CAPITOLO XXV.

Governo e morte di Gioviano. Elezione di Valentiniano che associa il fratello Valente all'Impero, e fa la final divisione degl'Imperi dell'Oriente e dell'Occidente. Ribellione di Procopio. Amministrazione civile ed ecclesiastica. La Germania. La Gran-Brettagna. L'Affrica. L'Oriente. Il Danubio. Morte di Valentiniano. I due suoi figli Graziano e Valentiniano II succedono all'Impero Occidentale.

La morte di Giuliano aveva lasciato in una situazione molto dubbia e pericolosa gli affari dell'Impero. S'era salvato il Romano esercito per mezzo di un ignominioso e forse necessario trattato[1]; ed i primi momenti di pace del pietoso Gioviano, destinati furono a restaurare la domestica tranquillità della Chiesa e dello Stato. L'indiscretezza del suo predecessore, invece di conciliare, aveva fomentato ad arte la guerra di religione, e la bilancia, che affettò di mantenere fra le ostili fazioni, non servì che a perpetuar la contesa, con le vicende di speranza e di timore, e con le reciproche pretensioni di antico possesso e di favore presente. I Cristiani avean dimenticato lo spirito del Vangelo; ed i Pagani s'erano imbevuti di quel della Chiesa. Nelle famiglie private si arano estinti i sentimenti della natura dal cieco furore dello zelo e della vendetta; era violata la maestà delle leggi, o se ne abusava; le città dell'Oriente venivan macchiate di sangue; ed i più implacabili nemici de' Romani si trovavano in seno al loro paese; Gioviano era stato educato nella professione del Cristianesimo; e nella marcia, che fece da Nisibi ad Antiochia, lo stendardo della croce, il Labaro di Costantino, che fu di nuovo spiegato alla testa delle Legioni, annunziò al popolo la fede del nuovo Imperatore. Appena salito sul trono mandò una circolare a tutti i Governatori delle Province, in cui confessava la divina verità, ed assicurava il legittimo stabilimento della religione Cristiana. Furono aboliti gl'insidiosi editti di Giuliano, le immunità Ecclesiastiche furono restituite ed ampliate; e Gioviano condiscese sino a dolersi, che le angustie de' tempi l'obbligassero a diminuir la dose delle caritatevoli distribuzioni[2]. I Cristiani eran tutti concordi nell'alto e sincero applauso, che davano al pio successor di Giuliano. Ma tuttavia ignoravano qual formula di fede o qual sinodo avrebbe scelto per norma dell'ortodossia; e la pace della Chiesa fece immediatamente risorgere le ardenti dispute, che si eran sospese nel tempo della persecuzione. I Vescovi, capi delle Sette contrarie fra loro, convinti dall'esperienza, che la lor sorte moltissimo dipendeva dalle prime impressioni, che si sarebbero fatte nella mente d'un ignorante soldato, si affrettarono di giungere alla Corte d'Edessa o d'Antiochia. Eran piene le pubbliche vie dell'Oriente di Vescovi Omousj, Arriani, Semiarriani ed Eunomiani, che procuravano di sorpassarsi l'uno l'altro nella santa carriera; gli appartamenti del palazzo risonavano dei loro clamori; e le orecchie del Principe venivano assalite, e forse rendute attonite pel singolar mescuglio di argomenti metafisici e di appassionate invettive[3]. La moderazione di Gioviano, che raccomandava la concordia e la carità, e rimetteva i contendenti alla decisione d'un futuro Concilio, era interpretata come un sintomo d'indifferenza; ma finalmente si scoprì e si dichiarò il suo attaccamento alla fede Nicena dalla riverenza ch'ei dimostrò per le virtù celestiali del grande Atanasio[4]. L'intrepido veterano della fede, al primo avviso della morte del tiranno, era uscito all'età di settanta anni dal suo ritiro. Le acclamazioni del popolo un'altra volta lo collocarono sulla sede Archiepiscopale; ed egli saviamente accettò o prevenne l'invito di Gioviano. Il venerabile aspetto, il tranquillo coraggio, e l'insinuante eloquenza d'Atanasio sostennero la riputazione ch'erasi già acquistato nelle Corti di quattro successivi Principi[5]. Tosto ch'egli ebbe guadagnato la confidenza, ed assicurata la fede del Cristiano Imperatore, tornò in trionfo alla propria Diocesi, e continuò per altri dieci anni[6] a regolar con prudenti consigli e con instancabil vigore l'Ecclesiastico governo di Alessandria, dell'Egitto e della Chiesa Cattolica. Avanti di partire d'Antiochia, egli accertò Gioviano, che l'ortodossa sua devozione sarebbe stata premiata con un lungo e pacifico regno. Atanasio avea motivo di sperare, ch'egli avrebbe ottenuto o il merito d'una predizione adempita, o la scusa d'una grata, quantunque inefficace preghiera[7].

La forza più tenue, quando è applicata ad aiutare e dirigere la naturale inclinazione del suo oggetto, opera con irresistibile peso; e Gioviano ebbe la buona fortuna d'abbracciar le opinioni religiose, che erano sostenute dallo spirito di quel tempo e dallo zelo e dal numero del più potente partito[8]. Sotto il regno di lui il Cristianesimo ottenne una facile e durevol vittoria; ed appena cessò il favore della reale protezione, il genio del Paganesimo, che ardentemente si era innalzato e favorito dagli artifizi di Giuliano, cadde irreparabilmente a terra. In molte città i tempj furono chiusi o abbandonati; i filosofi, che aveano abusato della passeggiera loro potenza, stimaron prudente consiglio quello di radersi la barba, e di mascherare la lor professione; ed i Cristiani godevano d'essere in grado allora di perdonare o di vendicare le ingiurie, che avean sofferte nel regno antecedente[9]. Fu dissipata però la costernazione del Mondo Pagano mediante un savio e grazioso editto di tolleranza, in cui Gioviano espressamente dichiarò, che sebbene avrebbe severamente punito i sacrileghi riti della magia, pure i suoi sudditi potevan liberamente e con sicurezza esercitare le cerimonie dell'antico culto. Ci si è conservata la memoria di questa legge dall'oratore Temistio, che dal Senato di Costantinopoli fu deputato ad esporre il suo fedele omaggio al nuovo Imperatore. Temistio si diffonde sulla clemenza della Natura Divina, sulla facilità degli errori umani, su' diritti della coscienza, e sull'indipendenza dello spirito; ed inculca eloquentemente i principj d'una filosofica tolleranza, di cui la superstizione medesima non ha rossore d'implorar l'aiuto nel tempo della sua calamità. Egli osserva giustamente, che nelle recenti mutazioni ambe le religioni erano state alternativamente disonorate dagli apparenti acquisti d'indegni proseliti, di que' divoti della regnante porpora, che passavano senza ragione e senza vergogna dalla chiesa al tempio, e dagli altari di Giove alla sacra mensa de' Cristiani[10].

Nello spazio di sette mesi le truppe Romane, che allora eran tornate ad Antiochia, aveano fatto una marcia di mille cinquecento miglia, nella quale avevan sofferto tutti i travagli della guerra, della fame e del clima. Nonostanti i loro servigi, le loro fatiche e l'approssimarsi dell'inverno, il timido ed impaziente Gioviano non concedette agli uomini ed ai cavalli che un riposo di sei settimane. L'Imperatore non potè soffrire le indiscrete e maliziose satire del popolo d'Antiochia[11]. Era egli ansioso di occupare il palazzo di Costantinopoli, e di prevenir l'ambizione di qualche competitore, che avrebbe potuto aspirare al vacante omaggio dell'Europa. Ma ricevè ben presto la grata notizia, che si riconosceva la sua sovranità dal Bosforo Tracio fino all'oceano Atlantico. Con le prime lettere, che spedì dal campo della Mesopotamia, egli avea delegato il comando militare della Gallia e dell'Illirico a Malarico, prode e fedele uffiziale della nazione dei Franchi; ed al Conte Luciliano, suo suocero, che si era già segnalato per coraggio e buona condotta nella difesa di Nisibi. Malarico avea ricusato un impiego, di cui non si credeva capace, e Luciliano era stato trucidato a Reims in un accidentale ammutinamento delle coorti Batave[12].

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Ma la moderazione di Giovino, maestro generale della cavalleria, che seppe dimenticare il disegno della sua disgrazia, presto quietò il tumulto, e confermò i dubbiosi animi dei soldati. Fu dato e preso con leali acclamazioni il giuramento di fedeltà; e i deputati degli eserciti Occidentali[13] salutarono il nuovo loro Sovrano, come scendeva dal monte Tauro verso la città di Tiana nella Cappadocia. Da Tiana continuò la sua frettolosa marcia verso Ancira, capitale della provincia di Galazia, dove Gioviano assunse, insieme col piccol suo figliuolino, il nome e le insegne del Consolato[14]. Dadastana[15], oscura città quasi ad uguale distanza tra Ancira e Nicea, era destinata per fatale termine del viaggio e della vita di esso. Dopo una copiosa e forse intemperante cena andò a riposare, e la mattina seguente l'Imperator Gioviano fu trovato morto nel letto. In diverse maniere fu esposta la causa di quest'improvvisa morte. Alcuni la riguardarono come l'effetto d'una indigestione cagionata o dalla quantità del vino, o dalla qualità dei funghi ch'egli aveva golosamente mangiati la sera. Secondo altri, fu soffocato nel sonno dal vapore del carbone, cui trasse dalle muraglie della camera la dannosa umidità d'un intonaco fresco[16]. Ma la mancanza di una regolare inquisizione intorno alla morte di un Principe, il regno e la persona del quale andaron presto in obblio, sembra che fosse la sola circostanza che sostenesse i maliziosi susurri di veleno e di domestico tradimento[17]. Il corpo di Gioviano fu mandato a Costantinopoli per esser sepolto coi suoi predecessori; ed incontrossi per via la mesta processione da Carito sua moglie, figlia del Conte Luciliano, che tuttavia piangeva la recente morte del padre, e s'affrettava ad asciugare le lacrime fra gli abbracciamenti di un Imperiale marito. Amareggiavasi lo sconcerto ed il dolore di essa dall'ansietà della tenerezza materna. Sei settimane avanti la morte di Gioviano, il piccolo suo figlio era stato posto nella sedia curule, adornato del titolo di Nobilissimo, e delle vane insegne del Consolato. Non essendo il real fanciullo, che avea preso dall'avo il nome di Varroniano, consapevole di sua fortuna, la sola gelosia del Governo si rammentava ch'egli era figlio d'un Imperatore. Sedici anni dopo viveva ancora, ma era già stato privato d'un occhio; e l'afflitta sua madre ad ogni momento aspettava, che le fosse strappata quell'innocente vittima dalle braccia, per tranquillare col proprio sangue i sospetti del regnante Sovrano[18].

Dopo la morte di Gioviano rimase il trono Romano per dieci giorni[19] senza Signore. I Ministri ed i Generali continuarono ad unirsi in consiglio, ad esercitare le respettive loro funzioni, a mantener l'ordine pubblico, ed a condurre pacificamente l'esercito verso la città di Nicea nella Bitinia, che si era scelta per luogo della nuova elezione[20]. In una solenne adunanza delle civili e militari potestà dell'Impero, fu di nuovo concordemente offerto il diadema al Prefetto Sallustio. Egli ebbe la gloria di farne un secondo rifiuto; e quando allegate furono le virtù del padre in favore del figlio, il Prefetto con la fermezza d'un generoso patriota dichiarò agli Elettori, che la debole vecchiezza dell'uno, e l'inesperta gioventù dell'altro erano ugualmente incapaci dei laboriosi doveri del governo. Si proposero diversi candidati: e dopo ponderate le obbiezioni al carattere od alla situazione di essi, furono l'un dopo l'altro rigettati; ma tosto che venne pronunziato il nome di Valentiniano, il merito di quest'uffiziale riunì i suffragi di tutta l'assemblea, ed ottenne la sincera approvazione di Sallustio medesimo. Valentiniano[21] era figliuolo del Conte Graziano, nativo di Cibali nella Pannonia, il quale da un'oscura condizione si era innalzato, mediante un'incomparabil destrezza e vigore, al comando militare dell'Affrica e della Gran Brettagna, da cui erasi ritirato con ampie ricchezze e con sospetta integrità. Il grado però ed i servigi di Graziano contribuirono a favorire i primi passi della promozione di suo figlio; e gli porsero un'opportuna occasione di spiegar quelle sode ed utili qualità, che ne sollevarono il carattere sopra l'ordinario livello dei suoi compagni soldati. Valentiniano era alto di statura, grazioso e maestoso. Il virile suo aspetto, che portava impressi alti segni di sentimento e di spirito, inspirava fiducia agli amici, ed ai nemici timore; e per secondare gli sforzi dell'indomito suo valore, il figlio di Graziano aveva ereditato i vantaggi di una forte e sana costituzione. Coll'abitudine della castità e temperanza, che raffrena gli appetiti ed invigorisce le forze, Valentiniano si mantenne la propria e la pubblica stima. Le occupazioni di una vita militare avean distratto la sua gioventù dall'eleganti ricerche della letteratura; egli ignorava la lingua Greca e le arti della Rettorica: ma siccome l'animo dell'oratore non era mai sconcertato da timida perplessità, egli era capace, ogni volta che l'occasione lo richiedeva, d'esporre i risoluti suoi sentimenti con facile ed ardita eloquenza. Le uniche leggi, che esso aveva studiato, eran quelle della marzial disciplina; e presto si distinse per la laboriosa diligenza e l'inflessibil severità, con cui adempiva e sosteneva i doveri del campo. Al tempo di Giuliano egli si espose al pericolo della disgrazia, pel disprezzo che dimostrò in pubblico verso la religion dominante[22]; ma dalla successiva condotta di lui parrebbe, che l'indiscreta ed inopportuna libertà di Valentiniano fosse stata l'effetto di militar baldanza, piuttosto che di uno zelo Cristiano. N'ebbe per altro il perdono, e fu sempre impiegato da un Principe che stimava il suo merito[23]; e nei vari successi della guerra Persiana egli accrebbe quella riputazione, che erasi già acquistato sulle rive del Reno. La prestezza e felicità, con cui eseguì un'importante commissione, gli aprì l'adito al favor di Gioviano ed all'onorevol comando della seconda scuola, o compagnia dei Targettieri, o sia delle guardie domestiche. Nel marciar che faceva da Antiochia, era giunto ai suoi quartieri d'Ancira, quando gli fu inaspettatamente significato, senz'arte o intrigo veruno, d'assumere nel quarantesimo terzo anno della sua età, l'assoluto governo del Romano Impero.

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L'invito dei Ministri e dei Generali a Nicea sarebbe stato di poco rilievo, se non si fosse confermato dalla voce dell'esercito. Il vecchio Sallustio, che aveva frequentemente osservate le irregolari fluttuazioni delle adunanze popolari, propose che nissuna di quelle persone, la cui militar dignità poteva eccitare un partito in loro favore, comparisse in pubblico, sotto pena di morte, nel giorno dell'inaugurazione. Pure tanto prevalse l'antica superstizione, che a questo pericoloso intervallo volontariamente s'aggiunse tutto un giorno, perchè in esso appunto cadeva l'intercalazione dell'anno bisestile[24]. Finalmente, quando si suppose che l'ora fosse propizia, Valentiniano comparve sopra un alto Tribunale; fu applaudita la giudiziosa elezione; ed il nuovo Principe venne solennemente adornato del diadema e della porpora in mezzo alle acclamazioni delle truppe, che eran disposte in ordine di guerra intorno al Tribunale. Ma stendendo egli la mano per parlare all'armata moltitudine, ad un tratto eccitossi un ansioso mormorio nelle file, che appoco appoco scoppiò in un alto ed imperioso grido, ch'ei nominasse immediatamente un collega nell'Impero. La intrepida tranquillità di Valentiniano ottenne silenzio ed impose rispetto. Egli così parlò all'assemblea: «Pochi momenti fa, o miei compagni soldati, era in vostro potere di lasciarmi nell'oscurità di una condizione privata. Giudicando dalla testimonianza della passata mia vita, che io meritassi di regnare, mi avete posto sul trono. Adesso è mio dovere di provvedere alla salute ed al vantaggio della Repubblica. Il peso dell'Universo è troppo grande, senza dubbio, per le mani d'un debol mortale. Io so quali sono i limiti delle mie forze e l'incertezza della mia vita; e lungi dallo sfuggire, io sono ansioso di sollecitare l'aiuto di un degno collega. Ma dove la discordia può esser fatale, la scelta di un fedele amico richiede una matura e seria deliberazione. Di questo io avrò cura. La vostra condotta sia fedele e costante. Ritiratevi ai vostri quartieri; rinfrescate gli spiriti ed i corpi; ed attendete il solito donativo in occasione dell'innalzamento al trono d'un nuovo Imperatore[25] ». Le attonite truppe con una mescolanza d'orgoglio, di soddisfazione e di terrore ubbidirono alla voce del loro Signore. Le ardenti lor grida si convertirono in una tacita riverenza; e Valentiniano, circondato dalle aquile delle legioni e dalle diverse bandiere della cavalleria e della infanteria, fu condotto con pompa militare al palazzo di Nicea. Siccome però conosceva l'importanza di prevenire qualche imprudente dichiarazion de' soldati, consultò l'assemblea de' suoi capitani, e furono brevemente espressi i veri lor sentimenti dalla generosa libertà di Dagalaifo: «Ottimo Principe» (disse questo uffiziale) «se avete riguardo solo alla vostra famiglia, voi avete un fratello; ma se amate la Repubblica, cercate il più meritevole fra i Romani[26] ». L'Imperatore, che soppresse il dispiacere senza alterare la sua intenzione, s'avanzò lentamente da Nicea verso Nicomedia o Costantinopoli. In uno dei sobborghi di quella capitale[27], trenta giorni dopo la sua promozione, diede il titolo di Augusto a Valente suo fratello; e poichè i più arditi patriotti erano persuasi, che la loro opposizione, senza esser giovevole alla patria, sarebbe riuscita fatale a loro medesimi, fu ricevuta la dichiarazione dell'assoluta sua volontà con una tacita sommissione. Valente allora trovavasi nell'anno trentesimo sesto dell'età sua; ma non aveva mai esercitata la sua abilità in alcun impiego militare o civile; ed il suo carattere non aveva eccitato nel Mondo alcuna viva espettazione. Aveva però una qualità, che molto si valutava da Valentiniano, e che mantenne la pace domestica dell'Impero; vale a dire un grato e rispettoso attaccamento al suo benefattore, di cui Valente umilmente e di buona voglia riconobbe la superiorità, sì nel genio che nel potere, in ogni azione della sua vita[28].

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Prima di dividere le Province dell'Impero, Valentiniano volle riformarne l'amministrazione. Furono invitati ad intentar pubblicamente le loro accuse i sudditi di ogni classe, ch'erano stati oppressi o tribolati nel regno di Giuliano. Il silenzio universale attestò l'irreprensibile integrità del Prefetto Sallustio[29]; e Valentiniano con le più onorevoli espressioni d'amicizia e di stima rigettò le pressanti sollecitazioni di lui, che gli fosse conceduto di ritirarsi dall'amministrazion dello Stato. Ma tra i favoriti dell'ultimo Imperatore se ne trovarono molti, che avevano abusato della sua credulità o superstizione; e che non potevano più sperare di esser protetti dal favore o dalla giustizia[30]. Per la maggior parte i Ministri del Palazzo e i Governatori delle Province furon rimossi dai rispettivi lor posti; ma il merito sublime di alcuni Uffiziali fu distinto dalla folla dei colpevoli; e non ostanti le grida in contrario dello zelo e dello sdegno, sembra che tutte le parti di questo delicato processo fossero eseguite con una ragionevol dose di saviezza e moderazione[31]. La gioia del nuovo regno ebbe un breve e sospetto interrompimento dalla improvvisa malattia dei due Principi; ma tosto che si furono essi ristabiliti in salute, lasciaron Costantinopoli al principio di primavera, e nel castello, o nel palazzo di Mediana, distante da Naisso tre miglia, eseguirono la solenne e final divisione dell'Impero Romano[32]. Valentiniano cedè al fratello la ricca Prefettura dell'Oriente, dal basso Danubio sino ai confini della Persia; riservandosi pel proprio immediato governo le guerriere Prefetture dell'Illirico, dell'Italia e della Gallia, dall'estremità della Grecia fino al muro Caledonio, e da questo fino al piè del monte Atlante. L'amministrazione delle Province restò sull'antica base; ma vi fu bisogno d'un doppio numero di Generali e di Magistrati per due consigli e due Corti: se ne fece la distribuzione, avuto un giusto riguardo al merito particolare ed alla situazione di ciascheduno, e furono tosto creati sette generali sì di cavalleria che d'infanteria. Terminato amichevolmente quest'importante affare, Valentiniano e Valente s'abbracciaron per l'ultima volta. L'Imperator d'Occidente fissò la sua residenza per un tempo a Milano; e l'Imperatore di Oriente tornò a Costantinopoli per assumere il dominio di cinquanta Province, il linguaggio delle quali eragli del tutto ignoto[33].

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Presto fu disturbata la tranquillità dell'Oriente dalla ribellione; e fu minacciato il trono di Valente dagli audaci attentati di un rivale, che non aveva altro merito che una parentela coll'Imperator Giuliano[34], e questa era stata l'unico suo delitto. Procopio era stato ad un tratto promosso dall'oscuro posto di Tribuno o di Notaro, al comando di tutto l'esercito della Mesopotamia; la pubblica opinione lo dichiarava già successore di un Principe privo di eredi naturali; ed i suoi amici o avversari propagavano un vano romore, che Giuliano avanti l'altar della Luna a Carre avea privatamente investito Procopio della porpora Imperiale[35]. Egli procurò, mediante la sua leale e sommessa condotta, di disarmare la gelosia di Gioviano: senza ostacolo dimesse il comando militare; e con la sua moglie e famiglia si ritirò a coltivare l'ampio patrimonio, che possedeva nella provincia della Cappadocia. Furono interrotte queste utili ed innocenti occupazioni dall'arrivo di un uffiziale, che a nome dei nuovi Sovrani Valentiniano e Valente fu spedito con una truppa di soldati per condurre l'infelice Procopio o ad una prigione perpetua o ad una ignominiosa morte. La sua presenza di spirito gli procurò una maggior dilazione, ed un fato più splendido. Senza mostrare di porre in dubbio il mandato reale, chiese la grazia di pochi momenti per abbracciare la sua dolente famiglia; e mentre una lauta mensa tratteneva la vigilanza delle sue guardie, esso destramente si rifuggì nelle coste marittime dell'Eussino, dalle quali passò nella regione del Bosforo. In quel remoto paese dimorò molti mesi esposto ai travagli dell'esilio, della solitudine e del bisogno; mentre il malinconico temperamento di lui fomentava le sue disgrazie, ed agitata era la sua mente dal giusto timore, che se qualche accidente scoperto avesse il suo nome, i Barbari senza grande scrupolo avrebbero infedelmente violate le leggi dell'ospitalità. In un punto d'impazienza e di disperazione, Procopio s'imbarcò sopra un vascello mercantile che facea vela per Costantinopoli; ed aspirò arditamente al grado di Sovrano, giacchè non gli era permesso di godere con sicurezza quello di suddito. Da principio si nascose nei villaggi della Bitinia, continuamente cangiando d'abitazione e di vesti[36]. Appoco appoco si arrischiò ad entrare nella Capitale affidò la propria vita e fortuna alla fedeltà di due amici, uno Senatore e l'altro eunuco, e concepì qualche speranza di buon successo dalla notizia ch'ebbe dello stato attuale de' pubblici affari. Il Corpo del popolo era infetto da uno spirito di malcontentezza, che gli faceva desiderar la giustizia e l'abilità di Sallustio, che era stato imprudentemente dimesso dalla Prefettura dell'Oriente. Si disprezzava il carattere di Valente, rozzo senza vigore, e debole senza dolcezza. Temevasi l'influenza del patrizio Petronio suo suocero, crudele e rapace ministro, che rigorosamente esigeva i tributi rimasti arretrati fin dal regno dell'Imperatore Aureliano. Le circostanze eran propizie ai disegni di un usurpatore. La condotta ostile dei Persiani richiedeva la presenza di Valente nella Siria; dal Danubio all'Eufrate le truppe erano in moto; e la Capitale in tale occasione era piena di soldati che passavano e ripassavano il Bosforo Tracio. Furono indotte due coorti di Galli a dare orecchio alle segrete proposizioni dei cospiratori, sostenute dalla promessa d'un liberal donativo; e siccome veneravano ancora la memoria di Giuliano, facilmente acconsentirono a difender l'ereditaria pretensione del proscritto parente di lui. Allo spuntar del giorno vennero esse schierate vicino ai Bagni d'Anastasia; e Procopio, vestito di un abito di porpora più conveniente ad un commediante che a un Principe, comparve come se fosse risuscitato da morte in mezzo a Costantinopoli. I soldati, ch'erano preparati a riceverlo, salutarono il tremante lor Principe con acclamazioni di gioia e con voti di fedeltà. Fu tosto accresciuto il lor numero da un'insolente truppa di villani raccolti nella adiacente campagna; e Procopio, difeso dalle armi dei suoi aderenti, venne successivamente condotto al Tribunale, al Senato ed al Palazzo. Nei primi momenti del tumultuario suo regno egli rimase attonito e spaventato dal cupo silenzio del popolo, che o non sapeva la causa di tal novità o temea dell'evento. Ma la sua forza militare era superiore ad ogni attuale resistenza; i malcontenti correvano in folla allo stendardo della ribellione; i poveri erano eccitati dalle speranze, ed i ricchi intimoriti dal pericolo di un saccheggio universale; e l'ostinata credulità della moltitudine fu ingannata un'altra volta dai promessi vantaggi della ribellione. S'arrestarono i Magistrati; si aprirono con diligenza le porte della città e l'ingresso del porto; ed in poche ore Procopio divenne assoluto, quantunque precario, padrone della Imperiale città. L'usurpatore sostenne quest'inaspettato successo con qualche specie di coraggio e di destrezza. Egli propagò ad arte i rumori e le opinioni più favorevoli al suo interesse, nel tempo che deludeva la plebe col dare udienza ai frequenti, ma immaginari ambasciatori delle remote nazioni. Restarono appoco appoco involti nella colpa della ribellione i grossi Corpi di truppe, che si trovavano nelle città della Tracia e nelle fortezze del basso Danubio; ed i Principi Goti acconsentirono d'aiutare il Sovrano di Costantinopoli con la formidabile forza di più migliaia di ausiliari. I Generali di esso passarono il Bosforo e sottomisero senza fatica le disarmate, ma ricche Province della Bitinia e dell'Asia. La città e l'isola di Cizico, dopo una onorevol difesa, cedè al suo potere; le famose legioni dei Gioviani e degli Erculei abbracciaron la causa dell'usurpatore, ch'essi avevano avuto ordine d'opprimere; e perchè i veterani venivano continuamente aumentati da nuove leve, in poco tempo ei si vide alla testa d'un esercito, il valore ed il numero del quale corrispondeva all'importanza della contesa. Il figlio d'Ormisda[37], giovane intelligente ed animoso, si condusse a trarre la spada contro il legittimo Imperatore dell'Oriente, ed il Principe Persiano fu immediatamente investito dell'antico e straordinario potere di Romano Proconsole. La parentela di Faustina, vedova dell'Imperator Costanzo, che pose nelle mani dell'usurpatore se stessa e la propria figlia, aggiunse alla causa di lui dignità e reputazione. La Principessa Costanza, che allora aveva circa cinque anni, accompagnava in una lettiga la marcia dell'esercito. Essa veniva mostrata al popolo nelle braccia dell'adottivo suo padre; ed ogni volta che passava per le file, accendevasi la tenerezza dei soldati in furore marziale[38]; si rammentavano essi le glorie della casa di Costantino, e dichiaravano con sincere acclamazioni, che avrebbero sparso l'ultima goccia del loro sangue in difesa della fanciulla reale[39].

Frattanto Valentiniano trovavasi agitato e perplesso per la dubbiosa notizia della ribellione dell'Oriente. Le difficoltà d'una guerra nella Germania lo costringevano ad impiegar le immediate sue cure nella salvezza dei proprj Stati; e siccome veniva impedito o corrotto ogni canale di comunicazione, egli dava orecchio con dubbiosa ansietà ai romori che si andavano artificiosamente spargendo, che la disfatta e la morte di Valente avesse lasciato Procopio solo Signore delle Province Orientali. Valente non era morto; ma alla nuova della ribellione, ch'ei ricevè in Cesarea, disperò vilmente della sua vita e dello Stato; propose d'entrare in trattato coll'usurpatore, e scuoprì una segreta inclinazione a deporre la porpora Imperiale. La fermezza de' suoi Ministri salvò il timido Monarca dal disonore e dalla rovina, e l'abilità loro tosto decise in suo favore l'evento della guerra civile. In un tempo di tranquillità, Sallustio si era dimesso dal suo posto senza parlare; ma appena fu attaccata la sicurezza pubblica, egli ambiziosamente sollecitò la preminenza nella fatica e nel pericolo; e la restituzione della Prefettura dell'Oriente a quel virtuoso ministro fu il primo passo, che indicò il pentimento di Valente, e soddisfece gli animi del popolo. Il regno di Procopio in apparenza era sostenuto da poderose armate e da ubbidienti Province; ma molti dei primi uffiziali, sì militari che civili, si erano indotti o per motivi di dovere, o d'interesse a sottrarsi da quella rea scena, o a spiare l'occasione di tradire o di abbandonare la causa dell'usurpatore. Lupicino con marcie affrettate s'avanzò a condurre le legioni della Siria in aiuto di Valente. Arinteo, che in forza, in beltà, ed in valore superava tutti gli Eroi di quel tempo, con una piccola truppa attaccò un corpo superiore di ribelli. Quando egli si vide a fronte di quei soldati, che avevano militato sotto le sue bandiere, ad alta voce comandò loro d'arrestare e consegnargli nelle mani il preteso lor condottiere; e tale fu l'ascendente del suo genio, che un ordine sì straordinario fu immediatamente obbedito[40]. Arbezione, rispettabile veterano di Costantino Magno, che era stato distinto con gli onori del Consolato, fu persuaso a lasciare il suo ritiro, ed a condurre un'altra volta l'esercito in campo. Nel calor dell'azione, trattosi l'elmo tranquillamente di capo, mostrò la canizie ed il suo venerabile aspetto; salutò i soldati di Procopio coi teneri nomi di figli e di compagni; e gli esortò a non più sostenere la causa disperata di un disprezzabil tiranno, ma seguir piuttosto il vecchio loro capitano, che gli avea tante volte condotti alla vittoria e all'onore. Nelle due battaglie di Tiatira[41] e di Nicosia, l'infelice Procopio fu abbandonato dalle sue truppe, che restaron sedotte dalle istruzioni e dall'esempio dei perfidi loro uffiziali. Dopo d'aver vagato per qualche tempo nei boschi e nelle montagne della Frigia, fu tradito dai timidi suoi seguaci, condotto al campo Imperiale, ed immediatamente decapitato. Egli ebbe la sorte ordinaria degli usurpatori, a cui mal succedono lo loro imprese; ma gli atti di crudeltà, esercitati dal vincitore sotto l'orma di legittima giustizia, eccitarono la compassione e lo sdegno dell'universo[42].

In vero tali sono i frutti comuni e naturali del dispotismo e della ribellione. Ma l'inquisizione contro il delitto di magia, che nel regno dei due fratelli fu sì rigorosamente perseguitato sì in Roma che in Antiochia, s'interpetrò come un fatal sintomo o dell'ira del cielo o della depravazione degli uomini[43]. Non dubitiamo di generosamente applaudirci, che nel secolo presente la parte più illuminata dell'Europa ha tolto di mezzo[44] un odioso e crudele pregiudizio, che regnava in ogni clima del globo, ed era inerente ad ogni sistema di religiose opinioni[45]. Le nazioni e le Sette del Mondo Romano ammettevano con ugual credulità e abborrimento l'esistenza di quell'arte infernale[46], che si credeva capace di sovvertire l'ordine eterno dei pianeti e le volontarie operazioni dello spirito umano. Temevano il misterioso potere dei caratteri magici e delle incantazioni, di potenti erbe e di esecrabili riti, che potevan togliere o richiamare la vita, infiammar, le passioni dell'animo, guastar le opere della creazione, ed estorcere dai ripugnanti demoni i segreti del futuro. Credevano, con la più strana incoerenza, che questo soprannatural dominio dell'aria, della terra e dell'inferno si esercitasse pei bassi motivi di malizia o di lucro da grinzose vecchie, o da vagabondi stregoni, che passavano le oscure lor vite nella miseria e nel disprezzo[47]. Le arti della magia eran condannate ugualmente dalla pubblica opinione e dalle leggi di Roma; ma siccome tendevano a soddisfare le più imperiose passioni del cuore umano, così erano continuamente proscritte e continuamente praticate[48]. Una causa immaginaria è capace di produrre i più serj e dannosi effetti. Le oscure predizioni della morte d'un Imperatore o del buon successo d'una cospirazione non erano dirette che a stimolar le speranze dell'ambizione o a sciogliere i vincoli della fedeltà; ed il delitto, che in se stessa conteneva la magia, veniva aggravato dagli attuali reati del tradimento e del sacrilegio[49]. Questi vani terrori disturbavano la pace della società e la felicità degli individui; e l'innocente fiamma, che appoco appoco struggeva un'immagin di cera, dalla spaventata fantasia della persona, che si voleva maliziosamente rappresentare, potea trarre una potente e perniciosa energia[50]. Dall'infusione di quell'erbe, che si supponeva avessero una forza soprannaturale, si potea facilmente passare all'uso di veleni più sostanziali; e la follìa degli uomini divenne alle volte l'istrumento e la maschera dei più atroci delitti. Poichè dai Ministri di Valentiniano e di Valente fu incoraggiato lo zelo degli accusatori, non poterono essi ricusare di prestare orecchio ad un'altra accusa, che troppo spesso avea parte nelle scene di domestiche colpe; accusa d'una più mite e meno cattiva natura, per la quale il pio, ma eccessivo rigore di Costantino avea recentemente stabilita la pena di morte[51]. Questa fatale ed incoerente mescolanza di tradimento e di magia, di veleno e di adulterio somministrava infiniti gradi di delitto e d'innocenza, di scusa e di aggravio, che in queste processure pare che fossero confusi dalle ardenti o corrotte passioni dei giudici. Essi facilmente s'accorsero, che tanto più si stimava dalla Corte Imperiale l'industria ed il discernimento loro, quanto maggiore era il numero delle esecuzioni che si facevano pe' decreti dei respettivi loro Tribunali. Non senza un'estrema ripugnanza pronunziavano qualche sentenza d'assoluzione, ma con ardore ammettevano testimonianze anche macchiate da spergiuri ed estorte per via di tormenti a provare le più improbabili accuse contra le persone più rispettabili. Il progresso dell'inquisizione apriva sempre nuova materia di processi criminali; l'audace delatore, di cui si fosse scoperta la falsità, si ritirava impunemente; ma alla misera vittima, che palesava dei reali o supposti complici, rade volte accordavasi premio della sua infamia. Dall'estremità dell'Italia e dell'Asia erano tratti giovani e vecchi in catene ai tribunali di Roma e d'Antiochia. Senatori, Matrone e Filosofi spirarono in mezzo ad ignominiosi e crudeli tormenti. I soldati, destinati alla guardia delle prigioni, dichiararono con voci di compassione e di sdegno, che il loro numero non era sufficiente ad impedire la fuga o la resistenza della moltitudine dei prigionieri. Le famiglie più ricche erano rovinate dalle confiscazioni ed ammende; i più innocenti cittadini tremavano per la loro salute; e possiam formare qualche idea dell'estensione del male dalla stravagante asserzione d'un antico Scrittore, che nelle soggette Province i prigionieri, gli esuli ed i fuggitivi formavano la maggior parte degli abitanti[52].

A. D. 364-375

Quando Tacito descrive le morti degli innocenti ed illustri Romani, che furon sacrificati alla crudeltà dei primi Cesari, l'arte dell'Istorico o il merito dei pazienti eccita nei nostri petti i più vivi sentimenti di terrore, d'ammirazione e di pietà. Il volgare ed indistinto pennello d'Ammiano ha dipinto queste sanguinose scene con tediosa e non piacevole esattezza. Ma siccome non è più impegnata la nostra attenzione dal contrasto di libertà e di servitù, di recente grandezza e di attual miseria, dovremmo con orrore torcer lo sguardo dalle frequenti esecuzioni, che disonorarono in Roma ed Antiochia il regno dei due fratelli[53]. Valente era timido[54] di naturale, e Valentiniano collerico[55]. Il principio dominante dell'amministrazione del primo era un ansioso riguardo per la sua personal sicurezza. Da privato egli avea con tremante rispetto baciato la mano dell'oppressore; e quando salì sul trono, con ragione aspettava che gli stessi timori, di cui egli avea portato il giogo, dovessero assicurargli la paziente sommissione del popolo. I favoriti di Valente ottennero, mediante il privilegio della rapacità e della confiscazione, quella ricchezza che non avrebber potuto ottenere dalla sua economia[56]. Gli insinuavano essi con persuadente eloquenza, che in ogni caso di ribellione il sospetto equivale alla prova; che il potere suppone l'intenzione del delitto; che l'intenzione non è meno colpevole dell'atto; e che un suddito non dee più vivere, qualora la sua vita può minacciare la salute, o turbare il riposo del suo Sovrano. Fu alle volte ingannato il giudizio di Valentiniano, e si abusò della sua confidenza; ma egli avrebbe con uno sprezzante sorriso imposto silenzio ai delatori, se avessero preteso di porre in agitazione la sua fortezza con rappresentargli il pericolo. Essi lodavano l'inflessibile amore che aveva per la giustizia; e nell'esercizio di essa era l'Imperatore facilmente indotto a risguardar la clemenza come una debolezza, e la passione come una virtù. Finattanto che non ebbe a contendere che con gli uguali nei fieri incontri di una vita attiva ed ambiziosa, Valentiniano fu rare volte ingiuriato, e non insultato mai impunemente: se attaccavasi la sua prudenza, s'applaudiva il suo spirito; ed i più altieri e potenti Generali temevano di provocar lo sdegno di un soldato imperterrito. Dopo esser divenuto Signore del Mondo, gli uscì per disgrazia di mente, che dove non ha luogo la resistenza, non può esercitarsi il coraggio; ed invece di consultare i dettami della ragione, secondava i furiosi moti del suo temperamento, in un tempo in cui erano essi vergognosi per lui, e fatali pe' miseri oggetti dell'ira sua. Tanto nel governo della propria casa che dell'Impero, piccole o anche immaginarie mancanze, una parola inconsiderata, un'accidentale ommissione, un indugio involontario si punivano con immediate sentenze di morte. L'espressioni che più comunemente uscivano di bocca all'Imperator dell'Occidente, eran queste: «Gli si tagli la testa: sia bruciato vivo: sia battuto con verghe fino alla morte[57] »: ed i più favoriti Ministri presto impararono, che col temerariamente procurar di sospendere o d'esaminare l'esecuzione dei sanguinarj comandi di lui, potevano essi medesimi restare involti nella colpa o nel gastigo della disubbidienza. Le replicate soddisfazioni di questa rozza giustizia indurirono il cuore di Valentiniano contro la compassione ed il rimorso; ed i trasporti della passione vennero confermati dall'abitudine della crudeltà[58]. Poteva egli mirare con fredda soddisfazione le convulsive agonie della tortura e della morte; donava la sua amicizia a quei servi fedeli, l'indole dei quali era più coerente alla propria. Il merito di Massimino, che avea fatto strage delle più nobili famiglie di Roma fu premiato con la real approvazione e con la Prefettura della Gallia. Non poterono aver la sorte di partecipare del favore di Massimino, che due feroci ed enormi orsi distinti coi nomi d' Innocenza, e di Mica aurea. Eran sempre vicine alla camera di Valentiniano le gabbie di tali favorite guardie; e spesso egli si dilettava del grato spettacolo di vedere sbranare e divorar da loro le palpitanti membra dei malfattori abbandonati alla furia di esse. Il Romano Imperatore prendevasi gran cura del loro cibo e dei loro esercizi; e quando Innocenza ebbe adempito con una lunga serie di meritevoli servigi il suo uffizio, al fedele animale fu restituita la libertà dei nativi suoi boschi[59].

Ma nei tranquilli momenti della riflessione, allorchè lo spirito di Valente non era agitato dal timore, o quello di Valentiniano dall'ira, i tiranni riassumevano i sentimenti o almeno la condotta di padri della patria. Lo spassionato giudizio dell'Imperator d'Occidente era in grado di conoscer chiaramente e di procurar con ardore il bene proprio e del pubblico; ed il Sovrano d'Oriente, che imitava con ugual docilità i varj esempi, che riceveva dal suo fratello maggiore, veniva alle volte guidato dalla saviezza e virtù del Prefetto Sallustio. Ambidue i Principi invariabilmente ritennero nella porpora la modesta e regolata semplicità, che adornato avevano la privata lor vita; e sotto il regno di essi i piaceri della Corte non costarono mai al popolo rossore o sospiri. Essi appoco appoco riformarono molti abusi dei tempi di Costanzo; adottarono giudiziosamente e migliorarono i disegni di Giuliano e del suo Successore; e spiegarono uno stile ed uno spirito di legislazione, che può risvegliare nella posterità l'opinione più favorevole del carattere e del governo loro. Non si sarebbe aspettato mai dal padrone d' Innocenza quella tenera cura pel bene dei sudditi, che mosse Valentiniano a condannare l'esposizione dei bambini nati di fresco[60], ed a stabilire con stipendi e privilegi quattordici abili Medici nei quattordici quartieri di Roma. Il buon senso di un ignorante soldato immaginò un utile e liberale Instituto per l'educazione della gioventù e pel sostegno delle scienze allor decadenti[61]. Era sua intenzione che s'insegnassero le arti della rettorica e della grammatica in lingua Greca e Latina nelle Metropoli di ogni Provincia; e poichè ordinariamente la grandezza e la dignità della scuola era proporzionata a quella della città in cui si trovava, le Accademie di Roma e di Costantinopoli vantavano una giusta e singolar preeminenza. I frammenti degli editti letterari di Valentiniano rappresentano imperfettamente la scuola di Costantinopoli, che fu a grado a grado perfezionata dai successivi regolamenti. Era essa composta di trent'uno Professori, distribuiti in diversi rami di scienze; vale a dire un filosofo e due legali, cinque sofisti e dieci grammatici per la lingua Greca, tre oratori ed altri dieci grammatici per la Latina, oltre sette scrivani, o come in quel tempo si chiamavano antiquari, le laboriose penne dei quali provvedevano le pubbliche Biblioteche di buone e corrette copie dei classici Autori. La regola di condotta, che fu allora prescritta agli studenti, è tanto più curiosa che somministra i primi sbozzi della forma e della disciplina di una moderna Università. Si richiedeva, che essi portassero gli opportuni attestati dei Magistrati delle native loro Province. Regolarmente si notavano in pubblici registri i nomi, le professioni e le abitazioni loro. Era severamente proibito alla studiosa gioventù di perdere il tempo in conviti o nei teatri, ed era limitato il termine della loro educazione all'età di vent'anni. Il Prefetto della città poteva gastigar gli oziosi ed i refrattari con le verghe e coll'espulsione; ed aveva ordine di riferire ogni anno al Maestro degli Uffizi, quali scolari per le cognizioni ed abilità loro si potessero utilmente impiegare in servizio pubblico. Gli instituti di Valentiniano contribuirono ad assicurare i vantaggi della pace e dell'abbondanza; e servì a guardar le città lo stabilimento dei Difensori[62], eletti liberamente come Tribuni ed Avvocati del popolo per sostenere i diritti, ed esporre gli aggravj di esso avanti ai Tribunali dei Magistrati civili, o anche al piè del Trono Imperiale. Si amministravano diligentemente le finanze da due Principi, che per tanto tempo erano stati assuefatti alla rigorosa economia di una condizione privata; ma nell'incassamento e nell'impiego della pubblica entrata un occhio discernitore potrebbe osservare qualche differenza fra il governo d'Oriente e quel d'Occidente. Valente era persuaso che non si potesse sostenere la liberalità reale per mezzo della pubblica oppressione; e non ebbe mai l'ambizione di aspirare ad assicurare, mediante le presenti angustie, la futura forza e prosperità del suo popolo. Invece di accrescere il peso delle tasse, che nello spazio di quaranta anni a grado a grado si erano raddoppiate, nei primi quattro anni del suo regno diminuì la quarta parte del tributo dell'Oriente[63]. Sembra che Valentiniano fosse meno attento ed ansioso di sollevare i pesi del suo popolo. Potè in vero riformare gli abusi dell'amministrazione fiscale, ma esigeva senza scrupolo una gran parte dei beni dei privati, essendo convinto, che le rendite, le quali sostenevano il lusso degl'individui, si sarebbero con molto maggior vantaggio impiegate nel difendere e migliorare lo Stato. I sudditi Orientali, che abitualmente godevano il benefizio della condotta del loro Principe, applaudivano alla beneficenza di esso, e la seguente generazione sentì e riconobbe il solido, quantunque meno splendido, merito di Valentiniano[64].

A. D. 364-375

Ma la più onorevol particolarità del carattere di Valentiniano è quella costante e moderata imparzialità, che egli sempre mantenne in un tempo di religiose contese. Il suo buon senso, non illuminato in vero, ma neppure corrotto dallo studio, evitava con rispettosa indifferenza le sottili questioni Teologiche. Il governo della Terra esigeva la sua vigilanza, e soddisfaceane l'ambizione; e nel tempo che si rammentava d'esser discepolo della Chiesa, non si dimenticò mai che era Sovrano del Clero. Nel regno d'un Apostata, egli avea segnalato il suo zelo per l'onore del Cristianesimo; concesse dunque ai suoi sudditi il privilegio che aveva assunto per se medesimo; ed essi accettar potevano con gratitudine e con fiducia la general tolleranza, permessa da un Principe dominato dalle passioni, ma incapace di timore o di simulazione[65]. I Pagani, gli Ebrei e tutte le varie Sette, che ammettevano l'autorità divina di Cristo, eran protetti, dalle leggi contro il potere arbitrario o il popolare insulto; nè ci aveva specie alcuna di culto che fosse proibita da Valentiniano, eccettuate quelle segrete e ree pratiche, le quali abusavano del nome di religione per cuoprir gli oscuri disegni del vizio e del disordine. L'arte magica, siccome si puniva più crudelmente, così veniva proscritta con più rigore; ma l'Imperatore adottò una formal distinzione per protegger gli antichi metodi di divinazione approvati dal Senato, ed esercitati dagli Aruspici Toscani. Col consenso dei Pagani più ragionevoli avea condannato la licenza dei sacrifizi notturni; ma immediatamente ammesso l'istanza di Pretestato Proconsole dell'Acaia, il quale rappresentò che la vita dei Greci sarebbe divenuta misera e disgustosa, qualora fossero essi restati privi dell'inestimabil vantaggio dei misteri Eleusini. La sola filosofia può vantarsi (e forse non è più che un semplice vanto della filosofia) che la gentile sua mano è capace di sradicare dalla mente umana i segreti e fatali principj del fanatismo. Ma questa tregua di dodici anni, che acquistò maggior forza dal saggio e vigoroso governo di Valentiniano, sospendendo la ripetizione delle vicendevoli ingiurie, contribuì ad addolcire i costumi, e ad abbattere i pregiudizi delle religiose fazioni.

A.D. 363-378

L'amico della tolleranza trovavasi per disgrazia distante dal teatro delle più fiere controversie. Appena i Cristiani dell'Occidente si furon distrigati dai lacci della formola di Rimini, felicemente ricaddero nel letargo dell'ortodossia; ed i piccoli residui del partito Arriano, che tuttavia sussistevano in Milano e in Sirmio, potevano risguardarsi come oggetti piuttosto di disprezzo che di sdegno. Ma nelle province Orientali, dall'Eussino fino all'estremità della Tebaide, la forza ed il numero delle ostili fazioni si bilanciava con maggiore uguaglianza; e questa, invece di secondare i consigli di pace, non serviva che a perpetuar gli orrori della guerra di religione. I Monaci ed i Vescovi sostenevano i loro argomenti con invettive; e le loro invettive alle volte venivano accompagnate dalle percosse. Atanasio dominava sempre in Alessandria; le Sedi di Costantinopoli e d'Antiochia erano occupate dai Prelati Arriani, ed ogni vacanza di Vescovato era l'occasione di un tumulto popolare. Gli Homousiani furon fortificati dalla riconciliazione di cinquantanove Vescovi Macedoniani o Semiarriani; la segreta ripugnanza, che avevano d'abbracciare la divinità dello Spirito Santo, oscurava lo splendore di tal trionfo; e la dichiarazion di Valente, che nei primi anni del suo regno aveva imitato l'imparzial condotta del fratello, fu un importante vittoria dalla parte dell'Arrianismo. I due fratelli avean passata la privata lor vita nello stato di catecumeni; ma la pietà di Valente lo mosse a chiedere il Sacramento del Battesimo avanti d'esporsi ai pericoli della guerra Gotica. Egli si rivolse naturalmente ad Eudosso[66] Vescovo della città Imperiale; e se l'ignorante Monarca fu istruito da quell'Arriano Pastore nei principj della Teologia eterodossa, l'inevitabile conseguenza dell'erronea sua scelta dee in lui risguardarsi piuttosto come una disgrazia che come un delitto. Qualunque fosse stata la determinazione dell'Imperatore, dovea sempre disgustare una gran parte dei Cristiani suoi sudditi; giacchè i Capi tanto degli Homousiani che degli Arriani credevano, che se non si lasciavano dominare, si facesse loro una crudele ingiuria ed oppressione. Dopo aver fatto questo decisivo passo, era molto difficile per esso il conservare la virtù o la riputazione d'imparziale. Veramente non aspirò mai, come Costanzo, alla fama di profondo Teologo; ma siccome avea ricevuto con semplicità e rispetto le opinioni di Eudosso, Valente rimise la sua coscienza alla direzione dell'Ecclesiastiche sue guide, e coll'influenza della propria autorità promosse la riunione degli eretici Atanasiani al corpo della Chiesa Cattolica. Da principio ebbe compassione di lor cecità; in seguito appoco appoco fu provocato dalla loro ostinazione; ed insensibilmente incominciò ad odiar quei Settari, pei quali era egli stesso un argomento di odio[67]. Era sempre dominato il debole spirito di Valente dalle persone, colle quali famigliarmente conversava; e l'esilio o la prigionia d'un privato son favori che facilissimamente si accordano in una Corte dispotica. Si davano tali pene frequentemente ai Capi del partito Homousiano; e la disgrazia di ottanta Ecclesiastici di Costantinopoli, che forse per accidente bruciarono sopra una nave, imputossi alla crudele e premeditata malizia dell'Imperatore e de' suoi Arriani ministri. In ogni contesa i Cattolici (se ci è permesso di anticipar questo nome) eran costretti a pagar la pena delle mancanze loro e di quelle degli avversari. In ogni elezione il Candidato Arriano aveva la preferenza; e se gli si opponeva il maggior partito del popolo, era comunemente sostenuto dall'autorità del Magistrato civile, o anche dai terrori di una forza militare. I nemici d'Atanasio tentarono di turbar gli ultimi anni della venerabil vecchiezza di lui; ed il suo breve ritirarsi al sepolcro del proprio padre si celebrò come un quinto esilio. Ma lo zelo di un gran popolo, che immediatamente corse alle armi, pose in timore il Prefetto, ed all'Arcivescovo si lasciò finir la vita in pace ed in gloria dopo quarantasette anni di Vescovato. La morte d'Atanasio fu il segnale della persecuzione dell'Egitto; ed il ministro Pagano di Valente, che a forza collocò l'indegno Lucio nella sede Archiepiscopale, si procacciò il favore del partito dominante per mezzo del sangue e dei patimenti dei Cristiani loro fratelli. Amaramente dolevansi questi della libera tolleranza in favore del Culto Pagano e Giudaico, come d'una circostanza aggravante la miseria dei Cattolici e la reità dell'empio Tiranno dell'Oriente[68].

Il trionfo del partito ortodosso ha lasciato sopra la memoria di Valente una profonda macchia di persecuzione; ed il carattere di un Principe, che traeva le sue virtù ed i suoi vizi da un debole intelletto e da un'indole pusillanime, appena merita che ci prendiamo la pena di farne l'apologia. Ciò nonostante, il candore può scoprire motivi di sospettare, che i Ministri Ecclesiastici di Valente spesso eccedessero gli ordini o anche le intenzioni del loro Signore; e che la verità dei fatti siasi molto magnificata dalla veemente declamazione e dalla facile credulità dei suoi antagonisti[69]. In primo luogo, il silenzio di Valentiniano può suggerire un probabile argomento, che i parziali rigori, esercitati nelle Province ed in nome del suo collega, soltanto si riducessero ad alcune oscure ed inconsiderabili deviazioni dallo stabilito sistema di tolleranza religiosa; e quel giudizioso Istorico, che ha lodato la temperata natura del fratello maggiore, non si è creduto in dovere di porre a contrasto la tranquillità dell'Occidente con la crudele persecuzione dell'Oriente[70]. Secondariamente, per quanto vogliam prestar fede alle incerte e lontane relazioni, si può distintamente conoscere il carattere o almeno la condotta di Valente negli affari che trattò personalmente coll'eloquente Basilio Arcivescovo di Cesarea, che era succeduto ad Atanasio nel maneggio della causa spettante alla Trinità[71]. Se ne fece la circostanziata narrazione dagli amici ed ammiratori di Basilio; e spogliata che sia da un grossolano abbigliamento di rettorica e di miracoli, resteremo sorpresi dall'inaspettata dolcezza del tiranno Arriano, che ammirò la fermezza del suo animo, o temè, facendogli violenza, una rivoluzione generale nella provincia della Cappadocia. L'Arcivescovo, che sosteneva con inflessibile alterigia[72] la verità delle sue opinioni e la dignità del suo posto, fu lasciato nel libero possesso della sua coscienza e della sua sede. L'Imperatore devotamente assistè nella Cattedrale alla messa solenne: ed in luogo di una Sentenza di esilio, sottoscrisse la donazione di considerabili beni per uso di uno spedale, che Basilio aveva ultimamente fondato nelle vicinanze di Cesarea[73]. In terzo luogo, non ho potuto trovare, che da Valente fosse fatta contro gli Atanasiani alcuna legge, come quella che in seguito fece Teodosio contro gli Arriani; e l'editto, che suscitò i più violenti clamori, non sembra poi tanto degno di riprensione. L'Imperatore aveva osservato, che molti dei suoi sudditi, seguitando la pigra loro inclinazione, si erano associati, sotto pretesto di religione, ai Monaci dell'Egitto; e diede ordine al Conte dell'Oriente di trarli fuori della lor solitudine, e costringere quei disertori della società ad accettare la giusta alternativa, o di rinunziare ai temporali lor beni, o di adempire i pubblici doveri degli uomini e dei cittadini[74]. Sembra che i Ministri di Valente estendessero il senso di questo penale statuto, giacchè si arrogarono il diritto di arrolare nelle armate Imperiali i Monaci giovani e di forte corporatura. Fu spedito da Alessandria nel vicino deserto di Nitria[75], popolato da cinquemila Monaci, un distaccamento di cavalleria e d'infanteria consistente in tremila soldati. Erano essi guidati da Preti Arriani, e si racconta, che fu fatta una considerabile strage nei Monasteri, nei quali non si ubbidiva ai comandi del Principe[76].

A. 370

Gli stretti regolamenti, che la saviezza dei moderni Legislatori ha fatti per frenare la ricchezza e l'avarizia del Clero, in origine si posson dedurre dall'esempio dell'Imperatore Valentiniano. Il suo editto[77], indirizzato a Damaso Vescovo di Roma, fu pubblicamente letto nelle Chiese della città. Egli ammoniva gli Ecclesiastici ed i Monaci a non frequentare le case delle vedove e delle vergini, e ne minacciava la disubbidienza con pene civili. Al Direttore non fu più permesso di ricevere alcun donativo, legato, o eredità dalle figlie spirituali; ogni testamento contrario a quest'editto fu dichiarato nullo, e ciò che si fosse illegittimamente donato, dovea confiscarsi in benefizio del tesoro pubblico. Sembra che con una successiva costituzione fossero estesi gli stessi provvedimenti alle Monache e ai Vescovi, e che tutte le persone dell'ordine Ecclesiastico si rendessero incapaci di ricevere alcuna donazione testamentaria, e rigorosamente fossero limitate ai naturali e legittimi diritti della successione. Valentiniano, come custode della domestica felicità e virtù, applicò al male nascente questo rigoroso rimedio. Nella Capitale dell'Impero le donne di case nobili e ricche possedevano vastissimi e indipendenti patrimonj: e molte di quelle devote femmine avevano abbracciato le dottrine del Cristianesimo, non solamente col freddo assenso dell'intelletto, ma eziandio col calore dell'affezione, e forse coll'ardor della moda. Sacrificavano esse i piaceri della pompa e del lusso; e rinunziavano per amor della castità alle dolci lusinghe della società conjugale. Si deputava qualche Ecclesiastico, di reale o di apparente santità, per diriger la timorosa loro coscienza, e per occupare la tenerezza vacante del loro cuore; e spesso qualche furbo o entusiasta, che dall'estremità dell'Oriente correva a godere in uno splendido teatro i privilegj della professione Monastica, si abusava dell'illimitata confidenza che esse precipitosamente accordavangli. Mediante il disprezzo, che questi avevan del Mondo, insensibilmente acquistavano i più desiderabili vantaggi di esso, come il vivo attaccamento di una forse giovane e bella donna, la delicata abbondanza d'una casa opulenta, ed il rispettoso omaggio degli schiavi, dei liberti e dei clienti d'una Senatoria famiglia. Le immense ricchezze delle Dame Romane appoco appoco si consumavano in prodighe elemosine e in dispendiosi pellegrinaggi; e l'artificioso Monaco, che aveva assegnato a se stesso il primo e, se era possibile, il solo posto nel testamento della spirituale sua figlia, pretendeva sempre di dichiarare, con la dolce apparenza dell'ipocrisia, che egli era il solo strumento della carità, e l'amministratore dei beni dei poveri. Quel lucroso ma disonorevol commercio[78], che si esercitava dal Clero per defraudare l'espettazione degli eredi naturali, avea provocato fino lo sdegno d'un secolo superstizioso; e due dei più rispettabili Padri Latini molto ingenuamente confessano, che l'ignominioso editto di Valentiniano fu giusto e necessario; e che i Sacerdoti Cristiani avean meritato di perdere un privilegio, che tuttavia si godeva dai commedianti, dai cocchieri e dai ministri degli idoli. Ma la saviezza e l'autorità del legislatore di rado son vittoriose, quando combattono la vigilante destrezza dell'interesse privato; e Girolamo o Ambrogio potevano con pazienza acquietarsi nella giustizia di una legge salutare, ma inefficace. Se raffrenavansi gli Ecclesiastici negli acquisti di personali emolumenti, essi non lasciavano d'esercitare una più lodevole industria in accrescere la ricchezza comune della Chiesa, ed in decorare la loro avidità coi nomi speciosi di pietà e di patriottismo[79].

A. 366-384

Damaso, Vescovo di Roma, che dovè svergognare l'avarizia del suo Clero pubblicando la legge di Valentiniano, ebbe il buon senso o la buona fortuna di impegnare in suo servizio lo zelo e l'abilità del dotto Girolamo; e questo grato Santo ha celebrato il merito e la purità d'un carattere molto ambiguo[80]. Ma curiosamente ha osservato gli splendidi vizj della Chiesa Romana sotto il regno di Valentiniano e di Damaso l'istorico Ammiano, che indica l'imparziale suo sentimento in queste espressive parole. «La Prefettura di Juvenzio godeva il vantaggio della pace e dell'abbondanza; ma presto fu disturbata la tranquillità del suo governo da una sanguinosa sedizione del diviso popolo. L'ardore di Damaso e di Orsino, per occupare la sede Episcopale, sorpassò l'ordinaria misura dell'ambizione umana. Essi contendevano col furor di parte; era sostenuta la disputa con le ferite o con la morte dei loro seguaci; ed il Prefetto, incapace d'impedire o d'acquietare il tumulto, fu costretto dalla forza maggiore a ritirarsi nei sobborghi. Damaso prevalse: la vittoria, molto contrastata, finalmente rimase dalla parte della fazione di lui; furon trovati nella Basilica di Sicinino[81], dove i Cristiani tenevano le religiose loro adunanze, centotrentasette corpi morti[82]; e passò molto tempo avanti che gli animi riscaldati del popolo riprendessero la solita loro tranquillità. Considerando lo splendore della Capitale, non mi fa maraviglia, che un premio sì valutabile accendesse le brame di uomini ambiziosi, e producesse le più fiere ed ostinate contese. Il candidato, che ottiene l'intento, è sicuro d'esser arricchito dalle offerte delle matrone[83]; e vestito con decente cura ed eleganza può passeggiar nel suo cocchio per le strade di Roma[84]; e la sontuosità della mensa Imperiale non uguaglierà i copiosi e delicati conviti apparecchiati dal gusto ed a spese dei Romani Pontefici. Con quanto più di ragione (continua il buon Pagano) provvederebbero questi Pontefici alla vera loro felicità, se invece d'allegare la grandezza della città come una scusa dei loro costumi, imitasser la vita esemplare di alcuni Vescovi delle province, nei quali la sobrietà e temperanza, il moderato equipaggio, e gli umili sguardi rendono la modesta e pura loro virtù commendabile alla Divinità ed ai veri adoratori di essa[85] ». Fu estinto lo scisma di Damaso e di Orsino mediante l'esilio di questo ultimo; e la saviezza del Prefetto Pretestato[86] restituì la calma alla città. Pretestato era un Pagano filosofo, un uomo erudito, di buon gusto e culto, che cuoprì sotto l'aria di scherzo un rimprovero, allorchè assicurò Damaso, che avrebbe subito abbracciato egli stesso la religione Cristiana, se avesse ottenuto il Vescovato di Roma[87]. Questa viva pittura della ricchezza e del lusso dei Papi nel quarto secolo, tanto più riesce curiosa, in quanto che ci rappresenta il grado medio fra l'umile povertà del pescatore Apostolico, e la regia condizione d'un Principe temporale, i dominj del quale s'estendono dai confini di Napoli fino alle rive del Po.

A. 364-375

Quando il voto dei Generali e dell'esercito pose nelle mani di Valentiniano lo scettro del Romano Impero, la sua riputazione nelle armi, la militar perizia ed esperienza che aveva, ed il rigido suo attaccamento ai costumi, ugualmente che allo spirito dell'antica disciplina, furono i principali motivi della giudiziosa loro elezione. L'ardor delle truppe, che lo costrinsero a nominare un collega, fu giustificato dalla pericolosa situazione dei pubblici affari; e Valentiniano medesimo sapeva, che le forze di uno spirito anche il più attivo non servivano per difendere le remote frontiere di una Monarchia sottoposta alle invasioni. Appena la morte di Giuliano ebbe liberato i Barbari dal terrore del suo nome, che le più vive speranze di rapine e di conquiste eccitarono le nazioni dell'Oriente, del Settentrione e del Mezzogiorno.

A. 364-375

Le loro scorrerie furono spesso moleste ed alle volte formidabili; ma nei dodici anni del regno di Valentiniano, la sua fermezza e vigilanza difese i proprj Stati, e parve che il vigoroso genio di lui inspirasse e dirigesse i deboli consigli del fratello. Il metodo in forma di annali esprimerebbe con più forza le urgenti e divise cure dei due Imperatori; ma l'attenzione del lettore sarebbe ugualmente distratta da una tediosa ed incostante narrazione. Un separato prospetto dei cinque gran teatri di guerra, cioè della Germania, della Britannia, dell'Affrica, dell'Oriente e del Danubio, darà un'idea più distinta dello stato militare dell'Impero nei regni di Valentiniano e di Valente.

A. 365

I. Gli Ambasciatori degli Alemanni erano stati offesi dalla dura ed altiera condotta di Ursacio, Maestro degli Uffizi[88], che per un atto d'inopportuna parsimonia avea diminuito il valore e la quantità dei presenti, ai quali essi avevan diritto, o per uso o per trattato, nell'innalzamento al trono dei nuovi Imperatori. Espressero e comunicarono essi a' loro nazionali un forte sentimento dell'affronto che facevasi alla nazione. Gli animi dei loro Capi, facilmente irritabili, furono inaspriti dal sospetto di esser disprezzati; e la marzial gioventù corse in folla a' loro stendardi. Avanti che Valentiniano fosse in istato di passare le alpi, i villaggi della Gallia erano in fiamme; e prima che il suo general Dagalaifo potesse andare incontro agli Alemanni, questi avevano già posto in sicuro gli schiavi e le spoglie nelle foreste della Germania. Al principio dell'anno seguente la militar forza di tutta la nazione ruppe in profonde e sode colonne il riparo del Reno nel mezzo al rigore d'un inverno settentrionale. Furon disfatti e feriti mortalmente due Conti Romani; e le bandiere degli Eruli e dei Batavi caddero nelle mani dei vincitori, che spiegarono con insultanti clamori e minacce il trofeo della loro vittoria. Le bandiere furono ricuperate: ma i Batavi non si eran purgati dalla macchia del disonore e della fuga loro agli occhi del severo lor giudice. Valentiniano era d'opinione, che i suoi soldati dovessero apprendere a temere il lor comandante, prima che potessero cessare di temere il nemico. Furono solennemente adunate le truppe, ed i tremanti Batavi circondati dall'esercito Imperiale. Valentiniano allora, salito sul Tribunale, quasi che sdegnasse di punir la codardia con la morte, impresse una nota d'indelebile ignominia negli uffiziali, la cattiva condotta e pusillanimità de' quali si trovò essere stata la prima occasione della disfatta. I Batavi furon deposti dal loro grado, spogliati delle armi, e condannati ad esser venduti per ischiavi al maggiore offerente. A questa tremenda sentenza le truppe caddero prostrate a terra; supplicarono che si calmasse lo sdegno del loro Sovrano; e si protestarono, che se gli avesse accordato loro di fare un'altra prova, si sarebbero dimostrati non indegni del nome di Romani e di suoi soldati. Valentiniano, che affettava ripugnanza, finalmente cedè alle loro istanze: i Batavi ripresero le armi, e con esse l'invincibil risoluzione di lavare il lor disonore nel sangue degli Alemanni[89]. Dagalaifo aveva scansato il principal comando, e quest'esperto Generale da cui erano rappresentate forse con troppa prudenza l'estreme difficoltà dell'impresa, ebbe la mortificazione di vedere avanti il termine della campagna, che il suo rivale Giovino cangiò quegli ostacoli in decisivi vantaggi sopra le forze disperse dei Barbari. Alla testa d'un ben disciplinato esercito di cavalleria, di infanteria e di truppe leggiere, Giovino s'avanzò con cauti e rapidi passi fino a Scarponna[90], nel territorio di Metz, dove sorprese una grossa divisione di Alemanni, prima che avessero tempo di prender le armi; ed animò i suoi soldati con la fiducia di una facile e non sanguinosa vittoria. Un'altra divisione o piuttosto armata nemica, dopo una crudele e licenziosa devastazione dell'adiacente paese, si riposava sulle ombrose rive della Mosella. Giovino, che aveva osservato il terreno coll'occhio di Generale, tacitamente si approssimò per mezzo d'una profonda e selvosa valle, fino a poter distintamente conoscere l'indolente sicurezza dei Germani. Alcuni stavan bagnando le robuste lor membra nel fiume: altri pettinavano i lunghi e biondi loro capelli; ed altri bevevano gran quantità di prezioso e delicato vino. Ad un tratto essi udirono il suono della tromba Romana; e videro nel loro campo il nemico. Lo stupore produsse il disordine; a questo successe la fuga e l'abbattimento; e la confusa moltitudine dei più bravi guerrieri fu trafitta dalle spade e dai giavelotti dei legionari e degli ausiliari. I fuggitivi corsero al terzo e più considerabile corpo, che si trovava nelle pianure Catalaunie vicino a Scialons nella Sciampagna; furono in fretta richiamati i distaccamenti sparsi ai loro stendardi, ed i Capi dei Barbari, ammoniti ed irritati dal fato dei loro compagni, si prepararono ad incontrare in una decisiva battaglia le vittoriose forze del Luogotenente di Valentiniano. Il sanguinoso ed ostinato combattimento durò tutta una giornata di state con egual valore e con dubbio successo. Ma prevalsero finalmente i Romani con la perdita di mille dugento soldati. Vi restarono morti seimila degli Alemanni, e quattromila feriti; ed il valente Giovino, dopo avere inseguito i fuggitivi residui del loro esercito fino alle sponde del Reno, tornò a Parigi a ricever l'applauso del suo Sovrano e le insegne del Consolato pel seguente anno[91]. Il trionfo dei Romani fu macchiato in vero dal trattamento che fecero al Re prigioniero, il quale fu da essi appiccato ad un patibolo, senza che lo sapesse lo sdegnato loro Generale. Questo vergognoso atto di crudeltà, che potrebbe imputarsi al furor delle truppe, fu seguito dalla deliberata uccisione di Witicab figlio di Vadomairo, Principe Germano, di costituzione di corpo debole ed infermiccia, ma d'ardimentoso e formidabile spirito. Il domestico assassino di lui fu instigato e protetto da' Romani[92]; e la violazione delle leggi d'umanità e di giustizia dimostra la segreta loro apprensione della debolezza del cadente Impero. Rade volte nei pubblici consigli si adotta l'uso del pugnal traditore, sin tanto che si conserva qualche fiducia nella forza aperta del brando.

A. 368

Mentre gli Alemanni sembravano umiliati dalle recenti loro calamità, restò mortificato l'orgoglio di Valentiniano dall'inaspettata sorpresa di Mogunziaco o Magonza, città principale dell'alta Germania. Nel tempo meno sospetto d'una solennità Cristiana, Rando ardito ed abile Capitano, che aveva lungamente premeditato l'attacco, passò improvvisamente il Reno; entrò nella non difesa città, e ritirossi con una gran quantità di schiavi d'ambedue i sessi. Valentiniano risolvè di prendere una severa vendetta sopra tutto il corpo della nazione. Fu ordinato al Conte Sebastiano d'invadere il loro paese con le truppe dell'Italia e dell'Illirico probabilmente dalla parte della Rezia. L'Imperatore in persona, accompagnato da Graziano suo figlio, passò il Reno alla testa d'un formidabile esercito, che era sostenuto d'ambe le parti da Gioviano e da Severo, Generali della cavalleria e dell'infanteria dell'Occidente. Gli Alemanni, essendo incapaci di impedire la devastazione dei loro villaggi, piantarono il campo sopra un'alta e quasi inaccessibil montagna nel moderno ducato di Virtemberga, e con fermezza aspettarono l'avvicinarsi dei Romani. Valentiniano espose la propria vita ad un imminente pericolo per l'intrepida curiosità, con cui volle persistere ad esplorare un passo segreto e non guardato. Una truppa di Barbari uscì ad un tratto da un'imboscata; e l'Imperatore, che spronò fortemente il cavallo verso una ripida e sdrucciolevole scesa, dovè lasciarsi dietro il proprio scudiere, e l'elmetto magnificamente ornato d'oro e di pietre preziose. Al segno di un assalto generale, le truppe Romane circondarono e salirono da tre diverse parti la montagna di Solicinio. Ogni passo che facevano, accresceva loro l'ardore, ed abbatteva la resistenza del nemico; e poscia che le riunite lor forze ebbero occupata la sommità del monte, impetuosamente spinsero i Barbari verso il declive settentrionale, dove era situato il Conte Sebastiano per impedir loro la ritirata. Dopo tal segnalata vittoria Valentiniano tornò ai suoi quartieri d'inverno a Treveri; dove promosse la pubblica gioia colla rappresentazione di trionfali e splendidi giuochi[93]. Ma il saggio Monarca, invece d'aspirare alla conquista della Germania, limitò la sua attenzione all'importante e laboriosa difesa della frontiera Gallica contro un nemico, la forza di cui era rinnovata da uno sciame di coraggiosi volontari, che di continuo venivano dalle più lontane tribù del Settentrione[94]. Sulle rive del Reno, dalla sua sorgente fino allo stretto dell'Oceano, s'eressero frequenti e considerabili fortezze ed opportune torri; l'ingegno d'un Principe, abile nelle arti meccaniche, inventò nuove operazioni e novelle armi; e le sue numerose reclute di gioventù, sì Romana che Barbara, venivano esercitate rigorosamente in tutti gli esercizi di guerra. Il progresso dell'opera, alla quale si opposero ora le modeste rappresentanze, ed ora gli attacchi dei nemici, assicurò la tranquillità della Gallia pei nove seguenti anni dell'amministrazione di Valentiniano[95].

A. D. 371

Questo prudente Imperatore, che diligentemente praticava le savie massime di Diocleziano, procurava di fomentare e d'eccitar le interne divisioni delle tribù della Germania. Verso la metà del quarto secolo il paese (probabilmente della Lusazia e della Turingia) da ambe le parti dell'Elba era occupato dall'incostante dominio dei Borgognoni, guerriero e numeroso popolo della razza dei Vandali[96], l'oscuro nome del quale appoco appoco s'estese ad un potente regno, e finalmente è restato ad una florida Provincia. Sembra, che la circostanza più considerabile negli antichi costumi dei Borgognoni fosse la diversità della civile ed ecclesiastica loro costituzione. Si dava il nome di Hendino al Re o Generale, e quello di Sinisto al sommo Sacerdote della nazione. La persona di quest'ultimo era sacra, e perpetua la sua dignità; ma il governo temporale tenevasi con un titolo molto precario. Se i successi della guerra intaccavano il coraggio o la condotta del Re, egli veniva immediatamente deposto; e l'ingiustizia dei propri sudditi lo faceva responsabile della fertilità della terra e della regolarità delle stagioni, che pareva dovere più propriamente spettare al dipartimento Sacerdotale[97]. Il dibattuto possesso di alcune saline[98] impegnava gli Alemanni ed i Borgognoni a frequenti contese; questi secondi facilmente furon tentati dalle sollecitazioni segrete e dalle generose offerte dell'Imperatore; e con vicendevol credulità s'ammise la favolosa lor discendenza dai soldati Romani, che erano stati anticamente lasciati di guarnigione nelle fortezze di Druso, come quella ch'era coerente al mutuo loro interesse[99]. Tosto comparve un'armata di ottantamila Borgognoni sulle rive del Reno; e con impazienza chiedevan l'aiuto ed i sussidi che Valentiniano avea loro promesso; ma lusingati furono a forza di scuse o dilazioni, finchè dopo avere inutilmente aspettato, furon costretti al fine di ritirarsi. Le armi e le fortificazioni della frontiera Gallica frenarono il furore del lor giusto sdegno; e la strage, che fecero dei prigionieri, servì ad inasprire l'odio ereditario dei Borgognoni e degli Alemanni. Si può spiegar forse l'incostanza del savio Principe, per qualche alterazione delle circostanze; e può anche darsi che il primo disegno di Valentiniano fosse quello di spaventare piuttosto che di distruggere; giacchè si sarebbe tolto ugualmente l'equilibrio del potere coll'estirpazione sì dell'una che dell'altra nazione Germanica. Fra i Principi Alemanni, Macriano, che col nome Romano apprese avea le arti di soldato e di politico, meritò l'odio e la stima di Valentiniano. L'Imperatore s'indusse a passare in persona con una leggiera e spedita truppa il Reno, si avanzò per cinquanta miglia nell'interno del paese, ed avrebbe infallibilmente ottenuto l'oggetto delle sue ricerche, se le giudiziose misure di lui non si fossero sconcertate dall'impazienza delle sue truppe. Macriano in seguito fu ammesso all'onore di una personale conferenza coll'Imperatore: ed i favori che ne ricevè, lo assodarono fino alla morte nella sincera e costante amicizia della Repubblica[100].

Era il paese coperto dalle fortificazioni di Valentiniano; ma le coste marittime della Gallia e della Britannia rimanevano esposte alle depredazioni dei Sassoni. Questo celebre nome, pel quale noi abbiamo un dolce e domestico interesse, sfuggì di vista a Tacito; e nelle carte di Tolomeo appena s'indica l'angusto collo della penisola Cimbrica, e le tre piccole isole verso la bocca dell'Elba[101]. Questo piccolo territorio, corrispondente al moderno Ducato di Slevvig o forse d'Holstein, non era capace di produrre quegli immensi sciami di Sassoni, che dominarono sull'Oceano, che empirono le isole Britanniche del proprio linguaggio, delle loro leggi e colonie, e che per tanto tempo difesero la libertà del Settentrione dalle armi di Carlo Magno[102]. Facilmente trarremo la soluzione di questa difficoltà dalla somiglianza dei costumi e dalla libera costituzione delle tribù della Germania, che si univano l'una coll'altra nelle più minute occorrenze di amicizia o di guerra. La situazione dei primitivi Sassoni li disponeva ad abbracciar le pericolose professioni di soldati o di pirati; ed il buon successo delle loro avventure doveva eccitare naturalmente la emulazione dei loro più bravi paesani, che erano disgustati della trista solitudine delle loro boscaglie e montagne. In ogni stagione scorrevano giù per l'Elba intere flotte di barche, piene di valorose ed intrepide compagnie, che aspiravano a vedere l'immenso aspetto dell'Oceano, ed a gustare la ricchezza ed il lusso di incogniti Mondi. Sembrerebbe però verosimile, che i più copiosi ausiliari dei Sassoni fossero somministrati dalle nazioni, che abitavan lungo i lidi del Baltico. Avevano esse armi e navi, l'arte della navigazione e l'abitudine della guerra marittima; ma la difficoltà di passar le colonne d'Ercole settentrionali[103], le quali per più mesi dell'anno eran chiuse dal ghiaccio, limitava la loro perizia e il loro coraggio dentro i confini d'uno spazioso lago. La fama dei fortunati successi di quelli, che navigavano dalla bocca dell'Elba, dovea ben presto incitarli ad attraversare lo stretto istmo di Slesvvig, ed a lanciare le loro navi nell'ampio mare. Le varie truppe di pirati e di avventurieri che combattevano sotto l'istesso stendardo, appoco appoco s'unirono in una società permanente, di ruberie a principio, e di governo in appresso. D'una confederazion militare a grado a grado formossi un corpo di nazione, mediante le dolci operazioni del matrimonio e della consanguineità; e le circonvicine tribù, che ne sollecitavano l'alleanza, presero il nome e le leggi dei Sassoni. Se il fatto non fosse renduto certo dalle più indubitabili prove, parrebbe che noi ci abusassimo della credulità dei nostri lettori, descrivendo i vascelli, nei quali i Sassoni pirati arrischiaronsi a scherzare coi flutti dell'Oceano Germanico, del canale Britannico, e della baia di Biscaglia. La chiglia delle lor larghe e piatte barche era formata di leggiero legname; ma i lati e le opere morte non eran che di vimini con una coperta di forti pelli[104]. Nel corso delle tarde loro e distanti navigazioni dovettero sempre trovarsi esposti a' pericoli, e molto spesso alla disgrazia del naufragio, e gli annali marittimi dei Sassoni furon senza dubbio ripieni di ragguagli delle perdite che essi fecero sulle coste della Britannia e della Gallia. Ma l'audace spirito dei pirati affrontò i pericoli tanto del mare che del lido; la lor perizia fu confermata dall'abitudine delle imprese; l'infimo dei loro marinari era ugualmente capace di maneggiare un remo e d'alzare una vela, che di regolare un vascello; ed i Sassoni si rallegravano all'aspetto d'una tempesta, che occultava i loro disegni, e dispergeva le flotte nemiche[105]. Dopo d'aver acquistato un'esatta cognizione delle Province marittime d'Occidente, estesero più oltre le loro depredazioni, ed i luoghi più remoti avean ragion di temere per la lor sicurezza. I navigli Sassoni pescavan sì poco, che potevan facilmente rimontar quaranta o cento miglia su pei gran fiumi; tanto piccolo era il loro peso, che trasportavansi sopra dei carri da un fiume all'altro; ed i pirati, che erano entrati nell'imboccatura della Senna o del Reno, potevan discendere pel rapido corso del Rodano giù nel Mediterraneo. Le Province marittime della Gallia furon molestate dai Sassoni sotto il regno di Valentiniano; fu posto un Conte militare a difesa della costa o del confine Armorico; e quest'uffiziale che non trovò la sua forza o abilità sufficiente all'impresa, implorò l'aiuto di Severo, Generale dell'infanteria. I Sassoni, circondati ed oppressi dal numero, furon costretti ad abbandonare le loro spoglie, ed a cedere una scelta truppa dell'alta loro e robusta gioventù per militare negli eserciti Imperiali. Essi non stipularono che una sicura ed onorevole ritirata; e facilmente accordossi tal condizione dal Generale Romano, che meditava un atto di perfidia[106] non meno inumano che imprudente, finchè restava in vita ed in armi un solo Sassone, che vendicar potesse la sorte dei suoi nazionali. Il prematuro ardore de' fanti, che erano stati posti segretamente in una profonda valle, manifestò l'imboscata: e sarebbero forse restati vittime del lor tradimento, se un grosso corpo di corazze, eccitato dallo strepito della pugna, non si fosse velocemente avanzato a trar d'angustia i compagni, e ad opprimere l'indomito valore dei Sassoni. Si salvarono alcuni prigionieri dal furor della spada per spargere il sangue nell'anfiteatro; e l'oratore Simmaco si duole, che ventinove di quei disperati selvaggi, strangolandosi con le proprie mani, avessero impedito il divertimento del Pubblico. Ciò nondimeno i filosofi ed i culti cittadini di Roma concepirono un profondo orrore, quando furono informati che i Sassoni consacravano agli Dei la decima delle loro prede umane, e che determinavano a sorte gli oggetti del barbaro sacrifizio[107].

II. Le favolose colonie degli Egizj e dei Troiani, degli Scandinavi e degli Spagnuoli, che lusingavano l'ambizione, e divertivano la credulità dei nostri rozzi antenati, sono insensibilmente svanite alla luce della scienza e della filosofia[108]. Il presente secolo è persuaso della semplice e ragionevole opinione, che le isole della Gran Brettagna e dell'Irlanda fossero appoco appoco popolate dal vicino continente della Gallia. Si è conservata la distinta memoria d'un'origine Celtica dalla costa di Kent fino all'estremità di Catness e d'Ulster nella costante somiglianza della lingua, della religione e dei costumi; ed i caratteri particolari delle tribù Britanniche possono attribuirsi naturalmente all'influenza di circostanze accidentali e locali[109]. La provincia Romana era ridotta allo stato di civile e pacifica servitù; i diritti della selvaggia libertà s'eran ristretti agli angusti confini della Caledonia. Gli abitanti di quella Settentrionale regione fino dal regno di Costantino eran divisi nelle due grandi tribù degli Scoti e dei Pitti[110], che dopo hanno avuto una sorte molto diversa. È restata estinta la potenza e quasi anche la memoria dei Pitti dai fortunati loro rivali; e gli Scoti, dopo d'aver conservato per più secoli la dignità d'un regno indipendente, hanno, mercè di un'uguale e volontaria unione, accresciuto l'onore del nome Inglese. La mano della natura aveva contribuito a fissare l'antica distinzione degli Scoti e dei Pitti. I primi abitavan nei monti, ed i secondi nel piano. La costa orientale della Caledonia può risguardarsi come un uguale e fertile paese, che anche in un rozzo stato d'agricoltura poteva produrre una quantità considerabile di grano; e l'epiteto di cruitnich, o mangiatori di frumento, esprimeva il disprezzo o l'invidia dei carnivori montanini. Può la cultura della terra introdurre una separazione più esatta di beni, e l'abitudine di una vita sedentaria; ma la passion dominante dei Pitti era sempre l'amore delle armi e della rapina; ed i loro guerrieri, che nel tempo della battaglia solevan nudarsi, eran distinti agli occhi dei Romani per uno strano costume che avevano, di colorire i lor corpi con vivi colori e con capricciose figure. La parte occidentale della Caledonia s'innalza irregolarmente in selvagge e nude montagne, che scarsamente compensano il travaglio dell'agricoltore, e sono con maggiore vantaggio impiegate nella pastura dei greggi. I montanari si diedero dunque alle occupazioni di pastori e di cacciatori; e siccome rade volte si fissavano in alcuna stabile abitazione, acquistarono l'espressivo nome di Scoti, che nella lingua Celtica dicesi equivalere a quello di ambulatori vagabondi. Gli abitanti di uno steril terreno furon costretti a cercare un altro sussidio di cibo nell'acqua. I profondi laghi, e le baie, che intersecano il loro paese, sono abbondantemente provvedute di pesce; ed appoco appoco s'arrischiarono a gettar le reti nell'Oceano. La vicinanza dell'Ebridi, sparse in tanta copia lungo la costa occidentale della Scozia, tentò la curiosità e migliorò la perizia loro; ed a grado a grado appresero l'arte o piuttosto l'abitudine di maneggiare le loro barche in un mar tempestoso, e di regolare il notturno loro corso col lume delle stelle ben note. I due acuti promontori della Caledonia quasi toccano i lidi di una spaziosa isola, a cui per la sua lussureggiante vegetazione fu dato il nome di verde, ed ha conservato con una piccola differenza lo denominazione d' Erin o Jerne, o Irlanda. Egli è probabile, che in qualche distante periodo d'antichità le fertili pianure d'Ulster ricevessero una colonia di affamati Scoti, e che gli stranieri del Norte, che avevano ardito d'affrontare le armi delle legioni, dilatassero le loro conquiste sopra i selvaggi e non guerrieri abitanti d'un'isola solitaria. Egli è certo, che nella decadenza del Romano Impero, la Caledonia, l'Irlanda e l'isola di Man erano abitate dagli Scoti, e che quelle congiunte Tribù, spesso associate fra loro nelle imprese militari, erano altamente impegnate nei vari accidenti della respettiva loro fortuna. Essi tennero lungamente cara la viva tradizione del comune lor nome ed origine; ed i Missionari dell'isola de' Santi, che sparser la luce del Cristianesimo nella Britannia Settentrionale, stabilirono la vana opinione, che gli Irlandesi lor nazionali fossero i padri naturali non meno che spirituali della stirpe Scozzese. Ci è stata conservata questa incerta ed oscura tradizione dal venerabile Beda, che sparse qualche raggio di luce fra le tenebre dell'ottavo secolo. Su questo debole fondamento a grado a grado s'eresse una grossa fabbrica di favole dai Bardi e dai Monaci; due specie di persone, che ugualmente abusarono del privilegio di fingere. La nazione Scozzese, con orgoglio male inteso, adottò la sua Irlandese genealogia; e si sono adornati gli annali di una lunga serie di Re immaginari dalla fantasia di Boezio, e dalla classica eleganza di Bucanano[111].

A. D. 343-366

Sei anni dopo la morte di Costantino, le rovinose irruzioni degli Scoti e dei Pitti richiesero la presenza del suo figlio minore, che regnava nell'Impero occidentale. Costante visitò i suoi stati Britannici; ma possiam formare qualche giudizio dell'importanza delle sue operazioni dal linguaggio del panegirico, che celebra soltanto il suo trionfo sugli elementi, o in altri termini la buona fortuna d'un salvo e felice passaggio dal porto di Bologna a quello di Sandwich[112]. Le calamità, che i miseri Provinciali continuavano a soffrire per la guerra di fuori, e per la domestica tirannia, furono aggravate dalla debole e corrotta amministrazione degli eunuchi di Costanzo; ed il passeggiero sollievo, che aver poterono dalle virtù di Giuliano, tosto svanì per l'assenza e la morte del loro benefattore. Le somme d'argento e d'oro, che erano state a gran fatica raccolte o generosamente trasmesse pel pagamento delle truppe, furono intercettate dall'avarizia de' Comandanti; pubblicamente vendevansi le dimissioni, o almen l'esenzioni dal servizio militare; la miseria dei soldati, che erano ingiustamente spogliati della legittima e scarsa lor sussistenza, gl'induceva a spesse diserzioni; erano rilassati i nervi della disciplina; e le pubbliche strade infestate dai ladroni[113]. L'oppressione dei buoni e l'impunità dei malvagi contribuivano ugualmente a sparger nell'isola uno spirito di malcontentezza e di ribellione; ed ogni suddito ambizioso, ogni esule disperato poteva concepire una ragionevole speranza di sovvertire il debole e distratto governo della Britannia. Le nemiche tribù Settentrionali, che destavan l'orgoglio e il potere del Re del Mondo, sospesero i domestici loro odj; ed i Barbari della terra e del mare, gli Scoti cioè i Pitti ed i Sassoni, si diffuser con rapido ed irresistibil furore dalla muraglia d'Antonino fino ai lidi di Kent. Nella ricca e fertil provincia della Britannia erasi accumulata ogni produzione della natura e dell'arte, ogni oggetto di comodità o di lusso, che quelli erano incapaci di formar col lavoro, o di procurarsi per via del commercio[114]. Un filosofo può deplorare in vero l'eterna discordia del genere umano; ma dovrà confessare, che la brama della preda è un eccitamento più ragionevole che la vanità della conquista. Dal tempo di Costantino fino a quello dei Plantageneti, questo rapace spirito continuò a dominare i poveri e robusti Caledoni; ma quell'istesso popolo, la generosa umanità del quale pare che inspirasse i canti d'Ossian, fu disonorato da una selvaggia ignoranza delle virtù della pace e delle leggi della guerra. I loro meridionali vicini han provato e forse esagerato le crudeli depredazioni degli Scoti e de' Pitti[115]; e gli Attacotti[116], valorosa tribù della Caledonia, prima nemici e poi soldati di Valentiniano, da un testimone di veduta sono accusati di essersi deliziati nel gustare la carne umana. Si dice, che quando andavano a caccia nei boschi, attaccavano più i pastori che il bestiame, e che avidamente sceglievano le più delicate e carnose parti, sì degli uomini che delle donne, cui essi preparavano per gli orridi loro conviti[117]. Se realmente si è trovata nelle vicinanze della commerciante e letterata città di Glascovia una razza di cannibali, si possono ravvisare nel corso dell'istoria Scozzese gli opposti estremi d'una vita selvaggia ed incivilita. Queste riflessioni tendono ad ampliare il giro delle nostre idee, ed a secondare la piacevole speranza, che la nuova Zelanda in qualche secolo futuro possa produrre l'Hume dell'emisfero Meridionale.

Ogni messaggio, che attraversar poteva il canale Britannico, portava alle orecchie di Valentiniano le più triste e terribili nuove; e l'Imperatore fu tosto informato, che i due militari Comandanti della Provincia erano stati sorpresi e tagliati a pezzi dai Barbari. Fu spedito in fretta Severo, Conte dei domestici, e con ugual celerità richiamato, dalla Corte di Treveri. Le rappresentanze di Giovino non servirono che ad indicar la grandezza del male; e dopo una lunga e seria deliberazione, fu affidata la difesa o piuttosto la ricuperazione della Britannia all'abilità del valoroso Teodosio. Le imprese di tal Generale, che fu padre d'una serie d'Imperatori, si son celebrate con particolar compiacenza dagli scrittori di quel tempo: era però degno del loro applauso il reale suo merito; e fu ricevuta dall'esercito e dalla provincia la scelta di lui, come un sicuro presagio di vicina vittoria. Ei prese il momento favorevole alla navigazione; e pose in terra sicure le numerose e veterane truppe degli Eruli e dei Batavi, de' Gioviani e dei Vittori. Nella sua marcia da Sandwich a Londra, Teodosio disfece vari corpi di Barbari, liberò una moltitudine di schiavi, e dopo aver distribuito ai soldati una piccola parte della preda, acquistossi la fama d'una disinteressata giustizia con restituire il rimanente ai legittimi proprietari. I cittadini di Londra, che avevan quasi disperato della loro salute, spalancaron le porte; ed appena Teodosio ebbe ottenuto dalla Corte di Treveri l'importante aiuto di un Luogotenente militare, e d'un Governatore civile, eseguì con saviezza e vigore il laborioso disegno di liberare la Britannia. Si richiamarono ai loro stendardi i soldati vaganti; un editto di general perdono dissipò i pubblici timori; ed il gradito suo esempio alleggerì il rigore della marzial disciplina. Il variabile metodo di guerreggiare dei Barbari, che divisi in più corpi infestavan la terra ed il mare, lo privò della gloria d'una segnalata vittoria; ma si conobbe il prudente spirito e la consumata perizia d'un Generale Romano nelle operazioni di due campagne, che liberarono l'una dopo l'altra ogni parte della provincia dalle mani d'un crudele e rapace nemico. Fu diligentemente restituito lo splendore alle città e la sicurezza alle fortificazioni dalla paterna cura di Teodosio, il quale con la forte sua destra confinò i Caledoni tremanti nell'angolo settentrionale dell'isola, e perpetuò col nome e con lo stabilimento della nuova provincia di Valenza le glorie del regno di Valentiniano[118]. La voce della poesia e del panegirico può aggiungere forse con qualche grado di verità, che le incognite regioni di Tule imbrattate furon dal sangue dei Pitti; che i remi di Teodosio percossero i flutti dell'Oceano iperboreo; e che le remote Orcadi furon la scena della sua vittoria navale sopra i pirati Sassoni[119]. Ei lasciò la provincia con una buona e splendida reputazione, e fu immediatamente promosso al posto di Generale della cavalleria da un Principe, che applaudir poteva senza invidia al merito dei propri sudditi. Nell'importante posto dell'alto Danubio il conquistatore della Britannia represse e disfece le armate degli Alemanni, avanti d'esser destinato a sopprimere la ribellione dell'Affrica.

A. 366

III. Il Principe, che ricusa d'esser il giudice, insegna al popolo di risguardarlo come il complice dei suoi ministri. Si era per lungo tempo esercitato il comando militare dell'Affrica dal Conte Romano, ed a quel posto non era inferiore la sua abilità; ma siccome il sordido interesse era l'unico motivo di sua condotta, egli diportavasi in molte occasioni come se fosse stato nemico della provincia, ed amico dei Barbari del deserto. Le tre floride città di Oea, di Leptis, e di Sabrata, che sotto il nome di Tripoli avevano già da gran tempo stabilita una unione federativa[120], furon costrette per la prima volta a chiudere le porte contro un'ostile invasione; molti dei loro più onorevoli cittadini furon sorpresi e trucidati, saccheggiati i villaggi ed anche i sobborghi; ed estirpate le viti e gli alberi fruttiferi di quel ricco territorio dai maliziosi selvaggi della Getulia. I miseri Provinciali implorarono la protezione di Romano; ma presto si accorsero che il loro Governatore militare non era meno crudele e rapace dei Barbari. Poichè non erano essi capaci di somministrare i quattromila cammelli, e l'esorbitante donativo, che egli esigeva prima di marciare in soccorso di Tripoli, la sua domanda equivaleva a un rifiuto, e poteva esser giustamente accusato come l'autore della pubblica calamità. Nella annuale assemblea delle tre città, furono eletti due Deputati per portare a' piedi di Valentiniano la solita offerta di una vittoria d'oro, ed accompagnar questo tributo di dovere, piuttosto che di gratitudine, coll'umile loro querela di essere rovinati dal nemico e traditi dal loro Governatore. Se la severità di Valentiniano fosse stata ben regolata, avrebbe dovuto cadere sulla rea testa di Romano. Ma il Conte, molto esperto nelle arti della corruzione, avea mandato un veloce e fedel messaggiero per assicurarsi della venale amicizia di Remigio, Maestro degli Uffizi. La saviezza del consiglio Imperiale fu ingannata dall'artifizio, e raffreddatone il giusto sdegno dalla dilazione. Finalmente, quando la replica delle doglianze fu giustificata dalla reiterazione delle pubbliche angustie, fu spedito dalla Corte di Treveri il notaro Palladio ad esaminare lo Stato dell'Affrica e la condotta di Romano. Facilmente si disarmò la rigida imparzialità di Palladio; fu egli tentato a riservare per sè una parte del tesoro pubblico, che portava seco pel pagamento delle truppe; e dal momento, in cui fu testimone a se stesso del proprio delitto, non potè più ricusar d'attestare l'innocenza ed il merito del Conte. Si dichiarò frivola e falsa l'accusa dei Tripolitani; e da Treveri fu rimandato nell'Affrica Palladio stesso con una speciale commissione per iscuoprire e perseguitare gli autori di quell'empia cospirazione contro i rappresentanti del Sovrano. Le sue ricerche maneggiate furono con tanta destrezza e felicità, che obbligò i cittadini di Leptis, i quali di fresco avean sostenuto un assedio di otto giorni, a contraddire la verità dei propri loro decreti, ed a censurar la condotta dei lor deputati. Dalla temeraria e caparbia crudeltà di Valentiniano si pronunziò senza esitare una sanguinosa sentenza. Per espresso comando dell'Imperatore fu pubblicamente decapitato in Utica il presidente di Tripoli, che aveva preteso di aver compassione delle angustie della provincia; furon posti a morte quattro distinti cittadini come complici dell'immaginaria frode; e a due altri fu tagliata la lingua. Romano, superbo per l'impunità, ed irritato dalla resistenza continuò a godere il comando militare, finattanto che gli Affricani provocati furono dall'avarizia di lui ad unirsi allo stendardo ribelle di Firmo il Mauritano[121].

A. D. 372

Nabal, padre di lui, era uno dei più ricchi e potenti Principi Mauritani che riconoscessero la Sovranità di Roma. Siccome però aveva lasciato dalle sue mogli o concubine una numerosa prole, ardentemente si disputava intorno alla ricca sua eredità; e Zamma, uno de' suoi figli, in una domestica rissa fu ucciso da Firmo di lui fratello. L'implacabile zelo, col quale Romano procedè alla legittima vendetta di questo omicidio, si potrebbe attribuire soltanto ad un motivo di avarizia o di odio personale: ma in quest'occasione le sue pretensioni eran giuste; la sua influenza era potente; e Firmo chiaramente conobbe che egli o doveva presentare il collo al carnefice, o appellare dalla sentenza del concistoro Imperiale alla sua spada ed al popolo[122]. Esso fu ricevuto come il liberator della patria; ed appena si vide, che Romano non era formidabile che ad una sommessa Provincia, il Tiranno dell'Affrica divenne un oggetto d'universale disprezzo. La rovina di Cesarea, che fu saccheggiata e bruciata dai licenziosi Barbari, convinse le città refrattarie del pericolo che correvano resistendo; la potenza di Firmo si stabilì, almeno nelle Province della Mauritania e della Numidia; e pareva che egli non fosse più dubbioso che nell'assumere o il diadema di Re Mauritano o la porpora di Romano Imperatore. Ma gl'imprudenti ed infelici Affricani presto s'accorsero, che in questa inconsiderata rivoluzione non avevano a sufficienza esaminata la propria loro forza o l'abilità del lor condottiero. Avanti che questi aver potesse alcuna certa notizia, che l'Imperator d'Occidente avesse determinata la scelta di un Generale, o che si fosse preparata una flotta di trasporti alla bocca del Rodano, ad un tratto egli seppe che il Gran Teodosio con una piccola truppa di veterani avea preso terra presso a Igilgiti o Gigeri sulla costa dell'Affrica; ed il timido usurpatore fu oppresso dalla superiorità del valore e del genio militare. Quantunque Firmo avesse armi e danaro, pure la disperazione di vincere lo ridusse immediatamente all'uso di quegli artifizi che nel medesimo luogo ed in simili circostanze si erano praticati dall'astuto Giugurta. Ei tentò d'ingannare con un'apparente sommissione la vigilanza del Generale Romano, di sedurre la fedeltà delle sue truppe, e di prolungar la durata della guerra coll'impegnar l'una dopo l'altra le tribù indipendenti dell'Affrica ad abbracciare il partito, ed a proteggere la fuga di esso. Teodosio imitò l'esempio, ed ebbe il successo del suo predecessore Metello. Quando Firmo in aria di supplicante accusò la sua temerità, ed umilmente sollecitò la clemenza dell'Imperatore, il Luogotenente di Valentiniano lo accolse, e lo licenziò con un amichevole abbraccio; ma premurosamente richiese i sodi e sostanziali contrassegni d'un pentimento sincero; nè dalle assicurazioni di pace si potè mai persuadere a sospendere per un momento le operazioni d'un'attiva guerra. Dalla penetrazione di Teodosio fu scoperta un'oscura cospirazione; ed egli soddisfece, senza molta ripugnanza, il pubblico sdegno, che segretamente aveva eccitato. Molti de' rei complici di Firmo furono abbandonati, secondo il costume antico, al tumulto d'una esecuzion militare; molti altri più, mediante l'amputazione di ambe le mani, continuarono a presentare un istruttivo spettacolo d'orrore; l'odio dei ribelli era accompagnato da timore; ed il timore, che avevano dei soldati Romani, era mescolato con una rispettosa ammirazione. Fra le immense pianure della Getulia, e le innumerabili valli del monte Atlante era impossibile d'impedir la fuga di Firmo; e se avesse l'usurpatore potuto stancare la pazienza del nemico, avrebbe posto in sicuro la sua persona in fondo a qualche remota solitudine, ed avrebbe potuto aspettar la speranza di una ribellione futura. Ei fu vinto però dalla perseveranza di Teodosio, che avea fatto un'inflessibile risoluzione di non terminare la guerra che con la morte del tiranno, e d'involger nella rovina di lui qualunque nazione Affricana, che avesse ardito di sostenerne la causa. Alla testa d'un piccolo corpo di truppe, che rare volte eccedevano il numero di tremila cinquecento uomini, il Generale Romano avanzavasi con una costante prudenza, senza temerità e senza timore, nel cuore d'un paese, in cui veniva attaccato alle volte da eserciti di ventimila Mauritani. La fermezza della sua disciplina disordinava l'irregolarità dei Barbari; essi erano sconcertati dalle opportune ed ordinate sue ritirate; restavan continuamente delusi dagli ignoti ripieghi dell'arte militare, e sentirono e confessarono la giusta superiorità che aveva sopra di loro il Capitano d'una incivilita nazione. Allorchè Teodosio entrò negli estesi dominj d'Igmazen Re degli Isaflensi, l'altiero Selvaggio domandò in termini di diffidenza il suo nome, e l'oggetto di sua spedizione: «Io sono (replicò il forte e non timido Conte) io sono il Generale di Valentiniano, Signore del Mondo, che qua mi ha spedito a perseguitare e punire un disperato ladrone. Dàllo subito nelle mie mani; e sia certo, che se non obbedirai agli ordini dell'invincibile mio Sovrano, tu ed il popolo, su cui regni, sarete totalmente distrutti». Tosto che Igmazen fu convinto, che il suo nemico avea forza e risolutezza capace d'eseguire quella fatal minaccia, consentì a comprare una pace necessaria col sacrifizio d'un reo fuggitivo. Le guardie, che furon poste alla custodia della persona di Firmo, gli tolsero qualunque speranza di fuga; ed il Mauritano Tiranno, dopo d'aver estinto col vino il sentimento del pericolo, deluse l'insultante trionfo dei Romani, strangolandosi da se stesso la notte. Il suo cadavere, unico presente che Igmazen potè offerire all'Imperatore, fu con disprezzo gettato sopra un cammello; e Teodosio riconducendo le sue vittoriose truppe a Sitifi, fu salutato dalle più vive acclamazioni di gioia e di fedeltà[123].

A. 376

S'era perduta l'Affrica pe' vizi di Romano e ricuperata per le virtù di Teodosio: ora la nostra curiosità può vantaggiosamente occuparsi in investigare il trattamento che i due Generali rispettivamente ottennero dalla Corte Imperiale. Era stata sospesa l'autorità del Conte Romano dal Comandante generale della cavalleria; egli era stato posto in sicura ed onorevol custodia fino al termine della guerra. I suoi delitti eran dimostrati con le più autentiche prove; ed il pubblico aspettava con impazienza il decreto di una rigorosa giustizia. Ma il parziale e potente favore di Mellobaude l'animò a ricusare i legittimi suoi giudici, ad ottenere replicate dilazioni a fine di procurarsi una folla di favorevoli testimonianze, e finalmente a cuoprire la rea sua condotta coll'altro delitto della frode e della finzione. Verso il medesimo tempo, il restauratore della Britannia e dell'Affrica, sopra un incerto sospetto, che il nome ed i servigi di lui fossero superiori al grado di suddito, fu ignominiosamente decapitato a Cartagine. Non regnava più Valentiniano; e la morte di Teodosio non meno che l'impunità di Romano si può giustamente attribuire alle arti dei Ministri, che abusarono della confidenza, ed ingannarono l'inesperta gioventù dei suoi figli[124].

Se Ammiano avesse usato la geografica sua esattezza nel descrivere le operazioni Affricane di Teodosio, noi avremmo con ardente curiosità seguitato i distinti e domestici passi della sua marcia. Ma la tediosa enumerazione delle incognite e non interessanti tribù dell'Affrica, si può ridurre alla generale osservazione, che esse erano tutte della nera stirpe dei Mori, che abitavano gl'interni stabilimenti delle province della Mauritania e della Numidia, paese (come in seguito si è chiamato dagli Arabi) dei datteri e dello locuste[125]; e che come andava nell'Affrica decadendo la potenza Romana, insensibilmente si ristringevano i limiti della civiltà e dell'agricoltura. Oltre gli ultimi confini de' Mauritani, il vasto ed inospito deserto del Sud s'estende più di mille miglia fino alle rive del Nigro. Gli Antichi, i quali avevano una cognizione molto debole ed imperfetta della gran Penisola dell'Affrica, furono alle volte indotti a credere, che dovesse la zona torrida restare perpetuamente priva di abitatori[126]; ed alle volte divertivano la lor fantasia con empire quel voto intervallo di uomini o piuttosto di mostri[127], di satiri con le corna e col piede forcuto[128], di favolosi centauri[129], e di umani pimmei, che facevano un'audace e dubbiosa guerra contro le grue[130]. Cartagine avrebbe tremato alla strana notizia che le terre di là dall'equatore eran piene d'innumerabili popoli, i quali non differivano dall'ordinaria figura della specie umana, che nel colore; ed i sudditi del Romano Impero avrebbero potuto affannosamente aspettare, che quegli sciami di Barbari, che uscivan dal Settentrione, presto incontrassero dalla parte del Mezzogiorno nuovi sciami di Barbari ugualmente formidabili e fieri. Tali oscuri terrori si sarebbero invero dissipati dalla più esatta cognizione del carattere degli Affricani loro nemici. L'inazione per altro dei Neri non sembra che sia l'effetto nè della virtù, nè della pusillanimità loro. Soddisfano essi, come il resto degli uomini, le loro passioni ed appetiti; e le vicine tribù si trovan frequentemente impegnate in atti d'ostilità[131]. Ma la rozza loro ignoranza non ha inventata mai verun arme efficace di difesa o di distruzione; pare che siano incapaci di formare alcun piano esteso di governo o di conquista; e le nazioni della zona temperata facilmente hanno scoperta l'inferiorità delle loro potenze intellettuali; e ne hanno abusato. Ogni anno s'imbarcano dalla costa della Guinea sessantamila Neri per non tornar mai più al nativo loro paese; ma sono imbarcati in catene[132]; e tal continua emigrazione che nello spazio di due secoli avrebbe potuto somministrar eserciti da soggiogar tutto il globo, accusa la reità dell'Europa e la debolezza dell'Affrica.

A. 365-378

IV. Era stato fedelmente eseguito dalla parte dei Romani l'ignominioso trattato, che salvò l'esercito di Gioviano; e siccome avevano essi rinunziato solennemente alla sovranità ed alleanza dell'Armenia e dell'Iberia, quei tributari due regni si trovarono esposti senza protezione alle armi del Monarca Persiano[133]. Entrò Sapore nel territorio dell'Armenia, conducendo un formidabile esercito di corazze, di arcieri e d'infanteria mercenaria; ma era un invariabile suo costume il mescolare la guerra con la negoziazione, e risguardar la falsità e lo spergiuro, come gli istrumenti più efficaci della reale politica. Egli affettò di lodare la prudente e moderata condotta del Re d'Armenia; ed il non diffidente Tiranno si lasciò persuadere dalle replicate assicurazioni d'un'insidiosa amicizia a dar la propria persona in mano ad un infido e crudele nemico. In mezzo ad uno splendido convito fu posto in catene d'argento, quasi fosse un onore dovuto al sangue degli Arsacidi; e dopo una breve dimora nella Torre dell'Oblivione ad Ecbatana, fu liberato dalle miserie della vita per mezzo o del suo proprio pugnale, o di quello d'un assassino. Il regno dell'Armenia fu ridotto alla condizione d'una provincia Persiana; ne fu divisa l'amministrazione fra un nobile Satrapo, ed un favorito Eunuco; e Sapore senza indugio marciò a soggiogare il marziale spirito degli Iberi. Sauromace, che per concessione degl'Imperatori vi regnava, fu espulso dalla forza superiore; ed il Re dei Re, insultando alla maestà di Roma, pose il diadema sul capo all'abbietto suo vassallo Aspacura. La città d'Artogerassa[134] fu l'unico luogo dell'Armenia, che ardisse resistere allo sforzo delle sue armi. Il tesoro depositato in quella forte rocca tentava l'avarizia di Sapore; ma il pericolo d'Olimpiade, moglie o vedova del Re d'Armenia, eccitò la pubblica compassione, ed animò il disperato valore dei sudditi e soldati di essa. I Persiani furon sorpresi e rispinti sotto le mura d'Artogerassa da una coraggiosa e ben concertata sortita che fecero gli assediati. Ma di continuo si rinnovavano ed accrescevan le forze di Sapore; s'esaurì finalmente il disperato coraggio della guarnigione; cederono all'assalto le mura; e l'altiero vincitore, dopo d'aver messo a ferro e fuoco la ribelle città, condusse via schiava una sfortunata Regina, che in un più prospero tempo era stata destinata per isposa del figlio di Costantino[135]. Se però Sapore trionfava già della facil conquista di due dipendenti regni, presto s'accorse che non può dirsi soggiogato un paese, fin tanto che infierisce negli animi del popolo uno spirito d'ostilità e di contumacia. I Satrapi, ai quali fu egli costretto d'affidarsi, abbracciaron la prima occasione che ebbero di riguadagnar l'affezione dei loro compatriotti, e di segnalare l'odio immortale che portavano al nome Persiano. Gli Armeni e gl'Iberi, dopo la lor conversione, risguardavano i Cristiani come i favoriti, ed i Magi come i nemici dell'Ente Supremo; l'influenza parimente del Clero sopra un popolo superstizioso si esercitava in favore di Roma, e finchè i successori di Costantino disputarono con quelli d'Artaserse la sovranità delle intermedie Province, la connessione religiosa portò sempre un vantaggio decisivo dalla parte dell'Impero. Un numeroso ed attivo partito riconobbe Para, figlio di Tirano, per legittimo Sovrano d'Armenia; ed il diritto di esso al trono avea le sue profonde radici nell'ereditaria successione di cinquecento anni. Per unanime consenso degl'Iberi fu diviso ugualmente il paese fra' rivali due Principi; ed Aspacura che era debitor del diadema all'elezione di Sapore, fu costretto a dichiarare, che il riguardo pe' suoi figliuoli ch'eran ritenuti in ostaggio dal Tiranno, era l'unico riflesso che l'impediva di rinunziare apertamente all'alleanza della Persia. L'Imperator Valente che rispettava le convenzioni del trattato, e temeva d'impegnar l'Oriente in una pericolosa guerra, tentò con lenti e cauti passi di sostenere il partito Romano nei Regni d'Iberia e d'Armenia. Dodici Legioni stabilirono l'autorità di Sauromace sulle rive del Ciro. L'Eufrate era difeso dal valore d'Arinteo. Un potente esercito sotto il comando del Conte Trajano, e di Vadomairo, Re degli Alemanni, pose il campo nei confini dell'Armenia. Ma fu strettamente ordinato loro di non essere i primi a commettere ostilità, che potessero interpretarsi come un'infrazione del trattato: e tale fu l'implicita obbedienza del Generale Romano, che i soldati si ritirarono con esemplare pazienza sotto una pioggia di dardi Persiani, insino a che avessero chiaramente acquistato un giusto diritto ad una legittima ed onorevol vittoria. Queste apparenze di guerra però insensibilmente si ridussero ad una vana e tediosa negoziazione. Ambe le parti sostenevan le lor pretensioni con mutui rimproveri di ambizione e di perfidia; e sembra che il trattato originale fosse espresso in termini molto oscuri, giacchè furono esse ridotte alla necessità d'inconcludentemente appellarsi alla parzial testimonianza de' Generali di ambedue le nazioni, che si erano trovati presenti al trattato medesimo[136]. L'invasione dei Goti e degli Unni, che poco dopo scosse i fondamenti del Romano Impero, espose le Province dell'Asia alle armi di Sapore. Ma l'età cadente e forse le infermità del Monarca gli suggeriron nuove massime di moderazione e di pace. La sua morte, che accadde nella piena maturità d'un regno di settanta anni, cangiò in un istante la Corte ed i consigli della Persia; e probabilmente ne fu impiegata l'attenzione nelle domestiche turbolenze, e nei distanti sforzi di una guerra Carmania[137]. Nel godimento della pace si perdè la rimembranza delle antiche ingiurie; fu permesso ai Regni dell'Armenia e dell'Iberia pel reciproco, sebbene tacito, consenso di ambi gl'Imperi di riprendere la dubbiosa loro neutralità; e nei primi anni del regno di Teodosio, giunse a Costantinopoli un'ambasceria Persiana per iscusare i mal giustificabili passi del precedente regno; e per offerire, come un tributo d'amicizia o anche di rispetto, uno splendido donativo di gemme, di seta e di elefanti dell'India[138].

A. 384

Nella general pittura degli affari Orientali sotto il regno di Valente, le avventure di Para formano uno degli oggetti più singolari e di maggior effetto. Il nobile Giovane, cedendo alle persuasioni d'Olimpia sua madre, era fuggito attraverso l'oste Persiana, che assediava Artogerassa, ed aveva implorato la protezione dell'Imperator dell'Oriente. Pei timidi suoi consigli, Para fu alternativamente sostenuto e richiamato, restituito ai suoi Stati, e tradito. Furono per qualche tempo eccitate le speranze degli Armeni dalla presenza del lor naturale Sovrano; ed i Ministri di Valente si persuadevano di mantenere l'integrità della fede pubblica, se non concedeva egli al suo vassallo di prendere il diadema ed il titolo di Re. Ma presto si pentirono della loro imprudenza. Restaron confusi dai rimproveri e dalle minacce del Monarca Persiano. Ebbero anche ragione di diffidare dell'indole crudele ed incostante di Para medesimo, che sacrificava le vite dei suoi sudditi più fedeli ai più tenui sospetti, e teneva una segreta e vergognosa corrispondenza coll'assassino del proprio padre e col nemico della sua patria. Para, collo specioso pretesto di deliberare coll'Imperatore intorno ai comuni loro interessi, fu indotto a discendere dalle montagne dell'Armenia, dove il suo partito era in armi, e ad affidare la propria indipendenza e salute alla discrezione d'una perfida Corte. Il Re dell'Armenia (giacchè tale appariva egli ai propri occhi, ed a quelli della sua nazione) fu ricevuto coi dovuti onori da' Governatori delle Province per le quali passava; ma quando arrivò a Tarso nella Cilicia, sotto vari pretesti fu arrestato il progresso del suo viaggio; si guardavano con rispettosa vigilanza i suoi movimenti; ed appoco appoco s'accorse d'esser prigioniero in balìa dei Romani. Egli soppresse allora lo sdegno, coprì i suoi timori, e dopo d'essersi preparata segretamente la fuga, montò a cavallo con trecento de' suoi fedeli seguaci. L'uffiziale, che stava alla porta del suo appartamento, immediatamente partecipò tal fuga al Consolare della Cilicia, che lo sopraggiunse nei sobborghi, e tentò senza effetto di dissuaderlo dal proseguire quel temerario e pericoloso disegno. Fu ordinato ad una legione d'inseguire il fuggitivo Reale; ma l'inseguimento dell'infanteria non poteva dare gran fastidio ad un corpo di cavalleria leggiera, e dopo il primo nuvolo di dardi che furono scagliati nell'aria, precipitosamente si ritirarono alle porte di Tarso. Dopo una continua marcia di due giorni e due notti, Para giunse co' suoi Armeni alle sponde dell'Eufrate; ma il passaggio del fiume, che doverono traversare a nuoto, portò seco qualche dilazione e qualche perdita. Il paese era in armi; e le due strade, non separate che da uno spazio di tre miglia, erano state prese da mille arcieri a cavallo sotto gli ordini di un Conte e d'un Tribuno. Para avrebbe dovuto cedere alla maggior forza, se l'accidentale arrivo d'un viaggiatore suo amico non gli avesse manifestato il pericolo ed i mezzi per evitarlo. Un oscuro e quasi impraticabil sentiero per un folto bosco condusse in sicuro la truppa Armena, e Para si era lasciati dietro il Conte ed il Tribuno, mentre stavano essi pazientemente aspettando l'arrivo di lui per le pubbliche strade. Tornarono dunque alla Corte Imperiale, scusando la loro mancanza di diligenza o di successo; e seriamente addussero in lor difesa, che il Re d'Armenia, il quale era un abile Mago, aveva trasformato se stesso ed i compagni, ed era passato avanti ai lor occhi sotto un'altra figura. Tornato Para al nativo suo regno, tuttavia continuò a professarsi amico ed alleato dei Romani; ma questi troppo aspramente l'avevano ingiuriato per lasciarlo in pace, e fu pronunziata nel consiglio di Valente la segreta sentenza della sua morte. Fu commessa la fatale esecuzione di essa alla sottil prudenza del Conte Trajano; ed egli ebbe il merito d'insinuarsi nella confidenza del credulo Principe in modo, che potè trovar la comodità di trafiggergli il cuore. Para fu invitato ad un banchetto Romano che era stato preparato con tutta la pompa e tutto il lusso Orientale; la sala risuonava di grata musica, e la compagnia era già riscaldata dal vino, allorchè il Conte ritirossi per un momento, sfoderò la spada, e diede il segno dell'uccisione. Immediatamente corse addosso al Re d'Armenia un robusto e disperato Barbaro; e quantunque egli bravamente difendesse la propria vita con la prima arma che a caso gli capitò nelle mani, la mensa dell'Imperial comandante restò macchiata dal sangue reale d'un ospite e d'un alleato. Tanto eran deboli e malvagie le massime del governo Romano, che per giungere ad un fine dubbioso di politico interesse, crudelmente si violavano in faccia al Mondo le leggi delle nazioni ed i sacri diritti dell'ospitalità[139].

V. Nel pacifico intervallo di trent'anni i Romani assicuraron le loro frontiere, ed i Goti estesero i loro dominj. Le vittorie del grand'Ermanrico[140], Re degli Ostrogoti, ed il più nobile nella stirpe degli Amali, si son paragonate dall'entusiasmo dei suoi nazionali alle imprese d'Alessandro, con questa singolare e quasi incredibile differenza, che lo spirito marziale dell'Eroe Gotico, invece di esser sostenuto dal vigore della gioventù, si manifestò con gloria e successo nell'ultimo periodo della vita umana, fra l'età di ottanta e di centodieci anni. Le indipendenti tribù furon persuase o costrette a riconoscere il Re degli Ostrogoti per Sovrano della nazione Gotica: i Capi dei Visigoti o dei Tervingi rinunziarono al titolo Reale, ed assunsero il più basso nome di Giudici; e fra questi Atanarico, Fritigerno, ed Alvavivo erano i più illustri pel personale lor merito, non meno che per la vicinanza alle province Romane. Quelle domestiche conquiste, le quali accrebbero la forza militare d'Ermanrico, ingrandirono anche gli ambiziosi disegni di lui. Esso invase gli addiacenti paesi del Nord, e dodici considerabili nazioni, delle quali non si possono esattamente definire i nomi ed i limiti, l'una dopo l'altra cederono alla superiorità delle armi Gotiche[141]. Gli Eruli, che abitavano le pantanose terre vicine alla palude Meotide, eran celebri per la loro forza ed agilità; ed in tutte le guerre dei Barbari veniva con ardore sollecitato, ed altamente stimato l'aiuto della loro infanteria leggiera. Ma lo spirito attivo degli Eruli fu soggiogato dalla lenta e costante perseveranza dei Goti; e dopo una sanguinosa azione in cui restò morto il Re, i residui di quella guerriera tribù divennero un utile aumento all'esercito di Ermanrico. Marciò egli allora contro dei Venedi, non abili nell'uso delle armi, e solo formidabili pel loro numero, i quali occupavano la vasta estensione delle pianure della moderna Polonia. I vittoriosi Goti, che non eran di numero inferiori ad essi, prevalsero nella pugna mercè dei vantaggi decisivi della disciplina e dell'esercizio. Dopo d'aver sottomesso i Venedi, s'avanzò il conquistatore senza alcuna resistenza fino ai confini degli Estj[142], antico popolo, di cui tuttavia conservasi il nome nella Provincia d'Estonia. Quei remoti abitanti della costa Baltica si sostenevano mediante i lavori dell'agricoltura, s'arricchivano col commercio dell'ambra, ed erano addetti al culto speciale della madre degli Dei. Ma la scarsità del ferro costringeva i guerrieri Estj a contentarsi di clave di legno; e si attribuisce la riduzione di quel ricco paese alla prudenza piuttosto che all'armi d'Ermanrico. I suoi stati che s'estendevano dal Danubio al Baltico, includevano le native regioni, ed i moderni acquisti dei Goti; ed esso regnava sopra la maggior parte della Germania e della Scizia coll'autorità di un conquistatore e qualche volta con la crudeltà di un tiranno; ma regnava sopra una parte del globo incapace di perpetuare e di adornare la gloria de' suoi Eroi. Il nome d'Ermanrico è quasi sepolto nell'obblivione; appena si ha notizia delle sue imprese; e pare che i Romani stessi ignorassero i progressi d'un'intraprendente potenza, che minacciava la libertà del Settentrione e la pace dell'Impero[143].

A. 366

I Goti avevano contratto un ereditario attaccamento all'Imperial casa di Costantino, che tante segnalate prove avea lor date di liberalità e di potenza. Essi rispettavano la pubblica pace; e se alle volte qualche truppa ostile ardiva di passare il confine Romano, tale irregolare condotta candidamente si attribuiva all'indomito spirito della Barbara gioventù. Il disprezzo, che avevano per due Principi nuovi ed oscuri, innalzati al trono per una popolare elezione, inspirò ai Goti più ardite speranze; e mentre formavano disegni di riunire le confederate loro forze sotto il medesimo stendardo della nazione[144], furono facilmente tentati ad abbracciare il partito di Procopio, ed a fomentare col pericoloso loro soccorso la discordia civile dei Romani. Il pubblico trattato non avrebbe richiesto più di diecimila ausiliari; ma con tanto zelo adottossi questo disegno dai Capi de' Visigoti, che l'armata, la quale passò il Danubio, ascese al numero di trentamila uomini[145]. Essi marciarono con la superba persuasione, che l'invincibile loro valore avrebbe decisa la sorte del Romano Impero; e le Province della Tracia gemerono sotto il peso dei Barbari, che spiegavano l'insolenza di padroni e la licenziosa condotta di nemici. Ma l'intemperanza che sollecitava i loro appetiti, ne ritardò il progresso; e prima che i Goti potessero avere alcuna certa notizia della disfatta e della morte di Procopio, conobbero dallo stato di difesa, in cui si trovava il paese, che il fortunato rivale di lui aveva ripresa la civile e la militar potestà. Una catena di torri e di fortificazioni, abilmente disposte da Valente o dai suoi Generali, arrestò la loro marcia, ne impedì la ritirata, e ne intercettò la sussistenza. La fierezza dei Barbari fu domata e sospesa dalla fame; posero essi dispettosamente le loro armi ai piedi del vincitore, che offrì loro cibo e catene; i numerosi schiavi furon distribuiti in tutte le città dell'Oriente; ed i provinciali, che ben presto si famigliarizzarono col loro aspetto selvaggio, appoco appoco arrischiaronsi a misurare le forze con quei formidabili avversari, il nome de' quali era stato sì lungamente l'oggetto del loro terrore. Il Re della Scizia (ed il solo Ermanrico potea meritare tal sublime titolo) sentì dispiacere ed ira per tal disgrazia della nazione. I suoi Ambasciatori fecero alte doglianze alla Corte di Valente della violazione dell'antica e solenne alleanza, che per tanto tempo era sussistita fra i Romani ed i Goti. Dicevano essi d'avere adempito il dovere di alleati assistendo il parente e successore dell'Imperator Giuliano; richiedevano l'immediata restituzione dei nobili schiavi; ed insistevano sopra una ben singolar pretensione, che i Generali Goti, che marciavano in armi ed in ostile ordinanza, avesser diritto al sacro carattere ed ai privilegi di ambasciatori. Un decente ma perentorio rifiuto di tali stravaganti domande venne significato ai Barbari da Vittore, Generale della cavalleria, che rappresentò con forza e dignità le giuste querele dell'Imperatore d'Oriente[146]. Fu interrotto il trattato: e le virili esortazioni di Valentiniano incoraggiarono il timido suo fratello a vendicare l'insultata maestà dell'Impero[147].

A. 367-368-369

Un istorico di quel tempo celebra lo splendore e la grandezza di questa guerra Gotica[148]; ma l'evento di essa appena merita l'attenzione della posterità, qualora non voglia risguardarsi come un passo preliminare dell'imminente decadenza e rovina dell'Impero. In cambio di condurre le nazioni della Germania e della Scizia alle rive del Danubio, o anche alle porte di Costantinopoli, il vecchio Monarca dei Goti rassegnò al bravo Atanarico il pericolo e la gloria d'una guerra difensiva contro un nemico che maneggiava con debole destra le forze d'un grande stato. Fu eretto un ponte di barche sopra il Danubio; la presenza di Valente animava le sue truppe; e la sua ignoranza nell'arte della guerra veniva compensata in esso dalla personal bravura, e da una savia deferenza ai consigli di Vittore e d'Arinteo, suoi Generali di cavalleria e d'infanteria. Le operazioni della campagna regolate furono dalla loro abilità ed esperienza; ma fu loro impossibile di trarre i Visigoti dai forti posti delle montagne; e la devastazione delle pianure obbligò i Romani medesimi a ripassare il Danubio all'approssimarsi dell'inverno. Le continue piogge che fecer gonfiare le acque del fiume, produssero una tacita sospension di armi, e confinarono l'Imperator Valente in tutta la seguente state nel suo campo di Marcianopoli. Il terzo anno della guerra fu più favorevole pe' Romani, e dannoso pe' Goti. L'interrompimento del commercio privò i Barbari degli oggetti di lusso, che essi già confondevano con le necessità della vita, e la desolazione d'un molto esteso tratto di paese gli minacciava degli orrori della carestia. Atanarico fu provocato o costretto ad arrischiare una battaglia, che ei perdè, nella pianura; e la crudel precauzione dei vittoriosi Generali, che avevano promesso un grosso premio per la testa di ogni Goto, che portata fosse nel campo Imperiale, rendè più sanguinosa la caccia dei vinti. La sommissione dei Barbari quietò lo sdegno di Valente e del suo consiglio; l'Imperatore diede orecchio con piacere all'adulatrice ed eloquente rimostranza del Senato di Costantinopoli, che per la prima volta ebbe parte nelle pubbliche deliberazioni; ed i medesimi Generali Vittore ed Arinteo, che avean felicemente diretta la condotta della guerra, ebbero la facoltà di regolare le condizioni della pace. La libertà del commercio, che i Goti avevano fin allora goduta, fu ristretta a due sole città sul Danubio; fu severamente punita la temerità dei lor Capi con la soppressione delle pensioni e dei sussidi che ricevevano; e l'eccezione che fu stipulata in favore del solo Atanarico, fu più vantaggiosa che onorevole al Giudice dei Visigoti. Atanarico, il quale sembra che in quest'occasione consultasse il suo privato interesse senza aspettar gli ordini del Sovrano, sostenne la propria dignità e quella della sua tribù nel personal congresso, che fu proposto dai Ministri di Valente. Ei persistè nella dichiarazione, che era impossibile per lui senza incorrere nella colpa di spergiuro, il porre mai piede sul territorio dell'Impero; ed è più che probabile che il riguardo, che aveva per la santità del giuramento, fosse confermato dai recenti e fatali esempi della Romana perfidia. Fu scelto il Danubio che separava i dominj delle due indipendenti nazioni, per luogo della conferenza. L'Imperator d'Oriente ed il Giudice dei Visigoti, accompagnati da un ugual numero di loro seguaci armati, s'avanzarono nei respettivi loro battelli fino alla metà del fiume. Dopo la ratifica del trattato e la consegna degli ostaggi, Valente tornò in trionfo a Costantinopoli, ed i Goti rimaser tranquilli circa sei anni, finchè a forza non furono spinti contro l'Impero Romano da un'innumerabile armata di Sciti, che sboccarono dalle gelate regioni del Norte[149].

A. 374

L'Imperator d'Occidente, che aveva lasciato al fratello il comando del basso Danubio, riservò immediatamente a se stesso la difesa delle Province Retiche e Illiriche, che per tante centinaia di miglia estendevansi lungo il maggior fiume dell'Europa. L'attiva politica di Valentiniano era continuamente occupata in aggiunger nuove fortificazioni alla sicurezza della frontiera; ma l'abuso di tal politica provocò il giusto risentimento dei Barbari. I Quadi si dolsero che era stato preso dal lor territorio il suolo per una fortezza che si meditava di fare; e sostennero con tanta ragione e moderatezza le loro querele, che Equizio, Generale dell'Illirico, acconsentì a sospendere il proseguimento dell'opera, finattanto che fosse più chiaramente informato del volere del suo Sovrano. Questa bella occasione di far ingiuria a un rivale, e di avanzare la fortuna del proprio figlio, fu ardentemente abbracciata dal crudele Massimino, Prefetto o piuttosto tiranno della Gallia. Le passioni di Valentiniano non soffrivan opposizioni; ed egli prestò con credulità orecchio alle assicurazioni del suo favorito, che se fosse affidato allo zelo di Marcellino, suo figlio, il governo di Valeria e la direzione dell'opera, l'Imperatore non sarebbe stato più importunato dalle audaci rimostranze dei Barbari. I sudditi di Roma ed i nativi della Germania furono insultati dall'arroganza d'un giovane e indegno Ministro, che risguardava la rapida sua elevazione come la prova ed il premio del sublime suo merito. Egli affettò, per altro, d'ammettere la modesta istanza di Gabino, Re de' Quadi, con attenzione e riguardo: ma quest'artificiosa cortesia celava un oscuro e sanguinario disegno, ed il credulo Principe s'indusse ad accettare il premuroso invito di Marcellino. Io non so come variare la narrazione di delitti fra loro simili, o come riferire che nel corso d'un medesimo anno, ma in diverse lontane parti dell'Impero, l'inospita mensa di due Comandanti Imperiali fosse macchiata dal regio sangue di due ospiti ed alleati, crudelmente uccisi per ordine ed in presenza di essi. L'istesso fu il destino di Gabinio e quello di Para; ma in maniera molto diversa la crudel morte del Sovrano si risentì dalla servil indole degli Armeni e dal libero ed audace spirito dei Germani. I Quadi erano essi, in vero, assai scaduti da quel formidabil potere, che al tempo di Marco Antonino aveva sparso il terrore fino alle porte di Roma. Essi però avevano sempre armi e coraggio; questo fu animato dalla disperazione, ed ottennero il solito rinforzo di cavalleria dai Sarmati, loro alleati. Il perfido Marcellino fu tanto imprudente che scelse il momento, nel quale i veterani più bravi erano stati mandati a sopprimere la ribellione di Firmo; e tutta la Provincia era esposta con una debol difesa al furore dei Barbari esacerbati. Essi invasero la Pannonia nel tempo della raccolta; senza compassione distrussero tutto ciò che facilmente non potevano trasportare; e disprezzarono o demolirono le vuote fortificazioni. Alla Principessa Costanza, figlia dell'Imperator Costanzo, e nipote del gran Costantino, assai difficilmente riuscì di fuggire. La regia fanciulla che innocentemente avea sostenuta la ribellione di Procopio, era in quel tempo destinata per moglie all'Erede dell'Impero Occidentale. Traversava essa con uno splendido e non armato corteggio quella Provincia creduta pacifica. E la persona di lei fu salvata dal pericolo, ugualmente che la Repubblica dal disonore, mediante l'attivo zelo di Messala, Governatore di quelle Province. Appena egli seppe che il villaggio, dove ella s'era fermata per desinare, era quasi circondato dai Barbari, la pose in fretta sul proprio cocchio, e corse velocemente finchè giunse alle porte di Sirmio, che era distante ventisei miglia. Neppur questa città sarebbe stata sicura, se i Quadi ed i Sarmati si fossero speditamente avanzati, mentre i Magistrati del popolo erano in una generale costernazione. Il loro indugio concesse a Probo, Prefetto del Pretorio, tempo abbastanza di riprendere animo egli stesso, e di ravvivare il coraggio dei cittadini. Egli abilmente diresse i loro valorosi sforzi per riparare e fortificare le cadenti muraglie; e procurò l'opportuna ed efficace assistenza d'una compagnia di arcieri, per proteggere la capitale delle Province Illiriche. Sconcertati nei tentativi, che fecero contro le mura di Sirmio, gli irritati Barbari voltaron le armi contro il Generale della frontiera, al quale ingiustamente attribuivano la morte del loro Re. Non poteva Equizio mettere in campo che due legioni; ma contenevano esse il veterano vigore delle truppe Mesie e Pannonie. La ostinazione con cui disputaron fra loro i vani onori della precedenza e del grado, fu causa della lor distruzione; e mentre agivano con forze separate e con differenti disegni, sorprese furono e trucidate dall'operoso vigore della Sarmata cavalleria. Il buon successo di quest'invasione provocò l'emulazione delle confinanti tribù; e si sarebbe infallibilmente perduta la Provincia della Mesia, se il giovane Teodosio, Duce o militar Comandante della frontiera, non avesse, nella disfatta del pubblico nemico, segnalato un intrepido genio, degno dell'illustre suo padre e della sua futura grandezza[150].

A. 375

Lo spirito di Valentiniano, che allora risedeva in Treveri, fu profondamente commosso dalle calamità dell'Illirico; ma la stagione avanzata sospese l'esecuzione de' suoi disegni fino alla primavera seguente. Mosse egli in persona, con una parte considerabile delle truppe della Gallia, dalle rive della Mosella; ed ai supplichevoli Ambasciatori dei Sarmati, che l'incontraron per viaggio, rispose dubbiosamente, che quando fosse giunto al luogo dell'azione, avrebbe esaminato e deciso. Arrivato a Sirmio, diede udienza ai Deputati delle Province Illiriche, i quali altamente gloriaronsi della loro felicità sotto il prospero governo di Probo, Prefetto del Pretorio[151]. Valentiniano, ch'era lusingato da tali dimostrazioni di fedeltà e di gratitudine, dimandò imprudentemente al Deputato dell'Epiro, che era un filosofo Cinico d'intrepida sincerità[152], s'era egli stato inviato liberamente dai voti della Provincia? «Io son mandato (replicò Ificle) con lacrime e con lamenti da un popolo contro sua voglia». L'Imperatore s'arrestò: ma l'impunità de' suoi ministri fece stabilire la perniciosa massima che essi potevano opprimere i sudditi, senza offendere il servizio di lui. Una rigorosa ricerca sopra la loro condotta avrebbe medicato il pubblico disgusto. La severa condanna dell'uccisor di Gabinio era il solo mezzo che restituir potesse la confidenza dei Germani, e vendicar l'onore del nome Romano. Ma il superbo Monarca era incapace della magnanimità, che osa riconoscere una mancanza. Dimenticò egli la causa, solo si rammentò dell'ingiuria, e s'avanzò nel paese dei Quadi con un'insaziabile sete di vendetta e di sangue. Si giustificò agli occhi dell'Imperatore, e forse a quelli del Mondo l'estrema devastazione ed il promiscuo macello d'una barbara guerra dalla crudele equità delle rappresaglie[153], e tale fu la disciplina dei Romani e la costernazione del nemico, che Valentiniano ripassò il Danubio senza la perdita d'un solo uomo. Siccome aveva egli risoluto di totalmente distruggere i Quadi in una seconda campagna, stabilì i suoi quartieri d'inverno a Bregezio sul Danubio, vicino alla città di Presburgo nell'Ungheria. Mentre il rigore della stagione teneva sospese le operazioni di guerra, i Quadi fecero un umile tentativo di mitigare il furor del vincitore; ed i loro Ambasciatori, alla premurosa persuasione d'Equizio, furono introdotti nel consiglio Imperiale. Accostaronsi al trono inchinati ed in aria dimessa; e senza neppure osar di dolersi della morte del loro Re, affermarono con solenni giuramenti, che l'ultima invasione era solo imputabile ad alcuni sregolati ladroni, dal consiglio pubblico della nazione condannati ed abborriti. La risposta dell'Imperatore lasciò ad essi ben poca speranza di clemenza o di pietà. Egli rinfacciò loro, col più intemperante linguaggio, la lor viltà, ingratitudine ed insolenza. Gli occhi, la voce, il colore, i gesti esprimevano la violenza dello sfrenato furore di lui. Mentre tutto il suo aspetto era agitato da una passion convulsiva, un grosso vaso sanguigno ad un tratto gli si ruppe nel petto; e Valentiniano cadde senza parola nelle braccia dei suoi famigliari. Essi ebbero immediatamente la cura di nasconder la sua situazione alla moltitudine: ma in pochi minuti l'Imperator d'Occidente spirò in un'agonia dolorosa, ritenendo fino all'ultimo i suoi sentimenti, e cercando inutilmente di esprimere le sue intenzioni ai Generali e Ministri che circondavano il reale suo letto. Valentiniano aveva circa cinquantaquattro anni; e non mancavano che cento giorni a compire i dodici anni del suo regno[154].

A. 375

Un istorico Ecclesiastico attesta seriamente la poligamia di Valentiniano[155]. «L'Imperatrice Severa (io riferisco la favola ) ammise alla sua famigliar conversazione la bella Giustina, figlia d'un Governatore Italiano; ed espresse con sì grandi ed inconsiderate lodi la sua ammirazione di quelle nude bellezze, che aveva spesso vedute nel bagno, che l'Imperatore fu tentato d'introdurre una seconda moglie nel proprio letto; e con pubblico editto estese a tutti i sudditi dell'Impero l'istesso domestico privilegio, che aveva preso per se medesimo». Ma noi siamo assicurati dalla testimonianza della ragione e dell'Istoria, che i due matrimoni di Valentiniano con Severa e con Giustina furon contratti l'un dopo l'altro; e che ei si servì dell'antica permission del divorzio, che era sempre accordata dalle leggi, quantunque condannata dalla Chiesa. Severa fu madre di Graziano, il quale sembrò che riunisse in sè ogni diritto all'indubitata successione dell'Impero Occidentale. Egli era il figlio maggiore d'un Monarca, il glorioso regno del quale avea confermato la libera ed onorevol scelta dei suoi compagni soldati. Prima di giungere all'età di nove anni il regio fanciullo avea ricevuto dalle mani dell'indulgente suo padre la porpora ed il diadema col titolo d'Augusto; n'era stata solennemente confermata la scelta dal consenso ed applauso degli eserciti della Gallia[156]; ed erasi aggiunto il nome di Graziano a quelli di Valentiniano e di Valente in tutti gli atti legali del Governo Romano. Mercè del suo maritaggio con la nipote di Costantino, il figlio di Valentiniano acquistò tutti gli ereditari diritti della Famiglia Flavia, che in una serie di tre Imperiali generazioni s'erano confermati dal tempo, dalla religione, e dalla riverenza del popolo. Alla morte del padre il giovane reale aveva l'età di diciassette anni; e già le sue virtù giustificavano la favorevole opinione del popolo e dell'esercito. Ma Graziano si trovava senza timore nella reggia di Treveri, allorchè alla distanza di molte centinaia di miglia Valentiniano subitamente morì nel campo di Bregezio. Le passioni che sì lungo tempo erano state soppresse dalla presenza d'un dominante, immediatamente si ravvivarono nel consiglio Imperiale; e l'ambizioso disegno di regnare in nome di un fanciullo fu posto artificiosamente in effetto da Mellobaude e da Equizio, che avevano per sè l'amore delle truppe Illiriche ed Italiane. Immaginarono essi i più onorevoli pretesti per rimuovere i Capi del popolo e le truppe della Gallia, che avrebber potuto sostenere i diritti del legittimo successore; e suggerirono con un ardito e decisivo passo la necessità di estinguere le speranze dei nemici sì domestici che stranieri. L'Imperatrice Giustina, che era restata in un palazzo circa cento miglia lontano da Bregezio, fu rispettosamente invitata a venire nel campo col figlio del morto Imperatore. Il sesto giorno dopo la morte di Valentiniano, il Principe fanciullo dell'istesso nome, che non aveva più di quattr'anni, fu mostrato nelle braccia della propria madre alle legioni, e coll'acclamazion militare solennemente investito dei titoli e delle insegne del potere supremo. La savia e moderata condotta dell'Imperator Graziano impedì a tempo gli imminenti pericoli d'una guerra civile. Accettò volentieri la scelta dell'esercito; dichiarò che avrebbe sempre risguardato il figlio di Giustina come fratello, non come rivale; e consigliò l'Imperatrice a stabilire col figlio di Valentiniano la sua residenza a Milano nella bella e pacifica provincia dell'Italia, mentre egli assumeva il più difficil comando delle regioni oltre le alpi. Graziano dissimulò il suo sdegno finattanto che potesse con sicurezza punire, o svergognare gli autori della cospirazione: e sebbene si diportasse con uniforme tenerezza e riguardo verso il suo infante collega, tuttavia nell'amministrazione dell'Impero occidentale confuse appoco appoco l'uffizio di tutore coll'autorità di Sovrano. Si esercitava il governo del Mondo Romano unitamente in nome di Valente e dei suoi due nipoti: ma il debole Imperator Orientale, che in questa dignità successe al suo fratello maggiore, non ebbe mai peso od ascendente veruno nei consigli dell'Occidente[157].

RIFLESSIONI D'IGNOTO AUTORE SOPRA I CAPITOLI XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV E XXV

DELLA STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO

DI

EDOARDO GIBBON

DIVISE IN TRE LETTERE DIRETTE AI SIGG. FOOTHEAD E KIRK INGLESI CATTOLICI

LETTERA I.

So per lunga esperienza, che l'amore del vero, e lo zelo per la Santa Religione Cattolica, che vi siete obbligati con giuramento solenne di propagare nella Inghilterra, dove nasceste, prevalgon di molto in cuore vostro allo spirito di patriottismo: e però non temo di confessarvi, che quanto più mi vado inoltrando nella lettura della Storia Romana del vostro Gibbon, tanto meno mi sembra meritevole di quelle lodi, che io sull'altrui relazione in presenza vostra incautamente gli tributai. A me par di vedere nel Sig. Gibbon uno scrittore per verità elegante ed erudito; ma che ora vergognosamente si contraddice, ora dà per indubitati dei fatti di Storia Ecclesiastica; i quali se non sono falsissimi, sono almeno dubbi, e non bene decisi; e per l'opposto nega ed oscura i meglio autenticati e i più certi, e ciò sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico; mostrando sempre un indicibil dispregio dei Santi Padri, depositari fedeli e sostenitori indefessi di quei venerabili dogmi, che egli malamente conosce, e sfigura. Non è già intenzione mia di tener dietro al Sig. Gibbon in tutti i suoi traviamenti: se io lo facessi, vi stancherebbero le mie riflessioni per la moltitudine e la lunghezza, e vi priverei di quel piacere che si gusta nel rilevare da se medesimo gli sbagli degli uomini, che menan rumore nella Repubblica letteraria. Ne farò adunque quante possan bastare a porre in chiaro l'asserzion mia: e per quel che riguarda la prima parte di essa mi ristringo a S. Atanasio, a Giuliano l'Apostata, ed al carattere generale dei Cristiani dei loro tempi.

Ecco adunque come il Sig. Gibbon parla del primo. L'immortal nome di Atanasio non potrà mai separarsi dalla Dottrina Cattolica della Trinità. Quindi è, che essendo la causa di lui quella della verità, e della giustizia quella, io dico, della verità religiosa, il regno dell'Imperadore Costanzo restò infamato dalla ingiusta persecuzione del grande Arcivescovo intrepido campion della Fede Nicena, ed ospite venerando di Costantino il figlio, il quale colla decenza del suo contegno si conciliò l'affezione del Clero non men che del popolo: e rei pur furono di solenne ingiustizia quelli Ecclesiastici Giudici, che lo condannarono in Tiro.

Or se io dicessi, che noi possiam diffidare delle proteste di rispetto, che quell'istesso Atanasio faceva all'Imperatore Costanzo; che egli in quel modesto equipaggio, solito ad affettarsi dalla politica e dall'orgoglio, faceva le visite Episcopali; che Arsenio era un'immaginaria sua vittima e suo segreto amico; che egli sì abbondante di difese rispetto ad Arsenio medesimo ed al calice, lasciò la grave accusa di aver fatto battere, ed imprigionare sei Vescovi senza risposta; se io mettessi in forse, che la ragione fosse veramente dalla parte di Atanasio: se finalmente decidessi, che la differenza tra homoousion, ed homoiusion essendo quasi invisibile all'occhio Teologico più delicato, Atanasio mostrossi avido di fama ed attaccato dal contagio del fanatismo; neghereste voi mai, che io fossi oppostissimo di sentimento al Sig. Gibbon in riguardo a quel celebre Primate di Egitto? E come negarlo? Asserisce l'Autore, che il Clero deposto sotto Costanzo era Ortodosso, che la dottrina di Atanasio era Cattolica, che i Giudici di lui furono ingiusti; io per lo contrario direi, che buona parte di quella disputa fu più grammaticale che teologica, e che Atanasio fu ben fanatico a sacrificarsi se non per un dittongo, almeno per un vocabolo proibito dal Concilio d'Antiochia. Il Sig. Gibbon afferma, che il contegno di quel Santo era decente, ed attissimo a conciliarsi l'affetto universale: ed io in quel modesto equipaggio ravviserei l'orgoglio, la politica, e l'avidità della fama. Il Sig. Gibbon ripete sovente, che la giustizia e la verità, e per conseguenza la ragione assistevano la causa di Atanasio: io dubiterei se la ragione fosse veramente dalla sua parte: il Sig. Gibbon profonde per Atanasio luminosi titoli di grande, d'immortale, di venerando, io gli darei quelli di finto, di adulatore o di subdolo. Non valuto però molto quell'ultimo, perchè essendo lo stesso, che Venerabile, questo l'Autore lo trova benissimo conciliabile in S. Gregorio Nazianzeno con l'altro di stolto e di calunniatore[158]. Nell'esporvi la mia ipotesi non ho fatto altra cosa, che trascrivervi letteralmente le parole del Sig. Gibbon, che voi potete riscontrare nel libro. Vi sarà dunque facile il conchiudere, che il Sig. Gibbon è in opposizione con se medesimo.

Dovremo noi credere a questo A. nel primo caso o sibben nel secondo? Io per me voglio credergli assolutamente nel primo; perocchè il carattere, che ivi fa di Atanasio è conforme a quello, che fanno di lui il Tillemont ed i Monaci Benedettini: ed egli stesso m'insegna, che la diligenza del Tillemont e degli Editori Benedettini ha raccolto tutti i fatti ed esaminata ogni difficoltà concernente la vita del grande Atanasio: e mi maraviglio che dimenticatosi di una regola così giusta, tratti Gioviano d' adulatore, empio e stravagante per aver detto celestiali le virtù del S. Arcivescovo, ed averlo chiamato figura della Divinità[159], e con una nuova opposizione con se medesimo non ammetta la delicatezza del Baronio, del Valesio, e precisamente del Tillemont nel rigettare l'aneddoto del rifugio di Atanasio in casa della bella vedova Alessandrina, indegno certamente della gravità della Storia Ecclesiastica, ingiurioso alla memoria di un Santo sì illustre, e forse inventato dal livor degli Arriani. Ma che volete aspettarvi di coerente da un Autore, il quale ad onta degli originali ed autentici monumenti, onde confessa esser giustificate le apologie e le lettere ai Monaci di Atanasio ha la stravaganza di dichiararsi di prestarvi minor fede: perchè egli troppo vi apparisce, innocente e troppo assurdi gli avversari di lui? Intanto con questo suo modo di pensare e di scrivere ci fa toccar con mano, come non vi ha assurdo delirio, di cui non sia capace un uomo preoccupato dallo spirito di religioso partito, o di una tolleranza sfrenata. Osservatelo più distintamente in Giuliano l'Apostata.

Già v'immaginerete, che egli debba esser l'Eroe del Sig. Gibbon, ed in sostanza è così. Erano inimitabili, dice egli, le virtù di Giuliano, ed il suo trono era la sede della ragione, della virtù, e forse della vanità, vanità, che il medesimo nostro Critico non si risovvenendo del forse chiama eccessiva. Io non istarò a discutere quale alleanza possa darsi tra la vera virtù e la vanità: Teologia sarebbe questa troppo sublime per uno che applaude ai Protestanti della Francia, della Germania, e dell'Inghilterra per aver sostenuta con l'armi la civile e religiosa lor libertà contro la teoria e la pratica costante dei primi Cristiani, e che giudica lo stesso Giuliano tollerabil Teologo sebben sostenga che Cristo è uomo puro, e che la Trinità non è dottrina nè di Paolo, nè di Gesù, nè di Mosè. Chiederò solo al Sig. Gibbon primieramente, se Giuliano costantemente, o spesso almeno si rammentava di quella fondamental massima di Aristotele, che la vera virtù si trova in ugual distanza fra gli opposti vizi? Ora ei mi risponde, che l'indole di Giuliano era di rammentarsene rare volte. Dunque il trono di lui non era la sede della ragione e della virtù, ed il Sig. Gibbon si contraddice[160]. Domando a voi in secondo luogo, se l'ingiustizia, l'ingratitudine, la mala fede, la leggerezza di naturale siano ragionevoli e virtuose? Una simile domanda ecciterà forse le vostre risa, e forse il vostro sdegno. Incolpatene il Sig. Gibbon: egli è che mi obbliga a farvela. Imperciocchè se la giustizia medesima parve che piangesse il fato di Ursulo tesorier dell'Impero, ed il suo sangue accusò l'ingratitudine di Giuliano, di cui si erano opportunamente sollevate le angustie dall'intrepida liberalità di quell'onesto Ministro; se l'Imperatore stesso restò profondamente colpito dai propri rimorsi per un attentato, che Ammiano (L. XX.) chiama impurgabile, o conviene ammettere un'ingiustizia ed una ingratitudine ragionevole e virtuosa, o d'uopo è confessare, che il trono di Giuliano non fu la sede della ragione e della virtù. Si obbligò ancora Giuliano con una promessa, che avrebbe dovuto esser sempre inviolabile, che se gli Egizi, i quali altamente richiedevano i doni fatti o illegittimamente o per imprudenza, fosser comparsi in Calcedonia, avrebbe ascoltato in persona, e decise le lor querele; ma intanto dal trono, che era la sede della ragione e della virtù, partì un ordine assoluto, che vietando di trasportare a Costantinopoli Egizio veruno, esausta la loro pazienza e il denaro, furono costretti a tornare con isdegnosi lamenti al nativo loro paese. Ma vi è di più. L'Imperatore, che occupava quel trono, sede della ragione e della virtù, sostenne l'ingiustizia di escludere i Cristiani da tutti gli uffizi di fedeltà e di profitto, maliziosamente rammentando loro, che non era lecito ad un Cristiano di usar la spada o della giustizia o della guerra, e dissimulando più che potè l'ingiustizia, che esercitavasi in nome di lui dai Ministri, (per quanta tara si debba fare all'espressioni degli Storici Ecclesiastici) esprimeva il suo real sentimento intorno alla loro condotta con dolci riprensioni e con reali premi e per finirla, quell'Imperatore medesimo leggiero di naturale ordinò senza prove, che fosse immediatamente eseguita la vendetta contro i Cristiani, ai quali un leggierissimo rumore imputava l'incendio del Tempio di Dafne. Con tutto ciò affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione della intera figura, bisogna guardare con minuta e forse malevola attenzione il ritratto di Giuliano, poichè ei cercò sempre di unire l' autorità con il merito, e la felicità colla virtù.

Siccome questo giudizio intorno a Giuliano è espresso da Gibbon in un paragrafo a parte, il quale ha per titolo ( il suo carattere ), però mi azzardai di asserire, che questo Imperatore è il suo Eroe. Non lo è per altro del Mosheim dottissimo Protestante ancor esso. Fate di grazia il confronto di questi giudizi: «Per collocare (dice questo Scrittore, Storia Eccl. Sec. I. part. n. 13.) Giuliano tra i più grandi uomini, conviene essere od acciecato all'eccesso dai propri pregiudizi, o non aver letto giammai con attenzione le opere di lui, o non aver finalmente alcuna giusta idea della vera grandezza. Il carattere di Giuliano presenta pochi di quei tratti, che contraddistinguono un uomo grande... Egli era superstizioso all'eccesso; prova ben chiara di un intelletto limitato e di uno spirito basso e superficiale... Aggiungete a ciò l'ignoranza la più perfetta della vera filosofia, e giudicate se Giuliano quand'anche fosse superiore in alcuna cosa ai figli di Costantino, non è però al di sotto di Costantino medesimo ad onta delle ingiurie con cui l'opprime, e del disprezzo che ne mostra in qualsivoglia occasione». Voi forse potrete dirmi, letta che avrete la storia del Sig. Gibbon, che ancora egli confessa essere stato Giuliano credulo all' arte divinatoria quant'altri mai, dissimulatore solenne in fatto di Religione, per una strana contraddizione avere sdegnato il giogo salutare del Vangelo, mentre fece una volontaria offerta di sua ragione sugli altari di Giove e di Apollo e preferì gli Ancili alla Croce, essersi per fine avvilito con le visioni e coi sogni e con una superstizione che pose in pericolo la sorte dell'Impero Romano. Che se è così, perchè dunque per una più strana contraddizione asserire che inimitabili furono le virtù di Giuliano, e che bisogna riguardare con minuta, e forse con malevola attenzione il ritratto di lui, affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione dell'intera figura? O fidatevi del Sig. Gibbon, quando si tratta di formare i caratteri! Finisco con fare una osservazione di quello, che ei fece in generale delle Sette Cristiane, cioè di quegli ostili Settari, che prendevano i nomi di Ortodossi e di Eretici; ai quali la nostra tranquilla ragione, a suo dire, imputerà un uguale, o almeno «non molto diversa dose di bene e di male .... poichè sì dall'una che dall'altra parte poteva esser lo sbaglio innocente, la fede sincera, la pratica meritoria o corrotta». Qui sicuramente si parla degli Atanasiani od Omousiani, e degli Arriani loro avversari. Ma questi servironsi per ripetute confessioni del Sig. Gibbon dell'ambiguità dell'ingegnosa malizia, di una squisita malignità dell'inganno, dei destri maneggi, dell'arte sofistica; questi, che al Concilio di Tiro avevan segretamente determinato di fare apparir delinquente, e di condannare il lor nemico Atanasio, procurarono di mascherare la loro INGIUSTIZIA coll'imitazione della forma giudiciaria. Questi, opponendosi alla causa di Atanasio, opponevansi ancora alla Fede Nicena, di cui egli era il campione, ed alla verità religiosa. Ed in uomini di tal tempra poteva esser lo sbaglio innocente, la fede sincera? E questo non è un contraddirsi, ed un abusarsi della pazienza d'un onorato lettore?

LETTERA II.

Vi ho fatto osservare nella mia prima lettera, che il Sig. Gibbon si protesta di non poter ammettere la delicatezza del Baronio, del Valesio, e del Tillemont, che quasi rigettano il racconto di Palladio intorno al rifugio di S. Atanasio in casa della Vergine Alessandrina, che egli con ogni scaltrezza vorrebbe pure far credere una lunga corrispondenza amorosa. E che? Sarebbe forse un troppo gran torto fatto a Palladio, il preferire alla sua l'autorità di S. Gregorio Nazianzeno, e di Atanasio medesimo, il quale attesta, che subito dopo l'invasione della Chiesa di Alessandria fatta da Siriano fuggissi nell'Eremo? Che ivi poi si trattenesse per lungo tempo il dimostrano le lettere, che ei di colà scrisse, come ne fa fede la data[161], e il conferma la minuta descrizion del saccheggio dato a quei Monasteri dai furibondi soldati, che l'obbligarono a ricovrarsi in un orrido nascondiglio. Ma quando fosse stato sì scrupoloso il Sig. Gibbon da negar tutto a Palladio, perchè invece di far una vana pompa di delicatezza di stile non ha piuttosto avvertito, che non apparteneva alle vergini il lavare i piedi dei Santi, che l'intrepido Campion della fede Nicena non era sì molle da esigere da una vergine un tale uffizio in mancanza di vedove[162], che quella vergine inerendo al racconto dello stesso Palladio doveva essere allora non di venti anni, ma quasi quadragenaria, e che finalmente brevissima e transitoria dovette essere la dimora del S. Arcivescovo presso di lei, essendo fuor di ogni dubbio, che egli visse nel deserto presso a sei anni, e che intruso appena Giorgio di Cappadocia nella sua sede, sotto pretesto di andare in traccia di lui, furono saccheggiate le case, ed aperte perfino le sepolture; e le vergini, altre svelte dalle braccia dei genitori, altre insultate per le pubbliche vie di Alessandria (Athan. ad solit. p. 849. a 53.)? Or come persuadersi, che fosse dalla sfrenata licenza di mal credenti soldati rispettata la casa di colei, che descrivesi come un prodigio di bellezza notissimo? Il Sig. Gibbon però, tacendo tutto questo, chiude la sua narrazione con asserire senz'altra testimonianza, fuor di quella del suo capriccio, che nel tempo della sua persecuzione ed esilio, Atanasio replicò sovente le sue visite alla bella e fedele amica[163].

Almeno il Sig. Gibbon contentandosi di calunniare così audacemente nella condotta morale il grande ed immortale Atanasio, lo risparmiasse nella credenza! Ma no: Atanasio, secondo lui, difese più di vent'anni il Sabellianismo di Marcello di Ancira, ed il Petavio dopo un lungo ed accurato esame ha pronunziato con ripugnanza la condanna di Marcello. Io confesso, che il Petavio[164] enumera vari Scrittori gravissimi del secolo di Marcello, dai quali esso fu tenuto per vero eretico Sabelliano. Egli però in tuono molto diverso da quello del Sig. Gibbon parla di lui; poichè trova di malagevole discussione la causa di quel Vescovo: Minus explicatu facilis est Causa Marcelli Ancyrani (§. 1. ivi), e così conchiude il §. V: « Quare digna est ea res, de qua amplius cogitent eruditi, ed antiquitatis Ecclesiasticae periti. » Questo appunto io vedo eseguito dal Ch. Natale Alessandro[165] nella dissertazione de Fide Marcelli Ancyrani, in cui dimostra l'integrità della dottrina di quel Prelato, bersaglio delle calunnie Eusebiane, sì con la confessione di fede da lui presentata al Pontefice Giulio riferita da S. Epifanio (haeres. 72.), come dalla esposizione di fede, che da lui ricevuta, i suoi discepoli presentarono ai Vescovi Ortodossi, ed ai Confessori, in cui si anatematizza, tra le altre distintamente, l'eresia di Sabellio, per tacere le testimonianze di S. Atanasio ed il giudizio del Concilio Sardicese: e fa eziandio svanire le difficoltà dedotte dagli Scrittori enumerati dal Petavio[166]. A me però basta, che gli argomenti di quel dotto Domenicano e del Montfaucon vaglian soltanto a lasciare il fatto di Marcello nell'antica dubbiezza[167] per verificare, che il Sig. Gibbon per iscreditare il partito Cattolico pone per indubitati dei fatti, che non lo sono. Ma quand'ancora si potesse provar chiaramente, che l'Ancirano sostenne il Sabellianismo, resterebbe pure da mostrare a Gibbon, che S. Atanasio difese il medesimo errore, ed il difese per più di vent'anni, ed io lo sfido a citarmi un sol testimone in suo favore. Ma gli spiriti filosofici dei nostri giorni si arrogano l'altissimo privilegio di asserir senza prove, ed in bocca loro un'espressione enfatica, od un motto pungente ha da passare per una perfetta dimostrazione. Uditelo infatti: Il celebre sogno di Costantino può spiegarsi o colla politica, o coll'entusiasmo dell'Imperatore, e la famosa apparizion della Croce è una favola Cristiana, che potè trarre la sua origine dal sogno, e si mantenne un onorevole posto nelle leggende di superstizione, finattanto che l'ardito e sagace spirito di critica osò di non apprezzare il trionfo, e di attaccar la veracità del primo Imperatore Cristiano.

Chi non crederebbe a sentir parlare in un tuono sì decisivo, che questo avvenimento si dimostrasse falso al dì d'oggi come si è dimostrata falsa la storiella della Papessa Giovanna? Non sono già leggende di superstizione a giudizio del Sig. Gibbon medesimo le opere del Tillemont, del Fleury, del Noris[168]: eppure ed il celebre sogno, e la famosa apparizion della Croce vi trovan luogo tuttora. Non è una leggenda di superstizione la bella dissertazione del Benedettino Matteo Jaccuzzi[169], nè troppo superstiziosi, cred'io, si diranno gli Autori della Storia Universale; eppur questi ed altri moltissimi ricevon tutto il racconto di Eusebio (L. I. C. XXVIII. in V. Constantini ). Ed a ragione: poichè se la politica e l' entusiasmo avesser potuto indurre il primo Imperatore Cristiano ad uno spergiuro sacrilego, avrebbe almeno egli avuta tanta politica da non allegare per testimone della visione tutto l'esercito, che lo seguiva. Che se Costantino non solo narrò al suo confidente Eusebio il prodigio, ma soggiunse: eo viso et seipsum, et milites omnes qui ipsum sequebantur, et qui spectatores miraculi fuerant, vehementer obstupefactos: ecco migliaia di persone atte a scoprir l'impostura del primo già morto, mentre Eusebio scriveva, ed a rilevare e decidere la credulità del secondo. Il fatto si e però che id quod subsecutum est tempus sermonis hujus veritatem testimonio suo confirmavit. Lo confermarono le vittorie e la conversione di Costantino, lo confermarono il Labaro, e l'iscrizione conservataci da Eusebio, e lo confermarono con ogni apparenza di verità molti di quegli spettatori, che, quando scrisse Eusebio[170] tai cose, sopravvivevano. Nè starò ad allegare gli atti del Martire Artemio, rigettati senza però sospirare, come afferma falsamente il Sig. Gibbon, dal Tillemont: il Cronico Alessandrino, Lattanzio, Filostorgio, Socrate, Niceforo, Gelasio Ciziceno, e molti altri Scrittori di ogni nazione ed età, e di religione diversa: le pitture dell'Effemeridi Greco-Moscovite, una antica lucerna, nella quale sotto il monogramma di Cristo si legge: ἐν τουτω νικα: son testimoni e monumenti, i quali dal più ardito e sagace spirito di Critica non si abbatteranno giammai con puri argomenti negativi, quali sono gli addotti dal Sig. Gibbon: ciò non ostante ha da essere un tale avvenimento una favola Cristiana, ed una leggenda di superstizione, solo perchè il Sig. Gibbon decide così: come pure per la ragione medesima noi dobbiam credere, che la fermezza di Liberio fosse superata dai travagli dell'esilio, e che quel Romano Pontefice comprasse il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze. Qui però mi aspetto, che voi prendendo le parti del vostro compatriota vi maravigliate, come io ardisca rimproverarlo intorno ad un fatto, di cui tra i Protestanti del pari che tra i Cattolici comunemente si è convenuto, e parmi di vedervi stendere la mano alla penna per tessere il numeroso Catalogo degli Scrittori che sostengono la caduta di quel Pontefice. Vi prego però a voler sospendere questa inutil fatica, ed a riassumer piuttosto l'esame di questo fatto con quella maturità di riflessione, la quale è sì propria di voi. Quali adunque mai furono queste ree condiscendenze di Liberio? Soscrisse egli forse qualche formula di Fede eretica? Questa opinione, che fu già dei Centuriatori Magdeburgesi, di Giunio, di Chamber ec. è stata omai confutata pienamente dal Gretsero[171] e da Natale Alessandro[172] per tacere degli altri, nè ardirei mai di attribuirla al Sig. Gibbon. Forse Liberio, sorpreso dagli artifizi dei Semiarriani, gli ammise alla sua comunione, soscrivendo la personal condanna di S. Atanasio? Questo appunto sembra essere il sentimento del nostro Storico, e questa è stata sempre, io nol niego, la comune opinione. Non la pensano però così il Ch. Corgnio Canonico di Soissons[173], non l'eloquentissimo Card. Orsi[174], non l'eruditissimo Zaccaria nell'appendice alla Teologia del Petavio in una Dissertazione: De Commentitio Liberii lapsu. Ed eccone le principali ragioni. Teodoreto[175] versatissimo nelle storie, che chiama Liberio nell'atto di andare in esilio gloriosum veritatis Athletam, lo chiama poi di ritorno, egregium omni laude dignissimum, admirandum: Son eglino titoli questi, che convenissero a Liberio, il quale avesse comprato il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze? Cassiodoro[176] detto da Incmaro Remense[177] virum acerrimi ingenii, et insignis eruditionis pensa, e scrive nei termini di Teodoreto. Altrimenti vogliamo noi credere, che il popolo Romano avesse accolto Liberio siccome avvenne per testimonianza di S. Girolamo, e di Marcellino[178] in aria di trionfante? Quel popolo, io dico, a cui esso era carissimo appunto per la sua fermezza in resistere all'Imperatore Costanzo[179], che era amantissimo di S. Atanasio, e che non odiava l'intruso Felice, se non perchè comunicava con gli Arriani, quantunque formulam fidei a Nicenis Patribus expositae integram quidem, et inviolatam servabat[180]. Che se Liberio vinto dai travagli dell'esilio avesse condisceso a Costanzo a danno della causa del grande Atanasio, e della verità religiosa, ed a prezzo sì indegno avesse comprato il suo ritorno, avrebbe pur anche espiata con opportuna penitenza la propria colpa; e la prima e necessaria testimonianza di pentimento sarebbe stata una ritrattazione o dichiarazione del suo operato: ed il Sig. Gibbon istesso par che ne abbia veduta la necessità, come ancora la vide quell'impostore, che ci ha lasciato un frammento di una lettera comunicatoria sotto il nome di quel Pontefice diretta a S. Atanasio[181]. Ora il pentimento dei Vescovi ingannati a Rimini vien contestato da molti Autori contemporanei[182]; ma nè Sulpizio Severo, nè Socrate, nè Sozomeno, nè Teodoreto fanno menzione di quel di Liberio. Aggiungete, che questo Papa scrivendo ai Vescovi dell'Italia[183] dopo il Concilio Riminese, dice che sebbene vi fossero alcuni di parere non esse parcendum his qui apud Ariminum ignorantes egerunt, ei però pensa diversamente, così esprimendosi: sed mihi, cui convenit omnia MODERATE perpendere, maxime cum et Egyptii omnes et Achivi hanc adunati sententiam receperint (secondo la correzione degli Editori Benedettini) visum est parcendum quidem his, de quibus supra tractavimus. Qui pone in veduta Liberio, che il Sovrano Pontefice debba essere moderato: qui egli sembra determinarsi pel perdono a contemplazione ancora dei Greci e degli Egiziani. Ma come avrebbe potuto mostrar di esitare a concedere perdonanza a dei Vescovi pentiti di ciò che ignorantes egerant in una causa, in cui egli medesimo avesse lasciata vincere la sua fermezza e fosse stato colpevole condiscendente? E come ostentare moderazione senza esporsi alle risa, ed alle invettive degli emuli, e forse di quei medesimi, a cui accordava il perdono? Unite tali riflessioni alle testimonianze degli Storici sopraccitati[184], e decidete se la caduta di Liberio non debba aversi per favolosa, giacchè quello, che si ha di essa in S. Atanasio, ed ha fatto illusione a tanti illustri Scrittori, si dimostra esser parto di una mano ignorante o maligna; e supposti eziandio interpolati, ed indegni di S. Ilario si provano quei testi, che per essere stati da molti tenuti per genuini, rendevano indubitata la caduta di Liberio[185]. Io però mi sarei contentato[186], che il Sig. Gibbon avesse citato Ruffino là dove dice[187]; Liberius Romae Episcopus, Costantio vivente, regressus est. Sed hoc utrum quod acquieverit voluntati suae ad subscribendum, an ad populi R. gratiam, a quo proficiscens fuerat exoratus, indulgens pro certo compertum non habeo. Non è però da pretendersi questa sincerità e moderazione da chi mette in dubbio i fatti più certi, e che talora anche li nega od oscura. Incominciamo dalla riedificazione del tempio di Gerusalemme tentata in van da Giuliano. «La demolizione dell'antico tempio, dice il Sig. della Bleterie[188], era terminata, e senza pensarvi si erano rigorosamente adempiute le parole di Cristo: non relinquetur lapis super lapidem, qui non destruatur[189]. Si vollero gettar le nuove fondamenta, ma usciron dal luogo medesimo vortici spaventosi di fiamme, che con formidabili slanci divorarono i lavoranti. Lo stesso accadde diverse volte, e l'ostinazione del fuoco rendendo inaccessibile quel luogo, costrinse ad abbandonare per sempre l'impresa». Son questi gli stessi termini di Ammiano Marcellino, autore contemporaneo[190]. Ruffino[191], Teodoreto[192], Socrate[193], Sozomeno[194], Filostorgio confermano il fatto attestato altresì da tre Padri coetanei ancor essi Gio. Grisostomo, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno, dal primo vent'anni dopo davanti a tutta Antiochia[195], dal secondo non molto dopo, come cosa notissima scrivendo all'Imperatore Teodosio; dal terzo in uno[196] dei suoi discorsi contro Giuliano composto l'anno medesimo. Non vi è adunque, conchiude il Mosemio[197], avvenimento certo sì come è questo. Tuttavolta a sentimento di Gibbon, un Filosofo potrà sempre domandare l'original testimonianza d'intelligenti ed imparziali Spettatori. Sì certamente potrà domandar un filosofo Spinosista, od uno che sembra insultare i Santi Ortodossi sfidandoli a scegliere intorno alla celebre morte d'Arrio o il veleno o un miracolo, quand'ei fu sempre attorniato da una folla di Eusebiani; sì uno che ha la franchezza di domandare col Sig. Jortin chi prova la verità dei miracoli dei Monaci antichi Egiziani, mentre quello, che asserisce Teodoreto[198] del Monaco S. Giuliano, può con ragione asserirsi di quasi tutti: magnitudinis autem miracolorum factorum ab illo testes etiam sunt hostes veritatis. Qui non si tratta di un fenomeno passaggiero, come è un fuoco fatuo, od una stella cadente; i vortici di fuoco si videro diverse volte: metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis ALIQUOTIES operantibus inaccessum. Nè i testimoni del fatto son puri Cattolici, e però tali da non dispiacer loro un miracolo. Ve n'ha degli Eterodossi, ve n'è un Pagano giudizioso e candido storico per confessione del Sig. Gibbon, e spettatore IMPARZIALE della vita e della morte di Giuliano, per non contarsi Giuliano medesimo[199]. Considerate poi se la nazione Giudaica, di cui gli uomini si erano dimenticati della loro avarizia, e le donne della loro delicatezza per agevolare la sospirata intrapresa; se il Monarca, che si proponeva di stabilire in quel tempo un ordine di Sacerdoti, l'interessato zelo dei quali scuoprisse le arti, e resistesse all'ambizion dei Cristiani loro rivali, ed invitarvi gli Ebrei, il forte fanatismo dei quali sarebbe sempre stato pronto a secondare ed anche prevenire le ostili misure dal Paganesimo; se il virtuoso, dotto, fortissimo Alipio, che presiedeva coraggiosamente a quell'opera; se Libanio l'adulatore più sfacciato, che abbian conosciuto le Corti, sarebber sempre rimasti in un vergognoso silenzio, quando tante bocche Cristiane gridarono altamente al miracolo? Conchiuderò dunque col lodato Mosemio: «Chiunque esaminerà questo fatto con attenzione e senza parzialità, troverà le più forti ragioni di aderire all'opinion di coloro, che lo attribuiscono all'azione immediata della Divinità. Gli argomenti, che si propongono per provare che fu un fenomeno naturale, o come altri il pretendono, effetto dell'arte e dell'impostura, non hanno solidità, e si possono confutare con la maggiore facilità».

Un altro fatto oscuro pel Sig. Gibbon è lo scisma dei Donatisti. Forse, egli dice, la loro causa fu decisa giustamente, e forse non era priva di fondamento la lor querela, che si fosse ingannata la credulità dell'Imperatore: Due cose però egli tiene per ferme, la prima che il vantaggio, che Ceciliano poteva trarre dall'anteriorità della sua Ordinazione veniva tolto di mezzo dall'illegittima od almeno indecente fretta, con cui si era fatta senza aspettare l'arrivo dei Vescovi della Numidia; la seconda è che i due partiti non ostante il loro irreconciliabile odio avevan gli stessi costumi, lo stesso zelo e dottrina, la istessa fede e lo stesso culto. Ma per quanta oscurità possa trovarsi in tal fatto sappiamo da S. Ottato Milevitano[200] e da S. Agostino[201], cioè da scrittori i meglio informati di tutta la controversia, che l'ambizion di Bostro e Celesio, i quali con Lucilla formarono il rabbiosissimo scisma, impedì l'intervento dei Vescovi della Numidia all'elezione di Ceciliano: che questi fu eletto con i suffragi di tutto il popolo, e quindi ordinato dal Vescovo di Aptonga, città vicina a Cartagine, e conseguentemente a norma del costume vegliante, in quel modo appunto che il Vescovo Romano si consacrava da quello d'Ostia. E ciò è tanto vero, che cent'anni dopo pretendendo i Donatisti, che Ceciliano fosse stato condannato per non aver ricevuta l'ordinazione dal Primate Numida, S. Agostino fu in grado di sostenere, che questa ommissione neppur gli era stata obiettata. Infatti Ceciliano all'arrivo dei Vescovi della Numidia era già unito con tutta Cartagine, trattine pochi Scismatici, e per mezzo delle usate lettere comunicatorie con la Chiesa di Roma, con tutte quelle dell'Affrica e dell'Universo. Non credeva adunque la Chiesa Cattolica, che l' anteriorità dell'ordinazione di Ceciliano venisse tolta di mezzo dall'assenza dei Numidi, nè poteva crederlo per le ragioni addotte, e nol credevano gli stessi faziosi: perocchè, non trovando delitto da rimproverare a Ceciliano, si ridussero ad asserire contro la verità che il Vescovo Aptungitano Consecrante era uno dei traditori.

Con qual fronte poi osa il Sig. Gibbon di decantare nei due partiti tanta uniformità di costumi, di zelo, di dottrina e di fede? I Donatisti rovesciavano gli altari, o li purgavano come contaminati da quei che si dicevan Cattolici: frangevano i sacri vasi e li fondevano, infierivano contro i vivi e contro i defunti, gettavano il Crisma per le finestre, ed ai cani la Sacratissima Eucaristia, come attestano i Padri sopra lodati, ed espone il medesimo Sig. Gibbon[202]. Ora dove si legge che fossero somiglianti costumi nel partito Cattolico? Qui si chiedono al Sig. Gibbon testimonianze da stare a confronto con quelle di Ottato e di Agostino. Ma non allegandone, e non potendone allegare veruna: qual concetto formerete del vostro Gibbon? E per riguardo alla dottrina e alla fede non erano i Donatisti quei soli, che ribattezzando negavano l'efficacia del battesimo amministrato fuor della vera Chiesa contro i decreti dei Concili di Arles[203] e di Nicea[204]? E non riputavano una meretrice la Chiesa Cattolica, pretendendo che la vera ed immacolata fosse riconcentrata nella fazion di Donato, e pronunziando nel tempo medesimo la condanna della loro eresia con quelle solenni parole liturgiche, con cui dicevano di offerire il Sacrificio per l'unica Chiesa, la quale è sparsa per tutta la terra? Ommetto, che Donato il Cartaginese era Arriano di sentimento, perchè la moltitudine dei Donatisti non vi aderiva[205]: essendo assai manifesto e per le cose già dette e per essere stati refrattari i Donatisti ad ambedue le legittime Potestà, il Sacerdozio e l'Impero, aver eglino avuto una Fede ed una Dottrina molto diversa da quella dei loro avversari.

Avendo il Sig. Gibbon intrapresa in qualche modo la difesa dei Donatisti, con quanta ragione però già l'avete veduto: credete voi che ei volesse abbandonare la causa dei Novaziani? Pensate: essa è la migliore del Mondo, perciocchè ortodossa era la loro fede e sol dissentivano dalla Chiesa in alcuni articoli di disciplina, i quali forse non erano essenziali per la salute. A dir vero, sulle prime, Novaziano si contentò di dolersi, che in Roma i caduti si ricevessero alla Comunione con soverchia facilità, e questo potè passare per uno zelo di disciplina[206], ed anche sedurre alcuni Santi allor prigionieri per la fede. Ma quindi ed egli, e molto più apertamente i seguaci di lui[207] unirono allo scisma l'eresia negando alla Chiesa la potestà di riconciliare i caduti in tempo di persecuzione per qualsivoglia penitenza che essi facessero contro le generali ed illimitate espressioni di Gesù Cristo[208], e condannando le seconde nozze per modo da dichiarare adultere quelle vedove che si rimaritavano, come se avesser preteso di saperne più di S. Paolo[209], dice S. Agostino, ed avere una dottrina più pura di quella degli Apostoli. Senza che io mi dilunghi a noverare gli altri errori dei Novaziani ed intorno all'assoluzione dei peccati gravi commessi dopo il battesimo stesso, al culto delle reliquie, il Canone VIII. del I. Concilio Niceno basta per sè solo a distruggere affatto la loro pretesa Ortodossia. Haec autem prae omnibus eos, (Cioè i Novaziani, i quali avevano assunto l'orgoglioso nome di Catari) convenit profiteri, quod Catholicae et Apostolicae Ecclesiae Dogmata suscipiant et sequantur, idest et bigamis se communicare, et his qui in persecutione prolapsi sunt. Non ho avuto difficoltà ad allegare l'autorità di un Concilio, primieramente perchè il mio disegno scrivendo è di premunir voi, che vi gloriate di esser Cattolici contro gli errori del Sig. Gibbon; ed in secondo luogo perchè egli per quanto ironicamente possa chiamarne infallibili i Decreti, trattandosi dei generali pur si confessa ben soddisfatto dell'articolo Concile nella Enciclopedia e ne cita ancor esso le decisioni, quando gli torna in acconcio. Sarebbe pure stato considerabile in uno storico giudizioso e sincero, che ne avesse allegata alcuna per confermare, che la superstizione de' tempi abbia insensibilmente moltiplicati gli ordini, giacchè nella Chiesa Romana oltre il carattere Episcopale se n'è stabilito il numero di sette, tra i quali però i quattro minori son presentemente ridotti a vuoti ed inutili titoli. Per altro pur troppo è giusta riguardo a molte Chiese particolari quest'ultima riflessione: comecchè dai Padri Tridentini[210] fosse fatta ai Vescovi una gravissima esortazione, ed un positivo comando, che nelle sacre funzioni si rendessero attivi i Chierici dal Diacono fino all'Ostiario. Ma questo istesso dimostra, che la Chiesa universale rappresentata da quel sacro Consesso, contro l'avviso del Sig. Gibbon è persuasa che tutti questi Ordini, benchè sia forse soverchio il numero degli Ordinati, non sono un parto della superstizione. Erano forse tempi di superstizione i primi tre secoli della Chiesa e l'età degli Apostoli? Or di quei tempi appunto gloriosissimi per Santa Chiesa s'introdussero questi ordini per sentimento del medesimo S. Concilio: Sanctorum Ordinum a Diaconatu ad Ostiariatus functiones ab Apostolorum temporibus in Ecclesia laudabiliter receptae in usum juxta Sacros Canones revocentur. Non ignoravano quei venerabili Padri, che fino dalla metà del terzo secolo Cornelio R. Pontefice scrivendo a Fabio Antiocheno[211] numera sette Suddiaconi, 42. Accoliti, e tra Esorcisti, Lettori, ed Ostiari 52: e che S. Ignazio Patriarca antichissimo di Antiochia scrive in una lettera: saluto Sanctum Presbyterium, saluto Sacros Diaconos, saluto Subdiaconos, Lectores, Exorcistas... Li vedevano rammentati nel quarto secolo dai Concili Laodiceno e Cartaginese come cosa già da gran tempo stabilita, e per conseguenza eran convinti, che non per superstizione tali Ordini sunt adjecti, ma bensì propter utilitatem ministerii, quod propter multitudinem credentium per alteros postea impleri debere necessitas flagitavit[212].

Ciò che finora io sono andato divisando, benchè di volo, può, cred'io, bastare a convincervi, che il Sig. Gibbon dà per indubitati alcuni fatti di Storia Ecclesiastica, che se non son falsi, sono almen dubbi ed indecisi, e che per l'opposto i meglio autenticati e più certi o niega od oscura sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico. Leggetelo con attenzione, e troverete altri esempi per confermare la verità della mia asserzione.

LETTERA III.

Chi ha del Vangelo la stranissima idea, che esso apra un infinito prospetto d'invisibili mondi, e spieghi la misteriosa essenza della Divinità, la quale abitando in mezzo ad una luce inaccessibile noi viatori non possiam vedere che di riflesso ed in enimma, non dee recar maraviglia se mal conosca e sfiguri i Dommi della nostra SS. Religione quantunque fondamentali. Tal è il Sig. Gibbon. Primieramente è suo disegno l'inculcare, che quello, che dai Cristiani si crede del Divin Verbo, altro non è se non se un Domma già maravigliosamente annunziato da Platone anzi il fondamental principio della Teologia di quel Filosofo: il quale però non si stabilì sufficientemente, come una verità, o trovossi in stato di restar sempre confuso con le filosofiche visioni dell'Accademia ... finchè il nome, ed i divini attributi del Logos non furono confermati dalla celeste penna dell'ultimo e del più sublime fra gli Evangelisti.

Secondariamente si lusinga nella controversia Arriana di andare seguendo il progresso della ragione e della Fede, dell'errore e della passione in un modo da farsi credere uno storico, il quale tiri rispettosamente il velo del Santuario (p. 90.).

Nella presente lettera farò alcune riflessioni su questi due punti: e riguardo al λογος, asserisco I. che il Domma Cristiano del Divin Verbo non è maravigliosamente annunziato da Platone, e che verisimilmente neppure il nome λογος è stato preso da lui[213]. II. Che prima dell'Evangelo di S. Giovanni per divina rivelazione era stato scoperto al Mondo il sorprendente segreto, che il λογος, che era con Dio, fu dal principio, che era Dio ec. Si era incarnato ec.

Esaminando senza prevenzione le opere di Platone egli è ben difficile, per non dire impossibile, il persuadersi, che esso distinguesse l'idea, il λογος dal sommo Dio. Infatti in quel libro, in cui riferisce ciò che egli aveva appreso da Timeo Locrese, Pitagorico illustre, fissando che due son le cagioni di tutte le cose, stabilisce, che di quelle, le quali si fanno secondo la ragione ella è una mente Νὸον μἐν των κατὰ λογον γιγνομενων, la quale chiamasi Dio, è cagione delle cagioni θέον τε ὀνομαὶσερ θαι, ἀρχην τε τὦν ἀρχὦν, e che questo Dio è un Essere improdotto ed immutabile ed intelligibile esemplare di quante cose soggiacciono a mutazione καὶ τὸ μὲνεὶμεν αγενατον τε καὶ ἀχινάτον... νοατον τε καὶ παραδεῖγμα τὸν γεννωμένων, όπὸσα ὲν μετὰβολα ἑντε e per fine questa mente, questa Idea, questo Dio, questo Esemplare non stassi ozioso ma tien la ragione di maschio, e di padre ὥ τό μέν ἓιδος λόγος εχει ἆρρενος τε καί πὰτρος. Fin qui adunque non sembra aver neppur sospettato Platone, che l'Idea, il Verbo, od il λὸγος si distingua da Dio Sovrano. Indi prosegue a dire, che prima della disposizione dei Cieli fatta λὸγω altro non vi era che Idea, materia: ma che ο Φὲος δημιῦργος Iddio sommo Artefice: ordinò la seconda, sottoponendola a certe determinate leggi. Se adunque il Cielo od il Mondo secondo quel Filosofo è formato λὸγω, e questo λὸγος è l'idea ίδεα, e l'idea, la quale esso chiama in appresso, intelligibile essenza... ed esemplare, che in sè contiene tutti gli animali intellegibili τὰν νοητὰν ουσιὰν… καί τὸ παρὰδειγμα περὶεχον πὰντα τὰ νοατὰξῶα ὲν ὰυτῶ, e l'Idea, io dico non è punto distinta da Dio; si rende manifesto, che Platone non fa distinzione alcuna tra il Logos, e Dio.

Il Dialogo intitolato il Timeo, in cui più diffusamente si espongono i pensamenti di quel filosofo conferma ciò che abbbiamo veduto finora. E come non vedere che il Logos non è una persona distinta da Dio, ma o il raziocinio di lui λυγισμος θεοῦ[214] o la Idea, la Nozione, il pensiero di Dio ἔξ οὔν λόγου καί διάνοιας θεου ec.[215] è infine Dio stesso che avendo pensata λογισαμένος, e che per tal pensiero, o ragione διὰ τόν λογισμον τὸν δὲ[216] formò l'Universo?

Una maggior somiglianza della dottrina Platonica con la Cristiana apparisce nella lettera, in cui Platone invita Ermia, Erasto, e Corisco ad unirsi in amicizia chiamando in testimone Dio regolatore delle cose tutte esistenti e future, e Padre Signore del Regolatore e Principio. καί τὸν τῶν πὰντον θεὸν ἡγέμονα τῶν τε οντῶνκαί τῶν μελλόνκων τε ἡγέμονός καί αιτίου πατέρα κυρίον νἓπομνύτας. Egli è però certo, che quel Filosofo per figlio di Dio, non intende altro che il Mondo, come ei dichiara nell'Epimonide, dicendo: E quale Dio mai vado io celebrando? Il Cielo senza fallo. τινά δη καί σεμνυνῶν ποτὲ λεγῶ θεον: σχὲδον ούράνον. Sì il Cielo od il Mondo, come si spiega in più luoghi del Timeo, lì è Figlio di Dio, del quale parla il filosofo Ateniese, generato dalla prima ed immutabile cagione[217], figlio Unigenito, immagine di Dio, e Dio perfettissimo, perchè creduto da lui di una perfettissima somiglianza non colla sola eterna idea del sommo Fattore, ma col sommo Fattore medesimo. Di qui lo scherzo di Velleio Epicureo nel chiamare rotondo il Dio di Platone[218]. È poi ciò tanto vero, che Platone per prevenire l'obbiezione, che poteva farsegli contro la pretesa perfettissima somiglianza del Mondo con Dio, essendo questo sempiterno, e quello formato, soggiunge[219] che siccome il solo prototipo Dio esiste da tutta l'eternità: così il Mondo è il solo ad essere stato, ad essere attualmente, e che sarà per tutto il tempo. Τό μέν γὰρ δὴ παρα. δειγμα πάντα ἄιωνα εδίν ον. ὸ δ’ αὺδιὰ τέλους τον απαντα χρονον γεγωνος (ουρα ος) τε και ῶν, καί ἔσομὲνος ἔδι μόνος. E poichè tuttavolta dopo la produzione del tempo mancava ancor qualche cosa al Mondo per essere somigliantissimo al suo esemplare Dio; questi al parer di Platone vi fece altrettante specie di animali, quante corrispondessero alle sue idee, essendo egli l' eterno animale. Aggiungete, che niuno degli antichi i più versati nelle opere di quel creduto Dio de' filosofi vi ha ravvisato giammai che il Logos sia figlio vero di Dio, ed una persona da lui distinta. Non Cicerone, il quale chiamando la vera legge: mentem omnia ratione aut cogentis, aut vetantis Dei: e dicendola nata simul cum mente divina, conchiude che ella è in sostanza Ratio recta summa Jovis[220]. Non Plutarco; poichè sebbene attribuisca il sistema di tre principi a Platone, cioè Dio, la materia, e l'Idea che egli chiama essenza incorporea; ciò nonostante non la distingue da Dio, ma la pone esistente nei concetti e nell'immaginazione del medesimo Dio ὲν νομάσι καὶ φαντάσιαις τοῦ θεοῦ[221]. Non Celso finalmente, il quale sebben sovente deridesse i Cristiani come plagiari di Platone, e mille volte li rampognasse della loro credenza intorno al Figlio di Dio G. C., confessa chiaramente, accennando senza dubbio Platone, che gli antichi chiamavano il Mondo figlio di Dio, perchè esso è prodotto da Dio: ὰνδρες παλαιοὶ τὸν δὲ τόν κόσμον ὡς ἑκ θεοῦ γεγομένον, παιδὰ τὲ αὐτοῦ ἤιθεον προσείπον[222]. Ciò presupposto, vi par egli che la fede Cattolica del Divin Verbo sia un Domma già maravigliosamente annunziato da Platone, anzi il fondamental principio della Teologia di quel filosofo? Quando non fosser giustissime le spiegazioni dei luoghi sopraccitati[223], e si temesse di fare ingiuria ai Padri della Chiesa[224] (scrupolo che se è potuto cadere nel Ch. Zaccaria, è del tutto fuori del carattere dei Sig. Gibbon) a non concedere a quel filosofo alcun'ombra d'idea dell'arcano, di cui ragiono; non basterebbe a smentire la proposizione dello storico, e mostrare che ei non conosce, o sfigura i nostri dommi veramente fondamentali, e la discordia che osservasi tra gl'interpreti più celebri della dottrina Platonica, Plotino, Numenio, Proclo, ed altri da quest'ultimo confutati, e quel che ne dice nella sua stupenda opera il P. Petavio, anzi quel che ne dice il Sig. Gibbon istesso? Il Logos di Platone è per il Sig. Gibbon una metafisica astrazione animata dalla sua poetica immaginazione, con cui rappresentosselo sotto il più accessibil carattere di Figlio di un Eterno Padre Creatore e Governatore del Mondo. Ma il Logos, di cui S. Giovanni ha sì chiaramente definita la precedente esistenza, e le divine perfezioni, è per Domma Cattolico vero figlio di Dio, ed è una Persona distinta dall'Eterno suo Genitore. Dove è dunque tanto maravigliosamente annunziato da Platone questo Domma Cattolico? Ella è poi un'altra quistione di pura critica, se S. Giovanni togliesse da Platone questo vocabolo λόγος: il che sebben sia facilissimo l'asserire, tanto è lontano da potersi provar chiaramente, che anzi le congetture son del tutto contrarie. Basti riflettere, che Platone era il favorito dei Farisei, e degli Eretici contemporanei degli Apostoli. Questi adunque per l'uno e per l'altro motivo dovevan guardarsi dal far uso a bella posta sì delle dottrine, che delle espressioni Platoniche. Vero è però, che in progresso di tempo Ammonio, fondatore della scuola Alessandrina, volendo formare un sincretismo universale filosofico e teologico, pretese che Platone avesse insegnata la Trinità: ed i Padri della Chiesa se ne persuasero per la lusinga di far ricevere ai Gentili i nostri misteri coll'autorità dei medesimi loro filosofi. Così le oscurissime idee di Platone furon determinate nel senso Cristiano. Ma quanto la Trinità di Platone sia lontana dalla nostra Cristiana pochi vi sono che nol sappiano, specialmente dopo la celebre opera del P. Mairan[225].

Vediamo adesso, se prima del Vangelo scritto da S. Giovanni nel regno di Nerva[226] fosse ancor rivelato, che il Logos che era con Dio fin dal principio, che era Dio, che aveva fatto tutte le cose, e per cui tutte le cose erano state fatte, si era incarnato nella persona di Gesù di Nazaret, era nato da una Vergine e morto sulla croce. Avvertite bene: io non metto in questione se S. Giovanni fosse primo tra gli Scrittori inspirati dalla nuova alleanza ad usare la voce λὸγος; pretendo solo contro il Sig. Gibbon, che il soggetto, o la persona, a cui l'applicò S. Giovanni fosse già nota per divina rivelazione, pretendo in somma, che la dottrina, che assegna a Dio un figlio da Lui distinto, eterno, ed a Lui eguale fosse rivelata bastantemente molto prima dell'ultimo Evangelista. Ciò poi dovrà intendersi dimostrato quando si provi, che in quel medesimo Gesù di Nazaret la rivelazione divina aveva fatto conoscere riuniti quegli stessi caratteri ed attributi, che si ravvisano nel Logos di S. Giovanni.

Io non istarò ad insistere con il dotto Lamy[227] sulle testimonianze di Filone[228] per mostrar che gli antichi Giudei avevano la stessa nozione del Verbo Divino ιοῦ λόγου θεἰου, la qual ce ne danno gli scritti dei Cristiani, nè sulle parafrasi Caldaiche del V. T. le quali in cento luoghi insinuano, che il Membra corrispondente al λόγος dei Giudei Ellenisti è distinto da Dio Padre, è Dio, e mediatore tra Dio e gli uomini. Osserverò bensì col Ch. vostro Pocok nelle sue note ad Portam Mosis, che tutti gli antichi Ebrei interpretarono il secondo Salmo Davidico del Messia (e conseguentemente di G. C.) tenuto sempre per vero figlio di Dio[229] finchè non si videro costretti ad interpretarlo altrimenti, ut respondeatur Minacis seu haereticis, cioè a noi Cristiani, secondo l'espressione di R. Jarchi. Mi unisco ancora col soprallodato Lamy a maravigliarmi come chi ha dato un'occhiata al Vangelo possa esser d'avviso, contro la testimonianza di S. Epifanio[230], che fosse ignota ai buoni antichi Israeliti la Trinità: mentre l'Angelo Gabriele nell'annunziazion della Vergine abitante in Nazaret[231], le ne ragiona come di cosa notissima. E notate che l'ossequio di lei alla fede era quale l'esige S. Paolo da tutti i Cristiani, non cieco, ma ragionevole. La difficoltà da lei opposta sulla propria fecondità ne sia la riprova. Eppur ella non chiese chi fosse lo Spirito S. fecondatore, non chi il figlio dell'Altissimo Salvatore, e Re Sempiterno, mistero per lo meno tanto sublime ed astruso, quanto la fecondità di una Vergine. Ma checchesia della credenza Giudaica prima della venuta di Gesù Cristo, certo è che S. Luca riferì molto prima[232] del Vangelo di S. Giovanni questa celeste ambasceria, ed inserì ancora nella sua narrazione il Cantico di Maria, il colloquio di lei con Elisabetta, e l'altro Cantico di Zaccaria. Ora nel primo la Vergine esulta alla vista del suo Salvatore vicino[233] σοτηρί μου, Elisabetta si umilia profondamente alla madre del suo Signore[234], e Zaccaria chiama il suo neonato Profeta dell'Altissimo e Precursor del Signore[235] disceso dall'alto de' Cieli ad illuminare l'uman genere sedente nelle tenebre e nell'ombra di morte. Lume illustratore delle nazioni e Salvatore fu detto Gesù ancora dal buon Simeone[236], quando colle tremule braccia se lo strinse al seno, allorchè Maria presentollo al Tempio: come forse prima ancor di S. Luca, e certamente non molto dopo narrò S. Matteo[237]. E che diremo poi di quella voce celeste, che in occasione del battesimo di G. Cristo pubblicamente lo autenticò per figlio di Dio: Hic est filius meus dilectus in quo mihi bene complacui[238]? Mi si opporrà forse coi Sociniani, che si parla in quel luogo di una figliuolanza di adozione? Ma quelle parole, specialmente coll'enfasi del testo Greco ὸ υἰόςμου, ὁ ἀγάπητος ille est filius meus, ille dilectus[239], non indicano la preesistenza della persona, a cui son dirette, ed alludendo chiaramente al Cap. VIII. dei Proverbi, ove parla la Sapienza medesima, o il λὸγος divino non coincidono con l'espression del Salmista[240] Dominus dixit ad me: filius meus es tu, ego hodie genui te? Espressioni applicate a G. Cristo negli atti Apostolici[241], e da S. Paolo nella sua sublime Epistola agli Ebrei[242]. Seguiamo pertanto la sicura traccia di quel gran Dottor delle genti. Egli è fuor di dubbio, che l'intenzion dell'Apostolo nel domandare: Cui enim dixit aliquando Angelorum, filius meus es tu, ego hodie genui te? Ella è di confermare, che Cristo è figlio di Dio in un modo distinto e del tutto singolare. Ma gli Angeli ancora son detti nelle Sacre Scritture figli di Dio[243], perchè son tali per adozione. Dunque se Cristo è quell'unico figlio, che dicesi generato da Dio Padre, e generato hodie, avverbio attissimo ed usato nel sacro linguaggio[244] ad esprimere l'eternità; egli debbe essere necessariamente figlio non adottivo, ma per natura[245]. Ed invero nel capo ottavo della lettera ai Romani, dove il medesimo Apostolo parla diffusamente della figliuolanza di adozione di tutti i credenti, quando rammenta Gesù Cristo, che ce l'ha meritata sottoponendosi alla morte di Croce, lo chiama in opposizione Figlio proprio dell'eterno Genitore. ὀς γε τοῦ ἰδίου υὕου ούκ ὲφείσατο[246]. Qui etiam proprio Filio (suo) non pepercit: espressione esattamente corrispondente a quella di S. Giovanni, là dove ei dice, che i Giudei cercavano di uccidere Gesù Cristo non tanto come violatore del Sabato, quanto perchè[247] diceva Iddio πατέρα ἰδίον Padre proprio, agguagliandosi in tal maniera a Dio stesso: dritto però che secondo il medesimo Apostolo giustamente arrogavasi[248]: Qui cum in forma Dei esset non rapinam arbitratus est se aequalem Deo. E come non dovea credersi proprio, e natural figlio di Dio quello, che vien chiamato dall'istesso San Paolo assolutamente tale le tante volte[249], Immutabile e Sempiterno[250]? Quello di cui dice: portans omnia verbo virtutis suae[251], omnia per ipsum et in ipso creata sunt[252], per quem fecit et saecula[253]? Quello che viene intimato agli Angeli di adorare[254], ed è chiamato super omnia Deus benedictus in saecula, e Dio[255] sedente sopra un eterno trono[256]? Ecco adunque manifestato per una divina rivelazione anteriore di non poco a quella fatta per mezzo di San Giovanni in Gesù di Nazaret un figlio di Dio, Luce vera, un figlio proprio e naturale, Dio ancor esso eguale al Padre, che ha fatto tutte le cose, e per cui tutte le cose sono state fatte, incarnatosi, e nato da una Vergine, e morto sulla Croce. Ma questi sono i caratteri del λόγος di S. Giovanni. Ecco adunque atterrata la proposizione del Critico: ed altro non si può per conseguenza conchiudere se non che l'ultimo Evangelista introdusse una nuova parola, ma esprimente l'idea comune, e ischiarò la materia, spiegando la generazione divina di G. Cristo contro l'oscura e scarsa setta degli Ebioniti, confusi a torto da Gibbon[257] coi Nazareni, con quella esattezza, con cui gli altri tre Evangelisti ne avevano narrata la generazione carnale.

Ci resta ora ad esaminare, se il sig. Gibbon nel seguire il progresso della controversia Arriana abbia tirato il velo del Santuario con quel rispetto che vanta. Già voi sareste in grado di giudicarne sì dalla taccia di Sabellianismo, e da quella di fanatismo data ad un Santo, il cui zelo era temperato dalla discrezione (son parole dell'Autore), e che fu tanto alieno dal tumulto, che dovette perfino difendersi dalla calunnia di codardia che gli procurò la sua fuga[258], come pure dalla caduta di Liberio asserita con tanta franchezza. Ma poichè trattasi del principal Capo di nostra fede, come osservarono ancora i Vescovi adunati in Ancira[259], mi convien darvi una più chiara riprova del rispetto del nostro Storico pel Santuario.

Egli pertanto vuol proibito l'uso dell' Homoousion dal sinodo Antiocheno, e considera quel termine misterioso, che ognuno era libero d'interpretare secondo le proprie opinioni, come un temperamento politico della maggior parte dei Vescovi presenti al Concilio Niceno, alcuni dei quali inclinavano ad una Trinità nominale, ed altri che erano i Santi allor più alla moda, il dotto Gregorio Nazianzeno, e l'intrepido Atanasio favorivano il Triteismo. Quindi a scorno dei Consustanzialisti, che pel loro buon successo avevan meritato il nome di Cattolici reca in trionfo un passo di S. Ilario trascritto da Locke nel modello del suo nuovo repertorio, in cui si duole che tanti sinodi rigettassero, ammettessero, ed interpretassero quel celebre termine: e sembra che si compiaccia nel rammentar le furiose dispute, che quegli ebbero con gli Homoiousii i quali tanto accostavansi, al parer suo, alle porte della Chiesa, che narrando le crudeltà di Macedonio in difesa (com'ei dice) dell 'ομοιουσιον, non può ritenersi dal rammentare che la differenza tra Homoiousion, e Homoousion è quasi invisibile all'occhio teologico più delicato: conchiudendo in fine che tutti erano egualmente agitati dallo spirito intollerante, che avevano tratto dalle pure e semplici massime dell'Evangelio.

È verissimo che il Bull come ancora i nostri teologi si son creduti in dovere di conciliare fra loro i due sinodi Antiocheno e Niceno, osservando che i Santi Atanasio, Basilio ed Illario rammentano la proibizione della voce Ομόουσιον fatta dal primo; ma egli è vero egualmente, che niuno di essi attesta di averla letta nell'Epistola Sinodica: ond'è che essi ne parlarono solo in supposizione, che ella vi fosse, come andavano divulgando i Semi-Arriani, ma falsamente ed a solo oggetto di mostrar che gli Homoousiasti o Consustanzialisti, come per dispregio essi chiamavano gli Ortodossi[260], avevan cambiato dottrina. Imperciocchè se otto, o nove anni prima di quel sinodo i Pentapolitani avevano accusato Dionigi Alessandrino lor Vescovo al Romano Pontefice del medesimo nome come impugnatore dell'Eternità, e Consustanzialità del Figlio col divin Padre, e tal dottrina aveva irritato quel Pontefice, ed il Concilio da esso a bella posta adunato in Roma: se l'accusato avevala rigettata siccome erronea prima in una lettera, e quindi più ampiamente in quattro Libri, rendendo palese la calunnia dei suoi malevoli; mi sembra chiaro, che la credenza della Consustanzialità del Figlio col Padre era fin d'allora comune, come potè sovente S. Atanasio rinfacciare agli Arriani. Or come è mai verisimile, che il sinodo Antiocheno Ortodosso volesse dar sospetto di opporsi in qualche maniera ed alla credenza comune, ed al Romano Pontefice, ed a tutto il suo sinodo condannando la voce Ομοόυσιον? Osservate inoltre che non cominciossi a rammentar tal decreto prima del Concilio Aneirano del 358, vale a dire intorno a novant'anni dopo. Vi par egli che i refrattarj al Concilio Niceno maestri d'inganni, intrighi e sofismi avesser taciuto per sì lungo tempo un Decreto, che gli avrebbe tanto, almeno apparentemente favoriti? L'avrebbe mai od ignorato o taciuto uno dei principali sostegni del partito Ariano, Eusebio di Cesarea, secondo Gibbon, il più dotto dei Prelati Cristiani? Anzi egli medesimo nel Lib. VII della sua storia inserì una gran parte della lettera dei PP. Antiocheni, eppure ivi non ne fa cenno: ed in una, che esso ne scrisse poco dopo al Concilio Niceno[261], limpidamente confessa che i Padri antichi si eran serviti di quella voce. Che se realmente si fosse fatta in quel sinodo tal condanna, come mai pochi anni dopo S. Pamfilo nell'Apologia per Origene avrebbe inserito un intero Capitolo per dimostrare la Consustanzialità del Verbo? Ne volete di più? Nella professione di fede opposta dal sinodo Antiocheno medesimo agli errori di Paolo di Samosata più volte si adopera la voce Ομοουσιον. Apparisce al presente, non so negarlo, fatta in Nicea quella formula: ma che sia questo un errore degli Amanuensi il prova il silenzio di Gelasio Ciziceno presso Fozio, e l'espressa testimonianza del sinodo generale Efesino[262].

Per quello poi che riguarda i motivi, che indussero i Padri Niceni ad adottare il vocabolo Ομοουσιον, egli è tanto difficile il persuader un animo non preoccupato da massime eterodosse a giudicar di quel venerando Consesso, come ne giudica il sig. Gibbon, quanto è malagevole l'atterrare i più stimabili fondamenti della certezza storica. «Erano dispostissimi, siccome attestano S. Atanasio[263] e Teodoreto[264], quei rispettabili Vescovi ad inserire nella professione di fede quelle espressioni soltanto, che si trovavano in termini nelle S. Scritture, cioè che Gesù Cristo è da Dio, è Verbo e Sapienza, e proprio Germe del divin Padre; ma non essendo possibile rinvenirne alcuna che gli Arriani non adattassero al Verbo egualmente, che alle creature, avvedutisi i Padri della lor frode ed empia astuzia furon costretti ad esporre con parole più chiare ciò che intendessero con quella espressione esser da Dio, ed a scrivere per conseguenza, che il Figlio è della sostanza di Dio: affinchè la detta espressione esser da Dio non si credesse accomunata al Figlio ed alle creature, e propria egualmente di loro. In fatti l'esser della divina sostanza non è proprio di creatura veruna, ma unicamente del Verbo... Parimenti quando trattossi d'inserir, nel formulario di fede, che il Figlio è la vera potenza ed immagin del Padre, a lui somigliante, immutabile onninamente, eterno, ed indiviso nel Padre, tanto bisbigliarono gli Eusebiani, tanto mostrarono di applaudirsi scambievolmente con le occhiate e con i cenni, che ben si comprese, che l'espressioni esser simile a Dio, essere in Dio, esser la potenza di Dio eran da essi accomunate al Figlio, ed agli uomini, leggendosi nelle Sacre Scritture, che l'uomo è l'immagine e la gloria di Dio.... Quindi è che i Vescovi, considerata la loro ipocrisia e maliziosa indole, furono anch'essi COSTRETTI DALLA NECESSITÀ a raccogliere il senso di quelle espressioni dalle Scritture, ripetendo con più chiari termini ciò che avanti avevano detto scrivere che il Figlio è ομοουσιος Consustanziale al Padre ec.». Questo medesimo vien ripetuto dal S. Primate nella sua Epistola agli Affricani[265], e da S. Gregorio Nazianzeno[266]. Adunque non per nascondere le lor differenze, non per sospendere le loro dispute, non per unire i loro partiti divisi tra il Sabellianismo ed il Triteismo i Padri Niceni adottarono l' Homoousion; ma per recidere COSTRETTI DALLA NECESSITÀ con un colpo solo la nefanda testa dell'Arrianesimo.

Ma vi era poi realmente quel gran numero di fautori di una Trinità nominale magnificato da Gibbon nell'assemblea, che introdusse quella voce nel simbolo? I Santi, che a detta del nostro rispettosissimo Critico, erano più alla moda al tempo degli Arriani Atanasio, Gregorio Nazianzeno, a cui si aggiungono il Nisseno e Cirillo l'Alessandrino[267] favorirono veramente l'ipotesi delle tre menti, o sostanze, e dei tre esseri coeguali e coerenti mediante la perpetua concordia di loro amministrazione e l'essenzial conformità del loro volere? Dio buono! E come può essere ignoto al sig. Gibbon, che presentatosi S. Illario al Sinodo di Seleucia[268] primum quaesitum est ab eo, quae esset Gallorum fides; quia tum Arrianis prava de nobis vulgantibus ab Orientalibus suspecti habebamur TRINONYMAM SOLITARII DEI UNIONEM secundum SABELLIUM credidisse? Ma quando ancora egli ignori un tal fatto, da quelle oscure dispute, e certi notturni combattimenti da lui rammentati coi termini stessi di Socrate, non credo di fargli ingiuria a dedurne, che esso abbia letto il Cap. VIII del I Libro di quello storico. Ivi dunque avrà letto altresì le parole: qui του ομοουσιοου την λεξιν Consubstantialis vocem aversabantur SABELLII DOGMA ab iis qui vocem illam probabant, induci arbitrabantur. Atque idcirco impios illos vocabant, utpote qui Filii Dei existentiam tollerent[269]. Or perchè non inferirne, che quel Sabellianismo è una mera calunnia, di cui i nemici della divina natura di Gesù Cristo, od almeno di quella voce, che tanto ben l'esprimeva, caricarono i Padri Ortodossi difensori dei termini precisi del Concilio Niceno? Come può dunque vantar rispetto pel Santuario chi rinnova le antiche calunnie contro di quelli, che sì gelosamente ne conservarono lo splendore? E non è un rinnovare con Clerc le antiche calunnie il tacciare di fautori del Triteismo i due Gregori, Atanasio e Cirillo l'Alessandrino a cui (non già a S. Basilio) vuolsi attribuire il Libro Περι της αγιας Τριαδος ec. de S. Trinitate ec. Tres Deos a nobis coli causantur... eamque CALUMNIAM probabiliter struere non intermittunt... Sed veritas pugnat pro nobis[270]. Sia pure un actum agere, come dice il sig. Gibbon il provare, che Homoousios significhi una sostanza in specie, che secondo Aristotele le stelle sono homoousie, e che tre uomini sono consustanziali in quanto appartengono alla medesima specie; sarebbe ancora per altro un actum agere il dimostrare, che i Padri Niceni affissero a quel celebre termine una significazione diversa da quella, in cui usavasi o nel comune linguaggio, od in quello della filosofia dei Gentili, come fin d'allora S. Atanasio rispondeva agli Arriani[271]: Haec sunt Ethicorum interpretationes, nosque nihil eorum egemus, quae ipsi afferunt; essendo già state raccolte le chiarissime testimonianze di Socrate[272], di S. Atanasio medesimo[273], e dell'istesso Eusebio di Cesarea[274], il quale scrisse: Homoousion esse Filium Patri, cum adlatis rationibus discussum esset (nel sinodo di Nicea) convenit non juxta corporum modum, neque instar mortalium animantium accipi debere[275]. Sarebbe molto più un actum agere l'allegare una lunga serie dei luminosissimi resti di quei Santi amatori della dottrina Apostolica, non della moda, che apertamente dimostrarono la loro Ortodossia intorno al mistero della Santissima Trinità, specialmente scrivendo a Voi, che sì di proposito vi applicate agli studi Sacri con la guida di dotti Maestri, e sotto gli auspicj di un illuminato e religiosissimo Cardinale Protettore della vostra nazione. Sarò pertanto brevissimo su questo articolo; ed in difesa del Nazianzeno riferirò solamente quelle parole dell'Orazione XXXVII, in cui ragiona quel Santo Padre della Trinità contro i Macedoniani e gli Arriani, le quali per esser decisive furono artificiosamente omesse dal Clerc, che ad inganno dei semplici non ebbe rossore di confermare il suo falso sistema con passi tratti da quell'Orazione medesima. Horum quodlibet Unitatem habet non minus ejus cum quo conjungitum, quam sui ipsius respectu propter essentiae et potentiae IDENTITATEM τω ταυτω της ουσιας, και της δυναμεως. Atque haec unionis hujus ratio est, quantum quidem ipsi percipimus. Questa non è certamente la pericolosa ipotesi delle tre menti o sostanze, o di tre esseri coeguali ec. Il Nazianzeno asserisce, che tra le Divine Persone non solo vi è uguaglianza di potenza e natura, ma IDENTITA'. Confermiamolo. Se l'Unità di natura nelle Divine Persone al parere del S. Padre consistesse in una mera coeguaglianza, e nella sola conformità del loro valore, quell'Unità resterebbe, quand'anche si concepisse mancante d'una delle tre Menti, o Sostante Divine. Ma egli nullo modo, soggiunge esclamando, UNAM ILLAM NATURAM, ac peraeque venerandam trunca. Alioqui si quid ex Tribus everteris, TOTUM everteris, imo a TOTO excideris. È dunque patente l'Ortodossia di S. Gregorio Nazianzeno. Può egli inoltre confessarsi più chiaramente, che il Figlio non è una seconda Mente o Sostanza, ma bensì il Verbo, o la Sapienza del Padre, ed una Sostanza istessa con lui di quello che lo confessi Cirillo l'Alessandrino? Si può mai più nettamente asserire, che la Divina sostanza è una sola, benchè distinta in tre Persone di quel che faccialo S. Atanasio? Ecco le parole del primo[276]: Intelligendum sic ex Patre natum Filium, ut Sapientia ex mente, quae sicut et alia quodammodo esse a mente per expressionem ipsius videtur, et in ipsa vere est; non enim SEPARABILITER ab ea prodit. I termini del secondo son questi[277]. Neque tres hypostases per se ipsas DIVISAS, ut in hominibus pro natura corporum accidit fas est in Deo cogitare: ne ut gentes Deorum multitudinem inducamus... Laudanda colendaque et adoranda Trinitas UNA et INDIVIDUA est, nec ullam figuram habet, sed sine confusione CONJUNGITUR; quemadmodum ejusdem UNITAS distinguitur sine DIVISIONE. Quindi è manifesto non potersi sfuggir la taccia di calunniatore da chiunque asserisce, che i Padri soprallodati favorissero il Triteismo. Egli è poi tanto falso che l' Homoousion potesse essere caro ed ai Triteisti, ed ai fautori di una Trinità nominale, che nel linguaggio Teologico a norma delle espressioni di G. Cristo medesimo Ego, et Pater unum sumus... Ego in Patre, et Pater in me est[278], si credeva piuttosto capace di non conciliare i due supposti contrari partiti, ma di distruggerli. Vox ista ομοουσιον, et SABELLII impietatem corrigit, tollit enim hypostaseos identitatem, et perfectam Personarum intelligentiam introducit. Non enim aliquid idem est sibi ipsi Homoousion, sed alterum alteri. Itaque rectissime, et cum pietate conjunctissime hypostaseon dividuntur proprietates, et immutabilitas naturae inalterabilis repraesentatur. Così S. Basilio Magno[279], a cui egregiamente uniformasi S. Ambrogio scrivendo[280]. Frustra autem verbum istud propter SABELLIANOS declinare se dicunt et in eo suam impietatem produnt. Homoousion enim aliud alii non ipsum est sibi. Recte ergo Homoousion Patri Filium dicimus quia eo verbo, et PERSONARUM DISTINCTIO (contro Sabellio), et NACTURAE UNITAS (contro i Politeisti e gli Arriani) significatur.

Ma se così grande era la forza di quel vocabolo, e sì ben fissata la significazione, perchè mai tanti sinodi lo rigettarono, l'ammisero, l'interpretarono? Il Sig. Gibbon istesso mi presenta in gran parte come rispondervi. Ciò avvenne perchè gli Arriani sempre stimaron prudente consiglio quello di mascherare con ambigue parole i lor sentimenti e disegni, avvenne per l'astuzia dei loro Capi, per il loro odio verso Atanasio, ed in modo singolarissimo per il minuto e capriccioso gusto dell'Imperator Costanzo[281], che perseguitava con egual zelo quelli, che difendevan la simil sostanza, quelli che sostenevano la Consustanzialità, e quelli che negavano la somiglianza del Figlio di Dio. Anderebbe ingannato a partito chi credesse in quel passo del S. Vescovo di Poitiers[282] delineato il carattere dei difensori del simbolo di Nicea egualmente che quello dei nemici dell' Homoousion: e molto più chi volesse dedurne l'estinzione o l'incertezza della vera credenza nel vasto Impero Romano. Non è però nuovo l'abuso dei libri di S. Illario per quest'oggetto. Anche Vincenzo Rogatista vi si faceva forte disputando contro S. Agostino sulla Cattolicità della Chiesa. Dico che sarebbe un abusare delle opere di quel S. Padre a pensare in tal modo, poichè intorno a quei tempi medesimi per la testimonianza di Socrate[283] Achajae et Illyrici civitates, et reliquae Occiduarum partium Ecclesiae tranquillae adhuc erant, et inconcussae, tum quod inter se consentirent, tum quod fidei regulam a Nicaeno Concilio traditam constantissime retinerent, ed Illario nel IV. Libro de Trinitate[284] provoca gli Eretici alla fede della Chiesa universale, in cui omne os credentium Christum Deum loquitur. Il parlare come se uno avesse parte a un disordine, da cui si vogliano ritrar coloro, coi quali si forma una società, è forse il più efficace linguaggio per l'intento, che sappia dettar l'umiltà e la prudenza. Vedendo pertanto lo zelantissimo Vescovo, che nel Conciliabolo Costantinopolitano sotto gli occhi dell'Augusto Sovrano si erano soscritti gli Arriani decreti fatti in Rimini[285] dopo la partenza dei Legati, e non ancor disperando del ravvedimento dei dissidenti e del Principe, intende realmente in quella Rappresentanza di rimproverar questo e quelli perchè convochino tanti Sinodi, e con tante formule vadano in traccia della fede, come se non vi fosse[286]; ma lo fa in termini, i quali denotando che ciò avvenisse per comun colpa di tutti i Cristiani, non irritassero i veri colpevoli ed il prepotente lor fautore. In fatti confrontate il passo trascritto da Gibbon, ed inserito nel suo Repertorio da Locke con quel che scrisse San Illario probabilmente[287] pochi mesi dopo, e giustificate a chi egli imputasse la colpa di sì scandaloso disordine, dicendo all'Imperatore quando ei si fu tratta la maschera: Synodo contrahis, et Occidentalium fidem ad impietatem compellis.... Orientalis autem dissensione artifex nutris[288]. Namque post primam vere Synodi Nicaenae... novis vetera subvertis, nova ipsa rursum innovata emendatione rescindis, emendata autem iterum emendando condemnas... His quidem ego intra Nicaeam scripta a Patribus fide fundatus, manensque non egeo[289]. Quindi ancora deducesi, che l' Homoousion fu riguardato con savissima avvedutezza da S. Illario sotto diversi aspetti, ora cioè come inutile, or come pio e religioso, ed or come scandaloso ed empio. Riguardollo siccome ozioso ed inutile per coloro, i quali erano immobilmente fondati nella sostanza della fede Nicena, dicendo: his quidem... ego non egeo, e in appresso[290]. Quod tametsi nobis ad fidem otiosum sit ec.; come pio e religioso poi per quegli stessi, qualora lo usassero a solo oggetto di evitare la confusione Sabelliana, che i maligni Settari spargevano, che si celasse nell' Homoousion dagli Ortodossi, come sopra osservammo[291]. Mihi quidem similitudo ne UNIONI detur occasio sancta est. E qui dee notarsi che dal S. Vescovo della Gallia non differisce di troppo l'immortale Primate d'Egitto, giacchè protestasi di riguardare i medesimi come fratelli nella credenza, mentre scrive[292]: Adversus autem eos, qui omnia Synodi Nicaenae scripta recipiunt, de solo autem CONSUBSTANTIALI ambigunt, non ut adversus inimicos affici nos decet... Sed veluti fratres cum fratribus disceptamus, ut cum quibus nobis eadem sit sententia, controversia autem de Verbis. Onde si vede chiaro quanto sia rispettoso il Critico a giudicare Atanasio attaccato dal contagio del fanatismo, e a darci i due opposti partiti, come egualmente agitati dallo spirito d'intolleranza. Riguardavasi finalmente come scandaloso ed empio in bocca di quegli impugnatori della Consustanzialità, che lo prendevano in opposizione all'eguaglianza perfetta del Figlio col Padre e all'unità dell'essenza, come porta la sua genuina e nuda significazione. Et me movet (cum scandalo) homoousii nuditas[293]. Così il S. Vescovo di Poitiers, il quale prosiegue[294]. Multa saepe fallunt, quae similia sunt... similitudo vera in veritate naturae est. Veritas autem in utroque naturae non negatur HOMOOUSION, come leggesi concordemente nei Codici MSS. ed esige il buon senso. Has enim similitudines, quae non ex unitate naturae sint, metuo. Così pure S. Atanasio de Synod. Qui secundum substantiam simile dicit, participationem quadam simile esse definit... Hoc vero factarum rerum est, quae propter participationem fiunt similes Deo. Così l'A. de Filii Divinit.[295]. Denique sublato Homoousion idest unius substantiae vocabulo, Homoousion, idest similem (Filium) factori suo posuerunt, cum aliud sit similitudo, aliud veritas. Ed in tal caso non fa di mestiero di un occhio teologico delicato gran fatto per distinguere la differenza tra quei due famosi vocaboli[296]: e perciò S. Illario soggiunse[297]. Non puto quemquam admonendum in hoc loco ut expendat, quare dixerim SIMILIS SUBSTANTIAE PIAM INTELLIGENTIAM nisi quia intelligerem et IMPIAM, et idcirco similem, non solum aequalem, sed etiam eamdem dixisse, ut neque similitudinem, quam tu frater Lucifer praedicari volueras, improbarem, et tamen SOLAM PIAM esse similitudinis intelligentiam admonerem, quae UNITATEM Substantiae praedicaret. Che questo poi fosse il caso di una gran parte dei Vescovi dell'Oriente io lo deduco dal ripeter che fa Sant'Illario per ben due volte nel Libro de Synodis[298], che a proporzione delle molte Chiese che vi erano, pochi professavano la vera fede, e dal dir loro, apostrofandoli, che gli avevan dato speranza di richiamare la vera fede, (opponendosi, com'è verisimile, agli Anomei) non già che l'avessero richiamata[299]. Ma che tale fosse altresì l' Homoousion sostenuto da Macedonio, non ardisco asserirlo[300]. So però con certezza che esso uscì dalla scuola degli Arriani, che da loro fu ordinato Vescovo, e che fu Eresiarca nell'impugnare la Divinità dello Spirito Santo; che il suo odio contro il Patriarca Paolo ed i fautori di lui fu intestino, e la sua ambizione senza misura[301], e francamente asserisco, che l'esecrande tirannie dei Macedoni e dei Giorgi di Cappadocia, che la squisita malignità degli Eusebi, che gl'intrighi dei Valenti e degli Ursaci non si trovaron giammai nei Santi alla moda del tempo loro[302], e so per fede divina che quei Settari avrebbon potuto apprendere dalle pure e semplici massime dell'Evangelio ad unire alla prudenza del serpe la semplicità di colomba, ad esser miti ed umili di cuore come fu Gesù Cristo, egregiamente imitato dai due distinti Campioni della Fede Nicena Atanasio[303] ed Illario[304], e a dar la loro vita per la lor greggia, non a toglierla altrui. Perciò riconosco in chi asserisce che tutti egualmente erano agitati nel tempo della Controversia Arriana dallo spirito intollerante, che avevano tratto dall'Evangelio, non uno Storico, il quale tiri rispettosamente il velo del Santuario, ma sivvero (per usare un'espressione suggeritami dal Sig. Gibbon istesso) un Profano.

Ho, per quanto mi sembra, adempiute le mie promesse. Tocca ora a voi, intraprendendo un'ampia confutazione degli errori del Sig. Gibbon, a vendicare l'onore della Religione oltraggiata, e a sostenere il decoro del partito Cattolico della nazione; giacchè avete ambedue ed acutezza d'ingegno e cognizione delle lingue erudite ed ogni dì più divenite valenti nelle Ecclesiastiche Controversie. Avvertite però, il vostro Avversario è un Proteo, il quale

Omnia transformat se se in miracula rerum,

Ignemque horribilemque feram fluviumque liquentem.

CAPITOLO XXVI.

Costumi dei popoli pastori. Progresso degli Unni dalla China in Europa. Fuga dei Goti. Passano il Danubio. Guerra Gotica. Disfatta e morte di Valente. Graziano investe Teodosio dell'Impero Orientale: suo carattere e fine. Pace e stabilimento dei Goti.

A. 365

Nel secondo anno del regno di Valentiniano e di Valente, la mattina del dì ventuno di Luglio, la maggior parte del Mondo Romano fu scossa da un violento e rovinoso terremoto. Se ne comunicò l'impressione anche alle acque; i lidi del Mediterraneo restarono in secco per la subitanea ritirata del mare; con le mani si prendevano i pesci in gran copia; dei grossi vascelli restaron piantati nel fango; ed un curioso spettatore[305] divertiva gli occhi o piuttosto la fantasia contemplando il vario aspetto di valli e di monti, che dopo la formazione del globo non erano mai stati esposti alla vista del Sole. Ma presto ritornaron le acque con un immenso ed irresistibil diluvio, che fece grandissimo danno sulle coste della Sicilia, della Dalmazia, della Grecia e dell'Egitto; alcune grosse barche furon trasportate sui tetti delle case o alla distanza di due miglia dal lido; i flutti trascinaron via il popolo con le sue abitazioni; e la città d'Alessandria faceva ogni anno la commemorazione di quella fatal giornata, in cui eran perite nell'inondazione cinquantamila anime. Questa calamità, il racconto della quale da una provincia all'altra s'andava magnificando, sorprese e spaventò i sudditi di Roma; e l'atterrita loro immaginazione amplificò la grandezza reale di quel momentaneo flagello. Rifletterono essi ai precedenti terremoti che avevan rovinato le città della Palestina e della Bitinia; risguardarono tali fieri colpi come puri preludi di più terribili calamità; e la timida lor vanità era inclinata a confondere i sintomi di un Impero decadente con quelli della rovina del Mondo[306]. Era uso di quei tempi l'attribuire qualunque notabile avvenimento al volere speciale della Divinità; le alterazioni della natura dovevano essere connesse, mediante un'invisibil catena, con le opinioni metafisiche e morali della mente umana; ed i più sagaci divinatori sapean distinguere, secondo il colore dei respettivi lor pregiudizi, che lo stabilimento della eresia tendeva a produrre un terremoto, o che un diluvio era l'inevitabile conseguenza del progresso della colpa e dell'errore. Senza pretendere di esaminar la verità e la convenienza di queste alte speculazioni, l'Istorico può contentarsi d'una riflessione, che sembra giustificata dall'esperienza, vale a dire che l'uomo ha molto più da temere dalle passioni delle creature della sua specie, che dalle convulsioni degli elementi[307]. I dannosi effetti d'un terremoto, di un diluvio, d'un oragano, o dell'eruzion di un Vulcano hanno una proporzione ben piccola con le ordinarie calamità della guerra; per quanto siano adesso moderate dalla prudenza o dall'umanità dei Principi dell'Europa, che divertono se stessi, ed esercitano il coraggio dei loro sudditi, nella pratica dell'arte militare. Ma le leggi ed i costumi delle nazioni moderne almeno proteggono la sicurezza e la libertà del vinto soldato; ed il pacifico cittadino rare volte ha motivo di dolersi, che la sua vita o i suoi beni siano esposti al furor della guerra. Nell'infelice periodo della caduta del Romano Impero, di cui può giustamente porsi l'epoca nel regno di Valente, era personalmente attaccata la felicità e sicurezza d'ogni individuo; e le arti e le fatiche di più secoli furono crudelmente sfigurate dai Barbari della Scizia e della Germania. L'invasione degli Unni fece precipitare sulle province Occidentali la nazione Gotica, che s'avanzò in meno di quaranta anni dal Danubio al mare Atlantico, e col buon successo delle sue armi aprì la strada alle aggressioni di tante altre ostili tribù, più selvagge di essa. L'original principio di tali moti era nascosto nelle remote regioni del Norte; ed una curiosa investigazione della vita pastorale degli Sciti[308], o dei Tartari[309] illustrerà l'occulta causa di quelle rovinose emigrazioni.

I differenti caratteri, che distinguono le nazioni civili del globo, si possono attribuire all'uso e all'abuso della ragione, che modifica sì variamente, e con tant'arte compone i costumi e le opinioni d'un Europeo o d'un Chinese. Ma l'azione dell'istinto è più sicura e più semplice che quella della ragione; è molto più facile il determinar gli appetiti d'un quadrupede, che le speculazioni d'un filosofo; e le selvagge tribù del genere umano quanto più si accostano alla condizione degli animali, tanto più forti conservano la somiglianza l'una coll'altra. L'uniforme stabilità dei loro costumi è la natural conseguenza dell'imperfezione della loro facoltà. Ridotti ad una simile situazione, i bisogni, i desiderj, i piaceri loro continuano sempre gli stessi; e l'influenza del cibo o del clima, che in un più perfetto stato della società vien sospesa o anche tolta da tante cause morali, potentissimamente contribuisce a formare e a mantenere il carattere nazionale dei Barbari. In ogni tempo le immense pianure della Scizia o della Tartaria sono state abitate da vaganti tribù di cacciatori e di pastori, l'indolenza dei quali ricusa di coltivare la terra, e l'inquieto loro spirito sdegna il riposo di una vita sedentaria. In ogni tempo gli Sciti ed i Tartari sono stati famosi pel loro invincibile coraggio, e per le rapide conquiste che hanno fatto. I troni dell'Asia furono più volte rovesciati dai pastori del Norte, e le loro armi hanno sparso il terrore e la devastazione sulle più fertili e guerriere contrade dell'Europa[310]. In quest'occasione ugualmente che in molte altre il sobrio storico viene a forza riscosso da una grata visione; e con qualche ripugnanza è costretto a confermare, che i costumi pastorali, che si sono adornati coi più belli attributi della pace e dell'innocenza, sono molto più atti alle fiere e crudeli abitudini di una vita militare. Per illustrare quest'osservazione, io prenderò adesso a considerare una nazione di pastori e di guerrieri nei tre importanti articoli 1. del cibo, 2. dell'abito e 3. degli esercizi loro. I racconti dell'antichità vengono confermati dall'esperienza dei moderni tempi[311]; e le rive del Boristene, del Volga o del Selinga ci presenteranno ugualmente l'istesso uniforme spettacolo di simili nativi costumi[312].

I. Il grano od anche il riso, che forma l'ordinario e sano cibo dei popoli culti non si può ottenere che mediante il paziente travaglio dell'agricoltore. Alcuni fortunati selvaggi, che abitano fra i Tropici, sono abbondantemente nutriti dalla liberalità della natura; ma nei climi Settentrionali una nazione di pastori è ridotta ai soli suoi greggi ed armenti. Gli abili professori dell'arte medica determineranno (seppure sono in grado di farlo) quanta influenza può aver l'uso del cibo animale o vegetabile sull'indole dello spirito umano, e se l'associazione, che si fa comunemente, di carnivoro e di crudele, meriti d'esser considerata in altro aspetto, che in quello di un innocente e forse salutar pregiudizio d'umanità[313]. Pure se è vero che la vista e la pratica d'una famigliar crudeltà indebolisca, senz'accorgersene, i sentimenti di compassione, possiamo osservare, che gli orridi oggetti, mascherati dalle arti del raffinamento Europeo, si presentano nella tenda di un pastore Tartaro nella nuda loro e più disgustosa semplicità. Si macella il bove o la pecora da quell'istessa mano, dalla quale solea ricevere il quotidiano suo cibo: e le palpitanti membra dell'animale con piccolissima preparazione si pongono sulla mensa dell'insensibile uccisore. Nella professione militare, e specialmente nella condotta di un numeroso esercito l'uso esclusivo del cibo animale sembra che produca i più sodi vantaggi. Il grano è una merce voluminosa e facile a guastarsi; ed i gran magazzini, che sono indispensabilmente necessari per la sussistenza delle nostre truppe, lentamente si debbono trasportare a forza di uomini e di cavalli. Ma gli armenti ed i greggi, che accompagnano la marcia dei Tartari, somministrano una sicura e copiosa quantità di carne e di latte: nella massima parte delle incolte solitudini è florida e lussureggiante la vegetazione dell'erba; e pochi sono i luoghi tanto sterili, dove l'indurato bestiame del Norte non possa trovare una sufficiente pastura. Si moltiplica il vitto, e se ne prolunga la durata dall'indistinto appetito e dalla sofferente astinenza dei Tartari. Si cibano essi con indifferenza della carne tanto di quegli animali che si sono uccisi per la tavola, quanto di quelli che son morti per malattia. Gustano con particolar piacere la carne di cavallo, che in ogni tempo ed in ogni paese è stata proscritta dalle incivilite nazioni dell'Europa e dell'Asia; e questo singolar genio facilita il successo delle lor militari operazioni. L'attiva cavalleria della Scizia è sempre seguitata nelle più distanti e rapide loro incursioni da un adeguato numero di cavalli scossi, che alle occorrenze posson servire o a raddoppiare la velocità o a soddisfare la fame dei Barbari. Molti sono i ripieghi del coraggio e della povertà. Quando il foraggio all'intorno del campo dei Tartari è quasi consumato, essi ammazzano la maggior parte del loro bestiame, e ne conservan la carne o affumicata o secca al sole. Nelle subitanee occasioni di precipitose marce, si provvedono d'una sufficiente quantità di piccoli globi di cacio o piuttosto di cattivo latte accagliato, che essi sciogliono alle occorrenze nell'acqua; e questo non sostanzioso cibo sostiene per molti giorni la vita od anche il coraggio del paziente guerriero. Ma comunemente a tale straordinaria astinenza, che si approverebbe da uno Stoico, e da un Eremita sarebbe invidiata, succede la piena soddisfazione del più vorace appetito. I vini dei climi più dolci sono i più grati presenti o la più stimabil merce che ai Tartari offerire si possa; e l'unico esempio di loro industria pare che consista nell'arte d'estrarre dal latte di cavalla un liquor fermentato, che ha un fortissimo poter d'inebriare. I selvaggi sì del vecchio che del nuovo Mondo, provano, come gli animali di rapina, le alternative vicende della carestia e dell'abbondanza; ed il loro stomaco è assuefatto a sostenere, senza molto incomodo, gli opposti estremi dell'intemperanza e della fame.

II. Nei tempi di rustica e marziale semplicità si trova sparso nel giro di un esteso e coltivato paese un popolo di soldati e di agricoltori; e ben dovè passar qualche tempo avanti che la guerriera gioventù della Grecia e dell'Italia si potesse unire sotto l'istessa bandiera o per difendere i propri confini, o per invadere i territori delle vicine tribù. Il progresso delle manifatture e del commercio insensibilmente raccoglie una gran moltitudine dentro le mura d'una città; ma questi cittadini non son più soldati; e le arti, che adornano e perfezionano lo stato della civil società, corrompono le abitudini della vita militare. I costumi pastorali degli Sciti par che congiungano i diversi vantaggi della semplicità e della coltura. Sono costantemente uniti insieme gl'individui della stessa tribù, ma sono uniti in un campo; ed il naturale spirito di quest'indomiti pastori, è animato dal vicendevol aiuto e dall'emulazione. Le case dei Tartari non sono altro che piccole tende di forma ovale, che offrono una fresca ed asciutta abitazione per la mista gioventù di ambi i sessi. I palazzi dei ricchi consistono in capanne di legno di tal grandezza, che si possan comodamente posare sopra gran carri, e tirare da una serie, forse di venti o di trenta bovi. Gli armenti ed i greggi dopo aver pasciuto tutto il giorno nelle adiacenti pasture, si ritirano all'avvicinarsi della notte sotto la protezione del campo. La necessità d'impedire la più dannosa confusione di tal perpetua mescolanza di uomini e di animali, deve a grado a grado introdurre nella disposizione, nell'ordine e nella guardia dell'accampamento, i principj dell'arte militare. Quando è consumato il foraggio d'un dato distretto, la tribù o piuttosto l'armata dei pastori muove regolarmente in cerca di altri pascoli; e così acquista nell'ordinarie occupazioni della vita pastorale la cognizione pratica d'una delle più importanti e difficili operazioni di guerra. La scelta dei posti si regola secondo la differenza delle stagioni; nella state i Tartari si avanzano verso tramontana, e piantano le loro tende sulle rive di un fiume o almeno nelle vicinanze di un'acqua corrente. Ma nell'inverno tornano al Mezzodì, e mettono il campo dietro a qualche comoda altura al riparo dai venti, che si rendono più crudi nel passare che fanno per le bianche e ghiacciate regioni della Siberia. Usi di tal sorta sono mirabilmente adattati a spargere fra le vagabonde tribù lo spirito di emigrazione e di conquista. La connessione fra il popolo ed il suo territorio è sì fragile che si può rompere al più leggiero accidente. Il campo, non già il suolo, è il paese nativo del vero Tartaro. Nel recinto del campo si contengon sempre la famiglia, i compagni, i beni di esso; e nelle marce ancor più distanti è sempre circondato dagli oggetti più cari, più preziosi, o più famigliari ai suoi occhi. La sete della preda, il timore o la vendetta delle ingiurie, la intolleranza della servitù sono in ogni tempo state cause sufficienti per muovere le tribù della Scizia ad avanzarsi arditamente in qualche ignoto paese, dove sperar potessero di trovare una più copiosa sussistenza o un meno formidabil nemico. Le rivoluzioni del Norte hanno spesso determinato la sorte del Sud; e nel contrasto delle ostili nazioni il vincitore ed il vinto o hanno espulso, o sono stati alternativamente scacciati, dai confini della China a quelli della Germania[314]. Queste grandi emigrazioni, che alle volte si sono eseguite con una quasi incredibil prestezza, si rendevan più facili dalla particolar natura del clima. Si sa che il freddo della Tartaria è molto più crudo di quello che si potrebbe ragionevolmente aspettare in mezzo ad una zona temperata: si attribuisce tale straordinario rigore all'altezza delle pianure, che si alzano, specialmente a levante, più di mezzo miglio sopra il livello del mare, ed alla quantità di salnitro, di cui è profondamente impregnato il terreno[315]. Nell'inverno, i larghi e rapidi fiumi, che scaricano le loro acque nell'Eussino, nel mar Caspio e nel Glaciale, sono fortemente agghiacciati; i campi son coperti da un letto di neve; e le fuggitive o vittoriose tribù posson traversare sicuramente colle loro famiglie, coi loro carriaggi e bestiami la sdrucciolevole e dura superficie d'un'immensa pianura.

III. La vita pastorale, paragonata coi travagli dell'agricoltura e delle manifatture, è senza dubbio una vita d'oziosità, e siccome i pastori più considerabili della stirpe dei Tartari lasciano agli schiavi la cura domestica del bestiame, la loro quiete rare volte viene disturbata da alcuna servile o continua sollecitudine. Ma quest'ozio, invece di esser consacrato ai molli piaceri dell'amore e dell'armonia, utilmente si spende nei violenti e sanguinosi esercizi della caccia. Le pianure della Tartaria sono piene di forti e vantaggiose razze di cavalli, che si usan comodamente sì nelle operazioni della guerra che nel cacciare. Gli Sciti sono stati sempre celebri per l'ardire e destrezza loro nel cavalcare: e la costante abitudine gli aveva sì stabilmente fissati sui lor cavalli, che gli stranieri supponevano ch'essi facessero le ordinarie funzioni della vita civile, che mangiassero, bevessero, e fino dormissero senza smontar da cavallo. Sono eccellenti nel maneggiar destramente la lancia; il lungo arco Tartaro è teso da un robusto braccio, ed il pesante dardo è diretto al suo scopo con infallibile mira ed irresistibile forza. Questi dardi sono spesse volte scagliati contro gl'innocenti animali del deserto, che crescono e si moltiplicano nell'assenza del loro più formidabil nemico, vale a dire contro le lepri, le capre, i capriuoli, i cervi, gli alci e le gazzelle. Continuamente si esercita il vigore e la pazienza sì degli uomini che dei cavalli nelle fatiche della caccia; e l'abbondante copia di selvaggiume contribuisce alla sussistenza ed anche al lusso d'un campo Tartaro. Ma le imprese dei cacciatori Sciti non si ristringono alla distruzione solo di timidi o innocenti animali; essi affrontano con coraggio l'orso irritato, allorchè si rivolta contro i suoi persecutori; eccitano l'infingardo ardire del cignale, e provocano il furor della tigre, quando sta dormendo nel folto dei boschi. Dove si trova pericolo, per loro ivi è gloria; e la maniera di cacciare, che apre il più bel campo all'esercizio del valore, può risguardarsi a ragione come l'immagine e la scuola della guerra. Le generali partite di caccia, che formano l'ambizione e il diletto dei Principi Tartari, compongono un istruttivo esercizio per la numerosa loro cavalleria. Descrivesi un cerchio di molte miglia in circonferenza per circondare la cacciagione d'esteso distretto; e le truppe, che formano il cerchio, s'avanzano regolarmente verso il comun centro, dove gli animali prigionieri, circondati da ogni parte, restano abbandonati a' dardi dei cacciatori. In tal marcia, che spesso continua per più giorni, la cavalleria dee rampicarsi pei colli, passare a nuoto i fiumi, e girare attorno alle valli, senza interrompere l'ordine stabilito del proprio successivo progresso. Acquistano così la pratica di diriger l'occhio ed i passi ad un oggetto lontano; di conservare le giuste distanze fra loro; di sospendere o d'affrettare il passo a misura dei movimenti di quelli che sono a destra e a sinistra; e di conoscere e ripetere i segni dei lor condottieri. Questi ultimi studiano in tal pratica scuola le più importanti lezioni dell'arte militare, ed un pronto ed esatto discernimento del terreno, della distanza e del tempo. Nella vera guerra non si richiede altra variazione, che quella d'impiegar la stessa pazienza e valore, la stessa perizia e disciplina contro un nemico umano; e i divertimenti della caccia servono come di preludio alla conquista d'un Impero[316].

La società politica degli antichi Germani ha l'apparenza d'una volontaria confederazione d'indipendenti guerrieri. Le tribù della Scizia, distinte con la moderna denominazione di Orde, prendon la forma d'una crescente numerosa famiglia, che nel corso di più generazioni si è propagata dalla medesima origine. Gl'infimi ed i più ignoranti fra i Tartari conservano con scrupolosa vanità l'inestimabil tesoro della loro genealogia, e per quante distinzioni di gradi si possano essere introdotte dalla disugual distribuzione delle pastorali ricchezze, essi vicendevolmente rispettansi l'uno coll'altro; come discendenti del primo fondatore della Tribù. L'uso, che sempre sussiste, di adottare i fedeli e più valorosi lor prigionieri, può confermare il sospetto molto probabile che quell'estesa consanguineità sia in gran parte legale e fittizia. Ma tale utile pregiudizio, approvato dal tempo e dall'opinione, produce gli effetti della verità. Gli altieri Barbari prestano una pronta e volontaria ubbidienza al Capo del loro sangue; ed il loro Capo o Mursa, come rappresentante il primo lor Padre, esercita la autorità di giudice in tempo di pace e di condottiere in tempo di guerra. Nel primitivo stato del Mondo pastorale, ogni Mursa (s'è permesso di usare il nome moderno) era il Capo indipendente d'una vasta e separata famiglia; ed i limiti del suo particolar territorio furono gradatamente stabiliti dalla maggior forza o dal mutuo consenso. Ma l'azione costante di varie permanenti cause contribuì ad unire le Orde vaganti in comunità nazionali, sotto il comando d'un supremo Capo. I deboli desideravan soccorso, ed i forti erano ambiziosi di dominio; la potenza, che è il risultato dell'unione, oppresse e raccolse le forze divise delle addiacenti tribù; e siccome i vinti furon liberamente ammessi a partecipare i vantaggi della vittoria, i più valorosi Capi s'affrettarono a costituire se stessi ed i lor seguaci sotto il formidabile stendardo d'una nazione confederata. Il più fortunato fra i Principi Tartari assunse il militar comando, al quale aveva diritto per la superiorità del merito o del potere. Egli fu innalzato al trono dalle acclamazioni de' suoi uguali; ed il titolo di Kan esprime, nel linguaggio dell'Asia Settentrionale, la piena estensione della reale dignità. Fu per lungo tempo ristretto il diritto dell'ereditaria successione al sangue del fondator della Monarchia, e fino al presente tutti i Kan, che regnano, dalla Crimea fino alla muraglia della China, sono i successivi discendenti del famoso Gengis[317]. Ma siccome è indispensabil dovere d'un Sovrano Tartaro quello di condurre i guerrieri suoi sudditi in campo, spesse volte son trascurati fra loro i diritti d'un fanciullo; ed a qualche regio congiunto, riguardevole per l'età e pel coraggio, s'affida la spada e lo scettro del suo predecessore. Si levano sulle tribù due tasse regolari e distinte, per sostenere la dignità sì del nazionale comune Monarca, che del loro Capo speciale; e ciascheduna di queste contribuzioni ascende alla decima parte dei beni e delle prede loro. Un Sovrano Tartaro gode la decima parte della ricchezza del suo popolo; e siccome s'accrescono in una molto maggior proporzione le sue domestiche facoltà di greggi e di armenti, egli è in istato di copiosamente mantenere il rustico splendore della sua Corte, di premiare i più meritevoli o più favoriti fra i suoi seguaci, e d'ottenere dal dolce influsso della corruzione l'ubbidienza, che potrebbe alle volte negarsi ai rigorosi comandi dell'autorità. I costumi dei propri sudditi, assuefatti, com'esso, al sangue ed alla rapina, possono scusare ai loro occhi certi particolari atti di tirannide, che ecciterebber l'orrore d'un popolo incivilito; ma nei deserti della Scizia non si è mai riconosciuto il potere dispotico. L'immediata giurisdizione del Kan è ristretta dentro i confini della propria tribù; e si è moderato l'esercizio della sua reale prerogativa dall'antico istituto di un concilio nazionale. Tenevasi regolarmente il Coroultai[318], o la dieta dei Tartari nella primavera o nell'autunno, in mezzo ad una pianura, dove potevano intervenire, secondo i lor gradi, a cavallo i Principi della Famiglia regnante ed i Mursi delle respettive tribù, col marziale e numeroso loro treno, e l'ambizioso Monarca potea consultare le inclinazioni d'un armato popolo, di cui osservava la forza. Nella costituzione delle nazioni Tartare o Scite si possono scuoprire i principj d'un governo feudale; ma il perpetuo contrasto di quelle nemiche tribù è andato alle volte a finire nello stabilimento d'un potente dispotico Impero. Il vincitore, arricchito dal tributo, e fortificato dalle armi de' Re dipendenti, ha esteso le sue conquiste sull'Europa e sull'Asia: i felici pastori del Norte si son sottoposti a' vincoli delle arti, delle leggi e delle città; e l'introduzione del lusso, dopo aver distrutto la libertà del popolo, ha rovesciato i fondamenti del Trono[319].

Nelle frequenti e remote emigrazioni degl'ignoranti Barbari non si può lungamente conservar la memoria de' passati eventi. I moderni Tartari non sanno le conquiste de' loro antichi[320]; e la notizia, che noi abbiamo dell'istoria degli Sciti, proviene dal loro commercio co' Greci, co' Persiani e co' Chinesi, culte e civili nazioni del Mezzodì. I Greci, che navigavano per l'Eussino, e fondavano colonie lungo le coste marittime, fecero appoco appoco un'imperfetta scoperta della Scizia, scorrendo dal Danubio e da' confini della Tracia fino all'agghiacciata Meotide, sede d'un perpetuo inverno, ed al Monte Caucaso, che nel linguaggio poetico si rappresentava come l'ultimo limite della terra. Celebravano essi con semplice credulità le virtù della vita pastorale[321], ed avevano un timore più ragionevole della forza e del numero de' bellicosi Barbari[322], che con disprezzo burlavansi dell'immenso armamento di Dario, figlio d'Idaspe[323]. I Monarchi Persiani avevano esteso le lor occidentali conquiste fino alle rive del Danubio ed a' confini della Scizia Europea. Le Province Orientali del loro Impero erano esposte agli Sciti dell'Asia, selvaggi abitanti delle pianure al di là dell'Osso e del Giassurte, due ampi fiumi, che dirigono il corso verso il mar Caspio. La lunga e memorabil contesa d'Iran e Turan è sempre un argomento d'istorie o di romanzi; il celebre e forse favoloso valore de' Persiani Eroi, Rustano ed Asfendiar, si segnalò nella difesa della patria contro gli Afrasiabi del Settentrione[324]; e l'invincibil coraggio de' medesimi Barbari sul suolo stesso resistè alle vittoriose armi di Ciro e d'Alessandro[325]. Agli occhi de' Greci e de' Persiani, la vera geografia della Scizia era terminata a Levante dal Monte Imao o Caf; ed il distante prospetto delle ultime ed inaccessibili parti dell'Asia era coperto dall'ignoranza, o renduto ambiguo dalla finzione. Ma queste inaccessibili regioni sono l'antica sede d'una potente e culta nazione[326], la cui esistenza rimonta per mezzo di una probabile tradizione a più di quaranta secoli[327]; e ch'è in grado di verificare una serie di quasi due mill'anni, mediante la perpetua testimonianza di esatti storici contemporanei[328]. Gli annali[329] della China illustrano lo stato e le rivoluzioni delle Tribù pastorali, che si posson sempre distinguere coll'indeterminato nome di Sciti o di Tartari, vassalli, nemici ed alle volte conquistatori d'un grand'Impero, la politica del quale si è costantemente opposta al cieco ed impetuoso valore de' Barbari Settentrionali. Dall'imbocccatura del Danubio fino al mar del Giappone, tutta la lunghezza della Scizia è di circa cento dieci gradi, che in quel paralello, corrispondono a più di cinquemila miglia. Non si può così facilmente o con tanta esattezza misurar la latitudine di quei vasti deserti; ma dal quarantesimo grado, che tocca la muraglia della China, possiamo sicuramente avanzarci verso il Norte più di mille miglia, fintantochè non siamo arrestati dall'eccessivo freddo della Siberia. In quell'orrido clima, in vece della vivace pittura d'un campo Tartaro, il fumo ch'esce fuori dalla terra o piuttosto dalla neve, scuopre le sotterranee abitazioni de' Tongusi e de' Samojedi; alla mancanza de' cavalli e de' bovi viene imperfettamente supplito dall'uso de' rangiferi e di grossi cani; ed i conquistatori della terra vanno insensibilmente degenerando in una razza di deformi e piccoli selvaggi, che tremano al suon delle armi[330].

Gli Unni, che nel regno di Valente minacciarono l'Impero di Roma, in un tempo molto anteriore si erano renduti formidabili a quel della China[331]. La loro antica e forse original sede era un esteso, quantunque arido e nudo tratto di paese al Norte, immediatamente dopo la gran muraglia. Il luogo di essi è presentemente occupato da quarantanove Orde o compagnie de' Mongussi, nazione pastorale composta di circa dugentomila famiglie[332]. Ma il valore degli Unni estese gli angusti limiti de' loro Stati, ed i rozzi lor Capi, che presero il nome di Tangiù, appoco appoco divennero conquistatori o Sovrani di un formidabile Impero. A Levante le vittoriose loro armi non furono arrestate che dall'Oceano; e le rare tribù, che si trovavano sparse fra l'Amur e l'ultima penisola di Corea, si unirono con ripugnanza alle bandiere degli Unni. A Ponente, vicino all'origine dell'Irtis e nelle valli dell'Imao, trovarono uno spazio più ampio, e più numerosi nemici. Uno de' Luogotenenti del Tangiù, soggiogò in una sola spedizione ventisei popoli; gl'Iguri[333] distinti sopra la stirpe Tartara per l'uso delle lettere, furono nel numero de' suoi vassalli; e per una strana connessione delle cose umane la fuga di una di quelle vagabonde tribù richiamò i vittoriosi Parti dall'invasione della Siria[334]. Al Settentrione fu assegnato per limite alla potenza degli Unni l'Oceano. Senza nemici, che resister potessero ai lor progressi, o senza testimoni, che contraddicessero la lor vanità, poterono sicuramente condurre a fine una reale o immaginaria conquista delle gelate regioni della Siberia. Il mar Settentrionale era fissato per ultimo termine del loro Impero. Ma il nome di quel mare, sui lidi del quale il patriotta Sovou abbracciò la vita di pastore e d'esule[335], con probabilità molto maggiore può trasferirsi al Baikal, capace ricettacolo di acque di più di trecento miglia in lunghezza, che sdegna il modesto nome di Lago[336], e che presentemente comunica co' mari del Nord mediante il lungo corso dell'Angara, del Tonguska e del Genissì. La sommissione di tante remote nazioni potea lusingare l'orgoglio del Tangiù; ma non poteva esser premiato il valore degli Unni, che coll'acquisto del ricco e lussurioso Impero del Mezzogiorno. Nel terzo secolo avanti l'Era Cristiana, fu costrutta una muraglia lunga millecinquecento miglia per difendere le frontiere della China contro le incursioni degli Unni[337]; ma tale stupendo lavoro, che tiene un luogo cospicuo nella carta del Mondo, non ha mai contribuito alla sicurezza di un popolo non guerriero. La cavalleria del Tangiù era spesse volte composta di dugento o trecentomila uomini, formidabili per l'incomparabil destrezza, con cui maneggiavano gli archi e i cavalli; per l'indurata lor pazienza nel sopportar l'intemperie dell'aria, e per l'incredibil velocità della lor marcia, che rare volte veniva sospesa da torrenti o precipizj, dai fiumi più profondi, o dalle più alte montagne. Si sparsero essi ad un tratto sulla superficie del paese; ed il rapido loro impeto sorprese, rendè inattiva, e sconcertò l'elaborata e grave tattica d'un armata Chinese. L'Imperator Kaoti[338], soldato di fortuna, innalzato dal personale suo merito al trono, mosse contro gli Unni con quelle truppe veterane, che avean militato nelle guerre civili della China. Ma egli fu tosto circondato dai Barbari, e dopo un assedio di sette giorni, il Monarca, senza speranza di alcun soccorso, fu ridotto a comprarsi lo scampo con un'ignominiosa capitolazione. I successori di Kaoti, le vite dei quali eran dedite alle arti della pace o al lusso della Reggia, furono sottoposti ad una più durevol vergogna. Con troppa fretta confessarono essi l'insufficienza delle fortificazioni e delle armi loro. Troppo facilmente si convinsero, che mentre gli incendi annunziavano da ogni parte l'approssimarsi degli Unni, le truppe Chinesi, che dormivano coll'elmo in capo, e con la corazza indosso, venivano distrutte dalla continua fatica d'inutili marce[339]. Fu stipulato un regolar pagamento di danaro e di seta per prezzo di una breve e precaria pace; e si usò dagl'Imperatori della China, ugualmente che da quei di Roma, il meschino espediente di mascherare un real tributo sotto nome di donativo o di sussidio. Vi restava però un'altra specie di tributo più vergognosa, che violava i sacri sentimenti dell'umanità e della natura. Le fatiche della vita selvaggia, che nell'infanzia distruggono i figli di costituzione meno sana e robusta, formano una notabile sproporzione nel numero dei due sessi. I Tartari sono d'ingrata ed anche deforme figura, e risguardando essi le loro donne come istrumenti delle domestiche fatiche, i desiderj o piuttosto gli appetiti loro si dirigono al godimento di più eleganti bellezze. Una scelta truppa delle più belle fanciulle della China fu annualmente destinata ai rozzi abbracciamenti degli Unni[340]; e si assicurò l'alleanza dei superbi Tangiu per mezzo del lor matrimonio con le figlie o naturali o adottive della famiglia Imperiale, che invano tentavano di fuggire quella sacrilega unione. È descritta la situazione di queste infelici vittime nei versi d'una Principessa Chinese, che si lagna d'essere stata condannata dai suoi parenti ad un lontano esilio sotto un Barbaro marito; si duole che l'unica sua bevanda era latte inacidito, carne cruda il solo suo cibo, e che una tenda era il suo palazzo; ed esprime con un accento di patetica semplicità il natural desiderio di trasformarsi in uccello per volarsene alla cara sua patria, oggetto delle sue tenere e perpetue brame[341].

A. A. C. 146-87

Due volte si è fatta la conquista della China dalle tribù pastorali del Nord; le forze degli Unni non erano inferiori a quelle dei Mogolli o dei Mantsciù; e la loro ambizione poteva nutrir le più ardenti speranze di buon successo. Ma ne restò umiliato l'orgoglio, ed arrestato il progresso, dalle armi e dalla politica di Vouti[342], quinto Imperatore della potente dinastia di Ilan. Nel lungo suo regno di cinquantaquattr'anni, i Barbari delle Province meridionali si sottoposero alle leggi ed ai costumi della China, e furono estesi gli antichi limiti della Monarchia, dal gran fiume di Kiang fino al porto di Canton. Invece di ristringersi alle timide operazioni d'una guerra difensiva, i suoi Luogotenenti penetrarono per più centinaia di miglia nel paese degli Unni. In quegl'immensi deserti, dov'è impossibile formar magazzini, e difficile trasportare una sufficiente quantità di provvisioni, le armate di Vouti furono esposte più volte ad intollerabili travagli; e di centoquarantamila soldati, che marciarono contro i Barbari, soli trentamila tornarono salvi ai piedi del loro Sovrano. Queste perdite però vennero compensate da una splendida e decisiva fortuna. I Generali Chinesi trasser vantaggio dalla superiorità che avevano per la natura delle loro armi, pei loro carri da guerra e per l'aiuto dei Tartari loro alleati. Fu sorpreso il campo del Tangiù in mezzo all'intemperanza ed al sonno: e quantunque il Monarca degli Unni si facesse bravamente strada per le file nemiche, lasciò sopra mille cinquecento dei suoi soldati sul campo. Ciò nonostante, questa segnalata vittoria, che fu preceduta e seguitata da molti sanguinosi combattimenti, assai meno contribuì alla distruzione della potenza degli Unni, che l'efficace politica, usata per distaccare dalla loro ubbidienza le tributarie nazioni. Intimorite dalle armi, o allettate dalle promesse di Vouti e dei suoi successori, le più considerabili tribù, sì Orientali che Occidentali, scossero il giogo del Tangiù. Mentre alcune di esse si professarono alleate o suddite dell'Impero, divennero tutte implacabili nemiche degli Unni; ed il numero di quell'altiero popolo, ridotto che fu alle naturali sue forze, si potea forse contenere nelle mura di una delle grandi e popolate città della China[343]. La diserzione dei propri sudditi, e l'incertezza d'una guerra civile finalmente costrinsero il Tangiù stesso a rinunziare alla dignità d'indipendente Sovrano ed alla libertà regolare di una guerriera e coraggiosa nazione. Fu egli ricevuto a Sigan, capitale della Monarchia, dalle truppe, dai Mandarini e dall'Imperatore medesimo con tutti gli onori, che adornar potevano, e mascherare il trionfo della vanità Chinese[344]. Fu preparato un palazzo magnifico per riceverlo; gli fu assegnato il posto sopra tutti i Principi della Famiglia Reale; e fu tratta all'estremo la pazienza d'un Barbaro Re dalle cerimonie di un banchetto composto di otto portate di vivande e di nove solenni cantate di musica. Ma egli pagò inginocchioni il debito di un rispettoso omaggio all'Imperatore della China; pronunziò in nome di se stesso e de' suoi successori un perpetuo giuramento di fedeltà, e volentieri accettò un sigillo, che gli fu dato come emblema della sua real dipendenza. Dopo quest'umiliante sommissione i Tangiù alle volte mancaron di fede, e profittarono dei favorevoli momenti della guerra e della rapina; ma la monarchia degli Unni appoco appoco decadde, finattanto che dalla discordia civile restò divisa in due separati regni, fra loro nemici. Uno dei Principi della nazione fu spinto dall'ambizione o dal timore a ritirarsi verso il Mezzodì con otto Orde, che comprendevano fra quaranta e cinquantamila famiglie. Egli ottenne insieme col titolo di Tangiù un sufficiente territorio sul confine delle Province Chinesi; e fu assicurato il costante suo attaccamento al servizio dell'Impero dalla debolezza e dal desiderio di vendicarsi. Dopo questa fatal divisione gli Unni del Nord continuarono a languire intorno a cinquant'anni, finattanto che da ogni parte restarono oppressi dai loro esterni ed interni nemici. La superba Inscrizione[345] d'una colonna, eretta sopra un'alta montagna, annunzia alla posterità che un esercito Chinese avea marciato settecento miglia nell'interno del paese degli Unni. I Sienpi[346], tribù di Tartari orientali, si vendicarono delle ingiurie che anticamente avevano ricevute; e la potenza dei Tangiù, dopo un regno di mille trecento anni, fu totalmente distrutta, avanti il fine del primo secolo dell'Era Cristiana[347].

A. 93-100

Fu variata la sorte dei soggiogati Unni dalla varia influenza del carattere e della situazione[348]. Più di centomila persone, le più povere invero e le più imbecilli della nazione, si contentarono di restare nel loro nativo paese, di rinunziare al nome e all'origine loro particolare, e d'essere incorporate al vittorioso popolo dei Sienpi. Cinquant'otto Orde, che sono circa dugentomila uomini, ambiziosi d'una più onorevole servitù, si ritirarono verso il Sud; imploraron la protezione degli Imperatori della China; e fu loro permesso d'abitare e di guardare le ultime frontiere della Provincia di Chansi ed il territorio di Ortous. Ma le tribù più guerriere e potenti degli Unni mantennero, nell'avversa fortuna, l'indomito spirito dei loro antichi. Il Mondo occidentale era aperto al loro valore e risolverono di scuoprire e soggiogare, sotto la condotta degli ereditari lor Capitani, qualche remota regione, tuttavia inaccessibile alle armi dei Sienpi ed alle leggi della China[349]. Il corso della loro emigrazione presto li portò oltre le montagne dell'Imao, ed i confini della Geografia Chinese; ma noi possiamo distinguer fra loro le due gran divisioni di questi formidabili esuli, che diressero la loro marcia verso l'Osso e verso il Volga. La prima di tali colonie si stabilì nelle fertili e vaste pianure della Sogdiana sulla parte orientale del mar Caspio, dove conservarono il nome di Unni con l'epiteto di Eutaliti, o Neftaliti. Ne furono mitigati i costumi, ed anche insensibilmente migliorati gli aspetti dalla dolcezza del clima e dalla lunga dimora che fecero in una florida provincia[350], che poteva tuttavia ritenere una debole impressione delle arti della Grecia[351]. Gli Unni bianchi, nome che trassero dal cangiamento delle loro carni, presto abbandonaron la vita pastorale degli Sciti. Gorgo, che sotto il nome di Carizmo, ha poi goduto un temporaneo splendore, era la resistenza del Re, che esercitava una legittima autorità sopra un obbediente popolo. Il loro lusso era mantenuto dal lavoro dei Sogdiani; e l'unico vestigio dell'antica loro barbarie era l'uso che obbligava tutti i compagni, alle volte fino al numero di venti, che avevan partecipato della generosità d'un ricco Signore, ad esser sepolti vivi nell'istesso sepolcro di lui[352]. La vicinanza degli Unni alle Province della Persia gli espose a frequenti e sanguinosi contrasti con la potenza di quella Monarchia. Ma essi rispettavano in tempo di pace la fede dei trattati, ed in guerra i dettami dell'umanità; e la loro memorabil vittoria sopra Perose o Firuz dimostrò la moderazione ugualmente che il valore dei Barbari. Il secondo corpo degli Unni, che appoco appoco s'avanzarono verso il Nord-ovest, fu soggetto ai travagli d'un più freddo clima, e di una marcia più laboriosa. La necessità li costrinse a mutar le sete della China con le pelli della Siberia; si cancellarono in essi gl'imperfetti principj di una vita tendente a civiltà; e la natural fierezza degli Unni divenne maggiore pel commercio con le selvagge tribù, che con qualche ragione paragonate furono alle bestie feroci del deserto. Il loro spirito indipendente rigettò ben presto l'ereditaria successione dei Tangiù; ed essendo ciascheduna Orda governata dai particolari suoi Mursi, la tumultuaria loro assemblea dirigeva i pubblici passi di tutta la nazione. Fino al secolo XII il nome di Grande Ungheria[353] provava la passeggiera loro residenza sulle sponde orientali del Volga. Nell'inverno discendevano coi loro greggi ed armenti verso la bocca di quel gran fiume; e le loro estive correrie giungevano fino alla latitudine di Saratoff, o forse all'unione del Kama. Tali per lo meno erano i moderni confini dei Calmucchi neri[354], che rimasero per circa un secolo sotto la protezione della Russia, e che sono di poi ritornati alle native loro sedi sulle frontiere dell'Impero Chinese. La marcia ed il ritorno di quei Tartari vagabondi, il campo riunito dei quali è composto di cinquantamila tende o famiglie, serve a schiarire le distanti emigrazioni degli antichi Unni[355].

È impossibile riempire quell'oscuro intervallo di tempo, che scorse da che gli Unni del Volga furono perduti di vista dai Chinesi, fino al comparire che fecero agli occhi dei Romani. V'è qualche ragione però di sospettare, che quella medesima forza, che tratti gli aveva dalle native lor sedi, sempre continuasse a spinger la lor marcia verso le frontiere dell'Europa. La potenza dei Sienpi, loro implacabili nemici, che s'estendeva più di tremila miglia da Levante a Ponente[356], doveva gradatamente opprimerli col peso e col terrore d'una formidabil vicinanza; e la fuga delle tribù della Scizia doveva tendere inevitabilmente ad accrescere la forza, o a restringere i territori degli Unni. I difficili ed oscuri nomi di quelle tribù offenderebber l'orecchio senza illuminar l'intelletto del lettore; ma io non posso tacere il sospetto assai naturale, che gli Unni del Nord traessero un rinforzo considerabile dalla rovina della dinastia del Sud, la quale nel corso del terzo secolo si sottopose al dominio della China; che i guerrieri più prodi andassero in cerca dei liberi e fortunati lor nazionali: e che siccome s'eran divisi per la prosperità, così fossero facilmente riuniti dai comuni travagli della loro avversa fortuna[357]. Gli Unni co' loro greggi ed armenti, colle loro mogli e figliuoli, coi loro dipendenti ed alleati si trasferirono all'occidental parte del Volga, ed arditamente avanzaronsi a invadere il paese degli Alani, popolo pastorale che occupava o devastava un esteso tratto dei deserti della Scizia. Le tende degli Alani occupavano le pianure fra il Volga ed il Tanai, ma il nome e gli usi di essi erano sparsi per l'ampia estensione dalle loro conquiste, e le dipinte tribù degli Agatirsi e dei Geloni si confondevano fra' loro vassalli. Verso il Nord penetrarono nelle agghiacciate regioni della Siberia fra quei selvaggi che nell'impeto del furore o della fame erano assuefatti a cibarsi di carne umana; e le loro incursioni meridionali giungevano fino ai confini della Persia e dell'India. La mescolanza col sangue Sarmatico e Germanico aveva contribuito a migliorare la figura degli Alani, a schiarirne l'oscura carnagione, ed a tingere i loro capelli d'un color biondo, che di rado si trova nella razza dei Tartari. Essi erano meno deformi nelle persone, e meno brutali nei costumi degli Unni; ma non cedevan punto a quei formidabili Barbari nel loro marziale indipendente coraggio, nell'amor della libertà, che rigettava fin l'uso degli schiavi domestici, e nella passione per le armi, che considerava la guerra e la rapina come il piacere e la gloria dell'uman genere. Una scimitarra nuda piantata in terra era l'unico oggetto del religioso lor culto; i crani dei nemici formavano i sontuosi ornamenti dei loro cavalli; e miravan con occhio di pietà e di disprezzo i pusillanimi guerrieri, che pazientemente aspettavano la infermità della vecchiezza o i tormenti d'una lenta malattia[358]. Sulle rive del Tanai la forza militare degli Unni affrontossi con quella degli Alani con ugual valore, ma con sorte diversa. Gli Unni prevalsero nel sanguinoso combattimento; vi restò ucciso il Re degli Alani; ed i residui della vinta nazione furon dispersi dall'ordinaria alternativa della fuga o della sommissione[359]. Una colonia di esuli trovò rifugio sicuro nelle montagne del Caucaso fra il Ponto Eussino e il mar Caspio, dove conservano tuttavia il proprio nome e la loro indipendenza. Un'altra colonia s'avanzò con coraggio più intrepido verso i lidi del Baltico, unissi alle settentrionali tribù della Germania, e partecipò delle spoglie delle Province Romane della Gallia e della Spagna. Ma la maggior parte della nazione degli Alani abbracciò le offerte d'una onorevole ed utile unione, e gli Unni, che stimavano il valore dei loro men fortunati nemici, passarono con un aumento di numero e di sicurezza ad invadere i confini del Gotico Impero.

A. 375

Il grand'Ermanrico, gli stati del quale s'estendevan dal Baltico all'Eussino, godeva in una piena maturità di vecchiezza e di riputazione il frutto delle sue vittorie, allorchè fu agitato dal formidabile aspetto di un esercito d'ignoti nemici[360], ai quali potevano i suoi barbari sudditi senza ingiustizia dare il nome di Barbari. Il numero, la forza, i rapidi movimenti, e l'implacabile crudeltà degli Unni si provarono, si temettero e si amplificarono dagli attoniti Geti, che videro i loro campi e villaggi consumati dalle fiamme, ed oppressi da ogni genere di stragi. A questi reali terrori aggiungevasi la sorpresa e l'abborrimento, che eccitavano la strillante voce, i rozzi gesti e la strana deformità degli Unni. Questi selvaggi della Scizia furon paragonati (e la pittura aveva qualche rassomiglianza) agli animali che camminano assai sconciamente sopra due gambe; ed alle malfatte figure ( Termini ), che solevano collocarsi dagli antichi sui ponti. Erano essi distinti dal resto della specie umana per le larghe spalle, i nasi schiacciati, ed i piccoli occhi neri profondamente sepolti nel capo; ed essendo quasi privi di barba, non godevan giammai nè le grazie virili della gioventù, nè il venerabile aspetto della vecchiezza[361]. S'assegnò loro un'origine favolosa, degna della figura e dei costumi che avevano, vale a dire che le streghe della Scizia, che per le maligne loro o mortifere azioni erano state cacciate dalla società, si fosser congiunte nel deserto con spiriti infernali, e che gli Unni fossero la prole di quell'esecrabile congiunzione[362]. Questa favola, sì piena d'orrore e di assurdità, fu facilmente abbracciata dal credulo odio de' Goti; ma nel tempo che soddisfaceva il loro abborrimento, ne accresceva il timore; mentre poteva supporsi che la posterità dei demoni e delle streghe avesse ereditato qualche parte della forza soprannaturale non meno che dell'indole maligna dei suoi genitori. Contro nemici di questa sorte Ermanrico preparossi ad esercitare le riunite forze del dominio Gotico; ma presto conobbe, che le suddite sue tribù, irritate dall'oppressione, eran più inclinate a secondar che a rispingere l'invasione degli Unni. Uno dei Capi de' Rossolani[363] aveva già disertato dallo stendardo d'Ermanrico, ed il crudel Tiranno aveva condannato la moglie innocente del traditore ad essere fatta in pezzi da indomiti cavalli. I fratelli di quell'infelice donna presero il favorevol momento di vendicarsi. Il vecchio Re de' Goti languì qualche tempo dopo la pericolosa ferita che ricevè da' loro pugnali; ma ritardossi la condotta della guerra per la sua infermità; ed i pubblici consigli della nazione furono divisi da uno spirito di gelosia e di discordia. La morte di esso, che fu attribuita alla sua propria disperazione, lasciò le redini del governo in mano a Vitimero, il quale col dubbioso aiuto di alcuni mercenari Sciti, mantenne la disugual contesa fra le armi degli Unni e degli Alani, finattanto che fu egli disfatto ed ucciso in una decisiva battaglia. Gli Ostrogoti si sottomisero al loro destino; e da ora in poi troverassi la regia stirpe degli Amali fra' sudditi del superbo Attila. Ma la persona del fanciullo Re Viterico fu salvata dalla diligenza di Alateo e di Safrace, due guerrieri di sperimentata bravura e fedeltà, che per mezzo di caute marce condussero gl'indipendenti residui della nazione degli Ostrogoti verso il Danasto o il Niester, fiume considerabile, che ora separa gli stati Turchi dall'Impero della Russia. Il prudente Atanarico, più attento alla propria che alla generale salvezza, aveva stabilito il campo dei Visigoti sulle rive del Niester, con la ferma risoluzione d'opporsi ai vittoriosi Barbari, che stimò imprudenza di provocare. L'ordinaria velocità degli Unni era impedita dal peso del bagaglio e dall'impaccio degli schiavi; ma la loro perizia militare ingannò, e quasi distrusse l'armata d'Atanarico. Mentre il Giudice dei Visigoti difendeva le rive del Niester, fu circondato da un numeroso distaccamento di cavalleria, che al lume della luna aveva passato a guado il fiume; e d'uopo gli furono estremi sforzi di coraggio e di condotta per effettuar la sua ritirata verso la montagna. L'indomito Generale aveva già formato un nuovo e giudizioso piano di guerra difensiva; e le forti linee, che si preparava a tirare fra i monti, il Pruth, ed il Danubio, avrebbero assicurato l'esteso e fertile territorio, che adesso porta il nome di Valachia dalle rovinose incursioni degli Unni[364]. Ma le speranze e le misure del Giudice dei Visigoti furono presto sconcertate dalla tremante impazienza de' suoi scoraggiati compagni, persuasi dal lor timore che l'interposizione del Danubio fosse l'unico baluardo, che salvar li potesse dalla rapida caccia e dall'invincibil valore dei Barbari della Scizia. Sotto il comando di Fritigerno e d'Alavivo[365], il corpo della nazione s'avanzò in fretta verso le rive del gran fiume, ed implorò la protezione del Romano Imperatore dell'Oriente. Atanarico medesimo, sempre ansioso d'evitare il delitto di spergiuro, si ritirò con una truppa di fedeli seguaci nella montuosa regione di Caucaland, che sembrava esser guardata e quasi nascosta dalle impenetrabili foreste della Transilvania[366].

A. 376

Dopo che Valente ebbe terminato la guerra Gotica con qualche apparenza di gloria e di buon successo, passò pe' suoi dominj dell'Asia; e finalmente fissò la sua residenza nella Capitale della Siria. I cinque anni[367], che ei consumò in Antiochia, furono impiegati a spiare in una sicura distanza gli ostili disegni del Monarca Persiano, a frenare le ruberie dei Saracini e degl'Isauri[368], a confermare con argomenti più forti di quelli della ragione a dell'eloquenza la fede della teologia Arriana, ed a quietare i suoi ansiosi sospetti cogl'indistinti supplizi dell'innocente e del reo. Ma s'eccitò l'attenzione più seria dell'Imperatore per l'importante notizia, che ei ricevè dagli ufficiali militari e civili, ai quali affidato avea la difesa del Danubio. Egli fu informato che il Settentrione agitavasi da una furiosa tempesta; che l'irruzione degli Unni, incognita e mostruosa razza di selvaggi, avea rovesciato la potenza de' Goti; e che una supplichevole moltitudine di quella bellicosa nazione, l'orgoglio di cui era in quel tempo umiliato all'eccesso, occupava uno spazio di più miglia lungo le rive del fiume. Con le braccia stese e con patetici lamenti, ad alta voce deploravano le passate loro disgrazie ed il presente pericolo; confessavano che la unica loro speranza di salute era posta nella clemenza del Governo Romano; e con la maggior solennità protestavano, che se la graziosa liberalità dell'Imperatore avesse loro permesso di coltivare le ampie terre della Tracia, si sarebbero tenuti obbligati dai più forti vincoli di dovere e di gratitudine ad obbedire alle leggi, ed a difendere i confini della Repubblica. Tali assicurazioni confermate furono dagli Ambasciatori dei Goti, i quali con impazienza aspettavano dalla bocca di Valente una risposta, che finalmente determinasse la sorte degl'infelici lor nazionali. L'Imperatore Orientale non era più guidato dalla saviezza ed autorità del suo fratello maggiore, ch'era morto verso il fine dell'anno precedente; e siccome la misera situazione de' Goti richiedeva un'instantanea e perentoria decisione, gli mancò il favorito spediente degli spiriti deboli e timidi, che riguardano l'uso de' passi dilatorj ed ambigui, come i più ammirabili sforzi d'una consumata prudenza. Finattantochè sussisteranno fra gli uomini le medesime passioni ed interessi, si presenteranno frequentemente, come soggetto di moderne deliberazioni, le quistioni di guerra e di pace, di giustizia e di politica, che agitavansi nei consigli della Antichità. Ma a' più sperimentati Politici dell'Europa non è stato giammai commesso d'investigare la convenienza o il pericolo di rigettare o d'ammettere una innumerabile moltitudine di Barbari, che son tratti dalla disperazione e dalla fame a cercare uno stabilimento negli Stati d'una incivilita nazione. Allorchè fu riferita ai Ministri di Valente quest'importante proposizione, sì essenzialmente connessa con la pubblica sicurezza, essi rimasero perplessi e divisi, ma presto convennero nel lusinghiero sentimento che pareva più favorevole all'orgoglio, all'indolenza, ed all'avarizia del loro Sovrano. Gli schiavi, ch'erano decorati coi titoli di Prefetti e di Generali, dissimularono o non curarono il timore di questa nazional emigrazione, tanto diversa dalle particolari ed accidentali colonie, che si erano ammesse negli ultimi confini dell'Impero. Anzi applaudirono alla buona fortuna, che avea condotto dalle più distanti regioni del globo una numerosa ed invincibile armata di stranieri a difendere il trono di Valente, il quale aggiunger poteva al tesoro Imperiale le immense somme d'oro somministrate dai Provinciali per compensare l'annua loro dose di reclute. Si esaudirono le preghiere dei Goti, e dalla Corte Imperiale s'accettò il loro servigio; e furono immediatamente spediti ordini a' Governatori civili e militari della diocesi della Tracia onde fare i preparativi necessari pel passaggio, e per la sussistenza di un gran popolo, insino a che destinato gli fosse un proprio e sufficiente territorio per la futura sua residenza. Fu accompagnata però la liberalità dell'Imperatore da due rigorose e dure condizioni, che la prudenza giustificar potea dalla parte dei Romani, ma che non altro che la necessità poteva estorcere dagli sdegnosi Goti. Prima che passassero il Danubio, si volle che consegnassero le loro armi; e che tolti loro i figli, si spargessero per le Province dell'Asia, dove potessero ridursi a civiltà mercè dell'educazione, e servire di ostaggi per assicurare la felicità dei loro genitori.

Nella sospensione, che produceva un dubbioso e distante trattato, gl'impazienti Goti fecero qualche temerario tentativo di passare il Danubio senza la permissione del Governo, del quale implorato avevano la protezione. Furono diligentemente osservati i loro movimenti dalla vigilanza delle truppe acquartierate lungo il fiume, ed i loro primi distaccamenti andarono disfatti con notabile strage; pure tanto eran timide le deliberazioni del regno di Valente, che i probi Uffiziali, che avean servito la patria nell'adempimento del loro dovere, furon puniti con la perdita degli impieghi, e poco mancò che non fossero privati di vita. Giunse finalmente l'ordine Imperiale per trasportare sopra il Danubio tutto il corpo della nazione Gotica[369]; ma l'esecuzione di tal ordine fu laboriosa e difficile. Le acque del Danubio, che in quel luogo ha più d'un miglio di larghezza[370], erano gonfie per le continue piogge, ed in quel tumultuario passaggio, molti restaron dispersi ed annegati dalla rapida violenza della corrente. Fu messa in ordine una grossa flotta di navi, di barche e di battelli; s'impiegarono più giorni e più notti nel passare e ripassare con istancabil travaglio; e gli Uffiziali di Valente usarono la maggior diligenza, affinchè neppure uno di quei Barbari, che erano destinati a rovesciare i fondamenti di Roma, rimanesse sull'opposta sponda. Fu creduto espediente di prendere un'esatta notizia del loro numero; ma le persone, a ciò deputate, ben presto abbandonarono con maraviglia e sconcerto il proseguimento d'un'infinita ed ineseguibile impresa[371], ed il principale Istorico di quel tempo asserisce con la maggior serietà, che i prodigiosi eserciti di Dario e di Serse, che si erano sì lungamente risguardati come favole della vana e credula antichità, allora furono giustificati agli occhi del Mondo dall'evidenza del fatto e dell'esperienza. Un probabile testimone ha determinato il numero dei soldati Goti a dugentomila uomini; e se vogliamo aggiungervi una dose proporzionata di donne, di fanciulli e di schiavi, tutta la massa del popolo, che componeva tal formidabile emigrazione, dovè montare a quasi un milione di persone di ambedue i sessi e di ogni età. I figli dei Goti, almeno quelli d'un grado distinto, furono separati dalla moltitudine. Essi vennero senza dilazione condotti a remoti luoghi, assegnati per la loro dimora ed educazione; e quando quel numeroso corpo di ostaggi o di schiavi passava per le città, il loro gaio e splendido abbigliamento, la robusta e marzial loro figura, eccitava la sorpresa e l'invidia dei Provinciali. Ma la stipulazione più offensiva pe' Goti, e più importante pe' Romani, vergognosamente fu elusa. I Barbari, che risguardavano le loro armi come insegne di onore e pegni di sicurezza, si disposero ad offerire per esse un prezzo, che la licenza o l'avarizia dei Ministri Imperiali fu facilmente tentata di accettare. I superbi guerrieri, ad oggetto di conservare le armi, acconsentirono con qualche ripugnanza a prostituire le mogli o le figlie; e le bellezze d'una vaga donzella o d'un piacevol fanciullo assicurarono la connivenza degl'Inspettori, che alle volte gettavano un occhio d'avidità sui frangiati tappeti o sulle vesti di lino dei nuovi loro alleati[372], o che sacrificavano il loro dovere al vil desiderio d'empire le loro stalle di bestiame e le case di schiavi. Fu permesso ai Goti d'entrar nelle barche con le armi in mano; e quando la lor forza fu riunita all'altra parte del fiume, l'immenso esercito, che si sparse nei piani e nei colli della bassa Mesia prese un ostile e minaccevole aspetto. Poco dopo comparvero, sulle rive Settentrionali del Danubio, Alateo e Safrace, tutori del fanciullo loro Sovrano, e condottieri degli Ostrogoti; ed immediatamente spedirono ambasciatori alla Corte di Antiochia per sollecitare con le medesime proteste di alleanza e di gratitudine l'istesso favore, che era stato concesso ai supplichevoli Visigoti. L'assoluta negativa di Valente sospese il loro progresso, manifestò il pentimento, i sospetti ed i timori del consiglio Imperiale.

Una indisciplinata e vagante nazione di Barbari esigeva le più ferme disposizioni ed il maneggio più destro. Non potea supplirsi al quotidiano mantenimento di quasi un milione di sudditi straordinari, senza una costante ed abile diligenza, e questa poteva continuamente venire interrotta dal caso o dagli sbagli. L'insolenza o lo sdegno dei Goti, se accorgevansi di essere soggetti di timore o di disprezzo, poteva spingerli agli estremi più disperati, e sembra, che il destino dello Stato dipendesse dalla prudenza ed integrità de' Generali di Valente. In quest'importante crisi tenevano il governo militare della Tracia Lupicino e Massimo, nelle cui venali menti la più tenue speranza di privato guadagno prevaleva a qualunque considerazione di pubblico vantaggio; e la cui reità non era diminuita, che dall'incapacità di conoscere i perniciosi effetti della temeraria e colpevole loro amministrazione. Invece d'ubbidire agli ordini del Sovrano, e di soddisfare con decente liberalità le domande dei Goti, imposero un vile ed opprimente tributo sulle necessità degli affamati Barbari. Vendevasi loro ad un prezzo esorbitante il più basso cibo; ed in luogo di sane e sostanziose provvisioni eran pieni i mercati di carne di cani, e di animali immondi, che erano morti di malattia. Per fare il considerabile acquisto d'una libbra di pane, i Goti si privavano del possesso d'un dispendioso, quantunque utile, schiavo; e volentieri compravasi una piccola quantità di cibo per dieci libbre d'un prezioso, ma inutil metallo[373]. Quando esaurite furono le loro facoltà, continuarono tale necessario commercio con la vendita dei loro figli e delle figlie; e non ostante l'amor della libertà, che animava ogni petto Gotico, si sottoposero alla massima umiliante, che era meglio pei loro figliuoli di esser mantenuti in una condizione servile, che perire in uno stato di misera e disperata indipendenza. Viene eccitato il risentimento più vivo dalla tirannia di pretesi benefattori, i quali esigono fieramente il debito di gratitudine, cui hanno cancellato con le posteriori ingiurie. Appoco appoco si suscitò nel campo dei Barbari, che inutilmente adducevano il merito della paziente e rispettosa loro condotta, uno spirito di malcontentezza, ed altamente si dolsero dell'inumano trattamento che avean ricevuto dai nuovi alleati. Si vedevano attorno la dovizia ed abbondanza di una fertil provincia, in mezzo alla quale soffrivano gl'intollerabili travagli d'un'artificial carestia. Avevano però nelle mani i mezzi di trovare sollievo ed anche vendetta, giacchè la rapacità dei loro Tiranni avea rilasciato ad un offeso popolo il possesso e l'uso delle armi. I clamori d'una moltitudine, che non sa mascherare i suoi sentimenti, annunziarono i primi sintomi di resistenza; e posero in agitazione i timidi o colpevoli amici di Lupicino e di Massimo. Questi artificiosi Ministri, che sostituirono le astuzie di momentanei espedienti ai savi e salutari consigli di una estesa politica, tentarono di rimuovere i Goti dalla pericolosa lor situazione sulle frontiere dell'Impero, e dispergerli per le province interiori in quartieri di accantonamento separati fra loro. Siccome sapevano quanto male avevan meritato il rispetto o la confidenza dei Barbari, diligentemente raccolsero da ogni parte delle forze militari, che spinger potessero la lenta e ripugnante marcia di un popolo, che ancora non avea rinunziato al titolo o ai doveri di suddito di Roma. Ma nel tempo che l'attenzione dei Generali di Valente non applicavasi che ai malcontenti Visigoti, disarmavano essi imprudentemente le navi ed i Forti, che formavano la difesa del Danubio. Alateo e Safrace videro il fatale sbaglio, e ne profittarono, mentre ansiosamente spiavano la favorevole occasione di sottrarsi all'inseguimento degli Unni. Per mezzo di quelle navi e barchette, che precipitosamente poteron trovare i condottieri degli Ostrogoti, trasportarono senza ostacolo il Re e l'esercito loro, ed arditamente piantarono un ostile e indipendente campo sul territorio dell'Impero[374].

Alavivo e Fritigerno, sotto nome di giudici, erano i condottieri dei Visigoti in pace ed in guerra; e l'autorità, che essi traevano dalla nascita, era confermata dal libero consenso della nazione. In un tempo di tranquillità, il governo loro aveva potuto essere uguale, non meno che il grado che avevano; ma tosto che i lor nazionali furono esacerbati dalla fame e dall'oppressione, la superiore abilità di Fritigerno assunse il militar comando che egli aveva diritto di esercitare pel pubblico bene. Ei raffrenò lo spirito impaziente dei Visigoti, finattanto che le ingiurie e gl'insulti dei loro tiranni giustificassero nell'opinione degli uomini la lor resistenza; ma non era disposto a sagrificare alcun reale vantaggio alla pura lode di moderazione e di giustizia. Conoscendo l'utile che potea trarre dall'unione delle forze Gotiche sotto lo stesso stendardo, segretamente coltivò l'amicizia degli Ostrogoti; e mentre professava un'implicita obbedienza agli ordini dei Generali Romani, avanzavasi a piccole giornate verso Marcianopoli, capitale della bassa Mesia, circa settanta miglia distante dalle rive del Danubio. In quel luogo fatale, scoppiarono le fiamme della discordia e dell'odio reciproco in un terribile incendio. Lupicino aveva invitato i Capitani Goti ad uno splendido convito, ed il militare lor seguito era rimasto in armi all'ingresso del palazzo. Ma erano strettamente guardate le porte della città; ed erano i Barbari assolutamente esclusi dal comodo d'un abbondante mercato, al quale avevano ugual diritto e come sudditi e come alleati. Le umili loro suppliche si rigettarono con insolenza e derisione; e siccome esausta ormai era la loro pazienza, i paesani, i soldati ed i Goti presto si trovarono involti in un combattimento di appassionate altercazioni, e di ardenti rimproveri. Inconsideratamente diedesi un colpo; si trasse precipitosamente una spada; ed il primo sangue, che videsi uscire in quest'accidentale contesa, divenne il segnale d'una lunga e rovinosa guerra. In mezzo allo strepito ed alla brutale intemperanza, fu riportato a Lupicino da un segreto messo, che molti de' suoi soldati erano stati uccisi e spogliati delle loro armi, ed essendo egli già infiammato dal vino ed oppresso dal sonno, diede l'ordine temerariamente che se ne vendicasse la morte con la strage delle guardie di Fritigerno e d'Alavivo. Le clamorose strida ed i lamenti di quei, che morivano, scoprirono a Fritigerno il suo estremo pericolo; e siccome esso possedeva il freddo ed intrepido spirito d'un Eroe, vide ch'egli era perduto, se lasciava deliberare un momento quell'uomo che l'aveva sì altamente ingiuriato. «Una piccola contesa (disse il Capitano Goto con un fermo, ma piacevol tuono di voce) par che sia insorta fra le due nazioni; essa potrebbe produrre le più pericolose conseguenze, qualora non sia subito quietato il tumulto dalla sicurezza della nostra salute e dall'autorità della nostra presenza». Dette queste parole, Fritigerno ed i suoi compagni, sguainate le spade, s'aprirono il passo per mezzo all'irresistente folla che empiva il palazzo, le strade e le porte di Marcianopoli, e montando sui loro cavalli, scomparvero in fretta dagli occhi degli stupefatti Romani. I Generali dei Goti vennero salutati dalle fiere, e liete acclamazioni del campo; immediatamente fu risoluta la guerra, e senza differire s'eseguì tale risoluzione: si spiegarono le bandiere della nazione, secondo l'uso dei loro antenati; e risuonò l'aria della terribile e lugubre musica della barbara tromba[375]. Il debole e reo Lupicino, che aveva osato di provocare, trascurato di distruggere, e che tuttavia presumeva di sprezzare il formidabile suo nemico, marciò contro i Goti alla testa di quella milizia, che potè raccogliere in tal subitanea occorrenza. I Barbari aspettarono che s'avvicinasse circa nove miglia in distanza da Marcianopoli, ed in quest'occasione si vide che l'abilità del Generale era di maggior efficacia che le armi e la disciplina delle truppe. Il valore dei Goti fu con tanta perizia diretto dal genio di Fritigerno, che in uno stretto e vigoroso attacco rupper le file delle Legioni Romane. Lupicino abbandonò le armi e le insegne, i Tribuni ed i più bravi soldati che aveva, nel campo di battaglia; ed il loro inutil coraggio non servì che a proteggere la vergognosa fuga del Capitano. «Quel fortunato giorno pose fine alle angustie dei Barbari ed alla sicurezza de' Romani; da quel giorno in poi rinunziando i Goti alla precaria condizione di esuli e di stranieri, assunsero il carattere di cittadini e di padroni, s'attribuirono un assoluto dominio sopra i possessori delle terre, e ritennero in lor potere le province Settentrionali dell'Impero, che hanno per confine il Danubio». Tali son le parole d'un Istorico Goto[376], che celebra con rozza eloquenza la gloria dei suoi nazionali. Ma i Barbari non esercitarono il loro dominio, che ad oggetto di predare o di distruggere. Poichè i Ministri dell'Imperatore gli avean privati dei benefizi comuni di natura, e del libero commercio della vita sociale, vendicarono essi tale ingiustizia contro i sudditi dell'Impero, e furono espiati i delitti di Lupicino con la rovina dei pacifici agricoltori della Tracia, coll'incendio dei loro villaggi e con la strage o la schiavitù delle innocenti loro famiglie. Tosto si sparse nei luoghi vicini la nuova della vittoria dei Goti; e riempiendo essa di terrore e di sconcerto gli animi dei Romani, la precipitosa loro imprudenza contribuì ad accrescer le forze di Fritigerno e le calamità della provincia. Qualche tempo avanti questa grand'emigrazione, era stato ricevuto sotto la protezione ed al servizio dell'Impero un numeroso corpo di Goti condotti da Suerido e da Colia[377]. Erano questi accampati sotto le mura d'Adrianopoli; ma i ministri di Valente desideravano ansiosamente di mandarli di là dall'Ellesponto per allontanarli dalla pericolosa tentazione, a cui potevano sì facilmente esser soggetti per la vicinanza ed il buon successo dei lor nazionali. La rispettosa sommissione, con la quale acquietaronsi all'ordine della loro marcia, avrebbe potuto considerarsi come una prova della lor fedeltà; e la moderata richiesta, che fecero d'un sufficiente sussidio di provvisioni e della dilazione di soli due giorni fu espressa nei termini più doverosi. Ma il primo Magistrato di Adrianopoli, irritato per causa di alcuni disordini commessi nella sua villa, negò di compiacergli, ed armando contro di loro gli abitanti e gli artefici di una popolata città, insistè con ostili minacce nell'immediata loro partenza. I Barbari si rimasero in silenzio e sospesi, finattanto che non furono esacerbati dagl'insultanti clamori e da' dardi della plebaglia; ma stancata che fu la loro pazienza o non curanza, scagliaronsi contro l'indisciplinata moltitudine, percossero con molte vergognose ferite i dorsi dei fuggitivi loro nemici, e gli spogliarono delle splendide armi[378], che erano indegni di portare. La somiglianza delle offese e delle azioni presto riunì questo vittorioso distaccamento alla nazione dei Visigoti; le truppe di Colia e di Suerido aspettarono l'arrivo del gran Fritigerno, si raccolsero sotto i suoi stendardi, e segnalarono il loro ardore nell'assedio di Adrianopoli. La resistenza però della guarnigione fece conoscere ai Barbari che nell'attacco delle regolari fortificazioni rare volte hanno effetto gli sforzi d'un imperito coraggio. Il lor Generale conobbe l'errore, levò l'assedio, e dichiarò «d'essere in pace con le mura di pietra[379],» e si vendicò del mancato colpo sull'addiacente campagna. Egli accettò con piacere l'utile rinforzo degl'indurati lavoratori, che scavavano le miniere d'oro della Tracia[380] per vantaggio e sotto la sferza d'un insensibil padrone[381]; e questi nuovi compagni condussero i Barbari per segreti sentieri ai luoghi più remoti, che erano stati scelti per porre in sicuro gli abitanti, le bestie ed i magazzini di grano. Coll'aiuto di tali guide, niente rimase nascosto o inaccessibile; era fatale la resistenza, la fuga ineseguibile, e la paziente sommissione della disperata innocenza rare volte trovava pietà nei Barbari conquistatori. Nel corso di tali depredazioni si restituirono agli abbracciamenti degli afflitti genitori in gran numero i figli dei Goti, che erano stati venduti per ischiavi, ma questi teneri incontri, che avrebbero dovuto ravvivare nei loro animi e far loro gustare qualche sentimento di umanità, non tendevano che a stimolare la nativa loro fierezza col desiderio della vendetta. Essi con grande attenzione prestavano orecchio ai lamenti dei loro figli, che nella schiavitù avean sofferto le più crudeli indegnità dalle licenziose o ardenti passioni dei loro padroni; ed usavan le medesime crudeltà, gli stessi indegni trattamenti con gran rigore verso i figli e le figlie dei Romani[382].

A. 377

L'imprudenza di Valente e dei suoi ministri aveva introdotto nel cuor dell'Impero un popolo di nemici; pure si sarebber potuti riconciliare gli animi dei Visigoti mediante un'ingenua confessione dei passati errori, ed un sincero adempimento degli antichi trattati. Sembrava che tali salutari e moderate provvisioni fosser coerenti alla timida disposizione del Monarca orientale; ma in questa sola occasione Valente fece il bravo, e tale inopportuna bravura tornò fatale a lui stesso ed a' sudditi. Ei dichiarò la sua intenzione di marciare da Antiochia a Costantinopoli per reprimere quella pericolosa ribellione; e siccome conosceva le difficoltà dell'impresa, sollecitò l'assistenza dell'Imperatore Graziano suo nipote, che comandava le forze dell'Occidente. Si richiamarono in fretta dalla difesa dell'Armenia le truppe veterane; abbandonossi alla discrezione di Sapore quell'importante frontiera; e fu affidata, nell'assenza di Valente, l'immediata condotta della guerra Gotica a' suoi Luogotenenti Traiano e Profuturo, Generali che nutrivano una favorevole e ben falsa opinione della loro abilità. Arrivati che furono nella Tracia s'unì ad essi Ricomero, Conte dei domestici, e gli ausiliari dell'Occidente, che marciavano sotto la sua bandiera, sostenevano le legioni Galliche, ridotte però da uno spirito di diserzione a vane apparenze di forza e di numero. In un consiglio di guerra, nel quale influiva più l'orgoglio che la ragione, fu risoluto di cercare ed affrontare i Barbari, che stavano accampati nei fertili e spaziosi prati vicino alla più meridionale delle sei bocche del Danubio[383]. Il loro campo era circondato dalla solita fortificazione de' carri[384]; ed i Barbari, sicuri dentro il vasto cerchio di quel recinto, godevano i frutti del loro valore e le spoglie della Provincia. In mezzo alla disordinata intemperanza, il vigilante Fritigerno osservava i movimenti, e penetrava i disegni dei Romani. Egli si accorse che il numero de' nemici andava sempre crescendo; e siccome conobbe l'intenzione che avevano d'attaccar la sua retroguardia, subito che la mancanza del cibo lo costringesse a muovere il campo, richiamò i suoi predatorj distaccamenti, che occupavano l'addiacente campagna. Appena scuoprirono essi i concertati fuochi[385], che obbedirono con incredibile prestezza al segnale del lor Capitano; il campo fu ripieno d'una marzial folla di Barbari; le impazienti lor grida chiedevano la battaglia, e quel tumultuario zelo fu approvato ed animato dallo spirito dei loro Capi. Era già molto avanzata la sera; e le due armate si prepararono al combattimento, che fu differito soltanto fino allo spuntare del nuovo giorno. Mentre le trombe incitavano alle armi, fu invigorito l'indomito coraggio dei Goti dalla reciproca obbligazione d'un solenne giuramento; e nell'avanzarsi che facevano incontro al nemico, i rozzi cantici, che celebravano la gloria dei loro maggiori, eran mescolati con dissonanti e feroci strida, che s'opponevano all'artificiosa armonia delle acclamazioni Romane. Fritigerno dimostrò qualche perizia militare nel guadagnar che fece il vantaggio d'una dominante altura; ma la sanguinosa pugna, che principiò e finì col giorno, si mantenne da ambe le parti mediante i personali ed ostinati sforzi di robustezza, di valore e d'agilità. Le legioni dell'Armenia sostennero la loro fama nelle armi; ma furono oppresse dall'irresistibile peso della moltitudine dei nemici; fu posta in disordine l'ala sinistra dei Romani, ed i loro corpi, tagliati a pezzi, restarono sparsi nel campo. Questa particolare disfatta, per altro, fu bilanciata da un particolar successo; e quando i due eserciti ad un'ora tarda della sera si ritirarono ai respettivi lor campi, niuno di loro potè vantare gli onori o gli effetti di una decisiva vittoria. La perdita reale fu più sensibile pe' Romani a cagione della piccolezza del loro numero; ma i Goti restarono tanto confusi e sconcertati per questa vigorosa e forse inaspettata resistenza, che rimasero sette giorni dentro le loro fortificazioni. Ad alcuni uffiziali di grado distinto furono piamente fatte quelle ceremonie funebri, che permettevan le circostanze del tempo e del luogo; ma l'indistinto volgo fu lasciato insepolto sul campo. Ne fu avidamente divorata la carne dagli uccelli di rapina, che in quel tempo godevano di molto frequenti e deliziosi pasti, e molti anni dopo le bianche o nude ossa, che cuoprivano l'ampia estensione dei campi, presentarono agli occhi d'Ammiano un terribile monumento della battaglia di Salice[386].

S'era interrotto il progresso dei Goti dal dubbioso evento di questa sanguinosa giornata; ed i Generali dell'Imperatore, il cui Esercito sarebbe rimasto distrutto da un'altra battaglia di simil fatta, adottarono il più ragionevole disegno di rovinare i Barbari per mezzo dei bisogni e delle strettezze della stessa loro moltitudine. Si preparavano essi a confinare i Visigoti nell'angusto angolo di terra, che è fra il Danubio, il deserto della Scizia ed il monte Emo, finattantochè insensibilmente se ne consumasse la forza e lo spirito dall'inevitabile azion della fame. Fu eseguito il disegno con qualche condotta ed effetto; i Barbari avevan quasi dato fondo ai lor magazzini ed ai ricolti del paese; e la diligenza di Saturnino, Generale di cavalleria, si impiegava in accrescer la forza, e ristringere l'estensione delle fortificazioni Romane. Furono però interrotte le sue fatiche dall'inquietante notizia, che nuovi sciami di Barbari aveano passato il non difeso Danubio, affine o di sostenere la causa o d'imitar l'esempio di Fritigerno. La giusta apprensione di potere egli stesso venir circondato ed oppresso dalle armi di ostili ed ignote nazioni, obbligò Saturnino ad abbandonare l'assedio del campo de' Goti; ed essi nell'uscire sdegnati dal confino in cui erano, saziaron la fame e la vendetta loro con la replicata devastazione della fertil campagna, che s'estende più di trecento miglia dalle rive del Danubio fino allo stretto dell'Ellesponto[387]. L'accorto Fritigerno si era fortunatamente applicato a secondar le passioni e l'interesse dei Barbari suoi alleati; e l'amore della rapina e l'odio di Roma favorirono o prevennero l'eloquenza de' suoi ambasciatori. Egli strinse una forte e vantaggiosa alleanza col gran corpo de' suoi nazionali, che obbediva ad Alateo ed a Safrace, custodi del fanciullo loro Sovrano; il sentimento del comune loro interesse fece sospendere la lunga animosità delle rivali tribù; si associò sotto un solo stendardo la parte indipendente della nazione; e sembra che i Capitani degli Ostrogoti cedessero al superior genio del Generale de' Visigoti. Ottenne il formidabile aiuto dei Taifali, la militar fama dei quali era disonorata e avvilita dalla pubblica infamia dei domestici loro costumi. Ogni giovane, all'entrar che faceva nel Mondo, era unito con vincoli di onorevole amicizia e di brutale amore a qualche guerriero della tribù; nè sperar potea di restar libero da questa non natural connessione, finattantochè non avesse provata la sua virilità coll'uccidere da solo a solo un grand'orso o un selvaggio cignale[388]. Ma i più potenti ausiliari dei Goti si trassero dal campo di quegli stessi nemici, che gli avevano espulsi dalle native lor sedi. La libera subordinazione, ed i vasti territorj degli Unni e degli Alani differivano le conquiste, e dividevano i consigli di quei popoli vittoriosi. Più Orde furono allettate dalle generose promesse di Fritigerno, e la rapida cavalleria della Scizia aggiunse peso ed energia ai costanti e valorosi sforzi dell'infanteria Gotica. I Sarmati, che non la poteron mai perdonare al successore di Valentiniano, goderono della general confusione, e l'accrebbero; ed un'opportuna irruzione degli Alemanni nelle Province della Gallia impegnò l'attenzione e divertì le forze dell'Imperator d'Occidente[389].

Uno dei più gravi danni, che si risentisse dall'introduzione de' Barbari nell'esercito e nel palazzo, fu la corrispondenza che tenevano coi nemici lor nazionali, ai quali o per imprudenza o per malizia manifestavano la debolezza dell'Impero Romano. Un soldato della guardia del corpo di Graziano era di nazione Alemanno e della tribù dei Lenziensi, che abitavano di là dal lago di Costanza. Alcuni affari domestici l'obbligarono a domandar licenza d'assentarsi. In una breve visita, che fece alla famiglia ed ai suoi amici, fu esposto alle curiose loro interrogazioni; e la vanità del loquace soldato tentollo a spiegar l'intima cognizione che aveva dei segreti di Stato e dei disegni del suo Signore. La notizia, che Graziano si preparava a condurre le forze militari della Gallia e dell'Occidente in soccorso di Valente suo zio, additò all'inquieto spirito degli Alemanni il momento ed il modo di fare una felice invasione. L'impresa di alcuni piccoli distaccamenti, che nel mese di Febbraio passarono il Reno sul ghiaccio, fu preludio d'una più importante guerra. Le audaci speranze di preda, e forse di conquista, vinsero le riflessioni della timida prudenza o della fedeltà nazionale. Ogni foresta, ogni villaggio somministrò una truppa di forti avventurieri, e la grand'armata degli Alemanni, che al suo avvicinarsi fu dal timore del popolo considerata di quarantamila soldati, venne in seguito amplificata sino a settantamila dalla vana e credula adulazione della Corte Imperiale. Le legioni, alle quali si era ordinato di marciare nella Pannonia, furono immediatamente richiamate o ritenute per la difesa della Gallia; il comando militare fu diviso fra Nanieno e Mellobaude; e sebbene il giovane Imperatore rispettasse la lunga esperienza e la sobria saviezza del primo, era però più inclinato ad ammirare e seguire il marziale ardore del suo compagno, al quale si permetteva di riunire in sè gl'incompatibili caratteri di Conte dei domestici e di Re dei Franchi. Priario, Re degli Alemanni, rivale di lui, era guidato o piuttosto spinto dall'istesso ostinato valore; e poichè le loro truppe erano animate dallo spirito dei condottieri, s'incontrarono, si videro e s'attaccarono fra loro vicino alla città d'Argentaria o Colmar[390] nelle pianure dell'Alsazia. Fu giustamente attribuita la gloria di tal giornata alle armi da lanciare ed alle ben eseguite evoluzioni dei soldati Romani: gli Alemanni, che lungamente si mantennero saldi, furono trucidati con instancabil furore; soli cinquemila Barbari si rifuggiaron nei boschi e nelle montagne: e la morte gloriosa del loro Principe sul campo di battaglia lo salvò dai rimproveri del popolo, che sempre è disposto ad accusar la giustizia o la condotta d'una guerra infelice. Dopo questa segnalata vittoria, che assicurava la pace della Gallia, e sosteneva l'onore delle armi Romane, l'Imperator Graziano finse di procedere immediatamente alla sua spedizione orientale; ma giunto a' confini degli Alemanni voltossi ad un tratto a sinistra, li sorprese coll'improvviso passaggio del Reno, ed arditamente avanzossi nel cuore del loro paese. I Barbari opposero al suo progresso gli ostacoli della natura e del coraggio; e continuarono sempre a ritirarsi da un colle all'altro, finattantochè dalle replicate prove restaron convinti della forza e della perseveranza dei loro nemici. Fu accettata la lor sommissione come un segno non già del sincero lor pentimento, ma dell'angustia, in cui allor si trovavano; e si volle dall'infedele nazione uno scelto numero di bravi e robusti loro giovani, come un pegno più sostanziale della futura loro moderazione. I sudditi dell'Impero, che avevano tante volte sperimentato che gli Alemanni non potevano esser soggiogati dalle armi, nè tenuti a freno dai trattati, non potevano promettersi alcuna solida e durevol tranquillità; ma nelle virtù del giovane loro Sovrano videro il prospetto di un lungo e prospero regno. Allorchè le legioni si rampicavano su pei monti, e scalavano le fortezze dei Barbari, si distingueva nelle prime file il valor di Graziano; e la dorata e variamente colorita armatura delle sue guardie era trafitta e lacerata dai colpi che avean ricevuti nel costante attaccamento alla persona del loro Sovrano. All'età di diciannove anni parve che il figlio di Valentiniano possedesse già i talenti della guerra e della pace; ed il suo personal successo contro gli Alemanni fu interpretato come un sicuro presagio dei Gotici suoi trionfi[391].

Mentre Graziano meritava e godeva l'applauso dei suoi sudditi, l'Imperator Valente, che avea finalmente mosso la sua Corte ed armata da Antiochia, fu ricevuto dal popolo di Costantinopoli come l'autore della pubblica calamità. Non erasi anche riposato dieci giorni nella Capitale, che dai licenziosi clamori dell'Ippodromo venne spinto a marciar contro i Barbari che aveva invitati nei suoi dominj; ed i cittadini, che sono sempre valorosi, quando son lontani dal pericolo reale, dichiaravano con sicurezza, che se fossero loro date le armi, avrebbero essi soli intrapreso di liberar la Provincia dalle devastazioni d'un insultante nemico[392]. I vani rimproveri d'un'ignorante moltitudine affrettarono la caduta del Romano Impero; questi provocarono la disperata imprudenza di Valente, che non trovava o nella propria riputazione o nel suo spirito motivo alcuno da sostener con fermezza il pubblico dispregio. Egli presto s'indusse pei felici successi dei suoi Luogotenenti a sprezzare il potere dei Goti, che mediante la diligenza di Fritigerno trovavansi allora uniti nelle vicinanze di Adrianopoli. Il valente Frigerido aveva intercettato la marcia dei Taifali; il Re di quei licenziosi Barbari era stato ucciso in battaglia; e gli schiavi supplichevoli erano stati mandati in un lontano esilio a coltivar le terre d'Italia, che furono assegnate loro nei territorj vacanti di Parma e di Modena[393]. Le azioni di Sebastiano[394], che di fresco erasi posto al servizio di Valente, ed era stato promosso al grado di Generale d'infanteria, erano vie più onorevoli ad esso e vantaggiose per la Repubblica. Egli ottenne la permissione di scegliere da ciascheduna legione trecento soldati, e questo separato distaccamento in breve acquistò lo spirito di disciplina e l'esercizio delle armi, che erano quasi dimenticati sotto il regno di Valente. Atteso il vigore e la condotta di Sebastiano, fu sorpreso nel proprio campo un grosso corpo di Goti, e l'immenso bottino, che ricuperossi dalle lor mani, empì la città d'Adrianopoli e le addiacenti pianure. Gli splendidi racconti, che fece il Generale delle sue imprese, inquietaron la Corte Imperiale per l'apparenza d'un merito superiore; e quantunque egli cautamente insistesse sopra le difficoltà della guerra Gotica, ne fu lodato il valore, e rigettato il consiglio; e Valente, che ascoltava con vanità e con piacere le adulatrici suggestioni degli eunuchi del palazzo, era impaziente d'assicurarsi la gloria d'una facile e sicura conquista. Il suo esercito fu invigorito da un numeroso rinforzo di veterani; e fu condotta la sua marcia da Costantinopoli ad Adrianopoli con tanta perizia militare, che prevenne l'attività dei Barbari, i quali avean disegnato d'occupare i passi di mezzo per intercettare o le truppe medesime o i convogli e le provvisioni di esse. Il campo, che Valente avea piantato sotto le mura d'Adrianopoli, fu, secondo l'uso dei Romani, fortificato con un fosso ed un recinto, e convocossi un importantissimo consiglio di guerra per decidere della sorte dell'Imperatore e dell'Impero. Vittore fortemente sostenne il partito più ragionevole della dilazione, avendo egli con l'esperienza corretto la natural fierezza del carattere Sarmatico, mentre Sebastiano con la pieghevole ed ossequiosa eloquenza di un Cortigiano, rappresentava ogni precauzione ed ogni misura, che contenesse qualche dubbio d'immediata vittoria, come indegna del coraggio e della maestà del loro invincibil Monarca. Fu precipitata la rovina di Valente dalle ingannevoli arti di Fritigerno, e dalle prudenti ammonizioni dell'Imperatore Occidentale. Il Generale dei Barbari era perfettamente informato dei vantaggi della negoziazione in mezzo alla guerra; e fu spedito un Ecclesiastico Cristiano, come sacro ministro di pace, per iscuoprire e render dubbiosi i consigli del nemico. Si esposero con forza e con verità le disgrazie non meno che le ingiurie della nazione Gotica dall'Ambasciatore, il quale si protestò in nome di Fritigerno, che egli era sempre disposto a deporre le armi o ad impiegarle solo in difesa dell'Impero, se assicurar poteva un tranquillo stabilimento a' vaganti suoi nazionali nelle terre incolte della Tracia, ed una sufficiente quantità di grano e di bestiame. Aggiunse però, in un segreto colloquio di confidenziale amicizia, che gli esacerbati Barbari erano alieni da tali ragionevoli condizioni, e che Fritigerno stava in dubbio se potesse condurre a fine la conclusione del trattato, qualora egli non si trovasse sostenuto dalla presenza e dal terrore di un esercito Imperiale. Verso l'istesso tempo tornò dall'Occidente il Conte Ricomero ad annunziar la disfatta e la sommissione degli Alemanni, a far sapere a Valente che il suo nipote avanzavasi con rapide marce alla testa delle veterane e vittoriose legioni della Gallia; ed a richiedere in nome di Graziano e della Repubblica, che si sospendesse qualunque passo pericoloso e decisivo, finattantochè la congiunzione dei due Imperatori assicurasse il buon successo della guerra Gotica. Ma sul debole Sovrano dell'Oriente non agivano che le illusioni fatali della gelosia e dell'orgoglio. Sdegnò l'importuno avviso; rigettò l'umiliante soccorso; segretamente paragonò l'ignominioso o almeno non glorioso corso del proprio regno con la fama di un giovane imberbe; e corse al campo per innalzarsi un immaginario trofeo, prima che la diligenza del suo collega potesse aver parte veruna nei trionfi della battaglia.

Il nove d'Agosto, giorno che ha meritato d'avere luogo fra i più malaugurati del calendario Romano[395], l'Imperator Valente, lasciato sotto una forte guardia il suo bagaglio e la cassa militare, si partì da Adrianopoli per attaccare i Goti, ch'erano accampati alla distanza di circa dodici miglia dalla città[396]. Per qualche sbaglio degli ordini, o per l'ignoranza del luogo, l'ala destra, o la colonna di cavalleria giunse a vista del nemico, mentre la sinistra era sempre in una considerabil distanza; i soldati furon costretti nell'affannoso caldo della state ad affrettare il passo; e si formò la linea di battaglia con un tedioso disordine ed una irregolar dilazione. S'era distaccata la cavalleria Gotica per cercar foraggio nelle vicine campagne; e Fritigerno tuttavia continuava a praticare i soliti suoi artifizi. Spedì egli dei Messaggieri di pace, fece proposizioni, richiese ostaggi, e consumò il tempo a tal segno, che i Romani, esposti senza riparo ai cocenti raggi del sole, restarono esausti dalla sete, dalla fame e dall'intollerabil fatica. L'Imperatore si indusse a mandare un Ambasciatore nel campo Gotico: fu applaudito lo zelo di Ricomero, che solo ebbe il coraggio d'accettare questa pericolosa commissione; ed il Conte dei domestici, adornato con le splendide insegne della sua dignità, erasi già qualche tratto avanzato fra le due armate, quando fu improvvisamente richiamato indietro dal suono della battaglia. Fu fatto il precipitoso ed imprudente attacco da Bacurio l'Ibero, che comandava un corpo di arcieri e di targettieri; ed in quella guisa che s'avanzarono temerariamente, ritiraronsi ancora con perdita e con vergogna. Nel momento stesso gli squadroni volanti di Alateo e di Safrace, dei quali ansiosamente s'aspettava l'arrivo dal Generale dei Goti, scenderono come un turbine dalle montagne, attraversarono il piano, ed aggiunsero nuovi terrori al tumultuario, ma irresistibile incontro dell'esercito Barbaro. In poche parole si può descriver l'evento della battaglia d'Adrianopoli, sì fatale a Valente ed all'Impero. La cavalleria Romana si diede alla fuga; l'infanteria restò abbandonata, circondata e tagliata a pezzi. Le più abili evoluzioni, il più fermo coraggio appena son sufficienti a distrigare un corpo d'infanteria, circondato in un piano aperto da un maggior numero di cavalli; ma le truppe di Valente, oppresse dal peso dei nemici e dei propri lor timori, si trovavano strette in un piccolo spazio, dov'era per loro impossibile d'estender le file, o anche di servirsi con effetto delle spade e dei giavellotti. In mezzo al tumulto, alla strage ed al disordine, l'Imperatore, abbandonato dalle sue guardie e ferito, come si suppone, da un dardo, cercò rifugio fra i Lancearj ed i Mattiarj, che tuttavia mantenevano il loro posto con qualche apparenza d'ordine e di fermezza. I fedeli Generali, Traiano e Vittore, che videro il suo pericolo, altamente gridarono che era tutto perduto, se non si poteva salvar la persona dell'Imperatore. Alcune truppe, animate dalle loro esortazioni, s'avanzarono in soccorso di lui; ma non trovarono che un sanguinoso tratto di terra, coperto di un mucchio di armi spezzate e di laceri corpi, senza potere scuoprir l'infelice lor Principe nè fra i vivi nè fra i morti. Infatti non potevano essi trovarlo, se vere sono le circostanze, con le quali hanno alcuni Storici riferito la morte dell'Imperatore. La cura de' suoi ministri condusse Valente dal campo di battaglia in una vicina capanna, dove procuravasi di medicare la sua ferita e di provvedere alla futura salvezza di lui. Ma fu ad un tratto circondato dai nemici quest'umile asilo; tentarono essi di forzarne la porta; ma, provocati da una scarica di dardi scagliati dal tetto, ed impazienti di più indugiare, misero fuoco ad un mucchio di secche legna, e distrussero la capanna insieme coll'Imperatore ed i suoi famigliari. Valente perì nelle fiamme, e non iscampò che un sol giovane, il quale saltando dalla finestra contò la trista novella, ed informò i Goti dell'inestimabile preda, che avevan perduto per causa della loro inconsideratezza. Nella battaglia d'Adrianopoli perì un gran numero di prodi e distinti Uffiziali, ed essa uguagliò nell'effettiva perdita, e molto sorpassò nelle fatali conseguenze la disgrazia, che Roma una volta soffrì nei campi di Canne[397].

Si trovarono fra i morti due Generali della cavalleria e della infanteria, due grand'Uffiziali del palazzo e trentacinque Tribuni, e la morte di Sebastiano mostrò al Mondo che se egli fu l'autore, fu pure la vittima della pubblica calamità. Fu distrutto per più di due terzi l'esercito Romano, e le tenebre della notte vennero tenute per molto propizie, come quelle che servirono a coprire la fuga della moltitudine, ed a proteggere la più ordinata ritratta di Vittore e di Ricomero, che soli, in mezzo alla generale costernazione, mantennero il vantaggio di un tranquillo valore e di una regolar disciplina[398].

Mentre erano ancora fresche nelle menti degli uomini le impressioni del dolore e dello spavento, l'oratore più celebre di quel tempo compose l'orazione funebre d'un esercito superato e d'un odioso Principe, il trono del quale era già stato occupato da uno straniero. «Non mancan persone (dice l'ingenuo Libanio) che incolpano la prudenza dell'Imperatore, o che attribuiscono la pubblica disgrazia al difetto di coraggio e di disciplina nelle truppe. Quanto a me, io venero la memoria delle lor precedenti azioni; venero la gloriosa morte, che valorosamente soffrirono, stando salde e combattendo nei loro posti: venero il campo di battaglia, asperso del sangue loro e di quello dei Barbari. Questi onorevoli segni sono già stati cancellati dalle piogge; ma i superbi monumenti delle ossa loro, di quelle dei generali, dei centurioni e de' valenti soldati meritano una più lunga durata. Il Sovrano medesimo pugnò e cadde nelle prime file dell'esercito. I suoi famigliari gli presentarono i più veloci destrieri della stalla Imperiale, che presto l'avrebbero liberato dalla persecuzion del nemico; essi lo stimolarono in vano a conservare l'importante sua vita pel futuro servigio della Repubblica. Ei fu costante nella protesta d'essere indegno di sopravvivere a tanti de' più valorosi e fedeli suoi sudditi; ed il Monarca restò nobilmente sepolto sotto un monte di uccisi. Non vi sia dunque chi ardisca d'attribuir la vittoria dei Barbari al timore, alla debolezza o alla imprudenza delle truppe Romane. I Capitani ed i soldati animati furono dal valore dei loro maggiori, de' quali uguagliavan la disciplina e l'arte militare. La generosa loro emulazione fu sostenuta dall'amore della gloria, che li pose in istato di contendere nel tempo istesso con la fame e con la sete, col ferro e col fuoco, ed a volentieri abbracciare una morte onorata, come un refugio contro la fuga e l'infamia. Lo sdegno degli Dei è stata la sola cagione del buon successo dei nostri nemici». La verità dell'istoria può disapprovar qualche parte di questo panegirico, che a rigore non si può conciliare col carattere di Valente o con le circostanze della battaglia; è dovuta però la più giusta lode all'eloquenza, e molto più alla generosità del Sofista d'Antiochia[399].

Si esaltò l'orgoglio de' Goti per questa memorabile vittoria, ma restò sconcertata la loro avidità dalla mortificante scoperta, che la più ricca porzione delle spoglie Imperiali era stata riposta dentro le mura di Adrianopoli. Essi affrettaronsi a godere il premio del lor valore; ma s'opposero loro i residui d'un vinto esercito con intrepida fermezza, che fu l'effetto della disperazione e l'unica speranza che avessero di salute. Le mura della città, ed i ripari del campo addiacente, furono guerniti di macchine militari, che scagliavano pietre d'enorme peso, e spaventavano gl'ignoranti Barbari più con lo strepito e con la velocità, che coll'effetto reale della scarica. S'erano uniti nel pericolo e nella difesa i soldati, i cittadini, i provinciali e i domestici del palazzo; tornò rispinto il furioso assalto de' Goti; le segrete loro arti di perfidia e di tradimento furono scoperte; e dopo un ostinato combattimento di più ore, si ritirarono alle loro tende, convinti per esperienza, che sarebbe stato migliore partito per essi l'osservare il trattato, che il sagace lor Condottiero aveva tacitamente stipulato con le fortificazioni delle grandi e popolate città. Dopo il precipitoso e non politico macello di trecento disertori, atto di giustizia sommamente utile alla disciplina degli eserciti Romani, i Goti levarono sdegnati l'assedio d'Adrianopoli. Lo spettacolo della guerra e del tumulto si convertì ad un tratto in un tacito orrore solingo; immediatamente sparì la moltitudine; i segreti sentieri de' boschi, e de' monti eran segnati dalle vestigia de' fuggitivi tremanti, che cercavan rifugio nelle distanti città dell'Illirico e della Macedonia; ed i fedeli ministri della casa e del tesoro Imperiale cautamente andavano in cerca dell'Imperatore, del quale tuttora ignoravan la morte. La corrente dell'inondazione Gotica scorse dalle mura d'Adrianopoli fino ai sobborghi di Costantinopoli. I Barbari furon sorpresi dallo splendido aspetto della capitale dell'Oriente, dall'altezza ed estension delle mura, dalle migliaia di ricchi e spaventati cittadini, che coronavano i forti, e dalla varia veduta della terra e del mare. Nel tempo, che stavano ammirando con inutile desiderio le inaccessibili bellezze di Costantinopoli, una truppa di Saracini[400], che fortunatamente s'erano arruolati al servigio di Valente, fece una sortita da una porta della città. La cavalleria della Scizia dovè cedere alla mirabil velocità ed al brio de' cavalli Arabi; quelli che li cavalcavano erano abili nell'evoluzioni della guerra irregolare; ed i Barbari settentrionali restarono attoniti e sconcertati dall'inumana ferocia de' Barbari del Mezzodì. Un soldato Gotico, essendo stato ucciso dal pugnale d'un Arabo, il chiomato e nudo selvaggio, ponendo le labbra alla ferita di esso, esprimeva un orribil diletto nel succiar che faceva il sangue del vinto di lui nemico[401]. L'armata Gotica, carica delle spoglie de' ricchi sobborghi e del territorio addiacente, con lentezza si mosse dal Bosforo verso i monti, che formano il confine Occidentale della Tracia. Fu abbandonato l'importante passo di Succi dal timore o dalla mala condotta di Mauro; ed i Barbari, che non avevano più da temere alcuna resistenza dalle disperse e vinte truppe dell'Oriente, si diffusero sulla superficie d'una fertile e coltivata regione, sino ai confini dell'Italia e del mare Adriatico[402].

A. 378-379

I Romani, che narrano con tanta freddezza e brevità gli atti di giustizia esercitati dalle legioni[403], riservano la lor pietà ed eloquenza per le angustie, che soffrirono essi, allorchè le Province furono invase e desolate dalle armi fortunate de' Barbari. La semplice ben circostanziata istoria (se pure una tal istoria esistesse) della rovina d'una sola città, delle disgrazie d'una sola famiglia[404] potrebbe rappresentare un'interessante ed istruttiva pittura de' costumi umani; ma la tediosa ripetizione di vaghi e declamatori lamenti stancherebbe l'attenzione del più paziente lettore. Si può applicare la stessa censura, quantunque forse non in grado uguale agli scrittori sì profani che ecclesiastici di quegl'infelici tempi, vale a dire che i loro animi erano accesi da una religiosa e volgare animosità, e che s'alterava la vera grandezza e il colore di ogni oggetto dall'esagerazioni della corrotta loro eloquenza. Potè l'ardente Girolamo[405] deplorar con ragione le calamità apportate da' Goti, e da' Barbari loro alleati nel nativo suo paese della Pannonia e nella vasta estensione delle Province, che sono fra le mura di Costantinopoli e il piè delle alpi Giulie; le rapine, le stragi, gl'incendi, e sopra tutto la profanazion delle Chiese, che si convertirono in stalle, e l'irriverente trattamento delle reliquie de' Santi Martiri. Ma il Santo si lascia trasportare oltre i confini della natura e dell'istoria, quando asserisce «che non rimase in quelle deserte regioni altro che il cielo e la terra; che distrutte le città ed estirpata la razza umana, il suolo era tutto ingombrato da folte selve e d'inestricabili boschi; e che s'adempiva la universal desolazione, annunziata dal Profeta Sofonia, nella scarsità delle bestie, degli uccelli e fino de' pesci». Si esposero tali querele circa vent'anni dopo la morte di Valente; e le Province Illiriche, le quali furono sempre soggette all'invasione ed al passaggio de' Barbari, continuarono dopo un calamitoso corso di dieci secoli a somministrar nuovi materiali di rapina e di distruzione. Quand'anche si potesse supporre, che un ampio tratto di paese fosse lasciato inculto e senz'abitanti, le conseguenze di ciò non avrebber potuto essere tanto fatali alle inferiori produzioni dell'animata natura. Gli utili e deboli animali, che si nutriscon dalla mano degli uomini, posson soffrire e distruggersi, qualora sieno privati della lor protezione; ma le bestie della foresta, nemiche o vittime dell'uomo, si debbon piuttosto moltiplicare nel libero e non disturbato possesso de' solitari loro dominj. Le varie tribù, che popolano l'aria o l'acqua, sono anche meno connesse colla sorte della specie umana; ed è molto probabile, che i pesci del Danubio dovessero sentire maggior terrore ed angustia dall'avvicinarsi loro un vorace luccio, che dalle ostili scorrerie d'un'armata di Goti.

A. 378

Per quanto fosse stato grande il numero delle calamità dell'Europa, v'era motivo di temere che in breve le stesse disgrazie s'estenderebbero alle pacifiche regioni dell'Asia. I figli de' Goti erano stati giudiziosamente distribuiti per le città dell'Oriente; e si erano impiegate le cure dell'educazione per vincere ed ingentilire la nativa fierezza della loro indole. Nello spazio di circa dodici anni era continuamente cresciuto il lor numero; ed i fanciulli, che nella prima emigrazione erano stati mandati sopra l'Ellesponto, avevano acquistato con rapido avanzamento la forza e lo spirito di una perfetta virilità[406]. Era impossibile di impedir che sapessero gli eventi della guerra Gotica; e siccome quegli arditi giovani non aveano studiato il linguaggio della dissimulazione, dimostravano il desiderio, la brama, e forse l'intenzione, che avevano, d'emulare il glorioso esempio de' loro padri. Pareva che il pericolo di que' tempi giustificasse i gelosi sospetti dei Provinciali; e furono ammessi tali sospetti come indubitabili prove, che i Goti dell'Asia formato avessero una segreta e pericolosa cospirazione contro la pubblica sicurezza. La morte di Valente avea lasciato l'Oriente senza Sovrano; e Giulio, che occupava l'importante posto di General delle truppe con un'alta riputazione di diligenza e d'abilità, si credè in dovere di consultare il Senato di Costantinopoli, che nella vacanza del Trono si considerava da esso, come l'assemblea rappresentante della nazione. Appena ebbe ottenuto la libera facoltà di operare come giudicava espediente pel bene della Repubblica, che convocò i primi uffiziali, e segretamente concertò i mezzi opportuni per eseguire il sanguinario suo disegno. Fu immediatamente pubblicato un ordine, che in un dato giorno si unisse la Gioventù Gotica nelle città capitali delle respettive loro Province; e siccome si fece a bella posta spargere una voce, che si convocavano per dar loro un liberal donativo di terre e di danaro, la piacevole speranza mitigò il furore del loro sdegno, e forse sospese i moti della cospirazione. Nel giorno determinato tutta la gioventù Gotica fu diligentemente raccolta senz'armi in una piazza; le strade ed i passi della medesima erano occupati dalle truppe Romane, ed i tetti delle case coperti di arcieri e frombolieri. In tutte le città dell'Oriente fu dato alla medesima ora il segnale dell'indistinto macello; e la crudel prudenza di Giulio liberò le Province dell'Asia da un domestico nemico, che in pochi mesi avrebbe potuto portare il ferro ed il fuoco dall'Ellesponto all'Eufrate[407]. L'urgente considerazione della sicurezza pubblica può senza dubbio autorizzare la violazione di ogni legge positiva. Ma fino a qual segno questa od altra simil considerazione possa valere a disciogliere le naturali obbligazioni d'umanità e di giustizia, è dessa una dottrina, che io desidero di sempre ignorare.

A. 379

L'Imperator Graziano erasi molto avanzato nella sua marcia verso le pianure d'Adrianopoli, quando fu informato, a principio dalla voce confusa della fama, ed in seguito dai più esatti ragguagli di Vittore e di Ricomero, che l'impaziente collega di lui era stato ucciso in battaglia, e che la spada dei vittoriosi Goti aveva esterminato due terzi dell'armata Romana. Per quanto sdegno meritasse la temeraria e gelosa vanità dello zio, l'ira di un animo generoso è facilmente vinta dai più dolci moti di dolore e di compassione; ed anche i sentimenti di pietà presto andarono a perdersi nella seria e formidabile considerazione dello stato attuale della Repubblica. Graziano non era più in tempo d'assistere, ed era troppo debole per vendicare il suo disgraziato Collega, ed il valoroso e modesto giovane sentì se stesso incapace a sostenere un Mondo cadente. Una formidabil tempesta di Barbari della Germania sembrava pronta ad invader le Province della Gallia; e lo spirito di Graziano era oppresso e distratto dall'amministrazione dell'Impero Occidentale. In quest'importante crisi, il Governo dell'Oriente, e la condotta della guerra Gotica esigevano tutta intera l'attenzione d'un Eroe e d'un politico. Un suddito, investito di sì ampio comando, non avrebbe lungamente conservato la sua fedeltà ad un distante benefattore; ed il consiglio Imperiale abbracciò la savia e virile risoluzione di acquistarsi una riconoscenza, piuttosto che cedere ad un insulto. Graziano desiderava di donare la porpora come un premio della virtù: ma non è facile per un Principe, educato nel supremo posto, di conoscere alla età di diciannove anni i veri caratteri dei propri Generali e ministri. Procurò di pesare con imparziale bilancia i diversi loro meriti e difetti; e mentre frenava il temerario ardire dell'ambizione, diffidava di quella cauta saviezza, che induce a disperare della Repubblica. Siccome ogni momento di dilazione faceva perdere qualche parte del potere e de' ripieghi del futuro Sovrano d'Oriente, la situazione delle circostanze non permetteva un tedioso dibattimento. Graziano tosto dichiarò la sua scelta in favore d'un esule, il padre del quale, non più che tre anni avanti, aveva sofferto, esercitando esso l'autorità sovrana, un'ingiusta ed ignominiosa morte. Il Gran Teodosio, nome celebre nell'Istoria e caro alla Chiesa Cattolica[408], fu chiamato alla Corte Imperiale, che appoco appoco erasi ritirata dai confini della Tracia al più sicuro quartiere di Sirmio. Cinque mesi dopo la morte di Valente, l'Imperator Graziano produsse in presenza alle truppe adunate il suo Collega e loro Signore, che dopo una modesta e forse sincera resistenza, fu costretto ad accettare, in mezzo alle generali acclamazioni, il diadema, la porpora e l'ugual titolo d'Augusto[409]. Destinate furono al governo del nuovo Imperatore le Province della Tracia, dell'Asia e dell'Egitto, sopra le quali avea regnato Valente; ma siccome ad esso era specialmente affidata la condotta della guerra Gotica, fu smembrata la Prefettura dell'Illirico; e furono aggiunte agli stati dell'Impero d'Oriente le due gran diocesi della Dacia e della Macedonia[410].

L'istessa Provincia, e forse anche l'istessa città[411], che aveva dato al trono le virtù di Trajano ed i talenti d'Adriano, fu la sede originale d'un'altra famiglia di Spagnuoli, che in un secolo meno felice tenne per quasi ottant'anni il decadente Impero di Roma[412]. Questa uscì dall'oscurità degli onori municipali mediante l'attivo spirito del vecchio Teodosio, Generale le cui imprese nella Britannia e nell'Affrica formarono una delle più splendide parti degli annali di Valentiniano. Il figlio di quel Generale, che aveva parimente il nome di Teodosio, fu educato da abili professori negli studi liberali della gioventù; ma nell'arte della guerra fu istruito dalla tenera cura e dalla severa disciplina del proprio padre[413]. Sotto lo stendardo di tal condottiere, il giovane Teodosio andò in cerca di gloria e di cognizioni nei più lontani teatri dell'azione militare; assuefece il suo corpo alla diversità delle stagioni e dei climi; distinse il suo valore per mare e per terra; ed osservò la differente maniera di guerreggiare degli Scoti, dei Sassoni e dei Mori. Il proprio merito e la raccomandazione del conquistatore dell'Affrica l'elevarono in breve ad un comando separato; e fatto Duce della Mesia, vinse una armata di Sarmati, salvò la Provincia, meritò l'amor dei soldati, e provocò l'invidia della Corte[414]. La sua nascente fortuna ben presto decadde per la disgrazia e l'esecuzione dell'illustre suo padre; e Teodosio ricevè come un favore la permissione di ritirarsi a fare una vita privata nella nativa sua Provincia di Spagna. Ei dimostrò un fermo e moderato carattere nella calma, con cui s'adattò a questa nuova situazione. Il suo tempo era quasi ugualmente diviso fra la città e la campagna; lo spirito, che aveva animato la sua condotta pubblica, si fece conoscere anche nell'attivo e premuroso adempimento di ogni dover sociale; e con vantaggio applicossi la diligenza del soldato a migliorare il vasto suo patrimonio[415], che era fra Vagliadolid e Segovia in mezzo ad un fertile territorio, tuttavia famoso per la più squisita razza di pecore[416]. Dagl'innocenti ma utili lavori delle sue possessioni, Teodosio in meno di quattro mesi fu trasferito al trono dell'Impero Orientale; e tutta la serie dell'istoria degli uomini non potrà forse somministrare un esempio simile d'innalzamento nell'istesso tempo sì puro e sì onorevole. I Principi, che ereditano pacificamente lo scettro dei loro padri, pretendono e godono un diritto legittimo, tanto più sicuro, quanto è assolutamente distinto dai meriti del lor carattere personale. I sudditi, che in una Monarchia o in uno stato popolare acquistano la suprema potestà, possono elevarsi colla superiorità del genio o della virtù sopra i loro simili; ma rare volte la loro virtù è libera dall'ambizione, e frequentemente la causa del candidato, che ottiene il suo intento, è macchiata dalla colpa della cospirazione o della guerra civile. Eziandio in que' Governi, che permettono al Monarca regnante di nominare un collega o successore, la parziale sua scelta, nella quale possono influire le più cieche passioni, è spesso diretta ad un indegno soggetto. Ma la più sospettosa malignità non potè attribuire a Teodosio nell'oscura sua solitudine di Cauca, gli artifizi, i desiderj, e neppure le speranze d'un ambizioso politico, ed il nome stesso dell'esule da gran tempo sarebbe andato in dimenticanza, se le vere e distinte virtù di lui non avesser lasciato una profonda impressione nella Corte Imperiale. Il sublime suo merito, nel tempo della prosperità, non si era curato; ma nelle pubbliche angustie fu generalmente riconosciuto o sentito. Qual fiducia mai non doveva esser posta nella sua integrità, mentre Graziano potè fidarsi, che un pietoso figlio per amore della Repubblica perdonato avrebbe l'uccisione del padre! Qual espettazione dovevasi avere della sua abilità per sostener la speranza, che un solo uomo potesse salvare e restaurar l'Impero dell'Oriente! Teodosio fu decorato della porpora nell'anno trentesimoterzo della sua età. Il volgo guardava con ammirazione la virile bellezza del sembiante e la graziosa maestà della persona di lui, che si compiaceva di paragonare con le pitture e medaglie dell'Imperator Trajano; mentre gl'intelligenti osservatori scuoprivano nelle sue qualità del cuore e dello spirito una ben più importante rassomiglianza all'ottimo ed al più grande fra i Principi Romani.

A. 379-382

Non senza il più sincero dispiacere debbo adesso prender licenza da un'esatta e fedel guida, che ha composto l'istoria de' suoi tempi senza secondare i pregiudizi e le passioni che ordinariamente influiscono sulla mente di uno scrittore contemporaneo. Ammiano Marcellino, che termina l'utile sua opera con la disfatta e con la morte di Valente, raccomanda il soggetto più glorioso del seguente regno al fresco vigore ed all'eloquenza della nuova generazione[417]. Ma questa non fu disposta ad accettarne il consiglio o ad imitarne l'esempio[418], e nello studio del regno di Teodosio noi siamo ridotti ad illustrare la parzial narrazione di Zosimo con oscuri barlumi di frammenti e di croniche, col figurato stile della poesia o del panegirico, e col precario aiuto degli Ecclesiastici, che nel calore della fazion religiosa son portati a disprezzare le virtù profane della sincerità e della moderazione. Consapevole di tali svantaggi, che continueranno ad involgere una parte considerabile dell'istoria della decadenza e rovina del Romano Impero, io camminerò con dubbiosi e timidi passi. Può affermarsi però arditamente, che non fu mai vendicata la battaglia d'Adrianopoli da veruna segnalata o decisiva vittoria di Teodosio contro i Barbari: e l'espressivo silenzio dei venali oratori di lui si può confermare dall'osservazione dello stato e delle circostanze dei tempi. La fabbrica d'un potente Impero, che era sorto coll'opera di più secoli, non poteva rovesciarsi dalla disgrazia di una sola giornata, se la forza fatale dell'immaginazione non avesse esagerato la vera misura della calamità. La perdita di quarantamila Romani, che perirono nelle pianure d'Adrianopoli, poteva presto ripararsi nelle popolate Province dell'Oriente, che contenevano tanti milioni di abitatori. Il coraggio di un soldato è la qualità più a buon mercato e più comune della natura umana; ed una sufficiente perizia per affrontare un nemico indisciplinato, poteva in breve acquistarsi mediante la cura dei Centurioni, che in vita eran rimasti. Se i Barbari s'erano impossessati dei cavalli e delle armi dei vinti loro nemici, le copiose razze della Cappadocia e della Spagna somministrar potevano nuovi squadroni di cavalleria; i trentotto arsenali dell'Impero erano abbondantemente forniti di magazzini di armi offensive e difensive; e la ricchezza dell'Asia potea sempre concedere un ampio fondo per le spese della guerra. Ma gli effetti, che produsse la battaglia d'Adrianopoli negli animi dei Barbari o de' Romani estesero la vittoria de' primi, e la disfatta de' secondi molto al di là dei limiti d'una sola giornata. Si udì un Capitano Gotico protestare con insolente moderazione, che quanto a sè era stanco della strage; ma si maravigliava come un popolo, che fuggiva d'avanti a lui come un branco di pecore, ardisse ancora di disputargli il possesso dei propri beni e delle Province[419]. Gli stessi terrori, che aveva sparso fra le tribù Gotiche il nome degli Unni, s'erano inspirati dal formidabil nome dei Goti fra' sudditi ed i soldati dell'Impero Romano[420]. Se Teodosio avesse precipitosamente raccolto le sparse sue truppe, e le avesse condotte in campo a fronte d'un vittorioso nemico, il suo esercito sarebbe restato vinto dai propri timori, nè l'incerta sorte del successo avrebbe scusato l'imprudenza del Capitano. Ma il Gran Teodosio, titolo che onorevolmente si meritò in questa importante occasione, si condusse da costante e fedel custode della Repubblica. Piantò i suoi principali quartieri a Tessalonica, capitale della Diocesi di Macedonia[421], d'onde poteva osservare gli irregolari movimenti dei Barbari, e diriger le operazioni dei suoi Luogotenenti, dalle porte di Costantinopoli fino ai lidi dell'Adriatico. Si rinforzarono le guarnigioni e fortificazioni delle città; e le truppe, nelle quali fu ravvivato un sentimento d'ordine e di disciplina, ripresero insensibilmente coraggio per la confidenza della propria salvezza. Da questi sicuri posti arrischiaronsi a fare delle frequenti sortite su' Barbari, che infestavano l'addiacente campagna; e siccome rare volte permettevasi loro l'attacco senza qualche decisivo vantaggio o nel terreno o nel numero, le loro imprese furono per lo più fortunate, e presto restarono persuasi per la propria esperienza della possibilità di vincere gl' invincibili loro nemici. Appoco appoco riunironsi in piccole armate i distaccamenti di quelle divise guarnigioni; si proseguirono i medesimi cauti passi a forma d'un esteso e ben concertato piano di operazioni; i quotidiani successi accrescevan forza e coraggio alle armi Romane, e l'artificiosa diligenza dell'Imperatore, che facea circolare i più favorevoli ragguagli degli avvenimenti della guerra, contribuì a domar l'orgoglio dei Barbari, e ad animar le speranze e l'ardire dei proprj sudditi. Se in luogo di questi deboli ed imperfetti delineamenti, si potessero con esattezza rappresentare i consigli e le azioni di Teodosio in quattro successive campagne, vi è ragione di credere, che la consumata perizia di lui meriterebbe l'applauso d'ogni militare lettore. Le dilazioni di Fabio avevano anticamente salvato la Repubblica; e mentre gli splendidi trofei di Scipione nella campagna di Zama tirano a sè gli occhi della posterità, gli accampamenti e le marce del Dittatore fra i colli della Campania hanno un ben giusto diritto a quell'indipendente e solida fama, che il Generale non è costretto a dividere nè con la fortuna nè con le truppe. Di tal sorta fu il merito ancor di Teodosio; e la debolezza del suo corpo, che fu molto inopportunamente attaccato da una lunga e pericolosa malattia, non potè opprimere il vigore della sua mente, o deviarne l'attenzione dal pubblico servigio[422].

A. 379-382

La liberazione e la pace delle Province Romane[423] fu opera più della prudenza che del valore; la prudenza di Teodosio fu secondata dalla fortuna; e l'Imperatore non mancò mai di trar profitto e vantaggio da ogni favorevole circostanza. Finattantochè il superior genio di Fritigerno conservò l'unione, e diresse i movimenti dei Barbari, la loro forza fu capace della conquista d'un grande Impero. La morte di quell'Eroe, predecessore e maestro del famoso Alarico, liberò un'impaziente moltitudine dall'intollerabile giogo della disciplina e della discrezione. I Barbari, ch'erano stati tenuti in freno dalla sua autorità, s'abbandonarono ai dettami delle loro passioni; e queste di rado erano coerenti o uniformi. Un'armata di conquistatori si divise in molte disordinate bande di selvaggi ladroni; e la cieca ed irregolare lor furia non fu meno dannosa a loro medesimi che ai nemici. Si vedeva la cattiva loro disposizione nel distrugger che essi facevano qualunque oggetto, che non avevan forza di trasportare, o buon gusto da godere; e spesso consumarono con improvvida rabbia le raccolte o i granai, che poco dopo divennero necessari alla lor sussistenza. Eccitossi uno spirito di discordia fra quelle indipendenti nazioni e tribù, che non s'erano unite che per mezzo dei vincoli d'una libera e volontaria alleanza. Le truppe degli Unni e degli Alani dovevan naturalmente rinfacciare a' Goti la fuga; e questi non eran disposti ad usar con moderazione i vantaggi della fortuna: non potea più lungamente restar sospesa l'antica gelosia fra gli Ostrogoti ed i Visigoti; ed i superbi Capitani tuttora si rammentavan gl'insulti e le ingiurie che si eran fatte reciprocamente, allorchè la nazione trovavasi al di là del Danubio. Il progresso delle particolari fazioni abbatteva il più general sentimento dell'animosità nazionale; e gli uffiziali di Teodosio avevan ordine di comprare con liberali doni e promesse la ritirata o i servigi del malcontento partito. L'acquisto di Modar, principe del sangue reale degli Amali, diede un ardito e fedel campione alla parte Romana. L'illustre disertore ottenne subito il posto di Generale con un importante comando; sorprese un'armata di suoi nazionali, che erano immersi nel sonno e nel vino; e dopo una crudele strage degli attoniti Goti tornò con un'immensa preda di quattromila carri al campo Imperiale[424]. Nelle mani d'un avveduto politico i mezzi più differenti si possono utilmente dirigere ai medesimi fini; e la pace dell'Impero, cominciata dalla divisione, fu compiuta dalla riunione dei Goti. Atanarico il quale era stato paziente spettatore di quegli straordinari avvenimenti, alla fine dell'evento delle armi fu tratto fuor dagli oscuri nascondigli dei boschi di Caucaland. Egli non esitò più a passare il Danubio, ed una parte molto considerabile dei sudditi di Fritigerno, che aveva già provato gli incomodi dell'anarchia, facilmente s'indusse a riconoscer per Re un Giudice Gotico, del quale rispettava la nascita, e spesso aveva sperimentato l'abilità. Ma l'età avea raffreddato l'ardente spirito d'Atanarico; ed invece di condurre il suo popolo al campo della battaglia e della vittoria, diede orecchio prudentemente all'opportuna proposizione d'un onorevole e vantaggioso trattato. Teodosio, che conosceva il merito ed il potere del suo nuovo alleato, condiscese ad incontrarlo alla distanza di più miglia da Costantinopoli; e lo trattò nella città Imperiale con la confidenza d'un amico o colla magnificenza d'un Monarca. «Il Barbaro Principe con curiosa attenzione osservò la varietà degli oggetti, che a sè traevano i suoi occhi, e finalmente proruppe in questa sincera e patetica esclamazione di meraviglia: Adesso io miro, ciò che non avrei mai creduto, le glorie di questa Capitale stupenda! E girando attorno gli occhi vide ed ammirò la dominante situazione della città, la forza e bellezza delle mura e dei pubblici edifizi, il capace porto, coronato d'innumerabili navi, il continuo commercio di remote nazioni, e le armi e la disciplina delle truppe. In verità, proseguì Atanarico, l'Imperator dei Romani è un Dio sopra la terra; e l'uomo presontuoso, che ardisce d'alzar la mano contro di lui, è reo del proprio sangue[425].» Il Gotico Re non potè goder lungamente di quell'onorevol e splendido trattamento, e poichè la temperanza non era la virtù della sua nazione, giustamente si può sospettare che la mortale malattia di lui derivasse da' piaceri degl'Imperiali banchetti. Ma la politica di Teodosio trasse un più solido vantaggio dalla morte di lui che non avrebbe potuto aspettare dai più fedeli servigi del suo alleato. Con solenni ceremonie si fece il funerale d'Atanarico, nella capitale dell'Oriente; fu eretto un magnifico monumento alla sua memoria; e tutta l'armata di esso, vinta dalla liberal cortesia e dal decente lutto di Teodosio, s'arrolò sotto gli stendardi dell'Imperio Romano[426]. La sommissione d'un corpo di Visigoti sì grande produsse le più salutevoli conseguenze; e l'influsso della forza, della ragione e della corruzione, unite insieme, divenne sempre più potente ed esteso. Ogni Capitano indipendente affrettossi a fare un trattato a parte, pel timore che un ostinato indugio non l'esponesse solo e senza difesa alla vendetta o alla giustizia del vincitore. Si può fissare la data della generale o piuttosto finale capitolazione dei Goti a quattro anni, un mese e venticinque giorni dopo la disfatta e la morte dell'Imperator Valente[427].

A. 386

Le Province del Danubio erano già sollevate dall'opprimente peso dei Grutungi od Ostrogoti mediante la volontaria ritirata d'Alateo e di Safrace, lo spirito inquieto dei quali avevagli mossi a cercare nuove scene di rapina e di gloria. Il distruttivo loro corso era diretto verso l'Occidente; ma noi dobbiamo contentarci d'un'oscura ed imperfetta cognizione delle varie loro avventure. Gli Ostrogoti spinsero varie tribù Germaniche nelle Province della Gallia; conclusero e tosto violarono un trattato coll'Imperator Graziano; avanzaronsi nelle incognite regioni del Norte; e dopo uno spazio di quattro anni tornarono con maggiori forze alle rive del basso Danubio. Avevano reclutato i più feroci guerrieri della Germania e della Scizia; ed i soldati o almeno gli Istorici dell'Impero non conoscevan più il nome e gli aspetti dei primi loro nemici[428]. Il Generale, che comandava le forze terrestri e marittime della frontiera della Tracia, tosto s'accorse che la propria superiorità sarebbe svantaggiosa pel pubblico servigio; e che i Barbari, spaventati dalla presenza delle sue flotte e legioni, avrebbero probabilmente differito il passaggio del fiume fino al prossimo inverno. La destrezza delle spie, che esso mandò nel campo dei Goti, attirò i Barbari in una rete fatale. Si lasciarono persuadere, che mediante un ardito tentativo avrebber potuto sorprendere nel silenzio e nell'oscurità della notte l'addormentato esercito dei Romani; e fu precipitosamente imbarcata tutta la moltitudine in una flotta di tremila canoe[429]. I più prodi fra gli Ostrogoti conducevano la vanguardia: il corpo di mezzo era composto del rimanente dei loro sudditi e soldati; e le femmine ed i fanciulli seguivano con sicurezza nella retroguardia. Era stata scelta una notte senza luna per eseguire il disegno; ed erano quasi giunti alla sponda meridionale del Danubio con la ferma fiducia di trovare un facile sbarco ed un campo non guardato. Ma s'arrestò ad un tratto il progresso dei Barbari da un ostacolo inaspettato, vale a dire da una triplice fila di navi fortemente connesse l'una coll'altra, che formavano un'impenetrabil catena di due miglia e mezzo lungo il fiume. Mentre tentavano essi di aprirsi per forza la strada in un disuguale combattimento, fu oppresso il lor destro fianco dall'irresistibile attacco di una flotta di galere, che erano spinte giù pel fiume dalla forza insieme dei remi e della corrente. Il peso e la velocità di quelle navi da guerra ruppe, gettò a fondo, e disperse le rozze e deboli canoe dei Barbari: inefficace tornò ad essi il loro valore; ed Alateo, Re o Generale degli Ostrogoti, perì con le brave sue truppe, o sotto la spada dei Romani, o nelle acque del Danubio. L'ultima divisione di quell'infelice flotta poteva riguadagnare l'opposto lido; ma l'angustia ed il disordine della moltitudine la rendè incapace di azione e di consiglio; e tosto implorarono la clemenza dei vittoriosi nemici. In questa occasione, ugualmente che in molte altre, è difficile di conciliar le passioni ed i pregiudizi degli scrittori del secolo di Teodosio. Il parziale e maligno Istorico, che altera qualunque azione del suo regno, asserisce, che l'Imperatore non comparve nel campo di battaglia, finattantochè i Barbari non furon vinti dal valore e dalla condotta di Promoto, suo luogotenente[430]. L'adulante Poeta, che celebrò nella Corte d'Onorio le glorie del padre e del figlio, attribuisce la vittoria al personale valore di Teodosio; e quasi vuole insinuare che il Re degli Ostrogoti fosse ucciso per mano dell'Imperatore[431]. Si potrebbe forse trovare la verità dell'istoria in un giusto mezzo fra queste estreme e contradditorie asserzioni.

A. 383-395

Il trattato originale, che fissò lo stabilimento dei Goti, che assicurò i lor privilegi, e ne determinò le obbligazioni, servirebbe ad illustrare la storia di Teodosio e de' suoi successori. La serie di questa non ha che imperfettamente conservato lo spirito e la sostanza di quel singolare accordo[432]. Le devastazioni della guerra e della tirannide preparato avevano molti ampi tratti di fertile ma incolto terreno per uso di quei Barbari, che non isdegnavano d'esercitarsi nell'agricoltura. Fu posta una Colonia numerosa di Visigoti nella Tracia; il resto degli Ostrogoti si trapiantò nella Frigia e nella Lidia: si supplì agl'immediati loro bisogni con una distribuzione, che loro si fece di bestiame e di grano; e se ne incoraggiò l'industria in futuro, mercè di un'esenzione dai tributi per un certo numero di anni. I Barbari avrebbero meritato di provare la perfida e crudel politica della Corte Imperiale, se si fossero piegati ad esser dispersi per le Province. Essi chiesero ed ottennero separatamente il possesso dei villaggi e distretti, assegnati per loro abitazione: ritennero sempre e propagarono il linguaggio ed i costumi loro nativi; sostennero in seno del dispotismo la libertà del domestico loro governo; e riconobbero la sovranità dell'Imperatore, senza sottoporsi all'inferior giurisdizione delle leggi e dei magistrati di Roma. Fu sempre permesso ai Capi ereditari delle tribù e delle famiglie di comandare in pace ed in guerra i loro seguaci; ma fu abolita la dignità reale, ed i generali dei Goti erano eletti e rimossi ad arbitrio dell'Imperatore. Si mantenne al servizio continuo dell'Impero d'Oriente un'armata di quarantamila Goti; queste superbe truppe, che prendevano il nome di Foederati, o alleati, si distinguevano per le auree loro collane, per la generosa paga, e pei larghi privilegi che avevano. S'accrebbe il nativo loro coraggio per l'uso delle armi e per la cognizione della disciplina, e mentre la Repubblica era difesa o minacciata dalla dubbiosa spada dei Barbari, vennero finalmente ad estinguersi negli animi dei Romani le ultime scintille dell'ardor militare[433]. Teodosio ebbe la destrezza di persuadere ai suoi alleati, che le condizioni di pace, a cui l'avevano tratto la necessità e la prudenza, non erano che volontarie espressioni della sua sincera amicizia per la nazione dei Goti[434]. Si oppose poi una maniera diversa di difesa o d'apologia alle querele del popolo, che altamente censurava tali vergognose e pericolose concessioni[435]. Si dipinsero coi più vivi colori le calamità della guerra; e diligentemente s'esagerarono i primi sintomi della restaurazione del buon ordine, dell'abbondanza e della sicurezza. Gli avvocati di Teodosio affermar potevano con qualche apparenza di verità e di ragione, che era impossibile d'estirpare tante bellicose tribù, ridotte alla disperazione per la perdita del nativo loro paese; e che l'esauste Province sarebbero tornate a vita, mediante un fresco sussidio di soldati e di agricoltori. I Barbari serbavano sempre un acerbo ed ostile aspetto; ma la esperienza del passato poteva animar la speranza, che avrebbero acquistato in seguito l'abitudine dell'industria e dell'obbedienza; che si sarebbero inciviliti i loro costumi mercè del tempo, dell'educazione e della forza del Cristianesimo; e che la loro posterità si sarebbe appoco appoco fusa nel gran Corpo del popolo Romano[436].

Non ostanti questi speciosi argomenti e queste grate speranze, ogni occhio illuminato chiaramente vedeva, che i Goti sarebbero lungamente restati nemici, e ben presto sarebber divenuti conquistatori del Romano Impero. Il rozzo ed insolente loro contegno esprimeva il disprezzo, che avevano dei cittadini e dei provinciali, che impunemente insultavano[437]. Teodosio fu debitore del buon successo delle sue armi allo zelo ed al valore dei Barbari, ma era precaria la loro assistenza; e qualche volta furono indotti da una ribelle ed incostante disposizione ad abbandonare i suoi stendardi, nel momento in cui v'era maggior bisogno del loro servigio. Nella guerra civile contro Massimo, un gran numero di disertori Goti si ritirò nelle paludose terre della Macedonia; saccheggiarono le addiacenti Province, ed obbligarono l'intrepido Monarca ad esporre la propria persona, e ad esercitar la sua forza per sopprimere la nascente fiamma della ribellione[438]. Le pubbliche apprensioni venivano confermate dal forte sospetto, che quei tumulti non fossero l'effetto d'un accidentale trasporto, ma il risultato di un profondo e premeditato disegno. Si credeva generalmente, che i Goti avessero sottoscritto il trattato di pace con un'ostile ed insidiosa intenzione; e che i loro Capi si fossero precedentemente legati fra loro con un solenne e segreto giuramento di non mantener mai la fede ai Romani, di mostrar la più bella apparenza di fedeltà e d'amicizia, e di spiare il momento favorevole alla rapina, alla conquista ed alla vendetta. Ma siccome gli animi dei Barbari non erano affatto insensibili alla forza della gratitudine, molti condottieri Gotici sinceramente attaccaronsi al servizio dell'Impero, o almeno dell'Imperatore; il corpo della nazione fu appoco appoco diviso in due contrari partiti, e gran sottigliezza impiegossi nella conversazione e nella disputa in paragonare fra loro le obbligazioni del primo e del secondo dei loro vincoli. I Goti, che si riguardavano come amici della pace, della giustizia e di Roma, eran diretti dall'autorità di Fravitta, valoroso ed onorato giovane, spettabile sopra gli altri suoi nazionali per la gentilezza dei costumi, pei generosi sentimenti, e per le dolci virtù della vita sociale. Ma la fazione più numerosa aderiva al fiero ed infedele Priulfo, che infiammava le passioni, e sosteneva l'indipendenza dei suoi guerrieri seguaci. In una delle feste solenni, essendo i Capi di ambe le parti stati invitati alla mensa Imperiale, furono riscaldati appoco appoco dal vino a tal segno, che dimenticarono i consueti riguardi di discrezione e di rispetto, e scuoprirono alla presenza di Teodosio il fatal segreto delle domestiche loro dispute. L'Imperatore, ch'era stato contro sua voglia testimone di tale straordinaria controversia, dissimulò i timori e lo sdegno, e tosto licenziò la tumultuosa assemblea. Fravitta, agitato ed inasprito dall'insolenza del suo rivale, la cui partenza dal palazzo avrebbe potuto essere il segno d'una guerra civile, arditamente lo seguitò, e sfoderata la spada, stese morto Priulfo ai suoi piedi. I loro compagni corsero alle armi; ed il fedel campione di Roma sarebbe restato oppresso dal maggior numero, se non fosse stato difeso dall'opportuna interposizione delle guardie Imperiali[439]. Tali erano le scene del furore dei Barbari, che disonoravano il palazzo e la mensa dell'Imperatore di Roma; e poichè gl'impazienti Goti non potevano esser tenuti a freno, che dal fermo e moderato carattere di Teodosio, pareva che la pubblica salute dipendesse dalla vita e dall'abilità di un solo uomo[440].

CAPITOLO XXVII.

Morte di Graziano. Rovina dell'Arrianesimo. S. Ambrogio. Prima guerra civile contro Massimo. Carattere, amministrazione e penitenza di Teodosio. Morte di Valentiniano II. Seconda guerra civile contro Eugenio. Morte di Teodosio.

Non aveva Graziano ancor finita l'età di venti anni, che la sua fama uguagliava già quella dei più celebri Principi. La gentile ed amabile indole sua rendevalo caro agli amici privati, e la graziosa affabilità delle sue maniere impegnava l'affezione del popolo. I Letterati, che godevano della generosità del loro Sovrano, ne riconoscevano il gusto e l'eloquenza; i militari applaudivano ugualmente il valore e la destrezza di esso nelle armi; e si risguardava dal Clero l'umile pietà di Graziano, come la prima e la più vantaggiosa delle sue virtù. La vittoria di Colmar aveva liberato l'Occidente da una formidabile invasione; e le grate Province dell'Oriente attribuivano i meriti di Teodosio all'autore della grandezza di lui e della pubblica salute. Graziano non sopravvisse a tali memorabili fatti che quattro o cinque anni; sopravvisse però alla propria riputazione, ed avanti che cadesse vittima della ribellione, aveva perduto in gran parte il rispetto e la fiducia del Mondo Romano.

L'errore è inescusabile, poichè travisa la principale ed immediata cagione della caduta dell'Impero Occidentale di Roma.

La notabile alterazione del carattere o della condotta di esso non può imputarsi nè agli artifizi della adulazione, che fino dall'infanzia circondato avevano il figlio di Valentiniano, nè alle forti passioni, dalle quali sembra, che quel moderato giovane fosse libero. Un più accurato esame della vita di Graziano può suggerire per avventura la vera causa, per cui restaron deluse le pubbliche speranze. Le apparenti virtù di lui, invece d'essere un difficil prodotto dell'esperienza e dell'avversità, erano i prematuri ed artificiali frutti d'un'educazione reale. L'ansiosa tenerezza di suo padre era continuamente occupata in procurargli quei vantaggi, de' quali aveva forse tanto maggiore stima, quanto meno egli stesso ne avea goduto; ed i più abili maestri d'ogni scienza e d'ogni arte s'erano affaticati a formar lo spirito e il corpo del giovane Principe[441]. Con ostentazione faceva uso delle notizie, che essi con gran fatica gli comunicavano, e queste gli procuravano da tutti prodighe lodi. La molle e docile sua disposizione riceveva facilmente la impronta dei giudiziosi loro precetti, ed era facile il prendere una mancanza di passione per forza di raziocinio. I suoi precettori furono appoco appoco innalzati al grado ed all'autorità di Ministri di Stato[442]; e siccome saviamente dissimulavano la segreta loro influenza, parve, ch'egli agisse con fermezza, a proposito, e con giudizio nelle più importanti occasioni della sua vita e del suo regno. Ma la forza di questa elaborata istruzione non penetrò al di là della superficie; ed i periti maestri, che con tanta cura guidavano i passi del loro allievo reale, non poterono inspirar nel debole ed indolente carattere di lui quel vigoroso ed indipendente principio d'azione, che rende la ricerca laboriosa della gloria essenzialmente necessaria alla felicità, e quasi all'esistenza dell'Eroe. Appena il tempo ed il caso ebbero allontanati quei fedeli consiglieri dal trono, l'Imperator d'Occidente insensibilmente discese al livello del naturale suo genio, abbandonò le redini del governo a quelle ambiziose mani, che erano già stese per prenderle, e passò il suo tempo nelle più frivole occupazioni. Gl'indegni delegati del suo potere, del merito dei quali era un sacrilegio il dubitare[443], instituirono un pubblico mercimonio di favore e d'ingiustizia sì nella Corte che nelle Province. Si dirigeva la coscienza del credulo Principe da' Santi e dai Vescovi[444], i quali procurarono un editto Imperiale per punire come capitale delitto la violazione, la negligenza, o anche l'ignoranza della divina legge[445]. Fra i diversi esercizi, nei quali s'era occupata la gioventù di Graziano, erasi egli applicato con particolar genio e successo a maneggiare i cavalli, a tender l'arco ed a scagliare il giavellotto; e queste abilità, che potevano essere utili per un soldato, restarono prostituite nel più vile oggetto della caccia. Si formarono vasti parchi pei divertimenti Imperiali, furono abbondantemente forniti d'ogni specie di bestie selvagge; e Graziano trascurava i doveri ed eziandio la dignità del suo grado per consumar le intere giornate nella vana ostentazione di destrezza e d'ardire nel cacciare. La vanità, e il desiderio, che aveva il Romano Imperatore, di esser eccellente in un'arte, in cui avrebbe potuto esser superato dall'infimo de' suoi schiavi, rammentava ai numerosi spettatori gli esempi di Nerone e di Commodo; ma il casto e moderato Graziano era alieno dai mostruosi lor vizi; e le sue mani non furon macchiate che dal sangue degli animali[446].

La condotta di Graziano, che avviliva il suo carattere agli occhi del Mondo, non avrebbe potuto disturbare la sicurezza del suo regno, se non si fosse provocato l'esercito a risentirsi delle particolari sue ingiurie. Finattantochè il giovane Imperatore fu guidato dalle istruzioni dei suoi maestri, si professò amico e quasi sotto la tutela dei soldati; consumava molte ore nella famigliar conversazione del campo; e la salute, il sollievo, i premi, gli onori delle fedeli sue truppe sembrava che fossero l'oggetto delle premurose cure di lui. Ma dopo che Graziano secondò più liberamente il dominante suo gusto per la caccia e per lo scagliare de' dardi, fece naturalmente lega coi ministri più destri del suo favorito divertimento. Fu ammesso al servizio militare e domestico del palazzo un corpo di Alani; e l'ammirabile abilità che essi erano assuefatti ad usare nelle immense pianure della Scizia, veniva esercitata in un più angusto teatro, quali erano i parchi ed i chiusi recinti della Gallia. Graziano ammirava i talenti ed i costumi di tali favorite guardie, alle quali sole affidava la difesa della sua persona: e come se avesse voluto insultare la pubblica opinione, spesse volte si facea vedere ai soldati ed al popolo con l'abito e le armi, con il lungo arco, la risuonante faretra e l'abbigliamento di pelli a foggia di Scita guerriero. L'indegno spettacolo di un Principe Romano, che avea rinunziato alle vesti ed ai costumi del proprio paese, riempì gli animi delle legioni di dispiacere e di sdegno[447]. Fino i Germani, sì forti e formidabili negli eserciti dell'Impero, affettavano di sdegnare lo strano ed orrido aspetto dei selvaggi del Norte, che nello spazio di pochi anni eran giunti dalle rive del Volga a quelle della Senna. Si sollevò per le armate e per le guarnigioni dell'Occidente un alto e licenzioso mormorio, e siccome la molle indolenza di Graziano trascurò d'estinguere i primi sintomi di dissapore, non si supplì alla mancanza d'amore e di rispetto dal poter del timore. Ma la sovversione d'uno stabilito governo è sempre una opera di qualche reale e di molta apparente difficoltà; ed il trono di Graziano era difeso dalle sanzioni del costume, della legge, della religione e di quella delicata bilancia fra le forze civili e militari, ch'erasi stabilita dalla politica di Costantino. Non è di grande importanza il cercar per quali cause fosse prodotta la rivoluzione della Britannia. Dal caso comunemente nasce il disordine: avvenne che i semi della ribellione caddero in un terreno, che si supponeva più fecondo in tiranni ed usurpatori di qualunque altro[448]; le legioni di quell'isola, separata dal resto dell'Impero, erano state lungo tempo famose per uno spirito di presunzione e d'arroganza[449]; e fu proclamato il nome di Massimo dalla tumultuaria ma unanime voce tanto dei soldati che de' Provinciali. L'Imperatore o il ribelle, mentre il suo titolo non era per anche assicurato dalla fortuna, era nativo di Spagna, del medesimo paese, compagno nella milizia e rivale di Teodosio, di cui non avea veduto l'innalzamento senza qualche movimento d'invidia e di sdegno: le avventure della sua vita l'avevano da gran tempo stabilito nella Britannia; ed io non sarei alieno dal trovarne qualche fondamento nel matrimonio, che si dice avere egli contratto con la figlia d'un ricco Signore della Contea di Caernarvon[450]. Ma potrebbe giustamente riguardarsi questo posto provinciale come uno stato d'esilio e d'oscurità; e se pure Massimo aveva ottenuto qualche uffizio civile o militare, non era investito dell'autorità nè di Governatore nè di Generale[451]. Gli scrittori parziali di quel tempo confessano l'abilità ed anche l'integrità di esso, e realmente fa d'uopo che fosse un merito assai cospicuo quello, che potè estorcere tal confessione in favore del vinto nemico di Teodosio. La malcontentezza di Massimo potè forse disporlo a censurar la condotta del suo Sovrano, e ad incoraggiare senza forse alcuna mira d'ambizione il mormorio delle truppe. Ma in mezzo al tumulto egli artificiosamente o modestamente ricusò di salire sul trono; e sembra che si prestasse qualche fede alla positiva sua dichiarazione, che fu costretto ad accettare il pericoloso dono della porpora Imperiale[452].

Era però ugualmente pericoloso il ricusare l'Impero; e dal momento, in cui Massimo avea mancato alla fedeltà verso il legittimo suo Sovrano, ei non poteva sperar di regnare, e neppur di vivere, se limitava la sua moderata ambizione dentro gli angusti confini della Britannia. Con ardire e con prudenza risolvè di prevenire i disegni di Graziano; la gioventù dell'isola corse in folla a' suoi stendardi, ed invase la Gallia con una flotta ed un esercito che lungo tempo dopo si rammentava come l'emigrazione d'una considerabil parte della nazione Britannica[453]. L'ostile avvicinamento loro pose in agitazione l'Imperatore nella pacifica sua residenza di Parigi; ed i dardi, che egli oziosamente impiegava contro gli orsi ed i leoni, avrebber potuto con più onore adoprarsi contro i ribelli. Ma i deboli suoi sforzi annunziavano il degenerato animo e la disperata situazione di esso; e lo privarono de' ripieghi, che pure avrebbe potuto trovare nel soccorso de' propri sudditi e degli alleati. Le truppe della Gallia, invece d'opporsi alla marcia di Massimo, lo riceverono con liete e leali acclamazioni; e la vergogna della diserzione passò dal Popolo al Principe. I soldati, che per la lor situazione erano più immediatamente addetti al servizio del palazzo, abbandonarono lo stendardo di Graziano, la prima volta che fu spiegato nelle vicinanze di Parigi. L'Imperator d'Occidente fuggì verso Lione con un treno di soli trecento cavalli, e nelle città lungo la strada, nelle quali sperava di trovare un rifugio o almeno un libero passo, apprese con crudele esperienza, che ogni porta è chiusa per gli sfortunati. Contuttociò egli avrebbe potuto giunger sicuro negli stati del suo fratello, e tosto ritornar con le forze dell'Italia e dell'Oriente, se non si fosse lasciato fatalmente ingannare dal perfido Governatore della Provincia Lionese. Graziano fu trattenuto dalle proteste di una dubbiosa fedeltà e dalle speranze di un soccorso, che non poteva esser efficace, finattantochè l'arrivo di Andragazio, Generale della cavalleria di Massimo, pose fine al suo inganno. Questo risoluto uffiziale eseguì senza rimorso gli ordini o le intenzioni dell'usurpatore. Nell'alzarsi da cena, Graziano fu dato nelle mani dell'assassino: e fu negato fino il suo corpo alle pressanti e pietose istanze del fratello Valentiniano[454]. La morte dell'Imperatore fu seguita da quella del potente suo generale, Mellobaude Re dei Franchi, il quale fino all'ultimo istante della sua vita mantenne quell'ambigua riputazione, che è la giusta ricompensa dell'oscura e sottile politica[455]. Tali esecuzioni poterono forse esser necessarie per la pubblica sicurezza; ma il fortunato usurpatore, il cui potere fu riconosciuto da tutte le Province dell'Occidente, ebbe il merito e la soddisfazione di vantare, che ad eccezione di quelli che eran periti nella battaglia, il suo trionfo non fu macchiato dal sangue Romano[456].

Le avventure di questa rivoluzione si succederono con tanta rapidità, che sarebbe stato impossibile per Teodosio di marciare in aiuto del suo benefattore, prima di ricever notizia della disfatta e della morte di esso. Nel tempo che un sincero dispiacere o un ostentato lutto occupava l'Imperatore Orientale, arrivò alla sua Corte il principal Ciamberlano di Massimo; e la scelta d'un venerabile vecchio per un uffizio, che ordinariamente si esercitava da Eunuchi, annunziò alla Corte di Costantinopoli la gravità e la temperanza dell'usurpatore Britannico. L'ambasciatore condiscese a giustificare o scusar la condotta del suo Signore, ed a protestare in uno specioso linguaggio, che l'uccision di Graziano si era fatta senza saputa o consenso di lui dal precipitoso zelo dei soldati. Ma procedè ad offerire a Teodosio, in un fermo ed ugual tuono, l'alternativa della pace o della guerra. Il discorso dell'ambasciatore terminò con un'animosa dichiarazione, che quantunque Massimo, e come Romano e come padre del proprio popolo, avrebbe voluto piuttosto impiegar le proprie forze nella comun difesa della Repubblica, pure trovavasi armato e pronto, qualora si fosse rigettata la sua amicizia, a disputare in un campo di battaglia l'Impero del Mondo. Si richiedeva una perentoria ed immediata risposta; ma era sommamente difficile per Teodosio il soddisfare, in quest'importante occasione o ai sentimenti dell'animo suo o all'espettazione del pubblico. L'imperiosa voce dell'onore e della gratitudine altamente gridava per la vendetta. Egli ricevuto aveva il diadema Imperiale dalla liberalità di Graziano; la sua pazienza avrebbe confermato l'odioso sospetto, ch'ei fosse più profondamente mosso dalle antiche ingiurie che dalle recenti obbligazioni; e se accettava l'amicizia dell'assassino, pareva che fosse a parte ancor del delitto. Anche i principj della giustizia e del social interesse ricevuto avrebbero un fatal colpo dall'impunità di Massimo: e l'esempio d'una fortunata usurpazione poteva tendere a sciogliere l'artificial fabbrica del governo, e ad immergere un'altra volta l'Impero nei delitti e nelle miserie de' tempi trascorsi. Ma siccome i sentimenti di gratitudine e d'onore dovrebbero costantemente regolar la condotta d'un privato, così nella mente d'un Sovrano possono cedere al sentimento di più importanti doveri; e le massime tanto di giustizia che d'umanità debbon permettere che impunito resti un atroce delinquente, se un innocente popolo involgasi nelle conseguenze della sua pena. L'assassino di Graziano aveva usurpato, è vero, l'Imperio, ma attualmente ne possedeva le più bellicose Province; ma esaurito era l'Oriente dalle disgrazie, ed eziandio dal buon successo della guerra Gotica; e seriamente ci avea da temere, che, dopo che la vital forza della Repubblica si fosse consumata in una dubbiosa e distruttiva contesa, il debole vincitore fosse per restare una facile preda ai Barbari Settentrionali. Queste importanti riflessioni impegnaron Teodosio a dissimulare il suo sdegno, e ad accettar l'alleanza del tiranno. Ma stipulò, che Massimo si dovesse contentare di posseder le Province oltre le alpi. Il fratello di Graziano fu confermato ed assicurato nella sovranità dell'Italia, dell'Affrica e dell'Illirico occidentale; ed inserite furono nel trattato alcune onorevoli condizioni per conservar la memoria e le leggi del defunto Imperatore[457]. Secondo il costume di quel tempo, furono esposte alla venerazione del popolo le immagini dei tre Imperiali colleghi, nè dovrebbe leggermente supporsi, che nell'istante d'una solenne riconciliazione, Teodosio nutrisse un segreto disegno di tradimento e di vendetta[458].

A. 380

Il disprezzo di Graziano pei soldati Romani l'aveva esposto a' fatali effetti del loro sdegno. La sua profonda venerazione pel clero Cristiano riportò in premio l'applauso e la gratitudine d'un ceto potente, che in ogni tempo si è arrogato il privilegio di dispensare onori sì in terra che in Cielo[459]. I Vescovi Ortodossi piansero la sua morte e l'irreparabile loro perdita; ma furono ben presto consolati dal conoscere, che Graziano avea posto lo scettro dell'Oriente nelle mani d'un Principe, l'umile fede e fervente zelo del quale venivan sostenuti dallo spirito e dall'abilità d'un carattere più vigoroso. Fra' benefattori della Chiesa, la gloria di Teodosio è rivale della fama di Costantino. Se questo ebbe il vantaggio d'innalzar lo stendardo della croce, l'emulazione del suo successore s'acquistò il merito di soggiogar l'eresia d'Arrio, e d'abolire il culto degl'idoli nel Mondo Romano. Teodosio fu il primo Imperatore che fosse battezzato nella vera fede della Trinità. Quantunque fosse nato da una famiglia Cristiana, le massime o almeno la pratica di quel secolo il trassero a differire la ceremonia della sua iniziazione, finattantochè una seria malattia, che ne minacciò la vita verso il fine del primo anno del suo regno, l'avvertì del pericolo della dilazione. Avanti di riaprir la campagna contro i Goti, ricevè il sacramento del Battesimo[460] da Acolio, Vescovo ortodosso di Tessalonica[461]: ed appena l'Imperatore uscì dal sacro fonte, tutto acceso degli ardenti sentimenti di rigenerazione, dettò un solenne editto, che pubblicava la propria fede, e prescriveva la religione ai suoi sudditi: «È nostra volontà (tal è lo stilo Imperiale) che tutte le nazioni, governate dalla moderazione e clemenza nostra, costantemente aderiscano alla religione, che da S. Pietro fu insegnata ai Romani, che si è conservata dalla fedel tradizione, e che ora si professa dal Pontefice Damaso e da Pietro Vescovo d'Alessandria, uomo d'Apostolica Santità. Secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina del Vangelo, crediamo la sola Divinità del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, sotto una Maestà uguale ed una pia Trinità. Autorizziamo i seguaci di questa dottrina ad assumere il titolo di Cristiani Cattolici; e siccome stimiamo, che tutti gli altri sieno stravaganti pazzi, li notiamo coll'infame nome di eretici, e dichiariamo che le lor conventicole non abbiamo più ad usurpare la rispettabil denominazione di Chiese. Oltre la condanna della divina giustizia, debbono aspettarsi di soffrir le severe pene, che la nostra autorità, guidata da celeste sapienza, crederà proprio d'infligger loro»[462]. La fede d'un soldato è comunemente il frutto dell'istruzione, piuttosto che della ricerca; ma siccome l'Imperatore teneva sempre fissi gli occhi su' termini visibili dell'ortodossia, ch'egli aveva sì prudentemente stabiliti, le religiose opinioni di lui non furono mai alterate dagli speciosi testi, dai sottili argomenti e dalle ambigue formule dei dottori Arriani. Una volta, in vero, dimostrò qualche debole inclinazione a conversare coll'eloquente e dotto Eunomio, che viveva in ritiro ad una piccola distanza da Costantinopoli; ma fu impedito il pericoloso congresso dalle preghiere dell'Imperatrice Flaccilla, che tremava per la salute del marito; e restò confermato l'animo di Teodosio, mediante un argomento teologico, adattato alla più rozza capacità. Egli aveva dato di fresco ad Arcadio, suo maggior figlio, il nome e gli onori d'Augusto; ed i due Principi stavano assisi sopra un magnifico trono a ricever l'omaggio de' loro sudditi. Un Vescovo, Anfilochio d'Icone, s'accostò al trono, e dopo d'aver salutato con la dovuta riverenza la persona del suo Sovrano, trattò il real giovanetto coll'istessa famigliar maniera, che avrebbe potuto usare verso un fanciullo plebeo. Il Monarca, irritato da tale insolente contegno, diede ordine, che tosto fosse cacciato dalla sua presenza quel rozzo Ministro. Ma nel tempo che le guardie lo spingevano verso la porta, il destro Polemico ebbe luogo d'eseguire il suo disegno, ad alta voce esclamando: «Tal è il trattamento, o Imperatore, che il Re del Cielo ha preparato a quegli empi, che affettano di venerare il Padre, ma negano di riconoscere l'uguale Maestà del divino suo Figlio». Teodosio immediatamente abbracciò il Vescovo d'Icone; e non dimenticò più l'importante lezione, che avea ricevuto da questa drammatica parabola[463].

Costantinopoli era la sede e la fortezza principale dell'Arrianesimo; e per il lungo spazio di quarant'anni[464] la fede de' Principi e dei Prelati, che dominavano nella Capitale dell'Oriente, fu rigettata nelle scuole più pure di Roma e d'Alessandria. La sede Archiepiscopale di Macedonia, che era stata macchiata di tanto sangue Cristiano, s'occupò successivamente da Eudosso e da Demofilo. Nella loro diocesi il vizio e l'errore godevano una libera introduzione da ogni provincia dell'Impero; le ardenti ricerche intorno alle controversie di religione somministravano un'occupazione di più all'affaccendata oziosità della Metropoli; e possiam prestar fede all'asserzione d'un intelligente osservatore che descrive, con qualche piacevolezza, gli effetti del loquace loro zelo: «Questa città (egli dice) è piena di artisti e di schiavi, che son tutti profondi Teologi, e predicano nelle botteghe e nelle strade. Se bramate che uno vi cambi una moneta, egli vuole informarvi della differenza tra il Padre ed il Figlio; se dimandate il prezzo d'un pane, vi si dà per risposta, che il Figlio è inferiore al Padre; e cercando voi se il bagno è all'ordine, la risposta è, che il Figlio fu fatto dal niente»[465]. Gli eretici di varie denominazioni vivevano in pace sotto la protezione degli Arriani di Costantinopoli, i quali procuravano d'assicurarsi l'attaccamento di quegli oscuri Settari, mentre abusavano con instancabil severità della vittoria che avevano ottenuto sopra i seguaci del Concilio Niceno. Nei parziali regni di Costanzo e di Valente, ai deboli residui degli Omousiani fu impedito il pubblico e privato esercizio di lor religione; ed è stato in patetico stile osservato, che il disperso gregge lasciavasi andar vagando senza pastore per le montagne o divorar dai lupi rapaci[466]. Ma poichè il loro zelo, invece d'esser vinto, traeva forza e vigore dall'oppressione, essi presero il primo momento d'imperfetta libertà, che si ripresentò loro per la morte di Valente, e formarono una regolar congregazione, sotto la condotta di Pastore Episcopale. Basilio e Gregorio Nazianzeno[467], ambidue nativi di Cappadocia, eran distinti sopra tutti i loro contemporanei[468] per la rara unione di profana eloquenza e d'ortodossa pietà. Questi Oratori, che arrivarono alle volte a paragonarsi da se stessi e dal Pubblico ai più celebri degli antichi Greci, erano uniti fra loro coi vincoli della più stretta amicizia. Essi avevan coltivato con uguale ardore i medesimi studi liberali nelle scuole d'Atene; s'erano ritirati con ugual divozione alla solitudine stessa nei deserti del Ponto; e pareva totalmente spenta ogni scintilla d'emulazione o d'invidia nei santi ed ingenui petti di Gregorio e di Basilio. Ma l'esaltazione di Basilio da una vita privata alla sede Archiepiscopale di Cesarea, scuoprì al Mondo, e forse a lui medesimo l'orgoglio del suo carattere; ed il primo favore, che egli condiscese a fare al suo amico, fu preso per un crudele insulto; e s'ebbe forse l'intenzione di farlo[469]. In vece d'impiegare i sublimi talenti di Gregorio in qualche utile e cospicuo posto, l'altiero Prelato scelse fra i cinquanta Vescovati della sua estesa provincia il miserabil villaggio di Sasima[470] senz'acqua, senza verzura, senza società, situato all'unione di tre pubbliche strade, e frequentato solo dal continuo passaggio di rozzi e clamorosi condottieri di carri. Gregorio si sottomise con ripugnanza a tal umiliante esilio; fu ordinato Vescovo di Sasima; solennemente però si protesta di non aver mai consumato il suo spiritual matrimonio con questa disgustante sposa. In seguito consentì a prendere il governo della nativa sua Chiesa di Nazianzo[471], di cui suo padre era stato Vescovo più di quarantacinque anni. Ma siccome conosceva bene di meritare un'altra udienza ed un altro teatro, accettò con lodevole ambizione l'onorevole invito, che gli fu fatto dal partito ortodosso di Costantinopoli. Arrivato che fu Gregorio nella Capitale, fu alloggiato in casa d'un pio e caritatevole congiunto; si consacrò agli usi del Culto religioso la stanza più grande, e le si diede il nome d' Anastasia per esprimere la risurrezione della Fede Nicena. Questo privato oratorio fu dipoi convertito in una magnifica Chiesa; e la credulità dei posteriori tempi era già disposta a dar fede ai miracoli ed alle visioni, che attestavano la presenza o almeno la protezione della Madre di Dio[472]. Il pulpito dell'Anastasia fu il teatro delle fatiche e dei trionfi di Gregorio Nazianzeno; e nello spazio di due anni egli provò tutte le spirituali avventure, che formano la prospera o contraria fortuna d'un Missionario[473]. Gli Arriani, provocati dall'ardire di tale impresa, rappresentavan la sua dottrina, come se avesse predicato tre distinte ed uguali Divinità; e la devota plebaglia veniva eccitata a sopprimere, con la violenza e col tumulto, le irregolari assemblee degli eretici Atanasiani. Uscì dalla cattedrale di S. Sofia un confuso mescuglio «di vili mendici che non meritavan pietà, di monaci che parevan satiri o capre, e di donne più terribili che altrettante Gezzabelle». Si aprirono a forza le porte dell'Anastasia; si fece o si tentò di fare gran danno con bastoni, con pietre e con tizzoni; e siccome nel tumulto restò ucciso un uomo, Gregorio, che la mattina seguente fu chiamato avanti al Magistrato, ebbe la soddisfazione di supporre che colui pubblicamente confessava il nome di Cristo. Dopo di essersi liberato dal timore e dal pericolo d'un nemico di fuori, la nascente sua Chiesa fu deturpata e lacerata da un'interna fazione. Uno straniero che aveva il nome di Massimo[474] e l'abito di filosofo Cinico, s'insinuò nella confidenza di Gregorio, l'ingannò, e fece abuso della favorevole opinione che questi aveva di lui; e formando un segreto accordo con alcuni Vescovi dell'Egitto, mediante una clandestina ordinazione tentò di soppiantare il suo protettore dall'Episcopal sede di Costantinopoli. Tali mortificazioni qualche volta poteron tentare il missionario di Cappadocia a desiderar l'oscura sua solitudine. Ma premiate ne furono le fatiche dall'accrescimento continuo della sua fama e della sua congregazione; ed ebbe il piacere d'osservare, che la maggior parte della numerosa sua udienza partiva dai suoi discorsi soddisfatta dell'eloquenza del predicatore[475], o mortificata per le molte imperfezioni della propria fede o morale[476].

A. 380

I Cattolici di Costantinopoli furono animati di lieta fiducia dal battesimo e dall'editto di Teodosio; ed aspettavano impazientemente gli effetti della sua graziosa promessa. Restaron ben presto soddisfatte le loro speranze; e l'Imperatore, appena ebbe finite le operazioni della campagna, fece il suo pubblico ingresso nella capitale alla testa di un vittorioso esercito. Il giorno dopo il suo arrivo, chiamò Damofilo alla sua presenza, e propose a quell'Arriano Prelato la dura alternativa o di sottoscrivere alla fede Nicena, o di rilasciar subito agli ortodossi credenti l'uso ed il possesso del palazzo Episcopale, della Cattedrale di S. Sofia, e di tutte le Chiese di Costantinopoli. Lo zelo di Damofilo, che in un santo cattolico si sarebbe giustamente applaudito, abbracciò senza esitare una vita di povertà e di esilio[477]; ed alla sua remozione immediatamente successe la purificazione della città Imperiale. Gli Arriani poterono con qualche apparenza di giustizia dolersi, che una piccola congregazione di settari dovesse usurpare le cento Chiese, ch'essi non eran sufficienti a riempire, mentre la maggior parte del popolo veniva crudelmente esclusa da ogni luogo di culto religioso. Teodosio fu sempre inesorabile: ma siccome gli Angeli, che difendevan la causa de' Cattolici, non eran visibili che agli occhi della fede, esso prudentemente invigorì quelle celesti legioni col più efficace aiuto delle armi temporali e corporee; e fu occupata la Chiesa di S. Sofia da un grosso corpo di guardie Imperiali. Se l'animo di Gregorio era suscettivo d'orgoglio, ei dovè sentire una ben viva soddisfazione, allorchè l'Imperatore lo condusse per le contrade in solenne trionfo, e con le proprie mani lo pose rispettosamente sulla sede Archiepiscopale di Costantinopoli. Ma il Santo, che non avea superato le imperfezioni dell'umana virtù, era profondamente mosso dal mortificante pensiero, che l'entrar, che ei faceva nell'ovile, era piuttosto da lupo che da pastore; che le armi lucenti, che circondavan la sua persona, eran necessarie alla sua salvezza; e ch'egli solo era l'argomento delle imprecazioni d'un gran partito, i cui individui come uomini e cittadini, era impossibile per esso di non curare. Vide l'innumerabil moltitudine di persone di ambedue i sessi e d'ogni età, che affollavasi per le strade, alle finestre e su' tetti delle case; udì la tumultuosa voce della rabbia, del cordoglio, dello stupore e della disperazione; e Gregorio confessa ingenuamente, che nel memorabil giorno della sua installazione, la Capital dell'Oriente avea l'apparenza d'una città presa d'assalto, e caduta nelle mani d'un Barbaro conquistatore[478]. Circa sei settimane dopo, Teodosio dichiarò la sua risoluzione di scacciare da tutte le Chiese dei propri Stati i Vescovi ed i Cherici, che avesser ostinatamente ricusato di credere o almeno di professar la dottrina del Concilio di Nicea. Sapore, suo Luogotenente, fu armato degli ampli poteri d'una legge generale, d'una special commissione e d'una forza militare[479]; e tal ecclesiastica rivoluzione fu condotta con tanto discernimento e vigore, che stabilissi la religione dell'Imperatore senza tumulto o spargimento di sangue in tutte le Province Orientali. Se si fosser lasciati sussistere gli scritti degli Arriani[480], conterrebbero essi forse la dolente storia della persecuzione, che afflisse la Chiesa sotto il regno dell'empio Teodosio; ed i patimenti dei santi lor confessori potrebbero eccitar la pietà del disappassionato lettore. Pure v'è motivo di supporre, che la violenza dello zelo e della vendetta in qualche modo restasse delusa dalla mancanza di resistenza; e che gli Arriani dimostrassero, nella loro avversità, fermezza molto minore di quella onde avea fatto prova il partito Cattolico sotto i regni di Costanzo e di Valente. Sembra che la condotta ed il moral carattere delle opposte Sette fosse regolato dai medesimi comuni principj di natura e di religione; ma si può por mente ad una circostanza assai materiale, che tendeva a distinguere i gradi della teologica loro fede. Ambe le parti, sì nelle scuole che nelle chiese, riconoscevano e veneravano la divina maestà di Cristo; e siccome noi siam sempre inclinati ad attribuire alla divinità i sentimenti e le passioni di noi medesimi, si poteva credere più prudente o rispettoso contegno quello di esagerare che di ristringere le adorabili perfezioni del Figlio di Dio. Il discepolo d'Atanasio esultava nella orgogliosa opinione d'essersi fatto un merito per ottenere il favor divino; laddove il seguace d'Arrio doveva esser tormentato dal segreto timore d'essere forse reo d'un'imperdonabile colpa, attesa la scarsa lode ed i parchi onori, ch'ei dava al Giudice dell'universo. Le opinioni dell'Arrianesimo potean soddisfare uno spirito freddo e speculativo; ma la dottrina del simbolo Niceno, raccomandata con la massima forza dai meriti della fede e della devozione, era molto più atta a divenir popolare, e ad aver buon successo in una credula età.

La speranza di trovare nelle assemblee del Clero ortodosso la verità e la sapienza, indusse l'Imperatore a convocare in Costantinopoli un sinodo di cento cinquanta Vescovi, che procederono senza molta difficoltà o dilazione a perfezionare il sistema teologico, che s'era stabilito nel Concilio di Nicea. Le veementi dispute del quarto secolo s'erano principalmente aggirate sulla natura del Figlio di Dio; e le varie opinioni, che s'erano abbracciate intorno alla seconda Persona della Trinità, per una ben naturale analogia furono estese e trasferite alla terza[481]. Pure si trovò o si credè necessario questo Concilio da' vittoriosi avversari dell'Arrianesimo, per ispiegare l'ambiguo linguaggio di alcuni rispettabili Dottori; per confermare la fede dei Cattolici; e per condannare una scarsa ed incoerente Setta di Macedoniani, i quali liberamente ammettevano, che il Figlio era consostanziale al Padre, mentre temevano sembrasse, che confessassero la esistenza di tre Dei. Fu pronunziata una decisiva e concorde sentenza per ratificare l'ugual divinità dello Spirito Santo; questa misteriosa dottrina si è ricevuta da tutte le Chiese del Mondo Cristiano; e la grata loro venerazione assegnò all'adunanza de' Vescovi di Teodosio il secondo posto fra' Concili generali[482]. Può essersi conservata per tradizione, o per inspirazione comunicata, la lor perizia intorno alla verità della religione; ma la sobria testimonianza dell'istoria non accorderà gran peso alla personale autorità dei Padri di Costantinopoli. In un tempo, in cui gli Ecclesiastici avevano scandalosamente degenerato dall'esempio dell'Apostolica purità, i più indegni e corrotti erano sempre i più ardenti a frequentare ed a turbare le Episcopali adunanze. Il contrasto e la fermentazione di tanti fra loro contrari interessi e temperamenti infiammavano le passioni dei Vescovi: e quelle che in essi dominavano erano l'amor dell'oro e l'amor della disputa. Molti di que' Prelati, che allora facevano plauso all'ortodossa pietà di Teodosio, avevan più volte cangiato con prudente flessibilità i loro simboli e le loro opinioni; e nelle diverse rivoluzioni della Chiesa e dello Stato, la religione del Sovrano era la regola dell'ossequiosa lor fede. Allorchè l'Imperatore sospendeva la sua preponderante influenza, il turbolento Sinodo veniva ciecamente spinto dagli assurdi e superbi motivi di orgoglio, d'odio e di sdegno. La morte di Melezio, che accadde nel tempo del Concilio di Costantinopoli, presentava la più favorevole occasione di terminare lo scisma d'Antiochia, lasciando finire pacificamente all'avanzato rivale di lui, Paolino, i suoi giorni nella cattedra Episcopale. La fede e le virtù di Paolino erano irreprensibili: ma la sua causa era sostenuta dalle Chiese occidentali: ed i Vescovi del Sinodo risolvettero di perpetuare il male della discordia, mediante la precipitosa ordinazione d'un candidato spergiuro[483], piuttosto che tradire l'immaginata dignità dell'Oriente, che era stato illustrato dalla nascita e dalla morte del Figlio di Dio. Sì disordinato ed ingiusto procedere forzò i più gravi membri dell'assemblea a dissentire ed a separarsi dagli altri; e la clamorosa turba, che restò padrona del campo di battaglia, non potè paragonarsi che a vespe od a gazze, ad una moltitudine di grue o ad una truppa di oche[484].

A. 381

Potrebbe forse nascere il sospetto, che sia stata fatta una pittura sì svantaggiosa de' Concili Ecclesiastici dalla parzial mano di qualche ostinato eretico o d'un malizioso infedele. Ma il nome del sincero Istorico, che ha preservato quest'istruttiva lezione alla cognizione dei posteri, deve impor silenzio all'impotente bisbiglio della superstizione e della ipocrisia. Egli era uno dei più eloquenti e pii Vescovi di quel tempo; un santo ed un dottor della Chiesa; la sferza dell'Arrianesimo, e la colonna della fede ortodossa; un membro distinto del Concilio di Costantinopoli, in cui, dopo la morte di Melezio, esercitò l'uffizio di presidente, in una parola, Gregorio Nazianzeno medesimo. L'aspro ed indecente trattamento, ch'ei ne ebbe[485], lungi dal derogare alla verità della sua testimonianza, somministra una prova di più dello spirito che animava le deliberazioni del Sinodo. I concordi voti di questo avevan confermato i diritti che il Vescovo di Costantinopoli traeva dall'elezione del popolo e dal consenso dell'Imperatore. Ma Gregorio divenne tosto la vittima della malizia e dell'invidia. I Vescovi Orientali, suoi valorosi aderenti, provocati dalla moderazione di lui nell'affare di Antiochia, lo abbandonarono senza difesa alla contraria fazione degli Egiziani, che posero in dubbio la validità della sua elezione, e rigorosamente sostennero l'antiquato canone che proibiva la licenziosa pratica delle traslazioni Episcopali. L'orgoglio o l'umiltà di Gregorio gli fece evitare una contesa, che avrebbe potuto imputarsi ad ambizione ed avarizia; ed egli pubblicamente propose, non senza qualche dose di sdegno, di rinunziare al governo d'una Chiesa, che era risorta e quasi creata per le sue fatiche. Fu accettata la rinunzia dal Sinodo e dall'Imperatore, più facilmente di quello che sembra ch'ei si aspettasse. Nel tempo in cui aveva egli forse sperato di godere i frutti della vittoria, fu occupata la sua sede Episcopale dal Senatore Nettario; ed il nuovo Arcivescovo che aveva per accidente il vantaggio d'un buon naturale e d'un venerabile aspetto, fu obbligato a differir la ceremonia della consacrazione per aver comodo di eseguir prima quella del suo Battesimo[486]. Dopo questa notabile esperienza dell'ingratitudine dei Principi e dei Prelati, Gregorio si ritirò un'altra volta all'oscura sua solitudine della Cappadocia, dove impiegò il rimanente della sua vita, circa otto anni, in esercizi di poesia e di divozione. Si è aggiunto al suo nome il titolo di Santo; ma la tenerezza del cuore[487] e l'eleganza dell'ingegno riflettono un più vago splendore sulla memoria di Gregorio Nazianzeno.

A. 380-394

Teodosio non era contento d'aver soppresso l'insolente regno dell'Arrianesimo, nè d'avere sovrabbondantemente vendicato le ingiurie che avevan sofferto i Cattolici dallo zelo di Costanzo e di Valente. L'ortodosso Imperatore considerava ogni eretico come un ribelle alle supreme potestà del cielo e della terra; e credeva che ciascheduna di queste potesse esercitare la propria particolar giurisdizione sull'anima e sul corpo del reo. I decreti del Concilio di Costantinopoli avevan determinato la vera norma della fede; e gli Ecclesiastici, che governavano la coscienza di Teodosio, gli suggerirono i più efficaci mezzi di persecuzione. Nello spazio di quindici anni ei promulgò almeno quindici severi editti contro gli eretici[488], specialmente contro quelli che rigettavano la dottrina della Trinità; e per privarli d'ogni speranza di rifugio duramente ordinò, che se fosse allegata in loro favore qualche legge o rescritto, non dovessero dai giudici risguardarsi, che come illegittime produzioni della frode e della falsità. Gli statuti penali erano diretti contro i ministri, le adunanze, e le persone degli eretici; e le passioni del legislatore erano espresse nello stile della declamazione e dell'invettiva. In primo luogo gli eretici dottori, che usurpavano i sacri nomi di Vescovi o di Preti, non solo erano spogliati dei privilegi ed emolumenti sì liberalmente accordati al clero ortodosso; ma si esponevano anche alle gravi pene dell'esilio e della confiscazione, se pretendevano di predicar la dottrina o di praticare i riti delle maledette lor Sette. Fu imposta una pena di dieci libbre d'oro (sopra ottocento zecchini) ad ogni persona, che avesse ardito di conferire, di ricevere, o di favorire un'ordinazione di eretici; e con ragione speravasi, che se si fosse potuta estinguere la razza dei pastori, gli abbandonati lor greggi sarebbero stati costretti, dall'ignoranza e dalla fame, a tornare in seno alla Chiesa Cattolica. Secondariamente la rigorosa proibizione delle conventicole fu minutamente estesa ad ogni possibile circostanza, in cui gli eretici avesser potuto adunarsi coll'intenzione di adorare Dio e Cristo, secondo i dettami della loro coscienza. Tutte le religiose loro adunanze, o pubbliche o segrete che fossero, di giorno o di notte, nelle città o nella campagna, erano ugualmente vietate dagli editti di Teodosio, e la fabbrica o il suolo che si adoprava per tale illegittimo uso, era confiscato a profitto del demanio imperiale. In terzo luogo, si supponeva che l'error degli eretici non provenisse che dall'ostinazione degli animi loro, e che tal ostinazione giustamente meritasse censura e gastigo. Gli anatemi della Chiesa venivano invigoriti da una specie di scomunica civile, che separava gli eretici da' loro concittadini mediante una particolar nota d'infamia; e questa dichiarazione del sommo Magistrato tendeva a giustificare o almeno a scusare gl'insulti d'una plebe fanatica. I Settari furono appoco appoco renduti incapaci di possedere impieghi onorevoli o lucrosi, e Teodosio applaudivasi della sua giustizia quando comandò, che siccome gli Eunomiani distinguevano la natura del Figlio da quella del Padre, fossero incapaci di far testamento o di ricevere alcun vantaggio dalle donazioni testamentarie. Il delitto dell'eresia Manichea si stimava tanto enorme che non si potesse espiare se non con la morte del reo; e l'istessa pena capitale fu inflitta agli Audiani o Quartodecimani[489], che avessero ardito di commetter l'atroce misfatto di celebrare in giorno improprio la festa di Pasqua. Ogni Romano poteva fare da pubblico accusatore; ma sotto il regno di Teodosio fu per la prima volta instituito l'uffizio degl' Inquisitori della fede, nome sì meritamente abborrito. Ciò nonostante si assicura che rade volte si dava esecuzione a' suoi editti penali, e che il pio Imperatore sembrava meno bramoso di punire, che di correggere o di spaventare i disubbidienti suoi sudditi[490].

A. 385

La teoria della persecuzione fu stabilita da Teodosio, alla giustizia e pietà del quale si è fatto applauso da' Santi; ma la pratica di essa nella sua maggior estensione riserbavasi a Massimo, di lui rivale e collega, il primo fra' Principi Cristiani, che spargesse il sangue de' Cristiani suoi sudditi, per motivo delle religiose lor opinioni. La causa dei Priscillianisti[491], recente Setta di eretici, che disturbava le Province della Spagna, fu per appello trasportata dal Sinodo di Bordò all'Imperial Concistoro di Treveri; e per sentenza del Prefetto del Pretorio, sette persone furono torturate, condannate e poste a morte. Il primo fra loro fu Priscilliano medesimo[492], Vescovo d'Avila[493] in Ispagna, che aggiungeva a' vantaggi della nascita e della fortuna gli ornamenti dell'eloquenza e dell'erudizione. Due Preti e due Diaconi furon compagni nella morte, ch'essi reputavano un glorioso martirio, dell'amato loro maestro; ed il numero delle religiose vittime si compì coll'esecuzione di Latroniano, poeta rivale in fama agli antichi, e di Eucrocia, nobile matrona di Bordò, vedova dell'oratore Delfidio[494]. Due Vescovi che avevano abbracciato i sentimenti di Priscilliano, furono condannati ad un lontano ed orrido esilio[495], e si usò qualche indulgenza verso i meno colpevoli, che ebbero il merito d'un pronto pentimento. Se prestar si dee qualche fede alle confessioni estorte dal timore o dalla pena, ed alle vaghe narrazioni, figlie della malizia e della credulità, l'eresia dei Priscillianisti conterrebbe le diverse abominazioni di magia, d'empietà e di dissolutezza[496]. Priscilliano, che andava girando pel Mondo in compagnia delle sue spirituali sorelle, veniva accusato di pregar tutto nudo in mezzo alla congregazione, ed arditamente asserivasi, che era stato soppresso il prodotto del suo reo commercio con la figlia d'Eucrocia per mezzi anche più odiosi e malvagi. Ma un'esatta o piuttosto ingenua ricerca farà conoscere, che se i Priscillianisti violavano le leggi di natura, ciò avveniva non già per la dissolutezza, ma per l'austerità del vivere. Essi condannavano assolutamente l'uso del letto maritale, e spesso disturbavasi la pace delle famiglie da indiscrete separazioni. Prescrivevano o commendavano una totale astinenza da ogni cibo animale, e le continue loro preghiere, digiuni e vigilie inculcavano una regola di stretta e perfetta devozione. Le opinioni speculative di questa Setta intorno alla persona di Cristo ed alla natura dell'anima umana erano tratte dal sistema Gnostico o Manicheo; e questa vana filosofia, che dall'Egitto erasi trasferita nella Spagna, era male adattata agli spiriti più grossolani dell'Occidente. Gli oscuri discepoli di Priscilliano soffrirono, languirono, ed appoco appoco disparvero; le sue opinioni rigettate furono dal Clero e dal popolo: ma la sua morte diede motivo ad una lunga ed ardente controversia, mentre alcuni attaccavano, altri applaudivano la giustizia di tale sentenza. Noi possiamo osservar con piacere l'umana incoerenza dei Santi e dei Vescovi più illustri, d'Ambrogio di Milano[497], e di Martino di Tours[498], i quali sostennero in quest'occasione la causa della tolleranza. Essi compassionarono quegl'infelici che avevan sofferto il supplizio a Treveri; ricusarono di comunicare coi loro Episcopali uccisori; e se Martino deviò da tal generosa risoluzione, lodevoli ne furon le cause, ed il pentimento esemplare. I Vescovi di Tours e di Milano pronunciarono, senza esitare, l'eterna dannazione degli eretici; ma restarono sorpresi e scossi dalla sanguinosa immagine della morte lor temporale, e gli onesti sentimenti della natura resisterono agli artificiali pregiudizi della teologia. L'umanità di Ambrogio e di Martino fu confermata dalla scandalosa irregolarità dei processi fatti contro Priscilliano ed i suoi aderenti. I ministri civili ed ecclesiastici avevano oltrepassato i limiti delle respettive loro Province. Il giudice secolare aveva ricevuto un appello, e pronunziata una sentenza definitiva in materia di fede e di giurisdizione Episcopale. I Vescovi s'erano disonorati esercitando l'uffizio di accusatori in una causa criminale. La crudeltà d'Itacio[499], che vide le torture, e sollecitò la morte degli Eretici, provocò il giusto sdegno del Mondo: ed i vizi di quel malvagio Vescovo si risguardarono come una prova, che il suo zelo fosse inspirato da sordidi motivi d'interesse. Dopo la morte di Priscilliano si son raffinati e ridotti a metodo i barbari attentati della persecuzione nel Santo Uffizio, che assegna la distinta sua parte alla potestà ecclesiastica ed alla secolare. La vittima, condannata regolarmente, si consegna dal sacerdote al magistrato, e dal magistrato all'esecutore; e l'inesorabil sentenza della Chiesa, che dichiara la spiritual colpa del reo, vien espressa nel dolce linguaggio della pietà e dell'intercessione.

A. 374-397

Fra gli Ecclesiastici, che illustrarono il regno di Teodosio, Gregorio Nazianzeno era distinto per l'abilità d'eloquente predicatore; la fama di doni miracolosi accresceva peso e dignità alle virtù monastiche di Martino di Tours[500]; ma giustamente si pretendeva la palma dell'Episcopal vigore e capacità dall'intrepido Ambrogio[501]. Discendeva egli da una nobil famiglia Romana; suo padre aveva esercitato l'importante uffizio di Prefetto del Pretorio della Gallia; e ben presto, dopo aver atteso agli studi d'una liberal educazione, giunse nella regolar carriera degli onori civili al posto di Consolare della Liguria, Provincia, che includeva l'Imperial residenza di Milano. All'età di trentaquattro anni, ed avanti che avesse ricevuto il Sacramento del Battesimo, Ambrogio con sorpresa di se stesso e del Mondo fu ad un tratto di Governatore trasformato in Arcivescovo. Senza che vi avesse parte veruna, per quanto si dice, l'arte o l'intrigo, tutto il corpo del popolo concordemente lo salutò col titolo Episcopale, la concordia e la perseveranza delle loro acclamazioni fu attribuita ad un impulso soprannaturale; ed il ripugnante Magistrato fu costretto ad intraprendere un uffizio spirituale, per cui non era preparato dalle abitudine ed occupazioni della precedente sua vita. Ma l'attività del suo genio presto lo pose in istato di esercitare con zelo e con prudenza i doveri dell'Ecclesiastica potestà; e mentre di buona voglia rinunziò a' vani e splendidi ornamenti della grandezza temporale, condiscese, pel ben della Chiesa, a dirigere la coscienza degl'Imperatori, ed a criticare l'amministrazione dell'Impero. Graziano lo amava e lo rispettava come un padre; e l'elaborato trattato della fede della Trinità era destinato per istruzione di quel giovane Principe. Dopo la tragica morte di lui, allorchè l'Imperatrice Giustina tremava per la salvezza propria e di Valentiniano suo figlio, fu spedito l'Arcivescovo di Milano in due diverse ambascerie alla Corte di Treveri. Egli esercitò con ugual fermezza e sagacità le forze del proprio carattere sì spirituale che politico; e forse contribuì con la sua autorità ed eloquenza a frenare l'ambizione di Massimo, ed a protegger la pace dell'Italia[502]. Ambrogio consacrato aveva la propria vita e tutti i suoi talenti al servizio della Chiesa. Le ricchezze per lui erano un oggetto di disprezzo; aveva rinunziato al privato suo patrimonio; e vendè senza esitare i vasi sacri per riscattare degli schiavi. Il Clero ed il popolo di Milano erano attaccati al loro Arcivescovo, ed ei meritava la stima senza sollecitare il favore o temere il disgusto de' suoi deboli Sovrani.

A. 385

Era naturalmente appoggiato il governo d'Italia e del giovane Imperatore a Giustina sua madre, donna dotata di beltà e d'ingegno; ma che in mezzo ad un popolo ortodosso avea la disgrazia di professare l'eresia Arriana, che essa procurava d'instillare nell'animo del figlio. Giustina era persuasa che un Imperator Romano potesse, nei propri dominj, pretendere l'esercizio pubblico della sua religione; e propose all'Arcivescovo, come una moderata e ragionevol domanda, ch'ei le rilasciasse l'uso d'una sola Chiesa o nella città o nei sobborghi di Milano. Ma la condotta d'Ambrogio era diretta secondo principj molto diversi[503]. Potevano invero nel suo sistema appartenere a Cesare i palazzi della terra; ma le Chiese erano case di Dio; e dentro i limiti della sua diocesi, egli solo, come legittimo successor degli Apostoli, era il Ministro divino. I privilegi sì temporali che spirituali del Cristianesimo erano ristretti ai veri credenti; ed Ambrogio godeva, che le teologiche sue opinioni fossero il modello della verità e dell'ortodossia. L'Arcivescovo che ricusava d'entrare in alcuna conferenza o negoziazione con gl'istrumenti di Satana, dichiarò con moderata fermezza la sua risoluzione di ricevere il martirio, piuttosto che cedere all'empio sacrilegio; e Giustina, che risguardava tal rifiuto come un atto d'insolenza e di ribellione, precipitosamente determinossi a far uso dell'Imperial prerogativa del proprio figlio. Bramando essa di fare pubblicamente nella prossima festa di Pasqua i suoi atti di devozione, fu ordinato ad Ambrogio di comparire avanti al Consiglio. Obbedì egli alla citazione col rispetto d'un suddito fedele; ma fu seguitato, senza il suo consenso, da un popolo innumerabile, che affollavasi con impetuoso zelo alle porte del palazzo: e gli spaventati ministri di Valentiniano, in vece di pronunziare una sentenza di esilio contro l'Arcivescovo Milanese, umilmente lo supplicarono, che volesse interporre la sua autorità per difender la persona dell'Imperatore e restituir la pace alla Capitale. Ma le promesse, che Ambrogio ebbe e comunicò al popolo, furon tosto violate da una perfida Corte; e ne' sei più solenni giorni, che la cristiana pietà ha destinato all'esercizio della religione, la città fu agitata da irregolari convulsioni di tumulto e di fanatismo. Si mandarono gli Uffiziali del palazzo a preparare prima la Basilica Porziana, poi la nuova, per immediatamente ricevervi l'Imperatore colla sua madre. Si disposero al solito le splendide suppellettili ed il baldacchino per la sede Reale; ma vi fu bisogno di porvi una forte guardia per difenderla dagl'insulti della plebaglia. Gli Ecclesiastici Arriani, che s'arrischiavano a farsi veder nelle strade, furono esposti ai più imminenti pericoli di vita: ed Ambrogio godè il merito e la riputazione di liberare i suoi personali nemici dalle mani della moltitudine irata.

Ma nel tempo che si affaticava a raffrenare gli effetti del loro zelo, la patetica veemenza de' suoi discorsi continuamente infiammava l'ardente e sediziosa indole del popolo di Milano. Venivano indecentemente applicati alla madre dell'Imperatore i caratteri d'Eva, della moglie di Giob, di Gezabel, di Erodiade; e la brama che aveva essa d'ottenere una Chiesa per gli Arriani, era paragonata alle più crudeli persecuzioni, che avessero sofferto i Cristiani sotto il regno del Paganesimo. I provvedimenti che prendea la Corte non servivano che a far conoscere la grandezza del male. Fu imposta una tassa di dugento libbre d'oro sul corpo dei mercanti e degli artefici: fu intimato a nome dell'Imperatore un ordine a tutti gli Uffiziali ed inferiori ministri de' tribunali di giustizia, che finattantocchè duravano i pubblici disordini, dovessero star chiusi nelle loro case: ed i ministri di Valentiniano imprudentemente confessarono, che la più rispettabile parte de' cittadini Milanesi favoriva la causa del proprio Arcivescovo. Egli fu di nuovo sollecitato a restituire la quiete del paese, mediante un'opportuna compiacenza alla volontà del Sovrano. La risposta d'Ambrogio fu concepita nei termini più umili e rispettosi, che potevano però interpretarsi come una seria dichiarazione di guerra civile. Espose «che la propria vita ed i suoi beni erano in mano dell'Imperatore, ma ch'esso non avrebbe mai tradito la Chiesa di Cristo, o avvilito la dignità del carattere Episcopale. In una causa di tal sorta era preparato a soffrire qualunque danno la malizia del demonio avesse potuto apportargli; e solo desiderava di morire in presenza del fedele suo gregge ed appiè dell'Altare; ei non aveva contribuito ad eccitar la furia del popolo, ma era solo in potere di Dio l'acquietarla; abborriva le scene di sangue e di confusione che probabilmente sarebber seguite; e la sua più calda preghiera era quella di non sopravvivere a veder la rovina d'una florida città, e forse la desolazione di tutta l'Italia[504] ». L'ostinata bacchettoneria di Giustina avrebbe posto a rischio l'Impero del suo figlio, se in questa disputa con la Chiesa e col popolo di Milano avesse potuto contare sull'attiva ubbidienza delle truppe del palazzo. Era marciato un grosso corpo di Goti ad occupar la Basilica, che era l'oggetto della contesa; ed avrebbe potuto aspettarsi dagli Arriani principj, e dai barbari costumi di questi mercenari stranieri, che non avrebbero essi avuto alcuno scrupolo ad eseguire i più sanguinari comandi. Si fece loro incontro l'Arcivescovo sulla sacra soglia, e fulminando contro di essi una sentenza di scomunica, domandò loro in tuono di padre e di signore, se era per invader la casa di Dio, ch'essi aveano implorato l'ospital protezione della Repubblica? La sospensione de' Barbari concesse qualche ora per un più efficace trattato; e l'Imperatrice fu persuasa dal parere dei più savi suoi consiglieri a lasciare ai Cattolici il possesso di tutte le Chiese di Milano, e a dissimulare fino ad un'occasione più opportuna i suoi pensieri di vendetta. La madre di Valentiniano non potè mai perdonare ad Ambrogio simil trionfo; ed il giovane Reale esclamò nell'impeto della passione, che i suoi propri servi erano pronti a darlo nelle mani d'un insolente Prete.

A. 386

Le leggi dell'Impero, alcune delle quali portavano in fronte il nome di Valentiniano, condannavano tuttavia l'eresia d'Arrio, e sembrava che scusassero la resistenza de' Cattolici. Giustina fece sì che fosse promulgato in tutte le Province, sottoposte alla Corte di Milano, un editto di tolleranza; fu concesso a tutti quelli che professavano la fede di Rimini, l'esercizio libero di lor religione; e l'Imperatore dichiarò, che tutti coloro, che avessero trasgredito questa sacra e salutare costituzione, sarebbero stati puniti di morte, come nemici della pubblica pace[505]. Il linguaggio ed il carattere dell'Arcivescovo di Milano possono giustificare il sospetto, che la sua condotta presto somministrasse un ragionevole fondamento, o almeno uno specioso pretesto ai ministri Arriani, che spiavano l'occasion di sorprenderlo in qualche atto di disubbidienza ad una legge, ch'ei stranamente rappresenta come una legge di sangue e di tirannide. Si emanò una sentenza di mite ed onorevol esilio, che ordinava ad Ambrogio di partir subito da Milano, mentre gli permetteva di scegliere il luogo di sua dimora ed il numero de' propri compagni. Ma l'autorità dei Santi, che hanno predicato ed eseguito le massime di una piena sommissione, parve ad Ambrogio di minor peso che l'estremo ed urgente pericolo della Chiesa. Egli arditamente ricusò d'obbedire, e tal passo fu sostenuto dall'unanime consenso del suo popolo[506]. Faceva esso a vicenda la guardia alla persona del proprio Arcivescovo; furono bene assicurate le porte della Cattedrale e del palazzo Vescovile; e le truppe dell'Imperatore, che ne avevan formato il blocco, non ardirono d'arrischiar l'attacco di quella inespugnabil fortezza. I numerosi poveri, che la liberalità d'Ambrogio avea sollevati, abbracciaron questa bella occasione di segnalare lo zelo la gratitudin loro; e siccome avrebbe potuto stancarsi la pazienza della moltitudine per la lunghezza ed uniformità delle notturne vigilie, egli prudentemente introdusse nella Chiesa di Milano l'utile instituzione di un'alta e regolar salmodia. Nel tempo che Ambrogio sosteneva quest'ardua contesa, fu avvertito in sogno a scavar la terra in un luogo, dove più di trecent'anni prima erano state depositate le spoglie dei due martiri, Gervasio e Protasio[507]. Si trovarono subito sotto il pavimento della Chiesa due perfetti scheletri[508] con le teste separate dai loro corpi ed un'abbondante copia di sangue. Con solenne pompa si esposero le sante reliquie alla venerazione del popolo; ed ogni circostanza di questa fortunata scoperta fu mirabilmente atta a promuovere i disegni d'Ambrogio. Si suppose che le ossa dei Martiri, il sangue e le vesti loro avessero le virtù di risanare dai mali, e tal soprannatural potenza si comunicasse ai più distanti oggetti senza perdere in minima cosa la primiera sua attività. Parve che la straordinaria cura di un cieco[509] e le forzate confessioni di varj ossessi giustificassero la fede e la santità dell'Arcivescovo; e la verità di questi miracoli viene attestata da Ambrogio medesimo, da Paolino suo segretario e dal celebre Agostino, di lui proselito, che in quel tempo professava rettorica in Milano. La ragionevolezza del nostro secolo può approvare per avventura l'incredulità di Giustina e dell'Arriana sua Corte, la quale derise le teatrali rappresentazioni, che si facevano per l'artifizio ed a spese dell'Arcivescovo[510]. L'effetto, per altro, ch'ebbero sull'animo del popolo, fu rapido ed invincibile; ed il debole Sovrano dell'Italia si trovò incapace di contendere col favorito del Cielo. Anche le potestà della terra s'interposero in difesa d'Ambrogio; il disinteressato avviso di Teodosio fu il genuino risultato della pietà e dell'amicizia, e la maschera dello zelo religioso coprì gli ostili ed ambiziosi disegni del tiranno della Gallia[511].

A. 387

Avrebbe Massimo potuto finire il suo regno in pace e prosperamente, se avesse saputo contentarsi del possesso di quelle tre vaste regioni, che adesso formano i tre più floridi regni dell'Europa. Ma l'intraprendente usurpatore, la sordida ambizione del quale non era nobilitata dall'amor della gloria e delle armi, risguardò le attuali sue forze, come istrumenti soltanto di sua futura grandezza, ed il successo da lui ottenuto, divenne la causa immediata della sua distruzione. Furono impiegate le somme ch'egli estorse[512] dalle oppresse Province della Gallia, della Spagna e della Britannia, in arrolare e mantenere una formidabile armata di Barbari, presi per la maggior parte dalle più fiere nazioni della Germania. L'oggetto dei preparativi e delle speranze di esso era la conquista d'Italia; e segretamente meditava la rovina d'un innocente giovane, il governo del quale abborrivasi e disprezzavasi da' suoi Cattolici sudditi. Ma poichè Massimo desiderava d'occupare senza resistenza il passaggio delle alpi, accolse con perfide carezze Donnino della Siria, ambasciator di Valentiniano, e lo sollecitò ad accettare il soccorso d'un corpo considerabil di truppe per servire nella guerra Pannonica. La penetrazione d'Ambrogio aveva scoperto, sotto le proteste d'amicizia, le insidie d'un nemico[513]; ma Donnino della Siria fu corrotto o ingannato da' liberali favori della Corte di Treveri; ed il Consiglio di Milano rigettò pertinacemente il sospetto di pericolo, con una cieca fiducia ch'era un effetto non già di coraggio, ma di timore. L'ambasciatore medesimo servì di scorta alla marcia degli ausiliari; e senza diffidenza veruna questi furono ammessi nelle fortezze delle alpi. Ma l'astuto tiranno seguitonne con celeri e taciti passi la retroguardia; e siccome diligentemente impedì ogni cognizione dei suoi movimenti, lo splendore delle armi, e la polvere che s'innalzava dalla cavalleria, diedero il primo annunzio dell'ostile avvicinamento d'uno straniero alle porte di Milano. In tal estremità, Giustina ed il suo figlio potevano accusare la propria imprudenza, ed i perfidi artifizi di Massimo; ma loro mancavano il tempo, la risolutezza e la forza per opporsi a' Germani ed a' Galli, sì nella campagna che dentro le mura d'una vasta e disaffezionata città. La fuga fu l'unica loro speranza, ed Aquileia l'unico refugio loro; ed avendo Massimo allora spiegato il proprio genuino carattere, il fratello di Graziano aspettare poteva la medesima sorte dalle mani dell'assassino medesimo. Massimo entrò in Milano trionfante; e se il saggio Arcivescovo ricusò una pericolosa e rea connessione coll'usurpatore, potè almeno indirettamente contribuire al buon successo delle sue armi con inculcare dal pulpito il dovere della rassegnazione, piuttosto che quella della resistenza[514]. L'infelice Giustina giunse salva in Aquileia; ma non si fidò delle fortificazioni di quella città, temè l'evento d'un assedio, e risolvè d'implorare la protezione del Gran Teodosio, di cui la virtù e la forza eran celebri in ogni parte dell'Occidente. Fu segretamente preparato un vascello per trasportare l'Imperial famiglia, che precipitosamente imbarcossi in uno degli oscuri porti di Venezia o dell'Istria, traversò tutta l'estensione de' mari Adriatico e Jonico, girò attorno all'estremo promontorio del Peloponneso, e, dopo una lunga ma fortunata navigazione, si riposò nel porto di Tessalonica. Tutti i sudditi di Valentiniano abbandonarono la causa di un Principe che colla sua ritirata gli aveva assoluti dal dovere di fedeltà; e se la piccola città d'Emona in Italia non avesse preteso d'arrestare la non gloriosa vittoria di Massimo, egli avrebbe ottenuto senza verun contrasto l'intero possesso dell'Impero d'Occidente.

A. 387

In luogo d'invitare i reali suoi ospiti nel palazzo di Costantinopoli, Teodosio ebbe delle ignote ragioni di farli restare a Tessalonica; queste ragioni però non provenivano da disprezzo nè da indifferenza, poichè andò immediatamente a visitarli in quella città accompagnato dalla maggior parte della sua corte e del Senato. Dopo le prime tenere espressioni di amicizia e di condoglianza, il pio Imperatore dell'Oriente ammonì gentilmente Giustina, che alle volte il delitto d'eresia veniva punito in questo Mondo e nell'altro; e che il passo più efficace a promuovere lo ristabilimento del Figlio sarebbe stata la pubblica professione della Fede Nicena, per la soddisfazione che avrebbe dato quest'atto sì alla terra che al Cielo. Fu da Teodosio rimessa l'importante questione della guerra o della pace alla deliberazione del suo Consiglio; e gli argomenti che potevano addursi per la parte dell'onore e della giustizia, dopo la morte di Graziano avevano acquistato un grado considerabile di maggior peso. La persecuzione della famiglia Imperiale, a cui Teodosio stesso era debitore della sua fortuna, veniva in tal occasione aggravata da fresche e replicate ingiurie. Nè giuramenti, nè trattati frenar potevano l'insaziabile ambizione di Massimo; e la dilazione di vigorosi e decisivi partiti, invece di prolungare il ben della pace, avrebbe esposto l'Impero orientale al pericolo d'una ostile invasione. I Barbari, che aveano passato il Danubio, avevano finalmente assunto il carattere di soldati e di sudditi, ma era tuttavia indomita la nativa loro fierezza; e le operazioni d'una guerra, ch'esercitato ne avrebbe il valore, e diminuitone il numero, poteva ottenere il fine di sollevar le Province da un'intollerabile oppressione. Nonostanti queste sode e speziose ragioni, ch'erano approvate dalla maggior parte del Consiglio, Teodosio pendeva sempre dubbioso, se trar doveva la spada in una contesa, che dopo tal atto non avrebbe più ammesso termine alcuno di riconciliazione; nè s'avviliva il magnanimo di lui carattere dai timori, che aveva per la salute dei piccoli suoi figli e pel bene dell'esausto suo popolo. In tal momento d'ansiosa dubbiezza, mentre il destino del Mondo Romano dipendeva dalla risoluzione d'un solo uomo, le grazie della Principessa Galla patrocinaron con la massima efficacia la causa di Valentiniano fratello di lei[515]. Restò ammollito il cuor di Teodosio dalle lacrime della beltà; furono insensibilmente legati i suoi affetti dalle grazie della gioventù e dell'innocenza; l'arte di Giustina maneggiò e diresse l'impulso della passione, e la celebrazione delle nozze reali fu la sicurezza ed il segno della guerra civile. Gl'insensibili critici, che risguardano qualunque amorosa debolezza come una macchia indelebile alla memoria del grande ed ortodosso Imperatore, in quest'occasione sono inclinati a porre in dubbio la sospetta autorità dell'istorico Zosimo. Quanto a me, confesserò francamente, che mi dà piacere il trovare ed anche l'andar ricercando nelle rivoluzioni del Mondo qualche traccia dei dolci e teneri sentimenti della vita domestica; ed in mezzo ad una folla di fieri ed ambiziosi conquistatori io provo una particolar compiacenza a distinguere un gentile eroe, che vi sia motivo di supporre, che ricevuto abbia le armi dalle mani d'amore. La fede de' trattati assicurava la pace col Re della Persia; i bellicosi Barbari si lasciavan persuadere a seguir lo stendardo o a rispettar le frontiere d'un attivo e generoso Monarca; e gli stati di Teodosio, dall'Eufrate sino all'Adriatico, risuonavano sì per terra che per mare de' preparativi di guerra. Parve che la buona disposizione delle forze orientali ne moltiplicasse il numero, e distraesse l'attenzione di Massimo. Aveva egli ragion di temere, che uno scelto corpo di truppe sotto il comando dell'intrepido Arbogaste dirigesse la marcia lungo le rive del Danubio, ed arditamente penetrasse per le Province della Rezia nel centro della Gallia. Fu equipaggiata nei porti della Grecia e dell'Epiro una potente flotta coll'apparente disegno che, dopo di avere aperto il passo con una vittoria navale, Valentiniano e sua madre sbarcassero nell'Italia, senza dilazione passassero a Roma, ed occupassero la sede maestosa della Religione e dell'Impero. Intanto Teodosio medesimo alla testa d'un valoroso e disciplinato esercito s'avanzava incontro al suo indegno rivale, che dopo l'assedio d'Emona aveva piantato il suo campo nelle vicinanze di Scizia, città della Pannonia ben fortificata dal largo e rapido corso del Savo.

A. 388

I veterani che tuttavia si ricordavano della lunga resistenza e del successivo risorgere del tiranno Magnenzio, si preparavano forse a' travagli di tre sanguinose campagne. Ma la contesa col successore di esso, che come egli aveva usurpato il trono dell'Occidente, restò facilmente decisa nel termine di due mesi[516], e dentro lo spazio di dugento miglia. Il superior genio dell'Imperatore orientale potè prevalere sul debole Massimo, che in questa importante crisi dimostrossi privo di abilità militare o di personale coraggio; ma la perizia di Teodosio fu secondata dal vantaggio che aveva d'un'attiva e numerosa cavalleria. Si erano formati degli Unni, degli Alani, e, dietro il loro esempio, degli stessi Goti, tanti squadroni di arcieri che combattevano a cavallo e confondeano il costante valore de' Galli e de' Germani, mediante i rapidi movimenti d'una tartara maniera di guerreggiare. Dopo la fatica d'una lunga marcia nel colmo della state, spronarono i focosi loro cavalli nelle acque del Savo, passarono il fiume a nuoto in presenza del nemico, ed immediatamente attaccarono, e posero in rotta le truppe che dominavano il lido dall'altra parte. Marcellino, fratello del Tiranno, avanzossi per sostenerle con le più scelte coorti, che si consideravano come la speranza e la forza dell'esercito. L'azione, che s'era interrotta per l'avvicinarsi della notte, si rinnovò la mattina seguente; e dopo una sanguinosa battaglia i residui dei più bravi soldati di Massimo, che sopravvissero, deposero le armi a' piedi del vincitore. Senza sospendere la sua marcia a ricevere le leali acclamazioni dei cittadini d'Emona, Teodosio inoltrossi avanti per finir la guerra, mediante la morte o la presa del suo rivale, che fuggiva d'avanti a lui con la diligenza che inspira il timore. Dalla sommità delle Alpi Giulie discese con tale incredibil prestezza nelle pianure dell'Italia, che egli giunse ad Aquileia la sera medesima del primo giorno; e Massimo, che si trovò circondato da tutte le parti, appena ebbe tempo di chiuder le porte della città. Queste però non poteron lungamente resistere agli sforzi d'un vittorioso nemico, e la disperazione, il disamore e l'indifferenza de' soldati e del popolo accelerarono la caduta del misero Massimo. Fu egli tratto giù dal trono, violentemente spogliato degli ornamenti Imperiali, del manto, del diadema e dei calcetti purpurei; e come un malfattore condotto al campo ed alla presenza di Teodosio in un luogo distante circa tre miglia da Aquileia. La condotta dell'Imperatore non fu insultante, e dimostrò qualche disposizione a compatire ed a perdonare al Tiranno dell'Occidente, che non era mai stato suo personale nemico, ed era divenuto allora l'oggetto del suo disprezzo. Si eccita in noi con gran forza la compassione per le disgrazie, alle quali siam sottoposti noi stessi; e lo spettacolo d'un altiero competitore, prostrato ai suoi piedi, non poteva mancar di produrre pensieri molto gravi ed importanti nell'animo del vittorioso Imperatore. Ma fu frenata la debole commozione d'una involontaria pietà dal riguardo che ebbe alla pubblica giustizia ed alla memoria di Graziano; ed abbandonò quella vittima al pietoso zelo dei soldati che la trassero dalla presenza Imperiale, ed immediatamente le spiccarono il capo dal busto. La notizia della disfatta e della morte di Massimo fu ricevuta con sincero, o ben simulato piacere. Vittore, suo figlio, al quale avea conferito il titolo d'Augusto, morì per ordine e forse per mano del feroce Arbogaste; e tutti i disegni militari di Teodosio furono felicemente eseguiti. Dopo d'aver terminato in tal modo la guerra civile, con minor difficoltà e strage di quello che naturalmente avrebbe aspettato, impiegò i mesi dell'invernal sua residenza in Milano a ristabilire lo stato delle afflitte Province; e sul principio della primavera, ad esempio di Costantino e di Costanzo, fece il suo trionfale ingresso nell'antica Capitale del Romano Impero[517].

L'oratore che può tacere senza pericolo, può anche lodare senza difficoltà e ripugnanza[518]; ed i posteri confessarono che il carattere di Teodosio potè somministrare il soggetto d'un ampio e sincero panegirico[519]. La saviezza delle leggi ed il buon successo delle armi di lui, ne rendettero il governo rispettabile agli occhi tanto de' sudditi che de' nemici. Egli amò e rispettò le virtù della vita domestica, che di rado soggiornano nei palazzi de' Principi. Teodosio fu casto e temperato; godè senza eccesso i delicati e sociali piaceri della mensa, ed il calore delle sue passioni amorose non fu mai diretto che ad oggetti legittimi. Venivano adornati i sublimi titoli della grandezza Imperiale da' teneri nomi di marito fedele e di padre indulgente; e dall'affettuosa sua stima fu innalzato lo zio al grado di secondo padre. Teodosio abbracciò come suoi i figli del fratello e della sorella; ed estese l'espressioni del suo riguardo fino ai più oscuri e distanti rami della numerosa sua parentela. Sceglieva i suoi famigliari amici giudiziosamente fra quelle persone, che nell'ugual commercio della vita privata gli eran comparse d'avanti senza maschera; la propria coscienza di un personale superior merito lo pose in grado di sprezzare l'accidental distinzione della porpora; e provò con la sua condotta, che aveva dimenticato tutte le ingiurie, nel tempo che con la maggior gratitudine si rammentava di tutti i favori e servigi, che avea ricevuto prima di salire sul trono dell'Impero Romano. Il tuono serio o vivace della sua conversazione era adattato all'età, al grado, o al carattere dei sudditi, che vi ammetteva; e l'affabilità delle maniere spiegava l'immagine della sua mente. Teodosio rispettava la semplicità dei buoni e dei virtuosi; ogni arte, ogni talento d'un utile o anche indifferente natura veniva premiato dalla sua giudiziosa liberalità; ed eccettuati gli eretici, ch'ei perseguitò con implacabile odio, il vasto cerchio della sua benevolenza non fu circoscritto che da' limiti della specie umana. Il governo d'un potente Impero può sicuramente servire ad occupare il tempo e l'abilità d'un uomo; pure il diligente Principe, senz'aspirare alla fama, ad esso non conveniente, di profondo erudito, riserbava sempre qualche momento d'ozio per l'istruttivo divertimento della lettura. Il suo studio favorito era l'Istoria, che ne dilatò l'esperienza. Gli annali di Roma, nel lungo periodo di undici secoli, presentavano ad esso una varia e splendida pittura della vita umana; ed è stato particolarmente osservato, che quando leggeva i crudeli fatti di Cinna, di Mario, o di Silla, esprimeva con gran forza l'odio generoso che aveva per quei nemici dell'umanità e della libertà. Egli si serviva utilmente della propria spassionata opinione intorno agli avvenimenti passati, come di regola per le sue azioni; ed ha meritato questa singolar lode, che pare che le sue virtù siansi allargate con la sua fortuna: il tempo della prosperità era per lui quello della moderazione, ed apparve più cospicua la sua clemenza dopo il pericolo ed il buon successo della guerra civile. Nel primo calore della vittoria, si trucidarono le guardie Mauritane del Tiranno, ed un piccol numero dei più colpevoli soggiacque alla pena della legge. Ma l'Imperatore si dimostrò molto più attento a sollevar l'innocente, che a gastigare il reo. I sudditi oppressi dell'Occidente, che si sarebbero stimati felici al solo ricuperare le proprie terre, furon sorpresi al ricever che fecero una somma di denaro equivalente alle loro perdite; e la generosità del vincitore protesse la vecchia madre, ed educò le orfane figlie di Massimo[520]. Un carattere così virtuoso potrebbe quasi scusare la stravagante supposizione dell'Oratore Pacato, che se al vecchio Bruto fosse stato permesso di tornare sulla terra avrebbe quel rigido Repubblicano deposto a' piè di Teodosio l'odio che nutriva pei Re; ed avrebbe ingenuamente confessato, che tal Monarca era il custode più fedele della felicità e della dignità del popolo Romano[521].

Pure l'occhio penetrante del fondatore della Repubblica avrebbe dovuto discernere due imperfezioni essenziali, che avrebber forse diminuito il recente suo amore pel dispotismo. Il virtuoso animo di Teodosio spesse volte si rilassava per indolenza[522], e qualche volta infiammavasi dalla passione[523]. L'attivo coraggio di lui era capace degli sforzi più vigorosi, quando si trattava d'ottenere un oggetto importante; ma tosto che avea eseguito il suo disegno, o superato il pericolo, l'eroe s'abbandonava ad un non glorioso riposo, e dimenticatosi che il tempo d'un Principe è dovuto al suo popolo, si dava tutto al godimento degl'innocenti, ma vani piaceri d'una lussuriosa Corte. La natural disposizione di Teodosio era precipitosa e collerica; ed in uno stato, in cui nessuno poteva resistere alle fatali conseguenze dell'ira sua, e pochi sapevano avvertirlo, l'umano Monarca era con ragione agitato dalla coscienza della propria debolezza e della sua forza. Si studiò sempre di sopprimere o di moderare gl'impeti sregolati della passione; ed il buon successo dei suoi sforzi accrebbe il merito della sua clemenza. Ma una difficil virtù, che pretende al merito della vittoria, giace esposta al pericolo di essere vinta; ed il regno d'un savio e misericordioso Principe fu macchiato da un atto di crudeltà, che avrebbe infamato gli Annali di Nerone o di Domiziano. Dentro lo spazio di tre anni l'incostante Istorico di Teodosio è costretto a riferire il generoso perdono dei cittadini d'Antiochia, e la barbara strage del popolo di Tessalonica.

A. 387

La vivace impazienza degli abitanti d'Antiochia non mostravasi mai contenta della situazione, in cui erano, o del carattere e della condotta, dei propri Sovrani. I sudditi Arriani di Teodosio deploravan la perdita delle lor Chiese; e siccome la sede d'Antiochia era disputata da tre Vescovi, rivali fra loro, la sentenza, che decise le pretensioni loro, eccitò le doglianze delle due congregazioni che l'ebbero in disfavore. I bisogni della guerra Gotica e l'inevitabile spesa, che accompagnò la conclusione della pace, avea costretto l'Imperatore ad aggravare il peso delle pubbliche imposizioni; e siccome le Province dell'Asia non avevan provato le calamità dell'Europa, così eran meno disposte a contribuire al sollievo di essa. S'avvicinava già l'avventuroso periodo del decimo anno del suo regno: festa più grata ai soldati, che ricevevano un liberal donativo, che ai sudditi, le volontarie offerte dei quali si eran da lungo tempo convertite in uno straordinario ed opprimente peso. Gli editti della tassazione interruppero il riposo ed i piaceri di Antiochia; ed il Tribunale del Magistrato fu assediato da una supplichevole folla, che in un patetico, ma da principio rispettoso linguaggio chiedeva la riforma de' propri aggravj. Essi furono appoco appoco infiammati dall'orgoglio degli altieri governatori, che trattavano i loro lamenti di colpevole resistenza; il satirico loro sale degenerò in aspre e rabbiose invettive; e le invettive del popolo insensibilmente dalle potestà subordinate del governo giunsero ad attaccare il sacro carattere dell'Imperatore medesimo. Il furore, provocato da una debole opposizione, si scaricò sulle immagini della Famiglia Imperiale, che si erano innalzate come oggetti di pubblica venerazione nei luoghi più cospicui della città. Furono insolentemente gettate a terra dai loro piedestalli le statue di Teodosio, di suo padre, di Flaccilla sua moglie, dei due suoi figli Arcadio ed Onorio; queste furono spezzate o strascinate con disprezzo per le strade: e le indegnità commesse contro le rappresentazioni della Maestà Imperiale, sufficientemente spiegavano gli empj e ribelli desiderj della plebe. Il tumulto fu quasi subito soppresso dall'arrivo d'un corpo d'arcieri; ed Antiochia ebbe agio di riflettere alla natura ed alle conseguenze del suo delitto[524]. Il Governatore della provincia, com'esigeva il suo uffizio, mandò all'Imperatore un fedele ragguaglio di tutto il fatto; mentre i cittadini tremanti affidaron la confessione del delitto e le proteste del pentimento allo zelo di Flaviano loro Vescovo, ed all'eloquenza del Senatore Ilario, amico e probabilissimamente discepolo di Libanio; i talenti del quale non furono in quella trista occasione inutili alla sua patria[525]. Ma le due capitali Antiochia e Costantinopoli eran fra loro distanti ottocento miglia; e nonostante la diligenza delle poste Imperiali, la colpevol città restò severamente punita da una lunga e terribile sospensione. Ogni romore agitava le speranze ed i timori degli Antiocheni; ed udirono con terrore, che il loro Sovrano, esacerbato dall'insulto fatto alle proprie statue, e più specialmente a quelle della diletta sua moglie, avea risoluto di far livellare al suolo quella delinquente città e trucidarne senza distinzione di età o di sesso i colpevoli abitatori[526], molti dei quali erano già tratti dalle loro apprensioni a cercare un rifugio nelle montagne della Siria, e nel vicino deserto. Finalmente, ventiquattro giorni dopo la sedizione, il Generale Ellebico, e Cesario Maestro degli Uffizi dichiararono la volontà dell'Imperatore, e la sentenza d'Antiochia. Quella superba Capitale restò degradata dallo stato di città; e la metropoli dell'Oriente, spogliata delle sue terre, dei suoi privilegi e delle sue rendite, fu sottoposta, coll'umiliante denominazion di villaggio, alla giurisdizione di Laodicea[527]. Chiusi furono i bagni, i teatri ed il circo; ed affinchè rimanesse nell'istesso tempo sospesa ogni sorgente di abbondanza e di piacere, fu abolita dalle rigide istruzioni di Teodosio la distribuzione del grano. Si procedè in seguito da' commissari di esso ad investigare la colpa di ciascheduno, sì di quelli che distrutto avevano le sacre statue, che di quelli che non l'aveano impedito. S'alzò in mezzo del Foro il tribunale di Ellebico e di Cesario, circondato da soldati armati. Comparivano in catene avanti di loro i più nobili e più ricchi cittadini d'Antiochia, s'accompagnava l'esame dall'uso della tortura, e secondo il giudizio di quegli straordinari Magistrati veniva pronunziata o sospesa la lor sentenza. Le case dei rei furono esposte alla vendita, le loro mogli e figliuoli furono ad un tratto ridotti dall'abbondanza e dal lusso alla più abbietta miseria; e si aspettava, che una sanguinosa esecuzione finisse gli orrori d'un giorno[528], che il predicatore d'Antiochia, l'eloquente Grisostomo, ha rappresentato come una viva immagine dell'ultimo ed universal giudizio del Mondo. Ma i Ministri di Teodosio eseguivano con ripugnanza il crudele uffizio che era stato loro commesso: spargevano lacrime compassionevoli sulle calamità del popolo; e riverentemente dieder orecchio alle pressanti sollecitazioni dei monaci e degli eremiti, che scesero a sciami dalle montagne[529]. Ellebico e Cesario si lasciarono persuadere a sospendere l'esecuzione di lor sentenza; e fu convenuto, che il primo restasse in Antiochia, mentre l'altro tornava con tutta la possibil celerità a Costantinopoli, ed arrischiavasi di consultare un'altra volta la volontà del Sovrano. L'ira di Teodosio erasi già calmata; tanto il Vescovo che l'oratore, deputati del popolo, avevano avuto una favorevole udienza; ed i rimproveri dell'Imperatore eran piuttosto le querele d'una ingiuriata amicizia, che le fiere minacce dell'orgoglio e del potere. Fu accordato un libero e general perdono alla città ed a' cittadini d'Antiochia; s'apriron le porte della prigione; i Senatori, che disperavano delle proprie vite, ricuperarono il possesso delle case e dei beni loro; ed alla capitale dell'Oriente fu restituita l'antica sua dignità e lo splendore. Teodosio degnossi perfino di lodare il Senato di Costantinopoli, che avea generosamente intercesso pei propri angustiati fratelli; premiò l'eloquenza di Ilario col governo della Palestina; e licenziò il Vescovo d'Antiochia coll'espressioni più tenere di rispetto e di gratitudine. S'eressero mille nuove statue alla clemenza di Teodosio; l'applauso dei sudditi veniva confermato dall'approvazione del proprio suo cuore; e l'Imperatore confessò, che se l'esercizio della giustizia è il più importante dovere d'un Sovrano la indulgenza però della misericordia n'è il piacer più squisito[530].

A. 390

La sedizione di Tessalonica si attribuisce ad una causa più vergognosa, e produsse molto più terribili conseguenze. Quella gran città, metropoli di tutte le Province Illiriche, era stata difesa dai pericoli della guerra Gotica con forti ripari e con numerosa guarnigione. Boterico, Generale di quelle truppe, e per quanto apparisce dal nome stesso, Barbaro di nazione, aveva fra i suoi schiavi un bel fanciullo, ch'eccitò gl'impuri desideri d'uno dei cocchieri del circo. Per ordine di Boterico fu posto in carcere l'insolente e brutale amante; e pertinacemente si rigettarono gl'importuni clamori della moltitudine, che in occasione dei pubblici giuochi dolevasi dell'assenza del suo favorito, e risguardava l'abilità d'un cocchiere come un oggetto di maggiore importanza che la sua virtù. Lo sdegno del popolo era già irritato da alcune precedenti contese; e siccome s'era tratto di là il più forte della guarnigione pel servizio della guerra Italica, i deboli residui, ch'erano ancora diminuiti di numero per la diserzione, non poteron salvar l'infelice Generale dalla licenziosa lor furia. Boterico, insieme con alcuni dei suoi primi uffiziali, restarono crudelmente uccisi; i lacerati lor corpi strascinati furono per le strade; e l'Imperatore, che in quel tempo risedeva in Milano, fu sorpreso dalla notizia dell'audace e sfrenata barbarie del popolo di Tessalonica. La sentenza di qualunque Giudice spassionato avrebbe dovuto infliggere una severa pena agli autori del delitto; ed anche il merito di Boterico potè contribuire ad esacerbare il dispiacere e lo sdegno del suo Signore. Il focoso e collerico temperamento di Teodosio fu impaziente delle dilatorie formalità d'un processo criminale; e precipitosamente risolvè, che s'espiasse il sangue del suo Luogotenente con quello del popolo reo. Pure il suo spirito pendea tuttora dubbioso fra i consigli di clemenza e di vendetta; lo zelo dei Vescovi avea quasi strappato dal ripugnante Imperatore la promessa di un generale perdono. Ma fu di nuovo infiammata la sua passione dalle adulanti suggestioni di Ruffino ministro di lui; e dopo che Teodosio ebbe spedito i messaggi di morte, tentò, ma troppo tardi, d'impedire l'esecuzione dei suoi ordini. Fu ciecamente commesso il gastigo di una città Romana alla spada, che senza distinzione alcuna operasse, de' Barbari; e si concertarono gli ostili preparativi coll'oscuro e perfido artifizio di un'illegittima cospirazione. A tradimento si invitò il popolo di Tessalonica in nome del suo Sovrano ai giuochi del Circo; e tal era l'insaziabile avidità loro per questi divertimenti, che da un gran numero di spettatori fu trascurata qualunque considerazione di timore o di sospetto. Appena fu ripieno quel luogo, i soldati, che erano stati posti segretamente intorno al Circo, riceverono il segnale non già della corsa, ma di un generale macello. Continuò quella promiscua carnificina per tre ore senza differenza di stranieri o di nazionali, di sesso o di età, d'innocenza o di colpa; i ragguagli più moderati fanno ascendere a settemila il numero degli uccisi; ed alcuni scrittori asseriscono, che furono sacrificate più di quindicimila vittime all'ombra di Boterico. Un mercante forastiero, che probabilmente non aveva avuto parte nell'uccisione di esso, offerì la propria vita e tutte le sue ricchezze per salvare uno dei suoi due figli; ma mentre il padre stava esitando con uguale tenerezza, mentr'era dubbioso nella scelta, e ripugnante alla condanna, i soldati posero fine alla sua sospensione coll'immergere nel momento stesso i lor ferri nei petti dei miseri giovani. L'apologia degli assassini, che erano cioè obbligati a produrre un determinato numero di teste, non serve che ad accrescere, coll'apparenza dell'ordine e della premeditazione, gli orrori della strage, che fu eseguita per comandamento di Teodosio. S'aggrava la colpa dell'Imperatore dalla lunga e frequente residenza di lui in Tessalonica. Eran famigliari, e tuttora presenti all'immaginazione di esso la situazione di quella sfortunata città, l'aspetto delle contrade e delle fabbriche, le vesti ed i volti degli abitatori e Teodosio aveva un forte e vivo sentimento dell'esistenza di quel popolo ch'egli distrusse[531].

A. 338

Il rispettoso attaccamento dell'Imperatore pel Clero Cattolico l'aveva disposto ad amare ed ammirare il carattere d'Ambrogio, che nel più eminente grado riuniva in sè tutte le virtù Episcopali. Gli amici ed i ministri di Teodosio imitavan l'esempio del loro Sovrano; ed egli vedeva con maggior sorpresa che dispiacere, che tutti i suoi consigli segreti venivano immediatamente comunicati all'Arcivescovo, il quale agiva nella lodevole persuasione, che qualunque passo del governo civile può aver qualche connessione con la gloria di Dio o coll'interesse della vera religione. I Monaci e la plebe di Callinico, oscura città sulle frontiere della Persia, eccitati dal proprio fanatismo, e da quello del loro Vescovo, avevan tumultuariamente abbruciato un luogo d'adunanza dei Valentiniani, ed una sinagoga di Ebrei. Il sedizioso Prelato fu condannato dal magistrato della provincia o a rifabbricare la sinagoga, o a risarcirne il danno; e questa moderata sentenza fu confermata dall'Imperatore, ma non dall'Arcivescovo di Milano[532]. Ei dettò una lettera di censura e di rimprovero, che più sarebbe stata forse a proposito, se l'Imperatore avesse ricevuto la circoncisione, e rinunciato alla fede del suo Battesimo. Ambrogio considera la tolleranza della religione Giudaica come una persecuzione della Cristiana; arditamente dichiara, ch'egli stesso ed ogni vero fedele avrebbe ardentemente disputato al Vescovo di Callinico il merito del fatto e la corona del martirio, e si duole ne' termini più patetici, che la esecuzione della sentenza sarebbe stata fatale alla fama ed alla salvazione di Teodosio. Poichè questo privato avvertimento non produsse immediatamente l'effetto, l'Arcivescovo pubblicamente dal pulpito[533] diresse il discorso all'Imperatore sul Trono[534], nè volle offrir l'oblazione dell'altare, finattantochè non ebbe ottenuto da Teodosio una solenne e positiva dichiarazione, che assicurasse l'impunità del Vescovo e dei Monaci di Callinico. Fu sincera la ritrattazione di Teodosio[535]; e nel tempo della sua residenza in Milano continuamente andò crescendo l'affetto, che avea verso d'Ambrogio per l'abitudine di una pia e famigliare conversazione.

Quando Ambrogio seppe la strage di Tessalonica, il suo spirito fu ripieno d'orrore e di angustia. Ritirossi alla campagna per soddisfare il proprio dolore, e per evitar la presenza di Teodosio. Ma siccome l'Arcivescovo era persuaso, che un timido silenzio lo avrebbe renduto complice del misfatto, rappresentò in una privata lettera l'enormità del delitto, che non potea cancellarsi che mediante le lacrime della penitenza. L'Episcopal vigore d'Ambrogio fu temperato dalla prudenza, e si contentò d'indicargli[536] una specie di scomunica indiretta, assicurandolo, che era stato avvertito in visione di non offerire il sacrifizio in nome o in presenza di Teodosio; ed avvisandolo, che si limitasse all'uso delle preghiere, senz'ardire d'accostarsi all'altare di Cristo, o di ricevere la santa Eucarestia con quelle mani che erano tuttavia contaminate dal sangue di un innocente popolo. Era l'Imperatore profondamente agitato dai propri rimproveri e da quelli del suo padre spirituale; e dopo d'avere pianto le dannose ed irreparabili conseguenze del suo precipitoso furore, si dispose a fare, giusta l'usata forma, le sue devozioni nella Chiesa maggiore di Milano. Fu egli arrestato nel vestibolo dall'Arcivescovo, che col tuono e col linguaggio di un Ambasciatore del Cielo, dichiarò al suo Sovrano, che la contrizione privata non era sufficiente a purgare un delitto pubblico, o a soddisfar la giustizia dell'offesa Divinità. Teodosio umilmente rappresentò, che se egli aveva commesso il delitto dell'omicidio, David, che era l'uomo secondo il cuore di Dio, era stato non solo reo d'omicidio, ma ancor d'adulterio. «Tu hai imitato Davide nel delitto, imitalo dunque nella penitenza»: tale fu la risposta dell'inflessibile Ambrogio. Si accettarono le rigorose condizioni del perdono e della pace; ed è riportata la pubblica penitenza dell'Imperator Teodosio come uno dei più onorevoli avvenimenti negli annali della Chiesa. Secondo le regole più moderate della disciplina ecclesiastica, ch'era in vigore nel quarto secolo, s'espiava il delitto d'omicidio con la penitenza di vent'anni[537]; e siccome nel corso della vita umana era impossibile di purgare il moltiplice reato della strage di Tessalonica, il delinquente avrebbe dovuto escludersi dalla santa comunione fino all'ora della sua morte. Ma l'Arcivescovo, consultando le massime di una religiosa politica, accordò qualche indulgenza al grado dell'illustre penitente, che umiliò fino alla polvere la sublimità del diadema, e potè ammettersi la pubblica edificazione come un forte motivo per abbreviar la durata della sua pena. Era abbastanza, che l'Imperator dei Romani, spogliato delle insegne Reali, comparisse nella positura di dolente e di supplichevole, e che in mezzo alla Chiesa di Milano umilmente chiedesse, con singhiozzi e con lacrime, il perdono delle sue colpe[538]. In questa cura spirituale, Ambrogio impiegò i diversi metodi della dolcezza e della severità. Dopo una dilazione di circa otto mesi, fu restituita a Teodosio la comunion dei fedeli; e l'editto, che frappone un salutevole spazio di trenta giorni fra la sentenza e l'esecuzione di essa, può riguardarsi come il degno frutto della sua penitenza[539]. I posteri hanno applaudito alla virtuosa fermezza dell'Arcivescovo, e l'esempio di Teodosio può servire a provare la vantaggiosa influenza di quei principj, che possono sforzare un Monarca, superiore ai timori delle pene umane, a rispettare le leggi e i ministri d'un Giudice invisibile. «Un Principe (dice Montesquieu) sul quale hanno forza le speranze ed i timori della religione, si può paragonare ad un leone, docile soltanto alla voce ed alla mano del suo custode»[540]. I moti dunque di una reale fiera dipenderanno e dall'inclinazione e dall'interesse dell'uomo, che ha acquistato una sì pericolosa autorità sopra di essa, ed il sacerdote, che ha nelle mani la coscienza di un Re, può accenderne o moderarne le ardenti passioni. Il medesimo Ambrogio ha sostenuto la causa dell'umanità e quella della persecuzione con ugual energia e con uguale successo.

A. 388-391

Dopo la disfatta e la morte del Tiranno della Gallia, il Mondo Romano restò in possesso di Teodosio. Dalla scelta di Graziano ei traeva l'onorevol suo diritto alle province dell'Oriente: egli aveva acquistato l'Occidente, per mezzo della vittoria, ed i tre anni, che passò nell'Italia, furono utilmente impiegati a ristabilire l'autorità delle leggi, ed a corregger gli abusi, che erano impunemente prevalsi durante l'usurpazione di Massimo e la minorità di Valentiniano. Il nome di questo era inserito regolarmente nei pubblici atti; ma sembrava, che la tenera età e la dubbiosa fede del figliuolo di Giustina esigessero la prudente cura di un custode Ortodosso; e l'ingegnosa ambizione di Teodosio avrebbe potuto escludere l'infelice giovane senza contesa e quasi senza una parola, dall'amministrazione, ed anche dall'eredità dell'Impero. Se Teodosio avesse consultato le rigide massime dell'interesse e della politica, la sua condotta sarebbe stata giustificata dai suoi amici; ma la generosità del suo contegno in questa memoranda occasione ha vinto anche l'applauso dei suoi più inveterati nemici. Ei collocò Valentiniano sul trono di Milano, e senza stipulare alcun presente o futuro vantaggio, gli restituì l'assoluto dominio di tutte le Province, delle quali era stato spogliato dalle armi di Massimo. Alla restituzione dell'ampio suo patrimonio, Teodosio aggiunse il libero e generoso dono dei paesi oltre le Alpi, che il suo fortunato valore avea ricuperati dall'assassino di Graziano[541]. Contento della gloria che aveva acquistato nel vendicare la morte del suo benefattore e nel liberar l'Occidente dal giogo della tirannide, l'Imperatore tornò da Milano a Costantinopoli; e pacifico possessor dell'Oriente insensibilmente ricadde negli antichi suoi abiti di lusso e d'indolenza. Teodosio adempì la sua obbligazione verso il fratello di Valentiniano, compartì la coniugal sua tenerezza alla sorella di esso; e la posterità, che ammira la pura e singolar gloria dell'elevazione di lui, dee fare applauso all'incomparabil sua generosità nell'uso della vittoria.

A. 391

L'Imperatrice Giustina non sopravvisse lungamente al suo ritorno nell'Italia, e quantunque vedesse il trionfo di Teodosio, non le fu permesso d'influire sul governo del proprio figlio[542]. Il pernicioso attacco alla setta Arriana, che Valentiniano aveva imbevuto dall'esempio e dalle istruzioni di lei, fu presto tolto via dalle lezioni di una educazione più ortodossa. Il crescente suo zelo per la fede Nicena, e la sua filiale riverenza pel carattere e l'autorità d'Ambrogio, dispose i Cattolici a formare la più favorevol opinione delle virtù del giovane Imperatore d'Occidente[543]. Applaudivano essi alla sua castità e temperanza, al disprezzo che aveva del piacere, all'applicazione per gli affari, ed alla tenera affezione di lui per le due sue sorelle, le quali però non poterono indurre l'imparzial giustizia di lui a pronunziare un'ingiusta sentenza contro l'infimo dei suoi sudditi. Ma quest'amabile giovane, prima di finire il ventesim'anno della sua età, fu oppresso da un tradimento domestico, e l'impero fu involto di nuovo negli orrori di una guerra civile. Arbogaste[544], valente soldato della nazione dei Franchi, teneva il secondo posto nella milizia di Graziano. Dopo la morte del suo Signore s'unì allo stendardo di Teodosio; contribuì col suo valore e colla sua condotta militare alla distruzion del tiranno, e fu dichiarato, dopo la vittoria, Generale dell'esercito della Gallia. Il real suo merito e l'apparente sua fedeltà avean guadagnato la confidenza del Principe e del popolo; l'illimitata sua liberalità corruppe i soldati; e mentre generalmente stimavasi come la colonna dello Stato, l'ardito ed astuto Barbaro s'era segretamente determinato o a regolare o a rovinar l'Impero d'Occidente. Si distribuirono i più importanti posti dell'esercito tra i Franchi; furon promosse le creature d'Arbogaste a tutti gli onori ed uffizi del governo civile; il progresso della cospirazione allontanò dalla presenza di Valentiniano qualunque servo fedele; e l'Imperatore, senza forza e senza cognizione, cadde appoco appoco nella precaria dipendente condizione di schiavo[545]. Lo sdegno, che egli manifestò, quantunque potesse nascere solo dall'impaziente e precipitosa indole giovanile, può però ingenuamente anche attribuirsi allo spirito generoso di un Principe, che sentiva di non essere indegno di regnare. Secretamente invitò l'Arcivescovo di Milano ad intraprendere l'uffizio di mediatore, come guarante della sua sincerità, e custode della sua salute. Pensò d'informare l'Imperatore d'Oriente dell'infelice situazione, in cui si trovava; e dichiarò, che, se Teodosio non avesse potuto marciar prontamente in suo soccorso, egli avrebbe dovuto tentare di fuggir dal palazzo, o piuttosto dalla prigione di Vienna in Gallia, dove imprudentemente avea stabilito la sua residenza in mezzo alla nemica fazione. Ma le speranze d'aiuto eran lontane e dubbiose; e siccome ogni giorno somministrava qualche nuova provocazione, l'Imperatore, senza forza o consiglio, con troppa fretta risolvè di arrischiare un'immediata contesa col potente suo Generale. Ricevè Arbogaste sul trono, e mentre il Conte s'accostava con qualche apparenza di rispetto, gli diede un foglio, che indicava la dimissione da tutti i suoi impieghi. «La mia autorità» (rispose Arbogaste con insultante freddezza) «non dipende dal sorriso o dal sopracciglio di un Monarca»; e con disprezzo gettò il foglio sul suolo. L'irato Monarca s'attaccò alla spada di una delle guardie, che si sforzò di trarre dal fodero; e non fu senza qualche sorta di violenza, che gli fu impedito di usar quell'arme fatale contro il suo nemico o se stesso. Pochi giorni dopo tale straordinario contrasto, in cui si era manifestato il risentimento e la debolezza dell'infelice Valentiniano, si trovò strangolato nel suo quartiere; e s'impiegò qualche cura per cuoprire il manifesto delitto di Arbogaste, e persuadere il Mondo, che la morte del giovane Imperatore era stato il volontario effetto della propria disperazione[546]. Il corpo di lui fu con decente pompa condotto a sepellirsi in Milano, e l'Arcivescovo recitò un'orazione funebre, per rammentarne le virtù e le sventure[547]. In quest'occasione la umanità d'Ambrogio l'indusse a sconvolgere in singolar modo il suo sistema teologico, ed a confortare le piangenti sorelle di Valentiniano, con assicurarle che il pio lor fratello, quantunque non avesse ricevuto il sacramento del Battesimo, era stato introdotto senza difficoltà nelle sedi della beatitudine eterna[548].

La prudenza d'Arbogaste aveva preparato il successo dei suoi ambiziosi disegni; ed i Provinciali, nei petti dei quali era già estinto qualunque sentimento di patriottismo o di fedeltà, con mansueta rassegnazione aspettavano l'ignoto Signore, che la scelta di un Franco avrebbe posto sul trono Imperiale. Ma qualche residuo di orgoglio e di pregiudizio tuttavia s'opponeva all'elevazione d'Arbogaste medesimo; ed il giudizioso Barbaro stimò consiglio migliore quello di regnare sotto il nome di qualche dipendente Romano. Ei diede la porpora al Retore Eugenio[549], ch'esso aveva già promosso dal posto di suo Segretario domestico, a quello di Maestro degli Uffizi. Nel corso dei privati e dei pubblici impieghi, il Conte aveva sempre approvato l'attaccamento e l'abilità di Eugenio; la sua dottrina ed eloquenza, sostenuta dalla gravità dei costumi, gli conciliava la stima del popolo; e la ripugnanza, con cui parve salire sul trono, può inspirare una favorevole prevenzione della virtù e moderazione di esso. Furono immediatamente spediti alla Corte di Teodosio gli Ambasciatori del nuovo Imperatore, per fargli sapere con affettata mestizia l'infelice accidente della morte di Valentiniano, e per chiedere, senza rammentare il nome d'Arbogaste, che il Monarca Orientale abbracciasse per suo legittimo collega il rispettabile cittadino, che aveva ottenuto l'unanime suffragio degli eserciti e delle Province occidentali[550]. Teodosio fu giustamente irritato, che la perfidia d'un Barbaro avesse in un momento distrutto le fatiche ed il frutto delle sue precedenti vittorie; e fu eccitato dalle lacrime dell'amata sua moglie[551] a vendicare la morte dello sfortunato fratello di lei, ed a sostenere un'altra volta con le armi la violata Maestà del Trono. Ma siccome una seconda conquista dell'Occidente era un'impresa pericolosa e difficile, rimandò con splendidi doni e con ambigua risposta gli Ambasciatori di Eugenio, e furono impiegati quasi due anni nei preparativi della guerra civile.

Avanti di appigliarsi ad alcun decisivo partito, il pietoso Imperatore bramava di sapere la volontà del Cielo, e poichè il progresso del Cristianesimo aveva fatto tacere gli oracoli di Delfo e di Dodona, consultò un Monaco Egiziano il quale secondo l'opinione d'allora, godeva del dono dei miracoli e della cognizion del futuro. Eutropio, uno degli Eunuchi favoriti del palazzo di Costantinopoli, s'imbarcò per Alessandria, di dove navigò su pel Nilo fino alla città di Licopoli o dei Lupi, situata nella remota provincia della Tebaide[552]. Nelle vicinanze di quella città e sulla cima di un alto monte, il Santo Giovanni[553], aveva fabbricato con le sue proprie mani un'umil cella, nella quale era dimorato più di cinquant'anni senz'aprire la porta, senza veder la faccia di alcuna donna, e senza gustar cibo, che si fosse preparato per mezzo del fuoco o qualche arte umana. Egli consumava cinque giorni della settimana in preghiere e meditazioni; ma il sabbato e la domenica ordinariamente apriva una piccola finestra, e dava udienza alla folla dei supplicanti, che continuamente vi concorrevano da tutte le parti del Mondo. S'accostò alla finestra in rispettoso portamento l'Eunuco di Teodosio, propose le sue dimande intorno all'evento della guerra civile, ed in breve tornò con un favorevole oracolo, che animò il coraggio dell'Imperatore con la sicurezza d'una sanguinosa ma infallibil vittoria[554]. Fu preceduto l'adempimento della predizione da tutti quei mezzi, che somministrar poteva l'umana prudenza. Si scelse l'industria dei due generali, Stilicone e Timasio, per compire il numero, e ristabilir la disciplina delle legioni Romane. Marciarono le formidabili truppe dei Barbari, sotto le insegne dei nativi lor Capitani. Erano arrolati al servizio del medesimo Principe l'Ibero, l'Arabo, e il Goto, che si miravan l'un l'altro con vicendevol sorpresa; ed il famoso Alarico acquistò nella scuola di Teodosio quella cognizione dell'arte della guerra, che poi esercitò con tanta fatalità per la distruzione di Roma[555].

L'Imperatore Occidentale, o per dir meglio il suo Generale Arbogaste era stato istruito dalla mala condotta e dalla disgrazia di Massimo di quanto poteva riuscir pericoloso l'estender la linea di difesa contro un abil nemico, il quale era in libertà di spignere o di sospendere, di ristringere o di moltiplicare i suoi diversi modi d'attacco[556]. Arbogaste piantò il suo quartiere nei confini dell'Italia; lasciò senza resistenza occupare alle truppe di Teodosio le province della Pannonia fino a piè delle alpi Giulie; ed anche i passaggi delle montagne negligentemente, o forse ad arte furono abbandonati all'audace invasore. Questi discese dai monti, ed osservò con qualche sorpresa il formidabile campo dei Galli e dei Germani, che occupava con le armi e con le tende l'aperta campagna, che si estende fino alle mura d'Aquileia, ed alle rive del Frigido[557] o del fiume freddo[558]. Questo angusto teatro della guerra, circoscritto dalle Alpi e dall'Adriatico, non dava molto luogo alle operazioni della militare perizia; lo spirito d'Arbogaste avrebbe sdegnato un perdono; la sua colpa toglieva ogni speranza di negoziazione; e Teodosio era impaziente di soddisfare la propria gloria e vendetta col punir gli assassini di Valentiniano. Senza considerare gli ostacoli, che la natura e l'arte opponevano ai suoi sforzi, l'Imperatore d'Oriente attaccò subito le fortificazioni dei rivali, assegnò ai Goti il posto d'un onorevol pericolo, e nutriva un segreto desiderio, che la sanguinosa battaglia diminuisse l'orgoglio ed il numero dei vincitori. Diecimila di quegli ausiliari, e Bacurio, Generale degl'Iberi, valorosamente restaron morti sul campo. Ma il loro sangue non servì a comprar la vittoria: i Galli mantennero il vantaggio che avevano, e la sopravvegnente notte protesse la disordinata fuga o ritirata delle truppe di Teodosio. L'Imperatore si riparò sui monti vicini, dove passò una trista notte senza dormire, senza provvisioni, e senza speranze[559]; eccettuata quella forte sicurezza, che nelle circostanze più disperate un animo indipendente può trarre dal disprezzo della fortuna e della vita. Si celebrava il trionfo d'Eugenio dall'insolente e dissoluta gioia del suo campo, mentre l'attivo e vigilante Arbogaste segretamente distaccava un corpo considerabil di truppe ad oggetto d'occupare i passi dei monti, e circondare la retroguardia dell'esercito Orientale. Allo spuntare del giorno, Teodosio vide la grandezza e l'estremità del pericolo: ma ne furon tosto dissipati i timori da un amichevol messaggio, spedito dai condottieri di quelle truppe, che gli espose l'inclinazione che avevano d'abbandonare lo stendardo del Tiranno. Furono senza esitare accordati gli onorevoli e lucrosi premi che essi richiesero in prezzo del lor tradimento; e siccome non si poteva facilmente aver foglio ed inchiostro, l'Imperatore sottoscrisse sul suo medesimo libretto de' ricordi la ratifica del trattato. Si ravvivò da quest'opportuno rinforzo lo spirito dei suoi soldati; e con nuovo coraggio marciarono a sorprendere il campo di un Tiranno, i primi Uffiziali del quale pareva che diffidassero o della giustizia o del buon successo delle sue armi. Nel calor della pugna, ad un tratto, come suole spesso accadere fra le alpi, si suscitò dall'Oriente una furiosa tempesta. L'esercito di Teodosio era difeso per la sua situazione dall'impetuosità del vento, che gettò un nuvol di polvere in faccia ai nemici, disordinò le loro file, fece cadere loro i dardi di mano, e rispinse o diresse altrove gli inefficaci lor giavellotti. Si trasse abilmente profitto di quest'accidental vantaggio: la violenza della tempesta fu magnificata dai superstiziosi terrori dei Galli, i quali cederono senza vergogna all'invisibil potere del Cielo, che sembrava militare dalla parte del pio Imperatore[560]. La sua vittoria fu intera; ed i suoi rivali non si distinsero nella morte che per la differenza dei loro caratteri. Il Rettore Eugenio, che aveva quasi acquistato il dominio del Mondo, si ridusse ad implorar la misericordia del vincitore; e gli impazienti soldati, nel tempo che ei stava prostrato ai piè di Teodosio, gli tagliaron la testa. Arbogaste, dopo aver perduto una battaglia, in cui adempiuto aveva i doveri di soldato e di generale, andò vagando più giorni fra le montagne. Ma quando restò convinto, che il caso era disperato, ed impraticabile la fuga, l'intrepido Barbaro imitò l'esempio degli antichi Romani, e rivolse contro il proprio petto la spada. Fu deciso il destino dell'Impero in un angusto canto dell'Italia; ed il legittimo successore della casa di Valentiniano abbracciò l'Arcivescovo di Milano, e ricevè graziosamente la sommissione delle Province occidentali. Erano queste restate involte nella colpa della ribellione; mentre l'inflessibil coraggio dell'unico Ambrogio avea resistito alle pretensioni d'una felice usurpazione. L'Arcivescovo con una viril libertà, che avrebbe potuto esser fatale ad ogni altro suddito, rigettò i doni d'Eugenio, evitò la sua corrispondenza, e si ritirò da Milano per fuggire l'odiosa presenza d'un Tiranno, di cui predisse in ambiguo e discreto linguaggio la perdita. Fu applaudito il merito d'Ambrogio dal vincitore, che si assicurò l'affetto del popolo mediante la sua union con la Chiesa: e s'attribuisce la clemenza di Teodosio alla pietosa intercessione dell'Arcivescovo di Milano[561].

Dopo la disfatta d'Eugenio, tutti gli abitanti del Mondo Romano di buona voglia riconobbero il merito non meno che l'autorità di Teodosio. L'esperienza della sua condotta passata favoriva le più lusinghiere speranze del futuro suo regno; e l'età dell'Imperatore, che non passava cinquant'anni, pareva che allargasse il prospetto della pubblica felicità. La sua morte, che seguì non più di quattro mesi dopo l'esposta vittoria, fu riguardata dal popolo come un evento non preveduto e fatale, che in un momento distruggeva le speranze della nascente generazione. Ma l'amore del comodo e del lusso aveva segretamente nutrito i principj della malattia[562]. La forza di Teodosio non fu capace di sostenere il subitaneo, e violento passaggio dal palazzo al campo; ed i sintomi di una idropisia, che andavan sempre crescendo, annunziarono la pronta fine dell'Imperatore. L'opinione e forse l'interesse del pubblico avea confermato la divisione degli Imperi d'Oriente e d'Occidente; e i due reali giovani, Arcadio ed Onorio, che avevano già ottenuto dalla tenerezza del genitore il titolo di Augusti, furon destinati ad occupare i troni di Costantinopoli e di Roma. Non fu permesso a questi Principi di esser partecipi del pericolo e della gloria della guerra civile[563], ma tosto che Teodosio ebbe trionfato degli indegni suoi rivali, chiamò Onorio, suo figlio minore, a godere i frutti della vittoria, ed a ricever lo scettro dell'Occidente dalle mani dello spirante suo padre. Si celebrò l'arrivo d'Onorio a Milano con una splendida rappresentazione di giuochi nel Circo, e l'Imperatore, quantunque oppresso dal peso del male, contribuì con la sua presenza alla pubblica gioia. Ma si esaurì la forza, che gli restava, dai penosi sforzi che fece per assistere agli spettacoli della mattina. Onorio, nel rimanente del giorno, tenne il luogo del padre; ed il Gran Teodosio spirò nella notte seguente. Nonostante le recenti animosità d'una guerra civile, la sua morte fu generalmente compianta. I Barbari ch'egli avea vinti, e gli Ecclesiastici, dai quali era stato vinto egli stesso, celebrarono con alto e sincero applauso le qualità del morto Imperatore, che più sembravano valutabili ai lor occhi. I Romani si spaventarono all'imminente pericolo d'una debole e divisa amministrazione, ed ogni disgraziato accidente degli infelici regni d'Arcadio e d'Onorio ravvivò la memoria della loro irreparabil perdita.

Nella fedel pittura delle virtù di Teodosio, non si sono dissimulate le sue imperfezioni, l'atto di crudeltà e l'abitudine dell'indolenza, che oscurarono la gloria d'uno dei più grandi fra i Principi Romani. Un istorico, perpetuo nemico della fama di Teodosio, ha esagerato i suoi vizi ed i lor perniciosi effetti; egli audacemente asserisce, che i sudditi di ogni ceto imitavano gli effemminati costumi del loro Sovrano, che ogni specie di corruzione macchiava il corso della vita sì pubblica che privata; e che i deboli freni dell'ordine e della decenza non eran sufficienti ad impedire il progresso di quello spirito depravato, che sacrifica senza rossore la considerazione del dovere e dell'utile alla vile soddisfazione dell'ozio e dell'appetito[564]. Le querele degli Scrittori contemporanei, che deplorano l'accrescimento del lusso, e la depravazione dei costumi, ordinariamente indicano la particolare loro indole e situazione. Vi sono pochi osservatori, che abbiano una chiara ed estesa veduta delle rivoluzioni di una società; e che sieno capaci di scuoprire i tenui e segreti motivi d'agire, che spingono ad un'istessa uniforme direzione le capricciose e cieche passioni d'una moltitudine d'individui. Se può affermarsi con qualche grado di verità, che la lussuria dei Romani fosse più vergognosa o dissoluta nel regno di Teodosio, che al tempo di Costantino, o forse d'Augusto, non può attribuirsi tale alterazione ad alcuna vantaggiosa circostanza, che avesse accresciuto la copia delle nazionali ricchezze. Un lungo periodo di calamità o di decadenza dovè opporsi alla industria, e diminuir l'opulenza del popolo; ed il profuso lusso deve essere stato l'effetto di quella indolente disperazione, che gode il bene presente, e scaccia i pensieri del futuro. L'incerta condizione del loro stato disanimava i sudditi di Teodosio dall'impegnarsi in quelle utili e laboriose imprese, che richiedono una spesa immediata, e promettono un lento e lontano vantaggio. I frequenti esempi di desolazione e rovina li tentavano a non risparmiare gli avanzi di un patrimonio, che ad ogni momento potea divenire la preda dei rapaci Goti. E la pazza prodigalità, che prevale nella confusione d'un naufragio o d'un assedio, può servire a spiegare il progresso del lusso fra le disgrazie ed i terrori d'una cadente nazione.

Il lusso effemminato, che infestava i costumi delle Corti e delle città, aveva instillato un veleno distruttivo e segreto nei corpi delle legioni; e si è notata la degenerazione di esse dalla penna d'uno scrittore militare, che aveva diligentemente studiato i genuini ed antichi principj della disciplina Romana. È una giusta ed importante osservazione di Vegezio, che la infanteria fu invariabilmente coperta con armi difensive, dalla fondazione della città fino al regno dell'Imperator Graziano. Il rilassamento della disciplina e la mancanza d'esercizio rendè i soldati meno atti e meno disposti a sostener le fatiche militari: si dolevano essi del peso dell'armatura, che di rado portavano; ed ottennero in seguito la permissione di deporre le corazze e gli elmetti. I pesanti dardi dei loro maggiori, la spada corta, ed il formidabile pilo, che avea soggiogato il Mondo, caddero insensibilmente dalle lor deboli destre. Siccome non è compatibile l'uso dello scudo con quello dell'arco, essi marciavano mal volentieri nel campo; condannati a soffrire o il dolore delle ferite o l'ignominia della fuga, erano sempre disposti a preferire l'alternativa più vergognosa. La cavalleria dei Goti, degli Unni e degli Alani aveva sentito il benefizio, ed adottato l'uso delle armi difensive; ed essendo eccellenti nel maneggiare le armi da scagliare, facilmente opprimevano le tremanti e nude legioni, che avevan le teste ed i petti esposti senza difesa alle frecce dei Barbari. La perdita degli eserciti, la distruzione delle città, ed il disonore del nome Romano indussero dipoi inutilmente i successori di Graziano a ristabilir l'uso degli elmi e delle corazze nell'infanteria. Gli snervati soldati abbandonarono la propria e la pubblica difesa; e la pusillanime loro indolenza può risguardarsi come l'immediata cagione della caduta dell'Impero[565].

CAPITOLO XXVIII.

Distruzione finale del Paganesimo. Introduzione del culto dei Santi, e delle reliquie fra i Cristiani.

La rovina del Paganesimo, seguita ai tempi di Teodosio, è forse l'unico esempio dell'intiero annientamento di un'antica e popolare superstizione; e può meritare per conseguenza di esser considerata come un evento singolare nell'istoria dello spirito umano. I Cristiani, e specialmente il Clero, avevan sofferto con impazienza le prudenti dilazioni di Costantino, e l'ugual tolleranza di Valentiniano il Vecchio; nè potevan creder perfetta o sicura la lor conquista, finattantochè fosse permesso agli avversari di esistere. Impiegossi l'autorità che Ambrogio ed i suoi fratelli aveano acquistato sopra la gioventù di Graziano e la pietà di Teodosio, per inspirare massime di persecuzione nei petti degl'Imperiali proseliti. Si stabilirono due speciosi principj di religiosa giurisprudenza, dai quali deducevasi un'immediata e rigorosa conseguenza contro i sudditi dell'Impero, che continuavano ad osservare le ceremonie dei loro maggiori: vale a dire, che il Magistrato in qualche modo si fa reo dei delitti che trascura di proibire o di gastigare, e che il culto idolatrico delle favolose Divinità e dei veri demonj è il delitto più abominevole contro la suprema Maestà del Creatore. S'applicavano senza riflessione, e forse erroneamente dal Clero le leggi di Mosè, e gli esempi della Storia Giudaica[566] all'universale e dolce regno del Cristianesimo[567]. Fu eccitato lo zelo degl'Imperatori a vendicare il proprio onore e quello di Dio; e circa sessant'anni dopo la conversione di Costantino, si rovesciarono i templi del Mondo Romano.

Dai giorni di Numa fino al regno di Graziano, i Romani mantennero la regolar successione dei vari collegi dell'Ordine Sacerdotale[568]. Quindici Pontefici esercitavano la suprema loro giurisdizione su tutte le persone e le cose dedicate al servizio degli Dei, e le varie questioni, che continuamente nascevano in un sistema tradizionale e mal collegato, eran sottoposte al giudizio del sacro lor Tribunale. Quindici gravi ed eruditi Auguri osservavano l'aspetto dei Cieli, e determinavano le azioni degli Eroi, secondo il volo degli uccelli. Quindici Custodi dei libri Sibillini (che dal loro numero prendevano il nome di Quindecimviri) alle occasioni consultavan l'istoria del futuro, e per quanto sembra, delle cose contingenti. Sei Vestali consacravano la loro verginità alla guardia del fuoco sacro e degli ignoti pegni della durata di Roma, i quali a nessun mortale era stato permesso di rimirare impunemente[569]. Sette Epuloni preparavano la mensa degli Dei, dirigevano la solenne processione, e regolavan le cerimonie dell'annua solennità. I tre Flamini di Giove, di Marte e di Quirino si risguardavano come i particolari ministri delle tre più potenti Divinità, che vigilavano sul destino di Roma e dell'Universo. Il Re dei sacrifizi rappresentava la persona di Numa e dei suoi successori nelle religiose funzioni, che non si potevano eseguire se non da mani Reali. Le confraternite de' Salj, dei Lupercali ec. praticavano tali riti, che avrebbero eccitato riso e disprezzo in qualunque persona ragionevole, con la viva fiducia di attirarsi il favore degli Dei immortali. La autorità, che i Sacerdoti Romani avevano anticamente avuto nei consigli della Repubblica, fu appoco appoco abolita per lo stabilimento della Monarchia, e per la mutazione della sede Imperiale. Ma era tuttavia protetta dalle leggi e dai costumi del paese la dignità del sacro loro carattere; e sempre continuavano, specialmente il collegio dei Pontefici, ad esercitare nella capitale, ed alle volte nelle Province, i diritti della loro ecclesiastica e civile Giurisdizione. Le loro vesti di porpora, i cocchi di parata, ed i sontuosi loro trattamenti attraevano l'ammirazione del popolo; e dalle sacre terre non meno che dal pubblico erario tiravano un ampio stipendio, che abbondantemente serviva a sostenere lo splendore del Sacerdozio e tutte le spese del Culto religioso dello Stato. Siccome il servizio dell'altare non era incompatibile col comando degli eserciti, i Romani, dopo i lor consolati e trionfi, aspiravano ai posti di Pontefici o di Auguri; gli impieghi di Cicerone[570] e di Pompeo nel quarto secolo erano occupati dai membri più illustri del Senato; e la dignità della lor nascita rifletteva uno splendore più grande sul carattere Sacerdotale. I quindici Sacerdoti, che componevano il collegio dei Pontefici, avevano un grado più distinto come compagni del loro Sovrano; e gl'Imperatori Cristiani condiscesero ad accettare la veste e le insegne proprie del Sommo Pontificato. Ma quando salì sul trono Graziano, più scrupoloso o più illuminato egli rigettò vigorosamente quei simboli profani[571], applicò all'uso dello Stato o della Chiesa le rendite de' Sacerdoti e delle Vestali, abolì gli onori e le immunità loro, e sciolse l'antica fabbrica della superstizione Romana, che era sostenuta dalle opinioni e dall'abitudine di undici secoli. Il Paganesimo era sempre la religione costitutiva del Senato. La sala o il tempio, in cui si adunava, era ornato dalla statua e dall'altare della Vittoria[572], che rappresentava una maestosa donna collocata sopra un globo con larghe vesti, con ali stese e con una corona di alloro in mano[573]. I Senatori solevan giurare sull'altar della Dea d'osservare le leggi dell'Imperatore e dell'Impero; ed una solenne offerta di vino e d'incenso era l'ordinario principio dello loro pubbliche deliberazioni[574]. La remozione di questo antico monumento era l'unica ingiuria, che Costanzo avea fatto alla superstizione de' Romani. L'altare della Vittoria fu ristabilito da Giuliano, da Valentiniano tollerato, ed un'altra volta bandito dal Senato per lo zelo di Graziano[575]. Pure l'Imperatore avea risparmiato le statue degli Dei, che erano esposte alla pubblica venerazione: tuttavia sussistevano quattrocento ventiquattro tempj, o cappelle per soddisfare la devozione del popolo; ed in ogni quartiere di Roma era offesa la delicatezza dei Cristiani dal fumo dei sacrifizi idolatrici[576].

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Ma i Cristiani facevano la minor parte del Senato di Roma[577]; e non poterono esprimere che con la loro assenza la disapprovazione dei legittimi, quantunque profani, atti del maggior partito Pagano. In quell'assemblea le morte ceneri della libertà per un momento si ravvivarono, ed infiammate furono dal soffio del fanatismo. Si mandarono, l'una dopo l'altra, quattro rispettabili Deputazioni alla Corte Imperiale[578] per rappresentar le querele del Sacerdozio e del Senato, e per sollecitar la restaurazione dell'altare della Vittoria. S'affidò la condotta di quest'importante affare all'eloquente Simmaco[579], ricco e nobile Senatore, che univa il sacro carattere di Pontefice e d'Augure con le dignità civili di Proconsole dell'Affrica e di Prefetto di Roma. Era il petto di Simmaco animato dal più ardente zelo per la causa del Paganesimo spirante; ed i religiosi di lui antagonisti compiangevano in esso l'abuso dall'ingegno e l'inefficacia delle morali virtù[580]. L'oratore, la domanda del quale all'Imperatore Valentiniano tuttavia sussiste, sapeva le difficoltà ed il pericolo dell'uffizio che s'era addossato. Egli evitò con cautela ogni argomento, che potesse apparir relativo alla religione del suo Sovrano; umilmente dichiarò, che le uniche sue armi eran le preghiere e le suppliche; e trasse le sue ragioni artificiosamente dalle scuole della rettorica piuttosto che da quelle della filosofia. Simmaco procurò di sedurre l'immagine del giovane Principe con lo spiegar gli attributi della Dea della Vittoria; egli insinuò che la confiscazione delle rendite dedicate al servizio degli Dei, era un ordine indegno del generoso e disinteressato carattere dell'Imperatore; e sostenne, che i sacrifizi Romani sarebbero stati privi della forza ed energia loro, se non si fossero più celebrati a spese ed in nome della Repubblica. Anche lo scetticismo stesso potè somministrare un'apologia alla superstizione. Il grande ed incomprensibil segreto dell'universo, egli diceva, elude le ricerche dell'uomo. Dove non può istruire la ragione, si può permettere che guidi l'uso; e sembra che ogni nazione segua i dettami della prudenza, mediante un fedele attaccamento a quei riti ed a quelle opinioni, che hanno ricevuto l'approvazione dei secoli. Se quei secoli si son veduti coronati di gloria e di prosperità, se il devoto popolo ha frequentemente ottenuto i benefizi, che ha domandato agli altari degli Dei, dee sembrare sempre più prudente consiglio quello di persistere nella medesima pratica salutare, senza correr gl'ignoti rischi, che posson seguire una precipitosa innovazione. Fu applicato il testimonio dell'antichità e del successo con singolar vantaggio alla Religione di Numa; e Roma stessa, qual celeste Genio, che presedeva al destino della città, fu introdotta dall'Oratore a difendere la propria causa avanti al Tribunale degli Imperatori. «Egregi Principi, (dice la venerabil Matrona) Padri della patria, abbiate compassione della mia età, che finora è passata in un continuo corso di opere pie. Poichè non ne son io malcontenta, permettetemi di continuar nella pratica degli antichi miei riti. Poichè son nata libera, concedetemi di godere i miei domestici instituti. Questa religione ha ridotto il Mondo sotto alle mie leggi. Questi riti hanno rispinto Annibale dalla città, ed i Galli dal Campidoglio. Era la mia canuta chioma riserbata a tal intollerabil disgrazia? Ignoro il nuovo sistema, che mi si vuol fare adottare; ma son bene sicura, che la correzione della vecchiezza è sempre un uffizio ingrato ed ignominioso[581] ». I timori del popolo supplivano a quel che la discrezione dell'oratore avea soppresso; e le calamità che affliggevano e minacciavano il decadente Impero, venivano dai Pagani concordemente imputate alla nuova religione di Cristo e di Costantino.

Ma le speranze di Simmaco restaron più volte deluse dalla ferma e destra opposizione dell'Arcivescovo di Milano, che fortificò gli Imperatori contro la fallace eloquenza dell'Avvocato di Roma. In questa controversia, Ambrogio condiscende a parlar da filosofo, e a domandare con qualche disprezzo, perchè si credesse necessario d'introdurre un'immaginaria ed invisibile potestà, come causa di quelle vittorie, che sufficientemente si poteano spiegare col valore e con la disciplina delle legioni? Giustamente deride l'assurda reverenza per l'antichità, che non poteva produrre altro effetto che quello di scoraggiare i progressi delle arti, e far ricadere il genere umano nella sua originaria barbarie. Quindi a grado a grado innalzandosi ad un più sublime e teologico tuono, pronunzia che il solo Cristianesimo contiene la dottrina di verità e di salute, e che ogni sorta di politeismo conduce i suoi delusi seguaci per la via dell'errore all'abisso della eterna perdizione[582]. Argomenti di tal sorta, suggeriti da un Vescovo favorito, avean forza d'impedire la restaurazione dell'altare della Vittoria; ma i medesimi argomenti cadevano con molto maggior energia ed effetto dalla bocca d'un conquistatore, e gli Dei dell'antichità furon tratti in trionfo dietro al cocchio di Teodosio[583]. In una piena adunanza del Senato, l'Imperatore, secondo le formalità della Repubblica, propose l'importante questione, se il culto di Giove, o quello di Cristo formar dovesse la Religione dei Romani. La libertà dei voti, che egli affettava di concedere, fu tolta dalle speranze e dai timori, che inspirava la sua presenza; e l'arbitrario esilio di Simmaco era una recente ammonizione, che poteva essere pericoloso l'opporsi ai desiderj del Monarca. Fattasi una regolar divisione del Senato, Giove restò condannato e degradato pel parere d'una pluralità di voti; ed è piuttosto sorprendente, che vi si trovassero alcuni membri tanto arditi da dichiarare, coi loro discorsi e suffragi, che essi eran sempre attaccati agli interessi d'una ripudiata Divinità[584]. La precipitosa conversione del Senato si deve attribuire a motivi o soprannaturali o sordidi, e molti di questi ripugnanti proseliti dimostrarono, ad ogni favorevole occasione, la segreta loro tendenza a gettar via la maschera dell'odiosa dissimulazione. Ma si confermarono essi appoco appoco nella nuova religione, a misura che la causa dell'antica diveniva più disperata; e cederono all'autorità dell'Imperatore, all'uso dei tempi, alle preghiere delle mogli e dei figli[585], che erano instigati e diretti dal Clero di Roma e dai Monaci dell'Oriente. L'esempio edificante della famiglia Anicia fu tosto imitato dal resto della nobiltà: i Bassi, i Paolini, i Gracchi abbracciarono la religion Cristiana; ed «i luminari del Mondo, la venerabile assemblea dei Catoni» (tali sono le ampollose espressioni di Prudenzio) «erano impazienti di spogliarsi degli ornamenti Pontificali, di gettar via la spoglia del vecchio serpente, di assumere le candide vesti della battesimale innocenza, e d'umiliare l'orgoglio dei Fasci Consolari avanti alle tombe dei Martiri[586] ». I cittadini, che sussistevano con la propria industria, e la plebe, che era sostenuta dalla pubblica liberalità, empivan le Chiese del Laterano e del Vaticano con una continua folla di devoti proseliti. I decreti del Senato, che condannavano il culto degli idoli, ratificati furono dal general consenso dei Romani[587]; s'oscurò lo splendore del Campidoglio; ed i tempj solitari furono abbandonati alla rovina e al disprezzo[588]. Roma si sottopose al giogo dell'evangelio; ed il suo esempio trasse le soggiogate Province che non avevano ancor perduta la reverenza per l'autorità ed il nome di Roma.

La filiale pietà degli Imperatori medesimi gli indusse a procedere con qualche cautela e tenerezza nella riforma dell'eterna città. Quegli assoluti Monarchi agirono con minor riguardo verso i pregiudizi dei Provinciali. Il pio lavoro, che dalla morte di Costanzo[589] era stato sospeso quasi venti anni, fu vigorosamente riassunto, e finalmente condotto a termine dallo zelo di Teodosio. Mentre questo bellicoso Principe combatteva ancora co' Goti non per la gloria, ma per la salvezza della Repubblica, s'arrischiò ad offendere una considerabile parte di sudditi con certi atti, che potevano forse assicurare la protezione del Cielo, ma che dovevano sembrar temerari ed inopportuni agli occhi dell'umana prudenza. Il buon successo dei suoi primi tentativi contro i Pagani diede coraggio al pio Imperatore di rinnovare ed invigorire gli editti di proscrizione: le medesime leggi che si erano avanti pubblicate nelle Province Orientali, furono applicate, dopo la morte di Massimo, a tutta l'estensione dell'Impero d'Occidente; ed ogni vittoria dell'ortodosso Teodosio contribuì al trionfo della Cristiana e Cattolica fede[590]. Egli attaccò la superstizione nella più vitale sua parte, col proibir l'uso dei sacrifizi, ch'ei dichiarò illeciti ed infami: e sebbene i termini de' suoi editti, più strettamente presi, condannassero l'empia curiosità, che esaminava le viscere delle vittime[591], ogni successiva spiegazione tendeva ad involgere nel medesimo delitto la general pratica d'immolare, che essenzialmente costituiva la religione dei Pagani. Siccome i tempj erano stati eretti a causa dei sacrifizi, era dovere d'un benefico Principe quello d'allontanare dai sudditi la pericolosa tentazione di trasgredire le leggi che avea stabilite. Fu data una spezial commissione a Cinegio, Prefetto del Pretorio d'Oriente, ed in seguito ai Conti Giovio e Gaudenzio, due riguardevoli Uffiziali nell'Occidente, in forza di cui fu ordinato loro di chiudere i tempj, di togliere o distrugger gl'istromenti d'idolatria, d'abolire i privilegi dei Sacerdoti, e di confiscare i patrimoni sacri a benefizio dell'Imperatore, della Chiesa o dell'esercito[592]. Qui avrebbe potuto aver termine la desolazione, ed i nudi edifizi, che non erano più impiegati al servizio dell'idolatria, si sarebber potuti difendere dalla distruttiva rabbia del fanatismo. Molti di quei tempj erano i più belli e splendidi monumenti della Greca Architettura; e l'Imperatore medesimo avea interesse di non oscurar lo splendore delle sue città, nè diminuire il valore dei suoi propri beni. Si potea permettere che sussistessero quei magnifici edifizi, come tanti durevoli trofei della vittoria di Cristo. Nella decadenza, in cui si trovavan le arti, si potevano utilmente convertire in magazzini, in luoghi di manifatture o di pubbliche adunanze, e forse anche, qualora si fossero coi sacri riti sufficientemente purificate le mura dei tempj, si poteva concedere che il culto del vero Dio espiasse l'antico delitto della idolatria. Ma finattantochè sussistevano, i Pagani nutrivano una forte e segreta speranza, che una felice rivoluzione, un secondo Giuliano potesse di nuovo ristabilire gli altari degli Dei; e l'ardore, col quale porgevano al trono le inefficaci loro preghiere[593], accrebbe nei riformatori Cristiani lo zelo d'estirpare senza misericordia la radice della superstizione. Le leggi degl'Imperatori dimostrano qualche sintomo di una disposizione più dolce[594]: ma i loro freddi e languidi sforzi non furono sufficienti ad arrestare il corso dell'entusiasmo e della rapina, che era diretta o piuttosto mossa dai Regolatori spirituali della Chiesa. Nella Gallia il Santo Martino, Vescovo di Tours[595], marciava alla testa dei fedeli suoi Monaci a distrugger gl'idoli, i tempj, e gli alberi sacri della estesa sua Diocesi; e nell'esecuzione di questa difficile impresa il prudente lettore giudicherà, se Martino era sostenuto dal soccorso di miracolosa potenza, o dalle armi corporali. Nella Siria il divino ed eccellente Marcello[596], come l'appella Teodoreto, Vescovo animato da fervore Apostolico, risolvè di gettare a terra i magnifici tempj, ch'erano tuttavia nella Diocesi d'Apamea. L'arte e la solidità, con cui era stato fabbricato il tempio di Giove, resistè all'attacco. Era situata quella fabbrica sopra un'eminenza; da ciascheduno dei quattro lati di essa era sostenuto il sublime tetto da quindici grosse colonne, che avevano la circonferenza di sedici piedi: e le gran pietre, delle quali venivan composte, erano stabilmente collegate fra loro con piombo e ferro. Invano erasi adoperata l'opera dei più forti ed acuti strumenti. Bisognò ricorrere all'opera di distruggere i fondamenti delle colonne, che caddero a terra subito che furono consumati dal fuoco i pali di legno, che per un tempo vi si eran posti; e ne vengono descritte le difficoltà sotto l'allegoria d'un nero demonio, che ritardava, quantunque non potesse disfare, le operazioni dei macchinisti Cristiani. Superbo della vittoria, Marcello si portò in persona sul campo contro la Potestà delle tenebre; marciava una copiosa truppa di soldati e di gladiatori sotto l'Episcopale stendardo; e l'un dopo l'altro s'attaccarono i villaggi ed i tempj di campagna della Diocesi d'Apamea. Dovunque temevasi qualche resistenza o pericolo, il Campion della fede, che per essere storpiato non potea fuggire, nè combattere, si poneva ad una conveniente distanza, oltre la portata dei dardi. Ma questa prudenza divenne cagione della sua morte: fu egli sorpreso ed ucciso da un corpo di esacerbati villani; ed il Sinodo della Provincia senza esitare pronunziò, che il santo Marcello aveva sacrificato la propria vita per la causa di Dio. Nel sostener questa causa si distinsero per la diligenza e lo zelo i Monaci, che uscirono con precipitosa furia del deserto. Meritarono essi l'inimicizia dei Pagani; e ad alcuni di loro poterono applicarsi i rimproveri d'avarizia e d'intemperanza: d'avarizia, che soddisfacevano col sacro saccheggio, e d'intemperanza, alla quale si abbandonavano a spese del popolo, che follemente ammirava in essi i laceri panni, la sonora salmodia e l'artificial pallidezza[597]. Un piccol numero di tempj fu protetto dai timori della venalità, dal buon gusto, o dalla prudenza dei civili ed ecclesiastici Governatori. A Cartagine il tempio della Venere Celeste, il sacro recinto del quale formava una circonferenza di due miglia, fu giudiziosamente convertito in una Chiesa Cristiana[598]; ed una simile consacrazione ha conservata intatta la maestosa cupola del Panteon a Roma[599]. Ma in quasi tutte le Province del Mondo Romano, un esercito di fanatici, senza autorità e senza disciplina, invase i pacifici abitatori; e la rovina delle più belle fabbriche della antichità tuttavia spiega le devastazioni di quei Barbari, che ebbero il tempo e la voglia di eseguire tale faticosa distruzione.

In questo ampio e vario prospetto di demolizioni può lo spettatore distinguere in Alessandria le rovine del tempio di Serapide[600]. Questo non pare che sia stato uno degli Dei naturali, o de' mostri che uscirono dal fertil suolo del superstizioso Egitto[601]. Il primo de' Tolomei aveva ricevuto ordine in sogno di portare in Egitto quel misterioso straniero dalla costa del Ponto, dov'era stato per lungo tempo adorato dagli abitanti di Sinope; ma si conoscevano tanto imperfettamente gli attributi ed il regno di esso, che divenne un soggetto di disputa, se rappresentasse il lucido globo del giorno o il tenebroso Monarca delle sotterranee regioni[602]. Gli Egizj, che erano attaccati ostinatamente alla religione dei loro padri, non vollero ammettere dentro le mura delle loro città questa divinità forestiera[603]. Ma gli ossequiosi Sacerdoti, che furon sedotti dalla liberalità de' Tolomei, si sottoposero senza resistenza al potere del Dio del Ponto: gli fu trovata un'onorevol domestica genealogia; e s'introdusse questo fortunato usurpatore nel trono e nel letto d'Osiride[604], marito d'Iside e celeste Monarca dell'Egitto. Alessandria che se ne attribuiva la special protezione, si gloriava del nome di città di Serapide. Il suo tempio[605], rivale della sublimità e magnificenza del Campidoglio, era stato eretto sulla spaziosa cima di un'artefatta montagna innalzata cento passi sopra il piano delle altre parti della città, e l'interiore cavità di essa veniva stabilmente sostenuta da archi, e divisa in volte ed in sotterranei quartieri. Era circondato il sacro edifizio da un portico quadrangolare; le magnifiche sale, e le squisite statue vi spiegavano il trionfo delle arti, e si conservavano i tesori dell'antica dottrina nella famosa libreria d'Alessandria, ch'era con nuovo splendore risorta dalle sue ceneri[606]. Poscia che gli editti di Teodosio ebbero severamente proibito i sacrifizi dei Pagani, essi erano tuttavia tollerati nella città e nel tempio di Serapide; e questa singolare condiscendenza fu imprudentemente attribuita a' superstiziosi terrori dei Cristiani medesimi, come se temessero d'abolire quegli antichi riti, che soli assicurar potevano le inondazioni del Nilo, le riccolte dell'Egitto e la sussistenza di Costantinopoli[607].

La sede Archiepiscopale d'Alessandria in quel tempo[608] era occupata da Teofilo[609], perpetuo nemico della pace e della virtù, uomo audace e cattivo, le mani del quale furono alternativamente macchiate dal sangue e dall'oro. Si eccitò il religioso sdegno di lui dagli onori di Serapide; e gli insulti, che ei fece ad un'antica cappella di Bacco, persuasero i Pagani, che meditava un'impresa più importante e pericolosa. Nella tumultuaria capitale dell'Egitto il più leggiero incitamento serviva ad accendere una guerra civile. I devoti di Serapide, ch'eran molto inferiori in forza ed in numero a' loro avversari, presero le armi, spinti dal filosofo Olimpio[610], che gli esortò a morire in difesa degli altari degli Dei. Si fortificarono questi Pagani fanatici nel tempio o per meglio dire nella fortezza di Serapide; rispinsero gli assedianti per mezzo di valorose sortite e d'una risoluta difesa; e con le inumane crudeltà, che esercitarono contro i Cristiani lor prigionieri, ottennero l'ultima consolazione dei disperati. Il prudente magistrato fece utili sforzi per istabilire una tregua, finattantochè la risposta di Teodosio determinasse il destino di Serapide. S'adunarono le due parti senz'armi nella piazza principale; e pubblicamente fu letto l'Imperiale rescritto. Ma quando si pronunziò contro gli idoli d'Alessandria una sentenza di distruzione, i Cristiani gettarono un grido di gioia e di giubilo, mentre gli infelici Pagani, al furore dei quali era succeduta la costernazione, si ritirarono in fretta e silenzio, e con la fuga ed oscurità loro delusero lo sdegno dei loro nemici. Teofilo passò a demolire il tempio di Serapide senz'altre difficoltà, che quelle ch'ei trovò nel peso e nella stabilità dei materiali; tali ostacoli però tanto riuscirono insuperabili, che fu costretto a lasciarvi i fondamenti; ed a contentarsi di ridur l'edifizio medesimo ad un mucchio di sassi, una parte dei quali poco tempo dopo si tolse per far luogo ad una Chiesa, che vi fu eretta in onore dei Martiri Cristiani. Fu saccheggiata o distrutta la ricca libreria di Alessandria; e circa vent'anni dopo, la vista degli scaffali voti eccitò il dispiacere e lo sdegno di uno spettatore, la mente del quale non era totalmente oscurata da religiosi pregiudizi[611]. Si potevano senza dubbio salvare dal naufragio dell'idolatria pel piacere e per l'istruzione dei posteri le composizioni degli antichi, tante delle quali sono irreparabilmente perite; e poteva lo zelo, o l'avarizia dell'Arcivescovo[612] essersi saziata con le ricche spoglie, che furono il premio della sua vittoria. Mentre si fondevano diligentemente le immagini ed i vasi d'oro e d'argento, e quelli del metallo meno stimabile si rompevano con disprezzo, e gettavansi per le strade, Teofilo si affaticava ad esporre le frodi ed i vizi dei ministri degl'idoli; la lor destrezza nel maneggiare la calamita; le segrete loro maniere di introdurre un uomo nella cavità della statua, e lo scandaloso abuso, ch'essi facevano della fiducia dei devoti mariti e delle mogli non sospettose[613]. Può sembrare che accuse di tal sorta meritino qualche fede, non essendo contrarie all'artificioso ed interessato spirito della superstizione. Ma il medesimo spirito è ugualmente inclinato al vil costume d'insultare e di calunniare un abbattuto nemico; e naturalmente viene scossa la nostra credenza dalla riflessione, ch'è molto meno difficile inventare una storia falsa, che sostenere una pratica frode. La colossale statua di Serapide[614] restò involta nella rovina del tempio e della religione di esso. Un gran numero di lamine di vari metalli, ingegnosamente unite fra loro, componeva la maestosa figura della Divinità, che toccava da ogni parte le mura del santuario. L'aspetto di Serapide, la sua positura sedente, e lo scettro, che teneva nella mano sinistra, erano molto simili alle rappresentazioni ordinarie di Giove. Esso era distinto da Giove nel corbello o moggio, che aveva sul capo; e nell'emblematico mostro, che teneva nella mano destra, il capo ed il corpo del quale era di un serpente che si divideva in tre code, le quali terminavano in tre capi, di cane, di leone e di lupo. Asserivasi con sicurezza, che se un'empia mano avesse ardito di violare la maestà di quel Dio, i cieli e la terra sarebbero immediatamente tornati al primiero lor caos. Un intrepido soldato, animato dallo zelo, ed armato di una pesante scure militare, salì sulla scala; ed il popolo Cristiano medesimo aspettava con qualche ansietà di veder l'evento della battaglia[615]. Egli vibrò un vigoroso colpo sulla guancia di Serapide; la guancia cadde a terra; non sentissi alcun tuono, e tanto i cieli quanto la terra continuarono a mantenere la tranquillità e l'ordine solito. Replicò il vittorioso soldato i suoi colpi: fu rovesciato e fatto in pezzi l'enorme idolo; e le membra di Serapide furono ignominiosamente trascinate per le strade di Alessandria. Si bruciò nell'anfiteatro, in mezzo ai clamori della plebe, il suo lacero corpo, e molti attribuirono la lor conversione a questa scoperta dell'impotenza della loro tutelare Divinità. Le popolari specie di religione, che propongono dei materiali e visibili oggetti di culto, hanno il vantaggio di adattarsi e famigliarizzarsi ai sensi degli uomini; ma questo vantaggio è contrabbilanciato da' vari ed inevitabili accidenti, a' quali s'espone la fede dell'idolatra. Appena è possibile ch'esso in ogni disposizione di mente conservi l'implicita sua riverenza per gl'idoli o le reliquie, il cui semplice occhio o la mano profana non son capaci di distinguere dalle più comuni produzioni della natura o dell'arte; e se nel tempo del pericolo la segreta e miracolosa loro virtù non opera per la propria conservazione, il devoto sprezza le vane apologie de' suoi sacerdoti, e giustamente deride l'oggetto e la follia del superstizioso suo attaccamento. Dopo la caduta di Serapide, i Pagani tuttavia nutrivano speranza, che il Nilo avrebbe negato l'annuo suo tributo agli empi dominatori dell'Egitto; e lo straordinario indugio dell'inondazione pareva che indicasse il corruccio del Nume. Ma tale dilazione fu tosto compensata dal rapido gonfiamento delle acque. Ad un tratto queste s'alzarono a tal insolita altezza, che servì a consolare il malcontento partito con la piacevole speranza d'un diluvio, finattantochè il pacifico fiume di nuovo si ritirò al ben noto e fertilizzante livello di sedici cubiti, o di circa trenta piedi Inglesi[616].

I tempj del Romano Impero erano abbandonati o distrutti; ma l'ingegnosa superstizione dei Pagani tentava d'eludere le leggi di Teodosio, dalle quali era severamente punito qualunque sacrifizio. Gli abitanti della campagna, la condotta dei quali era meno esposta agli occhi della maliziosa curiosità, coprivano le religiose loro adunanze colle apparenze di conviti. Nei giorni delle feste solenni, s'univano in gran copia sotto l'estesa ombra di alcuni alberi sacri; si uccidevano ed arrostivan bovi e pecore, e questo rurale convito era santificato dall'uso dell'incenso e dagl'inni, che si cantavano in onor degli Dei. Ma si adduceva, che siccome non s'offeriva bruciando alcuna parte dell'animale, nè v'era l'altare per ricevere il sangue, e s'aveva cura d'ommetter la precedente oblazione delle torte salate, e la final ceremonia delle libazioni, queste festive adunanze non inducevan nei convitati la colpa nè la pena d'un illegittimo sacrifizio[617]. Qualunque si fosse la verità dei fatti, o il merito della distinzione[618] furon tolti di mezzo questi vani pretesti dall'ultimo editto di Teodosio, che mortalmente ferì la superstizion dei Pagani[619]. Questa legge proibitiva s'esprime nei termini più assoluti ed estesi. «È nostra volontà e piacere (dice l'Imperatore) che nessuno dei nostri sudditi, o sieno magistrati o privati cittadini, comunque sublime o basso esser possa lo stato e condizion loro, ardisca in qualunque città o in qualunque luogo venerare un idolo inanimato col sagrifizio d'innocenti vittime». L'atto di sacrificare e la pratica della divinazione per mezzo delle viscere della vittima si dichiarano (senz'alcun riguardo all'oggetto di tali ricerche) delitti di tradimento contro lo Stato, che non si possono espiare, se non con la morte del reo. I riti della superstizione Pagana, che potevano sembrar meno sanguinosi ed atroci, sono aboliti come altamente ingiuriosi alla verità ed all'onore della religione; vengono specialmente enunciati e condannati i lumi, l'incenso, le ghirlande, e le libazioni di vino; e sono inclusi in questa rigorosa condanna gl'innocenti diritti del Genio domestico, e degli Dei Penati. L'uso di alcuna di queste profane ed illegittime ceremonie sottopone il delinquente alla confiscazione della casa, o del fondo, in cui si è fatta; e se maliziosamente ha scelto il luogo d'un altro pel teatro della sua empietà, è condannato a pagare senza dilazione, una grave pena di venticinque libbre d'oro, che sono più di mille lire sterline. Viene imposta una pena non meno considerabile alla connivenza di quei segreti nemici della religione, che trascureranno il dovere dei loro rispettivi uffizi, di rivelare cioè o di punire il delitto d'idolatria. Tale fu lo spirito persecutore delle leggi di Teodosio che furono più volte confermate dai suoi figli e nipoti, con alto ed unanime applauso del Mondo Cristiano[620].

Nei crudeli regni di Decio e di Diocleziano era stato proscritto il Cristianesimo, come un'apostasia, dall'ereditaria ed antica religion dell'Impero; e gl'ingiusti sospetti, che si avevano d'un'oscura e pericolosa fazione, venivano in qualche modo favoriti dall'inseparabile unione, e dalle rapide conquiste della Chiesa Cattolica. Ma non si possono applicare le medesime scuse d'ignoranza e di timore agl'Imperatori Cristiani, che violavano i precetti dell'umanità e del Vangelo. L'esperienza dei tempi avea dimostrato la debolezza e la follia del Paganesimo; il lume della ragione e della fede aveva già esposto alla maggior parte del genere umano la vanità degl'idoli, e la decadente setta, che era tuttavia attaccata al lor culto, si poteva lasciar esercitare in pace e nell'oscurità i religiosi riti dei suoi maggiori. Se i Pagani fossero stati animati dall'indomito zelo, che occupava lo spirito dei primi credenti, il trionfo della Chiesa sarebbe stato macchiato di sangue; ed i martiri di Giove o d'Apollo abbracciato avrebbero la gloriosa occasione di sacrificare le proprie vite e sostanze a piè dei loro altari. Ma zelo così ostinato non era conforme alla libera e negligente natura del politeismo. I violenti e replicati colpi de' Principi ortodossi perderonsi nella molle e cedente materia, contro la quale eran diretti; e la pronta obbedienza dei Pagani li difese dalle pene e dalle multe del Codice Teodosiano[621]. Invece di sostenere, che l'autorità degli Dei era superiore a quella dell'Imperatore, essi desisterono con un lamentevole mormorio, dall'uso di quei sacri riti, che il loro Principe avea condannato. Se qualche volta furon tentati da un impeto di passione o dalla speranza di non esser scoperti a secondare la favorita superstizione, l'umile pentimento loro disarmava la severità del Magistrato Cristiano, e rade volte ricusavano di purgare la propria temerità col sottomettersi, con qualche segreta ripugnanza, al giogo dell'Evangelio. Eran piene le Chiese d'una sempre crescente moltitudine di quest'indegni proseliti, che per motivi temporali s'erano uniformati alla religion dominante; e nel tempo, che devotamente imitavano la positura, e recitavan le preci dei Fedeli, soddisfacevano la lor coscienza mediante la tacita e sincera invocazione degli Dei dell'antichità[622]. Se i Pagani non avevan pazienza di sofferire, mancava loro anche il coraggio di resistere, e le disperse migliaia di essi, che deploravano la rovina dei tempj, cederono senza contrasto alla fortuna dei loro avversari. Alla tumultuaria opposizione[623], che fecero i villani della Siria, e la plebaglia d'Alessandria al furore del fanatismo privato, fu imposto silenzio dall'autorità e dal nome dell'Imperatore. I Pagani dell'Occidente, senza contribuire all'innalzamento d'Eugenio, disonorarono col parziale attaccamento loro la causa ed il carattere dell'usurpatore. Il Clero ardentemente esclamava, ch'egli aggravava il delitto della ribellione con quello dell'apostasia; che per licenza di lui erasi ristabilito l'altare della Vittoria; e che si spiegavano in campo gli idolatrici simboli d'Ercole e di Giove contro l'invincibil stendardo della Croce. Ma presto furon distrutte le vane speranze dei Pagani con la disfatta d'Eugenio; ed essi restarono esposti allo sdegno del vincitore, che si sforzava di meritare il favore celeste coll'estirpazione dell'Idolatria[624].

A. 390-420

Un popolo di schiavi è sempre pronto ad applaudire alla clemenza del suo Signore, che nell'abuso del potere assoluto non deviene all'ultime estremità dell'ingiustizia e dell'oppressione. Teodosio poteva senza dubbio aver proposto ai Pagani suoi sudditi l'alternativa del battesimo o della morte; e l'eloquente Libanio ha lodato la moderazione di un Principe, che non obbligò mai con legge positiva tutti i suoi sudditi ad immediatamente abbracciare e praticar la religione del proprio Sovrano[625]. Non era divenuta la professione del Cristianesimo una qualità essenziale per godere i diritti civili della società; nè s'era imposto alcun peso particolare ai Settarj, che creduli ammettevano le favole d'Ovidio, e rigettavano ostinati i miracoli del Vangelo. Il palazzo, le scuole, l'esercito ed il senato eran pieni di devoti e dichiarati Pagani; essi ottenevano senza distinzione gli onori civili e militari dell'Impero. Teodosio distinse il suo generoso riguardo per la virtù e pei talenti, con impartire a Simmaco la dignità consolare[626], e con esprimere la sua personal amicizia per Libanio[627]; e i due più eloquenti apologisti del Paganesimo non furon mai sollecitati o a mutare o a dissimular le religiose lor opinioni. Era permessa ai Pagani la più licenziosa libertà di parlare e di scrivere; gli istorici e filosofici avanzi d'Eunapio, di Zosimo[628] e dei fanatici dottori della scuola Platonica dimostrano le animosità più furiose, e contengono le più aspre invettive contro i sentimenti e la condotta dei vittoriosi loro avversari. Se questi audaci libelli erano pubblicamente noti, noi dobbiamo applaudire il buon senso dei Principi Cristiani, che riguardavano con riso e disprezzo gli ultimi sforzi della superstizione e della disperazione[629]. Ma rigorosamente s'eseguivano le leggi Imperiali, che proibivano i sacrifizi e le ceremonie del Paganesimo, ed ogni momento contribuiva a distruggere l'autorità d'una religione, ch'era sostenuta dall'uso piuttosto che dalle prove. Può segretamente nutrirsi la devozione del poeta o del filosofo per mezzo delle preghiere, della meditazione e dello studio; ma sembra che l'esercizio del Culto pubblico sia l'unico solido fondamento delle opinioni religiose del popolo, che traggono la loro forza dall'imitazione e dall'abito. L'interrompimento di tal pubblico esercizio può nel corso di pochi anni condurre a fine l'importante opera di una rivoluzion nazionale. Non può lungamente conservarsi la memoria delle opinioni teologiche senza l'artificiale aiuto dei Sacerdoti, dei tempj e dei libri[630]. Il volgo ignorante, il cui animo è sempre agitato dalle cieche speranze, e dai terrori della superstizione, verrà ben presto persuaso da' suoi superiori a dirigere i propri voti alle dominanti Divinità del suo secolo, ed appoco appoco s'imbeverà d'un ardente zelo pel sostegno e la propagazione di quella nuova dottrina, che a principio la fame spirituale l'obbligò ad accettare. La generazione, venuta dopo la promulgazion delle leggi Imperiali, fu tratta nel seno della Chiesa cattolica; e la caduta del Paganesimo, quantunque sì dolce, fu tanto rapida, che non più di ventott'anni dopo la morte di Teodosio, dall'occhio del Legislatore non se ne scorgevano più i deboli e minuti vestigi[631].

La rovina della religione Pagana vien descritta dai Sofisti, come un terribile e sorprendente prodigio, che coprì la terra di tenebre, e ristabilì l'antico dominio della notte e del caos. Essi riferiscono in alto e patetico tuono, che i tempj eran convertiti in sepolcri, e che i luoghi sacri che prima splendevano adornati di statue degli Dei, erano vilmente contaminati dalle reliquie dei martiri Cristiani. «I Monaci (specie d'immondi animali, ai quali Eunapio è tentato di negar fino il nome di uomini) sono gli autori del nuovo culto, il quale in luogo di quelle Divinità, che si concepiscono coll'intelletto, ha sostituito i più abbietti e dispregevoli schiavi. Le teste salate ed imbalsamate di quegl'infami malfattori, che pei loro delitti han sofferto una giusta ed ignominiosa morte; i loro corpi tuttavia marcati dall'impressione delle verghe e dalle cicatrici, lasciatevi da que' tormenti che dati furono per sentenza del magistrato: questi sono (prosegue Eunapio) gli Dei che la terra produce ai nostri giorni; questi sono i martiri, gli arbitri supremi delle nostre suppliche e domande a Dio, le tombe dei quali vengono adesso consacrate come gli oggetti della venerazione del popolo»[632]. Senz'approvarne la malizia, egli è molto naturale il partecipare della sorpresa del Sofista, spettatore d'una rivoluzione che innalzò quelle oscure vittime della Romana legge, al grado di celesti ed invisibili protettori dell'Imperio Romano. Il grato rispetto, che avevano i Cristiani pei martiri della fede, fu elevato dal tempo e dalla vittoria ad una religiosa adorazione, ed i più illustri fra i Santi e Profeti furono meritamente associati agli onori dei martiri. Cento cinquant'anni dopo la gloriosa morte di S. Pietro e di S. Paolo, si distinsero il Vaticano e la via Ostiense pei sepolcri, o piuttosto pei trofei di quegli spirituali Eroi[633]. Nel secolo dopo la conversione di Costantino, gl'Imperatori, i Consoli, ed i Generali degli eserciti devotamente vigilavano i sepolcri di un facitor di tende e d'un pescatore[634]: e furon depositate le lor venerabili ossa sotto gli altari di Cristo, sui quali continuamente i Vescovi della città reale offerivano l'incruento sacrifizio[635]. La nuova capitale dell'Oriente, incapace di produrre alcun antico e domestico trofeo, fu arricchita delle spoglie delle dipendenti Province. I corpi di S. Andrea, di S. Luca, e di S. Timoteo quasi per trecent'anni avevan riposato in oscuri sepolcri, dai quali furono trasportati con solenne pompa alla chiesa degli Apostoli, che la magnificenza di Costantino aveva fondato sulle rive del Bosforo Tracio[636]. Circa cinquant'anni dopo le medesime rive onorate furono dalla presenza di Samuele, Profeta e Giudice del popolo Israelita. Le sue ceneri, depositate in un vaso d'oro e coperte d'un velo di seta, passarono dalle mani d'un Vescovo a quelle d'un altro. Si riceveron dal popolo le reliquie di Samuele con la medesima gioia e reverenza, che si sarebbe dimostrata al Profeta medesimo vivente; le pubbliche strade, dalla Palestina fino alle porte di Costantinopoli, eran occupate da una continua processione; e l'istesso Imperatore Arcadio alla testa dei più illustri membri del Clero e del Senato, s'avanzò incontro allo straordinario suo ospite, che aveva sempre meritato e voluto l'omaggio dei Re[637]. L'esempio di Roma e di Costantinopoli confermò la fede e la disciplina del Mondo Cattolico. Gli onori de' Santi e dei Martiri, dopo un debole ed inefficace susurro della profana ragione[638], si stabilirono generalmente; ed al tempo d'Ambrogio e di Girolamo stimavasi, che sempre mancasse qualche cosa alla santità d'una Chiesa Cristiana, finattantochè non fosse stata santificata da qualche parte di sacre reliquie che determinassero ed infiammassero la devozione del Fedele.

Nel lungo periodo di dodici secoli, che scorsero fra il regno di Costantino, e la riforma di Lutero, il culto dei Santi e delle reliquie corruppe la pura e perfetta semplicità del cristiano sistema; e si posson osservare sintomi di tralignamento anche nelle prime generazioni che adottarono e favorirono questa perniciosa innovazione.

I. La soddisfacente esperienza, che le reliquie dei Santi eran più valutabili dell'oro e delle pietre preziose[639], stimolò il Clero a moltiplicare i tesori della Chiesa. Senza molto riguardo alla verità od alla probabilità, s'inventavan dei nomi per gli scheletri, e delle azioni pei nomi. La fama degli Apostoli e dei santi uomini, che avevano imitato la loro virtù, fu oscurata da religiose finzioni. All'invincibil drappello dei genuini e primitivi martiri, essi aggiunsero molte migliaia di eroi immaginari, che non eran mai stati se non nella fantasia di artificiosi e crudeli autori di leggende; ed havvi motivo di sospettare, che Tours non fosse la sola Diocesi, in cui le ossa d'un malfattore fossero adorate invece di quelle di un Santo[640]. Una pratica superstiziosa, che tendeva ad accrescere le tentazioni della frode e della credulità, appoco appoco estinse nel Mondo Cristiano il lume dell'istoria e della ragione.

II. Ma il progresso della superstizione sarebbe stato molto meno rapido e vittorioso, qualora la fede del popolo non fosse stata assistita dall'opportuno aiuto delle visioni e dei miracoli per assicurare l'autenticità e la virtù delle più sospette reliquie. Nel regno di Teodosio il Giovane, Luciano[641] Prete di Gerusalemme e ministro Ecclesiastico del villaggio di Cafargamala, circa venti miglia distante dalla città, riferì un sogno assai singolare, che per togliere i suoi dubbi era stato ripetuto per tre sabati continui. Gli appariva nel silenzio della notte una venerabile figura con una lunga barba, una veste bianca ed una verga d'oro, diceva, che il suo nome era Gamaliele, e dichiarava all'attonito Prete, che il suo corpo insieme con quelli d'Abida suo figlio, di Nicodemo suo amico e dell'illustre Stefano, primo martire della fede Cristiana, erano segretamente sepolti nel vicino campo. Aggiunse con qualche impazienza, ch'era ormai tempo di liberar lui ed i suoi compagni dall'oscura loro prigione; che la comparsa loro sarebbe stata salutare ad un Mondo angustiato; e ch'essi avevano scelto Luciano per informare il Vescovo di Gerusalemme della situazione e delle brame loro. Per mezzo di nuove visioni si tolsero l'un dopo l'altro i dubbi e le difficoltà, che tuttavia ritardavano questa importante scoperta; e finalmente fu scavata la terra dal Vescovo, alla presenza di una innumerabile moltitudine. Si trovarono per ordine le casse di Gamaliele, del figlio, e dell'amico; ma quando comparve alla luce la quarta cassa, che conteneva il corpo di Stefano, tremò la terra, e si sparse un odore come di paradiso, che immediatamente risanò le varie malattie di settantatre degli astanti. I compagni di Stefano restarono nella pacifica lor residenza di Cafargamala, ma le reliquie del primo martire si trasportarono con solenne processione ad una Chiesa, eretta in onor loro sul monte Sion; e si conobbe in quasi tutte le Province del Mondo Romano, che ogni piccola particella di quelle reliquie, come una goccia di sangue[642] o la raschiatura di un osso, godeva una divina e miracolosa virtù. Il grave e dotto Agostino[643], l'ingegno del quale appena può ammettere la scusa della credulità, ha riferito gl'innumerabili prodigi, che si fecero nell'Affrica dalle reliquie di S. Stefano; e questa maravigliosa narrazione è inserita nell'elaborata opera della Città di Dio, che il Vescovo d'Ippona produsse come una stabile ed immortal prova della verità della Religione Cristiana. Agostino solennemente dichiara d'avere scelto solo quei miracoli, che venivano pubblicamente assicurati dagl'individui, che furon gli oggetti o gli spettatori del potere del Martire. Molti ne furon omessi o dimenticati; ed Ippona era stata trattata meno favorevolmente delle altre città della Provincia. Eppure il Vescovo conta, nello spazio di due anni, e dentro i limiti della sua Diocesi[644], più di settanta miracoli, fra i quali erano tre morti risuscitati. Se vogliamo rivolgere lo sguardo a tutte le Diocesi ed a tutti i Santi del Mondo Cristiano, non sarà facile il calcolare le favole e gli errori, che nacquero da quest'inesauribil sorgente. Ma ci sarà sicuramente permesso d'osservare, che un miracolo, in quel tempo di credulità e di superstizione, perde tal nome e tutto il suo merito, mentre appena potrebbe adesso risguardarsi come una deviazione dalle ordinarie stabilite leggi della natura.

III. Gli innumerabili miracoli dei quali eran le tombe dei martiri un perpetuo teatro, manifestarono al pietoso credente lo stato e la costituzione attuale del Mondo invisibile, e parve che le sue religiose speculazioni fosser fondate sopra la stabile base del fatto e dell'esperienza. Qualunque si fosse la condizione delle anime volgari, nel lungo intervallo fra lo scioglimento e la resurrezione dei loro corpi, egli era evidente che gli spiriti superiori dei Santi e dei Martiri non passavano quella porzione di loro esistenza in tacito ed ignobile sonno[645]. Egli era evidente (senza pretender di determinare il luogo della loro abitazione o la natura della loro felicità) che essi godevano la viva ed attiva coscienza della lor beatitudine, della virtù e del potere che avevano; e che erano già sicuri del possesso dell'eterno lor premio. L'estensione delle intellettuali facoltà loro sorpassava la misura dell'umana immaginazione; mentre si provava coll'esperienza, ch'essi eran capaci di udire e d'intendere le varie domande dei numerosi loro devoti, che nell'istesso momento, ma nelle parti più lontane del Mondo, invocavano il nome e l'aiuto di Stefano o di Martino[646]. La fiducia dei loro supplicanti era fondata nella persuasione, che i Santi, mentre regnavan con Cristo, gettassero un occhio di compassione sopra la terra; che altamente s'interessassero alla prosperità della Chiesa Cattolica; e che gl'individui, che imitavan l'esempio della lor fede e pietà, fossero i particolari e favoriti oggetti del più tenero loro riguardo. Alle volte invero potevano influire nell'amicizia loro considerazioni di una specie meno sublime; essi rimiravano con parziale affetto i luoghi che erano stati santificati dalla nascita, dalla dimora, dalla morte, dalla sepoltura di se medesimi o dal possesso delle loro reliquie. Le più basse passioni d'orgoglio, d'avarizia e di vendetta, pare che siano indegne di un petto celeste: pure i Santi stessi condiscendevano a dimostrare la grata loro approvazione della generosità dei loro devoti; e si assegnavano i più aspri castighi a quegli empi, che violavano i magnifici lor Santuari, o non credevano al loro soprannaturale potere[647]. In fatti atroce doveva essere il delitto, e strano sarebbe stato lo scetticismo di quelli, che avesser ostinatamente resistito alle prove di una Divina potenza, a cui gli elementi, tutto l'ordine della creazione animale, e fino le sottili ed invisibili operazioni della mente umana eran costrette ad ubbidire[648]. Gl'immediati e quasi instantanei effetti, che si supponeva, seguissero la preghiera o l'offesa, persuasero i Cristiani dell'ampia dose di favore e di autorità, che i Santi godevano alla presenza del sommo Dio; e sembrò quasi superfluo il cercare se i medesimi erano continuamente obbligati ad intercedere avanti al trono della grazia, o se fosse loro permesso di esercitare, secondo i dettami della loro benevolenza e giustizia, il delegato potere del subordinato lor ministero. L'immaginazione, che erasi con penoso sforzo innalzata alla contemplazione ed al culto della Causa Universale, ardentemente abbracciò questi inferiori oggetti d'adorazione, come più proporzionati alle grossolane idee ed imperfette facoltà che essa aveva. A grado a grado corruppesi la sublime e semplice Teologia dei primitivi Cristiani; e la Monarchia celeste, già oscurata da metafisiche sottigliezze, restò degradata dall'introduzione di una popolare mitologia, che tendeva a ristabilire il regno del Politeismo[649].

IV. Siccome gli oggetti della religione furono appoco appoco ridotti alla misura dell'immaginazione, si introdussero i riti e le cerimonie, che parevano operar più potentemente sui sensi del volgo. Se al principio del quinto secolo[650] fossero ad un tratto resuscitati Tertulliano, o Lattanzio[651], e veduto avessero la festa di qualche Santo o Martire popolare[652], avrebber guardato con sorpresa e con isdegno il profano spettacolo, ch'era succeduto al puro e spiritual culto di una congregazione Cristiana. All'aprirsi delle porte della Chiesa sarebbero essi restati offesi dal fumo dell'incenso, dall'odor dei fiori, e dalla luce delle fiaccole e delle lampade, che sul mezzogiorno spargevano un affettato, superfluo, e, secondo loro, sacrilego lume. Se avvicinati si fossero alla balaustrata dell'altare, avrebbero incontrato una folla prostrata, composta per la massima parte di stranieri e di pellegrini, che la vigilia della festa si portavano alla città; e già sentivano il forte trasporto del fanatismo, e forse del vino. S'imprimevan devoti baci sulle mura e sul pavimento del sacro edifizio, e qualunque si fosse il linguaggio della Chiesa, le ferventi lor preci eran dirette all'ossa, al sangue, o alle ceneri del Santo, che ordinariamente veniva nascosto da un velo di lino o di seta agli occhi del volgo. I Cristiani frequentavano le tombe dei Martiri con la speranza d'ottenere dalla potente loro intercessione ogni sorta di spirituali, ma più specialmente, di temporali vantaggi. Imploravano essi la conservazione della salute, la cura delle infermità, la fecondità delle sterili mogli, o la salvezza e felicità dei lor figli. Quando intraprendevano qualche distante o pericoloso viaggio, supplicavano i santi Martiri ad esser loro protettori e lor guide; e se tornavano senza disgrazie, di nuovo correvano ai sepolcri dei Martiri per celebrare con grati ringraziamenti le obbligazioni che avevano alla memoria ed alle reliquie dei celesti lor Patroni. Le mura eran piene all'intorno dei simboli de' favori, ch'essi avean ricevuti; occhi, mani, piedi d'oro e d'argento, ed edificanti pitture, che non potevan lungamente evitare l'abuso di una indiscreta o idolatrica devozione, rappresentavano l'immagine, gli attributi ed i miracoli del Santo tutelare. Uno stesso originale ed uniforme spirito di superstizione potè suggerire nei paesi o nei secoli più distanti fra loro gli stessi metodi d'ingannar la credulità, e d'agire sui sensi del genere umano[653], ma bisogna ingenuamente confessare, che i ministri della Chiesa Cattolica imitarono quel profano modello, ch'erano impazienti di distruggere. I Vescovi più rispettabili s'erano persuasi, che gl'ignoranti volgari più volentieri avrebbero rinunziato alla superstizione del Paganesimo, se avessero trovato qualche rassomiglianza o compensazione nel seno del Cristianesimo. La religione di Costantino terminò, in meno di un secolo, la definitiva conquista dell'Imperio Romano; ma i vincitori medesimi furono insensibilmente soggiogati dalle arti dei loro vinti rivali[654].

RIFLESSIONI D'IGNOTO AUTORE SOPRA I CAPITOLI XXVI, XXVII E XXVIII

DELLA STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO

DI

EDOARDO GIBBON

DIVISE IN TRE LETTERE DIRETTE AI SIGG. FOOTHEAD E KIRK INGLESI CATTOLICI

LETTERA I.

L'amorevolezza, con cui accoglieste le brevi e semplici mie riflessioni sul VI. e VII. Tomo della Storia del Sig. Gibbon della traduzione Pisana, le quali v'indirizzai sì per rendervi cauti nella lettura di un'opera pericolosa, che per varj titoli doveva sollecitare la vostra letteraria curiosità, come ancora per animarvi a far uso in difesa della Religione Cattolica del vostro raro talento e sapere: ed inoltre il compatimento, che elleno meritarono presso il dotto ed illustre Prelato della vostra nazione, Monsignor Stonor,[655] mi rendono coraggioso ad indirizzarvene, unicamente pei fini medesimi, alcune altre poche, le quali mi son presentate alla mente in leggendo l'ottavo Tomo uscito ora alla luce. Ma in questo ancora sono tanto gli abbagli del Sig. Gibbon e tanto varj, che senza nojarvi, censurandoli ad uno ad uno, vi mostrerò soltanto l'Autore sempre coerente a se stesso nel pungere ed avvilire il partito Cattolico; non accorgendosi egli per avventura, quanto, così adoperando, ponga in diritto i suoi leggitori di applicare ai suoi libri i giudiziosi canoni fissati da Plutarco nel suo aureo Opuscolo de Malignitate Herodoti, per giudicare del merito di uno Storico.

Siccome un adulatore artificioso ed astuto frammischia talora tra molte e lunghe lodi qualche ombra di biasimo[656], così la malignità ai delitti medesimi accoppia la lode, affinchè quelli ritrovino più agevolmente credenza. Vediamo se il Sig. Gibbon usa un cotal modo tanto coi Padri Greci che coi Latini. « Basilio e Gregorio Nazianzeno (egli dice) eran distinti sopra tutti i loro contemporanei per la rara unione di profana eloquenza e di ortodossa pietà. Essi avevano coltivato i medesimi studj liberali nelle scuole di Atene, si erano ritirati con egual divozione alla solitudine... e pareva totalmente spenta ogni scintilla di emulazione e d'invidia nei santi ed ingenui petti di Gregorio e Basilio ». Ma che? l'esaltazion di Basilio alla sede Archiepiscopale di Cesarea scuoprì al Mondo, e forse a lui medesimo l'orgoglio del suo carattere. Il primo favore, che Basilio fece all'amico, fu preso per un insulto, e s'ebbe forse l'intenzione di farlo. Invece d'impiegare i sublimi talenti di Gregorio in qualche utile e cospicuo posto, l'altiero Prelato (Basilio) diè il Vescovado del miserabil villaggio di Sasima al Nazianzeno: e questi dopo di essersi sottomesso con ripugnanza a tale umiliante esilio, e dopo di aver ajutato il proprio padre nel governo della nativa sua Chiesa, conoscendo bene di meritare un'altra udienza ed altro teatro, accettò con lodevole ambizione l'onorevole invito, che gli fu fatto dal partito ortodosso di Costantinopoli. L'istesso Gregorio sotto il modesto velo d'un sogno descrive il proprio buon successo nella predicazione, che ivi ebbe, con qualche umana compiacenza; ivi il Santo, che non avea superate le imperfezioni dell'umana virtù, fu profondamente sensibile al mortificante riflesso, che l'entrar che fece nell'ovile era piuttosto da lupo che da pastore: ivi infine dopo molto l'orgoglio o l'umiltà gli fece evitare una contesa, che avrebbe potuto imputarsi ad ambizione ed avarizia, e propose pubblicamente, non senza qualche dose di sdegno, di rinunziare al governo di una Chiesa, che era risorta, e quasi creata per le sue fatiche; e fu accettata la rinunzia dal Sinodo e dall'Imperatore più facilmente di quello, che sembra che ei si aspettasse in quel tempo, nel quale egli avea forse sperato di godere i frutti della vittoria. Ecco dove vanno a finire le lodi del Sig. Gibbon! Nei santi ed ingenui petti di Gregorio e Basilio ascondevasi la radice di tutti i mali, la superbia, ed il più abbominevol del vizi, l'ipocrisia. Si può egli mai con più sottile scaltrimento attaccare la santità di due tra i più illustri Dottori della Chiesa, e come tali riconosciuti dalla medesima[657] per lo spazio non interrotto di quattordici secoli?

Nè io vo' già negare, che il Nazianzeno adoperasse dei modi non plausibili per sottrarsi alle cure del litigioso Vescovado di Sasima, nè che egli giungesse perfino sul primo fervore a rampognare Basilio, che l'eminenza della sua sede lo avesse reso orgoglioso; ma non per questo Basilio era tale, come lo afferma francamente il Sig. Gibbon, nè tale in realtà reputavasi da Gregorio. Imperocchè questi medesimo giustificò di poi bastevolmente Basilio[658] dicendo, che egli in quella occasione avea preferito, senza riguardo agl'interessi dell'amicizia, tutto ciò, che a suo avviso poteva contribuire al divino servigio; ed in un'arringa fatta nell'adunanza dei Vescovi[659] intervenuti alla sua consacrazione tessè un elogio eccellente a quel grande Arcivescovo, ragionando delle virtù episcopali, che egli poteva apprender da esso; tra le quali e' parrebbe che l'alterezza, l'invidia, l'emulazione e l'orgoglio tanto meno si potessero annoverare, quanto più debbono i Vescovi rassomigliarsi al divino Pastore e Maestro mansuetissimo ed umil di cuore.

Sarà poi almen vero, che Gregorio per l'alto concetto, che avea di se stesso, ricusasse il governo di Sasima e di Nazianzo, ed accettasse quello della nuova Capital dell'Impero? Per verità fino ai dì nostri si era creduto, che il Nazianzeno avesse cercato mai sempre di ascondersi agli occhi degli uomini, a segno tale da venirgli imputato da taluno a delitto[660] un soverchio amore per la solitudine. Da questo amore si ripetevano unicamente le acerbe querele fatte all'amico sul Vescovado di Sasima, a cui aveva sovente[661] manifestato il suo disegno di ritirarsi totalmente dal Mondo, morti che fossero i suoi genitori, e da cui ne aveva riscossi dei segni di approvazione. Ci confermava in tale opinione il leggere nella mentovata Orazione[662], che Gregorio, quanto maggiori lumi acquistava, tanto più si alienava coll'animo dalle dignità della Chiesa, che tutte riputava sublimi per timore di esserne indegno, o di addivenirne superbo, e cadere come Saulle: ben persuasi di non poter ritrovare miglior testimone dei sentimenti del Nazianzeno, tranne colui ch'è il solo scrutatore dei cuori umani, del Nazianzeno medesimo[663]. Ma quelle, mi si dirà, son parole. Son parole, egli è vero, ma dimostrate per sincerissime da una serie costante di azioni, che son quei frutti, dai quali siamo istruiti a discernere la santità dall'ipocrisia. Non vi volle forse tutta la violenza e la tenerezza di un genitore cadente per trar Gregorio dalla sua solitudine, ed indurlo[664] a divider con esso il governo della nativa sua diocesi? E non protestossi, nell'occasione di arrendersi a tai premure, di non volergli succedere in conto alcuno dopo la morte, protesta che ei rinnovò alla presenza dei Vescovi, i quali assisterono ai funerali del padre defunto, contestandone l'ingenuità e colle replicate suppliche per far eleggere il nuovo Pastore a Nazianzo[665], e colla sua ritirata nel Monastero di S. Tecla e Seleucia?

Ma che forse non accettò l'onorevole invito, che gli fu fatto dal partito ortodosso di Costantinopoli? Sì lo accettò; ma fu di mestiero svellerlo a forza dal suo ritiro, dov'ei ritrovava le sue delizie[666]. Sì lo accettò; ma per terger le lagrime di tanti fedeli[667], che si dolevano della sua renitenza: lo accettò finalmente, ma non già prima che molti tra i suoi amici medesimi[668] lo riprendessero e lo condannassero come poco curante del ben della Chiesa[669].

E qual città era ella mai a quei giorni Costantinopoli da stimolar l'ambizione di Gregorio già vecchio, mal sano, ed infievolito dalle austerità della penitenza[670]? I Macedoniani, gli Apollinaristi, gli Eunomiani, e gli Arriani principalmente vi trionfavano: nè ciò è attestato dal solo Gregorio, il quale insolentemente da Gibbon vien paragonato ad un medico sempre disposto ad esagerare l'inveterata malattia, che egli ha curata, ma da Sozomeno, da Ruffino, e da Filostorgio medesimo[671]. Ivi i Cattolici omai ridotti ad un piccol drappello erano divenuti soli il bersaglio della più fiera persecuzione, di cui Gregorio stesso provò ben tosto il furore, essendo lapidato villanamente[672]: ed ivi pure nel tempo di Eudosso e Demofilo godeva (son parole del Sig. Gibbon) una libera introduzione il vizio e l'errore da ogni Provincia dell'Impero[673]. E questa poteva esser l' udienza, questo il teatro, questo l' utile e cospicuo posto da soddisfare la vanità e l'ambizione?

Ma volete ancor meglio conoscere quanto codesto spirito dominasse Gregorio? Il Cinico Massimo colle arti più inique si fa ordinar Vescovo di Costantinopoli, e Gregorio risolvè tosto di ritirarsi da quella città; nè per distorlo dal suo disegno vi volle meno, che un popolo si confinasse nella Chiesa, ove egli era adunato, per un'intiera giornata a pregarlo e scongiurarlo, e protestasse di volergli impedir la partenza a costo ancor della vita[674]. Espulso Demofilo, e condannato dal Sinodo di Costantinopoli il perfido usurpatore, Teodosio[675], giusto estimatore del merito di Gregorio, lo chiede per Vescovo di quella Capitale, e Melezio e gli altri Prelati dell'Oriente violentano replicatamente la sua modestia, e lo collocano sul trono Arcivescovile altra volta da lui rifiutato[676], malgrado i suoi gemiti e le sue grida[677]. L'Imperatore, il quale ebbe parte alla sua istallazione, fu altresì testimone della sua resistenza[678]; la quale sarebbe anche stata maggiore, se Gregorio non avesse sperato di contribuire alla pace di Antiochia e del Mondo Cristiano nel grado di Vescovo d'una città situata tra l'Oriente e l'Occaso.

Ed infatti presentatasi in breve l'occasion favorevole di stabilirla per la morte del Patriarca Melezio, vedendo Gregorio riuscire inutili tutti i suoi sforzi, e defraudate le sue speranze, non esitò punto ad abbandonare l'abitazion vescovile, ed a proporre di lasciar la sua sede. Accettata la proposizione dal Sinodo, restava l'assenso Imperiale. Le preghiere del Santo furono così vive e pressanti, che Teodosio si arrese, ma non già volentieri, nè più facilmente di quel che egli credeva. Questa è una voce maligna, che sparsero allora i nemici del Nazianzeno[679]

Imperator... cedit ac votis meis

Ille haud libenter, ut ferunt, cedit tamen,

la quale riproducendosi ora dal Sig. de Gibbon non recherà maraviglia s'ei tace, e che i personaggi più riguardevoli della città, portatisi da Gregorio a scongiurarlo, piangendo, di non abbandonare il suo popolo, lo intenerirono con le loro lacrime, ma non lo piegarono[680]; e che i più gravi membri del Sinodo non tanto per il disordinato procedere contro Paolino, quanto per non udire la proposizion di rinunzia del Nazianzeno, si chiuser le orecchie, batteron le mani, e si separaron dagli altri; e qual giudizio per fine formi un istorico (da lui sovente allegato, ma non già in un tal fatto) di quest'azione, la quale fu certamente una delle più eroiche in tutta la Storia Ecclesiastica[681]. Ma se il Sig. Gibbon avesse indicati tai fatti, io avrei molto men ragione di asserire, che egli si trova delineato in Plutarco.

Lo scrittore di cui parla quel Savio, debbe intrudere nella sua storia, benchè poco a proposito (e qui rammentatevi, che il Sig. Gibbon si propone di far la storia della decadenza e rovina dell'Impero Romano) le disavventure, le azioni vituperevoli, e le scelleraggini delle persone[682], e per lo contrario dee omettere ciò che avvi di buono, quantunque abbia relazione al racconto già incominciato: anzi egli dee attribuire le belle e notabili azioni ad una cagione viziosa, interpretarne sinistramente i disegni, e sempre crederne il peggio, od almen sospettarlo[683]. Per questo appunto l'A. attribuisce ad alterezza ed orgoglio in S. Basilio l'elezione che fece di Gregorio al Vescovado di Sasima, e la ripugnanza di questo per Sasima e per Nazianzo ad emulazione ed invidia, ed alla cognizione, che aveva di meritare altra udienza ed altro teatro: perciò vuol che Gregorio stesso descriva il proprio buon successo nella predicazione con qualche umana compiacenza, tuttochè nel medesimo luogo ei protesti[684] di non insuperbirsene neppur in sogno; nè sa decidere se l' orgoglio o l'umiltà lo inducesse a ceder la cattedra di Costantinopoli e per questo istesso, invece di osservare, che generalmente fu accettata la rinunzia più agevolmente di quello che si doveva da un'adunanza di Vescovi, gli piace di dire più facilmente di quello che sembra, che ei s'aspettasse.

Ma che si pretende dal Sig. Gibbon, potrebbe dirmi un lettore poco avveduto, mentre egli confessa che Gregorio era uno dei più eloquenti e pii Vescovi di quel tempo, un Santo, un Dottor della Chiesa, la sferza dell'Arrianesimo, la colonna della Fede ortodossa, un membro distinto del Concilio di Costantinopoli, in cui dopo la morte di Melezio esercitò l'uffizio di Presidente? Si pretende, per dirlo in breve, meno ironia, e più buona fede. Ed infatti se un tal elogio fosse sincero, come oserebbe, oltre il già divisato, di porre in ridicolo il Nazianzeno per aver raccontato come uno stupendo prodigio, che nella nuvolosa mattina della sua istallazione, quando la processione entrò in Chiesa, comparve il sole; mentre egli dichiarasi[685] di narrarlo soltanto per esser sembrato a molte persone un tratto di Provvidenza, avendo tanto contribuito a tranquillare gli animi dei Cattolici, ed a sedare il tumulto? E come potrebbe conchiudere la storia che riguarda Gregorio medesimo, dicendo che la tenerezza del cuore e l'eleganza del genio riflette un più brillante splendore sulla memoria di lui, che il titol di Santo, che si è aggiunto al suo nome[686]. Ma il fine che il Sig. Gibbon si è proposto con quel cumulo di titoli luminosi dati in quel luogo a Gregorio, ei medesimo lo manifesta, ed è per impor silenzio all'importante bisbiglio della superstizione e del bigottismo, argomentando ad hominem, come suol dirsi, sull'autorità delle adunanze del Clero[687] derise dal Santo e specialmente dal Concilio di Costantinopoli, che ora trionfa nel Vaticano, ma su di cui i Papi lungamente avevano esitato, di modo che la loro dubbiezza rende perplesso, e quasi vacillante l'umile Tillemont. E qui appunto è dove trionfa la malignità dello Storico. Imperciocchè se la sobria testimonianza della storia dee accordare alla personale autorità dei Padri, adunati in un Sinodo, un peso proporzionato al merito loro, leggete Teodoreto[688], e il Baronio[689], e vedrete che non vi è forse stato Concilio composto di un numero maggiore di Santi e di Confessori, quanto quello, di cui si ragiona. Ve ne furono certamente di qualità assai differenti, onde venne trattato con tal disprezzo dal Nazianzeno «jusqu'à l'appeller une assemblée d'oisons, et de grues, qui se bottoient, et se dechiroient sans discretion, une troupe de geais, et un essaim des guespes, qui sautoient au visage dés qu'on s'opposoit à eux». Cito la versione del testo fatta dal Tillemont[690], affinchè in secondo luogo osserviate, che egli leggermente, ma ingenuamente al pari di le Clerc, ma però con minore impudenza, indica tali passi. E finalmente era pur necessario ad uno storico ingenuo l'avvertire, che quella lunga dubbiezza dei Papi intorno alle decisioni di quel Concilio è stata unicamente in rapporto alla disciplina ed alla polizia della Chiesa, e non intorno alla Fede: distinzione essenzialissima e già fatta dal S. Pontefice Gregorio M.[691]. Che poi il simbolo Costantinopolitano sia stato costantemente fin dalla più remota antichità riguardato dalla Chiesa universale siccome Regola inconcussa di Fede, dimostrasi ad evidenza coll'autorità del Concilio ecumenico Calcedonese celebrato soli ottant'anni dopo, di Gelasio Pontefice del V. secolo[692], di S. Gregorio M. che si protesta di venerare i quattro primi Concilj, numerando il Costantinopolitano in secondo luogo, come i quattro Evangelj[693], del V. Concilio ecumenico, in cui ciascuno dei Padri così professò: suscipio Sanctas quatuor Synodos, et quae ab ipsis de una eademque fide definita sunt; e per tacere le molte altre testimonianze arrecate da Lupo e Natale Alessandro[694], con quella di Fozio, il quale dice nel Libro de Synod. delle decisioni drammatiche del Concilio Costantinopolitano: Quibus haud multo post et Damasius Episcopus Romae (allora vivente) eadem confirmans, atque eadem sentiens accessit.

Una somigliante misura di lodi e d'ingiurie possiam rilevarla eziandio relativamente ad Ambrogio, S. Arcivescovo di Milano. Poichè in un luogo asserisce il Sig. Gibbon che l'attività del suo genio presto lo pose in istato di esercitare con zelo e con prudenza i doveri dell'Ecclesiastica potestà: in un altro confessa che egli nel più eminente grado riuniva in sè tutte le virtù Episcopali, ed intanto ora il dileggia per aver encomiato il S. Vescovo Ascolio coi titoli di murus fidei, gratiae, et sanctitatis, osservando con insulso e puerile motteggio, che la prontezza e la diligenza di lui in correre a Costantinopoli, in Italia ec. non è virtù che convenga nè ad un muro, nè ad un Vescovo; quasi che disdicesse ad un Vescovo l'intervenire ai Concilj, l'opporsi con intrepidezza Apostolica al furor degli Eretici, ed il non risparmiar fatiche e disagi per la tranquillità della Chiesa Universale[695]. Ora l'accusa per essersi contraddetto ed avere sconvolto il suo sistema teologico; assicurando che Valentiniano, quantunque non battezzato, era stato introdotto senza difficoltà nelle sedi della beatitudine eterna: ora con la sua ragionevolezza incredulo al par di Giustina sulla illuminazione del cieco Severo deride le teatrali rappresentazioni, che si facevano per l'artifizio ed a spese dell'Arcivescovo: ed ora infine pretende, che, insieme con gli altri Vescovi, Ambrogio fosse animato da uno spirito di persecuzione così crudele da procurare un editto Imperiale per punire come capital delitto la violazione, la negligenza e anche l'ignoranza della divina legge. Fermiamoci brevemente sopra ciascuno di questi articoli.

E primieramente qual contraddizione vi è mai a negare che senza il lavacro battesimale si dia la rigenerazione, e la remission dei peccati negl'infanti ed eziandio negli adulti, i quali quantunque credano, e facciano buone opere o senza cagione legittima lo differiscono o mancano di quella carità, che si domanda perfetta; e per lo contrario ad affermarlo di quelli, i quali, ardendo di carità, hanno un desiderio vivissimo di battezzarsi, ed in tale disposizione son colti da una morte non aspettata? Così conciliasi senza stento S. Ambrogio con se medesimo da Chardon, e dagli altri Teologi, come sapete[696]. Aveva pertanto[697] ragione il S. Arcivescovo di consolare le Principesse Giusta e Grata, le quali erano dolentissime, che il loro fratello Valentiniano fosse morto senza battesimo, perchè ei conosceva a fondo la carità di quel Principe, il quale aveva esposta la propria vita per la salvezza degli uffiziali, contro i quali aveva macchinato il Conte Arbogaste: Quid illud quod mori non timuit? Imo pro omnibus se obtulit... occidit itaque pro omnibus, quos diligebat[698]; e sapeva altresì quanto ardentemente egli avesse bramato di battezzarsi: Atqui etiam dudum hoc voti habuit, ut et antequam in Italiam venisset, initiaretur, et proxime baptizari a se velle significavit, et ideo prae ceteris causis me accersendum putavit[699]. Del resto il linguaggio del Santo non è quello di uno che sia sicuro, che Valentiniano fosse stato introdotto senza difficoltà nelle sedi della beatitudine eterna, ma di uno che spera soltanto, benchè con fiducia, della salute di quel Sovrano: altrimenti sarebbe stato inutile il celebrare i sacri misterj per esso, ed il pregare dì e notte per lui e pel fratello, com'ei promette dicendo[700]. Nulla nox non donatos aliqua precum mearum contextione transcurret, omnibus vos oblationibus frequentabo. Ma siccome questo è un luminoso testo per provare la pratica già introdotta nel IV. secolo di pregare e di offerire il sacrifizio pei defunti; così conveniva o dissimularlo, o maliziosamente stravolgerlo.

Secondariamente io protesto di rinunziare alla ragionevolezza del nostro secolo quand'io debba credere, ciò che raccontasi del cieco illuminato, nella scoperta dei corpi de' SS. Gervasio e Protasio una teatrale rappresentazione che si faceva per l'artifizio, ed a spese dell'Arcivescovo, e per conseguenza unirmi con gli Arriani a deriderla[701]. Sia pure testimone del fatto Ambrogio medesimo. Ma qui si trattava di una persona notissima: era noto il suo nome, nota la professione, note le sue vicende, noti coloro, che lo avevan soccorso nella sua cecità. Lo sia Paolino Segretario di Ambrogio. Non avrà dunque la vita di S. Ambrogio scritta da esso il pregio di una testimonianza originale accordatole liberamente dal Sig. Gibbon solo perchè un tal miracolo proverebbe il culto delle Reliquie ugualmente che la fede Nicena? Di grazia permettetemi di esclamare con esso ad altro proposito: oh! l'ammirabil regola di Critica! Lo sia per fine Agostino proselito del medesimo. Sarà per questo la testimonianza di lui tanto sospetta da dover credere Ambrogio un impostore solenne? Eppure egli parla di un tal prodigio non solo nelle sue confessioni[702], ma ancora nella grand'Opera de Civitate Dei[703]; ed ivi ne parla come di un fatto avvenuto immenso populo teste, e nuovamente in un sermone recitato in Affrica lo ratifica come testimone oculato[704].

Nè vi deste a credere, che io pretendessi di sostener questo fatto come un articol di Fede[705]: esigo solo, che si ponga in bilancia tuttociò che lo rende credibile come quello che ad esso si oppone, e mi lusingo, che la ragionevolezza di qualunque lettore, non prevenuto contro i miracoli[706], avrà una conferma, che nella storia del Sig. Gibbon vi è il quarto tra i segni di malignità divinati di sopra[707].

Passiamo ora all'editto Imperiale rappresentatoci da questo novello Demade come una legge di Dracone vergata non atramento sed sanguine. Comprende forse quella porzione di legge generalmente tutti i sudditi dell'Impero, come li comprende il principio della celebre Costituzione cunctos populos, a cui ella appartiene, od almeno tutti i Cristiani? No certamente. Ella non altri riguarda, che i soli Vescovi, uffizio de' quali è, secondo l'Apostolo, exhortari in doctrina sana, et eos qui contradicunt arguere: e ciò deducesi dall'esser posta nel Codice Teodosiano[708] sotto il titolo = de munere seu officio Episcoporum in praedicando verbo Dei =, ed è confermato dall'espressioni d' ignoranza e di negligenza, le quali risguardano chi è destinato alla pubblica istruzione. Imperocchè i veri termini della legge non son già quelli del Codice di Giustiniano[709] contro la fede dei manoscritti, e del testo Greco allegati dal Sig. Gibbon, ma sono i seguenti = Qui divinae legis sanctitatem aut nesciendo confundunt, aut negligendo violant et offendunt, sacrilegium committunt =. Siccome poi il ministero dei Vescovi è sacrosanto, così gl'ignoranti, ed i trascurati ονομα Ψιλὸν περιφεροντες secondo l'espressione di S. Basilio, son dichiarati saviamente sacrileghi, cioè profanatori, ed indegni del lor ministero. Questa, e non altra, è la pena capitale minacciata dai Cesari in quell'editto. E poichè tra le quattro leggi, che son sotto il titolo de crimine sacrilegii nel Codice di Giustiniano, appena una se ne ravvisa, che tratti del vero e proprio capital delitto del sacrilegio, rifletteremo col Ch. Gotofredo nel Comentario alla nostra = Quo etiam exemplo liquet de erroribus dicam ne an fraudibus Triboniani? e noi diremo del Sig. Gibbon[710].

Fin qui possiam dire che il Sig. Gibbon denigra la fama dei Santi con qualche arte ed astuzia; ma nella causa dei Priscillianisti Agostino e Leone spacciano intorno ad essi scandalose calunnie, e il Tillemont, l'utile spazzino! che su questo punto ha ammucchiato tutta la spazzatura dei Padri, le ingoia come un fanciullo. Or che sarà mai di Agostino, il quale ripete sì scandalose calunnie e nella risposta al Commonitorio di Orosio[711], e nell'Epistola al Vescovo Cerezio[712] e nel Libro de Haeresibus[713], ed in quello ad Consentium[714]; e non solo non le ritratta, ma nelle Ritrattazioni medesime le rinnova[715]? Siamo ben da compiangere noi Papisti, i quali decantiamo per luminari di S. Chiesa uomini di tal carattere! Si cancellino adunque dai nostri fasti i nomi di Agostino e Leone, e non si alleghi mai più nelle cattedre l'autorità di calunniatori sì scandalosi. Ma insieme con essi cancellisi quello di S. Filastrio Vescovo di Brescia; giacchè nel suo libro de Haeresibus sotto il nome di occulti, ed astinenti Manichei[716] affermò che i Priscillianisti = resurrectionem negantes, sub figura confessionis Christianae multorum animas mendacio, ac pecudiali turpidine non desinunt captivare: e cancellisi insieme con S. Delfino, che Priscilliano e due suoi seguaci ebber contrario a Bordeaux, con S. Ambrogio, che lor si oppose a Milano, e con il S. Pontefice Damaso, il quale essendo stati già condannati dal Sinodo di Saragozza ricusò per fin di vederli[717], cancellisi, io dico, con tutti questi ancor S. Girolamo. Ma perchè? dee soggiungere il Sig. Gibbon con Beausobre, di cui adotta la critica su questo fatto[718]. «Quel témoignage que celui de S. Jèrome, écrivant de sang froid, et en Historien! Priscillien, dit il, fut opprimè par la faction, par les machinations d'Ithace, et d'Idace. Parle-t-on ainsi d'un homme coupable de prophaner la Religion par les plus infames cérémonies, et d'enseigner la perfidie, et les parjures?»[719]. Attenzione miei Signori: Itacio fu sin d'allora ripreso da tutti i Santi, ai quali dispiacquero egualmente gli accusatori che i rei[720], e fu ancora severamente punito per aver preso le parti di accusatore, contro il mansuetissimo spirito della Chiesa[721], ed il carattere Episcopale, non tanto per zelo di Religione quanto per odio, e forse anche per interesse in un giudizio di morte. Il linguaggio adunque di S. Girolamo, che disapprova in quel luogo la condotta della fazione Itaciana non giustifica Priscilliano per verun conto; tanto più che in quel luogo medesimo siamo avvertiti da lui, che Priscilliano veniva accusato da alcuni come sostenitore dell'eresia delli Gnostici, e da altri difeso: parole, che dai nostri Avversarj prudentemente si omettono. Quindi è che noi dubiteremmo tuttora ciò che S. Girolamo abbia creduto di Priscilliano, se dopo qualche tempo non avesse scritto così a Ctesifonte = Priscillianus pars Manichaei, de turpitudine cujus te discipuli diligunt plurimum... soli cum solis clauduntur mulierculis, et illud inter coitum, amplexumque decantant[722].

«Tum pater omnipotens, foecundis imbribus aether etc.... qui quidem partem habent Gnosticae haereseos de Basilidis impietate venientem etc. Quel témoignage que celui de Jèrome, che parla meglio informato con questo tuono di sicurezza! Quid loquar de Priscilliano et saeculi gladio, et TOTIUS ORBIS auctoritate damnatus[723]? Si parla forse così di un uomo, che credasi messo a morte più per le cabale altrui, che per i proprj delitti? E qual testimonianza non è mai quella di Sulpizio Severo contemporaneo, scrittore corretto ed originale, il quale parla da Storico, e a sangue freddo per modo da non defraudar Priscilliano di quelle lodi, che a lui si dovevano? Ora egli attesta[724] che la causa di quell'eretico essendo stata commessa ad Evodio uomo ardente e severo, ma giusto al sommo, quo nihil umquam justius fuit[725], egli Priscillianum gemino judicio auditum, convictumque maleficii, nec diffitentem obscoenis se studuisse doctrinis, nocturnos etiam turpium foeminarum egisse conventus, nudumque orare solitum, nocentem pronuntiavit. Notaste? Priscilliano, non in giudizio tumultuario, ma in due formali giudizj ascoltato da un giustissimo giudice fu dichiarato reo e perchè così fu convinto, e perchè tale si confessò. Si parla così di chi è condannato per confessioni estorte dal timore, o dalla pena, o per vaghe narrazioni figlie della malizia, e della credulità? E perchè non osservare, giacchè il Sig. Gibbon inciderat in locum, qui ad historiam pertinet[726], che fu ripetuto il terzo giudizio, e non più sostenendo le parti di querelante l'indegno Vescovo Itacio, ma l'Avvocato del Fisco Patricio, in esso l'eretico subì la condanna? Perchè non far avvertire, che colui che parla di tortura in quell'occasione è Pacato, cioè a dire un ignorante, quantunque umano Politeista (per confessione fatta dal Sig. Gibbon senza tormenti), e che esso ne parla da Oratore ed in termini molto vaghi[727]; e per lo contrario Sulpizio rispetto alla confessione di Priscilliano, già pienamente convinto non ne fa motto: anzi scrive che tre persone, benchè più vili ante quaestionem[728] manifestarono i proprj delitti, e quei dei compagni? Poteva ancora, e doveva avvertire scrivendo senza malizia, che Massimo stesso, inviando, per quanto sembra, il processo dei Manichei, com'egli chiama i Priscillianisti[729], al Papa Siricio, senza parlar di tormenti, dà tanto peso alle lor confessioni, che non le stima soggette ad eccezione veruna[730]: e poteva e doveva finalmente osservare, che Leone Papa non fece uso sicuramente della tortura nei suoi diligentissimi esami: eppure non esitò di asserire pubblicamente nei suoi sermoni[731] dei Manichei dei suoi tempi = Prosit universae Ecclesiae, quod multi ipsorum ... in quibus sacrilegiis viverent eorumdem confessione patefactum est =. Sicut proxima eorum confessione patefactum est ut animi, ita et corporis pollutione laetantur[732], = e per imporre un eterno silenzio all'importante bisbiglio della malignità, ne fece spargere gli atti per tutti i Vescovadi d'Italia[733]. Onde quando noi non avessimo altra testimonianza che quella di S. Leone intorno agli errori, ed alla condotta dei Priscillianisti, e fosse del tutto improbabile, che sotto il nome di Manichei quelli ancora si comprendessero, ragion vorrebbe tuttavolta, che noi giudicassimo, non aver lui senza esame diligentissimo accusato i Priscillianisti, come non osò di accusare i Manichei. Ma poichè una congettura sì forte viene autenticata dal fatto, siccome è evidente dalla lettera di quel S. Pontefice a Turibio di Astorga intorno ai Priscillianisti propriamente detti[734]; cesseranno, a mio credere, le meraviglie che Tillemont abbia ingojate come un fanciullo le scandalose calunnie d'Agostino, e Leone, tanto più che le osservo ingojate con pari facilità, non vi dirò dal Baronio[735], da Graveson[736], da Natale Alessandro[737], da Fleury[738], da Racine[739], dall'Orsi[740] forse superstiziosi e bigotti; ma da un Alberto Fabricio[741], da un Cave[742], da un Spanemio[743], da un Erasmo[744], dai Centuriatori di Magdeburgo[745], e perfin da Basnage[746]. O vedete quanti fanciulli và indiscretamente a percuotere la rigida sferza del Sig. Gibbon. Conchiudiamo pertanto col nostro Plutarco, che egli «=Quid ni? Homo est scribendi gnarus, oratio jucunda, venustate et vi quadam praedita, et narrationibus inest elegantia, ac

Sermonem veluti cantor.

non quidem scite, sed tamen suaviter proposuit. Verum sicut in rosa cantharides, ita hic cavendae sunt CALUMNIAE ejus, et INVIDENTIA sub laevibus, et teneris latentes figuris verborum: ne per imprudentiam absurdas, et falsas de praestantissimis (Ecclesiae) viris opiniones concipiamus».

FINE DEL VOLUME QUINTO.

INDICE

DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL QUINTO VOLUME

CAPITOLO XXV. Governo e morte di Gioviano. Elezione di Valentiniano, che associa il fratello Valente all'Impero, e fa la final divisione degl'Imperi dell'Oriente e dell'Occidente. Ribellione di Procopio. Amministrazione civile ed ecclesiastica. La Germania. La Gran-Brettagna. L'Affrica. L'Oriente. Il Danubio. Morte di Valentiniano. I due suoi figli Graziano e Valentiniano II succedono all'Impero Occidentale.

A. D.

363 Stato della Chiesa pag. 5

Gioviano pubblica una tolleranza universale 9

Sua marcia da Antiochia 11

364 Morte di Gioviano 12

Trono vacante 14

Elezione e carattere di Valentiniano 15

È riconosciuto dall'esercito 17

Associa all'Impero il fratello Valente 19

Final divisione degli Imperj d'Oriente e d'Occidente 20

365 Ribellion di Procopio 22

Sua disfatta e morte 27

373 Severa inquisizione contro il delitto di magia in Roma ed in Antiochia 29

364-375 Crudeltà di Valentiniano e di Valente 34

Loro leggi e Governo 37

Valentiniano conserva la tolleranza di religione 41

367-378 Valente fa professione dell'Arrianesimo e perseguita i Cattolici 43

370 Morte d'Atanasio 45

Giusta idea della sua persecuzione 46

Valentiniano raffrena l'avarizia del Clero 49

366-384 Ambizione e lusso di Damaso Vescovo di Roma 52

364-375 Guerra di fuori 55

365 Germania. Gli Alemanni invadono la Gallia 56

368 Valentiniano passa e fortifica il Reno 60

371 Borgognoni 62

Sassoni 64

Britannia. Scoti e Pitti 69

343-366 Loro invasione della Britannia 73

367-370 Ristaurazione della Britannia per mezzo di Teodosio 76

366 Affrica. Tirannia di Romano 79

372 Ribellione di Firmo 81

373 Teodosio ricupera l'Affrica 82

376 Egli è decapitato a Cartagine 85

Stato dell'Affrica 86

365-378 L'Oriente. Guerra Persiana 88

384 Trattato di pace 93

Avventure di Para Re d'Armenia 93

374 Il Danubio. Conquista di Ermanrico 96

366 Causa della guerra Gotica 98

367-369 Ostilità e pace 101

374 Guerra de' Quadi e dei Sarmati 103

375 Spedizione di Valentiniano 106

Gl'Imperatori Graziano e Valentiniano II 109

RIFLESSIONI D'ignoto autore sopra i Capitoli XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV e XXV della Storia della Decadenza e Rovina dell'Impero Romano di Edoardo Gibbon, divise in tre lettere dirette ai Sigg. Foothead e Kirk inglesi cattolici 113

CAPITOLO XXVI. Costumi dei popoli pastori. Progresso degli Unni dalla China in Europa. Fuga dei Goti. Passano il Danubio. Guerra Gotica. Disfatta e morte di Valente. Graziano investe Teodosio dell'Impero Orientale: suo carattere e fine. Pace e stabilimento dei Goti.

365 Terremoti 171

376 Gli Unni ed i Goti 175

Costumi pastorali degli Sciti o dei Tartari 174

Abitazioni 179

Esercizj 181

Governo 184

Situazione ed estension della Scizia o Tartaria 187

Primitiva sede degli Unni 191

201 A. C. Loro guerra co' Chinesi 193

146-87 A. C. Decadenza e rovina degli Unni 196

100 A. C. Loro emigrazioni 196

Unni bianchi di Sogdiana 200

Unni del Volga 201

Loro vittoria sopra gli Alani 202

375 Loro vittorie sui Goti 205

376 I Goti implorano la protezione di Valente 209

Son trasportati sul Danubio nell'Impero Romano 212

Loro angustie e malcontentezza 215

Ribellione de' Goti nella Mesia e prime loro vittorie 218

Penetrano nella Tracia 221

377 Operazioni della guerra Gotica 224

Unione de' Goti con gli Unni, gli Alani ec. 227

378 Vittoria di Graziano contro gli Alemanni 230

Valente marcia contro i Goti 233

Battaglia di Adrianopoli 236

Disfatta de' Romani 238

Morte dell'Imperator Valente 239

Orazion funebre di Valente e dell'esercito 240

I Goti assediano Adrianopoli 242

378-379 Saccheggiano le Province Romane 244

378 Strage della gioventù Gotica nell'Asia 246

379 L'Imperator Graziano investe Teodosio dell'Impero Orientale 248

Nascita e carattere di Teodosio 250

379-382 Sua prudente e felice condotta nella guerra Gotica 254

Divisioni, disfatta, e sommissione de' Goti 258

381 Morte e funerali d'Atanarico 260

386 Invasione e disfatta dei Grutungi o sia Ostrogoti 262

383-395 Stabilimento dei Goti nella Tracia e nell'Asia 265

Ostili lor sentimenti 268

CAPITOLO XXVII. Morte di Graziano. Rovina dell'Arrianesimo. S. Ambrogio. Prima guerra civile contro Massimo. Carattere, amministrazione e penitenza di Teodosio. Morte di Valentiniano II. Seconda guerra civile contro Eugenio. Morte di Teodosio.

379-383 Carattere e condotta dell'Imperator Graziano 271

Suoi difetti 272

383 Malcontentezza delle truppe Romane 274

Ribellione di Massimo nella Britannia 276

Fuga e morte di Graziano 278

383-387 Trattato di pace fra Massimo e Teodosio 280

380 Battesimo ed Ortodossi editti di Teodosio 283

340-380 Arrianesimo di Costantinopoli 286

378 Gregorio accetta la missione di Costantinopoli 290

380 Rovine dell'Arrianesimo in Costantinopoli 292

381 In Oriente 294

Concilio di Costantinopoli 295

Ritirata di Gregorio Nazianzeno 298

380-394 Editti di Teodosio contro gli Eretici 300

385 Esecuzione di Priscilliano e de' suoi compagni 303

374-397 Ambrogio Arcivescovo di Milano 307

385 Sua opposizione con buon successo all'Imperatrice Giustina 309

387 Massimo invade l'Italia 316

Fuga di Valentiniano 318

Teodosio prende le armi a favor di Valentiniano 318

388 Disfatta e morte di Massimo 321

Difetti di Teodosio 327

387 Sedizione d'Antiochia 328

Clemenza di Teodosio 332

390 Sedizione e strage di Tessalonica 333

388 Autorità e condotta d'Ambrogio 336

390 Penitenza di Teodosio 337

388-391 Generosità di Teodosio 341

391 Carattere di Valentiniano 342

392 Sua morte 344

392-394 Usurpazione d'Eugenio 345

Teodosio si prepara per la guerra 347

395 Morte di Teodosio 353

Corruzione di quei tempi 355

L'infanteria depone la propria armatura 356

CAPITOLO XXVIII. Distruzione finale del Paganesimo. Introduzione del culto dei Santi, e delle reliquie fra i Cristiani.

378-395 Distruzione della religione Pagana 358

Stato del Paganesimo in Roma 359

384 Richiesta del Senato per l'altare della vittoria 363

388 Conversione di Roma 366

381 Distruzione de' Tempj nella provincia 369

Il Tempio di Serapide in Alessandria 374

389 Ultima sua destruzione 377

390 La religione Pagana è proibita 382

Indi oppressa 384

390-420 E finalmente estinta 386

Culto dei Martiri Cristiani 389

Riflessioni generali 392

Martiri e reliquie favolose 392

Miracoli 393

Risorgimento del Politeismo 396

Introduzione delle cerimonie pagane 399

RIFLESSIONI D'ignoto autore sopra i Capitoli XXVI, XXVII, XXVIII della Storia della decadenza e rovina dell'Impero Romano di Edoardo Gibbon, divise in tre lettere dirette ai Sigg. Foothead e Kirk, inglesi cattolici 402

FINE DELL'INDICE

NOTE:

1. Le medaglie di Gioviano l'adornano di vittorie, di corone di lauro e di schiavi prostrati. Du Cange Famil. Bizantin. p. 52. L'adulazione è uno stolto suicidio: distrugge se stessa con le proprie mani.

2. Gioviano restituì alla Chiesa τον αρχαιον κοσμον, l'antico decoro; espressione forte e significante; Filostorg. l. VIII. c. 5 con le dissertazioni del Gotofredo p. 329, Sozomeno VI. c. 3. Si esagera da Sozomeno la nuova legge, che condannò il ratto o il matrimonio delle Monache ( Cod. Teodos. l. IX. tit. XXV. leg. 2). Egli suppone che uno sguardo amoroso, l'adulterio del cuore, fosse punito con la morte dall'Evangelico Legislatore.

3. Si confronti Socrate l. III c. 25. e Filostorgio l. VIII. c. 6. con le dissertazioni del Gotofredo. 330.

4. La parola celestiale esprime debolmente l'empia e stravagante adulazione dell'Imperatore verso l'Arcivescovo τἦ πρὸς τον θεὸν τὦν ολων ὁμὸιωσεως; figura di Dio onnipotente. Vedi la lettera originale appresso Atanasio Tom. II. p. 33. Gregorio Nazianzeno ( Orat. XXI. p. 392.) celebra l'amicizia di Gioviano e di Atanasio. I Monaci d'Egitto consigliarono il Primate a far quel viaggio: Tillemont Mem. Eccl. Tom. VIII. p. 221.

5. Il Bleterie rappresenta ingegnosamente Atanasio alla Corte d'Antiochia Hist. de Jovien Tom. I. pag. 131, 148. Egli traduce le singolari ed originali conferenze dell'Imperatore, del Primate d'Egitto, e de' Deputati Arriani. L'Abbate non si mostra soddisfatto delle rozze facezie di Gioviano; ma la parzialità dell'Imperatore per Atanasio prende a' suoi occhi il carattere di giustizia.

6. Il vero tempo della sua morte è oscurato da varie difficoltà: (Tillemont Mem. Eccl. Tom. VIII. p. 719-723). Ma la data del 2. Maggio 373., che sembra più coerente all'istoria ed alla ragione vien confermata dall'autentica vita di lui. Maffei Osservaz. Letterar. Tom. III. p. 81.

7. Vedi le osservazioni del Valesio e Jortin ( Rifles. sull'Istor. Eccl. Vol. IV. p. 38.) sopra la lettera originale d'Atanasio conservataci da Teodoreto (l. IV. c. 3). In alcuni manoscritti vien tralasciata quell'imprudente promessa, forse dai Cattolici gelosi della fama profetica del loro Capo.

8. Atanasio (ap. Teodoret. l. IV. c. 3) magnifica il numero degli Ortodossi, che riempivano tutto il Mondo; παρέξ ὸλὶγων των τα Αρεὶ ου Φρονουντὦν; eccettuati alcuni pochi seguaci della dottrina d'Arrio. Quest'asserzione fu verificata nello spazio di 30. o 40. anni.

9. Socrate (l. III. c. 24.) Gregorio Nazianzeno, ( Orat. IV. p. 131), e Libanio ( Orat. parent. c. 148, p. 369) esprimono i viventi sensi delle rispettive loro fazioni.

10. Temist. Orat. V. p. 63-71, edit. Harduin. Paris 1684. L'Ab. della Bleterie giudiziosamente osserva ( Hist. de Jovien Tom. II. pag. 199.) che Sozomeno ha passato in silenzio la general tolleranza, e Temistio lo stabilimento della religione Cattolica. Ciascheduno di essi ha voltato l'occhio lungi da quell'oggetto, che non gli piaceva, ed ha procurato di sopprimere quella parte dell'editto, che secondo la propria opinione, era meno onorevole all'Imperator Gioviano.

11. Οι δε Αντίοχεις ουκ ηδεως δὶεκειντο πρὸς ὰυτὸν, ὰλλ’έπεσκωπτον ὰυτὸν ωδαὶς καὶ παροδὶαις καὶ καλουμενοις Φαμωσοις: E quelli d'Antiochia non si portavan piacevolmente verso di esso: ma l'insultavano con canzoni, con motti satirici, e con quelli che chiaman libelli famosi. Giovanni Antioch. in Excerpt. Valesian. p. 845. Possono ammettersi le satire d'Antiochia anche su debolissime prove.

12. Si paragoni Ammiano (XXV. 10.) che omette il nome dei Batavi, con Zosimo (l. III. p. 197.) che trasferisce la scena dell'azione da Reims a Sirmio.

13. Quos capita scholarum ordo castrensis appellat. Ammiano XXV. 10, e Vales. ib.

14. Cujus vagitus pertinaciter reluctantis, ne in curuli sella veheretur ex more, id quod mox accidit, protendebat. Augusto ed i Successori di lui avevan chiesta rispettosamente la dispensa dell'età per li figliuoli o nipoti, che avevano innalzati al Consolato. Ma la sella curule del primo Bruto non era mai stata disonorata da un bambolo.

15. L'Itinerario d'Antonino pone Dadastana distante 125 miglia da Nicea, e 117 da Ancira (Wesseling. Itinerar. p. 142). Il Pellegrino di Bordò, tralasciando alcune fermate, riduce tutto quello spazio da 242 a 181 miglia: Wesseling. p. 574.

16. Vedi Ammiano (XXV. 10.) Eutropio (X. 18.), che potè per avventura trovarsi presente, Girolamo (Tom. I. p. 26. ad Heliodorum ), Orosio (VII. 31), Sozomeno (l. VI. c. 6), Zosimo (lib. III. p. 197. 198.) e Zonara (Tom. II. l. XIII. p. 28. 29). Non può sperarsi un perfetto accordo fra loro, nè staremo a discutere le minute differenze che vi si trovano.

17. Ammiano, dimenticatosi del solito suo candore e buon senso, paragona la morte dell'innocente Gioviano a quella del secondo Affricano, che aveva eccitato i timori e lo sdegno della fazion popolare.

18. Grisostomo Tom. I, p. 336. 344. Edit. Monfaucon. L'oratore Cristiano procura di confortare la vedova con esempi d'illustri avversità; ed osserva che fra nove Imperatori (includendovi Gallo Cesare) che avevan regnato al suo tempo, due soli (Costantino e Costanzo) eran morti di morte naturale. Tali vaghe consolazioni non hanno mai servito ad asciugare una lacrima.

19. Sembra, che dieci giorni difficilmente potessero esser sufficienti per la marcia e per l'elezione. Ma possiamo osservare in primo luogo, che i Generali potevano ordinar l'uso speditivo delle pubbliche poste, per se stessi, per i loro famigliari e per i messaggi; secondariamente, che le truppe marciavano, per comodo delle città, in più divisioni; e che la fronte della colonna poteva essere a Nicea, quando la retroguardia trovavasi ad Ancira.

20. Ammiano XXVI. 1. Zosim. l. III. p. 198. Filostorg. l. VIII. c. 8. e Gotofred. dissert. p. 334. Filostorgio, il quale pare che avesse delle importanti ed autentiche notizie, attribuisce la scelta di Valentiniano al Prefetto Sallustio, al Generale Arinteo, a Dagalaifo Conte dei domestici, ed al patrizio Daziano, le pressanti raccomandazioni dei quali da Ancira ebbero una grande influenza nell'elezione.

21. Ammiano XXX. 7. 9. e Vittore il giovane hanno somministrato il ritratto di Valentiniano, che dee naturalmente precedere ed illustrare l'istoria del suo regno.

22. In Antiochia, dove era obbligato a seguire l'Imperatore nel tempio, ei percosse un sacerdote, che avea preteso di purificarlo coll'acqua lustrale. Sozomeno l. VI. c. 6. Teodoreto l. III. c. 15. Tal pubblica provocazione poteva convenire a Valentiniano; ma essa non dà luogo all'indegna accusa del filosofo Massimo, che suppone qualche più privata ingiuria. Zosimo l. IV. p. 200, 201.

23. Socrate l. IV. Da Sozomeno (l. VI. c. 6.) e da Filostorgio (l. VII. c. 7. con le Dissertazioni del Gotofredo p. 293) vi si interpone un precedente esilio a Melitene o nella Tebaide. (Il primo potrebbe esser vero).

24. Ammiano, in una lunga ed inopportuna digressione (XXVI. 1. e Vales. iv. ) inconsideratamente suppone d'intender egli una questione astronomica, della quale i suoi lettori siano all'oscuro. Essa è trattata con più giudizio, ed a proposito da Censurino ( De die Natal. c. 20.) e da Macrobio ( Saturnal. l. I. c. 12-16). Il nome di bisestile, che indica l'anno di cattivo augurio (Agostino ad Januar. Epist. 119.) è nato dalla ripetizione del giorno sesto avanti le calende di Marzo.

25. Il primo discorso di Valentiniano è pieno in Ammiano, (XXVI. 2.) conciso e sentenzioso in Filostorgio (l. VIII.).

26. Si tuos amas, Imperator, optime, habes fratrem: si Rempublicam, quaere quem vestias: Ammiano XXVI. 4. Nella division dell'imperio, Valentiniano ritenne per sè quell'ingenuo Consigliere (c. 6.).

27. In Suburbano Ammiano XXVI. 4. Il famoso Hebdomon, o campo di Marte, era distante sette stadj, o sette miglia da Costantinopoli. Vedi Vales. ed il suo fratello. Iv. e Ducange Const. l. II. p. 140, 141, 172, 173.

28. Participem quidem legitimum potestatis; sed in modum apparitoris morigerum, ut progrediens aperiet textus. Ammiano XXVI. 4.

29. Nonostante la testimonianza di Zonara, di Suida, e della Cronica Pasquale, il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 671.) brama di non dar fede a questi racconti sì vantaggiosi per un Pagano.

30. Eunapio celebra ed esagera i patimenti di Massimo (p. 82. 83). Egli confessa però che questo Sofista o mago, reo favorito di Giuliano, e personal nemico di Valentiniano, fu rilasciato libero, mediante il pagamento d'una piccola multa.

31. Il Tillemont (Tom. V. p. 21.) ha esaminato e confutato quelle illimitate asserzioni di general disgrazia che si trovano app. Zosimo l. IV. p. 201.

32. Ammiano XXVI. 5.

33. Ammiano dice in termini generali, subagrestis ingenii, nec bellicis, nec liberalibus studiis eruditus: Ammiano XXXI. 14. L'oratore Temistio, con l'impertinenza propria di un Greco, desiderò allora per la prima volta di parlar la lingua Latina, dialetto del suo Sovrano, την δὶαλεκτον κρατουσαν; dialetto Imperiale: Orat. VI. pag. 71.

34. La parola ανεψὶος cognatus consobrinus, esprime un grado incerto di parentela, o di consanguinità. Vedi Vales. ad Ammian. XXIII. 3. Forse la madre di Procopio era sorella di Basilina madre dell'Apostata e del Conte Giuliano zio del medesimo. Du Cange Fam. Byzant. p. 49.

35. Ammiano XXIII. 3. XXIV. 6. Ei fa menzione di tal voce con molta dubbiezza. Susurravit obscurior fama; nemo enim dicti auctor extitit verus. Giova però l'osservare, che Procopio era Pagano; quantunque la sua religione sembra che non apportasse favore nè danno alle sue pretensioni.

36. Tra i suoi luoghi d'asilo fu una casa di campagna dell'eretico Eunomio. Il padrone di essa era lontano, innocente, e non consapevole del fatto; pure appena evitar potè la sentenza di morte, e fu bandito nelle remote regioni della Mauritania: Filostorg. l. IX. c. 5. 8. e Gotofredo Dissert. p. 369. 378.

37. Hormisdae maturo juveni, Hormisdae regalis illius filio potestatem Proconsulis detulit, et civilia, more veterum et bella recturo; Ammiano XXVI. 8. Il Principe Persiano si trasse fuori da tal pericolo con onore e sicurezza, e dipoi (l'anno 380), gli fu restituito il medesimo straordinario uffizio di Proconsole della Bitinia (Tillemont Hist. des Emper. Tom. V. p. 204). Io non so se la razza di Sassan si propagasse. Trovo nell'anno 514 un Papa Ormisda; ma egli era nativo di Frusino nell'Italia (Pagi Brev. Pontif. T. I. pag. 247).

38. Questa ribelle fanciulla fu in seguito moglie dell'Imperator Graziano; ma morì giovane e senza figli. Vedi Du Cange Fam. Byzant. p. 48, 59.

39. Sequimini culminis summi prosapiam. Tale era il linguaggio di Procopio, che affettava di sprezzare l'oscura nascita e la fortuita elezione dell'ignobil Pannonio. Ammiano XXVI. 7.

40. Et dedignatus hominem superare certamine despicabilem, auctoritatis et celsi fiducia corporis, ipsis hostibus jussit suum vincere rectorem: atque ita turmarum antesignanus umbratilis comprehensus suorum manibus. La robustezza e la beltà d'Arinteo, nuovo Ercole, vien celebrata da S. Basilio, il quale suppone che Dio lo creasse come un modello inimitabile della specie umana. I Pittori e gli Scultori non sapevano esprimere la sua figura; gli Storici nel riferire, che fanno, le imprese di lui, sembrano favolosi (Ammiano XXVI. e Vales. ib. ).

41. Il medesimo campo di battaglia si pone in Licia da Ammiano, e da Zosimo a Tiatira, che sono alla distanza di 150. miglia fra loro. Ma Tiatira alluitur Lyco (Plin. Histor. Nat. V. 31, Cellar Geogr. Antiq. Tom. II. p. 79) ed i copisti facilmente poteron cangiare un ignoto fiume in una ben nota provincia.

42. Le avventure, l'usurpazione e la caduta di Procopio vengono regolarmente riferite da Ammiano (XXVI. 6. 7. 8. 9. 10.) e da Zosimo (l. IV. p. 203-210). Spesse volte s'illustrano, e di rado si contraddicono fra loro. Temistio ( Orat. VII. p. 91. 92.) vi aggiunge qualche vil panegirico, ed Eunapio (p. 83. 84.) qualche maligna satira.

43. Liban. De ulcisc. Julian. nece c. IX. p. 158, 159. Il Sofista deplora la pubblica frenesia, ma non accusa (neppur dopo la loro morte) la giustizia degli Imperatori.

44. I Giureconsulti Francesi ed Inglesi dei nostri tempi accordano la teoria, e negan la pratica dell'arte magica: Denisart Recueil de decis. de Jurispr. Vedi Sorciers T. IV. p. 553. Blackstone Commment. Vol. IV. p. 60. La ragione privata sempre suol prevenire o avanzare il sapere pubblico; ond'è che il Presidente di Montesquieu ( Esprit des Loix l. XII. c. 5, 6.) rigetta l'esistenza della magia.

45. Vedi le opere di Bayle Tom. III. p. 567-589. Lo Scettico di Rotterdam presenta, secondo il suo costume, uno strano mescuglio di vaghe cognizioni, e di vivace ingegno.

46. I Pagani distinguevan la magia buona dalla cattiva, la teurgica dalla goetica ( Hist. de l'Acad. ec. T. VII. p. 25). Ma non avrebber potuto difendere tale oscura distinzione contro l'acuta logica del Bayle. Nel sistema Giudaico e nel Cristiano tutti i demoni sono spiriti infernali; ed ogni commercio con essi è idolatria, apostasia ec. che merita morte e dannazione.

47. La Canidia d'Orazio ( Carm. l. V. od. 5. con le illustrazioni di Dacier e di Sanadon ) è una strega volgare. L'Erictone di Lucano (Pharsal. VI. 430-830.) è molesta e disgustosa, ma qualche volta sublime. Essa riprende la lentezza delle furie: e minaccia con tremenda oscurità di pronunziare i veri lor nomi, di scuoprire il vero infernale aspetto di Ecate, e d'invocar le segrete potestà che sono sotto l'inferno ec.

48. Genus hominum potentibus infidum, sperantibus fallax, quod in civitate nostra et vetabitur semper et retinebitur: Tacit. Hist. I. 22. Vedi Agostin. de Civ. Dei l. VIII. c. 19. ed il Cod. Teodos. l. IX. Tit. XXVI. col Comment. del Gotofredo.

49. La persecuzione d'Antiochia fu cagionata da una colpevole consultazione. Si posero le ventiquattro lettere dell'alfabeto intorno ad un tripode magico; ed un mobile agnello, che era stato collocato nel centro, indicò nel nome del futuro Imperatore le quattro prime lettere Φ, Ε, Ο, Δ. Teodoro (forse con molti altri che avevan quelle fatali sillabe nel loro nome) fu condannato a morte. Teodosio successe nel trono. Lardner ( Testim. Pagan. Vol. IV. p. 353-372.) ha esaminato copiosamente e bene quest'oscuro fatto del regno di Valente.

50.

Limus ut hic durescit, et haec ut cera liquescit

Uno eodemque igni...

Virgil. Bucol. VIII. 80.

Devovit absentes, simulacraque cerea figit:

Ov. in Epist. Hipsi. ad Jason. 91.

Tali vane incantazioni poteron commuovere lo spirito, ed accrescer la malattia di Germanico. Tacit. Annal. II. 69.

51. Vedi Heinecc. Antiq. Jur. Rom. Tom. II. p. 353. ec. Cod. Teod. l. IX. Tit. VIII, col Comment. del Gotofred.

52. È descritta, ed assai probabilmente esagerata la crudele inquisizione di Roma e di Antiochia da Ammiano (XXVIII, 1. XXIX, 1. 2.), e da Zosimo (l. IV. p. 216. 218). Il filosofo Massimo fu con qualche ragione involto nell'accusa di magia (Eunap. in vit. Sophist. p. 88. 89.), ed il giovane Grisostomo, che accidentalmente aveva trovato uno dei libri proscritti, si credè perduto. Tillemont Histoir. des Emper. Tom. V. p. 340.

53. Si consultino gli ultimi sei libri d'Ammiano, e specialmente i ritratti dei due fratelli reali (XXX. 8. 9. XXXI. 14). Il Tillemont (Tom. V. pag. 12-18. p. 127-133.) ha raccolto da tutta l'antichità le virtù ed i vizi loro.

54. Vittore il giovane asserisce, che egli era valde timidus: pure alla testa d'un esercito si portava con decente fermezza, come avrebbe fatto quasi qualunque altro. Il medesimo Istorico si propone di provare che la sua collera non era dannosa. Ammiano però osserva con maggior candore e giudizio, che incidentia crimina ad contemptam vel laesam Principis amplitudinem trahens in sanguinem saeviebat.

55. Cum esset ad acerbitatem naturae calore propensior... poenas per ignes augebat et gladios. Ammiano XXX. 8. ved. XXVII. 7.

56. Ho trasferito la taccia d'avarizia da Valente a' suoi servi. Questa passione appartiene più propriamente ai Ministri che ai Re, nei quali per ordinario viene estinta dal dominio assoluto.

57. Egli esprimeva alle volte una sentenza di morte in aria di scherzo. Abi, comes, et muta ei caput, qui sibi mutari Provinciam cupit. Un ragazzo, che avea sciolto troppo presto un can da caccia Spartano, un artefice che avea fatto una bella corazza, in cui mancavano pochi grani del giusto peso, ec., furon vittime del suo furore.

58. Erano innocenti tre apparitori ed un agente di Milano, che Valentiniano condannò per aver significato una legal citazione. Ammiano (XXVII. 7.) stranamente suppone che tutti coloro, i quali erano stati ingiustamente condannati, si venerassero come martiri dai Cristiani. L'imparziale silenzio di lui non ci permette di credere, che Rodano, gran Ciamberlano, fosse arso vivo per un atto d'oppressione: Cron. Pasq. p. 302.

59. Ut bene meritam in sylvas jussit abire Innoxiam. Ammian. XXIX. 5. e Vales. ib.

60. Vedi Cod. Justin. lib. VIII. Tit. III. leg. 2. Unus quisque sobolem suamn nutriat. Quod si exponendam putaverit, animadversioni, quae constituta est, subiacebit. Io non mi starò a mescolare presentemente nella disputa insorta fra Noodt e Bynkershoek, con quali pene e per quanto tempo tal pratica opposta alla natura si fosse condannata o abolita dalle leggi, dalla filosofia e dalla maggior cultura della società.

61. Questi salutari stabilimenti sono indicati nel codice Teodosiano lib. XIII. Tit. III. De Professoribus et Medicis, e lib. XIV. Tit. IX. De studiis liberalibus urbis Romae. Oltre il Gotofredo, solita nostra guida, si può consultare il Giannone ( Stor. di Napoli Tom. I. p. 105. 111) che ha trattato di quest'importante soggetto con lo zelo e con la curiosità d'un letterato che studia l'istoria del suo paese.

62. Cod. Teodos. lib. I. Tit. XI. col Paratitlo del Gotofredo, che diligentemente riunisce tutto ciò che si trova nel resto del Codice.

63. Tre versi d'Ammiano (XXXI. 14) equivalgono a tutta una orazione di Temistio (VIII. p. 101-120.) piena di adulazione e pedanteria e di luoghi comuni di Morale. L'eloquente Thomas (Tom. I, p. 336-396) si è dilettato nel celebrar le virtù ed il genio di Temistio che non fu indegno del secolo, nel quale visse.

64. Zosimo l. IV. p. 102, Ammiano XXX. 9. La riforma, che ei fece, di dispendiosi abusi, potè dargli diritto alla lode, in provinciales admodum parcus, tributorum ubique molliens sarcinas. Alcuni chiamavano avarizia la sua frugalità: Girolam. Cronic. p. 186.

65. Testes sunt leges a me in exordio imperii mei datae: quibus unicuique quod animo imbibisset colendi libera facultas tributa est. Cod. Teodos. lib. IX. Tit. XVI. leg. 9. A questa dichiarazione di Valentiniano possiamo aggiungere le varie testimonianze di Ammiano (XXX. 9), di Zosimo (lib. IV. p. 204.) e de Sozomeno (l. VI. c. 7. 27). Il Baronio sarebbe naturalmente indotto a biasimare questa ragionevole tolleranza: Annal. Eccl. an. 370. num. 129. 132. an. 375. n. 3. 4.

66. Eudosso era d'un naturale timido e dolce. Quando battezzò Valente nell'anno 367. doveva essere molto vecchio, poichè aveva studiato la teologia cinquantacinque anni avanti sotto il dotto e pio martire Luciano. Filostorg. l. II c. 14-16, l. IV. c. 4. col Gotofred. p. 82-206. e Tillemont Mem. Eccles. Tom. V. p. 474. 480. ec.

67. Gregorio Nazianzeno ( Orat. XXV. p. 432.) insulta lo spirito persecutore degli Arriani, come un infallibil sintomo d'errore e d'eresia.

68. Questo schizzo del governo Ecclesiastico di Valente è tratto da Socrate (l. IV.), da Sozomeno (l. VI.), da Teodoreto (l. IV.), e dalle immense compilazioni del Tillemont (specialmente dal Tom. VI. VIII. e IX.).

69. Il D. Jortin. ( Osservaz. sull'Istor. Eccles. Vol. IV. p. 78.) ha già concepito ed insinuato l'istesso sospetto.

70. Questa riflessione è così ovvia e forte, che Orosio (l. VII. c. 32. 33.) differisce la persecuzione fino ad un tempo posteriore alla morte di Valentiniano. Socrate dall'altra parte, suppone (l. III. c. 21.) che fosse quietata da una filosofica orazione, che pronunziò Temistio l'anno 374. ( Orat. XXII. p. 154. solamente in Latino). Tali contraddizioni diminuiscono l'evidenza ed abbreviano il termine della persecuzione di Valente.

71. Il Tillemont, da me seguitato e compendiato, ha tratto ( Mem. Eccles. Tom. VIII. p. 153-167.) le più autentiche circostanze dai Panegirici dei due Gregori, l'uno fratello e l'altro amico di Basilio. Le lettere di Basilio medesimo (Dupin Bibl. Eccles. Tom. II. p. 155-180.) non presentano l'immagine d'una persecuzione molto viva.

72. Basilius Caesarensis Episcopus Cappadociae clarus habetur... qui multa continentiae et ingenii bona uno superbiae malo perdidit. Questo irriverente passo perfettamente combina con lo stile e col carattere di S. Girolamo. Non si trova nell'Edizione Scaligeriana della sua Cronica; ma Isacco Vossio l'ha trovato in alcuni antichi manoscritti, che non erano stati corretti dai Monaci.

73. Quella nobile e caritatevole fabbrica (quasi un'altra città) sorpassava in merito se non in grandezza, le piramidi o le mura di Babilonia. Essa era destinata principalmente a ricevere i lebbrosi: Gregor. Nazianzeno Orat. XX. pag. 439.

74. Cod. Teodos. l. XII. Tit. I. leg. 63. Il Gotofredo (Tom. IV. p. 409-413) fa l'uffizio di Commentatore e d'Avvocato. Il Tillemont ( Mem. Ecoles. Tom. VIII. p. 808. ) suppone una seconda legge per iscusare gli Ortodossi suoi amici, che avevano male rappresentato l'editto di Valente e soppresso la libertà della scelta.

75. Vedi Danville Descript. de l'Egypt. p. 74. In seguito esamineremo gl'Instituti Monastici.

76. Socrate l. IV. c. 24. 25., Orosio l. VII. c. 33. Girol. Cron. p. 189. e Tom. II. p. 212. I Monaci dell'Egitto facevano molti miracoli, che provan la verità della loro fede. Benissimo, (dice Jortin Osservaz. Vol. IV. p. 79.) ma chi prova la verità di questi miracoli?

77. Cod. Teodos. lib. XVI. Tit. II. leg. 20. Il Gotofredo (Tom. IV. pag. 49.), seguitando l'esempio del Baronio, raccoglie senza parzialità tutto quello che i Padri hanno detto relativamente a questa importante legge, lo spirito della quale molto tempo dopo fu fatto risorgere dall'Imperator Federigo II. da Eduardo I. Re d'Inghilterra, e da altri Principi Cristiani, che regnarono dopo il duodecimo secolo.

78. L'espressioni, che ho adoperate, son deboli e moderate, se si paragonino con le veementi invettive di Girolamo (Tom. I. p. 13. 45. 144). Fu anche ad esso rinfacciata la colpa, che egli imputava ai Monaci fratelli di lui; e lo scellerato, il versipelle fu pubblicamente accusato come amante della vedova Paola. (Tom. II. p. 363). Ei godeva senza dubbio l'affezione sì della madre che della figlia; ma dichiara che non abusò mai della sua autorità in favore di alcun sensuale o a sè vantaggioso disegno.

79. Pudet dicere Sacerdotes Idolorum, mimi, et aurigae, et scorta haereditates capiunt: solis Clericis ac Monacis hac lege prohibetur. Et non prohibetur a persecutoribus, sed a Principibus Christianis. Nec de lege quaeror, sed doleo, cur meruerimus hanc legem. Girolamo (Tom. I. p. 13) prudentemente indica la segreta politica di Damaso, suo protettore.

80. Tre parole di Girolamo, Sanctae memoriae Damasus (Tom. II. p. 109.), lavano tutte le sue macchie; ed abbagliano i devoti occhj del Tillemont: Mem. Eccles. T. VIII p. 386. 424.

81. La Basilica di Sicinino o di Liberio è probabilmente la Chiesa di S. Maria Maggiore sul colle Esquilino. Baronio an. 367. num. 3. e Donat. Rom. Antiq. et nov. lib. IV. c. 3. p. 462.

82. Girolamo stesso è costretto a confessare crudelissimae interfectiones diversi sexus perpatratae. Cron. p. 186. Ma per strana combinazione ci è restato un libello, o domanda originale di due Preti del partito contrario. Essi affermano, che furon bruciate le porte della Basilica, e scoperchiatone il tetto; che Damaso marciò alla testa del suo Clero, di scavatori di sepolcri, di cocchieri e di gladiatori stipendiati; che non fu ucciso veruno del suo partito, ma che vi furon trovati centosessanta corpi morti. Tal libello fu pubblicato dal P. Sirmondo nel primo Tomo delle sue opere.

83. I nemici di Damaso lo chiamavano Auriscalpius Matronarum, sollecitatore degli orecchj delle matrone.

84. Gregorio Nazianzeno ( Orat. XXXII. p. 526.) descrive la vanità ed il lusso dei Prelati che presedevano alle città Imperiali; gli aurei loro cocchi, i focosi destrieri, ed il numeroso seguito ec. La turba dava luogo come ad una bestia selvaggia.

85. Ammiano XXVII. 3. Perpetuo Numini verisque ejus cultoribus. Che incomparabil condiscendenza d'un Politeista!

86. Ammiano, che fa una bella narrazione della sua Prefettura (XXVII. 9.), lo chiama praeclarae indolis gravitatisque Senator (XXII. 7. e Vales. ib.). Una curiosa Inscrizione (ap. Gruter. MCII, n. 2.) contiene in due colonne gli onori civili e religiosi di esso. In una vien dichiarato Pontefice del Sole e di Vesta, Augure, Quindecemviro, Jerofante ec. ec. Nell'altra 1. Questore candidato, più probabilmente titolare, 2. Pretore, 3. Correttore della Toscana e dell'Umbria, 4. Consolare della Lusitania, 5. Proconsole dell'Acaja, 6. Prefetto di Roma, 7. Prefetto del Pretorio d'Italia, 8. dell'Illirico, 9. Console eletto; ma egli morì prima che cominciasse l'anno 385. Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. V. p. 241, 736.

87. Facite me Romanae urbis Episcopum, et ero protinus Christianus: Girolam. Tom. II. p. 165. Egli è più che probabile, che Damaso non avrebbe comprato a tal prezzo la conversione di esso.

88. Ammiano XXVI. 5. Valesio aggiunge una lunga e stimabile nota sopra il Maestro degli Uffizj.

89. Ammiano XXVII. 1. Zosimo l. IV. p. 208. Vien soppressa la vergogna dei Batavi da un soldato contemporaneo per un riguardo all'onor militare, che non poteva interessare un Retore Greco del seguente secolo.

90. Vedi Danville Not. dell'ant. Gallia p. 587. Il nome della Mosella, che non è specificato da Ammiano, viene indicato chiaramente da Mascov Istor. degli ant. Germani VII. 2.

91. Son descritte queste battaglie da Ammiano (XXVII. 2) e da Zosimo (l. IV. p. 209.) il quale suppone che Valentiniano vi si trovasse presente.

92. Studio sollicitante nostrorum occubuit: Ammiano XXVII. 10.

93. Questa spedizione vien riferita da Ammiano (XXVII. 10) e celebrata da Ausonio ( Mosell. 421.) il quale stoltamente suppone, che i Romani ignorassero le sorgenti del Danubio.

94. Immanis enim natio jam inde ab incunabulis primis varietate casuum imminuta, ita saepius adolescit, ut fuisse longis soeculis aestimetur intacta: Ammiano XXVII. 5. Il Conte di Buat ( Histor. des Peuples de l'Europ. Tom. VII. p. 370.) attribuisce la fecondità degli Alemanni alla facilità con cui adottavano gli stranieri.

95. Ammiano XXVIII. 2. Zosimo l. IV. p. 214. Vittore il Giovane fa menzione del genio meccanico di Valentiniano: nova arma meditari; fingere terra seu limo simulacra.

96. Bellicosos et pubis immensae viribus affluentes, et ideo metuendos finitimis universis. Ammiano XXVIII. 5.

97. Io son sempre inclinato a sospettare, che gl'Istorici e i viaggiatori facilmente riducano a leggi generali alcuni fatti straordinarj. Ammiano attribuisce un costume simile all'Egitto; ed i Chinesi l'hanno attribuito al Tapsin o all'Impero Romano (De Guignes Histor. des Huns Tom. II. p. I. p. 79.)

98. Salinarum finiumque causa Alemannis saepe jurgabant: Ammiano XXVIII. 5. Può esser che si disputassero il possesso della Sala, fiume che produceva del sale, e che era stato l'oggetto di antiche pugne. Tacit. Annal. XIII. 57. e Lipsio ib.

99. Jam inde temporibus priscis sobolem se esse Romanam Burgundii sciunt; e tale incerta tradizione appoco appoco prese un aspetto regolare: Oros. l. VII. c. 32. Essa è distrutta dalla decisiva testimonianza di Plinio, che fece l'istoria di Druso, e militò in Germania (Plin. Sec. Epist. III. 5.) dentro i sessant'anni dalla morte di quell'eroe: Germanorum generae quinque Vindili, quorum pars Burgundiones ec. Hist. nat. IV. 28.

100. Le guerre e le negoziazioni relative a' Borgognoni ed agli Alemanni son distintamente riferite da Ammiano Marcellino (XXVII. 5. XXIX. 4. XXX. 1.) Orosio (l. VII. c. 33) e le Croniche di Girolamo e di Cassiodoro determinano alcune date, ed aggiungono varie circostanze.

101. Επι τον αυχενα της Κιμβρικη χερσονεσου Σαξονες nel più stretto del Chersoneso Cimbrico i Sassoni. All'estremità Settentrionale della penisola (ch'è il promontorio Cimbrico di Plinio IV. 27) Tolomeo pone il restante dei Cimbri, e riempie l'intervallo fra i Sassoni ed i Cimbri con sei oscure tribù, che erano unite insieme fino dal sesto secolo sotto la nazional denominazione di Dani. Vedi Cluver. German. Antiq. l. III. c. 21. 22. 23.

102. Danville ( Etablissem. des etats de l'Europe p. 19. 26) ha determinato gli estesi limiti della Sassonia al tempo di Carlo Magno.

103. La flotta di Druso invano tentò di passare o anche d'avvicinarsi al Sund (chiamato per una facile somiglianza le colonne d'Ercole ) e non fu mai più intrapresa tale spedizione navale: Tacit. de morib. Germ. c. 34. La cognizione che i Romani acquistarono delle forze marittime del Baltico (c. 44. 45) l'ottennero col mezzo dei viaggi che facevano per terra in cerca dell'ambra.

104.

Quin et Aremoricus piratam Saxona tractus.....

Sperabat; cui pelle salum sulcare Britannum

Ludus; et assuto glaucum mare findere lembo.

Sidon. in Panegyr. Avit. 369.

Il genio di Cesare imitò in una particolare occasione quei rozzi ma leggieri vascelli, che s'usavano ancora dagli abitanti della Britannia ( Comment. de Bello Civ. I. 51) e Guichardt ( Nouv. Memoir. milit. Tom. II. p. 41. 42). Le navi Britanniche farebbero al presente stupire il genio di Cesare.

105. Posson trovarsi le migliori notizie originali, rispetto ai pirati Sassoni, appresso Sidonio Apollinare (l. VIII. Epist. VI. p. 223, edit. Sirmond. ), ed il miglior Commentario appresso l'Abb. du Bos ( Hist. crit. de la Monar. Fran. Tom. I. l. I c. 16. p. 148-155. Vedi anche p. 78. 79).

106. Ammiano (XXVIII. 5.) giustifica tale mancanza di fede ai pirati e ladroni; ed Orosio (l. VII. c. 32.) esprime più chiaramente la vera lor colpa, virtute atque agilitate terribiles.

107. Simmaco (l. II. ep. 16.) pretende di far tuttavia menzione dei sacri nomi di Socrate e della filosofia. Sidonio, Vescovo di Clermont, potea condannare (l. VIII. epist. 6.) con minor incoerenza i sacrifizi umani dei Sassoni.

108. Nel principio del secolo passato il dotto Cambden fu costretto a distruggere con rispettoso scetticismo il Romanzo di Bruto Troiano, che ora è sepolto in una tacita obblivione con Scota figlia di Faroah, e la numerosa lor discendenza. Pure io so, che si trovano ancora fra gli originali nativi di Irlanda molti campioni della colonia Milesia. Un popolo, malcontento della propria condizione presente, s'attacca ad ogni visione di passata o futura sua gloria.

109. Tacito, o piuttosto Agricola suocero di lui, potè osservare la carnagione Germanica o Spagnuola di alcune tribù Britanniche; ma la più moderata e dichiarata loro opinione era questa: In universum tamen aestimanti, Gallos vicinum solum occupasse, credibile est. Eorum sacra deprehendas.... Sermo haud multum diversus. ( In vitae Agric. c. XI.) Cesare ha osservato la somiglianza della lor religione ( Comm. de Bell. Gallic. VI. 13.); ed al suo tempo l'emigrazione dalla Gallia Belgica era un fatto recente o almeno istorico (V. 10). Cambden, lo Strabone Britannico, ha modestamente determinato le nostre genuine antichità. ( Britan. Vol. I. Inter. p. II. XXXI.)

110. Negli oscuri e dubbi sentieri dell'antichità Caledonia ho preso per miei condottieri due dotti ed ingegnosi abitatori di montagne, che per la nascita e l'educazione loro erario specialmente adattati a tale uffizio. Vedi le Dissertazioni critiche sull'origine, antichità ec. dei Caledoni del Dott. Gio. Macpherson, Londr. 1768, in 4. e l'Introduzione all'Istoria della Gran Brettagna e dell'Irlanda di Giacomo Macpherson, Scud. Londr. 1773, 4, terza ediz. Il Dott. Macpherson era un ministro dell'isola di Sky; ed è una circostanza che fa onore al nostro secolo, che nella più remota fra l'Ebridi sia stata composta un'opera piena d'erudizione e di critica.

111. Si è fatta risorgere negli ultimi momenti di sua rovina, e vigorosamente si è sostenuta la discendenza Irlandese degli Scoti dal Rev. Whitaker ( Istor. di Manchester vol. I. p. 430. 431 ed Istoria genuina dei Brettoni provata ec. p. 154. 293). Pure confessa egli, 1. che gli Scoti d'Ammiano Marcellino (an. 340) erano già stabiliti nella Caledonia, e che gli Scrittori Romani non danno alcun indizio della loro emigrazione da un altro paese; 2. che tutti i racconti di tali emigrazioni, che si son fatti o ammessi dai Bardi Irlandesi, dagli Istorici di Scozia o dagli antiquari Inglesi (Bucanano, Cambden, Usher, Stillingfleet ec.) sono interamente favolosi; 3. che tre delle tribù Irlandesi mentovate da Tolomeo (anno 150) eran d'origine Caledonia; 4. che il ramo cadetto dei Principi Caledoni della casa di Fingal acquistò e possedè il regno dell'Irlanda. Dopo queste concessioni la differenza che resta fra il Whitaker ed i suoi avversari, è piccola ed oscura. L'istoria genuina, che egli produce, d'un Fergus cugino d'Ossian, che si trasferì (nell'anno 320.) dall'Irlanda nella Caledonia, è fondata sopra un supplimento congetturale alla poesia Ersa, e sopra la debole testimonianza di Riccardo di Cirencester, Monaco del secolo XIV. Il vivace spirito dell'erudito ed ingegnoso Antiquario l'ha indotto a dimenticare la natura d'una questione, che con tanta veemenza egli discute, e tanto assolutamente decide.

112. Hyeme tumentes ac saevientes undas calcastis oceani sub remis vestris... insperatam Imperatoris faciem Britannus expavit: Jul. Firmic. Matern. de error. prop. Religion. p. 464. edit. Gronov. ad calc. Minuc. Felic. Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. IV. p. 336.

113. Liban. Orat. parent. c. XXXIX. p. 264. Questo curioso passo è sfuggito alla diligenza degli Inglesi nostri antiquari.

114. I Caledoni lodavano e desideravano l'oro, i destrieri, i lumi ec. dello straniero. Vedi la Dissert. del D. Blair sopra Ossian Vol. II. p. 343. e l'Introduzione di Macpherson p. 241-286.

115. Lord Littleton ha riferito circostanziatamente ( Istor. d'Enric. II. Vol. I. pag. 182.) e David Darymple ha brevemente rammentato ( Annal. di Scozia Vol. I. p. 69) una barbara irruzione degli Scoti in un tempo (an. 1137) in cui la legge, la religione e la società dovevano avere addolcito gli antichi loro costumi.

116. Attacotti bellicosa hominum natio: Ammiano XXVII. 8. Cambden ha restituito ( Introd. p. CLIII) il loro vero nome nel testo di Girolamo. Le truppe degli Attacotti, che Girolamo aveva veduto nella Gallia, furono in seguito poste nell'Italia e nell'Illirico: Notit. l. VIII. XXXIX. XL.

117. Cum ipse adolescentulus in Gallia viderim Attacottos (o Scotos) gentem Britannicam humanis vesci carnibus; et cum per silvas porcorum greges et armentorum pecudumque reperiant, pastorum nates, et feminarum papillas solere abscindere; et has solas ciborum delicias arbitrari. Tale è la testimonianza di Girolamo ( Tom. II. p. 75), di cui non ho ragione di porre in dubbio la veracità.

118. Ammiano ha succintamente descritto (XX. 1. XXVI. 4. XXVII. 8. XXVIII. 3.) tutta la serie della guerra Britannica.

119.

Horrescit... ratibus... impervia Thule.

Ille... nec falso nomine Pictos.

Edomuit, Scotumque vago mucrone secutus

Fregit Hyperboreas remis audacibus undas.

Claudian. in III. Cons. Honorii v. 53.

.... Maduerunt Saxone fuso

Orcades: incaluit Pictorum sanguine Thule.

Scotorum cumulos flevit glacialis Jerne.

In IV. Consult. Honor. v. 31. Vedasi anche Pacato ( in Paneg. veter. XII. 5). Ma non è facile lo stabilire il valore intrinseco dell'adulazione e della metafora. Si paragonino le vittorie Britanniche di Bolano ( Stat. Silv. V. 2) col vero carattere di lui ( ap. Tacit. in vit. Agricol. 6. 16).

120. Ammiano fa spesso menzione del loro concilium annuum, legitimum etc. Leptis e Sabrata sono da gran tempo distrutte; ma la città di Oea, patria d'Apulejo, fiorisce ancora sotto la provincial denominazione di Tripoli. Vedi Cellar. Geogr. antiq. Tom. II. P. II. pag. 8. Danville Geogr. Ancien. Tom. II. pag. 71 72 e Marmol Afrique Tom. II. pag. 562.

121. Ammiano XVIII. 6. Il Tillemont ( Hist. des Emper. T. V. p. 25. 676) ha discusso le difficoltà cronologiche dell'istoria del Conte Romano.

122. La cronologia d'Ammiano è sconnessa ed oscura; ed Orosio (l. VII. c. 33. p. 551 edit. Havercamp. ), sembra, che ponga la rivoluzione di Firmo dopo la morte di Valentiniano e di Valente. Il Tillemont ( Hist. des Emper. T. V. p. 691) procura di sgombrar la strada. Ne' più sdrucciolevoli sentieri possiamo affidarci al paziente e sicuro mulo delle Alpi.

123. Ammiano XXIX. 5. Il testo di questo lungo capitolo (di quindici pagine in quarto) è mutilato e corrotto; e la narrazione è ambigua per mancanza d'indicazioni cronologiche e geografiche.

124. Ammiano XXVIII. 4. Orosio l. VII. c. 33. p. 551. 552. Girol. Chron. p. 187.

125. Leone Affricano ( nei viaggi di Ramusio Tom. I. fol. 78, 83) ha fatto una curiosa pittura sì del popolo che del paese, il quale vien più minutamente descritto nell' Affrica di Marmol. Tom. III. p. 1-54.

126. Tale inabitabile zona fu appoco appoco ridotta, pei miglioramenti fatti all'antica geografia, da quarantacinque a ventiquattro o anche sedici gradi di latitudine. Vedi una dotta e giudiziosa nota del Dott. Robertson Istor. d'Amer. Vol. I. p. 426.

127. Intra, si credere libet, vix jam homines, et magis semiferi... Blemmyes, satyri ec. Pomponio Mela l. 4. p. 26. Edit. Voss. in 8. Plinio spiega filosoficamente (VI. 35) le irregolarità della natura, che con credulità egli aveva ammesse V. 8.

128. Se il Satiro era l'Orang-outang, o la grande scimia umana di Buffon ( Hist. nat. Tom. XIV. p. 43 ec.), potè realmente farsi veder vivo uno di quella specie in Alessandria nel regno di Costantino. Contuttociò resta sempre qualche difficoltà sopra la conversazione che ebbe S. Antonio con uno di quei pii Selvaggi nel deserto della Tebaide (Girol. vit. Paul. Erem. Tom. I. p. 238).

129. S. Antonio incontrò anche uno di questi mostri; l'esistenza dei quali fu sostenuta seriamente dall'Imperatore Claudio. Il pubblico se ne rideva; ma il suo Prefetto dell'Egitto ebbe la cura di mandare l'artificiosa preparazione di un corpo imbalsamato d'un Hippocentauro che fu conservato quasi per un secolo nel palazzo Imperiale. Vedi Plin. ( Hist. nat. VIII. 3) e le giudiziose osservazioni di Freret ( Mem. de l'Acad. Tom. VII. p. 321).

130. La favola de' pimmei è antica quanto Omero ( Iliad. III. 6). I pimmei dell'India e dell'Etiopia erano (trispithami) alti ventisette pollici. Nella primavera marciava la lor cavalleria (sopra capre e montoni) in militare ordinanza per distrugger le ova delle grue: aliter (dice Plin.) futuris gregibus non resisti. Le loro case erano formate di terra, di foglie e di gusci di conchiglie. Vedi Plin. VI. 35. VII 2., e Strabone l. II. p. 121.

131. I Volumi III e IV della stimabile Storia dei viaggi descrivono lo stato presente de' Neri. Le nazioni delle coste marittime si sono incivilite pel commercio Europeo; e quelle dell'interno del paese sono state migliorate dalle colonie Moresche.

132. Hist. Philos. e Polit. Tom. IV. p. 192.

133. È originale e decisiva la testimonianza d'Ammiano (XXVII 12). Si son consultati Mosè di Corene (l. III. c. 17. p. 249 e c. 24. p. 169), e Procopio ( De Bell. Pers. l. I. c. 5. p. 17. Ed. Louvr. ), ma bisogna far uso con diffidenza e cautela di quest'istorici, che confondono i fatti fra loro distinti, ripetono i medesimi avvenimenti, e v'inseriscono stravaganti racconti.

134. Forse Artagera o Ardis, sotto le mura di cui restò ferito Cajo nipote d'Augusto. Questa fortezza era situata sopra Amida, vicino ad una delle sorgenti del Tigri. Vedi Danville Geogr. anc. Tom. II. p. 106.

135. Il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. pag. 701) prova colla cronologia, che Olimpia deve essere stata madre di Para.

136. Ammiano (XXVII. 12. XXIX. 1. XXX. 1. 2), ha descritto gli avvenimenti della guerra Persiana, senza le date. Mosè di Corene ( Hist. Armen. l. III. c. 28. p. 261. c. 31. p. 266. c. 33. p. 271) somministra altri fatti; ma è sommamente difficile il distinguere il vero dal favoloso.

137. Artaserse fu successore e fratello (cugino germano) del gran Sapore, e custode del suo figlio Sapore III (Agat. l. IV. p. 136. Edit. Louvr. ) Vedi l' Istor. Univers. Vol. XI. p. 86, 162. Gli autori di quell'opera disuguale hanno compilato i fatti della dinastia Sassania con erudizione e diligenza; ma è male inteso il metodo di dividere in due distinte storie le narrazioni Romane e le Orientali.

138. Pacat. in Paneg. Vet. XII. 22. ed Oros. lib. VII. c. 34. Ictumque tum foedus est, quo universus Oriens usque ad nunc (an. 416) tranquillissime fruitur.

139. Vedi ap. Ammiano (XXX. 1.) le avventure di Para. Mosè di Corene lo chiama Tiridate; e racconta una lunga e non improbabile storia di Gnelo suo figlio, che in seguito divenne popolare nell'Armenia, e provocò la gelosia del Re allora regnante (l. III. c. 21, ec. p. 253).

140. Sembra che il breve racconto del regno e delle conquiste d'Ermanrico sia uno dei più stimabili frammenti, che Giornande abbia preso (c. 28) dalle Gotiche storie d'Ablavio o di Cassiodoro.

141. Il Buat ( Hist. des Peuples de l'Eur. Tom. VI. p. 311, 329) va investigando, con maggiore industria che effetto, le nazioni domate dalle armi d'Ermanrico. Ei nega l'esistenza dei Vasinobronci, per causa dell'eccessiva lunghezza del loro nome. Eppure l'Inviato Francese a Ratisbona o a Dresda deve aver traversato il paese dei Mediomatrici.

142. L'edizione di Grozio ( Jornandes p. 642) porta il nome di Aestri. Ma la ragione ed il MS. Ambrosiano hanno restituito quello di Aestii, i costumi e la situazione dei quali si rappresentano dal pennello di Tacito ( Germ. c. 45).

143. Ammiano (XXXI. 3) osserva in termini generali: Ermenrichi... nobilissimi Regis, et per multa fortiter facta, vicinis gentibus formidati, ec.

144. Valens... docetur relationibus Ducum, gentem Gothorum ea tempestate intactam, ideoque saevissimam, conspirantem in unum ad pervadendum parari collimitia Thraciarum. Ammiano XXVI. 6.

145. Il Buat ( Hist. des Peuples de l'Europ. Tom. VI. p. 332) ha con esattezza determinato il vero numero di questi ausiliari. I tremila d'Ammiano, ed i diecimila di Zosimo non erano che le prime divisioni dell'armata Gotica.

146. Si trova descritta questa marcia e la successiva negoziazione nei Frammenti d'Eunapio ( Excerpt. legat. p. 18. Edit. Louvr. ). I Provinciali, che in seguito divennero famigliari coi Barbari, trovarono la loro forza più apparente che reale. Essi erano alti di statura, ma avevano le gambe grosse, e le spalle anguste.

147. Valens enim, ut consulto placuerat fratri, cujus regebatur arbitrio, arma concussit in Gothos ratione justa permotus: Ammiano (XXVII. 4.) poi continua a descrivere non già il paese dei Goti, ma la pacifica ed obbediente provincia della Tracia, che non era attaccata dalla guerra.

148. Eunap. in Excerpt. Leg. pag. 18 19. Bisogna che il Greco Sofista risguardasse come una medesima guerra tutta la serie dell'istoria Gotica, sino alle vittorie, ed alla pace di Teodosio.

149. La guerra Gotica è descritta da Ammiano, (XXVII. 5) da Zosimo (l. IV. p. 211 214) e da Temistio ( Orat. X. p. 129 141 ). L'oratore Temistio fu invitato dal Senato di Costantinopoli a congratularsi col vittorioso Imperatore; e la sua servile eloquenza paragona Valente sul Danubio ad Achille sullo Scamandro. Giornandes ha tralasciato una guerra particolare ai Visigoti, e non gloriosa pel nome Gotico. Mascou Istor. dei Germani VII. 3.

150. Ammiano (XXIX. 6) e Zosimo (l. IV. p. 119 220) notano esattamente l'origine ed il progresso della guerra dei Quadi e de' Sarmati.

151. Ammiano, che (XXX. 5) confessa il merito di Petronio Probo, ne ha con giusta asprezza censurato l'oppressivo governo. Quando Girolamo tradusse e continuò la Cronica d'Eusebio an. 380 (Vedi Tillemont Mem. Eccl. Tom. XII. p. 53 626 ) espresse la verità o almeno la pubblica opinione del paese con queste parole; Probus P. P. Illirici iniquissimis tributorum exactionibus ante provincias, quas regebat, quam a Barbaris vastarentur, erasit: Chron. Edit. Scaliger. p. 187. Animad. p 259. Il Santo contrasse in seguito un'intima e tenera amicizia con la vedova di Probo; ed il nome del Conte Equizio, meno a proposito in vero, ma senza molta ingiustizia è stato sostituito nel testo.

152. Giuliano ( Orat. VI. p. 298 ) descrive il suo amico Ificle come un uomo virtuoso e di merito, che erasi reso ridicolo ed infelice, adottando l'abito ed i costumi stravaganti de' Cinici.

153. Ammiano XXX. 5. Girolamo, che esagera la disgrazia di Valentiniano, gli nega sino quest'ultima consolazione della vendetta: Genitali vastato solo et inultam Patriam derelinquens: Tom. I. p. 26.

154. Vedasi quanto alla morte di Valentiniano, Ammiano (XXX. 6), Zosimo (l. IV. p. 221), Vittore ( in Epitom. ), Socrate (l. IV. c. 31) e Girolamo ( in Chron. p. 187, e Tom. I. p. 26 ad Heliodor. ). Fra loro si trova gran varietà di circostanze; ed Ammiano è tanto eloquente che scrive senza alcun senso.

155. Socrate (l. IV. c. 31) è l'unico testimone originale di questa stolta istoria, sì repugnante alle leggi ed ai costumi de' Romani, che appena merita la formale ed elaborata dissertazione del Bonamy ( Mem. de l'Acad. Tom. XXX. p. 394 405 ). Pure io riterrei la natural circostanza del bagno, piuttosto che seguitare Zosimo, che rappresenta Giustina, come una vecchia vedova di Magnenzio.

156. Ammiano (XXVII. 6) descrive la forma di questa militar elezione ed augusta investitura. Pare che Valentiniano non consultasse, e neppur ne informasse il Senato di Roma.

157. Ammiano XXX. 10. Zosimo l. IV. pag. 222, 223. Il Tillemont ha provato ( Hist. des Emper. T. V. p. 707, 709 ) che Graziano regnò nell'Italia, nell'Affrica e nell'Illirico. Io ho procurato di esprimere la sua autorità negli stati del Fratello, in uno stile ambiguo, simile alla maniera con cui l'usava.

158. L'A. allude a mio credere al celebre Galilaee vicisti, satiare ec. ed al racconto, che Giuliano volesse precipitarsi nel fiume vicino per celar la sua morte, e così passar, come Romolo, per un Dio. Ma S. Gregorio ( Orat. IV. p. 290. Edit. Paris. 1583) non dice cosa veruna delle bestemmie di quell'Imperatore, nè del sangue gettato contro al Cielo; e benchè accenni il secondo fatto, osserva in generale, che le circostanze della morte di Giuliano erano incertissime. Sozomeno poi (l. VI. c. 2), e Teodoreto (l. 30. c. 25. Ed. Vales. ) parlano del primo come di cosa non ben sicura, e come un discorso di pochi. Vedi della Bleterie pag. 495 e segg. Se il sig. Gibbon avesse ben ponderata la forza del titolo di Calunniatore si sarebbe astenuto dal darlo a Gregorio ed ai Santi più moderni, per non meritarlo egli stesso. Vedi Filostorgio H. E. l. 7. in fogl.

159. Che dirà dunque l'Autore dell'Apocalisse, in cui i Vescovi son distinti col nome di Angeli? Che di G. C. medesimo, mentre disse di loro nella persona degli Apostoli; qui vos audit, me audit, qui vos spernit, me spernit? E come non sapere che di tutti i buoni si legge: Ego dixi, Dii estis ec.? Lo sa benissimo: ma è tanto prevenuto contro Gioviano, che unitamente al merito di Confessore nel precedente regno gli nega quello di aver esatto dall'esercito che lo proclamò Imperatore la professione del Cristianesimo, benchè ne sian testimoni Socrate, Sozomeno e Teodoreto (l. IV. c. 1. ex Vales.) sol perchè Ammiano dice (l. XXV. c. 6) hostiis pro Joviano, extisque inspectis pronunciatum est etc. Alle osservazioni del Baronio (ad Ann. 363. §. 118) sul testo citato, aggiungo col Tillemont, che forse alcuni pochi ostinati Pagani compiron quel rito superstizioso senza saputa dell'Imperatore, e che Ammiano avea una cognizione molto oscura e superficiale della Storia Ecclesiastica. È Gibbon istesso che parla in tal modo; perchè in quell'occasione l'ignoranza di Ammiano torna in discredito dei Cattolici.

160. Grot. L. I. c. 4. Bossuet Var. l. 10.

161. V. Athan. Epist. ad Lucif. et Serapion.

162. Vedi Hermant Vie de S. Athanas.

163. Vedi Baron. ad an. 356. n. 85. Tillemont Tom. VIII. N. 74. Fleury l. 13. n. 32.

164. L. I. c. XIII. de Trin. §. 6.

165. Sec. IV. diss. 30.

166. V. Bern. Montf. Diatriba de Causa Marcelli Ancyr. T. 2. Coll. Nov. PP. et Script. Graecor.

167. Il Garner. Diss. ad Mart. Mercat. Opera T. III. p. 312 chiama la medesima causa difficile ed oscura.

168. Vedi Mamachi T. I. Orig. et Antiq. Christ. i PP. di Trevoux Febr. 1708. Arti 26. Claud. Molinet. 1681, nel Giornale dei dotti di Parigi ec. ec. Tra i Protestanti Gio. Reischko 1681. Gian Cristof. Wolf. 1706. De visione Crucis, etc.

169. Syntagma, quo apparientis M. Costantino Crucis historia complexa est universa. Romae 1595.

170. Euseb. loc. cit.

171. Controv. Rob. Bell. defens. T. II. Col. 1044.

172. Saec. IV. Diss. 32.

173. Dissertation Crit. etc. et hist. sur le P. Libere, dans laquelle on fait voir, qu'il n'est jamais tombé. A Paris 1736.

174. Pap. 185. Tom. II. Venet. 1757.

175. L. 2. C. 17. Hist. Eccles.

176. L. 5. C. 18. Hist. Tripart.

177. De div. et multipl. rat. Animae. c. 2.

178. Praef. T. 5. Bibl. PP. p. 652.

179. Sozom. L. 4. 15. Ed. Vales.

180. Theodoret Hist. l. 2. c. 17.

181. Labbé T. 2. Conc. p. 655.

182. Hieron. Dial. adv. Lucifer. Damas. presso Teodoret. L. 2. Hist. Eccl. c. 22. Lib. med. presso Socr. l. 4. Hist. XII.

183. Nei Framm. di S. Ilario pag. 1357. Ediz. dei Mon. Benedet.

184. Sulpic. Sever. Hist. Sacr. L. 2. c. 39. Socr. Hist. E. L. 2. c. 37.

185. Vedi il Cap. IV. e V. della cit. Dissert. De Comment. ec.

186. L. I. Hist. c. 27.

187. L'A. non ha troppo buon sangue coi Papi. Il carattere di Damaso è molto ambiguo, e tre parole di Girolamo Sanctae Memoriae Damasus, lavano tutte le sue macchie, ed abbagliano i devoti occhi del Tillemont. Si trovan però dileguate presso questo Scrittore le calunnie, dalle quali fu attaccato quel Santo Pontefice. Si cita inoltre Teodoreto L. V. c. 2., che parla così di Damaso: Is erat Episcopus Romae vita laudabili conspicuus, quique sibi dicenda, faciendaque omnia pro Apostolicis dogmatis statuerat., e nel L. IV. c. 30 lo pone nella classe medesima con i due SS. Gregorio, e con S. Ambrogio. Allega ancora l'autorità del Concilio Calcedonese che nell'allocuzione all'Imperatore Marciano si espresse in questi termini. Sic quoque Damasus Romanae urbis decus ad justitiam, ovvero Romanae urbis Episcopus, et justitia decus. Appella per fine a non pochi antichissimi Martirologi, nei quali con S. Girolamo si legge nominato S. Damaso. Non sono dunque tre parole quelle che hanno abbagliato gli occhi devoti del Tillemont. Vedi T. VIII. Memor.

188. Vie de l'Empereur Julien L. V. p. 396.

189. Marc. L. XIII. V. 1. 2.

190. Lib. 23. c. 1.

191. L. I. c. 38, 39.

192. L. 3. c. 17.

193. L. 3. c. 17.

194. L. V. c. ult.

195. Adv. Judeos Orat. 2, Hom. 4 in Matth.; Homil. 41 in Act. Apost.

196. Greg. Naz. Orat. 2. in Julian.

197. Sec. IV. 1. p. n. 14.

198. L. IV. c. 27.

199. M. della Bleterie pag. 399 in una Nota.

200. Adv. Parmentanum.

201. De Unit. Eccl., Cont. Petilian., Cont. Cresc. in Epist. et alibi passim.

202. Nat. Aless. Saec. IV. pag. 15. Tillem. Tom. VI. Vales. etc.

203. Can. 8.

204. Can. 19. cum not. Christ.

205. S. Ag. De haeres. ad Quod vult Deus. L. 69.

206. Fleury L. XI. §. 53.

207. V. Tillem. T. 3. Les Novatiens.

208. Quodcumque solveris etc. Quorum remiseritis peccata remittuntur eis etc. Jo. 30. Matth. 16.

209. Quod si dormierit vir ejus, liberata est etc.

Cui vult nubat. ad Corinth. I. c. 7.

210. Sess. 23. c. 17. de Reformat.

211. Sess. 23. c. 17. de Reformat.

212. S. Ambros. L. 2. de Off. Eccles. L. 6. ex A. malar. Fortun. v. Morin. part. 2. De Sac. Ordin.

213. L'Autore in ciò si conforma a Clerc Epist. Cr. 7, 8, 9 ed al Mosem. Dissert. de turb. per Plat. Ecclesia.

214. P. 1049.

215. P. 1042.

216. P. 1049.

217. Tim. p. 1049.

218. Cic. L. I. de Nat. Deor.

219. P. 1052.

220. Lib. II. de Nat. Deor.

221. L. I. C. 10. de Plat. Philos.

222. Orig. L. V. p. 307.

223. Vedi la Pref. degli Edit. Bened. di S. Giustino Part. 2. c. 1.

224. Not. ad Petav. de Trinit. L. I. c. 1.

225. Divinitas J. C. manifesta in Script. et. tradit. Vedi Praef. ad S. Justini oper. part. II. C. 1. §. V. e Bossuet Elevazioni alla SS. Trinità II. Settimana.

226. Pag. 95. T. V. Il Critico segue l'opinion del Lamy Praef. apparat. C. 7. Calmet però dà per ricevuta dalla maggior parte l'epoca dell'ann. 98 di G. C. I. di Traiano In Evang. S. Joan. Proleg.

227. Dissert. De Verbo Dei §. 3. 4.

228. Non si nega a Clerc, che Filone fosse un Platonico celebre: ma si ha diritto di esiger da lui, che non dia una mentita a Filone stesso, il quale nel Lib. de Opif. Mundi attesta di aver appresa la dottrina del Logos περί τῦ λὸγου non da Platone, ma da Mosè. Μωσεῶς ἔστι τὸ υόγμα τουτο, ουκ εμον. Vedi Joh. Lami de recta Christ. in eo quod myster. Div. Tri. adtinet Sententia. L. 4. c. 8.

229. Dissert. cit. §. 5.

230. Haeres. V.

231. Luc. C. 1. v. 26.

232. I MSS. Greci portan per data l'anno di G. C. ma la più verisimile può fissarsi verso l'an. 53 vedi Calm. in Ev. Luc. Proleg.

233. Luc. C. 5. v. 47.

234. Luc. C. 1. v. 45.

235. Luc. C. 1. v. 76. e seg.

236. Luc. C. 2. v. 30. e seg.

237. V. Simon. Hist. Crit. N. T. C. 15. Calmet in Evang. S. Matth. Prolegom.

238. Matth. C. 3. V. 17. Marc. C. 3. v. 11. Luc. 3. v. 23.

239. Dilectus ibi sonare potest unigenitus: vox enim Jachid idest unicus filius, saepius redditur a LXX. ἁγάπητος Lamy Comment. in Harm. c. V.

240. Psalm. II. v. 7.

241. C. 4. V. 25 e seg.

242. C. I. Il Blondello, lo Spanemio, il Tillemont tengono con la massima parte degli antichi, che la lettera agli Ebrei sia scritta l'Anno di C. 63. Vedi Calm. Proleg. Art. III.

243. Psalm. 87. Job. 1 6. 11. 1.

244. S. August. in psalm. 2.

245. Vedi Abbadie T. III. Traité de la Divinité de J. C.

246. C. 8. v. 37.

247. Joh. V. 18.

248. Ad Philippens. C. 2. v. 6.

249. Ad Rom. C. 1. v. 4. C. 8. v. 3. Ad Hebr. C. 1. v. 2. C. 5. v. 8. C. 6. v. 6. C. 7. v. 3. C. 10, v. 29. ec.

250. Ad Hebr. C. 1. v. 11.

251. d. C. 1. v. 3.

252. Ad Colos. C. 1. v. 16.

253. Ad Hebr. C. 1. v. 2.

254. d. C. 1. v. 6.

255. Ad Roman. C. 9. v. 3.

256. d. C. 1. v. 8.

257. I Nazareni per testimonianza di S. Girolamo: credebant in Christum Filium Dei. Ora secondo la semplicità di quei tempi, ed a norma del simbolo Apostolico il credere in Cristo Figlio di Dio era lo stesso che crederlo propriamente Dio, generato da Dio Padre. Perciò soggiunge S. Girolamo in quem et nos credimus. Vedi Lo Quien Diss. VII Damasc., e la solida confutazion di Freret del Ch. Padre Fassini Profess. di S. Scrittura in Pisa: De Apostolica Evangeliorum Origine n. 25 e 26 dove risponde al Mosemio citato da Gibbon.

258. Vedi Athanas. De fuga sua.

259. An. 358. V. N. Ales. Sec. 4. Dissert. 15. e cap. 3. §. 22.

260. Vedi Bingham. Orig. Eccl. L. 1. C. 2. §. 13.

261. Ap. Socr. L. I. H. E.

262. Vedi la Dissert. del P. D. Prudenzio Mairan sopra i Semi-Arriani. Parigi 1722 e l'altra de voce Homoousion ec. Aucto. Liberato Fassoni ec. Romae 1753. V. ancora S. Atanas. De Sent. Dionys. n. 18. Nov. edit. Tom. I. p. 256.

263. De Nicaen. Syn. Decret. p. 115.

264. Lib. I. H. E. C. 8.

265. Pag. 709.

266. Orat. 49.

267. Ometto Gio. Damasceno, come appartenente al VII. Secolo. V. gli Aut. cit. di sotto.

268. Sulpic. Sever. L. 2. Vet. Ed.

269. Socr. d. C. 8. L. I. H. E. ex Vales. Fu questo il Sofisma d'Arrio medesimo, cattivo Dialettico, Socr. L. 1. C. 5.

270. Vedi il C. 14 e 26. De recta PP. Necaenor. Fide Jo. Lami.

271. Lib. 1. de Synod §. 31.

272. L. I. H. E. C. 25.

273. De Synod. c. 45.

274. Apud Socr. L. 1. H. E. C. 8.

275. Vedi Bull. Defens. Fid. Nicaen. e la cit. Dissert. di D. Gio. Lami De recta Patrum Nicaenorum Fide. Venet. 1733. C. 2.

276. S. Cyrill. Alex. Lib. I. Thes. C. 7.

277. S. Athan. in exposit. Fid.

278. S. Athanas. Lib. de Synod. §. 20. Verum cum Filii ex Patre generatio alia plane sit a natura hominum, nec solum similis ille sit substantiae Patris, sed DIVIDI ab eo non queat, quum item unum ipse, et Pater sit, ut idem dixit, SEMPERQUE VERBUM SIT IN PATRE, ET PATER IN VERBO, eo modo quo splendor se habet ad lucem... idcirco Synodus ea re perspecta eum esse CONSUBSTANTIALEM recte scripsit. Questi non son termini favorevoli a la moda del Triteismo.

279. Epist. 300.

280. Lib. 3. de Fid. C. 7.

281. Ad Constantium Aug. L. 2.

282. V. Fleury Hist. Eccl. l. 13. §. 43. e l'Avvertim. degli Edit. Bened. ad 2 Lib. ad Constant. A.

283. H. E. L. 2. C. 27.

284. §. 30.

285. Nat. Alex. H. E. Saec. IV. §. 25.

286. Ad Const. A. Lib. 2. §. 6.

287. Vedi la Dissert. premessa dagli Edit. Bened. al Lib. Contr. Const. Aug.

288. L. 2. Constant. A. §. 7. Sono ancora notabili quelle espressioni presso Fozio sulla morte di Costanzo, dicendo: Imperium pariter ac vitam, et Synodos ad stabiliendam impietatem dereliquit. Philost. l. 6. n. 5.

289. Lib. cit. §. 23. Vedi ancora il Lib. de Syn. seu de Fide Orient. §. 63.

290. Lib. cit. §. 27.

291. Quello però riputavasi dal S. Padre un timor vano, mentre nel Lib. de Synod. §. 91 così parla: Interpretati Patres nostri sunt post Synodum Nicaenam ec. Homoousii proprietatem religiose, extant libri, manet conscientia ec.

292. De Synod. pag. 703. Vedi N. Aless. Dissert. XV. de voce Ομοιουσιον ad Saec. IV.

293. S. Hilar. Apol. ad Reprehens. VIII.

294. Lib. de Synod. §. 89. Nat. etc.

295. Tra le op. di S. Ambrogio C. 2.

296. V. Mar. Victor. L. 1. adv. Arrium, e Greg. Naz. Or. 21. p. 26.

297. Apolog. ad Reprehens. III.

298. §. 66.

299. De Synod. §. 79. Vedi Apolog. IV. Vedi la Diss. cit. di Nat. Aless. in cui son pochissimi gli Homoousiani difesi come Ortodossi da quel dotto Scrittore. Aezio, che senza raggiro professava la dissomiglianza ανομοιον, rimproverava in faccia a Costanzo i sostenitori dell'ομοιουσιν....... Asserens idem se profiteri ac sentire cum illis omnibus. Verum, inquiebat, quod penes me verum est isti dissimulant, et quod ego prae me fero ac palam confiteor, illi omnes non diffitentur, sed fraudulenter obtegunt. Epiph. haeres. l. 3. T. 1. haer. 76.

300. Theodor. H. E. Lib. 2. C. 6. Vedi Fleury Lib. 15. §. 30. H. E.

301. Socr. L. I. C 17. H. E. Soz. L. 3. C. 9.

302. Uomini alla moda χρονιτας chiamò Aezio per ludibrio gli Arriani suoi persecutori, poichè si accomodavano al tempo e alla Corte. Vedi Germon. de Veter. haeres. etc. L. 2. Quando poi si pretendesse dato da quel Capo degli Anomei un tal nome ai Consustanzialisti, molto più risalterebbe il rispetto dell'Autore per il Santuario.

303. Vedi Tillem. T. 8. S. Athanas. Art. 117. «Il avoit soutenu la verité de la Trinité moins par sa plume que par ses souffrances, et par le Martyre continuel de sa vie».

304. Olim in ipso Sacrosancti Sacrificii meditullio, in praefactione scilicet ante canonem Hilarium morum lenitate pollentem (Ecclesia) decantabant. Vedi la Dissert. de Maur. in Lib. Contr. Constant. §. 3.

305. È tale il cattivo gusto d'Ammiano (XXVI; 10) che non è facile il distinguere in esso i fatti dalle metafore. Pure egli positivamente asserisce d'aver veduto lo scheletro imputridito d'una nave ad secundum lapidem, a Metone o Modona nel Peloponneso.

306. I terremoti e le innondazioni sono in varie guise descritte da Libanio ( Orat. de ulcisc. Juliani nece. c. X. ap. Fabric. Biblioth. Graec. Tom. VII. p. 158 con una dotta nota d'Oleario,) da Zosimo ( l. IV. p. 221 ), da Sozomeno ( l. VI. c. 2 ), da Cedreno ( p. 310-314 ) e da Girolamo ( in Chron. p. 186 e Tom. I. p. 250 in vit. Hilarion.). La città d'Epidauro sarebbe restata distrutta, se i prudenti cittadini non avesser posto S. Illarione, monaco Egizio, sul lido. Egli vi fece il segno della croce, la montagna si scosse, si fermò, piegossi, e tornò al suo posto.

307. Dicearco Peripatetico compose un trattato a posta per provare questa verità ovvia, che non è la più onorevole alla specie umana: Cicer. de Offic. II. 5.

308. I primitivi Sciti d'Erodoto (l. IV. c. 47-57. 99. 101) avevano per confini il Danubio e la palude Meotide, occupando uno spazio di 400 stadi (o 400 miglia Romane). Vedi Dauville Mem. de l'Acad. Tom. XXV. p. 573-571. Diodoro Siculo (Tom. I. l. II. p. 155. Edit. Wesseling ) ha notato i successivi progressi del nome e della nazione degli Sciti.

309. I Tatars o Tartari furono in origine una tribù; in seguito rivali, e finalmente sudditi dei Mògolli. Nelle vittoriose armate di Gengis-Kan e dei suoi successori, i Tartari formavano la vanguardia; ed applicavasi a tutta la nazione il nome, che prima degli altri giungeva alle orecchie degli stranieri: Freret Hist. de l'Acad. Tom. XXV. p. 60. Parlando di tutti o di alcuno dei popoli pastori settentrionali dell'Europa o dell'Asia, promiscuamente mi servo dei nomi di Sciti o di Tartari.

310. Imperium Asiae ter quaesivere: ipsi perpetuo ab alieno Imperio aut intacti aut invicti mansere. Dal tempo di Giustino (II. 2.) in poi essi hanno moltiplicato questo numero. Voltaire ha compendiato in poche parole (Tom. X. p. 65. Hist. Gener. c. 156 ) le conquiste dei Tartari.

«Spesso sulle tremanti nazioni da lontano

«Ha la Scizia spirato il vivo nembo di guerra.

311. Il quarto libro d'Erodoto somministra un curioso, benchè imperfetto, ritratto degli Sciti. Fra' moderni che descrivono l'uniforme loro vita, il Kan di Kowaresm Abulgazi Bahadur esprime i naturali suoi sentimenti; e la sua storia genealogica dei Tartari è stata copiosamente illustrata dagli editori Francesi e Inglesi. Carpin, Ascelin e Rubruquis ( nell'Istor. dei viaggi Tom. VII.) rappresentano i Mogolli del secolo XIV. A queste guide ho aggiunto Gerbillon, e gli altri Gesuiti ( Descript. de la Chine par du Halde Tom. IV.) che hanno esattamente osservato la Tartaria Chinese, e l'onesto ed intelligente viaggiatore Bell d'Antermony (2. Vol. in 4. Glasg. 1763).

312. Gli Usbecchi son quelli che più si sono allontanati dai lor primitivi costumi 1. per causa della religion Maomettana che professano, 2. per il possesso che hanno delle città e delle raccolte della gran Bucaria.

313. Il est certain, que, les grands mangeurs de viande sont en général cruels et féroces plus que les autres hommes. Cette observation est de tous les lieux et de tous les temps: la barbarie Anglaise est connue: Emil. de Rousseau Tom. I. p. 274. Qualunque sia l'opinione che abbiamo di questa osservazione in generale, non accorderemo facilmente la verità dell'esempio addotto. Le oneste querele di Plutarco ed i patetici lamenti di Ovidio ci seducono la ragione con eccitar la nostra sensibilità.

314. Tali emigrazioni Tartare si sono scoperte dal sig. di Guignes ( Hist. des Huns Tom. I. II.) abile e laborioso interprete della lingua Chinese, il quale ha aperto in tal guisa nuove ed importanti scene nell'istoria dell'uman genere.

315. I Missionari trovarono, che una pianura nella Tartaria Chinese, distante non più d'ottanta leghe dalla gran muraglia, era superiore tremila passi geometrici al livello del mare. Montesquieu, il quale ha fatto uso ed abuso delle relazioni dei viaggiatori, deduce le rivoluzioni dell'Asia da questa importante circostanza, che il caldo ed il freddo, la debolezza e la forza si toccano fra loro senza una zona temperata di mezzo: ( Esprit des Loix l. XXII. c. 3 ).

316. Petit de la Croix ( vie de Gengiskan l. III. c. 7 ) rappresenta tutta la gloria ed estensione della caccia Mogolla. I Gesuiti Gerbillon e Verbiest seguivano l'Imperatore Kamhi nella caccia di Tartaria (Duhalde Descritp. de la Chine T. IV p. 81, 290. edit. in fol. ). Kienlong, nipote di lui, che congiunge la disciplina dei Tartari con le leggi e la cultura della China, descrive da poeta ( Elog. de Moukden p. 273. 285) i piaceri, che aveva spesso goduto alla caccia.

317. Vedi il Tomo II. dell'Istoria genealogica dei Tartari, e le liste dei Kan, al fine della vita di Gengis o Zingis. Nel regno di Timur, o Tamerlano, uno de' suoi soggetti, discendente di Gengis, usava sempre il regio nome di Kan, ed il conquistatore dell'Asia contentossi del titolo d'Emir, o di Sultano. Abulgazi P. V. c. 4. D'Herbelot. Bibl. Orien. p. 878.

318. Vedi le diete dogli antichi Unni (De Guignes Tom. II. p. 26), ed una curiosa descrizione di quelle di Gengis ( vie de Gengiskan. l. I. c 6. l. IV. c. 11 ). Si fa menzione di tali assemblee frequentemente nell'istoria Persiana di Timur, quantunque non servissero esse che a confermar le risoluzioni del loro Signore.

319. Montesquieu s'affatica per ispiegare una differenza, che non sussiste, fra la libertà degli Arabi e la perpetua schiavitù de' Tartari ( Espr. des Loix l. XVII. c. 5. l. XVIII. c. 19 ec. ).

320. Abulgazi Kan riferisce, nelle prime due parti della sua storia Genealogica, le misere favole e tradizioni de' Tartari Usbecchi, intorno a' tempi anteriori al regno di Gengis.

321. Nel XIII. libro dell'Iliade Giove da' sanguinosi campi di Troja rivolge gli occhi alle pianure della Tracia e della Scizia. Cangiando ogggetto, ei non potea vedere una scena più piacevole o più innocente.

322. Tucidide l. II c. 97.

323. Vedi il lib. IV. d'Erodoto. Allorchè Dario avanzossi nel deserto di Moldavia, fra il Danubio ed il Niester, il Re degli Sciti gli mandò un topo, una rana, un uccello e cinque dardi: formidabile allegoria!

324. Posson trovarsi tali guerre ed eroi sotto i respettivi lor titoli nella Biblioteca orientale dell'Herbelot. Se ne sono celebrate le geste in un poema epico di sessantamila coppie di versi rimati da Ferdusi, l'Omero Persiano. Vedi l'Istoria di Nader Shah p. 145, 165. Il Pubblico si dee dolere che il sig. Jones abbia sospeso le sue ricerche d'erudizione orientale.

325. S'illustra laboriosamente il mar Caspio co' suoi fiumi e le addiacenti Tribù nell' Esame critico degli Storici d'Alessandro, dove si paragona la vera geografia con gli errori prodotti dalla vanità o dalla ignoranza de' Greci.

326. Sembra che la sede originale della nazione fosse al Norte-Ovest della China nelle province di Chensi o Chansi. Sotto le due prime Dinastie, la città principale fu sempre un campo amovibile; eran sparsi raramente i villaggi; s'impiegava più terra in pasture, che per l'agricoltura: l'esercizio della caccia era diretto a purgare il paese dalle bestie selvagge; Petcheli (dove ora è Pekino) era un deserto: e le province meridionali eran popolate da selvaggi Indiani. La dinastia di Han (206 anni avanti Cristo) diede all'Impero la forma ed estensione attuale.

327. Si è fissata in diverse guise l'Era della Monarchia Chinese dell'anno 2952 fino al 2132 avanti Cristo; e si è scelto per legittima epoca l'anno 2637 per ordine dell'Imperatore presente. Tal differenza nasce dall'incerta durata delle prime due Dinastie, e dallo spazio vacante fra loro sino a veri o favolosi tempi di Fohi o Hoangti. Sematsien principia la autentica sua cronologia dall'anno 841. Le trentasei ecclissi di Confucio (trentuna delle quali si sono verificate) s'osservarono fra gli anni 722 e 480 avanti Cristo. Il periodo Istorico della China non ascende più alto delle Olimpiadi Greche.

328. Dopo vari secoli d'anarchia e di despotismo la Dinastia di Han (206 anni avanti Cristo) fu l'epoca del risorgimento delle lettere. Furon ristaurati i frammenti dell'antica letteratura; migliorato e fissato il carattere; ed assicurata in futuro la conservazione de' libri mercè delle utili invenzioni dell'inchiostro, della carta e della stampa. Novantasette anni prima di Cristo, Sematsien pubblicò la prima storia della China. Lo sue fatiche furono illustrate e continuate da una serie di cent'ottanta Storici. Tuttavia sussiste la sostanza delle opere, e si trovano attualmente depositate le più considerabili di esse nella libreria del Re di Francia.

329. La China è stata illustrata dalle fatiche de' Francesi, vale a dire de' Missionari a Pekino e de' Sigg. Freret e de Guignes a Parigi. Le precedenti tre note son tratte dal Chouking con la prefazione e le note di Guignes, Parigi 1770, dal Tong-kien-kang-mou tradotto dal P. de Mailla col titolo d' Hist. générale de la Chine Tom. I. p. XLIX. CC., dalle memorie sulla China Parigi 1776. ec. Tom. I. p. 1-323. Tom. II p. 5-56, dall' Istoria degli Unni Tom. I. p. 6-131. Tom. V. p. 345-362 e dalle Memorie dell'Accad. delle Iscriz. Tom. X. p. 377-402. Tom. XV p. 495-564. Tom. XVIII. p. 178-295. Tom. XXXVI. p. 164-238.

330. Vedi l' Istor. gener. de' Viaggi Tom. XVIII. e l' Istoria Genealogica vol. II. p. 620-664.

331. Il Guignes ( Tom. II. p. 1-124) ha fatto l'istoria originale degli antichi Hiong-nou o Unni. La geografia Chinese del lor territorio, ( Tom. I. Part. II. p. LV. LXIII) par che contenga una parte delle loro conquiste.

332. Vedasi appresso Duhalde ( Tom. IV. p. 28-65) una circostanziata descrizione con una corretta carta del paese de' Mongussi.

333. Gl'Iguri o Viguri eran divisi in tre classi; in cacciatori, pastori ed agricoltori, e quest'ultima era sprezzata dalle altre due. Vedi Abulgazi Par. II. c. 7.

334. Memoir. de l'Acad. des Inscript. Tom. XXV. p. 17-33. L'estesa veduta del Guignes ha confrontato questi lontani avvenimenti fra loro.

335. Sono tuttavia celebri nella China la fama di Sovou o So-ou, il suo merito e le singolari di lui avventure. Vedi l' elogio di Moukden p. 20. net. p. 241-247. e le Memoir. sur la Chine Tom. III. p. 317-360.

336. Vedi Isbrand Jves nella collezione d'Harris vol. II. p. 931, i viaggi di Bell vol. I. p. 247-254 e Gmelin nell' Ist. gen. de' viaggi Tom. XVII. p. 283 329. Notano tutti la volgare opinione, che il mar Santo diviene torbido e tempestoso, se alcuno ardisce di chiamarlo Lago. Questa minuzia grammaticale eccita spesse dispute fra l'assurda superstizione dei marinari e l'assurda ostinazione de' viaggiatori.

337. La costruzione della muraglia della China vien mentovata dal Duhalde (Tom. II. p. 45), e dal Guignes (T. II. p. 59).

338. Vedi la vita di Lieoupang o Kaoti nell' Istoria della, China pubblicata a Parigi 1777 cc. T. I. p. 441, 522. Quest'opera voluminosa è la traduzione fatta dal P. Mailla del Tong-kien-kang-Mou, che è il celebre compendio della grande storia di Sema Kouang (an. 1084) e dei suoi continuatori.

339. Vedasi un libero ed ampio memoriale presentato da un Mandarino all'Imperator Vouti (an. avanti Cristo 180, 157) appresso Duhalde (Tom. II. p. 412-426) tratto da una raccolta di fogli pubblici notati col pennello rosso da Kamhi medesimo (p. 384-612). Un altro memoriale fatto dal ministro di guerra Kan-Mou (Tom. II. p. 555) somministra varie curiose circostanze de' costumi degli Unni.

340. Si fa menzione di una quantità di donne come d'un articolo consueto di trattato o di tributo: Storia della conquista della China fatta dai Tartari Mantsciù, Tom. I. p. 186. 187 con la nota dell'Editore.

341. De Guignes Hist. des Huns Tom. II. p. 62.

342. Vedi il regno dell'Imperator Vouti nel Kang-Mou Tom. III, p. 1-98. Sembra, che il vario ed incoerente carattere di lui sia imparzialmente delineato.

343. Si usa tale espressione nel memoriale all'Imperator Vouti: Duhalde Tom. IV. p. 417. Senza adottare l'esagerazioni di Marco Polo e d'Isacco Vossio, noi possiamo ragionevolmente accordare a Pekino due milioni d'abitatori. Le città Meridionali, che contengono le manifatture della China, sono anche più popolate.

344. Vedi il Kang-Mou Tom. III. p. 150 ed i fatti successivi, sotto i respettivi lor anni. Questa memorabile festa è celebrata nell'elogio di Moukden, e spiegata in una nota dal P. Gaubil p. 89, 90.

345. Quest'inscrizione fu composta sul luogo medesimo da Pankou, Presidente del Tribunale d'Istoria (Kang-Mou T. III. p. 392). Si sono scoperti altri simili monumenti in molte parti della Tartaria ( Hist. des Huns Tom. II. p. 122).

346. Il Guignes ha inserito nel T. I. p. 189 una breve notizia de' Sienpi.

347. L'Era degli Unni si fissa dai Chinesi all'anno 1210 prima di Cristo. Ma la serie dei loro Re non comincia che all'anno 230 ( Hist. des Huns Tom. II. p. 21. 123).

348. Si riferiscono i vari accidenti della caduta e della fuga degli Unni nel Kang-Mou Tom. III. p. 88, 91, 95, 139: il piccolo numero di ciascheduna Orda si può attribuire alle loro perdite e divisioni.

349. Il Guignes ha dottamente investigato le tracce degli Unni per i vasti deserti della Tartaria. Tom. II. p. 123, 277, 225, ec.

350. Regnava nella Sogdiana Maometto, Sultano di Carizme, quando essa fu invasa (l'anno 1218) da Gengis e dai suoi Mogolli. Gl'istorici Orientali (Vedi d'Herbelot, Petit della Croix ec.) celebrano le popolate città, che ei rovinò, e le fertili campagne da lui devastate. Nel seguente secolo furon descritte le medesime province di Corasmia e di Maccaralnahr da Abulfeda (Hudson Geog. minor. Tom. III). Se ne può veder la presente miseria nell' Istoria genealogica dei Tartari, pag. 423-469.

351. Giustino (XLI. 6.) ha fatto un breve compendio dei Re Greci della Battriana. Io attribuirei all'industria loro il nuovo e straordinario commercio, che trasportava le mercanzie dell'India nell'Europa per mezzo dell'Osso, del mar Caspio, del Ciro, dal Fasi e del ponto Eussino. Le altre strade sì terrestri che marittime erano in possesso dei Seleucidi e dei Tolomei. Vedi l'Esprit des Loix l. 21.

352. Procopio: de Bello Persic. l. I. c. 3. p. 5.

353. Nel secolo decimoterzo il Monaco Rubruguis (che attraversò l'immensa pianura di Kipzak nel suo viaggio alla Corte del gran Kan) osservò il nome speciale di Ungheria coi vestigi d'una lingua ed origine comune. Hist. des Voyag. Tom. VII. p. 269.

354. Bell (Vol. I. p. 29-34), e gli Editori dell'Istoria Genealogica (p. 539) hanno descritto i Calmucchi del Volga nel principio del presente secolo.

355. Questa gran transmigrazione di 300000 Calmucchi o Torguti seguì l'anno 1771. L'original narrazione di Kien-Long, Imperatore della China regnante, che fu fatta per servir d'inscrizione ad una colonna, è stata tradotta dai Missionari di Pekino: Memoir. sur la Chine Tom. I. p. 401-418. L'Imperatore affetta in essa il dolce e specioso linguaggio di figlio del Cielo, e di padre del suo popolo.

356. Kang-Mou (Tom III. p. 447) attribuisce alle lor conquiste uno spazio di 14000 lì. Secondo la misura presente, 200 (o più esattamente 193) lì son uguali ad un grado di latitudine; e per conseguenza un miglio Inglese è maggiore di tre miglia della China. Ma vi sono forti ragioni di credere, che l'antico lì appena fosse la metà del moderno. Vedi l'elaborate ricerche del Danville, Geografo informato di qualunque tempo o clima del globo; Mem. de l'Academ. T. II. p. 125-502: Mesur. Itiner. p. 154-167.

357. Vedi l'Istoria degli Unni Tom. II. p. 125-144. La successiva storia (p. 145-277) di tre o quattro Dinastie di Unni, prova evidentemente, che una lunga dimora nella China non servì a diminuire il loro spirito marziale.

358. Utque hominibus quietis et placidis otium est voluptabile, ita illos pericula juvant et bella. Judicatur ibi beatus, qui in praelio profuderit animam: senescentes etiam et fortuitis mortibus mundo digressos ut degeneres et ignavos conviciis atrocibus insectantur. Bisogna concepire una ben alta idea dei conquistatori di tali uomini.

359. Intorno agli Alani, vedi Ammiano (XXXI. 2), Giornandes ( De reb. Getic. c. 24 ), Guignes (Hist. des Huns Tom. II. p. 279 ), e l'Istor. Genealog. dei Tartari (Tom. II. p. 617).

360. Siccome abbiamo l'autentica storia degli Unni, non sarebbe a proposito il ripetere o confutare le favole che male rappresentan l'origine ed i progressi loro, il passaggio, che fecero, della palude o dell'acqua Meotide nella caccia di un bove o d'un cervo, le Indie che avevano scoperte ec. (Zosimo l. IV. p. 224. Sozomeno l. VI. c. 37. Procop. Hist. Miscell. c. 5. Giornandes c. 24 Grandeur et decad. des Rom. c. 17 ).

361. Prodigiosae formae et pandi, ut bipedes existimes bestias; vel quales in commarginandis pontibus effigiati stipites dolantur incompti. (Ammiano XXXI. 1). Giornandes (c. 24) dipinge con forte caricatura la faccia d'un Calmucco. Species pavenda nigredine... quaedam deformis offa, non facies habensque magis puncta, quam lumina: Vedi Buffon Hist. nat. Tom. III. p. 380.

362. Tale esecranda origine, che Giornandes (c. 24) descrive col rancore d'un Goto, può esser derivata in principio da qualche più piacevole favola dei Greci (Erodoto l. IV. c. 9).

363. I Rossolani possono essere i padri de' Ρως Russis (Danville Empire de Russie p. 1-10 ) la residenza de' quali (nell'anno 862) verso Novogrod Veliki non può esser molto lontana da quella che ai Rossolani assegna (nell'an. 886) il Geografo di Ravenna (I. 11 IV. 4. 46, V. 28. 30).

364. Il testo d'Ammiano pare imperfetto o corrotto; ma la natura del terreno spiega, e quasi determina la difesa Gotica. Mem. de l'Acad. Tom. XXVIII. p. 444, 462.

365. Il Buat ( Hist. des Peuples de l'Europ. T. VI. p. 407 ) ha concepito una strana idea, che Alavivo fosse l'istesso che Ulfila Vescovo Gotico, e che Ulfila, nipote d'un prigioniero della Cappadocia, divenisse per un dato tempo Principe dei Goti.

366. Ammiano (XXXI. 3.) e Giornandes ( de reb. Getic. c. 24 ) descrivono la sovversione dell'Impero Gotico fatta dagli Unni.

367. La cronologia d'Ammiano è oscura ed imperfetta. Il Tillemont si è affaticato per ischiarire e fissare gli annali di Valente.

368. Zosim. l. IV. p. 223. Sozom. l. VI. c. 38. Gl'Isauri solevano infestar nell'inverno le strade dell'Asia minore fino alle vicinanze di Costantinopoli. Basilio Ep. 250. ap. Tillemont. Hist. des Emper. Tom. V. p. 106.

369. Si descrive il passaggio del Danubio da Ammiano (XXXI. 1. 4), da Zosimo (l. IV. p. 223. 224), da Eunapio ( in Except. legat. p. 19. 20) e da Giornandes (c. 25. 26). Ammiano dichiara (c. 5) che intende solo ipsas rerum digerere summitates; ma spesso fa un giudizio falso dell'importanza delle cose; e l'eccessiva prolissità di lui vien malamente bilanciata da una brevità fuor di tempo.

370. Chishull, curioso viaggiatore, ha notato la larghezza del Danubio, ch'ei passò al Mezzodì di Bucarest vicino alla congiunzione dell'Argish (p. 77). Egli ammira la bellezza e la spontanea fertilità della Mesia o Bulgaria.

371.

Quem qui scire velit, Libyci velit aequoris idem

Discere, quam multae Zephyro turbentur arenae.

Ammiano ha inserito nella sua prosa questi versi di Virgilio ( Georg. l. II) usati dal poeta per esprimere l'impossibilità di numerare le varie specie di viti. Vedi Plinio Hist. Nat. l. XIV.

372. Eunapio e Zosimo enumerano esattamente questi articoli di ricchezza e di lusso Gotico. Conviene però supporre, che fossero manifatture delle province, che i Barbari avevano acquistate come spoglie di guerre, o come doni o prezzo di pace.

373. Decem libras: bisogna sottintendervi la parola d'argento. Giornandes manifesta le passioni ed i pregiudizi di un Goto. I servili Greci Eunapio e Zosimo mascherano l'oppressione Romana, ed abominano la perfidia dei Barbari. Ammiano, Istorico patriotico, tocca leggermente e contro voglia quest'odioso soggetto. Girolamo, che scrisse quasi sul luogo, è sincero, quantunque breve: Per avaritiam Maximi Ducis ad rebellionem fame coacti sunt: in Chron.

374. Ammiano XXXI. 4, 5.

375. Vexillis de more sublatis, auditisque triste sonantibus classicis: Ammian. XXXI 5. Questi sono i rauca cornua di Claudiano ( in Rufin. II. 57) i grossi corni dell' Uri, o del toro selvatico, quali si sono recentemente usati dai Cantoni Svizzeri d'Uri e d'Untervald (Simler de Republ. Hel. lib. II. p. 201 edit. Fuselin. Tigur. 1734). S'introduce delicatamente, sebben forse a caso, il loro corno militare in una original narrazione della battaglia di Nancy (dell'anno 1477): Attendant le combat le dit cor fut corné par trois fois, tant que le vent du corneur pouvoit durer, ce qui estbahit fort Monsieur de Bourgoigne; car dejà à Morat l'avoit ouy. (Vedi les Pieces justificat. nell'ediz. in 4. di Filippo di Comines Tom. III. p. 493).

376. Giornandes de reb. Getic. c. 26. p. 648. Edit. Grot. Questi splendidi panni (tali considerar si debbono relativamente) senza dubbio son tratti dall'Istorie più estese di Prisco, d'Ablavio o di Cassiodoro.

377. Cum populis suis longe ante suscepti. Noi non sappiamo precisamente la data e le circostanze della loro trasmigrazione.

378. Era stabilita in Adrianopoli una fabbrica Imperiale di scudi ec. ed alla testa del popolo si trovavano i Fabricensi o artefici ( Vales. da Ammian. XXXI. 6).

379. Pacem sibi esse cum parietibus memorans: Ammiano XXXI. 7.

380. Queste miniere erano nel paese dei Bessi sulla cima della montagna di Rodope fra Filippi e Filippopoli, due città della Macedonia, che traevano il nome e l'origine dal Padre d'Alessandro. Dalle mine della Tracia ricavava egli annualmente il valore, non già il peso di mille talenti (200000 lire sterl.); rendita che serviva a pagar la Falange ed a corromper gli oratori della Grecia. Vedi Diodor. Sicul. Tom. II. l. XVI. p. 88. Edit. Wesseling, Gotofred. Comment. al Cod. Teodos. T. III. p. 496, Celar. Geogr. ant. Tom. I. p. 676. 857, Danville Geogr. anc. Tom. I. p. 336.

381. Poichè quegli infelici lavoratori spesso fuggivano, Valente avea promulgato rigorose leggi per trarli dai lor nascondigli. Cod. Teodos. l. X. Tit. XIX. leg. 5. 7.

382. Vedi Ammiano XXXI. 5. 6. L'Istorico della guerra Gotica perde il tempo e la carta con una intempestiva ricapitolazione delle antiche incursioni dei Barbari.

383. L'Itinerario d'Antonino (p. 226. 527. Edit. Wesseling. ) pone questo luogo circa sessanta miglia al Nord di Tomi, esilio d'Ovidio; ed il nome di Salices (Salci) esprime la natura del suolo.

384. Questo recinto di carri ( il Carrago ) era la consueta fortificazione dei Barbari (Veget. de re milit. l. III. c. 10. Vales. ad Ammiano XXXI. 7). Se n'è conservato l'uso ed il nome da' lor discendenti fino al secolo XV. Il Carriaggio, che circonda l'esercito, è un termine famigliare ai lettori di Froissard o Comines.

385. Statim ut accensi malleoli. Ho usato il senso litterale di torce o fuochi reali, mo ho qualche sospetto che tal espressione non sia che una di quelle turgide metafore, di quei falsi ornamenti, che continuamente deturpano lo stile di Ammiano.

386. Indicant nunc usque albentes ossibus campi: Ammiano XXXI. 7. Potè l'Istorico aver veduto quelle terre in qualità o di soldato o di viaggiatore. Ma la sua modestia ha soppresso le avventure della propria vita posteriori alle guerre Persiane di Costanzo e di Giuliano. Non sappiamo in qual tempo egli abbandonasse la milizia e si ritirasse a Roma, dove pare che abbia composto l'Istoria de' suoi Tempi.

387. Ammiano XXXI. 8.

388. Hanc Taifalorum gentem turpem et obscoena vita flagitiis ita accipimus mersam, ut apud eos nefandi concubitus foedere copulentur mares puberes aetatis viriditatem in eorum pollutis usibus consumpturi. Porro si qui jam adultus aprum exceperit solus: vel interemit ursum immanem, colluvione liberatur incesti: Ammiano XXXI 9. In simil guisa fra' Greci, e più specialmente fra i Cretesi i santi vincoli dell'amicizia eran confermati e macchiati da un amore contro natura.

389. Ammiano XXXI. 8. 9. Girolamo (Tom. I. p. 26) enumera le nazioni e indica un calamitoso periodo di venti anni. La sua lettera ad Eliodoro fu scritta nel 397. Tillemont Mem. Eccles. Tom. XII. p. 645.

390. Viene esattamente determinato il campo di battaglia, Argentaria o Argentovaria, dal Danville ( Not. de l'anc. Gaul. p. 96. 99) a ventitre leghe Galliche o a miglia trentaquattro e mezzo Romane al Sud di Strasburgo. Dalle sue rovine è sorta la vicina città di Colmar.

391. La piena ed imparzial narrazione d'Ammiano (XXXI. 10.) può trarre qualche luce di più dall'Epitome di Vittore, dalla Cronica di Girolamo, e dall'Istoria d'Orosio (l. VII c. 33. p. 552. edit. Havercamp. ).

392. Moratus paucissimos dies seditione popularium levium pulsus: Ammiano XXXI. 11. Socrate (l. IV. c. 38.) supplisce alle date e ad alcune circostanze.

393. Vivosque omnes circa Mutinam, Regiumque: et Parmam Italica oppida, rura culturos exterminavit: Ammiano XXXI. 9. Quelle città e distretti, circa dieci anni dopo la Colonia dei Taifali, compariscono in uno stato molto desolato. Vedi Muratori Diss. sopra le antich. Ital. Tom. I. Diss. XXI. p. 354.

394. Ammiano XXXI. 11. Zosimo l. IV. p. 228-230. Quest'ultimo si diffonde nelle passate azioni di Sebastiano, e sbriga in pochi versi l'importante battaglia d'Adrianopoli. Secondo i Critici Ecclesiastici, che detestano Sebastiano, la lode, che gli dà Zosimo, gli fa disonore (Tillemont Hist. des Emper. Tom. V. p. 121 ). Il pregiudizio e l'ignoranza di esso lo rendono certamente un molto equivoco giudice del merito.

395. Ammiano (XXXI. 11, 13) è quasi solo a descrivere i consigli e le azioni che andarono a finire nella fatal battaglia d'Adrianopoli. Noi possiam censurare in vero i difetti del suo stile, il disordine e l'ambiguità delle sue narrazioni; ma dovendo adesso restare privi di questo imparziale Istorico, il dispiacere che abbiamo per tale irreparabile perdita, impone silenzio ai rimproveri.

396. La differenza fra le otto miglia d'Ammiano e le dodici d'Idazio non può imbarazzare che quei Critici (Vales. ibid.), i quali suppongono, che un grande esercito sia un punto matematico senza spazio o dimensione.

397. Nec ulla annalibus praeter Cannensem pugnam ita ad internecionem res legitur gesta. Ammiano XXXI. 13. Secondo il grave Polibio non si salvarono dal campo di Canne più di 670 cavalli e di 3000 fanti; 10000 ne furono fatti schiavi; ed il numero degli uccisi ascese a 5630 cavalli e 70000 fanti: Polib. T. III. p. 371. Edit. Casaub. 8. Tito Livio (XXII. 49.) è un poco men sanguinoso: ei riduce la strage a 2700 cavalli ed a 40000 fanti. Fu supposto, che l'esercito Romano fosse composto di 87200 uomini effettivi (XXII. 36).

398. Abbiam preso qualche tenue lume da Girolamo ( T. I. p. 26, e in Cron. p. 188 ), da Vittore (in Epitom. ), da Orosio ( l. VII. c. 33. p. 554 ), da Giornandes ( c. 27 ), da Zosimo ( l. IV. p. 230 ), da Socrate ( l. IV. c. 38 ), da Sozomeno ( l. IV. c. 40 ), da Idazio ( in Cron. ). Ma la testimonianza di essi tutti uniti insieme, paragonata col solo Ammiano, è debole ed insufficiente.

399. Libanio de ulc. Jul. nece ap. Fabric. Bibl. Gr. T. VII p. 146-148.

400. Valente avea guadagnato o piuttosto comprato l'amicizia dei Saracini, dei quali si erano già provate le moleste incursioni sulle frontiere della Fenicia, della Palestina e dell'Egitto. S'era introdotta di fresco la fede Cristiana in un popolo ch'era destinato a propagare in seguito un'altra religione: Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 104. 106. 141. Mem. Ec. Tom. VII. p. 593 ).

401. Crinitus quidam nudus omnia praeter pubem subraucum et lugubre strepens. Ammiano XXXI. 16. e Vales. Ib. Gli Arabi spesso combattevano nudi, uso che si può attribuire al caldo lor clima e ad un'ostentata bravura. La descrizione di quest'incognito selvaggio è il vivo ritratto di Dorar, nome così terribile pei Cristiani della Siria. Vedi Ockley Stor. dei Sarac. vol. I. p. 72. 84. 87.

402. Può tuttavia investigarsi la serie degli eventi nelle ultime pagine d'Ammiano (XXXI. 15. 16). Zosimo (l. IV. p. 227. 231.), del quale siamo adesso costretti a tener conto, sbaglia nel porre la sortita degli Arabi avanti la morte di Valente. Eunapio ( in Excerpt. Leg. p. 20 ) loda la fertilità della Tracia, della Macedonia ec.

403. S'osservi con quanta indifferenza racconta Cesare nei commentari della guerra Gallica, ch'ei pose a morte tutto il Senato de' Veneti, che gli si era reso a discrezione (l. III. 16), che si sforzò d'esterminare tutta la nazione degli Eburoni (VI. 31), che a Bourges furono trucidate quarantamila persone per la giusta vendetta de' suoi soldati, i quali non risparmiaron nè sesso, nè età (VII. 27).

404. Tali sono i racconti del sacco di Magdeburgo fatti dall'Ecclesiastico e dal Pescatore, che Harte ha tradotto ( Ist. di Gustavo Adolfo vol. I. p. 313-320 ), con qualche timore di violare la dignità dell'Istoria.

405. Et vastatis urbibus, hominibusque interfectis, solitudinem et raritatem bestiarum quoque fieri, et volatilium pisciumque: testis Illiricum est, testis Thracia, testis, in quo ortus sum solum (Pannoniae?) ubi praeter caelum et terram et crescentes vepres et condensa sylvarum cuncta perierunt. Tom. VII. p. 250. ad. I. cap. Sophon. e Tom. I. p. 20.

406. Eunapio ( in Excerpt. Leg. p. 20 ), pazzamente suppone un accrescimento soprannaturale nei giovani Goti, a fine di poter introdurre gli uomini armati di Cadmo, che nacquero dai denti del dragone ec. Tale era la Greca eloquenza di quel tempo.

407. Ammiano evidentemente approva quest'esecuzione, efficacia, velox et salutaris, con che termina la sua opera (XXXI-16). Zosimo, che è curioso ed abbondante (l. IV. p. 233-253), sbaglia la data, e si studia di trovare la ragione, per cui Giulio non consultò l'Imperator Teodosio, che non era per anche salito sul trono d'Oriente.

408. Fu composta nel secolo passato una vita di Teodosio il Grande ( Parig. 1679 in 4, 1680 in 12 ), per infiammare di zelo cattolico lo spirito del giovin Delfino. Flechier, autore di essa, poi Vescovo di Nimes, era un celebre predicatore e la sua storia è adornata o guastata dall'eloquenza del pulpito; ma egli prende le notizie dal Baronio ed i principj da S. Ambrogio e da S. Agostino.

409. Si descrive la nascita, il carattere e l'innalzamento di Teodosio da Pacato ( in Paneg. vet. XII. 10. 11. 12 ), da Temisio ( Orat. XIV. p. 182 ), da Zosimo (l. IV. p. 231), da Agostino ( de Civ. Dei V. 15 ), da Orosio (l. VII. c. 33), da Sozomeno (l. V. c. 2), da Teodoreto (lib. V. c. 5), da Filostorgio (l. IV. c. 17 col Gotofredo p. 393), nell'Epitome di Vittore e nelle Croniche di Prospero, d'Idazio, di Marcellino, nel Thesaur. tempor. di Scaligero, ec.

410. Tillemont Hist. des Emper. Tom. V. p. 716. ec.

411. Italica, fondata da Scipione Affricano pei feriti suoi veterani d'Italia. Se ne vedono tuttavia le rovine circa una lega sopra Siviglia, ma dall'opposta parte del fiume. Vedasi l' Ispania illustrata di Nonio; breve ma stimabil trattato: c. XVII. p. 64-67.

412. Io convengo col Tillemont ( Hist. des Emper. T. V. p. 726 ) nel sospetto intorno alla Real genealogia di Teodosio, che rimase occulta fino alla promozione di esso. Anche dopo di questa il silenzio di Pacato contrabilancia la venal testimonianza di Temistio, di Vittore e di Claudiano, che uniscono la famiglia di Teodosio al sangue di Trajano e di Adriano.

413. Pacato paragona e conseguentemente preferisce la gioventù di Teodosio alla militar educazione d'Alessandro, di Annibale e del secondo Affricano, i quali avevan militato, com'esso, sotto i lor genitori. XII. 8.

414. Ammiano fa menzione di questa vittoria che riportò: Theodosius Junior Dux Mesiae prima etiam tum lanugine juvenis, princeps postea perfectissimus. Il medesimo fatto s'attesta da Temistio e da Zosimo; ma Teodoreto (l. V c. 5 ), che vi aggiunge alcune curiose circostanze, l'applica male a proposito al tempo dell'interregno.

415. Pacato ( in Paneg. vol. XII. 9. ) preferisce la vita rustica di Teodosio a quella di Cincinnato; l'una era effetto della scelta, l'altra della povertà.

416. Danville ( Geogr. Anc. Tom. I. p. 25) ha fissato la situazione di Cauca o Coca nell'antica Provincia di Galizia, in cui Zosimo ed Idazio hanno posto la nascita o il patrimonio di Teodosio.

417. Udiamo Ammiano medesimo: Haec, ut miles quondam et Graecus, a principatu Caesaris Nervae exorsus, adusque Valentis interitum, pro virium explicavi mensura, nunquam, ut arbitror, sciens silentio ausus corrumpere vel mendacio. Scribant reliqua potiores aetate, doctrinisque florentes. Quos id, si libuerit, aggressuros, procudere linguas ad majores moneo stylos. Ammiano XXXI. 16. I primi tredici libri, che sono un epitome superficiale di dugentocinquantasette anni, ora sono perduti: gli ultimi diciotto, che non contengono più di venticinque anni, ci conservano ancora una copiosa ed autentica storia de' suoi tempi.

418. Ammiano fu l'ultimo suddito di Roma che componesse un'istoria profana in lingua Latina. L'Oriente, nel secolo dopo, produsse alcuni storici retori, come Zosimo, Olimpiodoro, Malco, Candido ec. Vedi Vossio de Histor. Graec. l. II c. 18. De Histor. Latin. l. II. c. 10.

419. Grisostom. T. I. pag. 344. edit. Montfauc. Io ho riscontrato ed esaminato questo passo; ma senza l'aiuto del Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 152 ) non avrei mai potuto scoprire un aneddoto storico in uno strano miscuglio di mistiche e morali esortazioni, indirizzate dal Predicator d'Antiochia ad una giovane vedova.

420. Eunap. in Excerpt. Legat. p. 21.

421. Vedi Gotofredo Cronol. delle Leggi. Cod. Teod. T. I. Proleg. p. XCIX. CIV.

422. Molti scrittori si fermano assai nella malattia e nella lunga dimora di Teodosio a Tessalonica. Zosimo per diminuir la sua gloria; Giornandes per favorire i Goti; e gli Autori Ecclesiastici per dar luogo al suo Battesimo.

423. Si paragoni Temistio ( Orat. XIV. p. 181 ) con Zosimo (l. IV. p. 232) con Giornandes (c. XXVII. p. 649) e col prolisso commento del conte di Buat ( Hist. des Peupl. Tom. VI. p. 477-552 ). Le Croniche d'Idazio e di Marcellino alludono, in termini generali, a magna certamina, magna multaque praelia. I due epiteti non sono da conciliarsi facilmente.

424. Zosimo l. IV. p. 232 lo chiama Scita, nome che sembra dai Greci più moderni essersi applicato ai Goti.

425. Al Lettore non dispiacerà di vedere le parole originali di Giornandes o dell'autore ch'egli trascrive: Regiam urbem ingressus est, miransque, en (inquit) cerno quod saepe incredulus audiebam, famam videlicet tantae urbis. Et huc illuc oculos volvens nunc situm urbis commeatumque navium, nunc moenia clara prospectans, miratur, populosque diversarum gentium quasi fonte in uno e diversis partibus scaturiente unda sic quoque militem ordinatum aspiciens. Deus, inquit, est sine dubio terrenus imperator, et quisquis adversus eum manum moverit, ipse sui sanguinis reus existit: Giornandes ( c. XXVIII. p. 650 ) passa a far menzione della sua morte e dei suoi funerali.

426. I brevi ed autentici cenni, che si trovano nei Fasti d'Idazio ( Chron. Scalig. p. 52 ) son macchiati dalla passione di un contemporaneo. L'orazione quarantesima di Temistio è un complimento alla Pace ed al Console Saturnino (An. 383).

427. Giornandes c. XXVIII. p. 650. Anche Zosimo (l. IV p. 246) è costretto a lodare la generosità di Teodosio, tanto onorevole per esso, e vantaggiosa pel Pubblico.

428. Εθνος το Σκεθικον πασιν αγνωυον, Gente Scitica, ignota a tutti: Zosimo l. IV. p. 252.

429. Io sono autorizzato dalla ragione e dall'esempio ad applicare questo nome Indiano ai μονοξυλα, navicelle fatte d'un sol albero, dei Barbari, che sono alberi scavati in forma di battelli, πληθει μονοξυλων εμβιβασαντες: traghettando con una moltitudine di monoxuli: Zosimo lib. IV p. 253.

Ausi Danubium quondam tranare Gruthungi.

In lintres fregere nemus: ter mille ruebant

Per fluvium plenae cuneis immanibus alni.

Claudian. in IX. Cons. Hon. 623.

430. Zosimo l. IV. p. 252-255. Ei troppo spesso dimostra la sua scarsezza di giudizio, deturpando le più serie sue narrazioni con minute ed incredibili circostanze.

431. Retulit... Odothaei Regis opima.

V. 6. Le spoglie opime eran quelle che un Generale Romano potea guadagnare solamente sopra un Re o un Generale nemico, ucciso da esso con le proprie mani; e nei secoli vittoriosi di Roma non se ne contano più di tre esempi.

432. Vedi Temistio Orat. XVI. p. 211. Claudiano ( in Eutrop. l. II. p. 152 ) fa menzione della Colonia Frigia...

... Ostrogothis colitur mistisque Gruthungis

Phryx ager...

E quindi passa a nominare il Pattolo e l'Ermo, fiumi della Lidia.

433. Si paragonino fra loro Giornandes (c. XX. 27) che nota la condizione ed il numero dei confederati Gotici, Zosimo (l. IV. p. 258), che fa menzione degli aurei loro collari, e Pacato ( in Paneg. vet. XII. 37 ), che applaudisce con falsa o stolta gioia alla disciplina e bravura loro.

434. Amator pacis generisque Gothorum. Questa è la lode, che gli dà l'Istorico Goto (c. XXIX), che rappresenta la sua nazione come composta di uomini pacifici, lenti alla collera, e pazienti delle ingiurie. Secondo T. Livio, i Romani non conquistarono il Mondo che per difendersi.

435. Oltre le parziali invettive di Zosimo (sempre malcontento dei Principi Cristiani) vedansi le gravi rappresentanze, che Sinesio indrizza all'Imperatore Arcadio ( de Regno p. 25. 26. Edit. Petav ). Il filosofo Vescovo di Cirene era vicino abbastanza per giudicare, ed abbastanza lontano per non esser tentato dal timore e dall'adulazione.

436. Temistio ( Orat. XVI. p. 211. 212 ) compose un'elaborata e ragionevole apologia, che per altro non è esente dalle puerilità della Greca rettorica. Orfeo potè solo allettare le bestie selvagge della Tracia; ma Teodosio incantò gli uomini e le donne, dai predecessori dei quali Orfeo nell'istesso luogo era stato fatto in pezzi ec.

437. Costantinopoli fu privata, mezzo un giorno, della pubblica distribuzione di pane per espiar l'uccisione d'un soldato Gotico: κυουντες τον Σκυθικον etc. (aver ammazzato uno Scita) fu il delitto del popolo. Liban. Orat. VII. p. 394. Edit. Morel.

438. Zosimo t. IV. p. 267. 271. Egli racconta una lunga e ridicola storia dell'avventuroso principe, che scorse il paese con soli cinque cavalieri, di uno spione che essi scuoprirono, batterono ed uccisero nella capanna di una vecchia ec.

439. Si confronti Eunapio ( in Excerpt. Legat. p. 21. 22 ), con Zosimo (l. IV. p. 279). Deve senza dubbio applicarsi alla medesima storia la differenza delle circostanze e dei nomi. Fravitta o Travitta in seguito fu Console, nell'anno 401, e continuò nel fedele servizio del figlio maggiore di Teodosio ( Tillemont Hist. des Emp. Tom. V. p. 467).

440. I Goti messero tutto a sacco dal Danubio fino al Bosforo; esterminarono Valente e il suo esercito, e non ripassarono il Danubio, che per abbandonar l'orribile solitudine, che avevan fatto (Oeuvres de Montesquieu T. III p. 479. Considérations sur les causes de la grand. et de la decad. des Rom. c. 17). Il Presidente di Montesquieu sembra avere ignorato che i Goti, dopo la disfatta di Valente, non abbandonarono mai il territorio Romano. Sono adesso trent'anni, dice Claudiano ( de Bell. Getic. 166. ec. An. 404),

Ex quo jam patrios gens haec oblita Triones,

Atque Istrum transvecta semel, vestigia fixit

Threicio funesta solo....

441. Valentiniano fu meno sollecito della religion del suo figlio, poichè affidò l'educazion di Graziano ad Ausonio, dichiarato Pagano ( Mem. de l'Academ. des Inscr. T. XV. p. 125-138 ). La fama poetica d'Ausonio condanna il gusto del suo secolo.

442. Ausonio fu gradatamente promosso alla Prefettura del Pretorio dell'Italia (nell'anno 377) e della Gallia (nell'anno 378) ed in fine fu insignito del Consolato (l'anno 379). Egli espresse la sua gratitudine con un servile ed insipido tratto d'adulazione ( Actio gratiarum p. 699-736 ), che è sopravvissuto ad altre produzioni più degne.

443. Disputare de principali judicio non opportet: sacrilegii enim instar est dubitare, an is dignus sit, quem elegerit Imperator: Cod. Justin. l. IX. Tit. XXIX. leg. 3. Questa legge sì ragionevole fu confermata e pubblicata dopo la morte di Graziano dalla debole Corte di Milano.

444. Ambrogio compose per istruzione di lui un trattato teologico sulla fede della Trinità: e Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 158. 169 ) attribuisce all'Arcivescovo il merito delle intolleranti leggi di Graziano.

445. Qui divinae legis sanctitatem nesciendo omittunt, aut negligendo violant et offendunt, sacrilegium committunt: Cod. Just. l. IX. Tit. XXIX. leg. Teodosio invero può pretender la sua parte nel merito di questa estesa legge.

446. Ammiano (XXXI. 10) e Vittore il Giovane riconoscono le virtù di Graziano, ed accusano o piuttosto deplorano il depravato suo gusto. L'odioso paralello di Commodo è addolcito dall'espressione: licet incruentus, e forse Filostorgio (l. X. c. 10. col Gotofred. pag. 412 ) ha mitigato con qualche riserva simile la comparazion di Nerone.

447. Zosimo (l. IV. p. 247) e Vittore il Giovane attribuiscono la rivoluzione al favor degli Alani ed al disgusto delle truppe Romane. Dum exercitum negligeret, et paucos ex Alanis, quos ingenti auro ad se transtulerat, anteferret veteri ac Romano militi.

448. Britannia fertilis provincia tyrannorum: È una memorabile espressione adoperata da Girolamo nella controversia Pelagiana, e variamente interpretata nelle dispute dei nazionali nostri Antiquari. Pare che le rivoluzioni del secolo passato giustifichino l'immagine del sublime Bossuet: «Cette isle plus orageuse que les mers qui l'environnent».

449. Zosimo dice dei soldati Britannici: των αλλων απαντων πλεον αυθαδεια και θυμῳ: son molto superiori a tutti gli altri in arroganza ed in ardire.

450. Elena figlia d'Eudda. Può vedersi ancora la sua cappella a Caer-Segont, ora Caer-Noarvon ( Carte Istor. d'Inghil. Vol. I. p. 168 dalla Mona antiqua di Rowland). Il prudente lettore non sarà probabilmente soddisfatto di tal testimonianza Gallese.

451. Cambden ( Vol. I. Introd. p. 101) lo caratterizza governatore della Britannia, ed il padre delle nostre antichità vien seguitato, com'è solito, dai ciechi suoi figli. Pacato e Zosimo avean preso qualche cura per impedir quest'errore o favola; ed io mi difenderò con le decisive loro testimonianze. Regali habitu exulem suum, illi exules orbis induerunt (in Paneg. vet. XII. 23 ) e l'Istorico Greco con molto minor equivoco, αυτοϛ (Maximus) δε ουδου εις αρχην εντιμον ετυχη προελθων ( lib. IV. p. 248) esso poi non era costituito in onorevol comando.

452. Sulpic. Sever. Dial. II. 7. Orosio l. VII. c. 34. p. 556. Ambidue riconoscono (Sulpicio era stato suo suddito) l'innocenza ed il merito d'esso. Egli è ben singolare, che Massimo sia stato trattato meno favorevolmente da Zosimo, parziale avversario del suo rivale.

453. L'Arcivescovo Usserio ( Antiq. Britann. Eccl. p. 107, 108 ) ha diligentemente raccolto le leggende dell'Isola e del Continente. Tutta l'emigrazione consisteva in 30000 soldati e 100000 plebei, che si stabilirono nella Brettagna. Le spose loro destinate, cioè S. Orsola con 11000 nobili Vergini, e 60000 plebee, sbagliarono la strada, preser terra a Colonia, e furono crudelissimamente trucidate dagli Unni. Ma le sorelle plebee vennero defraudate di tal onore: e quel che è più strano, Giovanni Tritemio pretende di far menzione dei figli di queste Vergini Britanniche.

454. Zosimo (l. IV. p. 248. 249) ha trasferito la morte di Graziano da Lugdunum (Lione) nella Gallia a Singidunum nella Mesia. Possono rilevarsi alcuni cenni dalle Croniche, e scuoprirsi alcune falsità in Sozomeno (l. VII. c. 13) ed in Socrate (l. V. c. 11). Ambrogio è la nostra guida più autentica (Tom. I. Enarrat. in Psalm. 61. p. 961. Tom. II. Epist. 24. p. 888, ec. et de Obitu. Valent. Consol. n. 28. p. 1182).

455. Pacato (XII. 68) celebra la fedeltà di Mellobaude, mentre nella Cronica di Prospero si nota il suo tradimento come la causa della rovina di Graziano. Ambrogio, che ha motivo di pensare a scolpare se stesso, non condanna che la morte di Vallio, servo fedele di Graziano (Tom. II. ep. 24 p. 891. Ed. Benedict. )

456. Egli si protesta, nullum ex adversariis nisi in acie occubuisse: Sulpic. Sever. in vit. B. Martin, a. 23. L'orator di Teodosio accorda una ripugnante, e pure autorevol lode alla clemenza di Massimo: si cui ille, pro ceteris sceleribus suis, minus crudelis fuisse videtur. Paneg. vet. XII. 28.

457. Ambrogio fa menzione di quelle leggi di Graziano, quas non abrogavit hostis: Tom. II. epist. 17. p. 827.

458. Zosimo l. IV. p. 251. 252. Noi possiamo ben disapprovare questi odiosi sospetti; ma non possiamo tralasciare il trattato di pace, che gli amici di Teodosio hanno assolutamente dimenticato, o ne han fatta leggiera menzione.

459. L'Arcivescovo di Milano, oracolo del Clero, assegnò al suo discepolo Graziano un sublime e rispettabile posto nel Cielo. Tom. II. de Obit. Val. Consol. p. 1193.

460. Pel Battesimo di Teodosio vedansi Sozomeno (l. VII c. 4) Socrate (l. V. c. 6) e Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 728).

461. Ascolio o Acolio fu onorato dall'amicizia e dalle lodi d'Ambrogio, che lo chiama: murus fidei atque sanctitatis (Tom. II. ep. 15 p. 820), e quindi celebra la sua prontezza e diligenza in correre da Costantinopoli in Italia, ec. ( epist. 16. p. 822) virtù, che non conviene nè ad un muro nè ad un Vescovo.

462. Cod. Teod. lib. XVI. Tit. I. leg. 2. col Comment. del Gotofredo Tom. VI. p. 5-9. Tale editto meritava le più alte lodi del Baronio: auream sanctionem, edictum pium et salutare. Sic itur ad astra.

463. Sozomeno l. VII. c. 6. Teodoreto l. V. c. 16. Al Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. VI. p. 627, 628) dispiacciono i termini di rozzo Vescovo, e d'oscura città. Pure bisogna che mi si permetta di credere, che Anfilochio ed Icone fosser oggetti d'inconsiderabil grandezza nell'Impero Romano.

464. Sozomeno l. VII. c. 5. Socrat. l. V. c. 7. Marcellin. in Chron. Bisogna cominciare il computo dei quarant'anni dall'elezione o intrusione d'Eusebio, che saggiamente cambiò il Vescovato di Nicomedia con la sede di Costantinopoli.

465. Vedi Jortin Osservaz. sull'Istor. Eccl. Vol. IV. p. 71. L'Orazione trentesimaterza di Gregorio Nazianzeno somministra invero qualche idea simile, ed alcune anche più ridicole; ma io non ho potuto trovar le parole di questo notabile passo, che adduco sulla fede d'un esatto ed ingenuo erudito.

466. Vedi l'Orazione 32 di Gregorio Nazianzeno, ed il racconto ch'egli ha fatto della sua vita in 1800 versi jambici. Pure ogni Medico è disposto ad esagerare l'inveterata natura della malattia ch'egli ha curata.

467. Io mi confesso altamente obbligato alle due vite di Gregorio Nazianzeno, composte, con molto diverse mire dal Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. IX. p. 305-560, 695-741) e dal Le Clerc. ( Bibliot. Univ. Tom. XVII. p. 1. 128).

468. A meno che Gregorio Nazianzeno non abbia fatto l'error di trent'anni nella sua propria età, egli era nato, ugualmente che Basilio, suo amico, circa l'anno 329. L'anticipata cronologia di Suida si è ricevuta favorevolmente, perchè toglie lo scandalo, che il padre di Gregorio, ancor egli santo, generasse figli dopo d'esser divenuto Vescovo (Tillemont Mem. Eccles. Tom. IX. p. 693-769).

469. Il Poema di Gregorio sulla propria vita contiene alcuni bei versi (Tom. II. p. 9), che nascono dal cuore, ed esprimono i torti d'una ingiuriata e perduta amicizia.

.... πονοι κονοι λογων,

Ομοςεγος τε και σινεςιος βιος

Νους εις εν αμφοιν

Διεσκεδασαι παντα ερριπται χαμαι

Αυραι φερουσι τας παλαιας ελπιδας

... Eran comuni le fatiche dai ragionamenti, famigliare e congiunta la vita, un animo in ambidue ... Tutto si è dissipato, è caduto a terra, i venti portano via le antiche speranze.

Nel Sogno della Notte di Mezza State, Elenia fa l'istesso patetico lamento all'amico Ermia.

Is all the counsel that we two have shared,

The sister's vows, ecc.

«Fra noi due comune abbiamo ogni consiglio, i voti della sorella ec.»

Shakespeare non aveva mai letto i poemi di Gregorio Nazianzeno, egli non sapeva la lingua Greca: ma la sua madre lingua, cioè quella della natura, è l'istessa nella Cappadocia e nell'Inghilterra.

470. Questo svantaggioso ritratto di Sasima è preso da Gregorio Nazianzeno ( Tom. II. de vita sua p. 7. 8). Nell'Itinerario d'Antonino se ne fissa la situazione precisa in distanza di quarantanove miglia da Archelaide, e di trentadue da Tiana. ( p. 144. Edit. Wesseling. ).

471. Si è reso immortale da Gregorio il nome di Nazianzo, ma si fa menzione della sua patria sotto il nome Greco o Romano di Diocesarea da Tillemont ( Memoir. Eccles. T. IX. p. 692), da Plinio (VI. 3), da Tolomeo e da Ierocle ( Itin. Wesseling p. 709 ). Sembra che fosse situata sul confine dell'Isauria.

472. Vedi Du Cange Const. Christ. l. IV. p. 141. 142. La Θεια δυναμις Divina forza di Sozomeno (l. VII. c. 5) viene interpretata per Maria Vergine.

473. Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. IX. p. 432. ec. ) diligentemente raccoglie, estende e spiega gli oratorj e poetici tratti di Gregorio medesimo.

474. Ei recitò un'orazione ( Tom. I. Orat. XXIII. p. 409) in sua lode; ma dopo la lor contesa fu mutato il nome di Massimo in quello di Erone (Vedi Girolamo T. I. in Catal. Script. Eccles. p. 301). Io tocco di volo tali personali ed oscure discordie.

475. Sotto il modesto velo d'un sogno, Gregorio (T. II. Carm. IX. p. 78) descrive il proprio buon successo con qualche umana compiacenza. Pure dalla famigliare conversazione di lui con S. Girolamo, suo discepolo ( Tom. I. Epist. ad Nepotian. p. 14), parrebbe, che il predicatore sapesse il vero valore dell'applauso popolare.

476. Lacrymae auditorum laudes tuae sint: questo è il vivace e giudizioso parere di S. Girolamo.

477. Socrate (l. V. c. 7) e Sozomeno (l. VII. c. 5) riferiscono l'evangeliche parole ed azioni di Damofilo, senza neppure una parola d'approvazione. Egli riflettè, dice Socrate, ch'è difficile resistere ai potenti: ma era facile, e sarebbe stato vantaggioso il sottomettersi.

478. Vedi Gregor. Naz. Tom. II. de vita sua p. 21. 22. Il Vescovo di Costantinopoli, per istruzione della posterità, fa menzione di uno stupendo prodigio. Nel mese di Novembre era una mattinata nuvolosa; ma quando la processione entrò in Chiesa, comparve il Sole.

479. Frai tre storici Ecclesiastici, il solo Teodoreto (l. V. c. 2) ha rammentato quest'importante commissione di Sapore, che il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 728) ha giudiziosamente trasferito dal regno di Graziano a quello di Teodosio.

480. Io non fo conto di Filostorgio, quantunque faccia egli menzione dell'espulsion di Damofilo (I. c. 19). L'Istorico Eunomiano si è diligentemente fatto passare per un crivello cattolico.

481. Le Clerc ha dato un curioso estratto ( Bibl. Univ. Tom. XVIII. p. 91-105) dei discorsi Teologici che Gregorio Nazianzeno recitò a Costantinopoli contro gli Arriani, gli Eunomiani, i Macedoniani ec. Ei dice ai Macedoniani, che divinizzavano il Padre ed il Figlio senza lo Spirito Santo, che essi potevano chiamarsi Triteisti così bene che Diteisti. Gregorio medesimo era quasi un triteista; e la sua monarchia del Cielo somiglia una ben regolata aristocrazia.

482. Il primo Concilio Generale di Costantinopoli adesso trionfa nel Vaticano; ma i Papi lungamente avevano esitato sopra di esso, e la lor dubbiezza rende perplesso, e fa quasi vacillare l'umile Tillemont Mem. Eccl. Tom. IX. p. 499-500.

483. Avanti la morte di Melezio, sei o otto de' suoi Preti più popolari, fra' quali era Flaviano, avean rinunziato con giuramento, per amor della pace, al Vescovato d'Antiochia. ( Sozomeno l. VII. c. 3. 11. Socrate l. V. c. 5). Il Tillemont si crede in dovere di non prestar fede all'istoria; ma confessa che nella vita di Flaviano si trovano molte circostanze, che non sembrano coerenti alle lodi del Grisostomo ed al carattere d'un santo. ( Mem. Eccl. T. X. p. 541).

484. Si consulti Gregorio Nazianzeno ( de vita sua T. II. p. 25-28). Può vedersi la sua generale e particolare opinione del Clero e delle adunanze di esso, tanto in verso quanto in prosa ( Tom. I. Orat. I. p. 33. epist. LV. p. 814. T. II. carm. X. p. 81). Tali passi vengono leggermente indicati dal Tillemont, ed ingenuamente prodotti dal le Clerc.

485. Vedi Gregorio Tom. II. de vita sua p. 28-31. Le orazioni 17. 28. 32. furono pronunziate nelle varie scene di quest'azione. La perorazione dell'ultima (Tom. I. p. 528) in cui dà un solenne addio agli uomini ed agli Angeli, alla Città ed all'Imperatore, all'Oriente ed all'Occidente ec., è patetica e quasi sublime.

486. Sozomeno attesta la capricciosa ordinazion di Nettario (l. VII. c. 8), ma il Tillemont osserva ( Memoir. Eccles. Tom. IX. p. 719) che «après tout, ce narré de Sozomene est si honteux pour tous ceux qu'il y mèle, et sur-tout pour Théodose, qu'il vaut mieux travailler à le détruire, qu'à le soutenir»: ammirabile regola di critica!

487. Io intendo solamente di dire, che tale era la naturale sua indole, quando non era infiammata o indurita dallo zelo religioso. Dal suo ritiro, egli esorta Nettario a perseguitar gli Eretici di Costantinopoli.

488. Vedi Cod. Teodos, lib. XVI. Tit. V. leg. 6. 23 col commento del Gotofredo a ciascheduna legge, ed il suo sommario generale o Paratitlo: Tom. VI. pag. 104-110.

489. Essi facevan sempre la Pasqua, come gli Ebrei, nel decimoquarto giorno del primo mese dopo l'equinozio di primavera, e così pertinacemente opponevansi alla Chiesa Romana ed al Concilio Niceno, che avea fissato la Pasqua in Domenica. Bingham. Ant. l. XX. c. 5. Vol. II. p. 309. fol.

490. Sozomeno l. VII. c. 12.

491. Vedi l'Istoria Sacra di Sulpizio Severo (l. II. p. 447-455 ed. Lugd. Batav. 1647) scrittore corretto ed originale. Il Dottor Lardner ( Credibil ec. Part. II. Vol. IX. p. 256, 340 ) ha lavorato quest'articolo con pura erudizione, con moderazione e buon senso. Il Tillemont ( Mem. Eccles. T. VIII. p. 491-527 ) ha ammucchiato tutta la spazzatura dei Padri: l'utile spazzino!

492. Severo Sulpizio parla con istima e pietà dell'arcieretico: Felix profecto, si non pravo studio corrupisset optimum ingenium: prorsus multa in eo animi et corporis bona cerneres ( Hist. Sacr. l. II. p. 439 ). Anche Girolamo ( Tom. I. in Script. Eccl. p. 202 ) parla con moderazione di Priscilliano e di Latroniano.

493. Questo Vescovato (nella vecchia Castiglia) rende presentemente 20000 ducati l'anno (Busching Geog. Vol. II. p. 308 ), ed è perciò assai meno atto a produrre l'autore d'una nuova eresia.

494. Exprobabatur mulieri viduae nimia religio et diligentius culta divinitas (Pacat. in paneg. vet. XII. 29 ). Tal era l'idea d'un umano, quantunque ignorante politeista.

495. Uno di essi fu mandato in Syllinam insulam, quae ultra Britanniam est. Qual esser doveva l'antico stato degli scogli di Scilly (Cambden Britann. Vol. II. p. 1519 )?

496. Le scandalose calunnie di Agostino, di Leone Papa ec. che il Tillemont ingoia come un fanciullo, e Lardner confuta da uomo, possono suggerire qualche ingenuo sospetto in favore degli antichi Gnostici.

497. Ambrog. Tom. II. epist. 24. P. 891.

498. Sulpizio Severo nell'Istoria Sacra, e nella vita di S. Martino usa qualche cautela; ma si dichiara più liberamente nei dialoghi (III. 15). Martino però fu ripreso dalla propria coscienza e da un Angelo; nè potè in seguito far de' miracoli sì facilmente.

499. Tanto il Prete Cattolico ( Sulpic. Sev. l. II. p. 448) quanto l'Oratore Pagano ( Pacat. in Paneg. vet. XII. 29) disapprovano con uguale indignazione il carattere e la condotta d'Itacio.

500. La vita di S. Martino, ed i dialoghi intorno a' suoi miracoli, contengono fatti adattati alla più grossolana ignoranza, in uno stile non indegno del secolo d'Augusto. È così naturale la connessione fra il buon gusto ed il buon senso, che mi fa sempre stupore questo contrasto.

501. La breve e superficial vita di S. Ambrogio, scritta da Paolino suo Diacono ( Append. ad edit. Bened. p. I. XV ) ha il pregio d'una testimonianza originale. Il Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. X. p. 78-306) e gli Editori Benedettini (p XXXI-LXIII) vi hanno lavorato con la solita lor diligenza.

502. Ambrogio medesimo ( Tom. II. ep. XXIV. p. 888. 891) dà all'Imperatore un assai spiritoso ragguaglio della sua ambasceria.

503. La rappresentazione, ch'egli stesso fa dei suoi principj e della sua condotta ( Tom. II. ep. XX. XXI. XXII. p. 851-880 ), è uno dei più curiosi monumenti d'antichità ecclesiastica. Essa contiene due lettere a Marcellina sua sorella con una supplica a Valentiniano, ed il discorso de Basilicis non tradendis.

504. Il Cardinale di Retz ebbe una simile ambasciata della Regina, affinchè quietasse il tumulto di Parigi. Ciò non era più in suo potere: à quoi j'ajoutai tout ce que vous pouvez vous imaginer de respect, de douleur, de regret et de soumission etc. (Mém. T. I. p. 140). Io non paragono certamente fra loro nè le cause nè le persone; ma il Coadiutore medesimo aveva qualche idea (p. 84) d'imitar S. Ambrogio.

505. Il solo Sozomeno (l. VII. c. 13), involge questo luminoso fatto in una oscura e dubbiosa narrazione.

506. Excubabat pia plebs in Ecclesia mori parata cum Episcopo suo.... Nos adhuc frigidi excitabamur tamen civitate attonita atque turbata. August. Conf. l. IX. c. 7.

507. Tillemont Mem. Eccl. Tom. II. p. 78, 498. Furono consacrate molte Chiese in Italia, nella Gallia ec. a quest'incogniti Martiri, fra' quali sembra che S. Gervasio sia stato più fortunato del suo compagno.

508. Invenimus mirae magnitudinis viros duos, ut prisca aetas ferebat. Tom. II. epist. XXII. p. 875. La grandezza di questi scheletri era fortunatamente o artificiosamente adattata al popolar pregiudizio della successiva decadenza della statura umana, ch'è prevalso in ogni secolo fin dal tempo d'Omero.

Grandiaque effossis mirabitur ossa sepulchris.

509. Ambros. T. II. ep. XXII. p. 875. August. Confess. l. IX. c. 7 de Civ. Dei l. XXII. c. 8. Paulin. in vit. S. Ambros. c. 14 in append. Bened. p. 4. Il cieco aveva nome Severo, ei toccò la sacra veste, ricuperò la vista, e consacrò il resto della sua vita (almeno per venticinque anni) al servizio della Chiesa. Io raccomanderei questo miracolo a' nostri Teologi, se non provasse il culto delle reliquie, ugualmente che la fede Nicena.

510. Paulin. in vit. S. Ambros. c. 5. in app. Bened. p. 5.

511. Tillemont. Mem. Eccl. Tom. X. p. 190, 750. Egli accorda parzialmente la mediazione di Teodosio, e capricciosamente rigetta quella di Massimo, quantunque si attesti da Prospero, da Sozomeno e da Teodoreto.

512. La modesta censura di Sulpicio ( Dial. III. 15) gli porta una ferita molto più profonda, che la debole declamazione di Pacato (XII. 25, 26).

513. Esto tutior adversus hominem pacis involucro tegentem. Tale fu il prudente avviso d'Ambrogio ( Tom. II. p. 891 ) dopo che fu tornato dalla sua seconda ambasceria.

514. Il Baronio (an. 387. n. 63) applica a questo tempo di pubblica calamità alcuni de' sermoni penitenziali dell'Arcivescovo.

515. Zosimo riferisce la fuga di Valentiniano, e l'amor di Teodosio per la sorella di esso (l. IV. p. 263. 264). Il Tillemont produce alcune deboli ed ambigue testimonianze per anticipare il secondo matrimonio di Teodosio ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 740), e conseguentemente per confutare ces contes de Zosime, qui seroient trop contraires à la piété de Théodose.

516. Vedi Gotofred. Cronol. delle leggi Cod. Theod. T. I. p. XCIX.

517. Oltre i cenni che possono raccogliersi dalle croniche e dall'Istoria Ecclesiastica, Zosimo (l. IV. p. 259. 267), Orosio (l. VII. c. 35.) e Pacato ( Paneg. vet. XII. 30. 48) somministrano gli sconnessi e scarsi materiali di questa guerra civile. Ambrogio (Tom. II. Epist. 40. p. 952-953.) allude oscuramente ai ben noti fatti della sorpresa d'un magazzino, d'un'azione a Petavio, d'una vittoria, forse navale, nella Sicilia ec. Ausonio applaudisce al merito singolare ed alla buona fortuna d'Aquileia.

518. Quam promptum laudare Principem, tam tutum siluisse de Principe (Pacat. in Paneg. vet. XII. 2 ). Latino Pacato Drepanio, nativo della Gallia, recitò quest'orazione a Roma (l'anno 388). Egli di poi fu Proconsole dell'Affrica: ed Ausonio, suo amico, lo loda come un Poeta, inferiore solo a Virgilio, (Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. V. p. 303 ).

519. Vedasi un bel ritratto di Teodosio fatto da Vittore il Giovane; i delineamenti sono distinti, ed i colori ben fusi. La lode di Pacato è troppo generale, e Claudiano pare che sempre tema d'esaltare il padre sopra il figlio.

520. Ambrog. Tom. II. epist. 40. p. 955. Pacato, per mancanza di cognizione o di coraggio, tralascia questa gloriosa circostanza.

521. Pacat. in Paneg. vet. XII. 20.

522. Zosimo l. IV. p. 271. 272. La sua parziale testimonianza porta seco l'aria di verità e di candore. Ei nota queste vicende di pigrizia e di attività non già come un vizio, ma come una singolarità nel carattere di Teodosio.

523. Tal collerico temperamento si confessa e si scusa da Vittore. Sed habes (dice S. Ambrogio con decente e viril contegno al suo Sovrano) naturae impetum, quem si quis lenire velit, cito vertes ad misericordiam: si quis stimulet, in magis exsuscitas, ut eum revocare vix possis: (Tom. II. Epist. 51. p. 998 ), Teodosio (ap. Claudian. in IV. Cons. Hon. 866. etc.) esorta il figlio a moderar la sua collera.

524. Tanto i Cristiani che i Pagani erano d'accordo nel credere che i demonj suscitato avessero la sedizione d'Antiochia. Si facea veder per le strade, dice Sozomeno (l. VII. c. 23), una donna gigantesca con una sferza in mano. Un vecchio, dice Libanio ( Orat. XII. p. 396) si trasformò in giovane, e quindi in fanciullo.

525. Zosimo nel suo breve e non ingenuo racconto (l. IV. p. 258. 259), erra sicuramente in mandare Libanio stesso a Costantinopoli. Le proprie orazioni di lui indicano, che restò in Antiochia.

526. Libanio ( Orat. I. p. 6. Edit. Venet.) dichiara, che sotto un regno di quella sorte, il timor del macello era senza fondamento ed assurdo, specialmente, nell'assenza dell'Imperatore, poichè la sua presenza, secondo l'eloquente schiavo, avrebbe potuto legittimare gli atti più sanguinosi.

527. Laodicea sulla costa marittima, settantacinque miglia distante da Antiochia (vedi Noris Epoch. Syro-Maced. Diss. 3. p. 230 ). Gli Antiocheni si stimarono offesi, che la città di Seleucia, lor dipendente, ardisse d'interceder per loro.

528. Siccome i giorni del tumulto dipendono dalla festa mobile di Pasqua, essi non si posson determinare, se non ne venga prima fissato l'anno. Dopo ricerche assai laboriose si è preferito l'anno 387 dal Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 741. 744 ), e dal Montfaucon ( Chrys. T. XIII. p. 105-110 ).

529. Grisostomo contrappone il loro coraggio, che non portava seco gran rischio, alla codarda fuga dei Cinici.

530. Si rappresenta la sedizione d'Antiochia in una maniera vivace, e quasi drammatica da due Oratori, ciascheduno dei quali ha la sua dose d'interesse e di merito. Vedasi Libanio ( Orat. XIV. XV. p. 389. 420. Edit. Morel, Orat. I. p. 1-14. Venet. 1754 ), e le venti orazioni di S. Gio. Grisostomo de statuis (T. II. p. 1-225. edit. Montfaucon ). Io non pretendo ad una gran famigliarità personale con Grisostomo: ma il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. V. p. 263. 283 ), e l'Hermant ( Vie de S. Chrysost. Tom. I. p. 137-224 ) l'avevan letto con più curiosità e diligenza.

531. La testimonianza originale d'Ambrogio (T. II. ep. 51, p. 998), d'Agostino (de Civ. Dei v. 26) e di Paolino (in vit. Ambros. c. 24), si manifesta in generali espressioni di orrore e di compassione. Essa poi viene illustrata dalle successive e disuguali autorità di Sozomeno (l. VII. c. 25), di Teodoreto (l. V. c. 17), di Teofane, (Chronogr. p. 62), di Cedreno (p. 317), e di Zonara (Tom. II. l. 13. p. 34). Il solo Zosimo, parzial nemico di Teodosio, non si sa per qual causa passa sotto silenzio la peggiore delle sue azioni.

532. Vedasi tutto questo fatto appresso Ambrogio ( Tom. II. epist. 60. 61. p. 946-956 ), e Paolino di lui biografo (c. 23). Bayle e Barbeirac ( Moral des Peres c. 17. p. 325. ec.) hanno giustamente condannato l'Arcivescovo.

533. Il suo discorso è una strana allegoria della verga di Geremia, di un albero di mandorle, della donna che bagnò ed unse i piedi di Cristo: ma la perorazione è diretta e personale.

534. Hodie, Episcope, de me proposuisti. Ambrogio lo confessò modestamente; ma con forza riprese Timesto, Generale di Cavalleria e d'infanteria, che aveva ardito di dire, che i Monaci di Callinico meritavan d'esser puniti.

535. Ma cinque anni dopo, essendo lontano Teodosio dalla spirituale sua guida, tollerò gli Ebrei, e condannò la distruzione delle loro sinagoghe. ( Cod. Teod. l. XVI. Tit. VIII. leg. 9 col comment. del Gotofredo Tom. VI. p. 225 ).

536. Ambros. Tom. II. Ep. 51 p. 997-1001. La sua lettera è una miserabile cantilena sopra un nobil soggetto. Ambrogio sapeva meglio operare, che scrivere. Le sue composizioni sono prive di gusto o di genio, senza lo spirito di Tertulliano, la copiosa eleganza di Lattanzio, il vivace sapere di Girolamo o la grave energia di Agostino.

537. Secondo la disciplina di S. Basilio ( can. 56 ), l'omicida volontario per quattro anni era piangente: cinque audiente, sette prostrato; e quattro consistente. Io ho l'originale (Beveridge Pand. Tom. 2. p. 47, 151) ed una traduzione (Chardon Hist. des Sacrem. T. 4, p. 219-277 ) delle Epistole Canoniche di S. Basilio.

538. La penitenza di Teodosio viene autenticamente descritta da Ambrogio ( Tom. VI. de obit. Theod. c. 34. p. 1207 ), da Agostino ( de civ. Dei v. 26 ), e da Paolino ( in vit. Ambros. c. 24 ). Socrate è ignorante, e Sozomeno ( l. VII. c. 25 ) succinto; e bisogna servirsi con cautela della copiosa narrazione di Teodoreto.

539. Cod. Theod. l. IX. tit. 40. leg. 13. La data e le circostanze di questa legge portano seco delle difficoltà; ma io mi sento inclinato a favorire gli onesti sforzi del Tillemont ( Hist. des Emp. Tom. V. p. 721 ), e del Pagi, ( Crit. Tom. I. p. 158 ).

540. Un prince, qui aime la religion, et qui la craint, est un lion qui cède à la main qui le flatte, ou à la voix qui l'appaise. Esprit des loix l. XXIV. c. 2.

541. Τουτο περι τους ευερλνειας καθηκον εδοξεν ειναι, ciò parve che fosse decente verso i benefattori. Tal'è l'avara lode di Zosimo stesso (l. IV. p. 267). Agostino dice con qualche felicità d'espressione: Valentinianum... misericordissima veneratione restituit.

542. Sozomeno l. VII. c. 14. La sua cronologia è molto irregolare.

543. Vedi Ambrogio, Tom. II. de obit. Valentin. c. 15. ec. p. 1178. c. 36. ec. p. 1184. Allorchè il giovane Imperatore faceva un trattamento, digiunava egli stesso; ricusò di vedere una bella attrice ec. Poichè ordinò che le sue fiere fossero uccise, il rimprovero d'aver amato quel divertimento appresso Filostorgio (l. XI. c. 1.) non è generoso.

544. Zosimo (l. IV. p. 275) loda il nemico di Teodosio. Ma egli è detestato da Socrate (l. V. c. 25) e da Orosio (l. VII. c. 35).

545. Gregorio di Tours ( l. 2. c. 9. p. 165. nel secondo volume degli Istorici di Francia ) ci ha conservato un curioso frammento di Sulpicio Alessandro, istorico molto più valutabile di lui medesimo.

546. Il Gotofredo ( dissert. ad Philostorg. p. 428-434 ) ha diligentemente raccolto tutte le circostanze della morte di Valentiniano II. Le variazioni e l'ignoranza degli scrittori contemporanei provano che essa fu segreta.

547. De obitu Valentin. Tom. II: p. 1173. 1196. Egli è costretto ad usare un linguaggio discreto ed oscuro: pure è molto più ardito di quello che alcun laico, o forse qualunque altro Ecclesiastico si sarebbe arrischiato di essere.

548. Vedi c. 51. p. 1188. c. 75. p. 1193. Dom Chardon ( Hist. des Sacrem. Tom. I. p. 86 ), che confessa che S. Ambrogio sostiene col maggior vigore l' indispensabile necessità del Battesimo, stenta a conciliare la contraddizione.

549. Quem sibi Germanus famulum delegerat exul. Tal'è la disprezzante espressione di Claudiano ( IV Cons. Hon. 74 ). Eugenio professava il Cristianesimo; ma è probabile in un grammatico, che fosse in segreto attaccato al Paganesimo (Sozomen. l. VII. c. 22 Filostorg. l. XI. c. 2), e quasi l'assicurerebbe l'amicizia di Zosimo (l. IV. p. 276, 277).

550. Zosimo (l. IV. p. 278) fa menzione di quest'ambasceria; ma un'altra storia lo distrae dal riferirne l'evento.

551. Συνεταραξεν η τουτου γαμετη Γαλλα βασιληια τον αδελφον ολοφυρομενη: l'eccitò l'Imperatrice Galla, sua moglie, che piangeva il fratello. Zosimo l. IV. p. 278. In seguito dice (p. 280), che Galla morì di parto, e riferisce che fu estrema l'afflizione del marito, ma breve.

552. Licopoli è la moderna Siut, ossia Osiot, città di Said, della grandezza incirca di S. Denis, che fa un vantaggioso commercio col regno di Sennaar; ed ha una molto conveniente fontana, cujus potu signa virginitatis eripiuntur. Vedi Danville ( Descr. de l'Egypt. p. 171 ), Abulfeda ( Desc. Aegipt. p. 74 ) e le curiose annotazioni (p. 25. 92) del suo editore Michaelis.

553. Fu descritta la vita di Giovanni di Licopoli da due dei suoi amici, da Ruffino (l. II. c. 1. p. 449) e da Palladio (Hist. Laus. c. 43 p. 738) nella gran Collezione delle Vitae Patrum di Rosvveide. Il Tillemont ( Mem. Eccles. T. X. p. 718. 720 ) ne ha determinata la cronologia.

554. Sozomeno l. VII. c. 22. Claudiano ( in Eutrop. l. I. 311 ) fa menzione del viaggio dell'Eunuco: ma deride col maggior disprezzo i sogni Egiziani, e gli oracoli del Nilo.

555. Zosimo l. IV. p. 280. Socrat. l. VII. 10,. Alarico medesimo (de bello Get. 524) si ferma con più compiacenza sulle sue prime imprese contro i Romani.

.... Tot Augustos Hebro qui teste fugavi:

Pure la sua vanità difficilmente avrebbe potuto provare questa pluralità d'Imperatori fuggitivi.

556. Claudiano in IV. Cons. Honor. 77. ec. pone a confronto i disegni militari dei due usurpatori.

.... Novitas audere priorem

Suadebat, cautumque dabant exemplo sequentem.

Hic nova moliri praeceps: hic quaerere tuta

Providus. Hic fusis; collectis viribus ille.

Hic vagus excurrens; hic intra claustra reductus.

Dissimiles; sed morte pares...

557. Il Frigido, piccolo, quantunque memorabile fiume nella Gorizia, ora chiamato Vipao, si getta nel Sonzio, o Lisonzo sopra Aquileia in distanza di qualche miglio dal mare Adriatico. Vedi Danville Cart. Antich. Mod. e l'Italia Antiqua del Cluverio Vol. I. p. 188.

558. Lo spirito di Claudiano è intollerabile: la neve era tinta di rosso; il freddo fiume fumava; ed il canale avrebbe dovuto riempirsi di cadaveri, se non si fosse accresciuta la corrente dal sangue.

559. Teodoreto asserisce, che comparvero al vigilante o addormentato Imperatore S. Giovanni e S. Filippo a cavallo. Questo è il primo esempio della cavalleria apostolica, che divenne poscia sì popolare in Ispagna ed al tempo delle Crociate.

560.

Te propter gelidis Aquilo de monte procellis

Obruit adversus acies, revolutaque tela

Vertit in auctores, et turbine repulit hastas,

O nimium dilecte Deo, cui fundit ab antris

Aeolus armatas hyemes, cui militat aether,

Et conjurati veniunt ad classica venti!

Questi famosi versi di Claudiano ( in III. Cons. Hono. 93. an. 396 ) son riferiti dai suoi contemporanei Agostino ed Orosio, che sopprimono la Pagana Divinità d'Eolo; ed aggiungono alcune circostanze, che avevan sapute dai testimoni di veduta. Dentro i quattro mesi dopo la vittoria, fu essa paragonata da Ambrogio alle vittorie miracolose di Mosè e di Giosuè.

561. Hanno raccolto gli avvenimenti di questa guerra civile Ambrogio (Tom. II. ep. 62 p. 1022), Paolino ( in vit. Ambros. c. 26-34), Agostino ( De Civ. Dei V. 26), Orosio (l. VII. c. 35), Sozomeno (l. VII. c. 24). Teodoreto (l. V. c. 24), Zosimo (l. IV. p. 281 ec.), Claudiano ( in III. Con. Hon. 63-105. in IV. Cons. Honor. 70-117 ) e le Croniche pubblicate dallo Scaligero.

562. Questa malattia, da Socrate (l. V. c. 26) attribuita alle fatiche della guerra, si rappresenta da Filostorgio (l. XI. c. 2) come un effetto di pigrizia e d'intemperanza; perlochè Fozio lo chiama uno sfacciato mentitore; (Gotofredo Diss. p. 438 ).

563. Zosimo suppone, che il fanciullo Onorio accompagnasse suo padre (l. IV. p. 280). Pure l'espressione quanto flagrabant pectora voto, è tutto quello che l'adulazione potè permettere ad un poeta contemporaneo, il quale chiaramente descrive la negativa dell'Imperatore, ed il viaggio d'Onorio dopo la vittoria (Claudiano in III. Cons. 78-125 ).

564. Zosimo l. IV. p. 244.

565. Veget. de re milit. l. I. c. 10. La serie delle calamità, che egli nota, ci costringe a credere, che l'Eroe a cui dedica il suo libro, sia l'ultimo ed il meno glorioso dei Valentiniani.

566. S. Ambrogio ( Tom. II. de obit. Theod. p. 1208 ) loda espressamente e raccomanda lo zelo di Giosia nel distruggere l'idolatria. Il linguaggio di Giulio Firmico Materno sul medesimo soggetto ( de error. profan. relig. p. 467. Edit. Gronov. ) è piamente inumano: Nec filio jubet ( lex Mosaica ) parci, nec fratri, et per amatam coniugem gladium vindicem ducit etc.

567. Bayle (Tom. II. p. 406 nel suo Comment. Filos. ) giustifica e limita queste leggi d'intolleranza nel regno temporale di Jehovah sopra gli Ebrei. Il tentativo è lodevole.

568. Si vedano i tratti della Gerarchia Romana in Cicerone ( De legib. II. 7, 8 ), in Livio (l. 20), in Dionisio d'Alicarnasso ( l. II. p. 119-129. Edit. Hudson ), in Beaufort ( Republ. Rom. T. I. p. 1-90 ) ed in Moyle ( Vol. I. p. 10. 55 ). Quest'ultima è l'opera d'un Inglese repubblicano, non meno che di un Romano antiquario.

569. Questi mistici e forse immaginari simboli hanno dato motivo a varie favole e congetture. Sembra probabile, che il Palladio fosse una piccola statua di Minerva (alta tre cubiti e mezzo) con una lancia ed una conocchia; che fosse ordinariamente inclusa in una seria o barile, e che tal barile fosse collocato in modo da eludere la curiosità o il sacrilegio. Vedi Meziriac. Comment. sur les Epitr. d'Ovid. T. I. p. 60. 66, e Lipsio Tom. III. p. 610. de Vesta ec. c. 10.

570. Cicerone francamente ( ad Attic. l. II. epist. 5 ) o indirettamente ( ad Famil. l. 15 ep. 4 ) confessa che l'Augurato è il principale oggetto dei suoi desiderj. Plinio ambisce di camminare sulle vestigia di Cicerone, (l. IV. ep. 8) e potrebbe continuarsi la catena della tradizione per mezzo dell'istoria e dei marmi.

571. Zosimo l. IV. p. 249, 250. Ho soppresso le stolte sottigliezze sopra le parole Pontifex e Maximus.

572. Quella statua da Taranto erasi trasferita a Roma, posta da Cesare nella Curia Giulia, e decorata da Augusto con le spoglie dell'Egitto.

573. Prudenzio ( l. II. in princ. ) ha delineato un ritratto molto sgraziato della Vittoria; ma il lettore curioso resterà più soddisfatto dalle antichità del Montfaucon (T. I. p. 341).

574. Vedi Svetonio ( in August. c. 35 ) e l'esordio del panegirico di Plinio.

575. Questi fatti sono vicendevolmente concessi dai due avvocati, Simmaco e Ambrogio.

576. La Notitia Urbis, più recente di Costantino, non trova fra gli edifizi della città veruna Chiesa Cristiana degna di essere nominata. Ambrogio (Tom. II. ep. 17. p. 825) deplora i pubblici scandali di Roma, che continuamente offendevano gli occhi, gli orecchi, ed il naso del fedele.

577. Ambrogio afferma più volte, contro il sentimento comune ( Moyle Oper. vol. II. p. 147 ), che i Cristiani avevano una superiorità di partito nel Senato.

578. La prima dell'anno 382 a Graziano, che non le volle dare udienza: la seconda, nel 384 a Valentiniano, allorchè disputavasi il campo fra Simmaco ed Ambrogio: la terza nel 388 a Teodosio: e la quarta nel 392 a Valentiniano. Lardner ( Testimonianze Pagane ec. Vol. IV. p. 372, 399 ) rappresenta bene tutto questo fatto.

579. Simmaco il quale era investito di tutti gli onori Sacerdotali e Civili, rappresentava l'Imperatore sotto i due caratteri di Pontefice Massimo e di Principe del Senato. Vedesi la superba inscrizione alla testa delle sue opere.

580. Come se uno dice Prudenzio, ( in Symmach. I. 639), scavasse la terra con un istrumento d'oro e d'avorio. Anche i Santi, e i Santi polemici, trattan questo nemico con rispetto e civiltà.

581. Vedasi l'Epistola 54 del Lib. X di Simmaco. Nella forma e nella disposizione dei suoi dieci libri di lettere, esso imitò Plinio il Giovane, del quale supponevano i suoi amici che uguagliasse o superasse il ricco e florido stile (Macrob. Saturnal. l. V. c. 1). Ma Simmaco è soltanto lussureggiante in vane foglie senza frutti e senza fiori. Pochi fatti e pochi sentimenti si possono trarre dal suo verboso carteggio.

582. Vedi Ambrogio Tom. II. ep. 17. 18. p. 825-833. La prima di queste lettere è una breve precauzione; la seconda è una replica formale alla domanda o al libello di Simmaco. Le stesse idee sono espresse più copiosamente nella poesia, seppure può meritar questo nome, di Prudenzio, il quale compose i due suoi libri contro Simmaco (nell'anno 404) mentre viveva ancora quel Senatore. Egli è molto stravagante, che Montesquieu ( Considerat. c. 19. T. III p. 487. ec.) trascurasse i due nemici dichiarati di Simmaco, e si divertisse a spaziare nelle più distanti e indirette confutazioni di Orosio, di S. Agostino e Salviano.

583. Vedi Prudent. in Symmach. l. I. 545 ec. I Cristiani convengono col Pagano Zosimo (l. IV. p. 283) nel collocar questa visita di Teodosio dopo la seconda guerra civile: gemini bis victor caede tyranni (l. 1. 410). Ma il tempo e le circostanze meglio s'adattano al suo primo trionfo.

584. Prudenzio, poi che provato che si dichiarò il sentimento del Senato per mezzo d'una legittima superiorità di voti, prosegue a dire. 609. ecc.

Adspice quam pleno subsellia nostra. Senatu

Decernant infame Jovis pulvinar, et omne

Idolium longe purgata ab urbe fugandum.

Qua vocat egregii sententia Principis, illuc

Libera cum pedibus, tum corde frequentia transit.

Zosimo attribuisce ai Padri Conscritti un coraggio pel Paganesimo, che si trovò solo in pochi di loro.

585. Girolamo porta l'esempio del Pontefice Albino, che era circondato da tal famiglia di figli e di nipoti tutti fedeli, che sarebbero stati sufficienti a convertire anche Giove medesimo: che straordinario proselito! (Tom. I. ad Laetam p. 54).

586.

Exsultare Patres videas, pulcherrima mundi

Lumina, conciliumque senum gestire Catonum

Candidiore toga niveum pietatis amictum

Sumere; et exuvias deponere Pontificales.

La fantasia di Prudenzio è riscaldata ed elevata dalla vittoria.

587. Prudenzio, dopo d'aver descritto la conversione del Senato e del popolo, domanda con qualche verità e fiducia:

Et dubitamus adhuc Romam tibi, Christe, dicatam

In leges transisse tuas?

588. Girolamo esulta nella desolazione del Campidoglio e degli altri tempj di Roma (Tom. I. p. 54. Tom. II. p. 95).

589. Libanio ( Orat. pro Templis p. 10. Genev. 1634 pubblicata da Giacomo Gotofredo, e adesso molto rara) accusa Valentiniano e Valente d'aver proibito i sacrifizi. Può l'Imperatore orientale aver dato qualche ordine particolare: ma vien contraddetta l'idea di qualunque legge generale dal silenzio del Codice e dalla testimonianza dell'Istoria ecclesiastica.

590. Vedansi le sue leggi nel Codice Teodosiano lib. XVI. Tit. X. leg. 7-11.

591. I sacrifizi d'Omero non sono accompagnati da alcuna investigazione di viscere (Vedi Feithius Antiq. Homers l. I. c. 26): I Toscani, che produssero i primi Aruspici, soggiogarono tanto i Greci, quanto i Romani (Cicer. de Divinat. 2. 23).

592. Zosimo l. IV. p. 245, 249. Teodoret. l. V. c. 21. Idazio in Chron. Prosper. Aquitan. l. III. c. 38 appresso il Baronio Annal Eccl. an. 389. n. 52. Libanio ( pro Templis p. 10 ) si sforza di provare, che gli ordini di Teodosio non furono diretti e positivi.

593. Cod. Teodos. l. XVI. Tit. X. leg. 8. 18. Vi è luogo di credere, che quel tempio d'Edessa, che Teodosio bramava di salvare per gli usi civili, divenisse poco tempo dopo un mucchio di sassi. Libanio pro Templis p. 26. 27 e not. del Gotofred. p. 59.

594. Vedasi la curiosa orazione di Libanio pro Templis, pronunziata, o piuttosto composta circa l'anno 390. Io ho consultato con vantaggio la versione e le note del dottor Lardner ( Testim. Pagan. Vol. IV. p. 135. 163 ).

595. Vedi la vita di Martino fatta da Sulpicio Severo (c. 9-14). Il Santo prese una volta (come avrebbe fatto Don Chisciotte) un innocente funerale pur una processione idolatrica, ed imprudentemente commise un miracolo.

596. Si confronti Sozomeno (l. 7. c. 15) con Teodoreto (l. V. c. 21). Fra tutti due riferiscono la crociata e la morte di Marcello.

597. Libanio ( pro Templis. p. 10-13 ) scherza intorno a quegli uomini vestiti di nero, cioè a' Monaci Cristiani, che mangiano più degli elefanti. Poveri elefanti! Essi sono animali moderati.

598. Prosper. Aquit. l. III. c. 38. ap. Baron. Annal. Eccles. an. 389. 258. Quel tempio restò chiuso per qualche tempo, e n'era stato impedito l'accesso con pruni.

599. Donat. Roma antiq. et nova l. IV. c. 4. pag. 468. Fu fatta questa consagrazione dal Pontefice Bonifazio IV. Io non so quali favorevoli circostanze avessero conservato il Panteon più di dugento anni dopo il regno di Teodosio.

600. Sofronio ne compose una recente storia a parte (Girol. in Script. Eccles. Tom. I. p. 303 ) che ha somministrato i materiali a Socrate (l. V. c. 16), a Teodoreto (l. I. V. c. 22) e a Ruffino (l. II. c. 22). Pure quest'ultimo, che si trovò in Alessandria avanti e dopo il fatto, può meritar la fede di testimone originale.

601. Gerardo Vossio ( Oper. Tom. V. p. 80 e de Idol. I. c. 29 ) tenta di sostenere la strana opinione dei Padri, che in Egitto sotto la forma del loro Api, e del Dio Serapide si adorasse il Patriarca Giuseppe.

602. Origo Dei nondum nostris celebrata. Aegyptiorum Antistites sic memorant. Tacit. Hist. IV. 83. I Greci, che avevan viaggiato in Egitto, parimente ignoravano questa nuova Divinità.

603. Macrob. Saturnal. l. I. c. 7. Un fatto sì forte prova decisivamente la sua origine straniera.

604. A Roma furono uniti nel medesimo tempio Iside e Serapide. La precedenza, che avea la Regina, può servire a dimostrare la sua disugual congiunzione con lo straniero del Ponto. Ma era stabilita in Egitto la superiorità del sesso femminile, come una instituzion civile e religiosa (Diodor. Sicul. Tom. I. l. I. p. 31. edit. Wessel. ), ed il medesimo ordine si osserva nel trattato di Plutarco d'Iside e d'Osiride, che esso identifica con Serapide.

605. Ammiano XXII. 26. L' Expositio totius mundi ( p. 8. in Geog. Minor. d'Hudson. Tom. III ), e Ruffino (l. II. c. 22) celebrano il Serapeo come una delle maraviglie del mondo.

606. Vedi Memoir. de l'Acad. des Inscr. Tom. IX p. 197-416. La vecchia libreria de' Tolomei fu totalmente consumata nella guerra Alessandrina di Cesare. Marc'Antonio diede tutta la collezione di Pergamo (200000 volumi) a Cleopatra per servir di fondamento alla nuova libreria d'Alessandria.

607. Libanio ( pro Templis p. 21. ) imprudentemente provoca i Cristiani, suoi Signori, con questa insultante osservazione.

608. Noi possiamo scegliere fra la data di Marcellino, anno 389, e quella di Prospero anno 391. Il Tillemont ( Hist. des Emp. Tom. V. p. 310. 756. ) preferisce la prima, ed il Pagi la seconda.

609. Tillemont, Mem. Eccl. Tom. XI. p. 441-500. L'ambigua situazione di Teofilo, ch'è un Santo, risguardato come amico di Girolamo, ed è un diavolo, come nemico di Grisostomo, produce una specie d'imparzialità; pure esaminato il tutto, la bilancia pende giustamente contro di lui.

610. Lardner ( Pagan. Tevimon. vol. IV. p. 411 ), ha addotto un bel passo di Suida, o piuttosto di Damasio, che presenta il devoto e virtuoso Olimpio non già in aspetto di guerriero, ma di profeta.

611. Nos vidimus armaria librorum, quibus direptis, exinanita ea a nostris hominibus nostris temporibus memorant. Orosio l. VI. c. 15 p. 421. Edit. Haverc. Sembra che Orosio, quantunque pinzochero e controversista ne abbia rossore.

612. Eunapio, nelle vite d'Antonino e d'Edesio, detesta la sacrilega rapina di Teofilo. Il Tillemont ( Mem. Eccl. T. XIII. p. 453) cita una lettera d'Isidoro di Pelusio, che accusa il Primate del culto idolatrico dell'oro, dell' auri sacra fames.

613. Ruffino nomina un Sacerdote di Saturno, che sotto la forma di quel Dio conversava famigliarmente con molte pie donne di qualità, finattantochè si tradì da se stesso in un momento di trasporto, in cui non potè mascherare il tuono della sua voce. L'autentica ed imparziale narrazione d'Eschine (Vedi Bayle Diction. Cri. Scamandre ) e l'avventure di Mondo (Gioseff. Ant. Giud. l. XVIII. c. 3. p. 877. Edit. Haverc. ) possono provare che tali amorose frodi si son praticate con buon successo.

614. Si vedano le immagini di Serapide appresso Montfaucon ( Tom. II. p. 296), ma la descrizione di Macrobio ( Saturnal. l. I. c. 20.) è molto più pittoresca e soddisfacente.

615.

Sed fortes tremuere manus, motique verenda

Majestate loci, si robora sacra ferirent,

In sua credebant redituras membra secures.

(Lucan. III. 429). È vero, disse Augusto ad un veterano di Italia, in casa del quale cenava, che quello, che diede il primo colpo alla statua d'oro d'Anaitide, restò immediatamente privo degli occhi e della vita? Io fui quello, rispose l'illuminato veterano, e voi presentemente cenate sopra una gamba della Dea. Plin. Hist. Nat. XXXIII. 24.

616. Sozomeno lib. VII. c. 20. Io ho supplito la misura. La stessa misura dell'inondazione, e per conseguenza del cubito, è durata uniforme fino dal tempo d'Erodoto. Vedi Freret nelle Mem. de l'Acad. des Inscr. Tom. XVI. 344-353. Greaves Oper. miscellan. vol. I. p. 233. Il cubito Egiziano è circa ventidue pollici del piede Inglese.

617. Libanio, ( pro Templis p. 15. 16. 17) difende la loro causa con delicata ed insinuante rettorica. Fino dai più antichi tempi avevano tali feste ravvivato la campagna; e quelle di Bacco ( Georg. II. 380) avevan prodotto il teatro d'Atene. Vedi Gotofredo ad Liban. e Cod. Teod. VI. p. 284.

618. Onorio tollerò queste rustiche feste, an. 309. Absque ullo sacrificio, atque ulla superstitione damnabili. Ma nove anni dopo credè necessario di rinnovare ed invigorire la stessa costituzione. Cod. Teod. l. XVI. tit. X. leg. 17. 19.

619. Cod. Teod. l. XVI. Tit. X. leg. 12. Jortin ( Osserv. sull'Istor. Eccl. vol. IV. p. 134 ) censura con asprezza lo stile ed i sentimenti di questa intollerante legge.

620. Non dovrebbe leggermente darsi un'accusa di tal sorta: ma può sicuramente giustificarsi coll'autorità di S. Agostino, il quale così parla ai Donatisti. Quis nostrum, quis vestrum non laudat leges ab Imperatoribus datas adversus sacrificia Paganorum? Et certe longe ibi poena severior constituta est: illius quippe impietatis capitale supplicium est. Epist. 93. n. 10. citata dal Leclerc, ( Bibl. Chois. Tom. VIII. p. 277 ) il quale aggiunge alcune riflessioni sull'intolleranza de' vittoriosi Cristiani.

621. Orosio l. VII. c. 28. p. 537. Agostino ( Enarr. in Ps. 140. ap. Lardner Testim. Pag. volum. IV. p. 458. ) insulta la lor codardia; Quis eorum comprehensus est in sacrificio (cum his legibus ista prohiberentur) et non negavit?

622. Libanio ( pro Templis. p. 17. 18. ) fa menzione dell'accidentale conformità di quest'ipocriti, come d'una scena teatrale, senza censurarla.

623. Libanio termina la sua apologia (p. 32.) con dichiarare all'Imperatore, che qualora egli espressamente non garantisca la distruzione dei tempj, i proprietari difenderanno se stessi e le leggi; ισθι του των αγρων δεσποτας καί αυτοις, καί τῳ νομω βοηθησοντας. Sappi che i Signori delle campagne provederanno a se stessi ed alla legge.

624. Paolin. in. vit. Ambros. c. 26. Agostino de Civ. Dei l. V. c. 26. Teodoret. l. V. c. 24.

625. Libanio suggerisce la forma di un editto di persecuzione, che Teodosio avrebbe potuto fare ( pro Templis p. 32.); scherzo imprudente, ed esperienza pericolosa! Qualche altro Principe potrebbe aver preso il suo consiglio.

626.

Denique pro meritis terrestribus aeque rependens

Munera, sacricolis summos impertit honores

· · · · · · · · · · · · ·

Ipse magistratum tibi Consulis, ipse tribunal

Contulit. (Prudent. in Symmach. I. 617. ec.)

627. Libanio ( pro Templis c. 32) s'insuperbisce, che Teodosio distinguesse in tal modo uno, che anche alla sua presenza giurasse per Giove. Pure questa presenza non sembra esser altro che una figura rettorica.

628. Zosimo, che chiama se stesso Conte ed Ex-avvocato del Tesoro, con indecente e parzial bacchettoneria maltratta i Principi Cristiani, ed eziandio il padre del proprio Sovrano. L'opera di lui dev'essere andata in giro privatamente, poichè ha scansato le invettive degli Istorici Ecclesiastici anteriori ad Evagrio (l. III. c. 40. 42.) che visse verso il fine del sesto secolo.

629. Ciò non ostante, i Pagani dell'Affrica si dolevano che i tempi non permettessero loro di risponder con libertà alla città di Dio: nè S. Agostino (V. 26.) contraddice all'accusa.

630. I Mori della Spagna, che conservarono segretamente la religione Maomettana per più d'un secolo, onde evitare il rigore dell'inquisizione, avevano il Koran, coll'uso loro proprio della lingua Arabica. Vedasi la curiosa ed ingenua storia della loro espulsione appresso Geddes, Miscell. vol. I. p. 1-198.

631. Paganos, qui supersunt, quamquam jam nullos esse credamus. Cod. Theod. lib. XVI. Tit. X. leg. 22. an. 423. Teodosio il Giovane restò in seguito persuaso che il suo giudizio era stato un poco immaturo.

632. Vedi Eunapio nella vita del sofista Edesio; in quella d'Eustazio ei predice la rovina del Paganesimo, και τι μυθωδες και αειδες σκοτος τυραννησει τα επι γης καχλισα; E carte favolose, ed oscure tenebre domineranno la miglior parte della terra.

633. Cajo (ap. Euseb. Hist. Eccl. l. II. c. 25. ) Prete Romano, che visse al tempo di Zeffirino (an. 202-219.) è un antico testimone di questa superstiziosa costumanza.

634. Chrysost. Quod Christus sit Deus. Tom. I. nov. Edit. n. 9. Io son debitore di questa citazione alla lettera pastorale di Benedetto XIV. in occasione del giubbileo del 1750. Vedi le piacevoli e curiose lettere di M. Chais; Tom. 3.

635. Male fecit ergo Romanus Episcopus? qui super mortuorum hominum, Petri et Pauli, secundum nos ossa veneranda...... offert Domino sacrificia, et tumulos eorum Christi arbitratur altaria. Girol. Tom. II. adv. Vigilant. p. 153.

636. Girolamo ( Tom. II. p. 122. ) fa fede di tali traslazioni, che son trascurate dagli Istorici Ecclesiastici. La passione di S. Andrea a Patra vien descritta in una lettera dal Clero dell'Acaia, che il Baronio ( Annal. Eccl. an. 60. n. 34.) desidera d'ammettere, e il Tillemont è costretto a rigettare. S. Andrea fu adottato per fondatore spirituale di Costantinopoli ( Mem. Eccl. Tom. II. p. 317-325. 188-594 ).

637. Girolamo ( T. II. p. 122. ) pomposamente riferisce la traslazione di Samuel, di cui si fa menzione in tutte le croniche di quei tempi.

638. Il Prete Vigilanzio, che fu il protestante del suo secolo, fortemente, quantunque senza effetto, s'oppose alla introduzione de' Monaci, delle reliquie dei santi, dei digiuni ec.; per lo che Girolamo lo paragona all'Idra, al Cerbero, a' Centauri ec.; e lo considera solo come l'organo del demonio ( Tom. II. p. 120-126 ). Chiunque leggerà la controversia fra S. Girolamo e Vigilanzio, e la narrazione che fa S. Agostino dei miracoli di S. Stefano, può prendere in breve qualche idea dello spirito dei Padri.

639. Il Beausobre ( Hist. du Manich. Tom II. p. 648. ) applicò un senso mondano alla pia osservazione del Clero di Smirne, che diligentemente conservò le reliquie di S. Policarpio martire.

640. Martino di Tours (vedi la sua vita c. 8. scritta da Sulpicio Severo) ne trasse la confessione dalla bocca del morto. Si accorda che l'errore sia naturale; la scoperta di esso è supposta miracolosa. Quale di queste due cose è verisimile che sia seguita più frequentemente?

641. Luciano compose in Greco la sua narrazione originale, che fu tradotta da Avito, e pubblicata dal Baronio ( An. Eccl. An. 325. n. 7-16. ). Gli Editori Benedettini di S. Agostino ne hanno dato (al fin dell'opera de Civitate Dei ) due diverse copie con molte varianti. Il carattere della falsità è la sconnessione e l'incoerenza. Le parti più incredibili della leggenda son mitigate, e rese più probabili dal Tillemont Mem. Eccl. Tom. II. p. 9 ec.

642. A Napoli si liquefaceva ogni anno una boccetta del sangue di S. Stefano, fintantochè non gli successe quello di S. Gennaro: Ruinart Hist. Pers. Vandal. p. 529.

643. Agostino compose i ventidue libri de Civitate Dei nello spazio di tredici anni, dal 413 al 426. (Tillemont Mem. Eccl. Tom. XIV. p. 608. ec.) Ei troppo spesso prende da altri la sua erudizione, e da se stesso i suoi argomenti: ma tutta l'opera ha il merito di un magnifico disegno, vigorosamente ed abilmente eseguito.

644. Vedi Agostino ( de Civ. Dei. l. XXII. c. 22. ) e l'appendice che contiene due libri de' miracoli di S. Stefano, fatta da Evodio Vescovo d'Uzalis. Freculso (ap. Basnag. Hist. des Juifs Tom. VIII. p. 249. ) ci ha conservato un proverbio Gallico o Spagnuolo: chi pretende d'aver letto tutti i miracoli di S. Stefano è bugiardo.

645. Burnet ( de statu mortuor. p. 56-85. ) raccoglie le opinioni dei Padri, che sostenevano il sonno o riposo delle anime umane sino al giorno del giudizio. In seguito espone (p. 91.) gli inconvenienti, che dovrebbero nascere, se avessero un'esistenza più attiva e sensibile.

646. Vigilanzio poneva le anime dei Profeti e dei Martiri o nel seno d'Abramo ( in loco refrigerii ) o anche sotto l'altare di Dio, nec posse suis tumulis, et ubi voluerunt adesse praesentes. Ma Girolamo (Tom. II. p. 122.) fortemente confuta questa bestemmia: Tu Deo legem pones? Tu Apostolis vincula injices, ut usque ad Diem judicii teneantur custodia, nec sint cum Domino suo, de quibus scriptum est; sequuntur agnum quocumque vadit. Si agnus ubique, ergo et hi, qui cum agno sunt, ubique esse credendi sunt. Et cum diabolus et daemones toto vagentur in orbe etc.

647. Fleury, Disc. sur l'Ist. Eccl. III p. 80.

648. In Minorca, le reliquie di S. Stefano convertirono in otto giorni 540 Ebrei, coll'aiuto in vero di qualche severità, come di bruciare la Sinagoga, di cacciare gli ostinati a soffrir la fame fra scogli ec. Vedasi la lettera originale di Severo Vescovo di Minorca ( ad calc. 3. Augustin. de Civ. Dei ), e le giudiziose osservazioni del Basnagio (T. VIII. p. 245-251).

649. David Hume ( Sagg. vol. 3 p. 474 ) osserva, come filosofo, il natural flusso e riflusso del Politeismo e del Teismo.

650. D'Aubignè (Vedi le sue Memorie p. 156-160 ) francamente offerì, col consenso dei ministri Ugonotti, d'accordare i primi 400 anni per servir di regola della fede. Il Cardinal du Perron chiese quarant'anni di più, che imprudentemente furon concessi. Nessuno però dei due partiti si sarebbe trovato contento di questo folle accordo.

651. Il culto praticato ed inculcato da Tertulliano e da Lattanzio, è tanto puro e spirituale, che le loro declamazioni contro le cerimonie Pagane alle volte attaccano anche le Giudaiche.

652. Fausto Manicheo accusa i Cattolici d'idolatria; Vertitis idola in Martyres..... quos votis similibus colitis. Il Beausobre ( Hist. Crit. du Manich. Tom. II. p. 629. 700 ) Protestante, ma filosofo, ha rappresentato con candore e dottrina l'introduzione della Cristiana idolatria nel quarto e nel quinto secolo.

653. Può vedersi la somiglianza della superstizione, che non potrebbe ascriversi all'imitazione, dal Giappone al Messico. Warburton ha fatt'uso di quest'idea, ch'egli contorce per volerla rendere troppo generale ed assoluta ( Div. Legaz. V. IV p. 126. ec. ).

654. L'imitazione del Paganesimo forma il soggetto di una piacevol lettera, che il Dot. Middleton scrisse da Roma. Le osservazioni di Warburton l'obbligarono ad unire (Vol. III. p. 120-152) l'istoria delle due religioni, ed a provare l'antichità della copia Cristiana.

655. Il Sig. Giovanni Kirk in data di Roma dei 12 Giugno 1784 scrisse all'Autore delle Riflessioni in questi termini. Monsig. Stonor is Wholly of your mind, that Gibbon of all other Libertines or Deists is the most dangerous, as he has disguised himself under the cloak of authority...... Hence it is that he approves of your having published a precaution, that heedless readers may not be deceived with his fluid and nervous style, and with the fame, that he has acquired. He was pleased with... and desired me, if you should send any thing else of that nature to give him the satisfaction of the perusal of it. ec. ec.

656. Plut. Ex versione Xylandri Itasil. 1570. Sicut..... qui ex arte et callide adulantur aliquando multis et longis laudationibus vituperationes admiscent leviculas..... ita malignitas; ut fidem criminibus faciat, laudem simul ponit.

657. V. Tillem. Mem. Eccl. T. IX. p. 132. e 134. Bolland. 9. May p. 370.

658. S. Greg. Naz. Orat. V. p. 135. « spiritum amicitiae posthabere minime sustinuisti, quandoquidem pluris nos fortasse, quam alios omnes ducis: ita rursum spiritum nobis longe anteponis». Parlò anche più chiaro nell'Orazione funebre 20. p. 357. Vedi la Vita di S. Basilio Tom. III. Ediz. de Bened. p. 112.

659. S. Greg. Naz. Orat. 7.

660. Tillem. Mem. Eccl. T. IX. p. 558. Du Pin. 656.

661. Carm. I. p. 7.

662. Or. VII. p. 142-43. etc.

663. Leggete di grazia la sua Oraz. Apologetica. Tom. I. Orat. I.

664. Carm. I. p. 8. 9. Carm. VI. p. 74. Orat. 8. p. 147-48.

665. Carm. I. p. 9. Epist. 65. p. 824. Epist. 222. p. 900.

666. Orat. 25. p. 439.

667. Ep. 222 p. 910.

668. Ep. 14 p. 777.

669. Tillem. Mem. Ecclesiastic. Tom. IX. p. 412 T. IV.

670. Vedi l'Oraz. 27 de se ipso et ad eos, qui ipsum Cathedram Constantinopol. affectare dicebant.

671. Soz. l. 4. C. 2. 7. Ruff. L. 1. c. 25. Philost. l. 8 c. 2, Greg. Carm. 1 p. 10. Orat. 32 pag. 525.

672. Tillem. Mem. Eccles. T. IX. pag. 407 e pag. 431.

673. Sozom. l. VII. c. V. Suida in V. Δημοφιλος Niceph. L. 12 c. 8.

674. Carm. I. p. 17. 18. Orat. 28 p. 483.

675. Soz. L. 7. C. 7.

676. Vedi l'Oraz. 27 sopracc.

677. Carm. I. p. 24.

678. d. Carm. p. 30.

679. Carm. I. p. 30.

680. Carm. I. p. 30.

681. Sozom. L. 7. c. 7 ex Vales. Ac mihi quidem sapientissimum hunc virum tum ob alia multa, cum maxime in hoc negotio mirari subit. Nam neque fasta elatus propter facundiam, nec inanis gloriae studio ei Ecclesiae praesidere concupivit, quam pene extinctam ac mortuam ipse regendam susceperat. Sed reposcentibus Episcopis depositum reddidit, nihil de multis laboribus conquestus, nihil de periculis, quae adversus haereses decertans subierat etc. V. Tillem. Tom. I. Mem. Eccl. p. 479. e Basnage Annal. V. III p. 76. ec.

682. Jam quod ab altera parte huic respondet, nemo non videt, bonum scilicet aliquod videri impune posse omitti. Sed tamen malitiose hoc fit, quando quod omittitur in locum incidit, qui ad historiam pertinet. Illibenter enim laudare non est, quam libenter vituperare, honestius, fortasse etiam turpius. Plutar. de Herod. Malignit.

683. Id ibid. Quartum ergo signum est ingenii in historia scribenda parum aequi, cum duo sunt aut plures una de re sermones, deteriorem amplecti... Ac de rebus, quas gestas fuisse constat, caussa autem et institutum actionis in obscuro est; malignus est, qui in deteriorem partem conjecturas facit ... tum qui praeclaris factis caussam subjiciunt vitiosam, calumniandoque in sinistras abducunt suspiciones de latente ejus, qui rem gessit, consilio; quando ipsum factum palam vituperare non possunt.... hos liquet ad summam invidentiam et nequitiam nihil sibi fecisse reliquum.

684. Orat. 19. p. 78.

685. Carm. I. de V. S. p. 22. 21.

686. Neppur questo elogio è senza eccezione. Nel N. 1. intende di dir solamente, che tal'era l'indole naturale di Gregorio, quando non era infiammata o indurita dallo zelo religioso. Il fondamento dell'eccezione è l' esortazione fatta a Nettadio di perseguitare gli Eretici di Costantinopoli. Perchè dunque non citare nè le parole, nè il luogo? La ragione è patente. Perchè tutta la persecuzione doveva consistere in pregare l'Imperatore a non permettere, che gli Apollinaristi colla loro libertà di predicare, e con la loro licenza rovesciassero un domma fondamentale. Vedi la Lett. a Nettar. indic. col tit. di Orazione 46. La mansuetudine di S. Gregorio verso gli Eretici è sorprendente. Vedi la sua Ep. 81. e Tillem. nella sua vita art. 67.

687. Il disprezzo dell'A. pe' Sinodi quantunque legittimi ed ecumenici è già manifesto dal Cap. 20. della sua Stor. T. IV. in f. Vedi la Confutazione del Ch. Sig. Ab. Spedalieri P. 1. Sez. 5 c. 4.

688. L. V. C. 7 e 8.

689. Ad. an. 381. §. 22. V. Basnage Annal. Vol. III. p. 76.

690. T. IX. M. Eccl. V. de S. Gregoire de Naz. art. 69. p. 473.

691. Lib. VI. Ep. 31.

692. Can. Sancta Romana Dist. 15. Sancta R. Ecclesia post illas veteris testamenti et novi scripturas... etiam has suscipi non prohibet. S. Synodum Constantinopolitanam, mediante Theodosio Seniore A., in qua Macedonius haereticus debitam damnationem excepit.

693. L. I. ep. 23 p. 390.

694. Lup. in Schol. T. I. p. 368. Nat. Alex. Diss. 37. ad saec. IV.

695. Ita ne raptus est murus fidei gratiae et sanctitatis, quem toties ingruentibus Gothorum catervis, nequaquam tamen potuerunt barbarica penetrare tela, expugnare multarum gentium bellicus furor?... Urgebat et praeliabatur S. Acholius non gladiis, sed orationibus, non telis, sed meritis percurrebat omnia excursu frequenti Costantinopolim, Achajam, Epirum, Italiam. Venit enim tamquam David ad pacem populi reformandam. V. Ep. XV. et XVI. S. Ambros. Hermant. V. de S. Ambr. L. 3 c. 6. Till. T. 9. M. Eccl. pag 478. Vedi Van-Espen. de Cura Episcop. Part. I. Tom. 16. cap. 3. etc.

696. Chardon. T. I. p. 86. etc. L'A. de Re Sacramentar. L. 2. Quaest. 6. Append. §. I. Berti de Theol. discipl. L. 31. c. 23. Prop. 2.

697. V. Trident. Syn. Sess. 6. cap. 4. et Sess. 7. c. 4.

698. De Ob. Valent. Consol. T. 2. p. 1188. etc.

699. Ibid. §. 53 ivi S. Ambr. porta la parità del Martirio. «Quid aliud in nobis est nisi voluntas, nisi petitio? Si quia solemniter non sunt celebrata mysteria hoc movet: ergo nec martyres, si cathecumeni fuerint, coronentur... Quod si suo abluuntur sanguine, et hunc sua pietas abluit et voluntas. Nel qual luogo notano gli eruditi Editori Benedettini: Idem sensus fuit totius Christianae antiquitatis, circa Martyres... Et certe ne Ambrosius videatur hic loqui ad gratiam. Vide Serm. 3. in Psalm. 118. N. 14. Sed ei praeiverat Tertull. L. de Bapt. c. 16. Cyprian. Ep. 73 ad Juba. jan. et al. sicut eosdem Augustinus, posterioresque in hoc secuti sunt.»

700. P. 1194. § 76. l. cit. V. Not. B. Editor.

701. S. Ambros Serm. 2.

Negant coecum illuminatum, sed ille non negat se sanatum. Notus homo est, publicis cum valeret mancipatus obsequiis, Severus nomine, lanius ministerio. Deposuerat officium postquam inciderat impedimentum. Vocat ad testimonium homines, quorum ante substentabatur obsequiis etc.

702. S. Aug. lib. 9. Cons. C. 7.

703. Lib. 22. C. 8.

704. Serm. 39 de divers. «Ibi eram, Mediolani eram, facta miracula VIDI, novi attestantem Deum pretiosis mortibus sanctorum suorum. Coecus notissimus universae Civitati illuminatus est. Cucurrit, adduci se fecit, forte adhuc vivit. In ipsa eorum Basilica, ubi sunt corpora totam vitam suam se serviturum esse devovit».

705. V. Franc. Veron. Reg. Fid. Cath. §. 3. in Append. ad Natal. Alexand.

706. Il Sig. Gibbon non vuol miracoli di veruna sorta, nè in verun tempo: egli investe quelli degli Apostoli, e di Gesù Cristo medesimo. Vedi il Saggio di Confutazione di Niccola Spedalieri ec.

707. Quantum ergo signum est etc. Vedi il Muratori De Ingenior. moderat. in Relig. neg. l. 3. C. 11.

708. Lib. 16. Tit. 2. L. 25. p. 64. In quello del Cuiacio Lugduni 1566 si legge sotto il tit. generale de Episcop. et Cler.

709. Lib. 9. T. 29. L. 1.

710. V. Sulle leggi contro gli Eretici Enr. Cocc. de Hug. Grot. Lib. 2. cap. 20. §. 50, il quale cita le dissertazioni di B. Par. Tom. 2. Ed. Lausan. 1752. p. 403.

Ita jure communi, et legibus primorum Christianissimorum Imperatorum tota haec causa accuratissime saeculo IV, et V definita est, et omni ex parte pro natura delicti, et modo circumstantiarum aequa justaque satis severitate in haereticos a Catholicae Ecclesiae regula deviantes animadvertitur. Vedi ancora Not. Vales. ad cap. 3. L. 7. H. E. Socrat. Si conviene però del principio Platonico, che la pena della ignoranza, e del semplice errore sia l'istruzione: onde sono lodevolissimi que' Sovrani i quali con una giusta tolleranza provvedono egualmente alla Religione e allo Stato.

711. T. 8. p. 811. Ed. de' Maur.

712. T. 2. Ep. 237. p. 850.

713. Haeres. 70.

714. Contr. Mendac. T. 6.

715. L. 2. Retract. C. 60. Tunc et contra mendacium scripsi librum, cujus operis ea causa extitit, quod ad Priscillianistas investigandos, qui haeresim suam non solum negando, atque mentiendo, verum etiam pejerando existimant occulendam, visum est quibusdam Catholicis Priscillianistas se debere simulare, ut eorum latebras penetrarent. Quod ego fieri prohibens hunc librum condidi. — Un nemico così giurato della menzogna, e della simulazione dovremo dirlo calunniatore? È ella questa la ragionevolezza del nostro secolo?

716. Jo. Albert. Fabric. collect. veter. PP. Brixieni. p. 45.

717. Sulp. Sever. Hist. Sacr. L. 2. Edit. Hieron. de Prato T. 2. §. 47. 48.

718. Histoire des dogm. de Manich. T. 2. I. 9. p. 755.

719. Hieron. in Catalog. Script. N. CXXI

720. Sulp. L. 2. Hist. S. §. 50.

721. Socrat. H. E. Lib. 7. C. 3. S. Leon. Ep. 15. Ediz. del Cacc. v. Hermant. V. de S. Ambroise L. 5. C. 4. e L. 7. C. 1.

722. Epist. ad Ctesiph. adv. Pelag.

723. Ibid.

724. Lib. 2. Hist. Sac. §. 50. Ed. Hieron. de Prato.

725. Sever. Sulp. in Vit. Mart. C. 20.

726. Plutarch. loc. cit.

727. Paneg. ad Theodos. C. 29. Quin etiam cum (Episcopi) judiciis capitalibus adstitissent, cum gemitus, et tormenta miserorum auribus ac luminibus hausissent etc.

728. H. S. L. 2. §. 51.

729. Vedi Calogerà Vol. 27. Bachiar. illustr. seu de Priscill. haeres.

730. Quid adhuc proxime proditum sit Manichaeos sceleris admittere non argumentis, neque suspicionibus dubiis vel incertis, sed ipsorum confessione, inter judicia prolatis, malo quod ex gestis ipsis tua sanctitas quam ex nostro ore cognoscas, quia hujuscemodi non modo facta turpia, verum etiam foeda dictu proloqui sine rubore non possumus. Baron. Annal. T. 4. ad An. 387. p. 440.

731. Serm. 6 de Epiph. C. 5.

732. Serm. 4 de Nativ. C. 4. Serm. 2 de Pentec. C. 2. V, Cacciar. de Manich. haeres. Cap. 7 e 9. Exercit. de Priscill. haeres.

733. Epist. ad. Episc. Ital. — Ad instructionem vestram ipsa acta direximus, quibus lectis omnia quae a nobis reprehensa sunt nosse poteritis. 8. Ap. Quesnel. al. 11. Cap. 1.

734. Ep. 15 ac Turrib. Asturic. C. 4 — qui sicut in nostro examine detecti atque convicti per omnia sint a nostra fidei unitate discordes. —

735. Ann. T. 4 p. 359 etc.

736. T. 1. H. E. p. 301. 302. Romae 1717.

737. T. 4. Sec. 4. Art. 17.

738. T. 4. Hist. Ec. Ed. Bruxell. p. 384. etc.

739. Sec. 4. Art. 15 §. 22.

740. Stor. Eccl. Lib. 18.

741. Sopr. Cit.

742. Sec. 4 an. 381 vol. 1 p. 278.

743. T. 1 p. 891.

744. In Epist. S. Hieron. ad Ctesiph. T. 2 p. 164 in Not.

745. Centur. 4. C. 5 p. 225 e Cap. 11 p. 812.

746. Annal. Polit. Eccl. T. 3 p. 72.