STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO
DI EDOARDO GIBBON
TRADUZIONE DALL'INGLESE
VOLUME NONO
INDICE
STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO
CAPITOLO XLVII.
Storia Teologica della dottrina dell'Incarnazione. Natura umana e divina di Gesù Cristo. Inimicizia tra i Patriarchi d'Alessandria e di Costantinopoli, S. Cirillo e Nestorio. Terzo Concilio generale tenuto in Efeso. Eresia d'Eutiche. Quarto Concilio generale tenuto in Calcedonia. Discordia civile ed ecclesiastica. Intolleranza di Giustiniano. I tre Capitoli. Controversia dei Monoteliti. Sette dell'Oriente: prima i Nestoriani, seconda i Giacobiti, terza i Maroniti, quarta gli Arminiani, quinta i Cofti e gli Abissini.
Dopo avere i Cristiani distrutto il Paganesimo ben poteano godersi in santa pace un trionfo che liberati li avea da tutti gli avversari; ma un seme di discordia germogliava nel loro seno[1]; quindi furono più ardenti a cercar la natura del Fondator della Religione, che a porne in pratica le leggi[2]. Ho di già osservato che alle dispute sulla Trinità tennero dietro quelle dell'Incarnazione, scandalose del pari per la Chiesa; del pari funeste allo Stato, ma più minuziose ancora in origine e più durevoli negli effetti. Questo capitolo narrerà una guerra religiosa di dugento cinquant'anni, ed ho intenzione di esporre qual fu lo scisma ecclesiastico e politico delle Sette d'Oriente, e di preparare la storia delle contese loro tanto romorose e sanguinarie, premettendo brevi ricerche sulla dottrina della Chiesa primitiva[3].
I. Zelanti, com'era ben giusto, dell'onore dei primi proseliti della lor religione, furono i Cristiani[4] inclinati a credere a seconda del desiderio e della speranza loro, che gli Ebioniti, o per lo meno i Nazarei non si fossero segnalati in altro che nella ostinata lor perseveranza a praticare il culto di Mosè. Disparvero le loro Chiese; non son più ricordati i loro libri; la loro oscura libertà ha lasciato aperto un vasto campo alle opinioni in questo proposito, e somministrato allo zelo e alla prudenza del terzo secolo il modo d'esporre diversamente il loro Simbolo flessibile e mal certo; ma la critica più caritatevole dee negare in questi Settari ogni nozione della pura e vera Divinità di Cristo. Ammaestrati alla scuola de' Giudei, imbevuti delle profezie, e dei pregiudizi loro, non avevano appreso giammai a sollevare le speranze più alto che ad un Messia umano e temporale[5]. Se osavano salutare il lor Re quando compariva in abito plebeo non potevano da grossolani, siccome essi erano, discernere il loro Dio, che nascondea la celeste natura sotto il nome e la persona d'un uomo[6][7]. Gesù Nazareno s'intertenea famigliarmente co' suoi compagni, li trattava come amico, e in tutte le azioni della vita ragionevole, o della vita animale, compariva un uomo della stessa loro specie. Al pari degli altri uomini passò dall'infanzia alla gioventù e alla virilità con un graduato incremento di statura e di sapienza, e spirò sulla Croce dopo una penosa agonìa di spirito e di corpo. Visse e morì per servigio degli uomini; ma Socrate ancora[8] consacrata avea la vita sua e la sua morte alla causa della religione e della giustizia; e quantunque lo stoico o l'eroe possano sdegnare le umili virtù di Gesù Cristo, pure le lagrime che questi versò sopra il suo paese, e sul discepolo ch'egli amava, sono la più pura, non che la più incontrastabile prova della sua Umanità. Non doveano i miracoli dell'Evangelo recare maraviglia ad un popolo che intrepidamente credeva i prodigi anche più strepitosi della legge di Mosè. Già i Profeti aveano prima di lui sanato infermi, risuscitato morti, fermato il Sole, erano saliti al cielo su carri di fuoco, e di leggieri poteva lo stile metaforico degli Ebrei retribuire ad un Santo e ad un Martire il titolo adottivo di Figlio di Dio.
Tuttavolta, e nel Simbolo de' Nazarei, e in quello degli Ebioniti, non si scorgono che lievi tracce di separazione da quegli eretici, i quali dicevano essere stato generato il Cristo secondo l'ordine generale della natura, e da quegli scismatici che ammettevano la Verginità di sua Madre escludendo l'intervento d'un padre terreno. Pareva autenticata la miscredenza de' primi dalle circostanze visibili della sua nascita, dal matrimonio di Giuseppe, suo padre putativo, che aveva adempiute le formalità tutto della legge, e così da' dritti che per discendenza diretta egli aveva sul Regno di David, e su l'eredità di Giuda; ma la storia secreta ed autentica se ne conservò in molte copie dell'Evangelo secondo S. Matteo[9], che que' Settari custodirono per lungo tempo nell'originale ebraico[10] come unica pruova della loro credenza. Giuseppe, ben certo della propria castità, formò sospetti assai naturali nel caso; ma poi avvisato in sogno essere la gravidanza della sposa un'opera dello Spirito Santo, sgombrò dall'animo ogni inquietudine: e poichè non aveva potuto lo Storico osservare co' propri occhi quel miracolo domestico, convien credere che ascoltato egli abbia in tal occasione la voce, che dettò ad Isaia il vaticinio della futura concezione d'una Vergine. Il figlio di una Vergine generata per l'ineffabile opera dello Spirito Santo era un Ente di cui non s'avea mai conosciuto il simile[11], nè si poteva a cosa veruna paragonare, poichè in tutte le facoltà della mente e del corpo era superiore a' figli d'Adamo. Dopo che si fu introdotta la filosofia greca, o caldea[12], credevano i Giudei[13] alla preesistenza, alla trasmigrazione, all'immortalità dell'anima; e per giustificare la Provvidenza supponevano che l'anima fosse condannata ad un carcere corporeo per espiare le colpe commesse in uno stato anteriore[14]; ma quasi incommensurabili sono i gradi della purità e della corruttela. Fu agevole il credere che eletto fosse il più sublime e il più virtuoso tra gli spiriti ad animare quell'Essere nato da Maria, e dallo Spirito Santo;[15] essere stata sua elezione il suo stato abietto, e il fine della sua missione quello d'espiare i suoi peccati non già, ma quelli del Mondo. Tornando nel cielo, da cui discese, ricevè Gesù Cristo un premio infinito della sua obbedienza, mediante quel Regno interminabile del Messia già predetto oscuramente dai Profeti sotto le immagini materiali di pace, di conquisto, di dominio terreno. Poteva Iddio adeguare le facoltà umane di Cristo all'ampiezza delle sue operazioni celesti. Nel linguaggio dell'antichità, non era esclusivamente riservato il titolo di Dio all'Ente da cui emana ogni cosa; quindi l'impareggiabile suo Ministro, l'unico suo figlio, poteva senza presunzione domandare al Mondo, ch'era suo regno, un culto religioso, comunque secondario.
II. Que' semi della fede che lentamente soltanto aveano pullulato nel suolo duro ed ingrato della Giudea, trapiantati furono ben maturi in climi assai migliori, in que' de' Gentili; nè gli stranieri che non aveano potuto in Roma e nell'Asia vedere le forme umane di Gesù Cristo furono perciò men pronti a vedere solamente un Dio nella sua persona. Il Politeista, e il Filosofo, il Greco, e il Barbaro erano del pari assuefatti ad ammettere una lunga eternità, un'infinita serie d'angeli, o di demoni, di deità, o d'eoni, ovvero di emanazioni derivanti dal trono di luce; nè trovavano incredibile o strano per nulla il caso, che il primo di questi eoni, il logos o Verbo di Dio, della stessa sostanza del padre, discendesse su la terra per liberare dal vizio e dall'errore il genere umano, e per inviarlo sul sentiero della vita e della immortalità; ma il domma dell'eternità e le idee di corruzione inerenti alla materia, infettarono le prime Chiese d'Oriente. Gran numero di proseliti pagani era ritroso a credere che uno Spirito celeste, una porzione indivisa della prima Essenza, si fosse personalmente incorporata ad una massa di carne impura e corrotta; il perchè pieni di zelo per la Divinità di Gesù Cristo furono dalla devozione indotti a negarne l'umanità. Fumava ancora sul monte Calvario il suo sangue[16], quando i doceti, Setta asiatica assai numerosa, e dotta, inventarono il sistema fantastico propagato poscia dai Marcioniti, da' Manichei, e da' Gnostici d'ogni denominazione[17]. Non vollero ammettere la verità e autenticità degli Evangeli nella parte che riguarda la concezion di Maria, la nascita di Gesù Cristo, e i trent'anni che precedettero l'esercizio del suo ministero. Sulle sponde del Giordano era egli comparso da prima in tutta la perfezione della forma umana, ma non era, diceano quegli Eresiarchi, se non se una forma, non già una sostanza; era una semplice figura umana creata dal Dio onnipotente ad imitare la facoltà e le azioni d'un uomo, ed a fare continua illusione ai sensi de' suoi amici e nemici. Da suoni articolati erano penetrate le orecchie dei Discepoli; ma l'immagine che s'imprimeva sul loro nervo ottico ricusava la prova più positiva del fatto, e godeano della presenza spirituale, non della corporale del figlio di Dio. Invano sfogarono i Giudei la rabbia sopra un fantasma impassibile, e le mistiche scene della passione e morte, della risurrezione e ascensione di Gesù Cristo, furono rappresentate sul teatro di Gerusalemme a pro del genere umano. Se si rispondeva ai Doceti, che così fatta farsa, che una soperchieria sì continuata indegne erano del Dio di verità, essi s'andavano giustificando colla dottrina delle pie frodi ammessa da sì gran numero di fratelli ortodossi. Nel sistema dei Gnostici, il Jehovah d'Israele, il Creatore di questo Mondo sublunare, fu uno spirito rivoltoso, o per lo meno ignorante. Il figlio di Dio è venuto sulla Terra per abolire il tempio e la legge di Jehovah, e per ottenere questo intento salutare si è bravamente prevalso delle speranze e delle predizioni d'un Messia temporale.
Uno de' più acuti Maestri della scuola manichea ha messo in campo il pericolo e l'indecenza d'una supposizione, per la quale il Dio de' Cristiani da principio sotto la forma d'un feto sarebbe uscito dell'utero d'una donna dopo nove mesi di gravidanza. Presi d'orrore i suoi avversari a questa temeraria proposizione furono indotti facilmente a negare tutte le circostanze carnali della concezione e del parto, ed a sostenere, che la Divinità penetrò nel seno di Maria, come raggio di Sole attraverso al cristallo, e che la verginità della Madre rimase intatta anche al momento in cui partorì Gesù Cristo. Ma l'ardimento di queste asserzioni promosse una sentenza più moderata: hanno insegnato alcuni Doceti, che Gesù Cristo non fosse già un fantasma, ma bensì vestisse un corpo impassibile ed incorruttibile. Tal è diffatto nel più ortodosso sistema quel corpo ch'egli possede dopo la Risurrezione, e tale è quello che debbe aver posseduto sempre per essere atto a penetrare senza ostacolo e senza offesa una materia intermedia. Dotato delle proprietà più essenziali della carne dovea quel corpo andar esente dagli attributi e dalle infermità di questa: un feto che da un punto invisibile passasse all'intera maturità, un bambino che giugnesse alla statura d'uom fatto senza trar nodrimento alcuno dalle sorgenti ordinarie, potrebbe continuare a vivere senza riparare col cibo giornaliero le perdite giornaliere; potea dunque Gesù partecipare alla mensa de' suoi Discepoli senza provar fame o sete, nè poi la virginale sua purità ricevette macchia giammai dai movimenti involontari della concupiscenza. Se si chiedeva in quai modi, e di qual materia avesse potuto essere primitivamente formato un corpo d'una costituzione tanto singolare, rispondevano i Gnostici ed altri Settari, che la forma e la sostanza provenivano dall'Essenza divina; risposta che fa stupore alla nostra teologia più ragionevole, e che non era già particolare di loro soli. L'idea dello spirito puro ed assoluto è un sottile concetto della moderna filosofia. Dall'Essenza spirituale, alle anime umane, agli Esseri celesti, e a Dio medesimo attribuita dagli antichi, non resta esclusa la nozione d'uno spazio esteso, e la fantasia loro s'appigliava all'idea d'una natura, simile all'aria, al fuoco, all'etere, sostanze incomparabilmente più perfette che i grossolani materiali del nostro Universo. Volendo determinare il sito occupato dalla Divinità, ci è forza fare una specie di descrizione della sua figura. Secondo la nostra esperienza, e forse la vanità nostra, sotto umana forma si rappresenta a noi la potenza della ragione e della virtù. Gli Antropomorfiti, che molti ve n'era tra i monaci dell'Egitto, e i Cattolici dell'Africa, citar potrebbero quella formal dichiarazione della Scrittura che insegna aver Dio fatto l'uomo ad immagine sua[18]. Il venerabile Serapione, un de' Santi de' deserti di Nitria rinunciò, piangendo, ad una credenza che gli era cara, e a guisa d'un fanciullo gemette per una conversione, che gli toglieva il suo Dio, e lasciava il suo spirito manchevole d'ogni oggetto visibile di fede, e di devozione[19].
III. Tai furono i vaghi e indecisi sistemi che composero l'eresia dei Doceti. Cerinto d'Asia[20], che osò combattere l'ultimo degli Apostoli, immaginò un'ipotesi più sostanziale, e più complicata. Situato ai confini del Mondo giudeo e del Mondo gentile pose ogni opera a riconciliare i Gnostici e gli Ebioniti; riconoscendo nel Messia la congiunzione soprannaturale dell'uomo e della Divinità; Carpocrate, Basilide, Valentino[21] e gli eretici della scuola egiziana accettarono questa dottrina mistica, alla quale molte particolarità aggiunsero di loro invenzione. Nella sentenza loro, non era Gesù di Nazaret che un semplice mortale, figlio legittimo di Giuseppe e di Maria; ma il migliore e il più saggio fra gli uomini, eletto come degno istrumento a ristabilir sulla Terra il culto del vero Iddio. All'atto del suo battesimo entro il Giordano, il Cristo, il primo degli Eoni, figlio di Dio pur esso, discese sopra Gesù in forma di colomba per empierne lo spirito, e dirigerne le azioni durante il periodo del suo ministero. Quando il Messia fu consegnato ai Giudei, il Cristo, Essere immortale e impassibile, abbandonò la sua dimora terrena, ritornò nel Pleroma ossia Mondo degli spiriti, e lasciò Gesù solo a soffrire, a lamentarsi e a morire. Ma si può contestare la giustizia e la generosità di questa diserzione; la sorte d'un innocente martire da prima esaltato, poscia abbandonato dallo spirito divino che l'accompagnava, dovè svegliar ne' profani la pietà e lo sdegno. Dai Settari, che abbracciarono e modificarono il doppio sistema di Cerinto, furono in vari modi acchetate le mormorazioni, eccitate da questi pensamenti. Si disse, che quando Gesù era stato attaccato alla Croce avea sentita in sè una miracolosa apatia di spirito, e di corpo mercè della quale non provava i dolori che in apparenza soffriva. Altri asserirono che dal regno temporale di mille anni, riservato al Messia nel suo regno della nuova Gerusalemme, sarebbe ampiamente compensato delle sue angosce reali, ma passaggiere. Finalmente lasciarono trapelare questo pensiero[22], che, se sofferse, avea meritato di soffrire; che l'umana natura non è mai al tutto perfetta; e che giovar poterono la Croce e la Passione ad espiare le colpe veniali del figlio di Giuseppe prima della sua misteriosa unione col figlio di Dio.
IV. Tutti coloro che tengono la nobile e seducente idea della spiritualità dell'anima deggiono colla guida dell'esperienza confessare l'incomprensibile unione dello spirito e del corpo. Agevol cosa è il concepire che il corpo può stare unito ad uno spirito che ha facoltà intellettuali assai maggiori, od anche possiede queste facoltà nel più alto grado possibile; e l'incarnazion d'un Eone, o d'un Arcangelo, il più perfetto degli spiriti creati, non è nè contraddittoria nè assurda. Nei tempi della libertà religiosa, alla quale pose limiti il Concilio di Nicea, ogni individuo misurava la Divinità di Cristo col regolo indefinito della Scrittura, della ragione, o della tradizione; ma quando s'ebbe fondata la sua Divinità sulle ruine dell'Arianismo, si vide la fede dei Cattolici in riva d'un precipizio, da cui non potea dilungarsi, ove era gran rischio il reggersi, e presso il quale un passo falso dovea sbigottire. Il sublime carattere della lor teologia aggravava ancora i diversi inconvenienti del loro Simbolo.[23] Esitavano a pronunciare, che Dio stesso, la seconda persona d'una Trinità, uguale e consustanziale, si fosse manifestato nella carne[24]: che un Ente, che riempie l'Universo fosse stato imprigionato nel grembo di Maria; che avessero i giorni, i mesi e gli anni dell'esistenza umana segnato l'epoche della sua eterna durata; che fosse stato l'Onnipossente battuto colle verghe e crocifisso; che la sua Essenza impassibile avesse provato il dolore e le angosce; che quest'Ente, che tutto sa, non fosse scevero da ignoranza; e che il principio della vita e dell'immortalità fosse mancato sul monte Calvario. Sì fatte conseguenze moleste non isbigottivano punto l'inalterabile semplicità di S. Apollinare[25] vescovo di Laodicea, e uno dei luminari della Chiesa. Figlio d'un dotto grammatico, era versato in tutte le scienze della Grecia; egli umilmente dedicò al servigio della religione l'eloquenza l'erudizione e la filosofia commessa alle sue opere. Degno amico di S. Atanasio, e degno avversario di Giuliano, lottò coraggiosamente contro gli Ariani e i Politeisti; e comunque affettasse il rigore delle dimostrazioni geometriche, espose ne' suoi commentari il senso letterale e l'allegorico delle Scritture. Le sue cure funeste ridussero ad una forma tecnica un Mistero ch'avea fluttuato lungo tempo nell'onda dell'opinion popolare, e pubblicò per la prima volta queste memorande parole. «Una sola Natura incarnata in Gesù Cristo»; parole che risuonano ancora come un grido di guerra nelle Chiese d'Asia d'Egitto e d'Etiopia. Insegnò che la Divinità s'era unita o mescolata col corpo d'un uomo, e che il Logos o l'eterna Sapienza avea in Gesù tenuto luogo e adempiuto le voci dell'animo umano; ma quasi fosse atterrito esso stesso dalla sua temerità fu inteso mormorar qualche parola di scusa e di spiegazione. Ammise la distinzione antica, che posta aveano i filosofi Greci tra l'anima ragionevole, e l'anima sensitiva dell'uomo; così riservava il Logos per le operazioni intellettuali, ed impiegava il principio umano, subordinato a quello, nelle funzioni meno rilevanti della vita animato. Coi più moderati dei Doceti riveriva Maria, come la madre spirituale, anzi che la madre carnale di Gesù Cristo, il Corpo del quale era venuto dal Cielo impassibile ed incorruttibile, ovveramente era stato assorto e trasformato nell'Essenza di Dio. Il sistema d'Apollinare fu vivamente combattuto dai Teologi d'Asia e di Siria, la cui scuola si gloria dei nomi di S. Basilio, di S. Gregorio e di S. Grisostomo, e arrossisce di quelli di Diodoro, di Teodoro e di Nestorio, ma non si punse la persona, la riputazione, o la dignità del Vescovo di Laodicea; forse i suoi rivali, di cui non lece sospettare che abbiano avuto il difetto della tolleranza, furono ammirati della novità de' suoi argomenti, e temevano la decisione che finalmente sarebbe per pronunciare la Chiesa cattolica. La quale si determinò poscia a favor loro; l'eresia d'Apollinare fu condannata, e le leggi imperiali proscrissero le varie congreghe de' suoi discepoli; ma continuarono i monasteri dell'Egitto a seguirne segretamente le massime, e i suoi nemici provarono l'odio di Teofilo e di S. Cirillo, che si succedettero l'uno all'altro nella sede patriarcale d'Alessandria.
V. La dottrina materiale degli Ebioniti, e i dommi fantastici dei Doceti erano proscritti e dimenticati; quando lo zelo, mostrato dai Cattolici, contro gli errori d'Apollinare, li forzò ad accostarsi in apparenza alla duplice natura di Cerinto. Ma invece di una alleanza momentanea, essi stabilirono, e noi crediamo ancora, l'unione sostanziale indissolubile ed immutabile d'un Dio perfetto con un uom perfetto, della persona seconda della Trinità con un'anima ragionevole ed un corpo umano. L'unità delle due Nature era sul principio del quinto secolo la dottrina dominante della Chiesa. Dalle due parti si confessava non potere le nostre menti, nelle lingue nostre, rappresentare, ed esprimere il modo di tale coesistenza; covava tuttavia una secreta animosità, ma implacabile, contro coloro che più temevano di confondere, e contro gli altri che più temevano di separare, la Divinità e l'Umanità di Gesù Cristo. Una religiosa frenesia da ambe le parti col sentimento dell'avversione ributtava l'errore a cui pendea la parte contraria, creduto il più funesto alla verità, non che alla salute. Uguale era l'inquietudine nelle due parti, uguale l'ardore a sostenere e a propugnare l'unione e la distinzione delle due Nature, e ad inventare formole e simboli di dottrina meno suscettivi di dubitazione o d'equivoco. Inceppati dalla povertà delle idee e del linguaggio, metteano a contribuzione arte e natura per trarne tutte le possibili comparazioni, e ciascuna di queste, usata a rappresentar un Mistero incomparabile, diveniva per la mente loro fonte di nuovo errore. Sotto il microscopio polemico, un atomo prende la statura d'un mostro, e le due Sette erano molto abili ad esagerare le assurde o empie conseguenze che dai principii degli avversari dedur si potevano. Per isfuggire gli uni agli altri, si gittavano in vie oscure e rimote sin a tanto che scoprirono con orrore i terribili fantasmi di Cerinto e d'Apollinare, che custodivano le opposte uscite del labirinto teologico. Non così tosto travedeano la luce ancor dubbia d'una spiegazione che li conduceva all'eresia, essi trepidavano e volgevano subito addietro il passo, precipitando nuovamente nelle tenebre d'un'impenetrabile ortodossia. Per discolparsi dal delitto o dall'accusa d'un orrore riprovevole, veniano spiegando le loro massime fondamentali, ne niegavano le conseguenze, si scusavano delle loro imprudenti proposizioni, e con grido unanime pronunciavano le parole di concordia e di fede. Ma sotto la cenere della controversia stava celata una scintilla quasi impercettibile, dalla quale i pregiudizi e la passione suscitarono in breve una fiamma divoratrice, e le dispute delle Sette d'Oriente, sulle espressioni[26], di cui si valevano ad esporre i lor domini, scossero le fondamenta della Chiesa e dello Stato.
A. D. 412
Sta famoso nella Storia della controversia il nome di Cirillo Alessandrino, e dal suo titolo di Santo si apprende, che col trionfo finirono le sue opinioni e la sua Setta. Educato nella casa dell'Arcivescovo Teofilo, suo zio, avea contratta in questo alunnato ortodosso l'abitudine dello zelo, e l'amore della dominazione, e passati utilmente cinque anni di gioventù nei monasteri della Nitria, vicini alla sua residenza. Sotto la tutela dell'abate Serapione, s'era dato agli studi ecclesiastici con tanto ardore, che lesse in una notte i quattro Evangeli, le Epistole cattoliche, e l'Epistola ai Romani. Detestava Origene, ma svolgeva continuamente gli scritti di S. Clemente, di S. Dionigi, di S. Atanasio, di S. Basilio. Nella teorica, e nella pratica della disputa, la sua fede si rassodava, e si assottigliava l'ingegno; e già cominciava a tessere intorno la sua cella la fina e fragile tela della teologia scolastica, apparecchiando quelle opere d'allegoria e di metafisica, gli avanzi delle quali raccolti in sette verbosi e prolissi tomi in foglio, posano in pace al fianco dei lor rivali[27]. S. Cirillo predicava e digiunava nel deserto; ma, giusta il rimprovero fattogli da un suo amico[28], i suoi pensieri stavano sempre fissi sul Mondo, e l'ambizioso eremita non fu che troppo sollecito ad obbedire alla voce di Teofilo, che lo chiamava alla vita fragorosa delle città, e dei Sinodi. Coll'assenso dello zio attese alla predicazione, e presto ottenne il favor popolare. La sua bella figura adornava il pulpito, la sua voce armoniosa rimbombava nella cattedrale. Stavano i suoi amici in un posto, da cui diriger potevano, e assecondare gli applausi della Congregazione[29], e vari scrivani raccoglievano rapidamente i suoi discorsi, i quali per l'effetto, non per la composizione, ponno paragonarsi a quelli degli Oratori d'Atene. Colla morte di Teofilo crebbero, e s'avverarono le speranze del nipote. Era diviso d'opinione il Clero di Alessandria: i soldati e il generale favoreggiavano l'Arcidiacono; ma dal clamore e dalla violenza della moltitudine fu nominato quegli che ella prediligeva, e S. Cirillo salì sulla sede occupata già trentanov'anni prima da S. Atanagio[30].
A. D. 413-415 ec.
Non era indegna della sua ambizione la ricompensa. Lungi dalla Corte, Capo dell'immensa Metropoli, il patriarca d'Alessandria, che così era nomato, aveva a poco a poco usurpata l'autorità ed il grado d'un magistrato civile. Era egli il dispensatore delle pubbliche e private elemosine della città. La sua voce suscitava, o calmava le passioni del popolo. Grannumero di fanatici Parabolani[31] addimesticati nelle loro giornaliere azioni agli spettacoli di morte, ciecamente obbedivano ai suoi comandi, e la potenza temporale di questi Pontefici cristiani mettea paura ed astio ai prefetti d'Egitto. Tutto ardore contro gli eretici, cominciò Cirillo il suo pontificato, opprimendo i Novaziani, che pur erano i più innocenti e pacifici fra tutti i Settari. Parvegli un atto giusto e meritorio l'interdirne il culto religioso, e non si avvisò d'incorrere la taccia di sacrilego, confiscandone i vasi sacri. Le leggi de' Cesari e dei Tolomei, ed una prescrizione di sette secoli dalla fondazione d'Alessandria in poi, assicuravano la libertà del culto, e i privilegi ancora dei Giudei, già moltiplicati fino al numero di quarantamila. Senza veruna sentenza legale, senz'alcun ordine dell'imperatore, il patriarca, fattosi condottiero d'una plebe sediziosa, venne, sul far del giorno, ad investire le sinagoghe. Inermi gli Ebrei, ed assaliti all'improvviso, non poterono fare resistenza: furono rasi i luoghi dove si congregavano ad orare, e il vescovo guerriero, dopo aver conceduto alle sue truppe il saccheggio degli averi, cacciò dalla città il resto di quella miscredente nazione. Forse egli allegò l'orgoglio che aveano della loro prosperità, e l'odio mortale che portavano ai Cristiani, dei quali aveano poco stante versato il sangue in una sommossa eccitata a caso o a bella posta. Simili delitti meritavano la correzione del Magistrato, ma in quest'aggressione furono confusi gl'innocenti coi rei, e perdette Alessandria una colonia ricca ed industriosa. Lo zelo di S. Cirillo lo condannava alle pene della legge Giulia; ma in un governo debole, in un secolo superstizioso, era egli sicuro dell'impunità, e poteva anche aspettarsi elogi. Si dolse Oreste, prefetto dell'Egitto; ma i ministri di Teodosio posero troppo presto in dimenticanza le sue giuste lagnanze, e non se ne risovvenne che troppo un sacerdote, che simulando con affettazione di perdonargli, non cessava d'odiarlo. Un giorno, mentre passava quegli per la strada, un drappello di cinquecento monaci della Nitria dieder l'assalto al suo carro; alla vista di quelle bestie feroci del deserto, le sue guardie si diedero alla fuga; ebbe egli un bel protestare d'essere Cristiano e Cattolico; gli fu fatta risposta con una grandine di sassi, che gli copersero di sangue la faccia. Corsero in aiuto alcuni buoni cittadini; quegli sacrificò subito alla giustizia e alla propria vendetta il monaco che l'avea ferito, e Ammonio (così nomavasi il monaco) spirò sotto le verghe dei littori. Fece S. Cirillo levare il corpo d'Ammonio e trasportarlo solennemente in processione alla cattedrale: fu cangiato il suo nome in quello di Taumasio ossia Mirabile. Se ne ornò la tomba coi simboli del martirio, e il patriarca ascese il pergamo per celebrare la magnanimità d'un sicario e d'un ribelle. Onori di tal fatta dovettero di leggieri infiammare i Cristiani a combattere ed a morire sotto le bandiere del Santo; e S. Cirillo[32] volle ben tosto, o accettò il sagrifizio d'una vergine che professava la religione dei Greci, e avea legami d'amicizia con Oreste. Ipazia, figlia del matematico Teone[33] era dotta nelle scienze coltivate dal padre; i suoi bei commentari hanno rischiarata la geometria d'Apollonio e di Diofante, ed ella pubblicamente in Atene ed in Alessandria insegnava la filosofia di Platone e d'Aristotele. Congiungendo a tutta la freschezza dell'avvenenza, la maturità della sapienza, era ritrosa alle preghiere degli amanti, e si contentava d'istruire i suoi discepoli. Era corteggiata continuamente dalle persone per grado e per merito le più illustri, e S. Cirillo scorgeva con occhio di gelosia il pomposo codazzo di schiavi e di cavalli che attorniava la porta dell'Accademia di quella giovine. Si divulgò tra i Cristiani la voce, che il solo ostacolo alla riconciliazione del Prefetto e dell'Arcivescovo fosse la figlia di Teone, e quest'ostacolo fu ben presto levato. In uno dei santi giorni di quaresima, Ipazia, tornando a casa, fu svelta a forza dal suo carro, spogliata degli abiti, trascinata alla chiesa, e trucidata da Pietro il Lettore, e da una turba di spietati fanatici; fu tagliuzzato il suo corpo colle scaglie di ostrica[34], e abbandonate alle fiamme le sue membra ancor palpitanti. Con denari sparsi a tempo fu impedita l'informazione giuridica incominciata su questo delitto; ma l'assassinio d'Ipazia ha posto una macchia indelebile al carattere ed alla religione di S. Cirillo Alessandrino[35][36].
A. D. 428
Più facilmente la superstizione perdonerà forse l'assassinio d'una giovanetta, che l'esilio d'un Santo. Avea S. Cirillo accompagnato il suo zio all'odioso Sinodo della Quercia. Quando fu rimessa in onore, e consacrata la memoria di S. Grisostomo, il nepote di Teofilo, che presedeva una fazion moribonda, s'ostinò ad asserire che giusta era stata la condanna di quel prelato; e solamente dopo lunga dilazione, e una pertinace resistenza, si sottomise in fine al decreto della Chiesa cattolica[37]. Non per passione, ma per interesse egli si mostrava il nemico dei Pontefici di Bizanzio[38]. Invidiava la fortuna che avevano di brillare fra il grande splendore della Corte imperiale; ne temeva l'ambizione potente ad opprimere i metropolitani dell'Europa e dell'Asia, a soperchiare le province d'Alessandria e d'Antiochia, ed a portare le loro diocesi ai confini dell'Impero. La costante moderazion d'Attico, il quale faceva uso assai mite della dignità usurpata a San Grisostomo, sospese l'animosità dei Patriarchi dell'Oriente. Ma San Cirillo fu desto alla per fine dalla esaltazion d'un rivale più degno della sua stima e dell'odio suo. Dopo il breve e procelloso pontificato di Sisinnio, l'elezione dell'Imperatore il qual in tal circostanza consultò l'opinion pubblica, e gli nominò per successore uno straniero, attutò le fazioni del clero e del popolo, e concedette il principe l'arcivescovado della sua capitale a Nestorio[39], nativo di Germanicia e monaco d'Antiochia, ragguardevole per l'austerità della vita, e l'eloquenza de' suoi sermoni; ma la prima volta che predicò al cospetto del pio Teodosio lasciò trapelare l'acrimonia e l'impazienza del suo zelo. «O Cesare, esclamò, dammi la Terra monda di Eretici, e io ti darò in cambio il regno del Cielo. Estermina con me gli Eretici, ed io con te esterminerò i persiani.» Nel quinto giorno del suo pontificato, quasi fosse stata sottoscritta anche dall'Imperatore questa convenzione, il Patriarca scoperse, sorprese ed assalì una segreta combricola d'Ariani, i quali vollero piuttosto morire che cedere. Le fiamme, ch'essi accesero per disperazione, passarono alle case vicine, e il trionfo di Nestorio fu disonorato dal soprannome d' Incendiario. Impose egli sulle due rive dell'Elesponto un rigoroso formolario di fede e di disciplina, e punì come una colpa contro la Chiesa e lo Stato uno sbaglio cronologico sulla festa di Pasqua. Purificò la Lidia e la Caria, Sardi e Mileto, col sangue degli ostinati Quarto-decimani, e l'editto dell'Imperatore, o più veramente del Patriarca, indica sotto ventitrè denominazioni diverse ventitrè gradi d'eresia tutti degni di punizione[40]. La spada della persecuzione maneggiata con tanta violenza da Nestorio si ritorse ben presto a suo danno; ma se si presta fede ad un Santo, allora vivente, fu l'ambizione il vero fomite delle guerre episcopali, e la religione solamente il pretesto[41].
A. D. 429-431
Imparato avea Nestorio nella scuola di Siria a detestare la mescolanza delle due Nature, e sapea separare bravamente l'umanità del Cristo, suo padrone, dalla divinità di Gesù, suo Signore[42]. Rispettava la Santa Vergine come la Madre del Cristo, ma erano ferite le sue orecchie dal recente e inconsiderato titolo di Madre di Dio[43], ammesso insensibilmente dopo l'origine della controversia di Ario. Un amico del patriarca, e poi il patriarca esso stesso, dall'alto della cattedra di Costantinopoli in più riprese predicarono contro l'uso e l'abuso d'una parola[44] ignota[45] agli Apostoli, non approvata[46] dalla Chiesa, atta a spaventare i fedeli timorati, a traviare i semplici, a divertire i profani, a giustificare, con una somiglianza apparente, la genealogia degli Dei dell'Olimpo[47]. Nelle sue ore di calma confessava Nestorio, che tollerarla si poteva e scusarla per l'union delle due Nature, e la communicazione delle proprietà loro[48]. Ma poi adontato dalla contraddizione, si condusse a rigettare il culto d'un Dio neonato; d'una Divinità infante, a ricavare dalle associazioni coniugali e civili dell'umana vita le similitudini imperfette, di cui si valeva per dichiarare le sue opinioni, ed a rappresentare l'Umanità del Cristo, come l'abito, lo strumento, ed il tempio della sua Divinità. Al primo suono di queste bestemmie si scossero le colonne del santuario. Quei pochi che avean veduto a terra le loro speranze per l'esaltazion di Nestorio, s'abbandonarono all'astio ispirato nel lor cuore dalla religione, o dall'invidia; il Clero di Bizanzio vedea di mal occhio uno straniero che lo dominava; tutto ciò che porta l'impronta della superstizione, o dell'assurdo ha diritto alla protezione dei Monaci, e il popolo era infervorato per la gloria della Santa Vergine, sua protettrice[49]. Da sediziosi schiamazzi furono interrotte le prediche dell'Arcivescovo, e gli offici divini; in congreghe particolari fu abiurata l'autorità e la dottrina di lui; in breve propagò il soffio delle fazioni da tutti i lati sino alla estremità dell'impero il contagio della controversia, e dall'arena fragorosa su cui s'agitavano i combattenti; rintronò la lor voce entro le celle della Palestina, e dell'Egitto. Era debito di San Cirillo l'illuminare lo zelo e l'ignoranza dei monaci innumerevoli alla sua episcopale autorità sottoposti: dalla scuola d'Alessandria gli era stato insegnata l'incarnazione d'una Natura, ed egli l'aveva ammessa; ma armandosi contro un secondo Ario, che più terribile e più reo del primo occupava il secondo trono della Gerarchia ecclesiastica, il successore di San Atanasio, non prese consiglio che dall'orgoglio, e dall'ambizione. Dopo un carteggio non lungo, in cui palliarono i Prelati rivali il loro rancore sotto il perfido linguaggio del rispetto e della carità, il Patriarca d'Alessandria denunziò al principe ed al popolo, all'Oriente e all'Occidente, i colpevoli errori del Prelato di Bizanzio. I vescovi d'Oriente, e particolarmente quello d'Antiochia, che favoreggiava la causa di Nestorio, consigliarono alle due Sette moderazione e silenzio; ma il Vaticano ricevè a braccia aperte i deputati dell'Egitto. Si compiacque Celestino d'esserne eletto giudice; e l'infedele versione d'un monaco fermò l'opinione del Papa, il quale, al pari del suo clero Latino, non conosceva nè la lingua, nè le arti, nè la teologia dei Greci. Presiedendo un Concilio di Vescovi italiani, esaminò Celestino gli argomenti di San Cirillo, ne approvò il Simbolo, e dannò la persona e le opinioni di Nestorio. Privò quest'Eretico della dignità episcopale, assegnogli dieci giorni per ritrattarsi e dimostrare pentimento, e di questo decreto[50] illegale e precipitato, commise l'esecuzione al suo avversario. Ma nel mentre che il patriarca d'Alessandria scagliava i fulmini celesti, lasciava travedere gli errori e le passioni d'un mortale; ed oggi ancora i suoi dodici anatemi[51] mettono a tortura la scrupolosa sommessione degli Ortodossi, i quali vogliono serbar venerazione alla memoria d'un Santo, senza mancare alla fedeltà dovuta ai decreti del Concilio di Calcedonia. Quelle ardite proposizioni mantengono una tinta indelebile dell'eresia degli Apollinaristi, mentre le dichiarazioni serie e per avventura sincere di Nestorio hanno satisfatto a quei teologi del tempo nostro, che sono per sapere e per imparzialità i più segnalati[52].
A. D. 431
Nè all'Imperatore, nè al primate dell'Oriente talentava di sottomettersi al decreto d'un Prete dell'Italia, e da ogni parte si chiedeva un Concilio della Chiesa cattolica, o piuttosto della Chiesa greca, come l'unico espediente ad acchetare od a finire questa disputa ecclesiastica[53]. Efeso, a cui agevolmente si giugnea per mare e per terra, fu scelta per luogo dell'Assemblea, la quale fu aggiornata per le feste della Pentecoste. Furono spedite a tutti i Metropolitani lettere di convocazione, e si collocò intorno alla sala dell'adunanza una guardia, che dovea proteggere e tener sequestrati i Padri del Sinodo, fin a tanto che determinati avessero i Misteri del Cielo, e la credenza degli uomini. Vi comparve Nestorio non come delinquente, ma come giudice; il quale affidavasi sulla riputazione più che sul numero de' suoi Prelati; i suoi gagliardi schiavi dei bagni di Zeusippo stavano armati e presti a difenderlo, o ad assalirne i nemici. Ma dal lato di S. Cirillo, suo avversario, stava la prevalenza dell'armi temporali e spirituali. Disubbediente questi alla lettera, o almeno al senso dell'ordine imperiale, s'aveva tirato dietro il seguito di cinquanta Vescovi egiziani, i quali da un cenno del lor Patriarca attendeano il soffio dello Spirito Santo. Avea contratta stretta alleanza con Mennone vescovo d'Efeso, primate delle chiese d'Asia da lui con assoluto potere governate, il quale disponeva a suo senno dei voti di trenta o quaranta vescovi: una truppa di paesani, schiavi della Chiesa, era stata distribuita per la città a sostenere colle grida e colle violenze gli argomenti metafisici del lor Signore; ed il popolo difendeva zelantemente l'onor della Vergine Maria, il corpo della quale riposava nelle mura d'Efeso[54]. Andava carico delle ricchezze dell'Egitto il navile che condotto avea S. Cirillo; e sbarcò una gran ciurma di marinai, di schiavi e di fanatici, arruolati sotto le bandiere di S. Marco e della Madre di Dio, parati e presti alla più cieca obbedienza. Questa turba guerriera sbigottì i Padri, ed anche le guardie del Concilio. Gli avversari di S. Cirillo e di Maria furono insultati nelle strade, o minacciati in casa. Ogni giorno l'eloquenza e la liberalità del Prelato egiziano crescevangli il numero degli aderenti; e potè egli ben presto vedersi arbitro di duecento vescovi, pronti a seguirlo, e a sostenerlo[55]. Ma l'autore dei dodici anatemi ben presagiva e temeva l'opposizion di Giovanni d'Antiochia, che con un corteggio poco numeroso, ma ragguardevole, di Metropolitani e di Teologi, arrivava a picciole giornate dalla capitale dell'Oriente. S. Cirillo, che s'adirava d'una dilazione da lui creduta volontaria e colpevole[56], aggiornò l'apertura del Concilio al sedicesimo giorno dopo la Pentecoste. Sperando Nestorio nell'arrivo prossimo de' suoi amici dall'Oriente, persistette, come S. Grisostomo suo predecessore, a declinare dalla giurisdizione de' suoi nemici, e a ricusare obbedienza alle loro intimazioni: questi accelerarono la sentenza, e presedette al tribunale il suo accusatore. Sessant'otto vescovi, ventidue de' quali avean grado di metropolitani, lo difesero con una protesta decente e moderata; ma furono esclusi dalle deliberazioni. Candidiano domandò da parte dell'Imperatore una dilazione di quattro giorni, e questo magistrato profano fu insultato ed espulso dall'assemblea de' Santi.
Sì grande affare venne intieramente compiuto nello spazio d'un giorno estivo: scrissero i Vescovi separatamente la loro opinione; ma dall'uniformità dello stile, s'argomenta la dettatura, o la mano di un Capo accusato d'avere falsificati gli Atti e le sottoscrizioni[57]. Dichiararono con voto unanime che le epistole di San Cirillo conteneano i dommi del Concilio di Nicea, e la dottrina de' Padri; la lettura dell'estratto infedele, che s'era fatto delle Lettere e delle Omelie di Nestorio, fu interrotta da imprecazioni e da anatemi. Fu questi deposto dal grado di Vescovo, e privato delle sue dignità ecclesiastiche. Il decreto, in cui era malignamente qualificato per un nuovo Giuda, fu pubblicato ed affisso in tutti gli angoli della città d'Efeso. Quando gli stanchi Prelati uscirono della Chiesa della Madre di Dio, furono salutati come suoi difensori, e per tutta la notte ne fu tumultuariamente con illuminazioni e con canti celebrata la vittoria.
Ma nel quinto giorno, fu sconcertato questo trionfo dall'arrivo e dalla indignazione dei Vescovi d'Oriente. In una stanza dell'osteria, ov'era smontato Giovanni d'Antiochia, e prima d'avere, per così dire, scossa da' calzari la polvere, diede egli udienza a Candidiano, ministro dell'Imperatore, il quale gli raccontò, come invano s'era adoperato a prevenire od impedire le violenze precipitose di San Cirillo. Con ugual precipitazione e violenza un Sinodo di Oriente[58] spogliò San Cirillo e Mennone della dignità di Vescovi; dichiarò che i dodici anatemi racchiudevano il più sottile veleno dell'eresia degli Apollinaristi, e dipinse il Primate d'Alessandria come un mostro nato e nudrito a distruzion della Chiesa[59]. Remota ed inaccessibile era la sua sede, ma fu deciso di compartire immediatamente al popolo di Efeso il beneficio d'essere governato da un pastore fedele. Per ordine di Mennone furono serrate le Chiese, e posta grossa guernigione nella cattedrale. Le soldatesche andarono all'assalto, guidate da Candidiano; le guardie prime furono sbaragliate e passate a fil di spada; ma i posti erano insuperabili, e gli assedianti si ritirarono; allora inseguiti dai soldati che stavano nella cattedrale, perdettero i cavalli, e molti furono gravemente feriti a colpi di mazze, e a sassate. Schiamazzi forsennati, atti furibondi, la sedizione e il sangue macchiarono la città della Santa Vergine. I Sinodi rivali si scagliarono a vicenda anatemi e scomuniche; e le relazioni contraddittorie delle fazioni di Siria e d'Egitto imbrogliarono il Consiglio di Teodosio. Il quale, volendo calmare questa lite teologica, per tre mesi pose tutto in opera, eccetto il rimedio più efficace, quello cioè dell'indifferenza, e del disprezzo. S'avvisò d'allontanare o intimorire i Capi con una sentenza che avrebbe del pari soddisfatto o condannato gli uni e gli altri; diede la plenipotenza a' suoi rappresentanti in Efeso, e li munì di forze militari, bastevoli a sostenerli; chiamò otto deputati delle due parti per conferire legalmente, e con libertà, nei contorni della capitale, lungi dalla popolar frenesia, ch'è sempre contagiosa. Ma ricusavano gli Orientali d'obbedire a quest'ordine, e i Cattolici, insuperbiti pel numero loro, e pel favor dei Latini, ributtarono ogni sorta d'unione o di tolleranza. Posta al cimento la pazienza del mite Teodosio, s'indusse egli a pronunciare irritato la dissoluzione di quel Sinodo tumultuoso, che nella distanza di tredici secoli ora a noi si presenta col nome rispettabile di terzo Concilio ecumenico[60]. «Iddio m'è testimonio, disse quel religioso principe, che di questo disordine io non ho colpa in veruna maniera. La Provvidenza scernerà e punirà i colpevoli; tornate alle vostre province; possano le vostre virtù private riparare i mali e gli scandali della vostra adunanza». Se ne tornarono difatto i Vescovi allo loro diocesi; ma le passioni che aveano sconvolto il Concilio d'Efeso si disseminarono pur tutto l'Oriente. Giovanni d'Antiochia, e San Cirillo d'Alessandria, dopo tre campagne, in cui si batterono con ostinazione, e con pari successo, vollero in fine spiegarsi e far pace; ma si debbe attribuire la loro riconciliazione apparente alla prudenza piuttosto che alla ragione, alla stanchezza di entrambi piuttosto che alla carità cristiana.
A. D. 431-435
Il Pontefice di Bizanzio avea già informato l'Imperatore sinistramente del carattere e del contegno del Prelato egiziano, suo rivale; coll'ordine di ritornarsene ad Efeso, ricevè S. Cirillo una lettera piena zeppa di minacce e d'invettive[61], nella quale era trattato da prete imbroglione, insolente, invidioso, le cui opinioni agitavano la Chiesa e lo Stato, e che con un procedere artificioso verso la sorella e la moglie dell'Imperatore, alle quali s'era diretto separatamente, palesava la temeraria intenzione di suscitare, o di trovare nella famiglia imperiale i semi della disunione e della discordia. Adempiendo Cirillo a quel comando imperioso, s'era trasferito ad Efeso; i Magistrati partigiani di Nestorio e dei Vescovi di Oriente si opposero ai suoi anatemi, e minacciarono e lo chiusero in carcere. Poscia radunarono le soldatesche della Lidia e della Ionia per tener a freno il seguito fanatico e turbolento di quel patriarca. Senz'attender la risposta dell'Imperatore alle sue doglianze, fuggì Cirillo dalle mani delle guardie, s'imbarcò in gran fretta, abbandonò il Sinodo che non era ancora chiuso, e riparò in Alessandria, asilo tutelare della sua independenza e sicurezza. Ai suoi scaltri emissari, sparsi nella Corte e nella capitale, venne fatto di calmare lo sdegno dell'Imperatore, e di rimettere in grazia Cirillo. Il debole figlio d'Arcadio era alternativamente dominato dalla moglie, dalla sorella, dagli eunuchi, dalle donne del palazzo; superstizione e avarizia erano le loro passioni favorite; ed ai Capi ortodossi stava a cuore d'intimorire l'una, e di contentare l'altra. Costantinopoli ed i sobborghi erano santificati da numerosi monasteri, e i Santi Abati Dalmazio ed Eutiche[62] con intrepido zelo s'erano consacrati alla causa di Cirillo, al culto della Vergine, ed all'unità di Cristo. Dopo aver abbracciata la vita monastica, non erano più comparsi nel Mondo, nè sul suolo profano della capitale. Ma nel terribile momento del pericolo della Chiesa, un dover più sublime e più indispensabile fece loro dimenticare il voto: escirono del convento, corsero al palazzo, precedendo una lunga fila di Monaci e d'eremiti, che tenevano in mano fiaccole ardenti, e cantavano le litanie della Madre di Dio. Da questo straordinario spettacolo fu edificato e riscaldato il popolo di modo che il monarca atterrito prestò orecchio alle preci e alle suppliche di quei santi personaggi, i quali ad alta voce gridarono; non esservi speranza di salute per coloro, che non aderissero alla persona, ed al Simbolo del successore ortodosso di S. Atanasio. Nel tempo medesimo si profuse l'oro per tutte le vie che conduceano al trono. Sotto i nomi decorosi di eulogie e benedizioni, furon regalati i cortigiani de' due sessi, secondo la misura del potere o della capacità di ciascheduno. Le nuove domande che faceano ogni giorno avrebbero in poco tempo spogliati i santuari delle Chiese di Costantinopoli e d'Alessandria; nè potè l'autorità del Patriarca imporre silenzio alle mormorazioni del suo Clero, sdegnato pel debito che s'era già contratto di sessantamila lire sterline per supplire alle spese di sì scandalosa subornazione[63]. Pulcheria, che alleviava al fratello la somma del governo, era la più salda colonna della Fede ortodossa; ed i fulmini del Sinodo venivano secondati sì fattamente dai secreti maneggi, che S. Cirillo fu sicuro di riuscire a bene, se potea rimovere l'Eunuco favorito, e sostituirgli un altro. Non potè per altro vantarsi d'un trionfo glorioso e decisivo. Palesava l'Imperatore in quell'occasione una fermezza straordinaria; avea promesso di protegger l'innocenza dei Vescovi d'Oriente e mantenea la parola; fu ridotto Cirillo a temperare i suoi anatemi, e prima di godere la compiacenza di soddisfar la vendetta contro l'infelice Nestorio, fu giuocoforza che confessasse in una maniera equivoca, e a suo malgrado la doppia Natura di Gesù Cristo[64].
A. D. 435
L'imprudente e ostinato Nestorio, prima che finisse il Sinodo fu oppresso da S. Cirillo, tradito dalla Corte, e malamente difeso da suoi amici dell'Oriente. Fosse paura o rabbia, s'indusse, fin ch'era tempo, a farsi merito d'un'abdicazione che parer potea volontaria[65]: prontamente si assecondarono i suoi desiderii, o per lo meno la sua domanda; fu guidato in una maniera decorosa da Efeso al monastero di Antiochia, da cui l'avea tratto l'Imperatore, e poco dopo furono riconosciuti i suoi successori, Massimiano e Proculo, per legittimi Vescovi di Costantinopoli. Ma non potè il deposto Patriarca ritrovare nella sua placida cella l'innocenza e la quiete d'un monaco semplice. Pensava al passato, si dolea del presente, e dovea poi temer l'avvenire. A poco a poco i Vescovi d'Oriente abbandonavano la causa d'un uomo dalla pubblica opinion condannato, ed ogni giorno scemava il numero degli scismatici, che come confessor della Fede avevano riverito Nestorio. Stava egli da quattro anni in Antiochia, quando l'Imperatore segnò un editto[66], che lo paragonava a Simone il Mago, che proscriveva le sue opinioni ed i suoi settari, condannava alle fiamme i suoi scritti; quanto a lui fu da prima confinato a Petra in Arabia, poscia all'Oasi, una dell'isole del deserto della Libia[67]. Colà segregato dalla Chiesa e dal Mondo ebbe ancora a soffrire le persecuzioni del fanatismo, e i furori della guerra. Da una tribù errante di Blemii o di Nubiani fu invasa la sua solitudine; e Nestorio rimase nel numero dei prigionieri inutili, cui lasciarono poscia in libertà, ritirandosi. Ma trovandosi sulle sponde del Nilo, e presso una città romana ed ortodossa, desiderò senz'altro di essere piuttosto rimaso schiavo dei Selvaggi. Come nuovo delitto fu punita la sua fuga; lo spirito di Cirillo animava tutte le autorità civili ed ecclesiastiche dell'Egitto; magistrati, soldati, monaci tormentarono il nemico di Cristo e di S. Cirillo; e l'eretico ora fu trascinato sui confini dell'Etiopia ora richiamato da quel nuovo esilio, sino a tanto che, sfinito già dalla vecchiezza, non potè più resistere alle fatiche, e agli accidenti di tanti viaggi. Nondimeno il suo spirito si serbava tuttavia fermo e independente: le sue lettere pastorali intimorirono il presidente della Tebaide; sopravvisse al Tiranno cattolico d'Alessandria; e già il Concilio di Calcedonia, sentendo pietà d'un esilio di sedici anni, stava per rimetterlo negli onori, o nella comunione almeno della Chiesa. Era chiamato colà, e con gioia s'apparecchiava ad obbedire, quando il prevenne la morte[68]. Dalla qualità della sua malattia nacque l'odiosa ciancia, che la sua lingua, organo delle sue bestemmie, fosse mangiata dai vermi. Fu sepolto in una città dell'Alto Egitto, conosciuta sotto il nome di Chemnis, o Panopoli, o Akmim[69]; ma non cessò l'accanimento dei Giacobiti dall'insidiarne per più generazioni il sepolcro, e dal pubblicare scioccamente che la pioggia del Cielo, che cade tanto sui fedeli come sugli empi[70], non bagnava mai il luogo della sua sepoltura. Può l'umanità donare una lagrima alla sorte di Nestorio; ma per esser giusti bisogna osservare, che se fu vittima della persecuzione, ciò non avvenne, che dopo averla esso stesso autenticata colla sua approvazione e coll'esempio[71].
A. D. 448
La morte del primate d'Alessandria, dopo un pontificato di trentadue anni, lasciò i Cattolici in balìa d'uno zelo intemperante, che abusò della vittoria[72]. La dottrina monofisita, cioè una sola Natura incarnata, fu rigorosamente predicata nelle chiese dell'Egitto, e ne' monasteri dell'Oriente. Dalla santità di S. Cirillo prendea vigore il Simbolo primitivo d'Apollinare; ed Eutiche, suo illustre amico, ha dato il nome alla Setta la più contraria all'eresia di Nestorio. Eutiche era abate, o archimandrita, cioè superiore di trecento monaci; ma le opinioni d'un Solitario, poco versato nelle lettere, non avrebbero mai varcato i confini della colletta, ove avea dormicchiato più di settant'anni, se il risentimento o l'imprudenza di Flaviano, Pontefice bizantino, non le avesse esposte al Mondo cristiano. Questi radunò immediatamente un Sinodo domestico; i clamori e gli artificii disonorarono quanto si fece, e vi fu condannato l'Eretico, già debole per la vecchiezza, a cui carpirono per sorpresa una dichiarazione, colla quale parea che confessasse, non avere il Cristo tolto il suo corpo dalla sostanza della Vergine Maria. S'appellò Eutiche del decreto ad un Concilio generale, e fu gagliardamente propugnata la sua causa da Crisafio, l'eunuco dominante del Palazzo, il quale era stato da lui tenuto al Sagro Fonte, e da Dioscoro suo complice, succeduto nella sede, nel Simbolo, nei talenti, nei vizi al nipote di Teofilo. Teodosio volle a buon dritto, e specialmente ordinò, che il secondo Sinodo d'Efeso fosse formato da dieci Metropolitani, e da dieci Vescovi di ciascheduna delle sei diocesi dell'Oriente; alcune eccezioni, date al favore o al merito, portarono a cento trentacinque il numero de' Padri del Concilio, ed il Siro Barsuma, come Capo e rappresentante de' monaci, fu invitato a sedere e a votare coi successori degli Apostoli. Ma dalla prepotenza del Patriarca d'Alessandria venne di bel nuovo violata la libertà delle discussioni; di nuovo gli arsenali dell'Egitto somministrarono armi materiali e spirituali. Una masnada d'arcieri veterani dell'Asia serviva agli ordini di Dioscoro, e i monaci, più terribili ancora, sordi alla ragione ed alla pietà, assediavano le porte della cattedrale. Il Generale, e i Padri, che dovean esser liberi nelle opinioni, sottoscrissero il Simbolo ed anche gli anatemi di San Cirillo, e l'eresia delle due Nature fu condannata in modo formale nella persona e negli scritti dei più dotti uomini dell'Oriente. «Possano quelli che dividon Gesù Cristo essere divisi dalla spada; sieno messi in pezzi ed arsi vivi!» Tal fu il voto caritatevole d'un Concilio cristiano[73]. Si riconobbe senza esitazione l'innocenza e la santità di Eutiche; ma i Prelati, e più d'ogni altro quei della Tracia e dell'Asia non volean deporre il lor Patriarca pel motivo, che avrebbe usato od anche abusato della sua giurisdizione legittima. Abbracciarono le ginocchia di Dioscoro, nel momento che si stava con aspetto, minaccioso sui gradini della sua cattedra, e lo scongiurarono di perdonare al suo fratello, e di rispettarne la dignità. «Volete voi suscitar una sedizione?» rispose l'inesorabil prelato; «dove son gli ufficiali?» A queste parole una turba furiosa di monaci e di soldati forniti di bastoni, di spade e di catene, piombò nella chiesa: i Vescovi spaventati si nascosero dietro l'altare, o sotto i banchi, e non avendo troppa brama di martirio segnarono tutti ad uno ad uno una carta bianca, dove poi fu scritta la condanna del pontefice di Bizanzio. Nel punto stesso fu Flaviano dato in preda alle bestie feroci di quella arena ecclesiastica.[74] Dalla voce e dall'esempio di Barsuma furono attizzati i monaci a vendicar l'ingiuria di Gesù Cristo. Si dice, che il Patriarca di Alessandria, oltraggiò, schiaffeggiò, e si pose sotto i piedi il suo confratello, il Vescovo di Costantinopoli[75]. È cosa certa che prima di giugnere al luogo del suo esilio, la vittima spirò nel terzo giorno per le ferite e pei colpi in Efeso ricevuti. Questo secondo Sinodo d'Efeso è stato a ragione detestato come adunanza d'una geldra di ladri e d'assassini. Eppure han dovuto gli accusatori di Dioscoro esagerare la sua violenza per iscusare la viltà, o l'incostanza del loro procedere.
A. D. 451
La Fede dell'Egitto avea vinta la prova; ma la parte soccombente era assistita da quel Papa medesimo, che senza timore aveva affrontato la collera, e l'armi d'Attila e di Genserico. Il Sinodo d'Efeso non avea posto mente alla dottrina insegnata da Leone nel suo famoso tomo, o epistola intorno al Mistero dell'Incarnazione; la sua autorità e quella della Chiesa latina erano state insultate nella persona dei suoi Legati, che, scampati a stento dalla schiavitù e dalla morte, vennero a raccontare la tirannia di Dioscoro e il martirio di Flaviano. Convocato il suo Sinodo provinciale, il Papa annullò gli Atti irregolari di quello d'Efeso; ma questo passo essendo pure irregolare domandò egli la convocazione d'un Concilio generale nelle province libere ed ortodosse dell'Italia. Dall'alto del suo trono, omai independente dalla Corte di Costantinopoli, parlava ed operava il Pontefice di Roma senza pericolo, come Capo dei cristiani. Placidia e suo figlio Valentiniano non erano che i docili strumenti de' suoi voleri: chiesero al principe che governava l'Oriente di ristabilire la pace e l'unità della Chiesa; ma il fantoccio che dava legge a quella parte dell'impero era menato con pari scaltrezza dall'Eunuco che allora dominava; rispose Teodosio, senza esitazione, che la Chiesa era già pacifica e trionfante, e che le giuste pene inflitte ai Nestoriani aveano spento l'incendio, di cui si temevano i guasti. Erano forse i Greci in preda per sempre all'eresia dei Monofisiti, se il cavallo dell'Imperatore non avesse per avventura incespato. Morì Teodosio; Pulcheria, sua sorella, zelante della Fede ortodossa, succedette al trono con uno sposo che tale non era se non di nome. Grisafio fu arso vivo; Dioscoro cadde in disgrazia; furono richiamati gli esuli, e i Vescovi d'Oriente segnarono il tomo di Leone. Al Papa tutta volta rincrebbe, che fosse ita a vuoto la sua intenzion favorita di ragunare un Concilio di Vescovi latini. Non degnò presedere al Sinodo greco frettolosamente raccolto in Nicea di Bitinia; con un tuono perentorio pretesero i suoi Legati che presente assistesse l'Imperatore, e i Padri, già stanchi, furono tratti a Calcedonia, sotto gli occhi di Marciano e del senato di Costantinopoli. Si adunarono nella Chiesa di Sant'Eufemia, situata a un quarto di miglio dal Bosforo di Tracia in vetta ad una collina d'un dolce pendìo, ma elevata; vantavasi come un prodigio dell'arte la sua architettura a tre piani, e l'immensa veduta di cui godeva dalla parte di terra, come del mare, era atta ad esaltare alla contemplazione del Dio dell'Universo l'anima d'un Settario. Seicentotrenta Vescovi si posero ordinatamente nella navata; i Patriarchi d'Oriente cedettero la mano ai Legati, il terzo dei quali non era per altro che un semplice prete; e le sedi primarie furono riservate a venti laici che avean la dignità di senatori o di consoli. Fu esposto con pompa l'Evangelo in mezzo all'assemblea; ma i ministri del Papa, non che quelli dell'Imperatore, che padroneggiarono le tredici sessioni del Concilio di Calcedonia, statuirono la regola di fede[76]. La lor determinazione, ben combinata a favore d'una delle parti fu almeno da tanto che impose silenzio a schiamazzi e ad imprecazioni sconvenevoli alla gravità episcopale; ma, in forza d'un'accusa formale de' Legati, fu astretto Dioscoro a discendere dal suo posto, e a far la figura d'un reo già condannato nella opinione dei suoi giudici. Gli Orientali, meno avversi a Nestorio che a San Cirillo, accolsero i Romani come liberatori: la Tracia, il Ponto e l'Asia fremevano contro l'uccisor di Flaviano, e i nuovi Patriarchi di Costantinopoli e d'Antiochia si assicurarono la propria sede sacrificando il lor benefattore. Alla dottrina di San Cirillo aderivano i Vescovi della Palestina, della Macedonia e della Grecia; ma in mezzo alle assemblee del Sinodo, nel bollore della disputa passarono i Capi col lor seguito obbediente dall'ala destra alla sinistra, e colla loro diffalta decisero la vittoria. Di diciassette suffraganei venuti d'Alessandria, quattro s'indussero a mancar di fede al lor patriarca; e gli altri tredici prostratisi colla faccia a terra, implorarono la clemenza del Concilio coi singhiozzi e coi pianti, dichiarando in tuono patetico, che se cedevano, il popolo infuriato li truciderebbe quando fossero tornati in Egitto. Si acconsentì ad accettare il tardo pentimento dei complici di Dioscoro, come una riparazione degli errori o del delitto loro, e sopra la sua testa furono accumulati tutti i torti: non chiese egli perdono, che non ne sperava, e la moderazione di coloro che sollecitavano una generale amnistia, dalle grida di vittoria e di vendetta fu soffocata. Per salvare la reputazione di coloro, che abbracciata aveano la causa di Dioscoro si rivelarono bravamente molte offese, di cui esso solo era colpevole, la scomunica temeraria e illegale, ch'egli avea lanciata al papa, e il suo criminoso rifiuto di comparire davanti al Sinodo, quando era tenuto prigione. Parecchi testimoni vennero raccontando molti fatti che provavano il suo orgoglio, l'avarizia e la crudeltà sua; ed appresero con orrore i Prelati, che le elemosine della chiesa erano state profuse alle ballerine, che le prostitute d'Alessandria entravano nel suo palagio, ed anche ne' suoi bagni, e che l'infame Pansofia o Irene era pubblicamente concubina del patriarca[77][78].
Per questi delitti scandalosi Dioscoro fu deposto dal Concilio, e sbandito dall'Imperatore; ma fu dichiarata pura la sua fede al cospetto dei Padri, e colla tacita loro approvazione. Supposero, piuttosto che pronunciare, l'eresia d'Eutiche, il quale non fu mai citato al loro tribunale, e stettero confusi e silenziosi, quando un ardito Monofisita, gettato ai lor piedi un volume di San Cirillo, osò eccitarli a lanciar contro di quello un anatema, che necessariamente involgerebbe la dottrina del Santo. Leggendo imparzialmente gli Atti del Concilio di Calcedonia, quali dalla parte ortodossa son riferiti[79], si riscontrerà, che da una maggioranza considerabile di Vescovi fu approvata la semplice unità di Cristo; e potea l'equivoca confessione, esser lui stato formato, o procedere da due Nature, supporne l'esistenza anteriore, o in susseguente mischianza, o veramente un intervallo pericoloso ad ammettersi fra l'istante in cui era stato concepito l'uomo, e l'altro in cui gli era stata infusa la Natura divina[80]. I Teologi di Roma più esatti e precisi statuirono la formola che feriva di più le orecchie dogli Egiziani; dichiararono che il Cristo esisteva in due Nature, e questa importante particola[81], che più facilmente si stampa nella memoria che nell'intelletto, ebbe quasi a produrre fra i Vescovi latini uno scisma. Essi aveano sottoscritto rispettosamente, e forse sinceramente il tomo di Leone; ma in due deliberazioni successive spiegarono, non essere nè spediente, nè legittima cosa trapassare i santi limiti assegnati dai Concilii di Nicea, di Costantinopoli e d'Efeso conformemente alla Scrittura ed alla tradizione. Cessero finalmente alle importunità dei loro padroni; ma il lor decreto infallibile, dopo essere stato in guisa solenne ratificato, e con grandi acclamazioni accolto, fu distratto nella session seguente per l'opposizion dei Legati e degli Orientali lor partigiani. Invano gran numero di Vescovi esclamò: «La decision de' Padri è ortodossa e inalterabile; ora gli eretici sono smascherati; anatema ai Nestoriani! fuori dalle assemblee del Concilio! vadano a Roma!»[82] I Legati minacciarono; l'Imperatore parlava con tuono assoluto, ed una commissione di diciotto vescovi preparò un nuovo decreto, che i Padri sottoscrissero a lor dispetto. In nome del quarto Concilio generale si annunziò al Mondo cattolico, il Cristo in una persona, ma in due Nature. Si tirò una linea impercettibile fra l'eresia di Apollinare e la dottrina di San Cirillo; e col tagliente d'un rasoio ben affilato, la sottigliezza teologica formò un ponte, che, sospeso sopra un abisso, diveniva l'unica strada al paradiso. Per dieci secoli d'ignoranza e di servitù, ha ricevuto l'Europa le sue opinioni religiose dall'oracolo del Vaticano; e questa dottrina, già coperta della ruggine dell'antichità, è stata senza contrasto ammessa nel Simbolo dei riformatori del sedicesimo secolo, che hanno abiurato la primazia del Pontefice romano. Il Concilio di Calcedonia trionfa sempre nelle chiese protestanti; ma non fermenta più il lievito della controversia; e i Cristiani più religiosi dei nostri giorni non sanno[83] quel che si credono intorno al Mistero dell'Incarnazione, e poco si curano di saperlo.
A. D. 451-482
Si palesarono in modo ben differente le disposizioni dei Greci e degli Egiziani sotto il regno ortodosso di Leone e di Marciano. Questi devoti Imperatori, colla forza dell'armi e degli editti, sostennero il Simbolo della lor Fede[84]; e cinquecento Vescovi dichiararono sulla lor coscienza e sull'onor loro, ch'era permesso di difendere anche cogli omicidii i decreti del Concilio calcedonese. Videro i Cattolici con piacere, che lo stesso Concilio era odioso ai Nestoriani, ed ai Monofisiti[85]; ma i Nestoriani erano meno irritati, o men potenti; e fu lacerato l'Oriente dal pertinace e sanguinario fanatismo dei Monofisiti. Gerusalemme fu assalita da un esercito di Monaci che la posero a sacco; arsero, trucidarono in nome d'una Natura incarnata; fu bagnato di sangue il sepolcro di Gesù Cristo, e pochi ribelli tumultuariamente raccolti, chiusero le porte della città all'esercito imperiale. Dopo la condanna e l'esilio di Dioscoro, dolenti gli Egiziani della perdita del lor Padre spirituale, videro con ribrezzo l'usurpazione del suo successore costituito dai Padri del Concilio di Calcedonia. Costui, di nome Proterio, non potè sostenersi che col soccorso d'una guardia di duemila soldati; fece guerra cinque anni al popolo d'Alessandria; e il primo sentore della morte di Marciano divenne pei fanatici Egiziani il segnale della vendetta. Tre giorni prima della festa di Pasqua, il Patriarca fu assediato nella sua cattedrale, e ucciso nel battistero. Fu dato alle fiamme l'avanzo del suo cadavere e se ne gettarono al vento le ceneri; questo assassinio fu inspirato dall'apparizione d'un preteso Angelo, furberia inventata da un monaco ambizioso, che, sotto il nome di Timoteo, il Gatto[86], succedette alla dignità e alle opinioni di Dioscoro. Colle rappresaglie delle due parti s'inciprignirono gli animi in questa crudel superstizione; una disputa metafisica costò la vita a migliaia di uomini[87]; e i Cristiani d'ogni classe furono privati dei godimenti della vita sociale, e dei doni invisibili del Battesimo, e della santa Comunione. Ci resta di quel tempo una novella stravagante, che contiene forse una pittura allegorica dei fanatici, che si tormentavano e straziavano a vicenda. «Sotto il consolato di Venanzio e di Celere, dice un Vescovo autorevole, gli abitatori d'Alessandria, e di tutto l'Egitto furono presi da una strana e diabolica frenesia; i grandi e i piccioli, gli schiavi e gli uomini liberi, i Monaci ed il Clero, quanti in somma si opponevano al Concilio di Calcedonia perdettero l'uso della parola, e della ragione; abbaiavano come cani, e si laceravano le mani e le braccia coi denti»[88].
A. D. 482
Trenta anni di disordini originarono alla fine il celebre Henoticon[89] dell'Imperatore Zenone, formolario che, sotto il regno di costui e di Anastasio, fu segnato da tutti i Vescovi dell'Oriente, minacciati della degradazione e dell'esilio, se rigettavano o se violavano questa legge fondamentale. Può il Clero sorridere o gemere della presunzione d'un laico che osa determinare Articoli di Fede; ma se il magistrato secolare non isdegna d'abbassarsi a questa cura umiliante per un sovrano, il suo spirito per altro è meno traviato dal pregiudizio, o dalle mire d'interesse; e quell'autorità ch'egli esercitò in ordine a questo, non ha il suo appoggio che nel consenso del popolo. Nella storia ecclesiastica appunto comparisce Zenone meno spregevole, nè so scorgere veleno d'eresia manichea, o eutichiana nelle generose parole d'Anastasio, il quale considerava per cosa indegna d'un Imperatore il perseguitare gli adoratori del Cristo, e i cittadini di Roma. Ottenne l'Ennotico l'approvazione specialmente degli Egiziani; non di meno l'inquieto ed anche pregiudicato sguardo dei nostri teologi ortodossi non vi scorse la più picciola macchia; quivi in una maniera esattissima viene esposta la dottrina cattolica intorno l'Incarnazione, senz'ammettere, o senza rifiutare i termini particolari, o le opinioni delle Sette avversarie. V'è pronunciato un anatema solenne contro Nestorio ed Eutiche, contro tutti gli eretici, che dividono, o confondono il Cristo, o il riducono a un vano fantasma. Senza determinare se la parola Natura debba usarsi in singolare o in plurale, vi è rispettosamente confermato il sistema di S. Cirillo, la dottrina dei Concilii di Nicea, di Costantinopoli e d'Efeso; ma in vece di inginocchiarsi davanti i decreti del quarto Concilio generale, si sfugge la quistione, riprovando tutte le dottrine contrarie, se ve ne ha d'insegnate sia in Calcedonia, sia altrove. Questa frase equivoca poteva con tacito accordo conciliare gli amici e i nemici del Sinodo di Calcedonia. Dai Cristiani i più ragionevoli si approvò questo espediente di tolleranza, ma debole ed incostante ne era l'intelletto, e lo zelo veemente delle Sette diverse in questa sommessione non vide che una servile timidità. Era ben difficile il rimanersi al tutto neutrali in un argomento che riscaldava i pensieri e i discorsi degli uomini: un libro, una predica, un'orazione riaccendevano il fuoco della controversia, e le particolari animosità dei Vescovi rompevano e rannodavano alternativamente i legami della comunione. Mille picciole varietà di vocaboli e d'opinioni empievano lo spazio che divideva Nestorio ed Eutiche: gli Acefali[90] d'Egitto, e i Pontefici di Roma forniti d'ugual valore, ma di forza ineguale, stavano alle due estremità della scala teologica. Gli Acefali senza re, e senza vescovi furono separati per più di trecent'anni dai Patriarchi d'Alessandria che aveano aderito alla comunion di Costantinopoli, senza esigere una condanna formale dal Concilio calcedonese. I Papi scomunicarono i Patriarchi di Costantinopoli per aver accettata la comunione Alessandrina, senza approvare formalmente lo stesso Concilio: l'inflessibile loro despotismo, inviluppò in quel contagio spirituale le Chiese greche più ortodosse; negò, o contestò la validità dei lor Sacramenti[91]; per trentacinque anni fomentò lo scisma dell'Oriente e dell'Occidente sino all'epoca, in cui condannarono questi la memoria di quattro prelati di Bizanzio, che osato aveano di opporsi alla primazia di S. Pietro[92]. Prima di quel tempo era stata dallo zelo dei Prelati rivali violata la mal ferma tregua di Costantinopoli e dell'Egitto. Macedonie, sospetto già d'una segreta adesione all'eresia di Nestorio, difese nella sua disgrazia, e nell'esilio, il Sinodo di Calcedonia, mentre il successore di S. Cirillo avrebbe desiderato di poterne comperare la condanna al prezzo di duemila libre d'oro.
A. D. 508-518
In mezzo all'effervescenza di quel secolo bastava il senso, anzi il suono d'una sillaba a turbar la quiete dell'imperio. S'opposero i Greci, che il Trisagion[93] (tre volte santo) santo, santo, santo, il Dio Signor degli eserciti fosse identicamente quell'Inno che da tutta l'eternità ripetono gli Angeli e i Cherubini davanti il trono di Dio, e che in maniera miracolosa fu rivelato alla Chiesa di Costantinopoli verso la metà del quinto secolo. La divozione degli abitanti di Antiochia poco dopo vi aggiunse: «che fu crocifisso per noi»; questo indirizzo al solo Cristo, e alle tre Persone della Trinità può giustificarsi secondo le regole della Teologia, e fu insensibilmente adottato dai Cattolici dell'Oriente e dell'Occidente. Ma era stato immaginato da un Vescovo monofisita[94]. Questo regalo d'un nemico fu da prima, come orribile e pericolosa bestemmia, ributtato, e poco mancò, che all'Imperatore Anastasio ne costasse la corona e la vita[95]. Non avea il popolo di Costantinopoli alcuna ragionevole idea di libertà, ma il color d'una livrea nelle corse, e una picciola discordanza per un Mistero nelle scuole parevagli un motivo legittimo di ribellione. Il Trisagion, con l'aggiunta o senza l'aggiunta da noi accennata, fu nella cattedrale cantato da due Cori nemici, e dopo avere sfinita tutta la forza del polmone, dieder mano ai sassi e ai randelli, argomenti più sodi: l'Imperatore punì gli aggressori; il Patriarca li difese, e questa gran lite portò un crollo alla corona e alla mitra. In un momento le strade furono piene d'una moltitudine innumerevole d'uomini, di donne, di fanciulli. Legioni di monaci schierati in ordine di battaglia li dirigevano al combattimento gridando: «Cristiani, questo è giorno di martirio; non si abbandoni il nostro Padre spirituale; anatema al Tiranno manicheo! non è degno di regnare». Tali erano le grida dei Cattolici[96]. Le galere d'Anastasio stavano sui remi davanti il palazzo, pronto ad accorrere: finalmente il Patriarca diede il perdono al suo penitente, e sedò i flutti d'una plebe irritata. Ma del suo trionfo non gioì lungamente Macedonio, poichè pochi giorni dopo fu cacciato in esilio; ben presto però si riaccese lo zelo della sua greggia sulla medesima quistione: «Se una persona della Trinità sia spirata in croce». Per questo rilevante affare fu sospesa la discordia in Costantinopoli tra le fazioni degli Azzurri e dei Verdi, le quali, unite insieme le loro forze, rendettero impotenti quelle della civile e militare autorità. Le chiavi della capitale, e gli stendardi delle guardie furon depositate nel Foro di Costantino, che era il posto ed il campo principale dei Fedeli. Questi spendeano i giorni e le notti a cantar Inni in onore del loro Dio, o a saccheggiare e ad ammazzare i servi del loro Principe. Fu portata per le strade in punta ad un'asta la testa d'un monaco, amato da Anastasio, e, secondo il linguaggio dei fanatici, l'amico del nimico della Santa Trinità; e le torce ardenti scagliate contro le case degli eretici, portarono indistintamente l'incendio sugli edifici dei più ortodossi. Furon messe in pezzi le statue dell'Imperatore; Anastasio corse a celarsi in un sobborgo, sino a tanto che finalmente dopo tre giorni prese coraggio ad implorare la clemenza dei sudditi. Comparve egli sul trono del Circo senza diadema, e in figura di supplicante. I Cattolici recitarono alla sua presenza il Trisagion primitivo ed originale; ed accolsero con grida di trionfo la proposta che per la voce d'un Araldo fece ai medesimi d'abdicare la porpora: si arresero nondimeno alla osservazione con cui furono avvertiti, che non potendo tutti regnare, doveano prima di quella abdicazione accordarsi per la scelta d'un sovrano; ed intanto accettarono il sangue di due ministri abborriti dal popolo, che dal lor padrone vennero senza esitanza condannati ai leoni. Queste furiose, ma momentanee sedizioni prendean vigore dalle vittorie di Vitaliano, che con un esercito di Unni e di Bulgari, per la maggior parte idolatri, si fece campione della Fede cattolica: conseguenze di questa pia ribellione furono lo spopolamento della Tracia, l'assedio di Costantinopoli, e la strage di sessantacinquemila Cristiani. Continuò Vitaliano le devastazioni sino al tempo in cui ottenne, che fossero richiamati i Vescovi, ratificato il Concilio di Calcedonia, e data al Papa quella soddisfazione che domandava. In punto di morte Anastasio sottoscrisse suo malgrado questo Trattato ortodosso, e lo zio di Giustiniano ne adempiè fedelmente le condizioni. Tale fu l'esito della prima guerra religiosa[97] intrapresa sotto il nome del Dio di Pace dai suoi discepoli[98].
A. D. 514-565
Abbiamo già mostrato Giustiniano come principe, conquistatore, e legislatore: ci rimane di delinearne il ritratto come teologo[99]; e ciò che anticipatamente ne dà un'idea sfavorevole, il suo ardore per le materie teologiche, forma uno de' tratti più marcati del suo carattere. Al pari de' suoi sudditi, nutriva in cuore una gran venerazione pe' Santi viventi, e morti. Il suo Codice, e particolarmente le sue Novelle, confermano ed estendono i privilegi del clero, ed ogni volta che nasceva un dibattimento tra un monaco o un laico, propendeva a decidere che dal lato della Chiesa stava mai sempre la giustizia, la verità, l'innocenza. Nelle sue divozioni pubbliche e private assiduo ed esemplare, uguagliava nelle orazioni, nelle vigilie, ne' digiuni le austerità monastiche: ne' sogni della sua fantasia credeva o sperava d'essere inspirato: si tenea sicuro della protezione della Santa Vergine, e di San Michele Arcangelo, e attribuì all'aiuto de' SS. Martiri Cosimo e Damiano la sua guarigione da una malattia pericolosa. Empiè di monumenti della sua religione la capitale e le province[100]; e quantunque al suo gusto per le arti, ed alla sua ostentazione riferire si possa la maggior parte di que' sontuosi edificii, probabilmente il suo zelo era animato da un sentimento naturale d'amore e di gratitudine verso i suoi invisibili benefattori. Fra i titoli delle sue dignità, quello che più gli piaceva era il soprannome di Pio. La cura degl'interessi temporali e spirituali della Chiesa fu la più seria occupazione della sua vita, e spesso sagrificò i doveri di padre del popolo a quelli di difensore della Fede. Le controversie del suo tempo erano analoghe al suo naturale, e al suo animo, e ben doveano i professori di teologia ridersi in lor secreto d'un principe che faceva l'ufficio loro, e trascurava il suo. «Che potete voi temere da un tiranno che è schiavo della sua divozione? diceva a' suoi colleghi un ardito cospiratore; egli passa le intere notti disarmato nel suo gabinetto a discutere con vecchioni venerandi, e a confrontare le pagine de' volumi ecclesiastici[101].» Egli espose il frutto delle sue vigilie in molte conferenze, ove fece gran figura ugualmente per forza di pulmoni, per sottigliezza d'argomenti, e in molti sermoni ancora che, sotto il nome d'editti e d'epistole, annunciavano all'impero la dottrina teologica del Padrone. Nel mentre che i Barbari invadevano le province, o le legioni vittoriose marciavano sotto le insegne di Belisario e di Narsete, il successore di Traiano, ignoto a' suoi eserciti, era contento di trionfare presedendo ad un Sinodo. Se avesse invitato a quelle adunanze un uom ragionevole e disinteressato, avrebbe potuto imparare «che le controversie religiose derivano dall'arroganza e dalla stoltezza; che la vera pietà meglio si manifesta col silenzio e colla sommessione: che l'uomo che non conosce la natura propria, non debbe essere ardito di scandagliare la natura del suo Dio, e che a noi basta il sapere che la bontà, e la possanza sono le attribuzioni della Divinità[102] ».
La tolleranza non era la virtù del suo secolo, nè frequente virtù de' Principi è l'indulgenza verso i ribelli; ma quando si digrada un sovrano ad avere le basse mire e le passioni irascibili d'un teologo polemico, agevolmente è solleticato a supplire coll'autorità alla mancanza de' suoi argomenti, e a punire senza pietà il perverso accecamento di coloro che chiudono gli occhi alla luce delle sue dimostrazioni. Nel regno di Giustiniano veggiamo una scena uniforme, benchè variata, di persecuzione, e per questa pare che abbia superati i suoi indolenti predecessori, sia nella invenzione delle leggi penali, sia nella severità della esecuzione. Egli non assegnò che tre mesi per la conversione o per l'esilio di tutti gli eretici[103], e se costantemente dissimulò l'infrazione di questa legge, erano però sotto il suo giogo di ferro privati non solo di tutti i vantaggi sociali, ma di tutti i diritti di nascita che poteano pretendere come uomini e come cristiani. Dopo quattro secoli, i Montanisti della Frigia[104] respiravano tuttavia quel salvatico entusiasmo di perfezione, e quel foco profetico, ond'erano stati infiammati da' loro Apostoli, maschi o femmine[105], particolari strumenti dello Spirito Santo. Essi all'avvicinarsi de' sacerdoti, e de' soldati cattolici coglievan con trasporto la corona del martirio; perivano nelle fiamme il Conciliabolo, e li congregati; ma l'anima dei primi fanatici viveva ancora la stessa trecent'anni dopo la morte del lor tiranno. A Costantinopoli non aveva la chiesa degli Ariani protetta dai Goti, temuto il rigor delle leggi: in ricchezza e in magnificenza non cedevano i loro preti al senato, e poteano benissimo l'oro e l'argento che loro tolse Giustiniano essere rivendicati come i trofei delle province, e le prede dei Barbari. Un picciol numero di Pagani, tuttavia nascosti tanto nelle classi più costumate, quanto nelle più rozze della società erano odiati dai Cristiani, ai quali forse non piaceva, che veruno straniero fosse testimonio delle lor liti intestine. Fu nominato Inquisitor della fede un Vescovo, il quale non tardò a svelare alla Corte, ed alla città magistrati, giureconsulti, medici, sofisti, sempre adetti alla superstizione dei Greci. Venne loro intimato positivamente di eleggere, senza indugio, o di spiacere a Giove od a Giustiniano, poichè non sarebbe più permesso ai medesimi di celare l'avversione che avevano per l'Evangelo sotto la scandalosa maschera dell'indifferenza, o della pietà. Il patrizio Fozio fu probabilmente il solo, che si mostrasse fermo di vivere e di morire come i suoi antenati; con un colpo di pugnale si tolse alla servitù, e lasciò al Tiranno il miserabile piacere di esporre ignominiosamente agli sguardi del Pubblico il cadavere di colui, che avea saputo fuggirgli di mano. Gli altri suoi fratelli, meno coraggiosi, si sottomisero al Monarca temporale. Ricevettero il Battesimo, e s'ingegnarono con uno zelo straordinario di cancellare il sospetto, o d'espiare il delitto della loro idolatria. Nella patria d'Omero, e nel teatro della guerra troiana covavano le ultime faville della greca mitologia: per opera del Vescovo stesso, o sia Inquisitore, di cui ragionammo testè, si trovarono, e furono convertiti settantamila Pagani nell'Asia, nella Frigia, nella Lidia, e nella Caria. Si fabbricarono novantasei chiese per li Neofiti; e la pia munificenza di Giustiniano somministrò i lini, le Bibbie, le liturgie, e i vasi d'oro e d'argento[106]. Gli Ebrei, a poco a poco spogliati delle loro immunità, furono obbligati da una legge tirannica a celebrare la Pasqua nel giorno medesimo dei Cristiani[107]. Ebbero motivo di lagnarsene con più ragione, poichè i Cattolici stessi non andavan d'accordo sui calcoli astronomici del sovrano. Erano avvezzi gli abitanti di Costantinopoli a cominciare la quaresima una settimana dopo l'epoca determinata dall'Imperatore, e quindi avevano il piacere di digiunar sette giorni, nei quali per ordine dell'Imperatore eran pieni di carne i mercati. I Samaritani della Palestina[108] formavano una razza bastarda, una Setta equivoca; i Pagani li trattavano da Giudei, i Giudei da Scismatici, e i Cristiani da Idolatri. La croce che da quelli si risguardava come una abbominazione stava già piantata sopra la santa montagna di Garizim[109]; ma per la persecuzione di Giustiniano, non rimase loro che l'alternativa tra il Battesimo, o la ribellione; elessero l'ultimo partito: comparvero in armi sotto le bandiere d'un Capo disperato, e col sangue d'un popolo senza difesa, co' suoi beni, co' suoi templi pagarono i mali che avevano dovuto soffrire. Finalmente furono soggiogati dalle milizie dell'Oriente: se ne contarono di trucidati ventimila, altri ventimila furon venduti dagli Arabi agl'Infedeli della Persia e dell'India, e gli avanzi di questa sciagurata nazione meschiarono col peccato dell'ipocrisia il delitto della ribellione. Si è fatto il conto, che la guerra dei Samaritani costò la vita a centomila sudditi dell'impero[110], e coperse di ceneri una provincia ubertosa che fu cangiata in un orrido deserto. Ma nel Simbolo di Giustiniano si potea senza taccia scannare i miscredenti, ed egli piamente adoperò il ferro ed il fuoco per rassodare l'unità della Fede cristiana[111].
A. D. 532-698
Con tai sentimenti era almeno mestieri aver sempre ragione. Ne' primi anni del suo regno segnalò il suo zelo, come discepolo e protettore della Fede ortodossa. Nel riconciliarsi dei Greci e dei Latini il tomo di San Leone divenne il Simbolo dell'Imperatore e dell'Impero; i Nestoriani e gli Eutichiani erano dalle due parti investiti dalla spada a due tagli della persecuzione, e i quattro Concilii di Nicea, di Costantinopoli, d'Efeso e di Calcedonia furono ratificati dal codice d'un legislatore cattolico[112]; ma nel mentre che Giustiniano non lasciava cosa intentata per mantener l'uniformità della Fede e del Culto, sua moglie Teodora, i cui vizi non si consideravano incompatibili colla divozione, aveva dato orecchia alle prediche monofisite; quindi sotto la protezione dell'Imperatrice ripreser coraggio, e si moltiplicarono i pubblici o secreti nemici della Chiesa. Un dissidio spirituale metteva a soqquadro la capitale, il palazzo, ed il talamo; ma tanto era dubbia la sincerità di Giustiniano e di Teodora, che assai persone accagionavano dell'apparente loro dissensione una clandestina lega malefica contro la religione e la felicità del popolo[113]. La famosa disputa dei tre Capitoli[114] che ha empiuto più volumi, quando bastavano poche linee, dimostra assai questo spirito d'astuzia e di mala fede. Volgevano tre secoli da che il corpo di Origene[115] era pasto dei vermi, l'anima sua, della quale egli aveva insegnato la preesistenza, era in mano del suo creatore; ma i monaci della Palestina avidamente ne leggevano i libri. L'occhio acuto di Giustiniano vi scorse dentro più di dieci errori di metafisica, e perì il dottore della prima Chiesa in compagnia di Pittagora e di Platone, e fu dannato dal Clero all'eterno fuoco infernale, poichè aveva osato negare l'esistenza dell'inferno. Sotto questa condanna stava celato un perfido assalto contro il Concilio di Calcedonia. Aveano i Padri udito senza inquietarsi l'elogio di Teodoro di Mopsuesta;[116] e la lor giustizia o indulgenza aveva restituito alla comunion de' Fedeli Teodoreto di Cirra e Ibasso di Edessa; ma questi Vescovi d'Oriente erano tacciati d'eresia; maestro fu il primo di Nestorio, amici di quell'eretico gli altri due; i passi i più sospetti de' loro scritti furono denunciati sotto il titolo dei tre Capitoli; e con questa macchia impressa sulla loro memoria era per necessità messo a repentaglio l'onor d'un Concilio che dal Mondo cattolico era nominato con venerazione, almeno in apparenza. Nondimeno, se questi Vescovi o innocenti, o colpevoli erano sepolti nella notte eterna, non poteano svegliarli i clamori che si faceano sulla lor tomba un secolo dopo la lor morte; se in un'altra supposizione stavano già in balìa del demonio, non potea più l'uomo nè aggravarne, nè mitigarne i tormenti; e finalmente, se godevano in compagnia dei Santi e degli Angeli la ricompensa dovuta alla lor pietà, dovean ridere del vano furore degli insetti teologici, che strisciavano ancora sulla faccia della terra. L'Imperator de' Romani, ch'era di quegli insetti il più arrabbiato, vibrava il suo pungiglione, e scagliava il veleno senza avvedersi probabilmente dei veri moventi di Teodora e degli ecclesiastici che l'assecondavano. Non eran più soggette le vittime al suo potere, e i suoi editti con tutta la lor veemenza non valevano che a pubblicarne la dannazione, e ad invitare il clero dell'Oriente ad unirsi con lui per caricarli d'imprecazioni e di anatemi. Stettero esitanti i Prelati orientali nel congiungersi per questo oggetto col loro sovrano; fu tenuto a Costantinopoli il quinto Concilio generale, ove intervennero tre Patriarchi, e cento sessantacinque Vescovi, e gli autori, come pure i difensori dei tre Capitoli, furono separati dalla comunione de' Santi, e consegnati solennemente al principe dello tenebre. Le Chiese latine aveano più zelo per l'onor di Leone e del Concilio di Calcedonia; e se, come erano solite, avessero combattuto sotto lo stendardo di Roma, avrebbero forse fatto sì che trionfasse la causa della ragione e della umanità; ma il loro Capo era prigioniero, e in mano del nemico; il trono di San Pietro deturpato dalla simonìa fu tradito dalla viltà di Vigilio, il quale dopo una lunga e strana lotta, si sottomise al despotismo di Giustiniano e ai sofismi dei Greci. Per la sua apostasia s'adontarono i Latini tutti, nè vi furono che due Vescovi, che volessero conferire gli Ordini sacri a Pelagio, suo diacono e successore. Pure la perseveranza del Papi trasferì a poco a poca nei loro avversari il titolo di scismatici: la potenza civile del pari che l'ecclesiastica sostenute dalla forza militare, venivano opprimendo, benchè con fatica, le Chiese dell'Illiria, dell'Affrica, e dell'Italia:[117] i Barbari, lontani dalla sede dell'impero, si attenevano alla dottrina del Vaticano; e in men d'un secolo lo scisma dei tre Capitoli morì in un cantone oscuro della provincia veneta[118]; ma pel mal'umore degli Italiani irritati da quella disputa religiosa s'erano agevolate le conquiste dei Lombardi, e già gli stessi Romani erano avvezzi a sospettare della Fede, come a detestar l'amministrazione del tiranno regnante in Bizanzio.
Non seppe Giustiniano star fermo nè consentaneo a sè nelle risoluzioni difficili che volle usare per determinare l'incertezza delle sue opinioni e di quelle dei sudditi: era malmenato in gioventù quando non s'allontanava poco nè punto dalla linea ortodossa; in vecchiezza trascorse egli stesso al di là della linea d'una moderata eresia, ed i Giacobiti, come i Cattolici furono scandalezzati; udendolo dichiarare che il corpo di Cristo era incorruttibile, e che la sua umanità non avea mai provato alcun bisogno, o infermità della nostra vita mortale. Questa fantastica opinione sta registrata ne' suoi ultimi editti: alla sua morte, che succedette veramente a tempo; aveva il Clero ricusato di sottoscriverla, e già il principe s'apparecchiava a cominciare una persecuzione; e il popolo era apparecchiato a soffrirla o farle resistenza. Un Vescovo di Treveri, che si vedeva sicuro per la sua situazione dai colpi del monarca dell'Oriente, gli diresse alcune osservazioni collo stile dell'affetto e dell'autorità. «Graziosissimo Giustiniano, gli disse, sovvengati del tuo Battesimo, e del Simbolo della tua Fede, e non disonorare i tuoi crini bianchi con una eresia. Richiama dall'esiglio i Padri e rimovi i tuoi aderenti dalla via di perdizione. Tu non puoi ignorare, che già l'Italia e la Gallia, la Spagna e l'Affrica piangono la tua caduta, e vomitano anatemi sul tuo nome. Se non ritratti immantinente quello ch'hai insegnato, se non dichiari ad alta voce: sono caduto in errore, ho peccato; anatema a Nestorio, anatema ad Eutiche: tu ti condanni a quelle fiamme, che ti consumeranno in eterno[119] ». Egli morì senza dar segno di ritrattazione. Colla sua morte ritornò in qualche modo la pace alla Chiesa; e, cosa rara e felice, i suoi quattro successori, Giustino, Tiberio, Maurizio e Foca non figurano punto nella storia ecclesiastica dell'Oriente[120].
A. D. 629
Le facoltà del senso e del raziocinio son poco capaci di operare sopra se medesime; l'occhio nostro è il più inaccessibile di tutti gli oggetti per la nostra vista, e nulla sfugge tanto al nostro pensiero, quanto le operazioni dell'animo nostro; tuttavolta pensiamo, ed anche sentiamo, che ad un ente ragionevole e consapevole della sua esistenza, compete essenzialmente una volontà, vale a dire un sol principio d'azione. Quando Eraclio tornò dalla guerra di Persia, quest'eroe ortodosso dimandò ai Vescovi se il Cristo ch'egli adorava in una sola persona, ma in due Nature, fosse mosso da una sola, o da una doppia volontà. Essi risposero, che una sola volontà animava il Cristo, e l'Imperatore sperò che questa dottrina, scevera certamente d'inconvenienti, e che sembrava la vera, poichè veniva insegnata dagli stessi Nestoriani[121], richiamerebbe dall'errore i Giacobiti dell'Egitto e della Siria. Ne fu fatta la prova, ma inutilmente; e fosse zelo, fosse timore, non si credettero lecito i Cattolici di dar indietro neppure in apparenza davanti un nemico astuto ed audace. Allora gli Ortodossi ch'erano dominanti, nuove formole inventarono, nuovi argomenti, e nuove interpretazioni: supposero in ciascheduna delle due Nature di Cristo un'energia propria e distinta: la differenza divenne impercettibile, quando confessarono essere invariabilmente la stessa tanto la volontà umana che la divina[122]. Si palesò la malattia coi sintomi ordinari; ma i Sacerdoti greci, quasi fossero già sazi dell'interminabil controversia sopra l'Incarnazione, diedero al principe ed al popolo eccellenti consigli. Si dichiararono Monoteliti (difensori d'una sola volontà); ma risguardarono per nuovo il vocabolo, e per superflua la quistione, e raccomandarono un religioso silenzio, siccome la cosa più conforme alla prudenza ed alla carità evangelica. In processo di tempo questa legge di silenzio venne statuita dall'Ectesi, o esposizione di Eraclio, e dal tipo o formolario della fede di Costanzo, suo nipote[123]; e i quattro Patriarchi di Roma, di Costantinopoli, d'Alessandria, e d'Antiochia sottoscrissero quegli editti del principe, gli uni con piacere, gli altri a malincuore. Ma il Vescovo, e i Monaci di Gerusalemme gridarono all'armi: le Chiese latine scorsero un errore celato nelle parole, o ben anche nel silenzio dei Greci, e dall'ignoranza più temeraria dei successori di Papa Onorio fu ritrattata, o censurata l'obbedienza da lui prestata agli ordini del suo sovrano. Condannarono l'esecrabile ed abbominevole eresia dei Monoteliti, che rinovavano gli errori di Manete, di Apollinare, d'Eutiche etc. Sopra la tomba di S. Pietro segnarono il decreto di scomunica; l'inchiostro fu mescolato al vino del sacramento, cioè, al Sangue di Cristo; nè fu dimenticata veruna cerimonia, che giovasse ad empiere d'orrore o di terrore gli spiriti superstiziosi. Come rappresentanti della Chiesa d'Occidente, papa Martino e il Concilio di Laterano scomunicarono il colpevole e perfido silenzio dei Greci: centocinque Vescovi d'Italia, quasi tutti sudditi di Costanzo, non temettero di rigettare il suo tipo odioso, l'empia Ectesi del suo avo, e di confondere gli autori, e i loro aderenti con ventuno eretici conosciuti disertori della Chiesa, e stromenti del demonio. Sotto un principe anche dei più sommessi alla Chiesa, non sarebbe rimasa impunita cotanta ingiuria. Papa Martino terminò la vita sulla costa deserta del Chersoneso Taurico, e l'Abate Massimo, ch'era il suo oracolo, fu crudelmente punito coll'amputazion della lingua, e della mano destra[124]. Ma trasmisero la propria ostinazione ai successori: il trionfo dei Latini li vendicò della sconfitta che avevano sofferta, e cancellò l'obbrobrio dei tre Capitoli. Furono raffermati i Sinodi di Roma dal sesto Concilio generale tenuto a Costantinopoli nel palazzo, e sotto gli occhi d'un nuovo Costantino discendente d'Eraclio. La conversion del principe si trasse dietro quella del Pontefice di Bizanzio e del maggior numero dei Vescovi[125]; i dissidenti, dei quali era Capo Macario d'Antiochia furon condannati alle pene spirituali e temporali, sancite contro l'eresia; s'acconciò l'Oriente a ricevere lezione dall'Occidente, e fu in termini definitivi regolato il Simbolo della Fede, che insegna ai Cattolici di tutti i tempi, che la persona di Gesù Cristo univa in sè due volontà, o due energie, le quali operavano di accordo fra loro. Due Sacerdoti, un Diacono, e tre Vescovi rappresentarono la maestà del Papa, e del Sinodo romano; ma questi oscuri teologi dell'Italia non aveano nè soldati per sostenere le loro opinioni, nè tesori per comperare partigiani, nè eloquenza per attirare proseliti; e non so per qual'arte indurre potessero il superbo Imperatore dei Greci ad abiurare il cattechismo della sua infanzia ed a perseguitare la religione degli avi suoi. Forse, che i Monaci e il popolo di Costantinopoli[126] favoreggiavano la dottrina del Concilio di Laterano, che in fatti è delle due la men ragionevole;[127] questo sospetto viene avvalorato dalla considerazione che non era di naturale troppo moderato il Clero greco, il quale parve sentire in questa lite la sua debolezza. Mentre il Sinodo stava discutendo la questione, un fanatico propose per più breve espediente quello di risuscitare un morto; assistettero all'esperienza i Prelati, ma l'unanimità con cui si decise che il miracolo era mancato potè divenire una prova, che le passioni e i pregiudizi della moltitudine non sosteneano la parte dei Monoteliti. Nella generazion successiva, quando il figlio di Costantino fu deposto, e messo a morte dal discepolo di Macario, gustarono il piacere della vendetta e della dominazione: il simulacro, o il monumento dal sesto Concilio ecumenico fu tolto di mezzo, e gli Atti originali di quel tribunale ecclesiastico furon dati alle fiamme. Ma nel secondo anno di regno fu balzato dal trono il loro protettore; i Vescovi dell'Oriente furono liberati dalla legge di conformità, cui erano stati momentaneamente sottomessi; fu rimessa la fede della Chiesa romana sopra basi più salde dai successori ortodossi di Bardane; e la disputa più popolare, e più sensibile sul culto delle Immagini mandò in dimenticanza i bei problemi sull'Incarnazione[128].
Avanti la fine del settimo secolo, il domma dell'Incarnazione fu predicato sino nell'isola della Brettagna, e dell'Irlanda[129] tal quale era stato determinato in Roma e in Costantinopoli. Tutti i Cristiani, che avevano accettato per la liturgia la lingua greca o latina ammisero le istesse idee, o piuttosto ripeterono le parole medesime. Il numero loro e la fama che avevano a quei giorni davano ad essi una specie di diritto al soprannome di Cattolici; ma nell'Oriente erano distinti col nome meno onorevole di Melchisti o Realisti[130], cioè d'uomini la Fede dei quali invece di posare sulla base della Scrittura, della ragione, o della tradizione, era stata fondata, ed era tuttavia mantenuta dal poter arbitrario d'un monarca temporale. Poteano i loro avversari citar le parole de' Padri del Concilio di Costantinopoli, i quali si dichiararono schiavi del Re, e poteano raccontare con maligna compiacenza, come l'Imperatore Marciano e la sua casta sposa avevano sovente dettato i decreti del Concilio di Calcedonia. Una fazion dominante ricorda continuamente il dovere della sommissione, ed è poi naturale del pari che i dissidenti sentano, e vogliano le massime della libertà. Sotto la verga della persecuzione i Nestoriani ed i Monofisiti divennero ribelli e fuggiaschi, e gli alleati di Roma, i più antichi e più utili, impararono a considerar l'Imperatore non come il Capo, ma come il nemico dei Cristiani. La lingua, quel gran principio d'unione e di separazione tra le varie tribù del genere umano, ben presto distinse definitivamente i Settari dell'Oriente con un segno particolare, che annichilò ogni commercio ed ogni speranza di riconciliazione. Il lungo dominio dei Greci, le colonie, e più di tutto l'eloquenza loro, aveano disseminato un idioma indubitatamente il più perfetto di quanti furono inventati dagli uomini; ma il grosso del popolo nella Siria e nell'Egitto usava tuttavia la lingua nazionale, con questa differenza però, che il cofto non si adoperava che dagli ignoranti e rozzi paesani del Nilo, mentre dai monti dell'Assiria al mar Rosso era il siriaco[131] la lingua della poesia e della dialettica. La favella depravata e il falso saper dei Greci infettavano l'Armenia e l'Abissinia; e i barbari idiomi di quelle contrade, che poi rivissero negli studii dell'Europa moderna, non erano intelligibili per gli abitanti dell'Impero romano. Il siriaco e il cofto, l'armeno e l'etiopico sono consecrati nelle liturgie delle Chiese rispettive; e la lor teologia possiede versioni speciali[132], scritture ed opere di quei Padri, la cui dottrina fece maggior fortuna colà. Dopo uno spazio di mille trecento sessant'anni, l'incendio della controversia suscitato da prima con una predica da Nestorio, arde tuttavia in fondo all'Oriente, e le comunioni nemiche mantengono sempre la fede e la disciplina dei fondatori. Nella più abbietta condizione d'ignoranza, di povertà e di servitù, i Nestoriani, e i Monofisiti negano la primazia spirituale di Roma, e sanno buon grado alla tolleranza de' Turchi, che permettono ad essi di scomunicare da un lato S. Cirillo e il Concilio d'Efeso, dall'altro Papa Leone e il Concilio di Calcedonia. L'aver essi contribuito al tracollo dell'Impero d'Oriente vuol pure qualche narrativa particolare. Il lettore potrà dare con piacere un'occhiata 1. ai Nestoriani, 2. ai Giacobiti[133] 3. ai Maroniti 4. agli Armeni 5. ai Cofti e 6. agli Abissinii. Le prime tre Sette parlano il siriaco, ma ognuna delle tre ultime usa l'idioma della sua nazione. Gli abitanti moderni per altro dell'Armenia e dell'Abissinia sermocinar non potrebbero coi lor antenati, e i Cristiani dell'Egitto e della Siria, che ricusano la religione degli Arabi ne hanno accettata la lingua. Il tempo ha secondati gli artifizi dei preti, e tanto in Oriente che in Occidente si parla colla Divinità una lingua morta, dal maggior numero dei Fedeli ignorata.
I. L'eresia dello sciagurato Nestorio andò presto dimenticata nella provincia che gli avea dato i natali, e nella sua diocesi ancora: que' Vescovi d'Oriente che nel Concilio d'Efeso osarono attaccare apertamente l'arroganza di S. Cirillo si ammansarono tosto che il Prelato rinunciò di poi ad alcuna delle sue proposizioni. Questi Vescovi, o i successori loro sottoscrissero non senza mormorare i decreti del Concilio di Calcedonia. Potè l'autorità dei Monofisiti rappattumare i Nestoriani coi Cattolici e congiungere le due parti negli odii stessi, negli stessi interessi, e a poco a poco nei dommi medesimi, e la disputa dei tre Capitoli fu un momento in cui mandarono di mala voglia l'ultimo sospiro. Da leggi penali furono schiacciati que' lor fratelli, che men moderati, o più leali non vollero far causa comune coi Cattolici, e sin dal tempo di Giustiniano era difficile rinvenire nei confini dell'Impero una chiesa di Nestoriani. Al di là di que' confini scoperto avevano un nuovo Mondo, ove sperare libertà, e aspirare a conquiste. Con tutta la resistenza dei Magi aveva il Cristianesimo gettate in Persia radici profonde; e le nazioni dell'Oriente si riposavano alla sua ombra salutare. Il Cattolico o primate risedeva nella capitale; i suoi Metropolitani, i suoi Vescovi, il suo clero avevano nei Sinodi e nelle diocesi loro la pompa e l'ordinanza d'una gerarchia regolare; da gran numero di proseliti fu abbandonato lo Zendavesta per l'Evangelo, la vita secolare per la monastica; era avvivato il loro zelo dalla presenza d'un nemico scaltro, e terribile. Fondatori della Chiesa persiana erano stati alcuni missionari della Siria; quindi la lingua, la disciplina, la dottrina del lor paese erano già una parte inerente della sua costituzione. I primati erano eletti ed ordinati dai suffraganei; ma provano i Canoni della Chiesa d'Oriente la lor filiale dependenza verso i Patriarchi d'Antiochia[134]. Nuove generazioni di fedeli s'andavan formando nella scuola persiana d'Edessa al loro idioma teologico[135]: studiavan esse nella versione siriaca i diecimila volumi di Teodoro di Mopsuste, e rispettavano la Fede apostolica, e il santo martirio del suo discepolo Nestorio, la persona e la lingua del quale erano sconosciute alle nazioni che abitavano al di là del Tigri. Alla prima lezione di Ibas, vescovo d'Edessa, s'impresse nell'animo loro un ribrezzo indelebile contro gli empi Egiziani, che nel lor Concilio d'Efeso aveano confuse le due Nature di Gesù Cristo. La fuga dei maestri e degli alunni, espulsi due volte dall'Atene della Siria, disperse una turba di missionari, spinti ad un tempo dallo zelo di religione, e dalla vendetta. Quella rigorosa unità sostenuta dai Monofisiti che, regnando Zenone ed Anastasio, invasi aveano i troni dell'Oriente, provocò i loro antagonisti a riconoscere in una terra libera piuttosto una union morale, che una union fisica nelle due Persone del Cristo. Dopo l'epoca in cui s'era predicato l'Evangelo alle nazioni, i Re sassaniesi vedean con inquietudine e con diffidenza una razza di stranieri e d'apostati, che poteano dar sospetto di favoreggiare la causa dei nemici naturali del lor paese, come ne aveano abbracciata la religione. Soventi volte s'era proibito per via d'editti il lor commercio col clero di Siria; piacquero gli avanzamenti dello scisma all'orgoglio geloso di Perozes, il quale porse orecchia ai discorsi d'uno scaltro Prelato, che dipingendogli Nestorio come amico della Persia, l'indusse ad assicurarsi della fedeltà dei sudditi cristiani, mostrandosi protettore delle vittime e dei nemici del despota romano. Erano i Nestoriani la parte più numerosa del clero e del popolo; presero coraggio dal favore del principe, e il despotismo mise in loro mano la sua spada; ma taluni, troppo deboli di spirito, furono sgomentati dall'idea di segregarsi dalla comunione del Mondo cristiano. Il sangue di settemila settecento Monofisiti o Cattolici fissò l'uniformità della fede e della disciplina nelle Chiese di Persia[136]. Le loro instituzioni religiose si segnalavano con una massima di ragione, o almen di politica; s'era già rilassata l'autorità claustrale, e cadde a poco a poco; si dotarono case di carità, le quali ebbero cura dell'educazione degli orfani e degli esposti; il clero della Persia non volle la legge del celibato, tanto raccomandata ai Greci ed ai Latini, e i matrimonii approvati e reiterati dei sacerdoti, dei Vescovi, e del Patriarca medesimo crebbero notabilmente il numero degli eletti. Giunsero fuorusciti a migliaia da tutte le province dell'impero d'Oriente a quel paese, fatto asilo della libertà naturale e religiosa. La scrupolosa devozione di Giustiniano fu punita coll'emigrazione de' suoi sudditi più industriosi, i quali trasportarono in Persia le arti guerresche e pacifiche, ed un accorto monarca innalzò alle cariche coloro che per merito erano raccomandati al suo favore. Quei disgraziati Settarii che stando sconosciuti aveano continuato a vivere nelle loro città native, coi consigli, col braccio, e cogli averi loro, diedero aiuto alle armi di Nuschirvan, e a quelle ancor più formidabili del suo nipote, e in guiderdone di tanto zelo ottennero le chiese dei Cattolici: ma quando ebbe Eraclio riconquistate quelle città e quelle chiese, conosciuti ormai per ribelli, e per eretici, non trovarono più altro rifugio, che gli Stati del loro alleato. In quel mentre la apparente tranquillità dei Nestoriani corse assai rischi, e fu turbata più volte; ed essi parteciparono alle disgrazie ch'erano necessarie conseguenze del dispotismo orientale. Non bastò sempre la nimicizia che portavano a Roma per espiare il loro attaccamento al Vangelo; ed una colonia di trecentomila Giacobiti fatti prigionieri in Apamea e in Antiochia ebbe la permissione d'innalzare i suoi altari nemici a veggente del Cattolico, e sotto la protezione della Corte. Nell'ultimo suo trattato inserì Giustiniano parecchi articoli diretti ad estendere e a rafforzare la tolleranza di cui godeva il Cristianesimo nella Persia. Mal informato l'Imperatore dei diritti di coscienza, non sentiva nè pietà, nè stima per gli eretici che rifiutavano l'autorità dei santi Concilii; ma davasi a credere che potrebbero a poco a poco osservare i vantaggi temporali dell'unione coll'impero e colla chiesa di Roma; e se non gli venia fatto d'ottenerne gratitudine, sperava almeno di renderli al lor Sovrano sospetti. In un'epoca più recente s'è veduta la superstizione e la politica del Re cristianissimo condannare al fuoco i Luterani in Parigi e proteggerli in Alemagna.
A. D. 500-1210
Il desiderio di guadagnare anime a Dio, e sudditi alla Chiesa, ha in ogni tempo solleticato lo zelo dei sacerdoti cristiani. Dopo il conquisto della Persia portarono le lor armi spirituali nell'Oriente, nel Settentrione, nel Mezzogiorno, e la semplicità dell'Evangelo prese le tinte della teologia siriaca. Se prestisi fede a un viaggiator nestoriano[137], si predicò con frutto il Cristianesimo nel sesto secolo ai Battriani, agli Unni, ai Persiani, agli Indiani, ai Persameni, ai Medi e agli Elamiti; infinito era il numero delle chiese che si vedeano nei paesi dei Barbari dal golfo di Persia al mar Caspio, e diveniva notabile la nuova fede di costoro per la moltitudine e santità dei lor monaci e dei lor martiri. Venivan moltiplicandosi di giorno in giorno i Cristiani sulla costa del Malabar, sì fertile di pepe, e nelle isole di Socotora e di Ceylan: i Vescovi e il clero di quelle remote contrade ricevevano l'Ordinazione dal Cattolico di Babilonia. Un secolo dopo, lo zelo de' Nestoriani passò i confini, ove s'erano fermati l'ambizione e la curiosità de' Greci e de' Persiani. I Missionari di Balch e di Samarcanda vennero animosi dietro i passi del Tartaro vagabondo, e s'introdussero nelle vallate dell'Imaus e nelle spiagge del Selinga. Andarono esponendo dommi metafisici a quei pastori ignoranti, e a que' guerrieri sanguinari raccomandarono l'umanità e la quiete. Vuolsi per altro, che un Rhan, di cui si esagerò in guisa ridicola la potenza, ricevesse dalle mani loro il Battesimo ed anche gli Ordini sacri, e lungamente la fama del prete Gianni ha divertito la credulità europea.[138] Fu permesso a questo augusto Neofito di valersi d'un altar portatile; ma egli fece chiedere al Patriarca per mezzo d'ambasciatori come potrebbe mai nella quaresima astenersi de' cibi animali, e come celebrar l'Eucaristia in un deserto che non produceva nè grano nè vino. I Nestoriani ne' loro viaggi per mare e per terra penetrarono nella Cina pel porto di Canton e per la città di Sigan, più settentrionale, residenza del sovrano. Ben diversi dai Senatori romani, che faceano ridendo la parte di sacerdoti e di auguri, i Mandarini che affettano in pubblico la ragione dei Filosofi, si abbandonano in secreto ad ogni sorta di superstizion popolare. Confondevano essi nel proprio culto gli Dei della Palestina con quei dell'India; ma la propagazion del Cristianesimo destò inquietudine al governo, e dopo una breve vicenda di favore e di persecuzione smarrissi la Setta straniera nell'oscurità e nella dimenticanza[139]. Sotto il regno da' Califi la Chiesa de' Nestoriani si dilatò dalla Cina a Gerusalemme, e a Cipro, e si calcolò, che il numero delle Chiese nestoriane e giacobite superava quello delle Chiese greche e latine[140]. Venticinque Metropolitani o arcivescovi ne componevano la gerarchia, ma per cagion della distanza e dei rischi del viaggio furono dispensati parecchi dall'obbligo di presentarsi in persona colla condizione, facile da adempirsi, che ogni sei anni darebbero un attestazione della lor fede ed obbedienza al Cattolico o patriarca di Babilonia, denominazione indeterminata, che successivamente si diede alle residenze reali di Seleucia, di Ctesifone e di Bagdad. Queste palme lontane son già disseccate da lungo tempo, e l'antico trono patriarcale[141] oggi è diviso fra gli Elijah di Mosul, i quali quasi in linea retta figurano la discendenza dei Patriarchi della primitiva chiesa, fra i Gioseffi d'Amida, riconciliatisi colla Chiesa di Roma[142], e i Simeoni di Van o di Ormia, che in numero di quarantamila famiglie nel sedicesimo secolo si ribellarono, e favoreggiati furono dai Sofì della Persia. Oggi si contano in tutto trecentomila Nestoriani, che mal si confusero nella denominazione di Caldei e di Assirii colla nazion la più istruita, e la più poderosa dell'Orientale antichità.
A. D. 883
Stando alla leggenda dell'antichità, S. Tommaso predicò l'Evangelo nell'India[143]. Sulla fine del nono secolo, gli ambasciatori d'Alfredo fecero una devota visita alla sua tomba, situata forse nei dintorni di Madras, e il carico di perle e di spezie che ne riportarono compensò lo zelo del Monarca inglese, che aveva in mente i più vasti disegni di commercio e di scoperte[144]. Quando fu dai Portoghesi aperta la strada dell'India, già da due secoli aveano stanza i Cristiani di S. Tommaso sulla costa del Malabar; e la differenza di carattere e di colore, che li distingueva dagli abitatori del paese, era una prova della mescolanza d'una razza straniera. Essi superarono gli originarii dell'Indostan nell'armi, nell'arti della pace, e per avventura anche nelle virtù. Quelli che arricchivano coll'agricoltura coltivavano le palme, e il traffico del pepe facea doviziosi i mercadanti; i soldati precedeano i Nair o nobili del Malabar, e il re di Cochino, il Zamorino stesso, o per gratitudine, o per timore ne rispettavano i privilegi ereditari; obbedivano a un sovrano Gentù; ma il Vescovo di Angamala anche pel temporale n'era il governatore. Egli continuava a sostenere i diritti del suo antico titolo di metropolitano dell'Indie; ma era ristretta la sua giurisdizione di fatto a mille e quattrocento chiese e a dugentomila anime. Costoro per la religione che professavano, divenuti sarebbero i più fermi e più amorevoli alleati dei Portoghesi; ma ben presto scorsero gl'Inquisitori fra i Cristiani di S. Tommaso lo scisma e l'eresia, delitti imperdonabili per essi. Invece di sottomettersi al Pontefice di Roma, sovrano temporale e spirituale di tutto il Globo, i Cristiani dell'India, come i loro antenati, aderirono alla comunione del Patriarca nestoriano; e i Vescovi ch'egli ordinava a Mosul, si esponevano per mare e per terra ad infiniti pericoli per giungere alle loro diocesi sulla costa del Malabar. Nella lor liturgia in lingua siriaca eran devotamente rammentati i nomi di Teodoro e di Nestorio; univano nell'adorazione le due Persone del Cristo: il titolo di Madre di Dio feriva le loro orecchie, e con una scrupolosa avarizia misuravano gli omaggi per la Vergine Maria, dalla superstizione de' Latini elevata quasi al grado d'una Dea.[145] Quando la prima volta fu presentata la sua immagine ai Discepoli di S. Tommaso, sdegnosamente[146] esclamarono: «Noi siam Cristiani e non idolatri!» e la lor divozione più semplice si tenne alla venerazion della Croce. Segregati dall'Occidente, essi ignoravano, fra i miglioramenti, ciò che la corruttela non avea potuto produrre per uno spazio di mille anni; e la lor conformità colla Fede e colle pratiche del quinto secolo debbe imbrogliare del pari i papisti ed i protestanti. Il primo pensiero dei ministri di Roma fu la cura d'interdire ad essi ogni commercio col Patriarca nestoriano, e parecchi di que' Vescovi morirono nelle prigioni del S. Uffizio. La potenza dei Portoghesi, gli artificii dei Gesuiti, e lo zelo di Alessio di Menezes, Arcivescovo di Goa, andato a visitare la costa di Malabar, assalirono questa greggia, privata de' suoi pastori. Dal Sinodo di Diamper, al quale Menezes presedette, fu adempiuta la santa opera dell'unione, e fu imposta ai Cristiani di S. Tommaso la dottrina e la disciplina della Chiesa romana, senza dimenticare la confessione auricolare, stromento il più potente della tirannide ecclesiastica.[147] Vi fu condannata la dottrina di Teodoro e di Nestorio, e fu ridotto il Malabar sotto il dominio del Papa, del Primate, e dei Gesuiti, che usurparono la cattedra vescovile di Angamala o Cranganor. Sostennero pazientemente i Nestoriani dodici lustri di servitù e d'ipocrisia; ma non così tosto l'industria e il coraggio delle Province Unite ebbero dato il crollo all'impero de' Portoghesi, difesero quelli con energia e con frutto la religion dei lor padri. Divennero impotenti i Gesuiti a mantenere l'autorità, di che aveano fatto abuso; quarantamila Cristiani rivolsero l'armi contro oppressori arrivati nel punto della caduta di quelli; e l'Arcidiacono dell'India sostenne le incombenze episcopali sino a tanto che dal Patriarca di Babilonia venne mandata una nuova provvigione di Vescovi e di Missionari siriaci. Da che furono espulsi i Portoghesi liberamente si professa sulla costa di Malabar il Simbolo nestoriano. Le compagnie mercantili dell'Olanda e dell'Inghilterra amano la tolleranza; ma se l'oppressione non offende tanto quanto il disprezzo, han motivo i Cristiani di S. Tommaso di lagnarsi della fredda indifferenza degli Europei[148].
II. La storia dei Monofisiti è meno lunga, e meno importante di quella de' Nestoriani. Sotto i regni di Zenone e d'Anastasio, i loro Capi sorpresero la fiducia del principe, usurparono il trono ecclesiastico dell'Oriente, atterrarono la scuola di Siria nella sua terra natale. Severo, Patriarca d'Antiochia, colla più arguta sottigliezza determinò i dommi dei Monofisiti; nello stile dell'Ennotico, condannò le opposte eresie di Nestorio, e d'Eutiche; contro l'ultimo sostenne la realtà del corpo del Cristo, e forzò i Greci a considerarlo come un bugiardo che parlava il vero[149]. Ma l'approssimazion delle idee non valeva a mitigar la veemenza delle passioni: ogni Setta faceva le maggiori meraviglie del Mondo per la cecità, con che la contraria andava a disputare su differenze di sì poco momento; il tiranno della Siria ricorse alla forza per sostenere la sua credenza, e fu macchiato il suo regno dal sangue di trecento cinquanta monaci svenati sotto le mura di Apamea, i quali probabilmente aveano provocato i nemici, o per lo meno fatta resistenza[150]. Il successor d'Anastasio piantò di nuovo in Oriente il vessillo dell'Ortodossia; fuggì Severo in Egitto, e l'eloquente Senaia,[151] suo amico, scampato di mano ai Nestoriani della Persia, fu soffocato nel suo esilio dai Melchiti della Paflagonia. Cinquantaquattro Vescovi furono rovesciati dalle loro sedi, e imprigionati ottocento ecclesiastici[152]; e, nonostante l'equivoco favore di Teodora, dovettero le chiese dell'Oriente orbate dei lor pastori perire a poco a poco per difetto d'istruzione, o per l'alterazione dei loro dommi. In mezzo a tanta angustia, ridestatasi la fazione moribonda, si riunì, e si perpetuò per opera d'un monaco; ed il nome di Giacomo Baradeo[153] è rimasto nella denominazione comune di Giacobita, tanto aspra ad un orecchio inglese. Dai santi Vescovi incarcerati in Costantinopoli, ricevette l'autorità di Vescovo d'Edessa, e di apostolo dell'Oriente, e da quella fonte inesausta derivò l'Ordinazione di più d'ottantamila di vescovi, preti o diaconi. I più veloci dromedari d'un devoto Capo degli Arabi assecondavano con rapido scorrerie l'ardore del missionario zelante. La dottrina e la disciplina dei Giacobiti ed era un dovere d'ogni Giacobita violarne le leggi, e detestare il Legislatore. Appiattati dentro i conventi, e ne' villaggi, costretti per salvare le lor teste proscritte a cercar asilo nelle caverne dei romiti, o nelle tende dei Saracini, sostenevano sempre, come oggi tuttavia i successori di Severo, il lor dritto al titolo, alla dignità, ed alle prerogative di Patriarca d'Antiochia. Sotto il giogo più lieve degli Infedeli risiedono, lungi una lega da Merdino, nel delizioso monastero di Zafaran, ch'essi hanno ornato di celle, d'acquedotti, e di piantagioni. Il Mafrian che soggiorna a Mosul, dova insulta il Cattolico o primate Nestoriano, a cui contende il primato dell'Oriente, tiene il secondo posto considerato tuttavia come assai decoroso. Ne' diversi tempi della Chiesa giacobita si contarono sino a cencinquanta Arcivescovi o Vescovi sotto il Patriarca ed il Mafrian; ma l'ordine della gerarchia s'è guasto, o rotto, e i contorni dell'Eufrate e del Tigri forman la più gran parte delle loro diocesi. Si trovano ricchi mercadanti e bravi operai nelle città d'Aleppo e d'Amida, spesso visitate dal Patriarca; ma il popolo vive miserabilmente del lavoro giornaliero, e ha potuto la povertà non meno della superstizione contribuire alla imposizione volontaria di digiuni eccessivi; osservano ogni anno cinque quaresime, nel qual tempo e il clero e i laici non solo s'astengono dalla carne e dalle uova, ma ben anche dal vino, dall'olio e dal pesce. Si calcola la lor popolazione presente da cinquanta in ottantamila anime, misero avanzo d'una Chiesa numerosissima, scemata gradatamente sotto una tirannia di dodici secoli. Ma in sì lungo periodo da parecchi stranieri, uomini di merito, fu abbracciata la Setta dei Monofisiti, e Abulfaragio[154], Primate dell'Oriente, tanto notabile per la vita e per la morte sua, era figlio di un Giudeo. Scriveva elegantemente il siriaco e l'arabo; fu poeta, medico, storico, filosofo sagace, e teologo moderato. Ai suoi funerali assistè il Patriarca nestoriano, suo rivale, con gran seguito di Greci e d'Armeni, i quali poste in non cale le dispute, vennero a mescer le loro lagrime sulle ceneri d'un nemico. Sembrava per altro che la Setta onorata dalle virtù d'Abulfaragio fosse riguardata come inferiore d'un grado a quella dei Nestoriani. È più abbietta la superstizione dei Giacobiti, più rigidi ne sono i digiuni,[155] più molteplici le divisioni intestine, e (per quanto si può misurare la scala dell'assurdità) più lontani dalla ragione dei loro dottori. A questa differenza contribuisce, senza dubbio, la severità della teologia dei Monofisiti; ma molto più probabilmente l'autorevole direzione dei monaci. Nella Siria, in Egitto, in Etiopia i Monaci giacobiti furono sempre singolari per austerità di mortificazioni e per la stravaganza delle loro leggende. In vita e in morte sono venerati come uomini favoriti della Divinità: il Pastorale di Vescovo e di Patriarca è riservato alla lor mano reverenda, e infetti ancora delle consuetudini e dei pregiudizi del chiostro, si prendono l'incarico di governare gli uomini[156].
III. Nello stile de' Cristiani dell'Oriente furono i Monoteliti in tutti i sensi dal nome contraddistinti di Maroniti[157], nome che a poco a poco passò da un eremita a un monastero, da un monastero ad una nazione. La Siria fu il paese, ove Marone, santo o selvaggio del quinto secolo, espose la religiosa stravaganza; le città di Apamea e di Emesa se ne contesero le reliquie; su la sua tomba s'innalzò una magnifica Chiesa, e seicento de' suoi discepoli congiunsero le loro celle sulle rive dell'Oronte. Nelle controversie dell'Incarnazione si tennero scrupolosamente sulla linea ortodossa tra le Sette di Nestorio e d'Eutiche; ma i loro ozii produssero la malnata quistione d'una volontà o d'una operazione nelle due Nature di Cristo. L'Imperatore Eraclio, loro proselita, respinto come Maronita dalle mura della città di Emesa, trovò un ricovero ne' monasteri dei suoi fratelli, e ne premiò le lezioni teologiche col guiderdone di vasto e ricco demanio. Si propagò il nome e la dottrina di questa ragguardevole scuola fra i Greci ed i Sirii, e si può far giudizio del loro zelo dalla risoluzion di Macario, Patriarca antiocheno, il quale davanti il Concilio di Costantinopoli dichiarò, che si lascerebbe tagliare a pezzi, e gettare in mare, piuttosto che riconoscere due Volontà in Cristo[158]. Persecuzione di tal fatta, o altra più moderata, valse a convertire ben presto i sudditi della pianura, mentre i robusti popolani del monte Libano si gloriavano del titolo di Mardaiti o di ribelli[159]. Giovan Marone, di tutti i monaci il più dotto e il più amato dal popolo, si arrogò le facoltà del Patriarca d'Antiochia: Abramo, suo nipote, fattosi Capo dei Maroniti, ne difese la libertà civile e religiosa contro i tiranni dell'Oriente. Il figlio dell'ortodosso Costantino con un santo rancore perseguitò un popolo di soldati, che avrebbero potuto essere il baluardo del suo impero contro i nemici di Gesù Cristo e di Roma. Fu invasa la Siria da un esercito di Greci; consunsero le fiamme il monastero di San Marone; i più prodi capitani della Setta furono traditi e assassinati, e dodicimila dei loro partigiani furono tratti sulle frontiere dell'Armenia e della Tracia. Ciò nonostante l'umile Setta dei Maroniti ha sopravvissuto all'impero di Costantinopoli, e la loro coscienza sotto i Turchi è libera, moderata la servitù. Fra i loro Nobili antichi sono scelti i lor governatori particolari; dal fondo del suo monastero di Canobin, crede tuttavia il Patriarca d'essere assiso sulla sede d'Antiochia; nove Vescovi ne compongono il Sinodo, e centocinquanta sacerdoti, che hanno la facoltà di maritarsi, son destinati alla cura di centomil'anime. S'estende il lor paese dalla catena del monte Libano sino alle coste di Tripoli; e in questa angusta striscia di territorio, con una degradazione insensibile si offrono al guardo tutte le varietà del suolo e del clima, dai grandi cedri che non curvano il capo sotto il peso delle nevi[160], sino ai vigneti, ai gelsi e agli olivi della fertile vallata. I Maroniti, dopo aver abiurato nel duodicesimo secolo l'error de' Monoteliti si riconciliarono colle Chiese latine d'Antiochia e di Roma[161], e soventi volte l'ambizione dei Papi, non che la miseria dei Cristiani della Siria rinnovellarono la stessa alleanza; ma è lecito dubitare, se questa riunione sia mai stata intera o leale, e indarno i dotti Maroniti del Collegio di Roma fecero il potere per assolvere i loro antenati dal delitto di scisma e di eresia[162].
IV. Dal secolo di Costantino in poi si segnalarono gli Armeni[163] nell'affetto per la religione e l'impero dei Cristiani. Dai disordini del lor paese, e dall'ignoranza della lingua greca fu impedito il loro clero d'assistere al Concilio di Calcedonia, e per ottantaquattr'anni[164] stettero fluttuanti nell'incertezza o nell'indifferenza sino al giorno in cui la lor Fede senza guida li diede in mano ai missionari di Giuliano d'Alicarnasso[165], il quale in Egitto, dove era esiliato, come i Monofisiti, era stato vinto dagli argomenti e dalla riputazione di Severo, suo rivale, Patriarca monofisita d'Antiochia. Gli Armeni soli sono i puri discepoli d'Eutiche, padre infelice, rinnegato dalla maggior parte de' suoi figli. Quei soli stanno perseveranti nella opinione, che l'Umanità di Gesù Cristo fosse creata, o formata senza creazione, d'una sostanza divina ed incorruttibile. Sono rimproverati i loro avversari d'adorare un fantasma, ed essi ritorcono l'accusa, mettendo in ridicolo, o caricando di maledizioni la bestemmia dei Giacobiti, che attribuiscono a Dio le vili infermità della carne, e fino gli effetti naturali del nutrimento e della digestione. Non potea la religion dell'Armenia menar gran vanto del sapere, o della potenza de' suoi abitanti. Spirò il regno fra loro nel principio del loro scisma, e quelli dei loro Re cristiani, che nel tredicesimo secolo sulle frontiere della Cilicia fondarono una Monarchia momentanea, erano i protetti de' Latini, e i vassalli del Soldano turco che dava leggi in Iconio. Non si permise lungamente a questa nazione abbandonata di goder la quiete della servitù. Dai primi tempi della sua storia sino al giorno d'oggi è stata l'Armenia il teatro d'una guerra perpetua. La crudele politica dei Sofì ha spopolate le terre fra Tauride ed Erivan; e famiglie cristiane a migliaia furono trapiantate nelle province più rimote della Persia a perire o a moltiplicare colà. Sotto la verga dell'oppressione sta imperterrito e fervido lo zelo degli Armeni; sovente preferirono la corona del martirio al turbante di Maometto: piamente detestano l'errore e l'idolatria de' Greci, ed è tanto vera la loro unione effimera coi Latini, quanto il computo di mille Vescovi dal lor Patriarca condotti al piede del Pontefice romano[166]. Il Cattolico o Patriarca degli Armeni risede del monastero di Ekmiasin, tre leghe lontano da Erivan. Son da lui ordinati quarantasette Arcivescovi, ognuno de' quali ha quattro o cinque suffraganei, ma per la maggior parte non sono che prelati titolari, che colla presenza e col servigio danno risalto alla semplice pompa della sua Corte. Come hanno adempiuto agli uffici ecclesiastici attendono a coltivare il giardino, e farà meraviglia ai nostri Vescovi l'intendere, che in proporzione della sublimità del grado cresce l'austerità della loro vita. Nelle ottantamila città o villaggi di quel governo spirituale riceve il Patriarca da ogni persona, che abbia compiuti i quindici anni, una picciola tassa volontaria; ma i seicentomila scudi, che ne ricava ogni anno, non bastano ai continui bisogni de' poveri, nè ai tributi che si esigono dai Bascià. Dal principio dell'ultimo secolo ottennero gli Armeni una porzion considerevole e lucrosa del traffico dell'Oriente. Tornando d'Europa, sogliono le lor caravane arrestarsi nei dintorni d'Erivan; tributano agli altari i frutti della loro industriosa pazienza, e la dottrina d'Eutiche vien predicata alle congregazioni, che hanno formato da poco in qua nella Barberia e nella Polonia[167].
V. Nelle altre parti dell'imperio poteva il principe annichilare, o ridurre al silenzio i Settarii di una dottrina creduta pericolosa; ma i testardi Egiziani si opposero mai sempre al Concilio di Calcedonia, e la politica di Giustiniano degnò adattarsi ad aspettare il momento in cui potesse giovarsi della lor discordia. La Chiesa monofisita d'Alessandria[168] era lacerata dalla disputa dei corruttibili e degli incorruttibili, e nella morte del Patriarca ognuna delle due fazioni presentò un candidato[169]. Gaiano era discepolo di Giuliano, e Teodosio avea ricevuto lezioni da Severo: i monaci e i senatori, la capitale e la provincia favorivano il primo; confidava il secondo nell'anteriorità della sua Ordinazione, nella grazia dell'Imperatrice Teodora, e nell'armi dell'eunuco Narsete, che avrebbe potuto farne miglior uso in una guerra più gloriosa. Il candidato del popolo fu confinato in Cartagine ed in Sardegna, e questo esilio crebbe il fermento degli animi, e cento settant'anni dopo il cominciamento dello scisma veneravano ancora i Gaianiti la memoria e la dottrina del lor fondatore. In un furioso e sanguinolento conflitto si vide la forza del numero cozzare con quella della disciplina; i cadaveri de' cittadini e de' soldati ingombrarono le strade della metropoli; le devote salivano sul tetto delle case, e scagliavano sul capo dal nemico tutto quello che di pesante o di tagliente veniva loro alle mani; e in fine trionfò Narsete perchè mise a fuoco e fiamme la terza capitale del Mondo romano. Ma non piacque al luogotenente di Giustiniano, che cogliesse un eretico i frutti della sua vittoria; guari non andò che Teodosio fu deposto, sebbene con modi umani, e Paolo di Tanis, monaco ortodosso, fu innalzato alla sede di Sant'Atanasio. Acciocchè potesse sostenersi, fu armato di tutte le forze del governo; aveva la facoltà di nominare o rimovere i duchi e i tribuni d'Egitto; soppresse le distribuzioni di pane, ordinate da Diocleziano, chiuse i templi de' suoi rivali, e una nazione scismatica rimase ad un tratto senza alimento spirituale e corporale. Dall'altra parte il popolo sospinto da vendetta e da fanatismo scomunicò quel tiranno; nessuno, eccettuati i servili Melchiti, non volle più salutarlo nè per uomo, nè per cristiano, nè per Vescovo. Ma tale è la cecità dell'ambizione; cacciato per un'accusa d'omicidio, esibì mille e quattrocento marchi d'oro per ricuperare il suo posto, ove non raccolse che odio ed affronti. Apollinare, suo successore, entrò in Alessandria con un corteggio militare, parato e presto all'orazione ed alla battaglia. Distribuì i suoi armati per tutta la strada; furon collocate le guardie alle porte della cattedrale, e una truppa eletta venne posta in mezzo al coro per difesa della persona del suo Capo. Stavasi Apollinare in piedi nella sua cattedra, e, levato l'abito guerresco, comparve di repente agli occhi della moltitudine colla veste di Patriarca d'Alessandria. Lo stupore per un istante produsse un gran silenzio; ma come tosto Apollinare ebbe cominciato a leggere il tomo di San Leone, fu da imprecazioni, da invettive e da sassi assalito quest'odioso ministro dell'Imperatore e del Sinodo. Subitamente il successor degli Apostoli diede l'ordine di combattere; vuolsi che i soldati marciassero dentro il sangue sino al ginocchio, e che vi rimanessero svenati dugentomila Cristiani; calcolo incredibile, quand'anche si facesse non per una giornata, ma per li diciott'anni del pontificato d'Apollinare. I due Patriarchi che gli succedettero, Eulogio[170] e Giovanni[171], s'adoperarono a convertire gli eretici con armi ed argomenti più degni del loro evangelico ministero. Eulogio pose in mostra il suo sapere teologico in molti volumi, che esageravano gli errori di Eutiche e di Severo, e cercavano di conciliare le asserzioni equivoche di San Cirillo, del Simbolo ortodosso di Papa Leone e de' Padri del Concilio calcedonese. Mosso da superstizione, da beneficenza, o da politica si segnalò Giovanni il Limosiniere con una munificenza caritatevole; manteneva a sue spese settemila e cinquecento poveri; trovò, quando fu eletto, sedicimila marchi d'oro nell'erario della Chiesa; n'ebbe ventimila dalla generosità dei fedeli; eppure potè vantarsi nel testamento di non lasciar più d'un terzo della più picciola moneta d'argento. Le Chiese d'Alessandria furon consegnate ai Cattolici; fu proscritta la religion dei Monofisiti in Egitto, e fu pubblicata una legge, che escludeva i nativi del paese dagli onori, e dagli impieghi lucrosi dello Stato.
Rimaneva da farsi una conquista più rilevante, quella del Patriarca, oracolo e Capo della Chiesa egiziana. Aveva resistito Teodosio alle minacce e alle promesse di Giustiniano col coraggio d'un Apostolo, ovveramente d'un entusiasta. «Non furono diverse, rispose il Patriarca, le offerte del tentatore quando mostrava i reami della terra; a me sta più a cuore l'anima che la vita o l'autorità. Stanno le Chiese nelle mani d'un principe, che può uccidere il corpo; ma la mia coscienza è mia, e nell'esilio, nella povertà, nei ceppi resterò costantemente fedele alla credenza de' miei santi predecessori Atanasio, Cirillo e Dioscoro. Anatema al tomo di Leone, e al Concilio di Calcedonia! anatema a chi ammette la lor dottrina! e adesso e per sempre sieno caricati d'anatemi! Io sono uscito nudo del seno di mia madre, nudo discenderò nel sepolcro; mi seguano coloro che amano Iddio e cercano la salute». Dopo aver consolato e rincorato i suoi fratelli, salpò alla volta di Costantinopoli; e in sei abboccamenti successivi sostenne senza vacillare l'assalto quasi irresistibile della presenza del sovrano. Le sue opinioni eran favoreggiate nel palazzo e nella capitale; il credito di Teodora lo francheggiava e gli promettea un congedo decoroso; egli terminò la sua carriera, non già sulla cattedra episcopale, ma nel suo paese nativo. Alla nuova della sua morte, Apollinare spinse l'indecenza sino a farne festa in un divertimento dato alla Nobiltà ed al clero; ma fu turbata la sua allegrezza dalle nuove che presto ricevette della dominazione del successor di Teodosio; e mentre si godea le ricchezze d'Alessandria, i suoi rivali davano la legge entro i monasteri della Tebaide, ove campavano di obblazioni spontanee del Popolo. Morto Teodosio si vide nascere dalle sue ceneri una serie non interrotta di Patriarchi, e le Chiese monofisite di Siria e d'Egitto vennero collegate in una stessa comunione, e nel nome di Giacobiti; ma la dottrina che s'era concentrata in una picciola Setta dei Sirii, si propagò nella nazione egiziana, o cofta, la quale con voto quasi unanime rigettò i decreti del Concilio calcedonese. Volgeano dieci secoli da che l'Egitto non era più un regno, e i vincitori dell'Asia e dell'Europa avevano assoggettato al giogo un popolo, la sapienza e la potenza del quale sono anteriori ai monumenti della Storia. La lotta del fanatismo e della persecuzione vi ridestò qualche scintilla d'intrepidezza nazionale. Nell'abiurare un'eresia straniera repudiarono gli Egiziani i costumi e la favella dei Greci; ogni Mulchita è riguardato come un forestiero, ogni Giacobita come un cittadino. Dichiaravano peccato mortale le alleanze di matrimonio coi lor nemici, e l'esercizio dei doveri dell'umanità verso i medesimi; spezzarono i vincoli della fedeltà giurata all'Imperatore, il quale non potea, lontano da Alessandria, fare colà eseguire i suoi ordini in altro modo che col braccio militare. Con uno sforzo generoso si sarebbe restaurata la religione e la libertà dell'Egitto, e i suoi seicento monasteri avrebbero mandate migliaia di santi guerrieri che tanto meno temevano la morte, quanto che non avea la vita per essi nè consolazioni, nè piaceri; ma l'esperienza ha provato la distinzione che passa tra il coraggio attivo, e il coraggio passivo; il fanatico che senza mandar un sospiro, sostiene le più crudeli torture, sarebbe tutto tremante, o si darebbe alla fuga in faccia a un nemico armato. Gli Egiziani pusillanimi, siccome essi erano, restrignean le speranze a quella di cangiar padrone; l'armi di Cosroe disertarono il paese, ma sotto il suo regno godettero i Giacobiti una tregua precaria e che durò poco. Colla vittoria d'Eraclio si rinnovellò e crebbe la persecuzione e il Patriarca abbandonò di bel nuovo Alessandria per riparare nel deserto. Mentre egli se ne fuggiva credette Beniamino udir una voce, che gli comandava d'attendere dopo dieci anni il soccorso d'una nazion forestiera, soggetta come gli Egiziani, all'antica legge della Circoncisione. Si vedrà in processo di tempo chi fossero questi liberatori, e quale la liberazione, e qui trapasso l'intervallo d'undici secoli per dare un'occhiata alla miseria presente dei Giacobiti dell'Egitto. La popolosa città del Cairo è la sede o piuttosto l'asilo del loro indigente Patriarca, e dei dieci Vescovi che hanno conservati: quaranta monasteri hanno sopravvissuto alle scorribande degli Arabi; e la sempre crescente schiavitù, non che l'apostasia ha ridotto i Cofti al meschino numero di venticinque o trentamila famiglie[172], genìa di paltoni ignoranti, che non hanno altra consolazione che la vista della miseria anche maggiore del Patriarca greco, e del suo picciolo ovile[173].
VI. Il Patriarca cofto, ribelle ai Cesari, o schiavo dei Califfi, poteva sempre insuperbirsi dell'ubbidienza figliale dei Re della Nubia e dell'Etiopia; ne esagerava egli la grandezza per pagarne l'omaggio; osavano i suoi partigiani asserire che quei principi poteano mettere in armi centomila cavalieri, e altrettanti camelli[174]; ch'eran padroni di spandere, o di fermare le acque del Nilo[175], e che dalla mediazione del Patriarca dependevano la pace e l'abbondanza dell'Egitto, anche trattandosi di perorare presso un sovrano del Mondo. Mentre stava in esilio a Costantinopoli raccomandò Teodosio alla sua protettrice, la conversione del popolo nero della Nubia[176]. Dal tropico del Cancro fino alle frontiere d'Abissinia, potè l'Imperatore indovinare l'intenzion di sua moglie, e più zelante di lei per la Fede ortodossa volle partecipare a questa gloria. Due missionari rivali, un Melchita e un Giacobita, partirono ad un tempo; ma, fosse amore o timore, Teodora fu meglio obbedita, e il presidente della Tebaide ritenne presso di sè il sacerdote cattolico, mentre in gran fretta furono battezzati nella comunion di Dioscoro il Re di Nubia, e la sua Corte. Giunto troppo tardi l'Inviato di Giustiniano, venne accolto e rimandato onorevolmente; ma quando denunciò l'eresia, e il tradimento degli Egiziani, il Neofito negro era già stato ammaestrato a rispondere, che mai non abbandonerebbe i suoi fratelli, i veri credenti, ai ministri persecutori del Concilio di Calcedonia[177]. Pel corso di vari secoli nominò il Patriarca d'Alessandria, ed ordinò i Vescovi della Nubia; vi dominò il cristianesimo fino al secolo duodecimo, e si scorgono ancora cerimonie ed avanzi di questa religione nelle borgate di Sennaar e di Dongola[178]. Ma i Nubii alla lunga mandarono ad effetto le lor minacce di ritornare al culto degli idoli; voleva il clima una religione che permettesse la poligamia, e quindi preferirono il trionfo del Korano all'umiliazion della Croce. Forse una religion metafisica supera l'intendimento d'un Popolo nero; si può per altro avvezzare un Nero non altrimenti che un papagallo a ripetere le parole del Simbolo di Calcedonia o di quello dei Monofisiti.
A. D. 550 ec.
Erasi già più profondamente radicato il cristianesimo nell'Impero d'Abissinia, e quantunque sia stata interrotta la corrispondenza per più di settanta o di cento anni, quella Chiesa sta sempre sotto la tutela della metropoli d'Alessandria. Di sette vescovi era composto per l'addietro il Sinodo etiopico; se fossero stati dieci costantemente, avrebbero potuto eleggersi un primato independente; venne in capo ad uno dei loro re di dare ad un suo fratello questo primato, ma si previde la cosa, e fu ricusata la fondazione di tre nuovi vescovadi; a poco le incumbenze episcopali si sono concentrate nell' Abuna[179] o Capo de' sacerdoti dell'Abissinia ordinati da lui: vacando questo posto, il Patriarca d'Alessandria nomina ad occuparlo un monaco egiziano, avvegnacchè un forestiero investito di quella dignità sembra agli occhi del volgo più rispettabile, e meno pericoloso a quei del monarca. Quando nel sesto secolo si palesò apertamente lo scisma d'Egitto, i Capi rivali, coll'assistenza de' lor protettori Giustiniano e Teodora, fecero ogni potere per rapire l'uno all'altro il conquisto di quella provincia remota ed independente. Anche questa volta la scaltrezza dell'Imperatrice vinse la pruova, e la pia Teodora stabilì in quella Chiesa lontana la fede e la disciplina de' Giacobiti[180]. Circondati per ogni lato da' nemici della loro religione, sonnecchiarono gli Etiopi quasi per dieci secoli, senza pensare al rimanente del Mondo, che non pensava a loro. Furono svegliati da' Portoghesi, che dopo avere superato il promontorio meridionale dell'Affrica comparvero nell'India, e sul mar Rosso come se discesi fossero da un pianeta lontano. A prima giunta i sudditi di Roma, e que' d'Alessandria rimasero sorpresi più dalla conformità che dalle differenze della lor fede, e ognuna delle due nazioni sperò grandissimi vantaggi da un'alleanza con genti cristiane. Gli Etiopi disgiunti dagli altri popoli della terra erano quasi tornati alla vita selvaggia. I loro navili che un tempo approdavano a Ceilan, appena osavano tentare le riviere dell'Affrica: non più vedevansi abitatori in Axum già rovinata, la nazione era dispersa ne' villaggi, e il gran personaggio, pomposamente decorato del titolo d'Imperatore, stava in pace ed in guerra contento d'un campo renduto immobile. Sentendo la lor miseria, avevano saggiamente avvisato gli Abissinii d'introdurre le arti, e l'industria europea[181], e ordinarono a' loro ambasciatori in Roma e in Lisbona di spedire colà una colonia, di fabbri ferrai, di carpentieri, di fornaciai, di muratori, di stampatori, di chirurghi, di medici; ma dal pericolo pubblico furono sollecitati a cercare un pronto soccorso d'armi e soldati per difesa d'un popolo pacifico contro i Barbari che portavano il guasto nel cuor del paese, e contro i Turchi o gli Arabi, che con formidabile apparecchio s'avanzavano dalle rive del mare. Fu salva l'Etiopia mercè dell'aiuto di quattrocento cinquanta Portoghesi i quali dimostrarono combattendo quel valore che è proprio degli Europei, e la potenza dell'archibugio e del cannone. In un accesso di spavento avea promesso l'Imperatore di riunirsi co' sudditi alla Fede cattolica; un Patriarca latino rappresentò il Primato del Papa[182]: credevasi che quell'Impero supposto dieci volte più grande di quello che fosse, racchiudesse più oro che non le miniere d'America, e la cupidigia non che lo zelo religioso fondarono speranze stravaganti sopra la spontanea sommessione de' Cristiani dell'Affrica.
A. D. 1557
Ma riavutosi dal timore, non si sovvenne più dei giuramenti fatti coll'animo addolorato. Vietarono gli Abissinii con una costanza invitta la dottrina de' Monofisiti: coll'esercizio della disputa si riscaldò la lor Fede alquanto intiepidita; infamarono co' nomi d'Ariani, e di Nestoriani i Latini; e rimproverarono come adoratori di quattro Iddii coloro, che separavano le due Nature di Gesù Cristo. Fu assegnata a missionari gesuiti la borgata di Fremona per gli ufficii del loro culto, o piuttosto per un luogo d'esilio, nulla giovando a farli stimabili l'abilità che avevano nell'arti liberali e meccaniche, la loro dottrina nelle materie teologiche, la decenza de' costumi: mancavano del dono de' miracoli[183], e mai non venne lor fatto d'ottenere un sussidio di soldatesche europee. Dopo quarant'anni di pazienza e di destrezza furono da tanto che trovarono chi prestò più facile orecchia, e valsero a persuadere a due Imperatori d'Abissinia che Roma poteva fare in questo Mondo e nell'altro la felicità de' suoi aderenti. Il primo di que' re neofiti perdè la corona e la vita, e fu santificato l'esercito ribelle dall' Abuna, il quale fulminò d'anatemi l'apostata, e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà. Zadengher fu vendicato dal coraggio e dalla fortuna di Susneo, che salì al trono col nome di Segued, e che proseguì più vigorosamente la devota impresa del suo congiunto. L'Imperatore dopo essersi divertito in una lotta d'argomentazioni fra i gesuiti e i suoi sacerdoti inesperti, si dichiarò proselita del Concilio di Calcedonia; credendo che il suo clero, e il suo popolo avrebbero immediatamente abbracciata la religione del principe. Ordinò poco dopo sotto pena di morte che si credesse alle due Nature di Cristo: ingiunse agli Abissinii di passare la giornata del Sabato o in lavori, o in divertimenti; e Segued, al cospetto dell'Europa e dell'Affrica, rinunciò ad ogni vincolo che aveva colla Chiesa d'Alessandria. Un gesuita, Alfonso Mendez, Patriarca cattolico dell'Etiopia, ricevette in nome d'Urbano VIII l'omaggio e l'abiura del suo penitente. «Io confesso, disse l'Imperator ginocchione, confesso che il Papa è il vicario di Gesù Cristo, il successore di San Pietro, il sovrano del Mondo; gli giuro verace obbedienza, e pongo a' suoi piedi la mia persona e il mio regno». Suo figlio, suo fratello, il clero, i nobili, ed anche le donne della Corte, ripeterono lo stesso giuramento; vennero profusi al Patriarca latino onori e ricchezze, e i suoi missionari piantarono le loro chiese, o piuttosto cittadelle, nelle migliori situazioni dell'Impero. Da que' gesuiti medesimi si deplora la funesta imprudenza del loro Capo, il quale non curando la mansuetudine Evangelica, e la politica del suo Ordine, con troppa violenza osò introdurre colà la liturgia di Roma, e l'inquisizione del Portogallo. Condannò egli la vecchia pratica della Circoncisione, instituita per motivi di salute piuttosto che di superstizione nel clima d'Etiopia[184]. Obbligò i nativi del paese ad un nuovo Battesimo ed a una nuova Ordinazione: inorridirono questi vedendo un prete estero che levava dalle tombe i più santi de' loro morti, e scomunicava i più rispettabili de' lor viventi. Diedero di piglio alle armi per difendere la propria religione e la libertà, e si segnalarono con un valore da disperati, ma senza pro. Cinque ribellioni furono soffocate nel sangue de' ribelli; due Abuna caddero morti in battaglia; intere legioni furono trucidate nel campo, o sepolte nelle loro caverne, e il merito, la dignità, il sesso non poterono sottrarre i nemici di Roma da una morte ignominiosa; ma finalmente il monarca vincitore si lasciò vincere dalla costanza della sua nazione, di sua madre, del figlio, degli amici più fedeli. Ascoltò Segued la voce della pietà, della ragione, e forse del timore, e l'editto che concedeva la libertà di coscienza svelò la tirannide a un'ora e la debolezza de' Gesuiti. Basilide, morto che fu suo padre, cacciò il Patriarca latino, e ridonò al voto della nazione la Fede e la disciplina dell'Egitto. Le chiese monofisite ripeterono trionfando, «che la greggia d'Etiopia era finalmente ritolta alle iene dell'Occidente»; e da quel giorno le porte di quel Regno romito furono per sempre chiuse alle arti, alle scienza, e al fanatismo dell'Europa[185].
CAPITOLO XLVIII.
Disegno del rimanente dell'Opera. Successione e carattere degl'Imperatori greci di Costantinopoli, dal tempo d'Eraclio a quello della conquista de' Latini.
Ho già data a conoscere la successione di tutti gl'Imperatori romani da Trajano a Costantino, da Costantino ad Eraclio, e fedelmente ho esposto le avventure o i disastri del lor governo. Son passato a traverso i cinque primi secoli del decadimento dell'Impero romano, ma più d'otto secoli mi restano ancora da trascorrere prima ch'io giunga al termine delle mie fatiche, cioè alla presa di Costantinopoli fatta dai Turchi. S'io tenessi la stessa regola, e l'andamento medesimo, non farei che distendere prolissamente in un gran, numero di volumi una materia di poca importanza, la quale non darebbe ai lettori un compenso con un'istruzione ed una ricreazione, che pareggiasse la pazienza ch'esigerebbe da loro. Più che procedessi avanti, nel raccontare il degradamento e il tracollo dell'Impero d'Oriente, più ingrata e noiosa sarebbe la mia opera, in segnare gli annali di ogni regno. L'ultimo periodo dei quali mostrerebbe per tutto la medesima debolezza, la medesima miseria; transizioni rapide e frequenti interromperebbero il legame naturale delle cagioni e degli avvenimenti, e una massa di minute particolarità leverebbe la chiarezza e l'effetto a quelle grandi dipinture che danno gloria e pregio all'istoria d'un tempo remoto. Da Eraclio in poi la scena di Bizanzio si fa più angusta ed oscura; il nostr'occhio da tutti i lati vede sparire i confini dell'Impero, fissati dalle leggi di Giustiniano, e dalle armi di Belisario; il nome romano, vero fine delle nostre ricerche, è ristretto in un picciolo cantone dell'Europa, nei solinghi contorni di Costantinopoli. Fu paragonato l'Impero greco al fiume del Reno, che si disperde fra le sabbie, prima di mescere le sue acque con quelle dell'Oceano. La lontananza dei tempi e dei luoghi scema al nostro occhio la pompa della dominazione, nè il difetto di esterior maestà viene coperto da fregi più nobili, quelli del senno o della virtù. Negli ultimi giorni dell'Impero senza dubbio vantava Costantinopoli più ricchezze e più popolazione che Atene ai tempi più floridi de' suoi annali, quando una modica somma di seimila talenti, o sia di un milione e dugentomila lire sterline, formava la totalità degli averi divisi fra ventunmila cittadini adulti; ma ognuno di que' cittadini era un uom libero, e osava far uso della sua libertà ne' suoi pensieri, nelle parole, nelle azioni; leggi imparziali difendeano la sua persona, le sue proprietà, ed egli avea un voto independente nell'amministrazione della Repubblica. Le varietà molte e assai appariscenti dei naturali, parea che aumentassero il numero degl'individui; coperti dall'egida della libertà, portati sull'ali dell'emulazione e della vanagloria, tutti voleano elevarsi alla cima della dignità nazionale: da quell'altezza sapeano alcuni spiriti illustri sopra tutti gli altri slanciarsi oltre i limiti cui può giungere l'occhio del volgo, di modo che, stando al calcolo delle sorti d'un gran merito, quali sono indicate dall'esperienza per un vasto popolatissimo regno, si andrebbe a credere, osservando il numero de' suoi grand'uomini, che la Repubblica d'Atene contasse più milioni d'abitanti. E pure il suo territorio, con quello di Sparta e dei loro alleati, non eccede la grandezza d'una provincia di Francia o d'Inghilterra, quantunque di mediocre estensione; ma dopo le vittorie di Salamina e Platea quelle picciole Repubbliche prendono nella nostra fantasia l'ampiezza gigantesca dell'Asia conculcata dai Greci con piede vittorioso. Per converso i sudditi dell'Impero bizantino, che prendeano e disonoravano i nomi di Greci e di Romani, offrono una tetra uniformità di vizi abbietti, spogli della scusa che meritano le dolci passioni dell'umanità, e senza il vigore e la pompa dei delitti memorandi. Poteano gli uomini liberi dell'antichità ripetere con generoso entusiasmo la sentenza d'Omero, che «uno schiavo nel primo giorno di schiavitù perde la metà delle virtù umane». E sì che il poeta non conosceva altra schiavitù che la civile e domestica, nè poteva prevedere, che l'altra metà dei pregi del genere umano verrebbe un giorno annichilita da quel despotismo spirituale che inceppa le azioni, ed anche i pensieri del devoto prostrato nella polvere. I successori d'Eraclio fiaccarono i Greci con questo doppio giogo; i vizi dei sudditi, secondo una legge dell'eterna Giustizia, digradarono il tiranno, e a gran pena colle più esatte indagini sul trono, nei campi, e nelle scuole si giunge a dissotterrar qualche nome degno d'esser tolto all'obblìo. Alla povertà del subbietto non ripara l'abilità o la varietà delle tinte, impiegata dai pittori storici. I quattro primi secoli d'un intervallo di ottocento anni sono rimasti per noi nelle tenebre di rado interrotte da deboli barlumi di luce storica: da Maurizio ad Alessio, Basilio il Macedone è l'unico principe che colla sua vita abbia somministrato argomento d'un'opera separata, nè giova l'autorità mal certa di compilatori più moderni per supplire al difetto, alla perdita, o all'imperfezione degli autori contemporanei. Non possiamo lagnarci di penuria nei quattro ultimi secoli; la musa dell'istoria rivisse a Costantinopoli nella famiglia dei Comneni; ma si presenta coperta di belletti, e cammina senza garbo e senza disinvoltura. La folla di preti e di cortigiani ci trascinano gli uni dietro agli altri per la via segnata dalla servitù e dalla superstizione: sono di vista corta, di scarso o depravato giudizio, e si finisce un libro pieno d'un'abbondanza sterile senza conoscere le cagioni dei fatti, il carattere degli attori, o i costumi del secolo, che da loro è lodato, o accusato. Si osservò che la penna d'un guerriero pigliava vigore dalla sua spada, e questa riflessione può benissimo applicarsi ad un popolo, poichè, come vedremo, il trono dell'istoria s'alza o s'abbassa a seconda del vigore del tempo in cui è scritta.
Per queste considerazioni avrei volentieri abbandonato gli schiavi greci, e i loro scrittori servili, se la sorte della monarchia di Bizanzio non fosse in modo passivo legata colle rivoluzioni le più strepitose e rilevanti, che abbiano mai cangiata la faccia del Mondo. Mentre perdea qualche provincia vi si piantavano nuove colonie, e nuovi reami: le nazioni vittoriose vestivano quelle virtù efficaci di guerra o di pace, delle quali i vinti s'erano spogliati; e nell'origine appunto, e nelle conquiste, nella religione, e nel governo di que' popoli nuovi investigar noi dobbiamo le fonti e le conseguenze del digradamento e della caduta dell'Impero Orientale. Nè già questo disegno diverso, nè la ricchezza e varietà dei materiali nuocono all'unità del pensiero, e della composizione; come il Musulmano di Fez o di Delhi nelle sue orazioni volge sempre la mente al tempio della Mecca, così l'occhio dello storico non perderà mai di vista Costantinopoli. La linea, ch'egli trascorrerà, dee passar necessariamente pei deserti dell'Arabia e della Tartaria; ma il circolo che farà da prima, sarà definitivamente ristretto fra i confini sempre decrescenti dell'Impero romano.
Ecco dunque in qual modo ho distribuito quest'opera negli ultimi volumi. Nel primo dei capitoli seguenti presenterò la serie regolare degl'Imperatori che regnarono in Costantinopoli, in un periodo di sei secoli, dai tempi d'Eraclio sino al conquisto dei Latini; breve sarà la narrazione, ma dichiaro qui in generale che non si scosterà nè dall'ordine, nè dal testo degli storici originali. Mi contenterò in questa introduzione a far un cenno delle rivoluzioni del trono, della successione delle famiglie, dell'indole personale dei principi greci, del lor modo di vivere, e della lor morto, delle massime e dell'influenza che aveva sulli spiriti la loro amministrazione, e come e quanto abbia contribuito il loro regno ad accelerare, o a sospendere il tracollo dell'Impero d'Oriente. Questo quadro cronologico darà luce ai capitoli che verranno da poi, e i particolari fatti della grande storia dei Barbari si collocheranno da sè stessi al sito che lor compete negli annali di Bizanzio. Materia di due capitoli separati saranno gli affari interni dell'Impero, e la pericolosa eresia dei Pauliciani, che scosse l'Oriente, e illuminò l'Occidente; ma differirò queste ricerche sino a tanto che io non abbia esposto al lettore lo stato dei vari popoli del Mondo nel nono e decimo secolo dell'Era Cristiana. Poste che avrò le fondamenta della Storia bizantina, farò passare in rassegna parecchie nazioni, e trattando delle cose loro, regolerò la lunghezza del mio racconto colla loro grandezza, col loro merito, o i loro legami col Mondo romano, e col secolo presente: questi sono i nomi di quei popoli: 1. i Franchi, denominazion generale che include tutti que' Barbari della Francia, dell'Italia, e della Germania che furono uniti insieme dalla spada e dallo scettro di Carlo Magno. La persecuzion delle Immagini e dei loro adoratori segregò Roma e Italia dal trono di Bizanzio, e agevolò il nuovo Impero romano in Occidente. 2. Gli Arabi o Saraceni, argomento importante e curioso; occuperanno tre lunghi capitoli. Dopo avere descritto l'Arabia, e i suoi abitanti verrò esaminando nel primo capitolo l'indole, la religione, i trionfi di Maometto: verrò seguitando nel secondo gli Arabi al conquisto dell'Assiria, dell'Egitto e dell'Affrica, province dell'Impero romano, e li accompagnerò nella lor corsa trionfale sino a tanto che abbiano gettato a terra il trono della Persia e della Spagna; andrò investigando nel terzo il modo con cui furono Costantinopoli e l'Europa salve mercè del lusso e delle arti, non che della discordia e della debolezza dell'Impero dei Califi. Un solo capitolo indicherà i fatti che riguardano, 3. i Bulgari 4. gli Ungari e 5. i Russi, i quali per mare o per terra assaliron le province e la capitale; ma meriteranno la nostra curiosità l'origine e l'infanzia di quest'ultimo popolo cresciuto oggi a tanta potenza; 6. i Normani o più veramente pochi avventurieri di quella gente bellicosa, i quali un gran regno fondarono nella Gallia, e nella Sicilia, crollarono il soglio di Costantinopoli, e tutto il valore manifestarono dei Cavalieri, i quali avverarono le maraviglie dei Romanzi; 7. i Latini, o le nazioni d'Occidente, soggette al Papa, che sotto il vessillo della Croce, si arrolarono per ricuperare o liberare il Santo Sepolcro. Sulle prime rimasero atterriti, poscia rassodati gl'Imperatori greci sul trono da migliaia di pellegrini, che si trasferirono a Gerusalemme con Goffredo di Buglione e coi Paladini della Cristianità. La seconda e la terza Crociata corsero la via dalla prima; l'Europa e l'Asia furono miste in una guerra santa, che durò per due secoli, e Saladino e i Mamelucchi d'Egitto, dopo avere vigorosamente resistito ai Potentati cristiani, finirono di cacciarli del tutto. In mezzo a queste guerre memorabili, una squadra ed un esercito di Francesi e di Veneziani deviarono dal lor viaggio di Siria alla volta del Bosforo Tracio; presero d'assalto la capitale dell'Imperio, capovolsero la monarchia de' Greci, e per più di sessant'anni regnò in Costantinopoli una dinastia di Principi latini. Per tutta quell'epoca di cattività e d'esilio fa d'uopo considerare i Greci stessi come forestieri, come nemici, e poi sovrani di Costantinopoli. Le loro disgrazie avevano ridestato in essi una scintilla di valor nazionale, e dal punto che ripresero la corona sino al conquisto de' Turchi, mostrarono gl'Imperatori qualche dignità; 9. i Mogolli e i Tartari; le armi di Gengis e i suoi discendenti diedero una scossa al Mondo cominciando dalla Cina fino alla Polonia e alla Grecia; furono i Soldani atterrati, i Califi caddero dal soglio, tremarono i Cesari nel lor palazzo, e le vittorie di Timur tennero in sospeso per più di mezzo secolo l'ultima mina dell'Impero bizantino. 10. Ho già fatta menzione della prima comparsa de' Turchi; due dinastie successive de' principi di quella nazione, che nell'undecimo secolo sboccò dai deserti della Scizia son distinte dai nomi dei loro Capi Seljuk e Othman. Fondò il primo un insigne e poderoso reame, che si allargava dalle rive dell'Oxo ad Antiochia e Nicea: ebbe origine la prima Crociata dalla profanazione dei luoghi santi ch'egli conquistò, e dal pericolo in che pose Costantinopoli. Gli Ottomani, usciti da oscuro paese, divennero lo spavento, il flagello della Cristianità. Maometto II strinse d'assedio, e prese Costantinopoli, e col suo trionfo annientò quel vano titolo, che rimaneva ancora nell'Impero romano in Oriente. La storia della scisma de' Greci sarà collegata a quella dell'ultime loro disgrazie, e del risorgimento dell'arti in Occidente. Dopo aver mostrata schiava la nuova Roma, rifrusterò le ruine dell'antica, e con un gran nome, con un rilevante soggetto spanderò un raggio di gloria sull'ultime mie fatiche.
L'Imperatore Eraclio avea punito un tiranno, si era impadronito del trono, e il suo regno era divenuto memorabile pel conquisto momentaneo, e per la perdita irreparabile delle province d'Oriente. Morta Eudossia, sua prima moglie, non volle obbedire al Patriarca, sposando sua nipote Martina; violò le leggi, e la superstizion dei Greci credè vedere un giudizio del cielo nelle malattie del padre e nella deformità dei figli; ma potendo la fama d'una nascita illegittima impedir l'elezione, o infievolire la docilità del popolo, ne avvenne, che la materna tenerezza, e forse anche la gelosia d'una suocera animassero vie più l'operosa ambizion di Martina, mentre a suo marito di già innoltrato negli anni, non bastava l'animo a resistere alle seduzioni, ed alle carezze d'una sposa. Costantino, suo figlio maggiore, ottenne in età matura il titolo d'Augusto; ma col suo meschino temperamento avea mestieri d'un collega, e d'un tutore, e però acconsentì, non senza una secreta ripugnanza, a dividere con altri l'Impero. Fu radunato in Corte il senato per ratificare, o attestare la successione di Eracleone, figlio di Martina: si consacrò l'imposizion del diadema con le preghiere e la benedizione del Patriarca; i senatori e i patrizi adorarono la maestà dell'Imperatore, e quella de' suoi colleghi, e come furono aperte le porte, la voce tumultuosa, ma importante, de' soldati acclamò i tre principi. Dopo uno spazio di cinque mesi si celebrarono nella cattedrale, o nell'Ippodromo cerimonie, che sole formavano, per quanto pareva, la costituzion dello Stato per dimostrare la buona concordia de' due fratelli, comparve il più giovine appoggiato al braccio del maggiore, e le grida d'una popolazione venduta, o sedotta dal timore, congiunsero il nome di Martina a quelli di Costantino e d'Eracleone. Non sopravvisse Eraclio più di due anni a questa associazione: col suo testamento nominò i suoi due figli eredi dell'Impero d'Oriente con un potere uguale, e ordinò, che onorassero Martina come la lor madre e sovrana.
A. D. 641
Non così tosto si mostrò Martina per la prima volta sul trono, col titolo e co' privilegi di regnante, che trovò una forte, benchè rispettosa opposizione; e dai pregiudizi superstiziosi si videro risplendere le ultime faville della libertà. «Noi veneriamo la madre de' nostri principi, esclamò un cittadino; ma questi principi sono i soli, cui dobbiamo obbedire, e Costantino, il primogenito de' nostri due Imperatori è in un'età da sostenere il peso della corona. La natura ha escluso il tuo sesso dalle cure del governo. Se i Barbari s'accostassero alla città reale, sia in figura di nemici, sia con intenzioni pacifiche, potresti tu combatterli, sapresti tu rispondere? I Persiani stessi, che pur sono schiavi, non potrebbero sofferire il governo d'una donna. Preservi il cielo per sempre la Repubblica romana da un avvenimento che sarebbe il disdoro della nazione»! Martina, tutta sdegnata, discese dal trono, e si ritirò nell'appartamento della Corte, abitato dalle donne. Centotre giorni durò il regno di Costantino III. Finì nell'età di trent'anni una vita che non era stata che una malattia continua; la sua morte prematura fu per altro attribuita alla suocera, la quale, fu voce, impiegasse il veleno. Di fatto ella raccolse i frutti di questa morte, e insignorissi del governo in nome d'Eraclio; il popolo, che sospettava di costei rivolse le sue sollecitudini alla conservazione dei due orfani, lasciati da Costantino. Invano il figlio di Martina, nell'età di quindici soli anni, ammaestrato dalla madre dichiarò, che sarebbe il tutore de' suoi nipoti, uno de' quali era stato da lui tenuto al Sacro Fonte; in vano giurò sulla vera Croce, che difesi li avrebbe da tutti i nemici. Poche ore prima di morire avea l'ultimo Imperatore spedito un servo fedele ad armare gli eserciti e le province dell'Oriente, in favor degli orfani, ch'egli lasciava in mani sospette; l'eloquenza e la liberalità di Valentino gli aveano promesso buon esito, e dal suo campo di Calcedonia osò questi richiedere, che fossero puniti gli assassini, e rimesso in trono l'erede legittimo. Dalla licenza dei soldati, che saccheggiarono le viti, e ingollavano il vino dei demanii asiatici, appartenenti agli abitatori di Costantinopoli, furono questi ultimi mossi a vendetta contro gli autori delle lor disgrazie, e s'intese risuonare la chiesa di Santa Sofia, non già di cantici e di orazioni, ma delle grida e delle imprecazioni d'una plebe furiosa. Eracleone, chiamato da voci imperiose, comparve in pulpito col primogenito dei due orfanelli; Costanzo solo fu acclamato Imperator dei Romani, e colla benedizione solenne del Patriarca, gli fu posta in capo una corona d'oro, tolta dalla tomba d'Eraclio. Ma fra i tumulti della gioia e dell'ira, la chiesa fu messa a ruba; i Giudei e i Barbari profanarono il santuario, e Pirro settario dell'eresia dei Monoteliti, e creatura dell'Imperatrice, per sottrarsi alla violenza de' cattolici, pigliò saviamente il partito di fuggirsene, dopo aver lasciato la sua protesta sull'altare. Il senato, che avea momentaneamente ricuperata qualche autorità dall'assenso de' soldati e del popolo, doveva adempiere uffici più seri e più sanguinari. Caldo del fuoco della libertà romana, rinnovò l'antico grandioso spettacolo d'un tiranno giudicato dal popolo; Martina, e suo figlio furon deposti, e condannati come autori della morte di Costantino; ma la severa giustizia dei Padri Coscritti fu contaminata da una crudeltà che confuse l'innocente col reo. Martina ed Eracleone furono condannati ad avere l'una la lingua tagliata, e l'altro il naso; e dopo questa barbara esecuzione chiusero entrambi il rimanente de' loro giorni nell'esilio e nell'obblivione; e quei Greci, ch'erano capaci di qualche riflessione dovettero in certo modo consolarsi della servitù, osservando sin dove può trascorrere l'abuso del potere, posto per un istante nelle mani dell'aristocrazia.
Quando si legge il discorso pronunciato da Costanzo II in età di dodici anni davanti il Senato bizantino, pare che siamo tornati indietro cinque secoli ai tempi degli Antonini. Dopo avergli renduto grazie della pena giustamente data agli assassini, che rapite aveano alla nazione le belle speranze del regno di suo padre, soggiunse il giovine principe: «La divina provvidenza, e il vostro saggio decreto hanno balzata dal soglio Martina, e la sua incestuosa progenie. La vostra maestà, la vostra sapienza hanno impedito che l'Impero romano degeneri in una tirannide, che non conosca più leggi. Io vi domando istantemente, e vi esorto di consacrare al ben pubblico i consigli, e la prudenza vostra». Questo linguaggio officioso, accompagnato da grandi liberalità soddisfece molto i Senatori; ma non eran degni i venali Greci d'una libertà, che non sapeano apprezzare abbastanza, e i pregiudizi del tempo, l'abitudine al dispotismo cancellaron ben presto dalla memoria del nuovo Imperatore una lezione, che l'aveva occupato per pochi momenti. Non gli rimase che un timore, un'inquietudine, che mai qualche giorno il senato o il popolo invadesse il diritto di primogenitura, e collocasse il fratello Teodosio sul trono con autorità uguale alla sua. Il nipote d'Eraclio, promosso agli Ordini sacri, divenne inabile per la porpora; ma questa cerimonia, che profanava i Sacramenti della Chiesa, non bastò ad acquetare i sospetti del tiranno; e solamente la morte del diacono Teodosio valse ad espiare il delitto della sua regia estrazione. Dalle imprecazioni del popolo fu vendicato questo assassinio, e l'uccisore, che pur godeva tutta la pienezza del potere, fu obbligato a condannarsi da sè ad un esilio perpetuo. Costanzo s'imbarcò per la Grecia; e quasi volesse rendere alla patria quei sentimenti d'abbominazione, ch'egli meritava da lei, è fama, che dalla sua galea imperiale sputasse contro le mura di Costantinopoli. Dopo avere svernato in Atene, si trasferì a Taranto in Italia, visitò Roma, ed in Siracusa, ove fermò la residenza, finì questo vergognoso viaggio marcato in tutto il suo corso da rapine sacrileghe; ma se potè involarsi agli sguardi del suo popolo, non poteva fuggire sè stesso: i rimorsi della sua coscienza gli crearono un fantasma che lo perseguitò per terra e per mare, notte e giorno. Credea sempre vedersi in faccia la figura di Teodosio, che presentandogli una coppa piena di sangue, e appressandogliela alle labbra, dicevagli, o parea che gli dicesse: «Bevi fratello, bevi»; allusione alla circostanza che aggravava il suo delitto, poichè avea ricevuto dalle mani del Diacono la coppa misteriosa del Sangue di Cristo. In odio a sè stesso, in odio al genere umano, morì nella capitale della Sicilia per un tradimento domestico, e forse per una cospirazione de' Vescovi. Un servo che l'assisteva al bagno, dopo avergli versato acqua calda sul capo, lo colpì violentemente col vaso che teneva in mano; cadde il principe sbalordito dal colpo, e soffocato dal calore dell'acqua; il suo corteggio non vedendolo ricomparire, corse colà, e riconobbe, senza commoversi, ch'egli era morto. Le soldatesche della Sicilia vestirono della porpora un giovinetto oscuro, ma d'una bellezza inimitabile, che non poteva, come è facile a credersi, essere ritratta dai pittori, nè dagli scultori d'allora.
A. D. 668
Costanzo avea lasciato tre figli nel palazzo di Bizanzio; il primogenito avea ricevuto la porpora sin dall'infanzia. Quando ordinò che venissero a trovarlo in Sicilia, i Greci che voleano custodire quelli ostaggi preziosi, risposero, che quelli erano figli dello Stato, e che non doveano partire. Giunse la nuova della sua morte da Siracusa a Costantinopoli con una rapidità straordinaria, e Costantino, il primogenito de' suoi figli, fu l'erede del suo trono, senza ereditare l'odio del Pubblico. Con grande zelo ed ardenza concorsero i sudditi a punire quella provincia, che aveva usurpato i diritti del Senato e del Popolo: il giovane Imperatore salpò dall'Ellesponto con una squadra numerosa, e raccolse sotto le sue insegne, nel porto di Siracusa, le legioni di Roma e di Cartagine. Agevole cosa era lo sconfiggere l'Imperatore acclamato dai Siciliani, e giusta ne era la morte; la sua bella testa fu esposta nell'Ippodromo; ma non posso applaudire alla clemenza d'un Principe che nel gran numero delle sue vittime comprese il figlio d'un patrizio, che non avea altra colpa che d'aver amaramente deplorato il supplizio d'un padre virtuoso. Questo giovine, chiamato Germano, fu condannato ad una mutilazione ignominiosa: ma sopravvisse a questa crudele operazione, ed elevato poscia alla dignità di Patriarca e di Santo, ha conservata la memoria dell'indecente atrocità dell'Imperatore. Dopo avere offerti all'ombra del padre sagrifici così sanguinosi, ritornò Costantino alla sua capitale, ed essendogli spuntata la barba nel suo viaggio di Sicilia, questa circostanza fu divulgata all'Universo col soprannome datogli di Pogonate. Il suo regno, come quello del suo predecessore, fu deturpato dalla discordia fraterna. Aveva egli conferito il titolo d'Augusto ad Eraclio e a Tiberio, suoi fratelli; ma non era per essi che un vano titolo, avvegnacchè continuavano a languire nella solitudine del palazzo senza poteri e senza occupazioni. Segretamente istigate da loro le soldatesche del Tema o sia della provincia d'Anatolia, s'appressarono dalla parte dell'Asia a Costantinopoli; chiedendo a favor dei due fratelli di Costantino la divisione o l'esercizio della sovranità, e sostenendo con un argomento teologico questa sediziosa domanda. Gridavano i soldati, essere Cristiani, e Cattolici, e sinceri adoratori della santa ed individua Trinità; e però se regnavano tre persone uguali nel Cielo, era ben ragionevole, che tre persone uguali fossero sulla Terra. L'Imperatore invitò quei bravi dottori ad un'amichevole conferenza, in cui proporre potevano al Senato le loro ragioni: quelli vi andarono; e ben presto lo spettacolo de' loro corpi impesi alle forche nel sobborgo di Galata bastò a riconciliare i lor compagni coll'unità del Regno di Costantino. Il quale perdonò ai fratelli, e lasciò che fossero, come prima, onorati nelle pubbliche acclamazioni; ma divenuti nuovamente colpevoli, o avendone dato nuovamente sospetto, perdettero il titolo d'Augusto, e fu tagliato loro il naso al cospetto de' Vescovi cattolici, che in Costantinopoli componevano il sesto Concilio generale. Pogonate, sul termine della vita, si mostrò sollecito di statuire il diritto di primogenitura. Le capellature de' suoi due figli Giustiniano ed Eraclio furono offerte sopra il deposito di S. Pietro, come Simbolo della spirituale adozione, che ne facea il Papa; ma solamente al primogenito fu conferito il grado d'Augusto, e assicurata la corona.
A. D. 685
Giustiniano II, morto il padre, eredò l'Impero, e il nome d'un legislatore trionfante fu infamato dai vizi d'un giovinastro, che non imitò il riformator delle leggi in altro, fuorchè nel lusso degli edifici. Violente n'erano le passioni, ma debole l'intelletto; esaltava coll'ebbrezza d'uno sciocco orgoglio il diritto di nascita che gli sottometteva milioni d'uomini, quando la più picciola Comunità non l'avrebbe eletto per suo magistrato speciale. Erano i suoi ministri favoriti un eunuco ed un frate, cioè due Esseri, che per la loro condizione erano i meno capaci d'umani affetti: all'uno lasciava in cura il palazzo; all'altro l'erario; il primo castigava a frustate la madre dell'Imperatore; il secondo faceva impendere i debitori insolvibili colla testa abbasso sopra un fuoco lento, che esalava una nube di fumo. Dai giorni di Commodo o di Caracalla in poi il timore era stato il movente ordinario della crudeltà nei sovrani di Roma; ma Giustiniano, che aveva qualche vigor di carattere si compiaceva a veder tormentati i sudditi, e affrontò la loro vendetta per dieci anni in circa sino al punto che fu colma la misura de' suoi delitti, e quella della loro pazienza. Leonzio, Generale di grido, avea per più di tre anni languito in un carcere con vari patrizi delle più nobili e degne famiglie; ad un tratto il sovrano lo liberò per dargli il governo della Grecia: questa grazia, conceduta ad un uomo offeso, annunziava disprezzo più che fiducia; mentre i suoi amici l'accompagnavano al porto, ove doveva imbarcarsi, disse loro sospirando, che si ornava la vittima pel sagrifizio, che sarebbe presto seguito dalla morte: ebbero quelli coraggio a rispondergli che forse la gloria e l'Impero sarebbero il guiderdone d'un tentativo generoso; che tutte le classi dello Stato abborrivano il regno d'un mostro, che dugentomila patriotti non aspettavan altro che la voce d'un Capitano. Prescelsero la notte per adempiere la loro liberazione; e ne' primi sforzi de' cospiratori, fu svenato il prefetto della capitale, e forzate le prigioni; per tutte le strade gridavano gli emissari di Leonzio: «Cristiani, a Santa Sofia». Il testo eletto dal Patriarca «ecco il giorno del Signore» fu l'annunzio d'una predica, che fini d'infiammare gli spiriti; il perchè uscendo dalla Chiesa indicò al popolo un'altra adunanza da tenersi nell'Ippodromo. Giustiniano, pel quale non s'era sguainata una sola spada, fu trascinato davanti a quei Giudici furibondi, i quali domandarono, che fosse subitamente punito di morte. Leonzio, già vestito della porpora, vide con occhio di compassione il figlio del suo benefattore, il rampollo di tanti Imperatori, boccone innanzi a sè. Perdonò la vita a Giustiniano; ma gli fu tagliato, benchè imperfettamente, il naso, e forse la lingua. La flessibilità dell'idioma greco gli diede immediatamente il nome di Rhinotmeta: così mutilato il tiranno fu confinato a Cherson, borgo solitario della Tartaria-Crimea, la quale traeva da' paesi vicini vino, biade ed olio, come merci di lusso.
A. D. 695-705
Esule sulla frontiera dei deserti della Scizia, chiudeva sempre in cuore Giustiniano, coll'orgoglio dei natali, la speranza di risalire sul trono. Dopo tre anni d'esilio, ebbe la gioia d'intendere, ch'era stato vendicato da una seconda rivoluzione, e che Leonzio era stato deposto, e mutilato anch'esso dal ribelle Apsimaro, che avea preso il nome più rispettabile di Tiberio. Ma le pretensioni della linea diretta dovean esser temute da un usurpatore, uscito della classe del volgo; e cresceano le sue inquietudini dalle lagnanze di accuse degli abitanti di Cherson, che trovavano i vizi del tiranno nelle azioni del principe sbandito. Giustiniano, seguìto da una masnada di gente, a lui attaccata per la stessa speranza, o per la stessa disperazione, abbandonò quella terra inospitale, e si rifuggì presso i Cozari che accampavano al Tanai e al Boristene. Il Khan, mosso a compassione, trattò con molto riguardo un supplichevole di tal fatta: lo collocò in Fanagoria, città un tempo opulenta, situata sulla riva della palude Meotide, dalla parte dell'Asia. Posti allora in non cale tutti i pregiudizi romani, sposò Giustiniano una sorella del Barbaro, la quale per altro col nome di Teodora dà luogo a credere che fosse battezzata; ma il perfido Khan fu subornato ben presto dall'oro di Costantinopoli, e se non era l'amor di sua moglie, che gli svelò i disegni tramati a suo danno, Giustiniano periva sotto il ferro degli assassini, od era dato in balìa de' suoi nemici. Dopo avere strangolato colle sue mani i due satelliti del Khan, rimandò Teodora a suo fratello, ed egli s'imbarcò su l'Eusino in traccia di più fedeli alleati. Una furiosa tempesta assalì il suo vascello, ed un uomo del suo seguito lo consigliò d'impetrare la misericordia del cielo facendo voto di dare un perdono generale, se mai ricuperasse l'Impero. «Perdonare? esclamò l'intrepido tiranno; piuttosto morire in questo momento! l'Onnipotente mi faccia inghiottire dal mare, s'io consento a risparmiare la testa d'un solo de' miei nemici!» Egli sopravvisse a quest'empia minaccia, entrò nella foce del Danubio, osò arrischiare i passi nel villaggio abitato dal Re de' Bulgari, Terbelis, principe bellicoso e pagano, da cui ottenne soccorsi, promettendo di dargli sua figlia, e di partir seco i tesori dell'Impero. Estendevasi il regno dei Bulgari sino ai confini della Tracia, e i due principi con quindicimila cavalieri si spinsero sotto le mura di Costantinopoli. Fu sbigottito Apsimaro da questa improvvisa comparsa del suo rivale, quando glien'era stata promessa la testa dal Cozaro, e ne ignorava la fuga. Dieci anni d'assenza avean quasi abolita la ricordanza dei delitti di Giustiniano; i suoi natali e le sue disgrazie moveano a pietà la moltitudine sempre malcontenta dei principi che la governano, e quindi per lo zelo, e l'attività de' suoi partigiani fu introdotto nella città e nel palazzo di Costantinopoli.
Nel premiare i suoi alleati, nel richiamare la moglie al suo fianco, dimostrò Giustiniano non essere al tutto scemo dei sentimenti d'onore e di gratitudine. Terbelis si ritirò con un mucchio d'oro, che fu misurato dalla lunghezza della sua frusta. Ma non fu mai adempiuto sì religiosamente un voto, quanto il giuramento di vendetta, pronunciato in mezzo alla procella dell'Eusino. I due usurpatori (così dee dirsi, poichè il nome di tiranno va riservato al vincitore) furono condotti nell'Ippodromo, l'uno dalla sua prigione, l'altro dal palazzo. Leonzio ed Apsimaro, prima che fossero consegnati ai carnefici, incatenati siccome erano, furon distesi sotto il trono dell'Imperatore, e Giustiniano, ponendo un piede sul collo di ciascheduno, guardò per più d'un'ora la corsa dei carri, mentre il popolo, sempre volubile, ripetea quel versetto del Salmista: «Camminerai sull'aspide e sul basilisco, e conculcherai il leone ed il drago.»[186] La diserzione universale da lui già provata, potè fargli desiderare, come a Caligola, che il popolo romano non fosse che una testa sola. Osserverò per altro, che questa brama non si addiceva ad un tiranno sagace, imperocchè in vece de' vari tormenti, con cui straziava le vittime della sua collera, avrebbe un colpo solo terminati i piaceri della sua vendetta e crudeltà. E di questi piaceri fu in fatti insaziabile; nè virtù private, nè pubblici servigi valsero ad espiare il delitto d'una obbedienza attiva od anche passiva ad un governo costituito; e ne' sei anni del suo novello regno, la mannaia, la corda, la tortura gli parvero i soli istromenti propri del regno. Ma singolarmente contro gli abitanti di Cherson che l'aveano insultato nell'esilio, e spregiati i doveri dell'ospitalità, diresse egli tutti gli sforzi del suo odio implacabile. Poichè per la rimota lor situazione rimaneva loro qualche via per la difesa o per la fuga, impose a Costantinopoli una tassa, che dovea pagar le spese d'una squadra e d'un esercito da spedire contro essi: «Tutti sono colpevoli, e tutti han da perire;» tale fu l'ordine di Giustiniano, e ad eseguire questo sanguinario decreto elesse Stefano, suo favorito, che gli era caro pel soprannome di Selvaggio. Ma il selvaggio Stefano adempiè imperfettamente alle intenzioni del suo sovrano. La lentezza delle sue mosse diede agio alla maggior parte degli abitanti di ritrarsi nell'interno del paese, ed il ministro delle vendette imperiali si contentò di ridurre in servitù i giovani dei due sessi, di ardere vivi sette dei primarii cittadini, di gettarne venti in mare, e di serbarne quarantadue a ricever la condanna dalla bocca di Giustiniano. Nel ritorno di Stefano la sua squadra si arenò agli scogli delle coste dell'Anatolia; e Giustiniano applaudì alla cortesia dell'Eusino, che aveva in un medesimo naufragio ravvolte tante migliaia dei suoi sudditi e dei suoi nemici; ma pure, sitibondo di sangue, comandò il tiranno una seconda spedizione, che annientasse gli avanzi della colonia da lui proscritta. In quel breve intervallo, erano ritornati i Chersoniti in città, e s'apparecchiavano a perire coll'armi in mano; il Khan dei Cozari aveva abbandonata la causa del suo detestabile cognato; i fuorusciti di tutte le province si raccolsero in Tauride, e Bardane, sotto nome di Filippico, ebbe la porpora. Le milizie imperiali non volendo, nè potendo mandare ad effetto i disegni vendicativi di Giustiniano si sottrassero al suo furore, rinunciando all'obbedienza; l'armata condotta da Filippico approdò felicemente ai porti di Sinopo e di Costantinopoli; tutte le bocche gridarono, morte al tiranno; e tutte le braccia si mossero per darla. Privo d'amici fu abbandonato dai Barbari che lo guardavano, e il colpo che troncò la sua vita, fu celebrato come un atto di patriottismo, e impresa degna di romana virtù. Suo figlio Tiberio s'era ricoverato in una chiesa; ne difendeva la porta sua avola, molto avanzata in età; quell'innocente giovinetto si pose al collo le reliquie più venerate, s'appoggiò con una mano all'altare, coll'altra sulla Croce; ma la furia popolare, quando osa metter sotto i piedi la superstizione, è sorda alle grida dell'umanità; e la stirpe d'Eraclio s'estinse, dopo aver portata la corona per un secolo.
A. D. 711
Fra la caduta della razza degli Eraclidi e l'avvenimento della dinastia Isaurica passa un intervallo di sei soli anni, diviso in tre regni. Bardane o Filippico fu accolto in Costantinopoli come un eroe, che avea liberato dal tiranno la patria, e i primi trasporti d'un giubbilo sincero ed universale gli fecero gustare qualche ora di felicità. Giustiniano avea lasciato un tesoro, frutto delle sue crudeltà e rapine; ma non tardò il successore a dissiparlo in vane prodigalità. Nel giorno anniversario della sua nascita, Filippico diede al popolo i giuochi dell'Ippodromo; girò quindi per tutte le strade preceduto da mille bandiere e da mille trombe. Andò a rinfrescarsi nei bagni di Zeusippo e ritornato in palazzo trattò a sontuoso convito la Nobiltà. Nel dopo pranzo si ritirò nel suo appartamento ebbro d'orgoglio e di vino, senza pensare che le sue fortune aveano fatti ambiziosi tutti i suoi sudditi, e che ogni ambizioso secretamente gli era nemico. In mezzo al rumor della festa, alcuni arditi cospiratori penetrarono nelle sue stanze, sorpresero nel sonno il monarca, lo legarono, gli cavarono gli occhi, e gli tolsero la corona prima ch'egli si accorgesse della grandezza del suo pericolo; ma i traditori non approfittarono del lor delitto; dalla scelta del senato e del popolo fu conferita la porpora ad Artemio, che presso l'Imperatore deposto avea l'impiego di segretario. Il quale prese il nome d'Anastasio II, e nel breve suo regno, pieno di turbolenze, dimostrò tanto in pace che in guerra le virtù che convengono ad un sovrano. Ma coll'estinzione della linea imperiale s'era già rotto il freno dell'obbedienza, ed in ogni esaltazione al trono pullulavano i semi d'un nuovo sconvolgimento politico. In una sollevazione dell'armata navale, un abbietto ufficiale del fisco fu vestito della porpora a suo malgrado. Dopo alcuni mesi di guerra marittima, Anastasio abdicò la corona, e Teodosio III, suo vincitore, si sottomise ancor esso alla prevalenza di Leone, Generale degli eserciti d'Oriente. Fu permesso ad Anastasio e a Teodosio l'abbracciare lo stato ecclesiastico; l'ardente veemenza del primo lo condusse ad avventurare ed a perder la vita in una cospirazione; onorati e tranquilli furon gli ultimi giorni del secondo. Sulla sua tomba non fu scolpita che questa parola «Salute», iscrizione d'una sublime semplicità, che esprime la fiducia della filosofia, o della religione, e il popolo d'Efeso conservò lungo tempo la memoria de' suoi miracoli. Gli esempi offerti dalla Chiesa poterono dare qualche volta utili lezioni di clemenza ai Principi; ma non è poi certo, che scemando i pericoli d'un'ambizione sfortunata, siasi operato per l'interesse del pubblico.
A. D. 718
Dopo essermi fermato sul precipizio d'un tiranno, indicherò in poche parole il fondatore d'una nuova dinastia, noto alla posterità per l'invettive de' suoi avversari, e la cui vita pubblica e privata van congiunte all'istoria degli Iconoclasti. Ad onta dei clamori della superstizione, l'oscurità della nascita e la durata del regno di Leone l'Isaurico inspirano una idea favorevole dell'indole di questo principe. In un secolo maschio l'esca della dignità imperiale avrebbe potuto avvivare tutta l'energia dello spirito umano, e suscitare una folla di competitori tanto degni del trono, quanto animosi ad occuparlo. Anche in mezzo della corruttela e della debolezza dei Greci in quel tempo, la fortuna d'un plebeo, che si sollevò dall'ultimo al primo grado della società, suppone prerogative in lui, superiori all'altezza delle volgari. Vi è ragion di pensare, che questo plebeo non conoscesse, e non curasse le scienze, e che nella sua carriera ambiziosa si dispensasse dai doveri della benevolenza e della giustizia; ma si può credere, che possedesse le virtù più utili, come la prudenza e la forza, e che avesse la cognizione degli uomini, e dell'arte importante di cattivarsi la fiducia, e di dirigere le passioni loro. È opinion generale che Leone fosse nato nell'Isauria, e che portasse da prima il nome di Conone. Certi scrittori, la cui satira inconsiderata può tenergli luogo d'elogio, lo rappresentano come un pezzente, che corresse a piedi da una fiera all'altra d'un paese, menandosi dietro un asino carico di qualche merce di poco prezzo. Narrano in un modo ridicolo, che s'abbattesse per via in alcuni Ebrei, che davano la buona ventura, i quali gli promisero l'Impero romano, purchè abolisse il culto degl'idoli[187]. Stando ad una versione più probabile, suo padre abbandonò l'Asia Minore per domiciliarsi nella Tracia, ove esercitò l'utile mestiere di mercante di bestiami, nel quale avea certamente fatto gran guadagno se è vero, che, colla somministrazione di cinquecento agnelli, ottenesse che il figlio entrasse al servigio dell'Imperatore. A prima giunta fu collocato Leone nelle guardie di Giustiniano, e non andò guari, che si attirò gli sguardi, poscia i sospetti del tiranno. Si segnalò in valore e in destrezza nella guerra della Colchide. Anastasio gli conferì il comando delle legioni dell'Anatolia, e quando i soldati gli posero in dosso la porpora, fece plauso l'Impero romano a quella elezione. Leone III portato a quella dignità pericolosa, vi si tenne fermo a dispetto dell'invidia de' suoi uguali, del malumore di una fazion terribile, e degli assalti dei nemici domestici e forestieri. Anche i cattolici, benchè esclamino contro le sue novità in materia di religione, son costretti a convenire, che le incominciò con moderazione, e le condusse a termine con fermezza, e nel loro silenzio hanno rispettata la savia sua amministrazione, e i suoi puri costumi. Dopo un regno di ventiquattr'anni se ne morì tranquillo nel suo palazzo di Costantinopoli, e i suoi discendenti redarono sino alla terza generazione quella porpora, che egli s'era acquistata.
A. D. 741
Il regno di Costantino quinto per soprannome Copronimo, figlio e successor di Leone, durò trenta quattr'anni: questi con minor moderazione perseguitò il culto delle Immagini. L'odio religioso vomitò tutto il suo fiele nella dipintura, che i partigiani delle Immagini ci fecero della persona e del regno di questo principe, di questa pantera macchiata, di questo anticristo, di questo drago volante, di questo germe del serpente, che sedusse la prima donna. Al loro dire costui superò nei vizi Elagabalo e Nerone; il suo regno fu un perpetuo macello dei personaggi più nobili, più santi, o più innocenti dell'Impero; assisteva al supplizio delle sue vittime, considerava le convulsioni della loro agonia, ne ascoltava con piacere i gemiti, nè mai potea saziarsi del sangue, che godea di versare: spesse volte battea colle verghe, o mutilava i familiari della sua Casa reale: il soprannome di Copronimo ricordava ch'egli avea lordato di escrementi il Fonte battesimale; veramente l'età potea farne le scuse; ma i solazzi della sua virilità lo fecero inferiore ai bruti; confuse nelle sue dissolutezze tutti i sessi e tutte le spezie, e parve che si compiacesse pur delle cose più ributtanti pei sensi. Quest'Iconoclasta fu eretico, ebreo, maomettano, pagano, ateo; e solamente le sue cerimonie magiche, le vittime umane che immolava, i sagrifizi notturni a Venere e ai demonii dell'antichità, son le prove che abbiamo della sua credenza in Dio. La sua vita fu lorda dei vizi i più contraddittorii, e finalmente le ulceri che copersero il suo corpo gli anticiparono i tormenti dell'inferno. Si confuta da sè medesima l'assurdità d'una parte di queste accuse, che ho avuto la pazienza di copiare; e in ordine ai fatti privati della vita de' principi è troppo facile la menzogna, troppo difficile il ribatterla. Io non mi attengo alla perniciosa massima di credere, che chi è incolpato di molte cose sia necessariamente colpevole di qualcheduna; posso però travedere chiaramente, che Costantino V fosse dissoluto e crudele. È proprietà della calunnia l'esagerare piuttosto, che l'inventare, e il suo linguaggio temerario è in parte frenato dalla notorietà fondata nel secolo e nel paese, da cui trae testimonianza. È indicato il numero de' Vescovi, de' Monaci e de' Generali dalla sua atrocità sagrificati. Erano illustri i lor nomi, pubblica ne fu l'esecuzione, e la mutilazione fu visibile e permanente. Detestavano i cattolici la persona e il governo di Copronimo; ma la loro stessa avversione è un indizio dell'oppressione che soffrivano. Tacciono le colpe cogli insulti che poterono per avventura scusarne o giustificarne il rigore; ma per questi insulti dovette a poco a poco moversi a collera, e indurarsi all'uso ed all'abuso del despotismo; tuttavolta non era Costantino V spoglio di meriti, nè il suo governo fu sempre degno dell'esecrazione o del disprezzo de' Greci. Confessano i suoi nemici, che restaurò un vecchio acquedotto, che riscattò duemila e cinquecento prigionieri, che godettero i popoli sotto il suo regno una insolita abbondanza, che con nuove colonie ripopolò Costantinopoli e le città della Tracia; e a malincuore son costretti a lodarne l'attività ed il coraggio. In battaglia era sempre a cavallo alla fronte delle sue legioni, e quantunque non sieno state sempre fortunate le sue armi, trionfò per terra e per mare, su l'Eufrate e sul Danubio, nella guerra civile come nella barbarica; conviene inoltre, per fare contrappeso alle invettive degli ortodossi, mettere ancora nella bilancia le lodi dategli dagli eretici. Gl'Iconoclasti onorarono le sue virtù, lo considerarono per Santo, e quarant'anni dopo la sua morte oravano sulla sua tomba. Il fanatismo e la soperchieria divolgarono una visione miracolosa: si disse che l'eroe cristiano era comparso sopra un cavallo bianco, colla lancia imbrandita, contro i Pagani della Bulgaria: «Favola assurda, dice uno scrittore cattolico, perchè Copronimo è incatenato coi demonii negli abissi dell'inferno».
A. D. 775
Leone IV, figlio di Costantino V, e padre di Costantino VI, fu debole di corpo e di spirito; e in tutto il suo regno non ebbe altro gran pensiero che la scelta del suo successore. Dallo zelo officioso dei suoi sudditi fu sollecitato perchè associasse all'Impero il giovine Costantino; l'Imperatore, che lo vedea deperire, s'arrese ai loro voti unanimi, dopo avere esaminato quest'alto affare con tutta l'attenzione che meritava. Costantino di soli cinque anni fu coronato insieme con sua madre Irene; e il consentimento nazionale fu consacrato con tutte le cerimonie le più acconce, per pompa e per apparecchio, ad abbacinare gli occhi dei Greci, o ad incatenarne le coscienze. I vari ordini dello Stato prestarono giuramento di fedeltà nel palazzo, nella chiesa, e nell'Ippodromo; invocarono i santi nomi del Figlio e della Madre di Dio: «Noi chiamiamo in testimonio Gesù Cristo, esclamarono essi, noi veglieremo alla sicurezza di Costantino, figlio di Leone; esporremo la nostra vita in suo servigio, e resteremo fedeli alla sua persona e alla sua posterità». Ripeterono quel giuramento sopra il legno della vera Croce, e l'atto della lor sommessione fu depositato sull'altare di Santa Sofia. Primi a fare questo giuramento, e primi a violarlo, furono i cinque figli avuti da Copronimo nel secondo matrimonio, e n'è ben singolare quanto tragica l'istoria. Per diritto di primogenitura erano esclusi dal trono, e dall'ingiustizia del fratello maggiore erano stati privati d'un legato di circa due milioni sterlini; non credettero essi, che potessero vani titoli essere un compenso di ricchezza e di potere, e quindi in diverse riprese cospirarono contro il nipote, sia avanti, sia dopo la morte del padre. Ebbero il perdono la prima volta; nella seconda furon condannati allo stato ecclesiastico; al terzo tradimento, Niceforo, il più anziano e il più colpevole, fu privato degli occhi, e con un gastigo riputato più dolce, fu tagliata la lingua a Cristoforo, a Niceta, ad Antimio, e ad Eudossio, suoi fratelli. Dopo cinque anni di carcere fuggirono, e si ricoverarono nella chiesa di Santa Sofia, ove offersero al popolo uno spettacolo commovente. «O Cristiani, miei concittadini, gridò Niceforo in nome proprio ed in quello de' suoi fratelli che non poteano parlare, mirate i figli del vostro Imperatore, se pur li potete riconoscere in quest'orrido stato. La vita, e qual vita! ecco tutto ciò che ne ha lasciato la crudeltà dei nostri nemici: oggi è minacciata questa misera vita, e noi veniamo ad implorare la vostra compassione». Il fremito, che già si spandeva nell'assemblea, sarebbe terminato in sollevazione, se quella prima sommossa non fosse stata compressa dalla presenza d'un ministro, che con promesse e carezze seppe ammansare quei principi sventurati, e condurli dalla chiesa al palazzo. Non fu posto tempo di mezzo ad imbarcarli per la Grecia, e fu assegnata loro per luogo d'esilio la città d'Atene. In quel ritiro, e nonostante il loro stato, tormentati sempre dalla sete di regno, Niceforo e i suoi fratelli si lasciaron sedurre da un Capitano schiavone, che promise di rimetterli in libertà, e di guidarli armati e adorni della porpora alle porte di Costantinopoli; ma il popolo Ateniese, sempre zelante per Irene, ne prevenne la giustizia o la crudeltà, e seppellì finalmente nell'eterno silenzio per sino la rimembranza dei cinque figli di Copronimo.
A. D. 780
Quest'Imperatore si avea scelta per moglie una Barbara, figlia del Khan dei Cozari; ma quando si trattò di maritare il suo erede, avea preferita una orfanella Ateniese dell'età di diciassett'anni, che pare non avesse altra fortuna che la bellezza. Le nozze di Leone e d'Irene furon celebrate con regia pompa: non tardò la principessa a conciliarsi l'amore e la fiducia d'uno sposo debole, il quale nel suo testamento la dichiarò Imperatrice, e affidò al suo governo il Mondo romano e il figlio Costantino VI, che non contava allora più di dieci anni. Durante la minorità del giovanetto, Irene si mostrò nella sua amministrazione pubblica donna ingegnosa ed attenta, fedele ed esatta ai doveri di madre; e lo zelo che pose a ristabilire le Immagini le ha meritato gli onori di Santa nei registri del calendario dei Greci; ma come fu escito dell'adolescenza, l'Imperatore ebbe a noia il giogo materno, porse orecchio a giovani favoriti della sua età, i quali, dividendo con lui i piaceri, avrebbero pur voluto partecipare alla sua autorità. Vinto dai lor discorsi, e persuaso de' suoi diritti all'Impero, e de' suoi talenti per sostenerlo, assentì che Irene, in premio de' suoi servigi, fosse confinata per tutta la vita nell'isola di Sicilia. La vigilanza, e l'accortezza dell'Imperatrice scompigliarono agevolmente i mal combinati disegni. Quei giovani, e i loro instigatori ebbero quella pena d'esilio che avean tentato di dare a lei, o fors'anche gastighi più severi; ebbe il principe ingrato quella punizione che ricevono per lo più i fanciulli. Da quel punto la madre e il figlio formavano due fazioni domestiche, ed ella invece di guidarlo colla dolcezza e di sottometterlo all'obbedienza, senza che se n'accorgesse, tenne incatenato un prigioniero e un nemico. Per abuso di vittoria ella si perdè; il giuramento di fedeltà, che volle per lei sola, fu pronunziato con ripugnanza e con bisbigli; ed avendo le guardie armene avuto il coraggio di negarlo, mosso il popolo da quest'esempio ardito, liberamente e con voti unanimi, dichiarò Costantino VI per legittimo Imperator dei Romani. Con questo titolo prese egli lo scettro, e condannò sua madre alla inazione ed alla solitudine. Allora l'alterigia d'Irene s'abbassò a dissimulare; piaggiò i Vescovi e gli eunuchi; ridestò nel cuore del principe la tenerezza filiale, ne ricuperò la fiducia, e ne deluse la credulità. Non mancava a Costantino nè sentimento, nè coraggio, ma s'era trascurata a bella posta la sua educazione, e l'ambiziosa madre denunziava alla pubblica censura i vizi da lei fomentati, e le azioni da lei consigliate secretamente. Col suo divorzio e con un secondo matrimonio ferì Costantino i pregiudizi degli ecclesiastici, e con un rigore imprudente perdè l'affezione delle guardie armene. Si formò una possente cospirazione per rimettere in trono Irene, e questo segreto, benchè confidato a gran numero di persone, fu per più di otto mesi fedelmente custodito. Finalmente l'Imperatore, entrato in sospetto del pericolo che gli sovrastava, salpò da Costantinopoli con intenzione di domandare aiuto alle province ed agli eserciti. Questa pronta fuga pose Irene su l'orlo del precipizio; tuttavolta prima d'implorar la clemenza del figlio, diresse una lettera particolare agli amici, ch'ella aveva collocati al fianco del principe, e li minacciò, se mancavano alla parola datale, di svelare il lor tradimento all'Imperatore. La paura li fece intrepidi; arrestarono l'Imperatore sulla costa d'Asia, e lo condussero al palazzo nell'appartamento porfirico, ove era nato. L'ambizione avea soffocato nel cuore d'Irene tutti i sentimenti dell'umanità e della natura; nel suo sanguinario Consiglio si decise, che si ridurrebbe Costantino ad uno stato da non poter più regnare: gli emissari di lei s'avventarono sul principe mentre dormiva; gli immersero i pugnali negli occhi, con tal violenza e precipizio, che si sarebbe detto che volessero dargli la morte. Da un passo equivoco di Teofane argomentò l'autore degli Annali della Chiesa, che di fatto l'Imperatore spirasse sotto quei colpi. L'autorità di Baronio ha illuso, o vinto i Cattolici, e in ordine a questo non ha voluto il fanatismo de' Protestanti porre in dubbio l'asserzione d'un cardinale, propenso per la protettrice delle Immagini; ma il figlio d'Irene visse ancora molti anni, oppresso dalla Corte, e dimenticato dal Mondo. La dinastia Isaurica s'estinse in silenzio, e non fu richiamata la memoria di Costantino, che pel matrimonio di sua figlia Eufrosina coll'Imperatore Michele II.
A. D. 792
I più fanatici dei cattolici han giustamente detestato una madre sì snaturata, che nella storia dei misfatti non ha forse l'uguale. La oscurità di diciassette giorni, durante la quale molti vascelli smarrirono la strada nel pieno meriggio, fu considerata dalla superstizione per un effetto del suo delitto, come se il Sole, quel globo di fuoco, sì remoto e sì ampio, avesse ne' suoi movimenti qualche simpatia cogli atomi d'un pianeta, che gira intorno a lui. L'atrocità d'Irene rimase per cinque anni impunita; luminoso era il suo regno; e se la sua coscienza tacea, poteva essa ignorare, o non curare l'opinione degli uomini. Il Mondo romano si sottomise al governo d'una donna, e quando ella passava per le strade di Costantinopoli, quattro patrizi a piedi, tenean le redini di quattro cavalli bianchi, attaccati al cocchio d'oro, su cui era portata la Regina; ma quei patrizi comunemente erano eunuchi; e la lor negra ingratitudine giustificò, in quest'occasione, l'odio e il disprezzo che si avea per essi. Tratti dalla polvere, arricchiti, ed elevati alle prime dignità dello Stato cospirarono da vili contro la propria benefattrice: il gran tesoriere per nome Niceforo fu segretamente ornato della porpora; il successore d'Irene fu collocato nel palazzo, e coronato in S. Sofia da un Patriarca, che avevano subornato con doni. Nel primo abboccamento col nuovo imperatore, Irene ricapitolò dignitosamente i vari accidenti che aveano agitata la sua vita; rimproverò dolcemente a Niceforo la sua perfidia; lasciò trapelare, ch'egli dovea la vita alla sua clemenza poco sospettosa; poi in compenso del trono e dei tesori, ch'ella abbandonava, domandò un ritiro decoroso. Niceforo gli negò questo discreto compenso, e l'Imperatrice, confinata nell'isola di Lesbo, non ebbe per sussistere che i guadagni della sua conocchia.
A. D. 802-811
Non v'ha dubbio, che vi furono tiranni più rei di Niceforo; ma niuno per avventura fu odiato più generalmente dal suo popolo. Tre vizi vergognosi, l'ipocrisia, l'ingratitudine e l'avarizia, lo deturparono; non supplivano i talenti al difetto di virtù, e gli mancavano qualità piacevoli, che coprissero il difetto di talenti. Inetto e sfortunato in guerra, fu vinto dai Saraceni, e ucciso dai Bulgari, e la sua morte si ebbe in conto di fortuna, la quale, nell'opinion pubblica, contrappesò la perdita d'un esercito romano. Stauracio, suo figlio ed erede, scampò dalla battaglia con una ferita mortale; ma sei mesi d'una vita, che fu un'agonia continua, bastarono a smentire la promessa aggradevole al popolo, ma indecente per sè medesima, da lui fatta, dicendo, che avrebbe in tutto evitato l'esempio del padre. Quando si conobbe che gli restavan pochi giorni da vivere, tutti i voti e in Corte e in città s'accordarono in favore di Michele, gran maestro del palazzo, e marito di Procopia, sorella del principe. Non mancò a Michele che il suffragio del suo invidioso cognato. Il quale pertinacemente fermo a ritenere uno scettro, che gli cadeva di mano, cospirò contro la vita del successore designato, e si lasciò sedurre dall'idea di fare dell'Impero romano una democrazia; ma questi inconsiderati disegni non valsero che ad attizzare il popolo, e a dissipare gli scrupoli di Michele. Il quale accettò la porpora, e il figlio di Niceforo, col piè sul sepolcro, implorò clemenza dal nuovo sovrano. Se in un tempo di pace fosse asceso Michele ad un trono ereditario, avrebbe potuto essere amato e poi pianto come padre del popolo; ma le sue virtù pacifiche si addiceano piuttosto alla oscurità della vita privata, ed egli non seppe mai reprimere l'ambizione degli uguali a lui, nè resistere alle armi dei Bulgari vittoriosi. Mentre per difetto di talenti e di trionfi era egli esposto alle beffe dei soldati, il maschio coraggio di sua moglie Procopia si concitò la loro indignazione. Anche i Greci del nono secolo si adontarono dell'insolenza d'una donna, che stando davanti agli stendardi, volea dirigerne le mosse, e animarli a combattere; le loro grida tumultuose avvertirono la nuova Semiramide di rispettar la maestà d'un Campo romano. Dopo una campagna infelice l'Imperatore lasciò svernare in Tracia un esercito malcontento, e comandato dai suoi nemici, i quali con artificiosa eloquenza persuasero ai soldati esser tempo di togliersi dal governo degli eunuchi, di degradare il marito di Procopia, e di rinnovare il diritto della elezion militare. Marciarono adunque verso la capitale; in questo mezzo, il Clero, il Senato, il Popolo di Costantinopoli stavano per Michele, e le milizie e i tesori dell'Asia potevano aiutarlo a prolungar le calamità d'una guerra civile; ma Michele per un sentimento d'umanità, che gli ambiziosi chiameranno debolezza, protestò, che non lascerebbe spargere per la sua causa una sola goccia di sangue cristiano, e i suoi deputati offersero alle soldatesche, giunte di Tracia, le chiavi della città e del palazzo. Esse furono disarmate dalla sua innocenza e sommessione; nulla si osò contro la sua vita; non gli furono cavati gli occhi; Michele entrò in un monastero, dove, dopo essere stato spogliato della porpora, e separato dalla moglie, godè per trentadue anni e più le consolazioni della solitudine e della religione.
Abbiamo già detto, che ai tempi che regnava Niceforo, un ribelle, il celebre e sciagurato Bardane, ebbe vaghezza di consultare un Profeta asiatico, il quale, dopo avergli annunciata la caduta del tiranno, gli presagi la fortuna, che avrebbero un giorno Leone l'Armeno, Michele di Frigia e Tommaso di Cappadocia, tre suoi officiali primarii. La profezia lo informò inoltre, per quel che si asserisce, che i due primi regnerebbero un dopo l'altro, e che il terzo farebbe un'impresa infruttuosa, che gli sarebbe funesta. L'avvenimento avverò, o piuttosto originò questa predizione. Dopo dieci anni, quando le milizie della Tracia deposero il marito di Procopia, venne offerta la corona a Leone, primo per grado nell'esercito, e segreto autore della sommossa. Come fingeva egli d'esitare, il suo collega Michele gli disse: «Questa spada, che ti schiuderà le porte di Costantinopoli, e che ti sottometterà la capitale, te la immergerò nel seno, se tu ti opponi alle giuste brame de' tuoi commilitoni». Assentì l'Armeno ad accettare la porpora, e regnò sette anni e mezzo col nome di Leon V. Educato nei campi, e ignaro di leggi e di lettere, introdusse nel governo civile il rigore, ed anche la crudezza della disciplina militare; ma se la sua severità fu talvolta pericolosa per gl'innocenti, almeno fu sempre terribile pei colpevoli. Colla sua incostanza in ordine alla religione, si meritò l'epiteto di Camaleonte, ma i Cattolici, per bocca d'un santo confessore, hanno riconosciuto, che la vita dell'Iconoclasta fu utile allo Stato. Lo zelo di Michele ebbe in premio ricchezze, onori e comandi militari, e l'Imperatore seppe impiegare a beneficio del Pubblico i suoi talenti adatti soltanto ad un posto secondario; ma non fu contento il Frigio a ricevere come un favore una scarsa porzione di quell'Impero, che egli avea procacciato ad un uguale, e finalmente il suo malumore, dopo averlo esalato per qualche tempo in parole imprudenti, fu da lui manifestato in una guisa più minacciosa contro un principe ch'egli dipingeva come un tiranno crudele. Tuttavia questo tiranno scoperse, in più volte, i disegni dell'antico suo collega; lo ammonì, e gli perdonò sin a tanto che in fine il timore ed il risentimento la vinsero a fronte della gratitudine. Dopo un lungo esame delle azioni e delle intenzioni di Michele, fu questo convinto del reato di lesa maestà, e condannato ad essere arso vivo nella fornace dei bagni privati. La pia umanità dell'Imperatrice Teofane divenne funesta al marito suo ed alla sua famiglia; era fissata l'esecuzione al venticinque dicembre; ella rappresentò, che un sì inumano spettacolo mal conveniva nell'anniversario della nascita di Cristo, e Leone, sebbene con ripugnanza, concedette una sospensione che pareva ragionevole; ma nella vigilia di Natale, da un'interna inquietudine fu condotto l'Imperatore a visitare, nel silenzio della notte, la stanza ove era detenuto Michele, e lo trovò, che sciolto dalle catene, dormiva profondamente sul letto del suo custode: quest'indizio di sicurezza e d'un accordo cogli uomini, che erano mallevadori della persona del carcerato, sbigottì non poco Leone: egli si ritirò senza fare strepito, ma uno schiavo nascosto in un canto della prigione, lo vide entrare ed uscire. Col pretesto di chiedere un confessore, Michele avvisò i congiurati, che i loro giorni dipendevano omai dalla sua discrezione, e che non avean che poche ore per salvarsi, e per liberare il loro amico e l'Impero. Nelle grandi feste ecclesiastiche un drappello di sacerdoti e di musici andava a palazzo, passando per una picciola porta, a cantare i mattutini nella cappella, e Leone, che faceva osservar nel suo coro una disciplina così esatta come nel campo, quasi sempre assisteva a questo ufficio della mattina. I congiurati, vestiti degli abiti ecclesiastici, e armati di spada, nascosta sotto le vesti, entrarono alla rinfusa con quelli che doveano ufficiare; s'appiattarono negli angoli della cappella, aspettando che l'Imperatore intuonasse il primo salmo, che appunto era il segnale convenuto. Subito s'avventarono ad uno sciagurato, ch'essi credeano Leone; potea l'oscurità del giorno, e l'uniformità del vestimento favorire la fuga del principe, ma quelli ben tosto s'avvidero dello sbaglio, e accerchiarono da tutti i lati la regia vittima. L'Imperatore senz'armi e senza difensori, afferrata una croce pesante contenne gli assassini per qualche istante; dimandò grazia, ma gli fu risposto da una voce terribile «esser quello il momento non della misericordia, ma della vendetta». Un fendente di sciabola atterrò da prima il suo braccio destro e la croce; e poscia fu egli trucidato ai piè dell'altare.
A. D. 820
Il destino di Michele secondo, cognominato il Balbo, per un difetto che avea nell'organo della parola, diede occasione ad un cangiamento memorabile. Campò egli dalla fornace cui era stato condannato per salire al trono dell'Impero, e perchè in mezzo al tumulto non si potè subito trovare un fabbro ferraio, gli restarono le catene alle gambe per molte ore, dopo che fu asceso sul soglio dei Cesari. Senza vantaggio alcuno del popolo fu versato il sangue reale, ch'era stato il prezzo dell'esaltazion di Michele. Conservò egli sotto la porpora i vizi ignobili della sua nascita, e perdè le province con grande indifferenza, come se le avesse ricevute per eredità dai suoi avi. Gli fu conteso l'Impero da Tommaso di Cappadocia, l'ultimo dei tre officiali contemplati dalla predizione fatta a Bardane. Dalle rive del Tigri e dalle sponde del mar Caspio condusse Tommaso in Europa ottantamila Barbari ad assediare Costantinopoli; ma si impiegarono tutti i presidii temporali e spirituali a difendere la capitale. Avendo un Re bulgaro investito il campo degli Orientali, Tommaso o per disgrazia, o per debolezza cadde vivo in potere del vincitore. Gli furon tagliati i piedi e le mani; fu messo sopra un asino, e in mezzo alle villanie della plebaglia fu condotto in giro per le vie, ch'egli irrigava col suo sangue. L'Imperatore assistette a questo spettacolo, e da ciò si potrà giudicare quanto feroci o depravati fossero i costumi di allora. Michele, sordo ai lamenti del suo commilitone, si ostinava a volere discoprire i complici della ribellione; ma un ministro o virtuoso o reo lo trattenne, chiedendogli: «se presterebbe fede alle deposizioni d'un nemico contro i suoi amici più fedeli». Perduta che ebbe l'Imperatore la moglie, fu indotto dal Senato a sposare Eufrosina, figlia di Costantino VI, che viveva in un monastero, ed egli acconsentì alla preghiera. Per un riguardo probabilmente all'augusta nascita d'Eufrosina, si dichiarò nel contratto nuziale, che i figli suoi dividerebbero l'Impero col loro fratello primogenito, ma questo secondo matrimonio fu sterile, ed Eufrosina si contentò del titolo di madre di Teofilo, figlio e successor di Michele.
A. D. 829
Teofilo ci dà l'esempio ben raro d'un eretico e d'un persecutore, il cui zelo religioso ha dimostrato, e forse esagerato le sue virtù. I suoi nemici fecero prova sovente del suo valore, e i sudditi della sua giustizia. Ma il valore fu temerario ed infruttuoso; la giustizia arbitraria e crudele. Spiegò lo stendardo della Croce contro i Saracini; ma le sue cinque imprese terminarono con una tremenda sconfitta. Amorio, patria de' suoi antenati, fu rasa, e dalle sue fatiche militari non ricavò altro, che il soprannome di Sfortunato. Un sovrano fa mostra della sua sapienza nell'istituire leggi, e nell'eleggere magistrati; e mentre sembra inerte, il governo civile fa la sua rivoluzione intorno al suo centro col silenzio e col buon ordine del sistema planetario. Teofilo fu giusto, come lo sono i despoti dell'Oriente, i quali, esercitando l'autorità da sè, seguono la ragione, o la passione del momento, senza pensare alle leggi, o senza misurare col delitto la pena. Una povera donnicciuola venne a gettarsegli ai piedi e a dolersi del fratello dell'Imperatrice, il quale aveva edificato il suo palazzo a tale altezza, che privava d'aria e di Sole la sua bassa abitazione. Provata la cosa, invece di darle, come avrebbe fatto un giudice ordinario, quel compenso che bastava nel caso, od anche di più, le assegnò il palazzo e il terreno; non contento di questo decreto stravagante, trasformò un affar civile in azion criminale, e il misero patrizio nella pubblica piazza di Costantinopoli fu battuto colle verghe. Per falli leggieri, per un difetto d'equità o di vigilanza, i suoi principali ministri, un prefetto, un questore, un capitan delle guardie erano cacciati in esilio, mutilati, immersi entro la pece bollente, o abbruciati vivi nell'Ippodromo. Naturalmente queste terribili condanne, dettate forse dall'errore e dal capriccio alienarono da lui l'affetto dei migliori e de' più saggi cittadini; ma l'orgoglioso monarca si compiaceva di questi atti di potere, ch'egli considerava come atti di virtù; tranquillo nella sua oscurità facea plauso il popolo al pericolo ed alla umiliazione dei Grandi. A dir vero, tanto rigore fu in qualche parte giustificato da conseguenze salutari, avvegnachè dopo esatte ricerche per diciassette giorni non si trovò nè nella capitale, nè in Corte un sol motivo di doglianza, nè abuso da denunziare; si dee fors'anche concedere, che fosse mestieri reggere i Greci con uno scettro di ferro, e che il ben pubblico è il movente e la legge del magistrato supremo. Nel giudicare del delitto di lesa maestà questo giudice è credulo o parziale più d'un altro. Condannò Teofilo a tarda pena gli assassini di Leone, e i liberatori di suo padre, continuando egli a godere il frutto del lor delitto; e la gelosa sua tirannia immolò alla propria sua sicurezza il marito di sua sorella. Un Persiano della razza de' Sassanidi era morto a Costantinopoli nell'esilio, e nella povertà, lasciando un figlio unico del suo matrimonio con una plebea. Questo fanciullo, di nome Teofobo, era nell'età di dodici anni, quando venne in cognizione del secreto della sua nascita, e non era già indegno il suo merito di tal origine. Fu educato nel palazzo di Bizanzio da cristiano e da soldato, fece rapidi passi nella strada della fortuna e della gloria; sposò la sorella dell'Imperatore, ed ebbe il comando di trentamila Persiani, che come suo padre aveano lasciato il lor paese per iscampare dai Musulmani. Quei trentamila guerrieri, accoppiando i vizi de' fanatici a quelli delle milizie mercenarie, vollero rivoltarsi contro al lor benefattore, e inalberare il vessillo del principe concittadino; ma il fedele Teofobo ne ributtò la proferta, scompigliò le trame, e si ricoverò nel campo, o nel palazzo del cognato. Se l'Imperatore lo ammetteva ad una generosa confidenza avrebbe procacciato un bravo e fido tutore a sua moglie, e al figlio ancor tenero, che Teofilo nel fior degli anni avea lasciato erede dell'Impero. Le infermità corporali, e l'indole invidiosa crebbero in lui le inquietudini; ebbe timore di virtù, che poteano farsi pericolose nel debole stato suo, e nel letto di morte domandò la testa del Principe persiano. Dimostrò un piacere barbaro, ravvisando le sembianze del fratello: «Tu non sei più Teofobo» egli disse, e ricadendo sull'origliere, soggiunse con voce agonizzante: «E anch'io ben presto, troppo presto oimè, non sarò più Teofilo». I Russi, che presero dai Greci il maggior numero delle loro leggi civili ed ecclesiastiche, han mantenuto sino all'ultimo secolo un'usanza singolare in occasione del matrimonio del Czar: raunavano le giovanette, non già di tutti i gradi e di tutte le province, il che sarebbe stato ridicolo ed impossibile, ma quelle della primaria Nobiltà, e le obbligavano ad aspettare in palazzo l'elezion del sovrano. Vuolsi, che si osservasse quest'uso per le nozze di Teofilo. Egli passeggiò con un pomo d'oro in mano in mezzo a quelle Belle schierate in due file: le grazie di Icasia fissarono i suoi sguardi, e questo principe, poco destro ad introdurre un discorso, non trovò altro da dirle se non che le Donne avean fatto gran male: «è vero, Sire, rispose la giovanetta vivacemente, ma han fatto anche molto bene». Questa affettazione di spirito fuor di tempo spiacque all'Imperatore; che le voltò le spalle. Icasia andò a nascondere la sua vergogna in un convento, e Teodora, ch'era stata modestamente zitta ebbe il pomo d'oro. Fu degna dell'amore del suo padrone; ma non potè sottrarsi alla sua severità. Dal giardino del palazzo, avendo veduto un vascello assai carico ch'entrava in porto, e informato, ch'era pieno di merci della Siria, appartenenti a sua moglie, condannò alle fiamme la nave, e fece amaro rimbrotto a Teodora perchè avviliva la dignità d'Imperatrice, facendo la mercantessa: tuttavolta in punto di morte le affidò la tutela dell'Impero, non che del figlio Michele, che aveva allora cinque anni. Il nome di Teodora divenne caro ai Greci pel ristabilimento delle Immagini, e per la totale espulsione degli Iconoclasti; ma nel suo fervor religioso ella non trascurò le premure volute dalla gratitudine per la memoria e la salvezza di suo marito. Dopo tredici anni d'un'amministrazione saggia e temperata, s'avvide che la reputazione di lei declinava; ma questa seconda Irene imitò solamente le virtù della prima. Invece di tentar nulla contro la vita e l'autorità del figlio, si consacrò senza resistere, ma non senza dolersi, alla solitudine della vita privata, compiangendo i vizi, l'ingratitudine e la ruina inevitabile dell'indegno suo figlio.
A. D. 842
Fra quelli, che successori di Nerone e d'Elagabalo ne imitarono la malvagità, non s'era per anche trovato un principe, che considerasse il piacere come la cosa più importante della vita, e la virtù come nemica del piacere. Per quanto grandi fossero le cure di Teodora per l'educazione del figlio, la disgrazia di questo principe fu d'essere sovrano prima d'esser uomo; ma se si adoperò questa madre ambiziosa ad impedire che la sua ragione si sviluppasse, non potè calmarne il bollore delle passioni, e il suo procedere, interessato per sè, fu giustamente punito dal dispregio e dalla ingratitudine di quel giovinastro caparbio. Di diciott'anni scosse il freno di Teodora, senz'avvedersi che non era in caso da governar l'Impero, nè da governar sè stesso. Alla partenza di Teodora, abbandonarono la Corte la sapienza e la gravità; non si videro più regnare che il vizio o la follia alternativamente, e non fu possibile acquistare, o conservare il favore del principe senza perdere la pubblica estimazione. I milioni accumulati pei bisogni dello Stato furono profusi ai più vili degli uomini che lo adulavano, e partecipavano ai suoi sollazzi; e in un regno di tredici anni il più opulento monarca si ridusse a vendere gli ornamenti preziosi del suo palazzo e delle Chiese. Somigliante a Nerone, era pazzo pei divertimenti teatrali, e al par di lui sentiva dispetto d'essere superato in cose, per le quali doveva arrossire della sua abilità. Ma lo studio che aveva fatto Nerone della musica e della poesia indicava qualche gusto per le arti liberali; e le inclinazioni più basse del figlio di Teofilo eran tutte pel corso di carri nell'Ippodromo. Non cessavano di ricreare gli oziosi abitanti della capitale le quattro fazioni, ch'aveano disturbata la pubblica quiete: l'Imperatore prese per sè la divisa degli Azzurri; distribuì ai suoi favoriti i tre colori rivali, e nell'ardenza sua per questi vili esercizi, dimenticò la dignità della sua persona, e la sicurezza degli Stati. Impose silenzio a un corriere, che per informarlo che il nimico aveva invaso una provincia dell'Impero, s'avvisò di fermarlo nel momento più bello della corsa, e fece estinguere i fuochi importuni, che, fatti segnali di pericolo, troppo spesso metteano lo spavento nei paesi fra Tarso e Costantinopoli. I più bravi aurighi avevano il primo posto nella sua confidenza, e nella sua stima; accettava banchetti da loro, e ne teneva i figli al Sacro Fonte: allora si facea bello della sua popolarità, e affettava di biasimare il freddo e maestoso contegno de' suoi predecessori. Erano omai divenute ignote all'Universo quelle dissolutezze contrarie alla natura, che disonorarono anche l'età virile di Nerone; ma Michele logorava le forze in braccio all'amore ed alla intemperanza. Riscaldato dal vino, nelle sue orgìe notturne, dava gli ordini i più sanguinari, e quando col ritorno della ragione, si facea sentire l'umanità, era poi costretto ad approvare l'utile disobbedienza dei servi. Ma una delle prove più straordinarie della cattiva indole di Michele è la profana licenza, con che metteva in ridicolo la religion del paese. Sia pure, che la superstizion dei Greci potesse movere a riso un filosofo; ma il riso del saggio sarebbe stato ragionevole e temperato, e avrebbe disapprovata la sciocca ignoranza d'un giovine, che insultava gli oggetti della pubblica venerazione. Un buffone di corte si vestiva da Patriarca; i suoi dodici Metropolitani, uno de' quali era l'Imperatore, si coprivano di abiti ecclesiastici; maneggiavano e profanavano i vasi sacri, e a rallegrare i lor baccanali amministravano la Santa Comunione con un ributtante miscuglio d'aceto e di senapa. Nè già si teneano ascose queste empietà ai pubblici sguardi; in un giorno di gran festa, l'Imperatore, i suoi vescovi e i suoi buffoni correndo per le vie, montati sopra giumenti, incontrarono il vero Patriarca, seguìto dal suo Clero, e con grida licenziose, e lazzi osceni sconcertarono la gravità di quella processione cristiana. Non mai uniformossi Michele alle pratiche della devozione, se non che per oltraggiare la ragione e la verace pietà; raccogliea da una statua della Vergine le corone teatrali, e violò la tomba imperiale di Costantino, l'Iconoclasta, pel piacere di arderne le ossa. Questo contegno stravagante lo rendette tanto spregevole, quanto era odioso. Ogni cittadino desiderava ardentemente la liberazione della patria, e i suoi favoriti medesimi temevano, non un suo capriccio li privasse di ciò, che dono era d'un capriccio. Nell'età di trent'anni, e in grembo all'ebbrezza ed al sonno, Michele III fu assassinato nel suo letto dal fondatore d'una nuova dinastia, al quale egli aveva conferito un grado e un potere uguale al suo proprio.
A. D. 867
La genealogia di Basilio il Macedone, se pure non fu inventata dall'orgoglio e dall'adulazione, fa ben palese a quali rivoluzioni sieno esposte le più illustri famiglie. Gli Arsacidi, rivali di Roma, avevan data la legge in Oriente quasi per quattro secoli; continuò un ramo cadetto di quei Re Parti a regnare in Armenia, e poi sopravvisse alla divisione ed alla servitù di quell'antica monarchia. Due di que' principi, Artabano e Cliene, si rifuggirono o si ritirarono alla Corte di Leon I, che usò loro generosa accoglienza, e onorevolmente li collocò nella provincia di Macedonia; posero poi stanza in Andrinopoli. Colà sostennero per più generazioni la dignità dei lor natali, e zelanti per l'Impero romano rigettarono le offerte seducenti dei Persiani e degli Arabi, che li richiamavano in patria: ma a poco a poco il tempo e la povertà ne oscurarono lo splendore, e il padre di Basilio si ridusse a coltivare colle sue mani un poderetto; non di meno troppo altero per avvilire il sangue degli Arsacidi con un matrimonio plebeo, sposò una vedova d'Andrinopoli, che vantava Costantino fra i suoi avi, e potè il loro figlio millantare qualche vincolo di parentela, o almen di nazione con Alessandro il Macedone. Questo figlio, per nome Basilio, appena aveva veduto il giorno, quando colla sua famiglia e cogli abitanti della città ov'era nato, fu rapito dai Bulgari, che vennero a devastare Andrinopoli: fu allevato nella servitù in un clima straniero, e quella disciplina severa gli procacciò un vigore di corpo e una pieghevolezza di mente che poi divennero la cagione del suo esaltamento. Sin dalla prima gioventù, o quando appena toccava l'età virile, fu del numero di quei prigionieri romani che spezzarono i lor ferri coraggiosamente; dopo avere attraversata la Bulgaria, afferrate le coste dell'Eusino, e sconfitti due eserciti di Barbari, s'imbarcarono su vascelli già apparecchiati pel loro arrivo, e tornarono a Costantinopoli; quindi ciascheduno si restituì alla sua famiglia. Basilio ricuperata la libertà, era tuttavia miserabile. Dai guasti della guerra era stato rovinato il suo podere: morto il padre, non bastava più il lavoro delle sue mani, o quel che guadagnava servendo a mantenere una famiglia d'orfanelli; deliberò dunque di cercare un campo più luminoso, ove le sue virtù, e i suoi vizi potessero condurlo alla grandezza. Giunto a Costantinopoli, senz'amici senza denari, oppresso dalla stanchezza, passò la prima notte sui gradini della Chiesa di S. Diomede; ottenne un po' di alimento dalla carità di un monaco; indi si pose al servigio d'un parente dell'Imperator Teofilo, che pure avea questo nome, e quantunque picciolissimo della persona, si conducea sempre dietro un seguito di servi di grande statura, e di bell'aspetto. Basilio accompagnò questo padrone, che andava a comandare nel Peloponeso; col suo merito personale fece scomparire la nascita e la dignità di Teofilo, e strinse una profittevole amicizia con ricca e caritativa matrona di Patrasso. Fosse amore o affezione spirituale, questa donna, nomata Danielis, s'invaghì delle sue belle qualità, e lo adottò per figlio; gli fece dono di trenta schiavi, con altre liberalità, mercè delle quali potè fornire il bisognevole ai fratelli, e comprare possedimenti nella Macedonia. La gratitudine o l'ambizione lo riteneva ai servigi di Teofilo, e per felice combinazione fu conosciuto dalla Corte. Avvenne che un famoso lottatore, ch'era cogli ambasciatori della Bulgaria, aveva sfidato in tempo del convito reale il più coraggioso e robusto che fosse tra i Greci. Fu vantata la forza di Basilio, il quale accettò la disfida, e al primo urto gettò il Barbaro a terra. Era stato deciso di tagliare i garetti a un bellissimo cavallo indomabile ad ogni prova; Basilio lo soggiogò coll'intrepidezza e destrezza solita, ed ottenne quindi un impiego decoroso nella scuderia imperiale; ma non era possibile entrar nelle grazie del Re, senza adattarsi ai suoi vizi. Il nuovo favorito divenne gran ciamberlano del palazzo, e si tenne in posto con un matrimonio vituperevole, sposando una concubina del principe, col disonore della sorella, che succedette alla precedente. Erano state abbandonate le cure amministrative a Cesare Barda fratello e nimico di Teodora. Le drude di Michele gli dipinsero lo zio come uomo odioso, e da temersi; fu scritto a Barda, che si abbisognava della sua persona per l'impresa di Creta; questi uscì di Costantinopoli, e il ciamberlano lo pugnalò sotto gli occhi dell'Imperatore nella tenda stessa ove gli dava udienza. Un mese dopo quest'azione ottenne Basilio il titolo d'Augusto, e il governo dell'Impero; egli sopportò questa associazion disuguale sino a tanto che si credette sicuro della stima del popolo. Per un capriccio dell'Imperatore ne fu posta a repentaglio la vita: Michele avvilì la sua dignità, dandogli un secondo collega, che aveva servito da remigante nelle Galee; tuttavolta non può considerarsi l'assassinio del suo benefattore che come un atto d'ingratitudine e di tradimento; e le chiese, ch'egli dedicò a S. Michele, furono una ben puerile e misera espiazione dal suo misfatto.
La vita di Basilio I può nelle sue epoche diverse paragonarsi a quella d'Augusto. Per la sua condizione non ebbe campo il Greco nella prima gioventù d'invadere la patria con un esercito, nè di proscrivere i più nobili de' suoi concittadini; ma la sua indole ambiziosa si piegò a tutti gli artificii d'uno schiavo; seppe celare l'ambizione medesima ed anche le sue virtù, e con un assassinio s'insignorì dell'Impero, cui poscia resse con prudenza ed amore paterno. Ponno per avventura essere in contraddizione gl'interessi d'un individuo co' suoi doveri; ma un monarca assoluto mancherebbe di buon senso o di coraggio, separando la sua felicità dalla gloria, o la sua gloria dalla felicità pubblica. Sotto la lunga dominazione de' suoi discendenti fu scritta e pubblicata la vita, o sia il panegirico di Basilio; ma la stabilità di quelli sul trono debbe attribuirsi al sommo merito di lui. Suo nipote l'Imperator Costantino ha voluto darci, nel descriverne il carattere, il ritratto perfetto d'un vero monarca; e se questo debole principe non avesse copiato un degno modello, non si sarebbe di leggieri elevato cotanto al di sopra delle sue proprie idee e della propria condotta; ma il più sicuro elogio di Basilio è riposto nel paragone del miserabile stato della monarchia, quale la rapì egli a Michele, collo stato florido della medesima, quale alla dinastia Macedone egli la trasmise. Con mano prudente represse abusi consacrati dal tempo e dall'esempio. Se non risvegliò il valor nazionale, restituì per lo meno all'Impero romano qualche ordine e maestà. Era instancabile la sua applicazione, freddo il naturale, fermo il senno, rapide le decisioni, ed osservava quella rara e salutevole moderazione che tiene le virtù a un'uguale distanza dai vizi contrari. Il servigio militare era tutto ristretto nell'interno del palazzo: non ebbe nè il coraggio nè i talenti d'un guerriero; nondimeno sotto il suo regno furono ancora formidabili ai Barbari l'armi romane. Come tosto col rimettere la disciplina e gli esercizi militari ebbe creato un nuovo esercito, comparve in persona sulle sponde dell'Eufrate; atterrò l'orgoglio dei Saracini, e soffocò la pericolosa come che giusta rivolta de' Manichei. Sdegnato contro un ribelle che gli era sfuggito lungo tempo di mano, chiese la grazia a Dio di conficcare tre dardi nel capo di Crisochiro; così nomavasi il suo nemico. Quel capo abbominato, ch'egli aveva ottenuto per tradimento più che pel suo coraggio, fu impeso ad un albero, ed esposto tre volte alla destrezza dell'arciere imperiale; vile vendetta, più degna del secolo che dell'indole di Basilio; ma la sua abilità principale si fece palese nell'amministrare le pubbliche rendite, e le leggi. A riempire l'erario esausto gli fu proposto di rivedere le donazioni malfatte del suo predecessore; fu egli abbastanza saggio per ripigliarne la sola metà, e così si procacciò una somma d'un milione e dugentomila lire sterline, con che provvide ai bisogni più urgenti, e guadagnò tempo per eseguire le riforme economiche. Tra i diversi divisamenti, diretti ad accrescere la sua entrata, se gli propose una nuova maniera di tributo, che avrebbe messo i contribuenti sotto il soverchio arbitrio degli esattori. Gli presentò subito il ministro una lista di agenti onesti, e capaci per quell'impiego. Avendoli da sè stesso esaminati, Basilio non ne trovò che due degni d'esercitare sì pericoloso ufficio, e questi giustificarono la stima ch'egli n'ebbe, ricusando questo contrassegno di fiducia. Ma le assidue premure dell'Imperatore rimisero a poco a poco l'equilibrio tra le proprietà e le contribuzioni; tra l'entrata e l'uscita fu assegnata una somma particolare per ogni ramo di spesa, e con un metodo pubblico furono assestati gl'interessi del principe, e quelli de' proprietari. Dopo avere riformato il lusso della propria tavola, volle che due demanii patrimoniali provvedessero a questa qualità di spese; le imposizioni pagate dai sudditi servivano per la lor difesa, e il restante ad abbellire la capitale e le province. Quantunque dispendioso può il gusto per le fabbriche avere scusa, e meritare elogi qualche volta, avvegnachè alimenta l'industria, promove le arti, e concorre all'utilità o ai piaceri del Pubblico. Sensibili sono i vantaggi d'una strada, di un acquedotto, d'uno spedale: le cento Chiese innalzate da Basilio furono un tributo pagato alla divozione del suo tempo. Egli si mostrò attivo ed imparziale, come giudice; bramava salvare gli accusati, ma non temeva di condannarli, e severamente puniva gli angariatori del popolo: quanto poi ai nemici personali, cui sarebbe stato imprudenza il perdonare, dopo aver fatto cavar loro gli occhi, gli condannava ad una vita di solitudine e di penitenza. I cangiamenti sopravvenuti nel linguaggio e nei costumi volevano una revisione della giurisprudenza di Giustiniano; quindi fu compilato in quaranta titoli e in lingua greca il voluminoso corpo dell'Istituta, delle Pandette, del Codice e delle Novelle; e se le Basiliche furono perfezionate e compiute dal figlio e dal nipote, a Basilio per altro conviene originariamente attribuirne il merito. Per un accidente di caccia ebbe fine il suo regno glorioso. Un cervo furibondo intricò le sue corna nel cinto di Basilio, e lo levò da cavallo. L'Imperatore fu liberato da un uomo del seguito, che tagliò il cinto, e uccise la bestia, ma per la caduta, o per la febbre, che ne fu conseguenza, rimase indebolito il vecchio monarca, e morì nel suo palazzo, in mezzo ai pianti della famiglia e del popolo. Se, come è fama, fece troncar la testa al fido servo ch'ebbe il coraggio di far uso della spada sulla persona del suo sovrano, convien credere, che l'orgoglio del dispotismo, sopito finchè visse, si risvegliasse ne' suoi ultimi giorni, quando omai perduta avea la speranza di vivere.
A. D. 886
Dei quattro figli dell'Imperatore, uno morì prima di lui, e fu Costantino; in quell'occasione il suo dolore e la sua credulità si lasciarono illudere dalle adulazioni d'un impostore, e da un'apparizione immaginaria. Stefano il più giovane, stette contento degli onori di Patriarca e di Santo; Leone ed Alessandro ebbero entrambi la porpora; ma il solo primogenito tenne le redini del Governo. Leone VI conseguì il glorioso soprannome di filosofo; e senza dubbio l'accoppiare le qualità di principe e di saggio, le virtù operative e le speculative, giova molto a perfezionare l'umana natura; ma molto mancò a Leone per pretendere questa perfezione ideale. Di fatto seppe egli per avventura sottomettere le passioni e le brame sue all'impero della ragione? Passò la vita in mezzo alla pompa della Corte, e nel consorzio delle sue mogli e delle concubine; e non si può attribuire che alla dolcezza e indolenza del suo naturale la clemenza da lui dimostrata, e la pace che s'adoperò a mantenere. Chi oserebbe asserire ch'egli vincesse i proprii pregiudizi, e quelli dei sudditi? Dalla più puerile superstizione era ottenebrato il suo spirito; sanzionò colle leggi l'autorità del clero, e gli errori del popolo; e gli oracoli, con cui rivelò in uno stile profetico i destini dell'Impero, sono fondati su l'astrologia e la divinazione. Chi ben guardi l'origine di quel soprannome di filosofo, apparirà, che non fu tanto ignorante quanto la maggior parte de' suoi contemporanei o appartenessero all'Ordine ecclesiastico, o al civile; che dal dotto Fozio fu diretta la sua educazione, e ch'egli compose o pubblicò assai opere sotto il suo nome in argomenti sacri e profani; ma un suo torto domestico, la moltiplicità cioè de' suoi matrimoni, pregiudicò la sua riputazione di filosofo, e d'uomo religioso. Predicavansi sempre dai monaci le massime antiche sui pregi e la santità del celibato, ed erano pur professate dalla nazione. Era permesso il matrimonio, come un mezzo necessario alla propagazione del genere umano. Dopo la morte d'uno de' conjugi, potea la debolezza, o il vigor della carne, condurre il superstite a un secondo matrimonio, ma un terzo era considerato quasi una specie di fornicazione, e il celebrar le quarte nozze era un peccato, ed uno scandolo ancora ignoto ai cristiani dell'Oriente. L'Imperator Leone esso stesso nel principio del suo regno aveva abolito lo stato civile delle concubine, e condannati i terzi matrimoni, senza annullarli. Ma guari non andò, che il patriottismo e l'amore l'indussero a violare le proprie leggi, e ad incorrere nella pena che in simil caso aveva ai sudditi imposta. Non avendo figli dei tre primi letti avea d'uopo l'Imperatore d'una compagna, e richiedeva l'Impero un erede legittimo. La bella Zoe fa introdotta nella Corte per concubina, e allorchè, partorendo, a Costantino ebbe dato prove di fecondità, dichiarò l'Imperatore le sue intenzioni di legittimare la madre e il figlio, e di celebrare le quarte nozze. Il Patriarca Nicola gli ricusò la benedizione, e Leone non potè indurlo a battezzare il principino, che a patto di congedare la sua amante; ma per l'opposito, avendola sposata, fu escluso dalla comunione dei Fedeli. Nè le minacce dell'esilio, nè la disfatta dei confratelli, non l'autorità della Chiesa latina, non il pericolo d'interrompere, o di lasciare incerta la successione al trono, valsero a piegare l'inflessibile monaco. Morto Leone fu egli richiamato dal luogo della sua relegazione, e ricuperò le cariche tanto ecclesiastiche che civili. Costantino, figlio di Leone, coll'editto d'unione promulgato in suo nome, che condanna in avvenire come scandalose le quarte nozze, impresse tacitamente una macchia sul proprio natale.
A. D. 911
Nella lingua greca porphyra vuol dir porpora, e invariabili essendo i colori naturali, possiamo conchiudere, che la porpora tiria degli antichi fosse un rosso scuro e carico. Un appartamento del palazzo di Bizanzio era addobbato di porfira, ed era abitato dalle Imperatrici quando erano incinte; quindi per indicare la qualità regia dei loro nati, chiamavansi porfirogeniti, che vale nati nella porpora. Gran numero d'Imperatori romani aveva avuto figli; ma Costantino VII prese per la prima volta questo particolar soprannome. Durò il suo regno di titolo quanto la sua vita; sei per altro de' suoi cinquantaquattr'anni precedettero la morte del padre: il figlio di Leone fu sempre o di buon grado, o per forza sottomesso a quelli che prendeano autorità sopra la sua debolezza, o abusavano della sua fiducia. Alessandro, suo zio, investito del titolo d'Augusto da lungo tempo, fu il primo collega, e il primo padrone del principino; ma rapidamente correndo le vie del vizio e delle follìe, il fratello di Leone in breve s'acquistò la riputazion dell'Imperatore Michele per questo riguardo: e quando la morte lo colse, covava nell'animo il pensiere di togliere al nipote la facoltà d'aver figli, e di lasciare a un indegno favorito l'Impero. Gli altri anni della minorità di Costantino furono soggetti alla madre Zoe, consigliata successivamente da sette reggenti, che solo curando i propri interessi, e sbramando ogni lor passione, lasciavan la repubblica abbandonata, si soppiantavano a vicenda, e finalmente sparvero davanti a un guerriero, che si fece padrone dello Stato. Romano Lecapeno, di nascita oscura, era pervenuto al comando delle armate navali, e nell'anarchia dell'Impero aveva saputo meritare o certamente ottenere la stima della nazione. Uscì della foce del Danubio con una squadra vittoriosa e devota a lui; giunto al porto di Costantinopoli fu salutato coi titoli di liberatore dei popolo e di tutore del principe. Una nuova denominazione, cioè di padre dell'Imperatore, spiegò il suo officio; ma presto ebbe a sdegno Romano un'autorità inferiore e da ministro, e quindi intitolatosi Cesare, prese tutta l'independenza di Re, e dominò quasi per venticinque anni. I suoi tre figli Cristoforo, Stefano e Costantino ebbero l'un dopo l'altro gli stessi onori; per il che discese dal primo al quinto grado il legittimo Imperatore in quel collegio di principi. Dovè tuttavolta esser pago della sua fortuna, e della bontà degli usurpatori, giacchè conservò la vita e la corona. Gli esempi della Storia antica e della moderna avrebbero agevolmente scusata l'ambizion di Romano, il quale avea nelle mani i poteri e la legislazion dell'Impero; e la nascita illegittima di Costantino ne avrebbe giustificata l'esclusione, nè costava gran fatica l'aprire una tomba o un monastero alla figlia di Costantino; ma Lecapeno non avea, per quanto pare, nè i vizi, nè le virtù d'un tiranno. Svani nello splendore del trono il valore e l'attività della sua vita privata; tuffatosi nel fango delle voluttà, pose in non cale la sicurezza della Repubblica, non che della propria famiglia; ma religioso e mite di naturale, rispettò la santità dei giuramenti, l'innocenza del giovine Costantino, la memoria di Leone, e l'affetto del popolo. Il genio che avea Costantino per gli studii e pel ritiro potè disarmare la gelosia d'autorità; i libri e la musica, la penna e il pennello erano le sue continue ricreazioni; e se impinguò di fatto la scarsa sua entrata colla vendita de' suoi quadri, senza che se ne aumentasse il valore pel nome dell'artista, ebbe bastevoli talenti coi quali pochi principi potrebbero, come lui, formarsi un sussidio nelle avversità.
A. D. 945
I vizi condussero Romano e i suoi figli alla rovina. Morto Cristoforo, il primogenito, gli altri due, discordi fra loro, cospirarono alla vita del padre. Sull'ora del mezzodì, ch'era il momento della giornata nel quale si congedavano dal palazzo i forestieri, entrarono quelli nel suo appartamento, accompagnati da gente armata, e nel menarono vestito da monaco nella isoletta della Propontide, dove stava una Comunità religiosa. Allo strepito di questa rivoluzione domestica fu piena di confusione la città; ma Porfirogenito, legittimo Imperatore, fu il solo oggetto delle cure del Pubblico; e da una tarda esperienza impararono i figli di Lecapeno, che aveano mandato ad effetto per un rivale il colpevole e pericoloso disegno. Elena, lor sorella, e moglie di Costantino, imputò loro l'intenzione, vera o falsa, d'assassinare suo marito in un banchetto; ne sbigottirono i suoi partigiani: e i due usurpatori prevenuti nelle lor mosse, vennero presi, spogliati della porpora, e imbarcati per l'isola ed il monastero, ove poco stante aveano confinato il padre. Il vecchio Romano li ricevette alla riva con un sorriso di beffa, e dopo averli giustamente rimbrottati d'ingratitudine e di follìa, offerse a ciascheduno de' suoi due colleghi all'Impero una porzione dell'acqua e dei cibi vegetali, che formavano i suoi pasti. Costantino VII contava i quarant'anni, quando divenne possessore dell'Impero d'Oriente, e vi regnò, o parve che regnasse, per quindici anni in circa. Gli mancava quell'energia che avrebbe potuto portarlo ad una vita attiva e gloriosa; gli studii che aveano dilettato ed onorato i suoi ozii, non erano più compatibili coi seri doveri di sovrano. L'Imperatore invece di reggere i suoi Stati, s'intertenne ad insegnare al figlio la teorica dell'arte di governare: dedito all'intemperanza e alla pigrizia, lasciò cadere le redini dell'amministrazione in mano d'Elena, sua moglie, che coi capricci del suo favore, facea sempre desiderare il ministro ch'ella rimoveva, sostituendone un altro più indegno. Nulla di meno per la sua nascita, e per le disgrazie, Costantino era divenuto caro ai Greci; i quali ne scusarono i difetti, ne rispettarono il sapere, l'innocenza, la carità, l'amore per la giustizia, e onorarono la pompa de' suoi funerali con lagrime sincere. Secondo l'antica usanza fu esposto il suo corpo con grande apparato nel vestibolo del palazzo, e gli ufficiali dell'ordine civile e militare, i patrizi, il senato ed il clero vennero ciascheduno la loro volta a venerare e a baciare la spoglia esanime del loro sovrano. Prima che la processione funebre partisse verso il luogo che serviva di sepoltura agl'Imperatori, un araldo pronunciava questo spaventevole avviso: «Alzati, o Re della Terra, e obbedisci agli ordini del Re dei Re».
A. D. 959
Fu voce che Costantino fosso morto avvelenato: Romano, suo figlio, che aveva preso il nome dell'avo materno, succedette nel trono di Costantinopoli. Un principe, che di vent'anni era sospetto d'aver accelerato il momento in cui doveva ereditar da suo Padre, era, non v'ha dubbio, perduto nella pubblica opinione; ma piuttosto che malvagio, era debole, e s'imputava in gran parte questo delitto a sua moglie Teofane, donna di bassa nascita, di spirito ardito e di depravati costumi. Era ignoto al figlio di Costantino il sentimento della gloria personale e della pubblica felicità, veri diletti di chi regna; e mentre i due fratelli, Niceforo e Leone, trionfavano dei Saracini, egli logorava in un ozio perpetuo i giorni dovuti al suo popolo. Nella mattina andava al circo; a mezzodì riceveva al suo desco i senatori; passava quasi tutto il dopo pranzo nello Sferisterio, o sia giuoco della palla, unico teatro del suo valore. Varcando poscia sulla riva asiatica del Bosforo, cacciava e uccideva quattro cignali de' più grandi e gagliardi; poi tornava al palazzo, lieto e superbo delle sue fatiche del giorno. Era notabile fra gli uomini della sua età per forza ed avvenenza; era di statura diritta ed alta come un giovine cipresso: di carnagione bianca e vivace; gli occhi erano parlanti, larghe le spalle; il naso lungo e aquilino. Tanti pregi per altro non valsero a fissare l'amor di Teofane, la quale dopo un regno di quattro anni, recò a suo marito un beveraggio pari a quello ch'ella aveva apprestato a suo padre.
A. D. 963
Dal matrimonio con quest'empia femmina ebbe Romano due figli, che ascesero il trono col nome di Basilio II e di Costantino IX, e due figlie, chiamate Anna e Teofane. L'ultima sposò Ottone II, Imperator d'Occidente; Anna fu maritata a Volodimiro, gran Duca e Apostolo di Russia, ed essendosi congiunta sua nipote ad Arrigo I Re di Francia, il sangue de' Macedoni, e quello forse degli Arsacidi, scorre tuttavia per le vene della famiglia Borbonica. Morto il marito, volle l'Imperatrice regnare sotto il nome de' figli, l'un de' quali aveva cinque anni, e l'altro due. E presto s'avvide, quanto instabile fosse un trono che non aveva altra colonna che una femmina, che non poteva essere stimata, e due figli, che non poteano essere temuti. Allora volse gli occhi intorno per rinvenire un protettore, e si gittò nelle braccia del guerriero più prode: era essa facile, e poco dilicata in amore; ma tanto era deforme il nuovo amante, che diede a credere, essere l'interesse per avventura il motivo e la scusa di questo legame. Niceforo Foca avea in faccia al popolo due meriti; quelli d'eroe e di santo. In quanto al primo egli vantava belle e singolari prerogative: discendente di lignaggio illustre, per imprese guerresche s'era segnalato in tutti i gradi e in tutte le province col valor d'un soldato, e coll'arte d'un Generale, ed avea pocostante aggiunto alla sua gloria la rilevante conquista dell'isola di Creta: era un poco equivoca la sua religione, e il cilicio, i digiuni, il palar devoto, l'intenzione che palesava di ritirarsi dal Mondo, servivano di maschera ad una profonda e pericolosa ambizione. Seppe per altro illudere un santo Patriarca, per interposizione del quale ottenne dal senato un decreto, che gli dava durante la minorità dei giovani principi l'assoluto comando degli eserciti dell'Oriente. Non così tosto ebbe in pugno la fede dei Capi e dei soldati, marciò arditamente a Costantinopoli; schiacciò i suoi nemici; pubblicò la sua intelligenza coll'Imperatrice, e senza degradare i figli di Teofane, prese col titolo d'Augusto la preminenza della dignità, e la pienezza del potere; ma il Patriarca, che l'aveva portato al soglio, non gli permise di sposare Teofane. Per questo secondo matrimonio fu quindi assoggettato ad una pena canonica d'un anno: se gli opponeva un'affinità spirituale, e fu d'uopo ricorrere a sutterfugii ed a spergiuri, per attutire gli scrupoli del clero e del popolo. Perdè l'Imperatore sotto la porpora l'amor della nazione, e in un regno di sei anni si tirò addosso l'odio dei forestieri, non che dei sudditi, i quali riscontrarono, in lui l'ipocrisia e l'avarizia del primo Niceforo. Io non mi proverò a discolpare od a palliare l'ipocrisia, ma non mi periterò d'osservare, che l'avarizia è quel vizio che più prestamente si crede, e che si condanna con più severità. Se si tratta d'un cittadino, rare volte abbiam cura d'esaminarne la fortuna e le spese: nel depositario della sorte pubblica, l'economia è sempre una virtù, e troppo spesso l'aumentare le imposizioni è un dovere indispensabile. Niceforo, che aveva mostrato il suo animo generoso nell'usare del suo patrimonio, consacrò scrupolosamente le pubbliche entrate a pro dello Stato. Col ritorno d'ogni primavera osteggiava contro i Saracini in persona, e poteano agevolmente i Romani calcolare le somme, che provenienti dalle contribuzioni erano state spese per trionfi, per conquisti, e per la sicurezza della frontiera dell'Oriente.
A. D. 969
Fra i guerrieri che lo avevano condotto a regnare, e che servivano sotto le sue bandiere, Giovanni Zimiscè, prode Armeno e di nobile famiglia, era quello che avea meritate ed ottenute le ricompense più segnalate. Era di statura men che mediocre, ma in così picciolo corpo, ove stavano accoppiate forza e bellezza, s'annidava l'anima d'un eroe. Il fratello dell'Imperatore portando invidia alla sua fortuna, lo fece cadere dal grado di General dell'Oriente in quello di direttor delle poste; e perchè quegli osò dolersene, fu punito colla disgrazia e coll'esilio. Ma Zimiscè era annoverato fra i moltissimi amanti dell'Imperatrice, e per opera di lei ottenne di dimorare in Calcedonia nei contorni della Capitale: s'ingegnò nelle sue visite amorose e clandestine di compensarla di questa prova della sua bontà, e quindi Teofane consentì lietamente alla morte d'un marito avaro e schifoso. Furono nascosti nelle stanze più secrete del palazzo arditi e fedeli congiurati, e nelle tenebre d'una notte d'inverno, Zimiscè e i Capi della trama s'imbarcarono in una scialuppa, attraversarono il Bosforo, approdarono nei dintorni del palazzo, e salirono cheti cheti per una scala di corda, gettata dalle donne dell'Imperatrice. Nè la diffidenza di Niceforo, nè gli avvisi datigli dagli amici, nè il tardo soccorso di suo fratello Leone, nè quella specie di Fortezza, ch'egli avea formata nel suo palazzo, valsero a difenderlo contro un nemico domestico, alla voce del quale tutte le porte s'aprivano agli assassini. Stava egli dormendo sopra una pelle d'orso distesa per terra; riscosso dallo strepito dei congiurati, vide trenta pugnali alzati sul suo petto. Non è ben certo che Zimiscè bagnasse le mani nel sangue del suo sovrano; ma per altro ebbe il barbaro piacere di rimanersi spettatore della propria vendetta. L'insultante atrocità dei sicarii ritardò per qualche istante la morte dell'Imperatore: appena dalle finestre del palazzo fu mostrata alla plebe la testa di Niceforo, cessò il tumulto, e l'Armeno fu acclamato Imperatore d'Oriente. Nel giorno prescelto per la sua incoronazione, l'intrepido Patriarca, fermatolo sulla porta della Chiesa di Santa Sofia, gli dichiarò, che reo siccome egli era dei delitti d'assassinio e di tradimento, dovea almeno in contrassegno di penitenza, separarsi da una complice anche più colpevole di lui stesso. Forse questo trasporto di zelo apostolico non dispiacque molto al nuovo Imperatore, che non potea conservare amore, nè fiducia per una donna, la quale avea tante volte violato i più sacri doveri. Così adunque invece d'essere a parte del trono, Teofane fu ignominiosamente cacciata dal suo letto e dal suo palazzo. Costei nel loro ultimo abboccamento si abbandonò agl'impeti d'una rabbia forsennata ed inutile; accusò l'amante d'ingratitudine, si sfogò in ingiurie, sino a battere il figlio Basilio, il quale stava, silenzioso e sommesso davanti un collega, suo superiore; e confessando le sue prostituzioni osò ella dichiarare, esser lui il frutto d'un adulterio. Coll'esilio di questa donna sfacciata, e col gastigo di parecchi de' suoi complici più oscuri, l'indignazione pubblica fu soddisfatta. Si perdonò a Zimiscè la morte d'un principe detestato dal popolo, ed egli collo splendore delle sue virtù fece sparire la memoria del suo delitto. Forse la sua prodigalità fu meno utile allo Stato dell'avarizia di Niceforo; ma la dolcezza e la generosità del suo animo incantarono tutti quelli che lo corteggiavano, ed egli non calcò le pedate del suo predecessore fuorchè nel sentiero della vittoria. Passò nei campi la più gran parte della sua vita monarchica; segnalò il suo valor personale, e la sua attività sul Danubio e sul Tigri, confini un tempo dell'Impero romano, e trionfando dei Russi e dei Saracini, si meritò il titolo di salvator dell'Impero, e di domator dell'Oriente. Quando tornò dalla Siria per l'ultima volta osservò che gli eunuchi erano possessori delle terre più fertili delle sue nuove province, e con virtuoso sdegno esclamò. «Abbiam dunque dato battaglie, e fatto conquisti per giovare a costoro? Per costoro adunque versiamo il sangue, e spendiamo i tesori del popolo?» Questi rimbrotti sonarono sino in fondo al palazzo, e la morte di Zimiscè diede forti indizi di veleno.
A. D. 976
Durante quest'usurpazione, o se vuolsi reggenza di dodici anni, i due Imperatori legittimi, Basilio e Costantino, erano arrivati senza fama all'età virile. Per la giovinezza loro non s'era potuto lasciare ad essi l'autorità; s'erano contenuti verso il tutore con quella rispettosa modestia dovuta alla sua età, e al suo merito, e questi, che non avea figli, non pensò a privarli della corona: amministrò fedelmente e saggiamente il lor patrimonio, e però la morte prematura di Zimiscè fu pei figli di Romano una perdita più che un vantaggio. Per difetto d'esperienza dovettero vegetare ancora nella oscurità altri dodici anni, sotto la tutela d'un ministro che prolungò il suo dominio col persuaderli a darsi in braccio ai divertimenti giovanili, e coll'ispirare in essi fastidio per le occupazioni del Governo. Il debole Costantino si rimase per sempre allacciato nelle reti di seduzione, tese d'intorno a lui: ma il suo fratello maggiore, che sentiva gl'impulsi d'un animo grande, e il bisogno d'operare, aggrottò il ciglio, e il ministro disparve. Basilio fu riconosciuto per sovrano di Costantinopoli, e delle province d'Europa. Ma l'Asia era oppressa da Foca e da Sclero, che ora amici ora nemici, ora sudditi ed ora ribelli, si mantenevano independenti, e si ingegnavano di procacciarsi la fortuna di tanti usurpatori che li aveano preceduti. Contro questi nemici domestici primieramente balenò la spada del figlio di Romano, ed essi tremarono davanti a un principe, armato di coraggio e della forza delle leggi. Sul punto di combattere, Foca colto da un dardo, se pure non fu per effetto di veleno, cadde di cavallo nella fronte del suo esercito. Sclero, che due volte era stato carico di catene, e due volte vestito della porpora, bramava di terminar tranquillamente i pochi giorni che gli restavano. Quando questo vecchio, cogli occhi bagnati di lagrime, con piè vacillanti, e appoggiato a due uomini del suo seguito, s'appressò al trono, l'Imperatore con tutta l'insolenza della gioventù e del potere, esclamò: «È questi dunque l'uomo, che abbiam temuto per tanto tempo?» Basilio s'era fatto forte sul trono, ed aveva richiamata la quiete nell'Impero; ma pensando alla gloria militare di Niceforo e di Zimiscè, non potea dormire tranquillo nel suo palazzo. Le lunghe e frequenti imprese da lui fatte contra i Saracini, furono più gloriose che profittevoli allo Stato; ma distrusse il reame dei Bulgari, e pare che questo fosse il più gran trionfo dell'armi romane, dal tempo di Belisario in poi. Pure i suoi sudditi, invece di decantare un principe vittorioso, ne detestarono l'avidità e l'avarizia; e nel racconto imperfetto che ci rimase delle sue imprese, non si vede che il coraggio, la pazienza e la ferocia d'un soldato. Il suo spirito era stato guasto da un'educazione viziosa; ma non avea per questo perduta la sua energia; era ignaro d'ogni maniera di scienze, e pareva, che la ricordanza del suo avolo, così dotto e così debole a un tempo, scusasse il suo disprezzo, o vero o finto, per le leggi e pei giureconsulti, per le arti e per gli artisti. Con tal carattere, ed in quel secolo, dovea prendere la superstizione un dominio saldo e sicuro: dopo le prime sregolatezze della gioventù, Basilio II si sottomise e in Corte e in campo a tutto le mortificazioni d'un romito; portava una cocolla sotto l'abito e sotto l'armatura; fece voto di continenza, e l'osservò, e interdisse a sè stesso per sempre l'uso del vino e della carne. Nell'età di sessantott'anni, sospinto dal suo genio marziale, era in procinto d'imbarcarsi per una santa spedizione contro i Saracini della Sicilia; lo prevenne la morte, e Basilio soprannominato il terrore dei Bulgari, lasciò questo Mondo in mezzo alle benedizioni del clero, e alle imprecazioni del popolo. Dopo lui, suo fratello, Costantino, godette per tre anni circa il potere, o piuttosto i piaceri del regno, e non si prese per l'Impero altra cura che quella di scegliersi un successore; aveva portato sessantasei anni il titolo di Augusto, e il regno di questi due fratelli è il più lungo e il più oscuro della monarchia di Bizanzio.
Per tal successione in retta linea di cinque Imperatori della stessa famiglia, che aveano occupato il trono in un periodo di cento sessant'anni, s'erano affezionati i Greci alla dinastia Macedone, rispettata tre volte dagli usurpatori del potere. Morto Costantino IX, l'ultimo maschio di quella Casa apre una nuova scena meno regolare, in cui la durata del regno di dodici Imperatori non giunge a quella del regno di Costantino IX. Il suo fratel maggiore avea preposto all'interesse pubblico il merito particolare della castità, e Costantino non avea avuto che tre figlie; Eudossia che si fece religiosa, Zoe e Teodora: erano già venute mature d'anni nell'ignoranza e nella verginità, quando nel Consiglio del padre moribondo si trattò di maritarle. Teodora, troppo devota, o di troppo freddo temperamento, non volle dare un erede all'Impero; ma Zoe consentì di presentarsi, vittima volontaria, all'altare. Le fu destinato a marito Romano Argiro, patrizio, leggiadro di persona, e di nome accreditato; al ricusare ch'ei fece un tal onore, gli si dichiarò, che non obbedendo, non gli restava che la scelta fra la morte e la perdita della vista. Era egli ammogliato, e il motivo della sua resistenza era appunto l'amore, ch'avea per la moglie; ma questa donna generosa sagrificò la propria felicità alla sicurezza e grandezza del marito, e chiudendosi in un monastero, tolse di mezzo l'unico ostacolo, che gl'impedia di unirsi alla famiglia imperiale. Dopo la morte di Costantino, passò lo scettro nelle mani di Romano III; ma la sua amministrazione interna, e le sue esterne imprese furono parimenti deboli ed infruttifere; l'età di Zoe, giunta in allora al quarantottesimo anno, la rendette poco atta a dare grandi speranze di posterità; pure acconsentiva ancora ai piaceri amorosi, e di fatto onorava l'Imperatrice del suo favore uno de' suoi ciamberlani, il bel Michele di Paflagonia, il cui primo mestiere era stato quello di cambiator di monete. Per gratitudine o per ispirito di giustizia secondava Romano questo colpevole amore, o credeva di leggieri alle prove della loro innocenza; ma non andò guari, che Zoe verificò quella massima romana, che una moglie adultera è capace d'avvelenare il marito; la morte di Romano, a grande scandolo dell'Impero, fu tosto seguita dal matrimonio di Zoe, e dall'avvenimento del suo amante al trono sotto il nome di Michele IV. Varie furono però le speranze di Zoe; in vece d'un amante pieno di vigore e di gratitudine, non aveva essa posto nel talamo che un miserabile infermiccio, la salute e la ragione del quale erano indebolite da accessi d'epilepsia, e lacerata la coscienza dalla disperazione e dai rimorsi. Si chiamarono in soccorso di Michele i medici i più famosi del corpo e dell'anima; si cercava di divertirne la inquietudine con frequenti viaggi alle acque, e sulle tombe dei Santi i più rinomati. Applaudivano i monaci alle sue mortificazioni, e, toltane la restituzione, (ma a chi avrebb'egli restituito?) impiegò tutti i modi, che allora credeva più opportuni ad espiare la colpa. Mentr'egli andava gemendo e pregando sotto il sacco e la cenere, suo fratello, l'eunuco Giovanni, prendea diletto de' suoi rimorsi, e raccoglieva i frutti d'un delitto, di cui era stato in secreto il più colpevole autore. Non ebbe nella sua amministrazione altro scopo che quello di contentare la propria avarizia; e fu Zoe trattata da schiava nel palazzo dei suoi padri, e da' suoi servi medesimi. Accorgendosi l'eunuco, essere la malattia di suo fratello irremediabile, pensò a far la sorte di suo nipote, che portava anch'egli il nome di Michele, soprannominato Calafate dal mestiere di suo padre, che lavorava alla carena dei vascelli. Seguì Zoe le volontà dell'eunuco; adottò per suo figlio il figlio d'un operaio, e questo erede straniero venne, alla presenza del senato e del clero, vestito del titolo e della porpora dei Cesari. La debole Zoe fu oppressa dalla libertà e dal potere ch'ella ricuperò alla morte del marito; pose quattro giorni dopo la corona sul capo di Michele V, il quale con lagrime e giuramenti le avea promesso d'esser sempre il più pronto e il più obbediente de' suoi sudditi. Il suo regno durò poco, ed altro non offre che un esempio odioso d'ingratitudine verso l'eunuco e l'Imperatrice, suoi benefattori. Si vide con gioia la disgrazia dell'eunuco; ma susurrò Costantinopoli, e lamentossi alla fine altamente dell'esilio di Zoe, figlia di tanti e tanti Imperatori. I vizi di lei vennero dimenticati, ed imparò Michele, che matura un tempo, in cui la pazienza degli schiavi più vili dà luogo al furore ed alla vendetta. I cittadini d'ogni classe tumultuarono in folla, e quella spaventevole sedizione durò pur tre giorni; assediarono il palazzo, sforzarono le porte, levarono di prigione la lor madre Zoe, Teodora di Monastero, e dannarono il figlio di Calafate a perdere gli occhi o la vita. Videro i Greci con maraviglia sedere per la prima volta sul medesimo trono due donne, presiedere al Senato, e dare udienza agli Ambasciatori delle nazioni. Un governo così singolare non durò che due mesi. Le due Imperatrici si detestavano secretamente; avevano esse caratteri, interessi, e partigiani opposti. Sempre contraria Teodora al matrimonio, Zoe invece infaticabile, in età di sessant'anni, consentì tuttavia, pel ben pubblico, a soffrire le carezze d'un terzo marito, e ad incontrare le censure della Chiesa greca. Questo terzo marito prese il nome di Costantino X, e il soprannome di Monomaco, solo combattente, parola ch'ebbe origine certamente dal valore da lui manifestato o dalla vittoria da lui riportata in qualche pubblica, o privata quistione. Ma i dolori della gotta lo tormentavano spesse volte, e un tal regno dissoluto non presentò che un'alternativa d'infermità e di piaceri. La bella vedova Sclerena di nobile famiglia, che aveva accompagnato Costantino al suo esilio nell'isola di Lesbo, andava superba del nome di sua favorita. Dopo le nozze di Costantino, e l'innalzamento di lui al soglio, fu dessa investita del titolo d' Augusta; la magnificenza della sua casa fu proporzionata a quella dignità, ed abitò nel palazzo un appartamento contiguo a quello dell'Imperatore. Zoe (tanta fu la sua delicatezza, ovvero corruzione) permise quello scandaloso convivere, e presentossi Costantino in pubblico fra la moglie e la concubina. Sopravvisse all'una e all'altra; ma la vigilanza degli amici di Teodora, giunse in tempo a sturbare i disegni di Costantino, il quale, sul finir de' suoi giorni, volea cangiare l'ordine della successione; dopo la sua morte, rientrò essa, per consenso dei popoli, in possessione del suo retaggio. Quattro eunuchi governarono in pace, sotto il nome di lei, l'Impero d'Oriente; e volendo prolungare il loro dominio, esortarono l'Imperatrice, in età allora molta avanzata, di nominare Michele VI, suo successore. Dal soprannome di Stratiotico si conosce, aver esso abbracciata la profession militare; ma quel veterano, infermo e decrepito, non poteva vedere che cogli occhi dei suoi ministri, e operare colle lor mani. Mentr'egli andava innalzandosi al trono, Teodora, ultimo rampollo della dinastia macedonica o basilica, scendeva nel sepolcro. Trascorsi velocemente, e sono giunto con piacere alla fine di questo vergognoso e distruttivo periodo di ventott'anni, durante il quale oltrepassarono i Greci il comun limite della servitù, e, quasi vil gregge, furono trasportati da padrone in padrone a capriccio di due femmine vecchie.
A. D. 1057
Rompe la notte di quella servitù un qualche lampo di libertà, o una scintilla almeno di coraggio. Avevano i Greci conservato o ristabilito l'uso dei soprannomi, che perpetuano la memoria delle virtù ereditarie; e possiamo oramai distinguere il principio, la successione e le alleanze dell'ultime dinastie di Costantinopoli e di Trebisonda. I Comneni, che sostennero per qualche tempo l'Impero nel suo crollare, si diceano nativi di Roma; ma era la loro famiglia domiciliata da molto tempo in Asia. I loro retaggi patrimoniali trovavansi nel distretto di Castamona, nei dintorni dell'Eusino; ed uno de' loro Capi, impelagato già nel mare dell'ambizione, rivedea con tenerezza e forse con dispiacere il misero tugurio, ma onorevole, de' suoi padri. Il primo personaggio conosciuto di quella stirpe, fu l'illustro Manuele, che, regnante Basilio II, colle sue battaglie, e co' suoi negoziati giunse a calmare le turbolenze dell'Oriente. Lasciò due figli in tenera età, Isacco e Giovanni, che colla certezza del merito legò alla gratitudine e al favore del sovrano. Furono que' nobili giovani diligentemente ammaestrati in tutto ciò che insegnavano i monaci, nelle arti del palazzo, e negli esercizi della guerra; e dopo, aver servito nelle guardie, giunsero ben tosto al comando degli eserciti e delle province. La loro fraterna unione raddoppiò la forza ed il credito dei Comneni. Crebbero lo splendore della loro antica famiglia, unendosi l'uno con una principessa di Bulgaria, ch'era cattiva, e l'altro colla figlia d'un patrizio soprannomato Caronte, a motivo dei moltissimi nemici da lui spediti al fiume Stige. Aveano servito le schiere, loro malgrado, ma sempre fedelmente, una caterva di effeminati Imperatori. Era l'innalzamento di Michele VI un oltraggio a' Generali più prodi di lui; la parsimonia di questo principe, e l'insolenza degli eunuchi aumentavano il disgusto di quelli. Si radunarono di nascosto nella chiesa di Santa Sofia; e si sarebbero raccolti i suffragi di quel Sinodo militare in favore di Catacalone, vecchio e prode guerriero, se, per un sentimento di patriottismo o di modestia, non avesse loro quel rispettabile veterano ricordato, che la nobiltà dei natali e il merito devono essere congiunti in colui che si vuole incoronato. Isacco Comneno unì tutti i voti. I congiurati si separarono senza dilazione, e si condussero nelle pianure della Frigia, capitanando le loro schiere, e i loro rispettivi distaccamenti. Non potè Michele sostenere che una battaglia; ei non avea sotto le sue bandiere che i mercenarii della guardia imperiale, stranieri all'interesse pubblico, ed animati soltanto da un principio d'onore e di gratitudine. Dopo la loro sconfitta, pieno di spavento chiese l'Imperatore un trattato, e tale era la moderazione d'Isacco Comneno, che già vi acconsentiva; ma venne Michele tradito da' suoi ambasciatori, e Comneno avvertito da' suoi amici. Il primo, abbandonato da tutti, si sottomise al voto del popolo; il Patriarca sciolse la nazione dal giuramento prestato di fedeltà; e nel punto ch'ei rase il capo dell'Imperatore, che rilegavasi in un monastero, si congratulò seco, ch'egli cangiasse una corona terrestre col regno de' cieli; cambio però che quell'ecclesiastico non avrebbe probabilmente accettato per sè medesimo. Lo stesso Patriarca coronò solennemente Isacco Comneno; potè la spada, ch'ei fece incidere sulle monete, essere risguardata come un simbolo insultante, se indicar volea il diritto di conquista, ch'avea assicurato il trono a Comneno; ma quella spada era stata sguainata contro i nemici dello Stato, stranieri o domestici. Lo scadimento di salute e di forze ne scemò l'attività; scorgendosi vicino a morire, determinossi di porre qualche intervallo fra il soglio e l'eternità. Ma in vece di lasciare l'Impero in dote a sua figlia, cedeva egli alla ragione ed alla inclinazione che l'eccitavano a consegnare lo scettro nelle mani di suo fratello Giovanni, principe guerriero e patriotta, e padre di cinque figli, che mantener doveano la corona nella famiglia. Nei modesti rifiuti di costui si potè da principio ravvisare un naturale effetto della considerazione e dell'attaccamento che avea pel fratello, e per la nipote; ma, nella sua inflessibile ostinazione in ricusare l'Impero, avvegnachè abbellita dai colori della virtù, condannar si dee una colpevole dimenticanza del proprio dovere, e una vera ingiuria, e non comune, verso la famiglia e la patria. La porpora, che ei non volle mai ricevere, fu accettata da Costantino Ducas, amico della Casa dei Comneni, e che univa a nobili natali l'abitudine delle funzioni civili, e credito in sì fatto genere di cose. Isacco si ritirò in un convento, dove ricuperò la salute, e sopravvisse due anni all'abdicazione, obbediente agli ordini del suo abate. Seguì la Regola di S. Basilio, e fece gli uffizi i più servili del chiostro; ma l'avanzo di vanità, che sotto l'abito monastico conservava tuttavia, venne appagato dalle visite frequenti e rispettose, ch'ei ricevè dall'Imperator regnante, dal quale era venerato qual benefattore e qual Santo.
1067
Se fu in realtà Costantino XI l'uomo il più degno dello scettro imperiale, bisogna compiangere la degenerazione del suo secolo e del suo popolo. Datosi egli a comporre puerili declamazioni, che non gli poterono ottenere la corona dell'eloquenza, a' suoi occhi più preziosa di quella di Roma, tutto intento agli uffici subalterni di giudice, pose in non cale i doveri di sovrano e di guerriero. Anzi che imitare la patriottica indifferenza degli autori del suo innalzamento, pareva non avere altro a cuore Ducas che il potere e la fortuna dei figli, a danno anche della Repubblica. Michele VII, Andronico I, e Costantino XII, suoi tre figli, ebbero in tenera età il titolo d'Augusti; la morte del padre, avvenuta non guari dopo, lasciò loro l'Impero da dividere. Affidò, morendo, l'amministrazione dello Stato ad Eudossia, sua moglie; ma dall'esperienza aveva egli imparato ch'ei dovea preservare la prole dai pericoli d'un secondo matrimonio; promise Eudossia di non rimaritarsi, e questa solenne protesta, sottoscritta dai principali senatori, fu depositata nelle mani del Patriarca. Non erano trascorsi per anche sette mesi, quando le bisogne d'Eudossia, o quelle dello Stato, parlarono altamente in favore delle maschie virtù di un soldato; aveva il cuore di lei già prescelto Romano Diogene, che dal palco di morte aveva condotto al soglio. La scoperta d'una rea trama l'esponeva a tutto il rigor delle leggi; la bellezza e il valore lo giustificarono agli occhi dell'Imperatrice; lo condannò primieramente ad un esilio poco doloroso, e il secondo giorno lo richiamo per farlo capitano degli eserciti dell'Oriente. Ignorava il Pubblico allora ch'essa gli destinasse la corona, e uno de' suoi mandatarii seppe giovarsi dell'ambizione del Patriarca Sifilino per trargli di mano lo scritto, che avrebbe svelato ad ognuno la mala fede, e la leggierezza dell'Imperatrice. Invocò da principio Sifilino la santità dei giuramenti, e la venerazione dovuta ai depositi; ma gli si diede ad intendere ch'Eudossia far volea Imperatore il fratello di lui; i scrupoli allora si dissiparono, e confessò che la pubblica sicurezza era la legge suprema; cedè lo scritto rilevante, e alla nomina di Romano, perdendo ogni speranza, ei non poteva nè ricuperare la carta che lo salvava, nè disdire il detto, nè opporsi alle seconde nozze dell'Imperatrice. Udivansi però nel palazzo alcuni susurri; i Barbari che lo custodivano agitavano le loro accette in favore della Casa di Ducas, nè si acquetarono mai fino a tanto che furono i giovani principi calmati dalle lagrime d'Eudossia, e dalle solenni proteste che ricevettero della fedeltà del loro tutore, che sostenne con gloria e dignità il titolo d'Imperatore. Narrerò più innanzi l'infruttuoso valore, che egli oppose ai progressi dei Turchi. La sconfitta e prigionia di lui portarono una ferita mortale alla monarchia di Bizanzio; e, posto dal Sultano in libertà, non trovò nè la moglie, nè i sudditi. Era stata Eudossia chiusa in un monastero, e aveano i sudditi di Romano abbracciata quella rigida massima di legge civile, che un uomo in poter del nimico è privo dei diritti pubblici e particolari di cittadino, come colpito da morte. In mezzo alla generale costernazione, fece valere il Cesare Giovanni l'inviolabile diritto de' suoi tre nipoti: Costantinopoli l'ascoltò, e Romano, in potere allora dei Turchi, fu dichiarato nimico della Repubblica, e ricevuto per tale alle frontiere. Non fu più felice contra i suoi sudditi, di quel che era stato contro gli stranieri: la perdita di due battaglie il determinò a cedere il trono sulla promessa d'un trattamento onorevole; ma privi di buona fede e d'umanità, lo privarono i suoi nemici della vista, e sdegnando perfino di stagnare il sangue che usciva dalle sue piaghe, vel lasciarono corrompersi, di modo che fu libero ben tosto dalle miserie della vita. Sotto il triplice regno della Casa di Ducas, furono i due fratelli cadetti ridotti ai vani onori della porpora; era il maggiore, il pusillanime Michele, incapace di reggere le redini del Governo; e il soprannome datogli di Parapinace annunciò il rimprovero che gli si facea, e che divideva con uno de' suoi avidi favoriti, d'avere aumentato il prezzo del grano, e diminuitane la misura. Fece il figlio d'Eudossia nella scuola di Psello, e coll'esempio della madre, qualche progresso nello studio della filosofia e della rettorica; ma il carattere di lui fu piuttosto macchiato che nobilitato dalle virtù d'un monaco, e dal sapere d'un sofista. Incoraggiati dal disprezzo che loro inspirava l'Imperatore, e dalla buona opinione che aveano di sè medesimi, capitanando le legioni dell'Europa e dell'Asia, vestirono due Generali la porpora in Andrinopoli e in Nicea; si ribellarono lo stesso mese; portavano l'ugual nome di Niceforo, ma veniano distinti dal soprannome di Briennio e di Botoniate. Era il primo in allora in tutta la maturità della saggezza e del coraggio; non era il secondo commendevole che per imprese già fatte. Mentre avanzavasi Botoniate con circospezione e lentezza, il suo competitore, più attivo, trovavasi in arme dinanzi le mura di Costantinopoli. Godeva Briennio il credito e il favore del popolo; ma non seppe impedire a' suoi eserciti di saccheggiare ed ardere un sobborgo, e il popolo, che avrebbe accolto il ribelle, rispinse l'incendiario della patria. Questo cangiamento nella pubblica opinione tornò a favore di Botoniate, che s'avvicinò finalmente con un esercito di Turchi alle spiagge di Calcedonia. Si pubblicò per ordine del Patriarca, del Sinodo e del Senato, nelle contrade di Costantinopoli, un invito a tutti i cittadini della capitale, di raunarsi nella chiesa di Santa Sofia, e si deliberò, in quel Concilio generale, tranquillamente e senza disordine, intorno alla scelta d'un Imperatore. Avrebbero potuto le guardie di Michele disperdere quella moltitudine inerme; ma il debole principe, compiacendosi della propria moderazione e clemenza, si spogliò delle insegne reali, ed accettò invece l'abito di monaco, e il titolo d'Arcivescovo d'Efeso. Nacque Costantino suo figlio, e venne allevato nella porpora, e una figlia della Casa di Ducas illustrò il sangue, e consolidò il trono nella famiglia dei Comneni.
A. D. 1078
Aveva Giovanni Comneno, fratello dell'Imperatore Isacco, dopo il suo generoso rifiuto della corona, passato il rimanente de' suoi giorni in un riposo onorevole. Lasciava otto figli d'Anna, sua sposa, donna d'un coraggio e d'una abilità superiori al suo sesso, e moltiplicarono tre figlie le alleanze dei Comneni coi più nobili tra i Greci. Una morte immatura tolse dal Mondo il maggiore de' suoi cinque figli Manuele; Isacco ed Alessio giunsero all'Impero, e restaurarono la grandezza imperiale della lor Casa; Adriano e Niceforo, i più giovani, ne godettero senza fatica e senza pericolo. Alessio, il terzo e il più stimabile di tutti, era stato dotato dalla natura delle qualità le più preziose del corpo e dello spirito: sviluppate queste da un'educazion liberale, erano state in processo di tempo esercitate nella scuola dell'obbedienza e dell'avversità. L'Imperatore romano, per affetto paterno, non volle permettergli d'esporsi nella guerra dei Turchi; ma la madre dei Comneni venne compresa con tutta la sua ambiziosa famiglia, in un'accusa di delitto di lesa maestà, e sbandita dai figli di Ducas in un'isola della Propontide. Non andò guari che i due fratelli ne uscirono per segnalarsi, e per venire in favore. Combatterono, senza dividersi, i ribelli e i Barbari, e rimasero affezionati all'Imperatore Michele, fino a tanto che venne egli abbandonato da tutti e da sè medesimo. Nel primo abboccamento ch'egli ebbe con Botoniate «Principe, gli disse Alessio con nobile candore, m'avea reso il dovere vostro nimico, i decreti di Dio e quelli del popolo m'han fatto vostro suddito; giudicate della mia fedeltà futura dalla mia passata opposizione». Onorato dalla stima e dalla confidenza del successor di Michele fe' mostra del suo valore contro tre ribelli che turbavano la pace dell'Impero, o quella almeno degl'Imperatori. Ursello, Briennio e Basilacio, formidabili pei loro numerosi eserciti e per la lor fama di prodi guerrieri, furono vinti l'un dopo l'altro, e, carichi di catene, condotti al piede del trono; e sia qualsivoglia il modo con cui vennero trattati da una Corte timida e crudele, magnificarono essi la clemenza e il coraggio del loro vincitore. Ma ben tosto alla fedeltà dei Comneni s'unirono il timore e il sospetto, nè è facil cosa il bilanciare tra un suddito e un despota il debito di gratitudine, che il primo è pronto ad esigere con una rivolta, e di cui è tentato il secondo di liberarsi per la mano d'un carnefice. Avendo Alessio ricusato di marciare contra un quarto ribelle, marito di sua sorella, cancellò un tale rifiuto il merito od anche la memoria de' suoi servigi. Provocarono i favoriti di Botoniate colle loro accuse l'ambizion che temevano, e la fuga dei due fratelli può avere per iscusa la necessità di difendere la libertà e la vita. Alle donne di quella famiglia venne assegnato un asilo, rispettato dai tiranni; gli uomini uscirono a cavallo dalla città, e inalberarono lo stendardo della ribellione; i soldati, che a poco a poco eransi raunati nella capitale e nei dintorni, erano consegrati alla causa d'un Capo vittorioso e vilipeso: interessi comuni ed alleanze congiunsero a lui la Casa di Ducas. I due Comneni si rimandavano a vicenda il trono, e questa disputa generosa non cessò che colla risoluzione d'Isacco, il quale rivestì suo fratello cadetto del nome e degli emblemi reali. Ritornarono sotto le mura di Costantinopoli piuttosto per minacciare che per assediare quella inespugnabile città; ma corrupero essi la fedeltà delle guardie, e sorpresero una porta, mentre stava difendendosi la flotta contro l'attivo e coraggioso Giorgio Paleologo, che in quella circostanza combattea suo padre, senza riflettere ch'ei sudava pe' suoi discendenti. Alessio venne incoronato, e il vecchio competitore di lui sepolto sotto le tacite volte d'un monastero. Un esercito composto di soldati di diverse nazioni ottenne il saccheggio della città; ma quei disordini pubblici furono espiati dalle lagrime e dai digiuni dei Comneni, che si sottomisero a tutte le penitenze compatibili colla possession dell'Impero.
A. D. 1081
La vita dell'Imperatore Alessio è stata scritta dalla prediletta delle sue figlie. La principessa Anna Comnena, inspirata dalla sua tenerezza e dal desiderio lodevole di perpetuare le virtù del padre, s'avvide benissimo che dubiterebbero i lettori della veracità di lei. Protesta a più riprese che oltre i fatti giunti a sua cognizione personale, andò ricercando i discorsi e gli scritti di tutti coloro, che hanno vissuto sotto il regno d'Alessio; che dopo uno spazio di trent'anni, dimenticata dal Mondo, ch'essa medesima ha dimenticato, la sua trista solitudine è inaccessibile alla speranza e al timore, e che la verità, la semplice e rispettabile verità, l'è più sacra che la gloria del padre; ma in vece di quella semplicità di scrivere e di narrare che persuade a credere, uno sfoggio affettato di sapere e di falsa rettorica lascia ad ogni pagina vedere la vanità d'un'autrice. Il vero carattere d'Alessio è coperto sotto un bel cumulo di virtù; un tuono perpetuo di panegirico e d'apologia ci desta sospetto, e ci fa dubitare della veracità dello scritto, e del merito dell'eroe. Non si può nondimeno negare la verità di quest'importante osservazione: che i disordini di quell'epoca furono la disgrazia e la gloria d'Alessio; e che i vizi de' suoi predecessori, e la giustizia del ciclo ammassarono sul regno di lui tutte le calamità, che affligger possono un Impero nella sua decadenza. Avevano i Turchi vittoriosi fondato in Oriente, dalla Persia all'Ellesponto, il regno del Koran e della Mezza Luna: il valore cavaleresco de' popoli della Normandia invadea l'Occidente; e negli intervalli di pace, recava il Danubio nuovi sciami di guerrieri, che acquistato avevano nell'arte militare quello che avevano perduto dal lato della fierezza de' costumi. Non era il mare più tranquillo del Continente, e mentre un nimico aperto assaliva le frontiere, agitavano l'interno del palazzo traditori e congiurati. Spiegarono i Latini improvvisamente lo stendardo della Croce: precipitossi l'Europa sull'Asia, e tale inondazione fu in procinto d'inghiottire Costantinopoli. Durante la procella, governò Alessio il naviglio dell'Impero con pari destrezza e coraggio. Guidava gli eserciti, animoso, accorto, paziente, infaticabile approfittava de' suoi vantaggi, e sapeva risorgere da una rotta con tanto vigore, che niente lo poteva abbattere. Ristabilì la disciplina tra le schiere; e coi precetti e coll'esempio creò una nuova generazione d'uomini e di soldati. Dimostrò ne' trattati coi Latini tutta la sua pazienza e sagacità; l'occhio suo penetrante comprese di volo il nuovo sistema di que' popoli dell'Europa, ch'ei non conosceva; e in un altro luogo verrò esponendo le mire superiori colle quali bilanciò gl'interessi, e le passioni dei capitani della prima Crociata. Durante i trent'anni del suo regno, seppe frenare e compatire l'invidia, ch'egli destava ne' suoi uguali; rimise in vigore le leggi relative alla tranquillità tanto dello Stato che dei particolari; si coltivarono l'arti e le scienze; i confini dell'Impero, si estesero sì in Europa come in Asia; e la famiglia dei Comneni conservò lo scettro fino alla terza e alla quarta generazione. La difficoltà non di meno de' tempi, in che visse, pose in chiaro alcuni difetti del suo carattere, e ne espose la memoria a rimproveri bene o mal fondati. Sorride il lettore agl'infiniti elogi che Anna tributa sì spesso all'eroe fuggiasco; si può, nella debolezza, o nella prudenza a cui lo costrinsero le critiche circostanze, sospettare un difetto di coraggio personale, e i Latini trattano di perfidia e di dissimulazione l'arte ch'egli usò nei negoziati. Il numero grande degli individui d'ambo i sessi, che in allora contava la sua famiglia, accresceva lo splendore del trono, e ne accertava la successione; ma il loro lusso ed orgoglio ributtarono i patrizi, esaurirono il regio erario e oltraggiarono la miseria del popolo. Sappiamo dalla fedele testimonianza d'Anna Comnena, che le fatiche dell'amministrazione distrussero la felicità, e indebolirono la salute d'Alessio: la lunghezza e severità del suo Regno stancarono Costantinopoli, e quando morì, aveva perduto l'amore e il rispetto de' suoi sudditi. Non gli poteva il clero perdonare d'essersi servito delle ricchezze della Chiesa in difesa dello Stato; ma il medesimo clero ne lodò le cognizioni teologiche, e l'ardente zelo per la Fede ortodossa, ch'egli sostenne coi discorsi, colla penna e colla spada. Il suo carattere venne impicciolito dall'animo superstizioso de' Greci; e uno stesso principio, irregolare ne' suoi effetti, lo condusse a fondare uno spedale pei malati e pei poveri, e a comandare il supplicio d'un eretico che fu arso vivo sulla piazza di Santa Sofia. Coloro che avevano seco lui vissuto intimamente, sospettarono perfino delle sue morali e religiose virtù. Allorchè, giunto agli estremi, lo andava Irene, sua moglie, sollecitando a cangiar l'ordine della successione, alzò il capo, e rispose con un sospiro accompagnato da una pia esclamazione sulla vanità di questo Mondo. Sdegnata l'Imperatrice, gl'indirizzò queste parole, che si sarebbero dovuto scolpire sulla sua tomba: «Tu muori come vivesti, da IPOCRITA.»
Voleva Irene soppiantare il maggiore de' suoi figli per favorire la principessa Anna, sua figlia, la quale malgrado della sua filosofia, non avrebbe ricusato il diadema; ma non patirono gli amici della patria, che uscisse la successione fuor della linea maschile; il legittimo erede levò il suggello reale di dito al padre, che non se n'avvide, o che vi acconsentì; e l'Impero si sottomise al signore del palazzo. L'ambizione e la vendetta spinsero Anna Comnena a tramare la morte del fratello regnante; ma pei timori e scrupoli di suo marito essendo andato a voto il disegno, adirata esclamò, avere la natura confuso i sessi, e dato a Briennio l'anima d'una donna. Giovanni ed Isacco, figli d'Alessio, conservarono a vicenda quella fraterna amicizia, che era virtù ereditaria nella lor famiglia, e il cadetto si contentò del titolo di Sebastocratore, cioè d'una dignità per poco uguale a quella dell'Imperatore, ma spoglia d'autorità. I diritti della primogenitura fortunatamente erano accoppiati a quelli del merito; per la carnagione bruna, per l'asprezza dei lineamenti e la picciola statura al nuovo Imperatore fu dato il soprannome ironico di Calo Giovanni o sia Giovanni il Bello, che poi la gratitudine dei sudditi applicò in una maniera più seria alla sua bell'anima. Scoperta che fu la trama, doveva Anna perdere la sua fortuna e la vita; ma fu risparmiata dalla clemenza dell'Imperatore. Dopo avere coi propri occhi esaminata la pompa e i tesori del palazzo di lei, egli dispose di queste ricche spoglie in favor del più degno amico che avesse. Era questo Axuc, schiavo turco d'origine, il quale ebbe tanta generosità da ricusare il donativo, e da intercedere per quella che si volea punire. Il suo magnanimo padrone commosso dalla virtù del suo favorito, ne seguì il bell'esempio; e i rimproveri o le doglianze d'un fratello offeso furono la sola punizione della principessa. Da quel punto non vi fu più sotto il suo regno nè cospirazione, nè rivolta: temuto dai Nobili, amato dal popolo, non ebbe più Giovanni la dura necessità di punire i nemici della sua persona, o di perdonare. Durante la sua amministrazione, che fu di venticinque anni, rimase abolita la pena di morte nell'Impero romano; legge misericordiosa, cara all'umanità del filosofo contemplatore, ma rade volte, in un Corpo politico, vasto, e corrotto, consentanea alla pubblica sicurezza. Severo per sè stesso, indulgente per gli altri, era Giovanni casto, sobrio, frugale; nè il filosofo Marc'Aurelio avrebbe sdegnato le semplici virtù, che questo principe attingea dal cuore, senza averle imparate nelle scuole. Spregiò e scemò il fasto della Corte bizantina, vizio oppressivo pel popolo, e vituperevole agli occhi della ragione. Regnando lui, nulla ebbe l'innocenza a temere, e il merito potè sperare tutti i vantaggi. Senza arrogarsi gli offici tirannici d'un censore, riformò a poco a poco, ma in modo sensibile, i pubblici e privati costumi di Costantinopoli. Quel naturale perfetto, non ebbe che la taccia dell'anime nobili, il genio delle armi e della gloria militare; ma dalla necessità di cacciare i Turchi dall'Ellesponto e dal Bosforo possono venir giustificate almeno nei principii le frequenti spedizioni di Giovanni il Bello. Il Soldano d'Iconio fu chiuso nella sua capitale, e respinti i Barbari nelle montagne, le province marittime dell'Asia furono liberate felicemente dai nemici, almeno per qualche tempo. Marciò più volte da Costantinopoli verso Antiochia ed Aleppo con un esercito vittorioso, e negli assedii e nelle battaglie di questa guerra santa i suoi alleati, i Latini, stupirono del valore e dell'imprese d'un Greco. Già cominciava a compiacersi dell'ambiziosa speranza di rinovare gli antichi limiti dell'Impero; aveva calda la mente dei pensieri dell'Eufrate e del Tigri, del conquisto della Siria e di Gerusalemme, quando un caso singolare troncò la sua vita e con essa la pubblica felicità. Stava egli inseguendo un cignale nella valle d'Anazarbo; mentre lottava contro l'animale furibondo, già trafitto dalla sua chiaverina, gli cadde dal turcasso un dardo avvelenato, che gli ferì leggiermente la mano: sopravvenne la cancrena, la quale terminò i giorni del migliore e del più grande dei principi Comneni.
Una morte immatura avea rapito i due figli maggiori di Giovanni il Bello e gli restavano Isacco e Manuele; guidato da giustizia, o da predilezione, preferì egli il più giovane, e dai soldati, che aveano applaudito al valore di quel principino nella guerra coi Turchi, fu ratificata la scelta. Il fedele Axuc partì frettolosamente per Costantinopoli, si assicurò della persona d'Isacco, e lo relegò in una prigione onorevole; poi col donativo di quattrocento marchi d'argento, comperò il voto di quelli ecclesiastici, che reggevano il clero di Santa Sofia, e che erano assolutamente autorevoli per la consecrazion dell'Imperatore. Non tardò Manuele a giugnere nella capitale coll'esercito composto di vecchi soldati fedeli; suo fratello fu pago del titolo di Sebastocratore: i sudditi ammirarono l'alta statura, e le maniere marziali del nuovo sovrano, e s'abbandonarono alla speranza che all'attività e al vigore giovanile congiungesse la sapienza dell'età matura. Ma presto videro coll'esperienza, che non aveva ereditato se non se il coraggio e i talenti del padre, ma che le virtù sociali di questo erano state con lui sepolte nella tomba; per tutto il tempo ch'egli regnò, cioè por trentasett'anni, fece sempre la guerra, con vario successo, ai Turchi, ai Cristiani e alle popolazioni del deserto situato al di là del Danubio. Combattè sul monte Tauro, nelle pianure dell'Ungaria, sulla costa dell'Italia e dell'Egitto, sui mari della Sicilia e della Grecia. Le conseguenze de' suoi trattati furono sentite da Gerusalemme sino a Roma, e nella Russia; e la monarchia di Bizanzio divenne per qualche tempo oggetto di riverenza, o di terrore, per le Potenze dell'Asia e dell'Europa. Educato Manuele nella porpora e nel lusso orientale, avea pur conservato il ferreo temperamento guerresco, di cui non si trova di leggieri esempio da paragonarsegli, fuorchè nelle vite di Riccardo I, Re d'Inghilterra, e di Carlo XII, Re di Svezia. Tanta era la forza e l'abilità sua nel maneggio dell'armi, che Raimondo, nomato l'Ercole d'Antiochia, non potè brandire la lancia, nè tenere lo scudo del greco Imperatore. In un famoso torneo fu veduto sopra un destriero focoso correre e rovesciare al primo passo due Italiani, che avevan fama di robustissimi fra i cavalieri più gagliardi. Primo sempre all'assalto, ed ultimo a ritirarsi, facea tremare del pari amici e nemici, quelli per la sua salute, gli altri per la propria. In una delle sue guerre, dopo aver messa una imboscata in fondo a una selva, era andato avanti per trovare un'avventura pericolosa, non avendo con sè che suo fratello, e il fido Axuc, che non avevano voluto abbandonare il sovrano. Dopo breve zuffa, mise in fuga diciotto cavalieri; ma cresceva il numero de' nemici, e il rinforzo spedito in suo aiuto s'avanzava con passo lento e dubbioso; quando Manuele, senza ricevere ferita alcuna, s'aperse la via per mezzo a uno squadrone di cinquecento Turchi. In una battaglia cogli Ungaresi, impaziente della lentezza de' suoi battaglioni, strappò la bandiera dalle mani dell'alfiere, che precedea la colonna, e fu il primo e quasi il solo a passare un ponte che lo dividea dal nimico. Nel paese medesimo, dopo aver condotto l'esercito al di là della Sava, rimandò i battelli con ordine al Capo del navile, pena la vita, di lasciarlo vincere o morire su quella terra straniera. All'assedio di Corfù, rimorchiando una galera che avea presa, e stando sulla parte più esposta del vascello, affrontò una grandine incessante di sassi e di dardi, senz'altra difesa che un largo scudo, ed una vela aperta; era inevitabile la sua morte, se l'ammiraglio Siciliano non avesse ingiunto ai suoi arcieri di avere rispetto ad un eroe. Dicesi, che un giorno uccidesse colle sue mani più di quaranta Barbari, e ritornasse nel campo trascinando quattro prigionieri turchi attaccati agli anelli della sua sella; sempre il primo qualvolta si trattava di proporre, o d'accettare un duello, trafiggea colla sua lancia, o fendea per mezzo colla sciabla i campioni giganteschi che osavano resistere al suo braccio. La storia delle sue geste, che può considerarsi per modello o per copia de' romanzi di cavalleria, dà sospetto della veracità dei Greci; nè io per comprovare la credenza che si debbe averne, rinuncierò a quella che posso meritare; osserverò tuttavolta, che nella lunga serie dei loro annali, Manuele è quel solo principe, che abbia data occasione a così fatte esagerazioni. Ma al valor d'un soldato non seppe congiungere l'abilità, o la prudenza d'un Generale; dalle sue vittorie non risultò veruna conquista, che utile fosse o durevole, e quegli allori, che avea mietuti, combattendo coi Turchi, s'appassirono nell'ultima campagna, in cui perdette l'esercito sulle montagne della Pisidia, e fu debitor della vita alla generosità del Soldano. Il carattere per altro più singolare dell'indole di Manuele, si vede nel contrapposto, e nell'alternativa d'una vita or laboriosa, ora indolente nelle più dure fatiche, e nei sollazzi più effeminati. In guerra parea che ignorasse che si può vivere in pace; e nella pace sembrava inetto a far guerra. In campagna dormiva al sole o sulla neve; nè uomini, nè cavalli potean resistere agli stenti ch'egli durava nelle sue lunghe corse militari; egli dividea, ridendo, l'astinenza e il regime frugale delle sue soldatesche; ma appena tornato a Costantinopoli si dava tutto alle arti, ed ai piaceri d'una vita voluttuosa: negli abiti, nella tavola e nel suo palazzo spendeva più che non aveano fatto i suoi predecessori, e passava i lunghi giorni della state nell'isole deliziose della Propontide ozioso, e in braccio agli amori incestuosi, di cui godeva colla nipote Teodora. I dispendii d'un principe guerriero e dissoluto sprecarono l'entrate pubbliche, e vennero moltiplicando le gabelle; e nelle estremità a cui fu ridotto il campo nella sua ultima impresa contro i Turchi, dovè sopportare in bocca d'un soldato posto alla disperazione un amarissimo rimbrotto. Lagnossi il principe perchè l'acqua d'una fontana, alla quale spegneva la sete, era lorda di sangue cristiano: «Non è la prima volta, o Imperatore, gridò una voce fra la soldatesca, che tu bevi il sangue de' tuoi sudditi cristiani». Manuele Comneno si maritò due volte: sposò primieramente la virtuosa Berta o Irene, principessa d'Alemagna; indi la bella Maria, principessa d'Antiochia, francese o latina d'origine. Dalla prima moglie ebbe una figlia, da lui destinata a Bela, principe d'Ungaria, ch'era educato a Costantinopoli sotto il nome d'Alessio, e avrebbe potuto questo matrimonio trasmettere lo scettro romano ad una stirpe di Barbari guerrieri, o independenti; ma come tosto Maria d'Antiochia ebbe dato un figlio all'Imperatore, ed un erede all'Impero, rimasero aboliti i diritti presuntivi di Bela, e gli fu negata la moglie promessa: allora il principe ungarese ripigliò il suo nome, rientrò nel reame de' suoi padri, e manifestò tante virtù ch'ebbero ad eccitare la gelosia dei Greci col rincrescimento d'averlo perduto. Il figlio di Maria fu nominato Alessio, e in età di dieci anni, salì al trono di Bizanzio, quando la morte del padre ebbe posto termine alla gloria della razza dei Comneni.
A. D. 1180
Qualche volta gl'interessi e le passioni contrarie aveano disturbata l'amicizia fraterna dei due figli d'Alessio il Grande. Dall'ambizione fu tratto Isacco Sebastocratore a fuggire ed a ribellarsi. La fermezza e la clemenza di Giovanni il Bello lo ricondussero a sommessione. Leggieri e di poca durata furono gli errori d'Isacco, padre degl'Imperatori di Trebisonda; ma Giovanni, il maggiore de' suoi figli, abiurò la sua religione per sempre. Irritato per un insulto ch'ei credeva avere, a torto od a ragione, ricevuto dallo zio, abbandonò il campo de' Romani, e rifuggissi a quello de' Turchi. Venne premiata la sua apostasia dal matrimonio colla figlia del Soldano, dal titolo di Chelbi, o Nobile, e dal retaggio d'una sovranità: e nel quindicesimo secolo si gloriava Maometto II di discendere dalla famiglia de' Comneni. Andronico, fratello cadetto di Giovanni, figlio d'Isacco, e nipote d'Alessio Comneno è uno degli uomini più singolari del suo secolo, e le avventure di lui formerebbero materia di stranissimo romanzo. Fu amato da tre donne di regia stirpe, e per giustificarne l'inclinazione debbo notare, che questo amante fortunato aveva tutte le proporzioni, in cui consiste la forza e la bellezza; quello che gli mancava di grazia e d'amabilità era compensato da un maschio contegno, da un'alta statura, da muscoli atletici, dalla sembianza e dalle maniere d'un soldato. Si mantenne sano e vigoroso sino ad un'età molto matura, in grazia della temperanza e degli esercizi che faceva. Un tozzo di pane e un bicchiere d'acqua erano spesso la sua cena, o se assaggiava d'un cignale o d'un capriolo cucinato colle sue mani, era solamente quando se l'era guadagnato con una caccia laboriosa. Abile a maneggiare le armi, non conosceva paura; la sua persuasiva eloquenza sapeva acconciarsi a tutti gli eventi e a tutti gli stati della vita; aveva formato il suo stile, ma non i costumi, sul modello di S. Paolo: in ogni azion criminosa, non gli mancava mai coraggio a risolvere, destrezza a regolarsi, forza ad eseguire. Morto l'Imperator Giovanni, si ritirò coll'esercito romano. Attraversando l'Asia Minore, mentre, per caso, o a bella posta, girava per le montagne, fu accerchiato da cacciatori turchi, e dimorò per qualche tempo, sia volontario, sia a malgrado suo, in balìa del loro principe. Colle sue virtù, non che co' suoi vizi acquistò il favore di suo cugino; partecipò ai pericoli, ed ai piaceri di Manuele; e mentre l'Imperatore vivea in un commercio incestuoso con Teodora, godeva Andronico le buone grazie d'Eudossia, sorella della mentovata principessa, che avea ceduto alle sue seduzioni. La quale senza riguardo al decoro del sesso, e della condizione sua, si gloriava del nome di concubina d'Andronico, e la Corte od il campo avrebbero potuto ugualmente testificare, ch'ella dormiva o vegliava in braccio al suo amante. Gli fu compagna quand'egli andò nella Cilicia, che fu il primo teatro del suo valore, come della sua imprudenza. Stringeva egli fortemente d'assedio la piazza di Mopsuesta; passava la giornata a dirigere i più temerari assalti, e la notte a godere della musica e del ballo, ed una truppa di commedianti greci era la parte del suo seguito ch'egli pregiava di più. I suoi nemici, più vigilanti di lui, lo sorpresero con una sortita improvvisa; ma intanto che le sue milizie fuggivano in gran disordine, Andronico trafiggea coll'invitta sua lancia i più folti battaglioni degli Armeni. Ritornando al campo imperiale, che stava in Macedonia, fu accolto pubblicamente da Manuele con sembiante di benevolenza, ma con qualche rimprovero in privato. Nondimeno per ricompensare, o consolare il Generale sventurato gli diede l'Imperatore i Ducati di Naisso, Braniseba e Castoria. La sua amante lo accompagnava da per tutto; un giorno, i fratelli di questa, accesi di furore, e bramosi di lavar nel sangue di lui la lor vergogna, piombarono improvvisi sulla sua tenda; Eudossia lo consigliò di vestirsi da donna, e di scampare in tal modo. Il prode Andronico non volle seguirne l'avviso, e balzato dal letto, si aperse colla spada in mano la via in mezzo ai suoi numerosi assassini. In quell'occasione manifestò per la prima volta e ingratitudine e perfidia. Intavolò un indegno negoziato col Re d'Ungaria, e coll'Imperator d'Alemagna; s'accostò alla tenda dell'Imperatore, armato di spada in un'ora sospetta; fingendosi un soldato latino, confessò che volea vendicarsi d'un nemico mortale, e fu sì imprudente che lodò la velocità del suo cavallo, mercè del quale, egli dicea, sperava di escire sano e salvo di tutti i rischii della sua vita. Manuele dissimulò i sospetti, ma terminata che fu la campagna, fece arrestare Andronico, e lo chiuse in una torre del palazzo di Costantinopoli.
Questa prigionia durò più di dodici anni, nel qual tempo pel bisogno d'esercizio e per la smania di divertirsi, non fece che cercar la via di fuggire a sì penosa cattività. Finalmente, stando così solo e pensieroso, scoperse un giorno in un angolo della sua camera qualche mattone rotto; a poco a poco potè aprire un passaggio, e trovò dietro del luogo uno stanzino oscuro e dimenticato; egli vi si appiattò con quel che gli restava di provvisioni; dopo avere accuratamente rimessi al posto i mattoni, e tolto ogni vestigio della sua ritirata. Le guardie, che all'ora solita vennero a far la visita, rimasero maravigliate del silenzio e della solitudine della prigione, e sparsero voce che Andronico era fuggito senza che se ne sapesse il come. Allora furon chiuse le porte del palazzo e della città; andò l'ordine il più rigoroso alle province di assicurarsi della persona del fuggiasco, e sua moglie, pel sospetto che ne avesse favorita la fuga, e alla quale se ne fece vilmente un delitto, fu imprigionata nella torre medesima. Venuta la notte, le parve di vedere uno spettro; riconobbe il marito; si divisero fra loro i viveri, e da questi segreti intertenimenti, che mitigavano le pene della lor prigionia, ebbe origine un figlio. A poco a poco si rilassò la vigilanza dei guardiani commessi alla custodia d'una donna, e Andronico era in piena libertà quando fu scoperto e ricondotto a Costantinopoli, carico di doppia catena. Trovò egli il modo e il momento di fuggire dalla sua prigione. Un giovanetto che lo serviva seppe ubbriacare le guardie, e prendere colla cera l'impronto della chiavi: gli amici di Andronico gli mandarono in fondo ad un barile le chiavi false con un mazzo di corde. Il prigioniere, con gran coraggio e destrezza, se ne valse, aperse le porte, calò giù dalla torre, stette una giornata intera nascosto entro una siepe, e nella notte scalò le mura del giardino del palazzo. Quivi lo aspettava un battello; corse egli a casa sua, abbracciò i figli, si liberò dei ferri, e montando un agile palafreno, si diresse rapidamente verso le rive del Danubio. In Anchiala, città della Tracia, da un amico coraggioso fu provveduto di cavalli e di denaro. Passò il fiume, attraversò in gran fretta il deserto della Moldavia e i monti Carpazii, ed era già presso Haliz, città della Russia polacca, quando fu arrestato da una banda di Valacchi, i quali decisero di condurre questo ragguardevole prigioniero a Costantinopoli. La sua accortezza lo liberò da questo nuovo rischio; col pretesto d'un incomodo, smontò nella notte da cavallo, e ottenne il permesso di ritirarsi in qualche distanza dalla soldatesca. Allora conficcato in terra il suo lungo bastone, lo coperse col suo cappello e con parte de' suoi abiti; si cacciò nel bosco, e ingannati così con quel fantoccio i Valacchi, ebbe agio di rifuggirsi in Haliz. Quivi fu ben ricevuto e guidato a Chiovia, ove resedeva il Gran Duca. Il bravo Greco non tardò a guadagnarsi la stima e la confidenza di Jeroslao; sapeva uniformarsi alle usanze di tutti i paesi, e fece stupire i Barbari colla forza e l'ardimento, che usava in caccia d'orsi e d'alci della foresta. Durante il suo soggiorno in quella contrada settentrionale meritò il perdono dell'Imperatore, che sollecitava il principe delle Russie a unir le sue armi con quelle dell'Impero per far un'invasione nell'Ungaria. I valevoli maneggi d'Andronico giovarono al buon esito di questo rilevante negoziato, e l'Imperatore, a cui promettea fedeltà, s'obbligò con un trattato particolare a porre in dimenticanza il passato. Andronico marciò condottiero della cavalleria russa dal Boristene alle sponde del Danubio. Nonostante il risentimento antico, Manuele avea sempre conservato una certa inclinazione per l'indole marziale e dissoluta d'Andronico; e l'assalto di Zemlin, ove quegli comparve in valore il primo dopo il sovrano, divenne occasione d'un libero ed intiero perdono.
Non così tosto fu ritornato Andronico in patria, gli rinacque in petto la focosa sua ambizione per suo gran danno, e per quello del popolo. Una figlia di Manuele era debole ostacolo alle mire dei principi della casa Comnena, i quali si sentiano più degni del trono; dovea quella sposarsi al Re d'Ungheria, e questo matrimonio offendeva le speranze e i pregiudizi dei principi e dei nobili; ma quando si chiese loro il giuramento di fedeltà per l'erede presuntivo, il solo Andronico sostenne l'onore del nome romano; ricusò di prestare questo giuramento illegittimo, e protestò altamente contro l'adozione d'uno straniero. Il suo patriottismo offese l'Imperatore, ma era d'accordo coi sentimenti del popolo, e il monarca, allontanandolo soltanto da sè con un esilio onorevole, gli diede per la seconda volta il comando della frontiera della Cilicia, colla libertà di disporre delle rendite dell'isola di Cipro. Qui esercitarono gli Armeni ancora il suo coraggio, ed ebbero occasione di avvedersi della sua negligenza. Gittò di sella, e ferì pericolosamente un ribelle, che gli sconcertava ogni opera; ma scorse ben tosto una conquista più facile e più piacevole da farsi, la bella Filippa, sorella dell'Imperatrice Maria, e figlia di Raimondo di Poitou, Principe latino, che regnava in Antiochia. Abbandonando per essa il posto che dovea custodire, passò la state in balli e in tornei: gli sacrificò Filippa l'innocenza, la stima e un matrimonio vantaggioso. Furono i piaceri d'Andronico interrotti dalla collera di Manuele, irritato da quest'affronto domestico; lasciò Andronico l'imprudente principessa in preda al pianto e al pentimento, e seguito da una geldra d'avventurieri intraprese il pellegrinaggio di Gerusalemme. La sua nascita, la sua fama di gran guerriero, lo zelo che manifestava per la religione, tutto lo dava a credere per uno dei campioni della Croce; si affezionò il Re, ed il clero, ed ottenne la signoria di Berito sulla costa di Fenicia. Abitava nel suo vicinato una giovine e bella Regina della sua nazione e famiglia, pronipote dell'Imperatore Alessio e vedova di Baldovino III Re di Gerusalemme. Vide essa il parente, e sentì amore per lui; il suo nome era Teodora; fu questa Regina la terza vittima delle seduzioni d'Andronico, e il disonore di lei fu ancora più manifesto e più scandaloso di quello delle altre due. L'Imperatore, non respirando che vendetta, sollecitava caldamente i suoi sudditi e gli alleati, che avea sulla frontiera di Cilicia, ad arrestare Andronico, e a cavargli gli occhi. Non era più sicuro in Palestina; ma la tenera Teodora lo informava dei pericoli che incorreva, e l'accompagnò nella sua fuga. La Regina di Gerusalemme si mostrò a tutto l'Oriente per concubina d'Andronico, e due figli illegittimi testificarono la debolezza di lei. Si riparò primieramente in Damasco ove, in compagnia del gran Nureddino, e del Saladino suo servo, questo principe, educato nella superstizione dei Greci, imparò a venerare le virtù dei Musulmani. In qualità d'amico di Nureddino, visitò probabilmente Bagdad e la Corte di Persia; e dopo un lungo giro intorno al mar Caspio e alle montagne della Georgia, fermò la sua sede fra i Turchi dell'Asia Minore, nimici ereditari de' suoi concittadini. Andronico, Teodora e la masnada di proscritti ch'era con lui, trovarono un ricovero ospitale nei possedimenti del Sultano di Colonia; gli provò la sua gratitudine con frequenti scorrerie nella provincia romana di Trebisonda; ritornava sempre con una preda ragguardevole di spoglie, e con molti prigionieri cristiani. Amava, nel racconto delle sue avventure, paragonarsi a Davidde, che seppe mercè d'un lungo esilio evitare le insidie dei maligni; ma il Re profeta, osava egli aggiungere, altro non fece che vagare sulla frontiera della Giudea, uccidere un Amalecita, e minacciare nella sua misera situazione i giorni dell'avido Nabal. Le scorrerie d'Andronico s'estesero più oltre; aveva egli diffuso in tutto l'Oriente la gloria del suo nome e della sua religione. Un decreto della Chiesa greca, in pena della sua vita errante o della sua condotta licenziosa, l'avea separato dalla Comunion de' fedeli; prova questa stessa scomunica, ch'egli non abiurò mai il cristianesimo.
Avea deluso o respinto ogni tentativo, fosse palese o nascosto, fatto dall'Imperatore per impadronirsi di lui. La prigionia dell'amante il trasse finalmente nel laccio. Riuscì al governatore di Trebisonda di sorprendere e rapire Teodora; la Regina di Gerusalemme, e i suoi due figli, furono spediti a Gerusalemme, e d'indi in poi trovò Andronico la sua vita errante assai penosa. Implorò perdono e l'ottenne; di più gli si permise di gettarsi ai piedi del suo sovrano, che appagossi della sommissione di quell'animo altero. Colla faccia a terra, deplorò le sue ribellioni con lagrime e gemiti; dichiarò che non si alzerebbe, finchè un suddito fedele venisse a prenderlo per la catena, ch'erasi secretamente attaccato al collo, e a trascinarlo sui gradini del soglio. Destò un segno così straordinario di pentimento lo stupore e la compassione dell'assemblea; la Chiesa e l'Imperatore gli perdonarono i suoi mancamenti; ma Manuele, che a giusto titolo diffidava sempre di lui, l'allontanò dalla Corte e lo confinò ad Enoe, città del Ponto, circondata di fertili vigneti, e situata sulla costa dell'Eusino. La morte di Manuele, e i disordini della minorità apersero bentosto alla sua ambizione la carriera la più favorevole. Era l'Imperatore un giovinetto di dodici in quattordici anni, e per conseguente privo del pari di vigore, di saggezza, e di esperienza. L'Imperatrice Maria, sua madre, abbandonava sè stessa, e le cure dell'amministrazione a un favorito nomato Comneno; e la sorella del principe, chiamata Maria, moglie d'un Italiano onorato del titolo di Cesare, suscitò una congiura e finalmente una sedizione contro la sua odiosa matrigna. Si dimenticarono le province, la capitale fu in fuoco, i vizi e le debolezze di alcuni mesi rovesciarono l'opera d'un secolo di pace e di buon ordine. Ricominciò nelle mura di Costantinopoli la guerra civile; vennero le due fazioni ad una battaglia sanguinosa sulla piazza del palazzo, e i ribelli, chiusi nella Chiesa di Santa Sofia, sostennero un assedio regolare. Ingegnavasi il Patriarca con zelo sincero a guarire i mali dello Stato; i più rispettabili patriotti chiedevano ad alta voce un difensore ed un vendicatore; ripeteano tutte le lingue l'elogio dei talenti, e per fino delle virtù d'Andronico. Affettava egli nel suo ritiro d'esaminare i doveri, che gl'imponeva il suo giuramento: «Se la sicurezza o l'onore della famiglia imperiale è minacciata, diceva egli, userò per lei tutti i rimedii, che posso avere.» Inseriva a tempo, nel suo carteggio col Patriarca e coi patrizi, alcune citazioni tratte dai Salmi di Davide e dall'Epistole di San Paolo; e aspettava con pazienza, che la voce de' suoi concittadini lo chiamasse al soccorso della patria. Quando si trasferì da Enoe a Costantinopoli, il suo seguito, da principio poco numeroso, divenne ben tosto una grossa banda, e poscia un esercito; fu creduto sincero nelle sue professioni di religione e di fedeltà; un abito straniero, che, colla sua semplicità, dava risalto alla sua maestosa corporatura, richiamava alla mente d'ognuno la sua povertà e il suo esilio. Sparvero d'innanzi a lui tutti gli ostacoli; giunse allo stretto del Bosforo dì Tracia; uscì il navile di Bizanzio del porto a ricevere con applausi il salvator dell'Impero. Era il torrente dell'opinione romoreggiante e irresistibile; al primo soffiare del vento tempestoso tutti gl'insetti, avvivati prima da' raggi del favore del principe, si dileguarono. Subita cura d'Andronico fu d'impadronirsi del palazzo, di salutare l'Imperatore, d'imprigionare l'Imperatrice Maria, di punirne il ministro, e di ricondurre il buon ordine e la pubblica tranquillità. Si condusse di poi al sepolcro di Manuele; fu ingiunto agli astanti di rimanere a qualche distanza; e fissandolo essi nell'atteggiamento della preghiera, udirono, o credettero udire parole di trionfo e di risentimento: «Più non ti temo, vecchio nimico; tu m'inseguisti, qual vagabondo, in tutte le contrade della terra. Eccoti deposto in sicurezza sotto i sette ricinti d'una cupola, d'onde non uscirai che al suono della tromba dell'ultimo giorno. Tocca ora a me; calpesterò fra poco le tue ceneri e la tua posterità». La tirannia, che in processo di tempo esercitò, fa credere di fatto che siano stati quelli i sensi che gli dovette inspirare un tal momento, ma non è probabile che li abbia esternati. Nei primi mesi del suo reggimento, coperse i suoi disegni con una maschera d'ipocrisia, che poteva ingannare soltanto la moltitudine. Fecesi l'incoronazione d'Alessio colla solita pompa, e il perfido suo tutore, tenendo in mano il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, dichiarò che vivrebbe, e ch'era pronto a morire pel suo diletto pupillo. Raccomandavasi intanto ai numerosi partigiani di sostenere, che l'Impero che ruinava non poteva che perire sotto il regime d'un fanciullo; che soltanto un principe esperimentato, audace in guerra, abile nella scienza del governo, e ammaestrato dalle vicissitudini della fortuna, potea salvare lo Stato, e che tutti i cittadini doveano costringere il modesto Andronico a caricarsi del peso della corona. Fu tenuto anche il giovine Imperatore d'unire la sua voce alle acclamazioni generali, e di chiedere un collega, che non tardò a deporlo dal grado supremo, a imprigionarlo, e a provare alla fine la veracità di quella imprudente asserzione del Patriarca, che potevasi tenere Alessio come estinto dal momento ch'ei verrebbe affidato al suo tutore. Con tutto ciò la sua morte fu preceduta dalla prigionia, e dalla condanna di sua madre. Dopo avere il tiranno macchiata la fama dell'Imperatrice Maria, ed eccitate contro lei le passioni della moltitudine, la fece accusare e giudicare di una rea corrispondenza col Re d'Ungaria. Lo stesso figlio d'Andronico, giovine pieno d'onore e d'umanità, confessò l'orrore che gl'inspirava quell'atto odioso, e tre dei giudici ebbero il merito di preferire la loro coscienza alla propria sicurezza; ma gli altri, sottomessi alle volontà dell'Imperatore, senza dimandare nessuna prova, e senz'ammettere alcuna difesa, condannarono la vedova di Manuele, e lo sgraziato suo figlio ne segnò la sentenza di morte. Maria fu strozzata; si gittò il suo corpo in mare, e se ne bruttò la memoria nel modo che offende più d'ogni altra cosa la vanità delle donne, disfigurandone la bellezza in una caricatura deforme. Il supplicio di suo figlio non fu lungo tempo differito; fu strangolato colla corda d'un arco. Sordo Andronico alla pietà e ai rimorsi, esaminato il corpo di quell'innocente giovinetto, lo calpestò villanamente, esclamando: «Tuo padre era un birbante, tua madre una prostituta, e tu eri uno stolido.»
Fu lo scettro di Bizanzio la ricompensa dei delitti d'Andronico; lo tenne tre anni e mezzo in circa, fosse in qualità di protettore, o di sovrano dell'Impero. Fu il suo regime un miscuglio singolare di vizi e di virtù. Quando seguiva le passioni, era il flagello del popolo, quando consultava la ragione, n'era il padre. Mostravasi giusto e rigoroso nell'esercizio della giustizia privata: abolì una vergognosa e funesta venalità, e siccome aveva abbastanza discernimento per far buone scelte, e abbastanza fermezza per punire i colpevoli, così innalzaronsi alle dignità persone di merito; distrusse l'uso inumano di spogliare gl'infelici naufraghi, e d'impadronirsi perfino della loro persona: le province oppresse da tanto tempo, o neglette, si ravvivarono in seno dell'abbondanza e della prosperità; ma mentre milioni di uomini, lontani dalla capitale, decantavano la felicità del suo regno, i testimoni delle sue barbarie giornaliere lo maledicevano. Mario e Tiberio hanno pur troppo avverato quell'antico proverbio, che l'uomo il quale dall'esilio passa all'autorità, è avido di sangue. Andronico lo avverò per la terza volta. Esiliato dalla patria, rammentavasi egli di tutti quelli de' suoi nimici e rivali che avean parlato male di lui, gioito delle sue miserie, o ch'eransi opposti alla sua fortuna; unica sua consolazione era allora la speranza della vendetta. La necessità, a cui si condusse, di condannare il giovane Imperatore e la madre di lui, lo trasse all'obbligo funesto di liberarsi de' loro amici, che odiar doveano l'assassino, e lo poteano punire; l'abitudine dell'omicidio gli tolse la volontà, o il potere di perdonare. L'orribile descrizione del numero delle vittime, ch'egli immolò col veleno o col ferro, che fece gettare in mare, o tra le fiamme, darebbe un'idea della sua crudeltà che farebbe più impressione che il titolo de' giorni dell' Alcione (giorni tranquilli) applicato all'intervallo, assai raro nel suo regno, d'una settimana in cui cessò dal versar il sangue dei popoli. Cercò di scolpare colle leggi e pe' Giudici una parte de' suoi delitti; ma avea lasciata cadere la maschera, e non poteano più i sudditi ingannarsi circa l'autore delle loro calamità. I più nobili de' Greci, e quelli precipuamente che per loro nascita od alleanza poteano aspirare alla succession de' Comneni, si salvarono dall'antro del mostro: si ricovrarono a Nicea od a Prusa, in Sicilia o nell'isola di Cipro; e la loro fuga passando già per rea, aggravarono il delitto coll'inalberare il vessillo della rivoluzione, e coll'assumersi il titolo d'Imperatori. Con tutto ciò sfuggì Andronico al pugnale e alla spada de' suoi più tremendi nemici; sottomise e gastigò le città di Nicea e di Prusa; bastò il sacco di Tessalonica a ricondurre all'obbedienza i Siciliani; e se quei ribelli che ripararono nell'isola di Cipro, si trovarono sicuri dai colpi dell'Imperatore, giovarono non poco colla loro distanza anche ad Andronico. Da un rivale senza merito, e da un popolo inerme fu egli rovesciato dal trono. Avea la prudenza o la superstizione d'Andronico pronunciata la sentenza di morte d'Isacco l'Angelo, che discendeva da Alessio il Grande dal lato di donne; fatto forte dalla disperazione, difese Isacco la propria libertà e la vita; dopo aver morto il carnefice, che veniva ad eseguire l'ordine del tiranno, si ricovrò nella chiesa di Santa Sofia. A poco a poco s'empiè il santuario d'una moltitudine curiosa ed afflitta, che nella sorte d'Isacco prevedeva quella della quale era essa minacciata. Ma dai gemiti passando bentosto alle imprecazioni, e dalle imprecazioni alle minacce, osarono dimandarsi a vicenda: «Perchè mai temiamo? perchè obbediamo? Noi siamo tanti, ed egli è solo; la nostra pazienza è ciò che ci tiene in ischiavitù.» Allo spuntare del dì, tutta la città era in tumulto; si forzarono le prigioni; i meno ardenti cittadini, o i più servili, animaronsi alla difesa della patria, e Isacco, secondo di tal nome, fu dal santuario condotto al soglio. Andronico, ignaro del proprio pericolo, riposavasi allora delle cure dello Stato nelle isole deliziose della Propontide. Avea contratto un matrimonio poco decente con Alice o Agnese, figlia di Luigi VII, Re di Francia, e vedova dell'infelice Alessio; era la sua società, più conveniente a' suoi gusti che a' suoi anni, composta della giovine moglie, e di quelle concubine che gli erano più care. Al primo avviso della rivolta corse a Costantinopoli, impaziente di spargere il sangue de' rei; ma il silenzio del palazzo, il tumulto della città, l'abbandono generale in che vedeasi, gli recarono lo spavento all'animo. Pubblicò un'amnistia generale; non vollero i sudditi nè ricevere perdono, nè perdonare: propose di abbandonare la corona a suo figlio Manuele; ma non poteano le virtù del figlio espiare le colpe del padre. Il mare eragli ancora aperto alla fuga; ma la nuova della rivolta erasi diffusa lunghesso la costa; cessato il timore, l'obbedienza era pure cessata. Un brigantino armato inseguì, e prese la galea imperiale. Andronico, carico di ferri, con una lunga catena al collo, venne trascinato ai piedi d'Isacco l'Angelo. Vane furono la sua eloquenza e le lagrime delle donne che l'accompagnavano; non potè sottrarsi alla morte; ma in vece di dare a tale sentenza le forme decenti d'una punizione legale, l'abbandonò il nuovo monarca alla folla numerosa di quelli, che furono dalla sua crudeltà privi d'un padre, d'un marito, d'un amico. Gli strapparono i denti e i capelli, gli cavarono un occhio, e gli tagliarono una mano; debole riparazione delle loro perdite! per dargli morte più dolorosa lasciarono qualche intervallo da una tortura all'altra. Fu posto sopra un cammello, e senza temere non venisse alcuno in sua difesa, venne condotto in trionfo per tutte le vie della capitale, e la feccia del popolo rallegravasi di calpestare la maestà d'un principe decaduto. Oppresso da colpi e da oltraggi, fu Andronico finalmente impeso pei piedi fra due colonne che sosteneano una la figura d'un lupo, l'altra quella d'una scrofa; quanti stender poterono il braccio su quel nimico pubblico, esercitarono tutti con gioia sul corpo di lui atti d'una crudeltà brutale o studiata, sinchè alla fine due Italiani, mossi da pietà, o spinti da rabbia, gl'immersero le spade nel petto, e terminarono così il suo gastigo in questo Mondo. Durante un'agonia sì lunga e penosa, non disse che queste parole: «Signore, abbi pietà di me; perchè vuoi tu sfracellare una canna spezzata?» In mezzo a que' tormenti si dimentica il tiranno; l'uomo il più reo inspira allora pietà, nè si può biasimare la sua rassegnazione pusillanime, poichè un Greco soggetto al cristianesimo non era più il padrone della propria esistenza.
A. D. 1185
Ho parlato a lungo del carattere e delle avventure straordinarie d'Andronico; ma troncherò qui la serie de' principi, ch'ebbe l'Impero greco dal regno di Eraclio in poi. I rami usciti dello stipite de' Comneni a poco a poco disparvero; e la linea maschile non continuò che nella posterità d'Andronico, la quale, in mezzo alla pubblica confusione, usurpò la sovranità di Trebisonda, così oscura nella storia, e tanto famosa nei romanzi. Un cittadino privato di Filadelfia, Costantino l'Angelo, era giunto alla fortuna e agli onori coll'unirsi ad una figlia dell'Imperatore Alessio. Andronico, suo figlio, non segnalossi che colla viltà. Isacco, suo nipote, punì il tiranno, e gli succedette; ma fu deposto da' suoi vizi e dall'ambizione di suo fratello; la loro discordia agevolò ai Latini il conquisto di Costantinopoli, la prima grand'epoca della caduta dell'Impero d'Oriente.
Se si calcola il numero e la durata dei regni, troverassi, che diede un periodo di sei secoli sessanta Imperatori, contando insieme le donne che possedettero il soglio, e levando dalla lista alcuni usurpatori, che non furono mai riconosciuti nella capitale, e alcuni principi che non vissero abbastanza a godere del loro retaggio. In tal guisa il termine di mezzo d'ogni regno sarebbe d'un decennio, cioè molto al di sotto della proporzione cronologica di Newton, il quale, secondo l'esempio delle monarchie moderne più regolarmente costituite, portava a diciotto o venti anni la durata d'un regno. Non ebbe l'Impero di Bizanzio nè riposo, nè prosperità che quando potè seguire l'ordine della successione ereditaria. Cinque dinastie, cioè: la razza di Eraclio, le dinastie d'Isauro, d'Amorio, i discendenti di Basilio e i Comneni, ciascuna alla lor volta, si perpetuarono sul trono durante cinque, quattro, tre, sei e quattro generazioni. Molti di questi principi contarono dalla loro infanzia gli anni del loro regno; Costantino VII, e i suoi due nipoti occupano un secolo intiero. Ma negli intervalli delle dinastie bizantine, la successione è rapida ed interrotta; guari non andava che le geste e il nome d'uno dei Candidati erano offuscati dalle imprese d'un competitore più felice. Più vie conduceano al soglio. Vedevasi l'opera d'una ribellione rovesciata dai colpi dei cospiratori, o corrosa dal tacito lavoro del raggiro. I favoriti dei soldati o del popolo, del senato o del clero, delle donne o degli eunuchi, vestivano successivamente la porpora. Vili erano i modi co' quali salivano alla dignità suprema, spregevole e tragico era sovente il lor fine. Un Essere della natura dell'uomo, dotato delle medesime facoltà, ma d'una vita più lunga, darebbe un'occhiata di compassione e di disprezzo ai delitti e alle follìe dell'ambizione umana, che, entro termini sì brevi, ambisce tanti godimenti precari e di sì curta durata. Ond'è che l'istoria sublima e dilata l'orizzonte delle nostre idee. L'opera di alcuni giorni, la lettura di alcune ore ci schierarono d'innanzi sei secoli intieri, e la durata di un regno, d'una vita non abbracciò che un momento. Sta sempre la tomba di dietro al soglio; l'atto colpevole d'un ambizioso non precede che d'un istante quello per cui vedesi quindi spogliato della preda, e l'immortale ragione, superstite alla loro esistenza, sdegna li sessanta simulacri de' Re che ci passarono davanti lasciando appena una debole immagine nella nostra mente. Riflettendo però che in tutti i secoli e in tutte le contrade ha l'ambizione sottomesso del pari gli uomini alla sua irresistibile potenza, cessa il filosofo di maravigliare; ma non si limita solo a condannare sì fatta vanità, indaga pure il motivo d'una bramosìa tanto universale dello scettro. In quella successione di principi, che tennero l'un dopo l'altro il trono di Bizanzio, non puossi a ragione attribuirla all'amor della gloria, o della umanità. La sola virtù di Giovanni Comneno si mostrò benefica e pura. I più illustri de' sovrani, che precedono o seguono quel rispettabile Imperatore, marciarono, con certa destrezza e vigore, pei sentieri tortuosi e sanguinolenti d'una politica d'amor proprio. Chi esamina attentamente i caratteri imperfetti di Leone l'Isauro, di Basilio I, d'Alessio Comneno, di Teofilo, di Basilio II, e di Manuele Comneno, bilanciansi la stima e la censura in modo quasi uguale; il rimanente della folla degli Imperatori non potè fondare speranze che sull'obblivione della posterità. È stata forse la felicità personale il fine e l'oggetto della loro ambizione? Non rammenterò le massime vulgari sull'infelicità dei Re; ma noterò senza timore, che la lor condizione è di tutte la più terribile, e la meno suscettiva di speranza. Davano le rivoluzioni dell'antichità a queste passioni opposte molto maggior latitudine, che non ponno avere nel Mondo moderno, dove la ferma e regolare costituzion degli Imperi non lascia punto credere che noi possiamo veder facilmente rinovarsi lo spettacolo dei trionfi d'Alessandro, e della caduta di Dario. Con tutto ciò, per una particolare sciagura de' principi di Bizanzio, furono essi esposti a pericoli domestici, senza mai sperare conquisti stranieri. Una morte più barbara e più vergognosa di quella dell'ultimo dei colpevoli, precipitò Andronico dall'apice delle grandezze; ma i più illustri de' suoi predecessori aveano avuto assai più da temere dai sudditi che da sperare dai nemici. Era l'esercito sfrenato senza coraggio, turbolenta la nazione senza libertà. Premeano i Barbari dell'Oriente e dell'Occidente le frontiere della monarchia, e la perdita delle province fu seguita dalla servitù della capitale.
La succession degl'Imperatori romani, dal primo dei Cesari fino all'ultimo dei Costantini, abbraccia più di quindici secoli; non v'ha monarchia antica, come quelle degli Assirii e de' Medii, dei successori di Ciro e d'Alessandro, che offra esempio d'un Impero il quale abbia sì lungamente durato, senza soggiacere al giogo d'uno straniero conquisto.
L'Autore (V.p. 165 ) disegnando coll'espressione dicitori di buona ventura gli Ebrei, che si erano fatti cristiani e seguivano l'Evangelo (giacchè questo greco vocabolo altro non significa che buon'annuncio), vuol mostrare che questi cristiani volevano l'abolizione dell'introdottosi culto delle Immagini; giacchè nelle province dell'Impero romano d'Oriente non v'era più a quell'epoca, cioè nell'ottavo secolo il culto degli Idoli del Politeismo che i cristiani avevano detestato; ma egli dà a gran torto il nome di Idoli alle Immagini cui prestavano e prestano culto i cattolici; v'è qui non picciolo errore, e perciò ci crediamo in dovere di dar la vera idea, e notizia del culto delle Immagini, e dell'Iconoclastia, intendendo, che questa nota serva d'istruzione storica positiva a' lettori per tutti quei luoghi dove l'Autore scrive di questa materia.
Premettiamo, che veramente (Petavius Theolog. Dogmatum de Incarnatione lib. 15, e Pagi Critica T. I, p. 42) le Immagini non appartengono alla sostanza della religione; la Chiesa poteva ammetterle, e non ammetterle. Nei primi tempi del cristianesimo, per le persecuzioni, e perchè agli occhi ed alle menti de' Cristiani era presente il culto degli Idoli dal qual dovevano star lontani, non furono in uso Immagini, e templi, di che anzi erano rimproverati da Gentili, siccome quelli che non avevano nè luoghi di culto, nè segni di lor religione; e ce lo dice Minucio Felice scrittore del terzo secolo: cur nullas aras habent, templa nulla, nulla nota simulacra? a ciò i cristiani rispondevano: pensate voi che noi occultiamo ciò che veneriamo, per non aver nè templi nè altari? a che far simulacri a Dio, mentre l'uom stesso n'è l'immagine? a che fabbricar templi a Dio mentre il Mondo tutto non può contenerlo? non è meglio far che sia suo tempio il nostro animo? Il Concilio Illiberitano nel principio del quinto secolo proibì l'uso delle Immagini col canone 37. Placuit picturas in ecclesia esse non debere, ne quod colitur, et adoratur in parietibus depingatur. Alcuni credono doversi riferire cotal proibizione alle Immagini soltanto della Divinità, e della Trinità; il decreto è veramente generale.
Poscia a poco a poco si fabbricarono chiese, e nel quinto e sesto secolo, divenuto dominante il cristianesimo, s'introdusse il culto delle Immagini; ma non in tutti i luoghi, e non nel medesimo tempo si andò introducendo perchè, per una parte non v'era più pericolo d'idolatria, e che fossero le Immagini, dagli uomini rozzi, considerate per la loro rassomiglianza come Idoli del politeismo, e per l'altra esse servirono a propagare la memoria di Cristo, di Maria, e de' Santi, e ad animare coll'esempio i Fedeli. Si estese molto cotal culto nelle Chiese Orientali, ed Occidentali, ma molti fra i Vescovi, preti e secolari, non n'erano persuasi, attenendosi all'antica massima, e consuetudine. Le cose erano in questo stato quando l'Imperatore Leone Isaurico l'anno 726 (imitando il suo predecessore Filippico, cui aveva resistito il Papa Costantino che lo aveva nel suo Concilio di Roma dichiarato apostata) si mosse con rigorosi editti, e con maggior forza contro il culto delle Immagini; ei lo considerava a torto come un'idolatria, e credeva purificare la religione. Mandò i suoi uffiziali, e soldati nelle Chiese di Costantinopoli, e della Grecia, e indi anche in Italia a toglier via le Immagini. Il Papa Gregorio II scrisse all'Imperatore spiegandogli il senso del culto delle Immagini, e giustificandolo: Et dicis nos parietes et lapides, et tabellas adorare: non ita est ut dicis Imperator; sed ut memoria nostra excitetur et ut stolida, imperita, crassaque mens nostra erigatur, et in altum provehatur per eos, quorum haec nomina et quorum appellationes, et quorum eae sunt imagines, et non tanquam Deos, ut tu dicis, absit. Gregorii II Epist. in Collect. magna Conc. Labbe. Gregorio disse dunque a Leone che non intendeva che i credenti venerassero o adorassero quelle Immagini per se stesse, ma come degne di culto a cagione delle cose rappresentate, onde la debole mente umana sia per mezzo di cotali rappresentazioni aiutata ad innalzarsi all'intuizioni degli archetipi, che non cadevano più sotto i sensi. Nella stessa lettera poi gli racconta le sollevazioni ch'egli si era procacciate col togliere la Immagini al culto del popolo. Leone convocò un Concilio di Vescovi da dirsi Conciliabolo, che decretò contro il culto delle Immagini, e depose S. Germano Patriarca, che n'era sostenitore, e pose in suo luogo Anastasio. Gregorio III sostenne pure con zelo il culto delle Immagini: ovunque vi furono sollevazioni, incendi, e massacri per la formazione di due patiti, opposti e ferocissimi. Costantino Copronimo figlio di Leone Isaurico fu più fiero del padre; convocò un altro Concilio da dirsi pure Conciliabolo, l'anno 754, ove fu condannato il culto delle Immagini. L'Imperatrice Irene vedova di Leone IV nella minorità del figlio Costantino, di consenso del Papa Adriano I, convocò il Concilio generale VII, di Nicea II l'anno 787; (Divalis sacra directa a Costantino et Irene augustis ad Sanctissimum Hadrianum Papam senioris Rome etc. Labbe T. 8. p. 645); in esso fu spiegato, e ristabilito il culto delle Immagini, e molti Vescovi iconoclasti, vale a dire avversi al culto delle. Immagini, e che lo avevano condannato negli anzidetti Concilii, si ritrattarono, furono ammessi alla loro sedi, e fu condannato tutto ciò ch'era stato decretato, e fatto nei due anteriori Concilii. Ma tuttavia il partito Iconoclasta continuò a mantenersi forte specialmente in Germania, in Francia, in Inghilterra; i Vescovi per altro di queste province sembravano tener il mezzo fra questi due partiti. Carlomagno che inclinava all'Iconoclastia fece comporre quattro libri contro il culto della Immagini, e li mandò al Papa Adriano, che vi rispose vigorosamente sostenendo il Concilio generale di Nicea II; ad onta di ciò Carlomagno convocò un Concilio nazionale di trecento Vescovi a Francfort l'anno 794, il quale sosteneva la dottrina dei quattro libri, e condannò il culto delle Immagini. Finalmente il greco prete Teofane ci narra gli Atti del Concilio di Costantinopoli nell'anno 842: Postquam defuncto Teophilo Imperium ad ejus uxorem Thedoram, et filium eorum Michaelem, admodum adolescentem, deletum esset, in pietatis studium curamque maxime incubuit foemina veri Dei munere (ut nomen eius indica) data etc. (Labbe Sac. Conc. Magna Collect.) Adunò Teodora nel suo palazzo un numeroso Concilio di Vescovi, di Monaci e di Grandi; vi fu approvato il Concilio generale VII, di Nicea II, già convocato da Irene, che aveva ristabilito il culto delle Immagini; fu cacciato dalla sede Giovanni Patriarca di Costantinopoli Iconoclasta, ed eletto Metodio stato sostenitore delle Immagini: e di Giovanni sbalordito, segue a dirci Teofane, qua quidem celeri et imperata rerum mutatione Joannes, qui tunc impie munus Pontificium administrabat, stupore, ac mentis caligine captus parum abfuit quin ipse sibi manus inferret, mortemque conscisceret. Così fu definitivamente ristabilito il culto delle immagini dopo 120 anni di tumulti, di ribellioni, e di massacri. L'autorità del Concilio Generale VII, di Nicea II, è superiore di gran lunga e per ragione, e per regola della Chiesa a quella degli altri Concilii, o Conciliaboli contrarii, e tanto più lo è perchè giudicò conformemente ai Papi Costantino, Gregorio II, Gregorio III, Adriano I, ed a tutti gli altri Papi contemporanei, e perchè fu per giunta confermata dal Concilio di Costantinopoli dell'anno 842: quindi ogni buon cattolico deve seguir la massima di doversi prestar culto alle Immagini, determinata per tal modo definitivamente dalla Chiesa nei secoli VIII, IX. (Nota di N. N.)
CAPITOLO XLIX.
Introduzione, culto e persecuzione delle Immagini. Ribellione dell'Italia e di Roma. Patrimonio temporale dei Papi. Conquisto dell'Italia fatto dai Francesi. Istituzione delle Immagini. Carattere e incoronazione di Carlomagno. Ristabilimento e decadenza dell'Impero romano in Occidente. Independenza dell'Italia. Costituzione del Corpo germanico.
Non considerai la Chiesa che ne' suoi legami collo Stato, e ne' vantaggi che procura ai Corpi politici; maniera di considerare, a cui era desiderabile che ognuno si fosse attenuto inviolabilmente nei fatti, come nel mio racconto. Ebbi cura di lasciare alla curiosità dei teologi speculativi[188] la filosofia orientale dei Gnostici, l'abisso tenebroso della Predestinazione e della Grazia, e la singolare trasformazione che si opera nell'Eucarestia, quando la rappresentazione del Corpo di Gesù Cristo convertesi nella sua vera sostanza[189]; ma esposi con diligenza e piacere que' fatti dell'Istoria ecclesiastica i quali hanno contribuito al decadimento e alla ruina dell'Impero romano, come sarebbe la propagazione del cristianesimo, la costituzione della Chiesa cattolica, la ruina del paganesimo, e le Sette che escirono dalle controversie misteriose e sublimi, relative alla Trinità ed alla Incarnazione. Tra i fatti principali di questa specie devesi contare il culto delle Immagini, che ai secoli ottavo e nono cagionò dispute accanite, poichè questa lite d'una superstizione popolare[190] produsse la ribellion dell'Italia, il patrimonio temporale dei Papi ed il ristabilimento dell'Impero romano in Occidente.
Erano i primi cristiani dominati da un'invincibile ripugnanza per le Immagini; si può attribuire quest'avversione alla loro origine giudaica e alla loro antipatia pei Greci. Aveva la legge di Mosè vietato severamente tutti i simulacri della Divinità; ed avea un tale precetto messo profonde radici nella dottrina e nei costumi del popolo eletto. Impiegavano gli Apologisti della religion cristiana tutto il loro ingegno contro gl'Idolatri che si prostravano d'innanzi all'opera delle lor mani, d'innanzi a quelle Immagini di rame o di marmo[191], le quali, se fossero state dotate di moto e di vita, avrebbero piuttosto dovuto balzare dai loro piedestalli, ed adorare la potenza creatrice dall'artista. Alcuni Gnostici, che aveano appena abbracciata la religion cristiana, rendettero forse alle statue di Gesù Cristo e di San Paolo, ne' primi momenti d'una mal ferma conversione, i profani onori, che offerti aveano a quelle d'Aristotele e di Pitagora[192]; ma la religion pubblica dei cattolici fu sempre uniformemente semplice e spirituale, e parlasi delle Immagini per la prima volta nella censura del Concilio d'Illeberis, trecento unni dopo l'Era cristiana. Sotto i successori di Costantino, nella pace e nell'abbondanza di cui godeva la Chiesa trionfante, credettero i più saggi de' Vescovi dover autorizzare, in favore della moltitudine, una specie di culto atto a colpire i sensi; dalla ruina del paganesimo in poi, essi non temeano più un paralello odioso. Cogli omaggi renduti alla Croce e alle reliquie ebbe cominciamento quel culto simbolico. Collocavansi alla destra di Dio i Santi, e i Martiri, de' quali s'implorava l'aiuto; e la credenza del popolo ai favori benefici, e spesse volte miracolosi, che si spargeano intorno alla lor tomba, era fortificata da quella folla di devoti pellegrini, che andavano a vedere, toccare e baciare la spoglia inanime, che ricordava il loro merito e i loro patimenti;[193] ma una copia fedele della persona e delle fattezze del Santo, fatta col soccorso della pittura o scultura, era una memoria più grata che non il suo cranio o i suoi sandali. Furono tali copie, così analoghe alle affezioni umane, carissime in ogni età alla privata tenerezza o alla pubblica stima. Si prodigalizzavano onori civili e quasi religiosi alle immagini degl'Imperatori romani; riceveano le statue dei sapienti e dei patriotti omaggi meno fastosi, ma più sinceri; e queste profane virtù, questi bei peccati scomparivano alla presenza dei santi personaggi, che avean data la vita per la celeste ed eterna lor patria. Fecesi da principio l'esperimento del culto delle Immagini con precauzione e scrupolo; erano permesse per istruire gl'ignoranti, per infervorare gli animi, e per conformarsi ai pregiudizi dei pagani che aveano abbracciato, o che desideravano d'abbracciare il cristianesimo. Per una progressione insensibile, ma inevitabile, gli onori conceduti all'originale, si rendettero alla copia: pregava il devoto d'innanzi all'immagine d'un Santo; e s'introdussero nella Chiesa cattolica i riti pagani della genuflessione, dei cerei accesi e dell'incenso. Tacquero gli scrupoli della ragione e della pietà davanti al possente testimonio delle visioni e dei miracoli. Si pensò, che Immagini le quali parlavano, si moveano e spargevano sangue, aver doveano una forza divina, e poteano esser l'oggetto d'una adorazion religiosa. Doveva il più ardito pennello tremare dell'audace tentativo di dar forma, con linee e colori, allo spirito infinito, al Dio onnipossente, che penetra e regge l'Universo;[194] ma uno spirito superstizioso si facea con minore difficoltà a dipingere, ad adorare gli Angeli, e soprattutto il Figlio di Dio sotto la forma umana, ch'erasi degnato prendere durante la sua dimora in questo Mondo. Avea la seconda Persona della Trinità assunto un corpo reale e mortale; ma era quel corpo salito al cielo, e ove non se ne avesse presentato qualche simulacro agli occhi de' suoi discepoli, avrebbero le reliquie o le Immagini de' Santi cancellato dalla memoria il culto spirituale di Gesù Cristo[195]. Si dovette, per lo stesso motivo, concedere le Immagini della Santa Vergine, ignoravasi il luogo di sua sepoltura; e la credulità dei Greci e dei Latini fu pronta ad approvare l'idea della sua assunzione in corpo e in anima nelle regioni del cielo[196]. Era l'uso ed anche il culto delle Immagini avanti la fine del secolo sesto fermamente stabilito. Talentava alla fervida immaginazione dei Greci e degli Asiatici: ornarono nuovi emblemi il Panteon e il Vaticano; ma i Barbari più rozzi, e i Sacerdoti ariani dell'Occidente si diedero più freddamente a quest'apparenza d'idolatria. Le forme ardite delle statue di rame o di marmo, ch'empievano i templi dell'antichità, ferivano l'immaginazione o la coscienza dei cristiani Greci; e i simulacri, che solo offerivano una superficie colorita e senza rilievo, parvero sempre più decenti e meno pericolosi[197].
Dalla simiglianza dell'originale proviene il merito e l'effetto d'una copia; ma i primi cristiani non conosceano le vere fattezze del Figlio di Dio, della Madre di lui, e de' suoi Apostoli. La statua di Paneade in Palestina,[198], ch'era tenuta per quella di Gesù Cristo, era probabilmente quella d'un Salvatore riverito per soli servigi temporali. Si riprovano i Gnostici e i loro profani monumenti; e non potea l'immaginazione degli artisti cristiani essere guidata che da una secreta imitazione di qualche modello del paganesimo. Si ebbe in tale frangente ricorso ad un'invenzione ardita ed ingegnosa, la quale ad un tempo stabiliva la perfetta simiglianza dell'Immagine, e l'innocenza del culto che le si prestava. Una Leggenda siriaca sopra il carteggio di Gesù Cristo e del Re Abgaro[199], famosa ai giorni d'Eusebio, la quale hanno alcuni moderni scrittori a malincuore abbandonata; servì di fondamento ad una nuova favola. Il Vescovo di Cesarea[200] registra la lettera di Abgaro a Gesù Cristo[201]; ma fa stupore ch'egli non parli di quella esatta impronta[202] del volto di Gesù sul panno lino, con cui rimunerò il Salvatore del Mondo la Fede di quel Principe, che aveva invocato il suo potere in una malattia, e gli aveva offerto la città fortissima d'Edessa, perchè la proteggesse contro la persecuzione de' Giudei. Si scusa la ignoranza della Chiesa primitiva col supporre, che era stato quel panno lino racchiuso lungamente in una nicchia d'un muro, d'onde fu tratto, dopo una obblivione di cinque secoli, da un Vescovo prudente, e offerto a tempo debito alla divozione de' suoi contemporanei. Il primo grandioso miracolo, che gli si attribuì, fu la liberazione della città assalita dalle armi di Cosroè Nushirvan: si riverì ben tosto come un pegno che, secondo la promessa di Dio, guarentiva Edessa da qualunque nimico straniero. È bensì vero che il testo di Procopio attribuisce la liberazione d'Edessa alla ricchezza e al valore de' Cittadini che comperarono l'assenza del monarca persiano, e ne respinsero gli assalti. Non sospettava quel profano istorico del testimonio che è costretto rendere nell'opera ecclesiastica d'Evagrio, dove Procopio assicura, che venne il Palladio esposto sulle mura della città, e che l'acqua lanciata contro il Santo volto, invece d'estinguere accendea maggiormente le fiamme, che andavano gli assediati gittando. Conservossi dopo un tanto servigio l'immagine d'Edessa con rispetto e gratitudine; e se punto non vollero gli Armeni ammettere la Leggenda, i Greci più creduli adoravano quella copia del volto del Salvatore del Mondo, non già come opera d'un uomo, ma produzione immediata del Divino originale. Dimostreranno lo stile, e i pensieri d'un Inno cantato dai sudditi di Bizanzio in che differisse il culto per loro renduto alle Immagini dal rozzo sistema degli Idolatri. «Come potremo noi, con occhi mortali, contemplar quest'Immagine, il cui celeste splendore non ardiscono i Santi in Cielo di fissare? Degnasi oggi colui che abita i Cieli onorarci d'una sua visita con un'impronta degna della nostra venerazione; oggi, colui che siede al di sopra dei Cherubini viene a noi in un simulacro, che fece il nostro Padre onnipossente colle sue mani immacolate, che formò in guisa ineffabile, e che noi dobbiamo santificare, adorandolo con timore ed amore.» Prima della fine del sesto secolo, erano quelle Immagini fatte senza mani (usavano i Greci una sola parola[203] ) comuni negli eserciti e nelle città dell'Impero d'Oriente[204]. Erano esse oggetto di culto, ed istrumenti di miracoli. Nell'ora del pericolo, o in mezzo al tumulto, la loro veneranda presenza rendea la speranza, ravvivava il coraggio, o reprimea il furore delle legioni romane. Non essendo la maggior parte di quelle Immagini che imitazioni fatte dalla mano dell'uomo, non poteano aspirare che ad un'imperfetta rassomiglianza; e davasi loro a torto il medesimo titolo, che si applicava alla prima Immagine; ma ve n'erano altre più autorevoli, prodotte da un contatto immediato coll'originale, dotato per ciò d'una virtù miracolosa e prolifica. Pretendeano le più ambiziose non già di discendere dall'Immagine d'Edessa, ma di avere secolei affinità filiali e fraterne; tal'è la Veronica di Roma, di Spagna o di Gerusalemme, fazzoletto ch'erasi Gesù Cristo nel punto di sua agonia, e del sudore di sangue, applicato al volto, e consegnato ad una delle sante Donne. Vi furono ben tosto Veroniche della Vergine Maria, dei Santi e dei Martiri. Mostravansi nella Chiesa di Diospoli, città della Palestina, le fattezze della Madre di Dio[205] impresse assai profondamente sopra una colonna di marmo. Correa voce che il pennello di San Luca avesse ornate le Chiese d'Oriente e d'Occidente; e si suppose avere quest'Evangelista, che sembra essere stato un medico, esercitato l'arte del pittore, arte tanto profana ed odiosa agli occhi de' primi cristiani. Poteva il Giove Olimpico creato dal genio di Omero, e dallo scalpello di Fidia, inspirare ad un filosofo una divozion momentanea; ma le Immagini cattoliche, produzioni senza forza e senza rilievo, escite dalla mano dei monaci, attestavano l'estrema degenerazione dell'arte e del genio[206].
Erasi a poco a poco introdotto il culto delle Immagini nella Chiesa, ed erano tutti i progressi di questa innovazione accolti favorevolmente dagli animi superstiziosi, come quelli che aumentavano i mezzi di consolazione, che si poteano usare senza peccato. Ma sul principiare del secolo ottavo, cominciarono alcuni Greci scrupolosi a temere d'avere ristabilito, sotto l'apparenza del cristianesimo, la religione dei loro antenati; non poteano tollerare senza dolore ed impazienza il nome d'Idolatri, che davan loro incessantemente gli Ebrei e i Musulmani[207], ai quali inspirava la legge di Mosè e del Korano un odio immortale contro le Immagini incise, ed ogni specie di culto relativo ad esse. Fiaccava la servitù degli Ebrei il loro zelo, e dava poca importanza alle loro accuse; ma i rimproveri dei Musulmani, che regnavano a Damasco, e minacciavano Costantinopoli, aveano tutto il peso che dar poteano la verità e la vittoria. Erano le città della Siria, della Palestina e dell'Egitto fornite d'Immagini di Gesù Cristo, della Vergine Maria, e dei Santi, ed avea ciascheduna la speranza od aspettava la promessa d'essere difesa in guisa miracolosa. Soggiogarono gli Arabi in dieci anni quelle città e le loro Immagini; e il Dio degli eserciti, secondo la loro opinione, pronunciò un giudizio decisivo sul disprezzo che ispirar doveano quegl'Idoli muti e inanimati[208]. Aveva fatta Edessa lunga resistenza agli assalti del Re di Persia; ma quella città prediletta, la sposa di Gesù Cristo, videsi involta nella comune ruina, e l'Immagine del Salvator del Mondo divenne un trofeo della vittoria degli Infedeli. Dopo tre secoli di servitù, fu renduto il Palladio alla divozione di Costantinopoli, che pagò, per averlo, dodicimila lire d'argento, rimise in libertà duecento Musulmani, e promise di non mover guerra giammai contra il territorio d'Edessa[209].
In que' tempi di calamità e di abbattimento usarono i monaci tutta la forza dell'eloquenza in difesa delle Immagini; vollero provare che i peccati e lo Scisma della maggior parte degli Orientali aveano alienato il favore, e annichilata la virtù di que' Simboli preziosi; ma si ebbero contro i susurri d'una folla di cristiani che invocavano i testi, i fatti e l'esempio dei tempi primitivi, e che bramavano secretamente la riforma della Chiesa. Siccome non era stato il culto delle Immagini stabilito da veruna legge generale o positiva, nell'Impero d'Oriente, furono i suoi progressi ritardati o accelerati, secondo la qualità degli uomini e le combinazioni del tempo, secondo i vari gradi delle cognizioni sparse nelle varie contrade, e secondo il carattere particolare dei Vescovi. Lo spirito incostante della capitale e il genio inventivo del clero di Bizanzio s'affezionarono appassionatamente ad un culto tutto splendore, mentre le rimote regioni dell'Asia, di costumi più rozzi, non amavano punto quella specie di fasto religioso. Mantennero numerose congregazioni di Gnostici e di Ariani, dopo la loro conversione, quel semplice culto che aveano osservato prima d'abiurare, e non erano gli Armeni, i più bellicosi dei sudditi di Roma, riconciliati al duodecimo secolo colla vista delle Immagini[210]. Tutti questi nomi diversi produssero prevenzioni ed odii che furono di poco effetto nei villaggi dell'Anatolia e della Tracia, ma che sovente influirono sulla condotta del guerriero, del prelato o dell'eunuco, giunto alle primarie dignità della Chiesa o dello Stato.
A. D. 726-840
Di tutti questi avventurieri il più fortunato fu l'Imperatore Leone III[211], che passò dalle montagne dell'Isauria sul trono dell'Oriente. Non sapea nè di letteratura sacra nè di profana; ma la sua educazione zotica e guerriera, la sua ragione, e forse la comunicazione che avea cogli Ebrei e gli Arabi, gli aveano inspirato antipatia alle Immagini, e risguardavasi allora come dovere d'un principe la cura d'obbligare i suoi sudditi a regolare la loro coscienza secondo la sua. Con tutto ciò, nei primordii d'un regno vacillante, si sottomise Leone, pel corso di dieci anni di fatiche e pericoli, alle bassezze dell'ipocrisia; si prostrò davanti Idoli, che disprezzava nell'intimo del cuore, e soddisfece ogni anno il Papa con una solenne dichiarazione del suo zelo per l'Ortodossia. Quando volle riformare la religione furono i suoi primi passi circospetti e moderati: adunò un gran Concilio di Senatori e di Vescovi, e, col loro consenso, ordinò di togliere dal Santuario e dall'altare tutte le Immagini, e di collocarle nelle navate a tale altezza che si potessero scorgere, ed essere inaccessibili alla superstizione del popolo; ma invano tentò reprimere dall'una parte e dall'altra il rapido impulso della venerazione e dell'orrore: le sante Immagini poste a quell'altezza edificavano di continuo i devoti ed accusavano il tiranno. La resistenza e le invettive irritarono lo stesso Leone. Fu accusato da' suoi medesimi partigiani di non adempiere i propri doveri; gli proposero essi a modello il Re giudeo che aveva infranto il serpente di rame. Comandò con un secondo editto non solo l'abolizione, ma la distruzione dei quadri religiosi. Furono Costantinopoli e le province purificate d'ogni sorta d'idolatria: furono distrutte le Immagini di Gesù Cristo, della Madre di Dio e dei Santi, e si copersero le mura degli edificii con un semplice strato di gesso. Venne la Setta degl'Iconoclasti spalleggiata dallo zelo e dal potere dispotico di sei Imperatori, e per cento vent'anni risuonarono l'Oriente e l'Occidente di quella disputa strepitosa. Voleva Leone l'Isaurico fare della proscrizion delle Immagini un articolo di Fede sancito dall'autorità d'un Concilio generale; ma questo Concilio non fu convocato che sotto il regno di Costantino, suo figlio, e benchè l'abbia il fanatismo della Setta trionfante rappresentato come un'adunanza d'imbecilli e d'atei,[212] ciò che abbiamo de' suoi Atti in vari frammenti mutilati palesa alcuni sintomi di ragione e di pietà. Aveano le discussioni e i decreti di più Sinodi provinciali cagionato quel Concilio generale, tenuto ne' sobborghi di Costantinopoli, e composto di trecento trentotto Vescovi dell'Europa e dell'Anatolia; che allora erano i Patriarchi d'Antiochia e d'Alessandria schiavi del Califfo, e i Pontefici di Roma aveano separato dalla comunion dei Greci le Chiese d'Italia e d'Occidente. Arrogossi il Concilio bizantino il titolo e il potere di settimo Concilio generale; riconosceva però in tal guisa i sei Concilii generali anteriori, che aveano gittate con tanta fatica le fondamenta dell'edificio della Fede cattolica. Dopo una deliberazione di sei mesi dichiararono i trecento trentotto Vescovi, e sottoscrissero d'unanime consenso, che tutti i Simboli visibili di Gesù Cristo, fuorchè nell'Eucarestia, erano blasfematorii od eretici; che il culto delle Immagini corrompea la purezza della Fede cristiana e rinnovava il paganesimo; ch'era giuocoforza cancellare od atterrare simili monumenti; che coloro i quali ricuserebbero di consegnare alla Chiesa gli oggetti delle loro particolari superstizioni, si renderebbero colpevoli di disobbedienza all'autorità della Chiesa istessa e dell'Imperatore. Celebrarono essi con sincere e forti acclamazioni i meriti del loro Redentore temporale, a affidarono allo zelo e alla giustizia di lui l'esecuzione delle loro spirituali censure. Come ne' precedenti Concilii, fu anche a Costantinopoli la volontà del principe la regola della Fede episcopale;[213] ma io sarei quasi per credere, che un gran numero di Prelati sagrificò in tale occasione, a idee di speranza o di timore, le opinioni della loro coscienza. Durante questa lunga notte di superstizione, eransi i cristiani allontanati dalla semplicità dell'Evangelo, e non era agevole per essi il seguire il filo, e discernere gli andirivieni del labirinto. Era il culto delle Immagini, nella mente d'un devoto, indivisibilmente unito alla Croce, alla Vergine, ai Santi e alle loro reliquie. I miracoli e le visioni stendevano una caligine sopra la base di quel sacro edificio, e le abitudini della obbedienza e della Fede aveano sopite le due potenze dello spirito, la curiosità e lo scetticismo. Costantino istesso è accusato di dubbio, di miscredenza od anche di alcune regie facezie sopra i Misteri dei cattolici[214]; ma erano questi Misteri ben fondati nel Simbolo pubblico e privato de' suoi Vescovi; e il più audace Iconoclasta non avrà potuto, che con interno orrore, assalire i monumenti della superstizion popolare consegrati alla gloria dei Santi, ch'ei teneva ancora per suoi protettori presso Dio. Ai tempi della riforma del sedicesimo secolo, aveano la libertà, e i lumi aumentate tutte le facoltà dell'uomo; il rispetto per l'antichità fu vinto dal bisogno delle innovazioni, e ardì l'Europa, nel suo vigore, sdegnare i fantasmi, d'innanzi ai quali tremava la debolezza effeminata dei Greci avviliti.
A. D. 726-775
Non s'avvede il popolo dello scandolo d'una eresia, sopra quistioni astratte, che allo squillo della tromba ecclesiastica; ma i più ignoranti possono scorgere, devono i più agghiaccati risentire la profanazione e la caduta delle loro Divinità visibili. Si volsero le prime ostilità di Leone contro un Crocifisso, situato nel vestibolo, e al di sopra della porta del palazzo. Già già s'abbattea; ma la scala innalzata a tal fine, fu rovesciata con furore da una folla di fanatici e di donne. Vide la moltitudine con pio trasporto piombare i ministri del sacrilegio dall'alto della scala; e giacere in terra sfracellati; essendo stati i rei di quest'azione giustamente puniti come omicidi e ribelli, prostituì la loro fazione in lor onore gli omaggi conceduti agli antichi martiri[215]. L'esecuzione degli editti dell'Imperatore cagionò frequenti tumulti in Costantinopoli e nelle province: la vita di Leone fu in pericolo; si trucidarono sei officiali, e bisognò impiegare tutta la forza dell'autorità civile, e della potenza militare ad estinguere l'entusiasmo del popolo. Le numerose isole dell'Arcipelago, detto allora il mar Santo, erano piene d'Immagini e di monaci; abiurarono gli abitanti senza scrupolo la loro fedeltà verso un nimico di Gesù Cristo, della Vergine e dei Santi; allestirono un'armata di battelli e di galee, spiegarono i loro sacri vessilli, e arditamente corsero verso il porto di Costantinopoli, per collocare sul trono un uomo più grato a Dio e al popolo. Aveano fiducia di miracoli; ma questi miracoli non poterono resistere al fuoco greco[216]; e dopo la rotta e l'incendio dei loro vascelli, le loro isole senza difesa furono abbandonate alla clemenza o alla giustizia del vincitore. Aveva il figlio di Leone, nel primo anno del suo regno, intrapresa una spedizione contro i Saracini; e durante la sua assenza, erasi il parente di lui, Artavasdes, ambizioso difensore della Fede ortodossa, impadronito della capitale, del palazzo e della porpora. Si restaurò pomposamente il culto delle Immagini, rinunciò il Patriarca alla dissimulazione ch'erasi imposta[217], ovvero dissimulò i sentimenti che avea adottati; e i diritti dell'usurpatore furono riconosciuti nella nuova e nella vecchia Roma. Riparò Costantino sulle montagne, ov'eran nati i suoi avi; ma con que' prodi e fedeli Isauri discese da esse, e in una vittoria decisiva trionfò delle armi e delle predizioni dei fanatici; il lungo suo regno fu continuamente agitato da clamori, sedizioni, congiure, da un odio vicendevole, e da vendette sanguinolenti. La persecuzion delle Immagini fu il motivo o il pretesto de' suoi avversari, e se non ebbero un diadema temporale, ricevettero dai Greci la corona del martirio. In tutte le trame che gli si ordirono contro, in palese, o in secreto, provò l'Imperatore l'implacabile inimicizia dei monaci, fedeli schiavi della superstizione, dalla quale ripetono le ricchezze e il potere[218]. Pregavano e predicavano, assolvevano e infiammavano il popolo, congiuravano contro il sovrano: sboccò dalla solitudine della Palestina un torrente d'invettive: e la penna di S. Giovanni Damasceno[219], l'ultimo dei Padri greci, proscrisse la testa dell'Imperatore in questo Mondo e nell'altro[220]. Non ho tempo d'esaminare fino a qual segno eransi i monaci tirato addosso i mali veri o supposti dei quali dolevansi, nè qual sia il numero di coloro che perdettero la vita, o qualche membro, gli occhi o la barba, per la crudeltà dell'Imperatore. Gastigati gl'individui, passò all'abolizione dei loro Ordini; essendo questi ricchi ed inutili, avrà potuto il risentimento di lui essere aizzato dall'avarizia, e scusato dal patriottismo. La missione e il nome formidabile di Dragone[221], suo Visitator generale, sparsero l'orrore e lo spavento in tutta la nazione incappucciata. Furono disfatte le Comunità religiose, gli edifici convertiti in magazzeni od in baracche, confiscate le terre, le masserizie e le gregge; vari moderni esempi ci autorizzano a pensare, che non solo le reliquie, ma le biblioteche sieno divenute preda di quella rapina, ch'eccitò la licenza o il piacere di nuocere. Oltre l'abito e lo stato monastico si proscrisse col medesimo rigore anche il culto pubblico e privato delle Immagini; e parrebbe che si esigesse dai sudditi, od almeno dal clero dell'Impero d'Oriente, una solenne abiurazione dell'idolatria[222].
Rinunziò con ripugnanza il sottomesso Oriente alle sue sacre Immagini; lo zelo independente degli Italiani le difese con vigore, e raddoppiò la divozione per esse. Era il Patriarca di Costantinopoli pel grado e per l'ampiezza della sua giurisdizione quasi uguale al Pontefice di Roma; ma il Prelato greco era uno schiavo sotto gli occhi del padrone che ad un cenno, ora da un convento il facea passare sul trono, ora dal trono nel fondo d'un convento. Il Vescovo di Roma, lontano dalla Corte, e sempre in pericolo, in mezzo ai Barbari dell'Occidente, traeva dalla sua condizione, coraggio e libertà; scelto dal popolo, gli era caro; bastavano le sue rendite ragguardevoli ai bisogni pubblici e a quelli dei poveri. La debolezza o la negligenza degli Imperatori lo determinò a consultare, in pace e in guerra, la sicurezza temporale della città. Nella scuola dell'avversità, s'andava egli a poco a poco arricchendo delle virtù di un principe, e ne sentia l'ambizione: l'Italiano, il Greco o il Siro, che arrivava alla Cattedra di S. Pietro, tutti procedeano del pari, e seguivano la medesima politica; e Roma, perdute e legioni e province, vedea di nuovo ristabilita la sua supremazia dal genio e dalla fortuna dei Papi. Tutti gli autori convengono, che nel secolo ottavo essi hanno fondato il dominio sulla ribellione[223]; che questa fu cagionata e giustificata dall'eresia degl'Iconoclasti; ma la condotta di Gregorio II e di Gregorio III, durante quella lotta memoranda, s'interpreta in varia guisa dai loro amici e nemici. Dichiarano gli Scrittori bizantini unitamente, che dopo un'utile ammonizione, pronunciarono i Papi la separazion dell'Oriente e dell'Occidente, e privarono il sacrilego Imperatore della rendita e della sovranità dell'Italia. I Greci, testimoni del trionfo dei Papi, parlano di questa scomunica in modo ancora più chiaro; ed essendo affezionati maggiormente alla loro religione che al loro paese, invece di biasimare, lodano essi lo zelo o l'ortodossia di quegli uomini apostolici[224]. Gli autori che ne' tempi moderni difesero la Corte di Roma, mostrano gran premura ad avvalorare l'elogio ed il fatto; i cardinali Baronio e Bellarmino decantano quel grand'esempio del deponimento dei Re eretici[225]; e se loro dimandasi, perchè non si scagliarono le medesime folgori contro i Neroni e i Giuliani dell'antichità. rispondono, che la debolezza della Chiesa primitiva fu la sola cagione della sua paziente fedeltà[226]. In tale occasione l'odio e l'amore produssero i medesimi effetti, e i protestanti pieni di zelo, che vogliono eccitare l'indignazione, e spaventare il potere dei principi e dei magistrati, ragionano alla distesa sull'innocenza e sul delitto dei due Gregorii verso il loro legittimo sovrano[227]. Questi Papi non sono difesi che dai cattolici moderati, i più della Chiesa gallicana[228], che rispettano il Santo senz'approvarne il delitto. Que' difensori della corona e della tiara giudicano della verità dei fatti dalla regola dell'equità, dalle opere che ci rimangono, e dalla tradizione; ricorrono al testimonio[229] dei Latini, alle Vite[230] ed all'Epistole dei Papi istessi.
A. D. 727
Abbiamo due Epistole originali di Gregorio II all'Imperatore Leone[231]; e se non si può citarle come modelli d'eloquenza e di logica, offrono il ritratto o almeno la maschera d'un fondatore della monarchia pontificale. «Pel corso di dieci anni di vera felicità, gli dice, abbiamo avuto la consolazione di ricever vostri fogli regii, sottoscritti con inchiostro di porpora, e di vostra propria mano: erano questi fogli per noi sacri pegni del vostro attaccamento alla Fede ortodossa dei nostri avi. Che cangiamento deplorabile! che orribile scandolo! Voi accusate ora i cattolici d'idolatria, e con tale accusa non fate che smascherare la vostra empietà ed ignoranza. Siamo costretti a proporzionare a siffatta ignoranza la rozzezza del nostro stile, e la materialità degli argomenti. Bastano a confondervi i primi elementi delle sante lettere; e se entrando in una scuola di grammatica, vi dichiaraste nimico del nostro culto, irritereste la semplicità e la pietà degli scolari a tale, che vi gitterebbero in faccia il loro alfabeto». Dopo quest'esordio decente, tenta il Papa di stabilire l'ordinaria distinzione tra gl'Idoli dell'antichità, e le Immagini del cristianesimo. «Sono gli Idoli, dic'egli, figure immaginarie di fantasmi o diavoli, in un tempo che il vero Dio non avea manifestata la sua persona sotto forma visibile; le Immagini sono le vere forme di Gesù Cristo, di sua Madre, e dei suoi Santi, che con tanti miracoli provarono l'innocenza e il merito di questo culto relativo». Bisogna veramente ch'egli siasi fidato nell'ignoranza di Leone per sostenere, che dai tempi degli Apostoli furono le Immagini sempre in onore, e che colla loro presenza santificarono i sei Concilii della Chiesa cattolica. Deduce dal possedimento momentaneo e dalla pratica attuale un argomento più specioso; pretende, che l'armonia del Mondo cristiano renda inutile un Concilio generale; ed ha la franchezza di confessare che non possono quelle assemblee esser utili che regnante un principe ortodosso. Volgendosi quindi all'impudente ed inumano Leone, molto più reo di un eretico, gli raccomanda la pace, il silenzio, ed una sommissione implicita, alle sue guide spirituali di Costantinopoli e di Roma. Fissa i limiti della potenza civile e della potenza ecclesiastica; sottomette il corpo alla prima, l'anima alla seconda; stabilisce, che la spada della giustizia è nelle mani del magistrato; che una spada più formidabile, quella della scomunica, appartiene al clero; che, nell'esercizio di questa divina commissione, non risparmierà un figlio zelante il padre colpevole; che il successore di San Pietro ha il diritto di gastigare i Re del Mondo. «O tiranno, soggiunse, tu ci assali con mano voluttuosa ed armata: noi, inermi ed ignudi, non possiamo ricorrere che a Gesù Cristo; principe dell'esercito celeste, e supplicarlo che ti mandi un demonio per la distruzion del tuo corpo e la salvezza dell'anima: spedirò i miei ordini a Roma, tu osi dichiarare con folle arroganza; farò in pezzi le Immagini di S. Pietro; e Gregorio, come Martino suo predecessore, sarà condotto, carico di catene, al piè del trono imperiale a ricevere la condanna dell'esilio. Ah! Dio volesse che mi fosse lecito camminare sull'orme di San Martino! Ma serva d'esempio il fatto di Costanzo ai persecutori della Chiesa. Condannato questo tiranno giustamente dai Vescovi della Sicilia, tutto coperto di peccati, morì dalla mano d'uno de' suoi servi: questo sant'uomo è ancora adorato dai popoli della Scizia, fra i quali terminò l'esilio e la vita. Ma noi dobbiamo vivere per l'edificazione e il sostegno dei Fedeli; nè siamo ridotti ad avventurare la nostra sicurezza in una battaglia. Per quanto sii incapace di difendere la tua città di Roma, la situazione di lei sulla spiaggia del mare, può farle temere i tuoi saccheggiamenti; noi possiamo però ritirarci alla distanza di ventiquattro stadii[232], nella prima Fortezza dei Lombardi, e allora perseguiterai i venti. Non sai tu che i Papi sono i legami dell'unione, e i mediatori della pace fra l'Oriente e l'Occidente? Stan fissi gli sguardi delle nazioni sulla nostra umiltà; adorano esse qua giù come un Dio l'Apostolo S. Pietro, di cui minacci d'annichilare l'Immagine[233]. I regni più remoti dell'Occidente offrono i loro omaggi a Gesù Cristo e al suo Vicario, e già noi ci apparecchiamo a visitare uno de' più possenti monarchi di quella parte del Mondo, che desidera ricevere dalle nostre mani il Sacramento del Battesimo[234]. Si sottomisero i Barbari al giogo dell'Evangelo, tu solo sei sordo alla voce del pastore. Questi pii Barbari sono pieni di furore; ardono di desiderio di vendicare la persecuzione che soffre la Chiesa in Oriente. Cessa dalla tua audace e funesta impresa; rifletti, trema e pentiti. Se ti ostini, noi non saremo rei del sangue che si verserà in questa disputa; possa egli cadere sul tuo medesimo capo»!
A. D. 728
Le prime ostilità di Leone contro le Immagini di Costantinopoli aveano avuto a testimonio una folla di stranieri, venuti dall'Italia e da vari paesi dell'Occidente; vi raccontarono essi con isdegno e dolore il sacrilegio del monarca; ma al ricevere l'editto che proscrivea quel culto, tremarono pei loro Dei penati; si tolsero da tutte le Chiese dell'Italia le Immagini di Gesù Cristo, della Vergine, dei Martiri e dei Santi, e si propose al Pontefice di Roma questa scelta; il favore imperiale per premio della sua condiscendenza, la degradazione e l'esilio per gastigo della sua disobbedienza. Lo zelo religioso e la politica non gli permetteano d'esitare, e l'alterigia con cui trattò l'Imperatore, annunciava una gran fiducia nella verità della sua dottrina, o nelle forze di resistenza. Senza far conto delle preghiere o dei miracoli, armossi contro il nimico pubblico, e le sue lettere pastorali avvertirono gl'Italiani dei loro pericoli, e doveri[235]. A questo segnale, Ravenna, Venezia, e le città dell'Esarcato e della Pentapoli, aderirono alla causa della religione; erano quasi tutti indigeni i soldati di terra e di mare; e infusero ai mercenarii stranieri lo spirito di patriottismo e di zelo, da cui essi stessi erano animati. Giurarono gli Italiani di vivere o morire per la difesa del Papa e delle sante Immagini; era il popolo romano consegrato al suo padre spirituale, ed anche i Lombardi bramavano di dividere il merito e i vantaggi di quella sacrosanta battaglia. La distruzione delle statue di Leone fu l'atto di ribellione il più apparente, il più audace e quello che veniva in capo più naturalmente: il più efficace e il più vantaggioso fu di ritenere il tributo che pagava l'Italia a Costantinopoli, e di spogliare in tal guisa il principe d'un potere, del quale poco prima aveva abusato coll'esigere una nuova capitazione[236]. Si elessero magistrati e governatori, e si conservò così una forma di governo; tant'era la pubblica indignazione, che i Romani si disponeano a creare un Imperatore ortodosso, e a condurlo con una squadra navale ed un esercito nel palazzo di Costantinopoli. Furono nel tempo istesso Gregorio II e Gregorio III dichiarati dal monarca autori della ribellione, e condannati per tali: si fece il potere per impadronirsi della loro persona colla frode o colla violenza, o per toglier loro la vita. S'introdussero in Roma, o vennero più volte ad assalirla, capitani, guardie, duchi e vescovi, investiti d'una dignità pubblica, o deputati con una secreta commissione; approdarono con bande straniere; trovarono nel paese qualche soccorso, e dee la città superstiziosa di Napoli arrossire, che i suoi antenati difendessero allora la causa dell'eresia: il valore però e la vigilanza dei Romani rispinsero quegli assalti palesi o clandestini; i Greci furono sconfitti e trucidati, morti i Capi d'una morte ignominiosa, e per quanto fossero i Papi inclinati alla clemenza, ricusarono d'intercedere in favore di quelle colpevoli vittime. Risse sanguinose, prodotte da un odio ereditario, divideano da lungo tempo i diversi rioni della città di Ravenna[237]; trovarono quelle fazioni un nuovo alimento nella controversia religiosa che sorgeva allora; ma aveano i partigiani delle Immagini la superiorità del numero o del valore, e l'Esarca, che volle arrestar il torrente, perdè la vita in una sedizion popolare. Per punire quel misfatto, e ristabilire il suo dominio in Italia, mandò l'Imperatore una squadra ed un esercito nel golfo Adriatico. Ritardati lunga pezza dai venti e dall'onde, che loro cagionarono gran danno, sbarcarono i Greci alla fine nei dintorni di Ravenna; minacciarono di spopolare quella rea città, e d'imitare, forse di superare, Giustiniano II, il quale dovendo, già un tempo, punire una ribellione, avea consegnato al carnefice cinquanta dei primarii abitanti. Vestiti del sacco e coperti di cenere, pregavano le donne e il clero; gli uomini erano armati alla difesa della patria; aveva il comun pericolo riunite le fazioni, e vollero piuttosto avventurare una battaglia ch'esporsi alle lunghe miserie d'un assedio. Si combattè di fatto con accanimento. I due eserciti indietreggiarono e si avanzarono a vicenda; videsi un fantasma, s'udì una voce, e la certezza della vittoria rendè Ravenna vittoriosa. I soldati dell'Imperatore si ritirarono sopra i vascelli; ma la spiaggia del mare assai popolata mandò contro il nimico una gran quantità di schifi; si mescolò tanto sangue alle acque del Po, che per sei anni non volle il popolo cibarsi del pesce di quel fiume; l'instituzione d'una festa annuale consecrò il culto delle Immagini, e l'odio del tiranno greco. In mezzo al trionfo delle armi cattoliche, volendo il Pontefice di Roma, condannare l'eresia degl'Iconoclasti, convocò un Concilio di novantatre Vescovi. Coll'approvazione di questi, pronunciò una scomunica generale contro quelli che assalirebbero la tradizion de' Padri, e le Immagini dei Santi sia con parole o con fatti; comprendeva questo decreto tacitamente l'Imperatore[238]; con tutto ciò sembra che la risoluzione presa di fargli per l'ultima volta un'ammonizione, senza speranza di buon esito, provi che l'anatema non era allora che sospeso sopra il suo reo capo. Sembra di più, che i Papi, dopo avere ben fondato le basi della propria sicurezza, del culto delle Immagini, e della libertà di Roma e dell'Italia, abbiano mitigato il rigore, e risparmiato il rimanente del dominio Bizantino. Differirono con moderati consigli ed impedirono l'elezione d'un nuovo Imperatore; esortarono gl'Italiani a non separarsi dal corpo della Monarchia romana. Si concedette all'Esarca di risedere nelle mura di Ravenna, dove fece la parte piuttosto di schiavo che di padrone; e fino all'incoronazione di Carlomagno, il governo di Roma e dell'Italia fu sempre tenuto in nome dei successori di Costantino[239].
La libertà di Roma oppressa dalle armi e dall'arte d'Augusto, dopo settecento cinquant'anni di servitù fu campata dalla tirannia di Leone l'Isaurico. Aveano i Cesari annichilati i trionfi dei Consoli; nella decadenza e ruina dell'Impero romano, erasi il Dio Termine, quel sacro limite, ritirato a poco a poco dalle rive dell'Oceano, del Reno, del Danubio e dell'Eufrate, e Roma era ridotta al suo antico territorio, contando i paesi che da Viterbo si stendono a Terracina, e da Narni all'imboccatura del Tevere[240]. Espulsi i Re, riposò la Repubblica sopra la solida base fondata dalla loro saggezza e virtù. La loro perpetua giurisdizione si divise a due magistrati, che si eleggeano ogni anno; continuò il senato ad essere investito del potere amministrativo e deliberativo; le assemblee del popolo esercitarono l'autorità legislativa distribuita tra le classi diverse in proporzione delle sostanze, o dei servigi di ciascun individuo. Aveano i primi Romani, ignari delle arti del lusso, perfezionata la scienza del governo e della guerra: erano sacri i diritti personali; il volere della Comunità era assoluto; erano armati cento trentamila cittadini a difendere il loro paese, o ad ampliarlo per via di conquisti; una geldra di ladri e di proscritti era divenuta una nazione, degna di libertà e ardente di gloria[241]. Allorchè si estinse la sovranità degl'Imperatori greci, Roma spopolata più non era che il tristo scheletro della miseria; era la schiavitù divenuta per lei un'abitudine, e la sua libertà fu un accidente prodotto dalla[242] superstizione, ch'essa medesima non potè mirare che con sorpresa e terrore. Non trovavasi nelle instituzioni o nella memoria dei Romani il menomo vestigio della sostanza, od anche delle forme della costituzione; nè aveano abbastanza lumi e virtù a rifabbricare l'edificio d'una Repubblica. Il debole avanzo degli abitanti di Roma, nati tutti da schiavi o da stranieri, era l'oggetto dello scherno dei Barbari trionfanti. Per esprimere il maggior disprezzo che aveano per un nimico, lo chiamavano i Franchi e Lombardi Romano; «e questo nome, dice il Vescovo Luitprando, abbraccia tutto ciò che è vile, infame e perfido; i due estremi dell'avarizia e del lusso, e tutti i vizi infine che possono prostituire la dignità della natura umana[243].» La situazione dei Romani li gettò necessariamente in un governo repubblicano grossolanamente concepito. Furono obbligati a scegliere Giudici in tempo di pace, e Capi durante la guerra; si adunavano i Nobili per deliberare, e non poteansi eseguire le loro risoluzioni, senza il consenso della moltitudine. Si videro rinnovarsi le forme antiche del Senato e del Popolo romano[244]; ma non erano animate dall'istesso spirito, e quella nuova independenza fu disonorata dalla tempestosa lotta della licenza e dell'oppressione. La mancanza di leggi non poteva essere supplita che dal potere della religione, e l'autorità del Vescovo dirigeva l'amministrazione interna, e la politica esterna. Le sue limosine, i suoi discorsi, la sua corrispondenza coi re e prelati dell'Occidente, i servigi, che non guari prima avea renduto alla città, i giuramenti statigli prestati, e la gratitudine che gli si dovea, assuefarono i Romani a risguardarlo come il primo magistrato, o il principe di Roma. Il nome di dominus o di Signore non isgomentò l'umiltà cristiana dei Papi, e se ne scorge la figura e l'iscrizione sulle più antiche monete[245]. Il loro dominio temporale è oggigiorno assodato da dieci secoli di rispetto, e il loro più bel titolo e la libera scelta di un popolo, ch'essi aveano sottratto dalla schiavitù.
A. D. 730-752
In mezzo alle dispute dell'antica Grecia godeva il popol santo dell'Elide una pace continua sotto la protezione di Giove, e nell'esercizio de' Giuochi Olimpici[246]. Sarebbe stato una fortuna pei Romani che un simile privilegio difendesse il patrimonio della Chiesa dalle calamità della guerra, e che i cristiani, i quali andavano a vedere la tomba di San Pietro, si credessero tenuti, alla presenza dell'apostolo e del suo successore, di riporre le spade nel fodero; ma questo mistico cerchio non potea essere delineato che dalla verga d'un legislatore e d'un saggio: questo pacifico sistema non s'uniformava collo zelo e coll'ambizione dei Papi; non erano i Romani, come gli abitanti dell'Elide, dediti agl'innocenti e placidi lavori dell'agricoltura, e le instituzioni pubbliche e private dei Barbari dell'Italia, malgrado dell'effetto che aveva il clima prodotto sui loro costumi, erano assai inferiori a quelle degli Stati della Grecia. Luitprando, Re dei Lombardi, diede un esempio memorando di pentimento e di divozione. Ascoltò questo vincitore, in mezzo alle armi, alla porta del Vaticano, la voce di Gregorio II[247], ritirò le schiere, abbandonò i conquisti, si condusse alla Chiesa di S. Pietro, e, dopo avere orato, depose sulla tomba dell'Apostolo la spada e il pugnale, la corazza e il mantello, la croce d'argento e la corona d'oro; ma tale fervor religioso fu un'illusione e forse un artificio del momento; il sentimento dell'interesse è possente e durevole. Era l'amore delle armi e della rapina inerente al carattere dei Lombardi, e i disordini dell'Italia, la debolezza di Roma, e la profession pacifica del suo nuovo Capo, furono per essi e pel loro Re un oggetto di tentazione irresistibile. Alla pubblicazione dei primi editti del monarca si dichiararono difensori delle Immagini. Invase Luitprando la provincia di Romagna, chiamata così fin da quei tempi; i cattolici dell'Esarcato si sottomisero senza ripugnanza al suo potere civile e militare, e per la prima volta venne introdotto un nimico straniero nell'inespugnabile Fortezza di Ravenna. Furono la città e la fortezza ricuperate bentosto dall'attività dei Veneziani valenti e poderosi in mare, e questi fedeli sudditi s'arresero alle esortazioni di Gregorio, che li indusse a separare il fallo personale di Leone dalla causa generale dell'Impero romano[248]. Dimenticarono i Greci un tale servigio, e i Lombardi si ricordarono di tale ingiuria. Formarono le due nazioni, nimiche per la lor Fede, un'alleanza pericolosa e poco naturale; marciarono il Re e l'Esarca al conquisto di Spoleti e di Roma: si dissipò la tempesta senz'alcun effetto; ma il politico Luitprando continuò a tenere l'Italia agitata da perpetue alternative di tregue e d'ostilità. Astolfo, successore di lui, si dichiarò ad un tempo nimico dell'Imperatore e del Papa. Fu soggiogata Ravenna dalla forza o dal tradimento[249], e questa conquista troncò la serie degli Esarchi, i quali, dall'epoca di Giustiniano e dalla ruina del regno dei Goti in poi, aveano esercitato in quel paese una specie di potere dependente. Fu ingiunto a Roma di riconoscere per suo legittimo sovrano il Lombardo vittorioso; si fissò la taglia di ciascun cittadino ad un annuo tributo d'un pezzo d'oro; la spada sospesa sul loro capo era pronta a punire le disobbedienze. Esitarono i Romani; supplicarono, si dolsero, e l'effetto delle minacce dei Barbari fu impedito dalle lagrime e dai negoziati, fino a tanto che il Papa seppe procurarsi al di là delle Alpi un alleato e un vendicatore[250].
A. D. 754
Aveva Gregorio I, nelle sue calamità, implorato i soccorsi dell'eroe del suo secolo, di Carlo Martello, che governava la Francia col titolo modesto di Prefetto del Palazzo o di Duca, e che colla sua vittoria segnalata sopra i Saracini avea salvata la patria, e forse l'Europa, dal giogo dei Musulmani. Ricevè Carlo col dovuto rispetto gli ambasciatori del Papa; ma l'importanza delle sue occupazioni e la brevità della sua vita non gli permisero d'immischiarsi negli affari dell'Italia che per via d'una mediazione amichevole ed infruttuosa. Suo figlio Pipino, erede del suo potere e delle sue virtù, si dichiarò difensore della Chiesa romana, e sembra che lo zelo di questo principe fosse eccitato dall'amor della gloria e dalla religione; ma era il pericolo sulle sponde del Tevere, i soccorsi su quelle della Senna, e debole è la nostra compassione per miserie lontane da noi. Mentre abbandonavasi la città di Roma al dolore, Stefano III prese la generosa risoluzione di condursi in persona alla Corte di Lombardia e a quella di Francia, di piegare l'ingiustizia del suo nimico, o di destare la pietà e l'indignazione del suo amico. Mitigata la pubblica disperazione con preghiere e litanie, intraprese quel faticoso viaggio cogli ambasciatori del Monarca francese, e con quelli dell'Imperator greco. Il Re dei Lombardi fu inesorabile; ma non poterono le sue minacce frenare i lamenti, o ritardare la diligenza del Pontefice di Roma, che traversò le Alpi pennine, si riposò nell'abbazia di S. Maurizio, e andò poscia in tutta fretta a stringere quella mano del suo protettore, che mai non alzavasi in vano tra l'armi e per l'amicizia. Fu Stefano accolto come il successore visibile dell'Apostolo. Nella prima assemblea del Campo di Marzo o di Maggio, espose il Re di Francia a una nazione divota e guerriera le varie doglianze del Papa, e il Pontefice ripassò le Alpi non da supplichevole ma da conquistatore, con un esercito di Francesi guidati dal Re medesimo. Dopo una debole resistenza ottennero i Lombardi una pace ignominiosa; giurarono di restituire le possessioni, e di rispettare la santità della Chiesa romana; ma non appena fu liberato dalla presenza delle schiere francesi, dimenticò Astolfo la sua promessa, e non sentì che l'affronto ricevuto. Videsi Roma di nuovo investita dai soldati, e Stefano, temendo di stancare lo zelo degli alleati che si avea procurato al di là delle Alpi, immaginò di fortificare la sua doglianza, e la supplica, con una lettera eloquente scritta da S. Pietro istesso[251]. L'Apostolo accerta i suoi figli adottivi, il Re, il Clero e i Nobili di Francia, che morto corporalmente vive tuttavia in ispirito; che la voce ch'essi ascoltano e che devono obbedire, è quella del fondatore e del guardiano della Chiesa di Roma; che la Vergine, gli Angeli, i Santi, i Martiri e tutto l'esercito celeste, sollecitano la supplica del Papa, e impongon loro di marciare immediatamente; che in ricompensa della loro pia impresa avranno la fortuna, la vittoria e il paradiso, e che la perdizione eterna sarà la pena della loro negligenza, se lascieranno cadere nelle mani dei perfidi Lombardi la sua tomba, la sua Chiesa, il suo popolo. Non men rapida e felice della prima fu la seconda spedizione di Pipino; ottenne S. Pietro quanto bramava; Roma fu salva per la seconda volta, e sotto la sferza d'un padrone straniero imparò finalmente Astolfo a rispettare la giustizia e la buona fede. Dopo quel doppio gastigo, non fecero i Lombardi che languire, e decadere per lo spazio di circa vent'anni. Non erasi per altro il loro carattere conformato all'avvilimento della loro condizione; e in vece d'aspirare alle pacifiche virtù dei deboli, stancarono i Romani con una quantità di pretensioni, sutterfugii e scorrerie, che cominciarono senza riflessione, e terminarono senza gloria. Era la loro spirante monarchia angustiata, da un lato, dallo zelo e dalla prudenza del Papa Adriano I, dall'altro, dal genio, dalla fortuna e dalla grandezza di Carlomagno, figlio di Pipino: quegli eroi della Chiesa e dello Stato si unirono con un'alleanza e coll'amicizia; e quando calpestarono i deboli, seppero dare al loro procedere i più bei colori dell'equità e della moderazione[252]. Unica difesa dei Lombardi erano le gole delle Alpi e le mura di Pavia. Sorprese il figlio di Pipino quelle gole, e investì quelle mura, e dopo un assedio di due anni, l'ultimo dei loro principi naturali, Desiderio, consegnò al vincitore lo scettro e la capitale. I Lombardi, sottomessi a un Re straniero, serbando però le loro leggi nazionali, divennero piuttosto concittadini che sudditi dei Franchi, i quali, com'essi traevano l'origine, i costumi e la lingua dalla Germania[253].
751, 753-768
Le obbligazioni reciproche dei Papi e della famiglia Carlovingia, formano l'importante anello che unisce l'istoria antica e moderna, la civile ed ecclesiastica. Erano stati i difensori della Chiesa incoraggiati al conquisto dell'Italia da una fausta occasione, da un titolo specioso, dai voti del popolo, dalle preghiere e dai raggiri del clero. La dignità di Re di Francia[254] e quella di Patrizio di Roma furono i doni i più preziosi, che ricevè dai Papi la dinastia Carlovingia. I. Sotto la monarchia sacerdotale di S. Pietro, cominciarono le nazioni a ripigliare l'abitudine di cercare sulle sponde del Tevere il loro monarca, le loro leggi e gli oracoli del loro destino. Erano i Franchi imbarazzati tra due sovrani, l'uno di fatto, l'altro di nome; Pipino, semplice Prefetto del Palazzo, esercitava l'assoluto potere d'un Re; non mancava che questo titolo alla sua ambizione. Il suo valore abbatteva gl'inimici; la sua liberalità gli moltiplicava il numero degli amici. Era stato suo padre il salvatore del cristianesimo, e quattro illustri generazioni assodavano, e faceano risaltare i diritti del suo merito personale. L'ultimo discendente di Clodoveo, il debole Childerico, conservava tuttavia il nome e le apparenze della regia dignità, ma il suo diritto disusato non potea servire ad altro che d'istrumento a sediziosi; desiderava la nazione di restaurare la semplicità della sua costituzione, e Pipino, suddito e principe, voleva assicurare il proprio grado e la fortuna della sua famiglia. Legava un giuramento di fedeltà il Prefetto e i Nobili al fantasma reale; era il puro sangue di Clodoveo, sempre sacro ad essi: chiesero i loro ambasciatori al Pontefice romano di dissipare i loro scrupoli, o di assolverli dalle loro promesse. L'interesse determinò prontamente il Papa Zaccaria, successore dei due Gregorii, di pronunciare in loro favore; decise che la nazione aveva il diritto di unire sul medesimo capo il titolo e l'autorità di re; che lo sfortunato Childerico dovea essere immolato alla pubblica sicurezza; ch'era d'uopo deporlo dal trono, raderlo e chiuderlo in un convento pel resto de' suoi giorni. Una risposta sì conforme al desiderio dei Franchi fu ricevuta da essi come l'opinione d'un casuista, la sentenza d'un Giudice, o l'oracolo d'un Profeta[255]: sparve la razza Merovingia; e fu innalzato Pipino sopra lo scudo da un popolo libero, assuefatto ad obbedire alle sue leggi ed a marciare sotto il suo vessillo. Fu incoronato due volte colla confermazione della Corte di Roma; la prima dal servo fedele dei Papi, S. Bonifazio, apostolo della Germania, e la seconda dalle mani riconoscenti di Stefano III, che nel monastero di S. Dionigi pose il diadema in capo al proprio benefattore. Alle altre cerimonie si aggiunse allora destramente l'unzione dei Re d'Israele[256]: il successore di S. Pietro assunse il carattere d'un messaggero di Dio; divenne un Capo germanico agli occhi dei popoli, l'unto del Signore, e tanto la vanità che la superstizione[257] contribuirono a diffondere questa cerimonia giudaica per tutta l'Europa moderna. Si dispensarono i Franchi dal loro primo giuramento di fedeltà, ma furono minacciati dei più tremendi anatemi, i quali piomberebbero anche sulla loro posterità, se ardivano in avvenire di fare un nuovo uso della libertà d'elezione, o di scegliere un re, che non fosse della santa e degna stirpe dei principi Carlovingi. Godettero questi principi tranquillamente la loro gloria senz'inquietarsi dell'avvenire; afferma il secretario di Carlomagno, che lo scettro di Francia era stato trasferito dall'autorità dei Papi[258], e in processo di tempo, nelle loro più ardite imprese, non lasciarono d'insistere con fiducia su quest'atto notabile, e approvato dalla loro giurisdizion temporale.
II. Aveano i costumi e la lingua cangiato a tale, che i patrizi di Roma[259] erano ben lontani dal rammentare il Senato di Romolo, e gli officiali del palazzo di Costantino rassomigliavano poco ai Nobili della repubblica, od ai patrizi distinti dal titolo fittizio di padri dell'Imperatore. Allorchè ebbe Giuliano riconquistato l'Italia e l'Affrica, l'importanza di quelle province rimote, e i pericoli ai quali erano esposte, obbligarono a stabilire un magistrato supremo che risedesse colà; chiamavasi indifferentemente Esarca o patrizio, e que' governatori di Ravenna, che stanno registrati nella cronologia dei principi, stendevano la loro giurisdizione sulla città di Roma. Dalla ribellion dell'Italia e dalla perdita dell'Esarcato in poi, aveva la miseria dei Romani, per certi riguardi, dimandato il sacrificio della loro independenza; ma in quest'atto esercitavano ancora il diritto di disporre d'essi medesimi, e i decreti del senato e del popolo investirono successivamente Carlo Martello e la sua posterità degli onori di patrizio di Roma. Avrebbero i Capi d'una potente nazione sdegnati titoli servili, e uffici dependenti; ma il regno degli Imperatori greci era sospeso, e durante la vacanza dell'Impero, ottennero essi dal Papa e dalla repubblica una missione più gloriosa. Presentarono gli ambasciatori romani a questi patrizi le chiavi della Chiesa di S. Pietro in prova e per simbolo di sovranità; ricevettero nel tempo stesso un santo vessillo che poteano e doveano spiegare a difendere la Chiesa e la città[260]. Ai giorni di Carlo Martello e di Pipino, l'interposizione del regno dei Lombardi minacciava la sicurezza di Roma, ma ne proteggea la libertà, e la parola patriziato rappresentava soltanto il titolo, i servigi e l'alleanza di que' protettori lontani. La potenza e politica di Carlomagno annichilarono i Lombardi, e lo fecero signore di Roma. Quando per la prima volta entrò in quella città, vi fu ricevuto con tutti gli onori, renduti in altri tempi all'Esarca, cioè al rappresentante dell'Imperatore; la gioja e la gratitudine del Papa Adriano I[261] aggiunsero maggior lustro a quegli onori. Non così tosto ei seppe l'improvviso avvicinamento del monarca, che gli mandò incontro i magistrati e i Nobili colla bandiera, trenta miglia in circa dalla città. Le Scuole o le Comunità nazionali dei Greci, dei Lombardi, dei Sassoni etc. si affilarono lunghesso i due lati della via flaminia, per lo spazio d'un miglio; era la gioventù di Roma sotto le armi, e fanciullini, con palme e rami d'olivo in mano, cantavano le lodi dell'illustre liberatore. Allorchè vide le croci e i vessilli, discese Carlo da cavallo; condusse al Vaticano la processione di que' Nobili, e nel salire la scala baciò devotamente tutti i gradini, che metteano nel santuario degli Apostoli. Lo stava Adriano aspettando col clero sotto il portico. S'abbracciarono come amici ed uguali; ma andando verso l'altare prese il Re, o patrizio, la diritta del Papa, nè fu pago Carlomagno di queste vane dimostrazioni di rispetto. Durante i ventisei anni, che passarono fra il conquisto della Lombardia e la sua incoronazione in qualità d'Imperatore, governò da padrone la città di Roma che avea liberata colle sue armi. Giurò il popolo fedeltà alla sua persona e alla sua famiglia; si coniarono le monete; si amministrò la giustizia in suo nome; egli esaminò e confermò l'elezione dei Papi. Toltone il diritto di richiamare la sovranità del suo proprio capo, non poteva il titolo d'Imperatore aggiungere alcuna prerogativa a quelle delle quali era il patrizio di Roma già investito[262].
Fu la gratitudine dei Carlovingi proporzionata a queste obbligazioni, e i loro nomi sono stati consegrati col titolo di salvatori e benefattori della Chiesa romana. Il suo antico patrimonio consistente in case e poderi affittati, fu trasformato dalla loro munificenza in un dominio temporale di città e province. Primo frutto delle vittorie di Pipino fu la concessione dell'Esarcato[263]. Abbandonò Astolfo sospirando la sua preda. Si consegnarono le chiavi e gli ostaggi delle primarie città all'ambasciatore di Francia, che li presentò, in nome del suo Re, sulla tomba di S. Pietro. Abbracciava l'Esarcato, secondo il più ampio significato di questo vocabolo[264], tutte le province dell'Italia che aveano obbedito all'Imperatore e a' suoi ministri; ma a tutto rigore non comprendea che i territori di Ravenna, di Bologna e di Ferrara; deesi aggiungere la Pentapoli, che estendevasi lunghesso il mare Adriatico, da Rimini fino ad Ancona, e che avanzavasi nell'interno del paese fino alla giogaia dell'Apennino. Si biasimarono molto l'ambizione e l'avarizia dei Papi in quel maneggio. Avrebbe forse dovuto l'umiltà d'un prete cristiano ricusare un regno terrestre, che non potea di leggieri governare senza rinunciare alle virtù del suo stato. Avrebbe forse dovuto un suddito fedele od anche un nimico generoso mostrar meno ardore a dividere le spoglie del principe Barbaro; e se aveva l'Imperatore commesso a Stefano di sollecitare in suo nome la restituzione dell'Esarcato, non assolverei il Papa dal rimprovero di perfidia o di falsità; ma stando esattamente alle leggi, può chiunque accettare senza offesa, ciò che senza ingiustizia gli può dare un benefattore. Aveva l'Imperator greco abbandonato o perduto i diritti all'Esarcato, e la spada d'Astolfo era rotta dalla spada più forte del Carlovingio. Non per difendere la causa dell'Iconoclasta, aveva Pipino esposto la sua persona e l'esercito ai pericoli di due spedizioni al di là della Alpi; possedea legalmente i suoi conquisti, e li potea legalmente alienare: rispose piamente alle importunità dei Greci, che niuna considerazione umana non lo determinerebbe a ripigliare un dono, che avea fatto al Pontefice di Roma per la remission de' suoi peccati e la salute dell'anima. Aveva egli dato l'Esarcato con tutti i diritti di sovranità; e vide il Mondo per la prima volta un Vescovo cristiano investito delle prerogative d'un principe temporale, del diritto di nominare magistrati, di far esercitare la giustizia, di impor tasse, e di disporre delle ricchezza del palazzo di Ravenna. Al disciogliersi del reame Lombardo, cercarono gli abitanti del Ducato di Spoleti[265] un rifugio dalla procella; si tagliarono i capelli all'uso dei Romani, si dichiararono servitori e sudditi di S. Pietro, e compierono, con questa volontaria confessione, il circondario odierno dello Stato ecclesiastico. Divenne questo circolo misterioso d'un'ampiezza indefinita mercè la donazione verbale o scritta di Carlomagno[266], il quale ne' primi trasporti della sua vittoria spogliò sè stesso e l'Imperatore greco delle città e delle isole dipendenti altre volte dall'Esarcato. Ma riflettendo, lontano dall'Italia, a mente più fredda a quanto avea fatto, guardò con occhio di invidia e di diffidenza la nuova grandezza del suo alleato ecclesiastico. Eluse in guisa rispettosa l'esecuzione nelle sue promesse e di quelle di suo padre; sostenne il Re dei Francesi e dei Lombardi i diritti inalienabili dell'Impero, e finch'ei visse, e nel punto di sua morte, Ravenna[267] e Roma furono sempre contate nel numero delle sue città metropolitane. Svanì la sovranità dell'Esarcato tra le mani dei Papi. Trovarono questi nell'Arcivescovo di Ravenna un rivale pericoloso[268]: sdegnarono i Nobili e il popolo il giogo d'un prete; e in mezzo ai disordini di quei tempi non poterono i Pontefici di Roma ritenere che la memoria d'un'antica pretensione, che in una epoca più favorevole rinnovarono con prospero evento.
La frode è l'arme della debolezza e dell'astuzia, e Barbari possenti, ma ignoranti, caddero ben spesso nei lacci della politica sacerdotale. Erano il Vaticano e il palazzo[269] di Laterano un arsenale ed una manifattura, che secondo le occasioni produceano o celavano una copiosa raccolta d'Atti veri o falsi, corrotti o sospetti, favorevoli agl'interessi della Chiesa romana. Prima della fine del secolo ottavo, qualche scriba della Santa Sede, forse il famoso Isidoro, fabbricò le Decretali e la donazione di Costantino, quelle due colonne della monarchia spirituale e temporale dei Papi. Fu mentovata quella memoranda donazione, per la prima volta, in una lettera d'Adriano I, il quale esortava Carlomagno ad imitare la liberalità del Gran Costantino, ed a farne rivivere il nome[270]. Secondo la leggenda, aveva San Silvestro, Vescovo di Roma, guarito dalla lebbra, e purificato nell'acque battesimali il primo degl'Imperatori cristiani, nè medico alcuno fu mai tanto ricompensato. Erasi il neofito reale allontanato dalla residenza e dal patrimonio di San Pietro: aveva dichiarato la sua risoluzione di fondare una nuova capitale in Oriente, e aveva abbandonata ai Papi l'intiera e perpetua sovranità di Roma, dell'Italia e delle province dell'Occidente.[271] Produsse una tale finzione gli effetti i più vantaggiosi. Furono i principi Greci convinti d'usurpazione, e la ribellione di Gregorio[272] non fu più considerata che come l'atto, mercè del quale rientrava ne' suoi diritti ad una eredità, che gli apparteneva legittimamente: si sciolsero i Papi dal dovere di gratitudine, poichè l'apparente donazione non era che la giusta restituzione d'una picciola parte dello Stato ecclesiastico. La sovranità di Roma non dipendeva più dalla scelta d'un popolo volubile, e si videro i successori di San Pietro, e di Costantino investiti della porpora e dei diritti dei Cesari. Tanta era l'ignoranza e la credulità di quel secolo, che in Grecia e in Francia si accolse con rispetto la più assurda delle favole, e che trovasi tuttavia fra i decreti della legge canonica[273]. Nè gl'Imperatori, nè i Romani non furono capaci di discernere una trufferia, che distruggea i diritti degli uni e la libertà degli altri: il solo ostacolo venne da un monastero della Sabinia, che sul principio del duodecimo secolo contrastò l'autenticità e la validità della donazione di Costantino[274]. Al risorgere delle lettere e della libertà fu quel falso atto trafitto dalla penna di Lorenzo Valla, critico eloquente, e Romano pieno di patriottismo[275]. Stupirono i suoi contemporanei del suo audace sacrilegio; ma tal'è il tacito ed irresistibile progresso della ragione, che avanti la fine del secolo vegnente, era quella favola rigettata con disprezzo dagli Storici[276], dai Poeti[277], e dalla censura tacita e moderata dei difensori della Chiesa di Roma[278]. I Papi sorrisero anch'essi alla pubblica credulità[279]: ma questo titolo, supposto e disusato, continuò a santificare il loro regno; e per un accidente felice al pari di quello che preservò le decretali e gli oracoli della Sibilla, distrutte le fondamenta, l'edificio non ruinò.
Mentre fondavano i Papi in Italia la loro independenza e il loro dominio, le Immagini, ch'erano state la primaria cagione della loro rivolta, si restauravano nell'Impero d'Oriente[280]. Sotto il segno di Costantino V aveva l'unione del poter civile e del potere ecclesiastico[281] rovesciato l'albero della superstizione senza sbarbicarne la radice. Quella classe di uomini e quel sesso che sono più dediti alla divozione, amavano nel lor segreto il culto degli idoli, così nomandosi allora le Immagini,[282] e l'alleanza dei monaci e delle donne[283] vinse decisamente la prova contro la ragione e l'autorità. Leone IV sostenne, ma con minor rigore la religion del padre e dell'avo mentre sua moglie, la bella e ambiziosa Irene, era imbevuta del fanatismo degli Ateniesi, eredi dell'idolatria assai più che della filosofia dei loro antenati. Vivente il marito, le sue inclinazioni non fecero che invigorirsi vie più pei rischi a cui l'esponevano, e per la dissimulazione che ne fu la conseguenza; solamente potè ella adoperarsi nel proteggere, e promovere alcuni monaci favoriti, che trasse dalle loro spelonche per collocarli sulle Sedi metropolitane dell'Oriente; ma non così tosto cominciò a regnare in nome proprio, e in quello del figlio, ella intese più seriamente alla ruina degl'Iconoclasti, e con un editto generale a favor della libertà di coscienza aperse la via alla persecuzione. Richiamando i monaci, espose delle Immagini a migliaia alla pubblica venerazione, e da quel punto s'inventarono mille leggende di martirii e di miracoli. Ad un Vescovo morto o scacciato, erano immantinente sostituiti uomini animati dalle sue passioni.
A. D. 787
Coloro che più ardentemente cercavano i favori temporali e celesti, prevenivano l'elezione che farebbe la sovrana, e non mancavano d'approvarla. La promozion di Tarasio, suo segretario, alla dignità di Patriarca di Costantinopoli, la fece arbitra della Chiesa d'Oriente: ma i decreti d'un Concilio generale non si poteano rivocare, che da un'assemblea della stessa qualità[284]; gl'Iconoclasti da lei radunati, fatti forti dal possesso attuale, pareano poco inclinati alle discussioni, e la debole voce dei loro Vescovi era avvalorata dalle grida assai più formidabili dei soldati e della plebe di Costantinopoli. Fu differito per un anno il Concilio; e in quest'intervallo si ordirono maneggi, si separarono le squadre mal affezionate, e finalmente, per toglier di mezzo tutti gli ostacoli, fu deciso che si congregherebbe il Concilio in Nicea; così secondo l'uso della Grecia fu un'altra volta la coscienza dei Vescovi in mano dei principi. Non si assegnarono che diciotto giorni pur l'esecuzione di sì grande affare; comparvero gl'Iconoclasti nell'Assemblea non come giudici, ma come rei o penitenti; la presenza dei Legati del Papa Adriano e dei Patriarchi dell'Oriente crebbero la pompa di quella scena[285]. Tarasio, che presedeva al Concilio, stese il decreto, che fu confermato e ratificato dalle acclamazioni e dalla sottoscrizione di trecentocinquanta Vescovi. I quali con voce unanime dichiararono, che il culto delle Immagini è conforme ai dettami della Scrittura e della ragione, dei Padri e dei Concilii; ma stettero in forse quando si volle determinare, se questo culto sia relativo, o diretto, se la Divinità e la figura di Gesù Cristo ponno ammettere la stessa forma d'adorazione. Abbiamo già gli Atti di questo secondo Concilio di Nicea; monumento singolare di superstizione e d'ignoranza, di menzogna e di follia. Solamente riferirò il giudizio dato dai Vescovi sul merito comparativo del culto che si rende alle Immagini, e della moralità nelle azioni della vita. Aveva convenuto un monaco[286] una tregua col demonio della fornicazione, a patto che cesserebbe di fare le solite orazioni quotidiane davanti un'Immagine sospesa al muro della sua cella. Fu dagli scrupoli indotto a consultare il suo abate. «È meglio, gli rispose il casuista, entrare in tutti i lupanari; e visitare tutte le prostitute della città, che astenerti dall'adorar Gesù Cristo e sua Madre nelle lor sante Immagini[287] ».
A. D. 841
È gran disgrazia per l'onor dell'ortodossia o per lo meno di quello della Chiesa romana, che i due principi i quali convocarono i due Concilii di Nicea si sieno macchiati del sangue del loro figlio[288]. Irene approvò e mandò despoticamente ad effetto i decreti della seconda di queste Assemblee, e ricusò ai suoi avversari quella tolleranza che da prima aveva conceduta a' suoi amici. La lite fra gli Iconoclasti e i difensori del culto delle Immagini durò trentott'anni, o sia per cinque regni consecutivi, collo stesso furore, benchè con diversi successi; ma non è mio intendimento di rivangare minutamente fatti simili ai già narrati. Diede Niceforo su questa materia una libertà generale di discorsi e di contegno; e i monaci indicarono questa sola virtù del suo regno come origine delle sue disgrazie in questo Mondo, e della sua dannazione eterna. Superstizione e debolezza fecero il carattere di Michele I; ma non valsero nè i Santi nè le Immagini, a cui offeriva omaggio continuamente, a sostenerle sul trono. Quando Leone ottenne la porpora, col nome d'Armeno, ne prese pure la religione, e le Immagini coi lor sediziosi aderenti furono di bel nuovo sbandite. Avrebbero i partigiani delle Immagini santificato cogli elogi l'assassinio di un empio tiranno; ma Michele II suo assassino, e successore, era sin dalla nascita affetto dell'eresie frigie volle interporre la sua mediazione fra le due Sette, e l'intrattabile contegno dei cattolici fece pendere la bilancia a poco a poco dall'altra parte. Per timidezza si mantenne nella moderazione; ma Teofilo, suo figlio, incapace del pari di timore e di compassione, fu l'ultimo e il più crudele degl'Iconoclasti. Allora erano sfavorevoli ad essi le disposizioni generali, e gl'Imperatori che vollero fermare il torrente, non conseguirono altro che l'odio pubblico. Morto Teofilo, una seconda moglie, Teodora sua vedova, a cui lasciò la tutela dell'Impero, finì il trionfo compiuto delle Immagini. I suoi provvedimenti furono arditi e decisivi. Per rimettere in onore la riputazione e salvar l'anima di suo marito, ebbe ricorso alla supposizione di un tardo pentimento. La punizion degl'Iconoclasti, che li condannava a perdere gli occhi, fu commutata in una flagellazione di duecento colpi di sferza; tremarono i Vescovi, mandarono grida di gioia i monaci, e la Chiesa cattolica celebra annualmente la festa del trionfo delle Immagini. Non rimaneva più da discutere che una quistione, cioè, se abbiano esse una santità loro propria ed inerente: se ne trattò dai Greci dell'undecimo secolo[289], e quest'opinione è tanto assurda, che mi fa maraviglia il vedere che non sia stata ammessa in modo più positivo. Approvò Papa Adriano e pubblicò in Occidente i decreti del Concilio Niceno, rispettato oggi dai cattolici come il settimo dei Concilii ecumenici. Roma e l'Italia furono docili alla voce del lor Padre spirituale; ma la maggior parte dei cristiani della Chiesa latina rimasero in questo proposto molto addietro nella carriera della superstizione. Le Chiese di Francia, di Germania, d'Inghilterra, di Spagna s'apersero una strada fra l'adorazione e la distruzione delle Immagini, le quali da quei popoli sono ammirate ne' lor templi, non come oggetti di culto, ma come cose atte a richiamare e conservar la memoria di qualche fatto che concerne la Fede. Comparve sotto il nome di Carlomagno un libro di controversia scritto collo stile della collera[290][291]. Si adunò a Francoforte sotto l'autorità di questo principe un Concilio di trecento Vescovi[292]. Questi biasimarono il furore degl'Iconoclasti, ma furon più severi nel censurare la superstizione dei Greci e i decreti del preteso loro Concilio, il quale fu lunga pezza vilipeso dai Barbari dell'Occidente[293]. Non fece il culto delle Immagini presso di loro che progressi taciti ed impercettibili; ma la loro esitazione e i loro indugi furono bene espiati dalla grossolana idolatria dei secoli che precedettero la riforma, e da quella che regna in diverse contrade tanto dell'Europa che dell'America, tuttavia ottenebrate dalla caligine della superstizione.
Dopo il secondo Concilio di Nicea, e nel regno della pia Irene, avvenne che i Papi dando l'Impero a Carlomagno, assai meno ortodosso di lei, distaccarono dall'Impero d'Oriente Roma e l'Italia. Era mestieri scegliere fra due nazioni rivali; non fu la religione il solo motivo che prevalse: dissimulando i falli dei loro amici, vedeano con inquietudine e con ripugnanza le virtù cattoliche dei nimici; di già per la differenza di lingua e di costumi s'era perpetuata la nimistà delle due capitali, e settant'anni di scisma le avevano totalmente alienate una dall'altra. In questo spazio aveano i Romani assaporata la libertà, e i Papi la signorìa; se si fossero sottomessi si sarebbero esposti alla vendetta d'un despota geloso, e la rivoluzion dell'Italia avea già svelata l'impotenza ad un tempo e la tirannide della Corte bizantina. Aveano gl'Imperatori greci rimesse le Immagini, ma non restituiti i demanii della Calabria[294], nè le diocesi dell'Illiria[295], usurpati dagl'Iconoclasti ai successori di San Pietro; e Papa Adriano li minacciò di scomunica se non abiuravano questa eresia pratica[296]. I Greci allora erano ortodossi, ma potea il monarca regnante infettar col suo soffio la lor religione; i Franchi comparivano restii; ma da un occhio acuto si potea facilmente scorgere che presto passerebbero dall'uso al culto delle Immagini. Il nome di Carlomagno avea la taccia del fiele polemico versato da' suoi scrittori: ma quanto alle opinioni sue proprie s'uniformava il vincitore, con la pieghevolezza d'un uomo accorto, alle varie idee della Francia e dall'Italia. Nei quattro pellegrinaggi, o visite ch'egli fece al Vaticano, era sembrato e per affetto e per credenza unito coi Papi; s'era inginocchiato davanti alla tomba, e per conseguente davanti l'immagine di S. Pietro, e senza scrupolo avea partecipato alle orazioni e alle processioni della liturgia romana. Ma la prudenza e la gratitudine doveano forse impedire ai Pontefici di Roma lo scostarsi dal lor benefattore? Avean essi il diritto di vendere l'Esarcato ricevuto da lui? avean essi l'autorità d'abolirne a Roma il governo? Troppo inferiore al merito e alla grandezza di Carlomagno era il titolo di patrizio, e non avean essi altro modo di sdebitarsi con lui, o di raffermare il proprio Stato, fuor quello di rinnovare l'Impero d'Occidente. Quest'atto decisivo avrebbe per sempre annichilite le pretensioni dei Greci, e Roma si sarebbe sollevata dall'umiliante condizione di città provinciale per riprendere l'antica sua maestà; i cristiani della Chiesa latina sarebbero stati riuniti sotto un Capo supremo nella prisca metropoli, e avrebbero i vincitori dell'Occidente ricevuta la corona dalle mani dei successori di S. Pietro. Si procacciava la Chiesa romana un difensore zelante e formidabile, e sotto la protezione potente dei Carlovingi avrebbe da indi in poi potuto il Vescovo di Roma governare quella capitale con onore e con sicurezza[297].
A. D. 800
Prima della caduta del paganesimo, dalla concorrenza pel Vescovado di Roma, erano sovente nate turbolenze ed uccisioni. Nel tempo di cui parliamo era meno numerosa la popolazione, ma erano più rozzi i costumi, più rilevante il conquisto, e però dagli ecclesiastici ambiziosi, che aspiravano al grado di sovrani, era con furore disputata la Cattedra di S. Pietro. Il lungo regno d'Adriano I[298] fu anche più lungo di quello de' suoi predecessori, e dei Papi che vennero di poi[299]; trofei della sua gloria furono l'erezione delle mura della città di Roma, il Patrimonio della Chiesa, la distruzion dei Lombardi, l'amicizia di Carlomagno; innalzò segretamente il trono dei suoi successori, e in un picciolo teatro spiegò le virtù d'un gran principe. Fu rispettata la sua memoria; ma quando fu d'uopo sostituirgli un altro, fu preferito un sacerdote della Chiesa di Laterano, Leone III, al suo nipote ed al suo favorito, da lui investiti delle prime dignità ecclesiastiche. Costoro, sotto la maschera della sommessione o della penitenza, dissimularono per quattr'anni gli orrendi loro disegni di vendetta; finalmente in una processione, un drappello di cospiratori furibondi, dopo aver dispersa una moltitudine inerme, si avventò alla sacra persona del Papa; che fu oppresso da colpi e da ferite. Voleano torgli la vita o la libertà; ma, fosse confusione o rimorso, non conseguirono l'intento. Leone, lasciato come morto sulla piazza, riavutosi dallo svenimento sofferto nel perdere il sangue, ricuperò la parola e la vista: e su questo accidente naturale fu poi fabbricata la storia miracolosa aver lui ricuperati gli occhi e la lingua, di cui l'avea privato due volte il ferro degli assassini[300]. Scampò dalla prigione, e si riparò nel Vaticano; volò il duca di Spoleto in suo soccorso; Carlomagno fu irritato da tanto misfatto, e il Pontefice di Roma, invitato da lui, o spontaneamente, andò a visitarlo nel campo di Paderborna in Vestfalia. Ripassò Leone le alpi, scortato da conti e da vescovi, che dovean difendere la sua persona, e sentenziare ch'egli era innocente; e non senza rincrescimento indugiò il vincitor dei Sassoni fino all'anno seguente d'andare esso stesso a compiere questo pio dovere in Roma. Vi si trasferì di fatto Carlomagno per la quarta ed ultima volta, e fu accolto cogli onori dovuti al re de' Franchi, e al patrizio di quella capitale. Fu permesso a Leone di scolparsi col giuramento dai delitti imputatigli; i suoi nimici furon ridotti al silenzio, e troppo umanamente puniti furono coll'esilio i sacrileghi assassini che aveano cospirato contro la sua vita. Nel giorno di Natale dell'ultimo anno del secolo ottavo, si trasferì Carlomagno alla Basilica di S. Pietro: per satisfare alla vanità dei Romani avea cangiato l'abito semplice della sua nazione, in quello di patrizio di Roma[301]. Dopo la celebrazione dei Santi Misteri improvvisamente Leone pose sul capo del principe una corona preziosa[302], e risonò la Chiesa di questa acclamazione «Lunga vita e vittoria a Carlo, piissimo Augusto, coronato dalla mano di Dio, grande e pacifico Imperator dei Romani». Gli fu versato l'olio reale sulla testa e sul corpo. Secondo l'esempio de' Cesari fu salutato e adorato dal Pontefice; nel giuramento della sua incoronazione era inchiusa la promessa di mantener la Fede e i privilegi della Chiesa, e ne furono il primo frutto le ricche offerte che depose sulla tomba del Sant'Apostolo. Protestò per altro l'Imperatore, ne' suoi colloqui famigliari, di avere ignorata l'intenzione del Papa; che se ne fosse stato consapevole, l'avrebbe delusa colla sua assenza; ma per altro gli apparecchi della cerimonia doveano averne palesato il secreto, e prova il viaggio di Carlomagno ch'egli s'aspettava questa incoronazione; egli avea confessato d'ambire il titolo d'Imperatore, e da un Sinodo tenuto in Roma era stato detto quello essere il solo guiderdone proporzionato al suo merito e a' suoi servigi[303].
A. D. 768-814
Soventi volte fu dato il soprannome di Grande, e talora giustamente; ma non v'ha che Carlomagno per cui questo nobile epiteto sia stato indissolubilmente accoppiato al nome proprio. Questo nome è stato collocato nel calendario di Roma fra quello dei Santi; e, per una sorte ben rara, questo Santo ottenne gli elogi degli storici e dei filosofi d'un secolo illuminato[304]. È fuor di dubbio per altro, che il suo merito reale risalta di più per la barbarie del secolo e della nazione sulla quale egli si sollevò; ma gli oggetti acquistano pure una grandezza apparente dal confronto della picciolezza di quelli che stan loro d'intorno, e alla nudità del deserto son debitrici le rovine di Palmira di gran parte della loro maestà. Io posso senz'ingiustizia notare alcune macchie sulla santità e la grandezza del restauratore dell'Impero occidentale. La continenza non è tra le sue virtù morali quella che risplenda di più[305]: per altro nove mogli o concubine, altri amorazzi meno osservati e meno durevoli, i tanti bastardi, che tutti furon da lui collocati nell'Ordine ecclesiastico, il lungo celibato e i licenziosi costumi delle sue figlie[306], le quali, per quanto sembra, erano da lui amate più del dovere, non avranno forse avuto conseguenze realmente funeste alla pubblica felicità. Appena si vorrà permettermi d'accusare l'ambizione d'un conquistatore; ma in un giorno di ricompense, i figli di Carlomano suo fratello, i principi Merovingi d'Aquitania, e i quattromila cinquecento Sassoni decapitati nel luogo medesimo, avrebbero qualche rimprovero da fare alla giustizia e all'umanità di Carlomagno. Il trattamento che soffersero i Sassoni[307] fu un abuso del dritto della vittoria. Le sue leggi non furono men sanguinarie delle sue armi, e nell'esame de' suoi motivi tutto quello che non si attribuisce alla superstizione debbe essere imputato al suo naturale. Il lettor sedentario stupisce dell'instancabile attività dello spirito e del corpo di quel gran principe; e i suoi sudditi erano sorpresi del pari che i suoi nemici delle subitanee comparse, con cui veniva lor sopra, quando lo credeano nelle contrade più lontane dell'Impero. Non riposava nè in tempo di pace, nè in tempo di guerra; non nel verno, non nella state; e la nostra immaginazione non sa facilmente conciliare gli annali del suo regno colle particolarità geografiche delle sue spedizioni. Ma quella prontezza era una virtù nazionale piuttosto che personale: a que' giorni il Francese passava la sua vita vagabonda alla caccia, in pellegrinaggi, o in avventura militari; nè differivano i viaggi di Carlomagno se non per una serie più numerosa di corse, e per un oggetto più rilevante. A ben giudicare della fama, che ottenne nel mestiere dell'armi, è d'uopo considerare quali fossero le sue soldatesche, i suoi nemici e le azioni sue. Alessandro fece i suoi conquisti coi soldati di Filippo; ma i due eroi, che avean preceduto Carlomagno, gli lasciarono in eredità col nome gli esempli loro, ed i compagni delle lor vittorie. Con queste vecchie milizie, di gran lunga più numerose, sconfisse egli nazioni selvagge o tralignate, inette a riunirsi per la sicurezza comune; e giammai non ebbe a combattere un esercito ugualmente copioso, o paragonabile al suo per armi o per disciplina. La scienza della guerra s'è perduta e ravvivata colle arti della pace; ma le campagne non sono state illustrate da verun assedio o da veruna battaglia molto difficile, o di successo molto strepitoso; e dovette con occhio d'invidia vedere i trionfi del suo avo sui Saracini. Dopo la sua corsa di Spagna, il suo retroguardo fu sbaragliato nei Pirenei; e i suoi soldati, che vedeansi in un cimento irreparabile e dove il valore era inutile, poterono morendo accusare il lor Generale di poca abilità o circospezione[308]. Con tutto il rispetto farò un cenno delle leggi di Carlomagno, tanto lodate da un giudice sì rispettabile. Le quali non formano già un sistema, ma una serie d'editti minuziosi pubblicati secondo i bisogni del momento per la correzion degli abusi, la riforma dei costumi, l'economia dei suoi possedimenti, la cura del suo pollame, ed anche la vendita delle sue uova. Volea migliorare la legislazione, e l'indole dei Francesi, e meritano elogio i suoi tentativi comecchè deboli ed imperfetti: sospese o alleviò colla sua amministrazione i mali inveterati che gravitavano sul suo secolo[309]; ma nelle sue instituzioni non so scorgere che di rado le mire generali e lo spirito immortale d'un legislatore, che sopravvive a sè stesso pel bene della posterità. L'unione e la fermezza del suo Impero dipendevano dalla sua vita unicamente: egli seguì l'usanza pericolosa di dividere il regno tra i figli, e dopo le tante Diete che tenne lasciò tutti i punti della Costituzione incerti, fra i disordini dell'anarchia e quei del dispotismo. Fu sedotto da' suoi riguardi per la pietà e pei lumi del clero a porre fra le mani di questo Ordine ambizioso i demanii temporali, e una giurisdizione civile; e quando Luigi suo figlio fu accusato e deposto dal trono per opera de' Vescovi, potea aver qualche dritto di accagionarne l'imprudenza del padre. Ingiunse colle sue leggi il pagamento della decima perchè i demonii avevano gridato per aria, che una penuria di grani era succeduta per motivo che non s'era pagata la decima[310]. Il suo gusto per le lettere è provato dalle scuole che fondò, dalle arti che introdusse ne' suoi Stati, dalle Opere pubblicate col suo nome, e dal suo commercio familiare con quei sudditi e forestieri che chiamò alla sua Corte, affinchè attendessero alla sua educazione e a quella del suo popolo. Tardivi furono i suoi studii, laboriosi ed imperfetti: se parlava il latino, e se intendeva il greco, aveva apparato più nel conversare che sui libri ciò che ne sapea di queste due lingue; e solo in età matura s'ingegnò il sovrano dell'Impero Occidentale di familiarizzarsi coll'arte dello scrivere, che oggi sin dall'infanzia è conosciuta da tutti i paesani[311]. Allora non si studiava la grammatica, la logica, l'astronomia, la musica che per farne uso in servigio della superstizione; ma la curiosità dello spirito umano debbe finalmente perfezionarlo, e gl'incoraggiamenti dati alle scienze sono i più puri e i più bei raggi della gloria di cui si cinse il carattere di Carlomagno[312]. La sua figura maestosa[313], il lungo suo regno, la prosperità delle sue armi, la forza della sua amministrazione, gli omaggi che gli tributarono le nazioni lontane lo sollevano sopra la turba dei Re; e la rinnovazione dell'Impero d'Occidente, ristabilito da lui, incominciò una nuova epoca per l'Europa.
Ben era degno quest'Impero del suo titolo[314]; ed il principe che per diritto d'eredità o di conquista regnava ad un'ora sulla Francia, sulla Spagna, sull'Italia, sulla Germania, sull'Ungheria, potea considerarsi come possessore della maggior parte de' più bei reami d'Europa[315]. I. La provincia romana della Gallia era divenuta la monarchia di Francia; ma nel decadere della linea dei Merovingi ne furono ristretti i limiti dall'independenza de' Bretoni e dalla rivolta dell'Aquitania. Carlomagno incalzò i Bretoni sino alle rive dell'Oceano, confinò sulle coste quella feroce tribù, per l'origine e pel dialetto tanto rimota dai Francesi, e per gastigo le impose tributi, ne trasse ostaggi, e obbligolla alla pace. Dopo lungo contrasto, la provincia d'Aquitania fu confiscata, e i suoi Duchi perdettero libertà e vita. Sarebbe stata questa una punizione troppo rigorosa per governatori ambiziosi, rei soltanto d'aver voluto troppo imitare i Prefetti del Palazzo; ma una carta non guari scoperta[316] prova che quelli erano gli ultimi discendenti di Clodoveo, e i legittimi eredi della sua corona per parte d'un ramo cadetto proveniente da un fratello di Dagoberto. Era ridotto l'antico loro regno al Ducato di Guascogna, colle contee di Fesenzac e d'Armagnac, situate alle falde de' Pirenei; se ne propagò la razza fino al cominciamento del sesto secolo; e sopravvissero ai Carlovingi, loro oppressori, per provare l'ingiustizia o il favore d'una terza dinastia. Unendo a sè l'Aquitania acquistò la Francia quell'estensione, che oggi conserva, aggiugnendovi i Paesi Bassi sino al Reno; II. I Saracini erano stati cacciati di Francia dal padre e dall'avo di Carlomagno; ma rimanevano padroni della maggior parte della Spagna, dalla rupe di Gibilterra fino ai Pirenei. Nel tempo delle lor dissensioni civiche, un Arabo, l'Emir di Saragossa, andò alla Dieta di Paderborna a implorar la protezione dell'Imperatore. Carlomagno si trasferì in Ispagna, ripose in carica l'Emir, e senza far distinzione, tra le varie credenze, oppresse i cristiani che vollero resistere, e premiò l'obbedienza e i servigi de' Musulmani. Indi partendo, statuì la Marca spagnuola[317] che si prolungava dai Pirenei sino alla riviera dell'Ebro: il governator francese presedeva in Barcellona e reggeva le contee di Rossiglione e di Catalogna, e i piccioli regni d' Aragona e di Navarra soggiacevano alla sua giurisdizione; III. come Re dei Lombardi, e patrizio di Roma, Carlomagno governava la maggior parte dell'Italia[318], la quale dalle Alpi fino alle frontiere della Calabria aveva un'estensione di mille miglia. Il Ducato di Benevento, feudo lombardo, erasi a spese dei Greci allargato su tutto il paese che forma oggi il regno di Napoli. Ma il Duca allora regnante, Arrechis, non volle partecipare alla servitù del suo paese; si dichiarò principe independente, e oppose la sua spada alla monarchia Carlovingia. Si difese egli con fermezza, nè fu senza gloria la sua sommessione; l'Imperatore si contentò ad esigerne un tributo modico, la demolizion delle Fortezze, e l'obbligo di riconoscere nelle sue monete la superiorità d'un Signore. Grimoaldo, figlio d'Arrechis, lusingando Carlomagno, e scaltramente onorandolo col nome di padre, sostenne del pari la propria dignità con prudenza, e a poco a poco Benevento si sottrasse al giogo francese[319]. IV. Carlomagno è il primo che sotto lo stesso scettro tenesse la Germania. Il nome di Francia orientale sussiste nel Circolo di Franconia; e per la conformità di religione e di governo s'erano recentemente incorporati gli abitanti dell' Assia e della Turingia alla nazion dei vincitori. Gli Alemanni, sì formidabili a Roma, eran divenuti i fidi vassalli e gli alleati dei Franchi, e il lor paese abbracciava il territorio dell' Alsazia, della Svevia e della Svizzera. I Bavaresi, a cui pure si lasciavano le leggi e i costumi patrii, erano più intolleranti di dominio estero; le continue tradigioni del lor Duca Tasillo giustificarono l'abolizione della sovranità ereditaria, e fu divisa l'autorità dei Duchi fra i conti che doveano custodire ad un tempo quella rilevante frontiera francese, ed esercitarvi l'officio di giudici. Ma la parte settentrionale dell'Alemagna, che dal Reno s'estende oltre l'Elba, era sempre nemica e pagana, e solo dopo una guerra di trentatre anni abbracciarono i Sassoni il cristianesimo, e furono soggetti a Carlomagno. Si discussero gl'idoli e i loro adoratori: la fondazione dei vescovadi di Munster, di Osnabruck, di Paderborna, di Minden, di Brema, di Verden, d'Hildesheim e d'Halberstadt, segnò dalle due rive del Veser i confini della Sassonia antica: formarono quei vescovadi le prime scuole e le prime città di quella terra selvaggia, e così la religione e l'umanità instillate ai fanciulli espiarono in qualche modo la strage dei padri. Al di là dell'Elba, gli Slavi, o Schiavoni, popoli di conforme costume, benchè diversi di nome, occupavano il territorio, che oggi forma la Prussia, la Polonia, la Boemia; e da qualche indizio di temporaria obbedienza furon condotti gli Storici francesi a prolungare l'Impero di Carlomagno fino al Baltico ed alla Vistola. È più recente il conquisto o la conversion di quel paese; ma si può riferire alle armi di quel principe la prima congiunzione della Boemia al Corpo Germanico. V. Agli Avari o Unni della Pannonia rendette le calamità, onde avean essi aggravate le nazioni, e dal triplice sforzo d'un esercito francese, che penetrò nella loro contrada per terra e pei fiumi, attraversando i monti Carpazii che ingombrano per lo lungo la pianura del Danubio, furono atterrate le fortificazioni dei boschi che ne cingeano i distretti e i villaggi. Dopo una lotta sanguinosa di otto anni, fu colla strage dei loro Nobili primarii vendicato l'eccidio d'alcuni Generali francesi: il resto della nazione si sottomise. Fu devastata e al tutto distrutta la reggia dal Chagan, e i tesori accumulati in due secoli a mezzo di rapine arricchirono le milizie vittoriose, o andarono ad ornare le Chiese dell'Italia e della Gallia[320]. Dopo l'assoggettamento della Pannonia, non ebbe l'Impero di Carlomagno altri confini che il confluente del Danubio, della Teyss e della Sava: acquistò senza fatica, ma con poco profitto, le province d'Istria, di Liburnia e di Dalmazia; e per un effetto della sua moderazione soltanto, rimasero i Greci possessori, veri o titolari, delle città marittime; ma l'acquisto di que' paesi rimoti giovò più alla sua fama che alla sua potenza, e non ebbe il coraggio di avventurare qualche fondazione ecclesiastica per togliere i Barbari alla lor vita vagabonda, ed all'idolatria. Non fece che pochi tentativi per aprire qualche canale di comunicazione tra la Saona e la Mosa, il Reno e il Danubio[321]. Questo divisamento se fosse stato compiuto avrebbe dato vita all'Impero; e in vece Carlomagno sprecò spesse volte, nel costruire una cattedrale, più denari e lavori di quelli che avrebbe costato sì fatta impresa.
Raffrontando i grandi tratti di questa dipintura geografica si vedrà, che l'Impero dei Francesi si estendeva fra l'Oriente e l'Occidente dall'Ebro all'Elba, o alla Vistola; fra il Settentrione e il Mezzodì, dal Ducato di Benevento alla riviera d'Eyder, che ha sempre separata la Germania e la Danimarca. Lo stato di miseria e la divisione del rimanente dell'Europa davan maggiore risalto personale e politico a Carlomagno. Gran numero di principi, d'origine Sassone o Scozzese, si contendeano fra loro le isole della Gran Brettagna e dell'Irlanda; e dopo la perdita della Spagna il regno dei Goti cristiani, governati da Alfonso il Casto, fu limitato da un'angusta catena dei monti delle Asturie. Riverivano quei regoli la potenza o la virtù del monarca Carlovingio; imploravano l'onore e la protezione della sua alleanza, lo nomavano padre comune, sommo e supremo Imperatore dell'Occidente[322]. Trattò più da pari a pari col Califfo Harun al Rascid[323], i cui Stati andavano dall'Affrica fino all'India, e dagli ambasciatori di questo principe ricevette una tenda, un orologio da acqua, un elefante e le chiavi del Santo Sepolcro. Non è agevol cosa a comprendere la personale amicizia d'un Francese e d'un Arabo che non si eran veduti giammai, e che aveano sì diverso il linguaggio e la religione; ma quanto al loro carteggio pubblico era fondato sulla vanità; e la lontananza dell'uno dall'altro non permetteva che i loro interessi potessero trovarsi in concorrenza. Furono soggetti a Carlomagno i due terzi dell'Impero posseduto da Roma nell'Occidente, ed egli era ben compensato della parte che gliene mancava col dominio di nazioni inaccessibili e indomabili della Germania; ma nello scegliere i suoi amici fa maraviglia ch'egli preferisse sì spesso la povertà del Settentrione alle ricchezze del Mezzodì. Le trentatre campagne che fece con tante fatiche nelle foreste e nei paduli della Germania, avrebbero bastato a cacciare d'Italia i Greci, di Spagna i Saracini, e a procacciargli così tutto l'Impero di Roma. La debolezza dei Greci gli prometteva sicura e facile vittoria; la gloria e la vendetta avrebbero mosso i sudditi ad una Crociata contro i Saracini, la quale avrebbe avuto i suffragi della religione e della politica. È probabile che nelle sue imprese al di là del Reno e dell'Elba avesse in mira di sottrarre la sua monarchia al destino dell'Impero romano, di disarmare i nemici delle culte nazioni, e di sterpare i germi delle trasmigrazioni future. Ma fu saggiamente osservato dover le conquiste di precauzione essere universali per conseguire l'intento, avvegnachè allargando la sfera delle conquiste, non si fa che ingrandire il circolo de' nemici intorno alle proprie frontiere[324]. Coll'assoggettar la Germania s'aperse il velo che sì lungamente aveva celato all'Europa il Continente o sia le isole della Scandinavia; si risvegliò allora in que' barbari abitanti il sopito valore. Gl'idolatri della Sassonia che aveano più energia, scamparono dalle mani dell'oppressore cristiano, e cercarono un asilo nel Settentrione; ingombrarono di corsari l'Oceano e il Mediterraneo, ed ebbe Carlomagno il dolore di scorgere i funesti progressi dei Normanni, che in meno di settant'anni di poi accelerarono la ruina della sua razza, non che della sua monarchia.
A. D. 814-887
Se il Papa e i Romani avessero rinnovata la primitiva costituzione, non avrebbe Carlomagno goduto che in vita i titoli d'Imperatore e d'Augusto, e sarebbe stato necessario, ad ogni vacanza, che con una elezione formale o tacita fosse collocato sul trono ogni successore; ma nell'associare all'Impero suo figlio, Luigi il Buono, statuì i suoi diritti d'independenza, come monarca e come conquistatore; e pare che in quella occasione scorgesse e prevenisse le occulte pretensioni del clero. Ordinò al giovine principe di pigliar la corona sull'altare, e di porsela in capo da sè, come un dono che gli veniva da Dio, da suo padre e dalla nazione[325]. Di poi, quando furono associati all'Imperio Lotario e Luigi II, si ripetè la stessa cerimonia, ma con minore pubblicità; passò lo scettro de' Carlovingi di padre in figlio per quattro generazioni, e l'ambizione dei Papi fu ridotta alla sterile onorificenza di dar la corona e l'unzione reale a quei principi ereditari di già investiti del potere, e possessori dei loro Stati. Luigi il Buono sopravvisse ai fratelli, e unì sotto il suo scettro tutto l'Impero di Carlomagno; ma presto i popoli e i Nobili, i Vescovi e i suoi figli s'avvidero, che quel gran Corpo non era avvivato dalla stessa anima di prima, e che i fondamenti erano scassinati nel centro, mentre la esterna superficie sembrava tuttavia bella e intatta. Dopo una guerra o una battaglia in cui perirono centomila Francesi, fu da un trattato di divisione partito l'Impero fra i suoi tre figli, che aveano mancato a tutti i doveri figliali e fraterni. I reami della Germania e della Francia furono per sempre separati; Lotario, a cui fu dato il titolo d'Imperatore, s'ebbe le province della Gallia fra il Rodano, le Alpi, la Mosa e il Reno. Quando poscia fu divisa la sua porzione tra i suoi figli, la Lorena e Arles, due piccioli regni fondati poco prima, e che poco durarono, furono il retaggio de' suoi due figli più giovani. Luigi II il maggiore fu contento del regno d'Italia, patrimonio naturale e bastante ad un Imperatore di Roma. Morì senza figli maschi, ed allora i suoi zii e i cugini si contesero il trono: i Papi afferrarono destramente questa occasione per farsi giudici delle pretensioni o del merito de' candidati, e per dare al più docile o al più liberale l'imperial dignità di avvocato della Chiesa romana. Non s'incontra più nei miserabili avanzi della grande stirpe Carlovingia la menoma apparenza di virtù o di potere, e solo dai ridicoli soprannomi di Calvo, di Balbo, di Grosso, di Semplice sono caratterizzati i tratti nobili ed uniformi di questa folla di Re, tutti ugualmente degni dell'obblivione. L'estinzione dei rami materni trasmise l'intera eredità a Carlo il Grosso, ultimo Imperatore della sua famiglia: dalla debolezza del suo ingegno derivò la diffalta della Germania, dell'Italia e della Francia: fu deposto in una Dieta e ridotto a mendicare il pane giornaliero da' ribelli, il disprezzo de' quali gli avea lasciata la libertà e la vita. I Governatori, i Vescovi ed i Signori, ciascheduno secondo le sue forze, usurparono qualche frammento dell'Impero che andava in ruina; si usò qualche preferenza a coloro, che per parte di donne o di bastardi discendeano da Carlomagno. Erano ugualmente incerti il titolo e il possesso della maggior parte di questi competitori, e il loro merito pareva adeguato alla poca estensione de' loro dominii. Quelli che poterono comparire con un esercito davanti alle porte di Roma furono coronati Imperatori nel Vaticano; ma fu paga il più delle volte la loro modestia del solo titolo di Re d'Italia; e si può considerare come un interregno lo spazio di settantaquattr'anni trascorsi dall'abdicazione di Carlo il Grosso, sino all'esaltamento di Ottone I.
896
Ottone[326] apparteneva al nobile lignaggio dei Duchi di Sassonia, e se è vero che discendesse da Vitichindo, già nemico e poi proselito di Carlomagno, la posterità del popolo vinto giunse in fine a regnare sui vincitori. Enrico l'Uccellatore, suo padre, eletto dal suffragio della sua nazione avea salvato, e su salde basi fondato il regno della Germania. Il figlio d'Enrico, il primo e il più grande degli Ottoni, allargò d'ogni lato i confini di quel reame[327]. Fu aggiunta alla Germania quella porzion della Gallia che all'Occidente del Reno costeggia le sponde della Mosa e della Mosella, i cui popoli, fin dai tempi di Cesare e di Tacito, avean co' Germani molta somiglianza di linguaggio e di temperamento. I successori d'Ottone acquistarono tra il Reno, il Rodano e le Alpi una vana supremità sopra i regni di Parigi, di Borgogna e d'Arles. Dalla parte del Settentrione, il cristianesimo fu propagato dalle armi d'Ottone, vincitore ed apostolo delle nazioni Schiavone dell'Elba e dell'Oder; con varie colonie d'Alemanni fortificò le Marche di Brandeburgo e di Schleswik; il Re di Danimarca, ed i duchi di Polonia e di Boemia si dichiararono suoi vassalli e tributari. Valicò egli le Alpi con un esercito vittorioso, soggiogò il regno d'Italia, liberò il Papa e congiunse per sempre la corona imperiale al nome ed alla nazione dei Germani. Da quell'epoca memoranda s'introdussero due massime di giurisprudenza pubblica fondate dalla forza, e ratificate dal tempo; I che il principe eletto in una Dieta di Alemagna acquistava ad un tempo i regni subordinati dell'Italia e di Roma; II ma che non poteva legalmente qualificarsi per Imperatore ed Augusto prima di ricevere la corona dalle mani del romano Pontefice[328].
Il nuovo titolo di Carlomagno fu annunziato in Oriente dal cangiamento di stile nello scrivere; fu sostituito il titolo di padre che gli davano gl'Imperatori greci a quello di fratello, simbolo d'uguaglianza e di famigliarità[329]. Forse ne' suoi carteggi con Irene aspirava al titolo di sposo: i suoi ambasciatori a Costantinopoli parlarono il linguaggio della pace e dell'amicizia; e il fine segreto della lor missione fu quello per avventura di trattar un matrimonio con quell'ambiziosa principessa, che aveva abiurato tutti i doveri di madre. Non è possibile il congetturare quale sarebbe stata la qualità, la durata e le conseguenze di tal unione fra due Imperi così lontani ed estranei l'uno all'altro; ma dal silenzio concorde dei Latini si debbe argomentare che la nuova di questo trattato di matrimonio fosse inventata dai nimici d'Irene, per porle addosso il delitto d'aver voluto dar la Chiesa e lo Stato in balìa dei popoli dell'Occidente[330]. Gli ambasciatori di Francia furon testimoni della cospirazion di Niceforo e dell'odio nazionale, e per poco ebbero a divenirne le vittime. Fu irritata Costantinopoli dal tradimento e sacrilegio dell'antica Roma; e ogni bocca ripetea quel proverbio «che i Francesi eran buoni amici, e cattivi vicini»; ma doveasi temere di provocar un vicino che poteva esser tentato a rinnovare nella Chiesa di Santa Sofia la cerimonia della sua incoronazione. Dopo un viaggio disastroso, lunghi andirivieni, e molti indugi gli ambasciatori di Niceforo trovarono Carlomagno nel suo campo sulle sponde della Saal; il quale per confondere la lor vanità dispiegò in un villaggio di Franconia tutta la pompa, o per lo meno tutto il fasto della reggia Bizantina[331]. Passarono i Greci per quattro sale d'udienza; nella prima stavan già per prostrarsi davanti un personaggio magnificamente vestito, seduto sopra un alto seggio, quando egli avvisolli, esser lui soltanto il Contestabile o maestro de' cavalli, cioè un servo del principe. Fecero uno sbaglio simile, ed ebbero la stessa risposta, nelle tre stanze successive ove stavano il Conte del palazzo, l'Intendente e il gran Ciamberlano. Essendosi così raddoppiata in essi la impazienza, finalmente fu aperta la porta della camera ove era Carlomagno, e videro il monarca attorniato da tutto lo sfarzo di quel lusso straniero ch'egli spregiava, e dall'amore, e dal rispetto de' suoi capitani vittoriosi. Conchiusero i due Imperi un trattato di pace e d'alleanza, e fu deciso che ciascuno serberebbe i dominii che possedeva; ma i Greci[332] dimenticaron ben presto quest'umiliante uguaglianza, o non se ne ricordarono che per detestare i Barbari che li aveano obbligati a riconoscerla. Fino a tanto che furono congiunti in un uomo il potere e le virtù, salutarono ossequiosamente l'augusto Carlomagno, dandogli i titoli di Basileus, e d'Imperatore de' Romani. Come tosto coll'esaltamento di Luigi il Pio, queste due qualità furono disgiunte, si videro nella soprascritta delle lettere della Corte di Bizanzio queste parole «Al Re, o come egli stesso si qualifica, all'Imperatore dei Francesi e dei Lombardi». Quando più non videro nè potere, nè virtù, tolsero a Luigi II il suo titolo ereditario, e dandogli la barbara denominazione di rex o rega, lo relegarono nella turba dei Principi latini. La sua risposta[333] ne dimostra la debolezza; provando con molta erudizione, che nella storia sagra e profana il nome di Re è sinonimo della parola greca Basileus; e soggiungendo, che se a Costantinopoli viene preso in un significato più esclusivo e più augusto, egli ricevè da' suoi antenati e dal Papa il giusto diritto di partecipare agli onori della porpora romana. Ricominciò la stessa disputa nel regno degli Ottoni, l'ambasciatore dei quali dipinge con vivi colori l'insolenza della Corte di Costantinopoli[334]. Affettavano i Greci molto disprezzo per la povertà e l'ignoranza de' Francesi e de' Sassoni; e, ridotti all'estremo avvilimento, ricusavano ancora di prostituire il titolo d'Imperatori romani ai Re della Germania.
Gl'Imperatori d'Occidente continuavano ad ingerirsi nell'elezione dei Papi, come già facevano prima arbitrariamente i principi Goti e gl'Imperatori greci; e il valore di questa prerogativa crebbe coi dominii temporali, e colla giurisdizione spirituale della Chiesa romana. Secondo la costituzione aristocratica del clero, i suoi membri primari formavano un Senato che cooperava all'amministrazione de' suoi Consigli e nominava al vescovado, quand'era vacante. Ventotto erano le parrocchie in Roma, ed ognuna era governata da un Cardinale prete o presbitero, titolo modesto nella sua origine, ma che poi volle uguagliarsi alla porpora dei Re. Il numero dei membri di questo Consiglio venne crescendo coll'associazione dei sette Diaconi degli spedali più considerevoli, dei sette giudici del palazzo di Laterano, e di alcuni dignitari della Chiesa. Questo Senato era diretto da sette Cardinali vescovi della Provincia romana, i quali non attendeano tanto alle lor diocesi d'Ostia, di Porto, di Velletri, di Tuscolo, di Preneste, di Tivoli, e del paese de' Sabini, situati, può dirsi, ne' sobborghi di Roma, quanto al servigio settimanale nella Corte del Papa, e alla premura d'ottenere una maggior parte degli onori e dell'autorità della Sede apostolica. Morto il Papa, questi Vescovi indicavano al Collegio de' Cardinali quello che doveano eleggere per successore[335]; e dagli applausi o dagli schiamazzi del popolo romano era approvata o rigettata la scelta. Ma dopo il suffragio del popolo era ancor imperfetta l'elezione; e per consecrar legalmente il Pontefice era d'uopo che l'Imperatore, come avvocato della Chiesa, avesse data l'approvazione e l'assenso. Il Commissario imperiale esaminava sul luogo la forma e la libertà dell'elezione, e solamente dopo aver ben disaminate le qualificazioni degli Elettori, ricevea il giuramento di fedeltà, e confermava le donazioni che aveano successivamente arricchito il Patrimonio di San Pietro. Se sopravveniva uno Scisma, e di frequente ne accadevano, si sottometteva il tutto al giudizio dell'Imperatore, il quale in mezzo a un Sinodo di Vescovi osò giudicare, condannare e punire un Pontefice delinquente. Si obbligarono il senato ed il popolo, in un trattato con Ottone I, di eleggere quel candidato che più a sua maestà fosse aggradevole[336]: i suoi successori anticiparono o prevennero i loro suffragi: diedero al proprio Cancelliere il Vescovado di Roma, non che quelli di Colonia e di Bamberga; e qualunque pur fosse il merito d'un Francese o d'un Sassone, prova il suo nome abbastanza l'intromissione d'una Potenza straniera. I disordini d'un'elezion popolare erano per questi atti autorevoli una scusa assai speciosa. Il competitore, escluso dai Cardinali, si appellava alle passioni o alle venalità della plebe: il Vaticano e il Palazzo di Laterano furono imbrattati d'assassinii, e i senatori più potenti, i Marchesi di Toscana e i conti di Tuscolo tennero in lungo servaggio la Sede apostolica. I Papi del nono e decimo secolo, furono insultati, incarcerati, assassinati dai lor tiranni; e quando erano spogliati dei demanii dipendenti dalla loro Chiesa, tant'era la lor indigenza, che non potevano sostenere la condizione d'un principe non solo, ma neppure esercitare la carità d'un sacerdote[337]. La riputazione ch'ebbero allora due sorelle prostitute, Marozia e Teodora, era fondata su le ricchezze e l'avvenenza loro, sui loro raggiri amorosi o politici; la mitra romana era il guiderdone dei più instancabili dei loro amanti, e il loro regno[338] ha potuto[339] nei secoli d'ignoranza dar origine alla favola[340] d'una Papessa[341]. Un bastardo di Marozia, un suo nipote e un pronipote, discendenti dal bastardo (genealogia veramente singolare!) salirono la Cattedra di San Pietro, ed aveva l'età di diciannov'anni il secondo degli anzidetti, quando divenne Capo della Chiesa latina. Giunto alla maturità degli anni corrispose all'aspettazione che avea dovuto dare di sè in gioventù; e la folla de' pellegrini che concorrevano a Roma poteva attestar la verità delle accuse fattegli in un Sinodo romano, e alla presenza d'Ottone il Grande. Dopo avere rinunciato all'abito e al decoro della sua dignità, potea Papa Giovanni XI, nella sua qualità di soldato, non avere taccia per gli eccessi nel bere, per gli omicidii, per gl'incendii, per la smodata passione del giuoco e della caccia: poteano i suoi Atti pubblici di simonìa essere una conseguenza della sua ristrettezza; e supposto che abbia invocato, come è fama, Giove e Venere, potea essere questa una facezia; ma noi veggiamo con istupore questo degno nipote di Marozia vivere pubblicamente in adulterio colle Matrone romane; il palazzo Lateranense trasformato in un postribolo, e lo svergognato Papa, tiranno del pudore delle vergini e delle vedove, il quale impediva così alle donne di andare in pellegrinaggio al sepolcro di San Pietro, ov'elle avrebbero corso rischio, in quell'atto di divozione, d'essere violate[342] da quel successor dell'apostolo[343]. Hanno insistito con maligno diletto i protestanti su questi segni di somiglianza coll'anticristo; ma agli occhi d'un filosofo son men pericolosi i vizi del clero che le virtù del medesimo. Dopo lunghi scandoli fu purificata e rialzata la Sede apostolica dall'austerità e dallo zelo di Gregorio VII. Questo frate ambizioso[344] passò tutta la sua vita meditando, e regolando l'esecuzione de' suoi gran disegni, il primo de' quali era fissare nel Collegio de' Cardinali la libertà e l'independenza della elezione del Papa, e per sempre togliervi l'intervento, o legittimo o usurpato, degl'Imperatori, e del popolo romano; il secondo di dare e riprendere l'Impero d'Occidente come un feudo, o benefizio[345] della Chiesa, e a stendere il suo dominio temporale sopra i re, e sopra i reami della terra. Dopo cinquant'anni di combattimenti, la prima di queste operazioni fu condotta ad effetto mercè dell'Ordine ecclesiastico, la libertà del quale andava congiunta a quella del Capo; ma la seconda, non ostante qualche buon esito apparente o parziale, trovò nella potestà civile una gran resistenza, e fu impedita da' progressi dell'umana ragione.
Quando risorse l'Impero di Roma, nè il suo Vescovo nè il popolo poteano dare a Carlomagno o ad Ottone le province, perdute per la sorte dell'armi come erano state acquistate; ma i Romani aveano la facoltà d'eleggersi un padrone, e l'autorità delegata al patrizio fu irrevocabilmente conferita agl'Imperatori francesi e sassoni. Gli annali imperfetti di que' tempi[346] ci serbarono qualche memoria del palazzo, della moneta, del tribunale, degli editti di que' principi, e della giustizia esecutiva, che sin al decimo-terzo secolo era dal Prefetto di Roma esercitata in virtù de' poteri conferitigli da' Cesari[347]; ma infine per gli artificii de' Papi e per la violenza del popolo, questa sovranità degl'Imperatori fu soppressa. I successori di Carlomagno, paghi de' titoli d'Imperatore e d'Augusto, non posero cura nel mantenere quella giurisdizione locale; ne' tempi prosperi, era l'ambizione loro pasciuta d'idee più lusinghiere, e nella decadenza e division dell'Impero i lor pensieri furono del tutto assorti da quello di difendere le province ereditarie. In mezzo a' disordini dell'Italia, la famosa Marozia indusse uno degli usurpatori a sposarla, e la sua fazione guidò Ugo, re di Borgogna, entro la Mole d'Adriano, ossia Castello Sant'Angelo, che domina il ponte principale, ed uno degli ingressi di Roma. Suo figlio Alberico, ch'ella ebbe da uno de' suoi primi mariti, fu astretto a servire al banchetto nuziale; il suo suocero sdegnato della ripugnanza manifesta con cui quegli adempieva tale ufficio gli diede una percossa. Questa originò una rivoluzione. «Romani, gridò il giovanetto, voi eravate un tempo i signori del Mondo, e questi Borgognoni erano allora i più abietti fra i vostri schiavi. Ed oggi regnano, que' selvaggi voraci e brutali, e l'oltraggio ch'io ricevetti è il principio della vostra servitù[348] ». Sonarono le campane a stormo; corse il popolo all'armi da tutti i quartieri della città, e i Borgognoni fuggirono a precipizio svergognati e atterriti. Il vincitore Alberico cacciò in un carcere sua madre Marozia, e ridusse suo fratello, Papa Giovanni XI, all'esercizio del suo ministero spirituale. Governò Roma per più di vent'anni col titolo di principe, e dicesi che per assecondare i pregiudizi del popolo, rinnovò l'officio, o almeno il nome de' Consoli, e de' Tribuni. Ottaviano, suo figlio ed erede, prese col Pontificato il nome di Giovanni XII: tribolato come il suo predecessore da' principi Lombardi cercò un difensore che potesse liberare la Chiesa e la Repubblica, e quindi la dignità imperiale divenne il guiderdone de' servigi d'Ottone; ma il Sassone era prepotente, e intolleranti i Romani. La festa dell'incoronazione fu turbata dalle secrete dispute suscitate per una parte dalla gelosia del potere, per l'altra dal desiderio di libertà. Temendo Ottone d'essere assalito, e assassinato al piè dell'altare, ordinò al suo Porta-spada di non iscostarsi dalla sua persona[349]. Prima di ripassare le Alpi, l'Imperatore punì la rivolta del popolo, e l'ingratitudine di Giovanni XII. Il Papa fu deposto dalla Sede in un Sinodo; il Prefetto a cavallo d'un asino fu frustato per tutti i quartieri della città, poi cacciato nel fondo d'un carcere; tredici cittadini de' più colpevoli spirarono su le forche, altri furono mutilati e sbanditi, e servirono le antiche leggi di Teodosio e di Giustiniano a giustificare tanta severità di gastighi. Ottone II dalla voce pubblica fu accusato d'avere con una atrocità pari alla perfidia fatto trucidare alcuni Senatori, da lui invitati a pranzo, sotto le sembianze d'ospitalità e d'amicizia[350]. Durante la minorità di Ottone III, suo figlio, Roma tentò con vigoroso sforzo di scuotere il giogo de' Sassoni, e il console Crescenzio fu il Bruto della repubblica. Dalla condizione di suddito e d'esule giunse due volte al comando della città; perseguitò, cacciò, creò i Papi, e tramò una cospirazione per ristabilire l'autorità degl'Imperatori greci. Sostenne un assedio ostinato in castel Sant'Angelo; ma sedotto da una promessa d'impunità, fu appiccato, e s'espose il suo capo su i merli della Fortezza. Per un rovescio di sorte avvenne poi che Ottone, avendo diviso qua e là il suo esercito, fu assediato per tre giorni nel suo palazzo, ove difettava di vittovaglie; e solamente con una vergognosa fuga potè sottrarsi alla giustizia o al furor de' Romani. Il senatore Tolomeo guidava il popolo, e la vedova del console Crescenzio ebbe la consolazione di vendicare il marito dando il veleno all'Imperatore divenuto suo amante: almeno se ne dà il vanto a lei. Era intendimento di Ottone III abbandonare le aspre contrade del Settentrione per collocare il suo trono in Italia, e far rivivere le instituzioni della monarchia romana; ma i successori di lui non comparvero che una volta in tutta la lor vita sulle sponde del Tevere per ricevere la corona nel Vaticano[351]. La loro assenza li esponea al disprezzo, e la loro presenza era odiosa e formidabile. Discendeano dalle Alpi co' loro Barbari, stranieri all'Italia, ove giungevano coll'armi in mano, e le loro passaggere comparse non offerivano che scene di tumulto e di strage[352]. I Romani, sempre tormentati da una debole memoria dei loro antenati, vedeano con pio sdegno quella serie di Sassoni, di Francesi, di principi di Svevia e di Boemia usurpare la porpora e le prerogative de' Cesari.
A. D. 774-1250
Non v'ha forse nulla di più contrario alla natura e alla ragione, che il tenere sotto il giogo paesi lontani e straniere nazioni contro lor voglia, e contro il loro interesse. Può un torrente di Barbari passare sopra la terra; ma per mantenere un vasto Impero, si richiede un sistema profondo di politica e d'oppressione. Vi dev'essere al centro un potere assoluto pronto all'atto e ricco di espedienti; è necessario poter comunicare facilmente e rapidamente dall'una estremità all'altra; fan d'uopo Fortezze per reprimere i primi assalti dei ribelli; un'amministrazione regolare atta a proteggere e a punire, e un esercito ben disciplinato che possa infondere timore senz'eccitare l'odio e la disperazione. Ben diversa era la situazione de' Cesari della Germania, allorchè divisarono d'assoggettare a sè il regno d'Italia. Le loro terre patrimoniali s'estendevano lunghesso il Reno, od erano sparse qua e là nelle loro varie province; ma l'imprudenza o la miseria di molti principi aveva alienato questo ricco retaggio, e la rendita, che traevano da un esercizio minuto e gravoso delle loro prerogative, bastava appena alle spese della lor casa. Erano i loro eserciti fondati soltanto sopra il servizio, legale o volontario, dei loro diversi feudatarii che valicavano le Alpi con ripugnanza, si permetteano ogni sorta di rapine e di eccessi, e sovente disertavano avanti la fine della campagna. Il clima dell'Italia ne distruggeva eserciti intieri; quelli che sfuggivano alla sua mortifera influenza riportavano in patria le ossa dei principi e Nobili loro[353]; imputavano talvolta l'effetto della loro intemperanza alla perfidia e malizia degl'Italiani, che rallegravansi almeno dei mali dei Barbari. Questa tirannia irregolare combattea con armi uguali contro la potenza de' piccioli tiranni del paese: l'esito della disputa non interessava molto il popolo, e dee oggi interessar poco il lettore. Ma ne' secoli undecimo e duodecimo riaccesero i Lombardi la fiaccola dell'industria e della libertà, e le repubbliche della Toscana imitarono finalmente quel generoso esempio. Avevano le città d'Italia conservata mai sempre una specie di governo municipale; e i loro primi privilegi furono un dono della politica degl'Imperatori, che voleano fare servire i plebei a raffrenare l'independenza della Nobiltà. Ma i rapidi progressi di queste Comunità, e l'estensione ch'esse davano ogni giorno al loro potere, non ebbero altra cagione che il numero e l'energia dei loro Membri[354]. La giurisdizione di ciascuna città abbracciava tutta l'ampiezza d'una diocesi o d'un distretto; quella de' Vescovi, de' marchesi e dei conti fu annichilata, e i più orgogliosi de' Nobili si lasciarono persuadere, o furono costretti, d'abbandonare i loro castelli solitari e d'assumere la qualità più onorevole di cittadini e di magistrati. L'autorità legislativa apparteneva all'Assemblea generale; ma il potere esecutivo era nelle mani de' tre consoli che s'estraevano annualmente dar tre Ordini de' quali componevasi la repubblica, cioè: i capitani, i valvassori[355] e i comuni sotto la protezione d'una legislazion uguale per tutti. L'agricoltura e il commercio si ravvivarono a poco a poco; la presenza del pericolo sosteneva il carattere guerriero de' Lombardi, ed al suono della campana, o al ventilare del vessillo[356], sboccava dalle porte della città una schiera numerosa ed intrepida, il cui zelo patriottico si lasciò ben tosto guidare dalla scienza della guerra, e dalle regole della disciplina. L'orgoglio de' Cesari ruppe contro questi baluardi popolari, e l'invincibile Genio della libertà trionfò dei due Federici, i due più gran principi del medio evo: il primo forse più grande per le geste militari, ma il secondo dotato senza dubbio di maggiori lumi e di virtù più grandi che convengono alla pace.
Vago di ravvivare tutto lo sfarzo della porpora, invase Federico I le repubbliche della Lombardia coll'arte d'un politico, col valore d'un soldato, e colla crudeltà d'un tiranno. Aveva la recente scoperta delle Pandette rinnovata una scienza molto favorevole al dispotismo; e alcuni giureconsulti venali dichiararono che l'Imperatore era assoluto padrone della vita e delle proprietà dei sudditi. La Dieta di Roncaglia riconobbe la regia prerogativa in un senso meno odioso; a sessantamila marchi d'argento[357] fu portata la rendita dell'Italia, ma ad infinita ampiezza la estesero colle estorsioni gli officiali del fisco. Col terrore e colla forza dell'armi furono ridotte al dovere le città più pertinaci; i prigioni furono consegnati al carnefice, o fatti perire sotto i dardi scagliati dalle macchine guerresche: dopo l'assedio e la resa di Milano, Federico fece radere gli edifici di quella magnifica capitale; ne levò trecento statici cui spedì in Alemagna, e disperse in quattro villaggi gli abitanti messi sotto il giogo dall'inflessibile vincitore[358]. Non tardò Milano a risorgere dalle sue ceneri: la sventura formò la lega di Lombardia; Venezia, il Papa, Alessandro III, e l'Imperator greco ne difesero gl'interessi; l'edificio del dispotismo fu atterrato in un giorno, e nel trattato di Costanza Federico sottoscrisse, con qualche riserva, la libertà di ventiquattro città. Aveano queste acquistato tutto il vigore e la maturità, quando entrarono in lotta contro il suo nipote; ma questi, Federico II, era dotato di qualità personali, e singolari che lo segnalavano[359]. Per la nascita e per la educazione era raccomandato agli Italiani, e durante l'implacabil discordia della fazione de' Ghibellini e de' Guelfi, aderirono i primi all'Imperatore, mentre i secondi inalberarono il vessillo della libertà e della Chiesa. La Corte romana, in un momento di sonno, avea permesso ad Enrico VI di congiungere all'Impero i regni di Napoli e di Sicilia; e Federico II, suo figlio, ricavò da quegli Stati ereditarii grandi sussidii in soldati e in denari. Fu non di meno oppresso in fine dalle armi lombarde e dai fulmini del Vaticano; ne fu dato il reame ad uno straniero, e l'ultimo della sua razza fu pubblicamente decapitato sul palco nella città di Napoli. Per uno spazio di sessant'anni non si vide più un Imperator in Italia, e appena fu ricordato questo nome per la vendita ignominiosa degli ultimi rimasugli della sovranità.
814-1250 ec.
Piaceva ai Barbari, vincitori dell'Occidente, il dare al lor Capo il titolo d'Imperatore, senz'aver però l'intenzione di conferirgli il dispotismo di Costantino e di Giustiniano. La persona dei Germani era libera, come loro proprii i conquisti, e l'energia del loro carattere nazionale aveva a schifo la servil giurisprudenza dell'antica e della nuova Roma. Sarebbe stata impresa di gran rischio ed inutile il voler imporre il giogo monarchico a cittadini armati, che mal poteano sopportare in pace un magistrato, ad uomini ardimentosi che non voleano obbedire, e ad uomini potenti che voleano comandare. I duchi delle nazioni o delle province, i conti dei piccioli distretti, i margravii delle Marche, o frontiere, si partirono fra loro l'Impero di Carlomagno e d'Ottone, e riunirono l'autorità civile e militare tal quale era stata delegata ai luogotenenti dei primi Cesari. I governatori romani, per lo più soldati di ventura, sedussero le loro legioni mercenarie, e preser la porpora imperiale, con buono o cattivo successo, nella lor rivolta senza nuocere al potere e all'unità del governo. Se meno audaci furono nelle pretensioni i duchi, i margravii e i conti dell'Alemagna, più durevoli furono, e più funesti allo Stato gli effetti dei loro vantaggi. Invece d'aspirare alla dignità suprema, attesero in segreto a fermare l'independenza sul territorio che occupavano. I lor disegni ambiziosi furon favoreggiati dal numero dei dominii loro e dei vassalli, dall'esempio e dal soccorso che si prestavano vicendevolmente; dall'interesse comune dei Nobili subordinati, dal cangiamento dei principi e delle famiglie, dalla minorità d'Ottone III e da quella d'Enrico IV, dall'ambizione dei Papi, e dalla vana perseveranza con cui gl'Imperatori correan dietro alle fuggiasche corone dell'Italia e di Roma. A poco a poco i comandanti delle province usurparono tutti gli attributi della giurisdizione regia e territoriale; i dritti di pace e di guerra, di vita e di morte, quello di batter moneta, di mettere imposizioni, di contrar alleanze coll'estero, e d'amministrare l'interno. Tutte le usurpazioni della violenza furono dall'Imperatore ratificate sia che il facesse di buona voglia, sia per forza di necessità, e questa conferma divenne il prezzo d'un suffragio dubbio, o d'un servigio volontario; quel che avea conceduto all'uno non potea da lui ricusarsi senz'ingiustizia al successore o all'eguale di quello; così da questi differenti atti di dominio passaggero o locale s'è formato a grado a grado la costituzione del Corpo germanico. Il duca o conte d'ogni provincia era il Capo visibile collocato fra il trono e la Nobiltà; i sudditi della legge diveniano i vassalli d'un Capo particolare, che spesso levava contro il sovrano lo stendardo che ne avea ricevuto. La potenza temporale del clero fu secondata ed accresciuta dalla superstizione, o dai fini politici delle dinastie Carlovingia e Sassone, le quali ciecamente confidavano nella sua moderazione e fedeltà: i vescovadi d'Alemagna acquistarono l'estensione e i privilegi dei più vasti demanii dell'Ordine militare, e in ricchezze e in popolazione li superarono. Per quanto tempo poterono gl'Imperatori conservare la prerogativa di nominare i benefici ecclesiastici e laici, la gratitudine o l'ambizione dei loro amici e favoriti seguì le parti della Corte; ma nata la disputa delle investiture, perdettero ogni ingerenza sui Capitoli episcopali; le elezioni tornarono libere, e per una specie di beffa solenne, fu ridotto il sovrano alle sue prime preghiere, cioè al diritto di raccomandare una volta sola, durante il suo regno, un soggetto per una prebenda di ogni Chiesa. Anzi che obbedire ad un superiore, non poterono i governatori secolari essere dimessi dalla carica che per sentenza dei lor pari. Nella prima età della monarchia, la nomina d'un figlio al ducato o alla contea del padre era domandata come un favore; a poco a poco divenne un'usanza, e in fine fu pretesa come un diritto. Sovente la successione in retta linea si estese ai rami collaterali o femminili; gli Stati dell'Impero, denominazione popolare da principio, poi divenuta legale, furono divisi e alienati con testamenti e con trattati di vendita; ed ogn'idea d'un deposito pubblico si confuse in quella d'una eredità particolare e trasmissibile in perpetuo. Non potea nemmeno l'Imperatore arricchirsi colle confische e colla estinzione di qualche linea; non avea che un anno per disporre del feudo vacante, e nell'eleggere il candidato dovea consultare la Dieta generale o quella della provincia.
A. D. 1250
Morto Federico II parea l'Alemagna un mostro di cento teste. Una moltitudine di principi e di prelati si contendeano i frantumi dell'Impero: innumerabili castella aveano padroni più inclinati ad imitare i lor superiori che ad obbedirli, e, secondo la misura delle forze di ciascheduno, alle continue loro ostilità si dava il nome di conquisto o di ladroneccio. Cotale anarchia era conseguenza inevitabile delle leggi e de' costumi europei, e lo stesso turbine aveva messo in brani i regni della Francia e dell'Italia; ma le città italiche e i vassalli francesi, discordi fra loro, si lasciarono distruggere, mentre l'unione degli Alemanni ha prodotto sotto nome d'Impero un gran sistema di confederazione. Le Diete, da prima frequenti e poi perpetue, hanno serbato vivo lo spirito nazionale, e la legislazione generale dello Stato è rimasa nei tre rami, o Collegi, degli Elettori, de' principi e delle città libere ed imperiali. I. A sette dei più potenti feudatarii fu permesso d'esercitare con un nome e un grado speciale il privilegio esclusivo di eleggere un Imperatore romano, e questi elettori furono il re di Boemia, il duca di Sassonia, il margravio di Brandeburgo, il conte palatino del Reno e i tre arcivescovi di Magonza, di Treveri e di Colonia. II. Il Collegio dei principi e de' prelati si liberò da una moltitudine accozzata confusamente; ridussero a quattro voti rappresentativi la lunga lista dei Nobili independenti, ed esclusero i Nobili, o membri dell'ordine equestre, che nel campo dell'elezione, del pari che in Polonia, s'erano veduti in numero di sessantamila a cavallo. III. Non ostante l'orgoglio della nascita o del potere, non ostante quello che inspirano la spada o la mitra, si ebbe la prudenza di porre nei Comuni il terzo ramo del poter legislativo, e i progressi della civiltà, quasi nell'istess'epoca, fecero altrettanto nelle assemblee nazionali della Francia, d'Inghilterra e dell'Alemagna. La lega anseatica padroneggiava il commercio e la navigazione del Settentrione; i confederati del Reno manteneano la pace e la comunicazione interna nell'Alemagna: le città han conservato una certa influenza proporzionata alle ricchezze e alla politica loro, e la lor negativa annulla ancora le risoluzioni dei due Collegi superiori, cioè di quello degli Elettori e dell'altro dei principi[360].
A. D. 1347-1378
Nel quattordicesimo secolo precipuamente fa stupore la contraddizione che si trova fra il nome e lo Stato dell'Impero romano di Alemagna, il quale, eccetto sulle rive del Reno e del Danubio, non possedeva una sola provincia di quelle di Traiano e di Costantino. Questi principi aveano per indegni successori[361] i conti d'Absburgo, di Nassau, di Lussemburgo e di Schwartzenburgo: l'Imperator Enrico VII ottenne pel figlio la corona di Boemia, e suo nipote, Carlo IV, ebbe la culla presso un popolo che gli stessi Alemanni trattavano da forestiero, da Barbaro[362]. Dopo avere scomunicato Luigi di Baviera, i Papi che, quantunque esuli o prigionieri nella contea di Avignone, affettavano di disporre dei reami della Terra, gli diedero o gli promisero l'Impero allora vacante. La morte dei competitori gli procurò i voti del Collegio elettorale, e fu dagli unanimi suffragi riconosciuto Re de' romani e futuro Imperatore, titolo che veniva prostituito ai Cesari della Germania e a quei della Grecia. Altro non era l'Imperator d'Alemagna che il magistrato elettivo, e senza autorità, d'un'aristocrazia di principi che non gli aveano lasciato un solo villaggio di cui potesse dirsi padrone. La sua più bella prerogativa era il diritto di presedere il senato della nazione, convocato per le sue lettere, e di proporvi le cose su cui deliberare; e il suo regno di Boemia, meno opulento della città di Norimberga posta in quel dintorno, era il fondamento più saldo del suo potere e la fonte più ricca delle sue rendite. Non più di trecento guerrieri componeano l'esercito con cui varcò le Alpi. Fu coronato nella cattedrale di S. Ambrogio colla corona di ferro attribuita dalla tradizione alla monarchia Lombarda; ma non se gli permise che un picciol seguito; gli furon chiuse alle spalle le porte della città, e le armi de' Visconti tennero prigioniero il re d'Italia, che fu obbligato di confermarli nel possesso di Milano. Una seconda volta, fu coronato nel Vaticano colla corona d'oro dell'Impero; ma per adattarsi ad un articolo d'un trattato segreto, l'Imperatore romano si ritirò senza passare neppure una notte nel ricinto di Roma. L'eloquente Petrarca[363], il quale trasportato dalla sua immaginazione vedea di già risorgere la gloria del Campidoglio, deplora ed accusa la fuga ignominiosa del principe Boemo; e gli autori contemporanei osservano, che la vendita lucrosa de' privilegi e de' titoli fu il solo atto d'autorità che esercitò l'Imperatore nel suo passaggio. L'oro dell'Italia assicurò l'elezion di suo figlio; ma tanta era la vergognosa povertà di questo Imperator romano, che fu fermato sulla strada di Worms da un beccaio, e ritenuto in un'osteria per cauzione, o per ostaggio delle spese che avea fatto.
A. D. 1356
Da questo spettacolo d'avvilimento volgiamo lo sguardo all'apparente maestà che Carlo IV portò nelle Diete dell'Impero. La Bolla d'oro che fissò la costituzione germanica è scritta in tuono di sovrano e di legislatore. Cento principi s'incurvavano ai piedi del suo soglio, e sublimavano la propria dignità cogli omaggi volontarii, che concedeano al lor Capo o al lor ministro. I sette Elettori suoi grandi officiali ereditari, che per grado e per titoli pareggiavano i re, servivano alla tavola imperiale. Gli Arcivescovi di Magonza, di Treveri e di Colonia, arcicancellieri perpetui dell'Alemagna, dell'Italia e della provincia di Arles portavano in gran pompa i suggelli del triplice reame. Il gran Maresciallo, montato sur un palafreno, per segno di sue incombenze, tenea in mano un moggio d'argento pieno d'avena, ch'egli spandea per terra, indi scendea da cavallo per regolare l'ordinanza de' convitati. Il gran Siniscalco, il conte palatino del Reno, recava i piatti in tavola. Dopo il banchetto il margravio di Brandeburgo, gran Ciamberlano, si presentava colla brocca e il bacino d'oro, e gli dava da lavar le mani; il re di Boemia era raffigurato, come gran Coppiere dal fratello dell'Imperatore duca di Lussemburgo e del Brabante; e la cerimonia era terminata dai grandi officiali della caccia, i quali con un frastuono di corni e di cani introduceano un cervo ed un cignale[364]. Nè alla sola Alemagna era ristretta la supremazia dell'Imperatore; i monarchi ereditari dell'altre contrade dell'Europa confessavano la preeminenza sua di grado e di dignità: era egli il primo dei principi cristiani, e il Capo temporale della gran repubblica d'Occidente[365]: già da gran tempo assumeva il titolo di maestà, e contrastava al Papa l'eminente diritto di creare i re, e di convocare i Concilii. L'oracolo delle leggi civili, il dotto Bartolo, riceveva una pensione da Carlo IV, e la sua scuola risonava di questa sentenza, che il romano Imperatore era il sovrano legittimo della Terra, cominciando dai luoghi ove si leva il Sole sino a quelli dove tramonta. La contraria opinione fu condannata non come un errore, ma come eresia, in vigor di quelle parole dell'Evangelo: «E un decreto di Cesare Augusto dichiarò che tutto il Mondo dovesse pagare l'imposizione»[366].
Se attraverso lo spazio dei tempi o de' luoghi, noi raffrontiamo Augusto con Carlo, i due Cesari ci presenteranno un contrapposto ben forte. Carlo nascondea la sua debolezza sotto la maschera dell'ostentazione, e il primo velava la sua forza coi colori della modestia. Augusto, capitanando le sue vittoriose legioni, dando leggi alla terra e al mare, dal Nilo e dall'Eufrate sino all'Oceano Atlantico, si dicea servitor dello Stato e l'uguale a' suoi concittadini. Il trionfator di Roma e delle province si sottomettea alle formalità volute dagli offici legali e popolari di censore, di console e di tribuno. La sua volontà era la legge del Mondo; ma per pubblicar questa legge prendeva in prestito la voce del senato e del popolo; da essi il padrone riceveva le nomine rinnovate delle cariche temporanee già conferitegli per amministrar la repubblica. Negli abiti, nell'interno della casa[367], nei titoli, in tutte le azioni della vita sociale serbò Augusto le maniere d'un semplice privato, e da' suoi scaltri adulatori fu rispettato il segreto della sua assoluta e perpetua monarchia.
FINE DEL VOLUME NONO.
INDICE
DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL NONO VOLUME
CAPITOLO XLVII. Storia Teologica della dottrina dell'Incarnazione. Natura umana e divina di Gesù Cristo. Inimicizia dei Patriarchi d'Alessandria e di Costantinopoli, S. Cirillo e Nestorio. Terzo Concilio generale tenuto in Efeso. Eresia d'Eutiche. Quarto Concilio generale tenuto in Calcedonia. Discordia civile ed ecclesiastica. Intolleranza di Giustiniano. I tre Capitoli. Controversia dei Monoteliti. Sette dell'Oriente: prima i Nestoriani, seconda i Giacobiti, terza i Maroniti, quarta gli Arminiani, quinta i Cofti e gli Abissinii.
A. D.
Incarnazione di G. C. pag. 5
Gesù Cristo nato solamente uomo secondo gli Ebioniti 8
Sua nascita e suoi effetti 11
Gesù Cristo un Dio in tutta la sua purità secondo i Doceti 15
Il suo corpo incorruttibile 17
La doppia Natura di Cerinto 20
La divina Incarnazione d'Apollinare 22
Assenso degli ortodossi al decreto della Chiesa cattolica, e disputa sulle parole con cui si esprimerebbe questo domma 26
412-444 San Cirillo, Patriarca d'Alessandria 28
413-415 Suo dispotismo tirannico 30
428 Nestorio, Patriarca di Costantinopoli 35
429-431 Sua eresia 37
431 Primo Concilio d'Efeso 43
Condanna di Nestorio 46
Opposizione dei Vescovi d'Oriente 47
431-435 Vittoria di San Cirillo 49
435 Esilio di Nestorio 53
448 Eresia d'Eutiche 56
449 Secondo Concilio d'Efeso 57
451 Concilio di Calcedonia 60
Decreti del Concilio di Calcedonia 64
451-482 Discordia dell'Oriente 67
482 L'Ennotico di Zenone 69
508-518 Il Trisagion, e la guerra di religione fino alla morte d'Anastasio 73
514 Prima guerra religiosa 77
519-565 Carattere teologico di Giustiniano: particolarità sulla sua amministrazione nelle materie della Chiesa 77
Sue persecuzioni 79
Contro gli Eretici 80
I Pagani 81
Gli Ebrei 82
Sua ortodossia 84
532-698 I tre Capitoli 85
553 Quinto Concilio generale 87
564 Eresia di Giustiniano 88
629 La controversia monotelita 90
639 L'Ectesi d'Eraclio 91
648 Il Tipo di Costanzo 91
680-681 Sesto Concilio generale, il secondo di Costantinopoli 93
Unione delle Chiese greca e latina 97
Separazione perpetua delle Sette dell'Oriente 99
I Nestoriani 101
500, ec. Soli padroni della Persia 104
500-1200 Loro missioni in Tartaria, nell'India e nella China 106
883 I Cristiani di S. Tommaso nell'India 110
518 I Giacobiti 114
I Maroniti 119
Gli Armeni 122
I Cofti o gli Egiziani 125
537-568 Il Patriarca Teodosio 126
538 Paolo 126
Separazione e decadenza degli Egiziani 129
625-661 Beniamino, Patriarca giacobita 131
Gli Abissinii e i Nubii 132
530 ec. Chiesa d'Abissinia 134
1525-1550 I Portoghesi in Abissinia 135
1557 Missione dei Gesuiti 137
1626 Conversione dell'Imperatore 138
1632 Espulsione finale de' Gesuiti 140
CAPITOLO XLVIII. Disegno del rimanente dell'Opera. Successione e carattere degl'Imperatori greci di Costantinopoli dal tempo d'Eraclio a quello della conquista dei Latini.
Difetti della Storia bizantina 141
Sua unione colle rivoluzioni del Mondo politico 143
Disegno del rimanente dell'Opera 144
638-641 Secondo matrimonio e morte d'Eraclio 148
641 Costantino III 150
641 Eracleone 150
641 Punizione di Martina e d'Eracleone 152
641 Costanzo II 152
668 Costanzo IV, soprannominato Pogonate 154
685 Giustiniano II 156
695-705 Suo esilio 158
705-711 Suo ritorno al trono e sua morte 159
711 Filippico 162
713 Anastasio II 163
716 Teodosio III 163
718 Leone III, l'Isaurico 164
741 Costantino V, Copronimo 165
775 Leone IV 168
780 Costantino VI ed Irene 170
792 Irene 172
802 Niceforo I 174
811 Stauracio 174
811 Michele II, Rangabo 174
813 Leone V, l'Armeno 176
820 Michele II, soprannominato il Balbo 178
829 Teofilo 180
842 Michele III 183
867 Basilio I, o il Macedone 186
886 Leone VI, il Filosofo 193
911 Alessandro, Costantino VII, Porfirogenito 195
919 Romano I, Lecapeno 196
Cristoforo, Stefano, Costantino VIII 196
945 Costantino VII 197
959 Romano VI, il Giovane 199
963 Niceforo II, Foca 200
Giovanni Zimiscé, Basilio II e Costantino IX 202
976 Basilio II e Costantino IX 204
1025 Costantino IX 206
1028 Romano III, Argiro 207
1034 Michele IV, il Paflagonio 208
1041 Michele V, o Calafate 209
1042 Zoe e Teodora 209
1042 Costantino X, o Monomaco 210
1054 Teodora 210
1056 Michele VI, o Stratiotico 211
1057 Isacco I, Comneno 211
1059 Costantino XI, Ducas 214
1067 Eudossia 214
1067 Romano III, Diogene 215
1071 Michele VII, Parapinace, Andronico I, Costantino XII 216
1078 Niceforo III, Botoniate 218
1081 Alessio I, Comneno 220
1118 Giovanni, o Calo Giovanni 223
1143 Manuele 225
1180 Alessio II 230
Carattere, e prime avventure d'Andronico 230
1183 Andronico I, Comneno II 241
1185 Isacco II, soprannominato l'Angelo 245
CAPITOLO XLIX. Introduzione, culto e persecuzione delle Immagini. Ribellione dell'Italia e di Roma. Patrimonio temporale dei Papi. Conquisto dell'Italia fatto dai Francesi. Istituzione delle Immagini. Carattere e incoronazione di Carlomagno. Ristabilimento e decadenza dell'Impero romano in Occidente. Independenza dell'Italia. Costituzione del Corpo germanico.
Introduzione delle Immagini nella Chiesa cristiana 253
Loro Culto 256
L'Immagine d'Edessa 258
Copie dell'Immagine d'Edessa 262
Opposizione al culto delle Immagini 264
726-840 Leone l'Iconoclasta e suoi successori 266
754 Il Concilio di Costantinopoli 268
Loro professione di Fede 270
726-775 Persecuzione delle Immagini e dei monaci 271
Stato dell'Italia 275
727 Epistole di Gregorio II all'Imperatore 279
728, ec. Rivoluzione dell'Italia 283
Repubblica di Roma 288
730-752 Roma assalita dai Lombardi 291
754 Sua liberazione per opera di Pipino 294
774 Conquisto della Lombardia fatto da Carlomagno 297
751-768 Pipino e Carlomagno re di Francia 297
Patrizi di Roma 300
Donazioni di Pipino e di Carlomagno ai Papi 303
Donazione di Costantino inventata 307
780 ec. Immagini in Oriente rimesse in onore dall'Imperatrice Irene 312
787 Settimo Concilio generale o sia secondo Niceno 314
841 Definitivo stabilimento delle Immagini sotto l'Imperatrice Teodora 316
794 Ripugnanza de' Franchi e di Carlomagno 318
774-800 I Papi si separano dall'Impero d'Oriente 320
800 Incoronazione di Carlomagno come Imperatore di Roma e dell'Occidente 323
768-814 Regno e carattere di Carlomagno 326
Ampiezza del suo Impero in Francia 332
Spagna 334
Italia 334
Alemagna 335
Ungheria 336
Suoi vicini e suoi nemici 338
Suoi successori 340
814-840 Luigi il Pio 341
840-856 Lotario I 341
888 Divisione dell'Impero 342
962 Ottone Re di Germania rinnova e s'appropria l'Impero d'Occidente 342
Transazione dell'Impero d'Oriente e di quello d'Occidente 344
800-1060 Autorità degl'Imperatori nell'elezione dei Papi 347
Disordini 350
1073 ec. Riforma e pretensioni della Chiesa 353
Autorità che godeano gl'Imperatori in Roma 354
992 Ribellione d'Alberico 355
967 Del Papa Giovanni XII 356
998 Del console Crescenzio 357
774-1250 Il regno d'Italia 359
1152-1190 Federico I 361
1198-1250 Federico II 362
814-1250 Independenza dei principi d'Alemagna 363
1250 Costituzione germanica 366
1347-1378 Debolezza e povertà dell'Imperator Carlo IV 367
1356 Sua pompa 370
Potere e modestia d'Augusto in contrapposto a lui 372
FINE DELL'INDICE.
NOTE:
1. S'introdusse fra seguaci di Cristo la discordia perchè molti fra loro, cioè i primi eretici, s'allontanarono dalla retta credenza, contenuta nel Nuovo Testamento, onde vennero appunto le denominazioni, Ortodossi ed Eterodossi, Cattolici ed Eretici. Le decisioni de' Concilii generali determinanti l'Ortodossia, vale a dire il sistema dei retti giudizii, intorno la divinità di Gesù Cristo, non discordarono fra loro, e spiegando rettamente e di pien diritto l'Evangelo fissarono le cose dogmatiche, che il popolo doveva credere al sorgere che facevano le torte opinioni particolari, vale a dire, le eresie di alcuni Vescovi, e preti, adunati anche in Concilii detti Conciliaboli per distinguerli dai Concilii legittimi ed Ortodossi. (Nota di N. N.)
2. Era naturale, che i seguaci d'una religione, fondata da Gesù Cristo, dal Verbo incarnato, vale a dire dalla divina Intelligenza fatta Uomo, facessero intorno la natura del loro Fondatore ricerche, e ragionamenti, dei quali l'autorità de' Concilii generali, definitivamente decise. Ma se i Cristiani occupavansi da una parte de' dogmi (greco vocabolo che sebbene significhi opinationes, placita, i teologi prendono quali cose rivelate, e dai Concilii definite) fondamentali della religione, non trasandavano mai le leggi, ed i precetti del Fondatore intorno la morale, poichè sappiamo dalla storia che lo stesso Imperatore Giuliano, il quale circa la metà del quarto secolo nel brevissimo suo regno si studiò molto di abbattere il Cristianesimo, cui era avverso, siccome ad una innovazione religiosa, proponeva tuttavia i Vescovi siccome modelli di buona morale a' Sacerdoti del Politeismo. (Nota di N. N.)
3. D'onde comincierò io per dimostrare la giustezza e l'esattezza di queste ricerche preliminari che mi sono ingegnato di circoscrivere ed abbreviare per quanto si potea? Se proseguo a citare dopo ciascun fatto, e dopo ogni riflessione, quel documento che me ne attesta la verità, sarà d'uopo che ad ogni linea io riporti una lista di testimonianze, ed ogni nota diventerà una dissertazione; ma Petavio, Le Clerc, Beausobre e Mosemio compilarono, esposero, schiarirono quei passi innumerabili degli antichi autori, che io pure ho letto in originale. Mi contenterò a fortificare la mia narrazione col nome e col credito di scorte sì rispettabili, e qualora si tratterà di cosa che difficilmente si possa diciferare, o che sia troppo rimota da noi, non avrò rossore di chiamare in aiuto altri occhi più penetranti de' miei: 1. i Dogmata Theologica di Petavio stordiscono la mente nostra per l'immensità del disegno dell'opera non che della fatica che gli costò. Solamente i volumi che trattano dell'Incarnazione (due in foglio, il quinto ed il sesto, di 837 pagine) son divisi in sedici libri; il primo è storico, gli altri espongono la controversia e la dottrina. Vastissima e sicura è l'erudizione, pura la latinità, chiaro il metodo, gli argomenti trattati con profondità e connessione di ragionamento; ma l'autore è ligio ai Padri della Chiesa, è il persecutore degli Eretici, il nimico della verità e del candore ogni qual volta queste qualità nuocono agli interessi della parte cattolica. 2. L'Arminiano Le Clerc, che ha pubblicato un volume in quarto ( Amsterdam 1716) sull'istoria ecclesiastica dei due primi secoli, pel suo carattere e per la condizione è scevero d'ogni servitù; il suo ingegno è limpido, ma poco estese ne sono le forze; egli riduce la ragione, o la stoltezza dei secoli ai confini del proprio giudizio; qualche volta ha potuto la sua opposizione ai sentimenti dei Padri sostenere, ma spesso ancora traviare la sua imparzialità. Veggasi quello che dice dei Cerintii (LXXX), degli Ebioniti (CIII), dei Basilidiani (CXXIII), dei Marcioniti (CXLI), etc. L'Istoria critica del Manicheismo ( Amsterdam, 1734-1739, in due volumi in quarto con una dissertazione postuma sopra i Nazarei; Losanna 1745) contiene cose preziosissime intorno alla filosofia e alla teologia degli antichi. Con un'arte mirabile viene svolgendo quel dotto Storico il filo sistematico della opinione, e veste a quando a quando le sembianze d'un Santo, d'un saggio o d'un eretico, ma sovente eccessive ne sono le acutezze, e pare trascinato da un sentimento di generosità a favorire la parte più debole: mentre si premunisce con tanta cura contro la calunnia, non valuta abbastanza gli effetti della superstizione e del fanatismo. Coll'indice curiosissimo di quel libro potranno i lettori investigare quegli articoli che loro piaccia d'esaminare. 4. Lo storico Mosemio, meno profondo di Petavio, meno independente di Le Clerc, meno ingegnoso di Beausobre, non manca di nulla, è ragionevole, preciso e moderato. Veggasi nella sua dotta opera ( De rebus Christianis ante Constantinum; Helmstadt, 1753, in quarto) come parli dei Nazarei, e degli Ebioniti (p. 172-179, 328-332), dei Gnostici in generale (p. 179, etc.), di Cirinto (p. 196-202), di Basilide (p. 552-361), di Carpocrate (p. 363-367), di Valentino (p. 371-389), di Marcione (p. 404-410), de' Manichei (pag. 829-837, etc.).
4. Il nome Nazareni fu dato sulle prime a' seguaci di Cristo, e divenne poco dopo quello di una Setta particolare di Ebrei, la quale voleva, che si osservasse la legge di Mosè, e nello stesso tempo si onorasse Gesù Cristo come Uomo giusto, e come il maggiore di tutti i Profeti, nato secondo alcuni di loro da una Vergine, e secondo altri da Giuseppe nello stesso modo onde nascono gli altri uomini; erano seguaci di Cristo in un modo ereticale, e questi conciliatori furono condannati dai veri credenti cristiani per la loro falsa opinione, e poi anche dagli Ebrei perchè muovevano dubbii sulla autenticità dei libri di Mosè, di cui per altro riconoscevano la divina missione. Il nome Ebioniti in ebraico significa poveri, e fu dato ad una specie di primitivi cristiani eretici, che adottavano i sentimenti de' Nazareni aggiungendo alcuni errori, ed alcune pratiche. Origene, scrittore antico ecclesiastico, distinse due specie di Ebioniti. La pura, e vera divinità di Gesù Cristo era stata riconosciuta da S. Pietro alla presenza dei discepoli. Gesù Cristo li interrogò per sapere che dicessero gli uomini di lui; ed i discepoli gli risposero, che alcuni lo stimavano Giovanni Battista, alcuni Elia, altri Geremia, o alcun altro de' Profeti: al che soggiunse Gesù Cristo: chi poi mi credete voi? Allora Simon Pietro rispose: tu sei Cristo figlio di Dio vivo: e allora Cristo gli disse: sei fortunato assai, o Simone, poichè il sangue e la carne non ti rivelarono ciò, ma mio Padre ch'è ne' Cieli (S. Matteo c. 16). Questa credenza espressa da S. Pietro, e confermata dalla sanzione dell'Uomo-Dio, rimase, e si conservò sempre nei discepoli, che ne vedevano nuove prove ne' miracoli: essi la sparsero, e ne venne il dogma principale de' veri credenti; quindi tanto i Nazareni che gli Ebioniti furono condannati; ciò forma una prova, che anche in quel tempo primitivo la vera società cristiana credeva la Divinità del suo Fondatore, e riguardava questo dogma come un articolo fondamentale della sua religione. (Nota di N. N.)
5. Και γαρ παντες ημεις τον χριστον ανθρωπον εξ ανθρωπων προσδοκωμεν γενησεσθαι, imperocchè tutti noi speriamo che il Cristo nascerà mortale da mortali, dice Trifone Ebreo (Giustino, Dialog., p. 207) in nome de' suoi concittadini; e quegli Ebrei moderni, che rinunciano ai pensieri di ricchezza per attendere alle cose della religione, serban tuttavia lo stesso linguaggio, e allegano il senso letterale dei Profeti.
6. S. Grisostomo (Basnagio, Hist. des Juifs t. V, c. 9, p. 183) e S. Atanasio (Petavio, Dogm. Teolog. t. V, l. I, c. 2, p. 3) son ridotti a confessare che Cristo esso stesso o i suoi Apostoli rare volte parlano della sua Divinità.
7. La divina natura di Gesù Cristo era appunto nella persona di un Uomo, che perciò era un Uomo-Dio: tale è il modo ammirabile che forma un mistero venerando, onde Dio volle operare la redenzione de' credenti: ma d'altra parte Gesù Cristo co' miracoli mostrava, lui esser Dio, e gli Ebrei dovevano convincersene. (Nota di N. N.)
8. In Socrate si vede un grande Filosofo, che, quasi quattro secoli prima di Gesù Cristo, conosceva e mostrava alla greca gioventù gli errori della religione del suo tempo, e del suo Paese, e ad un'ora l'esistenza di un solo Essere Supremo colla sola ragione, senza rivelazione, onde fu da sacerdoti politeisti accusato, e messo a morte, malgrado la buona morale che insegnava: ma in Gesù Cristo forz'è riconoscere a chiari caratteri un Uomo-Dio. (Nota di N. N.)
9. Non esistevano negli esemplari degli Ebioniti i due primi capitoli di S. Matteo (Sant'Epifanio, Haeres., XXX, 13); e la concezion miracolosa è uno degli ultimi articoli che il Dottor Priestley ha esclusi dalla sua profession di fede già senz'altro assai breve.
10. È molto verosimile, che fosse in ebraico e in siriaco il primo degli Evangeli fatto per gli Ebrei che abbracciavano il cristianesimo. Papia, Ireneo, Origene, S. Girolamo e altri Padri attestano questa cosa. I Cattolici non osano dubitarne, e fra i Protestanti Casaubono, Grozio, ed Isacco Vossio opinano così. Ma è certo altrettanto che questo Evangelo ebraico di S. Matteo non sussiste più,[*] e si può darne colpa allo zelo e alla fedeltà delle primitive Chiese, che preferirono la versione, quantunque non autorevolmente approvata, d'un greco anonimo. Erasmo e i suoi discepoli, che s'attengono al testo greco che ne rimane, come ad Evangelo originale, si privano da se stessi della testimonianza che lo dichiara opera d'un Apostolo. Vedasi Simon ( Hist. critique, t. III, c. 5-9, p. 47-101) e i Prolegomeni di Mill e di Werstein sul Nuovo Testamento.
* L'autenticità dei libri che abbiamo del Nuovo Testamento, riconosciuta dalla Chiesa, che li distinse dagli apocrifi, è sostenuta, contro le infondate, e vane critiche degli Increduli, dei Deisti e dei Scettici, dagli Apologisti della religione, e rimandiamo ad essi il lettore che volesse conoscere questa materia. I Nazareni avevano il loro Evangelo scritto in ebraico volgare, denominato ora l'Evangelo de' dodici Apostoli, ora degli Ebrei, ed ora di S. Matteo; ciò è notissimo; e S. Girolamo dice (catalogus script. eccl. c. 2) d'aver tradotto quest'Evangelo in lingua greca ed in lingua latina; non è dunque anonimo il traduttore. (Nota di N. N.)
11. Certamente l'Uomo-Dio, Gesù Cristo, venuto al mondo per salvar gli uomini, era un Essere da non potersi paragonare con nessun altro, e dava un'idea sublime. Gli Ebrei ed i loro dottori leggevano, ed intendevano materialmente l'Antico Testamento, stavano attaccati al senso letterale, non si elevavano al senso figurato; ecco il loro errore, per cui non potevano riconoscere, nelle divine antiche scritture, le predizioni intorno il futuro divin Redentore, ed i misteri dell'Incarnazione, e dalla Redenzione. Questa ostinazione loro impedì di ravvisare a chiari caratteri il divin Salvatore già predetto da quei libri dei quali erano i depositari, e da quei stessi Profeti ch'essi veneravano; non vollero ciecamente intendere ciò che disse S. Agostino, e dichiararono i Concilii, ed i Teologi, che Novum Testamentum in vetere est figuratum; massima ch'è il fondamento del Cristianesimo. (Nota di N. N.)
12. Cicerone ( Tuscul., l. 1) e Massimo Tirio ( Dissert. 16) hanno distrigata la metafisica dell'anima dal guazzabuglio del dialogo talvolta dilettevole, ma spesso imbrogliato, del Fedro del Fedone, e delle leggi di Platone.
13. I discepoli di Gesù credevano che un uomo avesse peccato prima che venisse al Mondo (San Giovanni, IX, 2). Dagli Ebrei si ammetteva la trasmigrazion dell'anime virtuose (Gioseffo De bell. judaic. l. II, c. 7 ): e da un Rabbino moderno si asserisce modestamente, aver Ermete, Pitagora, Platone, ecc. ricavata la lor metafisica dagli scritti, o da' sistemi de' suoi illustri concittadini.
14. Si sostennero quattro diverse opinioni sull'origine delle anime; 1. furono considerate come eterne e divine; 2. come create separatamente prima della loro unione col corpo; 3. si pensò che traessero origine dallo stipite primitivo d'Adamo, ove stava racchiuso il germe spirituale e corporale della sua posterità; 4. che nel punto del concepimento Iddio creasse l'anima d'ogn'individuo, e la destinasse al corpo di cui si era formato l'embrione. Pare che sia prevalsa l'ultima sentenza presso i moderni, e n'è divenuta meno sublime, ma non per questo più intelligibile, la nostra storia spirituale.
15. Οτι η του Σωτηροε ψυχη η του Αδαμ ην, poichè l'anima del Salvatore era quella d'Adamo, è una delle quindici eresie imputate ad Origene, e contestate dal suo Apologista (Photius, Biblioth. Cod. 117, p. 296). Alcuni Rabbini assegnano la stessa anima ad Adamo, a David, e al Messia.
16. Apostolis adhuc in seculo superstitibus, apud Judaeam Christi sanguina recente, phantasma Domini, corpus asserebatur, etc. (S. Girolamo Advers. Lucifer., c. 8). L'epistola di S. Ignazio agli abitanti di Smirne ed anche l'Evangelo secondo S. Giovanni ebbero la mira di distruggere l'errore dei Doceti, che s'andava propagando, e s'era già troppo accreditato nel Mondo (1. Giovanni, IV, 1, 5).
17. Verso l'anno dugento dell'Era cristiana S. Ireneo ed Ippolito confutarono le trentadue Sette της ψενδωνομου γνοσεως della falsa dottrina, già moltiplicatesi nel tempo di S. Epifanio sino al numero di ottanta (Phot. Bibl. Cod. 120, 121, 122). I cinque libri d'Ireneo non sussiston più che in latino barbaro, ma forse si troverebbe l'originale in qualche monastero della Grecia.
18. Il pellegrino Cassiano che girò l'Egitto al principio del quinto secolo osserva e deplora il regno dell'antropomorfismo tra i Monaci che non sapevano di seguire il sistema d'Epicuro (Cicerone De nat. deorum, l. I, c. 18-34). Ab universo prope modum genere monachorum, qui per totam provinciam Aegyptum morabantur per simplicitatis errorem susceptum est, ut a contrario memoratum pontificem ( Theophilum ) velut haeresi gravissima depravatum, pars maxima seniorum ab universo fraternitatis corpore deceraeret detestandum. (Cassiano, Collation., X, 2). Finchè S. Agostino aderì al Manicheismo manifestò lo scandalo che gli dava l'antropomorfismo dei Cattolici vulgari.
19. Ita est in oratione senex mente confusus eo quod illam ανθρωπομορφον imaginem deitatis, quam proponere sibi in oratione consuerat aboleri, de suo corde sentiret, ut in amarissimos fletus, crebrosque singultus repente prorumpens, in terram prostratus cum ejulatu validissimo proclamaret «heu me miserum! tulerunt a me Deum meum, et quem nunc teneam non habeo, vel quem adorem, aut interpellem jam nescio ». (Cassiano, Collation. X, 2).
20. S. Giovanni e Cerinto (A. D. 80, Le Clerc, Hist. eccl. p. 493) s'incontrarono a caso nei bagni pubblici d'Efeso; ma l'Apostolo si scostò dall'eretico per tema che gli cadesse in capo l'edificio. Questa goffa storiella, rigettata dal dottor Middleton ( Miscellaneous Works, vol. 2), è narrata per altro da S. Ireneo (III, 3) sulla testimonianza di Policarpo, e probabilmente s'accordava colla notizia che avevasi dell'epoca in che visse Cerinto, e del luogo da lui abitato. La versione di S. Giovanni (IV, 3) ο λυει τον Іησουν, caduta in disuso, benchè sembri la vera, allude alla doppia Natura insegnata dall'eretico Cerinto.
21. Il sistema dei Valentiniani era assai complicato e quasi incoerente, 1. Il Cristo e Gesù erano Eoni, ma la virtù non era in essi allo stesso grado; uno agiva come l'anima ragionevole, e l'altro come lo spirito divino del Salvatore. 2. Nel momento della passione si ritirarono amendue, e non lasciarono che un'anima sensitiva e un corpo umano. 3. Questo corpo medesimo era etereo, e forse soltanto apparente. Queste sono le conseguenze che deduce Mosemio dopo molto studio; ma dubito assai, che il traduttore latino non abbia inteso S. Ireneo, o che S. Ireneo e i Valentiniani non si capissero bene fra loro.
22. Gli eretici abusarono di quella esclamazione dolorosa di Gesù Cristo «Dio mio! Dio mio! perchè m'hai tu abbandonato?» Rousseau che ha fatto un paragone eloquente, ma sconvenevole, tra Gesù Cristo e Socrate, si dimentica, che il filosofo moribondo non si lascia fuggir di bocca parola d'impazienza, e di disperazione. Questo sentimento può non essere apparente che nel Messia; e si è detto a ragione, che queste parole mal sonanti altro non erano che l'applicazione d'un salmo o d'una profezia.
23. L'Autore doveva ommettere il termine improprio inconvenienti, e porne un altro che esprimesse la fiacchezza della mente umana, che non può giungere a comprendere il Mistero, che ha tutti i motivi di credibilità, presentatici dalla teologia, per essere creduto.
L'incomprensibile Mistero dell'Incarnazione copre d'un velo i così detti inconvenienti dell'Autore, e non presenta al vero credente che l'opera dell'amore misericordioso di Dio per salvare gli Uomini, la quale è sì grande, e sì maravigliosa da essere da teologi considerata maggiore di quella della stessa Creazione. Ciò che dopo dice il dotto Autore non è che l'esposizione esatta, e ragionata delle eresie, ossia opinioni condannate successivamente dai quattro primi Concilii generali di Nicea, di Costantinopoli, d'Efeso, e di Calcedonia, nel quarto e quinto secolo, i quali interpretando rettamente le espressioni degli Evangelici, e combinandole, (Vedi Acta Conc. Nic. I, Conc. Constan. I, Ephes. et Chalc., I in Labbè Collectio Magna, et amplissima Conciliorum etc.) determinarono, distendendo il Credo, o condannando le eresie, quella credenza, che dovevasi avere contro le torte opinioni, e partiti furiosi, che scompigliarono, e continuarono lungo tempo a trambustare, anche dopo le decisioni, la Chiesa, e lo Stato perfino con grandi massacri: il tempo la cui azione non cessa, mai, i decreti, e la forza degli Imperatori cattolici vennero in soccorso della pronunciata ortodossia, e posero fine a' mali delle controversie teologiche, che laceravano le province del romano Impero. (Nota di N.N.)
24. Questa frase energica può giustificarsi con un passo di S, Paolo (I Tim. III, 16); ma le Bibbie moderne c'ingannano[*]. La parola ὄ (il quale) fu cangiata in Costantinopoli, sul cominciar del secolo decimosesto, in θεος (Dio). La verace ed evidente versione secondo i testi latino e siriaco sussiste tuttavia nei raziocini dei Padri greci e de' Padri latini; ed Isacco Newton ha benissimo scoperto questa frode non che quella dei tre testimoni di S. Giovanni (Vedi le sue due lettere, tradotte dal Signor di Missy, nel Giornale Britannico tom. XV, p. 148-190; 35-390). Esaminai le ragioni allegate dall'una parte e dall'altra, e mi sono sottoscritto all'autorità del primo tra i filosofi, versatissimo nelle discussioni teologiche e critiche.
* Se l'Autore dice d'essere persuaso di ciò che scrisse il Newton, che non ha nelle materie ecclesiastiche autorità, ciò non prova che la frode sia vera: è vero che non sarebbe facile il provare non esservi mai state le così dette pie frodi in cose per altro di non grande momento, e non intrinseche alla religione; ma bisognava in particolare provare questa. (Nota di N. N.)
25. Vedi intorno Apolinare e la sua Setta, Socrate (l. II, c. 46: l. III, c. 16), Sozomeno (l. V, c. 18; l. VI, c. 25-27), Teodoreto (l. V, 3, 10, 11 ), Tillemont ( Mém. eccl. tom. VII, p. 602-638, not. p. 789-794, in 4. Venise 1732). I Santi che vissero ai suoi giorni parlavano sempre del vescovo di Laodicea come di un amico e d'un fratello; lo stile degli storici più recenti ha l'impronta dell'acrimonia e dell'inimicizia. Filostorgio lo paragona (l. VIII, c. 11-15) a S. Basilio e a S. Gregorio.
26. Due prelati dell'Oriente, Gregorio Abulfaragio, primo Giacobita di quella parte del Mondo, ed Elia, metropolitano di Damasco, addetto alla Setta di Nestorio (Vedi Asseman, Bibl. orient., t. II, p. 291; t. III, p. 514, ec.) confessano, che i Melchiti, i Giacobiti, i Nestoriani ec. andavan d'accordo sulla dottrina, e non differivan che sull' espressione. Basnagio, Le Clerc, Beausobre, La Croze, Mosemio e Jablonski sono inclinati a questa caritatevole opinione, ma lo zelo di Petavio è veemente ed adiroso, e appena Dupin lascia traspirare la sua moderazione.
27. La Croze ( Hist. du Christianisme des Indes, t. I. p. 24) confessa la poca stima che fa dell'ingegno e degli scritti di S. Cirillo. «Fra tutte l'opere degli antichi, egli dice, poche se ne leggono di meno profittevoli». E Dupin ( Bibl. eccl., t. IV, p. 42-52) c'insegna a sprezzarle, quantunque ne parli con rispetto.
28. Chi gli fa questo rimbrotto è Isidoro di Pelusio (l. I, epist. 25, p. 8). Non essendo troppo autentica la lettera, Tillemont, men sincero dei Bollandisti, affetta il dubbio, se questo Cirillo fosse il nipote di Teofilo ( Mémoires ecclés., t. XIV, p. 268).
29. Socrate (lib. VII, 13) chiama un grammatico διαπυρος δε ακρατης του επισκοπου κυριλλου καθεστως, και περι το ακροτους εν ταις διοδασκαλιαις αυτου εγειρειν ην σπουδαιοτατος, un uditore del vescovo Cirillo che assisteva con fervore alle sue prediche, ed era tutto intento a suscitargli applausi.
30. Socrate (l. VII, c. 7) e Renaudot ( Hist. patriarch. Alexand., p. 106-108) parlano della gioventù di S. Cirillo e della sua nomina alla sede d'Alessandria. L'abate Renaudot trasse i suoi materiali dalla Storia araba di Severo, vescovo di Ermopoli Magna od Ashmunein, nel secolo decimo, autore cui non si può mai prestar fede, quando non abbiano i fatti in se stessi il carattere dell'evidenza.
31. I Parabolani d'Alessandria erano una Compagnia di carità, fondata nel tempo della peste sotto Gallieno, per visitare i malati e sotterrare i morti. A poco a poco si moltiplicarono; fecero abuso e traffico dei loro privilegi. L'insolenza da essi manifestata sotto il pontificato di S. Cirillo determinò l'imperatore a privare il patriarca del diritto di eleggerli, e a restringerne il numero a cinque o seicento; ma sì fatte restrizioni furono passaggere ed inefficaci ( Vedi il Cod. Teodos., l. XVI, t. II; e Tillemont, Mém. ecclés., t. XIV, p. 276-278.)
32. S. Cirillo non può dirsi esente de' difetti come scrittore, e come Patriarca d'Alessandria; aveva uno spirito così sottile nelle controversie, ed era tanto facondo, che spesse volte non s'intende ciò ch'egli scrisse. Non può negarsi essere egli stato altiero, ed impetuoso specialmente nella sua controversia con Nestorio Patriarca eretico di Costantinopoli, e Capo dei Vescovi, preti, e secolari detti da lui Nestoriani, de' quali un picciolo resto trovasi ancora in qualche provincia d'Europa, ed in qualche borgata della Persia, e dell'Armenia, malgrado le persecuzioni de' Cattolici; ma S. Cirillo sosteneva la retta dottrina intorno a Gesù Cristo; perciò il suo procedere per giungere al suo fine, che il Concilio d'Efeso I condannasse Nestorio, che negava la Divinità di Cristo colla distinzione delle persone divina ed umana, asserendo che Maria aveva partorito Cristo Uomo, e non Cristo Dio, cioè la persona umana, e non la persona divina, devesi chiamare non ambizioso, ed impetuoso, ma zelante dell'Ortodossia, secondo il sano linguaggio de' teologi; altrimenti la maggior parte dei sostenitori di essa diventano uomini impetuosi, ed ambiziosi. Non può negarsi aver S. Cirillo posto mano francamente nelle cose civili, e governative d'Alessandria, onde ne vennero i forti risentimenti di Oreste governatore per l'Imperatore romano, ed avvenne il fatto terribile dei Monaci di Nitria; ma non consta che la morte lagrimevole, d'Ipazia, tanto celebrata dagli storici per il suo sapere, ed accusata di avere attraversato la riconciliazione fra Oreste, e Cirillo, possa a questo essere attribuita: quel fatto orribile, che tolse dalla cattedra una dottissima donna, è avvenuto per la furia dei due partiti di Oreste, e di Cirillo, che non avrà neppur esso potuto impedire il male. Bisogna dimenticarsi quei difetti, che poteva avere Cirillo a cagione della sua animosa difesa della Ortodossia, e devesi considerare da ogni buon credente, per essere stato fatto Santo dalla chiesa, pienamente da ogni colpa giustificato. (Nota di N. N.)
33. Vedi intorno a Teone, e sua figlia Ipazia, il Fabricio ( Bibl., t. VIII, p. 210, 211). Il suo articolo nel Lessico di Suida è assai curioso e originale. Esichio ( Meursii opera, t. VII. p. 295, 296) nota che quella figlia fu perseguitata δια την υπερβαλλουσαν σοφιαν, per l'eminente sapienza: ed un epigramma dell'antologia greca (l. I, c. 76, p. 159, edit. Brodaei) ne vanta il sapere e l'eloquenza. Il vescovo filosofo Sinesio, suo amico e discepolo, ne parla in modo onorevole ( Epist. 10, 15, 16, 33, 80, 124, 135, 153).
34. Οςρακοις ανειλον, και μεληδον διασωπασαντες, etc. ne straziarono le carni con cocci d'ostriche, e scerpandone a brani le membra, ec. Le scaglie d'ostriche erano sparse abbondevolmente sulle rive del mare rimpetto a Cesarea. Piacemi adunque di attenermi qui al senso letterale, senza rifiutar la version metaforica di tegolae, tegole, seguìta dal Sig. de Valois; non so, se Ipazia fosse ancor viva, ed è probabile che gli assassini non si pigliassero pensiero di questo.
35. Da Socrate (l. VII, c. 13, 14, 15) son raccontate sì belle geste di S. Cirillo, ed è obbligato il fanatismo, tuttochè con ripugnanza, a copiare le parole d'uno storico, il quale chiama freddamente i sicari d'Ipazia ανδρες το φρονημα ενθερμοι uomini caldi di testa. Noto con piacere, che quel nome tanto vilipeso fa arrossire lo stesso Baronio (A. D. 415, n. 48).
36. Quand'anche per supposizione avesse avuto colpa S. Cirillo della morte orribile della povera Ipazia, non essendo la religione cristiana per sua essenza sanguinaria, come evidentemente consta dall'Evangelo, non le verrebbe alcuna macchia per la colpa di S. Cirillo, e se non è provato, che questi ne abbia avuto, e quindi fu egli fatto Santo, molto meno può dirsi, che la religione sia macchiata pel massacro d'Ipazia. (Nota di N. N.)
37. Non volle ascoltare le preghiere d'Attico di Costantinopoli, e d'Isidoro di Pelusio; e se si crede a Niceforo (l. XIV c. 18) cedette soltanto all'interposizion della Vergine. Negli ultimi anni per altro andava pur susurrando che Gian Grisostomo era stato giustamente condannato (Tillemont, Mém. ecclés. t. XIV, p. 278-282; Baronio, Annal. eccles. A. D. 412, n. 46-64).
38. Vedi le particolarità intorno ai loro caratteri nella Storia di Socrate (l. VII, c. 25-28), e intorno alla loro autorità e alle pretensioni, nella voluminosa compilazione del Tomassino ( Discipl. de l'Eglise, t. I, p. 80-91)
39. Racconta Socrate la Storia del suo avvenimento alla sede episcopale di Costantinopoli, e ne descrive le azioni (l. VII, c. 29-31), e sembra che Marcellino gli adatti le parole di Sallustio, loquentiae satis, sapientiae parum.
40. Cod. Theod., l. XVI, tit. 5, leg. 65, cogli schiarimenti del Baronio (A. D. 428, n. 25, etc.); Gotofredo ( ad locum ), e Pagi ( Critica, t. II, p. 208).
41. S. Isidoro di Pelusio (l. IV, epist. 57). Le sue espressioni sono energiche o scandalose: τι θανμαζεις ει και νυν περι πραγμα θειον και λογου κρειττον διαφωνειν προσποιουντ αι υπο φιλαρχιας εκβαυχευομενοι, perchè ti maravigli se anche adesso preferiscono di disputare sulle cose divine e sul miglior senso delle parole, accesi dalla smania di dominare. Isidoro è un Santo, ma non fu mai vescovo; e sono tentato a credere che l'orgoglio di Diogene si ponesse sotto i piedi l'orgoglio di Platone.
42. La Croze ( Christianisme des Indes, t. I, pag. 44-53, Thesaur. epist. t. III, p. 276-480) ha scoperto l'uso delle parole ὁ δεσποτης e ὁ κυριας Іησους, il padrone e il Signore Gesù, le quali nel quarto, quinto e sesto secolo distinsero la scuola di Diodoro di Tarso da quella dei suoi discepoli Nestoriani.
43. Θεοτοκος, Deipara, come, nella zoologia si dice degli animali ovipari o vivipari. Non è facile il decidere in quale epoca s'inventasse quella parola che La Croze ( Christian. des Indes, t. I, p. 16 ) attribuisce ad Eusebio di Cesarea, ed agli Ariani. S. Cirillo e Petavio arrecano testimonianze ortodosse ( Dogmat. theolog. t. V, c. 15, p. 254 etc.); ma si può contrastare sulla veracità di S. Cirillo; e l'epiteto θεοτοκος facilmente ha potuto dal margine passar nel testo d'un manuscritto cattolico.
44. Basnagio nella sua storia della Chiesa, opera di controversia. (t. I, p. 505) giustifica la Madre di Dio pel sangue (Atti, XX, 28, colle varie lezioni di Mill); ma i manoscritti greci son ben altro che concordi; e l'espression primitiva del sangue del Cristo si è conservata nella version siriaca, anche nelle copie di cui si valgono, i Cristiani di S. Tommaso sulla costa del Malabar (La Croze, Christian. des Indes, t. 1, p. 347). La gelosia fra i Nestoriani e Monofisiti ha mantenuta la purezza del loro testo.
45. Il Credo, disteso nel Concilio generale II di Costantinopoli l'anno 381 ha l'espressione natus ex Maria Virgine, e ciò è lo stesso, che Deipara cioè partoriente Dio, o Madre di Dio; ed avendo prima il Concilio generale I di Nicea l'anno 325 fissato definitivamente contro gli Ariani essere Gesù Cristo della stessa sostanza del Padre, consubstantialem, cioè essere Dio, ne viene che al tempo, cioè l'anno 429-431, del Patriarca di Costantinopoli Nestorio, che negò fermamente essere Maria Madre di Dio, ed affermò essere essa soltanto Madre di Gesù Cristo uomo, era già stata sanzionata e autorizzata dalla Chiesa, cioè dal Concilio ortodosso generale II di Costantinopoli, l'espressione Madre di Dio. Nestorio poi fu condannato, deposto, ed esiliato dal Concilio generale III, e d'Efeso I l'anno 431, la quale condanna, deposizione, ed esilio con zelo promosse, e sollecitò l'altro Patriarca d'Alessandria S. Cirillo mentovato di sopra. (Nota di N. N.)
46. Se, come abbiamo veduto in altra nota, S. Pietro riconobbe la divinità di Gesù Cristo affermandolo figlio di Dio, e se l'Evangelo dice che Gesù Cristo è nato da Maria non per opera d'uomo, ma dello Spirito Santo, ne viene la chiara conseguenza, che S. Pietro, e gli altri Apostoli con lui, abbiano riconosciuto Maria per Madre di Dio, essendo seguita l'incarnazione della divina Natura, sebben l'identiche parole Madre di Dio, non sian nell'Evangelo. (Nota di N. N.)
47. Di già i Pagani dell'Egitto si facean beffe della nuova Cibele[*] dei Cristiani (Isidoro, l. I, epist. 54). Si formò in nome d'Ipazia una lettera che volgeva in ridicolo la teologia del suo assassino ( Synodicon, c. 216, nel quarto t. concil. p. 484). All'articolo Nestorio, Bayle espone sul culto della Vergine Maria qualche massima d'una filosofia alquanto rilassata.
* Sarà vero che i Pagani si burlassero di Maria Vergine Madre di Dio; erano Pagani, cioè Politeisti, e perciò non è maraviglia; ma che ha a fare Cibele, di cui vedesi la leggenda in tutti i Dizionari di Mitologia, Deità dei Politeisti e dei poeti, con Maria Vergine Madre di Dio? Queste due idee sono affatto incompatibili, ed il farne l'associazione è un assurdo del pari indegno, che insussistente. (Nota di N. N.)
48. L'αντιδοσις dei Greci, vale a dire un prestito, od una traslazione reciproca degli idiomi, o delle proprietà d'una natura all'altra, dell'infedeltà all'uomo, della passibilità a Dio ec. Petavio pone dodici regole su questa materia sommamente delicata ( Dogmat. theolog., t. V, l. IV, c. 14, 15, p. 209, etc.).
49. Vedi Ducange, C. P. Christiana, l. I, p. 30 etc.
50. Il decreto del Papa Celestino non fu illegale, perchè poteva assumere il giudizio intorno a un domma (che se non rimanesse fermo, non esisterebbe più rivelazione, nè religione cristiana, nella parte dommatica), e poi giudicò unitamente al suo Concilio provinciale de' Vescovi; e cotale giudizio non fece che combinare con quello che poco dopo diede il Concilio generale III, e d'Efeso I; non fu neppure precipitato, perchè Celestino esaminò la materia, e nel giudicare concorse il suo Concilio provinciale di cui era particolarmente il Capo. (Nota di N. N.)
51. Concil., t. III, p. 943. Mai non furono approvati direttamente dalla Chiesa; (Tillemont, Mém. ecclés., XIV, 368-372) e quasi mi fan compassione le convulsioni di rabbia e di sofisma, da cui sembra agitato Petavio nel sesto libro dei suoi Dogmata theologica.
52. Posso citare il giudizioso Basnagio ( ad. t. I, Variar. Lection. Canisii in praefat., c. 2, p. 11-23) e La Croze, dotto universale ( Christianisme des Indes, t. I, p. 16-20, de l' Ethiopie, p. 26, 27; Thesaur. epist. p. 176, ec., 283-285). Il suo libero parere su questo punto è confermato da quello de' suoi amici, Iablonski ( Thesaur. epist. t. I, p. 193-201), Mosemio ( id. p. 304, Nestorium crimine caruisse est et mea sententia ); e non sarebbe agevol cosa trovare tre giudici più rispettabili. Assemani, pieno di sapere, ma ligio modestamente alle autorità, a gran pena può scoprire ( Bibliot. orient. t. IV, p. 190-224) il delitto e l'errore dei Nestoriani.
53. Sull'origine, e sui progressi della controversia di Nestorio fino al Concilio d'Efeso si trovano alcune particolarità in Socrate (l. VII. c. 32), in Evagrio (l. I, c. 1, 2), in Liberato ( Brev., c. 1-4), negli Atti originali ( Concil., t. III, p. 551-591, ediz. di Venezia, 1728), negli Annali di Baronio e di Pagi, e nelle fedeli Raccolte di Tillemont ( Mém. eccles., t. XIV, p. 280-577).
54. I Cristiani de' quattro primi secoli ignoravano come il luogo della morte, così quello della Sepoltura di Maria. Il Concilio, di cui qui favelliamo conferma la tradizione d'Efeso, che si credea posseditrice del suo corpo. (Ενθα ὅ θεολογος Іωαννης, και η θεοτοκος παρθενος η αγια Μαρια, quivi giace il teologo Giovanni, e la Vergine Deipara Santa Maria. Concil. t. III, p. 1102). Avendo però Gerusalemme le stesse pretensioni, ha mandate in dimenticanza quelle di Efeso; colà si mostrava ai pellegrini la vota sepoltura della Vergine; e di là è venuta la storia della sua risurrezione, e della sua assunzione, piamente credute dalle Chiese greche e latine[*]. Vedi Baronio ( Annal. ecclés. A. D. 48, n. 6, ec.) e Tillemont ( Mém. ecclés. t. I, p. 467-477).
* Non è meraviglia che l'Autore così si esprima intorno l'assunzione di Maria: egli era cristiano-protestante. La credenza, poi de' cattolici intorno a ciò è assai ben fondata sullo storico Eusebio, Vescovo di Cesarea del quarto secolo: Maria Virgo Christi Mater ad filium in Coelum assumitur, ita quidam fuisse sibi revelatum scribunt. Eusebio in Chronico. Vedi Baronio, Annali an. 48 n. 6, e Tillemont, T. I, p. 467. (Nota di N. N.)
55. Gli Atti del Concilio di Calcedonia ( Concil. t. IV, pag. 1405-1408) ne mostrano abbastanza quanto cieca fosse e pertinace l'adesione dei Vescovi d'Egitto ai lor patriarchi.
56. Diversi affari civili od ecclesiastici ritennero i vescovi in Antiochia fino al 18 maggio. Da Antiochia ad Efeso si calcolavano trenta giornate; e non è troppo il supporre che per accidenti, o per riposare dovessero perdere dieci giorni. Senofonte, che fece la stessa strada, numera più di ducento sessanta parasanghe, o leghe; io potrei determinare questa misura consultando gli itinerari antichi e moderni, se conoscessi abbastanza la proporzion di velocità di un esercito, d'un Concilio, e d'una caravana. Tillemont medesimo, con qualche ripugnanza però, giustifica Giovanni d'Antiochia ( Mém. ecclés. t. XIV, p. 386-389).
57. Μεμφομενον μη κατα το δεοντα εν Εφεσω συντεθηναι υπομνηματα πανουργια δε και τινι αθεσμω καινοτομια κυριλλιου τεχναζοντος, accusato mentre Cirillo inonestamente, con fraudolenza e con certe illegali mutilazioni s'ingegnava a falsificare in Efeso gli Atti. (Evagrio l. I, c. 7). La medesima imputazione gli era data dal conte Ireneo; (t. III, p. 1249), e li critici ortodossi fanno un po' di fatica a difendere la purità delle copie greche e latine di quel Concilio.
58. Fu questo un Conciliabolo, e non un Concilio che non fu approvato dal Papa; colla distinzione di Concilio da Conciliabolo cessa ogni scandalo, ed ogni meraviglia; bisogna usare le distinzioni, il che sanno fare assai bene i teologi. (Nota di N. N.)
59. Ο δε επ’ ολεθρω των εηκλεσιων τοχθεις και τραφεις, nato e cresciuto per la rovina delle Chiese. Dopo la coalizione di S. Giovanni e di S. Cirillo, furono le invettive reciprocamente dimenticate. Per vane declamazioni non conviene illudersi intorno all'opinione, che da rispettabili nemici può essere inspirata per riguardo al loro merito scambievole ( Con. t. III, p. 1244).
60. Vedi gli Atti del Sinodo d'Efeso nell'originale greco, e in una versione latina, che pubblicossi quasi nel medesimo tempo (Conc., t. III, p. 991-1339) col Synodicon adversus tragoediam Irenaei, t. IV, p. 235-497. Vedi anche l' Ist. eccl. di Socrate (l. VII, c. 34), Evagrio (l. I, c. 3, 4, 5), il Breviario di Liberato ( in Concil., t. VI, p. 419-459, c. 5, 6), e les Mém. ecclés. di Tillemont (t. XIV, p. 377-487).
61. Ταραχλν (dice Teodosio in frasi interrotte) το γε επι σαυτω, και χωρισμον ταις εκκλησιαις εμβεβληκας .... ως θρασυτερας ορμης πρέπουης μαλλον η ακριβειας .... και ποικιλιας μαλλον τουτων ημιν αρκουσης ηπερ απλοτητος .... παντος μαλλον η ιερεως .... τα τε των εκκλησιων, τα τε των βασιλεων μελλειν χωριζειν βουλεσθαι, ως ουκ ουσης αφορμης ετερας ευδοκιμησεως, così ti sei cacciato in cuore la discordia, e fra le chiese la dissensione.... con un impeto temerario, piuttosto che con zelo.... e con un procedere versatile, che ci ributta più in tali cose, in vece della schiettezza.... in modo più conveniente a tutt'altri, che ad un vescovo.... voler mettere a soqquadro gli affari della chiesa e dei re, quasi non ci fosse altra maniera d'acquistar gloria. Vorrei sapere quanto abbia pagato Nestorio espressioni tanto pel suo rivale ingiuriose.
62. S. Cirillo comparte ad Eutiche, a quell'eresiarca d'Eutiche, gli onorevoli nomi d'amico, di Santo e di zelante difensor della Fede. Suo fratello, Dalmazio, è parimenti impiegato a circonvenire l'Imperatore e tutti coloro che servivano la sua persona, terribili conjuratione. Synodicon (c. 203 in Concil. t. IV, p. 467).
63. Clerici qui hic sunt contristantur, quod ecclesia Alexandrina nudata sit hujus causa turbelae: et debet praeter illa quae hinc transmissa sint auri libras mille quingentas. Et nunc ei scriptum est ut proestet; sed de tua ecclesia proesta avaritiae quorum nostri etc. Per qual caso non si sa, questa lettera originale e curiosa dell'arcidiacono S. Cirillo al nuovo vescovo di Costantinopoli, sua creatura, si è conservata in un'antica version latina ( Synodicon, c. 203 Concil. t. IV, p. 465-468). Qui è quasi caduta la maschera, e i Santi parlano il linguaggio dell'interesse e del raggiro.
64. I noiosi negoziati che succedettero al Sinodo d'Efeso sono raccontati alla lunga negli Atti originali ( Concil. t. III, p. 1339-1771 ad fin. vol. e nel Synodicon, in t. IV), in Socrate (l. VII, c. 28, 35, 40, 41), in Evagrio (l. I. c. 6, 7, 8-12), in Liberato (c. 7-10), in Tillemont ( Mém. ecclés. t. XIV, pag. 487-676). Il lettore il più paziente mi saprà grado se ho ristretto in poche linee tante cose false e poco ragionevoli.
65. Αυτου τε αυδεηθεντος, επετραπν κατα το οικειον επαναζευσαι μοναστηριον, dopo ch'ebbe parlato, gli fu permesso di tornarsene al suo monastero. Evagrio (l. I, c. 7). Dalle lettere originali che si scontrano nel Synodicon (c. 15-24, 25, 26) si raccoglie, che la sua abdicazione, almeno in apparenza, fu volontaria, come Ebed-Gesù, scrittore Nestoriano, afferma che lo fosse difatto. (Ap. Assemani, Bibl. orient. t. III, p. 299-302).
66. Vedi le lettere dell'Imperatore negli Atti del Sinodo d'Efeso. ( Concil. t. III, p. 1730-1735). L'odioso nome di Simoniani dato ai discepoli di questa τερατωδους διδασκαλιας, prodigiosa scuola era indicato ως αν ονειδεσι προβλεθεντες σιωνιον υπομενοιεν τιμ ωριαν αμαρτηματων, και μητε ζωντας τιμωριας μητε θανοντας ατιμιας εκτοι υπαρχειν, acciocchè colpiti dalle maledizioni sempre soffrano la pena degli errori, e non possano nè vivi sfuggire il gastigo, nè morti l'infamia. E così si trattavano a vicenda i Cristiani, e Cristiani che non eran differenti fra loro che per alcune parole e picciole distinzioni.
67. I gravi giureconsulti ( Pandette l. XLVIII, tit. 22 leg. 7 ), diedero questo nome metaforico d'isole a quelle picciole porzioni dei deserti della Libia, nelle quali si trova acqua e verdura; tre se ne distinguono sotto la denominazione comune di Oasi o d' Alvahat. 1. Il tempio di Giove Ammone. 2. L'Oasi del mezzo, distante tre giornate all'occidente da Licopoli. 3. L'Oasi meridionale, dove fu esiliato Nestorio, tre sole giornate lontano dai confini della Nubia. Vedi una nota giudiziosa di Michaelis ( ad Descr. Aegypt. Abulfedae, p. 21-54).
68. L'invito che chiamava Nestorio al Sinodo di Calcedonia, è riportato da Zaccaria, vescovo di Malta ( Evagr. l. II, c. 2. Assemani, Bibl. orient. t. II, p. 55), e dal famoso Senaia o Filosseno, vescovo di Ieropoli (Asseman, Bibl. orient. t. II, p. 40 ec.), negato poi da Evagrio ed Assemani, o fortemente sostenuto da La Croze ( Thesaur. Epist. tom. III, p. 181, ec.). Il fatto non è inverosimile; ma importava ai Monofisiti a spargere questa voce ingiuriosa. Eutichio (t. II, pag. 12) ne assicura, che Nestorio morì dopo un esilio di sett'anni, e per conseguente dieci anni prima del Concilio di Calcedonia.
69. Si consulti d'Anville ( Mém. sur l'Egypte, p. 191), Pocock ( Description de l'Orient, vol. I, p. 76), Abulfeda ( Descriptio Aegypt., p. 14). Vedasi pure Michaelis, suo commentatore ( Not. p. 78-83), e il Geografo di Nubia (p. 42), il quale cita nel dodicesimo secolo le ruine e le canne da zucchero di Akmim.
70. Eutichio ( Annal. t. II. p. 12), e Gregorio Bar-Ebreo, o Abulfaragio (Assemano t. II, p. 316), ci danno un sentore della credulità del decimo o tredicesimo secolo.
71. Siam debitori ad Evagrio (l. I, c. 7) di alcuni estratti di lettere di Nestorio; ma questo fanatico duro, e stupido non fa che ingiuriare i patimenti, di cui fanno una dipintura sì compassionevole.
72. Dixi Cyrillum dum viveret, auctoritate sua effecisse, ne eutychianismus et monophysitarum error in nervum erumperet: idaque verum puto... alique... honesto modo παλινωδιαν ( la ritrattazione ) cecinerat. Il dotto ma circospetto Jablonski non sempre ha detta tutta intera la verità. Cum Cyrillo lenius omnino egi, quam si tecum aut cum aliis rei hujus probe gnaris et aequis rerum aestimatoribus sermones privatos conferrem. ( Thesaurus epist., La Croze t. I, p. 197, 198). Da questo passo ricevono molta luce le sue dissertazioni sopra la controversia suscitata da Nestorio.
73. Η αγια συυοδος ειπεν, αρον, καυσον Ευσεβιον, ουτος ζων καη, ουτος εις δυο γενηται, ω εμερισε μερισθη.... ει τις λεγει δυο, αναθεμα, disse il santo Sinodo: si scacci, si abbruci Eusebio, sia arso vivo, sia fatto in due, sia diviso come egli ha diviso.... a chi dice due Nature, anatema. Alla domanda di Dioscoro quelli che non poterono gridare (βοςσαι) alzaron le mani. Nel Concilio di Calcedonia sursero gli Orientali contro queste esclamazioni, ma gli Egiziani dichiararono in un modo più conseguente ταυτα και τοτε ειπομεν και νον λεγομεν, questo e allora dicemmo, ed ora ripetiamo ( Con. t. IV, p. 1012).
74. Questo Concilio II d'Efeso fu pure un Conciliabolo, e non è da meravigliarsi, che in cotale assemblea, e nelle simili, i Vescovi, e specialmente Dioscoro Patriarca d'Alessandria succeduto a S. Cirillo, si sieno dati ad eccessi, che la ragione, e l'Evangelo disapprovano altamente. Il Papa Leone I nel suo Concilio provinciale di Roma condannò questo Conciliabolo, e disapprovò il suo procedere. I disordini ed eccessi avvenuti ne' Conciliaboli altro non provano se non che i Vescovi sono uomini come tutti sanno. Il Cattolico deve badare alle decisioni, ed al procedere dei Concilii regolari, ed approvati dal Papa o direttamente o per mezzo de' suoi Legati, o Procuratori.
75. Ελεγε δε (Eusebio, vescovo di Dorilea) τον φλαβιανον και αναιρεθηναι προς Διοσκορω αθουμενον τε και λακτιξομενον, disse che Flaviano fu maltrattato da Dioscoro, percosso e respinto a calci, e questa relazione d'Evagrio (l. II, c. 2) viene rafforzata dallo storico Zonara (t. II, l. XIII, p. 44), che afferma, esser uso Dioscoro a dar calci come un mulo. Ma il linguaggio di Liberato è più circospetto ( Brev. c. 12, in Concil. t. VI, p. 438), e gli Atti del Concilio di Calcedonia, prodighi dei titoli d'omicida, di Caino ec., non giustificano un'accusa tanto speciale. Il monaco Barsuma è incolpato in particolare, εσφαξε τον μακαριον φλαυιανον αυτος εστηκε και ελεγε σφαξον, d'avere straziato il beato Flaviano il quale, senza moversi, dicea, strazia pure. ( Concil. t. IV, p. 1413).
76. Gli Atti del Concilio di Calcedonia ( Conc. t. IV, p. 761-2071), comprendono quelli d'Efeso, (pag. 890-1189), nei quali è pure inserito il Sinodo di Costantinopoli sotto Flaviano (pag. 930-1072): fa d'uopo qualche attenzione per discernere questo doppio inesto. Tutto ciò che si riferisce ad Eutiche, a Flaviano, a Dioscoro vien raccontato da Evagrio (l. I, c. 9-12, e l. II, c. 1, 2, 3, 4), e da Liberato ( Prev. c. 11, 12, 13, 14). Io rimando ancora questa volta, e forse per l'ultima alle esatte ricerche di Tillemont ( Mém. ecclés. t. XV, p. 479-719). Gli annali del Baronio e del Pagi m'accompagneranno anco più in là nel lungo e penoso viaggio da me intrapreso.
77. Μαλιςα η περιβοντος Πανσοφια η καλουμενη Ορεινη (forse Ειρηνη), περι ησ και ο πολυανθροποσ τησ Αλεξανδρεων δημος αφηκε φωνην αυτης τε και του εραςου μεμνημενος, soprattutto la famosa Pansofia denominata Orine (forse Irene ) per la quale anche il numeroso popolo d'Alessandria abiurò la memoria di lei e del drudo ( Concil. t. IV, p. 1276). Si trova un saggio dello spirito e della malizia del popolo nell'antologia greca (l. II, c. 5, p. 188 ed. Wechel); l'editor Brodeo non conobbe a chi fosse applicato. L'autor anonimo dell'epigramma forma un giuoco di parole assai frizzante sulla frase del saluto episcopale « La pace sia con tutti voi » pari al nome vero o corrotto della concubina del vescovo, detta Irene (che in greco vuol dir pace).
Ειρηνη παντεσσιν επισκοπος ειπεν επελθων
Πως δυναται πασιν ην μονοσ ενδος εχει;
Comparando il vescovo disse: pace (Irene) a tutti; ma come a tutti, se l'ha in casa egli solo!
Non so, se il Patriarca, che sembra essere stato un amante geloso sia il Cimone dell'epigramma precedente, di cui Priapo medesimo vedea con istupore ed invidia πεος εστεκος.
78. Non v'era bisogno di manifestare cose così dispiacevoli a' credenti: si sa che vi furono, e vi saranno Vescovi peccatori; il tribunale della Penitenza è fatto anche per essi.
79. Quelli che rispettano l'infallibilità dei Concilii dovrebbero provarsi a determinare il senso di quella decisione. I Vescovi che colla loro opinione dieder legge all'assemblea erano attorniati da scrivani infedeli o negligenti, che disseminarono le copie pel Mondo. Nei nostri MS. greci si trova quella versione falsa e proscritta di εκ τον φυσεων, dalle nature ( Concil. t. III, p. 1460). Non pare che siasi mai avuta una traduzione autentica dello scritto di Papa Leone; e le antiche versioni latine sono essenzialmente differenti dalla vulgata attuale, secondo i migliori MS. degli Ακοιμητοι, Vigilanti, a Costantinopoli, (Ducange, C. P. Cristiana, l. IV, p. 151), che così era chiamato un celebre monastero di Latini, di Greci e di Sirii. (Vedi Concil. t. IV, p. 1959-2049, e Pagi, Critica, t. II, p. 326 ec.).
80. Non si devono trattare con figure rettoriche, che racchiudono uno scherzo, materie per se stesse gravissime, e rispettabili; bisogna maneggiarle colla ragione teologica. (Nota di N. N.)
81. Il microscopio di Petavio non rappresenta che oscuramente questa particella (t. V, l. III, c. 5); eppure quel sottil Teologo esso stesso n'è sbigottito, ne quis fortasse supervacaneam, et nimis anxiam putet hujusmodi vocularum inquisitionem, et ab instituti theologi gravitate alienam (p. 124).
82. Εβοησαν η ο ορος κρατειτω η απερχομεθα.... οι αντιλεγοντες φανεροι γενωνται, οι αντιλεγοντες Νεςοριανοι εισιν, οι αντελεγοντες εις Ρωμην απελτοσιν, gridarono, o si assegni il termine, o andiamcene.... si palesino gli avversari, gli avversari sono Nestoriani, vadano gli avversari a Roma ( Concil. t. IV, p. 1449). Evagrio e Liberato non mostrano questo Concilio che in un aspetto pacifico, e scorrono prudentemente su queste brage suppositos cineri doloso.
83. I Cristiani de' nostri giorni prudentemente alieni da controversie, e da turbolenze, credano ciecamente alle parole del Credo, e della buona dottrina teologica, le quali esprimano misterii, ch'essi riveriscono senza correre il pericolo dei ragionamenti. (Nota di N. N.)
84. Vedi nell'Appendice agli Atti di Calcedonia, la conferma di questo Sinodo fatta da Marciano, ( Concil. t. IV, pag. 1781, 1783), le sue lettere ai monaci d'Alessandria (p. 1791), a quei del monte Sinai, (p. 1793), a quei di Gerusalemme e di Palestina (pag. 1798), le sue leggi contro gli Eutichiani (p. 1809, 1811, 1831), il carteggio di Leone coi Sinodi provinciali intorno la rivoluzion d'Alessandria. (p. 1835-1930).
85. Fozio (o più veramente Eulogio d'Alessandria) in un bel passo della sua opera confessa, che par ben fondata questa doppia accusa contro Papa Leone e il suo Concilio di Calcedonia ( Bibl. cod. CCXXV, p. 768). Facea egli una doppia guerra ai nemici della Chiesa e feriva l'uno o l'altro di costoro cogli strali del suo avversario κατ’αλληλοις βελεσι τους αντιπαλους επετροσκε. Parea che stabilisse contro Nestorio συγχυσις, la confusione delle Nature dei Monofisiti; contro Eutiche confermasse υποσασεων διαφορα, la diversità di sostanze dei Nestoriani. Dice l'apologista, che bisogna interpretare con carità le azioni dei Santi: se si fosse proceduto così riguardo agli eretici le controversie si sarebbero terminate in vani schiamazzi esalati per l'aria.
86. Era soprannominato Αιλουρος, il gatto, in grazia delle sue corse notturne. In mezzo all'oscurità, e mascherato girava attorno alle celle del monastero, e dirigeva ai suoi confratelli addormentati parole ch'erano credute rivelazioni ( Theo. Lector. l. I).
87. Φονους τε τολμηναι μυριους, αιματων πληθει μολυνθηναι μη μονον την γην αλλακαι αυτον αερα, essersi sofferte stragi a migliaia, dalla piena di sangue essere stata contaminata, non la sola terra, ma l'aria stessa. Tal'è il linguaggio iperbolico dell'Ennotico.
88. Vedi la Cronica di Vittore Tunninense, nelle Lezioni antiche di Canisio, ristampate da Basnagio (t. 1, p. 326.)
89. L'Ennotico è stato trascritto da Evagrio, (l. III, c. 13) e tradotto da Liberato ( Brev. c. 18). Pagi ( Critica, t. II, p. 411), ed Assemani ( Bibl. orient. t. I, p. 343), non ci vedeano eresia di sorta; ma Petavio ( Dogm. Theolog. t. V, l. I, c. 13, p. 40) si è fatta lecita una assai strana asserzione, dicendo, Calcedonensem ascivit. Un suo nemico potrebbe dargli l'accusa di non aver mai letto l'Ennotico.
90. Vedi Renaudot ( Hist. Patriarch. Alex. p. 123, 131, 145, 195, 247). Furono riconciliati da Marco I (A. D. 799-819) il quale promosse i Capi ai vescovadi di Atribis e di Talba, forse Tava, ( Vedi d'Anville p. 87) e supplì alla mancanza dei Sacramenti che non erano stati conferiti in una Ordinazione episcopale.
91. De his quos baptisavit, quos ordinavit Acacius, maiorum traditione confectam et veram, praecipue religiosae sollicitudini congruam praebemus sine difficultate medicinam. (Gelasio in epist. 1 ad Euphemium. Conc. t. V, p. 286). La proferta d'una medicina prova la malattia, e molti saran periti, prima che arrivasse il medico Romano. Tillemont medesimo ( Mém. ecclés. t. XVI, p. 372, 642, etc.) è nauseato dal naturale orgoglio e poco caritatevole dei Papi; presentemente son contenti, egli dice, d'invocar S. Flaviano d'Antiochia e S. Elia di Gerusalemme ec. a cui quando eran viventi ricusavan la comunione. Ma il cardinal Baronio sta saldo e duro come la rupe di S. Pietro.
92. Se ne cancellarono i nomi dal dittico della Chiesa: ex venerabili diptycho, in quo piae memoriae transitum ad coelum habentium episcoporum vocabula continentur. ( Concil. t. IV, p. 1846). Questo registro ecclesiastico equivaleva dunque al libro della vita.
93. Petavio ( Dogmat. Theolog. t. V, l. V, c. 2, 3, 4, p. 217-225), e Tillemont ( Mém. ecclés. t. XIV, p. 713, etc. 799), ci danno la storia e la dottrina del Trisagion; nei dodici secoli che passarono fra Isaia e il giovanetto S. Proculo, che fu rapito in Cielo alla presenza del vescovo e del popolo di Costantinopoli, era stato ben perfezionato questo Inno. Intese il giovanetto queste parole dalla bocca degli angeli. «Santo Dio! Santo forte! Santo immortale!»
94. Pietro Gnafeo, il Gualchieraio, (mestiere ch'egli facea nel suo monastero) patriarca d'Antiochia. La sua noiosa storia si discute lungamente negli annali di Pagi (A. D. 477-490), e in una dissertazione del signor di Valois sulla fine del suo Evagrio.
95. I cenni che si riferiscono alle turbolenze accadute sotto il regno d'Anastasio si trovano sparsi qua e là nelle Croniche di Vittore, di Marcellino e di Teofane. L'ultima non era pubblicata al tempo di Baronio; il Pagi, suo censore, è più copioso e più esatto nelle citazioni.
96. Tali erano i gridi di una truppa di Monaci tumultuanti, e sediziosi, disapprovati dai veri Cristiani, che amano la pace, e che sono obbedienti ai loro Sovrani. (Nota di N. N.)
97. I veri seguaci di Cristo, Dio di Pace, disapprovano queste guerre, queste ribellioni, e questi massacri promossi da monaci, e da preti, che si scostarono intieramente dalle massime cristiane le quali insegnano doversi usare la persuasione, e non la forza, ed aver sempre tolleranza ed amore. (Nota di N. N.)
98. I fatti generali della storia dal Concilio di Calcedonia sino alla morte d'Anastasio sono registrati nel Breviario di Liberato (c. 14-19), nel secondo e terzo libro di Evagrio, nell'estratto dei due libri di Teodoro Lettore, negli Atti dei Sinodi e nella Epistole de' Papi ( Concil. t. V). Le particolarità successive si trovano con qualche confusione nei tomi decimoquinto e decimosesto delle Mém. ecclés. del Tillemont. Io debbo qui prender commiato da questa guida impareggiabile, la quale fa dimenticare la sua cieca divozione coi pregi eruditi, colla cura che pone nelle sue ricerche, colla veracità ed esattezza scrupolosa che osserva. Gl'impedì la morte di terminare come aveva intenzione il sesto secolo della Chiesa e dell'Impero.
99. Le accuse degli aneddotti di Procopio (c. 11, 13, 18, 27, 28), colle dotte annotazioni d'Alemanno son confermate, anzi che contraddette dagli Atti dei Concilii, dal quarto libro d'Evagrio, e dalle lagnanze dell'Africano Facondo in un duodecimo libro de tribus capitalis; cum videri doctus appetit importune.... spontaneis quaestionibus ecclesiam turbat. ( Vedi Procopio de Bell. Goth. l. III, c. 35).
100. Procopio, De Aedific. l. I, c. 6, 7, etc., passim.
101. ’Ος δε καθηται αφυλακτος ες επι λεσχης τινος αωρι νυκτον ομου τοις των ιερεον γερουσιν ασχετον ανακυκλειν τα Χριστιανον λογια σπουδην εχων. (Procopio, De bell. goth. l. III, c. 32). L'autore della vita di S. Eutichio ( apud. Alleman. ad Procop., Arcan. c. 18) fa la stessa pittura di Giustiniano, ma coll'intenzione di lodarlo.
102. Procopio che espone questi sensi saggi e moderati ( De Bell. goth. l. I, c. 3), è trattato per ciò duramente nella Prefazione di Alemanno, che lo mette nella lista de' cristiani politici; sed longe verius haeresium omnium sentinas, prorsusque atheos: Atei abbominevoli, che raccomandavano d'imitare la bontà di Dio verso gli uomini ( Ad. Hist. Arcan. c. 13).
103. Quest'alternativa che merita attenzione è stata conservata da Giovanni Malala (t. II, p. 63, edit. di Ven. 1733), il quale è sempre più degno di fede verso la fine della sua opera: dopo aver fatto l'enumerazione dei Nestoriani e degli Eutichiani ec., ne expectent, dice Giustiniano, ut digni venia judicentur; jubemus enim ut... convicti et aperti haeretici justae et idoneae animadversioni subjiciantur. Questo editto del codice è riferito con elogio da Baronio (A. D. 527, n. 39-40).
104. Vedi il carattere e le massime dei Montanisti in Mosemio, ( De rebus Christ. ante Costantinum, p. 410-424).
105. Sono nati i Cristiani eretici detti Montanisti da Montano loro Capo, cui si unirono Priscilla, e Massimilla che abbandonarono i loro mariti; i Montanisti erano visionarii, e fanatici oltre modo. (Nota di N. N.)
106. Teofane ( Chronique p. 153). Da Giovanni il Monofisita, Vescovo asiatico, ci è data una delle più autentiche testimonianze che aver si possano in questo proposito, poichè impiegato all'uopo dall'Imperatore (Assemani, Bibl. orient. t. II, pag. 85).
107. Si confronti Procopio ( Hist. Arcan. c. 28 e le note d'Alemanno), con Teofane ( Chron. p. 190). Il Concilio di Nicea aveva commessa al Patriarca, o piuttosto agli astronomi d'Alessandria, l'annua pubblicazione della Pasqua; ed ancora oggi noi leggiamo, o piuttosto non leggiamo mai, le lettere Pasquali di S. Cirillo, di cui ne rimane un buon numero. Dopo il regno del Monofisismo in Egitto, furono i Cattolici assai impacciati da un pregiudizio tanto irragionevole, quanto quello per cui i Protestanti non han voluto per lungo tempo accettare lo stile Gregoriano.
108. Vedi su la Religione e la storia dei Samaritani, l'Histoire des Juifs, del Basnagio, opera dotta e imparziale.
109. Sichem, Neapoli, Naplous, ch'è la residenza antica e moderna dei Samaritani, giace in una valle fra lo sterile Ebal, il monte delle Maledizioni al Nort, e il fertile Garizim, o sia monte delle Maledizioni al Sud, distante da Gerusalemme dieci od undici ore di viaggio. Vedi Maundrel, ( Journey from Aleppo etc. p. 59-63).
110. Procopio ( Anecdot. c. II); Teofane, ( Chron. pag. 152), Giovanni Malala, (t. II, pag. 62). Mi ricordo d'aver letto questa osservazione mezzo filosofica, e mezzo superstiziosa, cioè che la provincia devastata dal fanatismo di Giustiniano fu quella stessa, per cui i Musulmani entrarono nell'impero.
111. Le espressioni di Procopio sono notabili: ου γαρ οι εδοκει φονος ανθρωπον εινακ, ην γε μη τηςαυτου δοξην οι τελευτωντες τυχοιεν οντες, imperocchè non gli pareva che fosse un fare strage degli uomini, se gli uccisi non erano della sua fede (Anecdot. c. 13).
112. Vedi la Cronaca di Vittore p. 328, e la testimonianza originale delle leggi di Giustiniano. Pei primi anni del regno di costui Baronio è molto di buon umore con esso, poichè accarezzò i Papi sino a tanto che li tenne soggetti alla sua volontà.
113. Procopio Anecdot. c. 13. Evagrio l. IV, c. 10. Se l'Istorico ecclesiastico non ha letto l'Istorico secreto, provano almeno i lor sospetti comuni, che l'odio del Pubblico era generale.
114. Vedi sui tre Capitoli gli Atti originali del quinto Concilio generale tenuto a Costantinopoli; vi si trovano molti fatti autentici, ma inutili ( Concil. t. VI, p. 1-419). Evagrio autor greco, è meno minuzioso e meno esatto (l. IV, c. 38) dei tre zelanti Affricani, Facondo (ne' suoi dodici libri De tribus capitulis, pubblicati da Sirmond in modo correttissimo), Liberato (nel suo Breviarum, c. 22, 23, 24), e Vittorio Tunnunense (nella sua Chron. in t. I, antiq. Lect. Canisii, pag. 330-334). Il Liber pontificalis od Anastasio ( in Vigilio, Pelagio, etc.), è una prova originale, ma tutta in favore degli Italiani. Potrà il lettor moderno ricavar qualche notizia dal Dupin ( Bibl. ecclésiast. t. V, p. 189-207), e dal Basnagio ( Hist. de l'Eglise, t. I, p. 519-541); ma il secondo disprezza troppo l'autorità e il carattere de' Papi.
115. Origene era di fatto assai propenso ad imitare la πλανη l'errore, e la δυσσεβεια l'empietà degli antichi Filosofi (Giustiniano ad Mennam, in Concil. t. VI, p. 356); mal s'accordavano collo zelo ecclesiastico le sue opinioni moderate, e fu trovato reo dell'eresia della ragione.
116. Basnagio ( Praefect. p. 11-14 ad tom I; Antiq. Lect. Canis. ) ha benissimo pesato la colpa e l'innocenza di Teodoro di Mopsuesta: se compose diecimila volumi, vuole la carità che se gli perdonino diecimila errori. Egli è registrato, ma senza i suoi due confratelli nei cataloghi degli Eresiarchi, formati dopo di lui; ed Assemani ( Bibl. orient. t. IV p. 203-207), manca al suo impegno di giustificare quel decreto.
117. Vedi le doglianze di Liberato e di Vittore, e le esortazioni di Papa Pelagio al conquistatore ed all'Esarca d'Italia. Schisma.... per potestates pubblicas opprimatur. etc. ( Concil. t. VI, p. 467, etc.). Si teneva un esercito a reprimere la sedizione in una città dell'Illiria. Vedi Procopio ( De Bell. Goth. l. IV, c. 25) ων περ ενεκα σφισιν αυτοις οι Χριςιανοι διαμαχονται, per queste cagioni i Cristiani si facean guerra fra loro. Par che prometta una storia della Chiesa: sarebbe stata curiosa e imparziale.
118. Papa Onorio riconciliò colla Chiesa, (A. D. 638), i Vescovi del patriarcato d'Aquileia; (Muratori, Annal. d'Ital. t. V, p. 376); ma ricaddero nello scisma, il quale non s'estinse al tutto che nel 698. Quattordici anni prima tacitamente non avea voluto la chiesa di Spagna sottomettersi al quinto Concilio generale ( XIII Concil. Toletan. in Concil. t. VII, p. 487-494).
119. Nicezio, vescovo di Treveri. ( Concil., t. IV, pag. 511-513) pel suo rifiuto di condannare i tre Capitoli, fu separato dalla comunione dei quattro Patriarchi, non che la maggior parte dei prelati della Chiesa gallicana (San Gregor. epist. l. VII; epist. 5 in Concil. t. VI, p. 1007). Baronio quasi quasi pronuncia la dannazione di Giustiniano (A. D. 565, n. 6).
120. Dopo avere Evagrio narrata l'ultima eresia di Giustiniano (l. IV, c. 39, 40, 41), e l'editto del suo successore, (l. V, c. 3), non mette più nella sua storia fatti ecclesiastici, ma solamente civili.
121. La Croze ( Christian. des Indes, t. I, p. 19, 20) ha notato questa straordinaria e forse inconseguente dottrina dei Nestoriani; vien'essa esposta più minutamente da Abulfaragio ( Bibl. orient. t. II, 292; Hist. dynast., pag. 91, vers. lat., Pocock), e dall'istesso Assemani (t. IV, p. 218); pare che ignorino, ch'essi poteano allegare l'autorità positiva dell'Ectesi. Ο μιαρος Νεςοριος καιπερδιαιρων ιην θειαν του Κυριου ενανθρωπησιν, και δυο εισαγων υιους δυο θελεματα τουτων ειπειν ουν ετολμησε, τουναντιον δε ταυτο βουλιαν των... δωο προσωπων εδοξασε, l'iniquo Nestorio, benchè col dividere la divina Umanità del Signore e introdurre due Nature, (rimprovero ordinario dei Monofisiti) non ebbe coraggio di asserire due volontà in esse, e per l'opposito opinò esser una la volontà delle due Persone. ( Concil. t. VII, p. 205).
122. Vedi la dottrina ortodossa in Petavio: ( Dogmata Theolog. t. V, l. IX, c. 6-10, p. 433-447). Tutte le profondità di queste controversie si scontrano nel dialogo greco tra Massimo e Pirro ( ad calcem, tom. VIII Annal. Baron. pag. 755-794); e di fatto questo dialogo era stato tenuto in una conferenza che originò una conversione di poca durata.
123. Impiissimam Ecthesim... scelerosum typum (Concil. t. VII, pag. 366), diabolicae operationis genimina (forse germina, o altrimenti secondo la greca parola γενεματα, frutti, produzioni, dell'originale), Concil. pag. 363-364. Parole son queste del XVIII anatema. L'epistola di Martino ad Amando, un de' Vescovi della Gallia, maltratta con pari acerbità i Monoteliti, e la loro eresia. (p. 392).
124. I mali di Martino e di Massimo son descritti con una semplicità patetica nelle lor lettere, e ne' loro Atti originali. ( Concil. t. VII, p. 63-68. Baron. Annal. eccles. A. D. 656 n. 2 et annos subsequent. ) Il gastigo per altro della lor disubbidienza, εξορια e σωματος αικιςμος, l'esilio e i tormenti corporali, era minacciato nel tipo di Costanzo ( Concil. t. VII, pag. 240).
125. Eutichio ( Annal. t. II, p. 368), malamente suppone, che i cento ventiquattro Vescovi del Sinodo romano si trasportassero a Costantinopoli; e aggiuntili ai cento sessant'otto Greci, viene così componendo di duecentonovantadue Padri il sesto Concilio ecumenico.
126. Costanzo, attaccato alla dottrina dei Monoteliti, era odiato da tutti, δια τοι καυτα, (dice Teofane, Chron. p. 292), εμισισθη σφαδρα παρα παντων. Quando il monaco monotelita non riuscì a fare il miracolo che aveva promesso, il Popolo fece alto schiamazzo, ο λαος ανεβοησε il popolo esclamò ( Concil. t. VII, p. 1022). Ma questa fu un'emozion naturale e momentanea, e temo assai non sia stata quest'ultima un'anticipazione d'ortodossia nel buon popolo di Costantinopoli.
127. È disapprovabile la franchezza dell'Autore nel dar torto (senza presentare lo stato della questione, e senza addurre le ragioni teologiche) ai Concilii di Roma, ed anche al Concilio generale VI tenuto in Costantinopoli contro i Monoteliti, ossia contro i sostenitori di una sola volontà in Gesù Cristo: questi Concilii hanno decretato, contro molti Vescovi ed ecclesiastici, essere in Gesù Cristo due volontà, concordanti per altro fra loro, e questo è ciò che si deve credere. Questa fede poi ha anche il motivo di credibilità. Era stato deciso prima dal Concilio generale III e d'Efeso I, anno 431, non essere in Gesù Cristo che una persona contro Nestorio Patriarca di Costantinopoli, e contra i Vescovi, e preti d'Oriente suoi compagni. Sosteneva egli l'Eretico, essere il Verbo (che vuol dire l'Intelligenza, o parola di Dio) e l'Uomo due persone, e quindi non poter dirsi che Maria fosse Madre di Dio, ma bensì soltanto Madre di Cristo: asseriva, che la Natura divina si è unita colla umana come un uomo che fa un'opera, è unito all'istromento di cui si serve per farla; che l'uomo a cui si unì il Verbo è un tempio nel quale abita il Verbo, il quale lo dirige, e lo anima, e non fa che un tutto con lui, e che questa era la sola unione possibile tra la Natura umana e la divina; non ammetteva che un'unione morale fra il Verbo, e la natura umana; asseriva non potersi ammettere tra la natura umana e la divina unione tale, che rendendo la Divinità soggetta alle passioni, e alle debolezze dell'umanità formi in Gesù Cristo una sola persona; negava in somma l'unione ipostatica del Verbo colla umana natura ossia l'Incarnazione, e diceva essere due persone in Gesù Cristo: soggiungeva che la frase Madre di Dio era un ostacolo alla conversione dei Gentili: imperciocchè, diceva, come si potranno impugnare le loro Divinità quando si ammetta un Dio ch'è nato, un Dio che ha sofferto, un Dio ch'è morto? L'errore di Nestorio, il quale non supponeva, che un'unione morale tra la Natura divina ed umana, asserendo essere due persone in Gesù Cristo, distruggeva tutta l'economia dalla religione cristiana, poichè egli è evidente, che in tal caso ne seguirebbe, che Gesù Cristo nostro Mediatore, e Redentore, non fosse che un semplice uomo, lo che distrugge il fondamento della religione cristiana. Il dogma dell'unione ipostatica vale a dire dell'Incarnazione, fu spiegato, e determinato dal Concilio generale III e d'Efeso I presieduto da S. Cirillo Patriarca d'Alessandria: cotal dogma non è una speculazione inutile come pretendono i liberi pensatori; serve a darci l'esempio di tutte le virtù, ad istruirci con autorità, ed a prevenire infiniti abusi, ne' quali sarebbero caduti gli uomini, quando non avessero avuto per modello, e per mediatore, fra Dio ed essi, che un semplice uomo. In questa vista i S. S. Padri hanno mirato il dogma dell'Incarnazione: ma non è questo il luogo di trattare a lungo di ciò (Vedi S. Agostino De Doctr. Christ. S. Greg. Moral. l. 6, 7). Era stato deciso, secondo gli scritti de' S. S. Padri, dal Concilio generale IV di Calcedonia l'anno 451, che in Gesù Cristo figlio di Dio perfetto nella sua Divinità, e perfetto nella sua Umanità, consustanziale al Padre secondo la Divinità, ed a noi secondo l'umanità, vi furono due Nature unite senza cangiamento, senza separazione, di modo, che le proprietà delle due Nature sussistono, e convengono ad una medesima sola persona, che non è in niun modo divisa in due, ma che è un solo Gesù Cristo figlio di Dio come era stato espresso nel Credo scritto nel Concilio generale I di Nicea, l'anno 325, e ciò contro il Monaco eretico Eutiche, Capo degli Eutichiani, il quale per fuggire l'errore del Nestorianismo delle due persone in Gesù Cristo figlio di Dio, perchè vi sono due Nature, sosteneva che le due Nature fossero talmente unite da non formarne che una sola, e confuse le due Nature in una sola spiegando ciò col dire, che la Natura umana era stata assorbita dalla divina, come una gocciola dal Mare; e così spogliava Gesù Cristo della qualità di Mediatore, e distruggeva i patimenti, la morte e la resurrezione, mentre tutte queste cose s'appartengono alla natura umana, ed alla esistenza di un'anima umana, e di un corpo umano uniti alla Persona del Verbo, e non appartengono in niun modo al solo Verbo. Se dunque era stato prima deciso dal Concilio generale IV di Calcedonia, nell'anno 451, esservi in Gesù Cristo due Nature unite, ma non confuse, ne veniva di conseguenza ch'egli dovesse avere due volontà siccome appunto decise il Concilio generale IV contro i Monoteliti, che sostenevano aver Cristo una sola volontà. Serva questa nota d'istruzione dogmatica a' lettori per que' luoghi tutti ove l'Autore fa parola della Natura, e della persona di Gesù Cristo. (Nota di N. N.)
128. L'istoria del Monotelismo sta negli Atti dei Concilii di Roma (t. VII, pag. 77-395, 601-608), e di Costantinopoli (p. 609-1429). Baronio ha tratto alcuni documenti originali dalla Biblioteca vaticana, e le accurate ricerche del Pagi hanno retificata la sua cronologia. Dupin istesso ( Bibliot. ecclés., t. VI, pag. 57-71), e Basnagio ( Hist. de l'Eglise, t. I, p. 541-555) ne danno un compendio assai pregevole.
129. Nel Concilio Lateranense nel 679, Wilfrido vescovo Anglo-sassone sottoscrisse pro omni Aquilonati parte Britanniae et Hiberniae, quae ab Anglorum et Brittonum, necnon Scotorum et Pictorum gentibus colebantur (Eddio, in vita S. Wifrido, c. 31 apud Pagi, Critica, t. III, p. 88). Teodoro ( magnae insulae Britanniae archiepiscopus et philosophus ) fu aspettato a Roma lungamente ( Concil. tom. VII, p. 714); ma si contentò di tenere (A. D. 680) il suo Sinodo provinciale in Hatfield, ove ricevè i decreti di Papa Martino e del primo Concilio di Laterano contro i Monoteliti ( Concil. t. VII, pag. 597 etc.), Teodoro, monaco di Tarso in Cilicia, era stato nominato da Papa Vitaliano primate della Brettagna (A. D. 668); Vedi Baronio e Pagi che ne lodano il suo sapere e la pietà, ma diffidano del suo carattere nazionale; ne quid contrarium veritatis fidei, graecorum more in Ecclesiam cui praeesset, introduceret. Il monaco di Cilicia fu mandato da Roma a Cantorbery accompagnato da una guida affricana (Beda, Hist. eccles. Anglorum, l. IV, c. 1). Egli aderì alla Dottrina romana; e lo stesso domma dell'Incarnazione si è trasmesso senza cangiamento da Teodoro ai primati dei tempi moderni, che dottati di più sodo giudizio, s'imbarazzano, cred'io, rare volte dei labirinti di quel astratto Mistero.
130. Pare che questo nome ignoto, sino al decimo secolo, sia di origine siriaca. Fu inventato dai Giacobiti, e con ardore accolto dai Nestoriani e dai Musulmani; ma i Cattolici lo accettarono senza rossore, e sovente si trova negli Annali di Eutichio (Assemani, Biblioth. orient. t. II, p. 507, etc. t. III, pag. 355; Renaudot Hist. patriar. Alexan. pag. 119). Ημεις δουλοι του βασιλεως, noi siam sudditi del re, fu l'acclamazion dei Padri di Costantinopoli ( Concil. t. VII, p. 765).
131. Il siriaco tenuto per lingua primitiva dagli originarii della Siria avea tre dialetti: 1. l' arameo, che si parlava in Edessa, e nelle città della Mesopotamia; 2. il palestino, usato in Gerusalemme, in Damasco, e nel resto della Siria; 3. il nabateo, idioma rustico delle montagne dell'Assiria e de' villaggi dell'Irak (Gregor. Abulfarag. Hist. dynast., pag. 11). Vedi sul siriaco, Ebed-Gesù (Assemani, t. III, pag. 326, etc.), il quale solamente per animo preoccupato ha potuto preferirlo all'arabo.
132. Io non velerò la mia ignoranza sotto i manti di Simone, di Walton, di Mill, di Wetstein, d'Assemani, di Lodolfo, o di La Croze da me diligentemente consultati. Pare 1. non esser certo, che noi ogni abbiamo nella primiera integrità versione veruna di quelle decantate dai Padri della Chiesa; 2. la version siriaca esser quella, che sembra aver più titoli d'autenticità, e che per confession delle Sette d'Oriente è più antica del loro scisma.
133. In ciò, che riguarda i Monofisiti e i Nestoriani io debbo moltissimo alla Bibliotheca orientalis Clementino-Vaticana di Giuseppe Simone Assemani. Questo dotto Maronita andò nel 1715, per ordine di Papa Clemente XI, a visitare i monasteri dell'Egitto e della Siria in cerca di MS. I quattro volumi in foglio da lui pubblicati a Roma nel 1719 non contengono che una parte dell'esecuzione del suo vasto disegno; ma forse è la più preziosa. Nato egli in Siria conosceva benissimo la letteratura siriaca, e si vede, che quantunque dependesse dalla Corte romana s'ingegna d'essere moderato e sincero.
134. Vedi i Canoni arabi del Concilio di Nicea nella traduzione d'Abramo Ecchelense, n. 37, 38, 39, 40. Concil. t. II, p. 335, 336, ediz. di Venezia. Que' titoli, conosciuti di Canoni di Nicea e di Canoni arabi sono ambedue apocrifi. Il Concilio di Nicea non fece più di venti Canoni (Theod. Hist. eccles. l. I, c. 8); i settanta o ottanta che vi si aggiunsero, furono estratti dai Sinodi della Chiesa greca. L'edizione siriaca di Maruta non sussiste più (Assemani, Bibl. orient. t. I, p. 195, t. III, p. 74); e nella version araba havvi diverse alterazioni recenti. Questo codice per altro racchiude preziosi avanzi della disciplina ecclesiastica; ed essendo stimato da tutte le comunioni dell'Oriente, è probabile ch'ei sia stato finito prima dello scisma dei Nestoriani e dei Giacobiti (Fabric., Bibliot. graec. t. XI, p. 363-367).
135. Teodoro il Lettore (l. II, c. 5-49, ad calcem. Hist. ecclesiast. ) ha fatto menzione di questa scuola persiana d'Edessa. Assemani ( Bibliot. orient., t. II, p. 402, t. III, p. 376-378, t. IV, p. 70-924), discute con molta chiarezza ciò che riguarda il suo antico splendore, e le due epoche della sua caduta.
136. Una dissertazione sullo stato dei Nestoriani è divenuta in mano d'Assemani un volume in foglio di 950 facciate, ove egli ha disposto in ordine chiarissimo le sue dotte ricerche. Oltre a questo quarto volume della Bibliotheca orientalis, gioverà consultare gli estratti che stanno nei tre primi tomi (t. I. p. 203, t. II, p. 321-463, t. III, p. 64-70, 378-395, ec. 403-408, 580-589).
137. Vedi la Topographia christiana di Cosma, soprannominato Indicopleuste, ossia navigatore indiano l. III, p. 178, 179, l. XI, p. 337. L'intiera opera, della quale si trovano degli estratti curiosi in Fozio (cod. XXXVI, p. 6, 10; ediz. Hoeschel), in Thevenot, (prima parte delle sue Relations des voyages ec.), e in Fabrizio ( Biblioth. graec., l. III, c. 25; t. II, p. 603-617), fu pubblicata dal padre Montfaucon, Parigi 1707, nella Nova collectio Patrum, (t. II, p. 113-346). Era intenzione dell'autore di confutar l'eresia di coloro, i quali sostengono che la Terra è un globo, e non una superficie piatta e bislunga, come è rappresentata dalla Scrittura (l. II, p. 138). Ma l'assurdità del monaco si trova mescolata colle cognizioni pratiche del viaggiatore, che partì, A. D. 522, e pubblicò un libro in Alessandria A. D. 547. (l. II, p. 140, 141; Montfaucon, Praefat. c. 2). Il Nestorianismo di Cosma, di cui non s'accorse il suo dotto editore, è stato scoperto dal La Croze ( Christianisme des Indes, t. I, pag. 40-55), e questa cosa è confermata da Assemani ( Bibl. orient., t. IV, p. 605, 606).
138. L'Istoria del prete Gianni nel suo lungo cammino per Mosul, Gerusalemme, Roma, ec. divenne una mostruosa favola, alcuni passi della quale son tolti dal Lama del Thibet, ( Hist. généalogique des Tartares, par. II, 42. Hist. de Gengis-Khan, p. 31 ec.), e che poi con un error madornale fu dai Portoghesi applicata all'imperator d'Abissinia. (Ludolfo Hist. Aethiop. Comment., l. II, c. 1). È per altro probabile, che nell'undecimo e duodecimo secolo la orda dei Cheraiti professasse il Cristianesimo secondo i dommi dei Nestoriani (D'Herbelot, p. 256, 915, 959. Assemani t. IV, p. 468-504).
139. Il Cristianesimo della Cina fra il settimo e tredicesimo secolo, è provato in una maniera incontrastabile da documenti cinesi, arabi, siriaci e latini (Assemani Bibl. orient., t. IV, p. 502-552. Mem. da l'Accad. des inscript., t. XXX, p. 802-819). La Croze, Voltaire ec., sono stati ingannati dalla propria furberia, quando, per guardarsi da una frode gesuitica, han voluto considerar per supposta l'iscrizione del Sigan-Fu, la quale manifesta la gloria della Chiesa nestoriana dopo la prima missione (A. D. 636), sino all'anno 781, che è quello dell'iscrizione.
140. Jacobitae et nestorianae plures quam graeci et latini. Giacomo di Vitry, Stor. Geros. l. II, c. 76 pag. 1093, nelle Gesta Dei per Francos. Ne segna il numero il Tomassino, Discipline de l'Eglise, t. I, p. 172.
141. Si può tener dietro alla division del patriarcato nella Bibl. orient., d'Assemani, t. I, p. 523-549, t. II, p. 457 ec., t. III, pag. 603, 621-623, t. IV, pag. 164-169, 423, 622, 629, ec.
142. Fra Paolo nel settimo libro elegantemente presenta il pomposo linguaggio, che dalla Corte di Roma si adopera, quando se le sottomette un Patriarca nestoriano. Ebbe cura il Papa di usare le grandi parole di Babilonia, di Ninive, d'Arbela, i trofei d'Alessandro, Tauride ed Ecbatana, il Tigri e l'Indo.
143. S. Tommaso, che predicò nell'India, di cui parlano alcuni come d'un semplice missionario, altri come d'un manicheo, ed altri finalmente come d'un mercadante armeno (La Croze, Christian. des Indes, t. I, p. 57-70), era per altro celebre anche ai tempi di S. Girolamo ( ad Marcellam, epist. 148 ). Marco Polo seppe colà, che S. Tommaso avea sofferto il martirio nella città di Maabar, ovvero di Meliapour, lontana una sola lega da Madras (D'Anville, Eclaircissemens sur l'Inde, p. 125), là dove i Portoghesi fondarono un vescovado sotto il nome di S. Thomé, e dove il Santo ha fatto ogni anno un miracolo, sino a tanto che non fu interrotto dalla profana vicinanza degl'Inglesi (La Croze, t. II, p. 7-16).
144. Nè l'autor della cronaca sassone (A. D. 883), nè Guglielmo di Malmsbury ( De gestis regum Angliae, l. II, c. 4, p. 44), non poteano inventare nel dodicesimo secolo questo fatto straordinario. Non seppero nemmeno spiegare i motivi e il procedere d'Alfredo, e quel che ne dicono di fuga non serve che a stuzzicar la nostra curiosità. Guglielmo di Malmsbury sente la difficoltà dell'impresa, quod quivis in hoc saeculo miretur; e son tentato a credere, che in Egitto prendessero gli ambasciatori inglesi quelle mercanzie e quella leggenda. Alfredo che nel suo Orosio narra un viaggio nella Scandinavia ( Vedi Barrington's Miscellanies), non fa menzione d'un altro nell'India.
145. Essendo stato deciso dai Concilii interpreti legittimi dell'Antico, e del Nuovo Testamento, che (come abbiamo veduto) Gesù Cristo Verbo umanizzato dalla stessa sostanza di Dio Padre, era nato dalla Vergine Maria per opera non d'uomo, ma dello Spirito Santo, terza persona della Santissima Trinità, e venendo da ciò chiaramente, che Maria era Madre di Dio, non furono superstiziosi i Latini, ossia i Cristiani d'Occidente, siccome non lo sono oggidì tutti i Cattolici, se prestarono, e prestano un Culto distinto a questa Vergine maravigliosa, che essendo stata il mezzo misterioso onde comparve in questa Terra la seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo fatto uomo, il Salvatore de' credenti, era da considerarsi, siccome esclama con santo metaforico entusiasmo la Chiesa, felix Coeli porta. Il Culto dalla Vergine Maria non è dunque un atto superstizioso; è superstizioso quell'atto che non è stabilito ed approvato dai Concilii, cioè dalla Chiesa. È poi inconvenientissima, per lo meno, l'espressione dell'Autore, elevata quasi al grado di una Dea: questo nome Dea è proprio dalla religione politeistica, e non della Cristiana, e l'usarlo può far correre nel pericolo di avvicinare le due idee disgiuntissime di una Dea, e di Maria: bisogna usare molta circospezione nell'adoperar termini non determinati, o ricevuti dai Concilii, e da' S. S. Padri, cioè dalla Chiesa. (Nota di N. N.)
146. Non è idolatria il culto che i Cattolici prestano alle immagini di Cristo, di Maria, e dei Santi: vedi la nostra lunga nota, di sopra. (Nota di N. N.)
147. Il Sacramento della Penitenza, della remissione dei peccati, fu stabilito da Gesù Cristo col noto fatto della Maddalena: la Chiesa andò riducendolo a forma, a discipline prudenziali, e prescrivendolo ad un certo tempo. L'istromento della riconciliazione degli uomini con Dio, come può essere l'istromento della tirannia ecclesiastica? ciò non può essere. Se poi alcuni preti ne hanno abusato, e ne abusano, ciò altro non vuol dire se non che gli uomini abusano perfino delle cose più reverende. (Nota di N. N.)
148. Vedi intorno ai Cristiani di S. Tommaso, l'Assemani Bibl. orient. t. IV, p. 391-407, 435-451. Geddes's Church History of Malabar, e specialmente La Croze, Histoire du Christian. des Indes, in due volumi in 12. La Haye, 1758, opera dotta e piacevole. Questi attinsero alla medesima fonte, cioè dalle relazioni dei Portoghesi e degli Italiani; e i pregiudizi dei Gesuiti sono bastevolmente contrappesati da quelli dei Protestanti.
149. Οιον ειπειν ψευδαληθης, come s'esprime Teodoro nel suo Trattato dell'Incarnazione, p. 245-247, e tale è la citazione che ne fa La Croze ( Hist. du Christianisme d'Ethiopie et d'Arménie, p. 35), il quale forse un po' sconsideratamente, esclama, «Che raziocinio miserabile!» Renaudot ( Hist. patriarch. Alexand., pag. 127-138), accenna le opinioni espresse da Severo nelle controversie dell'Oriente, e si può vedere la sua vera profession di Fede nell'Epistola da Giovanni il Giacobita, patriarca Antiochia, scriveva nel decimo secolo a Menna d'Alessandria, suo fratello (Assemani Bibl. orient., t. II, p. 132-141).
150. Epistol. archimandritarum et monachorum Syriae secundae ad papam Hormisdam, Concil., t. V, p. 598-602. Il coraggio di S. Saba, ut leo animosus, darebbe a credere che non fossero poi sempre spirituali o difensive l'armi di quei monaci (Baronio A. D. 513, n. 7, ec.).
151. Assemani ( Biblioth. orient., t. II, p. 10-46), e La Croze ( Christian. d'Ethiop., p. 36-40), ci danno l'istoria di Senaia o Filosseno, vescovo di Mabug, o Hierapoli, nella Siria. Egli possedea perfettamente la lingua siriaca, e fu l'autore, e l'editore d'una versione del Nuovo Testamento.
152. Nella cronaca di Dionigi ( ap. Assem., t. II, p. 54), si hanno i nomi ed i titoli di cinquantaquattro Vescovi esiliati da Giustino. Fu chiamato Severo a Costantinopoli per esservi sentenziato, dice Liberato ( Brev. c. 19), per aver mozza la lingua, dice Evagrio (l. IV, c. 4); il prudente Patriarca non si fermò ad esaminare la differenza di queste due cose. Questa rivoluzione ecclesiastica è dal Pagi assegnata al mese di settembre 518 ( Critica, t. II, p. 506).
153. I particolari dell'oscura storia di Giacomo Baradeo, o Zanzalo, si leggono qua e là in Eutichio ( Annal., t. II, p. 144, 147), in Renaudot ( Hist. patriarch. Alex. p. 133), in Assemani ( Bibl. orient., t. I, p. 424; t. II, p. 62-66, 324-222, 414; t. III, p. 385-388). Non pare che fosse noto ai Greci: i Giacobiti stessi volean piuttosto derivare il nome, e la genealogia loro dall'Apostolo S. Giacomo.
154. Le particolarità relative alla sua persona e a' suoi scritti formano per avventura l'articolo più curioso della Biblioteca d'Assemani (t. II, p. 244-321; ivi porta il nome di Gregorio Bar-Ebreo ). La Croze ( Christian. d'Ethiopie, p. 53-63), si fa beffe dal pregiudizio che hanno gli Spagnuoli contro il sangue giudaico, il quale secretamente macchia la loro chiesa e la loro nazione.
155. La Croze (p. 352), e lo stesso Sirio Assemani (t. I, p. 226, t. II, p. 304, 305), fanno la critica di quella astinenza eccessiva.
156. Una dissertazione di centoquarantadue pagine, che sta in principio del secondo volume d'Assemani, spiega perfettamente le circostanze dei Monofisiti. La Cronaca siriaca di Gregorio Bar-Ebreo o Abulfaragio ( Bibliot. orient. tom. II, p. 321-463), ci dà la lista dei Cattolici o patriarchi Nestoriani, e quella dei Mafriani dei Giacobiti.
157. Eutichio ( Annal., t. II, pag. 191, 267, 332), e altri passi della Tavola metodica di Pocock provano, che fu indifferentemente usato il nome di Monoteliti e di Maroniti. Non aveva Eutichio alcun pregiudizio contro i Maroniti del secolo decimo; e possiam credere ad un Melchita, la cui testimonianza è confermata dai Giacobiti e dai Latini.
158. Concil., t. VII, p. 780. Costantino, prete sirio d'Apamea, con intrepidezza e sottilmente difese la causa de' Monoteliti (1040 ec.).
159. Teofane ( Chron. pag. 295, 296, 300, 306), e Cedreno (p. 437-440), narrano le glorie dei Mardaiti; il nome mard, che in siriaco significa rebellavit è spiegato da La Roque; ( Voyage de la Syrie, t. II, p. 53); il Pagi ne fissa le date (A. D. 676, n. 4-14. A. D. 685 n. 3, 4), ed anche l'oscura istoria del patriarca Giovanni Marone (Assemani Biblioth. orient. t. I, p. 496-520), rischiara le turbolenze del monte Libano dall'anno 686 al 707.
160. Nell'ultimo secolo si vedeano tuttavia sul monte Libano venti di quei cedri cotanto vantati dalla Storia sacra ( Voyage de la Roque, t. I, p. 68-76); oggi non ve ne ha più di quattro o cinque (Viaggio di Volney t. I, pag. 264). La scomunica proteggeva quegli alberi così celebri nella Scrittura; se ne levava, ma con circospezione, qualche pezzo per farne crocette, ec: ogni anno sotto la lor ombra si cantava una Messa, e i Sirii supponevano in essi la facoltà di rialzare i loro rami contro la neve, alla quale non sembra che il Libano sia tanto fedele quanto dice Tacito: inter ardores opacum fidumque nivibus: ardita metafora (Hist. v. 6).
(Dicasi piuttosto che fedele alle nevi, significa fedele ossia sicuro, difeso ec. per le nevi, nel senso anche di Plinio. V. Forcellini. N. del Trad. )
161. La testimonianza di Guglielmo di Tiro ( Hist. in gestis Dei per Francos, l. XXII, c. 8, p. 1022), è copiata, o confermata, da Giacomo di Vitry ( Hist. Hierosolym., l. II, c. 77, p. 1093, 1094); ma col potere dei Franchi mancò questa lega poco naturale, e Abulfaragio morto nel 1286, considera i Maroniti come una Setta di Monoteliti ( Bibl. orient. t. II, p. 292).
162. Trovo una descrizione e una storia de' Maroniti nel Viaggio in Siria e nel monte Libano, del La Roque, due volumi in 12 Amsterd., 1723; particolarmente nel t. I, p. 42-47, 174-84, t. II, p. 10-120; in ciò che si riferisce ai tempi antichi aderisce alle opinioni pregiudicate di Nairon e d'altri Maroniti di Roma, alle quali non sa rinunziare Assemani, ed ha poi vergogna di sostenerle. Si consulti Jablonski ( Instit. Hist. Christ. t. III, p. 186), Niebur ( Voyage de l'Arabie, etc. t. II, p. 346, 370-381), e soprattutto il giudizioso Volney ( Voyage en Egypte et en Syrie, t. II, p. 8-31, Paris, 1787).
163. La Croze ( Hist. du Christianisme de l'Ethiopie et de l'Arménie, p. 269-402), descrive in pochi tratti la religion degli Armeni. Ci rimanda alla grand'istoria d'Armenia pubblicata da Galano, (tre volumi in foglio, Roma 1650-1661), e raccomanda l'esposizione che dello stato dell'Armenia si fa nel terzo volume delle Nouveaux Mémoires des Missions du Levant. Convien dire, che sia assai pregevole l'opera d'un Gesuita, quando è lodata da La Croze.
164. Si pone l'epoca dello scisma degli Armeni ottantaquattr'anni dopo il Concilio di Calcedonia (Pagi, Critica, A. D. 535); terminò in uno spazio di anni diciassette; e coll'anno 552 si fissa la data dell'Era degli Armeni ( l'Art de vérifier les dates, p. XXXV).
165. Si ponno vedere i sentimenti e le azioni di Giuliano di Alicarnasso in Liberato ( Brev. c. 19), in Renaudot, ( Hist. patriarch. Alex. p. 132-303), e in Assemani ( Bibl. orien. t. II, Dissert. de monophysitis, P. VIII, p. 286).
166. Vedi un fatto notabile del dodicesimo secolo nell'istoria di Niceta Coniate (p. 258). Nonostante, tre secoli prima Fozio ( epist. II, p. 49 edit. Montacul) s'era fatto una gloria della conversion degli Armeni λατρυει σημερον αρθοδοξως, oggi il culto è ortodosso.
167. Tutti i viaggiatori s'incontrano in Armeni, che han la metropoli sulla strada maestra fra Costantinopoli ed Ispahan; Vedi sul loro stato odierno il Fabricio ( Lux Evangelii, etc. c. XXXVIII, p. 40-51), l'Oleario (l. IV, c. 40), il Chardin (vol. II, p. 232), Tournefort, ( Letter. XX), e principalmente Tavernier (t. I, p. 28-37, 510-518), quel gioielliere vagabondo, che non avea letto alcun libro, ma che avea veduto tante cose, e bene.
168. L'istoria dei Patriarchi d'Alessandria da Dioscoro fino a Beniamino è tratta da Renaudot (p. 114-164), e dal secondo volume degli Annali di Eutichio.
169. Liberato ( Brev. c. 20, 23, Victor, Chron. p. 329, 330). Procopio ( Anecd. c. 26, 27).
170. Eulogio, ch'era stato monaco in Antiochia, valeva più nelle sottigliezze che nell'eloquenza. Egli vuol provare, che non si dee porre opera a riconciliare i nemici della Fede i Gaianiti e i Teodosiani; che la stessa proposizione può essere ortodossa in bocca di S. Cirillo ed ereticale in quella di Severo; che sono ugualmente vere le asserzioni contraddittorie di Leone. Non sussistono più i suoi scritti, se non se negli estratti di Fozio, che li avea letti attentamente, e con piacere. Cod. CCVIII, CCXXV, CCXXVI, CCXXVII, CCXXX, CCLXXX.
171. Vedi la vita di Giovanni il Limosiniere scritta da Leonzio, vescovo di Napoli in Cipro, suo contemporaneo, il testo greco del quale, o perduto, o nascosto, si trova in parte nella version latina di Baronio (A. D. 610 n. 9, A. D. 620 n. 8). Il Pagi ( Critica t. II, p. 763), e il Fabricio (l. V, c. 11, t. VII, p. 454), han fatto varie osservazioni critiche.
172. Io ricavo questa notizia dalle Recherches sur les Egyptiens et les Chinois (t. II, p. 192, 193), più verisimile di quella che ne dà Gemelli Carreri, di seicentomila Cofti antichi, e di quindicimila moderni. Cirillo Lucar, Patriarca protestante di Costantinopoli si dolse perchè questi eretici erano dieci volte più numerosi dei Greci ortodossi, adattando loro ingegnosamente il verso πολλαι κεν δεκαδες δευοιατο οινοχοιο, a molte decine mancherebbe per avventura il coppiere, ( Iliade II, 128), parole di gran disprezzo. (Fabric. lux Evangelii 740).
173. Le cose relative all'istoria, alla religione, ai costumi ec. dei Cofti, si raccolgono dall'opera bizzarra dell'abate Renaudot, che non è nè traduzione, nè originale, dalla Chronicon orientale di Pietro il Giacobita dalle due versioni d'Abramo Ecchellense, Parigi 1651, e da Gian Simone Assemani, Venezia 1729. Questi annali non giungono che al decimoterzo secolo. Convien cercare notizie più recenti negli autori che hanno scritto i loro viaggi in Egitto, e nelle nuove Memorie delle missioni del Levante. Nel secolo passato (1600) Giuseppe Abudneno, nato al Cairo, pubblicò in Oxford una breve Historia Jacobitarum, in trenta pagine.
174. Verso l'anno 737. Vedi Renaudot, Hist. patriarch. Alex., p. 221, 222; Elmacin Hist. Saracen. p. 99.
175. Ludolfo Hist. Aetiop. et Comment., l. I, c. 8; Renaudot, Hist. patriarch. Alex., p. 480 etc. Quest'opinione introdotta in Egitto e in Europa dall'artifizio dei Cofti, dall'orgoglio degli Abissinii, dal timore, e dall'ignoranza dei Turchi e degli Arabi, non ha la menoma sembianza di verità. Sicuramente le piogge dell'Etiopia non consultano la volontà del monarca per ingrossar le acque del Nilo. Se il fiume s'accosta a Napata, distante tre giornate dal Mar Rosso ( vedi le carte di D'Danville) la bocca d'un canale, capace a svolgerne il corso, esigerebbe tutta la potenza dei Cesari, e forse questa non sarebbe bastevole.
176. Gli Abissinii che conservano ancora i delineamenti e il color olivastro degli Arabi, provano troppo che non bastan venti secoli a cangiare le tinte della razza umana. I Nubii, che son d'origine affricana non sono che veri Negri, e tanto neri quanto quelli del Senegal o del Congo; hanno egualmente il naso schiacciato, labbra grosse, e testa lanuta (Buff. Hist. Naturelle, t. V, p. 117, 143, 144, 166, 219, edit. in 12, Parigi 1769). Guardavano gli antichi con poca attenzione questo fenomeno straordinario, che ha tanto occupato i filosofi e teologi moderni.
177. Assemani, Bibl. orient. t. I, p. 329.
178. Il cristianesimo dei popoli della Nubia, (A. D. 1153), è attestato dal sceriffo Al-Edrisi, ed è stato in maniera falsa esposto sotto il nome del geografo di Nubia (p. 18), che li rappresenta come un popolo di Giacobiti. La luce istorica, che s'incontra nell'opera di Renaudot (p. 178, 220-224, 281-286, 405, 434, 451, 464), proviene da nozioni di fatti anteriori a quell'epoca. Vedi lo stato moderno di quel paese nelle Lettres Edifiantes (Raccolta IV), e in Busching (t. IX, p. 152-159, del Berenger).
179. I Latini danno impropriamente all' Abuna, il titolo di patriarca: non riconoscono gli Abissinii che i quattro Patriarchi, e il lor Capo non è che un metropolitano, o un primato nazionale (Ludolfo, Hist. Aeth. et Comment. l. III, c. 7). Questo Storico non sapea nulla de' sette vescovi di Renaudot (p. 511) esistenti A. D. 1131.
180. Non capisco il perchè l'Assemani revochi in dubbio ( Bibl. orient. t. II, p. 384) queste spedizioni tanto probabili fatte da Teodora alla Nubia e all'Etiopia. Renaudot (p. 336-341, 381, 382, 405-443, ec. 452, 456, 463, 475-480, 511-525, 559-564), attinse dagli scrittori cofti quel poco che potè sapere su l'Abissinia sino al 1500. Ludolfo è assolutamente ignaro di quel paese.
181. Ludolfo, Hist. Aetiop., lib. IV, c. 5. Presentemente i Giudei vi esercitano le arti di prima necessità, e gli Armeni fanno il traffico esterno. L'industria europea ( artes et opificia ) era per Gregorio la cosa ch'egli ammirava ed invidiava più d'ogni altra.
182. Giovanni Bermudez; la sua relazione stampata a Lisbona nel 1569 è stata tradotta in Inglese dal Purchas (Pilgrims, l. VII, c. 7, pag. 1149 ec.), e d'inglese in francese da La Croze ( Christian. d'Etiop. p. 92-265); questo scritto è curioso, ma si può sospettare che l'autore abbia abbindolate l'Abissinia, Roma, e il Portogallo. È molto oscuro ed incerto il suo diritto al grado di patriarca (Ludolfo, Comment. n. 101, p. 473).
183. Religio Romana.... nec precibus patrum, nec miraculis ab ipsis editis sufficiebatur, è l'asserzione non contraddetta dal devoto Imperatore Susneo a Mendez suo Patriarca (Ludolfo, Comment. n. 126; p. 529), e queste asserzioni debbono conservarsi come preziosi antidoti a tutte le leggende maravigliose.
184. So quanto cautela sia necessaria nel trattare l'articolo della Circoncisione: affermerò tuttavolta, 1. che gli Etiopi aveano una ragione fisica per circoncidere i maschi ed anche le femmine ( Recherches philosophiques sur les Americains, t. II); 2. che la Circoncisione era usitata in Etiopia gran tempo prima della introduzione del giudaismo o del cristianesimo (Erodoto; l. II, c. 104; Marsham, Canon. chron., pag. 72, 73), « Infantes circumcidunt ob consuetudinem, non ob judaismum,» dice Gregorio, prete abissinio ( apud Fabric. lux christiana, p. 720). Nonostante, nel calor della disputa, si dà talvolta a' Portoghesi il nome ingiurioso d'incirconcisi, (La Croze, pag. 80; Ludolfo, Hist. ad Comment., l. III, c. 1).
185. I tre storici protestanti, Ludolfo ( Hist. Aethiop. Francfort, 1681; Commentarius, 1691; Relatio nova, etc. 1693 in fol. ), Geddes ( Church History of Aetiopia, Londra, 1698, in 8º), e la Croze ( Hist. du Christian. d'Ethiopie et d'Arménie, Aia, 1739, in 12), hanno ricavato le principali notizie da' gesuiti, e specialmente dall'istoria generale di Tellez, pubblicata in portoghese a Coimbra, 1660. Può far maraviglia la lor franchezza, ma il peggiore de' lor vizi, lo spirito di persecuzione, era per essi una virtù meritoria. Ludolfo ha tratto qualche vantaggio ma scarso assai dalla lingua etiopica, ch'egli intendeva, oppure dalle sue conversazioni con Gregorio, prete abissinio, uomo d'animo coraggioso, ch'egli chiamò da Roma, ove si trovava, alla Corte, di Saxe-Gotha. Vedi la Theologia Aetiopica di Gregorio, in Fabricio, lux Evangelii, p. 716-734.
186. L'Autore poteva ommettere di riferire una sì cattiva applicazione del Salmo, fatta dal popolo ignorante diretto dai monaci, siccome poteva tacere più sopra quella simile fatta dal Patriarca di Costantinopoli, che doveva tenersi al suo ministero, e non mescolarsi nella cose civili, e politiche. (Nota di N. N.)
187. Vedi la Nota di N. N. allapag. 248.
188. In vece di curiosità dovevasi dire (trattandosi della Transustanziazione) seria considerazione de' teologi rivolta sempre a spiegare i passi misteriosi dell'Evangelo, a togliere gli apparenti obbietti, che potrebbero per avventura presentarsi, ed a mostrare a credenti i motivi di credibilità, onde tener ferma la fede. (Nota di N. N.)
189. Il dotto Selden ci dà, in una parola molto energica, e d'un significato estesissimo, tutta l'istoria della Transustanziazione: «Quest'opinione è una figura di retore[*], della quale si fece una proposizione di logica». Vedi le sue opere, vol. III, p. 2073, nel suo Seldeniana o i suoi Propos de table.
* Non è maraviglia che Selden, protestante, abbia ciò asserito; e non ha alcuna autorità per un cattolico il detto di un protestante in questo proposito, siccome in tutti gli altri intorno le cose di religione. (Nota di N. N.)
190. Il culto delle Immagini non può chiamarsi superstizione popolare, perchè fu spiegato, sanzionato, e stabilito dai Concilii generali, e dai Papi, che condannarono l'opinione eretica degli Iconoclasti, che invano vi si opposero per tanti anni per abolirlo. Vedi la nostra Nota a p. 248. (Nota di N. N.)
191. Nec intelligunt homines ineptissimi, quod si sentire simulacra et moveri possent, adoratura hominem fuissent a quo sunt expolita. ( Div. Instit., lib. 11, c. 2). Lattanzio è l'ultimo e il più eloquente degli apologisti del cristianesimo; i loro motteggi sugli idoli intaccano non solo l'oggetto, ma anche la forma e la materia.
192. Vedi Sant'Ireneo, Sant'Epifanio e S. Agostino (Basnagio Hist. des Eglises réformées, t. II, p. 1313). Questa pratica dei Gnostici ha una singolare relazione col culto secreto usato da Alessandro Severo (Lampridio, cap. 29; Lardner Heathen Testimonies, vol. III, p. 34).
193. Vedi i capitoli XXIII e XXVIII di quest'opera.
194. Ου γαρ το Θειον απλουν υπαρχον και αληπτον μορφαις τισι και σχημασιν απεικαζομεν. Ουτε κηρω και ξυλοις την υπερουσιον και προαναρχον ουσιαν τιμαν ημεισ διεγνωκαμεν. Imperciocchè noi non rappresentiamo con figure od immagini la Divinità, sostanza semplice ed incomprensibile: nè in cera o in legno intendiamo d'onorare una Essenza suprema ed eterna. ( Concilium Nicenum, II, in Collect. Labbe, t. VIII, p. 1025, edizione di Venezia). « Il serait peut-être à propos, dice il signor Dupin, de ne point souffrir d'images de la Trinité ou de la Divinité; les défenseurs les plus zélés des images ayant condamné celles-ci, et le Concile de Trente ne parlant que des images de Jésus-Christ et des Saints ». ( Bibliot. ecclés. t. VI, p. 154).
195. Il culto del divin Fondatore della religione, Gesù Cristo, era sì spiritualmente impresso ne' Cristiani che non ne avrebbero giammai perduta l'idea, quand'anche non avessero avuto il soccorso de' sensi per mezzo dell'immagine di lui; e ciò sarebbe anche avvenuto, perchè la fede in lui non poteva mancare. (Nota di N. N.)
196. I Greci, ed i Latini adottarono l'idea della assunzione per un motivo già di sopra esposto, nella nostra Nota a pag. 44. (Nota di N. N.)
197. Questo compendio della Storia delle Immagini è tratto dal ventesimosecondo libro dell' Histoire des Eglises reformées di Basnagio, t. II, p. 1310-1337. Era protestante, ma d'uno spirito maschio; e non temono i riformati la taccia di imparziali in una cosa intorno alla quale hanno così evidentemente ragione. Vedi la perplessità del povero monaco Pagi, Critica, t. I, p. 42.
198. Quando si studiano gli annalisti, messi da un lato i miracoli e le contraddizioni, si giudica che dall'anno 300 avea la città di Paneade, in Palestina, un gruppo di bronzo, rappresentante un gran personaggio, avviluppato in un mantello, ed una donna a' suoi piedi che gli attestava la propria gratitudine, o gl'indirizzava suppliche; e leggevasi per avventura sul piedestallo τω Σωτηρι, τω ευεργετη, al salvatore, al benefattore. Supponevano i cristiani pazzamente, che un tal gruppo rappresentasse Gesù Cristo, e la povera donna ch'egli avesse guarito d'un flusso di sangue. (Eusebio, VII, 18; Filostorgio VII, 3, ec.). Il Signor di Beausobre con più ragione congettura, che quella statua rappresentava il filosofo Apollonio o l'Imperatore Vespasiano: in quest'ultima supposizione la donna è una città, una provincia, o forse la regina Berenice. Biblioth. germ. XIII, p. 192.
199. Gli storici, e gli eruditi ecclesiastici del pari che i Teologi hanno rifiutato con tutte le ragioni la corrispondenza fra il re Abgaro, e Gesù Cristo, e qualificata falsa ed inventata la lettera di quel re a Cristo, sebbene sia questa riferita dal Vescovo Eusebio nella sua storia ecclesiastica. La di lui autorità unita a quella di S. Efrem, e di Giacomo Vescovo di Sarug accreditò cotal favola: non si sa precisamente quando, e da chi sia stata inventata. La mancanza di buone istorie ed ancor più quella di buona critica, ne' primi secoli del cristianesimo, cagionarono tale ignoranza. Il cattolico saggio, ed istruito, deve tener certe e ferme le cose narrate ne' libri rivelati del Nuovo Testamento e quelle definite dalla Chiesa, e lasciare le altre alla critica giudiziosa de' dotti. (Nota di N. N.)
200. Eusebio, Hist. ecclesiast., l. I, c. 13. Il dotto Assemani vi aggiugne il testimonio di tre Sirii, di S. Efremo, di Giosuè Stilite, e di Giacomo, vescovo di Sarug; ma non so che s'abbia prodotto l'originale di quella lettera, o indicati gli archivi d'Edessa. ( Bibl. orient. t. I, p. 318, 420, 554). Si fatta tradizione così incerta venia loro probabilmente dai Greci.
201. Lardner discute e rigetta colla sua solita ingenuità i testimonii citati in favore di quel carteggio ( Heathen Testimonies, vol. I, p. 297-309). Arrossisco di vedere tra la folla degli scrittori superstiziosi, ch'egli scaccia da questo posto ragguardevole insieme ai Grabe, Cave e Tillemont, anche il signor Addison ( Vedi le sue opere, vol. I, p. 528 ediz. di Baskerville); ma il trattato superficiale da lui composto sulla religion cristiana ha acquistato credito dal nome dell'autore, dal suo stile, e dagli elogi troppo sospetti del clero.
202. Dal silenzio di Giacomo di Sarug (Assemani Bibliot. orient. p. 289-318), e dalla testimonianza d'Evagrio ( Hist. eccl. l. IV, c. 27) giudicai, essere stata quella favola inventata tra gli anni 521 e 594, probabilmente dopo l'assedio di Edessa, nel 540 (Assemani t. I, p. 4167. Procopio De bello persico, l. II). È la spada e lo scudo di Gregorio II ( in epist. 1, ad Leon. Isaur. Concil.; t. VIII, p. 656, 657), di S. Giovanni Damasceno ( Opera, t. I, p. 281, ediz. di Lequien), e del secondo Concilio di Nicea ( Actio V, p. 1030). La più perfetta edizione si trova in Cedreno ( Compend. p. 175-178).
203. Αχειροποιητος, senza mani. Vedi Ducange, in Gloss. graec. et latin. Questo soggetto è trattato con erudizione non meno che con pregiudizii dal Gesuita Gretser ( Syntagma de imaginibus non manu factis, ad calcem codicis de officiis, p. 289-330), l'asino o piuttosto la volpe d'Ingolstadt ( Vedi la Scaligeriana ); con pari senno e ragione dal protestante Beausobre nella controversia ironica da lui inserita in differenti volumi della Bibliothèque germanique (t. XVIII, pag. 1-50; t. XX, p. 27-68; t. XXV, p. 1-36; t. XXVII, pag. 85-118; t. XXVIII, pag. 1-33; t. XXXI, p. 111-148; l. XXXII, p. 75-107; t. XXXIV, p. 67-96).
204. Teofilato Simocatta (l. II, c. 3, p. 34; l. III, cap. I, p. 63), celebra θεανδρικον εικασμα, l'immagine dell'Uomo Dio, ch'egli chiama αχειροποιητον, senza mano; ma non era che una copia, poichè soggiugne αρχετυπον οι Ρωμαιοι (d'Edessa) θρεσκευουσι τι αρρητον, che i Romani (di Edessa) venerano quell'originale con un culto singolare. ( Vedi Pagi, t. II, A. D. 596, n. II).
205. Vedi nelle opere autentiche o supposte di S. Giovanni Damasceno, due passi sulla Vergine Maria e sopra S. Luca, dimenticati da Gretser, e per conseguente non rammentati da Beausobre ( Opera Johan. Damascen. t. I, p. 618-631).
206. «Escono le vostre scandalose figure fuor della tela; sono esse cattive come le statue in grupo». Lodavano in tal guisa l'ignoranza e il fanatismo d'un prete greco alcuni quadri di Tiziano, ch'egli avea comandati, e che non volea più ricevere.
207. Secondo Cedreno, Zonara, Glycas e Manasse, gli autori della Setta degli Iconoclasti furono il Califfo Iezid e due Ebrei che aveano promesso l'Impero a Leone. I rimproveri che l'odio suggerisce a que' Settarii vengono interpretati come un'assurda cospirazione pel ristabilimento della purità del culto cristiano. ( Vedi Spanheim, Hist. Imag., c. 2).
208. Jezid, nono Califfo della razza degli Omniadi, distrusse tutte le Immagini della Siria verso l'anno 719: onde gli ortodossi rimproverarono ai Settarii di seguire l'esempio dei Saracini e degli Ebrei ( Fragm. mon. Johan. Jerosolymit. script. Byz., t. XVI, p. 235. Hist. des Répub. ital., par Sismondi t. I, p. 126). (Nota dell'Editore francese).
209. Vedi Elmacin ( Hist. Saracen., pag. 267), Abulfaragio ( Dynast., p. 201), Abulfeda ( Annal. Moslem., p. 264), e le Critiche del Pagi (t. III, A. D. 944). Non ardisce questo prudente Francescano di determinare, se a Roma o a Genova riposi l'immagine d'Edessa; ma essa riposa senza gloria; non è più alla moda, ed ha perduta la sua antica celebrità.
210. Αρμενιοις και Αλαμανοις επισης η αγιων εικονων προσκυνησις απηγορευται, agli Armeni del pari che agli Alemanni è proibita l'adorazione delle sante Immagini. (Niceta, lib. II, p. 258). Le Chiese d'Armenia non fan ancor uso che della Croce ( Missions du Levant, t. III, p. 148); ma il Greco superstizioso è senza dubbio ingiusto verso la superstizione degli Alemanni del duodecimo secolo.
211. Negli Atti dei Concilii (tom. VIII e IX Collect. de Labbe ediz. di Venezia), e negli scritti istorici di Teofane, di Niceforo, di Manasse, di Cedreno, di Zonara ec. si devono cercare i monumenti originali di tutto ciò che è relativo agl'Iconoclasti; non si troveranno però affatto imparziali. Fra i moderni cattolici, Baronio, Pagi, Natalis Alessandro ( Hist. eccl., secul., 8 e 9) e Maimbourg ( Hist. des Iconoclastes ) mostrarono a questo riguardo pari erudizione, passione e credulità. Le indagini del protestante Federico Spanheim ( Hist. imaginum restituta ), e di Giacomo Basnagio ( Hist. des Eglises réformées, t. II, 1. XXIII, p. 1339-1385), inclinano dal lato degli Iconoclasti. Pei soccorsi che ci offrono le due parti, e per la loro opposta disposizione, ci è facile il giudicare questa lite con una imparzialità filosofica.
212. Come si raccoglie da questi fiori di rettorica Συνοδον παραμον και αθεον Sinodo empio ed ateo, si trattarono i Vescovi da τοις ματαιοφροσιν. Damasceno chiama questo Concilio ακυρος και αδεκτος, non autorevole e non ammesso. ( Opera, t. I, p. 623) Fece Spanheim con pari ingegno e sincerità l'apologia del Concilio di Costantinopoli (p. 171, ee.); ne trasse i materiali dagli Atti del Concilio di Nicea (p. 1046, etc.) L'arguto Giovanni di Damasco, dice επισκωτους tenebrosi in vece di επισκοπους Vescovi, e dà ai Vescovi il nome di κοιλιοδουλους schiavi del loro ventre, ec. ( Opera, t. 1, p. 306.).
213. Tutto al più poteva dirsi, che la credenza, e la protezione de' sovrani hanno influito a dar coraggio ai Vescovi ortodossi nel sostenere e fissare le buone dottrine contro le false opinioni dei Vescovi eretici, e dei Conciliaboli; ma i Vescovi nei Concilii ortodossi, e generali, che appunto spiegavano, e fissavano i dogmi, furono liberi nelle loro decisioni. Se, per esempio nei quattro primi Concilii generali, che spiegarono, e fissarono i fondamenti dogmatici, vi assistettero gli Imperatori, o i loro ministri, e consiglieri, se vi furono ufficiali di Polizia e soldatesche, ciò fu solamente per tener il buon'ordine ed impedire i disordini delle contese. (Nota di N. N.)
214. Si accusa Costantino d'avere proscritto il titolo di Santo, d'aver chiamata la Vergine Maria madre di Gesù Cristo, d'averla paragonata, dopo il parto, ad una borsa vuota; si accusa di più d'arianismo, di nestorianismo, ec. Spanheim, che lo difende (c. 4, p. 207), è alquanto imbrogliato tra gl'interessi d'un protestante, e i doveri d'un teologo ortodosso.
215. Il santo confessore Teofane approva il principio della loro ribellione θειω κινουμενοι ξηλο, mossi da zelo divino. (p. 339). Gregorio II ( in epist. 1, ad imp. Leon, Concil., t. VIII, p. 661-664) applaudisce allo zelo delle donne di Bizanzio, che uccisero gli officiali dell'Imperatore.
216. I Greci ortodossi, cultori delle Immagini, avranno sperato d'ottenere qualche miracolo a loro favore nella battaglia contro l'armata dell'Imperatore Leone Iconoclasta; ma, i miracoli stanno nella mano di Dio, e se i Greci sostenitori delle Immagini non ne ottennero, il fuoco greco doveva avere il suo effetto di distruggere la loro flotta; e questo effetto non avrebbe avuto luogo se avessero ottenuto un miracolo. (Nota di N. N.)
217. La violenza di Costantino Copronimo ha indotto la prudenza del Patriarca a preferire per il momento la dissimulazione ad uno zelo pericoloso, sperando di poter in circostanze più favorevoli spiegare il vero suo sentimento; e questo accorgimento politico non è da biasimarsi. (Nota di N. N.)
218. Dovevasi dire fedeli al culto delle Immagini il quale, per la nota nostra alla pag. 248, nel vero senso non è superstizione; se poi i monaci ammassarono ricchezze, abusarono della loro influenza sugli animi, delle circostanze, e dell'ignoranza de' tempi, ciò è da disapprovarsi. (Nota di N. N.)
219. Giovanni o Mansur era nobile cristiano di Damasco, che avea una carica ragguardevole al servizio del Califfo. Il suo zelo nella causa delle Immagini l'espose al risentimento e alla perfidia dell'Imperatore greco; pel sospetto d'una rea corrispondenza, gli fu tagliata la mano destra restituitagli miracolosamente dalla Vergine. Cedette quindi la carica, distribuì le sue ricchezze, e andò a nascondersi nel monastero di San Saba, tra Gerusalemme e il mar Morto. Famosa è la Leggenda; ma il padre Lequien, dotto editore di lei, sgraziatamente provò, che S. Giovanni Damasceno era già monaco prima della controversia iconoclastica. ( Opera, t. I, vita S. Johannis Damascen., p. 10-13. et Notas ad loc. )
220. Dopo aver mandato al diavolo Leone, fa parlare il suo erede το μιαρον αυτου γεννημα, και της κακιας αυτου κληρονος εν διπλω γενομενος, scellerato germe di lui, divenuto erede doppiamente della sua malvagità. ( Opera Damascen. t. I, p. 625.) Se l'autenticità di questo pezzo è sospetta, siamo certi, che in altre opere, che non esistono più, Giovanni dà a Costantino i titoli di νεον Μωαμεθ, Χριστμαχον, μιςαγιον, nuovo Maometto, avversario di Cristo, nimico dei Santi. (t. I. p. 306).
221. Spanheim (p. 235-238), che narra questa persecuzione secondo Teofane e Cedreno, dilettasi a paragonare il draco di Leone coi dragoni ( dracones ) di Luigi XIV, e si ricrea grandemente con questo scherzo di parole.
222. Προγραμμα γαρ εξεπεμψε κατα πασαν εξαρχιαν ιων υπο της χειρος αυτος; παντας υπογραψαι και ομνυναι του αθετησαι την προσκουησιν των σεπτων εικονων. Imperocchè mandò un avviso per tutto l'Esarcato che da lui dipendeva di dover tutti sottoscrivere e giurare che abiuravano l'adorazione delle occidentali Immagini. ( Damascen., Op., t. I, p. 625.) Non mi ricordo d'aver letto questo giuramento nè questa sottoscrizione in niuna raccolta moderna.
223. Se la sollevazione d'Italia contro il suo legittimo sovrano, cagionata dall'Iconoclastia, diede occasione, agli abitanti di Roma e delle vicine terre di darsi volontariamente a Gregorio II, e di considerarlo suo principe, onde quest'atto può riguardarsi il primo dei molti avvenimenti che determinarono ne' Papi potestà, e indi sovranità temporale, bisogna per altro aggiungere, e confessare, che lo stesso Gregorio II s'adoperò scrivendo ad Orso, Doge di Venezia, acciocchè l'Esarcato di Ravenna invaso dai Longobardi nel tempo della ribellione pel decreto dell'Imperatore Leone contro il culto delle Immagini rimanesse sotto il dominio dell'Imperatore stesso; Quia peccato faciente Ravennatum civitas quae caput est omnium a nec dicenda gente longobardorum capta est, et filius noster eximius D. Exarchus apud Venetias moratur (ut cognovimus) debeat Nobilitas tua ei adhaerere, et cum eo nostra vice pariter decertare, ut ad pristinum statum sanctae reipubblicae in Imperiali servitio ipsa revocetur Ravennatum civitas etc. Epistola Gregorj II. Labbe T. 8. p. 177 ad Ursum Ducem Venetiarum. E la Repubblica di Venezia obbedendo al papa, potente in que' giorni anche nelle cose politiche, e civili, rimise con un'armata Paolo Esarca, per l'Imperatore, nel governo di Ravenna siccome ci documenta il Sigonio, Lectis litteris Veneti autoritatem Pontificis secuti Paulum summa ope adjuvandum decreverunt Sigonius de Regno Italiae, l. 3.
Ed è vero ancora, che lo stesso Gregorio indi impedì, che gli Italiani eleggessero un nuovo Imperatore; omnis Italia consilium iniit ut eligeret Imperatorem, sed compescuit tale judicium Pontifex sperans conversionem Principis. Anes. Bibl. Vita Gregorii II. (Nota di N. N.)
224. Και την Γωμην σ υν Ιταλια της βασιλειας αυτου απεστησε, e separò dal suo regno con tutta l'Italia, dice Teofane ( Chronograph. p. 343). Gregorio è chiamato perciò da Cedreno ανηρ αποςολικος, uomo apostolico, (p. 550). Zonara specifica questo fulgore di αναθηματι συνοδικω, scomunica Sinodico (t. II. l. XV, p. 104, 105). È da notare essere i Greci disposti a confondere i regni e le azioni dei due Gregorii.
225. Vedi Baronio ( Annal. ecclés., A. D. 730, num. 4, 5): dignum exemplum! (Bellarmin., De rom. Pontifice, l. V, c. 8.): mulctavit eum parte imperii. (Sigonius, De regno Italiae, l. III, opera, t. II, pag. 169.) Ma le opinioni in Italia sono cangiate a tale, che l'editore di Milano, Filippo Argelati, Bolognese e suddito del Papa, corregge Sigonio.
226. Quod si Christiani olim non deposuerunt Neronem aut Julianum; id fuit quia deerant vires temporales Christianis (così parla il virtuoso Bellarmino, De rom. Pont., l. V, c. 7.) Il Cardinale du Perron fa una distinzione che è più onorevole ai primi cristiani, ma che non dee piacere di più ai principi moderni. Distingue il tradimento degli eretici e degli apostati, che mancano ai loro giuramenti, falsificano il marchio ricevuto, e rinunciano alla fedeltà che devono a Gesù Cristo e al suo Vicario ( Perroniana, p. 89).
227. Si può citare per esempio il circospetto Basnagio ( Hist. de l'Eglise, p. 1350, 1351), e il veemente Spanheim ( Hist. imaginum ), che calcano con cent'altri le vestigia dei centuriatori di Magdeburgo.
228. Vedi Launoy ( Op., t. V, part. II, ep. VII, 7, p. 456-474), Natalis Alexander ( Hist. novi Testam., secul. 8, Dissert. 1, p. 92, 96), Pagi ( Critica, t. III, p. 215, 216), e Giannone ( Istoria civ. di Napoli, t. I, p. 317-320), discepolo della Chiesa gallicana. Nel campo delle controversie io compiango sempre la fazion moderata, che sta in mezzo ai combattenti, esposta al fuoco d'ambe le parti.
229. Ricorrono a Paolo Warnefrido, o il Diacono ( De gestis Langobard., l. VI, c. 49, p. 506, 507) in script. Ital., (Muratori, t. 1, part. 1), e all'Anastasio supposto ( De vit. pont., in Muratori, t. III, part. I), a Gregorio II (p. 154), a Gregorio III (p. 158), a Zaccaria (p. 161), a Stefano II (p. 165), a Paolo (p. 172), a Stefano IV (p. 174), ad Adriano (p. 179), a Leone III (p. 175). Ma io noterò che il vero Anastasio ( Hist. eccles., p. 134 edit. Reg.) e l'autore dell' Historia miscella (l. XXI, p. 151, in t. I. script. Ital. ), amendue scrittori del quinto secolo, traducono e approvano il testo greco di Teofane.
230. Con qualche picciola differenza, i critici i più dotti, Luca Olstenio, Schelestrate, Ciampini, Bianchini, Muratori ( Prolegomena, ad t. III, parte I.), convengono, essere stato il Liber pontificalis principiato e quindi continuato dai bibliotecarii e notai apostolici dei secoli ottavo e nono, e non essere che l'ultima parte (la meno ragguardevole) opera di Anastasio, il cui nome sta in fronte al libro. N'è barbaro lo stile, piena di parzialità la narrativa; son minutissimi i ragguagli; si dee però leggerla come un monumento curioso ed autentico del secolo di cui parliamo in questo luogo. L'Epistole dei Papi si trovano sparse nei volumi dei Concilii.
231. Le due Epistole di Gregorio II furono conservate negli Atti del Concilio di Nicea (t. VIII, p. 651-674); van senza data: Baronio dà loro quella del 726; Muratori ( Annali d'Italia, t. VI, p. 120) dice che furono scritte nel 729, e Pagi nel 730. Tal'è la forza delle prevenzioni che alcuni Papi scrittori lodarono il buon senso e la moderazione di queste lettere.
232. Εικοσι τεσσαρα σταδια υποχωρησει ο Αρχιερευς Ρομης εις την χωραν της καμπανιας, και υπαγε διωξων. Il Pontefice di Roma si ritrarrà per ventiquattro stadii nella provincia della Campania, e tu perseguiterai i venti. ( Epist. I, p. 664). Questa vicinanza dei Lombardi è molto indigesta. Camillo Pellegrini ( Dissert. 4, De ducatu Beneventi, nelle Script. Ital. t. V, p. 172, 173) conta con qualche apparenza di ragione i ventiquattro stadii, non da Roma, ma dai confini del ducato Romano, fino alla prima Fortezza dei Lombardi, ch'era forse Sora. Credo piuttosto, che Gregorio, secondo la pedanteria del suo secolo, impiegò il termine di stadio in vece di quello di miglio, senza badare al vero valore della parola che usa.
233. Ον αι πασαι βαριλειαι της δυρεως ως Θεον επιγειον εχουσι. Cui tutti i regni d'Occidente risguardano come un Dio terreno.
234. Απο ιης εσωτερου δυσεως του λεγομενου Σεπτετου. Dall'Occidente estremo, denominato Septeto. Sembra che il Papa facesse impressione sull'animo de' Greci ignoranti: visse, e morì nel palazzo di Laterano, e all'epoca del suo regno tutto l'Occidente aveva abbracciato il cristianesimo. Questo Septeto ignoto non potrebbe per avventura avere qualche conformità col Capo dell'Eptarchia sassone, come quell'Inn, re di Wessex, che nel pontificato di Gregorio II andò a Roma non per ricevere il Battesimo, ma come pellegrino? (Pagi, A. D. 689, num. 2; A. D. 726, num. 15).
235. Trascriverò qui il passaggio ragguardevole e decisivo del Liber pontificalis. Respiciens ergo pius vir profanam principis jussionem, jam contra imperatorem quasi contra HOSTEM se armavit, renuens haeresim ejus, scribens ubique se cavere christianos eo quod orta fuisset, impietas talis. IGITUR permoti omnes Pentapolenses, atque Venetiarum exercitus contra imperatoris jussionem restituerunt: dicentes se nunquam in ejusdem pontificis condescendere necem, sed pro ejus magis defensione viriliter decertare (p. 156).
236. Un census o capitazione, dice Anastasio (p. 156), tassa crudele e ignota agli stessi Saracini, esclama lo zelante Maimbourg ( Histoire des Iconoclastes, l. I), e Teofane (p. 344), che ricorda l'enumerazione dei maschi d'Israele, ordinata da Faraone. Questa forma di gabella era famigliare ai Saracini, e sgraziatamente per Maimbourg, Luigi XIV suo protettore la introdusse in Francia pochi anni dopo.
237. V. il Liber pontificalis d'Agnellus (nei Scriptores rerum italicarum di Muratori, t. II part. I). Scorgesi in questo scrittore un color più carico di barbarismo, d'onde risulta, ch'erano i costumi di Ravenna un pò differenti da quelli di Roma. Gli siamo però debitori di alcuni fatti curiosi e particolari di quella città. Egli ci dà a conoscere i quartieri e le fazioni di Ravenna (p. 154), la vendetta di Giustiniano II (p. 160, 161) e la sconfitta dei Greci (p. 170, 171), etc.
238. È chiaro, che i termini del decreto comprendeano Leone si quis.... imaginum sacrarum.... destructor.... extiterit, sit extorris a corpore D. N. Jesu-Christi, vel totius Ecclesiae unitate. Tocca ai Canonisti a decidere se basti il delitto per avere la scomunica, o se bisogna essere nominato nel decreto. E questa decisione interessa estremamente la sicurezza degli scomunicati, poichè l'oracolo (Gratien, Caus., 23, q. 5, c. 47, apud Spanheim, Hist. immag. p. 112) dice: homicidas non esse qui excommunicatos trucidant.
239. Compescuit tale consilium pontifex, sperans conversionem principis (Anastasio, p. 156). Sed ne desisterent ab amore et fide R. J. admonebat. (p. 157) Danno i Papi a Leone e a Costantino Copronimo i titoli d' imperatores e di domini, accompagnati dallo strano epiteto di piissimi. Un celebre mosaico del palazzo di Laterano (A. D. 798) rappresenta Gesù Cristo che consegna le chiavi di San Pietro e lo stendardo a Costantino V. (Muratori, Annali d'Italia, t. VI; p. 337.)
240. Indicai l'estensione del Ducato di Roma secondo le carte geografiche, e mi servii di queste carte secondo l'eccellente dissertazione del padre Beretti ( Chorographia Italiae medii aevi, sect. 20, p. 216-232). Devo per altro notare, essere stato Viterbo fondato dai Lombardi (p. 211), e Terracina presa dai Greci.
241. Si leggeranno con piacere nel Discorso preliminare della République romaine, opera del Signor di Beaufort, (t. I.) le particolarità concernenti all'estensione, alla popolazione etc. del Regno romano: non si accuserà quest'autore di troppa credenza pei primi secoli di Roma.
242. Non è superstizione, come dice sempre l'Autore, il culto delle Immagini bene inteso, e prestato secondo il sentimento della Chiesa. È poi vero che le controversie, le sollevazioni per cotal contrattato culto, produssero un nuovo governo in Roma, e diedero occasione alla sovranità dei Papi. (N. di N. N.)
243. Quos ( Romanos ) non Langobardi scilicet, Saxones, Franci, Lotharingi, Bajoarii, Suevii, Burgundiones, tanto dedignamur ut inimicos nostros commoti, nihil aliud contumeliarum nisi Romani, dicamus: hoc solo, id est Romanorum nomine, quicquid ignobilitatis, quicquid timiditatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est comprehendentes. (Luitprando, in legat. script. Ital., t. II, p. 481). Minosse avrebbe potuto imporre a Catone o a Cicerone, in penitenza dei loro peccati, l'obbligo di leggere ogni giorno questo passaggio d'un Barbaro.
244. Pipino, Regi Francorum, omni senatus, atque universa populi generalitas a Deo servatae romanae urbis. ( Codex Carolin. epist. 36, in script. Ital., t. III, part. II, p. 160). I nomi di senatus e di senator non furono mai al tutto annichilati ( Dissert. chorograph., p. 216, 217). Ma nell'età media essi non significarono nient'altro che nobiles, optimates, ec. (Ducange, Gloss. latin. )
245. Vedi Muratori, Antiq. Ital. medii aevi, t. II. Dissert. 27, p. 548. Sopra una di quelle monete leggesi Hadrianus Papa (A. D. 772), sul rovescio, Vict. DDNN, colla parola CONOB, che il padre Ioubert ( Science des médailles, t. II, p. 42) spiega per CONstantinopoli Officina B, ( secunda ).
246. Vedi la dissertazione di West sui Giuochi Olimpici (Pindaro, vol. 2, p. 32-36: ediz. in 12), e le giudiziose riflessioni di Polibio (t. I., l. IV, p. 466, ediz. di Gronov.)
247. Sigonio ( De regno Ital. l. III, opera, t. II, p. 173) mette in bocca a Gregorio un discorso al Re dei Lombardi, in cui v'ha l'audacia e il coraggio di quelli di Salustio e di Tito Livio.
248. Due storici veneziani, Giovanni Sagorino ( Chron. Venet. p. 13) e il doge Andrea Dandolo ( Script. rer. Ital., t. XII, p. 135) conservarono quest'Epistola di Gregorio. Paolo Diacono ( De gest. Langobard., l. VI, c. 49-54, in script. Ital. t. I, part. I, p. 506-508) fa menzione della perdita e della ripresa di Ravenna; ma non possono i nostri cronologisti Pagi e Muratori ec., accertare nè l'epoca di questo avvenimento, nè le circostanze che l'accompagnarono.
249. Quest'incertezza è fondata sulle varie lezioni del manoscritto d'Anastasio: leggesi nell'una deceperat e nell'altra decerpserat ( Scriptor. Ital., tom. III, part. I, p. 167).
250. Il Codex Carolinus è una raccolta di lettere dei Papi a Carlo Martello (ch'essi chiamarono Subregulus ), a Pipino e a Carlomagno; giungono fino all'anno 791, epoca in cui l'ultimo di que' principi le unì insieme. Il manoscritto originale e autentico ( Bibliothecae Cubicularis ) è oggigiorno nella Biblioteca imperiale di Vienna, e fu pubblicato da Lambecio e da Muratori ( Script. rer. Ital., t. III, part. II, 75. ec.)
251. Vedi questa lettera straordinaria nel Codex Carolinus, epist. 3, p. 92. I nemici dei Papi accusarono Stefano di superchieria e di bestemmia; era però intenzione di quel Pontefice più di persuadere che d'ingannare. Era questo metodo di far parlare i morti o gl'immortali familiare agli antichi oratori; ma bisogna confessare ch'esso fu impiegato in tale occasione colla rozzezza dell'epoca di cui parliamo.
252. Trascurarono per altro questa precauzione quando si trattò del divorzio della figlia di Desiderio, ripudiata da Carlomagno, sine aliquo crimine. Il Papa Stefano IV erasi opposto con furore al matrimonio d'un nobile Franco, cum perfida, horrida, nec dicenda, faetentissima natione Langobardorum, alla quale attribuisce l'origine della lebbra ( Cod. Carol. epist. 45, p. 178, 179). Un'altra ragione contro quel matrimonio era l'esistenza d'una prima moglie. (Muratori, Ann. d'Ital., t. VI, p. 232, 233-236, 237.) Ma Carlomagno si facea lecito la poligamia o il concubinato.
253. Vedi gli Annali d'Italia del Muratori, t. VI, e le tre prime Dissertazioni delle sue Antiquitat. Italiae medii aevi, t. I.
254. Oltre gli storici ordinarii, tre critici francesi, Launoy ( Opera, t. V. part. II, l. VII, epist. 9. p. 477-487), Pagi ( Critica, A. D. 751; num. 1-6; A. D. 752, num. 1-10) e Natalis Alexander ( Hist. Novi Testamenti, Dissertat. 2; p. 96-107) trattarono dottamente, e con accuratezza questo soggetto del discacciamento di Childerico, ma dando un contorno ai fatti per salvare l'independenza della corona. Si trovarono però terribilmente angustiati dai passaggi che traggono da Eginardo, da Teofane e dagli antichi Annali Laureshamenses, Fuldenses, Loisielani.
255. Non è maraviglia che in quei tempi d'ignoranza di tutte le cose, e di confusione di tutte le idee, un vasto campo si sia presentato ad alcuni Papi per estendere grandemente con molti disordini ed abusi il loro potere, e per trasformarlo a danno dei diritti dei re e dei governi, e tacendo le affievolite leggi, e le volontà, sieno in Europa, divenuti gli oracoli in ogni argomento civile, e politico; ma gli abusi non somministrano ragioni di offendere la religione. (Nota di N. N.)
256. Non fu assolutamente allora la prima volta che si usò l'unzione dei re d'Israele; se ne fece uso sopra un teatro meno cospicuo nel sesto e settimo secolo dai Vescovi della Brettagna e della Spagna. L'unzione reale di Costantinopoli fu presa ad imprestito dai Latini nell'ultima epoca dell'Impero. Costantino Manasse parla di quella di Carlomagno come d'una cerimonia straniera, giudaica e incomprensibile. Vedi i Titoli d'onore di Selden nelle sue opere, vol. 3, part. 1. p. 234-249.
257. Quantunque, a dir vero, gli Imperatori romani cristiani e cattolici del quarto, e quinto secolo, non sieno stati unti, non può chiamarsi superstiziosa la cerimonia dell'unzione, che, sebbene in origine ebraica, non fu o condannata, o tolta via dal cristianesimo, che riformando il giudaismo su d'esso essenzialmente si fondò; e poi cotal cerimonia serviva e serve a rendere specialmente per il volgo più rispettabili i sovrani, i quali lo sono grandemente per gli uomini ragionevoli, e fedeli, anche senza la cerimonia anzidetta. (Nota di N. N.)
258. Vedi Eginardo, in vita Caroli Magni, c. 1, p. 9, ec. c. 3, p. 24. Childerico fu deposto, jussu, e la razza Carlovingia ristabilita sul trono, auctoritate pontificis romani. Launoy ed altri scrittori pretendono che quest'energiche parole sono suscettive d'un'interpretazione assai mite; sia pure; ma Eginardo conosceva bene il Mondo, la Corte e la lingua latina.
259. Vedi sul titolo e sui poteri di patrizio di Roma, Ducange ( Gloss. lat., t. V, p. 148-151), Pagi ( Crit., A. D. 740; num. 6-11), Muratori ( Annali d'Italia, tom. VI, 308-329) e Saint-Marc ( Abrégé chronologique de l'Italie, t. I, p. 379-382). Di tutti questi scrittori il Francescano Pagi è più disposto a ravvisare nel patrizio un luogotenente della Chiesa, anzi che dell'Impero.
260. Possono i difensori del Papa rattemperare il significato simbolico della bandiera e delle chiavi; ma sembra che le parole ad regnum dimisimus o direximus ( Codex Carol. epist. I, t. III, part. II, p. 76) non ammettino nè palliativi nè sutterfugii. Nel manoscritto della Biblioteca di Vienna leggesi rogum, preghiera o supplica, in vece di regnum ( Vedi Ducange), e questa rilevante correzione distrugge il titolo regio di Carlo Martello. (Catalani, nelle sue Prefazioni critiche degli Annali d'Italia, t. XVII, p. 95-99.)
261. Leggesi nel Liber pontificalis, che contiene relazioni autentiche intorno a quel ricevimento: Obviam illi ejus sanctitas dirigens venerabiles cruces, id est signa; sicut mos est ad exarchum aut patricium suscipiendum, eum cum ingenti honore suscipi fecit (t. III, part. I., p. 185).
262. Paolo Diacono, che scrisse prima dell'epoca in cui assunse Carlomagno il titolo d'Imperatore, parla di Roma come d'una città suddita di questo principe. Vestrae civitates (ad Pompeium Festum) suis addidit sceptris (De Metensis Ecclesiae episcopis). Alcune medaglie carlovingie coniate a Roma, guidarono Le Blanc in una dissertazione elaborata, ma molto parziale, risguardante l'autorità che aveano i Re di Francia su Roma, in qualità di patrizii e d'Imperatori. (Amsterdam, 1692, in 4.)
263. Mosheim ( Instit. Hist. eccl., p. 263) esamina questa donazione con pari saggezza e buona fede. L'Atto originale non è mai stato prodotto; ma il Liber pontificalis descrive questo bel presente (p. 171), e il Codex Carolinus lo suppone. Sono queste due Opere monumenti contemporanei, ed è l'ultimo ancor più autentico, perchè fu conservato nella Biblioteca dell'Imperatore, e non in quella del Papa.
264. Tra le pretensioni esorbitanti e le concessioni assai limitate dell'interesse e del pregiudizio, di cui non è esente lo stesso Muratori ( Antiquitat., t. I, p. 65-68), nel determinare i confini dell'Esarcato e della Pentapoli presi a guida la Dissert. chorograph. Italiae medii aevi, t. X, p. 160-180.
265. Spoletini deprecati sunt, ut eos in servitio B. Petri reciperet et more Romanorum tonsurari faceret (Anastasio p. 185); ma si può domandare, se essi diedero sè stessi o il loro paese.
266. Saint-Marc ( Abrégé, t. 1, p. 390-408) che ha bene studiato il Codex Carolinus, esamina accuratamente qual fu la politica e quale la donazione di Carlomagno. Credo con lui che quella donazione non fu che verbale. L'Atto il più antico di donazione che si produce è quello dell'Imperatore Luigi il Pio (Sigonio, De regno Italiae, l. IV, Opera, t. II, p. 267-270). Si dubita assai della sua autenticità, o almeno della sua integrità (Pagi, A. D. 817, num. 7, ec; Muratori, Annali, t. VI, p. 432, ec; Dissertat. chorographica, p. 33, 34); ma non trovo negli autori alcuna ragionevole obiezione fondata sul modo con cui disponeano que' principi liberamente di ciò che loro non apparteneva.
267. Domandò Carlomagno i mosaici del palazzo di Ravenna ad Adriano I, cui apparteneano; li ottenne; voleva abbellire con essi Aquisgrana ( Codex Carol., epist. 67, p. 223).
268. I Papi si lamentavano spesso delle usurpazioni di Leone di Ravenna ( Codex Carol., epist. 51, 52, 53, p. 200-205). Si corpus S. Andreae, fratris Germani S. Petri, hic humasset, nequequam nos romani pontifices sic subjugassent (Agnellus, Liber pontificalis, in Script. rerum ital., t. II, part. I, p. 107).
269. La occultazione, o fabbricazione di documenti si fece per altro per promuovere ed aggrandire la signoria temporale de' Papi, e non nelle cose intrinseche alla religione; e poi anche non consta ch'essi espressamente abbiano dato cotal ordine; ciò avvenne per opera dei loro ministri, zelanti di promuoverne la potestà temporale, e la sovranità. Non può negarsi la falsità della donazione di Costantino: se ne ignora l'autore: tutti gli eruditi anche cattolici lo confessano; ( Vedi anche Petrus de Marca Archiep. Paris, De ficta donatione Constantini.) La falsità delle lettere decretali de' primi Papi fino a Siricio comparve verso la metà del secolo nono, fu riconosciuta per ragioni evidenti da tutti i critici ed eruditi non molto dopo il Concilio di Trento: lo stesso Cardinal Baronio (annali an. 865) e lo stesso Cardinal Bellarmino (de Rom. Pontifice l. 2.) non la negano. Quello che la distese fu un certo Vescovo Isidoro Mercatore (Hincmaro Opuu) aiutato da un monaco: vennero di Spagna, e per opera di Riculfo, Vescovo di Magonza, divotissimo de' Papi, furono divulgate ed acquistarono credito. Nicolò I, ed i suoi successori, nel secolo nono e decimo, vennero a capo di farle ricevere da' Vescovi, e da tutti furono presentate a' Sovrani di que' dì, ed inserite nelle Collezioni di Diritto canonico; finalmente anche il monaco Graziano le pose nella sua autorevole, ed amplissima Collezione, e divennero testo in tutte le scuole degli ecclesiastici, ed in tutte le Università nelle cattedre di Diritto. Furono citate in alcuni Concilii, e riputate autentiche. I Vescovi di Francia per altro furono gli ultimi ad accettarle: tandem eo adventum est ut tantis nominibus veterum Pontificum cesserint una cum reliquis episcopis etiam Gallicanae ecclesiae rectores. (De Marca l. 3. c. 5) Accrebbero grandemente l'autorità dei Papi nelle cose ecclesiastiche, civili, e politiche. Di esse dice il dotto Benedettino Padre Coustan nella sua prefazione: Porro hac fraude quam sit perniciose de ecclesia meritus (Isidorus) vix dici potest: hinc debilitati penitus fraetique disciplinae nervi, perturbata episcoporum jura, sublatae judiciorum leges ex probrata catholicis nimia credulitas, fuco fasi ec. Diedero grande motivo a' protestanti di far accuse a' cattolici. (Nota di N. N.)
270. Piissimo Constantino magno, per ejus largitatem S. R. Ecclesia elevata et exaltata est, et potestatem in his Hesperiae partibus largiri dignatus est.... Quia ecce novus Constantinus his temporibus ec. ( Cod. Carol. epist. 49, in t. III, part. II, p. 195). Pagi ( Critica, A. D. 324, num. 16) li attribuisce ad un impostore dell'ottavo secolo, che prese il nome di Sant'Isidoro. Il suo umile titolo di peccator fu cangiato per ignoranza, ma acconciamente, in quello di mercator. Ebbero in fatti quegli scritti supposti uno spaccio felice, e pochi fogli di carta furono pagati con tante ricchezze e tanto potere.
271. Fabricio ( Bibl. graec., t. VI, p. 4-7) ha accennato le varie edizioni di quest'Atto in greco e in latino. Sembra che la copia riferita da Lorenzo Valla, e da lui medesimo rigettata, sia stata fatta sugli Atti supposti di San Silvestro, o sul decreto di Graziano, al quale, secondo lui ed altri scrittori, fu aggiunta di soppiatto.
272. Non può chiamarsi ribellione la forte opposizione di Gregorio II in Italia all'Iconoclastia dell'Imperatore Leone; se poi per questa i popoli d'Italia, avvertiti da Gregorio dell'errore, si sollevarono, si ribellarono, ciò fu un effetto di quella, giacchè quei popoli volevano le Immagini, e non una ribellione di Gregorio, che fu invano anche accusato da' malevoli d'aver impedito l'esazione di una gravezza. Gregorio, ch'era allora suddito dell'Imperatore, conosceva i doveri della suddittanza. (Nota di N. N.)
273. Nel 1059, secondo l'opinione del Papa Leone IX e del cardinale Pietro Damiano, (veramente loro opinione?) colloca Muratori ( Annali d'Italia, tom. IX, pag. 23, 24) le pretese donazioni di Luigi il Pio, d'Ottone, ec. ( De Donatione Constantini. Vedi una Dissertazione di Natalis Alexander, seculum 4, Dissert. 25, p. 335-350).
274. Vedi un racconto circostanziato di questa controversia (A. D. 1105) che si levò in occasione d'un processo nel Chronicon Farsense ( Script. rer. ital., t. II, part. II, p. 637, ec.), e un copioso estratto degli archivi di quell'abbazia di Benedettini. Erano altre volte quegli archivi accessibili alla curiosità degli stranieri (Le Blanc e Mabillon), e quello ch'essi contengono avrebbero arricchito il primo volume dell' Historia monastica Italiae di Quirini; ma la timida politica della Corte di Roma li tiene oggigiorno chiusi (Muratori, Script. rerum ital., t. II, part. II, p. 269); e Quirini, che pensava al cappello di Cardinale, cedette alla voce dell'autorità, ed alle insinuazioni dell'ambizione. (Quirini, Comment., part. II, p. 123-136.)
275. Lessi nella raccolta di Scardio ( De potestate imperiali ecclesiastica, p. 734-780) questo discorso animato, composto da Valla (A. D. 1440) sei anni dopo la fuga del Papa Eugenio IV. È un'operetta assai veemente, e dettata dallo spirito di parte. L'autore giustifica ed eccita la ribellione dei Romani, e vedesi ch'egli avrebbe approvato l'uso del pugnale contro il loro tiranno sacerdotale. Sì fatta critica dovea aspettarsi la persecuzione del clero; pure Valla si riconciliò e fu sepolto nel Laterano (Bayle, Diction. critique, art. Valla; Vossio, De Histor. latin. p. 580.)
276. Vedi Guicciardini, servo dei Papi, in quella lunga e preziosa digressione, che ripigliò il suo luogo nell'ultima edizione correttissima, fatta sul manoscritto dell'autore, e stampata in quattro volumi in 4, sotto il nome di Friburgo 1775 ( Istoria d'Italia, t. I, p. 385-395).
277. Il Paladino Astolfo trovò quell'Atto nella luna fra le cose perdute nel nostro Mondo ( Orlando Furioso XXXIV, 80).
Di varii fiori ad un gran monte passa,
Ch'ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
Che Constantino al buon Silvestro fece.
E pure questo poema incomparabile fu approvato da una Bolla del Papa Leone X.
278. Vedi Baronio, A. D. 324 num. 117-123; A. D. 1191, num. 51 etc. Vorrebbe supporre, che Costantino offerì Roma a Silvestro, e che questo Papa la ricusò. Ha un'idea stravagantissima dell'Atto di donazione; la crede opera dei Greci.
279. «Baronius n'en dit guère contre; encore en a t-il trop dit, et l'on voulait sans moi (cardinal du Perron) qui l'empêchai, censurer cette partie de son histoire. J'en devisai un jour avec le pape, et il ne me répondit autre chose: Che volete? i canonici la leggono; il le disait en riant. » (Perroniana p. 77.)
280. Il rimanente dell'istoria delle Immagini de Irene fino a Teodora, è stata fatta, per parte dei cattolici, da Baronio e Pagi (A. D. 780-840), da Natalis Alexander ( Hist. N. T. seculum 8, Panoplia adversus haereticos, p. 118-178), e da Dupin ( Bibl. ecclés., t. VI. p. 136-154); per parte de' protestanti da Spanheim ( Hist. Imag. p. 305-639), da Basnagio ( Hist de l'Eglise, t. I. p. 566-572, t. II. p. 1362-1385), e da Mosheim ( Institut. Hist. eccles. secul. VIII. IX). I protestanti, trattone Mosheim, sono inaspriti dalla controversia, ma i cattolici, eccetto Dupin, si danno a divedere ardenti di tutto il furore e di tutta la superstizione monastica; nè da questo odioso contagio sa preservarsi lo stesso Le Beau ( Hist. du Bas-Empire ) il quale era pure un uom di mondo e un letterato.
281. Non è maraviglia, che Costantino V Copronimo iconoclasta, ed anche generalmente incredulo, abbia unito inconvenientemente in lui il potere civile all'ecclesiastico. Gli illuminati governi conoscono i limiti d'ambedue. (Nota di N. N.)
282. Le Immagini non erano considerate idoli dai cattolici istruiti come non lo sono neppure oggidì, e come abbiamo già mostrato; gli Iconoclasti poi le consideravano tali, e perciò per uno zelo che diveniva male inteso le proscrivevano. (Nota di N. N.)
283. Rimandiamo il lettore alla nostra nota in proposito. Vedi a pag. 248. (Nota di N. N.)
284. Vedi gli Atti in greco e in latino del secondo Concilio Niceno, coi documenti relativi, nel volume ottavo dei Concilii (p. 645-1600 ). Una version fedele, corredata d'annotazioni critiche, moverebbe i lettori, secondo che fossero disposti nell'animo, o al riso o al pianto.
285. I Legati del Papa che intervennero al Concilio erano messaggeri inviati a caso, sacerdoti senza missione speciale, che furon disapprovati nel lor ritorno. I cattolici persuasero alcuni monaci vagabondi a rappresentare i Patriarchi d'Oriente. Questo curioso aneddoto ci vien rivelato da Teodoro Studita, uno dei più Iconoclasti del suo secolo ( Epist. 1, 38 in Sirmond, Opp. t. V, p. 1319. )
286. Che ha a fare una estrinseca particolarità degli Atti del cattolico, e generale Concilio di Nicea II, la quale partecipava delle idee di que' tempi, colla decisione di lui che ristabilì il culto delle Immagini? quella particolarità nulla toglie all'autorità del Concilio. (Nota di N. N.)
287. Συμφερει δε σοι μη καταλιπειν εν τη πολει ταυτη πορνειον εις ο μη εισελθης, η ινα αρνηση το προσκυνειν τον κυριον ημον και θεον Ιησουν Χριςον μετα της ιδιας αυτου μητρος εν εικονι. Queste visite non poteano essere innocenti poichè il Δαιμων πορνειας (il demonio della fornicazione) επολεμει δε αυτον.... εν μια ουνως επεκειτο αυτω σφοδρα, Actio IV, pag. 109; Actio V, p. 1031.
288. Se Costantino che convocò il primo Concilio generale di Nicea, presieduto dai Legati di Silvestro Papa, l'anno 325, che vi fu presente con gran pompa imperiale, e con soldatesche, e dove contro i Vescovi, e contro tutti gli altri numerosissimi seguaci d'Ario, per cui furon detti Ariani, fu determinato secondo l'Evangelo, che Gesù Cristo era consustanziale al Padre, espressione che fu posta nel Credo, si lasciò trasportare da furiosa gelosia, e fece uccidere Crispo suo figlio, e indi conosciuta la calunnia della moglia Fausta, matrigna di Crispo, perchè questi non aveva voluto condiscendere alla sua brama, mise a morte anch'essa, ciò nulla pregiudica l'ortodossia, cioè la retta opinione dei cattolici, a' quali Costantino non solo diede pace ma protezione validissima, e pubblica, mettendo la religione cattolica in trono, perseguitando da una parte la religione politeistica nella quale era nato, e cresciuto, e dall'altra, gli Ariani, e colmando di ricchezze e d'autorità il Papa, i Vescovi cattolici, e tutto il Clero cattolico, onde venne accrescimento e splendore a tutto il Corpo ecclesiastico, ed alla religione. Se l'Imperatrice Irene fece cavar gli occhi a suo figlio, Costantino VI, per feroce avidità di regnare, ciò neppure pregiudica l'autorità, ed il retto giudizio del Concilio generale VI, di Nicea II, da lei convocato per far decretare il culto delle Immagini, e la cui decisione osservano i cattolici anche oggidì. (Nota di N. N.)
289. Vedi alcune particolarità su questa controversia nell'Alessio d'Anna Comnena (lib. V. p. 129), e in Mosheim ( Instit. Hist. ecclés. p. 371, 372.)
290. Noi intendiamo di parlare del Libri Carolini (Spanheim, p. 443-529) composti nella Reggia o nei quartieri d'inverno di Carlomagno a Worms, (A. D. 790), e mandati da Engeberto al Papa Adriano I, che ricevutili, scrisse una grandis et verbosa epistola. ( Concil., t. VIII, p. 1553.) Quei Carolini propongono cento venti obiezioni contro il Concilio Niceno; ecco qualche saggio dei fiori rettorici che vi si incontrano: Dementiam priscae gentilitatis... obsoletum errorem... argumenta insanissima et absurdissima.... derisione dignas naenias, etc.
291. Crediamo che il lettore sia già munito abbastanza, dalle cose dette, contro questi scherzi inconvenienti, e queste ironie. Quanto poi ai libri detti Carolini, mandati dall'Imperatore Carlomagno al Papa Adriano I, contro il generale Concilio VI, di Nicea II, furono essi condannati da questo Pontefice colla sua lettera; e quanto al Concilio di Francoforte di 360 Vescovi, che decretò contro il culto dalle Immagini e condannò il Concilio generale VI suddetto, essendo provinciale, o nazionale, come si voglia, non ha alcuna autorità contro il Concilio generale di Nicea convocato da Irene, avvalorato, e legittimato dalla presenza dei Legati, o procuratori del Papa. (Nota di N. N.)
292. Le assemblee convocate da Carlomagno concernevano l'amministrazione ad un tempo e la Chiesa; e i trecento Membri (Nat. Alexander, sec. VIII. p. 53.) che sedettero e diedero voto nell'Adunanza di Francoforte, dovean comprendere non solo i Vescovi, ma gli abati e i laici ragguardevoli.
293. Qui supra sanctissima patres nostri (episcopi et sacerdotes) omnimodis servitium et adorationem imaginum renuentes, contempserunt, atque consentientes condemnaverunt. ( Concil. t. IX p. 101. canon. 2. Francoforte.) Sarebbe necessario un cuor ben duro per non sentir compassione delle fatiche del Baronio, del Pagi, d'Alexander e di Maimburgo ec. impiegate ad eludere questa sciagurata sentenza.
294. Teofane (p. 343) indica i demanii della Sicilia e della Calabria che davano una rendita annua di tre talenti e mezzo d'oro, forse settemila lire sterline. Luitprando fa una numerazione più pomposa dei patrimonii della Chiesa romana, nella Grecia, nella Giudea, nella Persia, nella Mesopotamia, in Babilonia, nella Libia, ingiustamente ritenuti dall'Imperator greco ( Legat. ad Nicephorum, in Script. rerum Ital., t. II. part. I. p. 481.)
295. Qui si parla della gran diocesi dell'Illiria orientale con l'Apulia, la Calabria e la Sicilia: Thomassin ( Discip. de l'Eg., t. 1. p. 145). Per confessione dei Greci, aveva il Patriarca di Costantinopoli distaccati da Roma i Metropolitani di Tessalonica, d'Atene, di Corinto, di Nicopoli e di Patrasso (Luc. Holsten. Geograph. sacra, p. 22) e i suoi conquisti spirituali andavano fino a Napoli ed Amalfi, (Giannone, Istoria civile di Napoli., t. I, p. 517-524. Pagi A. D. 730 num. 11.)
296. In hoc ostenditur, quia ex uno capitulo ab arrota reversis, in aliis duobus, in eodem (era forse lo stesso?) permaneant errore.... de diocesi S. R. E. seu de patrimoniis iterum increpantes commonemus, ut si ea restituere noluerit, haereticum eum pro hujusmodi errore perserverantia decernemus. ( Epist. Adriani papae ad Carolum Magnum, in Concil. t. VIII, p. 1598.) Aggiunge una ragione che direttamente si opponeva al suo procedere, dicendo, di preferire ai beni di questo Mondo corruttibile la salute dell'anime e la regola della Fede.
297. Fontanini non vede negl'Imperatori se non se gli avvocati della Chiesa advocatus, et defensor S. R. E ( Vedi Ducange, Gloss. lat. t. I, p. 97). Muratori, suo avversario, considera il Papa come l'Esarca dell'Imperatore. Giusta l'opinione più imparziale di Mosheim ( Instit. Hist. ecclés., p. 264, 265), i Papi reggeano Roma come vassalli dell'Impero, e come possessori della più onorevole specie di feudo o di beneficio: queste particolarità, per altro premuntur nocte caliginosa!
298. Un epitafio di trentotto versi, di cui si dichiara autore Carlomagno ( Concil. t. VIII, p. 520), ne ragguaglia del suo merito e delle sue speranze.
Post patrem lacrymans Carolus haec carmina scripsi.
Tu mihi dulcis amor, te modo plango pater....
Nomina jungo simul titulis, clarissima, nostra
Adrianus, Carolus, rex ego, tuque pater.
Può credersi che Alcuino facesse questi versi, ma che poi questo glorioso tributo di lagrime venisse da Carlomagno.
299. Ad ogni nuovo Papa si fa quest'annuncio « Sancte pater, non videbis annos Petri », i venticinque anni. Esaminando la lista dei Papi si osserva che il termine medio del loro regno è di ott'anni circa; termine assai breve per un Cardinale ambizioso.
300. Anastasio (t. III, part. 1. p. 197, 198) lo afferma positivamente, e lo credono pure alcuni Annalisti francesi; ma sono più ragionevoli o più sinceri Eginardo ed altri scrittori dello stesso secolo. « Unus ei oculus paululum est laesus », dice Giovanni, Diacono di Napoli ( Vit. episcop. Napol., in Scriptores, Muratori, t. 1, part. 11. p. 312). Un contemporaneo, cioè Teodolfo, vescovo d'Orleans, osserva prudentemente (l. 11. carm. 3 ):
Reddito sunt? mirum est: mirum est auferre nequisse.
Est tamen in dubio, hinc mirer an inde magis.
301. Si fece veder due volte in Roma ad istanza d'Adriano e di Leone, longa tunica et chlamide amictus, et calceamentis quoque romano more formatis. Eginardo (c. 23, p. 109-113) descrive, alla maniera di Svetonio, la semplicità del suo abito, talmente usitato in Francia, che quando Carlo il Calvo ritornò colà con un vestito forestiero, i cani patriotti gli abbaiavano dietro (Gaillard, Vie de Charlemagne, t. IV, p. 109).
302. V. Anastasio (p. 199) ed Eginardo (c. 28; p. 124-128). L'unzione è riferita da Teofane (p. 399); il giuramento da Sigonio, (giusta l' Ordo romanus ); e dagli Annali Bertiniani (Script. Muratori t. 11, part. II, p. 505) l'adorazione del Papa, more antiquorum principum.
303. Questo gran fatto della traslazione o restaurazione dell'Impero Occidentale è narrato e discusso da Natalis Alexander ( seculum, 9, Dissert. 1 p. 390-397), dal Pagi (t. III, p. 418), dal Muratori ( Annali d'Italia, t. VI. p. 339-352), dal Sigonio ( De regno Italiae, l. IV, Opp. t. 2. p. 247-251), dallo Spanheim ( De ficta translatione imperii ), dal Giannone (t. 1. p. 395-405), da Saint Marc ( Abrégé chronologique, t. 1. p. 438-450), dal Gaillard ( Hist. de Charlemagne. t. II, p. 386-446). Questi moderni quasi tutti van soggetti a qualche pregiudizio religioso o nazionale.
304. Mably ( Observ. sur l'Hist. de Franc. ), Voltaire ( Hist. générale ), Robertson ( Hist. de Charles V. ) e Montesquieu ( Esprit. des Lois, l. XXXI. c. 28) hanno profuso a Carlomagno gli elogi. Il Signor Gaillard pubblicò nel 1782 la storia di questo monarca (4. Vol. in 12), la quale mi fu assai profittevole, e ne ho usato liberamente. L'autore è giudizioso ed umano; la sua opera elegante ed accurata. Ho per altro esaminato anche i monumenti originali dei regni di Pipino e di Carlomagno nel quinto volume degli Storici di Francia.
305. La visione di Veltin, composta da un monaco, undici anni dopo la morte di Carlomagno, lo mostra in purgatorio, ove un avvoltoio gli sta lacerando l'organo de' suoi peccaminosi piaceri, senza toccare le altre parti del suo corpo, emblemi delle sue virtù (V. Gaillard, t. II, p. 317-360.)
306. Il matrimonio d'Eginardo con Emma, figlia di Carlomagno, è abbastanza confutato, per mio avviso, dal probrum e dalla suspicio rovesciate da lui su queste belle fanciulle, senza eccettuarne quella che se gli assegna per moglie (c. XIX, p. 98-100 cum notis Schmincke); un marito avrebbe avuto un animo troppo forte se avesse adempiuto così esattamente i doveri d'uno storico.
307. Oltre le strage e le trasmigrazioni, a cui furono assoggettati i popoli della Sassonia, decretò Carlomagno la pena di morte ai delitti seguenti: 1. Per chi ricusava il Battesimo; 2. per chi si dicesse battezzato col fine d'evitare il Battesimo; 3. per chi ricadeva nell'idolatria; 4. per chi uccideva un sacerdote o un vescovo; 5. per chi sagrificasse vittime umane; 6. per chi mangiasse carne in quaresima; ma tutti i delitti si espiavano col Battesimo o con una penitenza (Gaillard t. II, p. 241-247); e i Cristiani sassoni diveniano gli eguali e gli amici dei Francesi. (Struv., Corpus Hist. germanicae, p. 133).
308. Il famoso Rutlando, Rolando, Orlando fu ucciso in quel fatto cum compluribus aliis. La verità s'incontra in Eginardo (c. 9. Hist. de Charlemagne p. 51-56), e la favola in un supplimento ingegnoso del Signor Gaillard (t. III, p. 474). Van troppo superbi gli Spagnuoli d'una vittoria attribuita dai Monumenti storici ai Guasconi, e dai Romani ai Saracini.
309. Schmidt, seguendo le migliori autorità, accenna i disordini interni e la tirannia del suo regno ( Hist. des Allemands. t. II, p. 45-49).
310. Omnis homo ex sua proprietate legitimam decimam ad Ecclesiam conferat. Experimento enim didicimus, in anno, quo valida illa fames irrepsit, ebullire vacuas annonas a daemonibus devoratas, in voces exprobationis auditas. Tal'è il decreto e l'asserzione del gran Concilio di Francoforte. (Canon. XXV. t. IX, p. 105) Selden ( Hist. of Tythes; Works, vol. III, part. 2. p. 1146) e Montesquieu ( Esprit des Lois, l. XXXI, c. 12) risguardano Carlomagno come il primo autore legale della decima. Da vero i proprietarii gliene hanno grandi obbligazioni!...
311. Eginardo (c. 25, p. 119) asserisce a chiare note: tentabat et scribere.... sed parum prospere successit labor praeposterus et sero inchoatus. I moderni hanno pervertito e corretto il senso naturale di queste parole, e dal titolo solo della dissertazione del Signor Gaillard (t. III, p. 247-260) trapela la sua parzialità.
312. V. Gaillard, t. III, p. 138-176, e Schmidt, t. II, p. 121-129.
313. Il Signor Gaillard (t. III, p. 572) determina la statura di Carlomagno (V. la Dissertazione di Marquard Freher, ad calcem Eginhard. p. 220 etc.) a cinque piedi, nove pollici di Francia, cioè a circa sei piedi, un pollice e un quarto, misura d'Inghilterra. I Romanzieri gli danno otto piedi, e a questo gigante attribuiscono un vigore e un appetito straordinario: con un sol colpo la sua buona spada, la Giojosa, divideva per mezzo un cavaliere col cavallo; mangiava in un sol pasto un'oca, due polli, un quarto d'agnello etc.
314. V. un'opera concisa ma esatta ed originale del Signor d'Anville ( Etats formés en Europe après la chute de l'Empire rom. en Occident, Paris, 1771, in-4.), con una carta che contiene tutto l'Impero di Carlomagno. Le varie parti sono illustrate, per la Francia dal Valois ( Notitia Galliarum ), per l'Italia dal Beretti ( Dissertatio chorographica ), e per la Spagna dal Marca ( Marca Hispanica ). Confesso di avere pochi materiali per la geografia del medio evo della Germania.
315. Eginardo, dopo avere rapidamente narrato le guerre e i conquisti di Carlomagno ( Vit. Carol. c. 5-14) ricapitola in poche parole (c. 15) le varie contrade sottomesse al suo Imperio. Struvio ( Corpus Hist. german. p. 118-149), ha inserito nelle sue note i testi delle cronache antiche.
316. Un diploma conceduto al monastero di Alaon (A. D. 845) da Carlo il Calvo ne dà questa genealogia. Non so se in quella catena tutti gli anelli del nono e decimo secolo sian tanto saldi quanto gli altri. Nulla di meno la genealogia è approvata e difesa tutta intera dal Signor Gaillard, (t. II. p. 60-81. 203-206), il quale afferma, che la famiglia di Montesquieu (non già quella del presidente di Montesquieu), discende, per donne, da Clotario e da Clodoveo. Pretensione innocente.
317. I governatori o Conti della Marca spagnuola, verso l'anno novecento, alzarono lo stendardo della rivolta contro Carlo il Semplice; e i Re di Francia non ne han ricuperata che una picciola parte (il Rossiglione) nel 1642 (Longuerne Description de la France; t. I. p. 220-222). Il Rossiglione per altro contiene 188,900 abitanti, e paga 2,600,000 lire d'imposizione (Necker, Administration des Finances, t. I. p. 278, 279); vale a dire che forse contiene più abitanti, e sicuramente paga più che tutta la Marca di Carlomagno.
318. Schmidt. Hist. des Allemands, t. II. pag. 200 etc.
319. Vedi Giannone, t. I. p. 374, 375, e gli Annali del Muratori.
320. Quot praelia in eo gesta! quantum sanguinis effusum sit! testatur vacua omni habitatione Pannonia, et locus in quo regia Cagani fuit ita desertus, ut ne vestigium quidem humanae habitationis appareat. Tota in hoc bello Hunnorum nobilitas periit, tota gloria decidit, omnis pecunia et congesti ex longo tempore thesauri direpti sunt.
321. Non intraprese la congiunzione del Reno e del Danubio che per agevolare le operazioni della guerra di Pannonia (Gaillard, Vie de Charlemagne, t. II, p. 312-315). Pioggie esorbitanti, fatiche militari e terrori superstiziosi interruppero questo canale, che sarebbe stato lungo soltanto due leghe; se ne vedono ancora alcune vestigia nella Svevia (Schaepflin, Hist. de l'Accad. des inscript. t. XVIII. p. 256. Molimina fluviorum, etc. jungendorum, p. 59-62).
322. Vedi Eginardo (c. 16), e il Signor Gaillard (t. II, p. 361-385), che riportano, senza spiegarsi troppo sull'autorità a cui s'appoggiano, il carteggio di Carlomagno e di Egiberto, il dono della sua spada fatto dall'Imperatore al principe Sassone, e la modesta risposta di questo. Se tale anneddoto è vero, sarebbe stato un ornamento di più per le nostre storie d'Inghilterra.
323. Solamente gli Annali francesi parlano di questa corrispondenza di Carlomagno con Harun al Raschid; e gli Orientali hanno ignorato l'amicizia del Califfo per un cane di Cristiano; gentile espressione usata da Harun parlando dell'Imperatore dei Greci.
324. Gaillard, t. II, p. 331-365, 471-476, 492. Io ho preso da lui le sue giudiziose osservazioni sul disegno di conquiste di Carlomagno, e la distinzione non men giudiziosa ch'egli fa de' suoi nemici del primo e del secondo circondario (t. II. p. 184-509 ec.).
325. Thegan, il biografo di Luigi, ci narra quest'incoronazione; e Baronio da buon uomo la trascrisse (A. D. 1813, num. 13, ec. Vedi Gaillard, t. II. p. 506, 507, 508) sebbene sia tanto contrario alle pretensioni dei Papi. Vedi sulla successione dei principi Carlovingi, gl'istorici di Francia, d'Italia e d'Alemagna, Pfeffel, Schmidt, Velly, Muratori, ed anche Voltaire, il quale dipinge sovente con esattezza e sempre con eloquenza le cose che narra.
326. Era figlio d'Ottone, figlio di Lodolfo, a favore del quale era stato istituito il Ducato di Sassonia. A. D. 858. Ruotgero il biografo di S. Brunone, ( Bibl. Bunavianae Catalog., t. III. vol. II. p. 679) dipinge nella più bella sembianza la famiglia di questo principe. Atavorum atavi usque ad hominum memoriam omnes nobilissimi; nullus in eorum stirpe ignotus, nullus degener facile reperitur. ( Apud Struvium, Corp. Hist. german. p. 216). Per altro Gundling (in Henrico Aucupe) non crede che discendesse da Vitichindo.
327. Vedi il trattato di Conringio ( De finibus imperii germanici, Francfort, 1680, in 4.). Confuta le idee stravaganti che alcuni han voluto darci dell'estensione dell'Impero di Roma e dei Carlovingi; discute con moderazione i diritti della Germania, quelli de' suoi vassalli e dei vicini.
328. La forza dell'uso mi costringe a porre Corrado I ed Enrico I l'Uccellatore nel novero degl'Imperatori, titoli che quei Re della Germania non presero mai. Gl'Italiani, per esempio Muratori, sono più scrupolosi e più esatti, e non contano che i principi coronati a Roma.
329. Invidiam tamen suscepti nominis C. P. imperatoribus super hoc indignantibus magna tulit patientia, vicitque eorum contumaciam.... Mittendo ad eos crebras legationes, et in epistolis fratres eos appellando. (Eginardo c. 28. p. 128). E forse per cagion loro affettò egli qualche ripugnanza coll'esempio d'Augusto a ricevere l'Impero.
330. Teofane parla dell'incoronazione e dell'unzione di Carlo Καρουλλος ( Chronograph. p. 399), e del suo trattato di matrimonio con Irene (p. 102) ignoto ai Latini. Il Signor Gaillard riporta i negoziati di questo principe coll'Impero greco (t. II, p. 446-468).
331. Osserva benissimo il Signor Gaillard, che quest'apparato non era che una specie di farsa da fanciulli, ma che per altro era fatta al cospetto e in grazia di fanciulli grandi.
332. Si raffronti nei testi originali raccolti dal Pagi (t. III. A. D. 812. num. 7. A. D. 824, num. 10 ec.) la figura che fa Carlomagno e quella del figlio. Quando gli ambasciatori di Michele, i quali per altro furono riprovati, si volsero al primo, more suo, id est lingua graeca laudes dixerunt, imperatorem eum et βασιλεα appellantes, e all'ultimo applicarono quest'espressione: vocato Imperatori Francorum, etc.
333. Vedi questa lettera nei Paralipomena dell'anonimo autore Salernitano ( Script. Ital. t. II par. II. p. 243 254 c. 93-107) che fu scambiato da Baronio (A. D. 871. num. 51-71) per Erchemperto, quando lo copiò negli Annali.
334. Ipse enim vos, non imperatorem id est βασιλεα sua lingua, sed ob indignationem Ρηγα, id est regem nostra vocabat. (Luitprando, in Legat. in script. Ital., t. II. part. I p. 479). Il Papa esortò Niceforo, Imperator dei Greci, a pacificarsi con Ottone, Augusto Imperator de' Romani. Quae inscriptio secundum Graecos peccatoria et temeraria.... Imperatorem inquiunt, universalem, Romanorum, Augustum, magnum, solum, Nicephorum, (p. 486).
335. Si trova l'origine e i progressi del titolo di Cardinale nel Tomassino ( Discipline de l'Eglise, t. I. p. 1261-1298), nel Muratori ( Antiquitat. Italiae medii aevi, t. VI, Dissert. 61, p. 159-182) e nel Mosheim ( Instit. Hist. eccles., p. 345-347), il quale indica esattamente le forme della elezione e i cangiamenti successivi. I Cardinali vescovi, tanto rispettati da Pier Damiano, sono caduti a livello degli altri Membri del Sagro Collegio.
336. Firmiter jurantes, numquam se papam electuros aut ordinaturos, praeter consensum et electionem Othonis et filii sui. (Luitprando, l. VI, c. 6. p. 472). Questa rilevante concessione può valere per supplimento o per conferma al decreto del clero e del popolo romano con tanta alterezza rigettato dal Baronio, dal Pagi e dal Muratori (A. D. 964), e sì bene propugnato e spiegato dal Saint Marc ( Abrégé, t. II. p. 808-816, t. IV, p. 1167-1185). Convien consultare questo storico critico e gli Annali del Muratori sulla elezione o conferma d'ogni Papa.
337. La storia e la legazion di Luitprando ( Vedi p. 440, 450, 471-476, 479, ec.) dipingono con forza l'oppressione ed i vizi del clero di Roma nel decimo secolo; è cosa assai strana vedere il Muratori inteso a mitigare le invettive del Baronio contro i Papi; ma giova osservare che quei Papi non erano stati eletti da Cardinali, ma da Laici.
338. L'epoca a cui si riporta la papessa Giovanna ( papissa Johanna ) è un po' anteriore a quella di Teodora e di Marozia; e i due anni del suo papato immaginario sono notati fra Leon IV e Benedetto III; ma Anastasio loro contemporaneo pone come indubitata cosa che l'elezion di Benedetto succedesse immediatamente alla morte di Leone ( illico, mox., p. 247). Dall'esatta cronologia del Pagi, del Muratori e del Leibnitz son collocati questi due avvenimenti nell'anno 857.
339. Gli autori che sostengono esservi stata una papessa Giovanna citano centocinquanta testimoni, o piuttosto centocinquanta eco del quattordicesimo, del quindicesimo e del sedicesimo secolo. Moltiplicando così le testimonianze somministrano una prova contro di sè e contro la Leggenda; imperocchè ci dimostrano quanto sarebbe stato impossibile che una storia sì stravagante non fosse ripetuta dagli scrittori d'ogni fatta, dai quali doveva essere pienamente conosciuta. Un caso tanto recente avrebbe fatto doppia impressione sull'animo di quelli del nono e decimo secolo. Avrebbe mai Fozio trascurata una tale accusa? e Luitprando avrebbe mai dimenticato uno scandolo simile? È inutile discutere le varie lezioni di Martin Polonus, di Sigisberto di Gemblours ed anche di Mariano Scotto; ma il passo della papessa Giovanna inserito per sorpresa in qualche manoscritto od edizione del romano Anastasio è d'una falsità palpabile.
340. Questa storia debbe aversi per falsa, ma non però incredibile. Supponiamo che il famoso cavalier Francese (La D'Eon), che ai nostri giorni fece tanto rumore, fosse nata in Italia e fosse stata allevata per la professione ecclesiastica; avrebbe potuto il merito e la fortuna portarla sul trono di S. Pietro, ed ella avrebbe potuto darsi all'amore, e sarebbe stata una disgrazia, ma non una cosa impossibile, che avesse partorito in mezzo alla strada.
341. Sino alla riforma fu ripetuta e creduta questa novella senza che facesse ribrezzo a veruno; e la statua della papessa Giovanna stette lungo tempo fra quelle dei Papi nella cattedrale di Siena (Pagi, Critica t. III. p. 624-626). Bensì questo romanzo è stato distrutto da due dottissimi protestanti Blondel e Bayle ( Dictionnaire critique Art. Papesse, Polonus, Blondel ); ma la lor Setta rimase scandalezzata di questa giusta e ragionevole critica. Spanheim e Lenfant si studiano di mantenere questo miserabile soggetto di controversia, e lo stesso Mosheim vuol pure conservarne qualche dubbio (p. 289).
342. Si poteva, omettere questo sarcasmo intorno per altro a' fatti veri, e riferire in vece semplicemente le parole dell'ingenuo storico Cardinal Baronio, che senza negare i fatti, il che non poteva farsi, toglie e leva ogni macchia, che per essi apparentemente sembra venire alla Santa Sede romana. Quam foedissima ecclesiae romanae facies, cum Romae dominarentur potentissimae aeque ac sordidissime meretrices, cujus arbitrio mutarentur sedes, darentur Episcopi, e intruderentur in sedem Petri earum, amatores Pseudo-Pontifices, qui non sunt nisi ad conservanda tantum tempora in Cathalogo Romanorum Pontificum scripti. Baronio Annali anno 962. (Nota di N. N.)
343. Lateranense palatium.... prostibulum meretricum.... Testis omnium gentium, præter quam Romanorum, absentia mulierum, quæ sanctorum apostolorum limina orandi gratia timent visere, cum nonnullas ante dies paucos, hunc audierint conjugatas viduas, virgines vi oppressisse. (Luitprando, Hist., l. VI. c. 6. p. 471. Vedi pure per ciò che riguarda al libertinaggio di Giovanni XII. p. 471-476.)
344. Bisognava dire questo monaco zelante. È necessario per altro convenire, in mezzo al conflitto di tanti scrittori partigiani, o avversarii, del troppo famoso Papa Gregorio VII, che il primo de' suoi due progetti, rettamente definito dall'autore dottissimo, è giustificabile pienamente se si riguardi in ispeciale modo a tumulti, a mali, a guerre che dall'influenza, e potere dagli Imperatori Germanici, e dai partiti de' preti, e del popolo venivano quasi ad ogni elezione all'eccelsa Sede papale; e che il secondo, il quale pur troppo le molte volte ebbe luogo ne' tempi posteriori a Gregorio, secondo l'ardimento, l'indole dei Papi, le circostanze, la timidità, le prevenzioni di principi, e l'ignoranza in genere, e sempre recando terribili turbolenze sanguinose, e disastri, e lunghe guerre in tutta Europa, a danno dei diritti dei re, delle nazioni, e delle leggi degli Stati, è da condannarsi grandemente, siccome hanno pensato e pensano oggidì tutti i saggi illuminati monarchi, ed i prudenti governi, principiando da S. Luigi IX re di Francia, che ricusò l'Impero d'Alemagna offertogli dal Papa Gregorio IX che ne aveva spogliato Federico II. (Nota di N. N.)
345. Si può citare per un nuovo esempio de' mali originati dall'equivoco, il beneficium (Ducange, t. 1, p. 617, etc.) che il Papa concedette all'Imperatore Federico I, poichè il vocabolo latino potea significare tanto un feudo legale quanto un favore o beneficio. V. Schmidt, Hist. des Allemands t. III, p. 393-408; Pfeffel, Abrégé chronologique, t. I, p. 229, 296, 317, 324, 420, 430, 500, 506, 509, etc.
346. Vedi su la Storia degl'Imperatori, in ciò che concerne Roma e l'Italia, il Sigonio ( de Regno Italiae Opp. t. II, colle note del Saxius) e gli Annali del Muratori, il quale per altro poteva con più precisione citare gli Autori nella sua gran Raccolta.
347. Vedi la dissertazione del Le Blanc in fine del suo trattato delle Monete di Francia, ove dà contezza di alcune monete romane d'Imperatori francesi.
348. Romanorum aliquando servi, scilicet Burgundiones, Romanis imperent?..... Romanæ urbis dignitas ad tantam est stultitiam ducta, ut meretricum etiam imperio pareat? (Luitprand. l. III, c. 12, p. 450.) Sigonio (l. VI, p. 400) afferma positivamente che fu rimesso il consolato; ma dai vecchi autori, Alberico è chiamato più spesso princeps Romanorum.
349. Vedi Ditmar, pag. 354; apud Schmidt, t. III, p. 439.
350. Questo sanguinario banchetto è descritto in versi leonini nel Panteon di Goffredo da Viterbo ( Scriptor. Ital., t. VII, p. 436, 437) che visse su la fine del secolo dodicesimo (Fabricio, Bibl. lat. Med. et infimi aevi, t. III. p. 69, edit. Mausi); ma il Muratori (Annali, t. VIII, p. 177) diffida a ragione di tal testimonianza, che illuse il Sigonio.
351. Si trovano alcune particolarità dell'incoronazione dell'Imperatore, e di qualche cerimonia del decimo secolo nel Panegirico di Berenger ( Script. Ital. t. II, part. 1, p. 405-414), illustrato dalle note d'Adriano di Valois e di Leibnitz. Sigonio narrò in buon latino, ma con alcuni sbagli di data e di fatto, (l. VII, p. 441-446) tutto ciò che risguarda i viaggi di quegli Imperatori a Roma.
352. In occasione d'una controversia sorta quando fu incoronato Corrado II, Muratori prende la libertà di notare che: Dovevano ben essere allora indisciplinati Barbari, e bestiali i Tedeschi. ( Annal., t. VIII, p. 368.)
353. Dopo averli fatti bollire. I vasi destinati a tal effetto erano compresi nel numero degli utensili indispensabili al viaggio; e un Germano che facea bollire le ossa di suo fratello in uno di questi vasi, lo promettea al suo amico, dopo che se ne fosse servito (Schmidt, t. III, p. 423, 424). Il medesimo autore osserva che tutto il lignaggio sassone s'estinse in Italia (t. II, p. 440).
354. Ottone, vescovo di Freysingen, ci lasciò un passo rilevante sopra le città d'Italia (l. 1, c. 13, in Script. Ital., t. VI, p. 707-710), e Muratori ( Antiquit. Ital. medii aevi, t. IV, Dissert. 45-52, p. 1-675; Annal., t. VIII, IX, X) spiega perfettamente la nascita, il progresso e il governo di queste repubbliche.
355. Vedi sopra questi titoli, Selden ( Titles of Honour, vol. III, part. I, p. 488), Ducange ( Glossar. latin., t. II, p. 140; t. VI, p. 776) e Saint-Marc ( Abrégé chronologique, t. II, p. 179).
356. I Lombardi inventarono il carocium, stendardo sopra un carro tirato da buoi. (Ducange, t. II, p. 194, 195; Muratori, Antiquit., t. II, Dissertat. 26, p. 489-493.)
357. Guntero Ligurino, l. VIII, p. 584 e segu; apud Schmidt, t. III, p. 399.
358. Solus imperator faciem suam firmavit ut petram. (Burcard., De excidio Mediolani, Script. Ital., t. VI, p. 917). Questo tomo di Muratori contiene i monumenti originali dell'istoria di Federico I, da confrontarsi fra loro, senza dimenticare la condizione e i pregiudizii di quegli scrittori, sieno essi Germani o Lombardi.
359. Vedi, sull'istoria di Federico II e sulla Casa di Svevia a Napoli, Giannone, Istoria civile, t. II, l. XIV-XIX.
360. Nell'immenso labirinto del Diritto pubblico d'Alemagna, debbo citare un autor solo, o citarne mille; ed io amo piuttosto attenermi a una sola scorta fedele, che trascrivere sulla parola una farragine di nomi e di passi. Questa guida è il Signor Pfeffel, autore del nouvel Abrégé chronologique de l'Histoire et du Droit public d'Allemagne, Paris, 1776, 2 vol. in 4. Questa, a parer mio, è la migliore istoria legale e costituzionale, che in alcun luogo siasi mai pubblicata. Egli ha afferrate le cose più importanti con molta esattezza e sapere; semplice e conciso, egli le ristringe in piccolo spazio; coll'ordine cronologico che ha seguìto, ciascun fatto è posto sotto la sua vera data, e un indice accurato li raccoglie sotto aspetti generali. Quest'opera, sebbene forse meno perfetta quando venne alla luce la prima volta, giovò molto al Dottore Robertson per formar quell'abbozzo di man maestra, ove segna anche i cangiamenti che nei tempi moderni accaddero nel Corpo germanico. Ho pur consultato il Corpus Historiae germanicae dello Struvio con tanto maggior profitto, poichè questa voluminosa compilazione riporta ad ogni pagina i testi originali.
361. Qui poi l'Autore è in errore preciso quanto alla Casa de' Conti d'Absbourg autori della regnante eccelsa Casa d'Austria; poichè Rodolfo I d'Absbourg Capo-stipite della Casa d'Absburgo-Austria, eletto Imperatore Romano Germanico, specialmente per la sua pietà l'anno 1273, si segnalò col terminar vittoriosamente la guerra da lui giustamente incontrata contro Ottocaro Re di Boemia; fu notato dagli storici per le azioni, per le sue gesta qual principe valoroso, prudente, politico, conoscitore delle cose governative, e premuroso che fosse resa giustizia. Non volle andare a Roma per farsi coronare Imperatore dicendo che nessuno de' suoi predecessori vi era andato senza aver perduto de' suoi diritti, e della sua autorità; prese tutte le città che attaccò, e guadagnò quattordici battaglie ordinate. Alberto I suo figlio simile a lui pel vigore e per la mente, per l'intrepidezza e pel coraggio fu eletto pure Imperatore, e seppe uscir vincitore da ogni contesa venutagli dagli inquieti abitanti di Vienna, di Salisburgo, dagli Ungari, e dai Boemi. Sarebbe assai lungo il noverare i meriti de' sovrani dell'eccelsa Casa d'Absbourg-Austria. Sono piene le Storie dell'Imperatore Carlo V, e Ferdinando II, e di Ferdinando III, specialmente nella guerra de' trent'anni: vegga il lettore il Plutarco Austriaco. (Nota di N. N.)
362. Carlo IV per altro non dee, per la sua persona, essere considerato come un Barbaro. Dopo aver avuto l'educazione in Parigi, ripigliò l'uso della lingua boema, ch'era la sua naturale, e parlava e scriveva con pari facilità il francese, il latino, l'italiano e il tedesco (Struvio p. 615, 616). Petrarca ne parla sempre come d'un principe pulito e dotto.
363. Oltre le particolarità che sulla spedizion di Carlo IV si trovano negli storici d'Alemagna e d'Italia, vien essa dipinta in una foggia vivace ed esatta nelle memorie sulla vita del Petrarca (t. V. p. 376-430) dell'Abate de Sade, opera curiosa, la cui prolissità non sarà di leggieri biasimata da chi accoppii il gusto e l'amore dell'erudizione.
364. Vedi la descrizione di questa cerimonia nello Struvio p. 629.
365. La repubblica dell'Europa col Papa e coll'Imperatore per Capi non fu mai rappresentata con più dignità, quanto nel Concilio di Costanza. Vedi l'Istoria di quest'assemblea scritta dal Lenfant.
366. Gravina, Origines Juris Civilis p. 108.
367. Furon trovate seimila urne che servivano per gli schiavi e pei liberti d'Augusto e di Livia. Tanta era la moltiplicità degl'impieghi, che uno schiavo per esempio non aveva altra incumbenza che di pesare la lana filata dalle fantesche di Livia, un altro d'aver cura del cane ec. ( Camere sepolcrali ec. del Bianchini. Vedi pure l'estratto della sua opera nella Biblioteca Italica, t. IV, p. 175, e l'elogio fattone da Fontanelle, t. VI. p. 356). Ma quei servi avean tutti lo stesso grado, e forse non erano più numerosi di quelli di Pollione o di Lentulo. Provano solamente quanta fosse in generale la ricchezza della città di Roma.