CAPITOLO XXXVII.
Origine, progresso ed effetti della vita monastica. Conversione de' Barbari al Cristianesimo, ed all'Arrianismo. Persecuzione de' Vandali nell'Affrica. Estinzione dell'Arrianismo fra' Barbari.
L'inseparabile connessione degli affari civili ed ecclesiastici mi ha dato motivo ed aiuto a riferire il progresso, le persecuzioni, lo stabilimento, le divisioni, il pieno trionfo e la successiva corruzione del Cristianesimo. Ma ho differito o bella posta l'esame di due religiosi avvenimenti, di conseguenza nello studio della natura umana, ed importanti nella decadenza e rovina del Romano Impero, cioè I. l'istituzione della vita monastica[1]; e II. la conversione de' Barbari Settentrionali.
I. La prosperità e la pace introdusse la distinzione fra' Cristiani volgari, e gli Ascetici[2]. La coscienza della moltitudine si contentava d'una larga ed imperfetta pratica di Religione. Il Principe o il Magistrato, il Soldato o il Mercante conciliarono il fervido loro zelo, e l'implicita fede loro coll'esercizio della propria professione, con la cura de' loro interessi, e colla condiscendenza delle passioni: ma gli Ascetici, che volevan osservare i rigorosi precetti dell'Evangelo, e talvolta ne abusavano, furono eccitati da quel selvaggio entusiasmo, che rappresenta l'uomo come un delinquente, e Dio come un tiranno. Essi rinunziarono seriamente agli affari, ed a' piaceri del secolo; rigettarono l'uso del vino, della carne e del matrimonio; gastigarono il proprio corpo, mortificarono le loro passioni, ed abbracciarono una vita di miseria come un prezzo dell'eterna felicità. Nel tempo di Costantino gli Ascetici fuggivano da un Mondo profano e degenerato, ad una perpetua solitudine o società religiosa. Come i primi Cristiani di Gerusalemme[3] rinunziarono l'uso o la proprietà de' loro beni temporali; fondarono delle comunità regolari di persone del medesimo sesso, e d'uniforme disposizione; e presero i nomi d'Eremiti, di Monaci e di Anacoreti, esprimenti la solitaria lor vita in un deserto naturale, o artificiale. Essi acquistaron ben presto il rispetto del Mondo, che disprezzavano; e si fece il più alto applauso a questa Divina Filosofia[4], che sorpassava, senza l'aiuto della scienza o della ragione, le laboriose virtù delle scuole Greche. In vero i Monaci potevan contendere con gli Stoici nel disprezzo della fortuna, del dolore, e della morte; si rinnovò nella servile lor disciplina il silenzio, e la sommissione de' Pittagorici; e sdegnarono con una fermezza uguale a quella de' Cinici stessi ogni formalità, e decenza della civil società. Ma i seguaci di tal divina filosofia aspiravano ad imitare un modello più puro, o più perfetto. Seguitavano le vestigia de' Profeti, che si erano ritirati nel deserto[5]; e fecero risorgere la vita devota, e contemplativa, che si era introdotta dagli Esseni, nella Palestina e nell'Egitto. L'occhio filosofico di Plinio aveva osservato con sorpresa un Popolo solitario, che abitava fra le palme vicino al Mar Morto, che sussisteva senza danaro, si propagava senza donne, e traeva dal disgusto e dal pentimento dell'uman genere, un perpetuo rinforzo di volontari associati[6].
A. 305
L'Egitto, fecondo padre di superstizione, somministrò il primo esempio della vita monastica. Antonio[7], inculto[8] giovane delle parti più basse della Tebaide, distribuì il suo patrimonio[9], abbandonò la propria famiglia, e la casa nativa, e compì la sua monastica penitenza con originale ed intrepido fanatismo. Dopo un lungo e penoso noviziato fra' sepolcri, e in una torre rovinata, s'avanzò arditamente nel deserto per tre giornate di cammino all'oriente del Nilo; scoprì un luogo solitario, che aveva i vantaggi dell'ombra e dell'acqua, e fermò l'ultima sua dimora sul monte Colzim, vicino al Mar Rosso, dove un antico monastero tuttavia conserva il nome, e la memoria del Santo[10]. La curiosa devozione de' Cristiani lo seguitò fino al deserto; e quando fu costretto a comparire in Alessandria in faccia al Mondo, sostenne la sua fama con dignità, e discretezza. Ei godè l'amicizia d'Atanasio, di cui approvò la dottrina; e l'Egizio abitator delle selve rispettosamente evitò un rispettoso invito dell'Imperator Costantino. Il venerabile Patriarca (poichè Antonio giunse all'età di centocinque anni) vide la numerosa progenie, che si era formata, seguitando l'esempio e le lezioni di esso. Le prolifiche colonie de' Monaci si moltiplicarono con rapido progresso nelle arene della Libia, su' massi della Tebaide, e nelle città del Nilo. Al mezzodì d'Alessandria, la montagna ed il vicino deserto di Nitria eran popolati da cinquemila Anacoreti; ed il viaggiatore può tuttavia investigar le rovine di cinquanta monasteri, che furono fondati su quello sterile suolo da' discepoli d'Antonio[11]. Nella Tebaide Superiore fu occupata la vacante Isola di Tabenna[12] da Pacomio, e da millequattrocento dei suoi confratelli. Questo Santo Abbate fondò successivamente nove Monasteri di uomini, ed uno di donne; e la festa di Pasqua riuniva tal volta cinquantamila religiose persone, che seguivano l' Angelica sua regola di disciplina[13]. La grande e popolata città d'Ossirinco, la sede dell'Ortodossia cristiana, avea destinato i tempj, i pubblici edifizi, e fino le mura a pii e caritatevoli usi; ed il Vescovo, che poteva predicare in dodici chiese, contò diecimila maschi, e ventimila femmine della professione monastica[14]. Gli Egizi, che si gloriavano di tal maravigliosa rivoluzione, eran disposti a sperare ed a credere, che il numero de' Monaci fosse uguale al resto del Popolo[15]; e la posterità potrebbe ripetere quel detto, che fu anticamente applicato agli animali sacri del medesimo paese, cioè, che in Egitto era meno difficile di trovare un Dio, che un uomo.
A. 341
Atanasio introdusse in Roma la cognizione, e la pratica della vita monacale; ed i discepoli d'Antonio, che accompagnarono il loro Primate alla sacra soglia del Vaticano, aprirono una scuola di questa nuova filosofia. Lo strano e selvaggio aspetto di quegli Egizi a principio eccitò dell'orrore o del disprezzo, ma in seguito dell'applauso, ed un'ardente imitazione. I Senatori, e specialmente le matrone, trasformarono i palazzi e le ville loro in case religiose, ed il ristretto istituto di sei Vestali restò ecclissato da frequenti monasteri, che si edificarono sulle rovine degli antichi Tempj, ed in mezzo al Foro Romano[16]. Un giovane Siro, chiamato Ilarione[17], infiammato dall'esempio d'Antonio, fissò l'orrida sua dimora in un arenoso lido, fra il mare ed una palude, circa sette miglia distante da Gaza. L'austera penitenza, nella quale persistè per quarantotto anni, sparse un simil entusiasmo negli altri; ed allorchè il sant'uomo visitava gl'innumerabili Monasteri della Palestina, aveva un seguito di due o tremila Anacoreti. La fama di Basilio[18] è immortale nell'istoria monastica dell'Oriente. Con uno spirito, che avea gustato la dottrina e l'eloquenza di Atene, e con un'ambizione da potersi appena contentare dell'Arcivescovato di Cesarea, Basilio si ritirò in una deserta solitudine del Ponto: e si degnò, per un tempo, di prescriver le leggi alle spirituali colonie ch'egli abbondantemente sparse lungo la costa del Mar Nero. Nell'Occidente, Martino di Tours[19], soldato, eremita, Vescovo e Santo, fondò i Monasteri della Gallia; duemila de suoi discepoli l'accompagnarono al sepolcro; ed il suo eloquente Istorico sfida i deserti della Tebaide a produrre, in un clima più favorevole, un campione d'ugual virtù. Il progresso dei Monaci non fu meno rapido, od universale, di quello del Cristianesimo stesso. Ogni provincia, ed in fine ogni città dell'Impero era piena de' loro ceti che andavan sempre crescendo: e le aspre e nude isole, che sorgono fuori del Mar Toscano, da Lerino a Lipari, si scelsero dagli Anacoreti, per luogo del loro volontario esilio. Un facile e continuo commercio per mare e per terra univa fra loro le Province del Mondo Romano; e la vita d'Ilarione mostra la facilità, con cui un indigente Eremita della Palestina potè attraversare l'Egitto, imbarcarsi per la Sicilia, fuggire nell'Epiro, e finalmente approdare all'Isola di Cipro[20]. I Cristiani Latini abbracciarono gl'istituti religiosi di Roma. I pellegrini, che visitavan Gerusalemme, difficilmente copiarono, ne' climi della terra più distanti fra loro, il genuino modello della vita monastica. I discepoli d'Antonio si sparsero di là dal Tropico, sotto l'Impero Cristiano dell'Etiopia[21]. Il monastero di Banchor[22] in Flintshire, che conteneva più di duemila Monaci, diffuse una numerosa colonia fra' Barbari dell'Irlanda[23]; e Jona, una dell'Ebridi, che fu coltivata da' Monaci Irlandesi, sparse nelle regioni settentrionali un dubbioso raggio di scienza e di superstizione[24].
Quest'infelici esuli dalla vita sociale, venivano mossi dall'oscuro ed implacabile genio della superstizione. L'esempio di milioni di persone d'ambedue i sessi, d'ogni età, e d'ogni grado serviva di mutuo sostegno ad altri per farli risolvere ad abbracciar quella vita, ed ogni proselito, ch'entrava in un Monastero, era persuaso ch'ei camminava per l'aspro e spinoso sentiero dell'eterna felicità[25]. Ma questi religiosi motivi operavano in varie maniere, secondo il Carattere, e la situazione delle persone. La ragione potea vincere, o la passione sospendere la loro forza; ma essi agivano più vigorosamente su' deboli spiriti de' fanciulli, e delle donne; si avvaloravano da segreti rimorsi, o da accidentali disgrazie; e potevano trarre qualche vantaggio da temporali riflessi di vanità, o d'interesse. Naturalmente si supponeva che gli umili e pii Monaci, che avevano abbandonato il Mondo per attendere alla lor salvazione, fossero i più adattati al governo spirituale de' Cristiani. Si tirava l'eremita ripugnante dalla sua cella, e collocavasi, fra le acclamazioni del popolo, sulla sede Episcopale, i Monasteri dell'Egitto, della Gallia, e dell'Oriente somministrarono una regolar successione di Santi e di Vescovi; e l'ambizione tosto scoprì la segreta strada che conduceva al possesso delle ricchezze, e degli onori[26]. I Monaci popolari, la riputazione de' quali era connessa con la fama e la prosperità dell'Ordine, continuamente cercavano di moltiplicare il numero degli schiavi loro compagni. Si insinuavano nelle nobili ed opulente famiglie, ed impiegavano le speciose arti dell'adulazione, e della seduzione per assicurarsi que' proseliti, che potevano apportar dignità, o ricchezze alla professione monastica. Lo sdegnato padre piangeva la perdita d'un figlio forse unico[27]; la credula fanciulla era indotta dalla vanità a violare le leggi della natura; e la Matrona aspirava ad un'immaginaria perfezione, rinunziando alle virtù della vita domestica. Paola cedè alla persuasiva eloquenza di Girolamo[28]; ed il titolo profano di Suocera di Dio[29] tentò quell'illustre vedova a consacrar la verginità d'Eustochia, sua figlia. Per consiglio ed in compagnia della spirituale sua guida, Paola abbandonò Roma, ed il suo piccolo figlio; si ritirò al santo villaggio di Betlemme: fondò un ospedale, e quattro Monasteri; ed acquistò, mediante la sua penitenza ed elemosine, un eminente e cospicuo posto nella Chiesa Cattolica. Tali rari ed illustri penitenti venivano celebrati come la gloria, e l'esempio del loro secolo: ma i Monasteri s'empivano d'una folla di oscuri ed abietti plebei[30], che nel chiostro guadagnavano molto più di quel che avessero sacrificato nel Mondo. I contadini, i servi e gli artefici potevan passare dalla povertà e dal disprezzo ad una sicura ed onorevole professione, gli apparenti travagli della quale venivano mitigati dall'uso, dall'applauso popolare, e dal segreto rilassamento della disciplina[31]. I sudditi di Roma, le persone e sostanze de' quali eran sottoposte a diseguali ed esorbitanti tributi, si ritiravano dall'oppressione del Governo Imperiale; ed il giovane pusillanime preferiva la penitenza d'una vita Monastica a' pericoli della milizia. Gli atterriti Provinciali d'ogni ceto, che fuggivano da' Barbari, vi trovavan rifugio e sussistenza; e delle intere legioni si seppellivano in que' religiosi santuari, e la medesima causa, che sollevava l'angustia degl'individui, diminuiva la forza, ed il vigor dell'Impero[32].
La professione monastica degli antichi[33] era un atto di volontaria devozione. L'incostante fanatico era minacciato bensì dell'eterna vendetta di quel Dio, che abbandonava; ma le porte del Monastero eran sempre aperte al suo pentimento. Que' Monaci, la coscienza de' quali era invigorita dalla ragione, o dalla passione, erano liberi di ripigliare il carattere di uomini e di cittadini, ed anche le spose di Cristo potevano ricevere i legittimi abbracciamenti d'un amatore terreno[34]. Gli esempi di scandalo, ed il progresso della superstizione suggerirono la convenienza di più forti legami. Dopo una sufficiente prova, si assicurava la fedeltà del novizio mediante un solenne e perpetuo voto, e veniva ratificato l'irrevocabil suo vincolo dalle Leggi della Chiesa, e dello Stato. Un reo fuggitivo era inseguito, arrestato o ricondotto alla perpetua sua prigione; e l'interposizione de' Magistrati opprimeva la libertà ed il merito, che aveva, in qualche modo, alleviato l'abietta schiavitù della disciplina monastica[35]. Eran dirette le azioni, le parole e fino i pensieri d'un Monaco da un'inflessibile regola[36], o da un Superiore cappriccioso: lo mancanze più tenui si correggevano con la vergogna, con la prigionia, con digiuni straordinari, o con sanguinose flagellazioni, e la disubbidienza, il lamento, o l'indugio si risguardavano come i più odiosi delitti[37]. Una cieca sommissione agli ordini dell'Abbate, per quanto potessero sembrare assurdi, o tendenti al delitto, era il principio fondamentale e la prima virtù de' Monaci Egiziani; e spesso esercitavasi la loro pazienza co' più stravaganti sperimenti. Veniva ordinato loro di muovere un masso enorme, d'annaffiare continuamente un bastone secco piantato nel suolo, finattantochè al termine di tre anni vegetasse e germogliasse come un albero, d'entrare in una fornace ardente, o di gettare i loro figliuolini in un profondo stagno: e molti santi, o pazzi, hanno acquistato nella storia monastica una fama immortale per la loro inconsiderata e pronta ubbidienza[38]. La libertà dello spirito, ch'è la sorgente d'ogni generoso e ragionevole sentimento, era distrutta dall'abitudine della credulità e della sommissione; ed il Monaco, assuefacendosi a' vizi dello schiavo, devotamente seguiva la fede e le passioni dell'ecclesiastico suo tiranno. La pace della Chiesa orientale fu attaccata da uno sciame di fanatici, incapaci di timore, di ragione, o d'umanità e le truppe Imperiali confessavano senza vergogna, che temevano meno l'incontro de' più fieri Barbari[39].
Spesso la superstizione ha formato, e consacrato i capricciosi abiti de' Monaci[40]: ma talvolta l'apparente loro singolarità nasce anche dall'uniforme attaccamento, che hanno ad una semplice o primitiva maniera di vestire, che le rivoluzioni della moda hanno poi resa ridicola agli occhi degli uomini. Il Padre de' Benedettini espressamente disapprova qualunque idea di particolarità, o distinzione, e sobriamente esorta i suoi discepoli ad abbracciare l'abito comune e proprio de' luoghi dove si trovano[41]. Le vesti monastiche degli antichi variavano col clima, e con la loro maniera di vivere; e prendevano coll'istessa indifferenza la pelle di pecora de' contadini Egizi, o il pallio de' Filosofi greci. Facevan uso del lino in Egitto, dove si lavorava comunemente, ed a poco prezzo: ma in Occidente rigettavano questo capo dispendioso di lusso forestiero[42]. I Monaci avevano il costume di tagliarsi, o di radersi i capelli, nascondevano il capo in un cappuccio, per evitare la vista degli oggetti profani; andavano con le gambe e co' piedi nudi, eccettuato il tempo dell'estremo freddo dell'inverno; ed i loro lenti e deboli passi erano sostenuti da un lungo bastone. L'aspetto d'un vero anacoreta era orrido e disgustoso: ogni sensazione dispiacevole all'uomo, si credeva gradita a Dio; e l'angelica regola di Tabenna condannava il salutevol costume di bagnarsi le membra nell'acqua, o d'ungerle con olio[43]. Gli austeri Monaci dormivano sulla terra sopra una dura stoia, o su rozzi panni; e l'istesso fascio di foglie di palma serviva loro per sedere il giorno, e di capezzale la notte. Le prime lor celle erano basse ed anguste capanne formate de' più tenui materiali che, mediante una regolar distribuzione di strade, facevano un grosso e popolato villaggio, il quale nel comune recinto conteneva una Chiesa, uno spedale, talvolta una libreria, alcune manifatture necessarie, un giardino ed una fontana, o conserva d'acqua fresca. Trenta, o quaranta fratelli componevano una famiglia, nel vitto e nella disciplina separata dalle altre, ed i grandi Monasteri dell'Egitto eran composti di trenta, o quaranta famiglie.
Nel linguaggio de' Monaci, piacere e delitto eran termini sinonimi, ed essi avevan conosciuto per esperienza, che i rigorosi digiuni, e l'astinenza nel cibo sono i più efficaci preservativi contro i desiderj impuri della carne[44]. Le regole d'astinenza, ch'essi stabilirono o praticarono, non erano uniformi, o perpetue; la lieta solennità della Pentecoste veniva bilanciata dalla straordinaria mortificazione della Quaresima; il fervore de' nuovi monasteri appoco appoco s'andò rilassando, ed il vorace appetito de' Galli non poteva imitare la paziente e temperata virtù degli Egizi[45]. I discepoli d'Antonio, e di Pacomio eran contenti della lor giornaliera porzione[46] di dodici once di pane, o piuttosto di biscotto[47], ch'essi dividevano ne' due frugali pasti del mezzogiorno, e della sera. Stimavasi un merito, e quasi un dovere, l'astenersi da' vegetabili cotti, che si davano al refettorio, ma la straordinaria bontà dell'Abbate alle volte accordava loro il lusso del formaggio, delle frutte, della insalata, e di piccoli pesci secchi del Nilo[48]. A grado a grado s'accordò, o si prese una maggior porzione di pesce di mare e di fiume: ma l'uso della carne fu per lungo tempo ristretto agli ammalati, ed a' viaggiatori; e quando questo appoco appoco prevalse nei Monasteri meno rigorosi d'Europa, vi s'introdusse una singolar distinzione, come se gli uccelli, o salvatici o domestici, fossero stati meno profani de' grossi animali de' campi. L'acqua era la pura ed innocente bevanda de' primitivi Monaci; ed il fondatore de' Benedettini disapprova la quotidiana porzione di mezza pinta di vino, che l'intemperanza del secolo[49] l'aveva costretto a permettere. Le vigne d'Italia potevano facilmente somministrare tal misura; ed i suoi vittoriosi discepoli, che passarono le Alpi, il Reno, ed il Baltico, richiesero, in luogo del vino, un'adequata compensazione di birra, o di sidro.
Il candidato, che aspirava alla virtù della povertà Evangelica, si spogliava, nel primo suo ingresso in una comunità regolare, dell'idea e fino del nome di ogni esclusivo o separato possesso[50]. I fratelli si sostentavano per mezzo del lavoro delle proprie mani, ed il dovere di lavorare veniva caldamente raccomandato come una penitenza, come un esercizio, e come il mezzo più lodevole di procurarsi la quotidiana lor sussistenza[51]. Venivano diligentemente coltivati dalle lor mani i giardini ed i campi, che l'industria loro spesse volte avea tratto dalle foreste e dalle paludi. Essi facevano, senza ripugnanza, i più bassi ufizi di schiavi e di domestici; e si esercitavano dentro i recinti de' grandi Monasteri le varie arti ch'erano necessarie a provvederli di abiti, di utensili e di abitazioni. Gli studi monastici, per la maggior parte, son serviti ad accrescere, piuttosto che a dissipar la caligine della superstizione. Pure la curiosità, o lo zelo di alcuni eruditi solitari ha coltivato le scienze ecclesiastiche ed anche le profane: e la posterità dee riconoscer con gratitudine, che le loro instancabili penne, ci hanno conservato e moltiplicato i monumenti della Greca e Romana Letteratura[52]. Ma la più umile industria de' Monaci, specialmente d'Egitto, si contentava della tacita e sedentaria occupazione di fare de' sandali di legno, o d'intrecciare foglie di palme per farne stoie e panieri. Il lavoro superfluo, che non s'impiegava nell'uso domestico, serviva, mediante il commercio, a supplire a' bisogni della Comunità: i barchetti di Tabenna e degli altri monasteri della Tebaide, discendevano pel Nilo fino ad Alessandria; ed in un mercato cristiano, la santità degli artefici poteva dare un pregio maggiore all'intrinseco valore dell'opere.
Ma passò appoco appoco la necessità del lavoro manuale. Il novizio inducevasi a trasferire le sue sostanze ne' santi, in compagnia de' quali avea risoluto di consumare il rimanente della sua vita; e la perniciosa indulgenza delle leggi permetteva a lui di ricevere, per loro uso in futuro, qualunque accrescimento di legati, o d'eredità[53]. Melania donò loro la sua argenteria del peso di trecento libbre: e Paola contrasse un immenso debito, per sollievo de' favoriti suoi Monaci, che benignamente compartivano i meriti delle orazioni e penitenze loro ad una ricca e liberal peccatrice[54]. Il tempo accresceva di continuo, e gli accidenti rare volte facevan diminuire i beni de' Monasteri popolari, che si sparsero sulle addiacenti campagne e città: e, nel primo secolo della loro istituzione, il pagano Zosimo ha maliziosamente osservato, che, per vantaggio de' poveri, i Monaci cristiani avevan ridotto una gran copia di persone alla mendicità[55]. Finattantochè però mantennero il primitivo loro fervore, si fecero un dovere di esser fedeli ed amorevoli amministratori della carità, che veniva affidata alla loro cura. Ma la disciplina loro fu corrotta dalla prosperità: essi appoco appoco assunsero l'orgoglio de' ricchi, ed alla fine ammisero il lusso nel lor trattamento. Si sarebbe potuto scusare il pubblico loro lusso con la magnificenza del Culto religioso, e col decente motivo d'erigere durevoli abitazioni per una società immortale. Ma ogni secolo della Chiesa ha accusato la rilassatezza de' Monaci degenerati, che non si ricordavan più dell'oggetto del loro istituto, abbracciavano i vani e sensuali piaceri del Mondo, che avevano abbandonato[56], e scandalosamente abusavano delle ricchezze, che si erano acquistate dalle austere virtù de' lor fondatori[57]. Il loro natural passaggio, da tal penosa e pericolosa virtù, a' vizi comuni dell'umanità, non ecciterà forse grande avversione o sdegno nella mente d'un Filosofo.
I primitivi Monaci consumavan la loro vita in penitenza e solitudine, senza esser disturbati dalle varie occupazioni, che impiegano il tempo, ed esercitan le facoltà degli enti ragionevoli, attivi e sociali. Quando veniva loro permesso di andare fuori del Monastero, due gelosi compagni erano sempre vicendevoli guardie, e spie delle azioni l'uno dell'altro; ed al loro ritorno erano condannati a dimenticare, o almeno a sopprimere tutto ciò, che avevan veduto, o udito nel Mondo. Si ricevevan ospitabilmente in un quartiere separato i forestieri, che professavan la fede ortodossa; ma non si permetteva la pericolosa loro conversazione, che ad alcuni scelti vecchi di approvata discretezza e fedeltà. Il Monastico schiavo non potea ricever le visite de' suoi amici, o congiunti, che in loro presenza; e si stimava sommamente meritorio, se affliggeva una tenera sorella, o un vecchio padre coll'ostinato rifiuto d'una parola, o d'uno sguardo[58]. I Monaci stessi passavan la loro vita, senz'alcun attacco personale, in mezzo ad una folla, che si era unita insieme per accidente, e si riteneva nella stessa prigione dalla forza e dal pregiudizio. De' solitari fanatici hanno poche idee, o sentimenti da comunicarsi: una special licenza dell'Abbate regolava il tempo, e la durata delle famigliari lor visite, ed alle loro tacite mense stavano nascosti ne' propri cappucci, inaccessibili, e quasi invisibili l'uno all'altro[59]. Lo studio è il conforto della solitudine: ma non aveva l'educazione preparati, e resi capaci d'alcuno studio liberale gli artigiani ed i contadini, che riempivano le comunità monastiche. Potevano lavorare: ma la vanità della perfezione spirituale era tentata a sdegnar l'esercizio del lavoro manuale; e dev'esser languida e debole quell'industria, che non è eccitata dal sentimento d'un personale interesse.
Secondo lo zelo e la fede loro, potevano impiegare il giorno, che passavano nelle proprie celle, in orazione vocale o mentale: s'adunavano la sera, ed erano svegliati la notte pel comune ufizio del Monastero. Se ne determinava il preciso momento dalle stelle, che rare volte son coperte dalle nuvole nel sereno cielo dell'Egitto; ed una trombetta, o corno pastorale, segnale della devozione, interrompeva due volte il vasto silenzio del deserto[60]. Anche il sonno, che è l'ultimo refugio degl'infelici, era misurato rigorosamente; le ore vacanti del Monaco scorrevano gravemente senz'occupazione, e senza piacere; e prima di giungere al fine del giorno, egli accusava più volte il noioso e tardo cammino del Sole[61]. In tal misero stato la superstizione perseguitava sempre e tormentava i suoi meschini devoti[62]. La quiete, ch'essi avevan cercato nel chiostro, veniva disturbata da un tardo pentimento, da profani dubbi, e da colpevoli desiderj e risguardando essi ogni naturale impulso come un imperdonabil peccato, tremavano continuamente sull'orlo d'un ardente ed infinito abisso. La pazzia, o la morte liberava talvolta quelle misere vittime da' penosi travagli dell'inquietudine e della disperazione; e nel sesto secolo fu eretto in Gerusalemme uno spedale per un piccolo numero di austeri penitenti, che avevan perduto l'uso della ragione[63]. Prima che giungessero a quest'ultimo, e indubitato termine di frenesia, le loro visioni hanno somministrato ampi materiali d'istoria soprannaturale. Erano pienamente persuasi, che l'aria da essi respirata, fosse popolata da nemici invisibili, da innumerabili demonj, che spiavano qualunque occasione, e prendevano qualunque forma per atterrire, e sopra tutto tentare, la loro virtù non guardata. L'immaginazione, ed anche i sensi erano ingannati dalle illusioni dello sregolato fanatismo; e l'eremita, la cui notturna orazione veniva interrotta da un involontario assopimento, poteva facilmente confondere i fantasmi d'orrore o di diletto, che avevano occupato i suoi pensieri nell'atto di dormire, con quelli della vigilia[64].
I Monaci furon divisi in due classi, in Cenobiti, che vivevano sotto una comune e regolar disciplina, ed in Anacoreti, che seguitavano l'insociabile, e indipendente lor fanatismo[65]. I più devoti, o i più ambiziosi, fra gli spirituali fratelli, rinunziavano al convento in quella guisa, che avevano rinunziato al Mondo. I ferventi Monasteri dell'Egitto, della Palestina, e della Siria erano circondati da una Laura[66], o largo cerchio di celle solitarie; e la stravagante penitenza degli Eremiti veniva stimolata dall'applauso e dall'emulazione[67]. Soccombevano sotto il penoso carico di croci e di catene; e l'emaciate lor membra erano strette da collari, da anelli, da guanti, e da calze di pesante e rigido ferro. Gettavano via con disprezzo qualunque superfluità di abiti; e furono ammirati alcuni Santi selvaggi di ambedue i sessi, i nudi corpi de' quali non eran coperti, che da' lunghi loro capelli. Aspiravano a ridursi a quello stato rozzo e meschino, in cui il bruto umano appena si distingue dagli animali suoi congiunti: ed una numerosa setta di Anacoreti traeva il nome dall'umile loro uso di pascere ne' campi della Mesopotamia con il gregge ordinario[68]. Spesse volte usurpavan la tana di qualche bestia selvaggia, a cui cercavano di assomigliarsi; si seppellivano in qualche oscura caverna, che l'arte o la natura avea scavato nel masso, e le cave di marmo della Tebaide portano tuttavia scritti i monumenti della lor penitenza[69]. Si suppone, che gli Eremiti più perfetti passassero molti giorni senza cibo, molte notti senza dormire, e molti anni senza parlare; e glorioso era l'uomo (io abuso di tal nome) che inventava una cella, o un luogo di tale particolar costruzione, che l'esponesse nella più incomoda positura all'intemperie delle stagioni.
Fra questi eroi della vita monastica si è reso immortale il nome ed il genio di Simeone Stilita[70] per la singolare invenzione d'una penitenza aerea. All'età di tredici anni il giovine Siro abbandonò la professione di pastore, e si gettò in un rigido monastero. Dopo un lungo e penoso noviziato, in cui Simeone fu più volte salvato da un pio suicidio, stabilì la sua dimora sopra una montagna circa trenta o quaranta miglia all'Oriente d'Antiochia. Chiuso dentro lo spazio d'una Mandra, o cerchio di pietre, a cui si era attaccato con una pesante catena, salì sopra una colonna, che fu successivamente alzata dall'altezza di nove piedi fino a quella di sessanta da terra[71]. In quest'ultima ed alta sede l'anacoreta Siriaco resistè al caldo di trenta estati, ed al freddo di altrettanti inverni; l'abito e l'esercizio l'ammaestrarono a mantenersi in quella pericolosa situazione senza timore, o vertigini, ed a prendere appoco appoco le diverse positure di devozione. Alle volte pregava ritto con le braccia stese in forma di croce; ma ciò che faceva più comunemente era di piegare il suo magro scheletro dalla fronte fino a' piedi: ed un curioso spettatore, dopo d'aver contato 1244 repetizioni di tal atto, desistè finalmente da tal numerazione, che non avea termine. Una piaga, venutagli nella coscia[72], potè abbreviare, ma non interrompere questa vita celeste, ed il paziente eremita spirò, senza scendere dalla sua colonna. Un Principe che capricciosamente condannasse a tali tormenti, sarebbe stimato un tiranno; ma oltrepasserebbe il poter d'un tiranno l'imporre una lunga e miserabil esistenza alle ripugnanti vittime della sua crudeltà. Questo volontario martirio doveva distruggere appoco appoco la sensibilità sì dello spirito, che del corpo; nè si può supporre, che i fanatici, che tormentano se medesimi sian suscettibili d'alcuna viva affezione per gli altri uomini. Una crudele insensibile indole ha distinto i Monaci d'ogni tempo, e d'ogni luogo; la dura loro indifferenza, che rare volte viene ammollita dall'amicizia personale, è accesa dall'odio religioso, ed il loro zelo senza pietà ha esercitato vigorosamente il sant'ufizio dell'Inquisizione.
I Santi monastici, ch'eccitano solo il disprezzo e la compassione d'un filosofo, erano rispettati, e quasi adorati dal Principe, e dal Popolo. Delle truppe di pellegrini vennero successivamente dalla Gallia, e dall'India per salutare la divina colonna di Simeone: le tribù de' Saraceni disputarono colle armi l'onore della sua benedizione; le Regine dell'Arabia, e della Persia confessavano con gratitudine la soprannatural sua virtù; e l'angelico Eremita fu consultato da Teodosio il Giovine negli affari più importanti della Chiesa, e dello Stato. Furono traslatate le sue reliquie dalla montagna di Telenissa, con una solenne processione del Patriarca, del Generale dell'Oriente, di sei Vescovi, di ventuno Conti, o Tribuni, e di seimila soldati; ed Antiochia venerò le ossa di lui, come il suo più glorioso ornamento e la sua invincibil difesa. La fama degli Apostoli e de' Martiri, appoco appoco restò ecclissata da questi recenti e popolari Anacoreti; il Mondo cristiano cadeva prostrato a' loro sepolcri: ed i miracoli, attribuiti alle loro reliquie, sorpassavano, almeno in numero e durata, le spirituali imprese delle loro vite. Ma l'aurea leggenda di queste[73] veniva abbellita dall'artificiosa credulità de' loro interessati fratelli; ed una credula età era facilmente persuasa, che il minimo capriccio d'un Monaco Egizio o Siriaco fosse stato sufficiente ad interrompere l'eterne leggi dell'Universo. I favoriti del Cielo erano soliti di curare le inveterate malattie col toccare le persone, con una parola, o per mezzo d'un messaggio in distanza, e di scacciare i demonj più ostinati dalle anime, o da' corpi che possedevano. Essi famigliarmente accostavansi, o comandavano imperiosamente a' leoni ed a' serpenti del deserto; infondevano la vegetazione in un tronco secco; facevano stare a galla il ferro sulla superficie dell'acqua: passavano il Nilo sul dorso d'un coccodrillo, e si rinfrescavano in un'ardente fornace. Queste stravaganti novelle, che spargono la finzione senza il genio della poesia, hanno seriamente influito sopra la ragione, la fede e la morale de' Cristiani. La loro credulità avvilì e viziò le facoltà della mente; corruppero essi l'autorità dell'istoria; e la superstizione appoco appoco estinse l'inimica luce della filosofia e della scienza. Ogni maniera di Culto religioso che si fosse praticata da' Santi, ogni dottrina misteriosa, che essi credessero, veniva invigorita dalla sanzione della rivelazion divina, e tutte le virili virtù giacevano oppresse dal servile e pusillanime regno de' Monaci. Se è possibile misurare la distanza fra gli scritti filosofici di Cicerone, e la sacra leggenda di Teodoreto, fra il carattere di Catone e quello di Simeone, si potrà determinare la memorabile rivoluzione che si fece nel Romano Impero nel periodo di cinquecento anni.
È notabile il progresso del Cristianesimo per due decisive e gloriose vittorie, sopra i culti e lussuriosi cittadini dell'Impero Romano, o sopra i guerrieri Barbari della Scizia e della Germania, che rovesciaron l'Impero, ed abbracciaron la religione di Roma. I Goti furono i primi fra questi selvaggi proseliti; e la nazione fu debitrice della sua conversione ad un nazionale, o almeno ad un suddito degno d'esser posto fra gl'inventori delle due arti utili, che hanno meritato la memoria, e la gratitudine della posterità. Molti Romani provinciali erano stati condotti in ischiavitù dalle truppe gotiche, le quali saccheggiavano l'Asia al tempo di Gallieno; e fra questi molti erano Cristiani, ed alcuni appartenevano all'ordine Ecclesiastico. Questi Missionari involontari, sparsi come schiavi nei villaggi della Dacia, si applicarono con buon esito a procurar la salvezza de' loro padroni. I semi, ch'essi gettarono della dottrina evangelica, appoco appoco si propagarono; ed avanti la fine d'un secolo si compì quell'opera pia, mediante i travagli d'Ulfila, i Maggiori del quale da una piccola città della Cappadocia erano stati trasportati di là dal Danubio.
A. 360
Ulfila, Vescovo ed Apostolo de' Goti[74], acquistò l'affetto, e la riverenza loro, mediante l'irreprensibil sua vita, e l'instancabile zelo che aveva; ed essi ricevettero con piena fiducia le regole della verità e della virtù, ch'ei predicava, ed eseguiva. Compì la difficile impresa di tradurre la Scrittura nella nativa lor lingua, ch'era un dialetto dell'idioma Germanico, o Teutonico; ma prudentemente soppresse i quattro libri de' Re, che avrebbero potuto irritare il fiero e sanguinario spirito de' Barbari. Il rozzo ed imperfetto linguaggio di soldati e di pastori, così male atto ad esprimere le idee spirituali, fu migliorato e modificato dal suo ingegno; ed Ulfila, prima di poter fare la sua traduzione, fu costretto a comporre un nuovo alfabeto di ventiquattro lettere, quattro delle quali furono da esso inventate per rappresentare de' suoni speciali, ch'erano ignoti alla pronunzia greca e latina[75]. Ma presto fu disturbato il prospero Stato della Chiesa Gotica dalla guerra e dall'interna discordia, ed i capitani restaron divisi fra loro per la religione, ugualmente che per l'interesse. Fritigerno, amico de' Romani, divenne proselito d'Ulfila; mentre il superbo animo di Atanarico sdegnò il giogo dell'Impero e dell'Evangelio. La persecuzione, ch'egli suscitò, servì per provare la fede de' nuovi convertiti. Si traeva con solenne processione per le strade del campo un carro, che portava in alto l'informe immagine, di Thor forse, o di Woden; ed i ribelli, che ricusavano di adorare il Dio de' loro padri, erano immediatamente abbruciati con le tende e famiglie loro. Il carattere d'Ulfila lo fece rispettare alla Corte Orientale, dove comparve due volte come ministro di pace; perorò esso in favore degli angustiati Goti, che imploravano la protezion di Valente, e si applicò il nome di Mosè a questa guida spirituale, che condusse il suo Popolo per le profonde acque del Danubio alla Terra di Promissione[76]. I devoti pastori, ch'erano attaccati alla sua persona, ed ubbidienti alla sua voce, si contentarono di stabilirsi al piè delle montagne Mesie in un paese abbondante di boschi e di pasture, che alimentava i loro greggi ed armenti, e gli poneva in istato di comprare il grano, ed il vino delle Province più fertili. Quest'innocenti Barbari si moltiplicarono nell'oscurità della pace, e nella professione del Cristianesimo[77].
A. 400
I loro più feroci fratelli, i formidabili Visigoti, generalmente adottarono la religione de' Romani, co' quali avevano continuamente occasion di trattare, per motivo di guerra, di amicizia o di conquista. Nella lunga e vittoriosa lor marcia dal Danubio all'Oceano Atlantico, essi convertirono i loro alleati; educarono la nascente generazione; e la devozione, che regnava nel campo d'Alarico, o alla Corte di Tolosa, poteva edificare, o svergognare i palazzi di Roma e di Costantinopoli[78]. Verso il medesimo tempo fu abbracciato il Cristianesimo da quasi tutti i Barbari, che fondarono i regni loro sulle rovine dell'Impero Occidentale: ciò fecero i Borgognoni nella Gallia, gli Svevi nella Spagna, i Vandali nell'Affrica, gli Ostrogoti nella Pannonia, e le varie truppe di mercenari, che innalzarono Odoacre al trono d'Italia. I Franchi ed i Sassoni perseveravano tuttavia negli errori del Paganesimo; ma i Franchi ottennero la monarchia della Gallia per la loro sommissione all'esempio di Clodoveo; ed i conquistatori Sassoni della Britannia furono liberati dalla selvaggia loro superstizione per mezzo de' Missionari di Roma. Questi barbari proseliti avevano un ardente ed utile zelo per la propagazione della fede. I Re Merovingici, ed i loro successori, Carlo Magno e gli Ottoni, estesero con le loro leggi, e vittorie l'impero della Croce. L'Inghilterra produsse l'Apostolo della Germania, ed appoco appoco si diffuse la luce evangelica dalle vicinanze del Reno, alle nazioni dell'Elba, della Vistola e del Baltico[79].
Non possono facilmente determinarsi i differenti motivi che influirono sulla ragione o sulle passioni dei Barbari convertiti. Questi furono spesse volte capricciosi o accidentali; come un sogno, un augurio, il racconto d'un miracolo, l'esempio di qualche sacerdote o eroe, le grazie d'una donna fedele, e sopra tutto il buon successo d'una preghiera, o d'un voto, che in un momento di pericolo avessero indirizzato al Dio de' Cristiani[80]. Gli antichi pregiudizi dell'educazione venivano insensibilmente cancellati dall'abitudine d'una frequente e famigliar società; i precetti morali dell'Evangelio erano invigoriti dallo stravaganti virtù dei Monaci; ed una spiritual teologia era sostenuta dalla forza visibile delle reliquie, e dalla pompa del Culto religioso. Ma potè alle volte impiegarsi da' Missionari, che s'occupavano in convertir gl'infedeli, la maniera di persuadere ingegnosa e ragionevole, che un Vescovo Sassone[81] suggerì ad un Santo popolare. «Ametti, dice il sagace Istruttore, tuttociò, che loro piace d'asserire intorno alla favolosa e carnale genealogia de' loro Dei o Dee, che si sono propagati l'uno dall'altro. Da questo principio deduci l'imperfetta loro natura, le umane infermità, la certezza ch'essi son nati, e la probabilità, che son per morire. In qual tempo, con quali mezzi, da qual principio furon prodotti i più antichi fra gli Dei, o fra le Dee? Continuano essi a propagarsi, o hanno cessato? Se hanno cessato domanda a tuoi avversari la causa di tale strana mutazione. Se tuttavia continuano, il numero degli Dei dovrà crescere all'infinito: e non porremo noi a rischio, mediante l'indiscreto culto di qualche impotente divinità, d'eccitare lo sdegno dei geloso di lei superiore? I cieli e la terra, che ci son visibili, tutto il sistema dell'Universo, che si può concepire coll'animo, è egli creato, o eterno? Se creato, come, o dove potevano gli Dei medesimi esistere prima della creazione? Se eterno, come potevano essi prender l'impero d'un Mondo indipendente, e preesistente? Insisti su questi argomenti con sobrietà e moderazione; insinua loro in opportune occasioni la verità e la bellezza della rivelazione Cristiana, e procura di far vergognare gl'Infedeli senza irritarli». Questo metafisico ragionamento, forse troppo sottile per i Barbari della Germania veniva fortificato dal peso più grossolano dell'autorità e del consenso popolare. Il vantaggio della prosperità temporale avea abbandonato il partito pagano, ed era passato a favorire il Cristianesimo. I Romani stessi, la più potente ed illuminata nazione del globo, avevano rinunziato all'antica loro superstizione; e se la rovina del loro Impero sembrava, che accusasse l'efficacia della nuova fede, se n'era già riparato l'onore dalla conversione de' vittoriosi Goti. I valorosi e fortunati Barbari, che soggiogarono le Province dell'Occidente, riceverono, e diedero successivamente l'istesso edificante esempio. Prima del secolo di Carlo Magno, le nazioni Cristiane d'Europa si potevano applaudire per l'esclusivo possesso di climi temperati, di terreni fertili, che producevano grano, vino ed olio; mentre gl'idolatri selvaggi, ed i loro miserabili idoli erano confinati all'estremità della terra, nelle oscure e gelate regioni del Norte[82].
Il Cristianesimo, che apri a' Barbari le porte del Cielo, introdusse un gran cangiamento nella morale e politica lor condizione. Riceverono essi nell'istesso tempo l'uso delle lettere, così essenziale per una religione, le cui dottrine si contengono in un libro sacro; e mentre studiavano la divina verità, i loro spiriti appoco appoco si estesero nella distante veduta dell'istoria, della natura, delle arti e della società. La traduzione della Scrittura nella nativa lor lingua, che aveva facilitato la lor conversione, doveva eccitare nel loro Clero la curiosità di leggere il testo originale, d'intendere la sacra liturgìa della Chiesa, e di esaminare negli scritti de' Padri la catena della tradizione ecclesiastica. Questi vantaggi spirituali si trovavano nelle lingue greca e latina, che contenevano gl'inestimabili Monumenti dell'antico sapere. Le immortali produzioni di Virgilio, di Cicerone e di Livio, che potevan gustarsi da' Barbari cristiani mantennero un tacito commercio fra il regno d'Augusto, ed i tempi di Clodoveo e di Carlo Magno. L'emulazione degli uomini fu incorraggita dalla rimembranza d'uno stato più perfetto; e si tenne segretamente viva la fiamma della scienza per riscaldare ed illuminare l'età matura del Mondo occidentale. Nel più corrotto stato del Cristianesimo, i Barbari potevano apprender la giustizia dalla Legge, e la misericordia dall' Evangelio: e se la cognizione del loro dovere non era sufficiente a guidare le azioni o a regolar le passioni di essi, erano alle volte ritenuti dalla coscienza, e spesso puniti dal rimorso. Ma l'autorità diretta dalla religione era meno efficace della santa comunione, che gli univa co' Cristiani lor confratelli in amicizia spirituale. La forza di tali sentimenti contribuì ad assicurare la lor fedeltà nel servizio, o nell'alleanza dei Romani, ad alleggerire gli orrori della guerra, a moderar l'insolenza della conquista, ed a conservare nella caduta dell'Impero un costante rispetto pel nome, e per gl'istituti di Roma. Nel tempo del Paganesimo, i Sacerdoti della Gallia e della Germania regnavano sul Popolo, e sindacavano la giurisdizione de' Magistrati; e gli zelanti proseliti trasferirono un'uguale, o maggior dose di devota obbedienza ne' Pontefici della Fede cristiana. Si sostenne il sacro carattere de' Vescovi dalle temporali loro sostanze; essi ottennero un riguardevole posto nelle adunanze legislative, composte di soldati e di uomini liberi; ed era loro interesse, non meno che dovere, l'ammolire con pacifici consigli lo spirito fiero de' Barbari. La corrispondenza continua del Clero latino; i frequenti pellegrinaggi a Roma e in Gerusalemme, e l'autorità crescente dei Papi assodaron l'unione della Repubblica cristiana; ed a grado a grado produssero quegli uniformi costumi, e quella comune Giurisprudenza, che hanno distinto le indipendenti, ed anche ostili nazioni dell'Europa moderna dal resto dell'uman genere.
Ma fu impedito e ritardato l'effetto di tali cause dal disgraziato accidente, che versò un mortal veleno dalla coppa della salute. Di qualunque sorta si fossero gli antichi sentimenti d'Ulfila, si formarono le sue relazioni coll'Impero e con la Chiesa nel tempo che regnava l'Arrianismo. L'Apostolo de' Goti sottoscrisse il simbolo di Rimini, professò liberamente, e forse con sincerità, che il Figlio non era uguale, o consustanziale al Padre[83]; comunicò questi errori al Clero ed al Popolo; ed infettò i Barbari con un'eresia[84] che il Gran Teodosio condannò ed estinse fra' Romani. L'indole, e l'intelligenza de' nuovi proseliti non era capace di metafisiche sottigliezze; ma essi vigorosamente conservarono ciò, che piamente avevano ricevuto, come pure e genuine regole del Cristianesimo. Il vantaggio di predicare, e di spiegar la Scrittura in lingua teutonica, promosse le apostoliche fatiche d'Ulfila e de' suoi successori; ed essi ordinarono un competente numero di Vescovi e di Preti, per istruire le cognate tribù. Gli Ostrogoti, i Borgognoni, gli Svevi ed i Vandali, che avevano ascoltata l'eloquenza del Clero latino[85], preferirono le lezioni più intelligibili de' domestici loro predicatori; e fu adottato l'Arrianismo come la fede nazionale de' convertiti guerrieri, che si stabilirono sulle rovine dell'Impero occidentale. Questa irreconciliabile differenza di religione fu una perpetua sorgente di gelosia e d'odio; e la taccia di Barbaro fu sempre più amareggiata dal più odioso epiteto d' eretico. Gli Eroi del Norte, che si erano sottoposti con qualche ripugnanza a credere, che tutti i loro maggiori fossero all'inferno[86], restaron sorpresi, ed inaspriti al sentire, ch'essi medesimi non avevan fatto, che mutare la maniera dell'eterna lor dannazione. Invece del dolce applauso, che i Principi Cristiani sono avvezzi ad attendere da' loro fedeli Prelati, i Vescovi ortodossi, ed il loro Clero erano in opposizione con le Corti Arriane; e l'indiscreta lor opposizione spesso diveniva rea, e poteva talvolta esser pericolosa[87]. Il pulpito, quel sicuro e sacro istrumento di sedizione, risuonava de' nomi di Faraone, e d'Oloferne[88]; la mal contentezza pubblica era infiammata dalla speranza, o dalla promessa d'una gloriosa liberazione; ed i sediziosi Santi eran tentati a promuovere il compimento delle proprie lor predizioni. Nonostanti queste provocazioni, i Cattolici della Gallia, della Spagna, e dell'Italia goderono sotto il regno degli Arriani, l'esercizio libero e pacifico della lor religione. I superbi loro Signori rispettaron lo zelo d'un numeroso Popolo, risoluto di morire a piè de' propri altari, e fu ammirato ed imitato de' Barbari stessi l'esempio della devota loro costanza. I conquistatori, per altro, evitarono la vergognosa taccia o confessione di timore con attribuire la lor tolleranza a' generosi motivi di ragionevolezza e d'umanità; e mentre affettavano il linguaggio del Cristianesimo, ne acquistarono senza avvedersene il vero spirito.
La pace della Chiesa fu talvolta interrotta. I Cattolici erano indiscreti, ed i Barbari impazienti; e gli atti parziali di severità, o d'ingiustizia, che venivano raccomandati dal Clero Arriano, furono esagerati dagli scrittori ortodossi. Può darsi l'accusa di persecutore ad Enrico, Re de' Visigoti, che sospese l'esercizio delle funzioni ecclesiastiche, o almeno Episcopali, e punì i Vescovi popolari dell'Aquitania con la carcere, coll'esilio, e con la confiscazione[89]. Ma da' soli Vandali s'intraprese la crudele ed assurda opera di sottometter le menti d'un intero Popolo. Genserico medesimo nella sua prima gioventù avea abbandonato la comunione ortodossa; e l'apostata non poteva nè concedere, nè sperare un sincero perdono. Era egli esacerbato nel vedere, che gli Affricani, i quali eran fuggiti dalle sue armi nel campo, tuttavia pretendevano d'opporsi alla sua volontà ne' Sinodi, e nelle Chiese; ed il feroce suo animo era incapace di timore, o di compassione. I Cattolici suoi sudditi furon oppressi da intolleranti leggi, e da pene arbitrarie. Il linguaggio di Genserico era furioso e formidabile; la cognizione de' suoi disegni poteva giustificare la più svantaggiosa interpretazione delle sue azioni; e furono rimproverate agli Arriani le frequenti esecuzioni, che macchiarono il palazzo, e gli Stati del tiranno. Le armi e l'ambizione però erano le passioni dominanti del Monarca del mare. Ma Unnerico, ignobil suo figlio, che parve ereditasse solo i suoi vizi, tormentò i Cattolici coll'istesso instancabil furore, che fu fatale al suo fratello, a' suoi nipoti, agli amici e favoriti di suo padre, e fino al Patriarca Arriano, che fu crudelmente bruciato vivo nel mezzo di Cartagine. La guerra religiosa fu preceduta, e preparata da una insidiosa tregua; la persecuzione divenne il più serio ed importante affare nella Corte Vandala, e la disgustosa malattia, che accelerò la morte di Unnerico, vendicò le ingiurie, senza contribuire alla liberazione della Chiesa. Il trono dell'Affrica fu successivamente occupato da' due nipoti d'Unnerico, da Gundamondo, che regnò circa dodici anni, e da Trasimondo, che governò la nazione più di ventisette anni. La loro amministrazione fu ostile, ed oppressiva pel partito ortodosso. Sembra che Gundamondo emulasse, o anche oltrapassasse la crudeltà del suo zio; e se finalmente l'addolcì, se richiamò i Vescovi, e restituì la libertà del Culto Atanasiano, un'immatura morte impedì i vantaggi della sua tarda clemenza. Trasimondo, suo fratello, fu il più grande, ed il più culto de' Re Vandali, quali ei sorpassò in beltà, prudenza e grandezza d'animo. Ma l'intollerante suo zelo, e la sua ingannevol clemenza degradò questo magnanimo carattere. In vece di minacce e di torture, adoperò il gentile, ma efficace potere della seduzione. Le ricchezze, le dignità, ed il real favore erano i grandiosi premj dell'apostasia; i Cattolici, che avevan trasgredito le leggi, potevan procacciarsi il perdono con rinunziare alla loro fede; e quando Trasimondo meditava qualche rigoroso disegno, pazientemente aspettava, che l'indiscretezza de' suoi avversari gli somministrasse una speciosa opportunità. Il bigottismo fu l'ultimo suo sentimento nell'ora della morte: e costrinse il suo successore a giurare solennemente, che non avrebbe mai tollerato i settari d'Atanasio. Ma il suo successore Ilderico, gentil figlio del selvaggio Unnerico, preferì i doveri dell'umanità, e della giustizia alla vana obbligazione d'un empio giuramento; ed il suo innalzamento al trono fu gloriosamente segnalato dalla restaurazion della pace, e della libertà universale. Il trono di quel virtuoso, quantunque debol Monarca, fu usurpato dal suo cugino Gelimero, zelante Arriano: ma il regno Vandalo, prima ch'ei potesse godere, o abusare della sua potenza, fu rovesciato dalle armi di Belisario; ed il partito ortodosso vendicò le ingiurie, che aveva sofferte[90].
Le appassionate declamazioni de' Cattolici, che sono i soli istorici che abbiamo di questa persecuzione, non possono somministrare alcuna serie distinta di cause e di eventi, nè alcuna imparzial cognizione di caratteri o di consigli; ma le più notabili circostanze, che meritan fede o notizia, possono riferirsi a' seguenti capi: I.º Nella legge originale, che tuttavia sussiste[91], Unnerico espressamente dichiara, e tal dichiarazione sembra corretta, ch'egli avea fedelmente trascritto i regolamenti e le pene degli editti Imperiali contro le congregazioni eretiche, e contro il Clero, ed il Popolo, che si scostava dalla religion dominante. Se si fossero intesi i diritti della coscienza, i Cattolici o dovevan condannare la passata loro condotta, o acquietarsi agli attuali loro patimenti. Ma essi continuavano sempre a ricusare quell'indulgenza, che richiedevano in lor favore. Nel tempo ch'essi tremavano sotto la sferza della persecuzione, commendarono la lodevole severità di Unnerico medesimo, che fece bruciare, o bandì un gran numero di Manichei[92]; e rigettarono con orrore, l'ignominiosa proposizione, che i discepoli d'Arrio e d'Atanasio godessero una reciproca ed ugual tolleranza ne' territori de' Romani, e de' Vandali[93]. II. L'uso d'una conferenza, che i Cattolici avevano tante volte praticato per insultare e punire gli ostinati loro antagonisti, si ritorse contro di loro stessi[94]. Per ordine d'Unnerico s'adunarono in Cartagine quattrocentosessantasei Vescovi ortodossi; ma quando furono ammessi nella sala dell'udienza, ebbero la mortificazione di vedere l'Arriano Cirila innalzato alla sede Patriarcale. I disputanti si separarono dopo i vicendevoli e soliti rimproveri di strepito e di silenzio, di dilazione e di precipitazione, di militar forza e di clamor popolare. Un Martire ed un Confessore furono scelti frai Vescovi cattolici; ventotto si salvarono con la fuga, ed ottantotto coll'uniformarsi; quarantasei furono mandati in Corsica a tagliare il legname pei vascelli reali; e trecentodue furono rilegati in diverse parti dell'Affrica, esposti agl'insulti de' loro nemici, e rigorosamente spogliati d'ogni temporale e spiritual sollievo della vita[95]. I travagli di dieci anni d'esilio dovettero diminuire il loro numero; e se avessero osservata la legge di Trasimondo, che proibiva loro qualunque consacrazione Episcopale, la Chiesa ortodossa d'Affrica avrebbe dovuto finire con la vita degli attuali suoi membri. Essi però non obbedirono; e la loro disubbidienza fu punita con un secondo esilio di dugentoventi Vescovi nella Sardegna, dove languirono quindici anni fino all'avvenimento al trono del grazioso Ilderico[96]. Furono giudiziosamente scelte quelle due isole dalla malizia degli Arriani loro tiranni. Seneca, per propria esperienza, ha deplorato ed esagerato il miserabile stato della Corsica[97], e l'abbondanza della Sardegna veniva contrabbilanciata dalla cattiva qualità dell'aria[98]. III. Lo zelo di Genserico, e de' suoi successori per la conversione de' Cattolici, gli dovè rendere sempre più gelosi a mantenere la purità della fede Vandalica. Prima che le Chiese fossero totalmente chiuse, era un delitto il comparire in abito di Barbaro; e quelli, che ardivano di trasgredire il reale comando, venivano duramente strascinati pe' lunghi loro capelli[99]. Gli Uffiziali del Palazzo, che ricusavano di professare la religione del loro Principe, erano ignominiosamente spogliati de' loro impieghi ed onori, banditi nella Sardegna e nella Sicilia, o condannati a' lavori servili degli schiavi e de' contadini nelle campagne d'Utica. Ne' distretti particolarmente assegnati a' Vandali, era più rigorosamente proibito l'esercizio del Culto Cattolico, ed erano stabilite severe pene contro la colpa sì del Missionario, che del proselito. Con tali mezzi si conservò la fede de' Barbari, e se ne accese lo zelo; essi eseguivano con devoto furore l'uffizio di spie, di accusatori, o di esecutori: e quando la loro cavalleria trovavasi in campagna, il divertimento favorito della marcia era quello di profanare le Chiese, e di insultare il Clero del partito contrario[100]. IV. I cittadini, ch'erano stati educati nel lusso d'una Provincia Romana, venivano abbandonati con isquisita crudeltà a' Mori del deserto. Una venerabile serie di Vescovi, di Preti, e di Diaconi, con una fedele truppa di quattromila e novantasei persone, delle quali non si sa bene la colpa, furono tratte per ordine d'Unnerico dalle native lor case. Nella notte venivan chiusi, come una mandra di pecore, fra le proprie loro immondizie: di giorno dovevan proseguire il loro cammino sull'ardente sabbia, e se mancavano per il caldo e la fatica, venivano stimolati o strascinati a forza, finattantochè non fossero spirati nelle mani de' loro tormentatori[101]. Quest'infelici esuli, giunti alle capanne de' Mori, potevano eccitare la compassione d'un Popolo, la naturale umanità del quale non era nè migliorata dalla ragione, nè corrotta dal fanatismo: ma se riusciva loro di scampare i pericoli, erano condannati a partecipare delle angustie d'una vita selvaggia. V. Conviene, che gli autori della persecuzione preventivamente riflettano, se son determinati a sostenerla fino all'ultimo estremo. Essi eccitano la fiamma, che vorrebbero estinguere; e ben presto diventa una necessità il punire la contumacia, ugualmente che il delitto del trasgressore. La multa, ch'egli non può, o non vuol pagare, l'espone alla severità della Legge; ed il suo disprezzo delle pene minori suggerisce l'uso e la convenienza delle capitali. Attraverso il velo della finzione e della declamazione, possiamo chiaramente ravvisare, che i Cattolici, specialmente sotto il regno d'Unnerico, soffrirono il più ignominioso e crudel trattamento[102]. De' rispettabili Cittadini, delle nobili Matrone, e delle sacre Vergini erano spogliate nude, ed alzate in aria con un peso attaccato a' loro piedi. In tal penosa situazione venivano lacerati i lor corpi con verghe, o bruciati nelle più tenere parti con ferri infuocati. Gli Arriani amputavano loro gli orecchi, il naso, la lingua e la mano destra; e quantunque non possa precisamente determinarsene il numero, è certo, che molte persone, fra le quali si posson contare un Vescovo[103] ed un Proconsole[104], ricevettero la corona del martirio. Si è attribuito l'istesso onore alla memoria del Conte Sebastiano, che professava la Fede Nicena con intrepida costanza; e Genserico poteva detestar com'eretico quel bravo ed ambizioso profugo, ch'esso temeva come rivale[105] VI. I ministri Arriani adopravano una nuova maniera di convertire, che poteva soggiogare i deboli, e porre in agitazione i timidi. Usavano per violenza, o per frode, i riti del Battesimo sopra i Cattolici, e ne punivano l'apostasia, qualora questi rigettavano quell'odiosa e profana cerimonia, che scandalosamente violava la libertà della volontà, e l'unità del sacramento[106]. Le contrarie Sette avevano già convenuto della validità del Battesimo l'una dell'altra; e l'innovazione, con tanto ardore sostenuta da' Vandali, non può attribuirsi, che all'esempio, ed al consiglio de' Donatisti. VII. Il Clero Arriano sorpassava nella religiosa crudeltà il Re ed i suoi Vandali; ma era incapace di coltivar la vigna spirituale, che bramava di possedere. Poteva un patriarca[107] collocarsi sulla sede di Cartagine; potevano de' Vescovi usurpare nelle Città principali i posti dei loro avversari; ma la scarsità del loro numero, e l'ignoranza, in cui erano della lingua Latina[108], rendeva i Barbari inabili per l'Ecclesiastico ministero d'una gran Chiesa: e gli Affricani, dopo aver perduto i loro pastori ortodossi, restaron privi del pubblico esercizio del Cristianesimo. VIII. Gl'Imperatori erano i naturali protettori della dottrina Omousiana: ed il Popolo fedele dell'Affrica, e come Romano e come Cattolico, preferiva la legittima loro sovranità all'usurpazione degli eretici Barbari. In un intervallo di pace e di amicizia, Unnerico restituì la Cattedrale di Cartagine ad intercessione di Zenone, che regnava in Oriente, di Placidia, figlia e vedova d'Imperatori, e sorella della Regina de' Vandali[109]. Ma questo decente riguardo fu di breve durata; ed il superbo Tiranno mostrò il disprezzo, che aveva per la religione dell'Impero, facendo a bella posta disporre le sanguinose immagini della persecuzione in tutte le strade principali, per le quali doveva passare il Romano Ambasciatore nel portarsi al palazzo[110]. Si richiese da' Vescovi, ch'erano adunati in Cartagine, un giuramento, ch'essi avrebbero sostenuto la successione d'Ilderico suo figlio, e che avrebbero rinunziato a qualunque straniera o trasmarina corrispondenza. I più sagaci membri[111] dell'Assemblea ricusarono d'obbligarsi a questo vincolo, che sembrava compatibile co' loro morali e religiosi doveri. La loro negativa, debolmente colorita dal pretesto, che ad un Cristiano non era permesso il giurare, dovea provocare i sospetti d'un geloso tiranno.
I Cattolici, oppressi dalla forza reale e militare, eran molto superiori a' loro avversari in numero, ed in sapere. Con le stesse armi, che i Padri greci[112] e latini avevan già preparate per la controversia Arriana, essi più volte ridussero al silenzio, e vinsero i feroci ed ignoranti successori d'Ulfila. La coscienza della propria loro superiorità avrebbe dovuto porli al di sopra degli artifizi, e delle passioni del guerreggiamento religioso. Pure invece d'assumere tal onorevole orgoglio, i teologi ortodossi furon tentati, dalla sicurezza dell'impunità a comporre finzioni, che convien notare con gli epiteti di frodi e di falsità. Essi attribuirono le loro opere polemiche a' nomi più venerabili dell'antichità Cristiana; furono temerariamente mascherati da Vigilio e da' suoi discepoli[113] i caratteri d'Atanasio e d'Agostino; ed il famoso Credo, ch'espone sì chiaramente i misteri della Trinità e dell'Incarnazione, si deduce con molta probabilità da questa scuola Affricana[114]. Fino le stesse Scritture furono profanate dalle temerarie e sacrileghe loro mani. Il memorabile Testo, che asserisce l'unità de' Tre, che fanno testimonianza in Cielo[115], è condannato dall'universal silenzio de' Padri ortodossi, delle antiche versioni, e de' Manuscritti autentici[116]. Fu esso allegato per la prima volta da' Vescovi cattolici, che Unnerico invitò alla conferenza di Cartagine[117]. Una allegorica interpretazione in forma probabilmente di nota marginale, invase il testo delle Bibbie Latine, che si rinnuovarono, e corressero nell'oscuro periodo di dieci secoli[118]. Dopo l'invenzione della stampa[119], gli editori del Testamento Greco cederono a' propri lor pregiudizi, o a quelli de' loro tempi[120]; e la pia frode, che fu con uguale zelo abbracciata a Roma ed a Ginevra, si è moltiplicata all'infinito in ogni paese ed in ogni lingua della moderna Europa.
L'esempio della frode eccita facilmente il sospetto; e gli speciosi miracoli, co' quali i Cattolici Affricani hanno difeso la verità e la giustizia della lor causa, possono attribuirsi con più ragione alla lor propria industria, che alla visibil protezione del Cielo. Pure l'Istorico, che osserva questo religioso contrasto con occhio imparziale, può condiscendere a far menzione d'un fatto preternaturale, ch'edificherà il devoto, e sorprenderà l'incredulo. Tipasa[121], colonia marittima della Mauritania distante sedici miglia all'Oriente da Cesarea, si era distinta in ogni tempo per l'ortodosso zelo de' suoi abitanti. Essi avean superato il furore de' Donatisti[122], e sofferta, o elusa la tirannia degli Arriani. All'avvicinarsi ad essa d'un Vescovo eretico, la città fu abbandonata: i più degli abitanti, che poterono aver delle navi, passarono sulla costa di Spagna; e quegl'infelici, che restarono, ricusando ogni comunione coll'usurpatore, ardirono di tener tuttavia le pie loro, ma illegittime adunanze. La loro disubbidienza inasprì la crudeltà d'Unnerico. Fu spedito da Cartagine un Conte militare a Tipasa; ei convocò i Cattolici nel Foro, ed alla presenza di tutta la Provincia fece tagliar loro la destra mano e la lingua. Ma i Santi confessori continuarono a parlare senza lingua; e si attesta questo miracolo da Vittore, Vescovo Affricano, che pubblicò un'istoria della persecuzione dentro lo spazio di due anni dopo quel fatto[123]. «Se alcuno (dice Vittore) dubitasse della verità di questo, vada a Costantinopoli, ed ascolti la chiara e perfetta favella di Restituto suddiacono, uno di que' gloriosi martiri, che adesso sta nel palazzo dell'Imperator Zenone, ed è rispettato dalla devota Imperatrice». Ci fa maraviglia il trovare in Costantinopoli un freddo e dotto testimone superiore ad ogni eccezione, senza interesse, e senza passione. Enea di Gaza, Filosofo Platonico ha descritto accuratamente le proprie sue osservazioni su questi pazienti Affricani. «Gli vidi io medesimo (dice), gli udii parlare: diligentemente cercai per quali mezzi poteva formarsi una voce così articolata senza verun organo del discorso: adoprai gli occhi per esaminare ciò, che m'indicavan gli orecchi: aprii loro la bocca, e vidi, ch'era stata loro interamente strappata la lingua dalle radici, operazione, che i Medici generalmente risguardano come mortale[124] ». Potrebbe confermarsi la testimonianza d'Enea di Gaza con la superflua autorità dell'Imperator Giustiniano in un Editto perpetuo; del Conte Marcellino nella sua Cronica de' tempi; e del Pontefice Gregorio I, che aveva riseduto in Costantinopoli come ministro del Pontefice Romano[125]. Tutti questi vissero dentro il corso d'un secolo; o tutti adducono la lor personal cognizione del fatto, o la pubblica notorietà della verità d'un miracolo, che si ripetè in varie occasioni, si espose nel più gran teatro del Mondo, e fu sottoposto per una serie di anni al tranquillo esame dei sensi. Questo dono soprannaturale de' Confessori Affricani, che parlavano senza lingua, otterrà l'assenso di quelli soltanto, che già credono, che il loro linguaggio fosse puro ed ortodosso. Ma l'ostinata mente d'un infedele si munisce d'un segreto incurabil sospetto; e l'Arriano o il Sociniano, che ha seriamente rigettato la dottrina della Trinità, non sarà scosso dalla più plausibile prova d'un miracolo Atanasiano.
A. 500-700
I Vandali e gli Ostrogoti perseverarono nella professione dell'Arrianismo fino alla total rovina de' Regni, ch'essi avevan fondato nell'Affrica ed in Italia; i Barbari della Gallia si sottomisero all'ortodosso impero de' Franchi; e la Spagna si restituì alla Chiesa Cattolica per la volontaria conversione de' Visigoti.
577-584
Questa salutare rivoluzione[126] fu accelerata dall'esempio d'un Regio martire, a cui la nostra più fredda ragione può dare il nome d'ingrato ribelle. Leovigildo, Gotico Monarca di Spagna, meritava il rispetto de' suoi nemici, e l'amor de' suoi sudditi: i Cattolici godevano una libera tolleranza, e gli Arriani ne' suoi sinodi tentavano, senza gran successo, di conciliare i loro scrupoli con abolire l'odioso rito d'un secondo Battesimo. Ermenegildo, suo figlio maggiore, ch'era stato investito dal Padre del diadema reale, e del bel Principato della Betica, contrasse un onorevole ed ortodosso matrimonio con una Principessa Merovingica, figlia di Sigeberto Re d'Austrasia, e della famosa Brunechilde. La bella Ingunde, che non aveva più di tredici anni, fu ricevuta, amata, e perseguitata nella corte Arriana di Toledo; e la sua religiosa costanza fu alternativamente assalita dagli allettamenti, e dalla violenza di Goisvinta, Regina de' Goti, che abusò del doppio diritto d'autorità materna, che aveva[127]. Goisvinta, irritata dalla sua resistenza, prese la Principessa cattolica pei capelli, la gettò crudelmente per terra, le diede tanti calci, che fu ricoperta di sangue, e finalmente ordinò che fosse spogliata, e gettata in una vasca, o conserva di pesci[128]. Poterono l'amore e l'onore muover Ermenegildo a risentirsi di questo ingiurioso trattamento fatto alla sua sposa; ed appoco appoco si persuase, che Ingunde soffrisse per causa della divina verità. Le tenere di lei querele, ed i forti argomenti di Leandro, Arcivescovo di Siviglia, compirono la conversione di esso, e fu iniziato l'erede della Monarchia Gotica nella Fede Nicena per mezzo de' solenni riti della Confermazione[129]. Il temerario giovine, infiammato dallo zelo, e forse dall'ambizione, fu tentato a violare i doveri di figlio, e di suddito; ed i Cattolici di Spagna, quantunque, non potessero dolersi della persecuzione, applaudirono alla sua pia ribellione contro un padre eretico. Si prolungò la guerra civile pei lunghi ed ostinati assedj di Merida, di Cordova e di Siviglia, che avevano fortemente abbracciato il partito d'Ermenegildo. Esso invitò i Barbari ortodossi, gli Svevi ed i Franchi, alla distruzione del suo nativo paese; implorò il pericoloso aiuto de' Romani, che possedevano l'Affrica, ed una parte della costa di Spagna; e l'Arcivescovo Leandro, suo santo Ambasciatore, trattò in persona efficacemente con la Corte Bizantina. Ma svanirono le speranze dei Cattolici per l'attiva diligenza d'un Re, che comandava le truppe, e maneggiava i tesori della Spagna; ed il colpevole Ermenegildo dopo i vani suoi tentativi di resistere o di fuggire, fu costretto ad arrendersi nelle mani d'un irritato padre. Leovigildo ebbe tuttavia presente quel sacro carattere; ed al ribelle, spogliato degli ornamenti reali, si lasciò professare in un decente esilio la religione cattolica. I replicati suoi ed infelici tradimenti al fine provocarono lo sdegno del Re Goto; e la sentenza di morte, che questo pronunziò con apparente ripugnanza fu segretamente eseguita nella torre di Siviglia. L'inflessibil costanza, con cui esso ricusò d'accettare la comunione Arriana per prezzo della sua salvezza, può scusare gli onori, che si son fatti alla memoria di S. Ermenegildo. La sua moglie, ed il suo piccolo figlio si ritennero in una ignominiosa schiavitù da' Romani: e questa domestica disgrazia macchiò le glorie di Leovigildo, ed amareggiò gli ultimi momenti della sua vita.
A. 586-589
Recaredo, suo figlio e successore, che fu il primo Re cattolico di Spagna, era stato imbevuto della fede del suo infelice fratello, ch'ei però sostenne con maggior prudenza e successo. In vece di ribellarsi contro il padre, aspettò pazientemente l'ora della sua morte. In vece di condannarne la memoria, piamente suppose, che il Monarca morendo avesse abiurato gli errori dell'Arrianismo, e raccomandato al figlio la conversione della nazione Gotica. Per ottenere questo fine salutare, convocò Recaredo un'assemblea del Clero o de' nobili Arriani, si dichiarò Cattolico, e gli esortò ad imitar l'esempio del loro Principe. Una laboriosa interpretazione di testi dubbiosi, o una curiosa serie di argomenti metafisici avrebb'eccitata una controversia senza fine; ed il Monarca prudentemente propose all'ignorante sua udienza due sostanziali e visibili prove, cioè la testimonianza della terra, e del cielo. La Terra s'era sottomessa al Sinodo Niceno: i Romani, i Barbari e gli abitanti della Spagna concordemente professavano la stessa fede ortodossa; ed i Visigoti erano quasi soli a resistere al consenso del Mondo cristiano. Un secolo superstizioso era disposto a venerare come testimonianza del Cielo le cure soprannaturali, che si facevano por l'abilità o virtù del clero cattolico: i fonti Battesimali d'Osset nella Betica[130], che spontaneamente ogni anno si riempivano d'acqua la vigilia di Pasqua[131]; e le miracolose reliquie di S. Martino di Tours, che avevano già convertito il Principe Svevo, ed i Popoli della Gallicia[132]. Il Re cattolico incontrò alcune difficoltà su quest'importante cangiamento della religion nazionale. Si formò contro di lui una cospirazione, segretamente fomentata dalla Regina vedova; e due Conti suscitarono una pericolosa ribellione nella Gallia Narbonese. Ma Recaredo disarmò i congiurati, disfece i ribelli, ed esercitò contro di essi una severa giustizia, che gli Arriani poterono a vicenda infamare con la taccia di persecuzione. Otto Vescovi, i nomi dei quali dimostrano la lor origine Barbara, abiurarono i loro errori, e si ridussero in cenere tutti i libri della Teologia Arriana, insieme con la casa nella quale a tal fine si erano raccolti. Tutto il Corpo de' Visigoti, e degli Svevi fu allettato o tratto nel seno della comunione cattolica; la fede almeno della nuova generazione fu sincera e fervente; e la devota liberalità de' Barbari arricchì le Chiese ed i Monasteri della Spagna. Settanta Vescovi, adunati nel Concilio di Toledo, ricevettero la sommissione de' loro conquistatori; e lo zelo degli Spagnuoli migliorò il simbolo Niceno, dichiarando la processione dello Spirito Santo dal Figlio ugualmente che dal Padre; importante articolo di dottrina, che produsse, lungo tempo dopo, lo scisma delle Chiese Greca e Latina[133]. Il Regio proselito immediatamente salutò e consultò il Pontefice Gregario, detto il Grande, dotto e santo Prelato, il governo del quale si distinse per la conversione degli Eretici ed Infedeli. Gli ambasciatori di Recaredo rispettosamente offerirono sulla soglia del Vaticano i ricchi di lui presenti d'oro e di gemme; ed accettarono, come un lucroso cambio, i capelli di S. Giovanni Battista, una croce, in cui era chiuso un piccolo pezzo del vero legno, ed una chiave che conteneva alcune particelle di ferro, ch'erano state raschiate dalle catene di S. Pietro[134].
A. 600
L'istesso Gregorio, spirituale conquistatore della Gran Brettagna, incoraggiò la pia Teodolinda, Regina de' Lombardi, a propagare la fede Nicena fra' vittoriosi selvaggi, il fresco Cristianesimo de' quali era macchiato dall'eresia Arriana. I devoti di lei travagli, lasciarono tuttavia luogo all'industria, ed al successo di altri Missionari; e molte città d'Italia sempre si disputavano da' Vescovi contrari. Ma la causa dell'Arrianismo restò appoco appoco oppressa dal peso della verità, dell'interesse e dell'esempio, e la controversia, che l'Egitto avea tratto dalla scuola Platonica, si terminò dopo una guerra di trecent'anni dalla total conversione de' Lombardi d'Italia[135].
A. 612-712
I primi Missionari, che predicarono il Vangelo ai Barbari, si rimessero all'evidenza della ragione, ed implorarono il benefizio della tolleranza[136]. Ma appena ebbero stabilito il loro spiritual dominio, esortarono i Re Cristiani ad estirpare senza misericordia i residui della Romana o Barbarica superstizione. I successori di Clodoveo condannarono a cento colpi di verghe la gente di campagna, che ricusava di distruggere i propri idoli; il delitto di sacrificare a' demoni era punito dalle Leggi Anglo-sassone con le più gravi pene della carcere e della confiscazione; e fino il saggio Alfredo adottò, come un indispensabil dovere, l'estremo rigore degli istituti Mosaici[137]. Ma la pena si abolì appoco appoco, insieme col delitto, nel Popolo cristiano: le dispute teologiche delle scuole si sospesero dalla favorevole ignoranza; e lo spirito intollerante, che non poteva più trovare nè idolatri nè eretici, si ridusse a perseguitare gli Ebrei. Quest'esule nazione aveva fondato alcune Sinagoghe nelle città della Gallia; ma la Spagna, fin dal tempo d'Adriano, era piena di numerose colonie[138]. Le ricchezze, che avevano accumulato per mezzo del commercio o del maneggio delle finanze, invitarono la pietosa avarizia de' loro Signori; ed essi potevan'opprimersi senza pericolo, giacchè avevan perduto l'uso, e fino le memoria delle armi. Sisebuto, Re Goto, che regnò al principio del settimo secolo, divenne in un tratto agli ultimi estremi della persecuzione[139]. Furon costretti a ricevere il sacramento del battesimo novantamila Ebrei; si confiscarono i beni degli ostinati infedeli, e ne furon tormentati i corpi; e sembra dubbioso, se fosse loro permesso d'abbandonare il nativo loro paese. L'eccessivo zelo del Re cattolico fu moderato fino dal Clero di Spagna, che solennemente pronunziò una sentenza contraddittoria, cioè che non dovessero darsi i sacramenti per forza; ma che gli Ebrei, ch'erano stati battezzati, fossero costretti, per onor della Chiesa, a perseverare nell'esterna pratica d'una religione, ch'essi non credevano, e detestavano. Le frequenti loro ricadute provocarono uno de' successori di Sisebuto a bandire tutta la nazione da' suoi Stati; ed un concilio di Toledo pubblicò un decreto, che ogni Re Goto dovesse giurare di mantenere questo salutevol editto. Ma i tiranni non volevano abbandonar le vittime, che si dilettavano di tormentare, o privarsi d'industriosi schiavi, su' quali potevano esercitare una lucrosa oppressione. Gli Ebrei tuttavia continuarono nella Spagna, sotto il peso delle Leggi civili ed ecclesiastiche, le quali nel medesimo regno si sono fedelmente trascritte nel Codice dell'Inquisizione. I Re Goti, ed i Vescovi finalmente conobbero, che le ingiurie producono dell'odio, e che l'odio trova col tempo l'occasione della vendetta. Una nazione, segreta o palese nemica del Cristianesimo, andò sempre moltiplicandosi nella servitù e nell'angustia; e gl'intrighi degli Ebrei promossero il rapido successo degli Arabi conquistatori[140].
Tostochè i Barbari negarono il potente lor patrocinio all'eresia d'Arrio aborrita dal Popolo, essa cadde nel disprezzo e nell'oblivione. Ma i Greci ritennero sempre la lor disposizione sottile e loquace: lo stabilimento d'una oscura dottrina suggeriva nuove questioni, e nuove dispute; ed era sempre in facoltà di un ambizioso Prelato, o d'un fanatico Monaco l'alterare la pace della Chiesa, e forse dell'Impero. L'Istorico dell'Impero può trascurare quelle dispute che restarono nell'oscurità delle scuole, e de' Sinodi. I Manichei, che cercavano di conciliare le religioni di Cristo e di Zoroastro, si erano segretamente introdotti nelle Province. Ma questi estranei settari furon involti nella comune disgrazia degli Gnostici, e l'odio pubblico fece eseguir contro di essi le leggi Imperiali. Le opinioni ragionevoli de' Pelagiani si propagarono dalla Gran Brettagna a Roma, in Affrica, e nella Palestina e tacitamente svanirono in un secolo superstizioso. Ma fu diviso l'Oriente dalle controversie Nestoriana ed Eutichiana, che tentavano di spiegare il mistero dell'Incarnazione, ed affrettarono la rovina del Cristianesimo nella nativa sua terra. Queste controversie si principiarono ad agitare sotto il regno di Teodosio il Giovane: ma le importanti loro conseguenze si estendono molto al di là de' confini del presente volume. La metafisica serie degli argomenti, le contese dell'ambizione ecclesiastica, e la politica loro influenza sulla caduta dell'Impero Bizantino, possono somministrare un interessante ed istruttivo corso d'istoria, dai Concilj generali d'Efeso e di Calcedonia, sino alla conquista dell'Oriente fatta da' successori di Maometto.
CAPITOLO XXXVIII.
Regno e conversione di Clodoveo. Sue vittorie sopra gli Alemanni, i Borgognoni ed i Visigoti. Stabilimento della Monarchia francese nella Gallia. Leggi de' Barbari. Stato de' Romani. Visigoti della Spagna. Conquista della Gran Brettagna fatta da' Sassoni.
I Galli[141], che soffrivano impazientemente il giogo Romano ebbero una memorabil lezione da uno de' Luogotenenti di Vespasiano, il grave sentimento del quale si è raffinato ed espresso dal genio di Tacito[142]. «La protezione della Repubblica ha liberato la Gallia dall'interna discordia, e dalle straniere invasioni. Con la perdita dell'indipendenza nazionale avete acquistato il nome ed i privilegi di Cittadini Romani. Voi godete in comune con noi medesimi i costanti vantaggi del governo civile, e la remota vostra situazione è meno esposta a' danni accidentali della tirannide. Invece d'esercitare i diritti della conquista, ci siamo contentati d'imporvi que' tributi che son necessari per la propria vostra conservazione. Non si può assicurar la pace senza le armi, queste debbono sostenersi a spese del Popolo. È per vantaggio vostro, non per causa nostra, che noi guardiamo la frontiera del Reno contro i feroci Germani, che hanno sì spesso tentato, e brameranno sempre di cangiare la solitudine de' loro boschi e paludi con la ricchezza e fertilità della Gallia. La caduta di Roma sarebbe fatale per le Province; e voi restereste sepolti nelle rovine di quella gran fabbrica, che si è innalzata dal valore e dalla saviezza d'ottocento anni. L'immaginaria vostra libertà sarebbe insultata ed oppressa da un selvaggio Signore; ed all'espulsione de' Romani succederebbero le ostilità eterne de' Barbari conquistatori[143].» Fu accettato questo salutevol avviso, e tale strana predizione ebbe il suo compimento. Nello spazio di quattrocento anni, i fieri Galli, che avevano affrontato le armi di Cesare, si confusero, senz'avvedersene, nella massa generale de' cittadini ed de' sudditi: l'Impero Occidentale si sciolse, ed i Germani, che avevano passato il Reno, ardentemente combatterono per il possesso della Gallia, ed eccitarono il disprezzo o l'aborrimento de' pacifici e culti di lei abitatori. Con quell'intimo orgoglio, che la superiorità delle cognizioni e del lusso comunemente suole inspirare, deridevano essi i chiomati e giganteschi selvaggi del Nord; i rozzi loro costumi, l'incoerente letizia, il vorace appetito e l'orrida figura loro, ugualmente disgustosa per la vista, che per l'odorato. Si coltivavano tuttavia nelle scuole d'Autun e di Bordeaux gli studi liberali; ed il linguaggio di Cicerone e di Virgilio era famigliare alla Gallica Gioventù. Restaron sorprese le lor orecchie da' duri ed incogniti suoni del dialetto germanico, ed ingegnosamente si dolsero, che le muse tremanti fuggivano l'armonia della Lira burgundica. I Galli eran dotati di tutti i vantaggi della natura e dell'arte; ma siccome loro mancava il coraggio per difendersi, furono giustamente condannati ad ubbidire, ed anche adulare i vittoriosi Barbari, dalla clemenza de' quali essi riconoscevano le precarie sostanze e le vite loro[144].
A. 476-485
Appena Odoacre ebbe estinto l'Impero Occidentale, cercò l'amicizia de' più potenti fra' Barbari. Il nuovo Sovrano dell'Italia cedè ad Enrico, Re de' Visigoti, tutte le conquiste Romane di là dalle Alpi fino al Reno ed all'Oceano[145]: ed il Senato potè confermare questo liberal dono con qualche ostentazione di potere, senza veruna real perdita di entrate, o di dominio; le legittime pretensioni d'Enrico erano giustificate dall'ambizione, e dal successo; e la Nazione gotica poteva, sotto il suo comando, aspirare alla Monarchia della Spagna e della Gallia. Arles e Marsiglia si arresero alle sue armi, egli oppresse la libertà dell'Alvergna; ed il Vescovo d'essa condiscese a comprare il proprio richiamo dall'esilio con un tributo di giusta ma involontaria lode. Sidonio stava alle porte del palazzo in mezzo ad una folla di ambasciatori e di supplichevoli; ed i vari loro negozi alla Corte di Bordeaux dimostravano la potenza e la fama del Re de' Visigoti. Gli Eruli del distante Oceano, che tingevano i nudi lor corpi con cerulei colori, ne implorarono la protezione; ed i Sassoni rispettarono le marittime Province d'un Principe, privo di forze navali. Gli alti Borgognoni si sottoposero alla sua autorità; nè restituì gli schiavi Franchi, finattantochè non ebbe ridotto quella fiera nazione a termini d'una pace disuguale. I Vandali dell'Affrica coltivavano la sua vantaggiosa amicizia; e gli Ostrogoti della Pannonia erano sostenuti dal potente suo aiuto contro l'oppressione dei vicini Unni. Il Nord (tali sono le superbe espressioni del Poeta) era agitato e posto in calma dal cenno di Enrico; il gran Re della Persia consultò l'oracolo dell'Occidente; ed il vecchio Dio del Tevere fu protetto dal crescente Genio della Garonna[146]. La fortuna delle nazioni spesso dipende dagli accidenti, e la Francia può attribuire la sua grandezza all'immatura morte del Re Goto, in un tempo in cui Alarico, suo figlio, era un'innocente fanciullo, e Clodoveo[147], suo nemico, un ambizioso e prode garzone.
A. 481-511
Mentre Childerico, padre di Clodoveo, si trovava in esilio in Germania, fu trattato amichevolmente dalla Regina, ugualmente che dal Re dei Turingi. Dopo il suo ritorno, Basina fuggì dal letto del marito nelle braccia dell'amante; liberamente dichiarando, che se avesse conosciuto un uomo più savio, più forte e più bello di Childerico, questo sarebbe stato l'oggetto della sua preferenza[148]. Clodoveo fu la prole di questa volontaria unione; e non avea più di quindici anni, quando successe, per la morte di suo padre, al comando della Tribù Salica. Gli angusti confini del suo Regno[149] si limitavano all'isola de' Batavi, con le antiche diocesi di Tournay e d'Arras[150]; ed al tempo del battesimo di Clodoveo il numero de' suoi guerrieri non sorpassava i cinquemila. Le ardenti tribù dei Franchi, che si erano stabilite lungo i Belgici fiumi della Schelda, della Mosa, della Mosella e del Reno, erano governati da' loro indipendenti Re della stirpe Merovingica, uguali, alleati e talvolta nemici del Principe Salico. Ma i Germani che obbedivano, in tempo di pace, all'ereditaria giurisdizione de' loro Capi, eran liberi di seguitare in guerra la bandiera d'un popolare e vittorioso Generale; ed il merito superiore di Clodoveo si attirò il rispetto e l'omaggio della nazionale confederazione. Quando si pose in campo la prima volta, non aveva nel suo erario nè oro nè argento, nè vino nè grano ne' suoi magazzini[151]; ma esso imitò l'esempio di Cesare, che nell'istesso luogo aveva acquistato delle ricchezze con la spada, e comprato dei soldati co' frutti della conquista. Dopo ciascheduna vantaggiosa battaglia e spedizione, le spoglie s'accumulavano in una massa comune; ogni guerriero ne aveva la sua parte, e la dignità reale si sottometteva agli uguali regolamenti della legge militare. L'indomito spirito de' Barbari s'indusse a riconoscere i vantaggi della regolar disciplina[152]. Nell'annua rivista del mese di Marzo diligentemente s'esaminavano le loro armi; e quando attraversavano un territorio amico, era loro proibito di toccare un filo d'erba. La giustizia di Clodoveo era inesorabile, ed i suoi trascurati o disubbidienti soldati eran puniti immediatamente di morte. Sarebbe superfluo il lodare il valore d'un Franco: ma quello di Clodoveo era diretto dalla fredda e consumata prudenza[153]. In tutti i suoi trattati con gli altri, calcolava il peso dell'interesse, della passione e dell'opinione, e le sue misure alle volte si adattavano a' sanguinari costumi de' Germani ed alle volte venivano moderate dal genio più dolce di Roma e del Cristianesimo. Fu interrotto nel corso della vittoria, poichè morì nell'età di quarantacinque anni; ma egli aveva già stabilita, in un Regno di trent'anni, la Monarchia francese nella Gallia.
A. 486
La prima impresa di Clodoveo fu la disfatta di Siagrio, figlio d'Egidio, ed in quest'occasione si accese forse la contesa pubblica dal privato risentimento. La gloria del padre insultava sempre la stirpe Merovingica; e la potenza del figlio potè eccitare la gelosa ambizione del Re de' Franchi. Siagrio ereditò, come uno Stato patrimoniale, la città, e la diocesi di Soissons: i desolati residui della seconda Belgica, Reims e Troia, Beauvais ed Amiens si sarebbero naturalmente sottomessi al Conte o Patrizio[154]; e dopo lo smembramento dell'Impero Occidentale, egli avrebbe potuto regnare col titolo, o almeno coll'autorità di Re de' Romani[155]. Come Romano, era stato educato negli studi liberali della Rettorica e della Giurisprudenza; ma per accidente e per politica si trovò impegnato nell'uso famigliare dell'idioma germanico. Gl'indipendenti Barbari ricorrevano al tribunale d'uno straniero, che aveva il singolar talento di spiegare, nella nativa lor lingua, i dettami della ragione e dell'equità. La diligenza e l'affabilità del loro giudice lo renderono popolare, l'imparziale saviezza de' suoi decreti ottenne la lor volontaria ubbidienza, ed il regno di Siagrio su' Franchi e Borgognoni pareva, che facesse risorgere la primitiva istituzione della società civile[156]. In mezzo a queste pacifiche occupazioni, Siagrio ricevè ed arditamente accettò l'ostile disfida di Clodoveo che invitò il suo rivale, secondo lo spirito, e quasi nel linguaggio cavalleresco, a stabilirne il giorno ed il campo[157] di battaglia. Al tempo di Cesare, Soissons avrebbe dato un corpo di cinquantamila cavalli; e tal esercito sarebbe stato abbondantemente fornito di scudi, di corazze e di macchine militari, da tre arsenali o manifatture della città[158]. Ma s'era da gran tempo esaurito il coraggio ed il numero della gallica Gioventù; e le vaganti truppe di volontari o mercenari, che marciavano sotto le bandiere di Siagrio, erano incapaci di contendere col nazional valore dei Franchi. Non sarebbe giusto senza qualche più esatta cognizione della forza e de' mezzi di Siagrio, il condannarne la rapida fuga, mentre dopo la perdita di una battaglia fuggì alla distante Corte di Tolosa. La debole minorità d'Alarico non voleva assistere, o difendere un infelice fuggitivo. I pusillanimi[159] Goti furono intimoriti dalle minacce di Clodoveo; ed il Romano Re dopo un breve confino fu abbandonato nelle mani del carnefice. Le città belgiche s'arresero al Re de' Franchi; ed i suoi Stati s'ingrandirono verso l'Oriente dall'ampia Diocesi di Tongres[160], che Clodoveo conquistò nel decimo anno del suo Regno.
A. 469
Si è tratto assurdamente il nome di Alemanni dall'immaginario loro stabilimento sulle rive del lago Leman[161]. Quel felice distretto, dal lago ad Avenche, ed al monte Giura, fu occupato da' Borgognoni[162]. In fatti le parti settentrionali dell'Elvezia erano state soggiogate da' feroci Alemanni, che distrussero con le proprie lor mani i frutti della loro conquista. Una Provincia coltivata ed ornata dalle arti di Roma, fu di nuovo ridotta ad un selvaggio deserto; e possono tuttavia scuoprirsi alcuni vestigi della magnifica Vindonissa nella fertile e popolata Valle dell'Aar[163]. Dalla sorgente del Reno fino alla sua unione col Meno e con la Mosella i formidabili sciami degli Alemanni dominavano ambe le parti del fiume per diritto d'antico possesso, o di recente vittoria. Si erano sparsi nella Gallia, sulle moderne Province dell'Alsazia e della Lorena; e l'ardita loro invasione del regno di Colonia richiamò il Principe Salico alla difesa dei Ripuarj suoi alleati. Clodoveo incontrò gl'invasori della Gallia nella pianura di Tolbiac alla distanza di circa ventiquattro miglia da Colonia; e le due più fiere nazioni della Germania erano vicendevolmente animate dalla memoria delle azioni passate, e dal prospetto della futura grandezza. I Franchi, dopo un ostinato combattimento cederono; e gli Alemanni, alzando grida di vittoria, impetuosamente incalzarono la lor ritirata. Ma si rimesse la battaglia per il valore, per la condotta, e forse per la pietà di Clodoveo; e l'evento di quella sanguinosa giornata decise per sempre l'alternativa dell'Impero, o della servitù. L'ultimo Re degli Alemanni restò ucciso nel campo, ed i suoi furono ammazzati ed inseguiti, finattantochè non gettarono a terra le armi, e si diedero a discrezione del vincitore. Senza disciplina militare era per loro impossibile di riunirsi; essi avevano con disprezzo demolito le mura, e le fortificazioni che avrebbero potuto difenderli nell'avversità; e furono seguitati nel cuore delle loro foreste da un nemico non meno attivo ed intrepido di essi. Il gran Teodorico si congratulò della vittoria con Clodoveo, di cui aveva il Re d'Italia ultimamente sposato la sorella Albofleda; ma dolcemente s'interpose appresso il cognato in favore de' supplicanti e de' fuggitivi, che avevano implorato la sua protezione. I territorj Gallici, ch'erano posseduti dagli Alemanni, divennero preda del loro vincitore; e quella superba nazione, invincibile o ribelle alle armi di Roma, riconobbe la sovranità de' Re Merovingici, che graziosamente permisero loro di usare i propri particolari costumi ed istituti, sotto il governo di Duchi temporari, ed in progresso ereditari. Dopo la conquista delle Province occidentali, i soli Franchi mantennero le loro antiche abitazioni di là dal Reno. Essi appoco appoco sottomisero e ridussero a civiltà quegli esausti paesi, sino all'Elba ed alle montagne della Boemia; e fu assicurata la pace d'Europa dall'ubbidienza della Germania[164].
A. 496
Fino all'età di trent'anni, Clodoveo continuò a venerare gli Dei de' suoi maggiori[165]. La sua incredulità, o piuttosto non curanza del Cristianesimo poteva incoraggirlo forse a predare con minor rimorso le chiese d'un paese nemico: ma i suoi sudditi della Gallia godevano l'esercizio libero del Culto religioso; ed i Vescovi mettevano speranza maggiore in un idolatra, che negli eretici. Il Principe Merovingico aveva contratto fortunatamente matrimonio con la bella Clotilde, nipote del Re di Borgogna, che in mezzo ad una Corte Arriana era stata educata nella professione della Fede Cattolica. Era interesse non meno che dovere di lei il compire la conversione[166] d'un marito Pagano, e Clodoveo, senz'accorgersene, diede orecchio alla voce dell'amore e della Religione. Egli acconsentì (ed era forse preventivamente stato convenuto di ciò) al battesimo del suo maggior figlio, e quantunque la repentina morte del fanciullo eccitasse qualche superstizioso timore, fu persuaso per la seconda volta a ripetere quel pericoloso esperimento. Nelle angustie della battaglia di Tolbiac, Clodoveo altamente invocò il Dio di Clotilde e de' Cristiani; e la vittoria lo dispose ad ascoltare con rispettosa gratitudine l'eloquente[167] Remigio[168] Vescovo di Reims, che dimostrò con forza i temporali e spirituali vantaggi della sua conversione. Il Re si dichiarò persuaso della verità della Fede Cattolica; e le ragioni politiche, le quali avrebbero potuto farne sospendere la pubblica professione, furon tolte di mezzo dalle devote o fedeli acclamazioni de' Franchi, che si dimostrarono ugualmente disposti a seguire l'eroico lor capitano, sì al campo di battaglia, che al fonte battesimale. Quest'importante ceremonia fu eseguita nella Cattedrale di Reims con ogni circostanza e solennità che poteva imprimere un rispettoso sentimento di religione nelle menti de' suoi rozzi proseliti[169]. Il nuovo Costantino fu immediatamente battezzato, insieme con tremila guerrieri, suoi sudditi: e fu imitato l'esempio loro dal resto de' Barbari ingentiliti, i quali in obbedienza al vittorioso Prelato, adoraron la Croce, ch'essi avevano già bruciato, e bruciarono gli idoli, che avevano adorato[170]. Lo spirito di Clodoveo era suscettibile d'un passaggero fervore: ei fu commosso dal patetico racconto della passione, e della morte di Cristo; ed invece di ponderare i salutari effetti di quel misterioso sacrifizio, esclamò con indiscreto furore; «Se io vi fossi stato presente alla testa de' miei valorosi Franchi, avrei vendicato le sue ingiurie»[171]. Ma il selvaggio conquistator della Gallia era incapace d'esaminare le prove d'una religione, che dipendono da una laboriosa investigazione d'istorica autorità, e di speculativa teologia. Molto più egli era incapace di sentire la dolce influenza del Vangelo, che persuade e purifica il cuore d'un vero convertito. L'ambizioso suo regno presenta una perpetua violazione de' doveri morali e cristiani; le sue mani furon macchiate di sangue, sì in pace, che in guerra, ed appena ebbe Clodoveo licenziato un sinodo della Chiesa Gallicana, che tranquillamente assassinò tutti i Principi della stirpe Merovingica[172]. Pure poteva il Re de' Franchi adorare sinceramente il Dio dei Cristiani, come un Essere più eccellente e potente delle nazionali sue divinità; e la segnalata liberazione e vittoria di Tolbiac incoraggirono Clodoveo a confidar nella futura protezione del Signor degli eserciti. Martino, il più popolare de' Santi, aveva ripieno il Mondo occidentale della fama di que' miracoli, che si facevan continuamente al santo di lui sepolcro di Tours. Il suo visibile o invisibile aiuto favorì la causa d'un Principe liberale ed ortodosso; e non bisogna interpretar la profana osservazione di Clodoveo medesimo, che S. Martino era un dispendioso amico[173], come un sintomo d'alcun permanente o ragionato scetticismo. Ma la terra non meno che il cielo si rallegrò della conversione de' Franchi. Nel memorabile giorno, in cui Clodoveo uscì dal fonte battesimale, egli solo nel Mondo cristiano meritò il nome e le prerogative di Re Cattolico. L'Imperatore Anastasio ammetteva de' pericolosi errori intorno alla natura dell'incarnazione divina; ed i Barbari dell'Italia, dell'Affrica, della Spagna e della Gallia erano involti nell'eresia Arriana. Il maggiore, o piuttosto l'unico figlio, della Chiesa fu riconosciuto dal Clero per suo legittimo sovrano, o glorioso liberatore; e le armi di Clodoveo furono valorosamente sostenute dal zelo e dal fervore della fazione cattolica[174].
A. 497
Sotto l'Impero Romano la ricchezza e la giurisdizione dei Vescovi, il sacro carattere e perpetuo ufizio loro, i numerosi dipendenti, la popolar eloquenza e le assemblee provinciali di essi gli avevano sempre resi rispettabili, ed alle volte pericolosi. L'autorità loro aumentossi col progresso della superstizione, e lo stabilimento della Monarchia francese può in qualche modo attribuirsi alla stabile alleanza d'un centinaio di Prelati, che dominavano nelle malcontente, o indipendenti città della Gallia. I deboli fondamenti della Repubblica Armorica si erano più volte scossi, o abbattuti; ma l'istesso Popolo manteneva sempre la domestica sua libertà; sosteneva la dignità del nome Romano; e valorosamente resisteva alle predatorie scorrerie, ed a' regolari attacchi di Clodoveo, che cercava d'estender le sue conquiste dalla Senna alla Loira. La felice lor opposizione introdusse un'uguale ed onorevole società fra loro. I Franchi stimavano il valore degli Armorici[175], e questi si erano riconciliati per mezzo della religione co' Franchi. La forza militare destinata a difender la Gallia, consisteva in cento diverse truppe di cavalleria, o d'infanteria; e queste nel tempo, che prendevano il titolo ed i privilegi di soldati Romani, erano rinnuovate da un continuo supplimento di Barbara gioventù. Si difendevano tuttavia dal disperato lor coraggio le ultime fortificazioni, e gli sparsi frammenti dell'Impero. Ma n'era impedita la ritirata, ed impraticabile la comunicazione: essi erano abbandonati da' Principi Greci di Costantinopoli, e piamente rigettavano qualunque connessione con gli Arriani usurpatori della Gallia. Accettaron però, senza vergogna o ripugnanza, la generosa capitolazione, che fu proposta loro da un eroe cattolico; e questa legittima e spuria progenie di legioni Romane fu distinta ne' successivi tempi con le proprie armi, insegne, vesti ed istituti particolari. Ma per mezzo di questi valevoli e volontari aumenti s'accrebbe la forza nazionale: ed i Regni vicini temettero il numero ugualmente che il coraggio de' Franchi. La riduzione delle Province settentrionali della Gallia, invece che si decidesse dall'evento d'una sola battaglia, sembra, che fosse lentamente effettuata dalle successive operazioni della guerra, e del trattato; e Clodoveo acquistò tutto quello che formava l'oggetto della sua ambizione, per mezzo di tali sforzi, o di tali concessioni, che potevano combinarsi col suo real valore. Il selvaggio carattere di esso, e le virtù d'Enrico IV suggeriscono le idee più contrarie fra loro della natura umana: pure si può trovare qualche somiglianza nella situazione di due Principi, che conquistaron la Francia per mezzo del loro valore, della lor politica e del merito d'una opportuna conversione[176].
A. 499
Il Regno de' Borgognoni, che aveva per confini i due fiumi Gallici la Saona ed il Rodano, s'estendeva dalla foresta de' Vosgi fino alle Alpi, ad al Mare di Marsiglia[177]. Lo scettro di esso era in mano di Gundobaldo. Questo valoroso ed ambizioso Principe aveva ristretto il numero de' canditati Reali mediante la morte di due fratelli, uno de' quali era padre di Clotilde[178], ma la sua imperfetta prudenza permise a Godegesilo, suo minor fratello, di possedere il dipendente Principato di Ginevra. L'Arriano Monarca fu giustamente sbigottito dalla soddisfazione e dalle speranze, che pareva animassero il suo Clero, ed il suo Popolo, dopo la conversione di Clodoveo; e Gondubaldo convocò a Lione un'assemblea de' suoi Vescovi per conciliare, se era possibile, i religiosi e politici dissapori. Si fece invano una conferenza fra le due fazioni. Gli Arriani rinfacciarono a' Cattolici il culto di tre Dei; i Cattolici difesero la loro causa per mezzo di teologiche distinzioni; e si dibatterono con ostinato clamore i soliti argomenti, le obbiezioni e le repliche, finattantochè il Re manifestò le sue segrete apprensioni con una improvvisa, ma decisiva questione, che fece a Vescovi Ortodossi: «Se voi professate veramente la Religion cristiana, perchè non frenate il Re de' Franchi? Egli mi ha dichiarato la guerra, e forma alleanza co' miei nemici per distruggermi. Uno spirito sanguinario ed avido non è l'indizio d una conversione sincera: dimostri la sua fede per mezzo delle sue opere». Avito Vescovo di Vienna, che parlava in nome de suoi fratelli, rispose con la voce e col contegno d'un angelo: «Noi non sappiamo i motivi e le intenzioni del Re de' Franchi: ma la Scrittura c'insegna che spesso vengon rovesciati que' Regni che abbandonan la legge Divina; e che sorgeranno da ogni parte de' nemici contro di quelli che hanno fatto Dio lor nemico. Torna col tuo Popolo alla legge di Dio, ed esso darà pace e sicurezza a' tuoi Stati». Il Re di Borgogna, che non era disposto ad accettare la condizione, che i Cattolici risguardavano come essenziale al trattato, rimesse ad altro tempo, e licenziò l'adunanza ecclesiastica, dopo d'aver rimproverato a' suoi Vescovi, che Clodoveo, amico e proselito loro, aveva segretamente tentato la fedeltà del proprio di lui fratello[179].
A. 500
La fedeltà del fratello era stata già sedotta, e l'ubbidienza di Godegesilo, che si unì alle bandiere reali con le sue truppe di Ginevra, promosse più efficacemente il successo della cospirazione. Mentre i Franchi, ed i Borgognoni combattevano con ugual valore, l'opportuna sua diserzione decise l'evento della battaglia; e siccome Gundobaldo fu debolmente sostenuto da' mal affezionati Galli, cedè alle armi di Clodoveo, e si ritirò in fretta dal campo, che sembra essere stato fra Langres e Digione. Non s'affidò egli alle fortificazioni di Digione, che aveva una Fortezza quadrangolare circondata da due fiumi, e da una muraglia alta trenta piedi, e grossa quindici con quattro porte, e trentatre torri[180]: abbandonò a Clodoveo le importanti città di Lione e di Vienna; e seguitò a fuggire precipitosamente, finattantochè non giunsero in Avignone, alla distanza di dugentocinquanta miglia dal campo di battaglia. Un lungo assedio, ed una artificiosa negoziazione avvertirono il Re de' Franchi del pericolo, e della difficoltà dell'impresa. Esso impose dunque un tributo al Principe di Borgogna, lo costrinse a perdonare ed a premiare il tradimento del suo fratello, e se ne tornò superbo a' suoi Stati con le spoglie, e gli schiavi delle Province meridionali. Questo splendido trionfo ben tosto venne oscurato dalla notizia, che Gundobaldo aveva violato le recenti sue obbligazioni, e che l'infelice Godegesilo, ch'era restato a Vienna con una guarnigione di cinquemila Franchi[181], era stato assediato, sorpreso ed ucciso dall'inumano di lui fratello. Tale oltraggio avrebbe irritato la pazienza del più pacifico Sovrano; ma il conquistator della Gallia dissimulò l'ingiuria, rilasciò il tributo, ed accettò l'alleanza ed il servizio militare del Re di Borgogna. Clodoveo non aveva più que' vantaggi, che gli avevano assicurato il buon successo della precedente guerra, ed il suo rivale, ammaestrato dall'avversità, aveva trovato nuovi mezzi di risorgere nell'affezione del suo Popolo. I Galli Romani applaudirono alle imparziali e miti leggi di Gundobaldo, che gli aveva innalzati quasi all'istesso livello co' loro vincitori. I Vescovi si riconciliarono, lusingandosi non la speranza, ch'egli artificiosamente dava loro, della sua prossima conversione; e quantunque n'eludesse l'effetto fino all'ultimo momento della sua vita, la moderazione di esso assicurò la pace, e sospese la rovina del regno di Borgogna[182].
A. 532
Io sono impaziente di proseguire a narrar l'ultima rovina di quel Regno, che si compì sotto il Re Sigismondo figlio di Gundobaldo. Il cattolico Sigismondo acquistò gli onori di santo e di martire[183]; ma il santo Reale macchiò le proprie mani nel sangue dell'innocente suo figlio, ch'esso crudelmente sacrificò all'orgoglio ed allo sdegno d'una matrigna. Ei tosto scuoprì l'errore, e ne pianse l'irreparabile perdita. Mentre Sigismondo abbracciava il corpo dell'infelice giovane, ricevè questa severa ammonizione da uno de' suoi famigliari: «Non è la sua sorte, o Re, ma la tua, che merita pietà e lamento». I rimorsi d'una rea coscienza, per altro, furono mitigati da' liberali suoi doni al monastero d'Agauno o San Morizio nel Valese, ch'egli stesso aveva fondato in onore degl'immaginari martiri della legione Tebea[184]. Fu istituito dal pio Re un pieno coro di perpetua salmodia; egli assiduamente praticava l'austera devozione de' Monaci, e pregava umilmente il cielo, che gli desse in questo Mondo il castigo delle sue colpe. Fu esaudita la sua preghiera: vennero tosto i vendicatori; e le Province della Borgogna furono innondate da un'esercito di vittoriosi Franchi. Dopo l'evento d'una infelice battaglia, Sigismondo, che desiderava di prolungar la sua vita per prolungar la sua penitenza, si nascose nel deserto sotto l'abito di religioso, finattantochè fu scoperto e tradito da' suoi sudditi, che riunivano il favore de' loro Signori. Il prigioniero Monarca insieme con la sua moglie e due fanciulli, fu trasportato ad Orleans e sepolto vivo in un profondo pozzo per inumano comando de' figli di Clodoveo, la crudeltà de' quali può trarre qualche scusa dalle massime e dagli esempi del barbaro loro secolo. L'ambizione loro che gli stimolava a compir la conquista della Borgogna, era infiammata o coperta dalla filial pietà: e Clotilde, la cui santità non consisteva nel perdonar le ingiurie, gli spinse a vendicar la morte del proprio padre contro la famiglia del suo assassino. I Borgognoni ribelli, giacchè tentarono di romper le loro catene, ebbero tuttavia la permissione di servirsi delle lor leggi nazionali sotto l'obbligo d'un tributo e del militar servizio; ed i Principi Merovingici dominarono pacificamente sopra un regno, la gloria e grandezza del quale era stata prima rovesciata dalle armi di Clodoveo[185].
A. 507
La prima vittoria di Clodoveo aveva insultato l'onore de' Goti. Essi videro i rapidi suoi progressi con gelosia e con terrore; e la giovanil fama d'Alarico era oppressa dal genio più potente del suo rivale. Nacquero inevitabilmente delle dispute intorno a' confini de' contigui loro Stati; e dopo gl'indugi d'una infruttuosa negoziazione, si propose ed accettò un personal congresso de' due Re. Quest'abboccamento di Clodoveo e d'Alarico si fece in una piccola isola della Loira, vicina ad Amboise. Si abbracciarono essi, conversarono famigliarmente, mangiarono insieme, e si separarono con le più calde proteste di pace e d'amore fraterno. Ma l'apparente loro amicizia nascondeva un oscuro sospetto di perfidi ed ostili disegni; e le lor mutue querele sollecitarono, elusero ed impedirono una finale composizione. Clodoveo in un'assemblea di Principi e di guerrieri, tenuta a Parigi, ch'ei risguardava già come la sua sede, dichiarò il pretesto ed il motivo di una guerra Gotica. «Mi dispiace, disse, di vedere che gli Arriani tuttavia posseggano la più bella parte della Gallia. Marciamo contro di loro, coll'aiuto di Dio; e vinti gli eretici, possederemo, e ci divideremo le fertili loro Province[186].» I Franchi, eccitati dall'ereditario valore, e dal recente zelo, applaudirono al generoso disegno del loro Monarca; espressero la lor risoluzione di conquistare, o di morire, poichè la morte e la conquista sarebbero state ugualmente vantaggiose; e solennemente protestarono, che non si sarebber rasi la barba, finattantochè la vittoria non gli avesse assoluti da quell'inconveniente voto. L'impresa fu promossa dalle pubbliche, o private esortazioni di Clotilde. Rammentò essa al marito, con quanta efficacia le pie fondazioni avrebber reso propizia la divinità, ed i servitori di essa: ed il Cristiano eroe, scagliando la sua scure militare con abile e robusto braccio. «Là, disse, nel luogo, dove caderà la mia Francesca[187], edificherò una Chiesa in onore de' santi Apostoli». Questa ostentata pietà confermò e giustificò l'attaccamento de' Cattolici, co' quali aveva esso una segreta corrispondenza; e le devote lor brame appoco appoco divennero una formidabil cospirazione. Il Popolo d'Aquitania era eccitato dagl'indiscreti rimproveri de' tiranni Gotici, che giustamente l'accusavano di preferire il dominio de' Franchi; e Quinziano, Vescovo di Rodes[188], zelante loro aderente, predicava con più forza nel suo esilio, che nella sua Diocesi. Alarico, ad oggetto di resistere a questi nemici stranieri e domestici, ch'erano fortificati dall'alleanza dei Borgognoni, raccolse le sue truppe molto più numerose delle forze militari di Clodoveo. I Visigoti ripresero l'esercizio delle armi, ch'essi avevano trascurato in una lunga lussuriosa pace[189]; uno scelto corpo di valenti e robusti schiavi seguitarono i loro padroni nel campo[190]; e le città della Gallia furon costrette a somministrare il loro dubbioso e ripugnante aiuto. Teodorico, Re degli Ostrogoti, che regnava in Italia, aveva cercato di mantener la tranquillità della Gallia; ed assunse o affettò per tal motivo l'imparzial carattere di mediatore. Ma l'accorto Monarca temeva il nascente Impero di Clodoveo, e stabilmente impegnossi a sostenere la nazionale e religiosa causa de' Goti.
A. 507
Gli accidentali, o artificiali prodigi, che adornarono la spedizione di Clodoveo, furono accettati da un secolo superstizioso come una manifesta dichiarazione del favor divino. Ei partì da Parigi; e siccome passò con decente reverenza per tutta la sacra Diocesi di Tours, la sua ansietà lo tentò di consultare l'urna di S. Martino, ch'era il santuario e l'oracolo della Gallia. Fu ordinato a' suoi messaggi di notare le parole del salmo, che si fosser cantate in quel preciso momento, nel quale essi entravano in Chiesa. Quelle parole fortunatamente espressero il valore e la vittoria de' campioni del Cielo, e facilmente se ne fece l'applicazione al nuovo Giosuè, al nuovo Gedeone, che usciva a combattere contro i nemici del Signore[191]. Orleans assicurò a' Franchi un ponte sulla Loira; ma alla distanza di quaranta miglia da Poitiers, fu arrestato il progresso loro da uno straordinario gonfiamento del fiume Vigenna, o Vienna, mentre le opposte rive eran coperte dall'accampamento de' Visigoti. La dilazione dev'esser sempre pericolosa per i Barbari, che consumano il paese, per il quale marciano; e quand'anche avesse Clodoveo avuto comodo e materiali, sarebbe stato impossibile di costruire un ponte, o forzare il passaggio in faccia ad un superiore nemico. Ma gli affezionati contadini, ch'erano impazienti d'accogliere il loro liberatore, poteron facilmente mostrargli un passo incognito, o non guardato; s'innalzò il merito della scoperta dall'utile interposizione della frode, o della finzione; ed un bianco cervo di singolar grandezza e beltà, comparve a guidare e ad animare la marcia dell'armata cattolica. I consigli de' Visigoti furono irrisoluti e distratti. Una folla d'impazienti guerrieri, che presumevano assai della loro forza, e sdegnavano di fuggire avanti a' ladri della Germania, eccitò Alarico a sostenere colle armi il nome ed il sangue del conquistatore di Roma. Il consiglio dei Capitani più gravi lo stimolava ad eludere il primo ardore de' Franchi; e ad aspettare, nelle Province meridionali della Gallia, i veterani e vittoriosi Ostrogoti, che il Re d'Italia gli aveva già mandato in soccorso. Si consumarono in oziose deliberazioni i decisivi momenti; i Goti abbandonarono, forse con troppa fretta, un posto vantaggioso, e perderono l'opportunità d'una sicura ritirata per causa de' tardi e disordinati lor movimenti. Dopo che Clodoveo ebbe passato il guado, che tuttavia si chiama del cervo, si avanzò con arditi e veloci passi ad impedire la fuga del nemico. La notturna sua marcia fu diretta da una lucida meteora, sospesa nell'aria sopra la Cattedrale di Poitiers; e tal segnale, che poteva essersi precedentemente concertato col successore ortodosso di S. Ilario, fu paragonato alla colonna di fuoco, che guidò gl'Israeliti nel deserto. Alla terza ora del giorno, circa dieci miglia di là da Poitiers, Clodoveo sopraggiunse, ed immediatamente attaccò l'armata Gotica, la cui disfatta era già preparata dal terrore e dalla confusione. Pure nell'estremo loro pericolo si riunirono insieme: ed i bellicosi giovani, che avevano altamente richiesto di combattere, non vollero sopravvivere all'ignominia della fuga. I due Re s'incontrarono nella pugna: Alarico cadde per mano del suo rivale; ed il vittorioso Franco fu salvato per la buona tempra della sua corazza, e per il vigore del suo cavallo, dalle lance di due disperati Goti, che furiosamente corsero contro di lui per vendicare la morte del lor Sovrano. L'incerta espressione d'una montagna di uccisi serve per indicare una crudele quantunque indefinita strage; ma Gregorio ha diligentemente osservato, che Apollinare, figlio di Sidonio, suo valoroso nazionale, perdè la vita alla testa de' nobili dell'Alvergna. Forse questi sospetti Cattolici erano stati maliziosamente esposti al cieco assalto del nemico; e forse l'influenza della religione cedè all'attaccamento personale, od all'onor militare[192].
A. 507
Tal è l'Impero della fortuna (se pure tuttavia possiam cuoprire la nostra ignoranza con questo volgar vocabolo), che è quasi ugualmente difficile il prevedere gli eventi della guerra, che lo spiegarne le varie conseguenze. Una sanguinosa e compita vittoria non ha portato alle volte, che il puro possesso del campo; ed alle volte la perdita di diecimila uomini è stata capace, in un giorno, a distruggere l'opera di più secoli. La decisiva battaglia di Poitiers fu seguita dalla conquista dell'Aquitania. Alarico aveva lasciato dopo di se un figlio fanciullo, un bastardo suo competitore, da' Nobili faziosi, ed un Popolo disleale; e le restanti truppe de' Goti eran oppresse dalla generale costernazione, o rivolte le une contro le altre nelle civili discordie. Il vittorioso Re de' Franchi procedè senza dilazione all'assedio d'Angolemme. Al suono delle sue trombe, le mura della città imitaron l'esempio di quelle di Gerico, e ad un tratto caddero a terra: splendido miracolo, che può ridursi alla supposizione, che qualche clerical macchinista avesse segretamente scavato i fondamenti delle fortificazioni[193]. A Bordò, che si era sottomessa senza resistenza, Clodoveo stabilì i suoi quartieri d'inverno, e la prudente sua economia trasferì da Tolosa il tesoro reale, ch'era depositato nella Capitale della Monarchia. Il Conquistatore penetrò sino a' confini della Spagna[194]; risarcì l'onore della Chiesa Cattolica; piantò in Aquitania una colonia di Franchi[195]; e commesse a' suoi Luogotenenti la facile impresa di soggiogare, o d'estirpare la Nazione de' Visigoti. Ma questi erano protetti dal saggio e potente Monarca d'Italia. Finattantochè la bilancia durò ad essere uguale, Teodorico aveva forse a bella posta differito la marcia degli Ostrogoti; ma i loro valorosi sforzi resisterono in seguito con successo all'ambizione di Clodoveo; e l'esercito de' Franchi, e de' Borgognoni loro alleati, fu costretto a levare l'assedio d'Arles con la perdita, per quanto fu detto, di trentamila uomini. Queste vicende fecero inclinare il fiero spirito di Clodoveo ad acconsentire ad un vantaggioso trattato di pace. Fu rilasciato ai Visigoti il possesso della Settimania, piccolo tratto di costa marittima dal Rodano ai Pirenei; ma l'ampia Provincia dell'Aquitania, da quelle montagne fino alla Loira, fu indissolubilmente unita al regno di Francia[196].
A. 510
Dopo il successo della Guerra Gotica, Clodoveo accettò gli onori del Consolato Romano. L'Imperatore Anastasio ambì di dare al più potente rivale di Teodorico il titolo e le insegne di quell'eminente dignità; pure il nome di Clodoveo per qualche ignota causa non è stato inserito ne' Fasti nè dell'Oriente, nè dell'Occidente[197]. Nel giorno solenne, il Monarca della Gallia, col diadema sul capo, fu investito nella Chiesa di S. Martino, della tunica, e del manto di porpora. Di là si trasferì a cavallo alla Cattedrale di Tours; e passando per le strade spargeva profusamente con le proprie mani un donativo d'oro e d'argento alla lieta moltitudine, che non cessava di ripeter le sue acclamazioni di Console, e d' Augusto. L'autorità, che di fatto, o di diritto avea Clodoveo, non poteva ricevere alcun nuovo aumento dalla dignità consolare. Essa era un nome, un'ombra, una vana pompa; e se il conquistatore avesse voluto pretendere le antiche prerogative di quel sublime uffizio, sarebbero queste spirate dentro lo spazio dell'annua durata di esso. Ma i Romani eran disposti a venerare nella persona del loro Signore quell'antico titolo, che gl'Imperatori stessi condiscendevano a prendere: il Barbaro medesimo pareva, che contraesse una sacra obbligazione di rispettare la maestà della Repubblica; ed i successori di Teodosio, col cercarne l'amicizia, tacitamente dimenticavano, e quasi ratificavano l'usurpazione della Gallia.
A. 536
Venticinque anni dopo la morte di Clodoveo venne dichiarata finalmente quest'importante concessione in un trattato fra' suoi figli, e l'Imperador Giustiniano. Gli Ostrogoti d'Italia, incapaci a difendere i loro distanti acquisti, avevan ceduto a' Franchi la città d'Arles, tuttavia decorata della sede d'un Prefetto del Pretorio, e di Marsilia, arricchita da' vantaggi del commercio, e della navigazione[198]. Fu confermata questa cessione dall'autorità Imperiale; e Giustiniano, generosamente cedendo a' Franchi la sovranità de' paesi di là dalle Alpi, che già possedevano, assolvè i Provinciali dall'obbligo di fedeltà; e stabilì sopra un più legittimo, sebbene non più solido, fondamento il trono de Merovingi[199]. Da quel tempo in poi essi goderono il diritto di celebrare in Arles i giuochi Circensi: e per un singolar privilegio, ch'era negato fino al Monarca Persiano, la Moneta d'oro, coniata col nome, e l'immagine loro, ebbe un libero corso nell'Impero[200]. Un Istorico Greco di quel tempo ha lodato le private e pubbliche virtù de' Franchi con un parziale entusiasmo, che non si può sufficientemente giustificare coi loro annali domestici[201]. Ei celebra la gentilezza ed urbanità, il regolare governo, e l'ortodossa religione di essi; ed arditamente asserisce, che questi Barbari non si potevan distinguere da' sudditi di Roma, che per l'abito ed il linguaggio loro. Forse i Franchi spiegavano già quella socievol disposizione, e vivace grazia, che in ogni tempo ha mascherato i loro vizi, ed alle volte nascosto l'intrinseco loro merito. Forse Agatia ed i Greci, furono abbagliati dal rapido progresso delle loro armi, e dallo splendore del loro impero. Dopo la conquista della Borgogna, la Gallia, in tutta la sua estensione, a riserva della Gotica Provincia di Settimania, era soggetta a' figli di Clodoveo. Esse avevano estinto il regno Germanico della Turingia, ed il vago loro dominio penetrava di là dal Reno nel cuore delle native loro foreste. Gli Alemanni ed i Bavari, che avevan occupato le Romane Province della Rezia e del Norico, al mezzo giorno del Danubio, si riconoscevano umili vassalli de' Franchi; ed il debole ritegno delle Alpi, era incapace di resistere alla loro ambizione. Quando l'ultimo de' figli di Clodoveo, che sopravvisse agli altri, nella sua persona riunì l'eredità e le conquiste de' Merovingi, s'estendeva il suo regno molto al di là de' confini della moderna Francia. Pure questa, tal è stato il progresso delle arti e della politica, di gran lunga sorpassa in ricchezza, popolazione e potenza gli spaziosi, ma selvaggi reami di Clotario, o di Dagoberto[202].
I Franchi o Francesi son l'unico Popolo d'Europa, che possa dimostrare una continua successione dai conquistatori dell'Impero occidentale. Ma la loro conquista della Gallia fu seguita da dieci secoli d'anarchia e d'ignoranza. Quando risorsero le lettere, gli studiosi, che si eran formati nelle scuole di Atene e di Roma, sdegnarono i Barbari loro maggiori; e passò un lungo tratto di tempo avanti che la paziente fatica potesse preparare i materiali necessari, per soddisfare, o piuttosto eccitare, la curiosità de' tempi più illuminati[203]. Finalmente l'occhio della critica e della Filosofia si rivolse alle antichità di Francia; ma anche i Filosofi sono attaccati dal contagio del pregiudizio, e della passione. I sistemi più disperati, ed esclusivi della personal servitù de' Galli, o della volontaria loro ed uguale alleanza co' Franchi, si sono audacemente immaginati, ed ostinatamente difesi: e gl'intemperanti disputatori si sono vicendevolmente accusati di cospirare contro le prerogative della corona, contra la dignità de' Nobili, o la libertà del Popolo. Pure l'aspro conflitto ha esercitato ultimamente le armi nemiche dell'erudizione e dell'ingegno, ed ogni antagonista, ora vincitore ora vinto, ha estirpato qualche antico errore, e stabilito qualche verità interessante. Un imparziale straniero, istruito dalle scoperte, dalle dispute, ed anche dagli errori loro, può descrivere, con gli stessi autentici materiali, lo stato de' provinciali Romani, dopo che la Gallia fu sottomessa alle armi, ed alle Leggi de' Re Merovingici[204].
La più rozza e servil condizione della società umana è sempre diretta da regole fisse e generali. Quando Tacito osservò la primitiva semplicità de' Germani, scuoprì alcune massime costanti, o costumanze di vita pubblica e privata, che si conservarono da una fedel tradizione fino all'introduzione dell'arte di scrivere, e della lingua Latina[205]. Prima dell'elezione dei Re Merovingici, la più potente tribù, o nazione de' Franchi deputò quattro venerabili Capitani a comporre le leggi Saliche[206]; ed il loro lavoro fu esaminato, ed approvato in tre successive adunanze dal Popolo. Clodoveo dopo il suo Battesimo, ne riformò vari articoli, che sembravano incompatibili col Cristianesimo: il Gius Salico fu di nuovo emendato da' suoi figli; e finalmente sotto il Regno di Dagoberto fu rivisto e promulgato il Codice medesimo nell'attuale sua forma, cento anni dopo lo stabilimento della Monarchia Francese. Dentro l'istesso periodo di tempo, furon trascritti e pubblicati gli usi de' Ripuari; e Carlo Magno medesimo, legislatore del suo secolo, e del suo paese, aveva diligentemente studiate i due corpi di leggi nazionali, che tuttavia si osservavan da' Franchi[207]. La stessa cura si estese anche a' loro vassalli, e furon diligentemente compilati e ratificati dalla suprema autorità de' Re Merovingici i rozzi istituti degli Alemanni e de' Bavari. I Visigoti ed i Borgognoni, le conquiste de' quali nella Gallia precederono quelle de' Franchi, dimostrarono meno impazienza a procurarsi uno de' principali vantaggi della società incivilita. Enrico fu il primo de' Principi Goti, che pose in iscritto le usanze ed i costumi del suo Popolo; e la composizione delle Leggi Borgognone fu un effetto di politica, piuttosto che di giustizia, per sollevare il giogo e riguadagnar l'affezione de' Gallici loro sudditi[208]. Così, per una singolare combinazione, i Germani formarono le semplici loro istituzioni in un tempo, in cui si condusse all'ultima sua perfezione l'elaborato sistema della Giurisprudenza Romana. Possiamo confrontare nelle Leggi Saliche, e nelle Pandette di Giustiniano, i primi rudimenti e la piena maturità del sapore civile; e per quanto possiamo esser prevenuti in favore de' Barbari, le nostre più tranquille riflessioni attribuiranno a' Romani i superiori vantaggi, non solo della scienza e della ragione, ma anche dell'umanità e della giustizia. Pure le leggi de' Barbari erano adattate a' bisogni e desiderj, alle occupazioni ed alla capacità loro; e tutte contribuivano a conservar la pace, ed a promuovere i vantaggi della società, per uso della quale in principio erano state fatte. I Merovingi, in cambio d'imporre una regola uniforme di condotta a' diversi lor sudditi, permisero ad ogni Popolo, e ad ogni famiglia del loro Impero di usare liberamente le domestiche loro costituzioni[209]; nè i Romani furono esclusi da' comuni vantaggi di questa civil tolleranza[210]. I figli abbracciavan la legge de' loro padri, la moglie quella del marito, il liberto quella del padrone; ed in tutte le cause, nelle quali fossero di varia nazione le parti, l'attore o l'accusatore era tenuto a seguitare il foro del reo, che può sempre avere una giudicial presunzione di diritto o d'innocenza. Si concedeva una maggior libertà, se uno alla presenza del Giudice, dichiarava la legge, secondo la quale voleva vivere, e la nazional società, a cui desiderava d'appartenere. Tale indulgenza doveva abolire le parziali distinzioni della vittoria; ed i provinciali Romani potevano pazientemente soffrire gl'incomodi della lor condizione, giacché da loro stessi dipendeva di godere il privilegio di liberi e bellicosi Barbari[211], se ne volevano assumere il carattere.
Quando la giustizia esige inesorabilmente la morte dell'omicida, ogni privato cittadino viene confortato dalla sicurezza, che le Leggi, i Magistrati, e tutta la società vegliano alla personal sua salute. Ma nella disfrenata società de' Germani la vendetta fu sempre onorevole, e spesso meritoria: l'indipendente guerriero puniva, o vendicava con le proprie mani le ingiurie, ch'egli aveva fatte, o ricevute: e non dovea temere, che il risentimento de' figli, e de' congiunti del nemico, ch'egli aveva sacrificato alle proprie passioni. Il Magistrato, consapevole della sua debolezza, s'interponeva non per punire, ma per riconciliare; ed era ben soddisfatto se poteva persuadere, o costringere, le parti contendenti a pagare, o ad accettare la moderata tassa, ch'era stata fissata come prezzo del sangue[212]. Il feroce spirito de' Franchi si sarebbe opposto ad una più rigorosa sentenza; la stessa fierezza deprezzava quest'inefficaci ritegni; e quando i semplici loro costumi furon corrotti dalla ricchezza della Gallia, era continuamente violata la pubblica pace da atti di repentini, o deliberati delitti. In ogni giusto Governo, s'infligge o almeno s'impone la medesima pena per l'uccisione d'un Villano o d'un Principe. Ma la nazional disuguaglianza, stabilita da' Franchi ne' loro processi criminali, fu l'ultimo insulto, ed abuso della conquista[213]. Ne' tranquilli momenti della Legislazione, solennemente pronunziarono, che la vita d'un Romano fosse di minor valore di quella d'un Barbaro. L' Antrustione[214], vocabolo ch'esprimeva la più illustre nascita o dignità fra i Franchi, era valutato la somma di seicento monete d'oro, mentre il nobile Provinciale, ch'era ammesso alla tavola del Re, poteva esser ucciso legalmente con la spesa di trecento monete. Dugento si stimarono sufficienti per un Franco di condizione ordinaria; ma i Romani più bassi erano esposti al disonore, ed al pericolo, mediante una tenue compensazione di cento, o anche di cinquanta monete d'oro. Se queste leggi si fossero regolate con qualche principio d'equità o di ragione, la pubblica difesa avrebbe dovuto supplire in giusta proporzione alla mancanza di forza personale. Ma il Legislatore avea pesato nella bilancia, non della giustizia, ma della politica, la perdita d'un soldato e quella d'uno schiavo: la testa d'un insolente rapace Barbaro era guardata da una grave tassa; e si dava il più tenue aiuto a' sudditi più deboli. Il tempo appoco appoco abbattè l'orgoglio de' conquistatori, e la pazienza de' vinti; ed il più audace cittadino apprese per esperienza, ch'ei poteva soffrire più ingiurie di quelle, che potesse farne. A misura che i costumi dei Franchi divenner meno feroci, le lor leggi si renderono meno severe; ed i Re Merovingici tentarono di imitare l'imparzial rigore de' Visigoti, e de' Borgognoni[215]. Sotto l'impero di Carlo Magno, l'omicidio era generalmente punito con la morte; e l'uso delle pene capitali si è abbondantemente moltiplicato nella Giurisprudenza della moderna Europa[216].
Le professioni civili e militari, ch'erano state separate da Costantino, furono di nuovo unite insieme da' Barbari. Il duro suono de' nomi Teutonici fu addolcito riducendoli a' titoli latini di Duca, di Conte, o di Prefetto, ed il medesimo Ufiziale prese nel suo distretto il comando delle truppe, e l'amministrazione della giustizia[217]. Ma il fiero ed inculto Capitano rade volte era capace di soddisfare a' doveri di Giudice, che richiedono tutte le facoltà d'una mente filosofica, laboriosamente coltivata dall'esperienza e dallo studio; e la sua rozza ignoranza fu costretta ad abbracciare alcuni semplici, e visibili metodi di assicurar la causa della giustizia. In ogni religione si è invocata la Divinità per confermare la verità, o per punire la falsità della testimonianza umana; ma questo potente istrumento fu male applicato dalla semplicità de' Germani Legislatori, o se ne abusarono. La parte accusata poteva giustificare la sua innocenza, producendo al Tribunale un numero di amichevoli testimoni, che solennemente dichiaravano la loro credenza o sicurezza, ch'esso non fosse colpevole. Secondo il peso dell'accusa moltiplicavasi questo numero legale di Compurgatori; per assolvere un incendiario, o un assassino, si richiedevano settantadue persone; e quando era sospetta la castità d'una Regina di Francia, trecento valorosi Nobili giuravano senza esitare, che il nato Principe era stato realmente generato dal defunto di lei marito[218]. Il delitto, e lo scandalo di manifesti e frequenti spergiuri indussero i Magistrati a rimovere tali pericolose tentazioni; ed a supplire a' difetti della testimonianza umana per mezzo de' famosi sperimenti del fuoco e dell'acqua. Tali straordinarie prove furono sì capricciosamente immaginate, che in alcuni casi il delitto, ed in altri l'innocenza, non potea provarsi senza l'interposizione d'un miracolo. Facilmente, si procuravan questi miracoli dalla frode, e dalla credulità; le cause più intricate si decidevano con questo facile ed infallibile metodo; ed i turbolenti Barbari, che avrebbero sdegnato la sentenza del Magistrato, umilmente si sottomettevano al giudizio di Dio[219].
Ma le prove per via di duello, appoco appoco, ebbero il maggior credito ed autorità presso un Popolo guerriero, che non potea credere che un uomo valoroso meritasse di soffrire, o un vigliacco di vivere[220]. Sì ne' processi civili, che ne' criminali, l'attore o l'accusatore, il reo, o anche il testimone, erano esposti alla mortal disfida per parte dell'avversario, che mancava di prove legali; e dovevano, o abbandonar la causa, o pubblicamente sostenere il proprio onore nel campo di battaglia. Combattevano essi, o a piedi o a cavallo, secondo l'uso della loro nazione[221]; e la decisione della spada, o della lancia veniva ratificata dalla sanzione del Cielo, del Giudice, e del Popolo. Questa legge sanguinaria fu introdotta nella Gallia dai Borgognoni; e Gundobaldo[222] loro Legislatore condiscese a rispondere in tal modo alle querele ed obbiezioni d'Avito, suo suddito. «Non è egli vero, disse il Re di Borgogna al Vescovo, che l'evento delle guerre delle Nazioni o de' combattimenti privati è diretto dal giudizio di Dio; e che la sua Provvidenza aggiudica la vittoria a chi ha la causa più giusta?» Per mezzo di tali argomenti, che in quel tempo prevalsero, l'assurda e crudel pratica de' duelli giudiciali, ch'era stata propria di alcune Tribù di Germania, fu propagata e stabilita in tutte le monarchie dell'Europa, dalla Sicilia fino al Baltico. Al termine di dieci secoli, il regno della violenza legale non era totalmente estinto, e sembra, che le censure inefficaci de' Santi, de' Papi, e de' Sinodi provino solo, che la forza della superstizione s'indebolisce quando, contro la sua natura, fa lega colla ragione, e coll'umanità. I tribunali eran macchiati col sangue forse di innocenti e rispettabili cittadini; la legge, che ora favorisce il ricco, allora cedeva al forte; ed il vecchio, il debole, l'infermo eran condannati o a rinunziare a' loro più be' diritti e possessi, o a sostenere i pericoli d'un disuguale combattimento[223], o ad affidarsi al dubbioso aiuto d'un campion mercenario. Questa oppressiva Giurisprudenza regolava i Provinciali della Gallia, che si querelavano di qualche ingiuria fatta loro nelle persone, o ne' beni. Per quanto fosse grande la forza o il coraggio degli individui, i vittoriosi Barbari erano al di sopra nell'amore, e nell'esercizio delle armi; ed il vinto Romano era ingiustamente citato a ripetere nella propria persona la sanguinosa contesa, che già era stata decisa contra la sua patria[224].
Un esercito divoratore di centoventimila Germani anticamente aveva passato il Reno sotto il comando d'Ariovisto. Fu appropriata loro la terza parte delle fertili terre de' Sequani; ed il Conquistatore ben tosto ripetè le sue oppressive domande d'un'altra terza parte per uso d'una nuova colonia di ventimila Barbari, ch'egli aveva invitato a partecipare della ricca messe della Gallia[225]. Alla distanza di cinquecento anni, i Visigoti, ed i Borgognoni, che vendicarono la disfatta d'Ariovisto, usurparono la stessa disugual proporzione de' due terzi delle terre soggette. Ma questa distribuzione, invece d'estendersi a tutta la Provincia, può ragionevolmente limitarsi a' particolari distretti, ne' quali si era stabilito il Popolo vittorioso per propria elezione, o per la politica del suo Capitano. In questi distretti ogni Barbaro era legato con qualche provinciale Romano da' vincoli dell'ospitalità. Il proprietario era costretto di cedere a quest'ospite non gradito due terzi del suo patrimonio. Ma il Germano pastore, o cacciatore, si sarà talvolta contentato d'uno spazioso tratto di selva, o di pastura, rilasciando la più piccola, quantunque più valutabile parte, al travaglio dell'industrioso Agricoltore[226]. La mancanza di antiche ed autentiche testimonianze ha favorito l'opinione, che la rapina de' Franchi non fosse moderata, o coperta dalle formalità d'una legal divisione; che questi si fosser dispersi nelle Province della Gallia senza ordine o ritegno veruno; e che ogni vittorioso ladro, secondo i suoi bisogni, la sua avarizia, e la sua forza, misurasse con la spada l'estensione del nuovo suo patrimonio. I Barbari, che si trovavano in distanza dal lor Sovrano, saranno forse stati tentati ad esercitare tali arbitrarie depredazioni; ma la stabile ed artificiosa politica di Clodoveo doveva frenare uno spirito licenzioso, che avrebbe aggravato la miseria del vinto, nel tempo che corrompeva l'unione, e la disciplina de' conquistatori. Il memorabile vaso di Soissons è un monumento, ed una prova della regolar distribuzione delle spoglie Galliche. Era dovere, ed interesse di Clodoveo il provvedere di premj una armata vittoriosa, e di stabilimenti un numeroso Popolo, senza però cagionare de' dispiaceri, e delle ingiurie superflue a' suoi leali Cattolici della Gallia. L'ampio fondo, ch'ei poteva legittimamente acquistare dall'Imperial patrimonio, i terreni vacanti, e le Gotiche usurpazioni, dovevan diminuire la crudele necessità dell'invasione e della confisca; e gli umili Provinciali dovevano più pazientemente piegarsi all'uguale e regolar distribuzione della loro perdita[227].
La ricchezza de' Principi Merovingi consisteva nell'esteso lor patrimonio. Dopo la conquista della Gallia, tuttavia si dilettavano della rustica semplicità dei loro maggiori: le città furono abbandonate alla solitudine, ed alla decadenza; e le monete, le carte, ed i sinodi loro, portano sempre i nomi delle ville o dei palazzi rurali, ne' quali successivamente risederono. Erano sparsi per le Province del loro regno centosessanta di questi palazzi, titolo che non dev'eccitare alcuna inopportuna idea d'arte, o di lusso, e se alcuni di essi potevano pretender l'onore di Fortezze, la massima parte non debbono stimarsi, che utili fattorie. L'abitazione de' chiomati Re era circondata da comode corti, e da stalle pel bestiame, e pei polli; il giardino conteneva degli utili vegetabili; si esercitavano da mani servili per vantaggio del Sovrano le varie specie di commercio, i lavori dell'agricoltura, ed anche le arti della caccia, e della pesca: i suoi magazzini erano pieni di grano, e di vino o per vendersi o per il consumo, e tutta l'amministrazione si regolava con le più strette massime della privata economia[228]. Quest'ampio patrimonio fu destinato a sostenere l'estesa ospitalità di Clodoveo, e de' suoi successori; ed a premiare la fedeltà de' bravi loro compagni, che tanto in pace, che in guerra erano addetti al loro personal servizio. In vece d'un cavallo o di una continua armatura, ogni compagno, secondo il proprio grado, merito o favore, era investito d'un Benefizio: nome primitivo, e più semplice modello delle possessioni feudali. Tali doni potevan riprendersi a piacimento del Sovrano; e la debole sua prerogativa traeva qualche vantaggio dall'influenza della sua liberalità. Ma questo dipendente possesso, fu appoco appoco, abolito[229] dagl'indipendenti, e rapaci nobili della Francia, che formarono un perpetuo patrimonio, ed un'ereditaria successione de' lor Benefizi: rivoluzione salutare per li terreni che erano stati danneggiati, o negletti da' loro precari signori[230]. Oltre questi beni reali e beneficiari, nella divisione della Gallia era stata assegnata loro una gran porzione di terre Allodiali e Saliche: queste erano esenti dal tributo, e le terre Saliche si dividevano ugualmente fra i discendenti maschi de' Franchi[231].
Nelle sanguinose discordie, e nella tacita decadenza della stirpe Merovingica, si formò nelle Province una nuova specie di tiranni, che sotto la denominazione di seniori o Signori usurparono un diritto di governare, ed una licenza d'opprimere i sudditi de' particolari lor territori. La loro ambizione poteva tenersi a freno bensì dall'ostile resistenza d'un uguale; ma le leggi s'estinsero; ed i sacrileghi Barbari, che ardivano di provocar la vendetta d'un santo, o d'un vescovo[232], rade volte rispettavano i termini d'un profano e debol vicino. I comuni o pubblici diritti naturali, quali si erano sempre mantenuti dalla Romana Giurisprudenza[233], furono rigorosamente limitati da' Germani conquistatori, il divertimento, o piuttosto la passione dei quali era l'esercizio della caccia. L'esteso dominio, che l'Uomo ha preso su' selvaggi abitatori della terra, dell'aria e dell'acqua, fu ristretto ad alcuni fortunati individui della specie umana. La Gallia fu di nuovo coperta di boschi; e gli animali, riservati all'uso o al piacere del Signore, potevan devastare impunemente le campagne degl'industriosi vassalli. La caccia era il sacro privilegio de' Nobili, e de' famigliari loro servi. I trasgressori plebei erano gastigati per legge con verghe, e con la carcere[234]; ed in un secolo che ammetteva una tenue composizione per la vita d'un cittadino, era un delitto capitale il distruggere un cervo, o un toro salvatico dentro i recinti delle foreste reali[235].
Secondo le massime della guerra antica, il vincitore diveniva Signore del nemico, ch'egli avea soggiogato e conservato in vita[236]: e la lucrosa causa della servitù personale, ch'era stata quasi soppressa dalla pacifica sovranità di Roma, si fece di nuovo risorgere e si moltiplicò dalle perpetue ostilità degl'indipendenti Barbari. Il Goto, il Borgognone o il Franco, che tornava da una spedizione di buon successo, si traeva dietro una lunga serie di pecore, di bovi e di schiavi umani, ch'esso trattava col medesimo brutal disprezzo. I giovani d'un'elegante figura, e di buono aspetto erano messi a parte per il servizio domestico: situazione dubbiosa, che gli esponeva alternativamente al favorevole o crudele impulso delle passioni. Gli artefici e servi utili (come i fabbri, i legnaiuoli, i sarti, i calzolai, i cuochi, i giardinieri, i tintori, gli orefici, ed argentieri ec.) impiegavano la loro abilità per uso e vantaggio de' loro padroni. Ma gli schiavi Romani, che eran privi d'arte e capaci di fatica, venivan condannati, senza riguardo alla prima lor condizione, a guardare il bestiame, ed a coltivar le terre de' Barbari. Il numero degli schiavi ereditari ch'erano attaccati a' patrimoni Gallici, veniva continuamente accresciuto da nuove reclute; ed il servil Popolo, secondo la situazione ed il carattere de' padroni, talora veniva sollevato mercè di una precaria indulgenza; e più frequentemente depresso da un capriccioso dispotismo[237]. Si esercitava da questi padroni un assoluto potere di vita e di morte sopra di loro; e quando maritavan le proprie figlie, si mandava, come un dono nuziale in un lontano paese[238], una quantità di servi utili, incatenati su' carri per impedirne la fuga. La maestà delle Leggi Romane difendeva la libertà d'ogni cittadino contro i temerari effetti della propria sua miseria, o disperazione. Ma i sudditi de Re Merovingi potevano alienare la loro libertà personale; e questo atto di legal suicidio, che frequentemente si praticava, vien espresso con termini i più vergognosi, ed umilianti per la dignità della natura umana[239]. L'esempio del povero che comprava la sua vita col sacrifizio di tutto ciò, che può render la vita stessa desiderabile, fu appoco appoco imitato dal debole, e dal devoto che, in tempi di pubbliche turbolenze, vilmente correva in folla a ripararsi sotto il baloardo d'un potente Capo, ed intorno alle reliquie d'un santo popolare. Si accettava la lor sommissione da questi temporali o spirituali padroni; ed il precipitoso atto irreparabilmente fissava la lor condizione, e quella dell'ultima loro posterità. Dal regno di Clodoveo, per cinque secoli successivi, le leggi, ed i costumi de' Galli furono uniformemente diretti a promuovere l'accrescimento, ed a confermar la durata della personal servitù. Il tempo, e la violenza quasi cancellarono i gradi intermedi della società; e lasciarono un oscuro, ed angusto intervallo fra il nobile e lo schiavo. Quest'arbitraria e recente divisione si è trasformata dall'orgoglio e dal pregiudizio in una distinzion nazionale, universalmente stabilita dalle armi e dalle leggi de' Merovingi. I Nobili, che vantavano la genuina o favolosa lor discendenza dagl'indipendenti, e vittoriosi Franchi, hanno sostenuto l'inalienabil diritto di conquista, e ne hanno abusato sopra un'avvilita folla di schiavi e plebei, a' quali attribuivano l'immaginaria disgrazia d'una estrazione Gallica o Romana.
Lo stato generale e le rivoluzioni della Francia, nome imposto a quel regno da' conquistatori, può illustrarsi coll'esempio particolare d'una Provincia, di una diocesi e d'una Famiglia Senatoria. L'Alvergna in antico aveva conservato una giusta superiorità fra gli Stati, e le città indipendenti, della Gallia. I bravi e numerosi abitatori di essa mostravano un trofeo singolare, cioè la spada che Cesare stesso avea perduto quando fu rispinto dalle mura di Gergovia[240]. Risguardandosi essi come discendenti comuni di Troia, vantavano una fraterna connessione co' Romani[241]: e se ogni Provincia avesse imitato il coraggio e la fedeltà dell'Alvergna, si sarebbe potuto impedire, o differir la caduta dell'Occidentale Impero. Mantennero costantemente la fedeltà, che avevano con ripugnanza giurata a' Visigoti; ma quando i loro più valorosi nobili restarono uccisi nella battaglia di Poitiers, accettarono senza resistenza un vittorioso e cattolico Sovrano. Si compì, e si possedè questa facile e pregevol conquista da Teodorico, figlio maggiore di Clodoveo: ma era separata da' suoi Stati d'Austrasia quella distante Provincia, per l'interposizione de' regni di Soissons, di Parigi e d'Orleans che dopo la morte del padre formarono l'eredità de' suoi tre fratelli. Childeberto, Re di Parigi, fu tentato dalla vicinanza e dalla beltà dell'Alvergna[242]. La campagna superiore, che s'innalza verso il mezzodì nelle montagne di Cevennes, presentava un ricco e vario prospetto di boschi e di pasture; i lati de' colli eran vestiti di viti; ed ogni eminenza era coronata da una villa o da un castello. Nell'Alvergna inferiore, il fiume Allier scorre per la bella e spaziosa pianura di Limagna; e l'inesausta fertilità del suolo somministrava, e tuttavia somministra, senz'alcuno intervallo di riposo, la costante ripetizione delle stesse raccolte[243]. Sulla falsa notizia, che il legittimo loro Sovrano fosse stato ucciso in Germania, si rese la città e diocesi d'Alvergna dal nipote di Sidonio Apollinare. Childeberto godè di questa clandestina vittoria; ed i sudditi liberi di Teodorico minacciarono d'abbandonare le sue bandiere, se si lasciava trasportare dal suo sdegno privato, mentre la nazione era impegnata nella guerra di Borgogna. Ma i Franchi d'Austrasia tosto cederono alla persuasiva eloquenza del loro Re. «Seguitemi,» disse Teodorico, «nell'Alvergna; io vi condurrò in una Provincia, dove potrete acquistare dell'oro, dell'argento, degli schiavi, del bestiame e de' mobili preziosi in quell'abbondanza, che potete desiderare. Io vi confermo la mia promessa: vi do in preda il Popolo e la sua ricchezza; e voi potrete a vostro piacere trasportar tutto nel vostro paese.» Mediante l'esecuzione di questa promessa, Teodorico perdè giustamente la fedeltà d'un Popolo ch'ei condannò alla distruzione. Le sue truppe, rinforzate da' più feroci Barbari della Germania[244], sparsero la desolazione sulla fruttifera faccia dell'Alvergna; e solo due Piazze, un forte castello, ed un santuario furon salvati o redenti dal licenzioso loro furore. La Fortezza di Meroliac[245] era posta sopra un'alta rupe, che s'innalzava cento piedi sulla superficie del piano; ed erano incluse dentro il ricinto delle sue fortificazioni, una gran conserva d'acqua fresca, ed alcune terre coltivabili. I Franchi risguardavano con invidia e disperazione quella insuperabil Fortezza: ma sorpresero una truppa di cinquanta soldati dispersi, e siccome erano oppressi dal numero de' loro schiavi, fissarono l'alternativa della vita ad un piccolo prezzo, o della morte per queste miserabili vittime, che i crudeli Barbari eran pronti a scannare, se la guarnigione ricusava di rendersi. Un altro distaccamento penetrò fino a Brivas o Brioude, dove gli abitanti si erano rifuggiti co' loro mobili di più valore nel Santuario di S. Giuliano. Le porte della Chiesa resisterono all'assalto; ma un audace soldato v'entrò per una finestra del Coro, ed aprì il passo a' suoi compagni. Si strapparono crudelmente dall'altare il Clero ed il Popolo, le spoglie sacre e le profane; e si fece la sacrilega divisione ad una piccola distanza dalla città di Brioude. Ma quest'atto d'empietà fu severamente punito dal devoto figlio di Clodoveo. Ei gastigò con la morte i delinquenti più atroci; rilasciò i segreti lor complici alla vendetta di S. Giuliano; liberò gli schiavi; restituì la preda; ed estese i diritti del santuario a cinque miglia in giro intorno al sepolcro del santo Martire[246].
Prima che l'armata d'Austrasia si ritirasse dall'Alvergna, Teodorico volle qualche sicurezza della futura fedeltà d'un Popolo, il giusto odio del quale non poteva frenarsi, che dal timore. Fu data in mano del Conquistatore una scelta truppa di nobili giovani, figli de' principali Senatori, come ostaggi della fede di Childeberto e de' suoi Nazionali. Al primo rumore di guerra o di cospirazione quest'innocenti giovani furono ridotti ad uno stato di servitù; ed uno di loro, chiamato Attalo[247], le avventure del quale sono più particolarmente riferite, custodiva i cavalli del suo padrone nella Diocesi di Treveri. Dopo una penosa ricerca, fu egli trovato in quell'indegna occupazione da quelli che aveva mandato il suo avo Gregorio, Vescovo di Langres; ma le lor offerte di riscatto vennero duramente rigettate dall'avarizia del Barbaro, che esigeva un'esorbitante somma di dieci libbre d'oro per la libertà del nobile suo schiavo. Si effettuò la sua liberazione, mediante l'arrischioso stratagemma di Leone, schiavo attenente alle cucine del Vescovo di Langres[248]. Un incognito agente facilmente l'introdusse nell'istessa Famiglia. Il Barbaro comprò Leone per il prezzo di dodici monete d'oro; ed ebbe piacere d'intendere, ch'egli s'era molto abilitato nel lusso d'una tavola Episcopale: «Domenica prossima,» disse il Franco, «inviterò i miei vicini e parenti. Impiega tutta la tua arte, e costringili a confessare, ch'essi non hanno mai veduto, nè gustato un pranzo simile neppure in casa del Re». Leone l'assicurò, che se egli avesse provveduto una sufficiente quantità di polli, sarebbero stati soddisfatti i suoi desiderj. Il padrone, che già aspirava al merito d'una elegante ospitalità, si prese come sua la lode che i voraci commensali concordemente diedero al suo cuoco; ed il destro Leone insensibilmente acquistò la confidenza, ed il maneggio della famiglia. Dopo aver pazientemente aspettato un intiero anno, ei disse cautamente ad Attalo il suo disegno, e l'esortò a prepararsi alla fuga nella seguente notte. Le intemperanti persone, convitate a cena, uscirono quella sera a mezza notte da tavola; ed il genero del Franco, che Leone servì al suo appartamento con una bevanda notturna, andava scherzando sulla facilità, con cui poteva esso tradire la sua fede. L'intrepido schiavo, dopo aver sostenuta questa pericolosa celia, entrò nella camera del suo padrone; ne tolse la lancia e lo scudo; trasse tacitamente i più veloci cavalli dalla stalla; aprì le pesanti porte, ed eccitò Attalo a salvare con pronta diligenza la propria vita e libertà. I loro timori gli mossero a lasciare i cavalli sulle rive della Mosa[249]; passarono il fiume a nuoto, andaron vagando tre giorni per la vicina foresta; e sussisterono solo per l'accidentale scoperta che fecero d'un susino salvatico. Mentre stavan nascosti in un oscuro bosco, udiron lo strepito de' cavalli; furono spaventati dal truce aspetto del loro padrone; e con orrore sentirono la sua dichiarazione, che se poteva prendere i rei fuggitivi, voleva tagliarne uno a pezzi con la sua spada, ed espor l'altro sopra un patibolo. Finalmente Attalo, ed il fedel suo Leone giunsero all'amica abitazione d'un Prete di Reims, che ristorò le loro mancanti forze con pane e vino, gli celò alle ricerche del loro nemico e gli condusse salvi, fuori de' confini dal Regno d'Austrasia, al palazzo episcopale di Langros. Gregorio abbracciò il suo nipote con lacrime di allegrezza; liberò con gratitudine Leone, e tutta la sua famiglia, dal giogo della servitù, e gli concesse la proprietà d'una possessione, dove potè finire i suoi giorni felicemente, ed in libertà. Questa singolare avventura notata con tante circostanze di verità e di natura fu raccontata forse da Attalo stesso al suo cugino o nipote, primo Istorico dei Franchi. Gregorio di Tours[250] era nato circa sessant'anni dopo la morte di Sidonio Apollinare: e la loro situazione fu quasi simile, mentre ciascheduno di essi fu nativo dell'Alvergna, Senatore e Vescovo. La differenza però dello stile e de' sentimenti loro può dimostrare la decadenza della Gallia, e far chiaramente conoscere quanto la mente umana in così breve spazio avea perduto d'energia e di acutezza[251].
Abbiamo adesso motivo di non curare le opposte fra loro, e forse artificiose rappresentazioni, che hanno mitigato, o esagerato l'oppressione de' Romani della Gallia sotto il regno de' Merovingi. I conquistatori non promulgarono mai alcun editto generale di servitù, o di confiscazione: ma un Popolo degenerato, che scusava la propria debolezza con gli speciosi nomi di gentilezza e di pace, era esposto alle armi ed alle leggi de' feroci Barbari, che insidiavano con disprezzo le possessioni, la libertà e la sicurezza di esso. Le lor personali ingiurie furon parziali ed irregolari, ma il corpo de' Romani sopravvisse alla rivoluzione, e continuò a conservare la qualità e i privilegi de' cittadini. Si preso una gran parte delle loro terre per uso de' Franchi: ma essi godevano il rimanente immune da' tributi[252]; e la stessa irresistibil violenza, che tolse di mezzo le arti e le manifatture della Gallia, distrusse l'elaborato e dispendioso sistema dell'Imperial dispotismo. I Provinciali dovevan frequentemente deplorare la rozza giurisprudenza delle Leggi Saliche o Ripuarie; ma la lor vita privata, negl'importanti affari del matrimonio, de' testamenti, o dell'eredità, era sempre regolata secondo il Codice Teodosiano: ed un Romano malcontento poteva liberamente aspirare o discendere al titolo e carattere di Barbaro. Gli onori dello Stato erano accessibili alla sua ambizione; l'educazione e l'indole de' Romani li rendeva più specialmente atti agli ufizi del Governo civile; e tostochè l'emulazione ebbe riacceso il loro militare ardore fu permesso a' medesimi di marciar nelle linee, o anche alla testa de' vittoriosi Germani. Io non mi proporrò d'enumerare i Generali ed i Magistrati, i nomi de' quali[253] attestano la generosa politica de' Merovingi. Il comando supremo della Borgogna, col titolo di Patrizio, fu successivamente affidato a tre Romani, e Mummolo[254], l'ultimo ed il più potente fra essi che alternativamente salvò e disturbò la Monarchia, era succeduto a suo padre nel posto di Conte d'Autun, e lasciò un tesoro di trenta talenti d'oro, e di dugentocinquanta d'argento. I feroci ed ignoranti Barbari furono esclusi per varie generazioni dalle dignità, ed anche dagli ordini della Chiesa[255]. Il Clero della Gallia era quasi tutto composto di nativi Provinciali; gli altieri Franchi si prostravano a' piedi de' loro sudditi ch'erano investiti del carattere episcopale; e la potenza e le ricchezze che si erano perdute in guerra, furono appoco appoco ricuperate per mezzo della superstizione[256]. In tutti gli affari temporali, il Codice Teodosiano era la Legge universale del Clero; ma la Giurisprudenza Barbara aveva abbondantemente provvisto alla loro personal sicurezza: un Suddiacono equivaleva a due Franchi; l' Antrustione ed il Prete si reputavano dell'istesso valore; e la vita d'un Vescovo era valutata molto al di sopra della misura comune, al prezzo di novecento monete d'oro[257]. I Romani comunicarono a' loro conquistatori l'uso della Religione Cristiana, e della lingua latina[258]: ma la lingua e la religione loro erano ugualmente degenerate dalla semplice purità del tempo d'Augusto e degli Apostoli. Il progresso della superstizione e del Barbarismo fu rapido ed universale: il culto de' Santi celava agli occhi volgari il Dio de' Cristiani; ed il rozzo dialetto de' contadini e de' soldati fu corrotto da un idioma e pronunzia Teutonica. Puro tal uso di sacra e di social comunione sradicò le distinzioni della nascita, e della vittoria; e le nazioni della Gallia a grado a grado, si confusero fra loro sotto il nome ed il governo de' Franchi.
I Franchi, di poi che si furono mescolati co' Gallici loro sudditi, avrebbero potuto far loro il dono del più valutabile fra' beni umani, cioè uno spirito ed un sistema di libertà costituzionale. Sotto un Re ereditario, ma limitato, i capi o consiglieri avrebber potuto deliberare a Parigi nel palazzo de' Cesari: il vicino campo, dove gl'Imperatori passavano in rivista le mercenarie loro legioni, avrebbe potuto contenere la legislativa assemblea di uomini liberi e guerrieri; e quel rozzo modello, ch'erasi abbozzato ne' boschi della Germania[259], avrebbe potuto ripulirsi e perfezionarsi dalla sapienza civile de' Romani. Ma i trascurati Barbari, sicuri della lor personale indipendenza, sdegnarono la cura del Governo; furono tacitamente abolite le annue adunanze del mese di Marzo, e la nazione restò separata, e quasi disciolta dalla conquista della Gallia[260]. Si lasciò la Monarchia senz'alcuno regolare stabilimento di giustizia, di milizia, o di rendite. A' successori di Clodoveo mancò sufficiente fermezza per assumere, o forza per esercitare la potestà legislativa ed esecutrice, che il Popolo avea abbandonato: la dignità reale non si distingueva, che mediante un più ampio privilegio di rapina e d'uccisione; e l'amor della libertà, sì spesso invigorito e disonorato dall'ambizione privata, si ridusse fra' licenziosi Franchi al disprezzo dell'ordine, ed al desiderio dell'impunità. Settantacinque anni dopo la morte di Clodoveo, il suo nipote Gontranno, Re di Borgogna mandò un esercito ad invadere gli Stati gotici della Settimania, o Linguadoca. Le truppe della Borgogna, del Berry, della Alvergna, e de' territori addiacenti, furono eccitate dalla speranza della preda: esse marciarono senza disciplina sotto le bandiere de' Conti Germani, o Gallici: i loro attacchi furono deboli, e senza successo; ma vennero desolate con indistinto furore le Province amiche e nemiche. Si abbruciarono i campi di grano, i villaggi, e le stesse chiese; gli abitanti furon uccisi, o fatti schiavi; e nella disordinata ritirata, che fecero quegl'inumani selvaggi, cinquemila di essi restaron distrutti dalla fame, o dalle intestine discordie. Quando il pio Gontranno rimproverò a' loro condottieri tal colpa, o trascuratezza, e minacciò di sottoporli non ad una giudicial sentenza, ma ad una pronta ed arbitraria esecuzione, essi accusarono l'universale ed incurabile corruzione del Popolo: «Nessuno (dissero) ormai più teme, o rispetta il proprio Re, Duca o Conte. Ognuno ama di far male, e liberamente seconda le ree sue inclinazioni. La più blanda correzione eccita immediatamente un tumulto; e l'incauto Magistrato che ardisce di censurare, o di frenare i sediziosi suoi sottoposti, rade volte può salvar la vita dalla loro vendetta».[261] È stato riservato alla medesima nazione di esporre, con gl'intemperanti suoi vizi, il più odioso abuso della libertà, o di riparar le proprie mancanze con lo spirito d'onore e d'umanità, che ora solleva e decora la loro obbedienza ad un assoluto Sovrano.
I Visigoti avean ceduto a Clodoveo la massima parte de' loro Stati della Gallia, ma la perdita, ch'essi fecero, fu ampiamente compensata dalla facil conquista, e dal sicuro godimento delle Province della Spagna. Dalla monarchia de' Goti, che tosto occupò il regno svevico della Gallicia, i moderni Spagnuoli traggono tuttavia qualche nazional vanità: ma un Istorico del romano Impero non è invitato, nè obbligato a proseguire le oscure e sterili serie de' loro annali[262]. I Goti di Spagna restarono separati dagli altri uomini per causa delle alte cime de monti Pirenei: ed i loro costumi ed istituti, in quanto eran comuni alle tribù Germaniche, si sono già esposti. Ho anticipato nel capitolo procedente i più importanti degli ecclesiastici, loro eventi, cioè la caduta dell'Arrianesmo, o la persecuzione degli Ebrei: e non rimane, che ad osservare alcune interessanti circostanze, relative alla civile ed ecclesiastica costituzione del Regno di Spagna.
I Franchi ed i Visigoti, dopo la lor conversione dall'idolatria, o dall'eresia, eran disposti ad abbracciare con ugual sommissione gl'intrinseci mali, e gli accidentali vantaggi della superstizione. Ma i Prelati della Francia, molto tempo prima che s'estinguesse la stirpe Merovingica, avean degenerato in Barbari combattenti o cacciatori. Essi sdegnarono l'uso de' sinodi; obbliarono le leggi della temperanza e della castità; e preferirono di appagare l'ambizione ed il lusso privato, al generale interesse della professione sacerdotale[263]. I Vescovi di Spagna rispettavan se stessi; ed erano rispettati dal pubblico; l'indissolubile unione loro ne cuopriva i vizi, e ne confermava l'autorità, e la regolar disciplina della Chiesa introdusse la pace, l'ordine, e la stabilità nel governo dello Stato. Dal Regno di Recaredo, primo Re Cattolico, fino a quello di Vitizia, immediato predecessore dello sfortunato Rodrigo, furono successivamente convocati sedici Concili nazionali. I sei Metropolitani di Toledo, di Siviglia, di Merida, di Braga, di Tarragona e di Narbona presedevano secondo la rispettiva loro anzianità; l'assemblea era composta de' Vescovi lor suffraganei, che vi comparivano in persona, o per mezzo de' loro procuratori, ed assegnavasi un luogo anche a più santi, o ricchi Abbati spagnuoli. Per i primi tre giorni della adunanza, finattantochè si agitavano le questioni ecclesiastiche di dottrina, o di disciplina, i profani laici erano esclusi dalle lor dispute, che si dicevano per altro con decente solennità. Ma la mattina del quarto giorno, si aprivan le porte per far entrare, i grandi Ufiziali del Palazzo, i Duchi, e Conti delle Province, i Giudici delle città, ed i nobili Goti: ed i decreti del Cielo venivan ratificati dal consenso del Popolo. Le stesse regole s'osservavano rispetto alle assemblee provinciali, o a' sinodi annuali, che avevano la facoltà d'ascoltar le querele, e di reprimer gli abusi; ed un legittimo Governo veniva sostenuto dalla predominante autorità del Clero spagnuolo. I Vescovi, che in ogni rivoluzione eran disposti ad adulare il vittorioso e ad insultare il vinto, procuravano con diligenza e buon successo d'accender le fiamme della persecuzione, e d'esaltar la mitra sopra la corona. Pure i Concili nazionali di Toledo, ne' quali era temperato e guidato lo spirito libero de' Barbari dalla politica episcopale, hanno stabilito delle prudenti leggi per vantaggio comune sì del Re, che del Popolo. Alla vacanza del trono si provvedeva mediante l'elezione dei Vescovi e de' Palatini; e dopo che mancò la linea di Alarico, la dignità reale fu sempre ristretta al puro e nobil sangue de' Goti. I Chierici che ungevano il legittimo loro Sovrano, sempre raccomandavano, ed alle volte praticavano, il dovere della fedeltà: e si denunziavano le spirituali censure contro quegli empi sudditi, che avessero resistito alla sua autorità, cospirato contro la sua vita, o violato per un'indecente unione, la castità fino della vedova di esso. Ma il Monarca medesimo, quando saliva sul trono, si vincolava con un reciproco giuramento che faceva a Dio ed al suo Popolo, d'eseguir fedelmente l'importante suo ufizio. Le vere o immaginarie mancanze della sua amministrazione eran sottoposte all'esame d'una potente aristocrazia; ed i Vescovi e Palatini eran difesi da un fondamental privilegio, in forza di cui non potevano esser degradati, carcerati, torturati, nè puniti di morte, d'esilio, nè di confiscazione, che per il libero e pubblico giudizio de' loro Pari[264].
Uno di questi Concili legislativi di Toledo esaminò e ratificò il codice di Leggi, che si erano fatte da una serie di Re Goti, dal fiero Eurico fino al devoto Egica. Finattantochè i Visigoti medesimi furono contenti de' rozzi costumi de' loro maggiori, permisero ai loro sudditi dell'Aquitania, e della Spagna l'uso delle leggi Romane. La successiva loro coltura nelle arti, nella politica e finalmente nella religione, li trasse ad imitare, ed a toglier di mezzo gl'instituti stranieri, ed a comporre un Codice di Giurisprudenza civile e criminale, per uso d'un Popolo grande ed unito insieme. Si comunicarono le stesse obbligazioni, e gli stessi privilegi alle nazioni della Monarchia di Spagna: ed i conquistatori, appoco appoco rinunziando all'idioma Teutonico, si sottomisero al freno dell'equità, ed esaltarono i Romani alla partecipazione della libertà. Si accrebbe il merito di quella imparziale politica dalla situazion della Spagna sotto il regno de' Visigoti. V'era una gran separazione fra' Provinciali, e gli Arriani loro Signori per l'irreconciliabile differenza della religione: e dopo che la conversione di Recaredo ebbe tolto i pregiudizi de' Cattolici, le coste, sì dell'Oceano che del Mediterraneo, erano tuttavia in potere degl'Imperatori Orientali, che segretamente incitavano un Popolo malcontento a scuotere il giogo dei Barbari, ed a sostenere il nome e la dignità di Cittadini Romani. La fedeltà, in vero, di sudditi dubbiosi è molto efficacemente assicurata dalla propria persuasione d'arrischiare nella rivolta più di quel che essi possan ottenere da una rivoluzione; ma sembra, così naturale d'opprimere quelli che odiamo e temiamo, che un sistema contrario merita bene la lode di saviezza e moderazione[265].
Mentre si stabilivano i Regni de' Franchi e de' Visigoti nella Gallia e nella Spagna, i Sassoni fecero la conquista della Brettagna, che formava la terza gran diocesi della Prefettura dell'Occidente. Poichè la Brettagna era già separata dal Romano Impero, io potrei, senza taccia, evitare un'istoria, famigliare a' più ignoranti, ed oscura per i più dotti de' miei lettori. I Sassoni, ch'erano eccellenti nell'uso del remo e delle armi, non sapevano l'arte, che sola poteva perpetuare la fama delle loro imprese: i Provinciali, ricaduti nel Barbarismo, trascurarono di descrivere la rovina della lor patria; e la dubbiosa tradizione di tali fatti era quasi estinta, prima che i missionari di Roma vi facesser risorgere la luce della scienza e del Cristianesimo. Le declamazioni di Gilda, i frammenti o le favole di Lennio, gli oscuri cenni delle Leggi Sassone e delle croniche, e l'ecclesiastiche Novelle del venerabile Beda[266] sono state illustrate dalla diligenza ed alle volte abbellite dalla fantasia de' successivi scrittori, le opere de' quali non ambisco di censurare, nè di trascrivere[267]. Pure un Istorico dell'Impero può esser tentato a proseguire le rivoluzioni d'una Provincia romana, finattantochè non la perda di vista; ed un Inglese può esser curioso d'investigare lo stabilimento de' Barbari, da' quali trae il suo nome, le sue leggi, e forse la sua origine.
A. 449
Circa quarant'anni dopo lo scioglimento del governo Romano, sembra che Vortigerno avesse ottenuto il supremo, quantunque precario, comando de' Principi, e delle città della Brettagna. Quest'infelice Monarca è stato quasi da tutti condannato per la debole ed erronea politica d'avere invitato[268] un formidabile straniero a rispingere le moleste incursioni d'un nemico domestico. Si mandano, da' più gravi Storici, i suoi ambasciatori alla costa della Germania; indirizzano questi una patetica orazione alla Generale Assemblea dei Sassoni, e quei bellicosi Barbari risolvono d'assistere con una flotta ed armata i supplicanti d'una lontana ed incognita Isola. Se la Brettagna, in vero, fosse stata incognita a' Sassoni, la misura delle sue calamità sarebbe stata meno ripiena. Ma la forza del Governo Romano non poteva sempre guardare la Provincia marittima contro i pirati della Germania: gli Stati indipendenti e divisi erano esposti a' loro attacchi; ed i Sassoni si saranno alle volte uniti con gli Scoti ed i Pitti in una espressa o tacita colleganza di distruzione e di rapina. Vortigerno poteva solo bilanciare i vari pericoli, che assalivano da ogni parte il suo trono ed il suo Popolo; e la sua politica può meritar lode o scusa, se preferì l'alleanza di que' Barbari, la forza marittima de' quali gli rendeva i più pericolosi nemici, ed i confederati i più vantaggiosi. Engisto ed Orsa, trovandosi lungo la costa orientale con tre navi, furono indotti dalla promessa d'un ampio stipendio a prender la difesa della Brettagna; e l'intrepido loro valore tosto liberò il paese dagl'invasori Caledonj. S'assegnò per abitazione di questi Germani ausiliari l'isola di Tanet, sicuro e fertil distretto, e secondo il trattato furono abbondantemente forniti di abiti e di provvisioni. Questo favorevole accoglimento incoraggì cinquemila guerrieri ad imbarcarsi con le loro famiglie su diciassette vascelli e la principiante potenza d'Engisto fu invigorita da questo notabile ed opportuno rinforzo. L'astuto Barbaro suggerì a Vortigerno lo specioso vantaggio di stabilire nelle vicinanze de' Pitti una colonia di fedeli alleati; onde una terza flotta di quaranta navi, sotto il comando del suo figlio o nipote, venne dalla Germania, devastò le Orcadi e sbarcò un altro esercito sulla costa della Provincia di Nortumberland, o di Lothian all'estremità opposta della terra loro destinata. Erano facili a prevedersi gl'imminenti mali; ma era divenuto impossibile d'impedirli. Le due nazioni tosto si divisero e s'irritarono l'una contro dell'altra per le mutue gelosie. I Sassoni magnificavano tutto ciò, che avevan fatto e sofferto per causa d'un ingrato Popolo; mentre i Brettoni rinfacciavano loro gli abbondanti premj, che non potevan soddisfar l'avarizia di que' superbi mercenari. Il timore e l'odio, s'infiammarono a segno da divenire una irreconciliabil contesa. I Sassoni presero le armi; e se a tradimento, nel tempo della sicurezza d'una festa, fecero, come si dice, un'orribile strage, distrussero la reciproca fiducia che sostiene il commercio nella pace, e nella guerra[269].
A. 355-582
Engisto, che arditamente aspirava alla conquista della Brettagna, esortò i suoi compatriotti ad abbracciar quella gloriosa occasione; dipinse loro con vivaci colori la fertilità del suolo, la ricchezza della città, l'indole pusillanime de' nativi abitatori e la comoda situazione d'una solitaria e spaziosa isola, accessibile da ogni parte alle flotte de' Sassoni. Le successive colonie, che nel corso d'un secolo uscirono dalle bocche dell'Elba, del Weser e del Reno, furono principalmente composte di tre valorose tribù, o nazioni Germaniche, cioè de' Juti, degli antichi Sassoni e degli Angli. I primi, che combattevano sotto la special bandiera d'Engisto, ebbero il merito di aprire a' loro nazionali il sentiero della gloria, e d'erigere in Kent il primo regno indipendente. La fama di tal impresa fu attribuita a' primitivi Sassoni, e si descrivon le comuni leggi ed il linguaggio de' conquistatori col nome nazionale d'un Popolo, che al termine di quattrocento anni produsse i primi Re della Brettagna meridionale. Gli Angli si distinsero pel numero, e per la felicità loro; e s'arrogaron l'onore di dare un perpetuo nome a quella regione, di cui occuparon la maggior parte. I Barbari, che seguirono le speranze della rapina, sì per terra che per mare, si mescolarono insensibilmente con questa triplice confederazione; i Frisi, ch'erano stati dalla lor vicinanza invitati a' lidi Britannici, poterono bilanciare, per breve tempo, la forza e la riputazione de' nativi Sassoni: i Dani, i Prussi ed i Rugi sono appena nominati; ed alcuni avventurieri Unni, ch'eran andati vagando fino al Baltico, poterono imbarcarsi a bordo di navi germaniche per andare alla conquista d'un nuovo Mondo[270]. Ma questa difficile impresa non fu preparata nè eseguita dall'unione di tali forze nazionali. Ogni audace Capitano, secondo la propria fama o le sue sostanze, adunava una quantità di seguaci; equipaggiava una flotta di tre navi, ugualmente che di sessanta; sceglieva il luogo dell'attacco; e regolava le successive sue operazioni, secondo gli eventi della guerra, e le circostanze del suo privato interesse. Nell'invasione della Brettagna, molti eroi restarono vincitori, e molti perirono; ma solo sotto vittoriosi Capitani assunsero, o almeno conservarono il titolo di Re. I Conquistatori fondarono sette indipendenti troni, o l'Eptarchia sassonica; e sette famiglie, una delle quali si è continuata per successione femminile fino al presente nostro Sovrano, trassero l'uguale, e sacra loro origine da Woden, Dio della guerra. Si è preteso, che questa repubblica di Regi fosse moderata da un Concilio generale, e da un Magistrato supremo. Ma tale artificial sistema di politica ripugna col torbido e rozzo spirito de' Sassoni: le loro leggi non ne parlano; ed i loro imperfetti annali non somministrarono, che un oscuro e sanguinoso prospetto d'intestina discordia[271].
Un Monaco, il quale nella profonda ignoranza della vita umana ha voluto far l'ufizio d'Istorico, sfigura stranamente lo stato della Brettagna, al tempo della sua separazione dall'Impero Occidentale. Gilda[272] descrive con florido stile gli accrescimenti dell'agricoltura, il commercio straniero, che ad ogni marea si faceva per mezzo del Tamigi o della Saverna, la stabile e sublime costruzione de' pubblici e privati edifizi: egli accusa il lusso colpevole del Popolo britannico; d'un Popolo, secondo il medesimo scrittore, ignorante delle arti più semplici, ed incapace, senza l'aiuto dei Romani, di far delle mura di pietra, o delle armi di ferro per la difesa della propria patria[273]. Sotto il lungo dominio degl'Imperatori, la Brettagna insensibilmente avea preso l'elegante e servile forma d'una Provincia romana, la cui salute era affidata ad una potenza straniera. I sudditi d'Onorio rimirarono la nuova lor libertà con sorpresa e terrore; mancavano essi d'ogni civile, o militare costituzione; e gl'incerti loro regolatori erano privi o d'abilità, o di coraggio o d'autorità per dirigere la pubblica forza contra il comun nemico. L'introduzione de' Sassoni dimostrò l'interna lor debolezza, e degradò il carattere sì del Principe, che del Popolo. La costernazione loro magnificò il pericolo; la mancanza d'unione diminuì i loro mezzi di difesa; ed il furore delle fazioni civili era più sollecito d'accusare, che di rimediare a' mali, che s'attribuivano alla cattiva condotta degli avversari. Pure i Brettoni non erano, nè potevano essere ignoranti della manifattura, o dell'uso delle armi: i successivi e disordinati attacchi de' Sassoni, gli fecero tornare in se stessi dalla prima loro sorpresa, ed i prosperi o contrari eventi della guerra aggiunsero la disciplina e l'esperienza al nativo loro valore.
Mentre il continente dell'Europa e dell'Affrica cadeva senza resistenza in mano de' Barbari, l'Isola britannica, sola e senz'aiuto, mantenne una lunga e vigorosa, quantunque inutil contesa contro i formidabili Pirati, che quasi nel medesimo istante ne assalirono le coste Settentrionali, Orientali e Meridionali. Le città, ch'erano state abilmente fortificate, si difendevano con fermezza; gli abitanti accrebbero diligentemente i vantaggi del terreno, de' colli, delle foreste e delle paludi; la conquista d'ogni distretto compravasi a prezzo di sangue; e vengono fortemente attestate le disfatte de' Sassoni dal discreto silenzio del loro Annalista. Engisto sperava forse di condurre a fine la conquista della Brettagna; ma la sua ambizione, in un attivo regno di trentacinque anni, si limitò al possesso di Kent: e la numerosa colonia, ch'ei piantò nel Nord, fu estirpata dalla spada de' Brettoni. Si fondò la Monarchia de' Sassoni occidentali a gran fatica da' continui sforzi di tre marziali generazioni. La vita di Cerdic, uno de' più prodi fra' figli di Woden, si consumò nella conquista di Hampshire, e dell'isola di Wight; e la perdita che soffrì nella battaglia di Monte Badon lo ridusse ad uno stato d'ignobil riposo. Kenric, suo valoroso figlio, s'avanzò nel Wiltshire; assediò Salisbury, che in quel tempo era sopra una dominante eminenza, e disfece un'armata, che veniva in soccorso della città. Nella successiva battaglia di Marlborough[274], i Britanni suoi nemici mostrarono la loro scienza militare. Le loro truppe eran disposte in tre linee; ogni linea conteneva tre corpi distinti; e la cavalleria, gli arcieri, e gli alabardieri eran distribuiti secondo i principj della tattica romana. I Sassoni attaccarono una grave colonna, arditamente affrontarono con le corte loro spade le lunghe lance de' Brettoni, e mantennero un'ugual battaglia fino all'avvicinarsi della notte. Due vittorie decisive, la morte di tre Re Brettoni, e la espugnazione di Cirencester, di Bath, e di Glocester stabiliron la fama e la potenza di Celaulino nipote di Cerdic, che portò le sue armi vittoriose fino alle rive della Saverna.
Dopo una guerra di cento anni, gl'indipendenti Brettoni, occupavano sempre tutta l'estensione della costa occidentale, dalla muraglia d'Antonino fino all'ultimo promontorio di Cornovaglia; e le città principali del paese interno tuttavia resistevano alle armi de' Barbari. L'opposizione divenne più languida, a misura che il numero e l'ardire degli assalitori andava continuamente crescendo. Guadagnandosi la strada con lenti e penosi sforzi, i Sassoni, gli Angli ed i vari loro confederati s'avanzarono dal Settentrione, dall'Oriente, e dal Mezzodì, finattantochè le vittoriose lor bandiere non s'incontrarono nel centro dell'isola. Di là dalla Savorna, i Brettoni tuttavia sostennero la nazionale lor libertà, che sopravvisse all'Eptarchia, ed anche alla Monarchia de' Sassoni. I più valenti guerrieri, che preferiron l'esilio alla schiavitù, trovarono un rifugio sicuro nelle montagne di Galles: la ripugnante sottomissione di Cornovaglia fu differita per qualche secolo[275]; ed un corpo di fuggitivi si formò uno stabilimento nella Gallia, o per il proprio valore, o per la liberalità de' Re Merovingi[276]. L'angolo occidentale dell'Armorica prese i nuovi nomi di Cornovaglia, e di Brettagna minore; e le terre vacanti degli Osismi furon'occupate da un Popolo straniero, che sotto la condotta de' propri Conti e Vescovi conservò le leggi ed il linguaggio de' suoi maggiori. I Brettoni dell'Armorica negarono, a deboli discendenti di Clodoveo e di Carlo Magno il solito tributo, soggiogarono le vicine diocesi di Vannes, di Rennes, e di Nantes, e formarono un potente, quantunque soggetto, Stato, che poi si è riunito alla corona di Francia[277].
In un secolo di perpetua, o almeno d'implacabile guerra si dovè esercitar molto coraggio, e qualche abilità nella difesa della Brettagna. Pure non ci dee molto dispiacere, se la memoria de' suoi campioni è quasi sepolta nell'oblivione; poichè ogni secolo, per quanto sia privo di scienza o di virtù, abbonda sufficientemente di azioni sanguinose, e di gloria militare. Fu eretta sul margine del lido del mare la tomba di Vertimero, figlio di Vertigerno, come un termine formidabile per li Sassoni, ch'egli avea vinto tre volte ne' campi di Kent. Ambrogio Aureliano era disceso da una famiglia nobile di Romani[278]; la sua modestia ne uguagliava il valore, ed il suo valore, fino all'ultima di lui fatale azione[279], fu coronato di splendidi successi. Ma ogni altro Britannico nome vien ecclissato dall'illustre nome d'Arturo[280], Principe ereditario de' Siluri nella parte meridionale di Galles, e Re o Generale elettivo della nazione. Secondo la narrazione più ragionevole, egli disfece in dodici successive battaglie gli Angli del settentrione, ed i Sassoni dell'occidente; ma la cadente età dell'Eroe fu amareggiata dall'ingratitudine popolare, e da disgrazie domestiche. Gli avvenimenti della sua vita son meno importanti che le rivoluzioni singolari della fama di esso. Per il corso di cinquecento anni la tradizione delle sue imprese si conservò, e s'abbellì rozzamente dagli oscuri Bardi di Galles, e dell'Armorica, i quali eran odiosi a' Sassoni, ed ignoti al restante degli uomini. L'orgoglio e la curiosità de' conquistatori Normanni fece investigar loro l'istoria antica della Brettagna: ammisero con appassionata credulità la novella d'Arturo, e caldamente applaudirono al merito d'un Principe, che avea trionfato de' Sassoni, comuni loro nemici. Il suo romanzo, trascritto in latino da Jeffrey di Monmouth, e quindi tradotto nell'idioma, che s'usava in quei tempi, fu arricchito coi varj, quantunque incoerenti, ornamenti, ch'erano famigliari all'esperienza, alla dottrina, o alla fantasia del duodecimo secolo. Facilmente si modellò sulla favola dell'Eneide il progresso d'una colonia Frigia dal Tevere al Tamigi: ed i reali antenati d'Arturo trassero l'origine loro da Troia, e pretesero d'aver parentela co' Cesari. Furon decorati i suoi trofei con Province soggiogate, e con titoli Imperiali, e le Daniche sue vittorie vendicarono le recenti ingiurie della sua patria. La galanteria e superstizione dell'Eroe Britannico, le sue feste e torneamenti, e la memorabile istituzioni de' suoi Cavalieri della Tavola rotonda fedelmente si copiarono dai costumi allora dominanti della cavalleria; e le favolose imprese del figlio d'Uter sembrano meno incredibili per le avventure, che si fecero dall'intraprendente valor de' Normanni. I pellegrinaggi, e le guerre sante introdussero in Europa gli speciosi prodigi della magia Arabica. Le fate, ed i giganti, i dragoni volanti, ed i palazzi incantati si mescolarono con le finzioni più semplici dell'occidente: ed il destino della Brettagna si faceva dipender dalle arti, o dalle predizioni di Merlino. Ogni nazione abbracciò, ed abbellì il popolar romanzo d'Arturo, ed i Cavalieri della Tavola rotonda; si celebrarono i loro nomi nella Grecia ed in Italia; e le voluminose Novelle di Ser Lancelloto, e di Ser Tristramo furono ardentemente studiate da' Principi e da' Nobili, che non curavano i veri eroi ed istorici dell'antichità. Finalmente si riaccese il lume della scienza e della ragione, si ruppe l'incantesimo, quella fabbrica immaginaria andò in fumo; e per una naturale, quantunque ingiusta mutazione della pubblica opinione, la severità del presente secolo è disposta a mettere in dubbio fino l'esistenza d'Arturo[281].
Allorchè la resistenza non può allontanar le miserie della conquista, le deve accrescere: nè la conquista comparve mai più terribile e distruttiva, che nelle mani de' Sassoni, che odiavano il valore de' nemici, non curavano la fede de' trattati, e violavano senza rimorso gli oggetti più sacri del Culto Cristiano. Potevano quasi in ogni distretto, segnarsi i campi di battaglia per mezzo di monumenti di ossa; i frammenti delle torri abbattute eran macchiati di sangue; tutti quanti i Brettoni, senza distinzione di età o di sesso, restaron uccisi[282] sotto le rovine d'Anderida[283]; e tali calamità frequentemente si ripeterono al tempo dell'Eptarchia Sassone. Le arti e la religione, le leggi, la lingua, che i Romani avevano con tanta cura piantato nella Brettagna, s'estirparono da' Barbari loro successori. Dopo la distruzione delle Chiese principali, i Vescovi che avevano evitato la corona del martirio, si ritirarono con le sante reliquie nel territorio di Galles e dell'Armorica; i residui de' loro greggi restaron privi d'ogni cibo spirituale; si abolì la pratica, e fino la rimembranza del Cristianesimo; ed il clero Britannico potè in qualche modo consolarsi per la dannazione degl'idolatri stranieri. I Re di Francia mantennero i privilegi de' Romani lor sudditi; ma i feroci Sassoni calpestarono le leggi di Roma, e degli Imperatori. Si soppressero affatto le formalità della civile e criminale Giurisdizione, i titoli onorifici, gli ufizi, ed i gradi della società, e fino i domestici diritti del matrimonio, del testamento e dell'eredità; e l'indistinta folla di schiavi, nobili e plebei, veniva governata da' costumi tradizionali, che si erano rozzamente formati appresso i pastori e pirati della Germania. Nella generale desolazione si perde il linguaggio delle scienze, degli affari e della conversazione, che vi s'era introdotto da' Romani. I Germani presero forse un sufficiente numero di parole Latine, o Celtiche, per esprimere i nuovi loro bisogni e pensieri[284]; ma quegl'ignoranti Pagani conservarono, e stabilirono l'uso del loro nazionale dialetto[285]. Quasi ogni nome, cospicuo nella Chiesa, o nello Stato, dimostra la sua origine Teutonica[286]; e la geografia d' Inghilterra fu generalmente ripiena di caratteri, e denominazioni straniere. Non si troverà facilmente l'esempio d'una rivoluzione sì rapida e perfetta; ma essa ecciterà un probabil sospetto, che le arti di Roma avesser gettato radici meno profonde nella Brettagna, che nella Gallia, o nella Spagna; e che la nativa rozzezza del paese e de' suoi abitanti fosse coperta solo da una sottil vernice di costumi Italiani.
Tale strana alterazione ha persuaso gl'Istorici, ed anche i Filosofi, che i Provinciali della Brettagna fossero affatto esterminati; e che la terra vacante fosse di nuovo popolata da un perpetuo concorso, e rapido accrescimento di Colonie germaniche. Si dice, che trecentomila Sassoni obbedissero alle chiamate d'Engisto[287]: al tempo di Beda l'intiera emigrazione degli Angli si chiariva dalla solitudine del nativo loro paese[288]; e l'esperienza ci ha dimostrato, quanto è grande la libera propagazione della specie umana, quando si trova in un fecondo deserto, dove non son limitati i suoi passi, ed è abbondante la sufficienza. I Regni Sassoni avevan l'aspetto d'una recente scoperta e cultura: le città de' medesimi erano piccole, i villaggi distanti l'uno dall'altro, l'agricoltura era languida ed imperfetta; quattro pecore equivalevano ad un acro della terra migliore[289]; un ampio spazio di boschi, e di paludi era lasciato in abbandono alla natura; ed il moderno Vescovato di Durham, cioè tutto il territorio dal Tyne al Tees, era tornato al suo primitivo stato di selvaggia e solitaria foresta[290]. Si sarebbe potuto supplire ad una tanto imperfetta popolazione, dopo alcune generazioni, dalle colonie Inglesi; ma nè la ragione, nè i fatti posson giustificare l'improbabil supposizione, che i Sassoni della Brettagna rimanessero soli nel deserto, ch'essi avevano soggiogato. Dopo che i sanguinari Barbari ebbero assicurato il proprio dominio, e soddisfatta la lor vendetta, era loro interesse di conservare gli abitanti, ugualmente che il bestiame della non resistente campagna. In ogni successiva rivoluzione il paziente gregge diviene patrimonio dei suoi nuovi padroni; ed il salutevole patto del cibo e del lavoro viene tacitamente confermato dalle loro vicendevoli necessità. Wilfrido, Apostolo di Sussex[291], ricevè dal regio suo proselito in dono la penisola di Selsey, vicina a Chichester, con le persone e le cose de' suoi abitatori, che in quel tempo ascendevano ad ottantasette famiglie. Esso gli liberò con un solo atto dalla servitù spirituale e temporale; e dugentocinquanta schiavi di ambedue i sessi furono battezzati dall'indulgente loro Signore. Il regno di Sussex, che s'estendeva dal mare al Tamigi, conteneva settemila famiglie; mille dugento se ne attribuivano all'isola di Wight; e se moltiplichiamo questo incerto computo, sembra probabile, che l'Inghilterra fosse coltivata da un milione di servi, o villani, ch'erano attaccati alle terre degli arbitrari loro padroni. I bisognosi Barbari, spesso eran tentati di vendere i loro figli, o se medesimi in perpetua, ed anche straniera schiavitù[292]; pure le speciali esenzioni, che si accordavano agli schiavi nazionali[293], sufficientemente dimostrano, ch'essi eran di numero molto minore, che gli stranieri, che avevan perduto la libertà, o mutato padroni per gli accidenti della guerra. Quando il tempo e la religione ebbero mitigato il fiero spirito degli Anglo-Sassoni, le leggi favorirono il frequente uso della manomissione; ed i sudditi d'origine di Galles, o Cambria assunsero la rispettabile condizione di uomini liberi inferiori, possederono terre, ed acquistarono i diritti della civil società[294]. Tal cortese trattamento potè assicurare la fedeltà d'un feroce Popolo, che era stato di fresco vinto su' confini di Galles, e di Cornovaglia. Il saggio Ina, Legislatore di Wessex, riunì le due nazioni co' vincoli della domestica alleanza; e nella Corte d'un Monarca Sassone poterono distinguersi onorevolmente quattro Signori Britanni di Somersetshire[295].
Sembra che gl'indipendenti Brettoni ricadessero nello lo stato d'original barbarie, da cui si erano imperfettamente liberati. Separati per la forza de' loro nemici dal resto dell'uman Genere, tosto divennero un oggetto di scandalo, e d'aborrimento al Mondo cattolico[296]. Si professava tuttavia il Cristianesimo nelle montagne di Galles; ma que' rozzi Scismatici, rispetto alla forma della tonsura clericale, ed al giorno della celebrazion della Pasqua, ostinatamente resistevano agli imperiosi mandati de Pontefici Romani. Si abolì appoco appoco presso di loro l'uso della lingua Latina, ed i Brettoni restaron privi delle arti, e della dottrina, che l'Italia comunicava a' Sassoni suoi proseliti. Nel paese di Galles, e nell'Armorica si mantenne, e si propagò la lingua Celtica, primitivo idioma dell'occidente; ed i Bardi, ch'erano stati i compagni de' Druidi, erano tuttavia protetti, nel secolo decimosesto, dalle leggi di Elisabetta. Il loro Capo, ch'era un rispettabile uficiale delle Corti di Pengwern, o Aberfraw, o Caermathaen, accompagnava i Servi del Re alla guerra: la Monarchia de' Britanni, ch'ei celebrava col canto, alla testa della battaglia, eccitava il loro coraggio, e giustificava le loro prede; ed il cantore aveva per suo legittimo premio la più bella vitella della spoglie. I ministri, subordinati al medesimo, ch'erano i maestri, e gli scolari della musica sì vocale che istrumentale, visitavano ne' respettivi loro distretti le case del Re, dei Nobili e de' Plebei, e la pubblica povertà, quasi esausta dal Clero, era oppressa dalle importune domande de' Bardi. Si fissava il grado ed il merito loro per mezzo di solenni esperimenti, e la forte credenza d'una ispirazione soprannaturale esaltava la fantasia del poeta, e della sua udienza[297]. Gli ultimi nascondigli della libertà Celtica, vale a dire i territori più remoti della Gallia e della Brettagna, eran meno adattati alla coltivazione, che alla pastura: la ricchezza de' Brettoni consisteva ne' loro greggi ed armenti; il latte e la carne erano l'ordinario lor cibo; ed il pane talvolta era stimato, o rigettato, come un lusso straniero. La libertà avea popolato le montagne di Galles e le paludi dell'Armorica; ma la popolazione loro si è maliziosamente attribuita alla libera pratica della poligamia; ed è stato supposto, che le case di questi licenziosi Barbari contenessero dieci mogli, e forse cinquanta figli[298]. Essi erano d'indole impetuosa, e collerica, audaci nelle azioni e nelle parole[299]; e siccome ignoravano le arti della pace, soddisfacevano a vicenda le loro passioni nelle guerre straniere e domestiche. La cavalleria dell'Armorica, i lancieri di Gwent, e gli arcieri di Merioneth erano ugualmente formidabili; ma la lor povertà rade volte poteva provvedergli di scudi o di elmi: e l'incomodo peso di questi avrebbe ritardato la velocità e l'agilità delle subitanee loro operazioni. La curiosità d'un Imperator Greco fece delle ricerche ad uno de' più grandi fra' Monarchi Inglesi intorno allo stato della Brettagna; ed Enrico II potè asserire, per la propria personal esperienza, che la provincia di Galles era abitata da una razza di guerrieri nudi, che affrontavan senza timore le armi difensive de' loro nemici[300].
Per la rivoluzione della Brettagna si ristrinsero i limiti della scienza, ugualmente che quelli dell'Impero. L'oscura nuvola, ch'era stata rischiarata dalle scoperte Fenicie, ed affatto sgombrata dalle armi di Cesare, si posò di nuovo su' lidi dell'Atlantico, ed una provincia Romana si perdè nuovamente fra le isole favolose dell'Oceano. Cento cinquant'anni dopo il regno d'Onorio, il più grave Istorico di que' tempi[301] descrive le meraviglie d'un isola remota, le cui parti Orientale ed Occidentale son divise da una antica muraglia, limite della vita e della morte, o piuttosto della verità e della finzione. L'Orientale contiene una bella campagna abitata da un Popolo culto; l'aria è salubre, le acque pure ed abbondanti, e la terra dà regolarmente i suoi frutti. Nell'Occidentale oltre la muraglia, l'aria è infetta e mortale, la terra è coperta di serpenti; e quell'arida solitudine è l'abitazione di ombre di morti, che vi sono trasportati dagli opposti lidi, in solidi battelli, e per opera di rematori viventi. Alcune famiglie di pescatori, sottoposte ai Franchi, sono esenti da' tributi, a riguardo del misterioso ufizio, che si fa da questi Caronti dell'Oceano. Ciascheduno di essi a vicenda è chiamato, nell'orror di mezza notte, ad ascoltar le voci, ed anche i nomi degli spiriti: ei sente il loro peso, e si trova spinto da un'ignota, ma irresistibil forza. Dopo questo sogno di fantasia, leggiamo con stupore, che il nome di quest'isola è Brittia, ch'essa giace nell'Oceano, in faccia all'imboccatura del Reno, e distante meno di trenta miglia dal continente; ch'essa è posseduta da tre nazioni, da' Frisj, dagli Angli e da' Brettoni, e che alcuni Angli eran comparsi a Costantinopoli nel seguito degli Ambasciatori francesi. Da questi Ambasciatori potè forse Procopio essere informato d'una singolare, quantunque non improbabile, avventura, che indica lo spirito piuttosto, che la delicatezza d'una Eroina Inglese. Essa era stata promessa a Radigero, Re de' Varni, Tribù di Germani, che confinava coll'Oceano, e col Reno; ma il perfido amante fu indotto, da motivi di politica, preferirle la vedova di suo padre, sorella di Teodeberto Re de' Franchi[302]. L'abbandonata Principessa degli Angli, in vece di deplorare la sua disgrazia, pensò a vendicarla. Si dice, che i bellicosi di lei sudditi non conoscessero l'uso e neppur la forma del cavallo, ma essa, partendo audacemente dalla Brettagna, approdò alla bocca del Reno, con una flotta di quattrocento navi, ed un esercito di centomila uomini. Dopo la perdita d'una battaglia Radigero, fatto prigione, implorò la pietà della vittoriosa sua sposa, che generosamente gli perdonò l'ingiuria, lasciò in libertà la sua rivale, e costrinse il Re de' Varni a soddisfare con onore e con fedeltà i doveri di marito[303]. Sembra che questa galante impresa fosse l'ultima guerra navale degli Anglo-Sassoni. L'arte della navigazione, mediante la quale avevano essi acquistato l'Impero della Brettagna e del mare, fu tosto negletta dagl'indolenti Barbari, che rinunziarono scioccamente a tutti i vantaggi del commercio, che la loro isolare situazione somministrava. I sette loro indipendenti regni erano agitati da perpetue discordie; ed il Mondo Britannico rade volte si trovava connesso in pace o in guerra, con le nazioni del continente[304].
Ho terminato adesso la faticosa narrazione della decadenza, e caduta del Romano Impero dalla fortunata età di Traiano e degli Antonini fino alla sua total estinzione in Occidente, circa cinque secoli dopo l'Era Cristiana. In quell'infelice tempo i Sassoni fieramente contrastavano pel possesso della Brettagna co' nativi di essa: la Gallia e la Spagna eran divise fra le potenti Monarchie de' Franchi e de' Visigoti, ed i regni dipendenti degli Svevi e de' Borgognoni: l'Affrica era esposta alla crudel persecuzione de' Vandali, ed a' Selvaggi insulti de' Mori: Roma e l'Italia fino alle rive del Danubio, veniva angustiata da un esercito di Barbari mercenari, all'arbitraria tirannia de' quali successe il regno di Teodorico l'Ostrogoto. Tutti i sudditi dell'Impero, che per l'uso che facevano della lingua Latina, meritavano più specialmente il nome ed i privilegi di Romani, eran oppressi dalla vergogna e dalle calamità d'una straniera conquista; e le vittoriose nazioni della Germania stabilirono un nuovo sistema di costumi, e di governo nell'Occidentali regioni d'Europa. Debolmente rappresentavasi da' Principi di Costantinopoli, languidi ed immaginari successori d'Augusto, la maestà di Roma. Pure continuarono a regnare sull'Oriente, dal Danubio sino al Nilo ed al Tigri; dalle armi di Giustiniano si rovesciarono i regni Gotico e Vandalo dell'Italia e dell'Affrica; e l'Istoria degl'Imperatori Greci può sempre somministrare una lunga serie di istruttive lezioni e di rivoluzioni interessanti.
OSSERVAZIONI GENERALI Sulla caduta del Romano Impero dell'Occidente.
I Greci, poscia che il loro paese fu ridotto a Provincia, attribuivano i trionfi di Roma, non al merito, ma alla Fortuna della Repubblica. Quell'incostante Dea, che distribuisce e riprende sì ciecamente i suoi favori, aveva allora acconsentito (tal era il linguaggio dell'invidiosa adulazione) di piegar le ali, di scendere dal suo globo, e di collocare il fermo ed immutabil suo trono sulle rive del Tevere[305]. Un Greco più saggio, che ha composto con filosofico spirito la memorabile istoria de' suoi tempi, privò i suoi compatriotti di questo vano ed ingannevol conforto, scuoprendo a' lor'occhi gli alti fondamenti della grandezza di Roma[306]. La fedeltà de' cittadini l'uno verso dell'altro, e verso lo Stato, era confermata dall'abitudine dell'educazione, e da' pregiudizi della Religione. L'onore, ugualmente che la virtù, era il principio della Repubblica: gli ambiziosi cittadini cercavano di meritare la solenne gloria d'un trionfo; e l'ardore della gioventù Romana s'accendeva ad un'attiva emulazione ogni volta che vedevano le domestiche immagini de' loro maggiori[307]. Le contese temperate dei Patrizi e de' Plebei avevan finalmente fissato la stabile, ed ugual bilancia della costituzione, che riuniva la libertà delle assemblee popolari, coll'autorità e saviezza d'un Senato, e coll'esecutiva potenza d'un Magistrato Reale. Quando il Console spiegava la bandiera della Repubblica, ogni Cittadino si legava, mediante l'obbligazione d'un giuramento, ad impiegar la sua spada nella causa della Patria, finattantochè non avesse soddisfatto a questo sacro dovere con un servizio militare di dieci anni. Questo savio istituto continuamente versava nel campo nuove generazioni di uomini liberi e di soldati: e se ne rinforzava il numero da' guerrieri e popolati Stati d'Italia, che dopo una forte resistenza, avevan ceduto al valore, ed abbracciato l'alleanza de' Romani. Il savio Storico, che eccitò la virtù di Scipione il giovane, e vide la rovina di Cartagine[308], ha descritto accuratamente il lor sistema militare, le reclute, le armi, gli esercizi, la subordinazione, le marce, gli accampamenti, e l'invincibile legione loro, superiore, nell'attività della forza, alla Falange macedonica di Filippo e d'Alessandro. Da tali istituti di pace e di guerra, Polibio ha dedotto lo spirito, ed il successo d'un Popolo, incapace di timore, ed impaziente di riposo. Fu intrapreso e condotto a termine l'ambizioso disegno di conquista, che avrebbe potuto eludersi dall'opportuna cospirazione dell'uman genere; e si mantenne la perpetua violazione della giustizia con le politiche virtù della prudenza e del coraggio. Le armi della Repubblica, talvolta vinte in battaglia, ma sempre vittoriose nella guerra, si avanzarono con rapidi passi fino all'Eufrate, al Danubio, al Reno ed all'Oceano, e le immagini d'oro, d'argento o di rame, che potrebbero servire a rappresentar le nazioni ed i loro Re, furono l'una dopo l'altra spezzate dalla ferrea Monarchia di Roma[309].
L'innalzamento d'una città, che crebbe tanto da formare un Impero, può meritare, come un singolar prodigio la riflessione d'una mente filosofica. Ma la decadenza di Roma era il naturale ed inevitabil effetto della sua smoderata grandezza. La prosperità maturò il principio della caduta; si moltiplicaron le cause della distruzione coll'estensione della conquista; ed appena il tempo, o l'accidente ne rimosse gli artificiali sostegni, che quella stupenda fabbrica cedè alla compressione del suo proprio peso. La storia della sua rovina è semplice ed ovvia; ed invece di cercare perchè si distrusse il Romano Impero, dovremmo piuttosto maravigliarci, che sussistesse tanto tempo. Le vittoriose legioni, che nelle guerre distanti acquistarono i vizi degli stranieri e de' mercenari, prima oppressero la libertà della Repubblica, e di poi violarono la maestà della porpora. Gl'Imperatori, ansiosi della lor personale salvezza e della pubblica pace, si ridussero al vil espediente di corrompere la disciplina, che le rendeva ugualmente formidabili al loro Sovrano ed al nemico; si rilassò il vigore del governo militare, e finalmente si sciolse, per le parziali istituzioni di Costantino; ed il Mondo romano fu inondato da un diluvio di Barbari.
Si è frequentemente attribuita la decadenza di Roma alla traslazione della Sede dell'Impero; ma il corso di quest'Istoria ha già dimostrato, che le forze del Governo furon divise, piuttosto che rimosse in tal occasione. Fu eretto nell'Oriente il trono di Costantinopoli, mentre l'Occidente si continuò a possedere da una serie d'Imperatori, che risedevano in Italia, ed avevano diritto alla loro ugual porzione delle Legioni e delle Province. Questa pericolosa novità diminuì la forza, e fomentò i vizi d'un doppio regno; si moltiplicarono gl'istrumenti di un oppressivo ed arbitrario sistema: e s'introdusse, e si sostenne una vana emulazione di lusso, non di merito, fra i degenerati successori di Teodosio. L'estrema angustia, che riunisce la virtù d'un Popolo libero, inasprisce le fazioni d'una Monarchia decadente. I contrari favoriti d'Arcadio e d'Onorio diedero la Repubblica in mano a' comuni di lei nemici; e la Corte Bizantina mirò con indifferenza, e forse con piacere, il disonore di Roma, le disgrazie d'Italia, e la perdita dell'Occidente. Sotto i Regni seguenti, si ristabilì l'alleanza de' due Imperi; ma l'aiuto de' Romani Orientali era tardo, dubbioso ed inefficace; e si estese lo scisma nazionale de' Greci e de' Latini per causa della perpetua differenza di linguaggio, di costumi, d'interessi ed anche di religione. Pure l'evento vantaggioso approvò in qualche modo il giudizio di Costantino. In un lungo corso di decadenza l'inespugnabile sua città rispinse le armi vittoriose de' Barbari, difese la ricchezza dell'Asia, e dominò tanto in pace che in guerra l'importante Stretto, che fa comunicare l'Eusino ed il Mediterraneo. La fondazione di Costantinopoli contribuì più essenzialmente alla conservazione dell'Oriente, che alla rovina dell'Occidente.
Siccome la felicità d'una vita futura è il grande oggetto della Religione, possiamo ascoltare senza sorpresa, o scandalo, che l'introduzione, o almeno l'abuso del Cristianesimo ebbe qualche influenza sulla decadenza e rovina del Romano Impero. I Chierici predicarono con successo le dottrine della pazienza, e della pusillanimità; le virtù attive della società si scoraggirono; e gli ultimi avanzi dello spirito militare si andarono a seppellire ne' chiostri: una gran parte di ricchezza pubblica e privata si consacrò alle speciose domande di carità e di devozione, e la paga de' soldati si dissipò nelle inutili truppe di ambedue i sessi, che non potevan vantare che i meriti dell'astinenza e della castità. La fede, lo zelo, la curiosità e le passioni più mondane della malizia e dell'ambizione accesero la fiamma della discordia teologica; la Chiesa e lo Stato furon divisi dalle religiose fazioni, i combattimenti delle quali talvolta fur sanguinosi e sempre implacabili; l'attenzione degl'Imperatori dal campo trasportavasi a' Sinodi; il Mondo romano era oppresso da una nuova specie di tirannide; e le Sette perseguitate divennero segrete nemiche della lor patria. Pure lo spirito di partito, per quanto sia pernicioso o assurdo, è un principio d'unione, ugualmente che di dissensione. I Vescovi da milleottocento pulpiti inculcavano il dovere d'una passiva ubbidienza al legittimo ed ortodosso Sovrano; le frequenti adunanze e la continua corrispondenza loro manteneva la comunicazione delle Chiese più distanti; e l'indole benefica del Vangelo venne fortificata, benchè ristretta, dalla spiritual confederazione de' Cattolici. Devotamente abbracciossi la sacra indolenza de' Monaci da un secol effemminato e servile; ma se la superstizione non avesse somministrato una decente ritirata, gli stessi vizi avrebbero indotto gl'indegni Romani ad abbandonare per motivi più bassi le bandiere della Repubblica. Facilmente i devoti obbediscono a' precetti religiosi, che secondano e santificano le naturali loro inclinazioni; ma può vedersi la pura e genuina influenza del Cristianesimo ne' suoi benefici, quantunque incompleti, effetti su' Barbari proseliti del Settentrione. Se la conversione di Costantino accelerò la decadenza dell'Impero Romano; la vittoriosa di lui Religione moderò la violenza della caduta di esso, ed addolcì la feroce indole de' conquistatori.
Può applicarsi utilmente questa terribile rivoluzione all'istruzione del presente secolo. Egli è dovere d'un cittadino il preferire e promuovere l'interesse e la gloria della sua patria esclusivamente: ma si può permettere ad un Filosofo d'estendere i suoi sguardi, e di considerar l'Europa, come una grande Repubblica i varj abitanti della quale son giunti quasi all'istesso livello di gentilezza e di coltura. La bilancia del potere continuerà a variare, e la prosperità del nostro Regno o de' vicini può alternativamente allargarsi o abbassarsi; ma questi particolari successi non possono essenzialmente ledere il nostro generale stato di felicità, il sistema delle arti, delle leggi e de' costumi che distinguono sì vantaggiosamente gli Europei, e le loro colonie, sopra il rimanente del Genere umano. I Popoli selvaggi del globo sono i nemici comuni delle società incivilite, e possiam ricercare con ansiosa curiosità, se l'Europa è tuttavia minacciata di esser nuovamente soggetta a quelle calamità, che una volta oppressero le armi e gl'istituti di Roma. Forse le medesime riflessioni, che illustrano la caduta di quel potente Impero, serviranno a spiegar le cause probabili della nostra attual sicurezza.
I. I Romani non sapevano l'estensione del loro pericolo, il numero de' loro nemici. Di là dal Reno e dal Danubio le regioni settentrionali dell'Europa e dell'Asia erano piene d'innumerabili tribù di cacciatori e pastori poveri, voraci e turbolenti, audaci nelle armi, ed impazienti di rapire i frutti dell'industria. Era il Mondo Barbaro agitato dal rapido impulso di guerra; e la pace della Gallia, o dell'Italia era minacciata dallo distanti rivoluzioni della China. Gli Unni, che fuggivano da un vittorioso nemico, diressero il loro corso all'Occidente; ed il torrente gonfiò sempre più per li successivi accrescimenti degli schiavi e degli alleati. Le tribù fuggitive, che cedevano agli Unni, assunsero a vicenda lo spirito di conquista; l'immensa colonna de' Barbari comprimeva con accumulato peso l'Impero Romano; e se distruggevansi i più vicini, subito si riempiva lo spazio vacante da nuovi assalitori. Non posson più farsi dal Settentrione tali formidabili emigrazioni; ed il lungo riposo, che si è imputato alla diminuzione del Popolo, è piuttosto una felice conseguenza del progresso delle arti o dell'agricoltura. In vece di qualche rozzo villaggio raramente sparso fra boschi e le paludi, la Germania conta presentemente duemila trecento città murate: si sono successivamente stabiliti i regni Cristiani di Danimarca, di Svezia, e di Polonia; e le società di Mercanti[310] co' Cavalieri Teutonici hanno esteso le loro colonie lungo le coste del Baltico fino al golfo di Finlandia. Da questo fino all'Oceano orientale prende ora la Russia forma d'un potente ed incivilito Impero. Si sono introdotti l'aratro, il telajo e la fucina sulle rive del Volga, dell'Oby e del Lena; e le più fiere orde Tartare hanno imparato a tremare e ad ubbidire. Il regno de' Barbari indipendenti, adesso è ristretto ad un'angusta misura; ed i residui de' Calmucchi, o degli Usbecchi, de' quali possono quasi numerarsi le forze, non sono più in grado di eccitar seriamente l'apprensione della gran repubblica dell'Europa[311]. Contuttocciò non dovrebbe tale apparente sicurezza indurci a dimenticare, che possono da qualche oscuro Popolo, appena visibile nella carta della terra, nascere de' nuovi nemici, e degl'ignoti pericoli. Gli Arani o i Saracini, ch'estesero le loro conquiste dall'India alla Spagna, avevan languito nella povertà e nel disprezzo, finattantochè Maometto non ispirò in que' rozzi corpi l'anima dell'entusiasmo.
II. L'Impero di Roma era sodamente stabilito dalla singolare e perfetta unione delle sue membra. Le sottoposte Nazioni, rinunziando alla speranza, ed anche al desiderio dell'indipendenza, abbracciarono il carattere di cittadini Romani; e le Province dell'occidente con ripugnanza si videro staccate per opera de' Barbari, dal seno della lor madre patria[312]. Ma si era comprata quest'unione con la perdita della libertà nazionale, e dello spirito militare; e le servili Province prive di vita, e di moto, aspettavano la lor salvezza dalle truppe mercenarie e da' Governatori, che si regolavano secondo gli ordini d'una distante Corte. La felicità di cento milioni dipendeva dal merito personale d'uno, o di due uomini, forse di fanciulli, gli animi de' quali eran corrotti dall'educazione, dal lusso e dal potere dispotico. Nel tempo delle minorità de' figli, e de' nipoti di Teodosio ricevè l'Impero le più profonde ferite; e quando parve, che quest'inetti Principi fossero giunti all'età virile, essi abbandonaron la Chiesa ai Vescovi, lo Stato agli Eunuchi, e le Province a' Barbari. L'Europa ora è divisa in dodici potenti quantunque non uguali Regni, in tre rispettabili Repubbliche, ed in una quantità di Stati più piccioli sebbene indipendenti: si son moltiplicate le occasioni di esercitare i talenti Reali, e ministeriali, almeno in proporzione del numero de' loro regolatori; e possono regnare nel Settentrione un Giuliano, o una Semiramide, nel tempo che Arcadio ed Onorio stanno di nuovo dormendo su' troni del Mezzogiorno. Gli abusi della tirannia son frenati dalla vicendevole influenza del timore e della vergogna; le repubbliche hanno acquistato dell'ordine e della stabilità; le monarchie si sono imbevute di principj di libertà, o almeno di moderazione; e si è introdotto nelle più difettose costituzioni qualche sentimento d'onore e di giustizia da' costumi generali de' nostri tempi. Nella pace, viene accelerato il progresso delle cognizioni e dell'industria dall'emulazione di tanti attivi rivali; nella guerra, si esercitano le forze europee per mezzo di moderate, e non decisive battaglie. Se uscisse un selvaggio conquistatore da' deserti della Tartaria, dovrebbe replicatamente vincere i robusti contadini della Russia, i numerosi eserciti della Germania, i valorosi nobili della Francia, gl'intrepidi uomini liberi dell'Inghilterra; i quali tutti potrebbero anche confederarsi fra loro per la comune salvezza. Quand'anche i vittoriosi Barbari portassero la schiavitù e la desolazione fino all'Oceano Atlantico, diecimila navi trasporterebbero gli avanzi della società civilizzata fuori del loro potere; e l'Europa risorgerebbe, e fiorirebbe nell'America, ch'è già piena delle colonie e degl'istituti di essi[313].
III. Il freddo, la povertà ed una vita piena di pericoli e di fatiche invigorisce la forza ed il coraggio de' Barbari. In ogni tempo essi hanno oppresse le culte e pacifiche nazioni della China, dell'India, e della Persia, che hanno trascurato, e tuttavia trascurano di contrabbilanciare queste loro naturali forze mediante l'arte militare. Gli Stati bellicosi dell'antichità come della Grecia, di Macedonia e di Roma, educavano una progenie di soldati: n'esercitavano i corpi, ne disciplinavano il coraggio, ne moltiplicavan le forze per mezzo di regolari evoluzioni, e convenivano il ferro, che possedevano, in forti ed utili armi. Ma questa superiorità insensibilmente decadde insieme con le leggi ed i costumi loro; e la debole politica di Costantino, e de' suoi successori, armò ed istruì, per la rovina dell'Impero, il rozzo valore de' Barbari mercenari. L'arte militare si è cangiata per l'invenzion della polvere che abilita l'uomo a dominare i due più forti agenti della natura, l'aria ed il fuoco. Si sono applicate all'uso della guerra le Matematiche, la Chimica, le Meccaniche, e l'Architettura; e le parti contrarie si oppongono vicendevolmente le più elaborate maniere d'attacco e di difesa. Possono gl'istorici osservare con sdegno, che i preparativi d'un assedio servirebbero a fondare, ed a mantenere una florida colonia[314]; pure non ci dee dispiacere, che la distruzione di una città sia un'opera dispendiosa e difficile; o che un industrioso Popolo sia difeso da quelle arti, che sopravvivono, e suppliscono alla decadenza del valor militare. Presentemente, il cannone e le fortificazioni formano un inespugnabil riparo contro la cavalleria Tartara; e l'Europa è sicura da ogni futura invasione di Barbari; giacchè prima di poter conquistare, bisogna che cessino d'esser Barbari. Il graduale loro avanzamento nella scienza della guerra dev'esser sempre accompagnato, come possiam vedere dall'esempio della Russia, con una proporzionata cultura nelle arti della pace, e del Governo civile; ed essi medesimi debbono meritare un posto fra le nazioni incivilite, che vogliono soggiogare.
Se queste speculazioni si trovassero dubbiose o fallaci, vi resta sempre una sorgente più umile di conforto e di speranza. Le scoperte de' Navigatori antichi e moderni, la domestica istoria, o la tradizione delle più illuminate nazioni, rappresentano l' uomo selvaggio, nudo sì nella mente, che nel corpo, e privo di leggi, di arti, d'idee, o quasi di linguaggio[315]. Da questa abbietta situazione, ch'è forse lo stato primitivo ed universale dell'uomo, egli si è appoco appoco innalzato a comandare agli animali, a fertilizzar la terra, a traversar l'Oceano, ed a misurare il cielo. Il suo progresso nella cultura, e nell'esercizio delle sue facoltà mentali e corporee[316] è stato irregolare e vario, infinitamente lento in principio, poi crescente a grado a grado con raddoppiata velocità: a' secoli d'una laboriosa salita è succeduto un momento di rapida caduta; ed i varj climi del globo hanno sentito le vicende della luce e delle tenebre. Pure l'esperienza di quattromill'anni dovrebbe estendere le nostre speranze, e diminuire i nostri timori: noi non possiamo determinare a qual grado d'altezza la specie umana possa aspirare nel suo avanzamento verso la perfezione; ma può sicuramente presumersi, che nessun Popolo, a meno che non cangi la faccia della natura, ricaderà nella sua originaria barbarie. I progressi della società si possono risguardare sotto un triplice aspetto: 1. Il Poeta, o il Filosofo illustra il suo secolo, e la sua patria con gli sforzi d'una mente singolare; ma queste superiori forze di ragione, o di fantasia sono rare e spontanee produzioni; ed il genio d'Omero, di Cicerone, o di Newton ecciterebbe minore ammirazione, se potesse crearsi dalla volontà di un Principe, o dalle lezioni d'un precettore: 2. I vantaggi della legge e della politica, del commercio e delle manifatture, delle arti e delle scienze sono più sodi e durevoli: e molti individui possono esser resi capaci, dall'educazione e dalla disciplina, a promuovere, nelle respettive lor condizioni, l'interesse della società. Ma quest'ordine generale è l'effetto della saviezza e della fatica; e tal composta macchina può logorarsi dal tempo, o esser offesa dalla violenza; 3. Fortunatamente per l'uman Genere le arti più utili, o almeno più necessarie, si posson esercitare senza talenti superiori, o nazionale subordinazione; senza le forze d' uno, o l'unione di molti. Ogni villaggio, ogni famiglia, ogni individuo dee sempre avere abilità ed inclinazione a perpetuare l'uso del fuoco[317], e de' metalli, la propagazione ed il servizio degli animali domestici, le maniere di cacciare e di pescare, i principj della navigazione, l'imperfetta coltivazione del grano, o d'altra materia nutritiva, e la semplice pratica del commercio meccanico. Possono estirparsi il genio privato e la pubblica industria; ma queste tenaci piante sopravvivono alla tempesta, e gettano una eterna radice nel più ingrato suolo. Gli splendidi giorni d'Augusto, e di Traiano furono ecclissati da un nuvolo d'ignoranza; ed i Barbari sovvertirono le leggi ed i palazzi di Roma. La falce però, invenzione o emblema di Saturno[318] continuò a mietere annualmente le raccolte d'Italia; ed i banchetti de' Lestrigoni che si cibavano di carne umana,[319] non si son mai rinnuovati sulle coste della Campania.
Dopo la prima scoperta delle arti, la guerra, il commercio e lo zelo religioso hanno sparso fra' selvaggi del vecchio, e del nuovo Mondo questi preziosissimi doni; successivamente essi si son propagati; e non si posson più perdere. Noi dunque possiamo acquietarci in questa soddisfacente conclusione, che ogni età del Mondo ha accresciuto, e sempre accresce la reale ricchezza, la felicità, la cognizione, e forse la virtù della specie umana[320].
AVVERTIMENTO apposto dal Traduttore Pisano al Capitolo XXXIII del Gibbon.
Eccoci al termine della promessa traduzione di ciò, che è stato pubblicato finora dal Sig. Eduardo Gibbon intorno alla Storia della decadenza dell'Impero Romano. Il Lettore avrà certamente ammirato in quest'opera una erudizione estesa e profonda, uno stile nervoso e vivace, e nell'Autore di essa una mente capace di cose grandi. Auguriamo pertanto al medesimo vita ed ozio per ultimarla; ma lo esortiamo ad essere nel tempo stesso più rispettoso per la Religione divina di Gesù Cristo, e per gl'illustri Campioni che la sostennero coi loro scritti immortali, colla Santità della vita, e bene spesso col proprio sangue. Nuocerà sempre alla fama di uno Scrittore, che parla sovente di una Religione, la quale teme soltanto di non essere ben conosciuta, il mostrare appunto di non conoscerla, e molto più il ravvisarla. Se ciò debba dirsi del Sig. Gibbon si può rilevare da molte annotazioni o staccate od in forma di lettera, che abbiamo fatte negli otto precedenti volumi, e singolarmente dalla solida Confutazione in 2 Tomi in 4.º del Sig. Ab. Niccola Spedalieri, a cui parimenti appartiene il Saggio, da noi inserito nel Tomo terzo. In quest'ultimo Tomo l'A. Inglese sfoga l'antico livore nazionale non tanto contro dei Monaci, quanto contro la stessa primitiva istituzione del Monachismo: e con intollerabile ardire ispira dei dubbi intorno al domma della Trinità Sacrosanta; quasi che mancandoci il memorabile Testo di S. Giovanni[321] = Tres sunt qui testimonium dant in coelo Pater, Verbum, et Spiritus S., et hi tres unum sunt = non se ne avesse altra prova. Coloro che son versati nelle scienze sacre, ed ai quali non sono ignote le opere dei Bull, dei Bianchini, de' Maffei, Calmet ec. non hanno bisogno dei nostri lumi per condannare una critica sì sfrenata. Per gli altri che amano la brevità in cotal genere di discussioni, più delle nostre, abbiamo creduto opportune le riflessioni fatte sopra i due articoli sopraccennati da Monsignor Claudio Fleury[322], Autore citato più volto dal Sig. Gibbon, ed a cui non può darsi la taccia di superstizioso o di credulo senza ingiustizia. Ecco pertanto ciò che egli dice dei Monaci primitivi[323].
Dopo i Martiri viene uno spettacolo egualmente maraviglioso, e sono i Solitari. Comprendo sotto questo nome i Monaci, gli Anacoreti, e quelli, che nei primi tempi si chiamavano Asceti. Questi si ponno dir Martiri della penitenza, e le lor sofferenze son tanto più maravigliose, quanto più volontarie e più lunghe; poichè in luogo di un supplizio di poche ore, essi hanno portata fedelmente la loro Croce per lo spazio di cinquanta, o sessant'anni. Trattando di essi, mi sono esteso forse troppo, se considero il gusto degli Eruditi, o de' curiosi, che poco valutano l'orazione, e le pratiche di pietà. Credo per altro, che la vita dei Santi formi una gran parte della Storia Ecclesiastica, e risguardo questi Santi Solitari come il modello della perfezione Cristiana. Essi erano veri Filosofi, come sovente gli chiama l'antichità. Si separavano dal Mondo per meditare le cose celesti; non come quegli Egiziani descritti da Porfirio[324], che sotto un sì gran nome non intendevano altro, che la Geometria[325], o l'Astronomia: nè come i Filosofi Greci, che si ritiravano per ricercare i segreti della natura, per ragionare sulla morale, o per disputare del Sommo Bene, e della distinzione delle virtù.
I Monaci (ricordevoli dei detti della incarnata Sapienza eterna, incontro a cui altro non sono che importuni gracidatori i Filosofanti del secolo) rinunziavano al Matrimonio, e alla Società degli uomini, per liberarsi dall'imbarazzo degli affari, e dalle tentazioni che sono inevitabili nel commercio del Mondo; per pregare, cioè contemplare la grandezza di Dio, meditare i suoi benefizi e i precetti della santa sua Legge e purificare il lor cuore. Tutto il loro studio era la Morale, cioè a dire la pratica delle virtù: non si disputava, non si disprezzava alcuno, e appena si parlava. Ascoltavano con docilità le istruzioni de' loro Anziani; parecchi non sapevano neppur leggere, e meditavano la Scrittura sulle lezioni che avevano sentite. Si nascondevano dagli uomini, per quanto potevano, non cercando che di piacere a Dio. La sola fama delle loro virtù e spesso de' lor miracoli gli faceva conoscere: e noi non sapremmo neppure per la maggior parte, che essi fossero stati al Mondo, se Dio non avesse suscitati dei curiosi[326], come Rufino e Cassiano, che sono andati a cercarli nel fondo delle loro solitudini, e gli han sforzati a parlare.
Del restante non possono esser sospetti di alcuna specie d'interesse. Si riducevano a una estrema povertà; guadagnavano col lavoro il poco, che lor bisognava per vivere; e degli avanzi facevan limosina. Taluni avevano delle eredità, che coltivavano colle proprie mani: ma i più perfetti temevano, che l'amministrazione delle masserie e delle rendite non gli facesse ricadere nell'imbarazzo degli affari che avevano abbandonato; e preferivano i lavori semplici e sedentari per vivere alla giornata. Talvolta ricevevano delle limosine per supplire alla tenuità de' loro guadagni: non vedo per altro che ne dimandassero. Erano fedeli alle osservanze e consideravano come essenziali la stabilità ed il lavoro delle mani. Ciascun Monaco stava attaccato alla sua Comunità e ciascun Anacoreta alla sua Cella, sempre che ragioni ben forti non gli costringessero a uscirne: perchè nulla è tanto contrario alla orazione perfetta ed alla purità del cuore, che si eran proposta, quanto la leggierezza e la curiosità[327]. Nel tener lontana la moltitudine de' pensieri, ed in rendere la loro anima stabile e tranquilla si prendevano una tal cura, che schivavano fino i luoghi di bella vista, e le piacevoli abitazioni; e se la passavano la maggior parte del tempo rinserrati nelle loro cellette. Stimavano necessario il lavoro non solo per non essere di aggravio ad alcuno, ma anco per conservare l'umiltà e per fuggire la noia.
Le comunità erano numerose[328], e si aveva per massima di non moltiplicarle in un medesimo luogo; sì per la difficoltà di trovar Superiori, come anco per ischivare la gelosia e le divisioni. Ogni Comunità era governata dal suo Abate; e talvolta vi era un Superior Generale che aveva la soprintendenza a molti Monasteri, sotto il nome di Esarco, di Archimandrita, o altro simile: erano però tutti sotto la giurisdizione de' Vescovi, e in allora non si parlava di esenzione. I Monaci non facevano un Corpo a parte distinto da quello de' Secolari e del Clero, senza passare dall'uno all'altro. Era cosa ordinaria il prendere i più santi tra' Monaci, per farli Sacerdoti e Chierici. I Monasteri erano un fondo, in cui i Vescovi erano sicuri di trovar soggetti eccellenti; e gli Abati preferivano di buon grado il vantaggio generale della Chiesa al particolare della loro Comunità[329]. Tali erano i Monaci tanto celebrati da S. Gio. Grisostomo, da S. Agostino e da tutti i Padri; ed il loro istituto ha continuato, come si vedrà in seguito, per molti secoli a cagione della sua purità. Tra essi principalmente si conservò la pratica della pietà più sublime, e descritta negli Autori i più antichi dopo gli Apostoli[330], come nel libro del Pastore, e in Clemente Alessandrino, specialmente nella descrizione, che questi fa del vero contemplativo, da esso chiamato Gnostico. Questa pietà interiore, che sul principio era più comune tra' Cristiani, coll'andar del tempo si rinserrò quasi tutta ne' Monasteri. Un giusto numero di tali Monaci, da prescriversi da coloro, che Dio destina al governo dei Popoli, ed alla protezione e difesa di S. Chiesa sarà sempre uno degli ornamenti della medesima non meno, che di uno Stato cristiano.
Dopo la disciplina (prosiegue l'illustre Scrittore)[331] consideriamo anche la dottrina degli Antichi, sì riguardo alla sua sostanza, come alla maniera, con cui s'insegnava. La dottrina in sostanza è quella stessa, che noi crediamo ed insegniamo al presente: avete potuto vederla dagli estratti de' Padri, che ho riferiti, e la vedrete ancor meglio, consultando in fonte le loro opere. Essi hanno primieramente stabilita la Monarchia, cioè l'Unità di Principio sì contro i Pagani, avvezzi ad immaginarsi più Deità, come ancora contro certi Eretici quali erano i Marcioniti e i Manichei, che imbarazzati in trovar la cagione del male, mettevano due principj indipendenti l'uno dall'altro, l'uno buono e l'altro cattivo.
La Trinità è provata contro i Sabelliani, gli Arriani e i Macedoniani. Non già che si sia spiegato questo Mistero, che è incomprensibile alla nostra fiacca ragione; ma si è solo mostrata la necessità di crederlo. È certo che Gesù Cristo è stato sempre adorato dai Cristiani come loro Dio. Ciò si vede dalle Apologie[332], dagli Atti de' Martiri, e dalle testimonianze de' Pagani medesimi; come dalla lettera di Plinio a Traiano, e dalle obbiezioni di Celso e di Giuliano l'Apostata. È certo altresì, che i Cristiani hanno sempre adorato un solo Dio: dunque Gesù Cristo è un Dio stesso col Padre Creatore dell'Universo. È certo pure, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, e che uno non può essere insieme Padre e Figlio, riguardo a se stesso; il che viene con gran forza dimostrato da Tertulliano contro Prassea. Se così fosse, il discorso di Gesù Cristo sarebbe assurdo e insensato, allorchè dice, che egli procede dal Padre; che il Padre l'ha mandato; che il Padre e lui non sono che una sostanza. Sarebbe lo stesso che dire: Io procedo da me; io ho mandato me stesso; io ed io siamo una sola sostanza. Non può dunque darsi a queste parole altro senso, se non dicendo, che Gesù Cristo è una Persona distinta dal Padre, benchè sia il medesimo Dio. La sua autorità basta per farci credere, ch'ella è così, quantunque non possiamo comprenderne il come.
Il Figlio, essendo Dio, deve esser perfettamente eguale, e perfettamente simile al Padre, e ciò è stato provato contro gli Arriani: altrimenti sarebbero due Dei: un grande e un piccolo: e questo non sarebbe in effetto se non se una creatura, quantunque, perfetta voglia supporsi, e sempre inferiore a quella, che ci dà la Scrittura del figlio di Dio. Contro i Macedoniani,[333] che ammettevano la Divinità del Figlio, e negavano quella dello Spirito Santo, è stato mostrato, che lo Spirito Santo procede dal Padre, ed è mandato dal Padre egualmente che il Figlio; ma che egli è persona distinta dal Figlio, poichè in nessun luogo si dice, ch'Egli sia Figlio, o che sia generato. Egli è pur nominato nella forma del battesimo: andate, battezzate in nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Dunque questo è una terza Persona, ma il medesimo Dio.
In tal guisa i Padri hanno provato il Mistero della Trinità. Non con ragioni filosofiche, ma coll'autorità della Scrittura, e della Tradizione. Non con principii metafisici, da' quali si suol conchiudere, che la cosa debba esser così; ma colle parole espresse di Gesù Cristo, e colla pratica costante di adorar il Figlio assieme col Padre, e di glorificare lo Spirito Santo assieme col Padre e col Figlio. È vero tuttavolta che hanno ragionato molto sopra tal mistero; perchè a questo venivano sforzati dagli Eretici, che impiegavano tutta la sottigliezza dell'umano discorso per rovesciarlo. Quindi nasce, che i Padri si sono spiegati in varie guise, giusta la diversità delle obbiezioni che volevano sciogliere. Bisognava parlare in una maniera co' Pagani, nell'altra cogli Eretici, ed in maniere diverse con ciascun Eretico in particolare: e questa diversità di espressioni, di cui i Padri hanno dovuto servirsi secondo i tempi e le congiunture, ha incitato qualche moderno ad abbandonare con troppa leggierezza i Padri Anteniceni per ciò che riguarda la presente materia della Trinità. Credo per altro di aver date ne' miei dieci primi libri quelle notizie, che bastano per giustificare a sufficienza questi Padri.
PREFAZIONE DELL'AUTORE[334].
Adempisco presentemente la mia promessa, e conduco a termine il disegno che mi son proposto di scriver l'Istoria della Decadenza e Rovina del Romano Impero, tanto in Occidente quanto in Oriente. S'estende tutto il periodo di essa dal tempo di Traiano e degli Antonini, fino alla presa di Costantinopoli fatta da Maometto secondo; e include un ragguaglio delle Crociate, e dello Stato di Roma ne' secoli di mezzo. Son passati dodici anni, da che fu pubblicato il primo Volume di quest'Opera: dodici anni, secondo il mio desiderio, = di salute, di ozio, e di costante applicazione[335] =. Ora posso meco stesso congratularmi d'essermi liberato da un lungo e laborioso dovere, e sarà pura e perfetta la mia soddisfazione, se fino al termine dell'Opera mi continuerà il favore del Pubblico.
La mia prima intenzione fu di riunire sotto un sol punto di vista i molti Autori d'ogni secolo e linguaggio, da' quali ho tratto i materiali di questa Storia; e sono tuttavia persuaso, che quest'apparente ostentazione si sarebbe più che compensata dall'utilità reale di essa. Che se ho rinunziato a tale idea, se ho evitato un'impresa, che ha incontrato l'approvazione di un Maestro dell'arte[336], io posso trovar la mia scusa nell'estrema difficoltà di assegnare una giusta misura ad un catalogo di questa sorta. Una semplice lista de' nomi e dell'edizione non avrebbe soddisfatto nè me stesso, nè i miei Lettori; i caratteri de' principali scrittori dell'Istoria Romana e Bizantina si sono annessi opportunamente ai fatti, ch'essi descrivono; ed una ricerca più copiosa e più critica, quale in vero meriterebbero, avrebbe richiesto un elaborato volume, che appoco appoco sarebbe divenuto una general biblioteca d'Istorici. Per ora dunque mi contenterò di rinnovar le mie serie proteste, che ho procurato sempre di attignere dalle prime sorgenti; che la mia curiosità, non meno che un sentimento di dovere, mi ha sempre stimolato a studiare gli originali; e che se qualche volta ciò non mi è riuscito, ho esattamente notato quella secondaria testimonianza, dall'autorità di cui dipendeva il passo o l'avvenimento, di che si trattava.
Io presto rivedrò le rive del lago di Losanna, paese a me noto e caro fin dalla mia prima gioventù. Sotto un Governo dolce, in un'amena regione, in una vita d'ozio e d'indipendenza, ed in mezzo a un Popolo di costumi facili ed eleganti, ho goduto, e posso tuttavia sperar di godere, i variati piaceri del ritiro e della società. Ma io mi glorierò sempre del nome e del carattere d'Inglese: sono altero della mia nascita in un paese libero ed illuminato, e l'approvazione di esso è il migliore e più onorevole premio delle mie fatiche. Se ambissi altro patrocinio, che quello del Pubblico, dedicherei quest'Opera ad un Ministro di Stato, che in una lunga, procellosa, ed alla fine infelice amministrazione ebbe molti politici contraddittori, senza quasi un nemico personale; che nel cadere dalla potenza ha conservato molti amici fedeli e disinteressati; e che oppresso da una dura infermità gode il pieno vigore della sua mente, e la felicità dell'incomparabile suo naturale. Lord North mi permetterà d'esprimere nel linguaggio della verità i sentimenti dell'amicizia: ma sì la verità, che l'amicizia tacerebbero, s'ei dispensasse ancora i favori della Corona.
In una remota solitudine può la vanità pur sussurrarmi all'orecchio, che i miei Lettori forse dimanderanno, se giunto al fine di quest'Opera, io do loro un perpetuo addio. Dirò tutto quello, che so io medesimo, e che potrei confidare al più intimo de' miei amici: presentemente hanno ugual peso i motivi tanto d'agire, quanto di restare in quiete, nè consultando i miei più segreti pensieri, posso decidere da qual parte sia per preponderar la bilancia. Io non posso dissimulare, che sei gran tomi in quarto debbono aver esercitato, e possono aver esaurito l'indulgenza del Pubblico; che nel reiterare simili prove un Autore, che ha avuto un successo felice, corre molto più il rischio di perdere, di quel che possa sperare di guadagnare; che io vado presentemente a declinare negli anni; e che i più rispettabili fra' miei Nazionali, quegli che io desidero d'imitare, giunti presso a poco al medesimo periodo della lor vita, han tralasciato di scriver l'Istoria. Ciò non ostante io rifletto, che gli Annali de' tempi antichi e moderni possono somministrar molti ricchi ed interessanti soggetti; che io tuttavia ho della salute e del comodo; che mediante l'uso di scrivere deesi acquistare qualche facilità e perizia, e che nell'ardente investigazione della verità e delle cognizioni, non mi sono accorto d'alcuna decadenza. Per uno spirito attivo è più penosa l'indolenza che la fatica; le ricerche però di gusto e di curiosità occuperanno e divertiranno i primi mesi della mia libertà. Queste tentazioni mi hanno qualche volta deviato dal rigoroso dovere anche d'una piacevole e volontaria impresa: ma ora il mio tempo sarà tutto a mia disposizione, e nell'uso o abuso, che farò dell'indipendenza, io non temerò più i rimproveri nè di me stesso, nè de' miei amici. Io giustamente pretendo un anno di Giubbileo: presto passeranno la prossima state, e l'inverno seguente; e la sola esperienza potrà decidere, se io preferirò la libertà e variabilità di studiare, al disegno ed alla composizione d'un'opera regolare, che anima la quotidiana applicazione dell'Autore nel tempo che la ristringe a certi confini. Possono influire sulla mia scelta il capriccio ed il caso; ma tale è la destrezza dell'amor proprio che sempre saprà applaudire all'attiva mia industria, od al filosofico mio riposo.
Downing-Street.
Primo Maggio 1788.
P. S. Prenderò qui l'occasione di far due osservazioni quanto all'uso delle parole, che io finora non ho sufficientemente avvertito: 1. Ogni volta che io mi servo dell'espressioni di là dalle Alpi, dal Reno, dal Danubio ec., generalmente suppongo di trovarmi a Roma, e di poi a Costantinopoli, senza fare attenzione, se questa relativa Geografia possa convenire o no alla locale variabile situazione del Lettore, o dell'Istorico. 2. Ne' nomi propri d'origine straniera, specialmente orientale, sarebbe sempre mio disegno di esprimere nella versione Inglese una copia fedele dell'originale. Ma spesso conviene abbandonar questa regola, che si fonda sopra un giusto riguardo per l'uniformità e la verità; quindi se ne limiteranno, o estenderanno l'eccezioni, secondo l'uso della lingua ed il genio dell'interpetre. Sovente i nostri alfabeti possono esser mancanti: un suono duro, un'ingrata distribuzione di lettere potrebbe offender l'orecchio o l'occhio de' nostri Nazionali; ed alcune parole, manifestamente corrotte, si sono stabilite, e quasi naturalizzate nella lingua volgare. Il Profeta Mohammed, per esempio, non si può spogliar più del famoso, quantunque improprio nome di Maometto; non si riconoscerebbero quasi più le notissimo Città d'Aleppo, di Damasco, e del Cairo nelle strane denominazioni di Haleb, Damashk, ed Al Cahira; si son formati i Titoli e gli Ufizi dell'Impero Ottomano dalla pratica di trecento anni; ed ormai siamo soliti d'unire i tre Monosillabi Chinesi Con-fu-tzee nel rispettabile nome di Confucio, come pure di adottare la corruzion Portughese di Mandarino. Io però sono inclinato a variare l'uso di Zoroastro e di Zerdusht a misura che ho tratto le mie notizie dalla Grecia o dalla Persia; dopo il nostro commercio coll'Indie, si è restituito al trono di Tamerlano il genuino Timour; i nostri più corretti Scrittori hanno tolto dal Koran il superfluo articolo Al; ed adottando la voce Moslem invece di Musulmano, evitiamo nel numero plurale un'ambigua terminazione[337]. In questi, ed in mille altri esempi son troppo minute le cause della distinzione fra un vocabolo e l'altro; ma, se non posso esprimerli, sento i motivi della mia scelta.
CAPITOLO XXXIX.
Zenone ed Anastasio, Imperatori d'Oriente. Nascita, educazione, e prime imprese di Teodorico Ostrogoto. Sua invasione e conquista d'Italia. Regno in Italia de' Goti. Stato dell'Occidente. Governo militare e civile. Senatore Boezio. Ultime azioni e morte di Teodorico.
A. 476-527
Dopo la caduta del Romano Impero in Occidente, gli oscuri nomi, e gl'imperfetti Annali di Zenone, d'Anastasio e di Giustino, che l'un dopo l'altro montarono sul trono di Costantinopoli, debolmente segnano l'intervallo di cinquant'anni fino al memorabile Regno di Giustiniano. Nel medesimo periodo risorse e fiorì l'Italia sotto il governo d'un Re Goto, che avrebbe potuto meritare una statua fra' migliori e più valorosi degli antichi Romani.
A. 455-475
Teodorico l'Ostrogoto, ch'era il decimoquarto nella discendenza della stirpe reale degli Amali[338], era nato nelle vicinanze di Vienna[339] due anni dopo la morte d'Attila. Una recente vittoria aveva restituito l'indipendenza agli Ostrogoti; ed i tre fratelli Walamiro, Teodemiro e Widimiro, che unitamente governavano quella guerriera Nazione, avevano separatamente stabilito le loro sedi nella fertile, quantunque desolata Provincia della Pannonia. Gli Unni tuttavia minacciavano i ribelli lor sudditi; ma fu rispinto il precipitoso loro attacco dalle sole forze di Walamiro, e giunsero le nuove di tal vittoria al campo lontano del suo fratello in quell'istesso fausto momento, in cui la concubina favorita di Teodemiro gli aveva partorito un figlio ed erede. Teodorico nell'ottavo anno della sua età, fu dal padre con ripugnanza rilasciato pel pubblico interesse come ostaggio d'un'alleanza, che Leone Imperatore di Oriente aveva comprato per un annuo sussidio di trecento libbre d'oro. Fu educato il Reale ostaggio a Costantinopoli con premura ed affetto. S'assuefece il suo corpo a tutti gli esercizi della guerra, si dilatò il suo spirito per l'uso d'una culta conversazione, frequentò le scuole de' più abili Maestri; ma sdegnò o trascurò le arti della Grecia, e restò sempre tanto ignorante ne' primi elementi delle lettere, che fu inventato un rozzo istrumento per far la sottoscrizione dell'idiota Re d'Italia[340]. Giunto all'età di diciotto anni, fu restituito a' desiderj degli Ostrogoti, che l'Imperatore cercava di guadagnare per mezzo della liberalità e della confidenza. Walamiro era morto in battaglia; Widimiro, fratello minore, aveva condotto in Italia e nella Gallia un'armata di Barbari, e tutta la Nazione riconosceva per Re il padre di Teodorico. I feroci di lui sudditi ammirarono la forza e la statura del giovine loro Principe[341]: ed ei tosto provò loro, che non avea punto degenerato dal valore de' suoi Antenati. Alla testa di seimila volontari partì segretamente dal campo, andando in cerca di avventure, discese il Danubio fino a Singiduno o Belgrado, ed in breve tornò da suo padre con le spoglie d'un Re Sarmata, ch'egli aveva vinto ed ucciso. Tali trionfi però non producevano altro che gloria, e gl'invincibili Ostrogoti eran ridotti ad un'estrema angustia per mancanza di vesti e di cibo. Di comun consenso dunque risolvettero d'abbandonare i loro accampamenti Pannonici, e d'avanzarsi arditamente verso le temperate e ricche vicinanze della Corte Bizantina, che già manteneva nell'orgoglio e nel lusso tante altre truppe di Goti ad essa confederati. Dopo d'aver provato con alcuni atti d'ostilità ch'essi potevano esser pericolosi nemici, o almeno molesti, gli Ostrogoti venderono ad un alto prezzo la loro riconciliazione e fedeltà; accettarono un donativo di terre e di denaro; e fu loro confidata la difesa del basso Danubio sotto il comando di Teodorico, il quale dopo la morte di suo padre successe al trono ereditario degli Amali[342].
A. 474-518
Un Eroe, proveniente da una stirpe di Regi, dovea disprezzare quel basso Isauro, che fu investito della porpora Romana senz'alcuna dote di spirito o di corpo, e senz'alcuna prerogativa di nascita Reale, o di sublimi qualità. Mancata la linea di Teodosio, potè in qualche modo giustificarsi la scelta di Pulcheria e del Senato da' caratteri di Marciano e di Leone; ma quest'ultimo stabilì e disonorò il suo Regno mediante la perfida uccisione d'Aspar e de' suoi figli, che troppo a rigore esigevano il debito della gratitudine e dell'ubbidienza. L'eredità di Leone e dell'Oriente passò pacificamente nel piccolo di lui nipote, figlio d'Ariadne sua figlia; ed il fortunato Isauro Trascalisseo di lei marito, mutò quel barbaro suono nel Greco nome di Zenone. Dopo la morte del vecchio Leone, s'accostò egli con rispetto non naturale al trono del proprio figlio, umilmente ricevè, come un dono il secondo posto nell'Impero, e tosto eccitò il pubblico sospetto sopra una subitanea ed immatura morte del giovine suo Collega, la vita del quale non poteva più oltre portare in alto la sua ambizione. Ma l'autorità donnesca regolava il suo Palazzo di Costantinopoli, e lo agitavano le femminili passioni: Verina, vedova di Leone, risguardando come suo proprio l'Impero, pronunziò una sentenza di deposizione contro l'indegno ed ingrato servo, al quale aveva ella sola dato lo scettro d'Oriente[343]. Appena risuonò alle orecchie di Zenone il nome di ribellione, ei fuggì precipitosamente nelle montagne d'Isauria, ed il servile Senato concordemente proclamò Basilisco, di lei fratello, già infamato dalla sua spedizione affricana[344]. Il Regno però dell'usurpatore fu breve e turbolento. Basilisco pretese d'assassinare l'amante della sua sorella, ed ardì d'offendere l'amante della sua moglie, il vano ed insolente Armazio, che in mezzo al lusso asiatico affettava l'abito, il portamento, ed il soprannome d'Achille[345]. Cospirando fra loro i malcontenti, richiamarono Zenone dall'esilio; furon tradite le armate, la Capitale, e la persona di Basilisco; e tutta la sua famiglia fu condannata alla lunga agonia del freddo e della fame dall'inumano conquistatore, che non aveva coraggio nè di far fronte, nè di perdonare a' propri nemici. Il superbo spirito di Verina era tuttavia incapace di sommissione, o di riposo. Essa provocò l'inimicizia d'un General favorito, ne abbracciò la causa tosto ch'egli cadde in disgrazia, creò un nuovo Imperatore in Siria ed in Egitto, levò un esercito di settantamila uomini, e continuò sino all'ultimo istante della sua vita in una inutile ribellione, che secondo l'uso di quel tempo, era stata predetta dagli Eremiti Cristiani, e dai Magi del Paganesimo. Nel tempo che le passioni di Verina affliggevan l'Oriente, Ariadne sua figlia distinguevasi con le femminili virtù della dolcezza e della fedeltà; seguitò questa nell'esilio il proprio marito, e dopo il suo ritorno al trono implorò la clemenza di lui in favor della madre. Morto Zenone, Ariadne, figlia, madre e vedova d'Imperatori, diede la mano, ed il titolo Imperiale ad Anastasio, vecchio domestico del Palazzo, che sopravvisse più di ventisette anni al suo innalzamento, e di cui si dimostra il carattere da quest'acclamazione del Popolo: «Regna come hai vissuto[346] ».
A. 475-488
Tuttociò, che potea suggerir l'affezione o il timore, fu a larga mano da Zenone profuso al Re degli Ostrogoti, come il posto di Patrizio e di Console, il comando delle truppe Palatine, una statua equestre, un tesoro di più migliaia di libbre d'oro e d'argento, il nome di figlio, e la promessa di una ricca ed onorevole moglie. Finattantochè Teodorico si contentò di servire, sostenne con fedeltà e coraggio la causa del suo benefattore: la rapida marcia di esso contribuì al restauramento di Zenone: e nella seconda ribellione i Walamiri, come solevan chiamarsi, inseguirono e strinsero i ribelli Asiatici in modo, che procurarono alle truppe Imperiali un'agevol vittoria[347]. Ma questo fedel servo ad un tratto si mutò in un formidabil nemico, ch'estese le fiamme della guerra da Costantinopoli fino all'Adriatico: furono ridotte in cenere molte floride Città e fu quasi distrutta l'agricoltura della Tracia dalla barbara crudeltà de' Goti, che tagliavano a' contadini lor prigionieri la mano destra, con cui guidavan l'aratro[348]. In tali occasioni toccò a Teodorico l'alto e patente rimprovero d'infedeltà, d'ingratitudine e d'insaziabile avarizia, che non si potrebbe scusare, se non dalla dura necessità della sua situazione. Regnava egli non come Monarca, ma come Ministro di un feroce Popolo, di cui lo spirito non era domato dalla schiavitù, e che non soffriva insulti nè reali, nè immaginari. N'era incurabile povertà, la mentre venivano tosto dissipati i donativi più generosi in un eccessivo lusso, e divenivano sterili i più fertili Stati nelle lor mani; gli Ostrogoti disprezzavano, sebbene invidiassero, i laboriosi Provinciali; e quando mancava loro la sussistenza, ricorrevano ai soliti espedienti della guerra, e della rapina. Il desiderio di Teodorico (secondo almeno la sua protesta) sarebbe stato quello di menare una vita pacifica, oscura, e sommessa ne' confini della Scizia; ma la Corte di Bizanzio l'indusse con splendide e fallaci promesse ad attaccare una tribù confederata di Goti, che s'erano impegnati nel partito di Basilisco. Marciò dunque dai suoi quartieri nella Mesia, essendo stato solennemente assicurato, che prima di giungere ad Adrianopoli avrebbe incontrato un abbondante convoio di provvisioni, ed un rinforzo di ottomila cavalli, e di trentamila fanti, mentre le Legioni dell'Asia erano accampate ad Eraclea per secondare le sue operazioni. Furono però sconcertate queste misure dalla reciproca gelosia. All'avanzarsi che fece il figlio di Teodemiro nella Tracia, trovò un'inospita solitudine, ed i Goti, suoi seguaci, con un grave bagaglio di cavalli, di muli, e di carri vennero, per inganno delle loro guide, condotti fra le rupi ed i precipizi del Monte Sondis, dove fu egli assalito dalle armi e dalle invettive di Teodorico, figlio di Triario. Da una vicina eminenza il suo artificioso rivale arringava il campo de' Walamiri, ed infamava il lor Capitano con gli obbrobriosi nomi di fanciullo, di pazzo, di traditore spergiuro, e di nemico del proprio sangue, e della sua nazione. «Non sapete voi (gridava il figlio di Triario) che la costante politica de' Romani è quella di distruggere i Goti con le lor proprie spade? Non vedete, che quegli di noi, che in questo non natural combattimento resterà vincitore, sarà esposto, e giustamente invero, all'implacabile loro vendetta? Dove son que' guerrieri, miei e tuoi propri congiunti, le vedove de' quali ora si lagnano, che sacrificarono le loro vite alla tua temeraria ambizione? Dov'è la ricchezza, che avevano i tuoi soldati, quando, partendo dalle native lor case, principiarono ad arruolarsi sotto le tue bandiere? Ciascheduno di essi aveva in quel tempo tre o quattro cavalli; ora ti seguitano a piedi come schiavi pei deserti della Tracia quegli, che tentati furono dalla speranza di misurar l'oro a staio, quei bravi uomini, che son liberi e nobili come tu stesso». Un linguaggio così adattato all'indole de Goti, eccitò il clamore ed il malcontento; ed il figlio di Teodemiro, temendo di restar solo, fu costretto ad abbracciare i suoi fratelli, e ad imitare l'esempio della perfidia romana[349].
A. 489
La prudenza e fermezza di Teodorico si fece ugualmente conoscere in qualunque stato di fortuna ei si trovasse: o minacciasse Costantinopoli alla testa de' Goti fra loro confederati, o con un fedel drappello si ritirasse alle montagne e coste marittime dell'Epiro. Finalmente l'accidental morte del figlio di Triario[350] tolse la bilancia, che i Romani erano tanto solleciti di mantenere fra' Goti: tutta la Nazione riconobbe la suprema potestà degli Amali, e la Corte Bizantina sottoscrisse un ignominioso ed oppressivo trattato[351]. Il Senato avea già dichiarato, che era necessario scegliere un partito fra i Goti, giacchè lo Stato non era capace di sostenere le forze riunite; per il minimo de' loro eserciti si richiedeva un sussidio di duemila libbre d'oro, con l'ampia paga di tredicimila uomini[352]; gl'Isauri, che guardavano non già l'Impero, ma l'Imperatore, oltre il privilegio della rapina, godevano un'annua pensione di cinquemila libbre. La sagacità di Teodorico ben presto conobbe, ch'ei si rendeva odioso ai Romani, e sospetto a' Barbari; gli venne all'orecchio il popolar mormorìo, che i suoi sudditi erano esposti nelle agghiacciate loro capanne ad intollerabili travagli, mentre il loro Re s'abbandonava al lusso della Grecia; e prevenne la disgustosa alternativa, o di resistere ai Goti come il campion di Zenone, o di condurli alla battaglia come nemico di esso. Teodorico, abbracciando un'impresa degna del suo coraggio e della sua ambizione, parlò all'Imperatore in questi termini. «Quantunque il vostro servo sia mantenuto nell'abbondanza dalla vostra liberalità, porgete graziosamente orecchio a' desiderj del mio cuore! L'Italia, che avete ereditato da' vostri Predecessori, e Roma stessa, la capitale e signora del Mondo, presentemente gemono sotto la violenza e l'oppressione del mercenario Odoacre. Lasciatemi andare con le nazionali mie truppe contro il Tiranno. Se io perirò, voi resterete libero da un dispendioso e molesto amico. Se poi col divino aiuto riescirò nell'impresa, governerò in vostro nome, ed a gloria vostra il Senato Romano, e quella parte di Repubblica, che mediante le vittoriose mie armi sarà liberata dalla schiavitù». Fu accettata la proposizione di Teodorico, ed era forse stata suggerita dalla Corte di Bizanzio. Ma sembra, che la forma della commissione, o dell'accordo s'esprimesse con una prudente ambiguità, che potesse poi spiegarsi secondo l'evento; e restò in dubbio, se il Conquistator dell'Italia dovesse regnare come Luogotenente, come Vassallo o come Alleato dell'Imperatore d'Oriente[353].
La fama tanto del condottiero, quanto della guerra eccitò un ardore universale; s'accrebbero i Walamiri da sciami di Goti, ch'erano già impegnati al servizio dell'Impero, o stabiliti nelle Province di esso; ed ogni audace Barbaro, che aveva sentito parlare della ricchezza e beltà d'Italia, era impaziente di arrivare a possedere, per mezzo delle più pericolose avventure, oggetti così lusinghieri. Si dee risguardar la marcia di Teodorico come l'emigrazione d'un intiero Popolo; si trasportarono tutte le mogli ed i figli de' Goti, i vecchi lor genitori e gli effetti più preziosi che avessero; e possiam formarci qualche idea del grave bagaglio, che allora seguitò il campo, dalla perdita di duemila carri, che nella guerra dell'Epiro soffrirono in una sola azione. Traevano i Goti la lor sussistenza dai magazzini di grano, che si macinava dalle loro donne in certi mulini portatili; dal latte e dalla carne de' loro greggi ed armenti; dal casual prodotto della caccia; e dalle contribuzioni, che imponevano a tutti quelli che ardivano di contendere il passo, o di negar loro un amichevole aiuto. Nonostante queste precauzioni però si trovarono esposti al pericolo, e quasi alle angustie della fame, in una marcia di settecento miglia, intrapresa noi cuore d'un rigido inverno. Dopo la caduta della potenza Romana, la Dacia e la Pannonia non presentavano più il ricco prospetto di popolate Città, di campagne ben coltivate e di comode strade: si rinnovò il regno della barbarie e della desolazione, e le tribù de' Bulgari, de' Gepidi e de' Sarmati, che avevan occupato quella vacante Provincia, furon mosse dalla nativa loro fierezza o dalle sollecitudini d'Odoacre a resistere a' progressi del suo nemico. In molte oscure, sebben sanguinose battaglie, Teodorico pugnò e vinse, sintantochè superando alla fino coll'abile sua condotta e coraggiosa perseveranza ogni ostacolo, scese dalle alpi Giulie e spiegò le invincibili suo bandiere ne' confini d'Italia[354].
A. 489-490
Odoacre, non indegno rivale delle sue armi, aveva già occupato il vantaggioso e celebre posto del fiume Sonzio presso le rovine d'Aquileia, essendo alla testa d'un poderoso esercito, i Re[355], o Capi del quale fra loro indipendenti sdegnavano i doveri della subordinazione e gl'indugi della prudenza. Appena Teodorico ebbe concesso un breve riposo e rinfresco alla stanca sua cavalleria, arditamente attaccò le fortificazioni del nemico; e gli Ostrogoti mostrarono maggiore ardore per acquistare le terre d'Italia, che i Mercenari per difenderle; ed il premio della prima vittoria fu il possesso della Provincia Veneta fino alle mura di Verona. Nelle vicinanze di quella città, sulle scoscese rive dell'Adige, gli si oppose un'altra armata di maggior numero, ed in coraggio non inferiore della prima; la battaglia fu più ostinata, ma l'evento ne fu sempre più decisivo; Odoacre fuggì a Ravenna, Teodorico avanzossi verso Milano, e le soggiogate truppe salutarono il loro conquistatore con alte acclamazioni di rispetto e di fedeltà. Ma la lor mancanza o di costanza o di fede tosto l'espose al più imminente pericolo; vari Conti Goti, che con la sua vanguardia s'erano temerariamente affidati ad un disertore furon traditi e distrutti vicino a Faenza mediante un doppio di lui tradimento; Odoacre di nuovo comparve come padrone della Campagna; e l'invasore, fortemente trincerato nel suo campo di Pavia, fu ridotto a sollecitare il soccorso d'una congiunta Nazione cioè de' Visigoti della Gallia. Nel corso di quest'Istoria potrà saziarsi abbondantemente il più vorace appetito di guerra, nè posso io molto dolermi, che gli oscuri ed imperfetti nostri materiali non mi somministrino una più estesa narrazione delle angustie d'Italia, e del fiero combattimento, che restò finalmente deciso dall'abilità, dall'esperienza e dal valore del Re de' Goti. Quando fu per principiar la battaglia di Verona, pertossi alla tenda di sua Madre[356] e di sua sorella, e volle che in quel giorno, il più solenne della sua vita, l'adornassero con le ricche vesti ch'esse avevano lavorato con le proprie lor mani. «La nostra gloria, disse egli, è reciproca ed inseparabile. Il Mondo sa, che voi siete la madre di Teodorico, ed a me tocca a provare, che io sono il vero discendente di quegli Eroi dei quali vanto l'origine». La moglie o concubina di Teodemiro veniva inspirata da quello spirito delle matrone Germane, che stimavano l'onore de' loro figli molto più della lor sicurezza; e si racconta che in una disperata battaglia, mentre Teodorico medesimo era tratto via dal torrente d'una folla di fuggitivi, andò arditamente loro incontro all'ingresso del campo, e co' suoi generosi rimproveri gli spinse indietro contro le spade nemiche[357].
A. 493-526
Teodorico per diritto di conquista regnò dalle Alpi fino all'estremità della Calabria: gli Ambasciatori Vandali gli diedero l'isola della Sicilia come una legittima appendice del suo Regno; e fu accolto come liberatore di Roma dal Senato e dal Popolo, che aveva chiuso le porte in faccia all'usurpator che fuggiva[358]. La sola Ravenna, fortificata dall'arte e dalla natura, sostenne un assedio di quasi tre anni; e le audaci sortite d'Odoacre portarono la strage e il disagio nel campo Gotico. Finalmente quell'infelice Monarca, privo di provvisioni e senza speranza d'aiuto, cedè ai lamenti de' propri sudditi, ed a' clamori de' suoi soldati. Si maneggiò un trattato dal Vescovo di Ravenna; gli Ostrogoti furono ammessi nella Città, e sotto la sanzione di un giuramento, ambidue i Re acconsentirono a governare con uguale ed indivisa autorità le Province d'Italia. Può facilmente prevedersi l'evento di tale accordo. Concessi alcuni giorni alle apparenze della gioia e dell'amicizia, Odoacre in mezzo ad un solenne convito fu trucidato dalle proprie mani, o almeno per ordine del suo rivale. Si erano precedentemente prese le opportune, segrete ed efficaci disposizioni per uccidere nell'istesso momento e senz'alcuna resistenza tutti quanti gl'infedeli e rapaci mercenari; e Teodorico fu proclamato Re da' Goti, col tardo, ripugnante ed ambiguo consenso dell'Imperatore d'Oriente. Secondo le solite formalità s'imputò al soggiogato Tiranno il disegno d'una cospirazione; ma sufficientemente si prova la sua innocenza e la colpa del conquistatore[359] dal vantaggioso Trattato, che la forza non avrebbe sinceramente accordato, nè la debolezza temerariamente rotto. Somministrar possono un'apologia più decente la gelosia del potere, ed i mali della discordia; e si può pronunziare una sentenza meno rigorosa contro un delitto, ch'era necessario per introdurre in Italia un principio di pubblica felicità. L'Autore vivente di questa felicità fu audacemente lodato in faccia da Oratori sacri e profani[360]; ma l'Istoria (che nel suo tempo era muta ed oscura) non ci ha lasciato alcun giusto quadro de' fatti, che potrebbero dimostrar le virtù di Teodorico, o de' difetti che le oscurarono[361]. Tuttavia sussiste un monumento della sua fama, vale a dire la raccolta delle Lettere pubbliche, composte da Cassiodoro in nome del Re, che ha ottenuto credito maggiore di quello, che intrinsecamente sembri meritare[362]. Esse presentano le formalità piuttosto che la sostanza del suo governo; ed in vano si cercherebbero i puri e spontanei sentimenti del Barbaro, in mezzo alla declamazione e dottrina di un Sofista, a' desiderj d'un Senator Romano, alle formule d'ufizio, ed alle dubbiose espressioni, che in ogni Corte ed in ogni occasione formano il linguaggio d'un discreto Ministro. Con maggior fiducia può appoggiarsi la riputazion di Teodorico sopra un Regno di trentatre anni visibilmente pacifico e prospero, sull'unanime stima de' suoi contemporanei, e sulla memoria della sua saviezza, giustizia ed umanità, non meno che del suo coraggio, che restò profondamente impresso nelle menti dei Goti, e degl'Italiani.
Il ripartimento delle terre d'Italia, delle quali Teodorico assegnò la terza parte a' suoi soldati, si cita onorevolmente come l'unica ingiustizia della sua vita. Ed anche quest'atto si può plausibilmente giustificare coll'esempio d'Odoacre, co' diritti di conquista, col vero interesse degl'Italiani, e col sacro dovere di far sussistere un intiero Popolo, che affidato alle sue promesse erasi trasferito in un lontano Paese[363]. I Goti sotto il Regno di Teodorico, e nel felice clima d'Italia, tosto s'aumentarono al segno di formare un formidabil esercito di dugentomila uomini[364], e coll'aggiunta ordinaria delle donne e de' fanciulli si può calcolare a qual numero ascendessero tutte le loro famiglie. Si mascherò l'invasione del territorio di cui doveva già esser vacante una parte, col generoso, ma improprio, nome d' Ospitalità: questi malveduti Ospiti si dispersero irregolarmente per l'Italia e la porzione, che toccò ad ogni Barbaro, corrispondeva alla sua nascita ed al suo posto, al numero del suoi seguaci ed alla rustica ricchezza, che aveva in bestiame ed in ischiavi. Fu ammessa la distinzione fra il nobile ed il plebeo[365]; ma le terre di ogni uomo libero furono immuni dalle tasse, ed ei godeva l'inestimabil privilegio di non esser soggetto che alle leggi della sua Patria[366]. La moda o anche la comodità persuase ben presto i conquistatori ad assumer l'abito più elegante de' nativi d'Italia; ma essi persisterono tuttavia nell'uso della lor lingua materna; e fu applaudito il disprezzo, che avevano per le scuole latine, da Teodorico medesimo, che secondava i lor pregiudizi o piuttosto i suoi propri col dire, che un fanciullo assuefatto a tremare alla sferza del maestro, non avrebbe mai ardito di guardare una spada[367]. La miseria potè qualche volta muovere l'indigente Romano a prendere i feroci costumi che appoco appoco si lasciavano dal ricco e lussurioso Barbaro[368]: ma tali vicendevoli trasformazioni non eran punto promosse dalla politica d'un Monarca, che rendè perpetua la separazione fra gl'Italiani ed i Goti, riservando i primi alle arti della pace, ed i secondi agli esercizi della guerra. Per eseguire questo disegno ei procurò di proteggere gl'industriosi suoi sudditi, e di moderar la violenza senza snervare il valore dei suoi soldati, che dovevan servire alla pubblica difesa. Essi ritenevano le loro terre, e i benefizi come uno stipendio militare; al suono della tromba eran pronti a marciare sotto la condotta de' loro Ufiziali provinciali; e tutta l'Italia era distribuita in più quartieri d'un medesimo campo ben regolato. Si faceva la guardia del Palazzo e delle Frontiere per elezione o per turno; ed ogni straordinaria fatica veniva ricompensata da un accrescimento di paga, o da donativi arbitrari. Teodorico aveva persuaso i suoi bravi compagni che l'Impero si dee difendere con quelle medesime arti, con le quali s'acquista. Dietro il suo esempio essi procuravano di esser eccellenti nell'uso non solo della lancia e della spada, istromenti delle loro vittorie, ma anche delle armi da scagliare, ch'essi erano troppo inclinati a trascurare, ed i quotidiani esercizi, e le annue riviste della Cavalleria Gotica somministravano la viva immagine della guerra. Una ferma, quantunque blanda, disciplina li fece abituare alla modestia, all'ubbidienza, ed alla temperanza; ed i Goti impararono a risparmiare il Popolo, a rispettare le Leggi, a non trascurare i doveri della società civile, ed a disapprovare la barbara licenza del combattimento giudiciale e della vendetta privata[369].
La vittoria di Teodorico aveva eccitato un generale allarme fra' Barbari dell'Occidente. Ma quando videro, ch'ei, soddisfatto della conquista, desiderava la pace, il terrore si mutò in rispetto, ed essi accettarono una potente mediazione, che fu costantemente diretta agli ottimi oggetti di conciliare le lor dissensioni, e d'incivilirne i costumi[370]. Gli Ambasciatori che giungevano a Ravenna dai più distanti paesi d'Europa, ammiravano la sua saviezza, cortesia e magnificenza[371]; e se accettava talvolta degli schiavi o delle armi, dei cavalli bianchi o de' rari animali, il dono d'un orologio solare, di un orologio ad acqua o di un istromento di musica dimostrava anche a' Principi della Gallia la superiore abilità ed industria degl'Italiani suoi sudditi. I domestici vincoli[372], che contrasse per mezzo della moglie, di due figlie, di una sorella e di una nipote, unirono la famiglia di Teodorico con i Re dei Franchi, de' Borgognoni, de' Visigoti, de' Vandali, e de' Turingi; e contribuirono a mantener la buon'armonia, o almeno la bilancia della gran Repubblica dell'Occidente[373]. Egli è difficile seguitare nelle cupe foreste della Germania e della Polonia l'emigrazione degli Eruli, feroce Popolo, che sdegnava l'uso dell'armatura, e condannava le vedove ed i vecchi genitori a non sopravvivere alla perdita de' loro mariti o alla diminuzione delle lor forze[374]. Il Re pertanto di questi selvaggi guerrieri domandò l'amicizia di Teodorico, e secondo le barbare cerimonie d'una militare adozione[375], fu innalzato al grado di suo figlio. Dalle rive del Baltico gli Estoni o Livoni portarono i loro doni d'ambra nativa[376] a' piedi d'un Principe, di cui la fama gli aveva mossi a intraprendere un ignoto e pericoloso viaggio di mille cinquecento miglia. Ei mantenne una frequente ed amichevol corrispondenza col paese[377], da cui la nazione Gotica trasse l'origine; gl'Italiani si cuoprivano co' ricchi zibellini[378] di Svezia; ed uno de' Sovrani di essa, dopo una volontaria o forzata rinuncia, trovò un cortese rifugio nel palazzo di Ravenna. Questi aveva regnato sopra una delle tredici numerose Tribù, che coltivavano una piccola parte della grande Isola o Penisola della Scandinavia, a cui si è talvolta applicata l'incerta denominazione di Thule. Era quella settentrional regione abitata o almeno cognita fino al 68 grado di latitudine, dove gli abitatori del cerchio polare godono e perdono in ogni solstizio d'estate e d'inverno la continua presenza del sole per un ugual periodo di quaranta giorni[379]. La lunga notte dell'assenza, o morte di esso, era la trista stagione dell'angustia e dell'inquietudine, finattantochè i messaggieri mandati sulle cime delle montagne non annunciavano i primi raggi della luce che tornava, e proclamavano alle sottoposte pianure la festa della sua resurrezione[380].
A. 509
La vita di Teodorico presenta il raro e lodevole esempio d'un Barbaro, che pose la sua spada nel fodero in mezzo all'orgoglio della vittoria e nel vigor dell'età. Consacrò un regno di trentatre anni a' doveri del Governo civile, e le guerre, nelle quali talvolta si trovò impegnato, presto furono terminate mercè la condotta de' suoi Generali, la disciplina delle sue truppe, le armi de' suoi alleati, ed anche il terror del suo nome. Ridusse sotto un forte e regolar Governo le poco profittevoli regioni della Rezia, del Norico, della Dalmazia e della Pannonia, dalla sorgente del Danubio e dal territorio de' Bavari[381] fino al piccolo regno formato da' Gepidi sulle rovine del Sirmio. Non poteva la sua prudenza sicuramente affidare il baloardo d'Italia a que' deboli e turbolenti vicini; e la sua giustizia potea pretender le terre, ch'essi opprimevano, o come una parte del proprio regno, o come un'eredità di suo padre. La grandezza però di un servo, a cui si dava il nome di perfido, perchè era fortunato, risvegliò la gelosia dell'Imperatore Anastasio e s'accese una guerra sulla frontiera della Dacia per la protezione che il Re Goto, nelle vicende delle cose umane, aveva accordato ad uno de' discendenti d'Attila. Sabiniano, generale illustre pel merito proprio e paterno, s'avanzò alla testa di diecimila Romani; e distribuì alle più feroci fra le Tribù de' Bulgari le provvisioni e le armi, che empievano una lunga serie di carri. Ma ne' campi di Margo l'esercito Orientale fu disfatto dalle inferiori forze de' Goti e degli Unni; restò irreparabilmente distrutto il fiore, ed anche la speranza delle armate romane; e tal era la temperanza, che Teodorico aveva ispirato alle vittoriose sue truppe, che non avendo il lor condottiere dato il segno del saccheggio, le ricche spoglie del nemico rimasero intatte ai lor piedi[382]. Esacerbata la Corte Bizantina da questa disgrazia, spedì dugento navi ed ottomila uomini a saccheggiare le coste marittime della Calabria e della Puglia; questi assalirono l'antica città di Taranto, interruppero il commercio e l'agricoltura d'un fertil paese, e se ne tornarono all'Ellesponto altieri della piratica loro vittoria sopra di un Popolo, ch'essi tuttavia pretendevano di risguardar come composto di Romani loro fratelli[383]. L'attività di Teodorico ne affrettò possibilmente la ritirata; l'Italia fu posta al coperto da una flotta di mille piccoli vascelli[384], ch'ei fece costruire con incredibil prestezza, e la costante sua moderazione fu tosto premiata con una solida ed onorevole pace. Esso mantenne con forte mano la bilancia dell'Occidente, finattantochè non fu alla fine rovesciata dall'ambizione di Clodoveo; e quantunque non potesse assistere il suo temerario ed infelice congiunto, il re de' Visigoti, salvò i residui della sua famiglia e del suo Popolo e represse i Franchi in mezzo alla vittoriosa loro carriera. Io non voglio prolungare o ripetere[385] la narrazione di questi militari avvenimenti, che sono i meno interessanti del regno di Teodorico; e mi contenterò d'aggiungere, ch'ei protesse gli Alemanni[386]; che severamente gastigò un'incursione de' Borgognoni, e che la conquista ch'ei fece d'Arles e di Marsiglia, gli aprì una libera comunicazione co' Visigoti, che lo rispettavano tanto come loro nazional protettore, quanto come tutore del piccolo figlio di Alarico, suo nipote. Con questo rispettabil carattere il Re d'Italia rinnovò la Prefettura Pretoriana delle Gallie, riformò alcuni abusi nel Governo civile della Spagna, ed accettò l'annuo tributo, e l'apparente sommissione del militar Governatore di quella, che saviamente ricusò d'affidare la sua persona al palazzo di Ravenna[387]. La sovranità Gotica s'era stabilita dalla Sicilia fino al Danubio, da Sirmio o Belgrado fino al Mare Atlantico; ed i Greci stessi hanno confessato, che Teodorico regnò sopra la più bella parte dell'Impero Occidentale[388].
L'unione de' Goti e de' Romani avrebbe potuto fissar per de' secoli la passeggiera felicità dell'Italia, e la reciproca emulazione delle rispettive loro virtù avrebbe potuto appoco appoco formare un nuovo Popolo di sudditi liberi, e d'illuminati soldati, che avesse il primato fra le nazioni. Ma non era serbato pel regno di Teodorico il merito sublime di guidare o di secondare una rivoluzione di questa sorta: gli mancò il talento, o la comodità per esser legislatore[389]; e mentre fece godere a' Goti una rozza libertà, servilmente copiò le istruzioni, ed anche gli abusi del sistema politico formato da Costantino e da' suoi successori. Per un delicato riguardo agli spiranti pregiudizi di Roma, il Barbaro evitò il nome, la porpora ed il diadema degl'Imperatori; ma sotto il titolo ereditario di Re assunse tutta la sostanza e pienezza dell'imperial dignità[390]. Le sue espressioni verso il trono Orientale erano rispettose ed ambigue; celebrava in pomposo stile l'armonia delle due Repubbliche, applaudiva il suo governo, come la perfetta immagine d'un solo ed indiviso Impero, e pretendeva sopra i Re della Terra quella stessa preeminenza, ch'ei modestamente accordava alla persona o al posto d'Anastasio. Dichiaravasi ogni anno l'unione dell'Oriente coll'Occidente, mediante l'unanime scelta de' due Consoli; ma sembra che il Candidato italiano, ch'era nominato da Teodorico, ricevesse una formale conferma dal Sovrano di Costantinopoli[391]. Il palazzo gotico di Ravenna presentava l'immagine della Corte di Teodosio o di Valentiniano. Vi continuavano sempre ad agire da Ministri di Stato il Prefetto del Pretorio, il Prefetto di Roma, il Questore, il Maestro degli Ufizi co' Tesorieri pubblici e patrimoniali, le funzioni de' quali vengon dipinte con vistosi colori dalla rettorica di Cassiodoro. E la subornata amministrazione della giustizia e delle rendite era delegata a sette Consolari, e tre Correttori, ed a cinque Presidenti, che governavano le quindici Regioni d'Italia secondo i principj, e fino con le formalità della Giurisprudenza Romana[392]. La violenza de' Conquistatori veniva abbattuta o delusa dal lento artifizio de' processi giudiciali; ristringevasi agl'Italiani l'amministrazion civile co' suoi onori ed emolumenti; ed il Popolo conservò sempre il proprio abito e linguaggio, le sue leggi e costumanze, la sua personal libertà, e due terzi delle proprie terre. L'oggetto d'Augusto era stato quello di nasconder l'introduzione della Monarchia; e la politica di Teodorico fu di mascherare il regno d'un Barbaro[393]. Se i suoi sudditi talvolta si risvegliaron da questa piacevol visione di un Governo romano, trassero un conforto più sostanziale dal carattere di un Principe Goto, che aveva penetrazione per discernere, e fermezza per procurare il proprio ed il pubblico interesse. Teodorico amava le virtù ch'ei possedeva, ed i talenti de' quali mancava. Liberio fu promosso all'ufizio di Prefetto del Pretorio per l'incorrotta sua fedeltà nell'infelice causa d'Odoacre. I Ministri di Teodorico, Cassiodoro[394] e Boezio, hanno fatto riflettere sopra il suo regno lo splendore del loro genio, e della loro dottrina. Cassiodoro però più prudente o più fortunato del suo collega conservò la propria riputazione senza perder la grazia reale; e dopo aver passato trent'anni fra gli onori del secolo, godè altrettanto tempo di riposo nella devota e studiosa solitudine di Squillace.
Era interesse e dovere del Re' Goto di coltivare, come protettore della Repubblica, l'affezione del Senato[395] e del Popolo. I nobili di Roma erano lusingati dai sonori epiteti e dalle formali proteste di rispetto, che si sarebbero più giustamente applicate al merito ed all'autorità de' loro maggiori. Il Popolo godeva senza timore o pericolo i tre benefizi d'una Capitale, cioè il buon ordine, l'abbondanza, ed i pubblici divertimenti. La misura stessa del donativo[396] dimostra una visibil diminuzione di esso: la Puglia, la Calabria e la Sicilia versavano ancora i loro tributi ne' granai di Roma; si distribuiva una porzione di pane e di companatico, agl'indigenti cittadini, e stimavasi onorevole qualunque ufizio, che fosse destinato alla cura della loro salute e felicità. I giuochi pubblici, di tal sorta che un ambasciator greco potea decentemente applaudirvi, presentavano una languida e debole copia della magnificenza de' Cesari: però la musica, la ginnastica e l'arte pantomimica non eran del tutto cadute in oblìo; le fiere dell'Affrica esercitavano tuttavia il coraggio e la destrezza de' cacciatori; e l'indulgente Goto o tollerava pazientemente, o dolcemente frenava le fazioni Azzurra e Verde, le contese delle quali empievano sì spesso il Circo di grida, ed anche di sangue[397]. Nel settimo anno del pacifico suo regno Teodorico visitò la vecchia capitale del Mondo; il Senato ed il Popolo in una solenne processione avanzossi a salutare il secondo Traiano, il nuovo Valentiniano, ed ei nobilmente sostenne questo carattere, assicurandoli d'un giusto e legittimo Governo[398] in un discorso che non ebbe timore di pronunziare in pubblico e di fare incidere in una tavola di rame. In quest'augusta ceremonia Roma fece risplendere un ultimo raggio della decadente sua gloria: ed un Santo, che fu spettatore di quel pomposo spettacolo, potè solo sperare, nella pia sua fantasia, che fosse superato dal celeste splendore della nuova Gerusalemme[399]. Nella dimora, che vi fece di sei mesi, la fama, la persona, ed il cortese contegno del Re Goto eccitarono l'ammirazion de' Romani, ed ei contemplò con ugual curiosità e sorpresa i monumenti ch'erano restati dell'antica loro grandezza. Impresse le vestigia di un conquistatore sul colle del Campidoglio, e francamente confessò, che ogni giorno mirava con nuova maraviglia il Foro di Traiano e l'alta di lui colonna. Il teatro di Pompeo anche nella sua decadenza compariva quale una gran montagna artificialmente incavata, pulita ed ornata dall'industria umana; ed all'ingrosso calcolò, che vi volle un fiume d'oro per innalzare il colossale anfiteatro di Tito[400]. Per mezzo di quattordici acquedotti si spargevano acque pure e copiose in ogni parte della città, e fra queste l'acqua Claudia, che aveva la sorgente alla distanza di trentotto miglia nelle montagne Sabine, passava per un dolce, quantunque costante, declivio di solidi archi fino alla sommità del monte Aventino. Le lunghe e spaziose volte, costruite per servire alle Cloache pubbliche, sussistevano dopo dodici secoli nel pristino loro stato; e que' sotterranei canali si son preferiti a tutte le visibili maraviglie di Roma[401]. I Re Goti, accusati con tanta ingiustizia della rovina delle antichità, furon solleciti di conservare i monumenti della nazione che essi avevano soggiogata[402]. Emanarono degli editti reali per impedire gli abusi, la trascuratezza o le depredazioni de' cittadini medesimi; e per le riparazioni ordinarie delle mura e degli edifizi pubblici, si destinarono uno sperimentato Architetto, l'annua somma di dugento libbre d'oro, venticinquemila pezzi di materiali, ed il prodotto della dogana del Porto Lucrino. Una simil cura s'estese alle statue di metallo o di marmo, sì degli uomini, che degli animali. S'applaudiva da' Barbari allo spirito de' cavalli, che hanno dato al Quirinale un nome moderno[403]; furono diligentemente restaurati gli Elefanti di bronzo[404] della Via sacra; la famosa vitella di Mirone ingannava il bestiame, quando passava pel Foro della Pace[405]; e fu creato un ufiziale apposta per difendere quelle opere delle arti, che Teodorico risguardava come l'ornamento più nobile del suo Regno.
Seguitando l'esempio degli ultimi Imperatori, Teodorico scelse la residenza di Ravenna, dove coltivava con le sue proprie mani un giardino[406]. Ogni volta ch'era minacciata la pace del suo regno (giacchè questo non fu mai invaso) da' Barbari, ei trasferiva la sua Corte a Verona[407] sulla frontiera settentrionale, e la figura del suo Palazzo, che tuttavia esiste in una medaglia, rappresenta la più antica ed autentica forma d'architettura gotica. Queste due Capitali ugualmente che Pavia, Spoleto, Napoli e le altre città d'Italia, sotto il suo Regno acquistarono le utili e splendide decorazioni di chiese, di acquedotti, di bagni, di portici e di palazzi[408]. Ma la felicità del suddito con maggior verità si manifestava nell'attivo spettacolo del lavoro e del lusso, nel rapido aumento e nel godimento libero della ricchezza nazionale. Dalle ombre di Tivoli e di Preneste, i Senatori Romani tuttavia nell'inverno si ritiravano al temperato calore ed alle salubri fonti di Baia, e le loro ville, che s'avanzavano sopra solide moli nel Golfo di Napoli, godevano le varie vedute del cielo, della terra e dell'acqua. Dalla parte orientale dell'Adriatico, erasi formata una nuova Campania nella bella e fertil provincia dell'Istria, la quale comunicava col palazzo di Ravenna, mediante una facil navigazione di cento miglia. Le ricche produzioni della Lucania e delle contigue Province, si portavano alla Fonte Marcilia, dov'era una copiosa fiera ogni anno, consacrata al commercio, all'intemperanza ed alla superstizione. Nella solitudine di Como, che fu animata una volta dal dolce genio di Plinio, un trasparente bacino di sopra sessanta miglia in lunghezza tuttavia rifletteva le rurali dimore, che circondavano il margine del lago Lario, ed una triplice coltivazione di ulivi, di viti e di castagni cuopriva il piacevol pendìo delle colline[409]. All'ombra della pace risorse l'agricoltura, e si moltiplicarono i coltivatori mediante il riscatto degli schiavi[410]. Si scavavano con attenzione le miniere di ferro della Dalmazia, ed una d'oro nell'Abruzzo, e le paludi Pontine, come anche quelle di Spoleto, furono asciugate e coltivate da privati speculatori, il lontano premio de' quali dee dipendere dalla continuazione della pubblica prosperità[411]. Quando le stagioni eran meno propizie, le dubbiose precauzioni di fare de' magazzini di grano, di fissarne il prezzo e di proibirne l'esportazione, dimostravano almeno la buona volontà del Governo; ma la straordinaria abbondanza, che un industrioso Popolo ricavava da un terreno fecondo, era tale che alle volte una pinta di vino si vendeva in Italia per meno di tre farthings (tre quattrini) ed un sacco di grano per circa cinque scellini e sei soldi (o sia sette lire)[412]. Un paese che aveva tanti valutabili oggetti di commercio, attrasse ben tosto i mercanti da ogni parte, il lucroso traffico de' quali veniva incoraggiato o protetto dal genio liberale di Teodorico. Fu restaurata ed estesa la libera comunicazione delle Province per terra e per acqua; non si chiudevano mai nè di giorno nè di notte le porte delle Città; ed il detto comune, che una borsa d'oro lasciata in un campo era salva, esprimeva l'interna sicurezza degli abitanti.
La differenza di religione è sempre dannosa, e spesso fatale alla buona armonia fra il Principe ed il Popolo. Il Conquistatore Gotico era stato educato nella professione dell'Arrianismo, e l'Italia era devotamente attaccata alla Fede Nicena. Ma la persuasione di Teodorico non era infetta di zelo, ed ei piamente aderiva all'eresia de' suoi Padri, senza stare a bilanciare i sottili argomenti della Metafisica teologica. Soddisfatto della privata tolleranza de' suoi Arriani Settarj, giustamente si risguardò come il protettore del Culto pubblico, e l'esterna sua reverenza per una superstizione, che disprezzava, può aver nutrito nella sua mente la salutare indifferenza d'un politico o d'un Filosofo. I Cattolici de' suoi dominj confessarono, forse con ripugnanza, la pace della Chiesa; il loro Clero veniva onorevolmente ricevuto, secondo i gradi della dignità o del merito, nel palazzo di Teodorico; egli stimò la santità di Cesario[413] e d'Epifanio[414], Vescovi ortodossi d'Arles e di Pavia, quando erano tuttora in vita; e presentò una decente offerta sulla tomba di S. Pietro, senz'alcuna scrupolosa ricerca sopra la fede di quell'Apostolo[415]. Fu permesso a' Goti suoi favoriti, e fino alla stessa sua madre di ritenere o d'abbracciar la Fede Atanasiana[416], ed il lungo suo Regno non può somministrar l'esempio neppur d'un Cattolico italiano, che o per elezione o per forza passasse alla religione del Conquistatore[417]. Il Popolo ed i Barbari stessi erano edificati dalla pompa e dall'ordine del Culto religioso; a' Magistrati era ingiunto di mantenere le giuste immunità delle persone e delle cose ecclesiastiche; i Vescovi tenevano i loro Sinodi; i Metropolitani esercitavano la loro giurisdizione; e venivano conservati o moderati i privilegi del Santuario secondo lo spirito della Giurisprudenza Romana. Teodorico assunse insieme con la protezione anche la legittima supremazia della Chiesa e la sua costante amministrazione fece risorgere o estese alcune utili prerogative, che si erano trascurate dai deboli Imperatori d'Occidente. Ei non ignorava la dignità e l'importanza del Romano Pontefice, a cui erasi allora appropriato il venerabil nome di Papa. La pace o la turbolenza d'Italia potea dipendere dal carattere d'un Vescovo ricco e popolare, che s'attribuiva un sì vasto dominio tanto in Cielo che in Terra, e che in un numeroso Concilio era stato dichiarato puro da ogni colpa, ed esente da ogni giudizio[418]. Allorchè dunque la Cattedra di S. Pietro si disputava tra Simmaco e Lorenzo, essendo egli giudice, i medesimi comparvero al Tribunale d'un Re Arriano, ed esso confermò l'elezione del candidato più degno o più ossequioso. Verso il fine della sua vita, in un momento di gelosia e di sdegno, prevenne la scelta de' Romani, nominando egli un Papa nel Palazzo di Ravenna. Frenò dolcemente il pericolo e le furiose conquiste d'uno scisma, e diede vigore all'ultimo decreto del Senato per estinguere, s'era possibile, la scandalosa venalità dell'Elezioni Pontificie[419].
Io mi sono esteso con piacere sopra la felice condizione dell'Italia; ma non dobbiamo per questo addirittura immaginarci che sotto la conquista de' Goti si realizzasse l'età dell'oro de' Poeti, o vi esistesse una razza di uomini senza vizi o miserie. Questo bel prospetto venne talvolta oscurato da qualche nube; potè ingannarsi la saviezza di Teodorico, il suo potere trovar della resistenza, e fu macchiata la cadente età del Monarca dall'odio popolare, e dal sangue Patrizio. Nella prima insolenza della vittoria egli aveva tentato di spogliare tutto il partito d'Odoacre de' civili e fino de' naturali diritti della Società[420]; una tassa, inopportunamente imposta dopo le calamità della guerra, avrebbe distrutto l'agricoltura nascente della Liguria, ed una rigorosa preferenza nella compra del grano, ch'era destinato al pubblico sollievo, aggravar doveva le angustie della Campania. Svanirono, è vero, questi pericolosi progetti mediante la virtù e l'eloquenza d'Epifanio e di Boezio, che alla presenza di Teodorico medesimo difesero con buon esito la causa del Popolo[421]; ma sebbene l'orecchio Reale fosse aperto alla voce della verità, non posson sempre trovarsi un Santo e un Filosofo all'orecchio de' Re. Troppo spesso la frode Italiana, e la violenza Gotica s'abusavano dei privilegi del grado, dell'impiego, o del favore, e fu esposta agli occhi del pubblico l'avarizia del nipote del Re, prima per mezzo dell'usurpazione, e poi della restituzion de' dominj, ch'esso aveva estorto ingiustamente da' Toscani di lui vicini. Erano stanziati nel cuor dell'Italia dugentomila Barbari, formidabili anche allo stesso loro Signore; sdegnavano essi di soffrire i freni della pace e della disciplina; sempre si sentivano i disordini della loro condotta, e sol qualche volta potevano ripararsi; e quando era pericoloso il punire gli eccessi della nativa loro fierezza, bisognava prudentemente dissimularli. Allorchè l'indulgente Teodorico ebbe rimesso i due terzi del tributo Ligure, s'adattò a spiegare la difficoltà della sua situazione, ed a dolersi de' gravi, quantunque inevitabili pesi, che imponeva a' suoi sudditi per la propria loro difesa[422]. Quest'ingrati sudditi non poterono mai cordialmente famigliarizzarsi coll'origine, con la religione, o anche con le virtù del Goto Conquistatore; si erano dimenticate le passate calamità, e la felicità de' tempi presenti rendeva sempre più forte il sentimento o il sospetto delle ingiurie.
Anche quella religiosa tolleranza, che Teodorico ebbe la gloria d'introdurre nel Mondo cristiano, era dispiacevole ed offensiva per l'ortodosso zelo degl'Italiani. Rispettavano essi l'eresia armata de' Goti, ma il pio loro furore si dirigeva con sicurezza contro i ricchi e non difesi Giudei, che si erano stabiliti a Napoli, a Roma, a Ravenna, a Milano ed a Genova per vantaggio del commercio, e sotto la sanzione delle Leggi[423]. N'erano insultate le persone, saccheggiati gli averi, e bruciate le sinagoghe dalla furibonda plebaglia di Ravenna e di Roma, infiammata, per quanto sembra, da' più frivoli o stravaganti pretesti. Un Governo, che avesse potuto trascurar tale oltraggio, l'avrebbe certamente meritato. Se ne formava dunque addirittura legalmente un processo; se gli autori del tumulto si fossero confusi nella moltitudine, tutta la Comunità veniva condannata a risarcire il danno; e i bacchettoni ostinati, che ricusavano di contribuirvi, eran frustati pubblicamente per mano del carnefice. Questo semplice atto di giustizia esacerbava il disgusto de' Cattolici, che applaudivano al merito ed alla pazienza di que' santi Confessori; trecento pulpiti deploravano la persecuzion della Chiesa, e se per ordine di Teodorico a Verona fu demolita la Cappella di S. Stefano, è probabile, che in quel sacro teatro si facesse qualche miracolo contro il nome e la dignità del medesimo. Il Re d'Italia conobbe al termine di una vita gloriosa, ch'ei s'era concitato l'odio d'un Popolo, di cui aveva tanto assiduamente procurato di promuovere la felicità; e fu inasprito l'animo suo dallo sdegno, dalla gelosia e dall'amarezza d'un amore non corrisposto. S'indusse dunque il Conquistatore gotico a disarmare gl'imbelli nativi d'Italia con proibir loro qualunque arme offensiva, ad eccezione solo di un piccol coltello per gli usi domestici. Il liberatore di Roma fu accusato di cospirare co' più vili delatori contro le vite de' Senatori, ch'ei sospettava che avessero una segreta e perfida corrispondenza con la Corte Bizantina[424]. Dopo la morte d'Anastasio, fu posto il diadema sul capo ad un debole vecchio; ma prese le redini del Governo Giustiniano di lui nipote, che già meditava l'estirpazione dell'eresia, e la conquista dell'Italia e dell'Affrica. Una rigida legge, che fu promulgata in Costantinopoli, ad oggetto di ridurre gli Arriani, col timor della pena, in grembo alla Chiesa, risvegliò il giusto risentimento di Teodorico, il quale domandò per gli angustiati suoi fratelli d'Oriente quella medesima indulgenza, ch'egli aveva da tanto tempo concessa a' Cattolici de' suoi dominj. Un severo di lui comando fece imbarcare il Pontefice Romano con quattro illustri Senatori per un'Ambasceria di cui doveva questi temere ugualmente il buono che il cattivo successo. La singolar venerazione dimostrata al primo Papa che visitò Costantinopoli, fu punita come un delitto dal geloso di lui Monarca; l'artificioso o perentorio rifiuto della Corte Bizantina potè scusare un ugual contegno, e provocarne uno anche più duro; e si preparò in Italia un ordine di proibire, dopo un dato giorno l'esercizio del Culto Cattolico. La bacchettoneria de' propri sudditi, e de' suoi nemici trasse il più tollerante de' Principi sull'orlo della persecuzione; e la vita di Teodorico fu troppo lunga quando arrivò a condannar la virtù di Boezio, e di Simmaco[425].
Il Senatore Boezio[426] è l'ultimo dei Romani, che Catone o Tullio avrebber riconosciuto per loro concittadino. Essendo un ricco orfano, ereditò il patrimonio, e gli onori della Famiglia Anicia: nome ambiziosamente preso da' Re e dagl'Imperatori di quel tempo, ed il nome di Manlio mostrava la sua genuina o favolosa discendenza da una stirpe di Consoli e Dittatori, che aveano rispinti i Galli dal Campidoglio, e sacrificato i loro figli alla disciplina della Repubblica. Nella gioventù di Boezio non erano del tutto abbandonati gli studj di Roma; tuttavia esiste un Virgilio[427] corretto della mano di un Console; e la liberalità de' Goti manteneva i Professori di Grammatica, di Rettorica, e di Giurisprudenza ne' loro privilegi e stipendi. Ma la scienza, che potea trarre dalla Lingua latina, non era sufficiente a saziare l'ardente sua curiosità; e si dice, che Boezio impiegasse diciotto anni affaticandosi nelle scuole di Atene[428], ch'erano sostenute dallo zelo, dalla dottrina e dalla diligenza di Proclo, e dei suoi Discepoli. Fortunatamente la ragione e la pietà del Romano loro Alunno restarono immuni del contagio del mistero e della magia, che contaminavano i boschetti dell'Accademia; ma egli s'imbevve dello spirito, ed imitò il metodo dei viventi e defunti suoi maestri, che tentavano di conciliare i forti e sottili sentimenti d'Aristotele, con la devota contemplazione e sublime fantasia di Platone. Dopo il suo ritorno a Roma, ed il suo matrimonio con la figlia del Patrizio Simmaco, suo amico, Boezio continuò in un Palazzo d'avorio e di marmo a coltivare i medesimi studj[429]. La Chiesa restò edificata dalla profonda sua difesa della Fede ortodossa contro l'eresie Arriana, Eutichiana e Nestoriana; e fu da lui spiegata o esposta la cattolica unità in un formal Trattato mediante l' indifferenza delle tre distinte sebbene consustanziali Persone. Per vantaggio de' suoi lettori Latini, sottopose il suo genio ad insegnare i primi elementi delle arti e delle scienze della Grecia. L'Instancabile penna del Senator Romano tradusse ed illustrò la Geometria d'Euclide, la musica di Pitagora, l'aritmetica di Nicomaco, la meccanica d'Archimede, l'astronomia di Tolomeo, la teologia di Platone, e la logica d'Aristotele col commentario di Porfirio, ed ei solo era stimato capace di descriver le maraviglie dell'arte, come un orologio solare, un orologio ad acqua, o una sfera che rappresentasse i moti dei Pianeti. Da queste astruse speculazioni, Boezio s'abbassava, o, per meglio dire, innalzavasi ai doveri sociali della vita pubblica e privata: la sua liberalità sollevava l'indigente; e la sua eloquenza, che dall'adulazione si potè paragonare alla voce di Demostene o di Cicerone, s'esercitava ugualmente nel difender la causa dell'innocenza e dell'umanità. Un merito sì riguardevole fu conosciuto e premiato da un illuminato Principe; la dignità di Boezio si adornò co' titoli di Console e di Patrizio, e ne furono utilmente impiegati i talenti nell'importante carica di Maestro degli Ufizi. Nonostanti gli uguali diritti dell'Oriente e dell'Occidente, furono due suoi figli, nella tenera lor gioventù, creati Consoli del medesimo anno[430]. Nel memorabile giorno della loro inaugurazione si portarono essi con solenne pompa dal loro Palazzo nel Foro, in mezzo all'applauso del Senato e del Popolo; ed il lieto lor genitore, dopo aver recitato un'Orazione in lode del suo Real benefattore, distribuì un trionfal donativo ne' giuochi del Circo. Boezio, prospero nella fama e negli averi, nei pubblici onori e nelle relazioni private, nella cultura delle scienze e nella coscienza della propria virtù, avrebbe potuto chiamarsi felice, se questo precario epiteto si potesse applicare all'uomo con sicurezza prima ch'ei giunga al fin della sua vita.
Un Filosofo, liberale della sua ricchezza e parco del suo tempo, doveva essere insensibile alle comuni lusinghe dell'ambizione, alla sete dell'oro e degl'impieghi, e può in qualche modo credersi all'asserzione di Boezio, ch'egli aveva con ripugnanza ubbidito al divino Platone, che ad ogni virtuoso Cittadino impone l'obbligo di liberar lo Stato dall'usurpazione del vizio e dell'ignoranza. Quanto alla purità della pubblica sua condotta, se ne rimette alla memoria dei suoi Concittadini. Aveva la sua autorità frenato l'orgoglio e l'oppressione degli Ufiziali regj, ed aveva la sua eloquenza liberato Pauliano da' cani del Palazzo. Egli aveva sempre compassionato, e spesse volte sollevato le miserie de' Provinciali, i beni de' quali erano esausti dalla pubblica e privata rapacità; ed il solo Boezio ebbe il coraggio d'opporsi alla tirannia de' Barbari, insuperbiti dalla conquista, eccitati dall'avarizia, ed incoraggiati, com'ei si duole, dall'impunità. In queste onorevoli battaglie il suo spirito era superiore alle considerazioni del pericolo, e forse anche della prudenza, e possiamo apprendere dall'esempio di Catone, che un carattere di pura ed inflessibil virtù e il più capace di far lega col pregiudizio, di esser riscaldato dall'entusiasmo, e di confondere le inimicizie private con la pubblica giustizia. Il discepolo di Platone poteva esagerare le debolezze della Natura, e le imperfezioni della Società; e la forma d'un Governo gotico anche la più dolce, e fino lo stesso peso di fedeltà e di gratitudine, doveva essere insopportabile allo spirito libero d'un Cittadino romano. Ma il favore e la fedeltà di Boezio diminuirono appunto in proporzione della pubblica felicità; e fu aggiunto un indegno collega a dividere, e contrabbilanciare il potere del Maestro degli Ufizi. Negli ultimi oscuri tempi di Teodorico ei sentì con isdegno, ch'era uno schiavo; ma siccome il padrone di lui non aveva potere che sopra la sua vita, resistè senz'armi e senza timore in faccia ad un irato Barbaro, ch'era stato indotto a credere, che la salvezza del Senato fosse incompatibile con la propria. Il Senatore Albino era stato accusato, e già convinto sulla presunzione di sperare, come si diceva, la libertà di Roma. «Se Albino è reo, esclamò l'Oratore, il Senato, ed io stesso siamo tutti colpevoli del medesimo delitto. Se noi siamo innocenti, anche Albino ha diritto alla protezion delle Leggi». Queste Leggi potevano in vero non punire il nudo e semplice desiderio di un bene, che non potea conseguirsi; ma dovevano esser meno indulgenti per la temeraria confession di Boezio, che s'egli avesse avuto notizia di una cospirazione, non avrebbe mai avuta questa notizia il Tiranno[431]. L'Avvocato d'Albino fu tosto involto nel pericolo e forse nel delitto del suo cliente; fu posta la loro sottoscrizione (ch'essi negarono come una falsità) all'original documento, che invitava l'Imperatore a liberar l'Italia da' Goti, e tre testimoni di onorevole condizione, ma forse d'infame riputazione, attestarono i proditorj disegni del Patrizio Romano[432]. Pure se ne dee presumere l'innocenza, giacchè Teodorico lo privò de' mezzi di giustificarsi, e lo confinò rigorosamente nella torre di Pavia, mentre il Senato, alla distanza di cinquecento miglia, pronunziò la sentenza di confiscazione e di morte contro il più illustre de' suoi membri. D'ordine de' Barbari, l'occulta scienza d'un Filosofo fu infamata coi nomi di sacrilegio e di magia[433]. Un devoto e rispettoso attacco al Senato, dalle tremanti voci de' Senatori medesimi fu condannato come colpevole; e la loro ingratitudine meritò bene il desiderio o la predizione di Boezio, che dopo di lui non si fosse trovato alcun reo del medesimo delitto[434].
A. 524
Mentre Boezio, carico di catene, ad ogni momento aspettava la sentenza o il colpo di morte, compose nella torre di Pavia la Consolazione della Filosofia, aureo libro, non indegno della penna di Platone o di Tullio, ma che riceve un merito incomparabile dalla barbarie de' tempi, e dalla situazione dell'Autore. Quella guida celeste, ch'egli aveva per tanto tempo invocato in Roma ed in Atene, discese allora ad illuminare la sua prigione, a ravvivare il suo coraggio, ed a versare nelle sue ferite il salutare di lei balsamo. Essa gl'insegnò a paragonare la lunga prosperità, da lui goduta, con la sua presente miseria, ed a concepire nuove speranze dall'incostanza della fortuna. La ragione l'avea informato della precaria qualità dei suoi doni; l'esperienza l'avea convinto del reale valore di essi; ei gli avea goduti senza colpa; poteva dunque spogliarsene senza neppure un sospiro, e tranquillamente sdegnar l'impotente malizia de' suoi nemici, che gli avevan lasciato la felicità, mentre non avevan potuto togliergli la virtù. Dalla terra, Boezio innalzavasi verso il Cielo in cerca del Sommo Bene; esplorava il metafisico laberinto del caso e del destino, della prescienza e della libertà, del tempo e dell'eternità; e generosamente procurava di conciliare i perfetti attributi della Divinità, con gli apparenti disordini del suo fisico e morale Governo. Tali motivi di consolazione, sì ovvj, sì vaghi o sì astrusi, sono inefficaci a vincere i sentimenti della natura umana. Non pertanto la fatica di pensare può divertire il sentimento della disgrazia; ed il Saggio, che può artificiosamente combinare nella medesima opera le diverse ricchezze della Filosofia, della Poesia e dell'Eloquenza, dee già possedere quell'intrepida calma, ch'ei dimostra di cercare. La sospensione, ch'è il peggiore de' mali, finalmente fu tolta dai ministri di morte, ch'eseguirono e forse eccederono l'inumano comando di Teodorico. Fu legata una forte corda intorno al capo di Boezio, e stretta con tal forza, che quasi gli saltaron fuori gli occhi dalle lor cavità; e può riguardarsi come una specie di compassione il meno atroce tormento di batterlo con bastoni finnattantochè spirasse[435]. Ma soppravvisse il suo genio per ispargere un raggio di cognizione sopra i più tenebrosi tempi del Mondo Latino; il più glorioso fra i Re d'Inghilterra tradusse gli scritti del Filosofo[436], e l'Imperatore Ottone III collocò in una tomba più onorevole le ossa d'un Santo cattolico, che dagli Arriani suoi persecutori aveva ricevuto l'onore del martirio, e la fama de' miracoli[437]. Boezio, nelle ultime sue ore trasse qualche conforto dalla salvezza de' suoi due figli, della moglie, e del rispettabile Simmaco, suo suocero. Ma fu indiscreto e forse irriverente il duolo di Simmaco: come aveva egli voluto dolersi, così poteva tentare di vendicar la morte d'un amico ingiuriato. Fu dunque tratto in catene da Roma al Palazzo di Ravenna; ed i sospetti di Teodorico non poterono acquietarsi, che col sangue d'un vecchio ed innocente Senatore[438].
A. 526
L'umanità sarà disposta ad avvalorare un racconto, che prova la giurisdizione della coscienza, ed il rimorso de' Re; e la Filosofia non ignora, che alle volte la forza di una disordinata fantasia, e la debolezza di un corpo infermo creano i più orridi spettri. Teodorico, dopo una vita virtuosa e gloriosa, stava per discendere nel sepolcro con vergogna e delitto: era umiliato il suo spirito dal contrasto del passato, e giustamente agitato dagl'invisibili terrori del futuro. Dicesi, che una sera, mentre stava sulla regia mensa la testa d'un grosso pesce[439], egli a un tratto esclamò che vedeva la trista faccia di Simmaco, con gli occhi spiranti rabbia e vendetta; e con la bocca armata di lunghi acuti denti, che minacciava di divorarlo. Il Monarca si ritirò subito nella sua camera, e mentre stava tremando per un freddo febbrile sotto il peso di più coperte, manifestò con interrotte voci al suo medico Elpidio il profondo suo pentimento per le uccisioni di Boezio e di Simmaco[440]. S'accrebbe la sua malattia, e dopo una dissenteria, che continuò per tre giorni, spirò nel palazzo di Ravenna l'anno trentesimo terzo, ovvero, se vogliamo contare dall'invasione d'Italia, il trentesimo settimo del suo Regno. Vedendo che s'avvicinava il suo fine, divise fra due suoi nipoti i tesori e le Province che possedeva, e fissò il Rodano per comune loro confine[441]. Fu restituito ad Amalarico il trono di Spagna, e l'Italia con tutte le conquiste degli Ostrogoti ricadde ad Atalarico, il quale non aveva più di dieci anni, ma era amato come l'ultima prole maschile della stirpe degli Amali, mediante il breve matrimonio di Amalasunta, sua madre, con un profugo Reale del medesimo sangue[442]. In presenza del moribondo Monarca, i Capitani goti, ed i Magistrati italiani, vicendevolmente impegnarono la loro fede e lealtà a favore del giovine Principe, e della madre di lui tutrice, e nell'istesso terribil momento ricevettero l'ultimo suo salutare avviso di conservare le Leggi, d'amare il Senato ed il Popolo romano, e di coltivare con decente rispetto l'amicizia dell'Imperatore[443]. Fu eretto un monumento a Teodorico da Amalasunta, sua figlia, in una cospicua situazione, che dominava la Città di Ravenna, il porto ed il vicino lido. Una cappella di forma circolare del diametro di trenta piedi, era coperta da una cupola d'un solo pezzo di granito: dal centro di questa s'innalzavano quattro colonne, che sostenevano un vaso di porfido contenente il corpo del Re Goto, circondato da statue di bronzo de' dodici Apostoli[444]. Si sarebbe potuto permettere che il suo spirito, dopo qualche previa espiazione, si mescolasse co' Benefattori dell'uman genere, se un Eremita italiano non fosse stato testimone in una visione della dannazione di Teodorico[445], l'anima del quale da Ministri della Divina vendetta fu gettata nel vulcano di Lipari, una delle infiammate bocche del Mondo infernale[446].
CAPITOLO XL.
Innalzamento di Giustino il Vecchio. Regno di Giustiniano. I. L'Imperatrice Teodora. II. Fazioni del Circo e sedizioni di Costantinopoli. III. Commercio e Manifatture di seta. IV. Finanze e Tributi. V. Edifizi di Giustiniano. Chiesa di S. Sofia. Fortificazione e Frontiere dell'Impero d'Oriente. Abolizione delle scuole d'Atene e del Consolato di Roma. A. 482-483
L'Imperator Giustiniano era nato[447] presso le rovine di Sardica (ch'è la moderna Sofia) d'una oscura stirpe[448] di Barbari[449], che abitavano un inculto e desolato Paese, a cui si son dati successivamente i nomi di Dardania, di Dacia e di Bulgaria. Ne fu preparato l'innalzamento dal fortunato coraggio di Giustino suo zio, che insieme con due altri contadini del medesimo villaggio abbandonò, per seguire la professione delle armi, la più vantaggiosa occupazione degli agricoltori o de' pastori[450]. A piedi, e con una scarsa provvision di biscotto nelle loro sacche, i tre giovani preser la strada di Costantinopoli, e furon tosto arruolati, per la loro forza e statura, fra le guardie dell'Imperator Leone. Sotto i seguenti due Regni acquistò il fortunato villano ricchezze ed onori; e l'aver esso evitato alcuni pericoli, che minacciaron la vita, venne in seguito attribuito all'Angelo Custode, che veglia sul destino de' Re. Il lungo e lodevole suo servizio nelle guerre Isaurica e Persiana non avrebbe tolto all'oblivione il nome di Giustino; ma può giustificar gli avanzamenti militari, che a grado a grado nel corso di cinquant'anni egli ottenne, vale a dire i posti di Tribuno, di Console e di Generale, la dignità di Senatore, ed il comando delle guardie, che ad esso come a loro capo ubbidivano, allorchè seguì l'importante crisi della remozione dell'Imperatore Anastasio dal Mondo. Furono esclusi dal trono i potenti di lui congiunti, ch'egli aveva innalzato ed arricchito; e l'Eunuco Amanzio, che regnava nel Palazzo, aveva segretamente risoluto di porre il diadema sul capo del più ossequioso fra le sue creature. A tale oggetto affidossi un liberal donativo per comprare il suffragio delle guardie, in mano del loro Comandante.
A. 518-527
Ma Giustino perfidamente adoprò questi gravi argomenti a favor di se stesso; e siccome non ardì presentarsi alcun competitore, fu vestito della porpora il contadino della Dacia, per l'unanime consenso dei soldati, che lo riconobbero valoroso e moderato; del Clero e del Popolo, che lo credeva ortodosso; e dei Provinciali, che cederono con una cieca ed implicita sommissione al volere della Capitale. Giustino il Vecchio, così nominato per distinguerlo da un altro Imperatore della medesima Famiglia e dell'istesso nome, salì sul trono di Bisanzio all'età di sessant'otto anni; e se si fosse lasciato operare a suo talento, ad ogni istante d'un Regno di nove anni, avrebbe dovuto manifestare a' suoi sudditi l'improprietà della loro elezione. La sua ignoranza era simile a quella di Teodorico, ed è osservabile, che in un secolo non affatto privo di cognizioni, due Monarchi contemporanei non avevano mai appreso neppur l'alfabeto. Ma il genio di Giustino era molto inferiore a quello del Re Goto: l'esperienza di soldato non l'aveva renduto capace del governo d'un Impero; e quantunque fosse personalmente valoroso, la coscienza della propria debolezza veniva naturalmente accompagnata da dubbi, diffidenze e timori politici. Gli affari però ministeriali dello Stato erano diligentemente e fedelmente trattati dal Questore Proclo[451]; ed il vecchio Imperatore adottò i talenti e l'ambizione di Giustiniano suo nipote, giovane intraprendente, che lo Zio avea tratto dalla rustica solitudine della Dacia, ed allevato in Costantinopoli, com'erede de' privati suoi beni, e finalmente anche dell'Impero Orientale.
A. 520-527
Defraudato che fu l'Eunuco Amanzio del suo danaro, fu necessario privarlo anche della vita. Facilmente ciò si eseguì mediante l'accusa d'una vera o finta cospirazione, e, come per un'aggiunta di delitto, i Giudici furono informati, ch'egli era segretamente addetto all'eresia Manichea[452]. Amanzio fu decapitato, tre de' suoi compagni, ch'erano i primi domestici del Palazzo, furon puniti con la morte, o coll'esilio; e l'infelice lor candidato per la porpora, fu cacciato in una profonda carcere, oppresso di pietre, ed ignominiosamente gettato senza sepoltura nel mare. Di maggior difficoltà e pericolo fu la rovina di Vitaliano. Questo Capitano Goto erasi fatto popolare mediante la guerra civile, ch'esso arditamente sostenne contro Anastasio per la difesa della Fede Ortodossa, e dopo aver concluso un vantaggioso trattato, ei tuttavia si trovava nelle vicinanze di Costantinopoli alla testa d'una vittoriosa e formidabile armata di Barbari. Sulla fragile sicurezza de' giuramenti, si lasciò indurre ad abbandonar quella vantaggiosa situazione, ed a fidare la sua persona alle mura d'una Città, di cui gli abitanti, specialmente quelli della fazione Azzurra, erano stati ad arte irritati contro di lui con la rimembranza fino delle sue pie ostilità. L'Imperatore ed il suo nipote l'abbracciarono come un fedele e degno campione della Chiesa e dello Stato; e graziosamente decorarono il loro favorito co' titoli di Console e di Generale; ma nel settimo mese del suo Consolato, Vitaliano fu trucidato con diciassette ferite alla mensa reale[453]; e Giustiniano, che n'ereditò le spoglie, fu accusato come l'assassino di un fratello spirituale, a cui aveva di fresco impegnato la sua fede nella partecipazione de' Misteri Cristiani[454]. Dopo la caduta del suo rivale fu questi promosso, senz'alcun merito di servizio militare, alla carica di Comandante Generale degli eserciti orientali, ch'ei doveva condurre in campo contro il pubblico nemico. Ma, cercando la fama, Giustiniano avrebbe potuto perdere il dominio che aveva sopra l'età e debolezza dello Zio; ed invece di procurarsi per mezzo de' trofei, Sciti o Persiani, l'applauso dei suoi Nazionali[455], il prudente guerriero ne sollecitava il favore nelle Chiese, nel Circo, e nel Senato di Costantinopoli. I Cattolici erano attaccati al nipote di Giustino, che in mezzo, all'eresie Nestoriana ed Eutichiana calcava l'angusto sentiero dell'inflessibile ed intollerante ortodossia[456]. Ne' primi giorni del nuovo Regno ei preparò e rimunerò l'entusiasmo popolare contro la memoria del defunto Imperatore. Dopo uno scisma di 34 anni, riconciliò l'altiero ed irritato spirito del Pontefice romano, e fece spargere fra' Latini una favorevole voce del pio suo rispetto per la Sede apostolica. Le Sedi Orientali riempite furono di Vescovi cattolici, addetti al suo partito; guadagnò con la sua liberalità il Clero ed i Monachi, e fu ammaestrato il Popolo a pregare pel futuro loro Sovrano, speranza e colonna della vera Religione. La magnificenza di Giustiniano si vide nella più splendida pompa de' pubblici spettacoli, oggetto agli occhi della moltitudine non meno sacro ed importante, che il Simbolo di Nicea o di Calcedonia: la spesa del suo Consolato fu valutata dugento ottant'ottomila monete d'oro; comparirono sull'anfiteatro nell'istesso tempo venti Leoni e trenta Leopardi; e fu rilasciata come un dono straordinario ai Cocchieri vittoriosi del Circo una serie numerosa di Cavalli co' ricchi lor fornimenti. Mentre cercava di piacere al Popolo di Costantinopoli, e riceveva i dispacci degli stranieri Monarchi, il nipote di Giustino con gran premura coltivava l'amicizia del Senato. Pareva, che questo venerabile nome desse diritto a' suoi Membri di dichiarare il sentimento della Nazione, e di regolare la successione al trono Imperiale: il debole Anastasio aveva lasciato degenerare il vigore del Governo nella forma o sostanza d'un Aristocrazia; e gli Ufiziali della Milizia, che avevano ottenuto il posto di Senatori, erano seguitati dalle domestiche loro guardie; truppa di Veterani, le armi o le acclamazioni de' quali potevano in un momento di tumulto disporre del diadema di Oriente. Si profusero i tesori dello Stato per comprare i voti de' Senatori, e fu comunicato all'Imperatore l'unanime lor desiderio, che si compiacesse d'adottar Giustiniano per suo Collega. Ma questa domanda, che troppo chiaramente gli rammentava il suo prossimo fine, non piacque al sospettoso carattere di un vecchio Monarca, desideroso di ritener la potenza, ch'era incapace d'esercitare; e Giustino tenendo con ambe le mani la porpora, avvisò di preferire, giacchè stimavasi un'elezione sì vantaggiosa, qualche Candidato più vecchio. Nonostante questo rimprovero, il Senato volle decorar Giustiniano col reale epiteto di Nobilissimo; e ne fu ratificato il decreto dall'affetto, o dal timore dello Zio. Dopo qualche tempo il languore sì di mente che di corpo, a cui si ridusse per una incurabil ferita nella coscia, gli rendè indispensabile l'aiuto d'un Custode. Chiamò dunque il Patriarca ed i Senatori; ed alla loro presenza pose il diadema solennemente sul capo del suo nipote, che fu condotto dal Palazzo al Circo, e salutato con alti e lieti applausi dal Popolo. La vita di Giustino si prolungò per circa quattro mesi, ma dal momento di questa ceremonia, ei fu considerato come morto quanto all'Impero, che riconobbe Giustiniano nel quarantesimo quinto anno della sua età per legittimo Sovrano d'Oriente[457].
A. 527-565
Giustiniano, dal suo innalzamento al trono fino alla morte, governò l'Impero romano per trent'otto anni, sette mesi, e tredici giorni. Gli avvenimenti del suo Regno, che eccitano la curiosa nostr'attenzione pel numero, e per la varietà ed importanza loro, sono diligentemente riferiti dal Segretario di Belisario, Retore che l'eloquenza promosse al grado di Senatore e di Prefetto di Costantinopoli. Procopio[458], seguitando le vicende del coraggio o della servitù, del favore o della disgrazia, successivamente compose l' istoria, il panegirico, e la satira de' suoi tempi. Gli otto libri delle guerre Persiana, Vandalica e Gotica[459], che son continuati ne' cinque libri d'Agatia, meritano d'essere da noi stimati, come una laboriosa e felice imitazione degli scrittori Attici, o almeno Asiatici dell'antica Grecia. I fatti, ch'ei narra, son tratti dalla propria personale esperienza, e dalla libera conversazione d'un soldato, d'un ministro, e d'un viaggiatore; il suo stile continuamente aspira, e spesse volte giunge al merito d'esser forte ed elegante; le sue riflessioni, specialmente ne' discorsi, che troppo frequentemente v'inserisce, contengono un ricco fondo di cognizioni politiche; ed eccitato l'Istorico dalla generosa ambizione d'istruire e dilettar la posterità, sembra che sdegni i pregiudizi popolari e l'adulazione delle Corti. Gli scritti di Procopio[460] erano letti ed applauditi da' suoi contemporanei[461]; ma sebbene ei gli ponesse rispettosamente a' piedi del trono, l'orgoglio di Giustiniano doveva esser punto dalle lodi d'un Eroe, che sempre ecclissa la gloria del suo inattivo Sovrano. L'intima sublime cognizione dell'indipendenza fu vinta dalle speranze e da' timori della schiavitù; ed il Segretario di Belisario si procurò il perdono ed il premio ne' sei libri degl'Imperiali Edifizi. Aveva egli scelto con accortezza un soggetto di apparente splendore, in cui potesse altamente celebrare il genio, la magnificenza e la pietà d'un Principe, che riguardato e come Conquistatore e come Legislatore, avea sorpassato le puerili virtù di Temistocle e di Ciro[462]. La mancanza d'incontro potè indurre l'adulatore ad una segreta vendetta; ed il primo barlume di favore potè di nuovo tentarlo a sospendere ed a sopprimere un libello[463], nel quale il Ciro romano si trasforma in un odioso e dispregevol tiranno, e tanto l'Imperatore quanto la sua consorte Teodora vengono seriamente rappresentati come due demonj, che avevan presa la figura umana per la distruzione dell'uman genere[464]. Tal vile incostanza dee senza dubbio macchiar la riputazione di Procopio, e diminuirne il credito: pure dopo aver lasciato svaporare il veleno della sua malignità, il rimanente degli Aneddoti, ed anche i fatti più vergognosi, alcuni de' quali sono leggiermente accennati nella sua pubblica Storia, si confermano dall'intrinseca loro evidenza, o dagli autentici documenti di quel tempo[465]. Con questi diversi materiali m'accingo adesso a descrivere il Regno di Giustiniano, che merita ben d'occupare un vasto spazio. Il presente Capitolo esporrà l'innalzamento ed il carattere di Teodora, le fazioni del Circo, e la pacifica amministrazione del Sovrano d'Oriente. Ne' tre Capitoli seguenti riferirò le guerre di Giustiniano, che terminarono la conquista dell'Affrica e dell'Italia; e verrò seguitando le vittorie di Belisario e di Narsete, senza dissimulare la vanità de' loro trionfi, o l'ostil valore degli Eroi Persiani e Gotici. Ed il seguito di questo volume (fino al cap. 47) conterrà la Giurisprudenza e Teologia dell'Imperatore; le controversie e le Sette, che tuttora dividono la Chiesa Orientale; e la riforma delle Leggi romane, che tuttavia son obbedite o rispettate dalle Nazioni della moderna Europa.
I. Il primo atto di Giustiniano, nell'esercizio della suprema Potestà, fu quello di dividerla con la donna ch'egli amava, con la famosa Teodora[466], di cui non si può applaudire lo straordinario innalzamento come un trionfo di femminile virtù. Nel tempo che regnava Anastasio fu affidata la cura delle fiere, mantenute dalla fazion Verde in Costantinopoli, ad Acacio, nativo dell'isola di Cipro, che dal suo impiego ebbe il soprannome di Maestro degli Orsi. Quest'onorevole ufizio dopo la sua morte fu conferito ad un altro candidato, nonostante la diligenza della sua Vedova, che si era già provvista d'un marito, e d'un successore all'impiego del primo. Acacio aveva lasciato tre figlie, Comitone[467], Teodora ed Anastasia, la maggiore delle quali non aveva allora più di sette anni. In occasione d'una solenne festa, queste abbandonate orfane furon mandate dall'afflitta e sdegnata lor madre in aria di supplichevoli in mezzo al teatro: la fazion Verde le ricevè con disprezzo, l'Azzurra con compassione; e questa differenza, che restò profondamente impressa nella mente di Teodora, influì lungo tempo dopo nell'amministrazion dell'Impero. Le tre sorelle, a misura che crebbero in età ed in bellezza, furono l'una dopo l'altra abbandonate a' pubblici e privati piaceri del Popolo bizantino; e Teodora, dopo aver seguitato Comitone sul teatro in abito di schiava con uno sgabello in capo, fu lasciata finalmente far uso senz'alcuna dipendenza de' propri talenti. Essa nè ballava, nè cantava, nè suonava il flauto; la sua perizia ristringevasi all'arte pantomimica; era eccellente nei caratteri buffi, ed ogni volta che la Comica gonfiava le guance, e con un tuono e gesto ridicolo si doleva degli schiaffi che l'erano dati, risuonava tutto il teatro di Costantinopoli di risa e di applausi. La beltà di Teodora[468] fu l'oggetto de' più lusinghevoli encomi, e la sorgente del più squisito diletto. Le fattezze di essa erano delicate e regolari; la carnagione, quantunque un poco pallida, era d'un color naturale; la vivacità de' suoi occhi esprimeva in un istante ogni sensazione; i facili suoi movimenti mostravano le grazie d'una piccola ma elegante figura; e potè o l'amore, o l'adulazione vantare, che la pittura e la poesia non eran capaci di rappresentare l'impareggiabil'eccellenza della sua forma. Ma questa fu degradata dalla facilità, con cui s'espose all'occhio del pubblico, e si prostituì ai licenziosi desiderj. Le venali sue grazie furono abbandonate ad una promiscua folla di cittadini e di stranieri d'ogni ceto e d'ogni professione: il fortunato amante, a cui era stata promessa una notte di godimenti, fu spesse volte cacciato fuori del suo letto da un più forte o più ricco favorito; e quando essa passava per le strade, se n'evitava l'incontro da tutti quelli, che bramavano di fuggir lo scandalo, o la tentazione. Il satirico Istorico non arrossì[469] di descrivere le nude scene, che Teodora non si vergognò di rappresentare nel teatro[470]. Dopo aver esaurite le arti del piacer sensuale[471], con la massima ingratitudine si doleva della parsimonia della Natura[472]; ma bisogna velare nell'oscurità d'una lingua dotta i lamenti, i piaceri e gli artifizi di essa. Dopo d'essere stata per qualche tempo il principale oggetto del piacere e del disprezzo della Capitale, condiscese ad andar via con Ecebolo, nativo di Tiro che aveva ottenuto il Governo della Pentapoli affricana. Ma quest'unione fu fragile e passeggiera; Ecebolo scacciò ben presto una dispendiosa ed infedel concubina; si ridusse essa in Alessandria ad un'estrema miseria; e nel laborioso di lei ritorno a Costantinopoli, ogni Città dell'Oriente ammirò e godè la bella Cipriotta, il cui merito pareva che provasse la sua discendenza dall'Isola particolare di Venere. Il moltiplice commercio di Teodora e le sue detestabili precauzioni la preservarono dal pericolo, ch'essa temeva; ciò non ostante una volta, ed una volta sola, divenne madre. Il fanciullo fu trasportato ed educato in Arabia da suo padre, che, giunto a morte, gli fece sapere, che egli era figlio di un'Imperatrice. Pieno di ambiziose speranze, il Giovine subito corse senz'alcun sospetto al Palazzo di Costantinopoli, e fu ammesso alla presenza di sua madre. Siccome però ei non fu mai più veduto, neppure dopo la morte di Teodora, le viene meritamente imputato d'aver estinto con la vita di lui un segreto così offensivo per l'imperial sua virtù.
Nel più abbietto stato di fortuna e di riputazione, in cui si trovava Teodora, una certa visione, mentre essa o dormiva o farneticava, le aveva annunziata la piacevole sicurezza di esser destinata a divenire sposa di un potente Monarca. Consapevole della sua vicina grandezza, dalla Paflagonia tornò a Costantinopoli: assunse, da brava attrice, un carattere più decente; supplì alla sua povertà mediante la lodevole industria di filar la lana; ed affettò una vita casta e solitaria in una piccola casa, ch'essa di poi convertì in magnifico Tempio[473]. La sua bellezza, assistita dall'arte o dal caso, tosto attrasse, vinse e fissò il Patrizio Giustiniano, che già regnava con assoluto dominio sotto il nome del suo Zio. Essa procurò forse d'innalzare il valore d'un dono, che aveva tante volte prodigalizzato a' più vili dell'uman genere; forse infiammò a principio con modeste dilazioni, e finalmente con sensuali attrattive, i desiderj d'un amante, che per natura o per devozione s'era assuefatto a lunghe vigilie, e ad una parca dieta. Passati i suoi primi trasporti, essa conservò l'istesso ascendente sopra il suo spirito, mediante il merito più solido del giudizio e dell'intelligenza. Giustiniano si compiacque di nobilitare ed arricchire l'oggetto del suo amore: si profondevano al piè di lei i tesori dell'Oriente; ed il nipote di Giustino si determinò, forse per scrupolo di coscienza, a dare alla sua concubina il sacro e legittimo carattere di moglie. Ma le Leggi di Roma espressamente proibivano il matrimonio di un Senatore con qualunque donna, che fosse disonorata da servile origine o da professione teatrale. L'Imperatrice Lupicina o Eufemia, donna barbara e di rozzi costumi, ma d'irreprensibil virtù, ricusò d'accettar per nipote una prostituta: ed anche Vigilanza, superstiziosa madre di Giustiniano, quantunque conoscesse il talento e la beltà di Teodora, era nella più seria apprensione, che la leggierezza e l'arroganza di quell'artificiosa druda corrompesse la pietà e la felicità dei suo figlio. L'inflessibil costanza di Giustiniano però tolse di mezzo tutti questi ostacoli. Egli aspettò pazientemente la morte dell'Imperatrice; non curò le lacrime di sua madre, che presto cadde sotto il peso della sua afflizione; e fu promulgata in nome dell'Imperator Giustino una legge, che aboliva la rigida Giurisprudenza dell'antichità. Si aprì (secondo quest'Editto) la strada ad un glorioso pentimento per quelle infelici che avevan prostituito le loro persone sul teatro, e venne loro permesso di contrarre una legittima unione co' più illustri de' Romani[474]. A questa indulgenza tosto succederono le nozze solenni di Giustiniano e di Teodora; crebbe a grado a grado la dignità di questa insieme con quella del suo amante; ed appena Giustino ebbe investito il nipote della porpora, il Patriarca di Costantinopoli pose il diadema sul capo dell'Imperatore e dell'Imperatrice d'Oriente. Ma i soliti onori, che la severità de' costumi romani aveva accordato alle mogli de' Principi, non potevano soddisfare nè l'ambizione di Teodora, nè la tenerezza di Giustiniano. Ei la collocò sul trono, come un'eguale ed indipendente Collega nella sovranità dell'Impero, e s'impose a' Governatori delle Province un giuramento di fedeltà in nome di Giustiniano insieme e di Teodora[475]. Cadeva il Mondo Orientale prostrato avanti al genio ed alla fortuna della figlia d'Acacio. Quella prostituta, che in presenza d'innumerabili spettatori aveva macchiato il teatro di Costantinopoli, adoravasi come Regina nella stessa Città da' gravi Magistrati, da' Vescovi Ortodossi, da' Generali vittoriosi, e da' soggiogati Monarchi[476].
Quelli che credono, che la mancanza di castità faccia totalmente depravare lo spirito delle donne, prestarono volentieri orecchio a tutte le invettive della privata invidia, o del risentimento popolare, che ha dissimulato le virtù di Teodora, ne ha esagerato i vizi, ed ha rigorosamente condannato le venali o volontarie colpe della giovine meretrice. Per causa o di vergogna o di disprezzo, ella spesso evitava il servile omaggio della moltitudine, fuggiva l'odiosa luce della Capitale, e passava la maggior parte dell'anno ne' Palazzi e Giardini, piacevolmente situati sulle coste marittime della Propontide e del Bosforo. Il privato suo tempo era consacrato alla prudente non meno che grata cura della sua bellezza; al lusso del bagno e della tavola, ed al lungo sonno della sera e della mattina. I segreti suoi appartamenti erano occupati dalle donne e dagli eunuchi, che essa favoriva e secondava nelle loro passioni e interessi, a spese della giustizia; i più illustri personaggi poi dello Stato restavano in folla in un'oscura e soffocante anticamera, e quando alla fine, dopo un tedioso indugio, venivano ammessi a baciare i piedi a Teodora, trovavano in quella, secondo che le suggeriva l'umore, o la tacita arroganza d'un'Imperatrice o la capricciosa leggierezza d'una commediante. La sua rapace avarizia nell'accumulare immensi tesori, potrebbe scusarsi dall'apprensione della morte di suo marito, che poteva non lasciare alternativa fra la rovina ed il trono; ed il timore ugualmente che l'ambizione poterono esacerbare Teodora contro due Generali, che nel tempo d'una malattia dell'Imperatore avevano imprudentemente dichiarato, ch'essi non eran disposti ad acquietarsi alla scelta della Capitale. Ma la taccia di crudeltà, così ripugnante anche ai suoi vizi più molli, ha impresso un'indelebile macchia sulla memoria di Teodora. Le numerose, di lei spie osservavano e riferivan con diligenza qualunque azione, parola o sguardo ingiurioso alla reale loro poltrona. Chiunque veniva da esse accusato, era posto nelle particolari di lei prigioni[477] inaccessibili alle ricerche della giustizia, e correva la fama, che vi si usassero i tormenti della fustigazione o delle verghe in presenza d'una tiranna insensibile alle voci delle preghiere o della compassione[478]. Alcune di queste infelici vittime perirono in profonde malsane prigioni, mentre ad altro si permetteva, dopo la perdita delle membra, della ragione, o delle facoltà loro, di comparire nel Mondo, come vivi monumenti della sua vendetta, che per ordinario estendevasi a' figli di coloro, ch'essa aveva preso in sospetto o ingiuriato. Quel Senatore o Vescovo, di cui Teodora pronunziato aveva la morte o l'esilio, era consegnato ad un fedel suo messaggio, di cui ravvivavasi la diligenza con la minaccia pronunciata dalla sua bocca, che «se avesse mancato nell'esecuzione de' suoi ordini, giurava per quello che vive in eterno, di farlo scorticare[479].»
Se la fede di Teodora non fosse stata infetta d'eresia, l'esemplare sua devozione l'avrebbe potuta purgare, nell'opinione dei suoi contemporanei, dai vizi d'orgoglio, di avarizia e di crudeltà. Se però essa influì a calmare l'intollerante furore dell'Imperatore, il presente secolo accorderà qualche merito, alla sua religione, e molta indulgenza agli speculativi suoi errori[480]. Fu inserito il nome di Teodora con uguale onore in tutte le pie e caritatevoli fondazioni di Giustiniano, e può attribuirsi la più benefica istituzione del suo Regno alla simpatia dell'Imperatrice verso le sue meno fortunate sorelle, ch'erano state sedotte o costrette ad abbracciar la prostituzione. Un Palazzo, che era sulla parte Asiatica del Bosforo, fu convertito in un comodo e spazioso Monastero, e fu assegnato un generoso mantenimento a cinquecento donne che si erano raccolte dalle strade e da' postriboli di Costantinopoli. In questo sicuro e santo ritiro, venivano esse condannate ad una perpetua clausura, e la disperazione di alcune, che si gettarono in mare, si perdeva nella gratitudine delle penitenti, ch'erano state salvate dalla colpa e dalla miseria mediante la generosa loro benefattrice[481]. Giustiniano medesimo celebra la prudenza di Teodora; e le sue Leggi si attribuiscono ai savi consigli della sua rispettabilissima moglie, ch'egli dice d'aver ricevuto come un dono della divinità[482]. Si manifestò il suo coraggio in mezzo al tumulto del Popolo, ed a terrori della Corte. Una prova della sua castità, dopo che unissi a Giustiniano è il silenzio degl'implacabili di lei nemici; e quantunque la figlia d Acacio potesse esser sazia d'amore si dee non ostante far qualche applauso alla fermezza del suo spirito, che potè sacrificare il piacere e l'abitudine, al più forte sentimento del dovere o dell'interesse. I desiderj e le preghiere di Teodora non poterono mai ottenere la grazia di un figlio legittimo, e seppellì una bambina, unica prole del suo matrimonio[483]. Ciò non ostante il suo dominio fu durevole ed assoluto; si conservò essa, o coll'arte o col merito, l'affetto di Giustiniano; e le apparenti lor dissensioni riusciron sempre fatali a' Cortigiani, che le credetter sincere. Se n'era forse indebolita la salute per la dissolutezza della gioventù; ma essa fu sempre delicata, e fu consigliata da' Medici a far uso de' Bagni caldi Pitj. Fu accompagnata l'Imperatrice in questo viaggio dal Prefetto del Pretorio, dal gran Tesoriere, da più Conti e Patrizi, e da uno splendido seguito di quattromila serventi: risarcite furono le pubbliche strade; si eresse un palazzo per riceverla; e nel passar che fece per la Bitinia distribuì generose limosine alle Chiese, a' Monasteri ed agli Spedali, affinchè implorassero dal Cielo il ristabilimento della sua salute[484]. Finalmente l'anno ventesimo quarto del suo matrimonio e ventesimo secondo del suo Regno fu consumata da un cancro[485]; e ne fu pianta l'irreparabile perdita dal marito, che in luogo d'una teatral prostituta avrebbe potuto scegliere la più pura e la più nobil donzella d'Oriente[486].
II. Possiamo osservare una differenza essenziale fra i giuochi dell'antichità: i più nobili presso i Greci erano attori, e presso i Romani semplici spettatori. Era lo stadio Olimpico aperto all'opulenza, al merito, ed all'ambizione; e se i Candidati erano in grado di contare sulla loro personal perizia ed attività, seguir potevano le traccie di Diomede e di Menelao, guidando i propri loro cavalli nella rapida corsa[487]. Si lasciavan partire nel medesimo istante dieci, venti, quaranta cocchi; una corona di foglie era il premio del vincitore, e se ne celebrava la fama, insieme con quella della sua famiglia, e della sua Patria in canzoni liriche, più durevoli de' monumenti di bronzo e di marmo. Ma un Senatore, o anche un puro Cittadino consapevole della sua dignità, si sarebbe vergognato d'esporre la sua persona o i suoi cavalli nel Circo di Roma. Si rappresentavano i giuochi a spese della Repubblica, de' Magistrati, o degl'Imperatori, e se ne abbandonavan le redini a mani servili; e se i profitti d'un favorito cocchiere talvolta superavano quelli d'un Avvocato, ciò dee riguardarsi come l'effetto di una popolare stravaganza, e come il più alto sforzo d'una ignobile professione. Il corso, nella sua prima origine, consisteva nella semplice contesa di due cocchi, i direttori de' quali si distinguevano con livree bianche e rosse; in seguito vi furono aggiunti due altri colori, cioè il verde e l' azzurro: e siccome si replicavano le corse venticinque volte, così cento cocchi contribuivano in un giorno alla pompa del Circo. Ben presto le quattro fazioni furono stabilite legittimamente, e si trasse una misteriosa origine dei capricciosi loro colori dalle varie apparenze della Natura nelle quattro stagioni dell'anno, vale a dire dall'infuocato sirio dell'estate, dalle nevi dell'inverno, dalle cupe ombre dell'autunno, e dalla piacevol verzura della primavera[488]. Un altra interpretazione preferiva gli elementi alle stagioni, e supponevasi, che la contesa del Verde e dell'Azzurro rappresentasse il conflitto della terra e del mare. Le respettive loro vittorie annunziavano o un'abbondante raccolta o una prospera navigazione, e la gara che quindi nasceva fra gli agricoltori ed i marinari, era un poco meno assurda che quel cieco ardore del Popolo Romano, che sacrificava le proprie vite e sostanze al colore, che ciascun avea scelto. I più savi Principi sdegnarono e tollerarono tal follìa; ma si videro scritti i nomi di Caligola, di Nerone, di Vitellio, di Vero, di Commodo, di Caracalla, e d'Elagabalo nelle fazioni Verde o Azzurra del Circo; essi ne frequentavano le stalle, applaudivano a quelli, che le favorivano, ne punivano gli antagonisti, e meritavano la stima della plebaglia, mediante la naturale o affettata imitazione de' loro costumi. Continuarono le sanguinose e tumultuarie contese a disturbar le pubbliche feste fino all'ultima età degli spettatori di Roma; e Teodorico, per un motivo di giustizia o d'affezione, interpose la sua autorità per proteggere i Verdi contro la violenza d'un Console e Patrizio, ch'era fortemente appassionato per la fazione Azzurra del Circo[489].
Costantinopoli adottò le follìe, non già le virtù dell'antica Roma, e le stesse fazioni, che avevano agitato il Circo, infierirono con maggior furore nell'Ippodromo. Sotto il Regno d'Anastasio fu infiammata questa popolar frenesia dallo zelo religioso, ed i Verdi, che avevano proditoriamente nascosto delle pietre e de' coltelli in alcune paniere di frutti, uccisero in occasione d'una solenne festa tremila degli Azzurri loro avversari[490]. Dalla Capitale si sparse questa peste nelle Province e Città dell'Oriente, e la giocosa distinzione de' due colori produsse due forti ed irreconciliabili partiti, che scossero i fondamenti d'un debol governo[491]. Le dissensioni popolari fondate sopra gl'interessi più serj ed i più santi pretesti, hanno appena potuto uguagliare l'ostinazione di una ludicra discordia, che attaccò la pace delle famiglie, divise fra loro gli amici e i fratelli, e tentò fino le donne, quantunque di rado si vedessero nel Circo, ad abbracciare le inclinazioni de' loro amanti, o a contraddire i desiderj de' loro mariti. Si calpestava ogni legge divina ed umana, e purchè prevalesse il partito, pareva, che i delusi di lui seguaci non curassero nè la privata nè la pubblica calamità. Si ravvivò in Antiochia ed a Costantinopoli la licenza senza la libertà della Democrazia, ed ogni candidato per conseguir gli onori civili o ecclesiastici avea bisogno d'esser sostenuto da una fazione. Ai Verdi imputossi un segreto affetto alla famiglia, o alla setta d'Anastasio; ma gli Azzurri erano fervidamente attaccati alla causa della Ortodossia e di Giustiniano[492], ed il grato loro protettore sostenne per più di cinque anni i disordini di una fazione, i periodici tumulti della quale inondarono il Palazzo, il Senato, e le Capitali d'Oriente. Gli Azzurri, divenuti insolenti per il Real favore, affettavano d'incuter terrore mediante un abito particolare ed all'uso de' Barbari, con i capelli lunghi, con le maniche strette, e con le ampie vesti degli Unni, con un passo orgoglioso, ed una voce sonora. Il giorno celavano essi i loro pugnali a due tagli, ma la notte arditamente si adunavano armati, e intraprendevano in numerose truppe, qualunque atto di violenza e di rapina. I loro avversari della fazion Verde, o anche i cittadini innocenti venivano spogliati, e spesso uccisi da questi notturni ladroni, ed era pericoloso il portar de' bottoni o delle fibbie d'oro, o l'andare ad un'ora tarda per le strade di una pacifica Capitale. Eccitato quel fiero spirito dall'impunità giunse fino a violare la sicurezza delle case private; e s'adoperava il fuoco per facilitare l'attacco, o nascondere i delitti di questi, faziosi. Non v'era luogo immune o salvo dalle loro depredazioni; per soddisfar la propria avarizia o vendetta profondevano il sangue degl'innocenti, erano contaminate le Chiese e gli altari da atroci omicidj, e solevan vantarsi quegli assassini, che avevano la destrezza di far sempre una ferita mortale ad ogni colpo delle loro armi. La dissoluta gioventù di Costantinopoli adottò l'azzura insegna del disordine; tacevan le leggi, ed erano rilassati i legami della Società: i creditori venivan costretti a consegnar le loro obbligazioni; i giudici a rivocare le loro sentenze; i padroni a manomettere i loro schiavi; i padri a supplire alle stravaganze de' figli; le nobili matrone eran prostituite alla libidine dei loro servi; i bei garzoni erano strappati dalle braccia dei lor genitori, e le mogli, a meno che non preferissero una morte volontaria, venivano stuprate alla presenza de' loro mariti[493]. La disperazione de' Verdi, ch'erano perseguitati dai loro nemici, ed abbandonati da' Magistrati, s'arrogò il diritto della difesa, e forse della rappresaglia; ma quelli, che sopravvivevano al combattimento, eran tratti al supplizio, e gl'infelici fuggitivi, rifuggendosi ne' boschi e nelle caverne, infierivano senza misericordia contro la società, da cui erano stati cacciati. Que' Ministri dei Tribunali, che avevano il coraggio di punire i delitti, e di non curar lo sdegno degli Azzurri, divenivano le vittime dell'indiscreto loro zelo: un Prefetto di Costantinopoli fuggì per asilo al santo Sepolcro, un Conte dell'Oriente fu ignominiosamente frustato, ed un Governatore di Cilicia fu per ordine di Teodora impiccato sulla tomba di due assassini, ch'esso avea condannati per l'omicidio del suo palafreniere, e per un temerario attacco della propria sua vita[494]. Un candidato, che aspira a pervenire a' posti più alti, può esser tentato a fabbricare sulla pubblica confusione la sua grandezza; ma è interesse non meno che dovere d'un Sovrano il mantenere l'autorità delle Leggi. Il primo Editto di Giustiniano, che fu spesso ripetuto, e qualche volta solo eseguito, annunziava la ferma sua risoluzione di sostener l'innocente, e di gastigare il colpevole di qualunque denominazione e colore si fossero. Pure la bilancia della giustizia era sempre inclinata in favore della fazione azzurra dalla segreta affezione, dall'abitudine, e da' timori dell'Imperatore; la sua equità, dopo un apparente contrasto, sottomettevasi senza ripugnanza alle implacabili passioni di Teodora, e l'Imperatrice non dimenticò mai, nè perdonò le ingiurie della commediante. La proclamazione d'uguale e rigorosa giustizia fatta nell'avvenimento al trono di Giustino il Giovane indirettamente condannò la parzialità del precedente Governo: «O Azzurri, non v'è più Giustiniano! Verdi, egli è sempre vivo[495] ».
A. 532
L'odio, che avevan fra loro le due fazioni, e la loro momentanea riconciliazione suscitò un tumulto, che ridusse quasi Costantinopoli in cenere. Giustiniano celebrò nel quinto anno del suo Regno la solennità degl'Idi di Gennaio: furono i giuochi continuamente disturbati dal clamoroso malcontento de' Verdi; fino alla ventesima seconda corsa l'Imperatore mantenne la tacita sua gravità; ma cedendo finalmente all'impazienza condiscese a tenere in brusca maniera, e mediante la voce d'un banditore il dialogo più singolare[496] che mai si facesse fra un Principe ed i suoi sudditi. Le prime querele furono rispettose e modeste; accusarono essi i subordinati Ministri d'oppressione, ed espressero i lor desiderj per la lunga vita, e la vittoria dell'Imperatore. «Abbiate pazienza, e state attenti, o insolenti maledici, esclamò Giustiniano; tacete Giudei, Samaritani e Manichei». I Verdi tuttavia cercavano di risvegliar la sua compassione con queste voci: «Noi siamo poveri, siamo innocenti, siamo ingiuriati, non osiamo di andar per le strade: si usa una general persecuzione contro il nostro nome e colore. Moriamo, o Imperatore, ma moriamo per ordine vostro, ed in vostro servizio». La rinnovazione però di parziali ed appassionate invettive degradò a' loro occhi la maestà della porpora; negarono essi l'omaggio ad un Principe, che ricusava di render giustizia al suo Popolo; si dolsero che fosse nato il Padre di Giustiniano, e ne infamarono il figlio coi nomi obbrobriosi di omicida, d'asino, e di spergiuro tiranno. «Non curate le vostre vite?» gridò lo sdegnato Monarca: gli Azzurri s'alzarono con furore dai loro posti; risuonarono gli ostili loro clamori nell'Ippodromo: ed i loro avversari, abbandonando l'ineguale contesa, sparsero il terrore e la disperazione per le strade di Costantinopoli. In questo pericoloso momento eran condotti per la Città sette notorj assassini di ambedue le fazioni, ch'erano stati condannati dal Prefetto, e quindi trasportati al luogo dell'esecuzione nel subborgo di Pera. Quattro di questi furono immediatamente decapitati, e fu impiccato il quinto: ma nel tempo che gli altri due soggiacevano alla medesima pena, si ruppe la fune, essi caddero vivi sul suolo, il popolaccio applaudì alla loro liberazione, ed usciti dal vicino loro convento i Monachi di S. Conone gli portarono in una barchetta al santuario della loro Chiesa[497]. Siccome uno di questi rei era del partito degli Azzurri, e l'altro de' Verdi, le due fazioni furono eccitate ugualmente dalla crudeltà del loro oppressore, o dall'ingratitudine del loro avvocato, e fu conclusa una breve tregua ad oggetto di liberare i prigionieri, e di soddisfare la propria vendetta. Fu ad un tratto bruciato il Palazzo del Prefetto, che si opponeva al sedizioso torrente, ne furono trucidati gli ufiziali e le guardie, si aprirono a forza le prigioni, e si restituì la libertà a quelli che non potevan farne uso, che per la pubblica distruzione. Un distaccamento militare, ch'era stato mandato in aiuto del Magistrato Civile, fu fieramente rispinto da una moltitudine armata, di cui continuamente cresceva il numero e l'arditezza; e gli Eruli, i più selvaggi tra' Barbari al servizio dell'Impero, rovesciarono i sacerdoti e le loro reliquie, che per un motivo di religione imprudentemente s'erano interposti per separare il sanguinoso conflitto. S'accrebbe il tumulto per tal sacrilegio: il Popolo combatteva con entusiasmo nella causa di Dio; le donne facevan piovere da' tetti e dalle finestre le pietre sopra i soldati, che scagliavano de' tizzoni accesi contro le case; e le varie fiamme, che si erano accese per le mani dei Cittadini e degli stranieri, si diffusero senza contrasto su tutta la Città. L'incendio comprese la cattedrale di S. Sofia, i Bagni di Zeusippo, una parte del Palazzo, dal primo ingresso fino all'altare di Marte, ed il lungo Portico, dal Palazzo fino al Foro di Costantino; restò consumato un vasto Spedale insieme con gli ammalati, che v'erano; si distrussero molte Chiese, e sontuosi Edifizi, e si perdè o si fuse un'immensa quantità d'oro e d'argento. I savi e ricchi Cittadini fuggirono da tali spettacoli d'orrore e di miserie sul Bosforo dalla parte dell'Asia, e per cinque giorni Costantinopoli rimase in preda delle fazioni, e la parola Nika, cioè vinci, che usavan per distintivo, ha dato il nome a questa memorabile sedizione[498].
Finattantochè furon divise le due fazioni, sembrava che tanto i trionfanti Azzurri, quanto i Verdi abbattuti riguardassero con la medesima indifferenza i disordini dello Stato. Ma in quest'occasione s'unirono a censurare la mal amministrazione della Giustizia e delle Finanze; i due Ministri, che n'erano responsabili, cioè l'artificioso Triboniano, ed il rapace Giovanni di Cappadocia, furono altamente accusati come gli autori della pubblica miseria. In tempo di pace non si sarebber curati i bisbigli del Popolo; ma quando la Città era in mezzo alle fiamme, si ascoltarono con rispetto, furono immediatamente deposti, sì il Questore, che il Prefetto, e furono a quelli sostituiti due Senatori d'irreprensibile integrità. Dopo questa popolar concessione, Giustiniano si portò all'Ippodromo a confessare i propri errori, e ad accettare il pentimento dei buoni suoi sudditi; ma questi non si fidarono delle sue proteste, sebbene pronunziate solennemente sopra i santi Vangeli; e l'Imperatore, sbigottito dalla lor diffidenza, precipitosamente si ritirò nella Fortezza del Palazzo. Allora imputossi l'ostinazione del tumulto ad una segreta ed ambiziosa cospirazione; e s'ebbe sospetto, che gl'insorgenti, specialmente i Verdi, fossero sostenuti con armi e danaro da due Patrizi Ipazio e Pompeo, i quali non potevano dimenticarsi con onore, nè ricordarsi con sicurezza di esser nipoti dell'Imperatore Anastasio. Capricciosamente ammessi alla confidenza del Monarca, quindi caduti in disgrazia, e dalla gelosa sua leggierezza ottenuto il perdono, si erano essi presentati come servi fedeli avanti al Trono; e per i cinque giorni del tumulto, ritenuti furono come ostaggi di grande importanza; ma finalmente prevalendo i timori di Giustiniano alla sua prudenza, egli risguardò i due fratelli come spie, e forse come assassini, e bruscamente comandò loro di partir dal Palazzo. Dopo una inutile rappresentanza, che l'ubbidire avrebbe potuto cagionare un involontario tradimento, si ritirarono alle loro case, e la mattina del sesto giorno Ipazio fu circondato e preso dal Popolo, che senza riguardo alla virtuosa di lui resistenza, ed alle lacrime della sua moglie, lo trasportò al Foro di Costantino, ed invece di diadema gli pose un ricco collare sul capo. Se l'usurpatore, che di poi allegò a suo favore il merito della sua resistenza, avesse seguitato il consiglio del Senato, ed eccitato il furor della moltitudine, il primo irresistibile sforzo di essa avrebbe oppresso o scacciato il suo tremante competitore. Il Palazzo di Costantinopoli aveva una libera comunicazione col mare; stavan pronti i vascelli agli scali de' giardini; e si era già presa la segreta risoluzione di condurre l'Imperatore con la sua famiglia e tesori in un luogo sicuro a qualche distanza dalla Capitale.
Giustiniano era perduto, se quella prostituta, che egli aveva tolto dal Teatro, non avesse rinunziato alla timidità, non meno che alle virtù del suo sesso. In mezzo ad un consiglio, dove trovavasi Belisario, la sola Teodora dimostrò il coraggio di un Eroe; ed ella sola senza paventare la futura sua odiosità, potè salvare l'Imperatore dall'imminente pericolo, e dagl'indegni di lui timori. «Quand'anche la fuga, disse la moglie di Giustiniano, fosse l'unico mezzo di salvarsi, pure io sdegnerei di fuggire. La morte è la condizione apposta alla nostra nascita; ma chi ha regnato non dovrebbe mai sopravvivere alla perdita della dignità, e del dominio. Io prego il Cielo, di non potere essere mai veduta, neppure un giorno, senza il diadema e la porpora; che io non possa più vedere la luce, quando cesserò d'essere salutata col nome di Regina. Se voi risolvete, o Cesare, di fuggire, avete de' tesori; ecco qua il mare, avete delle navi; ma tremate, che il desiderio della vita non v'esponga ad un miserabile esilio, e ad una ignominiosa morte. Quanto a me, approvo quell'antica massima, che il trono è un glorioso sepolcro». La fermezza d'una donna fece risorgere il coraggio di deliberare e d'agire, ed il coraggio ben presto scuopre i rimedi nella situazione anche più disperata. Quello di ravvivar l'animosità delle due fazioni fu un mezzo facile e decisivo; gli Azzurri restaron sorpresi della propria colpa e follìa nell'essersi lasciati indurre per un'ingiuria da nulla a cospirare con gl'implacabili loro nemici contro un grazioso e liberale benefattore; proclamarono essi di nuovo la maestà di Giustiniano, ed i Verdi restarono soli col loro novello Imperatore nell'Ippodromo. Era dubbiosa la fedeltà delle guardie; ma la militar forza di Giustiniano sostenevasi da tremila Veterani, che s'erano formati al valore, ed alla disciplina nelle guerre Persiane ed Illiriche. Sotto il comando di Belisario e di Mondo, marciarono questi con silenzio in due divisioni dal Palazzo; si fecero strada per oscuri e stretti sentieri a traverso di fiamme spiranti, e di cadenti edifizi, e spalancarono in un istesso tempo le due opposte porte dell'Ippodromo. In uno spazio sì angusto la moltitudine disordinata e sorpresa non fu capace di resistere ad un fermo e regolare attacco da due parti; gli Azzurri segnalarono il furore del loro pentimento; e si conta, che restassero uccise trentamila persone nella promiscua e crudele strage di quella giornata. Ipazio fu tratto giù dal suo trono, e condotto insieme col fratello Pompeo a' piedi dell'Imperatore: implorarono essi la sua clemenza; ma la lor colpa ora manifesta, l'innocenza incerta; e Giustiniano s'era troppo spaventato per dare il perdono. La mattina seguente i due Nipoti d'Anastasio con diciotto illustri complici, di condizione Patrizia o Consolare, furono privatamente posti a morte da' soldati; e ne furon gettati i corpi nel mare, distrutti i Palazzi, e confiscate le facoltà. L'Ippodromo stesso fu condannato per più anni ad un tristo silenzio: ma colla restaurazione de' giuochi, risorsero gli stessi disordini; e le fazioni degli Azzurri e de' Verdi continuarono ad affliggere il regno di Giustiniano, ed a turbar la tranquillità dell'Impero d Oriente[499].
III. Quest'Impero, dopo che Roma fu divenuta barbara, conteneva tuttavia le Nazioni ch'essa avea conquistate di là dall'Adriatico fino alle frontiere dell'Etiopia e della Persia. Giustiniano regnava sopra sessantaquattro Province, e novecento trentacinque Città[500]; i suoi dominj erano favoriti dalla natura coi vantaggi del suolo, della situazione e del clima; e si erano continuamente sparsi lungo le coste del Mediterraneo, e le rive del Nilo i raffinamenti dell'arte umana dall'antica Troia fino a Tebe d'Egitto. Abramo[501] aveva tratto sollievo dall'abbondanza ben nota dell'Egitto; il medesimo piccolo e popolato tratto di paese era tuttavia capace di somministrare ogni anno dugento sessantamila sacca di grano per uso di Costantinopoli[502], e la Capitale di Giustiniano riceveva le manifatture di Sidone, quindici secoli dopo ch'eransi le medesime rese celebri per i Poemi d'Omero[503]. Le annue forze della vegetazione in vece di restar esauste da duemila raccolte, si rinnovavano ed invigorivano per mezzo della buona cultura, del ricco ingrasso e dell'opportuno riposo. Le razze degli animali domestici s'erano infinitamente moltiplicate. Le piantagioni, le fabbriche e gl'istrumenti di lavoro e di lusso, che son più durevoli che la vita umana, s'erano accumulate per le cure di più successive generazioni. La tradizione conservava, e l'esperienza semplicizzava l'umile pratica delle arti; la società si arricchiva mediante la divisione de' lavori e la facilità del commercio; ed ogni Romano s'alloggiava, si vestiva, e sussisteva per l'industria di mille mani. Si è religiosamente attribuita agli Dei l'invenzione del filare e del tessere: in ogni tempo si sono abilmente lavorati molti prodotti animali e vegetabili, come crini, pelli, lana, lino, cotone ed alfine seta, per coprire o adornare il corpo umano; questi si tingevano con infusioni di durevoli colori, ed impiegavasi con successo il pennello a migliorare i lavori del tessitore. Nella scelta di que' colori[504], che imitano le bellezze della natura, li favoriva la libertà del gusto e della moda; ma la porpora carica[505] che i Fenicj estraevano da una conchiglia marina, era riservata alla sacra Persona ed al Palazzo dell'Imperatore; ed erano stabilite le pene di ribellione contro quegli ambiziosi sudditi, che ardivano usurpare la prerogativa del trono[506].
Non v'è bisogno di spiegare, che la seta[507] in origine proviene dalle viscere di un baco, e che forma l'aurea tomba, da cui sorge fuori un verme in figura di farfalla. Fino al regno di Giustiniano i bachi da seta, che si nutriscono delle foglie del gelso bianco, erano confinati alla China; quelli del pino, della quercia e del frassino eran comuni nelle foreste sì dell'Asia che dell'Europa; ma siccome la loro educazione è più difficile, ed il prodotto più incerto, erano generalmente trascurati, fuori che nella piccola Isola di Ceos presso le coste dell'Attica. Si fece del loro tessuto un tenue velo e questa manifattura di Ceos, che fu inventata da una donna per proprio uso, fu ammirata per lungo tempo tanto in Oriente, quanto a Roma. Per quanto possano trarsi delle induzioni dagli ornamenti de' Medi e degli Assiri, Virgilio è lo scrittore più antico che faccia espressamente menzione della soffice lana, che si traeva dagli alberi de' Seri o Chinesi[508]; e quest'errore di Storia Naturale, meno maraviglioso anche del vero, si venne appoco appoco a correggere dalla cognizione di quel prezioso Insetto, ch'è il primo artefice del lusso delle Nazioni. Questo raro ed elegante lusso fu criticato al tempo di Tiberio da' più gravi fra Romani, e Plinio con caricate, quantunque forti espressioni, ha condannato la sete del guadagno, che faceva esplorar gli ultimi confini della Terra per il pernicioso oggetto di esporre agli occhi di tutti le trasparenti matrone, e le vesti che denudavan le donne[509]. Un abito, che mostrava il contorno delle membra, ed il color della cute, potea soddisfare la vanità, o eccitare i desiderj; i drappi di seta che si tessevano fitti nella China, furono assai diradati dalle donne Fenicie, e si moltiplicarono i preziosi materiali mediante una tessitura più rara, e la mescolanza di fili di lino[510]. Dugento anni dopo il tempo di Plinio l'uso delle vesti di seta pura o anche mescolata era limitato al sesso femminile, finattantochè gli opulenti Cittadini di Roma e delle Province non si furono insensibilmente famigliarizzati coll'esempio d'Elagabalo, il primo che con quest'abito effemminato contaminasse la dignità d'un Imperatore e d'un uomo. Aureliano si doleva che si vendesse a Roma una libbra di seta per dodici oncie d'oro: ma ne crebbe l'abbondanza per causa delle richieste, e coll'abbondanza scemossene il prezzo. Se qualche volta l'accidente o il monopolio ne alzò il valore anche sopra quello indicato da Aureliano, in virtù delle medesime cause le manifatture di Tiro e di Berito furono altre volte costrette a contentarsi d'un nono di quell'eccessivo prezzo[511]. Fu creduta necessaria una Legge per distinguer l'abito de' commedianti da quello de' Senatori, e la massima parte della seta, che veniva dal natio suo Paese, si consumava da' sudditi di Giustiniano. Meglio però conoscevano essi una conchiglia del Mediterraneo chiamata il baco da seta di mare: quella fina lana, o pelame, con cui la madre della perla s'attacca agli scogli, presentemente si lavora più per curiosità che per uso; ed una veste formata di questa singolare materia era il dono che l'Imperator Romano faceva a' Satrapi dell'Armenia[512].
Una mercanzia di valore e di piccol volume è capace di soffrir le spese del trasporto per terra; e le Caravane traversavano tutta la larghezza dell'Asia, dall'Oceano Chinese fino alle coste marittime della Siria, in dugento quaranta tre giorni. La seta si consegnava immediatamente a' Romani dai Mercanti di Persia[513], che frequentavan le fiere d'Armenia e di Nisibi; ma questo commercio, che negl'intervalli delle tregue veniva oppresso dalla gelosia e dall'avarizia, era totalmente interrotto dalle lunghe guerre di quelle rivali Monarchie. Il gran Re poteva orgogliosamente annoverar la Sogdiana, ed anche la Serica fra le Province del suo Impero, ma il suo vero dominio era limitato dall'Osso, e l'utile suo commercio con i Sogdoiti di là dal fiume dipendea dall'arbitrio de' loro Conquistatori, cioè degli Unni bianchi, e de' Turchi, che successivamente regnarono su quell'industriosa Nazione. Pure il più barbaro dominio non estirpò i semi dell'agricoltura e del commercio in un Paese, che si celebra come uno de' quattro giardini dell'Asia; le Città di Samarcanda e di Bochara son situate vantaggiosamente per il cambiamento delle varie lor produzioni; ed i loro mercanti compravano da' Chinesi[514] la seta greggia o lavorata, che poi trasportavano in Persia per uso dell'Impero Romano. Le Caravane Sogdiane venivano trattenute nella vana Capitale della China come supplichevoli Ambascerie di Regni tributari; e se tornavano salve, l'audace lor rischio aveva in premio un esorbitante guadagno. Ma il disastroso e pericoloso viaggio da Samarcanda fino alla prima Città di Shensi non si potea fare in meno di sessanta, ottanta, o cento giorni: tosto che avevan passato l'Iassarte, entravano nel deserto, e le Orde vaganti, lungi dall'esser tenute in freno dalle milizie e dalle guarnigioni, sempre consideravano i cittadini ed i viaggiatori come oggetti di legittima rapina. Per evitare i rapaci Tartari, ed i Tiranni Persiani, le Caravane della seta tentarono una strada più meridionale, traversaron le montagne del Tibet, scesero lungo la corrente del Gange o dell'Indo, e pazientemente aspettarono ne' porti di Guzerat e di Malabar le annue flotte dell'Occidente[515]. Ma si trovarono meno intollerabili i pericoli del deserto che la fatica, la fame, e la perdita di tempo; raramente fu rinnovato quel tentativo, e l'unico Europeo, che sia passato per quella strada non frequentata, applaudisce alla sua diligenza per essere arrivato in nove mesi dopo la sua partenza da Pekino all'imboccatura dell'Indo. Era però aperto l'Oceano alla libera comunicazione del Genere Umano. Le Province della China, dal Gran Fiume fino al Tropico di Cancro, furono soggiogate e incivilite dagl'Imperatori settentrionali; furono riempite verso il principio dell'Era Cristiana di città e di uomini, di gelsi e de' loro preziosi abitatori; e se i Chinesi, con la cognizione della bussola, avessero avuto il genio de' Greci o de' Fenicj, avrebbero potuto estendere le loro scoperte all'Emisfero meridionale. Io non sono in grado d'esaminare, e non son disposto a credere i distanti lor viaggi al Golfo Persico o al Capo di Buona Speranza: ma i loro Antichi poterono bene uguagliare i lavori, ed il successo della presente Generazione, ed estender la sfera della loro navigazione dalle Isole del Giappone fino allo Stretto di Malacca, le colonne, se ci è permesso d'usar questo nome, di un Ercole orientale[516]: senza perder di vista la terra, essi potevano navigare lungo le coste fino all'ultimo promontorio d'Achin, a cui vanno ogni anno dieci o dodici navi cariche di produzioni, di manifatture ed anche di artefici Chinesi; l'Isola di Sumatra e la Penisola opposta vengono leggiermente descritte[517] come i paesi dell'oro e dell'argento; e le Città commercianti, nominate nella Geografia di Tolomeo, possono indicare che questa ricchezza non provenisse solo dalle miniere. La distanza in linea retta fra Sumatra e Ceylan è di circa trecento leghe; i navigatori Chinesi ed Indiani eran guidati dal volo degli uccelli, e da' venti periodici, e si poteva traversare con sicurezza l'Oceano in navi quadrate, che in luogo di esser connesse col ferro, eran cucite insieme col forte filo dell'albero del cocco. Ceylan, Serendib, o Taprobana era divisa fra due Principi nemici uno de' quali possedea le montagne, gli elefanti ed il luminoso carbonchio; e l'altro godeva le ricchezze più solide dell'industria domestica, del commercio estero, e dall'ampio porto Trinquemale, riceveva e rimandava le flotte dell'Oriente e dell'Occidente. In questa ospitale Isola, che era situata ad un egual distanza (come credevasi) dai rispettivi loro Paesi, i Mercanti di seta della China, che ne' loro viaggi avevan caricato aloe, garofani, noci moscate e sandalo, mantenevano un libero e vantaggioso commercio con gli abitanti del Golfo Persico. I sudditi del gran Re esaltavano senz'alcun rivale il suo potere e la sua magnificenza; e quel Romano, che confuse la lor vanità, paragonando il miserabil suo conio con una medaglia d'oro dell'Imperatore Anastasio, era passato a Ceylan in una nave d'Etiopia, come semplice passeggiero[518].
Quando la seta divenne d'un uso indispensabile, l'Imperator Giustiniano vide con rammarico, che i Persiani avevan occupato per terra e per mare il monopolio di quest'importante prodotto, e che la ricchezza dei propri sudditi esaurivasi di continuo da una Nazione di nemici e d'idolatri. Un Governo attivo avrebbe ristabilito il commercio di Egitto, e la navigazione del Mar Rosso, ch'era decaduta con la prosperità dell'Impero; ed avrebber potuto le navi Romane, ad oggetto di provvedersi di seta, approdare a' porti di Ceylan, di Malacca, o anche della China. Giustiniano però s'apprese ad un espediente più basso, e sollecitò l'aiuto degli Etiopi d'Abissinia, Cristiani suoi alleati, che avevano di fresco acquistato l'arte della navigazione, lo spirito di commercio, ed il Porto d'Aduli[519], tuttavia decorato dei trofei d'un conquistator Greco. Lungo le coste dell'Affrica essi penetravano fino all'Equatore in cerca dell'oro, degli smeraldi e degli aromati; ma questi saviamente evitarono una disugual competenza, in cui dovevano sempre esser prevenuti per la vicinanza de' Persiani a' mercati dell'Indie; e l'Imperatore soffrì quell'incomodo, finattantochè non furono soddisfatti i suoi desiderj da un avvenimento non aspettato. S'era predicato il Vangelo agl'Indiani; già un Vescovo governava i Cristiani di S. Tommaso sulla costa del pepe di Malabar; erasi piantata una Chiesa in Ceylan; ed i Missionari seguitavano le tracce del Commercio fino all'estremità dell'Asia[520]. Due Monaci Persiani avevan dimorato per lungo tempo nella China, probabilmente nella Real Città di Nankino, residenza d'un Monarca addetto alle superstizioni straniere, e che in quel tempo ricevè un'ambasceria dall'Isola di Ceylan. In mezzo alle pie loro occupazioni osservarono con occhio curioso l'abito commune de' Chinesi, le manifatture di seta, ed i milioni di bachi, l'educazione de' quali (o all'aria aperta sugli alberi o nelle case) una volta si considerava come opera propria delle Regine[521]. Tosto essi conobbero che non era possibile trasportare un insetto di sì corta vita, ma che nel seme poteva conservarsene una numerosa generazione e propagarsi in lontani Paesi. La religione o l'interesse potè più sopra i Monaci Persiani, che l'amore della loro patria: dopo un lungo viaggio arrivarono a Costantinopoli, comunicarono il loro progetto all'Imperatore, e furono generosamente incoraggiati da' doni, e dalle promesse di Giustiniano. Gl'Istorici di questo Principe han creduto che una campagna al piè del monte Caucaso meritasse una più minuta relazione, che il lavoro di questi Missionari di commercio, i quali tornarono alla China, ingannarono quel Popolo geloso nascondendo il seme de' bachi da seta in una canna vuota, e vennero di nuovo trionfanti con le spoglie dell'Oriente. Sotto la lor direzione, alla stagione opportuna, si fecero dal seme coll'artificial calore del letame nascere i bachi; furon questi nutriti con foglie di gelso; essi vissero e fecero il loro lavoro in un clima straniero; si conservò un sufficiente numero di farfalle per propagarne la specie; e si piantaron degli alberi, atti a somministrare il cibo alle future generazioni. L'esperienza, e la riflessione corressero gli errori d'una nuova intrapresa, e gli Ambasciatori Sogdoiti, nel Regno seguente, confessarono, che i Romani nell'educazion degl'insetti, e ne' lavori di seta[522] non erano inferiori a' nativi Chinesi; nel che sì la China che Costantinopoli furono vinte dall'industria dell'Europa moderna. Io non nego i vantaggi del lusso elegante; ma rifletto con qualche pena, che se i trasportatori della seta avessero introdotto l'arte della stampa già in uso presso i Chinesi, si sarebbero, nelle edizioni del sesto secolo perpetuate le Commedie di Menandro e tutte le Deche di Livio. Una più estesa veduta del Globo avrebbe almeno aumentato i progressi della scienza speculativa; ma la Geografia Cristiana forzatamente si traeva dai testi della Scrittura, e lo studio della natura era il più sicuro sintomo d'uno spirito miscredente. La fede degli Ortodossi limitava il Mondo abitabile ad una zona temperata, e rappresentava la Terra come una superficie bislunga di quattrocento giorni di cammino in lunghezza e di dugento in larghezza, circondata dall'Oceano, e coperta dal solido cristallo del Firmamento[523].
IV. I sudditi di Giustiniano erano malcontenti delle circostanze de' tempi e del Governo. L'Europa era inondata da' Barbari, e l'Asia da Monaci; la povertà dell'Occidente scoraggiava il commercio e le manifatture d'Oriente; si consumava il prodotto della fatica dagl'inutili Ministri della Chiese, dello Stato e dell'armata; e si ravvisava una rapida diminuzione in que' fissi e circolanti capitali, che costituiscono la ricchezza delle Nazioni. Si era sollevata la pubblica miseria dall'economia d'Anastasio, e questo prudente Imperatore accumulò un tesoro immenso nel tempo che sgravò il suo Popolo dalle più odiose ed oppressive tasse. Si applaudì dall'universal gratitudine all'abolizione dell' oro d'afflizione, tributo personale posto sull'industria del povero[524], ma più intollerabile, per quanto sembra, in apparenza che nella sostanza, giacchè la florida Città d'Edessa non pagava che cento quaranta libbre d'oro, che s'esigeva in quattro anni da diecimila artefici[525]. Tal era però la parsimonia che sosteneva questa liberale disposizione che in un regno di ventisette anni Anastasio risparmiò dall'annua sua rendita l'enorme somma di tredici milioni di lire sterline ossia di trecento ventimila libbre di oro[526]. Il nipote di Giustino trascurò il suo esempio e mal si servì del suo tesoro. In breve tempo s'esaurirono le ricchezze di Giustiniano dalle limosine e dalle fabbriche, dalle ambiziose guerre e dagl'ignominiosi Trattati. Le sue rendite non eran sufficienti a supplire alle spese. Adoperossi ogni arte per estorcer dal Popolo l'oro e l'argento, ch'egli con prodiga mano spargeva dalla Persia fino alla Francia[527]. Il suo Regno fu celebre per le vicende, o piuttosto per il contrasto della rapacità e dell'avarizia, della povertà e dello splendore; fu creduto mentre viveva, che avesse de' tesori nascosti[528], e ordinò al suo successore di pagare i suoi debiti[529]. Un carattere di questa sorta si è giustamente condannato dalla voce del Popolo e della posterità: ma il Pubblico malcontento è facilmente credulo; la malizia privata è audace; e chi ama la verità osserverà con occhio sempre sospettoso gli istruttivi aneddoti di Procopio. L'Istorico segreto non rappresenta che i vizi di Giustiniano, e questi sono anche resi più neri dal malevolo suo pennello; si attribuiscono a motivi pessimi le azioni dubbiose; l'errore si confonde col delitto, l'accidente col disegno premeditato, e le Leggi con gli abusi; la parziale ingiustizia d'un momento si fa destramente passare per massima generale d'un regno di trentadue anni; si rende responsabile il solo Imperatore delle mancanze se' suoi Ministri, de disordini de' tempi e della corruzion de' suoi sudditi, e fino le calamità della natura, le pestilenze, i terremoti e le inondazioni, sono imputate al principe de' demonj, che aveva fraudolentemente assunto la forma di Giustiniano[530].
Premesso quest'avvertimento, riferirò in breve gli Aneddoti di avarizia e di rapina, riducendoli a' seguenti capi: I. Giustiniano era così prodigo, che non poteva essere liberale. Gli Ufiziali civili e militari quando s'ammettevano al servizio del Palazzo, avevano un basso grado ed un moderato stipendio; s'avanzavano per via d'anzianità fino ad un grado d'abbondanza e di riposo; le annue loro pensioni, la più onorevole classe delle quali fu abolita da Giustiniano, ascendevano a quattrocentomila lire sterline; e questa domestica economia da' venali o indigenti Cortigiani si deplorò come il maggiore oltraggio che potesse farsi alla maestà dell'Impero. I posti ed i salarj de' Medici e le notturne illuminazioni eran oggetti di più generale importanza; e le Città potevano giustamente lagnarsi, ch'ei si usurpava l'entrate Municipali destinate a queste utili istituzioni. Si faceva torto perfino a' soldati; e tal era la decadenza dello spirito militare, che questi torti si commettevano impunemente. L'Imperatore negò ad ogni quinquennio il consueto donativo di cinque monete d'oro, ridusse i suoi veterani a mendicare il pane, e soffrì che le milizie, da lui non pagate, andassero ad arruolarsi altrove nelle guerre d'Italia e di Persia. II. L'umanità de' suoi Predecessori aveva sempre in qualche fausta circostanza del loro regno condonato i pubblici Tribuni arretrati; e si erano fatti destramente un merito di rilasciar que' diritti, ch'era impossibile d'esigere. «Giustiniano nello spazio di trentadue anni, non usò mai simile indulgenza, e molti de' suoi sudditi rinunziarono il possesso di quelle terre, il valor delle quali non era sufficiente a soddisfar le domande dell'Erario. Alle Città, che avevan sofferto per le scorrerie de' nemici, Anastasio promise una general esenzione di sette anni: le Province di Giustiniano furon devastate da' Persiani e dagli Arabi, dagli Unni e dagli Schiavoni; ma la sua vana e ridicola remissione d'un solo anno si ristrinse a' que' luoghi, ch'erano attualmente in mano de' nemici». Questo è il linguaggio dell'Istorico segreto, che nega espressamente che fosse accordata indulgenza alcuna alla Palestina dopo la rivolta de' Samaritani: accusa falsa ed odiosa confutata da memorie autentiche, le quali attestano aver ottenuto quella desolata Provincia, per intercessione di S. Saba, un sollievo di tredici centinaia di libbre d'oro (o sia di cinquantaduemila lire sterline)[531]. III. Procopio non ha voluto spiegare quel sistema di contribuzioni, che cadde come una tempestosa grandine sulle terre, come una divorante peste sugli abitanti di quelle: ma noi saremmo complici della sua malizia, se imputassimo al solo Giustiniano l'antica, sebben rigida massima, che tutto un distretto dovesse condannarsi a supplire alle particolari mancanze delle persone o de' Beni degl'individui. L' Annona, o la somministrazione del grano per l'uso dell'armata e della Capitale, era una gravosa ed arbitraria esazione ch'eccedeva, forse del decuplo, la capacità del Possessore, e se ne aggravava la miseria dalla particolare ingiustizia de' pesi e delle misure, e dalle spese e fatiche d'un lontano trasporto. In tempo di carestia si fece una richiesta straordinaria alle contigue Province di Tracia, di Bitinia e di Frigia: ma i proprietari, dopo un laborioso viaggio ed una pericolosa navigazione, furono sì malamente ricompensati, che avrebbero piuttosto voluto rilasciare il grano insieme col prezzo alle porte de loro granai. Tali precauzioni potrebbero forse indicare una tenera sollecitudine per il bene della Capitale; eppure Costantinopoli non era esente dal rapace despotismo di Giustiniano. Fino al suo Regno gli Stretti del Bosforo e dell'Ellesponto furono aperti alla libertà del commercio, e non era proibito altro che l'estrazione delle armi per uso de' Barbari. A ciascheduna di queste porte della Città fu posto un Pretore, ministro dell'avarizia Imperiale; si imposero de' gravi dazi sulle navi e sulle lor mercanzie; e l'oppressione andò a cadere sul misero consumatore: il povero era afflitto dall'artificial carestia e dall'esorbitante prezzo del mercato; ed un Popolo solito a godere della generosità del suo Principe, fu talvolta ridotto a dolersi della mancanza del pane e dell'acqua[532]. Il tributo aereo senza un nome, una legge o un oggetto determinato, era un annuo donativo di centoventimila libbre, che l'Imperatore riceveva dal suo Prefetto del Pretorio; e si rilasciavano alla discrezione di quel potente Magistrato i mezzi del pagamento di esso. IV. Pure anche tal gravezza era meno intollerabile del privilegio de' monopolj, che impediva la libera emulazione dell'industria, e per causa d'un piccolo e vergognoso guadagno imponeva un peso arbitrario su' bisogni ed il lusso de' sudditi. «Appena (io trascrivo gli Aneddoti) fu usurpata dal Tesoro Imperiale la vendita esclusiva della seta, si ridusse all'estrema miseria un intero Popolo di manifattori di Tiro e di Berito, i quali o perirono per la fame o fuggirono nelle nemiche Regioni della Persia». Poteva una Provincia soffrire per la decadenza delle sue manifatture; ma in quest'esempio della seta Procopio ha parzialmente trascurato l'inestimabile e durevole benefizio, che ricavò l'Impero dalla curiosità di Giustiniano. L'aggiunta ch'ei fece d'un settimo al prezzo ordinario della moneta di rame, si può interpretare col medesimo candore; e quell'alterazione, che potrebbe anche essere stata saggia, sembra che fosse innocente, giacchè egli non alterò la purità, nè accrebbe il valore della moneta d'oro[533], ch'è la legittima misura de' pubblici e privati pagamenti. V. La vasta giurisdizione che richiedevano i Finanzieri per eseguire i loro impegni, si poteva porre in un aspetto odioso, come se avessero questi comprato dall'Imperatore le vite ed i beni de' loro concittadini; e si contrattava nel Palazzo una vendita più diretta degli onori, e degli ufizi con la permissione, o almeno con la connivenza di Giustiniano, e di Teodora. Si trascuravano i diritti del merito, ed anche quelli del favore; ed era quasi ragionevole il credere che l'audace avventuriere, che aveva intrapreso la negoziazione d'una Magistratura, sapesse trovare una ricca compensazione per l'infamia, la fatica, il pericolo, i debiti che avea contratto, ed il gravoso interesse che ne pagava. Un sentimento della vergogna e del danno che proveniva da una condotta così venale, finalmente svegliò la sonnolenta virtù di Giustiniano; e tentò, per mezzo della sanzione de' giuramenti[534] e delle pene, di salvare l'integrità del suo Governo; ma in capo ad un anno di spergiuro fu sospeso il rigoroso suo Editto, e la corruzione licenziosamente abusò del suo trionfo sull'impotenza delle Leggi. VI. Il testamento d'Eulalio, Conte de' domestici, dichiarò l'Imperatore unico suo erede, con la condizione però ch'ei ne pagasse i debiti ed i legati, assegnasse alle tre sue figlie un decente mantenimento, e maritasse ciascheduna di caso con una dote di dieci libbre d'oro. Ma lo splendido Patrimonio d'Eulalio si consumò dal fuoco, e la somma dei suoi Beni non eccedè la tenue quantità di cinquecento sessantaquattro monete d'oro. Un esempio simile nella Storia Greca ammonì l'Imperatore dell'onorevole impegno, in cui era d'imitarlo: ei represse gl'interessati bisbigli, dell'Erario, applaudì alla fiducia del suo amico, pagò i legati ed i debiti, educò le tre fanciulle sotto l'occhio dell'Imperatrice Teodora, e raddoppiò la dote di cui si era contentata la tenerezza del loro Padre[535]. L'umanità d'un Principe (giacchè i Principi non possono esser generosi) merita qualche lode; pure anche in quest'atto virtuoso possiamo scuoprire l'inveterato costume di escludere gli eredi legittimi o naturali che Procopio attribuisce al Regno di Giustiniano. Egli sostiene la sua accusa con eminenti nomi e con esempi scandalosi; e dice, che non si risparmiavan le vedove, nè gli orfani, e che gli agenti del Palazzo esercitavano con profitto l'arte di sollecitare, di estorcere e di supporre i testamenti. Questa bussa e dannosa tirannia attacca la sicurezza della vita privata; ed il Monarca che ha secondato un desiderio di guadagno sarà ben presto tentato ad accelerare il momento della successione, ad interpretar la ricchezza come una prova della colpa, ed a procedere, dalla pretensione di ereditare, alla potestà di confiscare i beni de' Cittadini. VII. Fra le altre specie di rapina si può permettere ad un Filosofo di contare anche il convenir le ricchezze de' Pagani o degli Eretici ad uso de' Fedeli; ma al tempo di Giustiniano questo Santo saccheggio, veniva condannato da' soli settarj, che divenivan le vittime della sua ortodossa avarizia[536].
Potè in vero l'infamia di tali atti in ultimo luogo riflettersi nel carattere di Giustiniano; ma una gran parte della colpa, e molto più il profitto ne apparteneva ai Ministri, che raramente venivan promossi per le loro virtù, e non sempre scelti per i loro talenti[537]. I meriti del Questor Triboniano si esamineranno in seguito quando parleremo della riforma della Legge Romana, ma l'economia dell'Oriente era subordinata al Prefetto del Pretorio, e Procopio ha giustificato i suoi Aneddoti col ritratto, che fa nella sua pubblica Storia de' notori vizi di Giovanni di Cappadocia[538]. Ei non avea tratto le sue cognizioni dalle scuole[539], ed il suo stile appena era leggibile, ma era eccellente per la forza d'un genio naturale a suggerire i consiglj più saggi, ed a trovare degli espedienti nelle più disperate situazioni. La corruzione del cuore uguagliava in esso il vigor della mente. Quantunque fosse sospetto di superstizione magica e pagana, sembra però che fosse affatto insensibile al timore di Dio o a' rimproveri degli Uomini; ed innalzò la sua ambiziosa fortuna sulla morte di migliaia di persone, sulla povertà di milioni, e sulla rovina e desolazione d'intiere Città e Province. Dallo spuntar del giorno fino al tempo del pranzo egli assiduamente occupavasi nell'arricchire il suo Signore e se stesso, a spese del Mondo romano; consumava il resto del giorno in sensuali ed osceni piaceri; e le tacite ore della notte venivano interrotte dal perpetuo timore della giustizia d'un assassino. La sua abilità e forse i suoi vizi gli conciliarono la durevole amicizia di Giustiniano: l'Imperatore cedè con ripugnanza al furore de' sudditi; ma fece pompa della sua vittoria con rimettere immediatamente nel primiero posto il nemico di essi; ed il Popolo provò per più di dieci anni sotto l'oppressiva di lui amministrazione, ch'egli era più stimolato dalla vendetta, che istruito dalla disgrazia. I popolari bisbigli non servirono che a fortificare la fermezza di Giustiniano: ma il Prefetto, divenuto insolente per il favore, provocò l'ira di Teodora, sdegnò una potenza, avanti la quale piegavasi ogni ginocchio, e tentò di spargere de' semi di discordia fra l'Imperatore e l'amata di lui consorte. Anche Teodora però fu costretta a dissimulare, ad aspettare il momento favorevole, ed a render, mediante un'artificiosa cospirazione, Giovanni di Cappadocia cooperatore della propria sua distruzione. In un tempo, in cui Belisario, se non fosse stato un eroe, avrebbe dovuto comparire come ribelle, la sua moglie Antonina, che godeva la segreta confidenza dell'Imperatrice, partecipò il finto suo malcontento ad Eufemia, figlia del Prefetto; la credula fanciulla comunicò al Padre il pericoloso progetto, e Giovanni che avrebbe dovuto conoscere il valore dei giuramenti e delle promesse, si mosse ad accettare un notturno e quasi proditorio congresso con la moglie di Belisario. Gli era stata fatta un'imboscata di guardie e di eunuchi per ordine di Teodora; essi corsero fuori con le spade sfoderate per prendere o punire il colpevol Ministro, che fu salvato in vero dalla fedeltà de' suoi servi; ma in vece di ricorrere ad un grazioso Sovrano, che l'avea segretamente avvertito del suo pericolo, fuggì da pusillanime al Santuario della Chiesa. Fu sacrificato il favorito di Giustiniano alla coniugal tenerezza, o alla domestica tranquillità; la mutazione del Prefetto in Prete estinse le sue ambiziose speranze; ma l'amicizia dell'Imperatore ne alleggerì la disgrazia, ed ei ritenne nel mite esilio di Cizico una gran parte delle sue ricchezze. Tale imperfetta vendetta non potea soddisfare l'ostinato odio di Teodora; l'uccisione del Vescovo di Cizico, suo antico nemico, le ne somministrò un decente pretesto; e Giovanni di Cappadocia, di cui le azioni avevan meritato mille morti, finalmente fu condannato per un delitto, del quale era innocente. Un gran Ministro, che avea ricevuto gli onori del Consolato e del Patriziato, fu ignominiosamente frustato come il più vil malfattore; una lacera veste fu ciò che gli rimase delle sue sostanze; fu trasportato in una barca ad Antinopoli nell'Egitto superiore, luogo del suo esilio; ed il Prefetto d'Oriente mendicava il pane per le Città, che avevan tremato al solo suo nome. Per lo spazio di sette anni ne fu prolungata e sempre minacciata la vita dall'ingegnosa crudeltà di Teodora; e quando la morte di essa permise all'Imperatore di richiamare un servo, ch'egli avev'abbandonato con rammarico, l'ambizione di Giovanni di Cappadocia si ristrinse agli umili ufizi della professione sacerdotale. I successori di esso convinsero i sudditi di Giustiniano che potevano sempre più raffinarsi dall'esperienza e dall'industria le arti dell'oppressione; s'introdussero nell'amministrazione delle Finanze le frodi d'un banchiere della Siria; e l'esempio del Prefetto fu con esattezza imitato dal Questore, dal Tesoriere pubblico e privato, da' Governatori delle Province e da' principali Magistrati dell'Impero Orientale[540].
V. Gli edifizi di Giustiniano si costruirono in vero col sangue e col denaro del suo Popolo; ma sembrava, che quelle magnifiche fabbriche annunziassero la prosperità dell'Impero, e realmente dimostravano l'abilità de' loro Architetti. Tanto la teoria quanto la pratica delle Arti, che dipendono dalla Matematica, e dalla forza meccanica, si coltivarono sotto la protezione degl'Imperatori; Proculo ed Antemio emularono la fama d'Archimede; e se quegli spettatori, che hanno riferito i loro miracoli, fossero stati intelligenti, potrebbero adesso servire ad estendere le speculazioni, invece d'eccitare la diffidenza de' Filosofi. Si è conservata una tradizione, che nel porto di Siracusa la flotta Romana fosse ridotta in cenere dagli specchi ustorj d'Archimede[541]; e si asserisce, che Proculo usò un somigliante espediente per distrugger le navi Gotiche nel Porto di Costantinopoli, e per difendere il suo benefattore Anastasio contro l'ardita intrapresa di Vitaliano[542]. Fu fissata sulle mura della Città una macchina, composta d'uno specchio esagono di rame ben pulito, con molti poligoni più piccoli e mobili per ricevere e riflettere i raggi del sole sul Mezzogiorno; e fu lanciata una fiamma consumatrice alla distanza forse di dugento piedi[543]. Si rende incerta la verità di questi fatti straordinari dal silenzio degli Istorici più autentici, e non fu mai adottato l'uso degli specchi ustorj nell'attacco o nella difesa delle Piazze[544]. Pure gli ammirabili sperimenti d'un Filosofo Francese[545] han dimostrato la possibilità di tali specchi; e subito ch'è possibile, io son più disposto ad attribuirne l'arte a' più gran Matematici dell'antichità, che a dare il merito della finzione di essi all'oziosa fantasia d'un Monaco o d'un Sofista. Secondo un'altra Storia, Proclo adoperò lo zolfo per distruggere la Flotta Gotica[546]; ora in una immaginazione moderna il nome di zolfo subito si unisce al sospetto della polvere da schioppo, e tal sospetto s'accresce dai segreti artifizi del suo discepolo Antemio[547]. Un Cittadino di Trallia nell'Asia ebbe cinque figli, che nelle respettive lor Professioni furon tutti distinti per il merito e pel successo. Olimpio fu eccellente nella cognizione e nella pratica della Giurisprudenza romana. Dioscoro ed Alessandro divennero dotti medici; ma il primo esercitò la sua perizia in vantaggio dei propri concittadini, mentre il suo più ambizioso fratello acquistò ricchezza e riputazione in Roma. La fama di Metrodoro Gramatico, e d'Antemio Matematico ed Architetto giunse agli orecchi dell'Imperator Giustiniano, che gl'invitò a Costantinopoli, e mentre l'uno istruì la nascente generazione nelle scuole d'eloquenza, l'altro empì la Capitale e le Province di più durevoli monumenti dell'arte sua. In una disputa di poca importanza, relativa alle muraglie o finestre delle contigue loro case, fu egli vinto dall'eloquenza di Zenone suo vicino; ma l'Oratore a vicenda fu disfatto dal Maestro di Meccanica, i maliziosi quantunque innocenti strattagemmi del quale oscuramente si rappresentano dall'ignoranza d'Agatia. Antemio dispose in una stanza da basso più vasi o caldaie di acqua, ciascheduna delle quali fu da esso coperta col largo fondo d'un cuoio, che andava a finire in una stretta cima, che fu artificiosamente introdotta fra le travi e tavole del solaio della fabbrica vicina. Quindi acceso il fuoco sotto le caldaie, il vapore dell'acqua bollente salì per mezzo de' tubi; la casa fu scossa dallo sforzo dell'aria ivi racchiusa, ed i tremanti di lei abitatori dovettero udire con maraviglia, che la Città non ebbe notizia veruna del terremoto, ch'essi avevan sentito. Un'altra volta gli amici di Zenone, mentre stavano a mensa, restarono abbagliati dall'intollerabile luce, che gettarono loro negli occhi gli specchi di riflessione d'Antemio; furon sorpresi dallo strepito, ch'ei produsse, mediante la collisione di certi minuti e sonori corpuscoli; e l'oratore in tragico stile dichiarò avanti al Senato, che un semplice mortale doveva cedere alla potenza d'un avversario, che scuoteva col tridente di Nettuno la terra, ed imitava il tuono ed il lampo di Giove medesimo. Il genio d'Antemio e d'Isidoro di Mileto suo Collega fu eccitato e posto in uso da un Principe, il gusto del quale per l'Architettura era degenerato in una dannosa e dispendiosa passione. I favoriti Architetti di Giustiniano sottomettevano ad esso i loro disegni, e le loro difficoltà, e discretamente confessavano, quanto le laboriose loro meditazioni fossero al di sotto dell'intuitiva cognizione, o dell'inspirazione celeste d'un Imperatore, di cui le vedute eran sempre dirette all'utilità del Popolo, alla gloria del suo Regno, ed alla salvazione dell'anima sua[548].
La Chiesa principale di Costantinopoli, che dal suo Fondatore fu dedicata a S. Sofia, o all'eterna Sapienza, era stata due volte distrutta dal fuoco; dopo l'esilio di S. Giovanni Grisostomo, e in occasione della Nika delle fazioni Azzurra e Verde. Appena fu cessato il tumulto, la plebe Cristiana deplorò quella sacrilega temerità; ma si sarebbe rallegrata di tal disgrazia, se avesse preveduto la gloria del nuovo Tempio, che in capo a quaranta giorni fu vigorosamente intrapreso dalla pietà di Giustiniano[549]. Furono tolte di mezzo le rovine, se ne fece una pianta più spaziosa, e siccome questa esigeva il consenso di alcuni proprietari del terreno, che voleva occuparsi, i medesimi ottennero le più esorbitanti condizioni dall'ardente desiderio, e dalla timorosa coscienza del Monarca. Antemio ne fece il disegno, ed il suo genio diresse le operazioni di diecimila artefici, a' quali non fu mai differito oltre la sera il pagamento in monete di puro argento. L'Imperatore medesimo, vestito di una tunica di lino, osservava ogni giorno il rapido loro progresso, e ne animava la diligenza con la sua famigliarità, col suo zelo, e co' premj. Fu consacrata dal Patriarca la nuova Cattedrale di S. Sofia, cinque anni, undici mesi, e dieci giorni dopo che si principiò a fabbricare; e nel tempo della solenne festa, Giustiniano con devota vanità esclamò: «Sia gloria a Dio, che mi ha creduto degno di condurre a termine sì grande opera; io ti ho superato, o Salomone[550] ». Ma prima che passasser venti anni, restò umiliato l'orgoglio del Salomone Romano da un terremoto, che rovesciò la parte orientale della cupola. Ne fu restaurato di nuovo lo splendore dalla perseveranza del medesimo Principe; e Giustiniano celebrò nel trentesimo sesto anno del suo Regno la seconda Dedicazione di un Tempio che dopo dodici secoli è ancora un grandioso monumento della sua fama. I Sultani Turchi hanno imitato l'architettura di S. Sofia, che ora è convertita nella loro Moschea principale, e tuttavia continua quella venerabile mole ad eccitare la tenera ammirazione de' Greci, e la più ragionevole curiosità de' viaggiatori Europei. L'occhio dello Spettatore è mal soddisfatto da un irregolar prospetto di mezze cupole, e di tetti declivi; la facciata occidentale, dove si trova l'ingresso principale, manca di semplicità e di magnificenza; e se ne son molto sorpassate le misure da più Cattedrali Latine: ma l'Architetto, che fu il primo ad innalzare una cupola aerea, ha diritto alla lode d'un ardito disegno, e d'un abile esecuzione. La cupola di S. Sofia, illuminata da ventiquattro finestre, ha una curvatura sì piccola, che la sua profondità non è che un sesto del suo diametro, il qual'è di cento quindici piedi, ed il sublime centro di esso, dove una mezza luna si è sostituita alla Croce, s'innalza all'altezza perpendicolare di cento ottanta piedi sopra del suolo. La circonferenza della cupola posa con sveltezza su quattro forti archi, ed il loro peso viene stabilmente sostenuto da quattro solidi pilastri, la forza de' quali dalle parti settentrionale e meridionale viene aiutata da quattro colonne di granito d'Egitto. L'edifizio forma una croce greca inscritta in un quadrangolo; l'esatta sua larghezza è di dugento quarantatre piedi, e possono assegnarsene dugento sessantanove per la massima lunghezza di esso, dalla tribuna verso Oriente fino alle nove porte occidentali, che introducono nel vestibolo, e di là nel Nartece o Portico esteriore. Questo era il luogo dove umilmente stavano i Penitenti; la nave poi o il corpo della Chiesa era occupato dalla moltitudine de' Fedeli; ma prudentemente ne stavan separati i due sessi, e le gallerie superiori ed inferiori eran destinate alla più segreta devozion delle donne. Al di là de' pilastri settentrionali e meridionali una Balaustrata, che da ciaschedun lato finiva ne' Troni dell'Imperatore e del Patriarca, divideva la nave dal coro; e lo spazio di mezzo, fino agli scalini dell'Altare, occupavasi dal Clero e da' Cantori. L'Altare medesimo, nome che appoco appoco divenne famigliare alle orecchie cristiane, fu posto nel recinto orientale, essendo stato elegantemente fatto in forma di mezzo cilindro; e questa Tribuna comunicava per mezzo di varie porte con la sagrestia, col vestiario, col battistero, e con le altre contigue fabbriche, le quali servivano o alla pompa del culto, o all'uso privato de' Ministri ecclesiastici. La memoria delle passate calamità fece prendere a Giustiniano la saggia risoluzione di non ammettere nel nuovo Edifizio alcuna sorte di legno, a riserva delle porte; e nella scelta de materiali s'ebbe riguardo alla stabilità, alla sveltezza, ed allo splendore delle respettive lor parti. Que' solidi pilastri, che sostenevan la cupola, furon composti di grossi pezzi di pietra viva, tagliata in quadrati e triangoli, fortificati con cerchi di ferro, e fortemente uniti insieme per mezzo del piombo e della viva calce. Ma si procurò di scemare il peso della cupola medesima mediante la leggierezza della materia, che fu o di pomice che galleggia sull'acqua, o di mattoni dell'Isola di Rodi, cinque volte meno gravi degli ordinari. Tutta la sostanza dell'Edifizio fu costruita di terra cotta, ma quelle basi materiali eran coperte da una crosta di marmo; e l'interno di S. Sofia, la cupola, le due maggiori e le sei minori semicupole, le muraglie, le cento colonne, ed il pavimento dilettano anche gli occhi de' Barbari con una ricca e variata pittura. Un Poeta[551], che vide il primitivo lustro di S. Sofia, enumera i colori, le ombreggiature, e le macchie di dieci o dodici marmi, diaspri e porfidi, che la natura aveva profusamente variati, e che furon mescolati e posti fra loro in contrasto, come da un abil Pittore. Si adornò il trionfo di Cristo con le ultime spoglie del Paganesimo; ma la maggior parte di queste costose pietre fu estratta dalle cave dell'Asia minore, delle Isole, e del Continente della Grecia, dell'Egitto, dell'Affrica e della Gallia. La pietà di una Matrona romana offerì otto colonne di porfido, che Aureliano aveva collocate nel Tempio del Sole; otto altre di marmo verde presentate furono dall'ambizioso zelo dei Magistrati d'Efeso: e tanto le une che le altre sono ammirabili per la lor mole e bellezza, ma ogni ordine d'architettura rigetta i loro fantastici capitelli. Erasi curiosamente espressa in mosaico una quantità di vari ornamenti e figure; e le immagini di Cristo, della Vergine, dei Santi e degli Angeli, che sono state cancellate dal fanatismo Turco, erano pericolosamente esposte alla superstizione de' Greci. Secondo la santità d'ogni oggetto eran distribuiti i preziosi metalli in tenui lamine, o in solide masse. La balaustrata del Coro, i capitelli delle colonne, e gli ornamenti delle porte e delle gallerie eran di bronzo dorato; s'abbagliavano gli occhi dello spettatore dal brillante aspetto della Cupola; la Tribuna conteneva quarantamila libbre d'argento, ed i vasi ed arredi sacri dell'Altare erano d'oro purissimo, arricchito d'inestimabili gemme. Prima che si fosse alzata la fabbrica della Chiesa due cubiti sopra terra, si erano già consumate quarantacinquemila dugento libbre, e tutta la spesa montò a trecentoventimila. Ogni lettore, secondo la misura della sua credulità, può valutare il loro valore in oro o in argento, ma il resultato del computo più basso è la somma di un milione di lire sterline. Un magnifico Tempio è un monumento lodevole del gusto e della Religion Nazionale, e l'entusiasta, ch'entrava nella Chiesa di S. Sofia, poteva esser tentato a supporre, che quella fosse la residenza, o anche la fattura della Divinità. Pure quanto goffo n'è l'artifizio, quanto insignificante il travaglio, se si confronti con la formazione del più vile insetto, che serpe sulla superficie di quel Tempio!
La descrizione sì minuta d'un Edifizio che il tempo ha rispettato, può servire a confermare la verità ed a giustificar la relazione delle innumerabili Opere che Giustiniano costruì sì nella Capitale che nelle Province in una minor proporzione, e sopra fondamenti meno durevoli[552]. Nella sola Costantinopoli e ne' suoi addiacenti sobborghi ei dedicò venticinque Chiese in onore di Cristo, della Vergine e de' Santi; queste per la maggior parte furono decorate di marmo e d'oro; e la varia loro situazione giudiziosamente si scelse o in una popolata piazza, o in un piacevol boschetto, o sul lido del mare o su qualche alta eminenza che dominava i Continenti dell'Europa e dell'Asia. La Chiesa de' Santi Apostoli a Costantinopoli e quella di S. Giovanni in Efeso pare che fossero formate sull'istesso modello: le loro cupole aspiravano ad imitar quella di S. Sofia; ma l'Altare con più giudizio era collocato sotto il centro della cupola, nella riunione de' quattro magnifici portici, che più esattamente rappresentavano la figura della croce Greca. La Vergine di Gerusalemme potè esultar per il Tempio innalzatole dall'Imperial suo devoto in un luogo il più infelice, che non somministrava all'Architetto nè suolo, nè materiali. Si formò un piano, alzando porzione d'una profonda valle all'altezza d'una montagna. Furon tagliate in forme regolari le pietre d'una vicina cava; ogni pezzo fu fissato sopra una particolare specie di carro tirato da quaranta de' più forti bovi, e furono allargate le strade per il passaggio di sì enormi carichi. Il Libano diede i cedri più alti per le travi della Chiesa; e l'opportuna scoperta d'un filone di marmo rosso ne somministrò le belle colonne, due delle quali, che sostenevano il Portico esteriore, passavano per le più grandi del Mondo. Si sparse la pia munificenza dell'Imperatore sopra la Terra Santa; e se la ragione condannerebbe i Monasteri di ambedue i sessi che furono fabbricati o restaurati da Giustiniano, pure la carità deve approvare i pozzi, ch'egli scavò e gli spedali, ch'eresse per sollievo degli stanchi pellegrini. L'indole scismatica dell'Egitto non meritava le Reali beneficenze; ma nella Siria e nell'Affrica si applicarono diversi rimedi a' disastri cagionati dalle acque o da' terremoti; e tanto Cartagine quanto Antiochia, risorgendo dalle proprie rovine, dovevan venerare il nome del grazioso loro Benefattore[553]. Quasi ogni Santo del Calendario ebbe l'onore d'un tempio; quasi ogni Città dell'Impero ottenne gli stabili vantaggi di ponti, di spedali e di acquedotti; ma la rigida liberalità del Monarca sdegnò di compiacere i suoi sudditi nelle popolari superfluità de' Bagni e de' Teatri. Mentre Giustiniano s'affaticava pel pubblico servizio non si dimenticò della propria dignità e del suo comodo. Il Palazzo di Costantinopoli, ch'era stato danneggiato dall'incendio, fu risarcito con nuova magnificenza; e può formarsi qualche idea di tutto l'Edifizio dal vestibulo della sala che, forse per le porte o pel tetto, chiamavasi Chalche, o di bronzo. La cupola d'uno spazioso quadrangolo era sostenuta da colonne massicce; il pavimento e le mura erano incrostate di marmi di più colori, come del Verde smeraldo di Laconia, dell'infiammato rosso, e del bianco Frigio frammischiato di vene d'un color verde mare; e le pitture a mosaico della cupola e delle pareti rappresentavano le glorie de' trionfi d'Affrica e d'Italia. Sul lido Asiatico poi della Propontide, in una piccola distanza all'Oriente di Calcedonia, stavan preparati il sontuoso Palazzo ed i Giardini d'Erco[554] per la dimora estiva di Giustiniano e specialmente di Teodora. I Poeti di quel tempo hanno celebrato in essi la rara unione della natura e dell'arte, non meno che l'armonia delle Ninfe dei boschi, delle fontane e dei flutti marini; pure la folla de' Ministri, che seguitavan la Corte, si doleva dell'incomoda loro abitazione[555], ed erano le Ninfe troppo spesso impaurite dal famoso Porfirio, Balena di dieci cubiti in larghezza e di trenta in lunghezza che fu tratta a riva alla bocca del fiume Sangari, dopo avere infestato per più di mezzo secolo i mari di Costantinopoli[556].
Giustiniano moltiplicò le Fortezze dell'Europa e dell'Asia; ma la frequenza di tali timide ed infruttuose precauzioni espone ad un occhio filosofico la debolezza dell'Impero[557]. Da Belgrado fino all'Eussino, e dalla congiunzion della Sava col Danubio fino all'imboccatura di esso, estendevasi lungo le rive di questo gran fiume una catena di più di quaranta piazze fortificate. Le pure torri di guardia si mutarono in spaziose Cittadelle, le mura delle quali, che gl'Ingegneri estendevano o ristringevano secondo la natura del suolo, si riempivano di Colonie o di guarnigioni; una stabil Fortezza difendeva le rovine del Ponte di Traiano[558]; e più stazioni militari affettavano di spargere di là dal Danubio l'orgoglio del nome Romano. Ma questo nome aveva perduto il suo terrore; i Barbari nelle annue loro scorrerie, con disprezzo passavano e ripassavano avanti a quegl'inutili baloardi; e gli abitanti della frontiera, invece di riposare tranquilli sotto l'ombra della comune difesa eran costretti a guardar di continuo le separate loro abitazioni. Furono ripopolate le antiche Città; le nuove fondazioni di Giustiniano acquistarono, forse troppo presto, gli epiteti d'invincibili e di piene di gente; ed il bene augurato luogo della sua nascita tirò a se la grata reverenza del più vano fra' Principi. Sotto il nome di Giustiniana prima l'oscuro villaggio di Tauresio divenne la sede d'un Arcivescovo e d'un Prefetto, la giurisdizione del quale, s'estendeva sopra sette guerriere Province dell'Illirico[559]; e la corrotta denominazione di Giustendil tuttavia indica circa venti miglia al mezzodì di Sofia la residenza d'un Sangiacco Turco[560]. Si fabbricò speditamente una Cattedrale, un Palazzo, ed un Acquedotto per uso de' paesani dell'Imperatore; s'adattarono i pubblici e privati edifizi alla grandezza d'una Città Reale; e la fortezza delle sue mura, durante la vita di Giustiniano, resistè a mal diretti assalti degli Unni e degli Schiavoni. Ne furon talvolta ritardati i progressi, e sconcertate le rapaci speranze anche dagl'innumerabili castelli che nelle Province della Dacia, dell'Epiro, della Tessaglia, della Macedonia e della Tracia pareva, che cuoprissero tutta la superficie del Paese. E dall'Imperatore in vero fabbricati furono o riparati seicento di questi Forti; ma sembra ragionevole il credere che ognuno di essi per lo più consistesse solo in una torre di pietra o di mattoni, posta nel mezzo d'una piazza quadrata o circolare, ch'era circondata da una muraglia e da un fosso, ed in un momento di pericolo somministrava qualche difesa ai contadini, ed al bestiame de' vicini villaggi[561]. Ciò non ostante queste opere militari, ch'esaurivano il pubblico erario, non servivano a dissipare le giuste apprensioni di Giustiniano e dei suoi sudditi Europei. I Bagni caldi d'Anchialo nella Tracia si resero altrettanto sicuri, quanto erano salutari; ma la cavalleria scitica foraggiava nelle ricche pasture di Tessalonica; la deliziosa valle di Tempe, trecento miglia distante dal Danubio, era di continuo agitata dal suono di guerra[562]; e nessun luogo non fortificato, per quanto fosse remoto o solitario, poteva con sicurezza godere i vantaggi della pace. Lo Stretto delle Termopile che sembrava difendere la sicurezza della Grecia, ma che l'aveva tante volte tradita, fu diligentemente fortificato da' lavori di Giustiniano. Ei fece continuare dall'estremità del lido del mare, per mezzo di valli e di foreste, fino alla cima delle montagne di Tessaglia un forte muro, che impediva qualunque praticabile ingresso. Invece d'una tumultuosa folla di contadini pose una guarnigione di duemila soldati lungo di esso; provvide per loro uso de' granai e delle conserve di acqua; e per una precauzione che ispirava la poltroneria, ch'ei previde, fabbricò delle Fortezze adattate alla loro ritirata. Le mura di Corinto, rovesciate da un terremoto, ed i cadenti baloardi d'Atene e di Platea, furono con attenzione restaurati; si sconfortarono i Barbari dal prospetto di successivi e penosi assedj; e le aperte Città del Peloponneso furon coperte dalle fortificazioni dell'Istmo di Corinto. Il Chersoneso di Tracia, ch'è un'altra Penisola all'estremità dell'Europa, sporge per tre giornate di cammino nel mare, e forma co' lidi addiacenti dell'Asia lo Stretto dell'Ellesponto. Gl'intervalli, frammezzo ad undici ben popolate Città, eran pieni di alti boschi, di be' pascoli, e di arabili campi; e l'Istmo di trentasette stadi era stato fortificato da un Generale Spartano, novecento anni prima del Regno di Giustiniano[563]. In un tempo di libertà e di valore, il più leggiero riparo può impedire una sorpresa; e sembra che Procopio non conosca la superiorità degli antichi tempi, allorchè loda la solida costruzione ed il doppio parapetto d'un muro, le lunghe braccia del quale s'estendevano da ambe le parti nel mare, ma di cui la forza fu creduta insufficiente a guardare il Chersoneso, se ogni Città e specialmente Gallipoli e Sesto, non si fossero assicurate con le particolari loro fortificazioni. La lunga muraglia, com'enfaticamente dicevasi, era un'opera tanto vergognosa per l'oggetto di essa, quanto rispettabile per l'esecuzione. Le ricchezze di una Capitale si spargono nella vicina Campagna: ed il territorio di Costantinopoli, ch'è un paradiso della Natura, era ornato con i lussuriosi giardini, e con le ville de' Senatori e degli opulenti Cittadini. Ma la lor opulenza non servì, che ad attirare gli arditi e rapaci Barbari; i più nobili dei Romani, che vivevano in seno ad una pacifica indolenza, furon condotti via schiavi dagli Sciti; ed il loro Sovrano potè dal suo Palazzo vedere le fiamme ostili, che insolentemente s'estesero fino alle porte della Città Imperiale. Anastasio fu costretto a stabilire un'ultima frontiera alla distanza di sole quaranta miglia da Costantinopoli; il lungo suo muro di sessanta miglia, dalla Propontide all'Eussino, manifestò l'impotenza delle sue armi; e siccome il pericolo divenne anche più imminente, dall'instancabil prudenza di Giustiniano, vi s'aggiunsero nuove fortificazioni[564].
A. 492-498
L'Asia minore, dopo che si furon sottomessi gl'Isauri[565], restò senza nemici e senza fortificazioni. Questi audaci selvaggi, che avevano sdegnato di esser sudditi di Gallieno, continuarono per dugento trenta anni in una vita indipendente e rapace. I più intraprendenti Principi rispettarono la fortezza di quelle montagne, e la disperazione dei loro abitanti; il feroce loro animo veniva ora mitigato co' doni, ora tenuto in freno col terrore, ed un Conte militare con tre legioni fissò la sua permanente ed ignominiosa stazione nel cuore delle Province romane[566]. Ma appena si rilassava, o si distraeva la vigilanza della forza, scendevano gli squadroni leggiermente armati da' colli, ed invadevano la pacifica opulenza dell'Asia. Quantunque gl'Isauri non fosser notabili per la loro statura o valore, il bisogno gli rese arditi, e l'esperienza gli abilitò nell'esercizio della guerra predatoria. Con silenzio e velocità s'avanzavano ad attaccare i villaggi e castelli senza difesa; le volanti lor truppe talvolta sono arrivate fino all'Ellesponto, all'Eussino, ed alle porte di Tarso, d'Antiochia, o di Damasco[567]; e se ne mettevano in sicuro le spoglie nelle inaccessibili loro montagne, prima che le Truppe romane avesser ricevuto i lor ordini, o la distante Provincia saccheggiata, calcolato avesse il suo danno. Il delitto di ribellione e di latrocinio gli facea distinguere da' nemici nazionali: ed erasi ordinato a' Magistrati, per mezzo d'un Editto, che il processo o la punizione d'un Isauro anche nella solennità di Pasqua fosse un atto meritorio di giustizia e di pietà[568]. Se i prigionieri di quella Nazione si condannavano alla domestica schiavitù, con la loro spada o pugnale sostenevano le private contese de' loro padroni; e si trovò espediente, per la pubblica tranquillità, di proibire il servizio di tali pericolosi domestici. Quando per altro montò sul trono Tarcalisseo o Zenone loro compatriotto, invitò una fedele e formidabil truppa d'Isauri, che insultaron la Corte e la Città, e furon premiati con un annuo tributo di cinquemila libbre d'oro. Ma le speranze di fortuna spopolarono le montagne, il lusso snervò la durezza degli animi e de' corpi loro, ed a misura che si frammischiaron con gli uomini, divennero meno capaci di godere la povera e solitaria lor libertà. Morto Zenone, Anastasio suo successore soppresse le loro pensioni, gli espose alla vendetta del Popolo, gli bandì da Costantinopoli, e si apparecchiò a fare una guerra che lasciava loro solamente l'alternativa di vincere o di servire. Un fratello del defunto Imperatore usurpò il titolo d'Augusto; ne fu sostenuta efficacemente la causa dalle armi, da' tesori e da' magazzini raccolti da Zenone; ed i nativi dell'Isauria dovevan formare la più piccola parte de' cento cinquantamila Barbari, che militavano sotto le sue bandiere, le quali furono per la prima volta santificate dalla presenza d'un Vescovo combattente. Le disordinate loro milizie furono vinte nelle pianure della Frigia dal valore e dalla disciplina de' Goti; ma una guerra di sei anni quasi esaurì tutto il coraggio dell'Imperatore[569]. Gl'Isauri si ritirarono alle loro montagne; le loro Fortezze una dopo l'altra furono assediate e distrutte; fu tagliata la comunicazione, ch'essi avevan col mare; i più bravi de' loro Capitani morirono in battaglia; quelli che sopravvissero, avanti la loro esecuzione furon tratti in catene per l'Ippodromo; si trapiantò nella Tracia una colonia de' loro giovani, ed il restante del Popolo si sottopose al Governo Romano. Passarono però alcune generazioni prima che i loro animi si adattassero alla schiavitù. I popolati villaggi del monte Tauro eran pieni di soldati a cavallo e di arcieri; essi resistevano in vero all'imposizion de' tributi, ma somministravano reclute agli eserciti di Giustiniano, ed i suoi Magistrati Civili, come il Proconsole di Cappadocia, il Conte d'Isauria, ed i Pretori di Licaonia e di Pisidia, eran forniti di forza militare per frenare la licenziosa pratica delle rapine e degli assassini[570].
Se diamo un'occhiata dal Tropico fino alla bocca del Tanai, potremo da una parte osservare le precauzioni di Giustiniano per reprimere i selvaggi dell'Etiopia[571], e dall'altra le lunghe muraglie, ch'ei costruì nella Crimea per difesa de' Goti suoi amici, che formavano una colonia di tremila pastori e guerrieri[572]. Da quella Penisola fino a Trebisonda, erasi assicurata la curva orientale dell'Eussino per mezzo di Fortezze, di alleanze, o della Religione, ed il possesso di Lazica, ch'è il Colco dell'antica Geografia e la Mingrelia della moderna, divenne tosto l'oggetto d'una importante guerra. Trebisonda, in seguito sede d'un Impero romanzesco, dovè alla liberalità di Giustiniano una chiesa, un acquedotto, ed una Fortezza, di cui le fosse tagliate furono nella viva pietra. Da questa Città marittima può tirarsi fino alla Fortezza di Circesio, ultima stazione Romana sull'Eufrate[573], una linea di confine di cinquecento miglia. Immediatamente sopra Trebisonda, per cinque giorni di cammino verso il mezzodì, è occupato il Paese da folti boschi e da monti scoscesi, tanto ispidi, quantunque non tanto alti, quanto le Alpi ed i Pirenei. In questo rigido clima[574], dove rade volte si fondon le nevi, i frutti vengono tardi e senza sapore, fino il mele è velenoso, la più industriosa cultura si dovea limitare ad alcune piacevoli valli; e le tribù pastorali ricavavano uno scarso sostentamento dalla carne, e dal latte de' loro armenti. I Calibi[575] traevano il nome e l'indole della ferrea qualità del suolo; e fino dal tempo di Ciro potevan allegare, sotto le varie denominazioni di Caldei e di Zanj, una prescrizione non interrotta di guerra e di rapina. Al tempo di Giustiniano essi riconobbero il Dio e l'Imperatore de' Romani, e furono fabbricate sette Fortezze ne' luoghi più accessibili per rispingere l'ambizione del Monarca Persiano[576]. La principal sorgente dell'Eufrate viene dalle Montagne de' Calibi, e sembra che scorra verso l'Occidente e l'Eussino; piegando poi questo fiume al sud-ovest passa sotto le mura di Satala o Melitene (che furono restaurate da Giustiniano come baloardi dell'Armenia Minore), ed appoco appoco s'accosta al mare Mediterraneo; finattantochè impedito dal Monte Tauro[577], alla fine dirige il lungo e tortuoso suo corso al sud-est, ed al Golfo Persico. Fra le Città Romane di là dall'Eufrate ne distinguiamo due fondate recentemente, ch'ebbero il nome da Teodosio e dalle reliquie de' Martiri; e due Capitali, Amida ed Edessa, che sono celebri nell'Istoria di tutti i tempi. Alla pericolosa lor situazione Giustiniano proporzionar ne volle la forza. Un fosso ed una palizzata potea servire alla forza indisciplinata della cavalleria Scitica; ma richiedevansi opere più elaborate per sostenere un regolare assedio contro le armi ed i tesori del gran Re. Gli abili suoi Ingegneri sapevano le maniere di fare profonde mine e d'innalzar piattaforme al livello delle mura; egli scuoteva i più forti edifizi con le sue macchine militari; ed alle volte avanzavasi all'assalto con una linea di mobili torri sul dorso degli Elefanti. Nelle gran Città dell'Oriente, lo svantaggio della distanza e forse anche della situazione, veniva compensato dallo zelo del Popolo, che secondava la guarnigione in difesa della patria e della Religione, e la favolosa promessa del Figlio di Dio, ch'Edessa non sarebbe mai stata presa, empieva i Cittadini di valorosa fiducia, e scoraggiava e rendeva dubbiosi gli assediatori[578]. Furono diligentemente fortificate le minori Città dell'Armenia e della Mesopotamia, ed i posti che sembravano dominare sulla terra o sull'acqua, contenevano molti Forti fabbricati regolarmente di pietra o più in fretta con i più comuni materiali di terra e di mattoni. L'occhio di Giustiniano investigava ogni luogo, e le sue crudeli precauzioni tiravan la guerra anche in quelle remote valli; i pacifici abitanti delle quali, collegati fra loro per mezzo del commercio e del matrimonio, ignoravano le discordie delle Nazioni, e le querele de' Principi. All'occidente dell'Eufrate un arenoso deserto s'estende più di sei cento miglia fino al Mar Rosso. La Natura aveva frapposto una vuota solitudine fra l'ambizione di due Imperi emuli fra di loro; gli Arabi, fino al tempo di Maometto, non furon formidabili, che come ladroni, e nell'alta sicurezza della pace si trascurarono le fortificazioni della Siria nel lato più esposto.
A. 488-505
Ma l'inimicizia nazionale, o almeno gli effetti di tale inimicizia si eran sospesi mediante una tregua, che continuò più di quarant'anni. Un Ambasciatore dell'Imperator Zenone accompagnò il temerario ed infelice Peroze nella sua spedizione contro i Neptaliti, ovvero Unni Bianchi, le conquiste de' quali si erano estese dal Mar Caspio nel cuore dell'India, della quale il trono rilucea di smeraldi[579], e la cavalleria sostenevasi da una linea di duemila elefanti[580]. I Persiani furono due volte circondati in una situazione che rendeva inutile il valore, ed impossibil la fuga; e fu compita la doppia vittoria degli Unni per mezzo d'uno stratagemma militare. Essi rilasciarono il regio lor prigioniero, dopo ch'egli si fu sottomesso ad adorare la maestà d'un Barbaro; nè servì ad evitare tal umiliazione la casuistica sottigliezza dei Magi, che istruiron Peroze a diriger la sua intenzione al Sole nascente. Lo sdegnato successore di Ciro dimenticò il suo pericolo e la gratitudine, rinnovò con ostinato furore l'attacco, e vi perdè l'esercito non men che la vita[581]. La morte di Peroze abbandonò la Persia a' suoi esterni e domestici nemici; e passarono dodici anni di confusione, prima che il suo figlio Cabade, o Kobad potesse formare alcun disegno d'ambizione o di vendetta. La disobbligante parsimonia di Anastasio fu il motivo o il pretesto d'una guerra coi Romani[582]; marciarono sotto le bandiere de' Persiani gli Unni e gli Arabi; e le fortificazioni dell'Armenia e della Mesopotamia erano allora in una condizione imperfetta o rovinosa. L'Imperatore ringraziò il Governatore ed il Popolo di Martiropoli per aver subito reso una Città, che non poteva difendersi con buon successo, e l'incendio di Teodosiopoli potea giustificar la condotta dei prudenti di lei vicini. Amida sostenne un lungo e rovinoso assedio: al termine di tre mesi la perdita di cinquantamila soldati di Cabade non era bilanciata da verun prospetto di buon successo; ed in vano i Magi deducevano una lusinghiera predizione dall'indecenza delle donne, che dalle mura avevano esposte le più segrete lor parti agli occhi degli assedianti. Una notte alla fine tacitamente salirono sulla torre più accessibile, che non era guardata che da alcuni Monaci oppressi, dopo le funzioni d'una solennità, dal sonno e dal vino. Allo spuntar del giorno, furono applicate le scale alle mure, la presenza di Cabade, il terribile suo comando, e la sua spada sguainata costrinsero i Persiani a vincere, e prima che quella fosse rimessa nel fodero, ottantamila abitanti avevano espiato il sangue de' loro compagni. Dopo l'assedio d'Amida, la guerra continuò per tre anni, e l'infelice frontiera provò tutto il peso delle calamità, che essa apporta. Troppo tardi fu offerto l'oro d'Anastasio; il numero delle sue truppe era distrutto dal numero de' loro Generali; la Campagna restò spogliata de' suoi abitatori; e tanto i vivi, quanto i morti abbandonati furono alle fiere del deserto. La resistenza d'Edessa, e la mancanza di preda fece piegar l'animo di Cabade alla pace: ei vendè le sue conquiste a un prezzo esorbitante; e la medesima linea di confine, quantunque segnata di stragi e di devastazioni, continuò a separare i due Imperi. Per evitare simili danni, Anastasio risolvè di fondare una nuova Colonia sì forte, che sfidar potesse la potenza Persiana, e sì avanzata verso l'Assiria, che le stazionarie sue truppe fosser capaci di difendere la Provincia, mediante la minaccia o l'esecuzione d'una guerra offensiva. A tale oggetto fu popolata ed ornata la Città di Dara[583] distante quattordici miglia da Nisibi, e quattro giornate di cammino dal Tigri; le precipitose opere d'Anastasio furono migliorate dalla perseveranza di Giustiniano; e senza fermarci su piazze meno importanti, le fortificazioni di Dara possono rappresentarci l'Architettura militare di quel secolo. Fu circondata la Città da due muri, e lo spazio ch'era fra questi di cinquanta passi, serviva di ritirata al bestiame degli assediati. La muraglia di dentro era un monumento di forza e di bellezza: s'alzava questa sessanta piedi sopra il suolo, e l'altezza delle torri era di cento piedi; i fori, dai quali poteva offendersi il nemico con armi da lanciare, erano piccoli, ma numerosi; i soldati stavano lungo il ramparo difesi da una doppia galleria, ed alzavasi una terza piattaforma, spaziosa e sicura, sopra la sommità delle torri. Il muro esteriore par che fosse meno alto, ma più solido; ed ogni torre era difesa da un baloardo quadrangolare. Un terreno duro e sassoso impediva i lavori delle mine, ed al sud-est, dove il suolo era più trattabile, venivano ritardati da una overa nuova, che s'avanzava in forma di mezza luna. I fossi duplicati, e triplicati eran pieni d'acqua corrente; e si profittò con la massima industria della comodità del fiume per supplire ai bisogni degli abitanti, per inquietar gli assalitori, e per impedire i danni d'una naturale o artificiale inondazione. Dara continuò più di sessant'anni a secondar le mire dei suoi fondatori, ed a provocar la gelosia dei Persiani, che non lasciavano di lagnarsi, che si era costruita quell'inespugnabil Fortezza con una manifesta violazione del Trattato di pace fatto fra' due Imperi.
Le Province di Colco, d'Iberia, e d'Albania fra l'Eussino ed il Caspio sono intersecate per ogni verso dalle diramazioni del monte Caucaso; e nella geografia, tanto degli antichi quanto de' moderni, si sono spesse volte confuse fra loro le due principali Porte, o passi, che vanno dal settentrione al mezzodì. Si è dato il nome di Porte Caspie o d' Albania propriamente a Derbend[584], che occupa un breve declive fra le montagne ed il mare: questa Città, se prestiam fede alla tradizione del luogo, fu fondata da' Greci; e questo pericoloso ingresso venne fortificato da' Re di Persia con un molo, con doppie mura, e con porte di ferro. Le porte Iberie[585] si formano da uno stretto passo di sei miglia nel monte Caucaso, che dal lato settentrionale dell'Iberia o della Georgia, s'apre nella pianura, che s'estende fino al Tanai ed al Volga. Una Fortezza, destinata forse da Alessandro, o da alcuno de suoi successori a dominare quell'importante posto, era pervenuta per diritto di conquista o d'eredità in un Principe Unno, che l'offerì per un moderato prezzo all'Imperatore; ma mentre Anastasio indugiava, mentre ne calcolava timidamente il prezzo e la distanza, vi si frappose un più vigilante rivale, e Cabade occupò per forza quel passaggio del Caucaso. Le porte Albanesi, ed Iberie escludevano la cavalleria degli Sciti dalle strade più brevi e più praticabili, e tutta la fronte de' monti era coperta dal riparo di Gog e Magog, o sia dalla lunga muraglia, ch'eccitò la curiosità d'un Califfo Arabo[586] e d'un Conquistatore Russo[587]. Secondo una descrizione recente sono artificialmente unite insieme senza ferro o cemento alcuno molte gran pietre, grosse sette piedi, e lunghe o alte ventuno, per formare un muro, che dura più di trecento miglia dai lidi di Derbend sopra i monti, e per le valli del Daghestan e della Giorgia. Un'opera tale potea intraprendersi senz'alcuna visione dalla Politica di Cabade; e senz'alcun prodigio potè compirsi dal suo figlio, sì formidabile, a' Romani sotto il nome di Cosroe, e così caro agli Orientali sotto quello di Nushirwan. Il Monarca Persiano aveva in mano le chiavi sì della pace che della guerra; ma in ogni Trattato egli stipulava che Giustiniano contribuisse alla spesa della comune Barriera, che difendeva ugualmente i due Imperi dalle scorrerie degli Sciti[588].
VII. Giustiniano soppresse le scuole d'Atene, ed il Consolato di Roma, che avevano dato al Mondo tanti Saggi ed eroi. Ambedue queste Istituzioni erano da gran tempo degenerate dalla primitiva lor gloria; pure si può con ragione dar qualche taccia d'avarizia e di gelosia ad un Principe, per mano del quale furon distrutti que' venerabili avanzi.
Atene, dopo i trionfi Persiani, adottò la Filosofia della Jonia, e la Rettorica della Sicilia; e tali studj divennero il patrimonio di una Città, gli abitanti della quale, ascendenti a circa trentamila maschi, condensarono nel periodo d'una sola generazione il genio di molti secoli, e di molti milioni di uomini. Il sentimento, che abbiamo della dignità della natura umana s'esalta alla semplice riflessione, che Isocrate[589] fu compagno di Platone e di Senofonte; ch'ei si trovò presente, forse insieme coll'Istorico Tucidide, alle prime rappresentazioni dell'Edipo di Sofocle, e della Ifigenia d'Euripide; ed i suoi allievi, Eschine e Demostene, contesero per la corona del patriottismo alla presenza d'Aristotele, Maestro di Teofrasto, che insegnò in Atene al tempo de' Fondatori della Setta Stoica e dell'Epicurea[590]. L'ingenua gioventù dell'Attica godeva i vantaggi della domestica educazione, che fu comunicata senza invidia alle Città sue rivali. Duemila scolari udirono le lezioni di Teofrasto[591]; le scuole di Rettorica dovevano essere anche più numerose di quelle di Filosofia; ed una rapida successione di studenti sparse la fama dei loro Maestri fino agli ultimi confini dell'idioma e del nome Greco. Questi confini furono estesi dalle vittorie di Alessandro; le arti d'Atene sopravvissero alla libertà, e al dominio di essa; e le Colonie Greche, da' Macedoni piantate nell'Egitto, e sparse per l'Asia, intrapresero de' lunghi e frequenti pellegrinaggi per venerare le Muse del favorito lor tempio sulle rive dell'Elisso. I conquistatori Latini rispettosamente ascoltavano le istruzioni de' loro sudditi e prigionieri; furono registrati nelle scuole d'Atene i nomi di Cicerone e d'Orazio; e dopo il perfetto stabilimento del Romano Impero, gl'Italiani, gli Affricani e i Britanni conversarono ne' boschetti dell'Accademia coi loro condiscepoli Orientali. Gli studj della Filosofia e dell'Eloquenza s'accordano col genio d'uno Stato popolare, che incoraggisce la libertà delle ricerche, e non si sottomette che alla forza della persuasione. Nelle Repubbliche di Grecia e di Roma l'arte di parlare era la potente macchina del patriottismo o della ambizione, e le scuole di Rettorica somministrarono una colonia di Politici e di Legislatori. Quando fu soppressa la libertà delle pubbliche discussioni, l'Oratore potè nell'onorevole impiego d'Avvocato difendere la causa dell'innocenza e della giustizia; potè abusare de' suoi talenti nella più lucrosa negoziazione de' panegirici; e gli stessi precetti continuarono a dettare le fantastiche declamazioni del Sofista, e le più pure bellezze della composizione Istorica. I sistemi, che si proponevano di scuoprir la natura di Dio, dell'Uomo e dell'Universo, occupavano la curiosità dello studente filosofico; e secondo l'indole della sua mente poteva o dubitar con gli Scettici, o decidere con gli Stoici, o levarsi con Platone alle sublimi speculazioni, o rigorosamente argomentare con Aristotele. L'orgoglio delle contrarie Sette avea stabilito un termine inaccessibile della morale felicità e perfezione: ma la strada per giungervi era gloriosa e salutare; gli scolari di Zenone, e quelli anche d'Epicuro venivano istruiti tanto ad agire quanto a soffrire; e la morte di Petronio fu efficace non meno che quella di Seneca ad umiliare un tiranno, manifestando la sua impotenza. Infatti la luce della scienza non potè limitarsi alle mura d'Atene. Gl'incomparabili suoi Scrittori s'indirizzarono all'uman Genere; si trasferirono de' Maestri ancor viventi nell'Italia, e nell'Asia; Berito ne' tempi posteriori fu consacrato allo studio della Legge; l'Astronomia e la Fisica si coltivarono nel Museo d'Alessandria; ma le scuole Attiche di Rettorica e di Filosofia mantennero la superiore lor fama, dalla guerra del Peloponeso fino al Regno di Giustiniano. Atene, quantunque situata in un suolo sterile, aveva però un'aria pura, una libera navigazione ed i monumenti delle arti antiche; quel sacro ritiro veniva raramente disturbato dagli affari del commercio o del Governo: e l'infimo degli Ateniesi distinguevasi per i vivaci suoi sali, per la purità del suo gusto e linguaggio, per le socievoli maniere, e per alcuni vestigi, almeno nel discorso, della magnanimità de' suoi Padri. Ne' sobborghi della Città l' Accademia de' Platonici; il Liceo de' Peripatetici, il Portico degli Stoici, ed il Giardino degli Epicurei erano sparsi di alberi, e decorati di statue; ed i Filosofi, invece di star rinchiusi in un Chiostro, davano le loro lezioni in piacevoli e spaziosi viali, che in diverse ore si destinavano agli esercizi dell'animo e del corpo. In quelle venerabili sedi vivea tuttavia il genio de' Fondatori; l'ambizione di succedere ai Maestri della ragione umana eccitava una generosa emulazione: e ad ogni vacanza si determinava il merito de' candidati da' liberi voti di un Popolo illuminato. I Professori Ateniesi eran pagati da' loro discepoli: secondo i vicendevoli bisogni e l'abilità loro, sembra, che il prezzo variasse da una mina fino ad un talento; e lo stesso Isocrate, che deridea l'avarizia de' Sofisti, esigeva nella sua scuola di Rettorica circa trenta lire sterline da ciascheduno dei cento suoi allievi. Le rimunerazioni dell'industria son giuste ed onorevoli; pure il medesimo Isocrate sparse lacrime al primo ricever che fece d'uno stipendio; lo Stoico doveva arrossire, quando si vedeva pagato per predicare il disprezzo del danaro; e mi dispiacerebbe di scuoprire, che Aristotile o Platone fossero talmente deviati dall'esempio di Socrate, che cambiato avesser le cognizioni per l'oro. Ma con la permissione delle Leggi, e per i legati di vari amici defunti, furono assegnate delle possessioni di terre e di case alle Cattedre filosofiche d'Atene. Epicuro lasciò a' suoi scolari i Giardini che egli aveva comprato per ottanta mine, o per dugento cinquanta lire sterline con un fondo sufficiente per la frugale lor sussistenza e per le solennità mensuali[592]; ed il patrimonio di Platone somministrò un'annua rendita, che in otto secoli appoco appoco s'accrebbe da tre fino a mille monete d'oro[593]. Le scuole d'Atene furon protette dal più saggio e virtuoso fra' Principi Romani; la libreria che fondò Adriano, fu collocata in un Portico adorno di pitture, di statue, e d'un tetto d'alabastro, e sostenuto da cento colonne di marmo Frigio. L'animo generoso degli Antonini assegnò de' pubblici stipendi; ed ogni Professore di Politica, di Rettorica e di Filosofia Platonica, Peripatetica, Stoica ed Epicurea ne aveva uno di diecimila dramme, o di più di trecento lire sterline[594]. Dopo la morte di Marco, questi liberali doni, ed i privilegi annessi alle Cattedre delle scienze, furono aboliti e restaurati, diminuiti ed estesi; e sotto i successori di Costantino possono anche trovarsi dei vestigi di Real bontà; ma l'arbitraria loro scelta di qualche indegno soggetto potè indurre i Filosofi di Atene a desiderare i tempi d'indipendenza e di libertà[595]. Egli è da osservarsi che l'imparzial favore degli Antonini fu accordato ugualmente alle quattro fra loro contrarie Sette di Filosofi, ch'essi risguardarono come ugualmente utili, o almeno come ugualmente innocenti. Socrate negli antichi tempi era stato la gloria e la vergogna del suo Paese; e le prime lezioni di Epicuro scandalizzaron talmente le pie orecchie degli Ateniesi, che mediante l'esilio di esso e de' suoi Antagonisti poser silenzio a tutte le vane dispute intorno alla natura degli Dei. Ma nel seguente anno rivocarono quel precipitoso decreto, restituirono la libertà delle scuole, e si convinsero con l'esperienza de' secoli, che nel moral carattere dei Filosofi non influisce la diversità delle Teologiche loro speculazioni[596].
A. 485-529
Alle scuole d'Atene furon meno fatali le armi dei Goti, che lo stabilimento d'una nuova Religione, i Ministri della quale impedivano l'esercizio della ragione, risolvevano ogni questione con un articolo di fede, e condannavano l'infedele o lo scettico ad eterne fiamme. In molti volumi di laboriose controversie i medesimi esposero la debolezza dell'intelletto, e la corruzione del cuore, insultarono la natura umana nei Savi dell'antichità, e condannarono lo spirito di ricerca Filosofica tanto ripugnante alla dottrina, o almeno al carattere d'un umil credente. La setta che restava dei Platonici, e che Platone si sarebbe vergognato di riconoscer per sua, fece uno stravagante miscuglio di una sublime teoria con la pratica della superstizione e della magia; e siccome questi rimasero soli in mezzo ad un Mondo cristiano, fomentarono un segreto rancore contro il governo della Chiesa e dello Stato, che tenevano sempre sospesi i rigori sulle lor teste. Circa un secolo dopo il Regno di Giuliano[597], fu permesso a Proclo[598] d'insegnare nella Cattedra filosofica dell'Accademia, e tale fu la sua industria, che spesso pronunziò nel medesimo giorno cinque lezioni, e compose settecento versi. La sagace sua mente esplorò le più profonde questioni della morale e della metafisica, e s'avventurò a proporre diciotto argomenti contro la dottrina Cristiana della creazione del Mondo. Ma negli intervalli di tempo che gli lasciava lo studio, ei diceva di conversare personalmente con Pane, con Esculapio e con Minerva, ne' misteri de' quali era segretamente iniziato, e de' quali adorava le abbattute statue nella devota persuasione che il Filosofo, ch'è un cittadino dell'Universo, dovesse essere il sacerdote delle sue varie divinità. Un ecclisse del Sole annunciò la prossima di lui morte; e la sua vita con quella di Isidoro suo scolare[599], compilate da due de' loro più dotti discepoli, presentano una deplorabil pittura della seconda puerizia della ragione umana. Pure l'aurea catena, com'era enfaticamente chiamata, della successione Platonica continuò per altri quarantaquattro anni, dalla morte di Proclo fino all'Editto di Giustiniano[600], che impose un perpetuo silenzio alle scuole d'Atene, ed eccitò il dispiacere e lo sdegno de' pochi che vi rimanevano devoti della scienza e della superstizione greca. Sette amici e filosofi, Diogene, Ermia, Eulalio, Prisciano, Damascio, Isidoro e Simplicio, che dissentivano dalla Religione del loro Sovrano presero la risoluzione di cercare in un Paese straniero quella libertà, che loro negavasi nella propria Patria. Essi avevano udito dire, ed avevan bonariamente creduto, che si fosse realizzata la Repubblica di Platone nel dispotico Governo di Persia, che ivi regnasse un Re patriottico sulla più felice e virtuosa delle Nazioni. Ma restaron ben presto sorpresi quando in fatti trovarono, che la Persia era simile agli altri paesi del globo; che Cosroe, il quale affettava il nome di Filosofo, era vano, crudele ed ambizioso: che fra i Magi dominava la bacchettoneria e lo spirito d'intolleranza; che i Nobili eran superbi, i Cortigiani servili, ed i Magistrati ingiusti; che il reo talvolta fuggiva la pena, e che l'innocente soventi fiate era oppresso. Defraudati i Filosofi nella loro espettativa, trascurarono le reali virtù de' Persiani, e furono scandalizzati più di quel che forse conveniva alla lor professione, della plurità delle mogli e concubine, de' matrimoni incestuosi, e dell'uso di lasciar esposti i cadaveri a' cani ed agli avvoltoi, invece di seppellirli sotto terra o di consumarli col fuoco. Un precipitoso ritorno dimostrò il lor pentimento, e dichiararono altamente che sarebber piuttosto morti su' confini dell'Impero, che goder la ricchezza ed il favore del Barbaro. Da questo viaggio nonostante essi trassero un vantaggio, che riflette il lustro più puro sul carattere di Cosroe. Ei domandò, che i sette Savi che avevan visitato la Corte di Persia, fossero liberi dalle leggi penali, che Giustiniano avea fatte contro i Pagani suoi sudditi; e tal privilegio, espressamente stipulato in un trattato di pace, fu mantenuto, attesa la vigilanza d'un potente mediatore[601]. Simplicio ed i suoi compagni terminaron la vita in pace e nell'oscurità; e non avendo lasciato discepoli, finisce in essi la lunga lista de' Filosofi Greci, che nonostanti i loro difetti possono giustamente lodarsi come i più saggi e virtuosi fra' loro contemporanei. Gli scritti di Simplicio tuttavia esistono: i suoi Commentari fisici e metafisici sopr'Aristotele col tempo sono andati in disuso, ma la sua interpretazione morale d'Epitteto si conserva nelle Biblioteche delle Nazioni come un libro classico il più acconcio a diriger la volontà, a purificare il cuore ed a consolidar l'intelletto, mediante una giusta fidanza nella natura tanto di Dio quanto dell'uomo.
A. 541
Verso quel tempo, in cui Pitagora inventò il nome di Filosofo, ebbe origine in Roma da Bruto il vecchio la libertà ed il Consolato. Nella presente Storia si sono a' suoi luoghi esposte le rivoluzioni dell'ufizio Consolare che può risguardarsi ne' successivi aspetti d'un corpo reale, d'un'ombra e d'un nome. I primi Magistrati della Repubblica erano stati eletti dal Popolo per esercitare nel Senato e nel Campo i diritti della pace e della guerra, che poi si trasferirono negl'Imperatori; ma la tradizione dell'antica dignità fu per lungo tempo rispettata da' Romani e da' Barbari. Un Istorico Goto applaudisce il Consolato di Teodorico quasi l'apice d'ogni temporal gloria e grandezza[602]; l'istesso Re d'Italia si congratula con quegli annui favoriti della fortuna, che godevano lo splendore senza le cure del Trono; ed in capo a mille anni si creavano tuttavia da' Sovrani di Roma e di Costantinopoli due Consoli al sol oggetto di dare una data all'anno ed una festa al Popolo. Ma le spese di questa festa, nelle quali l'opulento e vano titolare aspirava a sorpassare i suoi predecessori, appoco appoco s'accrebbero sino all'enorme somma di ottantamila lire sterline; i Senatori più saggi evitavano un inutile onore che portava seco la certa rovina delle loro Famiglie; ed a questa ripugnanza attribuirei le frequenti lacune che si trovano negli ultimi tempi de' Fasti consolari. I Predecessori di Giustiniano avevano sostenuto col pubblico tesoro la dignità de' candidati meno ricchi; ma l'avarizia di questo Principe antepose il meno dispendioso e più conveniente metodo dell'ammonizione e della regola[603]. Al numero di sette Processioni o spettacoli il suo Editto limitava le corse di cavalli e di cocchi, i divertimenti atletici, la musica ed i pantomimi del teatro, la caccia delle fiere; e piccole monete d'argento furono prudentemente sostituite alle medaglie d'oro che avevano sempr'eccitato il tumulto e l'ebrietà, quando venivano sparse a larga mano fra la plebe. Nonostanti queste precauzioni ed il suo proprio esempio, cessò finalmente la successione de' Consoli nell'anno decimo terzo di Giustiniano, il carattere dispotico del quale probabilmente gradì la tacita estinzione di un titolo, che rammentava a' Romani la antica lor libertà[604]. Pure tuttavia sussisteva il Consolato annuo nelle menti del Popolo; esso ansiosamente aspettava la pronta di lui restaurazione; applaudì alla graziosa condiscendenza de' successivi Principi, da' quali fu assunto nel primo anno del loro Regno; e passarono dopo la morte di Giustiniano tre secoli, prima che quell'antiquata dignità, ch'era stata già soppressa dall'uso, potesse abolirsi per Legge[605]. All'imperfetta maniera di distinguere ogni anno col nome d'un Magistrato, fu vantaggiosamente supplito con la data d'un'Era permanente: i Greci adottarono la creazione del Mondo, secondo la version de' Settanta[606], ed i Latini, dal Secolo di Carlo Magno in poi, hanno computato il lor tempo dalla nascita di Cristo[607].
CAPITOLO XLI.
Conquiste di Giustiniano in Occidente. Carattere, e prime campagne di Belisario. Esso invade e soggioga il Regno Vandalico in Affrica. Suo trionfo. Guerra Gotica. Ricupera la Sicilia, Napoli e Roma. Assedio di Roma fatto da' Goti. Ritirata, e perdite de' medesimi. Resa di Ravenna. Gloria di Belisario. Sua vergogna, e disgrazie domestiche.
A. 533
Quando Giustiniano salì sul trono, circa cinquant'anni dopo la caduta dell'Impero di Occidente, i Regni de' Goti e de' Vandali avevano acquistato un solido e, per quanto potrebbe sembrare, legittimo stabilimento sì in Europa, che in Affrica. I titoli che la vittoria Romana erasi attribuita, furono con ugual giustizia cancellati dalla spada de' Barbari; e la fortunata loro rapina trasse un più venerabil diritto dal tempo, dai trattati e da' giuramenti di fedeltà ripetuti già da due o tre generazioni di ubbidienti sudditi. L'esperienza ed il Cristianesimo avevan confutato la superstiziosa speranza, che Roma fosse fondata dagli Dei per regnare in perpetuo sulle Nazioni della Terra. Ma la superba pretensione di perpetuo ed invulnerabil dominio che i suoi soldati non poteron più sostenere fu costantemente difesa da' suoi Politici e Giureconsulti, le opinioni de' quali son talvolta risorte e si son propagate nelle moderne scuole di Giurisprudenza. Dopo che la stessa Roma fu spogliata della Porpora Imperiale, i Principi di Costantinopoli assunsero il solo e sacrato scettro della Monarchia; dimandarono come legittima loro eredità le Province, che erano state soggiogate da' Consoli o possedute da' Cesari; e debolmente aspiravano a liberare i fedeli lor sudditi d'Occidente dall'usurpazione degli Eretici e dei Barbari. A Giustiniano fu riservata in qualche parte l'esecuzione di questo splendido disegno. Per i primi cinque anni del suo Regno esso fece con ripugnanza una dispendiosa e svantaggiosa guerra contro i Persiani, finattantochè l'orgoglio non cedè all'ambizione di esso e comprò al prezzo di quattrocento quarantamila lire sterline una precaria tregua, che nel linguaggio di ambedue le Nazioni fu decorata col nome d'eterna pace. La sicurezza dell'Oriente lasciò l'Imperatore in libertà d'impiegar le sue forze contro i Vandali; e lo stato interno dell'Affrica somministrò un onorevol motivo, e promise un efficace aiuto alle armi Romane[608].
A. 525-534
Il Regno Affricano, secondo il testamento del suo Fondatore, era per retta linea pervenuto in Ilderico, maggiore in età fra' Principi Vandali. Una dolce indole fece inclinare il figlio d'un tiranno, ed il nipote d'un conquistatore a preferire i consigli di clemenza e di pace; ed il suo avvenimento al trono fu contrassegnato da un salutar editto, che restituì dugento Vescovi alle lor Chiese, e permise la libera professione del Simbolo Atanasiano[609]. Ma i Cattolici accettarono con fredda e passeggiera gratitudine un favore tanto inferiore alle lor pretensioni, e le virtù d'Ilderico offesero i pregiudizi de' suoi Nazionali. Il Clero Arriano cercò d'insinuare a' Vandali ch'egli aveva rinunziato alla fede de' suoi Maggiori, ed i soldati più altamente si dolsero, che avea degenerato dal coraggio di essi. Si sospettò ne' suoi Ambasciatori una segreta e vergognosa negoziazione alla Corte Bizantina: ed il suo Generale, che si chiamava l'Achille[610] de' Vandali, perdè una battaglia contro i nudi e indisciplinati Mori. Gelimero, a cui l'età, l'origine e la fama militare dava un apparente diritto alla successione, esacerbò il mal contento: ei prese col consenso della Nazione le redini del Governo; ed il suo sfortunato Sovrano senza neppure un combattimento, precipitò dal trono in una prigione, dove fu rigorosamente guardato insieme con un fedel Consigliere, ed il suo malveduto nipote, l'Achille de' Vandali. Ma l'indulgenza che Ilderico avea dimostrato a' suoi sudditi Cattolici, lo raccomandò efficacemente al favore di Giustiniano, che per vantaggio della propria setta, poteva ammettere l'uso e la giustizia della tolleranza religiosa. Mentre il nipote di Giustino era tuttavia privato, si fomentò la loro alleanza col vicendevol commercio di doni e di lettere; e l'Imperator Giustiniano sostenne la causa della dignità reale e dell'amicizia. Egli ammonì l'usurpatore in due successive ambascierie a pentirsi del suo tradimento o almeno ad astenersi da ogni ulteriore violenza che provocar potesse l'ira di Dio, e de' Romani; a rispettare le leggi della parentela e della successione; ed a lasciar, che un uomo vecchio ed infermo terminasse in pace i suoi giorni, o sul trono di Cartagine, o nel palazzo di Costantinopoli. Le passioni, ovvero la prudenza di Gelimero lo costrinsero a rigettar queste domande, che venivan fatte con calore nell'altiero tuono di minacce e di comandi, ed ei giustificò la sua ambizione in un linguaggio, che di rado tenevasi alla Corte di Bizanzio, allegando il diritto, che aveva un Popolo libero di rimuovere o di punire il suo principal Magistrato che avea mancato nell'esecuzione dell'ufizio Reale. Dopo questa inutile intimazione il prigioniero Monarca fu trattato con più rigore; al suo nipote furono levati gli occhi, ed il crudel Vandalo, confidando nella sua forza e distanza derideva le vane minacce, ed i lenti preparativi dell'Imperatore d'Oriente. Giustiniano dunque risolvè di liberare, o vendicare il suo amico; Gelimero di sostener la sua usurpazione; e la guerra, secondo l'uso delle Nazioni incivilite, fu preceduta dalle più solenni proteste, che ciascheduna delle parti desiderava sinceramente la pace.
La notizia d'una guerra Affricana non fu grata che alla vana ed oziosa plebaglia di Costantinopoli di cui la povertà l'esentava da' tributi, e la poltroneria ben di rado l'esponeva al servizio militare. Ma i Cittadini più savi, che dal passato giudicavano del futuro, riflettevano all'immensa perdita, sì di uomini che di danaro, dall'Impero sofferta nella spedizione di Basilisco. Le truppe che dopo cinque laboriose Campagne si erano richiamate dalle frontiere della Persia, temevano il mare, il clima e le armi d'un incognito nemico. I ministri delle Finanze calcolavano, per quanto eran suscettibili di calcolo, i bisogni d'una guerra nell'Affrica; le tasse, che bisognava trovare ed esigere per supplire ai tali esorbitanti bisogni; ed il pericolo che le proprie lor vite, o almeno i loro lucrosi impieghi non fossero responsabili della mancanza di ciò ch'era necessario. Giovanni di Cappadocia, mosso da tali cagioni del proprio interesse (giacchè non può sopra di lui cadere il sospetto d'alcuna sorte di zelo del pubblico bene), si avventurò ad opporsi in pieno consiglio alle inclinazioni del suo Signore. Confessò in vero, che una vittoria di tale importanza non potea mai comprarsi a troppo caro prezzo; ma ne rappresentò in un grave discorso le difficoltà certe, e l'incerto evento. «Se intraprendete, disse il Prefetto, l'assedio di Cartagine per terra, la distanza non è minore di cento quaranta giorni di cammino, e per mare bisogna che passi un intero anno[611], prima che voi possiate avere alcuna nuova della vostra flotta. Soggiogando l'Affrica, essa non potrebbe conservarsi senza la conquista anche della Sicilia, e dell'Italia. Il buon successo vi obbligherà a nuovi travagli; ed una sola disgrazia attirerà i Barbari nel cuore dell'esausto vostro Impero». Giustiniano sentì il peso di questo salutevol consiglio; restò confuso dall'insolita libertà di un ossequioso servo; e forse si sarebbe abbandonato il disegno di far quella guerra, se non si fosse ravvivato il suo coraggio da una voce, che fece tacere i dubbi della profana ragione: «Ho avuto una visione (gridò un artificioso o fanatico Vescovo d'Oriente): è volere del Cielo, o Imperatore, che non abbandoniate la vostra santa impresa di liberare la Chiesa Affricana. Il Dio degli Eserciti precederà le vostre bandiere, e dispergerà i vostri nemici che sono i nemici del suo Figlio». L'Imperatore potè facilmente tentarsi, ed i suoi consiglieri furon costretti a dar fede a questa opportuna rivelazione: ma essi trassero una più ragionevole speranza dalla rivolta, che gli aderenti di Ilderico o Atanasio avevano già eccitato a' confini della Monarchia Vandalica. Pudenzio, suddito affricano, aveva segretamente manifestato le sue fedeli intenzioni, ed un piccol soccorso militare fece tornar la Provincia di Tripoli all'ubbidienza de' Romani. Era stato affidato il Governo di Sardegna a Goda, valoroso Barbaro, che sospese il pagamento del tributo, negò di prestar omaggio all'usurpatore, e diede orecchio agli emissari di Giustiniano, che lo trovaron padrone di quella fertile Isola, alla testa delle sue guardie, e superbamente rivestito delle insegne Reali. Si diminuiron le forze dei Vandali dalla discordia e dal sospetto; e gli eserciti Romani furono animati dal coraggio di Belisario, uno di que' nomi eroici, che son cogniti ad ogni tempo e ad ogni Nazione.
A. 529-532
L'Affricano della nuova Roma era nato, e forse educato fra' contadini della Tracia[612] senz'alcuno di quei vantaggi, che avea formato le virtù del vecchio e del giovine Scipione, quali sono un'origine nobile, gli studj liberali, e l'emulazione d'uno stato libero. Il silenzio d'un loquace Segretario si può ammetter come una prova, che la gioventù di Belisario non potè somministrare alcun soggetto di lode: ei servì sicurissimamente con valore e riputazione fra le guardie private di Giustiniano; e quando il suo padrone divenne Imperatore, fu egli promosso al comando militare. Dopo un'ardita incursione nella Persarmenia, in cui divise la sua gloria con un collega, e ne fu arrestato il progresso da un nemico, Belisario si fermò nell'importante posto di Darà, dove preso la prima volta al suo servizio Procopio, fedele compagno, e diligente istorico delle sue imprese[613]. Il Miranne di Persia con quarantamila uomini delle migliori sue truppe avanzossi per gettare a terra le fortificazioni di Dara; e indicò il giorno e l'ora, in cui dovevano i Cittadini preparargli un bagno per rinfrescarsi dopo le fatiche della vittoria. Incontrò egli un avversario uguale a lui nel nuovo titolo, che aveva avuto di Generale dell'Oriente; superiore nella perizia della guerra; ma molto inferiore nel numero, e nella qualità delle sue truppe, che non erano più di venticinquemila fra Romani e stranieri, rilassati nella disciplina militare, ed umiliati da recenti disastri. Siccome la pianura di Dara non ammetteva alcuna sorte di strattagemma, o d'imboscata, Belisario difese la sua fronte con una forte trincera, che prolungò prima in linee perpendicolari e poi parallele, per cuoprire le ali della cavalleria, situata vantaggiosamente in luogo da poter dominare i fianchi e la retroguardia del nemico. Attaccato che fu il centro de' Romani, l'opportuno loro e rapido urto decise della battaglia: cadde la bandiera Persiana; gl' immortali fuggirono; l'infanteria gettò via gli scudi; ed ottomila de' vinti restarono morti sul campo di battaglia. Nella seguente campagna fu invasa la Siria dalla parte del deserto; e Belisario, con ventimila uomini corse da Dara in soccorso di quella Provincia. Per tutta la state le abili sue disposizioni resero vani i disegni del nemico: lo costrinse a ritirarsi; ogni notte occupava il campo, che quello aveva lasciato il giorno avanti; e si sarebbe assicurato una vittoria senza spargimento di sangue, se avesse potuto resistere all'impazienza delle proprie truppe. Queste però nell'ora della battaglia debolmente mantennero la promessa fatta di portarsi valorosamente; l'ala destra rimase esposta per la proditoria e codarda diserzione degli Arabi cristiani; gli Unni, che formavano una truppa veterana di ottocento guerrieri, furon oppressi dalla superiorità del numero; la fuga degl'Isauri fu impedita, ma l'infanteria Romana restò ferma nella sinistra, perchè Belisario medesimo, smontato da cavallo, dimostrò loro che un'intrepida disperazione poteva unicamente salvarli. Voltarono essi le spalle all'Eufrate, e la faccia al nemico; un'immensa quantità di dardi strisciò senza effetto su' loro scudi insieme stretti, ed ordinati a guise di tetto per ripararli; a' replicati assalti della cavalleria Persiana fu opposta un'impenetrabile linea di picche; e dopo una resistenza di più ore, le truppe che rimasero, col favor della notte furono abilmente imbarcate. Il comandante Persiano si ritirò con disordine e vergogna a rendere stretto conto delle vite di tanti soldati, ch'egli aveva sacrificato in una steril vittoria; ma la fama di Belisario non fu contaminata da una disfatta, nella quale aveva egli solo salvato il suo esercito dalle conseguenze della temerità del medesimo. L'approssimarsi della pace lo dispensò dal guardare le frontiere Orientali, e la sua condotta nella sedizione di Costantinopoli ampiamente soddisfece alle obbligazioni, che aveva coll'Imperatore. Allorchè la guerra d'Affrica divenne il soggetto de' discorsi popolari, e delle segrete deliberazioni, ciascheduno dei Generali Romani temeva, piuttosto che ambisse, quel pericoloso onore; ma appena Giustiniano ebbe dichiarato la preferenza, ch'ei dava al merito superiore di Belisario, si riaccese la loro invidia dall'unanime applauso, che fu fatto a tale scelta. L'indole della Corte Bizantina può avvalorare il sospetto, che l'Eroe fosse segretamente assistito dagl'intrighi della bella e scaltra Antonina sua moglie, che alternativamente godè la grazia, ed incorse nell'odio dell'Imperatrice Teodora. Antonina era d'origine ignobile, discendendo da una famiglia di cocchieri, e n'era stata macchiata la riputazione con le più brutte accuse. Nonostante regnò con lungo ed assoluto potere sull'animo dell'illustre di lei marito; e se non curò il merito della fedeltà coniugale, dimostrò per Belisario un'amicizia virile, avendolo accompagnato con intrepida fermezza in tutti i travagli e pericoli d'una vita militare[614].
A. 533
I preparativi per la Guerra d'Affrica non furono indegni dell'ultima contesa fra Roma e Cartagine. L'orgoglio ed il fior dell'esercito consisteva nelle guardie di Belisario, che secondo la perniciosa indulgenza di que' tempi si obbligavano mediante un particolar giuramento di fedeltà al servizio del loro Capo. La loro forza e statura, per cause delle quali erano stati con gran cura scelti, la bontà de' loro cavalli e delle armi, e l'assidua pratica di tutti gli esercizi militari gli rendeva capaci d'eseguire tutto ciò, che il loro coraggio poteva proporre; e questo coraggio esaltavasi dal sociale onore del loro grado, e dalla personale ambizione di favore e fortuna. Quattrocento de' più bravi fra gli Eruli marciavano sotto la bandiera del fedele ed attivo Fara; l'intrattabile valore di questi si apprezzava assai più che la mansueta sommissione dei Greci e de' Sirj; e si crede di tale importanza l'avere un rinforzo di seicento Massageti o Unni, ch'essi furono con la frode e coll'inganno allettati ad impegnarsi in una spedizione navale. S'imbarcarono a Costantinopoli cinquemila cavalli e diecimila fanti per la conquista dell'Affrica; ma l'infanteria, per la maggior parte reclutata nella Tracia e nell'Isauria, cedeva all'uso, che più dominava, ed alla riputazione della cavalleria; e l'arco Scitico era l'arme, in cui gli eserciti Romani erano in quel tempo ridotti a porre la loro principal fiducia. Procopio, per un lodevole desiderio di sostenere la dignità del suo tema, difende i soldati del suo tempo contro gli austeri critici, che limitavano quel rispettabile nome a' guerrieri di grave armatura dell'antichità, e maliziosamente osservavano, che Omero adopera la parola Arciero come un termine di disprezzo[615]: «Tal disprezzo potè ( dic'egli ) forse meritarsi da que' nudi giovani, che comparivano a piedi ne' campi di Troia, e nascondendosi dietro a un sepolcro, o allo scudo d'un amico si tiravano al petto la corda dell'arco[616], e scagliavano un debole e lento dardo. Ma i nostri arcieri (prosegue l'Istorico) cavalcano destrieri, ch'essi maneggiano con ammirabil perizia; hanno difeso il capo e le spalle da un elmo, o dallo scudo; portano delle difese di ferro alle gambe, e i loro corpi son guardati da una corazza di maglia; pende loro al fianco dalla destra parte una faretra, una spada dalla sinistra, e la loro mano è assuefatta nel combatter più da vicino a maneggiare una lancia, o un pugnale. I loro archi son forti e pesanti; scagliano in ogni direzione possibile, sì nell'avanzarsi, che nel ritirarsi, di fronte, per di dietro, e da ciaschedun lato; e siccome sono istruiti a tirar la corda dell'arco, non già al petto, ma all'orecchio diritto, bisogna, che sia bene stabile quell'armatura, che può resistere alla rapida forza del loro dardo». Si riunirono nel porto di Costantinopoli cinquecento navi da trasporto con ventimila marinari d'Egitto, di Cilicia e di Ionia. La più piccola di queste navi può valutarsi di trenta tonnellate, e la più grande di cinquecento; e potrà accordarsi con una liberale sì, ma non eccessiva condiscendenza, che la vera portata di esse ascendesse a circa centomila tonnellate[617], ad oggetto di contenere trentacinquemila fra soldati e marinari, cinquemila cavalli, le armi, le macchine e provvisioni militari, ed una sufficiente quantità d'acqua, e di cibi per un viaggio forse di tre mesi. Le alte galere, che anticamente battevano il Mediterraneo con tante centinaia di remi, erano già da gran tempo sparite; e la flotta di Giustiniano fu scortata solo da novantadue piccoli brigantini, coperti da' dardi nemici, e montati da duemila bravi e robusti giovani di Costantinopoli. Vi si trovano nominati ventidue Generali, la maggior parte de' quali dipoi si distinse nelle guerre d'Affrica e d'Italia; ma il comando supremo, sì per terra che per mare, fu affidato al solo Belisario, con un'illimitata facoltà d'agire secondo il suo giudizio, come se fosse presente l'Imperatore medesimo. La separazione, che si è fatta della professione nautica dalla militare, è l'effetto nel tempo stesso e la causa dei moderni avanzamenti nella scienza della navigazione, e della guerra marittima.
A. 535
Nel settimo anno del Regno di Giustiniano, e verso il tempo del solstizio estivo, fu disposta in marzial pompa tutta la flotta di seicento navi avanti a' giardini del Palazzo. Il Patriarca la benedì, l'Imperatore manifestò gli ultimi suoi ordini, la trombetta del Generale diede il segno della partenza, ed ognuno, secondo i propri timori o desiderj esplorò con ansiosa curiosità gli augurj della disgrazia, e del buon successo. Si fece la prima fermata a Perinto o Eraclea, dove Belisario aspettò cinque giorni per ricevere alcuni cavalli Tracj, ch'erano un dono militare del suo Sovrano. Di là proseguì la flotta il suo corso per mezzo della Propontide; ma mentre si affaticavano per passar lo Stretto dell'Ellesponto, un vento contrario gli trattenne quattro giorni in Abido, dove il Generale diede una memorabil lezione di fermezza e di rigore. Due Unni, che in una contesa, cagionata dall'ebrietà, avevano ucciso uno de' loro compagni, furono immediatamente mostrati all'armata sospesi da un'alta forca. I loro compatriotti, che non riconoscevan le Leggi servili dell'Impero, e adducevano il libero privilegio della Scizia, dove una piccola multa pecuniaria serviva per espiare i subitanei trasporti dell'intemperanza e dell'ira, si risentirono dell'ingiuria fatta alla Nazione. Erano speciose le loro querele, alti i loro clamori, ed a' Romani non dispiaceva l'esempio del disordine e dell'impunità. Ma fu quietato il nascente tumulto per l'autorità ed eloquenza del Generale, che rappresentò alle truppe adunate l'obbligo della giustizia, l'importanza della disciplina, i premj della pietà e della virtù, e l'imperdonabil delitto dell'omicidio, che a suo giudizio veniva piuttosto aggravato che scusato dal vizio dell'ebrietà[618]. Nella navigazione dall'Ellesponto al Peloponneso, che i Greci dopo l'assedio di Troia avevan fatto in quattro giorni[619], la flotta di Belisario era guidata nel suo corso dalla principal Galera di esso, visibile di giorno per le vele rosse, e di notte per mezzo di torcie accese sulla cima dell'albero. Era ufizio de' Piloti, quando navigarono fra le Isole, e girarono i promontori di Malea e di Tenaro, il mantenere un ordine giusto, e delle regolate distanze fra tante navi; e siccome il vento fu piacevole e moderato, le loro fatiche riuscirono bene, e furono felicemente sbarcate le truppe a Metono sulla costa della Messenia, per farle riposare alquanto dopo i travagli del mare. In quest'occasione esse provarono quanto può l'avarizia, investita dell'autorità, prendersi giuoco delle vite di migliaia di Uomini, che valorosamente s'espongono pel servizio pubblico. Secondo l'uso militare il pane o biscotto de' Romani era cotto nel forno due volte, e volentieri si soffriva la diminuzione d'un quarto per la perdita del peso. Per guadagnare questo miserabil vantaggio, e risparmiar la spesa delle legna, il Prefetto Giovanni di Cappadocia diede ordine, che si cuocesse il pane leggermente al medesimo fuoco, che faceva scaldare i bagni di Costantinopoli: e quando s'apriron le sacca fu distribuita una molle e muffita pasta all'esercito. Questo cibo insalubre, unito al caldo del clima e della stagione tosto produsse una malattia epidemica, che portò via cinquecento soldati. La diligenza di Belisario, che provvide dell'altro pane a Metona, e liberamente manifestò il suo giusto ed umano risentimento, rimediò alla loro salute: l'Imperatore ascoltò i suoi lamenti; fu lodato il Generale; ma il Ministro non fu punito. Dal porto di Metona i Piloti fecero vela lungo la costa occidentale del Peloponneso fino all'Isola di Zacinto o del Zante, prima d'intraprendere il viaggio (a' loro occhi difficilissimo) di cento leghe sul mare Ionio. Poichè la flotta fu sorpresa da una calma, si consumarono sessanta giorni in quella lenta navigazione; ed anche l'istesso Generale avrebbe sofferto l'intollerabile ardor della sete, se l'ingegno d'Antonina non avesse conservato dell'acqua in boccie di vetro, ch'essa nascose profondamente nella sabbia in una parte della nave dove non potevano arrivare i raggi solari. Finalmente il porto di Caucana[620] nella parte meridionale di Sicilia diede loro un sicuro ed ospitale rifugio. Gli Ufiziali Goti, che governavano l'Isola in nome della Figlia e del Nipote di Teodorico, ubbidirono agl'imprudenti loro ordini di ricever le truppe di Giustiniano come amiche ed alleate: furono loro generosamente date delle provvisioni, fu rimontata la cavalleria[621], e Procopio presto tornò da Siracusa con un'esatta informazione dello stato e dei disegni de' Vandali. Queste notizie determinarono Belisario ad affrettar le sue operazioni, e la savia di lui impazienza fu secondata da' venti. La flotta perdè di vista la Sicilia, passò davanti all'Isola di Malta, scuoprì i promontori dell'Affrica, scorse lungo le coste con un forte vento di nord-est, e gettò finalmente l'ancora al Promontorio di Caput vada, circa cinque giornate di cammino al mezzodì di Cartagine[622].
Se Gelimero fosse stato informato dell'avvicinarsi del nemico, egli avrebbe sicuramente differito la conquista della Sardegna per l'immediata difesa della propria persona e del Regno. Un distaccamento di cinquemila soldati, ed uno di cento venti galere si sarebbero uniti alle altre forze de' Vandali, ed il discendente di Genserico avrebbe potuto sorprendere ed opprimere una flotta di navi da trasporto, molto cariche, incapaci d'agire, e di piccoli Brigantini, che sembravano solo atti alla fuga. Belisario aveva tremato internamente quando sentì, che i suoi soldati, nel passaggio, s'animavano l'uno coll'altro a confessare le loro apprensioni. Dicevano essi, che se potevano una volta porre il piede sul lido, speravano di sostenere il decoro delle loro armi; ma se fossero stati attaccati per mare, non arrossivano di confessare, che mancava loro il coraggio per combattere nell'istesso tempo coi venti, co' flutti, e co' Barbari[623]. La cognizione de' loro sentimenti fece decidere Belisario a prender la prima occasione, che gli si presentò, di sbarcarli sulla costa dell'Affrica; ed in un Consiglio di guerra prudentemente rigettò la proposizione di entrare insieme con la flotta e l'esercito nel porto di Cartagine. Tre mesi dopo la loro partenza da Costantinopoli, furono felicemente sbarcati gli uomini ed i cavalli, le armi e gli arnesi militari, e si lasciaron cinque soldati per guardia su ciascheduna delle navi, che furon disposte in forma di semicerchio. Le altre truppe occuparono un campo sul lido del mare, che si fortificò secondo l'antico uso con un fosso e con un riparo; e la scoperta d'una fonte d'acqua fresca nel tempo che servì a smorzarne la sete, eccitò la superstiziosa fiducia de' Romani. La mattina seguente, furono saccheggiati alcuni de' giardini più prossimi; e Belisario, dopo aver gastigato i rei, prese quella occasione leggiera per se stessa, ma che si presentò in un momento decisivo, per inculcar le massime di giustizia, di moderazione, e di vera politica: «Quando accettai la commissione di soggiogar l'Affrica, disse il Generale, io contai molto meno sul numero, o anche sulla bravura delle mie truppe, che sull'amichevol disposizione degli abitanti, e sull'immortale lor odio contro de' Vandali. Voi soli potete privarmi di questa speranza, se continuate ad estorcer con la rapina quel che potrebbe comprarsi per poco prezzo: tali atti di violenza riconcilieranno fra loro quest'implacabili nemici, e gli uniranno in una giusta e santa lega contro gl'invasori del loro paese». Quest'esortazioni furono avvalorate da una rigorosa disciplina, della quale i soldati medesimi provaron ben tosto, e lodaron gli effetti. Gli abitanti invece di abbandonare le loro case, o di nascondere il loro grano, aprivano a' Romani un comodo e copioso mercato; gli Ufiziali civili della Provincia continuarono ad esercitar le loro funzioni a nome di Giustiniano; ed il Clero, per motivi sì di coscienza che d'interesse, continuamente si affaticava a promuovere la causa d'un Imperatore Cattolico. La piccola Città di Sullette[624], distante una giornata di cammino dal campo, ebbe l'onore d'esser la prima ad aprir le porte, ed a riassumer l'antica sua fedeltà: le altre maggiori Città di Leptis, e di Adrumeto ne imitaron l'esempio, subito che comparve Belisario; e questi senza opposizione avanzossi fino a Grasse, palazzo de' Re Vandali, alla distanza di cinquanta miglia da Cartagine. Gli stanchi Romani si abbandonavano al sollievo di ombrosi boschi, di fresche fontane e deliziosi frutti; e la preferenza, che Procopio accorda a questi giardini sopra tutti quelli, ch'esso aveva veduto tanto in Oriente quanto in Occidente, si può attribuire o al particolar gusto, o alla fatica dell'istorico. In tre generazioni la prosperità, ed un clima caldo avevan rilasciato il duro valore dei Vandali, che a poco a poco divennero i più lussuriosi del Mondo. Nelle loro ville e giardini, che potevano ben meritare il nome Persiano di Paradisi[625], essi godevano un fresco ed elegante riposo; e dopo il quotidiano uso del bagno, i Barbari s'assidevano ad una mensa, profusamente imbandita con le delizie della terra e del mare. Le loro vesti di seta liberamente ondeggianti all'uso de' Medi erano ricamate d'oro: l'amore e la caccia erano le occupazioni della loro vita, e nelle rimanenti ore si divertivano con pantomimi e corse di cocchi, con la musica e le danze del Teatro.
In una marcia di dieci o dodici giorni fu costantemente attenta e in azione la vigilanza di Belisario contro gl'incogniti suoi nemici, da' quali poteva in ogni luogo e ad ogni ora esser improvvisamente attaccato. Giovanni l'Armeno, Ufiziale di confidenza e di merito, conduceva la vanguardia di trecento cavalli; seicento Massageti ad una certa distanza coprivano il lato sinistro e tutta la flotta navigando lungo la costa, rare volte perdeva di vista l'esercito che ogni giorno faceva circa dodici miglia, ed alloggiava la sera in forti campi, o in Città amiche. L'avvicinamento de' Romani a Cartagine riempì l'animo di Gelimero d'ansietà e di terrore. Desiderava egli prudentemente di prolungare la guerra finattantochè il suo fratello tornasse con le veterane sue truppe dalla conquista di Sardegna; ed ebbe allora occasione di lamentarsi dell'inconsiderata politica de' suoi Maggiori, che distruggendo le fortificazioni dell'Affrica non gli avevan lasciato che il pericoloso spediente di rischiare una battaglia nelle vicinanze della sua Capitale. I Conquistatori Vandali dal primitivo lor numero di cinquantamila, s'eran moltiplicati, senza includervi le donne e i fanciulli, fino a cento sessantamila combattenti: e tali forze, animate dal valore e dall'unione avrebber potuto impedire, al primo sbarco, le deboli ed esauste truppe del Generale Romano. Ma gli amici del Re prigioniero erano più inclinati ad accettar gl'inviti che a resister a' progressi di Belisario; e molti altieri Barbari mascheravano la loro avversione alla guerra sotto il più specioso nome dell'odio, che portavano all'usurpatore. Ciò nonostante l'autorità e le promesse di Gelimero unirono insieme un formidabile esercito, ed i suoi disegni furono concertati con qualche sorte di perizia militare. Spedì un ordine ad Ammata, suo fratello, di raccoglier tutte le forze di Cartagine, e di opporsi alla Vanguardia dell'esercito Romano alla distanza di dieci miglia dalla Città; e Gibamondo, suo nipote, con duemila cavalli fu destinato ad attaccarne il fianco sinistro mentre il Monarca medesimo, che tacitamente seguitava i nemici, ne avrebbe attaccata la retroguardia in una situazione, che toglieva loro l'aiuto ed anche la vista della lor flotta. Ma la temerità d'Ammata riuscì fatale a lui medesimo ed al suo Paese. Egli anticipò l'ora dell'attacco, precedè i suoi lenti seguaci, e fu trafitto da una mortal ferita, dopo d'aver ucciso con le proprie mani dodici de' suoi più arditi nemici. I suoi Vandali fuggirono a Cartagine; la strada maestra, per lo spazio di quasi dieci miglia fu ricoperta di cadaveri; e sembra incredibile, che tante persone fossero trucidate dalle spade di trecento Romani. Il nipote di Gelimero fu disfatto dopo un breve combattimento dai seicento Massageti: questi non giungevano neppure alla terza parte delle truppe di esso; ma ogni Scita veniva infiammato dall'esempio del suo Capo, che gloriosamente esercitò il diritto della propria famiglia, di correre il primo e solo a scagliare il primo dardo contro il nemico. Frattanto Gelimero, non sapendo quel ch'era seguito, ed ingannato dalla tortuosità de' colli oltrepassò inavvertentemente l'esercito Romano, e giunse al luogo dov'era caduto Ammata. Pianse il destino del fratello e di Cartagine; attaccò con irresistibil furore gli squadroni, che s'avanzavano; ed avrebbe potuto proseguire e forse far decidere la vittoria in suo favore, se non avesse consumato quei preziosi momenti nell'adempire un inutile, quantunque pietoso, dovere verso il defunto. Mentre il suo spirito era abbattuto da questo luttuoso ufizio, udì la trombetta di Belisario, che lasciando Antonina, e la sua infanteria nel campo s'avanzò in fretta con le sue guardie e col resto della cavalleria per riunire le fuggitive sue truppe e rimetter la fortuna della giornata. In questa disordinata battaglia non potè molto aver luogo l'abilità d'un Generale; ma il Re fuggì d'avanti all'Eroe, ed i Vandali, assuefatti a combattere solo co' Mori, non furon capaci di resistere alle armi ed alla disciplina de' Romani. Gelimero precipitosamente si ritirò verso il deserto di Numidia; ma presto ebbe la consolazione di sapere, ch'erano stati fedelmente eseguiti i segreti suoi ordini per la morte d'Ilderico e de' prigionieri suoi amici. La vendetta però del Tiranno fu solo vantaggiosa a' nemici di esso. La morte d'un legittimo Principe risvegliò la compassione del suo Popolo; e mentre la sua vita avrebbe messo in perplessità i vittoriosi Romani, il Luogotenente di Giustiniano, per mezzo d'un delitto di cui era innocente, fu liberato dulia penosa alternativa di mancare all'onore, o di abbandonare le sue conquiste.
A. 533
Tosto che fu quietato il tumulto, le varie parti dell'esercito reciprocamente si comunicarono gli accidenti seguiti in quel giorno; e Belisario piantò il suo campo nel luogo della vittoria, a cui la pietra, indicante la distanza di dieci miglia da Cartagine, aveva fatto prendere il nome latino di Decimo. Per un savio sospetto degli strattagemmi de' Vandali, e de' mezzi che avean di risorgere, esso marciò il giorno seguente in ordine di battaglia; la sera fermossi avanti le porte di Cartagine; e prese una notte di riposo per non esporre nell'oscurità e nel disordine la Città alla licenza de' soldati, o i soldati medesimi alle segrete insidie della Città. Ma siccome i timori di Belisario erano il resultato dell'intrepida e fredda ragione, ben presto conobbe che potea confidare senza pericolo nel pacifico ed amichevole aspetto della Capitale. Cartagine fu illuminata da innumerabili torcie, segni della pubblica letizia; fu tolta la catena che guardava l'ingresso del porto; furono aperte le porte; ed il Popolo, con acclamazioni di gratitudine salutò ed invitò i Romani loro liberatori. La disfatta de' Vandali e la libertà dell'Affrica, s'annunziarono alla Città la vigilia di S. Cipriano, allorchè le Chiese erano già ornate ed illuminate per la Festa del Martire, che tre secoli di superstizione aveva quasi innalzato ad una locale divinità. Gli Arriani, vedendo ch'era finito il lor regno, consegnarono il tempio ai Cattolici che riscattarono dalle mani profane il lor Santo, vi celebrarono i sacri riti, ed altamente vi proclamarono il simbolo d'Atanasio e di Giustiniano. Una terribile ora rovesciò le fortune de' contrari partiti. I Vandali supplichevoli che si erano sì poco tempo avanti abbandonati a' vizi de' conquistatori, cercavano un umil rifugio nel santuario della Chiesa; mentre i Mercanti Orientali furono liberati fuor della più profonda prigione del Palazzo dallo spaventato loro custode che implorò la protezione de' suoi prigionieri, e mostrò loro, per un'apertura nella muraglia, le vele della flotta Romana. Dopo essersi separati dall'esercito, i comandanti navali s'erano avanzati con cauta lentezza lungo la costa, finattantochè giunsero al promontorio Ermeo, ed ivi ebbero la prima notizia della vittoria di Belisario. In adempimento delle sue istruzioni, avrebbero essi gettato l'ancora alla distanza di circa venti miglia da Cartagine, se i più abili marinari non avessero rappresentato loro i pericoli del lido ed i segni d'una imminente tempesta. Ignorando però tuttavia la rivoluzione seguita, evitarono il temerario tentativo di forzar la catena del Porto; ed il contiguo porto e sobborgo di Mandracio furono insultati soltanto dalla rapacità d'un privato Ufiziale che disubbidì e disertò da' suoi Capi. Ma la flotta Imperiale avanzandosi con un buon vento, passò per lo Stretto della Goletta, ed occupò nel profondo e capace lago di Tunisi un luogo sicuro distante circa cinque miglia dalla capitale[626]. Appena Belisario fu informato del loro arrivo che spedì ordini, che immediatamente la maggior parte de' marinari sbarcasse per unirsi al trionfo, ed accrescere l'apparente numero de' Romani. Avanti di permetter loro ch'entrassero nelle porte di Cartagine gli esortò in un discorso degno di lui e della circostanza presente, a non infamare la gloria delle loro armi, ed a ricordarsi che i Vandali erano stati i tiranni, ma che essi erano i liberatori degli Affricani, i quali dovevano allora esser rispettati come volontari ed affezionati sudditi del comune loro Sovrano. I Romani marciarono per le strade della Città in strette file, preparati sempre alla battaglia se fosse comparso qualche nemico; l'ordine, rigorosamente mantenuto dal Generale, impresse ne' loro animi il dovere dell'ubbidienza; ed in un secolo, nel quale l'uso e l'impunità quasi santificava l'abuso della conquista, il genio d'un solo uomo represse le passioni d'un esercito vittorioso. Tacque la voce della minaccia e del lamento; il commercio di Cartagine non fu interrotto; mentre l'Affrica mutò padrone e Governo, continuarono le botteghe aperte e in azione; ed i soldati, dopo che furon poste sufficienti guardie ne' luoghi opportuni, modestamente si ritirarono alle case destinate a riceverli. Belisario fissò la sua residenza nel Palazzo; si assise sul trono di Genserico; accettò e distribuì le spoglie de' Barbari; concesse la vita a' Vandali supplichevoli, e procurò di riparare il danno che nella notte precedente avea sofferto il sobborgo di Mandracio. A cena trattò i suoi principali Ufiziali con la magnificenza e la forma d'un Banchetto reale[627]. Il vincitore fu rispettosamente servito da' prigionieri Ministri della Casa Reale; e in que' momenti di solennità, nei quali gl'imparziali spettatori applaudivano alla fortuna ed al merito di Belisario, i suoi invidiosi adulatori segretamente spargevano il loro veleno sopra ogni parola ed ogni gesto, che poteva eccitar i sospetti di un geloso Monarca. Fu impiegata una giornata in questi pomposi spettacoli che non possono disprezzarsi come inutili, allorchè s'attirano la popolare venerazione; ma l'attività di Belisario che nell'orgoglio della vittoria potea temere anche una disfatta, avea già risoluto, che l'Impero de' Romani sull'Affrica non dipendesse dagli accidenti delle armi o dal favore del Popolo. Le sole fortificazioni di Cartagine erano state immuni dalla general proscrizione; ma in un Regno di novanta cinque anni si erano lasciate cadere dagli spensierati e indolenti Vandali. Un più savio conquistatore restaurò con incredibil prestezza le mura ed i fossi della Città. La sua liberalità incoraggi gli artefici; i soldati, i marinari ed i cittadini facevano a gara l'uno coll'altro in quella salutevole opera; e Gelimero, che aveva temuto d'affidare la sua persona ad un'aperta città, mirò con istupore e disperazione il nascente vigore d'una inespugnabil Fortezza.
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Quest'infelice Monarca dopo la perdita della sua Capitale, s'applicò a raccogliere i residui d'un'armata dispersa, piuttosto che distrutta dalla precedente battaglia; e la speranza della preda tirò alcune truppe moresche alle bandiere di Gelimero. Ei s'accampò nelle campagne di Bulla in distanza di quattro giornate di cammino da Cartagine; insultò la Capitale, ch'ei privò dell'uso d'un acquedotto; propose un grosso premio per la testa d'ogni Romano; affettò di risparmiar le persone ed i beni degli Affricani suoi sudditi, e trattò segretamente co' settari Arriani e con gli Unni confederati. In queste circostanze la conquista della Sardegna non servì che ad aggravar le sue angustie: rifletteva col più profondo dolore, ch'egli avea consumato in quell'inutile intrapresa cinquemila delle sue più brave genti; e lesse con dispiacere e vergogna le vittoriose lettere del suo fratello Zanone ch'esprimevano un'ardente fiducia che il Re, dietro l'esempio de' suoi Maggiori, avesse già gastigato la temerità del Romano invasore. «Oimè, Fratello, replicò Gelimero, il Cielo si è dichiarato contro la nostra infelice Nazione. Nel tempo che tu hai soggiogato la Sardegna, noi abbiamo perduto l'Affrica. Appena comparve Belisario con un pugno di soldati, che il coraggio e la prosperità abbandonaron la causa de' Vandali. Gibamondo tuo nipote, ed Ammata tuo fratello son morti per la codardia dei loro seguaci. I nostri cavalli, le nostre navi, la stessa Cartagine e tutta l'Affrica sono in poter del nemico. Pure i Vandali tuttavia preferiscono un ignominioso riposo, a costo di perdere le loro mogli ed i figli, i loro averi e la libertà. Ora non ci rimane altro che la campagna di Bulla e la speranza del vostro valore. Lascia la Sardegna; vola in nostro soccorso; restaura il nostro Impero, od al nostro fianco perisci». Ricevuta questa lettera, Zanone comunicò il suo duolo a' principali de' Vandali ma ne nascose prudentemente la notizia a' nativi dell'Isola. Si imbarcaron le truppe in centoventi galere nel porto di Cagliari, gettaron l'ancora il terzo giorno a' confini della Mauritania, e proseguirono in fretta il loro cammino per riunirsi alle bandiere Reali nel campo di Bulla. Tristo ne fu l'incontro: i due fratelli s'abbracciarono; piansero in silenzio; nulla fu domandato della vittoria di Sardegna, nessuna ricerca si fece delle disgrazie dell'Affrica. Avevano essi d'avanti a' lor occhi tutta l'estensione delle loro calamità; e l'assenza delle proprie mogli e de' figli somministrava una luttuosa prova che era loro toccata o la morte o la schiavitù. Si risvegliò finalmente il languido spirito de' Vandali, e si riunirono per l'esortazioni del loro Re, per l'esempio di Zanone, e per l'imminente pericolo che minacciava la loro Monarchia e Religione. La forza militare della Nazione s'avanzò alla battaglia; e tale fu il rapido loro accrescimento che prima che l'armata giungesse a Tricameron, circa venti miglia lontano da Cartagine, poteron vantare, forse con qualche esagerazione, che sorpassavano dieci volte le piccole forze de' Romani. Queste forze però eran sotto il comando di Belisario, il quale, siccome conosceva il superiore lor merito, permise, che i Barbari lo sorprendessero in un'ora inopportuna. I Romani ad un tratto si posero in armi: un piccolo rio ne copriva la fronte: la cavalleria formava la prima linea, che aveva nel centro Belisario alla testa di cinquecento guardie: l'infanteria fu posta a qualche distanza in una seconda linea: e la vigilanza del Generale osservava la separata situazione e l'ambigua fede de' Massageti che segretamente riserbavano il loro aiuto per i vincitori. L'Istorico ha riportato, ed il Lettore può facilmente immaginare i discorsi[628] de' Comandanti, che con argomenti i più acconci allo stato in cui erano, inculcavano l'importanza della vittoria e il disprezzo della vita. Zanone con le truppe che l'avevan seguitato nella conquista della Sardegna, fu posto nel centro; e se la moltitudine de' Vandali avesse imitato l'intrepida loro fermezza, il trono di Genserico avrebbe potuto sostenersi. Gettate via le lancie e le armi da scagliare sfoderarono essi le spade, ed aspettaron l'attacco: la cavalleria Romana per tre volte passò il rio; essa fu per tre volte respinta; e si mantenne costante la pugna, finattantochè cadde Zanone, e si spiegò la bandiera di Belisario. Gelimero si ritirò al suo campo: gli Unni s'unirono ad inseguirlo, ed i vincitori spogliarono i corpi de' morti. Pure non furon trovati sul campo più di cinquanta Romani e di ottocento Vandali: sì tenue fu la strage d'una giornata ch'estinse una Nazione, e trasferì l'Impero dell'Affrica. La sera Belisario condusse la sua infanteria all'attacco del campo, e la pusillanime fuga di Gelimero manifestò la vanità delle proteste poco avanti fatte, che per un vinto la morte era di sollievo, di peso la vita; e l'infamia si riguardava come l'unico oggetto di terrore. Fu segreta la sua partenza; ma tosto che i Vandali scoprirono che il loro Re gli aveva abbandonati, precipitosamente si dispersero, solleciti solo della loro personale salvezza, e non curando qualunque altr'oggetto ch'è caro o valutabile per gli uomini. I Romani entrarono senza resistenza nel campo; e nell'oscurità e confusion della notte restaron nascoste le più barbare scene di disordine. Fu crudelmente trucidato qualunque Barbaro, cui incontrarono le loro spade: le vedove e le figlie di quelli, abbracciate furono come ricche eredi o belle concubine da' licenziosi soldati; e l'avarizia medesima restò quasi sazia de' tesori d'oro e d'argento, frutti della conquista o dell'economia, accumulati in un lungo periodo di prosperità e di pace. In questa furiosa ricerca anche i soldati di Belisario dimenticarono la loro riservatezza e rispetto. Acciecati dalla cupidigia e dalla rapacità, esploravano in piccole partite o soli le addiacenti campagne, i boschi, gli scogli, e le caverne che potesser celare qualche cosa di prezzo; carichi di bottino abbandonarono i loro posti e andavano senza guida vagando per le strade, che conducevano a Cartagine; e se i fuggitivi nemici avessero ardito di tornare indietro, ben pochi de' conquistatori sarebbero scampati. Belisario, profondamente penetrato dalla vergogna e dal pericolo, passò con apprensione una notte sul campo di battaglia; ed allo spuntar del giorno piantò la sua bandiera sopra di un Colle, riunì le sue guardie ed i veterani, ed appoco appoco restituì la moderazione e l'ubbidienza nell'esercito. Il Generale Romano prese uguale interesse nel sottomettere i Barbari nemici, che nel salvarli prostrati; ed i Vandali supplichevoli che si trovavano solo nelle Chiese, furon protetti dalla sua autorità, disarmati e situati separatamente in maniera che non potessero nè disturbar la pubblica pace, nè divenir le vittime della vendetta popolare. Dopo aver mandato un piccol distaccamento ad investigare le traccie di Gelimero, s'avanzò con tutta la sua armata per circa dieci giornate di cammino fino ad Ippone Regio che non possedeva più le reliquie di S. Agostino[629]. La stagione avanzata e la certa notizia che i Vandali eran fuggiti agl'inaccessibili paesi de' Mori, determinò Belisario ad abbandonarne l'inutil ricerca, ed a stabilire in Cartagine i suoi quartieri d'inverno. Di là mandò il principale suo Luogotenente ad informare l'Imperatore, che nello spazio di tre mesi egli aveva compito la conquista dell'Affrica.
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Belisario diceva il vero. I Vandali, che sopravvissero, cederono senz'altra resistenza le armi e la libertà: i contorni di Cartagine si sottomisero alla sua presenza; e le Province più lontane furono l'una dopo l'altra soggiogate dalla fama della sua vittoria. Tripoli si confermò nel volontario suo omaggio; la Sardegna e la Corsica s'arresero ad un Ufiziale, che invece della spada portò la testa del bravo Zanone; e le Isole di Maiorca, Minorca ed Ivica acconsentirono di rimanere un'umile appendice del Regno affricano. Cesarea, Città Reale che in una Geografia non tanto rigorosa può confondersi colla moderna Algeri, era situata trenta giornate di cammino all'occidente di Cartagine: per terra la strada era infestata da' Mori; ma il mare era aperto, ed i Romani erano allora padroni del mare. Un attivo e prudente Tribuno s'avanzò fino allo Stretto dove occupò Septem, o Ceuta[630], che s'alza sulla costa d'Affrica dirimpetto a Gibilterra: questa remota Piazza fu di poi adorna e fortificata da Giustiniano; e sembra, ch'ei secondasse in questo la vana ambizione d'estendere il suo Impero sino alle colonne d'Ercole. Esso ricevè l'annunzio della vittoria in quel tempo, in cui preparavasi appunto a pubblicar le Pandette della Legge Romana; ed il devoto o geloso Imperatore celebrò la divina bontà, e confessò in silenzio, il merito dell'abile suo Generale[631]. Impaziente d'abolire la temporale e spiritual tirannia de' Vandali, procedè senza dilazione al pieno ristabilimento della Chiesa Cattolica. Ne furono restaurate ed ampliate generosamente la giurisdizione, la ricchezza e le immunità che sono forse la parte più essenziale della Religione Episcopale; fu soppresso il Culto Arriano; si proscrissero le adunanze de' Donatisti[632]; ed il Sinodo di Cartagine per la voce di dugento diciassette Vescovi[633], applaudì alla giustizia di quella pia rappresaglia. Non è da presumersi che in tale occasione mancassero molti de Prelati ortodossi, ma la tenuità del lor numero in paragone di quello degli antichi Concilj, ch'era stato due o anche tre volte maggiore, chiarissimamente indica la decadenza sì della Chiesa, che dello Stato. Mentre Giustiniano si dichiarava difensor della Fede, nutriva un'ambiziosa speranza, che il vittorioso suo Luogotenente fosse per estender ben presto gli angusti limiti del suo dominio a quello spazio che avevano, prima dell'invasione dei Mori e de' Vandali; e Belisario ebbe ordine di stabilir cinque Duchi o Comandanti, nei posti opportuni di Tripoli, di Leptis, di Cirta, di Cesarea e di Sardegna, e di calcolar la quantità di Palatini, o di guarnigioni di frontiera che potessero esser sufficienti alla difesa dell'Affrica. Il Regno de' Vandali meritò la presenza d'un Prefetto del Pretorio; e furon destinati quattro Consolari, e tre Presidenti per amministrar le sette Province, che si trovavan sotto la sua giurisdizione. Fu minutamente fissato il numero degli Ufiziali loro subordinati, de' ministri e de' messaggi o assistenti; trecento novantasei ne furono assegnati al Prefetto medesimo, cinquanta per ciascheduno de' suoi Vicari; e la rigorosa determinazione delle loro tasse e salari fu più atta a confermare il diritto, che ad impedir l'abuso di essi. Potevano questi Magistrati essere oppressivi, ma non eran oziosi: e si propagarono all'infinito le sottili questioni di Gius e di pubblica Economia sotto il nuovo Governo, che si proponeva di far risorgere la libertà e l'equità della Repubblica Romana. Il Conquistatore fu sollecito ad esigere un pronto e copioso sussidio dagli Affricani suoi sudditi, ed accordò loro il diritto di ripetere, anche nel terzo grado, e dalla linea collaterale, le case e le terre, delle quali erano state le loro Famiglie ingiustamente spogliate da' Vandali. Dopo la partenza di Belisario, che agiva in forza d'un'alta e special commissione, non fu fatto alcun ordinario provvedimento per un Capitan Generale delle Truppe: ma fu affidato l'ufizio di Prefetto del Pretorio ad un soldato; la potestà civile e militare s'unirono, secondo l'uso di Giustiniano, nel principal Governatore; e quello, che rappresentava l'Imperatore in Affrica ugualmente che in Italia, fu ben presto distinto col nome d'Esarca[634].
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Era per altro imperfetta la conquista dell'Affrica, finattantochè il precedente di lei Sovrano non fosse, o vivo o morto, caduto in poter de' Romani. Gelimero, dubbioso dell'evento, aveva segretamente ordinato che una parte del suo tesoro fosse trasportata in Ispagna dove sperava di trovare un sicuro asilo alla Corte del Re de' Visigoti. Ma si renderono vani questi disegni dal caso, dal tradimento e dalle istancabili ricerche de' suoi nemici, che impediron la fuga di esso dalla parte del mare, e cacciarono il disgraziato Monarca, con alcuni suoi fedeli seguaci, fino all'inaccessibil montagna di Papua[635], nell'interno della Numidia. Ei vi fu immediatamente assediato da Fara, Ufiziale di cui tanto più lodavasi la fede e la sobrietà, quanto erano tali qualità più rare fra gli Eruli, tribù la più corrotta di tutte le altre fra' Barbari. Belisario affidato aveva alla sua vigilanza quest'importante incarico; e dopo un ardito tentativo di scalar la montagna, nel quale perdè centodieci soldati, Fara aspettò l'effetto, che l'angustia e la fame, durante un assedio invernale, avrebbe operato nell'animo del Re Vandalo. Dall'uso de' più molli piaceri, e dall'illimitata dominazione sopra l'industria e la ricchezza, fu egli ridotto a partecipare della povertà de' Mori[636], che si rendea loro soffribile solo per l'ignoranza, in cui erano di una condizion più felice. Nelle rozze loro capanne di fango e di creta, che ritenevano il fumo, ed escludevan la luce, promiscuamente dormivano sul suolo, o al più sopra pelli di pecore, insieme con le loro mogli, co' figli e col bestiame. Le loro vesti eran sordide e scarse; non conoscevan l'uso del pane e del vino; e certe focacce d'avena o di orzo, che malamente si facevan cuocere nella cenere, si divoravano quasi crude dagli affamati selvaggi. A questi straordinari ed insoliti travagli doveva cedere la salute di Gelimero, qualunque si fosse la causa, per cui li soffriva; ma l'attual sua miseria veniva di più amareggiata dalla memoria della passata grandezza, dalla continua indolenza dei suoi protettori, e dal giusto timore, che i leggieri e venali Mori s'inducessero a tradire i diritti dell'ospitalità. La conoscenza della situazione di esso dettò l'umana ed amichevol lettera di Fara: «Pensate a voi medesimo (gli scrisse il Capo degli Eruli). Io sono un ignorante Barbaro; ma parlo il linguaggio del buon senso e dell'onestà. Volete voi persistere ad un'ostinazione senza speranza? Perchè volete voi rovinar voi medesimo, la vostra Famiglia e la vostra Nazione? Per amor della libertà e per abborrimento alla schiavitù? Oimè, carissimo Gelimero, non siete voi ora il peggior degli schiavi, lo schiavo della più vile Nazione de' Mori? Non sarebbe da scegliersi piuttosto di menare a Costantinopoli una vita di povertà e servitù, che di regnare da Monarca assoluto della montagna di Papua? Stimate voi una vergogna l'esser suddito di Giustiniano? Lo è Belisario, e noi medesimi, la nascita de' quali non è inferiore alla vostra, non ci vergogniamo di ubbidire all'Imperator Romano. Questo generoso Principe vi darà il possesso di ricche terre, un posto nel Senato, e la dignità di Patrizio: queste sono le sue graziose intenzioni, e voi potete con piena sicurezza contare sulla parola di Belisario. Finattantochè il Cielo ci condanna a soffrire, la pazienza è una virtù; ma se rigettiamo la liberazione, che ci offre, degenera in una cieca e stupida disperazione.» «Io conosco (replicò il Re de' Vandali) quanto è ragionevole e da amico il vostro consiglio. Ma non posso persuadermi a divenir lo schiavo d'un ingiusto nemico che ha meritato l'implacabile mio odio. Io non lo ho mai offeso nè in parole nè in fatti: pure ha mandato contro di me, non so da qual parte, un certo Belisario, che mi ha precipitato dal trono in questo abisso di miseria. Giustiniano è un uomo, ed è un Principe; non teme ancor egli un simil rovescio della fortuna? Io non posso scriver di più: il mio dolore mi opprime. Vi prego, mio caro Fara, di mandarmi una Lira[637], una spugna ed un pane.» Dal messaggio Vandalo seppe Fara i motivi di questa singolar domanda. Era gran tempo che il Re dell'Affrica non aveva gustato pane; aveva una flussione agli occhi, effetto della fatica e del continuo suo pianto; e desiderava di sollevar la malinconia cantando sulla Lira la trista istoria delle sue disgrazie. Fara si mosse a compassione, e gli mandò quegli straordinari tre doni; ma la stessa sua umanità l'indusse a raddoppiare la vigilanza delle guardie per poter più presto costringere il suo prigioniero ad abbracciare una risoluzione vantaggiosa in vero a' Romani, ma salutare anche a lui stesso. L'ostinazione di Gelimero cedè finalmente alla necessità ed alla ragione; furono ratificate in nome dell'Imperatore le solenni promesse di sicurezza e d'onorevole trattamento dall'ambasciatore di Belisario; ed il Re dei Vandali scese dalla montagna. Il primo pubblico incontro seguì in uno de' sobborghi di Cartagine; e quando il Reale schiavo si accostò al suo vincitore, proruppe in uno scroscio di risa. Il volgo potè naturalmente credere che l'estremo dolore avesse privato Gelimero di senno; ma in quel tristo stato l'inopportuna letizia insinuò a' più intelligenti osservatori, che le vane e transitorie scene dell'umana grandezza sono indegne d'una seria attenzione[638].
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Il disprezzo di esse fu tosto giustificato da un altro esempio d'una volgar verità, che l'adulazione seguita la potenza, e l'invidia il merito superiore. I Capi dell'esercito Romano ardirono di reputarsi rivali di un Eroe. Le lettere private maliziosamente riferivano che il Conquistatore dell'Affrica, sostenuto dalla propria sua fama e dall'amore del pubblico, aspirava a sedere sul trono de' Vandali. Giustiniano vi diede troppo facile orecchio, ed il suo silenzio fu effetto della gelosia, piuttosto che della confidenza. Fu in vero lasciata all'arbitrio di Belisario l'onorevole alternativa, o di restare nella Provincia o di tornare alla Capitale; ma egli saviamente dedusse dalle lettere intercettate, e dalla cognizione che aveva del carattere del suo Sovrano che bisognava ch'esso o rinunziasse la vita, o innalzasse la bandiera di ribellione, o confondesse con la sua presenza e sommissione i propri nemici. L'innocenza ed il coraggio gli dettaron la scelta; furon prestamente imbarcate le sue guardie, gli schiavi, e i tesori; e fu così prospera la navigazione, che il suo arrivo a Costantinopoli precedè qualunque certa notizia della sua partenza da Cartagine. Una lealtà così schietta allontanò le apprensioni di Giustiniano; l'invidia fu fatta tacere, e sempre più venne infiammata dalla pubblica gratitudine; ed il terzo Affricano ottenne gli onori del Trionfo, cerimonia, che la Città di Costantino non avea mai veduta, e che l'antica Roma, fin dal Regno di Tiberio, avea riservata per le armi felici de' Cesari[639]. La processione, partendo dal Palazzo di Belisario, si condusse per le principali strade fino all'Ippodromo; e questa memorabil giornata parve che vendicasse le ingiurie di Genserico; ed espiasse la vergogna de' Romani. Si posero in mostra la ricchezza delle Nazioni ed i trofei del lusso marziale o effemminato, vale a dire ricche armature, troni d'oro, ed i cocchj di parata, ch'erano stati d'uso della Regina de' Vandali; i massicci serviti del banchetto Reale, lo splendore delle pietre preziose, l'eleganti figure delle statue e dei vasi, il tesoro più effettivo dell'oro, ed i sacri arnesi del Tempio Giudaico che, dopo la lunga lor pellegrinazione, furono rispettosamente depositati nella Chiesa Cristiana di Gerusalemme. In una lunga serie i più nobili dei Vandali posero con ripugnanza in mostra l'alta loro statura, ed il viril portamento. Gelimero si avanzava con lentezza vestito di porpora, e tuttavia conservava la maestà di un Re. Non gli scappò dagli occhi una lacrima, non ne fu sentito un singhiozzo; ma l'orgoglio o la pietà del medesimo traeva una segreta consolazione da quelle parole di Salomone[640], ch'ei più volte pronunciò: Vanità, vanità, tutto è vanità! Invece di salir sopra un carro trionfale tirato da quattro cavalli o elefanti, il modesto Conquistatore andò a piedi alla testa dei suoi bravi commilitoni. Forse la sua prudenza evitar volle un onore troppo cospicuo per un suddito; e la sua magnanimità sdegnò forse giustamente quel che era stato sì spesso macchiato da' più vili tiranni. Entrò quella gloriosa processione nell'Ippodromo; fu salutata dalle acclamazioni del Senato e del Popolo, e fermossi avanti al Trono, su cui sedevano Giustiniano e Teodora per ricever gli omaggi del Monarca prigioniero e dell'Eroe vittorioso. Ambedue fecero la solita adorazione e prostrandosi al suolo rispettosamente toccaron il piano, dove posavano i piedi d'un Principe che non avea mai sguainata la spada, e d'una prostituta che ballato avea sul teatro: dovè usarsi qualche piacevol violenza per piegare il duro spirito del nipote di Genserico; e per quanto assuefatto fosse alla servitù, il genio di Belisario segretamente dovè ripugnare a tal atto. Esso fu immediatamente dichiarato Console per l'anno seguente, ed il giorno della sua inaugurazione fu simile ad un secondo trionfo; la sua sella curule fu portata sulle spalle da' Vandali schiavi, e furono profusamente sparse fra la plebe le spoglie della guerra, come coppe d'oro e ricche fibbie.
A. 535
Ma il premio più puro di Belisario consistè nella fedel esecuzione d'un trattato, per cui s'era impegnato il suo onore col Re de' Vandali. Gli scrupoli religiosi di Gelimero, ch'era attaccato all'eresìa Arriana, non erano conciliabili con la dignità di Senatore o di Patrizio; ma ei ricevè dall'Imperatore un ampio territorio nella Provincia di Galazia, dove il deposto Monarca si ritirò con la sua famiglia e con gli amici a vivere in pace abbondantemente, e forse anche contento[641]. Le figlie d'Ilderico furon trattate con quella rispettosa tenerezza, ch'era dovuta alla età, ed alla disgrazia di esse; e Giustiniano e Teodora accettaron l'onore di educare, e d'arricchire le discendenti del Gran Teodosio. I più prodi fra' giovani Vandali furon distribuiti in cinque Squadroni di cavalleria che adottarono il nome del loro benefattore, e nelle guerre Persiane sostennero la gloria de' loro antenati. Ma queste rare eccezioni, che furon il premio della nascita o del valore, sono insufficienti a spiegare il destino d'una Nazione il numero della quale, avanti una breve non sanguinosa guerra, montava a più di seicentomila persone. Dopo l'esilio del proprio Re e de' Nobili, la vile plebaglia avrà comprato la sua sicurezza con abiurare la sua religione ed il proprio carattere e linguaggio, e la degenerata di lei posterità si sarà appoco appoco mescolata con la comune turba de' sudditi Affricani. Pure, anche nel nostro secolo, e nel cuore delle tribù moresche, un curioso viaggiatore ha scoperto la carnagione bianca, ed i lunghi capelli biondi d'una razza settentrionale[642], ed anticamente fu creduto che i più arditi fra' Vandali fuggissero dal potere o anche dalla cognizione de' Romani per godere la solitaria lor libertà su' lidi dell'Oceano Atlantico[643]. L'Affrica che ne aveva formato l'Impero, divenne la loro prigione, non potendo essi avere speranza, e neppure alcun desiderio di tornare alle rive dell'Elba, dove i loro fratelli, d'un genio meno arrischioso, andavano sempre vagando per le native loro foreste. Per i codardi era impossibile di sormontare gli ostacoli d'incogniti mari, e di ostili Barbari; e per i valorosi era impossibile d'esporre la loro nudità e disfatta agli occhi de' loro Nazionali, di descrivere i regni che avevan perduti, e di chiedere una parte di quel tenue patrimonio, che, in un tempo più felice, avevano quasi di comune accordo rinunziato[644]. Nella Regione ch'è fra l'Elba, e l'Oder, vari popolati villaggi della Lusazia sono abitati da' Vandali: essi conservano ancora il proprio linguaggio, i loro costumi e la purità del lor sangue; soffrono con qualche impazienza il giogo Sassone o Prussiano, e servono con segreto volontario omaggio il discendente degli antichi lor Re, che nell'abito e nel presente suo stato si confonde col minimo de' suoi Vassalli[645]. Il nome e la situazione di questo infelice Popolo potrebbe indicare la loro discendenza da un comune stipite con i conquistatori dell'Affrica: ma l'uso di un dialetto Slavo più chiaramente gli rappresenta come l'ultimo residuo delle nuove colonie, che successero ai veri Vandali, già dispersi o distrutti al tempo di Procopio[646].
Se Belisario si fosse lasciato tentare ad esitare nella sua fedeltà, avrebbe potuto insistere, anche in faccia dell'Imperatore medesimo, sull'indispensabil dovere di liberar l'Affrica da un nemico più barbaro de' Vandali. L'origine de' Mori si perde nell'oscurità, giacchè da essi non conoscevasi l'uso delle lettere[647]. Non se ne possono precisamente determinare neppure i confini: aprivasi a' pastori della Libia un immenso Continente; la mutazione delle stagioni e de' pascoli regolava i lor movimenti; e le rozze baracche co' pochi utensili si trasportavano con la medesima facilità che le lor armi, famiglie e bestiami composti di pecore, di bovi e di camelli[648]. Finattantochè fu in vigore la Potenza Romana, si tennero in una rispettosa distanza da Cartagine e dal lido del mare; sotto il debole Regno de' Vandali invasero le Città di Numidia, occuparono la costa marittima da Tangeri a Cesærea, e piantarono impunemente il loro campo nella fertile Provincia di Bizacio. La formidabile forza e l'artificiosa condotta di Belisario s'assicurò della neutralità de' Principi Mori, la vanità de' quali aspirava a ricevere in nome dell'Imperatore le insegne della Real dignità[649]. Essi restaron sorpresi al rapido successo, e tremarono alla presenza del loro Conquistatore. Ma la prossima sua partenza tosto diminuì le apprensioni d'un Popolo selvaggio e superstizioso; il numero delle mogli che avevano, permetteva loro di non curar la salvezza de' propri figli dati in ostaggio; e quando il General Romano sciolse le vele dal porto di Cartagine, udì le grida, e quasi vide le fiamme della desolata Provincia. Persistè nonostante nella sua risoluzione, e lasciando solo una parte delle sue guardie per rinforzar le guarnigioni più deboli, affidò il comando dell'Affrica all'Eunuco Salomone[650], che si dimostrò non indegno di succedere a Belisario. Nella prima invasione de' Mori furon sorpresi ed intercettati alcuni distaccamenti con due iniziali di merito; ma Salomone prestamente adunò le suo' truppe, marciò da Cartagine nell'interno del loro paese, ed in due gran battaglie distrusse sessantamila Barbari. I Mori contavano sulla lor moltitudine e velocità, e sulle inaccessibili loro montagne; e si dice, che l'aspetto e l'odore de' loro cammelli producessero qualche confusione nella Cavalleria Romana[651]. Ma tosto che fu comandato loro di smontare, si risero di questo debole ostacolo: appena le colonne montarono i colli, quella nuda e disordinata ciurma restò abbagliata dallo splendore dello armi, e dalle regolari evoluzioni; e replicatamente adempissi la minaccia delle lor Profetesse, che i Mori dovevano essere sconfitti da un nemico senza barba. Il vittorioso Eunuco avanzossi alla distanza di tredici giornate da Cartagine ad assediare il Monte Aurasio[652], ch'era la cittadella, e nell'istesso tempo il giardino della Numidia. Quella catena di colline, ch'è un ramo del grande Atlante, nella circonferenza di cento miglia contiene una rara varietà di suolo e di clima; le valli che sono fra mezzo di esse, e l'elevate pianure abbondano di ricchi pascoli, di perenni rivi, e di frutti d'un gusto delicato e di straordinaria grandezza. Questa bella solitudine è decorata dalle rovine di Lambesa città Romana, una volta sede di una Legione e capace di quarantamila abitanti. Il tempio Ionico d'Esculapio è circondato di capanne Moresche; ed il bestiame ora si pascola in mezzo ad un anfiteatro sotto l'ombra di colonne Corintie. S'alza perpendicolarmente un aspro scoglio sopra il livello della montagna, dove i Principi Affricani depositavano le mogli ed il tesoro; ed è un proverbio famigliare fra gli Arabi, che può mangiare il fuoco quell'uomo che ardisce d'attaccare le dirupate balze, ed i selvaggi abitanti del monte Aurasio. Fu due volte tentata questa difficile impresa dall'Eunuco Salomone: la prima si ritirò con qualche vergogna; e la seconda tanto la sua pazienza quanto le provvisioni erano già quasi esauste, e bisognava ch'ei di nuovo si ritirasse se non avesse ceduto all'impetuoso coraggio delle sue truppe, che audacemente scalarono, con sorpresa de' Mori, la montagna, il campo nemico e la cima della rocca Geminia. Vi fu eretta una cittadella per assicurare quest'importante acquisto, e per rammentare ai Barbari la loro disfatta: e siccome Salomone proseguì la sua marcia all'occidente, la provincia della Mauritania Sitifi, da gran tempo perduta, fu di nuovo annessa all'Impero Romano. La guerra co' Mori continuò per più anni dopo la partenza di Belisario; ma gli allori, ch'ei lasciò ad un fedel Luogotenente, si possono attribuir giustamente al proprio di lui trionfo.
A. 550-620
L'esperienza de' passati errori, che può talvolta correggere l'età matura d'un individuo, rare volte riesce di vantaggio alle successive generazioni della stirpe umana. Le Nazioni dell'antichità, non curando la reciproca salvezza l'una dell'altra, furono separatamente vinte e fatte schiave da' Romani; questa formidabil lezione avrebbe dovuto istruire i Barbari dell'Occidente ad opporsi con opportuni consigli, e con armi confederate all'ambizione illimitata di Giustiniano. Eppure fu ripetuto l'istesso sbaglio, se ne provarono le medesime conseguenze, ed i Goti tanto d'Italia quanto di Spagna, insensibili al loro imminente pericolo, mirarono con indifferenza, ed anche con allegrezza, la rapida caduta dei Vandali. Mancata la stirpe Reale, Teude, valoroso Capitano, montò sul trono di Spagna, ch'egli avea precedentemente amministrato in nome di Teodorico e dell'infame di lui nipote. Sotto il suo comando i Visigoti assediarono la Fortezza di Ceuta sulla costa Affricana: ma mentre passavano il giorno festivo in pace e devozione, una sortita della Città invase la pia sicurezza del loro campo, e l'istesso Re scampò, con qualche difficoltà e pericolo, dalle mani d'un sacrilego nemico[653]. Non passò gran tempo, che fu soddisfatto il suo orgoglio e risentimento, mediante una supplichevole ambasciata dell'infelice Gelimero che nelle sue angustie implorò l'aiuto del Monarca Spagnuolo. Ma invece di sacrificare queste indegne passioni ai dettami della generosità e della prudenza, Teude lusingò gli ambasciatori, finattantochè non fu segretamente informato della caduta di Cartagine; ed allora gli licenziò, con l'oscuro e sprezzante avviso di cercare nel nativo loro paese una vera notizia dello stato de' Vandali[654]. La lunghezza della guerra Italica differì la punizione de' Visigoti, e Teude chiuse gli occhi prima ch'essi gustassero i frutti di quest'erronea politica. Dopo la sua morte si disputò lo scettro di Spagna con una guerra civile. Il Candidato più debole ricorse alla protezione di Giustiniano, ed ambiziosamente sottoscrisse un trattato d'alleanza, che profondamente ferì l'indipendenza e la felicità della sua Patria. Varie città sull'oceano e sul mediterraneo furon cedute alle truppe Romane, che in seguito ricusarono di rilasciar questi pegni per quanto sembra o di sicurezza o di pagamento; e siccome venivano rinforzate con continui sussidj dall'Affrica, mantennero le inespugnabili loro stazioni per il malizios'oggetto d'accendere le civili e religiose fazioni de' Barbari. Passarono settant'anni prima che si potesse trarre questa penosa spina dal seno della Monarchia; e finattantochè gl'Imperatori ritennero una parte di que' remoti ed inutili possessi, la loro vanità enumerò la Spagna nella lista delle loro Province, ed i successori d'Alarico fra' loro Vassalli[655].
534
L'errore de' Goti, che regnavano in Italia, fu meno scusabile di quello de' loro fratelli di Spagna, e la pena, che ne soffrirono, fu anche più immediata e terribile. Per causa d'una vendetta privata lasciarono che il più pericoloso loro nemico distruggesse il più pregevole alleato che avessero. Si era maritata una sorella del gran Teodorico a Trasimondo Re dell'Affrica[656]: in quest'occasione s'era consegnata a' Vandali la Fortezza di Lilibeo in Sicilia[657], e la Principessa Amalafrida fu accompagnata da una scorta militare di mille Nobili, e di cinquemila soldati Goti, che segnalarono il loro valore nelle guerre contro i Mori. Fu esaltato in quell'occasione il proprio merito da loro medesimi e forse disprezzato da' Vandali: i Goti guardarono il Paese con invidia, ed i conquistatori con isdegno; ma la reale o fittizia loro cospirazione fu prevenuta da un macello. I Goti restaron oppressi; e la prigionia d'Amalafrida fu tosto seguita dalla segreta e sospetta sua morte. S'impiegò l'eloquente penna di Cassiodoro a rimproverare alla Corte Vandalica la crudel violazione d'ogni pubblico e social dovere; ma poteva essa ridersi impunemente della vendetta, ch'ei minacciò in nome del suo Sovrano, finattantochè l'Affrica era difesa dal mare, ed i Goti mancavano d'una flotta. Nella cieca impotenza del dolore e dell'ira, essi lietamente applaudirono all'arrivo de' Romani, accolsero la flotta di Belisario nei porti della Sicilia, e furono ben presto rallegrati o commossi dalla sorprendente notizia, che s'era eseguita la lor vendetta oltre la misura delle speranze, o forse anche delle brame, che avevano. L'Imperatore doveva alla loro amicizia il Regno dell'Affrica, ed i Goti potevano con ragione pensare, ch'essi avevano diritto di pigliare il possesso d'un nudo scoglio sì di fresco separato, come un dono nuziale, dall'Isola di Sicilia. Presto però furon disingannati dall'altiero comando di Belisario, ch'eccitò il tardo loro ed inutile pentimento: «La Città ed il Promontorio di Lilibeo (disse il Generale Romano) apparteneva a' Vandali, ed io gli pretendo per diritto di conquista. La vostra sommissione può meritare il favor dell'Imperatore; ma l'ostinazione provocherà il suo sdegno ed accenderà una guerra, che non può terminare che coll'ultima vostra rovina. Se voi ci costringerete a prender le armi, noi combatteremo non già per riprendere una sola Città, ma per ispogliarvi di tutte le Province che voi avete ingiustamente sottratte al legittimo loro Sovrano». Una Nazione di dugentomila soldati avrebbe potuto ridersi della vana minaccia di Giustiniano, e del suo Luogotenente; ma dominava in Italia lo spirito di discordia e di malcontento, ed i Goti soffrivano, con ripugnanza, la indegnità d'un Regno donnesco[658].
La nascita di Amalasunta, Reggente e Regina d'Italia[659] riunì le due più illustri Famiglie dei Barbari. Sua madre, sorella di Clodoveo, discendeva da' capelluti Re della stirpe Merovingica[660]; la Real successione degli Amali fu illustrata nell'undecima generazione dal gran Teodorico suo Padre, il merito del quale, avrebbe potuto nobilitare anche un'origin plebea. Il sesso della sua figlia l'escludeva dal Trono de' Goti; ma la vigilante affezione, ch'egli aveva per la propria Famiglia, e per il suo Popolo, gli fece scuoprir l'ultimo erede della schiatta Reale, i cui Antenati si erano rifuggiti in Ispagna; ed il fortunato Eutarico fu tosto esaltato al grado di Console e di Principe. Ma egli non godè che per breve tempo il possesso d'Amalasunta, e la speranza della successione; ed essa, dopo la morte del marito e del Padre, fu lasciata custode del proprio figlio Atalarico e del Regno d'Italia. All'età di circa ventotto anni, le qualità della mente e della persona di lei erano giunte alla perfetta loro maturità. La sua bellezza, che secondo l'apprensione di Teodora medesima, le avrebbe potuto disputar la conquista d'un Imperatore, era animata da sentimento, attività e fermezza virile. L'educazione e l'esperienza ne avevan coltivato i talenti; i suoi studj filosofici erano immuni dalla vanità; e quantunque si esprimesse con ugual eleganza e facilità nella lingua Greca, nella Latina e nella Gotica, la figlia di Teodorico mantenne sempre ne' suoi consigli un discreto ed impenetrabil silenzio. Mediante la fedele imitazione delle virtù del Padre, fece risorgere la prosperità del suo Regno; mentre con pia sollecitudine procurò d'espiarne gli errori e di cancellare l'oscura memoria della decadente sua età. Ai figli di Boezio, e di Simmaco fu restituita la paterna loro eredità; l'estrema sua piacevolezza non acconsentì mai ad infliggere ai Romani suoi sudditi alcuna pena corporale o pecuniaria; e generosamente sprezzò i clamori de' Goti, che in capo a quarant'anni risguardavano sempre i Popoli d'Italia come loro schiavi o nemici. Le salutari sue determinazioni eran dirette dalla saviezza, e celebrate dall'eloquenza di Cassiodoro; essa richiese, e meritò l'amicizia dell'Imperatore; ed i Regni d'Europa, sì in pace che in guerra, rispettarono la maestà del Trono Gotico. Ma la futura felicità della Regina e dell'Italia, dipendeva dall'educazione del suo figlio, ch'era destinato fin dalla nascita a sostenere i differenti e quasi non conciliabili caratteri di Capo d'un esercito Barbaro, e di primo Magistrato d'una incivilita Nazione. Si principiò all'età di dieci anni[661] ad istruire Atalarico diligentemente nelle arti e nelle scienze utili o d'ornamento per un Principe Romano; e si scelsero tre venerabili Goti per istillare principj di virtù e d'onore nell'animo del giovine loro Re. Ma il fanciullo, che non sente i vantaggi dell'educazione, ne aborrisce il rigore; e la sollecitudine della Regina, che dall'affetto rendevasi ansiosa e severa, offese l'intrattabil natura del figlio e de' sudditi. In occasione d'una solenne festa, mentre i Goti erano adunati nel Palazzo di Ravenna, il fanciullo Reale scappò dall'appartamento di sua madre, e con lacrime d'orgoglio e di sdegno si dolse d'uno schiaffo, che l'ostinata sua disubbidienza l'aveva provocata a dargli. I Barbari s'irritarono per l'indegnità, con cui trattavasi il loro Re; accusarono la Reggente di cospirare contro la vita e la corona di esso; ed imperiosamente domandarono, che il nipote di Teodorico fosse liberato dalla vile disciplina delle donne e dei pedanti, ed educato come un valoroso Goto in compagnia de' suoi uguali e nella gloriosa ignoranza dei suoi Maggiori. A queste rozze grida importunamente ripetute come la voce della Nazione, Amalasunta fu costretta a cedere, contro la propria ragione e contro i più cari desiderj del suo cuore. Il Re d'Italia s'abbandonò al vino, alle donne ed a' grossolani sollazzi; e l'imprudente disprezzo dell'ingrato giovine scuoprì i maliziosi disegni de' suoi favoriti e de' nemici di essa. Circondata da' nemici domestici, essa entrò in una segreta negoziazione coll'Imperator Giustiniano; ebbe la sicurezza d'essere amichevolmente ricevuta; ed aveva già depositato a Dirrachio nell'Epiro un tesoro di quarantamila libbre d'oro. Sarebbe stato bene per la sua fama e sicurezza, se si fosse quietamente ritirata dalle fazioni barbare a goder la pace e lo splendore di Costantinopoli: ma l'animo di Amalasunta era infiammato dall'ambizione e dalla vendetta; e mentre le sue navi stavano all'ancora nel porto, essa aspettava il successo d'un delitto, che le sue passioni scusavano o applaudivano come un atto di giustizia. Erano stati separatamente mandati alle frontiere dell'Italia tre de' più pericolosi malcontenti sotto il pretesto di fedeltà e di comando: furono questi assassinati da' segreti di lei emissari; ed il sangue di que' nobili Goti rese la Regina madre, assoluta nella Corte di Ravenna, e giustamente odiosa ad un Popolo libero. Ma se erasi essa lagnata de' disordini del figlio, ben presto ne pianse l'irreparabile perdita; e la morte di Atalarico, che all'età di sedici anni si consumò da una prematura intemperanza, la lasciò priva di ogni stabil sostegno o legittima autorità. In vece di sottomettersi alle Leggi della sua Patria, che avevano per massima fondamentale, che la successione non potesse mai passar dalla lancia alla conocchia, la figlia di Teodorico immaginò l'impraticabil disegno di dividere con uno de' suoi cugini il titolo Reale, e conservar per sè la sostanza della suprema Potestà. Ei ricevè la proposizione con profondo rispetto e con affettata gratitudine; e l'eloquente Cassiodoro annunziò al Senato ed all'Imperatore, che Amalasunta e Teodato eran saliti sul trono d'Italia. La nascita di esso poteva considerarsi come un titolo imperfetto, giacchè era figlio d'una sorella di Teodorico, e la scelta d'Amalasunta fu con maggior forza diretta dal disprezzo ch'ella aveva per la sua avarizia e pusillanimità, che l'avevan privato dell'amore degl'Italiani, e della stima de' Barbari. Ma Teodato fu inasprito dal disprezzo, ch'ei meritava: la giustizia della Regina aveva represso, e gli aveva rimproverata l'oppressione ch'egli esercitava contro i Toscani suoi vicini; ed i principali fra' Goti, riuniti dalla colpa e dallo sdegno comune, cospirarono ad instigare la lenta e timida sua disposizione. Appena si eran mandate le lettere di congratulazione, che la Regina d'Italia fu imprigionata in una piccola Isola del lago di Bolsena[662], dove la medesima, dopo un breve confino, fu strangolata nel bagno per ordine, o con la connivenza del nuovo Re, che in tal modo istruì i turbolenti suoi sudditi a spargere il sangue de' loro Sovrani.
A. 535
Giustiniano vedeva con piacere le dissensioni dei Goti, e la mediazione dell'alleato celava, e favoriva le ambiziose mire del conquistatore. I suoi Ambasciatori, nella pubblica loro udienza richiesero la Fortezza di Lilibeo, dieci Barbari fuggitivi, ed una giusta compensazione per il saccheggio d'una piccola Città sui confini dell'Illirico; ma segretamente trattarono con Teodato la resa della provincia di Toscana, e tentarono Amalasunta di trarsi fuori dal pericolo e dalla perplessità, mediante una libera restituzione del Regno d'Italia. La Regina prigioniera sottoscrisse con ripugnanza una lettera falsa e servile, ma i Senatori Romani, mandati a Costantinopoli, manifestarono la vera di lei situazione, e Giustiniano per mezzo d'un nuovo Ambasciatore, intercesse più efficacemente per la libertà, e per la vita di essa. Le segrete istruzioni però dell'istesso Ministro eran dirette a servire la crudel gelosia di Teodora, che temeva la presenza e le superiori attrattive d'una rivale: egli insinuò, con artificiosi ed ambigui cenni, l'esecuzione d'un delitto così vantaggioso a' Romani[663]; ricevè la notizia della morte della Regina con dispiacere e con isdegno; ed in nome del suo Padrone dichiarò immortal guerra contro il perfido di lei assassino. In Italia, ugualmente che in Affrica il delitto d'un usurpatore parve, che giustificasse le armi di Giustiniano; ma le forze ch'egli apparecchiò, non eran sufficienti per rovesciare un potente Regno, se il piccolo numero di esse non si fosse aumentato dal nome, dallo spirito e dalla condotta d'un Eroe. Una scelta truppa di guardie a cavallo armate con lancie e scudi, accompagnavano la persona di Belisario; la sua cavalleria era composta di dugento Unni, di trecento Mori, e di quattromila Confederati; e l'infanteria consisteva in soli tremila Isauri. Il Console Romano dirigendo il suo corso come nella prima spedizione, gettò l'ancora avanti a Catania in Sicilia per osservare la forza dell'Isola, e per determinare, se dovea tentarne la conquista o pacificamente proseguire il suo viaggio per la costa di Affrica. Ei vi trovò un fertil terreno, ed un Popolo amichevole. Nonostante la decadenza dell'agricoltura, la Sicilia sosteneva sempre i granai di Roma; gli affittaiuoli di essa erano graziosamente esentati dall'oppressione de' quartieri militari; ed i Goti, che affidavano la difesa dell'Isola a' suoi abitanti, ebber ragione di dolersi, che la lor fiducia fu ingratamente tradita. Invece di chiedere ed aspettare l'aiuto del Re d'Italia, essi alle prime intimazioni prestarono volentieri ubbidienza; e questa Provincia, ch'era stata il primo frutto delle guerre Puniche, dopo una lunga separazione fu nuovamente unita all'Imperio Romano[664]. La guarnigione Gotica di Palermo, che sola tentò di resistere, dopo un breve assedio fu ridotta ad arrendersi, mediante un singolare strattagemma. Belisario introdusse le sue navi nell'intimo recinto del porto; i loro battelli furono a forza di cavi e di carucole alzati fino alla cima de' loro alberi, e furono empiti di arcieri, che da quel luogo dominavano le mura della Città. Dopo questa facile e fortunata campagna il Conquistatore entrò in Siracusa trionfante, alla testa delle vittoriose sue truppe, gettando al Popolo delle medaglie d'oro, nel giorno in cui gloriosamente finiva l'anno del suo Consolato. Ei passò la stagione invernale nel palazzo degli antichi Re in mezzo alle rovine d'una colonia Greca, che una volta estendevasi ad una circonferenza di ventidue miglia[665]; ma nella primavera, dopo la festa di Pasqua, fu interrotto il proseguimento de' suoi disegni da una pericolosa sommossa delle truppe Affricane. Si salvò Cartagine per la presenza di Belisario, che immediatamente sbarcovvi con mille guardie; duemila soldati di dubbiosa fede tornarono alle bandiere dell'antico lor Comandante; ed ei fece senza esitare più di cinquanta miglia per cercare un nemico, che affettava di compassionare, e di sprezzare. Ottomila ribelli tremarono all'avvicinarsi di esso; furono messi in rotta al primo incontro dalla destrezza del loro Signore; e questa ignobil vittoria restituito avrebbe la pace all'Affrica, se il Conquistatore non fosse stato richiamato in fretta nella Sicilia per quietare una sedizione, che si era accesa durante e la sua assenza nel proprio Campo[666]. Il disordine e la disubbidienza erano le malattie comuni di que' tempi. Non risedevano che nell'animo di Belisario il talento per comandare, e la virtù di obbedire.
A. 534-536
Quantunque Teodato discendesse da una stirpe di Eroi, non sapeva l'arte della guerra, e ne abborriva i pericoli; e quantunque avesse studiato gli scritti di Platone e di Tullio, la Filosofia non fu capace di purgare il suo spirito dalle più basse passioni dell'avarizia e del timore. Egli aveva comprato uno scettro per mezzo dell'ingratitudine e dell'uccisione: e alla prima minaccia d'un nemico, avvilì la propria maestà, e quella di una Nazione, che già sprezzava il suo indegno Sovrano. Sorpreso dal fresco esempio di Gelimero, si vedeva tratto in catene per le strade di Costantinopoli; l'eloquenza di Pietro, Ambasciator Bizantino accrebbe i terrori, che ispirava Belisario; e quell'audace e sottile Avvocato lo persuase a sottoscrivere un trattato, troppo ignominioso per servir di fondamento ad una pace durevole. Fu stipulato, che nelle acclamazioni del Popolo Romano sempre si proclamasse il nome dell'Imperatore avanti a quello del Re Goto, e che ogni volta che s'innalzava in bronzo o in marmo la statua di Teodato, gli fosse posta alla destra la divina immagine di Giustiniano: invece di conferire gli onori del Senato, il Re d'Italia era ridotto a sollecitarli; ed era indispensabile il consenso dell'Imperatore, prima ch'ei potesse eseguir la sentenza di morte, o di confiscazione contro d'un Prete, o d'un Senatore. Il debol Monarca rinunziò al possesso della Sicilia; offerì, come un annuo segno della sua dipendenza, una corona d'oro del peso di trecento libbre; e promise di somministrare, alla richiesta del suo Sovrano, tremila Goti ausiliari per servizio dell'Impero. Soddisfatto di queste straordinarie concessioni, l'abile agente di Giustiniano affrettò il suo ritorno a Costantinopoli; ma appena era giunto alla villa Albana[667], che fu richiamato dall'ansietà di Teodato; e merita d'esser riportato nell'originale sua semplicità questo dialogo fatto fra il Re e l'Ambasciatore: «Siete voi di sentimento, che l'Imperatore ratificherà questo Trattato? Forse. Qualora ei ricusi, qual conseguenza ne verrà? La guerra. Tal guerra sarà ella giusta o ragionevole? Sicurissimamente: ognuno agirebbe secondo il suo carattere. Che intendete di dire? Voi siete un filosofo; Giustiniano è Imperator de' Romani: mal converrebbe al discepolo di Platone spargere il sangue di più migliaia di uomini per una sua privata contesa; ma il successore d'Augusto dovrebbe rivendicare i suoi diritti, e ricuperare con le armi le antiche Province del suo Impero ». Questo ragionamento non è per avventura molto convincente, ma servì per mettere in agitazione e per vincer la debolezza di Teodato, che tosto discese all'ultima sua offerta di rinunziare per il meschino prezzo d'una pensione di quarantottomila lire sterline il Regno de' Goti e degl'Italiani, e d'impiegare il resto de' suoi giorni negl'innocenti piaceri della filosofia e dell'agricoltura. Affidò ambedue i trattati all'Ambasciatore, sulla fragile sicurezza d'un giuramento di non manifestare il secondo, finattantochè non si fosse positivamente rigettato il primo. Se ne può facilmente prevedere l'evento. Giustiniano richiese ed accettò l'abdicazione del Re Goto. L'instancabile suo agente da Costantinopoli tornò a Ravenna con ampie istruzioni, e con una bella lettera, che lodava la saviezza e generosità del Reale Filosofo, gli accordava la pensione, con assicurarlo di quegli onori, dei quali poteva esser capace un suddito Cattolico, e prudentemente fu commessa la finale esecuzion del Trattato alla presenza ed autorità di Belisario. Ma nel tempo che restò sospeso, due Generali Romani, che erano entrati nella Provincia di Dalmazia, furon disfatti ed uccisi dalle truppe Gotiche. Teodato, da una cieca ed abbietta disperazione, capricciosamente passò ad una presunzione senza fondamento e fatale[668], ed osò di ricevere con minacce e disprezzo l'ambasciatore di Giustiniano, che insistè nella sua promessa, sollecitò la fedeltà de' suoi sudditi, ed arditamente sostenne l'inviolabile privilegio del proprio carattere. La marcia di Belisario dissipò quest'orgoglio immaginario; e siccome fu consumata la prima campagna[669] nel soggiogar la Sicilia, Procopio assegna l'invasione d'Italia al secondo anno della Guerra Gotica[670].
A. 537
Dopo aver Belisario lasciato sufficienti guarnigioni in Palermo e in Siracusa, imbarcò le sue truppe a Messina, e le sbarcò senza resistenza sui lidi opposti di Reggio. Un Principe Goto, che avea sposato la figlia di Teodato, stava con un esercito a guardar l'ingresso d'Italia; ma esso imitò senza scrupolo l'esempio d'un Sovrano, che mancava a' suoi pubblici e privati doveri. Il perfido Ebermore disertò con i suoi seguaci al campo Romano, e fu mandato a godere i servili onori della Corte Bizantina[671]. La flotta e l'esercito di Belisario s'avanzarono quasi sempre in vista l'una dell'altro da Reggio a Napoli, per quasi trecento miglia lungo la costa del mare. Il Popolo dell'Abruzzo, della Lucania e della Campania, che abborriva il nome e la religione de' Goti, profittò dello specioso pretesto che le rovinate lor mura erano incapaci di difesa; i soldati pagavano un giusto prezzo di ciò che compravano sugli abbondanti mercati; e la sola curiosità interrompeva le pacifiche occupazioni degli agricoltori o degli artefici. Napoli, ch'è divenuta una grande e popolata Capitale, conservò lungamente il linguaggio ed i costumi di colonia Greca[672]: e la scelta, che ne fece Virgilio, aveva nobilitato quest'elegante ritiro, che attraeva gli amatori del riposo e dello studio, allontanandogli dallo strepito, dal fumo e dalla laboriosa opulenza di Roma[673]. Appena fu investita per mare e per terra la piazza, Belisario diede udienza ai deputati del Popolo, che l'esortavano a non curare una conquista indegna delle sue armi, a cercare in un campo di battaglia il Re dei Goti, e dopo d'averlo vinto, a ricevere come Sovrano di Roma l'omaggio delle Città dipendenti. «Quando io tratto co' miei nemici, replicò il Capitano Romano con un altiero sorriso, io son più assuefatto a dare, che a ricever consiglio: ma tengo in una mano l'inevitabil rovina, e nell'altra la pace e la libertà, come ora gode la Sicilia». L'impazienza della dilazione lo mosse ad accordar le più liberali condizioni, ed il suo onore ne assicurava l'effettuazione: ma Napoli era divisa in due fazioni, e la democrazia Greca era infiammata da' suoi Oratori, i quali con molto spirito e con qualche verità rappresentarono alla moltitudine, che i Goti avrebber punito la lor mancanza di fede, e che Belisario medesimo dovea stimare la loro lealtà e valore. Le deliberazioni però che facevansi, non erano perfettamente libere; la Città era dominata da ottocento Barbari, le mogli ed i figli de' quali si ritenevano a Ravenna come pegni della lor fedeltà; e fino gli Ebrei, ch'erano ricchi e numerosi, opponevansi con disperato entusiasmo alle intolleranti leggi di Giustiniano. In un tempo assai posteriore, la circonferenza di Napoli[674] non era più di duemila trecento sessantatre passi[675]: le fortificazioni eran difese da precipizi o dal mare; se si tagliavano gli acquedotti, poteva supplirsi con l'acqua de' pozzi e de' fonti; e la quantità delle provvisioni era sufficiente a stancar la pazienza degli assedianti. Al termine di venti giorni era quasi esausta quella di Belisario, ed erasi accomodato alla vergogna d'abbandonar l'assedio per poter marciare, avanti l'inverno, contro Roma, ed il Re de' Goti. Ma fu la sua ansietà soddisfatta dall'ardita curiosità d'un Isauro, ch'esplorò il canale asciutto d'un acquedotto, e segretamente riferì, che potevasi aprire un passaggio per introdurre una fila di soldati armati nel cuore della Città. Quando l'opera fu tacitamente eseguita, l'umano Generale rischiò la scoperta del suo segreto con un ultimo ed infruttuoso avviso dell'imminente pericolo. Nell'oscurità della notte, quattrocento Romani entrarono nell'acquedotto, s'introdussero per mezzo d'una fune, che legarono ad un ulivo, nella casa o nel giardino d'una solitaria matrona, suonarono le loro trombette, sorpreser le sentinelle, ed ammessero i loro compagni, che da ogni parte scalaron le mura, ed aprirono le porte della Città. Fu commesso, come per diritto di guerra, ogni delitto che si punisce dalla giustizia sociale; gli Unni si distinsero per la crudeltà ed il sacrilegio, ed il solo Belisario comparve per le strade, e nelle Chiese di Napoli a moderar la calamità, ch'egli aveva predetto. «L'oro e l'argento, esclamò più volte, sono i giusti premj del vostro valore; ma risparmiate gli abitanti: essi son Cristiani, son supplichevoli, e son ora vostri concittadini. Restituite i figli a' loro Genitori; le mogli a' loro mariti; e dimostrate loro, mediante la vostra generosità di quali amici hann'ostinatamente privato se stessi». La Città fu salvata per la virtù, e per l'autorità del suo Conquistatore[676]; e quando i Napoletani tornarono alle loro case, trovarono qualche sollievo nel segreto godimento de' nascosti loro tesori. La guarnigione Barbara s'arruolò al servizio dell'Imperatore; la Puglia e la Calabria, liberate dall'odiosa presenza de' Goti, riconobbero il suo dominio; e L'Istorico di Belisario curiosamente descrive le zanne del Cignale Calidonio, che tuttavia si mostravano a Benevento[677].
A. 536-540
I Soldati e Cittadini fedeli di Napoli avevano indarno aspettato d'esser liberati da un Principe, che restò inoperoso, e quasi indifferente spettatore della loro rovina. Teodato si assicurò dentro le mura di Roma, mentre la sua cavalleria si avanzò quaranta miglia sulla via Appia, e si accampò nelle paludi Pontine, le quali, mediante un canale lungo diciannove miglia erano state recentemente seccate, e convertite in eccellenti pasture[678]. Ma le Fortezze principali dei Goti eran disperse nella Dalmazia, nella Venezia, e nella Gallia, ed il debole spirito del loro Re era confuso dall'infelice evento d'una divinazione, che sembrava presagir la caduta del suo Impero[679]. I più abbietti schiavi hanno (talvolta) processato il delitto, o la debolezza d'uno sfortunato padrone; ma il carattere di Teodato fu rigorosamente esaminato da un libero, e quieto campo di Barbari, consapevoli del lor diritto e potere; fu esso dichiarato indegno della sua razza, della Nazione e del trono, ed il loro Generale Vitige, che avea segnalato il proprio valore nella guerra Illirica, fu innalzato con unanime applauso sopra gli scudi de' suoi compagni. Al primo romore di ciò, il deposto Monarca fuggì dalla giustizia de' propri Nazionali; ma fu inseguito dalla vendetta privata. Un Goto, ch'egli aveva offeso nel suo amore, sorprese Teodato sulla via Flaminia, e senza riguardo alle non virili sue strida, lo scannò, mentre stava prostrato sul suolo, come una vittima (dice l'Istorico) a piè dell'Altare. L'elezione del Popolo è il titolo migliore e più puro per regnare sopra di esso; pure tal è il pregiudizio d'ogni tempo, che Vitige impazientemente desiderò di tornare a Ravenna per poter ivi prendere, con la ripugnante mano della figlia di Amalasunta, una debole ombra di ereditario diritto. Si tenne immediatamente un Concilio Nazionale, ed il nuovo Monarca dispose l'impaziente spirito dei Barbari ad un passo vergognoso, che la cattiva condotta del suo predecessore avea reso indispensabile e savio. I Goti acconsentirono a ritirarsi in faccia d'un vittorioso nemico; a differire fino alla primavera seguente le operazioni d'una guerra offensiva: a richiamare le sparse loro truppe; ad abbandonare i lontani loro stabilimenti, e ad affidare anche la stessa Roma alla fede de' suoi abitanti. Lauderi attempato guerriero, fu lasciato nella Capitale con quattromila soldati: debole guarnigione, che avrebbe potuto secondare lo zelo de' Romani, quantunque fosse incapace d'opporsi ai desiderj di essi. Ma si accese ne' loro animi un momentaneo entusiasmo di religione e di patriottismo: essi furiosamente esclamarono che la Sede Apostolica non dovea più lungamente profanarsi dal trionfo, o dalla tolleranza dell'Arrianismo, che non si dovevan più calpestare le tombe de' Cesari da' selvaggi del Settentrione; e senza riflettere, che l'Italia dovea divenire una Provincia di Costantinopoli, con trasporto applaudirono alla restaurazione d'un Imperator Romano, come, ad una nuova epoca di libertà e di prosperità. I Deputati del Papa e del Clero, del Senato e del Popolo invitarono il Luogotenente di Giustiniano ad accettare il loro volontario omaggio, e ad entrare nella Città, di cui si sarebbero aperte le porte per riceverlo. Tosto che Belisario ebbe fortificato le sue nuove conquiste di Napoli e di Cuma, si avanzò per circa venti miglia fino alle rive del Vulturno, contemplò la decaduta grandezza di Capua, e si fermò dove la via Latina si separa dall'Appia. L'opera del Censore, dopo l'uso continuo di nove secoli, tuttavia conservava la sua primitiva bellezza, e neppure, una fessura potea scuoprirsi nelle grandi e levigate pietre, delle quali era quella solida, sebbene stretta via, si stabilmente composta[680]. Belisario però preferì la via Latina, che lontana dal mare e dalle paludi continuava per lo spazio di centoventi miglia lungo il piede delle montagne. I suoi nemici erano spariti. Quando egli fece il suo ingresso per la porta Asinaria, la guarnigione partì senz'alcuna molestia per la via Flaminia; e la Città, dopo sessant'anni di servitù, fu liberata dal giogo de' Barbari. Il solo Leuderi, per un motivo d'orgoglio o di mal contento, non volle accompagnare i fuggitivi; ed il Capitano de' Goti, ch'era egli medesimo un trofeo della vittoria, fu mandato con le chiavi di Roma al Trono dell'Imperator Giustiniano[681].
A. 537
I primi giorni, che corrispondevano agli antichi Saturnali, consacrati furono alla vicendevol congratulazione, ed alla pubblica gioia; ed i Cattolici si preparavano a celebrare, senza rivali, la prossima festa della Natività di Cristo. Nella famigliar conversazione d'un Eroe, acquistarono i Romani qualche cognizione delle virtù, che l'Istoria attribuiva a' loro Maggiori, furono edificati dell'apparente rispetto di Belisario per il successor di S. Pietro; e la rigida sua disciplina assicurò loro, in mezzo alla guerra, i vantaggi della tranquillità e della giustizia. Essi applaudirono al rapido successo delle sue armi, che invasero l'addiacente campagna, fino a Narni, Perugia e Spoleto; ma tremò il Senato, il Clero ed il Popolo imbelle all'udire, ch'egli aveva risoluto, e presto sarebbe stato nel caso di sostenere un assedio contro le forze della Monarchia Gotica. Furono eseguiti nella stagione invernale i disegni di Vitige con diligenza ed effetto. I Goti dalle rustiche loro abitazioni e dalle lor guarnigioni più distanti, adunaronsi a Ravenna per difesa del loro Paese; e tale ne fu il numero, che dopo averne distaccata un'armata in aiuto della Dalmazia, marciarono sotto le bandiere Reali ben cento cinquantamila combattenti. Secondo i vari gradi del posto o del merito, il Re Goto distribuì armi e cavalli, ricchi doni e liberali promesse: ei si mosse lungo la via Flaminia, evitò gl'inutili assedj di Perugia e di Spoleto, rispettò l'inespugnabile Rocca di Narni, ed arrivò lontano due miglia di Roma, a piè del Ponte Milvio. Quello stretto passo era fortificato con una torre, e Belisario avea contato l'importanza di venti giorni, che bisognava consumare nel costruire un altro ponte. Ma la costernazion de' soldati della torre, che o fuggirono o disertarono, sconcertò le sue speranze, ed espose la sua persona al più imminente pericolo. Il Generale Romano, alla testa di mille cavalli, uscì dalla porta Flamminia per notare il luogo d'una vantaggiosa posizione, e per osservare il campo de' Barbari; ma mentre li credeva sempre dall'altra parte del Tevere, fu ad un tratto circondato ed assalito dagl'innumerabili loro squadroni. Il destino d'Italia dipendeva dalla sua vita; ed i disertori si dirigevano all'appariscente cavallo baio[682] con la faccia bianca, ch'ei cavalcava in quella memorabil giornata: «Mira al cavallo baio» era il grido universale. Ogni arco era teso, ed ogni dardo appuntato contro quel fatale oggetto, e veniva ripetuto ed eseguito quest'ordine da migliaia di persone, che ne ignoravano il vero motivo. I più arditi Barbari si avanzarono al più onorevol combattimento delle spade e delle lance, e la lode d'un nemico ha onorato la caduta di Visando, che portando la bandiera[683] mantenne il suo posto avanti degli altri, finattantochè non rimase trafitto da tredici ferite, per mano forse di Belisario medesimo. Il Generale Romano era forte, attivo e destro; da ogni parte scagliava i pesanti e mortali suoi colpi; le fedeli sue guardie ne imitarono il valore, e ne difesero la persona; ed i Goti, dopo una perdita di mille uomini, fuggirono innanzi alle armi d'un Eroe. Furono temerariamente inseguiti fino al lor campo, ed i Romani, oppressi dalla moltitudine, fecero una lenta ed alla fine precipitosa ritirata verso le porte della Città, le quali si chiusero in faccia de' fuggitivi; ed il pubblico terrore s'accrebbe dalla notizia, che Belisario era stato ucciso. Era in vero sfigurato il suo aspetto dal sudore, dalla polvere, e dal sangue; rauca n'era la voce, e quasi esausta la forza; ma tuttavia gli restava l'invincibile suo coraggio: ei lo partecipò agli abbattuti compagni; ed il disperato loro ultimo sforzo si sentì da' Barbari, posti nuovamente in fuga come se fosse uscito dalla Città un altro vigoroso ed intero esercito. Fu aperta la porta Flamminia ad un vero trionfo; ma non potè Belisario esser persuaso dalla moglie e dagli amici a prendere il necessario ristoro di cibo e di sonno, prima d'aver visitato ogni posto, e provveduto alla pubblica sicurezza. Nello stato più perfetto dell'arte della guerra, è raro che un Generale abbia bisogno, o che anche gli sia permesso di mostrare la personal sua prodezza di soldato; e può aggiungersi quello di Belisario a' rari esempi di Enrico IV, di Pirro e d'Alessandro.
Dopo questo primo ed infelice sperimento de' nemici, tutto l'esercito dei Goti passò il Tevere e formò l'assedio della Città, che continuò più d'un anno, fino all'ultima loro partenza. Per quanto possa spaziar l'immaginazione, l'esatto compasso del Geografo determina il circuito di Roma ad una linea di dodici miglia e di trecento quarantacinque passi; e questo circuito, eccettuata la parte ch'è nel Vaticano, è stato invariabilmente il medesimo dal trionfo di Aureliano, fino al pacifico, ma oscuro Regno de' moderni Papi[684]. Ma nel tempo della sua grandezza, lo spazio compreso dentro le mura era pieno di abitazioni e di abitanti; ed i popolati sobborghi, che s'estendevano lungo le pubbliche strade, partivano come tanti raggi da un centro comune. Le avversità le tolsero questi estranei ornamenti, e lasciarono desolata e nuda anche una parte considerabile de' sette Colli. Nondimeno, Roma, nel presente suo stato, potrebbe mettere in campo sopra trentamila uomini atti a militare[685]; e nonostante la mancanza di disciplina e d'esercizio, la massima parte di essi, assuefatta a' travagli della povertà, sarebbe capace di portar le armi per la difesa della patria e della religione. La prudenza di Belisario non trascurò questo importante ripiego. Furono alquanto sollevati i suoi soldati dallo zelo e dalla diligenza del Popolo, che vegliava mentr'essi dormivano, e lavorava mentr'essi riposavano; egli accettò il volontario servizio della più brava e indigente gioventù Romana; e le compagnie di cittadini talvolta rappresentavano, in un posto vacante, le truppe, che si eran mandate a fare operazioni di maggiore importanza. Ma la giusta sua fiducia era posta ne' veterani, che avevan combattuto sotto le sue bandiere nelle guerre di Persia o dell'Affrica; e sebbene quella valorosa truppa fosse ridotta a cinquemila uomini, con sì tenue numero intraprese a difendere un recinto di dodici miglia contro un esercito di cento cinquantamila Barbari. Nelle mura di Roma, che Belisario costruì o restaurò, si possono ancora discernere i materiali dell'antica architettura[686]; e fu compita l'intera fortificazione, a riserva d'un apertura, che sempre esiste fra le porte Pincia e Flamminia, e che i pregiudizi de' Goti e de' Romani lasciavano sotto l'efficace custodia di S. Pietro Apostolo[687]. I bastioni erano fatti ad angoli acuti; un fosso largo e profondo difendeva il piede della muraglia; e gli arcieri sopra di essa erano aiutati dalle macchine militari, come dalla Balista, forte arco in forma di croce, che scagliava corti, ma grossi dardi, e dagli Onagri, o asini selvaggi che a guisa di fionde gettavano pietre e palle di enorme grandezza[688]. Sì tirò una catena a traverso il Tevere; si resero impervj gli archi degli acquedotti; e la mole o il sepolcro d'Adriano[689] fu per la prima volta convertito in una Cittadella. Questa venerabile Fabbrica, la quale conteneva le ceneri degli Antonini, era una Torre circolare, che s'alzava sopra una base quadrangolare; era coperta di marmo bianco di Paros e decorata da statue di Numi e di Eroi; e l'amatore delle arti dee leggere sospirando, che le opere di Prassitele o di Lisippo fossero staccate dagli alti lor piedestalli, e gettate nel fosso sulle teste degli assedianti[690]. A ciascuno de' suoi Luogotenenti Belisario assegnò la difesa d'una porta, con la savia e perentoria istruzione, che qualunque muovimento potesse farsi, essi restassero costantemente a' rispettivi lor posti, e lasciassero al Generale il pensiero della salvezza di Roma. Il formidabil'esercito de' Goti non fu sufficiente ad abbracciar l'ampio circuito della Città; di quattordici porte non ne furono investite che sette dalla via Prenestina fino alla Flamminia; e Vitige divise le sue truppe in sei campi, ciascheduno dei quali era fortificato con un fosso ed un muro. Dalla parte del fiume verso la Toscana, formossi un settimo accampamento nel campo o circo del Vaticano, per l'importante oggetto di dominare il ponte Milvio, ed il corso del Tevere; ma s'accostavano con devozione alla vicina Chiesa di S. Pietro, e durante l'assedio, la soglia de' Santi Apostoli fu rispettata da un nemico Cristiano. Ne' secoli delle vittorie, ogni volta che il Senato decretava qualche distante conquista, il Console dichiarava la guerra con aprire in solenne pompa le porte del Tempio di Giano[691]. La guerra domestica rese in quest'occasione superfluo l'avviso, e la ceremonia erasi abolita dallo stabilimento d'una nuova Religione: ma rimaneva tuttora in piedi nel Foro il tempio di bronzo di Giano, ch'era di una grandezza capace di contener solamente la statua di quel nume alta cinque cubiti, di figura umana, ma con due faccie, dirette all'Oriente ed all'Occidente. Le doppie porte erano parimente di bronzo; ed un inutile sforzo per girarle su' rugginosi lor cardini, manifestò lo scandaloso segreto, che v'erano de' Romani tuttavia attaccati alla superstizione de' loro Maggiori.
Gli assedianti consumaron diciotto giorni a provveder tutti gl'istrumenti d'attacco, che aveva inventato l'antichità. Si prepararon delle fascine per empiere i fossi, e delle scale per salir sulle mura; i più grossi alberi della foresta somministraron le travi di quattro arieti, che avevano le teste armate di ferro; essi eran sospesi per mezzo di cavi, e maneggiati da cinquant'uomini per ciascheduno. Le alte torri di legno si muovevano sopra delle ruote o de' rulli e formavano una spaziosa piattaforma al livello della muraglia. La mattina del decimonono giorno, fu fatto un generale attacco dalla Porta Prenestina fino alla Vaticana: s'avanzarono all'assalto sette colonne Gotiche con le loro macchine militari; ed i Romani che stavano in fila sulle mura, prestavano con dubbiezza ed ansietà orecchio alle vive assicurazioni de' lor Comandanti. Appena il nemico s'accostò al fosso, Belisario medesimo scagliò il primo dardo; e tale fu la sua forza e destrezza, che trafisse il primo de' condottieri barbari. Un rimbombo d'applauso e di vittoria andò eccheggiando lungo le mura. Tirò egli un secondo dardo, ed il colpo ebbe il medesimo successo e la medesima acclamazione. Allora il Generale Romano diede ordine, che gli arcieri mirassero a' luoghi dov'erano attaccati i bovi, e questi furono immediatamente coperti di mortali ferite; le torri, ch'essi tiravano, restarono inutili ed immobili; ed un solo momento sconcertò i laboriosi progetti del Re dei Goti. Malgrado di questo smacco, Vitige continuò tuttavia, o finse di continuare l'assalto della porta Salaria per divertir l'attenzione del suo avversario, mentre le principali sue forze più fortemente attaccavano la porta Prenestina, ed il sepolcro d'Adriano alla distanza di tre miglia da quella. Vicino alla prima, le doppie mura del Vivarium[692] erano basse o rotte: le fortificazioni dell'altro erano guardate debolmente: si eccitava il vigore de' Goti dalla speranza della vittoria e della preda; e se avesse ceduto un sol posto, i Romani e Roma stessa erano irreparabilmente perduti. Questa pericolosa giornata fu la più gloriosa nella vita di Belisario: in mezzo al tumulto ed allo spavento era distintamente presente al suo spirito tutto il piano dell'attacco e della difesa; osservava le mutazioni d'ogni istante; pesava ogni possibil vantaggio; accorreva ne' luoghi di pericolo; e comunicava il suo coraggio con tranquilli e decisivi ordini. Il combattimento mantennesi fieramente dalla mattina fino alla sera; i Goti furon rispinti da tutte le parti ed ogni Romano potè vantarsi d'aver vinto trenta Barbari, se pur la strana sproporzione del numero non fu contrabbilanciata dal merito d'un sol uomo. Trentamila Goti, secondo la confessione de' propri lor Capitani perirono in questa sanguinos'azione, e la quantità de' feriti fu uguale, a quella de' morti. Allorchè si avanzarono all'assalto, lo stretto loro disordine non permise che un sol giavelotto andasse a vuoto; e quando si ritirarono, s'unì la plebaglia della Città ad inseguirli, e trafisse impunemente le schiene dei fuggitivi loro nemici. Belisario immediatamente sortì dalle porte, e mentre i soldati celebravano il nome e le vittorie di lui, furono ridotte in cenere le macchine di guerra ostili. Tale fu la perdita e la costernazione de' Goti, che dopo quel giorno l'assedio di Roma degenerò in un tedioso e indolente blocco; e furono essi continuamente inquietati dal Generale Romano, che in frequenti scaramucce distrusse più di cinquemila uomini delle loro più valorose truppe. La cavalleria de' Goti non era pratica nell'uso dell'arco; i loro arcieri militavano a piedi; e questa forza così divisa non fu capace di contendere co' loro avversari, le lancie ed i dardi de' quali erano ugualmente formidabili sì da lontano che da vicino. La consumata perizia di Belisario gli faceva abbracciar tutte le occasioni favorevoli; e siccome sceglieva il luogo ed il momento, insisteva nell'attacco o suonava la ritirata a proposito[693], così rare volte gli squadroni, ch'ei distaccava, ebber cattivo successo. Questi particolari vantaggi sparsero un impaziente ardore fra i soldati, ed il Popolo che principiava a sentir gl'incomodi dell'assedio, ed a non curare i pericoli d'una mischia generale. Ogni plebeo s'immaginò d'essere un eroe, e l'infanteria, che dopo la decadenza della disciplina erasi rigettata dalla linea di battaglia, aspirava agli antichi onori della legione Romana. Belisario lodò il coraggio delle sue truppe, condannò la lor presunzione, cedè a' loro clamori e preparò i rimedi d'una disfatta, la possibilità della quale egli solo ebbe il coraggio di sospettare. Nel quartiere del Vaticano, i Romani prevalsero; e se nel saccheggio del campo non avessero consumato degli irreparabili momenti, avrebber potuto occupare il ponte Milvio, ed attaccar l'esercito Gotico nella retroguardia. Dall'altra parte del Tevere s'avanzò Belisario dalle porte Pincia e Salaria; ma la sua armata, forse di quattromila soldati, si perdè in una spaziosa pianura e fu circondata ed oppressa da fresche truppe, che continuamente supplivano le rotte file de' Barbari. I valorosi condottieri dell'infanteria, non sapendo vincere, morirono; una precipitosa ritirata fu coperta dalla prudenza del Generale; ed i vincitori si sottrassero con spavento dal formidabile aspetto d'una muraglia armata. La riputazione di Belisario non fu macchiata da una disfatta; e la vana confidenza de' Goti non fu meno vantaggiosa pe' suoi disegni, che il pentimento e la modestia delle truppe Romane.
Fin dal momento in cui Belisario erasi determinato a sostenere un assedio, l'assidua sua cura fu di metter Roma al coperto dal pericolo della fame, più terribile che le armi de' Goti. Vi s'era introdotta dalla Sicilia una straordinaria quantità di grano; le raccolte della Campania e della Toscana furono a forza destinate per l'uso della Città; e si violarono i diritti della proprietà privata per la forte ragione della salvezza pubblica. Era ben facile a prevedersi che il nemico tagliato avrebbe gli acquedotti e la mancanza de' mulini a acqua fu il primo incomodo che prestamente si rimosse, legando insieme delle gran barche, e fissandovi delle macine lungo la corrente del fiume. Questo però fu tosto imbarazzato di tronchi di alberi e contaminato di cadaveri; ma le precauzioni del General Romano tornarono sì efficaci, che le acque del Tevere continuarono sempre a dare il moto a' mulini e la bevanda agli abitanti; a quartieri più lontani supplivano i pozzi domestici, ed una Città assediata poteva senza impazienza soffrire la privazione de' suoi pubblici Bagni. Una gran parte di Roma, dalla porta Prenestina fino alla Chiesa di S. Paolo, non fu mai investita da' Goti; si frenavano le loro scorrerie dall'attività delle truppe Moresche; e la navigazione del Tevere, e le strade Latina, Appia ed Ostia erano libere e senza molestia per l'introduzione del grano e del bestiame, o per la ritirata degli abitanti, che cercavan rifugio nella Campania o in Sicilia. Belisario, desideroso di sgravarsi d'una inutile divorante moltitudine, diede i suoi perentorj ordini per la subita partenza delle donne, de' fanciulli e degli schiavi. Volle che i suoi soldati licenziassero i loro serventi, sì maschi che femmine, e regolò in modo il loro stipendio, che ne ricevessero una metà in provvisioni, e l'altra in danaro. La sua previdenza fu giustificata dall'aumento della pubblica strettezza, tosto che i Goti ebber occupato due posti importanti nelle vicinanze di Roma. Mediante la perdita del porto, o come si dice adesso, della città di Porto, restò chiuso il paese alla destra del Tevere, e tolta la miglior comunicazione col mare; ed il Generale rifletteva con dispiacere o con isdegno, che con trecent'uomini, se avesse potuto risparmiare sì tenue quantità di truppa, avrebbe potuto difenderne le inespugnabili fortificazioni. Alla distanza di sette miglia dalla Capitale, fra la via Appia e la Latina, due principali acquedotti, replicatamente incrociandosi fra loro, chiudevano dentro i solidi ed alti loro archi un luogo fortificato[694], dove pose Vitige un campo di settemila Goti per intercettare i convogli della Sicilia e della Campania. Si esaurirono appoco appoco i granai di Roma; l'addiacente campagna era stata devastata dal ferro e dal fuoco; e quegli scarsi sussidi, che si potevan ottenere per mezzo di frettolose scorrerie, servivan di premio al valore, ed erano il prezzo della ricchezza: non mancò mai veramente il foraggio per i cavalli, ed il pane per gli uomini: ma negli ultimi mesi dell'assedio il Popolo trovossi esposto alle miserie della carestia, ad un cibo malsano[695], ed al disordine del contagio. Belisario scorgeva e compassionava i lor patimenti; ma egli avea preveduto, e stava osservando in essi la diminuzione della fedeltà ed il progresso del malcontento. L'avversità avea risvegliato i Romani da' sogni di grandezza e di libertà, ed aveva insegnato loro l'umiliante lezione, che poco importava per la reale felicità loro, che il nome del padrone a cui dovevano ubbidire, derivato fosse dalla lingua Gotica o dalla Latina. Il Luogotenente di Giustiniano ascoltò le giuste loro querele, ma rigettò con isdegno l'idea della fuga, o della capitolazione; represse la clamorosa loro impazienza di combattere; gli lusingò col prospetto d'un sicuro e pronto soccorso; ed assicurò se medesimo e la Città dagli effetti della disperazione o del tradimento di essi. Due volte il mese mutava il posto degli Ufiziali, a' quali era commessa la custodia delle porte; impiegò più volte le varie precauzioni di pattuglie, della parola, de' fanali e della musica per scoprire tutto ciò, che seguiva sulle mura; furon poste delle guardie avanzate di là dal fosso; e la fedel vigilanza de' cani suppliva alla più dubbiosa fedeltà degli uomini. Fu intercettata una lettera, che assicurava il Re de' Goti, che la porta Asinaria, annessa alla Chiesa Lateranense si sarebbe segretamente aperta alle sue truppe. Sulla prova dunque o sul sospetto di tradimento furon banditi più Senatori, e fu citato il Pontefice Silverio a portarsi dal Rappresentante del suo Sovrano, al principal quartiere di esso nel Palazzo Pinciano[696]. Gli Ecclesiastici, che seguitavano il loro Vescovo, furono ritenuti nel primo e nel secondo appartamento[697], ed egli solo fu ammesso alla presenza di Belisario. Il Conquistatore di Roma e di Cartagine sedeva modestamente a piè d'Antonina che riposava sopra un magnifico letto: il Generale tacque ma uscì la voce del rimprovero e della minaccia dalla bocca dell'imperiosa sua moglie. Accusato da testimoni degni di fede e della prova della propria sua sottoscrizione[698] il successor di S. Pietro fu spogliato dei suoi ornamenti Pontificali, vestito da semplice monaco; e senza dilazione imbarcato per un lontano esilio in Oriente. Per ordine poi dell'Imperatore, il Clero di Roma procedè alla scelta d'un nuovo Vescovo, e dopo una solenne invocazione dello Spirito Santo, elesse il diacono Vigilio, che avea comprato la sede Papale con un donativo di dugento libbre d'oro. S'imputò a Belisario il profitto, e per conseguenza la colpa di questa simonìa: ma l'Eroe ubbidiva agli ordini della sua moglie; Antonina serviva alle passioni dell'Imperatrice; e Teodora prodigamente spargeva i suoi tesori con la vana speranza d'ottenere un Pontefice contrario, o almeno indifferente per il Concilio di Calcedonia[699].
La lettera di Belisario all'Imperatore annunciava la vittoria, il pericolo e la fermezza di esso. «Secondo i vostri ordini sono entrato (dic'egli) ne' dominj de' Goti, ed ho ridotto alla vostra ubbidienza la Sicilia, la Campania e la Città di Roma: la perdita però di tali conquiste sarà più vergognosa di quel che ne fosse glorioso l'acquisto. Fin qui abbiamo felicemente combattuto contro sciami di Barbari, ma la lor moltitudine può alla fin prevalere. La vittoria è dono della provvidenza; ma la reputazione de' Re e de' Generali dipende dal buono o cattivo successo de' loro disegni. Permettetemi di parlare con libertà: se volete che viviamo, mandateci viveri; se desiderate che facciamo conquiste, mandateci armi, cavalli, e uomini. I Romani ci hanno ricevuto come amici e liberatori; ma nella nostra presente angustia, o saranno essi traditi per la loro fiducia, o noi resterem oppressi dal tradimento e dall'odio di essi. Quanto a me, la mia vita è consacrata al vostro servizio: a voi tocca a riflettere, se in questa situazione la mia morte contribuirà alla gloria, ed alla prosperità del vostro Regno». Forse quel Regno sarebbe stato ugualmente prospero, se il pacifico Signor dell'Oriente si fosse astenuto dalla conquista dell'Affrica e dell'Italia: ma siccome Giustiniano era ambizioso di fama, egli fece alcuni sforzi, sebbene deboli e languidi, per sostenere e liberare il vittorioso suo Generale. Martino e Valeriano condussero un rinforzo di mille seicento Schiavoni ed Unni; e siccome si erano riposati nella stagione invernale ne' porti della Grecia, non s'era la forza degli uomini e de' cavalli diminuita dalle fatiche d'un viaggio per mare, ed essi distinsero il lor valore nella prima sortita contro gli assedianti. Verso il tempo del solstizio estivo sbarcò a Terracina Eutalio con grosse somme di danaro per il pagamento delle truppe: proseguì cautamente il suo cammino lungo la via Appia, ed entrò in Roma questo convoglio per la porta Capena[700], mentre Belisario, da un'altra parte, divertiva l'attenzione de' Goti mediante una vigorosa e felice scaramuccia. Questi opportuni aiuti, l'uso e la riputazione de' quali destramente si maneggiarono dal Generale Romano, ravvivarono il coraggio, o almen le speranze de' soldati e del Popolo. Fu mandato l'Istorico Procopio con una importante commissione a raccoglier le truppe e le provvisioni, che potea somministrar la Campania, o si eran mandate da Costantinopoli; ed il segretario di Belisario fu tosto seguito da Antonina medesima[701], che arditamente traversò i posti del nemico, e tornò coi soccorsi Orientali in aiuto del suo marito e dell'assediata Città. Una flotta di tremila Isauri gettò l'ancora nella baia di Napoli, ed in seguito ad Ostia; più di duemila cavalli, una parte de' quali erano Traci, sbarcarono a Taranto; e dopo la riunione di cinquecento soldati della Campania, e d'una quantità di carri carichi di vino e di farina, essi presero il loro cammino per la via Appia, da Capua verso Roma. Le forze, che arrivarono per terra e per mare, erano tutte unite all'imboccatura del Tevere. Antonina dunque adunò un consiglio di guerra, dove fu risoluto di vincere a forza di vele e di remi la contraria corrente del fiume; ed i Goti non ardirono disturbare con alcuna temeraria ostilità la negoziazione, a cui Belisario accortamente avea dat'orecchio. Credettero essi troppo facilmente di non vedere che la vanguardia d'una flotta e di un'esercito che già copriva il mare Ionio e le pianure della Campania; e fu sostenuta quest'illusione dal superbo linguaggio, che tenne il Generale Romano, allorchè diede udienza agli Ambasciatori di Vitige. Dopo uno specioso discorso per dimostrar la giustizia della lor causa essi dichiararono, che per amor della pace eran disposti a rinunziare il possesso della Sicilia. «L'Imperatore non è meno generoso,» rispose con un sorriso di sdegno il suo Luogotenente, «in contraccambio d'un dono, che voi più non possedete, vi regala un'antica provincia dell'Impero; rinunzia egli a' Goti la sovranità dell'Isola Britannica». Belisario con ugual fermezza e disprezzo rigettò l'offerta d'un tributo; ma concesse agli Ambasciatori Goti di sentire il loro destino dalla bocca di Giustiniano medesimo; ed acconsentì con apparente ripugnanza ad una tregua di tre mesi, dal solstizio d'inverno fino all'equinozio di primavera. Potea la prudenza certamente diffidare sì de' giuramenti, che degli ostaggi dei Barbari; ma la nota superiorità del Capitano Romano si manifestò nella distribuzione delle sue truppe: ogni volta che il timore o la fame costrinse i Goti a lasciare Alba, Porto, e Civitavecchia, fu immediatamente occupato il lor posto; si rinforzarono le guarnigioni di Narni, di Spoleto e di Perugia; ed i sette campi degli assedianti furono appoco appoco circondati dalle calamità d'un assedio. Le preghiere ed il pellegrinaggio di Dazio, Vescovo di Milano, non furono senza effetto; ed egli ottenne mille Traci ed Isauri per sostenere la rivolta della Liguria contro l'Arriano di lei tiranno. Nell'istesso tempo Giovanni il Sanguinario[702], nipote di Vitaliano, fu distaccato con duemila cavalli scelti, prima per Alba sul lago Fucino, e poi per le frontiere del Piceno sul mare Adriatico: «In quella provincia, disse Belisario, i Goti hanno depositato le lor famiglie ed i loro tesori, senz'alcuna guardia o sospetto di pericolo. Senza dubbio essi violeranno la tregua; vi trovino dunque presenti prima che abbiano notizia de' vostri movimenti. Risparmiate gl'Italiani; non vi lasciate dietro le spalle alcuna piazza ostile fortificata; e conservate fedelmente la preda per farne un uguale e comune riparto. Non sarebbe ragionevole, soggiunse con un sorriso, che mentre noi travagliamo per distruggere i calabroni, i nostri più fortunati fratelli portassero via e godessero il miele».
S'era unita tutta la Nazione degli Ostrogoti per l'attacco di Roma, e restò quasi tutta consumata nell'assedio di questa Città. Se qualche fede si dee prestare ad un intelligente spettatore, fu distrutto almeno un terzo dell'enorme loro esercito ne' frequenti e sanguinosi combattimenti seguiti sotto le mura di essa. Alla decadenza dell'agricoltura e della popolazione potevano già imputarsi la cattiva fama, e le perniciose qualità dell'aria della state; ed i mali della carestia e della pestilenza furono aggravati dalla propria loro licenza, e dalla non amichevol disposizione del Paese. Mentre Vitige combatteva con la sua fortuna, mentre stava dubbioso fra la vergogna e la rovina, le domestiche vicende ne accelerarono la ritirata. Il Re de' Goti fu informato da tremanti messaggi, che Giovanni il sanguinario estendeva la devastazione di guerra dall'Appennino fino all'Adriatico; che le ricche spoglie e gl'innumerabili schiavi del Piceno erano dentro le fortificazioni di Rimini; e che quel formidabile Capitano avea disfatto il suo zio, insultato la sua Capitale e sedotto, per mezzo di una segreta corrispondenza, la fedeltà dell'imperiosa figlia d'Amalasunta, sua moglie. Pure avanti di ritirarsi, Vitige fece un ultimo sforzo d'assaltare o di sorprendere la Città: fu scoperto un segreto passaggio in uno degli acquedotti; s'indussero due cittadini del Vaticano per mezzo di doni ad inebriare le guardie della porta Aurelia; fu meditato un attacco sulle mura di là dal Tevere in un luogo che non era fortificato con torri; ed i Barbari s'avanzarono con torce, e con scale a dar l'assalto alla porta Pincia. Ma fu reso vano qualunque tentativo dall'intrepida vigilanza di Belisario, e della sua truppa di Veterani, che ne' più pericolosi momenti non si sgomentarono per l'assenza de' loro compagni; ed i Goti, privi di speranza, non meno che di sussistenza, insisteron clamorosamente sulla ritirata, prima che spirasse la tregua, e di nuovo s'unisse la Romana cavalleria. Un anno e nove giorni dopo il principio dell'assedio, un esercito poco prima sì forte e trionfante bruciò le sue tende, e tumultuariamente ripassò il ponte Milvio. Non lo ripassò per altro impunemente. L'affollata moltitudine, oppressa in un luogo angusto, fu rovesciata nel Tevere da' propri timori, e dal nemico, che l'inseguiva; ed il Generale Romano, fatta una sortita dalla porta Pincia, fece un forte e vergognoso sfregio alla ritirata dei Goti. Un esercito infermo ed abbattuto, che dovea marciar lentamente, fu a stento condotto lungo la strada Flamminia, dalla quale i Barbari furon talvolta costretti a deviare per paura di non incontrare le guarnigioni nemiche, le quali guardavano la strada maestra verso Rimini e Ravenna. Ciò nonostante questa armata fuggitiva era sì forte, che Vitige destinò diecimila uomini per difender quelle Città, che più gli premeva di conservare, e distaccò Uraia suo nipote con una sufficiente forza per gastigare la ribelle Milano. Alla testa poi della sua principale armata egli assediò Rimini, ch'era solo trentatre miglia distante dalla Capitale de' Goti. Una debol muraglia ed un tenue fosso si sostennero per la perizia e il valore di Giovanni il Sanguinario, che partecipava il pericolo e la fatica del minimo soldato, ed emulava, in un teatro meno illustre, le virtù militari del suo gran Comandante. Le torri e le macchine de' Barbari si resero inutili, se ne rispinser gli attacchi; ed il tedioso blocco, che ridusse la guarnigione all'ultima estremità della fame, diede tempo all'unione ed alla marcia delle forze Romane. Una flotta, che aveva sorpreso Ancona, navigò lungo la costa dell'Adriatico in soccorso dell'assediata città; l'eunuco Narsete sbarcò nel Piceno con duemila Eruli, e cinquemila delle più brave truppe d'Oriente. Fu forzata la rocca dell'Apennino; diecimila veterani girarono il piè delle montagne sotto il comando di Belisario medesimo: e comparve una nuova armata che s'avanzava lungo la via Flamminia, gli accampamenti della quale risplendevano d'innumerabili lumi. I Goti oppressi dallo stupore e dalla disperazione, abbandonaron l'assedio di Rimini, le loro tende, le lor bandiere ed i lor condottieri; e Vitige, che diede o seguitò l'esempio della fuga, non si fermò finattantochè non trovò un ricovero nelle mura e nelle paludi di Ravenna.
A. 538
A queste mura e ad alcune Fortezze prive d'ogni comunicazione fra loro era in quel tempo ridotta la Monarchia Gotica. Le Province d'Italia avevano abbracciato il partito dell'Imperatore; ed il suo esercito, reclutato di mano in mano fino al numero di ventimila uomini, avrebbe dovuto compire una rapida e facil conquista, se le invincibili sue forze non si fossero indebolite dalla discordia de' Generali Romani. Avanti che terminasse l'assedio, un atto sanguinoso, ambiguo ed indiscreto macchiò la bella fama di Belisario. Presidio, fedele Italiano, mentre fuggiva da Ravenna a Roma, fu duramente arrestato da Costantino, Governator militare di Spoleto e spogliato anche in una Chiesa di due pugnali riccamente intarsiati d'oro e di pietre preziose. Passato che fu il pubblico pericolo, Presidio si lagnò della perdita e dell'ingiuria ricevuta: fu ascoltata la sua querela; ma fu disubbidito all'ordine di restituire dall'orgoglio, e dall'avarizia dell'offensore. Inasprito dalla dilazione Presidio fermò arditamente il cavallo del Generale, mentre passava pel Foro; e col coraggio d'un Cittadino richiese il comun benefizio delle Leggi Romane. Fu impegnato in quest'affare l'onore di Belisario: ei convocò un consiglio; ricercò l'ubbidienza de' suoi subordinati Ufiziali; e fu provocato da un'insolente risposta a chiamare in fretta l'assistenza delle sue guardie. Costantino, riguardando la loro entrata come un segnale di morte, sfoderò la sua spada, e corse contro il Generale che destramente evitò il colpo, e fu difeso da' suoi amici; mentre il disperato assassino fu disarmato, tratto in un'altra camera e decapitato, o piuttosto trucidato dalle guardie all'arbitrario comando di Belisario[703]. In questo precipitoso atto di violenza non fu più rammentato il delitto di Costantino; la disperazione e la morte di quel valoroso Ufiziale segretamente imputaronsi alla vendetta d'Antonina; e ciascheduno de' suoi colleghi, rimproverandosi la medesima rapina, temeva il medesimo evento. Il timore d'un nemico comune sospese gli effetti della loro invidia e malcontentezza, ma nella speranza della vicina vittoria, intrigarono un potente rivale ad opporsi al Conquistatore di Roma e dell'Affrica. Dal servizio domestico del Palazzo, e dell'amministrazion delle rendite private, l'eunuco Narsete fu innalzato ad un tratto alla testa d'un esercito; e lo spirito d'un Eroe, che in seguito uguagliò il merito e la gloria di Belisario, servì solo ad imbarazzare le operazioni della guerra Gotica. Il soccorso di Rimini fu attribuito ai suoi prudenti consigli da' Capi della malcontenta fazione, ch'esortaron Narsete ad assumere un indipendente e separato comando. La lettera di Giustiniano in vero gli aveva ingiunto l'ubbidienza al Generale, ma quella pericolosa eccezione «finattantochè possa esser di vantaggio al pubblico servigio» riservava qualche libertà di giudizio al discreto favorito, che sì di fresco era venuto dalla sacra, e famigliar conversazione del suo Sovrano. Nell'esercizio di questo dubbioso diritto, l'eunuco sempre dissentì dalle opinioni di Belisario; e dopo aver ceduto con ripugnanza all'assedio d'Urbino, abbandonò di notte il suo Collega e marciò alla conquista della provincia Emilia. Le feroci e formidabili truppe degli Eruli erano attaccate alla persona di Narsete[704]; diecimila Romani e confederati si lasciaron persuadere a marciare sotto le sue bandiere; ogni malcontento abbracciò questa bella occasione di vendicare i privati o immaginari suoi torti; e le rimanenti truppe di Belisario eran divise e disperse dalle guarnigioni di Sicilia fino a' lidi dell'Adriatico. La sua perizia e perseveranza peraltro superò qualunque ostacolo: fu preso Urbino; s'intrapresero e vigorosamente si proseguirono gli assedj di Fiesole, d'Orvieto e d'Osimo, e finalmente l'eunuco Narsete fu richiamato alle cure domestiche del Palazzo. Tutte le dissensioni furon quietate, e fu vinta ogni opposizione dalla temperata autorità del Generale Romano, a cui non potevano i suoi stessi nemici ricusare la loro stima; e Belisario inculcò sempre quella salutar lezione, che le forze d'uno Stato dovrebber comporre un solo corpo ed essere animate da un solo spirito. Ma nel tempo della discordia fu permesso a' Goti di respirare; si perdè un'importante stagione; fu distrutto Milano; e le Province settentrionali d'Italia furono afflitte da un'inondazione di Franchi.
Allorchè Giustiniano principiò a meditar la conquista d'Italia, egli mandò ambasciatori a' Re de' Franchi, e gli scongiurò per i comuni vincoli dell'alleanza e della Religione ad unirsi nella santa sua impresa contro gli Arriani. I Goti, essendo pressati da più urgenti bisogni, usarono una maniera di persuadere più efficace, e vanamente cercarono con doni di terre e di denaro, di comprar l'amicizia, o almeno la neutralità d'una leggiera e perfida Nazione[705]. Ma le armi di Belisario, e la rivolta degl'Italiani ebbero appena scosso la Monarchia Gotica, che Teodeberto d'Austrasia, il più potente e guerriero de' Re Merovingici, fu persuaso a soccorrer le loro angustie, mediante un indiretto ed opportuno aiuto. Diecimila Borgognoni, recenti suoi sudditi, senz'aspettare il consenso del loro Sovrano, discesero dalle Alpi, e s'unirono alle truppe, che Vitige avea mandato a gastigar la rivolta di Milano. Dopo un ostinato assedio, la Capitale della Liguria fu costretta ad arrendersi per la fame; ma non potè ottenersi altra capitolazione, che per la salva ritirata della guarnigione Romana. Dazio, Vescovo Ortodosso, che aveva indotto i suoi compatriotti alla ribellione[706], ed alla rovina, fuggì a godere il lusso e gli onori della Corte Bizantina[707]; ma il Clero, forse il Clero Arriano, fu trucidato a piè degli Altari dai difensori della Fede Cattolica. Si disse, che vi fossero uccisi trecentomila maschi[708]; le femmine e la preda più preziosa furon lasciate a' Borgognoni; e le case, o almeno le mura di Milano furono livellate al suolo. I Goti negli ultimi loro momenti, si vendicarono con la distruzione d'una Città, che non cedeva che a Roma nella grandezza ed opulenza, nello splendore delle sue fabbriche, o nel numero degli abitanti: ed il solo Belisario compatì il destino degli abbandonati e devoti suoi amici. Teodeberto medesimo, incoraggito da questa fortunata scorreria, nella seguente primavera invase le pianure d'Italia con un'armata di centomila Barbari[709]. Il Re, ed alcuni suoi scelti seguaci erano a cavallo, ed armati di lance: l'infanteria, senz'archi nè picche, si contentava d'uno scudo, d'una spada, e d'una scure da guerra a due tagli, che nelle lor mani era un'arme mortale, che non cadeva mai in fallo. L'Italia tremò al muovimento de' Franchi; e tanto il Principe Goto, quanto il General Romano, ignorando del pari i loro disegni, sollecitarono con speranza e terrore l'amicizia di questi pericolosi alleati. Fino a tanto che non si fu assicurato del passaggio del Po sul ponte di Pavia, il nipote di Clodoveo nascose le sue intenzioni, che alla fine dichiarò, assaltando, quasi nel medesimo istante, i campi ostili de' Romani e de' Goti. Invece d'unire insieme le loro armi, essi fuggirono con ugual precipitazione, e le fertili quantunque desolate Province della Liguria e dell'Emilia restarono abbandonate ad un licenzioso esercito di Barbari, il furore dei quali non veniva mitigato da pensiero alcuno di stabilimento o di conquista. Fra le Città, ch'essi rovinarono, si conta particolarmente Genova, non ancora fabbricata di marmi: e sembra che la morte di più migliaia di persone, secondo l'ordinario uso della guerra, eccitasse minore orrore, che alcuni idolatrici sacrifizi di donne e di fanciulli, che furono impunemente fatti nel campo del Re Cristianissimo. Se non fosse una trista verità, che i primi e più crudeli patimenti debbon toccare agl'innocenti ed a' deboli, potrebbe rallegrarsi alquanto l'Istoria nella miseria de' conquistatori, che in mezzo alle ricchezze restaron privi di pane e di vino, essendosi ridotti a ber le acque del Po, ed a cibarsi della carne di bestie inferme. La dissenteria distrusse un terzo del loro esercito; e le grida de' suoi sudditi, ch'erano impazienti di ripassar le Alpi, disposero Teodeberto ad ascoltar con rispetto le blande esortazioni di Belisario. Si perpetuò nelle medaglie della Gallia la memoria di questa non gloriosa e distruttiva guerra; e Giustiniano, senza sfoderar la spada, prese il titolo di conquistatore de' Franchi. Il Principe Merovingico s'offese della vanità dell'Imperatore; affettò di compassionare le cadute fortune dei Goti; e l'insidiosa sua offerta d'una confederazione fu corroborata dalla promessa, o dalla minaccia di scender dalle Alpi alla testa di cinquecentomila uomini. I suoi disegni di conquista erano illimitati, e forse chimerici. Il Re d'Austrasia minacciò di gastigar Giustiniano e di marciare alle porte di Costantinopoli[710]: ma egli fu gettato a terra ed ucciso[711] da un toro salvatico[712], mentre andava a caccia nelle foreste Belgiche o Germaniche.
Tostochè Belisario trovossi libero da' suoi esterni ed interni nemici, seriamente impiegò le proprie forze nel sottomettere intieramente l'Italia. Nell'assedio d'Osimo, il Generale mancò poco che non fosse trafitto da un dardo, se non si fosse riparato il mortal colpo da una delle sue guardie, che in questo pietoso ufizio perdè l'uso d'una mano. I Goti d'Osimo, in numero di quattromila guerrieri, con quelli di Fiesole e delle Alpi Cozie, furon fra gli ultimi che sostennero la loro indipendenza; e la valorosa resistenza che fecero, e che quasi stancò la pazienza del Conquistatore, meritò la stima di esso. La sua prudenza negò di conceder loro il salvo condotto, che dimandavano per unirsi a' loro confratelli di Ravenna; ma per mezzo d'un'onorevol capitolazione salvarono almeno la metà de' propri averi con la libera alternativa, o di ritirarsi pacificamente alle lor terre, o d'arruolarsi nella milizia dell'Imperatore per servir nelle sue guerre Persiane. Le truppe, che tuttavia militavano sotto le bandiere di Vitige, erano molto più numerose delle Romane; pure nè le preghiere, nè la diffidenza, nè l'estremo pericolo de' suoi più fedeli sudditi poteron trarre il Re Goto dalle fortificazioni di Ravenna. Queste in fatti non potevano espugnarsi nè per mezzo dell'arte nè della violenza; ed allorchè Belisario investì la Capitale, fu tosto convinto, che la sola fame avrebbe potuto ammansire l'ostinato spirito de' Barbari. Dalla vigilanza del Generale Romano si guardavano il mare, la terra ed i canali del Po, e la sua morale estendeva i diritti della Guerra all'uso di avvelenar le acque[713], e di bruciare segretamente i granai[714] d'una Città assediata[715]. Mentre stringeva li blocco di Ravenna restò sorpreso all'arrivo di due Ambasciatori, che vennero da Costantinopoli con un trattato di pace, che Giustiniano imprudentemente avea sottoscritto senza degnarsi di consultare l'autore della sua vittoria. Mediante questo vergognoso e precario accordo si divideva l'Italia ed il tesoro Gotico, e si rilasciavano le Province di là dal Po col titolo Reale al successore di Teodorico. Gli Ambasciatori s'affrettarono ad eseguire la salutare lor commissione; il prigioniero Vitige accettò con trasporto l'inaspettata offerta d'una corona; presso i Goti prevalse all'onore la mancanza e il desiderio del cibo; ed i Capitani Romani, che mormoravano per la continuazion della guerra, professarono una cieca sommissione a' comandi dell'Imperatore. Se Belisario non avesse avuto che il coraggio d'un soldato, gli sarebbe stato strappato di mano l'alloro da' timidi ed invidiosi consigli; ma in quel decisivo momento risolvè, con la magnanimità d'un uomo di Stato, di solo sostenere il pericolo e il merito d'una generosa disubbidienza. Ciascheduno de' suoi Ufiziali diede in iscritto il suo sentimento, che l'assedio di Ravenna era impraticabile, e senza speranza: allora il Generale rigettò il trattato di divisione, e dichiarò la sua risoluzione di condur Vitige in catene a' piedi di Giustiniano. I Goti si ritirarono con dubbiezza e spavento; questa perentoria negativa gli privò dell'unica sottoscrizione, a cui potevano affidarsi; e riempiè le loro menti d'un giusto timore, che un sagace nemico avesse conosciuto in tutta la sua estensione il deplorabile loro stato. Essi paragonarono la fama e la fortuna di Belisario con la debolezza del disgraziato lor Re; e tal confronto suggerì uno straordinario progetto, a cui Vitige con apparente rassegnazione fu costretto ad acconsentire. La divisione avrebbe rovinato la forza della Nazione, l'esilio l'avrebbe disonorata; essi dunque offerivan le loro armi, i tesori, e le fortificazioni di Ravenna, se Belisario avesse voluto non più riconoscer l'autorità d'un padrone, ma accettar la scelta dei Goti, e prender, come meritava, il Regno d'Italia. Quand'anche il falso splendor d'un diadema avesse potuto tentar la lealtà d'un suddito fedele, la sua prudenza avrebbe dovuto preveder l'incostanza de' Barbari, e la ragionevole sua ambizione dovea preferire il sicuro ed onorevole posto di Generale Romano. La pazienza medesima, e l'apparente soddisfazione, con cui esso trattò un progetto di tradimento, sarebbe stata capace d'una maligna interpretazione. Ma il Luogotenente di Giustiniano sapeva la propria rettitudine; egli entrò in un oscuro e tortuoso sentiero, quale avrebbe potuto condurre alla volontaria sommissione de' Goti; e la sua destra politica li persuase, ch'egli era disposto a compiacere i lor desiderj, senza però impegnarsi ad alcun giuramento o promessa per la conclusione d'un trattato, ch'ei segretamente abborriva. Dagli Ambasciatori Gotici fu determinato il giorno della resa di Ravenna; una flotta, carica di provvisioni, quasi un graditissimo ospite, fu introdotta nel più interno recinto del porto; furono aperte le porte all'immaginario Re d'Italia; e Belisario, senza incontrare neppure un nemico, passeggiò in trionfo per le strade d'un'inespugnabil Città[716]. I Romani furon sorpresi del loro successo; le truppe degli alti e robusti Barbari restaron confuse all'aspetto della propria loro pazienza; e le donne d'animo più virile, sputando in faccia de' propri figli e mariti, facevan loro i più amari rimproveri per aver abbandonato il dominio e la libertà loro a que' pimmei del mezzogiorno, spregevoli pel numero, e di statura sì piccola. Avanti che i Goti potessero rientrare in se stessi dalla prima sorpresa, e chieder l'adempimento delle incerte loro speranze, il vincitore assicurò il suo potere in Ravenna dal pericolo del pentimento e della rivolta. Vitige, che forse avea tentato di fuggire, fu onorevolmente guardato nel suo palazzo[717]; fu scelto il fiore della gioventù Gotica per il servizio dell'Imperatore; il resto del Popolo fu rimandato alle pacifiche sue abitazioni nelle Province meridionali: e fu invitata una colonia d'Italiani a riempire la spopolata Città. S'imitò la sottomissione della Capitale nelle Città e villaggi d'Italia, che non furono soggiogati, e neppur veduti da' Romani; e gl'indipendenti Goti, che rimasero in armi a Pavia ed in Verona furono solo ambiziosi di sottomettersi a Belisario. Ma l'inflessibile di lui fedeltà rigettò di accettare, in altra qualità che di delegato di Giustiniano, i loro giuramenti d'omaggio; e non si offese del rimprovero dei loro deputati, ch'ei volesse piuttosto essere schiavo che Re.
Dopo la seconda vittoria di Belisario, di nuovo sussurrò l'invidia, a cui Giustiniano diè orecchio, e l'Eroe fu richiamato. «Quel che restava della guerra Gotica (si disse) non era più degno della sua presenza; il grazioso Sovrano era impaziente di premiare i suoi servigi, e di consultarne la saviezza, ed ei solo era capace di difender l'Oriente contro le innumerabili armate della Persia». Belisario conobbe il sospetto, accettò la scusa, imbarcò a Ravenna le sue spoglie e trofei, e con la sua pronta ubbidienza provò, che tale improvvisa remozione dal governo d'Italia non era meno ingiusta di quel che avrebbe potuto essere imprudente. L'Imperatore ricevè con onorevole cortesia tanto Vitige, quanto la sua più nobil consorte; e siccome il Re de' Goti uniformossi alla fede Atanasiana, ottenne insieme con un ricco appanaggio di terre nell'Asia il grado di Senatore e di Patrizio[718]. Ogni spettatore ammirava senza pericolo la forza e la statura de' giovani Barbari: essi adoraron la maestà del Trono, e promisero di spargere il sangue in servizio del loro Benefattore. Giustiniano depositò nel Palazzo Bizantino i tesori della Monarchia Gotica: un Senato adulatore fu ammesso qualche volta ad osservare quel magnifico spettacolo; ma il medesimo fu invidiosamente tolto alla pubblica vista; ed il Conquistatore dell'Italia rinunziò, senza mormorare, e forse anche senza un sospiro, ai ben meritati onori d'un secondo trionfo. La sua gloria infatti s'era innalzata sopra ogni pompa esterna; ed alle tenui ed incerte lodi della Corte, anche in un secolo servile, il rispetto e l'ammirazione della sua Patria. Ovunque compariva Belisario nelle strade, e nelle pubbliche piazze di Costantinopoli, attraeva e soddisfaceva gli occhi del Popolo. L'alta statura, ed il maestoso portamento di lui corrispondevano all'espettazione, che avevano d'un Eroe; le sue gentili e graziose maniere incoraggivano i minimi suoi concittadini; ed il marzial treno, che seguitava i suoi passi, lasciava la sua persona più accessibile, che in una giornata di battaglia. Si mantenevano al servizio, ed a proprie spese del Generale settemila uomini a cavallo, che non avevan gli uguali per la bellezza, e pel valore[719]; la loro prodezza era sempre visibile ne' combattimenti a corpo a corpo, o nelle prime file; ed ambedue le parti confessavano, che nell'assedio di Roma le sole guardie di Belisario avevan vinto l'esercito Barbaro. Il loro numero veniva continuamente accresciuto da' più bravi e fedeli fra' nemici, ed i fortunati suoi schiavi, i Vandali, i Mori ed i Goti emulavano l'attaccamento de' domestici di lui seguaci. Congiungendo insieme la liberalità e la giustizia, egli acquistò l'amor de' soldati senz'alienarsi l'affetto del Popolo. Gli ammalati e feriti venivan soccorsi con medicine e danaro, e più efficacemente ancora, con le visite ed accoglienze salutari del loro Comandante. La perdita d'un arme, o d'un cavallo era subito risarcita, ed ogni atto di valore premiavasi coi ricchi ed onorevoli doni d'un'armilla o d'una collana, che il giudizio di Belisario rendea più preziosi. Egli era caro agli agricoltori per la pace ed abbondanza, che essi godevano, all'ombra delle sue bandiere. In vece d'esser maltrattata la campagna, arricchivasi dalla marcia degli eserciti Romani; e tanto era esatta la disciplina del loro campo, che non coglievano neppure un frutto dagli alberi, nè si sarebbe potuta trovare un'orma di essi nei campi di grano. Belisario era casto e sobrio. Nella licenza d'una vita militare, nessuno potè vantarsi d'averlo mai veduto inebriato dal vino: s'offerirono a' suoi abbracciamenti le più belle schiave delle razze Gotiche o Vandale; ma esso girava altrove lo sguardo, allontanandolo dalle lor grazie, e non cadde mai sul marito d'Antonina il sospetto d'aver violato le leggi della coniugal fedeltà. Lo spettatore ed istorico delle sue geste ha osservato, che in mezzo a' pericoli della guerra egli era intraprendente senza temerità, prudente senza timore, tardo o rapido secondo le occorrenze del momento; che nelle massime angustie era animato da reale o apparente speranza; ma era modesto ed umile nella più prospera fortuna. Per mezzo di queste virtù egli uguagliò, o anche superò gli antichi maestri dell'arte militare. La vittoria per mare e per terra seguitò le sue armi. Egli soggiogò l'Affrica, l'Italia e le Isole a quelle addiacenti; condusse via schiavi i successori di Genserico e di Teodorico; empiè Costantinopoli delle spoglie de' loro Palazzi; e nello spazio di sei anni ricuperò la metà delle Province dell'Impero Occidentale. Nella fama e nel merito, nella ricchezza e nel potere fu senza rivale il primo de' sudditi Romani: la voce dell'invidia non potè che amplificare la pericolosa importanza di tal uomo; e l'Imperatore dovette applaudire al proprio discernimento nell'avere scoperto ed innalzato il genio di Belisario.
L'uso de' trionfi Romani era, che si collocasse uno schiavo dietro al cocchio per rammentare al Conquistatore l'instabilità della fortuna, e le debolezze della natura umana. Procopio ne' suoi Aneddoti, si è addossato, rispetto a Belisario, questo servile ed odioso ufizio. Può il generoso lettore toglier di mezzo la satira; ma resterà l'evidenza de' fatti attaccata alla sua memoria; e dovrà, sebbene con ripugnanza, confessare, che la fama, ed anche la virtù di Belisario furon macchiate dalla lascivia e crudeltà della sua moglie, e che quest'Eroe meritò un nome, che non dee cader dalla penna d'un decente Istorico. La madre d'Antonina[720] era una prostituta di teatro, e tanto il padre che l'avo di essa esercitarono in Tessalonica e Costantinopoli la vile, quantunque lucrosa professione di cocchieri. Nelle varie situazioni della lor fortuna, essa divenne la compagna, la nemica, la serva, e la favorita dell'Imperatrice Teodora: queste due dissolute ed ambiziose donne si eran collegate insieme per la somiglianza de' piaceri, furon separate dalla gelosia del vizio, e finalmente riconciliate fra loro dalla partecipazione della colpa. Prima che si maritasse con Belisario, Antonina ebbe un marito, e parecchi amanti; Fozio, figlio dello prime sue nozze, era in età da distinguersi all'assedio di Napoli; e non fu che nell'autunno della sua età e bellezza[721], ch'ella s'abbandonò ad una scandalosa passione per un giovine Trace. Teodosio era stato educato nell'eresia Eunomiana; il viaggio Affricano fu santificato dal battesimo, e dall'avventuroso nome del primo soldato, che s'imbarcò, ed il proselito fu adottato nella famiglia di Belisario ed Antonina, suoi spirituali parenti[722]. Avanti che si toccassero i lidi dell'Affrica, questa santa parentela degenerò in amor sensuale; e siccome Antonina presto passò i confini della modestia e della cautela, il Generale Romano era il solo, che non sapesse il proprio disonore. Nel tempo che stavano in Cartagine, ei sorprese una volta i due amanti soli, riscaldati, e quasi nudi in una camera sotterranea. Balenò l'ira da' suoi occhi; ma «coll'aiuto di questo giovino (disse Antonina senz'arrossire) io nascondeva i nostri più preziosi effetti agli occhi di Giustiniano». Il giovine riprese le sue vesti, ed il pio marito acconsentì a non prestar fede alla testimonianza de' suoi propri sensi. Di tal piacevole, e forse volontaria illusione Belisario fu risvegliato a Siracusa dall'officiosa informazione di Macedonia; e questa servente, dopo aver richiesto un giuramento per la sua sicurezza, produsse due camerieri, che avevan più volte veduto, come ella medesima, gli adulterj di Antonina. Una precipitosa fuga nell'Asia salvò Teodosio dalla giustizia d'un ingiuriato marito, che aveva dato ad una delle sue guardie l'ordine della morte di esso; ma le lacrime d'Antonina, e le artificiose di lei seduzioni assicurarono il credulo Eroe della sua innocenza; ed ei si piegò, contro la data fede ed il proprio giudizio, ad abbandonare quegl'imprudenti amici, che avevano ardito d'accusare, o di porre in dubbio la castità della sua moglie. La vendetta d'una donna colpevole è implacabile e sanguinosa: la disgraziata Macedonia con i due testimonj furono segretamente arrestati da' ministri della sua crudeltà; fu tagliata loro la lingua, ne furono ridotti i corpi in piccoli pezzi, e gettati nel mare di Siracusa. Restò profondamente impresso nell'animo d'Antonina un detto ardito, quantunque giudizioso, di Costantino che «egli avrebbe piuttosto punito l'adultera, che il giovine» e due anni dopo, quando la disperazione ebbe armato quell'Ufiziale contro il suo Generale, il sanguinario di lei consiglio fece decidere, ed affrettò la sua esecuzione. Neppure allo sdegno di Fozio si perdonò da sua madre; l'esilio del proprio figlio preparò il richiamo dell'amante; e Teodosio condiscese ad accettare il pressante ed umile invito del Conquistatore d'Italia. Il favorito giovine, nell'assoluta direzione della sua casa, ed in varie importanti commissioni di pace e di guerra[723], prestissimo acquistò uno stato di quattrocentomila lire sterline; e dopo che furon tornati a Costantinopoli, la passione, almeno d'Antonina, continuava sempre ardente e vigorosa. Ma il timore, la devozione, e forse la stanchezza inspirarono a Teodosio pensieri più serj. Gli fece spavento l'affaccendato scandalo della Capitale, e la indiscreta tenerezza della moglie di Belisario; fuggì da' suoi abbracciamenti; e ritiratosi ad Efeso, si rase il capo, e si riparò nel santuario d'una vita Monastica. La disperazione della nuova Arianna si sarebbe appena scusata dalla morte del proprio marito: essa pianse, si strappò i capelli, empiè il palazzo delle sue grida: «aveva perduto il più caro degli amici, un tenero, un fedele, un laborioso amico!» Ma le sue calde premure, fortificate dalle preghiere di Belisario, non furon sufficienti a trarre il santo monaco dalla solitudine d'Efeso. Finattantochè il Generale non si mosse per la guerra Persiana, Teodosio non potè indursi a tornare a Costantinopoli; ed il breve intervallo, che passò fra la partenza di Belisario e quella d'Antonina medesima, fu arditamente consacrato all'amore ed al piacere.
Un Filosofo può compatire e perdonar le debolezze del sesso femminile, da cui egli non riceva alcuna reale ingiuria; ma è spregevole il marito, che sente e soffre la sua propria infamia in quella della sua moglie. Antonina perseguitò il proprio figlio con implacabile odio, ed il valoroso Fozio[724] fu esposto alle segrete persecuzioni di essa nel campo di là dal Tigri. Irritato dalle proprie ingiurie, e dal disonor del suo sangue, si spogliò ancor esso de' sentimenti naturali, e manifestò a Belisario la turpitudine d'una donna, che aveva violato tutti i doveri di madre e di moglie. Dalla sorpresa e dall'ira del General Romano apparisce, che la precedente sua credulità fosse sincera: egli abbracciò le ginocchia del figlio d'Antonina, lo scongiurò a rammentarsi le sue obbligazioni piuttosto che la sua nascita, ed essi confermarono avanti l'altare i loro santi voti di vendetta e di reciproca difesa. S'era diminuito il dominio d'Antonina dall'assenza; e quando essa incontrò il marito nel ritorno di lui da' confini della Persia, Belisario nei primi e transitorj suoi moti confinò la persona, e minacciò la vita della medesima. Fozio fu più risoluto a punire, e meno pronto a perdonare. Volò ad Efeso, trasse a forza di bocca da un confidente eunuco di sua madre la piena confessione della colpa di essa; arrestò Teodosio, ed i suoi tesori nella Chiesa di S. Giovanni Apostolo, e nascose i prigionieri, de' quali fu solamente differita l'esecuzione, in una sicura e remota Fortezza di Cilicia. Un oltraggio sì fiero contro la pubblica giustizia non potea passare impunito; e la causa d'Antonina fu sostenuta dall'Imperatrice, di cui avea essa meritato il favore, mediante i recenti servigi dell'infamia d'un Prefetto, e dell'esilio ed uccisione d'un Papa. Al termine della campagna Belisario fu richiamato, ed egli ubbidì secondo il solito, al comando Imperiale. Il suo animo non era disposto alla ribellione; la sua ubbidienza, per quanto contraria fosse a' dettami dell'onore, era coerente ai desiderj del suo cuore; e quando per ordine, e forse in presenza dell'Imperatrice, abbracciò la sua moglie, l'amoroso marito era ben disposto a perdonare o ad esser perdonato. La bontà di Teodora riservava per la sua compagna un favor più prezioso: «Ho trovato, disse ella, mia carissima Patrizia, una gemma d'inestimabil valore; non è stata per anche veduta da alcun occhio mortale; ma la vista ed il possesso di questa gioia è destinata per la mia amica». Accesa che fu la curiosità e l'impazienza d'Antonina, s'aprì la porta d'un Gabinetto, ed essa vide il suo amante, che la diligenza degli eunuchi avea ritrovato nella segreta di lui prigione. La tacita di lei meraviglia scoppiò in tenere esclamazioni di gratitudine e di letizia; e chiamò Teodora sua Regina, sua benefattrice e sua salvatrice. Il monaco d'Efeso fu nutrito nel Palazzo con lusso ed ambizione; ma invece d'assumere, come gli era stato promesso, il comando degli eserciti Romani, Teodosio spirò nelle prime fatiche d'un amoroso congresso. Il cordoglio d'Antonina non potè alleggerirsi, che mediante i patimenti del proprio figlio. Un giovine di condizione Consolare, e d'una debole costituzione, fu punito senza processo come un malfattore ed uno schiavo; pure tale fu la costanza dell'animo suo, che Fozio sostenne i tormenti più forti senza violare la fede, che aveva giurato a Belisario. Dopo questa inutile crudeltà, il figlio d'Antonina, mentre sua madre si divertiva coll'Imperatrice, fu sepolto nelle sotterranee prigioni di questa, che non ammettevano distinzione alcuna fra la notte ed il giorno. Egli scappò due volte a' più venerabili santuari di Costantinopoli, alle Chiese di S. Sofia, e della Vergine: ma le sue tiranne non eran sensibili nè alla religione nè alla pietà; ed il misero giovine, fra i clamori del Clero e del Popolo, fu per due volte dall'Altare tratto alla prigione. Il terzo di lui tentativo fu più fortunato. In capo a tre anni, il Profeta Zaccaria, o qualche mortale suo amico, gl'indicò la maniera di fuggire; deluse le spie e le guardie dell'Imperatrice; giunse al santo sepolcro di Gerusalemme, abbracciò la professione di Monaco; e l'Abate Fozio, dopo la morte di Giustiniano, fu impiegato a riconciliare fra loro, e regolare le Chiese dell'Egitto. Il figlio d'Antonina soffrì tutto quello, che un nemico può infliggere: ma il paziente di lei marito si sottopose alla più vergognosa miseria di violare la sua promessa, e d'abbandonare l'amico.
Nella seguente campagna, Belisario fu di nuovo mandato contro i Persiani: ei salvò l'Oriente; ma offese Teodora, e forse l'Imperatore medesimo. Una malattia di Giustiniano avea colorito il rumore della sua morte; ed il Generale Romano, sulla supposizione di questo probabile avvenimento, parlò col libero linguaggio proprio d'un Cittadino, e d'un soldato. Buze, suo Collega, che concorse ne' medesimi sentimenti, perdè il suo grado, la libertà, e la salute per la persecuzione dell'Imperatrice: ma la disgrazia di Belisario fu alleggerita dalla dignità del proprio di lui carattere, e dall'influenza della sua moglie, che desiderava per avventura d'umiliare, ma non poteva bramar di rovinare il compagno delle sue fortune. La stessa sua remozione si colorì dalla protesta, che il cadente stato d'Italia non potrebbe sostenersi, che dalla presenza del Conquistatore di quella. Ma appena fu egli tornato solo e senza difesa, fu mandata una ostil commissione in Oriente di prender possesso dei suoi tesori, e di processarne le azioni; le guardie ed i veterani, che seguitavano la privata di lui bandiera, si distribuiron fra i Capitani dell'esercito; e fino gli eunuchi presunsero di partecipare nella divisione dei suoi marziali domestici. Quando egli passò con un piccolo e sordido seguito per le strade di Costantinopoli, la sua negletta comparsa eccitò la sorpresa e la compassione del Popolo. Giustiniano e Teodora lo riceverono con fredda ingratitudine; la servile turba con insolenza e disprezzo; e la sera si ritirò con passi tremanti al suo abbandonato palazzo. Una finta o reale indisposizione avea confinato Antonina nel suo appartamento: ed essa passeggiava sdegnosamente tacendo nel vicino portico, mentre Belisario si gettò sul letto, ed in un'agonia di cordoglio e di terrore aspettava la morte, che aveva tante volte sfidata sotto le mura di Roma. Lungo tempo dopo il tramontar del sole, fu annunziato al medesimo un messaggio mandato dall'Imperatrice; ed egli aprì con ansiosa curiosità la lettera, che conteneva la sentenza del suo destino: «Voi non potete ignorare (diceva) quanto avete meritato il mio dispiacere. Io però non sono insensibile a' servigi d'Antonina. Ai meriti, ed all'intercessione di essa io vi ho accordato la vita, e vi permetto di ritenere una parte delle vostre ricchezze, che giustamente si potrebbero confiscare. Si manifesti la vostra gratitudine a chi è dovuta, non già in parole, ma col vostro contegno per l'avvenire». Io non so come fare a credere, o a riferire i trasporti, co' quali si dice, che l'Eroe ricevesse quest'ignominioso perdono. Ei cadde prostrato avanti la sua moglie, baciò i piedi della sua salvatrice, devotamente promise di vivere come un grato e sommesso schiavo d'Antonina. Fu imposta una multa di cento ventimila lire sterline su beni di Belisario, e coll'ufizio di Conte, o di Soprintendente delle stalle Reali egli accettò la condotta della guerra d'Italia. Alla partenza di esso da Costantinopoli, i suoi amici, ed anche il Pubblico eran persuasi, che tostochè avesse ricuperato la libertà, rinunziato avrebbe alla dissimulazione, e che la sua moglie, Teodora, e forse l'Imperatore medesimo, sarebbero stati sacrificati alla giusta vendetta d'un virtuoso ribelle. Restaron deluse però le loro speranze; e l'invincibil pazienza e lealtà di Belisario sembra, che fosse o sotto o sopra il carattere d'un Uomo[725].
FINE DEL VOLUME SETTIMO.
INDICE
DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL SETTIMO VOLUME
CAPITOLO XXXVII. Origine, progresso ed effetto della vita monastica. Conversione de' Barbari al Cristianesimo ed all'Arrianismo. Persecuzione de' Vandali nell'Affrica. Estinzione dell'Arrianismo fra' Barbari.
A.D.
I. La vita monastica. Origine de' Monaci pag. 6
305 Antonio ed i Monaci d'Egitto 8
351-356 9
341 Propagazione della vita monastica in Roma 11
328 Ilarione nella Palestina 11
360 Basilio nel Ponto 12
370 Martino nella Gallia 12
Cause del rapido loro progresso 14
Ubbidienza de' Monaci 18
Loro vesti ed abitazioni 20
Loro vitto 22
Loro lavoro manuale 24
Loro ricchezze 26
Loro solitudine 28
Loro devozione e visioni 29
Cenobiti ed Anacoreti 31
Miracoli e culto de' Monaci 35
Superstizione di quel tempo 36
II. Conversione de' Barbari 37
360 Ulfila Apostolo de' Goti 37
400 I Goti, i Vandali, i Borgognoni ec. abbracciano il Cristianesimo 39
Motivi della lor fede 40
Effetto della lor conversione 43
Restano involti nell'eresia Arriana 44
Arriana persecuzione de' Vandali 47
429-477 Genserico 47
430 Unnerico 48
484 Gundamondo 48
496 Trasimondo 48
523 Ilderico 49
530 Gelimero 49
Esposizione generale della persecuzione in Affrica 50
Frode de' Cattolici 57
E miracoli 60
590-700 Rovina dell'Arrianismo fra' Barbari 63
577-584 Rivolta e martirio d'Ermenegildo nella Spagna 63
586-589 Conversione di Recaredo e de' Visigoti di Spagna 65
600 Conversione de' Lombardi d'Italia 68
612-712 Persecuzione degli ebrei nella Spagna 69
Conclusione 71
CAPITOLO XXXVIII. Regno e conversione di Clodoveo. Sue vittorie sopra gli Alemanni, i Borgognoni ed i Visigoti. Stabilimento della Monarchia francese nella Gallia. Leggi de' Barbari. Stato de' Romani. Visigoti della Spagna. Conquista della Gran Brettagna fatta da' Sassoni.
Rivoluzione della Gallia 73
476-485 Enrico Re de' Visigoti 75
481-511 Clodoveo Re de' Franchi 77
486 Sua vittoria sopra Siagro 79
469 Disfatta e sommissione degli Alemanni 81
496 Conversione di Clodoveo 84
497 Sottomissione degli Armorici e delle truppe Romane 88
499 Guerra co' Borgognoni 90
500 Vittoria di Clodoveo 92
532 Total conquista della Borgogna fatta da' Franchi 94
507 Guerra Gotica 96
Vittoria di Clodoveo 99
Conquista dell'Aquitania fatta da' Franchi 102
510 Consolato di Clodoveo 104
536 Finale stabilimento della monarchia Francese nella Gallia 105
Controversia politica 108
Leggi de' Barbari 109
Pene pecuniarie per l'omicidio 113
Giudizi di Dio 116
Combattimenti giudiciali 118
Divisione delle terre fatta da' Barbari 120
Patrimonio e Benefizi de' Merovingi 122
Usurpazioni private 124
Servitù personale 126
Esempio dell'Alvergna 128
Storia d'Attalo 132
Privilegi de' Romani nella Gallia 136
Anarchia de' Franchi 139
Visigoti della Spagna 141
Assemblee legislative della Spagna 142
Codice de' Visigoti 144
Rivoluzioni della Brettagna 145
449 Discesa de' Sassoni 147
355-582 Stabilimento dell'Enarchia Sassonica 149
Stato de' Brettoni 151
Loro resistenza 152
E fuga 154
Fama d'Arturo 155
Loro resistenza 158
Servitù 160
Costumi de' Britanni 164
Oscuro e favoloso stato della Brettagna 166
Caduta del Romano Impero nell'Occidente 169
OSSERVAZIONI GENERALI Sulla caduta del Romano Impero dell'Occidente 171
Avvertimento opposto dal Traduttore Pisano al Capitolo XXXIII del Gibbon 187
Prefazione dell'Autore 195
CAPITOLO XXXIX. Zenone ed Anastasio, Imperatori d'Oriente. Nascita, educazione, e prime imprese di Teodorico Ostrogoto. Sua invasione e conquista d'Italia. Regno in Italia de' Goti. Stato dell'Occidente. Governo militare e civile. Senatore Boezio. Ultime azioni e morte di Teodorico.
476-527 201
455-475 Nascita ed educazione di Teodorico 201
474-491 Regno di Zenone 204
491-518 D'Anastasio 206
475-488 Servizio militare e rivolta di Teodorico 206
489 Intraprende la conquista d'Italia 209
Sua marcia 211
489-490 Tre disfatte d'Odoacre 212
493 Sua capitolazione e morte 214
493-526 Regno di Teodorico Re d'Italia 216
Divisione delle Terre 217
Distinzione fra i Goti e gl'Italiani 219
Politica di Teodorico verso gli stranieri 220
Sue guerre difensive 223
509 Suo armamento navale 225
Governo Civile d'Italia secondo le Leggi romane 227
Prosperità di Roma 230
500 Visita di Teodorico 231
Stato florido d'Italia 233
Arrianismo di Teodorico 236
Vizi del suo Governo 239
Egli è provocato a perseguitare i Cattolici 241
Carattere, studj ed onori di Boezio 244
Suo Patriottismo 247
Egli è accusato di tradimento 248
524 Sua carcerazione e morte 249
526 Rimorso e morte di Teodorico 252
CAPITOLO XL. Innalzamento di Giustino il Vecchio. Regno di Giustiniano. I. L'imperatrice Teodora. II. Fazioni del Circo e sedizioni di Costantinopoli. III. Commercio e manifatture di seta. IV. finanze e Tributi. V. Edifizi di Giustiniano. Chiesa di S. Sofia. Fortificazione e frontiere dell'Impero d'Oriente. Abolizione delle scuole d'Atene e del Consolato di Roma.
482-483 Nascita dell'Imperatore Giustiniano 255
518-527 Innalzamento e Regno di Giustino suo Zio 257
520-527 Adozione e successione di Giustiniano 258
527-565 Regno di Giustiniano 262
Nascita e vizi dell'Imperatrice Teodora 266
Suo matrimonio con Giustiniano 270
Sua tirannia 273
Sue virtù 274
548 E morte 277
Fazioni del Circo 277
A Roma 279
Esse dividono Costantinopoli e l'Oriente 279
Giustiniano favorisce gli Azzurri 281
532 Sedizione di Costantinopoli chiamata Nika 284
Angustie di Giustiniano 287
Fermezza di Teodora 288
La sedizione è soppressa 289
Agricoltura e manifatture dell'Impero Orientale 290
Uso della seta presso i Romani 293
Trasporto della seta dalla China per terra e per mare 295
Introduzione de' bachi da seta nella Grecia 300
Stato delle rendite 303
Avarizia e profusione di Giustiniano 305
Perniciosi risparmi 306
Remissioni 307
Gravezze 308
Monopoli 309
Venalità 310
Testamenti 311
Ministri di Giustiniano 312
Giovanni di Cappadocia 312
Suoi edifizi ed Architetti 315
Fabbrica della Chiesa di S. Sofia 319
Sua descrizione 321
Marmi 323
Ricchezza 325
Chiese e Palazzi 325
Fortificazioni d'Europa 328
Sicurezza dell'Asia dopo la conquista dell'Isauria 333
492-498 335
Fortificazione dell'Impero dall'Eussino fino alle frontiere della Persia 336
488 Morte di Peroze Re di Persia 340
502-505 Guerra Persiana 342
Fortificazioni di Dara 343
Porte Caspie ed Iberie 344
Scuole d'Atene 347
Esse vengon soppresse da Giustiniano 352
Proclo 353
485-520 Suoi successori 354
Ultimo de' Filosofi 355
541 Il Consolato Romano estinto da Giustiniano 356
CAPITOLO XLI. Conquiste di Giustiniano in Occidente. Carattere e prime campagne di Belisario. Esso invade e soggioga il Regno Vandalico in Affrica. Suo trionfo. Guerra Gotica. Ricupera la Sicilia, Napoli e Roma. Assedio di Roma fatto da' Goti. Ritirata e perdite dei medesimi. Resa di Ravenna. Gloria di Belisario. Sua vergogna, e disgrazie domestiche.
533 Giustiniano risolve d'invader l'Affrica 359
525-530 Stato de' Vandali, Ilderico 360
530-534 Gelimero 361
Contese intorno alla guerra d'Affrica 363
Carattere e scelta di Belisario 365
529-532 Suoi servigi nella guerra Persiana 366
533 Preparativi per la guerra Affricana 368
Partenza della flotta 371
Belisario sbarca sulla costa dell'Affrica settentrionale 375
Disfatta de' Vandali nella prima battaglia 378
Presa di Cartagine 381
Ultima disfatta di Gelimero e de' Vandali 384
534 Conquista dell'Affrica fatta da Belisario 389
Angustie e schiavitù di Gelimero 392
Ritorno e trionfo di Belisario 396
535 Suo Consolato 399
Fine di Gelimero e de' Vandali 399
Costumi e disfatta de' Mori 402
Neutralità de' Visigoti 405
550-620 Conquista de' Romani nella Spagna 407
534 Belisario minaccia gli Ostrogoti d'Italia 407
Governo e morte di Amalasunta Regina d'Italia 409
535 Esilio e morte di essa 413
Belisario invade e sottomette la Sicilia 414
534-536 Regno e debolezza di Teodato Re Goto d'Italia 417
537 Belisario invade l'Italia e sottomette Napoli 420
536-540 Vitige Re d'Italia 424
536 Belisario entra in Roma 427
537 Assedio di Roma fatto da' Goti 428
Valore di Belisario 430
Sua difesa di Roma 430
Rispinge un generale assalto de' Goti 435
Sue sortite 436
Angustie della Città 438
Esilio di Silverio Papa 441
Liberazione della Città 444
Belisario ricupera molte Città d'Italia 447
538 I Goti levano l'assedio di Roma 448
Perdono Rimini 450
Si ritirano a Ravenna 450
Gelosia de' Generali Romani 450
Morte di Costantino 451
L'Eunuco Narsete 452
Fermezza ed autorità di Belisario 453
538-539 Invasione dell'Italia fatta da' Franchi 453
Distruzione di Milano 455
Belisario assedia Ravenna 457
539 Sottomette il Regno Gotico d'Italia 460
Prigionia di Vitige 461
Ritorno e gloria di Belisario 462
Storia segreta di Antonina sua moglie 465
Teodosio di lei amante 466
Risentimento di Belisario, e di Fozio figlio di Antonina 469
Persecuzione del suo figlio 470
Disgrazie e sommissione di Belisario 471
FINE DELL'INDICE.
NOTE:
1. Si è diligentemente discussa l'origine dell'Istituto monastico dal Tommasino ( Discipl. de l'Eglis. Tom I. p. 1419, 1426 ) o dall'Helyot ( Hist. des Ordres monastig. 94, Tom. I. p. 1-66 ). Questi autori son molto eruditi, e passabilmente onesti; e la diversità d'opinione fra loro scuopre il soggetto in tutta la sua estensione. Pure il cauto Protestante, che diffida di qualunque guida Papale, può consultare il settimo libro delle antichità Cristiane del Bingamo.
2. Vedi Euseb. Demonstr. Evang. ( l. 1. p. 20. Edit Graec. Rob. Stephani Paris 1545 ). Nella sua Storia Ecclesiastica pubblicata dodici anni dopo la dimostrazione ( l. 2. c. 17 ) Eusebio asserisce, che i Terapeuti fossero Cristiani; ma sembra, che non sapesse, che un Istituto simile fosse attualmente risorto in Egitto.
3. Cassiano ( Collat. XVIII. 5 ) trae l'istituzione de' Cenobiti da quest'origine, sostenendo, che appoco appoco decadesse, finattantochè non fu restaurata da Antonio e da' suoi Discepoli.
4. Оφελιμωτατον γαρ τι χρημα εις ανθρωπος εχθουσα παρα Фεου η’ τοιαδτη φιλοσοφια. Queste sono l'espressive parole di Sozomeno, che diffusamente e con piacevol maniera descrive (l. I. c. 12, 13, 14) l'origine, ed il progresso di tal monastica filosofia (Vedi Suicer. Thesaur. Eccl. Tom. II. p. 1441 ). Alcuni moderni Scrittori, come Lipsio ( Tom. IV. p. 448, manuduct. ad Philos. Stoic. III. 13 ) e la Mothe-le-Vayer ( Tom. IX. De la vertu des Payens p. 228, 262 ) hanno paragonato i Carmelitani a' Pitagorei, ed i Cinici a' Cappuccini.
5. I Carmelitani traggono la loro genealogia con regolar successione dal Profeta Elia (Vedi le Tesi di Beziers an. 1682 appresso Bayle, Nouvelles de la republ. des Lettres Oeuvr. Tom. I. p. 82, ec. e la prolissa ironia degli ordini monastici, opera anonima Tom. I. p. 433, stampata in Berlino 1751 ). Roma, e l'Inquisizione di Spagna imposero silenzio alla profana critica de' Gesuiti di Fiandra (Helyot, Hist. des Ordres monast. Tom. I. p. 282, 300 ), e si eresse nella Chiesa di S. Pietro la statua d'Elia il Carmelitano ( Voyag. du P. Labat Tom. III. p. 87 ).
6. Plin. Hist. Nat. V. 15 Gens sola; et in toto orbe praeter ceteras mira, sine ulla femina, omni venere abdicata, sine pecunia, socia palmarum. Ita per saeculorum millia (incredibile dictu) gens aeterna est, in qua nemo nascitur. Tam faecunda illis aliorum vitae poenitentia est. Ei li pone appunto al di là del nocivo influsso del lago, e nomina Engaddi, e Masada, come le città più vicine. La Laura, ed il monastero di S. Saba non potevano esser molto distanti da questo luogo (Vedi Reland, Palaestin. Tom. I. p. 295, Tom. II. p. 763, 874, 880, 890 ).
7. Vedi Athanas. Op. Tom. 2. p. 450-505 e Vit. Patrum p. 26-74 con le annotazioni di Rosweyde. La prima contiene l'originale Greco; l'altra è una traduzione Latina molto antica, fatta da Evagrio amico di S. Girolamo.
8. Γραμματα μεν μαθειν ουκ ηνεσχετο. Athanas. Tom. 2. in vit. S Anton. p. 452, ed è stata ammessa l'asserzione della sua totale ignoranza da molti degli antichi, e dei moderni. Ma il Tillemont (Mem. Eccl. Tom. VII. p. 666) dimostra con alcuni probabili argomenti, che Antonio sapeva leggere e scrivere nella Copta sua lingua nativa, ed era solo ignorante della letteratura Greca. Il Filosofo Sinesio ( p. 51 ) confessa, che il naturale ingegno d'Antonio non aveva bisogno dell'aiuto della scienza.
9. Arurae autem erant ei trecentae uberes, et valde optimae ( vit. Patr. l. 1. p. 36 ). Se l'arura è lo spazio di cento cubiti Egizi quadrati (Rosweyde onomastich. ad vit. Patr. p. 1014, 1015 ), ed il cubito Egiziano di tutti i tempi è uguale a ventidue pollici inglesi (Graves vol. 1. p. 233 ) l'arura conterrà circa tre quarti d'un acro inglese.
10. Si fa la descrizione del Monastero da Girolamo ( T. 1. pag. 248, 249. in vit. Hilarion.) e dal P. Sicard ( Missions du Levant. Tom. I. pag. 122, 200 ). Tali descrizioni però non sempre si posson conciliare fra loro. Il S. Padre lo dipinse secondo la sua fantasia, ed il Gesuita secondo la sua esperienza.
11. Girolamo Tom. I. p. 146, ad Eustoch. Hist. Lausiac. c. 7, in vit. Patr. p. 712. Il P. Sicard ( Mis. du Levant Tom. 2. p. 29, 79 ) visitò, e descrisse questo deserto, che adesso contiene quattro monasteri, e venti o trenta Monaci. Vedi D'Anville Descript. de l'Egypt. p. 74.
12. Tabenna è una picciola isola del Nilo, nella diocesi di Tentira o Dendera, fra la moderna città di Girge, e le rovine dell'antica Tebe (d'Anville p. 194 ). Il Tillemont dubita, se fosse un'isola; ma si può dedurre da' fatti, che adduce ci medesimo, che il primitivo suo nome fu di poi trasferito al gran Monastero di Bau, o Pabau ( Mem. Eccl. Tom. VII. p. 678, 688 ).
13. Vedi nell'opera intitolata Codex Regularum (pubblicata da Luca Holstenio Rom. 1661) una prefazione di San Girolamo alla sua traduzione latina della regola di Pacomio. Tom. I. p. 61.
14. Rufin. c. 5, in vit. Patrum p. 459. Ei la chiama Civitas ampla valde, et populosa, e vi conta dodici chiese, Strabone ( lib. XVII. pag. 1166 ), ed Ammiano (XXII. 16) hanno fatto onorevol menzione d'Ossirinco, gli abitanti di cui adoravano un piccol pesce in un magnifico Tempio.
15. Quanti populi habentur in urbibus, tantae pene habentur in desertis multitudines monachorum. Rufin. c. 7, in vit. Patr. p. 461. Esso applaudisce al fortunato cambiamento.
16. Si fa menzione accidentalmente dell'introduzione della vita monastica in Roma, ed in Italia da Girolamo (Tom. I. p. 119, 120, 199).
17. Vedi la vita d'Ilarione, scritta da S. Girolamo ( T. I. p. 241, 252 ). Le storie di Paolo, d'Ilarione, e di Malco son raccontate mirabilmente dal medesimo autore; e l'unico difetto di questi piacevoli componimenti è la mancanza di verità, e di senso comune.
18. La prima sua ritirata fu in un piccol villaggio sulle rive dell'Iri, non molto distante da Neocesarea. I dieci o dodici anni della sua vita monastica furono disturbati da lunghe, e frequenti distrazioni. Alcuni critici hanno posto in dubbio l'autenticità delle sue regole ascetiche; ma sono di gran peso le prove estrinseche, che se ne adducono, ed essi non possono dimostrare se non che quella è opera d'un vero o finto entusiasta. Vedi Tillemont Mem Eccl. Tom. IX. p. 636, 644. Helyot His. des Ord. Mon. Tom. I. p. 175, 181.
19. Vedasi la sua Vita, ed i tre Dialoghi di Sulpicio Severo, il quale asserisce ( Dial. t. 16) che i librai di Roma furono ben contenti della pronta e facile vendita della sua opera popolare.
20. Quando Ilarione navigò da Paretonio al Capo Pachino, offrì di pagare il suo trasporto con un libro degli Evangeli; Postumiano, Monaco della Gallia, che avea visitato l'Egitto, trovò una nave mercantile, che partiva d'Alessandria per Marsiglia, e fece il suo viaggio in trenta giorni (Sulp. Sev. Dial. I. 2). Atanasio, che indirizzò la vita di S. Antonio a' Monaci stranieri, fu costretto ad affrettare la sua opera, affinchè fosse pronta per la partenza delle flotte Tom. 2. p. 451.
21. Vedi Girolamo Tom. I. p. 126, Assemanni Bibl. Or. Tom. IV. p. 92, 857, 919, e Geddes Istor. Eccles. d'Etiopia 29, 30, 31. I Monaci Abissini stanno molto rigorosamente attaccati al primitivo Istituto.
22. Britannia di Cambden Vol. I. p. 666, 667.
23. L'Arcivescovo Usserio nelle sue Britannicar. Eccles. antiquitat. ( Cap. XVI. p. 425, 503 ) espone copiosamente tutta quell'erudizione, che può trarsi da' rimasugli de' secoli oscuri.
24. Questo piccolo, quantunque non infecondo, spazio chiamato Jona, Hy, o Monte Colomb, che ha solo due miglia di lunghezza ed uno di larghezza, si è distinto, I. per il Monastero di S. Colomba, fondato l'anno 566, l'Abbate del quale aveva una giurisdizione straordinaria sopra i Vescovi della Caledonia; II. per una libreria classica che diede qualche speranza di contenere un Livio intiero; e III. per i sepolcri di sessanta Re Scoti, Irlandesi, Norvegi, che furono sepolti in quel santo luogo. Vedi Usserio (pag. 311, 560, 370), e Bucanano ( Rer. Scot. l. II p. 15. edit. Ruddiman ).
25. Il Grisostomo (nel primo Tomo dell'Edizione Benedettina) ha impiegato tre libri in lode e difesa della vita monastica: egli è indotto dall'esempio dell'arca a presumere, che a riserva degli eletti (cioè de' Monaci) nessuno forse potrà salvarsi ( lib. I. pag. 55, 56 ). Altrove però si dimostra più umano ( lib. 3. pag. 83, 84 ) ed ammette diversi gradi di gloria simili a quelli del Sole, della Luna, e delle Stelle. Nella sua vivace comparazione d'un Re con un Monaco ( lib. III. pag. 116, 121 ), egli suppone, che il Re sarà più scarsamente premiato, e più rigorosamente punito.
26. Thomassin ( Discipl. de l'Eglis. Tom. I. p. 1426, 1469 ) e Mabillon ( Oeuvr. Posthum. Tom. 2. p. 115, 158 ). I Monaci furono appoco appoco adottati come una parte della Gerarchia Ecclesiastica.
27. Il D. Middleton ( Vol. I. p. 110 ) grandemente censura la condotta, e gli scritti del Grisostomo, uno de' più eloquenti, ed efficaci avvocati della vita monastica.
28. Le devote femmine di Girolamo occupano una parte assai considerabile de' suoi scritti: il trattato particolare, che ei chiama Epitaffio di Paola ( Tom. 1. p. 169, 192 ) è uno elaborato, e stravagante panegirico. L'esordio di esso è di una ridicola turgidezza: «se tutte le membra del mio corpo si mutassero in lingue, e se tutte risuonassero di voce umana, io ciò nonostante sarei incapace ec.»
29. Socrus Dei esse coepisti (Girol. Tom. I. p. 140, ad Eustoch. ). Ruffino ( in Hieronym. Op. Tom. IV. p. 223 ), che ne fu giustamente scandalizzato, domanda al suo avversario, da qual Pagano poeta avesse preso un'espressione sì empia, ed assurda?
30. Nunc autem veniunt plerumque ad, hanc professionem servitutis Dei, et ex conditione servili, vel etiam liberati, vel propter hoc a dominis liberati, sive liberandi; et ex vita, rusticana, et ex opificum exercitatione, et plebejo labore. Augustin. de oper. Monach. c. 22, ap. Thomassin. Discipl. de l'Eglis. Tom. III. p. 1094. Quell'Egizio, che biasimò Arsenio, confessò che faceva una vita più comoda da Monaco, che da pastore. Vedi Tillemont Mem. Eccles. Tom. XIV. p. 679.
31. Un Frate Domenicano ( Voyag. du P. Labat Tom. 1, p. 10) che alloggiò a Cadice in un Convento di suoi confratelli, tosto conobbe, che le preghiere notturne non interrompevano mai il loro riposo, quoiqu' on ne laisse pas de sonner pour l'edification du peuple.
32. Vedi una Prefazione molto sensata di Luca Holstenio al Codex Regularum. Gl'Imperatori tentarono di sostenere l'obbligazione de' pubblici e privati doveri: ma dal torrente della superstizione furono portati via i deboli ripari: e Giustiniano sorpassò i più ardenti desiderj de' Monaci (Thomassin. Tom. I. p. 1782, 1799, e Bingham. L. VIII. c. 3. p. 253 ).
33. Furon descritti, verso l'anno 400, gl'Istituti Monastici, particolarmente quelli d'Egitto, da quattro curiosi e devoti viaggiatori; cioè da Ruffino ( Vit. Part. 1. II. III. p. 424, 536 ), da Postumiano (Sulp. Sever. Dialog. I ), da Palladio ( Hist. Lausiac. in vit. Patrum p. 709, 863 ) e da Cassiano (Vedi nel tom. VII. Biblioth. maxim. Patr. i primi suoi quattro libri degl'Istituti, ed i ventiquattro delle Collazioni o Conferenze).
34. L'esempio di Malco (Girolamo Tom. I. p. 256), ed il disegno di Cassiano, e del suo amico ( Collat. 24, 1) sono incontrastabili prove della lor libertà, che è descritta elegantemente da Erasmo nella vita che ha fatto di S. Girolamo. (Vedi Chardon Hist. des Sacremens Tom. VI. p. 379, 300).
35. Vedi le leggi di Giustiniano ( Novell. 123. n. 42 ), e di Lodovico Pio ( negli Storici di Francia T. VI. p. 427 ), e l'attuale giurisprudenza Francese, presso Denisart ( Devis, Tom. IV. p. 855 ).
36. L'antico Codex Regularum, compilato da Benedetto Aniano, riformatore de' Monaci, nel principio del nono secolo, e pubblicato nel decimosettimo da Luca Holstenio, contiene trenta regole diverse per gli uomini, e per le donne. Sette di queste furon composte in Egitto, una nell'Oriente, una in Cappadocia, una in Italia, una in Affrica, quattro in Spagna, otto nella Gallia o Francia, ed una nell'Inghilterra.
37. La regola di Colombano, che tanto prevalse in Occidente, assegna cento sferzate per mancanze molto leggiere ( Cod. Reg. part. 2. pag. 174 ). Prima del tempo di Carlo Magno, gli Abbati si divertivano a mutilare i loro Monaci, o a levar loro gli occhi, pena molto meno crudele del tremendo vade in pace (prigione sotterranea, o sepolcro), che fu inventato in seguito. Vedasi un ammirabil discorso dell'erudito Mabillon ( Oeuvr. Posthum. Tom. II. p. 321, 336 ) che in quest'occasione sembra inspirato dal genio dell'umanità. Per tale sforzo gli si può perdonare la sua difesa della santa lacrima di Vandomo p. 561-399.
38. Sulp. Severo Dial, I. 12, 13. p. 532. Cassiano Inst. lib. IV. c. 26, 27. Praecipua ibi virtus et prima est obedientia. Tra le parole Seniorum ( in vit. Patrum lib. V, p. 617) il decimo quarto libello, o discorso s'aggira sopra l'ubbidienza: ed il Gesuita Rosweyde, che pubblicò quel grosso volume per uso de' Conventi, ha raccolto ne' due suoi copiosi indici tutti i passi, che vi sono sparsi.
39. Il Dottor Jortin ( Osservazioni sull'istoria Eccles. vol. IV. p. 161) ha notato lo scandaloso valore de' Monaci Cappadoci, di cui si vide l'esempio nell'esilio del Grisostomo.
40. Cassiano ha descritto semplicemente, quantunque con diffusione, l'abito monastico dell'Egitto ( Istit. l. I ) a cui Sozomeno ( l. III, c. 14 ) attribuisce qualche allegorico senso, e virtù.
41. Regul. Bened. n. 55, in Cod. Regularum Part. 2. p. 51.
42. Vedi la regola di Ferreolo Vescovo d'Uzés ( m. 31. in Cod. Regul. p. 2. p. 136 ), e d'Isidoro, Vescovo di Siviglia (n. 33. in Cod. Regul. p. 2. p. 214 ).
43. Si dava qualche particolar permissione per le mani e per i piedi: Totum autem corpus nemo unguet, nisi causa infirmitatis, nec lavabitur aqua nudo corpore nisi languor perspicuus sit. ( Regul. Pachom. 92. Part. 1. p. 78 ).
44. S. Girolamo esprime con forti ma indiscrete frasi l'uso più importante del digiuno, e dell'astinenza: Non quod Deus universitatis creator et Dominus, intestinorum nostrorum rugitu, et inanitate ventris, pulmonisque ardore delectetur, sed quod aliter pudicitia tuta esse non possit. ( Oper. Tom. I. pag. 137. ad Eustoch.). Vedi le collezioni 12, e 22. di Cassiano de castitate, e de illusionibus nocturnis.
45. Edacitas in Graecis gula est, in Gallis natura. ( Dialog. I. c. 4. pag 521 ). Cassiano chiaramente confessa, che non si può imitare nella Gallia la perfetta norma dell'astinenza, per causa dell' aerum temperies, e qualitas nostrae fragilitatis ( Inst. 4. 11 ). Fra le regole occidentali, quella di Colombano è la più austera; egli era stato educato in mezzo alla povertà dell'Irlanda, forse tanto rigida ed inflessibile, quanto l'astinente virtù dell'Egitto. La regola d'Isidoro di Siviglia è la più dolce: nelle feste concede l'uso della carne.
46. «Quelli, che bevono solamente acqua, e non hanno liquore nutritivo, dovrebbero avere almeno una libbra e mezza ( 24 once ) di pane il giorno» Stat. delle Carceri p. 40. di Howard.
47. Vedi Cassiano Collat. l. II. 19, 20, 21. Ai piccoli pani, o biscotti di sei once l'uno, si diede il nome di Paximacia (Roswayde Onomastic. pag. 1045 ), Pacomio però concesse a' suoi Monaci qualche estensione nella quantità del loro cibo; ma gli faceva lavorare in proporzione di quello che mangiavano (Pallad. in hist. Lausiac. c. 38, 39. in vit. Patr. l. VIII. p. 736. etc. ).
48. Vedasi il banchetto, a cui fu invitato Cassiano ( Collat. VIII. 1 ) da Sereno, Abbate Egiziano.
49. Vedi la regola di S. Benedetto n. 39, 40. ( in Cod. Regul. P. II. pag. 41, 42 ). Licet legamus vinum omnino Monachorum non esse, sed quia nostris temporibus id Monachis persuaderi non potest; egli concede loro un'hemina romana, misura che si può determinare per mezzo delle Tavole dell'Arbuthnot.
50. Tali espressioni, come il mio libro, la mia veste, le mie scarpe (Cassiano Instit. l. IV. c. 13 ) erano proibite fra Monaci occidentali, con severità non minore, che fra gli orientali; ( Cod. Regul. P. II. p. 174, 235, 288 ), e la Regola di Colombano li puniva con sei colpi di disciplina. L'ironico Autore dell'opera intitolata Ordres Monastiques, che pone in ridicolo la folle scrupolosità de' conventi moderni, sembra, che non sappia, che gli antichi erano ugualmente assurdi.
51. Due gran Maestri della scienza ecclesiastica, il P. Tommassino ( Discipl. de l'Eglis. Tom. III. p. 1090, 1139 ) ed il P. Mabillon ( Etudes Monastiq. Tom. I. p. 116, 155 ) hanno seriamente esaminato il lavoro manuale dei Monaci, che il primo risguarda come un merito, ed il secondo come un dovere.
52. Il Mabillon ( Erud. Monast. Tom. I. pag. 47, 55 ) ha raccolto molti curiosi fatti per provare i lavori letterari de' suoi predecessori, sì in Oriente, che in Occidente. Si copiavano libri negli antichi Monasteri d'Egitto (Cassiano Instit. l. IV c. 12 ), e da' Discepoli di S. Martino ( Sulp. Sever. in vit. Martin. c. 7. p. 473 ). Cassiodoro ha dato gran materia per gli studi de' Monaci: e noi non ci scandalizzeremo, se la loro penna talvolta da Grisostomo ed Agostino, passò ad Omero e Virgilio.
53. Il Tommassino ( Discipl. de l'Eglis. Tom. III. p. 118, 145, 146, 171, 179 ) ha esaminato le vicende delle leggi civili, canoniche e comuni. La moderna Francia conferma la morte, che i Monaci si son dati da loro stessi, e giustamente li priva d'ogni diritto d'eredità.
54. Vedi Girolamo Tom. 1. p. 576, 183. Il Monaco Pambo diede questa sublime risposta a Melania, che desiderava di specificare il valore del suo dono: «L'offri tu a me, o a Dio? Se a Dio, quello, che sospende le montagne in una bilancia, non ha bisogno d'essere informato del peso del tuo dono». (Pallad. Hist. Lausiac. c. 10. in vit. Patr. l. VIII. p. 715 ).
55. Το πολυ μερος της ω̃κειωσαντο, προφασει των μεταδιδοναι παντα πτωχοις, παντας (ωσοιπειν) πταχους καταστησαντες. Zosimo L. V. p. 325. Pure la ricchezza de' Monaci orientali fu di gran lunga oltrepassata dalla principesca grandezza de' Benedettini.
56. Il sesto Concilio generale ( il Quinisesto in Trullo Can. 47. ap. Beverid. Tom. 1. p. 213 ) proibisce alle donne di passar la notte in un Monastero di maschi, e agli uomini in uno di femmine. Il settimo Concilio generale ( il Niceno II. Can. 20. ap. Bevereg. Tom. I. p. 325 ) vieta i Monasteri doppi, o promiscui di ambidue i sessi; ma si rileva da Balsamone, che tal proibizione non fu efficace. Sopra i piaceri, e le spese irregolari del Clero, e de' Monaci, vedi Tommassin. Tom. III. p. 1334, 1368.
57. Io ho udito, o letto in qualche luogo questa sincera confessione d'un Abbate Benedettino: «Il mio voto di povertà mi ha dato centomila scudi l'anno; il mio voto di ubbidienza mi ha inalzato al grado di Principe Sovrano.» Mi son dimenticato delle conseguenze del suo voto di castità.
58. Pior, Monaco Egiziano, permise alla sua sorella di vederlo; ma durante la visita tenne sempre gli occhi chiusi. Vedi vit. Patr. l. III, p. 504. Potrebbero addursi molti altri simili esempi.
59. Gli articoli 7, 8, 29, 30, 31, 34, 57, 60, 86 e 95 della regola di Pacomio impongono le leggi più intollerabili di silenzio e di mortificazione.
60. Le preghiere diurne e notturne de' Monaci vengono lungamente discusse da Cassiano ne' libri terzo e quarto delle sue Instituzioni; ed egli costantemente preferisce la liturgia, che un Angelo avea dettata a' Monasteri di Tabenna.
61. Cassiano descrive per propria esperienza l' acedia o torpidezza di spirito e di corpo, a cui trovavasi esposto un Monaco, allorchè sospirava trovandosi solo: Saepiusque egreditur, et ingreditur cellam, et solem velut ad occasum tardius properantem crebrius intuetur ( Instit.)
62. Le tentazioni, ed i tormenti di Stagirio furono da quell'infelice giovane comunicati a S. Gio. Grisostomo, suo amico. Vedi Middleton Oper. Vol. I, p. 107, 110. In simile guisa presso a poco principia la vita d'ogni Santo, ed il famoso Inigo, o Ignazio fondatore de' Gesuiti ( Vit. di Inigo di Guiposcoa Tom. I, p. 29, 38 ) può servire di memorabil esempio.
63. Fleury Hist. Eccl. Tom. VII. pag. 46. Ho letto in qualche luogo delle Vite de' Padri, ma non ho potuto ritrovarlo, che vari, e credo molti de' Monaci, che non manifestavano all'Abbate le loro tentazioni, divenivano rei di suicidio.
64. Vedi le Collazioni 7 ed 8 di Cassiano, ch'esamina gravemente, perchè i demonj eran divenuti meno attivi e numerosi dopo il tempo di S. Antonio. Il copioso indice di Rosweyde alle Vite de' Padri somministra una gran varietà di scene infernali. I diavoli erano più formidabili in forma di donne, che in qualunque altra.
65. Quanto alla distinzione de' Cenobiti, e degli Eremiti, specialmente in Egitto, vedi Girolamo ( Tom. 1. p. 45. ad Rustic.), il primo dialogo di Sulpicio Severo, Ruffino ( c. 22. in Vit. Patr. l. 11. p. 478 ), Palladio ( c. 7, 69. in vit. Patr. L. VIII. p. 712, 758 ), e soprattutto le Collazioni 18 e 19 di Cassiano. Questi Scrittori, che paragonano la vita comune con la solitaria, scuoprono l'abuso ed il pericolo di quest'ultima.
66. Suicer. Thesaur. Eccles. Tom. I. p. 205, 218. Il Tommassino ( Discipl. de l'Eglis. Tom. I. pag. 1501, 1502 ) da una buona descrizione di queste celle. Quando Gerasimo fondò il suo Monastero, nel deserto del Giordano, questo fu accompagnato da una Laura di settanta celle.
67. Teodoreto ha raccolto in un grosso Volume ( Philotheus in Vit. Patr. L. IX. p. 793, 863 ) le vite ed i miracoli di trenta Anacoreti. Evagrio ( l. 1. c. 12 ) celebra più brevemente i Monaci ed Eremiti della Palestina.
68. Sozomeno L. VI. c. 33, Il celebre Sant'Efrem compose un panegirico su questi Βοσγοι, o Monaci pascolanti (Tillemont Mem. Eccl. Tom. 8. p. 292 ).
69. Il P. Sicard. ( Missions du Levant Tom. II. p. 217, 233) esaminò le caverne della bassa Tebaide con maraviglia e devozione. Le iscrizioni sono in carattere Siriaco antico, quale si usava da' Cristiani nell'Abissinia.
70. Vedi Teodoreto ( in Vit. Patr. L. IX. p. 848,854), Antonio ( in Vit. Patr. L. I. p. 170, 177), Cosma ( in Assemann. Biblioth. Or. Tom. I. p. 239,253), Evagrio ( L. I. c. 13, 14), e Tillemont ( Mem. Eccl. Tom. XV. p. 347, 392).
71. L'angusta circonferenza di due cubiti, o di tre piedi, ch'Evagrio attribuisce alla sommità della colonna, non combina con la ragione, co' fatti, nè con le regole d'Architettura. Il popolo, che la vedeva da basso, poteva facilmente ingannarsi.
72. Non debbo tacer un motivo d'antico scandalo intorno all'origine di questa piaga. Fu detto, che 'l diavolo, prendendo la forma d'Angelo, l'invitò a salire com'Elia sopra un carro di fuoco. Il Santo alzò il piede con troppa fretta, e Satana profittò di quell'istante per gastigare in tal modo la sua vanità.
73. Io non saprei come scegliere, o specificare i miracoli contenuti nelle Vitae Patrum di Rosweyde, mentre il numero di essi avanza molto le mille pagine di quella voluminosa opera. Se ne può trovare un elegante saggio ne' dialoghi di Sulpicio Severo, e nella sua vita di S. Martino. Ei venera i Monaci d'Egitto; ma gl'insulta osservando, che essi non risuscitaron mai morti, mentre il Vescovo di Tours aveva restituita la vita a tre persone.
74. Rispetto ad Ulfila, ed alla conversione de' Goti, vedasi Sozomeno L. VI. c. 37. Socrate L. IV. c. 33. Teodoreto L. IV. c. 37. Filostorgio L. II. c. 5. Sembra che l'eresia di Filostorgio gli abbia somministrato de' mezzi più atti ad informarsi.
75. Si pubblicò l'anno 1665 una copia mutilata de' quattro Evangeli della Versione Gotica, ed è stimata il monumento più antico della lingua Teutonica, sebbene Wetstein tenti, mediante alcune frivole congetture, di togliere ad Ulfila l'onore di quell'opera. Due delle quattro Lettere aggiunte esprimono il W, e il Th degli Inglesi. (Vedi Simon. Hist. Critiq. du nouv. Testam. Vol. II. p. 219, 223. Mill. Prolegomen. p. 157. Edit. Kuster. Wetstein Prolog. Tom I. p. 114 ).
76. Filostorgio erroneamente pone questo passaggio sotto il regno di Costantino; ma io sono molto inclinato a credere, che questo fosse anteriore a quella grande emigrazione.
77. Noi dobbiamo a Giornandes ( de Reb. Get. cap. 151. p. 688 ) una breve e vivace pittura di questi Goti minori. « Gothi minores, populus immensus, cum suo Pontifice ipsoque Primate Wulfila ». Le ultime parole, se non sono una pura ripetizione, indicano qualche giurisdizione temporale.
78. At non ita Gothi, non ita Vandali; malis licet Doctoribus instituti, meliores tamen etiam in hac parte quam nostri. Salvian. ( de Gubern. Dei L. VII. p. 243 ).
79. Il Mosemio ha leggiermente abbozzato il progresso del Cristianesimo nel Nord dal quarto secolo fino al decimo quarto. Questo soggetto somministrerebbe de' materiali per un'ecclesiastica, ed anche filosofica storia.
80. Socrate ( L. VII. c. 30 ) attribuisce a tal causa la conversione de' Borgognoni, la pietà cristiana de' quali è celebrata da Orosio ( L. VII. c. 19 ).
81. Vedasi un originale e curiosa lettera scritta da Daniele, primo Vescovo di Winchester ( Bede Hist. Eccl. Angloi., L. V. c. 18. p. 203. edit. Smith ) a S. Bonifacio, che predicava il Vangelo fra' Selvaggi dell'Asia, e della Turingia, Epistol. Bonifacii 67 nella Maxima Bibliotheca Patrum Tom. XIII. p. 93.
82. La spada di Carlo Magno accrebbe forza all'argomento: ma quando Daniele scrisse questa lettera ( an. 725 ), i Maomettani, che regnavano dall'India fino alla Spagna, potevano ritorcerlo contro i Cristiani.
83. Le opinioni di Ulfila e de' Goti tendevano al Semiarrianismo, poichè non volevano essi dire, che il Figlio fosse una creatura: quantunque comunicassero con quelli, che sostenevano tal eresia. Il loro Apostolo rappresentò tutta la disputa come una questione di piccol momento, e che si era eccitata dalle passioni del Clero. Teodoret. L. IV. c. 37.
84. Si è imputato l'Arrianismo de' Goti all'Imperator Valente: Itaque justo Dei judicio ipsi eum vivum incenderunt, qui propter eum etiam mortui, vitio erroris arsuri sunt. Orosio L. VII. c. 33. p. 354. Questa crudel sentenza vien confermata dal Tillemont ( Mem. Eccl. T. VI. p. 604, 610 ), che freddamente osserva «un seul homme entraîne dans l'enfer un nombre infini de Septentrionaux etc.» Salviano ( de Gubernat. Dei L. V. p. 150, 151 ) compatisce, e scusa il loro involontario errore.
85. Orosio asserisce nell'anno 416 ( L. VII. c. 21 p. 580 ) che le Chiese di Cristo (cioè de' Cattolici) eran piene di Unni, di Svevi, di Vandali, di Borgognoni.
86. Ratbodo, Re de' Frisoni, fu tanto scandalizzato da tal temeraria dichiarazione d'un Missionario, che tornò indietro, dopo esser entrato nel fonte battesimale. (Vedi Fleury Hist. Eccl. Tom. IX. p, 167 ).
87. Le lettere di Sidonio Vescovo di Vienna sotto i Visigoti, e d'Avito Vescovo di Vienna sotto i Borgognoni dimostrano alle volte, in oscuri accenti, le disposizioni generali de' Cattolici. L'istoria di Clodoveo, e di Teodorico somministrerà de' fatti particolari su questo proposito.
88. Genserico confessò tal somiglianza, mediante la severità con cui punì quelle indiscrete allusioni. Victor Vitens l. 7. p. 10.
89. Tali sono le querele contemporanee di Sidonio Vescovo di Clermont ( L. VII. c. 6. p. 182, ec. edit. Sirmond ). Gregorio di Tours, che cita questa lettera ( L. II. c. 25 in Tom. 2. p. 174 ), ne trae un'asserzione, che non si può verificare, cioè che di nove sedi Vacanti nell'Aquitania, alcune eran vacate per causa di Martiri episcopali.
90. I monumenti originali della persecuzione de' Vandali si son conservati ne' cinque libri dell'istoria di Vittore Vitense ( de persecutione Vandalicà ), Vescovo che fu esiliato da Unnerico; nella vita di S. Fulgenzio, che si distinse nella persecuzione di Trasimondo ( in Biblioth. max. Patr. T. IX. p. 4, 16 ) e nel primo libro della guerra Vandalica dell'imparzial Procopio ( c. 7, 8, p. 196, 197, 198, 199 ), Il Ruinart, ultimo editore di Vittore, ha illustrato tutto questo soggetto con un copioso e dotto apparato di note, e di supplementi ( Parigi 1694 ).
91. Victor. IV. 2. p. 65. Unnerico nega il nome di Cattolici agli Omousi. Descrive come, veri Divina Majestatis cultores, quegli del suo partito, che professavan la fede confermata da più di mille Vescovi ne' Concilj di Rimini e di Seleucia.
92. Victor. II. 1. p. 21, 22. Laudabilior.... videbatur. Ne' Manoscritti, ne' quali si omette questa parola, il passo non è intelligibile. Vedi Ruinart not. p. 264.
93. Victor. II. 2, p. 22, 23. Il Clero di Cartagine chiamava queste condizioni periculosae; ed infatti sembra, che fossero poste come una rete per prendere i Vescovi Cattolici.
94. Vedi la narrazione di questa conferenza, ed il trattamento de' Vescovi presso Vittore II, 13, 18, p. 35, 42, e tutto il quarto libro p. 63, 171. Il terzo libro ( p. 42, 62 ) contiene la loro apologia, o confessione di fede.
95. Vedasi la lista de' Vescovi affricani presso Vittore p. 117, 120 con le note del Ruinart p. 215, 397. Spesso vi si trova il nome scismatico di Donato, e sembra, che avessero adottato (come i nostri fanatici dell'ultimo secolo) le pie denominazioni di Deodatus, Deogratias, Quidvult Deus, Habet Deum etc.
96. Fulgent. Vit. c. 16, 29. Trasimondo affettava la lode di moderazione e di dottrina; e Fulgenzio indirizzò tre libri di controversia all'Arriano Tiranno, ch'ei chiama piissime Rex. ( Bibliot. max. Patr. Tom. IX. p. 21 ). Nella vita di Fulgenzio si fa menzione di soli sessanta Vescovi esuli; si accrescono fino a centoventi da Vittore Tunnunense, e da Isidoro; ma si specifica il numero di dugentoventi nell' Historia Miscella, ed in una breve Cronica autentica di quei tempi. Vedi Ruinart p. 570, 571.
97. Vedansi gl'insipidi e bassi epigrammi dello Stoico, il quale non seppe soffrir l'esilio con maggior fortezza, che Ovidio. La Corsica poteva non produrre del grano, del vino, o dell'olio; ma non poteva mancare di erbaggi, d'acqua, e di fuoco.
98. Si ob gravitatem coeli interissent, vile damnum. Tacit. Annal. II. 85. Facendone l'applicazione, Trasimondo avrebbe adottato la lettura di alcuni critici, utile damnum.
99. Vedansi questi preludj d'una general persecuzione appresso Vittore II. 3, 4, 7, ed i due editti d'Unnerico L. II. p. 35. L. IV. p. 64.
100. Vedi Procopio de Bell. Vandal. L. I. c. 7, p. 197, 198. Un Principe Moro cercava di rendersi propizio il Dio de' Cristiani, mediante la sua diligenza a cancellare i segni del sacrilegio Vandalico.
101. Vedi questa storia presso Vittore II. 8, 12. p. 30, 34. Vittore descrive le angustie di que' Confessori come testimone di veduta.
102. Vedasi il quinto libro di Vittore. Le sue appassionate querele son confermate dalla sobria testimonianza di Procopio, e dalla pubblica dichiarazione dell'Imperator Giustiniano ( Cod. Lib. I. tit. 27 ).
103. Victor. II, 18. p. 71.
104. Victor. V. 4. p. 74, 75. Ei chiamavasi Vittoriano, ed era un ricco Cittadino d'Adrumeto, che godeva la confidenza del Re, per il favore del quale aveva ottenuto il posto, o almeno il titolo, di Proconsole dell'Affrica.
105. Victor. I. 6. pag. 8, 9. Dopo aver narrato la ferma resistenza, e la destra risposta del Conte Sebastiano, soggiunge: Quare alio generis argumento postea bellicosum Virum occidit.
106. Victor. V. 12, 13. Tillemont, Mem. Eccl. Tom. IV. p. 609.
107. Il titolo proprio del Vescovo di Cartagine era quello di Primate: ma dalle Sette, e dalle nazioni si dava il nome di Patriarca al loro principal Ministro Ecclesiastico. Vedi Tommassin., Discipl. de l'Eglis. Tom I. p. 155, 158.
108. Il Patriarca Civila stesso dichiarò, ch'ei non intendeva il Latino (Victor. II. p. 42.) nescio latine; e poteva tollerabilmente conversare, senza esser però capace, di predicare o disputare in quella lingua. Il Vandalo suo Clero era vie più ignorante; e poco potea contarsi sugli Affricani, che si erano uniformati al medesimo.
109. Victor. II, 1, 3. p. 22.
110. Victor. V. 7. p. 72. Ei chiama in testimone l'Ambasciatore medesimo, che aveva per nome Uranio.
111. Astutiores, Vict. IV. 4. p. 70. Egli chiaramente afferma, che la lor citazione del Vangelo non jurabitis in toto non tendeva, che ad eludere l'obbligazione d'un giuramento inconveniente. I quarantasei Vescovi, che ricusarono, furono esiliati in Corsica; ed i trecentodue, che giurarono, furono distribuiti per le Province dell'Affrica.
112. Fulgenzio, Vescovo di Ruspa nella Provincia Bizacena, era d'una famiglia Senatoria, ed aveva avuto una nobile educazione. Egli sapeva tutto Omero o Menandro prima che incominciasse a studiare il Latino, sua lingua nativa. ( Vit. Fulgent. c. 1 ). Molti Vescovi Affricani intendevano il Greco, ed erano stati tradotti in Latino molti Greci Teologi.
113. Si confrontino le due prefazioni a' dialoghi di Vigilio di Tapso ( pag. 118, 129. edit. Chifl.). Ei poteva divertire i suoi eruditi lettori con un'innocente finzione; ma il soggetto era troppo grave, e gli Affricani troppo ignoranti.
114. Il P. Quesnel mosse quest'opinione, che si è ricevuta favorevolmente. Ma le seguenti tre verità, per quanto possano parer sorprendenti, sono presentemente accordate da tutti (Gearardo Voss. Tom. VI. p. 516, 522. Tillemont, Mem. Eccl. Tom VIII. p. 667, 671 ): 1. S. Atanasio non è l'autore del Credo, che sì frequentemente si legge nelle nostre Chiese; 2. non sembra, che questo esistesse per lo spazio d'un secolo dopo la sua morte; 3. fu composto originalmente in lingua Latina, e per conseguenza nelle Province occidentali. Gennadio, Patriarca di Costantinopoli, fu tanto sorpreso da tale straordinaria composizione, che disse francamente, che quella era opera d'un ubbriaco. (Petav., Dogm. Theolog. Tom. II. L. VII. c. 8. p. 587 ).
115. I. Joan. V. 7. Vedi Simone, Hist. Crit. du nouv. Testam. Part. I. c. 18. p. 203, 218., e Part. II. c. 9. p. 99, 121 e gli elaborati Prolegomeni ed Annotazioni, del Dot. Mill e di Wetstein, alle loro edizioni del Testamento Greco. Nel 1689 il Papista Simon cercava d'esser libero; nel 1707 il Protestante Mill desiderava d'essere schiavo; nel 1751 l'Arminiano Wetstein si servì della libertà de' suoi tempi, e della sua setta.
116. Fra tutti i Manoscritti che esistono nel numero di ottanta ve ne sono alcuni che hanno almeno 1200 anni. (Wetstein lot. cit. ). Le copie ortodosse del Vaticano, degli Editori Complutensiani, e di Roberto Stefano son divenute invisibili; ed i due Manoscritti di Dublino e di Berlino non meritano di fare un'eccezione. Vedi Emlyn Oper. Vol. II. pag. 227, 255, 269, 299 e le quattro ingegnose lettere del Sig. de Missy nel Tom. 8 e 9 del Giornale Britannico.
117. O piuttosto da' quattro Vescovi, che composero, e pubblicarono la professione di fede in nome de' loro confratelli. Essi dicono questo testo luce clarius (Victor. Vitens. De persecut. Vandal. L. III. c. II. p. 54 ). Poco dopo è citato da' Polemici Affricani, Vigilio e Fulgenzio.
118. Nell'XI, e XII secolo le Bibbie furon corrette da Lanfranco, Arcivescovo di Canterbury, e da Nicola, cardinale e bibliotecario della Chiesa Romana, secundum ortodoxam fidem (Wetstein Prolegom. p. 84, 85 ). Nonostanti queste correzioni, quel passo tuttavia manca in venticinque Manoscritti Latini (Wetstein loc. cit. ), che sono i più antichi, ed i più belli: due qualità, che rare volte s'uniscono, eccetto ne' Manoscritti.
119. Quest'arte, che avevano inventato i Germani, fu applicata in Italia agli scrittori profani di Roma, e della Grecia. Si pubblicò verso il medesimo tempo l'originale Greco del Nuovo Testamento ( an. 1514, 1516, 1520 ) per opera di Erasmo, e per la munificenza del Cardinal Ximenes. La Poliglotta Complutensiana costò al Cardinale 50000 ducati. (Vedi Mattaire Annal. Typog. Tom II. p. 2, 8, 125, 133 e Wetstein Prolegom. p. 126, 127 ).
120. Si sono stabiliti i tre testimoni nel nostro Testamento Greco per la prudenza d'Erasmo, per l'onesto bigottismo degli Editori Complutensiani, per l'inganno, o errore tipografico di Roberto Stefano in porvi un segno, e per la deliberata falsità, o strano timore di Teodoro Beza.
121. Plin. Hist. Nat. V. I. Itinerar. Wesseling, p. 15. Cellar. Geogr. antiq. Tom. II. Part. II. p. 127. Questa Tipasa (che non si dee confondere con un'altra nella Numidia) era una città di qualche considerazione, poichè Vespasiano la distinse col diritto del Lazio.
122. Ottato Milevitano, de schism. Donatist. L. II. p. 38.
123. Vittor. Vitens. V. 6. p. 76. Ruinart p. 483, 487.
124. Enea Gaz. in Theophrasto, in Biblioth. Patr. T. VIII. p. 664, 665. Egli era Cristiano, e compose questo dialogo, intitolato il Teofrasto, sull'Immortalità dell'anima, e la Risurrezione del corpo, oltre venticinque lettere, che tuttavia esistono. (Vedi Cave, Hist. Letter. p. 297, e Fabric., Bibl. Graec. Tom. I. p. 422 ).
125. Giustiniano, Cod. Lib. I. Tit. XXVII. Marcellin., in Chron. p. 45. in Thesaur. Tempor. Scaliger. Procopio, de Bell. Vandal. L. 1. c. 7. p. 196. Gregorio M., Dial. 3, 32. Nessuno di questi ha specificato il numero de' Confessori, che si determina a sessanta in un Menologio antico (ap. Ruinart p. 486 ). Due di loro perdettero la favella per causa di fornicazione, ma il miracolo si accresce per la singolare circostanza d'un fanciullo, che non aveva mai parlato prima che gli fosse tagliata la lingua.
126. Vedi i due Storici generali di Spagna, Mariana ( Hist. de Reb. Hispan. Tom. I. L. V. c. 12, 15. p. 183, 194 ), e Ferreras ( Traduzione Francese Tom. II. p. 206, 247 ). Mariana quasi si scorda d'essere un Gesuita par prender lo stile, e lo spirito d'un classico Romano. Ferreras, industrioso Compilatore, n'esamina i fatti, e ne rettifica la cronologia.
127. Goisvinta sposò successivamente due Re de' Visigoti, Atanagildo, a cui partorì Brunechilde madre d'Ingunde: e Leovigildo, i due figli del quale Ermenegildo e Recaredo, eran nati da un matrimonio precedente.
128. Iracundiae furore succensa adprehensam per comam capitis puellam in terram conlidit, et diu calcibus verberatam ac sanguine cruentatam jussit exspoliari, et piscinae immergi. Greg. Turon. L. V. c. 39. in Tom. II. pag. 255. Gregorio è uno de' migliori originali, che abbiamo, per questa porzione d'Istoria.
129. I Cattolici, che ammettevano il battesimo degli Eretici, ripetevano il rito, o come fu chiamato dopo, il sacramento della Confermazione, al quale attribuivano molte mistiche e maravigliose prerogative, sì visibili, che invisibili. Vedi Chardon, Hist. des Sacramens Tom. I. p. 405, 552.
130. Osset, o Giulia Costanza, era in faccia a Siviglia nella parte settentrionale della Betica (Plin. Hist. nat. III ) ed il ragguaglio autentico di Gregorio di Tours ( Hist. francor. L. VI 43. p. 288 ) merita più fede, che il nome di Lusitania ( de Glor. Martyr. c. 24 ), che ardentemente fu abbracciato dal vano e superstizioso Portoghese (Ferreras, Hist. d'Espagne Tom. II. p. 166 ).
131. Si fece questo miracolo con molta abilità: un Re Arriano sigillò le porte, e scavò una profonda fossa intorno alla Chiesa, senza potere impedire la copia dell'acqua Battesimale nella Pasqua.
132. Ferreras ( Tom. II. pag. 168, 175 an. 550 ) ha illustrato le difficoltà, che si fanno intorno al tempo, ed alle circostanze della conversione degli Svevi. Essi erano stati recentemente uniti da Leovigildo alla Gotica Monarchia di Spagna.
133. Quest'aggiunta al simbolo Niceno, o piuttosto Costantinopolitano, fu fatta per la prima volta nell'ottavo concilio di Toledo l'anno 633. Ma non fece che esprimere la dottrina popolare (Gerard. Vossio Tom. VI. p. 527 de tribus Symbolis ).
134. Vedi Gregor. Magn. L. VII. ep. 126. ap. Baron. Annal. Eccl. an. 599. n. 25, 26.
135. Paolo Varnefrido ( de Gest. Longobard. L. IV. c. 44 pag. 853 Edit. Grot.) confessa, che l'Arrianismo era tuttavia in vigore sotto il regno di Rotari ( an. 636, 652 ). Il pio Diacono non cerca di fissare l'epoca precisa della nazional conversione, che per altro fu ultimata prima che finisse il settimo secolo.
136. Quorum fidei et conversioni ita gratulatus esse rex perhibetur, ut nullum tamem cogeret ad Christianisimum.... Didicerat enim a doctoribus, auctoribusque suae salutis, servitium Christi voluntarium, non coactitium esse debere. Beda, Hist. Eccl. l. 1. c. 26. p. 62. Edit. Smith.
137. Vedi gl'Istorici di Francia ( Tom. IV. p. 114 ) e Wilkins ( Leg. Anglo-Saxonic. p. 11, 31 ). Si quis sacrificium immolaverit praeter Deo soli, morte moriatur.
138. Gli Ebrei pretendono, ch'essi fossero introdotti nella Spagna dalle flotte di Salomone, e dalle armi di Nabuccodonosor, che Adriano vi trasferisse quarantamila famiglie della Tribù di Giuda, e diecimila della Tribù di Beniamino ec. Basnag., Hist. des Juifs. Tom. VII. c. 9. pag. 240, 256.
139. Isidoro, ch'era in quel tempo Vescovo di Siviglia, fa menzione dello zelo di Sisebuto, lo disapprova, e se ne congratula ( Chron. Goth. pag. 728 ). Il Baronio ( an. 614. n. 41 ) assegna il numero de' perseguitati sulla testimonianza d'Aimoino L. IV, c. 22; ma tal prova è debole, ed io non ho potuto verificar la citazione Istor. di Franc. T. III p. 127.
140. Basnage ( Tom. VIII. c. 13. p 388, 400 ) rappresenta fedelmente lo stato degli Ebrei; ma egli avrebbe potuto aggiungervi, da' Canoni de' Concilj di Spagna e dalle Leggi de' Visigoti, molte curiose circostanze essenziali per il suo soggetto, quantunque siano estranee al mio.
141. In questo Capitolo io trarrò le mie citazioni dall'Opera intitolata Recueil des Historiens des Gaules, et de la France. Paris 1738-1767 in undici Tomi in foglio. Mediante la fatica di Dom Bouquet e degli altri Benedettini, si sono disposte per ordine cronologico, ed illustrate con erudite note tutte le memorie originali fino all'anno 1060. Tal opera nazionale, che sarà continuata fino all'anno 1500 dovrebbe provocare la nostra emulazione.
142. Tacito Hist. IV. 73, 74. in Tom. I. p. 445. Sarebbe in vero una presunzione il compendiar Tacito. Ma io posso scegliere le idee generali che egli applica al presente stato, ed alle future rivoluzioni della Gallia.
143. Eadem semper caussa Germanis transcendendi in Gallias libido atque avaritiae et mutandae sedis amor; ut relictis paludibus et solitudinibus suis, fecundissimum hoc solum vosque ipsos possiderint.... Nam pulsis Romanis, quid aliud quam bella omnium inter se gentium exsistent?
144. Sidonio Apollinare scherza, con affettato spirito e vivacità, sulle angustie della sua situazione ( Carm. XII. in Tom. I. p. 811 ).
145. Vedi Procopio, de Bell. Gothico L. I. c. 12. in T. II. p. 31. Il carattere di Grozio mi fa inclinare a credere, che egli non abbia sostituito il Reno al Rodano ( Hist. Gothor. p. 175 ) senza l'autorità di qualche manoscritto.
146. Sidonio L. VIII. Epist. 3, 9. in Tom. I. p. 800. Giornandes ( de Reb. Getic. c. 47. p. 680 ) giustifica in qualche modo questo ritratto dell'eroe Goto.
147. Io fo uso del nome famigliare di Clovis, Clodoveo, dal latino Chlodovechus o Chlodovaeus. Ma il ch esprime solamente l'aspirazione Germanica; ed il vero nome non è diverso da Luduin, o Lewis, Lodovico o Luigi ( Mem. de l'academ. des Inscript. Tom. XX. p. 68 ).
148. Greg. Turon. L. II. c. 12. in Tom. I. p. 168. Basina parla il linguaggio della natura. I Franchi, che l'avevan veduta nella lor gioventù, poterono conversar con Gregorio nella lor vecchiezza; ed il Vescovo di Tours non potea desiderare infamare la madre del primo Re Cristiano.
149. L'Abbate Dubos ( Hist. critiq. de l'etablissem. de la Monarch. Franc. dans les Gaules, Tom. I. p. 630, 650 ) ha il merito di aver stabilito il primitivo regno di Clodoveo, e fissato il vero numero de' suoi Sudditi.
150. Ecclesiam incultam ac negligentia civium paganorum praetermissam, veprium densitate oppletam. Vit. S. Vedasti in Tom. III. p. 372. Questa descrizione suppone, che Arras fosse posseduta da' Pagani, molti anni prima del battesimo di Clodoveo.
151. Gregorio di Tours ( L. V. c. I. in Tom. II. p. 232 ) confronta la povertà di Clodoveo con la ricchezza de' suoi nipoti. Remigio però ( in Tom. IV. pag. 52 ) fa menzione delle sue paterne ricchezze, come sufficienti a redimer gli schiavi.
152. Vedi Gregorio L. II. c. 27, 37. in Tom. II. p. 175, 181, 182. La famosa storia del vaso di Soissons spiega la potenza ed il carattere di Clodoveo. Come soggetto di controversia si è stranamente torturato dal Boulainvilliers, dal Dubos, e da altri antiquari politici.
153. Il Duca di Nivernois, nobil Politico, il quale ha maneggiato importanti e delicate negoziazioni, illustra ingegnosamente ( Mem. de l'Acad. des Inscr. Tom. XX. p. 147, 184 ) il sistema politico di Clodoveo.
154. Il Biet (in una Dissertazione, che meritò il premio dell'Accademia di Soissons p. 178, 226 ) accuratamente ha determinato la natura e l'estensione del Regno di Siagrio, e di suo Padre; ma troppo facilmente ammette la debole testimonianza di Dubos ( Tom. II. p. 54, 57 ) per privarlo di Beauvais e d'Amiens.
155. Si può avvertire, che Fredegario nella sua Epitome di Gregorio di Tours ( Tom. II. p. 398 ) ha prudentemente sostituito il nome di Patricius all'incredibile titolo di Rex Romanorum.
156. Sidonio ( L. V. ep. 5. in Tom. 1. p. 794 ), che lo chiama il Solone, l'Amfione de' Barbari, s'indirizza a questo Re immaginario in uno stile d'amicizia e d'uguaglianza. Per mezzo di tali uffizi di equità, l'accorto Dejoce si era inalzato al trono de' Medi (Herodot. l. 1. c. 96, 100 ).
157. Campum sibi praeparari jussit. Il Biet (226, 261) ha diligentemente fissato questo campo di battaglia a Nogent, Abbazia Benedettina, distante circa dieci miglia da Soissons, dalla parte settentrionale. Quel terreno era indicato da un recinto di sepolcri pagani; Clodoveo donò le terre addiacenti di Leuilly e Coucy alla Chiesa di Reims.
158. Vedi Cesare Comment. de Bell. Gall. II, 4. in Tom. I. p. 220, e le notizie Tom. I. p. 126. Le tre fabbriche di Soissons erano scutaria, balistaria, e clinabaria. L'ultima somministrava tutta l'armatura de' gravi corazzieri.
159. Deve quest'epiteto limitarsi alle circostanze d'allora e non potrebbe giustificarsi coll'Istoria il pregiudizio Francese di Gregorio ( L. II, c. 27. in. Tom. II. p. 175 ) ut Gothorum pavere mos est.
160. Dubos mi ha persuaso ( Tom. 1. p. 277, 286 ) che Gregorio di Tours ed i suoi copisti o lettori hanno più volte confuso il regno Germanico della Turingia oltre il Reno, colla città Gallica di Tongria sulla Mosa, che anticamente era il paese degli Eburoni, e modernamente la diocesi di Liegi.
161. Populi habitantes iuxta, Lemanum lacum Alemanni dicuntur. Serv. ad Virgil. Georg. IV. 278. Dom Bouquet ( Tom. I. p. 817 ) ha solamente allegato il più recente, e corrotto testo d'Isidoro di Siviglia.
162. Gregorio di Tours manda S. Lupicino inter illa Jurensis deserti secreta, quae inter Burgundiam Alemaniamque sita Aventicae adiacent Civitati (in Tom. I. p. 648) Il Watteville ( Hist. de la confederat. Helvet. Tom. I. p. 9, 10 ) ha diligentemente fissato i confini Elvetici del Ducato dell'Alemannia, e della Borgogna Transiurana. Essi corrispondevano alle Diocesi di Costanza, e d'Avenche o Losanna, e sono tuttavia distinti, nella moderna Svizzera, dall'uso della lingua Germanica e Francese.
163. Vedi Guilliman de Reb. Helveticis L. I. c. 3. p. 11, 12. Dentro le antiche mura di Vindonissa si sono successivamente fabbricate la fortezza d'Habsburgh, l'Abbazia di Konigsfield, e la Città di Bruck. Il filosofico viaggiatore può paragonare i monumenti della conquista Romana, della feudale tirannia, della superstizione monastica, e dell'industriosa libertà. Se sarà veramente Filosofo, applaudirà il merito, e la felicità de' suoi tempi.
164. Gregorio di Tours ( L. II. 30, 37. in Tom. II. p. 176, 177, 182 ), le Gesta Francorum ( in Tom. II. p. 551 ) e la lettera di Teodorico (Cassiodoro Var. Lib. II. cap. 41. in Tom. IV. p. 4 ) descrivono la disfatta degli Alemanni. Alcune delle loro Tribù si stabilirono nella Rezia sotto la protezione di Teodorico, i successori del quale cederono la Colonia ed il paese loro al nipote di Clodoveo. Può vedersi lo stato degli Alemanni sotto i Re Merovingici presso Mascou ( Istor. degli antichi Germani XI. 8. etc. Annotas. 362 ) e Guillimain ( De Reb. Helvetic. L. II c. 10, 12. p. 72, 80 ).
165. Clotilde, o piuttosto Gregorio, suppone, che Clodoveo adorasse gli Dei della Grecia e di Roma. Il fatto è incredibile, e tale sbaglio non serve che a dimostrare, come in meno d'un secolo si era pienamente abolita ed anche dimenticata la Religion nazionale de' Franchi.
166. Gregorio di Tours riferisce il matrimonio, e la conversione di Clodoveo ( L. II. c. 28, 31. in Tom. II. p. 175, 178 ). Anche Fredegario, o l'Epitomatore anonimo ( in T. II. p. 399, 400 ), l'Autore delle Gesta Francorum ( in Tom. II. p. 548, 552 ) ed Aimoino medesimo ( L. I. c. 13. in T. III. p. 37, 40 ) non sono da disprezzarsi. La tradizione ha potuto conservar lungamente alcune curiose circostanze di questi importanti successi.
167. Un Viaggiatore, che tornava da Reims nell'Alvergna aveva rubato una copia delle sue declamazioni al segretario o libraio del modesto Arcivescovo (Sidon. Apollinar. L. IX. Epist. 7 ). Quattro lettere di Remigio, che tuttavia esistono ( in Tom. IV. p. 51, 52, 53 ) non corrispondono alla lode magnifica di Sidonio.
168. Incmaro, uno de' successori di Remigio ( an. 845, 882 ) ne fece la vita ( in Tom. III. p. 373, 480 ). L'autorità degli antichi Manoscritti della Chiesa di Reims potrebbe ispirare qualche fiducia, la quale però vien distrutta dalle temerarie ed audaci finzioni d'Incmaro. Egli è molto notabile, che Remigio, il quale fu consacrato all'età di ventidue anni (anno 457) occupò la cattedra Episcopale settantaquattro anni (Pagi, Critic. in Baron. Tom. II. p. 384, 572 ).
169. Per il battesimo di Clodoveo fu portata da una bianca colomba una boccetta (la santa ampolla) d'olio santo, o piuttosto celeste, e ciò tuttavia si usa, e si rinnuova nella coronazione de' Re di Francia. Incmaro (che aspirava alla Primazia della Gallia) è il primo autore di questa favola ( in Tom. III. p. 377 ), i deboli fondamenti della quale con profondo rispetto, e consumata destrezza si sono rovesciati dall'Abbate Vertot ( Memoir. de l'Acad. des Inscr. Tom. II. p. 619, 633 ).
170. Mitis depone colla Sicamber: adora quod incendisti, incende quod adorasti. Gregorio Turon. L. II. cap. 31. in Tom. II. p. 177.
171. Si ego ibidem cum Francis meis fuissem, injurias eius vindicassem. Questa temeraria espressione, che Gregorio ha prudentemente taciuta, vien celebrata da Fredegario ( Epitom. c. 21. in Tom. II. p. 400 ), da Aimoino ( L. 1, c. 16. in Tom. III. p. 40 ), e dalla croniche di S. Dionisio ( L. 1. c. 20. in Tom. III. p. 171 ), come un'ammirabile effusione di zelo cristiano.
172. Gregorio L. II. c. 40, 43. in Tom. 11. p. 183, 185. Dopo aver freddamente riferito i replicati delitti, e gli affettati rimorsi di Clodoveo, conclude, forse inavvertentemente, con una lezione, che l'ambizione non vorrà mai ascoltare: His ita transactis.... obiit.
173. Dopo la vittoria Gotica, Clodoveo fece delle ricche offerte a S. Martino di Tours. Ei desiderava di riscattare il suo cavallo di battaglia col dono di cento monete d'oro; ma l'incantato cavallo non potè muoversi dalla stalla, finattantochè non fu raddoppiato il prezzo del suo riscatto. Questo miracolo eccitò il Re ad esclamare: Vere R. Martinus est bonus in auxilio, sed carus in negotio. Gesta Francor. in Tom. II. p. 554, 555.
174. Vedi la lettera scritta dal Pontefice Anastasio al convertito Reale ( in Tom. IV. p. 50, 51 ). Avito, Vescovo di Vienna, scrisse a Clodoveo sul medesimo soggetto (p. 49); e molti Vescovi Latini lo vollero assicurare del loro contento ed attaccamento.
175. In vece di Αρβορρυχοι, ignoto Popolo, che si trova nel testo di Procopio, Adriano di Valois ha restituito il nome più a proposito di Αρμορυχοι, e questa facile correzione si è quasi universalmente approvata. Pure uno spregiudicato lettore naturalmente supporrebbe, che Procopio intendesse di descrivere una tribù di Germani alleata di Roma, non già una confederazione di Città della Gallia, che si fossero ribellate dall'Impero.
176. Questa importante digressione di Procopio ( De Bell. Goth. L. I. c. 12, in Tom. II. p. 29, 36 ) illustra l'origine della Monarchia francese. Pure bisogna osservare, I. che l'Istorico Greco dimostra una ignoranza inescusabile della geografia dell'Occidente; II. che questi trattati e privilegi, che dovevan lasciare qualche durevole traccia dopo di loro, sono totalmente invisibili presso Gregorio di Tours, nelle Leggi Saliche ec.
177. Regnum circa Rhodanum, aut Ararim cum provincia Marsiliensi retinebat. Gregorio Turon. L. II. c. 32. in T. II. p. 178. La Provincia di Marsiglia fino alla Duranza fu in seguito ceduta agli Ostrogoti: e si suppone, che le sottoscrizioni di venticinque Vescovi rappresentassero il Regno di Borgogna ( an. 519. Concil. Epaon. in Tom. IV. p. 104, 105 ). Nondimeno eccettuerei Vindonissa. Il Vescovo, che viveva sotto i Pagani alemanni, doveva naturalmente intervenire a' sinodi del vicino Regno Cristiano. Mascou (nelle sue prime quattro annotazioni) ha spiegato molte circostanze relative alla Monarchia di Borgogna.
178. Mascou ( Istor. de German. XI. 10 ), che diffida con molta ragione della testimonianza di Gregorio di Tours, ha prodotto un passo d'Avito ( Epist. 5 ) per provare, che Gundobaldo affettava di deplorare quel tragico successo, a cui da' suoi sudditi affettavasi d'applaudire.
179. Vedasi l'original conferenza ( in Tom. IV. p. 99, 102 ). Avito, principale attore, e probabilmente segretario del Congresso, era Vescovo di Vienna. Un breve ragguaglio della persona e delle opere di esso può trovarsi presso il Dupin ( Biblioth. Eccles. Tom. V. p. 5, 10 ).
180. Gregorio di Tours ( L. III. c. 19. in Tom. II. p. 199 ) soddisfa il suo genio, o piuttosto trascrive qualche più eloquente scrittore nella descrizion di Digione, Fortezza che già meritava il titolo di Città. Fu dipendente da' Vescovi di Langres fino al duodecimo secolo, ed in seguito divenne la capitale de' Duchi di Borgogna. (Longuerue, Descript. de la France P. 1. p. 280 ).
181. L'Epitomatore di Gregorio di Tours ( in Tom. II. p. 401 ) ci ha conservato questo numero di Franchi; ma suppone arbitrariamente, ch'essi fossero tagliati a pezzi da Gundobaldo. Il prudente Borgognone risparmiò i soldati di Clodoveo, e gli mandò prigionieri al Re de' Visigoti, che gli stabilì nel Territorio di Tolosa.
182. In questa guerra di Borgogna ho seguitato Gregorio di Tours ( L. II. c. 32, 33. in Tom. II. p. 176, 279 ) la narrazione del quale sembra così contraria a quella di Procopio ( De Bell. Goth. L. I. c. 12. in Tom. II. p. 31, 32 ), che alcuni critici hanno supposto due guerre diverse. L'Abbate Dubos ( Hist. Crit. ec. Tom. II. p. 126, 162 ) ne ha distintamente rappresentate le cause, e gli eventi.
183. Vedasi la sua vita, o leggenda ( in Tom. III. p. 402 ). Martire! come si è stranamente allontanata, questa parola dall'originale suo senso di comun testimone. S. Sigismondo era famoso per la cura delle febbri.
184. Avanti la fine del quinto secolo, la Chiesa di S. Maurizio, e la sua legione Tebea, aveva reso Agauno un luogo di devoto pellegrinaggio. Una promiscua comunità di ambidue i sessi vi aveva introdotto alcuno opere di tenebre, che furono abolite (l'anno 515) dal regolar monastero di Sigismondo. Dentro i cinquant'anni, i suoi Angeli di luce fecero una sortita notturna, per assassinare il loro Vescovo col suo Clero. Vedi nella Biblioteca Ragionata ( Tom. 36, p. 435, 438 ) la curiosa osservazione d'un erudito Bibliotecario di Ginevra.
185. Mario, Vescovo d'Avenche ( Chron. in Tom. II. p. 15 ), ha notato le date autentiche, e Gregorio di Tours ( L. III. c. 5, 6. in Tom. II. p. 188, 189 ) ha espresso i fatti principali della vita di Sigismondo, e della conquista di Borgogna. Procopio ( in Tom. II. p. 34 ), ed Agatia ( in Tom. II. p. 49 ) dimostrano l'imperfetta e remota loro cognizione di tali avvenimenti.
186. Gregorio di Tours ( L. II. c. 37. in Tom. II. p. 181 ) riporta il breve ma persuasivo discorso di Clodoveo. Valde moleste fero quod hi Ariani partem teneant Galliarum (l'Autore delle Gest. Francor. in Tom. II. p. 553. aggiunge il prezioso epiteto d'Optimam ); eamus cum adiutorio Dei, et superatis eis, redigamus terram in ditionem nostram.
187. Tunc Rex proiecit a se in directum Bipennem suam, quod est Francisca etc. Gest. Francor. in Tom. II. p. 554. La forma, e l'uso di quest'arme si descrivono chiaramente da Procopio ( in Tom. II. pag. 37 ). Posson trovarsi degli esempi del suo nome nazionale in Latino ed in Francese, nel Glossario del Ducange, e nel gran Dizionario di Trevoux.
188. È singolare, che si trovino alcuni importanti, ed autentici fatti in una vita di Quinziano, composta in rima, nell'antico dialetto ( Patois ) di Rovergue. Dubos, Hist. Crit. ec. Tom. II. p. 179.
189. Quamvis fortitudini vestrae confidentiam tribuat parentum vestrorum innumerabilis multitudo; quamvis Attilam potentem reminiscamini Visigothorum viribus inclinatum; tamen quia populorum ferocia corda longa pace mollescunt, cavete subito in aleam mittere, quos constat tantis temporibus exercitia, non habere. Tal era il salutevole ma infruttuoso consiglio pacifico della ragione, e di Teodorico. (Cassiodoro L. III. ep. 2 ).
190. Montesquieu ( Espr. des Loix. L. XV. c. 14 ) riferisce ed approva la legge de' Visigoti ( L. IX. Tit. 2. in Tom. IV. p. 425 ) che obbligava tutti i Padroni ad armare e mandare o condurre nel campo la decima parte de' loro schiavi.
191. Questa specie di divinazione, cioè di prendere come un augurio le prime parole sacre, che in certe particolari circostanze si presentassero all'occhio, o all'orecchio, fu tratta da' Pagani; e si sostituì la Bibbia, o il Salterio a' Poemi di Omero e di Virgilio. Dal quarto secolo fino al decimoquarto, queste sortes Sanctorum, come si dicono, furono più volte condannate da' decreti de' Concili, e più volte praticate da' Re, dai Vescovi, e da' Santi. Vedasi una curiosa Dissertazione dell'Abbate du Resnel nelle memorie dell'Accademia Tom. XIX. p. 287, 320.
192. Dopo aver corretto il testo, o scusato l'error di Procopio, che pone la disfatta d'Alarico vicino a Carcassona, possiam concludere dalla testimonianza di Gregorio, di Fortunato, o dell'Autore delle Gesta Francorum, che la battaglia seguì in campo Vocludensi sulle rive del Clain, circa dieci miglia al mezzodì di Poitiers. Clodoveo sorprese ed attaccò i Visigoti vicino a Vivonna, e fu decisa la vittoria in vicinanza d'un villaggio tuttavia chiamato Champagne S. Hilaire. (Vedi le dissertazioni dell'Abbate le Boeuf Tom. 1. p. 304, 311 ).
193. Angolemme è nella strada, che da Poitiers conduce a Bordò; e quantunque Gregorio differisca l'assedio, si può creder più facilmente, ch'esso abbia confuso l'ordine della istoria, di quel che Clodoveo trascurasse le regole della guerra.
194. Pyrenaeos montes usque Perpinianum subiecit: Tal è, l'espressione di Rorico, che dimostra la recente sua data, poichè Perpignano non esistè prima del decimo secolo ( Marca Hispanica p. 458 ). Questo florido e favoloso scrittore (ch'era forse un Monaco d'Amiens, vedi l'Abbate le Boeuf, Mem. de l'Academ. Tom. XVII. p. 228, 245 ) riferisce, sotto l'allegorico carattere di Pastore, l'istoria generale dei Franchi, suoi nazionali; ma il suo racconto finisce con la morte di Clodoveo.
195. L'autore delle Gesta Francorum positivamente afferma che Clodoveo stabilì un corpo di Franchi nella Santongia, e nel Bordelese: ed è seguitato non senza ragione da Rorico: Electos milites atque fortissimos, cum parvulis atque mulieribus. Pure sembra, ch'essi tosto si mescolassero co' Romani dell'Aquitania, finattantochè Carlo Magno vi condusse una più numerosa, e potente Colonia (Dubos, Hist. Crit. Tom. II. p. 215 ).
196. Nella descrizione della guerra Gotica mi son servito de' seguenti materiali, col dovuto riguardo al disugual valore di essi; cioè, di quattro lettere di Teodorico Re d'Italia (Cassiod. L. III. epist. 1 in Tom. IV. p. 3, 5 ), di Procopio ( de Bell. Goth. L. I. c. 12. in Tom. II. p. 32, 33 ), di Gregorio di Tours ( L. II. c. 35, 36, 37. in Tom. II. p. 181, 183 ), di Giornandes ( de reb. Getic. c. 38. in Tom. II. p. 28 ), di Fortunato ( in Vit. S. Hilar. in Tom. III. p. 380 ), d'Isidoro ( in Cron. Goth. in Tom. II. p. 702 ), dell'Epitome di Gregorio Turonense ( in Tom. II. p. 401 ), dell'Autore delle Gesta Francor. ( in Tom. II. p. 453, 555 ), de' Frammenti di Fredegario ( in Tom. II. p. 473 ), d'Aimoino ( L. I. c. 20 in Tom. III. p. 41, 42 ) e di Rorico ( L. IV. Tom. III. p. 14, 19 ).
197. I Fasti d'Italia dovevan naturalmente rigettare un Console, nemico del loro Sovrano; ma qualunque ingegnosa ipotesi, che spiegasse il silenzio di Costantinopoli, e dell'Egitto (cioè della cronica di Marcellino, e della Pasquale) vien distrutta da un simil silenzio di Mario, Vescovo di Avenche, che compose i suoi Fasti nel regno di Borgogna. Se la testimonianza di Gregorio di Tours fosse meno grave e positiva ( L. II. c. 38. in Tom. II. p. 183 ), io crederei che Clodoveo ricevesse, come Odoacre, il titolo e gli onori durevoli di Patrizio. ( Pagi, Crit. Tom. II. p. 474, 492 ).
198. Sotto i Re Merovingici, Marsilia ricevea sempre dall'Oriente Carta, Vino, Olio, Lino, Seta, Pietre preziose, Spezierie ec. I Galli, e i Franchi negoziavano nella Siria, ed i Sirj si stabilivano nella Gallia. (Vedi il de Guignes, Memor. de l'Academ. Tom. XXXVII. p. 441, 475 ).
199. ( Poichè non si reputava, che i Franchi possedessero la Gallia con sicurezza, se l'Imperatore non confermava tal fatto ) Оυ γαρ πστε ωοντο Γαλλιας ξυντω ασφαλει κεκτησθαι φρανγοι, μη του αυτοκρατορος το εργον επισφραγισαντος τουτο γε. Questa forte dichiarazione di Procopio ( de Bell. Goth. L. III. c. 33. in Tom. II. p. 41 ) servirebbe quasi a giustificare l'Abbate Dubos.
200. I Franchi, che probabilmente si servirono delle Zecche di Treveri, di Lione e d'Arles, imitarono il conio degli Imperatori Romani di sessantadue soldi, o pezzi di moneta per libbra d'oro. Ma siccome i Franchi ammettevano una proporzione decupla fra l'oro e l'argento, dieci scellini corrisponderanno al valore del loro soldo d'oro. Questo era la comune misura delle multe de' Barbari, e conteneva quaranta denarii, o piccole monete d'argento del valore di tre soldi. Dodici di questi denarii formavano un solido, o uno scellino, cioè la ventesima parte d'una libbra d'argento di peso e di numero, che si è tanto stranamente diminuita nella Francia moderna. (Vedi le Blanc, Traitè Histor. des Monnoyes de France p. 37, 43. ec. )
201. Agatia in Tom. II. p. 47. Gregorio di Tours ne fa una pittura molto differente. Non sarebbe forse così facile il trovare, dentro il medesimo istorico periodo, più vizi e meno virtù. Continuamente ci si presenta con disgusto l'unione di selvaggi e di corrotti costumi.
202. Il de Foncemagne ha delineato in una corretta ed elegante dissertazione ( Mem. de l'Acad. Tom. VIII, p. 505, 518 ) l'estensione, ed i limiti della Monarchia francese.
203. L'Abbate Dubos ( Hist. Crit. Tom. I. p. 29, 36 ) ha esposto con verità, e piacevolmente, il tardo progresso di tali studj; ed osserva, che Gregorio di Tours era stato solo stampato una volta prima dell'anno 1560. Secondo la querela dell'Heineccio ( Oper. Tom. II. Syllog. III. p. 248 ec.) la Germania ricevè con indifferenza e disprezzo i Codici delle Leggi barbare, che furono pubblicate dall'Heroldo, dal Lindebrogio ec. Presentemente quelle Leggi (per quanto si riferiscono alla Gallia), l'istoria di Gregorio Turonense, e tutti i monumenti della stirpe Merovingica, son posti in un puro, e perfetto stato ne' primi quattro volumi degl'Istorici di Francia.
204. Nello spazio di trent'anni ( dal 1728 al 1765 ) quest'importante soggetto si è trattato dal libero spirito del Conte di Boulainvilliers ( Memoir. Histor. sur l'état de la France, specialmente nel Tom. I. p. 15, 49 ), dall'erudito ingegno dell'Abbate Dubos ( Hist. Crit. de l'Etabliss. da la Monarch. Franc. dans les Gaules 2. vol. 4 ), dall'esteso genio del Presidente di Montesquieu ( Espr. des Loix particolarmente L. XXVIII, XXX, XXXI ), e dal buon senso, e dalla diligenza dell'Abbate di Mably ( Observations sur l'Histoir. de France 2 vol. 12 ).
205. Io ho tratto gran lume dalle due dotte opere dell'Heineccio, cioè dall' Istoria, e dagli Elementi del Diritto Germanico. In una giudiziosa prefazione agli Elementi, egli esamina e procura di scusare i difetti di quella barbara Giurisprudenza.
206. Sembra, che la lingua originale del Gius Salico fosse latina. Esso fu probabilmente composto al principio del quinto secolo, avanti l'era ( an. 421 ) del vero, o falso Faramondo. La prefazione di quel Gius fa menzione de' quattro Cantoni, da' quali si presero i quattro legislatori: e molte Province, come la Franconia, la Sassonia, l'Annover, il Brabante ec., hanno preteso, che loro appartenessero. (Vedasi un'eccellente dissertazione dell'Heineccio, de lege Salica Tom. III Syllog. p. 147, 267 ).
207. Eginard in vita Caroli M. c. 29 in Tom. V p. 100. Per questi due corpi di Leggi, i Critici per la maggior parte intendono le Saliche, e le Ripuarie. Le prime s'estendevano dalla selva Carbonaria sino alla Loira (Tom. VI p. 151); e le altre potevano aver vigore dalla medesima selva fino al Reno (Tom. IV p. 222).
208. Si consultino le antiche e moderna prefazioni de' vari Codici, nel quarto volume degl'Istorici di Francia. Il prologo originale alle Leggi Saliche esprime (quantunque in un dialetto straniero) il vero spirito de' Franchi, con maggior forza che i dieci libri di Gregorio di Tours.
209. La Legge Ripuaria dichiara e stabilisce quest'indulgenza in favore dell'attore ( Tit. XXXI in Tom. IV p. 240 ); e si suppone, o s'esprime la stessa tolleranza in tutti i codici, eccettuato quello de' Visigoti di Spagna: Tanta diversitas legum (dice Agobardo nel nono secolo) quanta non solum in regionibus aut civitatibus, sed etiam in multis domibus habetur. Nam plerumque contingit ut simul eant, aut sedeant quinque homines; et nullus eorum communem legem cum altero habeat ( in Tom. VI p. 350 ). Egli stoltamente propone d'introdurre una conformità di leggi, ugualmente che di fede.
210. Inter Romanos negotia caussarum Romanis legibus praecipimus terminari. Tali sono le parole d'una costituzion generale, promulgata da Clotario, figlio di Clodoveo, restato solo Monarca de' Franchi ( in Tom. IV p. 116 ) verso l'anno 560.
211. Questa libertà d'elezione si è opportunamente dedotta ( Espr. des Loix L. XXVIII. 2 ) da una Costituzione di Lotario I. ( Leg. Longob. l. II. Tit. 57 in Cod. Lindembrog. p. 664 ) quantunque l'esempio sia troppo recente e parziale. Da una diversa lezione nella Legge Salica ( Tit. LXIV not. 45 ) l'Abbate di Mably ( Tom. 1 p. 290, 293 ) ha congetturato, che a principio i soli Barbari, ed in seguito chiunque (e conseguentemente anche i Romani) potessero vivere secondo la legge de' Franchi. Mi dispiace d'oppormi a questa ingegnosa congettura, osservando, che il senso più stretto ( Barbarum ) si esprime nella copia riformata di Carlo Magno, che si conferma da' Manoscritti, Reali e di Wolfenbuttel. L'interpretazione più larga ( hominem ) non è autorizzata, che dal manoscritto di Fulda, da cui Heroldo pubblicò la sua edizione. Vedi i quattro Testi originali della Legge Salica nel Tom. IV p. 147, 173, 196, 220.
212. Ne' tempi eroici della Grecia il delitto d'omicidio si espiava mediante una pecuniaria soddisfazione alla famiglia del morto (Feichius, Antiquit. Homer. L. II c. 8 ). L'Heineccio, nella sua Prefazione agli elementi del Gius Germanico, favorevolmente suggerisce, che in Roma, ed in Atene l'omicidio era punito solo coll'esilio. Questo è vero, ma l'esilio era una pena capitale per un cittadino Romano, o Ateniese.
213. Questa proporzione è fissata dalle Leggi Salica ( Tit. 44 in Tom. IV p. 147 ), e Ripuaria ( Tit. 7, 11, 36 in Tom. IV p. 237, 241 ); ma l'ultima non fa alcuna distinzione de' Romani. L'ordine però del Clero è posto sopra i Franchi medesimi, ed i Borgognoni e gli Alemanni fra i Franchi ed i Romani.
214. Gli Antrustiones, qui in truste dominica sunt, leudi, fideles, sicuramente rappresentano il prim'ordine de' Franchi; ma è dubbioso, se il loro grado era personale o ereditario. All'Abbate di Mably ( Tom. 1 p. 334, 347 ) non è dispiaciuto di mortificare l'orgoglio della nascita ( Espr. LXXX c. 25 ) con fissare il principio della nobiltà Francese dal regno di Clotario II ( an. 615 ).
215. Vedi le Leggi di Borgogna ( Tit. II in Tom. IV p. 157 ), il Codice de' Visigoti ( L. VI Tit. V in Tom. IV p. 384 ) e la costituzione di Childeberto, non di Parigi, ma certamente d'Austria ( in Tom. IV p. 112 ). L'immatura loro severità fu alle volte temeraria ed eccessiva. Childeberto condannò alla morte non solamente gli omicidi, ma anche i ladri: quamodo sine lege involavit, sine lege moriatur; e fino il Giudice negligente era involto nella medesima sentenza. I Visigoti abbandonavano un chirurgo, che male fosse riuscito nelle sue operazioni, alla famiglia del morto, ut quod de eo facere voluerint habeant potestatem. L. XI Tit. 1 in Tom. IV p. 435.
216. Vedi nel sesto Tomo delle opere dell'Heineccio ( Elementa Juris Germanici L. II p. II n. 251, 262, 280, 283 ). Pure si può trovare in Germania qualche vestigio di queste pecuniarie composizioni fino al secolo decimo sesto.
217. Tutta la materia de' Giudici Germanici, e della loro giurisdizione, è trattata copiosamente dall'Heineccio ( Elem. Jur. Germ. l. III n. 1, 72 ). Io non posso trovare alcuna prova, che sotto la stirpe Merovingica gli Scabini, o assessori fossero eletti dal Popolo.
218. Gregor. Turon. l. VIII c. 9 in Tom. II p. 316. Montesquieu osserva ( Espr. des Loix L. XXVIII c. 13 ), che la Legge Salica non ammetteva queste prove negative, tanto generalmente stabilite ne' Codici Barbari. Pure quell'oscura concubina (Fredegunda), che divenne moglie del nipote di Clodoveo, doveva seguire la Legge Salica.
219. Il Muratori nelle Antichità d'Italia ha fatto due Dissertazioni (XXXVIII e XXXIX) sopra i giudizj di Dio. Si pretendeva, che il fuoco non bruciasse l'innocente, e che il puro elemento dell' acqua non permettesse, che il colpevole s'immergesse nel suo seno.
220. Montesquieu ( Espr. des Loix 1. XXVIII c. 17 ) ha condisceso a spiegare, e scusare la maniere de penser de nos peres intorno a' combattimenti giudiciali. Ei seguita questo stravagante istituto dal tempo di Gundobaldo fino a quello di S. Luigi; ed il filosofo alle volte si perde nel Legale antiquario.
221. In un memorabil duello, fatto ad Aquisgrana (l' an. 820 ) in presenza dell'Imperator Lodovico Pio, osserva il suo Biografo che secundum legem propriam, nipote quia uterque Gothus erat, equestri pugna congressus est ( Vit. Ludovic. Pii c. 33 in Tom. VI p. 103 ). Ermoldo Nigello ( l. III 543, 628 in Tom. VI p. 48, 50 ) che descrive quel duello, ammira l' arte nuova di combattere a cavallo, che era incognita a' Franchi.
222. Gundobaldo, nell'originale suo editto, pubblicato a Lione (l' anno 501 ) stabilisce, e giustifica l'uso del combattimento giudiciale ( Leg. Burgund, Tit. XIV in Tom. II p. 267, 268 ). Trecento anni dopo, Agobardo, Vescovo di Lione, sollecitò Lodovico Pio ad abolire la legge d'un Arriano tiranno ( in Tom. VI p. 356, 358 ). Ei riferisce il Dialogo di Gundobaldo, e d'Avito.
223. Accidit, dice Agobardo, ut non solum valentes viribus, sed etiam infirmi et senes lacessantur ad pugnam etiam pro vilissimis rebus. Quibus foralibus certaminibus contingunt homicidia iniusta, et crudeles ac perversi eventus iudiciorum. Come prudente rettorico; sopprime il legale privilegio di far uso de' campioni.
224. Montesquieu ( Espr. des Loix XXVIII c. 14 ) che intende perchè fu ammesso il combattimento giudiciale da' Borgognoni, da' Ripuari, dagli Alemanni, da' Bavari, da' Lombardi, da' Turingi, da' Frisoni, e da' Sassoni, è persuaso (ed Agobardo sembra, che sostenga tal asserzione), che il medesimo non era permesso dalla Legge Salica. Pure si fa menzione dell'istesso uso, almeno ne' casi di delitti di Stato, da Ermoldo Nigello ( l. III 543 in Tom. VI p. 48 ), e dall'anonimo Biografo di Ludovico Pio (c. 46 in Tom. VI p. 112 ); come mos antiquus Francorum, more Francis solito ec.: espressioni troppo generali per escludere la più nobile delle loro Tribù.
225. Cesare de Bell. Gallic. lib. 1 cap. 31 in Tom. 2 pag. 213.
226. Gli oscuri segni d'una divisione di terre, accidentalmente sparsi nelle Leggi de' Borgognoni ( Tit. 54 n. 1, 2 in Tom. IV p. 271, 272 ) e de' Visigoti ( l. X Tit. 1 n. 8, 9, 16 in Tom. IV p. 428, 429, 430 ) sono abilmente spiegati dal Presidente di Montesquieu ( Espr. des Loix l. XXX c. 7, 8, 9 ). Aggiungerò solamente, che fra' Goti sembra, che la divisione si fissasse a giudizio de' vicini; che i Barbari spesso usurpavano l'altro terzo; e che i Romani potevano ricuperare i loro diritti, purchè non ne fossero restati privi per una prescrizione di cinquant'anni.
227. Egli è molto singolare, che il Presidente di Montesquieu ( Espr. des Loix l. XXX c. 7 ), e l'Abbate di Mably ( Observat. Tom. 1 p. 21, 22 ) convengano in questa strana supposizione d'un arbitraria e privata rapina. Il Conte di Boulainvilliers ( Etat de la France Tom. 1 p. 22, 23 ) dimostra un forte ingegno a traverso un nuvolo d'ignoranza, e di pregiudizio.
228. Vedi l'Editto, o piuttosto il Codice rurale di Carlo Magno, che contiene settanta distinti e minuti regolamenti di quel gran Monarca ( in Tom. V p. 652, 657 ). Ei chiede conto delle corna, e delle pelli delle capre, permette che sia venduto il suo pesce, ed accuratamente ordina, che le ville più grosse ( Capitaneae ) mantengano cento polli, e trenta oche; e le più piccole ( mansionales ) cinquanta polli, e dodici oche. Il Mabillon ( de re diplomatica ) ha investigato i nomi, il numero, e la situazione delle ville Merovingiche.
229. Da un passo delle Leggi Borgognone ( Tit. 1 n. 4 in Tom. IV p. 257 ) è chiaro, che un figlio meritevole poteva sperare di ritenere le terre che suo padre avea ricevuto dalla real bontà di Gundobaldo. I Borgognoni avranno mantenuto con fermezza il lor privilegio, ed il lor esempio potè incoraggire i beneficiari di Francia.
230. Le rivoluzioni de' Benefizi, e de' Feudi sono chiaramente determinate dall'Abbate di Mably. L'accurata sua distinzione de' tempi gli conferisce un merito, che non ha neppur Montesquieu.
231. Vedi la legge Salica ( Tit. 62 in Tom. IV p. 156 ). L'origine, e la natura di queste terre saliche, che ne' tempi d'ignoranza si conoscevan perfettamente, adesso rendon perplessi i nostri più eruditi e sagaci critici.
232. Molti fra' dugentosei miracoli di S. Martino (Gregorio Turonense in Max. Biblioth. Patrum Tom. XI pag. 895, 932 ) furono più volte fatti per punire il sacrilegio: Audite haec, omnes (esclama il Vescovo di Tours) potestatem habentes, dopo aver riferito, come alcuni cavalli che erano stati condotti in un prato sacro, erano divenuti furiosi.
233. Heinecci, Elem. Jur. German. l. II p. 1 n. 88.
234. Giona, Vescovo d'Orleans, (an. 821, 826. Cavo, Hist. Litter. p. 443) censura la legal tirannia de' nobili: Pro feris, quas cura hominum non aluit, sed Deus in commune mortalibus ad utendum concessit, pauperes a potentioribus spoliantur, flagellantur, ergastulis detruduntur, et multa alia patiuntur. Hoc enim qui faciunt lege mundi se facere juste posse contendunt. De institutione laicor. l. II c. 23 ap. Thomassin Discipl. de l'Eglise Tom. III p. 1348.
235. Sopra un puro sospetto, Cundo, Ciamberlano di Gontranno, Re di Borgogna, fu lapidato (Gregor. Turon. l. X c. 10 in Tom. II p. 369 ). Giovanni Salisburiense ( Policrat. l. 1 c. 4 ) sostiene i diritti di natura, ed espone la crudele pratica del duodecimo secolo. (Vedi Heinecci, Elem. Jur. German. l. II p. 1 n. 51, 57 ).
236. L'uso di fare schiavi i prigionieri di guerra fu totalmente estinto nel secolo decimoterzo, per l'autorità del Cristianesimo che prevalse; ma potrebbe provarsi con più passi di Gregorio di Tours, che si praticava senza censura veruna sotto la razza Merovingica; e fino lo stesso Grozio ( de Jur. Bell. et Pac. l. III c. 7 ), ugualmente che Barbeyrac, suo comentatore, hanno procurato di combinarlo con le leggi della natura, e della ragione.
237. Si spiegano dall'Heineccio ( Elem. Jur. German. l. 1 n. 28, 47 ), dal Muratori ( Dissert. XIV, XV ), dal Ducange ( Gloss. sub. voc. servis ) e dall'Abbate di Mably ( Observ. Tom. II p. 3 etc. p. 237 etc.) lo stato, le professioni, ecc. degli schiavi Germani, Italiani, e Galli del medio Evo.
238. Gregorio di Tours ( l. VI c. 45 in Tom. II p. 289 ) riporta un memorabil esempio, in cui Childerico abusò una volta de' privati diritti di padrone. Molte famiglie, che appartenevano alle sue domus fiscales nelle vicinanze di Parigi, furon per forza mandate via nella Spagna.
239. Licentiam habeatis mihi qualemcumque volueritis disciplinam ponere: vel venumdare, aut quod vobis placuerit de me facere. Marculf., Formul. l. II 28 in Tom. IV p. 497. La formula del Lindembrogio ( p. 559 ) e quella d'Angiò ( p. 565 ) portano il medesimo effetto. Gregorio di Tours ( L. VII c. 45 in Tom. II pag. 311 ) parla di molte persone, che in una gran carestia si venderono per mangiare.
240. Quando Cesare la vide, si mise a ridere ( Plutarco, in Caesar. Tom. 1 p. 409 ); pure riferisce l'infelice suo assedio di Gergovia con minor franchezza di quella che avremmo potuto aspettare da un grand'uomo, a cui la vittoria era famigliare. Ei confessa però, che in un attacco perdè quarantasei centurioni, e settecento uomini ( de Bello Gallic. l. VI c. 44, 53 in Tom. I p. 270, 272 ).
241. Audebant se quondam fratres Latio dicere, et sanguine ab Iliaco populos computare. Sidonio Apollinare l. VII epist. in Tom. I p. 799. Io non so i gradi e le circostanze di questa favolosa discendenza.
242. O la prima, o la seconda divisione, seguìta fra' figli di Clodoveo, aveva portato il Berry a Childeberto (Greg. Turon. l. III c. 12. in Tom. II p. 192 ). Velim (dic'egli) Arvernam Lemanem, quae tanta jucunditatis gratia, refulgere dicitur, oculis cernere ( l. III c. 9 p. 191 ). La campagna era coperta da una densa nebbia, quando il Re di Parigi fece il suo ingresso in Clermont.
243. Per la descrizione dell'Alvergna, vedi Sidonio ( L. IV Epist. 21 in Tom. I p. 793 ) con le note del Savaron e del Sirmondo ( p. 279 e 51 delle respettive edizioni ), Boulainvilliers ( Etat de la Franc. Tom. II p. 242, 268 ) e l'Abbate De la Longuerue ( Descript. de la France P. 1 p. 132, 139 ).
244. Furorem gentium, quae de ulteriore Rheni amnis parte venerant, superare non poterat (Gregor. Turon. L. IV c. 50 in Tom. II p. 229 ). Tale fu la scusa d'un altro Re d'Austrasia ( an. 475 ) per le devastazioni, che le sue truppe commisero nelle vicinanze di Parigi.
245. Dal nome e dalla situazione, i Benedettini, editori di Gregorio di Tours ( in Tom. II p. 192 ) hanno stabilito questa Fortezza in un luogo chiamato Castel Merliac, lontano da Mauriac due miglia, nell'Alvergna superiore. In tale descrizione io traduco infra come se dicesse intra. Si confondono perpetuamente queste due preposizioni da Gregorio, o da' suoi copisti; e sempre bisogna decidere a senso.
246. Vedi queste rivoluzioni e guerre dell'Alvergna presso Gregorio di Tours ( L. II c. 37 in Tom. II p. 183 e L. III c. 9, 12, 13 p. 192, 194 de miracul. Juliani c. 13 in T. II p. 446 ). Egli frequentemente dimostra lo straordinario suo riguardo per la propria Patria.
247. La storia d'Attalo si racconta da Gregorio di Tours ( L. III c. 16 in Tom. II p. 193, 195 ). Il P. Ruinart, editore del medesimo, confonde quest'Attalo, che nell'anno 532 era un fanciullo ( puer ), con un amico di Sidonio dell'istesso nome, ch'era Conte d'Autun, cinquanta o sessanta anni prima. Tal errore, che non si può attribuire ad ignoranza, viene in certo modo scusato dalla sua stessa grandezza.
248. Questo Gregorio, Bisavolo di Gregorio di Tours ( in Tom. II p. 197, 490 ), visse novanta due anni; avendone passati quaranta come Conte d'Autun, e trentadue come Vescovo di Langres. Secondo il Poeta Fortunato dimostrò un ugual merito in questi diversi posti.
Nobilis antiqua decurrens prole parentum,
Nobilior gestis, nunc super astra manet.
Arbiter ante ferox, dein pius ipse sacerdos,
Quos domuit judex, fovet amore patris.
249. Poichè il Valois, ed il Ruinart han voluto cangiare la Mosella del testo nella Mosa, a me tocca d'approvare tal cangiamento. Pure avendo fatto qualche osservazione sulla topografia, potrei difendere la comune lezione.
250. I maggiori di Gregorio (Gregorio, Florenzio, Giorgio) erano di nobile estrazione ( natalibus... illustres ), e possedevano vasti patrimoni ( latifundia ) sì nell'Alvergna, che nella Borgogna. Egli era nato l'anno 539, fu consacrato Vescovo di Tours nel 573, e morì nel 593 o 595 poco dopo ch'ebbe terminato la sua Storia. Vedasi la sua vita scritta da Odone, Abbate di Clugny ( in Tom. II p. 129, 135 ), ed una nuova di lui vita nelle Memorie dell'Accademia ec. ( Tom. XXVI p. 598, 638 ).
251. Decedente atque immo potius pereunte alt urbibus Gallicanis liberalium cultura literarum etc. ( in praef. Tom. II p. 137 ): questo è il lamento di Gregorio medesimo, che pienamente ei verifica con le proprie sue opere. Il suo stile manca d'eleganza, ugualmente che di semplicità. Trovandosi in un posto cospicuo, rimase contuttocciò straniero rispetto al suo proprio tempo e paese; ed in una prolissa opera (gli ultimi cinque libri contengono dieci anni) ha tralasciato quasi tutto quello, che la posterità desidera di sapere. Io con molto tedio ho acquistato, mediante una penosa lettura, il diritto di pronunziare questa svantaggiosa sentenza.
252. L'Abbate di Mably ( Tom. I p. 247, 267 ) ha diligentemente confermato quest'opinione del Presidente di Montesquieu ( Espr. des Loix L. XXX c. 13 ).
253. Vedi Dubos ( Hist. Crit. de la Monarch. Franc. T. II L. VI c. 9, 10 ). Gli Antiquari francesi stabiliscono come un principio, che i Romani, ed i Barbari posson distinguersi da' loro nomi. Questi nomi formano senza dubbio una ragionevole presunzione; eppure leggendo Gregorio di Tours, ho notato Gondulfo, di stirpe Senatoria, o Romana ( L. VI c. 11 in Tom. II p. 273 ), e Claudio, Barbaro ( L. VII c. 29 p. 303 ).
254. Gregorio di Tours fa più volte menzione d'Ennio Mummolo dal quarto libro ( c. 42 p. 224 ) fino al settimo ( c. 40 p. 310 ). La computazione per talenti è molto singolare; ma se Gregorio annetteva qualche idea a quest'antiquata parola, i tesori di Mummolo dovettero ascendere a più di 100,000 lire sterline.
255. Vedi Fleury Disc. 3. sur l'Hist. Eccles.
256. Il Vescovo di Tours medesimo ha rammentato il lamento di Chilperico, nipote di Clodoveo: Ecce pauper remansit Fiscus noster: ecce divitiae nostrae ad Ecclesias sunt translatae; nulli penitus, nisi soli Episcopi regnant. ( l. VI c. 46 in Tom. II p. 291 ).
257. Vedi il Codice Ripuario Tit. XXXVI in Tom. IV p. 241. La legge Salica non provvede alla sicurezza del Clero; e noi possiamo supporre per onore della tribù più incivilita, ch'essi non avevan preveduto un atto così empio come l'omicidio d'un prete. Pure Pretestato, Arcivescovo di Roano fu assassinato per ordine della Regina Fredegonda avanti all'altare (Greg. Turon. L. VIII, c. 31 in T. II p. 326 ).
258. Il Bonamy ( Mem. de l'Academ. des Inscript. T. 24 p. 582, 670 ) ha provato l'esistenza della Lingua Romana Rustica, che per il mezzo del Romanzo si è appoco appoco ridotta nell'attual forma del linguaggio Francese. Sotto la stirpe Carolingica, i Re e Nobili della Francia tuttavia intendevano il dialetto de' Germani loro antenati.
259. Ce beau systeme a été trouvé dans les bois, Montesquieu Espr. des Loix XI c. 6.
260. Vedi l'Abbate di Mably Observat. Tom. I p. 34, 50. Parrebbe, che le assemblee nazionali le quali, quanto alla loro instituzione, sono contemporanee al principio della Nazion francese, non fossero mai state confacenti al suo genio.
261. Gregorio di Tours ( l. VIII c. 50 in Tom. II p. 225, 226 ) riferisce con molta indifferenza i delitti, il rimprovero, e l'apologia. Nullus Regem metuit, nullus Ducem, nullus comitem reveretur: et si fortassis alicui ista displicent, et ea, pro longaevitate vitas vestras, emendare conatur, statim seditio in populo, statim tumultus exoritur, et in tantum unusquisque contra seniorem saeva intentione grassatur, ut vix se credat evadere, si tandem silere nequiverit.
262. La Spagna, in quegli oscuri tempi, è stata specialmente sfortunata. I Franchi ebbero un Gregorio di Tours; i Sassoni, o Angli un Beda; i Longobardi un Paolo Warnefrido ec. Ma l'istoria de' Visigoti si contiene nelle brevi ed imperfette croniche d'Isidoro di Siviglia, e di Giovanni di Bielar.
263. Tali sono le querele di S. Bonifacio, Apostolo della Germania, e riformator della Gallia ( in Tom. IV p. 94 ). Gli ottant'anni ch'esso deplora, di licenza e di corruzione, sembra che indichino, che i Barbari fossero ammessi nel Clero verso l'anno 660.
264. Gli atti de' Concili di Toledo son sempre i più autentici monumenti della Chiesa e della Costituzione di Spagna. I seguenti passi particolarmente sono importanti L. III 17, 18. IV 75. V 2, 3, 4, 5, 8. VI 11, 12, 13, 14, 17, 18. VII l. XIII 2, 3, 6. Ho trovato Mascou ( Istor. degli ant. Germani XV 20 ed Annotazioni XXVI, XXXIII ) e Ferreras ( Hist. Gener. de l'Espagn. Tom. 2 ) guide molto utili ed accurate.
265. Il Codice de' Visigoti regolarmente diviso in dodici libri, è stato correttamente pubblicato da Domenico Bouquet ( in Tom. IV p. 273, 460 ). Esso fu trattato dal presidente di Montesquieu ( Espr. des Loix l. XXVIII c. 1 ) con eccessivo rigore. Mi dispiace lo stile di esso; ne detesto la superstizione; ma ardisco di credere, che la Giurisprudenza civile dimostra uno stato di società più incivilito ed illuminato, che quello de' Borgognoni e anche de' Lombardi.
266. Vedi Gilda, de Excidio Britanniae c. II 25 p. 4, 9 Edit. Gale, Nennio, Hist. Britan c. 28, 35, 65 p. 105, 115 Edit. Gale, Beda, Hist. Eccles. Gentis Anglor. L. I c. 12, 16 p. 49, 53 c. 22 p. 58 Edit. Smith, la Cronica Sassone p. 22, 23 ec. Edit. Gibson. Le leggi Anglo-Sassone furono pubblicate da Wilkins Lond. 1731 in fol. e le leggi Walliche da Wotton e Clarke Lond. 1730 fol.
267. Il laborioso Carte, e l'ingegnoso Whitaker sono i due moderni scrittori, a' quali principalmente io son debitore. La istoria particolare di Manchester abbraccia, sotto quell'oscuro titolo, un soggetto quasi tanto esteso, quanto è l'istoria generale d'Inghilterra.
268. Quest'invito, che può in qualche modo fondarsi sulle incerte espressioni di Gilda e di Beda, è ridotto ad una regolare storia da Witikindo, Monaco Sassone del decimo secolo (Ged. Consin, Hist. de l'Empire d'Occident Tom. II p. 366 ). Rapin, ed anche Hume si sono troppo francamente serviti di questa sospetta testimonianza senz'aver riguardo alla precisa e probabile autorità di Nennio: « Interea venerunt tres Chiulae a Germania in exilio pulsae, in quibus erant Hors, et Hengist.»
269. Nennio attribuisce a' Sassoni l'uccisione di trecento Capi Brettoni: delitto non incoerente a' selvaggi loro costumi. Ma non siam obbligati a credere (Vedi Jeffrey di Monmouth L. VIII c. 9, 12 ), che Stonehenge sia un monumento di essi, che i giganti avevano anticamente trasportato dall'Affrica nell'Irlanda, e che fu quindi recato nella Brettagna per ordine d'Ambrogio, e per l'arte di Merlino.
270. Tutte queste Tribù vengono espressamente enumerate da Beda ( L. I c. 15 p. 52 L. V c. 9 p. 190 ), e quantunque io abbia esaminato le osservazioni del Whitaker ( Ist. di Manchest. vol. II p. 538, 443 ) pure non vedo quale assurdità venga da supporre, che i Frisi ec. si fossero mescolati con gli Anglo-Sassoni.
271. Beda ha enumerato sette Re, due Sassoni, uno Juta, e quattro Angli, che l'uno dopo l'altro acquistarono una indefinita superiorità di potenza e di fama nell'Eptarchia. Ma il regno loro fu l'effetto non della legge, ma della conquista; ed egli osserva in simili termini, che uno di essi soggiogò le isole di Man e d'Anglesey, ed un altro impose tributo agli Scoti, ed a' Pitti ( Hist. Eccl. Lib. II cap. 5 p. 83 ).
272. Vedi Gilda, de excid. Britann. cap. I pag. 1 Edit. Gale.
273. Il Whitaker ( Istor. di Manchester Vol. II p. 503, 516 ) ha sottilmente esposta questa patente assurdità, che si era passata senz'avvertirla dagl'Istorici generali, occupati ad esaminare avvenimenti più interessanti.
274. A Beran-birig, o castel Barbury, vicino a Marlborough. La Cronica Sassone determina il nome e la data; Cambden ( Britannia Vol. I p. 128 ) fissa il luogo; ed Enrico d'Huntingdon ( Scriptor. post. Bedam p. 314 ) riferisce le circostanze di questa battaglia. Esse son probabili e caratteristiche; e gli Storici del secolo XII potevan consultare dei materiali, che non esistono più.
275. Cornovaglia fu soggiogata finalmente da Atelstano ( an. 927, 941 ), che fissò una Colonia Inglese a Exeter, e confinò i Brettoni di là dal fiume Tamar. Vedi Guglielmo di Malmsbury L. II fra gli Scrittori post Bedam p. 50. Lo spirito de' Cavalieri di Cornovaglia restò avvilito dalla servitù, e sembra, secondo il romanzo di Tristram, che la loro infingardaggine si fosse quasi ridotta in proverbio.
276. Si prova lo stabilimento de' Brettoni nella Gallia, seguito nel sesto secolo, per mezzo di Procopio, di Gregorio di Tours, del secondo Concilio Turonense ( an. 567), e delle loro croniche, e vite di Santi meno sospette. La sottoscrizione d'un Vescovo de' Brettoni al primo Concilio Turonense ( an. 461 o piuttosto 481), l'armata di Riotamo, e le incerte declamazioni di Gilda ( alii transmarinas petebant regiones c. 25 p. 8 ) posson dar motivo a fissare un'emigrazione verso la metà del quinto secolo. Prima di quella epoca i Brettoni dell'Armorica non si trovano, che ne' romanzi; e mi fa maraviglia, che il Whitaker ( Genuina Istor. de' Brettoni p. 214, 221 ) abbia si fedelmente copiato la grossolana ignoranza di Carte, di cui ha sì rigorosamente gastigato gli errori più leggieri.
277. Le antichità di Brettagna, che sono state soggetto anche di controversie politiche, si sono illustrate da Adriano Valesio ( Notitia Galliar. sub voce Britannia Cismarina p. 98, 100 ), dal Da Anville ( Notice de l'ancienne Gaule, Corisopiti, Curiosolites, Osismii, Vergavium p. 248, 258, 308, 720 ed Etats de l'Europ. p. 76, 80 ), da Longuerue ( Descript. de la France Tom. I p. 84, 94), e dall'Abbate Vertot ( Hist. crit. de l'Etablissem. des Bretons dans les Gaules 2 Vol. in 12 Paris 1720 ). Io non posso avere che il merito d'esaminare le prove originali, ch'essi hanno prodotte.
278. Beda, che nella sua cronica (p. 28) pone Ambrogio sotto il regno di Zenone ( an. 474, 491 ) osserva, che i suoi maggiori erano stati purpura induti, lo che egli spiega nella sua storia Ecclesiastica colle parole regium nomen et insigne ferentibus ( L. I c. 16 p. 53 ). L'espressione di Nennio ( c. 44 p. 110 Edit. Gale ) è vieppiù singolare: Unus de consulibus Gentis Romanicae est pater meus.
279. Per unanime, quantunque dubbiosa, congettura dei nostri Antiquari, Ambrogio si confonde con Natanleod, che perdè la vita l'anno 508 insieme con cinquemila de' suoi sudditi in una battaglia contro Cerdic, Sassone occidentale ( Chron. Saxon. p. 17, 18 ).
280. Siccome non mi son noti i Bardi di Galles Myrdhiu, Llomarch, e Taliessin, la mia fede intorno all'esistenza, ed imprese d'Arturo posa principalmente sulla testimonianza semplice e circostanziata di Nennio ( Hist. Brit. c. 62, 63 p. 114 ). Il Whitaker ( Istor. di Manchester Vol. 2 p. 31, 71 ) ha fatto una interessante, ed anche probabile descrizione delle guerre d'Arturo; quantunque sia impossibile d'accordare la verità della Tavola rotonda.
281. Il progresso de' Romanzi, e lo stato della letteratura, nel medio Evo, sono illustrati da Tommaso Wharton col gusto di un Poeta, e con la minuta diligenza d'un Antiquario Io ho tratto grande istruzione dalle due dotte dissertazioni, premesse al primo volume della sua Storia della Poesia Inglese.
282. Hoc anno (490) Aella et Cissa obsederunt Andredes Ceaster et interfecerunt omnes, qui id incoluerunt; adeo ut ne unus Brito ibi superstes fuerit ( Chron. Saxon. pag. 15 ): espressione più terribile nella sua semplicità, che tutte le vaghe e tediose lamentazioni del Geremia Britannico.
283. Andredes-Ceaster, o Andrida si pone da Cambden ( Britannia Vol. I p. 258 ) a Newenden, ne' paludosi terreni di Kent, che forse anticamente eran coperti dal mare, e sull'orlo della gran foresta (Anderida), che occupava una porzione sì grande delle Province, di Hampshire, e di Sussex.
284. Il Dottor Iohnson afferma, che poche parole Inglesi sono d'origine Britannica. Il Whitaker, che intende il linguaggio Britanno, ne ha scoperte più di tremila, ed attualmente ne pubblica un lungo, e vario catalogo ( V. II p. 235 329.) Può essere in vero, che molte di queste parole siano passate dal Latino, o dal Sassone nell'idioma nativo della Brettagna.
285. Al principio del settimo secolo i Franchi e gli Anglo-Sassoni reciprocamente intendevano il linguaggio gli uni degli altri, ch'era derivato dalla medesima radice Teutonica (Beda L. I c. 25 p. 60 ).
286. Dopo la prima generazione de' Missionari Italiani o Scoti, le dignità della Chiesa furon occupate da' proseliti Sassoni.
287. Carte Istor. d'Inghil. Vol. I, 195. Ei cita gl'Istorici Brettoni; ma temo assai, che l'unico suo autore sia Jeffrey di Monmouth ( L. VI c. 15 ).
288. Beda Hist. Eccl. L. I c. 15 p. 52. Il fatto è probabile, e ben attestato: pure la mescolanza delle Tribù germaniche era talmente libera, che noi troviamo, in un tempo successivo, la legge degli Angli e de' Warini di Germania (Lindebrog. Cod. p. 479, 486 ).
289. Vedasi l'utile e laboriosa Storia della Gran Brettagna del Dottore Henry ( Vol. II p. 388 ).
290. Quidquid (dice Gio. di Tinemouth) inter Tynam et Tesam fluvios extitit sola eremi vastitudo tunc temporis fuit, et idcirco nullius ditioni servivit eo quod sola indomitorum, et sylvestrium animalium spelunca, et abitatio fuit (ap. Carte Vol. I p. 195 ). Si sa dal Vescovo Nicholson ( Biblioteca Istorica Inglese, p. 65, 98 ) che si conservano nelle librerie d'Oxford, di Lambeth ec. alcune belle copie delle ampie collezioni di Gio. di Tinemouth.
291. Vedi la missione di Wilfrido ec. appresso Beda ( Hist. Eccl L. IV c. 13, 16 p. 155, 156-159 ).
292. Dalla concorde testimonianza di Beda ( Lib. II c. I p. 78 ), e di Guglielmo di Malmsbury ( L. III p. 102) si rileva, che gli Anglo-Sassoni persisterono in questa pratica, contraria alla natura da' primi fino agli ultimi loro tempi. I loro giovani venivano pubblicamente venduti sul mercato di Roma.
293. Secondo le Leggi d'Ina, essi non potevano esser legittimamente venduti di là dal mare.
294. La vita d'un uomo Walus o Cambricus, che possedeva una certa misura di terra ( hyde ), è computata 120 scillini, dalle medesime leggi (d'Ina Tit. 32 in Leg. Anglo-Saxon. p. 10 ), che accordavano 200 scillini per un Sassone libero, e 1200 per un Thane (Vedi Leg. Anglo-Saxon. p. 71 ). Noi possiam osservare, che questi Legislatori, cioè i Sassoni occidentali ed i Mercj, continuarono le Britanniche loro conquiste, anche dopo d'esser divenuti Cristiani. Le Leggi de' quattro Re di Kent, non si degnano di prender cognizione dell'esistenza d'alcun suddito Britannico.
295. Vedi Carte Istor. d'Inghilt. vol. 1. p. 278.
296. Beda al fine della sua storia (an. 731) descrive lo stato Ecclesiastico dell'Isola, e censura l'implacabile, quantunque impotente, odio de' Brettoni contro la nazione Inglese, e la Chiesa Cattolica ( L. V. c. 23 p. 219 ).
297. Il giro di Pennant in Galles (p. 426, 449) mi ha somministrato un curioso ed interessante ragguaglio de' Bardi di Galles. Nell'anno 1568 fu tenuta una sessione a Caerwys per ispecial comando della Regina Elisabetta, e furono conferiti regolarmente i gradi nella musica vocale ed istrumentale a cinquantacinque suonatori. Il premio (ch'era un'arpa d'argento) fu aggiudicato dalla famiglia Mostyn.
298. Regio longe lateque diffusa, milite, magis quam credibile sit, referta. Partibus equidem in illis miles unus quinquaginta generat, sortitus more barbaro denas, aut amplius uxores. Questo rimprovero di Guglielmo di Poitiers ( negli Storici di Francia Tom. XI. p. 88 ) vien contraddetto dagli Editori Benedettini.
299. Giraldo Cambrense ristringe questo dono d'ardita e facile eloquenza a' Romani, a' Francesi, ed a' Britanni. Il malizioso Gallese vuol far credere, che la taciturnità Inglese potrebb'esser forse l'effetto della lor servitù sotto i Normanni.
300. La pittura de' costumi di Galles e dell'Armorica è tratta da Giraldo ( Descript. Cambriae c. 6, 15 inter Scriptor. Cambden p. 886, 891 ), e dagli autori, che cita l'Abbate di Vertot ( Hist. crit. Tom. II. p. 259, 266 ).
301. Vedi Procopio De bell. Gothic. L. IV. c. 20, p. 620, 625. L'Istorico Greco stesso è così confuso dalle maraviglie ch'ei riferisce, che appena tenta di distinguer le isole di Brittia, e di Brettagna, ch'egli ha identificato per mezzo di tante inseparabili circostanze.
302. Teodeberto, nipote di Clodoveo, e Re d'Austrasia, era il più potente e guerriero Principe del suo tempo; e questa notabile avventura si può collocare fra gli anni 534 e 547 che furono gli estremi termini del suo regno. Teudechilde, sua sorella si ritirò a Sens, dove fondò Monasteri, e distribuì elemosine (Vedi le note degli Editori Benedettini in Tom. II. p. 216 ). Se prestiamo fede alle lodi di Fortunato ( L. VI. Carm. 5. in Tom. II. p. 507 ) Radigero restò privo di una moglie molto stimabile.
303. Era forse sorella d'uno de' Principi, o Capi degli Angli, che nel 527 e ne' seguenti anni sbarcarono fra l'Umber ed il Tamigi, ed appoco appoco fondarono i regni dell'Inghilterra Orientale e della Mercia. Agli scrittori Inglesi è ignoto il nome e l'esistenza di essa: ma Procopio può avere somministrato a Rowe il carattere e la situazione di Rodoguna nella tragedia del Convertito reale.
304. Nella copiosa storia di Gregorio di Tours non possiamo trovare alcuna traccia d'ostile o amichevol commercio fra la Francia e l'Inghilterra, eccettuato il matrimonio della figlia di Cariberto Re di Parigi, quam Regis cujusdam in Cantia filius matrimonio copulavit ( l. IX. c. 26 in Tom. II. p. 348 ). Il Vescovo di Tours finì la sua storia, e la vita quasi immediatamente prima della conversione di Kent.
305. Tali sono le figurate espressioni di Plutarco ( Oper. Tom. II. p. 318 edit. Wechel ) a cui, sull'autorità di Lampria suo figlio (Fabric., Biblioth Graec. Tom. III p. 341 ), attribuirò francamente la maliziosa declamazione περι τμς Ρωμαηον τυχης sopra la fortuna de' Romani. Era prevalsa la medesima opinione fra' Greci dugento cinquant'anni prima di Plutarco; e Polibio espressamente si propone di confutarla ( Hist. L. I p. 90 Edit. Gronov. Amstel. 1670 ).
306. Vedansi i preziosi residui del santo libro di Polibio, e molte altre parti della sua storia generale, specialmente una digressione nel libro 170, in cui paragona la falange, e la legione.
307. Sallust., De Bell. Jugurtin. cap. 4. Tali erano le generose proteste di P. Scipione e di Q. Massimo. L'Istorico latino avea letto, e probabilissimamente trascrisse Polibio, loro contemporaneo ed amico.
308. Mentre Cartagine si trovava in mezzo alle fiamme, Scipione ripeteva due versi dell'Iliade, ch'esprimono la distruzione di Troia, confessando a Polibio, suo amico e precettore (Polyb., in Excerpt. de virtut. et vit. T. II p. 1455, 1465 ), che riflettendo alle vicende delle cose umane, interamente applicavali alle future calamità di Roma (Appian., in Libycis p. 136, edit. Toll. ).
309. Vedi Daniel II 31, 40. « Ed il quarto regno sarà forte come ferro, perciocchè rompe come il ferro, e supera tutte le cose». Il resto della profezia (cioè la mescolanza del ferro e della creta ) s'avverò secondo S. Girolamo, ne' suoi tempi: Sicut enim in principio nihil Romano Imperio fortius, et durius ita in fine rerum nihil imbecillius: quum et in bellis civilibus, et adversus diversas nationes aliarum gentium barbararum auxilio indigemus. Oper. Tom. V p. 572.
310. La Lega Anseatica.
311. Gli Editori Francesi ed Inglesi dell'Istoria genealogica de' Tartari vi hanno aggiunto una curiosa, quantunque imperfetta, descrizione del loro presente stato. Si può mettere in dubbio l'indipendenza de' Calmucchi o Eluti, poichè sono stati recentemente vinti da' Chinesi, che nell'anno 1759 soggiogarono la Bucaria minore, e si avanzarono nel paese di Badakshan vicino alla sorgente dell'Osso ( Mem. sur les Chinois Tom. I p. 325, 400 ). Ma tali conquiste sono precarie, nè mi arrischierò ad assicurare la salvezza dell'Impero Chinese.
312. Il prudente lettore determinerà, quanto sia indebolita questa general proposizione dalla rivolta dagl'Isauri, dalla indipendenza della Brettagna e dell'Armorica, dalle tribù de' Mori, o da' Bagaudi della Gallia e della Spagna ( Vol. I p. 340 Vol. III p. 273, 337, 434 ).
313. L'America ora contiene circa sei milioni di persone di sangue, o d'origine Europea; ed il loro numero almeno nel settentrione continuamente cresce. Qualunque sia il cangiamento della politica loro situazione, dovranno sempre conservare i costumi d'Europa; e possiam riflettere con qualche soddisfazione, che la lingua inglese sarà probabilmente diffusa in un immenso e popolato continente.
314. On avoit fait venir (per l'assedio di Turino) 140 pièces de canon; et il est a remarquer que chaque gros canon monté revient à environ 2,000 ècus: il y avoit 110,000 boulet; 106,000 cartouches d'une façon, et 300,000 d'une autre; 21,000 bombes; 277,000 grenades; 15,000 sacs à terre; 30,000 instrumens pour le pionnage; 1,200,000 livres de poudre. Ajoutez à ces munitions le plomb, le fer, et le fer-blanc, les cordages, tout ce qui sert aux mineurs, le souphre, le salpêtre, les outils, de toute espèce. Il est certain que les frais de tous ces préparatifs de destruction suffiroient pour fonder et pour faire fleurir la plus nombreuse colonie. Voltaire. Siecle de Louis XIV, c. 20, nelle sue Opere Tom. XI p. 391.
315. Sarebbe facile, quantunque noiosa, impresa il produrre le autorità de' Poeti, de' Filosofi, e degl'Istorici. Io mi contenterò dunque di rimettermi alla decisiva ed autentica testimonianza di Diodoro Siculo ( Tom. I L. I p. 11, 12 L. III p. 184. Edit. Wesseling ). Gl'Ittiofagi, che al suo tempo andavan vagando lungo i lidi del Mar Rosso, possono paragonarsi a' nativi della nuova Olanda (Dampier Viag. Vol. I p. 464, 469 ). La fantasia, e forse la ragione, può tuttavia supporre un estremo ed assoluto stato di natura, molto al di sotto del livello di questi selvaggi, che avevano acquistato qualche arte, e qualche istrumento.
316. Vedasi la dotta e ragionata opera del presidente Goguet de l'Origine des Loix, des Arts, et des Sciences. Ei rintraccia, da' fatti e dalle congetture ( Tom. I p. 147, 337 edit. in 12), i primi e più difficili passi dell'invenzione umana.
317. Egli è certo, quantunque strano, che molte nazioni hanno ignorato l'uso del fuoco. Anche gl'ingegnosi abitanti di Otabiti, che son privi di metalli, non hanno inventato alcun vaso di terra, capace di sostenere l'azione del fuoco e di comunicare il calore a' liquidi che vi si contengono.
318. Plutarco Quaest. Rom. in Tom. II pag. 275, Macrob. Saturnal. l. 1 c. 8 p. 152 edit. Lond. L'arrivo di Saturno (del religioso suo culto) in una nave può indicare, che la selvaggia costa del Lazio fu scoperta la prima volta, ed incivilita da' Fenicj.
319. Omero, nel nono e decimo libro dell'Odissea, ha abbellito le novelle de' timidi e creduli navigatori, che trasformano i Cannibali dell'Italia e della Sicilia in mostruosi Giganti.
320. Troppo frequentemente si è macchiato il merito delle scoperte coll'avarizia, colla crudeltà, e col fanatismo; ed il commercio delle nazioni ha prodotto la comunicazione delle malattie e de' pregiudizi. Si dee fare però una singolare eccezione in favore della virtù de' nostri tempi e del nostro paese. I cinque gran viaggi, l'uno dopo l'altro intrapresi per comando di sua Maestà, presentemente regnante, furono inspirati dal puro e generoso amor della scienza e del Genere umano. L'istesso Principe, adattando le sue beneficenze alle varie situazioni della società, ha fondato una scuola di Pittura nella sua capitale; ed ha introdotto nelle isole del mare del Sud i vegetabili, e gli animali più vantaggiosi alla vita umana.
321. I. Joan. Cap. 5 N. 7.
322. Discors. 2 sopra la Stor. Eccl.
323. §. 3 al luog. cit.
324. Porph. de Vita Pitag.
325. Trattato degli Studi n. 4.
326. Hist. l. XX n. 3.
327. Cass. Coll. 24 Ist. XX n. 6.
328. S. Basil. reg. fus. n. 35.
329. Ist. l. XIX n. 8 n. 17.
330. Ist. l. 2 n. 44 l. IV. 41.
331. §. XI.
332. Ist. l. III n. 19. XV n. 45.
333. Ist. l. XIV n. 31 Athan. ad Serap.
334. I tre ultimi volumi in 4.º dell'Opera di E. Gibbon uscirono in luce nel 1788. In fronte ad essi vi sta la Prefazione che qui si legge che della Opera intera formava sei volumi in 4.º
335. Vedi la Prefazione dell'Autore al Volume I di quest'Opera in fine.
336. Vedi la Prefazione del Dott. Robertson alla sua Storia d'America.
337. Quest'osservazione ha luogo quanto alla Lingua Inglese, non già quanto all'Italiana.
338. Giornandes ( de reb. Getic. c. 13, 14 pag. 629, 630 Edit. Grot. ) ha tratto l'origine di Teodorico da Gapt, uno degli Ansi o Semidei, che visse verso il tempo di Domiziano. Cassiodoro, ch'è il primo, che celebri la stirpe Reale degli Amali ( Var. VIII 5, IX 25, X 2, XI 1 ) conta il nipote di Teodorico per decimosettimo nella discendenza. Peringsciold (Commentatore Svezzese di Cochloeus. vit. Theodor. pag. 271 Stockholm 1699 ) s'affatica per combinare questa genealogia con le leggende, o tradizioni della sua patria.
339. Più esattamente sulle rive del lago Pelso ( Nieusiedlersee ) vicino a Carnunto, quasi nel medesimo luogo, dove Marco Antonino compose le sue meditazioni (Giornand. c. 52 p. 659. Severin, Pannonia illustrata p. 22. Cellarius, Geogr. antiq. Tom. 1 p. 350 ).
340. In una lastra d'oro s'incisero le prime quattro lettere (ΘΕΟΔ) del suo nome, e quindi postala sulla carta, il Re faceva scorrere la sua penna per le incisioni di quella (Anonym. Valesian. ad calcem Ammiani Marcellin. p. 722 ). Questo fatto, autenticato dalla testimonianza di Procopio, e almeno de' Goti contemporanei ( Gothic. l. 1 c. 2 p. 311 ) prevale assai alle vaghe lodi d'Ennodio (Sirmond., Oper. Tom. 1 p. 1596 ) e di Teofane ( Chronograp. p. 112 ).
341. Statura est, quae resignet proceritate regnantem (Ennod. p. 1614). Il Vescovo di Pavia (voglio dire quell'Ecclesiastico che desiderava d'esser Vescovo) passa in seguito a celebrar la carnagione, gli occhi, le mani ec. del suo Sovrano.
342. Descrivono lo Stato degli Ostrogoti, ed i primi anni di Teodorico, Giornandes (c. 52, 56 p. 689, 696) e Malco ( Excerpt. Legat. p. 78, 80 ) che lo chiama erroneamente figlio di Walamiro.
343. Teofane (p. 111) inserisce nella sua storia una copia delle Sacre lettere di lei alle province: ιστε οτι βασιλεον εμετερον εστι.... και οτι προχειρησαμεθα βασιλεα τρασκαλλισαιον ec. ( sapete, che nostro è l'Impero... e che facemmo Trascalisseo Imperatore, ec. ). Tali donnesche pretensioni avrebber fatto stupire gli schiavi de' primi Cesari.
344. cap. XXXVI Tom. VI p. 136.
345. Suidas Tom. I p. 332, 333 Edit. Kuster.
346. Le storie contemporanee di Malco, e di Candido si son perdute: ma se ne conservarono alcuni estratti o frammenti presso Fozio (LXXVIII, LXXIX p. 100, 102), presso Costantino Porfirogenito ( Excerpt. Legat. p. 78, 97 ), ed in vari articoli del Lessico di Suida. Quanto a' regni di Zenone e d'Anastasio la Cronica di Marcellino ( Imago Historiae ) è originale: e debbo confessare, almeno rispetto agli ultimi tempi, le mie obbligazioni alle vaste ed esatte Collezioni del Tillemont ( Hist. des Emp. Tom. VI pag. 472, 652 ).
347. In ipsis congressionis tuae foribus cessit invasor, cum profugo per te sceptra redderentur de salute dubitanti. Ennodio poi giunge fino (p. 1596, 1597 Tom. 1 Sirmond. ) a trasportare il suo Eroe (forse sopra un dragon volante?) nell'Etiopia, oltre il tropico di cancro. Quel che dicono il Frammento Valesiano (pag. 717), Liberato ( Brev. Eutych. c. 25 p. 118 ), e Teofane (p. 112), è più sobrio e ragionevole.
348. Viene specialmente imputato questo crudele uso ai Goti Triarj, meno ( forse più ) barbari, per quanto sembra, de' Walamiri; ma si accusa il figlio di Teodemiro della rovina di molte Città Romane (Malco, Excerpt. Legat. p. 95 ).
349. Giornandes (cap. 56, 57 p. 696) espone i servigi di Teodorico, ne confessa le ricompense, ma dissimula la sua ribellione, di cui ci sono stati conservati questi curiosi ragguagli da Malco ( Excerpt. Legat. p. 78, 97 ). Marcellino, famigliare di Giustiniano, sotto il quarto Consolato del quale (an. 534) compose la sua Cronica (Scaligero Thesaur. tempor. P. II p. 34, 57 ) scuopre il suo pregiudizio, e la sua passione; in Graeciam debacchantem.... Zenonis munificentia pene pacatus..... beneficiis numquam satiatus, etc.
350. Nel tempo ch'ei cavalcava nel suo campo, un cavallo indomito lo trasse contro la punta d'una lancia, che stava fissa d'avanti a una tenda o sopra un carro (Marcellin. in Chron.; Evagr. l. III c. 25 ).
351. Vedasi Malco ( pag. 91 ) ed Evagrio ( l. III c. 35 ).
352. Malco ( p. 85 ). In una sol'azione, che fu decisa dall'abilità e disciplina di Sabiniano, Teodorico perdè cinquemila uomini.
353. Giornandes ( c. 57 pag. 696, 697 ) ha compendiato la grande Istoria di Cassiodoro. Si vedano, si confrontino fra loro, e si concilino insieme Procopio ( Gothic. l. 1 c. 1 ), il Frammento Valesiano ( p. 718 ), Teofane ( p. 113 ) e Marcellino ( in Chron. ).
354. La marcia di Teodorico vien esposta ed illustrata da Ennodio ( p. 1598, 1602 ) qualora si riduca la gonfiezza dell'orazione al linguaggio del senso comune.
355. Tot Reges ec. (Ennod. p. 1602 ). Dobbiamo quindi arguire quanto fosse moltiplicato e avvilito il titolo di Re, e che i mercenari d'Italia erano i frammenti di molte nazioni e tribù.
356. Vedi Ennod. pag. 1603. Poichè l'Oratore alla presenza del Re potè mentovare e lodare sua madre, possiam dedurne, che la magnanimità di Teodorico non si offendeva delle volgari taccie di concubina e di bastardo.
357. Si riporta quest'aneddoto sulla moderna, ma rispettabil autorità del Sigonio ( Oper. Tom. I. p. 580. De Occident. Imp. l. XV ). Son curiose le sue parole = Volete voi ritornare? = nell'atto di presentare ad essi, e quasi scuoprire l'originale ricetto.
358. Hist. miscell. l. XV. Storia Rom. da Giano fino al IX secolo, Epitome d'Eutropio, di Paolo Diacono, e di Teofane, che ha pubblicato il Muratori da un MSS. della Libreria Ambrogiana ( Script. Rerum Italic. Tom. I. p. 110 ).
359. Procop. ( Gothic. L. I. c. I ). Si dimostra imparziale Scettico: φασι.... δολερω τροπω εκτεινε ( dicono.... morì per inganno ), Cassiodoro ( in Chronic.) ed Ennodio ( p. 1604 ) sono leali e creduli, e la testimonianza del frammento Valesiano ( p. 718 ) può giustificare la loro credenza. Marcellino sputa il veleno d'un suddito greco, periuriis illectus interfectusque est (in Chron).
360. La sonora e servile orazione d'Ennodio fu pronunziata a Milano o a Ravenna l'anno 507 o 508. (Sirmondo, Tom. I. p. 1615 ). Due o tre anni dopo l'Oratore fu premiato col Vescovato di Pavia, ch'ei tenne fino alla sua morte seguita nel 521 (Dupin, Bibliot. Eccl. Tom. V. p. 11-14 Vedi Saxii, Onomasticon Tom. II, p. 12.).
361. I nostri migliori materiali sono alcuni cenni accidentali presso Procopio, ed il Frammento Valesiano, che fu scoperto dal Sirmondo, e pubblicato al fine d'Ammiano Marcellino. È ignoto il nome dell'Autore, e lo stile n'è barbaro: ma ne' varj fatti che adduce, dimostra la cognizione d'un contemporaneo senz'averne le passioni. Il Presidente di Montesquieu aveva formato il piano d'un'Istoria di Teodorico, che veduto in distanza può sembrare un soggetto ricco ed interessante.
362. La miglior edizione de' XII. libri Variar. è quella di Gio. Garrezio ( Rotomag. 1679 in Opp. Cassiodor. 2. Vol. in fol. ) ma essi meritavano, ed esigevano un editore come il Marchese Scipione Maffei, che pensò di pubblicarli in Verona. La barbara eleganza (come ingegnosamente la chiama il Tiraboschi) non è mai semplice, o raramente chiara.
363. Procop., Gothic. l. 1. c. 1. Variar. II. Il Maffei ( Verona Illustr. P. I. p. 228 ) esagera l'ingiustizia de' Goti, che egli odiava come un nobile Italiano: ed il plebeo Muratori s'umilia sotto la lor oppressione.
364. Procop., Goth. l. III. c. 4. 21. Ennodio (p. 1612, 1613) descrive l'arte militare, e l'aumento de' Goti.
365. Quando Teodorico diede la sua sorella per moglie al Re de' Vandali, ella partì per l'Affrica con una guardia di mille nobili Goti, ciascheduno de' quali era seguitato da cinque uomini armati (Procop., Vandalic. l. 1. c. 8). La nobiltà Gotica quanto era brava, doveva essere altrettanto numerosa.
366. Vedi la ricognizione della libertà Gotica ( Var. V. 30).
367. Procop., Goth. l. 1. c. 2. I fanciulli Romani imparavano il linguaggio de' Goti ( Var. VIII. 21 ). Non distruggono la lor generale ignoranza l'eccezioni d'Amalasunta, che come donna poteva studiare senza vergogna, o di Teodato, la dottrina del quale provocò lo sdegno e il disprezzo de' suoi Nazionali.
368. Era fondato sull'esperienza questo detto di Teodorico: Romanus miser imitatur Gothum; et utilis (dives) Gothus imitatur Romanum. (Vedi il Frammento, e le Note del Valesio, p. 719 ).
369. Dalle Lettere di Cassiodoro si rileva il prospetto dello stabilimento militare de' Goti in Italia. ( Var. I. 24, 40 III. 3, 24, 48, IV. 13, 14, V. 26, 27, VIII. 3, 4, 25 ). E queste Lettere sono illustrate dall'erudito Mascou ( Istor. dei Germani l. XI. 40-44. Annotaz. XIV ).
370. Vedasi la chiarezza ed il vigore delle sue negoziazioni presso Ennodio (p. 1607); e Cassiodoro ( Var. III. 1, 2, 3, 4, IV. 13, V. 43, 44 ) espone il vario suo stile di amicizia, di consiglio, di domanda ec.
371. Fino della tavola ( Var. VI. 9 ) e del Palazzo ( VII, 5 ). L'ammirazione degli stranieri si rappresenta come il motivo più ragionevole di giustificare queste vane spese, e di stimolar la diligenza de' Ministri, a' quali eran affidate quelle incombenze.
372. Vedi le pubbliche e private alleanze del Re Goto coi Borgognoni ( Var. I 45, 46 ), co' Franchi ( II 40 ), co' Turingi ( IV 1 ), e co' Vandali ( V 1 ). Ciascheduna di queste Lettere somministra curiose notizie intorno alla politica, ed a' costumi de' Barbari.
373. Si può vedere il suo sistema politico presso Cassiodoro ( Var. IV 1, IX 1 ), Giornandes ( c. 58 p. 698, 699 ), ed il Frammento Valesiano ( p. 720, 721 ). La pace, l'onorevole pace, era lo scopo costante di Teodorico.
374. Un Lettore curioso può contemplar gli Eruli di Procopio ( Goth. l. II c. 14 ) ed un lettore paziente si può immergere nell'oscure e minute ricerche del Sig. di Buat ( Hist. des Peuples anciens Tom. IX p. 348, 396 ).
375. Var. IV 2. Cassiodoro espone lo spirito, e le formalità di questa marziale istituzione; ma sembra, che abbia trasportato solo i sentimenti del Re Goto nel linguaggio della eloquenza Romana.
376. Cassiodoro, che cita Tacito agli Estoni, ignoranti selvaggi del Baltico ( Var. V. 2 ), descrive l'ambra, per causa della quale i loro lidi sono stati sempre famosi, come la gomma d'un albero indurita dal sole, e purificata e trasportata dall'onde. Analizzata questa singolar sostanza da' Chimici, somministra un olio vegetabile, ed un acido minerale.
377. Scanzia, o Thule vien descritta da Giornandes ( c. 3 p. 610, 613 ), e da Procopio ( Goth. lib. 2 c. 15 ). Nè il Goto, nè il Greco Scrittore avevan veduto quel paese: ma avevano ambidue conversato co' nativi di esso nel loro esilio a Ravenna, o a Costantinopoli.
378. Sapherinas Pelles. Al tempo di Giornandes questa bella razza di animali abitava la regione di Suethans, la Svezia propriamente detta; ma appoco appoco è stata scacciata nelle parti Orientali della Siberia. Vedi Buffon ( Hist. Nat. T. XIII p. 309, 313. Ediz. in quarto ); Pennant ( Sistema de' quadrupedi Tom. I p. 322, 328 ); Gmelin ( Hist. gener. des Voyages Tom. XVIII p. 257, 258 ) e Levesque ( Hist. de Russie Tom. V p. 135, 166, 514, 515 ).
379. Nel sistema o Romanzo del Bailly ( Lettres sur les Sciences et sur l'Atlantide Tom. I p. 249, 256. Tom. II p. 114, 139 ) la fenice dell'Edda, e l'annua morte e risorgimento d'Adone e d'Osiride sono i simboli allegorici della assenza e del ritorno del Sole nelle regioni Artiche. Questo ingegnoso Scrittore è un degno scolare del gran Buffon: nè riesce facile alla più fredda ragione l'opporsi all'incanto della loro filosofia.
380. ̉Αυτη τε ̉Θυλιταιςη μεγηνη των ε̉σρτων ὲστι ( E questa è la massima festa per i Tuliti ) dice Procopio. Presentemente un rozzo manicheismo (bastevolmente generoso) domina fra' Samoiedi in Groenlandia, e in Lapponia ( Hist. des Voyag. Tom. XVIII p. 508, 509 Tom. XIX p. 105, 106, 527, 528 ); pure secondo Grozio Samojutae coelum atque astra adorant, numina haud aliis iniquiora ( de rebus Belgicis L. IV p. 338 Ediz. in fol. ) sentenza, che non isdegnerebbe di riconoscer per sua lo stesso Tacito.
381. Vedi l'Hist. des Peuples anciens ec. Tom. IX. p. 255, 273, 396, 501. Il Conte di Buat era ministro di Francia alla Corte di Baviera, allorchè una ingenua curiosità eccitò le sue ricerche sopra le antichità di quel Paese, e tal curiosità fu il germe di dodici rispettabili volumi.
382. Vedi i Fatti de' Goti sul Danubio, e nell'Illirico presso Giornandes ( c. 58 p. 699 ), Ennodio ( p. 1607, 1610 ), Marcellino ( in Chron. p. 44, 47, 48 ) e Cassiodoro ( in Chron. e Var. III 23, 50. IV 13. VII 4, 24. VIII 9, 10, 11, 21. IX 8, 9 ).
383. Non posso fare a meno di trascrivere il generoso e classico stile del Conte Marcellino: Romanus Comes Domesticorum, et Rusticus Comes Scholariorum cum centum armatis navibus, totidemque dromonibus, octo millia militum armatorum secum ferentibus ad devastanda Italiae littora processerunt, et usque ad Tarentum antiquissimam Civitatem aggressi sunt; remensoque mari inhonestam victoriam, quam piratico ausu Romanis rapuerunt, Anastasio Caesari reportarant. ( in Chron. p. 48 ). Vedi Var. I 16. II 38.
384. Vedi gli ordini, e le istruzioni reali ( Var. IV 15. V 16, 20 ). Questi navigli armati dovevano essere anche più piccoli de' mille vascelli d'Agamennone nell'assedio di Troia.
385. Vedi Cap. XXXVIII.
386. Ennodio ( p. 1610 ), e Cassiodoro in nome del Re ( Var. II 41 ) fanno menzione della sua salutar protezione degli Alemanni.
387. Si espongono i fatti de' Goti nella Gallia e nella Spagna con qualche oscurità da Cassiodoro ( Var. III 32, 38, 41, 43, 44. V 39 ), da Giornandes ( cap. 58 pag. 698, 699 ) e da Procopio ( Goth. l. 1 c. 12 ). Io non voglio nè discutere, nè conciliare fra loro i lunghi e contraddittori argomenti dell'Abbate Dubos, e del Conte di Buat sopra le guerre della Borgogna.
388. Teofane p. 113.
389. Procopio asserisce, che Teodorico ed i successivi Re d'Italia non promulgarono leggi alcune ( Goth. l. II c. 6 ). Ei deve intender però in lingua gotica: perchè tuttavia esiste un editto latino di Teodorico in cento cinquantaquattro articoli.
390. Si trova incisa l'immagine di Teodorico nelle sue monete; ma i modesti suoi successori si contentarono d'aggiungere il lor proprio nome alla testa dell'Imperatore regnante (Muratori, Antiq. Ital. medii aevi Tom. II Diss. 27 p. 577, 579. Giannone, Istor. Civ. di Napoli Tom. I p. 166 ).
391. Si rappresenta, l'alleanza dell'Imperatore e del Re d'Italia da Cassiodoro ( Var. I 1. II 12, 3. VI 1 ), e da Procopio ( Goth. l. II c. 6 l. III c. 21 ), che celebrano la amicizia d'Anastasio con Teodorico; ma il figurato stile di complimento veniva interpretato in un senso molto differente a Costantinopoli ed a Ravenna.
392. Alle diciassette Province della Notizia Paolo Warnefrido Diacono ( De reb. Longobard. l. II c. 14, 22 ) aggiunse la XVIII dell'Appennino (Muratori, Scriptor. Rer. Italicar. Tom. I p. 431, 433 ). Ma di queste la Sardegna e la Corsica si possedevano da' Vandali, e le due Rezie, ugualmente che le Alpi Cozie, pare che fossero abbandonate ad un Governo militare. Giannone ha lavorato ( Tom. I p. 172, 178 ) con patriottica diligenza sopra lo stato delle quattro Province, che ora formano il regno di Napoli.
393. Vedi l'Istoria Gotica di Procopio ( lib. I c. I lib. II c. 6 ), l'Epistole di Cassiodoro ( passim, ma specialmente i libri V e VI che contengono le formole o Patenti degli Ufizi), e la Storia Civile del Giannone ( Tom. I lib. II, III ). I Conti Gotici per altro, ch'ei pone in ogni città d'Italia, si distruggono dal Maffei ( Verona illustrata P. I lib. 8 p. 227 ), giacchè quelli di Siracusa e di Napoli ( Var. VI 22, 23 ) appartengono a commissioni speciali e temporanee.
394. Furono l'uno dopo l'altro impiegati al servizio di Teodorico due Italiani, che avevano il nome di Cassiodoro, il padre ( Var. I 24, 40 ) ed il figlio (IX 24, 25). Il figlio era nato l'anno 479. Le varie Lettere, ch'egli scrisse come Questore, come Maestro degli Ufizi, e come Prefetto del Pretorio, s'estendono dall'anno 509 al 539 e visse da monaco circa trent'anni (Tiraboschi, Stor. della Lett. Ital. T. III p. 7, 24. Fabricio, Bibliot. Lat. med. aev. Tom. I p. 357, 358. Edit. Mansi ).
395. Vedi il suo riguardo pel Senato presso Cochleo ( Vit. Theod. VIII p. 72, 80 ).
396. Non maggiore di 120,000 modj, o quattromila sacca (Anon. Valesian. p. 721 e Var. I 35. VI 18. XI 5, 39 ).
397. Si veda il riguardo e l'indulgenza ch'ebbe per gli spettacoli del Circo, del Teatro e dell'Anfiteatro, nella Cronica e nell'Epistole di Cassiodoro ( Var. I 20, 27, 30, 31, 32. III 51. IV 51 illustrate dall'annotaz. 14 dell'Istoria di Mascou), che ha tentato di spargere su questa materia una ostentata, quantunque piacevol erudizione.
398. Anon. Vales. p. 721. Mario Aventicense in Chron. Nella bilancia del merito pubblico e personale, il Conquistatore Gotico è per lo meno tanto superiore a Valentiniano, quanto può sembrare inferior di Traiano.
399. Vit. Fulgentii in Baron., Annal. Eccl. A. D. 500 n. 10.
400. Cassiodoro descrive col pomposo suo stile il Foro di Traiano ( Var. VII 6 ), il Teatro il Marcello ( IV 51 ) e l'Anfiteatro di Tito ( V 42 ), e le sue descrizioni non sono indegne dell'attenzion del Lettore. L'Ab. Barthelemy computa, che, secondo i prezzi moderni, l'opera in mattoni e la struttura del Colosseo costerebbe ora venti milioni di lire di Francia ( Mem. de l'Academie des inscript. Tom. 28 p. 585, 586 ). Che piccola parte di quella stupenda fabbrica!
401. Intorno agli Acquedotti, ed alle Cloache vedi Strabone ( l. V p. 360 ), Plinio ( Hist. Nat. XXXVI 24 ), Cassiodoro ( Var. III 30, 31 VI 6 ), Procopio ( Got. l. I c. 9 ), e Nardini ( Roma antica p. 514, 522 ). È tuttora un problema, come tali opere si potessero eseguire da un Re di Roma.
402. Quanto alla cura, che si presero i Goti delle fabbriche e delle statue, vedi Cassiodoro ( Var. I 21, 25. II 34. IV 30. VII 6, 13, 15 ) ed il Frammento Valesiano ( pag. 721 ).
403. Var. VII 15. Questi cavalli di Montecavallo da Alessandria erano stati trasportati a' Bagni di Costantino (Nardini pag. 188 ). Se ne disprezza la scultura dall'Abbate Dubos ( Reflex. sur la Poesie et sur la Peinture Tom. I sect. 39 ) e s'ammira dal Winckelmann ( Hist. de l'Art Tom. II pag. 159 ).
404. Var. X 10. Essi erano probabilmente un frammento di qualche carro trionfale (Cuper, de Elephant. II. 10 ).
405. Procopio ( Goth. l. IV c. 21 ) riporta una sciocca storia della Vacca di Mirone, che vien celebrata dal falso spirito di trentasei epigrammi greci ( Antholog. l. IV p. 302, 306. Edit. Hen. Steph. Auson., Epigramm. 58, 68 ).
406. Vedi un Epigramma d'Ennodio ( II 3 p. 1893, 1894 ) sopra questo giardino ed il real giardiniere.
407. Si prova la sua affezione per quella città dall'epiteto di Verona tua, e dalla leggenda dell'Eroe. Sotto il nome barbaro di Dietrich di Berna (Peringsciold, ad Cochloeum p. 840 ) il Maffei lo segue con intelligenza e piacere nel suo paese nativo ( l. IX p. 230, 236 ).
408. Vedi Maffei ( Verona illustr. P. I p. 231, 232, 308 ec. ). Egli attribuisce l'architettura gotica, come la corruzione della lingua, della scrittura ec. non a' Barbari, ma agli Italiani medesimi: si confrontino i suoi sentimenti con quelli del Tiraboschi ( Tom. III p. 61 ).
409. Nell'Epistole di Cassiodoro vagamente si dipingono le ville, il clima, e le vedute di Baia ( Var. IX 6. Vedi Cluver., Ital. antiqu. l. IV c. 2 p. 1119 ec. ) d'Istria ( Var. XII 22, 26 ), e di Como ( Var. XI 14 paragonata con le due Ville di Plinio IX 7 ).
410. In Liguria numerosa Agricolarum progenies (Ennod. 1678, 1679, 1680). S. Epifanio di Pavia redimè, per mezzo di preghiere o di riscatto, 6,000 schiavi da' Borgognoni di Lione o di Savoia. Tali azioni sono memorabili più dei miracoli.
411. L'economia politica di Teodorico (Vedi l'Anon. Vales. p. 721 e Cassiodoro in Chron. ) può distintamente ridursi a' seguenti capi: miniere di ferro ( Var. III 23 ) e d'oro ( IX 3 ): paludi Pontine ( II 32, 33 ): di Spoleto ( II 21 ): grano ( I 34. X 27, 28. XI 11, 12 ): commercio ( VI 7. VII 9, 23 ): fiera di Leucotoe o di S. Cipriano in Lucania ( VIII 33 ) abbondanza ( XII 4 ) cursus, o la pubblica posta ( I 29. II 31. IV 47. V 5. VI 6. VII 33 ): la strada Flaminia ( XII 18 ).
412. LX. Modii tritici in solidum ipsius tempore fuerunt, et vinum XXX amphoras in solidum (Fragm. Vales.). Dai granai si distribuiva il grano a XV o XXV modj per soldo d'oro, ed il prezzo era sempre moderato.
413. Vedi la vita di S. Cesario presso il Baronio ( A. D. 508. n. 12, 13, 14 ). Il Re gli regalò 300 soldi d'oro, ed un piatto d'argento, che pesava 60 libbre.
414. Ennodio in vit. S. Epiphan. nelle opere del Sirmondo Tom. I p. 1672, 1690. Teodorico sparse importanti favori sopra di questo Vescovo, ch'egli adoperava come Consigliere in tempo di pace e di guerra.
415. Devotissimus ac si Catholicus ( Anon. Vales. p. 720 ); la sua offerta però non fu maggiore di due candelieri ( cerostrata ) d'argento, del peso di settante libbre, molto inferiore all'oro e alle gemme di Costantinopoli o di Francia (Anastas. in vit. Pontif. in Houmisda p. 34 Edit. Paris ).
416. Il tollerante sistema del suo regno (Ennod. p. 1612; Anon. Vales. p. 719. Procop., Goth. l. I. c. 1, l. II c. 6 ) può studiarsi nell'Epistole di Cassiodoro sotto i seguenti articoli; Vescovi ( Var. I 9. VIII 15, 24. XI 23 ); Immunità ( I 26. II 29, 30 ); Terre della Chiesa ( IV 17, 20 ); Santuari ( II 11. III 47 ); Argenteria della Chiesa ( XII 20 ), Disciplina ( IV 44 ): che provano, ch'esso era nel tempo stesso Capo della Chiesa e dello Stato.
417. Possiam rigettare una sciocca novella d'aver egli decapitato un Diacono cattolico, che s'era fatto Arriano (Theodor. Lector. n. 17). Perchè Teodorico è soprannominato Afer? da Vafer? (Vales. ad loc. ) debole congettura!
418. Ennodio p. 1621, 1622, 1636, 1638. Il suo libello fu ( synodaliter ) approvato, e registrato da un Concilio Romano (Baron. an. 503 n. 6. Franc. Pagi in Breviar. Pontif. Rom. Tom. I p. 242 ).
419. Vedi Cassiodoro ( Var. VIII 15. IX 15, 16 ), Anastasio ( in Symmacho p. 31 ) e l'annotazione XVII di Mascovio. Il Baronio, il Pagi, e la maggior parte de' Dottori Cattolici confessano con meste querele questa Gotica usurpazione.
420. Ei li privò = licentia testandi =, e si attristò tutta l'Italia = lamentabili Justitio =. Io vorrei persuadermi, che queste pene si fossero stabilite contro i ribelli, che avevano violato il loro giuramento di fedeltà, ma la testimonianza d'Ennodio ( p. 1675, 1678 ) è sommamente grave per la circostanza ch'ei visse e morì sotto il regno di Teodorico.
421. Ennodio in vit. Epiphan. p. 1689, 1690. Boet., De Consolat. Philos. l. 1 pros. IV p. 45, 46, 47. Si rispettino, ma si pesino le passioni del Santo e del Senatore: e si confermino o si diminuiscano le loro querele, facendo uso de' vari cenni di Cassiodoro ( Var. II 8. IV 36. VIII 5 ).
422. Immanium expensarum pondus.... pro ipsorum salute etc. Queste però non sono che pure parole.
423. Si trovavano degli Ebrei a Napoli (Procopio, Goth. l. 1 c. 8 ), a Geneva ( Var. II 28. IV 33 ), a Milano ( V 57 ), a Roma ( IV 43 ): vedi anche Basnagio, Hist. des Juifs, Tom. VIII c. 7 p. 254.
424. Rex avidus communis exitii etc. Boeth. l. 1 p. 59. Rex dolum Romanis tendebat (Anon. Vales. p. 723 ) queste son parole assai dure, ch'esprimono le passioni degl'Italiani, e temo anche quelle di Teodorico medesimo.
425. Ho procurato di trarre una ragionevole narrazione dagli oscuri, brevi ed incerti cenni dal frammento Valesiano ( p. 722, 723, 724 ), di Teofane ( p. 245 ), d'Anastasio ( in Joanne p. 35 ) e dell'Istoria miscella ( p. 103 Edit. Muratori ). Una tenue compressione e parafrasi delle loro parole non è una violenza. Vedasi anche il Muratori ( Annali di Italia. Tom. IV p, 471, 478 ) con gli Annali, ed il Compendio ( Tom. I 259, 263 ) de' due Pagi, Zio e Nipote.
426. Le Clerc ha fatto una vita critica e filosofica di Anicio Manlio Severino Boezio ( Bibl. Chois. Tom. XVI p. 168, 275 ) e posson consultarsi con vantaggio tanto il Tiraboschi ( Tom. III ), quanto il Fabricio ( Bibliot. Latin. ). Si può fissare la data della sua nascita verso l'anno 470, e la sua morte nel 524 in una età non molto avanzata ( Consol. Phil. Metrica I p. 5 ).
427. Intorno all'età ed al valore di questo manoscritto, che ora è nella Libreria Medicea di Firenze, vedi Cenotaphia Pisana ( p. 430, 447 ) del Card. Noris.
428. Gli studj di Boezio in Atene son dubbiosi (Baronio an. 510 n. 3 che cita un Trattato spurio De Disciplina scholarum ), e senza dubbio il termine di diciotto anni è troppo lungo: ma il puro fatto d'una visita, ch'ei fece ad Atene, si giustifica da più prove, tratte da lui medesimo (Bruker Hist. Crit. Philos. Tom. III p. 524, 527 ) e da un'espressione, quantunque vaga ed ambigua, di Cassiodoro suo amico ( Var. I 45 ) Longe positas Athenas introisti.
429. Bibliothecae comptos ebore ac vitro parietes etc. ( Consol. Phil. l. 1 Pros. V p. 74 ). L'Epistole d'Ennodio ( VI 6. VII 13. VIII 1, 31, 37, 40 ) e Cassiodoro ( Var. I 39. IV 6. IX 21 ) somministrano molte prove dell'alta riputazione, ch'ei godeva a' suoi tempi. È vero, che il Vescovo di Pavia ebbe bisogno di comprare da lui una vecchia casa in Milano, e poterono presentarsi ed accettarsi delle lodi per parte del pagamento di essa.
430. Il Pagi, il Muratori ec. convengono, che Boezio medesimo fu Console, nell'anno 510, i due suoi figli nel 522, e nel 487 forse suo padre. Il desiderio d'attribuire al Filosofo l'ultimo di questi Consolati ha resa dubbiosa la cronologia della sua vita. Ne' propri onori, nelle sue Parentele, nei Figli egli celebra la sua propria felicità la felicità passata. ( p. 109, 110 ).
431. Si ego scissem, tu nescisses. Boezio ( L. 1 Pros. 5 pag. 53 ) adotta questa risposta di Giulio Cano, di cui la morte filosofica è descritta da Seneca ( De tranquillit. animi, c. 14 ).
432. S'espongono i caratteri de' due suoi delatori, Basilio ed Opilio, non molto per essi onorevolmente nelle Lettere di Cassiodoro ( Var. II 10, 11. IV 22. V 41. VIII 16 ) che fa menzione ancora di Decorato ( V 31 ) indegno Collega di Boezio ( L. III Pros. 4 p. 193 ).
433. Si fece un rigoroso processo intorno al delitto di magia ( Var. IV 22, 23. IX 18 ) e fu creduto, che molti negromanti fossero fuggiti rendendo pazzi i loro custodi: in vece di pazzi leggerei piuttosto ubbriachi.
434. Boezio aveva composto la propria apologia ( p. 53 ), forse più interessante della sua Consolazione. Ma bisogna, che ci contentiamo d'un prospetto generale de' suoi onori, principj, persecuzione ec. ( L. I Pros. IV p. 42, 62 ) che si può confrontare con le brevi ed importanti parole del Frammento Valesiano ( p. 723 ). Uno scrittore anonimo (Sinner Catalog. M. S. Bibliot. Bern. Tom. I p. 287 ) l'accusa francamente d'un onorevole e patriottico tradimento.
435. L'esecuzione fu fatta in agro Calventiano (a Calvenzano fra Marignano e Pavia) Anon. Vales. p. 723 per ordine d'Eusebio Conte di Ticino o di Pavia. Il luogo della sua prigionia si chiama Battistero: edifizio e nome proprio delle Chiese Cattedrali; ed una perpetua tradizione l'attribuisce alla Chiesa di Pavia. Nell'anno 1584 tuttavia sussisteva la torre di Boezio, e se ne conserva ancora la pianta. ( Tiraboschi Tom. III p. 47, 48 ).
436. Vedi la Biografia Britannica, Alfredo, Tom. I p. 80 II Ediz. L'opera è più onorevole ancora, se fu eseguita sotto l'occhio illuminato d'Alfredo dagli estranei e domestici suoi Dottori. Intorno alla fama di Boezio nel medio Evo, si consulti Brucker ( Hist. Crit. Philos. Tom. III p. 565, 566 ).
437. L'Iscrizione posta sul nuovo di lui sepolcro, fu fatta dal precettore di Ottone III, il dotto Papa Silvestro II, il quale, come Boezio medesimo, era chiamato mago dall'ignoranza di que' tempi. Il Martire cattolico aveva portato per un considerabile tratto di strada la propria testa delle sue mani (Baron. an. 526 n. 17, 18). Ad una simil novella disse una volta una Signora ( La Signora Du Deffand, in occasione del miracolo di S. Dionigi. ) di mia conoscenza = La distance n'y fait rien: il n'y a que le primier pas qui coute.
438. Boezio applaudisce alle virtù del suo suocero ( L. I Pros. 4 p. 118 ). Procopio ( Goth. L. I c. 1 ), il Frammento Valesiano ( p. 724 ), e l'Istoria miscella ( L. XV p. 105 ) son d'accordo nel lodare la sublime innocenza, o santità di Simmaco: e, nell'opinione dell'Autore della leggenda, il delitto della sua morte fu uguale a quello della carcerazione d'un Papa.
439. Nell'immaginosa eloquenza di Cassiodoro la varietà del pesce di mare e di fiume è una prova d'esteso dominio; e sulla tavola di Teodorico trovavansi quelli del Reno, di Sicilia, e del Danubio ( Var. XII 14 ). Il mostruoso Rombo di Domiziano (Giovenal. Sat. III 39 ) era stato preso nei lidi dell'Adriatico.
440. Procop. Goth. l. 1 c. 1. Ma ci avrebbe dovuto dire, se aveva saputo questo curioso aneddoto dalla fama comune, oppure dalla bocca del Medico Reale.
441. Procop. Goth. l. 1 c. 1, 2, 12, 13. Questa divisione fu ordinata da Teodorico, quantunque non s'eseguisse che dopo la sua morte: Regni haereditatem superstes reliquit ( Isidor. Chron. p. 721 Edit. Grot. ).
442. Berimondo, ch'era il terzo nella discendenza d'Ermanrico Re degli Ostrogoti, s'era ritirato nella Spagna, dove ei visse e morì nell'oscurità (Giornand. c. 33 p. 202 Ediz. Murator. ). Vedansi la scoperta, le nozze, e la morte del suo nipote Eutarico ( Iv. c. 58 p. 220 ). I suoi giuochi Romani poterono renderlo popolare (Cassiodor. in Chron. ), ma Eutarico era asper in religione (Anon. Vales. p. 722, 723 ).
443. Vedi i consigli di Teodorico, e le proteste del suo successore, presso Procopio ( Goth. l. 1 c. 1, 2 ), Giornandes ( c. 59 p. 220, 221 ) e Cassiodoro ( Var. VIII 1, 7 ). Queste lettere formano il trionfo della sua eloquenza ministeriale.
444. Anon. Vales. p. 724. Agnell. de Vit. Pontif. Ravenn. ap. Muratori Script. Rer. Italic. Tom. II P. I p. 67. Alberti Descriz. d'Italia p. 311.
445. Si riferisce questa Leggenda da Gregorio I ( Dial. IV 30 ) e s'approva dal Baronio ( An. 526 n. 29 ): e tanto il Pontefice quanto il Cardinale sono Dottori gravi, sufficienti a stabilire un'opinione probabile.
446. Teodorico medesimo, o piuttosto Cassiodoro, aveva descritto in tragiche frasi i Vulcani di Lipari (Cluver. Sicilia p. 406, 410 ), e del Vesuvio (IV 50).
447. S'incontra qualche difficoltà nella data della sua nascita (Ludewig. in vita Justiniani p. 125 ), ma non ve n'è alcuna rispetto al luogo, che fu nel Distretto di Bederiana il villaggio Tauresio, ch'egli di poi decorò col suo nome e splendore (Danville Hist. de l'Acad. sc. Tom. XXXI p. 287, 292 ).
448. I nomi di questi contadini Dardani son Gotici, e quasi Inglesi: Giustiniano è una traduzione d' Uprauda ( upright, giusto ); suo padre Sabazio (che nel linguaggio Greco barbaro significa stipes ) nel suo villaggio si chiamava Istock ( Stock, Stipite ); sua madre Bigleniza fu convertita in Vigilantia.
449. Il Ludewig ( p. 127, 135 ) tenta di giustificare il nome Anicio di Giustiniano e di Teodora, e d'unirli a quella Famiglia, da cui si è fatta discendere anche la Casa d'Austria.
450. Vedi gli Aneddoti di Procopio ( c. 5 ) con le note di N.-Alemanno. Il Satirico non avrebbe dovuto confondere nella generica e decente denominazione di γεοργος ( agricoltore ) il Βουκολος e συφαρβος ( condottiere di bovi e di porci ) di Zonara. Sebbene perchè mai questi nomi sono disonoranti? Qual Barone Tedesco non si glorierebbe di discendere dall'Eumeo dell'Odissea?
451. Son lodate le sue virtù da Procopio ( Persic. L. 1, c. 11 ). Il Questor Proclo era amico di Giustiniano, e nemico di qualunque altra adozione.
452. Manichea significa Eutichiana. Si odano le furiose acclamazioni di Costantinopoli e di Tiro: le prime, non più di sei giorni dopo la morte d'Anastasio, cagionarono la morte dell'Eunuco, le seconde vi fecero applauso (Baron. An. 518 P. II n. 15. Fleury Hist. Eccl. Tom. VII pag. 200, 205 dietro la Collezione de' Concilj Tom. V pag. 182, 207 ).
453. Il Conte di Buat ( Tom. IX p. 54, 81 ) spiega a maraviglia la potenza, il carattere e le intenzioni di esso. Egli era pronipote d'Aspar, Principe ereditario nella Scizia minore, e Conte de' Confederati Gotici di Tracia. I Bessi, sopra quali esso poteva influire, sono i Goti minori di Giornandes ( c. 51 ).
454. Justiniani Patricii factione dicitur interfectus fuisse (Victor. Tununens. Chron. in Thesaur. Temp. Scalig. P. II p. 7 ). Procopio ( Anecdot. c. 7 ) lo chiama tiranno, ma riconosce l'ἀδελφοπιστια ( Fede fraterna ), che bene si spiega dall'Alemanno.
455. Nella sua prima Gioventù ( plane adolescens ) era stato qualche tempo come in ostaggio presso Teodorico. Intorno a questo curioso fatto, l'Alemanno ( ad Procop. Anecdot. c. 9 p. 34 della prima Ed. ) cita un'Istoria MS. di Giustiniano, fatta da Teofilo suo precettore. Il Ludewig ( p. 143 ) brama di farne un soldato.
456. Si vedrà in seguito l'Istoria Ecclesiastica di Giustiniano. Vedi Baronio An. 518, 521 ed il copioso articolo Justinianus nell'indice del Tomo VII de' suoi Annali.
457. Si può trovare descritto il Regno di Giustino il Vecchio nelle tre Croniche di Marcellino, di Vittore, e di Gio. Malala ( Tom. II p. 130, 150 ) l'ultimo de' quali (malgrado l'Hody, Prolegom. n. 14, 39 Edit. Oxon. ) visse subito dopo Giustiniano ( Osservazioni di Jortin Tom. IV p. 383 ), nella Storia Ecclesiastica d'Evagrio ( l. IV c. 1, 2, 3, 9 ), nell'Excerpta di Teodoro Lettore ( n. 37 ), presso Cedreno ( p. 362, 366 ) e Zonara ( l. XVI p. 58, 61 ), che può passare per originale.
458. Si vedano i caratteri di Procopio e d'Agatia presso la Mothe le Vayer ( Tom VIII p. 144, 174 ), Vossio ( De Historicis Graecis l. II c. 22 ) e Fabricio ( Biblioth. Graecis l. V c. 5 Tom. VI p. 248, 278 ). La religione di essi, ch'è un onorevol problema, alle occasioni dimostra della conformità, con un segreto attacco al Paganesimo ed alla Filosofia.
459. Ne' primi sette libri, destinati due alla guerra Persiana, due alla Vandalica, e tre alla Gotica, Procopio ha preso la divisione delle Province e delle guerre da Appiano. L'ottavo libro, quantunque porti il nome di Gotico, non è che un miscellaneo e general supplemento fino alla Primavera dell'anno 553, dal qual tempo fino al 559 vien continuato da Agatia ( Pagi Critic. an. 579 n. 5 ).
460. Il destino letterario di Procopio è stato alquanto infelice. Primieramente i suoi libri de Bello Gothico furono involati da Leonardo Aretino, e pubblicati (in Foligno 1470 ed a Venezia 1471 presso Janson. Mattaire Annal. Typogr. Tom. I ediz. 2 p. 240, 304, 279, 299 ) in suo proprio nome ( Vedi Voss, De Histor. latinis l. III c. 5 e la debole difesa del Giornale de' Letterati di Venezia Tom. XIX p. 207); 2. ne furon mutilate le opere da' primi suoi traduttori Latini, Cristofano Persona (Giornale Tom. XIX p. 340, 348 ), e Raffaello Volterrano (Huet de Clar. Interpr. p. 166 ), i quali non consultaron neppure i manoscritti della Libreria Vaticana, di cui essi eran Prefetti (Alemann. in Praefat. Anecdot ); 3. Il testo Greco non fu stampato che nel 1607 dall'Hoeschelio d'Augusta ( Diction. de Bayle Tom. II p. 782 ); 4. L'edizione di Parigi fu eseguita imperfettamente da Claudio Maltret, Gesuita di Tolosa (nel 1663), molto lontano dalla stamperia del Louvre, e da' manoscritti Vaticani, dai quali però egli ottenne alcuni supplementi. I Commentari ec. ch'esso promise, non son mai comparsi alla luce. L'Agatia di Leida (1594) fu saviamente ristampato dall'Editore Parigino con la versione latina di Bonaventura Vulcanio, dotto interprete (Huet. p. 176 ).
461. Agat. in Praef. p. 7, 8 l. IV p. 137, Evagrio ( l. IV c. 12 ). Vedasi anche Fozio Cod. LXIII p. 65.
462. Κυρου παιδεια l'Istituzion di Ciro (dice nella Pref. ad libr. de Aedificiis περι κτισματον) non è altro che Κυρου παιδια ( una puerizia di Ciro ) giuoco di parole! In questi cinque libri Procopio affetta uno stile cristiano, ugualmente che cortigiano.
463. Procopio si scuopre nella Prefaz. ad Anecdot. c. 1, 2, 5, e gli Aneddoti stessi da Suida ( Tom. III p. 186 Edit. Kuster ) si contano per il IX libro. Il silenzio d'Evagrio è una meschina obbiezione. Il Baronio ( An. 548 n. 24 ) compiange la perdita di questa storia segreta; eppure trovavasi allora nella libreria Vaticana, sotto la custodia di lui medesimo, e fu per la prima volta pubblicata, sedici anni dopo la sua morte, con le dotte, ma parziali note di Niccolò Alemanno ( Lione 1623 ).
464. Giustiniano si rappresenta come un asino.... come una perfetta imagine di Domiziano ( Anecd. c. 8 ).... gli amanti di Teodora cacciati fuori del suo letto da' demonj loro rivali... il matrimonio di lui predetto da un gran demonio... un monaco vide il principe de' demonj sul trono in luogo di Giustiniano... i servi, che facevan la guardia, videro una faccia senza fattezze umane, un corpo che camminava senza testa ec. ec. Procopio manifesta la fede ch'egli ed i suoi amici prestavano a queste diaboliche storie ( c. 12 ).
465. Montesquieu ( Considerat. sur la Grand. et la decad. des Romains c. 20 ) dà fede a questi Aneddoti come coerenti, 1. alla debolezza dell'Impero, 2. all'incostanza delle Leggi di Giustiniano.
466. Quanto alla vita ed a' costumi dell'Imperatrice Teodora, vedi gli Aneddoti, specialmente cap. 1, 5, 9, 10, 15, 16, 17 con le dotte note dell'Alemanno: citazione, che sempre si dee sottintendere.
467. Comitone fu dipoi maritata a Sitta Duca d'Armenia, che fu probabilmente il padre dell'Imperatrice Sofia, o almeno essa potè esserne la madre. I due nipoti di Teodora possono esser figli d'Anastasia (Aleman. p. 30, 31 ).
468. Ne fu innalzata la statua in Costantinopoli sopra una colonna di porfido. Vedi (Procop. de aedif. l. I c. 11 ), che ne fa pure il ritratto negli Aneddoti ( c. 10 ). L'Alemanno ( p. 57 ) ne produce uno, tratto da un Mosaico di Ravenna, carico di perle e di gioie, e nonostante bello.
469. Un frammento degli Aneddoti ( c. 19 ) un poco troppo nudo fu soppresso dall'Alemanno sebben esistesse nel manoscritto Vaticano: nè tal difetto è stato supplito nell'edizione di Parigi e di Venezia. La Mothe le Vayer ( Tom. VIII. p. 155 ) diede il primo cenno di questo curioso e genuino passo (Iortin Osservaz. Tom. IV. p. 366 ) ch'egli aveva ricevuto da Roma, e dopo è stato pubblicato nelle Menagiane ( Tom. III p. 254-259 ) con una traduzione Latina.
470. Dopo di aver ricordato ch'essa portava un picciolo cinto, poichè nessuno potea comparire affatto nudo in teatro, Procopio soggiugne αναπεπεσυια.
Ho udito a dire che un dotto prelato, che or più non vive, era vago di citar questo passo nelle brigate.
471. Teodora sorpassò la Crispa di Ausonio (Ep. 4, XXI) dalla quale imitava il capitalis luxus delle donne di Nola. Vedi Quintil. Institut. VIII, 6 e Torrenzio ad Hor. Germ. t. 1 Sat. 2 v. 101. In una memorabil cena, trenta schiavi servivano a tavola: dieci giovinetti banchettavano con Teodora. La sua carità fu universale.
Et lassata viris, necdum satiata, recessit.
472. Ηος κεκ’ τοιων.
Ella desiderava un quarto altare su cui potesse offrire libazione al Dio d'amore.
473. Anonym. De Antiquit. CP. L. III, 132 ap. Banduri Imper. Orient. Tom. I p. 48. Il Ludveigio ( p. 754 ) arguisce con ragione, che Teodora non avrebbe voluto rendere immortale un bordello: ma io applico questo fatto alla seconda sua più casta dimora in Costantinopoli.
474. Vedi l'antica legge nel Codice di Giustiniano ( Lib. V Tit. 5 leg. 7 Tit. XXVII leg. 1 ) sotto gli anni 336 e 454. Il nuovo Editto (circa l'anno 521 o 522 Aleman, pag. 38, 96 ) molto sconciatamente non rammenta che la clausola di Mulieres Scenicae, libertinae, tabernaciae. Vedi le Novelle 89 e 117 ed un rescritto Greco, da Giustiniano diretto ai Vescovi ( Aleman. p. 41 ).
475. Io giuro per il Padre ec. per la Vergine Maria, per i quattro Evangeli quae in manibus teneo, o per i santi Arcangeli Michele e Gabriele, puram conscientiam, germanumque servitium me servaturum Sacratissimis DD. NN. Justiniano, et Theodorae conjugi ejus ( Novell. VIII Tit. 3 ). Avrebb'egli obbligato questo giuramento in favor della vedova? Communes tituli et triumphi ec. (Alemann. pag. 27 ec. ).
476. «La riconosca la grandezza, ed essa non è più vile» ec.
Senza il critico telescopio di Warburton, io non avrei mai ravvisato in questa general pittura del vizio trionfante, alcuna personale allusione a Teodora.
477. Le sue prigioni, caratterizzate per un laberinto, ed un Tartaro ( Anecdot. c. 4 ), erano sotto il Palazzo. L'oscurità favorisce la crudeltà, ma è favorevole ugualmente alla calunnia ed alla finzione.
478. A Saturnino fu data una pena più giocosa, per avere ardito dire, che la sua moglie, favorita dell'Imperatrice, non era stata trovata ατρητος ( Anecdot. c. 17 ).
479. Per viventem in saecula excoriari te faciam. Anastas. de Vitis Pont. Roman. in Vigilio p. 40.
480. Ludevig p. 161, 166. Io gli do fede per il caritatevole tentativo, sebbene egli non abbia molta carità nel suo carattere.
481. Si paragonino gli Aneddoti (c. 17) con gli Edifizi ( l. 1 c. 9 ). Quanto diversamente si può esporre il medesimo fatto! Gio. Malala (Tom. II p. 174, 175) osserva, che in questa o in altra simile occasione essa liberò e rivestì le ragazze, che aveva comprato da' lupanari a cinque aurei l'una.
482. Novell. VIII. 1. S'allude al nome di Teodora. I suoi nemici però leggevano Daemonodora (Aleman. p. 66).
483. S. Saba ricusò di pregare affinchè Teodora avesse un figlio, per timore che questo non divenisse un eretico peggiore d'Anastasio medesimo (Cyrill. in Vita. S. Sabae ap. Aleman. p. 70, 109 ).
484. Vedi Gio. Malala Tom. II p. 174. Teofane p. 158. Procopio de Aedific. l. V c. 3.
485. Theodora Calcedonensis Synodi inimica canceris plaga toto corpore perfusa vitam prodigiose finivit (Victor Tununensis in Chronic.). In tali occasioni una mente ortodossa s'indura contro la compassione. L'Alemanno (p. 12, 13) prende quelle parole di Teofane ὲυσεβως ὲκοιμηβη ( piamente morì ) per un linguaggio civile, che non indica nè pietà nè sentimento: pure due anni dopo la sua morte Paolo Silenziario ( in Prooem. v. 58, 62 ) celebra S. Teodora.
486. Poichè essa perseguitò i Papi, e rigettò un Concilio, il Baronio esaurisce i nomi di Eva, di Dalila, d'Erodiade ec. dopo di che ricorre al suo dizionario infernale civis inferni, alumna daemonum, satanico agitata spirita, aestro percita diabolico ec. ( An. 548 n. 24 ).
487. Si legga, e si gusti il libro XXIII dell'Iliade, viva pittura de' costumi, delle passioni, di tutte le formalità, e dell'oggetto della corsa de' cocchi. La dissertazione di West su' Giuochi Olimpici ( Sez. XII, XVII ) somministra notizie molto curiose ed autentiche.
488. I quattro colori Albati, Russati, Prasini, e Veneti secondo Cassiodoro ( Var. III, 51 ) che sparge molto spirito ed eloquenza su questo teatral mistero, rappresentano le quattro stagioni. Di questi possono i primi tre ben tradursi Bianco, Rosso, e Verde. Il Veneto poi si spiega con ceruleo, parola di vario ed equivoco significato, che propriamente significa il cielo riflesso nel mare: ma l'uso ed il comodo può permettere di prender l'azzurro come un equivalente (Roberto Stefano a questo vocabolo, Spence Polymetis p. 228).
489. Vedi Onofrio Panvinio de Ludis circensibus L. I c. 10, 11, l'annotaz. 17 all'Istoria de' Germani di Mascovio, e l'Alemanno al c. 7.
490. Marcellino in Chron. p. 47. Invece della comun voce Veneta usa i termini più ricercati di caerulea e caerealis. Il Baronio ( an. 501 n. 4, 5, 6 ) è persuaso, che gli Azzurri fosser ortodossi, ma il Tillemont si sdegna contro tale supposizione, e nega che vi fosse alcun martire per causa di spettacoli ( Hist. des Emper. Tom. VI p. 554 ).
491. Vedi Procop. ( Persic. l. 1 c. 24 ). Nel descrivere i vizi delle fazioni, e del Governo il pubblico Istorico non è loro più favorevole di quel che lo sia il privato. L'Alemanno (p. 26) ha citato un bel passo di Gregorio Nazianzeno, che prova, che il male era inveterato.
492. Attestano la parzialità di Giustiniano per gli Azzurri ( Anecdot. c. 7 ), Evagrio ( Hist. Eccl. l. IV c. 32 ), Giovanni Malala ( Tom. II p. 138, 139 ) specialmente per Antiochia, e Teofane ( p. 142 ).
493. Una donna (dice Procopio) ch'era stata afferrata, e quasi violata da una truppa di Azzurri, si gettò nel Bosforo. I Vescovi della seconda Siria (Aleman. p. 26 ) deplorano tal suicidio, la colpa o la gloria della femminil castità, e nominano l'Eroina.
494. Il dubbioso credito di Procopio ( Anecd. c. 17) viene sostenuto dalla meno parzial testimonianza d'Evagrio, che conferma il fatto, e specifica fino i nomi. Il tragico destino del Prefetto di Costantinopoli si riferisce da Giovanni Malala ( Tom. II p. 139 ).
495. Vedi Gio. Malala ( Tom. II p. 47 ). Anch'egli confessa, che Giustiniano era attaccato agli Azzurri. L'apparente discordia dell'Imperatore con Teodora vien risguardata forse con troppa gelosia e sottigliezza da Procopio ( Anecdot. c. 10 ). Vedi Alemann. Pref. p. 6.
496. Questo dialogo, che ci è stato conservato da Teofane, dà un saggio del linguaggio popolare, ugualmente che dei costumi di Costantinopoli nel VI secolo. Il Greco di quel tempo è mescolato con molte parole forestiere e barbare, delle quali, il Du-Cange non sempre sa trovare il significato, o l'etimologia.
497. Vedi questa Chiesa e Monastero presso il Du-Cange CP. Christiana l. IV p. 182.
498. L'istoria della sedizione Nika è tratta da Marcellino ( in Chron.), da Procopio ( Persic. l. 1 c. 26 ), da Giovanni Malala ( T. II p. 213, 218 ), dalla Cronica Pasquale ( p. 336, 340 ), da Teofane ( Chronograph. p. 154, 158 ) e da Zonara ( L. XVI p. 61, 63 ).
499. Marcellino dice in termini generali; Innumeris populis in Circo trucidatis. Procopio numera trentamila vittime, ed i 35,000 di Teofane s'accrescono fino a 40,000 dal più recente Zonara. Tale ordinariamente è il progresso dell'esagerazione.
500. Jerocle, contemporaneo di Giustiniano, compose il suo Συνδεχμος ( Itinerar. p. 631 ), o notizia delle Province e Città Orientali, prima dell'anno 535 (Wesseling. in Praefat. et not. ad p. 623 ec.).
501. Vedi il Libro della Genesi (XII, 10) e l'amministrazione di Giuseppe. Gli annali de' Greci convengono con quelli degli Ebrei, quanto all'antichità delle arti, e dell'abbondanza d'Egitto: ma quest'antichità suppone una lunga serie di progressi: e Warburton, ch'è quasi oppresso dalla Cronologia Ebrea, ricorre alla Samaritana ( Divin. Legat. Tom. III p. 29 ec.)
502. Otto milioni di modj Romani, oltre una contribuzione di 80,000 aurei per le spese del trasporto per mare, da cui furono i sudditi graziosamente liberati. Vedi l'Editto XIII di Giustiniano; i numeri sono determinati e verificati dall'accordo de' Testi Greco e Latino.
503. Iliad, VI, 289. Quei veli di vari colori, πεπλοι παμποικιλοι, eran opere delle donne Sidonie. Ma questo passo fa più onore alle manifatture che alla navigazione della Fenicia, donde s'erano trasportate a Troia in navi Frigie.
504. Vedi in Ovidio ( de art. amandi III 269 ec.) una lista poetica di dodici colori tratti da' fiori, dagli elementi ec. Ma è quasi impossibile distinguere con parole tutte le delicate e varie specie sì dell'arte che della natura.
505. Mediante la scoperta della cocciniglia ec. noi di gran lunga sorpassiamo i colori degli antichi. La loro porpora Reale aveva un forte odore, ed un coloro scuro come il sangue di toro; Obscuritas rubens (dice Cassiodoro Var. I 2 ), nigredo sanguinea. Il Presidente Goguet ( Origine des Loix et des Arts P. II L. 2 c. 2 p. 184, 215 ) diletta e soddisfa il Lettore. Io dubito se il suo libro, specialmente in Inghilterra, sia tanto noto quanto merita.
506. Si sono in altre occasioni accennate le prove istoriche di tal gelosia, e se ne sarebbero potute addurre molte di più, ma gli atti arbitrari del dispotismo venivan giustificati dalle sobrie e generali dichiarazioni della Legge ( Cod. Teodos. Lib. X Tit. 21 Leg. 3 Cod. Giustin. Lib. XI Tit. 8 Leg. 5 ). Se ne fece una necessaria restrizione, ed una permissione umiliante rispetto alle mime o alle ballerine ( Cod. Teod. Lib. XV Tit. VII Leg. 11 ).
507. Nell'istoria degl'Insetti (molto più maravigliosa che le metamorfosi d'Ovidio) il baco da seta tiene un posto distinto. Il Bombice dell'Isola di Ceos, quale vien descritto da Plinio ( Hist. Nat. XI, 26, 27 con le note de' dotti Gesuiti Arduino, e Brotier) può illustrarsi mediante una simile specie, che si trova nella China ( Memoires sur les Chinois. Tom. II p. 575, 598 ): ma il nostro baco da seta, ugualmente che il gelso bianco, non eran noti a Teofrasto, nè a Plinio.
508. Georgic. II, 121. Serica quando venerint in usum planissime non scio; suspicor tamen in Julii Caesaris aevo, nam ante non invenio, dice Giusto Lipsio ( Excursus I ad Tacit. Annal. II, 32 ). Vedi Dione Cassio ( Lib. XLIII p. 358 Edit. Reimar. ) e Pausania ( Lib. VI p. 519 ), il primo che descriva, sebbene stranamente, l'insetto Chinese.
509. Tam longinquo orbe petitur, ut in publico matrona transluceat.... ut denudet foeminas vestis (Plin. VI, 20. XI, 21). Varrone, e Publio Siro avevano già scherzato sulla Toga vitrea, ventus textilis, et nebula linea ( Horat. ermon I, 2, 101 con le note del Torrent e di Dacier).
510. Sopra la tessitura, i colori, i nomi e l'uso degli ornamenti di seta, di mezza seta e di lino dell'antichità vedansi le diffuse, profonde ed oscure ricerche del gran Salmasio ( in Hist. August. p. 127,309, 310, 339, 341, 342, 344, 338, 391, 395, 513 ), che però non conosceva il più comune commercio di Digione, o di Leida.
511. Flavio Vopisco in Aurelian. c. 45 in Hist, Aug. p. 224 Vedi Salmas. ad Hist. Aug. p. 392 e Plinian. Exerc. in Solinum p. 694, 695. Gli Aneddoti di Procopio (c. 25) fissano in modo parziale ed imperfetto il prezzo della seta al tempo di Giustiniano.
512. Procopio de Aedif. l. III c. 1. Queste Pinne di mare si trovano vicino a Smirne, in Sicilia, in Corsica, ed in Minorca: e fu presentato al Pontefice Benedetto XIV un par di guanti di questa sorte di seta.
513. Procopio Persic. Lib. I c. 20. Lib. II c. 25 Gothic. l. IV c. 17. Menandro in Excerpt. Legat. p. 107. Isidoro de Charax ( in Stathmis Parthicis p. 7, 8 ap. Hudson Geogr. minor. Tom. II ) ha notato le strade, ed Ammiano Marcellino ( Lib. XXIII c. 6 p. 400 ) ha enumerato le Province dell'Impero Panico e Persiano.
514. La cieca ammirazione de' Gesuiti confonde i differenti periodi della Storia Chinese. Questi vengono con maggiore critica distinti dal Guignes ( Hist. des Huns Tom. I p. I nelle Tavole, Part. 2 nella Geografia; Mem. de l'Academ. des Inscript. Tom. XXXII, XXXVI, XLII, XLIII) che scuopre il successivo progresso della verità degli annali e della estensione della Monarchia, fino all'Era Cristiana. Egli con occhio curioso ha cercato le connessioni della nazion Chinese con le Occidentali: ma queste son tenui, casuali, ed oscure; nè avrebbero i Romani mai sospettato, che i Seri, o Chinesi possedessero un Impero non inferiore al loro.
515. Si possono investigare le strade dalla China alla Persia ed all'Indostan nelle relazioni di Hackluyt, e Thevenot, degli ambasciatori di Sharokh, d'Antonio Ienkinson, del P. Greuber ec. Vedi anche i viaggi d'Hanmay Vol. I p. 345, 357. Ultimamente si è tentata una comunicazione per mezzo del Tibet dagl'Inglesi Sovrani di Bengala.
516. Intorno alla Navigazione Chinese fino a Malacca ed Achin, e forse fino a Ceylan, vedi Renaudot ( sopra i due viaggiatori maomettani p. 8, 11, 13, 17, 141, 157 ), Dampier ( Vol. II pag. 136 ), l'Istoria filosofica delle due Indie ( Tom. I p. 98 ), e l'Istoria generale de' viaggi ( Tom. VI p. 201 ).
517. La cognizione o piuttosto l'ignoranza di Strabone, di Plinio, di Tolomeo, d'Arriano, di Marciano ec. rispetto alle regioni orientali del Capo Comorin è dottamente illustrata dal Danville (Antiquité Geographique de l'Inde, specialmente a p. 161, 198). Si è migliorata la nostra Geografia dell'Indie per mezzo del commercio e della conquista: e si è schiarita dall'eccellenti Carte e Memorie del Maggior Rennel. S'egli estende la sfera delle sue ricerche con la medesima critica, sagacità e cognizione, succederà e forse sarà preferibile al primo fra' moderni Geografi.
518. La Taprobana di Plinio (VI 24), di Solino (c. 53), di Salmasio ( Plinian. Exercit. pag. 781, 782 ), e della maggior parte degli Antichi, i quali spesso confondono le Isole di Ceylan e di Sumatra, viene più chiaramente descritta da Cosimo Indicopleuste. Pure anche il Topografo Cristiano ne ha esagerato le dimensioni. Le notizie, che dà sul commercio Indiano e Chinese, son rare e curiose ( l. II p. 138 L. XI 337, 338. Edit. Montfaucon ).
519. Vedi Procopio ( Persic. L. II c. 20 ). Cosimo somministra interessanti notizie intorno al porto, ed all'iscrizione d'Aduli ( Topograph. Christ. l. II p. 138, 140, 143 ) ed al commercio degli Assumiti lungo le coste affricane della Barberia o Zingi ( p. 138, 139 ) fino a Taprobana ( Lib. XI p. 339 ).
520. Vedi le missioni Cristiane all'Indie presso Cosimo ( L. III p. 178, 179 L. XI p. 337 ), e si consulti Asseman. ( Bibliothec. Orient. Tom. IV p. 413, 548 ).
521. L'invenzione, la manifattura, e l'uso generale della seta nella China si può vedere presso il Duhalde ( Description generale de la Chine Tom. II p. 165, 205, 223 ). La Provincia di Chekian è la più rinomata, sì per la quantità, che per la qualità di essa.
522. Procopio ( L. VIII Gothic. IV c. 17 ), Teofane Bizantin. (ap. Phot. Cod. LXXXIV p. 38 ), Zonara ( T. II l. XIV p. 69 ). Il Pagi, ( Tom. II p. 602 ) pone all'anno 552 questo memorabil trasporto. Menandro ( in Excerpt. Leg. p. 107 ) riferisce l'ammirazione de' Sogdoiti: e Teofilatto Simocatta ( L. VII c. 9 ) oscuramente presenta i due regni rivali nella China, Paese della seta.
523. Cosimo, soprannominato Indicopleuste, o sia il Navigatore Indiano, fece il suo viaggio verso l'anno 522; e fra gli anni 535 e 547 compose in Alessandria la Topografia Cristiana (Montfaucon Praef. c. 1 ), nella quale confuta la empia opinione, che la terra sia un globo: e Fozio aveva letto quest'Opera ( Cod. XXXVI p. 9, 10 ) che dimostra i pregiudizi d'un Monaco, uniti alla cognizione d'un Mercante: la parte più valutabile di essa fu pubblicata in francese ed in greco da Melchisedec Thevenot ( Rélations curieuses P. 1 ) e dipoi tutta insieme in una splendida Edizione dal P. Montfaucon ( Nova collectio Patrum. Paris, 1707 2 Vol. in fol. Tom. II p. 113, 346 ). Ma l'Editore, ch'era Teologo, arrossirebbe di non avere scoperto in Cosimo la eresia Nestoriana, che si è svelata dal La Croze ( Christianisme des Indes Tom. I p. 40, 56 ).
524. Evagrio ( L. III c. 39, 40 ) è minuto e grato, ma si irrita contro Zosimo, perchè calunnia il gran Costantino. L'umanità d'Anastasio fu diligente ed artificiosa nel raccogliere tutte le circostanze e le memorie di quella tassa: i Padri per pagarla venivano talvolta costretti a prostituire le loro figlie (Zosimo Histor. L. II c. 38 p. 165, 166 Lipsiae 1784 ). Timoteo di Gaza prese un avvenimento di questa specie per soggetto d'una tragedia (Suida Tom. III p. 475 ) che contribuì a fare abolire il tributo (Cedrono p. 35 ). Felice esempio (se è vero) dell'utilità del Teatro.
525. Vedi Giosuè Stilite nella Biblioteca Orient. dell'Assemanno (Tom. I p. 268). Di questa tassa di Capitazione fa leggiermente menzione la Cronica d'Edessa.
526. Procopio stabilisce questa somma ( Anecd. c. 19 ) sulla relazione de' Tesorieri medesimi. Tiberio aveva vicies ter millies: ma il suo Impero era assai diverso da quello d'Anastasio.
527. Evagrio ( L. IV c. 30 ) nella seguente generazione era moderato e bene istruito: e Zonara ( Lib. XIV c. 61 ) nel XII secolo aveva letto attentamente, e pensato senza prevenzione: pure i loro colori son quasi così neri come quegli degli Aneddoti.
528. Procopio ( Anecd. c. 30 ) riferisce le oziose congetture di quel tempo. La morte di Giustiniano, dice l'Istorico segreto, manifesterà la sua ricchezza, o povertà.
529. Vedi Corippo De Laudib. Justini Aug. L. II 260 ec. 304 ec.
Plurima sunt vivo nimium neglecta parenti,
Unde tot exhaustus contraxit debita Fiscus.
Si portarono da robuste braccia nell'Ippodromo delle centinaia di libbre d'oro; Debita genitoris persolvit, cauta recepit.
530. Gli Aneddoti ( c. 11, 14, 18, 20, 30 ) somministrano molti fatti, e più querele.
531. Un centinaio ne fu rimesso a Scitopoli, Capitale della seconda Palestina, e dodici al rimanente della Provincia. L'Alemanno ( p. 59 ) produce onestamente questo fatto rilevato da una vita manoscritta di S. Saba composta da Cirillo di lui discepolo, ch'era nella Libreria Vaticana, e poi fu pubblicata dal Cotelerio.
532. Gio. Malala (Tom. II p. 232) parla della mancanza del pane, e Zonara ( L. XIV pag. 63 ) de' tubi di piombo, che Giustiniano, o i suoi Ministri tolsero dagli acquedotti.
533. Per un Aureo, ch'era la sesta parte d'un oncia di oro, invece di 210 folli, o sia once di rame, ne diede solamente 180. Una sproporzione del valore della moneta sotto il prezzo comune, doveva tosto produrre una scarsità nella moneta bassa. In Inghilterra dodici soldi in moneta di rame non si venderebbero più di sette soldi (Smith Ricerche sulla ricchezza delle Nazioni Vol. I p. 49 ). Quanto alla moneta d'oro di Giustiniano. Vedi Evagrio L. IV c. 30.
534. Il giuramento è concepito ne' termini più formidabili ( Novell. VIII Tit. 3 ). I trasgressori usano contro di se medesimi queste imprecazioni; quidquid habent telorum armamentaria Coeli, a partecipare l'infamia di Giuda, la lebbra di Giezi, il tremor di Caino ec. oltre tutte le pene temporali.
535. Luciano ( in Toxare c. 22, 23 Tom. II p. 530 ) riferisce un simile o anche più generoso atto d'amicizia d'Eudamida di Corinto; e tal istoria ha prodotto un'ingegnosa, ma debole commedia di Fontanelle.
536. Gio. Malala Tom. II p. 101, 102, 103.
537. Anatolio, uno di questi, perì in occasione d'un terremoto... senza dubbio per giusto giudizio di Dio! I lamenti e clamori del Popolo presso Agatia ( L. V p. 146, 147 ) fanno quasi eco agli Aneddoti. L'aliena pecunia reddenda di Corippo ( L. II, 381 ec. ) non è molt'onorevole per la memoria di Giustiniano.
538. Vedi l'istoria ed il carattere di Giovanni di Cappadocia in Procopio ( Persic. L. I c. 24, 25. L. II c. 30. Vandal. L. I c. 13. Anecd. c. 2, 17, 22 ). La concordanza della Istoria con gli Aneddoti è una mortal ferita per la riputazione del Prefetto.
539. Ου γαρ αλλα ουδεν ες γραμματιστους φοιτων εμαθεν οτι μη γραμματιστα, και ταυτα κακα κακαως γραψαι... Niente altro imparò andando alla scuola che a scriver le lettere, e queste assai malamente; espressione molto forte.
540. La cronologia di Procopio è incerta ed oscura; ma coll'aiuto del Pagi ho potuto distinguere, che Giovanni fu fatto Prefetto del Pretorio d'Oriente nell'anno 530, che fu deposto nel gennaio del 532, restituito prima del giugno 533, bandito nel 541 e richiamato fra 'l giugno 548 ed il primo d'aprile 549. L'Alemanno ( p. 96, 97 ) dà la lista de' dieci suoi successori: serie ben rapida in una porzione d'un solo regno.
541. Quest'incendio s'accenna da Luciano ( in Hippia c. 2 ) e da Galeno ( L. III de Temperamentis Tom. I p. 81 Edit. Basil. ) nel secondo secolo. Mille anni dopo viene positivamente affermato da Zonara ( L. IX p. 424 ) sull'autorità di Dione Cassio, da Tzetze ( Chiliad. II, 119 ec. ), da Eustazio ( ad Iliad. Ep. 338 ) e dallo Scoliaste di Luciano. Vedi Fabricio ( Bibl. Graec. L. III c. 22 Tom. II p. 551, 552 ) a cui son più o meno debitore di queste citazioni.
542. Zonara ( L. XIV p. 55 ) afferma il fatto senz'addurne alcuna prova.
543. Tzetze descrive l'artifizio di questi specchi ustorj, che egli aveva letto, probabilmente con occhi non istruiti, in un Trattato matematico d'Antemio. Questo Trattato, περὶ παραδοξων μηχανηματων ( delle macchine mirabili ) si è ultimamente pubblicato, tradotto, ed illustrato da M. Dupuys, erudito e matematico (Memoires de l'Academie des Inscriptions Tom. LXII p. 392, 451).
544. Nell'assedio di Siracusa dal silenzio di Polibio, di Plutarco e di Livio e nell'assedio di Costantinopoli da quello di Marcellino, e di tutti i contemporanei del VI secolo.
545. Senz'alcuna previa cognizione di Tzetze o d'Antemio l'immortal Buffon immaginò, ed eseguì una serie di specchi ustorj, co' quali potè infiammar delle tavole alla distanza di 200 piedi ( Supplement a l'Hist. nat. Tom. I p. 330, 483. Edit. 4 ). Quali miracoli non avrebbe fatto il suo genio pel pubblico servizio a spese Reali, e col forte Sole di Costantinopoli o di Siracusa?
546. Gio. Malala ( Tom. II p. 120, 124 ) racconta il fatto: ma sembra, che confonda i nomi o le persone di Proclo e di Marino.
547. Agatia Lib. V pag. 140, 152. Il merito di Antemio come Architetto vien sommamente innalzato da Procopio ( de Aedif. Lib. I cap. 1 ), e da Paolo Silenziario ( p. 1, 134 ec. ).
548. Vedi Procopio ( De Aedif. L. I c. 1, 2 L. II c. 3 ). Ei riferisce una coincidenza di sogni, che suppone qualche frode in Giustiniano, o nel suo Architetto: ambidue videro in una visione l'istesso piano per fermare un'inondazione a Dara: fu rivelata all'Imperatore una cava di pietre vicina a Gerusalemme ( L. V c. 6 ); e fu destinato un angelo alla perpetua custodia di S. Sofia (Anonym. de antiq. C. P. L. IV p. 70 ).
549. Nella folla di Scrittori antichi e moderni, che hanno celebrato l'edifizio di S. Sofia, io distinguerò e seguirò: 1. Quattro Spettatori ed Istorici originali di esso, cioè Procopio ( De Aedif. l. I c. 1 ), Agatia ( L. V p. 152 ), Paolo Silenziario ( in un Poema di 1026 Esametri ad calcem Annae Comnen. Alexiad. ) ed Evagrio ( L. IV c. 31 ): 2. Due leggende Greche più recenti, Giorgio Codino ( De Orig. CP. p. 64, 74 ), e lo Scrittore anonimo del Banduri ( Imp. Orient. Tom. I l. IV p. 65, 80 ): 3. Il grande Antiquario Bizantino Du-Cange ( Comment. ad Paul. Silent. p. 525, 598 e CP. Christi L. III pag. 4, 78 ): 4. Due Viaggiatori Francesi, cioè Pietro Gillio ( De Topograph. CP. L. II c. 3, 4 ) nel secolo XVI, e Grelot ( Voyage de CP. p. 95, 164. Paris 1680 in 4 ). Quest'ultimo ha pubblicato anche le piante, i prospetti e le vedute interne di S. Sofia; ed i suoi disegni, quantunque di minor dimensione, sembrano più corretti di quelli del Du-Cange. Io ho adottato e ridotto le misure del Grelot; ma siccome nessun Cristiano può presentemente salir sulla cupola, l'altezza n'è presa da Evagrio paragonato con Gillio, con Greaves, e col Geografo Orientale.
550. Il tempio di Salomone era circondato da Cortili, Portici ec. ma la pura fabbrica della Casa di Dio (se calcoliamo il cubito Egiziano o Ebreo a ragione di 22 pollici) non era più di 55 piedi alta, 36-2/3 larga, 110 lunga: Piccola Chiesa Parrochiale, dice Prideaux ( Connection Vol. I p. 144 fol. ): ma pochi Santuari potrebbero valutarsi quattro o cinque milioni di lire sterline.
551. Paolo Silenziario in oscuro e poetico stile descrive la varie pietre e marmi, che s'impiegarono nell'edifizio di S. Sofia ( P. II p. 129, 133 ec. ), vale a dire, 1. Il Caristio pallido con vene di ferro: 2. il Frigio di due sorti ambedue color di rosa, uno con ombreggiature bianche, l'altro purpuree con fiori d'argento: 3. il Porfido d'Egitto con piccole stelle: 4. Il marmo verde di Laconia: 5. il Cario del monte Jassi con vene obblique bianche e rosse: 6. il Lidio pallido con un fiore rosso: 7. L' Affricano o Mauritano d'un color d'oro, o di zafferano: 8. il Celtico nero con vene bianche: 9. il Bosforico bianco con punte nere. Oltre il Proconnesio, che formava il pavimento, il Tessalo, il Molossio ec. che son coloriti meno distintamente.
552. I sei libri degli Edifizi di Procopio son distribuiti in tal modo: il primo si limita a Costantinopoli: il secondo include la Mesopotamia, e la Siria: il terzo l'Armenia, ed il Ponto Eussino: il quarto l'Europa: il quinto l'Asia minore, e la Palestina: il sesto l'Egitto e l'Affrica. L'Italia è omessa dall'Imperatore, o dall'Istorico, che pubblicò questa opera d'adulazione avanti l'epoca dell'intera conquista di essa (an. 555).
553. Giustiniano diede una volta quarantacinque centinaia d'oro (180,000 lire Sterline ) per la riparazione d'Antiochia dopo il terremoto (Gio. Malala Tom. II pag. 146, 149 ).
554. Quanto all' Ereo, Palazzo di Teodora. Vedi Gillio ( De Bosphoro Thrac. l. III c. 11. ), l'Alemanno ( Not. ad Anecd. p. 80, 81 che cita vari Epigrammi dell'Antologia), ed il Du-Cange ( CP. Christ. L. IV c. 13 p. 175, 176 ).
555. Si paragonino fra loro i diversi linguaggi dell'adulazione e della malevolenza negli Edifizi ( L. I c. 11 ), e negli Aneddoti ( c. 8, 15 ). Gli oggetti spogliati del belletto, o nettati dal fango compariscono i medesimi.
556. Procopio L. VIII, 29. Era questa Balena probabilmente forestiera o vagante, mentre il Mediterraneo non suole nutrirne. Balenae quoque in nostra maria penetrant ( Plin. Hist. Nat. IX, 2 ). Fra il cerchio polare, ed il tropico, gli animali cetacei dell'Oceano crescono fino alla lunghezza di 50, di 80 e di 100 piedi ( Hist. des Voyages Tom. XV p. 289; Zoologia Britannica di Pennant Vol. III p. 35 ).
557. Montesquieu ( Observat. sur la Grand. et la Decad. des Romains c. 20 Tom. III p. 503 ) osserva, che l'Impero di Giustiniano, come la Francia nel tempo delle incursioni de' Normanni, non fu mai tanto debole, come quando si fortificò ogni villaggio.
558. Procopio afferma ( l. IV c. 6 ), che il Danubio fu arrestato dalle rovine del Ponte. Se l'Architetto Apollodoro ci avesse lasciato una descrizione della sua opera, si sarebbero dalla genuina di lui pittura corrette le favolose maraviglie di Dione Cassio ( L. XVIII pag. 129 ). Il Ponte di Traiano era composto di venti o ventidue pilastri di pietra con archi di legno: il fiume è poco profondo, la corrente non rapida, e l'intero spazio fra le due rive non è maggiore di 443 tese (Reimar ad Dion. coll'autorità del Marsigli) o di 515 (Danville Geogr. anc. Tom. I p. 305 ).
559. Vale a dire sopra le due Dacie Mediterranea e Ripense, sopra la Dardania, la Prevalitana, la Mesia seconda, e la Macedonia seconda. Vedi Giustiniano, che parla ( Novell. XI ) delle sue Fortezze di là del Danubio, e degli homines semper bellicis sudoribus inhaerentes.
560. Vedi Danville ( Memoires de l'Acad. ec. Tom. XXXI p. 289, 290 ), Rycaut ( Stato presente dell'Impero Turco pag. 97, 316 ), Marsigli ( Stato milit. dell'Imp. Ottomano p. 150 ). Il Sangiacco di Giustendil è uno de' venti sottoposti al Beglerbeg di Romelia; ed il suo distretto mantiene 48 Zaim e 588 Timariotti.
561. Queste fortificazioni possono assomigliarsi ai castelli della Mingrelia (Chardin Voyag. en Perse Tom. I p. 60, 131 ), pittura ben naturale.
562. La Valle di Tempe è situata lungo il fiume Penco, fra i colli d'Ossa e d'Olimpo; essa è lunga soltanto cinque miglia, ed in alcuni luoghi non e più larga di 120 piedi. Le sue verdeggianti bellezze sono elegantemente descritte da Plinio ( Hist. Nat. l. IV, 15 ), e più diffusamente da Eliano ( Hist. var. L. III c. 1 ).
563. Zenofonte Hellenic. lib. III c. 2. Dopo una lunga e tediosa conversazione co' declamatori Bizantini, quanto è piacevole la verità, la semplicità e l'eleganza d'un Attico Scrittore!
564. Della lunga muraglia vedasi Evagrio ( L. IV c. 38 ). Tutto quest'articolo è tratto dal quarto libro degli Edifizi, eccettuato Anchialo ( L. III c. 7 ).
565. Vedi sopra Vol. I. Nel corso di quest'Istoria ho qualche volta rammentato, e molto più spesso trascurato le precipitose incursioni degl'Isauri, che non ebbero alcuna conseguenza.
566. Trebellio Pollione ( in Hist. Aug. p. 107 ) che visse al tempo di Diocleziano o di Costantino. Vedi anche Pancirolo ad Notit. Imper. Orient. c. 115, 141; Cod. Theodos. Lib. IX Tit. 35 Leg. 37; con una copiosa e ben corredata annotazione del Gotofredo ( Tom. III p. 250, 257 ).
567. Vedi la piena ed ampia descrizione delle loro scorrerie presso Filostorgio ( Hist. Eccl. L. XI c. 8 ) con l'erudite dissertazioni del Gotofredo.
568. Cod. Giustin. L. IX Tit. 12 Leg. 10. Son rigorose le pene stabilite contro di essi, cioè una multa di cento libbre d'oro, la degradazione, e fino la morte. La pubblica sicurezza potè somministrare un pretesto per dissiparli: ma Zenone in seguito volle piuttosto trar profitto dal valore e dal servizio degl'Isauri.
569. La guerra Isaurica, ed il trionfo d'Anastasio si narrano brevemente ed oscuramente da Giovanni Malala ( T. II p. 106, 107 ), da Evagrio ( L. III c. 35 ), da Teofane ( p. 118, 120 ) e dalla Cronica di Marcellino.
570. Fortes ea regios (dice Giustiniano) viros habet, nec in ullo differt ab Isauria, quantunque Procopio ( Persic. l. 1 c. 18 ) noti un'essenzial differenza nel militare loro carattere: ne' più antichi tempi però i Licaonj ed i Pisidj avevan difeso la lor libertà contro il gran Re (Senofonte Anabas. l. III c. 2 ). Giustiniano si serve d'una falsa e ridicola erudizione dell'antico Impero de' Pisidj e di Licaone, il quale dopo aver visitato Roma (lungo tempo avanti Enea) diede il nome e la popolazione alla Licaonia ( Nov. 24, 25, 27, 30 ).
571. Vedi Procopio Persic. l. 1 c. 19. L'Altare della concordia nazionale, dove si facevano gli annui sacrifizi e giuramenti, che Diocleziano aveva eretto nell'Isola d'Elefantina, fu demolito da Giustiniano con minor politica che zelo.
572. Procopio de Aedif. l. III c. 7 Hist. l. VIII c. 3, 4. Questi Goti senz'ambizione avevan ricusato di seguitar le bandiere di Teodorico. Fino al secolo XV e XVI se ne può rintracciare il nome e la nazione fra Caffa, e lo Stretto di Azof (Danville Memoir. de l'Acad. Tom. XXX p. 240 ). Essi meritarono bene la curiosità del Busbechio ( pag. 321, 326 ): ma sembra, che siano svaniti nelle relazioni più recenti delle missioni del Levante ( Tom. I ), e presso Tott, Peyssonel ec.
573. Per la geografia e la struttura di questa frontiera dell'Armenia, vedi le Guerre Persiane, e gli Edifizi di Procopio ( l. II c. 4, 7. l. III c. 2, 7 ).
574. Questo Paese vien descritto da Tournefort ( Voyage au Levant Tom. III Lettr. XVII, XVIII ). Quell'abile Botanico ben presto scuoprì la pianta, che infetta il mele (Plin. XXI, 44, 45). Egli osserva, che i soldati di Lucullo con ragione restaron sorpresi al freddo, che vi trovarono, mentre anche nella pianura d'Erzerum alle volte cade la neve nel mese di giugno, e di rado termina la raccolta prima del Settembre. I Colli dell'Armenia sono sotto il grado 40 di latitudine: ma nella montuosa regione, dove io abito ( la Svizzera ), si sa bene, che una salita di alcune ore trasporta il viaggiatore dal clima della Linguadocca in quello della Norvegia: e si ammette come regola generale, che sotto la linea equinoziale un'elevazione di 2400 tese equivale al freddo del cerchio polare (Remond Observat. sur les Voyages de Coxe dans la Suisse Tom. II p. 104 ).
575. Può rintracciarsi l'identità, o prossimità de' Calibi e dei Caldei presso Strabone ( L. XII pag. 825, 826 ), Cellario ( Geogr. Antiq. Tom. II p. 202, 204 ) e Freret ( Mem. de l'Acad. Tom. IV p. 594 ). Senofonte, nel suo Romanzo ( Cyropaed. l. III ), introduce quegli stessi Barbari, contro i quali avea combattuto nella sua ritirata ( Anabas. l. IV ).
576. Procopio Persic. lib. I cap, 15 de Aedif. lib. III cap. 6.
577. Ni Taurus obstet in nostra maria venturus (Pompon. Mela III, 8). Plinio, Poeta non meno che Naturalista, personifica il fiume, ed il monte, e ne descrive il combattimento. Vedasi nell'eccellente Trattato del Danville il corso del Tigri, e dell'Eufrate.
578. Procopio ( Persic. l. II c. 12 ) racconta la storia col tuono mezzo scettico e mezzo superstizioso d'Erodoto. Questa promessa non si trova nella primitiva menzogna d'Eusebio, ma cominciò almeno dall'anno 400: ed una terza favola, cioè la Veronica, ben presto insorse sulle altre due (Evagrio lib. IV c. 27 ). Siccome Edessa è stata presa, il Tillemont dovè negar la promessa ( Mem. Eccl. Tom. I p. 362, 383, 617 ).
579. Questi si compravano da' mercanti d'Aduli, che commerciavano nell'India (Cosma Topogr. Christ. L. XI p. 339 ). Pure nella stima delle pietre preziose il primo era lo smeraldo Scitico, il Battriano aveva il secondo luogo, e l'Etiopico solamente il terzo (Theophrast. d'Hill, p. 61 ec. 92 ). La produzione, le cave ec. degli smeraldi sono involte nella oscurità: ed è dubbioso, se noi abbiamo alcuna delle dodici specie di essi note agli Antichi (Goguet Orig. des Leix ec. Part. II Lib. 2 cap. 2 art. 3 ). In questa guerra gli Unni guadagnarono, o almeno Peroze perdè la più preziosa perla del Mondo, di cui Procopio racconta una ridicolosa favola.
580. Gl'Indo-Sciti continuarono a regnare dal tempo d'Augusto (Dionys. Perieget. 1088 col commentario d'Eustazio presso Hudson Geogr. minor. Tom. IV ) fino a quello di Giustino il Vecchio (Cosma Topograph. Christ. Lib. XI p. 338, 339 ). Nel secondo secolo essi eran padroni di Larice, o di Guzerat.
581. Vedi le avventure di Firuz, e Peroze, e le loro conseguenze presso Procopio ( Persic. l. 1 c. 3, 6 ) che può confrontarsi co' frammenti dell'Istoria Orientale (d'Herbelot Bibliot. Orient. p. 351 e Texeira Istoria di Persia tradotta o compendiata da Stewens l. I c. 32 p. 132, 138 ). La Cronologia è ben determinata dall'Assemanno ( Bibliot. Orient. Tom. III p. 396, 427 ).
582. La descrizione della Guerra Persiana sotto i regni di Anastasio e di Giustino può trarsi da Procopio ( Persic. l. I c. 7, 8, 9 ), da Teofane ( In Chronograph. pag. 124, 127 ), da Evagrio ( L III c. 37 ), a Marcellino ( in Chron. p. 47 ), e da Giosuè Stilita (ap. Asseman. Tom. I p. 272, 281 ).
583. Procopio fa un'ampia e corretta descrizione di Dara ( Persic. l. I c. 10. l. II c. 13 de Aedif. l. II c. 1, 2, 3. l. III c. 5 ). Se ne veda la situazione presso il Danville ( l'Euphrate et le Tigre p. 53, 54, 55 ) quantunque sembra, ch'egli raddoppi la distanza fra Dara e Nisibi.
584. Per la Città, ed il passo di Derbend vedasi d'Herbelot ( Bibliot. Orient. p. 157, 291, 807 ), Petit de la Croix ( Hist. de Gengiscan. l. IV c. 9 ), Istoria Genealogica de' Tartari ( Tom. I p. 120 ), Oleario ( Voyage en Perse p. 1039, 1042 ) e Cornelio le Bruyn ( Viaggi Tom. I p. 146, 147 ). Può confrontarsi il prospetto di questo con la pianta d'Oleario, il quale crede che le mura siano di crostacei e di sabbia induriti dal tempo.
585. Procopio con qualche confusione le chiama sempre Caspie ( Persic. l. 1 c. 10 ). Questo passo presentemente si appella Tatar-topa, Porte Tartare (Danville Geogr. anc. Tom. II p. 119, 120 ).
586. L'immaginario riparo di Gog e Magog, che fu seriamente investigato e creduto da un Califfo del IX secolo, sembra che sia derivato dalle porte del Monte Caucaso, e da un'incerta notizia della muraglia della China ( Geogr. Nubiens. p. 267, 270: Memoires de l'Academie Tom. XXXI p. 210, 219 ).
587. Vedi un'erudita Dissertazione di Baier de muro Caucaseo in Comment. Acad. Petropolit. anno 1726 Tom. I p. 425, 463: ma le manca una carta o pianta. Quando il Czar Pietro I s'impadronì di Derbend l'anno 1722 la misura del muro fu trovata essere di Orgigie o braccia russe 3285 ciascheduna delle quali contiene sette piedi Inglesi, e perciò della lunghezza in tutto di poco più di quattro miglia.
588. Vedi le Fortificazioni ed i trattati di Cosroe o Nushirwan presso Procopio ( Persic. l. I c. 16, 22 l. II ), e di Herbelot ( p. 682 ).
589. La vita d'Isocrate s'estende dall'Olimpiade 86. 1. fino alla 110. 3. (dall'anno 436 al 338 avanti Gesù Cristo). Vedi Dionys. Halicarn. Tom. II p. 149, 150 Edit. Hudson. Plutarco (o l'Anonimo) in Vit. X Orator. pag. 1538, 1543 Edit. II Steph. Phot. Cod. CCLIX p. 1453.
590. Sono copiosamente descritte, quantunque in concise parole, le scuole d'Atene nella Fortuna Attica di Meursio ( c. VIII p. 59, 73 nel Tom. I Opp. ). Quanto allo stato ed alle arti di quella città, vedi il primo libro di Pausania, ed un piccolo trattato di Dicearco (nel secondo Tomo dei Geografi di Hudson), che scrisse verso l'Olimpiade CXVII. ( Dissert. di Dodwell. sez. 4 ).
591. Diogen. Laert. De vit. Philosopher. L. V segm. 37 p. 389.
592. Vedi il testamento d'Epicuro presso Diogene Laerzio L. X segm. 16, 20 pag. 611, 612. Una sola Epistola ( ad Familiar. XIII, 1 ) scuopre l'ingiustizia dell'Areopago, la fedeltà degli Epicurei, la destra urbanità di Cicerone, e la mescolanza di disprezzo e di stima, con cui i Senatori Romani riguardavano la Filosofia ed i Filosofi della Grecia.
593. Damascius in vit. Isidori ap. Photium Cod. CCXLIII. p. 1054.
594. Vedi Luciano ( in Eunech. Tom. II. pag. 350-359 Ediz. Reitz ), Filostrato ( in Vit. Sophist. l. II c. 2 ), e Dione Cassio, o Zifilino ( l. LXXI p. 1195 ) insieme co' loro Editori Du Soul, Oleario, e Reimar, e soprattutto Salmasio ( ad Hist. Aug. p. 72 ). Un giudizioso Filosofo (Smith Ricchezza delle nazioni Vol. II. p. 340-374 ) preferisce le libere contribuzioni degli studenti ad uno stipendio fisso pel Professore.
595. Brucker Hist. Crit. Philos. Tom. II p. 310 ec.
596. Si fissa la nascita d'Epicuro all'anno 342 prima di Cristo, (Bayle) nell'Olimpiade CIX. 3, ed egli aprì la sua scuola in Atene nell'Olimp. CXVIII 3 cioè 306 anni avanti la medesima Era. Quella Legge intollerante (secondo Ateneo l. XIII p. 610, Diogene Laerzio, L. V: S. 38. p. 290 e Giulio Polluce IX 5) fu fatta nel medesimo o nel seguente anno (Sigon. Opp. T. V. p. 62. Menag. ad Diogen. Laert. p. 204. Corsini Fasti Attic. T. IV p. 67, 68 ) e fu soggetto al medesimo esilio anche Teofrasto Capo de' Peripatetici, e discepolo d'Aristotele.
597. Questa non è un'Era immaginaria: i Pagani contavano le lor calamità dal regno del loro Eroe. Proclo, di cui la nascita è segnata dal suo Oroscopo (l'an. 412 il dì 8 di Febbrajo a Costantinopoli), morì 124 anni απο Ιουλιανου βασιλεως (dopo l'Imperator Giuliano) l'anno 485 (Marin. in vit. Procli c. 36 ).
598. La vita di Proclo, composta da Marino, fu pubblicata dal Fabricio ( Hamburg, 1700, et ad calcem Bibliot. Latin. Lond. 1703 ). Vedi Suida ( Tom. III p. 185, 186 ), Fabric. ( Bibliot. Graec. t. V c. 26 p. 449, 552 ), e Brucker ( Hist. Crit. Philos. Tom. II. 319-326 ).
599. La vita d'Isidoro fu fatta da Damascio (ap. Photium Cod. CCXLII p. 1028, 1076 ). Vedi l'ultimo secolo de' Filosofi Pagani presso Brucker ( Tom. II. p. 341-351 ).
600. Fa menzione della soppressione delle scuole d'Atene Giovanni Malala ( Tom. II p. 187 ) ed una Cronica anonima nella Libreria Vaticana (ap. Aleman. p. 106 ).
601. Agatia ( l. III p. 69, 70, 71 ) riferisce questa curiosa storia. Cosroe montò sul trono l'anno 531, e fece la sua prima pace co' Romani al principio dell'anno 533 epoca ben conciliabile con la giovin sua fama, e con la vecchia età d'Isidoro (Asseman. Bibliot. Orient. Tom. III p. 404 Pagi Tom. II p. 543, 550 ).
602. Cassiodoro Var. Epist. VI, I Giornandes c. 57 p. 696. Edit. Grot. Quod summum bonum primumque in mundo decus edicitur.
603. Vedi i regolamenti di Giustiniano ( novell. CV ) con la data del 5 luglio a Costantinopoli, indrizzati a Strategico, Tesoriere dell'Impero.
604. Procopio in Anecdot. c. 26 Aleman. pag. 106. Nel XVIII anno dopo il Consolato di Basilio, secondo il computo di Marcellino, di Vittore, di Mario ec. fu composta la Istoria segreta, ed agli occhi di Procopio il Consolato era già totalmente abolito.
605. Da Leone il Filosofo ( Nov. XCIV an. 886, 911 ). Vedi Pagi ( Dissert. Hypatic. p. 325, 362 ) e Du-Cange ( Gloss. Graec. p. 1635, 1636 ). Erasi avvilito fino il titolo: Consulatus Codicilli... vilescunt, dice il medesimo Imperatore.
606. Secondo Giulio Affricano ec. il Mondo fu creato nel primo giorno di settembre 5508 anni, tre mesi, e venticinque giorni avanti la nascita di Cristo (Vedi Pezron Antiquité des tems defendue p. 20, 28 ) e quest'Era si è usata da' Greci, da' Cristiani orientali, ed anche da' Russi fino al regno di Pietro I. Tal periodo per quanto sia arbitrario, è però chiaro e comodo. De' 7296 anni, che si suppongono passati dopo la creazione, ne troveremo 3000 d'ignoranza, e d'oscurità; 2000 favolosi o dubbiosi, 1000 d'istoria antica, principiando dall'Impero Persiano, e dalle Repubbliche di Roma e d'Atene, 1000 dalla caduta del Romano Impero in Occidente fino alla scoperta dell'America, ed i rimanenti 296 formeranno quasi tre secoli dello stato moderno d'Europa, e del Genere umano. Io sceglierei piuttosto questa cronologia, che stimo assai preferibile al nostro doppio e intricato metodo di contare per l'indietro, e per l'avanti gli anni prima e dopo l'Era Cristiana.
607. L'Era del Mondo ha prevalso in Oriente dopo il VI Concilio Generale (an. 681). In Occidente l'Era Cristiana fu inventata primieramente nel VI secolo: si propagò nell'VIII per l'autorità e gli scritti del Venerabile Beda; ma non fu che pel secolo X che l'uso di essa divenne legale e comune. Vedi L'Art de verifier les dates, Dissert. Prelim. p. III, XII Dictionaire diplomat. Tom. I p. 329, 337. Opere d'una laboriosa società di Monaci Benedettini.
608. Procopio riferisce tutta la serie della guerra Vandalica in un'elegante e regolar descrizione ( L. I c. 1, 25. L. II c. 1, 13 ): ed io sarei ben felice, se potessi seguitar sempre le tracce d'una tal guida. Per l'intera e diligente lettura, che ho fatto del Testo Greco, ho diritto di pronunciare, che uno non può ciecamente fidarsi delle Traduzioni Latina e Francese di Grozio, e di Cousin. Eppure il Presidente Cousin spesso è stato lodato, ed Ugone Grozio fu il primo letterato d'un secolo erudito.
609. Vedi Ruinart Hist. Persecut. Vandal. c. XII p. 589. La sua miglior prova è tratta dalla vita di S. Fulgenzio composta da uno de' suoi discepoli, trascritta in gran parte negli Annali del Baronio, e stampata in varie gran collezioni ( Catalog. Bibliot. Bunaviaenae Tom. I Vol. II p. 1258 ).
610. Per qual proprietà dello spirito o del corpo? Per la velocità, per la bellezza, o per il valore? In qual idioma i Vandali leggevan Omero? Parlava egli lingua Germanica? I Latini ne avevan quattro traduzioni (Fabricio Tom. I L. II c. 3 p. 297 ): pure malgrado le lodi di Seneca ( Consol. c. 26 ) sembra, che fossero più felici nell'imitare, che nel tradurre i Poeti Greci. Ma il nome d'Achille poteva essere famoso e comune anche fra gl'ignoranti Barbari.
611. Un anno? che assurda esagerazione! La conquista dell'Affrica può dirsi, che principiasse il dì 14 settembre dell'anno 533 ed è celebrata da Giustiniano nella Prefazione delle sue Istituzioni, che furon pubblicate il dì 21 di novembre del medesimo anno. Tal computo, compresovi il viaggio ed il ritorno, potrebbe veramente applicarsi al nostro Impero dell'Indie.
612. Ωρμητο δε ο βελισαριος εκ Γερμανιας, Θρακωντε και Ιελλυριων μεταξυ κειται ( Belisario veniva di Germania, che giace fra' Traci, e gl'Illirici ) Procopio Vandalic. L. I. c. 11. L'Alemanno, ch'era un Italiano, potè facilmente confutare ( not. ad Anecdot. p. 5 ) la Germanica vanità del Gifanio, e del Velserio, che bramavano d'attribuire alla loro Patria quest'eroe: ma la sua Germania, Metropoli della Tracia, io non l'ho potuta trovare in alcun catalogo Civile o Ecclesiastico delle Province e città.
613. Le prime due Campagne Persiane di Belisario sono bene e copiosamente descritte dal suo Segretario ( Persic. L. I c. 12, 18 ).
614. Vedi la nascita, ed il carattere d'Antonina negli Aneddoti c. 1 ed ivi le note dell'Alemanno p. 3.
615. Vedi la Prefazione di Procopio. I nemici degli arcieri potevan citare le accuse di Diomede ( Iliad. V, 385 etc. ) e quel permittere vulnera ventis, di Lucano ( VIII, 384 ); ma i Romani non potevano sprezzar le frecce de' Parti; e nell'assedio di Troia, Tindaro, Paride, e Teucro ferirono que' superbi guerrieri, che gl'insultavano come femminelle o fanciulli.
616. Νευρην μεν μαζώ πελασεν, τοξω δε σιδηρον ( Iliad. Δ 123) « Accostò il nervo al petto, e il ferro all'arco ». Quanto è precisa, quanto è bella l'intiera pittura! Io vedo le attitudini dell'arciero; sento lo scocco dell'arco: Λινξε βιος, νευρη δε μεγ’ ιαχεν, αλτο δ’ οιστος. « Stridè l'arco, il nervo fece grande strepito, e volò via la saetta ».
617. Sembra, che il testo assegni alle navi maggiori 50,000 medimni, o 3,000 tonnellate (giacchè il medimno pesava 160 libbre Romane, o 120 di sedici once l'una). Io gli ho dato un'interpretazione più ragionevole, supponendo, che lo stile Attico di Procopio indichi il modio legittimo e popolare, ch'era una sesta parte del medesimo (Hooper Misure antiche p. 152 ec. ). Un errore contrario, e ben più strano si è insinuato in un'Orazione di Dinarco ( contra Demosthenem ap. Reiske Orat. Graec. Tom. IV p. II p. 34 ). Riducendo il numero delle navi da 500 a 50, e traducendo μεδιμνοι per mine, o libbre, il Cousin ha generosamente accordato 500 tonnellate a tutta la flotta Imperiale! doveva mai neppur cadergli ciò nella mente?
618. Ho letto, che un Legislatore Greco stabilì una pena doppia per i delitti commessi nello stato d'ubbriachezza; ma sembra che si convenga, che questa fu piuttosto una pena politica che morale.
619. O anche in tre, poichè la prima sera si fermarono alla vicina Isola di Tenedo: il secondo giorno navigarono fino a Lesbo; il terzo fino al Promontorio d'Eubea, e nel quarto giunsero ad Argo ( Odiss. L. 130, 133. Wood Saggio sopra Omero p. 40, 46 ). Un pirata navigò dall'Ellesponto sino al porto di Sparta in tre giorni (Senofonte Hellenic. l. II c. 1 ).
620. Caucana, vicino a Camarina, è distante almeno 50 miglia (350 o 400 Stadi) da Siracusa (Claver. Sicil. antiq. p. 191 ).
621. Procopio Gothic. l. I c. 3. Tibi tollit hinnitum apta quadrigis equa, ne' pascoli Siciliani di Grosfo (Horat. Carm. II, 16 ) Acragas.... magnanimum quondam generator equorum (Virgil. Aeneid. III, 704 ). I Cavalli di Ierone, di cui Pindaro fece le vittorie immortali, furon nutriti in questo Paese.
622. Il Caput vada di Procopio (dove Giustiniano in seguito fondò una Città, De Aedif. L. VI c. 6) è il Promontorio d' Ammone presso Strabone, il Brachodes di Tolomeo, ed il Capaudia de' moderni, vale a dire una lunga e stretta lingua di terra, che sporge in mare (Shaw Viag. p. 111 ).
623. Un Centurione di Marc'Antonio espresse, quantunque in un modo più virile, il medesimo contraggenio al mare, ed alle battaglie navali (Plutarc. in Antonio p. 1730 Edit. Henr. Steph. ).
624. Sullette è forse la Turris Annibalis, antica fabbrica, presentemente grande quanto la Torre di Londra. La marcia di Belisario a Leptis, Adrumeto ec. viene illustrata dalla campagna di Cesare (Hirtius de Bello Afric. con l'analisi di Guichardt ) e da' viaggi di Shaw ( p. 105-113 ) nel medesimo Paese.
625. Παραδεισος καλλισος απαντων ων ημεις ισμεν. ( Paradiso più bello di tutti quelli che conosciamo ). I Paradisi, nome ed usanza presa dalla Persia, posson rappresentarsi per mezzo de' Giardini Reali d'Ispahan ( Viag. d'Olear. p. 774.) Vedasi ne' romanzi Greci il più perfetto modello di essi (Longus Pastoral. l. IV p. 99-101; Achilles Tatius l. I p. 22 ec. )
626. Nelle vicinanze di Cartagine il mare, la terra, ed i fiumi son quasi tanto mutati quanto le opere umane. L'istmo, o collo della Città ora è confuso col continente: il porto è una secca pianura: ed il lago o stagno non è più che un pantano con sei o sette piedi d'acqua nel canale di mezzo: Vedi Danville ( Geograph. anc. Tom. III pag. 82.), Shaw ( viagg. p. 77, 84 ), Marmol. ( Description de l'Afrique T. II. p. 465 ) e Tuano (LVIII 12 Tom. III p. 334 ).
627. Da Delfi ricevè il nome di Delphicum tanto in Greco quanto in Latino un tripode: e per una facile analogia fu estesa in Roma, in Costantinopoli, ed in Cartagine la stessa denominazione al luogo, dove si facevano i Banchetti reali (Procop. Vandal. lib. I. c. 21: Du-Cange Gloss. Graec. p. 277 v. Δελφικον, ad Alexiad. p. 412 ).
628. Queste orazioni esprimono sempre i sentimenti di quei tempi, ne' quali son fatte, ed alle volte quelli degli attori. Io ho estratto questi sentimenti, ed ho tralasciata la declamazione.
629. Le reliquie di S. Agostino da' Vescovi Affricani furon trasportate al loro esilio di Sardegna (an. 500), e nell'VIII secolo fu creduto che Liutprando Re de' Longobardi le trasferisse (an. 721) da Sardegna a Pavia. Nell'anno 1695 i Frati Agostiniani di quella Città trovarono una volta di mattoni, un'urna di marmo, una cassa d'argento, delle involture di seta, delle ossa, del sangue ec., e forse un'Iscrizione d'Agostino in caratteri Gotici. Ma quest'utile scoperta è stata contrastata dalla ragione, e dalla gelosia ( Baronio Annal. an. 725 n. 2, 9. Tillemont Mem. Eccles. Tom. XIII p. 944. Montfaucon Diar. Ital. p. 26, 30, Muratori Antiq. Ital. med. aevi Tom. V Dissert. LVIII p. 9, che ne aveva composto un Trattato a parte, prima che si facesse il Decreto del Vescovo di Pavia, e del Pontefice Benedetto XIII).
630. Τα της πολιτειας προσιμια ( le prime terre dell'Impero ) dice Procopio de Aedif. L. VI c. 7 Ceuta, che è stata poi disfigurata da' Portoghesi, fiorì, sotto il regno più prospera degli Arabi, nell'agricoltura, e nelle manifatture, decorata di nobili edifizi e di Palazzi ( V. L'Afrique de Marmol T. II p. 236 ).
631. Vedi il secondo e il terzo preambolo a' Digesti, o alle Pandette, promulgate il 16 decembre dell'anno 533. Giustiniano, o piuttosto Belisario, avevan acquistato un giusto diritto a' titoli di Vandalico, ed Affricano; quello di Gotico era prematuro; ed il Francico falso ed offensivo d'una gran Nazione.
632. Vedi gli atti originali presso il Baronio ( Aq. 535 n. 21, 54 ). L'Imperatore applaudisce alla sua clemenza verso gli Eretici cum sufficiat eis vivere.
633. Dupin ( Geograph. Sacra Africana p. LIX ad Optat. Milev. ) nota e compiange l'Episcopal decadenza. Nel tempo più prospero della Chiesa egli vi aveva contato 690 Vescovati: ma per quanto piccole fossero le Diocesi, non è probabile, che vi esistessero tutti nel medesimo tempo.
634. Le leggi Affricane di Giustiniano sono illustrate dal suo Germano Biografo ( Cod. Lib. I Tit. 27 Novell. 36, 37, 131 Vit. Justinian. p. 349-377 ).
635. Il monte Papua si pone dal Danville ( Tom. III p. 92 e Tabul. Imp. Rom. Occident. ) presso Ippone Regio, ed il mare: tal situazione però mal s'accorda con le lunghe ricerche fattene al di là d'Ippone, e con le parole di Procopio ( L. II c. 4 ). Εν τοις Νουμιδιαρς εσχατοις ( negli estremi della Numidia ).
636. Shaw ( Viagg. p. 220 ) descrive con somma accuratezza i costumi de' Bedwini, e de' Kabili, gli ultimi de' quali secondo il loro linguaggio, sono i residui de' Mori: pure quanto son mutati questi moderni selvaggi, quanto si sono inciviliti! Fra loro sono abbondanti le provvisioni, ed il pane è comune.
637. Da Procopio si chiama Lira: l'Arpa sarebbe forse stata più nazionale. Gl'istromenti di musica si distinguono da Venanzio Fortunato in tal modo: Romanusque Lyra tibi plaudat, Barbarus harpa.
638. Erodoto elegantemente descrive gli strani effetti della afflizione in un altro schiavo Reale, cioè in Psammetico Re d'Egitto, che pianse alle minori, e tacque alle maggiori sue calamità ( L. III c. 14). Belisario potea studiar la sua parte nell'incontro di Paolo Emilio e di Perseo: ma è probabile, che non avesse mai letto nè Livio nè Plutarco: ed è certo, che la sua generosità non avea bisogno d'alcun modello.
639. Dopo che il titolo d'Imperatore ebbe perduto l'antico suo senso militare, e gli auspizj Romani furono aboliti dal Cristianesimo (Vedi la Bleterie, Mem. de l'Acad. Tom. XXI p. 302, 332 ) poteva con minore incoerenza accordarsi un Trionfo ad un Generale privato.
640. Se pure l'Ecclesiaste è veramente un'opera di Salomone, non già, come il Poema di Prior, una pia e morale composizione fatta ne' tempi più moderni in suo nome, ed in occasione del suo pentimento. Quest'ultima è l'opinione dell'erudito, e franco Grozio ( Opp. Theolog. T. I p. 258): ed in vero l'Ecclesiaste, ed i Proverbi dimostrano un'estensione di pensare, e d'esperienza, maggiore di quella che sembri poter esser propria d'un Giudeo o d'un Re.
641. Nel Belisario di Marmontel s'incontrano, cenano, e conversano insieme il Re col Conquistatore dell'Affrica, senza rammentarsi l'uno dell'altro. Egli è senza dubbio un difetto di quel romanzo il supporre, che avesser perduto gli occhi o la memoria non solamente l'Eroe, ma anche tutti quelli, che l'avevano sì ben conosciuto.
642. Shaw p. 59. Siccome però Procopio ( L. II c. 13) parla d'un Popolo del monte Atlante come già distinto per la bianchezza del corpo, ed il giallo color de' capelli, questo fenomeno (che si vede similmente nelle Andi del Perù, Buffon Tom. III p. 504) può naturalmente attribuirsi alla elevazione del suolo, ed alla temperatura dell'aria.
643. Il Geografo di Ravenna ( L. III c. XI p. 129, 130, 131. Paris 1688 ) descrive la Mauritania Gaditana (opposta a Cadice) ubi Gens Vandalorum, a Belisario devicta in Africa, fugit, et numquam comparuit.
644. Un solo avea protestato, e Genserico rimandò, senza una risposta formale, i Vandali di Germania: ma quelli di Affrica derisero la sua prudenza, ed affettarono di sprezzare la povertà delle loro foreste (Procopio Vandal. lib. I c. 22 ).
645. Tollio descrive per bocca del grand'Elettore (nel 1687) il segreto regno, e lo spirito ribelle de' Vandali del Brandemburgo, che potevan contare cinque o seimila soldati, che, si erano procurati de' cannoni ec. ( Itinerar. Hungar. p. 42 ap. Dubos Hist. de la Monarchie Francoise Tom. I p. 182, 183 ). Si può con ragione dubitare della veracità non già dell'Elettore, ma di Tollio medesimo.
646. Procopio ( lib. I c. 22) n'era totalmente all'oscuro: ουδε μνημη τιστουδε ονομα ες εμε σωξεται ( Non se ne conserva presso di me nè alcuna memoria nè il nome ). Sotto il regno di Dagoberto (an. 630) le Tribù Slave de' Sorbi, e de' Venedi già confinavano con la Turingia (Mascou Istor. de' Germani XV, 3, 4, 5 ).
647. Sallustio rappresenta i Mori come un residuo dell'armata d'Èrcole ( de Bello Iugurt. c. 21 ) e Procopio (Vandal. l. II c. 10 ) come la posterità de Cananei, che fuggirono dal ladro λησης Giosuè. Ei cita due colonne con un'Iscrizione Fenicia. Io ammetto le colonne, dubito dell'Iscrizione, e rigetto la discendenza.
648. Virgilio ( Georgic. III, 339 ), e Pomponio Mela ( I, 8 ) descrivono la vita errante de' Pastori Affricani simile a quella degli Arabi, e de' Tartari: e Shaw ( p. 222 ) è il migliore commentatore sì del Poeta che del Geografo.
649. I doni consueti, che loro si facevano, erano uno scettro, una corona o berretta, una veste bianca, una tunica e delle scarpe con figure, il tutto adornato d'oro, e d'argento: nè questi preziosi metalli erano lor meno accolti in forma di moneta ( Procop. Vandal. L. I c. 25 ).
650. Vedi il Governo d'Affrica, ed i fatti militari di Salomone presso Procopio ( Vandal. L. II c. 10, 11, 12, 13, 19, 20 ). Ei fu richiamato, e mandatovi di nuovo: e l'ultima sua vittoria porta la data dell'anno XIII di Giustiniano (an. 539). Un accidente l'aveva reso eunuco nella sua puerizia ( L. I c. 11 ), ma gli altri Generali Romani erano ampiamente forniti di barbe, πωγονος επιπλαμενοι ( Lib. II cap. 8 ).
651. Questa naturale antipatia de' cavalli contro i cammelli si asserisce dagli Antichi ( Xenoph. Cyropaed. l. VI p. 438 l. VIII p. 483, 492 Edit. Hutchinson: Polyaen. Stratagem. VII, 6 Plin. Hist. Nat. VIII, 26 Aelian. de Nat. animal. I. III c. 7 ): ma vien contraddetta dalla quotidiana esperienza, e derisa dagli Orientali, che ne sono i migliori giudici ( Voyage d'Olearius p. 553 ).
652. Procopio è il primo, che descriva il monte Aurasio ( Vandal. l. II c. 13 de Aedif. l. VI c. 7 ). Ei si può confrontare con Leone Affricano ( Dell'Affrica P V presso Ramusio Tom. I fol. 77 rect. ), con Marmol ( Tom. II p. 430 ) e con Shaw ( p. 56, 59 ).
653. Isidoro Chron. p. 722 Edit. Grot. Mariana Hist. Hispan. l. V c. 8 p. 173. Secondo Isidoro però l'assedio di Ceuta, e la morte di Teude seguì l'anno dell'Era Ispanica 586, di Cristo 548, e la piazza non fu difesa da' Vandali, ma da' Romani.
654. Procopio Vandal. l. I c. 24.
655. Vedi la Cronica originale d'Isidoro, ed i libri V e VI dell'Istoria di Spagna del Mariana. I Romani furono finalmente cacciati da Suintila Re de' Visigoti (l'anno 621, 626) dopo che si furon questi riuniti alla Chiesa Cattolica.
656. Vedi il matrimonio, e il destino d'Amalafrida in Procopio ( Vandal. l. I c. 8, 9 ); ed in Cassiodoro ( Var. IX, 1 ) la richiesta del reale di lei fratello. Si confronti parimente la Cronica di Vittore Tunnunense.
657. Lilibeo fu fabbricato da' Cartaginesi nell'Olimpiade XCV. 4 e nella prima guerra Punica la forte situazione e l'eccellente suo porto rese quel luogo un oggetto importante per ambedue le nazioni.
658. Si paragonino fra loro i differenti passi di Procopio ( Vandal L. II c. 5 e Gothic. l. 1 c. 3 ).
659. Intorno al regno e carattere d'Amalasunta vedi Procopio ( Gothic. l. I c. 2, 3, 4: ed Anecdot. c. 16 con le note dell'Alemanno): Cassiodoro ( Var. VIII, IX, X et XI, 1 ): e Giornandes ( de Reb. Getic. c. 56 et de successione Regnor presso il Muratori Tom. I p. 241 ).
660. Il matrimonio di Teodorico con Audefleda, sorella di Clodoveo, si può collocare nell'anno 495 subito dopo la conquista d'Italia (Buat Hist. des Peuples Tom. IX p. 213 ). Le nozze d'Eutarico e d'Amalasunta si celebrarono l'anno 515 (Cassiodoro in Chron. p. 453 ).
661. Alla morte di Teodorico si descrive da Procopio Atalarico, suo nipote, come un fanciullo di circa otto anni οκτω γεγονως ετη. Cassiodoro coll'autorità e con la ragione ve ne aggiunge due; Infantulum adhuc vix decennem.
662. Questo lago dalle vicine Città d'Etruria chiamavasi o Vulsiniensis (ora di Bolsena) o Tarquiniensis. Esso è circondato da bianchi scogli, ed abbondante di pesce, e di salvaggiume. Plinio il Giovane ( Epist. II, 96 ) celebra due selvose isole, che galleggiavano sulle acque. Se questa è una favola, quanto eran creduli gli Antichi! Se poi è un fatto vero, quanto son trascurati i Moderni! Pure dal tempo di Plinio in qua le isole possono essersi fissate per mezzo di nuove e successive aggregazioni.
663. Procopio però ( Anecdot. c. 16 ) abbatte la sua propria testimonianza, confessando che nella sua Storia pubblica non avea detto la verità. Vedi le lettere scritte dalla Regina Gundelina all'Imperatrice Teodora ( Var. X, 20, 21, 23 e si osservi una parola sospetta, de illa persona ec. ) con l'elaborato Commercio di Buat ( Tom. X p. 177, 185 ).
664. Intorno alla conquista di Sicilia si confronti la narrazione di Procopio con le doglianze di Totila ( Gothic. l. I c. 5. l. III c. 16 ). La Regina de' Goti aveva ultimamente sollevato quell'ingrata isola ( Var. IX, 10, 11 ).
665. Descrivesi l'antica grandezza e splendore de' cinque quartieri di Siracusa da Cicerone ( Act. II in verrem L. IV c. 52, 53 ), da Strabone ( L. VI p. 415 ), e dal Dorville ( Sicula Tom. II p. 174, 202 ). La nuova città, restaurata da Augusto, si ristrinse verso l'isola.
666. Procopio ( Vandalic. l. II c. 14, 15 ) riferisce così chiaramente il ritorno di Belisario in Sicilia ( p. 146 Edit. Hoeschelii ), che restò attonito allo strano sbaglio, ed a' rimproveri d'un erudito Critico ( Oeuvres de la Mothe le Vayer Tom. VIII p. 162, 163 ).
667. L'antica Alba fu distrutta nella prima età di Roma. Nel medesimo luogo, o almeno nelle vicinanze di quella, successivamente s'alzarono, 1. la villa di Pompeo ec. 2. un campo delle Coorti Pretoriane: 3. la moderna città Episcopale d'Albano (Procopio Goth. l. II c. 4. Cluver. Ital. ant. Tom. II. p. 914 ).
668. Si produceva un oracolo sibillino, che diceva Africa capta, mundus cum nato peribit; sentenza di portentosa ambiguità ( Gothic. l. I c. 7 ), che fu pubblicata in caratteri ignoti da Opsopeo, editore di Oracoli. Il P. Maltret ha promesso di farvi un commentario: ma tutte le sue promesse sono state vane ed infruttuose.
669. Procopio nella sua Cronologia, imitando in qualche modo Tucidide, comincia dalla primavera gli anni di Giustiniano, e della guerra Gotica: e la prima sua epoca corrisponde al primo d'aprile 535 non 536 secondo gli Annali del Baronio (Pagi Crit. Tom. II p. 555 seguitato dal Muratori, e dagli Editori del Sigonio). Pure in alcuni passi non sappiamo conciliare le date di Procopio con lui medesimo, e con la Cronica di Marcellino.
670. Da Procopio ( L. I c. 5, 29. L. II c. 1, 30. L. III c. 1 ) si riferiscono gli avvenimenti della prima guerra Gotica fino alla schiavitù di Vitige. Coll'aiuto del Sigonio ( Opp. Tom. I. De Imp. Occid. L. XVII, XVIII ), e del Muratori ( Annali d'Italia Tom. V ) vi ho aggiunto alcuni pochi fatti di più.
671. Giornandes de reb. Gotic. c. 60 p. 702 Edit. Grot. e Tom. I p. 221: Muratori de success. regn. p. 241.
672. Nero (dice Tacito Annal. XV, 35 ) Neapolim quasi Graecam urbem delegit. Cento cinquant'anni dopo, al tempo di Settimo Severo, Filostrato loda l'Ellenismo de' Napolitani: γενος Ελληνες και αστυκοι, οθεν και τας σπουμδας των λογον Ελληνικοι εισι d'origine son Greci ed urbani, onde anche nell'uso delle parole grecizzano ( Icon. L. I pag. 763 Edit. Olear. ).
673. Si celebra l' otium di Napoli da' Poeti Romani, come da Virgilio, da Orazio, da Silio Italico, e da Stazio (Cluver. Ital. Ant. l. IV p. 1149, 1150 ). Quest'ultimo in una elegante lettera ( Sylv. l. III, 5 p. 94, 98 Edit. Markland. ) tenta la difficile impresa di trar la sua moglie da' piaceri di Roma a quel tranquillo ritiro.
674. Questa misura fu presa da Ruggiero I dopo la conquista di Napoli (An. 1139), ch'ei fece la Capitale del suo nuovo Regno (Giannone Istor. Civ. Tom. II p. 169 ). Questa città, ch'è la terza nell'Europa Cristiana, ha presentemente almeno dodici miglia di circuito (Jul. Caes. Capaccii Hist. Neapol. L. I p. 47 ), e contiene in questo spazio più abitanti (vale a dire 350,000) che qualunque altro luogo nel Mondo conosciuto.
675. Non geometrici ma comuni, cioè passi di 22 pollici Francesi l'uno (Danville Mesures itinerair. p. 7, 8 ): 2363 di essi non fanno un miglio Inglese.
676. Belisario fu condannato dal Papa Silverio per la strage; egli per altro ripopolò Napoli, ed introdusse colonie di prigionieri Affricani nella Sicilia, nella Calabria, e nella Puglia ( Hist. Miscell. L. XVI presso il Muratori Tom. I p. 106, 107 ).
677. Benevento fu fabbricato da Diomede, Nipote di Meleagro (Cluver. Tom. II p. 1195, 1196 ). La caccia Calidonia è una pittura della vita selvaggia (Ovid. Metamorph. L. VIII ). Trenta o quaranta eroi si collegarono contro un cignale: i bruti (non il cignale) contendevano con una donna per la testa.
678. Il Decennovium è stranamente confuso dal Cluverio ( Tom. II p. 1007 ) col fiume Ufente. Esso era veramente un canale di diciannove miglia, dal Foro d'Appio fino a Terracina, sul quale Orazio imbarcossi di notte. Il Decennovium, di cui fan menzione Lucano, Dione Cassio, e Cassiodoro, è stato in vari tempi successivamente rovinato, restaurato, e cancellato (Danville, Analyse de l'Italie p. 185 ec.).
679. Un Ebreo volle soddisfare il disprezzo e l'odio che avea per tutti i Cristiani, rinchiudendo tre mandre, ciascheduna delle quali conteneva dieci porci, ed eran distinte coi nomi di Goti, di Greci e di Romani. I primi furon trovati quasi tutti morti; quasi tutti i secondi eran vivi: e de' terzi la metà eran morti, ed il rimanente avevan perduto le loro setole. Emblema non incoerente all'evento.
680. Bergier ( Hist. des grands chemins des Romains T. I p. 221, 228, 440, 444 ) n'esamina la struttura ed i materiali, mentre Danville ( Analyse de l'Italie p. 200, 213 ) ne determina la situazione geografica.
681. L'anno 536 della prima ricuperazione di Roma è certo, piuttosto per la serie de' fatti, che poi testo corrotto o interpolato di Procopio: il mese (di Dicembre) viene assicurato da Evagrio ( L. IV c. 19 ): ed il giorno (10) può ammettersi sulla debole testimonianza di Niceforo Callisto ( L. XVII c. 13 ). Di questa esatta Cronologia siam debitori alla diligenza, ed al criterio del Pagi ( Tom. II pag. 559, 560 ).
682. Un Cavallo di color baio o rosso chiamavasi φαλιος da' Greci, Balan da' Barbari, e Spadix da' Romani. Honesti Spadices, dice Virgilio ( Georg. L. III, 72 con le osservazioni di Martin, e di Heyne). Σπαδιξ o Βαιον significa un ramo di palma, il cui nome Φοινιξ della quale è sinonimo di rosso (Aul. Gellius II, 26).
683. Interpetro la voce βανδαλαριος non come un nome proprio, ma d'ufizio, quasi portatore della bandiera, da Bandum (vexillum) parola barbara adottata da' Greci e da' Romani (Paol. Diacon L. I c. 20 p. 760. Grot. Nomina Gothica p. 575. Du-Cange Glossar. Latin. Tom. I pag. 539, 540 ).
684. Il Danville nelle Memorie dell'Accademia per l'anno 1756 ( Tom. XXX p. 198, 236 ) ha dato un Piano di Roma di minor proporzione, ma molto più accurato di quello, che aveva delineato nel 1738, per l'Istoria del Rollin. L'esperienza ha perfezionato la sua cognizione, ed invece della Topografia del Rossi, ha usato la nuova ed eccellente carta del Nolli. La vecchia misura di 13 miglia di Plinio si dee ridurre a 8. Egli è più facile alterare un testo, che muovere i colli o le fabbriche.
685. Nell'anno 1709, Labat ( Voyages en Italie Tom. III p. 218 ) contò 138,568 anime di Cristiani oltre, 8, a 10,000 Ebrei forse senz'anima? Nell'anno 1763 la popolazione passava i 160,000.
686. L'occhio diligentissimo del Nardini (Roma antica L. I. c. 8. p. 31) potè distinguere le tumultarie opere di Belisario.
687. La fessura, e la pendenza nella parte superiore del muro, che osservò Procopio ( Goth. L. I c. 23 ), è visibile anche adesso (Donati Roma vet. L. I. c. 17 p. 53, 54 ).
688. Lipsio ( Opp. Tom. III Poliorcet. L. III ) non conosceva questo chiaro e cospicuo passo di Procopio ( Goth. L. I c. 21 ). La macchina si diceva οναγρος (asino selvaggio) a calcitrando (Heur. Steph. Thesaur. Linguae Graec. Tom. II p. 877 ). Io ho veduto un ingegnoso modello, immaginato ed eseguito dal General Melville, che imita o sorpassa l'arte dell'antichità.
689. La descrizione, che fa Procopio ( L. I c. 25 ) di questo Mausoleo, è la prima e la migliore. S'alza sopra le mura σχεδον ες λιθου βολην (quasi un tiro di pietra). Nel gran disegno del Nolli i lati di quello sono 260 piedi Inglesi.
690. Prassitele era eccellente ne' Fauni, e quello d'Atene era il suo capo d'opera. Roma ora ne contiene più di trenta del medesimo carattere. Quando fu purgato il fosso di Castel S. Angelo sotto Urbano VIII, gli artefici trovarono il Fauno, che dorme, del Palazzo Barberini, ma si era rotta una gamba, una coscia, ed il braccio destro di quella bella Statua (Winckelman Istor. dell'art. ec. Tom. II pag. 52 Tom. III p. 265 ).
691. Procopio ha dato la miglior descrizione del Tempio di Giano, Divinità nazionale del Lazio (Heyne Excurs. V ad L. VII Aeneid. ). Esso formava anticamente una porta nella primitiva città di Romolo e di Numa (Nardini Pag. 13, 256, 329 ). Virgilio ha descritto quest'antico rito da Poeta e da Antiquario.
692. Il Vivarium era un angolo nella nuova muraglia chiuso per le fiere (Procopio Goth. L. I c. 23 ). Il luogo è sempre visibile presso il Nardini ( L. IV c. 2 p. 159, 160 ), e nella gran pianta di Roma del Nolli.
693. Per la trombetta Romana, ed i suoi vari segnali si consulti Lipsio De militia Romana ( Opp. Tom. III L. IV Dial. X p. 125, 129 ). Una maniera di distinguer l'attacco per mezzo d'una trombetta a cavallo di solido bronzo, e la ritirata per mezzo d'una trombetta a piedi di cuoio e di legno leggiero, fa commendata da Procopio, e adottata da Belisario.
694. Procopio ( Goth. L. II c. 3 ) si è dimenticato di nominar questi acquedotti; nè tal doppia intersezione a quella distanza di Roma si può chiaramente fissare dagli scritti di Frontino, del Fabretti, e dell'Eschinard de aquis, et de agro Romano, o dalle carte locali del Lameti e del Ciugolani. Sette o otto miglia (50 Stadi) lontano dalla Città, sulla via d'Albano, fra le strade Latina ed Appia, io discerno i residui d'un acquedotto (probabilmente di quello di Settimio), ed una serie di archi (per 630 passi) alti venticinque piedi (υψηλω εσαναν) d'un'eccessiva altezza.
695. Fecero delle salsiccie αλλατας di carne di mulo; malsane senza dubbio, se gli animali eran morti di peste; fuori di questo caso per altro le famose salsiccie di Bologna si dice, che son fatte di carne d'asino ( Voyages de Labat, Tom. II p. 218 ).
696. Il nome del palazzo, del colle, e dell'annessa porta tutti eran derivati dal Senator Pincio. Alcuni recenti vestigi di tempj, e di chiese si sono adesso livellati al suolo nel giardino de' Minimi della Trinità del Monte (Nardini L. IV c. 7 p. 196. Eschinard p. 209, 210 la vecchia pianta del Bufalini, e la gran pianta del Nolli). Belisario avea stabilito il suo quartiere fra le porte Pincia e Salaria (Procop. Goth. L. I c. 15 ).
697. Dal farsi qui menzione del primo e del secondo velum parrebbe, che Belisario, quantunque assediato, rappresentasse l'Imperatore, o conservasse l'altiero ceremoniale del Palazzo Bizantino.
698. Dove ha egli trovato il Sig. Gibbon, che Silverio fosse accusato da testimoni degni di fede, e convinto dalla prova della sua sottoscrizione? Gli Autori che cita nella nota ( 1 p. 444 ) non dicono questo. Procopio, ch'era presente al fatto, così lo riferisce « Essendo nato sospetto (υποψιας), che Silverio Vescovo di Roma tramasse un tradimento co' Goti, subito lo relegò in Grecia ec. » ma questo pare al N. A. un testimone troppo secco e ripugnante a tal atto, quasi che Procopio fosse un uomo devoto e scrupoloso, o che nelle sue opere si dimostrasse addetto a' Romani Pontefici, più che a Belisario: non sarebbe anzi più ragionevole il supporre, che il Segretario ed encomiatore del Generale avesse usato quella maniera di dire secca e concisa per cuoprirne quanto potea l'ingiustizia, e che in verità vi fosse anche meno che un sospetto contro la fedeltà di Silverio? Ma udiamo gli altri scrittori citati dal Sig. Gibbon: Augusta ( dice Anastasio in vit. Silverii) misit jussiones ad Vilisarium Patricium per Virgilium Diaconum ita continentes: vide aliquas occasiones in Silverium Papam, et depone illum ab Episcopatu, aut certe festinus trasmitte eum ad nos.... Et tunc suscepit jussionem Vilisarius Patricius dicens; Ego quidem jussionem facio, sed ille, qui interest in nece Silverii Papae, ipse rationem reddet de factis suis Domino Nostro Jesu Christo. Et urgente jussione exierunt quidam falsi testes: qui et dixerunt: quia nos multis vicibus invenimus Silverium Papam scripta mittentem ad Regem Gothorum:.................... Asinaria, juxta Lateranas, et Civitatem tibi trado, et Vilisarium Patricium. Quod autem Vilisarius non credebat: Sciebat enim, quod per invidiam haec de eo dicebantur. Sed dum multi in eadem accusatione persisterent, pertimuit etc. Son questi i testimoni degni di fede? questa è la propria sottoscrizion di Silverio? Gibbon dirà, che questa descrizione è appassionata. Vediamo dunque Liberato: Belisarius vero ( dic'egli ) Romam reversus, evocans Silverium ad Palatium, intentabat ei calumniam, quasi Gothis scripsisset, ut Romam introirent. Fertur enim Marcum quemdam Scholasticum, et Julianum quemdam Praetorianum fictas de nomine Silverii composuisse litteras Regi Gothorum scriptas, ex quibus convinceretur Silverius Romanam velle prodere Civitatem. Secreto autem Belisarius et ejus conjux persuadebant Silverio implere praeceptum Augustae, ut tolleretur Chalcedonensis synodus, et per epistolam suam haereticorum firmaret fidem ec. Se anche questa è una testimonianza appassionata, noi domanderemo al Sig. Gibbon, quali son dunque le narrazioni vere ed imparziali, dalle quali esso ha tratto la notizia de' credibili testimoni, che accusaron Silverio, e della propria di lui sottoscrizione? E frattanto ch'ei trova altre autorità opportune per il suo intento, avremo tutta la ragione d'approvar come giuste l'esecrazioni del Card. Baronio contro la patente e sacrilega ingiustizia di Belisario.
Nota dell'Editore Pisano.
699. Procopio ( Goth. L. I c. 25 ) è un testimone secco e ripugnante a quest'atto di sacrilegio. Le narrazioni di Liberato ( Breviar. c. 22 ) e d'Anastasio ( de. vit. Pont. p. 39 ) sono caratteristiche, ma appassionate. S'odano l'esecrazioni del Cardinal Baronio ( An. 536 n. 123. An. 538 n. 4, 20 ) portentum, facinus omni execratione dignum.
700. La vecchia porta Capena fu trasportata da Aureliano alla moderna porta di S. Sebastiano, o lì vicino (Vedi la pianta del Nolli). Quel memorabile luogo è stato decorato dal bosco Egerio, dalla memoria di Numa, da archi trionfali, da' sepolcri degli Scipioni, e de' Metelli ec.
701. L'espression di Procopio contiene un tratto invidioso: Τυην εκ του ασφαλους την σφισι συμβησομενην καραδοκειν ( Goth. l. II. c. 4 ) per osservare da un luogo sicuro il destino che loro accadesse. Egli parla però d'una donna.
702. Anastasio (p. 40) gli ha conservato questo titolo di Sanguinario che potrebbe far onore ad una tigre.
703. Questo fatto vien riferito nella pubblica Storia ( Goth. l. II. c. 8 ) con candore o cautela: negli Aneddoti (c. 7) con malevolenza o libertà: Marcellino però, o piuttosto il suo Continuatore ( in Chron. ), getta un'ombra di premeditato assassinio sulla morte di Costantino. Egli aveva fatto buon servizio in Roma, ed in Spoleto (Procop. Goth. L. I c. 7 14 ). Ma l'Alemanno lo confonde con un Costanziano Comes stabuli.
704. Dopo la partenza di lui non vollero più militare: venderono a' Goti i loro schiavi e bestiami: e giurarono di non più combattere contro di loro. Procopio fa una curiosa digressione sopra le maniere e le avventure di questa vagante Nazione, una parte di cui finalmente passò a Tule, o nella Scandinavia ( Goth. l. II c. 14, 15 ).
705. Questo nazional rimprovero di perfidia (Procop. Goth. Lib. II cap. 25 ) offende l'orecchio di la Mothe le Vayer ( Tom. VIII p. 163, 165 ) che critica l'Istorico Greco, come se non l'avesse mai letto.
706. Il Baronio applaudisce al suo tradimento, e giustifica i Vescovi Cattolici, qui ne sub haeretico Principe degant, omnem lapidem movent: Cautela veramente utile! Il Muratori, più ragionevole ( Annali d'Ital. Tom. V p. 54 ), accenna il delitto di spergiuro, e biasima almeno l'imprudenza di Dazio.
707. S. Dazio fu più felice contro i diavoli, che contro i Barbari. Ei viaggiò con un numeroso seguito, ed occupò un'ampia casa in Corinto (Baronio An. 538 n. 89. An. 539 n. 20 ).
708. Μοριαδες τριακοντα (trenta miriadi) Vedi Procopio ( Goth. L. II c. 7, 21 ). Tal popolazione però è incredibile: e la seconda o terza Città d'Italia non dee lagnarsi, se noi solamente decimiamo il numero di questo testo. Tanto Milano quanto Genova risorsero in meno di trent'anni (Paolo Diacono De Gestis Longobard. L. II c. 38 ).
709. Oltre Procopio, forse troppo Romano, vedansi le Croniche di Mario, e di Marcellino, Giornandes ( in success. regn. presso il Muratori Tom. I pag. 241 ), e Gregorio di Tours ( L. III c. 32 nel Tom. II degl'Istorici di Francia ). Gregorio suppone una disfatta di Belisario, che presso Aimoino ( De Gestis Franc. L. II c. 23 nel Tom. III p. 59 ) è ucciso da' Franchi.
710. Agatia L. I p. 14, 15. Quand'egli avesse potuto sedurre o soggiogare i Gepidi, o i Lombardi della Pannonia, il Greco Istorico crede, che sarebbe stato necessariamente distrutto nella Tracia.
711. Il Re diresse la sua lancia, il toro gli rovesciò un albero sul capo, ed ei spirò nel medesimo giorno. Tal'è il racconto d'Agatia: ma gl'Istorici originali di Francia ( T. II p. 202, 403, 558, 667 ) attribuiscono la sua morte ad una febbre.
712. Senza perdermi in un laberinto di specie e di nomi, come di aurochi, di uri, di bisoni, di bubali, di bonasi, di bufali ec. (Buffon Hist. nat. Tom. XI e Supplem. Tom. III VI ); egli è certo, che nel sesto secolo si cacciava una grossa specie di bestiame a corna salvatico nelle gran foreste dei Vosgi in Lorena, e nelle Ardenne (Greg. Turon. Tom. II L. X c. 10 p. 369 ).
713. Nell'assedio d'Osimo a principio cercò di demolire un vecchio acquedotto, e quindi gettò nell'acqua, 1. de' cadaveri: 2. dell'erbe nocive: e 3. della calce viva, che si chiama (dice Procopio L. II c. 29 ) τιτανος dagli antichi, e dai moderni ασβεσος. Pure ambedue queste voci si usano come sinonime da Galeno, da Dioscoride, e da Luciano (Henr. Steph. Thes. Ling. Graec. Tom. III p. 748 ).
714. I Goti sospettarono, che Matasuiuta fosse complice del fatto, che forse fu cagionato da un incendio accidentale.
715. A rigor filosofico sembra, che una limitazione de' diritti di guerra nel nuocere al nemico implichi non senso e contraddizione. Grozio medesimo si perde in una distinzione fra il Gius di natura e quello delle Genti, fra il veleno e l'infezione. Ei pondera da una parte della bilancia i passi d'Omero ( Odyss. A. 259 ec. ) e di Floro ( L. II c. 10 n. 7 ult. ), e dall'altra gli esempi di Solone (Pausan. L. X c. 37 ) e di Belisario. Vedi la sua grand'Opera de Jure Belli et Pacis L. III c. 4 §. 15, 16, 17, e nella Traduzione di Barbeyrac Tom. II p. 257 ec. Io capisco però il vantaggio e la validità d'una convenzione, tacita o espressa, di vicendevolmente astenersi da certe specie di ostilità: Vedi il giuramento Anfizionico presso Eschine, da falsa Legatione.
716. Ravenna fu presa non già nell'anno 540 ma nel fine del 539, ed il Pagi ( Tom. II p. 169 ) è corretto dal Muratori ( Annali d'Ital. Tom. V p. 62 ) che prova con un documento originale in papiro ( Antiq. Ital. med. aevi Tom. II Diss. 32 p. 999, 1007, Maffei Istor. Diplom. p. 155, 160 ), che prima del 3 gennaio 540 era ristabilita la pace e la corrispondenza libera fra Ravenna e Faenza.
717. Ei fu preso da Giovanni il Sanguinario, ma fu prestato un giuramento per la sua sicurezza nella Basilica di Giulio ( Hist. Miscell. L. XVII presso il Muratori Tom. I p. 107.): Anastasio ( in Vit. Pontif. p. 40 ) ne dà un'oscura, ma probabile relazione. Mascou ( Istor. de' Germani XII, 21 ) cita il Montfaucon per uno scudo votivo rappresentante la schiavitù di Vitige, che ora è nella Collezione del Sig. Landi a Roma.
718. Vitige visse due anni a Costantinopoli ed Imperatoris in affectu convictus ( ovvero coniunctus ) rebus excessit humanis. Matasuenta, sua Consorte, che fu moglie e madre de' Patrizi, Germano il Vecchio, ed il Giovane, unì il sangue Anicio con quello degli Amali. (Jornand. c. 60 p. 221 presso il Muratori Tom. I ).
719. Procopio Goth. L. III c. 1. Aimoino, Monaco Francese del secolo XI, che avea acquistato e sfigurato alcune autentiche notizie di Belisario fa menzione in suo nome di 12,000 pueri o schiavi, quos propriis alimus stipendiis, oltre 18,000 Soldati ( Istorici di Franc. Tom. III. De Gestis Franc. L. II c. 6 p. 48 ).
720. La diligenza dell'Alemanno non potè aggiunger che poco a' quattro primi e più curiosi capitoli degli Aneddoti. Di questi straordinari aneddoti una parte può esser vera perchè probabile; e l'altra perchè improbabile. Procopio deve aver saputo la prima, e difficilmente potè inventar la seconda.
721. Procopio ci fa sapere ( Anecd. c. 4 ), che quando Belisario tornò in Italia (an. 543) Antonina avea l'età di sessant'anni. Una costruzione forzata, ma più gentile, che riferisce quella data al momento, in cui egli scriveva (anno 559), sarebbe compatibile con la virilità di Fozio ( Goth. L. I c. 10 ) nel 536.
722. Si confronti la guerra Vandalica ( L. I c. 12 ) con gli Aneddoti ( cap. 1 ), e l'Alemanno ( pag. 2, 3 ). Questa specie di battesimale adozione fu rimessa in uso da Leone il Sapiente.
723. Nel novembre del 537 Fozio arrestò il Papa (Liberat. Breviar. c. 22 Pagi Tom. II p. 562 ). Verso il fine del 539 Belisario mandò Teodosio τον τη οικια τη αυτου εφεσωτα ( che presedeva alla sua casa ) per una importante e lucrativa commissione a Ravenna ( Goth. L. II c. 18 ).
724. Teofane ( Chronogr. p. 204 ) lo chiama Fotino, e genero di Belisario: ed è copiato dall'istoria Miscella, e da Anastasio.
725. Il Continuator della Cronica di Marcellino esprime in poche decenti parole la sostanza degli Aneddoti. Belisarius de Oriente evocatus in offensam periculumque incurrens grave, et invidiae subiacens, rursus remittitur in Italiam ( p. 54 ).