onori e vantaggi temporali, che li rendevano rispettabili agli occhi del Mondo[477].
Si è fatta una giusta e severa censura a quella legge, che proibiva a' Cristiani d'apprender le arti della grammatica e della rettorica[478]. I motivi allegati dall'Imperatore per giustificare tal atto parziale ed oppressivo, poterono, durante la sua vita soltanto, imporre silenzio agli schiavi, e riscuoter applauso dagli adulatori. Giuliano abusò dell'ambiguo senso di una parola, che poteva indifferentemente applicarsi alla lingua ed alla religione de' Greci: egli osserva con disprezzo che gli uomini, i quali esaltano il merito d'una implicita fede, non debbon pretendete di godere i vantaggi della scienza; e vanamente sostiene che se ricusano d'adorare gli Dei d'Omero e di Demostene, debbon contentarsi d'esporre Luca e Matteo nelle Chiese de' Galilei[479]. In tutte le città del mondo Romano, s'affidava l'educazione della gioventù a' maestri di grammatica e di rettorica, ch'erano eletti da' Magistrati, mantenuti a pubbliche spese, e distinti con molti lucrosi ed onorevoli privilegi. L'editto di Giuliano pare che includesse anche i medici ed i professori di tutte le arti liberali; e l'Imperatore, che riservò a se stesso l'approvazione de' candidati, fu autorizzato dalle leggi a corrompere o a punire la religiosa costanza de' più dotti fra' Cristiani[480]. Tosto che la dimissione de' più ostinati[481] maestri ebbe stabilito senza rivali il dominio de' sofisti Pagani, Giuliano invitò la nascente generazione a frequentar con libertà le pubbliche scuole, nella giusta fiducia che le tenere menti avrebber ricevuto le impressioni della letteratura e dell'idolatria. Se poi la maggior parte della gioventù Cristiana pe' propri scrupoli o per quelli de' lor genitori si fosse ritenuta dall'abbracciare tale pericolosa maniera d'istruzione, dovea nel tempo stesso rinunziare a' vantaggi d'un'educazion liberale. Giuliano avea motivo di sperare che, nello spazio di pochi anni, la Chiesa ricaduta sarebbe nella sua primiera semplicità, e che a' Teologi, che possedevano un'adequata porzione della dottrina e dell'eloquenza di quel secolo, sarebbe successa una generazione di ciechi od ignoranti fanatici, incapaci di difender la verità dei loro principj, e d'esporre le varie follie del politeismo[482].
Il desiderio e l'intenzion di Giuliano era senza dubbio di privare i Cristiani de' vantaggi, delle ricchezze, delle cognizioni e del potere; ma l'ingiustizia di escluderli da tutti gli uffizi di fedeltà e di profitto, sembra che fosse il risultato della sua generale politica piuttosto che l'immediata conseguenza d'alcuna legge positiva[483]. Potè un merito superiore stimarsi degno di qualche straordinaria eccezione ma la maggior parte de' ministri Cristiani furono appoco appoco rimossi da' loro impieghi nello Stato, nell'esercito o nelle Province. S'estinsero le speranze de' futuri candidati dalla dichiarata parzialità d'un Principe, che maliziosamente rammentava loro, non esser lecito ad un Cristiano di usare la spada o della giustizia o della guerra, e che premurosamente muniva il campo ed i tribunali con le insegne dell'idolatria. Il potere del Governo fu affidato a' Pagani, che professavano un ardente zelo per la religione de' loro Maggiori; e poichè la scelta dell'Imperatore spesso dipendeva dalle regole della divinazione, i favoriti ch'ei preferiva come i più grati agli Dei, non ottenevan sempre l'approvazione degli uomini[484]. I Cristiani, sotto l'amministrazione de' loro nemici, molto ebbero da soffrire e più da temere. L'indole di Giuliano era contraria alla crudeltà; e la cura della sua riputazione, esposta agli occhi dell'Universo, riteneva il filosofo Monarca dal violare le leggi della giustizia e della tolleranza, che egli stesso sì recentemente avea stabilito. Ma i Ministri provinciali della sua autorità si trovavano in un posto meno cospicuo; nell'esercizio dell'arbitrario potere essi consultavano i desiderj piuttosto che gli ordini del loro Sovrano; ed osavano d'esercitare una segreta e vessante tirannia contro i Settari, a' quali non era loro concesso di conferire l'onor del Martirio. L'Imperatore, il quale dissimulò più che potè la cognizione dell'ingiustizia, ch'esercitavasi in nome suo, espresse il suo real sentimento intorno alla condotta de' suoi Ministri con dolci espressioni o con premj effettivi[485].
Il più poderoso istrumento d'oppressione, con cui si armavano tali Ministri, era la legge che obbligava i Cristiani a far piene ed ampie riparazioni pe' tempj, ch'essi aveano distrutti sotto il regno antecedente. Lo zelo della trionfante Chiesa non aveva sempre aspettato la sanzione della pubblica autorità; ed i Vescovi, sicuri dell'impunità, spesso eran marciati alla testa delle loro congregazioni ad attaccare e demolir le Fortezze del Principe delle tenebre. Furono chiaramente determinate, e facilmente restituite le terre sacre, che avevano impinguato il patrimonio del Sovrano o del Clero. Ma su quelle terre, e sulle rovine della superstizione Pagana, i Cristiani avevano frequentemente innalzati i religiosi loro edifizi; e siccome bisognava distrugger la chiesa, prima che si potesse rifabbricare il tempio, da una parte applaudivasi alla giustizia ed alla pietà dell'Imperatore, mentre dall'altra si deplorava e detestava la sacrilega violenza di lui[486]. Dopo ch'era purgata la terra, il ristabilimento di quelle magnifiche moli, che si erano gettate a terra, e de' preziosi ornamenti che si erano convertiti in usi Cristiani, ascendeva a somme assai considerabili di danni e di debito. Gli autori del male non avevano nè abilità nè voglia di soddisfare a tali accumulate richieste; e si sarebbe fatta conoscere la imparzial saviezza di un legislatore col bilanciare le vicendevoli pretensioni e querele, mediante un equo e moderato arbitrio. Ma tutto l'Impero, e specialmente l'Oriente, cadde in confusione per gl'imprudenti editti di Giuliano, ed i Magistrati Pagani, accesi di zelo e di vendetta, abusavan del rigoroso privilegio della legge Romana, che sostituisce la persona del debitore insolvente alle sue non sufficienti sostanze. Sotto l'antecedente regno, Marco, Vescovo d'Aretusa[487], avea atteso alla conversion del suo popolo con armi più efficaci di quelle della persuasione[488]. I Magistrati richiesero l'intera valuta del tempio, che era stato distratto dall'intollerante suo zelo; ma essendo convinti della sua povertà, bramavano sol di piegar l'inflessibile animo di lui alla promessa di una tenuissima compensazione. Essi presero il vecchio Prelato, crudelmente lo flagellarono, gli strapparono la barba, e nudato il suo corpo ed unto di mele, lo sospesero in una rete fra il cielo e la terra, esponendolo alle punture degl'insetti ed a' raggi d'un sole di Siria[489]. Da quell'alto luogo, Marco persistè sempre a gloriarsi del suo delitto, e ad insultar l'impotente rabbia de' suoi persecutori. Finalmente fu liberato dalle lor mani, e mandato a godere l'onore del suo divino trionfo. Gli Arriani celebravano la virtù del pio lor Confessore; i Cattolici ambivano la sua alleanza[490]; ed i Pagani, ch'eran suscettibili di vergogna o di rimorso, furon rattenuti dal replicare tali crudeltà infruttuose[491]. Giuliano risparmiò ad esso la vita; ma se il Vescovo d'Aretusa avea salvato l'infanzia di Giuliano[492], la posterità dovrà condannare l'ingratitudine piuttosto che lodar la clemenza dell'Imperatore.
Alla distanza di cinque miglia d'Antiochia i Re Macedoni della Siria avean consacrato ad Apollo uno de' più eleganti luoghi di devozione nel Mondo Pagano[493]. Vi sorgeva un magnifico tempio in onore del Dio della luce; e la sua colossal figura[494] quasi occupava tutto il vasto santuario, ch'era arricchito d'oro e di gemme, e adornato dalla perizia de' Greci artefici. Era il Nume rappresentato in uno positura curva con una coppa d'oro in mano in atto di versare una libazione sopra la terra; quasi che supplicasse la venerabil Madre a porre la fredda e bella Dafne nelle sue braccia; e quanto al luogo erasi nobilitato per mezzo d'una finzione, avendo la fantasia de' poeti Sirj trasportato l'amorosa favola dalle rive del Peneo a quelle dell'Oronte. Dalla real colonia di Antiochia s'erano imitati gli antichi riti della Grecia. Scorreva dal Castalio fonte di Dafne una profetica onda, rivale dell'oracolo Delfico, per la verità e la fama[495]. Nella vicina campagna s'era fabbricato uno stadio per uno special privilegio[496] comprato da Elide; vi si celebravano a spese della città i giuochi Olimpici; ed ogni anno s'impiegava pel pubblico piacere un'entrata di trentamila zecchini[497]. Il perpetuo concorso di pellegrini e di spettatori formò insensibilmente nelle vicinanze del tempio il magnifico e popolato villaggio di Dafne, ch'emulava lo splendore senz'avere il titolo d'una città provinciale. Il tempio ed il villaggio eran situati nel fondo d'un folto bosco di lauri e di cipressi, che aveva una circonferenza di dieci miglia, e nella più calda state formava una fresca ed impenetrabile ombra. Mille rivi dell'acqua più pura, scorrendo giù da più colli, conservavano il verde della terra e la temperatura dell'aria; i sensi venivano allettati con armoniosi suoni ed aromatici odori; ed il quieto bosco era consacrato alla comodità, al piacere, ed all'amore. Il vigoroso giovane come Apollo seguitava l'oggetto de' suoi desiderj, e la rubiconda fanciulla era avvertita dal destino di Dafne a fuggir la follia d'una inopportuna durezza. Dal soldato e dal filosofo prudentemente evitavasi la tentazione di questo sensual paradiso[498], dove il piacere, prendendo il carattere di religione, insensibilmente rilassava la fermezza della virile virtù. Ma i boschi di Dafne continuarono per molti secoli a godere la venerazione de' nazionali e degli stranieri; furono ampliati i privilegj di quel sacro luogo dalla munificenza de' successivi Imperatori; ed ogni generazione aggiungeva nuovi ornamenti allo splendore del Tempio[499].
Allorchè Giuliano s'affrettò, nel giorno dell'annua festa, ad adorare l'Apollo di Dafne, la sua devozione era giunta al più alto segno d'ardore e d'impazienza. La vivace immaginazione di lui già gli pingeva la grata pompa delle vittime, delle libazioni e dell'incenso, una lunga processione di giovani e di fanciulle con bianche vesti, simbolo della loro innocenza, ed il tumultuoso concorso d'un innumerabile popolo. Ma lo zelo d'Antiochia, dopo il regno del Cristianesimo, avea preso una direzione diversa. Invece d'ecatombe di grassi bovi, sacrificati dalle tribù d'una ricca città al loro Dio tutelare, l'Imperatore si duole di non avervi trovato che una sola oca, provvista a spese di un sacerdote, pallido e solitario abitante del tempio cadente in rovina[500]. Era abbandonato l'altare, l'oracolo ridotto al silenzio, e la sacra terra profanata per l'introduzione di riti Cristiani e funebri. Dopo che Babila[501], Vescovo d'Antiochia, il quale morì in carcere nella persecuzione di Decio, era stato più d'un secolo nel suo sepolcro, ne fu trasportato il corpo per ordine di Gallo Cesare nel mezzo del bosco di Dafne. Su quelle reliquie si eresse una magnifica Chiesa; si usurpò una porzione di sacre terre pel mantenimento del Clero e per la sepoltura de' Cristiani d'Antiochia, i quali erano ambiziosi di giacere a' piè del loro Vescovo; ed i sacerdoti d'Apollo si ritirarono insieme co' loro intimoriti e sdegnati seguaci. Subito che un'altra rivoluzione parve che ristabilisse la fortuna del Paganesimo, la Chiesa di S. Babila fu demolita, e furono aggiunte nuove fabbriche al rovinante edifizio, innalzato dalla pietà de' Re della Siria. Ma la prima e più seria cura di Giuliano fu quella di liberare la sua oppressa Divinità dall'odiosa presenza de' Cristiani sì vivi che morti, i quali avevano tanto efficacemente soppressa la voce della frode o dell'entusiasmo[502]. Il luogo infetto fu purificato, secondo le formalità degli antichi rituali; i corpi furono decentemente rimossi, ed a' Ministri della Chiesa fu permesso di trasferir le reliquie di S. Babila all'antica loro abitazione dentro le mura d'Antiochia. In quest'occasione lo zelo de' Cristiani trascurò quel modesto contegno, che avrebbe potuto quietare la gelosia d'un governo nemico. L'alto carro che trasportava le reliquie di Babila, fu seguito, accompagnato e ricevuto da un'innumerabile moltitudine, che cantava con strepitose acclamazioni i salmi di David, i più espressivi del suo disprezzo per gl'idoli e per gl'idolatri. Il ritorno del Santo fu un trionfo, ed il trionfo un insulto alla religion dell'Imperatore, che fece pompa della sua vanità per dissimulare lo sdegno. Nella notte medesima, in cui terminò questa processione, il tempio di Dafne andò in fiamme; la statua d'Apollo fu consumata; e le mura dell'edifizio restarono un nudo ed orrido monumento di rovina. I Cristiani d'Antiochia asserivano, con religiosa sicurezza, che la potente intercessione di S. Babila avea diretto i fulmini del cielo contro quel dannato tetto; ma trovandosi Giuliano ridotto all'alternativa di credere o un delitto o un miracolo, volle piuttosto senza esitare, senza prove, ma con qualche apparenza di probabilità, imputare l'incendio di Dafne alla vendetta de' Galilei[503]. Se si fosse sufficientemente provato il loro delitto, questo avrebbe potuto giustificar la vendetta, che fu immediatamente eseguita per ordine di Giuliano, di chiuder le porte, e di confiscare i beni della Cattedrale d'Antiochia. Per iscoprire i rei del tumulto e dell'incendio, e dell'occultazione delle ricchezze della Chiesa, furon tormentati varj Ecclesiastici[504]; e fu decapitato un prete, chiamato Teodoro, per sentenza del Conte d'Oriente. Ma questo precipitoso atto fu biasimato dall'Imperatore, che si dolse con reale o affettato interesse, che l'imprudente zelo de' suoi Ministri avrebbe macchiato il suo regno colla taccia della persecuzione[505].
Lo zelo de' Ministri di Giuliano fu subito raffrenato dalla disapprovazione del loro Principe; ma quando il padre d'uno Stato si dichiara Capo d'una fazione, non può facilmente ritenersi, nè punirsi efficacemente la licenza del furor popolare. Giuliano, in un pubblico componimento, applaude alla devozione e fedeltà delle sante città della Siria, i pietosi abitanti delle quali avevano al primo segnale distrutto i sepolcri de' Galilei; e debolmente si lagna, che vendicato avessero l'ingiurie degli Dei con minor moderazione di quella ch'esso avrebbe raccomandata[506]. Può sembrar, che tale imperfetta e ripugnante confessione confermi le narrazioni ecclesiastiche, che nelle città di Gaza, d'Ascalona, di Cesarea, d'Eliopoli ec., i Pagani abusassero senza prudenza o rimorso del momento di loro prosperità; che gl'infelici oggetti di lor crudeltà non finissero d'esser tormentati che colla morte; che i loro laceri corpi essendo trascinati per le strade (tal era la rabbia universale) si pungessero dagli spiedi de' cuochi e dalle rocche delle infuriate donne, e che dopo d'essersi gustate da quegli inumani fanatici le viscere di preti e di vergini Cristiane, venisser mescolate con orzo, ed ignominiosamente gettate agl'immondi animali delta città[507]. Tali scene di religiosa pazzia presentano la più dispregevole ed odiosa pittura della natura umana; ma la strage di Alessandria richiama anche maggiore attenzione per la certezza del fatto, per la qualità delle vittime e per lo splendore della Capitale d'Egitto.
Giorgio[508], pe' suoi genitori o per l'educazione soprannominato il Cappadoce, era nato a Epifania in Cilicia nella bottega d'un purgatore di panni. Da tale oscura e servile origine s'innalzò colle arti di parassito; ed i padroni, ch'esso continuamente adulava, procurarono per l'indegno lor dipendente una lucrosa commissione o impiego di provvedere il lardo per l'esercito. Il suo uffizio era basso, ma ei lo rendè infame. Accumulò ricchezze colle arti più vili della frode e della corruzione; e furono così notori i suoi inganni, che Giorgio fu costretto a fuggire dalle ricerche della giustizia. Dopo questa disgrazia, nella quale sembra che salvasse la sua ricchezza a spese dell'onore, abbracciò con reale od affettato zelo la professione dell'Arrianismo. Per amore, o per ostentazion di dottrina, raccolse una stimabile libreria d'istoria, di rettorica, di filosofia e di teologia[509], e la scelta del partito, che prevaleva, promosse al posto d'Atanasio Giorgio di Cappadocia. L'ingresso del nuovo Arcivescovo fu quello d'un barbaro conquistatore; ed ogni momento del suo regno fu contaminato dalla crudeltà e dall'avarizia. I Cattolici d'Alessandria e dell'Egitto restarono abbandonati ad un tiranno, inclinato per natura e per educazione ad esercitar l'uffizio di persecutore; ma egli oppresse con mano imparziale tutti i varj abitanti della sua estesa Diocesi. Il Primate dell'Egitto assunse la pompa e l'insolenza dell'alto suo posto; ma sempre fece conoscere i vizj della sua bassa e servii estrazione. S'impoverirono i mercanti d'Alessandria per l'ingiusto e quasi universal monopolio, ch'egli acquistò del nitro, e del sale, della carta, de' funerali ec., ed il padre spirituale d'un gran popolo s'abbassava a praticar le vili e perniciose arti di delatore. Gli Alessandrini non poterono mai dimenticare o perdonargli la tassa, ch'ei suggerì sopra tutte le case della città, sotto l'antiquato pretesto che il real fondatore di essa avea trasferito ne' Tolomei e ne' Cesari, suoi successori, la perpetua proprietà del suolo. I Pagani, a cui lusinghevolmente s'era fatto sperare libertà e tolleranza, eccitarono la sua devota avarizia, ed i ricchi tempj d'Alessandria furono o saccheggiati o insultati dall'altero Prelato, ch'esclamava con alta e minacciante voce. «E fino a quando si permetterà, che questi sepolcri sussistano?» Sotto il regno di Costanzo, egli fu scacciato dal furore o piuttosto dalla giustizia del popolo; e non senza un violento contrasto, la forza civile e militare dello Stato potè ristabilire l'autorità, e soddisfare la sua vendetta. Il corriere, che promulgò in Alessandria l'avvenimento di Giuliano al trono, annunziò anche la caduta dell'Arcivescovo. Giorgio, insieme con due dei suoi ossequiosi ministri, il conte Diodoro e Draconzio soprintendente della zecca, furono ignominiosamente condotti in catene nelle pubbliche carceri. Al termine di ventiquattro giorni, fu aperta per forza la prigione dal furore d'una superstiziosa moltitudine, impaziente delle noiose formalità delle processure giudiciali. I nemici degli Dei, e degli uomini spirarono fra' loro crudeli insulti; i morti corpi dell'Arcivescovo e de' suoi compagni furon portati in trionfo per le strade sul dorso d'un cammello: e l'inattività del partito d'Atanasio[510] fu stimata uno splendido esempio d'Evangelica pazienza. Gli avanzi di questi rei miserabili furon gettati nel mare; ed i Capi del popolar tumulto dichiararono il loro disegno d'impedir la devozione de' Cristiani ed i futuri onori di questi martiri, ch'erano stati puniti, come i loro predecessori, da' nemici della lor religione[511]. I timori de' Pagani eran giusti, ma non servirono le loro precauzioni. La meritata morte dell'Arcivescovo cancellò la memoria della sua vita. Il rival d'Atanasio era caro e sacro agli Arriani, e l'apparente conversione di questi Settarj introdusse il culto di lui nel seno della Chiesa Cattolica[512]. L'odioso straniero, dissimulata ogni circostanza di tempo e di luogo, assunse la maschera di martire, di santo, e d'eroe Cristiano[513], e l'infame Giorgio di Cappadocia fu trasformato[514] nel celebre S. Giorgio d'Inghilterra, avvocato dell'armi, della cavalleria e dell'ordine della giarrettiera[515].
Verso quel tempo stesso, che Giuliano seppe il tumulto d'Alessandria, ebbe notizia da Edessa, che la superba e ricca fazione degli Arriani aveva insultato la debolezza de' Valentiniani, e commesso tali disordini, che non si doveano impunemente soffrire in uno Stato ben regolato. Senz'aspettare le lente formalità della giustizia, l'esacerbato Principe diresse i suoi ordini a' Magistrati d'Edessa[516], co' quali confiscava tutti i beni della Chiesa: il danaro fu distribuito a' soldati, e le terre addette al fisco; e quest'atto d'oppressione fu aggravato dalla più bassa ironia. «Io mi dimostro» dice Giuliano: «il vero amico de' Galilei. L'ammirabile lor legge ha promesso il regno de' Cieli al povero, ed essi potranno avanzarsi con maggior facilità nel cammino della virtù e della salute, qualora siano, mediante la mia assistenza, sollevati dal peso de' beni temporali. Guardate bene» prosegue il Monarca in un tuono più serio «guardate bene di non provocar la mia pazienza e mansuetudine. Se continuano questi disordini, io vendicherò i delitti del popolo sui Magistrati; e voi avrete motivo di temere non solo la confiscazione e l'esilio, ma eziandio il ferro ed il fuoco». I tumulti d'Alessandria eran senza dubbio d'una più atroce e pericolosa natura; ma era stato ucciso un Vescovo Cristiano per le mani de' Pagani, e la pubblica lettera di Giuliano somministra una viva prova dello spirito parziale del suo governo. Le sue riprensioni ai Cittadini d'Alessandria son mescolate con espressioni di stima e di tenerezza; e si duole che in questa occasione si fossero allontanati dalle gentili e generose maniere, che indicano la lor Greca origine. Gravemente censura la colpa che avevan commessa contro le leggi di giustizia e di umanità; ma ricapitola con visibile compiacenza le intollerabili provocazioni che avevan sì lungamente sofferte dall'empia tirannia di Giorgio di Cappadocia. Giuliano ammette il principio, che un saggio e vigoroso governo dovrebbe gastigar l'insolenza del popolo; pure in considerazione del lor fondatore Alessandro e di Serapide lor Divinità tutelare, concede un libero e grazioso perdono alla colpevole città, per la quale di nuovo sente l'affezione di fratello[517].
Quietato che fu il tumulto d'Alessandria, Atanasio, in mezzo alle pubbliche acclamazioni, s'assise sulla cattedra, dalla quale il suo indegno competitore l'aveva precipitato; e siccome lo zelo dell'Arcivescovo era temperato dalla discrezione, così l'esercizio della sua autorità tendeva non ad accendere, ma a riconciliare le menti del popolo. Le sue pastorali fatiche non si limitavano agli angusti confini dell'Egitto. Era presente all'attivo e capace suo spirito lo stato del Mondo Cristiano; e l'età, il merito, la riputazione d'Atanasio l'abilitarono a prendere in un momento di pericolo il posto d'Ecclesiastico Dittatore[518]. Non erano ancor passati tre anni, da che la maggior parte dei Vescovi dell'Occidente aveva per ignoranza o contro voglia soscritto la confessione di Rimini. Se ne pentivano essi, credevano, ma temevan l'inopportuno rigore dei loro ortodossi fratelli; e se la vanità fosse stata in essi più forte della fede, potevano anche gettarsi in braccio agli Arriani per evitare l'indegnità d'una pubblica penitenza, che li avrebbe ridotti allo stato d'oscuri laici. Nel tempo stesso, agitavansi con qualche calore fra i dottori Cattolici le domestiche differenze intorno all'unione e distinzione delle persone Divine; e pareva che il progresso di tal metafisica disputa minacciasse una pubblica e costante divisione delle Chiese, Greca e Latina. Dalla saviezza d'uno scelto Sinodo, a cui la presenza ed il nome d'Atanasio diede l'autorità d'un Concilio Generale, i Vescovi, ch'erano imprudentemente deviati nell'errore, furono ammessi alla comunion della Chiesa con la facile condizione di soscrivere il Simbolo Niceno, senza prendere alcuna formal cognizione della passata loro mancanza, o d'alcuna minuta definizione dei loro scolastici sentimenti. L'avviso del Primate d'Egitto avea già preparato il Clero della Gallia e della Spagna, dell'Italia e della Grecia, ad ammetter questo salutevole regolamento; e nonostante l'opposizione di alcuni fervidi spiriti[519], il timore del comun nemico promosse la pace e l'armonia dei Cristiani[520].
L'abilità e la diligenza del Primate d'Egitto avea profittato dal tempo di tranquillità, avanti che fosse interrotto dagli ostili editti dell'Imperatore[521]. Giuliano, che deprezzava i Cristiani, onorava Atanasio del sincero e particolare suo odio. Solo per causa di lui introdusse una distinzione arbitraria, che ripugnava almeno allo spirito delle sue precedenti dichiarazioni. Sostenne, che i Galilei, che avea richiamati dall'esilio, non venivano ristabiliti, mediante quella generale indulgenza, nel possesso delle respettive lor Chiese; e si dimostrò sorpreso, che un reo, che era stato più volte condannato dal giudizio degl'Imperatori, ardisse d'insultare la maestà delle leggi, ed insolentemente usurpare la sede Archiepiscopale d'Alessandria, senz'aspettar gli ordini del suo Sovrano. In pena dell'immaginario delitto, bandì Atanasio di nuovo dalla città, e si compiacque di supporre, che questo atto di giustizia sarebbe stato sommamente grato ai devoti suoi sudditi. Le vive sollecitazioni del popolo tosto lo convinsero, che la maggior parte degli Alessandrini eran Cristiani, e che la massima parte dei Cristiani era stabilmente attaccata alla causa dell'oppresso loro Primate. Ma la cognizione dei loro sentimenti, invece di persuaderlo a revocare il decreto, lo trasse ad estendere a tutto l'Egitto il termine dell'esilio d'Atanasio. Lo zelo della moltitudine rendè Giuliano sempre più inesorabile; lo mise in agitazione il pericolo di lasciare alla testa d'una tumultuosa città un Capo intraprendente o popolare, ed il linguaggio della sua collera scuopre l'opinione che egli aveva del coraggio e dell'abilità d'Atanasio. Era tuttavia differita l'esecuzione della sentenza per la cautela o negligenza d'Ecdicio, Prefetto dell'Egitto, che finalmente fu svegliato dal suo letargo con una riprensione severa. «Quantunque voi trascuriate (dice Giuliano) di scrivermi sopra qualunque altro soggetto, almeno è vostro dovere d'informarmi della vostra condotta verso Atanasio, nemico degli Dei. Vi è stata da gran tempo comunicata la mia intenzione. Giuro pel gran Serapide, che se alle calende di Decembre Atanasio non è partito da Alessandria, anzi dall'Egitto, i Ministri del vostro governo pagheranno una pena di cento libbre d'oro. Voi conoscete il mio naturale: io son lento a condannare, ma sempre più lento a perdonare». A questa lettera s'aggiunse vigore con tal breve poscritto di carattere dell'Imperatore medesimo. «Il disprezzo, che si dimostra verso tutti gli Dei, mi riempie di dispiacere e di sdegno. Non v'è cosa, che io vedessi, o ascoltassi con maggiore piacere, che l'espulsion d'Atanasio da tutto l'Egitto. Abbominevole scellerato! Sotto il mio regno le sue persecuzioni han cagionato il battesimo di più Dame Greche del più alto grado[522] ». Non fu espressamente comandata la morte d'Atanasio, ma il Prefetto dell'Egitto comprese, che era più sicuro per lui l'eccedere che il trascurare i comandi d'uno sdegnato Signore. L'Arcivescovo prudentemente si ritirò ai monasteri del deserto; eluse con la solita sua destrezza i lacci del nemico; e visse per trionfar sulle ceneri di un Principe, che in termini di formidabil trasporto avea dichiarato di bramare, che tutto il veleno della scuola Galilea si riunisse nella sola persona d'Atanasio[523].
Ho procurato di rappresentar fedelmente l'artificioso sistema, con cui Giuliano si propose d'ottenere gli effetti della persecuzione, senza incorrerne la colpa, o la taccia. Ma se un mortale spirito di fanatismo pervertì il cuore e la mente d'un Principe virtuoso, bisogna nel tempo stesso confessare, che i patimenti reali dei Cristiani furono promossi ed accresciuti dalle passioni umane e dal religioso entusiasmo. La mansuetudine e rassegnazione, che avea distinto i primi discepoli del Vangelo, era l'oggetto dell'applauso piuttosto che dell'imitazione dei loro successori. I Cristiani, che a quel tempo aveano posseduto più di quarant'anni il governo civile ed ecclesiastico dell'Impero, avevano contratto gli insolenti vizi della prosperità[524] e l'abito di credere, che i soli Santi avessero diritto di regnare sopra la terra. Appena l'inimicizia di Giuliano spogliò il Clero dei privilegi, che gli erano stati conceduti dal favore di Costantino, si lamentarono della più crudele oppressione; e la libera tolleranza degl'Idolatri e degli Eretici fu un motivo di dolore e di scandalo per la parte ortodossa[525]. Gli atti di violenza, che non erano più favoriti dai Magistrati, si commettevan sempre dallo zelo del popolo. A Pessino, fu rovesciato quasi in presenza dell'Imperatore l'altare di Cibele; e nella città di Cesarea nella Cappadocia fu distrutto il tempio della Fortuna, che era l'unico luogo di culto lasciato ai Pagani. In tali occasioni un Principe, che aveva a cuore l'onor degli Dei, non era disposto ad interrompere il corso della giustizia; ed il suo animo era sempre più fortemente inasprito, allorchè vedeva che i fanatici, i quali avevan meritata e portata la pena degl'incendiari, venivan premiati con gli onori del martirio[526]. I sudditi Cristiani di Giuliano eran sicuri degli ostili disegni del loro Principe; ed ogni circostanza del suo governo potea somministrare alla gelosa loro apprensione qualche fondamento di disgusto e di sospetto. Nell'amministrazione ordinaria della giustizia i Cristiani che formavano una porzione sì grande del popolo, dovevano esser frequentemente condannati; ma i loro indulgenti fratelli, senz'esaminare il merito delle cause li supponevano innocenti, ne accordavano le pretensioni, ed imputavan la severità del lor giudice alla parzial malizia d'una religiosa persecuzione[527]. I travagli presenti, per quanto parer potessero intollerabili, si rappresentavano come un leggiero preludio delle imminenti calamità. I Cristiani risguardavan Giuliano come un crudele ed artificioso tiranno, che sospendeva l'esecuzione della sua vendetta, finchè fosse tornato vittorioso dalla guerra Persiana. Essi aspettavano che tosto che avesse trionfato degli esterni nemici di Roma, si sarebbe tolta dal viso la molesta maschera della dissimulazione; che gli anfiteatri si sarebber veduti inondati del sangue di Eremiti e di Vescovi; e che i Cristiani, che avessero perseverato nella profession della fede, verrebbero privati dei comuni benefizi della natura e della società[528]. Ogni calunnia[529], che ferir potesse la riputazione dell'Apostata veniva subito creduta dal timore e dall'odio de' suoi avversari; ed i loro indiscreti clamori provocavano l'indole d'un Sovrano, ch'era loro dovere di rispettare, e loro interesse di addolcire. Continuavano in vero a protestare che le preghiere e le lagrime erano le uniche loro armi contro l'empio tiranno, il capo del quale rilasciavano alla giustizia del Cielo oltraggiato. Ma con torva risolutezza facean capire, che la lor sommissione non era più l'effetto della debolezza, e che nello stato imperfetto dell'umana virtù, la pazienza, che solo è fondata sopra le massime, potava esaurirsi dalla persecuzione. Non può determinarsi fino a qual segno lo zelo di Giuliano ne avrebbe superato il buon senso e l'umanità, ma se riflettiamo seriamente alla forza ed allo spirito della Chiesa, resteremo convinti, che prima di poter estinguere la religione di Cristo, l'Imperatore avrebbe dovuto involgere lo Stato negli orrori d'una guerra civile[530].
CAPITOLO XXIV.
Residenza di Giuliano in Antiochia. Sua felice spedizione contro i Persiani. Passaggio del Tigri. Ritirata e morte di Giuliano. Elezione di Gioviano. Egli salva l'esercito Romano per mezzo d'un vergognoso trattato.
La favola filosofica, che Giuliano compose col titolo de' Cesari[531], è una delle più piacevoli ed utili produzioni dell'antico sapere[532]. Nel tempo della libertà ed uguaglianza, che somministravano i Saturnali, Romolo preparò un convito per le Divinità dell'Olimpo, che l'avevano stimato degno della lor società, e pei Principi Romani, che avean regnato sopra il marziale suo popolo e le soggiogate nazioni della terra. Gli Dei eran distribuiti in buon ordine su' magnifici loro troni; e sotto la luna era apparecchiata la tavola pei Cesari nella più alta regione dell'aria. I Tiranni che disonorato avrebber la compagnia degli uomini e degli Dei, dall'inesorabile Nemesi venivan precipitati giù nell'abisso tartareo. Gli altri Cesari s'avanzavano, l'un dopo l'altro, verso i lor posti; e, mentre passavano, il vecchio Sileno, giocoso moralista, che sotto la maschera d'un baccanale cuopriva la saviezza di un filosofo, maliziosamente notava i vizi, i difetti e le macchie de' respettivi loro caratteri[533]. Quando fu terminato il convito, Mercurio promulgò il decreto di Giove, che una corona celeste fosse il premio del merito più sublime. Furono scelti come i più illustri candidati Giulio Cesare, Augusto, Traiano e Marco Antonino; non fu escluso l'effeminato Costantino[534] da tal onorevole concorrenza, e fu invitato Alessandro Magno a disputare il glorioso premio a' Romani Eroi. Fu permesso a ciaschedun candidato d'esporre il merito delle proprie geste; ma, secondo il giudizio degli Dei, il modesto silenzio di Marco perorò con maggior efficacia, che l'elaborate orazioni de' superbi rivali di lui; ed apparve sempre più decisiva e cospicua la superiorità dello stoico Imperiale, allorchè i Giudici di quella terribil contesa procederono ad esaminare il cuore ed a scrutinare i motivi delle azioni[535]. Alessandro, e Cesare, Augusto, Traiano e Costantino confessarono con rossore, che l'importante argomento de' loro travagli era stato la fama, la potenza o il piacere: ma gli Dei medesimi risguardarono con rispetto ed amore un virtuoso mortale, che sul trono avea posto in pratica gl'insegnamenti della filosofia, e che nello stato dell'imperfezione umana aveva aspirato ad imitare i morali attributi della Divinità. Il grado dell'Autore fa crescer di pregio questa piacevole opera ( i Cesari di Giuliano). Un Principe, che dipinge con libertà i vizi e le virtù de' suoi predecessori, sottoscrive ad ogni verso la censura o l'approvazione della propria condotta.
Ne' freddi momenti della riflessione, Giuliano anteponeva ad ogni cosa le utili e benefiche virtù d'Antonino; ma l'ambizioso suo spirito era infiammato dalla gloria d'Alessandro; ed egli desiderava, con uguale ardore, la stima de' savi e l'applauso della moltitudine. In quel tratto della vita umana, in cui le facoltà della mente e del corpo godono il vigore più attivo, l'Imperatore, istruito dall'esperienza ed animato dal buon successo della guerra Germanica, risolvè di segnalare il suo regno con qualche più splendida e memorabile impresa. Gli Ambasciatori dell'Oriente, fino dal Continente dell'India e dall'Isola di Ceilan[536] avean salutato rispettosamente la porpora Romana[537]. Le nazioni Occidentali stimavano e temevano le personali virtù di Giuliano, tanto in pace che in guerra. Egli disprezzava i trofei d'una vittoria Gotica[538], ed era persuaso che i rapaci Barbari del Danubio si sarebber guardati da ogni futura violazione della fede dei trattati, pel terror del suo nome, e per le fortificazioni che aveva aggiunto alle frontiere della Tracia o dell'Illirico. Il successore di Ciro e d'Artaserse era l'unico rivale, che stimava degno delle sue armi; e risolvè di castigare, mediante l'intera conquista della Persia, quell'altiera Nazione, che avea per tanto tempo resistito e fatto insulto alla Romana Maestà[539]. Appena seppe il Monarca Persiano, che il trono di Costanzo era occupato da un Principe d'indole assai diversa, condiscese a fare alcune artificiose, o forse anche sincere pratiche per un trattato di pace. Ma restò sorpreso l'orgoglio di Sapore dalla fermezza di Giuliano, che altamente dichiarò di non voler mai acconsentire a tenere alcuna pacifica conferenza fra gl'incendi e le rovine delle città della Mesopotamia; e che soggiunse con un disprezzante sorriso, ch'era inutile di trattare per mezzo di Ambasciatori, mentre aveva determinato di visitar da se stesso in breve la Corte di Persia. L'impazienza dell'Imperatore sollecitò la diligenza de' militari preparativi. Furono eletti i Generali; fu destinato per quest'importante impresa un esercito formidabile; e Giuliano, da Costantinopoli marciando per le Province dell'Asia Minore, giunse ad Antiochia, circa otto mesi dopo la morte del suo predecessore. L'ardente suo desiderio d'internarsi nel cuor della Persia venne raffrenato dall'indispensabile dovere di regolare lo stato dell'Impero, dallo zelo di far risorgere il culto degli Dei, e dal consiglio de' più saggi suoi amici, che gli rappresentarono la necessità d'interporre il salutare intervallo de' quartieri d'inverno per ristorare l'esausta forza delle Legioni della Gallia, e la disciplina e lo spirito delle truppe Orientali. Giuliano s'indusse a stabilire fino alla primavera seguente la sua residenza in Antiochia; in mezzo ad un popolo maliziosamente disposto a deridere la fretta, ed a censurare le dilazioni del suo Sovrano[540].
Se Giuliano si fosse lusingato, che la personal sua dimora nella capitale dell'Oriente dovesse produrre una vicendevol soddisfazione al Principe ed al Popolo, avrebbe formato una ben falsa idea del proprio carattere e de' costumi d'Antiochia[541]. Il calore del clima disponeva gli abitanti ai più sfrenati piaceri che nascano dalla tranquillità e dall'opulenza, ed in essi riunivasi la vivace libertà dei Greci all'ereditaria mollezza de' Sirj. La moda era l'unica legge, il piacere l'unico scopo, e lo splendor delle vesti e degli arredi l'unica distinzione de' cittadini d'Antiochia. Si onoravan le arti di lusso; le virtù serie e virili eran poste in ridicolo, ed il disprezzo per la modestia femminile e per la venerabil vecchiezza annunziava la universal corruzione della capitale dell'Oriente. L'amore degli spettacoli formava il gusto, o piuttosto la passione de' Sirj; si chiamavano dalle vicine città[542] i più valenti artefici; si consumava in pubblici divertimenti una considerabil porzione dell'entrate; e la magnificenza de' giuochi del teatro e del circo risguardavasi come la felicità e la gloria d'Antiochia. I rozzi costumi d'un Principe, che sdegnava tal gloria, e non assaporava una felicità di tal sorta, disgustarono ben presto la delicatezza de' propri sudditi; e gli effeminati Orientali non poterono nè imitare nè ammirar la severa semplicità, che sempre si usava, ed alle volte affettavasi da Giuliano. I giorni di solennità, consacrati dall'antico rito all'onor degli Dei, somministravan ad esso le sole occasioni di rilassare la filosofica severità; e questi appunto erano i soli giorni, ne' quali astener si potevano i Sirj d'Antiochia dalle lusinghe del piacere. La maggior parte del popolo sosteneva la gloria del nome Cristiano, che era stato per la prima volta inventato da' loro Maggiori[543]: essi non si facevano scrupolo di trasgredire i precetti morali, ma erano scrupolosamente attaccati allo dottrine speculative della lor religione. La Chiesa Antiochena era lacerata dall'eresia e dallo scisma; ma negli Arriani e negli Atanasiani, nei seguaci di Melezio ed in quelli di Paolino[544] ardeva il medesimo devoto odio del comune loro avversario.
Si nutriva il più forte pregiudizio contro il carattere d'un apostata, nemico e successore d'un Principe, che s'era conciliato l'affetto di una Setta assai numerosa; e la traslazione di S. Babila eccitò un implacabile odio contro la persona di Giuliano. I sudditi di lui si lagnavano con superstiziosa indignazione, che la carestia avea seguitato i passi dell'Imperatore da Costantinopoli ad Antiochia; e fu esacerbata la malcontentezza d'un affamato popolo dall'imprudente sforzo di sollevarne le angustie. L'inclemenza della stagione avea danneggiato le raccolte della Siria, e ne' mercati d'Antiochia il prezzo del pane[545] era naturalmente cresciuto in proporzione della scarsezza del grano. Ma la giusta e ragionevole proporzione fu tosto violata da' rapaci artifizi del monopolio. In questa disugual contesa, in cui da una parte il prodotto della terra si pretende che sia nel proprio esclusivo dominio, da un altra si riguarda come un oggetto lucrativo di commercio, e si ricerca da una terza parte pel quotidiano e necessario mantenimento della vita, tutti i guadagni degli agenti, intermedj vanno a posarsi sul capo de' miseri consumatori. La durezza della loro situazione veniva esagerata ed accresciuta dalla loro impazienza ed inquietudine; ed il timore della scarsità produsse appoco appoco l'apparenza d'una carestia. Quando i voluttuosi cittadini d'Antiochia si lamentarono del caro prezzo dei polli e del pesce, Giuliano pubblicamente dichiarò che una città frugale avrebbe dovuto contentarsi di una regolar quantità di vino, d'olio e di pane; riconosceva egli però ch'era dover di un Sovrano il provvedere alla sussistenza del popolo. Con questo salutevole fine, l'Imperatore arrischiossi ad un passo molto pericoloso ed incerto, a determinare cioè con legale autorità il valore del grano. Egli ordinò, che in un tempo di scarsità si vendesse ad un prezzo, che rare volte aveva avuto luogo negli anni di maggiore abbondanza; ed affinchè il proprio esempio desse vigore alla legge, mandò al mercato quattrocento ventiduemila moggi o misure, che si trassero per ordine di lui da granai di Gerapoli, di Calcide ed anche d'Egitto. Se ne potevano prevedere le conseguenze, e ben presto ebbero effetto. Si comprò da ricchi mercanti il grano Imperiale; i proprietari di terre o di frumento non ne mandarono più alla città la solita dose, e le piccole quantità di grano, che comparivano in mercato, erano segretamente vendute ad un anticipato ed illegittimo prezzo. Giuliano continuò sempre a gloriarsi della sua politica, risguardò i lamenti del popolo come vani ed ingrati romori, e convinse Antiochia, ch'esso aveva ereditato se non la crudeltà, almeno l'ostinazione di Gallo, di lui fratello[546]. Le rimostranze del Senato municipale non servirono che ad inasprire l'inflessibil suo spirito. Egli era persuaso, forse a diritto, che i Senatori stessi d'Antiochia, i quali possedevano dei terreni, ed erano interessati nel commercio, avessero contribuito alle calamità del lor paese; ed attribuiva l'irriverente ardire, che usavano, ad un sentimento non già di pubblico dovere, ma di privato vantaggio. Tutto quel Corpo, composto di dugento de' più nobili e ricchi cittadini, fu mandato sotto custodia dal palazzo in prigione; e sebbene, avanti che finisse la sera, fosse loro accordato di tornare alle respettive loro case[547], l'Imperatore non potè da essi ottenere il perdono, ch'egli aveva loro sì facilmente concesso. I medesimi pesi erano continuamente il soggetto delle medesime querele, che si facevano ad arte circolare dalla astuzia e leggerezza de' Greci della Siria. Ne' licenziosi giorni de' Saturnali, risonavan le strade d'Antiochia di canzoni insolenti, che deridevan le leggi, la religione, la personal condotta e fino la barba dell'Imperatore; e la connivenza de' Magistrati, non meno che l'applauso della moltitudine, manifestavan lo spirito d'Antiochia[548]. Il discepolo di Socrate fu troppo profondamente punto da tali popolari indulti; ma il Monarca, dotato di viva sensibilità, e che possedeva un assoluto potere, negò alle sue passioni la soddisfazione della vendetta. Un tiranno avrebbe, senza distinzione, proscritto le vite ed i beni dei cittadini d'Antiochia; i deboli Sirj avrebber dovuto pazientemente sottoporsi alla brutalità ed alla rapace barbarie delle fedeli Legioni della Gallia. Una sentenza più dolce avrebbe potuto privare la capitale dell'Oriente de' suoi onori e privilegi; ed i cortigiani e forse anche tutti i sudditi di Giuliano avrebbero applaudito ad un atto di giustizia, che sosteneva la dignità del Magistrato supremo della Repubblica[549]. Ma invece d'abusare o di fare pompa dell'autorità dell'Impero per vendicare le personali sue ingiurie, Giuliano si contentò di una innocente maniera di vendetta, che pochi Principi sarebbero in grado di poter usare. Esso era stato insultato con satire e con libelli; compose dunque ancora egli un'ironica confessione de' propri difetti ed una severa satira dei licenziosi ed effeminati costumi d'Antiochia col titolo di Nemico della barba. Fu pubblicamente esposta questa replica Imperiale avanti alle porte del palazzo; e tuttavia sussiste il Misopogon[550] come un singolar monumento dell'ira, dell'ingegno, della umanità e dell'indiscretezza di Giuliano. Quantunque egli affettasse di ridere, non potè perdonare[551]. Espresse il suo disprezzo, e potè soddisfare la sua vendetta col nominare un Governatore[552] degno solo di tali soggetti; e rinunziando l'Imperatore per sempre all'ingrata città, pubblicò la sua risoluzione di passare il prossimo inverno a Tarso nella Cilicia[553].
Contuttocciò in Antiochia trovavasi un cittadino, il genio e le virtù del quale nell'opinione di Giuliano potevan purgare i vizi e la follia della patria di lui. Il Sofista Libanio era nato nella capital dell'Oriente; professò pubblicamente le arti di retore e di declamatore in Nicea, in Nicomedia, in Costantinopoli, in Atene, e passò il resto della sua vita in Antiochia. La scuola di lui era continuamente frequentata dalla gioventù della Grecia; i suoi discepoli, che alle volte passarono il numero di ottanta, celebravano l'incomparabil loro maestro; e la gelosia de' suoi rivali, che lo perseguitava da una città in un'altra, confermò la opinion favorevole, che Libanio ostentava, del sublime suo merito. I precettori di Giuliano avevano estorto da esso una imprudente ma solenne promessa, ch'ei non avrebbe mai letto gli scritti del loro avversario; la curiosità del giovine reale repressa vie più si accese; cercò segretamente le opere di quel pericoloso Sofista, ed appoco appoco sorpassò nella perfetta imitazione del suo stile i più laboriosi fra' domestici uditori di lui[554]. Allorchè Giuliano salì sul trono, dichiarò l'impazienza, che aveva, d'abbracciare e di premiare il Sofista della Siria, che in un secolo corrotto avea conservato la purità del gusto, de' costumi e della religione della Grecia. La prevenzione dell'Imperatore fu accresciuta e giustificata dal prudente orgoglio del suo favorito. Libanio, in luogo d'affrettarsi co' primi del popolo al palazzo di Costantinopoli, tranquillamente attese l'arrivo di lui in Antiochia; si ritirò dalla Corte a' primi sintomi di freddezza e d'indifferenza; per ogni visita esigeva un invito formale, e diede al suo Sovrano l'importante lezione, che ei poteva comandar l'ubbidienza ad un suddito, ma che bisognava meritar l'affezione d'un amico. I Sofisti d'ogni tempo, sprezzando, o affettando di sprezzare le accidentali distinzioni della nascita e della fortuna[555], riservano la propria stima per le superiori qualità dello ingegno, delle quali sono essi così abbondantemente dotati. Giuliano potea non curare le acclamazioni di una Corte venale, che adorava l'Imperial porpora; ma era sommamente allettato dalla lode, dagli avvertimenti, dalla libertà e dall'invidia d'uno indipendente filosofo, che ricusava i suoi favori, amava la sua persona, ne celebrava la fama, e proteggevane la memoria. Tuttavia sussistono le voluminose opere di Libanio, che per la maggior parte son vani ed oziosi componimenti d'un oratore, che coltivava la scienza delle parole, e produzioni d'uno studioso ritirato, la mente del quale, disprezzando i suoi contemporanei, era sempre fissa nella guerra Troiana e nella Repubblica Ateniese. Pure il Sofista d'Antiochia discese alle volte da tale immaginaria elevazione; tenne una moltiplice ed esatta corrispondenza[556]; lodò le virtù dei suoi tempi; arditamente attaccò gli abusi della vita pubblica e privata; ed eloquentemente difese la causa d'Antiochia contro la giusta collera di Giuliano e di Teodosio. La vecchiezza comunemente ha la disgrazia[557] di perdere tutto ciò, che avrebbe potuto renderla desiderabile; ma Libanio provò il particolar dispiacere di sopravvivere alla religione ed alle scienze, alle quali consacrato aveva il suo genio. L'amico di Giuliano dovè con isdegno essere spettatore del trionfo del Cristianesimo; ed il superstizioso suo spirito, che oscurava il prospetto del Mondo visibile, non inspirò a Libanio alcuna viva speranza della felicità e della gloria celeste[558].
A. D. 363
La marziale impazienza di Giuliano l'indusse a mettersi in campagna al principio della primavera; e licenziò con disprezzo e con rimproveri il Senato di Antiochia, che accompagnò l'Imperatore al di là dei confini del suo territorio, nel quale aveva egli risoluto di non tornare mai più. Dopo una faticosa marcia di due giorni[559] si fermò il terzo a Berea, ovvero Aleppo, dov'ebbe la mortificazione di trovare un Senato quasi tutto Cristiano, che ricevè con fredde e formali dimostrazioni di rispetto l'eloquente discorso dell'Apostolo del Paganesimo. Il figlio d'uno de' più illustri cittadini di Berea, che per interesse o per coscienza aveva abbracciato la religione dell'Imperatore, fu diseredato dall'irato suo genitore. Sì il padre che il figlio furono invitati alla mensa Imperiale. Giuliano, postosi in mezzo fra loro, procurò, ma inutilmente, d'inculcare insegnamenti ed esempi di tolleranza; soffrì con affettata tranquillità l'indiscreto zelo del vecchio Cristiano, che parve dimenticare i sentimenti della natura ed il dovere di suddito; e finalmente rivolto all'afflitto giovine: «giacchè avete perduto un padre (gli disse) per mia cagione, a me tocca il supplire in sua vece»[560]. L'Imperatore fu accolto in un modo assai più conforme ai suoi desiderj a Batne, piccola città deliziosamente situata in un bosco di cipressi, distante circa venti miglia dalla città di Gerapoli. Gli abitanti di Batne, che sembravano attaccati al culto di Apollo e di Giove, loro tutelari Divinità, decentemente prepararono i riti solenni del sacrifizio; ma rimase offesa la seria devozione di Giuliano, dal tumulto del loro applauso, e troppo chiaramente si accorse che il fumo, che alzavasi dai loro altari, era piuttosto un incenso d'adulazione che di pietà. Non esisteva più l'antico e magnifico tempio, che aveva per tanti secoli santificato la città di Gerapoli[561]; e forse i beni sacri, che somministravano un abbondante mantenimento a più di trecento Sacerdoti, ne accelerarono la rovina. Giuliano però ebbe la soddisfazione di abbracciare un filosofo ed un amico, la religiosa fermezza del quale avea resistito alle pressanti e replicate sollecitazioni di Costanzo e di Gallo, tutte le volte che que' Principi nel passar da Gerapoli aveano preso alloggio nella sua casa. Tanto nella confusione de' militari apparecchi, quanto nella tranquilla confidenza d'una famigliare amicizia, sembra che lo zelo di Giuliano fosse vivo ed uniforme. Aveva egli allora intrapreso un'importante e difficile guerra; e l'incertezza dell'evento lo rendea sempre più attento nell'osservare e notare i più minuti presagi, da' quali secondo le regole della divinazione potesse trarsi qualche cognizion del futuro[562]; nè lasciò d'informar Libanio del suo avanzarsi fino a Gerapoli, con una elegante lettera[563] che spiega la felicità del suo ingegno e la tenera amicizia che aveva pel Sofista Antiocheno.
Si era destinata Gerapoli, posta quasi sulle rive dell'Eufrate[564], per la generale riunione delle truppe Romane, che immediatamente passarono quel gran fiume sopra un ponte di barche, ch'era stato precedentemente preparato[565]. Se le inclinazioni di Giuliano fossero state simili a quelle del suo predecessore, avrebbe consumato l'attiva ed importante stagione dell'anno nel circo di Samosata, o nelle Chiese d'Edessa. Ma siccome il guerriero Imperatore avea preso per suo modello Alessandro piuttosto che Costanzo, s'avanzò immediatamente verso Carre[566], città molto antica della Mesopotamia, distante ottanta miglia da Gerapoli. Il tempio della Luna richiamò la devozione di Giuliano, ma la fermata di pochi giorni s'impiegò principalmente in compire gl'immensi preparativi della guerra Persiana. Fin qui aveva egli tenuto celato il segreto della disposizione; ma essendo Carre il punto di separazione delle due grandi strade, non potè più nascondere se meditava d'attaccare i dominj di Sapore dalla parte del Tigri, o da quella dell'Eufrate. L'Imperatore distaccò un'armata di trentamila uomini sotto il comando di Procopio suo congiunto, e di Sebastiano ch'era stato Duce dell'Egitto; ed ordinò loro, che dirigesser la marcia verso Nisibi per assicurar le frontiere dalle improvvise scorrerie del nemico, avanti di tentare il passaggio del Tigri. Le seguenti loro operazioni rimesse furono alla discrezione de' Generali medesimi; ma Giuliano sperava, che dopo d'aver posto a ferro e fuoco i fertili distretti della Media e dell'Adiabene, avrebber potuto giungere sotto le mura di Ctesifonte verso il medesimo tempo, in cui egli, avanzandosi con ugual passo lungo le sponde dell'Eufrate, avrebbe assediato la capitale della Monarchia Persiana. Il buon successo di questo ben concertato disegno dipendeva in gran parte dall'efficace e pronto aiuto del Re d'Armenia, che poteva, senza esporre ad alcun rischio la sicurezza de' suoi Stati, distaccare quattromila cavalli e ventimila fanti in aiuto de' Romani[567]. Ma il debole Arsace Tirano[568], Re d'Armenia, aveva degenerato viepiù vergognosamente che suo padre Cosroe dalle virili virtù del gran Tiridate; e siccome l'imbecille Monarca era contrario ad ogni impresa di pericolo e di gloria, egli potè mascherare la timida sua indolenza con le più decenti scuse di religione e di gratitudine. Dichiarò un devoto attaccamento alla memoria di Costanzo dalle mani del quale, avea ricevuto per moglie Olimpiade, figlia del Prefetto Ablavio, e la congiunzione d'una donna, educata per esser moglie dell'Imperator Costante, esaltava la dignità d'un Re Barbaro[569]. Tirano professava la Religione Cristiana; regnava sopra un popolo di Cristiani, ed ogni principio di coscienza e d'interesse lo riteneva dal contribuire alla vittoria, che avrebbe portato seco la rovina della Chiesa. Lo spirito già alienato di Tirano fu inasprito dall'indiscretezza di Giuliano, che trattò il Re d'Armenia come suo schiavo e come il nemico degli Dei. Il superbo e minaccioso stile degl'Imperiali comandi[570] eccitò il segreto sdegno d'un Principe, che nell'umiliante stato di dipendenza tuttavia ricordavasi della sua real discendenza dagli Arsacidi, padroni una volta dell'Oriente e rivali della potenza Romana.
Le militari disposizioni di Giuliano furono artificiosamente prese in maniera da ingannare le spie, e divertir l'attenzione di Sapore. Pareva che le Legioni dirizzassero la loro marcia verso Nisibi ed il Tigri. Ad un tratto si voltarono a destra; attraversarono la uguale e nuda pianura di Carre, e giunsero il terzo giorno alle rive dell'Eufrate, dove i Re Macedoni avean fabbricato la forte città di Niceforio o Callinico. Quindi l'Imperatore proseguì la sua marcia per più di novanta miglia lungo il tortuoso corso dell'Eufrate, sinchè circa un mese dopo la sua partenza da Antiochia, scuoprì finalmente le torri di Circesio, ultimo limite del dominio Romano. L'esercito di Giuliano, più numeroso di qualunque altro che alcun Imperatore avesse condotto contro i Persiani, consisteva in sessantacinquemila effettivi e ben disciplinati soldati. Erano state scelte da varie Province le truppe veterane di cavalleria e d'infanteria, di Romani e di Barbari; ed i valorosi Galli, che guardavano il trono e la persona dell'amato lor Principe, arrogavansi una giusta preeminenza di fedeltà e di valore. Si era trasportato da un altro clima e quasi da un altro Mondo un formidabile corpo di Sciti ausiliari per invadere un lontano paese, di cui non sapevano essi la situazione, nè il nome. L'amore della rapina o della guerra tirò agl'Imperiali stendardi più tribù di Saracini o di Arabi vagabondi, che Giuliano facea militare, nel tempo che fortemente ricusava di pagar loro i consueti sussidi. Era occupato il largo canale dell'Eufrate[571] da una flotta di mille e cento navi, destinate a seguitar i movimenti ed a supplire a' bisogni dell'armata Romana. La forza militare della flotta era composta di cinquanta galere armate; e a queste s'univa un ugual numero di barche piatte, che alle occorrenze si potevan connettere insieme in forma di mobili ponti. Le altre navi, parte costrutte di tavole, e parte coperte di pelli crude, eran cariche d'una quasi infinita quantità di armi e di macchine, di utensili e di provvisioni. La vigilante umanità di Giuliano aveva fatto imbarcare una grandissima dose di aceto e di biscotto per uso de' soldati, ma proibì la mollezza del vino; e rigorosamente arrestò una lunga serie di cammelli superflui, che incominciavano a seguitare la retroguardia dell'esercito. Il fiume Cabora si getta nell'Eufrate a Circesio[572]; ed appena la tromba diede il segno, i Romani passarono quel piccol torrente, che separava i due potenti ed ostili Imperi. L'uso della antica disciplina esigeva un'orazion militare; e Giuliano prendeva ogni occasione di far pompa della sua eloquenza. Egli animò le impazienti ed attente Legioni coll'esempio dell'inflessibil coraggio e dei gloriosi trionfi dei loro maggiori; eccitonne lo sdegno con una vivace pittura dell'insolenza dei Persiani; e le esortò ad imitare la sua ferma risoluzione o di estirpare quella perfida razza; o di sacrificare la propria vita in vantaggio della Repubblica. Fu invigorita l'eloquenza di Giuliano da un donativo di centotrenta monete d'argento per soldato; ed immediatamente fu rotto il ponte di Cabora per convincer le truppe, che non dovevan collocar le speranze di salvezza, che nel successo delle loro armi. Tuttavia la prudenza dell'Imperatore l'indusse ad assicurare una distante frontiera, esposta di continuo alle scorrerie degli Arabi nemici. Lasciò a Circesio un distaccamento di quattromila uomini che con quelli, che già v'erano, compiva il numero di diecimila soldati, regolar guarnigione di quella importante Fortezza[573].
Subito che i Romani entrarono nel paese[574] d'un attivo ed artificioso nemico, fu disposto in tre colonne[575] l'ordine della marcia. Fu posta nel centro la forza dell'infanteria, e per conseguenza di tutto l'esercito, sotto il particolar comando di Vittore, Generale di essa. A destra il valoroso Nevitta conduceva una colonna di varie legioni lungo le sponde dell'Eufrate, e quasi sempre in vista della flotta, e la colonna della cavalleria proteggeva il fianco sinistro dell'esercito. Ormisda ed Arinteo furono eletti Generali della cavalleria; e le singolari avventure del primo di essi meritano la nostra attenzione[576]. Egli era un Principe Persiano della stirpe reale de' Sassanidi, che nelle turbolenze della minorità di Sapore, dalla prigione erasi rifuggito all'ospital Corte di Costantino Magno. A principio eccitò egli la compassione, ed in seguito acquistò la stima dei suoi nuovi Signori. Il valore e la fedeltà l'innalzarono agli onori militari del Romano Impero; e quantunque Cristiano, esso nutriva il segreto piacere di convincer l'ingrata sua patria, che un suddito oppresso può divenire il più pericoloso nemico. Tal era la disposizione delle tre principali colonne. La fronte ed i fianchi dell'esercito venivano coperti da Luciliano con un corpo volante di mille cinquecento soldati di leggiera armatura, l'attiva vigilanza dei quali osservava i segni più remoti, e portava le più opportune notizie d'ogni avvicinamento nemico. Dagalaifo e Secondino, Duce d'Osroena, comandavan le truppe della retroguardia, il bagaglio marciava con sicurezza negli intervalli delle colonne; e le file, o sia per uso, o per ostentazione, eran disposte in tal ordine, che tutta la linea della marcia estendeva a quasi dieci miglia. L'ordinario posto di Giuliano era alla testa della colonna centrale; ma siccome esso preferiva i doveri di Generale allo stato di Monarca, rapidamente correva, con una piccola scorta di cavalleggieri, alla fronte, alla retroguardia, a' fianchi, e dovunque la sua presenza poteva animare o proteggere le mosse dell'armata Romana. Il paese, che traversarono dal Cabora fino alle terre coltivate dell'Assiria, può considerarsi come una parte del deserto dell'Arabia, vale a dire un arido e nudo terreno, che non potè mai coltivarsi dalle arti più efficaci dell'umana industria. Giuliano marciò sulla medesima strada, che era stata fatta intorno a settecento anni prima da Ciro il Giovane, e che vien descritta dal saggio ed eroico Senofonte, uno dei compagni della sua spedizione[577]. «Il terreno era tutto piano fino al mare, e pieno di piante d'assenzio; e se vi nasceva qualche altra specie di arboscelli o di canne, avevano tutti un odore aromatico, ma non vi si vedevano alberi. Pareva che i soli abitatori di quel deserto fossero struzzi ed ottarde (specie di oche dette granajole ) gazzelle ed asini selvaggi[578], e le fatiche della marcia eran mitigate dai divertimenti della caccia». Frequentemente dal vento era sollevata la minuta sabbia del deserto in nuvole di polvere; ed una gran parte dei soldati di Giuliano, insieme con le lor tende, venivano ad un tratto gettati a terra dalla violenza d'improvvisi Oragani.
Le arenose pianure della Mesopotamia erano abbandonate alle gazzelle ed agli asini selvaggi del deserto; ma sulle rive dell'Eufrate e nelle isole accidentalmente formate da quel fiume, trovavasi una quantità di popolate città e di villaggi assai piacevolmente situati. La città di Annah o Anato[579], attual residenza d'un Emir Arabo, è composta di due lunghe strade, che chiudono in una Fortezza naturale una piccola isola nel mezzo, e due fertili pezzi da ciaschedun lato dell'Eufrate. I guerrieri abitanti di Anato mostrarono qualche disposizione ad arrestare il progresso di un Romano Imperatore, finattanto che non furono distolti da quella fatal presunzione, per le dolci esortazioni del Principe Ormisda ed i prossimi terrori della flotta e dell'esercito. Implorarono essi ed esperimentarono la clemenza di Giuliano, che trasferì il popolo in un luogo vantaggioso vicino a Calcide nella Siria, e diede a Puseo, loro Governatore, un posto onorevole nella sua milizia e confidenza. Ma l'inespugnabil Fortezza di Tiluta potè disprezzar la minaccia d'un assedio, e l'Imperatore si dovè contentare dell'insultante promessa, che quando egli avrebbe soggiogato le interne Province della Persia, Tiluta non avrebbe più ricusato di onorare il trionfo del conquistatore. Gli abitatori dei luoghi aperti essendo incapaci di resistere, e non volendo cedere, precipitosamente fuggivano; e le loro case, piene di spoglie e di provvisioni, erano occupate dai soldati di Giuliano, che senza rimorso ed impunemente trucidarono alcune donne senza difesa. Durante la marcia, il Surenas o Generale Persiano, e Malek Rodosace, famoso Emir della tribù di Gassan[580], continuamente andavan girando intorno all'armata; s'intercettava chiunque scostavasi dall'esercito; ogni distaccamento era attaccato; ed il valente Ormisda con qualche difficoltà potè liberarsi dalle lor mani. Ma i Barbari furono finalmente respinti; il paese diveniva sempre meno favorevole alle operazioni della cavalleria; e quando i Romani giunsero a Macepratta osservarono le rovine della muraglia, che era stata costrutta dagli antichi Re dell'Assiria per assicurare i loro Stati dalle scorrerie dei Medi. Questi preliminari della spedizion di Giuliano par che occupassero circa quindici giorni; e possiamo computare quasi trecento miglia dalla Fortezza di Circesio alle mura di Macepratta[581].
La fertile Provincia dell'Assiria[582], che s'estendeva al di là del Tigri fino alle montagne della Media[583], conteneva circa quattrocento miglia, dall'antica muraglia di Macepratta fino al territorio di Basra, dove le acque dell'Eufrate e del Tigri vanno insieme a scaricarsi nel golfo Persico[584]. A tutto quel tratto potrebbe darsi il particolar nome di Mesopotamia, mentre i due fiumi, che non son mai più distanti di cinquanta miglia fra loro, fra Bagdad e Babilonia si avvicinano alla distanza di venticinque. Una quantità di canali, scavati senza molta fatica in un suolo molle e cedente, congiungevano i fiumi, ed intersecavano il piano dell'Assiria. Gli usi di questi artificiali canali eran varj ed importanti: servivano a scaricare le acque superflue da un fiume nell'altro al tempo delle respettive loro innondazioni: suddividendosi in sempre più piccoli rami, rinfrescavano le aride terre, e supplivano alla mancanza della pioggia; facilitavano la comunicazione ed il commercio in tempo di pace; e siccome potevano prestamente rompersi le cateratte, somministravano alla disperazione degli Assirj i mezzi di opporre un subitaneo diluvio al progresso d'un esercito che gl'invadesse. La natura negato aveva al suolo ed al clima dell'Assiria alcuni dei suoi più scelti doni, come la vite, l'ulivo, il fico ec.; ma vi nasceva con inesauribil fertilità il cibo che sostiene la vita umana e specialmente il grano e l'orzo; e l'Agricoltore che gettava in terra il suo seme, veniva spesso premiato con una raccolta di due e fino di trecento volte maggiore. La superficie del paese era ornata di boschi d'innumerabili palme[585]; ed i diligenti abitatori celebravano sì in versi che in prosa i trecento sessanta usi, che potevano artificiosamente farsi del tronco, de' rami, delle foglie, del sugo e del frutto di esse. Varie manifatture, in specie di cuojo e di lino, impiegavan l'industria d'un numeroso popolo, e somministravano pregevoli materiali pel commercio straniero, il quale per altro sembra, che fosse fatto dai forestieri. Babilonia era stata ridotta ad un parco reale; ma presso le rovine dell'antica capitale erano in diversi tempi sorte novelle città, e la popolazione del paese s'era diffusa in una moltitudine di terre e di villaggi, che erano fabbricati di mattoni seccati al sole e fortemente collegati insieme con bitume, che è un naturale e special prodotto del suolo di Babilonia. Quando i successori di Ciro dominavan sull'Asia, la sola Provincia dell'Assiria manteneva per la terza parte dell'anno la lussuriosa abbondanza della tavola e della casa dei gran Re. Erano assegnati quattro considerabili villaggi per la sussistenza dei cani Indiani, ottocento stalloni e sedicimila cavalle continuamente si mantenevano a spese del paese per le stalle reali; e siccome il tributo quotidiano, che pagasi al Satrapo, ascendeva ad uno stajo Inglese d'argento, possiamo valutare l'annua rendita dell'Assiria più di un milione e dugentomila lire sterline[586].
A. D. 363
Le campagne dell'Assiria furono condannate da Giuliano alle calamità della guerra, ed il filosofo vendicò sopra un innocente popolo gli atti di rapina e di crudeltà, che il loro superbo Signore avea commessi nelle Province Romane. I tremanti Assiri chiamarono in loro aiuto i fiumi, e con le proprie mani finiron di rovinare il loro paese. Le strade si rendettero impraticabili; si portò nel campo un diluvio di acque e per più giorni le truppe di Giuliano furon costrette a combattere coi travagli più intollerabili. Ma sormontossi ogni ostacolo dalla perseveranza dei legionarj, che erano indurati alla fatica ed al pericolo, e che si sentivano animati dallo spirito del loro Capo. Il danno era di mano in mano riparato; le acque ridotte a' loro canali; furono tagliati degl'interi boschi di palme, e posti lungo le rotture delle strade; e l'armata passava i larghi e molto profondi canali su ponti formati di fluttuanti zattere, ch'erano sostenute per mezzo di vesciche. Due città dell'Assiria pretesero di resistere alle armi dell'Imperatore Romano; ed ambedue pagarono severamente la pena della loro temerità. Alla distanza di cinquanta miglia dalla residenza reale di Ctesifonte teneva il secondo grado nella Provincia Perisabor o Anbar, città grande, popolata e ben fortificata con un doppio recinto di mura, quasi circondata da un ramo dell'Eufrate, e difesa dal valore di una numerosa guarnigione. Si rigettarono con disprezzo l'esortazioni d'Ormisda; e il Principe Persiano dovè udire coi proprj orecchi il giusto rimprovero, che dimenticatosi della reale sua nascita, conduceva un esercito di stranieri contro il proprio Sovrano e la patria. Gli Assiri mantennero la lor fedeltà mediante una ben intesa e vigorosa difesa, finattanto che avendo un forte colpo d'ariete aperto una larga breccia con aver danneggiato uno degli angoli della muraglia, essi precipitosamente si ritirarono nelle fortificazioni della cittadella interiore. I soldati di Giuliano si gettarono impetuosamente nella città, e dopo d'aver appieno soddisfatto ogni militare appetito, Perisabor fu ridotta in cenere; e furono piantate sulle rovine delle case fumanti, le macchine dirette contro la cittadella. Si continuò il combattimento per mezzo di perpetue vicendevoli scariche di dardi; e la superiorità, che i Romani potevano trarre dalla meccanica forza delle loro balestre e catapulte, veniva contrabbilanciata dal vantaggio del suolo dalla parte degli assediati. Ma tosto che fu eretta un' elepoli, che poteva attaccare ad ugual livello i più alti baloardi, il tremendo aspetto di una mobile torre, che non lasciava speranza veruna di resistenza o di pietà, ridusse gli spaventati difensori della rocca ad un umile sommissione; e la piazza si rendè dopo due soli giorni che Giuliano s'era presentato innanzi alle mura di Perisabor. Fu permesso a duemila cinquecento persone d'ambedue i sessi, deboli residui d'un florido popolo, di ritirarsi; le abbondanti provvisioni di grano, di armi e di splendide spoglie furono in parte distribuite fra le truppe, e in parte riservate per uso pubblico; gli arnesi inutili, distrutti furono dal fuoco, o gettati nell'Eufrate; e restò vendicata la caduta di Amida dalla total rovina di Perisabor.
Sembra che la città o piuttosto la fortezza di Maogamalca, che era difesa da sedici grosse torri, da un profondo fossato, e da due forti e solidi recinti di mura, fosse fabbricata alla distanza di undici miglia, come una salvaguardia della capitale della Persia. L'Imperatore, non arrischiandosi a lasciarsi dietro alle spalle tale importante fortezza, pose immediatamente l'assedio e Maogamalca; ed a tale oggetto l'esercito Romano fu distribuito in tre divisioni. Vittore alla testa della cavalleria e di un distaccamento di fanti di grave armatura, fu destinato a purgare la strada fino alle rive del Tigri ed ai sobborghi di Ctesifonte. Assunse la condotta dell'attacco Giuliano in persona, il quale pareva che lo facesse tutto consistere nelle macchine militari, che esso construiva contro le mura, nel tempo che segretamente immaginava un mezzo più efficace d'introdur le sue truppe nel cuore della città. Furono aperte le trincee sotto la direzione di Nevitta e di Dagalaifo ad una considerabil distanza, ed appoco appoco furon prolungate fino all'orlo del fosso. Questo fu speditamente ripieno di terra; e mediante il lavoro continuo delle truppe, si fece una mina sotto i fondamenti delle mura sostenute a sufficienti distanze da puntelli di legno. Avanzandosi in una sola fila tre coorti scelte, tacitamente esploravano l'oscuro e pericoloso passaggio, finattanto che l'intrepido lor condottiero fece sapere a quelli che lo seguivano, che era vicino a sbucare da quelle angustie nelle contrade della nemica città. Giuliano frenò il loro ardore per assicurarne l'evento; ed immediatamente divertì l'attenzione del presidio col tumulto ed il clamor d'un generale assalto. I Persiani, che dalle loro mura guardavano con disprezzo il progresso d'un impotente attacco, celebravano con cantici di trionfo la gloria di Sapore; ed ardivano assicurare l'Imperatore, che egli avrebbe potuto salire nella stellata magione d'Ormusd, prima di potere sperar di prendere l'inespugnabil città di Maogamalca. Ma essa era già presa. L'istoria ci ha conservato il nome di un semplice soldato, che fu il primo ad uscir dalla mina in una torre abbandonata; fu slargato il passo dai suoi compagni, che progredivano con impaziente valore; ed erano già nel mezzo della città mille cinquecento nemici. La guarnigione stupefatta abbandonò le mura, unica loro speranza di salvezza; furono subito spalancate le porte; e si saziò con una tumultuaria strage la furia militare, dovunque non era sospesa dall'incontinenza e dall'avarizia. Il Governatore, che aveva ceduto sulla promessa di pietà, fu pochi giorni dopo abbruciato vivo per essere stato accusato di aver dette alcune poco rispettose parole contro l'onore del Principe Ormisda. Furono gettate a terra le fortificazioni; e non restò alcun vestigio che vi fosse mai stata la città di Maogamalca. Le adjacenze della capitale della Persia eran ornate di tre sontuosi palazzi magnificamente arricchiti d'ogni produzione, che soddisfar potesse il lusso e la vanità d'un Monarca Orientale. La piacevol situazione de' giardini lungo le sponde del Tigri, era migliorata, secondo il gusto Persiano, dalla simmetria de' fiori, delle fontane e degli ombrosi viali; ed eran chiusi di mura de' vasti parchi per contenere degli orsi, de' leoni e de' cignali, mantenuti con notabile spesa pel piacere della caccia reale. Questi recinti furono aperti, fu abbandonata la cacciagione ai dardi de' soldati, e per ordine del Romano Imperatore si ridussero in cenere i palazzi di Sapore. Giuliano dimostrò in quest'occasione di non sapere, o di disprezzare le leggi della civiltà, che la prudenza e coltura de' secoli inciviliti hanno stabiliti fra' Principi nemici. Pure queste capricciose devastazioni eccitar non debbono alcun forte movimento di compassione o di sdegno ne' nostri petti. Una sola statua nuda, perfezionata dalla mano d'un Greco artefice, è di maggior valore che tutti que' rozzi e dispendiosi monumenti di barbaro lavoro; e se ci sentiamo più mossi dalla rovina d'un palazzo che dall'incendio d'una capanna, la nostra umanità dee aver formato un ben falso giudizio delle miserie della vita umana[587].
Giuliano fu pei Persiani un oggetto di terrore e di odio; ed i pittori di quella Nazione rappresentavano l'invasore del lor paese sotto la figura di furioso leone, che vomitava dalla bocca un fuoco divoratore[588]. Ai propri amici e soldati però compariva il filosofo Eroe in un aspetto più amabile; nè furon mai con maggior pompa spiegate le sue virtù, che nell'ultimo e più attivo periodo della sua vita. Egli praticava senza sforzo, e quasi senza merito, le abituali qualità della temperanza e della sobrietà. Secondo i dettami di quell'artificiale sapienza, che s'attribuisce un assoluto dominio sulla mente e sul corpo, fortemente negava a se stesso la soddisfazione dei più naturali appetiti[589]. Nel caldo clima dell'Assiria, che sollecitava un popolo lussurioso a soddisfare ogni sensual desiderio[590], un giovane conquistatore mantenne pura ed inviolata la sua castità; nè Giuliano fu mai tentato neppure da un motivo di curiosità a visitar le sue schiave di squisita bellezza[591], che invece di resistergli avrebber disputato fra loro l'onore de' suoi abbracciamenti. Con quella stessa fermezza, con cui resisteva agli allettamenti dell'amore, sosteneva le fatiche della guerra. Allorchè i Romani marciavano per quella bassa e innondata pianura, il loro Sovrano, a piedi, alla testa delle legioni, era partecipe de' loro travagli, e ne animava la diligenza. Ad ogni util lavoro la mano di Giuliano era pronta e vigorosa; e la porpora Imperiale era immollata o coperta di fango ugualmente che la veste ordinaria dell'infimo soldato. I due assedj gli presentarono riguardevoli occasioni di segnalare il suo personal valore, che nel più perfetto stato dell'arte militare rare volte può dimostrarsi da un prudente Capitano. Stava l'Imperatore avanti la cittadella di Perisabor non curando l'estremo suo rischio, ed incoraggiava le truppe a gettar giù le porte di ferro, fino al segno di esser quasi oppresso da un nuvolo di dardi e di grosse pietre, ch'eran dirette contro la sua persona. Nel tempo che esaminava le fortificazioni esterne di Maogamalca, due Persiani, sacrificandosi alla loro patria ad un tratto gli corsero addosso con le scimitarre nude: l'Imperatore, alzato lo scudo, riparò destramente i lor colpi, e con un costante e ben inteso coraggio stese morto ai suoi piedi uno degli avversari. La stima di un Principe, che possiede le virtù che approva negli altri, è la più nobile ricompensa di un meritevole suddito; e l'autorità, che Giuliano traeva dal personale suo merito, lo rendea capace di restaurare ed invigorire il rigore dell'antica disciplina. Ei punì colla morte o coll'ignominia la cattiva condotta di tre truppe di cavalleria, che in una scaramuccia col Surenas avevan perduto l'onore ed uno dei loro stendardi; e con corone obsidionali[592] distinse il valore dei primi soldati che salirono sulla città di Maogamalca. Dopo l'assedio di Perisabor fu esercitata la fermezza dell'Imperatore dall'insolente avarizia dell'esercito, il quale altamente lagnavasi che fosser premiati i suoi servigi con un piccol donativo di cento monete d'argento. S'espresse il giusto suo sdegno nel grave e virile linguaggio d'un Romano. «L'oggetto di vostre brame son le ricchezze? Si trovan queste nelle mani dei Persiani, e le spoglie di questo fertil paese sono il premio del vostro valore e disciplina. Crediatemi (continuò Giuliano) che la Repubblica Romana, la quale prima possedeva tanti immensi tesori, è presentemente ridotta al bisogno ed alla miseria, da che i nostri Principi si son lasciati persuadere da deboli ed interessati Ministri a comprare coll'oro la pace dei Barbari. Esausto è l'erario, le città rovinate, spopolate le Province. Quanto a me, l'unica eredità, che ho ricevuto dai miei reali antenati, è un animo incapace di timore; e finattanto che io sarò convinto, che ogni real vantaggio consiste nello spirito, non mi vergognerò di confessare un'onorevole povertà, che nei tempi dell'antica virtù era considerata come la gloria di Fabricio. Vostra può esser tal gloria e tal virtù, se presterete orecchio alla voce del Cielo e del vostro Generale. Ma se temerariamente volete persistere, se siete risoluti di rinnovare i vergognosi e colpevoli esempi delle antiche sedizioni, proseguite pure.... Come conviene ad un Imperatore, che ha tenuto il primo grado fra gli uomini, io son pronto a morire da forte, ed a sprezzare una vita precaria, che può ad ogni momento dipendere da un'accidental malattia. Se mi trovate indegno del comando, vi sono adesso fra voi (io lo dico con ambizione e con piacere) vi sono molti Capi, il merito e l'esperienza dei quali è capace di regolare una guerra della maggiore importanza. La natura del mio regno è stata di tal sorta, che io posso ritirarmi senza dispiacere e senza timore nell'oscurità di uno stato privato[593] ». Alla modesta risoluzione di Giuliano corrispose l'unanime applauso e la volonterosa ubbidienza dei Romani, che espressero la fiducia, che avevano, della vittoria, mentre combattevano sotto le bandiere dell'eroico lor Principe. Si accendeva il loro coraggio dai frequenti e famigliari detti di lui, giacchè in tali voti consistevano i giuramenti di Giuliano: «Così possa io ridurre i Persiani sotto il giogo; così possa io restaurare la forza e lo splendore della Repubblica». L'amor della fama era l'ardente passione dell'animo suo: ma non prima d'aver posto il piede sulle rovine di Maogamalca si credè permesso di dire: «che allora egli avea preparato qualche materiale pel Sofista d'Antiochia[594] ».
Il fortunato valor di Giuliano aveva trionfato di tutti gli ostacoli, che si opponevano alla sua marcia fino alle porte di Ctesifonte. Ma era tuttavia lontana la presa o anche l'assedio della capital della Persia: nè può chiaramente vedersi la militar condotta dell'Imperatore senza una cognizione del paese, che fu il teatro delle ardite e ben dirette sue operazioni[595]. Venti miglia al mezzodì di Bagdad e sulla sponda Orientale del Tigri la curiosità dei viaggiatori ha notato le rovine dei palazzi di Ctesifonte, che al tempo di Giuliano era una grande e popolata città. Era totalmente estinto il nome e la gloria della vicina Seleucia; e l'unico quartiere che rimaneva di quella Greca colonia, aveva ripreso, insieme col linguaggio e co' costumi dell'Assiria, il primitivo nome di Coche. Questa era situata sulla parte occidentale del Tigri; ma naturalmente consideravasi come un sobborgo di Ctesifonte, con cui possiam supporre che fosse unita per mezzo d'un ponte permanente di barche. Le connesse parti contribuirono a formare il comun epiteto di al Modain, le città, che gli Orientali hanno dato alla residenza invernale dei Sassanidi; e tutta la circonferenza della capitale Persiana era fortemente difesa dalle acque del fiume, da alte mura e da lagune impraticabili. Il campo di Giuliano fu piantato vicino alle rovine di Seleucia, ed assicurato da un fosso e da un muro contro le sortite della numerosa ed intraprendente guarnigione di Coche. In questo fertile e piacevole paese, i Romani furono abbondantemente forniti di acqua e di provvisioni; ed alcuni Forti, che avrebber potuto imbarazzare i movimenti dell'esercito, si sottomisero dopo qualche resistenza agli sforzi del loro valore. La flotta passò dall'Eufrate in una artificiale diramazione di quel fiume, che versa una copiosa e navigabil quantità d'acqua nel Tigri ad una piccola distanza sotto la gran città. Se avessero seguitato quel real canale che si chiamava Nahar-Malcha[596], l'intermedia situazione di Coche avrebbe separato la flotta e l'esercito di Giuliano; e la temeraria impresa di dirigersi contro la corrente del Tigri, e di forzare il passo in mezzo alla capitale nemica avrebbe dovuto produrre la total distruzione della flotta Romana. La prudenza dell'Imperatore previde il pericolo, e vi pose rimedio. Siccome aveva egli minutamente studiato le operazioni fatte da Traiano nell'istesso luogo, tosto si rammentò che il guerriero suo predecessore aveva scavato un nuovo e navigabil canale, che, lasciando Coche a diritta, portava le acque del Nahar-Malcha nel fiume Tigri a qualche distanza sopra la città. Presa informazione dai contadini, Giuliano ritrovò i vestigi di quell'opera antica, ch'erano quasi cancellati o a bella posta o per accidente. L'instancabil lavoro dei soldati prestamente scavò un largo e profondo canale per ricever l'Eufrate. Fu costrutto un forte argine per interromper l'ordinario corso del Nahar-Malcha; corse impetuosamente nel nuovo letto un diluvio di acque; e la flotta Romana dirigendo il trionfante suo corso nel Tigri deluse le vane ed inefficaci barricate, che avevano eretto i Persiani di Ctesifonte per opporsi al loro passaggio.
Siccome bisognava trasportar l'esercito Romano di là dal Tigri, si rendea necessario un altro lavoro di minor fatica, ma di maggior pericolo del precedente. Il fiume era largo e rapido; la salita scoscesa e difficile; e le trincere, fatte sull'opposta riva, eran occupate da una copiosa armata di gravi corazze, di destri arcieri e di grossi elefanti, che (secondo la stravagante iperbole di Libanio) coll'istessa facilità calpestar potevano un campo di grano ed una legion di Romani[597]. A fronte di tal nemico era impossibile la costruzione d'un ponte; e l'intrepido Principe, che immediatamente vide l'unico espediente che potea prendersi, celò fino al momento dell'esecuzione il suo disegno alla cognizione de' Barbari, delle sue proprie truppe e fino de' suoi Generali medesimi. Sotto lo specioso pretesto d'esaminar lo stato de' magazzini, furono appoco appoco scaricati ottanta vascelli; e fu dato ordine ad uno scelto distaccamento, in apparenza destinato per una segreta spedizione, a star pronto sull'armi ad ogni cenno. Giuliano copriva l'occulta agitazion del suo spirito con sorrisi di fiducia e di gioja; e divertiva le nemiche nazioni con lo spettacolo di giuochi militari, ch'ei celebrava insultando sotto le mura di Coche. Il giorno fu destinato al piacere; ma tosto che fu passata l'ora di cena, l'Imperatore convocò i Generali nella sua tenda, e fece loro sapere che avea deliberato di passare il Tigri quella notte medesima. Furono essi sorpresi da un tacito e rispettoso stupore; ma quando il venerabil Sallustio fece uso del privilegio, che gli dava la sua età ed esperienza, gli altri capitani sostennero liberamente il peso delle prudenti sue rimostranze[598]. Giuliano si contentò d'osservare che dal tentativo dipendea la conquista e la salute; che il numero dei nemici, in vece di scemare, sarebbe cresciuto per causa dei successivi rinforzi; e che una maggior dilazione non avrebbe diminuita la larghezza del fiume, nè spianata l'altezza della sponda. Fu immediatamente dato il segno, ed eseguito; i più impazienti fra i legionarj saltaron su cinque vascelli, ch'erano i più vicini alla riva; e siccome con intrepida velocità maneggiavano i loro remi, si perderono dopo pochi momenti nell'oscurità della notte. Si vide sull'opposto lato una fiamma, e Giuliano, il qual chiaramente conobbe, che i suoi primi vascelli nel tentare di prender terra erano incendiati dal nemico, destramente cangiò l'estremo loro pericolo in un presagio di vittoria. «I nostri compagni (esclamò con ardore) sono già padroni dell'altra sponda; vedete... danno il segno fra noi convenuto: affrettiamoci ad emulare, e ad assistere il loro coraggio». L'unito e rapido moto d'una gran flotta ruppe la violenza della corrente, ed arrivarono in tempo all'Oriental parte del Tigri da poter estinguere le fiamme e liberare gli avventurosi loro compagni. Le difficoltà d'una ripida ed alta salita erano accresciute dal peso delle armi e dall'oscurità della notte. Continuamente si scaricava sulla testa degli assalitori una pioggia di pietre, e di dardi e di fuoco; essi però dopo un aspro combattimento si rampicarono sulla riva, e vittoriosi posero il piede sul muro. Tosto che si trovarono in un campo più uguale, Giuliano, che con la sua infanteria leggiera avea condotto l'attacco[599], gettò un occhio perito e sperimentato lungo le file: secondo i precetti d'Omero[600] furon distribuiti nella fronte e nella retroguardia i soldati più valorosi, e tutte le trombe dell'esercito Imperiale intuonarono la battaglia. I Romani, gettato un grido militare, avanzarono con passi misurati sulle animose note della marziale lor musica; lanciarono i lor formidabili giavellotti, e corsero avanti con le spade nude per privare i Barbari, mediante uno stretto combattimento, del vantaggio delle armi da scagliare. Tutto l'attacco durò più di dodici ore, finattanto che la gradual ritirata de' Persiani si mutò in disordinata fuga, di cui diedero vergognoso esempio i primi Duci ed il Surenas medesimo. Furono essi perseguitati fino alle porte di Ctesifonte, ed i vincitori avrebber potuto entrare nella sbigottita città[601], se il lor generale Vittore, ch'era mortalmente ferito da un dardo, non gli avesse scongiurati a desistere da una temeraria impresa, che avrebbe dovuto riuscir fatale, se non andava felicemente. Dalla lor parte i Romani non trovaron che la perdita di settantacinque soldati; mentre asserivan che i Barbari avean lasciato sul campo due mila cinquecento o anche seimila dei loro più valenti guerrieri. La preda fu quale poteva aspettarsi dalla ricchezza e dal lusso di un campo Orientale; una gran quantità d'oro e d'argento, splendide armi e fornimenti di cavalli, letti e tavole d'argento massiccio. Il vittorioso Imperatore distribuì come premj di valore diversi doni e molte corone civiche, murali e navali, ch'egli (e forse era il solo) stimava più preziose delle ricchezze dell'Asia. Fu offerto un solenne sacrifizio al Dio della guerra, ma dalle osservazioni delle vittime si minacciarono i più infelici successi; e Giuliano tosto rilevò dai meno equivoci segni, ch'esso allora era giunto al termine della sua prosperità[602].
Il giorno dopo la battaglia le guardie domestiche, i Gioviani e gli Erculei, ed il resto delle truppe, che componevan quelli due terzi di tutto l'esercito, furon trasferiti sicuramente di là dal Tigri[603]. Mentre i Persiani dalle mura di Ctesifonte miravano la desolazione dell'addiacente campagna, Giuliano spesso gettava un ansioso sguardo verso il Nord, aspettando che siccome aveva egli vittoriosamente penetrato fino alla capitale di Sapore, così la marcia e l'unione di Sebastiano e di Procopio, suoi luogotenenti, sarebbesi eseguita con ugual diligenza e coraggio. Restò delusa la sua aspettativa dal tradimento del Re di Armenia, che permise, e più probabilmente ordinò la diserzione delle ausiliarie sue truppe dal campo Romano[604] e dalle dissensioni dei due Generali, che erano incapaci di formare o d'eseguire alcun disegno pel pubblico vantaggio. Quando ebbe l'Imperatore perduta la speranza di quest'importante rinforzo, condiscese a tenere un consiglio di guerra, ed approvò, dopo un lungo dibattimento, il parere di quei Generali, che dissuadevano l'assedio di Ctesifonte come un'impresa inutile e perniciosa. Non è facile per noi il concepire, per mezzo di quali arti di fortificazione una città, ch'era stata tre volte assediata e presa dai predecessori di Giuliano, si fosse potuta rendere inespugnabile a fronte di un esercito di sessantamila Romani sotto il comando d'un prode ed esperto Generale, ed abbondantemente forniti di navi, di provvisioni, di macchine per assedio e di arnesi militari. Ma possiamo assicurarci, atteso l'amor della gloria ed il disprezzo del pericolo che formavano il carattere di Giuliano, ch'ei non fu certamente scoraggiato da ostacoli di piccola importanza o immaginari[605]. Nel tempo stesso, in cui rinunziò all'assedio di Ctesifonte, rigettò con ostinazione e con isdegno le più lusinghiere offerte d'un trattato di pace. Sapore ch'era stato sì lungamente assuefatto alla tarda ostentazione di Costanzo, restò sorpreso dall'intrepida diligenza del suo successore. Fu ordinato ai Satrapi delle distanti Province, sino ai confini dell'India e della Scizia, d'unire le loro truppe, e di marciare senza dilazione in aiuto del proprio Monarca. Ma se ne prolungarono i preparativi, e lenti furono i lor movimenti; e prima che Sapore potesse condurre in campo un'armata, ebbe la trista novella della devastazione dell'Assiria, della rovina dei suoi palazzi e della strage delle più valenti sue truppe, che difendevano il passo del Tigri. Fu umiliato l'orgoglio della real dignità fino alla polvere; egli si cibò sulla nuda terra; e la scarmigliata sua chioma esprimeva il dolore e l'agitazione dello spirito. Forse non avrebbe ricusato di comprare con la metà del suo regno la sicurezza del resto; e volentieri si sarebbe dichiarato, in un trattato di pace, fedele e dipendente alleato del Romano conquistatore. Sotto pretesto di affari privati fu segretamente spedito un ministro di qualità e di confidenza ad abbracciare le ginocchia d'Ormisda per pregarlo, coll'espressione di un supplichevole, di poter essere introdotto alla presenza dell'Imperatore. O sia che il principe Sassanide prestasse orecchio alla voce dell'orgoglio o dell'umanità, o sia che consultasse i sentimenti della sua nascita o i doveri della situazione, egli era per ogni parte inclinato a promuovere un salutevole metodo per terminare le calamità della Persia, ed assicurare il trionfo di Roma. Restò sorpreso dall'inflessibil fermezza d'un Eroe, che, per disgrazia di se medesimo e dei suoi, rammentavasi che Alessandro avea ugualmente rigettato le proposizioni di Dario. Ma siccome Giuliano conosceva che la speranza d'una sicura ed onorevol pace avrebbe potuto raffreddar l'ardore delle sue truppe, istantemente richiese che Ormisda licenziasse privatamente il ministro di Sapore per toglier questa pericolosa tentazione alla cognizion dell'esercito[606].
L'onore non meno che l'interesse di Giuliano lo distoglievano dal consumare il tempo sotto le inespugnabili mura di Ctesifonte; ed ogni volta ch'egli sfidava i Barbari, che difendevano la città, a venirgli contro in campo aperto, essi prudentemente rispondevano, che se desiderava d'esercitare il proprio valore, potrebbe andare in cerca dell'esercito del Gran Re. Ei fu mosso dall'insulto, ed accettò il consiglio. Invece di limitare servilmente la sua marcia alle rive dell'Eufrate e del Tigri, risolvè d'imitare il rischioso coraggio d'Alessandro, e d'arditamente avanzarsi nelle Province interiori, finattanto che potesse forzare il nemico a combattere seco, forse nelle pianure d'Arbella, per l'Impero dell'Asia. La magnanimità di Giuliano fu approvata ed applaudita dagli artifizj d'un nobil Persiano, che per amor della patria erasi generosamente indotto a fare una parte piena di pericolo, di falsità e di vergogna[607]. Con una truppa di fedeli seguaci portossi al campo Imperiale; espose in un artificioso discorso le ingiurie che avea sofferte; esagerò la crudeltà di Sapore, la malcontentezza del popolo e la debolezza del regno: e confidentemente offrì sè stesso per ostaggio e per guida della marcia Romana. Dall'accortezza e dall'esperienza d'Ormisda si rappresentarono inutilmente i motivi più ragionevoli di sospetto; ed il credulo Giuliano, ammettendo il traditore alla sua confidenza, si lasciò persuadere a dare precipitosamente un ordine, che nell'opinione del Mondo parve che fosse contrario alla prudenza, e ponesse in rischio la sua salute. Distrusse in un'ora tutta la flotta, ch'erasi trasportata per più di cinquecento miglia a spese di tanti travagli, di tanto danaro e di tanto sangue. Si serbarono dodici o al più ventidue piccole barche per seguitare su' carri la marcia dell'esercito, e formare alle occorrenze de' ponti pel passaggio de' fiumi. Fu conservata la provvisione di venti giorni pe' soldati; e per assoluto comando dell'imperatore il resto de' magazzini con una flotta di mille cento vascelli che stavano all'ancora sul Tigri, abbandonossi alle fiamme. I Vescovi Cristiani Gregorio ed Agostino insultano la pazzia dell'apostata, ch'eseguiva con le proprie mani la sentenza della divina giustizia. La loro autorità, che in una questione militare potrebbe reputarsi per avventura di piccolo peso, vien confermata dal freddo giudizio d'un esperto soldato, che fu spettatore di quell'incendio; e che non potè disapprovare il repugnante mormorio delle truppe[608]. Ciò nonostante non mancano speciose, e forse anche sode ragioni, che potrebbero giustificare la risoluzione di Giuliano. L'Eufrate non era navigabile al di là di Babilonia, nè il Tigri oltre Opis[609]. La distanza di quest'ultima città dal campo Romano non era molto grande; e Giuliano avrebbe dovuto ben presto rinunziare alla vana ed ineseguibile impresa di condurre a forza una gran flotta contro la corrente d'un rapido fiume[610], che in molti luoghi era impedito da cateratte o naturali o fatte ad arte[611]. Non potea servire la forza delle vele e dei remi; bisognava rimorchiar le navi contro il corso del fiume; si sarebbe impiegata l'opera di ventimila soldati in quel tedioso e servil travaglio; e se i Romani continuavano a marciar lungo le sponde del Tigri, potevan solo aspettarsi di tornare alla lor case senza aver fatto alcuna impresa degna del genio o della fortuna del lor capitano. Se per l'opposto era buon progetto quello di avanzarsi nell'interno del paese, la distruzione della flotta o dei magazzini era l'unico mezzo di togliere quella preziosa preda dalle mani delle copiose ed attive truppe, che potevano improvvisamente sortir dalle porte di Ctesifonte. Se le armi di Giuliano fossero state vittoriose, adesso noi ammireremmo la condotta non men che il coraggio d'un Eroe, che privando i soldati della speranza di ritirarsi, non lasciò loro che l'alternativa fra la morte e la conquista[612].
Il grave bagaglio dell'artiglieria e dei carri, che ritarda le operazioni delle armate moderne, era in gran parte incognito in un campo di Romani[613]. Pure in ogni tempo il mantenimento di sessantamila uomini deve essere stato uno dei più importanti pensieri d'un prudente Generale; e tal sussistenza non potea trarsi che o dal proprio paese o da quel del nemico. Quand'anche Giuliano avesse potuto mantenere un ponte di comunicazione sul Tigri, e conservar le piazze già conquistate dell'Assiria, non poteva una desolata Provincia somministrare alcun abbondante e regolato soccorso in una stagione, in cui la terra era coperta dall'innondazion dell'Eufrate[614], e l'aria malsana oscurata da sciami d'innumerabili insetti[615]. L'apparenza d'un paese nemico era più atta ad invitare. L'estesa regione, che giace tra il fiume Tigri ed i monti della Media, era piena di città e di villaggi; ed il fertile suolo era per la massima parte in uno stato di coltivazione assai buono. Giuliano potea sperare che un conquistatore, il quale possedeva i due potenti strumenti di persuadere, il ferro e l'oro, sarebbesi facilmente procacciata una copiosa sussistenza dal terrore o dall'avarizia degli abitanti. Ma all'avvicinarsi dei Romani svanì ad un tratto questo ricco e ridente prospetto. Dovunque egli andava, gli abitatori abbandonavano i villaggi aperti, e rifuggivansi dentro alle fortificate città; era cacciato via il bestiame; e l'erbaggio ed il grano maturo consumato dal fuoco; e quando eran cessate le fiamme, che interrompevano la marcia di Giuliano, non gli si presentava che il tristo aspetto d'un nudo e fumante deserto. Questo disperato, ma efficace, sistema di difesa non può eseguirsi che o dall'entusiasmo d'un popolo che preferisce l'indipendenza a' suoi beni, o dal rigore d'un governo arbitrario, che provvede alla salvezza pubblica senza sottoporre all'inclinazion de' privati la libertà della scelta. Nell'occasione presente, lo zelo e l'ubbidienza de' Persiani secondò gli ordini di Sapore; e l'Imperatore fu in breve ridotto ad una tenue quantità di provvisioni, che gli andava continuamente mancando fra mano. Prima che fossero interamente consumate, avrebbe potuto condursi alle doviziose e deboli città d'Ecbatana o di Susa, mediante lo sforzo d'una marcia rapida e ben diretta[616]; ma restò privo anche di quest'ultimo ripiego per l'ignoranza delle strade e per la perfidia delle sue guide. I Romani andaron vagando più giorni all'oriente di Bagdad; il disertore persiano, che artificiosamente condotti gli avea nella rete, si sottrasse al loro sdegno; ed i seguaci di esso, posti alla tortura, confessarono il segreto della cospirazione. Le immaginarie conquiste dell'Ircania e dell'India, che per tanto tempo avean lusingato l'animo di Giuliano, adesso lo tormentavano. Consapevole che la propria imprudenza era la causa del pubblico male, stava con perplessità bilanciando le speranze di salute o di successo, senza potere ottenere alcuna soddisfacente risposta nè dagli uomini nè dagli Dei. Finalmente non essendovi altro compenso da prendere, si risolvè di voltare i suoi passi verso le rive del Tigri ad oggetto di salvare l'esercito per mezzo d'una precipitosa marcia verso i confini di Corduena, fertile ed amica Provincia, che riconosceva il dominio di Roma. Le scoraggiate truppe obbedirono al segnale della ritirata non più che settanta giorni dopo d'aver passato il Cabora con un'ardente fiducia di rovesciare il trono della Persia[617].
Per tutto il tempo in cui parve che i Romani si avanzassero nel paese, era osservata ed insidiata di lontano la loro marcia da vari corpi di cavalleria Persiana, che facendosi vedere alle volte in ordine più stretto, faceva delle piccole scaramuccie con le guardie avanzate. Questi distaccamenti però venivano sostenuti da una forza molto maggiore; ed appena i capi delle colonne si diressero verso il Tigri, che sollevossi un nuvol di polvere sul piano. I Romani, che allora non aspiravano che alla permissione di una sicura e pronta ritirata, volevano persuadersi che tale formidabile apparenza nasceva da una truppa di asini selvaggi, o dall'avvicinarsi di Arabi amici. Si arrestarono, piantarono le tende, fortificarono il campo, passaron tutta la notte in continue agitazioni, ed allo spuntar del giorno s'avvidero ch'eran circondati da un esercito di Persiani. Quest'armata, che potea solo riguardarsi come la vanguardia de' Barbari, fu tosto seguita da un grosso corpo di corazze, di arcieri e di elefanti comandati da Merane, Generale di riputazione e di qualità. Era egli accompagnato da due figli del Re e da molti de' primi Satrapi: e la fama e l'aspettazione esageravan la grandezza delle altre forze, che, lentamente s'avanzavano sotto la direzione di Sapore stesso. Continuando i Romani la marcia, la lunga loro ordinanza, che si doveva piegare, o dividere secondo le varietà del terreno, somministrava delle frequenti e favorevoli occasioni ai vigilanti nemici. I Persiani più volte li attaccarono impetuosamente; più volte furono rispinti con fermezza, e l'azione di Maronga, che meritò quasi il nome di battaglia, fu notabile per una gran perdita di Satrapi e di elefanti, che agli occhi del loro Monarca erano forse d'uguale valore. Non si ottennero tali splendidi vantaggi senza una corrispondente strage dalla parte dei Romani; restarono uccisi o feriti molti uffiziali di distinzione, e l'Imperatore medesimo, che in ogni occasione di pericolo inspirava e regolava il valore delle sue truppe, era costretto ad esporre la propria persona, ed a far uso della sua abilità. Il peso delle armi offensive e difensive, che formavano sempre la forza e sicurezza dei Romani, li rendeva incapaci a perseguitar lungamente e con vigore il nemico; laddove i cavalieri Orientali, essendo assuefatti a lanciare i giavellotti, ed a scagliare i dardi con somma velocità e per qualunque possibile direzione[618], la cavalleria Persiana non riusciva mai più formidabile che nel momento di una disordinata e rapida fuga. Ma la più certa ed irreparabil perdita dei Romani era quella del tempo. I robusti veterani, avvezzati al freddo clima della Gallia e Germania, languivano nel soffocante caldo d'una state d'Assiria, s'esauriva il loro vigore pei continui ordini di marciare e di combattere, e l'avanzamento dell'esercito era sospeso dalle precauzioni di una lenta e rischiosa ritirata in presenza d'un attivo nemico. Ogni giorno ed ogni ora a misura che diminuiva la quantità dei viveri nel campo Romano, crescevano la stima ed il prezzo[619]. Giuliano, che solea contentarsi di una dose di cibo, che non avrebbe soddisfatto un affamato soldato, distribuì per uso dello truppe le provvisioni della casa Imperiale, e tuttociò che potea risparmiarsi dei cavalli da soma dei Tribuni e dei Generali. Ma questo debol sollievo non servì che ad aggravare il sentimento della comune calamità, ed i Romani cominciarono ad aver le più tetre apprensioni, che avanti di poter giungere alle frontiere dell'Impero dovessero tutti perire o di fame, o per lo mani de' Barbari[620].
Mentre Giuliano combatteva con le difficoltà quasi insuperabili della sua situazione, impiegava sempre le quiete ore della notte nello studio o nella contemplazione. Ogni volta che chiudeva gli occhi in brevi ed interrotti sonni, il suo spirito era agitato da penose inquietudini; nè dee recar maraviglia che una volta gli comparisse davanti il Genio dell'Impero, in atto di coprirsi il capo od il corno dell'Abbondanza con un funereo velo, e di lentamente ritirarsi dalla tenda Imperiale. Il Monarca balzò fuori del letto, ed uscito dalla tenda per sollevare gli stanchi suoi spiriti con la freschezza dell'aria notturna, osservò un'ignea meteora, che balenò attraverso il cielo, ed immediatamente sparì. Giuliano restò convinto d'aver veduto il minaccevole aspetto del Dio della guerra[621]: il consiglio degli Aruspici Toscani[622], ch'ei convocò, disse tutto d'accordo, che si doveva astener dal combattere; ma in tal congiuntura la necessità e la ragione prevalsero alla superstizione, e le trombe allo spuntar del giorno diedero il segno. L'esercito marciava per un paese montuoso; e se n'erano segretamente occupate le alture dai Persiani. Giuliano, che conduceva la fronte dell'esercito con l'abilità e la diligenza d'un consumato Generale, fu sorpreso dalla notizia, ch'era stata improvvisamente attaccata la sua retroguardia. Il caldo della stagione l'aveva tentato a spogliarsi della corazza; ma strappato di mano lo scudo ad uno de' suoi famigliari, s'affrettò con un sufficiente rinforzo a soccorrer la retroguardia. Un pericolo simile richiamò l'intrepido Principe a difender la fronte; e nel tempo che galoppava fra le colonne, fu attaccato e quasi rotto il centro della sinistra da una impetuosa irruzione di cavalleria Persiana e di elefanti. Questo grosso corpo fu presto disfatto dalla ben intesa evoluzione della fanteria leggiera, che diresse le proprie armi con destrezza ed effetto contro le spalle dei cavalli e le gambe degli elefanti. I Barbari si diedero alla fuga; e Giuliano, che in ogni pericolo era sempre il primo, animava i suoi ad inseguirli con la voce e co' gesti. Le tremanti sue guardie, disperse ed angustiate dalla disordinata folla degli amici e de' nemici, rammentarono all'intrepido lor Sovrano, ch'egli era senza armatura, e lo scongiurarono ad evitare il colpo dell'imminente rovina. Nel tempo che così gridavano[623], fu scaricato da' fuggitivi squadroni un nuvol di dardi e di frecce; ed un giavellotto, avendogli raso la pelle del braccio gli trafisse le coste, e si piantò nella inferior parte del fegato. Giuliano tentò di trarsi la mortale arme dal fianco, ma gli si tagliaron le dita dall'acutezza del ferro, e cadde privo di sensi da cavallo. Le guardie corsero in aiuto di esso, ed il ferito Imperatore fu gentilmente alzato da terra, e trasportato fuor del tumulto della battaglia in una tenda vicina. Passò di fila in fila la nuova del tristo caso; ma il dolor dei Romani inspirò loro un invincibil valore e il desiderio della vendetta. Continuò il sanguinoso ed ostinato combattimento fra le due armate, finattanto che non furon separate dalla totale oscurità della notte. I Persiani riportarono qualche onore dal vantaggio che ottennero contro l'ala sinistra, dove Anatolio maestro degli Uffizi fu ucciso, ed al Prefetto Sallustio appena riuscì di scappare. Ma l'evento della giornata fu contrario ai Barbari. Essi abbandonarono il campo; perderono i due lor Generali, Merane e Noordate[624], cinquanta nobili o Satrapi, ed una gran quantità dei lor più bravi soldati; ed il buon successo dei Romani, se Giuliano fosse sopravvissuto, avrebbe potuto riuscire in una decisiva ed util vittoria.
Le prime parole, che pronunziò Giuliano dopo che fu rinvenuto dal deliquio, nel quale era caduto per la perdita del sangue, servono ad esprimere il marziale suo spirito. Egli chiese il cavallo e le armi, ed era impaziente di correre alla battaglia. Si esaurì la forza che gli restava pel penoso sforzo che fece, ed i chirurghi, ch'esaminavan la sua ferita, vi scuoprirono i sintomi d'una vicina morte. Passò egli quei terribili momenti col fermo contegno d'un savio e d'un eroe; i filosofi, che l'avevano accompagnato in quella fatale spedizione, paragonavan la tenda di Giuliano alla prigione di Socrate; e gli spettatori, che per dovere, per amicizia o per curiosità si erano adunati attorno al suo letto, udivano con rispettoso cordoglio l'orazion funerea del morente loro Imperatore[625]. «Amici e miei militari compagni (diss'egli), è giunto adesso il tempo opportuno alla mia partenza, ed io pago ciò che domanda la natura con quella gioia che ha un buon debitore. Ho appreso dalla filosofia, quanto l'anima è più eccellente del corpo; e che la separazione della sostanza più nobile dovrebbe piuttosto esser motivo d'allegrezza che d'afflizione. Ho appreso dalla religione che una presta morte spesso è stata il premio della pietà[626]; ed accetto, come un favore degli Dei, il mortal colpo, che mi libera dal pericolo di disonorare un carattere, che fino qui è stato sostenuto dalla virtù e dalla fortezza. Siccome son vissuto senza colpa, così muoio senza rimorso. Io mi compiaccio nel pensare all'innocenza della mia vita privata; e posso affermare con sicurezza, che l'autorità suprema, quell'emanazione cioè del potere Divino, si è conservata pura ed immacolata nelle mie mani. Detestando le corrotte e rovinose massime del dispotismo, ho risguardato la felicità del popolo come lo scopo del governo. Sottoponendo le mie azioni alle leggi della prudenza, della giustizia e della moderazione, ne ho lasciato l'evento alla cura della Providenza. Finattanto che la pace fu coerente al pubblico bene, fu essa l'oggetto de' miei consigli; ma quando l'imperiosa voce della patria m'invitò alle armi, esposi la mia persona ai pericoli della guerra, chiaramente prevedendo (come aveva conosciuto mediante la divinazione) che era destinato che io morissi per mezzo della spada. Offro adesso i miei rendimenti di grazie all'Ente supremo, che non ha permesso che io perissi nè per la crudeltà d'un tiranno, nè per le segrete insidie d'una cospirazione, nè pei lenti tormenti d'una languida malattia. Ei mi ha concesso una splendida e gloriosa partenza da questo Mondo, in mezzo ad una onorevol carriera, ed io stimo ugualmente assurdo che vile il sollecitare o fuggire il colpo del fato... Non posso favellar più oltre; mi mancan le forze, e sento l'approssimarsi della morte... mi guarderò cautamente da ogni parola, che possa tendere ad influire sui vostri voti nella elezione d'un Imperatore. La mia scelta potrebbe essere imprudente o non giudiziosa, e se non venisse confermata dal consenso dell'esercito, potrebbe tornar funesta a quello che avessi raccomandato. Io non farò ch'esprimere da buon cittadino i miei voti, che possano i Romani esser felici sotto il governo d'un virtuoso Sovrano». Dopo questo discorso, che Giuliano pronunziò con un costante e fermo tuono di voce, egli distribuì, un testamento militare[627], i residui delle sue facoltà private; e dimandando perchè non si trovasse presente Anatolio, quando seppe da Sallustio che Anatolio era morto, pianse con un'amabile incoerenza la perdita dell'amico. Nel tempo stesso egli biasimava lo smoderato dolore degli astanti, e gli scongiurava a non disonorare con deboli lagrime il destino d'un Principe, che in breve si sarebbe unito col cielo e con le stelle[628]. Gli spettatori stavano in silenzio; e Giuliano entrò in una metafisica discussione coi filosofi Prisco e Massimo sopra la natura dell'anima. Gli sforzi, ch'ei fece di spirito, non men che di corpo, probabilmente ne affrettaron la morte. Incominciò la sua ferita a versare sangue con maggior forza; dal gonfiamento delle vene gli s'impediva il respiro, chiese un sorso di acqua fresca, e tosto che l'ebbe presa, spirò senza pena verso la mezza notte. Tale fu il termine di questo uomo straordinario nel trentesimo secondo anno della sua età, dopo un regno di un anno, e circa otto mesi dalla morte di Costanzo. Negli ultimi suoi momenti dimostrò, forse con qualche ostentazione, l'amore della virtù e della fama, ch'erano state le passioni dominanti della sua vita[629].
A. D. 363
Possono in qualche modo attribuirsi a Giuliano stesso il trionfo del Cristianesimo e le calamità dell'Impero pur aver egli trascurato di assicurare in futuro l'esecuzione dei suoi disegni, mediante l'opportuna e giudiziosa scelta d'un collega e successore. Ma la reale stirpe di Costanzo Cloro s'era ridotta alla sua sola persona; e se gli passò per la mente qualche serio pensiero d'investir della porpora il più degno fra' Romani, fu distolto da tale risoluzione per la difficoltà della scelta, per la gelosia della potenza, pel timore dell'ingratitudine e per la natural presunzione di salute, di gioventù e di prosperità. L'inaspettata sua morte lasciò l'Impero senza Signore e senza erede in uno stato di perplessità e di pericolo, che non s'era provato per lo spazio d'ottant'anni dopo l'elezione di Diocleziano. In un Governo, che aveva quasi dimenticato la distinzione del sangue puro e nobile, era di poca importanza la superiorità della nascita; i diritti del grado militare erano accidentali e precari; ed i candidati, che aspirar potevano a salir sul trono vacante, non potevano esser sostenuti che dalla coscienza del loro merito personale, o dalle speranze del favore del popolo. Ma la situazione di un esercito affamato, circondata per ogni parte dai Barbari, abbreviò i momenti del lutto e della deliberazione. In quello spettacolo di terrore e d'angustia, il corpo del morto Principe fu, secondo i suoi propri ordini, decentemente imbalsamato; ed allo spuntar del giorno i Generali adunaronsi in un Senato militare, a cui furono invitati i Comandanti delle Legioni e gli Uffiziali sì di cavalleria che d'infanteria. Non erano anche passate tre o quattr'ore della notte, che s'era già formata qualche segreta cabala, e quando si propose la scelta d'un Imperatore, lo spirito di partito incominciò ad agitar l'Assemblea. Vittore ed Arinteo riunirono i residui della Corte di Costanzo; gli amici di Giuliano s'attaccarono a Dagalaifo e Nevitta, capitani Galli; e potean temersi le più fatali conseguenze dalla discordia di due fazioni così opposte fra loro nel carattere ed interesse, nelle massime di governo, e forse anche ne' princìpi di religione. Le sole sublimi virtù di Sallustio avrebber potuto conciliarne le divisioni, ed unire i lor voti, ed il venerabil Prefetto immediatamente sarebbe stato dichiarato successor di Giuliano, se da se medesimo con sincera e modesta fermezza non avesse addotto la sua età e mancanza di salute, che lo rendeano incapace di sostenere il peso del diadema. I Generali, che restarono sorpresi e perplessi dal suo rifiuto, mostraron qualche disposizione ad ammettere il salutar consiglio d'un uffiziale inferiore[630], che operassero come avrebbero fatto nell'assenza dell'Imperatore; che dimostrassero la loro abilità nello strigar l'esercito dalle presenti strettezze: e se eran tanto felici da giungere a' confini della Mesopotamia, avrebbero allora potuto devenire con unanimi e maturi consigli all'elezione d'un legittimo Sovrano. Mentre deliberavano, alcune poche voci salutaron Gioviano, il quale non era più che il Primo de' domestici[631], ne' nomi d'Imperatore e d'Augusto. Fu immediatamente ripetuta quella tumultuaria acclamazione dalle guardia, che circondavan la tenda, e passò in pochi minuti fino all'estremità della fila. Il nuovo Principe, attonito della sua fortuna, fu precipitosamente vestito degli ornamenti Imperiali, e ricevè il giuramento di fedeltà da que' Duci, de' quali tanto poco tempo avanti sollecitava il favore e la protezione. La più forte raccomandazione di Gioviano fu il merito del Conte Varroniano suo padre, che in onorato ritiro godeva il frutto de' suoi lunghi servigi. Nell'oscura libertà d'una condizione privata, il figlio secondò il proprio genio per le donne e pel vino; ma sostenne con riputazione il carattere di Cristiano[632] e di soldato. Senza esser cospicuo per alcuna di quelle ambiziose qualità, che risvegliavan l'ammirazione e l'invidia degli uomini, la persona ben fatta di Gioviano, il piacevol temperamento ed il famigliare suo spirito avean guadagnato l'affetto dei suoi compagni, ed i Generali d'ambedue le parti acconsentirono ad un'elezion popolare, che non era stata diretta dalle arti dei respettivi nemici. La vanità, che potea nascere da questa inaspettata elevazione, veniva moderata dal giusto timore, che quell'istesso giorno potea finir la vita ed il regno del nuovo Imperatore. Si obbedì senza dilazione alla voce imperiosa, della necessità, ed i primi ordini dati da Gioviano, poche ore dopo ch'era spirato il suo predecessore, furono di continuare una marcia, che sola distrigar potea i Romani dalle attuali loro strettezze[633].
I timori d'un nemico esprimono con la maggiore sincerità la sua stima; e si può esattamente misurare il grado del suo timore dalla gioia, con cui celebra la propria liberazione. La gradita nuova della morte di Giuliano, che un disertore portò al campo di Sapore, inspirò nel disanimato Monarca una subitanea fiducia di vincere. Immediatamente distaccò la regia cavalleria, formata forse da diecimila Immortali[634], per secondare e sostenere la caccia de' nemici, e scaricò tutto il peso delle riunite sue forze sulla retroguardia Romana. Fu essa posta in disordine; le famose legioni, che portavano il nome di Diocleziano e del guerriero collega di lui, furono rotte e calpestate dagli elefanti; e perderono la vita tre Tribuni, che tentavano di fermar la fuga de' loro soldati. La battaglia però in seguito fu rimessa dal costante valor de' Romani; i Persiani vennero rispinti con un gran macello di uomini e di elefanti; e l'esercito dopo aver marciato e combattuto per tutta una giornata di state, arrivò la sera a Samara sulle rive del Tigri circa cento miglia sopra Ctesifonte[635]. Il giorno seguente i Barbari, invece di sturbare la marcia, attaccarono il campo di Gioviano, che s'era situato in una profonda e remota valle. Gli arcieri Persiani insultavano e molestavano dalle altezze gli stanchi legionari; ed un corpo di cavalleria, che con disperato coraggio era penetrato nella porta Pretoria, fu dopo un dubbioso combattimento tagliato a pezzi vicino alla tenda Imperiale. Nella notte di poi, il campo di Carche fu difeso dalle alte dighe del fiume; e l'esercito Romano, sebbene continuamente esposto al molesto inseguimento de' Saracini, piantò le sue tende presso la città di Dura[636] quattro giorni dopo la morte di Giuliano. Esso aveva sempre il Tigri a sinistra; erano quasi tutte consumate le sue provvisioni e speranze; e gl'impazienti soldati, che s'erano fortemente persuasi, che le frontiere dell'Impero non fosser molto distanti, chiedevano al nuovo lor Principe la permissione di tentare il passo del fiume. Gioviano, coll'aiuto de' suoi più savi Uffiziali, procurò di frenarne la temerità, rappresentando loro, che quando avessero avuto sufficiente abilità e vigore da vincere l'impetuosità di una rapida e profonda corrente, non avrebber fatto altro che andare a porsi nudi e senza difesa nelle mani de' Barbari, che avevano occupato le opposte rive. Cedendo però finalmente alla clamorosa loro importunità, acconsentì con ripugnanza, che cinquecento Galli e Germani, assuefatti fin da fanciulli alle acque del Reno e del Danubio, tentassero l'ardita impresa, che sarebbe servita o d'incoraggiamento o d'avviso pel resto dell'esercito. Nel silenzio della notte passarono a nuoto il Tigri, sorpresero un posto non guardato dal nemico, e spiegarono allo spuntar del giorno il segno di lor risolutezza e fortuna. L'evento di tale sperimento dispose l'Imperatore a prestare orecchio alle promesse de' suoi architetti, che proposero di costruire un mobile ponte di gonfiate pelli di pecore, di bovi e di capre coperte con uno strato di terra e di fascine[637]. Si consumarono due importanti giornate in quell'inutil lavoro; ed i Romani, che già provavano le miserie della fame, gettavano sguardi di disperazione sul Tigri o su' Barbari, il numero e l'ostinazione dei quali andava crescendo coll'angustie dell'armata Imperiale[638].
In questa disperata situazione il nome di pace ravvivò gl'indeboliti spiriti de' Romani. Era già svanita la transitoria presunzione di Sapore; osservò egli con seria ponderazione, che replicando le dubbiose battaglie, aveva perduti i suoi più fedeli ed intrepidi nobili, le truppe più brave e la maggior parte degli elefanti; e l'esperto Monarca temè di provocare la resistenza della disperazione, le vicende della fortuna e l'inesausta potenza del Romano Impero, che poteva in breve soccorrere o vendicare il successor di Giuliano. Comparve nel campo di Gioviano il Surenas medesimo accompagnato da un altro Satrapo[639]; ed espose che la clemenza del suo Sovrano non era aliena dell'indicare le condizioni, colle quali avrebbe acconsentito a risparmiare e lasciare in libertà Cesare, co' residui del disastrato suo esercito. Le speranze di salute vinsero la fermezza dei Romani; l'Imperatore fu costretto dal parere del suo consiglio e dai clamori dei soldati ad ammetter l'offerta di pace; e fu immediatamente spedito il Prefetto Sallustio col Generale Arinteo per intendere qual fosse la volontà del gran Re. L'astuto Persiano differì sotto vari pretesti la conclusion del trattato; oppose difficoltà, chiese schiarimenti, suggerì impedienti, ristrinse quel che aveva concesso, accrebbe le sue domande, e consumò quattro giorni negli artifizi della negoziazione, finattanto che fossero terminate le provvisioni, che restavano ancora nel campo Romano. Se Gioviano fosse stato capace d'eseguire un ardito e prudente divisamento, avrebbe dovuto continuar la sua marcia con assidua diligenza; il progresso del trattato avrebbe sospeso gli attacchi dei Barbari; e prima che spirasse il quarto giorno, sarebbe giunto salvo alla fertil Provincia di Corduena, che non era distante più di cento miglia[640]. L'irresoluto Imperatore, invece di rompere le reti del nemico, aspettò con paziente rassegnazione il suo fato, ed accettò le umilianti condizioni di pace, le quali non era in suo poterò di ricusare. Furono restituite alla Monarchia Persiana le cinque Province di là dal Tigri, che dall'avo di Sapore erano state cedute. Per un articolo separato acquistò egli anche l'inespugnabile città di Nisibi, che in tre successivi assedi aveva sostenuto lo sforzo delle sue armi. Singara ed il castello de' Mori, una delle più forti piazze della Mesopotamia, si smembrarono parimente dall'Impero. Fu considerata come una largità, che fosse permesso agli abitanti di quelle fortezze di ritirarsi coi loro effetti; ma il vincitore fortemente insistè, che i Romani dovesser per sempre abbandonare il Re ed il regno dell'Armenia. Stipulossi fra le nemiche Nazioni una pace o piuttosto una lunga tregua di trent'anni; con solenni giuramenti e con cerimonie religiose si ratificò la fede de' trattati; e reciprocamente si diedero ostaggi di ragguardevol grado per assicurare l'esecuzione de' patti[641].
Il Sofista d'Antiochia, che vide con isdegno lo scettro del suo eroe nelle deboli mani d'un successore Cristiano, protesta d'ammirar la moderazione di Sapore in contentarsi d'una sì piccola parte dell'Impero Romano. S'egli avesse esteso fino all'Eufrate le ambiziose sue pretensioni, sarebbe stato sicuro, dice Libanio, di non incontrare opposizione alcuna. S'egli avesse fissato per confini della Persia l'Oronte, il Cidno, il Sangario, o anche il Bosforo Tracio, non sarebber mancati nella Corte di Gioviano gli adulatori per convincere quel timido Principe, che le sue rimanenti Province gli avrebbero tuttavia somministrato il modo d'ampiamente soddisfare la potenza ed il lusso[642]. Senza interamente ammettere questa maliziosa osservazione, dobbiam confessare però che la privata ambizion di Gioviano facilitò la conclusione d'un trattato così vergognoso. Un oscuro domestico, innalzato al trono dalla fortuna piuttosto che dal merito, era impaziente di sottrarsi dalle mani dei Persiani per poter prevenire i disegni di Procopio, che comandava l'esercito della Mesopotamia, e stabilire il dubbioso suo regno sulle Legioni e Province, che tuttavia ignoravano la precipitosa e tumultuaria elezione, fatta nel campo di là dal Tigri[643]. In vicinanza del medesimo fiume, ad una distanza non molto grande dalla fatale stazione di Dura[644], i diecimila Greci restarono abbandonati senza Generali, senza guide e senza provvisioni, più di dugento miglia lontani dal loro paese, allo sdegno d'un vittorioso Monarca. La differenza della condotta ed il successo di essi è più da imputarsi al loro carattere, che alla situazione in cui si trovarono. In vece di ciecamente abbandonarsi alle deliberazioni segrete ed alle private mire d'una sola persona, i consigli riuniti dei Greci venivano inspirati dal generoso entusiasmo di una popolare assemblea, dove lo spirito d'ogni cittadino è pieno d'amore della gloria, d'orgoglio della libertà e di disprezzo della morte. Consapevoli della loro superiorità nella disciplina e nelle armi sopra de' Barbari, sdegnarono di cedere, e ricusarono di capitolare; fu sormontato qualunque ostacolo dalla loro pazienza, dal coraggio e dalla militare perizia; e la memorabile ritirata dei diecimila schiarì e svergognò la debolezza della Monarchia Persiana[645].
Per prezzo delle vergognose sue concessioni l'Imperatore avrà forse stipulato, che fosse abbondantemente fornito di viveri il campo degli affamati Romani[646]; e che fosse loro permesso di passare il Tigri sul ponte ch'era stato costrutto dai Persiani. Ma se Gioviano ardiva di sollecitare l'osservanza di tali eque convenzioni, altieramente si ricusavano esse dal superbo Tiranno dell'Oriente, la clemenza del quale avea perdonato agl'invasori delle sue terre. I Saracini alle volte intercettavano quelli che si staccavano dall'esercito; ma i Generali ed i soldati di Sapore rispettavan la sospensione delle armi; e si tollerò, che Gioviano esplorasse il luogo più comodo pel passaggio del fiume. Le piccole barche, che si eran salvate dall'incendio della flotta, furono in quest'occasione di grandissimo aiuto. Con esse fu trasportato prima lo Imperatore ed i suoi cortigiani; ed in seguito, facendo molti viaggi successivamente, una gran parte dell'esercito. Ma siccome ognuno avea premura della propria personale salvezza, o temeva di essere abbandonato sul lido nemico, i soldati, troppo impazienti d'aspettare il tardo ritorno delle barelle, s'arrischiavano audacemente di passare sopra leggieri graticci o sopra pelli gonfiate di aria; e traendosi dietro i cavalli tentavano con vario successo di attraversare quel fiume. Molti di questi arditi avventurieri furono ingoiati dalle onde; molti altri, trasportati via dalla violenza della corrente, divennero una facile preda dell'avarizia o della crudeltà degli Arabi selvaggi; e la perdita, che soffrì l'esercito nel paesaggio del Tigri, non fu inferiore al macello d'una giornata campale. Quando i Romani ebber posto il piede sulla riva Occidentale, restaron liberi dall'ostile inseguimento dei Barbari; ma in una laboriosa marcia di dugento miglia per le pianure della Mesopotamia provarono le ultime estremità della sete e della fame. Furono essi costretti a traversare un arenoso deserto, che per lo spazio di settanta miglia non somministrava neppure un filo di erba da mangiare, nè alcuna sorgente d'acqua; e nel rimanente di quell'inospita solitudine non vedevasi alcun vestigio nè di amici nè di nemici. Se potea trovarsi nel campo una piccola dose di farina, volentieri se ne compravan venti libbre per dieci monete di oro[647]; furon uccise e divorate le bestie da soma; ed il deserto era sparso di armi e del bagaglio dei soldati Romani, i laceri vestimenti ed i magri aspetti dei quali dimostravano quel che avevano sofferto, e la miseria in cui si trovavano. Un piccol convoglio di provvisioni s'avanzò incontro all'armata fino al castello di Ur, e tal soccorso riuscì tanto più gradito, che dichiarava la fedeltà di Sebastiano e di Procopio. A Tilsafata[648] l'Imperatore accolse molto graziosamente i Generali della Mesopotamia; e finalmente i residui d'un esercito una volta sì florido, si riposarono sotto le mura di Nisibi. I messaggi di Gioviano avevano già pubblicato con le frasi dell'adulazione l'innalzamento, il trattato ed il ritorno di esso; ed il nuovo Principe aveva preso le più efficaci misure per assicurarsi la fedeltà degli eserciti e delle Province dell'Europa, dando il comando militare a quegli Uffiziali, che per motivo d'interesse o d'inclinazione avrebbero costantemente sostenuto la causa del loro benefattore[649].
Gli amici di Giuliano avevano altamente annunziato il felice successo della sua spedizione. Erano essi fortemente persuasi, che si sarebbero arricchiti i tempj degli Dei con le spoglie dell'Oriente; che la Persia si sarebbe ridotta all'umile stato di una Provincia tributaria, governata dalle leggi e dai Magistrati di Roma; che i Barbari adottato avrebbero l'abito, i costumi e la lingua dei loro conquistatori; e che la gioventù di Ecbatana e di Susa venuta sarebbe a studiar la rettorica nelle scuole de' Greci[650]. I progressi delle armi di Giuliano interruppero la comunicazione di lui coll'Impero; e dal momento che passò il Tigri, gli affezionati suoi sudditi non seppero più la sorte e gli accidenti del loro Principe. La contemplazione degl'immaginati trionfi venne sturbata dalla trista fama della sua morte; e persisterono a dubitare della verità di quel fatale avvenimento, anche dopo che non potevano più negarlo[651]. I messaggieri di Gioviano promulgarono la speciosa novella di una prudente e necessaria pace: ma la voce della fama, più alta e più sincera, manifestò il disonor dell'Imperatore e le condizioni dell'ignominioso trattato. Gli animi del popolo si riempirono di stupore e di affanno, di sdegno e di terrore, quando seppero che l'indegno successor di Giuliano abbandonava le cinque Province, che acquistate aveva la vittoria di Galerio; e che vergognosamente rendeva ai Barbari l'importante città di Nisibi, ch'era il più stabile baloardo delle Province Orientali[652]. Nelle popolari conversazioni agitavasi liberamente la profonda e pericolosa questione, se la fede pubblica si dovesse osservare, quando essa è incompatibile con la pubblica sicurezza; ed avevasi qualche speranza, che l'Imperatore avrebbe rimediato alla pusillanime sua condotta con uno splendido atto di patriottica perfidia. Lo spirito inflessibile del Senato Romano aveva in altri tempi disapprovato le ingiuste condizioni estorte dalle angustie delle oppresse sue armate; e se vi fosse stato bisogno di soddisfare all'onore della nazione con dare il Generale colpevole nelle mani de' Barbari, la maggior parte de' sudditi di Gioviano avrebbe volentieri acconsentito a seguire l'esempio de' tempi antichi[653].
Ma l'Imperatore, per quanto stretti fossero i limiti della sua costitutiva autorità, era padrone assoluto delle leggi e delle armi dello Stato; e gli stessi motivi, che l'avevan forzato a sottoscrivere il trattato di pace, lo affrettavano ad eseguirlo. Egli era impaziente d'assicurarsi un Impero a costo di poche Province; ed i nomi rispettabili di religione d'onore coprivano i timori personali e l'ambizion di Gioviano. Non ostanti le umili sollecitazioni degli abitanti, il decoro ugualmente che la prudenza impediron l'Imperatore dal prendere alloggio nel palazzo di Nisibi; ma la mattina dopo il suo arrivo, Binese, Ambasciatore di Persia, entrò nella piazza, spiegò dalla fortezza la bandiera del gran Re, e pubblicò in nome di esso la crudele alternativa della servitù o dell'esilio. I principali cittadini di Nisibi, che fino a quel fatal momento avevan confidato nella protezione del loro Sovrano, gli si gettarono a' piedi. Lo scongiurarono a non abbandonare o almeno a non consegnare una fedele colonia al furore d'un Barbaro tiranno, esacerbato da tre successive sconfitte ricevute sotto le mura di Nisibi. Essi avevano ancora armi e coraggio per rispingere gl'invasori della patria; chiedevano soltanto la permissione di servirsene in loro difesa; e tosto che avessero assicurata la propria indipendenza, avrebbero implorato il favore di essere nuovamente ammessi nel numero de' suoi sudditi. Gli argomenti, la eloquenza e le lacrime loro furono inefficaci. Gioviano con qualche rossore allegò la santità de' giuramenti; e quando la ripugnanza, con cui accettò il dono d'una corona d'oro, convinse i cittadini del disperato lor caso, l'avvocato Silvano proruppe in tal esclamazione: «O Imperatore, così possiate voi essere incoronato da tutte le città do' vostri Stati!» A Gioviano, che in poche settimane aveva preso le abitudini di Principe[654], dispiacque la libertà, e si offese del vero; e poichè a ragione suppose che la malcontentezza del popolo potesse farlo inclinare a sottomettersi al governo Persiano, pubblicò un editto, che nel termine di tre giorni dovessero tutti, sotto pena di morte, lasciar la città. Ammiano ha descritto con vivaci colori la scena della disperazione universale, di cui sembra essere stato spettatore con occhio di compassione[655]. La vigorosa gioventù abbandonava con isdegnoso cordoglio le mura, che aveva sì gloriosamente difese; le sconsolate donne spargevano le ultime lagrime sulla tomba del figlio o del marito, che in breve doveva essere profanata dalle rozze mani di un Barbaro possessore; ed i vecchi cittadini baciavano le spoglie, e stavano attaccati alle porte delle case, dove passato avevano le care e liete ore della puerizia. Eran piene le pubbliche strade d'una tremante moltitudine; e nell'universale calamità non si faceva distinzione alcuna di grado, di sesso o di età. Ognuno procurava di portar via qualche frammento dal naufragio de' propri beni; e siccome non era possibile d'aver subito un sufficiente numero di cavalli o di carri, furono costretti a lasciarsi dietro la massima parte de' loro effetti preziosi. La dura insensibilità di Gioviano sembra che aggravasse i travagli di quegli esuli sfortunati. Furon posti però in un quartiere nuovamente fabbricato d'Amida; e quella rinascente città, col rinforzo d'una considerabil colonia, presto ricuperò il suo antico splendore, e divenne la capitale della Mesopotamia[656]. Si mandarono simili ordini dall'Imperatore per l'evacuazione di Singara e del castello de' Mori e per la restituzione delle cinque Province al di là del Tigri. Sapore godè la gloria ed i frutti della sua vittoria; e questa ignominiosa pace si è giustamente risguardata come una memorabile epoca nella decadenza e rovina del Romano Impero. I predecessori di Gioviano avevano alle volte abbandonato il dominio di lontane inutili Province; ma dalla fondazione della città, il Genio di Roma, il Dio Termine, che guardava i confini della Repubblica, non si era mai ritirato in faccia alla spada di un vittorioso nemico[657].
Dopo che Gioviano ebbe adempito quelle obbligazioni, che la voce del suo popolo avrebbe potuto tentarlo a violare, s'affrettò di sottrarsi alla scena della sua vergogna, e passò con tutta la Corte a godere le delizie d'Antiochia[658]. Senza consultare i dettami di un religioso zelo, egli fu indotto dall'umanità e dalla gratitudine a prestar gli ultimi onori al corpo del suo defunto Sovrano[659]; e Procopio, che sinceramente piangeva la perdita del suo congiunto, fu rimosso dal comando dell'esercito sotto il decente pretesto di aver cura de' funerali. Fu trasportato il cadavere di Giuliano da Nisibi a Tarso, in una lenta marcia di quindici giorni; e nel passare che fece per le città dell'Oriente, veniva salutato dalle fazioni fra loro contrarie o con luttuosi lamenti o con grida d'insulto. I Pagani già collocavano il loro diletto Eroe nel grado di quegli Dei, de' quali aveva restaurato il culto; mentre le invettive de' Cristiani perseguitavan l'anima dell'Apostata fino all'inferno ed il corpo di esso fino al sepolcro[660]. Gli uni compiangevano l'imminente rovina dei loro altari; gli altri celebravano la maravigliosa liberazion della Chiesa. I Cristiani applaudivano, con alti ed ambigui cantici, al colpo della divina vendetta ch'era stata sì lungo tempo sospesa sopra il reo capo di Giuliano. Assicuravano che nell'istante in cui Giuliano spirò di là dal Tigri, era stata rivelata la morte del tiranno a' Santi dell'Egitto, della Siria e della Cappadocia[661]; ed invece di accordare che fosse perito per mezzo de' dardi Persiani, la loro indiscretezza attribuiva l'eroico fatto all'oscura mano di qualche mortale o immortale campion della fede[662]. Tali imprudenti dichiarazioni furono ardentemente adottate dalla malizia o dalla credulità de' loro avversarj[663], che oscuramente insinuavano, o con sicurezza asserivano, che i Moderatori della Chiesa avevano instigato e diretto il fanatismo di un assassino domestico[664]. Più di sedici anni dopo la morte di Giuliano, tale accusa fu solennemente e con ardore sostenuta in una pubblica orazione, diretta da Libanio all'Imperatore Teodosio. I suoi sospetti non sono appoggiati su fatto o argomento veruno; e non possiamo far altro che stimare il generoso zelo del Sofista d'Antiochia per le fredde e neglette ceneri del suo amico[665].
V'era un costume antico ne' funerali, non meno che ne' trionfi de' Romani, che la voce degli encomj venisse corretta da quella della satira e del ridicolo; e che in mezzo alle splendide pompe, che spiegavan la gloria del vivente o del defunto, non fosser nascoste agli occhi del Mondo le sue imperfezioni[666]. Tale uso fu praticato anche nell'esequie di Giuliano. I Comici, ch'erano irritati dal disprezzo ed avversione di lui pel teatro, rappresentarono con applauso dell'udienza Cristiana la viva ed esagerata pittura delle follie e de' difetti del morto Imperatore. Il vario carattere ed i singolari costumi di lui fornirono ampia materia di motteggi e di ridicolo[667]. Nell'esercizio de' propri non ordinari talenti, spesse volte, abbassava la maestà del suo posto. Alessandro trasformavasi in Diogene, il Filosofo diveniva Sacerdote. La purità della sua virtù era macchiata da un'eccessiva vanità; la sua superstizione disturbò la pace, e pose in rischio la salute d'un vasto Impero; e gl'irregolari trasporti di lui tanto meno eran degni d'indulgenza, che sembravano laboriosi sforzi dell'arte o dell'affettazione. Il cadavere di Giuliano fu sepolto a Tarso nella Cilicia; ma il magnifico sepolcro, che gli fu innalzato in quella città sulle rive del fresco e limpido Cidno[668], dispiacque agli amici fedeli, che amavano e rispettavano la memoria di quell'uomo straordinario. Il filosofo dimostrò un desiderio assai ragionevole, che il discepolo di Platone riposasse in mezzo a' giardini dell'Accademia[669]; mentre il soldato esclamò in più forti accenti, che le ceneri di Giuliano dovevano unirsi a quelle di Cesare nel campo di Marte, e fra gli antichi monumenti del Romano valore[670]. L'istoria dei Principi non somministra frequentemente esempi di tale contrasto.
FINE DEL VOLUME QUARTO.
INDICE
DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL QUARTO VOLUME
CAPITOLO XX. Motivi, progresso ed effetti della conversione di Costantino. Legittimo stabilimento e costituzione della chiesa Cristiana e Cattolica.
A. D.
306 Conversione di Costantino pag. 6
312 Sospetti caduti sopra di lui, per la morte di suo figlio 7
327 Avanzo in esso di superstizione pagana 8
Cristiani della Gallia protetti 11
319 Editto di Milano 12
Uso e bellezza della morale cristiana 12
Dottrina e pratica dell'obbedienza passiva 14
Diritto divino di Costantino 18
Lealtà e zelo del partito Cristiano 20
Aspettazione e fede di un miracolo 23
Il Labaro, Stendardo della Croce 23
Segno di Costantino 27
338 Apparizione di una Croce nelle nuvole 32
La conversione di Costantino poteva esser sincera 34
Devozione e privilegi di Costantino 36
Suo battesimo protratto fino all'avvicinarsi della morte 40
Propagazione del Cristianesimo 43
312-338 Cangiamento della religione nazionale 47
Distinzione della potestà spirituale e temporale 48
Stato de' Vescovi sotto gl'Imperatori cristiani 50
I. Elezione de' Vescovi 52
II. Ordinazione del Clero 55
313 III. Sostanze 58
IV. Giurisdizione Civile 62
V. Censure spirituali 65
VI. Libertà di predicare pubblicamente 68
315-325 VII. Privilegio delle assemblee legislative 70
CAPITOLO XXI. Eresia perseguitata. Scisma de' Donatisti, controversia Arriana. Atanasio. Stato della Chiesa e dell'Imperatore, turbato sotto Costantino ed i suoi figli. Tolleranza del Paganesimo.
312 Controversia d'Affrica 77
315 Scisma de' Donatisti 79
Controversia sopra la Trinità 81
Sistema Platonico anteriore a Cristo di 360 anni 81
97 Rivelato dall'Apostolo S. Giovanni 85
Natura misteriosa della Trinità 88
Zelo de' Cristiani 90
Autorità della Chiesa 93
318-325 Fazioni 94
Tre sistemi della Trinità 97
Arrianismo 97
Triteismo 98
Sabellianismo 99
Concilio Niceno 100
Formole di fede Arriane 104
Fede della chiesa occidentale e latina 109
360 Concilio di Rimini 111
Condotta degli Imperatori nella controversia Arriana 112
324 Indifferenza di Costantino 112
Arriani perseguitati 114
328-337 A loro volta gli Ortodossi 115
337-361 Costanzo favorisce gli Arriani 117
Concilii Arriani 119
Indole ed avventure d'Atanasio 123
330 Persecuzione contro Atanasio 127
Lega del medesimo coi Meleziani 127
336 Primo esilio 130
341 Secondo esilio 131
346 Assemblea di Sardica 133
349 Atanasio richiamato 134
351 Sdegno di Costanzo 137
353-355 Concilii d'Arles e di Milano 138
355 Condanna d'Atanasio 141
Esilii 143
356 Espulsione d'Atanasio da Alessandria 144
Contegno tenuto dal medesimo 148
356-362 Ritirata 149
Vescovi Arriani 154
Divisioni 154
Roma 156
Costantinopoli 158
Crudeltà degli Arriani 162
345 Ribellione e furore dei Donatisti circoncellioni 164
312-361 Loro suicidii religiosi 167
Indole generale delle Sette Cristiane 169
Tolleranza del Paganesimo 170
Sotto Costantino 171
Sotto i figli del medesimo 173
CAPITOLO XXII. Giuliano è dichiarato Imperatore dalle legioni della Gallia. Sua marcia e successo. Morte di Costanzo. Amministrazione civile di Giuliano.
Gelosia di Costanzo contro Giuliano 178
Timori e invidia che agitavano Costanzo 180
360 Ordine alle legioni della Gallia di condursi nell'Oriente 180
Mal umore venuto nelle medesime 184
Giuliano acclamato Imperatore 185
Protestazioni d'innocenza fatte dal medesimo 188
Ambasceria a Costanzo 190
360-361 Quarta e quinta spedizione di Giuliano oltre il Reno 192
Negoziato inutile e intimazione di guerra 194
Giuliano si accinge ad assalire Costanzo 197
Marcia dal Reno all'Illirico 200
Giustifica la propria causa 204
Preparamenti ostili 206
Morto di Costanzo 208
Giuliano riconosciuto da tutto l'Impero 211
Governo civile e vita privata del medesimo 212
361-363 Conghietture sull'intervallo fra la morte di Costanzo e la partenza di Giuliano accintosi alla guerra persiana 215
Riforma della Corte Imperiale 216
Tribunale di giustizia 220
Punizione contemporanea dell'innocente e del reo 221
Clemenza di Giuliano 224
Propenso alla libertà e alla repubblica 226
Sollecitudine in ver le greche città 229
Giuliano oratore e Giudice 230
Indole di Giuliano 233
CAPITOLO XXIII. Religione di Giuliano. Tolleranza universale. Tenta di restaurare il Culto pagano: di rifabbricare il tempio di Gerusalemme. Persecuzione artificiosa de' Cristiani. Zelo ed ingiustizia vicendevole.
Religione di Giuliano 234
Educazione ed apostasia del medesimo 237
Abbraccia la mitologia del paganesimo 240
Allegorie 242
Sistema teologico di Giuliano 244
Fanatismo de' filosofi 246
Iniziazione e fanatismo di Giuliano 247
Religiosa dissimulazione 250
Scritti da esso composti contro la religione cristiana 252
Tolleranza universale 254
Zelo e devozione di Giuliano nella restaurazione del Paganesimo 256
Riforma del Paganesimo 259
Filosofi 262
Conversioni 265
Ebrei 268
Gerusalemme 270
Pellegrinaggi 271
Giuliano tenta di rifabbricare il tempio 274
Parzialità di Giuliano 279
Scuole proibite ai Cristiani 282
Disfavore in cui vennero, ed oppressioni usate sovr'essi 284
Condannati a riedificare i tempj pagani 285
Tempio e sacro bosco di Dafne 288
Disprezzo e profanazioni di Dafne 291
Reliquie trasferite dalla Chiesa di S. Babila, e tempio di Dafne abbruciato 292
Giorgio di Cappadocia 295
Oppressore d'Alessandria e dell'Egitto 296
362 Trucidato dal popolo 297
Indi venerato siccome martire 299
Cattedra episcopale restituita ad Atanasio 300
Perseguitato indi e scacciato da Giuliano 302
Zelo ed imprudenza de' Cristiani 304
CAPITOLO XXIV. Residenza di Giuliano in Antiochia. Sua felice spedizione contro i Persiani. Passaggio del Tigri, e ritirata e morte di Giuliano. Elezione di Gioviano. Egli salva l'esercito romano per mezzo di un vergognoso trattato.
Cesari di Giuliano 309
362 Risoluzione di marciare contro i Persiani 311
Giuliano passa da Costantinopoli ad Antiochia 313
Licenziosi costumi del popolo d'Antiochia 314
Loro avversione a Giuliano 316
Carestia di grano e pubblico disgusto 316
Giuliano compose una satira contro Antiochia 319
314-390 ec. Libanio sofista 320
363 Giuliano marcia verso l'Eufrate 323
Suo disegno d'invadere la Persia 325
Alienazione del Re di Armenia 327
Apparecchi militari 328
Giuliano entra nel territorio Persiano 330
Marcia pel deserto della Mesopotamia 331
Successi 333
Descrizione dell'Assiria 335
Invasione dell'Assiria 338
Assedio di Perisabor 338
Di Maogamalca 340
Personal condotta di Giuliano 342
Conduce la sua flotta dall'Eufrate al Tigri 346
Passaggio del Tigri e vittoria de' Romani 348
Stato in cui si trova Giuliano. Sua ostinazione 352
Incendia la flotta 355
Marcia contro Sapore 358
Ritirata ed angustie dell'esercito Romano 361
Giuliano è ferito mortalmente 364
363 Morte di Giuliano 366
363 Elezione dell'Imperatore Gioviano 370
Pericolo e difficoltà della ritirata 373
Negoziazioni, e pace 376
Debolezza e disonore di Gioviano 378
Egli continua la ritirata verso Nisibi 380
Disapprovazione data universalmente al negoziato di pace 383
Gioviano abbandona Nisibi, e restituisce le cinque Province ai Persiani 385
Riflessioni sopra la morte di Giuliano 387
Suoi funerali 390
FINE DELL'INDICE.
NOTE:
1. Si è diligentemente discussa la data delle Istituzioni Divine di Lattanzio; vi si sono scoperte difficoltà; si sono proposti mezzi per iscioglierle; e si è finalmente immaginato l'espediente di supporne due edizioni originali, la prima pubblicata nel tempo della persecuzione di Diocleziano, l'altra sotto quella di Licinio. Vedi Dufresnoy Praef. p. 5. Tillemont Mem. Eccl. Tom. VI p. 465-470. Lardner Credibilità ec. P. II Vol. VII, p. 78-86. Quanto a me io sono quasi convinto, che Lattanzio dedicasse le sue Istituzioni al Sovrano della Gallia nel tempo in cui Galerio, Massimino, e Licinio stesso perseguitavano i Cristiani, cioè fra gli anni 306 e 311.
2. Lactant. Divin Inst. l. I. VII. 27. Veramente il primo ed il più importante di questi passi manca in 28 manoscritti; ma si trova in altri 19. Se vogliam ponderare il merito di questi manoscritti paragonati fra loro, può allegarsene, in favor di quel passo, uno della libreria del Re di Francia dell'età di 900 anni, ma si omette lo stesso passo nel corretto manoscritto di Bologna, che il P. Montfaucon giudica del sesto, o del settimo secolo ( Diar. It. p. 409 ). Il gusto della maggior parte degli Editori (eccettuato Iseo, vedi Lattanzio dell'edizione del Dufresnoy, Tom. I p. 596 ) vi ha riconosciuto il genuino stil di Lattanzio.
3. Euseb. in vit. Const. ( l. I. c. 27-32.)
4. Zosimo ( l. II. p. 104.)
5. Questo rito fu sempre in uso nel fare i Catecumeni (vedi Bingam. Ant. l. X. c. I. p. 419. Dom. Chardon Hist. des Sacremens, T. I. p. 62 ); e Costantino lo ricevè per la prima volta immediatamente avanti il suo battesimo, e la sua morte (Eusebio in vita Const. l. IV. c. 61 ). Valesio, dalla connessione di questi due fatti, ha tirato quella conseguenza ( al luogo cit. d'Euseb.), che viene ammessa con ripugnanza dal Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 628 ), e contraddetta con deboli argomenti dal Mosemio ( p. 968 ).
6. Eusebio in vit. Const. ( l. IV. c. 61, 62, 63 ). La leggenda del Battesimo di Costantino, seguìto in Roma tredici anni avanti la sua morte, fu inventata nell'ottavo secolo come un acconcio motivo per la sua donazione. Tale è stato a grado a grado il progresso delle cognizioni, che una storia, di cui il Cardinal Baronio ( Annal. Eccl. An. 324. n. 43-49 ) si dichiarò senza rossore avvocato, adesso debolmente si sostiene anche sotto la giurisdizione del Vaticano. Vedi le antichità Crist. ( Tom. II p. 203 ), opera pubblicata con sei approvazioni a Roma, nell'anno 1751, dal P. Mamachi, erudito Domenicano.
7. Il Questore, o segretario, che compose la leg. 1. del lib. XVI. Tit. II. del Cod. Teodos. fa dire con indifferenza al suo Signore, hominibus supradictae religionis; al Ministro poi degli affari Ecclesiastici era permesso uno stile più devoto e rispettoso, τηϛ ενθεσμου και αγιωτατηϛ καθολικηϛ θρησκειαϛ legittimo, e santissimo catolico culto. Vedi Eusebio Hist. Eccles. ( l. X. c. 6 ).
8. Cod. Theodos. ( lib. II Tit. VIII. leg. I. ) Cod. Giustin. ( Lib. III. Tit. XII. leg. III ). Costantino chiama la Domenica dies Solis; nome, che non poteva offender le orecchie de' suoi sudditi Pagani.
9. Cod. Theodos. ( lib. XVI. Tit. X. leg. I ). Il Gottofredo, come comentatore, procura di scusare ( Tom. VI. p. 257. ) Costantino; ma il Baronio più zelante ( Annal. Eccles, an. 521. n. 18. ) critica con verità ed asprezza il profano contegno di lui.
10. Sembra che Teodoreto ( l. I. c. 18 ) voglia far credere, ch'Elena desse al suo figlio un'educazione Cristiana; ma la superiore autorità d'Eusebio può assicurarci ( in vita Const. l. III. c. 47 ), ch'ella medesima fu debitrice della cognizione del Cristianesimo a Costantino.
11. Vedi le medaglie di Costantino appresso il Du-Cange, e il Banduri. Siccome poche città ritenuto avevano il privilegio del conio, quasi tutte le medaglie di quel tempo uscirono dalla zecca autorizzata dalla sanzione Imperiale.
12. Il Panegirico ( VII. inter Panegyr. vet.) d'Eumenio che fu recitato pochi mesi prima della guerra Italica, è pieno delle più chiare prove della superstizione Pagana di Costantino, e della sua particolar venerazione per Apollo, o pel Sole, al quale allude Giuliano, allorchè dice nell' Oraz. VII. p. 228 απολειπων σε ( abbandonando te ). Vedi il Coment. dello Spanemio sui Cesari p. 317.
13. Costantino Orat. ad Sanctos c. 25. Ma potrebbe facilmente dimostrarsi, che il Traduttore Greco ha esteso il senso dell'originale Latina; e potè anche l'Imperatore in età avanzata rammentarsi la persecuzione di Diocleziano con più vivo abborrimento di quello che aveva realmente sentito nel tempo della sua gioventù o idolatria.
14. Vedi Eusebio Hist. Eccles. ( l. VII. 13 l. IX. 9 etc.) in vit. Const. ( l. I. c. 16, 17.) Lactant. Divin. Inst. l. 2. Cecil. De mort. persecut. c. 25.
15. Cecilio ( De mort. persecut. c. 48 ) ci ha conservato l'originale Latino; ed Eusebio ( Hist. Eccles. l. X. c. 5 ) ha dato una traduzione Greca di questo editto perpetuo, che si riferisce ad alcuni regolamenti provvisionali.
16. Un Panegirico di Costantino pronunziato sette o otto mesi dopo l'editto di Milano (vedi Gottofredo Chron. Legum p. 7 e Tillemont, Hist. des Emper. Tom. IV. p. 246 ) usa la seguente notabile espressione: Summe rerum Sator, cujus tot nomina sunt, quot linguas Gentium esse voluisti, quem enim Te ipse dici velis, scire non possumus. Paneg. Vet. IX. 26. Il Mosemio nello spiegare p. 971 ec. il progresso di Costantino nella Fede, è ingegnoso, sottile e prolisso.
17. Vedi l'elegante descrizion di Lattanzio ( Div. Inst. v. 8. ) ch'è molto più chiara e positiva di quel che convenga a un discreto Profeta.
18. Il sistema politico de' Cristiani si spiega da Grozio ( de Jur. Bell. et pac. l. I. c. 3. 4 ). Questi era un repubblicano ed un esule; ma la dolcezza del suo temperamento lo faceva inclinare a sostenere le potestà già stabilite.
19. Tertulliano Apolog. c. 32, 34, 35, 36. Tamen nunquam Albiniani, nec Nigriani vel Cassiani inveniri potuerunt Christiani, ad Scapulam c. 2. Se tale espressione è rigorosamente vera, essa esclude i Cristiani di quel secolo da tutti gli impieghi civili e militari, che gli avrebber costretti a prendere qualche parte nel servizio de' respettivi loro Governatori. Vedi le Opere di Moyle Vol. II. p. 349.
20. Vedi l'artificioso Bossuet, Hist. des Variat. des Egl. Protest. Tom. III. p. 210-258, ed il malizioso Bayle ( Tom. II. p. 630 ). Io nomino Bayle, perchè fu egli senza dubbio l'autore dell' avviso a' Refugiati. Vedi il Dizionar. di Critica de Chaufepiè Tom. I. part. 2. p. 145.
21. Il Bucanano è il più antico, o almeno il più celebre fra' riformatori, che hanno giustificato la teoria della resistenza. Vedi il suo dialogo de Jure regni apud Scotos Tom. II. p. 28, 30. Edit. fol. Reddiman.
22. Lattanzio Divin. Instit. l. 1. Eusebio nel corso della sua storia della Vita di Costantino e nelle sue orazioni inculca più volte il divino diritto di esso all'Impero.
23. L'imperfetta cognizione, che abbiamo della persecuzione di Licinio è tratta da Eusebio, Hist. Eccles. l. X. c. 8. vit. Const. l. I. c. 49-56. l. II. c. 1, 2. Aurelio Vittore fa menzione della sua crudeltà in termini generali.
24. Eusebio in vit. Const. l. II. c. 24-42. 48-60.
25. Nel principio del secolo passato, i Papisti dell'Inghilterra non formavano che la trentesima parte, ed i Protestanti della Francia la decimaquinta delle respettive nazioni, per le quali lo spirito e poter loro erano un oggetto continuo di timore. Vedi le relazioni, che il Bentivoglio (il quale in quel tempo era Nunzio a Brusselles, e poi fu Cardinale) mandò alla Corte di Roma. Relaz. Tom. II. p. 211, 241. Il Bentivoglio era curioso, ben informato, ma un poco parziale.
26. Quest'indole trascurata de' Germani si vede quasi uniforme nella storia della conversione di ciascheduna delle loro Tribù. Si reclutavano le legioni di Costantino con Germani, (Zosimo l. II. p. 86 ); ed eziandio la Corte di suo padre era stata piena di Cristiani. Vedi il primo libro della vita di Costantino fatta da Eusebio.
27. De his, qui arma projiciunt in pace, placuit eos abstinere a communione. Concil. Arelat. Can. 3. I migliori Critici applican queste parole alla pace della Chiesa.
28. Eusebio sempre risguarda la seconda guerra civile contro Licinio, come una specie di religiosa Crociata. All'invito del Tiranno alcuni Uffiziali Cristiani avevano riprese le loro zone, o in altri termini eran tornati al servizio militare. Fu dipoi censurata la lor condotta dal Canone XII del Concilio Niceno, qualora vogliasi ammettere questa interpretazione particolare, invece di quel generale e libero senso, che gli danno gl'interpreti Greci Balsamone, Zonara, ed Alessio Aristeno. Vedi Beveridge Pandect. Eccles. Graec. Tom. I. p. 72. Tom. II p. 73. annotat.
29. Nomen ipsum crucis absit non modo a corpore civium Romanorum, sed etiam a cogitatione, oculis, auribus: Cicer. pro Rabirio c. 5. Gli scrittori Cristiani, Giustino, Minucio Felice, Tertulliano, Girolamo, e Massimo di Torino hanno investigato con passabil successo la figura o la somiglianza della croce in quasi tutti gli oggetti della natura, o dell'arte; nell'intersezione per esempio del meridiano coll'equatore, nella faccia umana, nell'uccello che vola, nell'uomo che nuota, nell'albero coll'antenna della nave, nell'aratro, nello stendardo ec. Vedi Lipsio de cruce. ( l. I. c. 9 ).
30. Vedi Aurelio Vittore, che riguarda questa legge come uno degli esempi delle pietà di Costantino. Un editto così onorevole al Cristianesimo meritava luogo nel Codice Teodosiano, invece di farne indirettamente menzione, come par che resulti dal paragone de' Titoli V. e XVIII. del lib. IX.
31. Eusebio in vit. Const. l. I. c. 40. Questa statua, o almeno la croce e l'iscrizione, si può riportare più probabilmente alla seconda, o anche alla terza visita di Costantino a Roma. Subito dopo la disfatta di Massenzio gli animi del Senato e del Popolo non potevano essere ancora disposti per tal pubblico monumento.
32.
Agnoscas regina libens mea signa necesse est;
In quibus effigies crucis aut gemmata refulget,
Aut longis solido ex auro praefertur in hastis,
Hoc signo invictus transmissis alpibus ultor
Servitium solvit miserabile Constantinus.
···············
Christus purpureum gemmanti textus in auro
Signabat Labarum clypeorum insignia Christus
Scripserat; ardebat summis crux addita christis.
Prudent. in Symmach. l. II. v. 464. 486.
33. Rimane tuttora ignota la derivazione, ed il senso della parola Labarum o Laborum, che s'usa da Gregorio Nazianzeno, da Ambrogio, da Prudenzio ec. malgrado gli sforzi dei Critici, che hanno inutilmente torturato il Latino, il Greco, lo Spagnuolo, il Celtico, il Teutonico, l'Illirico, l'Armeno ec. per trovarne l'etimologia. Vedi Du Cange. Gloss. et inf. Latin. v. Labarum e Gottofredo ad Cod. Theodos. ( Tom. II. p. 143 ).
34. Eusebio in vit. Const. l. I. c. 30, 31. Il Baronio ( annal. Eccles. An. 312. n. 46) ha riportato un'immagine del Labarum.
35. Transversa X. littera, summo capite circumflexa, Christum in scutis notat. Caecil. de M. P. c. 44. Cuper ad M. P. in Edit. Lactant. Tom. II p. 500, ed il Baronio an. 312. n. 25 hanno tratto dagli antichi monumenti vari modelli di tali monogrammi, i quali divennero molto alla moda nel Mondo Cristiano.
36. Eusebio in vit. Constant. l. II, c. 7, 8, 9. Egli introduce il Labaro avanti la spedizione dell'Italia, ma sembra che la sua narrazione indichi, ch'esso non fu mai mostrato alla testa dell'esercito, finchè Costantino, circa dieci anni dopo, non si fu dichiarato nemico di Licinio e liberator della Chiesa.
37. Vedi Cod. Teod. l. VI, Tit. XXV. Sozomeno l. I, c. 2. Teofane Cronogr. p. 11. Teofane visse verso il fine dell'ottavo secolo, quasi cinquecento anni dopo Costantino. I Greci moderni non erano inclinati a spiegare in campo lo stendardo dell'Impero e del Cristianesimo; e quantunque s'attaccassero ad ogni superstiziosa speranza di difesa, pure la promessa della vittoria sarebbe sembrata loro una finzione troppo ardita.
38. L'Abate du Voisin ( p. 103. ec.) riporta molte di queste medaglie, e cita la particolar dissertazione d'un Gesuita, cioè del P. Grainville, su tal soggetto.
39. Tertulliano de Coron. c. 3. Athanas. ( Tom. I. p. 101 ). Il dotto Gesuita Petavio ( Dogm. Theolog. l. XV. c. 9, 10 ) ha raccolto molti passi uniformi sopra le virtù della Croce, che nel passato secolo imbarazzarono i nostri Protestanti controversisti.
40. Caecil. de M. P. c. 44. Egli è certo che questa istorica declamazione fu composta e pubblicata, mentre Licinio Sovrano dell'Oriente conservava sempre l'amicizia di Costantino e de' Cristiani. Ogni lettore di buon gusto si deve accorgere, che lo stile è d'un carattere molto diverso ed inferiore a quel di Lattanzio, e tale in fatti è il giudizio del Clerc e del Lardner, ( Bibl. anc. et mod. Tom III. p. 438 Credibil. del Angelo ec. P. 2 vol. II. p. 94 ). Quelli, che son per Lattanzio, deducono tre argomenti di tale opinione dal titolo del libro e da' nomi di Donato e di Cecilio. Vedi il P. Lestocq (T. II. p. 46-60). Ciascheduna di queste prove presa da se è debole e mancante, ma l'unione di esse ha gran peso. Io sono stato spesso dubbioso, e seguiterò senza darmene altro pensiero il MS. Colbertino, chiamando l'A. chiunque siasi Cecilio.
41. Caecil. de M. P. c. 46. Par che sia ragionevole l'osservazione di Voltaire ( Oeuvr. Tom. XIV. p. 307 ), che attribuisce al successo di Costantino l'essere stata la fama del suo Labaro maggiore di quella dell'Angelo di Licinio. Pure anche quest'Angelo ha incontrato favore appresso il Pagi, il Tillemont, il Fleury, che sono impegnati ad accrescere la loro quantità di miracoli.
42. Oltre questi ben cogniti esempi, Tollio, nella Prefazione alla traduzione di Longino fatta da Boileau, ha scoperto una visione d'Antigono, che assicurò le sue truppe d'aver veduto un pentagono (simbolo di salvezza) con queste parole «In questo vinci». Ma Tollio è affatto inescusabile per avere omesso di addurre donde ha ricavato quel fatto; ed il suo carattere nella letteratura, ugualmente che nella morale, non è superiore ad ogni eccezione. Vedi Chauffepiè Diction. crit. Tom. IV. p. 460. Senza insistere nel silenzio di Diodoro, di Plutarco, di Giustino ec. si può osservar, che Polieno, il quale in un capitolo a parte ( l. IV. c. 6 ), ha raccolto diciannove stratagemmi militari d'Antigono, non è punto informato di questa notevol visione.
43. Instincta Divinitatis, mentis magnitudine. Da qualunque curioso viaggiatore può sempre leggersi l'Iscrizione sull'arco trionfale di Costantino, che fu copiata dal Baronio, dal Grutero ec.
44. Habes profecto aliquid cum illa mente divina secretum, quae delegata nostra Diis minoribus cura uni se tibi dignatur ostendere. Panegyr. vet. IX. 2.
45. Freret ( Mem. de l'Acad. des Inscript. Tom. IV. p. 411-417 ) spiega per mezzo di cause fisiche molti prodigi dell'antichità, e Fabricio, di cui abusano ambe le parti, vanamente procura di porre la celeste croce di Costantino fra gli aloni solari. Biblioth. Graec. Tom. VI. p. 8-29.
46. Nazar. Paneg. vet. X. 14, 15. Non è necessario nominare i moderni, l'avido e non discernente appetito de' quali ha ingoiato anche il cibo Pagano di Nazario.
47. Vengono attestate dagli Istorici e da' pubblici monumenti le apparizioni di Castore e di Polluce, specialmente per annunziare la vittoria Macedonica. Vedi Cicer. de Nat. Deor. II. 2. III; 5. 6. Flor. II. 12. Val. Massim. lib. I. c. 8 n. 2. Pure il più recente di questi miracoli è omesso, ed indirettamente negato da Livio, XLV. I.
48. Eusebio l. I. c. 18, 19, 20. Il silenzio d'Eusebio stesso, nella sua Storia Ecclesiastica, ha veramente toccato sul vivo tutti que' difensori del miracolo che non sono affatto insensibili.
49. Sembra che la narrazione di Costantino indichi, ch'esso vide la croce nel cielo, avanti di passar le alpi contro Massenzio. La vanità Provinciale però ha fatto rappresentar questa scena a Treveri, a Besanzone ec. Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. IV. p. 573.
50. Il pio Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. VII. p. 1317 ) rigetta, sospirando gli utili Atti di Artemio, veterano e martire, che attesta come testimone di veduta la visione di Costantino.
51. Gelas. Cizic. Act. Conc. Nicaen. l. I. c. 4.
52. Gli avvocati della visione non possono addurre neppure una sola testimonianza tratta da' Padri del quarto e del quinto secolo, che ne' loro voluminosi scritti celebrano più volte il trionfo della croce e di Costantino. Siccome a questi venerabili uomini non sarebbe dispiaciuto un miracolo, noi possiam sospettare (e tal sospetto vien confermato dall'ignoranza di Girolamo) che essi non fossero informati della vita di Costantino, scritta da Eusebio. Questo tratto si scoprì dalla diligenza di quelli, che tradussero o continuarono la sua Storia Ecclesiastica, e che rappresentarono con diversi colori la visione della croce.
53. Gottofredo fu il primo, che nell'anno 1643 ( Not. ad Philostorg. l. I. c. 6 p. 16 ) mostrò qualche dubbio sopra un miracolo, che con uguale zelo s'era sostenuto e dal Cardinal Baronio e da' Centuriatori di Magdeburgo. Dopo quel tempo molti de' Critici Protestanti hanno inclinato al dubbio e alla diffidenza. Si propongono le obbiezioni con gran forza da Chaufepiè Dictionn. Critiq. T. IV. p. 6-11; e nell'anno 1774 l'Abbate du Voisin, dottor di Sorbona, pubblicò un'apologia, che merita d'essere lodata com'erudita e moderata.
54.
Lors Constantin dit ces propres paroles:
J'ai renversé le culte des idoles;
Sur les débris de leurs Temples fumans
Au Dieu du Ciel j'ai prodigué l'encens.
Mais tous mes soins pour sa grandeur suprême
N'eurent jamais d'autre objet que moi-même;
Les saints autels n'étaient à mes regards
Qu'un marchepied du trône des Césars.
L'ambition, la fureur, les délices
Étaient mes Dieux, avoient mes sacrifices.
L'or des Chrétiens, leurs intrigues, leur sang
Ont cimenté ma fortune et mon rang.
Può leggersi con piacere il poema, che contiene questi versi, ma non si può con decenza nominare.
55. Questo favorito era probabilmente il grande Osio Vescovo di Cordova, che preferiva la cura pastorale di tutta la Chiesa al governo d'una diocesi particolare. Atanasio ( T. I. p. 703 ) rappresenta il suo carattere magnificamente, quantunque in breve. Vedi Tillemont, Mem. Eccles. Tom. VII. p. 524-561. Osio fu accusato forse ingiustamente di essersi ritirato dalla Corte con molto abbondanti ricchezze.
56. Vedi Eusebio in vit. Const. passim, e Zosimo l. II, p. 104.
57. Il Cristianesimo di Lattanzio era d'una specie morale, piuttosto che misteriosa. Erat paene rudis (dice l'ortodosso Bull) disciplinae Christianae, et in rethorica melius quam in theologia versatus. Defens. Fid. Nic. sect. II c. 14.
58. Il Fabricio colla solita sua diligenza ha raccolto una lista di tre in quattrocento Autori, citati nella Preparazione Evangelica d'Eusebio. Vedi Bibl. Graec. l. V. c. 4. T. VI. p. 37-56.
59. Vedi Const. Orat. ad Sanctos c. 10, 20. Egli specialmente si fonda sopra un misterioso acrostico, composto nel sesto secolo dopo il diluvio, dalla Sibilla Eritrea e da Cicerone tradotto in Latino. Le lettere iniziali de' trentaquattro versi Greci formano questa profetica sentenza: «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore del Mondo».
60. L'Imperatore, nella sua parafrasi di Virgilio, ha spesse volte aiutato e migliorato il senso letterale del testo Latino. Vedi Blondel des Sybilles l. I. c. 14, 15, 16.
61. Le varie pretensioni d'un figlio maggiore o minore di Pollione, di Giulio, di Druso, o di Marcello, si sono trovate incompatibili colla cronologia, coll'istoria e col buon senso di Virgilio.
62. Vedi Lowth. De sacra Poesi Hebraeor. Praelect. XXI. p. 289, 293. Nell'esame dell'Egloga quarta il rispettabile Vescovo di Londra ha dimostrato erudizione, gusto, ingenuità, ed un moderato entusiasmo, che esalta la sua fantasia senza degradarne il giudizio.
63. Thiers ( Exposit. du Saint Sacrem. l. I. c. 8. 12. p. 59, 91 ) spiega molto giudiziosamente la distinzione fra le parti pubbliche e le segrete del Divin Sacrifizio, fra la missa Catechumenorum e la missa Fidelium, ed il misterioso velo, che la pietà e la politica gettato aveva sopra l'ultima; ma siccome in questo punto i Papisti possono essere ragionevolmente sospetti, un lettor Protestante seguiterà con più sicurezza l'erudito Bingamo. Antiquit. l. X. c. 5.
64. Vedi Eusebio in vit. Constant. I. IV. c. 15-32 e tutto il tenore del sermone di Costantino. La fede, e la devozione dell'Imperatore hanno somministrato al Baronio uno specioso argomento in favore del suo anticipato battesimo.
65. Zosimo ( l. II. p. 105 ).
66. Eusebio in vit. Costant. I. IV. c. 15-16.
67. È stata copiosamente spiegata la teoria e la pratica dell'antichità rispetto al Sacramento del battesimo da Chardon; ( Hist. des Sacremens, Tom. I. p. 3-405 ) dal Martenne ( De ritib. Eccl. antiq. Tom. I. ) e dal Bingamo nel libro decimo e undecimo delle sue Antichità Cristiane. Si può notare una circostanza, in cui le Chiese moderne si sono materialmente allontanate dal costume antico, cioè, che il Sacramento del battesimo (anche quando si amministrava agl'infanti) era immediatamente seguito dalla Confermazione e dalla sacra Eucaristia.
68. I Padri, che censuravano questa colpevole dilazione, non potevano peraltro negare la certa e vittoriosa efficacia del battesimo, preso anche vicino alla morte. L'ingegnosa eloquenza di Grisostomo non potè trovare che tre argomenti contro questi prudenti Cristiani. 1. Che noi dobbiamo amare e seguir la virtù per amor di lei stessa, e non puramente pel premio che ne proviene. 2. Che possiamo esser sorpresi dalla morte senz'aver comodo del battesimo. 3. Che quantunque siamo per aver luogo nel Cielo, pure non vi risplenderemo, che come piccole stelle, in paragone di que' soli di giustizia, che avran percorsa la lor carriera con travagli, con successo e con gloria. Chrysost. in Epist. ad Hebraeos, Homel. 13. ap. Chardon. Hist. des Sacrem. (Tom. I. p. 49). Io credo che tal dilazione di battesimo, quantunque soggetta alle più perniciose conseguenze, non fosse però mai condannata da verun Concilio generale o provinciale, nè da verun pubblico atto, o dichiarazione della Chiesa. Facilmente s'accendeva lo zelo de' Vescovi in molte anche più leggiere occasioni.
69. Zosimo I. II. p. 104. Per questa non ingenua falsità egli ha meritato e provato i trattamenti più duri da tutti gli Scrittori Ecclesiastici, eccetto che dal Cardinal Baronio (l'An. 324. n. 15-28) il quale aveva bisogno di servirsi dell'autorità dell'Istoria infedele in una particolare occasione contro l'Ariano Eusebio.
70. Eusebio l. IV. c. 61, 62, 63. Il Vescovo di Cesarea suppone colla più perfetta sicurezza la salvazione di Costantino.
71. Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. IV p. 249. I Greci, i Russi, ed i Latini stessi, ne' secoli più tenebrosi, hanno desiderato di porre Costantino nel Catalogo de' Santi.
72. Vedi il III. e IV. lib. della sua vita. Egli era solito dire, che o si fosse predicato Cristo colle labbra, ovvero col cuore, esso ne avrebbe sempre goduto. ( l. III. c. 58. )
73. Il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 374, 616 ) ha difeso con forza e con spirito la virginal purità di Costantinopoli contro alcuni maligni passi del Pagano Zosimo.
74. L'Autore dell' Istoria polit. e filosof. delle due Indie (Tom. I. p. 9.) condanna una legge di Costantino, che compartiva la libertà a tutti gli schiavi, che avessero abbracciato il Cristianesimo. L'Imperatore promulgò veramente una legge che proibiva agli Ebrei di circoncidere, e forse di tenere alcuno schiavo Cristiano. Vedi Eusebio in vit. Const. l. IV c. 27 ed il Cod. Teod. lib. XVI. Tit. IX col Comment. del Gottofredo Tom. VI. p. 247. Ma tale imperfetta eccezione si riferiva solo agli Ebrei, ed il gran numero di schiavi, ch'erano in potere di padroni o Cristiani o Pagani, non poteva migliorare la propria condizione temporale col cangiare di religione. Io non so da quali guide restasse ingannato l'Abbate Raynal; mentre l'assoluta mancanza di citazioni è un imperdonabile difetto della sua piacevole Istoria.
75. Vedi Act. S. Silvestri, e Niceph. Callist. Hist. Eccl. l. VII c. 34. ap. Baron. Accl. an. 324. n. 67, 74. Tale autorità veramente non è molto pregevole, ma queste circostanze per loro medesime son tanto probabili, che l'erudito Dr. Howell ( Istor. del Mond. Vol. III. pag. 14 ) non ha avuto scrupolo d'adottarle per vere.
76. Si celebra la conversione de' Barbari sotto il regno di Costantino dagl'Istorici Ecclesiastici (Vedi Sozom. l. II. c. 5 e Teodoret. l. I. c. 23, 24 ). Ma Ruffino, traduttore Latino d'Eusebio, merita d'essere considerato come un Autore originale. Le sue notizie erano tratte diligentemente da uno dei compagni dell'Apostolo dell'Etiopia, e da Bacurio Principe Ibero, ch'era Conte de' Domestici. Il P. Mamacchi ha dato un ampio ragguaglio del progresso del Cristianesimo nel primo e secondo volume della grande ma imperfetta sua opera.
77. Vedi appresso Eusebio ( in vit. Constan. l. IV. c. 9 ) la pressante e patetica lettera di Costantino in favore de' suoi Cristiani fratelli della Persia.
78. Vedi Basnage Hist. des Juifs. T. VII. p. 182. T. VIII. p. 333. T. IX. p. 810. La curiosa diligenza di questo Scrittore seguita gli esiliati Giudei sino all'estremità del globo.
79. Teofilo nella sua puerizia era stato dato in ostaggio da' suoi nazionali dell'Isola di Diva, ed era stato educato dai Romani nelle lettere e nella pietà. Le Maldive, delle quali forse Male o Diva è la capitale, sono un complesso di 1900 o 2000 piccole isole nell'Oceano Indico. Gli Antichi avevano imperfetta notizia delle Maldive; ma si trovan descritte nei due viaggiatori Maomettani del nono secolo, pubblicati dal Renaudot. Geogr. Nubiens. p. 30, 31. D'Herbeloi Biblioth. Orient. p. 704. Hist. gener. des voyages Tom. VIII.
80. Filostorgio ( l. III. c. 4, 5, 6. ) coll'erudite osservazioni del Gottofredo. La narrazione istorica presto si perde in una ricerca intorno alla sede del Paradiso, a strani mostri ec.
81. Vedi l' Epist. d'Osio presso Atanasio vol. I. p. 840. La pubblica rimostranza, che Osio fu costretto d'indirizzare al figlio, conteneva i medesimi principj di governo Ecclesiastico e Civile, ch'esso aveva secretamente instillati nella mente del padre.
82. Il Sig. della Bastia ( Mem. de l'Acad. de Inscr. T. XV. p. 386 ) ha evidentemente provato, che Augusto, e i suoi successori esercitavano in persona tutte le funzioni sacre di Pontefice Massimo, o di Sommo Sacerdote del Romano Impero.
83. Era insensibilmente prevalsa una pratica alquanto contraria nella Chiesa di Costantinopoli; ma il rigido Ambrogio comandò a Teodosio di ritirarsi fuori del recinto, e gl'insegnò a conoscer la differenza che corre fra un Re ed un Sacerdote. Vedi Teodoreto ( l. V. c. 18 ).
84. Alla mensa dell'Imperator Massimo, Martino Vescovo di Tours ricevè la coppa da un famigliare, e la porse al Prete suo compagno avanti di permettere all'Imperatore che bevesse; e l'Imperatrice serviva Martino medesimo a tavola. Sulpic. Sever. in vita S. Martini c. 23. e dial. H. 7. Pure può dubitarsi se tali straordinari complimenti eran fatti al Vescovo o al Santo. Si possono vedere gli onori, che ordinariamente si prestavano al carattere Episcopale appresso il Bingamo ( Antiq. l. II. c. 9 ) e Valesio ( ad Theodoret. l. IV. c. 6. ) Vedasi l'altiero Ceremoniale, che Leonzio Vescovo di Tripoli prescrisse all'Imperatrice in Tillemont. Hist. des Emp. Tom. IV. p. 754. Patr. Apostol. Tom. II. p. 179.
85. Plutarco, nel suo Trattato d'Iside e Osiride, racconta che i Re dell'Egitto, che non eran già Sacerdoti, venivano promossi dopo la loro elezione all'Ordine Sacerdotale.
86. Non vien determinato questo numero da veruno antico Scrittore o Catalogo originale, poichè le liste particolari delle Chiese dell'Oriente in confronto a quel tempo, son tutte moderne. Ma la paziente diligenza di Carlo da S. Paolo, di Luca Olstenio, e del Bingamo ha con gran fatica investigato tutte le Sedi Episcopali della Chiesa Cattolica, ch'era quasi tanto estesa, quanto l'Impero Romano. Il nono libro delle Antichità Cristiane forma una carta molto esatta di geografia Ecclesiastica.
87. Intorno a' Vescovi rurali o a' Corepiscopi, che aveano diritto di dare il lor voto ne' Sinodi, e conferivano gli Ordini minori, vedi Tomassino ( Discipl. Tom. I. pag. 447. ec.) e Chardon Hist. des Sacrem. Tom. V. p. 395. ec. Essi non compariscono che nel quarto secolo, e tal equivoco carattere, che aveva eccitata la gelosia de' Prelati, fu abolito avanti che finisse il decimo, tanto nell'Oriente, quanto nell'Occidente.
88. Il Tomassino ( Disc. Eccl. Tom. II. lib. II. c. 1-8. p. 673-721 ) ha trattato abbondantemente dell'elezione dei Vescovi nei primi cinque secoli, sì nell'Oriente che nell'Occidente; ma egli dimostra un'inclinazione molto parziale in favore dell'aristocrazia de' Vescovi. Il Bingamo ( lib. IV. c. 2, ) è moderato; e Chardon ( Hist. des Sacrem. Tom. V. pag. 108-128. ) è molto chiaro e preciso.
89. Incredibilis multitudo non solum ex eo oppido (Tours), sed etiam ex vicinis urbibus ad suffragia ferenda convenerat etc. Sulp. Sever. ( in vit. Martin. c. 7 ). Il Concilio di Laodicea ( Can. 13 ) allontana dall'elezioni l'infima plebe e i tumulti; e Giustiniano ristringe tale diritto alla nobiltà ( Nov. 123, 1 ).
90. Le lettere di Sidonio Apollinare ( IV. 25. VII. 5, 9 ) dimostrano alcuni scandali della Chiesa Gallicana; eppure la Gallia era meno incivilita e meno corrotta dell'Oriente.
91. Alle volte facevasi un compromesso o per legge o per consenso, oppure i Vescovi e il Popolo sceglievano uno dei tre candidati nominati dall'altra parte.
92. Sembra, che tutti gli esempi citati dal Tomassino ( Disc. Eccles. Tom. II. l. II. c. 6. p. 704-714 ) siano atti straordinari di potestà ed eziandio d'oppressione. S'adduce da Filostorgio ( Hist. Eccles. I. II. 11 ) la conferma del Vescovo d'Alessandria come una maniera di procedere più regolare.
93. Il celibato del Clero per li primi cinque o sei secoli, forma in vero un soggetto di disciplina e di controversia, che si è con gran diligenza esaminato. Si veda in particolare il Tomassino ( Disc. Eccles. Tom. I. l. II. c. 60, 61. p. 886-902 ) e le antichità del Bingamo ( lib. IV. c. 5 ). Ciascheduno di questi eruditi, ma parziali, critici ha esposto una parte del vero, ed ha taciuto l'altra.
94. Diodoro Siculo attesta e comprova l'ereditaria successione del Sacerdozio fra gli Egizj, i Caldei e gl'Indiani ( l. I. p. 84. l. II. p. 142. 153. Edit. Wesseling ). Ammiano descrive i Magi come una famiglia molto numerosa. Per saecula multa ad praesens una eademque prosapia multitudo creata, Deorum cultibus dedicata. (XXIII. 6.) Ausonio celebra la stirpe de' Druidi (de Profess. Burdigal IV), ma dalle osservazioni di Cesare (VI. 13) possiamo arguire, che nella Gerarchia Celtica si dava luogo anche alla scelta ed all'emulazione.
95. Discutono esattamente la materia della vocazione, dell'ordinazione, dell'ubbidienza ec. del Clero, il Tomassino ( Disc. Eccles. Tom. II. p. 1-83 ) ed il Bingamo nel IV lib. delle sue Antichità ( specialmente ne' cap. 4, 6 e 7 ). Quando fu ordinato in Cipro il fratello di S. Girolamo, i Diaconi gli tenevan per forza chiusa la bocca, per timore, che egli non facesse una solenne protesta, la quale rendesse nulli i sacri riti.
96. Le lettere d'immunità, che ottenne il Clero dagl'Imperatori Cristiani, si contengono nel lib. 16 del Codice Teodosiano, e con tollerabil candore sono illustrate dal dotto Gottofredo, la cui mente era bilanciata fra gli opposti pregiudizi di Giurisconsulto e di Protestante.
97. Giustiniano ( Nov. 103). Sessanta Preti o Sacerdoti, cento Diaconi, quaranta Diaconesse, novanta Suddiaconi, centodieci Lettori, venticinque Cantori e cento Ostiari; in tutto cinquecento venticinque. Fu dall'Imperatore fissato questo moderato numero di ministri per sollevare le angustie della Chiesa, che s'era trovata involta fra i debiti e le usure per la spesa d'una quantità assai più copiosa di essi.
98. Universus Clerus Carthaginensis... fere quingenti vel amplius; inter quos quamplurimi erant Lectores infantuli. Victor Vitens, de persecut. Vandal. V. 9, p. 78. Edit. Ruinart. Tuttavia sussisteva sotto l'oppressione de' Vandali questo residuo d'uno stato più prospero.
99. Nella Chiesa Latina oltre il carattere Episcopale si è stabilito il numero di sette Ordini; ma i quattro minori son presentemente ridotti a vuoti ed inutili titoli.
100. Vedi Cod. Theodos. lib. XVI. Tit. II. leg. 42, 43. Il Commentario del Gottofredo e l'istoria Ecclesiastica d'Alessandria dimostrano il pericolo di tali pie instituzioni, che spesso disturbano la pace di quella turbolenta Capitale.
101. L'editto di Milano ( de M. P. c. 48 ) riconosce, che nella Chiesa trovasi una specie di proprietà di terreni, dicendo che questi erano ad jus corporis eorum, idest Ecclesiarum, non hominum singulorum pertinentia. Dovè tal solenne dichiarazione d'un Magistrato supremo riceversi come una massima di legge civile in tutti i Tribunali.
102. Habeat unusquisque licetitiam sanctissimo Catholicae Ecclesiae venerabilique concilio decedens bonorum quod optavit relinquere. (Cod. Theod. l. XVI. Tit. II. leg. 4.) Questa legge fu pubblicata a Roma l'anno 321 in un tempo, in cui Costantino potea prevedere la probabilità d'una rottura coll'Imperatore dell'Oriente.
103. Eusebio Hist. Eccles. lib. X. 2. in vit. Const. lib. IV. c. 28. Esso più volte si diffonde sulla generosità del Cristiano eroe, che il Vescovo medesimo ebbe occasione di conoscere ed eziandio di sperimentare.
104. Eusebio Hist. Eccles. l. X. c. 2, 3, 4. Il Vescovo di Cesarea, che studiava e secondava il genio del suo Signore, pronunciò in pubblico un'elaborata descrizione della Chiesa di Gerusalemme. ( in vit. Const. l. IV. c. 46 ) Questa non esiste più, ma egli ha inserito nella vita di Costantino ( l. III. c. 36 ) un breve ragguaglio dell'architettura e degli ornamenti di essa. In simil guisa fa menzione della Chiesa de' Santi Apostoli a Costantinopoli ( l. IV. c. 59 ).
105. Vedi Giustiniano Nov. 123. 3. Non è determinata la rendita de' Patriarchi e de' Vescovi più ricchi; il frutto però annuo maggiore d'un Vescovato si fissa a trenta libbre di oro, ed il minimo a due; il medio dunque potrebbe essere di sedici, ma questi calcoli sono molto al di sotto del reale valore.
106. Vedi il Baronio, Annal. Eccles,. an. 324. n. 58, 65, 70, 71. Ogni memoria, che viene dal Vaticano, è giustamente sospetta: pure questi cataloghi hanno l'apparenza di antichi e di autentici; ed è almeno evidente che se son finti, si formarono in un tempo, in cui gli oggetti dell'avarizia Papale erano i fondi, non i regni.
107. Vedi Tomassino. Disc. Eccles. Tom. III. l. II. c. 13, 14, 15 p. 689-706. Non pare che la legittima divisione de' beni Ecclesiastici fosse anche stabilita nel tempo d'Ambrogio e di Crisostomo. Simplicio però e Gelasio, che furon Vescovi di Roma al fine del quinto secolo, nelle loro lettere pastorali ne fanno menzione come d'una legge universale ch'era già confermata dall'uso dell'Italia.
108. Ambrogio, difensore il più vigoroso de' privilegi Ecclesiastici, si sottomette senza contrasto al pagamento de' tributi sulle terre: si tributum petit Imperator, non negamus, agri Ecclesia solvunt tributum, solvimus quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo: tributum Caesaris est; non negatur. Il Baronio ( Annal. Eccl. an. 387 ) s'affatica d'interpretar quel tributo come un atto di carità piuttosto che di dovere; ma il Tomassino ( Disc. Eccles. Tom. III. l. I. c. 34. p. 2-68 ) spiega più candidamente le parole, se non l'intenzione d'Ambrogio.
109. In Ariminensi Synodo super Ecclesiarum et Clericorum privilegiis tractatu habito, usque eo dispositio progressa est, ut juga, quae viderentur ad Ecclesiam pertinere, a publica functione cessarent, inquietudine desistente, quod nostra videtur dudum sanctio repulisse. Cod. Teod. l. XVI. Tit. II. leg. 15. Se il Concilio di Rimini avesse potuto ottenere l'intento, questo merito pratico l'avrebbe potuto purgare da qualche speculativa eresia.
110. Siamo assicurati da Eusebio ( in vit. Const. l. IV. c. 27 ) e da Sozomeno ( l. I. c. 9 ) che la giurisdizione Episcopale fu estesa e confermata da Costantino; ma il Gottofredo nella più soddisfacente maniera dimostra la falsità d'un famoso editto, che non fu mai chiaramente inserito nel Codice Teodosiano. (Vedi Tom. VI. p. 303 in fine di detto Codice. ) Egli è strano, che Montesquieu, Giurisconsulto non meno che filosofo, allegasse quest'editto di Costantino ( Espr. des Loix l. XXIX. c. 16 ) senza indicarne sospetto alcuno.
111. Il soggetto della Giurisdizione Ecclesiastica è stato involto in un misto di passione, di pregiudizio e d'interesse. Due de' migliori libri, che mi siano caduti in mano su questo punto, sono le Instituzioni di Gius Canonico dell'Abate Fleury, e l' Istoria civile di Napoli del Giannone. La moderazione loro fu l'effetto della situazione, in cui si trovavano, ugualmente che del loro stato. Il Fleury era un Ecclesiastico Francese, che rispettava l'autorità de' Parlamenti; il Giannone un Giurisconsulto Italiano, che temeva il poter della Chiesa. E qui mi sia permesso d'avvertire, che siccome le proposizioni generali, che io reco in mezzo, sono il risultato di molti fatti particolari ed imperfetti, bisogna, che o rimetta il lettore a que' moderni Scrittori che hanno espressamente trattato di tal materia, o faccia crescere queste note ad una sproporzionata e non piacevole mole.
112. Il Tillemont ha raccolto da Ruffino e da Teodoreto i sentimenti e le frasi di Costantino. ( Mem. Eccl. Tom. III v. 749-750 ).
113. Vedi Cod. Teodos. ( lib. IX. Tit. XLV. leg. 4 ). Nelle Opere di Fra Paolo ( Tom. IV. p. 192 ec.) si trova un discorso eccellente sopra l'origine, i diritti, gli abusi ed i limiti de' Santuarj. Egli osserva giustamente che l'antica Grecia potea forse contenere quindici o venti asili: numero, che presentemente si può trovare nell'Italia dentro le mura d'una sola città.
* Gli asili sono ora aboliti in tutta l'Italia, perfino negli Stati Ecclesiastici.
114. La giurisprudenza penitenziale veniva continuamente accresciuta da' Canoni de' Concilj. Ma poichè molti casi eran sempre lasciati alla discrezione de' Vescovi, essi pubblicavano secondo le occorrenze, ad esempio del Pretore Romano, le regole di disciplina, che si proponevano d'osservare. Le più famose, fra l'Epistole canoniche del quarto secolo, son quelle di Basilio Magno. Sono esse inserite nelle pandette di Beveregio ( T. II. p. 47-151 ) e sono state tradotte da Chardon ( Hist. des Sacrem. Tom. IV. p. 219-277 ).
115. Basilio ( Epist. 47 ) presso Baronio ( Annal. Eccles. an. 370 n. 91 ) il quale dichiara, che a bella posta ei riferisce tal fatto per convincere i Governatori, ch'essi non erano esenti da una sentenza di scomunica. Secondo la sua opinione neppure un Sovrano è salvo da' fulmini del Vaticano; ed il Cardinale si dimostra molto più coerente a se stesso che i Giureconsulti e i Teologi della Chiesa Gallicana.
116. Era notata ne' pubblici registri di Cirene, Colonia Spartana, la lunga serie de' suoi maggiori fino ad Euristene primo Re Dorico di Sparta, ed il quinto nella linea discendente di Ercole (Sinesio Epist. 57, p. 197. Edit. Patav. ). Una genealogia così pura ed illustre di diciassette secoli, senz'aggiungervi i reali Antenati d'Ercole, non può averne un'eguale nell'istoria dell'uman genere.
117. Sinesio ( de Regno pag. 2 ) pateticamente deplora lo stato decadente e rovinoso di Cirene con queste espressioni, Città Greca di antico e venerando nome, in cui trovavansi una volta migliaia di sapienti; adesso povera, e mesta, ed un gran mucchio di rovine.
Tolemaide, nuova città, 82 miglia all'Occidente di Cirene, assunse gli onori di Metropoli della Pentapoli o della Libia superiore, che furon poi trasferiti a Sozusa. Vedi Wesseling ( Itiner. p. 67-68. 732. ) Cellario ( Geogr. T. II. part. II. p. 72, 74. ) Carlo da S. Paolo ( Geogr. Sacr. p. 273. ) D'Anville ( Geogr. Anc. T. III. p. 43, 44. Mem. de l'Acad. des Inscript. Tom. XXXVII. p. 363-391 ).
118. Sinesio avea precedentemente rappresentato le qualità, per le quali si credeva incapace di tal posto ( Epist. c. 5. p. 246-250 ). Egli amava gli studi e i divertimenti profani; era incapace di sostenere la vita celibe; non credeva la risurrezione; e ricusava di predicare favole al popolo, a meno che non gli fosse permesso di filosofare in casa propria. Teofilo, Primate dell'Egitto, che conosceva il suo merito, accettò queste straordinarie proteste. Vedi la vita di Sinesio in Tillemont ( Memoir. Eccles. Tom. XII. p. 499-554 ).
119. Vedi l'invettiva di Sinesio ( Epist. LVII. p. 191-201 ). La promozione d'Andronico non era legittima, essendo egli nativo di Berenice ch'era nell'istessa Provincia. Gl'istrumenti delle torture sono curiosamente specificati, cioè δακτυληφρα o strettoio, ποδοσραβη, ριονλαβιϛ, ωταγρα, χειλοσροφιον che in varie guise comprimevano o distendevano le dita, i piedi, il naso, le orecchie e le labbra delle vittime.
120. La sentenza di scomunica è concepita in uno stile oratorio (Sinesio Epist. 58. p. 201-203 ). Il metodo di comprendervi le intere famiglie, sebbene alquanto ingiusto, fu esteso anche di più negl'interdetti nazionali.
121. Vedi Sinesio Epist. 47. p. 186, 187. Epist. 72. p. 218, 219. Epist. 89. p. 230-231.
122. Vedi il Tomassino ( Discipl. Eccles. Tom. II. lib. III. c. 83. p. 1761-1770) e il Bingamo ( Antiq. Vol. I, l. XIV. c. 4. p. 688-717). Si risguardava la predicazione come l'uffizio più importante del Vescovo; ma qualche volta s'affidava questa funzione ad alcuni Preti, quali erano Crisostomo ed Agostino.
123. La regina Elisabetta usava quest'espressione, e praticava quest'artifizio ogni volta che desiderava di preoccupar gli animi del popolo in favore di qualche passo straordinario del Governo. Il suo successore ebbe occasione di temere gli ostili effetti di questa musica, ed il figlio di lui ne provò il rigore «allorchè il pulpito, il tamburo Ecclesiastico ec.» Vedi Heilyn, Vit. dell'Arcivescovo Laud. p. 153.
124. Que' modesti Oratori confessavano, che, mancando essi del dono de' miracoli, procuravano di acquistar le arti della eloquenza.
125. Il Concilio Niceno fece ne' Canoni 4, 5, 6 e 7 alcuni regolamenti fondamentali sopra i Sinodi, i Metropolitani ed i Primati. Di questi Canoni si è in varie guise abusato, se n'è contorto il senso, si sono interpolati, e se ne son finti dei nuovi secondo l'interesse del Clero. Le Chiese Suburbicarie, assegnate da Ruffino al Vescovo di Roma, hanno dato occasione ad una veemente controversia. Vedi Sirmond, Oper. Tom. IV. p. 1-238.
126. Non abbiamo che trentatre o quarantasette soscrizioni Episcopali; ma Adone, autore veramente di poco credito, conta seicento Vescovi nel Concilio d'Arles. Tillemont, Mem. Eccl. Tom. VI. p. 422.
127. Vedi Tillemont ( Tom. VI. p. 915) e Beausobre ( Hist. du Manicheisme Tom. I. p. 529). Il nome di Vescovo dato da Eutichio ai 2048. Ecclesiastici ( Annal. Tom. I. p. 440. vers. Pocock ) si deve estendere molto al di là de' limiti d'una ordinazione ortodossa o anche Episcopale.
128. Vedi Eusebio in vit. Const. lib. III. c. 6-21. Tillemont, Mem. Eccl. Tom. VI. p. 669-759.
129. Sancimus igitur vicem legum obtinere, quae a quatuor Sanctis Conciliis... expositae sunt aut firmatae. Praedictarum enim quatuor Synodorum dogmata sicut Sanctas Scripturas, et regulas sicut leges observamus. Giustiniano Nov. 131. Il Beveregio ( ad Pandect. Proleg. p. 2) osserva, che gl'Imperatori non fecero mai leggi nuove nelle materie Ecclesiastiche; e Giannone avverte con uno spirito molto diverso, ch'essi diedero la sanzione legale a' Canoni de' Concilj. ( Ist. Civ. di Nap. T. I. p. 136)
130. Vedi l'art. Concile nell'Enciclopedia Tom. III. p. 668, 679. ediz. di Lucca. Il dottor Bouchand, autore di esso, ha discusso, a norma de' principj della Chiesa Gallicana, le principali questioni relative alla forma e costituzione de' Concili generali, e provinciali. Gli Editori ( Preface p. XVI) han ragione di gloriarsi di quest'articolo. Di rado quelli, che consultano l'immensa loro compilazione, restano sì ben soddisfatti.
131. Eusebio in vit. Const. l. III. c. 63, 64, 65, 66.
132. Dopo qualche esame delle varie opinioni di Tillemont, di Beausobre, di Lardner ec. io son persuaso, che Manete non propagasse neppure nella Persia la sua Setta prima dell'anno 270. Egli è strano, che una filosofica e straniera eresia penetrar potesse con tanta rapidità nelle Province Affricane; pure io non posso facilmente indurmi a rigettare l'editto di Diocleziano contro i Manichei, che può leggersi appresso il Baronio ( An. Eccles. an. 287).
133. Constantinus enim cum limatius superstitionum quaereret sectas Manichaeorum et similium etc. Ammian. XV. 15. Strategio, che da questa commissione prese il soprannome di Musioniano, era un Cristiano della Setta d'Arrio. Esso intervenne come uno de' Conti al Concilio di Sardi. Libanio loda la sua dolcezza e prudenza. Vales ad d. loc. Ammian.
134. Cod. Teod. (l. XVI. Tit. V. leg. 2). Siccome nel Codice Teodosiano non si trova inserita la legge generale, egli è probabile che nell'anno 438 fosser già estinte le Sette nella medesima condannate.
135. Sozomeno (l. I. c. 22.) Socrate (l. I. c. 10). Si è sospettato, ma credo senza ragione, che quest'Istorici inclinassero alla dottrina Novaziana. L'Imperatore disse al Vescovo: «Acesio, prendi una scala e va in Paradiso da te solo». Molte Sette Cristiane hanno a vicenda presa in prestito la scala d'Acesio.
136. Si posson trovare i migliori materiali per questa parte d'Istoria Ecclesiastica nell'edizione d'Ottato Melevitano, pubblicata in Parigi nel 1700 da M. Dupin, che l'ha arricchita con note critiche, con geografiche discussioni, con memorie originali, e con un esatto compendio di tutta la controversia. Il Tillemont ha impiegato intorno a' Donatisti la maggior parte del Tom. VI P. I. e ad esso è dovuta un'ampia collezione di tutti i passi di S. Agostino, suo favorito, che si riferiscono a quegli Eretici.
137. Schisma igitur illo tempore confusae mulieris iracundia peperit, amibitus nutrivit, avaritia roboravit. Optat. l. I. c. 19. Il linguaggio di Purpurio è simile a quello di un furioso frenetico: dicitur te necasse filios soraris tuae duos. Purpurius respondit. Putas me terreri a te... occidi; et occido eos, qui contra me faciunt. Act. Conc. Cirtens. ad calc. Optat. p. 274. Quando Ceciliano fu inviato ad un'assemblea di Vescovi, Purpurio disse a' suoi confratelli o piuttosto complici: «Venga pur qua a ricever da noi l'imposizione delle mani, e noi in via di penitenza gli spezzeremo la testa». Optat. l. I. c. 19.
138. I Concilj di Arles, di Nicea e di Trento confermarono la savia e moderata pratica della Chiesa Romana. I Donatisti però avevano il vantaggio di sostenere l'opinione di Cipriano, e d'una parte considerabile della primitiva Chiesa. Vincenzio Lirinense ( p. 332. ap. Tillemont. Mem. Eccl. T. VI. p. 138.) ha spiegato perchè i Donatisti son condannati a bruciare in eterno col Diavolo, mentre S. Cipriano regna in Cielo con Gesù Cristo.
139. Vedi il lib. 6 d'Ottato Melevit. p. 91-100.
140. Tillemont. ( Mem. Eccl. Tom. VI. p. 1. pag. 253. ) Egli deride la parziale lor crudeltà, mentre rispetta Agostino, il gran Dottore del sistema della predestinazione.
141. Plato Aegyptum peragravit, ut a Sacerdotibus Barbaris numeros et coelestia acciperet. Cicer. de Finib. c. 25. Gli Egizi potevan tuttavia conservare la tradizional fede dei Patriarchi. Gioseffo ha persuaso molti de' Padri Cristiani, che Platone traesse una parte delle sue cognizioni dagli Ebrei; ma non può conciliarsi tal vana opinione coll'oscuro stato, e con gl'insociabili costumi del popolo Giudaico, le scritture del quale non furono accessibili alla curiosità Greca fino a più di cent'anni dopo la morte di Platone. Vedi Marsham. Can. Chron. pag. 144. Le Clerc Epist. crit. VII. pag. 177-194.
142. Le moderne guide, che mi hanno condotto alla cognizione del sistema Platonico, sono Cudworth ( System. Intell. p. 568-620 ), Basnage ( Hist. des Juifs. l. IV. c. IV. p. 53, 86 ), Le Clerc ( Epist. crit. VII. p. 194, 209 ), e Brucker ( Hist. Philos. Tom. I. p. 675-706 ). Siccome l'erudizione di questi Scrittori era uguale, e diversa la loro intenzione, così un attento osservatore può trarre istruzione dalle loro dispute, e certezza da' loro argomenti.
143. Brucker Hist. Philos. Tom. I. p. 1349, 1357. Si celebra la scuola Alessandrina da Strabone ( l. 17.), e da Ammiano (XXII. 6).
144. Joseph Antiq. lib. XII. c. 1. 3, Basnage Hist. des Juifs. l. VII. c. 7.
145. Quanto all'origine della filosofia Giudaica vedi Eusebio, Prepar. Evang. VIII. 9, 10. Secondo Filone i Terapeuti studiavan la filosofia; e Brucker ha provato ( Hist. Philos. Tom. II. p. 787 ) ch'essi preferivano quella di Platone.
146. Vedi Calmet. ( Dissert. sur la Bibl. Tom. II. p. 277. ) Il libro della Sapienza di Salomone fu da molti Padri riguardato come opera di quel Monarca; e sebbene sia rigettato da' Protestanti per mancanza di un originale Ebraico, pure ha ottenuto, col resto della volgata, l'approvazione del Concilio di Trento.
147. Il Platonismo di Filone, che fu celebre a segno tale da passare in proverbio, si pose fuor d'ogni dubbio dal Le Clerc ( Epist. Crit. VIII. p. 211-228 ). Basnagio ( Hist. des Juifs. l. IV. c. 5 ) ha chiaramente dimostrato, che le opere teologiche di Filone furon composte avanti la morte e probabilissimamente avanti la nascita di Cristo. In tempo di tale oscurità son più sorprendenti le cognizioni di Filone che i suoi errori. Bull. ( Defens. Fid. Nic. s. I. c. 1. p. 12 ).
148. Mens agitat molem, et magno se corpore miscet. Oltre quest'anima materiale, Cudworth ha scoperto ( p. 562 ) in Amelio, in Porfirio, in Plotino, e per quanto egli crede, in Platone medesimo, una superiore, spirituale upercosmiana, (sopramondana) anima dell'Universo. Ma Brucker, Basnagio, e Le Clerc rigettano questa doppia anima, come una vana fantasia de' Platonici posteriori.
149. Petavio Dogm. Theol. Tom. II. lib. VIII. c. 2. p. 791. Bull. Def. Fid. Nic. s. 1. c. 1 p. 8, 13. Questa nozione, fino a tanto che non ne fu abusato dagli Arriani, era liberamente ammessa nella Cristiana Teologia. In Tertulliano ( adv. Prax. c. 16 ) si trova un notabile e pericoloso passo. Dopo d'avere poste in contrasto fra loro con indiscreta acutezza le azioni di Jehovah e la natura di Dio, conclude in tal modo: scilicet et haec nec de Filio Dei credenda fuisse, si scripta non essent, fortasse non credenda de Patre, licet scripta.
150. I Platonici ammiravano il principio dell'Evangelio di S. Giovanni, come contenente un esatto compendio de' propri loro dommi. Agostino de Civ. Dei X. 29. Amellio ap. Cirill. advers. Julian. l. VIII p. 283. Ma nel terzo e quarto secolo i Platonici d'Alessandria migliorare poterono la loro Trinità, mediante lo studio segreto della Teologia Cristiana.
151. Vedi Beausobre Hist. Crit. du Manicheisme Tom. I. p. 377. Si suppone, che il Vangelo di S. Giovanni fosse pubblicato circa 70 anni dopo la morte di Cristo.
152. Le opinioni degli Ebioniti sono chiaramente esposte dal Mosemio ( p. 331 ), e dal Le Clerc ( Hist. Eccl. p. 535 ). Le costituzioni Clementine, pubblicate fra' Padri Apostolici, sono attribuite da' Critici ad uno di questi Settari.
153. I buoni Polemici, come Bull, ( Judic. Eccl. Cathol. c. 2 ), insistono sull'ortodossia de' Nazareni, che agli occhi di Mosemio ( p. 330 ) sembra meno pura e certa.
154. L'umile condizione ed i patimenti di Gesù sono sempre stati un forte ostacolo per gli Ebrei. Deus.... contrariis coloribus Messiam depinxerat; futurus erat rex, judex, pastor. Vedi Limborch ed Orobio Amica. Collat. p. 8, 19, 53-76, 192-234. Ma quest'obbiezione ha obbligato i credenti Cristiani ad innalzare i loro occhi ad un regno spirituale ed eterno.
155. Giustino Mart. Dial. cum Tryphon. p. 143, 144. Vedi Le Clerc Hist. Eccl. p. 615. Bull e Grabe editori di esso ( Judic. Eccl. Cathol. c. 8 e append. ) tentano di storcere o i sentimenti o le parole di Giustino; ma la violenta loro correzione del testo viene rigettata anche dagli Editori Benedettini.
156. Gli Arriani rimproveravano agli Ortodossi di aver preso in prestito da' Valentiniani e da' Marcioniti la loro Trinità. Vedi Beausobre Hist. du Manich. l. III. c. 5, 7.
157. Non dignum est ex utero credere Deum, et Deum Christum... non dignum est, ut tanta majestas per sordes et squallores mulieris transire credatur. I Gnostici sostenevano l'impurità della materia e del matrimonio; e si scandalizzavano delle grossolane interpretazioni de' Padri e di Agostino medesimo. Vedi Beausobre (Tom. II. p. 523 ).
158. Apostolis adhuc in saeculo superstitibus, apud Iudeam Christi sanguine recente, et phantasma corpus Domini asserebatur. Cotelerio ( Patr. Apost. Tom. II. p. 24 ) crede che quelli, che non accordano che i Dociti nascessero nel tempo degli Apostoli, con egual ragione possono anche negare, che il sole risplenda nel mezzogiorno. Questi Dociti, che formavano il più considerabil partito fra gli altri Gnostici, eran chiamati così perchè non davano a Cristo che un corpo apparente.
159. Possono trovarsi prove del rispetto, che i Cristiani avevano per la persona e per la dottrina di Platone appresso di la Mothe le Vayer ( T. V. p. 135, edit. 1757 ) e Basnage ( Hist. des Juifs. Tom. IV. pag 29, 79 ).
160. Doleo, bona fide Platonem omnium haereticoritm condimentarium factum, Tertull. de Anim. c. 23. Il Petavio ( Dogm. Theol. Tom. III. Proleg. 2. ) dimostra, che questo era un lamento generale. Beausobre ( Tom. I. lib. III. c. 9, 10 ) ha dedotto da' principj Platonici gli errori Gnostici; e siccome nella scuola d'Alessandria que' principj eran mescolati con la filosofia Orientale, ( Brucker. Tom. I. p. 1356 ) si può conciliare il sentimento di Beausobre coll'opinione di Mosemio ( Gener. Hist. Eccl. Vol. 1. p. 37 ).
161. Se Teofilo Vescovo d'Antiochia (Vedi Dupin Bibl. Eccl. Tom. I. p. 66 ) fu il primo, che usasse la parola Triade o Trinità, termine astratto già famigliare nelle scuole di filosofia, dev'essersi questo introdotto nella teologia de' Cristiani dopo la metà del secondo secolo.
162. Atanasio Tom. I. p. 808. Le sue espressioni hanno una singolar energia, e siccome egli scriveva a' Monaci, non vi potea essere alcun motivo per affettare un linguaggio ragionevole.
163. In un Trattato, che avea per oggetto di spiegar le opinioni degli antichi Filosofi sulla natura degli Dei, avremmo potuto prometterci di veder esposta la teologica Trinità di Platone. Ma Cicerone molto ingenuamente confessa, che sebbene avesse tradotto il Timeo, non aveva mai potuto capire quel misterioso dialogo. (Vedi Hieronym. Praef. ad lib. XII in Isaiam Tom. V. p. 154 ).
164. Tertulliano in Apolog. c. 46. Vedi Bayle Diction. alla parola Simonide. Le sue osservazioni sulla presunzione di Tertulliano sono profonde ed interessanti.
165. Lactant. IV. 8. Pure la parola Probole, o Prolatio, che i più ortodossi Teologi presero senza scrupolo da' Valentiniani, ed illustrarono co' paragoni d'una fontana e del suo corso, del sole e de' suoi raggi ec. o non significa niente, o favorisce un'idea materiale della divina generazione. Vedi Beausobre ( Tom. I, lib. III c. 7. p. 548 ).
166. Molti de' primitivi Scrittori hanno francamente confessato, che il Figlio doveva l'essere alla volontà del Padre. Vedi Clarke ( Script. Trinit. p. 280-287 ). Dall'altra parte sembra che Atanasio ed i suoi seguaci non voglian concedere quel che hanno timor di negare. Gli scolastici si sbrigano da questa difficoltà con la distinzione fra la volontà precedente e la concomitante. Petavio Dogm. Theol. Tom. II. lib. VI c. 8, p. 587-603.
167. Vedi Petavio Dogm. Theol. T. II. l. II. c. 10. p. 159.
168. Carmenque Christo quasi Deo dicere secum invicem. Plin. ( Epist. X 97 ). Le Clerc ( Ars crit. p. 150-156 ) esamina criticamente il senso della parola Deus, Θεοϛ Elohim negl'idiomi antichi; ed il Sociniano Emlyn ( Tract. p. 29, 36, 51-145 ) abilmente difende la proprietà del culto verso una molto eccellente creatura.
169. Vedi Dalleo De us. Patr. e le Clerc Bibliot. univ. Tom. X p. 409. Lo scopo della stupenda opera del Petavio sulla Trinità ( Dogm. Theol. Tom. II ) fu d'attaccare la fede de' Padri Antiniceni, o almeno tale n'è stato l'effetto; nè questa profonda impressione si è cancellata dall'erudita difesa del Vescovo Bull.
170. Le formule di fede più antiche furono estese alla massima ampiezza. Vedi Bull ( Judic. Eccl. Cath. ), che tenta d'impedir Episcopio dal trarre alcun vantaggio da quest'osservazione.
171. L'eresie di Prassea, di Sabellio ec. son esposte con esattezza dal Mosemio p. 425, 680-714. Prassea, che venne a Roma verso il fine del secondo secolo, ingannò per qualche tempo la semplicità del Vescovo, e fu confutato dalla penna del fervido Tertulliano.
172. Socrate confessa, che l'eresia d'Arrio nacque dal forte desiderio, che aveva, di opporsi più diametralmente che fosse possibile all'opinione di Sabellio.
173. Si dipingono da Epifanio Tom. I. Haeres 69. 3. p. 279, con colori molto vivaci la figura ed i costumi d'Arrio, il carattere e il numero de' suoi primi proseliti; e non possiamo fare a meno di dolerci ch'esso tosto abbandoni il carattere d'Istorico per assumer quello di Controversista.
174. Vedi Filostorgio lib. I. c. 3, e l'ampio Comentario del Gottofredo. L'autorità però di Filostorgio vien diminuita agli occhi degli Ortodossi per causa del suo Arrianismo; ed a quegli de' critici ragionevoli a motivo della sua passione, della sua ignoranza e de' suoi pregiudizj.
175. Sozomeno ( lib. I. c. 15. ) rappresenta Alessandro come indifferente ed anche ignorante in principio della disputa; mentre Socrate ( lib. I. ) ne attribuisce l'origine alla vana curiosità delle sue teologiche speculazioni. Il Dottor Jortin ( Osserv. sull'Ist. Eccl. vol. II. p. 178 ) ha censurato con la solita sua libertà la condotta d'Alessandro πρὸϛ ὁργήν ἑξκπτεται.... ὁμότωϛ φρόνειν ἑκελέυσε ( s'accende di sdegno.... comanda che si pensi come egli pensa ).
176. Le fiamme dell'Arrianismo poterono per qualche tempo ardere occulte; ma v'è ragione di credere, che si manifestassero con violenza sin dall'anno 319. Tillemont Mem. Ecc. Tom. VI. p. 774-780.
177. Quis crediderit? Certe aut tria nomina audiens tres Deos esse credidit, et idolatra effectus est; aut in tribus vocabulis trinominem credens Deum in Sabellii haeresim incurrit; aut edoctus ab Arrianis unum esse verum Deum Patrem, Filium et Spiritum S., credidit creaturas. Aut extra haec quid credere potuerit, nescio. Hieron. adv. Luciferian. Girolamo riserva all'ultimo il sistema ortodosso, ch'è più complicato e difficile.
178. Siccome s'introdusse appoco appoco fra' Cristiani la dottrina dell'assoluta creazione dal niente (Beausobre Tom. II. p. 165-215 ), così la dignità dell'artefice s'elevò assai naturalmente insieme con quella dell'opera.
179. Le teorie metafisiche del Dottor Clarke ( script. Trinit. p. 276-280 ) potrebbero ammettere un'eterna generazione da una causa infinita.
180. S'usa questa profana ed assurda similitudine da' varj de' primitivi Padri, specialmente da Atenagora nella sua apologia all'Imperator Marco ed al suo figlio; e vien citata senza censura da Bull medesimo. Vedi Defens. Fid. Nic. S. III. c. 5. n. 4.
181. Vedi Cudworth Intell. syst. p. 559. 579. Questa pericolosa ipotesi fu favorita dai due Gregorj, Nisseno e Nazianzeno, da Cirillo Alessandrino, da Giovanni Damasceno ec. Vedi Cudworth. p. 603. e Le Clerc. Bibl. univ. Tom. XVIII. p. 97-105.
182. Sembra, che Agostino invidii la libertà de' Filosofi; Liberis verbis loquuntur philosophi... Nos autem non dicimus duo vel tria principia, duos vel tres Deos; de Civ. Dei X. 23.
183. Boezio, ch'era profondamente versato nella filosofia di Platone e d'Aristotile, spiega l'unità della Trinità mediante l'indifferenza delle tre persone. Vedi le giudiziose osservazioni del Le Clerc, Biblioth. Chois. Tom. XVI. p. 225.
184. Se i Sabelliani rigettavano tal conclusione, venivano tratti in un altro precipizio, cioè a confessare, che il Padre era nato da una Vergine, e che aveva sofferto sulla Croce; e così meritavan l'odioso titolo di Patropassiani, con cui furono infamati da' loro nemici. Vedi le invettive di Tertulliano contro Prassea, e le moderate riflessioni di Mosemio p. 423, 681, 3 e Beausobre Tom. I. lib. III. c. 6. p. 533.
185. I fatti del Concilio Niceno son riferiti dagl'antichi non solo in un modo parziale, ma anche molto imperfetto. Una pittura, quale ne avrebbe fatto Fra Paolo, non è da sperarsi; ma quelle rozze ombreggiature, che si delinearono dal pennello della bacchettoneria e da quello della ragione, possono vedersi appresso il Tillemont Mem. Eccl. Tom. VI. p. 669-759 ed il Le Clerc Biblioth. univ. Tom. X. p. 435-454.
186. Siam debitori ad Ambrogio ( de Fid. lib. III. c. alt. ) della cognizione di questo curioso aneddoto. Hoc verbum posuerunt Patres, quod viderunt adversariis esse formidini: ut tamquam evaginato ab ipsis gladio ipsum nefandae caput haereseos amputarent.
187. Vedi Bull, Defens. Fid. Nic. Sect. II. c. 1. p. 25-36. Egli si crede in dovere di conciliare fra loro i due Sinodi ortodossi.
188. Secondo Aristotile le stelle sono homoousie l'una coll'altra. Che homoousios significhi d'una sostanza in specie, si è dimostrato dal Petavio, dal Curcelleo, dal Cudworth, dal Le Clerc ec. ed il provarlo sarebbe un actum agere. Questa è la giusta osservazione del Dott. Jortin V. II. p. 212. ch'esamina la controversia Arriana con dottrina, ingenuità e candore.
189. Vedi Petav. Dogm. Theol. Tom. II. lib. IV. c. 16. p. 353, ec. Cudworth p. 559. Bull Sect. IV. p. 275, 290. Edit. Grab. La περίχωρησιϛ o circumincessio è forse il più profondo e più oscuro baratro di tutto l'abisso teologico.
190. La terza sezione Della difesa della Fede Nicena di Bull, che alcuni de' suoi antagonisti han chiamato scempiaggine, ed altri eresia, è destinata alla supereminenza del Padre.
191. Il nome, che Atanasio ed i suoi seguaci ordinariamente solevan dare agli Arriani, era quello d' Arriomaniti.
192. Epiphan. Tom. I. haeres. 72. 4. p. 837. Vedi le avventure di Marcello appresso Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. VII. p. 880-899 ). Alla sua opera dell'unità di Dio in un libro fu risposto da Eusebio in tre libri, che tuttavia esistono. Il Petavio ( Tom. II. lib. I. c. 14. p. 78 ) dopo un lungo ed accurato esame ha pronunziato con ripugnanza la condanna di Marcello.
193. Atanasio nella sua Epistola intorno a' Sinodi di Seleucia e di Rimini ( Tom. I. p. 886-905 ) ha dato un'ampia lista di simboli Arriani, ch'è stata accresciuta e migliorata dalle fatiche dell'instancabile Tillemont. Memoir. Eccl. T. VI. p. 471.
194. Erasmo ha descritto con ammirabil buon senso e libertà il giusto carattere d'Ilario. Gli editori Benedettini si son limitati a rivederne il testo, a comporre gli annali della sua vita, ed a giustificarne i sentimenti e la condotta.
195. Absque Episcopo Eleusio, et paucis cum eo; ex majore parte Asianae decem provinciae, inter quas consisto, vere Deum nesciunt. Atque utinam penitus nescirent! Cum procliviore enim venia ignorarent, quam obtrectarent. Hilar. de Sinod, sive de Fide Orient. c. 63. p. 1186 edit. Bened. Nel celebre Paralello fra l'ateismo e la superstizione, il Vescovo di Poitiers sarebbe restato sorpreso di trovarsi nella filosofica società di Bayle e di Plutarco.
196. Hilar. ad Constantium lib. II. c. 4. 5. p. 1227. 1228. Questo notabile passo meritò l'attenzione di Locke che lo trascrisse, Vol. III. p. 470, nel modello del suo nuovo Repertorio.
197. Appresso Filostorgio, lib. III. c. 15, il carattere e le avventure di Aezio sembrano assai singolari, quantunque siano con tutta la cura addolcite dalla mano d'un amico. Il Gottofredo editore di Filostorgio, p. 153, che era più attaccato a' propri principj che all'autore, ha raccolte le odiose circostanze, che i diversi avversari di lui hanno conservato o inventato.
198. Secondo il giudizio d'uno che rispettava ambidue quei Settari, Aezio era dotato d'un ingegno più forte, ed Eunomio aveva acquistato più arte ed erudizione. Philostorg. lib. VIII. c. 18. La confessione e l'apologia d'Eunomio Fabric. Bibl. Graec. Tom. VIII. p. 258-305 è una delle poche opere ereticali che ci sian rimaste.
199. Pure secondo l'opinione d'Estio e di Bull ( p. 297 ) v'è una facoltà, cioè quella della creazione, che Dio non può comunicare ad una creatura. Estio, che sì esattamente determina i confini dell'onnipotenza, era Olandese di nascita, e di professione Teologo Scolastico. Dupin Bibl. Eccles. Tom. XVII. p. 45.
200. Sabino ( ap. Socrat. lib. II. c. 39. ) ne ha copiati gli atti; Atanasio ed Ilario hanno spiegato le divisioni di questo Sinodo Arriano: le altre circostanze relative al medesimo si sono esattamente raccolte dal Baronio e dal Tillemont.
201. Fideli et pia intelligentia, de Synod. c. 77. p. 5193. Nelle sue brevi note apologetiche (pubblicate per la prima volta da' Benedettini da un MS. di Chartres) osserva che usò questa cauta espressione, qui intelligerem et impiam, p. 1206. Vedi p. 1146. Filostorgio, che vedeva questi oggetti per un diverso mezzo, è disposto a dimenticare la differenza dell'importante dittongo. Vedi in particolare VIII. 17. e Gottofred. p. 352.
202. Testor Deum coeli atque terrae me cum neutrum audissem, semper tamen utrumque sensisse... Regeneratus pridem et in Episcopatu aliquantisper manens, fidem Nicaenam nunquam nisi exulaturus audivi. Hilar. de Sinod. c. 91. p. 1205. I Benedettini son persuasi, ch'egli governasse la Diocesi di Poitiers varj anni avanti il suo esilio.
203. Seneca Epist. 58, si duole, che neppure το ον de' Platonici, l' ens de' più arditi Scolastici, poteva esprimersi con un nome Latino.
204. La preferenza, che il quarto Concilio Lateranense finalmente diede ad una numerica piuttosto che generica unità (vedi Petav. Tom. II. lib. IV. c. 13 p. 424 ) veniva favorita dall'idioma Latino. Sembra che τριαϛ ecciti l'idea di sostanza: Trinitas quella di qualità.
205. Ingemuit totus orbis, et Arrianum se esse miratus est. Hieronym. adv. Lucifer. Tom. I. p. 145.
206. L'istoria del Concilio di Rimini vien narrata molto elegantemente da Sulpicio Severo ( Hist. Sacr. l. II. p. 419-430 ed. Lugd. Batav. 1647 ) e da Girolamo nel suo dialogo contro i Luciferiani. Quest'ultimo ha in mira di difendere la condotta de' Vescovi Latini, che furono ingannati e che si pentirono.
207. Eusebio in vit. Const. l. II. c. 64-72. I principi di tolleranza e di filosofica indifferenza, contenuti in questa lettera, son molto dispiaciuti al Baronio, al Tillemont ec. i quali suppongono, che l'Imperatore avesse qualche cattivo consigliere, cioè o Satana, o Eusebio a' suoi fianchi. Vedi Jortin Osserv. Tom. II. p. 183.
208. Eusebio in vit. Const. l. III. c. 13.
209. Teodoreto ci ha conservato (l. I. c. 20) una lettera scritta da Costantino al popolo di Nicomedia, nella quale il Monarca medesimo si dichiara pubblico accusatore d'uno de' suoi sudditi: egli nomina Eusebio ο τηϛ τυραννικηϛ ωμοτητοϛ συμμυσηϛ ( complice della tirannica crudeltà ), e si duole dell'ostile condotta di lui nel tempo della guerra civile.
210. Vedi appresso Socrate (l. I. c. 8), o piuttosto ap. Teodoreto (l. I. cap. 12) una lettera originale d'Eusebio di Cesarea, nella quale tenta di giustificare la sua soscrizione all'Homoousion. Il carattere d'Eusebio è stato sempre un problema; ma quelli, che han letto la seconda Epistola critica del Clerc ( Ars. crit. Tom. III. p. 30-69 ) debbono avere una opinione assai svantaggiosa della sincerità ed ortodossia del Vescovo di Cesarea.
211. Atanas. Tom. I. p. 707. Filostorg. l. 1 c. 10 col Coment. del Gottofredo p. 41.
212. Socrate. l. I. c. 9. In queste lettere circolari, che furono indirizzate a varie città, Costantino si servì contro gli Eretici delle armi del ridicolo e della facezia comica.
213. Noi prendiamo la storia originale da Atanasio ( T. I. p. 670) che dimostra qualche ripugnanza ad infamar la memoria del morto. Egli poteva esagerare in quest'occasione, ma il continuo commercio fra Costantinopoli ed Alessandria avrebbe resa pericolosa ogni invenzione. Quelli che insistono sulla narrazione letterale della morte d'Arrio (evacuò ad un tratto gl'intestini in un cesso) debbono assolutamente scegliere o il veleno o un miracolo.
214. Può rintracciarsi la mutazione de' sentimenti, o almeno della condotta di Costantino in Eusebio, vit. Const. l. III. c. 23 l. IV c. 41, in Socrate l. I. c. 23-39, in Sozomeno l. II. c. 16-34, in Teodoreto l. I. c. 14-34, ed in Filostorgio l. II. c. 1-17. Ma il primo di questi Autori era troppo vicino alla scena dell'azione, e gli altri troppo lontani. Egli è molto singolare, che si abbandonasse l'importante uffizio di continuare l'istoria Ecclesiastica a due laici e ad un eretico.
215. Quia etiam tum Catechumenus Sacramentum fidei merito videretur potuisse nescire. Sulp. Sev. Hist. Sac. l. II. p. 410.
216. Socrate l. II. c. 2. Sozomeno lib. III. c. 18. Atanasio Tom. I. p. 813-834. Egli osserva, che gli eunuchi sono i nemici naturali del Figlio. Si confrontino le osservazioni sulla Istoria Ecclesiastica del Dottor Jortin, Vol. IV. p. 3, con una certa genealogia nel Candido cap. IV. che termina in uno de' primi compagni di Cristoforo Colombo.
217. Sulpic. Sev. in Hist. Sac. l. II. p. 405, 406.
218. Cirillo ( ap. Baron. An. 353. n. 26) osserva espressamente, che nel Regno di Costantino s'era trovata la Croce nelle viscere della terra; ma che nel Regno di Costanzo essa era comparsa nel mezzo del Cielo. Quest'opposizione prova evidentemente, che Cirillo ignorava lo stupendo miracolo, a cui s'attribuisce la conversione di Costantino; e tal ignoranza è tanto più sorprendente, che non più di dodici anni dopo la morte di lui, Cirillo fu consacrato Vescovo di Gerusalemme dall'immediato successore d'Eusebio di Cesarea. Vedi Tillemont Mem. Eccl. Tom. VIII p. 715.
219. Non è facile il determinare fino a qual segno si possa difendere l'ingenuità di Cirillo, mediante qualche naturale apparenza d'un alone solare.
220. Filostorg. l. III. c. 26. Egli è seguitato dall'Autore della Cronica Alessandrina, da Cedreno e da Niceforo. Vedi Gottofredo. Dissert. p. 188. Essi non potrebbero ricusare un miracolo neppure dalle mani d'un avversario.
221. Un passo così curioso merita bene d'essere trascritto. Christianam Religionem absolutam et simplicem anili superstitione confundens; in qua scrutanda perplexius, quam componenda gravius excitaret dissidia plurima, quae progressa fusius aluit concertatione verborum, ut catervis Antistitum jumentis publicis ultro citroque discurrentibus, per sinodos ( quas appellant ) dum ritum omnem ad suum trahere conantur ( Valesio legge conatur) rei vehiculariae concideret nervos. Ammiano XXI. 16.
222. Atanas. Tom. I. p. 870.
223. Socrat. l. II. c. 35-47. Sozomeno l. IV. c. 12-30. Teodoreto l. II. c. 18-32. Filostorg. l. IV. c. 6-12. l. V. c. 1-4 l. VI. c. 1-5.
224. Sozom. l. IV. c. 23. Atanas. Tom. I. p. 831. Il Tillemont ( Mem. Eccl, VII. p. 947) ha raccolto varj esempi dell'orgoglioso fanatismo di Costanzo da diversi Trattati di Lucifero di Cagliari. I soli titoli di que' Trattati inspirano zelo e terrore. « Moriendum pro Dei Filio » « De regibus apostaticis» «De non conveniendo cum haeretico » « De non parcendo in Deum delinquentibus ».
225. Sulpic. Sev. Hist. Sacr. l. II. p. 418, 430. Gl'Istorici Greci eran molto ignoranti degli affari dell'Occidente.
226. È un danno, che Gregorio Nazianzeno componesse un panegirico piuttosto che una vita d'Atanasio; ma possiamo godere, e profittar del vantaggio di trarre i più autentici materiali dal ricco fondo delle proprie di lui epistole ed apologie: Tom. I. p. 670-951. Io non imiterò l'esempio di Socrate ( l. 2. c. 1 ), che pubblicò la prima edizione della sua Storia senza prendersi la pena di consultare gli scritti d'Atanasio. Pure anche Socrate, e Sozomeno, di lui più curioso, ed il dotto Teodoreto servono a connettere la vita d'Atanasio con la serie dell'istoria Ecclesiastica. La diligenza del Tillemont, Tom. VIII, e degli Editori Benedettini ha raccolto tutti i fatti, ed esaminata ogni difficoltà.
227. Sulpicio Severo ( Hist. Sacr. l. II. p. 396 ) lo chiama legale, e giurisconsulto. Presentemente non può ravvisarsi questo carattere, o si consulti la vita, o le opere d'Atanasio.
228. Dicebatur enim fatidicarum sortium fidem, quaeve augurales portenderent alites scientissime callens aliquoties praedixisse futura. Ammian. XV. 7. Sozomeno ( l. IV. c. 10 ) riferisce una profezia o piuttosto uno scherzo, da cui si prova evidentemente che Atanasio, se le cornacchie parlan Latino, intendeva il linguaggio delle cornacchie.
229. Si fece leggiermente menzione dell'irregolare ordinazion d'Atanasio ne' Concilj, che si tenner contro di lui. Vedi Filost. lib. II. c. 11 e Gottofredo p. 71. Ma può appena supporsi, che l'assemblea de' Vescovi dell'Egitto solennemente attestasse una pubblica falsità. Atanas. Tom. I. p. 726.
230. Vedi l'Istoria de' Padri del deserto pubblicata da Rosweide, e Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. VII. ) nelle vite d'Antonio, e di Pacomio. Atanasio medesimo, che non isdegnò di comporre la vita del suo amico Antonio, ha diligentemente osservato, quanto spesso il santo Monaco deplorasse e profetizzasse i danni dell'eresia Arriana. Atanas. Tom. II. p. 492-498.
231. A principio Costantino minacciava parlando, e domandava scrivendo, και αγραφωϛ μεν ηπειλει, γραφων δε ηξιον. Le sue lettere di poi presero un minaccevole accento, ma mentre chiedeva, che a tutti fosse aperto l'ingresso della Chiesa, evitava l'odioso nome d'Arrio. Atanasio da sagace politico, ha diligentemente notato queste distinzioni, ( Tom. I. p. 788 ) che gli somministravano qualche motivo di scusa o di dilazione.
232. I Meleziani ebbero origine in Egitto, come in Affrica i Donatisti, da una disputa Episcopale nata dalla persecuzione. Io non ho tempo di esporre tal oscura controversia, la quale sembra essersi male rappresentata dalla parzialità d'Atanasio, e dall'ignoranza d'Epifanio. Vedi Mosemio Istor. gener. della Chiesa Vol. I. p. 201.
233. Viene specificato il trattamento de' sei Vescovi da Sozomeno lib. II. c. 25; ma Atanasio medesimo, sì abbondante per rispetto ad Arsenio ed al calice, lascia questa grave accusa senza risposta.
234. Atanas. Tom. I. p. 788. Socrat. lib. I. c. 28. Sozomeno lib. II. c. 25. L'Imperatore nella sua Lettera di convocazione ap. Euseb. ( in vit. Constant. lib. IV. c. 42 ) par che giudichi anticipatamente alcuni membri del Clero, ed era più che probabile, che il Sinodo applicasse tali rimproveri ad Atanasio.
235. Vedi in particolare la seconda Apologia d'Atanasio ( Tom. I. p. 763-808 ) e le sue lettere a' Monaci ( p. 808-866 ). Queste son giustificate con originali ed autentici documenti; ma inspirerebbero maggior credibilità, se egli meno innocente, e meno assurdi vi comparissero i suoi nemici.
236. Euseb. in vit. Const. lib. IV. c. 41-47.
237. Atanas. Tom. I. p. 804. In una Chiesa dedicata a S. Atanasio, tal situazione somministrerebbe per una pittura un argomento più bello, che molte Storie di miracoli e di martirj.
238. Atanas. Tom. I. p. 729. Eunapio racconta ( in vit. Sophist. p. 36. 37 edit. Comelin.) uno strano esempio della credulità e barbarie di Costantino in una simile occasione. L'eloquente Sopatro, Filosofo della Siria, godeva la sua amicizia, e aveva provocato l'ira d'Ablavio, Prefetto del Pretorio. Il popolo di Costantinopoli era mal contento, perchè s'era trattenuto l'arrivo delle navi che portavano il grano per mancanza di vento meridionale; e Sopatro fu decapitato sull'accusa, che egli aveva legato i venti per arte magica. Svida aggiunse, che Costantino con tal esecuzione pretese di provare che aveva assolutamente rinunziato alla superstizione de' Gentili.
239. Nel suo ritorno egli vide Costanzo due volte a Viminiaco ed a Cesarea nella Cappadocia. Atanas. Tom. I. p. 676. Il Tillemont suppone, che Costantino lo conducesse nella Pannonia al congresso dei tre reali fratelli. Mem. Eccl. Tom. VIII. p. 69.
240. Vedi Beveridge Pand. Tom. I. p. 429-452 e Tom. II. Annot. p. 182. Tillemont Mem. Eccl. Tom. VI. p. 310-324. S. Ilario di Poitiers ha fatto menzione di questo Sinodo d'Antiochia con troppo favore e rispetto. Ei vi conta novanta sette Vescovi.
241. Questo Magistrato, sì odioso per Atanasio, è lodato da Gregorio Nazianzeno, Tom. I. Orat. 21. p. 391.
Saepe premente Deo fert Deus alter opem.
Per onore della natura umana ho sempre piacere di scoprire qualche buona qualità in quegli uomini, che dallo spirito di parte si sono dipinti come mostri e tiranni.
242. Le difficoltà cronologiche, le quali rendon dubbiosa la residenza d'Atanasio a Roma, sono vigorosamente trattate dal Valesio Observ. ad Calc. Tom. II. Hist. Eccles. lib. I c. 1-5, e dal Tillemont Mem. Eccles. Tom. VIII. p. 674 ec. Io ho seguitato la semplice ipotesi del Valesio, che non ammette che un sol viaggio dopo l'intrusione di Gregorio.
243. Non posso fare a meno di trascrivere una giudiziosa osservazione di Wetstein Proleg. n. T. p. 19. Si tamen Historiam Ecclesiasticam velimus consulere, patebit jam inde a saeculo quarto, cum, ortis controversiis, Ecclesiae Graecae doctores in duas partes scinderentur, ingenio, eloquentia, numero tantum non aequales, eam partem quae vincere cupiebat Romam confugisse, majestatemque Pontificis comiter coluisse, eoque pacto oppressis per Pontificem et Episcopos Latinos adversariis praevaluisse, atque orthodoxiam in Conciliis stabilivisse. Eam ob caussam Athanasius non sine comitatu Romam petiit, pluresque annos ibi haesit.
244. Filostorg. l. III. c. 22. Se nel promuovere gl'interessi della religione s'usò qualche corruzione, un avvocato d'Atanasio potrebbe giustificare o scusare tal equivoca condotta coll'esempio di Catone, e di Sidney; il primo de' quali si dice, che desse, ed il secondo che ricevesse doni in una causa di libertà.
245. Il Canone, che permette gli appelli a' Pontefici Romani, ha innalzato il Concilio di Sardica quasi alla dignità d'un Concilio generala; ed i suoi atti si sono, o per ignoranza o per arte confusi con quelli del Sinodo Niceno. Vedi Tillemont Tom. VIII. p. 689 e Geddes Tract. Vol. II. p. 419-460.
246. Siccome Atanasio spargeva segrete invettive contro Costanzo (Vedi l'epistola a' Monaci ) nel tempo stesso che l'assicurava del suo profondo rispetto, noi possiamo diffidare delle proteste dell'Arcivescovo. Tom. I. p. 677.
247. Nonostante il discreto silenzio d'Atanasio, e la manifesta finzione di una lettera riportata da Socrate, queste minacce son provate dalla certa testimonianza di Lucifero di Cagliari, ed anche di Costanzo medesimo. Vedi Tillemont Tom. VIII. p. 693.
248. Ho sempre avuto qualche dubbio intorno alla ritrattazione d'Ursacio e di Valente. Atanas. T. I. p. 776. Le loro lettere a Giulio, Vescovo di Roma, e ad Atanasio medesimo son di tempra sì differente l'una dall'altra, che non possono essere ambedue genuine. L'una tiene il linguaggio de' rei che confessano la loro colpa ed infamia, l'altra quello di nemici, che a termini uguali chiedono un'onorevole riconciliazione.
249. Le circostanze del suo secondo ritorno possono rilevarsi dal medesimo Atanasio Tom. I. p. 769. e 822, 843, da Socrate l. II. c. 18, da Sozomeno l. III. c. 19, da Teodoreto l. II. c. 11. 12, da Filostorgio l. III. c. 12.
250. Atanasio (Tom. I. pag. 677-678.) difende la sua innocenza con patetiche querele, con solenni asserzioni, e con ispeciosi argomenti. Egli conviene che erano state finte delle lettere in suo nome, ma domanda che siano esaminati i suoi segretarj e quelli del Tiranno, per conoscer se quelle lettere fossero state scritte dai primi, o dagli altri ricevute.
251. Atanasio Tom. I. p. 825-844.
252. Atanas. Tom, I. p. 861. Teodoreto l. II. c. 16. L'Imperatore si protestò, che egli desiderava più di sottomettere Atanasio, di quel che avesse bramato di vincer Magnenzio o Silvano.
253. Gli affari del Concilio di Milano son tanto imperfettamente ed erroneamente riferiti dai Greci Autori, che ci deve riuscir grato il supplemento di alcune lettere d'Eusebio, che il Baronio ha estratte dagli archivi della Chiesa di Vercelli, e di un'antica vita di Dionisio di Milano, pubblicata dal Bollando. Ved. Baron. An. 355. e Tillemont T. VII. p. 1415.
254. Gli onori, i presenti, i conviti, che sedussero tanti Vescovi, vengono con indegnazione mentovati da quelli che troppo eran puri o troppo superbi per non accettarli. «Noi combattiamo (dice Ilario di Poitiers) contro l'anticristo Costanzo, che invece di battere il dorso, solletica il ventre» qui non dorsa coedit, sed ventrem palpat. Hilar. contr. Constant. c. 5. p. 1240.
255. Si dice qualche cosa di tale opposizione da Ammiano (XV. 7.) che aveva una cognizione molto oscura o superficiale dell'Istoria Ecclesiastica: Liberius... perseveranter renitebatur, nec visum hominem nec auditum damnare nefas ultimum saepe exclamans, aperte scilicet recalcitrans Imperatoris arbitrio. Id enim ille Athanasio semper infestus etc.
256. Più propriamente però dalla parte ortodossa del Concilio Sardicense. Se i Vescovi di ambe le parti avessero secondo le regole reso i voti, la differenza sarebbe stata da 94 a 76. Il Tillemont (vedi Tom. VIII. pag. 1147. 1158.) giustamente si maraviglia che sì piccola superiorità procedesse con tanto vigore contro gli avversarj, il Capo dei quali immediatamente fu deposto.
257. Sulpic. Sever. in Hist. Sacr. l. II p. 412.
258. Ammiano XV. 5. fa menzione dell'esilio di Liberio. Vedi Teodoreto l. II. c. 16. Atanas. T. I. p. 834. 837. Ilar. Fragm. I.
259. Si è compilata la vita d'Osio dal Tillemont (T. VII. p. 524-561), che ne' termini più stravaganti a principio ammira, e quindi condanna il Vescovo di Cordova. Fra le querele d'Atanasio e d'Ilario intorno alla sua caduta, può distinguersi la prudenza del primo dal cieco e sfrenato zelo del secondo.
260. I Confessori dell'Occidente furono rilegati ne' deserti dell'Arabia o della Tebaide, e successivamente nelle solitudini del Monte Tauro, nelle parti più deserte della Frigia, che erano occupate dagli empi Montanisti ec. Quando l'eretico Aezio era troppo favorevolmente trattato a Mopsuestia nella Cilicia, gli fu cangiato, per consiglio d'Acacio, l'esilio, trasferendolo ad Amblada, luogo abitato da' Selvaggi, ed infestato dalla guerra e dalla peste. Filostor. l. V. c. 2.
261. Vedasi il crudel trattamento e la strana ostinazione d'Eusebio, nelle sue proprie lettere pubblicate dal Baronio an. 356. n. 92-102.
262. Ceterum exules satis constat totius orbis studiis celebratos, pecuniasque eis in sumptum affatim congestas, legationibus quoque eos plebis catholica ex omnibus fere Provinciis frequentatos. Sulp. Sev. Hist. Sacr. p. 414. Atanas. T. I. p. 836. 840.
263. Posson trovarsi ampi materiali per l'istoria di questa terza persecuzione d'Atanasio nelle proprie sue opere. Vedasi particolarmente la sua molto bella Apologia a Costanzo T. I. p. 673, la prima Apologia per la sua fuga p. 701, la sua lunga lettera a' Solitarj p. 808, e la protesta originale del popolo d'Alessandria contro le violenze commesse da Siriano p. 866. Sozomeno (l. IV. c. 9.) ha inserito nella sua narrazione due o tre luminose ed importanti circostanze.
264. Atanasio aveva ultimamente mandato per Antonio e per alcuni dei suoi principali Monaci. Essi discesero dalla loro montagna, annunziarono agli Alessandrini la santità d'Atanasio, ed onorevolmente furono accompagnati dall'Arcivescovo fino alle porte della città. Atan. T. II. p. 491, 492. Vedi anche Ruffino III. 164. Vit. Patr. p. 524.
265. Atanasio Tom. I. p. 694. Nel tempo che l'Imperatore o gli Arriani suoi segretari esprimono il loro sdegno, manifestano i timori e la stima che hanno d'Atanasio.
266. Tali minute circostanze son curiose per esser letteralmente trascritte dalla protesta, che tre giorni dopo fu pubblicamente presentata da' Cattolici d'Alessandria. Vedi Atanasio T. I. p. 867.
267. I Giansenisti hanno spesse volte paragonato Arnaldo con Atanasio, e si son diffusi con piacere sulla fede e sullo zelo, sul merito o sull'esilio di quei due celebri Dottori. Questo coperto paralello vien molto destramente maneggiato dall'Abbate della Bleterie. Vie de Jov. T. I. p. 130.
268. Hinc jam toto orbe profugus Athanasius, nec ullus ei tutus ad latendum supererat locus. Tribuni, Praefecti, Comites, exercitus quoque ad pervestigandum eum moventur edictis Imperialibus; praemia delatoribus proponuntur, si quis eum vivum, si id minus, caput certe Athanasii detulisset. Ruffino l. I. c. 16.
269. Gregor. Nazianz. Tom. I. Orat XXI. p. 584-385. Vedi Tillemont Mem. Eccl. Tom. VII. p. 176, 410, 820-880.
270. Et nulla tormentorum vis inveniri adhuc potuit, quae obdurato illius tractus latroni invito elicere potuit, ut nomen proprium dicat. Ammiano, XXII. 16 e Vales. Iv.
271. Ruffino l. I. c. 18. Sozomeno l. IV. c. 10. Questa e la seguente storia diverranno impossibili, se voglia supporsi che Atanasio continuasse ad abitar sempre nell'asilo che accidentalmente aveva preso.
272. Palladio ( Hist. Lausiac. c. 136 in vit. Patr. p. 776 ) che è l'originale autore di quest'aneddoto, aveva trattato con la fanciulla medesima, che nella sua vecchiezza rammentavasi ancora con piacere d'una sì pia ed onorevole conversazione. Io non posso ammettere la delicatezza del Baronio, del Valesio, del Tillemont, che quasi rigettano un racconto, sì indegno (com'essi credono) della gravità dell'Istoria Ecclesiastica.
273. Atanasio Tom. I. p. 869. Io convengo col Tillemont ( Tom. VIII. p. 1197 ), che le sue espressioni indicano una personale, sebbene forse occulta visita ai Sinodi.
274. La lettera d'Atanasio ai Monaci è piena di rimproveri, che il Pubblico dee riconoscere per veri; ( Vol. I, p. 834. 856), ed in ossequio dei suoi lettori vi ha introdotto i confronti di Faraone, di Acab, di Baldassarre ec. L'ardire d'Ilario fu meno pericoloso, se pubblicò la sua invettiva nella Gallia dopo la rivolta di Giuliano; ma Lucifero mandò i suoi libelli a Costanzo, e quasi acquistò il premio del martirio. Vedi Tillemont T. VII. p. 905.
275. Atanasio ( Tom. I. p. 811) si duole in generale di questa pratica, di cui dà in seguito un esempio ( p. 861) nella pretesa elezione di Felice. Tre Eunuchi rappresentavano il Popolo Romano, e tre Prelati che seguivan la Corte, fecero le funzioni dei Vescovi delle Province Suburbicarie.
276. Il Tomassino ( Disc. Eccl. Tom. I. lib. II. c. 72, 73. p. 966-984) ha raccolto molti curiosi fatti sopra l'origine ed il progresso del canto nella Chiesa, tanto d'Oriente che di Occidente.
277. Filostorg. lib. III. c. 13. Gottofredo ha esaminato questo punto con singolar esattezza p. 147 ec. Vi eran tre formule eterodosse, cioè «Al Padre per il Figlio, e nello Spirito Santo», «Al Padre ed al Figlio nello Spirito Santo» e «Al Padre nel Figlio, e Spirito Santo».
278. Dopo l'esilio d'Eustazio sotto il regno di Costantino, il rigido partito degli Ortodossi formò una divisione che in Seguito degenerò in scisma, e durò più d'ottant'anni. Vedi Tillemont Mem. Eccles. Tom. VII. p. 35-54, 1137-1158. Tom. VIII. p. 573, 632, 1313-1332. In molte Chiese però gli Arriani, e gli Homoousiani, che aveano rinunziato alla comunione fra loro, continuaron per qualche tempo ad unirsi nelle preghiere. Filostorg. c. 14.
279. Intorno a questa ecclesiastica rivoluzione di Roma vedi Ammiano XV. 7. Atanas. Tom. I. p. 35. q. VI. Sozomeno lib. IV. c. 15. Teodoreto lib. II. c. 17. Sulp. Sev. Hist. Sacr. lib. II. p. 412. Girol. Chron. Marcellin. et Faustin. libell. p. 3. 4. Tillemont Memoir. Eccl. Tom. IV. p. 336.
280. Cucuso fu l'ultimo Teatro della sua vita e de' suoi travagli. La situazione di quella solitaria città ne' confini della Cappadocia, della Cilicia, e dell'Armenia Minore ha prodotto qualche geografica perplessità; ma siam condotti al suo vero posto dal corso della strada Romana, che va da Cesarea ad Anazarbo. Vedi Cellar. Geograph. Tom. II. p. 213. Wesseling ad itiner. p. 179-703.
281. Atanasio ( Tom. I. p. 703, 813, 814) asserisce ne' termini più positivi, che Paolo fu ucciso e ne appella non solo alla pubblica fama, ma anche alla non sospetta testimonianza di Filagrio, uno dei persecutori Arriani. Pure conviene, che gli Eretici attribuivano a malattia la morte del Vescovo di Costantinopoli. Atanasio vien servilmente copiato da Socrate l. II. c. 6; ma Sozomeno che dimostra un'indole più ingenua, pretende ( l. IV. c. 2) d'insinuare un prudente dubbio.
282. Ammiano XIV. 10. rimette il lettore al racconto che fa egli stesso di questo tragico avvenimento. Ma non abbiamo più quella parte della sua storia.
283. Vedi Socrate lib. II c. 6, 7, 12, 13, 15, 16, 26, 27, 38, e Sozomeno lib. III. 3, 4, 7, 9, lib. IV. c. 11, 21. Gli Atti di S. Paolo di Costantinopoli, dei quali Fozio ha fatto un estratto ( Biblioth. p. 1419, 1430) non sono che una semplice copia di quest'Istorici; ma un Greco moderno, che potè scriver la vita d'un Santo, senz'aggiungervi favole o miracoli, ha diritto di esigere qualche lode.
284. Socrate lib. II. c. 17, 38. Sozomeno lib. IV. c. 21. I principali assistenti di Macedonio nella persecuzione erano i due Vescovi di Nicomedia e di Cizico, che erano stimati per le loro virtù, e specialmente per la lor carità. Io non posso ritenermi dal rammentare al lettore, che la differenza fra Homoousion e Homoiousion è quasi invisibile all'occhio teologico più delicato.
285. Noi non sappiamo la precisa situazione di Mantinio. Parlando di queste quattro bande di legionari, Socrate, Sozomeno, e l'Autore degli Atti di S. Paolo usano i termini generali di αριθμοι, φαλανγεϛ, ταγματα ( numeri, falangi, ordini ) che Niceforo molto a proposito traduce per migliaia, Valesio, ad Socrat. lib. II. c. 38.
286. Giulian. Epist. 52. p. 436. e Spanem.
287. Vedi Ottato Millevit. (specialmente l. III. c. 4) coll'istoria de' Donatisti fatta dal Dupin, e i documenti originali posti al fine della sua edizione. Il Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. VI. p. 147-165) ha laboriosamente raccolte le numerose circostanze, rammentate da Agostino, del furore dei Circoncellioni contro altri, e contro se stessi; e spesse volte ha espresso, quantunque senza pensarvi, le ingiurie, che provocato avean questi fanatici.
288. È molto piacevole l'osservare il linguaggio degli opposti partiti allorchè parlano delle medesime persone e delle medesime cose. Grato, Vescovo di Cartagine, incomincia le acclamazioni d'un Sinodo Ortodosso in tal modo: Gratias Deo Omnipotenti, et Christo Jesu... qui imperavit religiosissimo Constanti Imperatori, ut votum gereret unitatis, et mitteret ministros sancti operis famulos Dei Paulum et Macarium: Monum. vel ad Calcem Optati p. 313. Ecce subito (dice l'Autor Donatista della Passione di Marculo) de Constantis Regis tyrannica domo... pollutum Macarianae persecutionis murmur increpuit; et duabus bestiis ad Africam missis eodem scilicet Macario, et Paulo, execrandum prorsus ac dirum Ecclesiae certamen indictum est; ut Populus Christianus ad unionem cum traditoribus faciendam, nudatis militum gladiis, et draconum praesentibus signis et turbarum vocibus cogeretur: Monum. p. 304.
289. L'istoria dei Camisardi, stampata in 3 volumi in 12. a Villafranca nel 1760, può lodarsi come esatta ed imparziale. Per iscuoprire la religion dell'Autore si richiede qualche attenzione.
290. I Donatisti suicidi allegavano a loro giustificazione l'esempio di Razia, riportato nel cap. 14. del Lib. II. dei Maccabei.
291. Nullas infestas hominibus bestias, ut sunt sibi ferales plerique Christianorum expertus. Ammiano XXII. 5.
292. Gregor. Naz. Orat. I. p. 33. Vedi Tillemont Tom. VI. p. 501. Ed. 4.
293. Hist. Polit. et Philos. des Etablissem. des Europ. etc. Tom. I. p. 9.
294. Secondo Eusebio in vit. Const. l. II. c. 45. l'Imperatore proibì tanto nelle città che in campagna τα μυσαρα... τηϛ Ειδωλολατρειαϛ le abominevoli pratiche dell'idolatria. Socrate l. I. c. 17., e Sozomeno l. II. c. 4. 5. hanno rappresentato la condotta di Costantino con un giusto riguardo alla verità ed all'istoria, che si è trascurato da Teodoreto l. V. c. 21. e da Orosio VII. 28. Tum deinde (dice quest'ultimo) primus Constantinus justo ordine et pio vicem vertit edicto, siquidem statuit citra ullam hominum ecaedem Paganorum templa claudi.
295. Vedi Eusebio in vit. Const. l. II. c. 56. 60. Nel discorso all'Assemblea dei Santi, che l'Imperatore pronunziò, quando era già maturo negli anni e nella pietà, dichiara agl'Idolatrici (c. XI) che era loro permesso d'offerir sacrifizi ed esercitare ogni atto del religioso lor culto.
296. Vedi Euseb. in vit. Const. l. III. c. 54-58. e l. IV. c. 23. 25. Questi atti d'autorità posson paragonarsi alla soppressione de' Baccanali, ed alla demolizione del Tempio d'Iside, ordinate dai Magistrati di Roma Pagana.
297. Eusebio in vit. Const. l. III. c. 54. e Libanio Orat. Pro Templis p. 9. 10. Edit. Gothofr. fanno menzione del pio sacrilegio di Costantino, che essi risguardavano in molto differente aspetto. L'ultimo espressamente dichiara, che «egli si servì del danaro sacro, ma non alterò il legittimo culto; i Tempj furono in vero impoveriti, ma vi si celebravano i riti Sacri.» Lardner. Testim. Giudaic. et Pagan. etc. Vol. IV. p. 140.
298. Ammiano XXII. 4. parla di alcuni Eunuchi di Corte, che furono spoliis templorum pasti. Libanio dice Orat. pro Templ. p. 23., che l'Imperatore spesso donava un Tempio, come un cane, un cavallo, uno schiavo o una coppa d'oro; ma il devoto filosofo non lascia d'osservare, che ben di rado questi sacrileghi favoriti erano prosperati.
299. Vedi Gothofr. Cod. Theodos. Tom. VI. p. 262. Liban. Orat. Parent. c. X. in Fabric. Bibl. Graec. Tom. VII. p. 235.
300. Placuit omnibus locis, atque urbibus universis claudi protinus Templa, et accessu vetitis omnibus licentiam delinquendi perditis abnegari. Volumus etiam cunctos a sacrificiis abstinere. Quod si quis aliquid forte hujusmodi perpetraverit, gladio sternatur: facultates etiam perempti Fisco decernimus vindicari; et similiter adfligi Rectores Provinciarum, si facinora vindicare neglexerint. ( Cod. Theod. l. XVI. Tit. X. leg. 4.). La Cronologia ha scoperto qualche contraddizione nella data di questa legge stravagante, ch'è l'unica forse, in cui la negligenza dei Magistrati sia punita con la morte e con la confiscazione dei beni. Il sig. della Bastia ( Mem. de l'Acad. Tom. XV. p. 98.) congettura con un'apparenza di ragione, che questa non fosse che la minuta d'una legge, o il contenuto d'una costituzione che voleva farsi, e che si trovasse, in scriniis memoriae, fra i fogli di Costanzo, e dopo fosse inserita come un degno modello nel Codice Teodosiano.
301. Simmaco Epist. X. 54.
302. La dissertazione 4. del sig. della Bastia sul Pontificato degl'Imperatori Romani, nelle Mem. de l'Accad. T. XV. p. 75-144, è un'opera molto erudita e giudiziosa, che spiega lo stato e le prove di tolleranza circa il Paganesimo da Costantino fino a Graziano. Vien posta fuor d'ogni dubbio l'asserzione di Zosimo che Graziano fosse il primo a ricusare la veste Pontificale; e son quasi ridotte al silenzio le dicerie de' torcicotti su tale articolo.
303. Siccome io mi sono anticipatamente servito de' termini di Pagani, e di Paganesimo, indicherò in questo luogo le singolari vicende di tali famose parole 1. παγη nel Dialetto Dorico, sì famigliare agl'Italiani, significa fontana, ed il vicinato rurale, che solea frequentarla; di qui prese il comun nome di Pagus e di Pagani. (Vedi Festo a questa parola e Servio ad Virgil. Georg. II. 382.) 2. Per una facil estensione di tal voce, divenner quasi sinonimi Pagano e rurale (Plin. Hist. Nat. XXVIII. 5), e si diede quel nome agl'intimi villani, che poi nei moderni linguaggi d'Europa si è ridotto a quello di paesani, contadini. 3. L'eccessivo accrescimento dell'ordine militare introdusse la necessità d'un termine correlativo (Hume Sagg. Vol. I. p. 555.); e chiunque non era arrolato alla milizia del Principe, s'indicava col disprezzante nome di Pagano (Tacit. Hist. III. 24. 43. 77. Giovenal. Sat. 16. Tertullian. De Pall. c. 4. 4). I Cristiani erano i soldati di Cristo; i loro avversari, che ricusavano il suo Sacramento, o giuramento militare del Battesimo, poterono meritare il titolo metaforico di Pagani; e questo popolar rimprovero s'introdusse fin dal regno di Valentiniano An. 365 nelle leggi Imperiali ( Cod. Theodos. lib. XVI. T. II. l. 18.) e negli scritti Teologici. 5. Il Cristianesimo appoco appoco riempì le città dell'Impero; la vecchia religione al tempo di Prudenzio ( adv. Symmac. l. I. in fin ) e d'Orosio ( in praefat. Hist. ) erasi ritirata e languiva negli oscuri villaggi; e la parola Pagani tornò col nuovo significato alla primitiva sua origine. 6. Terminato che fu il culto di Giove e della sua famiglia, si è sucessivamente applicato il nome vacante di Pagani a tutti gl'idolatri e politeisti sì dell'antico che del nuovo Mondo. 7. I Cristiani Latini lo diedero senza scrupolo, a' Maomettani, loro mortali nemici; ed i più puri Unitarj furono infamati coll'ingiusta taccia d'Idolatria e di Paganesimo. Vedi Gerardo Voss. Etymol. Ling. Lat. nelle sue opere T. I. p. 420. Gottofredo Comment. ad Cod. Theodos. T. VI. p. 250. e Du Cange Glossar. Med. et inf. Latin.
304. Nel puro linguaggio della Jonia e d'Atene Ειδωλον, e Λατρεια eran parole antiche e famigliari. La prima esprimeva una somiglianza, un'apparizione, (Omero Odiss. XI. 601.) una rappresentazione, un' immagine creata o dalla fantasia o dall'arte. La seconda indicava ogni specie di servizio o di schiavitù. Gli Ebrei dell'Egitto, che tradussero la Scrittura dall'Ebraico, ristrinsero l'uso di queste parole ( Exod. XX. 4. 5) al culto religioso d'un'immagine. Gli Scrittori Sacri ed Ecclesiastici hanno adottato questo particolar linguaggio degli Ellenisti, o Greci Ebrei, e si è data la taccia d'idolatria Ειδωλολατρεια a quella visibile ed abbietta specie di superstizione, che alcune Sette del Cristianesimo non dovrebbero esser così corrive ad imputare ai politeisti della Grecia e di Roma.
305. Omnes qui plus poterant in palatio, adulandi professores jam docti, recte consulta prospereque completa vertebant in deridiculum, talia sine modo strepentes insulse; in odium venit cum victoriis suis; capella, non homo; ut hirsutum Julianum carpentes, appellantesque loquacem talpam, et purpuratam simiam, et litterionem Graecum: et his congruentia plurima atque vernacula Principi resonantes, audire haec taliaque gestienti, virtutes ejus obruere verbis impudentibus conabantur, et segnem incessentes, et timidum et umbratilem, gestaque secus verbis comptioribus exornantem. Ammian. XVIII. 11.
306. Ammiano XVI. 12. L'oratore Temistio (IV. p. 56, 57) credè tutto ciò che si conteneva nelle lettere Imperiali, spedite al Senato di Costantinopoli. Aurelio Vittore, che pubblicò il suo compendio nell'ultimo anno di Costanzo, attribuisce le vittorie Germaniche alla saviezza dell'Imperatore ed alla fortuna di Cesare. Pure l'Istorico poco dopo fu debitore al favore o alla stima di Giuliano dell'onore di una statua di rame, e degl'importanti uffizj di Consolare della seconda Pannonia e di Prefetto di Roma. Ammiano XXI. 10.
307. Callido nocendi artificio accusatoriam diritatem laudum titulis peragebant... Hae voces fuerunt ad inflammanda odia probris omnibus potentiores. Vedi Mammertino in act. Gratiar. in Vet. Paneg. XI. 5. 6.
308. Il piccolo intervallo, che passa fra l' hyeme adulta, ed il primo vere d'Ammiano (XX. I. 4) invece di dare un sufficiente spazio per una marcia di tremila miglia renderebbe gli ordini di Costanzo altrettanto stravaganti, quanto erano ingiusti. Le truppe della Gallia non potevan giungere in Siria che al fino dell'autunno. Bisogna che le memorie d'Ammiano fossero inesatte, o le sue espressioni scorrette.
309. Ammiano XXI. Si riconosce il valore, e la militar perizia di Lupicino dall'Istorico, il quale nell'affettato sua stile accusa il Generale d'innalzar le corna del suo orgoglio, ruggendo con tragico tuono, e facendo dubitar s'egli fosse più crudele o più avaro. Il pericolo eccitato dagli Scoti, e da' Pitti era tanto serio, che Giuliano medesimo ebbe qualche idea di passare in persona nell'Isola.
310. Ei loro permise il cursus clavularis, o clabularis. Di questi carri di posta si fa spesso menzione nel Codice, e si suppone, che portassero mille cinquecento libbre di peso. Vedi Vales. ad Ammian. XX. 4.
311. Ch'era molto probabilmente il palazzo de' bagni ( Thermarum ) di cui sussiste ancora una solida ed alta stanza nella via De la Harpe. Quelle fabbriche cuoprivano un considerabile spazio del moderno quartiere dell'Università; ed i giardini sotto i Re Merovingi comunicavano coll'abbazia di S. Germano des Prez. Dalle ingiurie del tempo, e de' Normanni quest'antico palazzo fu ridotto nel duodecimo secolo ad un mucchio di rovine, gli oscuri nascondigli del quale servivan di scena a' licenziosi amori.
Explicat aula sinus, montemque amplectitur alis;
Multiplici latebra scelerum tersura ruborem.
. . . . pereuntis saepe pudoris.
Celatura nefas, Venerisque accommoda furtis.
Questi versi son presi dall' Architrenius lib. IV. c. 8. opera poetica di Giovanni di Hauteville, o Hauville Monaco di S. Albano verso l'anno 1190. Vedi Warton Istor. della Poes. Ingl. Vol. 1 dissert. 2. Tali furti però erano forse meno perniciosi per il genere umano delle Teologiche dispute della Sorbona, che di poi si sono agitate sul medesimo terreno. Bonamy Mem. de l'Acad. Tom. XX. p. 678-682.
312. Anche in quel tumultuoso momento Giuliano badò alla formalità della superstiziosa cerimonia; ed ostinatamente ricusò l'infausto uso d'una collana femminile, o d'un collare da cavalli, che gl'impazienti soldati volevano adoperare in luogo di diadema.
313. Cioè un'ugual porzione d'oro e d'argento, cinque monete di quello, ed una libbra di questo, che in tutto ascendeva a circa cinque lire Sterline, e dieci Scellini.
314. Per l'intera narrativa di questa ribellione possiamo rimetterci a materiali originali ed autentici, quali sono Giuliano medesimo ( ad S. P. Q. Athen. pag. 282, 283, 284). Libanio ( Orat. Parent. c. 44-48. in Fabric. Bibliot. Graec. Tom. VII. p. 269-273) Ammiano (XX. 4) e Zosimo ( l. III. p. 151, 152, 153) che nel regno di Giuliano par che seguiti l'autorità più rispettabile d'Eunapio. Con tali guide potremmo fare di meno degli abbreviatori e degl'Istorici Ecclesiastici.
315. Eutropio ch'è un rispettabile testimone, usa la dubbiosa espressione consensu militum (X. 15). Gregorio Nazianzeno di cui l'ignoranza potrebbe scusare il fanatismo, direttamente accusa l'apostata di presunzione, d'empietà e d'empia ribellione. αυθαδεια, απονοια, ασεβεια Orat. III. p. 67.
316. Juliano ad S. P. Q. Athen. p. 284. Il divoto Abbate de la Bleterie ( Vit. di Giuliano p. 159) è quasi disposto a rispettare le divote proteste d'un Pagano.
317. Ammiano XX. 5 con l'annotazione di Lindenbrogio sul Genio dell'Impero. Giuliano medesimo in una lettera confidenziale ad Oribasio, amico e medico suo, (Epist. XVII. p. 384) fa menzione d'un altro sogno a cui prima dell'avvenimento ei prestò fede, cioè d'un grosso albero gettato a terra, e di una piccola pianta che gettava in terra profonde radici. Anche nel sonno la mente di Cesare doveva essere agitata dalle speranze e da' timori di sua fortuna. Zosimo ( l. III. p. 155) riporta un sogno fatto dopo.
318. Tacito ( Hist. I. 80-85) egregiamente descrive la difficile situazione del Principe di un'armata ribelle. Ma Ottone era molto più reo e molto meno abile di Giuliano.
319. A questa lettera ostensibile dice Ammiano, che ne aggiunse delle private objurgatorias et mordaces, che l'Istorico non aveva vedute, e non avrebbe neppur pubblicate. Forse non sussisterono giammai.
320. Vedi le prime azioni del suo Regno appresso Giuliano medesimo ad S. P. Q. Athen. pag. 285, 286. Ammiano XX. 5, 8. Liban. Orat. parent. c. 49, 50. pag. 273-275.
321. Liban. Orat. parent. c. 50. pag. 275, 276. Fu questo uno strano disordine, poichè continuò più di sette anni. Nelle fazioni delle Repubbliche Greche gli esiliati ascendevano a 20,000 persone; ed Isocrate assicura Filippo, che sarebbe stato più facile di levar un'armata fra vagabondi, che dalle città. Vedi Hume. Saggi Tom. I. p. 426-427.
322. Giuliano ( Epist. 38. p. 44) fa una breve descrizione di Vesonzio, o Besanzone come di una sassosa penisola quasi circondata dal fiume Doubs, una volta magnifica Città piena di tempj ec., e poi ridotta ad una piccola terra, che risorgeva però dalle sue rovine.
323. Vadomair entrò nella milizia Romana, e dal grado di Re barbaro fu promosso a quello di Duce di Fenicia. Egli mantenne sempre il medesimo artificioso carattere (Ammiano XXI. 4). Ma sotto il Regno di Valente segnalò il suo valore nella guerra d'Armenia (XXIX. 1).
324. Ammiano XX. 10. XXI. 3. 4. Zosimo lib. III. p. 155.
325. Il suo corpo fu mandato a Roma, e sotterrato vicino a quello di Costantina sua sorella nel sobborgo della via Nomentana. Ammiano XX. 1. Libanio ha composto una ben debole apologia per giustificare il suo Eroe da un'accusa molto assurda, vale a dire d'avere avvelenato la propria moglie, e premiato il medico di essa con le gioie di sua madre (Vedi la settima delle diciassette nuove Orazioni pubblicate a Venezia nel 1754 da un MS. della libreria di S. Marco p. 117-127). Elpidio, Prefetto del Pretorio d'Oriente, alla testimonianza del quale s'appella l'accusator di Giuliano, si caratterizza da Libanio per un effeminato ed ingrato; si loda però la religione d'Elpidio da Girolamo ( Tom. I. p. 243) e la sua umanità da Ammiano (XXI. 6).
326. «Feriarum die, quem celebrantes mense Januario Christiani Epiphania dictitant, progressus in eorum Ecclesiam, solemniter numine orato discessit» Ammiano XXI. 2. Zonara osserva, che ciò seguì nel giorno di Natale; e può la sua asserzione esser vera; mentre le Chiese d'Egitto, d'Asia, e forse di Gallia celebravano il medesimo giorno (sei di Gennaro) la natività ed il Battesimo del Salvatore. I Romani, ugualmente ignoranti che i lor confratelli della vera data della sua nascita ne fissarono la solenne festa a' 25 di Decembre Brumalia, o solstizio d'inverno, quando i Pagani annualmente celebravan la nascita del sole. Vedi Bingam. Antich. della Chies. Cristian lib. XX. c. 4. e Beausobre Hist. Critic. du Manic. T. II. p. 690-700.
327. Le pubbliche e segrete negoziazioni fra Costanzo e Giuliano debbono trarsi con qualche cautela da Giuliano medesimo ( Orat. ad S. P. Q. Athen. pag. 286), da Libanio ( Orat. parent. cap. 61. pag. 276), da Ammiano (XX. 9.), da Zosimo ( lib. III p. 154), ed anche da Zonara ( T. II lib. XIII. p. 20 ec.), che in questo proposito pare, che avesse ed usasse dei valutabili materiali.
328. Trecento miriadi, ovvero tre milioni di medimni, misura comune appresso gli Ateniesi, che conteneva sei modj Romani. Giuliano dimostra da Soldato e da Politico il rischio della sua situazione e la necessità ed i vantaggi di una guerra offensiva ( ad S. P. Q. Athen. pag. 286. 287).
329. Vedi la sua orazione ed il contegno delle truppe appresso Ammiano XXI. 5.
330. Egli aspramente ricusò la sua mano al supplichevole Prefetto, che fu mandato in Toscana (Ammiano XXI. 5). Libanio con barbaro furore insulta Nebridio, applaude ai soldati, e quasi censura l'umanità di Giuliano ( Orat. Parent. c. 53. p. 278).
331. Ammiano XXI. 8. In tal promozione osservò Giuliano la legge che aveva pubblicamente imposto a se stesso: Neque civilis quisdam Judex, nec militaris rector, alio quodam praeter merita suffragante, ad potiorem veniat gradum (Ammiano XX. 5). L'assenza non indebolì il suo riguardo per Sallustio, col nome del quale onorò il Consolato dell'anno 363.
332. Ammiano (XXI. 8) attribuisce ad Alessandro Magno, e ad altri abili Generali la stessa pratica e l'istesso motivo.
333. Questo bosco era una parte della gran foresta Ercinia, che al tempo di Cesare s'estendeva dal paese de' Rauraci, Basilea, sino alle indefinite regioni del Nort. Vedi Cluver. German. antiq. l. III. c. 47.
334. Si paragoni Libanio Orat. Parent. c. 53. p. 278-279, con Gregorio Nazianzeno Orat. III. p. 68... Anche il Santo ammira la celerità e la segretezza della sua marcia. Un moderno Teologo forse applicherebbe al progresso di Giuliano que' versi, che originalmente appartengono ad un altro apostata ( Milton ).
. . . . . . . . In questa guisa il truce
Viandante infernal per l'aspro e 'l piano,
Il denso, il raro, i ripidi, i burroni
Capo e mani, ali e piedi oprando a gara,
Il suo cammin sospinge, ed or s'attuffa,
Ora nuota, ora striscia, or guazza, or vola.
335. In quello spazio la Notizia colloca due o tre flotte, la Lauriacense (a Lauriacum o Lorch) l' Arlapense, la Maginense; e fa menzione di cinque legioni o coorti di Liburnarj, che dovevano essere una specie di soldati di marina. Sect. 58. Edit. Labb.
336. Il solo Zosimo ( l. III. p. 156 ) ha specificato quest'interessante circostanza. Mammertino ( in Paneg. vet. XI. 6, 7, 8 ) che accompagnava Giuliano come Conte delle sacre largizioni, descrive questo viaggio in una florida e pittoresca maniera, sfida Trittolemo e gli argonauti di Grecia ec.
337. La descrizione d'Ammiano, che può esser fiancheggiata da altre prove, assicura la situazione precisa delle Angustiae Succorum, o passo di Succi. Danville per una debole somiglianza di nomi l'ha posto fra Sardica e Naisso. Io son costretto per giustificarmi a far menzione dell' unico errore, che ho scoperto nelle carte o negli scritti di quell'ammirabil Geografo.
338. Per quante circostanze possiamo prendere altrove, Ammiano (XXI. 8, 9, 10) somministra sempre la sostanza della narrazione.
339. Ammiano XXI. 9, 10. Liban. Orat. Parent. c. 54. p. 279. 280. Zosimo lib. III p. 157.
340. Giuliano ( ad S. P. Q. Athen. p. 286 ) positivamente asserisce, che aveva intercettate le lettere di Costanzo a' Barbari; e Libanio afferma con ugual sicurezza che nella sua marcia le lesse alle truppe ed alle città. Contuttocciò Ammiano XXI. 4 s'esprime con una fredda ed ingenua dubbiezza: Si famae solius admittenda est fides. Specifica però una lettera intercetta e scritta da Vadomair a Costanzo, che suppone un'intima corrispondenza fra loro; Caesar tuus disciplinam non habet.
341. Zosimo rammenta le lettere di Giuliano agli Ateniesi, a' Corintj, ed a' Lacedemoni. La sostanza era probabilmente l'istessa, quantunque ne fosse variata la direzione. L'epistola agli Ateniesi tuttavia sussiste p. 268-287, ed ha somministrato notizie assai valutabili. Essa merita le lodi dell'Abbate della Bleterie ( Pref. a l'Hist. de Jovien. p. 24, 25 ) ed è uno de' migliori manifesti, che si possano trovare in qualsivoglia linguaggio.
342. Auctori tuo reverentiam rogamus. Ammiano XXI 10. È molto piacevole l'osservare i segreti contrasti del Senato fra l'adulazione ed il timore. Vedi Tacito Hist. I. 85.
343. Tamquam venaticam praedam caperet; hoc enim ad leniendum suorum metum subinde praedicabat. Ammiano XXI. 7.
344. Vedi il discorso ed i preparativi in Ammiano XXI 13. Il vil Teodoto implorò in seguito ed ottenne il perdono dal pietoso conquistatore, che indicò il desiderio che aveva di scemare il numero de' nemici e di accrescere quello degli amici (XXII 14).
345. Ammiano XXI. 7. 11. 12. Par ch'ei descriva con fatica superflua le operazioni dell'assedio d'Aquileia, che in quest'occasione mantenne la sua fama d'insuperabile. Gregorio Nazianzeno ( Orat. III. p.68.) attribuisce quest'accidentale rivolta all'abilità di Costanzo, di cui annunzia la sicura vittoria con qualche apparenza di verità. Constantio quem credebat procul dubio fore victorem: nemo enim omnium tunc ab hac constanti sententia discrepebat. Ammiano XXI. 7.
346. Ammiano rappresenta fedelmente la morte ed il carattere d'esso (XXI. 14. 156.) ed abbiam motivo di non ammettere, e di detestar la stolta calunnia di Gregorio ( Orat. III. p. 68.) che accusa Giuliano d'aver macchinata la morte del suo benefattore. Il privato pentimento dell'Imperatore d'aver risparmiato, e promosso Giuliano ( p. 69. ed Orat. XXI. p. 389.) in se stesso non è improbabile, nè incompatibile col pubblico suo verbal Testamento, che potè negli ultimi momenti della sua vita esser dettato da considerazioni prudenziali.
347. Nel descrivere il trionfo di Giuliano, Ammiano (XXI, 1, 2.) assume il sublime accento di oratore, o di poeta; mentre Libanio ( Orat. parent. c. 56. p. 281 ) cade nella grave semplicità d'un Istorico.
348. I funerali di Costanzo vengon descritti da Ammiano ( XXI 16 ), da Gregorio Nazianzeno ( Or. VI. p. 119 ), da Mammertino ( in Paneg. vet. XI. 27 ), da Libanio ( Orat. parent. c. 56. p. 283 ), ed a Filostorgio ( l. VI. c. 6. con le dissertaz. del Gottofredo p. 265 ). Questi Scrittori, e quelli, che gli han seguitati, secondo la propria professione di Pagani, di Cattolici, e di Arriani, osservano l'Imperatore sì vivo che morto con occhi assai differenti.
349. Non sono ben determinati l'anno ed il giorno della nascita di Giuliano. Il giorno è probabilmente il sei di Novembre, e l'anno dev'essere il 331, o il 332. Tillemont. Hist. des Emper. T. IV. p. 693. Ducange Fam. Byzant. p. 50. Io ho preferito la data più antica.
350. Giuliano medesimo p. 253-259. ha espresso queste idee filosofiche con molta eloquenza, e con qualche affettazione in una lettera molto elaborata a Temistio. L'Ab. della Bleterie ( Tom. II. p. 146-183.) che ne ha fatta un'eloquente traduzione, è inclinato a credere, che questi fosse il celebre Temistio, di cui tuttavia sussistono le orazioni.
351. Julian. ad Temist. p. 258. Il Petavio not. p. 95. osserva, che questo passo è preso dal libro quarto De Legibus; ma o Giuliano citava a mente, o i suoi manoscritti eran diversi da' nostri. Senofonte incomincia la Ciropedia con una riflessione simile.
352. Ο δε ανθρωπον κελευων αρχειν τροστιθησι και θηριον ( chi esorta l'uomo a comandare l'insuperbisce, e lo muta in fiera.) Arist. ap. Julian. p. 261. Il MS. di Vossio, non contento d'una sola bestia, somministra la più forte lezione di θηρια fiere, che può garantirsi dall'esperienza del dispotismo.
353. Libanio Orat. parent. c. 84, 85. p. 310, 311-312 ci ha dato quest'interessante ragguaglio della vita privata di Giuliano. Egli stesso in Misopogon p. 350. fa menzione del suo cibo vegetabile, e biasima il grossolano e sensuale appetito del popolo d'Antiochia.
354. Lectulus... Vestalium toris purior. È la lode, che Mammertino ( Paneg. vet. XI. 13.) indirizza a Giuliano medesimo. Libanio afferma in un semplice e perentorio linguaggio che Giuliano non ebbe mai commercio con donne, prima del suo matrimonio, o dopo la morte della sua moglie ( Orat. parent. c. 88. p. 323 ). La castità di Giuliano vien confermata dall'imparzial testimonianza d'Ammiano ( XXV. 4.) e dal parzial silenzio de' Cristiani. Pure Giuliano ironicamente insiste sul rimprovero del Popolo d'Antiochia, che esso quasi sempre ωϛ επιπαν ( in Misopogon p. 345 ) stava solo. L'Ab. della Bleterie spiega questa sospettosa espressione ( Hist. de Jovien. Tom. II. p. 103-109.) con candore ed ingenuità.
355. Vedi Salmas. ad Sueton. in Claud. 21. Vi fu aggiunta una ventesima quinta corsa, o missus, per compire il numero di cento cocchi, quattro de' quali, distinti da quattro colori, correvano ad ogni corsa.
Centum quadrijugos agitabo ad flumina cursus.
Sembra che corressero cinque o sette volte intorno alla meta. Svet. in Domit. c. 4. E secondo la misura del Circo Massimo a Roma, dell'Ippodromo a Costantinopoli ec. poteva essere un corso di circa quattro miglia.
356. Juliano in Misopogon p. 340. Giulio Cesare aveva offeso il Popolo Romano leggendo le lettere nel tempo della corsa. Augusto secondò il genio di esso ed il proprio con una costante attenzione all'importante affare del Circo, per cui dichiarava d'avere la più forte inclinazione; vet. in August. c. 45.
357. La riforma del Palazzo è descritta da Ammiano ( XXII. 4 ), da Libanio ( Orat. parent. c. 62. p. 288 ), da Mammertino ( in paneg. Vet. 11.), da Socrate ( l. III. c. 1 ), e da Zonara ( Tom. II. l. 13, p. 24 ).
358. Ego non Rationalem jussi, sed tonsorem accivi. Zonara usa l'immagine meno naturale d'un senatore. Pure un uffizial di finanze, saziato dalle ricchezze, desiderar poteva ed ottener gli onori del Senato.
359. Μαγειρους μεν χιλιουσ, κουρεας δε ουκ ουλαττους, οινοχοους δε πλειους, σμηνη τραπεζοποιων, ευνουχους υπερ τας μυιας παρα τοις ποιμεσι εν ηρι Mille cuochi, non minor numero di tonsori, maggiore di coppieri, sciami di serventi alle tavole, eunuchi più delle mosche intorno a' greggi nell'estate. Queste son le parole originali di Libanio, che ho fedelmente citate affinchè non si sospettasse, che io avessi amplificato gli abusi della casa Reale.
360. L'espressioni di Mammertino son forti e vivaci. Quin etiam prandiorum et coenarum laboratas magnitudines Romanus Populus sensit; cum quaesitissimae dapes non gustui sed difficultatibus aestimarentur; miracula avium, longinquae maris pisces; alieni temporis poma, aestive nives, hybernae rosae.
361. Nondimeno Giuliano medesimo fu accusato di aver concesso delle intiere città agli Eunuchi ( Orat. VII. contr. Policlet. pag. 117-127 ). Libanio si contenta d'una fredda ma positiva negazione del fatto, che realmente sembra piuttosto appartenere a Costanzo. Tale accusa però si può riferire a qualche incognita circostanza.
362. Nel Misopogon ( p. 338, 339 ) fa una pittura molto singolare di se stesso, e le seguenti parole sono caratteristiche al sommo αυτος προσεθεικα τον βαθον τουτονι τωγονα... ταυτα τοι διαθεοντων ανεχομαι των φθειρων οσπερ εν λοχμη των θηριων. Ho fatto crescere questa profonda barba.... così difendo gl'insetti, che trattan fra loro, come in un recinto di fiere. Gli amici dell'Ab. della Bleterie lo scongiurarono, in nome della nazione Francese, a non tradur questo passo che così offendeva la loro delicatezza. Hist. de Jovien. T. II. p. 94. Io mi son contentato, come egli fa, d'una passeggiera allusione; ma il piccolo animale, che Giuliano nomina, è il più famigliare all'uomo, e significa amore.
363. Julian Epist. XXIII. p. 389. Egli adopera le parole πολυκε φαλον ὑδραν scrivendo al suo amico Ermogene, che conversava com'esso co' Poeti Greci.
364. Si debbon diligentemente distinguere i due Sallustj, il Prefetto di Gallia e quello d'Oriente ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 696). Ho usato il soprannome di secondo come conveniente epiteto. Il secondo Sallustio godè la stima dei Cristiani medesimi: e Gregorio Nazianzeno, che condannava la sua religione, ha celebrato le sue virtù Orat. III. p. 90. Vedi una curiosa nota dell'Ab. della Bleterie Vie de Julien. p. 463.
365. Mammertino loda l'Imperatore ( XI. 1.) per aver dati gli uffizi di Tesoriere e di Prefetto ad un uomo d'abilità, di fermezza, d'integrità come egli stesso. Pure anche Ammiano lo pone (XX. 1) fra' ministri di Giuliano quorum merita, norat et fidem.
366. Le processure di questo Tribunal di giustizia son riferite da Ammiano (XXII. 3.) e lodate da Libanio ( Orat. parent. c. 74. p. 299. 300).
367. Ursuli vero necem ipsa mihi videtur flesse justitia. Libanio, che attribuisce tal morte a' soldati, tenta di accusare anche il Conte delle largizioni.
368. Si conservava sempre tal venerazione per li rispettabili nomi della repubblica, che il Pubblico fu sorpreso, e scandalizzato nell'udir Tauro, citato come reo, sotto il consolato di Tauro. La citazione del collega Florenzio probabilmente fu differita fino al principio dell'anno seguente.
369. Ammiano XX. 7.
370. Intorno ai delitti ed alla punizione di Artemio, vedi Giuliano ( Epist. X p. 379 ) ed Ammiano (XXII. 6 e Vales. ivi ). Il merito di Artemio, che consiste nell'aver demolito templi, ed essere stato posto a morte da un apostata, ha tentato le Chiese Greca e Latina ad onorarlo come un martire. Ma l'istoria ecclesiastica afferma ch'egli non solo fu un tiranno, ma anche un Arriano, onde non è troppo agevole il giustificare questa promozione indiscreta. Tillemont, Mem. Eccl. T. VII. p. 1319.
371. Vedi Ammiano XXII. 6. Valesio Iv. il Cod. Teodosiano lib. II. Tit. XXXIX. leg. 1 e Gottofredo Comment. Iv. Tom. 1. v. 218.
372. Il presidente di Montesquieu ( Consider. sur la Grand. des Rom. c. 14. nelle sue opere Tom. III. p. 448. 449 ) scusa tal minuta, ed assurda tirannia col supporre, che azioni le più indifferenti a' nostri occhi dovevano eccitare in una mente Romana l'idea di delitto e di pericolo. Questa strana apologia vien sostenuta da una strana mal'interpretazione delle leggi Inglesi: Chez une nation.... où il est défendu de boire à la santé d'une certaine personne.
373. La clemenza di Giuliano, e la cospirazione, che si formò contro di lui ad Antiochia, si descrivono da Ammiano ( XXII 9, 10 c. Vales. Iv.) e da Libanio ( Orat. parent. c. 99. p. 323 ).
374. Secondo alcuni, dice Aristotile (come vien citato da Giuliano ad Themist. pag. 261), la forma d'un assoluto Governo, la παμβασιλεια è contraria alla natura. Sì il Principe, che il Filosofo però vogliono avvolger questa verità eterna in un'artificiosa elaborata oscurità.
375. Tal sentimento è espresso quasi nei termini di Giuliano medesimo. Ammiano XXII. 10.
376. Libanio ( Orat. Parent. c. 95, p. 320 ) che fa menzione del desiderio, e del disegno di Giuliano indica in un misterioso linguaggio θεων, ουτω γνοντων..... αλλ’ ην αμεινον ὁ κωλυων Così disponendo gli Dei.... Ma era miglior consiglio quello d'impedirlo che l'Imperatore fu ritenuto da qualche speciale rivelazione.
377. Juliano in Misopogon p. 343. Siccome non abolì mai con alcuna pubblica legge i superbi nomi di despota, o dominus, questi tuttavia sussistono nelle sue medaglie (Du Cange Fam. p. 38, 39 ); ed il privato dispiacere, che affettava d'esprimere, non fece che dare uno stile diverso alla servil maniera della Corte. L'Ab. della Bleterie ( Hist. de Jovien. Tom. II p. 99-102 ) ha curiosamente investigato l'origine, ed il progresso della parola dominus sotto il governo Imperiale.
378. Ammiano XXII. 7. Il Console Mammertino ( in Paneg. vet. XI 28, 29, 30 ) celebra quel fausto giorno, come un eloquente schiavo, attonito ed inebbriato per la condiscendenza del suo signore.
379. La satira personale si condannava dalle leggi delle dodici tavole: si mala condiderit in quem quis carmina, jus est, judiciumque. Giuliano ( in Misopogon p. 337 ) si confessa sottoposto alla legge; e l'Ab. della Bleterie ( Hist. de Jov. Tom. II. p. 92.) ha prontamente abbracciato una dichiarazione sì favorevole al suo sistema, ed al vero spirito dell'Imperiale costituzione.
380. Zosimo l. III. p. 158.
381. ἡ της βουλης ισχυς ψυχη πολεως εστιν La forza del Senato è l'anima della città. Vedi Libanio ( Orat. parent. c. 71. p. 296 ). Ammiano (XXII. 9.) ed il Codice Teodosiano ( lib. XII. Tit. I. leg. 50-55. col Coment. del Gottofredo Tom. IV. p. 390-402 ). Pure tutto il soggetto delle Curie, non ostanti gli ampi materiali che vi sono, rimane sempre il più oscuro nell'Istoria legale dell'Impero.
382. Quae paulo ante arida, et sibi anhelantia visebantur, ea nunc perlui, mundari, madere; fora, deambulacra, gymnasia laetis et gaudentibus Populis frequentari; dies festos et celebrari veteres et novos in honorem Principis consecrari (Mammertino XI. 9). Esso particolarmente restaurò la città di Nicopoli, ed i giuochi Aziaci instituiti da Augusto.
383. Juliano Ep. XXXV. p. 407-411. Questa lettera, che illustra la decadente età della Grecia, è omessa dall'Ab. della Bleterie, e stranamente sfigurata dal traduttore latino, che indicando ατελεια immunità per tributo e ιδιωται privati per populus, direttamente contraddice al senso dell'Originale.
384. Esso regnò in Micene alla distanza di cinquanta stadi, o di sei miglia da Argo, ma queste Città che fiorirono alternativamente, son confuse fra loro da' Poeti Greci. Strab. l. VIII. p. 879. edit. Amstel. 1707.
385. Marsham. Can. Chron. p. 420. Questa provenienza da Temeno ed Ercole può esser sospetta; pure fu accordata dopo un rigoroso esame da' giudici de' giuochi Olimpici (Erodoto l. V. c. 22.) in un tempo nel quale i Re di Macedonia eran oscuri, e non popolari nella Grecia. Quando la lega Achea si dichiarò contro Filippo, fu creduto conveniente, che i deputati d'Argo si ritirassero. T. Liv. XXXII.
386. È celebrata la sua eloquenza da Libanio ( Orat. parent. c. 75. 76. p. 300. 301.) che fa menzione distintamente degli Oratori d'Omero. Socrate ( l. III c. 1. ) ha imprudentemente affermato, che Giuliano fu il solo Principe dopo Giulio Cesare, che arringò nel Senato. Tutti i predecessori di Nerone, (Tacit. Annal. XIII. 3 ) e molti de' suoi successori possederono la facoltà di parlare in pubblico; e si potrebbe provare con varj esempj, ch'essi l'esercitarono frequentemente in Senato.
387. Ammiano (XXII. 10.) ha imparzialmente narrati i meriti, ed i difetti delle sue processure giudiciali. Libanio ( Orat. parent. c. 90. 91. p. 315.) ha veduto solo il lato buono, e la sua pittura, se adula la persona, esprime almeno i doveri del giudice. Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. p. 120.) che sopprime le virtù, ed esagera eziandio i più piccoli difetti dell'apostata, trionfalmente domanda, se un tal giudice fosse atto a sedere fra Minosse e Radamanto ne' campi elisi.
388. Delle leggi, che Giuliano fece in un regno di sedici mesi, cinquantaquattro sono state ammesse ne' codici di Teodosio, e di Giustiniano ( Gothofr. Chron. Leg. p. 64-67.) L'Ab. della Bleterie (T. II. p. 329-336.) ha scelto una di queste leggi per dare un'idea dello stile latino di Giuliano, ch'è forte ed elaborato, ma men puro del suo stile Greco.
389.
..... Ductor fortissimus armis;
Conditor et legum celeberrimus; ore manuque
Consultor patriae; sed non consultor habendae
Religionis; amans tercentum milia divum.
Perfidus ille Deo, sed non et perfidus orbi.
Prudent. Apotheos. 450. Sembra che la coscienza d'un sentimento generoso abbia innalzato il Poeta Cristiano sopra la solita sua mediocrità.
390. Io trascriverò alcune delle sue proprie espressioni, tolte da un breve discorso religioso, che compose il Pontefice Imperiale per censurare l'ardita empietà d'un Cinico. Αλλ’ ουως ουτω δη τιτουσ θεους πεφρικα, και φιλω, και σεβω, και αξομαι, και πανθ’ απλως τα τοιαυτα προς αυτους πασχω, οσαπερ αν τις και υια προς αγαθους δεσποτας, προς διδασκαλους, προς πατερας, προς κηδεμονας. Ma in tal maniera ho temuto ed amo, venero e rispetto gli Dei, e fo generalmente verso di loro tutto ciò che potrebbe farsi verso de' buoni padroni, de' maestri, de' padri, de' tutori. VII. p. 212. La varietà e la copia della lingua Greca non sembra sufficiente al fervore della sua devozione.
391. L'oratore con qualche eloquenza, con molto entusiasmo e con più vanità indirizza il suo discorso al cielo e alla terra, agli uomini e agli angeli, a' vivi ed a' morti, e specialmente al gran Costanzo ει τως αισθησις ec. se pure è capace di sentimento, inadequata espressione Pagana ec. Ei conclude, con ardita sicurezza, che ha eretto un monumento non meno durevole, e molto più maneggiabile delle colonne di Ercole. Vedi Greg. Naz. Orat. III. p. 50. IV. p. 134.
392. Vedasi questa lunga invettiva, ch'è stata con poco senno divisa in due Orazioni nelle Opere di Gregorio Tom. I p. 49-134. Parigi 1630. Fu pubblicata da Gregorio, e dal suo amico Basilio ( IV. p. 133 ) circa sei mesi dopo la morte di Giuliano, quando fu trasportato il suo corpo a Tarso ( IV. p. 120 ), mentre Gioviano era tuttora sul Trono ( III. p. 54. IV. p. 117 ). Io ho tratto grand'aiuto da una traduzione Francese, e dalle note impresse a Lione nel 1735.
393. Nicomediae ab Eusebio educatus Episcopo, quem genere longius contingebat. Amminano XXII. 9. Giuliano non dimostra mai gratitudine alcuna verso l'Arriano Prelato; ma celebra l'eunuco Mardonio suo precettore, e descrive la sua maniera d'educarlo, che inspirò nell'allievo una forte ammirazione pel genio, e forse per la religione d'Omero. Misopogon p. 351. 352.
394. Gregor. Nazianz. III. p. 70. Egli procurò di cancellare quel santo segno nel sangue, forse, d'un Taurobolo. Baron. Annal. Eccl. an. 361. n. 3. 4.
395. Giuliano stesso ( Epist. 51. p. 454.) assicura gli Alessandrini, ch'egli era stato Cristiano (deve intendere sincero) fino all'età di vent'anni.
396. Vedi la sua cristiana ed eziandio ecclesiastica educazione presso Gregorio (III. p. 58.), Socrate (l. II. c. 1.) e Sozomeno (IV. c. 2). Poco mancò che non fosse un Vescovo, e forse un Santo.
397. La parte dell'opera, ch'era toccata a Gallo, fu proseguita con vigore e buon successo; ma la terra ostinatamente rigettava e distruggeva le moli che s'erigevano dalla sacrilega mano di Giuliano. Greg. III. p. 59. 60. 61. Questo parzial terremoto, attestato da molti spettatori viventi, dovrebbe essere uno de' più chiari miracoli nell'Istoria Ecclesiastica.
398. Il Filosofo ( Fragm. p. 288.) mette in ridicolo le catene di ferro di questi solitari fanatici (Vedi Tillemont. Mem. Eccl. Tom. IX. p. 661. 662. ), che s'eran dimenticati, che l'uomo è di sua natura un animale gentile e socievole, ανθρωπου, φυσει πολιτικου ζωου και ἡμερτου. Il Pagano suppone ch'essi fossero posseduti e tormentati da' cattivi spiriti, perchè avevano rinunziato agli Dei.
399. Vedi Giuliano ap. Cirill. l. VI. p. 206. l. VIII. p. 253-262. Voi perseguitate, dic'egli, quegli Eretici, che non piangono l'uomo morto precisamente nel modo che voi approvate. Egli si dimostra tollerabil teologo; ma sostiene, che la Trinità Cristiana non è derivata dalla dottrina di Paolo, di Gesù, o di Mosè.
400. Liban. Orat. parent. n. 9. 10. p. 232. Greg. Naz. Orat. III, p. 61. Eunap. Vit. sophist. in Maximo p. 68. 69. 70. Edit. Commelin.
401. Un moderno Filosofo ha ingegnosamente paragonate le differenti operazioni del Teismo, e del Politeismo, rispetto al dubbio e alla persuasione che producono nello spirito umano. Vedi Hume Sagg. II. p. 444, 457 in 8. Edit. 1777.
402. La Madre Idea sbarcò in Italia verso il fine della seconda guerra Punica. Il miracolo di Claudia, vergine o matrona che fosse, la quale purgò la sua fama coll'infamar la più grave modestia delle Dame Romane, è attestato da una folla di testimonj. I loro attestati si son raccolti da Drakenborch ( ad Sil. Ital. XVII. 33 ). Ma noi possiam osservare che Livio (XXIX. 14) passa sopra il fatto con prudente ambiguità.
403. Io non posso ritenermi dal trascrivere l'enfatiche parole di Giuliano: εμοι δε δοκει ταις πολεσι πιστευειν μαλλον τα τοιαυτα, ἡ τουτοισι τοις κουψοις, ων το ψυχαριον δριμυ μεν, υγεις δε ουδε ἑν βλεπει. A me sembra, che si debba credere in tali cose piuttosto alle città, che a questi faceti, lo spirito de' quali è acuto, ma non sano in discernere. Orat. V. p. 161. Giuliano similmente dichiara la ferma sua fede negli Ancili, o ne' sacri scudi che caddero dal Cielo sul colle Quirinale; e compassiona la strana cecità de' Cristiani, che preferivano la Croce a questi celesti trofei. Apud Cyrill. l. VI. p. 194.
404. Vedi i principj d'allegoria, appresso Giuliano ( Orat. VII. p. 216. 222 ). Il suo ragionamento è meno assurdo di quello che alcuni moderni Teologi, i quali asseriscono, che una stravagante o contraddittoria dottrina dev'esser divina, mentre nessuna persona vivente avrebbe potuto pensare ad inventarla.
405. Eunapio ha fatto di questi Sofisti il soggetto d'una parziale e fanatica storia; ed il dotto Brucher (Hist. Phil. T. II. p. 217-303) ha impiegato molta fatica in illustrarne le oscure vite, e le incomprensibili dottrine.
406. Giuliano ( Orat. VII. p. 222) giura con la più fervida ed entusiastica devozione; e trema per paura di parlar troppo di que' santi misteri, che i profani con un empio sardonico riso potrebber beffare.
407. Vedi la quinta Orazione di Giuliano. Ma tutte le allegorie, che mai uscirono dalla scuola Platonica, non uguagliano il breve poema di Catullo sul medesimo straordinario soggetto. Il passaggio d'Ati, dal più fiero entusiasmo al sobrio patetico lamento per l'irreparabil sua perdita, deve inspirar compassione ad un uomo, e disperazione ad un eunuco.
408. Può dedursi la vera religione di Giuliano da' Cesari ( p. 308 con le note ed illustrazioni dello Spanemio ), da' frammenti appresso Cirillo (l. II. p. 57. 58) e specialmente dalla orazione teologica in Solem Regem, indirizzata in confidenza al Prefetto Sallustio, suo amico.
409. Giuliano adotta questo grossolano sentimento, attribuendolo al suo favorito Marco Antonino ( Caesar. p. 333.). Gli Stoici ed i Platonici esitavano fra l'analogia de' corpi e la purità degli spiriti; tuttavia i più gravi Filosofi inclinavano alla capricciosa fantasia d'Aristofane e di Luciano, che un secolo miscredente avrebbe potuto affamare gli Dei immortali. Vedi le Osservazioni dello Spanem, p. 284. 444.
410. Ηλιον λεγω, το ζων αγαλμα και εμψυχον, και εννουν, και αγαθοεργου τον γοκτον πατρος. Io chiamo il sole vivente, animata, ragionevole, e benefica immagine dell'intelligente padre. Juliano Epist. In un altro luogo ( ap. Cyrill. l. II. p. 69) chiama il sole, Dio, e il trono di Dio. Giuliano credeva la Trinità Platonica, e solo biasimava i Cristiani, perchè preferissero un Logos mortale ad un immortale.
411. I sofisti d'Eunapio fanno tanti miracoli, quanti ne fanno i santi del deserto; e l'unica circostanza in lor favore è che sono d'un color men oscuro. In vece di diavoli con corna e code, Jamblico facea comparire i genj d'amore Eros e Anteros, da due vicine fontane. Due bei fanciulli uscivan fuori dall'acqua, lo abbracciavano teneramente qual padre, e si ritiravano al primo suo cenno, p. 26, 27.
412. Il destro maneggio di questi Sofisti, che facevan passare il loro credulo allievo dalle mani dell'uno a quelle dell'altro, è chiaramente riportato da Eunapio (p. 69. 76.) con non sospetta semplicità. L'Ab. della Bleterie ha intesa ed elegantemente descritta tutta questa commedia Vie de Julien, p. 61-67.
413. Quando Giuliano, in un momentaneo timor panico che lo sorprese, si fece il segno della croce, i demonj subito sparirono (Greg. Naz. Orat. III. p. 71 ). Gregorio suppone, che si fossero spaventati, ma i Sacerdoti dichiararono che si erano sdegnati. Il lettore potrà, secondo il grado della sua fede, decidere questa profonda questione.
414. Danno un'oscura e lontana idea de' terrori e de' piaceri dell'iniziazione Dion Grisostomo, Temistio, Proclo, e Stobeo. Il dotto autore della Divina Legazione ha riferito le loro parole (Vol. I. p. 239. 247. 248. 280. ed. 1765.) che esso destramente o forzatamente applica alla sua ipotesi.
415. La modestia di Giuliano limitossi ad oscuri ed accidentali cenni; ma Libanio distendesi con piacere ne' digiuni e nelle visioni del religioso eroe. Legat. ad Julian. p. 157 e Orat. parent. c. 85. p. 309, 310.
416. Libanio Orat. parent. c. 10. p. 233, 234. Gallo aveva qualche motivo di sospettare dell'apostasia segreta di suo fratello, ed in una lettera, che può ammettersi per genuina, esorta Giuliano ad aderire alla religione de' loro Maggiori. Questo era un argomento, che, per quanto sembra, non calzava ancora perfettamente. Vedi Giuliano Op. p. 454 ed Hist. ae Jovien. Tom, II. p. 141.
417. Gregorio (III. p. 50) con zelo inumano censura Costanzo per aver risparmiato l'apostata fanciullo κακως σωθεντα malamente salvato. Il suo traduttore Francese ( p. 265) cautamente osserva, che tali espressioni non debbon prendersi alla lettera.
418. Libanio Orat. parent. c. IX. p. 233.
419. Fabricio ( Bibl. Graec. l. V. c. VIII. p. 88, 90) e Lardner ( Testim. Pagan. Vol. IV. p. 44-47) hanno esattamente raccolto tutto ciò che ora può trovarsi delle opere di Giuliano contro i Cristiani.
420. Circa settant'anni dopo la morte di Giuliano egli eseguì un'impresa, che s'era debolmente tentata da Filippo di Sidone, prolisso e disprezzabile autore; ma neppur l'opera di Cirillo ha interamente soddisfatto i giudici più favorevoli; e l'Ab. della Bleterie ( Pref. a l'Hist. de Jovien. pag. 30-32) desidera, che qualche Teologo filosofo (strano centauro) intraprenda la confutazione di Giuliano.
421. Libanio ( Orat. parent. c. 87 p. 313) contro di cui vi è stato il sospetto, che aiutasse il suo amico, preferisce la divina sua apologia ( Orat. IX in necem Julian. p. 255 Ed. Morel. ) agli scritti di Porfirio. Si può attaccare il giudizio di Libanio ( Socrat. l. III c. 23) ma non accusar lui d'adulazione verso un Principe defunto.
422. Libanio ( Orat. parent. c. 58. p. 283, 284) ha eloquentemente spiegato i principj tolleranti e la condotta dell'Imperiale suo amico, e Giuliano stesso in una molto notabile epistola al popolo di Bostra ( Epist. 52) protesta la sua moderazione, e tradisce il suo zelo, ch'è riconosciuto da Ammiano, ed esposto da Gregorio ( Orat. III p. 72).
423. In Grecia s'aprirono per espresso comando di lui i tempj di Minerva, prima della morte di Costanzo (Liban. Orat. parent. c. 55 p. 280), e Giuliano stesso si dichiarò Pagano nel pubblico suo manifesto agli Ateniesi. Questa indubitabile prova può correggere l'inconsiderata asserzione di Ammiano, il quale suppone che Costantinopoli fosse il luogo, dove egli scuoprì il suo attaccamento agli Dei.
424. Ammiano XXII. 5. Sozomeno l. V. c. 5. Bestia moritur, tranquillitas redit... omnes Episcopi, qui de propriis sedibus fuerant exterminati, per indulgentiam novi Principis ad Ecclesias redeunt. Girol. adv. Lucifer. Tom. II p. 143. Ottato rimprovera a' Donatisti d'esser debitori della loro salvezza ad un apostata ( l. II. c. 16 p. 36, 37, Edit. Dupin ).
425. La restaurazione del Culto Pagano è descritta da Giuliano ( Misopogon p. 346), da Libanio ( Orat. parent. c. 60. p. 286. 287. e Orat. Consul. ad Julian. p. 245. 246. edit. Morel. ) da Ammiano (XXII. 12.), e da Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. p. 121). Questi Scrittori convengono nella sostanza ed anche ne' fatti minuti; ma i differenti aspetti, ne' quali vedevano l'estrema divozione di Giuliano, esprimono diversi gradi d'amor proprio, d'appassionata ammirazione, di dolce disapprovazione e di parzial invettiva.
426. Vedi Giuliano ( Epist. 49. 62. 63) ed un lungo e curioso frammento senza principio nè fine (p. 288. 305). Il pontefice Massimo deride la storia Mosaica e la disciplina Cristiana, preferisce i Poeti Greci a' Profeti Ebrei, e dissimula coll'arte d'un Gesuita, il culto relativo delle immagini.
427. L'esultazione di Giuliano ( p. 301) perchè s'estinguessero quest'empie Sette ed anche i loro scritti, può essere assai coerente al carattere Sacerdotale; ma è indegno d'un Filosofo il desiderare, che si celasse agli occhi del genere umano alcuna opinione o argomento anche il più ripugnante al proprio sentire.
428. Insinua però che i Cristiani, sotto pretesto di carità, involavano i fanciulli alla lor religione ed a' loro genitori, li trasportavano sopra navi, e condannavano queste vittime ad una vita di povertà o di servitù in un remoto paese ( p. 305). Se l'accusa fosse stata provata, il suo dovere non era di dolersi, ma di punire.
429. Gregorio Nazianzeno è faceto, ingegnoso ed arguto ( Orat. III. p. 101, 102. ec.) Egli pone in ridicolo la follia di tal vana imitazione, e si diverte ad investigare quali morali o teologiche lezioni potrebbero trarsi dalle favole Greche.
430. Egli accusa uno de' suoi Pontefici d'una segreta lega co' Vescovi e Preti Cristiani. Epist. 69. Ορων ουν πολλην μεν ολιγωριαν ουσων ημιν προς τους θεους, vedendo pertanto che in noi si trova molta negligenza verso gli Dei; e di nuovo ημας δε ουτω ραθυμως; che noi così languidamente ec. Ep. 63.
431. Ei loda la fedeltà di Callissene, Sacerdotessa di Cerere, ch'era stata due volte costante come Penelope, e la rimunera col Sacerdozio della Dea Frigia a Pessino (Giuliano Epist. 21). Applaude alla fermezza di Sopatro di Jerapoli, che più volte da Costanzo e da Gallo era stato stimolato ad apostatare ( Epist. 27. p. 401).
432. Ο δε νομιζων αδελφα λογους τε και θεων ιερα: stimando congiunti fra loro i raziocinj ed i misteri degli Dei. Orat. parent. c. 77, p. 302. Viene inculcato spesse volte il medesimo sentimento da Giuliano, da Libanio, e dagli altri del loro partito.
433. Ammiano (XXII. 12) espone elegantemente la curiosità e credulità dell'Imperatore, che approvava ogni specie di divinazione.
434. Giuliano Epist. 38. Sono indirizzate al filosofo Massimo le altre tre lettere 15, 16 e 39 col medesimo stile d'amicizia e di confidenza.
435. Eunapio ( in Massimo p. 77. 78. 79 et in Chrysanthio p. 147. 148) ha minutamente riportati questi aneddoti, ch'ei crede i fatti più importanti di quel tempo. Nondimeno ingenuamente confessa la fragilità di Massimo. Il suo ricevimento a Costantinopoli è descritto da Libanio ( Orat. parent. c. 86. p. 301) e da Ammiano (XXII. 7).
436. Crisantio, che avea ricusato di partir dalla Lidia, fu creato sommo Sacerdote della Provincia. Il cauto e moderato uso che fece del suo potere, l'assicurò dopo la rivoluzione, e visse in pace, mentre Massimo, Prisco ec. furon perseguitati da' ministri Cristiani. Vedi le avventure di que' fanatici sofisti, raccolte dal Brucker T. II. 281-293.
437. Vedi Libanio ( Orat. parent. c. 101. 102. p. 324. 325. 326.) ed Eunapio ( Vit. Sophista. in Proderesio. p. 126). Alcuni studenti, le speranze de' quali erano forse mal fondate o stravaganti, si ritirarono disgustati (Greg. Nazianz. Orat. IV. p. 120). Egli è strano, che non possiamo essere in grado di contraddire al titolo d'un capitolo di Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 960.) «La cour de Julien est pleine de philosophes et de gens perdus».
438. Durante il regno di Luigi XIV. i suoi sudditi d'ogni ordine aspiravano al glorioso titolo di Convertisseur, che esprimeva lo zelo e successo loro in far de' proseliti. Sì la parola, che l'idea in Francia sono presentemente antiquate. Possano in Inghilterra non trovare accesso giammai!
439. Vedansi le forti espressioni di Libanio, ch'erano probabilmente quelle di Giuliano medesimo ( Orat. parent. c. 59. p. 285.)
440. Quando Gregorio Nazianzeno ( Orat. X. p. 167.) vuol magnificare la fermezza Cristiana di Cesario suo fratello, medico alla Corte Imperiale, confessa che Cesario disputò con un formidabile avversario, πολυν εν οπλοις, και μεγαν εν λογων δεινοτητι abbondante di armi, e grande nella forza del discorso. Nelle sue invettive appena concede alcuna dose d'ingegno o di coraggio all'apostata.
441. Giuliano Epist. 38. Ammiano XXII. 12. Adeo ut in dies poene singulos milites carnis distentiore sagina victitantes incultius, potusque aviditate correpti humeris impositi transeuntum per plateas ex publicis aedibus... ad sua diversoria portarentur. Tanto il devoto Principe, quanto lo sdegnato Istorico descrivono la medesima scena; e nell'Illirico non meno che in Antiochia simili cause debbono avere prodotto simili effetti.
442. Gregor. ( Orat. III p. 74. 75. 83. 86) e Libanio ( Orat. parent. c. 81, 82, p. 307, 308) περι ταυτην την σπουδην ουκ αρνουμαι πλουτον ανηλωσται μεγαν; per tale ardore nego essersi spese grandi somme. Il sofista confessa e giustifica la spesa di queste militari conversioni.
443. La lettera XXV di Giuliano è indirizzata alla comunità degli Ebrei. Aldo (Venet. 1499) l'ha notata con un ει γνησιον, se genuina; ma di tal taccia è stata giustamente liberata da' seguenti Editori Petavio e Spanemio. Fa menzione di questa lettera Sozomeno ( l. V. c. 22) ed il senso di essa vien confermato da Gregorio ( Orat. IV. p. 111) e da Giuliano medesimo ( Fragmen. p. 295).
444. Il Misnah determinava la morte contro quelli che abbandonavano il fondamento. Il giudizio di zelo è spiegato dal Marsham ( Canon. Chron. p. 161 162. Edit. fol. Lond. 1672) e dal Basnagio ( Hist. des Juifs T. VIII. p. 120). Costantino fece una legge per proteggere i Cristiani convertiti dal Giudaismo. Cod. Theod. lib. XXI. Tit. VIII. leg. 1. Gothofred. Tom. VI. p. 215.
445. Et interea (nel tempo della guerra civile di Magnenzio) Judaeorum seditio, qui Patricium nefarie in regni speciem sustulerunt, oppressa; Aurel. Vittor. in Constantio c. 42. Vedi Tillemont Hist. des Emper. T. IV. p. 379. in 4.
446. La città e la sinagoga di Tiberiade sono curiosamente descritte da Reland. Palestin. Tom. II. p. 1036-1042.
447. Il Basnagio ha pienamente illustrato lo stato degli Ebrei sotto Costantino ed i suoi successori. Tomo VIII. c. IV. p. 111-155.
448. Reland ( Palest. l. I. p. 309, 390. l. III. p. 838.) descrive con erudizione e chiarezza Gerusalemme, e l'aspetto dell'addiacente paese.
449. Ho consultato un raro e curioso trattato del Danville Sur l'ancienne Jerusalem. Paris 1747. p. 75. La circonferenza dell'antica città (Euseb. Praepar. Evang. l. IX. c. 36.) era di 27. stadi, o di 2550. tese francesi. Una pianta presa sul luogo, non ne assegna più di 1980. alla moderna città. Il recinto vien determinato da segni naturali che non possono sbagliarsi o rimuoversi.
450. Vedi due curiosi passi appresso Girolamo Tom. I. p. 102. Tom. VI. p. 315. e le molte particolarità riferite dal Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. I. p. 509. Tom. II. 289. 294. ed. in 4).
451. Euseb. in Vit. Constant. l. III. c. 25-47. 51-53. L'Imperatore fabbricò similmente delle Chiese a Betlemme, sul monte Oliveto, ed alla quercia di Mambre. Il Santo Sepolcro è descritto da Sandys ( Viag. p. 125. 133), e curiosamente disegnato dal Le Bruyn ( Voyage au Levant. p. 288-296 ).
452. L'itinerario da Bordò a Gerusalemme fu composto nell'anno 333 per uso de' pellegrini, fra' quali Girolamo ( Tom. I. p. 126) conta Brettoni ed Indiani. Le cause di questa religiosa moda son discusse nella dotta e giudiziosa prefazione di Wesseling ( Itiner. p. 537-545).
453. Cicerone ( de Finib. V. 1.) ha espresso elegantemente il senso comune degli uomini.
454. Il Baronio ( Annal. Eccl. an. 326. n. 42-50.) ed il Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. VII. p. 8-16) sono gl'Istorici ed i campioni della miracolosa invenzione della croce nel regno di Costantino. Le loro più antiche testimonianze son tratte da Paolino, da Sulpicio Severo, da Ruffino, da Ambrogio, e forse da Cirillo di Gerusalemme. Il silenzio d'Eusebio e del pellegrino di Bordò soddisfanno alcuni e rendon altri perplessi. Vedi le notabili osservazioni di Jortin Vol. II p. 238. 248.
455. S'asserisce tal moltiplicazione da Paolino ( Epist. 36. ). Vedi Dupin ( Bibl. Eccles. Tom. III. p. 149 ), il quale sembra estendere un ornamento oratorio di Cirillo ad un fatto reale. Il medesimo soprannatural privilegio dev'essersi comunicato al latte della Vergine; ( Erasmi Opera T. I. p. 378. Lugd. Batav. 1703 in colloq. de peregr. relig. ergo ), alle teste de' Santi; e ad altre reliquie, che si trovano replicate in tante Chiese diverse.
456. Girolamo (T. I. p. 103), che dimorava nel vicino villaggio di Betlemme, descrive per propria esperienza i vizi di Gerusalemme.
457. Gregorio Nissen. ap. Vesseling. p. 539. Tutta quell'epistola, che condanna o l'uso o l'abuso de' religiosi pellegrinaggi, è incomoda pe' teologi Cattolici, laddove riesce grata e famigliare a' polemici Protestanti.
458. Ei rinunziò alla sua ordinazione ortodossa, uffiziò come Diacono, e fu riordinato dalle mani degli Arriani. Ma in seguito Cirillo cangiò col tempo, e prudentemente si uniformò alla fede Nicena. Il Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. VIII.) che tratta la memoria di Cirillo con tenerezza e rispetto, ha inserito nel testo le sue virtù, e nelle note, con una decente oscurità, i suoi difetti.
459. Imperii sui memoriam magnitudine operam gestiens propagare. Ammiano XXIII. 1. Il tempio di Gerusalemme era stato famoso anche fra' Gentili. Questi avevano molti tempj in ogni città (cinque in Sichem, otto in Gaza, a Roma quattrocento ventiquattro); ma la ricchezza e la religione della nazion Giudaica eran tutte concentrate in un luogo.
460. S'espongono le segrete intenzioni di Giuliano dal fu Vescovo di Glocester, l'erudito e dogmatico Warburton, che coll'autorità d'un Teologo prescrive i motivi e la condotta dell'Esser supremo. Il discorso intitolato Giuliano (2. Ediz. Lond. 1751) contiene in sommo grado tutte le particolarità imputate alla scuola Warburtoniana.
461. Io mi difendo coll'autorità di Maimonide, di Marsham, di Spencer, di le Clerc, di Warburton ec., che hanno elegantemente deriso i timori, la follia e la falsità di alcuni superstiziosi Teologi. Vedi Div. Legat. vol. IV. p. 25.
462. Giuliano ( Fragm. p. 295 ) lo chiama rispettosamente μεγας θεος grande Dio, ed altrove ( Epist. 63 ) lo rammenta con sempre maggior riverenza. Ei condanna doppiamente i Cristiani, e perchè credevano, e perchè rinunziavano la religione degli Ebrei. La loro Divinità era secondo esso il vero, ma non l'unico Dio. Ap. Cyrill. l. IX p. 305.
463. I. Reg. VIII. 63. II. Numer. VII. 5. Joseph. Antiq. Jud. l. VIII, c. 4. p. 431. edit. Havercamp. Siccome il sangue ed il fumo di tante ecatombe sarebbe stato inconveniente, il Cristiano Rabbino Lightfoot se ne sbriga con un miracolo. Le Clerc (in quei luoghi) ardisce di sospettare della fedeltà de' numeri.
464. Juliano Epist. XXIX, XXX. La Bleterie ha trascurato di tradurre la seconda di queste lettere.
465. Vedi lo zelo e l'impazienza degli Ebrei appresso Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. v. 111.) e Teodoreto (l. III. c. 20).
466. Fabbricata da Omar, secondo Califfo, che morì l'anno 644. Questa gran Moschea occupa tutto il sacro terreno del tempio Giudaico; e forma quasi un quadrato di 760 tese, o un miglio Romano in circonferenza. Vedi Danville Jerusalem. p. 45.
467. Ammiano rammenta i Consoli dell'anno 363 avanti di procedere a far menzione de' pensieri di Giuliano: Templum instaurare sumptibus cogitabat immodicis. Warburton ha un segreto desiderio d'anticiparne il disegno; ma deve avere appreso da' più antichi esempi, che l'esecuzione di tal opera avrebbe richiesto molti anni.
468. Le successive testimonianze di Socrate, di Sozomeno, di Teodoreto, di Filostorgio ec. aggiungono contraddizioni anzi che autorità. Si confrontino le obbiezioni di Basnagio ( Hist. des Juifs, Tom. VIII. p. 157. 168.) con le risposte di Warburton ( Julian. p. 174. 258). Il Vescovo ha spiegato ingegnosamente le croci miracolose, che apparivano sulle vesti degli spettatori per mezzo d'un simil esempio e de' naturali effetti del baleno.
469. Ambrog. Tom. II. Epist. 40. p. 946. Edit. Bened. Egli compose questa lettera l'anno 388 per giustificare un Vescovo ch'era stato condannato dal Magistrato civile per aver bruciato una sinagoga.
470. Grisostomo Tom. I. p. 580 adv. Judaeos et Gent. T. II. p. 574. de S. Babyla Edit. Montfaucon. Io ho seguitato la comune e naturale supposizione; ma il dotto Benedettino, che riferisce la composizione di questi sermoni all'an. 383, crede che non fosser mai pronunziati dal pulpito.
471. Gregor. Nazianzeno Orat. IV. p. 110. 113. Το δε ουν περιβοητον πασι θαυμα και ουδε τοις αθεοις αυτοις απιστουμενον λεξων ερχομαι. Intraprendo a narrare adunque tal prodigio noto a tutti, e neppure negato dagli stessi infedeli.
472. Ammiano XXIII. 1. Cum itaque rei fortiter instaret Alypius, juvaretque Provinciae rector, metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis aliquoties operantibus inaccessum: hocque modo elemento destinatius repellente, cessavit inceptum. Warburton s'affatica d'estorcere ( p. 60. 90.) una confessione del miracolo dalla bocca di Giuliano e di Libanio, e di servirsi della testimonianza d'un Rabbino, che visse nel XV Secolo. Tali prove non possono ammettersi che da un giudice ben favorevole.
473. Il Dottor Lardner è forse il solo fra' critici Cristiani ad osare di porre in dubbio la verità di questo famoso miracolo. Testim. Giudaic. Pag. Vol. IV. p. 47. 71. Il silenzio di Girolamo condurrebbe a sospettare, che potesse dispregiarsi sul luogo quella medesima storia ch'era celebre in lontananza.
474. Greg. Nazianz. Orat. III. p. 81. E questa legge fu confermata dalla pratica invariabile dell'istesso Giuliano. Warburton ha giustamente osservato ( p. 35) che i Platonici credevano nella misteriosa virtù delle parole: ed il contraggenio di Giuliano pel nome di Cristo potea procedere da superstizione ugualmente che da disprezzo.
475. Juliano Fragm. p. 288. Ei deride la μορια αλιλαιων stoltezza dei Galilei; ( Epist. 7) e perde tanto di vista i principj di tolleranza, che brama, Epist. 42. ακοντας ιασθαι, medicarli contro lor voglia.
476. Ου γαρ μοι θεμις εστι χομιζεμεν, η ελεαιρειν Ανδρας οι και θεοισιν απεχθωντ’ αθανατοισιν. Poichè non mi è permesso d'aver cura o misericordia di uomini, che sono odiosi agli Dei immortali. Questi due versi, che Giuliano ha cangiati e pervertiti nel vero spirito d'un superstizioso ( Epist. 49) son presi dal discorso d'Eolo, che ricusa di accordare ad Ulisse un nuovo aiuto di venti ( Odyss. X. 73). Libanio ( Orat. parent. c. 59. p. 286.) tenta di giustificare questa parziale condotta con un'apologia, in cui si travede la persecuzione attraverso la maschera del candore.
477. Queste leggi sopra il Clero si posson vedere ne' leggieri cenni, che ne ha dato Giuliano medesimo ( Epist. 52.), nelle vaghe declamazioni di Gregorio ( Orat. III. p. 86. 87), e nelle positive asserzioni di Sozomeno l. V. c. 5.
478. Inclemens, perenni obruendum silentio. Ammiano XXII. 10. XXV. 5.
479. Può confrontarsi l'editto medesimo, che tuttavia sussiste nella 42 fra le lettere di Giuliano, con le libere invettive di Gregorio ( Orat. III. p. 96). Il Tillemont ( Mem. Eccl. VII. pag. 96) ha raccolto le apparenti differenze fra gli antichi ed i moderni. Possono però facilmente conciliarsi fra loro. A' Cristiani fu direttamente proibito d'insegnare, ed indirettamente d'apprendere, mentre non avrebbero mai frequentato le scuole de' Pagani.
480. Cod. Theod. lib. XIII. Tit. III. de medicis et professor. leg. 5. (pubblicata li 17 Giugno, ricevuta a Spoleti, in Italia il 29 Luglio dell'anno 363) con le illustrazioni del Gottofredo, Tom. V. p. 31.
481. Orosio celebra la lor disinteressata risoluzione. Sicut a majoribus nostris compertum habemus, omnes ubique propemodum.... officium quam fidem deserere maluerunt. VII. 30. Proeresio, Sofista Cristiano ricusò d'accettare il parzial favore dell'Imperatore. Hieronym. in Chron. p. 185 ed. Scalig. Eunap. in Proaeresio p. 126.
482. Essi ricorsero all'espediente di comporre libri per le loro scuole. In pochi mesi Apollinare pubblicò le sue Cristiane imitazioni d'Omero ( Istoria sacra in 4 libri ), di Pindaro, d'Euripide e di Menandro; e Sozomeno è persuaso, ch'esse uguagliassero o superassero gli originali.
483. Tal era l'istruzione di Giuliano a' suoi Magistrati Epist. 7 προτιμασθαι μεν τοι τους θεοσεβεις και πανυ φημι δειν dico che si debbano onninamente preferire quelli che venerano gli Dei. Sozomeno (l. V. c. 18) e Socrate (l. III. c. 13) esser debbon ridotti alla misura di Gregorio ( Orat. III. p. 195 ), non in vero meno proclive ad esagerare, ma più ritenuto per l'attual cognizione de' lettori del suo tempo.
484. ψηφω θεων και διδυς και ην διδυς. Dando e non dando secondo il suffragio degli Dei. Liban. Orat. parent. c. 88, pag. 314.
485. Gregor. Nazianzen. Orat. III. p. 74, 91, 92. Socrate l. III. c. 4. Teodoreto l. III. c. 6. Può accordarsi però qualche tara alla violenza del loro zelo non meno parziale di quello di Giuliano.
486. Se paragoniamo il moderato linguaggio di Libanio ( Orat. parent. c. 60, p. 286 ) con le forti esclamazioni di Gregorio ( Orat. III p. 86, 87 ) sarà difficile di persuaderci che i due Oratori veramente descrivano i medesimi fatti.
487. Restan, o Aretusa, posta in ugual distanza di sedici miglia fra Emesa ( Hems ) ed Epifania ( Hamath ) fu fondata, o almeno nominata da Seleucio Nicatore. La particolare sua Era incomincia dall'anno 685 di Roma secondo le medaglie della città. Nella decadenza de' Seleucidi, Emesa ed Aretusa furono usurpate dall'Arabo Sampsiceramo, la posterità del quale, divenuta vassalla di Roma, non era anche estinta nel regno di Vespasiano. Vedi Danville Carte, e geogr. antic. Tom. II p. 134. Wesseling. Itinerar. p. 188 e Noris Epoch. Syro Maced. p. 80, 481, 482.
488. Sozomeno l. V. c. 10. Fa maraviglia che Gregorio e Teodoreto abbian soppresso una circostanza, che, a' loro occhj, doveva far crescer di pregio il religioso merito del Confessore.
489. I patimenti e la costanza di Marco, che Gregorio ha sì tragicamente rappresentato ( Orat. III. p. 88-91) si confermano dall'indubitabile e forzata testimonianza di Libanio. Μαρκος εκεινος κρεμαμενος και μαστιγουμενος, και του πωγωνος αυτω τιλλομενου, παντα ενεγκων ανδρειως νυν ισοθεος εστι ταις τιμαις, καν φανη που περιμαχητος ευθυς; quel Marco essendo stato sospeso e battuto, ed essendogli stata svelta la barba, fortemente avendo tutto sofferto, adesso è onorato come un Dio, e dovunque si trovi, con ardore si combatte pel favore di lui. Epist. 730. p. 350. 351. Ed. Wolf. Amstel. 1713.
490. Περιμαχητος: intorno a cui si contende; certatim eum sibi (Christiani) vindicant. In tal modo Lacroze e Volfio ( ivi ) hanno spiegato un vocabolo Greco, di cui non s'era capito il vero senso dagl'Interpreti antecedenti e neppure dal Le Clerc ( Bibl. ant. et mod. Tom. III. p. 371). Contuttocciò il Tillemont in strana guisa tormentasi per capire ( Mem. Eccl. Tom. VII. p. 1309) come Gregorio e Teodoreto potessero prender per santo un Vescovo Semi-arriano.
491. Vedi il ragionevol consiglio di Sallustio (Gregorio Nazianzeno Orat. III. 90. 91). Libanio intercede in favore di un simile reo, per timore di trovar molti Marchi; pure conviene, che se Orione avea realmente nascosto i beni sacri, meritava d'esser condannato al gastigo di Marsia, cioè d'essere scorticato vivo. Ep. 730. p. 349, 351.
492. Gregorio ( Orat. III. p. 90), è persuaso, che salvando l'Apostata, Marco avea meritato molto peggio di quello che aveva sofferto.
493. Il bosco ed il tempio di Dafne son descritti da Strabone (l. XVI. p. 1089, 1090 ed. Amstel. 1707), da Libanio ( Naenia p. 185. 188. Antioch. Orat. XI. p. 380, 581. ec. ) e da Sozomeno (l. v. c. 19). Wesseling ( Itin. p. 581), e Casaubono ( ad Hist. Aug. p. 64) illustrano questo curioso soggetto.
494. Simulacrum in eo Olympiaci Jovis imitamenti aequiparans magnitudinem. Ammiano XXII. 13. Il Giove Olimpico era alto sessanta piedi, e la sua mole per conseguenza era uguale a quella di mille uomini. Vedi una curiosa memoria dell'Ab. Gedoyn Acad. des Inscr. Tom. IX. p. 198.
495. Adriano lesse l'istoria della sua futura grandezza sopra una foglia immersa nel fonte Castalio: artificio, che secondo il medico Vandale ( de Oraculis 281, 282 ) per mezzo di chimiche preparazioni può facilmente eseguirsi. L'Imperatore turò la sorgente di tal pericolosa cognizione, la quale fu riaperta dalla devota curiosità di Giuliano.
496. Fu acquistato l'anno di Cristo 44 ed il 92 dell'era di Antioco (Noris Epoc. Syr. Maced. p. 139-174 ) per il termine di novanta olimpiadi. Ma non furon celebrati regolarmente i giuochi olimpici d'Antiochia fino al regno di Commodo. Vedine le curiose particolarità nella cronica di Gio. Malala (Tom. I. p. 290, 320, 370, 381 ) scrittore, il merito e l'autorità del quale si ristringono a' limiti della sua patria.
497. Quindici talenti d'oro, lasciati da Sosibio, che morì al tempo d'Augusto. Si riferiscono i meriti teatrali delle città della Siria nel secolo di Costantino nell' Expositio totius mundi p. 6. (Hudson Geogr. min. Tom. III. ).
498. Avidio Cassio Syriacas legiones dedi luxuria diffluentes, et Daphnicis moribus. Queste sono le parole dell'Imperatore Marco Antonino in una lettera originale conservataci dal suo Biografo ( in Hist. Aug. p. 41 ). Cassio licenziò o punì ogni soldato che fosse veduto a Dafne.
499. Aliquantum agrorum Daphnensibus dedit (Pompeo) quo lucus ibi spatiosior fieret, delectatus amoenitate loci, et aquarum abundantia, Eutrop. VI. 14. Sext. Ruf. de Provinc. c. 16.
500. Giuliano ( Misopogon. p. 361. 362 ) scuopre il suo carattere con quella naturalezza, con quella inavveduta semplicità, che sempre costituisce la vera fantasia.
501. Babila è rammentato da Eusebio nella successione dei Vescovi d'Antiochia ( Hist. Eccl. l. VI. c. 29. 30 ). Vien diffusamente celebrato da Grisostomo ( Tom. II. p. 536. 579. ed. Montfaucon. ) il suo trionfo sopra due Imperatori (il primo favoloso, ed il secondo istorico). Il Tillemont ( Memoir. Ecclesiast. Tom. III. p. II. p. 287. 302. 459. 465. ) diviene quasi scettico.
502. I Critici Ecclesiastici, particolarmente quelli che amano le reliquie, esultano per la confessione di Giuliano ( Misopogon p. 361 ) e di Libazio ( Naen. pag. 785 ) che Apollo fosse disturbato dalla vicinanza d'un uomo morto. Ammiano però (XXII. 12.) fa mondare e purificare tutto il terreno secondo i riti che usaron anticamente gli Ateniesi nell'isola di Delo.
503. Giuliano, in Misopogon p. 361, insinua, piuttosto che affermi il loro delitto. Ammiano (XXII. 13), tratta quest'imputazione come levissimus rumor, e riferisce l'istoria con estremo candore.
504. Quo tam atroci casu repente consumpto, ad id usque Imperatoris ira provexit, ut quaestiones agitare juberet solito acriores (Giuliano però biasima la mollezza de' Magistrati d'Antiochia) et majorem Ecclesiam Antiochiae claudi. Tale interdetto fu eseguito con alcune circostanze d'indegnità e di profanazione; e l'opportuna morte dello zio di Giuliano, attore principale, si riferisce con molto superstiziosa compiacenza dall'Ab. della Bleterie. Vie de Julien pag. 362, 569.
505. Oltre gl'Istorici Ecclesiastici, che debbono essere più o meno sospetti, possiamo allegare la passione di S. Teodoro negli Atti sinceri di Ruinart p. 591. Il lamento di Giuliano le dà un'aria originale ed autentica.
506. Juliano Misopogon p. 361.
507. Vedi Greg. Naz. Orat. III. p. 87. Sozomeno (l. V. c. 9) può considerarsi come un testimone originale, quantunque non imparziale. Egli era nativo di Gaza, ed aveva conversato col Confessore Zenone, Vescovo di Majuma, che visse fino all'età di cent'anni (l. VII. c. 28). Filostorgio (l. VII. c. 14. colle Dissertazioni del Gottofredo p. 284 ), aggiunge alcune tragiche circostanze di Cristiani, che furono letteralmente sacrificati sugli altari degli Dei ec.
508. La vita e morte di Giorgio di Cappadocia sono descritte da Ammiano (XXII. 11.), da Gregorio Nazianzeno ( Orat. XXI. p. 382. 385. 389. 390.) e da Epifanio ( Haeres. 70 ). Le invettive de' due Santi non meriterebbero molta fede, se confermate non fossero dalla testimonianza del freddo ed imparziale Pagano.
509. Dopo l'uccisione di Giorgio, l'Imperator Giuliano più volte ordinò, che se ne conservasse la libreria per uso suo, e che si torturassero gli schiavi, che potessero esser sospetti d'aver occultato qualche libro. Ei loda il merito della collezione, da cui avea prese in prestito e trascritte molte opere, quando faceva i suoi studi in Cappadocia. Avrebbe in vero desiderato, che perissero le opere de' Galilei; ma richiese un esatto conto anche di quei Teologici Volumi, affinchè non si perdesser con essi altri pregevoli trattati. Juliano Epist. IX. XXXIV.
510. Filostorgio con cauta malizia indica la loro colpa; και του Αθανασιου γνωμην στρατηγισαι της πραξεως e che il consiglio d'Atanasio diresse quel fatto lib. VII. c. 2. Gottofred. pag. 267.
511. Cineres projecit in mare, id metuens, ut clamabat, ne, collectis supremis, aedes illis extruerent; ut reliquis, qui deviare a religione compulsi, pertulere cruciabiles poenas, ad usque gloriosam mortem intemerata fide progressi, et nunc Martyres appellantur. Ammiano XXII. 11. Epifanio prova agli Arriani, che Giorgio non fu martire.
512. Alcuni Donatisti (Optat. Millev. p. 60. 307. Ed. Dupin. e Tillemont Mem. Eccles. Tom. VI. p. 713 in 4.) e Priscillianisti (Tillemont. T. VIII. p. 516.) hanno in simile guisa usurpato gli onori di martiri e di santi Cattolici.
513. I Santi della Cappadocia, Basilio ed i Gregorj, non furono informati del Santo loro compagno. Il Papa Gelasio, il primo fra' Cattolici, che riconosca S. Giorgio (nell'an. 494.), lo pone fra' martiri « qui Deo magis quam hominibus noti sunt ». Rigetta i suoi atti, come opera d'Eretici. Tuttavia sussistono alcuni, forse non i più antichi dagli atti spurj, ed a traverso una nuvola di finzioni possiamo anche scorgere il combattimento che S. Giorgio di Cappadocia sostenne in presenza della Regina Alessandra, contro il Mago Atanasio.
514. Non si dà questa trasformazione come assolutamente certa, ma com' estremamente probabile. Vedi Lengueruana Tom. I. p. 194.
515. Si potrebbe trarre una curiosa storia del culto di S. Giorgio fino dal sesto secolo (in cui era già venerato nella Palestina e nell'Armenia, in Roma ed a Treveri nella Gallia) dal Dottor Heylin Istor. di S. Giorg. 2. Ediz. Lond. 1633. in 4. p. 429. e da' Bollandisti Act. SS. Mens. April. Tom. III. p. 100-163. La sua fama e popolarità in Europa, e specialmente in Inghilterra, provenne dalla Crociate.
516. Juliano Epist. 43.
517. Juliano Ep. X. Egli permetteva agli amici di calmare la sua collera. Ammiano XXII. 11.
518. Vedasi Atanasio ad Rufin. Tom. II. p. 40, 41. e Greg. Nazianz. ( Orat. III. p. 395, 396) il quale giustamente stabilisce, che fu il moderato zelo del Primato più meritorio dello sue preghiere, de' suoi digiuni, delle sue persecuzioni ec.
519. Io non ho tempo di seguire la cieca ostinazione di Lucifero di Cagliari. Vedansi le sue avventure nel Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. VII. p. 900, 926,) e si osservi, come insensibilmente cangia il colore della narrazione, finattantochè il Confessore diventa uno scismatico.
520. Assensus est huic sententiae Occidens, et per tam necessarium concilium Satanae faucibus mundus ereptus. Il vivo ed artificioso dialogo di Girolamo contro i Luciferiani (Tom. II. p. 135-155.) presenta un'original pittura della politica Ecclesiastica di quei tempi.
521. Il Tillemont, supponendo, che Giorgio fosse trucidato nel mese d'Agosto, accumula in uno stretto spazio le azioni d'Atanasio ( Mem. Eccles. Tom. VIII. p. 360). Un frammento originale, che pubblicò il Marchese Maffei, tratto dall'antica Libreria Capitolare di Verona ( Osserv. Letter. Tom. III. p. 60-92), somministra molte importanti date, che sono autenticate dal computo dei mesi Egiziani.
522. Τον μιαρον, ος ετολμησεν Ελληνιδας επ’ εμου, γυναικας των επισημων Βαπτισαι διωκεσθαι. Ho conservato l'ambiguo senso di quest'ultima voce; ambiguità d'un tiranno che brama di trovare o di crear delle colpe.
523. Le tre lettere di Giuliano, che spiegano la sua intenzione e condotta intorno ad Atanasio, si dovrebbero disporre nel seguente ordine cronologico, XXVI. X. VI. Vedi anche Greg. Naz. XXI. p. 393. Sozomen. Lib. V. c. 15. Socrate lib. III. c. 14. Teodoreto lib. III. c. 9. e Tillemont Mem. Eccl. Tom. VIII. p. 361-368, che si è servito d'alcuni materiali preparati dai Bollandisti.
524. Vedi la bella confessione di Gregorio, Orat. III. pag. 61-62.
525. Si oda il furioso ed assurdo lamento d'Ottato. De schism. Donat. l. II c. 16. 17.
526. Gregor. Naz. Orat. III. p. 91. IV. p. 133. Ei loda i tumultuanti di Cesarea; τουτων δε των αγμελοσυων και θερμων εις ευσεβειαν; questi magnanimi e ferventi nella pietà. Vedi Sozomeno l. V. 4. 11. Il Tillemont ( Mem. Eccles. T. VII. p. 649-650.) confessa che la lor condotta non fu dans l'ordre commun: ma resta perfettamente soddisfatto, perchè il gran S. Basilio celebrò sempre la festa di questi benedetti Martiri.
527. Giuliano decise una lite contro la nuova città Cristiana di Maiuma, porto di Gaza; e quantunque la sua sentenza potesse imputarsi di superstizione, non fu mai revocata dai suoi successori. Sozomeno lib. V. c. 3. Roland. Palest. T. II. pag. 791.
528. Gregorio ( Orat. III. p. 93, 94, 95. Orat. IV. p. 114.) pretende di parlare secondo le informazioni avute dai confidenti di Giuliano, che Orosio (VII. 30) non potè avere veduto.
529. Gregorio ( Orat. III. p. 91.) accusa l'Apostata di segreti sacrifizi di fanciulli e di fanciulle, e positivamente afferma, che n'erano gettati i corpi nell'Oronte. Vedi Teodoreto lib. III. c. 26, 27 e l'equivoco candore dell'Ab. della Bleterie, Vie de Julien p. 351, 352. Pure la malizia dei contemporanei non potè imputare a Giuliano le truppe di Martiri, specialmente nell'Occidente, che il Baronio sì avidamente moltiplica, ed il Tillemont così debolmente rigetta ( Mem. Eccles. Tom. VII. p. 1295-1315).
530. La rassegnazione di Gregorio è veramente edificante (Orat. IV. p. 123. 124). Nondimeno, quando un uffizial di Giuliano tentò d'impadronirsi della Chiesa di Nazianzo, egli avrebbe perduta la vita, se non avesse ceduto allo zelo del Vescovo e del popolo (Orat. XIX. p. 308). Vedi le riflessioni di Grisostomo, allegate dal Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. VII. p. 575.).
531. Vedasi questa favola o satira a p. 306-336 delle opere di Giuliano dell'edizione di Lipsia. La traduzione Francese del dotto Ezechiele Spanemio ( Parigi 1683) è squallida, languida e corretta; e vi sono ammassate tante note, prove ed illustrazioni, che formano una mole di 557 pagine in quarto di minuta stampa. L'Abbate della Bleterie ( vit. di Gioviano Tom. I. p. 241-393) ha espresso più felicemente lo spirito non meno che il senso dell'originale, che da esso viene illustrato con alcune brevi e curiose note.
532. Lo Spanemio, nella sua Prefazione, ha molto eruditamente discusso l'etimologia, l'origine, la somiglianza fra loro e la diversità delle satire Greche (drammatici componimenti, che si rappresentavan dopo le tragedie) e delle satire Latine (così dette da Satura ) composizioni miste in prosa e in versi. Ma i Cesari di Giuliano sono d'una specie così originale, che il Critico resta dubbioso in qual classe debbano collocarsi.
533. Questo misto carattere di Sileno è delicatamente espresso nell'Egloga sesta di Virgilio.
534. Ogni lettore imparziale deve conoscere e condannare la parzialità di Giuliano contro Costantino suo zio, e contro la religion Cristiana. In quest'occasione gl'interpreti vengono astretti da un più sacro interesse a ricusare il loro omaggio all'Autore, e ad abbandonarne la causa.
535. Giuliano era segretamente inclinato a preferire un Greco a un Romano. Ma quando seriamente confrontava un Eroe con un filosofo, sentiva che il genere umano aveva obbligazioni molto maggiori a Socrate che ad Alessandro: Orat. ad Themist. p. 264.
536. Inde nationibus Indicis certatim cum donis Optimates mittentibus.... ab usque Divis et Serendivis. Ammiano XX 7. Quest'isola, a cui si son dati successivamente i nomi di Taprobana, di Serendib e di Ceilan, dimostra, quanto imperfettamente si conoscessero da' Romani i mari e le terre a Levante del Capo Comorin. In primo luogo nel regno di Claudio un liberto, che aveva in affitto le dogane del mar Rosso, fu accidentalmente trasportato da' venti su quell'estranea e sconosciuta costa; conversò per sei mesi con gli abitanti di essa; ed il Re di Ceilan, che per la prima volta udì parlare della potenza o della giustizia di Roma, s'indusse a mandare Ambasciatori all'Imperatore (Plin. Hist. Nat. VI. 24). Secondariamente i Geografi (e Tolomeo stesso) hanno fatto più di quindici volte più grande del vero questo nuovo Mondo, che fu da' medesimi esteso fino all'Equatore, ed alle vicinanze della China.
537. Erano state mandate a Costanzo tali ambascerie. Ammiano, che, senz'accorgersene, discende ad una bassa adulazione, doveva essersi dimenticato della lunghezza del viaggio, e della breve durata del Regno di Giuliano.
538. Gothos saepe fallaces et perfidos; hostes quaerere se meliores ajebat; illis enim sufficere mercatores Galatas, per quos ubique sine conditionis discrimine venundantur. In meno di quindici anni questi schiavi Goti minacciarono e vinsero i loro padroni.
539. Alessandro rammenta a Cesare, suo rivale, il qual disprezzava la fama ed il merito d'una vittoria Asiatica, che Crasso ed Antonio avevan sentiti i dardi persiani, e i Romani, in una guerra di trecento anni, non avevano ancora soggiogato la sola Provincia della Mesopotamia, o dell'Assiria. Caesar. p. 324.
540. Si espone il disegno della guerra Persiana da Ammiano (XXII. 7. 12), da Libanio ( Orat. parent. c. 79, 80. p. 305, 306), da Zosimo (l. III. p. 158), e da Socrate (l. III. c. 19).
541. Tanto la satira di Giuliano, quanto le Omelie di S. Gio. Grisostomo fanno l'istessa pittura d'Antiochia. La miniatura, che quindi ha ritratto l'Ab. della Bleterie ( Vit. di Giuliano p. 330) è corretta ed elegante.
542. Laodicea somministrava i cocchieri; Tiro e Berito i commedianti; Cesarea i pantomimi; Eliopoli i cantori; Gaza i gladiatori; Ascalona i lottatori; e Castabala i ballerini di corda. Vedi Exposit. totius Mundi p. 6 nel terzo tomo dei Geografi minori di Hudson.
543. Χριστὀν δε ἀγαθὠντγες, εχετε πολιουχον αντι του Διος, amando voi Cristo, tenetelo per tutelare invece di Giove. Il popolo d'Antiochia ingegnosamente professava il suo attaccamento al Chi, X (Christo), ed al Kappa, K (Costanzo), Giuliano in Misopogon p. 357.
544. Lo scisma d'Antiochia, che durò ottantacinque anni (dal 330 al 415), s'accese nel tempo, che Giuliano risedeva in quella città, per l'imprudente ordinazione di Paolino. Vedi Tillemont Mem. Eccl. Tom. VII. pag. 803. dell'ediz. in quarto Parig. 1701 ec., della quale io mi servirò da qui avanti nelle citazioni.
545. Giuliano stabilisce tre diverse proporzioni di cinque, di dieci, o di quindici modj di frumento per una moneta d'oro secondo i gradi d'abbondanza, o di scarsità ( in Misopogon p. 369). Da questo fatto e da altri esempi del medesimo tempo rilevo, che sotto i successori di Costantino il prezzo moderato del grano era di circa trentadue scellini il sacco Inglese, che è uguale al prezzo medio de' primi sessantaquattro anni del presente secolo ( il secolo 18). Vedi Arbuthnot Tavola di monete, pesi e misure p. 88, 89. Plin. Hist. Nat. XVIII. 12. Mem. de l'Acad. des Inscript. Tom. XXVIII. p. 718, 721. Smith. Ricerca su la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni vol. I. p. 246. Io mi fo pregio di citar quest'ultima come l'opera d'un dotto e d'un amico.
546. Numquam a proposito declinabat, Galli similis fratris, licet incruentus. Ammiano XXII. 14. L'ignoranza dei più illuminati Principi può ammettere qualche scusa; ma non possiamo esser soddisfatti della difesa propria di Giuliano ( in Misopogon p. 368, 369 ) o dell'elaborata apologia di Libanio ( Orat. parent. c. XCVII. p. 321 ).
547. Libanio tocca gentilmente il loro breve e mite arresto ( Orat. parent. c. XCVIII. p. 322. 323 ).
548. Libanio ( ad Antiochenos de Imperatoris ira c. 17, 18, 19. ap. Fabric. Biblioth. Graec. T. VII. p. 221-223 ) a guisa di abile Avvocato severamente censura la follia del popolo, che soffriva pel delitto di pochi oscuri ed ebrj miserabili.
549. Libanio ( ad Antiochen. c. VII. p. 213 ) rammenta ad Antiochia il recente gastigo di Cesare: e Giuliano stesso ( in Misopogon p. 335 ) accenna con quanto rigore Taranto aveva espiato l'insulto fatto agli Ambasciatori Romani.
550. Quanto al Misopogon vedasi Ammiano (XXII. 14). Libanio ( Orat. parent. c. XCIX. p. 323 ), Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. p. 133 ) e la Cronica d'Antiochia di Gio. Malala ( Tom. II. p. 15, 16 ). Ho grandi obbligazioni alla traduzione e alle note dell'Ab. della Bleterie ( vit. di Giovian. Tom. II. p. 1-138 ).
551. Ammiano avverte assai giustamente, che coactus dissimulare pro tempore, ira sufflabatur interna. L'ironia elaborata di Giuliano alla fine prorompe in serie e dirette invettive.
552. Ipse autem Antiochiam egressurus, Heliopoliten quemdam Alexandrum Syriacae Jurisdictioni praefecit turbulentum et saevum; dicebatque non illum meruisse, sed Antiochensibus avaris et contumeliosis hujusmodi Judicem convenire. Ammiano XXIII. 2. Libanio ( Epist. 722. pag. 346, 347 ), che confessa a Giuliano medesimo, che aveva esso avuto parte nel generale disgusto, pretende, che Alessandro fosse un utile, quantunque austero riformatore de' costumi e della religione d'Antiochia.
553. Juliano in Misopogon p. 364. Ammiano XXIII. 2, e Vales. ib. Libanio in un'orazione, espressamente scritta, lo invita a tornare alla sua leale e pentita città d'Antiochia.
554. Liban. Orat. parent. c. VIII. p. 230, 231.
555. Eunapio riferisce che Libanio ricusò l'onorevol grado di Prefetto del Pretorio come meno illustre del titolo di Sofista ( Vit. Sofist. p. 135). I Critici hanno osservato un sentimento simile in un'epistola (XVIII dell' Ediz. Wolf. ) di Libanio medesimo.
556. Ci son rimaste, e son già pubblicate quasi duemila delle sue lettere; specie di composizione, in cui Libanio si reputava eccellente. Possono i Critici lodar la sottile ed elegante lor brevità; ma il D. Bentley ( Dissert. sopra Falar. p. 487) potè giustamente, ma non gentilmente, osservare, che «si sente dal voto e dalla mancanza d'anima in esse, che si conversa con un pedante, il quale va sognando appoggiato sulla sua cattedra».
557. Si pone la sua nascita nell'anno 314. Ei fa menzione del settantesimo sesto anno della sua età, anno 390, e sembra, che alluda ad alcuni avvenimenti d'una data eziandio posteriore.
558. Libanio ha fatta la vana e prolissa, ma curiosa narrazione della sua vita ( Tom. II. p. 1-84. Ed: Morell. ), della quale ci ha lasciato Eunapio ( p. 130-135) un breve e svantaggioso ragguaglio. Fra' moderni il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 571-576), il Fabricio ( Bibl. Graec. Tom. VII. p. 378-414), e Lardner ( Testim. Pagan. T. IV. p. 127-163) hanno illustrato il carattere e gli scritti di questo celebre Sofista.
559. La strada da Antiochia a Litarbe, nel territorio di Calcide, per monti e per paludi, era estremamente cattiva; e le pietre slegate non avevano altro cemento che la sabbia. Juliano Epist. XXVII. Egli è molto strano che i Romani trascurassero la gran comunicazione fra Antiochia e l'Eufrate. Vedi Wesseling. Itiner. p. 290. Bergier. Histoire des grands Chemins Tom. II. p. 200.
560. Giuliano allude a quest'accidente nell' Epist. 27, che più distintamente viene riferito da Teodoreto ( l. III. c 2. ). Applaudisce allo spirito intollerante del padre il Tillemont ( Hist. des Emp. Tom. IV. p. 534), ed anche la Bleterie ( Vit. di Giuliano p. 413).
561. Vedi il curioso trattato de Dea Syria, inserito fra le opere di Luciano (Tom. III. p. 451-490. Edit. Reitz. ). La singolare denominazione di Ninus vetus (Ammiano XIV. 8) potrebbe far sospettare, che Jerapoli fosse stata la sede reale dell'Assiria.
562. Giuliano ( Epist. 28) tenne un esatto conto di tutti gli augurj fortunati, ma soppresse gl'infelici, che sono diligentemente rammentati da Ammiano (XXIII. 2).
563. Juliano Epist. XXVII. p. 399-402.
564. Io prendo la prima occasione che mi si presenta di confessare le mie obbligazioni verso il Danville per la recente sua geografia dell'Eufrate e del Tigri ( Par. 1780. in 4.) che particolarmente illustra la spedizione di Giuliano.
565. Vi sono tre passaggi, distanti poche miglia l'uno dall'altro: 1. Zeugma, celebre presso gli antichi: 2. Bir, frequentato da' moderni: e 3. il ponte di Menbigz, o sia Gerapoli alla distanza di quattro parasanghe dalla città.
566. Haran, o Carre fu l'antica residenza de' Sabei e di Abramo. Vedasi l'Indice Geografico di Schultens, ( ad calc. vit. Saladini ), opera da cui ho ricavato molte notizie Orientali intorno all'antica e moderna Geografia della Siria e degli adiacenti paesi.
567. Vedi Senofonte Ciroped. l. III. p. 189. Edit. Hutchinson. Artavasde avrebbe potuto soccorrere Marco Antonio con 16000 cavalli armati e disciplinati secondo la maniera dei Parti. Plutarco in M. Antonio Tom. V. p. 117.
568. Mosè di Corene ( Hist. Armen. l. III c. 11. p. 242 ) pone il suo innalzamento al trono nell'anno 354 decimo settimo di Costanzo.
569. Ammiano XX. 11. Atanasio (Tom. I. p. 856.) dice in termini generali, che Costanzo diede la vedova del suo fratello τοις βαρβαροις a' Barbari, espressione più conveniente a un Romano che ad un Cristiano.
570. Ammiano (XXIII. 2.) si serve d'un termine troppo mite in quest'occasione, monuerat. Il Muratori ( Fabr. Biblioth. Graec. Tom. VII. p. 86 ) ha pubblicato una lettera scritta da Giuliano al Satrapo Arsace, impetuosa, bassa, e (sebbene abbia potuto ingannare Sozomeno l. VI. c. 5.) molto probabilmente spuria. La Bleterie ( Hist. de Jovien Tom. II p. 339 ) la traduce e la rigetta.
571. Latissimum flumen Eufratem artabat. Ammiano XXIII. 3. Un poco di sopra, al guado di Tapsaco, il fiume è largo quattro stadi, ovvero 800 braccia, quasi mezzo miglio Inglese ( Xenof. Anabas. lib. I. p. 41. Edit. Hutch. colle osserv. di Foster. p. 28. ec. nel secondo volume della Traduzione di Spelman ). Se la larghezza dell'Eufrate a Bir ed a Zeugma non è maggiore di 130 braccia ( Viag. di Niebuhr Tom. II. p. 335.), tal enorme differenza deve specialmente nascere dalla profondità del canale.
572. Monumentum tutissimum, et fabre politum, cujus moenia Abora (gli Orientali l'aspirano dicendo Cabora o Cabor ) et Euphrates ambiunt flumina velut spatium insulare fingentes. Ammiano XXIII. 5.
573. Si descrivono l'impresa e l'armamento di Giuliano da lui stesso ( Epist. XXVII.), da Ammiano Marcellino (XXIII. 3, 4, 5.), da Libanio ( Orat. parent. c. 108. 109. p. 332. 333.), da Zosimo (lib. III. p. 160, 161, 162.), da Sozomeno (lib. VI. c. 1.) e da Gio. Malala (Tom. II. p. 17.).
574. Prima d'entrar nella Persia, Ammiano descrive ampiamente (XXIII. 6. p. 369-419. Edit. Gronov. in 4.) le otto gran Satrapie o Province (fino alle frontiere Seriche, o Chinesi) che erano sottoposte ai Sassanidi.
575. Ammiano (XXIV. 1.) e Zosimo ( lib. III. pag. 162. 163. ) hanno accuratamente esposto tal ordine.
576. Si raccontano le avventure d'Ormisda con qualche miscuglio di favola da Zosimo ( l. II. p. 100-102. ) e dal Tillemont ( Hist. des Emper. T. IV. p. 188. ). Egli è impossibile, che ei fosse il fratello ( frater germanus ) di un primogenito postumo; nè io mi ricordo che Ammiano gli abbia mai dato quel titolo.
577. Vedi il primo libro dell'Anabasi p. 45. 46. Questa piacevole opera è originale ed autentica; pure la memoria di Senofonte, forse molti anni dopo la spedizione, qualche volta l'ha tradito; e le distanze, ch'ei nota, sono spesso maggiori di quel che possa accordare un soldato o un geografo.
578. M. Spelman, traduttore inglese dell' Anabasi ( Vol. I. p. 151. ), confonde la gazzella col capriolo, e l'asino selvaggio collo zebra.
579. Vedi Viag. di Tavernier P. I. l. III. p. 316. e più specialmente i Viaggi di Pietro della Valle T. I. let. XVII. p. 671. Egli non sapeva l'antico nome e la condizione di Annah. I ciechi nostri viaggiatori hanno rare volte alcuna previa notizia dei paesi che visitano. Meritano però un'onorevol eccezione Shaw e Tournefort.
580. Famosi nominis latro, dice Ammiano, ch'è un grande encomio per un Arabo. La tribù di Gassan era stabilita sul confine della Siria, e regnò qualche tempo in Damasco sotto una Dinastia di trentun Re, o Emiri, dal tempo di Pompeo fino a quello del Califfo Omar. D'Herbelot Bibl. Orient. p. 360. Pocock Specim. Histor. Arab. p. 76. 78. Nella lista però di essi non si trova il nome di Rodosace.
581. Ved. Ammiano (XXIV. I. 2). Libanio ( Orat. parent. c. 110. 111. p. 334.), Zosimo ( l. III p. 164-168 ).
582. Ci vien somministrata la descrizione dell'Assiria da Erodoto (lib. I. c. 192.), che ora scrive pe' fanciulli, ed ora pe' filosofi; da Strabone (lib. XVI. p. 1070, 1082.) e da Ammiano (lib. XXIII. c. 6). Fra' moderni viaggiatori i migliori sono Tavernier ( Part. I. l. II. p. 226-258. ), Otter. ( T. II. p. 35-69. e 189-224.) e Niebuhr ( Tom. II. p. 172-288.). Nondimeno mi rincresce assai che non sia stato tradotto l' Irak Arabi di Albufeda.
583. Ammiano osserva, che l'Assiria primitiva, la quale comprendeva Nino (Ninive) ed Arbella, aveva preso la più moderna e special denominazione d'Adiabene, e sembra che ponga Teredone, Vologesia, ed Apollonia come le ultime città dell'attual Provincia dell'Assiria.
584. I due fiumi si uniscono ad Apamea, o Corna (cento miglia distante dal golfo Persico) nel largo canale del Pasitigris, o Shat-ul-Arab. L'Eufrate anticamente arrivava al mare per una bocca separata, che fu chiusa, e deviatone il corso da' cittadini di Orcoe, circa venti miglia al Sud-est della moderna Basra. Danville nelle memor. dell'Accad. delle inscriz. Tom. XXX. p. 170-191.
585. Il dotto Kaempfer ha esaurito come botanico, come antiquario, e come viaggiatore il soggetto delle palme. Amoenit. exoticae Fascicul. IV. p. 660-674.
586. L'Assiria pagava ogni giorno al Satrapo della Persia un artaba d'argento. La nota proporzione de' pesi e delle misure (Vedi l'elaborata ricerca del Vescovo Hooper) la gravità specifica dell'acque e dell'argento, ed il valore di questo metallo dopo un breve conteggio daranno l'annua rendita da me fissata. Pure il gran Re non riceveva dall'Assiria più di mille talenti Euboici o Tiri (252,000. lire sterl.). Il paragone di due passi d'Erodoto (lib. I. c. 192. lib. III. c. 89-96) dimostra un'importante differenza fra l'entrata lorda e netta della Persia; fra le somme pagate dalle Province, e l'oro e l'argento che entrava nel Regio Erario. Dei diciassette o diciotto milioni, che si esigevan dal popolo il Monarca avrà realizzati annualmente solo tre milioni seicento mila lire.
587. Sono circostanziatamente riferite le operazioni della guerra d'Assiria da Ammiano (XXIV. 2. 3, 4. 5.), da Libanio ( Orat. parent. c. 112-123. p. 335-347. ), da Zosimo (l. III. p. 168-180.), e da Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. p. 113. 144 ). La critica militare del Santo è devotamente copiata dal Tillemont, fedele suo seguace.
588. Liban. de ulciscenda Juliani nece c. 13. p. 162.
589. I famosi esempi di Ciro, di Alessandro, e di Scipione furono atti di giustizia; ma la castità di Giuliano era volontaria, e secondo la sua opinione, meritoria.
590. Sallustio ( ap. vet. Scholiast. Juvenal. Sat. 1. 104 ) osserva, che nihil corruptius moribus. Le matrone e le vergini di Babilonia si mescolavan liberamente con gli uomini in licenziosi banchetti, e quando si sentivan toccate dalla forza del vino e dell'amore, appoco appoco si spogliavano quasi interamente dell'incomodo delle vesti: ad ultimum ima corporum velamenta projiciunt Q. Curt. V. I.
591. Ex virginibus autem, quae speciosae sunt capta, et in Perside, ubi foeminarum pulchritudo excellit, nec contrectare aliquam voluit, nec videre: Ammian. XXIV. 4. La razza naturale de' Persiani è piccola e brutta; ma si è migliorata per la perpetua mescolanza del sangue Circasso: Herod. l. III. c. 97, Buffon Histoir. natur. Tom. III. p. 420.
592. Obsidionalibus coronis donati. Ammiano XXIV. 4. O Giuliano, o l'Istorico era un imperito antiquario. Avrebbe dovuto dar corone murali. L'obsidionale era il premio d'un Generale, che liberato avesse una città assediata. Aul. Gell. Noct. Attic. V. 6.
593. Io reputo questo discorso originale e genuino. Ammiano potè averlo udito e trascritto, ed era incapace d'inventarlo. Mi son preso alcune piccole libertà, e lo concludo con la più vigorosa sentenza.
594. Ammiano XXIV. 3. Liban. Orat. parent. c. 122. p. 346.
595. Danville ( Mem. de l'Acad. des Inscr. Tom. XXVIII. p. 246-259. ) ha determinato la vera posizione e distanza fra loro di Babilonia, di Seleucia, di Ctesifonte, di Bagdad ec. Il viaggiatore Romano, Pietro della Valle ( Tom. I. lett. 17. p. 650-780. ) sembra l'osservatore più diligente di quella famosa Provincia. Egli è un gentiluomo erudito, ma intollerabilmente vano e prolisso.
596. Il real canale Nahar-Malcha potè in diversi tempi esser restaurato, alterato, diviso ec. (Cellario Geogr. ant. T. II. p. 453 ); e questi cangiamenti servir possono a spiegare le apparenti contraddizioni dell'antichità. Al tempo di Giuliano dovea cader nell'Eufrate sotto Ctesifonte.
597. Καὶ μελεθεσιν ελεφαντων, οισ ισον εργόν διὰ σαχυῶν ἐλθειν, και Φαλανγος: e di grandi elefanti, pe' quali è l'istesso camminare sopra le spighe, o sopra una falange. «Rien n'est beau que le vrai»: massima che dovrebb'essere scritta sulla cattedra d'ogni retore.
598. Libanio indica il più potente fra' Generali. Io mi sono arrischiato a nominar Sallustio. Ammiano asserisce di tutti i condottieri, quod acri metu territi duces concordi precatu fieri prohibere tentarent.
599. Hinc Imperator.... (dice Ammiano) ipse cum levis armaturae auxiliis per prima postremaque discurrens. Contuttociò Zosimo, suo amico, dice, che non passò il fiume se non due giorni dopo la battaglia.
600. Secundum Homericam dispositionem. Si attribuisce tal distribuzione al savio Nestore nel quarto libro dell'Iliade; ed Omero non era mai lontano dalla mente di Giuliano.
601. Persas terrore subito miscuerunt, versisque agminibus totius gentis, apertas Ctesiphontis portas victor miles intrasset, ni major praedarum occasio fuisset, quam cura victoriae (Sest. Ruf. de Provinc. c. 28). La loro avarizia potè disporli a dare orecchio al consiglio di Vittore.
602. Il lavoro del canale, il passaggio del Tigri e la vittoria si descrivon da Ammiano (XXIV. 5. 6.), da Libanio ( Orat. parent. c. 124-128. p. 347, 353), da Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. p. 115.), da Zosimo ( l. III. p. 181-183.) e da Sesto Rufo ( de Prov. c. 28).
603. La flotta e l'esercito erano disposti in tre divisioni una sola delle quali era passata nella notte (Ammiano XXIV. 6.); παση δορυφορια ( tutto il seguito ), che Zosimo fa passare il terzo giorno ( l. III p. 183.), poteva esser composto dai protettori, fra' quali in quell'era militavan l'Istorico Ammiano e Gioviano futuro Imperatore, di alcune truppe di domestici, e, forse de' Gioviani e degli Erculei, che spesso facevan l'uffizio di guardie.
604. Mosè di Corene ( Hist. Armen. l. III c. 15 p. 246. ) ci somministra una tradizione del paese, ed una lettera spuria. Io non ho ammesso che la principal circostanza, la quale è coerente alla verità, alla verisimiglianza ed a Libanio ( Orat. parent. c. 131 p. 355 ).
605. Civitas inexpugnabilis, facinus audax et importunum. Ammian. XXIV. 7. Eutropio, collega di lui nella milizia, evita la difficoltà: Assiriamque populatus castra apud Ctesiphontem stativa aliquandiu habuit; remeansque victor etc. X. 16. Zosimo è artificioso o ignorante, e Socrate inesatto.
606. Liban. Orat. parent. c. 130. p. 354. c. 139. p. 361. Socrate l. III. c. 21. L'Istorico Ecclesiastico attribuisce al consiglio di Massimo il rifiuto della pace. Tal consiglio era indegno d'un filosofo; ma il filosofo era anche un incantatore, che lusingava le speranze e le passioni del suo Signore.
607. Le arti di questo nuovo Zopiro (Greg. Nazianzeno Orat. IV p. 115. 156 ) possono meritare qualche credenza per la testimonianza de' due abbreviatori (Sesto Rufo e Vittore) e pei cenni che accidentalmente ne danno Libanio (Orat. parent. c. 134. p. 157. ) ed Ammiano XXIV. 7. Viene interrotto il corso dell'istoria genuina da una molto inopportuna mancanza nel testo d'Ammiano medesimo.
608. Vedi Ammiano (XXIV. 7), Libanio ( Orat. parent. c. 132. 133, p. 356. 357 ), Zosimo (l. III. p. 185.), Zonara (Tom. II. l. XIII. p. 26), Gregorio ( Orat. IV. p. 116), Agostino ( de Civ. Dei. l. IV. c. 29. l. V. c. 21). Fra questi Libanio solo tenta di fare una debole apologia pel suo Eroe, che secondo Ammiano pronunziò la propria condanna, con un tardo ed efficace tentativo d'estinguer le fiamme.
609. Vedi Erodoto (l. I. c. 194.), Strabone (l. XIV. p. 1074.) e Tavernier (p. I. l. II. p. 152.).
610. A celeritate Tigris incipit vocari, ita appellant Medi sagittam: Plin. Histor. nat. VI. 31.
611. Una di quelle dighe, che produce una cascata o cateratta artificiale, vien descritta dal Tavernier (P. I. l. II. p. 226.) e dal Thevenot (P. II. l. I. p. 193). I Persiani o gli Assirj procurarono d'interrompere la navigazione del fiume: Strabone l. XV. pag. 1975. Danville L'Euphrate et le Tigre p. 98, 99.
612. Rammentiamoci la felice ed applaudita temerità d'Agatocle e di Cortes, che abbruciarono le loro navi sulla costa dell'Affrica e del Messico.
613. Vedi le giudiziose riflessioni dell'Autore del saggio sulla Tattica (Tom. II. pag. 287-354.) e le dotte osservazioni del Guichardt ( Nouveaux memoires militaires. Tom. I. pag. 351-382.) sul bagaglio e la sussistenza degli eserciti Romani.
614. Il Tigri sorge al mezzodì, l'Eufrate al settentrione delle montagne d'Armenia. Il primo dà fuori nel Marzo, ed il secondo nel mese di Luglio. Tali circostanze vengon bene spiegate nella dissertazione Geografica di Foster inserita nella Spedizione di Ciro di Spelman (Vol. II p. 26.)
615. Ammiano (XXIV. 8.) descrive, come sentì egli stesso, l'incomodo dell'acqua, del caldo e degli insetti. I terreni dell'Assiria, sotto l'oppressione de' Turchi, e la devastazione de' Curdi o Arabi, moltiplican dieci, quindici e venti volte il seme, che un miserabile ed imperito agricoltore vi getta. Viag. di Niebuhr Tom. II. p. 27. 285.
616. Isidoro di Carax ( Mansion. Parthic. pag. 5. 6. ap. Hudson. Geogr. min. Tom. II. ) computa 129. scheni da Seleucia, e Thevenot ( Par. I. lib. II. p. 209-245. ) un cammino di ore 128 da Bagdad ad Ecbatana, o Hamadam. Quelle misure non possono eccedere una parasanga ordinaria, o tre miglia Romane.
617. Descrivono circostanziatamente, non però con chiarezza, il cammino che fece Giuliano da Ctesifonte, Ammiano (XXIV. 7, 8), Libanio ( Orat. parent. c. 134. p. 357. ) e Zosimo (lib. III. p. 183.). Gli ultimi due par che ignorassero, che il loro conquistatore si ritirasse; e Libanio assurdamente lo limita alle sponde del Tigri.
618. Chardin, ch'è il più giudizioso tra' viaggiatori moderni, descrive ( Tom. III p. 57-58. ec. edit. in 4.) l'educazione e la destrezza de' cavalieri Persiani. Brissonio ( de Regn. Pers. p. 650-661 ec.) ha raccolto le testimonianze dell'antichità.
619. Nella ritirata di Marc'Antonio una misura Attica si vendeva cinquanta dramme, o in altri termini una libbra di farina dodici o quattordici scellini; il pane d'orzo era venduto per tanto argento quanto erane il peso. Non si può leggere l'interessante narrazione di Plutarco ( Tom. V. pag. 102-116.) senz'accorgersi, che Marc'Antonio e Giuliano erano perseguitati dall'istesso nemico, ed involti nelle medesime angustie.
620. Ammiano XXIV. 8. XXV. 1. Zosimo lib. III. p. 184, 185, 186. Libanio Orat, parent. c. 134. 135. p. 357, 358, 359. Sembra che il Sofista d'Antiochia ignorasse la fame delle truppe.
621. Ammiano XXV 2. Giuliano aveva giurato in un punto di passione; numquam se Marti sacra facturum XXIV. 6. Non erano infrequenti queste capricciose contese fra gli Dei e gl'insolenti loro devoti: e fino il prudente Augusto, dopo che la sua flotta ebbe fatto due volte naufragio, escluse Nettuno dagli onori delle pubbliche feste. Vedi le filosofiche Riflessioni di Hume Sagg. Vol. II. p. 418.
622. Essi tuttavia conservavano il monopolio della vana ma lucrosa scienza della divinazione, ch'era stata inventata in Etruria, e si protestavan di trarre le cognizioni, che avevan de' segni e degli augurj, dagli antichi libri di Tarquazio, savio Etrusco.
623. Clamabant hinc inde Candidati (Vedi la nota di Valesio) quos disjecerat terror, ut fugientium molem tanquam ruinam male compositi culminis declinarent. Ammiano XXV. 3.
624. Sapore stesso dichiarò a' Romani, ch'era suo costume di confortar le famiglie de' Satrapi defunti, mandando loro come in dono le teste delle guardie e degli uffiziali, che non eran caduti al lato del suo Signore. Liban. De nece Juliani ulcisc. c. XIII. p. 163.
625. Il carattere e la situazione di Giuliano potrebbero confermare il sospetto, che egli avesse precedentemente composta quell'elaborata orazione, che si udì, e si trascrisse da Ammiano. La traduzione dell'Abate della Bleterie è fedele ed elegante. Io l'ho seguitato nell'esporre l'idea Platonica dell'emanazione, che viene oscuramente indicata nell'originale.
626. Erodoto ha spiegato (lib. I. c. 31.) tal dottrina in una piacevol novella. Giove però, che ( nel lib. 16. dell'Iliad. ) piange a lagrime di sangue la morte di Sarpedone suo figlio, avea un'idea molto imperfetta della felicità o della gloria dopo il sepolcro.
627. I soldati, che facevano il loro verbale, o nuncupatorio testamento nel tempo dell'attual servizio ( in procinctu ), erano esenti dalle formalità del Gius Romano. Ved. Heinecc. Antiq. Jur. Rom. Tom. I. p. 504. Montesquieu Espr. des Loix l. 27.
628. Quest'unione dell'anima umana con la divina eterna sostanza dell'universo è l'antica dottrina di Pitagora e di Platone; ma sembra ch'escluda ogni personale, o particolare immortalità. Vedi le dotte e ragionevoli osservazioni di Warburton Divin. legat. Vol. II. p. 199-216.
629. Si fa tutto il racconto della morte di Giuliano da Ammiano (XXV. 3.) che era stato diligente spettatore. Libanio, ch'evita con orrore tale scena, ce ne somministra qualche circostanza ( Orat. parent. c. 136. 140. p. 350-562.). Le calunnie di Gregorio, e le leggende di più antichi Santi si possono presentemente disprezzare in silenzio.
630. Honoratior aliquis miles, forse Ammiano medesimo. Il modesto e giudizioso Istorico descrive la scena dell'elezione, alla quale si trovò senza dubbio presente (XXV. 5.).
631. Il Primo o Primicerio godeva la dignità di Senatore, e quantunque non fosse che tribuno, aveva posto fra i Duci militari. Cod. Teodos. lib. VI. Tit. XXIV. Questi privilegi son forse di data più recente del tempo di Gioviano.
632. Gli storici Ecclesiastici, Socrate (l. III. c. 22), e Sozomeno (l. VI. c. 3) e Teodoreto (l. IV. c. 1) attribuiscono a Gioviano il merito di Confessore nel precedente regno; e piamente suppongono, ch'egli ricusasse la porpora finattanto che tutto l'esercito non ebbe concordemente esclamato d'esser Cristiano. Ammiano, tranquillamente proseguendo la sua narrazione, distrugge la leggenda con questa sentenza: hostiis pro Joviano, extisque inspectis pronuntiatum est. XXV. 6.
633. Ammiano (XXV. 10) ha delineato un imparzial ritratto di Gioviano, al quale Vittore il Giovane aggiunse alcuni notabili tratti. L'Ab. della Bleterie ( Hist. de Jovien T. I. p. 1-238) ha composto un'istoria elaborata pel breve regno di lui; opera considerabilmente distinta per l'eleganza dello stile, per le critiche osservazioni e pei pregiudizi di religione.
634. Regius equitatus. Si rileva da Procopio, che gl' Immortali, tanto celebri sotto Ciro ed i suoi successori, risorsero, se ci è permesso d'usare impropriamente tal termine, sotto i Sassanidi: Brisson de regn. Pers. p. 268.
635. I nomi degli oscuri villaggi del paese interiore si sono irreparabilmente perduti, nè possiam dire in qual luogo perisse Giuliano: ma Danville ha dimostrato la precisa situazione di Sumere, di Carche e di Dura lungo le sponde del Tigri ( Geogr. anc. Tom. II. p. 248. L'Euphrate et le Tigre p. 95, 97). Nel nono secolo Sumere o Samara divenne, con un piccol cangiamento di nome, la regia residenza de' Califfi della casa di Abbas.
636. Dura era una piazza forte nelle guerre d'Antioco contro i ribelli della Media e della Persia: Polib. l. V. c. 48,52. p. 548, 552. Edit. Casaub. in 8.
637. Fu proposto a' condottieri de' diecimila un espediente simile e saviamente rigettato. Senof. Anab. T. III. p. 255, 256, 257. Si rileva dai nostri moderni viaggiatori che il commercio e la navigazione del Tigri si fa su tavolini nuotanti sopra vesciche.
638. Le prime azioni militari del regno di Gioviano sono riferite da Ammiano (XXV. 6), da Libanio ( Orat. parent. c. 146. p. 364) e da Zosimo (l. III. p. 89, 190, 191). Quantunque possiam diffidarci dall'ingenuità di Libanio, pure l'ocular testimonianza d'Eutropio ( uno a Persis atque altero praelip victus X. 17) ci fa inclinar a sospettare, che Ammiano sia stato troppo geloso dell'onor delle armi Romane.
639. Sesto Rufo ( de Provinc. c. 29) abbraccia un debole sotterfugio di vanità nazionale. Tanta reverentia nominis Romani fuit, ut a Persis primus de pace sermo haberetur.
640. È una vanità il controvertere l'opinione d'Ammiano, soldato ed attuale spettatore. Egli è però difficile a intendersi, come si potessero estendere le montagne di Corduena sul piano dell'Assiria fino all'unione del Tigri e del gran Zab; o come un esercito di sessantamila uomini potesse far cento miglia in quattro giorni.
641. Fanno menzione del trattato di Dura con dispiacere e con isdegno Ammiano (XXV. 7), Libanio ( Orat. parent. c. 142. p. 264), Zosimo (l. III. p. 190, 191) Gregorio Nazianzeno ( Orat. IV. p. 117, 118) che attribuisce a Giuliano la calamità, e la liberazione a Gioviano, ed Eutropio (X. 17). L'ultimo di questi Scrittori, che si trovava presente in un posto militare, chiama tal pace necessariam quidem, sed ignobilem.
642. Liban. Orat. parent. c. 143. p. 364, 365.
643. Conditionibus... dispendiosis Romanae Reipublicae impositis... quibus cupidior regni quam gloriae Jovianus imperio rudis adquievit. Sest. Rufo de Prov. c. 29. La Bleterie ha esposto in una lunga orazione, fatta su tal proposito, questi speciosi riflessi di pubblico e di privato vantaggio: Hist. de Jovien Tom. I. p. 39 ec.
644. I Generali furono uccisi alle rive dello Zabato ( Anabasis l. III. p. 226) o del gran Zab, fiume d'Assiria largo 400 piedi, che si getta nel Tigri, quattordici ore di cammino sotto Mosul. L'errore de' Greci attribuì al maggior ed al minor Zab i nomi del lupo ( Lycus ) e del capro ( Capros ). Essi adoperaron questi animali per corteggiare il Tigri dell'Oriente.
645. La Ciropedia è languida ed incerta; l' Anabasi circostanziata e vivace. Tal è sempre la differenza tra la finzione e la verità.
646. Secondo Ruffino, fu stipulato nell'accordo un immediato soccorso di provvisioni; e Teodoreto afferma, che i Persiani fedelmente mantennero la promessa. Tal fatto è probabile, ma indubitabilmente falso. Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. IV. p. 702.
647. Possiam far uso in questo luogo di alcuni versi di Lucano ( Pharsal. IV. 95) che descrive un'angustia simile dell'esercito di Cesare nella Spagna.
Saeva fames aderat. . . .
Miles eget: tota censu non prodigus emit
Exiguam cererem. Proh lucri pallida labes!
Non deest prolato jejunus venditor auro. Vedi Guichardt. Nouv. memoir. milit. Tom. I. p. 379, 382. L'analisi, ch'ei fa delle due campagne in Ispagna e nell'Affrica, è il più nobile monumento, che sia mai stato innalzato alla fama di Cesare.
648. Il Danville (vedi le sue carte e l' Euphr. et le Tigr. p. 92, 93) descrive la loro marcia, e fissa la vera situazione di Hatra, di Ur, e di Tilsafata, delle quali ha fatta menzione Ammiano. Ei non si duole del Samiel, cioè di quel mortal vento caldo sì temuto da Thevenot. Viag. Pars. II. l. I. p. 192.
649. La ritirata di Gioviano è descritta da Ammiano XXV. 9 da Libanio ( Orat. parent. c. 143. pag. 365) e da Zosimo (l. III. p. 194).
650. Liban. Orat. parent. c. 145. p. 366. Tali erano le speranze e i desiderj naturali d'un retore.
651. Il Popolo di Carre, città addetta al Paganesimo, seppellì sotto un mucchio di pietre l'inaugurato apportator di tal nuova (Zosimo l. III. p. 196). Libanio, quando ne ricevè la fatal notizia, gettò gli occhi sopra la spada: ma si rammentò, che Platone aveva condannato il suicidio, e ch'ei doveva vivere per comporre il panegirico di Giuliano (Liban. de vita sua Tom. II. p. 45, 46).
652. Possono ammettersi Ammiano ed Eutropio come buoni e credibili testimoni de' discorsi e de' sentimenti pubblici. Il popolo d'Antiochia inveiva contro un'ignominiosa pace, che l'esponeva sopra una nuda e non difesa frontiera alle armi Persiane.
653. L'Ab. della Bleterie ( Hist. de Jovien p. 211-227) quantunque rigoroso casista, decise che Gioviano non era obbligato ad eseguire la sua promessa; poichè non poteva smembrare l'Impero, o alienare l'omaggio del suo popolo senza il consenso di esso. Io non ho mai trovato gran diletto o istruzione in tali politici Metafisici.
654. A Nisibi egli fece un atto indegno di Re. Un bravo Uffiziale, che avendo il suo stesso nome, era stato creduto degno della porpora, fu tratto da cena, gettato in un pozzo, e lapidato senza alcuna forma di processo o prova di delitto. Ammiano XXV. 8.
655. Vedi XXV, 9 e Zosimo l. III. p. 194, 195.
656. Chron. Paschal. p. 300. Posson consultarsi le Notizie Ecclesiastiche.
657. Zosimo l. III pag. 192, 193. Sesto Rufo de Provinc. c. 29. Agostin. De Civ. Dei l. IV. c. 29. Si dee però applicare ed interpretare questa generale proposizione con qualche cautela.
658. Ammiano XXV. 9 Zosimo l. III. p. 196. Per quanto egli fosse edax, et vino venerique indulgens, io convengo con la Bleterie ( Tom. I. p. 148-154) in rigettare il pazzo racconto d'un baccanale disordine ( Ap. Suid. ) fatto in Antiochia dall'Imperatore, dalla sua moglie e da una truppa di concubine.
659. L'ab. della Bleterie ( Tom. I. p. 156, 209) espone leggiadramente il brutal desiderio del Baronio, che avrebbe voluto che Giuliano fosse gettato ai cani ne cespititia quidem sepultura dignus.
660. Si confronti il Sofista col Santo (Libanio Monod. T. II. p. 251. et Orat. parent. c. 145. p. 367. c. 156. p. 377, con Gregorio Nanzianz. Orat. IV. p. 125, 132). L'oratore Cristiano insinua qualche debol'esortazione alla modestia ed al perdono; ma egli è ben contento che i reali patimenti di Giuliano siano molto maggiori de' tormenti favolosi d'Issione o di Tantalo.
661. Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV p. 549) ha raccolto queste visioni. Fu osservato, che qualche santo o angelo era assente nella notte per una segreta spedizione ec.
662. Sozomeno ( l. VI. 2) fa applauso alla dottrina Greca del tirannicidio; ma tutto quel passo, che un Gesuita volentieri avrebbe tradotto, è prudentemente soppresso dal Presidente Cousin.
663. Subito dopo la morte di Giuliano, si sparse un incerto romore, ch'egli telo cecidisse Romano. Alcuni disertori lo portarono fino al campo Persiano; ed i Romani furon tacciati come assassini dell'Imperatore da Sapore e da' suoi sudditi (Ammiano XXV. 6. Liban. de ulcisc. Julian. nece c. XIII. p. 162, 163). Adducevasi come una decisiva prova, che nissun Persiano erasi presentato per chiedere il promesso premio (Liban. Orat. parent. c. 141. p. 363). Ma il cavaliere che scagliò fuggendo il fatal giavellotto, potè ignorar l'effetto di esso, o nella medesima azione restare ucciso. Ammiano non ne dà indizio, nè ispira sospetto veruno.
664. Ος τις εντολην τληρων ῳ σφων αυτων αρχουτι; chiunque fu che adempì la commissione ricevuta da chi presedeva loro. Tale oscura e dubbiosa espressione può riferirsi ad Atanasio, ch'era senza rivale il primo del clero Cristiano (Liban. De ulcisc. Juliani nece c. 5. p. 149. La Bleterie Hist. de Jovien Tom. I. p. 179).
665. L'Oratore (ap. Fabric. Biblioth. Graec. Tom. VII p. 145-179) sparge sospetti, domanda un processo, ed insinua che potrebbero tuttavia trovarsene delle prove, egli attribuisce i progressi degli Unni alla colpevole negligenza di vendicar la morte di Giuliano.
666. Nel funerale di Vespasiano, il comico che rappresentava quel frugale Imperatore domandò ansiosamente quanto costava tal funzione.... Ottantamila lire ( centies ).... «Datemi, rispose, la decima parte di questa somma, e gettate il mio corpo nel Tevere». Sveton. in Vespasian. c. 19. con le note del Casaubono e del Gronovio.
667. Gregorio ( Orat. IV. p. 119. 120.) paragona tal supposta ignominia e ridicolezza agli onori funebri di Costanzo, il corpo del quale fu portato sul monte Tauro da un coro di Angeli.
668. Q. Curzio l. III. c. 4. Si è censurato più volte il lusso delle sue descrizioni. Era però quasi un dovere dell'Istorico il descrivere un fiume, le acque del quale erano state quasi fatali ad Alessandro.
669. Liban. Orat. parent. c. 156. p. 377. Riconosce però con gratitudine la liberalità dei due reali fratelli nel decorare la tomba di Giuliano: De ulcisc. Juliani. nec. c. 7. p. 152.
670. Cujus suprema et cinerea, si qui tunc juste consuleret, non Cydnus videre deberet, quamvis gratissimus amnis et liquidus: sed ad perpetuandam gloriam recte factorum praeterlambere Tiberis, intersecans urbem aeternam, divorumque veterum monumenta perstringens. Ammiano XXV. 10.