INDICE

STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO

CAPITOLO LX.

Scisma de' Greci e de' Latini. Stato di Costantinopoli. Ribellione de' Bulgari. Isacco l'Angelo scacciato dal trono per opera del suo fratello Alessio. Origine della quarta Crociata. I Francesi e i Veneziani collegati col figlio d'Isacco. Spedizione navale a Costantinopoli. I due assedj, e resa della città caduta in mano de' Latini.

Lo scisma delle Chiese greca e latina seguì d'appresso la restaurazione dell'Impero d'Occidente da Carlomagno operata[1]. Una nimistà nazionale e religiosa tiene tuttavia disgiunte le due più numerose comunioni del mondo Cristiano; e lo Scisma di Costantinopoli, inimicando i più utili confederati, irritando i più pericolosi nemici, l'invilimento e la caduta dell'Impero romano d'Oriente affrettò.

Più d'una volta, e manifestamente, è apparsa nel corso di questa Storia l'avversione de' Greci contra i Latini. Stata erane prima origine l'odio che i secondi portavano alla servitù, odio vie più acceso, dopo il regno di Costantino, dall'orgoglio della eguaglianza e dall'ambizione del dominio, e invelenito in appresso dalla preferenza che alcuni sudditi ribelli aveano data alla lega de' Franchi. In tutti i tempi, i Greci si mostrarono vanagloriosi di primeggiare per la loro erudizione religiosa e profana. Primi di fatto nel ricevere i lumi del Cristianesimo i Greci, nel seno di lor nazioni i decreti di sette Concilj generali vennero pronunziati[2]. La lingua de' medesimi era quella della Santa Scrittura e della filosofia; nei popoli barbari,[3] immersi nelle tenebre dell'Occidente[4], doveano a loro avviso, arrogarsi il diritto di discutere le quistioni misteriose della teologica scienza. Ma questi Barbari, a lor volta, l'incostanza e le sottigliezze degli Orientali, autori di tutte le eresie, disprezzavano; e benedivano la propria ignoranza che di seguire con docilità la tradizione della Chiesa Appostolica si appagava. Ciò nulla meno nel settimo secolo, i Sinodi di Spagna, e quelli indi di Francia, portarono a miglior perfezione, o corruppero[5] il Simbolo di Nicea intorno al mistero della terza persona della Trinità[6]. Nelle lunghe controversie dell'Oriente era stata scrupolosamente definita la natura e la generazione di Gesù Cristo; e i naturali modi per cui un figlio deriva dal padre sembravano offrire alla mente qualche debole immagine di un tale mistero. Ma l'idea di nascita parea men confacevole allo Spirito Santo, che invece di un dono o di un attributo divino, veniva considerato dai Cattolici come una sostanza, una persona, un Dio. Comunque non generato, secondo lo stile ortodosso però, procedea. Procedeva egli solo dal padre, o fors'anche dal figlio? Ovvero dal padre e dal figlio? I Greci la prima di queste opinioni ammettevano, i Latini si chiarirono per la seconda; e l'aggiunta della parola filioque[7] fatta al Simbolo di Nicea accese la discordia fra le Chiese Gallicana e Orientale. Nei principj di una tal controversia i Pontefici Romani fecero mostra di serbare la neutralità ed un animo moderato[8]. Condannavano la novità, e nondimeno all'opinione delle nazioni transalpine si mostraron propensi. Parea lor desiderio il coprire questa inutil ricerca col manto del silenzio e della carità; onde nella corrispondenza fra Carlomagno e Leone III, vediamo il Pontefice tener linguaggio di assennato politico, il Monarca abbandonarsi alle passioni e alle massime pregiudicate d'un prete[9]. Ma i principi ortodossi di Roma agl'impulsi della sua temporale politica naturalmente cedettero; e il filioque che Leone desiderava cancellato[10], venne aggiunto nel Simbolo e cantato nella Liturgia del Vaticano. I simboli di Nicea e di S. Atanasio furono d'allora in poi riguardati come parte della Fede cattolica, indispensabilmente necessaria all'eterna salute, e tutti i Cristiani d'Occidente, sieno Romani, sieno Protestanti, percossi dagli anatemi dei Greci, li restituiscono a chiunque ricusa credere che lo Spirito Santo procede, così dal padre come dal figlio. Tali articoli di fede non lasciano possibilità d'accomodamento; bensì le regole di disciplina, nelle chiese lontane e independenti, a variazioni debbono soggiacere: e perfin la ragion de' Teologi potrebbe confessare che tai differenze sono inevitabili e di poca entità. Sia effetto di politica o di superstizione, Roma ha imposto a' suoi preti e diaconi il rigoroso obbligo del celibato. Questo, appo i Greci, non si estende che ai Vescovi ai quali la lor dignità offre il compenso di una privazione, fatta anche men sensibile per essi dagli anni. Il Clero parrocchiale, i Papassi, godono del consorzio della moglie che prima di assumere gli Ordini Sacri sposarono. Nell'undicesimo secolo, fu agitata con calore una quistione che riferivasi agli Azzimi, pretendendosi che l'essenza della Eucaristia dependesse dall'uso del pane col lievito o senza lievito. Mi è egli lecito in una storia grave il narrare i rimproveri che venivano furiosamente scagliati contro i Latini, i quali lungo tempo rimasero sulla difensiva? — Essi trascuravano di osservare il decreto appostolico che proibisce il nudrirsi di sangue d'animali, o di questi animali stessi affogati o strozzati: praticavano ogni sabbato il digiuno mosaico; permetteano nella prima settimana di quaresima l'uso del formaggio e del latte[11]; si concedeva ai monaci infermi il mangiar carne; il grasso degli animali, talvolta alla mancanza d'olio suppliva; riserbavasi all'Ordine episcopale l'amministrazione della Santa Cresima, o dell'unzione battesimale. I Vescovi portavano al dito un anello, come sposi spirituali della loro Chiesa; i preti si radevano la barba, e battezzavano con una semplice immersione; tai sono i delitti che infiammarono lo zelo dei Patriarchi di Costantinopoli, e de' quali collo stesso fervore i dottori latini cercavano di scolparsi[12].

A. D. 857-886

La superstizione e l'odio nazionale contribuiscono in segnalata guisa ad invelenire i dispareri, anche sulle cose più indifferenti; ma lo scisma de' Greci ebbe per sua cagione immediata la gelosia de' due Pontefici. Il Romano, sostenendo la supremazia dell'antica Metropoli, pretendea non avere altro eguale nel mondo Cristiano; quello della Capitale regnante voleva essergli eguale e ricusava di riconoscere un superiore. Verso la metà del nono secolo, un laico, l'ambizioso Fozio[13], capitano delle guardie, e primo segretario dell'Imperatore, ottenne, o fosse merito di lui, o grazia del Principe, la molto più desiderabile dignità di Patriarca di Costantinopoli. Fornito di cognizioni superiori al rimanente del Clero, anche nella scienza ecclesiastica, immune da taccia per la purezza dei suoi costumi, solamente la fretta posta nell'assumere gli Ordini sacri, e l'irregolarità del suo innalzamento gli venivano rimproverati. Ignazio predecessore di lui che era stato costretto a rassegnare la cattedra, conservava tuttavia per sè la compassione pubblica e l'ostinatezza de' suoi partigiani. Costoro portarono appellazione a Nicolò I; uno de' più orgogliosi e ambiziosi Pontefici Romani, che mai fossero stati, il quale accolse avidamente questo motivo di giudicare e condannare il proprio rivale. Si arroge che la discordia de' due prelati fu ancora inacerbita da un conflitto di giurisdizione, perchè si disputavano entrambi il Re e la nazione dei Bulgari; e poco rilevante cosa pareva all'uno e all'altro, che questi popoli si fossero di recente al Cristianesimo convertiti, se non potevano fra i loro sudditi spirituali questi nuovi proseliti noverare. Sostenuto dalla sua Corte, il Patriarca Greco riportò la vittoria, ma in mezzo alla violenza della disputa, scomunicò a sua volta il successor di S. Pietro, avvolgendo tutta la Chiesa latina nel bando di scisma e d'eresia che egli avea fulminato; col quale atto ad un regno breve e precario la pace del mondo Fozio sagrificò. Il Cesare Bardas, protettore di Fozio, lo trascinò seco nella sua caduta; e Basilio il Macedone, si mostrò giusto nel restituire all'antica sede Ignazio, agli anni e alla dignità del quale non erasi avuto bastante riguardo. Dal fondo del suo convento, o del suo carcere, con patetiche lamentele, e con accorte adulazioni, Fozio sollecitava il favore del nuovo monarca; onde appena ne fu morto il rivale, risalì alla sedia patriarcale di Costantinopoli. Cessato di vivere Basilio, sperimentò le vicissitudini delle Corti, e l'ingratitudine del suo allievo asceso sul trono. Rimosso quindi una seconda volta, nella solitudine che gli estremi momenti della sua vita acerbò, dovette augurarsi le soavità dello studio e la libertà della vita secolare che all'ambizione aveva posposte. Ad ogni politico cambiamento, il clero cedea docilmente e senza perplessità al soffio dell'aura di Corte, e ad ogni cenno del nuovo principe; onde un Sinodo di trecento Vescovi teneasi sempre indifferentemente apparecchiato o a celebrare il trionfo del Santo, o ad imprecare l'esecrabile Fozio caduto dal seggio[14]; e i Papi, sedotti da promesse ingannevoli di soccorsi, o di ricompense, si lasciavano condurre ad approvare questi atti contraddittorj, e per via di lettere o di Legati, i Sinodi di Costantinopoli ratificarono. Ma la Corte ed il popolo, Ignazio e Fozio, in una cosa convenivano, nel non ammettere le pretensioni de' Papi. I ministri di questi vennero insultati, o posti in carcere: la processione dello Spirito Santo dimenticata, la Bulgaria unita per sempre al trono di Bisanzo; e lo scisma si fece più durevole per le censure rigorose emanate dagli stessi Papi contro le moltiplicate ordinanze che un Patriarca irregolare avea decretate. L'ignoranza e la corruttela del decimo secolo sospesero le contestazioni fra i due popoli, le nimistà loro non ammollì; ma allorchè, la spada de' Normanni fece ritornare le chiese della Puglia sotto la giurisdizione di Roma, il Patriarca nel congedarsi da questo perduto gregge, lo avvertì con una lettera piena di fiele di evitare e abborrire le eresie de' Latini. La nascente maestà del Romano Pontefice, non potè comportare questa insolenza d'un ribelle; onde Michele Cerulario pubblicamente, e in mezzo di Costantinopoli, si vide dai Legati Pontifizj scomunicato (A. D. 1054). Consegnarono questi sull'altare di S. Sofia il terribile anatema che chiarendo[15] le sette mortali eresie dei Greci, condannava all'eterna società del demonio, e degli angeli delle tenebre, i colpevoli predicatori di queste eresie e i loro sfortunati settarj. Sembrò talvolta che la concordia si rimettesse; perchè, giusta i bisogni della Chiesa o dello Stato greco, or da una banda, or dall'altra, al linguaggio della dolcezza e della carità si piegava; ma non mai i Greci abbiurarono i proprj errori, non mai i Papi ritrattarono le lor sentenze; talchè può quivi riguardarsi l'epoca del consumato scisma dell'Oriente. Ciascun nuovo atto ardimentoso de' Romani Pontefici lo ingrossò[16]. Le sventure, l'umiliazione de' Monarchi alemanni fecero arrossire e tremare gl'Imperatori di Costantinopoli, la possanza temporale e la vita militare del Clero latino il popolo Greco scandalezzarono[17].

A. D. 1000-1200

L'avversione in cui mutuamente i Greci e i Latini si avevano, fu confermata, e apparve più manifesta nelle tre prime spedizioni della Palestina. Alessio Comneno non risparmiò artifizj, per allontanare, se altro non poteasi, questi formidabili pellegrini. I successori di lui, Manuele e Isacco l'Angelo, tramarono di concerto coi Musulmani la rovina de' più illustri condottieri de' Franchi; insidiosa e perfida politica in cui vennero ben secondati dalla volontaria obbedienza de' loro sudditi d'ogni classe. Di sì fatta avversione vuol certamente darsi gran colpa alla differenza d'idiomi, di vesti e di consuetudini, la quale diversità fa discordanti fra loro, e contrarie le une dall'altre, presso che tutte le nazioni del Globo. E l'amor proprio e la prudenza del Sovrano ad un tempo soffrivano in veggendo queste invasioni di stranieri eserciti che chiedeano imperiosamente il diritto di attraversare gli Stati greci e di passare sotto le mura della loro capitale. Oltrechè, i pusillanimi sudditi dell'Imperator greco venivano spogliati e insultati da questi rozzi abitanti dell'Occidente, e l'odio dei primi contra i secondi era anche nudrito da segreta gelosia, che le pie e coraggiose imprese de' Crociati inspiravano. Un cieco zelo di religione ai motivi profani di nazionale odio aggiugneasi; poichè i Cristiani d'Occidente, in vece di ricevere amichevole accoglienza dai loro fratelli cristiani d'Oriente, udiansi continuamente rintronare all'intorno i nomi di scismatici e di eretici, nomi ad ortodosso orecchio più aspri che non quelli stessi di Pagani o d'Infedeli. Laonde anzichè inspirare quella fiducia che a conformità di culto e di Fede parea consentanea, i Franchi erano abborriti dai Greci, per alcune regole di disciplina o quistioni teologiche in cui le massime loro, o del Clero latino, da quelle della Chiesa Orientale scostavansi. Nel tempo della Crociata di Luigi VII, i preti greci lavarono e purificarono un altare, siccome profanato dal divin sagrifizio celebratovi da un prete francese. I compagni di Federico Barbarossa si dolsero d'insulti e cattivi trattamenti, che soprattutto dai Vescovi e dai Monaci riceveano. Cotesti ecclesiastici, nelle loro preci, e ne' loro sermoni, animavano il popolo contro gli empj Barbari venuti fra loro. Viene anzi accusato il Patriarca di avere promulgato che l'esterminare i scismatici era pei fedeli una via di ottenere remissione plenaria di tutti i peccati[18]. Un entusiasta, di nome Doroteo portò ad un tempo spavento e calma nell'animo dell'Imperatore, col predirgli che gli eretici alemanni assalirebbero la porta di Blacherna, ma ne riceverebbero tal castigo che diverrebbe tremendo esempio della divina vendetta. I passaggi di questi grandi eserciti erano avvenimenti rari e pericolosi: ma le Crociate diedero fra i due popoli origine ad una corrispondenza che li fornì di nuove cognizioni, senza però guarirli dai pregiudizj che le loro menti viziavano. Il lusso e le ricchezze di Costantinopoli ivi attraevano le produzioni di tutti i climi, intanto che il lavoro e l'industria de' numerosi cittadini, contrabbilanciavano il bisogno d'introdurre cose peregrine. Situata questa metropoli in modo che chiama a sè il commercio di tutte le parti del Globo, questo commercio per lungo tempo fu nelle sole mani degli stranieri. Venuta Amalfi a scadimento, i Veneziani, i Pisani, e i Genovesi posero fattorie nella Capitale del greco impero: i lor servigi ebbero guiderdoni di privilegi ed onori; comperarono poderi e case: le famiglie di questi per via di maritaggi co' nativi moltiplicaronsi; e dopo che fu tollerata una moschea maomettana divenne impossibile il proibire chiese di rito romano[19]. Le due mogli di Manuele Comneno[20] alla stirpe de' Franchi spettarono, cognata la prima dell'Imperatore Corrado, figlia la seconda del principe di Antiochia. Lo stesso Manuele ottenne in isposa al proprio figlio Alessio una figlia di Filippo Augusto, re di Francia, ed una figlia maritò al Marchese di Monferrato, che nella reggia di Costantinopoli avea ricevuta la sua educazione, e delle dignità della Corte greca andava insignita. Questo monarca aspirava alla conquista dell'Occidente dopo averne combattuti gli eserciti; apprezzava il valore de' Franchi, della fedeltà loro non dubitava[21], e in modo assai singolare compensava i loro meriti guerrieri conferendo ad essi i lucrosi uffizj di giudici e di tesorieri. La politica gli suggerì sollecitare una lega col Pontefice, onde la pubblica voce lo accusò, siccome parziale alla nazione e al culto de' Latini[22]: i quali e sotto il regno di Manuele, e sotto il successivo di Alessio venivano indicati cogli odiosi nomi di estranei, di eretici, di favoriti. Triplice delitto che fu severamente espiato nella sommossa che annunziò il ritorno e l'innalzamento di Andronico[23]. Il Popolo accorse all'armi; dalle coste dell'Asia il tiranno inviò e truppe e galee che la vendetta pubblica favoreggiassero; onde l'impotente resistere degli stranieri non divenne che un pretesto al raddoppiato furore de' loro uccisori. Nè età, nè sesso, nè vincoli d'amicizia o di parentado poterono salvar le vittime che l'odio, il fanatismo, e l'avarizia aveano consagrate alla morte. Trucidati per le strade e nelle lor case i Latini: ridotto in cenere il rione ove abitavano: arsi i sacerdoti nelle proprie chiese, gl'infermi ne' loro ospitali. Somministrerà un'idea di questa carnificina l'atto di clemenza che la terminò. Furono venduti ai Turchi quattromila Cristiani, che sopravvissero alla general proscrizione. I preti e i frati furono quelli che più operosi e inviperiti alla distruzione de' scismatici si dimostrarono, e fu cantato pietosamente un Te Deum, poichè il capo d'un Cardinale romano, Legato pontifizio, videsi separato dal suo busto, e trascinato a coda di cavallo per le strade della città fra i barbari scherni d'un'inferocita ciurmaglia. I più prudenti Latini al primo sentore della sommossa si erano riparati nelle proprie navi, e attraversando l'Ellesponto, a questa scena d'orror si sottrassero. Nella loro fuga però, portarono strage ed incendio sulla costa greca per una estensione di dugento miglia, e usando crudel rappresaglia su que' sudditi dell'Impero che erano innocenti, sfogarono soprattutto il proprio furore sui preti ed i frati, e colle fatte prede si compensarono delle ricchezze che essi e i loro amici aveano perdute. Di ritorno nell'Occidente, divulgarono per tutta Italia ed Europa la debolezza, l'opulenza, la perfidia, e il feroce astio de' Greci, i cui vizj, quai conseguenze naturali dello scisma e dell'eresia venner dipinti. I pellegrini della prima Crociata, mossi da scrupolo di coscienza, aveano trascurata la più bella fra le occasioni di aprirsi per sempre la strada di Gerusalemme coll'assicurarsi il possedimento di Costantinopoli; ma un interno cambiamento politico allettò, e quasi costrinse i Francesi ed i Veneziani ad accingersi alla conquista dell'Impero Orientale.

A. D. 1185-1195

Nel corso della storia di Bisanzo furono per me narrate l'ipocrisia, l'ambizione, la tirannide e la caduta di Andronico, ultimo rampollo della dinastia Comnena che in Costantinopoli abbia regnato. La tempesta politica che balzò dal trono costui, salvò la vita, e fu cagione d'innalzamento ad Isacco l'Angelo, che per linea femminina dalla stessa stirpe scendea[24]. Al successore di un secondo Nerone non doveva esser difficile il meritarsi l'affetto, e la stima de' sudditi; eppure qualche volta i Greci il governo di Andronico ebbero ad augurarsi. Almeno questo tiranno, fornito di molto ingegno e di fermo animo, seppe scorgere quai vincoli il suo interesse a quello del popolo collegassero; e solertissimo nel far tremare coloro che gli davano ombra, governò per altro in modo che gli oscuri privati, e le lontane province benedivano la rigorosa giustizia del loro sovrano. Ma il successore di Andronico, vano e geloso del potere supremo acquistato, mancava e del coraggio e dell'ingegno che ad adoprarlo erano nccessarj: i vizj di costui funesti divennero ai sudditi; inutili, se pur ne ebbe qualcuna, le sue virtù. I Greci che alla costui negligenza tutte le calamità dello Stato apponeano, gli negarono persino il merito de' vantaggi passeggieri, o accidentali che durante il suo regno godettero. Sonnacchioso sul trono, la sola voce del piacere lo ridestava, consagrando tutte le sue veglie a turbe di commedianti e buffoni, ai quali ancora oggetto di sprezzo rendeasi. Il lusso delle feste da esso ordinate e de' suoi edifizj, superava ogni pompa di cui altra Corte avesse sfoggiato giammai; aveva eunuchi e domestici fino al numero di ventimila, e il mantenimento della mensa e della casa, meno di quattromila lire d'argento, ossia di quattro milioni sterlini annuali non gli costava; a soddisfare le proprie voglie non conoscea che una via; opprimere il popolo, che irritavano egualmente e le vessazioni operate nel riscotere le pubbliche rendite, e l'uso che di queste rendite si faceva alla Corte. Intantochè i Greci numeravano i giorni della loro schiavitù, un Profeta che in guiderdone del suo profetare ottenne da Isacco il Patriarcato, gli predisse, che durante un regno felice di trentadue anni avrebbe esteso sino al monte Libano i confini dell'impero, le sue conquiste oltre l'Eufrate. Ma il solo atto ch'ei fece per verificare una simile predizione, fu quello di spedire un'ambasceria scandalosa quanto superba a Saladino[25], chiedendogli la restituzione del Santo Sepolcro, e proponendo una lega offensiva e difensiva a questo nemico del nome cristiano. Fra le indegne mani d'Isacco, e del fratello di lui, gli avanzi del greco Impero ebbero l'ultimo crollo. L'isola di Cipro, il cui nome ridesta le idee di dolcezza e di voluttà fu invasa da un Principe della dinastia de' Comneni; e per un singolare accordo di circostanze, il valore di Riccardo d'Inghilterra trasportò nella Casa di Lusignano questo reame, compenso ben abbondante della perduta Gerusalemme.

A. D. 1186

La ribellione de' Valacchi e de' Bulgari, quanto di ignominia alla monarchia, altrettanto di inquietudine portò alla capitale. Dopo la vittoria di Basilio II, questi popoli si erano serbati sommessi ai principi di Bisanzo, sommessione per vero dire che non recava ai vassalli grande molestia; ma niuno avea mai fatta la pruova di ridurre efficacemente sotto il giogo de' costumi e delle leggi quelle selvagge tribù. Per ordine di Isacco l'Angelo, vennero private del solo modo di sussistenza che avessero, delle loro greggie, che vennero adoperate alla pompa delle nozze dell'Imperatore. Indi il rifiuto di pareggiarli nello stipendio e nel grado agli altri soldati dell'Impero, gli animi di que' guerrieri indocili affatto irritò. Pietro e Asan, due possenti Capi della stirpe degli antichi Re[26], si eressero in difensori de' proprj diritti e della pubblica libertà: i fanatici, che ad essi prestarono l'uffizio di predicatori, bandirono alle genti che il glorioso S. Demetrio loro avvocato, avea sempre abbandonate le parti de' Greci: laonde la ribellione dalle sponde del Danubio ai monti della Tracia e della Macedonia si dilatò. Dopo alcuni sforzi inutili per sedarli, Isacco e il fratello d'Isacco riconobbero la loro independenza; perchè fin sulle prime, le truppe imperiali si scoraggiarono alla vista dei teschi e de' brani de' lor confratelli, lungo le gole del monte Emo dispersi. Il valore e la politica di Giovanni o Giovannizio, fondarono sopra salde basi il secondo regno de' Bulgari. Questo accorto Barbaro spedì un'ambasciata ad Innocenzo III, riconoscendosi per nascita e religione figlio di Roma[27], e supplicando umilmente il Pontefice a concedergli la facoltà di battere moneta, il titolo di Re, e un arcivescovo o Patriarca latino. Nel quale intento essendo egli riuscito, il Vaticano riportò il trionfo di una nuova conquista, che fu la prima origine dello scisma; poichè, se ai Greci fosse rimasta la loro preminenza sulla Chiesa di Bulgaria, alle pretensioni della sovranità avrebbero, senza dolersene, rinunziato.

A. D. 1195-1203

I Bulgari, odiando, come odiavano, l'Impero greco, doveano sopra ogni cosa pregare il Cielo che durasse il regno d'Isacco l'Angelo, divenuto il miglior mallevadore della loro prosperità o independenza. Nondimeno i Capi de' Bulgari nella cecità del loro astio avevano egualmente a vile e la nazione greca, e l'imperiale famiglia. «Non son nati in Grecia? diceva Asan ai propri soldati. Il clima, l'animo, l'educazione sono sempre i medesimi, e produrranno sempre i medesimi effetti. Vedete voi in cima alla mia lancia queste lunghe banderuole che ondeggiano a grado del vento; non differiscono che nel colore: composte di una seta stessa, lavorate dalle stesse mani, quelle che sono tinte in color di porpora non hanno maggior prezzo o valore dell'altre[28] ». Il Regno di Isacco, vide sorgere e cadere molti pretendenti all'Impero: un generale che avea respinte le flotte dei Siciliani, dall'ingratitudine del Monarca venne trascinato alla ribellione, indi alla propria rovina: sommosse e segrete congiure, più d'una volta turbarono i sonni del principe voluttuoso. Per più riprese salvato o dal caso, o dalla sollecitudine de' suoi domestici, soggiacque finalmente alle trame d'un ambizioso fratello, che per guadagnarsi il possedimento precario di un vacillante trono, i sentimenti della fedeltà, della natura ed ogni riguardo d'affetto dimenticò[29]. Intantochè Isacco si diportava pressochè solo cacciando nelle ville della Tracia, Alessio, in mezzo al campo e fra gli applausi di tutto l'esercito, vestì la porpora; scelta che la capitale e il clero approvarono. Schifo per vanità del nome dei padri suoi, il nuovo Sovrano assunse il più pomposo della famiglia real de' Comneni. Non mi restano espressioni obbrobriose per contrassegnare Alessio dopo quelle che per dipingere Isacco adoprai: unicamente aggiugnerò che l'indegno usurpatore[30] durò otto anni sul trono, e ne dovette grazia ai meno effeminati vizj della sua moglie Eufrosina. Solo al vedersi inseguito, come un nemico, dalle infedeli sue guardie imperiali, del suo disastro avvidesi Isacco: e corse fuggendo, all'aspetto de' suoi persecutori, fino a Stagira in Macedonia, cammino di circa cinquanta miglia; ma abbandonato a sè stesso e privo di soccorsi l'infelice Isacco, non potè al suo destino sottrarsi. Arrestato, condotto a Costantinopoli, privato degli occhi, e confinato in una solitaria torre, solo pane ed acqua ivi furono il suo nudrimento. Nel tempo di tale catastrofe toccava soltanto il dodicesimo anno Alessio figlio d'Isacco, che crescea nella speranza di succedere al regno. La fanciullezza di lui trovò grazia presso il tiranno, che lo serbò, e nella pace, e nella guerra, a decorare la pompa del proprio corteggio. Essendo accampato in riva al mare l'esercito greco, una nave italiana favorì la fuga del giovine principe, che, sotto abito di marinaio, involatosi alle indagini de' nemici, passò l'Ellesponto, nè tardò a trovarsi, immune da pericolo, sulle coste della Sicilia. Dopo essersi indi condotto a salutare la dimora de' Santi Appostoli e ad implorare la protezione di Papa Innocenzo III, cedè Alessio agl'inviti della sua sorella, Irene moglie di Filippo di Svevia, Re de' Romani. Ma attraversando l'Italia, intese come il fiore de' cavalieri d'Occidente, nella città di Venezia assembrato, a veleggiare alla Terra Santa accigneasi: onde gli nacque in cuore un raggio di speranza, che l'armi invincibili de' Crociati tornassero il padre suo sul trono che gli era stato rapito.

A. D. 1198

Dieci o dodici anni all'incirca dopo la perdita di Gerusalemme, i Nobili della Francia vennero nuovamente alla guerra santa eccitati per la voce di un terzo Profeta, meno stravagante di Piero l'Eremita, per vero dire, ma che in politica ed eloquenza a S. Bernardo di gran lunga cedea. Un prete ignorante nato ne' dintorni di Parigi, Folco di Neuilly[31] abbandonò il servigio della sua parrocchia per sostenere la parte più seducente di missionario ambulante e di predicatore del popolo: la fama della sua santità e de' suoi miracoli si diffuse; veementemente declamava contro i vizj del secolo, e i sermoni che per le pubbliche vie di Parigi andava spacciando ebbero la fortuna di convertire ladri, usurai, meretrici, e persino alcuni dottori e scolari dell'Università. Appena Innocenzo III tenne la cattedra di San Pietro, bandì per l'Italia, per l'Alemagna e per la Francia, la necessità, ossia il dovere di una nuova Crociata[32]. L'eloquente Pontefice deplorava in patetico stile la rovina di Gerusalemme, il trionfo dei Pagani, e l'obbrobrio della Cristianità, liberalmente promettendo la remission de' peccati e un'indulgenza plenaria a tutti coloro che presterebbero servigio alla guerra di Palestina, o colla persona per un anno, o col ministerio di un sostituto per due[33]. Fra i Legati, ed Oratori che intonarono la sacra tromba, Folco di Neuilly ebbe la preminenza così per dimostrato zelo, come per lo sfarzo de' buoni successi che ottenne. E certamente lo stato in allora de' principali monarchi dell'Europa, tutt'altro che favorevole ai voti del Santo Padre, si dimostrava; l'Imperatore Federico II, tuttavia fanciullo, vedea dilacerati i suoi dominj dell'Alemagna dalle discordie delle rivali Case di Svevia e Brunswik, e dalle fazioni memorabili de' Guelfi e de' Ghibellini. Filippo Augusto di Francia aveva il suo pericoloso voto adempiuto, nè troppo talentavagli di rinovarlo; ma per altra parte, avido di lodi e di potenza questo monarca, assegnò un fondo perpetuo al servigio militare di Terra Santa. Riccardo d'Inghilterra, sazio di gloria, e acerbato dai disgustosi incidenti che alla sua prima spedizione si univano, si prese la libertà di rispondere con una facezia alle esortazioni di Folco di Neuilly, che, con egual sicurezza, mandava i suoi rabbuffi ai popoli e ai Re. «Voi mi consigliate, gli facea scrivere Plantageneto, di sciogliermi dalle mie tre figlie, la superbia, l'avarizia e l'incontinenza. Ebbene! Per metterle nelle mani di chi ne sappia far conto, consegno la mia superbia ai Templarj, la mia avarizia ai frati di Citeaux, la mia incontinenza ai Vescovi». Ciò non pertanto i grandi vassalli, e i Principi di secondo ordine, alle voci del predicatore docilmente obbedirono. Il giovine Tebaldo Conte di Sciampagna, in età di ventidue anni fu primo e de' più zelanti a mettersi nella santa impresa; che, a ciò il confortavano gli esempj del padre e del fratel primogenito, quegli stato condottiere della seconda Crociata, questi morto in Palestina col titolo di Re di Gerusalemme. Duemila dugento cavalieri doveano omaggio e servigio militare al Conte di Sciampagna[34], e la Nobiltà di questo paese per maestria nell'armi di altissima fama godea[35]. Oltrechè, Tebaldo, divenuto sposo della erede della Casa di Navarra, poteva aggiugnere alle sue truppe una coraggiosa banda di Guasconi tolti da entrambi i lati de' Pirenei. Gli fu compagno d'armi, Luigi, conte di Blois e di Chartres, venuto, come egli, di sangue reale; perchè questi due Principi erano, l'uno e l'altro, nipote e del francese, e dell'inglese Monarca. Nella moltitudine de' Baroni e Prelati che il fervore de' due Conti imitarono, vogliono essere distinti Mattia di Montmorenci, chiaro per natali e per merito, il famoso Simone di Montfort, flagello degli Albigesi, il valente Goffredo di Villehardouin[36], maresciallo di Sciampagna[37], che si è degnato scrivere nell'idioma[38] barbaro del suo secolo e del suo paese[39] la narrazione de' consigli, e delle spedizioni, nelle quali egli medesimo una delle primarie parti sostenne. Nel medesimo tempo, Baldovino, conte di Fiandra, che avea sposata la sorella di Tebaldo, prese la croce a Bruges non meno del proprio fratello Enrico, e dei principali cavalieri e cittadini di questa ricca ed industriosa provincia[40]. I Capi pronunziarono solennemente il lor voto nella Chiesa, e lo ratificarono ne' tornei. Dopo che in parecchie assemblee generali fu discusso intorno ai modi di accignersi alla grande impresa, venne risoluto che, per liberare la Palestina, si dovea portar la guerra in Egitto, paese che, dopo la morte di Saladino, la fame e le civili guerre straziavano. Ma la ria ventura che aveano incontrata tanti eserciti, condotti dai Sovrani in persona, mostravano pericolosissima cosa l'imprendere per terra una sì lunga spedizione: e benchè i Fiamminghi abitassero le coste dell'Oceano, i Baroni francesi mancavano di navilio, nè avevano inoltre sull'arte del navigare nozioni di sorte alcuna. In tal frangente, i Crociati saggiamente nominarono sei deputati o rappresentanti, nel novero de' quali il Villehardouin si trovò, con pieno potere di negoziare pel vantaggio della Confederazione, e di regolare tutte le fazioni di questa impresa. Non essendovi che gli Stati marittimi dell'Italia, atti a fornire quanto facea di mestieri per trasportare i pellegrini, le armi loro e i cavalli, i sei deputati cercarono Venezia, onde far valere e la divozione, e l'interesse allo scopo di ritrar soccorsi da quella possente repubblica.

A. D. 697-1200

Nel narrare l'invasione fatta da Attila nell'Italia, non tacqui[41], come i Veneziani fuggiti dalle città distrutte del Continente, si fossero cercato uno oscuro asilo nella catena d'isolette che l'estremità dell'Adriatico golfo fiancheggiano. Circondati per ogni lato dal mare, liberi, indigenti, laboriosi, e padroni d'una inaccessibil dimora, a mano a mano in repubblica si congregarono. Le prime fondamenta di Venezia accolse l'isola di Rialto, e venne, in vece della elezione annuale di dodici tribuni, l'uffizio di un Duca o Doge perpetuo, che durava quanto la vita di chi lo assumea. Collocati fra due imperi, i Veneziani vanno fastosi della fama di aver sempre mantenuta la primitiva loro independenza[42], e sostenuta coll'armi la lor libertà, dai Latini posta in pericolo, fama che, con testimonianze commesse allo scritto, potrebbero di leggieri giustificare. Il medesimo Carlomagno abbandonò tutte le sue pretensioni sulle isole del golfo Adriatico; Pipino, figlio di lui, ebbe mal successo in volendo superare le lagune di Venezia, troppo profonde, perchè la sua cavalleria potesse varcarle, ma non a bastanza per offerire alle sue navi ricetto; e sotto il successivo regno di tutti gli alemanni Imperatori, le terre della Repubblica veneta da ogn'altro paese italiano sonosi contraddistinte. Ma quegli abitanti imbevuti eransi dell'opinione generale dell'estranie nazioni, e de' Greci loro sovrani, i quali siccome parte non alienabile dell'Impero d'Oriente li riguardavano[43]. Il nono e il decimo secolo somministrano prove e molte, e saldissime di tale dipendenza. Laonde i vani titoli e i servili onori della Corte di Bisanzo, cotanto ambiti dai loro Dogi, avrebbero invilite le magistrature di questo popolo libero, se l'ambizione de' cittadini, e la debolezza di Costantinopoli non avessero per insensibili gradi sciolte le catene di questa dependenza medesima, che poi non era nè severissima, nè di soverchio assoluta. Convertiti l'obbedienza in rispetto, i privilegi in prerogative, la libertà del Governo politico quella del Governo civile affrancò. Le città marittime dell'Istria e della Dalmazia obbedivano ai sovrani dell'Adriatico; e quando questi armarono per Alessio contra i Normanni, l'Imperatore greco non riguardò i soccorsi de' medesimi, qual tributo che il Sovrano può aspettarsi dai sudditi, ma beneficenza di grati e fedeli confederati li reputò. Retaggio fu di questo popolo il mare[44]. Certamente i Genovesi e i Pisani, rivali de' Veneti, teneano la parte occidentale del Mediterraneo, dalla Toscana a Gibilterra; ma avendo Venezia ottenuta di buon'ora una grossa parte nel commercio vantaggiosissimo della Grecia e dell'Egitto, le ricchezze di essa, a proporzione delle inchieste degli Europei, si aumentarono; le sue manifatture di cristalli e di seta, fors'anche l'instituzione della sua Banca ad una antichità la più rimota risalgono, e i frutti della comune industria nella magnificenza della Repubblica e de' privati ammiravansi. Facea mestieri di mantenere l'onore della veneta bandiera, di vendicare ingiurie a questa inferite, o proteggerne la marittima libertà? La Repubblica potea in brevissimo tempo lanciar nell'acque, allestire una flotta di cento galee, ch'essa adoperò a mano a mano contra i Greci, contra i Saracini, contra i Normanni, o in soccorso, che grande fu, de' Francesi nelle loro spedizioni alle coste della Sorìa. Ma questa solerzia de' Veneziani, nè cieca, nè disinteressata mostravasi. Dopo la conquista di Tiro, parteciparono al dominio sovrano di questa città, primo ricettacolo del commercio di tutto il Globo; e già scorgeansi nella politica del veneto Governo tutta l'avarizia di un popolo trafficante, e tutta l'audacia di una potenza marittima. Ma non fu mai che il consiglio l'ambizione non ne regolasse; e dimenticò rare volte, che, se la copia delle sue galee armate era conseguenza e salvaguardia di sua grandezza, il suo navilio mercantile le avea dato origine e la sostenea. Evitato lo scisma de' Greci, non quindi Venezia un'obbedienza servile al Pontefice di Roma prestò; e l'abito di corrispondere cogl'Infedeli di tutti i climi, le fu schermo di buon'ora contra gl'influssi della superstizione. Il Governo primitivo di Venezia presentava una mescolanza informe di democrazia e di monarchia; pei suffragi di una generale assemblea eleggevasi il Doge; e questi, sinchè piaceva al popolo la sua amministrazione, regnava con fasto e con autorità ad un sovrano addicevoli; ma negli spessi cambiamenti politici occorsi, cotesti maestrati vennero e rimossi, e confinati in esilio, e talvolta anche morti per opera di una moltitudine sempre violenta, spesse volte ingiusta. Col secolo dodicesimo solamente incominciò quell'abile e vigilante aristocrazia, per le cui conseguenze ai dì nostri il Doge non è più che un fantasma, il popolo un nulla[45].

A. D. 1201

Appena giunti a Venezia i sei ambasciatori francesi, vennero nel palagio di S. Marco amichevolmente accolti dal Doge Enrico Dandolo, che, pervenuto all'ultimo periodo dell'umana vita, fra gli uomini più chiari del suo secolo risplendea[46]. Aggravato dagli anni, e divenuto cieco[47], il Dandolo conservava tutto il vigore del suo coraggio e del suo intendimento, il fervor d'un eroe bramoso di segnalare per qualche memorabile impresa l'epoca del suo regno, la saggezza di un cittadino infiammato dall'ardore di fondare la propria fama sulla gloria e la possanza della sua patria. Il valore e la fiducia de' Baroni francesi e de' lor deputati, ottennero da lui approvazione ed encomj: «S'io non fossi che un privato, rispondea loro, nel sostenere una sì bella causa, e in compagnia di tali campioni, bramerei terminare il corso della mia vita.» Ma nella sua qualità di magistrato di una Repubblica, li chiese di qualche indugio per consigliarsi in una bisogna di tanta importanza co' suoi colleghi. La proposta de' Francesi venne primieramente discussa nel consesso de' sei Savj nominati di recente per vegliare all'amministrazione del Doge; indi portata ai quaranta Membri del Consiglio di Stato, poi comunicata all'Assemblea legislativa, composta di quattrocentocinquanta Membri, eletti ciascun anno ne' sei rioni della città. E in pace, e in guerra, il Doge era sempre il Capo della Repubblica; ma il credito personale goduto dal Dandolo, di maggior peso l'autorità legale rendevane. Si ventilarono ed approvarono le ragioni da esso addotte per favorire la confederazione; indi gli fu conferita l'autorità di far note agli ambasciatori le condizioni del Trattato che si volea stipulare[48]. Giusta le medesime, i Crociati, verso la festa di S. Giovanni, del successivo anno sarebbersi adunati a Venezia, ove avrebbero trovato barche piatte per contenere quattromila cinquecento cavalli e novemila scudieri, e navi sufficienti per trasportare quattromila cinquecento uomini a cavallo e ventimila fantaccini. I Veneziani doveano inoltre per nove mesi mantenere di tutte le necessarie vettovaglie la flotta, e condurle ovunque il servigio di Dio o della Sovranità il richiedesse, scortandole inoltre con cinquanta galee armate, e veleggianti colla bandiera della Repubblica. In corrispondenza di tal carico che si assumeano i Veneziani, i pellegrini, prima del partire, doveano sborsare ottantacinquemila marchi d'argento; e quanto alle conquiste, sarebbersi in parti eguali divise fra i confederati. Patti per vero alquanto aspri; ma la circostanza incalzava, e i Baroni francesi non sapeano risparmiare nè il proprio sangue, nè le proprie ricchezze. Fu tosto convocata un'assemblea generale per ratificare il Trattato, e diecimila cittadini empieano la grande cappella e la piazza di S. Marco. I Nobili francesi vidersi per la prima volta alla necessità d'inchinare la maestà del popolo. «Illustri Veneziani, dicea il maresciallo di Sciampagna, veniam deputati da' più grandi e più possenti Baroni della Francia, per supplicare i Sovrani del mare a soccorrerci nel liberare Gerusalemme. Questi nostri commettenti ci raccomandarono prostrarci dinanzi a voi, nè ci rialzeremo, se prima non ne promettete di vendicare con noi gli affronti fatti al Redentore del Mondo». Tali parole accompagnate dal pianto[49], l'atteggiamento supplichevole, e in un l'aspetto guerriero di coloro che le proferivano, eccitarono tal grido universale di applauso, il cui rumore, dice Goffredo, a quel del tremuoto rassomigliavasi. Il venerabile Doge salì il suo tribunale, ove aringando favore dei supplicanti, spiegò quali siano i soli motivi onorevoli e virtuosi che l'adunanza di tutto un popolo possono giustificare. Copiatosi in pergamena il Trattato, munito di suggelli, confermato da giuramenti, scambievolmente accettato con lagrime di gioia dai rappresentanti delle due nazioni, venne tosto inviato a Roma per ottenerne da Papa Innocenzo III l'approvazione. I mercatanti somministrarono duemila marchi per le prime spese dell'armamento; e intantochè due de' sei Deputati le Alpi rivalicavano per annunziare alla lor gente il buon successo delle negoziate cose, gli altri quattro si condussero, ma indarno a Genova e a Pisa, per indurre queste due Repubbliche a prendere parte nella Santa Lega.

A. D. 1202

Indugi ed ostacoli non preveduti tardarono l'adempimento di questo Trattato. Di ritorno a Troyes, il Maresciallo venne affettuosamente accolto, e per le operate cose lodato da Teobaldo, conte di Sciampagna, generale che ad unanime voto i pellegrini eransi scelto; ma la salute di questo giovine valoroso incominciando a vacillare, non andò guari che ogni speranza di salvarlo mancò. Deplorando il destino che lo dannava a perire immaturo, non in mezzo al campo della battaglia, ma sopra un letto d'angoscia, distribuì morendo i proprj tesori a' suoi prodi e numerosi vassalli, dopo averli indotti a giurare alla sua presenza che il voto di lui e di loro medesimi avrebber compiuto. Ma, prosegue il Maresciallo, non tutti quelli che accettarono i donativi la lor parola mantennero; i più risoluti campioni della Croce a Soissons si assembrarono per la scelta di un nuovo generale, e fosse incapacità, gelosia, o contraggenio, non trovarono alcuno tra i Principi francesi fornito delle prerogative d'animo necessarie a condurre sì fatta spedizione, e nemmeno del desiderio di questo comando. Laonde i voti si unirono a favore di uno straniero, di Bonifazio, marchese di Monferrato, rampollo di una stirpe d'eroi, e conosciuto egli medesimo per meriti politici e militari[50]. Nè la pietà, nè la sua ambizione, gli consigliavano ricusar l'offerta di comando fattagli dai Baroni francesi: per lo che, dopo avere trascorsi alcuni giorni alla Corte di Francia, ove trovò accoglienza ad un amico e ad un parente dovuta, accettò solennemente nella chiesa di Soissons la croce di pellegrino, e il bastone di generale, ripassando indi l'Alpi per prepararsi a questa impresa di lunga durata. All'avvicinarsi della Pentecoste, Bonifazio, dispiegato il proprio stendardo, prese la volta di Venezia a capo de' suoi Italiani; colà il precedettero, o seguirono i Conti di Fiandra e di Blois, ed alcuni più illustri Baroni di Francia, ai quali si aggiunse un numeroso corpo di pellegrini alemanni, tutti compresi dagli stessi motivi che i primi animavano[51]. Non solamente aveano compiuti, ma oltrepassati i loro obblighi, i Veneziani: costrutte scuderie pe' cavalli, baracche pe' soldati; magazzini abbondantemente forniti di foraggi e di vettovaglie: i legni da trasporto, le navi e le galee, non aspettavano per salpare che il pagamento della somma stipulata nel Trattato per le spese di allestire la flotta. Ma tal somma era più forte assai delle ricchezze insieme unite di tutti i pellegrini in Venezia adunati. I Fiamminghi, che un'obbedienza volontaria e precaria al loro Conte prestavano, aveano impresa sui proprj navigli la lunga navigazione dell'Oceano e del Mediterraneo, e molta mano di Francesi e d'Italiani preferito valersi per questa traversata dei modi meno dispendiosi e più agiati che vennero offerti loro dai Marsigliesi e dai Pugliesi. I pellegrini trasferitisi a Venezia avrebbero potuto dolersi in veggendo che, dopo avere scontata la loro contribuzione personale, venivano tenuti mallevadori pei compagni lontani; pur tutti i Capi di buon grado le proprie suppellettili di oro e d'argento nel tesoro di S. Marco deposero; ma un sì generoso sagrifizio non era ancora bastante, e ad onta di tanti sforzi a compiere la pattuita somma trentaquattromila marchi ancora mancavano.

La politica e l'amor patrio del Doge tolsero di mezzo l'ostacolo. Ei fece ai Baroni il partito di unirsi ai suoi concittadini per ridurre alcune città ribellanti della Dalmazia; al qual patto promise condursi in persona a combattere sulle coste della Palestina, e ottenere inoltre dalla Repubblica che, quanto al rimanente debito de' Crociati, aspettasse ad ottenerne il pagamento l'istante, in cui qualche ricca conquista ne porgesse ai medesimi i modi. Non poco titubarono, mossi anche da riguardi di coscienza, i Francesi; ma anzichè rinunziare all'impresa, finalmente a questo partito si accomodarono. I primi atti ostili della flotta, furono contro Zara[52], città forte sulle coste della Schiavonia, che sottrattasi ai Veneziani, sotto la protezione del Re ungarese erasi posta[53]. Rotta la catena, o sbarra che il porto ne difendeva, sbarcati i loro cavalli, le loro truppe, le loro macchine da guerra, costrinsero nel quinto giorno la città ad arrendersi a discrezione. Gli abitanti ebbero salve la vite, ma per punirli d'aver ribellato, vennero saccheggiate le loro case, spianate le mura della città. Innoltrata essendo la stagione, i confederati risolvettero scegliere un porto sicuro in fertile paese, per ivi trascorrere il verno tranquillamente: ma ne turbaron la quiete le nimistà di nazione surte fra i soldati e i marinai, e le frequenti lotte che da queste nimistà conseguivano. La conquista di Zara era stata origine di discordie e di scandali. Spiacea che la prima fazione de' confederati, non di sangue infedele, ma del sangue medesimo de' Cristiani, avesse lordate le loro armi; lo stesso Re di Ungheria e i suoi nuovi sudditi fra i campioni della Croce si noveravano; il timore o la incostanza aumentava gli scrupoli de' devoti. Il Pontefice avea scomunicati diversi spergiuri Crociati che saccheggiavano e trucidavano i lor fratelli[54]: anatema che risparmiò solamente il Marchese Bonifazio e Simone di Montfort, l'un d'essi, perchè non si era trovato all'assedio, l'altro pel merito di avere abbandonata del tutto la lega. Innocenzo avrebbe perdonato di buon grado ai semplici e docili penitenti francesi, ma a maggiore sdegno lo concitava l'ostinata ragione de' Veneziani, che ricusando di confessare le loro colpe, non sapean che farsi di perdono, nè voleano, quanto alle bisogne lor temporali, l'autorità d'un prete conoscere.

L'unione di una flotta e di un esercito sì poderoso, le speranze del giovine Alessio avea rianimate[55]. Così a Venezia come a Zara, non risparmiò vivissime istanze ai Crociati, perchè il riconducessero in patria, e la liberazione del suo genitore operassero[56]. Le raccomandazioni di Filippo, Re di Alemagna, la presenza e le preghiere del giovine Greco a pietà mossero i pellegrini; e il marchese di Monferrato, e il Doge di Venezia, la causa ne assunsero e perorarono. Un doppio parentado e la dignità di Cesare aveano colla famiglia imperiale congiunti i due fratelli primogeniti di Bonifazio[57], che sperava acquistarsi, per l'importanza di un tanto servigio prestato, un reame. Più generosa l'ambizione del Dandolo, inspiravagli ardente desiderio di assicurare al suo paese gl'immensi vantaggi che una tale impresa al commercio veneto promettea[58]. La prevalenza di questi due personaggi ottenne buona accoglienza agli ambasciatori d'Alessio; e se per una parte, la vastità delle offerte fattesi da questo giovane, era tale da mettere in qualche diffidenza, per l'altra i motivi da esso addotti, e i vantaggi ai quali per sè stesso agognava, poterono giustificare l'indugio posto alla liberazione di Gerusalemme, e all'uso delle forze che a tal fine esser doveano serbate. Promise pertanto Alessio per sè e pel padre suo, che appena ricuperato il trono di Costantinopoli, al lungo scisma de' Greci porrebbero termine, sottomettendosi eglino e i loro sudditi, alla supremazia della Chiesa romana. Si obbligò ricompensare le fatiche e i servigi de' Crociati coll'immediato sborso di dugentomila marchi d'argento; seguire i pellegrini in Egitto; o, se più espediente fossesi giudicato, mantenere durante un anno diecimila soldati, e finchè vivea, cinquecento uomini a cavallo pel servigio di Terra Santa. Patti così seducenti vennero dalla Repubblica di Venezia accettati, e l'eloquenza del Doge e del Marchese indusse i Conti di Blois, di Fiandra, di S. Paolo, ed altri otto Baroni a prender parte in una impresa tanto gloriosa. Co' soliti giuramenti un Trattato di lega offensiva e difensiva si confermò: ciascuno individuo, giusta lo stato suo, o la sua indole, fu adescato da motivi di generale interesse, o da quelli del proprio; dall'onore di restituire ad un Sovrano il trono perduto, o dall'opinione assai fondata che tutti gli sforzi de' Crociati per liberare la Palestina sarebbero vani, ogni qualvolta la conquista di Costantinopoli, non precedesse e agevolasse quella di Gerusalemme. Ma i ridetti Capi comandavano una truppa di guerrieri liberi e di volontarj, alcuni di questi loro eguali, che ragionavano, e talvolta a proprio talento operavano. Benchè una grande maggiorità per la nuova lega si fosse chiarita, non immeritevoli di considerazione erano il numero e gli argomenti di coloro che la ributtavano[59]. Anche gli animi i più intrepidi abbrividivano al racconto udito delle forze navali di Costantinopoli, e delle inaccessibili fortificazioni di questa città. Pure non allegavano in pubblico i lor timori, e forse a sè stessi palliandoli, più decorose obbiezioni, dedotte dal dovere e dalla Religione, mettevano in campo. Citavano i dissidenti la santità del voto che, unicamente per far libero il Santo Sepolcro, dalle lor famiglie e case aveali allontanati; non essere lor pensamento che motivi oscuri ed incerti di umana politica dovessero distoglierli da una santa impresa, l'evento della quale nelle mani della Providenza si stava: le censure pontificie e i rimproveri di lor coscienza averli assai severamente puniti per la conquista di Zara, prima colpa che si rimprocciavano; non volere aggiugnerne una seconda col lordare in avvenire le proprie armi nel sangue cristiano: sullo Scisma dei Greci aver già l'Appostolo di Roma pronunziata sentenza; non appartenerne ad essi la punizione; nè tampoco il farsi vendicatori degl'incerti diritti dei Principi di Bisanzo. Mossi da sì fatti principj, o pretesti, una gran parte di pellegrini, per valore e pietà i più rinomati, abbandonarono il campo; eppure nocquero meno all'impresa, che non quella fazione di mal contenti che rimanendo, cercarono tutte le occasioni di spargere nell'esercito la discordia, e con opposizioni, or manifeste, or segrete, il buon esito dell'armi impacciarono.

A. D. 1203

Tale diffalta non fece che i Veneziani affrettassero meno gli apparecchi della partenza, e forse, sotto apparenza di generosa sollecitudine inspirata loro dal giovine Alessio, celavano il risentimento che contra la nazioni di lui e la famiglia nudrivano. Oltrechè, la cupidigia loro sentivasi offesa dalla preferenza che di recente i Greci aveano data alla rivale Repubblica di Pisa; non dimenticavano antichi e tremendi conti rimasti addietro tra essi e la Corte di Costantinopoli; fors'anche il Dandolo non si dava, per lo meno, cura di dismentire la popolare credenza che accusava l'Imperator Manuele, di avere violati nella persona del veneto Doge i diritti delle nazioni e della umanità, privandolo della facoltà della vista, nel tempo che il grado di Ambasciatore la persona di lui rendea sacra. Da parecchi anni le onde adriatiche d'un sì straordinario armamento non si ricordavano; centoventi barche piatte, o palandre per li cavalli; dugentoquaranta vascelli carichi di soldati e d'armi, settanta di vettovaglie, protetti da cinquanta galee ben munite, e pronte alla pugna, tal si era lo stato di una sì formidabile flotta[60]. Propizio il vento, tranquillo il mare, sereno il cielo mostravansi, e gli occhi d'ognuno con ammirazione a questa scena guerriera e splendentissima stavano intenti. Gli scudi de' cavalieri e degli scudieri, giovando parimente ad ornamento e a difesa, vedeansi ad entrambe le sponde delle navi in bell'ordine collocati; e le varie bandiere delle nazioni e delle famiglie, che sventolavano a prora, uno spettacolo magnifico e decoroso offerivano. Le catapulte e le macchine atte a lanciar sassi e a conquassare muraglie, allor l'ufizio dell'artiglieria de' nostri giorni prestavano. Una musica militare raddolciva i travagli e le noie della navigazione, intantochè que' guerrieri affidati alla persuasione che quarantamila eroi cristiani erano bastanti a conquistar l'Universo, scambievolmente s'incoraggiavano[61]. Per l'abilità e l'esperienza de' veneti piloti, giunta con prospero viaggio da Venezia a Zara la flotta cristiana, da quest'ultimo lido a Durazzo, situato sul territorio greco, immune da avversi casi pervenne. L'isola di Corfù le offerse reficiamenti e riparo. Superato con fausta navigazione il pericoloso capo Maleo, estremità australe della Morea, i confederati approdarono alle isole di Negroponte e di Andros[62], gettando le áncore dinanzi ad Abido, riva asiatica dell'Ellesponto. Nè difficili, o sanguinosi furono i preludj della conquista. Privi di zelo patrio e di coraggio gli abitanti delle greche province, nè solamente a resister pensarono. E per vero dire la presenza del legittimo erede del trono potea questa loro docilità render lodevole, e n'ebbero di fatto il compenso nella moderazione e nella severa disciplina che gli occupatori mantennero. Nell'attraversare l'Ellesponto questa flotta trovandosi entro canale angustissimo rinserrata, il numero delle vele la superficie dell'acqua oscurò. Postesi alla giusta distanza le navi in mezzo al vasto specchio della Propontide, per queste quete onde solcarono fino agli scali della costa europea, fermando l'áncore verso l'abbazia di S. Stefano, tre leghe circa a ponente di Costantinopoli. Il Doge consigliò saggiamente i Crociati a non isbandarsi sopra quella costa popolosa e nemica. Poi accostandosi al termine le lor vettovaglie, e giunta la stagion delle messi, deliberarono rinnovellarle nelle fertili isole della Propontide; e a tal meta i confederati il loro corso indirissero. Ma un colpo di vento, e l'impazienza de' naviganti, li spinsero verso levante, in tanta vicinanza della spiaggia e della città, che quelli dei baluardi e quelli dele navi con gittate di sassi e dardi scambievolmente si salutarono. In questo passaggio, l'armata contemplò con ammirazione la capitale dell'Oriente che ergendosi sulla cima de' sette suoi colli, e dominando i continenti dell'Asia e dell'Europa, piuttosto la capitale sembrava dell'Universo. Indorate le cupole de' palagi e delle Chiese dai raggi del Sole, questi erano ripercossi dalla superficie dell'acque. Il brulichio dei soldati e degli abitanti affoltatisi sulle mura sorprese gli sguardi de' naviganti spettatori che la codardia di quella gente ignoravano; onde un subitaneo terrore invase i petti d'ogni Crociato in pensando che a memoria d'uomini una tanto pericolosa impresa da una sì picciola mano di combattenti non erasi mai tentata. Ma il momentaneo scoraggiamento dissiparono la speranza e la consuetudine del valore; per lo che «ciascuno, narra il Maresciallo della Sciampagna, fisò il guardo alla spada, o alla lancia, di cui fra poco avrebbe fatto un uso tanto glorioso[63] ». Innanzi al sobborgo di Calcedonia i Latini il navilio fermarono. Rimasti soli entro le navi i marinai, e sbarcati senza ostacolo i soldati e l'armi, il saccheggio di un palagio imperiale, offerse anticipate ai Baroni le delizie del buon successo cui aspiravano. Nel terzo giorno, la flotta e l'esercito si volsero a Scutari, sobborgo asiatico di Costantinopoli. Sorpreso e messo in fuga da ottanta cavalieri un corpo di cinquecento uomini di cavalleria greca, una pausa di nove giorni bastò a provvedere lautamente il campo e di foraggi e di ogni genere di vettovaglie.

Parrà forse cosa straordinaria che, imprendendo io a narrare l'invasione di un grande Impero, non abbia fatta menzione degli ostacoli che al buon successo de' conquistatori oppor si poteano. Perchè, comunque i Greci difettasero di valore, erano ricchi ed industriosi, e obbedivano ad un assoluto Monarca. Ma avrebbe fatto mestieri che a questo Monarca non fossero mancati, l'antiveggenza, finchè i nemici erano lontani, il coraggio, poichè gli ebbe alle coste dei suoi dominj. Avendo dimostrato di accogliere in atto di scherno le prime notizie venutegli intorno alla lega del proprio nipote co' Francesi e coi Veneziani, i cortigiani di lui gli persuasero essere verace questo scherno e figlio del suo coraggio. Non passava sera che al finir della mensa costui non mettesse per tre volte in rotta i Barbari dell'Occidente. Questi Barbari in vece non disprezzavano, e ben a ragione, le forze navali de' Greci: perchè i mille seicento navigli pescherecci di Costantinopoli[64] avrebbero somministrati quanti marinai bastavano ad allestire una flotta capace di sommergere le galee venete, o certamente di chiudere ad esse l'ingresso dell'Ellesponto. Ma qual valevole difesa non diviene impotente per la trascuratezza d'un Sovrano, per la corruttela de' suoi Ministri? Il Gran Duca, o Ammiraglio, facea un traffico scandaloso, e quasi pubblico, delle vele, degli alberi da nave, de' cordami. Le reali foreste servivano soltanto alla caccia del Principe, il che aveasi per bisogno ben più rilevante; e gli eunuchi, al dir di Niceta, stavano di sentinella agli alberi, come se queste piante ad un culto religioso fossero consacrate. L'assedio di Zara, il rapido avvicinar de' Latini destarono finalmente Alessio dagli orgogliosi suoi sogni; ma quando la sciagura gli parve reale, inevitabile la credè parimente. La presunzione disparve, e all'abietta codardia, e alla disperazione die' luogo. Questi spregevoli Barbari accamparono impunemente a veggente della reggia di chi li scherniva; e il tremebondo Monarca non seppe che ricorrere ad un'ambasceria, il cui fasto, e minaccevole contegno, non velò agli occhi de' Francesi la costernazione prodotta dal loro arrivo. Gli Ambasciatori chiesero a nome di Cesare con quali mire i Latini avessero posto campo sotto le mura imperiali; se a ciò sinceramente gli avea mossi la brama di compiere il loro voto e far libera Gerusalemme, applaudire Alessio ai lor pietosi disegni, ed essere pronto a secondarli co' proprj tesori; ma se avessero ardito penetrare nel santuario dell'Impero, rendersi ad essi noto, che il loro numero, fosse stato anche dieci volte maggiore, dal giusto sdegno dell'Imperatore campar non poteali. Semplice e nobile si fu la risposta del Doge veneto e de' Baroni, «L'obbligo che ci siamo assunti, è difendere la causa della giustizia e dell'onore; disprezziamo l'usurpatore della Grecia, le sue offerte, le sue minacce. Noi dobbiamo amicizia, egli obbedienza, all'erede legittimo di Bisanzo, al giovine Principe che sta in mezzo di noi, e al padre di esso, l'Imperatore Isacco, a cui un fratello ingrato ha tolti il trono, la libertà, e persino il godimento di vedere la luce. Questo colpevole fratello confessi il suo delitto, implori la clemenza dell'uomo cui fece mortali offese; noi intercederemo, onde gli sia permesso di vivere nella pace e nell'abbondanza. Ma riguarderemo siccome insulto commesso contro di noi una seconda ambasceria, alla quale il ferro e il fuoco portati di nostra mano nel palagio di Costantinopoli, sarebbero la sola nostra risposta[65]

Dieci giorni dopo giunti a Scutari i Crociati, e come soldati, e come Cattolici, al passaggio del Bosforo si prepararono. Pericolosa impresa! Largo e rapido è questo canale; in tempo di bonaccia, la corrente dell'Eussino, potea portare in mezzo alla flotta, quel fuoco formidabile che si conosce sotto nome di fuoco greco; settantamila uomini schierati in battaglia stavano difendendo l'opposta riva. In sì memorabile giornata, che volle il caso contraddistinta da cheto aere e da cielo sereno, i Latini in sei spartimenti distribuirono il loro ordine di battaglia. Al primo, ossia all'antiguardo comandava il Conte di Fiandra, uno fra' Principi cristiani de' più poderosi, e temuto pel numero e per l'abilità de' suoi balestrai; il fratello di lui Enrico, i Conti di S. Paolo e di Blois, Mattia di Montmorency guidavano i quattro altri corpi alla pugna; e sotto il commando del Montmorency marciavano volontarj il Maresciallo e i Nobili della Sciampagna. Al Marchese di Monferrato, condottiero degli Alemanni e de' Lombardi, obbediva il sesto spartimento militare, retroguardo e corpo di riserva di tutto l'esercito. I cavalli di battaglia, sellati, e coperti delle lor gualdrappe che sino a terra scendevano, nelle barche piatte vennero collocati[66]. Dietro il proprio cavallo teneasi in piedi ciascun cavaliere, nascosto il capo nell'elmo, brandendo la lancia, armato di tutto punto. I sergenti e gli arcieri si posero entro i legni da trasporto, ognun de' quali era rimorchiato da una ben armata ed agile galea; laonde tutti questi sei spartimenti, senza incontrare nemici, nè ostacoli, il Bosforo attraversarono. Ciascun corpo, ciascun soldato non faceva altro voto che di essere il primo a sbarcare, altra deliberazione che di vincere o di morire. I cavalieri, gelosi d'affrontar essi i rischi più grandi, appena il poterono, si lanciarono armati nel mare, e coll'acqua che il loro fianco radea raggiunsero il lido. I sergenti[67] e gli arcieri il loro esempio seguirono, gli scudieri, abbassati i ponti delle palandre, posero a terra i cavalli. I Cavalieri in arcione aveano appena incominciato ad ordinare gli squadroni e a mettersi colle lance in resta, quando i settantamila Greci che stavano ad essi a fronte, sparirono. Alessio diede l'esempio di questo scoraggiamento ai soldati non lasciando altro segnale di essersi trovato in quel campo, che una ricca tenda, dal cui spoglio soltanto i Latini compresero che contro un Imperatore avean combattuto. Fu risoluto giovarsi del primo terrore che comprese i nemici per forzare con doppio impeto l'ingresso del porto. Di fatto i Francesi presero d'assalto la torre di Galata[68]; intanto che i Veneziani si assumeano il più arduo cimento di rompere la sbarra, ossia catena tesa da questa torre alla riva bisantina. I primi sforzi a ciò parvero inutili, ma l'intrepida loro perseveranza la vinse: venti legni da guerra, quanto rimanea della greca marineria, vennero presi o mandati a fondo. Gli speroni delle galee[69], o il loro peso, troncarono, infransero gli enormi anelli di quella catena; per lo che la flotta veneta vittoriosa, e senza scomporsi, gettò l'áncora nel porto di Costantinopoli. Tai furono i primi fatti, per cui i Latini con ventimila uomini che tuttavia ad essi avanzavano, si procacciarono i modi di avvicinarsi, per assediarla, ad una città che racchiudeva quattrocentomila uomini[70], cui solamente qualche coraggio per difenderla avrebbe bastato. Un tale calcolo per vero dire suppone che la popolazione di Costantinopoli, sommasse in circa a due milioni d'abitanti; ma ammettendo ancora che il numero de' Greci in armi non fosse sì sterminato, gli è certo che i Francesi il credeano, e tale persuasione fa evidente prova di lor magnanima intrepidezza.

Sul modo dell'assalto, i Francesi e i Veneziani diversi furono d'opinione, preferendo ognun d'essi quel genere di battaglia in cui avea maggiore esperienza. I Veneziani, nè a torto, sostenevano essere Costantinopoli più accessibile dal lato del mare e del porto; ma i Francesi poteano, senza vergognarsene, protestare che bastantemente cimentato avevano le loro vite e fortune entro un naviglio e sopra un infido elemento; laonde chiesero ad alta voce prove degne della cavalleria, fermo terreno, e combattimenti a tu per tu, fossero poi a piedi o a cavallo. Prudentemente convennesi nell'adoperare le due nazioni in quel servigio che meglio fosse a ciascuna di esse addicevole. Protetta dalla flotta l'armata, si condusse fino al fondo del porto, avutasi diligente cura di restaurare il ponte di pietra posto sul fiume: e i sei spartimenti de' Francesi accamparono rimpetto alla capitale sulla base del triangolo che tiene quattro miglia dal Ponto alla Propontide[71]. Situati in riva ad una fossa larga e profonda, e a piè d'un altissimo baloardo, ebbero tutto l'agio di meditare la difficoltà dell'impresa. Dalle porte della città uscivano continuamente, a destra e sinistra del loro picciolo campo, drappelli di cavalleria e di fanteria leggiera che trucidavano i soldati lontani dagli altri, devastavano la campagna per affamar gli assedianti, costringeano questi a prendere l'armi cinque o sei volte al giorno: per lo che i Francesi dovettero provvedere alla loro sicurezza coll'ergere un palizzato, e scavare una fossa. O i Veneziani non avessero somministrate bastanti vettovaglie ai Francesi, o i secondi le avessero dissipate, incominciarono questi, cosa non insolita, a lamentarsi della penuria, e fors'anche a soffrirla. Non rimanea farina che per tre settimane, e i soldati stanchi di mangiar carni salate incominciarono a prevalersi de' loro cavalli. Se un codardo era l'usurpatore, il difendea però Teodoro Lascaris divenutogli genero, giovine valorosissimo che aspirava a rendersi liberatore e padrone del suo paese. I Greci mostratisi fino allora indifferenti per la lor patria, furon ridesti dal pericolo che la religione correa, ma ogni propria speranza fondavano sul coraggio delle guardie varangie, composte, al narrar degli storici, di Danesi e di Inglesi[72]. Dopo dieci giorni di un lavoro che posa non ebbe, la fossa nemica fu colma, gli assedianti si accinsero alle fazioni regolari dell'assalto, e dugentocinquanta macchine inalzate contro il baloardo, continuamente adopravansi a scacciarne i difensori, a batterne le mura, a smoverne le fondamenta. Alla prima apparenza di breccia, i Francesi piantarono le scale, ma il numero e il vantaggio di sito all'audacia prevalsero. I Latini furon rispinti, benchè imprimesse terrore e ammirazione ne' Greci l'intrepidezza di quindici cavalieri o sergenti, che saliti sulle mura, si mantennero in quel posto pericoloso sintanto che fossero precipitati abbasso, o fatti prigionieri dalle guardie imperiali. Dal lato del porto, i Veneziani, più felicemente l'assedio loro condussero. Questi industriosi marinai posero in opera tutti gl'ingegni conosciuti prima della invenzion della polvere. Le galee e i vascelli si schierarono in doppia linea, il cui fronte estendevasi per tre gittate di dardo all'incirca. Erano lo galee, ne' rapidi loro moti, sostenute dalla forza e dal peso de' vascelli, i cui ponti, le poppe e le torri fornirono altrettanti pianerottoli alle macchine che lanciarono sassi al di sopra della prima linea. Appena i soldati dalle galee si lanciavano sulla riva, piantavano le scale, e le ascendeano, intanto che i grossi legni avanzandosi più lentamente fra gli intervalli, e calando altrettanti ponti levatoi, presentavano ai soldati un cammino per aria, paralello alla cima degli alberi delle navi, che di lì sui baloardi li trasportava. Nel fervor della mischia, il venerabile e maestoso Doge, armato di tutto punto, teneasi in piedi sul ponte della sua galea; la bandiera di S. Marco sventolavagli innanzi; usava giusta l'uopo minacce, preghiere, promesse per animare la solerzia de' suoi remiganti; la galea che il conducea prima arrivò, e il Dandolo precedè tutti i suoi sulla riva. I popoli ammirarono la magnanimità del cieco vegliardo, senza per altro considerare che gli anni appunto e le sue infermità scemavano agli occhi di lui il prezzo della vita, e quello della gloria che non perisce mai aumentavano. D'improvviso una mano invisibile (che forse il Porta-stendardo era stato ucciso) piantò sul baloardo la bandiera della Repubblica. Ratti furono i Veneziani nell'impadronirsi delle venticinque torri, e l'espediente crudele dell'incendio scacciò i Greci da tutte le abitazioni che all'intorno vi stavano. Il Doge avea mandata ai confederati la notizia de' riportati buoni successi, allorchè l'altra del pericolo in cui questi si stavano venne a sospendergli il corso della vittoria. Con nobiltà degna di lui protestò amar meglio perdersi in lor compagnia che ottener trionfo a costo di vederli sagrificati. Abbandonando gli avuti vantaggi, richiamò le truppe, e in soccorso degli amici affrettossi. Trovò gli estenuati avanzi di quell'esercito tolti in mezzo da sessanta squadroni di cavalleria greca, un sol de' quali superava di numero ciascuno de' sei corpi di truppa in cui s'erano distribuiti i Francesi, perchè la vergogna e la disperazione aveano finalmente spinto Alessio a tentare l'ultimo sforzo di una generale sortita: ma il fermo contegno de' Latini la sua speranza e le sue risoluzioni fe' vôte. Dopo avere scaramucciato in lontananza, sparve sul tramontar del giorno co' suoi soldati. Il silenzio, o il tumulto della notte i costui terrori aumentò: dai quali finalmente vinto, ordinò si trasportassero in una barca diecimila libbre d'oro, e abbandonando vilmente il trono, la moglie e i suoi sudditi, attraversò il Bosforo, colla protezione dell'ombre cercandosi ad un picciolo porto della Tracia obbrobrioso rifugio. Saputasi appena questa fuga dai cortigiani di Alessio, corsero per implorar perdono e pace a quel carcere, ove il cieco Imperatore palpitava aspettandosi ad ogni istante i carnefici che affrettassero il termine dei suoi giorni. Dalle sole vicissitudini della fortuna fatto salvo e ritornato all'antica grandezza Isacco, vestì di nuovo l'imperiale porpora, risalendo il trono, in mezzo ad una turba di prostrati schiavi, ne' cui volti non gli era dato il leggere nè la realtà dello spavento, nè l'ostentazion della gioia. Allo schiarire del giorno gli atti ostili furono sospesi, e i Latini stessi maravigliarono in ricevendo un messaggio del legittimo Imperatore, che restituito ne' proprj diritti mostravasi impaziente di abbracciare il figlio e di rendere dovuto guiderdone ai suoi generosi benefattori[73].

Questi generosi liberatori però non aveano in animo di lasciarsi sfuggir di mano il giovine, loro ostaggio, prima di aver ottenuto dal padre il pagamento, o almeno la formale promessa delle ricompense pattuite col figlio. Elessero quattro ambasciatori, Mattia di Montmorenci, il nostro storico Maresciallo della Sciampagna, e due Veneziani per portare le loro congratulazioni all'Imperatore. Al loro avvicinare si apersero le porte della città, una doppia schiera di guardie inglesi e danesi, colla loro azza da guerra fra le mani, fiancheggiava entrambi i lati delle strade; nella sala del trono abbagliava gli sguardi lo splendore dell'oro e dello gemme preziose che mal teneano vece di perduta possanza e virtù. La moglie di Isacco figlia del Re d'Ungheria, sedeasi a fianco del marito, circondata da tutte le nobili matrone della Grecia, convenute ivi alla prima notizia del nuovo esaltamento della sovrana, e confuse in mezzo a molta mano di senatori, e soldati che facean cerchio al trono. I Francesi, col ministero del Maresciallo favellarono, siccome uomini persuasi di quanto ai loro servigi doveasi, ma che però rispettavano l'opera delle lor mani, onde Isacco chiaramente comprese come gli convenisse adempire senza titubazione, od indugio gli obblighi che il figlio suo coi Veneziani e co' pellegrini aveva contratti. Dopo aver fatto introdurre i quattro messaggeri in una stanza interna, ove si trasferì, accompagnato dall'Imperatrice, da un ciamberlano, e da un interprete, il padre del giovine Alessio chiese con inquietezza in che si stessero le cose promesse dal figlio suo. Il maresciallo di Sciampagna avendogli fatto noto che l'Imperatore greco dovea impor fine allo scisma col sottomettersi egli e i suoi popoli alla supremazia del Papa, contribuire coi proprj soccorsi alla liberazione di Terra Santa, sborsare in contanti una contribuzione di dugentomila marchi d'argento: «Questi patti son gravi, rispose accortamente il Monarca, duri da accettare, difficili da adempire; nondimeno, non vi è cosa che possa superare i vostri meriti e i vostri servigi». Soddisfatti di questa risposta, i Baroni montarono a cavallo, e accompagnarono sino alla reggia l'erede del trono, al quale la giovinezza e il tenore delle sue avventure cattivavano tutti i cuori; insieme al padre fu coronato nella Chiesa di S. Sofia. Nei primi giorni del nuovo regno, il popolo esultante pel ritorno della pace e dell'abbondanza, godea che tal fosse stato lo scioglimento della catastrofe. I Nobili nascondeano sotto la maschera di giubilo e di fedeltà, il rincrescimento, l'astio, i timori. Ad evitare gl'inconvenienti che avrebbe potuto produrre nella città la mescolanza delle due nazioni, vennero assegnate ai Veneziani e ai Francesi le stanze ne' sobborghi di Pera e di Galata, lasciata però ad essi ogni libertà di diportarsi a trafficare entro le mura di Costantinopoli. La divozione e la curiosità conducea ogni giorno un gran numero di pellegrini a visitarne le chiese e i palagi. Non mossi forse dalla perfezione dell'arti che in questi edifizj signoreggiava, i nostri ruvidi antenati sentivano però il prezzo della magnificenza che in essi ammiravasi. La povertà delle città ove erano nati, rendea più splendente ai loro sguardi il fasto e la popolazione della prima metropoli della Cristianità[74]. Abbandonandosi, non con bastante cautela ai sentimenti della giustizia e della gratitudine, il giovine Alessio dimenticava spesse fiate l'imperiale dignità rendendo visite famigliari ai suoi benefattori, e in mezzo alla libertà della mensa i Francesi, spinti da leggiera vivacità, non pensavano sempre che si trovavano a petto dell'imperator d'Oriente[75]. In più gravi parlamenti, ognuno era rimasto d'accordo che l'unione delle due Chiese poteva essere l'opera unicamente del tempo, e che tornava l'aspettar questo tempo pazientemente. Ma l'avarizia fu men maneggevole dello zelo religioso, nè l'Imperator greco trovò modi per dispensarsi dal pagare una fortissima somma che i bisogni e i gridori de' Crociati sedasse[76]. Alessio vedea però mal volentieri avvicinarsi il momento della partenza di questi ospiti; perchè, se per una parte la lontananza de' medesimi lo avrebbe sciolto da molesti pensieri sopra un debito che per allora non era abile a soddisfare, ei si vedea per essa esposto, senza chi il soccorresse, ai capricci di una nazione dedita al tradimento. Quindi Alessio si offerse di compensarli d'ogni spesa, e pagare anche quanto essi dovevano ai Veneziani pel somministrato navilio, sempre che la partenza da Costantinopoli differissero ancor per un anno. La proposta fu nel consiglio dei Baroni agitata: dopo nuove discussioni e nuovi scrupoli, i Capi de' Francesi all'opinione del Doge e alle preghiere del giovine Imperatore una seconda volta cedettero. Il Marchese di Monferrato, mediante lo sborso di mille seicento libbre d'oro, acconsentì a condurre il figlio d'Isacco con un esercito in tutte le province europee, onde far più salda su di quelle la sua autorità ed inseguire lo zio; nel qual tempo la presenza di Baldovino, e degli altri confederati terrebbe in dovere gli abitanti di Costantinopoli. La spedizione sortì buon esito; e gli adulatori che stavansi attorno al trono, non mancarono di predire al cieco monarca che la Providenza, poichè era giunta a trarlo dal carcere, lo guarirebbe dalla gotta, gli restituirebbe la vista, e veglierebbe alla prosperità del suo impero. Il padre di Alessio superbendo del buon successo delle proprie armi, con fiducia ascoltavali; però la gloria sempre crescente del figlio, incominciò a crucciargli l'animo, proclive per solito al sospetto ne' vecchi: nè tutto il suo orgoglio bastava per nascondere a questo padre invidioso, che gli encomj i più universali, i più sinceri erano per Alessio, per lui qualche debole plauso di formalità, a stento ancor conceduto[77].

L'invasione de' Francesi dissipò un prestigio che durava da nove secoli. I Greci attoniti videro non essere la capitale dell'Impero romano inaccessibile ad un esercito di nemici. Gli Occidentali dopo averne presa per forza la città, arbitrarono sul trono di Costantino; ed i sovrani che per la protezione degli estranei vi tornarono, divennero odiosi al popolo non meno di chi ve gli avea collocati. Le infermità d'Isacco cresceano il disprezzo che i suoi vizj gli meritavano; e la nazione non riguardava nel giovine Alessio che un apostata de' costumi e della religione de' suoi antenati; perchè noti erano, o almeno si supponevano, i patti che avea promessi ai Latini. Sempre tenerissimo del culto e delle patrie superstizioni il popolo Greco, e gli ecclesiastici soprattutto, i conventi, le case, le officine sol rintronavano della tirannide del Papa, e de' pericoli della Chiesa[78]. L'esausto erario al fasto della Corte, e alle pretensioni de' confederati mal rispondea. Tutte le classi di abitanti manifestavano la ritrosia loro ad un generale tributo, siccome unica via per evitare gl'imminenti pericoli del saccheggio e della schiavitù. Col far cadere il peso delle tasse su i ricchi temeasi eccitare astj più pericolosi e personali; traendo soccorsi dal fondere gli argenti delle Chiese paventavansi i rimproveri di eresia e di sacrilegio. Nel tempo della lontananza di Bonifazio e del giovine Imperatore, Costantinopoli fu afflitta da una calamità, di cui giustamente potè accagionarsi l'imprudente zelo de' pellegrini fiamminghi[79]. Costoro, trascorrendo un giorno la capitale, rimasero scandalezzati all'aspetto di una moschea o sinagoga, ove naturalmente prestavasi alla divinità un culto che non poteva essere il loro; e poichè non aveano altro metodo di argomentare contra gl'Infedeli, che brandendo la spada, e mettendo in cenere le case di chi professava diversa credenza da essi, si attennero a questo espediente che feriva anche i fedeli cristiani di quelle vicinanze, alcuni de' quali si armarono in difesa delle loro proprietà e delle lor vite. Ma le fiamme accese dal fanatismo consunsero indistintamente i più ortodossi edifizj. Otto giorni e otto notti durò l'incendio, per cui rimase consunta quanta parte di città (ed era la più popolata di Costantinopoli) pel tratto di una lega dal porto alla Propontide si estendea. Non fu sì agevole cosa calcolare il numero delle chiese e de' palagi inceneriti, il valore delle merci consunte o saccheggiate, la moltitudine delle famiglie ad indigenza ridotte. Cotale oltraggio che invano il Doge e i Baroni con ostentata solennità riprovarono, crebbe nel popolo l'esecrazione del nome latino; laonde una colonia di Occidentali stanziatasi nella città, e composta di oltre quindicimila uomini si credè in necessità di provvedere alla propria sicurezza col ripararsi prestamente al sobborgo di Pera, sotto la protezione delle bandiere confederate. Il giovine Imperatore vittorioso tornava; ma il più fermo e antiveggente politico avrebbe naufragato allo scoppio della tempesta che a lui e al suo governo portò rovina. E per propria inclinazione, e pe' consigli del padre, affezionato ai proprj benefattori, ciò nullameno perplesso stavasi fra la gratitudine e l'amore di patria, fra il timore che gli davano i sudditi, e quello inspiratogli dai confederati[80]. Questo contegno debole ed irresoluto gli tolse la stima di entrambe le parti. Intantochè sollecitato da lui medesimo, il marchese di Monferrato abitava la reggia, comportava che i Nobili cospirassero, che il popolo si mettesse in armi per discacciar gli stranieri. Senza far qualche grazia allo stato in cui si trovava, i Latini insistevano presso di lui, onde i patti del Trattato adempisse; e irritatisi degl'indugi, ne presero le intenzioni in sospetto, talchè gl'intimarono si chiarisse con una risposta decisiva, se volea la pace, o la guerra. Questo superbo messaggio gli fu arrecato da tre Cavalieri francesi, e da tre Nobili veneziani, che apertosi il varco su i lor cavalli e cignendo le spade per mezzo alle minaccevoli turbe, pervennero in risoluto atteggiamento al cospetto dell'Imperatore. Ivi in perentorio tuono recapitolati e i servigi ch'essi gli aveano prestati, e le obbligazioni ch'egli avea contratte con essi, con alterigia gli notificarono; che se immantinente e compiutamente non venivano soddisfatte le giuste loro domande, nè per un amico, nè per un sovrano, d'allora in poi lo avrebbero avuto. Dopo sì fatta intimazione, la prima di tal genere da cui gli orecchi degl'imperatori fossero mai stati feriti, sen partirono senza che si scorgesse il menomo sintomo di timore in essi, ma veramente maravigliati di avere potuto uscir dal palagio di un despota in tal guisa offeso, e da una città concitata a furore. La tornata de' Cavalieri al campo latino fu per entrambe le parti segnale di guerra.

A. D. 1204

In mezzo ai Greci, la prudenza e l'autorità vedeansi costrette a cedere all'impeto di un popolo che tenea in conto di valore la propria rabbia, di forza il proprio numero, di celeste ispirazione gl'impulsi del fanatismo. E Latini e Greci, Alessio sprezzavano, e nel divulgarlo spergiuro si univano. Il popolo che soprattutto facea sonar alto il vilipendio in cui avea una dinastia, da esso chiamata vile e bastarda, accerchiò il Senato, chiedendo fra le grida che un più degno sovrano venisse eletto. Tutti i Senatori più ragguardevoli per nascita, o per dignità, si videro uno per uno offerta la porpora, nè fuvvi tra loro chi questo mortale onore volesse accettare. Per tre giorni le sollecitazioni durarono, e lo storico Niceta, membro di quell'assemblea, ne fa conoscere che la debolezza e lo spavento sostennero la fedeltà de' suoi confratelli. La plebaglia a viva forza acclamò un fantasma d'Imperatore, poi ben tosto lo abbandonò[81]; ma un Alessio, principe della famiglia di Duca, era il vero autor del tumulto e il fomite della guerra. Gli Storici lo contraddistinguono col soprannome di Murzuflo[82], che nel volgare linguaggio indicavane le sopracciglia nere, folte nè disgiunte fra loro. Ostentando ad un tempo popolarità e cortigianeria, artifizioso e in un coraggioso, il perfido Murzuflo oppose la sua eloquenza e la sua spada ai Latini, si guadagnò la confidenza di Alessio e ne ottenne l'uffizio di ciamberlano, e le insegne della sovranità. Nel silenzio della notte, cercò precipitosamente la stanza del giovine Imperatore, e con tuono spaventato gli diede a credere che i nemici avean sedotte le guardie e forzati i ricinti del palagio. Di nulla diffidando il misero Alessio, e commettendosi nelle mani dell'iniquo che gli tramava rovina, discese in compagnia del medesimo per una scala segreta, e questa metteva ad un carcere: colà impadronitisi del principe gli scherani, lo spogliarono e caricarono di catene: poi dopo avergli fatte provare per più giorni tutte le possibili angosce, il barbaro Murzuflo volle essere spettatore di una morte che assicurarono le percosse, il laccio, o il veleno. Alla morte del figlio non tardò a succedere la morte naturale del padre. La fortuna risparmiò a Murzuflo l'inutil delitto di affrettarla ad un vecchio cieco e privo di modi per farsi temere.

La morte degl'Imperatori e l'usurpazione di Murzuflo aveano cambiato la natura della contesa, che non era più contesa di confederati, una parte de' quali esagerasse i prestati servigi, un'altra mancasse alle promesse. Così i Francesi come i Veneziani, dimenticati i dispareri che ebbero con Alessio, deplorarono la funesta sorte del loro amico, e giurarono vendicarlo sulla perfida nazione che l'assassino di lui avea coronato. Pure l'avvisato Dandolo al negoziare ancor propendea. Pose ai Greci il partito di sborsare, la riguardassero poi come sussidio, o come pagamento di debito, o come ammenda, ai Latini una somma equivalente a cinquantamila libbre d'oro, due milioni sterlini all'incirca; nè la negoziazione sarebbe stata sì precipitosamente sciolta, se Murzuflo, mosso da politica, o da zelo, non avesse ricusato di sagrificare la Chiesa greca, e anteposto alla salvezza l'onore de' suoi concittadini[83]. Di mezzo alle invettive che i nemici stranieri e domestici di Murzuflo non gli risparmiarono, apparisce costui non essere stato affatto indegno del personaggio di difensore del suo paese. Il secondo assedio di Costantinopoli molto maggiori difficoltà offerse del primo. Mercè un severo sindacato sugli abusi del precedente regno, l'usurpatore avea colmato l'erario e ricondotto l'ordine nell'amministrazione. Armata la mano di una mazza di ferro, visitava in persona i posti militari, e assunto andamento e contegno di guerriero, ebbe almeno la virtù di farsi rispettare da' suoi soldati e da' suoi concittadini. E prima e dopo la morte di Alessio, i Greci aveano con vigorose e ben concertate imprese tentato per due volte di ardere la flotta latina nel porto; ma i Veneziani, sostenuti da intelligenza e valore, allontanarono le navicelle incendiarie, che senza arrecare ai loro legni il minimo danno in pieno mare abbruciarono[84]. Enrico, fratello del Conte di Fiandra, respinse in una sortita notturna l'Imperator greco, che avendo per sè il vantaggio del numero e della sorpresa fatta al nemico, tanto maggior vergogna dalla sconfitta ritrasse. Si trovarono sul campo di battaglia lo scudo di Murzuflo e lo stendardo imperiale, che presentando una immagine miracolosa della Vergine, venne di poi come trofeo e come reliquia consegnato nelle mani de' monaci di Citeaux, discepoli di S. Bernardo[85]. Circa tre mesi trascorsero in apparecchi e scaramucce, che l'esser tempo di quaresima non sospese, senza che i Latini pensassero a venire ad un assalto generale. La città era stata conosciuta inespugnabile dal lato di terra. I piloti veneziani rimostravano che non essendovi luogo sicuro per gettar le ancore verso le rive della Propontide, la corrente avrebbe potuto trascinar le navi fino allo stretto dell'Ellesponto, difficoltà che oltre modo piaceano ad una parte di que' pellegrini, desiderosi di un pretesto per abbandonare l'armata. Ciò nullameno un assalto fu risoluto dalla banda del porto; assalto cui si aspettavano gli assediati; laonde l'Imperatore avea posta la sua tenda color di scarlatto sopra una vicina eminenza d'onde regolava e animava gli sforzi de' suoi soldati. Uno spettatore intrepido e capace di gustare in tale momento la bellezza e la magnificenza di quella vista, avrebbe ammirato il vasto apparato di questi due eserciti ordinati in battaglia, ciascun de' quali offeriva un fronte di una mezza lega all'incirca, formato da una banda dalle navi e dalle galee, dall'altra dai baloardi e dalle alte torri, il cui numero era aumentato da nuove torri di legno anche più alte e di molti piani composte. Incominciò l'assalto da scambievoli gittate di fuoco, di sassi, di dardi; profonde erano l'acque; i Francesi audaci; abili i Veneziani; i Latini furono sotto le mura, e sui ponti tremolanti, che univano le batterie mobili de' Francesi alle batterie ferme de' Greci, accadde terribil battaglia colla spada, coll'azza, colla lancia. Seguivano in un medesimo punto cento assalti diversi, tutti sostenuti con egual vigore fino al momento che, il vantaggio del sito e la superiorità del numero decidendo della vittoria, i Latini si videro alla ritirata costretti. Alla domane con egual valore e sfortuna di successo rinovarono l'assalto. Nella vegnente notte, il Doge e i Baroni tenner consiglio, unicamente dal pericolo pubblico spaventati; ma una voce non si innalzò che proferisse la parola di negoziazione, o di ritirata. Ciascun guerriero, giusta l'indole sua, non si fondò sopra altra speranza che di vincere o di gloriosamente morire[86]. Se l'esperienza del primo assedio aveva istrutti i Greci, di altrettanto maggior coraggio accendeva i Latini, pe' quali la certezza che Costantinopoli poteva essere presa, diveniva un più forte vantaggio di quanti ne somministrasse al nemico l'acquistata conoscenza di nuove cautele locali di difesa da porsi in pratica. Al terzo assalto vennero incatenate insieme due navi onde raddoppiarne la forza: mandate queste all'antiguardo cui comandavano i Vescovi di Troyes e Soissons, i nomi delle due navi, il Pellegrino e il Paradiso, come favorevole augurio risonavano lungo la linea della battaglia[87]. Le bandiere episcopali finalmente sventolarono sulle mura, la cui scalata assicurava un premio di cento marchi d'argento ai primi che la eseguivano; e se la morte privò questi campioni del lor guiderdone, s'ebbero invece quel della gloria che fece i loro nomi immortali. Furono indi scalate quattro torri, atterrate le porte: e i cavalieri francesi, che sull'Oceano forse non si tenean troppo sicuri, si credettero invincibili sugli arcioni de' loro cavalli, e liberi di dispiegare in terra ferma il proprio valore. Racconterò io le migliaia di soldati che circondavano l'Imperatore, e che all'avvicinarsi d'un sol guerriero si diedero a fuga? Una tal fuga obbrobriosa viene attestata da Niceta concittadino de' fuggitivi; un esercito di spettri, all'udir lui, accompagnava l'eroe francese; egli apparve al guardo de' Greci un gigante[88]. Intanto che i vinti abbandonavano, gettando l'armi, i lor posti, i Latini sotto le bandiere de' loro Capi penetravano nella città. Allora tutti gli ostacoli per questi si dileguarono, e, fosse a disegno, o a caso, un terzo incendio consumò in brev'ora una parte di città, eguale in estensione a tre delle maggiori città della Francia[89]. Sul far della sera, i Baroni, richiamate le truppe, ne' varj lor campi si trincearono, spaventandoli la vastità e la popolazione di questa capitale, i cui templi e palagi, se i cittadini ne avessero conosciuta l'importanza, poteano per un mese dar briga ai Latini e tardar loro il vanto di aver compiutamente ridotta Costantinopoli. Ma innoltratosi il mattino del successivo giorno, una processione di supplicanti, che portando croci ed immagini, imploravano la clemenza dei vincitori, fu il segnale dell'assoluta sommessione de' Greci. L'usurpatore prese per la Porta d'Oro la fuga, il Marchese di Monferrato e il Conte di Fiandra occuparono i palagi di Blacherna di Bucoleone e le armi de' Pellegrini rovesciarono un impero, che portava tuttavia il titolo d'Impero Romano e il nome di Costantino[90].

Costantinopoli era già presa d'assalto, nè le leggi della guerra imponevano ai vincitori più di quanto la religione e l'umanità potessero loro inspirare. Questi continuarono a riconoscere per generale il marchese di Monferrato; e i Greci che credeano vedere in esso il lor futuro Sovrano gridavano in lamentevole tuono. « Santo Marchese Re abbiate misericordia di noi». Fosse prudenza o compassione, ordinò si aprissero ai fuggitivi le porte della città, esortando i soldati della Croce a risparmiare la vita de' Cristiani. I fiumi di sangue che fa sgorgare Niceta, possono ridursi alla strage di duemila Greci uccisi senza che opponessero resistenza[91]; nè di tale strage medesima possono in tutto venire accusati i conquistatori; la maggior parte di que' meschini fu immolata dalla colonia latina che i Greci avevano scacciata dalla città, e che disfogava il proprio risentimento, come a ciò le fazioni trionfanti son solite. Nondimeno alcuni di questi esuli si mostrarono più memori delle beneficenze che degli oltraggi, perchè lo stesso Niceta per la generosità di un mercatante veneto ebbe salva la vita. Papa Innocenzo rampogna i Pellegrini per non avere, nell'accecamento delle loro sregolatezze, rispettato nè sesso, nè età, nè professioni religiose; deplora amaramente che stupri, adulterj, incesti, e altre opere delle tenebre sieno state in pieno giorno commesse: si duole di nobili matrone, e di sante monache disonorate dagli staffieri e dai villani di cui l'armata cattolica ringorgava[92]. Certamente egli è probabile che la licenza della vittoria servisse a molti peccati e di occasione, e di scusa. Ma la capitale dell'Oriente contenea senza dubbio un numero di beltà venali, o compiacenti che bastavano ad appagare le voglie di ventimila Pellegrini, e il diritto, o l'abuso della schiavitù, in quei giorni, sulle femmine non si estendea. Il marchese di Monferrato mostravasi il modello della disciplina e della decenza; il Conte di Fiandra venia chiamato specchio della castità. Che anzi questi due guerrieri decretarono pena di morte contra i violatori di donne maritate, o vergini, o religiose; e accadde talvolta che i vinti implorassero la protezione di un tale decreto[93], e che i vincitori lo rispettassero. La dissolutezza e la crudeltà trovarono un freno nell'autorità de' Capi ed anche ne' sentimenti naturali de' soldati. Questi per ultimo non erano più i Selvaggi del Settentrione, e comunque feroci in quella età potessero ancora sembrar gli Europei, il tempo, la politica e la religione aveano le costumanze de' Francesi e soprattutto degli Italiani addolcite. Ma la loro avarizia ebbe libero campo a disbramarsi nel saccheggio di Costantinopoli, senza riguardo che corresse allora la Settimana Santa. Tutte le ricchezze pubbliche e private appartenevano ai Latini pel diritto di guerra, non temperato in tal circostanza da veruna promessa o Trattato; e ciascun braccio giusta la propria potestà e forza, aveva eguale facoltà per eseguire la sentenza, o appropiarsi le cose in confiscazione cadute. L'oro e l'argento, monetati e non monetati, somministravano materia di universale baratto; ed essendo cose portatili, ciascuno poteva, o nel medesimo luogo, o altrove, convertirle nella guisa al suo stato e al suo carattere meglio addicevole. Fra le ricchezze che il lusso e il commercio avevano accumulate nella capitale, i drappi di seta, i velluti, le pellicce, e gli aromi, erano le più preziose, perchè nelle parti meno ingentilite dell'Europa il danaro stesso non le potea procacciare. Fu prescritto un ordine da serbarsi nel saccheggio; nè lasciavasi al caso, o alla destrezza de' singoli vincitori il regolare la parte che a ciascuno competea; tre chiese vennero scelte a ricettacoli degli spogli, ove fu ingiunto ai pellegrini di portar per intero le loro prede, senza alienarne parte veruna sotto quelle stesse terribili pene in cui cadeano gli spergiuri, gli omicidi, o quelli che dall'anatema eran percossi. Divisa in porzioni eguali la somma del bottino, ne toccavano una al semplice soldato, due al sergente, o soldato a cavallo, quattro al cavaliere, e questo numero di parti a proporzione dei gradi e de' meriti de' Baroni e de' principi si aumentava. Un cavaliere del conte di S. Paolo, convinto di aver trasgredito questo sacro dovere appropiandosi parte indebita dello spoglio, colla sua armadura e col suo scudo al collo venne appiccato. Un esempio tanto severo dovea rendere più circospetti gli altri, benchè sovente l'avidità al timor prevalesse; onde, giusta la generale opinione, fu il bottino segreto di gran lunga superiore a quello che venne pubblicamente distribuito[94]. Dopo un eguale parteggiamento tra i Francesi ed i Veneziani, i primi scemarono di cinquantamila marchi la propria parte generale per soddisfare il debito che aveano tuttavia colla repubblica di Venezia, rimanendo nullameno ad essi quattrocentomila marchi d'argento[95] (circa ottocentomila lire sterline). Non mi soccorre miglior modo d'indicare il valore corrispondente in quel secolo ad una sì fatta somma del dire che pareggiava sette anni della rendita del regno d'Inghilterra[96].

In questa grande vicissitudine politica, abbiamo il vantaggio di poter confrontare fra loro le relazioni di Villehardouin e di Niceta, i giudizj opposti che il Maresciallo di Sciampagna e il Senatore di Bisanzo portavano[97]. Parrebbe a primo aspetto che le ricchezze di Costantinopoli non avessero fatto altro cambiamento fuor quello di passare da una nazione ad un'altra, e che il danno e il cordoglio de' Greci dal vantaggio e dalla gioia de' Latini stati fossero pareggiati; ma nel funesto giuoco della guerra non è mai eguale alla perdita il guadagno, e a petto delle calamità sono deboli i godimenti. Illusorio e passeggiero fu il giubilo de' Latini. Intanto che i Greci deplorando l'irreparabile scempio della loro patria, vedeano rincalzati i loro affanni dallo scherno e dal sacrilegio de' vincitori. Ma di qual profitto furono a questi i tre incendj che una sì gran parte de' tesori e degli edifizj di Bisanzo distrussero? Qual vantaggio ebbero dalle cose che infransero, o fecero tronche perchè non le potevano trasportare? Che fruttò ad essi l'oro nel giuoco e nelle crapule prodigalizzato? Quante preziose suppellettili i soldati vendettero a vile prezzo per non conoscerne il valore, o perchè impazienti di spacciarsene; talchè sovente il più abbietto mariuolo greco tolse ad essi il prezzo della vittoria! Fra i Greci di fatto sol quella classe di gente che non potea perdere nulla, vantaggiò alcun poco nella pubblica calamità. Tutti gli altri a deplorabilissimo stato furon ridotti. Le sventure di Niceta ce ne porgono un saggio. Incenerito, per effetto del secondo incendio, il magnifico palagio ove dianzi dimorava, questo misero Senatore, seguìto dalla famiglia e dagli amici, si riparò ad una picciola casa che in vicinanza alla chiesa di S. Sofia tuttora rimanevagli. Fu alla porta di questa casa, ove il mercatante veneziano, vestito da soldato, diede a Niceta il modo di salvare con una precipitosa fuga la castità della figlia, e i miseri avanzi de' posseduti tesori. Questi sciagurati fuggitivi già avvezzi a nuotare nella abbondanza, partirono a piedi nel cuore del verno. La moglie di Niceta era incinta; pur furono costretti, essendone disertati gli schiavi, ella e il marito a portar sugli omeri le proprie bagaglie. Le donne di questa famiglia poste in mezzo alla comitiva, venivano esortate a nascondere la propria avvenenza, col bruttar di fango il volto, che dianzi erano use ad imbellettarsi; perchè ciascun passo le avventurava ad insulti e pericoli; ma le minacce degli stranieri, lor pareano anche meno insopportabili dell'insolenza de' plebei, che divenuti eguali ad essi si riguardavano. Finalmente respirarono con più sicurezza a Selimbria, città lontana quaranta miglia da Costantinopoli, e che fu termine di quel doloroso pellegrinaggio. Cammin facendo, incontrarono il Patriarca, solo, mezzo ignudo, a cavallo ad un asino, e ridotto a quell'appostolica indigenza, che se fosse stata volontaria, avrebbe potuto non andar priva di merito. In questo medesimo tempo i Latini, trascinati da licenza e spirito di fazione, spogliavano e profanavano le sue chiese, e strappate dai calici le perle e le gemme che li fregiavano, ad uso di nappi convivali sen valsero. Giocavano e gavazzavano, seduti a quelle tavole, ove effigiato vedeasi Cristo co' suoi appostoli: calpestavano co' piedi i più venerabili arredi del culto cristiano. Nella chiesa di S. Sofia, i soldati fecero in brani il velo del Santuario, per torgli la frangia d'oro; buttarono in pezzi, e se lo spartirono, l'altar maggiore monumento dell'arte e della ricchezza de' Greci; stavano in mezzo alle chiese i muli e i cavalli per caricare sovr'essi i fregi d'oro e d'argento che staccavano dalle porte e dalla cattedra del Patriarca; e quando questi animali si curvavano sotto il peso, gl'impazienti conduttori ne li punivano coi lor pugnali, e di quel sangue rosseggiava il pavimento del tempio. Una meretrice andò ad assidersi sullo scanno del Patriarca, e questa figlia di Belial, dice lo Storico, cantò e ballò nella chiesa per porre in derisione gl'inni e le processioni degli Orientali: l'avidità condusse indi costoro nella chiesa degli Appostoli, ove stavano le tombe de' Sovrani; al qual proposito si vuol far credere, che il corpo di Giustiniano, sepolto dopo sei secoli, venne trovato intatto e senza dare alcun segno di putrefazione. I Francesi e i Fiamminghi correvano le strade della città, avvolti i capi in cuffie di veli ondeggianti, e vestiti di abiti sacerdotali variamente dipinti, e de' quali persin bardamentavano i proprj cavalli: la selvaggia intemperanza delle loro orgie[98], insultava la fastosa sobrietà degli Orientali, e per deridere le armi più adatte ad un popolo di scribacchini e studenti, si trastullavano con penne, calamai, carta alla mano; nè s'accorgevano certo che gli strumenti della Scienza, adoperati dai moderni Greci, divenivano per essi deboli ed inutili quanto quelli del valore lo erano stati.

Nondimeno l'idioma che parlavano i Greci e l'antica rinomanza, sembravano attribuir loro un qualche diritto di schernire l'ignoranza dei Latini e i deboli progressi del loro ingegno[99], e quanto ad amore e rispetto per le Belle Arti, la diversità fra le due nazioni più manifesta ancor si mostrava. I Greci serbavano tuttavia con venerazione i monumenti de' loro antenati che imitar non sapevano; nè noi possiamo starci dal partecipare al dolore e all'ira di Niceta, a quella parte di racconto ove narra la distruzione delle statue di Costantinopoli[100]. Abbiam già veduto nel corso della presente opera come il dispotismo e l'orgoglio di Costantino, avessero incessantemente contribuito ad abbellire la sua nascente Metropoli. E Dei ed Eroi sopravvissuti alla rovina del Paganesimo, e molti resti di un secolo più fiorente, ornavano ancora il Foro e l'Ippodromo. Dalla descrizione pomposa e ricercatissima, che di parecchi fra questi monumenti ne ha lasciata Niceta[101], sonomi studiato di ritrarre il seguente specchio delle cose più meritevoli d'intertenere una erudita curiosità. I. Le immagini de' condottieri dei carri, che aveano riportato il premio, venivano, a spese loro, o del pubblico, scolpite in bronzo, e nell'Ippodromo collocate. Vedeansi questi in piedi sul loro carro nella postura di correre ancora alla lizza; e gli spettatori, ammirandone l'attegiamento, poteano giudicare della somiglianza fra le statue e gli originali. Le più preziose fra queste immagini erano state, giusta ogni apparenza, trasportate dallo stadio olimpico. II. La sfinge, il cavallo marino, e il coccodrillo, si annunziavano, per sè medesimi, lavori egiziani e prede fatte in Egitto. III. La lupa che allattò Romolo e Remo, soggetto egualmente piacevole ai Romani antichi e moderni, non potea però essere stato trattato, prima del declinare della greca scoltura. IV. Un'aquila che tenea fra gli artigli e straziava un serpente, monumento particolare alla città di Bisanzo, veniva dai Greci attribuito alla potenza magica del filosofo Apollonio, che, giusta la lor tradizione, adoperò questo talismano per liberare da velenosi rettili la città. V. Un asino e il suo conduttore, monumento posto da Augusto nella sua colonia di Nicopoli, rammemorava il presagio che aveva annunziata la vittoria di Azio al dominatore del Mondo. VI. Una statua equestre rappresentava giusta la credenza del popolo, il capitano degli Ebrei, Giosuè, nel momento di stendere il braccio per fermare il corso del sole; ma una più classica tradizione soccorreva a scorgere in questo gruppo, Bellerofonte e il caval Pegaseo: e di fatto il libero atteggiamento del corridore, lo mostrava più inclinato a spingersi nell'aere, che a camminare per terra. VII. Un obelisco di forma quadrata, colle sue superficie scolpite in rilievo, offeriva una varietà di scene pittoresche e campestri; augelli che cantavano; villani intenti alle rustiche loro fatiche, o in atto di sonare la cornamusa; pecore che belavano, saltellanti agnelli, il mare, un paese, una pesca, e moltitudine di pesci diversi; amorini ignudi che ridevano, folleggiavano, e gettavansi l'un l'altro le pome; sulla cima dell'obelisco una immagine di donna, che il menomo fiato di vento facea volgere, nominata perciò la Seguace del Vento. VII. Il pastore di Frigia presentava a Venere il premio della beltà, ossia la poma della discordia. IX. Veniva indi l'incomparabile statua di Elena. Niceta descrive col tuono della ammirazione e dell'amore, il piè di lei delicato, le braccia d'alabastro, il labbro di rosa, l'incantatore sorriso, il languore degli occhi, la bellezza delle arcate sopracciglia, la perfetta armonia delle forme, la leggerezza del panneggiamento, la capigliatura che ondeggiar sembrava a grado de' venti. Tanti pregi di avvenenza congiunti insieme, avrebbero dovuto destar pietà o rimorso nel cuore de' Barbari che la distrussero. X. La figura virile, o piuttosto divina di Ercole[102], animata dalla dotta mano di Lisippo, avea sì sterminata dimensione, che il pollice era grosso, la gamba alta, quanto è grosso ed alto un uomo di ordinaria statura[103]. Larghissimi ne erano il petto e le spalle, nerborute le membra, increspati i capelli, imperioso l'aspetto; non gli si vedea nè clava, nè arco, o turcasso, sol la pelle di lione gli ammantava negligentemente le spalle; egli era assiso; stavasi seduto colla gamba e col braccio destri, stesi quanto eran lunghi; il ginocchio sinistro piegato ne sosteneva il gomito, e la testa appoggiata alla mano sinistra: i suoi sguardi pensierosi annunziavano indignazione. XI. Vi si vedeva un'altra statua colossale di Giunone, antico monumento del Tempio samio di questa Dea; solo a trasportarne l'enorme testa sino al palagio, vi vollero quattro paia di buoi. XII. Eravi un terzo colosso di Pallade, o Minerva, alto trenta piedi, che con ammirabile energia, l'indole e gli attributi di questa vergine marziale esprimea. Ragion di giustizia vuole che qui non si tacia, essere stati i Greci medesimi, i quali dopo il primo assedio, mossi da timore e da superstizione, questo monumento distrussero[104]. I Crociati nella lor cupidigia, incapaci d'ogni gentil sentimento, infransero o fusero le altre statue che ho qui descritte, e il prezzo e il merito lor di lavoro in un momento disparvero. L'ingegno postovi dagli artisti svaporò in fumo, e la materia metallica, convertita in moneta, servì a pagare i soldati. I monumenti di bronzo non sono mai i più durevoli. Di fatto i Latini ben distolsero con stupido disprezzo i loro sguardi, dai marmi animati da Fidia e da Prassitele[105]; ma eccetto il caso di straordinarj avvenimenti, questi massi inutili alla barbarie sui lor piedestalli rimasero[106]. I più ingentiliti fra que' pellegrini, quelli che ai diletti affatto barbari de' lor compagni non parteciparono, fecero pietoso uso del diritto conquistato sulle reliquie de' Santi[107]; laonde cotesta guerra procurò alle chiese d'Europa, una immensità di teste, di ossa, di croci, e d'immagini, e pel numero de' pellegrinaggi ed offerte che queste reliquie produssero, divennero forse la parte più lucrosa dell'orientale bottino[108]. Molta parte d'antichi scritti, perduti ai dì nostri, eranvi ancora nel dodicesimo secolo; ma poca vaghezza aveano i Latini di conservare, o trasportar volumi in idioma straniero composti. La sola moltiplicità delle copie, può perpetuare carte o pergamene, che ogni eventualità la più lieve basta a distruggere. La letteratura de' Greci racchiudeasi quasi per intero entro i recinti della Capitale[109]; onde, comunque non conosciamo tutta l'estensione della nostra perdita, certamente non sarebbe fuor di ragioni per noi, il versar qualche lagrima sulle biblioteche, che i tre incendj di Bisanzo distrussero.

Il primo Concilio (V. p. 7 ) generale di Nicea, l'anno 325, adunato per ordine di Costantino, sostenendo contro i Vescovi Ariani, e contro tutti i loro numerosissimi seguaci la negata divinità di Gesù Cristo, e volendo esprimerla, e determinarla (dopo avere lungamente discussi e sostenuti i motivi di credibilità, contenuti sì nell'antica, che nella nuova Scrittura) col vocabolo consubstantialem da porsi in una solenne, e scritta professione di Fede, fu questa nel Concilio medesimo distesa alla presenza del potentissimo Imperator Costantino, avverso agli Ariani, per dover essere, siccome fu, ed è la regola di fede de' Cristiani di retta regione, vale a dire ortodossi, e che leggesi in Greco, e tradotta in Latino nella grande Collezione de' Concilj del Lebbe, T. 2, p. 31, edizione Veneta del Coletti: eccola.

Credimus in unum Deum patrem omnipotentem, omnium visibilium, et invisibilium factorem: et in unum dominum Jesum Christum filium Dei, ex patre natum unigenitum, idest ex substantia patris, Deum ex Deo, lumen de lumine, Deum verum ex Deo vero; natum non factum, consubstantialem patri, per quem omnia facta sunt, et quae in coelo, et quae in terra. Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit, et incarnatus est, et homo factus est; passus est, et resurrexit tertia die, et ascendit in coelos, et iterum venturus est judicare vivos, et mortuos: et in Spiritum Sanctum.

Circa quarant'anni dopo, cioè intorno all'anno 365, il greco vescovo Basilio (nel suo libro dello Spirito Santo scritto al vescovo Anfilochio) disse: Primum igitur, quis auditis spiritus appellationibus, animo non erigitur, et ad supremam naturam cogitationem non attulit? Nam spiritus Dei dictus est, et spiritus veritatis, qui ex patre procedit (Joan. cap. 15), spiritus rectus etc., (Ps. 50). E lo stesso Basilio, che così scrisse al cap. 9 del libro suddetto, ne intitola il cap. 19. Adversus eos qui dicunt non esse glorificandum; e sostiene, che lo Spirito Santo è da glorificarsi. E nell'anno 372, essendo Papa Damaso nel provinciale Concilio Romano II, trattandosi de explanatione fidei, fu scritto; nominato itaque patre et filio, intelligitur Spiritus Sanctus, de quo ipse filius in evangelio dicit «quia Spiritus Sanctus a patre procedit; et de meo accipiet, et annunciabit vobis» (Jo. 15) Collect. Conc. Labbe.

E nel Concilio provinciale d'Iconio, l'anno 379 (Labbe, ediz. Coletti t. 2, p. 1076-1080), Ansilochio vescovo appunto d'Iconio, ed amico dell'altro vescovo Basilio, disse e scrisse in una lettera sinodale, vale a dire fatta a nome del Concilio, ed approvata, che per malattia Basilio non era venuto al Concilio, e soggiunge: Neque vero sanctam nostram ecclesiam passi sumus etiam illius vocis carere, sed habentes Librum ipsius (De Spiritu Sancto), quem de hoc peculiariter argumento elaboravit, ipsum pariter nobiscum in scripto loquentem obtinemus; e venendo a professare il Credimus etc. di Nicea, e indi a sostenere i detti di Basilio intorno lo Spirito Santo, dice: Docuerunt enim (cioè i vescovi del Concilio di Nicea nell'anno 325), sicut credi debet in patrem, et filium, ita etiam credendum esse in Spiritum: Quaenam ergo est nostrae fidei perfectio? Domini traditio, quam postquam resurrexisset a mortuis mandavit sanctis suis discipulis praecipiens: euntes docete omnes gentes, baptizantes in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti; e da queste parole Ansilochio poscia deduce; sed et oportet in doxologiis Spiritum una cum Patre et Filio conglorificare.

Indi l'anno 381, s'adunò il Concilio generale II in Costantinopoli particolarmente contro i Vescovi, preti, e secolari Macedoniani (così detti da Macedonio loro Capo ed Arcivescovo di quella Città, allora sede degl'Imperatori, e del Senato) che negavano la divinità dello Spirito Santo. Volevano i Vescovi cattolici, che i Vescovi Macedoniani confermassero il Credimus ec. di Nicea, ma i Macedoniani, ch'erano anche semi-Ariani, dichiaravano fermamente, ch'essi non ammettevano la parola consubstantialem contenuta nel Credimus etc., di Nicea, e quindi venivano a negare la divinità di Gesù Cristo, e si ritirarono dal Concilio, e dalla Città. Questo Concilio di cento e cinquanta Vescovi, confermò il Credimus etc. di Nicea, e v'aggiunse molte altre espressioni per dilucidare e determinare quella credenza che dovevasi avere, siccome si può rilevare paragonando parola per parola il Credimus etc., di Nicea, col seguente scritto in questo Concilio di Costantinopoli.

Credimus in unum Deum patrem omnipotentem factorem coeli, et terrae, visibilium omnium, et invisibilium: Et in unum dominum Jesum Christum, filium Dei unigenitum, ex patre natum, ante omnia saecula, Deum ex Deo, lumen ex lumine, Deum verum ex Deo vero natum non factum homousion ( parola greca che vuol dire consubstantialem) patri, hoc est ejusdem cum patre substantiae, per quem omnia facta sunt, qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de coelis, et incarnatus est ex Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est. Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus, ac sepultus, et tertia die resurrexit secundum scripturas, ascendit in coelus, sedet ad dexteram patris inde venturus est cum gloria judicare vivos, et mortuos; cujus regnum non erit finis. Credimus in Spiritum Sanctum dominum, et vivificantem ex patre procedentem, et cum Patre, et Filio adorandum, et conglorificandum qui locutus est per prophetas: et unam sanctam catholicam, et apostolicam ecclesiam. Confitemur unum baptisma in remissionem peccatorum; expectamus resurectionem mortuorum et vitam venturi saeculi. Amen.

Confermando il Credimus di Nicea e ripigliandolo, v'aggiunsero i Vescovi del Concilio alcune espressioni intorno l'incarnazione, ex Spiritu Sancto, ex Maria Virgine contro gli Apolinaristi; ed alcune altre, spiegando più ampiamente l'articolo dello Spirito Santo, dominum et vivificantem ex patre procedentem, et cum patre, et filio adorandum, et conglorificandum, qui locutus est per prophetas, contro i Macedoniani, e poi v'aggiunsero tutte l'altre cose fino al fine. Ed il Concilio poscia ordinò che nessuno poteva rifiutare il Credimus etc. di Nicea, e ch'egli rimaneva nella sua autorità, e che si diceva anatema a tutti gli errori specialmente degli Eunomiani, degli Ariani, dei Semi-Ariani, dei Sabelliani, dei Fotiniani, e degli Apolinaristi; trattò poi d'altre materie, e fece alcuni canoni di giurisdizione, e di disciplina.

Prima, o intorno all'epoca del Concilio suddetto di Costantinopoli, molti scrittori ecclesiastici, detti SS. Padri, che moltissimo influivano a determinare la credenza, così si espressero intorno lo Spirito Santo, indicando proceder egli dal Padre, e dal Figlio.

Tam vero cum Christus ex patre credatur Deus ex Deo, et Spiritus ex Christo, sive ab ambobus; ut Christus his verbis asserit; «qui a patre procedit, et hic de meo accipiet etc.» (Jo: c. 15. 16) Epifane in Ancor. n. 71.

Spiritus Sanctus, Spiritus veritatis est lumen tertium a Patre, et filio. Epifane Haeres. n. 74, e nello stesso libro: Porro Spiritus Sanctus ex ambobus: Spiritus e Spiritu; Deus enim est Spiritus.

Nam ut patri conjunctus est filius, et cum ex illo esse debeat non tamen posterius existit; sic etiam Spiritus Sanctus proximo haeret filio, qui sola cogitatione, secundum rationem principii, prius consideratur productione Spiritus. Greg. lib. I. con. Canom.

E Didimo, spiegando le parole di Cristo, disse. «Non enim loquetur a semetipso»: hoc est non sine me, et patris arbitrio, quia inseparabilis a mea et patris est voluntate, quia non ex se, sed ex Patre, et me est. Lib. 2, de S. Sancto.

E lo stesso altrove; neque alia substantia est Spiritus Sancti praeter id quod datur ei a Filio.

Cum ergo Spiritus Sanctus in nobis existens conformes nos efficiat Deo, procedat autem ex Patre, et Filio; perspicuum est divinae ipsum esse substantiae, substantialiter in ipsa, et ex ipsa procedentem; quemadmodum utique flatus ille, qui ex ore hominis excurrit. S. Cyrillo in Thesauro. lib. 34. E lo stesso: Si quidem est Dei, et Patris, et Filii ille, qui, substantialiter ex utroque, nimirum ex Patre per Filium, profluit Spiritus. Lib. I.

Da questi, e da altri passi più, o meno chiari di scrittori ecclesiastici, si dedusse in quel tempo, e si continuò sempre a sostenere, ed a credere specialmente da' teologi Latini, fra i quali il P. Petavio, che ne ricava il senso, (Dogmata theologica, lib. 7, c. 3) che lo Spirito Santo procede non solo dal Padre, come già era nel Credimus di Costantinopoli, ma anche dal figlio, cioè da Gesù Cristo, contro i teologi Greci, che quasi tutti sostennero sempre, e sostengono a torto, che lo Spirito Santo procede soltanto dal Padre, per mezzo del figlio: ecco la differenza che costituì, e costituisce principalmente lo scisma fra i Cristiani Greci, ed i Latini.

A' passi de' Greci scrittori favorevoli al dogma della prima e della seconda procedenza bisogna aggiugnere anche quelli dei Latini, fra' quali leggonsi: Spiritus quoque Sanctus cum procedit a patre, et filio, non separatur a patre, non separatur a filio. Così verso la fine del quarto secolo scrisse S. Ambrogio. Liber de Spir. San. c. 10.

Non possumus dicere quod Spiritus Sanctus et a filio non procedat, neque enim frustra idem Spiritus et Patris et filii Spiritus dicitur. S. August. de Trinitate.

Per altro v'erano alcuni S. Padri da eccettuarsi, per esempio Teodoreto. Avendo S. Cirillo Patriarca d'Alessandria detto anatema a Nestorio Patriarca di Costantinopoli, ed a tutti quelli che dicessero, aver Gesù Cristo usato dello Spirito Santo, come di una forza altrui, per far i miracoli, e non riconoscessero essergli quello proprio, Teodoreto affermollo, (Teod. in confut. Anath.) se s'intendeva procedere lo Spirito dal Padre; ma disse esser cosa empia, se s'intendesse avere lo Spirito Santo l'eccellenza sua dal Figlio, o pel Figlio. Cirillo che credeva appunto averla, dissimulò questa risposta, perchè bastavagli in quel momento lo stabilire contro Nestorio, non essere lo Spirito Santo avventizio al figlio, ma proprio (Petav. ibid).

Intorno all'anno 400, i Cristiani-Priscillianisti, così detti da Priscilliano Vescovo, e principal loro Capo, unito ai Vescovi, Instanzio e Salviano, sorsero e prosperarono in Ispagna. Professavano l'antichissimo dogma orientale dei due Principj, ossia delle due Divinità, una origine del bene, l'altra del male morale e fisico, dogma detto anche Manicheismo, ed inoltre sostenevano, come prima avevano fatto co' loro seguaci, Prasea, Nocto, Sabellio, Fotino, ec. che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano la medesima cosa e sostanza; senza alcuna distinzione reale di persone credevano, che Gesù Cristo fosse risuscitato in apparenza, ed avevano altri errori. Molti altri Vescovi di Spagna fra' quali Igino (che divenne poscia priscillianista), Idacio e Turibio si mossero fieramente contro di loro; ed il persecutore Idacio non si ristette che allor ch'ebbe, coll'autorità del tiranno Massimo, fatto mozzar il capo a Priscilliano, uomo per altro disinteressato, sobrio, umile, di bel naturale, ed eloquente; la sua morte, e la persecuzione sanguinaria de' suoi seguaci, fatta da' Cattolici, fecero, accesosi il fanatismo, quasi tutta la Gallizia priscillianista, provincia allora molto più estesa d'oggidì.

Furono condannati i Priscillianisti da alcun Concilio provinciale. Indi Turibio scrisse al Papa Leone I una lettera in cui condannava i Priscillianisti, e Leone poco dopo gli risponde con un'altra colla quale riassumendola, e confermandola, così si esprime: Leone Vescovo a Turibio Vescovo d'Astorga.

Capo I. « Perciò nel primo capitolo si dimostra quanto empiamente pensino (i Priscillianisti) intorno la Divina Trinità, asserendo essere il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo una medesima persona, nominando lo stesso Dio ora Padre, ora Figlio, ora Spirito Santo; e quindi altra cosa non sia colui che generò, altra chi è generato, altra colui che da ambedue procede; e dicono doversi intendere bensì la sola Unità con tre vocaboli, ma non in tre persone; il qual genere di bestemmia presero da Sabellio ec.» (Labbe, T. 4, p. 658 e Fleury, Hist. eccl. T. 6). Ricevuta, questa Lettera, si tennero tosto in Ispagna uno, o due Concilj provinciali; uno di 19 Vescovi, in cui si condannarono ancora i Priscillianisti, ed i Vescovi dichiararono, che lo Spirito Santo procede dal Padre ed anche dal Figlio, prendendo ciò dalla lettera di Leone, scritta a Turibio. Il P. Quesnel pensa che quei Vescovi abbiano ricevuta cotale credenza cioè filioque, da S. Agostino, ma ciò non sembra (Tillemont, Hist. t. 15, p. 455). Quei Vescovi non ordinarono per altro che si cantasse nelle chiese il Credimus etc. di Costantinopoli coll'aggiunta del filioque, la quale allora non vi si fece; soltanto era creduta, e s'insegnava al popolo. (Petavius, Dogm. theol. lib. 7).

Ma il Concilio generale di Calcedonia tenutovi l'anno 451, avendo confermato il Credimus etc. di Nicea e di Costantinopoli e le decisioni ancora del Concilio generale d'Efeso contro Nestorio, ed avendo approvato gli scritti del Papa Leone I contro Nestorio, e contro Eutiche, e condannate anche le opinioni teologiche di quest'ultimo decretò per mezzo de' suoi Presidenti: «il vero e santo Concilio tiene questa Fede e la segue; non vi si può nè aggiungere, nè togliere cosa alcuna» e letto questo decreto i Vescovi esclamavano: »così crediamo; così siamo battezzati; così battezziamo; così crediamo, così crediamo; si scriva che Santa Maria è Madre di Dio, e ciò s'aggiunga al simbolo, siano discacciati i Cristiani Nestoriani, che ciò non credono, anatema a chi pensa diversamente«. I consiglieri di Stato dissero, le vostre approvazioni ed acclamazioni saranno recate all'Imperatore (Tillemont, Histoire etc.).

Ma insorse ancora contrarietà, intorno alla Fede; si convenne di trattare per mezzo di Commissarj la definizione di essa; e questi furono ventidue Metropolitani, ossia Arcivescovi, che esaminate le cose che dovevansi proporre da credere, ne scrissero finalmente la definizione, che letta dall'Arcidiacono di Costantinopoli, così veniva a conchiudere:

« Secondo i SS. Padri, noi dichiariamo d'una voce, che si deve confessare un solo e stesso Gesù Cristo, nostro Signore, lo stesso perfetto nella Divinità e perfetto nella umanità, veramente Dio e veramente uomo; lo stesso composto d'un'anima ragionevole, e di un corpo consustanziale al Padre, secondo la Divinità, e consustanziale a noi, secondo l'umanità; in tutto simile a noi, eccettuato il peccato; generato dal Padre, avanti tutti i secoli, secondo la Divinità, e negli ultimi tempi nato dalla Vergine Maria, Madre di Dio, secondo l'umanità, per noi, e per nostra salute; un solo e stesso Gesù Cristo, figlio unico, Signore in due nature (contro i Cristiani Eutichiani), senza confusione, senza cangiamento, senza divisione, senza separazione, senza che l'unione tolga la differenza delle nature; al contrario la proprietà di ciascuna è conservata, e concorre in una sola persona, (contro i Cristiani Nestoriani) e in una sola ipostasi, di modo ch'egli non è diviso, o separato in due persone (contro pure i Cristiani Nestoriani) ma egli è un solo e stesso figlio unico, Dio Verbo, nostro Signor Gesù Cristo». Il Concilio proibisce a chiunque d'insegnare, e pensare altrimenti, sotto pena ai Vescovi e preti d'esser deposti, ai monaci e laici d'essere scomunicati, vale a dire scacciati dalla società cristiana cattolica. I Vescovi gridarono: «questa è la fede; che i Metropolitani la sottoscrivano»; e così fu fatto. (Labbe Actio IV, et V. Concil. Chalched., e Fleury Hist. Eccles.).

Le cose intorno la credenza della procedenza anche filioque rimasero nel medesimo stato per quasi quattro secoli nei paesi cristiani occidentali, che già i cristiani dei paesi orientali s'attenevano strettamente alla veduta, decisione del Concilio generale di Calcedonia, che non si dovesse nè levare, nè aggiungere cosa alcuna alla credenza espressa nel Credimus di Costantinopoli, e ciò costituiva separazione, o scisma fra le due Chiese orientale, ed occidentale.

Dal fatto seguente, avvenuto l'anno 809 si rileva, che si cantava nelle Chiese delle Gallie, ed in altre, prima che nella romana, il Credimus etc. di Costantinopoli e coll'aggiunta del filioque; nè si sa quando, ed in che occasione abbiasi cominciato a cantare il Credimus etc. con quell'aggiunta, nella Chiesa romana, quantunque, almeno fino dalla Lettera di Leone I a Turibio, debbasi pensare che cotale aggiunta fosse credenza dogmatica.

Il Concilio d'Aquisgrana, dell'anno 809 (Concilia gallicana t. 2, p. 256, e Labbe t. 9, p. 277, an. 809), regnando Carlomagno, mandò alcuni Vescovi, come Legati al Papa Leone III per udir il suo parere intorno l'aggiunta già introdotta del filioque. Il Baronio (Annales ad an. 809, t. 13) dice, che non si dubitò, e trattò in questo Concilio, se lo Spirito Santo procedesse, o no oltre dal Padre anche dal Figlio; ma che avendo gli Spagnuoli, ed i Francesi aggiunto al Credimus etc. le quattro sillabe filioque, additae fuerunt symbolo illae syllabae filioque, (Baronio, ivi) disputossi se fosse bene che il Credimus etc. con quell'aggiunta si continuasse a cantare, o no nelle chiese; ma egli ciò dice contro le espressioni degli atti del Concilio medesimo, che ci dicono chiaramente: «nel qual Concilio si trattò la questione della processione dello Spirito Santo; cioè, se siccome procede dal Padre, così proceda anche dal Figlio» (Labbe t. 9, p. 277; in qua Synodo de processione etc. ). Ed a maggior dimostrazione, che nel Concilio d'Aquisgrana dell'anno 809, si discusse precisamente la questione della procedenza filioque, e non solo di continuare a cantare, o no l'aggiunta, il dotto P. Pagi adduce altre prove storiche, come leggasi nella sua Critica, al luogo suddetto dagli Annali del Baronio.

Vedasi in Labbe (t. 9, p. 277), ed anche in Baronio, (Annales an. 809) il dialogo fra i Legati, e Leone III. Questi disse, che si deve credere alla procedenza dello Spirito Santo anche filioque se non si vuole esser dannato eternamente: i Legati dissero; se la cosa è così, domandiamo se sia lecito o no cantare nelle chiese il Credimus etc. di Costantinopoli coll'aggiunta del filioque, onde sia da tutti udita: il Papa disse che non tutte le cose, che si credono si cantano nel Credimus etc., non accordando con ciò il canto dall'aggiunta del filioque: i Legati, (cui sembrava doversi cantare il filioque, posto, che dalla credenza in queste quattro sillabe, dipendeva la salvezza eterna) ripigliano, per qual ragione non si potrà cantare il filioque, e cantando insegnarlo al popolo, se ciascuno è obbligato a crederlo, e se il crederlo è di fede? ed il Papa risponde: noi qui in Roma non lo cantiamo, ma soltanto lo leggiamo e leggendolo lo insegniamo, ma leggendolo, e insegnandolo, non osiamo aggiungere alcuna cosa al Credimus etc. di Costantinopoli: i Legati riconoscendo la proibizione d'aggiungere, o levare fatta dal Concilio generale di Calcedonia, insistono a domandare definitivamente se si possa cantare l'aggiunta filioque, o no; ma il Papa ripete di non cantarla, conchiudendo: «Si prius quam ita cantaretur etc., ut quod jam nunc a quibusque prius nescientibus recte creditur, credatur, et tamen illicita cantandi cousuetudo, cujusque fidei laesione, tollatur.»

Leggesi poi tanto in Baronio, che in Pagi, che Leone III fece porre due tavole d'argento nella Chiesa di S. Pietro, in una delle quali in greco, e nell'altra in latino, era scritto il Credimus etc., senza il filioque. Per le cose seguite e riferite l'erudito Vescovo Mansi pose una picciola nota al Baronio, dicendo: «non voglio disputare se Leone III abbia o no disapprovato l'aggiunta del filioque; è certo per altro, che Leone stesso inviò a' Vescovi delle province d'Asia una professione di fede in cui si legge, che lo Spirito Santo procede dal Padre, ed anche dal Figlio».

Eccola (Baronio anno 809, e Baluzio Miscell., t. 7, p. 18).

Simbolo di ortodossa fede di Leone III Papa alle Chiese orientali.

LEONE VESCOVO SERVO DEI SERVI DI DIO A TUTTE LE CHIESE ORIENTALI.

Vi mandiamo questo simbolo di fede ortodossa, acciocchè da voi, e da tutti i credenti sia tenuta retta, ed inviolata fede, secondo la santa romana cattolica, ed appostolica Chiesa.

« Crediamo la Santa Trinità, cioè Padre, Figlio, e Spirito Santo, solo Dio onnipotenti, di una sola sostanza, di una sola essenza, di una sola potenza, creatore di tutte le creature, da cui, per cui ed in cui sono tutte la cose; il Padre da se stesso, e non da altro, il figlio generato dal padre, Dio vero da Dio vero, lume vero da lume vero, non però due lumi, ma un solo lume; lo Spirito Santo dal Padre, e dal Figlio egualmente procedente, consustanziale, coeterno al Padre, ed al Figlio. Il Padre è pieno Dio in sè, il figlio è pieno Dio, generato dal Padre, lo Spirito Santo è pieno Dio procedente dal Padre, e dal Figlio. Non però sono tre Dei» ec.

Deposto Ignazio Patriarca di Costantinopoli, l'anno 858, per disposizione della Corte Imperiale, fu eletto a lui successore Fozio d'illustre nascimento, di grande ingegno, e di sapere superiore a qualunque altro, che allora fosse in Europa. Siccome era laico, gli furon dati tutti gli Ordini, ed in sei giorni fu fatto Patriarca. Il deposto Patriarca Ignazio aveva grande partito, ma un Concilio di trecento vescovi in Costantinopoli confermò la deposizione d'Ignazio e l'elezione di Fozio. Nicolò I papa, uomo intraprendente e fiero, in un Concilio provinciale di Roma, annullò la sentenza del Concilio di Costantinopoli di gran lunga più numeroso del romano, scomunicò Fozio per l'autorità di Dio, degli Appostoli, di tutti i Santi, delli sei Concilj generali e del giudizio che lo Spirito Santo pronunzia per bocca del Papa romano, vale a dire di sè medesimo. Fozio uomo pure non meno fiero, che avveduto, sdegnatosi di un atto poco considerato, adunò un Concilio a Costantinopoli, scomunicò e depose Nicolò I, e preso il titolo di Patriarca universale, e pretendendo, secondo le idee ricevute da lungo tempo, che col trasferimento della sede dell'Impero da Roma a Costantinopoli, fosse stato anche trasferito il Primato nella Chiesa, concepì il grande progetto di rendere indipendente la Chiesa greca orientale dalla romana occidentale. E da uomo avvedutissimo, conformandosi al pensare, ed al credere del popolo, fa accuse a' Papi ed alla Chiesa di Roma, acconce a far grande impressione sugli spiriti; loro rimprovera acerbamente d'aggiungere illecitamente al Credimus etc. del Concilio ecumenico, ossia generale di Costantinopoli dell'anno 481 e contro il decreto del Concilio pure ecumenico di Calcedonia dell'anno 451, la parola filioque, di sostenere, di prescrivere, d'insegnare cotale aggiunta, di permettere il cacio ed il latte in quaresima, d'imporre a' preti il celibato, seguitando in ciò il Manicheismo: condanna il digiuno del Sabbato, ed il costume de' Cherici di radersi la barba, e nomina empietà mostruosa, distruggitrice del Cristianesimo, l'aggiunta filioque.

Fozio avendo coraggiosamente rimproverato Basilio di aver ucciso l'Imperatore Michele III, e d'essersi per tal modo fatto di lui successore, fu da Basilio discacciato. Un altro Concilio di Costantinopoli, essendo Adriano II Papa, ed essendovi presenti tre suoi Procuratori, o Legati, condannò Fozio e ristabilì Ignazio. Sembrava il grande contrasto finito, ma l'interesse e la superbia lo fecero risorgere. Il Re de' Bulgari, la cui moglie era cristiana, erasi fatto cristiano, e molta parte de' sudditi aveva seguito l'esempio del Re, siccome suole avvenire, o la Storia ci mostra, tanto a favore che contro il Cattolicismo, specialmente de' fatti della Germania protestante, e de' re Gustavo Vasa, di Svezia, ed Enrico VIII d'Inghilterra. Pretendeva Adriano II papa, che la Bulgaria dovesse essere sotto la sua giurisdizione, e non sotto quella del Patriarca di Costantinopoli Ignazio. Ma un Concilio di Costantinopoli decise a favore del Patriarca; ed i Legati di Adriano reclamarono contro la decisione del Concilio, e contro Ignazio, (del Papa stesso prima sostenuto contro Fozio) ed il Papa Giovanni VIII successore, minacciò di scomunicarlo e di deporlo. Morì Ignazio; e Fozio avendo riavuto il credito alla Corte, ed avendo Giovanni molto bisogno dell'Imperator Basilio contro gli Arabi, che lo avevano obbligato ad un grosso tributo, si determinò a riconoscere Fozio, per mezzo de' suoi Legati, lusingandosi che questo Patriarca avrebbe per cotale riconoscimento, rinunciato alla giurisdizioni della Bulgaria; ed un Concilio di Costantinopoli di quasi quattrocento Vescovi, nell'anno 879, ristabilì Fozio, annullando tutti gli atti fatti contro di lui negli anteriori Concilj, composti dei medesimi vescovi di quest'ultimo, il che non è senza ragionevole maraviglia. Ma Fozio non rinunciò alla Bulgaria perchè riputava, che il suo ristabilimento gli fosse dovuto; ed allora il Papa Giovanni mutò condotta, adoperò le sue solite armi; scomunicò Fozio, ed i successori di Giovanni, pel dominio della Bulgaria, non lo vollero riconoscere; e poscia cacciato in bando dall'Imperatore Leone, lasciò morendo il fondamento dello scisma, che cento e cinquant'anni dopo assodossi sotto il Patriarca Michele Cerulario, che aggiunse nuove accuse a' Papi ed al Clero occidentale, fra le quali l'uso del pane azzimo nella Messa, e sosteneva, negando il purgatorio, che i beati non godono della presenza di Dio prima del Giudizio universale. Una lettera molto forte del Papa Leone IX, accrebbe l'odio di Cerulario contro i Papi, ed il loro Clero; Leone rimproverava alla Chiesa cristiana d'Oriente più di novanta eresie, cioè opinioni erronee, condannate dalla Chiesa occidentale, fra le quali il permettere il matrimonio ai preti, che non è un'eresia, e provava la sovranità temporale de' Papi colla falsa donazione dell'imperator Costantino, allora creduta vera: un atto di scomunica del Papa, portato da' suoi Legati a Costantinopoli, diceva: che Michele ed i suoi seguaci siano anatemi, co' simoniaci, cogli eretici, col Diavolo e cogli Angeli suoi, se non si convertono: ed il Patriarca Michele Cerulario con questo esordio cominciò la sua risposta. Uomini empj, usciti dalle tenebre dell'Occidente, sono venuti in questa divota città, da cui la Fede ortodossa s'è diffusa per tutto il Mondo; hanno tentato di corrompere la Fede ortodossa colla diversità dei loro dogmi ec. I Greci disprezzavano in quel tempo grandemente i Romani, trattavanli da ignoranti, erano presi da sdegno per le pretese de' Papi di generale dominazione. Gli odj per motivi veri, o falsi di religione vera, o falsa, sono pur troppo eterni, ed atroci perchè v'è chi ha interesse a fomentarli. Le ragioni di Cerulario, per la natura della quistione non erano niente più valide di quelle di Leone IX. ed il filosofo discuopre che le passioni, piuttosto che le prevenzioni, animavano le loro penne e dirigevano le loro azioni disapprovabili.

Gl'Imperatori greci ridotti a stato tristissimo, e povero da' Turchi vittoriosi, proposero poscia alcune volte a' Papi (allora per sè stessi ridondanti d'oro e d'ogni assoluta possanza, e signori ancora delle armate e dei tesori dei popoli, e de' sovrani d'Europa, de' quali disponevano) di riconoscere il loro Primato, di ammettere il filioque, e di convenire intorno agli altri articoli di controversia, per avere soccorsi in danari ed in armate: e ciò specialmente avvenne nelle due seguenti epoche.

Cominciò circa l'anno 1204, tempo in cui i Crociati cacciarono dal trono imperiale di Costantinopoli Alessio III Comneno, e vi posero Baldovino I latino, ad esservi comunione fra le due Chiese greca e latina, e si costrinsero a fuggire quegli ecclesiastici e laici greci, che non vollero acconsentirvi; ma avendo indi Michele III Paleologo scacciato da Costantinopoli l'ultimo Imperatore latino Baldovino II, e messosi in trono intorno l'anno 1260, coll'aver fatto cavare gli occhi al giovanetto Imperator greco Giovanni Lascari, di cui era tutore, si rinovò lo scisma. E vedendo Michele, che il potente Carlo d'Angiò, impadronitosi del Regno di Napoli, voleva rimettere sul trono di Costantinopoli Baldovino fuggito in Italia, mostrò accortamente disposizione al papa Clemente IV, che aveva ordinato un gran numero di crociate, e donato il regno di Napoli a Carlo, di riconoscere il primato de' Papi, e di accomodarsi intorno le altre cose di dogma, e di disciplina, affinchè distornasse Carlo dal divisamento; e Gregorio X, successo a Clemente, colta la bella occasione, adunò a Lione un Concilio generale nell'anno 1274. Michele Paleologo vi mandò ambasciatori con lettere sue, e de' vescovi greci, nelle quali era ammesso il filioque, in un col primato de' Papi in tutto, e s'accordavano le altre cose credute e praticate in occidente; il Papa disse la Messa, e quando si venne al passo del Credimus etc., o Credo ec. di Costantinopoli, il Papa, e tutti i vescovi e preti greci e latini cantarono ad alta voce per tre volte il filioque, che il papa Leone III non aveva voluto, che si cantasse cinque secoli prima. Si accordò anche al Papa il diritto di giudicare in appellazione, ciò ch'era stato tanto fortemente negato dalla Chiesa cattolica della province d'Affrica nel quinto secolo, prima d'essere distrutta dai Vandali a dagli Arabi.

Cessati i bisogni di Michele a de' Vescovi greci, lo scisma ritornò come prima. Poscia nell'anno 1438, il Papa Eugenio IV veneziano, combattendo col Concilio generale di Basilea, adunò l'altro Concilio generale di Firenze, e l'imperator Giovanni Paleologo, ridotto a misero stato in un co' suoi vescovi, dalle vittoriose armate de' Turchi, chiedendo soccorsi al Papa, ed ai Principi latini, propose ad Eugenio di aderire ad ogni cosa. Venne a Firenze col Patriarca di Costantinopoli, e con vent'un vescovi, e dopo lunghi contrasti per le espressioni del Decreto d'unione, fu esso scritto e sottoscritto ammettendo il filioque, il Primato, il Purgatorio, e le altre cose volute da Eugenio, che manteneva l'Imperatore, il Patriarca, i Vescovi greci; dava loro mensualmente danari, secondo il grado, e pagò il viaggio di venuta, e di ritorno. Il Vescovo greco Bessarione, che fu poi Cardinale, scrisse il Decreto, ed accortamente rimase in Italia. Eugenio diede anche all'Imperatore i soccorsi promessi. Il solo Marca vescovo d'Efeso, non volle sottoscrivere il Decreto. Tornati in Grecia i vescovi greci ripigliarono le loro prime opinioni direttamente contrarie al Decreto, e Marco scrisse lettera circolare a' Vescovi greci ed orientali contro il Concilio di Firenze; si mostrarono frodi fatte da' latini nell'estendere il Decreto. Vedi Pietro de Marca De Concordia ec. Lo scisma ritornò interamente come prima, e dura tutt'ora, e l'imperatore Giovanni timoroso de' suoi sudditi, e bisognoso de' Latini stette perplesso, morì poco dopo, e Costantinopoli poi fu presa da' Turchi l'anno 1453.

CAPITOLO LXI.

I Francesi e i Veneziani si dividono fra loro l'Impero. Cinque Imperatori latini delle Case di Fiandra e di Courtenai. Loro guerre contro i Bulgari e i Greci. Debolezza e povertà dell'Impero latino. Costantinopoli ripresa dai Greci. Conseguenza generale delle Crociate.

Dopo la morte de' Principi legittimi di Bisanzo, i Francesi e i Veneziani credettero abbastanza giustificati e la loro causa, e i prosperi successi ottenuti, per ripartirsi anticipatamente fra loro le province del greco Impero[110]. Mediante un Trattato, accordaronsi a nominare dodici Elettori, sei per nazione, e a riconoscere Imperator d'Oriente quell'individuo che accoglierebbe in sè un maggior numero di suffragi. Stipularono inoltre i confederati che accadendo parità nel numero de' voti, la sorte deciderebbe fra i due candidati; e concedettero a quello che sarebbe eletto, i titoli e le prerogative de' precedenti Imperatori, i due palagi di Blacherna e di Bucoleone, e la quarta parte di tutti i possedimenti che la monarchia de' Greci formavano. Le tre altre parti divise in due porzioni eguali, vennero tenute da banda per essere divise fra i Veneziani e i Baroni francesi. Fu risoluto che tutti i feudatarj, dai quali, per una distinzione d'onore venne eccettuato il Doge, presterebbero al nuovo Sovrano, omaggio di fedeltà e giuramento di servigio militare, come a Capo supremo dell'Impero; che quella fra le due nazioni cui toccherebbe la sorte di dare all'Oriente un Imperatore, cederebbe all'altra la nomina del Patriarca; che per ultimo tutti i Pellegrini, comunque impazienti fossero di visitar Terra Santa, dovessero consagrare anche un anno a conquistare e difendere le province del greco Impero. Appena impadronitisi di Bisanzo i Latini, un tale Trattato confermarono e misero ad effetto, divenuta prima e più rilevante fra le loro cure l'elezione di un Imperatore. Tutti ecclesiastici erano i sei Elettori francesi: l'Abate di Loces, l'Arcivescovo eletto di Acri in Palestina, e i Vescovi di Soissons, di Troyes, di Halberstadt e di Betlemme; l'ultimo de' quali Prelati gli uffizj di Legato del Papa adempiea. Rispettabili per sapere e per santità del loro carattere, tanto più idonei a tale scelta mostravansi che su di essi non poteva cadere. Fra i primarj ministri dello Stato, vennero creati i sei Elettori Veneti, onde le illustri famiglie de' Querini e de' Contarini, s'inorgogliscono tuttavia di trovare in quell'Assemblea i nomi de' loro antenati. Radunatisi nella cappella del palagio i dodici Elettori, procedettero alla elezione, dopo avere invocato solennemente lo Spirito Santo. Ragioni di rispetto e di gratitudine unirono primieramente i voti di tutti i congregati a favore del Doge. Autore egli stesso di quell'impresa, per tali azioni erasi segnalato, che, a malgrado degli anni e della cecità, poteano renderlo ammirazione ed invidia de' più giovani cavalieri. Ma il Dandolo non mai abbastanza per virtù cittadine lodato, e disdegnando tutto ciò che a personale ambizione si riferiva, fu pago dell'onor de' suffragi, che degno il promulgavano di regnare. I suoi concittadini, e fors'anche i suoi amici si opposero eglino stessi a questa nomina[111], facendo coll'eloquenza della verità, manifesti i danni che alla libertà di Venezia e alla causa comune doveano temersi dall'incompatibile collegamento della prima magistratura della Repubblica, e della Sovranità dell'Oriente. L'esclusione del Doge lasciò libero il campo a Bonifazio ed a Baldovino. I meriti di questi due candidati si contrabbilanciavano scambievolmente, ma tanto sovrastavano a quello degli altri, che a questi due cedettero rispettosamente le loro pretensioni. Maturità di anni, splendida rinomanza, l'opinione più generale de' Pellegrini, il voto dei Greci, stavano soprattutto pel Marchese di Monferrato; nè mi è sì agevole il credere che i piccioli possedimenti di questo Principe, posti a piedi dell'Alpi[112], dessero inquietudine alla Repubblica di Venezia padrona del mare. Ma il Conte di Fiandra, in età di trentadue anni, valoroso, pio e casto, Capo d'un popolo ricco e bellicoso, discendente da Carlomagno, cugino del Re di Francia, contava fra i suoi Pari, Baroni e Prelati, che avrebbero mal tollerato di sottomettersi all'Impero di uno straniero. Questi Baroni, il Doge, e a capo d'essi il Marchese di Monferrato, stavansi alla porta della cappella, aspettando la risoluzione degli Elettori. Venne finalmente a nome de' suoi colleghi annunziandolo il Vescovo di Soissons. «Voi avete giurato, disse egli, obbedire al Principe che avremmo scelto. Per l'unanimità de' nostri suffragi, Baldovino Conte di Fiandra e di Hainaut, è vostro Sovrano ed Imperator d'Oriente». Il nuovo Monarca venne salutato fra romorose acclamazioni, che la gioia de' Latini e la tremante adulazione de' Greci per tutta la città ripeterono. Primo fu Bonifazio a baciar la mano al rivale e ad innalzarlo sul proprio scudo. Baldovino fu trasportato nella Cattedrale ove solennemente calzò i coturni di porpora. Tre settimane dopo l'elezione, il Legato del Papa che gli uffizj di Patriarca adempiea, lo coronò; ma prestamente s'impadronì del coro di S. Sofia il Clero veneziano, che fu sollecito a porre sul trono ecclesiastico Tommaso Morosini, nè trascurò alcuna diligenza per mantenere alla sua nazione gli onori e i benefizj della Chiesa greca[113]. Non indugiò il successore di Costantino a far noto per messi, questo memorabile cambiamento politico alla Palestina, alla Francia, a Roma. Le porte di Costantinopoli, le catene del porto vennero, per suo ordine, trasportate in Palestina come trofei[114], e dalle Assise di Gerusalemme tolse le leggi e gli statuti, che meglio ad una colonia francese e ad una conquista d'Oriente addicevansi. Sollecitò indi per lettere tutti i Francesi, perchè venissero ad ingrossare questa colonia, a popolare una capitale vasta e magnifica, a coltivare un suolo fertile, e preparato dalla natura a dar largo guiderdone di lor fatiche al Sacerdote e al soldato. Mandò anche congratulazioni al Pontefice di Roma per la sua autorità ristaurata, nell'Oriente, eccitandolo ad estinguere lo scisma dei Greci colla sua presenza medesima ad un generale Concilio, e implorandone l'indulgenza e l'appostolica assoluzione per que' Pellegrini che agli ordini del Capo della Chiesa aveano contravvenuto[115]. Accorgimento e dignitosi modi la risposta d'Innocenzo contraddistinsero; attribuendo ai vizj degli uomini la sovversione dell'Impero d'Oriente, adorava in ordine a ciò i decreti della Providenza. «I conquistatori, egli dicea, saranno o assoluti o condannati giusta la condotta che terranno in appresso, e la validità del loro parteggiamento è cosa che dal giudizio di S. Pietro dipende». Non dimenticò nel medesimo tempo di prescriver loro, siccome il più sacro de' doveri, quello di mantenere subordinati e tributarj i Greci ai Latini, i Magistrati al Clero, il Clero al Pontefice.

Nel ripartimento delle province dell'Impero[116], la porzione che toccò ai Veneziani trovossi più considerabile di quella dell'Imperatore latino. Ei non possedea che un quarto della conquista. Riserbatasi Venezia una grossa metà del rimanente, l'altra metà tra i venturieri di Francia e di Lombardia venne distribuita. Il venerabile Dandolo, acclamato despota della Romania, fu, giusta l'uso de' Greci, fregiato de' calzaretti di porpora. Ei terminò il corso della sua lunga e gloriosa vita a Costantinopoli; e benchè le prerogative di lui non passassero ai suoi successori, questi ne conservarono nullameno i titoli fino alla metà del secolo decimoquarto, ed aggiugneano l'altro singolarissimo, di Signori di un quarto e mezzo dell'Impero Romano[117]. Il Doge, schiavo dello Stato, rade volte ottenea la permissione di allontanarsi dalla sede del Governo; ma ne tenea vece in Grecia un Bailo o reggente, insignito d'inappellabile giurisdizione sulla colonia de' Veneziani. Degli otto rioni di Costantinopoli, tre appartenevano a questa colonia; il cui tribunale independente, era composto di sei giudici, quattro cancellieri, due ciamberlani, due avvocati fiscali e un contestabile. Una lunga esperienza sul commercio d'Oriente, gli avea fatti accorti sì, che meglio degli altri poteano provvedere ai loro interessi nel ripartimento; pur commisero una imprudenza nell'accettare il governo e la difesa d'Andrinopoli. Ad ogni modo la saggia politica di questi trafficanti, pensò ad assicurarsi una catena di città, di isole e di fattorie, lungo la costa marittima, che dai dintorni di Ragusi fino all'Ellesponto e al Bosforo si estendea. I dispendiosi lavori che a mantenere tali conquiste volevansi, avendo impoverito il veneto erario, abbiurarono le antiche massime del lor governo, adattandosi ad un feudale sistema, e concedendo, contenti di un semplice omaggio, ai Nobili[118] il possedimento di que' paesi, che questi imprendeano a conquistare, o a difendere. In cotal guisa, la famiglia di Sanuto divenne padrona del Ducato di Nasso, che tenea la massima parte dell'Arcipelago. Mediante uno sborso di diecimila marchi, la Repubblica comperò dal Marchese di Monferrato, la fertile isola di Creta, o Candia, e le rovine di cento città[119]. Ma i meschini concepimenti di un'orgogliosa aristocrazia[120], non permisero trar grande profitto da tali acquisti; onde i più giudiziosi fra i Senatori dichiararono non per possedute terre, ma per l'Impero del mare il tesoro di S. Marco impinguarsi. Sulla metà da ripartirsi fra i venturieri, il Marchese di Monferrato, fuor d'ogni dubbio, alla maggior ricompensa aveva dritto. Oltre alla cedutagli isola di Creta, per un riguardo al trono da cui fu escluso, gli fu conferito il titolo di Re e assegnate le province al di là dell'Ellesponto; ma fe' un saggio cambio di questa difficile e lontana conquista, col regno di Tessalonica o di Macedonia, distante dodici giornate dalla capitale, e dagli Stati del Re d'Ungheria, cognato del Marchese, e vicino quanto bastava, perchè questi all'uopo ne potesse sperare soccorsi. Il suo passaggio per le province che dovè traversare, fu in mezzo a continue acclamazioni o sincere, o simulate de' Greci; e l'antica e vera Grecia ricevette di nuovo un conquistatore latino[121], che con aria d'indifferenza questa classica terra calcò. Degnando appena d'un guardo le bellezze della valle di Tempe, pose molta cautela addentrandosi nelle gole delle Termopile, occupò Tebe, Atene ed Argo, città al medesimo sconosciute, e prese d'assalto Corinto e Napoli[122], che aveano tentato resistergli. Or la sorte, ora la scelta e successivi baratti, regolarono i premj degli altri pellegrini. Accecati dal giubilo del riportato trionfo, usarono immoderatamente del lor potere, sulla vita e le ricchezze d'un grande numero d'uomini. Dopo una recapitolazione esatta di tutte le province da ripartirsi, pesarono con avara bilancia le rendite di ciascuna di esse, la situazione più o men vantaggiosa, i modi più o meno abbondanti che queste offerivano, per alimentare uomini e cavalli sul loro suolo. Fin agli antichi smembramenti del Romano Impero, le pretensioni dei vincitori si estesero; nelle immaginarie lor divisioni, il Nilo e l'Eufrate si trovavan compresi, e giubilava il guerriero che nella sua parte di premio, la reggia del Sultano d'Iconium annoverava[123]. Non m'arresterò in questo luogo ad enumerare i nuovi fregi genealogici, e i possedimenti di ciascun cavaliere; mi basti il dire, che i Conti di Blois e di S. Paolo, il ducato di Nicea e la signoria di Demotica ottennero[124]; i principali feudi alle cariche di Contestabile, di Ciamberlano, di Coppiere e di Mastro di casa, andarono uniti. Il nostro Storico, Goffredo di Villehardouin, acquistò un ricco dominio sulle rive dell'Ebro, accoppiando gli uffizj di Maresciallo di Sciampagna e di Romania. Ciascun Barone a capo de' suoi cavalieri ed arcieri, si trasferì a prender possesso della sua parte di premio; nè grande resistenza la maggior parte di loro trovarono sulle prime: ma da siffatta dispersione derivò, che le generali forze scemarono; e ognuno s'immagina quanti litigi dovettero sorgere in tale stato di cose, e fra uomini che riconoscevano per primitiva legge il successo dell'armi. Tre mesi dopo la conquista di Costantinopoli, già l'Imperatore e il Re di Tessalonica, marciavano un contra l'altro; però l'autorità del Doge, i consigli del Maresciallo, la coraggiosa fermezza de' Pari a pacificarli pervennero[125].

A. D. 1204 ec.

Due fuggiaschi che avevano occupato il trono di Costantinopoli, assumeano tuttavia il titolo di Imperadori, e que' che furono lor sudditi poteano cedere ad un moto di compassione verso l'antico Alessio, o ardere del desiderio di vendicarsi sopra l'ambizioso Murzuflo. Vincoli di famiglia, comune interesse, eguali delitti, e il merito di aver tolta la vita ai nemici del suo rivale, persuasero il secondo usurpatore a cercare di collegarsi col primo. Murzuflo si trasferì nel campo di Alessio, ove carezzevolmente e con onori fu ricevuto: ma gli scellerati, incapaci di sentire amicizia, hanno torto se si fidano in coloro che ad essi somigliano. Dopo averlo fatto arrestare in un bagno e privare degli occhi, Alessio si guadagnò le truppe di costui, se ne appropiò i tesori; poi fattolo scacciare dal campo, Murzuflo errò, qua e là, oggetto di scherno e d'orrore a coloro che, più di Alessio, aveano diritto di odiare e di punir l'assassino dell'imperatore Isacco, e del figliuolo d'Isacco. Straziato dalla tema e dai rimorsi, tentava rifuggirsi in Asia, allorchè i Latini di Costantinopoli lo sorpresero, ed instituito un pubblico giudizio, ad ignominiosa morte il dannarono. I giudici dopo avere esitato, nella scelta del supplizio, tra la mannaia, la ruota, e il palo, fecero collocare Murzuflo[126] sulla cima di una colonna di marmo bianco, alta cenquarantasette piedi, e detta la Colonna di Teodosio (A. D. 1204-1222)[127]. Dall'alto di questa, fu precipitato capo volto a basso, e il cranio ne rimase infranto alla presenza di numerosissimo popolo assembrato nel Foro del Tauro che vedea con maraviglia in questo singolare spettacolo la spiegazione e il compimento di un'antica profezia[128]. Men tragico fu il destino di Alessio: il Marchese lo inviò in dono al Re de' Romani in Italia. Condannato a perpetua prigionia, l'usurpatore venne trasferito da una Fortezza dell'Alpi in un monastero dell'Asia, senza guadagnare molto nel cambio. Ma prima della caduta di Costantinopoli Alessio avea conceduta la sua figlia in isposa ad un giovane eroe che riedificò e tenne il trono de' principi greci[129]. Teodoro Lascaris, segnalato erasi per valore nei due assedj di Bisanzo. Dopo la fuga di Murzuflo, ed essendo già i Latini padroni della città, si offerse per Imperatore ai soldati ed al popolo, offerta che in tal momento poteva essere un atto di virtù, e certamente fu grande prova in lui di coraggio. Se nello stesso tempo gli fosse stato lecito infondere un'anima a quelle vili turbe, avrebbero calpestato sotto i lor piedi gli stranieri che lor sovrastavano; ma codardi i Greci nella disperazione, il soccorso di lui ricusarono, onde Teodoro fu costretto ripararsi nella Natolia, per respirare ivi un'aura d'independenza, libero dal vedere e dal paventare i conquistatori della sua patria. Sotto il titolo di despota, poscia d'Imperatore, unì a' suoi stendardi il piccolo numero d'uomini coraggiosi che il disprezzo della vita facea tuttavia forti contro la schiavitù; e riguardando come legittimo ogni atto che alla salvezza pubblica potesse giovare, non ebbe scrupolo d'invocare l'alleanza del Sultano de' Turchi. Posta in Nicea Teodoro la sua residenza, Prusa, Filadelfia, Smirne ed Efeso apersero le porte al loro liberatore. Le vittorie, e persin le sconfitte in forza e rinomanza lo accrebbero, e successore di Costantino, ne serbò quella parte d'Impero, che dal Meandro ai sobborghi di Nicomedia e in appresso a quelli di Costantinopoli si estendea. Anche l'erede legittimo de' Comneni, figlio del virtuoso Manuele, e pronipote del feroce Andronico, possedeva in lontana provincia una debole parte di questo impero: nomavasi Alessio, e il soprannome datogli di Grande probabilmente più alla sua statura che alle sue imprese si riferiva. I principi della dinastia, degli Angeli, senza aombrarsi della sua origine, lo aveano nominato governatore o duca di Trebisonda[130]: la sua nascita gli ispirava ambizione, la caduta dell'Impero gli fruttò independenza. Senza cambiare di titolo, regnò tranquillamente sulla costa del Mar Nero da Sinope sino al Fasi. Il figlio che a lui succedè, e del quale ignorasi il nome, è conosciuto soltanto come vassallo del Sultano che egli seguiva con dugento lancie alla guerra; ma il titolo di Duca di Trebisonda in questi due Comneni durò, e unicamente Alessio, pronipote del primo d'essi, spinto da orgoglio e da gelosia assunse il titolo d'Imperatore. Anche nella parte occidentale dell'Impero, Michele, bastardo della dinastia degli Angeli, e prima delle sconfitte, riguardato, or come ostaggio, or come soldato, or come ribelle, salvò dal naufragio un terzo frammento di greca dominazione. Fuggito dal campo di Bonifazio, ottenne in isposa la figlia del governator di Durazzo, e per tali nozze il possedimento di questa importante città: preso il titolo di despota, fondò un principato possente nell'Epiro, nell'Etolia, nella Tessaglia, sempre famosa per gli uomini bellicosi che la popolarono. Que' Greci che offersero servigio ai Latini, divenuti novelli loro sovrani, si videro disprezzati da questi superbi principi, ed esclusi[131] da tutti gli onori civili e militari, come uomini sol nati per obbedire e tremare. Offesi questi d'un sì aspro trattamento, si accinsero a provare cogli effetti di un'operosa inimicizia, quanto l'amicizia loro poteva essere utile a chi li vilipese. Finalmente l'avversità aveva loro inspirato coraggio: onde tutti i cittadini chiari per sapere o virtù, per nascita o valore, abbandonarono Costantinopoli, riparandosi ai governi independenti di Trebisonda, d'Epiro o di Nicea. Non si cita che un solo patrizio che abbia meritato l'encomio, se luogo ad encomio pur v'era, di affezione e fedeltà verso i Franchi. I popoli delle città e delle campagne si sarebbero forse accostumati ad una moderata e regolar servitù. Forse alcuni anni di pace e d'industria avrebbero fatto dimenticare ad essi la guerra e i suoi passeggieri disastri. Ma la tirannide del sistema feudale allontanando le soavità della pace, distruggea il frutto delle fatiche de' sudditi; e comunque un'amministrazione semplice e savie leggi, somministrassero agl'Imperadori latini di Costantinopoli, se avessero avuto l'accorgimento di ben prevalersene, ogni agevolezza a proteggere i proprj sudditi; in questo momento stava sul trono un principe titolare, Capo e spesse volte schiavo de' suoi indocili confederati. La spada de' Baroni arbitrava di tutti i feudi dell'Impero incominciando dall'intero reame, e venendo fino all'infimo fra' castelli. La costoro ignoranza, le discordie, la povertà ne estendevano la tirannide ai più rimoti villaggi. Il poter temporale de' preti, e l'odio fanatico de' soldati in un medesimo tempo i Greci opprimea; e il linguaggio e la religione diversa erano siccome un cancello che per sempre separava i vinti dai vincitori. Sintantochè i Crociati rimasero uniti nella capitale, la ricordanza delle loro vittorie, e il terrore dell'armi loro tennero cheto il soggiogato paese; ma col disunirsi, il segreto della propria debolezza derivata da scarso numero, e dalla poca lor disciplina svelarono; alcune rotte che per imprudenza si procacciarono li diedero a divedere non invincibili. A proporzione di tema sminuita l'odio afforzavasi ne' Greci, che ben presto passarono dalle lamentele alle cospirazioni; onde un anno di servaggio non era ancora per essi compiuto, quando implorarono, ossia accettarono con fiducia il soccorso di un Barbaro, la cui possanza già aveano provata, della gratitudine del quale non dubitavano[132].

A. D. 1205

Calo-Giovanni o Giovannizio, Capo ribelle dei Valacchi o de' Bulgari, fu tra i più solleciti a congratularsi, mediante un'ambasceria coi Latini. Il titolo reale da lui assunto, e la santa bandiera dal Pontefice romano inviatagli, sembravano francheggiarlo a riguardarsi come fratello de' nuovi imperatori di Costantinopoli, oltrechè, siccome lor complice nel sovvertimento del greco Impero, credeva a buon diritto potersi noverare fra i loro amici. Qual si fu la sorpresa di Giovannizio in udendo che il Conte di Fiandra, imitando il fastoso orgoglio de' successori di Costantino, ne avea rimandati gli ambasciadori, superbamente annunziandogli essere solo dovere d'un ribelle il venire con fronte china a toccare i gradini del soglio per meritarsi il perdono? Se il Re de' Bulgari non avesse ascoltate che le voci del proprio risentimento, il sangue unicamente potea lavar questo oltraggio; ma una più prudente politica egli adoprò[133]; pago per allora di star guatando i progressi del mal umore de' Greci, ai quali intanto diede a conoscere quanta pietà in lui destassero le loro sventure, e come ei fosse propenso a secondare colla persona, e con tutte le forze del regno, i primi tentativi che per essi farebbersi a ricuperare la libertà. L'odio di nazione dilatò la congiura, e ad un tempo il secreto e la fedeltà de' congiurati fe' più sicuri. Benchè però i Greci ardessero d'impazienza di conficcare i loro pugnali nel seno de' vincitori, aspettarono accortamente che Enrico fratello del nuovo Cesare avesse condotto al di là dell'Ellesponto il fior delle truppe. Le città e i villaggi della Tracia, per la più parte, mostraronsi pronti a puntino al momento ed al segnal convenuti; perlocchè i Latini, privi d'arme e di sospetti, si videro d'improvviso in preda alla spietata e codarda vendetta de' loro schiavi. Da Demotica, ove questa scena di strage ebbe principio, alcune navi del Conte di S. Paolo cercarono in Andrinopoli ripararsi: ma già l'infuriata plebaglia ne avea scacciati, o immolati, i Francesi ed i Veneziani. Quelle guernigioni latine che pervennero a guadagnarsi una ritirata, sulla strada maestra della capitale incontraronsi; ma quanto alle Fortezze isolate che ai ribelli tuttavia resistevano, un presidio non sapea la sorte dell'altro, e tutti quella del lor Sovrano ignoravano. La fama ingrandita dallo spavento, portò ben presto a Costantinopoli le notizie della ribellione dei Greci, e del rapido avvicinamento del Re dei Bulgari. Giovannizio avea aggiunto alle sue truppe un corpo di quattordicimila Comani, tolti dalla Scizia, i quali beveano, dicesi, il sangue de' lor prigionieri, e sugli altari delle loro divinità i Cristiani sagrificavano[134].

Atterrito l'Imperatore, spedì un corriere per richiamare il fratello suo Enrico; e se Baldovino avesse aspettato il ritorno di questo principe valoroso, che dovea condurgli un soccorso di ventimila Armeni, sarebbesi veduto in istato di assalire il Re de' Bulgari con eguaglianza di numero, e superiorità assoluta di armi e di disciplina. Ma lo spirito di cavalleria non sapendo per anco discernere dalla viltà la prudenza, l'Imperatore mosse al campo, scortato da soli cenquaranta cavalieri, e dal lor seguito ordinario di arcieri e sergenti. Dopo inutili rimostranze, il Maresciallo finalmente obbedì al comando di condurre l'antiguardo in sulla strada di Andrinopoli; il Conte di Blois conducea il corpo di battaglia, al retroguardo il vecchio Doge si stava. Accorsi da ogni banda sotto le bandiere di questo piccolo esercito i fuggitivi Latini, s'imprese tosto l'assedio di Andrinopoli, e tali erano le pie intenzioni de' Crociati, che durante la Settimana Santa, davano opera a devastar foraggiando la campagna, e a fabbricar macchine intese alla distruzione di un popolo di Cristiani. Ma ben tosto interruppeli la cavalleria leggiera de' Comani, venuta arditamente a scaramucciare quasi sul confine delle disordinate lor linee. Il Maresciallo pubblicò un bando che avvertiva la cavalleria di trovarsi pronta per montare a cavallo, e ordinarsi in battaglia al primo suono di tromba, minacciando pena di morte a chiunque si fosse distolto dai compagni per inseguire il nemico. Primo a disobbedire ad una provvisione tanto sensata il Conte di Blois, fu cagione colla sua imprudenza della perdita dell'Imperatore. Al primo impeto de' Latini, essendosi i Comani, a guisa di Parti o di Tartari, dati alla fuga, dopo una corsa di due leghe, voltaron fronte congiuntamente, e avvilupparono i pesanti squadroni francesi nel momento che stremi dal correre e cavalli e cavalieri, non aveano questi alcuna abilità di difendersi. Ucciso il Conte sul campo di battaglia, prigioniero l'Imperatore rimase; e il loro valor personale, per cui l'un d'essi disdegnò di fuggire, l'altro di ceder vilmente mal compensarono l'ignoranza, o la trascuratezza che diedero a divedere degli obblighi imposti ai generali d'esercito[135].

A. D. 1205

Superbo della riportata vittoria e dell'illustre prigioniero che traeva seco, il Bulgaro si avanzò per soccorrere Andrinopoli e a compiere la sconfitta dei Latini; de' quali sarebbe stata inevitabile la distruzione, se il maresciallo di Romania non avesse data prova di quel tranquillo coraggio e di quel militare intendimento, rari in tutti i secoli, ma più ancora straordinarj in quella età, ove più dall'istinto che dalla scienza, le guerre eran condotte. Il Villehardouin limitatosi a manifestare i proprj timori, e il cordoglio che lo premea, al suo fedele e prode amico, il Doge di Venezia, inspirò per tutto il campo quella fiducia, in cui sola riduceasi la speranza della salvezza. Dopo essersi per un intero giorno mantenuto nella pericolosa situazione che fra la città e il nemico esercito lo collocava, il Maresciallo levò il campo di notte tempo, e senza veruno strepito, operando per tre continui giorni una ritratta cotanto ingegnosa, che Senofonte e i suoi diecimila eroi sarebbero stati costretti ad ammirarla; instancabile nel correre dal retroguardo all'antiguardo, quivi sostenea l'impeto de' nemici, ivi fermava l'imprudente correre de' suoi fuggitivi. Per ogni dove i Comani affrontavano, una linea d'insuperabili lancie si parava contr'essi. Nel terzo dì finalmente, e dopo essere state così tribolate, le truppe latine scorsero il mare, la solitaria città di Rodosto[136] e i compagni che dalle coste dell'Asia giugnevano. Abbracciatisi, piansero insieme, e l'armi loro e i lor consigli riunirono. Il Conte Enrico assunse a nome del fratello, il governo d'un impero ancor nell'infanzia, nondimeno a caducità pervenuto[137]. I Comani mal resistendo all'ardor della state si ritirarono; ma sull'istante del pericolo, settemila Latini, infedeli al loro giuramento e ai fratelli, abbandonarono la capitale: alcune vittorie di poco momento mal compensavano la perdita di cento cavalieri periti nelle pianure di Rusio. La sola Costantinopoli, e due o tre Fortezze sulle coste di Europa e di Asia, all'Imperator rimanevano. Il Re de' Bulgari, invincibile come inesorabile, evitò con modi rispettosi di condiscendere alle istanze del Pontefice che pregava il nuovo proselito a restituire ai desolati Latini la pace e il loro Sovrano. «La liberazione di Baldovino, rispondea Giovannizio, non è più in potere degli uomini. Di fatto questo principe era morto nel suo carcere, e l'ignoranza indi e la credulità, molti diversi racconti sul genere di questa morte han divulgati. Coloro che di storie tragiche si dilettano, crederanno di buon grado che il casto prigioniero fe' vani gli amorosi voti della Regina de' Bulgari; che tale rifiuto alle calunnie della femmina, e alla gelosia di un selvaggio lo avventurò; che mani e piedi gli venner troncati; che il rimanente di quel sanguinoso corpo fu gettato fra gli scheletri de' cavalli e dei cani, e respirò per tre giorni, sintanto che gli uccelli da preda venissero a divorarlo[138]. Vent'anni dopo, in una foresta de' Paesi Bassi, un romito si volle far credere il conte Baldovino, imperator di Costantinopoli, e sovrano legittimo della Fiandra; narrò a quel popolo, egualmente propenso alla ribellione e alla credulità, le circostanze straordinarie della sua fuga, le sue avventure e la sua penitenza. Cedendo per un istante ad una persuasione cara al loro cuore, i Fiamminghi credettero rivedere il Sovrano che pianto avevano per lungo tempo. Ma la Corte di Francia, dopo brevi indagini, scoperse l'impostore che fu ad ignominiosa morte dannato. Pur non sì di leggieri i popoli della Fiandra abbandonarono una illusione che gli allettava: onde i più gravi storici di questo paese danno colpa alla Contessa Giovanna di avere sagrificata all'ambizione la vita di un genitore infelice[139].

A. D. 1216

Tutte le nazioni venute a civiltà ammettono, durante la guerra, un accordo pel cambio, o pel riscatto dei prigionieri. Di questi protraendosi la cattività, non è un mistero il loro destino, e giusta il loro grado, onorevolmente, o del certo umanamente, vengon trattati; ma le leggi della guerra il selvaggio principe dei Bulgari non conoscea; ed essendo difficile il portar lo sguardo ne' silenziosi nascondigli delle sue prigioni, volse un intero anno prima che i Latini fossero certi della morte di Baldovino, e che Enrico acconsentisse ad assumere il titolo d'Imperatore. Cotal moderazione, siccome esempio di rara e inimitabile virtù, applaudirono i Greci, che ambiziosi, perfidi ed incostanti, pronti ognora mostravansi ad abbracciare, o anticipar l'occasione di una sede vacante, in tempo che quasi tutte le monarchie dell'Europa aveano riconosciute, o confermate le leggi di successione, veri mallevadori della sicurezza de' popoli e de' monarchi. Morti a mano a mano, o ritiratisi gli eroi della Crociata, Enrico rimase presso che solo, gravato dal peso di far la guerra e di difender l'Impero. Già il rispettabile Dandolo, carico d'anni e di gloria, giaceva nel sepolcro; il Marchese di Monferrato tornava lentamente dalla sua guerra nel Peloponneso per vendicar Baldovino e proteggere Tessalonica. Nell'abboccamento che questi ebbe coll'Imperatore, vennero accomodati alcuni vani dispareri intorno l'omaggio e i servigi feudali; indi scambievole stima e comune pericolo avendoli in salda lega congiunti, questo nodo vie più fermarono le nozze di Enrico colla figlia di Bonifazio; ma non andò guari che Enrico dovette piangere la morte del suocero e dell'amico. Seguendo il consiglio di alcuni Greci rimasti fedeli, il marchese di Monferrato operò con buon successo un'ardimentosa scorreria nelle montagne di Rodope. Al solo suo avvicinarsi, i Bulgari si diedero a fuga, non mancando però, giusta il loro uso, di riordinarsi per rendergli funesta la ritirata. Il guerriero intrepido, appena seppe essere assalito il suo retroguardo, montò a cavallo, e corse colla lancia in resta incontro al nemico, avendo persino a sdegno di ripararsi il corpo colla sua armadura; ma in mezzo al tentativo imprudente, un dardo a morte il ferì: onde i Barbari fuggitivi ne portarono la testa a Calo-Giovanni, siccome trofeo di una vittoria, il merito della quale non avevano avuto. Nel punto di questo fatale avvenimento cade la penna di mano, e gli accenti mancano al generoso Villehardouin[140]. Se egli continuò ancora a sostenere l'uffizio di maresciallo della Romania, le successive imprese di lui alla posterità sono ignote[141]. I pregi d'Enrico non erano inferiori all'arduità del momento in cui prese le redini dell'Impero. All'assedio di Costantinopoli, al di là dell'Ellesponto, acquistata erasi la rinomanza di prode cavaliere e di abile generale. Alla intrepidezza del fratello univa la prudenza e la mansuetudine, virtù che all'impetuoso Baldovino non furono gran che famigliari. Nella duplice guerra contra i Greci dell'Asia e i Bulgari dell'Europa, sempre mostrossi il primo in arcione, o sulle navi, nè mai trascurando alcuna di quelle cautele che assicurar potevano la vittoria, spesse volte coll'esempio della sua intrepidezza a secondarlo e a salvar l'Impero gli scoraggiati Latini animò. Nondimeno al successivo miglior esito delle cose, meno gli sforzi d'Enrico, e i soccorsi d'uomini e di danaro spediti dalla Francia contribuirono, che non gli orrori, gli atti crudeli e la morte del nemico il più formidabile dei Latini. Coll'implorare siccome liberatore Calo-Giovanni, i Greci speravano che costui le lor leggi e la lor libertà avrebbe protette; ma ebbero ben tosto l'infausta occasione di accorgersi, fin dove la ferocia di un Barbaro pervenisse, e di abborrire il selvaggio conquistatore, che del proprio disegno di spopolare la Tracia, di spianare le città, di trapiantarne gli abitanti al di là del Danubio omai non faceva un mistero. E già parecchie città, parecchi villaggi della Tracia deserti erano; già in luogo di Filippopoli un cumulo sol di rovine scorgevasi. Gli abitanti di Andrinopoli e di Demotica, primi autori della ribellione un egual destino aspettavansi. Innalzatosi fino al trono di Enrico un grido di dolore e di pentimento, ebb'ei la grandezza d'animo di aggiugnere al perdono la sua confidenza ne' popoli supplichevoli. Non potendo nell'istante raccogliere sotto i proprj stendardi più di quattrocento cavalieri seguìti dai loro arcieri, e sergenti, con questo sì tenue corpo di esercito, cercò e rispinse il Capo dei Bulgari che, oltre alla sua fanteria, a quarantamila uomini di cavalleria comandava. Ben s'avvide in tal circostanza Enrico, qual sia la differenza tra l'avere favorevoli, o contrarj gli abitanti inermi del paese che teatro è della guerra. Salvò dalla distruzione le città che tuttavia rimanevano, costringendo il barbaro Giovannizio ad abbandonare, sconfitto e coperto di obbrobrio la preda; l'assedio di Tessalonica fu l'ultima fra le calamità che questo principe fece sentire alla Grecia e che egli stesso sentì. Nel più folto della notte, essendo stato assassinato entro la sua tenda, il Generale, o fors'anche l'uccisore medesimo che lo trovò immerso nel proprio sangue, attribuì questa morte alla lancia di S. Demetrio, nè fuvvi generalmente nel campo chi nol credesse[142]. Dopo molte riportate vittorie, il saggio Enrico conchiuse un onorevole Trattato di pace col successore di Giovannizio, e coi principi di Nicea e d'Epiro. Coll'abbandonare le sue pretensioni sopra alcuni incerti confini, assicurò a sè medesimo e ai suoi feudatarj il possedimento di un vasto reame che duratogli per dieci anni, lasciò godere all'impero questo intervallo di pace e di prosperità. Alieno dalla troppo severa politica di Baldovino e di Bonifazio, gli uffizj militari e civili senza timore ai Greci fidava; condotta generosa, che divenuta era ancor necessaria, perchè i principi di Epiro e di Nicea aveano appresa l'arte di sedurre i Latini e di mettere in opera la mercenaria loro prodezza. Si mostrò sollecito Enrico di porre insieme d'accordo i suoi sudditi, e di compensarne i meriti, non tenendo conto di paese, o di lingua; solamente mostrò minor cura della riconciliazione delle due Chiese, che cosa pressochè impossibile gli sembrava. Pelagio, Legato del Pontefice, che un fasto addicevole ad un sovrano fra le mura di Bisanzo ostentava, oltre all'avere abolito il culto greco, pretendeva a tutto rigore il pagamento delle decime da chicchessia, una chiara professione di fede intorno alla processione dello Spirito Santo, una cieca obbedienza ai comandamenti del Papa. In tutti i tempi, la parte più debole si è trovata costretta a rimostrare i doveri della propria coscienza, ad implorare i diritti della tolleranza. «I nostri corpi, diceano i Greci, sian pur di Cesare, ma le anime nostre appartengono a Dio». La fermezza dell'Imperatore pose un riparo alla persecuzione[143]. Laonde, se pur è vero che ei morì di veleno dai Greci apprestatogli, tal prova d'ingratitudine e di stoltezza, è fatalmente atta ad ispirarne trista opinione sul genere umano. Il valore di Enrico potea dirsi virtù comune, in cui diecimila cavalieri gli erano pari. Ma in un secolo di superstizione, un coraggio ben più straordinario diè a divedere, quello di opporsi all'orgoglio e all'avarizia del clero. Osò, nella cattedrale di S. Sofia, collocare il suo trono alla destra del trono del Patriarca, il quale atto riguardato a Roma, come colpevole presunzione, gli procacciò agre censure da Papa Innocenzo III. Con un salutare editto, primo esempio delle leggi che le mani morte riguardano, l'Imperatore Enrico proibì la vendita de' feudi; perchè molti Latini, impazienti di ritornare in Europa, abbandonavano i fondi loro alla Chiesa, che con danaro contante, e con indulgenze ne pagava il prezzo. Questi terreni divenendo sacri, e immediatamente fatti immuni dal militare servigio, una colonia di soldati sarebbesi ben tosto trasformata in una corporazione di preti[144].

Il virtuoso Enrico morì a Tessalonica, ove, per difendere il regno e il figlio ancor fanciullo dell'amico suo Bonifazio erasi trasportato. Tutta la linea maschile de' Conti di Fiandra colla morte de' due primi Imperatori di Costantinopoli rimaneva estinta; ma la lor sorella Jolanda era moglie di un principe francese e madre di numerosa prole. Una figlia di lei avea per marito Andrea, Re d'Ungheria, prode e pio campion della Croce; dal quale, col farlo Imperatore, i Baroni di Romania i soccorsi d'un possente e vicin regno sarebbersi procacciati; ma mostratosi il saggio Andrea rispettoso alle leggi della successione, i Latini sollecitarono la principessa Jolanda e il marito di lei Pietro di Courtenai, Conte di Auxerre a trasportarsi a Costantinopoli per ivi cingere il diadema d'imperator d'Oriente. Chiaro per paterna origine e per regale legnaggio della sua madre, come il più prossimo parente del lor Monarca, i Baroni francesi lo rispettavano. Aggiugnevansi a favor di Pietro luminosa fama, vasti possedimenti, e i suffragi degli ecclesiastici e de' soldati, rimasti egualmente soddisfatti del fatale zelo e del valore di questo guerriero nella sanguinosa crociata che contro gli Albigesi fu impresa. Certamente la vanità de' Francesi doveva esser paga in veggendo un uomo di lor nazione sul trono di Costantinopoli: ma la prudenza avrebbe fatto vedere che meno invidia che compassione si meritava l'uomo che a grandezza tanto fallace e pericolosa aggiugnea. Per sostenere con dignità il nuovo grado, Courtenai si vide primieramente costretto a vendere, o impegnare la più ricca parte del suo patrimonio. Sol per questi espedienti, e soccorso dalla liberalità del suo parente Filippo Augusto, e dallo spirito di cavalleria che per tutta la Francia dominava, si trovò in istato di passar l'Alpi, condottiero di cenquaranta cavalieri e di cinquemila cinquecento arcieri, o sergenti. Dopo qualche esitanza, il Pontefice Onorio III si arrendè a coronare questo nuovo successore di Costantino, avuta però la cautela di compire la cerimonia in una chiesa posta fuori del ricinto della città, per tema, non venisse supposto che questa conferisse al nuovo unto alcun diritto di sovranità sulla capitale antica del Mondo. Ben si obbligarono i Veneziani a trasportare oltre il mare Adriatico Pietro e le sue truppe, e fin nella reggia di Bisanzo l'Imperatrice co' suoi quattro figli; ma per premio dell'agevolato tragetto, pretesero dal nuovo Imperatore ch'ei si accignesse a riprender Durazzo, allor dominata dal despota dell'Epiro. Michele l'Angelo o Comneno, il primo della dinastia d'Epiro avea lasciata in retaggio la sua possanza e ambizione al fratello Teodoro, che già minacciava e assaliva i latini possedimenti. Dopo avere Pietro soddisfatto con un inutile assalto il suo debito, si vide alla necessità di levare l'assedio, e di terminare per terra fino a Tessalonica il suo rischioso cammino. Smarritosi fra le montagne dell'Epiro, si scontrò in gole affortificate e difese; le vettovaglie mancarongli; perfide apparenze di negoziazione ancora gli porsero indugi. Infine Pietro di Courtenai e il Legato romano si trovarono arrestati, mentre uscivano d'un banchetto; per lo che le truppe francesi prive di Capo e di modi per sostenersi, e adescate dall'ingannevol promessa di essere nudrite e umanamente trattate, cedettero l'armi. Il Vaticano sull'empio Teodoro lanciò le sue folgori, minacciandolo della vendetta della terra e del cielo. Ma poichè le querele del Pontefice al suo Legato sol riferivansi, l'Imperatore e i soldati del medesimo prigionieri dimenticò, concedendo perdono, o a dir meglio protezione al despota dell'Epiro, che appena liberato il Legato, promise obbedienza spirituale all'appostolica sede di Roma. I comandi assoluti di Onorio contennero l'ardor dei Veneziani e del Re ungarese; nè altro che una morte[145] o naturale, o violenta la prigionia del misero Courtenai terminò[146].

A. D. 1221-1228

La lunga incertezza in cui si rimase sulla sorte di Pietro, la presenza della legittima sovrana Jolande, o moglie, o vedova del medesimo, fecero che l'elezione di un nuovo Imperatore si differisse. La morte di questa principessa vissuta in mezzo ai cordogli, accadde in tempo che già sgravata erasi d'un fanciullo, cui fu imposto il nome di Baldovino, ultimo e più sfortunato dei principi latini di Costantinopoli. Comunque la sua stessa nascita fosse un motivo, per essergli affezionati ai Baroni della Romania, la fanciullezza del medesimo avrebbe lungo tempo esposto l'impero agli inconvenienti di una minorità, per lo che i diritti de' fratelli di Baldovino prevalsero. Il primogenito, Filippo di Courtenai, erede di Namur dal lato di madre, ebbe l'accorgimento di preferire la realtà del suo marchesato ad un'ombra di impero; pel quale rifiuto, Roberto, secondogenito di Pietro e di Jolande, al trono di Costantinopoli fu chiamato. Fatto circospetto dalla paterna sventura, per traverso all'Alemagna e lungo le rive del Danubio, seguì lentamente il suo cammino, e agevolatogli il passaggio per l'Ungheria dai motivi di parentado con quel Re, marito di sua sorella, pervenne finalmente alla meta, coronato dal Patriarca nella cattedrale di S. Sofia. Ma non provò durante l'intero suo regno che umiliazioni e disastri; e la colonia della Nuova Francia, così allora chiamata, cedea da tutte le bande ai collegati sforzi de' Greci di Nicea, e dell'Epiro. Dopo una vittoria più alla sua perfidia che al valore dovuta, Teodoro l'Angelo entrato nel regno di Tessalonica, e scacciatone il debole Demetrio, figlio del Marchese Bonifazio, fe' sventolare sulle mure di Andrinopoli il suo stendardo, aggiugnendo superbamente il proprio nome al novero di tre o quattro imperatori suoi emuli. Giovanni Vatace, genero e successore di Teodoro Lascaris, occupando il rimanente della provincia asiatica, splendè, durante un regno di trentatre anni, per tutte quelle virtù che ad un legislatore e ad un conquistatore si aspettano. Ei seppe, ottimo capitano, fare strumento di sue vittorie il valore di parecchi Franchi mercenarj, la cui diffalta, al lor paese funesta, divenne annunzio e cagione della superiorità risorgente de' Greci. Vatace costrusse una flotta, impose leggi all'Ellesponto, le isole di Lesbo e di Rodi ridusse, i Veneziani di Candia assalì, ai lenti e deboli soccorsi che ai Latini pervenivano dall'Occidente tolse la via. Indarno l'Imperatore latino fe' prova di opporre a Vatace un esercito, la cui sconfitta lasciò morti sul campo di battaglia quanti cavalieri e antichi conquistatori tuttavia rimanevano. Ma men trafiggeano l'animo dell'inetto Roberto i buoni successi del nemico che l'insolenza de' suoi sudditi latini, i quali della debolezza dell'Imperatore e dell'impero abusavano parimente. Le domestiche sciagure di questo principe dimostrano ad un tempo la ferocia del secolo e l'anarchia che quel governo premea. Sedotto Roberto dall'avvenenza di una nobile giovane della provincia di Artois, e dimentico degli accordi che la mano di lui alla figlia di Vatace obbligavano, introdusse nel palagio l'arbitra del suo cuore, inducendo la madre della donzella, abbagliata dallo splender della porpora, ad acconsentire, comunque ad un gentiluomo della Borgogna fosse promessa in isposa. L'amore del tradito pretendente in furor convertendosi, adunò i proprj amici, e rotte le porte della reggia, precipitò nell'Oceano la madre di colei che era divenuta o moglie, o concubina dell'Imperatore, e a questa barbaramente il naso e le labbra tagliò. I Baroni, anzichè voler punire il colpevole, fecero plauso ad un'azione feroce, che Roberto non potea perdonare nè come principe, nè come uomo[147]. Sottrattosi alla sua colpevole capitale, corse ad implorare la giustizia, o la compassione della Romana Sede Apostolica: ma il Papa lo esortò freddamente a ritornarsene nel suo regno; e nè manco gli fu lecito arrendersi a tal consiglio, perchè alla gravezza del dolore, della vergogna e della rabbia d'un impotente risentimento, i suoi giorni cedettero[148].

A. D. 1228-1237

Il secolo della cavalleria è il solo tempo che abbia aperte al valore di semplici privati le vie de' troni di Gerusalemme e di Costantinopoli. La sovranità titolare di Gerusalemme apparteneva a Maria figlia di Isabella e di Corrado di Monferrato, e pronipote di Almerico, o di Amauri. Il pubblico voto, e una sentenza di Filippo Augusto, le aveano dato in isposo Giovanni di Brienne, uscito di una nobile famiglia della Sciampagna, e additato siccome il più valoroso fra i difensori di Terra Santa[149]. Nella quinta Crociata, condottiero di centomila Latini portatosi alla conquista dell'Egitto, terminò l'assedio di Damieta coll'impadronirsi di questa Fortezza; i disastri che succedettero a tale resa, vennero unanimamente attribuiti all'avarizia e all'orgoglio del Legato Pontifizio. Dopo aver data in isposa la propria figlia a Federico II[150], l'ingratitudine dell'Imperatore lo costrinse ad accettare il comando delle truppe della Chiesa: perchè comunque avanzato negli anni e privato della sua corona, il valente e generoso Giovanni di Brienne ognor pronto mostravasi a brandire la spada, se l'utile della Cristianità lo chiedeva. Non avendo regnato che sette anni Roberto di Courtenai, il fratello di lui Baldovino non poteva essere uscito ancor dell'infanzia, e intanto i Baroni di Romania vedeano la necessità di rimettere lo scettro fra le mani d'un adulto e d'un eroe. Il nome e l'uffizio di reggente, cose non erano da offerirsi al rispettabile Re di Gerusalemme. Onde accordaronsi di conferirgli, sua vita durante, il titolo e le prerogative imperiali, sotto l'unico patto che ei concedesse la figlia sua secondogenita in moglie a Baldovino, serbato nella maggiorità degli anni a succedergli nel trono di Costantinopoli. La scelta di Giovanni di Brienne, la sua presenza e la sua fama, fecero rinascere la speranza de' Greci e de' Latini. Ammiravano il contegno guerriero[151], il vigor d'un vegliardo che gli ottant'anni già oltrepassava, e la statura che dalle proporzioni ordinarie toglievasi; ma l'avarizia e l'amor della quiete a quanto appariva aveano raffreddato nel suo animo l'ardor delle imprese; lasciate sbandar le sue truppe, due anni interi in un vergognoso ozio per esso trascorsero. Solamente da questo sonno il destò il formidabile collegarsi di Vatace Imperator di Nicea con Azan Re de' Bulgari. Conducendo un esercito di centomila uomini, e una flotta di trecento legni da guerra, i due Imperatori assediarono Costantinopoli; mentre le forze dell'Imperatore latino in soli centosessanta cavalieri e in una picciola mano d'arcieri, o di sergenti era posta. Sto perplesso nel raccontare che invece di pensare a difendere la città, questo eroe fece una sortita a capo della sua cavalleria, e che di quarantotto squadroni nemici, soli tre alla sua spada invincibile si sottrassero. Animati dal suo esempio, l'infanteria e i cittadini si lanciarono sulle navi che stavano tuttavia ancorate a piè delle mura, e ne condussero venticinque in trionfo entro il porto di Costantinopoli. Alla voce del Monarca, i vassalli e i confederati in difesa di lui presero l'armi, tutti gli ostacoli che al lor cammino opponevansi atterrarono, e nel successivo anno, ottennero sugli stessi nemici una seconda vittoria. I poeti di quel rozzo secolo, ad Ettore, ad Orlando, a Giuda Maccabeo raffigurarono Giovanni di Brienne[152]; ma il silenzio dei Greci affievolisce alcun poco e la gloria del principe, e l'autorità di coloro che il celebrarono. Non andò guari che l'Impero perdette l'ultimo fra i suoi difensori: il moribondo Monarca ebbe l'ambizione di entrare in Paradiso vestito da franciscano[153].

A. D. 1237-1261

Nelle descrizioni delle due vittorie riportate da Giovanni di Brienne, non vedo fatta menzione del nome, non che di veruna impresa di Baldovino, pupillo, indi successore dello stesso Giovanni, comunque già pervenuto ad età che atto al militare servigio il rendea[154]. Questo Principe adoperato in uffizj meglio alla sua indole confacevoli, visitò le Corti dell'Occidente, e quello soprattutto del Pontefice e del Re di Francia, alle quali lo inviarono, affinchè la presenza del giovinetto eccitando maggior compassione sulla sua innocenza e sulle sventure della sua Casa, ne rendesse più efficaci le preghiere per ottenere soccorsi d'uomini e di danari. Per tre volte egli ripetè queste umilianti peregrinazioni, nel cui adempimento, parve mettesse uno studio per prolungare la sua lontananza e differire il ritorno. Durò venticinque anni il regno di Baldovino II, la più gran parte trascorsi da lui fuori de' proprj Stati, perchè non si credea mai men libero e men sicuro, come quando nella patria e nella capitale del dominio greco si stava. Alcuna volta la vanità di lui ebbe per vero di che appagarsi sugli sterili onori che alla porpora e al titolo augusto venian tributati. Di fatto intanto che Federico II era scomunicato e percosso da un bando che intendeva a privarlo dell'impero, il suo collega d'Oriente assisteva al Concilio di Lione, seduto in trono e alla destra del Romano Pontefice. Ma quanto maggior numero di volte poi, questo Imperatore, mendico ed esule, si trovò invilito agli occhi proprj e di tutte le nazioni, e per oltraggi sofferti, e fino per la insultante pietà di cui fu lo scopo! Trasferendosi per la prima volta nell'Inghilterra fu arrestato a Douvres, e severamente redarguito perchè si era fatto lecito di entrare senza permissione negli Stati d'un regno independente; e poichè ebbe ottenuta, non senza qualche poco d'indugio, la libertà di proseguire nel suo cammino, si vide con fredda urbanità accolto alla Corte, alla quale dovette saper grado di un dono di settecento marchi d'argento con cui partì[155]. Tutto quanto potè ottenere dall'avarizia di Roma si stette nel bando di una Crociata e in un tesoro d'indulgenze,[156] moneta invilita assai perchè troppo di frequente, e con troppa inconsideratezza era stata adoprata. Gl'illustri natali e le sventure del Principe greco, ben commossero il cuor generoso del cugino di lui Luigi IX; ma il fervor guerriero del Santo Re ai lidi dell'Egitto e della Palestina volgeasi. Baldovino alleviò alcun poco le angustie proprie, e quelle cui ridotto era il suo impero colla vendita del Marchesato di Namur e della Signoria di Courtenai, soli Stati ereditarj che gli rimanessero[157]. Giovatosi di questi espedienti umilianti, o rovinosi del certo, potè condurre in Romania un esercito di trentamila uomini, il cui numero apparve tanto maggiore ai Greci pel terrore che ad essi inspirò. I primi messaggi da esso inviati alle Corti francese ed inglese, annunziavano speranze ed anche buoni successi. Avea sottomessi tutti i dintorni della Capitale, fino ad una distanza di tre giornate della medesima, e conquistata una rilevante città, che comunque nelle sue lettere ei non accenni, io suppongo essere stata Chiorli; la qual vittoria dovea e fargli sgombro il successivo cammino, e assicurare la tranquillità della frontiera. Ma tutte le ridette speranze (posto ancora che le cose nunziate da Baldovino fossero state vere) si dileguarono come un sogno; nelle inette mani di questo Principe i tesori come le milizie venute dalla Francia si spersero; onde non trovò miglior sostegno per reggersi in trono di una vergognosa lega che strinse coi Comani e coi Turchi. Per confermare il vile Trattato, ei concedè la propria nipote in isposa all'infedele Sultano di Cogni, e per rendersi accetto ai Comani, alle cerimonie del loro culto si sottomise: onde fra un campo e l'altro, fu sagrificato un cane, e i Principi contraenti, come pegno di reciproca fedeltà, gustarono il sangue l'uno dall'altro[158]. Sempre più intanto la povertà lo premea. Il successore d'Augusto demolì gli appartamenti vuoti della sua reggia; o a meglio dire della sua prigione, di Costantinopoli per trarne legna da scaldarsi. S'impadronì de' piombi che coprivano i templi per farli supplire alle spese della sua casa. Prese ad imprestito con esorbitanti usure, danaro dai mercatanti italiani; e impegnò per qualche tempo il proprio figlio e successore al trono Filippo, onde assicurare il pagamento di un debito che avea contratto coi Veneziani[159]. La fame, la sete, la nudità sono patimenti reali; ma l'opulenza non vuol calcolarsi che colle regole di proporzione. Un Principe facoltoso, come privato, può trovarsi secondo i bisogni che lo premono, in preda a tutte le amarezze e le angosce dell'indigenza.

In mezzo allo squallore di una tanto obbrobriosa povertà, rimaneva tuttavia all'Imperatore o all'Impero un tesoro che ricevea il suo immaginario valore[160] dalla divozione del Mondo cristiano. Scapitato era alquanto per fattine parteggiamenti il legno della vera Croce, oltrechè l'essere dimorato sì lungamente fra le mani degl'Infedeli, rendea anche sospette molte particelle di esso già diffuse per l'Oriente e per l'Occidente; ma veniva conservata nella cappella imperiale di Costantinopoli un'altra reliquia della Passione del Redentore. La Corona di Spine di Gesù Cristo era non men della Croce, cosa preziosa ed autentica. È noto che gli antichi Egizj depositavano per pegno de' proprj debiti le mummie de' loro antenati[161], e faceano così garante l'onore e la religione pel pagamento della somma tolta ad imprestito; imitato avevano questo esempio i Baroni della Romania in tempo che l'Imperatore era lontano, perchè abbisognando di un prestito di tredicimila centotrentaquattro piastre d'oro, diedero in ostaggio la Santa Corona per ottenerlo[162]. Giunto il tempo del pagamento, nè trovandosi all'uopo i danari, Nicola Querini, ricco mercatante veneziano, si offerse a soddisfare i creditori, con che la Corona rimanesse depositata in Venezia, e divenisse poi proprietà personale dello stesso Querini, ogni qualvolta entro un termine corto e pattuito non venisse riscattata. Avendo i Baroni dovuto far noto al Sovrano questo malauguroso contratto, e il pericolo che sovrastava, perchè lo Stato non aveva abilità per una somma maggiore di settemila lire sterline all'incirca, Baldovino trovò che sarebbe stato provvedimento ammirabile in quel frangente il ritogliere dalle mani de' Veneziani questo tesoro, e farlo passare in quelle del Re cristianissimo[163]. Il qual partito e più onorevole ed utile si dimostrava. Nondimeno la negoziazione trovò alcune difficoltà. Il pio Luigi IX avrebbe riguardata la compera di una reliquia come un delitto di simonia; ma cambiando solamente lo stile del contratto, egli trovò che potea senza scrupolo pagare il debito de' Greci, ricevere la Corona di Spine qual donativo, e dare indi un attestato di gratitudine al donatore. Due Dominicani pertanto vennero inviati a Venezia siccome ambasciadori incaricati di riscattare e ricevere il santo deposito che sottratto si era ai pericoli della navigazione e alle galee di Vatace. Aperta la cassa, vennero verificati i sigilli così del Doge come dei Baroni greci, stati apposti sopra un reliquiario d'argento, prima custodia della scatoletta d'oro, entro cui questo monumento della Passione di Cristo si racchiudeva. I Veneziani cedettero, benchè di mal animo, alla giustizia e alla potenza del Re di Francia; l'imperator Federico diede rispettosamente per li suoi Stati il passaggio alla preziosa reliquia; tutta la Corte di Francia le andò incontro fino a Troyes nella Sciampagna. Il Re co' piedi scalzi, e vestito di una semplice camicia, portò egli stesso la Santa Corona in trionfo per le strade di Parigi; e un donativo di diecimila marchi d'argento consolò Baldovino del sagrifizio cui s'era prestato. Il buon successo di una tal negoziazione allettò questo ad offrire colla medesima generosità gli altri ornamenti della sua imperiale cappella[164]; un avanzo ragguardevole del legno della vera Croce, il panno di Gesù Cristo, la lancia, la spugna, la catena, attrezzi tutti della Passione, la verga di Mosè, e una parte del cranio di S. Giovanni Battista. Per dar condegno luogo a tutte queste spirituali ricchezze, S. Luigi spese una somma di ventimila marchi nell'edificare la Santa Cappella che la faceta musa di Boileau ha fatta immortale. L'autenticità di tali reliquie, antiche tanto e tratte da paesi così lontani, non può omai essere provata dalla testimonianza degli uomini; ma son costretti ad ammetterle tutti coloro che credono ai miracoli da esse operati. Nella metà dello scorso secolo la santa ferita di una Spina della Corona risanò radicalmente un'ulcera inveterata[165]; prodigio attestato dai Cristiani i più devoti, ed anche sapienti della Francia, e che non può sì facilmente essere dismentito se non se da coloro che vanno muniti di un antidoto generale[166] contro ogni specie di credulità religiosa[167].

A. D. 1237-1261

I Latini di Costantinopoli[168] trovandosi circondati, stretti d'ogni banda, la sola discordia e divisione de' Greci e de' Bulgari tardar ne potevano la rovina; ma la politica e la potenza militare di Vatace Imperator di Nicea, rendè vana quest'ultima loro speranza. Dalla Propontide fino alle rupi della Panfilia l'Asia godea giorni di pace e di prosperità sotto questo Sovrano, che ottenendo a mano a mano nuovi allori ne' campi di battaglia, crescea di preponderanza in Europa. Scacciati i Bulgari dalle Fortezze situate nelle montagne della Macedonia e della Tracia, ridusse il loro reame a que' limiti, fra i quali lungo le rive del Danubio oggidì è contenuto. Allorchè l'Imperatore de' Romani si mostrò stanco di sopportare che un Duca di Epiro, un Principe Comneno dell'Occidente, pretendesse disputargli, di avere comuni seco lui gli onori della porpora; Demetrio, cambiato umilmente il colore de' suoi calzari, accettò, mostrandosi grato, il titolo di despota; il quale atto di abbiezione, oltre alla inettezza nel governare, gli alienò i cuori de' sudditi, che implorarono la protezione del Principe greco, di cui Demetrio era vassallo. Per la qual cosa Vatace giunto ad unire il regno di Tessalonica a quel di Nicea, regnò senza competitori dalle frontiere della Turchia insino al golfo Adriatico. I Principi europei ne rispettavano il merito e la possanza, e probabilmente non gli era d'uopo che risolversi ad abbracciare la Fede ortodossa, perchè il Pontefice abbandonasse senza rincrescimento l'Imperatore latino di Costantinopoli; ma la morte di Vatace, la breve durata del regno turbolento di Teodoro, la minorità di Giovanni, un figlio, l'altro pronipote di Vatace, ritardarono il risorgimento della greca dominazione in Bisanzo. Nel capitolo successivo darò conto delle domestiche vicissitudini che afflissero que' due successori di Vatace; per ora mi basta il notare che l'ultimo di essi soggiacque all'ambizione del suo tutore e collega, Michele Paleologo, uomo in cui si diedero a divedere congiuntamente e quelle virtù, e que' vizj proprj di ordinario ai fondatori di nuove dinastie. L'imperatore Baldovino era caduto nell'abbaglio di credere che una negoziazione non sostenuta da veruna forza, gli basterebbe a ricuperare alcune province o città. Ma gli ambasciatori di lui vennero rimandati da Nicea, ove non ottennero che sprezzi e risposte schernevoli; per ciascuna provincia che domandavano, Paleologo adduceva un pretesto, per cui non gli era lecito, ei diceva, il privarsene; in una di esse era nato, aveva avuto i primi rudimenti della scuola militare nell'altra; in tal provincia avea goduti i piaceri della caccia, e volea continuar lungo tempo a goderli. «In somma qual parte di dominio avete risoluto di cederne?» gli domandarono stupefatti quei messi. «Nessuna, rispose il Principe greco, nè anco una pollice di terra. Se il vostro padrone brama la pace, mi paghi per tributo annuale la rendita delle dogane di Costantinopoli, al qual patto potrò concedergli che continui a regnare; e avrò il suo rifiuto come primo segnale di guerra. A me perizia militare non manca, e gli eventi delle cose confido a Dio e alla mia spada»[169]. Nella prima prova che ei fece dell'armi sue contra il despota dell'Epiro, riportò vittoria; cui però venne d'appresso una sconfitta: onde i Comneni Angeli continuarono a resistergli nelle montagne della Macedonia, e anche dopo la morte di questo Principe, conservarono la loro autorità. Peggio tornarono le cose ai Latini, i quali, caduto prigioniero Villehardouin, principe di Acaia, rimasero privi con esso del più operoso e possente vassallo dell'agonizzante lor monarchia. Intanto le repubbliche di Genova e di Venezia, venuta per la prima volta l'una contro l'altra a guerra navale, si contendeano l'impero del mare, e il commercio dell'Oriente: e poichè motivi di ambizione e d'interesse teneano affezionati a Costantinopoli i Veneziani, i rivali di questi offersero ai nemici de' Latini soccorso, la qual lega de' Genovesi con un conquistatore scismatico l'indignazione del Vaticano eccitò[170].

Tutto inteso al suo grande divisamento, Michele visitò in persona ciascuna Fortezza della Tracia, e le guernigioni ne accrebbe. Dopo avere scacciati gli avanzi de' Latini dagli ultimi possedimenti che lor rimanevano, diede assalto al sobborgo di Galata, ma infruttuosamente; perchè quel Barone che perfidamente mantenea corrispondenza coi Greci, o non potè, o non volle aprirgli le porte della Capitale. All'apparire della successiva primavera, Alessio Strategopolo, generale favorito di Michele, e insignito da questo del titolo di Cesare, attraversò l'Ellesponto conducendo seco ottocento uomini a cavallo, ed alcune truppe d'infanteria[171] che servir doveano ad una spedizione segreta. Gli ordini avuti dal ridetto generale erano di avvicinarsi a Costantinopoli, di esplorare attentamente tutte le cose, e curare le occasioni che si potessero offrire ad ultimi tentativi; però di astenersi da ogni impresa o dubbia, o pericolosa contro della città. Abitava nelle vicinanze della Propontide e del mar Nero una schiatta ardimentosa di villani e di malviventi, avvezzi all'armi e di incerta fede, pure e per linguaggio e religione comuni, e per le viste del momentaneo interesse maggiormente affezionati alla parte de' Greci. Nomati venivano i Volontarj[172], e come tali offersero servigio al generale di Michele, il cui esercito, accresciuto dagli ausiliari Comani sommò allora a venticinquemila uomini[173]. Eccitato dall'ardore di questi Volontarj, e dalla sua propria ambizione, il nuovo Cesare trasgredì i comandi del suo Signore, colla fondata fiducia che il buon successo farebbe della inobbedienza le scuse. Pertanto i Volontarj che, qual gente posta continuamente in istato di guatare i Latini, ne conoscevano la debolezza, la stremità, la paura, additarono quel momento come il più propizio a sorpendere e ad occupare Bisanzo. Un giovine imprudente posto ivi da poco tempo al governo della Colonia veneta, partito erane con trenta galee, traendo seco il fiore de' Cavalieri francesi ad una folle impresa contro Dafnusia, città situata in riva al mar Nero, e distante quaranta leghe da Costantinopoli; i rimanenti Latini vi mancavano di forze, e si stavano nella sicurezza. Non che ignorassero il passaggio dell'Ellesponto operato da Alessio; ma dissipati i loro primi timori dall'intendere qual piccola forza lo accompagnasse, non pensarono tampoco a ricercare se questa si fosse aumentata. Nel campo greco le cose erano apparecchiate in tal modo, che Alessio lasciandosi addietro il suo corpo d'esercito ad una distanza opportuna per venirgli all'uopo in soccorso, potea, protetto dalle tenebre, innoltrarsi con una scelta scorta. Nel medesimo tempo che alcuni della spedizione avrebbero poste le scale alla parte più bassa delle mura, di dentro sarebbesi trovato pronto un vecchio Greco, il quale avea promesso introdurre per una via sotterranea fino alla propria casa una parte de' suoi compatriotti; e questi di lì sarebbersi trasferiti alla porta d'Oro che da lungo tempo più non si apriva, ed atterrati dalla parte interna i battitoi, i Greci doveane trovarsi padroni di Bisanzo, prima che i Latini fossero stati avvertiti del loro pericolo. Dopo essere stato perplesso per qualche tempo, Alessio si abbandonò allo zelo dei Volontarj, che ardimentosi, e pieni di fiducia riuscirono, talchè quanto ho narrato sul divisamento dell'impresa, basta ad additarne l'adempimento e il buon successo[174]. Per vero dire Alessio, oltrepassata appena la soglia della porta d'Oro, tremò egli stesso sulla propria temerità; fermossi, deliberò, ma lo costrinse l'ardir disperato de' Volontarj, che gli mostrarono quasi impossibile in quel momento, e più pericolosa dell'assalto la ritirata. Intanto che Alessio tenea le sue truppe regolari in ordine di battaglia, i Comani si sparsero per tutte le bande: fu sonato a raccolta: e le minacce di saccheggio e d'incendio che si udivano per ogni dove obbligarono gli abitanti ad appigliarsi a un partito. I Greci di Costantinopoli manteneano affetto agli antichi loro Sovrani. I mercatanti genovesi rispettavano la recente lega che la loro Repubblica col Principe greco aveva contratta ed odiavano i Veneziani; in tutti i rioni si presero l'armi; l'aere risonò di una acclamazione generale: «Vittoria e lunga vita a Michele e a Giovanni, gli augusti Imperatori de' Romani.» Queste grida svegliarono Baldovino; ma l'imminenza stessa di un tanto pericolo non valse a fargli sguainare la spada in difesa di una città, dalla quale gli era forse più conforto che rincrescimento l'allontanarsi. Corse alla riva, ove scorse per sua ventura le vele di quella flotta che tornava addietro dalla sua vana spedizione contro Dafnusia. Vedendosi che Costantinopoli era perduta senza riparo, Baldovino, e le primarie famiglie latine s'imbarcarono sulle galee veneziane, che dopo avere veleggiato all'isola di Eubea, di lì condussero in Italia l'augusto fuggitivo, che trovò presso il Pontefice romano un'accoglienza in cui la compassione e lo sprezzo si avvicendavano. Dal momento della perduta sua capitale, fino a quel della morte, Baldovino impiegò tredici anni in sollecitazioni alle Potenze cristiane, affinchè si collegassero per rimetterlo in trono; supplica che gli era già famigliare; nè si mostrò in quest'ultimo esilio, o più indigente o più avvilito di quello che egli era apparso nelle sue tre prime peregrinazioni alle Corti d'Europa. Il figlio di lui, Baldovino, ereditò dal padre il vano titolo d'Imperatore, e Catterina figlia di questo, divenuta sposa di Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello Re di Francia, gli portò in dote le sue pretensioni. La linea femminina della casa di Courtenai trasportò successivamente le avite prerogative titolari in diverse famiglie, sintantochè il titolo d'Imperatore di Costantinopoli, apparso troppo fastoso e sonoro per essere unito al nome di un privato, modestamente si spense nel silenzio e nella dimenticanza[175].

Dopo avere raccontate le spedizioni de' Latini nella Palestina e a Costantinopoli, non mi è lecito abbandonare questo argomento, senza esaminare gli effetti prodotti dalle Crociate ne' paesi che furono teatro delle medesime, e sulle nazioni che ne furono i personaggi[176]. L'impressione fatta dai Franchi nei regni maomettani dell'Egitto e della Sorìa si dileguò col loro sparire, benchè la ricordanza di questi conquistatori vi fosse rimasta. I fedeli discepoli di Maometto non sentirono mai la profana brama di studiar le leggi o l'idioma degli idolatri[177]; nè gli affari che ebbero o per leghe, o per ostilità cogli stranieri dell'Occidente, alterarono, poco, o assai, la primitiva semplicità de' loro costumi. Alquanto meno inflessibili si mostrarono i Greci, che essendo vanagloriosi, ambiziosi credeansi; e negli sforzi che operarono per ricuperare l'Impero, altri ne fecero per pareggiare in valore, in disciplina, in saper militare, i loro avversarj. Aveano giusto motivo di disprezzare quella letteratura che allor possedeano le contrade dell'Occidente; pure lo spirito di libertà che vi dominava avendo svelata ad esse una parte de' diritti comuni a tutti gli uomini, alcune fra le istituzioni pubbliche e private de' Francesi vennero da loro adottate. La corrispondenza di Costantinopoli coll'Italia dilatò l'uso dell'idioma latino, onde alcuni Padri ed autori classici ottennero onore di traduzione fra i Greci[178]. Ma la persecuzione die' forza allo zelo religioso e alle opinioni pregiudicate dei Cristiani dell'Oriente, talchè il regno de' Latini confermò la separazione delle due Chiese.

Se ne' secoli delle Crociate, confrontiamo fra loro i Latini dell'Europa, i Greci, e gli Arabi, se esaminiamo i diversi gradi di sapere, de' progressi dell'arti e dell'industria allignate fra questi popoli, certamente non concederemo ai rozzi nostri progenitori che una terza sede fra le nazioni venute a civiltà: i loro successivi avanzamenti, la supremazia che ai nostri giorni hanno ottenuta gli Europei, vuolsi attribuire ad una energia particolare della loro indole, ad uno spirito d'imitazione e di sedulità sconosciuto ai lor rivali, ne' tempi ancora che li superavano, e presso i quali le facoltà dell'ingegno trovavansi allora stazionarie, o piuttosto a retrogradare inclinate. Dotati delle qualità morali da noi indicate i Latini, non è maraviglia se trassero vantaggi immediati ed essenziali da una serie di avvenimenti che dispiegando ai loro sguardi tutta la scena del Globo, li poneano in lunghe e frequenti comunicazioni coi popoli più colti dell'Oriente. I progressi primaticci, e più manifesti, apparvero nel commercio, nelle manifatture e nell'arti, dalle quali nascono la più ardente brama delle ricchezze, il bisogno de' piaceri, gli allettamenti della vanità. In mezzo anche ad una folla di fanatici, potea trovarsi un prigioniero o un pellegrino, capace di por mente ad un trovato ingegnoso del Cairo o di Costantinopoli; e comunque la Storia non gli abbia pagato un tributo debito di gratitudine, colui che ne portò da que' paesi il modello de' mulini a vento[179], merita un nome fra i benefattori delle nazioni. Fra i vantaggi di questa dilatata corrispondenza vogliono parimente essere annoverati i godimenti del lusso, lo zucchero e i drappi di seta, venuti in origine dalla Grecia e dall'Egitto. Più tardi i Latini sentirono i bisogni dell'intelletto, onde più lentamente andarono nel soddisfarli. Cagioni d'altra natura, e più moderni avvenimenti, destarono in Europa la curiosità, madre dello studio: ma nel secolo delle Crociate, la letteratura de' Greci e degli Arabi non inspirava che indifferenza agli Europei. Forse adattarono alla pratica alcuni principj di medicina, alcune figure di matematica; la necessità potè far nascere alcuni interpreti di lieve conto che servissero ai diversi bisogni de' mercatanti e de' soldati: pure il commercio cogli Orientali, non avea diffuso lo studio e la nozione delle lor lingue nelle scuole d'Europa[180]. Benchè un principio di religione simile a quello dei Maomettani dovesse fare schifi dell'idioma del Corano i Cattolici, pur sembrava che il desiderio d'intendere nel suo originale il Vangelo, avesse potuto eccitare la curiosità de' medesimi, e incoraggiarli alla pazienza di uno studio gramaticale che avrebbe loro scoperto le bellezze di Platone e di Omero. Pure, durante un regno di sessant'anni, i Latini di Costantinopoli fastidirono l'idioma e l'erudizione dei loro sudditi: e i manoscritti furono i soli tesori che invidiati a questi non vennero, e di cui nessuno pensò a dispogliarli. Vero è che le Università di Occidente tenevano Aristotile per loro oracolo; ma un Aristotile barbaro, perchè invece di ricorrere alla fonte, si erano umilmente contentate di una erronea versione composta da qualche Ebreo o Moro dell'Andaluzia. Le Crociate non avendo avuto origine che da un barbaro fanatismo, i loro effetti più rilevanti corrisposero alle cagioni. Ciascun pellegrino ambiva di tornare in patria, carico di spoglie sacre e reliquie tolte alla Grecia e alla Palestina[181], ognuna delle quali andava preceduta e seguìta da una moltitudine di visioni e miracoli; nuove leggende, la cattolica Fede[182]; nuove superstizioni, la pratica del culto alterarono. La Guerra Santa fu l'infausta sorgente, d'onde scaturirono e l'inquisizione, e i frati mendicanti, e i definitivi progressi della idolatria[183] e l'eccessivo abuso delle indulgenze. L'irrequieto spirito de' Latini cercava pascolo a spese della ragione e della religione; laonde su l'ignoranza e la cecità furono il retaggio del nono e del decimo secolo, può dirsi ancora che le favole[184] e le assurdità, il tredicesimo e il quattordicesimo contrassegnarono.

I Popoli settentrionali del Nort, che conquistarono l'Impero Romano, divenuti Cristiani, e coltivatori di fertili terreni insiem co' nativi, a poco a poco si confusero con essi, e le antiche arti richiamarono a vita. All'avvicinarsi del secolo di Carlomagno, già le loro istituzioni incominciavano ad acquistare un certo grado di ordine e di consistenza, allorchè i Normanni, i Saraceni[185] e gli Ungaresi, novelli sciami di barbari invasori, nel primo stato di anarchia e di barbarie immersero l'Occidente di Europa; seconda tempesta, che verso il principio dell'undicesimo secolo, sedarono l'espulsione, o la conversione de' nemici del Cristianesimo. La civiltà, che da sì lungo tempo parea sminuirsi e ritirarsi dall'Europa, tornò con costante rapidità a dilatarsi, schiudendo un nuovo campo di belle prove e di generosi sforzi alla nascente generazione. Laonde, convenendo io che le arti ebbero progressi rapidi e luminosi ne' due secoli delle Crociate, non ne attribuisco a queste, siccome certi filosofi, il merito; anzi opino avere esse tardati più che affrettati gli avanzamenti della coltura europea[186]. La vita e le fatiche di tanti milioni d'uomini andate a perdersi nell'Oriente, poteano con vantaggio venire impiegate al miglioramento della nativa loro contrada. Animati allora dalle aumentate produzioni del suolo e dell'industria, il commercio e la navigazione, una corrispondenza amichevole co' popoli dell'Oriente avrebbe arricchiti e nel medesimo tempo addottrinati i Latini. Non vedo che un aspetto, sotto il quale le Crociate possano aver prodotto vantaggio, o almeno fatto sparire un disordine. Gli abitatori d'Europa languivano schiavi sulle native lor glebe, privi di proprietà, di libertà, di dottrine; i Nobili e gli Ecclesiastici, ben picciola parte a confronto di tanta popolazione, venivano riguardati quali soli meritevoli del titolo d'uomini e di cittadini; sistema tirannico che gli artifizj del clero e la spada de' Baroni manteneano in vigore. Ma quanto agli ecclesiastici almeno la loro autorità aveva arrecato giovamento nei secoli della barbarie; perchè e tennero accesa la luce delle scienze, che senza di loro sarebbesi spenta del tutto, e mitigarono la ferocia de' contemporanei, e offersero asilo e soccorsi nelle loro calamità al debole e all'indigente: in somma andammo debitori ai medesimi dell'ordine civile o mantenuto, o restituito alla società. Ma l'independenza, il ladroneccio, le discordie de' Nobili a disordini e flagelli sol diedero origine; e la mano ferrea dell'aristocrazia militare qualunque speranza all'industria, ad ogni nobile sforzo troncava. Possiam riguardare le Crociate siccome una delle cagioni che più efficacemente contribuirono ad atterrare il gotico edifizio del feudale sistema. Per esse i Baroni vendettero le lor signorie, per esse una parte della loro schiatta sparita dall'Europa andò a disperdersi in queste imprese dispendiose e piene di rischio. Ridotti finalmente ad inopia, che umiliò il loro orgoglio, dovettero concedere quelle patenti di libertà che le catene dello schiavo fecero men gravose, i fondi del rustico e le officine dell'operaio affrancarono, e a gradi a gradi restituirono l'esistenza alla parte più numerosa e più utile della società. Laonde possiam dire che l'incendio distruggendo gli alberi alti, sterile ingombro della foresta, arrecò aere libero e spazio per vegetare alle piante umili e più vantaggiose di cui il terreno vestivasi.

Digressione sulla famiglia dei Courtenai.

La porpora di tre imperatori, che regnarono a Costantinopoli giustificherà, o scuserà almeno, una digressione sull'origine della Casa di Courtenai, e sopra i singolare eventi di fortuna[187] cui soggiacquero i tre rami della medesima, il primo di Edessa, il secondo di Francia, il terzo d'Inghilterra, ultimo e solo sopravvissuto alle vicissitudini di otto secoli.

A. D. 1020

Laddove il commercio non ha per anche versate le sue ricchezze, laddove la luce del sapere non penetrò a sgombrare le tenebre del pregiudizio, le prerogative della nascita con maggior forza colpiscono le menti degli uomini, e ne ottengono venerazione. In tutti i secoli, le leggi e gli usi dei Germani hanno distinti diversi gradi nella società; laonde i Duchi e i Conti che si divisero fra loro l'Impero di Carlomagno, istituirono ereditarj i loro uffizj, e in legato ai proprj figli trasmisero il loro onore, la loro spada. Le famiglie, anche più vanagloriose nel pretendere ad antica nobiltà, vedono con rassegnazione perduto in mezzo all'oscurità del Medio Evo il ceppo del loro albero genealogico, le cui radici, comunque profonde, certamente in un plebeo mettono capo; nè v'è genealogista, che non sia costretto a discendere dieci secoli dopo l'Era cristiana, per iscoprire in ordine a ciò qualche indizio, dedotto dai soprannomi, dagli stemmi, e dagli archivj. I primi crepuscoli di questa luce ci mostrano un Athon[188], cavaliere francese, di una nobiltà provata dal grado che il padre di lui occupava, benchè non se ne sappia il nome; quanto alla ricchezza del medesimo, ne abbiamo la prova nel castello di Courtenai ch'ei fabbricò nel distretto del Gatinese, situato ad ostro di Parigi in una distanza di circa cinquantasei miglia. Incominciando dal regno di Roberto, figlio di Ugo Capeto, i Baroni di Courtenai tengono distinta sede tra i vassalli che immediatamente dipendevano dalla Corona; e Josselin, pronipote di Athon, e figlio di madre nobile, vedesi registrato fra gli eroi della prima Crociata, ove accompagnò Baldovino di Bruges, secondo Conte di Edessa, e parente prossimo dello stesso Baldovino, poichè le loro madri erano sorelle. Ottenuto in feudo un principato dal suo congiunto, se ne mostrò meritevole col conservarlo degnamente; feudo che apparisce di molta importanza dal numero de' guerrieri che sotto lo stesso Josselin portarono l'armi.

A. D. 1101-1152

I. Poichè il cugino di Josselin partì per l'Europa, divenuto il secondo, conte di Edessa, sopra entrambe le rive dell'Eufrate regnò. Per saggezza di governare durante la pace, si acquistò grande numero di sudditi venutogli dall'Europa e dalla Sorìa; mentre l'assennatezza della sua amministrazione empieva i magazzini del suo Stato di grani, d'olio e di vini, le castella di cavalli, d'anni e di danaro. Nel decorso di una santa guerra di trent'anni, egli fu a vicenda vincitore e prigioniero; morì da vero soldato, tratto in lettiga a capo delle sue truppe, e gli occhi suoi moribondi si confortarono in veggendo la sconfitta de' Turchi, che sugli anni e le infermità di questo guerriero aveano fondate le loro speranze. Il figlio di lui ne ereditò il nome e i dominj; ma più valoroso che accorto, dimenticò volersi altrettanta cura per conservare uno Stato, quanta pur conquistarlo. Oltrechè, si fece a sfidare le forze de' Turchi, senza essersi assicurati i soccorsi del principe di Antiochia; trascurò fra i piaceri di Turbessel nella Sorìa[189] la sicurezza della frontiera che disgiugnea i Cristiani dagl'Infedeli al di là dell'Eufrate. Zenghi, primo degli Atabecchi, profittò della lontananza del Conte per assediare e prendere d'assalto Edessa, debolmente difesa da una truppa di timidi e perfidi Orientali. Sconfitti i Franchi nel tentativo operato per rientrare in questa città, Courtenai terminò nelle prigioni di Aleppo i suoi giorni. Comunque lasciasse tuttavia un ampio patrimonio in morendo, la vedova di lui e il figlio, ancora fanciullo, non potendo resistere agli sforzi de' vincitori, cedettero per un assegnamento annuale all'imperatore di Costantinopoli la cura di difendere e la vergogna di perdere gli ultimi possedimenti asiatici de' Latini. La vedova contessa di Edessa co' suoi due figli a Gerusalemme riparò. La figliuola di lei Agnese, divenne sposa e madre d'un Re; il figlio Josselin III, accettò l'uffizio di Siniscalco che era la primaria carica di quel regno. Obbligato, nella nuova Signoria di Palestina che al suo titolo andava congiunta, ad un contingente militare di cinquanta cavalieri, a capo de' medesimi meritò lode, e il nome di Josselin vedesi con onore menzionato in tutte le negoziazioni di guerra o di pace; ma sparito colla perdita di Gerusalemme il cognome dei Courtenai del ramo di Edessa, pe' maritaggi di due donne di questa Casa andò a perdersi nelle famiglie di due Baroni, uno alemanno, l'altro francese[190].

II. Intanto che Josselin III regnava oltre l'Eufrate, il fratello di lui primogenito, Milone, figlio di Josselin II e pronipote di Athon, godea pacificamente in riva alla Senna i suoi beni e il suo castello ereditario, che morendo trasmise al suo terzogenito Rinaldo, o Reginaldo. Negli annali delle antiche famiglie, trovansi pochi esempj di alto ingegno, o di virtù; ma l'orgoglio de' lor discendenti raccoglie accuratamente ogni atto di violenza ovver di rapina, purchè annunzii superiorità di valore o possanza. Un discendente di Rinaldo di Courtenai dovrebbe oggidì arrossire di noverare fra i suoi progenitori uno scorridore che spogliò e imprigionò alcuni mercatanti, comunque avessero pagati i diritti regali a Sens e ad Orleans; ma pure invanirà in pensando che fu d'uopo, per costringerlo alla restituzione un esercito messo a ciò in armi dal Conte di Sciampagna reggente del regno[191]. Questo Rinaldo, legando i proprj dominj alla figlia sua primogenita, la diede in isposa al settimo figlio di Luigi il Grosso, dal qual maritaggio altra numerosa discendenza è derivata. Sarebbe una naturale supposizione il credere che innalzatosi allor questo nome a pari de' regj nomi, i figli di Pietro di Francia e di Elisabetta di Courtenai avessero goduto i titoli e gli onori spettanti ai Principi del Sangue (A. D. 1150), ma le istanze da essi fatti a tal fine, trascurate da prima, ebbero indi un aperto rifiuto; i motivi della qual disgrazia formano la Storia del secondo ramo dei Courtenai. 1. Ne' secoli delle Crociate, la Casa reale di Francia veniva tenuta certamente in gran conto e nell'Oriente, e nell'Occidente. Pure, non essendo trascorsi che cinque regni, o generazioni da Ugo Capeto a Pietro, sembrava sì precario tuttavia il loro titolo, che ciascun Monarca credea necessario, durante la propria vita, far coronare il suo primogenito. I Pari di Francia hanno serbato per lungo tempo un diritto di supremazia sui rami non primogeniti della famiglia regnante; onde i Principi del Sangue non godeano nel dodicesimo secolo di tutto quello splendore, ai nostri tempi esteso ai Principi anche i più lontani dal succedere alla Corona. 2. Sarebbe stato d'uopo che i Baroni di Courtenai tenessero in troppo conto il proprio nome, e che altrettanto l'opinione pubblica lo rispettasse, affinchè potessero al figlio di un Monarca che sposava una donna del lor casato porre il patto di trasfondere in essa e ne' futuri figli il nome e gli stemmi regali. Accade bensì, che allorquando la erede di una famiglia si sposa ad un inferiore, o anche ad un eguale, la donna, di comune patto o consenso porti al marito le sue gentilizie prerogative. In questo caso affatto contrario, i discendenti di Luigi il Grosso, tralignando dal regio ceppo, si trovarono gradatamente confusi cogli antenati della madre, e i nuovi Courtenai meritarono forse di perdere quegli onori di nascita, cui per motivo d'interesse i lor padri avevano rinunziato.

L'invilimento derivato da tali nozze fu senza confronto più durevole della ricompensa, e la grandezza passeggiera cui diedero origine andò a perdersi in una lunga abbiezione. Il primo figlio di queste nozze, Pietro di Courtenai, aveva sposata, come fu detto la sorella dei Conti di Fiandra, i due primi Imperatori latini di Costantinopoli. Cedendo imprudentemente alle sollecitazioni de' Baroni della Romania, egli e i figli di lui, Roberto e Baldovino, occuparono successivamente il trono di Bisanzo, e perdettero gli ultimi avanzi dell'Impero latino dell'Oriente. Le nozze contratte dalla pronipote di Baldovino II unirono una seconda volta il sangue dei Courtenai a quello di Francia e dei Valois. Per sostenere le spese di un regno precario e tempestoso, questi discendenti di Pietro di Francia si videro costretti a vendere gli antichi loro possedimenti, e gli ultimi Imperatori di Costantinopoli a mendicare dalle elemosine di Roma e di Napoli la lor sussistenza.

Intanto che i primogeniti dissipavano le loro sostanze, nel correre romanzesche avventure, intanto che un plebeo profanava il castello di Courtenai, gli altri rami di questo nome adottivo, si moltiplicavano ed estendeano; ma il tempo e la povertà oscurarono lo splendore de' lor natali. Dopo la morte di Roberto Gran Bottigliere della corona di Francia, dal grado di Principi discesero a quel di Baroni; e confondendosi le successive generazioni coi semplici gentiluomini, ne' Signori campagnuoli di Tanlai e di Champinelles, uom non ravvisa più i discendenti di Ugo Capeto. I più avventurosi di essi si diedero onoratamente al mestiere delle armi; gli altri, men facoltosi e meno solerti, si perdettero, non meno de' lor cugini del ramo di Dreux, in mezzo all'umile classe dei contadini. Durante un oscuro periodo di quattrocent'anni, ne divenne ogni dì più dubbiosa l'origine regale; talchè la loro genealogia, invece di trovarsi registrata negli annali del regno, è divenuta argomento faticoso di ricerche agli studiosi del Blasone. Sol verso la fine del secolo decimosesto, allorchè videro salire sul trono di Francia, una famiglia non molto più vicina di loro ai Valois, i Courtenai rimembrarono la propria nascita. Essendo nate alcune contestazioni che metteano per fino in dubbio, se legittima fosse la lor nobiltà, si accinsero a provare la regia discendenza, e dopo avere ottenuti i suffragi di venti giureconsulti dell'Italia e dell'Alemagna, implorarono la giustizia e la compassione di Enrico IV, modestamente paragonandosi ai discendenti di David, le prerogative de' quali non erano state annichilate nè dal volger de' secoli, nè dal praticato mestiere di falegname[192]. Ma tutte le circostanze furon contrarie, tutti gli orecchi sordi ai giusti loro reclami. L'indifferenza dei Valois a quella dei Borboni faceva le scuse, i Principi del Sangue di un ramo regnante disdegnarono un parentado così privo di lustro. I Parlamenti però non impugnarono le prove rassegnate dai Courtenai. Ma per non metter mano ad un esempio pericoloso, inventarono l'arbitraria decisione che faceva il solo S. Luigi, vero ceppo della famiglia reale di Francia[193]. I Courtenai continuarono sempre, e colla stessa fortuna, le loro lagnanze e i loro reclami, sol terminati nel presente secolo dalla morte dell'ultimo maschio di questa famiglia[194]. Quel sentimento di nobile orgoglio che è inspirato dalla virtù, addolcì il rigore di lor condizione; sempre rifiutarono con disdegno ogni offerta di ricchezza o di subalterni favori; e un Courtenai, al letto di morte, protestava che avrebbe sagrificato il suo unico figlio se lo avesse creduto capace di cambiare nel più luminoso destino i suoi titoli e diritti ad essere riconosciuto principe legittimo della Casa di Francia[195].

III. Giusta gli antichi registri dell'Abbazia di Ford, i Courtenai della Contea di Devon, discendono dal principe Floro, secondogenito di Pietro, e pronipote di Luigi il Grosso[196]. Questa favola inventata dalla gratitudine, o dalla venalità de' monaci, venne con troppa facilità ammessa dai nostri antiquarj Cambden[197] e Dugdale[198]; ma si accomoda così poco ai tempi, ed è sì palesemente contraria alla verità, che la stessa famiglia di Devon per un principio di giudizioso orgoglio questo immaginario fondatore ricusa. Gli Storici più meritevoli di fiducia, credono che Rinaldo di Courtenai, dopo avere maritata la propria figlia al figliuolo del re di Francia, abbandonasse i possedimenti avuti in quel regno, si trasferisse nell'Inghilterra, ed una seconda moglie, e nuove signorie da questo Monarca ottenesse. Ella è cosa per lo meno sicura che Enrico II onorò ne' campi e ne' consigli un Reginaldo del medesimo cognome, insignito dei medesimi stemmi, e che può ragionevolmente riguardarsi come appartenente alla schiatta de' Courtenai francesi. Il diritto di tutela conferiva all'immediato Sovrano la facoltà di premiare il vassallo col concedergli in isposa una ricca e nobile erede. Intanto Courtenai era divenuto possessore di ricchi terreni nella Contea di Devon, ove, da oltre seicento anni soggiornano i suoi discendenti[199]. Havisa, moglie di Rinaldo, aveva ereditato da Baldovino di Briones, Barone normanno, la ragguardevole signoria di Okehampton, che a questo avea conferita Guglielmo il Conquistatore con obbligo di fornire ai servigi della guerra novantatre cavalieri. Questa Havisa, comunque donna, aveva anche il diritto di assumere le cariche maschili di Visconte ereditario, o Seriffo, e di governatore del Castello reale di Exeter. Roberto, figlio di Rinaldo e di Havisa, si sposò ad una sorella del Conte di Devon. Circa un secolo dopo, ed estinta la famiglia di Rivers[200], Ugo II, pronipote di Roberto, ereditò un titolo, che veniva riguardato come dignità territoriale, e dodici Conti di Devon, del cognome di Courtenai, vi furono successivamente in un periodo di dugento venti anni. Avuti nel novero dei più possenti Baroni del regno, sol dopo un ostinato contrasto, cedettero al feudo di Arundel il primo posto nel Parlamento d'Inghilterra. I Courtenai si imparentarono colle più illustri famiglie, siccome erano quelle dei Vere, dei Despenser, dei S. John, dei Talbot, dei Bohun, ed anche dei Plantageneti. In una contesa con Giovanni di Lancastre, un Courtenai, Vescovo di Londra, indi Arcivescovo di Cantorbery, manifestò una profana fiducia nel numero e nella possanza della sua famiglia e de' suoi partigiani. Durante la pace, i Conti di Devon viveano nelle numerose loro castella e signorie di Ponente, adoperando le immense ricchezze di cui godevano in atti di divozione e di ospitalità; ed è famoso l'epitafio di Odoardo, detto il Cieco in conseguenza di una infermità sofferta dal medesimo, e il Buono per le virtù che il fregiarono, epitafio che ingenuamente ne addita una sentenza di morale, di cui però una imprudente generosità potrebbe abusare. Dopo una tenera commemorazione di cinquanta anni di unione e di felicità, da esso trascorsi colla sua moglie Mabel, così il buon Conte parla dal fondo del suo sepolcro:

What we gave, we have;

What we spent, we had;

What we left, we lost.[201].

«Quanto largii posseggo: quel ben che feci, è mio

Sol perdei quel che lascio nel dire al mondo addio.»

Ma le perdite della famiglia di Devon, giusta questo significato, superarono d'assai i doni e le spese del buon vegliardo il quale, non men dei poveri, fece scopo delle sue paterne cure gli eredi. Le somme che questi sborsarono per prendere il diritto di possessione attestano l'ampiezza de' loro fondi; e molte signorie, godute anche al dì d'oggi da questa famiglia, vi si trovano fino dal quattordicesimo e dal tredicesimo secolo. Nelle guerre, i Courtenai adempierono con onore i doveri al grado di cavalieri congiunti; spesso fu ad essi fidata la cura di reclutare e comandare le milizie della Contea di Devon e della Cornovaglia: spesse volte seguirono il lor Signore sulle frontiere della Scozia, alcune volte ancora offersero a prezzo i lor servigi militari allo straniero, condottieri di ottanta armigieri e di altrettanti arcieri. Combattettero per terra o per mare sotto gli Eduardi e gli Enrichi, e il loro nome splende famoso nelle battaglie, ne' tornei, e nella prima lista de' Cavalieri della Giarrettiera. Tre fratelli della stessa famiglia agevolarono nella Spagna la vittoria del Principe Nero. Dopo che sei generazioni di Courtenai ebbero soggiornato in Inghilterra, presero non meno de' lor compatriotti, in avversione il paese d'onde traevano la propria origine. Nella contesa delle Due Rose, i Conti di Devon essendosi posti dalla parte della Casa di Lancastre, tre fratelli successivamente perirono, o nel campo di battaglia, o sul palco. Enrico VII restituì loro i titoli e i beni; una figlia di Eduardo IV non disdegnò prendere per marito un Courtenai; il figlio di queste nozze, marchese di Exeter, vissuto per certo tempo in favore del proprio cugino Enrico VIII, nel campo dello Stendardo d'Oro ruppe lancia contro il francese Monarca; ma il favore di Enrico VIII era preludio di disgrazia, e la disgrazia, di morte; onde il marchese di Exeter si annovera fra le più illustri ed innocenti vittime della gelosia del tiranno: lo stesso figlio del marchese, Eduardo, morì, in esilio a Padova dopo aver languito lungo tempo prigioniero nella Torre di Londra. Il segreto amore che avea per esso concepito Maria, e che egli non curò forse per un riguardo ad Elisabetta, ha sparsa una vernice romanzesca sulla storia di questo giovine Conte, rinomato per sua avvenenza. Gli avanzi del suo retaggio passarono in diverse famiglie a motivo di parentele di quattro zie del medesimo. I principi che si succedettero nel trono d'Inghilterra fecero rivivere gli onori del suo grado per via di patenti, come se fossero stati legalmente aboliti. Durava intanto un altro ramo secondogenito della Casa di Courtenai, che discendeva da Ugo I, conte di Devon, famiglia, che da Eduardo III ai dì nostri, vale a dire per quattro secoli circa, è sempre rimasta nel suo castello di Powderham. Aumentato di patrimonio per regali concedimenti, e terre da dissodare ottenute nell'Irlanda, ha riacquistato di recente l'onore di appartenere alle famiglie dei Pari. Ciò nullameno i Courtenai conservano tuttavia la divisa lagrimevole che deplora lo scadimento della lor Casa e l'ingiustizia di un tale destino[202]. Non si creda però che la dolorosa rimembranza della passata grandezza li tolga al godimento della presente prosperità. Negli Annali dei Courtenai, l'epoca più luminosa è pur quella delle maggiori sciagure per essi; e un dovizioso Pari della Gran Brettagna non dee portare invidia a quegl'imperatori di Costantinopoli che trascorreano l'Europa sollecitando elemosine pel sostegno della propria dignità, per la difesa della loro Capitale.

CAPITOLO LXII.

Gl'Imperatori greci di Nicea e di Costantinopoli. Innalzamento e regno di Michele Paleologo. Finta riconciliazione del medesimo col Papa e colla Chiesa latina. Divisamenti ostili del Duca d'Angiò. Ribellioni della Sicilia. Guerra dei Catalani nell'Asia e nella Grecia. Sommossa di Atene, e stato presente di questa città.

Il dispetto di avere perduta Costantinopoli rianimò alcun poco il vigore de' Greci. I Principi e i Nobili, dimenticato il lusso de' lor palagi, corsero all'armi, e i più forti, o i più abili di questi s'impadronirono degli avanzi della monarchia. Sarebbe difficil cosa il trovare ne' lunghi e sterili volumi degli Annali di Bisanzo[203] due principi degni di essere paragonati a Teodoro Lascaris, e a Giovanni Duca Vatace[204], che collocarono e mantennero sulle mura di Nicea nella Bitinia il romano stendardo. Diversi d'indole, l'uno dall'altro, i due principi, questa medesima diversità alle condizioni in cui posti erano conveniva. Nel tempo de' suoi primi sforzi (A. D. 1204-1222), il fuggitivo Lascaris non possedea che tre città, non comandava che a duemila soldati; ma una generosa disperazione in tutti gli atti del regno suo lo sostenne; in ogni sua fazion militare, pose la sua vita e la sua corona in pericolo. Sorprese per solerzia i suoi nemici dell'Ellesponto e del Meandro; per intrepidezza pervenne a ridurli; regnando e continuando a vincere per diciotto anni diede al principato di Nicea tale estensione che ad un impero addiceasi. Fondato sopra base più salda e sostenuto da più abbondanti forze, questo trono pervenne a Vatace, genero e successore di Teodoro Lascaris. Così l'indole sua propria, come le cambiate circostanze di questo regno, condussero Vatace a calcolare ponderatamente i pericoli, a spiar le occasioni, a preparare il buon successo de' suoi ambiziosi disegni. Nel narrare la caduta dell'Impero latino, ho accennate di volo le vittorie de' Greci, il contegno prudente e i successivi progressi di un conquistatore, che nel durare di trentatre anni di regno, liberò le province dalla tirannide de' nativi e degli stranieri, e strinse per ogni lato una Capitale, divenuta ignudo tronco, smosso dalle radici, e presto a cadere al primo colpo di scure. Ma più degni ancora di encomio e di ammirazione sono l'interna economia, e il pacifico governo del successore di Teodoro[205]. Egli ne assunse le redini in tempo che le calamità della guerra aveano scemata la popolazione, e toltele pressochè tutte le vie di sussistenza; perchè non vi essendo più nè modi nè allettamenti a coltivare la terra, i fondi più fertili rimanevano abbandonati e sol coperti di ginestre e di rovi. L'imperatore ne fe' dissodare una parte a suo conto, talchè fra le sue mani, e per la sua vigilanza, diedero più copiosi ricolti di quanti sperar ne potesse la sollecitudine di un fittaiuolo. Divenuti i dominj reali il giardino e il granaio dell'Asia, il Principe non ebbe d'uopo di vessare i popoli per assicurarsi una fonte di ricchezze perenni e legittime. Giusta la natura dei terreni, questi divenivano, per le imperiali cure, o campi da grano, o selve, o vigneti, o prati, ove numerose greggie andavano al pascolo. Nel presentare l'Imperatrice di una corona ricca di perle e di diamanti, l'Imperatore le fece intendere sorridendo che questo prezioso ornamento era stato comperato coi danari ricavati dalla vendita delle uova del suo immenso pollaio. La rendita dei dominj imperiali bastava alle spese del palagio, al mantenimento degli ospitali, al sostegno della dignità e del lusso del trono, e più vantaggiosa di questa rendita divenne allo Stato la forza del buon esempio. Tornarono i primi onori e l'antica sicurezza all'aratro. Schifi allora i Nobili di riparare la fastosa loro indigenza o colle spoglie involate al povero, o con favori mendicati alla Corte, una rendita più certa e non abbietta si procacciarono dai propri dominj. Affrettatisi i Turchi a comperare il superfluo delle biade, e delle mandrie dello Stato, Vatace si mantenne accuratamente in corrispondenza con essi, ma non quindi incoraggiò l'introduzione delle produzioni dell'industria straniera e della seta del Levante, come tenne lontane da' suoi dominj le manifatture dell'Italia. «I bisogni della natura, solea dire Vatace, sono indispensabili da soddisfare: ma il capriccio della moda in un giorno nasce e perisce» con tai precetti e col proprio esempio, il saggio Monarca e la semplicità de' costumi, e l'industria del popolo, e l'economia domestica, favoriva. Primo scopo di premure gli furono l'educazione della gioventù e lo splendore delle lettere[206]: solito a dire con verità che un principe ed un filosofo sono i due più eminenti personaggi della società umana, non si arrogava decidere qual dei due avesse la preferenza. La prima sposa del medesimo, Irene, figlia di Teodoro Lascaris, più illustre per merito personale e per le virtù del suo sesso, che pel sangue Comneno trasfuso nelle sue vene, avea dato in dote al marito l'Impero. Dopo la morte di lei, Vatace sposò Anna, o Costanza, figlia naturale dell'imperatore Federico II. Ma non essendo questa ancor giunta alla pubertà, l'Imperatore accolse nel proprio letto una Italiana del suo seguito: e i vezzi e le arti della concubina ottennero dall'amante, tranne il titolo, tutti gli onori ad una Imperatrice dovuti; debolezza del Monarca, che come enorme delitto divulgarono i frati; ma la violenza delle costoro invettive, non giovò che a far risplendere maggiormente la pazienza del Sovrano. La filosofia del nostro secolo perdonerà, non v'ha dubbio, a questo principe una debolezza cui compensava un complesso raro di virtù; e quegli stessi contemporanei che mitemente giudicarono le più impetuose e fatali passioni di Lascaris, non seppero negare ai falli di Vatace un'indulgenza ai restauratori degl'Imperi dovuta[207]. Que' Greci, i quali, privi di leggi e di tranquillità, gemevano tuttavia sotto il giogo latino, invidiavano la felicità di quei lor confratelli che già riacquistata aveano la civile libertà; e Vatace con una politica non condannevole, metteva ogni sollecitudine a persuaderli de' vantaggi che migrando al regno di lui avrebbero trovati.

A. D. 1255-1259

Appena ci facciamo a paragonare i regni di Giovanni Vatace, e di Teodoro, figlio di lui e successore, appaiono manifesti il tralignamento e la differenza tra il fondatore, poi reggitore dell'Impero fondato, e l'erede in cui non era che lo splendore a lui preparato dal padre[208]. Non vuole cionnullameno negarsi qualche forza d'animo a Teodoro; allevato alla scuola paterna, addestrato nella caccia e nella guerra, poteva egli del tutto mancarne? Benchè Costantinopoli non abbia ceduto all'armi di questo principe, pure ne' tre anni che il suo regno durò, ei condusse per tre volte i suoi eserciti vittoriosi fin nel cuore della Bulgaria. Ma ogni pregio da lui posseduto oscuravano l'ira e la diffidenza, il primo dei quali difetti può attribuirsi alla consuetudine di non essere stato mai contraddetto; l'altro forse gli derivava da alcune confuse e vaghe nozioni sulla depravazione dell'uman genere. Stando in cammino per una delle sue spedizioni nella Bulgaria, consultò sopra un caso di politica i suoi principali ministri, fra i quali, il gran Logoteta, Giorgio Acropolita osò con sincerità sostenere una opinione che feriva il Sovrano. Questi, portata primieramente la mano all'elsa della sua scimitarra, fu rattenuto indi dal nuovo pensamento di punire in modo più obbrobrioso il Ministro. Cotesto uffiziale, un de' primarj dell'Impero, ebbe dal suo Signore il comando di scendere da cavallo, e spogliato delle sue vesti alla presenza del Principe e dell'esercito, e steso sul suolo, soggiacque ai colpi di bastone, che due guardie, od esecutori senza pietà gli menarono addosso; gastigo durato sì lungo tempo, che quando per ordine imperiale fu fatto tregua alle percosse, il misero paziente quasi non ebbe bastante forza per sorgere da terra e trascinarsi alla sua tenda. Dopo essere stato ritirato per alcuni giorni, gli stessi comandi assoluti di Teodoro lo richiamarono nel Consiglio; e, ciò che prova quanto i Greci d'allora ad ogni sentimento di onore e di vergogna fossero morti, è il saper noi l'obbrobrio cui fu sottoposto Acropolita, dalla sua narrazione medesima[209]. Questa crudeltà ingenita dell'Imperatore ebbe maggior alimento da un penoso morbo che gli presentava di continuo imminente la morte, e dai timori destatisi nel medesimo di doverlo alle forze di un veleno, o di un sortilegio. Ogn'impeto di collera che lo assaliva, costava or le sostanze, or la vita, o gli occhi, o alcun membro del corpo a qualche individuo della famiglia imperiale, o a qualche grande uffiziale della Corona; laonde sul terminar de' suoi giorni, il figlio di Vatace si meritò dal popolo, o certamente dalla sua Corte, il nome di tiranno. Venuto una volta in deliberazione di maritare una nobile ed avvenentissima donzella ad un vil plebeo, cui solo merito era il capriccio del Sovrano che lo favoriva, e non acconsentendo a tai nozze la madre della giovane che apparteneva alla famiglia de' Paleologhi, Teodoro, per sin dimenticati i riguardi e al grado, e all'età dovuti, la fe' mettere fino al collo entro un sacco insieme a diversi gatti, delle quali bestie veniva aizzato a punture di spille il furore. Giunto agli ultimi del viver suo questo Principe, mostrò rincrescimento delle passate crudeltà e desiderio con successivi atti clementi di cancellarle. Lo crucciavano ad un tempo (A. D. 1559) i pensieri di un figlio che non avendo più di otto anni, egli vedeva avventurato ai pericoli di una lunga minorità; ne confidò pertanto la tutela alla santità del patriarca Arsenio, e al valore di Giorgio Muzalone, gran domestico. Questo secondo quanto godea il favore del Principe, altrettanto della pubblica esecrazione era scopo; tanto maggiormente che le corrispondenze fra i Greci e i Latini avendo introdotto nelle monarchie de' primi i titoli e i privilegi ereditarj, le famiglie nobili[210] si adiravano in veggendo l'innalzamento di un favorito privo di meriti, e che, per giunta, incolpavano di tutti gli errori del Sovrano e delle calamità della patria. Nondimeno nel primo Consiglio tenutosi dopo la morte di Teodoro, Muzalone dall'alto del trono aringò in difesa della propria condotta e delle intenzioni da cui fu mossa, con tanta arte, che per allora lodatane la modestia, e largheggiatogli di proteste di stima e di fedeltà, i più inviperiti nemici del favorito si mostrarono i primi ad onorarlo col titolo di custode e salvator de' Romani. Ma otto giorni bastarono agli apparecchi di una congiura che scoppiò nel nono, mentre si celebravano le pompe funerali del Monarca defunto nella cattedrale di Magnesia,[211] città dell'Asia, situata in riva all'Ermo, alle falde del Sipilo, poichè in questa città Teodoro era spirato. Interrotta la cerimonia da una sommossa delle guardie, Muzalone, i fratelli e i partigiani di questo, vennero trucidati a piè dell'altare, datosi per nuovo collega al Patriarca, assente in quel punto, Michele Paleologo, uno de' Greci d'allora il più illustre per meriti e per natali[212].

Fra tanti che invaniscono de' loro antenati, la maggior parte è ridotta a contentarsi di una gloria municipale, o domestica, e avene assai pochi i quali osassero consegnare i privati fasti delle lor famiglie agli Annali della propria nazione. Ma sino dalla metà dell'undecimo secolo, la nobile schiatta de' Paleologhi[213] luminosa nella Storia di Bisanzo si mostra. Incominciatone lo splendore col valoroso Giorgio Paleologo che collocò il padre de' Comneni sul trono di Costantinopoli, i congiunti, o discendenti dello stesso Giorgio continuarono nelle successive generazioni a segnalarsi or comandando gli eserciti, or presedendo ai Consigli di Stato. La famiglia imperiale non disdegnò il lor parentado, talchè, se l'ordine di successione fosse stato a rigore osservato rispetto alle donne, la moglie di Teodoro Lascaris avrebbe ceduto alla sua sorella primogenita, madre di quel Michele Paleologo, che in appresso innalzò al trono la propria famiglia. Al vanto di una illustre nascita Michele aggiungea quello che dalle sue nozioni politiche e militari gli derivava. Asceso fin dagli anni della prima giovinezza alla carica di Contestabile o comandante de' Franchi mercenarj, la sostenne splendidamente, e avido e prodigo ad un tempo la sua ambizione il rendea; perchè, se la spesa necessaria al mantenimento suo personale, non eccedea le tre piastre d'oro, molto danaro abbisognavagli per far donativi, che alle sue maniere affabili e buone qualità sociali accrescevano pregio. Questa affezione ch'egli si era guadagnata dal popolo e dai soldati, diede ombra alla Corte; nondimeno Michele si sottrasse per tre volte ai pericoli che o la sua imprudenza, o quella de' suoi partigiani gli suscitarono.

1. Sotto il regno di Vatace, che era pur quello della giustizia, essendo nato litigio fra due uffiziali[214], l'un de' quali accusava l'altro di sostenere il diritto ereditario de' Paleologhi al trono, si pensò definirlo con un combattimento giudiziario, usanza che i Greci aveano tolta di recente dalla giurisprudenza dei Latini. Comunque soggiacesse l'accusato, si mantenne sempre fermo nel protestare sè essere il solo colpevole, e i discorsi o imprudenti, o criminosi da lui tenuti non solamente non avere ottenuta approvazione dal suo protettore Michele Paleologo, ma a non saputa di questo essere stati fatti. A mal grado di ciò, forti sospetti aggravavano tuttavia il Contestabile, fatto scopo per ogni dove alle dicerie della malevolenza, onde l'arcivescovo di Filadelfia, scaltrito cortigiano, lo sollecitava a sottomettersi al Giudizio di Dio, e a far palese colla prova del fuoco la sua innocenza[215]. Il qual partito se Paleologo avesse accettato, tre giorni prima innanzi le prove, doveasi, secondo quelle costumanze, avvolgergli il braccio in un sacchetto, fasciatura che l'imperiale suggello guarentiva indissolubile; poi gli facea mestieri portar tre volte dall'altare alla balaustrata del santuario una palla di ferro rovente; e il non riceverne danno, o dolore, comunque non si fosse premunito con verun'arte, assoluto lo rimandava. Ma con una piacevole accortezza il Contestabile da una tal prova pericolosa si liberò. «Io sono soldato, diss'egli, e pronto a combattere, brandendo l'armi, i miei accusatori, ma ad un profano, ad un peccatore mio pari, Dio non comparte il dono di far miracoli. Ben la vostra pietà, o prelato santissimo, può meritarmi questa grazia celeste. Riceverò pertanto, ma solo dalle vostre mani, la palla arroventata che debb'essere il mallevadore della mia innocenza». L'arcivescovo rimase scompigliato, l'Imperatore sorrise; nuovi servigi meritarono a Michele assoluzione e perdono e onori novelli.

2. Sotto il regno successivo, essendo Paleologo governator di Nicea, fu avvertito, in tempo che Teodoro era lontano, dei pericoli da temersi dalla diffidenza di questo principe, che probabilmente accigneasi a compensarne i servigi col dargli morte, o privarlo per lo meno degli occhi. Per non fare una tale esperienza, il Contestabile, seguito da alcuni servi, abbandonò la città e gli Stati di Teodoro; spogliato indi dai Turcomani nell'attraversare il Deserto, trovò nondimeno alla Corte del Sultano ospizio e buon'accoglienza. Ridotto ad una tanto equivoca condizione di vita l'esule illustre, seppe unire i doveri che gli imponea la gratitudine verso il Sultano a quelli di cittadino; laonde mentre i Tartari respingea dai dominj del suo benefattore, mandava salutevoli avvisi alle guernigioni romane delle frontiere, e pervenne ad ultimare un Trattato di pace, fra le cui condizioni vi fu quella, decorosa per lui, della sua grazia e del suo ritorno alla patria.

3. Intanto ch'egli stava difendendo l'Oriente contra le fazioni del despota dell'Epiro, il Principe, sul solo fondamento di nuovi sospetti, lo condannò, e questa volta Michele, fosse debolezza, o fedeltà, porse la mano alle catene, e si lasciò condurre da Durazzo a Nicea, cammino di circa seicento miglia. Il ministro incaricato di una commissione sì odiosa, per altro la mitigò coi riguardi usati verso del prigioniere; ne andò guari che i pericoli sovrastanti ad esso, dileguarono per l'infermità dell'Imperatore, e cessarono affatto allor quando questi giunto all'istante della morte raccomandò al medesimo Paleologo il proprio figlio; col quale atto nel modo il più evidente manifestò di riconoscere e l'innocenza, e il potere d'un uomo sì ragguardevole.

Ma oltre alla rimembranza dell'oltraggio che questa sua innocenza avea ricevuto, troppo manifesto era il potere, perchè vi fosse speranza di arrestarne il corso in sulla via che l'ambizione gli apriva[216]. Nel Consiglio tenutosi dopo la morte di Teodoro, primo Michele a giurar fedeltà a Muzalone, fu indi il primo ad infrangere un tal giuramento; ma si condusse con tanta scaltrezza, che trasse profitto dalla strage accaduta pochi giorni dopo, senza partecipar del delitto, o almeno del rimprovero del delitto. Quando si venne alla scelta di un reggente, ponendo destramente in conflitto le passioni e gli interessi contrarj de' candidati, se ne cattivò i voti, in guisa che ciascuno per parte sua protestava non esservi alcuno, dopo di sè, che più di Paleologo meritasse la preferenza. Col titolo di gran Duca, accettò, o si arrogò il potere esecutivo dello Stato, sintanto che durasse la lunga minorità del giovine Cesare. Nulla avendo a temere dal Patriarca, che era solamente un fantasma insignito d'onori, seppe colla superiorità del suo ingegno o allettare, o dileguare le fazioni de' Nobili. Avea Vatace depositati i tesori, venuti dalla sua assegnatezza, entro un Forte situato alle rive dell'Ermo, e da' suoi fedeli Varangi difeso; ma il Contestabile, che avea mantenuta la sua autorità, o la sua prevalenza sulle truppe straniere, adoperò le guardie per impadronirsi del tesoro, il tesoro per corrompere le guardie; inoltre sì accorto, che comunque delle pubbliche ricchezze abusasse, di avarizia, o avidità personale non fu giammai sospettato. Tutti i discorsi di lui e de' suoi partigiani intendevano a far credere ai sudditi di ogni classe che la loro prosperità sarebbe cresciuta in proporzione del suo potere. Mitigò il rigor delle tasse, perpetuo argomento delle querele del popolo, e proibì le prove del fuoco e i combattimenti giudiziarj, barbare instituzioni, già abolite, o venute in discredito, così nella Francia[217] come nell'Inghilterra[218], alla qual considerazione si arroge che il giudizio per via della spada opponeasi egualmente alla ragione di un popolo ingentilito[219], e alle propensioni morali di un popolo pusillanime, siccome i Greci lo erano. Si guadagnò l'amore de' veterani assicurando il vitto alle mogli e ai figli de' medesimi. Col proteggere il progresso delle Scienze e la purezza della religione, ebbe per sè i filosofi e i Sacerdoti; largo promettitore di ricompense al merito, fece sì che tutti gli aspiranti a cariche applicassero a sè medesimi queste promesse. Non ignorando quanta fosse la prevalenza del clero, si studiò con buon successo per procacciare i suffragi di un Ordine così poderoso, al quale scopo gli somministrò un onorevole colore il dispendioso viaggio che da Nicea a Magnesia intraprese. Visitandoli di notte tempo, con nuove liberalità seduceva i prelati, e lusingò la vanità dell'incorruttibile Patriarca coll'omaggio di condurne egli medesimo la mula per le strade della città, allontanando colla propria mano la calca, onde si tenesse alla dovuta rispettosa distanza. Senza rinunziare ai diritti che gli venian dalla nascita, incoraggiò la libertà delle discussioni sui vantaggi di una monarchia elettiva, per lo che i partigiani di lui poneano in aria di trionfo la seguente interrogazione: quale infermo vorrebbe affidare la cura della propria salute, qual mercatante la condotta della sua nave, all'ingegno d'un medico o d'un nocchiero ereditarj? La fanciullezza dell'Imperatore, e i pericoli da una lunga minorità minacciati, rendeano necessaria allo Stato la protezione di un Reggente adulto ed esperto, di un collegato al trono che non dovesse paventare la gelosia de' suoi pari, e insignito de' titoli e delle prerogative reali. Dopo le quali cose apparve che sol per vantaggio del principe e de' popoli, senza viste d'interesse o per sè, o per la propria famiglia, il gran Duca acconsentiva ad assumersi la tutela e l'educazione del figlio di Teodoro; del rimanente aspettava egli con impazienza il felice istante, in cui già ferma al regno la mano del giovine Principe, potesse questi liberare il suo tutore dal peso dell'amministrazione, e restituirgli il conforto di vivere nella sua pacifica oscurità. Gli vennero primieramente conferiti i titoli e le prerogative di despota, per cui godea degli onori della porpora, e del secondo grado della monarchia romana. Convenutosi indi che Giovanni e Michele sarebbero acclamati Imperatori colleghi, e sollevati entrambi sopra lo scudo, salva per Giovanni la preminenza derivatagli dal diritto di successione, i due augusti colleghi si giurarono amicizia inviolabile, permettendo ai sudditi di obbligarsi con giuramento a chiarirsi contro l'aggressore; espressione equivoca ed atta a somministrare pretesto alla discordia e alla guerra civile. Di tutto ciò Paleologo parea soddisfatto: ma nel dì della cerimonia della coronazione che accader dovea nella cattedral di Nicea, gli amici di Paleologo levarono un grido per sostenere la preminenza dovuta, questi diceano, all'età e al merito del nuovo Cesare; ed a tale contrasto fuori di luogo si cercò per temperamento il differire a più favorevole circostanza la coronazione di Giovanni Lascaris. Laonde il giovine principe, fregiato unicamente di una lieve corona, comparve seguendo il suo tutore, che solo ricevè dalle mani del Patriarca il diadema imperiale. Non senza un'estrema ripugnanza Arsenio abbandonò in tal guisa gl'interessi del pupillo: ma i Varangi (A. D. 1260), sollevata la loro azza da guerra, prevalsero alla timida fanciullezza del principe legittimo che diede un segno di approvazione; e nondimeno si fecero udire alcune voci sulla necessità che l'esistenza di un fanciullo non fosse omai ostacolo alla felicità d'uno Stato. Grato Paleologo ai suoi amici, d'impieghi civili e militari li presentò, e creando nella propria famiglia un despota e due sebastocratori, conferì al vecchio generale Alessio Strategopolo il titolo di Cesare, che rendè ampio guiderdone al suo benefattore col farlo padrone di Costantinopoli.

A. D. 1261

Correva il secondo anno del regno di Michele, allorchè, risedendo egli nel palagio e ne' giardini di Ninfea[220] presso Smirne, ricevette di notte tempo la prima notizia di questo incredibile buon successo, ad annunziargli il quale si andò con molto riguardo innanzi destarlo, per condiscendere alle tenere sollecitudini della sorella del medesimo, Eulogia. Il messaggiero, uomo di niun conto e sconosciuto, non portava con sè alcuna lettera del generale vincitore; laonde Paleologo, pensando alla sconfitta di Vatace, e alla inutilità dei tentativi che egli stesso avea di recente operati, nè potendo persuadersi che ottocento soldati avessero potuto sorprendere Costantinopoli, ebbe per sospetto il messo, e fattolo arrestare, gli promise grandi ricompense, qualora un tale annunzio si fosse verificato, altrimenti gli minacciò morte. La Corte rimase per alcune ore in queste alternative di tema e di speranza, fino al momento in cui i messi di Alessio arrivarono apportatori de' trofei della vittoria, della spada cioè e dello scettro[221], dei calzaretti, e del berrettone[222] di Baldovino l'Usurpatore, i quali arredi nel momento della sua precipitosa fuga gli eran caduti. Venne tantosto convocata un'assemblea de' Prelati, dei Nobili e de' Senatori, e sì universale ed intensa era l'allegrezza, che niun altro fausto avvenimento avea per lo innanzi destato un giubilo simile a questo. Il nuovo Sovrano di Costantinopoli, con elaborata Orazione magnificò la propria fortuna e quella del popolo. «Fuvvi un tempo, ei dicea, un tempo assai remoto, allorchè l'Impero de' Romani, dal golfo Adriatico al Tigri e ai confini dell'Etiopia si dilatava. Vennero i giorni di calamità, ne' quali, dopo la perdita di molte province, la medesima Capitale cadde fra le mani dei Barbari dell'Occidente. Dall'ultimo grado della sciagura, il flutto della prosperità ci ha nuovamente innalzati; ma non ostante erravamo sempre esuli e fuggitivi, e a chi ne chiedeva ove fosse la patria de' Romani, additavamo arrossendo il clima del Globo e la regione del Cielo. La Providenza favorevole alle nostr'armi ne ha restituita Costantinopoli, sedia dell'Impero e della Religione. Spetta al nostro valore e al nostro coraggio il far sì che questo prezioso acquisto sia presagio e mallevadore di novelle vittorie». Tanta era nel Principe e nel popolo l'impazienza, che venti giorni dopo l'espulsione de' Latini (A. D. 1261), Michele fece il suo trionfale ingresso in Costantinopoli. Al suo avvicinare, apertasi la Porta d'Oro, il pio conquistatore, sceso da cavallo, si fece portare innanzi la miracolosa immagine di Maria la Conduttrice, affinchè apparisse che la Vergine stessa lo conduceva al tempio del proprio figlio nella cattedrale di S. Sofia. Ma dopo essersi abbandonato ai primi impeti della divozione e dell'orgoglio, contemplò sospirando la rovina e la solitudine che regnavano per ogni dove della derelitta sua Capitale. Lordati di fumo e fango i palagi, offrivano per ogni lato l'impronta della salvatica licenza de' Franchi; vedeansi intere contrade consumate dal fuoco, o guaste dall'ingiuria de' tempi; gli edifizj sacri e profani spogliati de' loro arredi, e, come se i Latini avessero preveduto l'istante di essere discacciati, ogni industria loro era stata posta nel saccheggiare e distruggere; annichilato il commercio dall'anarchia, e dall'indigenza; sparita colla ricchezza pubblica la popolazione. Essendo stata una fra le prime cure dell'Imperatore il restituire ai Nobili i palagi de' loro antenati, tutti coloro che poterono offrire valevoli documenti, tornarono a trovarsi nel ricinto delle lor case, o almeno sugli spianati ov'esse stettero un giorno. Ma questi proprietarj essendo periti in gran parte, la maggiore eredità fu del fisco. Le sollecitazioni di Michele trassero gli abitanti delle province a popolare nuovamente Costantinopoli, ove i prodi Volontarj che l'aveano liberata, ottennero possedimenti. I Baroni francesi e le primarie famiglie, insieme coll'Imperatore, si erano ritirate. Ma una moltitudine paziente di oscuri Latini, affezionatasi al paese, alcun fastidio del cambiato padrone non si prendea. Anzichè privare delle lor fattorie i Pisani, i Veneti, i Genovesi, il saggio conquistatore, dopo avere da questi ricevuto il giuramento di fedeltà, protesse la loro industria, ne confermò i privilegi, e permise ad essi di conservare la loro giurisdizione e i lor magistrati. I Pisani e i Veneziani continuarono ad occupare i loro rioni a parte nella città; ma i Genovesi, più meritevoli degli altri di gratitudine per parte de' Greci, eccitata ne aveano la gelosia; perchè la loro independente colonia che aveva sulle prime posta dimora ad Eraclea in un porto della Tracia, condiscese alla sollecitazione che li chiamava a popolare il sobborgo di Galata; ma la opportunità del sito essendo stata ad essi giovevole per rinvigorire il primitivo loro commercio non andò guari che la maestà dell'Impero di Costantinopoli ne sofferse[223].

A. D. 1261

Il ritorno de' Greci a Costantinopoli venne celebrato, siccome l'epoca di un novello impero: il solo conquistatore, fondato sul diritto della propria spada, rinovò la cerimonia della sua incoronazione nella Cattedrale di S. Sofia; Giovanni Lascaris, pupillo di Michele, e legittimo Sovrano, vide a poco a poco sparire le prerogative della sua dignità, e cancellato dagli atti del governo il suo nome; ma i diritti di lui vivevano ancora nella ricordanza de' popoli, ed egli intanto avanzavasi verso gli anni della virilità e dell'ambizione. Fosse timore, o ribrezzo, Paleologo non lordò nel sangue di un innocente Principe le sue mani; ma perplesso fra i sentimenti dell'usurpatore e que' del parente, si affrancò il possedimento del trono, mercè uno di que' delitti imperfetti, co' quali i moderni Greci eransi già addimesticati, e poichè la privazione della vista rendea un principe incapace di governare l'Impero, a questo colpevole espediente ricorse; ma invece che all'infelice giovane fossero strappati gli occhi, si pensò a distruggere in esso la forza del nervo ottico esponendolo alla riflessione ardente di un arroventato bacino;[224] dopo di che confinato in un lontano castello, vi languì dimenticato per molto volgere d'anni. Benchè questo meditato delitto sembri incompatibile coi rimorsi, possiam credere, che Paleologo avesse nel commetterlo una disadatta, quanto per lui comoda, fiducia nella misericordia del Cielo; ma non quindi rimanea meno esposto al biasimo e alla vendetta degli uomini. Applaudissero pure, o, intimoriti dalle sue crudeltà, si stessero silenziosi i vili cortigiani dell'usurpatore; ma il clero potea parlare a nome di un invisibile padrone, e condotto da un Prelato inaccessibile alla speranza come al timore. Vero è che Arsenio[225], dopo rassegnata per breve tempo la sua dignità, si era prestato ad occupare la sede ecclesiastica di Costantinopoli; onde sotto la presidenza di lui la Chiesa greca fu restaurata. Egli sperava di ammollire per via di pazienza e di sommessioni l'animo del tiranno, e di rendersi per tal via utile al giovine Imperatore; ma troppo a lungo gli artifizj di Paleologo si erano presa a giuoco la pietosa semplicità del Prelato; il quale appena seppe il destino infausto di Lascaris, prese il partito di adoperare le armi spirituali, e questa volta la superstizione protesse la causa dell'umanità e della giustizia. Pertanto in un Concilio di Vescovi (A. D. 1262-1263), che l'esempio del loro Capo facea coraggiosi, pronunziò anatema contro Michele, avendo nondimeno la prudenza di continuare a fare menzione di lui nelle pubbliche preci. I prelati d'Oriente non avevano ancora abbracciate le pericolose massime dell'antica Roma, nè si credeano quindi in diritto di far forti le loro censure spirituali col gridare rimossi dal trono i monarchi, e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà; però il colpevole, separato in tal guisa da Dio e dalla Chiesa, diveniva scopo al pubblico orrore, orrore che, in una Capitale abitata da turbolenti fanatici, era valevole ad armare il braccio di un assassino, o ad eccitare una sedizione. Paleologo che comprendeva il pericolo, confessò il proprio delitto, implorando la clemenza del giudice: la colpa non avea più riparo; chi l'avea commessa ne godeva il frutto; una rigorosa penitenza potea cancellarla, ed innalzare il peccatore agli onori di un Santo; ma l'inflessibile Patriarca ricusò di additar vie di espiazione, o di concedere alcuna speranza di pietà celeste al colpevole, e solamente condiscese a rispondere che ad un sì atroce delitto una straordinaria espiazione voleasi. «È necessario ch'io rassegni l'Impero?» sclamò Michele, rimettendo, o facendo l'atto di rimettere la spada imperiale. E già Arsenio portava la mano a questo pegno della Sovranità; ma non tardò ad accorgersi che l'Imperatore non si sentiva inclinato a pagare a sì caro prezzo l'assoluzione implorata[226]; per lo che acceso di sdegno il Prelato cercò la sua cella, lasciando il monarca piangente e prostrato in sulla soglia del tempio.

A. D. 1266-1312

Lo scandalo e i pericoli di una tale scomunica durarono più di tre anni. Il tempo e la penitenza di Michele avendo acchetati i gridori del popolo, i Prelati greci giunsero a condannare il rigore d'Arsenio, siccome opposto alla evangelica mansuetudine. Intanto l'Imperatore non si stette dal fare accortamente antivedere, che quando si continuasse a ributtare la sua sommessione, ei potrebbe trovare a Roma un giudice più indulgente; ed era cosa più semplice e più conforme agli interessi della Chiesa bisantina il procurarsi nel proprio seno un Capo che proferisse i suoi giudizj a norma delle brame imperiali. Si fece comparire il nome di Arsenio in mezzo ad alcuni rumori vaghi di scontento e di cospirazioni; alcune irregolarità che si pretese scoprire nel reggimento spirituale del medesimo, somministrarono pretesto ad un sinodo per giudicare e rimovere il Prelato, che sotto buona scorta di armati, fu trasferito in una isoletta della Propontide. Prima di essere condotto al luogo dell'esilio, il Patriarca pretese dignitosamente che si facesse un inventario de' tesori della chiesa, manifestò non possedere egli in proprio che tre piastre d'oro guadagnate nel copiar salmi, serbò tutta l'independenza dell'animo suo, e continuò fino all'ultimo respiro nelle proteste che quanto a lui non avrebbe mai assoluto l'Imperatore[227]. Qualche tempo dopo la partenza di Arsenio, Gregorio vescovo di Andrinopoli, venne ad occupare la sede patriarcale di Bisanzio; ma non avendo egli stesso bastante prevalenza per dare all'assoluzione dell'Imperatore tutta l'autenticità che bramavasi, Giuseppe, accreditato monaco, adempiè questa rilevantissima cerimonia che accadde alla presenza del Senato e del popolo. Solo in termine di sei anni, l'umile penitente potè essere riammesso nella Comunion de' Fedeli; ed è pur vero dire un conforto per l'umanità, il pensare che la prima condizione impostagli onde ottenere il perdono celeste, fu quella di mitigare la sorte del misero Lascaris. Ma lo spirito di Arsenio dominando tuttavia sopra una potente fazione surta nel monachismo e nel clero, mantenne uno scisma che oltre ai quarant'otto anni durò. Michele e il figlio di lui, rispettando gli scrupoli de' pii faziosi, posero il massimo riguardo nell'affrontarli, onde la riconciliazione degli Arseniani divenne un affar serio di Chiesa e di Stato. Animati da una fiducia figlia del fanatismo, proposero questi di provare con un miracolo la giustizia della lor causa. Vennero gittate sopra un rogo ardente due carte, in una delle quali trovavasi registrato il voto degli Arseniani, nell'altra quel de' contrarj; non dubitando i primi che le fiamme avrebbero portato rispetto alla verità; ma sfortunatamente entrambe le carte bruciarono; non preveduto incidente che restituì la pace per un giorno, prolungò le discordie per una generazione[228], al finir della quale fu la vittoria per gli Arseniani. In quel tempo la parte vinta del clero dovette astenersi per quaranta giorni dagli uffizj ecclesiastici; ad una leggiera penitenza si sottomisero i laici, e deposto il cadavere di Arsenio nel Santuario, in nome del Santo defunto, il Principe e il popolo ricevettero l'assoluzione dei peccati de' loro padri[229].

A. D. 1259-1282

Il delitto di Paleologo, non avendo avuto altro motivo, o almen pretesto che l'innalzamento della sua famiglia, egli fu sollecito di assicurarne la successione al trono, col far partecipe degli onori della porpora il suo primogenito. Andronico (A. D. 1273-1332), soprannominato indi il Vecchio, venne coronato e acclamato Imperator de' Romani, nel sedicesimo anno dell'età sua, titolo augusto che ei portò durante un regno, lungo quanto povero di gloria, nove anni, come collega del padre, cinquanta come successor del medesimo. Lo stesso Michele sarebbe stato creduto più meritevole del trono se asceso mai non vi fosse; perchè le fazioni de' nemici spirituali e domestici breve tempo gli concedettero, onde adoperarsi alla propria gloria o alla felicità de' suoi sudditi. Nondimeno tolse ai Franchi diverse isole delle più importanti che questi possedevano sull'Arcipelago, Lesbo, Chio e Rodi; e l'armi del fratello di lui Costantino, governatore di Sparta e della Malvasia, ricuperarono tutta la parte orientale della Morea da Argo e Napoli insino al Capo di Tenaro. Il Patriarca censurando agramente lo spargimento del sangue cristiano, ebbe l'audacia di opporre all'armi de' Principi i suoi scrupoli timorosi; e per vero dire, mentre questi intendevano a far conquiste nell'Occidente, i Turchi devastavano le contrade poste al di là dell'Ellesponto, e con immense depredazioni giustificavano il parere di un Senatore greco; il quale morendo predisse che il nuovo conquisto di Costantinopoli avrebbe costato ai suoi concittadini la perdita di tutta l'Asia. Vincitore, col solo braccio de' suoi capitani, Michele, la spada di lui irrugginì nell'imperiale palagio, e le negoziazioni che egli ebbe coi Pontefici, e col Re di Napoli, sol per tratti di una politica perfida e sanguinaria lo han segnalato[230].

A. D. 1274-1277

1. Il Vaticano era l'asilo più naturale cui potesse riparare un Imperatore latino scacciato dal trono, e il Pontefice Urbano IV si mostrò commosso dalle sciagure del principe fuggitivo, e deliberato a sostenerne i diritti. Bandite una Crociata contra i Greci scismatici, la scomunica contro i loro confederati ed amici, un'indulgenza plenaria a chi li guerreggiava, sollecitò i soccorsi di Luigi IX a favore dell'infelice congiunto di questo Monarca, chiedendo pel servigio della guerra santa la decima parte delle rendite ecclesiastiche della Francia e dell'Inghilterra[231]. Lo scaltro Michele, che spiava attentamente i progressi della nascente procella, si adoperò a sospendere gli atti nimichevoli del Pontefice, e a calmarne lo sdegno per via di supplichevoli ambascierie, e di lettere rispettose, nelle quali però destramente insinuava che un saldo Trattato di pace sarebbe stato il primo passo verso la riconciliazione delle due Chiese. Ma un sì patente artifizio, non potea far breccia negli animi della Corte di Roma, la quale rispose a Michele essere d'uopo che la penitenza del figlio precedesse il perdono del padre, e spettar solo alla Fede il preparar le basi della lega e dell'amicizia. Dopo molti indugi e politici andirivieni, la vicinanza del pericolo e lo stile incalzante di Gregorio X, costrinsero Paleologo ad imprendere una seria negoziazione: egli allegò l'esempio del gran Vatace al clero greco, il quale credendo leggere nell'animo del principe, non mostrò rifuggire dalle prime vie rispettose e conciliatorie propostegli; ma allor quando vide imminente la conclusione di un definitivo Trattato, i prelati in chiare note si espressero, che essendo i Latini, non solo di nome, ma di fatto, eretici, ogni Greco si trovava nell'obbligo di disprezzarli come la più vil feccia del genere umano[232]. Paleologo studiò tutti gli espedienti atti a persuadere, ad intimorire, a corrompere gli ecclesiastici più apprezzati dal popolo, e ad ottenerne partitamente i suffragi, or motivi di pubblica sicurezza, ora argomenti di carità cristiana adducendo. Pesati nella bilancia della politica e della teologia, il testo de' Santi Padri e l'armi de' Franchi, i più moderati senza però approvare il supplimento[233] aggiunto al Simbolo di Nicea, s'indussero a confessare che credeano non impossibile l'accordo delle due proposizioni dalle quali derivava lo scisma, riducendo ad un senso cattolico ed ortodosso la processione dello Spirito Santo del Padre per il Figlio, o del Padre e del Figlio[234]. Quanto poi alla supremazia del Papa, benchè fosse una materia men ardua dell'altre a comprendersi, era più difficile il trovar sovra essa i prelati e i monaci greci d'accordo. Nondimeno, Michele non si stancava di rimostrar loro che poteano, senza pericolo, considerare il Vescovo di Roma come il primo fra i patriarchi, trovandosi in tale distanza da lui, che dipendea dalla loro prudenza il salvare dai perniciosi effetti del diritto di appellazione la libertà della Chiesa orientale; egli poi, per parte sua, assicuravali che avrebbe sagrificato l'impero e la vita, anzichè cedere nel menomo articolo di Fede ortodossa, o di independenza della sua patria: la quale protesta del sovrano venne suggellata e autenticata da una Bolla d'Oro. Il Patriarca Giuseppe si ritrasse nel suo monastero per prender tempo a risolvere, giusta le conseguenze del Trattato, se abbandonerebbe la cattedra patriarcale, o se gli tornerebbe il risalirvi; intanto l'Imperatore, il figlio del medesimo, Andronico, trentacinque Arcivescovi, e Vescovi metropolitani e i loro sinodi sottoscrissero le lettere di unione e di obbedienza, alle quali sottoscrizioni furono aggiunti i nomi de' Vescovi di molte diocesi distrutte dalla invasione degl'Infedeli. Poi un'ambasceria composta di ministri e di prelati di confidenza del principe, da esso istrutta segretamente e con gran calore di non serbar limiti nel mostrarsi condiscendenti al sommo Pontefice, mosse verso l'Italia portando seco profumi e preziosi ornamenti da offerirsi all'altar di San Pietro. Papa Gregorio X, che a capo di cinquecento Vescovi nel Concilio di Lione li ricevè[235], versava lagrime d'allegrezza su questi suoi figli smarriti per sì lungo tempo, e finalmente venuti a penitenza, e ricevuto il giuramento dalle mani degli ambasciatori, che a nome de' due sovrani lo scisma abbiurarono, e insigniti i Prelati dell'anello e della mitra, cantò in greco e in latino il simbolo di Nicea coll'aggiunta del filioque, ringraziando Dio che lo avea predestinato alla gloria di riconciliar le due Chiese. Indi i Nunzj del Papa accompagnarono i deputati nel lor ritorno a Bisanzo, a fine di dar compimento a questa rigenerazione dei Greci; e ben apparisce dalle istruzioni che questi ebbero, come la politica del Vaticano di uno specioso titolo di supremazia non fosse contenta. Secondo queste, doveano indagare accuratamente l'animo del sovrano e del popolo; assolvere que' membri del Clero scismatico, che, abbiurati i loro errori, presterebbero giuramento di obbedienza alla Sede Appostolica; mettere in uso per tutte le Chiese il simbolo ortodosso; preparar le cose al ricevimento di un Cardinale Legato munito dei poteri alla sua dignità e all'uffizio suo pertenenti; imprimere nell'animo dell'Imperator greco il sentimento de' vantaggi che la protezione temporale del romano Pontefice poteva fruttargli[236].

A. D. 1277-1282

Ma questi deputati non trovarono un sol partigiano presso una nazione che profferiva con orrore i nomi di Roma e di riconciliazione con essa. Per vero dire non tenea più il Patriarcato Giuseppe, in luogo del quale stavasi allora Vecco, ecclesiastico ornato di dottrina come di moderati sentimenti. Gli stessi motivi obbligavano tuttavia l'Imperatore nelle sue proteste pubbliche di riconciliazione colla Chiesa romana: ma in privato, ostentando disapprovazione dell'orgoglio de' Latini e delle cose nuove che andavansi introducendo, oltre che inviliva con questa duplice ipocrisia la sua dignità, incoraggiava e puniva nel medesimo tempo la disobbedienza de' proprj sudditi. Col consenso di entrambe le Chiese, essendosi pronunziata sentenza di anatema contro tutti gli scismatici pertinaci, non arrossì Paleologo di farsi egli medesimo delle censure ecclesiastiche esecutore, e di adoperare, quando le vie della persuasione tornavano inutili, le minacce, le prigionie, gli esigli, i flagelli, le amputazioni di membra, le quali provvisioni, dice uno Storico, sono la pietra di paragone del coraggio e della viltà. Due principi greci, i quali regnavano tuttavia con titolo di despoti sull'Italia, sull'Epiro e sulla Tessaglia, benchè si fossero sottomessi al sovrano di Costantinopoli, ricusarono le catene del Pontefice di Roma; e armata mano, e con buon successo, il loro rifiuto sostennero. Protetti da essi, i vescovi e i monaci fuggitivi adunarono sinodi d'opposizione, che rinversavano i nomi d'eretici e per giunta i più ingiuriosi di apostati, sui loro persecutori. Il principe di Trebisonda avendo assunto il titolo imperiale, di cui veniva divulgato indegno il vil Paleologo, gli stessi Latini di Negroponte, di Tebe, di Atene e della Morea, perdettero il merito della conversione, collegandosi, quali apertamente, quali in segreto coi nemici dell'Imperator di Bisanzo. I generali più prediletti da esso, e che faceano parte di sua famiglia, disertavano, tradivano un dopo l'altro una causa cui riguardavano come sacrilega. Contro di lui cospirarono e la sorella Eulogia e la nipote, e due cugine, Maria, regina de' Bulgari, altra nipote di Paleologo, che negoziò col sultano d'Egitto la perdita dello zio, e tali atti di perfidia, siccome prove di virtù sublimissime dall'opinione pubblica venian divulgate[237]. Intanto le insistenze de' Nunzj pontifizj per veder mandata a termine la santa opera, facendosi vie più forti presso Michele, questi si vide ridotto ad una sincera narrazione di quanto avea fatto e sofferto per essi. Non poteano revocare in dubbio che i settarj d'entrambi i sessi e di tutti i gradi, non fossero stati per opera di lui spogliati e d'onori, e di beni, e di libertà. Il registro delle confiscazioni e de' gastighi contenea inoltre personaggi fra i più cari all'Imperatore, e che maggiormente ne aveano meritati i favori. I medesimi Nunzj vennero condotti nelle carceri, ove furono mostrati loro incatenati a quattro angoli d'una prigione quattro principi di sangue imperiale, che si divincolavano, e scoteano con impeto di rabbia i lor ferri. Due di questi uscirono, l'uno sottomettendosi, l'altro andando alla morte; i due rimanenti, in pena di lor pertinacia, perdettero gli occhi; per la qual crudele e funesta tragedia, dolenti apparvero que' pochi Greci medesimi che propensi all'unione con Roma si erano manifestati[238]. Non v'ha tra i persecutori chi non debba aspettarsi di essere scopo all'odio delle sue vittime. Ma hanno la maggior parte un qualche compenso, se non nella testimonianza della propria coscienza, almeno negli encomj de' lor partigiani, e fors'anche nel buon successo de' feroci atti operati. Michele, l'ipocrisia del quale non avea impulso che dai fini di una crudele politica, era costretto ad odiare sè medesimo, a disprezzare i suoi complici, a stimare ed invidiare quei coraggiosi ribelli, che lo aveano a vile ed abborrivano nel tempo stesso. Intanto che gli abitanti di Costantinopoli per la sua barbarie lo detestavano, i Romani lo accusavano di lentezza e di doppia fede, talchè finalmente il Pontefice Martino escluse dalla comunion de' fedeli cotesto uomo adoperatosi con tanto entusiasmo a restituire al suo pastore un ovile scismatico.

A. D. 1283

Dopo la morte del tiranno, abbiurata per consenso unanime di tutti i Greci l'unione delle due Chiese, vennero purificati i templi, ribenedetti i penitenti, e Andronico, versando copiose lagrime sui falli della sua gioventù, negò pietosamente alle ceneri del padre le esequie solite tributarsi ad un Principe e ad un Cristiano[239].

A. D. 1266

Il Paleologo ordinò si riedificassero e munissero le torri di Costantinopoli; che i Latini in mezzo alle sofferte calamità aveano lasciato cadere in rovina, e le fece copiosamente provvedere di grani e carni salate, per timor d'un assedio che per parte delle potenze occidentali si vedea minacciato. Il più formidabile fra i vicini dell'Imperator greco era il Monarca delle due Sicilie, ma sintanto che Manfredi, figlio naturale di Federico II, stava in quel trono, gli Stati di questo principe divenivano baluardo, anzi che oggetto d'inquietudine ai principi d'Oriente. Benchè industre e valoroso l'usurpatore Manfredi, separato dalla causa de' Latini, e percosso dai successivi anatemi di molti Papi, avea bastanti brighe per difendere sè medesimo, intantochè la Crociata bandita contro di questo immediato nemico di Roma, tenea in faccende gli eserciti che avrebbero potuto assediare Costantinopoli. Il fratello di S. Luigi, Carlo Conte di Angiò e di Provenza, che condusse a tale santa spedizione (A. D. 1270) la cavalleria della Francia[240] fattosi vendicatore di Roma, la corona delle due Sicilie in premio ne riportò. Venuto Manfredi in odio ai suoi sudditi cristiani, si vide costretto a chiamare sotto i proprj stendardi una colonia di Saracini che, sotto la protezione del padre di lui Federico, stanziata erasi nella Puglia; odioso espediente, che rende ragione della diffidenza con cui il guerriero cattolico rifiutò ogni proposta di accomodamento speditagli da Manfredi. «Portate, dicea Carlo d'Angiò, questa risposta al Sultano di Nocera; ditegli che Dio e le nostre spade decideranno fra noi, e che se egli non mi manda in paradiso, io lo manderò sicuramente all'inferno». Gli eserciti vennero a scontro; non so in qual parte dell'altro Mondo andasse Manfredi, ma in questo perdè presso Benevento la battaglia, gli amici, la corona e la vita. Napoli e la Sicilia furono immantinente popolate da una schiatta bellicosa di Nobili francesi, l'ambizioso Duce de' quali si riprometteva la conquista dell'Affrica, della Grecia e della Palestina. Non mancando speciosi motivi che lo potevano indurre a sperimentare primieramente le sue armi contro Costantinopoli, Paleologo, che poco fidavasi sulle proprie forze, portò per più riprese appellazione dalle ambiziose mire di Carlo ai sensi umani di S. Luigi, che sul feroce animo del fratello una giusta prevalenza serbava. Indugiò qualche tempo di più ne' novelli Stati il fratello del Re di Francia per l'invasione di Corradino, ultimo erede della Casa imperiale di Svevia; ma soggiaciuto questo giovine Principe ad una impresa maggiore delle sue forze, la testa di lui cadendo pubblicamente sopra di un palco, indicò ai rivali di Carlo che non solo per gli Stati, ma per le proprie vite dovean paventare. Portò nuova tregua alle inquietudini dell'Imperatore di Bisanzo l'ultima Crociata che San Luigi imprese sulla costa dell'Affrica; perchè era cosa naturale che il Re di Napoli, mosso parimente da riguardi di dovere e d'interesse avrebbe coi soldati suoi e colla persona secondate le sante armi del proprio fratello; ma la morte di S. Luigi spacciò Carlo dall'importuna soggezione di un censore virtuoso; ed inoltre il Re di Tunisi essendosi riconosciuto vassallo e tributario della corona di Sicilia, rimaneva agl'intrepidi cavalieri francesi piena libertà di movere sotto lo stendardo di un vittorioso capitano le loro armi contro l'Imperatore della Grecia. Un maritaggio e un Trattato strinsero maggiormente gl'interessi della Casa di Courtenai a quelli di Carlo, che promise la propria figlia Beatrice a Filippo figlio ed erede dell'Imperator Baldovino, concedendogli un assegnamento annuale di seicento once d'oro per sostenere la sua dignità; ed intanto il padre dello sposo distribuiva generosamente ai suoi confederati i regni e le province dell'Oriente, non riserbando per sè che la città di Costantinopoli e i suoi contorni fino alla distanza di una giornata di cammino[241]. In sì imminente pericolo, Paleologo si affrettò a sottoscrivere il Simbolo, e ad implorare la protezione del Papa, che in quel momento, vero angelo di pace e padre comune de' Fedeli si dimostrò; e negando di benedire le armi e consagrare l'impresa meditata contro Costantinopoli, oppose colla sua voce un ritegno al valore e alla spada di Carlo d'Angiò, che fu veduto dagli ambasciatori greci, allorchè, nell'anticamera pontifizia, irritato dal rifiuto, il suo scettro d'avorio per rabbia mordea. Cotesto principe, nondimeno, portò, giusta quanto apparve, rispetto alla disinteressata mediazione di Gregorio X; ma in appresso i modi orgogliosi di Nicolò III della famiglia degli Orsini, la parzialità di questo pontefice verso i congiunti, offendendo il Franco, alienarono dagl'interessi della Chiesa uno de' suoi più valevoli difensori. Finalmente asceso al soglio pontifizio Martino IV, di nazione francese, approvò, e stava per sortire il suo effetto la Lega instituita contra i Greci, Lega alla quale partecipavano, Filippo, Imperatore latino, il Re delle due Sicilie, la repubblica di Venezia, il primo prestandole il proprio nome, il Papa una Bolla di scomunica, Carlo il Formidabile un rinforzo di quaranta Conti, di diecimila sergenti, di un numeroso corpo d'infanteria e di un navilio di trecento legni da trasporto, i Veneti una squadra di quaranta galee. Il giorno dato al ritrovo di questa numerosa armata nel porto di Brindisi non era ancora giunto, che già trecento cavalieri, impadronitisi dell'Albania, aveano tentato, ma indarno, d'intraprendere la Fortezza di Belgrado. La sconfitta di questi allettò per pochi momenti la vanità della Corte di Costantinopoli; ma Paleologo, assai accorto per vedere l'inferiorità delle sue forze contro tanta oste, affidò la propria sicurezza agli effetti di una congiura, e se è lecito esprimersi in cotal guisa, alla segreta opera di un sorcio che rodea la corda all'arco del tiranno della Sicilia[242].

A. D. 1280

Era fra i dispersi partigiani della Casa di Svevia Giovanni di Procida, scacciato da un'isoletta di questo nome, situata nella baia di Napoli, suo retaggio domestico. Discendente da nobil famiglia, e avendo sortita una colta educazione, potè sottrarsi all'indigenza che insieme all'esilio avrebbe sofferta, professando la medicina, già da lui appresa a Salerno. Sprezzatore oltre ogni credere della vita, come è proprio di chi congiura, non rimanendogli fuor d'essa altra cosa da perdere, possedeva inoltre l'arte di negoziare, di far valer le sue ragioni e di nascondere i proprj fini; per le qual cosa ne' diversi parlamenti che ebbe e con nazioni, e con privati, qualunque parte questi tenessero, sol de' loro interessi sapea mostrarsi studioso. Intanto non eravi genere d'angheria o fiscale, o militare, di cui non avessero a dolersi i novelli Stati dell'Angioino[243], che sagrificava gli averi e le vite de' suoi sudditi dell'Italia alla propria ambizione e alla licenza dei cortigiani. Ben la sua presenza era valevole freno all'odio che gli portavano i cittadini di Napoli; ma la debole amministrazione, e i vizj de' suoi capitani, o governatori si erano fatti scopo al disprezzo e all'indignazione ad un tempo de' Siciliani. Procida pervenuto colla sua eloquenza a ridestare ne' popoli il sentimento di libertà, persuase inoltre ai Baroni che l'interesse di ciascuno di loro stavasi nel difendere la causa comune. Colla speranza di stranieri soccorsi, Giovanni visitò a mano a mano le Corti dell'Imperatore greco, e di Pietro Re d'Aragona[244], che possedeva i paesi marittimi di Valenza e della Catalogna. All'ambizioso Pietro offerse una corona, che questi potea giustamente pretendere, fondandosi sui diritti già acquistati nello sposarsi alla sorella di Manfredi, e sugli estremi voti di Corradino; che dal ferale talamo disegnò, gettando il proprio anello, l'erede dei suoi diritti e il vendicatore della sua morte. Quanto a Paleologo era facile l'indurlo a favorire una impresa che interrompendo al suo nemico il divisamento di portar la guerra fra gli stranieri, gli dava inoltre la briga di difendersi ne' proprj Stati da una congiura: laonde somministrò mille once d'oro, divenute opportunissime ad armare una flotta di Catalani, che sotto bandiera sacra, e col pretesto di mover guerra ai Saracini dell'Affrica, spiegaron le vele. Travestito or da frate, or da mendicante, l'instancabile ministro della congiura corse da Costantinopoli a Roma, e dalla Sicilia a Saragossa. Nel medesimo tempo, Papa Nicolò, nemico personale di Carlo, sottoscrisse un Trattato e un atto di donazione, che trasportava i feudi di S. Pietro dagli Angioini agli Aragonesi. Il segreto di una tanta cospirazione, benchè diffuso in sì grande numero di paesi, e liberamente comunicato a tanta moltitudine di persone che ad essa partecipavano, fu conservato oltre a due anni con una gelosia senza esempio; perchè ciascun cospiratore imbevuto erasi della massima di Procida, il quale avea protestato, che s'ei sospettasse la sua mano sinistra consapevole delle intenzioni della sua destra, non indugierebbe a reciderla. Con tale artifizio profondo e terribile apparecchiava la mina, benchè non potrebbe accertarsi, se la sedizione di Palermo, da cui lo scoppio ne derivò, fosse accidentale o premeditata.

Nel giorno della vigilia di Pasqua, intanto che una processione di cittadini, allor disarmati visitava, una chiesa fuor di città, una donzella d'illustre nascita fu villanamente insultata da un soldato francese[245], la cui audacia venne punita subito colla morte. I colleghi dell'ucciso che sopravvennero, dispersero per un momento la calca; ma il numero e il furor prevalendo, i cospiratori afferrarono l'occasione, onde dilatatosi l'incendio per tutta l'isola, ottomila Francesi rimasero indistintamente trucidati in questa catastrofe cui fu dato il nome di Vespero Siciliano[246]. Dispiegata in tutta la città la bandiera della libertà e della Chiesa, per ogni dove o la presenza, o lo spirito di Procida incoraggiava la sommossa, intantochè Pietro d'Aragona, veleggiando dalla costa d'Affrica a Palermo, entrò nella città fra i plausi de' cittadini che Monarca e liberatore della Sicilia il nomavano. Eguali furono la costernazione e lo stupore di Carlo in udendo la ribellione di un popolo, cui per sì lungo tempo e impunemente avea calpestato; per lo che nel primo impeto di dolore e di divozione fu udito esclamare: «Gran Dio, se hai risoluto umiliarmi, fa che almeno io non discenda con tanto precipizio dal sommo della grandezza.» Richiamata dalla guerra di Grecia la sua armata navale con tanta rapidità che già i porti dell'Italia ne erano pieni, Messina per sua giacitura, si trovò esposta ai primi colpi della regale vendetta. Privi di fiducia nelle proprie forze, e di speranze di soccorso dagli stranieri, i cittadini avrebbero aperte le porte, se il Monarca avesse voluto assicurarli del perdono, e del mantenimento degli antichi lor privilegi; ma questi avea già riassunto l'orgoglio primiero; e le supplichevoli istanze, fattegli dal Legato pontifizio, non valsero ad ottenere da lui che la promessa di risparmiare la città, a patto che gli venissero consegnati ottocento ribelli, de' quali avrebbe egli somministrato il catalogo, e la cui sorte sarebbe intieramente dall'arbitrio suo dipenduta. Mentre la disperazione de' Messinesi riaccendeva il loro coraggio, Pietro d'Aragona in lor soccorso accorrea[247], e la scarsezza de' viveri, e i pericoli dell'equinozio costrinsero l'Angioino a ripararsi alle coste della Calabria. Nel medesimo tempo, l'ammiraglio de' Catalani, il celebre Ruggero da Loria conducendo la sua invincibile squadra a sgomberare il canale, la flotta francese, più abbondante di navigli da trasporto che di galee, rimase, in parte arsa, in parte calata a fondo; il quale avvenimento assicurò l'independenza alla Sicilia, e a Paleologo il trono. Ma questo principe trovavasi agli estremi del viver suo, ed ebbe solamente prima di morire il conforto di sapere la sciagura d'un nemico da lui abborrito quanto apprezzato, perchè si era forse lasciato convincere dall'opinione allor generale, che se Carlo non avesse avuto Paleologo per avversario, era venuto l'istante in cui Costantinopoli e l'Italia obbedissero ad un sol padrone[248]. Da quel punto in appresso, la vita di Carlo non fu che una sequela continua di infortunj. Minacciata dai nemici la sua Capitale, fattogli prigioniero il figlio, Carlo morì senza avere ricuperata la Sicilia; che dopo una guerra di venti anni, venne per Trattato disgiunta dal regno di Napoli, e come regno independente, in un ramo secondogenito della Casa d'Aragona fu trasferita[249].

A. D. 1303-1307

Uom non mi taccierà, almeno lo spero, di superstizione: ma non posso starmi dall'osservare che anche su questa terra, l'ordine naturale degli avvenimenti offre talvolta apparenze fortissime di una retribuzione morale. Il primo Paleologo avea salvato il suo Impero ingombrando i regni dell'Occidente di ribellioni e di stragi; e da questi germi di discordia nacque una generazione d'uomini formidabili che assalirono e crollarono il trono del successore di Paleologo. Ne' secoli più moderni, i debiti e le tasse sono il segreto veleno che rodono gli Stati in seno alla pace; ma ne' governi deboli e irregolari del Medio Evo, questa pace veniva turbata continuamente dalle calamità istantanee che derivavano dall'avere licenziati gli eserciti. Troppo amici dell'ozio per darsi al lavoro, troppo superbi per mendicare la sussistenza, i mercenarj vivevano di ladronecci, e millantando il nome di qualche Capo, la cui bandiera spiegavano per apparir meno spregevoli, si rendevano più molesti; il Sovrano che non abbisognava più del loro braccio, e dalla presenza de' medesimi incomodato, cercava spacciarsene col regalarli agli Stati vicini. Dopo la pace della Sicilia, migliaia di Genovesi, Catalani e d'altre patrie[250], che aveano combattuto per terra e per mare in difesa degli Aragonesi e degli Angioini, si radunarono formando un corpo di nazione per costumanze ed interessi eguali congiunta. Appena seppero l'invasione fattasi dai Turchi nelle province asiatiche dell'Impero d'Oriente, deliberarono procacciarsi, combattendo contr'essi, stipendj e prede; nel qual disegno, Federico Re di Sicilia di tutto buon grado li secondò, largheggiando loro di soccorsi che alla presta gli allontanassero. Dopo venti anni che una cotal gente facea la guerra, non conoscea per sua patria che i campi o le navi; istrutta sol nel combattere, non aveva altra proprietà fuor dell'armi; non sapea ravvisare altra virtù fuor del valore. Le donne che seguivano cotali bande, erano divenute non meno intrepide de' lor mariti od amanti; ed immaginandosi le popolazioni che i Catalani con un sol colpo di sciabola avessero la virtù di spaccare in due parti il cavaliere e il cavallo, questa opinione era già di per se stessa un'arma di più in loro soccorso. Ruggero di Flor, sopra ogni altro Capo di simil genìa, acquistatosi fama, offuscava per merito personale i suoi rivali, i feroci Aragonesi. Figlio di un Gentiluomo alemanno della Corte di Federico II, che avea sposata una nobile donzella di Brindisi, Ruggero fu a mano a mano Templario, apostata, pirata, e per ultimo il più ricco e possente ammiraglio del Mediterraneo. Da Messina a Costantinopoli indirisse il suo corso, seguendolo diciotto galee, quattro più grossi navigli e ottomila venturieri. Andronico il Vecchio, che avea sottoscritto con questo generale un Trattato, prima che ei salpasse dalla Sicilia, tenne la data fede, ed accolse questo formidabile soccorso con un sentimento misto di terrore e di gioia. Assegnate stanze nella sua reggia al valoroso straniero, gli diede in isposa la propria nipote, conferendogli il titolo di Gran Duca, o Ammiraglio della Romania. Dopo qualche tempo di riposo, varcato l'Ellesponto colle sue truppe, Ruggero assalì arditamente i Turchi, e periti per le sue armi trentamila Musulmani in due sanguinose battaglie, liberò dall'assedio che la strignea Filadelfia, e meritossi il nome di liberatore dell'Asia. Ma non andò guari che la schiavitù e la rovina di quelle misere popolazioni venne dietro ad un lampo brevissimo di prosperità. Quegli abitanti, dice uno Storico, fuggirono dal fumo per cader nelle fiamme, e la nimistà de' Turchi era men funesta dell'amicizia dei Catalani. Questi consideravano come loro proprietà le vite e le sostanze di coloro che aveano salvati; le giovani donzelle non si erano sottratte alle persecuzioni di amanti circoncisi che per venire, o di lor grado, o dalla forza costrette, fra le braccia di scorridori cristiani. Ogni riscossione di ammende, o sussidj andava congiunta a sfrenate rapine e ad esecuzioni arbitrarie, dalle quali avendo voluto liberarsi coll'oppor resistenza Magnesia, città dell'Impero, il Gran Duca per gastigarla vi pose l'assedio[251]. Di cotale violenza si scusò in appresso allegando il risentimento di un esercito vittorioso e irritato, capace di non rispettare l'autorità stessa del comandante, e forse anche di minacciarne la vita, se si fosse accinto a punir l'impeto di una fedele soldatesca, provocata a giusto sdegno dal rifiuto con cui la popolazione si sottraeva dal concederle il prezzo pattuito agli ottenuti servigi. Le minacce e le querele di Andronico non giovavano che a far vie più palese la debolezza e lo stato deplorabile dell'Impero. Comunque la Bolla d'Oro imperiale non chiedesse a Ruggero di Flor che cinquecento uomini a cavallo e mille fanti, nonostante il Monarca avea presa al servigio e nodrita tutta la ciurma de' volontarj accorsa ne' suoi Stati sotto le bandiere del condottier catalano. Mentre le più prodi milizie collegatesi coll'Impero si contentavano di uno stipendio di tre bisantini d'oro al mese, ognuno di tai fuorusciti riceveva una, o due once d'oro, il che formava un soldo annuale di cento lire sterline. Uno de' costoro Capi avea modestamente attribuito un valore di trecentomila scudi ai suoi servigi avvenire. Laonde pel mantenimento di questi dispendiosi mercenarj, era già uscito più di un milione fuor dell'erario imperiale. Percossi con disastrosissime tasse i ricolti degli agricoltori, tolto un terzo de' loro salarj agli uffiziali pubblici, il titolo della moneta avea sofferta una sì obbrobriosa alterazione che in ventiquattro parti di essa più di cinque d'oro non se ne trovavano[252]. Avendo l'Imperatore intimato a Ruggero di sgomberar la provincia, questi obbedì di buon grado, perchè non vi restava più cosa da saccheggiare; ma ricusò di licenziare le truppe, e comunque fosse annunziato in termini rispettosi un simil rifiuto, non dimostrava meno independenza e ribellione; perchè protestò che, se l'Imperatore avesse mosso contro di lui, ei sarebbe andato quaranta passi verso il medesimo per baciare la terra prostratoglisi innanzi; ma che poi nel rialzarsi da quell'umil postura, non avrebbe potuto dimenticare che sacre erano ai proprj fratelli d'armi la sua sciabola e la sua vita. Egli si degnò accettare il titolo di Cesare e le insegne di tal dignità; ma propostogli il Governo dell'Asia, e un sussidio in biade e danari col patto di ridurre le sue truppe al picciol numero di tremila uomini, ricusò tale offerta. Essendo l'assassinio il provvedimento cui per ultimo i codardi soglion ricorrere, e la curiosità avendo condotto il nuovo Cesare alla reggia di Andrinopoli, ove risedeva allora la Corte, gli Alani della guardia imperiale lo trafissero negli appartamenti e alla presenza della medesima Imperatrice; nè v'è troppo luogo a dire che ei cadesse vittima di una vendetta particolare di costoro, come si pretese far credere, perchè gli altri compatriotti di Ruggero, mentre se ne stavano tranquillamente, e riposando sulla fede de' Trattati, in Bisanzo, vennero nel medesimo tempo compresi in una proscrizione generale che il Principe e il Popolo profferirono congiuntamente. La maggior parte di questi venturieri, sbigottiti per la perdita del loro Capo, e rifuggiti ai propri navigli, salparono per cercarsi dimora in varie parti della costa mediterranea. Però una vecchia banda composta di mille cinquecento Catalani, o Francesi, mantenutasi sulla Fortezza di Gallipoli nell'Ellesponto, ivi spiegò la bandiera aragonese, offrendosi a giustificare e vendicare il suo Generale, mercè un combattimento di dieci, o cento guerrieri contra un egual numero di nemici. Anzichè accettare l'ardimentosa disfida, l'Imperatore Michele, figliuolo e collega di Andronico, venne in sentenza di opprimerli colla superiorità del numero. Senza badare che ei riducea con ciò ad ultimo impoverimento l'Impero, raccolse un esercito di tredicimila uomini a cavallo, e di trentamila fanti, coprendo la Propontide di greci e genovesi navigli. Ma di queste sì ragguardevoli forze, e per terra e per mare, trionfarono i Catalani, animati dalla disperazione, e superiori ai Greci per disciplina. Il giovine Imperatore, riparatosi al suo palagio, lasciò un corpo di cavalleria leggiera, che difendeva il paese. Per cotali vittorie rialzatesi le speranze de' venturieri, ben tosto crebbero anche di numero, perchè guerrieri di tutte le nazioni, si unirono sotto lo stendardo e il nome della Grande Compagnia; alla qual congrega militare si aggiunsero tremila Maomettani convertiti che abbandonarono le bandiere imperiali. Il possedimento di Gallipoli dava abilità ai Catalani d'impacciare il commercio di Costantinopoli e del mar Nero, intanto che i lor compagni da' due lati dell'Ellesponto disastravano le frontiere dell'Europa e dell'Asia. Non trovando miglior modo di tenerseli lontani, i Greci, diedero eglino stessi il guasto a tutti i dintorni di Bisanzo: i contadini si ritrassero entro le mura della città colle loro mandrie, uccidendo in un sol giorno tutta quella parte di esse che non poteano nè rinchiudere, nè nudrire. Per quattro volte Andronico rinovò proposte di pace che sempre furono inflessibilmente respinte; se non che la scarsezza de' viveri e le discordie de' Capi, costrinsero finalmente i Catalani a sottrarsi dalle rive dell'Ellesponto e dalle vicinanze della Capitale. Gli avanzi della Grande Compagnia, dopo essersi divisi dai Turchi, continuarono le loro corse per traverso alla Macedonia e alla Tessaglia, cercandosi nuove stanze nel cuor della Grecia[253].

A. D. 1204-1458

Dopo alcuni secoli che i Greci erano stati dimenticati, l'invasione dei Latini non li ridestò che per sottometterli a nuovi disastri. Durante due secoli e mezzo che trascorsero fra la prima e l'ultima conquista di Costantinopoli, una moltitudine di tirannetti si disputò la venerabile greca contrada. Le sue antiche città erano in preda a tutti i mali delle guerre civili e straniere, senza che i vantaggi almeno del genio e della libertà li confortasse; a tal che, se la servitù è da preferirsi all'anarchia, la Grecia non dee dolersi di riposare sotto il giogo degli Ottomani. Non mi accingerò presentemente a tessere l'oscura storia delle diverse dinastie che successivamente sorsero e caddero sul continente e nell'isola, ma un senso di gratitudine verso il primitivo soggiorno delle Muse e della filosofia dee far sì che ciascun istrutto leggitore prenda parte al destino di Atene[254]. Nel parteggiamento dell'Impero, il principato di Atene e di Tebe era stato dato in ricompensa ad Ottone De la Roche, nobile guerriero della Borgogna[255], che governò col titolo di Gran Duca[256], al qual titolo i Latini attribuivano un particolare significato, e i Greci una ridicola origine che fino ai giorni di Costantino ascendea[257]. Il ridetto Ottone seguiva gli stendardi del Marchese di Monferrato; e il figlio e due pronipoti del medesimo conservarono tranquillamente il vasto patrimonio, che o per un miracolo di buona condotta, o per fortuna era stato acquistato dal Capo di lor famiglia[258], sino al momento in cui l'erede di tale famiglia contrasse tai nozze, che senza distoglierlo dalle mani de' Francesi lo trasportarono nel ramo primogenito della Casa di Brienne. Gualtieri di Brienne, nato da questo maritaggio, e succeduto alla madre nel ducato d'Atene, prese al suo servigio alcuni mercenarj Catalani, che presentati di feudi dal Gran Duca, lo fecero padrone di più di trenta castelli, spettanti dianzi a diversi Nobili, o vassalli del principato d'Atene, o che solamente vi confinavano. Avvertito Gualtieri dell'avvicinamento e delle intenzioni della Grande Compagnia adunò settecento cavalieri, seimila sergenti, e circa ottomila uomini di fanteria, a capo delle quali truppe corse incontro al nemico sino alle rive del Cefiso in Beozia. Comunque le forze dei Catalani non sommassero che a tremila cinquecento uomini a cavallo, e a quattromila fanti, la buona disciplina e l'astuzia lor tenea luogo di numero; laonde avendo essi innondati artifizialmente i dintorni del proprio campo, e il Gran Duca, seguìto dai suoi cavalieri essendosi innoltrato senza timore, nè cautela nel mezzo di quella valle, i cavalli affondarono nella melma, e la maggior parte della francese cavalleria fu tagliata a pezzi. Scacciati della Grecia i Francesi, e la famiglia di Gualtieri, il figlio di lui, di nome parimente Gualtieri, Duca titolare d'Atene, tiranno di Firenze e Contestabile di Francia, ne' campi di Poitiers perdè la vita. I vittoriosi Catalani, scompartitisi fra loro l'Attica e la Beozia, sposaron le vedove e le figlie de' vinti, e per quattordici anni la Grande Compagnia fece tremare tutta la Grecia. Ma dilacerata da intestine discordie, si vide alla necessità di riconoscere un Sovrano nel Capo della famiglia di Aragona; per lo che sino alla fine del secolo XIV, i Re di Sicilia arbitrarono sopra Atene, siccome governo, o appannaggio spettante ai loro dominj. Dopo de' Francesi e de' Catalani, la famiglia Acciaiuoli, plebea a Firenze, possente a Napoli, sovrana in Grecia, fondò la terza dinastia e abbellì di nuovi edifizj Atene, divenuta capitale d'un regno, che comprendeva Tebe, Argo, Corinto, Delfo e una porzione della Tessaglia. Ma questo governo disparve per l'armi vincitrici di Maometto II, che fece strozzare l'ultimo Gran Duca, e allevarne i figli nella disciplina e religione del Serraglio.

Benchè oggidì non rimanga che l'ombra di Atene[259], cotesta città contiene tuttavia otto o diecimila abitanti. I tre quarti son Greci di lingua e di religione; il rimanente Turchi, che contraendo vincoli di consuetudine co' primi hanno alquanto mansuefatto l'orgoglio e la gravità nazionale. L'olivo, dono di Minerva, verdeggia tuttavia nelle campagne dell'Attica, e il mele del monte Imeto, nulla ha perduto del suo squisito profumo[260]. Ma il commercio ivi languisce, e sta affatto nelle mani degli stranieri: la coltura di quello sterile territorio è abbandonata agli erranti Valacchi. Ciò nullameno gli Ateniesi si contraddistinguono tuttavia per acume e vivacità d'ingegno, ma son tai vantaggi, che, se non li regola, o coltiva lo studio, se il sentimento della libertà non li nobilita, tralignano in una vil propensione all'inganno; quindi è che gli abitanti di que' dintorni hanno adottato il proverbio. «Dio ne liberi dagli Ebrei di Tessalonica, dai Turchi di Negroponte, dai Greci di Atene.» Di fatto questo scaltrito popolo ha evitata la tirannide dei Pascià, mediante un espediente, che mitigandone la schiavitù, ha fatto maggiore l'obbrobrio della nazione. Verso la metà dello scorso secolo, gli Ateniesi scelsero per loro protettore il Kislar-Agà, ossia Capo degli eunuchi negri del Serraglio; e a questo schiavo di Etiopia, che gode di molta confidenza presso il Gran Signore, porgono un annuale tributo di trentamila scudi. Il Vevoda, luogotenente del Kislar-Agà, che per mantenersi nella sua carica, debbe esservi confermato ogni anno dal suo superiore, ha il diritto di gettare un'imposta d'altri cinque, o seimila scudi che sono per lui; e tale è l'accorta politica degli Ateniesi, che arrivano quasi sempre a far punire, o rimovere un Governatore contro del quale abbiano motivi di querelarsi. Nelle particolari loro contese prendono per giudice l'Arcivescovo, il più ricco di tutti i prelati della Chiesa greca, che gode una rendita di circa mille lire sterline. Evvi inoltre un tribunale di otto geronti, ossia vecchi scelti negli otto rioni della città. Le famiglie nobili non possono provare autenticamente una nobiltà più antica di tre secoli, ma i primarj fra essi distinguonsi ostentando portamento grave, la lor berretta foderata di pellicia, e il pomposo nome di Arconti. Coloro che si dilettano di trovare per ogni dove le antitesi, ne vogliono dar a credere che l'odierno gergo degli Ateniesi sia il più barbaro di tutti i settanta dialetti greci corrotti[261]. Avvi per vero dire esagerazione in ciò; ma non sarebbe cosa sì facile, nella patria di Platone e di Demostene, il trovare un leggitore degli ammirabili componimenti di questi sommi uomini, o forse neppure una copia di questi scritti medesimi. Gli Ateniesi calpestano con insultante indifferenza le gloriose rovine dell'Antichità, giunti a tal grado d'invilimento che li rende perfino incapaci di ammirare la sublimità delle menti de' loro predecessori[262].

CAPITOLO LXIII.

Guerre civili e rovine dell'Impero greco. Regni di Andronico il Vecchio, di Andronico il Giovane, e di Giovanni Paleologo. Reggenza, sommossa, regno e rinunzia di Giovanni Cantacuzeno. Fondazione di una colonia genovese a Pera e a Galata. Guerre de' Coloni contro l'Impero e la città di Costantinopoli.

A. D. 1282-1320

Il lungo regno di Andronico il Vecchio[263] non è memorabile che per le dispute della Chiesa greca, per l'invasione de' Catalani, per l'aumento della grandezza ottomana. Benchè questo Principe sia stato celebrato come il sovrano più dotto e virtuoso del proprio secolo, la sua scienza e virtù non contribuirono nè a far lui più perfetto, nè a rendere più felice la società. Schiavo di assurdissime superstizioni, sempre trovandosi in mezzo a nemici, or reali, or fantastici, la sua immaginazione non era meno ferita dal timore delle fiamme dell'inferno,[264] che da quello de' Turchi o de' Catalani. Fu sotto il regno di Paleologo che la elezione di un patriarca riguardavasi come il più serio affar dello Stato. I Capi della Chiesa greca erano frati ambiziosi e fanatici, spregevoli e funesti egualmente pei lor vizj e per le loro virtù, per la loro ignoranza e per la loro dottrina. I rigorosi precetti del Patriarca Atanasio[265] mossero a sdegno il popolo e il clero, perchè fu udito intimare ai peccatori la necessità di bere sino al fondo il calice della penitenza, e sopra di lui spargeasi la ridicola novelletta dell'asino sacrilego, che egli punì per averlo trovato mangiando una lattuga nell'orto d'un chiostro. Scacciato il Patriarca dalla sua cattedra per calmare le pubbliche grida, compose prima di ritirarsi due scritti di un tenore affatto contraddittorio, perchè l'un d'essi, che era il suo testamento pubblico, spirava soltanto rassegnazione e carità: l'altro, codicillo particolare, lanciava tremendi anatemi sugli autori della sua disgrazia, escludendoli per sempre dalla comunione della Santissima Trinità, de' Santi e degli Angeli; il quale ultimo scritto, rinchiuso entro una pentola di terra, egli fece depositare sull'alto di un pilastro della cupola di S. Sofia, sperando che tal suo decreto, venendo un giorno alla luce, lo vendicasse. Di fatto, dopo quattro anni, alcuni fanciulli arrampicandosi sopra scale da architetti per cercar nidi di colombi, il fatale segreto scopersero; onde Andronico che si trovava compreso nella scomunica, tremò sull'orlo dell'abisso perfidamente scavato sotto i suoi passi. Fatto immediatamente assembrare un sinodo di vescovi a fine di discutere questo punto importante, venne unanimemente riprovato quell'impeto di stizza che avea suggerito il clandestino anatema al Prelato; ma poichè la forza di un anatema non poteva essere sciolta che da chi l'avea pronunziato, e un Patriarca rimosso dalla sua sede non godea la facoltà di concedere una tale assoluzione, si giudicò non esservi potenza sulla terra che potesse togliere il suo valore a quella sentenza. Venne costretto l'autor del disordine a manifestare qualche debole contrassegno di aver perdonato, e di essere pentito di quell'atto del proprio sdegno; ma non quindi tranquilla la coscienza dell'Imperatore, il debole principe non desiderava, men d'Atanasio medesimo, di veder riascendere il soglio patriarcale a quel solo Prelato che gli poteva restituire la pace. Nel mezzo di una notte, un frate dopo avere urtato aspramente contro la porta della stanza ove l'Imperatore dormiva, gli annunziò una rivelazione di peste, fame, tremuoto e innondazione. Atterrito Andronico, balza dal letto, passa il rimanente della notte in preghiere, e intanto sentì o gli parve sentir tremare la terra. Immantinente, seguìto da un corteggio di Vescovi, si trasferì alla celletta di Atanasio, e questo Santo, per opera di cui era il messaggio che aveva empiuto di spavento l'Imperatore, dopo essersi fatto convenevolmente pregare, acconsentì di assolvere il Principe e di ritornare al governo della Chiesa di Costantinopoli; ma invece che le passate disgrazie ne avessero ammollito l'animo, l'indole sua era divenuta ancor più aspra nella solitudine, onde il pastore si fece nuovamente abborrire dalla sua greggia. I nemici di lui idearono e misero ad effetto un metodo singolar di vendetta. Levato di notte tempo lo strato che stava a piedi della sua cattedra, tornarono indi a metterlo a suo luogo, coll'aggiunta di un disegno in caricatura che rappresentava il Sovrano colla briglia in bocca, e Atanasio che tenendo le redini, conducea la docile bestia a' piè dell'altare. Scoperti gli autori dell'insulto vennero puniti, ma non colla morte; laonde il Patriarca sdegnato perchè gli parea troppo mite la pena, cercò una seconda volta la sua celletta, e Andronico aperse gli occhi per un istante, ma tornò poi a chiuderli sotto il successor di Atanasio.

Se nel durare d'un regno di cinquant'anni non sono accadute bisogne più rilevanti di questa or raccontata, non posso almeno dolermi della scarsezza di materiali, allorchè riduco in poche pagine gli enormi volumi in foglio di Pachimero[266], di Cantacuzeno[267] e di Niceforo Gregoras[268], autori della prolissa e languida Storia di que' giorni. Il nome di Giovanni Cantacuzeno, e le circostanze, fra le quali questo Principe si trovò, son fatte certamente per chiamare sugli scritti del medesimo una viva curiosità. Ma ne' suoi Comentarj che comprendono un intervallo di quarant'anni dalla ribellione d'Andronico il Giovine, fino al momento in cui rassegnò egli stesso l'impero, si è dovuto osservare essere egli, non men di Cesare e di Mosè, l'attor principale delle scene che imprende a descrivere; e per altra parte nella sua eloquente opera cercheremmo invano la sincerità d'un eroe, o d'un penitente. Benchè ritirato in un chiostro, e lontano dai vizj e dalle passioni del secolo, egli ne ha offerto meno una confessione che una apologia della vita di un ambizioso politico. Anzichè dipingere i caratteri e i divisamenti de' suoi personaggi, ne presenta soltanto agli sguardi, una superficie speciosa e sfumata degli avvenimenti, colorita dalle lodi che dispensa a sè medesimo e a suoi partigiani. I motivi di questa gente son sempre puri, i fini, legittimi; se cospirano, se ribellano, nol fanno mai con mire di interesse, le violenze o commesse, o tollerate da essi sono atti lodevoli, son naturali conseguenze della ragione e della virtù.

A. D. 1320

Ad imitazione del primo fra i Paleologhi, Andronico il Vecchio collegò agli onori della porpora il proprio figlio Michele; riguardato, dalla età di diciotto anni fino alla sua morte immatura (intervallo di cinque lustri) come secondo Imperatore de' Greci[269]. Condottiero degli eserciti nè diede ai nemici inquietudine, nè gelosie alla Corte: incapace di colpevoli desiderj, non calcolò mai gli anni della vita del padre, nè questo padre o ne' vizj, o nelle virtù del figlio trovò motivi di pentirsi d'averlo innalzato. Il figlio di Michele portava il nome dell'avolo Andronico, che per questa circostanza lo avea preso di buon'ora in grandissimo affetto; e lo spirito e l'avvenenza del giovinetto accrebbero la tenerezza del vecchio, venuto nella speranza che i suoi voti delusi nel primo suo discendente, sarebbero nel secondo compiuti. Questo nipote adunque fu educato nella reggia, come erede dell'Impero e favorito dell'Imperatore, e ne' giuramenti e nelle acclamazioni del popolo, i nomi del padre e del figlio e del pronipote formavano un'augusta Trinità. Ma tale immatura grandezza ben presto corruppe Andronico, il quale con puerile impazienza considerava il doppio ostacolo che poneasi, e potea opporsi per lungo tempo, agli slanci della sua ambizione. Non che la sete di ottenere gloria, o di potere adoperarsi alla felicità de' suoi popoli, questa sua impazienza movesse; perchè la ricchezza e l'impunità delle azioni erano agli occhi di lui le più preziose prerogative di cui godesse un Monarca. Laonde incominciò a farsi conoscere qual era colla domanda di alcune fertili e ricche isole, ove poter condurre la sua vita in seno alla independenza e ai piaceri; diede indi motivi di scontento all'Imperatore pe' clamorosi disordini che, grazie alle sregolatezze del medesimo, turbavano la Capitale. Avendo egli preso ad imprestito dai Genovesi di Pera quelle somme di danaro che la parsimonia dell'avo gli ricusava, intantochè questi debiti gli avean giovato ad assicurarsi una fazione di partigiani, erano cresciuti a tale che solamente una rivoluzione pagar li poteva. Una donna avvenente e di chiari natali, ma pe' suoi costumi vera cortigiana, avea fornite le prime lezioni d'amore al giovine Andronico, e venuto questi in sospetto che ella ricevesse di notte tempo un rivale, pose in agguato dinanzi alla casa della medesima le proprie guardie, che trapassarono colle lor frecce un estranio mentre passava per quella strada; estranio che fu riconosciuto da lì a poco essere il principe Manuele, il quale più non si riebbe, ed infine morì per gli effetti di quella ferita. Otto giorni dopo tal morte, Michele la cui salute era andata declinando continuamente, morì deplorando la perdita d'un figlio, il traviamento dell'altro[270]. Benchè l'intenzione del giovine Andronico nella morte del fratello non fosse concorsa, ei non dovea riguardar meno, e in questa e in quella del padre gli effetti della sua viziosa condotta; onde gli uomini capaci di meditare e sentire videro con profondo dolore come il ridetto Principe, anzichè manifestare tristezza o rimorsi, dissimulava a fatica la gioia per trovarsi libero da due competitori. Tai funesti avvenimenti, e altri disordini che accaddero ancora, distolsero a grado a grado dal nipote l'animo dell'avolo che dopo avere sperimentati vani i consigli e i rimproveri, trasportò sopra un terzo figlio del defunto Michele le sue speranze ed affezioni[271]; cambiamento politico che venne annunziato col chiamare il popolo a dar nuovo giuramento di fedeltà al Sovrano, ed al successore al trono che questi disegnerebbe. Al mal umore manifestato dall'escluso si unirono nuove colpe, per le quali, tornando sempre indarno i rimproveri, all'ignominia di un processo pubblico si vide esposto. Ma quando stava per profferirsi la sentenza, che forse avrebbe condannato il colpevole a condurre il rimanente de' suoi giorni rinchiuso in un carcere, o in un monastero, l'Imperatore ricevè la notizia che i partigiani armati del nipote, tutti i cortili del palagio tenevano. Allora acconsentì a cambiare il solenne giudizio in un Trattato di riconciliazione, la qual vittoria incoraggiò a nuove colpe il giovane Andronico e i suoi amici.

Ciò nullostante la Capitale, il Clero e il Senato parteggiando tuttavia pel vecchio Imperatore o almeno pel suo governo, i turbolenti non poteano fondare le loro speranze di trionfare e di rovesciare il trono che sopra la fuga e il soccorso degli stranieri. Il Gran Domestico, Giovanni Cantacuzeno era l'anima della colpevole impresa. Dal punto che egli abbandonò fuggendo Costantinopoli, incominciano i suoi Comentarj e gli atti che lo danno a conoscere. Il suo amore verso la patria, è egli solo che il lodi; quanto poi allo zelo e alla destrezza di cui diè prova a favore del suo protetto, anche uno Storico della parte contraria gli rende giustizia. Il giovine Andronico adunque fuggito dalla Capitale col pretesto di andare alla caccia, spiegò, giunto ad Andrinopoli lo stendardo della ribellione, ed ebbe in breve sotto di sè un esercito di cinquantamila uomini, che, per sentimento di dovere o di onore, contra i Barbari non avrebbero prese l'armi. Una forza sì ragguardevole era quanto bastava per salvar l'Impero, o per imporgli la legge; ma dominando la discordia ne' consigli de' ribellanti, procedeano lenti ed incerti, intanto che la Corte di Costantinopoli con sorde pratiche e negoziati le costoro fazioni impacciava. Laonde avvenne che i due Andronici durarono sette anni protraendo, sospendendo, rinovando le disastrose loro contestazioni. Con un primo Trattato si spartirono fra loro gli avanzi dell'impero, rimanendo Costantinopoli, Tessalonica e le isole al vecchio Andronico, e divenendo il Giovine indipendente Sovrano di quasi tutta la Tracia, da Filippi fino alle pertenenze di Bisanzo. Mediante un secondo Trattato (A. D. 1325) il giovine Andronico si assicurò l'immediata incoronazione, il pagamento di quanto era dovuto al suo esercito, un parteggiamento eguale di rendite e di potere coll'avo. Colla sorpresa di Costantinopoli e colla ritirata definitiva del vecchio Andronico terminando la terza guerra civile, il giovine vincitore tenne solo l'Impero. La ragione di tali lentezze può trovarsi esaminando il carattere degli uomini e l'indole del secolo. Allorchè l'erede del trono fe' palesi i primi torti che avea ricevuti e i timori concetti, i popoli lo ascoltarono con sollecitudine e gli fecero plauso. I messi del giovine ribelle notificarono per ogni dove che il nuovo Sovrano avrebbe aumentati gli stipendj delle milizie e alleggeriti di una parte di tasse i suoi sudditi; nè si badò, come queste due promesse si distruggessero l'una coll'altra. Tutti gli abbagli commessi durante un regno di quarant'anni apparvero buone ragioni per una sommossa: e la nuova generazione vedea con dispetto protraersi all'infinito il regno d'un Principe, le cui massime e i favoriti a un altro secolo apparteneano, e la vecchiezza del quale non inspirava rispetto, perchè mancò d'energia la sua gioventù. Di fatto le pubbliche tasse fruttandogli una rendita di cinquecentomila libbre d'oro, e facendolo il più ricco di tutti i Principi cristiani, egli non era stato capace di mettere in armi tremila uomini a cavallo e trenta galee per impedire i progressi e i devastamenti de' Turchi; laonde il suo nipote Andronico soleva esclamare[272]. «Oh! come è diversa la mia condizione da quella del figlio di Filippo! Alessandro si dolea che suo padre non gli lascerebbe nulla da conquistare; quanto a me, il mio avo non mi lascerà nulla da perdere.» Ma i Greci ben tosto s'avvidero non essere la guerra civile un buon rimedio ai mali che li premevano, nè trovarsi nel giovane da lor prediletto le qualità necessarie a divenire il salvatore di un Impero che declinava. Alla prima sconfitta che questi soffersero, la fazione de' suoi incominciò a sciogliersi per la spensieratezza del condottiero, per le discordie che insorsero fra i partigiani, e per le pratiche della vecchia Corte che seppe indurre i mal contenti a far diffalte o a tradire la causa de' ribelli. Andronico il Giovane lasciatosi vincere dai rimorsi, già stanco degli affari, ingannato fors'anche dalle negoziazioni, o più avido di piaceri che di possanza, calò a patti sì fattamente che l'ottenuta facoltà di mantenere mille cani da caccia, mille falchi, e mille cacciatori, bastò a disarmare la sua ambizione, come a coprir d'obbrobrio il suo nome.

Consideriamo ora la catastrofe di questo intreccio sì avviluppato, e lo stato definitivo de' principali personaggi[273]. Andronico l'avo trascorse tutta la vecchiezza in mezzo alle civili discordie; i variati eventi della guerra, o de' Trattati lo diminuirono a mano a mano e di potere e di fama, sino alla fatal notte in cui il giovine Andronico s'impadronì, senza trovar resistenza, della città e della reggia. Il Comandante in capo disdegnando gli avvisi che sull'imminente pericolo gli venivano dati, dormiva tranquillamente sul proprio letto abbandonandosi ad una sicurezza figlia dell'ignoranza, intanto che il debol Monarca, non mai sgombro l'animo d'inquietudini, stavasi in mezzo alle sue turbe di paggi e d'ecclesiastici. Non andò guari che i suoi terrori prendendo un fondamento reale, si udirono per ogni intorno le acclamazioni che gridavano il nome e la vittoria dal giovine Andronico. Prostrato a' piedi di una immagine della Madonna, inviò umilmente messi per consegnare lo scettro al vincitore e chiedergli in dono la vita. Convenevole e rispettosa fu la risposta di questo: egli s'incaricava, dicea, del governo per arrendersi ai voti del popolo; ma non quindi il suo avo rimarrebbe privo della propria dignità e supremazia. Il vincitore gli lasciava il suo palagio, assegnandogli ventiquattromila piastre d'oro, la metà della qual somma l'imperiale erario avrebbe fornita, l'altra metà si leverebbe dalle pesche di Costantinopoli. Ma spogliato Andronico del potere, cadde ben presto in dimenticanza e in dispregio. Il silenzio del suo palagio non era più interrotto che dalle bestie domestiche e dai polli del vicinato che i cortili solitarj ne ingombravano impunemente. Il suo assegnamento fu ridotto a diecimila piastre d'oro[274] che a stento gli venivan pagate. Ad aggravarne i patimenti si aggiunse l'indebolimento della vista. Ciascun giorno, diveniva più rigorosa la sua prigionia; e nel tempo di un'assenza e di una infermità del suo nipote, i barbari carcerieri con minaccia di morte il costrinsero a dimettere la porpora per abbracciare l'abito e la professione monastica. Il frate Antonio (che l'infelice assunse un tal nome) avea bensì rinunziato alle vanità del Mondo, ma si trovò alla necessità di chiedere che la sua rozza lana da frate fosse foderata di pelliccia per difendersi dai rigori del verno: il vino gli era proibito dal confessore, l'acqua dal medico; onde fu obbligato a non usar d'altra bevanda fuor del sorbetto d'Egitto; e l'antico Imperator de' Romani, non senza fatica giunse a procurarsi tre o quattro piastre d'oro per provvedere a sì modesti bisogni. Se poi è vero che di questo poco danaro egli si valse ad alleviare i mali d'un amico che si trovava in angustie anche maggiori, un tal sagrifizio non è privo di merito agli occhi della religione e della umanità. Quattro anni dopo la sua rinunzia, Andronico, ossia frate Antonio, spirò nella sua celletta in età di settantaquattro anni, e quanto gli poterono promettere gli ultimi discorsi dell'adulazione si stette in una corona più splendida di quella che in questo corrotto Mondo aveva portata[275].

A. D. 1332

Il regno di Andronico il Giovane non fu nè più glorioso, nè più fortunato di quello dell'avo[276]. Non godè che per pochi istanti, e misti di amarezza, i frutti della sua ambizione. Spogliatosi nell'ascendere il trono, di quanto dell'antica popolarità rimanevagli, allora i difetti dell'indole sua si scorsero più chiaramente. I lamenti del pubblico contro di lui lo costrinsero a guerreggiare in persona i Turchi; nè nell'istante del pericolo difettava già di coraggio; ma dalla sua spedizione non riportò miglior trofeo di una ferita, e gli Ottomani vincitori consolidarono vie più la loro monarchia. Giunti all'estremo i disordini della amministrazione civile, la sprezzante negligenza con cui Andronico riguardava le consuetudini della nazione, lo trasse ad introdurre riforme nel modo di vestire del paese, cosa che i Greci deplorarono, come funesto sintomo dello scadimento dell'Impero. Gli stravizj della gioventù gli avevano affrettata l'età de' malori; onde riavutosi appena, fosse per opera della natura, o de' medici, o d'un miracolo della Beata Vergine, da una pericolosissima infermità, morì quasi d'improvviso giunto al quarantacinquesimo anno della sua vita. Ebbe due mogli, alemanna l'una, italiana l'altra, perchè i progressi de' Latini, così nell'arti come nella guerra, aveano mitigati i pregiudizj della Corte di Bisanzo. La prima di queste, conosciuta nella sua patria col nome d'Agnese, e con quello d'Irene in Grecia, era figlia del Duca di Brunswick. Il padre della medesima,[277] picciolo Sovrano[278] d'un paese povero e selvaggio del Nort dell'Alemagna[279], traeva qualche rendita dalla sue mine d'argento[280], benchè i Greci ne abbiano esaltata la famiglia, come la più antica e la più nobile fra le schiatte teutoniche[281]. Morta Irene non lasciando prole, Andronico sposò Giovanna sorella del Conte di Savoia[282], negata, per maritarla ad un Imperator greco, al Re di Francia[283]. Il Conte, onorando in sua sorella il titolo d'Imperatrice, la fe' accompagnare da numeroso seguito di nobili donzelle e di cavalieri: fu rigenerata e coronata nella chiesa di S. Sofia col nome più ortodosso di Anna. In occasione di tali nozze, i Greci e gl'Italiani si disputarono ne' tornei, e con giostre militari, il premio della destrezza e del valore.

A. D. 1341-1391

L'Imperatrice Anna di Savoia sopravvisse al marito. Giovanni Paleologo, erede del trono in età di nove anni, ebbe per protettore della sua infanzia il più illustre e il più virtuoso fra i Greci. La sincera e tenera amicizia che il padre del giovinetto conservò mai sempre a Cantacuzeno fa onore del pari al Principe ed al ministro. Erano presso che eguali per nobiltà di nascita il padrone ed il suddito[284]. Nato lo scambievole loro affetto fra' comuni passatempi della giovinezza, i pregi d'un animo ingentilito da colta educazione privata teneano nel suddito vece del nuovo lustro che dalla porpora il Principe ricevea. Noi abbiam veduto Cantacuzeno sottrare il giovine Imperatore alla vendetta dell'avo, e dopo sei anni di guerra civile, ricondurlo trionfante al palazzo imperiale di Costantinopoli. Sotto il regno d'Andronico il Giovane, il Gran Domestico governò l'Imperatore e l'Impero; ricuperò l'Isola di Lesbo, e il principato di Etolia; gli stessi nemici di Cantacuzeno son ridotti a confessare che in mezzo ai depredatori delle pubbliche sostanze, egli solo si conservò moderato e riguardoso. Osservando di fatto che egli spontaneo ne dà a conoscere lo stato di sue ricchezze,[285] vi è luogo a presumere che ei le abbia ricevute per eredità, non aumentate per via di rapine. Per vero dire, egli non ispecifica lo stato della sua cassa, il valore dei suoi vasellami ed arredi. Nondimeno dopo il dono volontario ch'ei fece di dugento vasi d'argento, dopo tutti quelli ch'ei mise in deposito presso gli amici, dopo quel molto che i nemici gli tolsero, i suoi tesori confiscati bastarono ad allestire una flotta di settanta galee. Cantacuzeno non ne offre una minuta descrizione de' suoi dominj; ma i granai del medesimo racchiudevano immensa copia di orzo e di frumento; e regolando i calcoli colla pratica dell'antica agricoltura, le mille paia di buoi adoperati alla coltivazione de' suoi terreni indicavano almeno sessantaduemila cinquecento acri di terreno dissodato[286]. I pascoli di Cantacuzeno manteneano mille cinquecento cavalli, dugento cammelli, trecento muli, cinquecento asini, cinquemila buoi, cinquantamila porci e settantamila pecore[287]. Una sì immensa ricchezza rurale dee parerne sorprendente ne' giorni dello scadimento dell'Impero, e massimamente nella Tracia, provincia devastata a mano a mano da tutte le fazioni. Il favore del Sovrano superò ancora la ricchezza del suddito, perchè in alcuni momenti di famigliarità, e durante la malattia di Andronico, questi mostrò il desiderio di toglier di mezzo la distanza che li separava, pregando il suo amico ad accettare il diadema e la porpora. Il Gran Domestico ebbe virtù bastante per resistere ad una offerta così seducente; almeno egli lo afferma nella sua Storia. L'ultimo testamento di Andronico il Giovane nominò Cantacuzeno tutore del figlio e Reggente dell'Impero.

A. D. 1341

Se in compenso de' prestati servigi, il Reggente avesse ottenuta una giusta retribuzione di gratitudine e di docilità, la purezza del suo zelo per gl'interessi del pupillo non si sarebbe forse smentita[288]. Cinquecento scelti soldati difendevano la persona del giovine Imperatore e la reggia; vennero celebrate con decoro le esequie del defunto Andronico; la tranquillità della Capitale ne annunciava la sommessione; cinquecento lettere inviate nelle province entro il primo mese che seguì la morte del Monarca, le fecero istrutte delle ultime volontà del medesimo. Ma questa felice prospettiva di una tranquilla minorità fu distrutta dall'ambizione del Gran Duca o ammiraglio Apocauco, la cui perfidia vien dipinta sotto le più odievoli forme dall'augusto Storico che confessa la propria imprudenza nell'avere innalzato Apocauco alla dignità di Gran Duca, a malgrado dell'opinione contraria del defunto Sovrano che avea più acume di lui. Audace e scaltro, prodigo e dominato dalla cupidigia, l'Ammiraglio faceva obbedire i proprj vizj alle mire della sua ambizione, il proprio ingegno alla rovina della sua patria. Fatto orgoglioso dal comando di una Fortezza, e dall'altro degli eserciti navali di tutto l'Impero, Apocauco congiurava contro il proprio benefattore, largheggiandogli nel medesimo tempo di assicurazioni di affetto e di fedeltà. Vendute a costui tutte le matrone della Corte dell'Imperatrice, ogni divisamento del medesimo secondavano. Essendo pertanto riescito far sì che Anna di Savoia ridomandasse la tutela del proprio figlio, quest'atto ebbe colore di materna sollecitudine; giacchè l'esempio del primo Paleologo ne instruiva i posteri a tutto paventare dalla perfidia di un tutore. Il patriarca Giovanni d'Apri, vecchio vanaglorioso, debole e attorniato da una turba di congiunti indigenti, mise in campo una antica lettera di Andronico, colla quale «l'Imperatore legava alle sue pietose cure il Principe e il popolo. Il destino del suo predecessore Arsenio lo persuadeva a prevenire il delitto di un usurpatore, anzichè vedersi alla necessità di punirlo». Lo stesso Apocauco non potè starsi dal sorridere sul buon successo delle proprie arti adulatrici in veggendo il Vescovo di Bisanzo sfoggiare con pompa eguale a quella del romano Pontefice, e gli stessi temporali diritti pretendere[289]. Fra questi tre personaggi, d'indole e stato così diversi, una segreta lega si strinse; e restituita al Senato un'ombra di autorità, col nome di libertà il popolo fu adescato. Questa possente confederazione assalì il Gran Domestico, per vie obblique da prima, indi con forza aperta. Si disputò sulle prerogative del medesimo; i consigli di lui venivano respinti, gli amici perseguitati, e più d'una volta corse rischio di vita in mezzo della Capitale, e a capo ancor degli eserciti. Mentre lo tenea lontano da Costantinopoli il servigio dello Stato fu accusato di tradimento, chiarito nemico dell'Impero e della Chiesa greca, egli e i suoi partigiani consagrati alla spada della giustizia, alla vendetta del popolo, alle potenze infernali. Confiscatine i beni, confinata in una prigione la madre di lui innoltrata negli anni, egli si vide dalla violenza e dalla ingiustizia costretto a commettere quel delitto di cui veniva accusato[290]. Nulla avvi nella precedente condotta di Cantacuzeno che ne dia motivo per giudicarlo reo di aver premeditato alcun disegno colpevole; e se qualche cosa potesse renderlo sospetto, sarebbe soltanto l'ostentazione da esso posta nel reiterare le proteste della sua innocenza, e gli encomj che egli non risparmiava alla sublime purezza di sua virtù. Sintanto che l'Imperatrice e il Patriarca serbarono seco lui le apparenze dell'amicizia, egli sollecitò per più riprese la permissione di abbandonare la reggenza e di ritirarsi in un monastero. Allorchè un bando lo promulgò pubblico nemico, la prima risoluzione di Cantacuzeno era stata quella di correre ai piedi del Principe, e offrire senza querelarsi, o resistere il suo capo alla scure; solamente con ripugnanza si fece infine ad ascoltare la voce della ragione, e a meditare che essendo proprio dovere il salvare la sua famiglia e gli amici, non potea riuscire in questo senza impugnar l'armi e assumere il titolo di Sovrano.

A. D. 1341

Nella Fortezza di Demotica, suo retaggio particolare, l'Imperatore Giovanni Cantacuzeno i purpurei coturni vestì; nella qual cerimonia i Nobili suoi congiunti gli calzarono la gamba destra, e la sinistra que' condottieri latini, ai quali lo stesso Giovanni avea conferito l'ordine della cavalleria. Ma sollecito, ancor ribellando, di serbare le forme della fedeltà, volle che prima del proprio nome e di quello d'Irene sua moglie, venissero acclamati quelli di Paleologo e di Anna di Savoia; e benchè una vana cerimonia mal giovi a palliare la ribellione, nè veruna ingiuria personale ricevuta divenga valevole scusa al suddito che brandisce l'armi contra il Sovrano, i pochi apparecchi che precedettero questa fazione, e il mal successo che la seguì, possono servir di conferma a quanto Cantacuzeno accerta, cioè essere egli stato condotto ad un passo così decisivo men dalla scelta che dalla necessità. Costantinopoli si mantenne fedele al giovine Imperatore; il Re de' Bulgari fu sollecitato a venire in soccorso della città di Andrinopoli. Le principali città della Tracia e della Macedonia, dopo avere esitato per qualche tempo, abbandonarono le parti del Gran Domestico; perchè i comandanti delle truppe e delle province giudicarono miglior interesse per loro il restar sottoposti al debole governo di una donna e d'un prete. L'esercito di Cantacuzeno, diviso in sedici squadre, accampò sulle rive del Melas, per tenere in freno di lì, o intimorire la Capitale. Ma il terrore, o il tradimento ne sbandarono le soldatesche, e gli uffiziali, principalmente i Latini mercenarj, adescati dai doni della Corte di Bisanzo, passarono ad essa. Dopo il quale avvenimento, l'Imperatore ribelle, poichè la fortuna di esso oscillava fra questi due titoli, coi soldati scelti che gli rimanevano, ver Tessalonica si ritrasse; tornati vani i suoi tentativi per impadronirsi di questa rilevante Fortezza, il nemico di lui Apocauco, condottiero di forze molto maggiori, per mare e per terra lo perseguì. Scacciato dalla costa, Cantacuzeno si ritirò, o piuttosto fuggì nelle montagne della Servia, ove adunò i suoi soldati, deliberato di non conservare in propria difesa, se non quelli che si offrirebbero volontarj a sostenere la sua pericolante fortuna. Ma sotto diversi pretesti, la maggior parte di costoro avendolo abbandonato, i fedeli alle sue bandiere si ridussero prima a duemila, poi a soli cinquecento. Il Cral, o despota dei Serviani[291], lo accolse con umanità; ma dal personaggio di confederato, Giovanni Cantacuzeno a mano a mano discese a quello di supplicante, di ostaggio e di prigioniero, ridotto a mendicare udienza da un Barbaro, arbitro in quel momento della vita e della libertà d'un Imperatore romano. Nondimeno, non vi furono seducenti offerte che potessero movere il Cral a violare le leggi dell'ospitalità; e solamente vedutosi costretto a seguir la parte di chi era più forte, rimandò, senza fargli verun insulto, l'amico suo Cantacuzeno, che si trasferì in altre bande a correre nuove vicissitudini di pericoli e di speranze. Le fazioni (A. D. 1341-1347) de' Cantacuzeni e de' Paleologhi, de' Nobili e de' plebei, infestavano le città delle loro dissensioni, e sollecitavano, or l'una, or l'altra, i Bulgari, i Serviani, i Turchi ad ultimare, chè fu questa la conclusione, l'esterminio di entrambe. Cantacuzeno intanto deplorava le calamità, delle quali fu autore e vittima in uno; e da una fatale esperienza di sè medesimo dedusse una giusta ed arguta osservazione intorno alla differenza che avvi tra le guerre civili e le guerre straniere; «le straniere, dic'egli, somigliano ai calori estivi dell'atmosfera, sempre tollerabili, talvolta utili; ma le civili non possono venir paragonate che ad una febbre ardente che i principj della vita diminuisce e distrugge[292] ».

L'imprudenza commessa dalle nazioni venute a civiltà, allorchè hanno frammesse nelle proprie contese le popolazioni de' Barbari o de' Selvaggi, partorì mai sempre effetti non men funesti che obbrobriosi per esse; tristo espediente che può giovar talvolta all'interesse dell'istante, ma che ripugna del pari ai principj della umanità e della ragione. È uso prevalso fra le due parti belligeranti che l'una rampogni l'altra di essere stata la prima a contrarre una lega sì mostruosa; e d'ordinario la parte accusatrice è quella cui tornò male siffatta negoziazione, e pure si mostra inorridita di un cattivo esempio, che se essa non diede, fu solamente perchè l'esito ai suoi tentativi non corrispose. I Turchi dell'Asia erano forse men barbari de' pastori della Bulgaria e della Servia, ma la lor religione li facea nemici implacabili di Roma e de' Cristiani. Le due fazioni adoperarono or donativi, ora atti di avvilimento per cattivarsi l'amicizia degli Emiri. Cantacuzeno fu sì accorto, che ebbe in questo la preferenza; ma le nozze della figlia del medesimo con un Infedele, e la cattività di più migliaia di Cristiani, furono l'odioso guiderdone del soccorso degli Ottomani; e una vittoria riportata colle loro armi, avendo aperto ad essi il cammin dell'Europa, affrettò la rovina de' crollanti avanzi dell'Impero romano. Le cose presero più favorevole aspetto per Cantacuzeno, cui liberò da un implacabil nemico, la morte di Apocauco, ben da costui meritata e in singolar modo accaduta. Arrestati furono per suo ordine nella Capitale e nelle province molti Nobili e plebei che odiava, o temeva, e tenendoli rinchiusi nel vecchio palagio di Costantinopoli, stava solertemente adoprandosi a farne alzare le mura, ristringer le stanze, e a tutto quanto potea rendere più sicura e più aspra la lor prigionia. Un dì che avendo lasciato alla porta le proprie guardie, s'intertenea nel cortile interno per sollecitare colla sua presenza il lavoro degli architetti, due coraggiosi prigionieri della famiglia de' Paleologhi, armati di bastoni, e dalla disperazione animati, si scagliarono sull'Ammiraglio che stesero morto ai loro piedi[293]. Grida di vendetta e di libertà rintronarono d'ogn'intorno, tutti i prigionieri infransero le lor catene, e sbarrati gl'ingressi di quell'edifizio esposero sui merli la testa di Apocauco, sperando ottenere l'approvazione del popolo e la clemenza dell'Imperatrice, cui forse non dispiaceva tanto il vedersi sciolta d'un arrogante ed ambizioso ministro; ma mentre questa nelle sue deliberazioni esitava, la plebe, e soprattutto le ciurme de' marinai, eccitate dalla vedova dell'Ammiraglio, atterrarono gli ostacoli che ad entrar nella prigione opponeansi, facendo man bassa sui primi che lor si offerivano. Que' prigionieri, in gran numero innocenti della morte di Apocauco, o che piuttosto non parteciparono alla gloria di averlo punito, rifuggitisi in un tempio, vennero trucidati a piè degli altari; talchè la morte di questo scellerato non produsse effetti men sanguinosi della sua vita. Ciò nulla meno al solo ingegno di costui reggeasi la causa del giovine Imperatore, perchè i partigiani di Apocauco, gelosi gli uni degli altri, trasandavano le cose della guerra, e nel tempo stesso ricusavano ogni offerta di pace. Fin sul principio delle civili discordie, l'Imperatrice avea compreso e confessato ella stessa che i nemici di Cantacuzeno la ingannavano, ma il Patriarca, dopo avere predicato con forza contro il perdono delle offese, obbligò la Principessa con giuramento di eterno odio, minacciandola delle tremende folgori della scomunica se questo giuramento infrangea[294]. Anna di Savoia, confermatasi ne' sentimenti dell'odio per timore dell'anatema, nol paventò in appresso, quando sembrava che il Patriarca mutasse d'avviso; perchè all'odio si aggiunse la gelosia, mossa dal pensare che una riconciliazione con Cantacuzeno la esponeva a vedersi in competenza di un'altra Imperatrice. Un tal pensier tormentoso rendendola indifferente sulle calamità dell'Impero, ella minacciò a sua volta il Patriarca, mostratosi proclive alla pace, di radunare un Sinodo e rimoverlo dalla sua dignità. Di cotali dissensioni e di questa incapacità de' nemici avrebbe potuto in concludente modo vantaggiar Cantacuzeno; ma la debolezza delle due fazioni non valse che a protrarre la guerra civile, e a tal proposito la moderazione dello stesso Cantacuzeno fu qualificata d'indolenza e di timidezza. Ciò nonostante datogli tempo di occupare a mano a mano le città e le province, i dominj dell'Imperatore pupillo al solo recinto di Costantinopoli vedeansi ridotti. Ma in quello stato di cose, la sola Capitale contrabbilanciava il rimanente dell'Impero, e prima di accingersi a così rilevante conquista, l'Imperatore esterno volle procacciarsi e partigiani e segrete intelligenze al di dentro. Un Italiano, di cognome Facciolati[295] (A. D. 1347) succeduto alla dignità di Gran Duca comandava la flotta, le guardie e la Porta d'Oro; ma più perfido che ambizioso, non disdegnò i premj del tradimento, dal qual tradimento per altro derivò che lo stato politico delle cose cambiasse senza veruno spargimento di sangue. Sfornita d'ogni modo di resistenza e d'ogni speranza di soccorso l'inflessibile Anna di Savoia, volea tuttavia, difendendo la reggia, contrastare l'ingresso in Bisanzo alla rivale, dimostratasi pronta a veder in cenere la Capitale anzichè un'altra Imperatrice sul trono; ma tanto furore nè a una parte, nè all'altra piaceva, onde il vincitore dettò le condizioni del Trattato, in cui rinnovellò le sue proteste di zelo e di affetto verso il figliuolo del suo antico benefattore. In quella occasione seguirono le nozze della figlia di Cantacuzeno con Giovanni Paleologo, i cui diritti ereditarj vennero stipulati nel Trattato, con che l'amministrazione dell'Impero rimanesse per dieci anni all'Imperatore tutore; onde si videro ad un tempo due Imperatori e tre Imperatrici sedersi sul trono di Costantinopoli. Una generale amnistia avendo calmati i timori e assicurate le proprietà de' sudditi più colpevoli, vennero celebrate le nozze, e la coronazione, con una esteriorità di concordia e di magnificenza, poco reali ad una stessa maniera. Nel tempo delle ultime turbolenze, erano stati dissipati i tesori dello Stato, e fin guasti, o venduti gli arredi del palagio. Sulla mensa imperiale non vidersi che vasellami di terra e peltro, e la vanità sostituì alle gemme e all'oro il vetro e i rami dorati[296].

Or mi affretto a terminare la storia individuale di Giovanni Cantacuzeno[297], divenuto per la sua vittoria padron dell'Impero. Lo scontento di entrambe le fazioni ne turbò il regno, e i suoi trionfi oscurò. I partigiani di lui riguardarono nell'amnistia generale un atto di perdono ai nemici, di dimenticanza degli amici[298]. Laonde dopo aver veduto per la causa di Cantacuzeno confiscati o saccheggiati i proprj beni, o ridotti allora ad elemosinare per le strade di Costantinopoli, imprecavano l'interessata magnanimità del loro Capo, che salito al trono dell'Impero, del suo patrimonio particolare s'era spogliato. Intanto gli amici della Imperatrice arrossendo di dovere le sostanze e le vite al favor precario di un usurpatore, palliavano il desiderio della vendetta sotto maschera di tenera sollecitudine per gl'interessi e per la stessa conservazione del giovine Monarca. Diede un'arme a queste inquietudini la domanda fatta dai partigiani di Cantacuzeno per essere sciolti dal giuramento di fedeltà verso i Paleologhi, e posti in possesso di alcune piazze forti ove condur sicuri i lor giorni; al qual fine i faziosi perorarono con molta eloquenza, ma non ottennero dall'imperator Cantacuzeno, in questi termini ce lo narra egli stesso, che un rifiuto dalla mia virtù sublime e quasi incredibile. Per cotal guisa, continue sedizioni e congiure turbarono il suo governo e il ridussero a paventare ad ogni istante che un nemico straniero, o domestico si portasse via il Principe legittimo, e il nome di questo, e i torti che si asserivano ad esso arrecati, servissero di pretesto alla ribellione. Col crescer negli anni, incominciando il figlio di Andronico ad operare e a sentire da sè medesimo, i vizj che avea ereditati dal padre accelerarono, anzichè ritardare i progressi della sua nascente ambizione; benchè Cantacuzeno, se possiamo credere alle sue proteste, si adoperò con sincero zelo a liberarlo dall'obbrobrio delle sensuali inclinazioni che il dominavano, e a sollevarne l'animo all'altezza della regal dignità. Nella spedizione della Servia, i due Imperatori, ostentando entrambi di essere in ottimo accordo fra loro, si mostrarono congiuntamente agli eserciti e alle province, e Cantacuzeno ammaestrò il suo giovine collega nelle scienze della guerra e della amministrazione. Conchiusa la pace, lasciò il rivale in Tessalonica, residenza reale situata sulla frontiera, onde ritorlo in tal guisa alle seduzioni di una città voluttuosa, e far sicura colla sua lontananza la tranquillità della metropoli; ma per questa lontananza medesima, perdè molta parte di potere sul figlio di Andronico, che attorniato da cortigiani o inconsiderati, o maligni, prese scuola di abborrire il tutore, di riguardarsi come confinato in esilio, di tentar tutto per ricuperare i proprj diritti. Collegatosi di soppiatto col despota della Servia, non andò guari che col contegno di aperto nemico si palesò. Cantacuzeno, che stava sul trono d'Andronico il Vecchio, difese la causa dell'età e della preminenza, quella causa medesima, che essendo giovine, avea con tanto vigor combattuta. Le sollecitazioni da lui fattesi all'Imperatrice madre, poterono sì, che questa donna, promettendogli la sua mediazione, imprendesse un viaggio a Tessalonica; ma ne tornò addietro senza alcun frutto; e per vero dire, a meno che le avversità non avessero operato un gran cambiamento nell'animo di Anna di Savoia, è lecito il dubitare del fervore, e anche della sincerità con cui la sua commissione adempiè. Ben Cantacuzeno, però tenendo sempre con mano ferma e vigorosa lo scettro, aveva incaricato Anna di rimostrare al figlio suo che i dieci anni dell'amministrazione del suocero stavano per finire, essere egli già stanco de' vani onori del Mondo che avea posseduti assai lungo tempo, non sospirare oggi mai che il riposo del chiostro e la corona del Cielo. Ma se tali fossero state veramente le sue intenzioni, potea, rassegnando allora lo scettro, restituire la pace all'Impero, e con un atto di giustizia mettere in pace la propria coscienza. Così avrebbe lasciati al solo Paleologo o la lode, o il biasimo del suo governo; e quai che stati fossero i vizj del giovane, non si poteano mai temerne conseguenze tanto funeste quanto i flagelli di una guerra civile, nella quale le due fazioni si valsero nuovamente dei Barbari e degl'Infedeli che la distruzione dell'una e dell'altra affrettarono.

A. D. 1353

Il soccorso de' Turchi che allora si stanziarono in Europa per non più ripartirne, avendo fatto trionfante Cantacuzeno anche in questa terza contesa, Paleologo sconfitto e per terra e per mare dovette cercarsi un asilo presso i Latini dell'isola di Tenedo. L'ardire e la pertinacia del giovine spinsero il vincitore ad un atto che di sua natura rendea irreconciliabile la querela: quella cioè di vestir della porpora il proprio figlio Mattia, collegandolo all'Impero e trasportando così la successione del trono nella famiglia de' Cantacuzeni. Ma Costantinopoli serbando tuttavia affezione al sangue de' suoi antichi padroni, questo ultimo affronto affrettò il ritorno del legittimo erede. Un Nobile genovese, dopo avere ottenuta da Paleologo la promessa di sposarne la sorella, imprese di ritornarlo in trono, e due galee e duemila cinquecento ausiliari gli bastarono a mantener la promessa. Sotto pretesto di soccorrerle penurianti, queste galee vennero ricevute in rada, e apertasi una porta di Costantinopoli, i soldati latini sclamarono congiuntamente, «Vittoria e lunga vita all'imperatore Giovanni Paleologo» al qual grido corrispose la sollevazione degli abitanti. Rimanea tuttavia una copiosa mano di uomini fedeli a Cantacuzeno, ma questo principe afferma nella sua Storia (chi poi glielo crede?) che sicuro di ottener la vittoria, ne fece un sagrifizio agli scrupoli delicati di sua coscienza, e obbedendo alle voci della religione e della filosofia, scese dal trono per chiudersi con alacrità nel solitario recinto di un monastero[299]. Rassegnata che ebbe la corona, il successore gli lasciò godere in pace la fama di Santo cui aspirò consagrando il rimanente de' suoi giorni, o allo studio, o alle pratiche della pietà cenobitica. E a Costantinopoli, e nel monastero del monte Atos, Fra Giosafatte, fu sempre rispettato come il padre temporale e spirituale dell'Imperatore, nè uscì mai dal proprio ritiro, che col carattere di ministro di pace, e per vincere l'ostinazione del suo figlio ribelle, e per ottenergli perdono[300].

A. D. 1341-1351

Il nostro monaco nella sua solitudine del chiostro addestrò alle guerre teologiche la mente, aguzzando contra i Maomettani e gli Ebrei, gli strali della controversia[301] e difendendo la divina luce del monte Tabor, quistione memorabile, e sublime parto della follia religiosa de' Greci, che, in tutti gli stati della sua vita, avea tenuto l'animo di Cantacuzeno. I Fachiri dell'India[302] e i monaci della Chiesa orientale andavano parimente persuasi, che nell'astrazione assoluta dalle facoltà del corpo e della immaginazione, il puro spirito potesse sollevarsi al godimento o alla visione della divinità. Le espressioni dell'Abate che governava i monasteri del monte Atos[303] nel secolo XI ne additeranno in più sensibile guisa l'opinione e le pratiche di questi frati. «Quando sarete soli, dice il Dottore asiatico, chiudete la porta, e sedetevi in un angolo della vostra celletta; sollevate la vostra immaginazione al di sopra di tutte le cose vane e transitorie; appoggiate la barba e il mento sul vostro petto; volgete gli sguardi e i pensieri verso la metà del ventre, ove è posto il vostro ombelico, e cercate la parte del cuore, sede dell'anima. Tutto vi parrà sulle prime malinconico e cupo, ma se continuerete giorno e notte in questo esercizio, proverete una gioia ineffabile; perchè quando l'anima ha scoperto il posto del cuore, trovasi avvolta in una luce mistica ed eterea». Questa luce, produzione di una immagione inferma, di uno stomaco e d'un cervello vôto, veniva adorata dai Quietisti come l'essenza pura e perfetta del medesimo Dio. Sintanto che questo delirio rimase confinato ne' monasterj del monte Atos, que' Solitarj semplici nella lor credenza, non pensarono ad informarsi in qual modo l'essenza divina potesse farsi sostanza materiale, o una sostanza immateriale rendersi sensibile agli occhi del corpo. Ma sotto il regno d'Andronico il Giovane, si trasferì a visitare questi conventi Barlamo, frate della Calabria[305], egualmente istrutto nella Filosofia e nella Teologia, nelle lingue greca e latina, e d'ingegno sì pieghevole, che sapea, giusta l'interesse del momento, sostenere opinioni contraddittorie fra loro. Un imprudente Solitario rivelò al viaggiatore i misteri dell'orazione mentale, o contemplativa, occasione che Barlamo non si lasciò sfuggire per deridere i Quietisti, i quali metteano l'anima nell'ombelico, e per accusare di eresia e di bestemmia i monaci del monte Atos. Gli argomenti del Calabrese avendo costretti i più assennati ad abbiurare le mal fondate opinioni de' lor fratelli, o almeno a dissimularle, Gregorio Palamas mise in campo una distinzione scolastica fra l'essenza e gli atti di Dio. L'essenza divina, inaccessibile, giusta il dir di Gregorio, risiede in mezzo ad una luce increata ed eterna, visione beatifica de' Santi, che si era manifestata ai discepoli sul monte Tabor nella Trasfigurazione di Gesù Cristo. Ma una tal distinzione non potè sottrarsi alla taccia di Politeismo, e Barlamo con veemenza negò l'eternità della luce del monte Tabor, accusando i Palamiti di riconoscere due sostanze eterne, ossia due divinità, l'una visibile e l'altra invisibile. Dal monte Atos, ove il furore de' monaci gli minacciava la vita, il frate calabrese si rifuggì a Costantinopoli, e quivi con modi urbani e gradevoli si cattivò affezione dal Gran Domestico e dall'Imperatore. La Corte e la città presero parte a questa querela teologica, al cui progresso i disordini della guerra civile non furono inciampo. Ma Barlamo avendo colla fuga e coll'apostasia disonorata la propria dottrina, trionfarono i Palamiti; e il Patriarca Giovanni d'Apri loro avversario venne rimosso per consenso unanime delle due fazioni che dividean lo Stato. Cantacuzeno come Imperatore e teologo, presedè al Sinodo della Chiesa greca,[306] che pose articolo di fede la luce increata del monte Tabor; e veramente dopo tant'altre assurdità ammesse, la ragione umana non dovette sdegnarsi dell'aggiunta anche di questa. Cataste di carte e di pergamene vennero imbrattate per registrarvi coteste dispute, e i settarj impenitenti che ricusarono sottoscrivere il nuovo Simbolo, andarono privi degli onori della sepoltura cristiana; ma fin dal principio del secolo successivo cotal controversia andò in dimenticanza, nè trovo che il ferro o il fuoco sieno stati posti in opera per estirpar l'eresia di frate Barlamo[307].

A. D. 1291-1347

Ho riserbata alla fine di questo capitolo la guerra de' Genovesi, che scosse il trono di Cantacuzeno, e la debolezza dell'Impero fe' manifesta. I Genovesi che occupavano il sobborgo di Pera, o di Galata, dopo la espulsione de' Latini da Costantinopoli, riceveano questo onorevole feudo dalla bontà del Sovrano, il quale permettea loro regolarsi colle proprie leggi, e obbedire a Magistrati di lor gente, con che ai doveri di vassalli e di sudditi si sommettessero. Toltasi dai Latini la denominazione espressiva d'uomini ligi[308], il Podestà o Capo de' Genovesi, prima di prendere possesso del suo uffizio, prestava giuramento di fedeltà all'Imperatore. La repubblica di Genova intanto unitasi in salda lega coi Greci, si era obbligata, accadendo guerre difensive, a somministrare cento galee, e una metà di esse armate e istrutte di uomini a proprie spese, in soccorso del Governo confederato. Michele Paleologo che durante il suo regno pose le sue principali cure a ristorare la forza marinaresca de' Greci per non dover più dipendere da estranei aiuti, con un vigoroso reggimento contenne i Genovesi di Galata entro que' limiti che l'audacia prodotta dalla ricchezza, e lo spirito repubblicano gli avrebbe spesse volte indotti ad oltrepassare. Un marinaio di questa nazione avendo un dì millantato che i suoi compatrioti non tarderebbero ad essere padroni della Capitale, uccise indi un Greco che tale asserzione avea mosso a sdegno. Si arroge che un legno da guerra genovese, passando dinanzi al palagio, ricusò il saluto, e si fe' di poi leciti alcuni atti piratici sul mar Nero. E già i Genovesi si preparavano in difesa de' colpevoli; ma cinti da truppe imperiali per tutti i dintorni di Galata, aperta d'ogni banda, e sull'istante di vedersi assaliti, la clemenza del Sovrano umilmente implorarono. Lo stato indifeso di Galata, e per una parte tenea i Genovesi meglio soggetti, e gli esponea per l'altra agli assalti de' Veneziani, rivali del loro commercio, e che sotto il regno del vecchio Andronico osarono insultare la maestà del trono di Costantinopoli. Appena i Genovesi videro avvicinarsi la flotta di questi nemici, colle loro famiglie e sostanze si ripararono nella città. Essendo stato incenerito dalle truppe sbarcate il sobborgo, il Principe pusillanime, spettatore dell'incendio, si limitò a farne tranquillamente le rimostranze al Governo veneto, mandandogli un'ambasceria. Ma i Genovesi traendo da questa passeggiera calamità un vantaggio durevole, ottennero il concedimento di innalzar mura forti intorno a Galata, di cingerle di fossa e introdurvi l'acqua del mare, di guarnire i baloardi di torri e di macchine da difesa, concedimento di cui ben tosto abusarono. Gli stretti limiti delle antiche abitazioni non bastando a contenere l'aumentata loro colonia, nuovi terreni a mano a mano acquistarono, sicchè i vicini poggi apparvero coperti di case villerecce, ed ancor di castella che congiunsero all'antico soggiorno, munendole di fortificazioni comuni con esso[309]. Gl'Imperatori greci, padroni dello stretto canale che può dirsi porta del mar interno, riguardavano il commercio e la navigazione del Ponto Eussino siccome una parte di lor patrimonio; la qual prerogativa de' medesimi, sotto il regno di Michele Paleologo, fu riconosciuta dal Sultano d'Egitto, che sollecitò ed ottenne la permissione di spedire ogni anno un vascello nella Circassia e nella picciola Tartaria per l'acquisto di schiavi, acquisto perniciosissimo ai Cristiani, perchè questi schiavi veniano educati all'uopo di rinforzare il formidabile esercito de' Mammalucchi[310]. La colonia genovese di Pera datasi con vantaggio ad un commercio lucroso sul mar Nero, somministrava ai Greci e grani e pesci, derrate quasi egualmente indispensabili ad un popolo superstizioso. Sembra che la natura faccia crescere da sè medesima le copiose messi dell'Ucrania; chè, certo la coltivazione di quel territorio è trascurata oltre ogni dire e selvaggia; e gli enormi storioni pescati verso la foce del Don e Tanai, allorchè si conducono nelle acque grasse e profonde delle Paludi Meotidi, offrono una sorgente inesausta al commercio del caviale e del pesce salato[311]. Le acque dell'Osso, del mar Caspio, del Volga e del Don aprivano un passaggio faticoso e pieno di rischi alle droghe e alle gemme dell'India che condotte dalle carovane di Carizmia, trovavano dopo un cammino di tre mesi i navigli italiani nei porti della Crimea[312]. Di tutti questi rami di commercio impadronitisi i Genovesi, costrinsero i Veneziani e i Pisani ad abbandonarli. Colle città e colle Fortezze che di soppiatto innalzavano dalle fondamenta delle modeste lor fattorie, teneano in rispetto i nativi, e vani furono gli sforzi de' Tartari nell'assediar Caffa[313], principale possedimento de' Genovesi nella Crimea. I Greci sforniti affatto di navilio, dipendeano in tutto da questi arditi mercatanti, che a seconda del loro capriccio o interesse, or provvedevano, or affamavano Costantinopoli. Appropriatisi questi la pesca e le dogane, poser mano fin sui regali diritti del Bosforo, d'onde traevano una rendita di dugentomila piastre d'oro, lasciandone a fatica all'Imperatore sol trentamila[314]. Fosse tempo di pace o di guerra, Galata, ossia la colonia di Pera, come Stato independente si comportava, a talchè spesse volte il Podestà genovese dimenticavasi della sua repubblica, sventura che accadrà sempre alle madri patrie di colonie lontane.

A. D. 1348

La tracotanza de' Genovesi animarono e la debolezza di Andronico il Vecchio e le guerre civili che negli ultimi anni della sua vita lo travagliarono, e la minorità del suo pronipote. L'ingegno di Cantacuzeno alla rovina anzichè alla difesa dell'Impero fu adoperato; e dopo avere compiuta vittoriosamente la guerra civile, videsi ridotto all'obbrobrio di sottomettere ad un giudizio la quistione, se i Greci, o i Genovesi dovessero regnare in Bisanzo. Per un rifiuto di alcune terre vicine, di alcune eminenze, su di cui voleano innalzare nuove fortificazioni, sdegnatisi i mercatanti di Pera, presero il destro della lontananza dell'Imperatore, trattenuto a Demotica da una infermità, per affrontare il debole governo della Imperatrice. Questi audaci repubblicani, dopo assalito e mandato a fondo un naviglio di Costantinopoli che si era fatto lecito di pescare all'ingresso del porto, dopo averne trucidate le ciurme, anzichè sollecitare il perdono, osarono chiederne risarcimento; e pretendendo che i Greci rinunziassero ad ogni specie di navigazione, respinsero con truppe assoldate i primi moti dello sdegno di quella nazione. Tutti i Genovesi della Colonia, senza distinzione di sesso o di età, si diedero con incredibile diligenza ad occupare il terreno che loro veniva ricusato, ad innalzare un saldo muro, a circondarlo di profondissima fossa. Nel tempo stesso, assalirono ed arsero due galee di Bisanzo, e tre altre, in cui stavansi i resti dell'imperiale marineria, per evitare la medesima sorte, dovettero darsi alla fuga. Saccheggiate e distrutte tutte le abitazioni che si trovavano fuori del porto, o lungo la riva, il Reggente e l'Imperatrice non trovarono il tempo che per pensare a difendere la Capitale. Il ritorno di Cantacuzeno sedò il pubblico spavento; ma egli inclinava a pacifici temperamenti, intanto che la fazione ad essi opposta, non voleva ascoltare partiti ragionevoli; onde si vide costretto a cedere all'ardore de' suoi sudditi, che valendosi dello stile della Scrittura, minacciavano i Genovesi di metterli in polve, come vasi d'argilla, e intanto pagavano a stento le tasse imposte per la costruzione delle navi e per l'altre spese di guerra. Le due nazioni essendo padrone l'una della terra, l'altra del mare, Costantinopoli e Pera soffrivano egualmente tutti gl'incomodi di un assedio; i mercatanti coloniarj che aveano sperato vedere in pochi giorni definita questa contesa, incominciavano a lagnarsi delle loro perdite; la repubblica di Genova, straziata dalle fazioni, tardava ad inviare soccorsi; e i più antiveggenti abbracciarono l'opportunità di un vascello di Rodi per allontanare dal teatro della guerra le sostanze loro e le loro famiglie. All'aprirsi di primavera, la flotta di Bisanzo, composta di sette galee e d'alcuni piccioli navigli, mossa dal porto, si condusse tutta in una linea verso la riva di Pera, presentando incautamente il fianco alla prora degli avversarj. Non erano in quelle ciurme che contadini e operai, ignoranti delle cose di mare, e che nè manco aveano in compenso il coraggio naturale de' Barbari. Spirava gagliardo il vento, grosso mostravasi il fiotto; per cui costoro appena videro la squadra nemica, immobile tuttavia, si precipitarono in mare, commettendosi ad un pericolo certo per evitarne un dubbioso. Nel tempo medesimo un terror panico invase le truppe di terra che marciavano ad assalire i trinceamenti di Pera, onde i Genovesi stupirono e vergognarono quasi di una doppia vittoria che sì poco ad essi era costata: le loro navi, coronate di fiori, provvidero di marinai le galee abbandonate dai Greci, conducendole per più riprese in trionfo dinanzi alle mura dell'imperiale palagio. Sola virtù di cui potesse in tale istante pompeggiar Cantacuzeno era la rassegnazione, sol conforto la speranza di vendicarsi. Ciò nulla meno lo sfinimento cui trovavansi ridotte entrambe le parti, le obbligò ad un momentaneo accomodamento, e l'Imperatore cercò palliare l'obbrobrio dell'Impero sotto alcune lievi apparenze di dignità e di possanza. Convocati i Capi della Colonia, mostrò non curare come degno di sprezzo l'argomento della contesa, e fatti alcuni blandi rimproveri ai Genovesi, concedè loro generosamente le terre che già aveano occupate, e che per formalità solamente volle, o parve volere venissero consegnate dai suoi ufiziali[315].

A. D. 1352

Non andò guari che l'Imperatore venne sollecitato a rompere l'accordo e a collegar le sue armi con quelle de' Veneziani, perpetui nemici de' Genovesi e delle loro colonie. Mentre egli stava così titubando tra la pace e la guerra, gli abitanti di Pera, ne riacceser lo sdegno col lanciare da lor baloardi un masso, che nel mezzo di Costantinopoli venne a cadere. Mossene doglianze dall'Imperatore, si scusarono senza scompigliarsi col rinversarne la colpa sopra un dei loro ingegneri. Ma alla domane ricominciarono questa prova, manifestandosi ben contenti di avere imparato che Costantinopoli non era fuor di gittata per la loro artiglieria. Allora Cantacuzeno sottoscrisse il Trattato propostogli dai Veneziani; ma la potenza dell'Impero romano poco aggiunse, o levò nella querela di queste due ricche e potenti repubbliche[316]. Dallo stretto di Gibilterra sino alle foci del Tanai, le loro flotte si combattettero per più riprese senza conseguenze decisive per nessuna delle due parti, finchè venisse il momento della memoranda battaglia datasi nell'angusto braccio di mare che bagna le mura di Costantinopoli. Non sarebbe sì agevol cosa il conciliare insieme i racconti de' Greci, de' Veneziani e de' Genovesi.[317] Tenendomi sulle tracce d'uno Storico imparziale[318], desumerò da ciascuna di queste nazioni i fatti che i loro scrittori narrano, o a svantaggio della lor parte, o ad onore della parte avversaria. I Veneziani, fiancheggiati dai Catalani loro collegati, aveano il vantaggio del numero, perchè la loro flotta, compresovi il debole soccorso di otto galee di Bisanzo, andava composta di settantacinque vele, mentre i Genovesi non ne contavano più di sessantaquattro. Ma i vascelli da guerra di questi oltrapassavano, in quel secolo, di forza e grandezza le navi di tutte le altre Potenze marittime. Comandava la flotta de' primi il Pisani, quella de' secondi il Doria, uomini, le famiglie e i nomi de' quali tengono onorevole sede ne' fasti della lor patria; ma l'ingegno e la fama del Doria oscuravano i meriti del suo rivale. Incominciò la pugna nel momento di una tempesta, e durò tumultuosamente dall'aurora sino alla notte. I nemici de' Genovesi dan lode al valore di questi; ma la condotta de' Veneziani nè manco ottenne l'approvazione de' loro amici; entrambe le parti furono unanimi negli encomj tributati alla maestria e al valore de' Catalani, che coperti di ferite sostennero il maggior impeto della zuffa. Al separarsi delle due flotte potea dubitarsi, qual fosse la vincitrice. Benchè se i Genovesi perdettero tredici galee, prese o mandate a fondo, per parte loro ne distrussero ventisei, due de' Greci, dieci de' Catalani, e quattordici de' Veneziani. Il mal umore dei vincitori, diè a divedere uomini avvezzi a contare sopra vittorie più luminose: ma il Pisani venne a confessare la propria sconfitta col riparare ad un porto affortificato, d'onde, col pretesto di obbedire agli ordini della sua repubblica, veleggiò cogli avanzi di una flotta fuggitiva e posta in disordine, all'isola di Candia, lasciando il mare libero ai suoi nemici. Il Petrarca[319] in una lettera pubblicamente indiritta al Doge e al Senato, adopera la sua eloquenza a riconciliare le due Potenze marittime, da lui chiamate fiaccole dell'Italia. Celebra il valore e la vittoria de' Genovesi, ch'ei riguarda siccome i più abili marinai dell'Universo, deplorando la sventura de' Veneziani lor confratelli, li stimola ad inseguire col ferro e col fuoco i vili e perfidi Greci, e far monda la capitale dell'Oriente dall'eresia di cui la aveano infestata. Lasciati in abbandono dai loro confederati, aveano anche perduta ogni speranza di poter resistere i Greci, onde tre mesi dopo questa battaglia navale, l'Imperatore Cantacuzeno sollecitò, e pervenne a sottoscrivere un Trattato coi Genovesi, i cui patti erano un perpetuo bando de' Catalani e de' Veneziani, e il concedimento ai primi di tutti i diritti del commercio e poco meno che della sovranità. L'Impero romano (chi può non sorridere nel chiamarlo ancora con questo nome?) sarebbe divenuto ben presto una pertenenza di Genova, se alla ambizione di questa repubblica non avessero tarpate l'ali la perdita della libertà e la distruzione della sua flotta. Una lunga contesa di cento trent'anni, fu conchiusa dal trionfo della Repubblica di Venezia: e le fazioni intestine che dilaceravano i Genovesi, li costrinsero a cercar la pace domestica sotto il dominio di un padrone straniero, fosse il Duca di Milano, o il Re di Francia. Nondimeno, sbandita l'idea delle conquiste, i Genovesi serbarono l'antico genio al commercio: la colonia di Pera continuò a signoreggiare la Capitale e la navigazione del mar Nero, fino all'istante che la conquista de' Turchi nel disastro di Bisanzo l'avvolse.

CAPITOLO LXIV.

Conquiste di Gengis-kan e de' Mongulli dalla Cina sino alla Polonia. Pericolo in cui si trovano i Greci a Costantinopoli. Origine de' Turchi Ottomani in Bitinia. Regni e vittorie, di Otmano, Orcano, Amurat I, e Baiazetto I. Fondazione e progressi della monarchia de' Turchi, in Asia e in Europa. Situazione critica di Costantinopoli e del greco Impero.

Dai minuti litigi di una Capitale co' suoi sobborghi, dalle fazioni e dalla viltà de' tralignati Greci, passo a narrare le vittorie luminose de' Turchi, di quel popolo, la cui schiavitù civile nobilitavano disciplina militare, religioso entusiasmo e forza d'indole nazionale. L'origine e i progressi degli Ottomani, oggidì padroni di Costantinopoli, sono un argomento collegato colle più rilevanti scene della storia moderna; ma a ben comprenderlo fa mestieri innanzi tutto il conoscere la grande invasione e le rapide conquiste de' Mongulli e de' Tartari; genere di avvenimenti che può stare a petto di quelle prime convulsioni della natura che scossero e cambiarono la superficie del Globo; e poichè mi son fatto lecito di dar luogo in questa mia opera a tutte quelle particolarità, che, comunque ad altre nazioni spettassero, o più o meno immediatamente contribuirono alla caduta dell'Impero romano, io non poteva risolvermi a passar sotto silenzio que' fatti che per la non volgare loro grandezza, chiamano l'attenzione del filosofo anche sulla storia delle distruzioni e delle stragi[320].

A. D. 1206-1227

Tutte queste migrazioni, uscivano a mano a mano dalle vaste montagne situate fra la Cina, la Siberia e il mar Caspio. Que' paesi ove anticamente dimorarono gli Unni ed i Turchi, erano abitati nel duodecimo secolo da quelle orde o tribù di pastori, che discendendo dalla medesima origine, serbavano gli stessi costumi de' loro proavi; e le riunì e le condusse a vittoria il formidabile Gengis-kan. Questo Barbaro, conosciuto da prima col nome di Temugino, innalzatosi sulla rovina de' suoi eguali all'apice della grandezza, derivava da nobil prosapia: ma sol nell'ebbrezza de' trionfi, o egli, o i suoi popoli immaginarono di attribuire l'origine della sua famiglia ad una vergine immacolata, della quale ei sarebbe stato, di padre in figlio, il settimo discendente. Il padre di questo conquistatore avea regnato sopra tredici orde che formavano in circa trenta, o quarantamila famiglie: due terzi e più delle quali, ricusarono prestare obbedienza e tributo a Temugino, ancora fanciullo. Compiva questi il tredicesimo anno, quando si vide costretto a battaglia co' suoi sudditi ribelli, ed essendone stati infelici gli eventi, il futuro conquistatore dell'Asia dovette cedere alla necessità e darsi alla fuga. Ma mostratosi indi maggiore della fortuna, Temugino, giunto all'età di quarant'anni, facea rispettare il suo nome e la sua possanza a tutte le confinanti tribù. Nello stato nascente delle società, ove grossolana è la politica, generale il valore, uom non può fondare la sua prevalenza che sul potere e sulla volontà di gastigare i nemici, di premiare i partigiani. Allorchè Temugino la sua prima lega militare conchiuse, le cerimonie di questa si ridussero al sagrificio di un cavallo, e all'atto di attingere in comunione all'acqua di un ruscello. In quel momento il Capo promise ai compagni di star con essi a parte delle sciagure, come de' favori della fortuna, lor distribuendo in prova di ciò le sue suppellettili e i suoi cavalli, nè altra ricchezza serbandosi che la gratitudine e le speranze de' collegati. Dopo la prima vittoria ch'ei riportò, vennero per ordine del medesimo collocate sopra una fornace settanta caldaie, ed immersi nell'acqua bollente settanta ribelli riconosciuti per maggiormente colpevoli. Continuando di sì fatto tenore, la sua preponderanza aumentò sterminando chi resisteva, ricevendo gli omaggi di chi avea la prudenza di sottomettersi. Anco i più ardimentosi tremarono contemplando incastrato in argento il cranio del Kan de' Keraiti[321], che sotto nome di Pretejanni, avea mantenuta una corrispondenza col Pontefice e co' Principi dell'Europa. Però l'ambizioso Temugino il potere della superstizione non pose in non cale; laonde da un profeta di quelle selvagge orde, che sopra un cavallo bianco saliva in cielo, ricevè il titolo di Gengis[322] (il più grande), e il diritto venutogli da Dio di conquistare e governar l'Universo. In una curultai, o Dieta generale, si assise sopra uno strato di feltro che venne per lungo tempo venerato siccome reliquia; e da quel posto, solennemente acclamato gran Kan o Imperatore de' Mongulli[323] e de' Tartari[324]. Di questi nomi divenuti rivali, benchè da una stessa origine derivanti, il primo si è perpetuato nell'imperiale dinastia, il secondo, o per errore, o a caso, è divenuto comune a tutti gli abitanti dei deserti del Settentrione. Il codice di leggi dettato da Gengis ai suoi sudditi, proteggea la pace domestica, e incoraggiava la guerra cogli stranieri. L'adulterio, l'assassinio, lo spergiuro, il furto di un cavallo, o di un bue, venivano puniti di morte, onde, comunque ferocissimi quegli uomini, fra di loro si comportavano con moderazione ed equità. L'elezione del Gran Kan fu serbata per l'avvenire ai Principi di sua famiglia, e ai Capi delle tribù. In questo codice si trovavano regolamenti per la caccia, fonti di diletti e di esistenza ad un campo di Tartari. Una nazione vincitrice avrebbe avuto per obbrobrio il sommettersi a servili lavori, de' quali incaricati erano gli schiavi e gli stranieri; ed ogni lavoro, eccetto la professione dell'armi, a quelle genti pareva servile. Quanto alla disciplina e agli studj militari, vedeasi che l'esperienza di un provetto comandante ne avea instituite le regole. Armati d'archi, di scimitarre, e di mazze di ferro quelle milizie, venivano divise in corpi di cento, di mille, di diecimila. Ciascun ufiziale o soldato facea garante la propria vita della sicurezza, o dell'onore de' suoi compagni, e sembra suggerita dal genio della vittoria la legge che proibisce il far pace col nemico, o non vinto, o non ridotto all'atto di supplichevole. Ma soprattutto è meritevole de' nostri elogi e della nostra ammirazione la religione di Gengis. Intanto che gli inquisitori della Fede cristiana sostenevano colla ferocia l'assurdità, un Barbaro, prevenendo le lezioni della filosofia, poneva colle sue leggi le basi di un puro deismo e di una perfetta tolleranza[325]. Per Gengis ora primo e solo articolo di fede l'esistenza di un Dio, autor d'ogni bene, la cui presenza tiene tutto lo spazio della terra e de' cieli che la sua possanza ha creati. I Tartari e i Mongulli adoravano gl'idoli particolari di lor tribù; e missionarj stranieri aveano convertito un grande numero di questi alla legge di Cristo, o di Mosè, o di Maometto. Ma concedendosi a ciascuno di darsi liberamente e senza disputare, alle pratiche della propria religione entro il ricinto del medesimo campo, il Bonzo, l'Imano, il Rabbino, il Prete o nestoriano, o cattolico, godeano del pari l'onorevole immunità dal prestar servigio militare e dal pagare tributo. Laonde, se nella moschea di Boccara, l'impetuoso conquistatore, permise che i suoi cavalli calpestassero il Corano in tempo di pace, il saggio legislatore rispettò i Profeti e i Pontefici di tutte le Sette. La ragione di Gengis nulla doveva ai libri, perchè questo Kan non sapea nè leggere, nè scrivere; ed eccetto la tribù degl'Iguri, pressochè tutti i Mongulli o Tartari, pareggiavano in ignoranza il loro Sovrano; talchè la ricordanza delle loro geste si è conservata sol per via di tradizioni state raccolte e scritte sessant'otto anni dopo la morte di Gengis[326]. Alla insufficienza di questi annali possono supplire quelli de' Cinesi[327], de' Persiani[328], degli Armeni[329], dei Siriaci[330], degli Arabi[331], de' Greci[332], de' Russi[333], de' Polacchi[334], degli Ungaresi[335], e dei Latini[336]; ognuna delle quali nazioni è degna di fede allorchè racconta o sofferti svantaggi, o sconfitte[337].

A. D. 1210-1214

Le armi di Gengis e de' suoi capitani sottomisero a mano a mano tutte le orde del deserto, che stavano accampate tra il muraglione della Cina ed il Volga. L'Imperatore Mongul, divenuto Monarca del Mondo pastorale, comandava a più milioni di guerrieri pastori, superbi della loro lega, e impazienti di sperimentare le loro forze contro i ricchi e pacifici abitatori del Mezzogiorno. Già stati tributarj degli Imperatori cinesi, gli antenati di Temugino, egli stesso umiliato erasi a ricevere da essi un titolo d'onore e di servitù. Qual si fu la sorpresa della Corte di Pechino in veggendo venire a sè un'ambasceria dell'antico vassallo, che in tuono di Re pretendea imporle un tributo di sussidj e di obbedienza da lui prestato poc'anzi, e ostentare disprezzo verso il Monarca figlio del Cielo? I Cinesi sotto il velo di una orgogliosa risposta palliarono i proprj timori; timori avverati ben tosto dall'impeto di un grande esercito che ruppe per ogni banda la fragile sbarra del lor muraglione, Novanta delle loro città o per fame, o vinte in assalto si arrendettero ai Mongulli. Le dieci ultime di queste persistendo a difendersi con buon successo, Gengis che conoscea la pietà filiale de' Cinesi, mise al suo antiguardo i lor Maggiori presi in battaglia; indegno abuso della virtù de' nemici, che a poco a poco non rispose più al fine cui era inteso. Centomila Kitani posti alla custodia de' confini ribellarono unendosi ai Tartari. Nondimeno, il vincitore acconsentì di venire a patti, e furono prezzo della sua ritirata una Principessa cinese, tremila cavalli, cinquecento giovinetti, altrettante vergini, e un tributo d'oro e di drappi di seta. In una seconda spedizione, Gengis costrinse l'Imperatore della Cina a trasportarsi oltre al fiume Giallo in una delle sue residenze imperiali che più avvicinavansi ad ostro; ma lungo e difficile fu l'assedio di Pechino[338], perchè gli abitanti, benchè costretti dalla fame, consentirono piuttosto a decimarsi fra loro per divenirsi scambievol pastura, e giunti a non avere più sassi, lanciavano verghe d'oro e d'argento sull'inimico. Ma i Mongulli fecero saltare in mezzo della città una mina che pose in fiamme l'Imperiale palagio, incendio che per trenta giorni durò. Oltre alla distruzione che i Tartari portarono in quello sfortunato paese, le interne fazioni lo dilaceravano; laonde con minore difficoltà Gengis aggiunse al suo dominio cinque province settentrionali di quel reame.

A. D. 1218-1224

Verso ponente, i possedimenti di Gengis pervenivano ai confini degli Stati di Carizme, che si estendevano dal golfo Persico fino ai limiti dell'India e del Turkestan, e governavali il Sultano Mohammed, il quale ambizioso d'imitare Alessandro il Grande, avea dimenticato che i suoi Maggiori fossero stati sudditi, e dovessero gratitudine ai Selgiucidi. Gengis deliberato di mantenersi in lega di commercio e d'amistà col più poderoso fra i Principi musulmani, non diè ascolto alle segrete sollecitazioni del Califfo di Bagdad; che voleva sagrificare alla sua vendetta personale la religione e lo Stato; ma un atto di violenza e d'inumanità commesso da Mohammed, trasse con giustizia l'armi de' Tartari nell'Asia Meridionale. Costui fece arrestare e trucidare ad Otrar una carovana composta di tre ambasciatori e di cencinquanta mercatanti. Ciò nullameno, sol dopo avere chiesta soddisfazione e vedersela ricusata, sol dopo orato, e digiunato tre giorni sopra d'una montagna, l'Imperator de' Mongulli si appellò al giudizio di Dio e della sua spada. «Le nostre battaglie d'Europa, dice uno scrittore filosofo[339], non sono che deboli scaramucce, se poniam mente agli eserciti che combattettero e perirono nelle pianure dell'Asia». Settecentomila Mongulli, o Tartari mossi, dicesi, sotto il comando di Gengis e de' quattro suoi figli, incontrarono nelle vaste pianure poste a tramontana del Shion o dell'Jaxarte, il Sultano Mohammed a capo di quattrocentomila guerrieri; e nella prima battaglia, che durò fino a notte, censessantamila Carizmj rimasero morti sul campo. Mohammed, sorpreso dal numero e dal valore de' suoi nemici, fe' sonare a ritratta, distribuendo le sue truppe nelle città di frontiera, perchè persuadeasi che cotesti Barbari, invincibili sul campo di battaglia, non la durerebbero contro la lunghezza e la difficoltà de' tanti assedj regolari che per ridurlo era mestieri intraprendere; ma Gengis avea saggiamente instituito un corpo di meccanici e di ingegneri cinesi, instrutti forse del segreto della polvere, e capaci, sotto un tal condottiero, di assalire estranei paesi con quel vigore che nel difendere la loro patria non dimostrarono, e di ottenere miglior successo. Gli Storici persiani narrano gli assedj e le rese di Otrar, Cogenda, Boccara, Samarcanda, Carizme, Herat, Meroù, Nisabour, Balc, e Candahar, la conquista delle ricche e popolose contrade della Transossiana, di Carizme, e del Korazan. Ma poichè le devastazioni operate da Gengis e dai Mongulli vennero da noi descritte nel volere offrire un'idea de' tremendi effetti che dovettero conseguire dalle invasioni degli Unni e di Attila, mi limiterò in questo luogo ad osservare che dal mar Caspio insino all'Indo, i conquistatori trasformarono in deserto uno spazio di oltre a più centinaia di miglia, cui l'opera umana avea coltivato e adorno di numerose abitazioni; nè il volgere di cinque secoli successivi ha bastato a riparare quel guasto che durò quattro anni. L'Imperatore tartaro incoraggiava, o tollerava il furore dei suoi soldati, che sitibondi di strage e saccheggio, e pensando all'istante, dimenticavano ogni idea di futuro godimento; e fatti più feroci dalla natura di quella guerra che i pretesti di una giusta vendetta sancivano. La caduta e la morte del sultano Mohammed, che abbandonato da tutti e non compianto da alcuno, in una deserta isola del Caspio finì sua vita, sono una debole espiazione a fronte delle calamità di cui fu l'origine. Il figlio di lui, Gelaleddino, più d'una volta arrestò i Tartari in mezzo al corso della vittoria, ma il valore di un solo eroe per salvar l'impero de' Carizmj era poco. Oppresso dal numero nel ritirarsi verso le rive dell'Indo, Gelaleddino, spinse entro l'onde il cavallo, e intrepido attraversando il più rapido ed ampio fiume dell'Asia, costrinse il suo vincitore ad ammirarlo. Dopo una tale vittoria, l'Imperator tartaro, cedendo a stento alle importunità de' suoi soldati fatti ricchi e stanchi di battersi, consentì ricondurli nella nativa contrada. Onusto delle spoglie dell'Asia, tornò lentamente addietro, dando a divedere qualche lampo di compassione sulla sventura de' vinti, e mostrandosi deliberato a rifabbricare le città per la sua invasione distrutte. Raggiunsero il suo esercito i due Generali, che con trentamila uomini di cavalleria avea spediti oltre i fiumi Osso e Jassarte per ridurre le province australi della Persia. Così dopo avere atterrato tutto quanto gli si opponea nel cammino, superate le gole di Derbend, attraversato il Volga e il Deserto, compiuto l'intero giro del mar Caspio, questo esercito tornava trionfante da una spedizione di cui l'antichità non offre esempj, e che niuno più mai a rinnovellare si accinse. Gengis segnalò il suo ritorno debellando quanti ribelli, o popoli independenti erano rimasti fra i Tartari; indi, carico d'anni e di gloria, morì esortando i suoi figli a conquistare per intero la Cina.

A. D. 1227

Lo Harem di Gengis contenea cinquecento donne o concubine, e nella numerosa sua posterità avea scelti quattro de' suoi figli, chiari per merito come lo erano per natali, affinchè sotto i comandi del padre sostenessero i primarj impieghi militari e civili dello Stato. Tusi era il Gran Cacciatore, Zagatai[340] il Giudice, Octai il Ministro, Tuli il Generale. I loro nomi e le geste si fanno scorgere di frequente nella storia delle conquiste di Gengis. Costantemente collegati e dal proprio e dal pubblico interesse, tre di questi fratelli si contentarono unanimemente per sè e per le loro famiglie, di un retaggio di regni dipendenti dal Capo supremo dello Stato. Octai venne acclamato Gran-Kan, o Imperatore de' Mongulli, o dei Tartari. Gli succedè Gayuk, per la cui morte lo scettro dell'Impero passò nelle mani de' cugini di lui, Mangoù e Cublay, figli di Tuli e pronipoti di Gengis. Ne' sessant'anni che seguirono la morte di questo conquistatore, i quattro primi Principi che gli succedettero, sottomisero quasi tutta l'Asia e una gran parte dell'Europa. Senza farmi ligio all'ordine de' tempi, o estendermi sulla descrizione degli avvenimenti, offrirò, come in un quadro generale, il progresso delle loro armi, primo ad oriente, secondo ad ostro, terzo a ponente ad e settentrione.

A. D. 1234

I. Prima dell'invasione di Gengis, la Cina dividevasi in due Imperi o dinastie, una del Nort, l'altra del Mezzogiorno[341], e la conformità delle leggi, del linguaggio e de' costumi temperava gli inconvenienti che venivano dalla differenza di origine e d'interessi. La conquista dell'impero settentrionale, già smembrato da Gengis, fu, sette anni dopo la morte del medesimo, affatto compiuta. Costretto ad abbandonare Pechino, l'Imperatore avea posta la sua residenza a Laifiong; città il cui recinto formava una circonferenza di molte leghe, e che, volendo credere agli Annali cinesi, contenea un milione e quattrocentomila famiglie, tra antichi abitanti e fuggitivi che vi ripararono. Ma fu mestieri a questo Sovrano il darsi nuovamente alla fuga; onde seguito da sette cavalieri si rifuggì ad una terza capitale, ove in veggendo perduta ogni speranza di salvare la vita, salì sopra un rogo, attestando la propria innocenza, imprecando il destino che lo perseguiva, e dando ordine che appena si fosse trafitto, venisse incenerita la pira. La dinastia dei Song, antichi Sovrani nativi di tutto l'Impero, sopravvisse circa quarantacinque anni alla caduta degli usurpatori del Nort, nè l'assoluta conquista della Cina accadde che sotto il regno di Cublai. In questo intervallo, i Tartari, oltrechè ebbero divagamenti di estranie guerre, non sì facilmente vinsero la resistenza dei Cinesi, i quali, se nella pianura non osavano far fronte ai lor vincitori, trincerati ne' monti, li costrinsero ad una innumerabile sequela d'assalti, e porsero milioni di vittime ai loro ferri. Così per gli assalti, come per le difese adoperavansi a vicenda le macchine da guerra degli antichi, e il fuoco greco; e a quanto sembra non era peregrino a queste genti l'uso della polvere, delle bombe, e de' cannoni[342]. Regolati venivan gli assedj dai Maomettani e dai Franchi che Cublai colle sue larghezze allettava a prender servigio sotto di lui. Dopo avere valicato il gran fiume, le truppe e l'artiglieria furono per lunghi e diversi canali trasportate fino alla residenza reale di Hamchen, o Quisnay, paese famoso pei suoi lavori di seta, e per essere sotto il clima più delizioso di tutta la Cina. L'Imperatore, principe giovine e pauroso, si arrendè senza oppor resistenza, e prima di trasferirsi al luogo del suo esilio, in fondo della Tartaria, toccò nove volte il suolo col fronte, fosse per implorare la clemenza del Gran Kan, o per rendergli grazie. Ciò nullameno la guerra (A. D. 1279), che d'allora in poi prese il nome di ribellione, durava nelle province meridionali di Quisnay fino a Canton, e coloro che più coraggiosamente si ostinarono nel difendere la libertà della patria, scacciati da ogni punto del territorio, si rifuggirono entro le navi; ma poichè i Song si videro avvolti e ridotti all'ultime estremità da una flotta di gran lunga superiore, il più prode di quei campioni, tenendosi fra le braccia l'Imperatore ancora fanciullo, esclamò: «è maggior gloria per un Monarca il morir libero, che il vivere schiavo,» e così gridando, si precipitò col regale infante nel mare. Imitato un simile esempio da centomila Cinesi, tutto l'Impero da Tunkin sino al gran muro, riconobbe Cublai per Sovrano. Non mai sazia l'ambizione di questo Principe, egli meditò allora la conquista del Giappone; ma distrutta per due volte la sua flotta dalla tempesta, tale spedizione malaugurosa costò inutilmente la vita a centomila Mongulli o Cinesi: nondimeno colla forza e col terrore delle sue armi ridusse a varj gradi di soggezione e tributo i vicini reami della Corea, del Tonkin, della Cocincina, di Pegù, del Bengala, e del Tibet. Trascorrendo poscia con una flotta di mille vele l'Oceano indiano, una navigazione di sessant'otto giorni il condusse, siccome sembra, all'isola di Borneo, situata sotto a Linea equinoziale; d'onde, benchè non tornasse privo di gloria e di prede, non potè consolarsi di aver lasciato fuggire il selvaggio Sovrano di quella contrada.

A. D. 1258

II. Più tardi, e condotti dai Principi della Casa di Timur, i Tartari conquistarono l'Indostan; ma Holagoù-Kan, pronipote di Gengis, fratello e luogotenente de' due Imperatori Mangoù e Cublai, terminò la conquista dell'Iran o della Persia. Senza imprendere una enumerazione monotona de' tanti Sultani, Emiri, o Atabecchi che questo Principe soggiogò, farò unicamente cenno della sconfitta e della distruzione degli Assassini, o Ismaeliti[343] della Persia, perchè tale impresa può riguardarsi, come un servigio prestato all'umanità. Il regno di questi odiosi settarj da oltre cento sessant'anni impunemente durava nelle montagne poste ad ostro del mar Caspio, e il loro Principe, o imano inviava un governatore alla colonia del monte Libano, tanto formidabile e famosa nella Storia delle Crociate[344]. Al fanatismo del Corano gl'Ismaeliti aggiugnevano le opinioni indiane sulla trasmigrazione dell'anime e le visioni de' loro profeti. Primo dovere per essi era il consagrare ciecamente l'anima e il corpo agli ordini dei Vicario di Dio. I pugnali de' missionarj di questa setta si fecero sentire nell'Oriente e nell'Occidente; onde i Cristiani e i Musulmani contano un grande numero d'illustri vittime immolate allo zelo, alla avarizia, o all'astio del Vecchio della Montagna, che così in linguaggio corrotto venne nomato. La spada di Holagoù infranse i costui pugnali, sole armi nelle quali valesse, nè di questi nemici dell'uman genere rimane oggidì altro vestigio che la denominazione Assassino, volta a significato parimente odiosissimo dalle lingue europee. Il leggitore che ha considerati successivamente l'ingrandirsi e il declinare della Casa degli Abbassidi, non la vedrà con occhio d'indifferenza perire. Dopo la caduta dei discendenti dell'usurpatore Selgiuk, i Califfi aveano ricuperati i loro Stati ereditarj di Bagdad e dell'Yrak dell'Arabia, ma data in preda a fazioni teologiche la città, il Comandante de' Credenti vivea oscuramente entro il suo Harem, composto di settecento concubine. Questi all'avvicinar de' Mongulli, oppose loro deboli eserciti e ambasciatori superbi. «Per volere di Dio, dicea il Califfo Mostasem, i figli di Abbas comandano sulla terra. Ei li sostiene sul trono, e i loro nemici in questo Mondo e nell'altro verran castigati. E chi è dunque cotesto Holagoù che ardisce sollevarsi contro di noi? Se egli vuole la pace, sgombri immantinente il territorio sacro de' prediletti del Signore, e otterrà forse dalla nostra clemenza il perdono delle sue colpe». Un perfido Visir mantenea in così cieca presunzione il Califfo assicurandolo, che, quand'anche i Barbari fossero penetrati nella città, le donne e i fanciulli avrebbero bastato per opprimerli dall'alto dei terrazzi di Bagdad. Ma appena Holagoù ebbe avvicinata la mano al fantasma, questo in fumo si dissipò; dopo due mesi d'assedio, presa d'assalto, e saccheggiata dai Mongulli la città di Bagdad, il feroce lor comandante pronunziò la sentenza del Califfo Mostasem, ultimo successore temporale di Maometto, e la cui famiglia discesa da Abbas, avea tenuti per più di cinque secoli i troni dell'Asia. Comunque vaste fossero le mire del conquistatore, il deserto dell'Arabia protesse contro la sua ambizione le città sante della Mecca e di Medina[345]. Ma i Mongulli spargendosi al di là del Tigri e dell'Eufrate, saccheggiarono Aleppo e Damasco, e minacciarono unirsi ai Franchi per liberare Gerusalemme. L'ultima ora dell'Egitto sarebbe sonata, se questa contrada non avesse avuti migliori difensori degl'inviliti suoi figli; ma i Mammalucchi che respirata aveano, durante la giovinezza, l'aria vivifica della Scizia, pareggiavano i Mongulli in valore, in disciplina li superavano; assalito per più riprese in regolare battaglia il nemico (A. D. 1242-1272), volsero il corso di questo impetuoso torrente al levante dell'Eufrate e sui regni dall'Armenia e della Natolia, che all'impeto di questa invasione non avean riparo da opporre. Il primo dei due regni ai Cristiani, ai Turchi perteneva il secondo. Ben qualche tempo resistettero i Sultani d'Iconium; ma finalmente un d'essi, Azzadino, si vide costretto a cercar ricovero fra i Greci di Bisanzo, e i suoi deboli successori, ultimi Selgiucidi, dai Kan di Persia furono sterminati.

A. D. 1235-1245

III. Soggiogato appena l'Impero settentrionale della Cina, Octai risolvè portar le sue armi fin nelle contrade più remote dell'Occidente. Un milione e mezzo di Mongulli, o di Tartari avendo portati i lor nomi per essere ascritti ne' registri militari, il Gran Kan, scelse una terza parte di questa moltitudine, e ne affidò il comando al nipote Batù, figlio di Tuli, che regnava sulle paterne conquiste al nort del mar Caspio. Dopo le feste di allegrezza che durarono quaranta giorni, partì per questa clamorosa spedizione, e tal si furono l'ardore e la sollecitudine delle sue innumerabili soldatesche, che in men di sei anni, novanta Gradi di longitudine, ossia un quarto della circonferenza terrestre, per esse vennero trascorse. Attraversarono i grandi fiumi dell'Asia e dell'Europa, il Volga e il Kama, il Don e il Boristene, la Vistola e il Danubio, ora a nuoto da starsi a cavallo, or sul diaccio, durante il verno, ora entro battelli di cuoio, che seguivano sempre l'esercito, servendo al trasporto dell'artiglieria e delle bagaglie. Le prime vittorie di Batù annichilarono ogni avanzo di libertà patria, nelle immense pianure del Kipsak[346] e del Turkestan. In questa rapida corsa, passò per mezzo ai regni conosciuti oggidì sotto i nomi di Kasan, e di Astrakan, intanto che le truppe da lui mosse verso il monte Caucaso penetrarono nel cuore della Circassia e della Georgia. La discordia civile de' gran Duchi o Principi della Russia, abbandonò il loro paese in preda ai Tartari che coprirono il territorio russo dalla Livonia infino al mar Nero. Chiovia e Mosca, le due capitali antica e moderna, furono incenerite; calamità passeggera, e probabilmente men funesta ai Russi della profonda e forse indelebile traccia che una schiavitù di due secoli sul loro carattere ha impressa. I Tartari con egual furore devastavano e i paesi che divisavano conservare, e i paesi d'onde erano frettolosi d'uscire. Dalla Russia, ove aveano posta dimora, fecero una scorreria passeggiera, ma non meno struggitrice, sino ai confini dell'Alemagna; e le città di Lublino e di Cracovia disparvero. Avvicinatisi alle coste del Baltico, sconfissero nella battaglia di Lignitz i Duchi di Slesia, i Palatini polacchi e il Gran Mastro dell'Ordine teutonico, empiendo nove sacca delle orecchie destre di coloro che avevano uccisi. Da Lignitz, temine occidentale della loro corsa, si volsero all'Ungheria, in numero di cinquecentomila, incoraggiati dalla presenza del proprio Sovrano e condottiero Batù, e, a quanto diedero a divedere, animati dal suo medesimo spirito. Scompartitisi in varj corpi di truppa, superarono i monti Carpazj, e dubitavasi tuttavia sulla possibilità del loro arrivo, quando sui popoli perplessi i primi atti del lor furore operarono. Il Re Bela IV adunò affrettatamente le forze militari delle sue contee e de' suoi vescovadi, ma egli avea già venduta la sua nazione col dar ricetto ad una banda errante di Comani, composta di quarantamila famiglie. Un sospetto di tradimento e l'uccisione del loro Capo avendo eccitati questi selvaggi ospiti alla sommossa, tutta la parte di Ungheria, posta a settentrione del Danubio, fu perduta in un giorno, spopolata nel volgere di una state, e le rovine de' tempj e delle città vidersi seminate d'ossa di cittadini che espiarono le colpe de' Turchi loro antenati. Le calamità di que' tempi ci vengono descritte da un Ecclesiastico ungarese, che spettatore del saccheggio di Varadino, ebbe la ventura di sottrarsi alla morte, e ne danno a divedere come le stragi operate dal furore de' Barbari in mezzo agli assedj e alle battaglie, fossero anche meno atroci del destino che la perfidia serbò ai fuggitivi. Lusingati prima questi meschini con promesse di perdono e di pace ad uscire delle foreste, i Tartari aspettarono che avessero terminati i lavori della mess e della vendemmia, poi tutti, a sangue freddo, li trucidarono. Nel vegnente verno i Mongulli, valicato sul diaccio il Danubio, s'innoltrarono verso Gran o Strigonium, colonia germanica e Capitale del regno, e contro le mura della medesima addirizzarono trenta macchine, colmando le fosse di sacchi di terra e cadaveri; indi quando fu presa, dopo una strage alla cieca, il truce Kan ordinò alla sua presenza la morte di trecento nobili matrone. Fra le diverse città e Fortezze dell'Ungheria, tre sole ne rimasero dopo l'invasione, e il misero Bela corse a nascondersi nelle Isole dell'Adriatico.

Un subitaneo terrore tutto il latino Mondo comprese fin dall'istante che un Russo fuggitivo arrecò tra gli Svedesi le prime notizie di questo flagello; le nazioni del Baltico e dell'Oceano tremarono all'avvicinare de' Tartari[347], che il timore e l'ignoranza dipigneano siccome enti di una natura diversa dagli uomini. Dopo la invasione degli Arabi accaduta nell'ottavo secolo, l'Europa non era mai stata esposta a pericolo di più grave calamità; e se i discepoli di Maometto opprimeano le coscienze e la libertà, qui v'era luogo a temersi che i truci pastori della Scizia annichilassero città, arti e tutte le istituzioni della civile società. Il Pontefice romano tentò una prova per ammansare e convertire questi indomabili Pagani, inviando loro alcuni frati dell'Ordine di S. Domenico e di S. Francesco. Ma a questi rispose il Gran Kan, che i figli di Dio e di Gengis erano muniti di potestà divina per sottomettere e sterminar le nazioni, e che nè anco il Papa sarebbe stato eccettuato dalla distruzion generale, a meno di portarsi in persona ad implorar supplichevole la clemenza dell' Orda Reale. Più coraggiose vie di salvezza immaginò l'Imperator Federico, che scrivendo ai Principi di Alemagna, al Re di Francia e di Inghilterra, e dipingendo con forti colori il comune pericolo, li sollecitò a mettere in armi tutti i lor vassalli per correre ad una giusta e ragionevol crociata[348]. Il valore e la rinomanza de' Franchi posero in riguardo gli stessi Tartari; laonde intanto che cinquanta soli uomini a cavallo e venti balestrieri difendeano con buon successo il castello di Newstadt, nell'Austria, coloro, al solo avviso di un esercito alemanno che avvicinava, tolser l'assedio. Contento di avere devastati i vicini regni di Servia, di Bosnia e di Bulgaria, Batù si ritirò lentamente dal Danubio al Volga, per vedere i frutti delle sue vittorie nella città, ossia nel palagio di Serai, che ad un suo comando sorse dal mezzo del deserto.

A. D. 1242

IV. Le stesse regioni più povere e più addiacciate del Settentrione non vennero risparmiate dall'armi de' Mongulli; e Seibani-Kan, fratello del gran Batù, avendo condotta un'orda di quindicimila famiglie ne' deserti della Siberia, i discendenti del medesimo regnarono a Tobolsk per più di tre secoli, e sino al momento della conquista de' Russi. Seguendo il corso dell'Obi e dello Genisei, lo spirito loro intraprendente debbe averli condotti alla scoperta del mar Glaciale; e se dagli antichi monumenti che ci sono rimasti vengano tolte le mostruose favole d'uomini colle teste di cane e co' piè biforcuti, troveremo, che quindici anni dopo la morte di Gengis, i Mongulli conosceano il nome e le costumanze dei Samoiedi, abitanti quasi sotto il Cerchio polare, entro casupole sotterranee, non usi ad altra fatica fuor della caccia, che somministra ai medesimi e il nudrimento e le pellicce di cui si vestono[349].

A. D. 1227-1259

Intanto che i Mongulli e i Tartari invadeano ad un tempo la Cina, la Sorìa e la Polonia, gli autori di cotanti flagelli si compiaceano nel risapere e nell'udirsi raccontare che le loro parole erano strumento di morte. Pari ai primi Califfi, i primi successori di Gengis comparivano di rado in persona a capo dei loro eserciti vittoriosi, sulle rive dell'Onone e del Selinga; l'orda dorata, o reale offeriva l'antitesi della semplicità e della grandezza, di una mensa solo imbandita di pecora arrostita e di latte di cavalla, e di cinquecento carra d'oro e d'argento in un sol giorno distribuite. I Principi europei ed asiatici si videro costretti ad inviare ambasciadori al Gran Kan, o ad imprendere eglino stessi a tal fine lunghi e penosissimi viaggi. Il trono e la vita de' Gran Duchi di Russia, dei Re di Georgia e d'Armenia, de' Sultani d'Iconium, e degli Emiri della Persia dependeano da un gesto del Gran Kan de' Tartari. Benchè i figli e i pronipoti di Gengis fossero stati avvezzi alla vita pastorale, videsi a poco a poco ingrandire il villaggio di Caracora[350], ove si eleggevano i Kan, e ove questi posero la lor residenza. Octai e Mangoù avendo abbandonate le loro tende per abitare una casa, il che indicava già un cambiamento di costumi, i Principi di lor famiglia e i grandi ufiziali dell'Impero imitarono questo esempio. In vece delle immense foreste state un dì teatro delle lor caccie, vennero i parchi, ne' cui recinti con risparmio di fatica si diportavano: vennero ad abbellire le nuove lor case la pittura e la scultura; i tesori superflui si convertirono in bacini, in fontane e statue d'argento massiccio. Gli artisti cinesi e parigini impiegarono al servigio del Gran Kan il loro ingegno[351]. Eranvi a Caracora due strade occupate, l'una da operai cinesi, l'altra da mercatanti maomettani: vi si vedeano una chiesa nestoriana, due moschee, e dodici templi consagrati al culto di diversi idoli, d'onde può concepirsi presso a poco un'idea del numero degli abitanti di Caracora, e di quali nazioni diverse quella popolazione fosse composta. Ciò nullameno un missionario francese afferma, che la capitale de' Tartari non pareggiava nemmeno la piccola città di S. Dionisio presso Parigi, e che il Palagio di Mongul non valeva il decimo dell'Abbazia de' Benedettini posta nella ridetta città. Comunque la vanità dei Gran Kan fosse lusingata dalle conquiste della Russia e della Sorìa (A. D. 1259-1368), non dipartivano mai dalle frontiere della Cina il loro soggiorno. Il possedimento dell'Impero cinese essendo primario soggetto di loro ambizione, non dimenticavano, rispetto agli abitanti di questa contrada, una massima, di cui certamente s'erano imbevuti colla consuetudine della vita pastorale; che al pastore cioè torna a conto il proteggere e moltiplicar le sue greggie. Ho già altrove encomiata la saggezza e la virtù di un mandarino che sottrasse alla distruzione cinque province fertili e popolose. Durante un'amministrazione di trent'anni, in cui immune da ogni censura si conservò, questo benefico amico della patria e della umanità pose ogni studio ad allontanare, o mitigare le calamità della guerra, a ridestare l'amor delle scienze, a salvare i monumenti dell'antichità, a por limiti al dispotismo de' comandanti militari, coll'ottenere che le magistrature civili venissero nuovamente instituite; per ultimo ad inspirare sentimenti di pace e giustizia nell'animo dei Mongulli. Lottando coraggiosamente contro la rabbia de' primi conquistatori, le salutari lezioni di cotest'uomo, abbondante messe fruttarono alla successiva generazione. Perchè l'Impero settentrionale, e a poco a poco il meridionale, essendosi assoggettati al governo di Cublai, luogo-tenente, indi successore di Mangoù, la nazione si adattò facilmente alla fedeltà verso un Principe nelle cinesi costumanze allevato. Per voler di questo, restituite alla costituzione del paese le antiche forme, i vincitori abbracciarono le leggi, gli usi, e fino i pregiudizj del popolo conquistato: pacifico trionfo de' vinti, non privo d'esempli nella Storia, e che i Cinesi dovettero al loro numero ad anche al loro stato abituale di servitù. Gl'Imperatori de' Mongulli vedendo i loro eserciti pressochè confusi coll'immensa popolazione di un così vasto reame, si conformarono di buon grado ad un sistema politico, che offrendo ai Principi i godimenti reali del potere dispotico, lasciava ai sudditi l'esca dei vani nomi di filosofia, di libertà e di filiale obbedienza. Fiorirono sotto il regno di Cublai il commercio e le Lettere; i popoli godettero le beneficenze della giustizia e le soavità della pace. Allora il gran canale di cinquecento miglia che conduce da Nankin alla capitale, fu aperto. Posta la sua residenza a Pechino, il Monarca e la sua Corte vi sfoggiarono della magnificenza de' più ricchi Sovrani dell'Asia. Nondimeno questo saggio Principe si allontanò dalla purezza e dalla semplicità della religione che l'avo suo aveva abbracciata; onde coll'offrire sagrifizj all'idolo di Fò, e col sommettersi ciecamente ai Lama e ai Bonzi, si meritò le censure de' discepoli di Confucio[352]. I successori di lui imbrattarono la Reggia, empiendola di una folla di eunuchi, di empirici e di astrologhi, non si curando della penuria della provincia e di tredici milioni di sudditi che vi morivan di fame. Finalmente, cento quarant'anni dopo la morte di Gengis, i Cinesi, stanchi dal sofferire, avendo scacciata dal trono la dinastia de' Yuen, stirpe tralignata di quel famoso conquistatore, il nome degl'Imperatori Mongulli tornò a dileguarsi in mezzo ai deserti (A. D. 1259-1300). Anche prima di questo definitivo cambiamento politico, aveano perduta la loro supremazia sopra diversi rami di loro famiglia, perchè i Kan del Kipsak o della Russia, del Zagatai o della Transossiana, dell'Iran o della Persia, solo in origine luogo-tenenti del Gran Kan, forniti di molto potere, e in tanta lontananza dal loro Capo supremo, non trovarono cosa difficile lo sciogliersi dai doveri dell'obbedienza, e dopo la morte di Cublai disdegnarono accettare uno scettro, o un titolo dagli spregevoli Principi che gli succedettero. Giusta le circostanze in cui si trovarono, alcuni di essi mantennero la semplicità primitiva de' costumi pastorali, altri al lusso delle città asiatiche dieder ricetto; ma così i Principi come i popoli si mostrarono ad abbracciare un nuovo culto disposti. Dopo avere esitato tra l'Evangelio e il Corano, preferirono la religione di Maometto, riguardando siccome fratelli gli Arabi ed i Persiani, e rompendo ogni corrispondenza co' Mongulli, o idolatri della Cina.

A. D. 1240-1304

Può essere giusto soggetto di maraviglia come in un così generale sconvolgimento l'Impero romano, smembrato dai Greci e dai Latini, abbia potuto salvarsi dall'invasione de' Tartari. Immensamente lontani dal poter d'Alessandro, i Greci gli si rassomigliavano nel vedersi e in Asia e in Europa incalzati dai pastori della Scizia, nè v'ha dubbio che Costantinopoli avrebbe sofferta la sorte di Bagdad, di Pechino, di Samarcanda, se i Tartari ne avessero intrapreso l'assedio. E veramente allorchè i vanagloriosi Greci e Franchi derisero per la sua ritirata Batù, che lieto di tante vittorie volontario rivalicava il Danubio[353], questo conquistatore si mise una seconda volta in cammino deliberato di assalire la Capitale de' Cesari; ma la morte il sorprese, e fu salvo Bisanzo. Borga fratello di Batù condusse bensì i Tartari nella Tracia e nella Bulgaria, ma dalla conquista di Costantinopoli lo distolse un viaggio a Novogorod, posta al cinquantasettesimo Grado di latitudine, ove fe' il censo de' Russi e regolò i tributi di quella popolazione. Collegatosi indi coi Mammalucchi contra i suoi compatriotti della Persia, trecentomila uomini a cavallo superarono le gole di Derbend, incominciamento di guerra civile, che fu la ventura dei Greci. Vero è che dopo avere ricuperata Costantinopoli, Michele Paleologo[354] allontanatosi dalla sua Corte e dal suo esercito, venne sorpreso e attorniato da ventimila Tartari in un castello della Tracia; ma l'impresa di questi non avendo altro scopo che la liberazione del sultano turco Azzadino, si contentarono di condur seco l'Imperatore e i suoi tesori. Noga, lor generale, il cui nome si è perpetuato fra le orde di Astracan, eccitò una formidabile sommossa contro Mengo-Timur, terzo Kan del Kipsak; ed ottenuta in maritaggio Maria figlia naturale di Paleologo, difese gli Stati del suocero e dell'amico. Quanto alle successive invasioni, queste non furono operate che dagli scorridori fuggiaschi, e da alcune migliaia di Alani e Comani, che, scacciati dalle loro patrie, e stanchi del vivere errante, al servigio dello stesso Imperator greco si posero. Tal fu per l'Impero greco l'invasione de' Tartari nell'Europa: lungi dal turbare la pace dell'Asia romana, il primo terrore inspirato dall'armi loro contribuì ad assicurarne la tranquillità. Avvenne poi che il sultano d'Iconium sollecitò un parlamento con Giovanni Vatace, la cui artificiosa politica, avea persuaso ai Turchi il consiglio di difendere i lor confini contra il comune inimico[355]; confini che per vero dire non durarono lungo tempo, attesa la sconfitta e la cattività de' Selgiucidi, che lasciò poi scorgere apertamente quanto deboli fossero i Greci. Perchè allor quando il formidabile Holagoù minacciò movere contro Costantinopoli a capo di un esercito di quattrocentomila uomini, il terror panico che si impadronì degli abitanti di Nicea, mostrò qual fosse lo spavento generale di tutta la Grecia. La cerimonia occidentale di una processione, in mezzo a cui ripeteasi la lugubre litania: mio Dio salvateci dal furor de' Tartari, sparse tanto terrore nella città, che diede luogo alla falsa vociferazione di un assalto e di una strage fin d'allora accaduti. Vidersi coperte le strade di abitanti d'entrambi i sessi, accecati dallo spavento e che fuggivano senza saper dove; o perchè, essendovi volute molte ore, prima che l'intrepidezza degli ufiziali della guarnigione, giugnesse a liberare da questa sventura immaginaria la costernata città. Ma la conquista di Bagdad portò altrove le ambiziose armi di Holagoù e de' suoi successori, i quali sostennero una lunga guerra nella Sorìa, ove sempre non trionfarono; che anzi le loro contese coi Musulmani li fecero proclivi a collegarsi co' Greci e co' Franchi[356]; e fosse per generosità o disprezzo, offersero il regno di Natolia in compenso ad uno de' loro vassalli armeni. Gli Emiri, che mantenutisi in alcune città e paesi montuosi si disputavano gli avanzi della monarchia de' Selgiucidi, riconobbero tutti la supremazia del Kan della Persia, il quale frammise sovente la propria autorità, e qualche volta ancora le sue armi, per porre un argine alle costoro depredazioni, e mantenere l'equilibrio e la pace della frontiera de' suoi turchi dominj. Ma per la morte di Kasan[357], uno de' più illustri discendenti di Gengis, disparendo questa salutevole preminenza, il declinar de' Mongulli (A. D. 1304) lasciò il campo libero all'innalzamento e ai progressi dell'Impero ottomano[358].

A. D. 1240

Dopo la ritirata di Gengis, Gelaleddino sultano di Carizme tornato era dall'India per governare e difendere i suoi Stati persiani. Nello spazio di undici anni, questo eroe diede in persona quattordici regolari battaglie, e tal ne fu la solerzia, che in settanta giorni, a capo della sua cavalleria, trascorse un cammino di mille miglia da Teflis a Kerman; ma costretto a soggiacere così per la gelosia de' Principi musulmani, come per lo sterminato numero delle tartare soldatesche, dopo un'ultima rotta, terminò, privi di gloria, i suoi giorni nelle montagne del Curdistan. Si disperse per la morte del Capo la truppa dei coraggiosi suoi veterani, che sotto nome di Carizmj, o Corasmini, comprendea la massima parte di quelle bande di Turcomani, che consagrati eransi a seguir la fortuna del loro Sultano. I più arditi e più poderosi fra questi, operata una invasione nella Sorìa, saccheggiarono il Santo Sepolcro di Gerusalemme: gli altri prestarono il servigio delle loro armi ad Aladino sultano d'Iconium, fra i quali trovavansi gli oscuri antenati dell'ottomana dinastia. Aveano questi in origine posto campo sulla riva australe dell'Osso nelle pianure di Mahan e di Neza; al qual proposito è cosa straordinaria e meritevole di osservazione esser venuti da quel sito medesimo e i Parti, e i Turchi, fondatori di due potentissimi Imperi. Solimano-Sà, che conduceva l'antiguardo o il retroguardo dell'esercito de' Carizmj, al passaggio dell'Eufrate annegò. Il figlio di lui Ortogrul, divenuto suddito e soldato di Aladino, pose a Surgut in riva al Sangario un campo di quattrocento tende, o famiglie, delle quali assunse il governo civile e militare, che gli durò cinquantadue anni. Da Ortogrul nacque Tamano o Atmano (A. D. 1299-1326), il cui nome è stato cambiato in quello del Califfo Otmano, dal qual personaggio, per ben apprezzarlo, è d'uopo separare coll'animo tutte le idee di abbiezione e d'ignominia che allo stato di pastore e scorridore vanno congiunte. Otmano dotato in eminente grado di tutte le virtù di un soldato, profittò maestrevolmente delle circostanze di tempo e di luogo che la sua independenza e i successi delle sue imprese favoreggiavano. Estinta era la stirpe de' Selgiucidi, la spirante podestà de' principi Mongulli, e la lor lontananza lo scioglieano d'ogni soggezione; trovavasi posto sui confini del greco Impero; il Corano raccomandava il Gazi, ossia la guerra santa contro degl'Infedeli, intanto che la falsa politica di questi avendo aperti i passi del monte Olimpo, lo allettava a discendere nelle pianure della Bitinia. Perchè, fino all'epoca del regno de' Paleologhi, i ridetti passi erano validamente custoditi dalla milizia del paese, che per un guiderdone di tal servigio godea la sicurezza dei suoi possedimenti e l'immunità da ogni tassa. L'Imperatore greco, abolendo i privilegi di queste genti, e costringendole a pagare rigorosamente il tributo, si assunse la cura di far custodire quelle gole di monti, che vennero ben presto dimenticate, e in questo mezzo que' montanari, dianzi sì valorosi, si trasformarono in una timida ciurma priva di forza e di disciplina. Nel giorno 27 luglio dell'anno 1299 dell'Era cristiana, Otmano entrò per la prima volta nelle campagne che circondano Nicomedia[359]. L'esattezza singolare con cui si tenne conto del giorno di un tale arrivo, indicherebbe quasi che si prevedea qual fosse per essere l'aumento rapido e fatalissimo del nascente mostro che minacciava l'Impero. I ventisette anni che durò il regno di Otmano non offrirebbero fuorchè una ripetizione delle medesime scorrerie. Ad ognuna di esse facendo nuove reclute, ingrossava di prigionieri e volontarj il suo esercito. In vece di ritirarsi nelle montagne, d'onde era uscito, Otmano conservava tutti i posti utili ed atti a difesa, pronto a riparare le fortificazioni delle piazze e delle castella che avea saccheggiate. Già preferiva alle abitazioni ambulanti delle nazioni pastorali i bagni e i palagi delle città che per lui già sorgevano. Però solamente sul terminar de' suoi giorni, e mentre gli anni e le infermità lo premeano, Otmano ebbe il contento di sapere la conquista di Prusa fatta dal suo figlio Orcano, cui la fama o il tradimento apersero le porte di questa città. La gloria di Otmano su quella de' suoi discendenti è soprattutto fondata; ma i Turchi hanno conservato, o fosse di lui, o ne fossero eglino stessi a suo nome gli autori, un testamento memorabile per le massime di giustizia e di moderazione che in esso abbondano[360].

La conquista di Prusa può riguardarsi come la vera data della fondazione dell'Impero ottomano. I sudditi cristiani si assicurarono le loro vite e sostanze mercè un tributo, o riscatto di trentamila scudi d'oro, ma non andò guari che per le cure di Orcano, questa città una Capitale maomettana divenne. Una moschea, un collegio, un ospitale l'ornarono. Rifuse le monete de' Selgiucidi, quelle di nuovo conio portarono il nome e l'impronta della sopravvenuta dinastia, e i più abili maestri delle cose umane e divine allettarono gli studenti persiani ed arabi a qui trasferirsi, abbandonando le scuole dell'Oriente. Aladino fu il primo a nomarsi visir, carica che a favore di lui il suo fratello Orcano instituì; mise leggi affinchè un vestir diverso distinguesse i cittadini dai campagnuoli, i Musulmani dagli Infedeli. La forza militare di Otmano stavasi unicamente in indocili squadroni di cavalleria turcomana, privi di stipendio, come di disciplina; ma Orcano avvisò saggiamente ad instituire e addestrare un corpo di fanteria, arrolando un grande numero di volontarj, contenti di tenue paga, e liberi di rimanersi alle proprie case ogni qualvolta i lor servigi non erano necessarj. Pure la rozzezza dei lor costumi e l'indole sediziosa, persuasero Orcano ad educarsi una truppa scelta, trasformando i suoi giovani prigionieri in soldati del Profeta, e ai contadini turchi rimase il privilegio di seguire l'esercito del Sultano, ordinati in corpo di cavalleria, col nome di partigiani; per le quali sollecitudini e per sua accortezza pervenne a crearsi un esercito di venticinquemila Musulmani. Fece inoltre fabbricar macchine necessarie agli assedj, o agli assalti delle città, delle quali macchine provò per la prima volta il buon successo contro Nicomedia e Nicea (A. D. 1326-1339). Condiscendente nel munire di salvocondotti tutti coloro che voleano ritirarsi colle loro famiglie e suppellettili, si riserbò l'arbitrio delle vedove de' vinti a favore de' conquistatori, che le desideravano in ispose; i libri, i vasi e le immagini de' Santi vennero comprate o riscattate dagli abitanti di Costantinopoli. Vinto e ferito in battaglia Andronico il Giovane[361], Orcano sottomise tutte le province, o il regno di Bitinia sino alle rive del Bosforo, o dell'Ellesponto; e la giustizia e la clemenza di un Principe che si era conciliata affezione e volontaria sommessione dai Turchi dell'Asia, dai medesimi Cristiani venne riconosciuta. Orcano modestamente del titolo d'Emiro si contentò, e per dir vero, fra i principi di Rum e della Natolia[362] ve ne erano alcuni (A. D. 1300 ec.) che in militari forze lo superavano. Gli Emiri di Ghermian e di Caramania, aveano ciascuno sotto di sè un esercito di quarantamila uomini, ma situati nella parte interna delle terre ove regnarono i Selgiucidi, levarono nella storia men grido de' santi guerrieri, che inferiori di possanza a questi Emiri, si fecero maggiormente conoscere per nuovi principati instituiti nel greco Impero. I paesi marittimi, dalla Propontide fino al Meandro e all'isola di Rodi, minacciati per tanto tempo, e sottoposti a sì frequenti devastazioni, vennero tolti per sempre al dominio greco sotto il regno del vecchio Andronico[363]. Due Capi turchi, Aidino e Sarukan, s'impossessarono di più province (A. D. 1312 ec.), che chiamate co' nomi dei loro conquistatori, passarono alla posterità, soggiogate, o rovinate. Le Sette Chiese dell'Asia, sui territorj della Lidia e della Sorìa veggonsi tuttavia calpestate da barbari padroni degli antichi monumenti del Cristianesimo. Perduta Efeso, i Cristiani dolendosi della caduta del primo angelo, deplorarono spenta[364] la prima face delle rivelazioni[365]. La distruzione è stata compiuta, e le orme del tempio di Diana e della chiesa di S. Maria, nello stesso tempo disparvero. Il circo e i tre teatri di Laodicea son covacci delle volpi e de' lupi; Sardi non è più che un miserabil villaggio. Il Dio di Maometto, questo Dio che non ha nè figli nè rivali[366], viene invocato a Pergamo e a Tiatira entro i recinti di numerose moschee, Smirne dee la sua popolazione soltanto al commercio degli Armeni e de' Franchi. L'unica Filadelfia è stata salvata da una profezia, o dal suo coraggio. Lontani dal mare, dimenticati dagl'Imperatori, attorniati per ogni parte dai Turchi, gl'intrepidi cittadini di Filadelfia difesero per più di ottant'anni la lor religione e la lor libertà, ottenendo un'onorevole capitolazione dal più feroce degli Ottomani. Le colonie greche, le Chiese dell'Asia furon distrutte (A. D. 1310-1523); scorgesi tuttavia Filadelfia come colonna fra le rovine; confortante esempio che dà a divedere come la condotta più onorevole sia talvolta la più sicura. I Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme difesero la libertà di Rodi[367] per oltre a due secoli, e cotesta isola, sotto il chiaro lor reggimento, acquistò splendore di ricchezza e di fama: nobili e valorosi monaci guerrieri che si meritavano gloria eguale e per mare, e per terra, onde la loro isola, lungo tempo baluardo della Cristianità, e allettò a conquistarla più volte, e più volte respinse i numerosi eserciti de' Turchi e dei Saracini.

A. D. 1341-1347

Le discordie de' Greci furono la prima origine di lor rovina. Durante le guerre civili del primo e del secondo Andronico, il figlio di Otmano terminò, quasi senza trovar resistenza, la conquista della Bitinia; le stesse divisioni de' Greci incoraggiarono gli Emiri turcomani della Lidia e della Jonia ad allestire una flotta, con cui devastarono le vicine isole della costa d'Europa. Ridotto a difendere l'onore e la vita, Cantacuzeno, o volesse prevenire, o imitare i suoi avversarj, ricorse ai nemici del suo paese e della sua religione. Amiro, figlio di Aidino, sotto vesti maomettane ascondea la cortesia e la gentilezza che ad un Greco sarebbersi addette; vincoli di mutua stima e di servigi scambievoli, lo univano al Gran Domestico, onde l'amicizia di questi due personaggi, giusta il linguaggio de' tempi, a quella di Oreste e Pilade venne paragonata[368]. Uditi dal Principe di Jonia i pericoli fra i quali avvolgeasi l'amico suo, da un'ingrata Corte perseguitato, allestì una flotta di trecento vele e un'armata di ventinovemila uomini, con cui salpando nel cuor del verno, venne a gettar l'áncora alla foce dell'Ebro. Seguìto da una scelta truppa di duemila Turchi, Amiro s'innoltrò lungo le rive del fiume, e pervenne a liberare l'Imperatrice, che i selvaggi Bulgari teneano assediata entro la città di Demotica. In questo tempo il caro amico di lui Cantacuzeno rifuggitosi nella Servia, lasciava ignorare il proprio destino. Irene, impaziente di vedere in volto il suo liberatore, lo invitò ad entrare nella città, accompagnando l'invito con un donativo di cento cavalli e di preziosi ornamenti; ma per un riguardo singolare di delicatezza, il Barbaro che nudriva sensi tutt'altro che barbari, ricusò di vedere la moglie dell'amico infelice, e di godere, mentre questi stava lontano, le delizie del suo palagio; sopportando entro la propria tenda l'inclemenza della stagione, rifiutò i favori offertigli dall'ospitalità per sofferire in comune co' suoi duemila compagni ben degni, siccome il Duce, degli onori che lor venivano tributati. La brama che lo ardea di vendicar Cantacuzeno, e il bisogno di vivere, sono la scusa delle scorrerie che sulla terra e sull'acque in questo mezzo si fece lecite. Lasciati novemila cinquecento uomini in guardia della sua flotta, vagò indarno per tutta la provincia a fine di rinvenire l'amico. Ma alcune false lettere, i rigori del verno, il mal umore de' suoi volontarj, la ricchezza delle fatte prede e la moltitudine de' prigionieri, finalmente lo persuasero a rimbarcarsi. Nel corso della guerra civile, il Principe della Jonia tornò per due volte in Europa, e unite le sue truppe a quelle di Cantacuzeno, assediò Tessalonica, e Costantinopoli minacciò. La calunnia ha tratti motivi di censurarlo dalla poca bastevolezza de' soccorsi che egli aveva arrecati, dalla sua affrettata partenza, e da un dono di diecimila scudi che dalla Corte di Bisanzo accettò; ma l'amico si mostrò contento di lui, e per altra parte la condotta di Amiro veniva assai giustificata dalla necessità di difendere i suoi Stati ereditarj contro i Latini. Il Papa, il Re di Cipro, la Repubblica di Venezia e l'Ordine di S. Giovanni si erano collegati alla lodevole impresa di liberare i mari dal predominio che i Turchi vi avevano acquistato. Approdate alla costa jonica le galee de' Confederati, Amiro cadde trafitto da un dardo, mentre assediava la rocca di Smirne che difendeano i Cavalieri di Rodi[369]. Innanzi morire, procacciò generosamente all'amico un altro Confederato maomettano, non più sincero e premuroso che egli nol fosse, ma più abile, per la vicinanza de' suoi Stati colla Propontide e con Costantinopoli, a prestargli solleciti e poderosi soccorsi. La prospettiva di un più vantaggioso Trattato, indusse il Principe di Bitinia ad infrangere i patti (A. D. 1346) che ad Anna di Savoia avea giurati, e un maritaggio colla figlia di un Imperator greco, accordandosi colle ambiziose mire di Orcano, questi promise solennemente che se Cantacuzeno acconsentiva ad accettarlo per genero, egli avrebbe inviolabilmente usati verso di lui tutti i riguardi di vassallo e di figlio. Dall'ambizione la paterna tenerezza fu vinta; il Clero greco approvò le nozze di una Principessa cristiana con un discepolo di Maometto; e il padre di Teodora ci descrive egli stesso, mostrandone obbrobriosa soddisfazione, il disdoro del suo diadema[370]. I turchi ambasciatori, seguìti da un corpo di cavalleria e scortati da trenta navi, giunsero innanzi al campo di Selimbria, ove stavasi Cantacuzeno. Venne innalzato un sontuoso padiglione, sotto del quale l'imperatrice Irene trascorse la notte in compagnia della figlia. Allo schiarir del mattino, Teodora si assise sopra un trono velato da cortine di seta ricamate in oro. Tutte le truppe stavano in armi e l'Imperatore a cavallo. Ad un cenno si levarono le cortine, lasciando vedere la sposa, o la vittima, in mezzo a torcie nuziali e ad eunuchi prosternati ai suoi piedi. Rintronò l'aere dello squillar delle trombe, nè mancarono poeti, quali quel secolo somministrar li poteva, che celebrassero con epitalamj le felicità pretese di Teodora. Fu consegnata al Barbaro che ne diveniva il padrone, senza alcuna cerimonia di Culto cristiano. Erasi però stipulato nel Trattato, che ella avrebbe seguìto liberamente a professare il suo Culto nello Harem di Bursa, onde il padre della medesima fa encomj alla pia e caritatevole condotta tenutasi dalla figlia, posta in una tanto difficile condizione. Poichè l'Imperator greco si vide tranquillo possessore del trono di Costantinopoli, si portò a visitare il genero, che, accompagnato da quattro figli avuti da diverse spose, venne ad aspettarlo a Scutari sulla costa dell'Asia. I due Principi godettero congiuntamente, e con apparenza di scambievole cordialità, i piaceri della caccia e dei banchetti; che anzi Teodora ottenne la permissione di trasferirsi al di là del Bosforo per passare alcuni giorni insiem colla madre. Ma Orcano, la cui amistà ai riguardi della sua ambizione e della sua religione stava soggetta, non esitò, nella guerra de' Genovesi, a collegarsi co' nemici di Cantacuzeno.

A. D. 1353

Fin nel Trattato che Orcano avea conchiuso colla Imperatrice Anna, egli avea introdotto questo singolare patto, di potere cioè a proprio arbitrio o trasportare in Asia i suoi prigionieri, o venderli a Costantinopoli. Fu quindi veduta una moltitudine di Cristiani d'entrambi i sessi, di tutte le età, di preti e di frati, di vergini e di matrone esposti nudi nei pubblici mercati, e spesse volte maltrattati a colpi di staffile per meglio eccitare la carità de' loro concittadini a riscattarli più presto; ma l'indignazione de' Greci, si limitò a deplorare la sorte dei proprj concittadini che vedeano condur lontani in una schiavitù fatale alle loro anime e ai loro corpi[371]. Cantacuzeno fu costretto sottomettersi alle medesime condizioni, il cui adempimento accrebbe sempre più le calamità dell'Impero. Nello stesso Trattato, l'Imperatrice Anna aveva ottenuto un soccorso di diecimila Turchi, che poi da Orcano vennero adoperati in difesa del proprio suocero. Nondimeno tali disastri non erano che passeggieri; perchè terminata la stagione campale, i prigionieri fuggivano tornando alle proprie case; i Musulmani, sgombrando l'Europa, si ritiravano nuovamente nell'Asia. Sol nell'ultima contesa avuta col suo pupillo, Cantacuzeno rendè permanente nel sen dell'Impero il germe della distruzione, germe che i successori di lui si sforzarono indarno a sterpare, nè questo irreparabile fallo del Principe greco emendarono i dialoghi che contra il profeta Maometto ei compose. I moderni Turchi, ignari sin della propria Storia, e confondendo il primo tragetto dell'Ellesponto[372] coll'ultimo, ne mostrano nel figlio di Orcano un oscuro scorridore che, seguìto da ottanta venturieri, si valse di uno stratagemma per invadere una terra nemica ed incognita. Solimano, a capo di diecimila uomini di cavalleria turca, venne trasportato dalle navi dell'Imperator greco e riguardatone confederato. Le milizie maomettane rendettero alcuni servigi e commisero molti disordini nelle guerre civili della Romania. Ma il Chersoneso si trovò a poco a poco popolato da una colonia di Turchi; e la Corte di Bisanzo sollecitò indarno la restituzione delle Fortezze della Tracia. Dopo alcuni indugi, ad arte fatti maggiori da Orcano e da Solimano, venne pattuito il riscatto di tali Fortezze a prezzo di sessantamila scudi, la prima parte de' quali era già stata pagata, allorchè un tremuoto atterrò le mura di molte fra esse. Queste diroccate piazze i Turchi occuparono; e rifabbricata Gallipoli, chiave dell'Ellesponto, Solimano ebbe cura di empirla di Maomettani. Col trono rinunziato da Cantacuzeno, furono rotti anche que' deboli vincoli di domestica lega che univano i principi Greci ai principi Turchi. Gli ultimi consigli che l'Imperatore, rassegnando lo scettro, ai suoi concittadini volgea, erano di evitare una guerra imprudente, di confrontare il numero, la disciplina e l'entusiasmo de' Turchi colla loro debolezza e pusillanimità: savj suggerimenti che vennero sprezzati dall'ostinata vanità di un giovane Principe, e giustificati dalle vittorie de' Musulmani. In mezzo ai suoi buoni successi, Solimano, caduto da cavallo nell'esercizio militare del Gerid, perdè la vita, nè il vecchio Orcano sopravvisse lungo tempo al dolore che la morte del figlio a lui cagionò.

A. D. 1360-1389

Ma i Greci nè manco ebbero il tempo per allegrarsi della morte de' lor nemici; la spada de' Turchi non si mostrò men formidabile fra le mani di Amurat I, figlio di Orcano e fratello di Solimano, impadronitosi quasi senza ostacoli, come per mezzo alla nebbia degli Annali di Bisanzo si scorge[373], di tutta la Romania e della Tracia, dall'Ellesponto la monte Emo, e che giunto pressochè alle porte della Capitale, scelse Andrinopoli qual sede del suo Governo e della sua religione in Europa. Costantinopoli, il cui scadimento quasi incomincia dall'epoca della sua fondazione, nel corso di dieci secoli si vide successivamente assalita dai Barbari dell'Oriente e dell'Occidente; ma sino a questo fatale istante non s'era per anco trovata cinta e dal lato d'Asia e da quel d'Europa, dalle forze di una stessa potenza nemica. Nondimeno Amurat, fosse per prudenza, o per generosità, sospese ancora per qualche tempo questa facil conquista, bastando al suo orgoglio di farsi comparire innanzi per più riprese l'imperatore Giovanni Paleologo e i quattro figli del medesimo, i quali appena ricevutone il comando, alla Corte, o al campo del Principe ottomano si trasferivano. Portate successivamente l'armi contra gli Schiavoni che abitavano tra il Danubio e il mare Adriatico, contra i Bulgari, i Serviani, e i popoli della Bosnia e della Albania, debellò con ripetute scorrerie queste bellicose tribù, rinomate per avere sì di frequente insultato l'Impero romano. Il lor territorio, nè d'oro, nè d'argento abbondava: quei rustici abituri non erano arricchiti dal commercio, o abbelliti dall'arti del lusso; ma i nativi di queste contrade si segnalarono in tutte le età per vigore di corpo e forza di coraggio; onde poi, una saggia istituzione, li guidò ad essere i più fermi e fedeli sostegni della grandezza Ottomana[374]. Il Visir di Amurat, ricordò al suo Sovrano che le leggi di Maometto gli concedeano la quinta parte delle prede e de' prigionieri fatti sugl'Infedeli, aggiugnendo che col mettere vigilanti ufiziali a Gallipoli, questi avrebbero facilmente riscosso a quel passo un tale tributo, e avuta ivi maggiore agevolezza di scegliere i meglio formati e più vigorosi fanciulli de' Cristiani. Approvato il suggerimento, e pubblicato l'editto, migliaia di prigionieri europei vennero educati nel culto di Maometto e nella scuola dell'armi. Un celebre Dervis compiè la cerimonia di consagrare la nuova milizia e di darle un nome. Postosi a capo delle file de' soldati, stese la manica della sua veste sul fronte di quello che stavagli più vicino, e tutti li benedì, pronunziando le seguenti parole: «Sieno chiamati Giannizzeri ( Yengi sceri ), ossia nuovi soldati; possa sempre essere il lor valor luminoso, tagliente la loro spada, vittorioso il lor braccio! Possane la lancia star sempre sospesa sul capo de' loro nemici, e ovunque essi vadano, possano tornare addietro col volto bianco[375]!» Tale si fu l'origine di questa formidabile truppa, terrore delle nazioni, e qualche volta ancor de' Sultani. Declinato oggidì il loro valore, ammollitane la disciplina, le tumultuose file di questa guardia non possono resistere all'artiglieria e al saper militare delle moderne nazioni; ma quando furono instituiti, aveano un'assoluta preminenza, perchè non eravi potentato della cristianità che mantenesse continuamente in armi un corpo regolare di fanteria. I Giannizzeri combatteano contro gl'idolatri, loro compatriotti, collo zelo e coll'impeto del fanatismo, e la battaglia di Cossova annichilò la lega e l'independenza della tribù della Schiavonia. Un giorno, in cui il vittorioso Amurat trascorrendo i campi per lui coperti di stragi, maravigliò nell'accorgersi che la maggior parte de' morti era composta di giovinetti, il cortigiano Visir gli rispose: che uomini adulti negli anni come nella ragione, non si sarebbero cimentati a resistere alle invincibili armi del sultano Amurat. Ma la spada de' suoi Giannizzeri non potè salvarlo dal pugnale della disperazione, perchè un soldato serviano, sorto dal mezzo di que' morti, lo ferì mortalmente nel ventre. Questo Principe, pronipote di Otmano, fu di semplici costumi e d'indole mansueta. Amò le scienze e la virtù, ma diede motivo di scandalo ai Musulmani per la sua poca cura d'intervenire alle pubbliche preghiere; del qual fallo ebbe coraggio di rampognarlo un Muftì, ricusando di ammetterlo per testimonio in una causa civile. Non sono rari nella Storia orientale simili tratti che offrono una mescolanza di servitù e di libertà[376].

A. D. 1389-1403

Il carattere di Baiazetto, figlio e successore di Amurat, viene espresso con forza dal soprannome che gli fu dato di Ilderim, ossia il lampo; e potè inorgoglirsi questo Sultano di un epiteto che indicava l'ardente energia dell'animo suo e la rapidità delle sue corse distruggitrici. Ne' quattordici anni che il suo regno durò[377], Baiazetto sempre a capo dei suoi eserciti, trascorse continuamente da Bursa ad Andrinopoli, dal Danubio all'Eufrate, e benchè zelantissimo di propagare il culto maomettano, assalì indistintamente in Europa e in Asia i Principi cristiani e maomettani, e ridusse in soggezione tutta la parte settentrionale della Natolia da Angora sino ad Amasia ed Erzerum. Spogliati de' loro Stati ereditarj gli Emiri di Ghermian, di Caramania, di Aidino e di Sarukan, e finalmente conquistata Iconium, la dinastia ottomana si trovò padrona dell'antico reame de' Selgiucidi. Nè meno rapide ed importanti furono le conquiste di Baiazetto in Europa. Ridotti ad obbedienza i Serviani e i Bulgari, corse al di là del Danubio a cercare nuovi nemici e nuovi sudditi nel cuore della Moldavia[378]. Tutti que' paesi che riconoscevano ancora l'Impero greco nella Tracia, nella Macedonia e nella Tessaglia vennero sotto il dominio del vittorioso Ottomano. Un compiacente Vescovo lo condusse in Grecia, attraversando le Termopile; e qui osserveremo come singolare avvenimento, che la vedova di un Capo spagnuolo, cui pertenea il paese, ove un tempo i famosi oracoli di Delfo si pronunziarono, comperò la protezione del Sultano col sagrifizio di una figlia, rinomata per sua avvenenza. Ad assicurare ai Turchi il passaggio fin allora pericoloso e precario d'Asia in Europa, Baiazetto mise a Gallipoli una flotta d'incrociatori che, signoreggiando l'Ellesponto, impediva la via a quanti soccorsi si spedivano a Costantinopoli dai Latini. Intanto che questo Principe sagrificava senza scrupolo alle sue passioni l'umanità e la giustizia, costringeva i suoi soldati ad osservare rigorosamente le regole della sobrietà e della decenza; si raccoglieano, e si vendeano tranquillamente le messi ne' campi occupati da' suoi eserciti. Sdegnato della negligenza e della corruttela che si erano introdotte nell'amministrazione della giustizia, adunò in una casa tutti i Giudici e Giureconsulti de' suoi Stati, i quali non men paventavano che d'esservi bruciati vivi. Silenziosi tremavano que' ministri; ma un buffone etiope osò far manifesta al Sovrano la cagion vera di un tale disordine; onde questi per togliere in avvenire alla venalità tutte le scuse, unì all'uffizio di Cadì una convenevole rendita[379]. Inorgoglito per sì fausti successi, e venutogli a schifo l'antico titolo di Emiro, ricevè la patente di Sultano dal Califfo, schiavo in Egitto sotto gli ordini de' Mammalucchi[380]. Dominati dalla forza dell'opinione, i Turchi vincitori rendettero quest'ultimo e tenue omaggio alla prosapia Abbasside e ai successori di Maometto. Il nuovo Sultano, geloso di meritarsi questo titolo, portò la guerra nell'Ungheria, teatro perpetuo e de' trionfi, e delle sconfitte de' Turchi. Sigismondo, re di questa contrada, essendo figlio e fratello degl'Imperatori d'Occidente, la causa di lui, quella della Chiesa e dell'Europa divenne. Alla prima voce del pericolo in cui si trovava, i più valorosi tra i Cavalieri franchi e alemanni si affrettarono a combattere santamente sotto le bandiere del Monarca chiamato a disfida. Ma Baiazetto nella giornata di Nicopoli, sconfisse un esercito di cenmila Cristiani, datisi orgogliosamente il vanto di poter sostenere sulle punte delle loro lancie il cielo, se questo fosse venuto a cadere. Perito il maggior numero d'essi sul campo, e molti annegatisi nel Danubio, Sigismondo dopo essersi rifuggito a Costantinopoli per la via del mar Nero, fu obbligato ad un lungo giro per ritornare nell'estenuato suo regno[381]. In mezzo all'orgoglio della vittoria, Baiazetto minacciò di assediar Buda, d'invadere l'Alemagna e l'Italia, di dar la biada al suo cavallo sull'altar maggiore di S. Pietro a Roma. Ma questi divisamenti impacciati vennero, non dalla miracolosa intercessione dell'Apostolo, non da una crociata delle potenze cristiane, ma da un lungo e violento assalto di gotta. Talvolta gl'inconvenienti del Mondo fisico hanno portato rimedio ai disordini del morale; e una stilla di umore acre che affligga una sola fibra di un solo uomo, può sospendere le sciagure e la rovina delle nazioni.

A. D. 1396-1398

Tal è l'aspetto generale delle guerra ungarese; ma ai disastri che vi soffersero i Francesi, siamo debitori di alcuni scritti che ne danno meglio a conoscere il carattere di Baiazetto, e le circostanze che gli fruttarono la vittoria[382]. Il Duca di Borgogna, sovrano della Fiandra, e zio di Carlo VI, non valse a frenare l'ardore intrepido del figlio Giovanni, Conte di Nevers, che partì accompagnato da quattro Principi, cugini di lui e del Monarca francese. Il Sere di Couci, uno de' migliori e più antichi Capitani della Cristianità, serviva di guida alla inesperienza di questi giovani[383]; ma l'esercito comandato da un Contestabile, da un Ammiraglio, e da un Maresciallo di Francia[384] non era composto che di mille Cavalieri e de' loro sergenti: lo splendore de' nomi era ai nobili guerrieri un'esca alla presunzione, alla disciplina un ostacolo. Ognun d'essi credendosi degno di comandare, nessuno volendo obbedire, i Francesi guardavano con eguale disprezzo i confederati e i nemici. Tenendosi certi che Baiazetto o perirebbe inevitabilmente in quella impresa, o si sarebbe dato alla fuga, già calcolavano quanto tempo abbisognerebbe loro per trasferirsi a Costantinopoli, e di lì a liberare il Santo Sepolcro. Quando le grida de' Turchi ne annunziarono l'avvicinare, i giovani francesi stavano a mensa, abbandonandosi alla gioia e alla inconsideratezza; e già riscaldati dal vino, addossarono precipitosamente le loro armadure, e montati sui lor cavalli, corsero all'antiguardo, reputandosi ingiuriati dai motivi che avea Sigismondo per non concedere ad essi l'onore del primo assalto. I Cristiani non perdevano la battaglia di Nicopoli, se i Francesi condiscendevano ai prudenti consigli degli Ungaresi; ma forse ottenevano una gloriosa vittoria, se gli Ungaresi imitavano il valor de' Francesi. Perchè questi avendo rapidamente disperse le truppe d'Asia che formavano il primo fronte dell'inimico, e rotti i palizzati posti per trattenere la cavalleria, misero in disordine, dopo un sanguinoso combattimento, gli stessi giannizzeri; ma vennero finalmente oppressi dal grande numero di squadroni che, sbucati dai boschi, assalirono d'ogni banda questo drappello d'intrepidi cavalieri. In tal giornata funesta ai Cristiani, i nemici medesimi di Baiazetto dovettero ammirare il segreto e la rapidità delle sue corse, l'ordine serbato nella battaglia, la dottrina delle militari fazioni: ma non gli viene risparmiata la taccia di avere inumanamente abusato della vittoria. Rispettando unicamente le vite del Conte di Nevers e di ventiquattro Principi, o Signori, il grado e l'opulenza de' quali attestati gli furono da' suoi interpreti, fece condursi dinanzi a mano a mano tutti gli altri prigionieri francesi, i quali, ricusando di abbiurare la propria religione, vennero per ordine del Sultano, e alla presenza di lui, decollati. A sì atroce vendetta lo spinse la perdita de' suoi valorosi giannizzeri; e se fosse vero che nel giorno precedente alla battaglia, i Francesi avessero trucidati i prigionieri fatti ai Turchi[385], i primi non avrebbero dovuto imputar che a sè stessi gli effetti di una giusta rappresaglia. Uno fra' cavalieri de' quali Baiazetto avea salvata la vita, ottenne la permissione di trasferirsi a Parigi, per raccontare colà questa lamentevole storia, e sollecitare il riscatto de' Principi prigionieri. In questo mezzo, l'esercito turco trasportavasi seco dovunque andava il Conte di Nevers e i Baroni francesi, additati a mano a mano come trofeo a tutti i Musulmani dell'Europa e dell'Asia; e giunti a Bursa, veniano custoditi in rigoroso carcere tutte le volte che il Sultano in questa Capitale facea residenza. Faceansi intanto giornaliere istanze a Baiazetto affinchè sul sangue di questi vendicasse il sangue de' martiri Musulmani. Ma il Sultano avea promessa loro la vita, e la parola di lui, o perdonasse, o condannasse, era inviolabile. Al ritorno del messaggiero, i donativi e l'intercessione de' Re di Francia e di Cipro, non lasciarono più dubbj nel vincitore sul grado e sulla dignità de' suoi prigionieri. Lusignano gl'inviò una saliera d'oro di squisito lavoro, e valutata diecimila ducati, e Carlo VI gli fe' pervenire per la strada dell'Ungheria una brigata di falconi norvegesi, sei bardamenti del panno scarlatto, che a quei giorni fabbricavasi a Reims, e diversi tappeti di Arras, ove le battaglie di Alessandro stavano delineate. Dopo alcuni indugi prodotti piuttosto dalla lontananza che da divisamento veruno, Baiazetto accettò dugentomila ducati pel riscatto del Conte di Nevers e de' Baroni che viveano tuttavia. Il maresciallo di Bucicault, rinomato guerriero, in questo picciolo numero d'eletti trovavasi; ma periti erano nella pugna l'ammiraglio di Francia, e nelle prigioni di Bursa il Contestabile e il Sere di Couci. Tale riscatto, di cui le male spese raddoppiarono la somma, cadde principalmente sul Duca di Borgogna, o piuttosto sopra i suoi sudditi fiamminghi, cui le leggi feudali metteano a contribuzione, e quando il primogenito del lor Sovrano veniva armato cavaliere, e quando facea mestieri liberarlo dalla cattività. Alcuni mercatanti genovesi si offersero mallevadori per un quintuplo di tale somma; d'onde quel secolo guerriero potè avvedersi che il commercio e il credito sono i vincoli della società a delle nazioni. Fra le condizioni del Trattato, vi aveva quella che i prigionieri francesi giurassero di non portare mai l'armi contra il lor vincitore; ma Baiazetto medesimo li sciolse da questo patto men generoso. «Io sprezzo, egli dicea all'erede della Borgogna, le tue armi, siccome i tuoi giuramenti. Sei giovine, e avrai forse l'ambizione di cancellare la macchia, o la sventura della tua prima impresa. Aduna le tue forze militari, fa noto il tuo divisamento, e sta certo che Baiazetto si allegrerà di scontrarsi teco una seconda volta sul campo della battaglia». Innanzi partire vennero ammessi alla Corte di Bursa, ove i Principi francesi poterono ammirare la magnificenza del Sultano, il cui treno di caccia e di falconeria andava composto di settemila cacciatori e di altrettanti falconieri[386]. Gli stessi Principi furono presenti, allorchè Baiazetto fece sventrare uno dei suoi ciamberlani, accusato da una donnicciuola di averle bevuto il latte delle sue capre. Gli stranieri rimasero attoniti di un tale atto di giustizia, ma era l'atto di giustizia di un Sultano, che sdegna esaminare il grado delle colpe e il valor delle prove.

A. D. 1355-1391

Dopo essersi liberato da un imperioso tutore, Giovanni Paleologo rimase per trentasei anni ozioso spettatore e, a quanto sembra, indifferente della rovina del proprio Impero[387]; dedito affatto all'amore, o piuttosto alla dissolutezza, sola passione forte che fosse in lui, lo schiavo de' Turchi dimenticava l'obbrobrio dell'Imperatore romano fra le braccia delle femmine di Costantinopoli. Andronico, figlio primogenito di Giovanni, nel tempo che soggiornò ad Andrinopoli, si strinse in lega di amistà e di delitti con Sauzes, figlio di Amurat, e insieme concertarono il divisamento di privar di trono e di vita i lor padri. Amurat, corso in Europa, scoperse ben presto e dissipò la congiura, e dopo avere fatto cavar gli occhi a Sauzes, minacciò il suo vassallo Giovanni di riguardarlo come complice del figlio, se nello stesso modo Andronico non gastigava. Obbedì Paleologo, e per una cautela da barbaro e da insensato, avvolse nel suo decreto l'innocente fanciullezza del principe Giovanni, figliuol del colpevole; ma l'imperiale comando fu eseguito sì mitemente, o con sì poca destrezza, che all'uno de' condannati rimase l'uso d'un occhio, l'altro non divenne che losco. Per tal modo privati della successione i due Principi, vennero rinchiusi nella torre di Anema; e l'Imperatore premiò la fedeltà del suo secondogenito Manuele col farlo partecipe della porpora imperiale; ma in termine a due anni le fazioni de' Latini e l'incostanza de' Greci diedero luogo ad una catastrofe, per cui i principi prigionieri saliron sul trono, e i due Imperatori presero il loro posto entro la torre. Non erano ancora scorsi due successivi anni, quando Paleologo e Manuele poterono fuggire col soccorso di un frate, accusato di poi di magia, e indicato a vicenda dalle due parti coi predicati di angelo e di demonio. Riparati a Scutari i due fuggiaschi, i lor partigiani presero l'armi, e i Greci delle due fazioni ostentavano l'ambiziosa nimistà di Cesare e di Pompeo, allorchè questi due campioni contendeano per l'Impero dell'Universo. Ma il Mondo romano allor tutto stavasi in un angolo della Tracia fra la Propontide e il mar Nero, il cui spazio, lungo cinquanta miglia e largo trenta all'incirca, avrebbe potuto paragonarsi ad uno dei piccoli principati della Germania e dell'Italia, se gli avanzi di Costantinopoli non avessero tuttavia mostrata la ricchezza e la popolazione della Capitale di un regno. Per rimettere la pace, fu d'uopo dividere ancora questo rimasuglio d'Impero. Giovanni Paleologo e Manuele conservarono per sè la Capitale; Andronico e il figlio posero la residenza a Rodosto e Selimbria, governando quasi tutto quel poco che fra i ricinti di Bisanzo non si contenea. Nel tranquillo sogno della sua monarchia, le passioni del vecchio Giovanni sopravviveano alla sua ragione e alle sue forze; onde privò il suo amatissimo figlio Manuele, suo collega e successore al trono, di una giovine ed avvenente principessa di Trebisonda, che si prese egli stesso per moglie. Intanto che il rifinito vegliardo sforzavasi in Bisanzo a consumare il suo matrimonio, il giovine Manuele seguìto da cento giovani greci delle più illustri famiglie, si trasferiva a militare sotto gli ordini della Porta Ottomana. Questi si distinsero nell'armi fra gli eserciti di Baiazetto; ma l'impresa di riedificare le fortificazioni di Costantinopoli irritò il Principe ottomano, che minacciò i suoi ostaggi di morte. Vennero tostamente demoliti i nuovi lavori, e faremmo troppo onore alla memoria di Giovanni Paleologo, che poco dopo morì, coll'attribuire la sua morte al dolore di quest'ultima umiliazione.

A. D. 1391-1425

Manuele con prontezza avvertito della morte del padre, fuggì di soppiatto e affrettatamente dal palagio di Bursa per trasferirsi a Costantinopoli e impossessarsi del trono. Baiazetto ostentando non curanza sulla perdita di questo prezioso ostaggio, proseguì le sue conquiste in Asia e in Europa, intanto che il nuovo Imperator di Bisanzo guerreggiava il nipote Giovanni di Selimbria, che difese per otto continui anni i suoi diritti legittimi di successione a quel poco avanzo d'Impero. Il vittorioso Sultano volea finalmente compir le sue imprese colla conquista di Costantinopoli; ma arrendendosi alle rimostranze del Visir, che temea fosse conseguenza di tale impresa una nuova e più formidabile Crociata di tutti i Principi della Cristianità (A. D. 1395-1402), scrisse all'Imperator greco una lettera ne' seguenti termini concepita. «Per la grazia di Dio, la nostra invincibile scimitarra ha ridotte sotto la nostra obbedienza, pressochè l'intera Asia, e una parte considerabile dell'Europa. Ne manca tuttavia la città di Costantinopoli; chè già tu sei ridotto a non possederne fuorchè i recinti; escine dunque, e consegnandola nelle nostre mani, spiegati sul compenso che brami, o trema per te e pel tuo popolo sciagurato, se ardisci imprudentemente darmi un rifiuto.» Ma le instruzioni segrete di cui vennero incaricati gli Ambasciadori che tal messaggio arrecavano, erano di mitigare il rigor dell'inchiesta, e di proporre un Trattato, che i Greci accettarono con sommessione e gratitudine; e in contraccambio di una tregua conceduta loro per dieci anni, promisero un tributo annuale di trentamila scudi d'oro, oltre al dolore di tollerar pubblicamente fra loro il culto di Maometto; laonde Baiazetto ebbe la gloria di mettere un Cadì e di fondare una moschea nella Metropoli della Chiesa d'Oriente[388]. Ciò nullameno l'irrequieto Sultano non rispettò lungo tempo la tregua, e prendendo le parti del Principe di Selimbria, Sovrano legittimo, assediò con un esercito Costantinopoli. In tale stremo, Manuele implorò la protezione del Re di Francia, inviandogli una lamentevole ambasceria che ottenne molta compassione e il soccorso di alcuni soldati spediti sotto il comando del Maresciallo di Bucicault[389], al pio valore del quale erano sprone la ricordanza della sopportata cattività, e la brama di vendicarsene sugl'Infedeli. Scortato da quattro navi da guerra veleggiò ad Acquamorta verso l'Ellesponto, e superando il passaggio che diciassette turche galee difendevano, introdusse in Costantinopoli seicento armigeri e mille seicento arcieri che ei passò in rassegna nel vicino spianato, senza degnarsi di contare, o mettere in ordine di battaglia, comunque molti fossero, i Greci. Bastò il suo arrivo a liberare Costantinopoli dal blocco che dal lato di terra e di mare la rinserrava; perchè gli squadroni di Baiazetto furono presti a ritirarsi ad una riguardosa distanza; che anzi diverse Fortezze dell'Asia e dell'Europa vennero prese d'assalto dal Maresciallo e dall'Imperator Manuele che con eguale intrepidezza combattettero l'uno a fianco dell'altro; ma non tardarono a ricomparire in maggior numero gli Ottomani, onde il prode Bucicault, dopo esservisi sostenuto per un anno, risolvette di abbandonare un paese che non potea più somministrare nè stipendio, nè viveri a' suoi soldati. Prima d'ogni altra cosa però offerse a Manuele di condurlo alla Corte di Francia, ove avrebbe potuto sollecitare in persona soccorso d'uomini e di danari, ma nel tempo stesso gli consigliava a togliere i pretesti alla guerra civile, cedendo il trono al nipote. Accettata questa proposta da Manuele, il Principe di Selimbria fu introdotto nella città, e la sciagura pubblica era giunta a tanto, che la sorte di Manuele esule parve da preferirsi a quella del giovine Imperatore tornato ne' suoi diritti. Anzichè far plauso ai buoni successi del suo vassallo, il Sultano de' Turchi chiese Bisanzo come sua proprietà, e avutone rifiuto dall'Imperatore Giovanni, fece soffrire alla Capitale i congiunti flagelli della guerra e della carestia. Contra un nemico di tal natura non giovando omai nè il pregar, nè il resistere, il selvaggio conquistatore sarebbesi divorata la sua preda, se in questo mezzo, non fosse stato balzato dal trono da un altro Selvaggio più forte di lui. La vittoria di Timur, o Tamerlano allontanò di un mezzo secolo circa la caduta di Costantinopoli, servigio importante, benchè fortuito, che dà alla vita e al carattere del Tartaro conquistatore il diritto di aver luogo nella presente Storia.

CAPITOLO LXV.

Innalzamento di Timur, o Tamerlano al trono di Samarcanda. Sue conquiste nella Persia, nella Georgia, nella Tartaria, nella Russia, nell'India, nella Sorìa e nella Natolia. Sue guerre contra i Turchi. Sconfitta e cattività di Baiazetto. Morte di Timur. Guerra civile de' figli di Baiazetto. Restaurazione della Monarchia de' Turchi sotto Maometto I. Costantinopoli assediata da Amurat II.

Il primo voto dell'ambizioso Timur si fu quello di conquistare e domar l'Universo; l'altro, poichè aveva sortita un'anima generosa, di vivere nella ricordanza e nella stima de' posteri. I segretarj di questo Principe raccolsero accuratamente tutte le Transazioni civili e militari del suo regno[390]; racconto autentico che fu poi riveduto da uomini ottimamente istrutti di ciascuna particolarità. Si è creduto e si crede generalmente nella famiglia e nell'Impero di Timur che questo Monarca abbia composto egli stesso i Comentarj[391] della sua vita e le Instituzioni[392] del suo Governo[393]; ma non furono queste cure che contribuissero a tramandare sino a noi la rinomanza di Timur; perchè tai preziosi monumenti scritti in lingua mongulla o persiana, rimasero sconosciuti all'Universo, o almeno all'Europa. Ma le nazioni da lui soggiogate usarono contr'esso una impotente e spregevol vendetta, per cui l'ignoranza ha ripetute lungo tempo le invenzioni della calunnia[394] che ne adulterò i natali, il carattere, la persona, e fino il nome, trasformato in quello di Tamerlano[395]; benchè non sarebbe per esso che un diritto maggiore alla stima generale, se fosse in realtà passato dall'aratro al trono, e lo zoppicar di una gamba non avrebbe potuto apporsegli a taccia, a meno che non avesse avuta la debolezza di vergognarsi di una infermità naturale, o fors'anche onorevole.

I Mongulli religiosamente affezionati alla famiglia di Gengis, ravvisavano, senza dubbio, un suddito ribelle in Timur, benchè dalla nobile tribù di Berlass ei scendesse. Carasar Nevian, quinto nella linea ascendente di questo guerriero, era stato Visir nel nuovo regno della Transossiana acquistato da Zagatai, e risalendo per alcune altre generazioni il ramo di Timur, almeno per parte di donne[396], si congiunge al ceppo imperiale[397]. Egli ebbe vita nel villaggio di Sebsar, posto quaranta miglia ad ostro di Samarcanda, e parte del fertile territorio di Cas, antico dominio de' suoi maggiori; e comandava un Toman di diecimila uomini a cavallo[398]. Il caso lo fe' nascere[399] in uno di que' momenti di anarchia, che annunziano la caduta delle dinastie asiatiche, ed offrono novelli campi all'ardimentosa ambizione. Estinta essendo la famiglia de' Kan di Zagatai, gli Emiri aspiravano alla independenza, e le lor dissensioni vennero solamente sospese dalla conquista e dalla tirannide dei Kan di Kasgar, che, sostenuti da un esercito di Geti o di Calmucchi[400], avevano invasa la Transossiana. Toccava i dodici anni Timur quando incominciò la milizia (A. D. 1361-1370); di venticinque, imprese la liberazione della sua patria. Gli sguardi e i voti de' popoli si volsero verso un eroe che soffriva per la lor causa, e i primarj ufiziali civili e militari aveano giurato sulla salute delle loro anime, di sostenerlo a rischio delle proprie sostanze e vite; ma, giunto l'istante del pericolo, tremarono e si tennero silenziosi. Dopo averli aspettati invano per sette giorni sulle colline di Samarcanda, si ritrasse con sessanta uomini della sua cavalleria nel Deserto. Raggiunto nel fuggire da un corpo di mille Geti, si volse a respingerli, e fe' di essi inaudita strage, per cui dovettero esclamare: «Timur è un uomo maraviglioso; Dio e la fortuna sono con lui». Ma questa sanguinosa impresa ridusse il suo picciolo drappello a soli dieci uomini, sminuito ancora dalla fuga di tre Carizmj. Trascorse, con questi sette compagni, e soli quattro cavalli e colla moglie, il Deserto, indi, rinchiuso in tetro carcere, vi rimase sessantadue giorni, sintanto che il suo coraggio e i rimorsi del suo oppressore nel liberarono. Dopo avere attraversata a nuoto la larga e rapida corrente del Gihoon, o Osso, condusse per molti mesi, sulle frontiere dei vicini Stati, la vita errante di un esule e d'un proscritto; ma l'avversità gli contribuì al più grande splendore di fama; perchè egli apprese a discernere fra i compagni della sua fortuna coloro che per amore di lui gli erano affezionati, e a valersi dell'ingegno, o del carattere degli uomini in vantaggio loro e proprio soprattutto. Rientrato nella sua patria Timur, gli si unirono a mano a mano diverse fazioni di confederati che l'aveano cercato con ansietà nel Deserto. Non posso ristarmi dall'offerire in questo luogo, senza privarla della sua ingenua semplicità, la narrazione di uno di questi felici incontri, occorso a Timur, allorquando lo chiesero in loro Duce tre Capi seguìti da settanta uomini a cavallo. «Allorchè, egli dice, volsero gli occhi sopra di me, non potevano capire in sè medesimi dalla gioia, e scesero giù dai lor cavalli, e vennero e s'inginocchiarono dinanzi a me e baciarono le mie staffe. Smontai anch'io da cavallo e me li strinsi fra le braccia l'un dopo l'altro, e misi il mio turbante sulla testa del primo Capo, e passai attorno ai lombi del secondo un cinturino tempestato di gemme e lavorato in oro, e vestii del mio abito il terzo; ed essi piangevano e piangeva ancor io; e l'ora della preghiera era giunta, e pregammo insieme. E noi rimontammo sui nostri cavalli e venimmo alla mia abitazione; e adunai il mio popolo, e feci un convito». Le più valorose tribù non tardarono ad unirsi a queste fedeli bande, che Timur guidò contro un nemico superiore di numero. Varj furono gli avvenimenti di cotal guerra, ma finalmente dalla Transossiana respinti vennero i Geti. Molto già avea operato Timur per la sua gloria; ma molto ancora gli rimaneva a compire; di molta destrezza eragli d'uopo; molto sangue doveva esser versato prima ch'ei costringesse quei suoi eguali a considerarlo come padrone. Per riguardi alla nascita e al potere dell'emiro Hussein, della cui sorella inoltre era tenero consorte Timur, si vide questi costretto a riconoscerlo per collega, comunque fosse un uomo indegno e vizioso. Spesso turbata dalla gelosia questa Lega, ne' frequenti litigi che nacquero, Timur ebbe sempre l'accorgimento di far ricadere sul rivale i rimproveri di perfidia e di ingiustizia. Finalmente dopo una sconfitta, che fu l'ultima per Timur, alcuni amici del medesimo, la sagacità de' quali li trasse a disobbedire il lor Capo per non disobbedirlo più mai, uccisero Hussein. I suffragi unanimi di una Dieta (A. D. 1370), o Corultai, conferirono al vincitore, in età di trentaquattro anni[401], l'imperiale comando; ma ostentò rispetto verso la Casa di Gengis, e intanto che l'emiro Timur regnava sul Zagatai e l'Oriente, un Kan titolare serviva, come semplice ufiziale, negli eserciti del proprio servo. Un fertile reame, lungo e largo cinquecento miglia, avrebbe potuto soddisfare l'ambizione di un suddito: ma Timur aspirava al trono del Mondo, e prima della sua morte avea aggiunte ventisei corone a quella del Zagatai. Senza diffondermi sulle vittorie di trentacinque azioni campali, o seguitare Timur nelle sue continue corse sul continente dell'Asia, racconterò in succinto le sue conquiste. I, in Persia; II, in Tartaria; III, nell'India[402]; d'onde procederò al racconto più rilevante, della guerra che contro i Turchi sostenne.

I. La giurisprudenza de' conquistatori somministra abbondantemente motivi di sicurezza, d'indispensabil vendetta, di gloria, di zelo, di diritto e di convenienza a tutte le guerre che imprendono. Non appena Timur avea unito la Carizmia e il Candahar al suo patrimonio del Zagatai, volse i suoi pensieri ai regni dell'Yran, o della Persia. La vasta contrada che dall'Osso al Tigri si estende, non riconosceva più alcun Sovrano legittimo dopo la morte di Abusaid, ultimo discendente del grande Holagoù. Essendo da quarant'anni esuli da questo paese la giustizia e la pace, parea che Timur, coll'invaderlo, esaudisse i voti di un popolo oppresso. I piccioli tiranni che tribolavan la Persia, e che, collegati, avrebbero potuto difendersi, combattettero disgiuntamente, e soggiacquero tutti, senz'altra differenza ne' loro destini, fuor quella che potè derivare dalla prontezza loro nel sottomettersi, o dalla pertinacia nel resistere. Ibraim, Principe di Sirvan, o d'Albania, baciando i gradini del trono imperiale, offerse al Sovrano donativi di seta, di cavalli e di arredi, e secondo l'uso de' Tartari, erano nove capi di ciascun genere. Osservò uno spettatore non essere che otto gli schiavi. «Sono io il nono», rispose Ibraim che già erasi apparecchiato a siffatta censura; la quale adulazione Timur compensò d'un sorriso[403]. Sa-Mansur, Principe del Fars, o della Persia, così propriamente detta, il men potente fra i nemici di Timur, fu quegli che si mostrò il più formidabile, in una battaglia datasi sotto le mura di Siray; disordinò con tre o quattromila soldati il Cul, o corpo di battaglia, di trentamila uomini di cavalleria, in mezzo al quale Timur combatteva in persona. Ridotto Mansur a non avere attorno di sè che quattordici, o quindici guardie, rimanea fermo come scoglio, benchè ricevesse due colpi di scimitarra sull'elmo[404]. Riunitisi finalmente i Mongulli, fecero cadere ai lor piedi il capo del tremendo Mansur; e il vincitore die' a divedere quale spavento una popolazione sì intrepida gl'incutesse, col farne sterminar tutt'i maschi. Da Sirai innoltratesi fino al golfo Persico le truppe di Timur, la città di Ormuz[405] die' a divedere la sua opulenza e la sua debolezza ad un tempo, coll'obbligarsi a pagare un tributo annuale di seicentomila dinar d'oro. Bagdad non era più la città della pace e il soggiorno del Califfo; ma la più luminosa fra le conquiste operate da Holagoù, doveva eccitare l'ambizione del successore. Dalle foci dell'Eufrate e del Tigri fino alla loro sorgente, tutt'i paesi innaffiati da questi due fiumi si sottomisero al vincitore. Entrato in Edessa, punì i sacrileghi Turcomani per una pecora nera che alla carovana della Mecca avean tolta. I Cristiani dalla Georgia disfidavano ancora fra i lor dirupi le armi e la legge de' Maomettani. Ma ottenuto, con tre successive spedizioni, l'onor di Gazi, o Santo guerriero, si fece nel Principe di Teflis un amico e un proselito.

A. D. 1370-1383

II. L'invasione del Turkestan, o della Tartaria orientale potè riguardarsi come una vendetta legittima. L'impunità de' Geti trafiggea l'orgoglio di Timur, che varcato il Gihoon, soggiogò il regno di Kasgar e penetrò sette volte nel cuore del lor paese. Il campo più lontano di Timur, distò due mesi, ossia quattrocento ottanta leghe a greco da Samarcanda, e i suoi Emiri, dopo attraversato l'Irtis, scolpirono nelle foreste della Siberia un rozzo monumento delle loro imprese. La conquista del Kipsak[406], o della Tartaria occidentale, ebbe per duplice scopo il soccorso degli oppressi, e la punizione degl'ingrati. Toctamis, Principe esule dai suoi Stati, aveva ottenuto protezione e asilo nella Corte di Timur, il quale rimandò sdegnosamente gli Ambasciatori di Auruss-Kan, Principe nemico di Toctamis; e fattili inseguire in quel medesimo giorno dagli eserciti del Zagatai, e vittorioso, rimise il suo protetto nell'Impero settentrionale dei Mongulli; ma dopo dieci anni di regno, il nuovo Kan, dimentico dei servigi e della possanza del suo benefattore, non vide più in esso che l'usurpatore dei sacri diritti della Casa di Gengis. Penetrato in Persia per le gole di Derbent, e condottiero di novantamila uomini a cavallo e di tutte le forze del Kipzak, della Bulgaria, della Circassia o della Russia, passò il Gihoon, arse i palagi di Timur, e lo costrinse, in mezzo al verno, a difendere Samarcanda e sè stesso. Dopo alcuni mansueti rimproveri, cui venne appresso una luminosa vittoria, Timur si risolvè alla vendetta. Invase due volte il Kipzak a levante e a ponente del Caspio e del Volga, con forze sì sterminate, che il fronte del suo esercito occupava uno spazio di tredici miglia. Per cinque mesi di cammino, questo esercito trovò appena orme d'uomo lungo la strada, e dovette più volte dipendere dalle contingibilità della caccia per vivere. Finalmente questo, e l'esercito di Toctamis si scontrarono; il tradimento del portastendardi del Kipsak, che rovesciò la bandiera in mezzo all'azione, diede ai Zagatai la vittoria, e Toctamis (così si esprimono le Instituzioni ) abbandonò la tribù di Tusi al vento della desolazione[407]. Rifuggitosi presso il Gran Duca di Lituania, ritornò ancora sulle rive del Volga, e dopo quindici battaglie date ad un rivale, che già la massima parte degli Stati aveagli presa, nei deserti della Siberia perì. Fin nelle province tributarie della Russia inseguillo Timur, e fece prigioniere un Duca della Casa regnante in mezzo alle rovine della sua Capitale; la vanità e l'ignoranza orientale possono aver di leggieri confusa Yeletz colla Capitale del russo Impero. L'avvicinar de' Tartari empiè di spavento la città di Mosca; nè questa avrebbe opposta vigorosa resistenza, poichè i Russi poneano tutte le loro speranze in una immagine miracolosa della Vergine, cui diedero merito della ritirata o volontaria, o accidentale del conquistatore. La prudenza e l'ambizione del pari lo richiamavano ad ostro; nulla eravi più che raccogliere in quello stremato paese, e già i soldati mongulli ivano carichi di preziose pellicce, di tele d'Antiochia[408], di verghe d'oro e d'argento[409]. Giunto allo rive del Don o Tanai, ricevè colà l'umile deputazione dei Consoli e dei mercatanti d'Egitto[410], di Venezia, di Genova, di Catalogna e di Biscaglia, che trafficavano con Tana, o Azoph, città situata alla foce del fiume; i quali gli offersero donativi, ne ammirarono la magnificenza, e nella parola di lui si affidarono. Ma un formidabile esercito venne dopo la pacifica visita di un Emiro, che aveva esaminato accuratamente la situazione e la ricchezza de' magazzini; indi i Tartari ridussero in cenere la città. Quanto ai Musulmani, si contentarono, dopo averli spogliati, di rimandarli; ma tutti que' Cristiani che nelle loro navi non si erano rifuggiti, vennero condannati a morte o schiavitù[411]. Un impeto di vendetta trasse Timur ad ardere la città di Astrakan e Siray, monumenti di una nascente civiltà. In questa spedizione si gloriò d'aver penetrato in un paese, ove regna il giorno perpetuo, straordinario fenomeno, in grazia del quale i dottori maomettani, crederono poterlo dispensare dalla preghiera vespertina[412].

A. D. 1398-1399

Allorchè Timur propose ai suoi Principi ed Emiri la conquista dell'India, o dell'Indostan[413], un bisbiglio di scontento si udì; «e i fiumi! sclamarono; e le montagne! e i deserti! e i soldati armati di tutto punto! e gli elefanti che distruggono gli uomini!». Ma la collera dell'Imperatore era cosa da temersi più di tutti questi pericoli; e la sua mente di una natura superiore gli facea comprendere la facilità di una spedizione che ad essi parea sì tremenda. I suoi messi segreti lo aveano ragguagliato della debolezza e dell'anarchia dell'Indostan, della ribellione dei Subà nelle province, e dell'infanzia perpetua del Sultano Mamud, da tutti sprezzato fin entro il suo Harem di Dely. L'esercito dei Mongulli marciò in tre ordini, al qual proposito Timur si compiace, osservando che i suoi novantadue squadroni, ciascun composto di mille uomini a cavallo, corrispondevano ai novantadue nomi, o attributi del Profeta Maometto. Fra il Gihoon e l'Indo, varcarono una di quelle catene di monti che i Geografi arabi chiamano le Cinture di pietra della Terra. I masnadieri che le abitavano furono vinti e sterminati, ma molto numero d'uomini e di cavalli perì in mezzo alle nevi; e l'Imperatore stesso dovè farsi calare in un precipizio sopra un sedile pensile, raccomandato a corde che aveano cento cinquanta cubiti di lunghezza, e prima ch'ei fosse al fondo, dovette per cinque volte ripetersi una così rischiosa fazione. Varcato l'Indo ad Attok, attraversò successivamente e seguendo l'orme di Alessandro il Pungiab, ossia le Cinque Riviere[414] che mettono foce nella primaria corrente. Da Attok a Dely non si contano che cinquecento miglia per la via ordinaria; ma i due conquistatori se ne distolsero verso scilocco, e Timur il fece per raggiugnere il suo pronipote che tornava dopo avere, per ordine di lui, conquistata Multan. L'Eroe macedone, arrestatosi sulla riva orientale dell'Ifasi all'ingresso del Deserto, versò qualche lagrima, ma il Mongul procedendo innanzi, ridusse la Fortezza di Batnir, e a capo del suo esercito si mostrò alle porte di Dely, città vasta e fiorente, e da re maomettani, volgean tre secoli, posseduta. L'assedio di questa e soprattutto della Rocca un lungo indugio avrebbe portato; ma Timur, nascondendo le sue forze, adescò a scendere nella pianura il sultano Mamud, cui seguivano il suo Visir, diecimila corazzieri, quarantamila guardie e centoventi elefanti, le cui difese erano, si dice, armate di lame taglienti e venefiche. Timur si abbassò a munirsi di alcune cautele contro cotesti mostri, o piuttosto contro il terrore che inspiravano alle sue truppe. Fatti accendere diversi fuochi e scavare una fossa, ordinò si ergesse una trincea di scudi e punte di ferro; ma l'evento dimostrò ai Mongulli quanto risibile fosse la loro tema; e appena questi mal destri animali furon fugati, la specie inferiore, gl'Indiani, sparve senza combattere. Timur fece il suo trionfale ingresso nella Capitale dell'Indostan, ove ammirata l'architettura della grande moschea, manifestò il disegno di fabbricarne una simile; ma l'ordine, o la permissione di un saccheggio e di una strage generale contaminò le feste della vittoria. Risolvè poscia di purificare i suoi soldati nel sangue degl'idolatri, o gentili, che superavano di numero i Musulmani nella proporzione di dieci a uno; e per mandare ad effetto questa pia brama, portatosi a greco di Dely, passò il Gange, diede molte battaglie per terra e per mare, innoltrandosi fino alla famosa roccia di Cupela, che sotto forma di giovenca, sembra vomitare quel fiume, la cui sorgente scaturisce dalle montagne del Tibet[415]. Indi tornò addietro costeggiando i monti a tramontana; la qual rapida corsa di un solo anno non potea giustificare la tema stravagante mostratasi dagli Emiri che i climi australi facessero tralignare i lor figli sino a divenire una schiatta d'Indù.

A. D. 1400

Standosi sulle rive del Gange, Timur seppe dai suoi celeri messaggeri le turbolenze insorte sui confini della Georgia e della Natolia, la ribellione dei Cristiani, gli ambiziosi disegni del Sultano Baiazetto. Nè una età di sessantatre anni, nè innumerabili fatiche, aveano alterato in esso il vigor del corpo, o dell'animo; tornato a Samarcanda, e goduti alcuni mesi di riposo nel suo palagio, annunziò una nuova spedizione di sette anni ne' paesi occidentali dell'Asia[416]. I soldati che fecero seco lui le guerre dell'India ebbero la scelta di rimanersi alle proprie case o di seguire il lor Principe. Ma tutte le truppe delle province e de' regni della Persia ricevettero l'ordine di unirsi ad Ispahan, e di aspettare ivi l'arrivo dell'Imperatore. Si fece primieramente ad assalire i Cristiani della Georgia, difesi dalle loro rupi, dalle loro Fortezze, e dal rigore del verno; ma la perseveranza di Timur superando tutti gli ostacoli, i ribelli si sottomisero al tributo, ovvero alle leggi del Corano. Entrambe le religioni poterono inorgoglirsi di proprj martiri; ma meglio s'addicea questo titolo ai prigionieri cristiani, perchè fra il morire e l'abbiurare avevano scelta. Scendendo dalle montagne, l'Imperatore diede udienza ai primi Ambasciadori di Baiazetto, e incominciò quella vicenda di rimproveri e minacce, che a mano a mano s'inasprì per due anni, sinchè in aperta guerra scoppiasse. Due confinanti ambiziosi e rivali mancano rade volte di pretesto per venire all'armi un contro l'altro. Le conquiste de' Mongulli e degli Ottomani, si toccano nelle vicinanze di Erzerum e dell'Eufrate; nè Trattati, nè un lungo possedimento aveano determinati quegli incerti confini. Ognuno de' due Sovrani potea rampognar l'altro, averne invaso il territorio, o minacciati i vassalli, o protetti i ribelli; e ribelli in loro sentenza erano tutti que' Principi fuggitivi, de' quali usurpavano i regni, perseguendone inoltre accanitamente la vita e la libertà. Però l'opposizione d'interessi fra questi due Principi era anche meno malaugurosa dell'eguaglianza delle loro indoli. Nel corso della vittoria, Timur non voleva soffrire eguali; Baiazetto non voleva riconoscere alcun superiore. La prima lettera scritta dall'Imperatore Mongul[417] al Sultano de' Turchi, tutt'altro che conciliatrice, dovea moverlo a furore, perchè ostentava in essa disprezzo e per la famiglia, e per la nazione di Baiazetto[418]. «Non sai tu che la maggior parte dell'Asia conquistata dalle nostre armi obbedisce alle nostre leggi? che si stendono da un mare all'altro le nostre invincibili forze? che i potentati della terra stanno rispettosamente schierati dinanzi alla nostra Porta, e che noi abbiamo costretta la stessa fortuna a vegliare alla prosperità del nostro Impero? Sopra di che fondi la tua insolenza e il tuo delirio? Tu hai vinte alcune battaglie nelle foreste della Natolia; meschini trofei! Hai riportata qualche vittoria sui Cristiani d'Europa, perchè la tua spada era benedetta dall'Appostolo di Dio; e ringrazia l'obbedienza che hai mostrata ai precetti del Corano guerreggiando gl'Infedeli, se non ci siamo portati a distruggere il tuo paese, frontiera e baloardo del Mondo musulmano. Fa senno fin che ne hai tempo; medita, pentiti, e allontana il fulmine della nostra vendetta che ti sta ancora sospeso sul capo. Non sei che una formica; perchè ti avvisi di provocar gli elefanti? Infelice! li schiacceranno sotto i lor piedi». La risposta di Baiazetto spirava l'indignazione d'un uomo profondamente trafitto da uno sprezzo al quale non poteva mai essere stato avvezzo. Dopo avere chiamato Timur masnadiero, ladrone del Deserto, viene recapitolando le vittorie di lui cotanto vantate nell'Iran, nel Turan, nell'Indie; poi s'adopera a provargli che solo per l'arti della perfidia, o per la dappocaggine de' suoi avversarj, ha trionfato. «I tuoi eserciti sono innumerabili; voglio crederlo; ma osi tu mettere a confronto le frecce de' tuoi Tartari che non sanno se non fuggire, colle sciabole de' miei intrepidi e non mai vinti giannizzeri? Sì, difenderò sempre i Principi che hanno implorata la mia protezione, vienli a cercare sotto le mie tende. Le città di Erzerum e di Arzingano mi appartengono; e se non mi pagano esattamente il tributo, verrò a farmi scontare il mio credito sotto le mura di Tauride e di Sultania». L'eccesso della collera trasportò Baiazetto a dettare un'ingiuria che feriva più di fronte Timur. «S'io fuggo dinanzi a te, possano le mie mogli venire allontanate dal mio letto con tre divorzj! Ma se tu non hai il coraggio di aspettarmi sullo spianato, che tu non riveda le tue mogli, se non se dopo che avranno per tre volte soddisfatte le brame di uno straniero»[419]. Presso i Turchi, una ingiuria di fatto, o di parole, diviene offesa imperdonabile, se ai misteri dello Harem si riferisce[420]; quindi il risentimento personale invelenì la querela politica dei due Monarchi. Ciò nullameno, la prima spedizione di Timur si limitò a distruggere la Fortezza di Sivas, o di Sebaste, situata sulla frontiera della Natolia; e quattromila Armeni sepolti vivi per avere adempiuto con valore e fedeltà il proprio dovere l'imprudenza del Principe ottomano espiarono. Sembrava che Timur, come buon Musulmano, usasse tuttavia un tal quale rispetto alla pia impresa di Baiazetto, il quale in allora interteneasi bloccando Costantinopoli: onde pago d'avergli dato un primo saggio, contro l'Egitto e la Sorìa volgea l'armi. Narrasi che gli Orientali e lo stesso Timur chiamassero Baiazetto Kaissar di Rum ossia Cesare dei Romani, titolo che si potea quasi legittimamente, o in via di breve anticipazione attribuire ad un Principe il quale possedea le province de' successori di Costantino e minacciava la lor Capitale[421].

La repubblica militare dei Mammalucchi regnava tuttavia nell'Egitto e nella Sorìa; ma la dinastia de' Turchi era stata scacciata dalla dinastia de' Circassi[422]; e Barkok lor favorito, passò una prima volta dalla schiavitù, una seconda volta dal carcere, al trono. In mezzo alla ribellione e alla discordia sfidò le minacce del Sovrano Mongul, mantenne una corrispondenza co' suoi nemici, e fece arrestarne gli ambasciatori. L'altro aspettò pazientemente la morte di Barkok, per vendicarsi poi sul debole Faragio che ne era figlio e successore. A respingere questa invasione si assembrarono in Aleppo gli Emiri della Sorìa[423], che ogni loro fiducia fondavano sulla disciplina e la rinomanza de' Mammalucchi, sulla buona tempera delle loro lancie e delle loro spade fabbricate coll'acciaio miglior di Damasco, sulla forza delle loro città cinte di muri, sulla popolazione composta di sessantamila villaggi. Anzichè sostenere un assedio, credettero miglior partito aprire le porte e distendersi sulla pianura. Ma la forza di queste genti non era corroborata dall'unione e dalle virtù, sicchè alcuni de' più potenti Emiri sedotti da Timur aveano abbandonati, o traditi i più fedeli de' lor compagni. Il fronte dell'esercito di Timur vedeasi munito da una linea di elefanti, che portavano torri piene d'arcieri e di fuoco greco. Le rapide fazioni della cavalleria di Timur avendo accresciuto oltre ogni dire lo scompiglio e il terrore de' suoi nemici, questi si addossavano gli uni agli altri, a talchè vennero affogati o trucidati a migliaia sull'ingresso della maggiore strada di Aleppo; ed i Mongulli entrando nella città mescolati coi fuggitivi, i vili, o corrotti difensori di quella insuperabile Rocca, la rendettero dopo avere opposta una debolissima resistenza. Fra i supplichevoli e i prigionieri, i Dottori della Legge ottennero un maggior riguardo da Timur che gli ammise al pericoloso onore di un parlamento[424]. Benchè zelante musulmano, il Principe de' Mongulli avea imparato nelle scuole della Persia a rispettare la memoria di Alì e di Hosein, e a riguardare i popoli della Sorìa, siccome nemici giurati del pronipote di Maometto. A questi Dottori egli fece una interrogazione capziosa, che i casisti di Bocara, di Samarcanda e di Herat non erano buoni a risolvere. Chi sono, lor chiese egli, i veri martiri? «I soldati uccisi dalla mia banda, o quelli che muoiono nelle file dei miei nemici?» Ma uno di que' Cadì seppe accortamente sciogliere la quistione, o per meglio dire chiuder la bocca all'interrogatore, col rispondere valendosi delle espressioni di Maometto medesimo: «essere l'intenzione che forma i martiri, e i Musulmani d'entrambe le parti potersi del pari meritar questo, se per la gloria di Dio hanno combattuto». La successione legittima del Califfo sembrava un punto più difficile da decidersi, e Timur irritato dalla franchezza di un dottore che, atteso il suo stato attuale, si mostrava troppo sincero, esclamò: «Tu non sei men falso di quelli di Damasco: Moavìa non era che un usurpatore, Yesid un tiranno; Alì solo è il vero successore di Maometto». Una prudente interpretazione, avendone calmato lo sdegno, passò ad argomenti di conversazione più famigliari: «Quanti anni avete voi?» diss'egli al Cadì — «Cinquant'anni.» — «Il mio primogenito sarebbe della vostra età. Voi mi vedete, continuò Timur; io non sono che un misero mortale, zoppo e decrepito; nondimeno ha piaciuto all'Altissimo di scegliermi per soggiogare i regni d'Iran, di Turan, e delle Indie. Non son già io un uomo feroce. Iddio m'è testimonio che nelle mie differenti guerre, io non sono mai stato l'aggressore; e che i miei nemici sono eglino stessi gli autori delle loro calamità». Ma durante questo tranquillo colloquio, il sangue scorreva a fiumi per le strade di Aleppo, e si udivano da ogni banda grida di madri, di fanciulli, e di vergini che veniano prostituite. Certamente il ricco bottino abbandonato ai soldati era un grande incentivo alla loro avidità; ma la crudeltà de' medesimi, avea un fondamento nel comando assoluto, che ricevettero dall'Imperatore, di presentargli un certo numero di teste, le quali, giusta il solito, fece accuratamente disporre in colonne e piramidi. I Mongulli trascorsero la notte celebrando con allegrezza la riportata vittoria, mentre que' Musulmani che rimaneano, la passarono nelle catene e fra i pianti. Io non seguirò ora il cammino del devastatore di Aleppo fino a Damasco, ove gli eserciti di Egitto vigorosamente lo assalirono, e pressochè affatto lo misero in rotta. L'atto ch'ei fece di ritirarsi, fu attribuito ad angustia estrema cui fosse pervenuto, e giudicato effetto della disperazione; già un nipote di Timur era passato nelle file nemiche; già i popoli della Sorìa si allegravano della vittoria, allorchè una ribellione de' Mammalucchi costrinse il Sultano di Damasco a rifuggirsi precipitosamente; e con obbrobrio, nel suo palagio del Cairo. Benchè abbandonati dal loro Sovrano, gli abitanti di Damasco sì valorosamente difesero le proprie mura, che Timur offeriva di liberare questa città dall'assedio, purchè i cittadini acconsentissero a pagare un riscatto con varj donativi, tutti regolati colla proporzione del numero nove che già si additò. Ma appena, sotto la fede di una tregua, gli fu permesso introdursi nella città, violò perfidamente il Trattato, esigendo una contribuzione di dieci milioni in oro, ed incoraggiando i suoi soldati a castigare i popoli della Sorìa come discendenti di coloro che aveano eseguita, o approvata la morte del pronipote del Profeta; nè eccettuò dall'eccidio generale fuorchè una famiglia che avea data onorevole sepoltura alla testa di Hosein, e una colonia di operai, o artigiani che trasportò a Samarcanda (A. D. 1279). Dopo un'esistenza di sette secoli, la città di Damasco fu ridotta in cenere per lo zelo religioso di un Tartaro che davasi vanto di vendicare il sangue di un Arabo. Le perdite e i disagi di questa guerra costrinsero Timur ad abbandonare l'idea di conquistare l'Egitto e la Palestina; ma rivolgendosi all'Eufrate, consegnò alle fiamme la città di Aleppo, e autenticò la pietà de' motivi che a tale atto il condussero col concedere libertà e ricompensa a duemila Alìdi che divisavano di visitare la tomba del figlio suo. Mi sono diffuso su queste particolarità che giovano a far conoscere il carattere personale di cotesto Eroe de' Mongulli; ma racconterò brevemente[425] che egli innalzò una piramide di novantamila teste sulle rovine di Bagdad, e che dopo avere devastata nuovamente la Georgia (A. D. 1401), sulle rive dell'Arasse accampò, facendo ivi nota la sua risoluzione di movere l'armi contra l'Imperatore ottomano. Conoscendo egli di quanto momento una tal guerra si fosse, radunò per essa le forze di tutte le sue province; onde ottocentomila uomini diedero ai registri militari il lor nome[426]; e l'ordine dato per cinque o diecimila cavalli, indica piuttosto il grado e gli attributi dei Capi che il numero effettivo de' soldati[427]. I Mongulli aveano acquistate immense ricchezze nel saccheggio della Sorìa, ma la distribuzione de' loro stipendj arretrati di sette anni, gli affezionò con più certezza ai loro stendardi.

A. D. 1402

Intanto che il Principe Mongul si era intertenuto nelle spedizioni dianzi descritte, Baiazetto aveva avuti due interi anni per raccogliere le sue forze che stavansi in quattrocentomila combattenti così di cavalleria come di fanteria[428]; ma tutti questi diversi corpi, per lor fedeltà e valore non meritavano la medesima confidenza. Ne conviene primieramente far menzione de' giannizzeri che furono successivamente portati al numero di quarantamila uomini; viene indi una cavalleria nazionale, conosciuta ne' moderni tempi col nome di spai; ventimila corazzieri europei, coperti di negre e impenetrabili armadure; le truppe della Natolia, i cui Principi nel campo di Timur si erano rifuggiti; e una colonia di Tartari che lo stesso Timur scacciò dal Kipzak, e ai quali Baiazetto avea conceduto, per abitarvi, un terreno nelle pianure di Andrinopoli. L'intrepido Sultano marciava all'incontro del suo rivale; dispiegò le sue tende presso le rovine della sfortunata città di Sivas, il qual campo pareva avesse scelto a bella posta a teatro di sua vendetta. In questo mezzo, Timur, varcato l'Arasse, attraversava tutta l'Armenia e la Natolia, non omettendo veruna delle cautele suggerite dalla prudenza. Rapida, quanto ordinata, e retta da un'esatta disciplina fu la sua corsa. Era antiguardo la cavalleria leggiera, che oltre all'additare il cammino, esplorava accuratamente le montagne, ogni foresta, ogni fiume. Deliberato di combattere gli Ottomani nel centro del loro Impero, il Principe de' Mongulli evitò destramente il lor campo, tenendosi alla sinistra; ed occupata Cesarea, e passato il deserto Salè, e il fiume Haly, la città di Angora strinse d'assedio. Intanto il Sultano, immobile nel suo campo, e ignaro di quanto accadeva, credea ragionar giusto nel paragonare il marciare, che è sì rapido, de' Tartari a quello delle lumache[429]. Ma l'indegnazione il fornì ben tosto di ali per correre in soccorso di Angora; essendo impazienti di combattere così l'uno come l'altro Generale, le pianure di que' dintorni divennero scena della memoranda battaglia che l'obbrobrio di Baiazetto e la gloria di Timur fece immortali.

L'Imperatore de' Mongulli dovette questa vittoria a sè medesimo, alla prontezza e alla sicurezza del suo vedere, a una pratica di trent'anni. Egli aveva ridotto a perfezione l'arte militare fra i suoi, senza andar contro alle antiche costumanze della nazione[430], le cui forze stavansi tuttavia nella destrezza degli arcieri, e nelle rapide fazioni di una numerosa cavalleria. O guidasse alla pugna una picciola truppa, o un copioso esercito, il modo dell'assalto era sempre il medesimo. La prima linea, facendo immantinente impeto, la sosteneano ordinatamente gli squadroni dell'antiguardo. Il Generale tenea d'occhio la mischia, e seguendone gli ordini, le due ale si avanzavano successivamente in più divisioni, collocandosi in linea diritta od obbliqua, secondo che l'Imperatore giudicava più, o meno necessario il lor soccorso. Incalzava così il nemico con diciotto, o venti assalti, ognun de' quali una speranza di vittoria offeriva; e ove tutti avessero mancato di buon successo, l'Imperatore credendo quell'opportunità degna di lui, metteva innanzi il suo stendardo e il corpo di battaglia, da lui condotto in persona[431]. Però nella giornata di Angora anche questo corpo di battaglia fu retto ai fianchi e alle spalle dalle migliori truppe di riserva, comandate dai figli e dai nipoti di Timur. Il distruttore dell'Indostan dispiegava in orgogliosa foggia una linea di elefanti, trofeo anzichè strumento delle sue vittorie. L'uso del fuoco greco ai Mongulli e agli Ottomani era comune. Ma se l'una delle due nazioni avesse adottata dagli Europei la recente invenzione della polvere e de' cannoni, questo fulmine artifiziale avrebbe forse accertata la vittoria a quella delle due parti che ne avesse fatto uso[432]. In quest'azione, Baiazetto, e come Generale e come soldato, si segnalò: ma alla prevalenza del rivale gli fu forza di cedere, soprattutto perchè la maggior parte delle sue truppe, cedendo a diversi motivi, in quel rilevante momento lo abbandonò. Per rigore ed avarizia egli avea eccitate sedizioni, in mezzo ai Turchi, e troppo presto ritirato erasi dal campo lo stesso figlio di Baiazetto, Solimano. Le milizie della Natolia, fedeli nel ribellarsi, sotto le bandiere de' lor Principi legittimi ritornarono. Que' Tartari che si erano collegati coi Turchi, si lasciarono sedurre dalle lettere e dai messi di Timur[433], il quale rimprocciando ad essi l'obbrobrio di servire sotto gli schiavi de' loro antenati, li confortava colla speranza o di liberare l'antica loro patria, o fors'anche di regnar nella nuova. All'ala destra di Baiazetto, i corazzieri europei, fedeli alle proprie bandiere, fecero valorosamente impeto sui Tartari; ma la simulata e rapida fuga di costoro mise in iscompiglio questi uomini gravati dalle loro armadure di ferro, che si diedero ad inseguirli imprudentemente, lasciando intanto i giannizzeri, soli, privi di cavalleria e di frecce, esposti ai dardi di uno sciame di cacciatori mongulli. Abbattuto finalmente il loro coraggio dalla sete, dal caldo, e dalla moltitudine de' nemici, il misero Baiazetto, al quale un assalto di gotta toglieva il libero uso delle mani e delle gambe, venne trasportato fuori del campo da uno de' suoi più rapidi corridori, ma il Kan titolare del Zagatai, corsogli dietro, il fermò. Disfatti i Turchi e prigioniero il Sultano, tutta la Natolia si sottomise al vincitore, che piantato il suo stendardo a Kiotaia, mandò per ogni banda i suoi ministri di rapina e di strage. Mirza, Mehemmed, Sultano primogenito, e il più favorito tra i nipoti di Timur, corse a Bursa seguìto da trentamila uomini a cavallo, e aggiugnendosi in lui l'ardore della giovinezza, in cinque giorni di cammino, sol però con quattromila di coloro che seco partirono, giunse alle porte dalla Capitale, distante dugentotrenta miglia dal campo di Angora; ma più rapide ancora sono le corse suggerite dallo spavento, onde Solimano figlio di Baiazetto, erasi già rifuggito in Europa col tesoro di suo padre. Ciò nullameno Mirza trovò immense spoglie nel palagio e nella città, che prima era rimasta vota d'abitanti. La maggior parte delle case, fabbricate di legno, vennero incenerite. Da Bursa, Mehemmed s'inoltrò fino a Nicea, città tuttavia ricca e fiorente, nè le truppe de' Mongulli arrestaronsi prima di essere in riva alla Propontide. Così agli Emiri, come a Mirza tutte queste scorrerie ben tornarono. La sola Smirne, difesa dallo zelo e dal valore de' cavalieri di Rodi, meritò la presenza degli Imperatori. Dopo avere ostinatissimamente resistito, i Mongulli la preser d'assalto passando a fil di spada indistintamente tutti gli abitanti, e valendosi delle macchine d'assedio per lanciar le teste degli eroi cristiani sopra due caracche europee che in quel porto aveano gettate le ancore. I Musulmani dell'Asia si allegrarono nel vedersi liberi da un pericoloso nemico domestico; nella quale occasione, instituendo parallelo fra i due rivali, osservato venne come Timur in quattordici giorni riducesse una Fortezza che avea sostenuto per sette anni l'assedio, o almeno il blocco degli eserciti di Baiazetto[434].

I moderni scrittori escludono, qual favola adottata dalla credulità[435], la storia, per sì lungo tempo ripetuta come una lezion di morale, la storia della gabbia di ferro, entro cui, diceasi, Tamerlano fece rinchiudere Baiazetto; e fondano con fiducia la loro opinione sulla Storia persiana di Serefeddino Alì, della quale abbiamo oggi giorno una traduzione francese, e da cui ho tolta e compilata la più verosimile relazione di questo memorabile avvenimento. Timur avvertito che il Sultano prigioniero stavasi all'ingresso della sua tenda, uscì per riceverlo, e fattolo sedere a sè vicino, nel volgergli giusti rimproveri, usò un tuono riguardoso, addicevole al grado e alla commiserazione che i disastri del vinto si meritavano: «Oimè! diceagli Timur; per colpa vostra i decreti del destino furono compiuti; è quella stessa rete che avete ordita; son le spine dell'albero che avete piantato. Io desiderava risparmiare, ed anche soccorrere il campione de' Musulmani; voi avete sfidate le nostre minacce, sdegnata la nostra amicizia, costretto noi ad entrare ne' vostri Stati a capo de' nostri invincibili eserciti. Consideratene le conseguenze. Non ignoro la sorte che avevate riserbata a me e a' miei soldati, se foste stato voi vincitore. Ma disdegno la vendetta; la vostra vita e il vostro onore sono sicuri; dimostrerò la mia gratitudine a Dio, usando clemenza all'uomo.» Il Sultano prigioniero manifestò alcuni segni di pentimento, si sommise all'umiliante dono d'una veste d'onore, e abbracciò colle lagrime agli occhi il figlio suo Musa che, cedendo alle preghiere di Baiazetto, Timur avea fatto ricercare; e trovato erasi sul campo di battaglia fra i prigionieri. I Principi ottomani vennero alloggiati in un magnifico padiglione, e il rispetto che lor tributavasi pareggiava la vigilanza con cui erano custoditi. Giunto lo harem di Bursa, Timur restituì al Monarca prigioniero la moglie Despina e la figlia; pretese però piamente che questa Principessa serviana, la quale fino allora avea professata la fede di Cristo, abbracciasse tosto la religione maomettana. In mezzo alle feste della vittoria, cui Baiazetto veniva invitato, l'Imperatore Mongul concedè al suo prigioniero i distintivi di uno scettro e di una corona, aggiugnendo la promessa di condurlo sul trono dei suoi antenati, più splendente di gloria che mai stato nol fosse; ma l'immatura morte di Baiazetto prevenne l'adempimento di tali promesse. Tornarono vane le cure de' più abili medici per riaverlo da un colpo di apoplesia per cui morì in Akser, l'Antiochia di Pisidia, nove anni circa dopo la sua sconfitta. Il vincitore versò alcune lagrime sulla tomba del vinto. Il corpo di Baiazetto venne pomposamente trasportato nel mausoleo ch'egli si era fatto innalzare a Bursa; e Musa, figlio di lui, oltre a molti preziosi donativi di ornamenti d'oro, d'armi e cavalli, ottenne, con patente scritta in rosso, dal vincitore la sovranità della Natolia.

Tal ritratto di un vincitor generoso, è stato tolto dalle sue stesse Memorie, che gli si fanno dedicare al figlio e al nipote diciannove anni dopo la sua morte[436]. In tale epoca, mentre migliaia di testimonj conoscevano perfettamente la verità, una manifesta menzogna sarebbe stata una satira della effettiva condotta dell'encomiato; laonde le prove dedotte da simile manoscritto, e da tutti gli Storici persiani adottate, parrebbero d'un gran peso[437]; ma vuolsi anche considerare che l'adulazione, massime fra gli Orientali, è vile ed impudente oltre ogni credere, e che in vece Baiazetto abbia sofferto un trattamento ignominioso e crudele, è cosa attestata da una lunga serie di testimonj, de' quali ne citeremo alcuni seguendo l'ordine de' tempi e de' paesi. I. Il leggitore non ha certamente dimenticata la guernigione di Francesi che il Maresciallo Boucicault lasciò in difesa di Costantinopoli quand'ei ne partì. Essi erano in istato di saper per li primi, e in modo esattissimo, la sorte del formidabile loro avversario, ed è assai probabile che alcuni di essi accompagnassero gli Ambasciatori greci al campo di Tamerlano. Si fonda pertanto sui racconti di questi Francesi l'uom del seguito del Maresciallo che ne ha scritta la Storia, e attesta i rigori della prigionia e l'aspro tenore della morte di Baiazetto, sette anni circa dopo i fatti accaduti[438]. II. Il nome dell'Italiano Poggi[439] viene giustamente collocato fra quelli de' restauratori dell'erudizione nel secolo decimoquinto. Egli compose il suo elegante dialogo sulle vicende della fortuna[440] in età di cinquant'anni, e vent'otto anni dopo la vittoria di Tamerlano[441], paragonato da questo scrittore ai più illustri Barbari dell'antichità; e molti testimonj di vista aveano istrutto il Poggi sulle imprese e il saper militare di questo guerriero. Ora ei non omette di citare in prova del suo assunto l'esempio dell'ottomano Monarca, che il Tartaro racchiuse in una gabbia di ferro a guisa di belva, offrendolo siccome spettacolo a tutta l'Asia. Potrei aggiungere l'autorità di due Cronache italiane, di data più moderna, ma atte forse a provare che cotesta Storia, o vera o falsa, si era diffusa per tutta l'Europa colla prima notizia del grande cambiamento politico avvenuto nell'Asia[442]. III. Intanto che il Poggi fioriva a Roma, Amed-Ebn Arabshà, componeva a Damasco la sua elegante e maligna Storia di Timur, i cui materiali avea raccolti ne' suoi viaggi in Turchia e in Tartaria[443]. Lo Scrittore latino e l'arabo, fra i quali sembra impossibile sia stata corrispondenza, concordano entrambi sul fatto della gabbia di ferro, il quale accordo mostra evidentemente la loro veracità. Arabshà racconta ancora che Baiazetto sofferse un oltraggio d'altra natura e moralmente più doloroso. Le espressioni incaute di una lettera di Baiazetto intorno alle mogli e ai divorzj, avendo grandemente offeso il geloso Tartaro, volle questi, dice lo Storico arabo, che in un banchetto, ove la sua vittoria si festeggiava, le donne mescessero ai convitati, e il Sultano ebbe il cordoglio di vedere e le sue concubine e le sue mogli legittime confuse fra le schiave, ed esposte senza velo alla licenza de' pubblici sguardi. Pretendesi che per evitare in avvenire un'umiliazione tanto crudele, i successori di Baiazetto, eccetto un solo, si siano astenuti dal matrimonio; e Busbek[444] nel secolo XVI Ambasciatore di Vienna alla Porta, e attentissimo osservatore, assicura, che una tale pratica ed opinione durava tuttavia presso gli Ottomani. IV. La differenza d'idioma rende la testimonianza d'un Greco independente al pari di quella di un Arabo e di un Latino. Volendosi anche rifiutare le testimonianze di Calcocondila e di Duca che viveano in tempi meno lontani da noi, e che con tuono meno affermativo raccontano un tale fatto, non vi sarebbe alcuna buona ragione per negare ogni fiducia allo Storico Giorgio Franza[445], Proto-vestiario degli ultimi Imperatori, e nato un anno prima della battaglia di Angora. Ventidue anni dopo di questa, venne spedito Ambasciatore alla Corte di Amurat II, ed ebbe campo di conversare con diversi giannizzeri che aveano partecipato alla schiavitù di Baiazetto e veduto il Sultano nella sua gabbia di ferro. V. L'ultima e migliore di tutte le autorità si è quella degli Annali turchi, consultati e copiati da Leunclavio, Pococke e Cantemiro[446]. Essi deplorano unanimemente la cattività della gabbia di ferro; e vuolsi in ordine a ciò concedere qualche fiducia a questi Storici nazionali, che non poteano incolpare il Tartaro senza scoprire ad un tempo l'obbrobrio del loro Principe e della loro patria.

Da queste discordanti premesse può trarsi una conclusione probabile, e che sta di mezzo fra l'una e l'altra opinione. Mi piace supporre che Serefeddino Alì abbia fedelmente raccontato il primo colloquio di formalità, durante il quale, il vincitore, cui i buoni successi suggerivano di assumere più nobil contegno, avrà ostentati sentimenti di generosità. Ma l'arroganza mostrata fuor di proposito da Baiazetto lo inacerbì; i Principi della Natolia detestavano questo Sultano, e giuste erano le loro lagnanze. Si seppe che Timur avea divisato di condursi dietro in trionfo il suo prigioniero in Samarcanda, intanto che una buca, scavata sotto la tenda di Baiazetto per agevolargli la fuga, mise in riguardo l'Imperatore, e a meglio cautelarsi il costrinse. La gabbia di ferro portata in quelle continue corse sopra di un carro, forse era fatta meno per insultar Baiazetto che per assicurarsene. Timur avea forse letto in qualche storia favolosa un simile trattamento usato contra un Re di Persia suo predecessore. Condannò Baiazetto a rappresentare comicamente la parte d'Imperatore romano e ad espiare in tal guisa gl'insulti che ne avea ricevuti[447]. Ma il coraggio e le forze del Sultano a così dura prova non resistettero, e si può senza ingiustizia attribuire alla severità di Timur la morte immatura di Baiazetto (A. D. 1403). Timur non faceva la guerra ai morti; e alcune lagrime e un sepolcro erano il meno ch'ei potesse concedere ad un prigioniere, sciolto per sempre dalla podestà del vincitore: e se Musa, figlio di Baiazetto, ottenne la permissione di regnare sulle rovine di Bursa, la maggior parte però della Natolia fu ai suoi Sovrani legittimi restituita.

Timur possedeva in Asia tutto il paese che dall'Irtis e dal Volga fino al golfo Persico, dal Gange fino all'Arcipelago e a Damasco si estende. Invincibile ne era l'esercito, illimitata l'ambizione. Il suo zelo lo faceva aspirare a render soggetti e convertire i regni cristiani dell'Oriente che il suo nome solo empiea di spavento. Ei già toccava i limiti del Continente; ma uno stretto braccio di mare, disgiungeva l'Asia dall'Europa[448], ostacolo per lui insuperabile, perchè il padrone di tanti toman, o miriadi di soldati a cavallo non possedeva una sola galea. I due passaggi del Bosforo e dell'Ellesponto, di Costantinopoli e di Gallipoli, stavano l'uno in poter dei Cristiani, l'altro in poter de' Turchi, che in sì imminente pericolo dimenticarono la differenza delle religioni per riunirsi di mutuo accordo, e con fermezza, in difesa della causa comune. E vascelli, e fortificazioni guernirono i due stretti; entrambi i popoli ricusarono a Timur i navigli che ad essi chiedè successivamente, col pretesto di valersene a far guerra ai loro nemici. Nel medesimo tempo l'orgoglio del Tartaro lusingavano, or per via di tributi, or per via di supplichevoli ambascerie, che gli concedeano anticipatamente il merito della vittoria, ma tutte intese con prudenza ad indurlo ad una ritirata. Solimano, figlio di Baiazetto, che implorò la clemenza del vincitore pel proprio padre e per sè medesimo, e mostrò opportunamente ardente desiderio di prostrarsi in persona ai piedi del Monarca dell'Universo, ne ottenne, con patente scritta in rosso, l'investitura del regno di Romania già da lui posseduto per diritto di conquista. Anche l'Imperatore greco, fosse Giovanni, o Manuele[449], si sottomise a pagargli il tributo precedentemente pattuito col Sultano de' Turchi; il qual Trattato confermò con giuramento d'obbedienza, da cui potè credersi sciolto, appena il Tartaro ebbe fatta sgombera la Natolia. Alterate da quel terrore che invase avea le nazioni le fantasie degli uomini, attribuirono all'ambizioso Timur il romanzesco disegno di conquistare l'Egitto e l'Affrica, dal Nilo all'Oceano Atlantico, poi di entrare in Europa per lo stretto di Gibilterra, tornando pei deserti della Russia e della Tartaria nei suoi Stati, dopo avere soggiogate tutte le potenze della Cristianità. La cura di ridurre in soggezione l'Egitto, distolse dall'Europa questo pericolo lontano, o immaginario fors'anche. Al Cairo, le commemorazioni nelle pubbliche preci e i conj delle monete attestarono la supremazia del Principe de' Mongulli: e Samarcanda pose il suggello alla sommessione dell'Affrica coll'assicurargli il tributo di nove struzzi e di una giraffa, o cammeleopardo, raro dono e prezioso. La nostra immaginazione non rimane meno sorpresa in pensando che un conquistatore mongul abbia potuto meditare ed eseguire, quasi senza moversi dal suo campo, dinanzi a Smirne, l'invasione dell'Impero cinese[450]. Lo zelo religioso e l'onore del nome maomettano lo allettavano a questa impresa; e pareagli non si potesse espiare il sangue versato di tanti Ottomani che con una proporzionata strage d'Infedeli: giunto alle soglie del paradiso, voleva assicurarsi un ingresso più trionfale coll'aver prima distrutti gl'idoli della Cina, fondate moschee in ogni città, e fatto sì che tutta quella vasta Monarchia credesse ad un solo Dio e al suo Profeta. Si arroge che il disastro dei discendenti di Gengis, scacciati di recente della Cina, offendeva l'orgoglio dei Mongulli, e che le turbolenze di quell'Impero, una opportunità offerivano alla vendetta. Quattro anni prima della battaglia di Angora, essendo morto l'illustre Hongvu, fondatore della dinastia dei Ming, il pronipote di lui, debole e misero giovinetto, fu bruciato nel suo palagio, dopo una guerra civile che avea costato la vita ad un milione di Cinesi[451]. Non aveva anche sgombrata la Natolia, quando Timur inviò oltre al Gihoon un esercito, o piuttosto una colonia de' suoi antichi e nuovi sudditi per agevolarsi l'ingresso nel paese de' Calmucchi, e de' Mongulli idolatri, ch'egli divisava soggiogare, e per fabbricare magazzini e città nel deserto; nè andò guari che per le cure del suo luogo-tenente ottenne una Carta e una descrizione esatta de' paesi sconosciuti che si estendono dalle sorgenti dell'Irtis fino al muraglione della Cina. Nel durare di tali apparecchi, l'Imperatore compiè la conquista della Georgia, passò il verno sulle rive dell'Arasse, sedò le turbolenze della Persia, e tornò lentamente nella sua Capitale dopo una guerra di quattro anni e nove mesi.

A. D. 1404-1405

In un breve intervallo di pace, Timur die' a divedere sul trono di Samarcanda[452] tutta la magnificenza e l'autorità di un ricco e poderoso Monarca. Ascoltò le istanze de' popoli, distribuì con giuste proporzioni i premj o i gastighi, innalzò templi e palagi, diede udienza agli Ambasciatori dell'Egitto, dell'Arabia, dell'India, della Tartaria, della Russia e della Spagna; presentato da quest'ultimo Ambasciatore di tappezzerie, che per disegno e colori superavano le più belle de' manifattori dell'Oriente. Celebrò le nozze di sei nipoti, la qual cosa venne riguardata, siccome atto di religione e tenerezza paterna ad un tempo. Queste feste, nelle quali si ammirò tutta la pompa di cui sfoggiarono gli antichi Califfi, accaddero nei giardini di Canigul, decorati d'un gran numero di tende e di padiglioni, ove si alternavano e gli arredi del lusso di una grande Capitale, e i trofei di un esercito vittorioso. Intere foreste furono atterrate per uso delle cucine; coperti vedeansi gli spianati di piramidi di vivande, e di vasi colmi di varj liquori; le persone venivano convitate a migliaia, e con cortesi modi, ai banchetti. Schierati vidersi intorno alla mensa reale i diversi Ordini dello Stato, i rappresentanti delle diverse nazioni del Globo, senza escluderne, osserva il superbissimo Storico persiano, gli Ambasciatori di Europa. «Nella stessa guisa, soggiunge costui, le casse, i più piccioli di tutti i pesci, trovano posto nel grande Oceano[453] ». Il popolo manifestò il suo giubilo con illuminazioni e mascherate. Tutti gli operai di Samarcanda contribuirono col loro ingegno alle feste, nè vi fa maestranza che non procurasse di segnalarsi con qualche nuovo trovato, o singolare spettacolo suggerito dalla natura dell'arte professata. Poichè i Cadì ebbero ratificati i contratti delle nozze, i Principi si ritirarono colle loro spose nelle stanze nuziali, ove, giusta la costumanza degli Asiatici, cambiarono nove volte di vesti. Ad ogni nuovo abbigliamento, le perle e le gemme, di cui s'erano fregiata la testa, venivano disdegnosamente gettate alle persone del seguito. Fu pubblicato un editto di generale perdono, sospesa in quel tempo la forza delle leggi, permesso ogni genere di piaceri; il popolo si trovò libero, e in ozio il Sovrano; e sia pur lecito allo Storico di Timur l'aggiungere, che dopo aver questi consagrati cinquant'anni della sua vita ad ampliare i limiti dell'Impero, non conobbe vera felicità, fuorchè nei due mesi ne' quali interruppe l'uso del suo potere. La verità si è, che non tardò lungo tempo a riprenderlo, e a pensare agli apparecchi di una nuova guerra. L'imperiale stendardo fu dispiegato, e gridata la spedizione contro la Cina. Gli Emiri apersero i registri per mettere in campo un esercito di dugentomila uomini, tutti soldati scelti, e di quelli che aveano fatte le guerre di Iran e di Turan. Cinquecento capacissimi carriaggi, e un immenso traino di cavalli e di cammelli, vennero allestiti per trasportare i viveri e le bagaglie; le truppe comandate a questo tragetto, che le carovane più felici non compievano in men di sei mesi, a star lungo tempo lontane dalla patria si preparavano. Non rattenuto nè dagli anni, nè dal rigore del verno, Timur montò a cavallo (A. D. 1405), e attraversato il Gihoon sul diaccio, si era già scostato settanta parasanghe, ossia trecento miglia dalla Capitale, e avea posto campo nei dintorni di Otrar, ove lo aspettava l'Angelo della morte. Le fatiche, e l'imprudente uso dell'acqua gelata avendo accresciuta la febbre da cui era stato assalito, il conquistatore dell'Asia spirò nel settantesimo anno dell'età sua, trentacinque anni dopo essere stato innalzato al trono del Zagatai. Con esso i suoi disegni disparvero, i suoi eserciti si sbandarono, la Cina fu salva, e quattordici anni dopo, il più potente dei figli di Timur, sollecitò per via di Ambasciatori, un Trattato di commercio e di lega colla Corte di Pechino[454].

Per l'Oriente e per l'Occidente il nome di Timur risonò. I discendenti di lui portano tuttavia il nome d'Imperatori; e l'ammirazione de' suoi sudditi che quasi eguale a una divinità il riguardarono, è in qualche modo giustificata dalle lodi, o dalla confessione de' suoi più accaniti nemici[455]. Benchè difettoso ad una gamba e ad un braccio, nulla d'ignobile presentavano la sua statura e il suo portamento. La sobrietà e l'esercizio gli mantennero lungamente il vigore della salute, così necessaria a lui come alle sue soldatesche; grave e riservato nelle conversazioni famigliari, parlava con facilità ed eleganza gl'idiomi turchi e persiani; l'arabo non conosceva; assai lo dilettava l'intertenersi con uomini dotti sopra argomenti di scienza, o di storia, e dava molte ore di passatempo al giuoco degli scacchi, da lui perfezionato con un'aggiunta di pezzi, e per conseguenza di combinazioni[456]. Mostratosi zelante musulmano, benchè forse poco ortodosso[457], la profondità del suo ingegno ne dà diritto a credere, che la superstiziosa venerazione da lui prestata agli astrologi, ai Santi, e alle profezie della religione maomettana, fosse unicamente un giuoco di sua politica[458]. Governò solo e dispoticamente un Impero vastissimo. Finchè regnò, non si videro nè ribelli che contro l'autorità di lui attentassero, nè favoriti che seducessero gli affetti, nè Ministri che ne ingannassero la giustizia. Tenea per massima invariabile, che a qual si sia costo, un Principe nè dee ritrattare i comandi dati, nè permettere che altri sovr'essi discutano. Ma i nemici di lui osservavano venir più esattamente adempiuti gli ordini di distruzione da lui messi nell'impeto della collera, che non i comandi di beneficenza. I suoi figli e nipoti, che dopo la sua morte si trovavano in numero di trentasei, erano stati, finchè egli visse, i primi e i più subordinati suoi sudditi. Mancando questi al loro dovere, giusta le leggi di Gengis, venivano corretti con bastone, indi restituiti ai primi onori e al loro comando rimessi. Forse il cuore di Timur alle virtù sociali non era chiuso, forse non era incapace di amare i suoi amici, e di perdonare ai suoi nemici; ma le regole della morale sull'interesse pubblico sono fondate, e basterebbe forse all'encomio della saggezza di un Principe il poter dire di lui, che le liberalità non lo impoverirono, e la giustizia ne aumentò le ricchezze e il potere. Certamente è debito d'un Sovrano il mantenere l'accordo fra l'ubbidienza e l'autorità, il punire l'orgoglio, il soccorrere la debolezza, il dar premio al merito, il bandire l'ozio e il vizio da' suoi dominj, l'essere largo di protezione al viaggiatore e al mercatante, il frenare la licenza militare, favoreggiando le fatiche del coltivatore, l'incoraggiare le scienze e l'industria, e mercè una moderata ripartizione, aumentare le rendite senza crescere le tasse, i quali doveri ampio e pronto guiderdone retribuiscono al Principe che gli adempie; allorchè Timur ascese il trono, le fazioni, il ladroneccio e l'anarchia straziavano l'Asia. Sotto al governo di lui, un fanciullo avrebbe potuto, senza timore o pericolo, portare una borsa d'oro dall'oriente all'occidente del fortunato reame. Timur credeva che il merito di una tale riforma bastasse a giustificarne le conquiste e il diritto alla sovranità dell'Universo. Ma le quattro seguenti osservazioni ne gioveranno a calcolare quanto ei potesse pretendere la gratitudine de' popoli, e forse a concludere che l'Imperatore Mongul fu il flagello, anzichè il benefattore, del Genere umano, 1. Allorchè la spada di Timur correggeva alcuni abusi, o alcune particolari tirannidi distruggea, il rimedio era infinitamente più funesto del male. Certamente la discordia, l'avarizia e la crudeltà de' piccioli tiranni della Persia, opprimevano i loro sudditi; ma il riformatore schiacciò sotto i suoi passi intere nazioni. Per lui sparvero fiorenti città, e spesso il luogo ove furono, venne contrassegnato da colonne, o piramidi di umani cranj, trofei abominevoli della sua vittoria. Astrakan, Carizme, Dely, Ispahan, Bagdad, Aleppo, Damasco, Bursa, Smirne, e mille altre città vennero saccheggiate, o arse, o affatto distrutte, alla presenza di lui, dalle sue soldatesche. Il restauratore dell'ordine e della pace avrebbe forse fremuto, se un sacerdote o un filosofo avesse osato calcolare, dinanzi a lui, i milioni di vittime che a quest'uopo egli avea sagrificate[459]. 2. Le più sanguinose guerre di Timur, furono piuttosto scorrerie che conquiste. Dopo avere successivamente invaso il Turkestan, il Kipzak, la Russia, l'Indostan, la Sorìa, la Natolia, l'Armenia e la Georgia, senza avere la speranza, o il desiderio di conservare queste rimote province, ne usciva carico di spoglie, non lasciando dietro a sè nè soldati per tenere in freno i ribelli, nè magistrati per proteggere i sudditi sottomessi e fedeli. Rovesciava l'edifizio del loro antico governo, abbandonandoli poscia alle calamità o prodotte, o fatte più gravi dalla sua invasione, calamità non compensate da alcun vantaggio presente, o possibile. 3. Le sue cure principali intendeano alla prosperità e all'interno splendore de' regni della Transossiana e della Persia, da lui riguardati come gli Stati ereditarj di sua famiglia. Ma le sue frequenti e lunghe lontananze, interrompevano e spesse volte struggevano l'effetto dei lavori da esso operati in tempo di pace; e intanto che trionfava sulle rive del Volga, o del Gange, i suoi servi ed anche i suoi figli, il lor padrone e i proprj doveri dimenticavano. Il tardo rigore de' processi e delle punizioni, sol riparava imperfettamente i disordini particolari e pubblici; onde siam costretti a non ravvisare nelle Instituzioni di Timur, che il seducente disegno di una perfetta Monarchia. 4. Quali che possano essere state le beneficenze dell'amministrazione di Timur, colla morte del medesimo si dileguarono. I figli e nipoti di lui, più ambiziosi di regnare che di governare[460], furono nemici gli uni degli altri, e nemici del popolo. Sarok, il più giovine di questi, sostenne con qualche gloria un fragmento dell'Impero; ma dopo la morte di lui, il paese ove regnò, fattosi prima teatro di stragi, cadde indi nella oscurità e nell'avvilimento; nè vôlto era un secolo, che gli Usbek del Settentrione e i Turcomani dalla Pecora bianca, e i Turcomani dalla Pecora nera aveano invasa la Persia e la Transossiana. La stirpe di Timur più non sarebbe, se un eroe, discendente della medesima al quinto grado, scacciato dagli Usbek, non avesse intrapresa la conquista dell'Indostan[461]. I Gran Mogol, successori di questo, dilatarono il loro Impero dai monti di Casmir al capo Comorin, e dal Candahar fino al golfo del Bengala. Dopo il regno di Aurengzeb, scioltosi quest'Impero, uno scorridore persiano ha saccheggiato il territorio di Dely, e una compagnia di mercatanti cristiani, nati in un'isola dell'Oceano settentrionale, possede oggidì il più ricco fra i reami del Gran Mogol.

A. D. 1403-1421

Non così accadde all'Impero ottomano; simile ad albero vigoroso, curvato dalla tempesta, si rialzò al dissiparsi del nembo, e vigor nuovo e vegetazione riprese. Sgombrando la Natolia, Timur avea lasciate le città vôte di palagi, spogliate di ricchezze, prive del loro Sovrano; i pastori e i masnadieri tartari, o turcomani occuparono le campagne. Gli Emiri tornarono ne' lor Cantoni, di recente usurpati da Baiazetto, e un d'essi usò la vile vendetta di demolirne il sepolcro; le discordie de' cinque figli del Sultano, rapidamente spersero gli avanzi del loro patrimonio. Citerò i nomi di questi giusta l'ordine dell'età e delle cose da essi operate[462]. 1. È cosa incerta, se l'uomo, del quale in primo luogo accennerò rapidamente la storia, fosse il vero Mustafà, o un impostore che ne avesse assunto il nome. Il Mustafà, indubitatamente vero, combattè a fianco del padre alla battaglia di Angora; ma allorchè il Sultano prigioniero ottenne dal vincitore la permissione di mandare in traccia dei figli, il solo Musa fu ritrovato, e gli Storici turchi, schiavi della fazion trionfante, assicurano che il fratello di Musa fu rinvenuto tra i morti. Ammettendolo fuggito, sarebbe rimasto per dodici anni nascosto agli amici e ai nemici, perchè sol dopo questo tempo comparve in Tessaglia, ove una numerosa fazione riconobbe in lui il figlio e il successore di Baiazetto. Sofferse una sconfitta, per cui avrebbe terminati i suoi giorni, se non fosse stato salvato per opera de' Greci, che dopo la morte di Maometto, altro figlio di Baiazetto, gli restituirono la libertà e l'Impero. L'abbiezione de' costui sentimenti confermava l'opinione di chi un impostore il credeva. Dopo avere sul trono di Andrinopoli ricevuti gli onori di Sultano legittimo degli Ottomani, un'obbrobriosa fuga, e prigionia, e infame supplizio, allo sprezzo pubblico lo abbandonarono. Trenta successivi impostori sostennero la medesima parte, e fecero lo stesso fine; la quale ripetizione di avvenimenti potrebbe forse servir di prova che la morte del vero Mustafà non era bene avverata. 2. Isa[463], altro figlio di Baiazetto, allorchè questi cadea prigioniero, regnava in Sinope e sulle coste del mar Nero in vicinanza di Angora; e Timur ne accolse favorevolmente gli Ambasciatori, rimandandoli con molti donativi e lusinghevoli promesse: ma vittima della gelosia del fratello Sovrano di Amasia, Isa perdè le province e la vita. La conclusione della querela stata fra questi due fratelli, diede luogo ad osservare con pia allusione, che la legge di Mosè e di Gesù, Isa e Musa era stata abolita dall'autorità suprema di Maometto. 3. Solimano (altro fratello) non vien posto nel novero degl'Imperatori turchi (A. D. 1403-1410); cionnullameno arrestò i progressi de' Mongulli, e dopo la loro ritirata, unì per alcuni istanti i troni di Andrinopoli e di Bursa. Coraggioso, solerte e fortunato in guerra, univa la clemenza alla intrepidezza; ma lasciatosi dominare dalla presunzione, e corrompere dalla intemperanza e dall'ozio, allentò la disciplina in un governo, ove, se il suddito non trema, fa tremare il Sovrano. Si inimicò i Capi dell'esercito e della legge co' suoi sregolamenti, e soprattutto coll'ubbriachezza, divenutagli abituale; vizio turpe in ogni uomo, più in un Sovrano; doppiamente odievole in un discepolo di Maometto. Il fratello di lui Musa, sorprese Andrinopoli mentre il Principe avvinazzato stava immerso nel sonno; e datosi questo alla fuga, non fu difficile all'altro il raggiugnerlo sulla strada di Bisanzo, ove lo fece morire entro un bagno. Sette anni e dieci mesi durato erane il regno (A. D. 1410). 4. Ma Musa, possessore di una picciola parte della Natolia, vile apparve agli occhi de' sudditi sin d'allora che accettò dai Mongulli, l'investitura di questo regno; oltrechè le sue timide soldatesche e un erario estenuato, non gli bastavano a respingere i veterani cui comandava il Sovrano della Romania. Egli abbandonò, travestito, il palagio di Bursa, e attraversata la Propontide in uno schifo scoperto, pervenne con alcuni sforzi a salire sul trono di Andrinopoli, che avea recentemente lordato del sangue di suo fratello Solimano. Durante un regno di tre anni e mezzo, riportò alcune vittorie sui Cristiani dell'Ungheria e della Morea; ma la sua timidezza, e la clemenza usata fuor di proposito, lo perdettero. Dopo avere rinunziato alla Sovranità della Natolia, fu vittima della perfidia de' suoi Ministri, e della prevalenza che il fratello di lui Maometto si era acquistata. 5. Quest'ultimo dalla prudenza e dalla moderazione, una concludente vittoria si meritò (A. D. 1413-1421). Prima di rimaner prigioniero, Baiazetto gli avea confidato il governo di Amasia, propugnacolo de' Turchi contra i Cristiani di Trebisonda e della Georgia, e circa trenta giornate lontana da Costantinopoli. Questa città egualmente bipartita dal fiume Iride, sorge dai suoi due lati a guisa di anfiteatro[464], somministrando nella sua picciolezza un'idea di Bagdad, e difesa da una Rocca che aveasi per insuperabile dagli Asiatici. Parea che Timur, nel corso delle sue rapide spedizioni, avesse dimenticato quest'angolo oscuro e ribelle della Natolia. Maometto, ben astenendosi dal provocare il vincitore, conservò in silenzio la sua independenza, nè ebbe altra briga fuor quella di scacciare dalle sue province alcuni sbandati scorridori tartari che non avean seguito l'esercito di Timur. Scioltosi dall'incomoda vicinanza di Isa, gli altri fratelli di lui più potenti, rispettarono in mezzo alle loro contese la neutralità, ch'ei parimente serbò per riguardo loro fino al momento del trionfo di Musa; e allora si chiarì il vendicatore ed erede di Solimano. Acquistò, per via d'un Trattato, la Natolia, coll'armi la Romania. Guiderdonò, qual benefattore della corona e de' popoli, il soldato che gli presentò il reciso capo di Musa. Negli otto anni che regnò solo e pacifico, pensò a ristorare i danni derivati dalle civili discordie, e a dar più solida base alla ottomana Monarchia. Sul finir de' suoi giorni, scelse due Ministri fidati, che incaricò di soccorrere alla inesperienza del suo giovine figlio Amurat. Tal fu la prudenza e l'accordo de' due Visiri Ibraim e Baiazetto, che tennero nascosta per più di quaranta giorni la morte dell'Imperatore, fino all'arrivo del figlio di lui che accolsero entro al palagio di Bursa. Il Principe Mustafà, o un impostore che si era dato un tal nome, riaccese in Europa una nuova guerra, che costò la vita sul campo di battaglia al primo de' due Visiri. Fu più fortunato[465] Ibraim, e i Turchi riveriscono tuttavia il nome e la famiglia di quell'uomo che terminò le guerre civili colla morte dell'ultimo pretendente al trono di Baiazetto.

Durante le accennate discordie, i più saggi fra i Turchi, e in generale la nazione, desideravano con ardore veder congiunte le smembrate parti di quell'Impero. La Romania e la Natolia sì frequentemente dilacerate dall'ambizione de' privati, a questa unione grandemente agognavano, e gli sforzi che fecero a tal uopo, offerivano una lezione alle Potenze cristiane. Se le flotte di queste si fossero unite per occupare lo stretto di Gallipoli, ben presto gli Ottomani sarebbero stati annichilati, almeno in Europa; ma lo scisma dell'Occidente, le fazioni e le guerre della Francia e dell'Inghilterra, da sì generosa impresa stoglieano i Latini. Contenti di una passeggiera tranquillità, neghittosi sull'avvenire, l'interesse del momento li spinse più d'una volta a servire il nemico della lor religione. Una colonia di Genovesi[466] dimorante a Focea[467], sulla costa del mar Ionio, arricchendosi col commercio privilegiato dell'allume[468], pagava la sua tranquillità con un tributo annuale agli Ottomani. Nell'ultima guerra civile, il giovine e ambizioso Adorno, governatore de' Genovesi, avendo abbracciata la causa di Amurat, armò sette galee per trasportarlo d'Asia in Europa; onde il Sultano, accompagnato da cinquecento guardie, entrò a bordo della nave ammiraglia, guernita da ottocento valorosissimi Franchi, nelle cui mani era la vita e la libertà dell'Ottomano; nè senza ripugnanza facciamo plauso alla fedeltà di Adorno, che in mezzo al tragetto, gli si prostrò innanzi, manifestandogli gratitudine perchè un debito arretrato dei tributi perdonò ai Genovesi. Sbarcati tutti a veggente di Mustafà e di Gallipoli, duemila Italiani, armati di lancie e di azze da guerra, accompagnarono Amurat alla conquista di Andrinopoli, venale servigio, di cui fu ben tosto guiderdone la rovina del commercio e della colonia della Focide.

A. D. 1402-1425

Se la guerra che Timur fece a Baiazetto fosse stata mossa dalla generosa intenzione di soccorrere l'Imperator greco, ei si sarebbe meritata la gratitudine e gli encomj de' Cristiani[469]; ma un Musulmano che portava morte e distruzione nella Georgia, rispettando ad un tempo la santa guerra di Baiazetto, non poteva essere propenso a compiangere, o a proteggere gl' idolatri europei. Non ascoltando il Tartaro che le voci della propria ambizione, la liberazione di Costantinopoli fu sol conseguenza indiretta delle sue imprese. Allorchè Manuele rassegnò il governo, chiedea, senza sperarlo, al Cielo, fosse differita sin dopo il termine de' suoi miseri giorni la rovina della Chiesa e dell'Impero. Mentre di ritorno dall'Occidente, ei s'aspettava ogni dì la notizia di tale catastrofe, udì con sorpresa eguale alla gioia la partenza, la sconfitta e la cattività dell'Imperatore ottomano. Partitosi tosto da Modone nella Morea[470], rivide Costantinopoli, ove risalì il suo trono, assegnando al Principe di Selimbria un temperato esilio nell'isola di Lesbo. Vennero ammessi alla sua presenza gli ambasciatori del figlio di Baiazetto che assunsero modesto tuono, quale al fiaccato loro orgoglio addiceasi; oltrechè li tenea in giusto riguardo il timore che i Greci agevolassero ai Mongulli l'ingresso in Europa. Solimano salutò l'Imperatore col nome di Padre, e sollecitando da lui l'investitura del governo della Romania, promettea meritarsi un tale favore, con essergli inviolabilmente collegato, e col restituirgli Tessalonica, e le piazze più rilevanti situate sulle rive dello Strimone, della Propontide e del mar Nero: ma questa alleanza con Solimano, espose Manuele al risentimento e alla vendetta di Musa. Comparve alle porte di Costantinopoli un nuovo esercito di Turchi, che però vennero e per terra, e per mare respinti; e certamente, a meno che truppe straniere non difendessero la Capitale, i Greci dovettero maravigliare della riportata vittoria. Cionnullameno anzichè tenere in bilancio le discordie delle Potenze ottomane, Manuele credè secondar meglio o la sua politica, o le inclinazioni dell'animo suo, col mettersi dalla banda di quello tra i figli di Baiazetto che era il più formidabile. Conchiuse quindi un Trattato con Maometto, i cui progressi erano impacciati dall'antemurale insuperabile di Gallipoli. Navi greche trasportarono il Sultano e le sue truppe di qua dal Bosforo; ricevuto amichevolmente in Andrinopoli, la vittoria da lui riportata contro il rivale Musa, gli fu primo gradino a conquistare la Romania. Dopo la morte di Musa, la rovina di Costantinopoli venne ancor differita per la prudenza e la moderazione del vincitore. Fedele Maometto ai proprj obblighi e a quelli contratti da Solimano, rispettò la pace e le leggi della gratitudine; e all'atto della sua morte confidò la tutela di due de' suoi figli all'Imperatore greco, mosso da vana speranza di assicurare ad essi un protettore contro la crudeltà del lor fratello Amurat; ma l'esecuzione di un simile testamento avrebbe offeso l'onore e la religione de' Maomettani. Il Divano sentenziò unanimemente non potersi abbandonare la cura e l'educazione de' reali giovanetti ad un cane di Cristiano. Udito il rifiuto, Manuele adunò i suoi Consigli; divisi furono i pareri; ma la prudenza del vecchio Manuele dovette cedere alla presunzione di Giovanni figlio del medesimo, e adoperando un'arme pericolosissima alla vendetta, restituì la libertà al vero o falso Mustafà, ch'ei tenea da lungo tempo o ostaggio, o prigioniero, e per cui la Porta Ottomana gli pagava ogni anno trecentomila aspri[471]. Per uscir di schiavitù, Mustafà acconsentì a qualunque patto, e la restituzione delle Fortezze di Gallipoli, vale a dire delle chiavi d'Europa, fu il prezzo posto alla sua liberazione. Ma appena sedutosi sul trono della Romania, rimandò con disdegnoso sorriso gli Ambasciatori greci, piamente chiarendo loro, che preferiva la necessità di render conto d'un giuramento falso nel dì del giudizio, all'indegno atto di consegnare una città musulmana fra le mani degl'Infedeli. Così Manuele divenne il nemico d'entrambi gli emuli, all'un de' quali avea fatto ingiuria, dall'altro l'avea ricevuta. Vincitore Amurat, imprese nella seguente primavera l'assedio di Costantinopoli[472].

A. D. 1422

Il religioso disegno di sottomettere la città de' Cesari trasse dall'Asia una folla di volontarj che alla corona del martirio aspiravano, e il cui militare ardore non era meno infiammato dalla speranza di possedere ricca preda e belle schiave; oltrechè l'Imperatore ottomano vedea consagrati i suoi ambiziosi disegni dalle predizioni e dalla presenza di Seid-Besciar discendente del Profeta[473], che giunse al campo cavalcando una mula, e seguìto da una rispettabile comitiva di cinquecento discepoli; ma dovette arrossire, se d'arrossire è capace un fanatico, della mentita che l'esito diede alle sue profezie. La saldezza delle mura di Costantinopoli resistette ad un esercito di dugentomila Turchi; ed ogni assalto veniva rispinto da felici sortite de' Greci e de' mercenarj stranieri; alle nuove arti di guerreggiare le antiche di difendersi vennero opposte; e l'entusiasmo del Dervis[474], innalzato miracolosamente al Cielo per conversare con Maometto, fu contrabbilanciato dalla credulità de' Cristiani, che videro la Vergine Maria vestita di color paonazzo trascorrendo i baloardi e incoraggiando i suoi fedeli alla pugna[475]. Dopo due mesi d'assedio, una ribellione eccitata dai Greci, costrinse il Sultano a ritornare affrettatamente a Bursa, ove estinse la sommossa, versando il sangue di suo fratello che ne era colpevole. Intanto che Amurat conduceva i suoi giannizzeri a nuove conquiste (A. D. 1425-1448) nell'Europa e nell'Asia, Bisanzo godè per trent'anni il riposo precario della servitù. Dopo la morte di Manuele, Giovanni Paleologo ottenne la permissione di regnare, mediante un tributo di trecentomila aspri, e la cessione di quasi tutto il territorio che oltrepassava i sobborghi di Costantinopoli.

Chiunque considera che i principali avvenimenti della vita dipendono spesse volte dal carattere di un sol personaggio, vedesi costretto ad attribuire alle qualità personali de' Sultani il primo merito della fondazione e della restaurazione dell'Impero ottomano. Possono osservarsi fra essi diversi gradi di saggezza e virtù; ma dall'innalzamento di Otmano fino alla morte di Solimano, vale a dire in un periodo di nove regni e di dugento sessantacinque anni, il trono, fatta una sola eccezione, fu occupato da una sequela di Principi prodi e operosi, rispettati dai sudditi e temuti dagl'inimici. Invece di trascorrere la giovinezza in mezzo alla fastosa indolenza di un Serraglio, gli eredi dell'Impero, ne' campi e ne' consigli educavansi. Per tempo i lor padri fidavano ad essi il comando degli eserciti e delle province; nobile istituzione che, comunque stata origine d'infinite guerre civili, la disciplina e il vigore dell'Impero francò. Certamente gli Ottomani non possono, come gli antichi Califfi dell'Arabia, intitolarsi i discendenti, o i successori dell'Appostolo di Dio; e il parentado che reclamavano coi Principi tartari della Casa di Gengis, sembra fondato meno sulla verità che sull'adulazione[476]. Oscura è la loro origine; ma ben presto acquistarono nella opinione de' sudditi quel sacro e incontrastabile diritto, che il tempo non può cancellare, nè la violenza distruggere. Accade che un Sultano debole o vizioso venga rimosso o strozzato, ma il figlio di lui, sia pur fanciullo o imbecille, succede all'Impero, nè il più audace fra i ribelli ha per anco osato assidersi sul trono del suo Monarca[477]. Intanto che Visiri perfidi, o Generali vittoriosi atterravano le vacillanti dinastie dell'Asia, un possedimento di cinque secoli confermava la successione ottomana, e la stabilità in essa della corona entra ora fra i principj fondamentali cui l'esistenza della nazione turca va collegata.

Il vigore e la costituzione di questo popolo sono in gran parte dovuti ad una assai straordinaria cagione. I primi sudditi di Otmano stavansi in quelle quattrocento famiglie erranti di Turcomani che ne aveano seguiti gli antenati dall'Osso al Sangario; onde le pianure della Natolia vedonsi tuttavia coperte di loro compatriotti, che sotto tende, o bianche, o nere, ne' campi dimorano; ma il primo numero di que' pochi si mescolò ben presto colla popolazione de' popoli vinti, e assunto il nome di Turchi, coi comuni vincoli di costumanze, di lingua e di religione, e quelli e questi si collegarono. Perciò in tutte le città, da Erzerum fino a Belgrado, con tal denominazione si appellano tutti que' Musulmani che come primi e più spettabili fra i cittadini vengono considerati: ma hanno abbandonato, almeno nella Romania, i villaggi e la coltivazione dei terreni ai contadini cristiani. Che anzi nel vigor primo dell'Impero ottomano, i medesimi Turchi erano esclusi dagli onori militari e civili; e la disciplina della educazione avea creato da una classe di schiavi un popolo fattizio, atto ad obbedire, a combattere e a comandare[478]. Da Orcano fino al primo Amurat, i Sultani ebbero per massima che un governo militare debbe a ciascuna generazione rinnovellare i suoi soldati, nè far di mestieri il cercar questi fra gli effeminati abitatori dell'Asia, poichè le sole bellicose nazioni europee li potevano somministrare. Le province della Tracia, della Macedonia, dell'Albania, e della Servia divennero vivai degli eserciti ottomani; e allorchè le conquiste ebbero diminuito la quinta parte che apparteneva al Sultano sul numero de' prigionieri, i Cristiani vennero sottomessi ad una barbara tassa che si riscoteva ogni cinque anni, e li privava del quinto de' loro figli. Giunti all'età di dodici, o quattordici anni i giovinetti più vigorosi erano staccati dalle braccia paterne, ascritti ai registri militari, e da quell'istante vestiti, nudriti, educati a spese del Pubblico, cui doveano prestare servigio. Quelli di essi che davano di sè migliori speranze, venivano con adeguata proporzione scelti per le scuole reali di Bursa, di Pera e d'Andrinopoli, o affidati alla custodia dei Pascià; gli altri confusi nelle famiglie dei contadini della Natolia. I lor padroni aveano per prima cura l'ammaestrarli nel turco idioma, e l'addestrarne i corpi a tutte le fatiche che giovavano a renderli più robusti; alla lotta, al salto, alla corsa, al maneggio dell'arco e al tiro dell'archibuso; nelle quali cose doveano essere istrutti quando entravano nelle compagnie e nelle camerate de' giannizzeri, per fare ivi severo noviziato della vita monastica, o militare dell'Ordine. I più distinti per ingegno, per forme o per nascita passavano nella classe degli Agiamoglani, o venivano promossi al grado maggiore d' Iconoglani; i primi prestavano servigio nel palagio, i secondi immediatamente alla persona del Sovrano. Sotto la sferza degli eunuchi bianchi, si avvezzavano in quattro successive scuole a cavalcare e a lanciare il giavellotto. Quelli che si mostravano d'indole più propensa agli studj, doveano applicare la mente loro al Corano e alla lingua araba e persiana. A proporzione di merito e di età otteneano impieghi militari, civili, o ecclesiastici. Quanto più lunga la loro educazione, tanto era maggiore la speranza di un grado distinto. In età matura, vedeansi ammessi nel numero dei quaranta Agà che accompagnavano l'Imperatore; da quel grado promossi, secondo la scelta dell'Imperatore, al governo delle province e ai primi onori dello Stato[479]. Cotale instituzione ammirabilmente addiceasi alla forma e ai principj di una dispotica Monarchia. I Ministri e i Generali, schiavi a tutto rigor di termine del Monarca, riconosceano dalla bontà di lui la loro esistenza e istruzione. Giunti all'istante di abbandonare il Serraglio e di lasciarsi crescere la barba, come simbolo di affrancamento, si trovavano insigniti di una carica rilevante, scevri d'amor di parte e di vincoli d'amicizia, privi di parenti e d'eredi; soggetti in tutto e per tutto alla mano che gli avea tolti dalla polvere, e che potea, giusta il detto di un turco proverbio, infrangere queste statue di vetro a suo grado[480]. Durante il corso di una educazione lenta e penosa, non era difficile alla sagacità lo scorgere la loro indole; perchè vedeasi in ciascun d'essi l'uomo isolato, privo d'ogni proprietà, e ridotto al solo suo merito personale, e se il Principe avea l'accortezza necessaria a scegliere rettamente, niun riguardo gl'impacciava la libertà della scelta. Le privazioni preparavano i candidati all'amore della fatica, la consuetudine dell'obbedire al comando. D'onde addivenne che gli eserciti erano tutti animali da un medesimo spirito, e gli stessi Cristiani che fecero la guerra ai Turchi, non poterono defraudar di lodi la sobrietà, la pazienza, la silenziosa modestia de' giannizzeri[481]. La vittoria non doveva sembrare dubbiosa, ponendo in confronto la disciplina e l'educazione de' Turchi coll'indocilità de' cavalieri, coll'orgoglio inspirato lor dalla nascita, coll'ignoranza delle reclute, coll'indole sediziose de' veterani, colla intemperanza e co' disordini che hanno regnato per sì lungo tempo negli eserciti dell'Europa.

L'impero greco e i vicini non avrebbero potuto difendersi se non se col soccorso di qualche nuova arme, di qualche trovato nell'arte della guerra che desse loro una preminenza decisiva sui Turchi; e di quest'arme divennero possessori per una scoperta fattasi nel momento che dovea risolvere sul loro destino. I Chimici dell'Europa, o della Cina, fosse caso, o effetto d'indagini, si erano avveduti che una mescolanza di nitro, di zolfo e di carbone, coll'apprestarle una sola scintilla di fuoco, producea un formidabile scoppio. Nè tardarono indi ad accorgersi che questa forza espansiva compressa entro un tubo di salda materia, potea lanciare una palla di terra, o di ferro con violenza e rapidità impareggiabili. La vera epoca in cui venne adattata la polvere all'uso dell'armi[482], si è perduta in mezzo ad incerte tradizioni e ad equivoche dilucidazioni, ma sembra bastantemente provato che l'uso della medesima si conoscea verso la metà del secolo XIV, e che prima del finir del medesimo, l'artiglieria veniva continuamente adoperata nelle battaglie e negli assedj, per terra e per mare, dai popoli dell'Alemagna, dell'Italia, della Spagna, della Francia e dell'Inghilterra[483]. È cosa affatto indifferente qual di queste nazioni se ne giovasse la prima, perchè tutte ben presto possedettero tale vantaggio in comune, ed essendo stato ridotto ad una perfezione eguale pei diversi popoli, la bilancia del potere e della scienza militare rimase nello stato in cui era prima. Tale scoperta non poteva a lungo essere la privilegiata proprietà dei Cristiani; la perfidia degli apostati, e l'imprudente politica della rivalità, la portarono ben tosto fra i Turchi, i cui Sovrani ebbero bastante ingegno per adottarla, e bastanti ricchezze per prendere al loro servigio ingegneri cristiani. Grande taccia si meritarono i Genovesi, che, trasportando Amurat in Europa, gl'insegnarono questo segreto, ed avvi molta probabilità che essi fondassero e regolassero i cannoni di cui si valsero per assediare Costantinopoli[484]. Benchè mal tornasse ai Turchi tal prima impresa, nel progresso delle guerre di questo secolo, ebbero necessariamente il vantaggio, perchè furono sempre essi gli assalitori. Non appena il primo ardore dell'assalto e della difesa si rallentavano, le fulminanti batterie venivano appuntate contro torri e mura, non fabbricate che per resistere alle men possenti macchine da guerra, cui gli Antichi aveano inventate. I Veneziani insegnarono, nè può farsene ad essi un rimprovero, l'uso della polvere ai Sultani dell'Egitto, loro collegati contro la Potenza ottomana. Divenuto indi comune agli estremi abitatori dell'Asia questo formidabil soccorso, il vantaggio degli Europei si trovò ben tosto limitato a facili vittorie riportate sui Selvaggi del Nuovo Mondo. Paragonando i rapidi progressi di questa infausta scoperta co' lenti e penosi delle scienze, della ragione e dell'arti della pace, un filosofo non potrà starsi dal ridere, o dal piangere sulle follie del Genere umano.

CAPITOLO LXVI.

Sollecitazioni degl'Imperatori d'Oriente appo i Pontefici. Viaggi di Giovanni Paleologo I, di Manuele e di Giovanni II alle Corti dell'Occidente. Unione delle Chiese greca e latina proposta nel Concilio di Basilea, ed eseguita a Ferrara e a Firenze. Stato della letteratura a Costantinopoli. Suo rinascimento in Italia, ove i Greci fuggiaschi la trasportarono. Curiosità ed emulazione de' Latini.

A. D. 1339

Durante i quattro ultimi secoli dell'Impero, i contrassegni or di considerazione, or di nimistà che verso il Pontefice i greci Principi manifestarono, potrebbero riguardarsi come il termometro delle loro angustie, o della loro prosperità, dell'innalzamento, o della caduta delle barbare dinastie. Allorchè i Turchi Selgiucidi, invadendo l'Asia, minacciarono Costantinopoli, abbiamo veduto gli Ambasciatori d'Alessio implorare al Concilio di Piacenza la protezione del Padre comune de' Cristiani. Non appena i pellegrini francesi ebbero respinto ad Iconium il Sultano di Nicea, gl'Imperatori di Bisanzo riassunsero, o dal dissimularlo si stettero, il loro astio e connaturale disprezzo verso gli scismatici dell'Occidente: imprudenza che la caduta del loro Impero affrettò. Il tuono mansueto ed affettuoso di Vatace contrassegna l'epoca dell'invasione de' Mongulli. Dopo la presa di Costantinopoli, e fazioni, ed estranei nemici crollarono il trono del primo Paleologo. Finchè la spada di Carlo gli stette sospesa sul capo, corteggiò abbiettamente il Pontefice, sacrificando al pericolo del momento la sua fede, la virtù e l'affetto de' sudditi. Dopo la morte di Michele, il Principe e il popolo sostennero l'independenza della loro Chiesa e la purezza del greco simbolo. Andronico il Vecchio nè temeva, nè amava i Latini: nell'ultime sue sventure, l'orgoglio francheggiò le sue superstizioni, perchè non potea decentemente ritrattare, sul finir di sua vita, le opinioni che avea con fermezza negli anni della gioventù sostenute. Andronico il Giovane, invilito e dallo stato in cui si trovava, e per indole propria, al primo vedere la Bitinia invasa dai Turchi, sollecitò una Lega spirituale e temporale co' Principi dell'Occidente. Dopo cinquant'anni di separazione e silenzio, il frate Barlamo venne segretamente deputato al Papa Benedetto XII con insidiose istruzioni, che scritte pareano dall'abile mano del Gran Domestico[485]. «Santissimo Padre, il monaco gli dicea, l'Imperatore non desidera meno di voi l'unione delle due Chiese: ma in un'impresa sì delicata si vede costretto a rispettare la propria dignità e i pregiudizj de' sudditi. Due temperamenti sonovi da adoprarsi, la forza, o la persuasione. L'insufficienza del primo è già dimostrata abbastanza dalla esperienza, perchè i Latini hanno soggiogato l'Impero senza poter cambiare l'opinione degli abitanti. La persuasione, più lenta, offre ad un tempo una via più salda e sicura. Trenta, o quaranta de' nostri dottori deputati appo voi, si accorderebbero forse con quelli del Vaticano nell'amore della verità e nell'unità del Simbolo. Ma di ritorno alla patria, qual sarebbe il frutto, o il guiderdone delle loro pratiche? Lo sprezzo de' confratelli, e i rimproveri di una cieca ed ostinata nazione. Cionnullameno i Greci han per costume di rispettare i Concilj generali, da cui determinati vennero gli articoli di nostra Fede; e se i decreti di Lione ricusano[486], ne è stata cagione il non volere nè ascoltare, nè ammettere i rappresentanti della Chiesa orientale in quest'arbitraria adunata. A compiere una così pia impresa, gioverà e farà anzi mestieri che un Legato intelligente, trasferendosi in Grecia, colà raccolga i Patriarchi di Costantinopoli, di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, e si concerti con essi per convocare un Sinodo libero e universale. Ma in tale momento, aggiugnea lo scaltrito messo de' Greci, l'Impero può tutto temere dall'invasione de' Turchi, già impadronitisi di quattro principali città della Natolia. Quegli abitanti manifestano ardentissimi voti per tornare sotto l'obbedienza del loro Monarca e in seno alla religione dei lor padri; però non bastando a renderli paghi in ciò le forze e le rendite dell'Imperatore, sarebbe da desiderarsi che il Legato appostolico venisse scortato e preceduto da un esercito di Franchi, a fine di scacciar gl'Infedeli e riaprire la via del Santo Sepolcro». Prevedendo il caso che i sospettosi Latini pretendessero anticipatamente qualche mallevadore, o pegno della fedeltà de' Greci, Barlamo avea preparata una ragionevole e convincente risposta. «1. L'unione delle due Chiese potendo solamente avverarsi colla convocazione di un Sinodo generale, si rende questa impossibile prima di aver liberato dal giogo de' Maomettani i tre Patriarchi dell'Oriente e un gran numero d'altri Prelati. 2. L'inasprimento degli animi de' Greci derivando da antiche ingiurie e da una lunga tirannide, a cattivarli di nuovo fa d'uopo di qualche fratellevole atto, di qualche efficace soccorso che invigorisca l'autorità e gli argomenti dell'Imperatore e de' partigiani della unione proposta. 3. Quand'anche rimanesse qualche differenza, o intorno a minori punti di fede, o alle cerimonie, non quindi i Greci dovrebbero men riguardarsi i discepoli di Gesù Cristo, mentre i Turchi sono i comuni nemici di chiunque porti il titolo di Cristiano. E l'Armenia e l'isola di Cipro sono egualmente assalite; che sarebbe la pietà de' Principi franchi, se non si armassero tutti alla difesa generale della comune religione? 4. Supponendo perfino che eglino considerassero i sudditi di Andronico come i più odievoli fra gli scismatici, fra gli eretici, fra gli stessi Pagani, non è interesse de' Principi dell'Occidente l'acquistarsi un utile confederato, il proteggere un Impero vacillante, in cui stassi il baloardo delle frontiere d'Europa, l'unirsi ai Greci contro i Turchi, nè aspettare che questi ultimi, conquistata la Grecia, le forze e i tesori della medesima adoperino per portare le armi lor vincitrici in seno dell'Europa?». I Latini con fredda e disdegnosa indifferenza pararono le offerte, gli argomenti e le domande di Andronico. I Re di Francia e di Napoli rifiutarono i pericoli e la gloria di una Crociata. Il Papa negò questa necessità di convocare un nuovo Concilio per regolare articoli di fede già stabiliti; ed anzi per rispetto alle antiche pretensioni dell'Imperator d'Occidente e del Clero latino, nel rispondere all'Imperator greco usò di un soprascritto irritante: «Al Moderator[487] (che equivaleva a governatore ) de' Greci, e ai sedicenti Patriarchi della Chiesa d'Oriente». Per una tale ambasceria i Greci non potevano scontrarsi in una circostanza e in un'indole d'uomo men favorevole. Benedetto XII[488] era uno screanzato villano, sempre pieno di scrupoli, e fatto più stupido dal vino e dalla pigrizia. Sia pure riuscito colla sua vanità ad arricchire di una terza corona la tiara; ma era egualmente inabile a governare il regno e la Chiesa.

A. D. 1348

Dopo la morte di Andronico, i Greci, in preda alle guerre civili, non ebbero il tempo di pensare all'unione generale de' Cristiani. Ma poichè Cantacuzeno ebbe vinti e graziati i suoi nemici, si accinse a giustificare, o almeno ad attenuare la colpa di avere introdotti i Turchi in Europa, e maritata la propria figlia ad un Principe musulmano. Due imperiali ministri, accompagnati da un interprete latino, per ordine di lui trasferironsi alla Corte del Pontefice romano, trapiantata nella città d'Avignone in riva al Rodano, ove per settant'anni rimase. Dopo essersi adoperati a dimostrare la crudele necessità che avea costretto il loro Monarca a mettersi in lega cogl'Infedeli, fecero, a norma delle ricevute istruzioni, sonare all'orecchio del Pontefice le speciose ed edificanti parole di Crociata e di Unione. Il Pontefice Clemente VI[489], successore di Benedetto XII, gli accolse con affabilità e onorevolmente, mostrandosi commosso dalle sventure, convinto del merito, persuaso dell'innocenza di Cantacuzeno; ed ottimamente istrutto dello stato e delle vicissitudini del greco Impero, che gli erano state descritte minutamente da una matrona savoiarda del seguito dell'Imperatrice Anna[490]. Se mancavano a Clemente le virtù di un sacerdote, possedeva almeno l'elevatezza o la magnificenza di un Principe, distribuendo colla stessa facilità i benefizj e i reami. Regnando esso, Avignone fu la residenza del fasto e dei piaceri. Giovine, avea superato in licenziosità di costumi qualunque Barone: Pontefice, il suo palagio e la sua stanza da letto vedeansi continuamente abbelliti, o disonorati[491] dalla presenza di favorite. Le guerre tra l'Inghilterra e la Francia non permetteano si pensasse a Crociate; pur questo luminoso disegno lusingò la vanità di Clemente che deputò due Prelati latini per accompagnare gli Ambasciadori di Cantacuzeno in Grecia. Giunti a Costantinopoli, l'Imperatore e i Nunzj si fecero scambievoli complimenti sulla comune eloquenza e pietà; sicchè i continui lor parlamenti si aggirarono in lodi e promesse con cui si piaggiavano mutuamente senza fidarsene nè l'un, nè gli altri. «Non capisco in me per la gioia, il divoto Cantacuzeno lor diceva, in pensando alla nostra guerra santa; essa farà la mia gloria personale ad un tempo, e il bene di tutt'i Cristiani. I miei Stati offriranno agli eserciti francesi un libero e sicuro passaggio; i miei soldati, le mie galee, i miei tesori consagrati alla causa comune; e, oh come sarebbe invidiabile il mio destino, se giungessi a meritarmi ed ottenere la corona di martire! Mi mancano i termini per dipingervi con quanto ardore io desideri questa unione de' membri sparsi della Chiesa di Gesù Cristo. Se potesse a ciò contribuir la mia morte, offrirei con giubilo il mio capo e la spada mia per ferirlo; e se questa spirituale fenice dovesse nascere dalle mie ceneri, m'innalzerei la mia pira io medesimo e le metterei fuoco colle mie proprie mani». In mezzo a questi discorsi però l'Imperator greco si prese la libertà di notare che l'orgoglio e l'inconsideratezza de' Latini aveva inseriti quegli articoli di Fede, per cui le due Chiese divise trovavansi; biasimò la condotta servile e tirannica del primo Paleologo, protestando che non sommetterebbe mai la propria coscienza se non se ai liberi decreti di un Sinodo generale. «Le circostanze, egli continuava, son tali da non permettere nè al Papa, nè a me, di unirci o a Costantinopoli, o a Roma; ma ben può scegliersi una città marittima sui confini d'entrambi gl'Imperi per adunare i Vescovi e istruire i Fedeli dell'Oriente, e dell'Occidente». Contenti a tali proposizioni si mostrarono i Nunzj; e Cantacuzeno ostentò il massimo dolore nel vedere le sue speranze distrutte per la morte di Clemente, e pel diverso animo del successor di Clemente. Cantacuzeno visse ancor lungo tempo, ma rinchiuso in un chiostro, d'onde l'umile monaco non potea, che con preghiere a Dio, adoperare influenza sulla condotta del suo pupillo e sui destini dell'Impero[492].

A. D. 1355

Ciò nulla meno di tutti i Principi di Bisanzo, niuno fuvvene più del pupillo Giovanni Paleologo proclive a ritornare all'obbedienza del romano Pontefice. La madre di lui, Anna di Savoia, era stata battezzata nel grembo della Chiesa latina, e se le nozze contratte con Andronico l'aveano costretta a cambiar nome, forme d'abito e culto, il cuor della medesima al suo paese e alla sua religione si manteneva fedele. Incaricatasi ella stessa di educare il proprio figlio, quando questi divenne adulto, almen di statura, se non di mente, continuò a lasciarsi governar dalla madre. Allorchè, per la rinunzia di Cantacuzeno, ei si trovò solo padrone della Monarchia greca, i Turchi comandavano sull'Ellesponto. Il figlio di Cantacuzeno adunava ribelli ad Andrinopoli, e questo Imperatore non potea fidarsi nè del suo popolo, nè di sè stesso. Così consigliato dalla madre, e colla speranza d'uno straniero soccorso, sagrificò i diritti della Chiesa e dello Stato; e s'incaricò un Italiano di portar segretamente al Pontefice l'atto di schiavitù[493] che l'Imperatore avea sottoscritto con inchiostro purpureo, e suggellato con bolla d'oro. Il primo articolo del Trattato stavasi in un giuramento di fedeltà e d'obbedienza ad Innocenzo VI e a' suoi successori Pontefici supremi della Chiesa cattolica e romana. Promettea l'Imperatore di porgere ai Nunzj, o Legati pontifizj, ogni sorte d'onori legittimamente ad essi dovuti, di far allestire un palagio per riceverli, una chiesa per le loro cerimonie; per ultimo di consegnare il suo secondogenito Manuele, come ostaggio e mallevadore di fedeltà. In contraccambio di tali concedimenti, chiedeva un pronto soccorso di quindici galee, di cinquecento armigeri, di mille arcieri che contro i suoi nemici Cristiani e Musulmani lo difendessero. Promise inoltre di far sottomessi i suoi popoli e il suo Clero all'autorità spirituale del romano Pontefice; e per vincere la resistenza ch'ei prevedeva per parte de' Greci, propose i due efficaci espedienti della educazione e della seduzione. Il Legato ottenea facoltà di distribuire i benefizi vacanti a quegli ecclesiastici che avrebbero sottoscritto il simbolo del Vaticano. Instituite tre scuole per insegnare alla gioventù di Costantinopoli la lingua e la dottrina dei Latini; il nome di Andronico, figlio dell'Imperatore ed erede dell'Impero, sarebbe comparso il primo nella lista degli studenti. In conclusione Paleologo, protestava che se tutte le sue sollecitudini fossero divenute superflue, se la forza e la persuasione non avessero bastato, egli si sarebbe reputato immeritevole della corona, trasferendo in tal caso ad Innocenzo tutta la sua autorità imperiale e paterna, e ampio potere di regolare la famiglia cesarea e l'Impero, e di prescrivere quelle nozze che ei giudicasse meglio ad Andronico, successore della greca Corona. Ma un tale Trattato non fu mai nè pubblicato, nè eseguito; e il soccorso de' Romani e la sommessione de' Greci non si stettero che nell'immaginazione di un imbelle Sovrano, salvato, pel solo segreto con cui si passarono le cose, dal pubblico disdoro di una inutile umiliazione.

A. D. 1369

Non andò guari ch'egli si vide cinto per ogni banda dall'esercito vittorioso de' Turchi, e perduta Andrinopoli e la Romania, ridotto alla sola Capitale, dovette prostrarsi vassallo dell'orgoglioso Amurat colla meschina speranza di essere l'ultima fra le prede di questo Selvaggio. In tale stato d'invilimento, si abbandonò alla risoluzione di veleggiare a Venezia, d'onde corse a gettarsi a' piedi del Santo Padre. Fu egli il primo Sovrano greco di Bisanzo che avesse ancora visitate le regioni incognite dell'Occidente; ma come sperar altrove consolazioni e soccorsi? E per altra parte, ei trovava minore umiliazione alla sua dignità il presentarsi dinanzi al Sacro Collegio, che alla Porta Ottomana. Dopo esserne stati per lungo tempo lontani, i Pontefici ritornavano allora dalle rive del Rodano a quelle del Tevere. Urbano V[494], Pontefice di un'indole mansueta e virtuosa, avendo incoraggiata, o permessa la peregrinazione dal Principe greco, il palagio del Vaticano ricevette nel medesimo anno due fantasmi d'Imperatori che rappresentavano, l'uno la maestà di Costantino, l'altro quella di Carlomagno. In tal supplichevole visita, il Sovrano di Costantinopoli, in cui ogni sentimento di vanità cancellato aveano le sciagure, portò la sommessione dei detti e delle forme oltre a quanto non potesse immaginare. Obbligato primieramente a sottoporsi ad un esame, riconobbe da buon cattolico, alla presenza di quattro Cardinali, la supremazia del Pontefice e la doppia successione dello Spirito Santo. Dopo questa purificazione, introdotto ad una udienza pubblica nella chiesa di S. Pietro; ove Urbano sedeasi in trono, circondato da un corteggio di Cardinali, il Principe greco, dopo tre genuflessioni, baciò devotamente il piede, indi la mano e finalmente la guancia del Santo Padre che celebrò alla presenza di lui una Messa solenne, gli permise tener la briglia della sua mula, e lo convitò a lauto banchetto nel Vaticano. A malgrado di questo amichevole a decoroso ricevimento, Urbano concedè qualche preferenza all'Imperator d'occidente[495], nè Paleologo ottenne il raro privilegio di cantar, come diacono, l'Evangelio[496]. Non si stette Urbano dall'eccitare lo zelo del Re di Francia e degli altri Sovrani d'Europa a favore del suo proselito: ma in troppe faccende li teneano i loro particolari litigi perchè alla causa generale volgessero la mente. Quindi l'Imperator greco si vide costretto a fondare le ultime sue speranze sopra un mercenario inglese Giovanni Hawkwood[497], o Acuto, che seguito da una banda di venturieri, intitolata la Confraternita Bianca, avea devastata tutta l'Italia dalle Alpi sino alla Calabria, vendeva i proprj servigi a chi pagar li voleva, ed era incorso in una giusta scomunica per avere assalita la residenza del Papa. A mal grado di ciò, fu autenticata dal consenso di Urbano tal negoziazione col masnadiero; ma trovatesi inferiori all'impresa le forze o il coraggio di Hawkwood, fu probabilmente ventura per Paleologo il rimanere privo di un soccorso, giusta ogni apparenza dispendioso, del certo insufficiente e forse pericoloso[498]. L'infelice Greco accingevasi ad abbandonare l'Italia[499], quando un umiliante ostacolo vel rattenne. Nel passar da Venezia, egli avea prese somme ragguardevoli ad esorbitante interesse; e il suo vôto erario non somministrandogli i modi di restituirle, gl'inquieti creditori lo arrestarono per sicurezza del lor pagamento. Invano l'Imperatore scriveva al suo primogenito reggente del Regno, di prevalersi d'ogni via, e di spogliare, se facea d'uopo, gli altari per sottrar suo padre ad una ignominiosa schiavitù. Non curante del paterno obbrobrio, lo snaturato figlio in suo cuor ne rideva. Lo Stato era povero, ostinato il Clero, qualche scrupolo religioso veniva a proposito per servir di pretesto ad una colpevole indifferenza. Manuele, fratello minore, dopo avere acremente rampognato il fratel primogenito di una negligenza così contraria alla natura e a tutti i doveri, vendè, o impegnò ogni suo possedimento, e imbarcatosi per Venezia, liberò il padre suo, offerendo la sua persona medesima per guarentigia delle somme da questo dovute (A. D. 1370). Di ritorno a Costantinopoli, e come Imperatore, e come padre, Paleologo usò con entrambi i figli a norma di quanto aveano meritato. Ma il pellegrinaggio di Roma, non avendo cambiati in alcuna guisa nè la Fede, nè i costumi di questo indolente Monarca, la sua apostasia, o conversione inefficace, quanto poco sincera, fu dai Greci e dai Latini dimenticata egualmente[500].

Trent'anni dopo il ritorno di Paleologo, gli stessi motivi fecero imprendere un viaggio in Occidente, ma più rilevante al Principe che gli succedè. Ho raccontato nel precedente capitolo il Trattato ch'ei fece con Baiazetto, la violazione di questo Trattato, l'assedio o blocco di Costantinopoli, e i soccorsi che gli spedirono i Francesi sotto i comandi del valoroso Boucicault[501]. Benchè Manuele avesse per via d'Ambasciatori implorato il soccorso de' Principi latini, fu creduto che la presenza di un Monarca infelice, moverebbe alle lagrime i più duri cuori[502] e ne otterrebbe soccorsi; nella quale speranza il Maresciallo, che insinuava questo viaggio all'Imperatore, lo precedè per disporre gli animi a ben accoglierlo. Comunque le comunicazioni di terra fossero interrotte dai Turchi, la navigazione di Venezia era aperta e sicura. Ricevuto in Italia, siccome primo, o almen secondo fra i Principi cristiani, eccitò la compassione che un Confessore e campion della fede si meritava, e tanto era il decoro di sua condotta, che una tal compassione in disprezzo non tralignò. Dopo Venezia, cercò Padova e Pavia, d'onde il Duca di Milano, benchè segretamente collegato con Baiazetto, lo fece accompagnare onorevolmente (A. D. 1400) sino alle frontiere de' suoi Stati[503]. Entrato nelle terre di Francia[504], gli ufiziali del Re s'incaricarono di scortarlo e di pensare a tutte le spese del suo viaggio. Una cavalcata di duemila de' più spettabili cittadini di Parigi, essendogli venuta incontro sino a Charenton, trovò a complimentarlo alle porte di Parigi il Cancelliere e il Parlamento, e Carlo VI, in mezzo ai Principi e a' suoi Nobili, abbracciò cordialmente il fratello. Il successore di Costantino fu vestito di un abito di seta bianca, e presentato di un sontuoso bianco palafreno, cerimoniale non indifferente presso i Francesi, che riguardano il color bianco come simbolo della Sovranità. Di fatto, l'Imperator d'Alemagna che nella sua ultima visita a quella Corte, avea chiesto con alterigia il medesimo onore, provò un rifiuto, e fu costretto a contentarsi di cavalcare un cavallo nero. Alloggiato al Louvre, Manuele godè di danze e di feste che l'una all'altra si succedevano, e dei piaceri della caccia e della tavola; perchè studiosissimi si mostrarono i Francesi di sfoggiare agli occhi del Principe straniero d'ogni magnificenza che potesse alcun poco divagarlo da' suoi dolorosi pensieri. Gli fu conceduto l'uso particolare di una cappella, onde molto maravigliarono, e si scandalezzarono forse i dottori della Sorbona, in udendo gli accenti, in vedendo le cerimonie e le vesti del Clero greco. A malgrado di ciò, ei potè fin dal primo istante accorgersi che ei non avea soccorsi a sperare dalla Francia. L'infelice Carlo VI non godea che di alcuni momenti di lucido intervallo, ricadendo subito nello stato di frenesia, o di stupidezza. Il Duca d'Orleans, fratello del Re, e il Duca di Borgogna, suo zio, s'impadronivano a vicenda delle, redini del governo, fatal concorrenza, da cui nacque ben presto la guerra civile. Il primo di questi due Principi, giovine e d'indole ardente, si abbandonava con impeto alla sua passione che il traeva alle donne e ai piaceri. Avrebbe potuto più giovare a Manuele il secondo; del quale era figlio Giovanni, conte di Nevers, liberato di recente dalla sua cattività presso i Turchi, e giovine intrepido che avrebbe di buon grado affrontati nuovi pericoli per cancellar questa taccia; ma più prudente il padre si era prefisso di starsene alle spese e ai pericoli della prima esperienza. Soddisfatta che ebbe Manuele la sua curiosità, e stancata fors'anche la pazienza dei Francesi, risolvè d'andarsene in Inghilterra. Nel trasferirsi da Douvres a Londra, ebbe onorevole accoglimento del Priore e dei monaci di S. Agostino di Cantorbery. A Blackheath, trovò il Re Enrico IV, che accompagnato da tutta la sua Corte, si portò a salutare il greco Eroe, così dice il nostro vecchio Storico, del quale trascrivo esattamente le espressioni, e per più giorni ricevè a Londra tale trattamento, quale all'Imperator d'Oriente addiceasi[505]. Ma l'Inghilterra era anche men della Francia in istato d'imprendere una Crociata, la questo medesimo anno, il Sovrano legittimo era stato privato del trono e messo a morte. L'ambizioso usurpatore, Enrico di Lancastre, divorato dall'inquietudine e da' rimorsi, non osava allontanar le sue truppe da un trono ognor vacillante per sommosse e cospirazioni; compianse, lodò, accarezzò l'Imperatore di Costantinopoli: ma se fece voto di prender la croce, fu senza dubbio per calmare il suo popolo, e fors'anche la sua coscienza, col darsi merito di questo pietoso disegno[506]. Colmato però di donativi e d'onori, il Principe greco vide una seconda volta Parigi, e dopo avere trascorsi due anni nelle Corti d'Occidente, e attraversata l'Alemagna e l'Italia, s'imbarcò a Venezia, aspettando pazientemente nella Morea l'istante della sua liberazione, o della sua rovina. Uno scisma intanto straziava la Chiesa latina. Due Papi, l'uno a Roma e l'altro ad Avignone, si disputavano l'obbedienza dei Re, delle nazioni, e delle corporazioni dell'Europa. L'Imperatore greco sollecito di non inimicarsi veruna fazione, si astenne da ogni corrispondenza con questi due rivali, immeritevoli entrambi e poco favoriti dalla pubblica opinione. Partì in tempo di Giubbileo, nè pensò attraversando l'Italia a chiedere, o a meritarsi l'Indulgenza plenaria, che cancella, senza obbligarli a penitenza, i peccati de' Fedeli. Offeso di questa trascuratezza il Papa di Roma, accusò Manuele di poco rispetto all'immagine di Gesù Cristo, esortando i Principi italiani ad abbandonare un pertinace scismatico[507].

A. D. 1402

In tempo delle Crociate i Greci aveano considerato con terrore e sorpresa eguali il corso delle migrazioni che continue erano dai paesi per loro incogniti dell'Occidente. Le peregrinazioni degli ultimi Imperatori, avendo squarciato questo velo di separazione, impararono a conoscere meglio le poderose nazioni dell'Europa, nè più osarono insultarle colla denominazione di barbare. Uno Storico greco di quel secolo[508] ha conservate le considerazioni fatte dal Principe Manuele, e dai più curiosi osservatori che lo accompagnarono. Ho raccolte queste sparse idee per offrirle in compendio ai miei leggitori, ai quali forse non dispiacerà il vedere questo grossolano abbozzo di pittura dell'Alemagna, della Francia e dell'Inghilterra, lo stato antico e moderno de' quali paesi è a noi così noto. «1. L'Alemagna, dice Calcocondila, è un vasto paese, che si estende da Vienna fino all'Oceano, da Praga in Boemia sino al fiume Tartesso e ai Pirenei[509]. (Non dubito che questa geografia ne parrà alquanto strana). Il suolo è assai fertile, benchè non produca nè fichi, nè olive: sano l'aere, gli uomini ben complessi e di vigorosa salute. Rare volte si provano in queste settentrionali contrade i flagelli della peste e del tremuoto. Dopo gli Sciti, o i Tartari, gli Alemanni, o Germani possono venir riguardati come le più numerose delle nazioni. Valorosi e pazienti, se tutte le loro forze obbedissero ad un solo Capo, non vi sarebbe popolo che ai medesimi potesse resistere. Hanno ottenuto dal Papa il privilegio di eleggere l'Imperator de' Romani[510]; e il Patriarca latino, non ha sudditi più zelanti o sottomessi degli Alemanni. La maggior parte di questi paesi è divisa fra Principi e Prelati. Ma Strasburgo, Colonia, Amburgo, e più di dugento città libere, formano altrettante Repubbliche confederate, rette da leggi giuste e sagge, e conformi all'interesse e alla volontà generale. I duelli, o singolari certami a piedi, vi sono in grande uso così in tempo di pace come di guerra. Eccellenti in tutte l'arti meccaniche i Germani, dobbiamo alla loro industria il trovato della polvere e de' cannoni, conosciuti oggidì dalla maggior parte de' popoli. 2. Il regno di Francia si estende all'incirca quindici, o venti giorni di cammino dall'Alemagna alla Spagna, e dalle Alpi sino al mare che separa la Francia dall'Inghilterra. Vi si trova grande copia di fiorenti città. Parigi, residenza dei Re, supera tutte le altre città in lusso e ricchezze. Molta mano di Principi e Signori si conducono alternativamente al palagio del Monarca, e lo riconoscono per loro Sovrano. I più potenti sono i Duchi di Brettagna e di Borgogna; il secondo di questi possede le ricche province della Fiandra, i cui porti veggonsi frequentati dai nostri trafficanti e da quelli de' più remoti paesi. La Nazione francese è antica ed opulenta; la sua lingua e le sue costumanze, benchè con qualche differenza, non si allontanano del tutto da quelle degl'Italiani. La dignità imperiale di Carlomagno, le vittorie riportate dai Francesi sui Saracini, le imprese de' loro eroi Olivieri ed Orlando[511] li fanno tanto superbi, che si credono il primo popolo dell'Occidente, ma tale insensata vanità è stata di recente umiliata dal sinistro esito della loro guerra contro gli Inglesi, abitatori dell'isola della Brettagna. 3. La Brettagna di rincontro alle coste di Fiandra, in mezzo all'Oceano, può considerarsi come una o tre isole congiunte per uniformità di costumi e di lingua sotto uno stesso Governo. La sua circonferenza è di cinquemila stadj; coperto il paese di un gran numero di città e di villaggi, produce poche frutta, e privo di viti, abbonda di orzo, di frumento, di mele e di lana. Vi si fabbricano da quegli abitanti molti tessuti di panni e di drappi. Londra[512] capitale, per lusso, ricchezza e popolazioni, vince tutte le altre città di Occidente. È situata sul Tamigi, fiume largo e rapido, che dopo trenta miglia sbocca nel mar della Gallia. Il flusso e il riflusso offrono ogni dì ai navigli di commercio la facilità di entrare in quel porto, e di uscirne senza pericolo. Il Re è Capo di una possente e torbida aristocrazia. I primarj vassalli possedono i loro feudi come franchi allodj ereditarj; le leggi determinano per essi i limiti dell'autorità e della obbedienza. Cotesto reame fu spesse volte lacerato dalle fazioni e conquistato dagli stranieri; pur gli abitanti ne sono coraggiosi, robusti, famosi in armi e vittoriosi alla guerra. I loro scudi somigliano a quelli degl'Italiani; le loro spade alle greche; il nerbo delle forze è posto nella molta abilità degli arcieri. Il loro linguaggio non ha veruna affinità cogli altri del Continente; ma nelle consuetudini del vivere, poco dai Francesi diversano. La principale singolarità delle lor costumanze, è il disprezzo della castità delle donne e dell'onor coniugale. Nelle visite scambievoli che si fanno, il primo atto di ospitalità è permettere agli ospiti gli amplessi delle mogli e delle figlie. Fra amici, si veggono chieste e date ad imprestito senza vergogna, e senza che siavi chi si formalizzi di questo stravagante commercio, e delle conseguenze inevitabili che ne derivano[513] ». Istrutti siccome lo siamo noi degli usi dell'antica Inghilterra e certi della virtù delle nostre matrone, non possiamo starci dal sorridere sulla credulità, o dallo sdegnarci dell'ingiustizia dello Storico greco, che ha confuso, non v'ha dubbio, un decente amplesso di cerimonia[514] colle colpevoli dimestichezze, ma questa medesima ingiustizia, o credulità possono esserne utili coll'insegnarci ad aver per dubbie le descrizioni che, sui paesi stranieri e lontani da lor visitati, i viaggiatori ne offrono, e a non credere sì di leggieri que' fatti che ripugnano all'indole dell'uomo e ai sentimenti della natura[515].

A. D. 1402-1417

Dopo la vittoria riportata da Timur, Manuele, tornato in Bisanzo, vi regnò diversi anni felicemente ed in pace; e finchè i figli di Baiazetto lo cercarono in amicizia e ne rispettarono i piccioli Stati, si tenne alla vecchia religione de' Greci, componendo ne' suoi ozj venti dialoghi teologici in difesa del suo passato contegno. Ma miglioratosi lo stato de' suoi vicini, gli Ambasciatori greci portarono al Concilio di Costanza[516] la contemporanea notizia del risorgimento della Potenza ottomana e della Chiesa latina in Costantinopoli. Le conquiste di Amurat e di Maometto aveano tornato ad avvicinare l'Imperatore al Vaticano; l'assedio di Costantinopoli lo fe' quasi convenire sulla duplice processione dello Spirito Santo; talchè appena Martino V spacciatosi da' suoi rivali, occupò solo la Cattedra Pontificia, tornò ad esservi fra l'Oriente e l'Occidente un'amichevole corrispondenza di lettere e di ambascerie (A. D. 1417-1425). L'ambizione da una banda, la sfortuna dall'altra, dettavano accenti di pace e di carità. Manuele ostentando la brama di maritare i sei Principi suoi figli con altrettante Principesse italiane, il Pontefice, non meno accorto di lui, s'adoprò tanto di far giungere a Costantinopoli la figlia del marchese di Monferrato, seguìta da un seducente corteggio di donzelle d'alto legnaggio, i cui vezzi pareano fatti per vincere la scismatica ostinatezza; sotto apparenze esterne di zelo era però facile accorgersi che non regnava se non se la falsità e alla Corte e presso la Chiesa di Costantinopoli. Secondo che più, o meno premeva il pericolo, l'Imperatore affrettava, o prolungava le sue negoziazioni; allargava, o restrigneva la facoltà dei suoi Ministri; si sottraeva da' Latini, se gli sembravano troppo incalzanti, coll'allegare il bisogno di consultare i Patriarchi e i Prelati, e l'impossibilità di adunarli in tempo che i Turchi teneano stretta la Capitale. Dall'esame degli atti pubblici, apparisce che i Greci insistessero su questi tre punti successivi, un soccorso, un Concilio, poi l'unione delle due Chiese; e che i Latini intanto, scansando il secondo, non volessero obbligarsi al primo, limitandosi a riguardarlo come conseguenza, e premio volontario del terzo; ma la relazione di un intertenimento privato di Manuele, ne spiegherà con maggior chiarezza l'enigma della condotta da esso tenuta, e le sue vere intenzioni. Verso il finir de' suoi giorni, l'Imperatore avea vestito della porpora Giovanni Paleologo II, figlio suo primogenito, nel quale fidavasi per la maggior parte delle cose spettanti al Governo. Trovandosi a colloquio col figlio collega (era sol presente lo storico Franza, ciamberlano favorito di Manuele[517] ), lo stesso Manuele dilucidò al successore i veri motivi delle negoziazioni intavolate col Pontefice di Roma[518]. «Non ci rimane, egli dicea, altro salvamento contra i Turchi, fuor del timore che essi hanno di vederci uniti coi Latini, con quelle bellicose nazioni dell'Occidente, che al credere de' Maomettani, potrebbero collegarsi per la nostra liberazione. Tutte le volte, pertanto, che vi vedrete posto alle strette dagl'Infedeli, mostrate loro lo spauracchio di questa unione, proponete un Concilio, entrate in negoziazioni col Papa di Roma, ma traetele sempre in lungo, e tenete lontana la convocazione di quest'Assemblea, che non vi porterebbe alcuno vantaggio nè spirituale, nè temporale. Già nessuna delle due fazioni vorrebbe rimoversi addietro d'un passo, o ritrattarsi; superbi i Latini, ed ostinati i Greci. Volendo voi avverare l'unione delle due Chiese, non fareste che confermare lo scisma, inimicarle, ed esporci, senza rimedio, o speranza, alla discrezione de' Barbari». Poco soddisfatto di questa lezione, in cui però molto avvedimento scorgeasi, il giovine Principe si alzò, e, senza profferir parola, partì. — Il prudente Monarca, continua il Franza, si pose a guardarmi, ripigliando indi così il suo discorso: — «Mio figlio si crede una grande cosa, ed ha le idee vestite all'eroica; e, meschino! non sa che in questo sfortunato secolo niuna cosa offre campo nè all'eroismo, nè alla grandezza. Il suo animo audace potea giovare ne' tempi migliori de' nostri antenati. Lo stato presente ha men bisogno di un Imperatore, che d'un massaio ben attento a tener conto degli avanzi di questo nostro povero patrimonio. Non ho già dimenticate le vaste speranze ch'egli fondava sulla lega con Mustafà, e temo che l'imprudente ardimento di questo giovine, e, per dir tutto, anche la pietosa sua buona fede, affrettino il precipizio della nostra Casa e della nostra Monarchia». Intanto l'esperienza e l'autorità di Manuele valsero a scansare il Concilio, e a conservar la pace fino al settantottesimo anno della sua età, nel quale anno ci morì vestito d'abito monastico, dopo avere distribuite le sue preziose suppellettili ai figli, ai poveri, ai suoi medici e servi più favoriti. Andronico[519], secondogenito di Manuele, che aveva avuto per sua parte il principato di Tessalonica, morì di lebbra, poco dopo aver venduta questa città ai Veneziani, che ne furono con altrettanta prestezza spogliati dai Turchi. Per alcuni buoni successi de' Greci, accaduti ne' giorni più felici di Manuele, essendo tornato all'Impero il Peloponneso, ossia la Morea, quell'Imperatore avea fortificato l'Istmo per una estensione di sei miglia[520], circondandolo di una salda muraglia, fiancheggiata da cencinquantatre torri, che all'atto della prima invasione ottomana disparve. La fertile penisola avrebbe potuto bastare ai quattro giovani principi, Teodoro, Costantino, Demetrio e Tommaso; ma avendo questi estenuati gli avanzi delle loro forze in guerre civili, i vinti si rifuggirono nel palagio di Costantinopoli, ove vissero sotto la protezione e la dependenza del loro fratello Giovanni Paleologo II.

A. D. 1425-1437

Questo Principe, primogenito de' figli di Manuele, riconosciuto dopo la morte del padre solo Imperatore de' Greci, pensò per prima cosa a ripudiare la moglie, e a contrar nuove nozze colla Principessa di Trebisonda. La bellezza, agli occhi di questo Principe, era la più essenziale prerogativa che ornar dovesse una Imperatrice. Per ottenere il consenso del suo Clero, lo minacciò, se gli veniva negato il divorzio, di ritirarsi in un chiostro, e di rassegnare il trono al fratello suo Costantino. La prima, o per meglio dire la sola vittoria riportata da Paleologo, fu sopra un Ebreo[521], cui dopo una lunga e dotta disputa, convertì alla fede cristiana; rilevante conquista che venne accuratamente registrata nella Storia di que' tempi; ma tornò ben tosto nel disegno di unire le due Chiese, e senza riguardo ai suggerimenti lasciatigli dal padre, porse orecchio, a quanto apparve, di buona fede, alla proposta di venire a parlamento col Pontefice in un Concilio generale, da tenersi al di là del mare Adriatico. Martino V incoraggiava questo pericoloso divisamento; Eugenio, successor di Martino, diede freddamente opera a tale bisogna, sintanto che dopo una languida negoziazione, l'Imperatore ricevè una intimazione per parte di un'Assemblea che assumeva diverso carattere, l'Assemblea de' Prelati independenti di Basilea[522], intitolatisi i giudici e i rappresentanti della Chiesa cattolica.

Il Pontefice romano avea difesa e guadagnata la causa della ecclesiastica libertà; ma il Clero vittorioso, si trovò ben tosto esposto alla tirannide del suo liberatore, che dalla dignità del suo carattere era posto in sicurezza contro quell'armi che sì efficacemente adoperava a danno delle civili magistrature. Le appellazioni annichilavano la Grande Carta, ossia il diritto di elezione del Pontefice; diritto cui le commende, e le sopravvivenze, toglievano forza; onde il clero si trovava obbligato a cedere a clausole arbitrarie[523] le proprie prerogative. La Corte di Roma instituì una vendita pubblica, intesa ad arricchire i Cardinali e i favoriti del Pontefice delle spoglie di tutte le nazioni, che vedeano i principali benefizj de' lor territorj accumularsi su persone straniere e lontane. Intantochè dimorarono ad Avignone, l'ambizione de' Papi in avarizia e dissolutezza si trasformò[524]. Rigidi nell'imporre sul Clero il tributo delle decime e de' primi frutti, tolleravano poi apertamente l'impunità dei vizj, dei disordini, della corruttela; i quali scandali, il grande scisma di Occidente (A. D. 1377-1429), durante oltre un mezzo secolo, moltiplicò. Ne' violenti loro litigi, i Pontefici di Roma e di Avignone pubblicavano scambievolmente i vizj del loro rivale, e intantochè il precario stato loro inviliva l'autorità, allentava il freno della disciplina, i lor bisogni e le loro vessazioni aumentava. A guarire i mali della Chiesa e a rialzarne la dignità, vennero tenuti successivamente i Sinodi di Pisa e di Costanza[525], le quali grandi Assemblee (A. D. 1414-1418), sentendo la propria forza, deliberarono restituire alla cristiana Aristocrazia i suoi privilegi. Laonde i Padri di Costanza, pronunciata una personale sentenza contra due Pontefici cui non vollero riconoscere, rimossero, con una nuova sentenza, quel medesimo, che aveano chiarito loro Sovrano. Proceduti indi a limitare l'autorità del Pontefice, non si separarono prima di aver sottomesso il Capo della Chiesa alla supremazia di un Concilio generale. Venne sancito che a fine di riformare e mantenere la Chiesa, si convocherebbero regolarmente queste Assemblee ad un tempo prefisso, e che ciascun Sinodo prima di sciogliersi, additerebbe il tempo e il luogo dell'adunata futura. Non riuscì difficile alla Corte romana lo scansarsi dal convocare il Concilio di Siena, ma la vigorosa fermezza (A. D. 1431-1443) del Concilio di Basilea[526], non fu per poco fatale ad Eugenio IV, Pontefice regnante. I Padri che i disegni di lui aveano presentiti, si affrettarono a pubblicare con un primo decreto, che i rappresentanti della Chiesa militante, aveano giurisdizione spirituale, o divina su tutti i Cristiani, non eccettuato da questi il Pontefice, chiarendo inoltre non potersi sciogliere, protrarre, o trasferire da un luogo ad un altro un Concilio, se non se dopo una discussione libera e il consenso degli adunati. Non essendosi perciò Papa Eugenio ristato dal fulminare la sua Bolla di scioglimento, osarono indirigere intimazioni, rimproveri e minacce al ribelle successor di S. Pietro[527]; e poichè gli ebbero dato con lunghe dilazioni il tempo a pentirsi, gli notificarono che se prima di un termine perentorio di sessanta giorni non si sommettea, intendeano interrotta ogni autorità temporale ed ecclesiastica del medesimo; e affinchè la loro giurisdizione comprendesse il Sovrano ed il Sacerdote, impadronitisi del governo di Avignone, promulgarono invalida l'alienazione del patrimonio sacro, e proibirono il farsi in Roma qualunque riscossione d'imposte a nome del Papa; ardimento che ebbe per se non solo l'opinione generale del Clero, ma l'approvazione e la protezione de' primarj fra i Monarchi della Cristianità. L'Imperatore Sigismondo si professò servo e difensore del Sinodo; l'esempio di lui l'Alemagna e la Francia seguirono; il Duca di Milano era personale nemico di Eugenio; una sommossa del popolo di Roma costrinse il Pontefice a fuggire dal Vaticano. Ributtato ad un tempo da' suoi sudditi spirituali e temporali, nè rimastogli altro partito, fuor quello della sommessione, si ritrattò mercè d'una umiliante Bolla, che confermava tutti gli atti del Concilio, incorporava a questa Assemblea venerabile i Cardinali e Legati pontifizj, e pareva annunziasse la rassegnazione del Papa ai decreti di una suprema legislatura. La rinomanza di cotali fatti si diffuse per l'Oriente; e come altrimenti sarebbe accaduto? Alla presenza dei Padri del Concilio, Sigismondo ricevè gli Ambasciatori ottomani[528], che posarono a' pie del medesimo il donativo di dodici grandi casse piene di drappi di seta e di piastre d'oro. Aspirando i Padri di Basilea alla gloria di ricondurre nel grembo della Chiesa i Greci e i Boemi, sollecitarono per via di deputati (A. D. 1434-1437) l'Imperatore e il Patriarca di Costantinopoli, a congiungersi ad un'Assemblea onorata dalla confidenza delle nazioni dell'Occidente; proposta, dall'accettar la quale lontano non mostravasi Paleologo, i cui Ambasciatori vennero onorevolmente accolti dal Senato cattolico. Sol la scelta del luogo sembrò ostacolo insuperabile per ostinazione de' Greci, i quali ricusando di attraversare le Alpi, o il mar di Sicilia, fermi mostravansi nel pretendere che il Concilio si adunasse in qualche città dell'Italia, o posta nelle vicinanze del Danubio. Minori difficoltà s'incontravano su gli altri punti di una tale negoziazione: già erasi d'accordo su quello di pagare le spese del viaggio all'Imperatore greco, che sarebbesi trasferito, accompagnato da settecento persone[529], al luogo del Concilio, di sborsargli, all'atto dell'arrivo, una somma di ottomila ducati[530] da poter egli impiegare in soccorso del suo Clero, e di concedergli in oltre, intantochè si allontanava dalla sua Capitale, un sussidio di diecimila ducati, di trecento arcieri e di alcune galee per difenderla dal nemico. Sborsate avendo le prime somme la città di Avignone, fu allestito, benchè non senza qualche lentezza e difficoltà, il navilo a Marsiglia.

A. D. 1437

In mezzo alle angustie che lo incalzavano, Paleologo aveva almeno la soddisfazione di vedere le potenze alleate dell'Occidente gareggianti nel chiederlo in amicizia. Ma l'artificiosa solerzia d'un Sovrano prevalse sopra la lentezza e la inflessibilità che per solito dagli atti delle repubbliche non si dipartono. I decreti di Basilea, intendendo continuamente a limitare il dispotismo del Papa e ad innalzare in guisa stabile un tribunale supremo ed ecclesiastico, Eugenio portava il giogo con impazienza, intanto che l'unione de' Greci gli somministrava un decoroso pretesto per trasportare un Sinodo fazioso ed indocile dalle rive del Reno a quelle del Po. Al di là dell'Alpi, i Padri non isperavano più di conservare la loro independenza. La Savoia, o Avignone, cui accettarono con ripugnanza per sede dell'adunata, venivano riguardate a Costantinopoli come luoghi posti oltre le colonne d'Ercole[531]. L'Imperator greco e il suo Clero paventavano i pericoli di una lunga navigazione, e soprappiù gli offendeva l'orgoglio manifestato dal Concilio, annunziando che dopo avere annichilata la nuova eresia de' Boemi, non tarderebbe a sradicare l'antica de' Greci[532]. Eugenio intanto non respirava che mansuetudine, compiacenza e rispetto. Le sue sollecitazioni erano allettamenti al Sovrano di Costantinopoli, affinchè la sua presenza imponesse termine allo scisma de' Latini come a quello de' Greci. Gli proponea per luogo di amichevole parlamento Ferrara, situata sulle sponde dell'Adriatico, nel qual tempo, fosse per sorpresa od altro artifizio, si procurò un falso decreto del Concilio[533] che condiscendea trasferirsi in codesta città dell'Italia. A tal fine furono allestite nuove galee in Venezia e nell'isola di Candia, le quali misero in mare prima del navilio di Basilea. L'Ammiraglio del Pontefice ricevè il comando di mandarlo a fondo, arderlo, distruggerlo[534], e poco mancò che queste ecclesiastiche squadre non s'incontrassero in quelle medesime acque, ove sulla gloria della lor preminenza Atene e Sparta contesero. Sollecitato alternativamente dalle due fazioni, che sembravano prontissime a venire alle mani per contendersi fra loro il possedimento della imperiale persona, Paleologo tornò a meditare ancora, se fosse un buon espediente l'abbandonare il palagio e la patria per avventurarsi ad una così pericolosa spedizione. Tornandogli allora a mente i paterni consigli, anche ogni ragione dettata dal senno dovea mostrargli che i Latini divisi fra loro, non si accorderebbero per virtù di una estranea causa. Aggiungasi che lo dissuase dall'imprendere un tale viaggio Sigismondo, in cui non poteano supporsi motivi di parzialità, perchè il Concilio era di suo consenso; e un suggerimento di questo Imperatore, veniva tanto più valutato dai Greci, per aver questi adottata la stravagante opinione che Sigismondo si cercherebbe fra essi un successore all'Impero[535]. Veniva in campo un altro consigliere, comunque non troppo, per vero dire, meritevole della confidenza de' Greci, che Paleologo temea d'irritare, il Sultano de' Turchi; non che Amurat intendesse nulla sulle contestazioni che teneano in discordia i Cristiani; ma ad ogni modo non gli piaceva vederli uniti; onde offeriva di aprire il suo erario ai bisogni di Paleologo, assicurando ciò nullameno con un'apparenza di generosità, che Costantinopoli sarebbe stata inviolabilmente rispettata, ancorchè se ne fosse allontanato il Sovrano[536]. Ma chi gli fece più ricchi donativi, e diede più belle parole, vinse l'animo del Principe greco, che provava anche desiderio di allontanarsi per qualche tempo da un teatro di disgrazie e pericoli. Dopo essersi spacciato con un'equivoca risposta dai deputati del Concilio, fe' nota la sua deliberazione d'imbarcarsi sulle galee pontifizie. Era vecchio assai il Patriarca Giuseppe, onde più fatto alle impressioni del timore che a quelle della speranza, e atterrito da' pericoli che gli sovrastavano sull'Oceano, rimostrò come in un estraneo paese, la sua debole voce e quella di una trentina de' suoi Prelati, correvano rischio di trovarsi affogate in mezzo alle più numerose e potenti de' Vescovi, di cui il Sinodo latino andava composto. Nondimeno cedè ai voleri di Paleologo, alla lusinga datagli che sarebbe ascoltato come l'Oracolo delle nazioni, e alla segreta brama d'imparare dal suo fratello d'Occidente il modo di rendere affatto independente dai Sovrani la Chiesa[537]. Entrarono nel suo corteggio i cinque Crociferi, ossia dignitarj di S. Sofia, e un d'essi, il grande Ecclesiarca, o predicatore Silvestre Siropolo[538], ha composta[539] una Storia dilettevole e sincera della Falsa Unione[540]. Il Clero obbedì, suo malgrado, agli ordini dell'Imperatore e del Patriarca; ma la sommessione era il suo primo dovere, la pazienza la più utile delle sue virtù. Trovansi in una scelta di venti Prelati, i nomi de' metropolitani d'Eraclea, Cizico, Nicea, Nicomedia, Efeso e Trebisonda, e due nuovi Vescovi, Marco e Bessarione, innalzati a tale dignità per la fiducia che il loro sapere e la loro eloquenza inspiravano. Vennero parimente nominati a questa spedizione alcuni monaci e filosofi, perchè accrescessero splendore alla dottrina e alla santità della greca Chiesa, e molti cantori e musici al servizio della Cappella imperiale. I Patriarchi d'Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, spedirono deputati, o si suppone almeno che gli avessero spediti; il Primate di Russia rappresentava una Chiesa nazionale, perchè quanto ad estensione di potere spirituale, i Greci poteano stare a petto de' Latini. I preziosi vasi di S. Sofia furono commessi ai rischi del mare, affinchè il Patriarca potesse coll'ordinaria sua pompa uffiziare; e l'Imperatore adoperò quant'oro gli fu dato raccogliere per fregiare d'ornamenti massicci il suo carro e il suo letto[541]. Ma mentre i Greci metteano tanto studio a sostenere le esterne apparenze dell'antica grandezza, contendean fra loro pel riparto di quindicimila ducati, che, a titolo di anticipata elemosina, aveva ad essi somministrato il Pontefice. Appena tutti gli apparecchi furon compiuti, Paleologo, seguìto da numeroso corteggio, accompagnato dal suo fratello Demetrio e dai primi personaggi dello Stato e della Chiesa, s'imbarcò sopra otto navigli instrutti di vele e remi, che governarono verso lo stretto di Gallipoli nell'Arcipelago, passando poscia nel golfo Adriatico[542].

A. D. 1438

Dopo una lunga e molesta navigazione di settantasette giorni, questa religiosa squadra avendo gettata l'áncora innanzi Venezia, trovò tale accoglienza, che la gioia e lo splendore di questa repubblica fe' manifesti. Sovrano del Mondo, il modesto Augusto non avea mai richiesti ai suoi sudditi gli onori di cui gl'independenti Veneti largheggiarono a questo debole successore d'Augusto. Dall'alto di un trono collocato sulla poppa della sua nave, Paleologo ricevè la visita, o per parlare alla greca, le adorazioni del Doge e de' Senatori[543], che vennero entro il Bucintoro, seguìto da dodici ben fornite galee. Vedeasi coperto il mare d'innumerabili gondole, quali d'esse per servire alla pompa dello spettacolo, quali al piacere de' circostanti; di musicali suoni, e dello strepito delle acclamazioni l'aere rintronava: splendeano di seta e d'oro le vesti de' marinai e gli stessi navigli; ogni emblema, mostrava le Aquile romane ai lioni di S. Marco accoppiate; insigne corteggio, che mosse dal principio del Canal Grande, e sotto il ponte di Rialto passò. Gli Orientali contemplavano ammirati i palagi, i tempj e l'immensa popolazione di una città, che galleggiar sembrava sull'onde[544]; ma sospirarono alla vista delle spoglie e de' trofei dal saccheggio di Costantinopoli riportati. Dopo una dimora di quindici giorni a Venezia, Paleologo continuò il suo cammino or per terra, or per acqua sino a Ferrara. In tal momento, la politica del Vaticano avendone vinto l'orgoglio, il Principe greco ricevè tutti gli antichi onori sòliti a concedersi all'Imperatore di Oriente. Entrò in Ferrara cavalcando un cavallo nero, intanto che veniva condotto dinanzi a lui un bel palafreno bianco, i cui bardamenti vedeansi fregiati di aquile ricamate in oro. Camminava sotto di un baldachino che sosteneano i Principi della Casa d'Este, figli o parenti di Nicolò, Marchese della città, e sovrano più potente che Paleologo nol fosse[545]. Il Principe greco non ismontò da cavallo che giunto a piedi dello scalone; venutogli incontro sino alle porte del proprio appartamento il Pontefice, rialzò il Principe, che fece l'atto di prostrarsegli innanzi, e dopo averlo paternamente abbracciato, gli additò una sedia posta alla sua sinistra. Il Patriarca greco ricusò di scendere dalla sua galea sintanto che non si fosse d'accordo sui modi del cerimoniale, regolati finalmente sì che fosse mantenuta un'apparente eguaglianza fra il Vescovo di Roma e quello di Costantinopoli. Questi ricevè un fraterno amplesso dal primo, e tutti gli ecclesiastici greci rifiutarono di baciare il piede al romano Pontefice. All'aprirsi del Sinodo, i Capi ecclesiastici e temporali si disputarono il centro, ossia il posto d'onore; ma Eugenio trovò un pretesto per non seguire l'antico cerimoniale di Costantino e di Marciano, allegando che i suoi predecessori non si erano trovati in persona nè a Nicea, nè a Calcedonia. Dopo lunghe discussioni, fu risoluto, che le due nazioni occuperebbero a destra e a sinistra i due lati della Chiesa; che la Cattedra di S. Pietro terrebbe il primo posto nella fila de' Latini; e che il trono dell'Imperator greco, a capo del suo Clero, si troverebbe alla medesima altezza di rincontro al secondo posto, sede vacante dell'Imperator d'Occidente[546].

Ma non appena le allegrezze e le formalità fecero luogo alle gravi discussioni, malcontenti del Papa e di sè medesimi, i Greci, ebbero a pentirsi dell'imprudente lor viaggio. Gli Ambasciatori d'Eugenio a Costantinopoli lo aveano dipinto come uomo giunto all'apice della prosperità, Capo de' Principi e de' Prelati europei, tutti pronti ad un suo accento a prestargli fede, e impugnar l'armi; inganno che la poco numerosa Assemblea del Concilio di Ferrara in un subito dissipò. I Latini apersero l'adunata con cinque Arcivescovi, diciotto Vescovi e dieci Abati, la maggior parte de' quali sudditi, o concittadini dell'italiano Pontefice. Eccetto il Duca di Borgogna, niun Sovrano dell'Occidente si degnò comparire, o inviare ambasciatori; nè modo eravi di abolire gli atti giudiziarj di Basilea contro la persona e la dignità d'Eugenio, atti che dalla elezione di un nuovo Pontefice venner conchiusi. In tal frangente, Paleologo chiese ed ottenne una dilazione per procacciarsi dai Latini alcuni vantaggi temporali, qual prezzo di un'unione che i suoi sudditi riprovavano; dopo la prima adunanza, le discussioni pubbliche furono differite di lì a sei mesi. L'Imperatore, accompagnato da una truppa di favoriti e di giannizzeri, trascorse la state in un vasto monastero, situato gradevolmente sei miglia fuor di Ferrara; e dimenticando fra i piaceri della caccia le dispute della Chiesa e la calamità dello Stato, non pensò che a distruggere il salvaggiume, senza darsi per inteso delle giuste querele del Marchese e de' coltivatori della campagna[547]. Intanto i suoi miseri Greci soffrivano tutte le molestie dell'esilio e della povertà; erano stati assegnati per la sua spesa a ciascuno straniero tre, o quattro fiorini d'oro al mese, e benchè l'intera somma arrivasse a più di settecento fiorini, l'indigenza, o la politica del Vaticano, facea sempre rimanere addietro buona parte di tale assegnamento[548]. Sospiravano essi di vedersi liberati da quel confino, ma un triplice ostacolo impediva loro il fuggirne. Non poteano uscire di Ferrara, senza un passaporto de' lor superiori; i Veneziani aveano promesso di arrestare e rimandare i fuggitivi: giungendo anche a Costantinopoli, non avrebbero potuto sottrarsi alla scomunica, alle ammende, ad una sentenza che condannava persino gli ecclesiastici ad essere posti ignudi e pubblicamente flagellati[549]. La sola fame potè far risolvere i Greci ad aprire il primo parlamento; ma con estrema ripugnanza acconsentirono a seguire a Firenze il Sinodo fuggitivo; espediente però inevitabile, perchè e la peste dominava in Ferrara, e la fedeltà del Marchese era divenuta sospetta, e le truppe del Duca di Milano si avvicinavano alla città. Che anzi tenendo queste la Romagna, sol con molta fatica e pericoli, il Papa, l'Imperatore e i Prelati si apersero un varco per mezzo ai men frequentati sentieri dell'Apennino[550].

A. D. 1438-1439

Ma la politica e il tempo avendo superati tutti gli ostacoli, la violenza stessa de' Padri di Basilea giovò ai buoni successi di Eugenio. Le nazioni dell'Europa essendo venute a detestare lo scisma, rifiutarono l'elezione di Felice V, successivamente Duca di Savoia, eremita, e Papa. I più poderosi Principi si avvicinarono al rivale dell'escluso Pontefice, passando a grado dalla neutralità ad una sincera affezione. I Legati, seguìti da alcuni spettabili membri, si volsero ai Padri romani, che vedeano tuttodì crescere il proprio numero, e l'opinione del Pubblico in loro favore. Il Concilio di Basilea trovavasi ridotto a trentanove Vescovi e trecento membri del clero inferiore[551], intanto che i Latini di Firenze univano alla persona del Pontefice otto Cardinali, due Patriarchi, otto Arcivescovi, cinquantadue Vescovi, e quarantacinque Abati, o Capi d'Ordini religiosi. Il lavoro di nove mesi e le discussioni di venticinque adunanze, operarono finalmente l'unione de' Greci. Quattro quistioni principali eransi agitate dalle due Chiese, e riguardavano I. L'uso del pane azzimo nella Comunione. II. La natura del Purgatorio. III. La supremazia del Papa. IV. La processione, semplice o duplice, dello Spirito Santo. La causa di entrambe le nazioni da dieci abili Teologhi venne discussa. Il Cardinale Giuliano adoperò l'ineffabile sua eloquenza a favor de' Latini; i Greci ebbero Marco d'Efeso e Bessarione di Nicea per lor primarj campioni. Non ometteremo a tale proposito una osservazione che onora i progressi della ragione umana. La prima di tali quistioni fu discussa siccome punto poco rilevante, che potea variare, senza portar seco gravi conseguenze, giusta l'opinione de' tempi e delle nazioni; quanto alla seconda le due parti convennero dovervi essere uno stato intermedio di purificazione per li peccati veniali. Se poi una siffatta purificazione venisse operata dal fuoco elementare, era un tale articolo, che per avere maggiore agio di definirlo in quel medesimo luogo, i disputanti si presero il tempo d'alcuni anni. La supremazia del Papa parea un punto più importante e più litigioso: cionnullameno gli Orientali che aveano sempre riconosciuto il Vescovo di Roma pel primo fra i cinque Patriarchi, non fecero difficoltà ad ammettere che egli usasse della sua giurisdizione in conformità de' santi canoni, condiscendenza vaga che poteva essere determinata, o priva d'effetto secondo le circostanze. La processione dello Spirito Santo, o dal solo Padre, o dal Padre e dal Figlio era articolo di Fede più profondamente radicato nell'opinione degli uomini. Nell'Assemblea di Ferrara e di Firenze, l'addizione Latina del Filioque diede motivo a due quistioni, l'una che riguardava la legalità, l'altra l'ortodossia. Gli è inutile che sopra un tale argomento io mi diffonda in proteste d'imparziale indifferenza per parte mia; pur sembrami che i Greci avessero per sè un vittorioso argomento nella decisione del Concilio di Calcedonia, col quale si proibiva l'aggiungere alcun articolo, qualunque fosse, al Simbolo di Nicea, o piuttosto di Costantinopoli[552]. Negli affari di questo Mondo non è sì facile il comprendere come un'Assemblea di legislatori, possa impor vincoli ai suoi successori, forniti della medesima autorità; ma una decisione dettata dall'inspirazione divina, debbe essere vera ed immutabile. L'avviso di un Vescovo o di un Sinodo di provincia non può prevalere contra il giudizio universale della Chiesa cattolica. Quanto al dottrinale, gli argomenti erano eguali da tutte due le bande, e questa disputa parea volgere all'infinito, perchè la processione di un Dio è cosa che confonde l'umana intelligenza. L'Evangelio collocato sull'altare, nulla offeriva che potesse risolvere la quistione. I testi de' santi Padri potevano essere stati sagrificati dalla soperchieria, o da capziose argomentazioni oscurati: i Greci non conoscevano nè gli scritti de' Santi latini, nè i loro caratteri[553]. Noi possiamo per lo meno essere sicuri che gli argomenti di ciascuna fazione parvero impotenti contro quelli dell'altra. La ragione può rischiarare gli errori di una mente pregiudicata; una continua attenzione corregger le sviste, se l'oggetto può essere presentato ai nostri sensi: ma i Vescovi e i frati aveano imparato sin dall'infanzia a ripetere una formola di misteriose parole; alla ripetizione di queste parole medesime aveano congiunto il loro onore nazionale e personale, e l'acredine di una disputa pubblica li rendè del tutto intrattabili.

Intanto che questi si perdevano in un labirinto d'argomenti oscuri, il Papa e l'Imperatore bramavano un'apparenza di unione, che sola potea raggiugnere lo scopo del loro abboccamento; laonde l'ostinazione non resistè all'influsso di personali e segrete negoziazioni. Il Patriarca Giuseppe era soggiaciuto al peso degli anni e dell'infermità, e le parole ch'ei pronunziò spirando, furono di pace e d'unione. La speranza di ottenerne la carica, tentava l'ambizione del Clero greco; e la pronta sommessione di Bessarione e d'Isidoro, Arcivescovi, un di Nicea, l'altro di Russia, fu comperata e guiderdonata col promoverli immantinente alla dignità cardinalizia. Nelle prime discussioni, Bessarione erasi mostrato il più fermo ed eloquente campione della Chiesa greca; e se la patria lo ributtò come apostata e figlio spurio[554], egli diè a divedere, se prestiamo fede alla storia ecclesiastica, il raro esempio di un cittadino che sa rendersi commendabile alla Corte con una resistenza segnalata, e con una rassegnazione adoperata a proposito. Soccorso da' suoi due Coadjutori spirituali, l'Imperatore usò, rispetto a ciascuno de' due Vescovi, gli argomenti più confacevoli allo stato loro in generale e alla loro indole in particolare; sicchè tutti a mano a mano cedettero all'esempio, o all'autorità. Prigionieri presso i Latini, spogliati delle loro rendite dai Turchi, tre vesti e quaranta ducati, faceano tutto il loro tesoro, che ben presto si trovò rifinito[555]. Per poter tornare alla lor patria, doveano raccomandarsi alle navi di Venezia e alla generosità del Pontefice; in somma vedeansi ridotti a tale indigenza che bastò per guadagnarli offrir loro il pagamento degli assegnamenti arretrati, ai quali avevano diritto[556]. I soccorsi de' quali abbisognava la pericolante Costantinopoli poteano scusare una prudente e pia dissimulazione: ma a questi riguardi si aggiunsero forti inquietudini sulla personale loro sicurezza, perchè fu fatto ad essi comprendere che sarebbero abbandonati in Italia alla giustizia, o alla vendetta del romano Pontefice[557]. Nell'Assemblea particolare dei Greci, ventiquattro membri di questa Chiesa approvarono la formula d'unione, sol dodici recalcitrarono. Ma i cinque Crociferi di S. Sofia che aspiravano alla vacante carica del Patriarca, furono respinti per essersi tenuti alle regole dell'antica disciplina, e videro il lor diritto di suffragio trasmesso a Monaci, a Gramatici, a Laici, dai quali si aspettava una maggior compiacenza: sicchè la volontà del Monarca produsse finalmente una fallace e codarda unanimità. Sol due uomini zelanti d'amor di patria osarono far palesi pubblicamente i loro sentimenti e quelli della nazione; Demetrio fratello dell'Imperatore ritiratosi a Venezia per non essere spettatore di questa unione, e Marco d'Efeso, che credendo forse stimolo di coscienza il suo orgoglio, gridò eretici tutti i Latini, rifiutò la loro comunione, e si chiarì solennemente il difensore della Chiesa greca e ortodossa[558]. Fu fatta prova di mettere in iscritto il Trattato di unione con que' termini che potessero soddisfare i Latini, nè soverchiamente umiliare i Greci; ma comunque si pesassero le parole e le sillabe, la bilancia inclinò qualche poco in favore del Vaticano. Si stabilì (e qui domando attenzione dal leggitore) che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, come da un stesso principio o da una stessa sostanza; che procede dal Figlio essendo della stessa natura e della stessa sostanza, e che procede dal Padre e dal Figlio per una spirazione e per una produzione. Gli articoli de' preliminari di questo Trattato saranno stati intesi più facilmente. Eugenio si obbligava coi Greci a pagare tutte le spese del loro ritorno, a mantenere sempre due galee e trecento soldati in difesa di Costantinopoli, a mandar loro dieci galee per un anno o venti per sei mesi, qualunque volta ne venisse richiesto, a sollecitare in un momento di grave pericolo i soccorsi de' Principi dell'Europa, e a mandare all'áncora nel porto di Bisanzo tutt'i vascelli che trasporterebbero pellegrini a Gerusalemme.

A. D. 1438

Nello stesso anno, e quasi nel medesimo giorno, a Basilea[560] si toglieva il Pontificato ad Eugenio che stava a Firenze terminando l'unione de' Greci coi Latini. Il Sinodo di Basilea, che per vero dire il Pontefice romano chiamava un'Assemblea di demonj, lo pronunziò colpevole di simonia, di spergiuro, di tirannide, d'eresia e di scisma[561]; incorreggibile ne' suoi vizj, e indegno di sostenere verun uffizio ecclesiastico. Il Sinodo di Firenze intanto (A. D. 1438) lo riveriva come Vicario legittimo e sacro di Gesù Cristo, come l'uomo di cui la pietà e la virtù, dopo una separazione di sei secoli, aveano riuniti i Cattolici dell'Oriente e dell'Occidente in un sol gregge, e sotto un solo Pastore. L'atto di Unione venne sottoscritto dal Papa, dall'Imperatore e dai primarj membri delle due Chiese, non eccetto que' medesimi, i quali, come Siropolo, erano stati privi del diritto di dar voto[562]. Sembrava che due copie di simile atto, una per l'Oriente, l'altra per l'Occidente bastassero. Ma Eugenio ne fece copiare e sottoscrivere quattro, onde moltiplicare i monumenti della riportata vittoria[563]. Ai sei di luglio, giornata memorabile, i successori di S. Pietro e di Costantino salirono sui loro troni alla presenza di due nazioni adunate nella Cattedrale di Firenze. I rappresentanti di queste nazioni, il Cardinale Giuliano e Bessarione, Arcivescovo di Nicea, si mostrarono sulla cattedra, ove dopo aver letto ad alta voce, ciascuno in sua lingua, l'Atto di unione, si diedero pubblicamente il bacio di pace e di riconciliazione, a nome dei loro compatriotti, e fra gli applausi di quelli d'essi che erano presenti. Il Papa e il suo Clero uffiziarono secondo i riti della romana Liturgia, e venne cantato il simbolo coll'aggiunta del Filioque. I Greci che diedero in ordine a ciò la loro approvazione, si scusarono assai goffamente, adducendo a motivo del proprio contegno, l'ignoranza del significato di queste parole, che furono mal articolate, e che per altro erano assai armoniose[564]. Più scrupolosi i Latini, ricusarono fermamente di ammettere veruna cerimonia della Chiesa d'Oriente. Cionnullameno l'Imperatore e il suo Clero non dimenticarono l'onore della propria nazione, e ratificando volontariamente il Trattato, sottintesero la clausola tacita che non si farebbe veruna innovazione nel loro Simbolo, o nelle loro cerimonie. Risparmiarono e rispettarono la generosa fermezza di Mario d'Efeso, nè vollero dopo la morte di Giuseppe, procedere all'elezione di un nuovo Patriarca, in tutt'altro luogo fuorchè nella Cattedrale di Santa Sofia. Eugenio superò le sue promesse e le loro speranze nelle liberalità usate, in generale e in particolare, verso de' Greci. Con minor pompa e più umili se ne tornarono questi per la via di Ferrara e Venezia. Nel successivo capitolo sapranno i miei leggitori quale accoglienza trovarono a Costantinopoli[565] (A. D. 1440). Il buon successo di questa prima impresa incoraggiò Eugenio a rinovare una scena così edificante; i deputati degli Armeni e de' Maroniti, i Giacobiti dell'Egitto e della Sorìa, i Nestoriani e gli Etiopi, ammessi successivamente a baciare il piede del Santo Padre, annunziarono l'obbedienza e l' ortodossia dell'Oriente. Questi Ambasciatori, sconosciuti presso alle nazioni che si arrogavano di rappresentare[566], giovarono a divulgare per l'Occidente la fama della pietà di Eugenio; e gridori ad arte sparsi, accusarono gli scismatici della Svizzera e della Savoia, siccome i soli che si opponessero alla perfetta unione del Mondo cristiano. Alla vigorosa loro resistenza, succeduta finalmente la stanchezza d'un inutile sforzo, e sciogliendosi per insensibili gradi il Concilio di Basilea, Felice giudicò opportuna cosa rassegnare la tiara, e tornarsene al suo devoto o delizioso romitaggio di Ripaglia[567] (A. D. 1449). Scambievoli atti di dimenticanza del passato e compensi confermarono la pace generale; si lasciò che i disegni di riforma andassero a vôto; i Papi si mantennero nella loro supremazia spirituale e continuarono ad abusarne[568]: nessun litigio in appresso turbò le elezioni di Roma[569].

A. D. 1300-1453

I successivi viaggi de' tre Imperatori non partorirono ad essi grandi vantaggi in questo Mondo, nè probabilmente nell'altro; pur felici ne furono lo conseguenze, perchè portarono l'erudizione greca in Italia, d'onde si diffuse presso tutte le nazioni dell'Occidente e del Settentrione. In mezzo al servaggio abbietto cui ridotti erano i sudditi di Paleologo, possedeano tuttavia la preziosa chiave dei tesori dell'Antichità, quella lingua armoniosa e feconda che infonde un'anima agli oggetti sensibili, e veste di corpo le astrazioni della filosofia. Dopo che i Barbari, avendo oltrepassati i confini della Monarchia, si erano mescolati fino cogli abitanti della Capitale, certamente aveano corrotta la purezza del dialetto; onde fu d'uopo d'abbondanti Glossarj per interpretare molti vocaboli tolti dalla lingua araba, turca, schiavona, latina e francese[570]. Nondimeno questa purezza mantenevasi ancora alla Corte, e veniva insegnata tuttavia ne' collegi. Un dotto Italiano[571] che, per lungo domicilio e onorevole parentado contratto[572], avea ottenuto luogo fra i nativi di Costantinopoli, circa trent'anni prima della conquista de' Turchi, ci ha lasciato intorno ai Greci alcuni particolari, che però la sua parzialità avrà forse abbelliti. «La volgar lingua, dice Filelfo[573], è stata alterata dal popolo e corrotta dai molti mercatanti, o stranieri che giungono tuttodì a Costantinopoli, e si mescolano cogli abitanti. Dai discepoli di questa scuola i Latini hanno ricevute le traduzioni goffe ed oscure di Platone e di Aristotele. Ma il discorso nostro cade unicamente su que' Greci che meritano essere imitati, perchè alla contagione generale sfuggirono. Troviamo ne' loro famigliari intertenimenti la lingua di Aristofane e di Euripide, de' Filosofi e degli Storici d'Atene, e più accurato e più corretto è anche lo stile de' loro scritti. Le persone più vicine alla Corte a motivo delle loro cariche, o della nascita, son pur quelle che conservano meglio, e scevre da ogni miscuglio l'eleganza e la purezza degli antichi; tutte le grazie naturali della lingua greca osserviamo mantenersi dalle nobili matrone che non hanno comunicazione alcuna cogli stranieri. Che dico io cogli stranieri? Vivono ritirate e lontane dagli sguardi de' medesimi loro concittadini. Rare volte si fanno vedere sulle strade; nè escono di casa, se non la sera, per trasferirsi alla Chiesa, e visitare i più prossimi parenti. In tali occasioni, vanno a cavallo, coperte di un velo, accompagnate dai loro mariti, circondate dai congiunti, o dai servi[574] ».

Presso i Greci un Clero ricco e copioso si consagrava al servigio degli altari. Que' Monaci e Vescovi essendosi distinti sempre per austerità di costumi non si abbandonavano siccome gli ecclesiastici latini agl'interessi e ai diletti della vita secolare, nè della militare tampoco. Dopo avere perduta una gran parte del loro tempo in atti di divozione e nelle oziose discordie della Chiesa, o del Chiostro, quelli che d'animo più solerte e curioso erano forniti, si dedicavano ardentemente allo studio dell'erudizione greca, sacra e profana. Presedevano inoltre alla educazione della gioventù, onde le scuole di eloquenza e di filosofia durarono fino alla caduta dell'Impero; e può affermarsi che il recinto di Costantinopoli contenea più scritti scientifici e libri di quanti ne fossero diffusi nelle vaste contrade dell'Occidente[575]. Ma di già osservammo che i Greci aveano fatta pausa, o anzi arretravano, intanto che i Latini faceano rapidi progressi; progressi animati dallo spirito di emulazione e d'independenza; onde il picciolo Mondo racchiuso entro i limiti dell'Italia contenea più popolazione e parti d'industria che non l'Impero spirante di Costantinopoli. In Europa, le ultime classi della società si erano affrancate dalla feudale servitù, e la libertà traeva con sè il desiderio d'istruirsi e il lume delle cognizioni che ne viene per conseguenza. La superstizione avea conservato l'uso della lingua latina, che parlavasi, per vero dire, in rozza e corrotta guisa, ma migliaia di studenti frequentavano le Università moltiplicatesi da Bologna d'Italia fino ad Oxford[576], e comunque mal regolato fosse il loro ardore agli studj, poteano finalmente volgerlo a più nobili e liberali ricerche. In questo risorgimento delle scienze l'Italia fu la prima che fece sventolare la propria bandiera, e il Petrarca colle sue lezioni e col suo esempio ha meritato che gli si attribuisca il vanto di primo nell'accendere la fiaccola del sapere. Lo studio e l'imitazione degli scrittori dell'antica Roma, diedero maggiore purezza allo stile, più giustezza ai ragionamenti, più nobiltà ai pensieri. I discepoli di Virgilio e di Cicerone si avvicinarono con rispettoso fervore ai Greci stati maestri di questi sommi scrittori. Vero è che nel saccheggio di Costantinopoli, i Franchi, e i medesimi Veneziani aveano sprezzate e distrutte le opere di Lisippo e di Omero; ma non accade de' capolavori degli Scrittori, come di quelli dell'arti, cui basta un barbaro cenno ad annichilare per sempre; la penna rinova e moltiplica le copie de' primi, e l'ambizione dal Petrarca e de' suoi amici, fu possedere di queste copie e intenderne il significato. La conquista de' Turchi accelerò, non v'ha dubbio, la peregrinazione delle Muse, nè possiamo difenderci da un tal qual moto di terrore, in pensando come le Scuole e le Biblioteche della Grecia avrebbero potuto essere distrutte, prima che l'Europa escisse della sua barbarie; la qual cosa, se fosse accaduta, i germi delle scienze si sarebbero dispersi prima che il suolo dell'Italia fosse preparato a riceverli e coltivarli.

I più dotti fra gli Italiani del secolo decimoquinto, confessano ed esaltano il rinascimento della erudizione greca[577], sepolta da molti secoli nell'obblio. Nondimeno in questa contrada e al di là dell'Alpi, si citano alcuni uomini dotti, che ne' secoli dell'ignoranza si distinsero onorevolmente nella cognizione della lingua greca; e la vanità di nazione non ha trascurate le lodi dovute a questi esempj di straordinaria erudizione. Senza esaminare troppo scrupolosamente il merito personale di cotesti uomini, non pensiamo però starci dall'osservare che la loro scienza era priva di scopo come di utilità; che era cosa facile ad essi l'appagare sè medesimi, e una turba di contemporanei anche più ignoranti di loro, i quali possedeano pochissimi manoscritti composti nella lingua da essi come per prodigio appresa, e che in nessuna Università dell'Occidente veniva insegnata. Rimaneano alcuni vestigi di questa lingua in un angolo dell'Italia, ove riguardavasi come lingua volgare, o almeno come lingua ecclesiastica[578]. L'antico influsso delle colonie doriche e ionie, non era affatto distrutto. Le Chiese della Calabria essendo state per lungo tempo unite al trono di Costantinopoli, i Monaci di S. Basilio, faceano tuttavia i loro studj sul monte Atos (A. D. 1339) e nelle Scuole dell'Oriente. Il frate Barlamo, che già vedemmo in figura di settario e di Ambasciatore, era calabrese di nascita, e per opera di lui risorsero oltre l'Alpi la memoria e gli scritti di Omero[579]. Il Petrarca e il Boccaccio[580] nel dipingono uomo di piccola statura, sorprendente per erudizione ed ingegno, fornito di giusto e rapido discernimento, ma di una elocuzione lenta e difficile. La Grecia al dir loro non avea nel corso di molti secoli prodotto chi il pareggiasse per nozioni di Storia, di Gramatica e di Filosofia. I Principi e i dottori di Costantinopoli, riconobbero il merito sublime di cotest'uomo con attestazioni; delle quali una tuttavia ci rimane. L'Imperatore Cantacuzeno, comunque proteggesse gli avversarj di Barlamo, confessa che questo profondo e sottile logico[581] era versatissimo nella lettura di Euclide, di Aristotele e di Platone. Alla Corte di Avignone, Barlamo si unì in lega intrinseca col Petrarca[582], il più dotto fra i Latini, essendo stato fomite della letteraria loro corrispondenza il desiderio reciproco d'instruirsi. Datosi con ardore allo studio della lingua greca il Toscano, dopo avere laboriosamente lottato contro l'aridezza e la difficoltà delle prime regole, pervenne a sentire le bellezze di que' Poeti e Filosofi, di cui possedeva l'ingegno, ma non potè vantaggiare a lungo della compagnia e delle lezioni del nuovo amico. Abbandonatasi da Barlamo una inutile Legazione, tornò questi in Grecia, ma suscitò imprudentemente il fanatismo de' frati coll'adoperarsi a sostituire la luce della ragione a quella del loro ombelico. Dopo una separazione di tre anni, i due amici s'incontrarono alla Corte di Napoli; ma il generoso discepolo rinunziando a quella occasione di farsi più perfetto nel greco idioma, cercò con forti raccomandazioni ed ottenne a Barlamo un piccolo Vescovado[583] nella Calabria, patria dello stesso Barlamo. Le diverse occupazioni del Petrarca, l'amore, l'amicizia, le corrispondenze, i viaggi, la sua coronazione d'alloro a Roma, la cura data alle sue composizioni in versi e in prosa, in latino e in italiano, il distolsero dallo studio di un idioma straniero. Egli avea all'incirca cinquant'anni, allorchè uno de' suoi amici, Ambasciatore di Bisanzo, parimente versato in entrambe le lingue gli fe' dono di una copia d'Omero. La risposta ad esso fatto da Petrarca, attesta ad un tempo la gratitudine, i delicati crucci dell'animo, l'eloquenza di questo grand'uomo: «Il dono del testo originale di questo divino Poeta sorgente d'ogni invenzione è degno di voi e di me: voi avete adempiuta la vostra promessa, e appagati i miei voti. Ma imperfetta è la vostra generosità: dandomi Omero, dovevate darmi voi stesso, divenir mia guida in questo campo di luce, e scoprire ai miei occhi attoniti le seducenti maraviglie dell'Iliade e dell'Odissea. Ma, oh dio! Omero è muto per me, ovvero io sono sordo per lui, e non è in mia facoltà il godere delle bellezze che esso presenta. Ho collocato il Principe de' Poeti a fianco di Platone, il Principe de' filosofi, e divengo superbo di contemplarli. Io possedea già tutta quella parte de' loro scritti immortali che è stata tradotta in latino; ma ora comunque io non possa trarne profitto, mi è però un conforto il vedere questi rispettabili Greci vestiti coll'abito di lor nazione. La presenza di Omero mi rapisce: e allorquando tengo questo tacito volume fra le mie mani, esclamo sospirando: illustre Poeta, con qual giubilo ascolterei i tuoi canti, se la morte di un amico e la cordogliosa lontananza di un altro non togliessero ogni forza di sentire al mio udito! Ma l'esempio di Catone, mi fa coraggioso, nè dispero ancora in pensando che sol sul compiersi dei suoi giorni questo Romano alla conoscenza delle lettere greche pervenne»[584].

A. D. 1360

La scienza cui sforzavasi invano di aggiugnere il Petrarca, fu più accessibile agli studj dell'amico di lui il Boccaccio, padre della prosa toscana[585]. Questo Scrittore popolare, che dee la propria celebrità al Decamerone, vale a dire ad un centinaio di Novelle amorose e piacevoli, può giustamente essere considerato come colui che ridestò in Italia lo spento amore dell'idioma greco. Pervenuto nel 1360, e colle persuasioni e cogli atti di ospitalità a trattenere presso di sè Leone, o Leonzio Pilato, che indirigevasi ad Avignone, lo alloggiò nella propria casa, ed ottenutagli una pensione dalla Repubblica fiorentina, consagrò tutte le ore di ozio al primo professore greco che insegnasse questa lingua nelle contrade occidentali dell'Europa. L'esterno di Leone avrebbe allontanato da tale studio un discepolo che ne fosse stato amante men del Boccaccio. Avvolto questo maestro in mantello di filosofo, o di cencioso, avea contegno ributtante, capelli neri che disordinatamente gli venivan sul fronte, barba lunga, nè troppo monda, di carattere volubile e cupo, e nè meno compensava questi difetti sgradevoli colle grazie e colla chiarezza del discorso quando parlava latino. Pur l'ingegno di costui racchiudeva un tesoro di greca erudizione; egualmente versato nella favola, nella storia, nella gramatica e nella filosofia, spiegò nelle scuole di Firenze i poemi d'Omero. Col soccorso delle istruzioni del medesimo, il Boccaccio compose, per far cosa grata all'amico Petrarca, una traduzione letterale in prosa dell'Iliade e dell'Odissea, della quale è probabile che si valesse in segreto Lorenzo Valla per comporre nel successivo secolo la sua versione latina. Il Boccaccio inoltre da' suoi intertenimenti con Leone raccolse i materiali per l'Opera intorno agli Dei del Paganesimo, riguardata in quel secolo come un prodigio di erudizione, e che l'autore giuncò di caratteri e passi greci per eccitare la sorpresa e l'ammirazione de' suoi ignoranti contemporanei[586]. I primi passi nella instruzione sono lenti e penosi; ond'è che tutta l'Italia non somministrò in principio che dieci discepoli d'Omero, numero al quale nè Roma, nè Venezia, nè Napoli aggiunse un solo nome di più. Nondimeno gli studenti si sarebbero moltiplicati, e questo studio avrebbe fatto più rapidi progressi, se l'incostante Leone, in capo a tre anni, non avesse abbandonato uno stato onorevole e vantaggioso. Passando da Padova si fermò alcuni giorni in casa del Petrarca, cui tanto spiacque il carattere cupo e insocievole di quest'uomo, quanto l'erudizione lo soddisfece; malcontento degli altri e di sè medesimo, disdegnando la felicità di cui potea godere, Leone non si traeva mai volentieri coll'immaginazione che su gli uomini e gli oggetti lontani. Tessalo in Italia, Calabrese in Grecia, disprezzava alla presenza de' Latini i loro costumi, la loro religione, la loro lingua, e arrivato appena a Costantinopoli sospirò la ricchezza de' Veneziani e l'eleganza de' Fiorentini. Voltosi nuovamente agli amici d'Italia, li trovò sordi alle sue importunità; nondimeno molto ripromettendosi dalla loro indulgenza e curiosità, si avventurò ad un secondo viaggio; ma all'ingresso del golfo Adriatico il vascello, entro cui stavasi, essendo stato assalito da una tempesta, l'infelice Professore, raccomandatosi come Ulisse all'albero della nave, morì percosso dal fulmine. L'affettuoso Petrarca versò qualche lagrima sulla morte di questo infelice; ma soprattutto cercò accuratamente di sapere, se qualche copia di Sofocle, o d'Euripide fosse caduta fra le mani de' marinai[587].

A. D. 1390-1415

I deboli germi raccolti dal Petrarca e trapiantati dal Boccaccio, inaridirono ben tosto. La successiva generazione, limitatasi a perfezionare la latina eloquenza, abbandonò l'erudizione greca, e solamente verso la fine del secolo XIII quest'altro studio si rinovò in guisa durevole nell'Italia[588]. Prima d'imprendere il suo viaggio, Manuele avea deputati oratori ai Sovrani d'Occidente per eccitare la loro compassione. Il più ragguardevole di questi per dignità e per sapere fu Manuele Crisoloras[589], di nascita sì nobile, a quanto credeasi, che i maggiori di lui aveano abbandonata Roma per seguire il Gran Costantino. Dopo avere visitate le Corti di Francia, e d'Inghilterra, ove ottenne alcuni soccorsi e molte promesse, venne sollecitato a sostenere pubblicamente gli uffizj di Professore, secondo invito fatto a un Greco, di cui parimente Firenze ebbe il merito. Crisoloras, versato del pari nelle lingue greca e latina, meritò i riguardi per lui avutisi dalla Repubblica, e le speranze ne oltrepassò. Discepoli d'ogni età e di ogni condizione alla sua scuola accorrevano, e uno fra questi compose una Storia generale, in cui rendea conto de' motivi degli studj impresi e degli ottenuti successi. «In quel tempo, dice Leonardo Aretino[590], io studiava la Giurisprudenza, ma ardendo l'animo mio per l'amor delle Lettere, io dava alcune ore allo studio della Logica e della Rettorica. All'arrivo di Manuele stetti perplesso, se avrei abbandonato lo studio delle leggi, o se avrei lasciata sfuggire la preziosa occasione che mi si offeriva, instituendo nel bollore dalla mia giovinezza questi ragionamenti fra me medesimo: Così dunque tradiresti la fortuna che ti sorride? Ricuseresti un modo per potere conversare famigliarmente con Omero, con Demostene e con Platone, con que' Poeti, con que' Filosofi, con quegli Oratori, di cui tanto grandi maraviglie si narrano, e che tutte le generazioni hanno riconosciuti quali maestri sovrani di tutte le scienze? Si troverà sempre nelle nostre Università un numero bastante di Professori di diritto civile; ma un maestro di lingua greca, e un maestro simile a questo, lasciandolo sfuggire una volta, come trovarlo di nuovo? Convinto da questo ragionamento, mi dedicai per intero a Crisoloras, e con tanta ardenza, che le lezioni da me studiate il giorno, divenivano costantemente il soggetto de' sogni miei nella notte[591].» Nel medesimo tempo Giovanni da Ravenna, educato nella casa del Petrarca[592], interpretava gli autori latini a Firenze; duplice scuola in cui furono allevati quegli Italiani che illustrarono il secolo e la patria loro, e per tal modo quella chiara città dell'Italia, divenne l'utile vivaio dell'erudizione de' Greci e dei Romani[593]. L'arrivo dell'Imperatore richiamò Crisoloras dalla cattedra alla Corte, ma insegnò in appresso a Pavia e a Roma colla medesima fortuna e coronato sempre d'eguali applausi. Ripartendo i quindici ultimi anni della sua vita, fra l'Italia e Costantinopoli, ora Inviato imperiale, or Professore, l'onorevole ministero di rischiarare col proprio ingegno una straniera nazione, nol fece dimentico mai di quanto al suo Principe e alla sua patria dovea. Manuele Crisoloras, morì a Costanza, ove lo avea spedito in delegazione presso al Concilio l'Imperatore.

A. D. 1400-1500

Allettata da sì fatto esempio, una folla di Greci indigenti, e istrutti almeno nella loro lingua, si diffusero per l'Italia, accelerando così il progresso delle lettere greche. Gli abitanti di Tessalonica e di Costantinopoli fuggirono lungi dalla tirannide de' Turchi, in seno ad un paese ricco, libero e curiosissimo. Il Concilio introdusse in Firenze le dottrine della Chiesa greca, e gli oracoli della filosofia di Platone: e que' fuggiaschi che acconsentirono alla unione delle due Chiese, ebbero nella nuova patria il doppio merito di abbandonare l'antica, non solamente per la causa del Cristianesimo, ma per quella più particolare del Cattolicismo. Un cittadino che sagrifica la sua fazione e la propria coscienza agli adescamenti del favore, può nondimeno non essere sfornito delle sociali virtù di un privato. Lungi dal suo paese, egli è meno esposto agli umilianti nomi di schiavo e di apostata, e la considerazione che si guadagna presso i nuovi associati, può a grado a grado ricondurlo a ben pensare di sè medesimo. Bessarione, che in premio della sua docilità aveva ottenuta la porpora ecclesiastica, pose dimora in Italia; e il Cardinale greco, patriarca titolare di Costantinopoli, fu riguardato a Roma come il Capo e protettore della sua nazione[594]. Fece valere il suo ingegno nelle Legazioni di Bologna, di Venezia, della Francia e dell'Alemagna, e in un Conclave fu per alcuni momenti disegnato a salire la cattedra di S. Pietro[595]. Gli onori ecclesiastici avendo giovato a farne spiccare di più il merito e l'ingegno letterario, il suo palagio videsi trasformato in una scuola, nè accadea che il Cardinale si trasferisse al Vaticano senza che lo seguisse un numeroso stuolo di discepoli dell'una e dell'altra nazione[596], e di dotti, i quali col gloriarsi di un tale maestro, vie meglio meritavano dal pubblico, divenuti eglino pure autori di scritti che, oggidì coperti di polvere, grande spaccio ebbero in quella età con molto vantaggio de' contemporanei. Non mi assumo io qui di noverare tutti coloro che nel secolo XV contribuirono a restaurare la greca letteratura. Mi basta il citare con gratitudine i nomi di Teodoro Gaza, di Giorgio da Trebisonda, di Giovanni Argiropolo, e di Demetrio Calcocondila, che insegnarono la propria nativa lingua nelle scuole di Firenze e di Roma. Le loro fatiche pareggiarono quelle di Bessarione, del quale rispettavano la dignità, invidiandone in segreto la sorte; ma umile ed oscura si fu la vita di questi gramatici, che, toltisi dal lucroso arringo ecclesiastico, viveano segregati dalle più ragguardevoli compagnie, e per le proprie consuetudini, e per lo stesso vestire; laonde non avendo essi ambito altro merito, fuor quello dell'erudizione, doveano contentarsi di quel solo compenso che a questa si tributava. Da tal classe vuol essere eccettuato Giovanni Lascaris[597]. I modi affabili, l'eloquenza, l'illustre nascita che lo adornavano, raccomandarono in lui un discendente d'Imperatori ai Reali di Francia, i quali lo inviavano in diverse città, ove adempieva a vicenda gli uffizj di negoziatore e di Professore. Per dovere e per interesse, i mentovati dotti coltivarono lo studio della lingua latina, alcuni di loro essendo pervenuti a scrivere e a parlare con eleganza e facilità questo idioma ad essi peregrino. Non quindi spogliatisi mai della nazionale vanità, le loro lodi, o almeno l'ammirazione riserbavano come in privilegio agli scrittori del loro paese, all'ingegno de' quali la fama ed il vitto doveano; e la loro parzialità alcune volte svelavano con isconvenevoli critiche, o piuttosto satire contro i poemi di Virgilio, e le arringhe di Cicerone[598]. Non dee però tacersi che molta parte del merito per cui primeggiavano questi maestri del greco, diveniva loro dalla consuetudine di parlare in tale idioma, consuetudine che va per necessità unita alle lingue viventi: ma i loro primi discepoli non poterono discernere quanto avessero tralignato dalla scienza ed anche dalla pratica dei loro maggiori; e fu opera del senno della successiva generazione, il bandir dalle scuole la pronunzia viziosa[599] che quelli vi aveano introdotta. Ignari essendo del valore degli accenti greci, quelle note musicali, che pronunziate da una lingua attica e da orecchio attico udite, racchiudevano il segreto dell'armonia, non erano per essi, come per noi, che contrassegni muti e privi di significato, inutili nella prosa, incomodi nella poesia. Possedeano essi i veri principj della gramatica; onde rifusero nelle loro lezioni i preziosi fragmenti di Apollonio e di Erodiano; e i lor Trattati della sintassi e della etimologia, benchè sforniti di spirito filosofico, sono anche ai dì nostri di un grande soccorso agli studiosi. Nel tempo che le Biblioteche di Bisanzo si distruggevano, ciascun fuggitivo s'impadronì d'un fragmento del tesoro pericolante, di una copia di qualche autore, che senza di ciò sarebbe andata perduta. Queste copie vennero moltiplicate da diverse penne laboriose, e talvolta ingegnose, che ammendavano, ove era d'uopo, il testo, e aggiugnevano le loro interpretazioni, o quelle di antichi scoliasti. I Latini conobbero se non lo spirito, almeno il significato letterale degli Autori classici della Grecia. Le bellezze di stile sparivano in una traduzione; ma Teodoro Gaza ebbe l'intendimento di scegliere opere rilevanti per sè stesse siccome quelle di Teofrasto e d'Aristotele; e le Storie delle piante e degli animali da questi Greci composte, apersero un vasto campo alla parte teorica e sperimentale delle scienze naturali.

Venne ciò nulla ostante data la preferenza alle incerte nubi della metafisica. Un venerabile Greco fece risorgere in Italia il genio di Platone, condannato da lungo tempo all'obblio, e nel palagio de' Medici lo insegnò[600]; elegante filosofia che poteva essere di qualche vantaggio, in quel tempo che il Concilio di Firenze a dispute teologiche solo attendeva. Lo stile di Platone è un prezioso modello della purezza del dialetto attico: e adatta sovente i suoi più sublimi pensamenti al tuono famigliare della conversazione, arricchendoli talvolta di tutta l'arte dell'eloquenza e della poesia. I dialoghi di questo grand'uomo offrono un quadro drammatico della vita e della morte d'un saggio: e allorchè si degna discendere dai cieli, il suo Sistema morale imprime nell'animo l'amore della verità, della patria e della umanità. Socrate, co' precetti e coll'esempio, avea raccomandato un modesto dubitare e un libero ricercare: l'entusiasmo de' Platonici, che adoravano ciecamente le visioni e gli errori del lor divino maestro, potea giovare a correggere il metodo arido e dogmatico della Scuola peripatetica. Aristotele e Platone offrono meriti eguali, e nullameno sì diversi fra loro, che ponendoli in bilancia, darebbero luogo ad una interminabile controversia; pur qualche scintilla di libertà può uscire dall'urto di due opposte servitù. Queste due Sette divisero fra loro i Greci moderni, i quali sotto lo stendardo degli antichi maestri, con più di furore che d'intelligenza, si fecero guerra. I fuggiaschi di Costantinopoli scelsero Roma per nuovo lor campo di battaglia; ma non andò guari che i gramatici fecero entrare in questa filosofica lotta l'odio e le ingiurie personali: laonde Bessarione, comunque partigiano zelantissimo di Platone egli fosse, sostenne l'onore della patria, frammettendo i consigli e l'autorità d'un mediatore. La dottrina dell'Accademia, ne' giardini de' Medici, formava le delizie degli uomini colti e gentili; ma distrutta ben tosto questa filosofica società, il Saggio d'Atene non venne più consultato che negli scientifici gabinetti, intanto che il possente emulo del medesimo, rimase solo oracolo della scuola e della Chiesa[601].

A. D. 1447-1455

Ho descritto con imparzialità il merito letterario de' Greci, ma gli è d'uopo confessare che la buona voglia de' Latini li secondò, e fors'anche li superò. Sendo allora l'Italia divisa in un grande numero di piccioli Stati independenti, i Principi e le Repubbliche si disputavano l'onore d'incoraggiare e ricompensare le belle lettere. Nicolò V[602], il cui merito fu infinitamente superiore alla sua fama, per sapere e virtù si tolse dalla oscurità, ove la nascita lo avea posto, l'indole dell'uomo superando in lui mai sempre l'interesse del Pontefice, Nicolò arrotò di propria mano le armi, di cui fu fatto uso in appresso per offendere la Chiesa romana[603]. Dopo essere stato l'amico de' principali dotti del suo secolo, ne divenne il protettore, e tal si era la rara semplicità de' suoi costumi, che nè egli, nè essi quasi si accorsero d'un cambiamento di condizione. S'ei sollecitava qualcuno ad accettare un donativo, non l'offeriva come misura di merito, ma come prova di affetto, e scontrandosi in chi per modestia esitasse, soggiugnea compreso dal sentimento di quel che valeva egli stesso: «Accettate, non avrete sempre un Nicolò in mezzo a voi». Diffondendosi via maggiormente per tutta la Cristianità l'influsso della Santa Sede, il virtuoso Pontefice se ne valse per acquistar più libri che benefizj. Mandò a cercare, fra le rovine delle Biblioteche di Costantinopoli e in tutti i monasteri dell'Alemagna e della Gran Brettagna, i polverosi manoscritti dell'Antichità, procacciandosi le copie esatte di quelli de' quali non gli si volevano vendere gli originali. Il Vaticano, antico[605] ricettacolo delle Bolle, delle Leggende, de' monumenti della superstizione e della frode, ringorgò di suppellettili più rilevanti, e tanto s'adoperò Nicolò, che negli otto anni del suo regno, pervenne ad unire una Biblioteca di cinquemila volumi. Alla munificenza di questo Pontefice, il Mondo latino fu debitore delle traduzioni di Senofonte, Diodoro, Polibio, Tucidide. Erodoto ed Appiano; della geografia di Strabone, dell'Iliade, delle più preziose Opere di Platone, di Aristotele, di Tolomeo, di Teofrasto e de' Padri della Chiesa greca. Un mercatante di Firenze, che senza titoli di nascita e senza il soccorso dell'armi, governava Firenze, imitò l'esempio del romano Pontefice. Il nome e il secolo di Cosimo de' Medici[606] ceppo di una sequela di Principi, sono intrinsecamente collegati coll'idea del risorgimento delle scienze. La sua possanza gli venne dalla fama che si meritò consagrando le proprie ricchezze al vantaggio dell'uman genere. Le corrispondenze di lui si estendeano dal Cairo a Londra, e spesse volte la medesima nave gli riportava libri greci e droghe dell'India. L'ingegno del suo nipote Lorenzo, e l'educazione che il bisavolo gli procurò, ne fecero non solamente un proteggitore della letteratura, ma un giudice della medesima e un letterato. La sciagura trovava nel suo palagio un soccorso, il merito un guiderdone; l'Accademia platonica rallegravane gli ozj; incoraggiò le nobili gare di Demetrio Calcocondila e di Angelo Poliziano; Giovanni Lascaris, zelante missionario di Lorenzo, gli riportò dall'Oriente dugento manoscritti, ottanta de' quali erano sconosciuti in que' tempi alle Biblioteche d'Europa[607]. Animata da un medesimo spirito tutta l'Italia, i progressi delle nazioni retribuirono ai Principi il compenso delle loro liberalità. Riserbatisi i Latini il privilegiato possedimento della loro propria letteratura, questi discepoli de' Greci divennero ben presto capaci di trasmettere e perfezionare le lezioni che aveano ricevute. Dopo un breve succedersi di maestri stranieri, la migrazione cessò; ma già essendosi diffuso l'idioma dei Greci al di là dell'Alpi, la gioventù della Francia, dell'Alemagna e dell'Inghilterra,[608] propagò nella sua patria il sacro fuoco che avea ricevuto nelle scuole di Roma e di Firenze[609]. Nei parti dello spirito, come nella produzioni della terra, l'arte e l'industria superano i doni della natura; gli Autori greci, dimenticati alle rive dell'Ilisso, comparvero splendenti su quelle dell'Elba e del Tamigi; Bessarione e Gaza avrebbero potuto invidiare l'esattezza di Budeo, il buon gusto d'Erasmo, la facondia di Stefano, l'erudizione di Scaligero, e il discernimento di Reiske, o di Bentley. Il caso arricchì i Latini di un novello vantaggio colla scoperta della stampa; ma Aldo Manuzio e i suoi innumerabili successori adoperarono quest'arte preziosa a moltiplicare e perpetuare le Opere dell'Antichità[610]. Un solo manoscritto portato dalla Grecia, moltiplicavasi in diecimila copie tutte più belle che l'originale. Sotto questa forma Omero e Platone leggerebbero più volentieri le proprie Opere, e i loro scoliasti debbono cedere la palma ai nostri editori occidentali.

Prima che la letteratura classica risorgesse in Europa, gli abitatori di essa avvolgeansi fra le tenebre di una barbara ignoranza, e la povertà stessa degli idiomi annunziava la rozzezza de' loro costumi. Coloro che studiarono i più perfetti idiomi di Roma e della Grecia, si trovarono trapiantati in un nuovo Mondo di scienza e di luce, ammessi nel consorzio delle nazioni libere e ingentilite dell'Antichità, e in famigliare conversazione con quegl'immortali, che aveano parlato il sublime linguaggio dell'eloquenza e della ragione. Corrispondenze di tal natura doveano necessariamente innalzar l'anima e migliorare il gusto de' moderni; potremmo credere nullameno, ragionando sulle prime Opere di questi, che lo studio degli Antichi avesse somministrate catene, anzichè ali, all'umano ingegno. Lo spirito d'imitazione, comunque lodevole sia il modello, tiene sempre alla schiavitù; onde i primi discepoli dei Greci e de' Romani, pareano una colonia di stranieri in mezzo al loro paese e al lor secolo. Tante minute cure adoprate ad introdursi ne' penetrali dell'Antichità più rimota, poteano impiegarsi più utilmente nel render perfetto lo stato attuale della società: i Critici e i Metafisici, seguivano servilmente l'autorità di Aristotele. I Poeti, gli Storici, gli Oratori, ripeteano, con fastosa ostentazione, i pensieri e le espressioni del secolo d'Augusto; se contemplavano le opere della natura, cogli occhi di Plinio e di Teofrasto il faceano; e alcuni d'essi, Pagani devotissimi, rendeano perfino segreto omaggio agli Dei di Omero e di Platone[611]. Gli Italiani, nel secolo successivo alla morte del Petrarca e del Boccaccio, si trovarono oppressi dal numero e della possanza de' loro antichi ausiliarj. Comparve una folla d'imitatori latini, che adesso lasciamo, senza inconveniente, riposare negli scaffali delle nostre biblioteche. Ma difficilmente potremmo citare in quell'epoca di erudizione, la scoperta di una scienza, un'opera originale, o eloquente, scritta in idioma nativo[612]. Ciò nullameno, quando il suolo fu bastantemente imbevuto di questa celeste rugiada, la vegetazione e la vita comparvero d'ogni banda; i moderni idiomi vennero a perfezione; gli Autori classici di Roma e di Atene inspirarono purezza di gusto e nobile emulazione. Nell'Italia, siccome dappoi nella Francia e nell'Inghilterra, al regno seducente della poesia e delle finzioni, succedettero i lumi della filosofia speculativa e sperimentale. Può talvolta il genio emergere più presto della espettazione; ma all'educazione di un popolo, siccome a quella di un individuo, è necessario ne sia esercitata la memoria, prima di mettere in atto le molle della ragione, o della imitazione. Sol dopo averli imitati per lungo tempo, perviene l'artista a pareggiare, e talvolta a superare, i proprj modelli.

FINE DEL VOLUME DUODECIMO

INDICE

DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL DUODECIMO VOLUME

CAPITOLO LX. Scisma de' Greci e de' Latini. Stato di Costantinopoli. Ribellione de' Bulgari. Isacco l'Angelo scacciato dal trono per opera del suo fratello Alessio. Origine della quarta Crociata. I Francesi e i Veneziani collegati col figlio d'Isacco. Spedizione navale a Costantinopoli. I due assedj, e resa della città caduta in mano de' Latini.

A. D.

Scisma de' Greci pag. 5

Loro avversione ai Latini 6

Processione dello Spirito Santo 7

Variazioni nella disciplina ecclesiastica 10

857-887 Dispute mosse da ambizione tra Fozio Patriarca di Costantinopoli e i Pontefici 12

1054 Il Patriarca di Costantinopoli e i Greci scomunicati dai Papi 15

1100-1200 Nimistà fra i Greci e i Latini 16

I Latini a Costantinopoli 18

1185-1195 Regno e indole d'Isacco l'Angelo 21

1187 Ribellione de' Bulgari 23

1195-1203 Usurpazione e indole di Alessio l'Angelo 25

1198 Quarta Crociata 27

Crociata de' Baroni francesi 29

697-1200 Stato de' Veneziani 32

Lega de' Francesi co' Veneziani 36

1202 Unione della Crociata e partenza da Venezia 39

Assedio di Zara 42

Lega de' Crociati col giovine Alessio 44

1203 I Crociati partono da Zara per Costantinopoli 47

Arrivo 50

Inutili tentativi dell'Imperatore per negoziare 51

Passaggio del Bosforo 53

Costantinopoli presa e assediata la prima volta dai Latini 57

Isacco l'Angelo e Alessio figlio del medesimo rimessi in trono 61

Dispareri fra i Greci e i Latini 65

1204 Rincomincia la guerra 69

Morzullo scaccia dal trono i due Angeli padre e figlio 70

Secondo assedio di Costantinopoli 70

Saccheggio di Costantinopoli 76

Parteggiamento del bottino 78

Miseria dei Greci 80

Sacrilegj e scherni 82

Distruzione delle statue 83

CAPITOLO LXI. I Francesi e i Veneziani si dividono fra loro l'Impero. Cinque Imperatori latini delle Case di Fiandra e di Courtenai. Loro guerre contro i Bulgari e i Greci. Debolezza e povertà dell'Impero latino. Costantinopoli ripresa dai Greci. Conseguenza generale delle Crociate.

1204 Baldovino I eletto Imperatore 105

Parteggiamento dell'Impero greco 110

1204 ec. Ribellione de' Greci 115

1204-1122 Teodoro Lascaris Imperatore di Nicea 116

1205 Guerra de' Bulgari 121

Sconfitta e cattività di Baldovino 124

1206-1216 Regno e indole di Enrico 127

1217 Pietro di Courtenai Imperatore d'Oriente 132

1217-1219 Prigionia e morte di Pietro di Courtenai 134

1221-1228 Roberto Imperatore di Costantinopoli 135

1228-1237 Baldovino II e Giovanni di Brienne Imperatori di Costantinopoli 137

1237-1261 Santa Corona di spine 144

Buoni successi de' Greci 148

1261 Costantinopoli ripresa dai Greci 151

Conseguenze generali delle Crociate 155

1020 Origine della famiglia di Courtenai 162

1101-1152 I. I Conti di Edessa 164

II. I Courtenai di Francia 166

1150 Loro unione colla famiglia reale di Francia 167

III. I Courtenai d'Inghilterra 171

I Conti di Devon 172

CAPITOLO LXII. Gl'Imperatori greci di Nicea e di Costantinopoli. Innalzamento e regno di Michele Paleologo. Finta riconciliazione del medesimo col Papa e colla Chiesa latina. Divisamenti ostili del Duca d'Angiò. Ribellioni della Sicilia. Guerra dei Catalani nell'Asia e nella Grecia. Sommossa di Atene, e stato presente di questa città.

Restaurazione dell'Impero greco 177

1204-1222 Teodoro Lascaris 178

1222-1225 Giovanni Duca Vatace 178

1255-1259 Teodoro Lascaris II 181

Famiglia e carattere di Michele Paleologo 185

Suo innalzamento al trono 189

1260 Michele Paleologo Imperatore 193

1261 Conquista di Costantinopoli 193

Ritorno dell'Imperator greco 195

Paleologo manda in bando il giovine Imperatore dopo avergli fatto cavar gli occhi 197

1262-1268 Scomunicato dal Patriarca Arsenio 198

1296-1319 Scisma degli Arseniani 200

1259-1282 Regno di Michele Paleologo 202

1273-1332 Regno di Andronico il Vecchio 202

1274-1277 Sua unione colla Chiesa latina 203

1272-1282 Perseguita i Greci 207

1283 Unione delle due Chiese disciolta 210

1266 Carlo d'Angiò s'impadronisce di Napoli e della Sicilia 210

1270 Minaccia l'Impero greco 213

1280 Paleologo sollecita i Siciliani a ribellarsi 214

1303-1307 Servigio e guerra de' Catalani nell'Impero greco 220

1204-1456 Mutamenti politici accaduti in Atene 226

Presente stato di Atene 229

CAPITOLO LXIII. Guerre civili e rovine dell'Impero greco. Regni di Andronico il Vecchio, di Andronico il Giovane, e di Giovanni Paleologo. Reggenza, sommossa, regno e rinunzia di Giovanni Cantacuzeno. Fondazione di una Colonia genovese a Pera e a Galata. Guerre de' Coloni contro l'Impero e la città di Costantinopoli.

1282-1320 Superstizione di Andronico e del suo secolo 233

1325 Coronazione di Andronico il Giovane 241

1328 Andronico il Vecchio rassegna l'Impero 243

1332 Morte di questo 245

1328-1341 Regno di Andronico il Giovane 245

Due mogli avute dal medesimo 246

1341-1391 Regno di Giovanni Paleologo 249

Buona sorte di Giovanni Cantacuzeno 249

Nominato alla Reggenza dell'Impero 251

1341 Contrastatagli 251

Da Apocauco 251

Dall'Imperatrice Anna di Savoia 252

Dal Patriarca 252

Assume la porpora 254

1341-1347 Guerra civile 256

Vittoria di Cantacuzeno 257

Reingresso in Costantinopoli 259

1347-1355 Regno di Cantacuzeno 261

1353 Giovanni Paleologo move le armi contro Cantacuzeno 264

1355 Cantacuzeno nel mese di gennaio rassegna il trono 265

1341-1351 Disputa intorno la luce del Monte Tabor 265

1291-1347 I Genovesi mettono domicilio a Pera o Galata 269

Commercio e tracotanza de' Genovesi 272

1348 Guerra de' Genovesi contra l'Imperatore Cantacuzeno 274

Sconfitta della flotta di Cantacuzeno 275

1352 Vittoria riportata dai Genovesi su i Greci e sui Veneziani 276

CAPITOLO LXIV. Conquiste di Gengis-kan e de' Mongulli dalla Cina sino alla Polonia. Pericolo in cui si trovano i Greci a Costantinopoli. Origine de' Turchi Ottomani in Bitinia. Regni e vittorie di Otmano, Orcano, Amurat I e Baiazetto I. Fondazione e progressi della Monarchia de' Turchi in Asia e in Europa. Situazione critica di Costantinopoli e del greco Impero.

1206-1227 Zingis-kan, o Gengis-kan, primo Imperatore de' Mongulli e de' Tartari 282

Leggi di Gengis-kan 285

1214 Invade la Cina 289

1218-1224 Carizme, la Transossiana e la Persia 291

1227 Morte di Gengis-kan 294

1227-1296 Conquiste de' Mongulli sotto i successori di Gengis 294

1234 Dell'Impero settentrionale della Cina 295

1279 Della Cina meridionale 297

1258 Della Persia e dell'Impero de' Califfi 298

1242-1272 Della Natolia 300

1235-1245 Del Kipsak, della Russia, della Polonia e dell'Ungheria 301

1242 Della Siberia 305

1227-1259 I successori di Gengis 306

1259-1368 Adottano i costumi della Cina 308

1259-1300 Divisione dell'Impero de' Mongulli 310

1240-1304 Pericoli che minacciano Costantinopoli e l'Impero greco 310

1304 Invilimento in cui cadono gl'Imperatori, o Kan Mongulli della Persia 313

1240 ec. Origine degli Ottomani 314

1299-1326 Regno di Otmano 315

1326-1360 Regno di Orcano 317

1316-1339 Conquista della Bitinia 318

1300 Anatolia divisa fra gli Emiri turchi 319

1312 ec. Province asiatiche perdute dai Greci 319

1310-1523 Cavalieri di Rodi 321

1341-1347 Primo passaggio de' Turchi in Europa 321

1346 Nozze di Orcano con una Principessa greca 324

1353 Ottomani in Europa 326

Morte di Orcano e di Solimano figlio di Orcano 328

1360-1389 Regno di Amurat I, e sue conquiste in Europa 328

Giannizzeri 330

1389-1403 Regno di Baiazetto o Ilderim 331

Conquiste del medesimo dall'Eufrate al Danubio 332

1396 Battaglia di Nicopoli 334

1396-1398 Crociata e prigionia de' Principi francesi 335

1355-1391 L'Imperator Giovanni Paleologo 340

Discordia de' Greci 340

1391-1425 L'Imperatore Manuele 342

1395-1402 Angustia di Costantinopoli 342

CAPITOLO LXV. Innalzamento di Timur, o Tamerlano al trono di Samarcanda. Sue conquiste nella Persia, nella Georgia, nella Tartaria, nella Russia, nell'India, nella Sorìa e nella Natolia. Sue guerre contro i Turchi. Sconfitta e cattività di Baiazetto. Morte di Timur. Guerra civile de' figli di Baiazetto. Restaurazione della Monarchia de' Turchi sotto Maometto I. Costantinopoli assediata da Amurat II.

Storia di Timur, o Tamerlano 346

1361-1370 Sue prime imprese 350

1370 Innalzato al trono del Zagatai 352

1370-1400 Conquiste 353

1388-1393 Della Persia 353

1370-1383 Del Turkestan 355

1390-1396 Del Kipsak, della Russia ec. 356

1398-1399 Dell'Indostan 359

1400 Guerra di Timur contra il Sultano Baiazetto 362

La Sorìa invasa da Timur 366

Saccheggio di Aleppo 368

1401 Di Damasco 370

Di Bagdad 371

1402 Ingresso di Timur nella Natolia 372

Giornata d'Angora 373

Sconfitta e prigionia di Baiazetto 376

Storia della gabbia di ferro 377

Contraria al racconto dello Storico persiano di Timur 377

Attestata dai Francesi 380

—— Dagli Italiani 380

—— Dagli Arabi 381

—— Dai Greci 382

—— Dai Turchi 383

Probabile conghiettura 383

1403 Termine delle conquiste di Timur 384

1405 Trionfo a Samarcanda 388

Morte nella spedizione della Cina 390

Indole e pregi di Timur 391

1403-1421 Guerre civili de' figli di Baiazetto 396

I. Mustafà 396

II. Isa 397

1403-1410 III. Solimano 398

1410 IV. Musa 398

1413-1421 V. Maometto 399

1421-1451 Regno dell'Imperatore Amurat II 400

1421 Restaurazione dell'Impero degli Ottomani 400

1421-1425 Stato dell'Impero greco 402

1422 Costantinopoli assediata da Amurat II 406

1425-1448 Giovanni Paleologo II Imperatore 407

Successione ereditaria e meriti de' Principi ottomani 407

Educazione e disciplina de' Turchi 409

Invenzione e uso della polvere 412

CAPITOLO LXVI. Sollecitazioni degl'Imperatori d'Oriente appo i Pontefici. Viaggi di Giovanni Paleologo I, di Manuele e di Giovanni II alle Corti dell'Occidente. Unione delle Chiese greca e latina proposta nel Concilio di Basilea ed eseguita a Ferrara e a Firenze. Stato della letteratura a Costantinopoli. Suo rinascimento in Italia, ove i Greci fuggiaschi la trasportarono. Curiosità ed emulazione de' Latini.

1339 Ambasceria dell'Imperatore Andronico il Giovane al Papa Benedetto XII 416

1345 Negoziazione di Cantacuzeno con Clemente VI 421

1355 Trattato di Giovanni Paleologo I con Innocenzo VI 423

1369 Giovanni Paleologo visita a Roma Urbano V 425

1370 Torna a Costantinopoli 429

Viaggi di Manuele in Occidente 429

1400 Alla Corte di Francia 430

—— d'Inghilterra 432

Stato del sapere in Grecia 434

—— In Francia 436

—— In Inghilterra 437

1402-1417 Animo indifferente di Manuele rispetto ai Latini 439

1417-1425 Negoziazioni 440

Ragguaglio d'un intertenimento famigliare dell'Imperator Manuele 441

Morte 442

1425 Zelo di Giovanni Paleologo II 443

Corruttela che regnava nella Chiesa latina 444

1377-1429 Scisma 446

1409 Concilio di Pisa 446

1414-1418 —— Di Costanza 446

1439-1443 —— Di Basilea 446

Chiaritosi contra Eugenio IV 447

1434-1437 Negoziazioni co' Greci 448

1437 Giovanni Paleologo s'imbarca sulle galee del Pontefice 450

1438 Accolto trionfalmente in Venezia 456

—— In Ferrara 457

Concilio de' Greci e de' Latini in Ferrara 458

1439 —— In Firenze 461

Negoziazioni coi Greci 464

1438 Decreto del Concilio di Basilea che toglie il Pontificato ad Eugenio 467

Unione de' Greci coi Latini 469

1440 Ritorno de' Greci a Costantinopoli 471

1449 Pace definitiva della Chiesa 472

1300-1453 Stato della lingua greca a Costantinopoli 472

Parallelo fra i Greci e i Latini 475

Risorgimento dell'erudizione greca in Italia 477

1334 Lezioni di Barlamo 478

1339-1374 Studj del Petrarca 479

1360 —— Del Boccaccio 481

1360-1363 Leonzio Pilato, primo Professore di lingua greca a Firenze e nell'Occidente 482

1390-1415 La lingua greca si ferma in Italia per opera di Manuele Crisoloras 484

1420-1503 I Greci in Italia 487

Il Cardinale Bessarione ec. 488

Pregi e difetti de' Greci 489

Filosofia Platonica 492

Emulazione e progresso de' Latini 493

1447-1455 Nicolò V 493

Cosimo e Lorenzo de' Medici 496

Uso e abuso dell'antica erudizione 498

FINE DELL'INDICE

NOTE:

1. Il Mosheim narra la storia dello scisma de' Greci incominciando dal nono secolo e venendo sino al decimo ottavo, con erudizione, chiarezza ed imparzialità. V. intorno al filioque ( Inst., Hist. eccl., p. 277), Leone III (pag. 303), Fozio (p. 307, 308), Michele Cerulario (p. 370, 371).

2. È vero, che i primi sei o sette Concilj generali sono stati adunati in Asia minore, o a Costantinopoli nell'Impero greco, e che la massima parte de' Vescovi erano Greci, ovvero delle province d'Asia, e d'Egitto, ma v'erano anche alcuni Vescovi Latini, cioè Occidentali, ad il Pontefice romano vi fu rappresentato da' suoi due procuratori. (Nota di N. N.)

3. Se Fozio Patriarca di Costantinopoli e della Chiesa Orientale, così diceva della Chiesa Occidentale, è altresì vero, che questa riteneva le stesse interpretazioni, e decisioni de' primi sei o sette Concilj generali intorno la Divinità, la persona, la natura, la volontà di Gesù Cristo, tenuta pura dalla Chiesa Orientale. I Greci, ed in generale i Cristiani Orientali, furono i primi ad avere erronee opinioni cioè eresie; ma oltre a' Priscillianisti, che sorsero in Ispagna intorno al principio del quarto secolo, si manifestarono anche nella Chiesa Occidentale, nel decimo secolo, altri errori, che sebbene repressi dalla forza dei Cattolici ricomparvero, e crebbero grandemente per opera de' Protestanti, che li ridussero a sistema, e ad insegnamento metodico, e ne persuasero, malgrado le persecuzioni de' Cattolici, prestamente intere nazioni d'Europa, siccome sappiamo. (Nota di N. N.)

4. Ανδρες δυσσεβεις και αποτροποι, ανδρεε επ σκοτους, αναδυντες, της γαρ ’Εσπεριου μοιρας ύπηρχον γεννηματα, uomini empj ed abbominevoli, uomini emersi dalle tenebre, poichè sono razza delle regioni esperie, (Fozio Epistola, p. 47, edizione di Montacut). Il patriarca d'Oriente continua ad adoperare le immagini del tuono, de' tremuoti, della grandine, precursori dell'Anticristo ec.

5. Vedi laNota di N. N. alla fine del presente Capitolo.

6. Il Gesuita Petavio discute sul soggetto misterioso della processione del Santo Spirito e sul significato che esso presenta alla Storia, alla Teologia, alla controversia ( Dogmata theologica, tom. II, lib. VII, p. 362-440).

7. Rifletta il lettore a ciò che diciamo nella nota posta alla fine del Capitolo. È vero poi che la Chiesa Greca Orientale non volle mai aggiungere, siccome fece l'occidentale Latina, la parola filioque, ritenendo, che lo Spirito Santo proceda da Dio Padre soltanto, e non anche dal figlio, siccome noi crediamo. (Nota di N. N.)

8. Leone III pose sulla cattedra di s. Pietro due scudi di fino argento pesanti ciascuno novantaquattro libbre e mezzo, su i quali inscrisse il testo dei due Simboli ( utroque symbolo ) pro amore et cautela orthodoxae fidei (Anastas., in Leon. III, nel Muratori, t. III, part. I, p. 208). Il linguaggio[*] tenuto da esso prova evidentemente che nè il filioque, nè il Simbolo di Atanasio, erano riconosciuti a Roma verso l'anno 830.

* È certo, che il Simbolo, ossia professione di Fede d'Atanasio, era riconosciuto a Roma, ed approvato, perchè egli già comprende gli stessi sentimenti, più sviluppati, che sono nel Credo ec. del Concilio di Nicea, dei quali il Papa Silvestro, ch'ebbe i suoi procuratori a quel Concilio, ed i di lui successori, furono sempre sostenitori contro gli Ariani, e contro i Semiariani. Sappiamo per altro da tutti gli Storici ecclesiastici, che alcuni anni dopo, il Papa legittimo Liberio, stanco dell'esilio e dolente della perdita della luminosa Sede Romana, cui l'aveva condannato l'Imperatore Costanzo figlio di Costantino, sostenitore degli Ariani contro gli Atanasiani, ossia Cattolici, sottoscrisse una formula di Fede Ariana, contraria a quella del Concilio di Nicea, non ammettendo il consubstantialem, scritto nel Credimus ec., di Nicea, e che il frutto ne fu il ricuperare il ricchissimo, e potente Vescovato di Roma: ma sappiamo altresì, che poscia fu egli dolente del suo fallo nella materia dogmatica, e ritornò a credere la divinità di Gesù Cristo, ammettendo la parola consubstantialem; siccome era stata dichiarata dal Concilio di Nicea nel Credimus ec. coll'espressione Jesum Christum Filium ejus consubstantialem Patri. Il fumoso Osio Vescovo di Cordova presidente del Concilio di Nicea, principale sostenitore della divinità di Gesù Cristo, e dell'espressione, consubstantialem Patri che la significava, e confidente di Costantino che fu con pompa imperiale, e con soldatesche al Concilio stesso, sottoscrisse pure la formula Ariana, negante la divinità di Cristo, sotto lo stesso Imperatore Costanzo, per evitare l'esilio, e per conservare l'immense ricchezze procacciatesi col favore dell'antecessore Imperator Costantino. Liberio cedette alle insinuazioni, e agli argomenti di due Vescovi Ariani, Arsacio e Valente: abbiamo già le lettere e le risposte. Vedi Lebbe, Collectio Conciliorum. (Nota di N. N.).

9. I Missi di Carlomagno sollecitarono vivamente il Pontefice, affinchè chiarisse dannati senza remissione tutti coloro che rifiutavano il filioque, o almeno la sua dottrina. Tutti, rispose il Papa, non hanno la capacità di raggiugnere colla mente altiora mysteria; qui potuerit et non voluerit, salvus esse non potest (Collect., Concil. t. IX, pag. 277-286). Il potuerit lasciava grandi aiuti alla salute delle anime.

10. Non può dirsi che Leone III, che viveva nel principio del secolo nono, volesse precisamente cancellare il filioque ammesso dai Concilj provinciali di Spagna, e da Leone I Vescovo di Roma; egli solamente non voleva, che si aggiugnesse il filioque al Credimus ec. di Costantinopoli, e che si cantasse nelle chiese. In conclusione, comunque egli abbia creduto la procedenza dello Spirito Santo dal Padre ed anche dal figlio, fu ammessa, creduta dalla Chiesa, Latina, ed integrata al popolo, fino dal quinto secolo, ed il Concilio generale di Lione l'anno 1274 finalmente aggiunse il filioque al Credimus ec., del Concilio generale di Costantinopoli, e perciò ogni buon credente della Chiesa Latina, crede anche nella ultima aggiunta del filioque. (Nota di N. N.)

11. La disciplina ecclesiastica può dirsi oggidì ben rilassata in Francia, confrontandola colla rigorosissima severità di alcuni regolamenti. Già il latte, il burro, il formaggio son divenuti nudrimento ordinario della Quaresima, e in questo tempo è permesso l'uso delle uova mediante un concedimento annuale, che tien vece di un'indulgenza perpetua ( Vie privée des Français, t. II, p. 27, 38).

12. I documenti originali dello scisma, e le accuse mosse dai Greci contra i Latini trovansi nelle Lettere di Fozio ( Epist. Encyclica, II, pag. 47-61) e di Michele Cerulario (Canisii antiq. Lectiones, t. III, part. I, pag. 281-324, ediz. Basnage colla prolissa risposta del Cardinale Umberto).

13. L'opera i Concilj (ediz. di Venezia) contiene tutti gli atti de' Sinodi e la storia di Fozio. I compendj del Dupin e del Fleury lasciano leggermente conoscere, ove stesse la ragione, ove il torto.

14. Il Sinodo tenutosi a Costantinopoli nell'anno 869, ottavo fra i Concilj generali, è l'ultima Assemblea dell'Oriente che dalla Chiesa romana siasi riconosciuta. Questa non ammette i Sinodi di Costantinopoli degli anni 867 e 879 non men copiosi e romorosi degli altri, ma che si mostrarono favorevoli a Fozio.

15. V. questo anatema nell'opera I Concilj (tom. XI, p. 1457-1460).

16. Lo scisma s'accrebbe non solamente per le ardite intraprese dei Papi, ma anche per quelle de' Patriarchi Greci; la passione irritava, e trasportava tanto una parte, che l'altra. (Nota di N. N.)

17. Anna Comnena ( Alexiad., l. I, p. 31-33) dipinge l'orrore che concetto aveano, non solamente la Chiesa greca, ma anche la Corte, contro Gregorio VII, i Papi, e la Comunione Romana. Più veemente ancor lo stile di Cinnamo o di Niceta dimostrasi. Ciò nullameno quanto comparisse mansueta e moderata a petto di quella de' Teologi, la voce degli Storici!

18. Lo Storico anonimo di Barbarossa ( De expedit. Asiat. Fred. I, in Canisii Lection. antiq. t. III. part. II, p. 511, ediz. di Basnage) cita i Sermoni del Patriarca greco: Quomodo Graecis injunxerat in remissionem peccatorum Peregrinos occidere et delere de terra. Taginone osserva ( in Scriptores Freher, t. I, pag. 409, ediz. di Struv.) Graeci haereticos nos appellant: clerici et monachi dictis et factis persequuntur. Noi possiamo aggiugnere la dichiarazione dell'Imperatore Baldovino quindici anni dopo: Haec est (gens) quae Latinos omnes non hominum nomine, sed canum dignabatur, quorum sanguinem effundere pene inter merita reputabant. ( Gesta Innocent. III. cap. 92, in Muratori, Script. rerum Italicar. t. III: part. I, p. 536). Può esservi in tutto ciò qualche esagerazione; ma non quindi contribuì con minore efficacia alla azione e alla reazione dell'odio che era reale.

19. V. Anna Comnena ( Alex. l. VI, pag. 161-162) e un passo singolare di Niceta sopra Manuele, l. V, cap. IX, che intorno ai Veneziani osserva che κατα σμηνη και φρατριας την Κωνσταντινου πολιν της οικειας ηλλαξαντο ec., a sciami e per famiglie abbandonarono la patria per Costantinopoli.

20. Ducange, Fam. Byzant. p. 186, 187.

21. Nicetas, in Manuele l. VII, cap. 2, Regnante enim (Manuele).... apud eum tantum Latinus populus repererat gratiam, ut neglectis Graeculis suis tanquam viris mollibus, effoeminatis.... solis Latinis grandia committeret negotia..... erga eos profusa liberalitate abundabat..... ex omni orbe ad eum tanquam ad benefactorem nobiles et ignobiles concurrebant (Guglielmo di Tiro XXII, c. 10).

22. Ben si sarebbero confermati ne' loro sospetti i Greci, se avessero vedute le lettere politiche che Manuele scriveva al papa Alessandro III, nemico del suo nemico Federico I, manifestandogli desiderio di unire i Greci e i Latini in un sol gregge sotto i pastori medesimi ( V. Fleury, Hist. ecclés. t. XV, p. 187, 213-243).

23. V. le relazioni de' Greci e de' Latini in Niceta (Alessio Comneno c. 10) e in Guglielmo di Tiro (l. XXII; c. 10, 11, 12, 13); moderata e concisa la prima, verbosa, veemente e tragica la seconda.

24. Il senatore Niceta ha composta in tre libri la storia del regno d'Isacco l'Angelo, p. 228-290, e pensando che ei fu Logoteto ossia primo Segretario e Giudice del Velo, o del palagio, grande imparzialità non ci possiamo aspettare da lui. Gli è però vero che sol dopo la caduta e la morte del suo benefattore, questa storia avea scritta.

25. V. Boadino ( Vit. Saladin, pag. 129-131-226, traduzione dello Sculthens). L'ambasciadore d'Isacco parlava indifferentemente il francese, il greco e l'arabo, cosa che in quel secolo può riguardarsi come un fenomeno. Il messaggio del Greco trovò alla Corte del Sultano accoglienza onorevole, ma il molto scandalo che produsse nell'Occidente ne fu il solo effetto.

26. Ducange, Fam. Dalmat. p. 318, 319, 320. La corrispondenza tra il Pontefice romano e il Re de' Bulgari, leggesi nell'Opera Gesta Innocentii III, c. 66-82, p. 513-525.

27. Il Papa riconobbe questa origine italiana di Giovannizio. A nobili urbis Romae prosapia genitores tui originem traxerunt. Il d'Anville ( Etats de l'Europe, p. 258-262) spiega questa tradizione, e la grande somiglianza che si ravvisa fra la lingua latina e l'idioma de' Valacchi. Il torrente delle migrazioni avea trasportate dalle rive del Danubio a quelle del Volga le colonie poste da Traiano nella Dacia; e una seconda ondata dal Volga al Danubio, giusta il d'Anville, le avea ricondotte. La cosa è possibile, ma si toglie molto dall'ordinario.

28. Questa parabola non disdice, per vero dire, allo stil di un Selvaggio; ma piaciuto sarebbemi che il Valacco non vi avesse frammessi il nome classico de' Misj, le esperienze della calamita, e la citazione di un antico poeta comico (Niceta, in Alex. Com. l. 1, p. 299-300).

29. I Latini aggravano l'ingratitudine di Alessio supponendo che Isacco lo avesse liberato dalla schiavitù in cui lo tenevano i Turchi. So che questo patetico racconto è stato spacciato a Venezia ed a Zara, e non ne trovo orma in alcuno degli Storici greci.

30. V. il regno d'Alessio l'Angelo o Comneno ne' tre libri di Niceta, p. 291-352.

31. V. Fleury, Hist. eccles. t. XVI, p. 26 ec., e Villehardouin n. 1, colle osservazioni del Ducange, non mai disgiunte dal testo originale di cui mi valgo.

32. La vita contemporanea del Papa Innocenzo III, pubblicata dal Ballazio e dal Muratori, ( Script. rer. Ital. t. III, part. I, p. 486-568) è preziosa per l'importanza delle istruzioni inserite nel testo: ivi si può leggere ancora la Bolla della Crociata, c. 84-85.

33. Porce cil pardon fut issi gran, se s'en esmeurent mult li cuers des genz, et mult s'en croisièrent, porce que li pardons ere si gran. Villehardouin n. 1. I nostri filosofi possono sottilizzare a lor grado sulle cagioni delle crociate, ma tali erano i veraci sentimenti di un cavaliere francese.

34. Questo numero di feudi, mille e ottocento de' quali, doveano ligio omaggio, trovavasi registrato nella Chiesa di S. Stefano di Troyes, e venne attestato nel 1213 dal maresciallo della Sciampagna (Ducange, Observ. p. 254).

35. Campania.... militiae privilegio singularis excellit.... in tyrociniis... prolusione armorum, etc. (Ducange, p. 249), tratto dall'antica Cronaca di Gerusalemme A. D. 1177-1199.

36. Il nome di Villehardouin trae la sua origine da un villaggio o castello della diocesi di Troyes fra Bar e Arcy. Nobile ed antica era questa famiglia; il cui ramo primogenito durò sino al 1400: il ramo secondogenito divenuto possessore del principato d'Acaia, andò a terminarsi nella Casa di Savoia (Ducange, p. 235-245).

37. Il padre di questo Goffredo e i suoi discendenti possedettero tale carica; ma il Ducange non ha seguito il corso delle cose colla sua diligenza ordinaria. Trovo che nel 1356 la stessa carica passò nella Casa di Conflans. Questi marescialli di provincia sono, è lungo tempo, ecclissati dai marescialli di Francia.

38. Questo idioma del quale presenterò alcuni saggi, è stato spiegato dal Vigenere e dal Ducange in una Versione e in un Glossario. Il presidente Brosses ( Mechanisme des langues, t. II, p. 83) lo vuole un modello di una lingua che ha perduta l'essenza di lingua francese, e che i soli grammatici possono intendere.

39. L'età in cui visse e l'espressione, moi qui ceste oeuvre dicta (n. 62, ec.) possono far nascere un sospetto, più fondato di quello del Wood intorno ad Omero, che il predetto maresciallo non sapesse nè leggere, nè scrivere. Nondimeno la Sciampagna può gloriarsi di avere prodotti i due primi Storici, i nobili padri della prosa francese, Villehardouin e Joinville.

40. La Crociata, i regni del Conte di Fiandra, di Baldovino e di Enrico suo fratello, formano il particolare argomento di una storia composta dal Doutremens, gesuita ( Constantinopolis belgica, Tournai, 1638, in 4); Opera che io conosco solamente da quanto ne ha detto il Ducange.

41. T. VI di questa storia.

42. Il Pagi ( Critica, t. III, A. D. 810, n. 4 ec.) tratta sulla fondazione e l'independenza di Venezia e sull'invasione di Pipino ( V. la diss. del Beretti, Cron. It. medii aevi, in Muratori, Script. t. X, p. 153). I due critici mostrano qualche parzialità. Il Francese contro la Repubblica, l'Italiano in favore di essa.

43. Allorchè il figlio di Carlomagno armò i suoi diritti dì sovranità, i fedeli Veneziani gli risposero: οτι ημεις διπλος θελσμεν ειναι του Ρομαιων βασιλεως, perchè noi vogliamo essere secondi sudditi del Re dei Romani (Costantino Porfirogeneta, De admin. imper. part. II, c. 28, p. 85); tradizione del nono secolo che rende ragione de' fatti del decimo, confermati dall'ambasceria di Liutprando di Cremona. Il tributo annuale che l'Imperatore permise si pagasse al Re d'Italia dai Veneziani, raddoppia la servitù di questi sotto aspetto di alleggerirla; ma l'odioso διουλοι vuol essere tradotto come nel chirografo dell'anno 827 (Laugier, Hist. de Venise, t. I, p. 67 ec.) co' più miti vocaboli subditi o fideles.

44. V. la venticinquesima e trentesima dissertazione delle Antichità del Medio Evo del Muratori. La Storia del commercio composta da Anderson non fa incominciare il traffico de' Veneziani coll'Inghilterra che nell'anno 1323. L'Abate Dubos ( Hist. da la ligue de Cambrai, t. II, p. 443-480) offre una allettevole descrizione del fiorente stato del loro commercio e delle loro ricchezze nel principio del secolo XV.

45. I Veneziani tardarono assai nel pubblicare e scrivere la loro storia. I più antichi loro monumenti sono: I. l'arida Cronaca composta, come sembra, da Giovanni Sagornino (Venezia 1765 in 8), ove si dimostrano lo stato e i costumi di Venezia nell'anno 1028; II. la storia più voluminosa del Doge Andrea Dandolo 1342-1354, pubblicata per la prima volta nel duodecimo tomo del Muratori, A. D. 1728. La Storia di Venezia scritta dall'Abate Laugier (Parigi 1728) è un'Opera non priva di merito, e della quale io mi sono principalmente giovato per la parte che alla costituzione della Repubblica si riferisce.

46. Enrico Dandolo compiea gli ottantaquattro anni quando fu eletto Doge, A. D. 1192, e ne avea novantasette all'atto della sua morte, A. D. 1205. V. le osservazioni del Ducange sopra Villehardouin, n. 204. Ma gli storici originali non mettono attenzione a questa straordinaria lunghezza di vita. È questo, cred'io, il primo esempio d'un eroe pervenuto quasi ai cento anni. Teofrasto potrebbe somministrar l'esempio di uno scrittore quasi nonagenario: ma invece di εννενκοντα novanta ( Prooem. ad Character. ) sarei piuttosto inclinato a leggere επδομεκοντα settanta come hanno pensato l'ultimo editore di Teofrasto, il Fischer, ed anche il Casaubono. Egli è quasi impossibile che in tanto avanzata età il corpo e l'immaginazione conservino il loro vigore.

47. I moderni Veneziani (Laugier, t. II, p. 219) accusano della cecità del Dandolo l'Imperator Manuele, calunnia confutata dal Villehardouin e dagli antichi storici, secondo i quali il veneto Doge per conseguenza d'una ferita, perdè la vista (n. 34 e Ducange).

48. V. il Trattato originale nella Cronaca di Andrea Dandolo p. 323-326.

49. Leggendo il Villehardouin non possiamo far di meno di osservare che questo Maresciallo e i cavalieri suoi confratelli piangevano molto spesso. « Sachiez que la ot mainte lerme plorée de pitié (n. 17): mult plorant (ibid.); mainte lerme plorée (n. 34) si orent mult pitié et plorérent mult durement (n. 60); i ot maint lerme plorée de pitié (n. 202)». In somma piangevano in tutte le occasioni, ora per afflizione, ora per gioia, e se non altro per divozione.

50. Questo Marchese di Monferrato, segnalato erasi per una vittoria contro gli Astigiani (A. D. 1191), per una crociata in Palestina, per una legazione pontificia presso gli alemanni principi sostenuta (Muratori, Annali d'Italia, t. X, p. 163-202).

51. V. la Crociata degli Alemanni nella Historia C. P. di Gunther ( Can. Antiq. lect. t. IV, p. V-VIII) che celebra il pellegrinaggio di Martino, uno fra i predicatori rivali di Folco di Neuilly. Apparteneva all'Ordine di Citeaux, e il suo monastero era situato nella diocesi di Basilea.

52. Indera, oggidì Zara, colonia romana che riconosce Augusto per suo fondatore, ai dì nostri ha un circuito di due miglia, e contiene fra i cinque e i seimila abitanti; ottimamente fortificata, un ponte la congiunge alla terra ferma ( V. i viaggi di Spon e di Wheeler, viaggi di Dalmazia, di Grecia, ec. t. I, p. 64-70; viaggio in Grecia p. 8-14). L'ultimo di questi viaggiatori, confondendo Sestertia e Sestertii, valuta dodici lire sterline un arco di trionfo decorato di colonne e di statue. Se a que' giorni non v'erano alberi nei dintorni di Zara, convien dire che quegli abitanti non avessero ancora pensato a piantare i ciliegi, dai quali oggidì si ritrae il famoso maraschino di Zara.

53. Il Katona ( Hist. crit. reg. Hungar. Stirpis Arpad. t. IV, p. 536-558) unisce fatti e testimonianze, oltre ogni dire, sfavorevoli ai conquistatori di Zara.

54. V. tutta la transazione e i sentimenti del Papa nelle Epistole di Innocenzo III, Gesta, c. 86, 87, 88.

55. Un leggitore moderno farà le maraviglie nel veder dato il nome di valletto di Costantinopoli al giovine Alessio. Questo titolo degli eredi del trono corrispondeva all' Infante degli Spagnuoli, al nobilissimus puer de' Romani. I paggi o valletti de' Cavalieri non erano men nobili de' loro padroni ( Villehar. e Duc. n. 36).

56. Il Villehardouin (n. 38) chiama l'Imperatore Isacco Sarsach forse dalla voce francese Sire, o dalla greca Κυρ, κυριος, Sire, Signore, formata colla terminazione del nome proprio: le denominazioni corrotte di Tursac e di Conserac che troveremo in appresso, ne forniranno un'idea della libertà che in ordine a ciò si prendeano le antiche dinastie della Sorìa e dell'Egitto.

57. Ranieri e Corrado: l'uno sposò Maria, figlia dell'Imperatore Manuele Comneno, l'altro Teodora Angela sorella degli Imperatori Isacco ed Alessio. Corrado abbandonò la Corte di Bisanzo e la moglie per accorrere in difesa di Tiro minacciata da Saladino (Ducange, Fam. Byzant., p. 187-203).

58. Niceta in Alex. Comn., (l. III, c. IX), accusa il Doge e i Veneziani, come autori della guerra mossa a Costantinopoli, e riguarda come κυμα υπερ κυματι, procella sopra procella, l'arrivo e le ignominiose offerte del Principe esigliato.

59. Il Villehardouin e il Gunther spiegano i sentimenti dell'una e dell'altra fazione. L'Abate Martino, che abbandonando l'esercito a Zara si trasferì in Palestina, venne inviato come ambasciatore a Costantinopoli, trovatosi a proprio dispetto spettatore del secondo assedio.

60. La nascita e le dignità che si univano in Andrea Dandolo gli somministravano e modi e motivi di cercare negli archivj di Venezia la storia del suo illustre antenato. Il laconismo ch'ei serba ne' proprj racconti rende alquanto sospette le moderne e verbose relazioni di Sanuto (Muratori script. rer. it. t. XXII), del Sabellico e del Ramnusio.

61. V. Villehardouin, n. 62. In cotest'uomo, originali appaiono i sentimenti quanto il modo di esprimerli. Proclive alle lagrime, non quindi meno allegrasi della gloria e del pericolo delle pugne con tale entusiasmo, che ad uno scrittore sedentario non può appartenere.

62. In questo viaggio, quasi tutti i nomi geografici trovansi svisati dai Latini: il nome moderno di Calcide, e di tutta l'Eubea deriva dall' Euripus d'onde Evripo, Negripo, Negroponte, che alle nostre carte geografiche fanno disdoro. (D'Anville, Geogr. anc. t. I, p. 263).

63. Et Sachiez que il ne ot si hardi cui le cuer ne fremist (c. 67) ... Chascuns regardoit ses armes... que par tems en arunt mestier (c. 68). Tale è l'ingenuità caratteristica del vero coraggio.

64. « Eandem urbem plus in solis navibus piscatorum abundare, quam illos in toto navigio. Habebat enim mille et sexcentas piscatorias naves.... Bellicas autem sive mercatorias habebat infinitae multitudinis et portum tutissimum ». Gunther, Hist C. P., c. 8, p. 10.

65. Καθαπερ ιεερω, ειπειν δε και θεοψυτευτων παραδεισων εφειδοντο τουτωνι, come ad un sacro bosco parlavano, e risparmiavanlo quasi un giardino piantato da Dio. Niceta, in Alex. Comn., l. III, c. 9, p. 348.

66. Seguendo la traduzione del Vigenere, mi valgo del sonoro vocabolo di palandra, usato credo tuttavia lungo il littorale del mediterraneo. Se però scrivessi in Francese, adoprerei la parola originaria ed espressiva di vessiery o huissiers, tolta da huis, voce vieta che significava una porta atta a sbassarsi a guisa de' ponti levatoi, ma che per gli usi di mare collo stesso meccanismo si alzava nella parte interna del navilio. (Ducange, Villehardouin, n. 14, e Joinville, p. 27-28, ediz. del Louvre).

67. Per evitare l'espressione vaga di seguito o seguaci ec., ho adoperata, seguendo il Villehardouin la voce sergente, per indicare tutti gli uomini a cavallo che non erano cavalieri. Vi erano sergenti d'armi e sergenti di toga. Assistendo alla parata e alle adunate di Westminster può vedersi la bizzarra conseguenza di una tal distinzione ( Ducange, Gloss. lat. Servientes etc. t. VI, p. 226-231).

68. È inutile l'annotare che intorno a Galata, alla catena del porto ec., il racconto del Ducange è compiuto e minutamente esatto. V. anche i capitoli particolari dell'opera C. P. Christiana dello stesso autore. L'ignoranza o la vanità degli abitanti di Galata era sì grande, che appropiavano a sè medesimi l'Epistola di S. Paolo ai Galati.

69. La galea che ruppe la catena chiamavasi l'Aquila ( Dandolo, Chron., p. 322), che il Biondi ( de Gestis Venet. ) ha trasformata in Aquilo, vento boreale. Il Ducange (n. 83) ammette la seconda sposizione; ma egli non conosceva il testo autentico del Dandolo, e trascurò inoltre di esaminare la topografia del porto. Avrebbe veduto allora che il vento di scilocco era infinitamente più favorevole del vento di tramontana a questa spedizione dei Crociati.

70. Quatre cent mille hommes ou plus (Villehardouin, n. 134) vuole intendersi d'uomini in istato di portar l'armi. Il Le Beau ( Hist. du Bas-Empire, t. XX, p. 417), concede a Costantinopoli un milione d'abitanti, sessantamila uomini di cavalleria e una moltitudine innumerabile di soldati. Nel suo stato d'invilimento la capitale dell'Impero ottomano contiene oggidì quattrocentomila abitanti. ( Voyages de Bell, vol. II, p. 401-402). Ma non tenendo i Turchi alcun registro nè de' morti, nè delle nascite, ed essendo intorno a ciò sospette tutte le relazioni che abbiamo, egli è impossibile il verificare la vera loro popolazione (Niebuhr, Voyag. en Arab., t. I, p. 18, 19).

71. Regolandomi colle piante più esatte di Costantinopoli, non posso ammettere un'estensione maggiore di quattromila passi; nondimeno il Villehardouin (n. 86) la fa di tre leghe. Se i suoi occhi non lo hanno ingannato, è duopo credere che ei contasse a leghe degli antichi Galli, di mille cinquecento passi l'una, colle quali forse anche oggidì si regolano le misure de' terreni nella Sciampagna.

72. Il Villehardouin (n. 89-95) indica le guardie imperiali o i Varangi coi nomi di Anglais et Danois avec leurs haches. Qualunque si fosse la loro origine, un pellegrino francese non potea fare sbaglio sulla qualità delle nazioni che formavano questa guardia.

73. Intorno al primo assedio e alla conquista di Costantinopoli giova consultare la lettera originale de' Crociati ad Innocenzo III, Villehardouin (n. 75-99), Niceta ( in Alex. Com. l. III c. X, p. 349-352), Dandolo ( Chron., p. 322). Gunther e l'Abate Martino non erano anche tornati dal lor primo pellegrinaggio a Gerusalemme o a S. Giovanni d'Acri, ove ostinatamente fermaronsi, benchè la maggior parte de' loro compagni vi fosse morta di peste.

74. Il Villehardouin colla sua grossolana eloquenza, n. 66-100, ne fa comprendere, quale impressione provassero i Crociati al vedere Costantinopoli e i suoi dintorni: cette ville, dic'egli, que de toutes les autres ere Souveraine. V. i tratti di questa descrizione in Foulcher di Chartres ( Hist. Hieros., t. I, c. 4), e in Guglielmo di Tiro (II, 5, XX, 26).

75. Giocando ai dadi, i Latini gli tolsero il suo diadema, mettendogli in capo un berrettone di lana o di pelo. Το μεγαλοπρεπες κς παγκλειστον κατερρυπινεν ονομα, infamavano un nome dignitoso e gloriosissimo (Nicetas, p. 358). Se un tale scherzo gli fu fatto dai Veneziani, vi si vedeva la conseguenza dell'audacia naturale ai repubblicani e ai trafficanti.

76. V. Villehardouin, n. 181; Dandolo, p. 322. Il Doge afferma che i Veneziani furono pagati più lentamente de' Francesi, osservando però che la storia delle due nazioni in ordine a ciò non si trova d'accordo. Aveva egli letti gli scritti del Villehardouin? I Greci si lamentarono quod totius Graeciae opes transtulisset ( Gunther, Hist., C. P. c. 13). V. le querimonie e le invettive di Niceta (p. 355).

77. Il regno di Alessio Comneno occupa tre interi libri di Niceta, che impiega solo cinque capitoli a narrare la corta restaurazione d'Isacco e del giovine Alessio (p. 352-362).

78. Mentre Niceta rimprovera ad Alessio l'empia lega che questi avea co' Latini contratta, insulta con termini ingiuriosi la religione del romano Pontefice, μειζον και ατοσοπτόν.... παρεκτροπμν σιρτεως.... των του παπα προνομιων καινιεμον.... γεταθεειο τε και μεταποιμεν των πσλαιων φωμαιοις εθων, deviò grandemente e in modo indegno dalla fede.... la novità delle massime del Papa.... mandava ai Romani cangiate e trasfigurate le massime antiche, (p. 348). Così tutti i Greci si espressero fino al punto della compiuta sovversione di questo impero.

79. Niceta (pag. 355) non esita nell'accusare particolarmente i Fiaminghi (φλαμιονες) Flamiones; ma a torto riguarda siccome antico il lor nome. Il Villehardouin (n. 107) difende i Baroni, e ignora o mostra ignorare i nomi de' colpevoli.

80. Si paragonino le lamentele e i sospetti di Niceta (p. 359-362) colle accuse positive di Baldovino di Fiandra. ( Gesta Innocentii III, cap. 92, p. 534) cum pathriarca et mole nobilium, nobis promissis perjurus et mendax.

81. Nicolao Canabo era questo fantasma. Niceta ne fa encomj; Murzuflo alla propria vendetta lo sagrificò p. 362.

82. Il Villehardouin (n. 116) parla di questo Murzuflo come di un favorito, e sembra ignorare che egli fosse principe del sangue imperiale, e pertenente alla casa di Duca. Il Ducange celebre nel razzolare ogni genere di erudizione, crede che questo Alessio fosse figlio d'Isacco Duca Sebastocrator, e cugino germano del giovine imperatore Alessio.

83. Niceta accerta il fatto di una tale negoziazione che sembra per altra parte molto probabile (p. 365): ma il Villehardouin e il Dandolo la riguardano come obbrobriosa, e non ne fanno parola.

84. Baldovino commemora questi due tentativi contro la flotta ( Gesta, c. 92, p. 534-535): il Villehardouin (n. 113-115) non accenna che il primo. È cosa degna d'osservazione che nessuno di questi guerrieri si ferma a descrivere qualche particolare proprietà del fuoco greco.

85. Il Ducange (n. 119) ne inonda di un torrente di erudizione intorno al gonfalone imperiale. Ella è cosa singolare che questa bandiera della Madonna è parimente un trofeo e una reliquia che fanno vedere i Veneziani. Se essi possedono la vera, convien dire che il pietoso Dandolo abbia ingannati i monaci di Citeaux.

86. Il Villehardouin (n. 126) confessa che mult ere grant péril: e il Gunther ( Hist. C. P. cap. 13) afferma che nulla spes victoriae arridere poterat. Però e il Cavaliere parla con disprezzo di coloro che pensavano alla ritirata, e il monaco loda que' suoi compatriotti che erano risoluti di morire coll'armi alla mano.

87. Baldovino e tutti gli Storici cristiani onorano il nome di quelle due galee coll'aggiunto felici auspicio.

88. Facendo allusione ad Omero, Niceta lo chiama εννεα οργυιας, alto nove orgie, ossia diciotto verghe inglesi, circa cinquanta piedi. Una tale statura difatti sarebbe stata una scusa molto legittima al terrore de' Greci. In questa occasione l'autore si mostra più dominato dalla passione di contar maraviglie che dall'interesse del suo paese, o dall'amore della storica verità. Baldovino sclama colla parole del Salmista, Persequitur unus ex nobis centum alienos.

89. Il Villehardouin (n. 130) ignora ancora gli autori di un tale incendio men condannevole del primo, e del quale secondo il Gunther è reo, quidam comes Theutonicus (cap. 14). Sembra che gl'incendiarj arrossiscano di confessarlo.

90. Intorno al secondo assedio, o alla conquista di Costantinopoli V. Villehardouin (n. 113-132), la seconda lettera di Baldovino ad Innocenzo III ( Gesta, cap. 92, p. 534-537), e l'intero regno di Murzuflo in Niceta (p. 363-375). Possono ancora consultarsi alcuni passi del Dandolo ( Chron. venet., p. 323-330) e Gunther, Hist. (C. P. cap. 14-18), i quali aggiungono ai loro racconti il maraviglioso delle visioni e delle profezie. Il primo di essi cita un oracolo della Sibilla Eritrea, che annunzia un grande armamento sull'Adriatico, condotto da un generale greco, spedito contro Bisanzo ec., maravigliosissima predizione, se non fosse posteriore all'avvenimento.

91. Ceciderunt tamen eo die civium quasi duo millia. Gunther (c. 18). L'aritmetica è una pietra di paragone per valutare le passioni e l'ampollosità delle figure rettoriche.

92. Quidam (dice Innocenzo III, Gesta, c. 94, p. 538) nec religioni, nec aetati, nec sexui pepercerunt, sed fornicationes, adulteria, et incestus in oculis omnium exercentes, non solum maritatas et viduas, sed et matronas et virgines deoque dicatas exposuerunt spurcitiis garcionum. Il Villehardouin non fa parola di questi fatti troppo soliti ad accadere nelle guerre.

93. Niceta salvò, indi sposò una nobile vergine, che un soldato, επι μαρτυτι πολλοις ονηδον επιβρωμωμενος, lascivamente smanioso in faccia a molti testimonj, quasi violò senza riguardo a εντολαι, ενταλματα ευ γεγονοτων, alle massime od ai precetti delle persone ben nate.

94. Intorno al valor generale di tutto lo spoglio il Gunther lo riguarda tale, ut de pauperibus et advenis cives ditissimi redderentur ( Hist. C. P. c. 18); il Villehardouin (n. 132) osserva che dopo la creazione del mondo ne fu tant gaignié dans une ville, e Baldovino ( Gesta, c. 92) ut tantum tota non videatur possidere Latinitas.

95. V. Villehardouin (n. 133-135). Evvi una variante nel testo, per cui può leggersi e cinquecentomila e quattrocentomila. I Veneziani aveano fatta la profferta di prendersi per sè tutto lo spoglio, indi sborsare quattrocento marchi a cadaun cavaliere, dugento a cadaun sergente, cento a cadaun soldato; contratto che non sarebbe stato vantaggioso per la Repubblica (Le Beau, Hist. du bas-Empire, l. XX, p. 506, non so poi su qual fondamento).

96. Nel Concilio di Lione (A. D. 1295) gli ambasciatori d'Inghilterra valutarono la rendita della Corona, inferiore a quella del clero straniero, che ascendeva a sessantamila marchi annuali (Mattia Paris, p. 451; Hume Storia d'Inghilterra, vol. II).

97. Niceta descrive in patetica guisa il saccheggio di Costantinopoli e le sciagure che personalmente il percossero (p. 367-369, e Status urbis C. P., p. 375-384). Innocenzo III, Gesta, c. 92 conferma perfino la realtà de' sacrilegj deplorati da Niceta: ma Villehardouin non lascia scorgere nè pietà, nè rimorsi.

98. Se ho ben inteso il testo greco di Niceta, le loro vivande predilette eran cosce di manzo a lesso, maiale salato condito coi ceci, zuppa con aglio ed erbe forti, o acide (p. 582).

99. Niceta si vale di espressioni durissime αγραμματοις βαρβαροις, και τελεον αναλφαβητοις Barbari illetterati, e totalmente ignari dell'abbicì. (Fragm. apud Fabricium, Bibl. Graec., t. VI, p. 414). Vero è che questo rimprovero si riferisce principalmente alla loro ignoranza della lingua greca e delle sublimi opere di Omero. I Latini del dodicesimo e tredicesimo secolo non mancavano di opere di letteratura nella propria lingua. V. le Ricerche filologiche di Harris, p. 3, c. IX, X, XI.

100. Niceta, nativo di Cona in Frigia (antico Colosso di S. Paolo) era pervenuto al grado di Senatore, di Giudice del Velo e di gran Logoteta. Dopo la rovina dell'Impero, di cui fu vittima e testimonio, si ritrasse a Nicea, ove compose una compiuta e accurata storia che procede dalla morte di Alessio Comneno insino al regno di Enrico.

101. Un manoscritto di Niceta (nella biblioteca Bodleana) contiene questo singolare frammento che riguarda lo stato di Costantinopoli, e che o ad arte, o per vergogna, o piuttosto per trascuratezza è stato ommesso nelle precedenti edizioni. Lo ha pubblicato il Fabrizio ( Bibl. graec., t. VI, p. 405-416), e l'ingegnoso Harris di Salisbury non ha limiti nel lodarlo ( Ricerche filologiche part. III, cap. V).

102. Per darne un'idea della statua di Ercole il sig. Harris ha citato un epigramma, e presentata la figura scolpita in una bella pietra; ma questa non offre l'atteggiamento di un Ercole, senza clava, col braccio e la gamba stesa siccome di questa statua vien detto.

103. Ho trascritte letteralmente le proporzioni indicate da Niceta, le quali mi sembrano oltre modo ridicole, e forse ne condurranno a giudicare che il preteso buon gusto di questo senatore ad ostentazione e vanità riducensi.

104. V. Niceta, ove parla d'Isacco l'Angelo e di Alessio (cap. 3, p. 339). L'Editore latino osserva con molta ragionevolezza che lo Storico greco coll'enfasi del suo stile suol fare ex pulice elephantem.

105. Niceta in due passi (edizione di Parigi, p. 360, Fabrizio p. 408) rampogna aspramente i Latini οιτου καλου ανεραστοι Βαρβαροι, Barbari nemici del bello, e indica in precisi termini quanto fossero avidi del bronzo. Non può però negarsi ai Veneziani il merito di avere trasportati quattro cavalli di bronzo da Costantinopoli alla piazza di S. Marco (Sanuto, Vite dei Dogi, Muratori, Script. rer. ital. t. XX, pag. 534).

106. Winkelmann, Storia dell'arti, t. III, p. 269-270.

107. V. nel Gunther ( Hist. C. P. c. 19-23, 24) il pietoso furto dell'abate Martino, che trasportò un ricco fardello di questi tesori religiosi nel suo convento. Nondimeno il Santo non andò immune dalla scomunica, e forse dalla taccia di avere violato un giuramento.

108. Fleury, Hist. eccles. t. XVI, p. 139-145.

109. Conchiuderò questo capitolo con alcuni cenni sopra una Storia moderna che descrive colle sue particolarità la presa di Costantinopoli per opera dei Latini; ma venutami fra le mani alquanto tardi. Paolo Ramusio figlio del Compilatore de' Viaggi, ebbe dal Senato di Venezia la commissione di scrivere questa Storia: ma ricevè un tal ordine in gioventù e lo eseguì solamente anni dopo, pubblicando un'opera ingegnosamente scritta che ha per titolo, De bello Constantinopolitano et imperatoribus Comnenis per Gallos et Venetos restitutis (Venezia 1635 in folio). Il Ramusio o Ramnusio, trascrive e traduce, seguitur ad unguem, un manoscritto che ei possedeva del Villehardouin; ma ha inoltre arricchito il suo racconto di materiali greci e latini, e gli andiamo pur debitori della descrizione esatta della flotta, dei nomi di cinquanta nobili Veneziani che comandavano le galee della Repubblica, e per lui sappiamo le circostanze delle opposizioni che, spinto da amore di patria, mosse Pantaleone Barbi contro la scelta del Doge a Imperatore di Costantinopoli.

110. V. l'originale del Trattato di parteggiamento nella Cronaca di Andrea Dandolo, p. 328-330, e la elezione che ne conseguì, nel Villehardouin (n. 136-140), le Osservazioni del Ducange e il primo libro della Storia di Costantinopoli sotto l'impero de' Francesi.

111. Dopo aver parlato di un Elettore francese che avea dato il suo voto al Doge, Andrea Dandolo parente dello stesso Doge ne trova ragionevole l'esclusione. Quidam venetorum, fidelis et nobilis senex usus oratione satis probabili, etc., Orazione che gli scrittori moderni dal Biondi al Le Beau hanno accomodata ciascuno a lor fantasia.

112. Niceta, p. 384, vano e ignorante, quanto un Greco di que' tempi doveva esserlo, indica il Marchese di Monferrato come Capo di una potenza maritima λαμπαρδιαν δε οικεισθαι παραλιον, abitava (o governava) la Lombardia marittima. Forse lo ha indotto in errore il tema bisantino della Lombardia situata sulle coste della Calabria.

113. I Veneziani pretesero che il Morosini si obbligasse con giuramento a non ammettere nel capitolo di S. Sofia, cui spettava il diritto delle elezioni, altri individui fuor de' Veneziani, e di quelli inoltre che avessero abitato dieci anni in Venezia. Ma ingelosito il Clero della prerogativa che questi arrogavansi, il Papa non la confermò, onde fra sei patriarchi Latini che ebbe Costantinopoli, solamente il primo e l'ultimo furono Veneziani.

114. Niceta p. 383.

115. Le lettere d'Innocenzo III somministrano ricchi materiali alla Storia delle istituzioni civili ecclesiastiche dell'impero Latino di Costantinopoli. La più importante di tali lettere (delle quali Stefano Baluzio ha pubblicata la raccolta in due volumi in folio) trovasi nell'opera, Gesta script. rer. ital., Muratori, t. III, part. I, c. 94-105.

116. Nel Trattato di parteggiamento hanno alterati quasi tutti i nomi proprj. Non sarebbero difficili le correzioni, e una buona Carta corrispondente all'ultimo secolo dell'Impero di Bisanzo sarebbe di grande soccorso alla geografia; ma sfortunatamente d'Anville più non vive.

117. Il loro stile d'intitolarsi era Dominus quartae partis et dimidiae imperii romani, e così continuarono fino all'anno 1356, in cui Giovanni Dolfino fu eletto Doge (Sanut., p. 430-641). Quanto al governo di Costantinopoli, V. Ducange, Hist. C. P. 1-37.

118. Il Ducange ( Hist. C. P. 11, 6) ha enumerate le conquiste fatte dalla Repubblica o dai Nobili veneziani, le isole di Candia, di Corfù, Cefalonia, Zante, Nasso, Paro, Melos, Andros, Micone, Siro, Ceos e Lemno.

119. Bonifazio vendè l'isola di Candia ai 12 agosto dell'anno 1204. V. la transazione in Sanuto p. 533; ma non so comprendere come quest'Isola fosse il patrimonio della madre di Bonifazio, o come questa madre esser potesse la figlia d'un Imperatore di nome Alessio.

120. Nel 1212, il Doge Pietro Zani inviò nell'isola di Candia una colonia tolta dai differenti rioni di Venezia: ma i nativi Candiotti, per la salvatichezza de' lor costumi, e per le frequenti ribellioni, poteano essere paragonati ai Corsi sotto il dominio de' Genovesi; e allorchè io metto in paragone i racconti del Belon, e quelli del Tournefort, non ravviso molte differenze tra la Candia de' Veneziani, e la Candia de' Turchi.

121. Il Villehardouin (n. 159, 160, 173-177) e Niceta (p. 387-394) raccontano la spedizione del Marchese Bonifazio in Grecia. Il secondo ha potuto essere informato di queste particolarità dal suo fratello Michele, arcivescovo di Atene, che ei ne dipinge siccome un eloquente oratore, un uomo di Stato abilissimo, e soprattutto siccome un santo. Dai manoscritti di Niceta, che trovansi nella biblioteca bodleana, avrebbero potuto ritrarsi l'elogio che egli fa di Atene, e la descrizione di Tempe (Fabricius, Bibl. graec., t. VI, p. 405), cose che sarebbero state degne delle indagini del sig. Harris.

122. Napoli di Romania, o Nauplia, l'antico porto di Argo è tuttavia una Fortezza assai rilevante; giace sopra una penisola circondata di scogli, e gode di un ottimo porto. V. i viaggi di Chandler nella Grecia, p. 227.

123. Ho mitigata l'espressione di Niceta che si studia di ampliare colle sue tinte la presunzione de' Franchi ( V. de rebus post. C. P. expugnatam 375-384).

124. Questa città, bagnata dall'Ebro, distante sei miglia da Andrinopoli, a motivo del suo doppio muro ottenne da' Greci il nome di Didymoteicos, cambiato a poco a poco in quelli di Dimot o Demotica. Ho preferito il nome moderno di Demotica. Fu l'ultima città abitata da Carlo XII soggiornando in Turchia.

125. Il Villehardouin con tuono di franchezza e di libertà ne dà conto de' litigi di questi due Principi (n. 146-158). Lo Storico greco (p. 387) non defrauda di lodi il merito e la fama del Maresciallo μεγα παρα Λατινον δυναμενου στρατευμσσι, molto potente fra gli eserciti latini: in ciò dissimile da certi moderni eroi, le imprese de' quali, sol pe' loro comentarj son conosciute.

126. V. la morte di Murzuflo in Niceta (pag. 393), Villehardouin (n. 141-145-163) e Gunther (cap 20, 21). Nè il Maresciallo, nè il frate mostrano la menoma compassione sulla sorte di questo usurpatore o ribelle, benchè condannato ad un supplizio di un genere più nuovo ancora de' suoi delitti.

127. La colonna d'Arcadio, che ne' bassi rilievi raffigura la vittoria di lui, o quella del padre del medesimo Teodosio, vedesi tuttavia a Costantinopoli. Viene descritta, colle sue proporzioni, nelle opere del Gillio ( Topograph. IV, 7), dal Banduri (l. I, antiquit. C. P. p. 507 ec.), e dal Tournefort ( Viaggio in Levante t. II, lett. 12, p. 231).

128. La ridicola novella del Gunther intorno la columna fatidica non merita che le si porga attenzione. Ella è però straordinaria cosa, che cinquant'anni prima della conquista de' Latini, il poeta Tzetze (Chiliad., IX, 277) abbia raccontato il sogno di una matrona, la quale avea veduto un esercito nel Foro, e un uom seduto sulla cima della colonna che battea le mani una contro l'altra e metteva un forte grido.

129. Il Ducange ( Fam. byzant. ) ha esaminate, e con accuratezza descritte le dinastie di Nicea, di Trebisonda e d'Epiro, delle quali Niceta vide i primordj, senza però concepirne grandi speranze.

130. Eccetto alcuni fatti contenuti in Pachimero e Niceforo Gregoras, che noi citeremo in appresso, gli Storici bisantini, non si degnano far parola dell'impero di Trebisonda, o del principato de' Lazi. Nè manco i Latini ne parlano, se non se ne' romanzi de' secoli XIV, XV. Nondimeno l'instancabile Ducange ha scoperto a tale proposito ( Fam. byzant. p. 192) due passi autentici negli scritti di Vincenzo di Beauvais (l. XXXI, c. 144) e del protonotario Ogier. (V. Wadding, A. D. 1279 n. 4).

131. Niceta fa un ritratto de' Francesi-Latini, ove scorgesi per ogni dove l'impronta dell'astio e del pregiudizio ουδεν των αλλων εθνων εις Αρεος εργα παρασυμβεβλησθαι ηνειχοντο αλλ’ουδε τις των χαριτων η των μουσων παρα τοις βαρβαροις τουτοις επεξενιζετο, και παρα τουτο οιμαι την φυσιν ησαν ανημεροι, και τον χολον ειχον του λογου προτρεχοντα. Non tolleravano che alcun'altra nazione concorresse con essi alle imprese marziali; ma niuna della Grazie o delle Muse aveva ospizio da quei Barbari, ed inoltre erano, io credo, crudeli per natura, e aveano una bile che preveniva il discorso.

132. Qui incomincio a valermi con fiducia e libertà degli otto libri della Hist. C. P. ( sotto l'Impero de' Francesi ) composti dal Ducange come supplimento alla storia del Villehardouin, i quali comunque scritti in barbaro stile, hanno tutto il merito che all'opere classiche e originali appartiene.

133. Nella risposta che Giovannizio fece al Pontefice, possono vedersi le rimostranze e le querele di questo principe ( Gesta In. III, c. 108-109). I Romani amavano Giovannizio, e come il figliuol prodigo lo riguardavano.

134. I Comani erano un'orda di Tartari o Turcomanni che, nel duodecimo o nel tredicesimo secolo, accampavano sulle frontiere della Moldavia. Trovavansi fra essi un grande numero di Pagani ed alcuni Maomettani. Luigi, Re d'Ungheria, nel 1370, convertì l'intera tribù al Cristianesimo.

135. Niceta, sia per odio, sia per ignoranza, accagiona di questa rotta la viltà del Doge (p. 383); ma il Villehardouin chiama a parte della propria gloria il suo venerabile amico, qui viels home ère et gote ne vecit, mais mult ere sages et preus et vigueros (n. 193).

136. La Geografia esatta e il testo originale del Villehardouin (n. 194), mettono Rodosto lontano tre giornate ( Trois journées ) da Andrinopoli. Ma il Vigenere, nella sua versione, ha sostituito goffamente tre ore; abbaglio che il Ducange non ha corretto ed ha tratti in grossolani equivoci molti moderni, i nomi de' quali mi piace il tacere.

137. Il Villehardouin e Niceta (p. 386-416) raccontano il regno e la morte di Baldovino; il Ducange supplisce alle loro ommissioni nelle Osservazioni, e sul finire del suo primo libro.

138. Dopo avere allontanate tutte le circostanze sospette e improbabili possiamo trar prove pella morte di Baldovino, I. Dall'opinione de' Baroni che non ne dubitavano (Villehardouin n. 230). II. Dall'affermazione di Giovannizio o Calo-Giovanni che si scusa sul non avere posto in libertà l'imperatore, quia debitum carnis exsolverat cum carcere teneretur ( Gesta Innocentii III, c. 109).

139. Vedasi come raccontino la storia di questo impostore gli scrittori francesi e fiamminghi, nel Ducange ( Hist. C. P. III, 9), e le ridicole favole avutesi per vere dai monaci di S. Albano, in Mattia Paris ( His. maj., p. 271-272).

140. Villehardouin (n. 257). Trista conclusione che a me pur duole il citare. Noi perdiamo ad un tempo l'originale della storia di Villehardouin, e i preziosi comentarj del Ducange. Le due lettere di Enrico al Papa Innocenzo III portano qualche schiarimento alle ultime pagine del nostro Autore ( Gesta, c. 106, 107).

141. Il Maresciallo viveva ancora nel 1212; ma è probabile che ei sia morto poco dopo, nè mai tornato in Francia (Ducange, Osservazioni sopra Villehardouin p. 238). Il feudo di Messinopoli, conferitogli da Bonifazio, era l'antica Maximianopolis, fiorente fra le città della Tracia ai giorni di Amiano Marcellino (n. 141).

142. Il servigio della Chiesa di questo S. Avvocato di Tessalonica era fatto dai Canonici del santo Sepolcro. Essa era famosa per un olio santo che continuamente vi distillava e operava portenti (Ducange, Hist. de Const. II, 4).

143. Acropolita, c. 17, racconta la persecuzione del Legato, e la tolleranza usata da Enrico (come egli la chiama) κλυδωνα κατεστορεσε, sedò la procella.

144. V. il regno di Enrico in Ducange ( Hist. di C. P. l. I, c. 35-41, l. XI, c. 1-12) che sapeva dalle lettere dei Papi trar grande profitto per la sua Storia. Le Beau ( Hist. du Bas-Empire, t. 21, p. 120-122), ha trovate, forse nel Doutremens, alcune leggi di Enrico sul servigio de' feudi e sulle prerogative imperiali.

145. Acropolita (cap. 14) afferma che Pietro Courtenai morì di ferro (εργον μαχαιραε γενεσθαι) stravagante frase che corrisponde all'italiana, divenne fattura della spada; ma le oscure espressioni di questo scrittore danno a credere che prima di una tal morte ei fosse stato prigioniero, ως παντας αρδκν δεσματας ποιησαι συν πασι σαευεσι furon fatti tutti prigionieri con tutte le navi. La Cronaca di Auxerre, paese posto ne' dintorni di Courtenai, assegna per epoca a questa morte l'anno 1219.

146. V. quanto si riferisce al regno e alla morte di Pietro di Courtenai nel Ducange ( Hist. di C. P. l. II, c. 22-28 ), che fa deboli sforzi per iscusare Onorio III circa l'indifferenza mostrata sull'infelice destino dell'Imperatore.

147. Marino Sanuto ( Secreta fidelium crucis, l. II, part. IV, c. 18, p. 73) trova sì ammirabile questa scena d'orrore, che la trascrive in margine, siccome bonum exemplum. Nondimeno egli riconosce la donzella per moglie legittima di Roberto.

148. V. il regno di Roberto nel Ducange ( Hist. di Costantinopoli l. III, c. 1-12).

149. Rex igitur Franciae, deliberatione habita respondit nuntiis, se daturum hominem Syriae partibus aptum; in armis probum (prode), in bellis securum, in agendis providum. Johannem comitem Brennensem (Sanut., Secret. fidel., l. III, part. XI, c. 4, p. 205, Mattia Paris, p. 159).

150. Il Giannone ( Istoria civile, t. II, l. XVI, p. 380-385) parla lungamente intorno al maritaggio di Federico II colla figlia di Giovanni di Brienne, e la doppia unione delle corone di Napoli o di Gerusalemme.

151. V. Acropolita, c. 27. Lo storico, allor fanciullo, ebbe in Costantinopoli la sua educazione. Aveva undici anni, quando il padre del medesimo per sottrarsi al giogo dei Latini abbandonò ricchi possedimenti, riparando alla Corte di Nicea, ove il figlio di lui ai primi onori venne innalzato.

152. Filippo Mousches vescovo di Tournai (A. D. 1274-1282) ha composto una spezie di poema, in antico dialetto fiammingo, o piuttosto una cronaca in versi degl'Imperatori di Costantinopoli; e il Ducange in fine alla storia di Villehardouin, ( V. p. 224), le imprese di Giovanni di Brienne.

N'Aie, Ector, Roll'ne Ogiers

Ne Judas Machabeus li fiers

Tant ne fit d'armes en estors

Com fist li rois Jehans cel jors

Et il defors et il dedans

La paru sa force et ses sens

Et li hardiment qu'il avait.

153. V. il regno di Giovanni di Brienne nel Ducange, Hist. di C. P. l. III, c. 13-26.

154. V. il regno di Baldovino II fino al momento in cui fu scacciato da Costantinopoli, nel Ducange ( Hist. C. P. l. IV, c. 1-34; l. V, c. 1-33).

155. Mattia Paris racconta le due visite fatte da Baldovino II alla Corte d'Inghilterra (p. 396-637), il ritorno in Grecia armata manu (p. 407), le lettere dello stesso Baldovino e il nomen formidabile, ec. (p. 481); espressione cui non ha posto mente il Ducange ( V. l'espulsione di Baldovino p. 850).

156. Chiamano i teologi soddisfazione le opere penose, fatte con umiltà da' peccatori, ed imposte dalla Chiesa, in riguardo al fervore de' penitenti, o ad altre buone opere, ch'ella loro prescrive; queste indulgenze poi sono principalmente date dal Papa anche per eccitare i credenti a certe azioni, od intraprese. Se poi alcune volte si ha fatto uso non conveniente delle indulgenze, sarà cosa da disapprovarsi. (Nota di N. N.)

157. Luigi IX si oppose, disapprovandola, alla vendita di Courtenai (Ducange l. IV, c. 23). Questa Signoria fa oggidì parte de' dominj della Corona; ma è stata ipotecata per un certo tempo alla famiglia di Boulainvilliers. Courtenai, giurisdizione di Nemours nell'isola di Francia, è una città che contiene in circa novecento abitanti: vi si vedono tuttavia gli avanzi d'un castello ( Mélanges tirés d'une grande Bibliothèque, t. X, l. V, p. 74-77).

158. Un principe Comano, morto senza battesimo, fu sepolto innanzi alle porte di Costantinopoli, e in compagnia di lui un certo numero di Schiavi e di cavalli vivi.

159. Sanut., Secret. fidel. crucis, l. IV, c. 18, p. 73.

160. Non era immaginario quel valore pei credenti. (Nota di N. N.)

161. È vero che le mummie erano pure un pegno di grande importanza pegli Egizj, ma non doveva farsi questo paragone. (Nota di N. N.)

162. Il Ducange interpreta col vocabolo vago monetae genus le parole perparus, perpera, hyperperum. Dopo avere consultato un passo del Gunther ( Hist. C. P. c. 8, p. 10) mi do a credere che il perpera sia il nummus aureus o la quarta parte d'un marco di argento, circa dieci scellini sterlini; se si fosse inteso di marco di piombo troppo tenue sarebbe stata la somma.

163. Intorno al trasporto della Santa Corona da Costantinopoli a Parigi, V. Ducange ( Hist. C. P., l. IV, c. 11-14, 24-35) e Fleury ( Hist. eccl. t. XVII, p. 201-204).

164. Mélanges tirés d'une grande bibliothèque, t. XLIII, p. 201-205. Il Lutrin di Boileau mostra l'interno, gli uffizj, le consuetudini de' ministri della Santa Cappella; i comentatori Brossette e Saint-Marc hanno uniti e spiegati molti fatti che alla istituzione della medesima si riferiscono.

165. Questa cura venne operata ai 24 di Marzo dell'anno 1656 sopra la nipote del celebre Pascal. Quest'uomo di altissimo ingegno, Arnaud e Nicole erano presenti per vedere ed attestare un miracolo che confuse i Gesuiti e salvò Portoreale, ( Oeuvres de Racine, t. VI, p. 176-187, nell'eloquente storia di Portoreale).

166. Se per antidoto s'intende una ragionevole critica intorno ai fatti di questa specie, particolarmente quando non sono stati assoggettati al processo solito a farsi, non sarebbe da condannarsi, bisognava spiegarsi meglio. (Nota di N. N.)

167. Il Voltaire ( Siècle de Louis XIV, c. 37, Oeuvres, t. IX, p. 178, 179) mette il suo studio a distruggere la verità de' fatti: ma l'Hume ( Saggi, vol. II) con maggiore abilità e buon successo impadronendosi della batteria volta il cannone contra i nemici.

168. Possono vedersi ne' libri 3, 4, 5 della compilazione del Ducange, le perdite successivamente sofferte dai Latini; ma questo storico si è lasciato sfuggire molte circostanze che si riferiscono alle conquiste de' Greci, e che giova il rintracciare nella più compiuta storia di Giorgio Acropolita, e ne' tre primi libri di Niceforo Gregoras, due scrittori della storia bisantina, ai quali è toccata la buona sorte di avere per editori Leone Allazio a Roma, e Giovanni Boivin Membro della Accademia delle iscrizioni a Parigi.

169. V. Giorgio Acropolita, c. 78, p. 89, 90, edizione di Parigi.

170. I Greci, vergognando di avere avuto ricorso agli stranieri, dissimularono la Lega coi Genovesi e gli aiuti che ne ricevettero; ma il fatto è provato dalle testimonianze di Giovanni Villani ( Cron. l. VI, c. 71), del Muratori ( Script. rer. ital. t. XIII, p. 202, 203) e di Guglielmo di Nangis ( Annali di S. Luigi, p. 248, nel Joinville del Louvre); tanto Nangis quanto Joinville, stranieri alla disputa, poteano parlare con imparzialità. Urbano IV minacciò i Genovesi di privarli del loro arcivescovo.

171. Fa d'uopo di non poca diligenza a conciliare le sproporzioni di numero; gli ottocento soldati di Niceta, i venticinquemila di Spandugino (Duc. l. V, c. 24), gli Sciti e i Greci di Acropolita, il numeroso esercito di Michele, quale apparirebbe dalle lettere di Papa Urbano IV (1-129).

172. Θεληματαριοι, Volontarj. Pachimero ne gl'indica e descrive nel medesimo tempo (l. II, c. 14).

173. A che ricercare questi Comani ne' deserti della Tartaria, o anche nella Moldavia? una parte di essa tribù si era sottomessa a Giovanni Vatace, e probabilmente avea posto un vivaio di soldati in qualche deserto della Tracia (Cantacuzeno, l. I, c. 2).

174. I Latini raccontano brevemente la perdita di Costantinopoli la cui conquista è stata in modo più soddisfacente descritta dai Greci, vale a dire da Acropolita (c. 85), da Pachimero (l. II, c. 26-27), da Niceforo Gregoras (lib. IV, c. 1, 2). V. Ducange, Hist. C. P., l. V, c. 19-27.

175. V. i tre ultimi libri (l. V-VIII) e le tavole genealogiche del Ducange. Nell'anno 1382, l'Imperatore titolare di Costantinopoli era Giacomo di Bangs Duca di Andria, nel regno di Napoli, figlio di Margherita, figlia di Catterina di Valois, figlia questa di un'altra Catterina, che avea per padre Filippo figlio di Baldovino II (Ducange, l. VIII, c. 37,38). Ignorasi se egli abbia lasciato posterità.

176. Abulfeda che vide l'ultimo periodo delle Crociate, parla del regno de' Franchi e di quello de' Negri, come di cose sconosciute egualmente ( Proleg. ad geogr. ). Se questo principe della Sorìa non avesse disdegnata la lingua latina, sarebbesi procurati facilmente libri ed interpreti.

177. I Maomettani così chiamarono, e chiamano i Cristiani cattolici a cagione del culto che prestano alle Immagini, perchè non sanno, che quelli non prestano culto alle Immagini, che riferendosi agli esemplari di esse. (Nota di N. N.)

178. L'Uezio nell'opera De interpretatione et de claris interpretibus (p. 131-135) dà una contezza succinta e superficiale di queste traduzioni dal latino in greco. Massimo Planude, frate di Costantinopoli (A. D. 1327-1353), ha tradotti i Comentarj di Cesare, il Sogno di Scipione, le Metamorfosi e le Eroidi d'Ovidio (Fabricius, Bibl. graec., t. X, pag. 533).

179. I mulini a vento, che furono la prima volta inventati nell'Asia Minore, contrada di acqua scarsissima, vennero posti in uso nella Normandia l'anno 1105 ( Vie privée des Français, l. I, pag. 42, 43; Ducange. Gloss. lat., l. IV, pag. 474). V. L'Inghilterra, antica traduzione del Boulard, pag. 282.

180. V. le lamentanze di Ruggero Bacone ( Biograph. Britannica, vol. I, pag. 418, edizione di Kippis). Se Bacone, o Gerberto, intendevano alcuni autori greci, potevano riguardarsi come prodigi del loro secolo, nè certamente doveano questo merito proprio al commercio dell'Oriente.

181. Tal si era l'opinione del grande Leibnitz ( Oeuvres de Fontenelle, t. V, p. 458) uno fra i sommi maestri della storia del medio evo. Non citerò che la genealogia da' Carmelitani, e il miracolo della casa di Loreto, cose che vennero entrambe dalla Palestina.

182. La credenza de' Cattolici, contenuta ne' libri del Nuovo Testamento, e nelle spiegazioni e decisioni intorno ai dogmi, fatte successivamente dai Concilj generali, soltanto fu alcune volte con nuovi vocaboli sviluppata, e meglio determinata: è poi vero che sono venute al tempo delle Crociata dall'Oriente nuove leggende, vite de' Santi, e si sono introdotte nuove pratiche, e cerimonie; ma ciò nulla ha a fare co' dogmi già stabiliti molto prima. (Nota di N. N.)

183. Si è già veduto in più di una nota la sinistra applicazione che de' vocaboli Idolatra, Idolatria fa il nostro Autore. (Nota di N. N.)

184. Non però intorno ai dogmi fondamentali contenuti nel Vangelo, e svolti dai Concilj. La buona critica, pur troppo poco più recente di un secolo ci ha mostrati gl'inganni corsi in alcune leggende. (Nota di N. N.)

185. Se fra le nazioni barbare annovero i Saraceni, gli è in rispetto alle loro guerre, o piuttosto correrie nell'Italia e nella Francia, il solo scopo delle quali erano il saccheggio e la devastazione.

186. Un luminoso raggio di filosofica luce uscito ai dì nostri dal fondo della Scozia, ha arrichita la letteratura di nuove nozioni sull'importante argomento de' progressi della società in Europa. Procuro un piacere a uno stesso, e adempio un debito di giustizia nel citare i rispettabili nomi di Hume, Robertson e Adamo Smith. V. le due opere di G. Stuart tradotte da B.

187. Mi sono prevalso senza però limitarmi a questa opera sola della Storia genealogica della nobile ed illustre Casa di Courtenai, composta da Ezra Cleaveland, tutore del Cavaliere Guglielmo di Courtenai, e rettore di Honiton, Oxford, 1735, in folio. La prima parte è tolta da Guglielmo di Tiro, la seconda dalla Storia di Francia del Bouchet; la terza da diverse memorie pubbliche e particolari dei Courtenai della Contea di Devon. Il Rettore di Honiton, si mostra più condotto da gratitudine che da secondi fini, e più da secondi fini che da discernimento.

188. I primi schiarimenti intorno a questa famiglia è un passo del continuatore di Aimoin, frate di Fleury, scrittore del dodicesimo secolo. V. la sua Cronaca negli storici di Francia, t. XI, p. 276.

189. Il d'Anville colloca Turbessel, o come viene nominata oggi giorno Telbesher, ad una distanza di ventiquattro miglia dal grande tragetto dell'Eufrate a Zeugma.

190. Nelle Assise di Gerusalemme (c. 326), i possedimenti di Josselin III, trovansi registrati fra le pertenenze della Corona, compilazione che debb'essere stata eseguita tra gli anni 1153, 1187. La genealogia del medesimo può vedersi nei Lignages d'Outre-mer, c. 16.

191. L'abate Suger ministro di Stato, racconta in assurdo modo la rapina e la riparazione, nelle sue lettere (144-116), che sono ciò nullameno i migliori Annali del dodicesimo secolo (Duchesne, Scriptor. Hist. Fr. t. IV, p. 530).

192. Di tante istanze, apologie etc., pubblicate dai Principi di Courtenai, ho veduto soltanto le tre seguenti tutte in 8. De Stirpe et Origine Domus di Courtenai: addita sunt responsa celeberrimorum Europae jurisconsultorum, Parigi, 1607. 2. Représentation du procédé tenu à l'instance faite devant le roi par M. de Courtenai, pour la conservation de l'honneur et dignité de leur maison, branche de la royale maison de France, Parigi 1613. 3. Représentation du subject qui a porté messieurs de Salle et de Franville, de la maison de Courtenai, à se retirer hors du royaume, 1614. Il soggetto di questa era un omicidio, per cui i Courtenai chiedevano, o processo, o grazia; ma che si tenesse verso di loro lo stile che coi Principi del Sangue si praticava.

193. Il De Thou esprime in questa guisa l'opinione de' Parlamenti: Principis nomen nusquam in Gallia tributum nisi iis qui per mares e regibus nostris originem repetunt: qui nunc tantum a Ludovico Nono beatae memoriae numerantur: nam Cortinaei et Drocenses, a Ludovico Crasso genus ducentes, hodie inter eos minime recensentur. Distinzione che era un temperamento, anzichè un atto di giustizia. La santità di Luigi IX non potea conferirgli alcuna prerogativa particolare, che lo distinguesse dagli altri discendenti di Ugo Capeto nel patto primitivo che gli univa alla nazione francese.

194. L'ultimo maschio della Casa di Courtenai, fu Carlo Ruggero, morto senza figli nell'anno 1730; l'ultima femmina, Elena di Courtenai, che sposò Luigi di Baufremont. Il titolo di Principessa del Sangue reale di Francia, le fu tolto con decreto 7 febbraio 1737 del Parlamento di Parigi.

195. Il fatto singolare quivi accennato trovasi nell'opera Recueil des Pièces interessantes et peu connues (Maestricht 1786, in quattro volumi in 12); e l'editore ignoto cita chi lo narrò avendolo inteso dal labbro medesimo di Elena di Courtenai, marchesa di Beaufremont.

196. Dugdale ( Monasticon anglicanum, vol. 1, pag. 786). Cotesta favola però dovrebbe essere stata architettata prima di Odoardo III. I pietosi scialacquamenti fattisi dalle tre prime generazioni dei Courtenai a favore dell'abbazia di Ford, vennero seguìte da tirannide per una parte, da ingratitudine per l'altra; quando si fu alla sesta generazione i monaci non tennero più registro nè delle nascite, nè degli atti, nè delle morti de' lor protettori.

197. Nella Britannia del Cambden ove trovasi l'albero genealogico dei Conti di Devon, leggasi però una espressione che mette in dubbio l'origine regia, e regio sanguine ortos credunt.

198. Il Dugdale nel suo Baronnage (part. I, p. 634), rimette i leggitori al suo Monasticon. Non avrebbe egli dovuto correggere i registri dell'abbazia di Ford, e togliere di mezzo questo fantasma del principe Floro, distrutto dall'autorità saldissima degli Storici francesi?

199. Oltre al terzo, che è anche il migliore libro, della storia di Cleaveland, ho consultato il Dugdale, padre della nostra scienza genealogica ( Baronnage, part. 1. p. 634-643).

200. Questa grande famiglia de Ripuariis, Redvers o Rivers finì sotto il regno di Eduardo I in Isabella De Fortibus, famosa erede di un ricco dominio, la quale sopravvisse lungo tempo al fratello e al marito (Dugdale, Baronnage, part. 1, p. 254-257).

201. V. Cleaveland, p. 142. Alcuni attribuiscono tale epitafio ad un Rivers, conte di Devon; ma questo stile inglese sembra appartenere piuttosto al quindicesimo che al tredicesimo secolo.

202. Ubi Lapsus! quid feci? Impresa che fu, non v'ha dubbio, adottata dal ramo di Powderham dopo la perdita di Devon. Lo stemma dei Courtenai era da prima uno scudo d'oro con tre cialde vermiglie che sembrano indicare una parentela con Goffredo di Buglione e cogli antichi Conti di Bologna marittima.

203. Non abbiamo per descrivere i regni degl'Imperatori di Nicea, e principalmente di Vatace e del figlio di lui, altro Scrittore contemporaneo che Giorgio Acropolita, ministro d'entrambi i nominati Principi; però Giorgio Pachimero era tornato insieme co' Greci a Costantinopoli in età di diciannove anni (Hankius, De Script. byzant., c. 33, 34, p. 564-578; Fabricius, Bibl. graec., t. VI, pag. 448-460). Oltrechè, la Storia di Niceforo Gregoras, benchè scritta nel quattordicesimo secolo, è un'eccellente relazione di tutti gli avvenimenti accaduti incominciando dall'epoca di Costantinopoli presa dai Latini.

204. Niceforo Gregoras (l. II, cap. 1) fa distinzione tra la οξεια ορμη impetuosità di Lascaris, e la ευσταθεια fermezza di Vatace. Entrambi i ritratti sono effigiati a dovere.

205. V. Pachim. (l. I, cap. 23, 24); Nicef. Greg. (l. II, c. 6). Leggendo gli Storici di Bisanzo, ciascun potrà accorgersi, quanto sia raro il trovare in essi così preziose particolarità, come in questo periodo.

206. Μονοι γαρ απαντων ανθρωπων ονομασοτατοι βασιλευς και φιλοσοφος i soli nomi più insigni fra tutti gli uomini sono re e filosofo (Greg. Acropol., c. 32). Ne' suoi famigliari intertenimenti, l'Imperatore esaminava e ad un tempo incoraggiava gli studj del futuro suo Logoteto.

207. Si paragonino i due primi libri di Niceforo Gregoras con Acropolita (c. 18-52).

208. Correa un proverbio persiano: Ciro padre, Dario padrone; il qual proverbio venne applicato a Vatace e al figlio di Vatace; ma Pachimero ha confuso Dario, umano principe, con Cambise, despota e tiranno del popolo. Furono le gravose tasse imposte da Dario, che gli procacciarono il nome meno odioso e più spregevole di Καπελος, merciaiuolo o sensale (Erodoto, III, 89).

209. Direbbesi che Acropolita mena vanto della sua paziente fermezza nel ricevere le percosse, e della rassegnazione con cui si allontanò dal Consiglio fino al momento di venire richiesto di nuovo. Continua indi dal cap. 53 fino al 74 della sua Storia, narrando le geste di Teodoro e i successivi servigi che gli prestò. V. il terzo libro di Niceforo Gregoras.

210. Pachimero (l. I, c. 21) nomina e distingue quindici, o venti famiglie greche; και οσοι αλλοι, οις η μεγαλογενης σειρα και κρυση σογκεκροτητο e quanti altri al collo de' quali sonava una magnifica catena d'oro. Tal decorazione era ella, secondo lo Storico, una catena metaforica, o realmente una materiale catena d'oro? Forse entrambe le cose.

211. Gli antichi Geografi, nel qual novero è il Cellario, d'Anville e i nostri viaggiatori, massimamente Pocock e Chandler, ne insegnano a distinguere le due Magnesie dell'Asia Minore; l'una del Meandro, l'altra del monte Sipilo. La seconda, qui menzionata, se si consideri che appartiene ai Turchi, può dirsi tuttavia una fiorente città. Posta a greco di Smirne ne è lontana otto ore di cammino, ossia otto leghe (Tournefort, Viaggi del Levante, t. III, lett. XXII, Viaggi di Chandler nell'Asia Minore ).

212. V. Acropolita (cap. 75, 76, ec.) che vivea in questi tempi, Pachimero (lib. I, cap. 13-25), Gregoras (lib. III, c. 3, 4, 5).

213. Il Ducange ( Fam. byzant. p. 230, ec.) dà schiarimenti intorno alla genealogia di Paleologo. I fatti della vita privata di cotest'uomo leggonsi in Pachimero (l. I. c. 7-12) e in Gregoras (l. II, 8, l. III, 2-4, l. IV, 1) favorevole in aperto modo al fondatore della dinastia regnante.

214. Acropolita (c. 50) racconta le circostanze di questo fatto singolare, sfuggito, a quanto sembra, agli Storici più moderni.

215. Il Pachimero (l. I, c. 12) commemorando una sì barbara prova col disprezzo del quale è degna, afferma di avere vedute in sua gioventù persone che senza soffrirne alcun danno la superarono. Egli era Greco, e la credulità è retaggio dei Greci; ma può anche darsi che l'accorgimento connaturale di questa nazione avesse suggerito ai pazienti qualche rimedio, o qualche gherminella da opporre alla superstizione dei loro concittadini, o alle voglie crudeli de' loro tiranni.

216. Senza paragonare Pachimero a Tacito, o a Tucidide, mi è forza commendarne l'eloquenza, la chiarezza, ed anche, fino ad un certo punto la franchezza, adoperata allorchè racconta l'innalzamento di Paleologo (l. I, c. 13-32, l. II, c. 1-9). Più circospetto Acropolita, meno esteso Gregoras si dimostra.

217. S. Luigi abolì i combattimenti giudiziarj ne' suoi dominj; indi il suo esempio coll'andar del tempo prevalse in tutta la Francia ( Esprit des lois, l. XXVIII, c. 29).

218. Nelle cause civili, Enrico II lasciava l'elezione al difensore. Glanville preferisce le prove testimoniali; il combattimento giudiziario è condannato nel Fleta: ma la legge inglese non ha mai abolita cotesta prova, e sull'incominciare del trascorso secolo vi fu il caso in cui venne ordinata dai giudici.

219. Cionnullameno, un amico mio, uomo d'ingegno mi ha addotte molte ragioni in difesa di una tal costumanza. 1. Essa conveniva forse a popoli che di recente toglieansi dalla barbarie; 2. moderava la licenza delle guerre fra' particolari e i furori delle arbitrarie vendette; 3. era meno assurda delle prove del fuoco, dell'acqua bollente o della croce, l'abolizione delle quali ad essa in parte è dovuta; e somministra per lo meno una prova di valore, pregio che rade volte all'abbiezione dei sentimenti va unito; si aggiugne che il timore della disfida potea divenire un freno alle persecuzioni della malevoglienza, e un ostacolo all'ingiustizia dal poter sostenuta. Il prode, quanto infelice Conte di Surrey avrebbe forse sfuggito un immeritato destino, se fosse stato accolto il partito del combattimento giudiziario ch'egli propose.

220. Le antiche e moderne geografie non accennano con precisione il luogo, ove era posta Ninfea; ma dai racconti che si riferiscono agli ultimi tempi dalla vita di Vatace, apparisce chiaramente che i palagi e i giardini preferiti da cotesto principe per abitarvi, erano in vicinanza di Smirne (Acropolita, cap. 52): nè dovremmo a un dipresso ingannarci collocando Ninfea nella Lidia (l. VI, 6).

221. Cotesto scettro, emblema della giustizia e della possanza, era un lungo bastone, siccome quello che usavano gli eroi di Omero. I Greci moderni lo chiamarono dicanice; ma il bastone ad uso di scettro imperiale distingueasi, non meno degli altri fregi del trono, dal suo colore di porpora.

222. Acropolita afferma (c. 87) che questo berrettone era foggiato alla francese; però il Ducange ( Hist. C. P., l. V, c. 28, 29) a motivo del nastro che vi sovrastava, lo giudica un cappello all'usanza di quelli che i Greci portavano. Ma come supporre che, in ordine a ciò, Acropolita avesse preso un equivoco?

223. V. Pachimero (l. II, 28-33), Acropolita (c. 88), Niceforo Gregoras (l. IV, 7), e quanto al trattamento usato verso i sudditi latini, il Ducange (l. V, c. 30, 31).

224. Questo modo men barbaro di privar gli uomini della vista vuolsi trovato da Democrito, che stanco di vedere il Mondo, ne abbia fatta l'esperienza sopra sè stesso; ma è una favola. Il vocabolo abbacinare, latino e italiano, ha offerta occasione al Ducange ( Gloss. latin. ) di passare in rassegna i diversi modi adoperati per accecare. I più violenti erano, arderli con un ferro rosso o con aceto bollente, ovvero stringer la testa del paziente con una corda sin tanto che gli occhi ne uscissero. Come è ingegnosa la tirannide!

225. V. la prima ritirata e il ritorno di Arsenio, in Pachimero (lib. II, c. 15, l. III, c. 1-2 ), e in Niceforo Gregoras (l. III, c. 1, l. IV, c. 1). La posterità biasima giustamente in Arsenio αφελεια e ραθυμια la frugalità e l'umiltà, virtù in un eremita, vizj in un ministro (l. XII, c. 2).

226. Il delitto e la scomunica di Michele vengono raccontati con imparzialità da Pachimero (l. III, c. 10, 14, 19 ec.) e da Gregoras (l. IV, cap. 4). Essi dovettero la libertà alla confessione e alla penitenza del principe.

227. Pachimero da cui si ha il racconto dell'esilio di Arsenio (l. IV, c. 1-16) fu uno de' commissarj che lo visitarono nell'isola deserta ove fu confinato. Rimane tuttavia l'ultimo testamento dell'inflessibile Patriarca (Dupin, Bibl. ecclés., t. X, p. 95).

228. Pachimero (l. VII, c. 22) serba contegno di filosofo nel raccontare questa prova miracolosa, e cita com eguale disprezzo una trama degli Arseniani, che si adoprarono a nascondere una rivelazione entro il sepolcro di qualche antico Santo (l. VII, c. 13); ma fa poi ammenda di tale sua incredulità co' successivi racconti di una Immagine che piange, di un'altra che manda sangue (l. VII, c. 30), e della cura miracolosa di un uomo sordo e muto dalla nascita (lib. XI, cap. 32).

229. Pachimero ha sparsa per tutti i suoi tredici libri la storia degli Arseniani; ma ha lasciata la cura di narrare la loro riunione e il loro trionfo a Niceforo (l. VII, 9), che non sentiva pur essi nè amore, nè stima.

230. I sei primi de' tredici libri di Pachimero, e il quarto e quinto di Niceforo Gregoras, contengono il regno di Michele Paleologo, il quale morì quando Pachimero avea quarant'anni. In vece di dividere la Storia scritta dal medesimo in due parti, come ha fatto l'editore di essa, il padre Poussin, mi è piaciuto seguire il Ducange e il Cousin, che ridussero i tredici libri in una sola serie.

231. V. Ducange ( Hist. C. P., l. V, c. 33, tolta dalle lettere di Urbano IV).

232. Attese le corrispondenze mercantili che passavano fra i Genovesi ed i Veneziani, i Greci chiamavano con insulto i Latini καπηλοι, βανανυσοι merciaiuoli e meccanici (Pachimero, l. V, c. 10). Gli uni sono eretici di nome, gli altri di fatto, come i Latini, dice il dotto Vecco (l. V, c. 12) che si convertì poco dopo (c. 15, 16), e fu fatto Patriarca (c. 24).

233. Abbiamo già detto di questa aggiunta. (Nota di N. N.)

234. In questo novero è da porsi lo stesso Pachimero il cui racconto compiuto ed imparziale occupa il quinto e sesto libro della sua Storia. Ciò non di meno egli non fa menzione del lionese Concilio, mostrandosi anzi persuaso che i Papi risedessero sempre a Roma, o nell'Italia.

235. V. gli Atti del Concilio di Lione dell'anno 1274, Fleury ( Hist. eccles., t. XVIII, p. 181-199); Dupin ( Biblioth. eccl. t. X, p. 135).

236. Queste singolari istruzioni che il Wading e Leone Allazio hanno tolte, qual con maggiore, qual con minore esattezza, dagli archivj dei Vaticano, trovansi o compilate, o tradotte nel Fleury (t. XVIII, p. 252-258).

237. Questa confessione sincera ed autentica della estremità cui si vedea ridotto Michele, è stata scritta in un latino barbaro da Ogier, che s'intitola protonotario degl'interpreti; indi il Wading l'ha copiata dai manoscritti del Vaticano, A. D. 1278. n. 3. Dello stesso scrittore ho trovati a caso gli Annali dell'ordine Franciscano, Fratres Minores, in 17 volumi in folio, a Roma nell'anno 1741, in mezzo agli scartafacci d'un libraio.

238. V. il sesto libro di Pachimero, e soprattutto i capitoli 1, 11, 16, 18, 24, 27; tanto più meritevoli di fiducia, perchè, parlando di questa persecuzione, manifesta piuttosto il dolore che l'astio.

239. V. Pachimero (l. VII, c. 1-11-17). Il discorso tenuto da Andronico il Vecchio (l. XII, c. 2), è un monumento degno di curiosità, servendo a provare che se i Greci erano schiavi dell'Imperatore, questi non soggiacea meno alla superstizione e alla tirannide del Clero.

240. Le più esatte narrazioni della conquista di Napoli fatta da Carlo d'Angiò, le più contemporanee all'impresa, e ad un tempo compiute e dilettevoli, si trovano nelle Cronache fiorentine di Ricordano Malaspina (175-193), e di Giovanni Villani (l. VII, c. 1-10, 25, 30) pubblicate dal Muratori nell'ottavo e tredicesimo volume degli Storici dell'Italia; questo medesimo Scrittore ha compilati ne' suoi Annali (t. XI, p. 56-72) questi grandi avvenimenti raccontati ancora nella Istoria civile del Giannone (t. II, l. XIX, t. III, lib. XX).

241. V. Ducange, Hist. C. P., l. V, c. 49-56; l. VI, c. 1-13, Pachimero, l. IV, c. 29; l. V, c. 7-10-25; l. VI, c. 30-32-33, e Niceforo Gregoras, l. IV. 5, l. V, 1, 6.

242. I lettori di Erodoto si ricorderanno, in qual modo miracoloso l'esercito assiro, condotto da Sennacherib, fu disarmato e distrutto (l. II, c. 141).

243. Giusta il dire di un Guelfo zelante, Saba Malaspina ( Storia di Sicilia, l. III, c. 16) Muratori (t. VIII, p. 832), i sudditi di Carlo che avevano perseguito Manfredi, siccome un lupo, lo sospiravano come un agnello; lo stesso Scrittore giustifica il pubblico scontento descrivendo la tirannide del governo francese (l. VI, c. 2-7). V. il manifesto Siciliano in Nicola Speciale (l. I, c. 11, Muratori, t. X, p. 930).

244. V. il carattere e i pensamenti di Pietro Re d'Aragona nel Mariana ( Storia di Spagna, l. XIV, c. VI, t. II). Il lettore perdonerà i difetti del Gesuita in grazia dello stile, e spesse volte in grazia del discernimento dello Storico.

245. Nicola Speciale dopo avere enumerati gli aggravj che i suoi compatriotti patirono, aggiunge ritraendo la vera indole della gelosia italiana: Quae omnia et graviora quidem, ut arbitror, patienti animo Siculi tolerassent, nisi quod primum cunctis dominantibus cavendum est, alienas faeminas invasissent (l. 1, c. 2, p. 924).

246. Fu ricordata per lungo tempo ai Francesi questa terribil lezione. «Se mi fanno montare la stizza, dicea Enrico IV, andrò a far colezione a Milano e a desinare a Napoli» — «Vostra maestà, rispondea l'Ambasciatore spagnuolo, potrebbe arrivare in Sicilia all'ora del Vespero».

247. Due Scrittori del paese raccontano le particolarità di questa sommossa e della vittoria che ne venne in appresso, Bartolommeo di Neocastro (nel Muratori, t. XIII), e Nicola Speciale (nel Muratori, t. X) l'uno contemporaneo, l'altro vissuto nel secolo successivo. Lo Speciale animato da patriottici sentimenti si sdegna del vocabolo ribelle, e nega esservi stata una precedente corrispondenza con Pietro d'Aragona ( nullo communicato consilio ), il quale si trovò a caso con una flotta e con un esercito alla costa dell'Affrica (lib. 1, c. 4-9).

248. Niceforo Gregoras (l. V, c. VI) ammira la saggezza della Providenza in questo mutuo equilibrio degli Stati e dei Principi. Per l'onore di Paleologo gli augurerei che tale osservazione fosse stata fatta da un Italiano.

249. V. la Cronaca del Villani, il volume undecimo degli Annali d'Italia del Muratori, e i lib. XX, XXI della Istoria civile del Giannone.

250. I più valorosi di questa truppa di Catalani e Spagnuoli erano conosciuti dai Greci sotto il nome di Almugavares, nome che si davano da sè medesimi. Il Moncada li fa discender dai Goti, Pachimero (l. XI, c. 22) dagli Arabi. A malgrado di vanità nazionale e religiosa, credo che il secondo abbia ragione.

251. Per formarsi meglio un'idea sulla popolazione di queste città, si osservi che Tralle riedificata sotto il precedente regno, poi devastata dai Turchi, contenea trentaseimila abitanti. Pachimero (l. VI, c. 20, 21).

252. Ho raccolte queste particolarità da Pachimero (l. XI, c. 21, l. XII, c. 4, 5-8-14-19), il quale ne dà a conoscere le alterazioni che a mano a mano la moneta d'oro sofferse. Anche nei dì più felici del regno di Giovanni Duca Vatace, i bisantini conteneano una meta d'oro, e l'altra metà di lega. Michele Paleologo, costretto dalla povertà, fabbricò nuove monete, nelle quali entravano nove parti o caratti d'oro e quindici di rame. Dopo la morte di questo, il titolo si alzò a dieci caratti, fintantochè, cresciute oltre modo le pubbliche sciagure, venne ridotto a metà. Il principe ne ebbe un istantaneo sollievo, ma passeggiero sollievo che irreparabilmente distrusse il commercio e il credito della nazione. In Francia il titolo è di ventidue caratti, e di una dodicesima parte di lega; più alto ancora è il titolo d'Inghilterra, e d'Olanda.

253. Pachimero, ne' suoi libri XI, XII, XIII, fa un minutissimo racconto della guerra de' Catalani insino all'anno 1308; Niceforo, diffondendosi meno, la descrive più compiutamente (l. VII, 3-6). Il Ducange che riguarda questi venturieri come francesi, ne ha seguiti i passi colla esattezza ad esso connaturale ( Hist. C. P. l. VI, c. 22-46): cita una Storia d'Aragona che ho letta con piacere, e che gli Spagnuoli esaltano siccome un modello di componimento e di stile ( Expedicion de los Catalanos y Aragones contra los Turcos y Griegos; Barcellona 1623 in 4; Madrid 1777, in 8.). Don Francisco de Moncada, conte di Ossona, avrà imitato Cesare o Sallustio, avrà tradotti i contemporanei greci, o italiani; ma egli non addita mai le sue autorità, nè trovo veruna testimonianza nazionale che confermi le imprese de' suoi compatriotti.

254. V. la Storia del laborioso Ducange, e l'accurata tabella delle dinastie francesi; ove trovansi raccolti i trentacinque passi della stessa Storia che citano i Duchi d'Atene.

255. Il Villehardouin in due luoghi, fa menzione onorevole di Ottone De la Roche (n. 151-235), e nel primo d'essi il Ducange aggiugne tutto quanto si è potuto sapere intorno alla persona e alla famiglia di questo Duca d'Atene.

256. Da questi Principi latini del secolo XIV il Boccaccio, il Chaucer, il Shakespeare, hanno tolto il loro Teseo, Duca di Atene. Un secolo ignorante attribuisce ai tempi i più remoti la propria lingua e i proprj costumi.

257. Non in diversa guisa Costantino ha dato un Re alla Sicilia, alla Russia un magnus dapifer dell'Impero, a Tebe il primicerius. Il Ducange ( ad Niceph. Gregor., l. VII, c. 5) parla di queste assurde favole col disprezzo che ad esse è dovuto. I Latini chiamavano per corruzione il signor di Tebe Megas Kurios, o Gran Sire.

258. Quodam miraculo, dice Alberico. Fu forse per merito di Michele il Coniate, Arcivescovo, che avea difesa Atene contro il tiranno Leone Sguro (Niceta, in Balduino ). Michele era fratello dello storico Niceta, e il suo elogio di Atene conservasi ancor manoscritto nella Biblioteca Bodleana (Fabr., Bibl. graec. t. VI, p. 405).

259. Questi cenni intorno alla moderna Atene sono tolti dallo Spon ( Viaggio in Grecia, t. II, p. 79-190), dal Wheeler ( Viaggio in Grecia, p. 337-414), dallo Stuart (Antichità d'Atene, passim), dal Chandler ( Viaggio in Grecia, p. 23-172). Il primo di questi viaggiatori visitò la Grecia nell'anno 1676, il secondo nel 1765; e il volgere di più d'un secolo non avea su questo tranquillo teatro operato alcun cambiamento.

260. Gli Antichi, o almeno gli Ateniesi credevano che tutte le Api del Mondo venissero dal monte Imeto, e che il mangiar mele e il fregarsi d'olio erano cose bastanti a conservar la salute e a prolungare la vita ( Geoponica, l. XV, c. 7, p. 1089-1094, edizione di Niclas).

261. Il Ducange ( Gloss. graec. praef. pag. VIII) cita per suo testo Teodosio Zigomalas, moderno gramatico. Nondimeno lo Spon (t. II, p. 194) e il Wheeler (p. 355), che possono aversi per giudici competenti, portano sul dialetto dell'Attica un'opinione più favorevole.

262. Non possiamo per altro tacciarli di avere corrotto il nome di Atene, che chiamano anche Atini. Dalle voci εις της Αθηνην, noi abbiamo formata la barbara denominazione Setine.

263. Andronico che ha pronunziate tante invettive contro la parzialità degli Storici (Niceforo Gregoras, l. 1, c. 1), preparò egli medesimo le nostre scuse se or ci prendiamo qualche libertà nel parlare di lui: gli è però vero che le censure del greco Principe andavano a ferire la calunnia, anzichè l'adulazione.

264. Il timore dell'inferno, vale a dire di un luogo di castigo per le colpe, deve essere in ognuno, ed era anche in Andronico. (Nota di N. N.)

265. Circa l'anatema trovato nel nido de' colombi V. Pachimero (l. IX, cap. 24). Questo scrittore racconta tutta la storia di Atanasio (l. VIII, c. 13-16-20-24; l. X, c. 27-29-31-36; l. XI, c. 1-3-5, 6; l. XIII; c. 8-10-20-35), e ove Pachimero finisce, continua Niceforo Gregoras (l. VI, 5-7; l. VII, c. 1-9), che comprende nel suo racconto la seconda ritirata di questo nuovo Grisostomo.

266. Pachimero in sette libri di trecento settantasette pagine in folio, narra la Storia de' trentasei primi anni del regno di Andronico il Vecchio, e ne dà cognizione delle date col non omettere le novellette o le menzogne correnti alla giornata (A. D. 1308). La morte o le afflizioni gli impedirono di continuare.

267. Dopo un intervallo di due anni, contati dall'istante ove l'opera di Pachimero finisce, Cantacuzeno prende la penna, e il suo primo libro (c. 6-59, p. 9-150) contiene il racconto delle guerre civili, e degli otto ultimi anni del regno di Andronico il Vecchio. Il presidente Cousin, che ha tradotta questa Storia è pur l'autore della leggiadra comparazione tra Cantacuzeno, Mosè e Cesare.

268. Niceforo Gregoras racconta in compendio il regno e tutta la vita di Andronico il Vecchio (l. VI, cap. 1; l. X, c. 1, p. 96-291). Di tal parte di Storia si duol Cantacuzeno, il quale vi trova una falsa e maligna interpretazione della propria condotta.

269. Fu coronato nel giorno 21 maggio 1295; morì ai 12 ottobre 1320 (Ducange, Fam. byzant. p. 239). Il fratello di lui Teodoro, erede, per un secondo maritaggio, del marchesato di Monferrato, abbracciò la religione e i costumi de' Latini (ότι και γνωμη και πιστει και σχηματι, και γενειων κουρα και πασιν αθεσιν Λατινος ην ακραιφνης, era Latino puro, e nelle massime, e nella fede, e nell'abito, e nell'uso di sbarbarsi le guancie, Niceforo Gregoras, l. IX, c. 1), e fondò una dinastia di Principi italiani che si estinse nel 1353 (Ducange, Fam. byzant., p. 249-253).

270. Noi sappiamo da Niceforo Gregoras (lib. VIII, c. 1) questo tragico avvenimento. Cantacuzeno nasconde con molto riguardo i vizj del giovine Andronico, de' quali fu testimonio, e probabilmente anche complice (l. I, c. 1 ec.).

271. Andronico voleva eleggersi in successore Michele Cattaro, figlio non legittimo di Costantino suo secondogenito. Niceforo Gregoras (l. VIII, c. 3) e Cantacuzeno (l. I, c. 1 e 2) narrano entrambi il divisamento di escludere dal trono il giovane Andronico.

272. V. Niceforo Gregoras (l. VIII, cap. 6). Andronico il Giovane si lamentava perchè gli era dovuta, da quattro anni e quattro mesi, una somma di trecencinquantamila bisantini d'oro per le spese della sua casa (Cantacuzeno, l. I, c. 48). Nondimeno sarebbe stato pronto a rimettere questo debito, semprechè gli fosse stato permesso di mettere a contribuzione gli appaltatori delle pubbliche rendite.

273. Mi sono attenuto alla Cronologia di Niceforo perchè esattissima. È cosa provata che Cantacuzeno ha commessi sbagli nelle date, fin delle cose operate da lui, ovvero che il suo testo è stato alterato dall'ignoranza de' copisti.

274. Ho cercato di conciliare le ventiquattromila piastre di Cantacuzeno (l. II, c. 1) colle diecimila di Niceforo Gregoras (l. IX, c. 2). Il primo voleva nascondere, l'altro procurava di esagerare le calamità del vecchio Imperatore.

275. V. Niceforo Gregoras (lib. IX, 6, 7; 8-10-14; l. X, c. 1). Questo Storico partecipò alla prosperità del suo benefattore, lo seguì nel ritiro. «Un uomo che segue il suo padrone fino al talamo ferale, o nel monastero, non dovrebbe essere con leggerezza qualificato, siccome uom mercenario, e prostitutore d'elogi».

276. Cantacuzeno (l. II, c. 1-40, p. 191-339) e Niceforo Gregoras (l. IX, c. 7; l. XI, c. 11, pag. 262-371) hanno scritta la Storia del regno d'Andronico il Giovane incominciando dalla rinunzia dell'avo.

277. Agnese, o Irene era figlia del Duca Enrico il Maraviglioso, Capo della Casa di Brunswick, e quanto discendente del famoso Enrico il Lione, duca di Sassonia e di Baviera, e vincitore degli Slavi della costa del Baltico. Erale fratello quell'Enrico che due viaggi in Oriente fecero soprannomare il Greco; ma questi due viaggi essendo accaduti dopo il matrimonio della sorella, io non so, nè come Andronico pensasse a cercarsi una moglie in questo angolo dell'Alemagna, nè quai ragioni ei s'abbia avute per formare un tal parentado (Rimius, Mémoires de la maison de Brunswick, p. 126-137).

278. Enrico il Maraviglioso fu ceppo del ramo di Grubenhagen, estinto nell'anno 1596 (Rimius, p. 287). Egli abitava il castello di Wolfenbuttel, possessore solamente di un sesto degli allodj di Brunswick e di Luneburgo che la famiglia de' Guelfi avea salvati dalla confiscazione de' grandi feudi. Gli spessi parteggiamenti tra fratelli aveano pressochè annichilate le Case de' Principi di Alemagna, quando finalmente i diritti di primogenitura vennero a gradi a gradi a toglier di mezzo la legge delle divisioni, giusta, ma perniciosa. Il principato di Grubenhagen, uno degli ultimi avanzi della foresta Ercinia, è un paese sterile, pieno di boschi e di montagne ( Geografia di Busching, vol. 6).

279. Il regale Autore delle Memorie di Brandeburgo ne fa conoscere, quanto il Nort dell'Alemagna, anche ne' tempi più moderni, meritasse l'epiteto di povero e di barbaro ( Saggio sui costumi ec.). Nell'anno 1306 alcune bande di schiatta veneda che abitavano la foresta di Luneburgo avevano la costumanza di seppellir vivi i vecchi e gli infermi (Rimius, pag. 137).

280. Sol con qualche restrizione, anche riferendosi al suo secolo, può ammettersi l'asserzione di Tacito che vuole l'Alemagna affatto priva di preziosi metalli ( Germania, c. 5; Annal. 11, 20). Seconda lo Spener ( Hist. Germaniae pragmatica, t. I, p. 351), Argentifodinae in Hercyniis montibus imperante Othone magno (A. D. 968) primum apertae, largam etiam opes augendi dederunt copiam. Ma Rimio (p. 258, 259) porta solamente all'anno 1016 la scoperta delle mine d'argento di Grubenhagen o dello Hartz Superiore, che vennero scavate nel secolo XIV, e che rendono tuttavia considerabili somme alla Casa di Brunswick.

281. Cantacuzeno le rendè una onorevolissima testimonianza ην δ’εκ Τερμανων αυτη θυγατηρ δουκος ντι μπρουζουικ, era di Germania questa moglie del Duca di Brunzuic. (I Greci moderni si valgono del ντ invece del δ e del μπ invece del β, e il tutto farà in italiano di Brunzuic ), του παρ’ αντοις επιφανεστατου, και λαμπροτητι παντας τους όμοφυλους ύπερβαλλοντος του γενους, gloriosissimo fra loro, e che per merito superava tutti i suoi nazionali. Encomio giusto e lusinghiero per un Inglese.

282. Anna o Giovanna, era una delle quattro figlie del grande Amedeo, venutagli da un secondo maritaggio, e zia paterna del principe che gli succedè, Odoardo Conte di Savoja ( Tavole di Anderson, p. 650. V. Cantacuzeno, l. 1, c. 40-42).

283. Questo Re, sempre che il fatto sia vero, debbe essere stato Carlo il Bello, che nello spazio di cinque anni prese tre mogli (1321-1326; Anderson pag. 628). Anna di Savoia fu ricevuta in Costantinopoli nel mese di febbraio dell'anno 1326.

284. La nobile stirpe dei Cantacuzeni, illustre fin dopo l'undecimo secolo negli annali di Bisanzo, traeva origine dai Paladini di Francia, gli eroi di que' romanzi che vennero tradotti e letti dai Greci nel secolo decimoterzo (Ducange, Fam. byzant. p. 258).

285. V. Cantacuzeno, l. III, c. 24-30-36.

286. Saserno nelle Gallie, e Columella nell'Italia, o nella Spagna calcolano due paia di buoi, due conduttori, e sei giornalieri per ogni dugento iugeri (125 acri inglesi) di terra da lavoro, e aggiungono tre uomini di più, se il terreno è coperto di macchie (Columella, De re rustica, l. II, cap. 13, p. 441, ediz. di Gessner).

287. Nel tradurre questa specifica, il presidente Cousin ha commessi tre errori palpabili ed essenziali. 1. Omesso mille paia di buoi da lavoro, 2. traduce πεντακοσι αι προς δισχιλιαις, cinquantaduemila, mille e cinquecento. 3. Confonde miriadi con chiliadi, in guisa che i porci di Cantacuzeno non sarebbero stati più di cinquemila. Fidatevi alle traduzioni!

288. V. la Reggenza e il regno di Giovanni Cantacuzeno, e la guerra civile cui diede origine, nella Storia scritta da lui medesimo (l. III, c. 1-100, p. 348-700), e parimente nella Storia di Niceforo Gregoras (lib. XII, c. 1, l. XV, c. 9, p. 353-482).

289. Calzò scarpe, ossia coturni rossi, coprì il capo di una mitra d'oro e di seta, sottoscrisse le sue lettere con inchiostro verde, chiese per la nuova Roma tutti i privilegi che Costantino avea conceduti all'antica (Cantacuzeno, lib. III, c. 36, Nicef. Greg. l. XIV, c. 3).

290. Niceforo Gregoras (l. XII, c. 5) attesta l'innocenza e le virtù di Cantacuzeno, gli obbrobriosi vizj e il delitto di Apocauco; nè dissimula i motivi d'inimicizia personale e religiosa verso del primo: νον δε δια κακιαν αλλων, αιτιος ό πραοτατος της των αλων οδοξον ειναι ωθορας, ora per la malvagità degli altri quest'uomo mansuetissimo parve colpevole della strage di tutti.

291. I principi della Servia, Ducange, Fam. Dalmat. etc., c. 2, 3, 4-9, venivano nomati despoti in lingua greca, Cral nell'idioma serviano nativo (Ducange gloss. graec., p. 751). Questo titolo, equivalente a quello di Re, trae a quanto sembra l'origine dalla Schiavonia; d'onde passò fra gli Ungaresi, fra i Greci, ed anche fra i Turchi, che serbano il nome di Padisà all'Imperatore (Leunclavius, Pandect. turc. p. 422). Ottenere il titolo di Cral invece di quello di Padisà, è l'ambizione de' Francesi a Costantinopoli ( Avvertimento intorno alla Storia di Timur-Bec, p. 39).

292. Niceforo Gregoras, l. XII, c. 14. È cosa sorprendente che Cantacuzeno non abbia inserito ne' suoi scritti questa giusta ed ingegnosa comparazione.

293. Intorno alla morte di Apocauco, V. Cantacuzeno (l. III, c. 86) e Niceforo Gregoras (l. XIV, c. 10).

294. Cantacuzeno dà tutte le colpe al Patriarca, risparmiando l'Imperatrice madre del suo Sovrano (l. III, 33, 34), contro della quale Niceforo mostra una singolare avversione (l. XIV; 10, 11; XV, 5); però questi due autori alludono a tempi diversi.

295. Niceforo Gregoras svela il tradimento e il nome del traditore (l. XV, c. 8); ma Cantacuzeno (l. III, c. 99) ha la circospezione di tacere il nome di un uomo che egli aveva onorato dell'incarico di suo complice.

296. Niceforo Gregoras (l. XV, 11) dice che vi erano però rimaste alcune perle fine, ma radamente sparse; quanto al rimanente delle gemme παντοδαπην χρσιαν προς το διαυγες, un vario colore di trasparenza.

297. Cantacuzeno continua la Storia di sè e dell'Impero, incominciando dal suo ritorno a Costantinopoli fino all'anno successivo alla rinunzia di Mattia, figlio dello stesso Cantacuzeno (A. D. 1357, l. IV, c. 1-50, p. 705-911). Niceforo Gregoras termina la sua Storia al Sinodo di Costantinopoli nell'anno 1351 (l. XXII, c. 3, p. 660), perchè il rimanente sino alla fine del libro vigesimoquarto, p. 617, non tratta che di controversie. Gli ultimi quattordici libri di Niceforo si trovano tuttavia in manoscritto, nella Biblioteca nazionale di Francia a Parigi.

298. L'imperatore Cantacuzeno (lib. IV, c. 1) parla delle proprie virtù, e Niceforo Gregoras delle lagnanze di que' partigiani che le virtù del lor Capo riducevano alla miseria. Ho attribuito a questi infelici le espressioni, che dopo la restaurazione si adoperavano dai nostri poveri cavalieri, o partigiani di Carlo.

299. Può rimediarsi alla manifesta confusione con cui Cantacuzeno nella sua ridicola Apologia racconta la propria disgrazia (l. IV, c. 39-42), col leggere la relazione men compiuta, ma più sincera di Mattia Villani (lib. IV, cap. 46 in Script. rer. ital., tom. XIV, pag. 268) e quella di Duca (c. 10, 11).

300. Cantacuzeno ricevè nell'anno 1375 una lettera del Papa (Fleury, Hist. eccles. t. XX, p. 250), e varie autorità rispettabili mettono la sua morte ai 20 novembre 1419 (Duc., Fam. byzant. pag. 260). Ma se fu coetaneo di Andronico il Giovane, statogli compagno nella giovinezza e ne' diporti, converrebbe attribuirgli una vita di cento sedici anni, longevità, che trattandosi di un personaggio tanto famoso, non avrebbe sfuggito alle osservazioni generali, se fosse stata vera.

301. I quattro discorsi di Cantacuzeno vennero pubblicati colle stampe a Basilea nel 1543 (Fabricius, Bibl. graec. t. VI, p. 473). Li compose a quiete di un proselito che i suoi amici tribolavano coll'importunità di continue lettere. Egli avea letto il Corano; ma mi accorgo, leggendo il Maracci, che egli ammettea tutte le favole spacciate contra Maometto e l'Islamismo.

302. V. i viaggi di Bernier t. I, p. 127.

303. V. Mosheim ( Istit. eccles., p. 522, 523), e Fleury, ( Ist. eccl. t. XX, p. 22-24-107-114 ec.). Il primo esamina filosoficamente le cause, il secondo trascrive e traduce[304] dominato dai pregiudizj di un prete cattolico.

304. Gli articoli di credenza non possono essere dichiarati che da un Concilio generale, e questo fu particolare. Del resto è molto tempo che la ricerca intorno alla luce del monte Tabor non occupa neppur i teologi, fatti più ragionevoli: era un soggetto da Greci del secolo decimoquarto, in cui menti oziose, e ad entusiasmo composte, prendendo le forme de' lor sillogismi per principj sodi, e per argomenti sicuri, studiavansi, facendo distinzioni arbitrarie e ricerche vane affatto, a farsi più ignoranti di prima, con una ridicola apparente vernice di dottrina, o ad incamminarsi verso la pazzia. (Nota di N. N.)

305. Il Basnage (Canizii, antiq. lect. t. IV, pag. 363-368) ha esaminato la storia e il carattere di Barlamo. La contraddizione delle opinioni in più circostanze osservata ha dato motivi a dubbj sull'identità della persona. V. anche Fabrizio, Bibl. graec., t. X, p. 427-432.

306. Era meglio dire che Fleury riguardava queste cose nel modo teologico e ascetico, e non nel filosofico e fisico. Del resto i Quietisti, Setta cristiana, il cui Capo fu il prete spagnuolo Molinos, furono condannati. Bisogna poi considerare che certe contemplazioni fatte da menti ad entusiasmo composte, danno alle menti stesse illusioni bene spesso vivissime; fanno traviare la ragione, perchè infiammano l'immaginazione, portandola a idee vane, ma ardenti, e ne vengono spesso anche visioni. (Nota di N. N.)

307. V. Cantacuzeno (l. II, c. 39, 40, l. IV, c. 3-23, 24, 25) e Niceforo Gregoras (lib. XI, c. 10, l. XV, 3-7), gli ultimi libri del quale, dal diciannovesimo al ventiquattresimo, non riguardano che questo argomento sì rilevante. Boivin ( Vit. Nicef. Greg.), seguendo i libri che sono stati pubblicati, e Fabrizio ( Biblioth. graec. t. X, pag. 462-473), o piuttosto il Montfaucon, giovandosi de' manoscritti della Biblioteca di Coislin, hanno aggiunti alcuni fatti e documenti.

308. Pachimero (l. V, cap. 10) traduce ottimamente γιξιους ( ligios ) per ιδιους proprj o dependenti. Il Ducange spiega diffusamente l'uso di queste parole in greco e in latino sotto il regno feudale ( Graec., p. 811-812; Latin., t. IV, p. 109-111).

309. Il Ducange descrive la fondazione e i progressi della colonia genovese a Pera o Galata ( C. P. Cristiana, lib. I, pag. 68, 69), seguendo gli Storici di Bisanzo, Pachimero (l. II, c. 35, l. V, 10-30, l. IX, 15, l. XII, 6-9), Niceforo Gregoras (l. V, c. 4, l. VI, c. 11; l. IX, c. 5; l. XI, cap. 1; l. XV, c. 1-6) e Cantacuzeno (l. I, c. 12; l. II, c. 29 ec.).

310. Pachimero (lib. III, c. 3, 4, 5) e Niceforo Gregoras sentono e deplorano entrambi gli effetti d'una sì perniziosa condiscendenza. Bibaras, Sultano d'Egitto, e Tartaro di nazione, ma zelante Musulmano, ottenne dai figli di Zingis la permissione di fabbricare una moschea nella capitele della Crimea (De Guignes, Ist. degli Unni t. III, p. 343).

311. Chardin a Caffa ( Viaggi in Persia, t. I, p. 48) fu assicurato che questi pesci, lunghi talvolta sin ventisei piedi, pesavano ottocento e novecento libbre, e produceano tre o quattro quintali di caviale o d'uova. Ai tempi di Demostene, il Bosforo mantenea di grani la città di Atene.

312. V. De Guignes ( Storia degli Unni, t. III, p. 343, 344; Viaggi di Ramusio, t. I, fog. 400). Ma questa condotta per terra, o per mare non potè eseguirsi che quando le bande de' Tartari furono unite sotto il governo di un Principe saggio e potente.

313. Niceforo Gregoras (l. XIII, cap. 12) mostra discernimento e cognizioni ad un tempo nel descrivere il commercio e le colonie del mar Nero. Chardin descrive le rovine di Caffa, ove in quaranta giorni vide più de quattrocento vele impiegate al commercio di pesce e di grano. ( Viaggio di Persia, t. I, p. 46-48).

314. V. Niceforo Gregoras, t. XVII, c. 1.

315. Cantacuzeno, l. IV, c. 11, racconta gli avvenimenti di questa guerra; oscura però e confusa è la sua narrazione; chiara e fedele quella di Niceforo Gregoras (l. XVII, c. 1, 7); ma il prete non dovea, come il Principe, render conto de' suoi abbagli e della perdita di una flotta.

316. Cantacuzeno non mostra maggior chiarezza nel racconto della seconda guerra (l. IV, c. 18, pag. 24, 25-28-32), e traveste i fatti che non osa negare. Mi auguro quella parte di Niceforo Gregoras che rimane tuttavia manoscritta a Parigi.

317. Il Muratori ( Annali d'Italia, t. XII, p. 144) ne rimette alle antiche Cronache di Venezia (Caresino, continuatore di Andrea Dandolo, t. XII, p. 421, 422), e di Genova (Giorgio Stella, Annales Genuenses, t. XVII, pag. 1091, 1092). Ho consultate accuratamente l'una e l'altra di queste cronache nella grande Raccolta degli storici dell'Italia dello stesso Muratori.

318. V. la Cronaca di Matteo Villani di Firenze (lib. II, c. 59, 60, p. 145-147; c. 74-75, p. 156, 157, nella Raccolta del Muratori t. XIV).

319. L'abate di Sade ( Mémoires sur la vie de Petrarque, t. III, p. 257-263) ha tradotta questa lettera che egli avea copiata in un manoscritto della Biblioteca del Re di Francia. Benchè affezionato al Duca di Milano, il Petrarca non nasconde nè la sua maraviglia, nè la sua afflizione sulla sconfitta successiva de' Genovesi, e sullo stato lagrimevole in cui si trovarono nel seguente anno (p. 223-332).

320. Prego il leggitore a riandare que' capitoli della presente Storia ove sono descritti i costumi delle nazioni pastorali e le conquiste di Attila e degli Unni, e da me composti in un tempo in cui io desiderava, più di quanto sperassi, di condurre a termine questo lavoro.

321. I Kan dei Keraiti molto probabilmente non sarebbero stati capaci di leggere le eloquenti epistole composte a loro nome dai missionarj nestoriani, che presentavano il loro regno di tutte le favolose maraviglie attribuite alle indiane Monarchie. Può darsi che questi Tartari (da essi nominati Pretejanni) si fossero sottomessi al Battesimo e agli Ordini sacri ( V. Assem., Bibl. Orient., t. III, part. II, p. 487-503).

322. Dopo che il Voltaire ha pubblicate la sua Storia e la sua Tragedia, il nome di Gengis, almeno in francese, sembra essere stato generalmente ricevuto. Nondimeno Abulgazi-Kan dovea sapere il vero nome del suo antenato, e sembra giusta l'etimologia ch'egli ha offerta; Zim, in lingua dei Mongulli, significa grande, e Gis è la desinenza del superlativo ( Hist. généalog. des Tartares, part. III, p. 194, 195). Non abbandonando quindi il significato di grandezza, fu da quei popoli chiamato Zingis l'Oceano.

323. Il nome di Mongul, prevalso fra gli Orientali, è divenuto il titolo del sovrano dell'Indostan, del Gran Mogol.

324. I Tartari, o propriamente i Tatar, discendenti di Tatar-kan, fratello di Mougul-kan ( V. Abulgazi, prima e seconda parte) si collegarono in un'orda di settantamila famiglie sulle rive del Kitay (p. 103-112), nella grande invasione d'Europa (A. D. 1238); sembra che marciassero all'antiguardo, e la somiglianza del loro nome colla parola Tartarei, rendè più famigliare ai Latini la denominazione di Tartari (Paris, p. 398).

325. Scorgesi una singolare somiglianza tra il codice religioso di Gengis-kan e quello del Locke. ( V. le Costituzioni della Carolina, nelle sue Opere, vol. IV, p. 535, edizione in 4., 1777).

326. Raccolta eseguita nell'anno 1294, per ordine di Chasan, Kan di Persia, e quarto discendente di Gengis. Sul fondamento di queste tradizioni, Fadlallà, Visir del ridetto Kan, compose la Storia dei Mongulli in lingua persiana; della quale si è valso Petis de la Croix, nella sua Storia di Gengis-kan. La Storia genealogica de' Tartari, pubblicata a Leida nel 1726 in due volumi in 12, è una traduzione che gli Svedesi, andati prigionieri in Siberia, fecero sul manoscritto Mongul di Abulgazj-Bahadar-kan, discendente di Gengis, che regnava sugli Usbek di Carasme, o Carizme, tra gli anni 1644-1663; opera assai preziosa per l'esattezza dei nomi delle genealogie e dei descritti costumi della nazione. Essa è divisa in nove parti: la prima delle quali contiene un intervallo che da Adamo giunge sino a Mongul-kan; la seconda da Mongul fino a Gengis; la terza è la vita di Gengis; la quarta, quinta, sesta e settima narra la storia generale de' quattro figli di Gengis e della loro posterità, l'ottava e la nona, la storia particolare de' discendenti di Scibani-kan, che regnò ne' paesi di Morenahar e di Carizme.

327. Storia di Gengis-kan, e di tutta la dinastia de' Mongulli suoi successori, conquistatori della Cina, tolta dalla Storia Cinese, opera del R. P. Gaubil Gesuita missionario a Pechino; Parigi 1739 in 4. Questa traduzione porta l'impronta cinese, cioè la scrupolosa esattezza nel raccontare i fatti domestici, e l'assoluta ignoranza in tutto quanto agli estranei si riferisce.

328. Histoire du grand Gengis-khan premier empereur des Mongouls et des Tartares, par M. Petis de la Croix, à Paris, 1710, in 12. Tale Opera costò all'Autore dieci anni di fatica, ed è tolta in gran parte dagli Scrittori persiani, fra gli altri da Nisavi, segretario del Sultano Gelaleddin che ha i pregi e i pregiudizj di un contemporaneo. O il compilatore, o gli originali hanno dato luogo alla censura di scrivere in istile alquanto romanzesco. V. anche gli articoli di Gengis-kan, Mohammed, Gelaleddin ec., nella Biblioteca orientale del d'Herbelot.

329. Aitono, principe armeno, indi Fra Premonstrato (Fabricius, Bibl. lat. med. aevi, t. I, pag. 34), dettò in francese la storia de' Tartari suoi antichi commilitoni; la quale venne immediatamente tradotta in latino, ed è l'opera De Tartaris, inserita nel Novus Orbis di Simone Grineo (Basilea, 1555 in foglio).

330. Gengis-kan e i primi suoi successori tengono verso il fine la nona dinastia di Abulfaragio ( Vers. Pococke, Oxford, 1663, in 4); la decima dinastia è quella dei Mongulli di Persia. L'Assemani, Bibl. orient., t. II, ha tolti alcuni fatti dai suoi scritti siriaci e dalla vita de' Mafriani, giacobiti o primati dell'Oriente.

331. Fra gli Arabi, tali di lingua e di religione, merita di essere distinto Abulfeda, Sultano di Hamà nella Sorìa, che combattè in persona contro i Mongulli, seguendo le bandiere dei Mammalucchi.

332. Niceforo Gregoras (l. II, c. 5, 6) intendendo la necessità di collegare la storia degli Sciti con quella di Bisanzo, ha descritto con eleganza ed esattezza i costumi de' Mongulli dal momento che si stanziarono nella Persia, ma non si mostra istrutto della loro origine, e altera i nomi di Gengis e de' suoi figli.

333. Il Signor Levesque ( Hist. de Russie, t. II) ha narrata la conquista della Russia operata dai Tartari, sulle tracce del patriarca Nicone e delle Cronache antiche.

334. Quanto alla Polonia, mi basta la Sarmatia Asiatica et Europaea, di Mattia di Micou, o Michovia, medico e canonico di Cracovia (A. D. 1506), inserita nel Novus Orbis di Grineo (Fabricius, Bibl. lat. mediae et infimae aetatis, t. V, p. 56).

335. Citerei Turoczio, il più antico scrittore di questa Storia generale (parte 2, c. 74, p. 150) nel primo volume dei Scriptor. rerum hungaricarum, se questo stesso volume non contenesse l'originale racconto di un contemporaneo che fu testimonio e vittima dell'invasione de' Tartari ( M. Rogerii Hungari, varidiensis capituli canonici, carmen miserabile, seu Historia super destructionem regni Hungariae, temporibus Belae IV regis per Tartaros facta, pag. 292-321); pittura eccellente, fra quante io ne conosca, delle circostanze che alla invasione de' Barbari vanno congiunte.

336. Mattia Paris, fondandosi sopra autentici documenti, ha narrati i terrori e i pericoli dell'Europa. V. il suo voluminoso indice alla parola Tartari. Due frati, Giovanni de Plano Carpini e Guglielmo Rubruquis, e il Nobile veneto Marco Polo, mossi da zelo, ovvero da curiosità, visitarono nel secolo decimoterzo la Corte del Gran Kan. Le relazioni latine de' due primi leggonsi inserite nel primo volume di Hackluyt; l'originale italiano, o la traduzione della terza si trova nel secondo tomo del Ramusio (Fabricius, Bibl. lat. medii aevi, t. II, p. 198, t. V, p. 25).

337. Il Signor De Guignes nella sua grande Storia degli Unni ha ragionato fondatamente sopra Gengis-kan e i suoi successori ( V. t. III, l. XV-XIX, e negli articoli de' Selgiucidi di Rum, t. IV, l. XI, de' Carizmj, l. XIV, e de' Mammalucchi, t. IV, l. XXI, e anche le Tavole del primo volume). Comunque l'Autore dia saggio ivi di molta istruzione ed esattezza, non ne ho tolto che alcune osservazioni generali, e alcuni passi di Abulfeda, il testo de' quali non è ancora stato tradotto dall'arabo.

338. O più giustamente Yen-king, antica città, le cui rovine vedonsi tuttavia in qualche distanza a scilocco della moderna città di Pechino, fabbricata da Cublai-kan (Gaubil, pag. 146). Nan-king e Pé-king, sono nomi vaghi indicanti la corte d'ostro e la corte di tramontana. Nella geografia cinese troviamo continui impacci or dalla somiglianza, or dalla alterazione de' nomi.

339. Voltaire, ( Essai sur l'Histoire génerale, tom. III, c. 60, p. 8). Nella parte che si riferisce alla Storia di Gengis e dei Mongulli, trovansi, come in tutte le opere di questo scrittore, molte considerazioni giudiziose e verità generali mescolate con alcuni particolari errori.

340. Zagatai diede il proprio nome ai suoi Stati di Maurenahar, o Transossiana, e i Persiani chiamano Zagatai i Tartari che migrarono da quel paese. Tale autentica etimologia e l'esempio degli Usbek, de' Nogai ec., debbono farci istrutti a non negare affermativamente che alcune nazioni abbiano assunti nomi proprj di persone.

341. Marco Polo, e i Geografi orientali distinguono gl'Imperi del Nort e del Mezzogiorno co' nomi di Catai e di Mangi; così la Cina rimase divisa fra il Gran-Kan e i Cinesi dall'A. di G. C. 1234 al 1279. Dopo scoperta la Cina la ricerca del Catai sviò i nostri navigatori del secolo XVI, voltisi a scoprire un passaggio a greco.

342. Mi fido nell'erudizione e nell'esattezza del padre Gaubil, il quale traduce il testo cinese degli Annali mongulli, o di Yuen (p. 71-93-153); ma ignoro in qual tempo questi Annali fossero composti e pubblicati. I due zii di Marco Polo, che militarono come ingegneri all'assedio di Siengiangfu (l. II, c. 61, in Ramusio, t. II; V. Gaubil, p. 155, 157), dovrebbero aver conosciuto e raccontati gli effetti di cotesta polvere struggitrice, e il loro silenzio è una obbiezione che sembra pressochè decisiva. Io sospetto che la recente scoperta della polvere, nata invece in Europa, sia stata trasportata alla Cina dalle carovane del secolo XV, e falsamente adottata dai Cinesi come antica loro scoperta, precedente all'arrivo de' Portuguesi e de' Gesuiti. Pure il padre Gaubil afferma che l'uso della polvere da sedici secoli era noto in quelle contrade.

343. Tutto quanto possiamo sapere intorno agli Assassini della Persia e della Sorìa, lo dobbiamo al sig. Falconet. V. le due Memorie copiosissime di squisita erudizione dal medesimo lotto all'Accademia delle Iscrizioni (t. XVII, p. 127-170).

344. Gl'Ismaeliti della Sorìa o Assassini in numero di quarantamila, aveano acquistate, o fabbricate dieci Fortezze nelle montagne sopra Tortosa, e vennero sterminati dai Mammalucchi verso l'anno 1280.

345. Alcuni storici Cinesi estendono le conquiste fatte da Gengis sino a Medina, patria di Maometto (Gaubil, p. 42); asserzione atta quanto mai a provare l'ignoranza di quei popoli su tutto ciò che alla storia del loro paese non si riferisce.

346. Il Dastè-Kipsak, ossia la pianura di Kipsak, tiene sulle due rive del Volga uno spazio immenso che si estende verso i fiumi Iaik e Boristene, e credesi terra natale de' Cosacchi, che dal paese abbiano preso il lor nome.

347. Nell'anno 1238 gli abitanti della Gotia, oggidì Svezia, e della Frisia, per timore de' Tartari, non osarono spedire le loro navi nelle acque inglesi alla pesca delle arringhe, che non venendo in quell'anno asportate fuori dell'Inghilterra si vendeano uno scellino per ogni quaranta o cinquanta (Mattia Paris, p. 396). Ella è cosa assai singolare che gli ordini di un Kan de' Mongulli, il cui regno era ai confini della Cina, abbiano fatto abassare il prezzo delle arringhe ne' mercati dell'Inghilterra.

348. Trascrivo gli epiteti caratteristici o lusinghieri, co' quali questo ecclesiastico addita le diverse nazioni europee. Furens ac fervens ad arma Germania, strenuae militiae genitrix et alumna Francia, bellicosa et audax Hispania, virtuosa viris et classe munita fertilis Anglia, impetuosis bellatoribus referta Alemannia, navalis Dacia, indomita Italia, pacis ignara Burgundia, inquieta Apulia, cum maris Graeci, Adriatici, et Thirrheni insulis piraticis et invictis Creta, Cypro, Sicilia, cum Oceano conterminis insulis et regionibus, cruenta Hibernia, cum agili Wallia, palustris Scotia, glacialis Norwegia, suam electam militiam sub vexillo crucis destinabant, etc. (Mattia Paris, p. 498).

349. V. in Ackluyt la relazione di Carpino, vol. I, p. 30. Abulgazi ne offre la genealogia dei Kan della Siberia (part. 8, p. 485-495). Gli stessi Russi non hanno trovata una qualche Cronaca tartara a Tobolsk?

350. La Carta del Danville e gl'Itinerarj cinesi del De Guignes (t. I, part. II, p. 57) pongono, a quanto sembra, il sito di Holin, o Caracora circa seicento miglia a maestro di Pechino. La distanza fra Selinginsky e Pechino è di duemila verste russe, ossia mille trecento, o mille quattrocento miglia inglesi ( Viaggi di Bell., vol. 2, p. 67).

351. Rubruquis incontrò a Caracora il suo concittadino Guglielmo Boucher, orefice di Parigi, che avea fabbricato pel Gran Kan un albero d'argento, sostenuto da quattro lioni che gettavano quattro liquori diversi. Abulgazi (parte IV, p. 367) cita i pittori del Kitay e della Cina.

352. L'affezione dei Kan verso i Bonzi e i Lama della Cina, tanto odiati dai Mandarini (Dubalde, Hist. de la Chine, tom. I, pag. 502, 503), parrebbe una prova che i ridetti Bonzi e Lama fossero sacerdoti del Fò, divinità dell'India, il culto della quale prevalse appo le Sette dell'Indostan, di Siam, del Tibet, della Cina e del Giappone. Ma questo misterioso argomento è avvolto fra nubi, che forse le sole ricerche della nostra società asiatica potranno giungere a dileguare.

353. Alcuni disastri che i Mongulli soffersero nell'Ungheria (Mattia Paris, pag. 545-546) hanno potuto dare origine alla voce di una unione de' Re franchi, e d'una vittoria dai medesimi riportata sui confini della Bulgaria. Non è difficile che Abulfaragio ( Dynast. p. 310) quaranta anni dopo, e standosi di là dal Tigri sia stato indotto in errore.

354. V. Pachimero (l. III, c. 25, e l. X, c. 26, 27) e il timor panico de' Niceni (lib. III, c. 27); Niceforo Gregoras (l. IV, c. 6).

355. V. G. Acropolita, pag. 36, 37, e Niceforo Gregoras, l. II, c. 6; l. IV, c. 5.

356. Abulfaragio, che scriveva nel 1284, afferma che dopo la favolosa sconfitta di Batù, i Mongulli non aveano assaliti nè i Greci, nè i Franchi, e in questo luogo può essere riguardato come testimonio maggiore d'ogni eccezione. Hayton, principe armeno, si gloria parimente dell'amicizia che a lui, e alla sua nazione mostrarono i Tartari.

357. Pachimero tratteggia con colori favorevolissimi Kasan-kan, facendolo rivale di Alessandro e di Ciro (l. II, c. 1); e nella conclusione della sua Storia (lib. XIII, c. 36) manifesta la speranza di veder giungere trentamila Toccari o Tartari che respingano i Turchi dalla Bitinia.

358. L'origine della dinastia Ottomana viene dottamente rischiarata dagli eruditissimi De Guignes ( Histoire des Huns, t. IV, p. 329-337) e d'Anville ( Empire turc, p. 14-22), due abitanti di Parigi, da cui gli Orientali potrebbero imparare la Storia e la geografia del loro proprio paese.

359. V. Pachimero (l. X, c. 25, 26; l. XIII, c. 33, 34-36), e intorno alle montagne lasciate indifese (l. I, c. 3-6), Niceforo Gregoras (l. VII, c. 1), e il primo libro di Laonico Calcocondila l'Ateniese.

360. Ignoro se i Turchi abbiano Storici che si portino a' tempi anteriori a Maometto II, nè ho potuto su quei tempi far le mie indagini che valendomi di una meschinissima Cronaca ( Annales Turcici ad annum 1550), tradotta da Giovanni Gaudier e pubblicata dal Leunclavio ( ad calcem Laonic. Calcocondyles, p. 311, 350) con copiosi comentari. La Storia dei progressi e della declinazione dell'Impero ottomano (A. D. 1300-1683) è stata tradotta in inglese dal manoscritto di Demetrio Cantemiro principe di Moldavia (Londra 1734, in folio). L'autore va soggetto a grandi abbagli intorno alla Storia orientale, ma sembra istrutto dell'idioma, degli annali e delle istituzioni de' Turchi. Egli trae una parte de' suoi materiali dalla Synopsis di Saadi, Effendi di Larissa, dedicata nel 1696 al Sultano Mustafà, compilazione preziosa di opere di scrittori originali. Il dottor Johnson loda Knolles ( Storia generale dei Turchi fino al presente anno, Londra 1603) come il primo fra gli Storici, notando però che sfortunatamente ha scelto uno sgradevol soggetto. Ma io non so persuadermi che una compilazione voluminosa degli Scrittori latini, ove trovansi mille trecento pagine in folio di aringhe e battaglie, possa istruire, allettare la posterità che pretende da uno Storico qualche poco di sana critica e di filosofia.

361. Benchè Cantacuzeno racconti le battaglie e l'eroica fuga di Andronico il Giovane (lib. II, c. 6, 7, 8), dissimula la presa di Prusa, di Nicea e di Nicomedia, perdite che Niceforo Gregoras in chiare note confessa (l. VIII, 15; IX, 9, 13; XI, 6). Dagli scritti di questo Storico apparirebbe che Nicea avesse ceduto ad Orcano nel 1330, Nicomedia nel 1339, date che però non si accordano al giusto con quelle de' Turchi.

362. La divisione degli Emiri turchi è tolta da due contemporanei, il greco Niceforo Gregoras (l. VII, 1) e l'arabo Marakeschi (De Guignes, t. II, parte II, pag. 76, 77). V. anche il primo libro di Laonico Calcocondila.

363. V. Pachimero, l. XIII, c. 13.

364. L'Autore allude qui all'Apocalisse, cioè rivelazioni di S. Giovanni, diretta alle sette società cristiane della Grecia, cioè d'Efeso, di Smirne, di Pergamo, di Filadelfia, di Tiasira, di Laodicea e di Sardi; ma bisognava scrivere, siccome pure nella Nota che segue, in modo più riguardoso. La religione di Gengis è il Deismo, religione naturale e semplice di molti filosofi antichi, e di alcuni moderni, e contro la quale molto scrissero i nostri teologi, sostenendo la rivelazione contenuta nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. (Nota di N. N.)

365. V. i viaggi del Wheeler e dello Spon, del Pococke e del Chandler, e principalmente le Ricerche dello Smith intorno alle Sette Chiese dell'Asia. I più devoti antiquarj si studiano di conciliare le promesse e le minacce del primo autore delle rivelazioni collo stato attuale delle Sette Città. Sarebbe cosa più savia il limitare le proprie predizioni agli avvenimenti del secolo in cui si vive.

366. L'Autore disegna qui colla parola figli Gesù Cristo, che noi crediamo appunto figlio dell'Esser Supremo, cioè di Dio, e colla parola rivali il Demonio; ma è una maniera impropria il chiamare il Demonio rivale di Dio, benchè si creda che sia sua cura il condurre al male gli uomini colle seduzioni. Si sa poi che il dogma, insegnato da Maometto contro l'idolatria dell'Arabia, era il Deismo, cioè l'unità, e non la trinità dell'Esser Supremo, nè ammetteva per conseguenza che Gesù Cristo fosse figlio dell'Esser Supremo, cioè di Dio, nè che fosse una delle persone della nostra Trinità perchè non vi credeva; si sa pure che nemmeno ammetteva un cattivo essere, seduttore occulto, origine del male, cioè il Demonio. (Nota di N. N.)

367. Si consulti il quarto libro della Storia di Malta dell'Abate di Vertot. Questo leggiadro scrittore dà a divedere alquanta ignoranza, supponendo che Otmano, un partigiano dei colli della Bitinia, abbia potuto assediar Rodi per terra e per mare.

368. Niceforo Gregoras si è diffuso volentieri nel descrivere l'amabilità dell'indole di Amiro (l. XII, 7; l. XIII, 4-10; XIV, 1-9; XVI, 6). Cantacuzeno parla con onore del suo confederato (l. III, c. 56, 57-63, 64-66, 67, 68-86, 89-96); ma protesta contro l'accusa datagli di propensione verso i Turchi negando in tal qual modo la possibilità di una così poco naturale amicizia (l. IX, c. 40).

369. Dopo che i Latini ebbero conquistata Smirne, il Papa assegnò l'incarico di difenderla ai Cavalieri di Rodi ( V. Vertot, l. V).

370. V. Cantacuzeno (l. III c. 95). Niceforo Gregoras che, ove parlasi della luce del Tabor, largheggia all'Imperatore degli ingiuriosi nomi di Tiranno e di Erode, sembra però propenso a scusar queste nozze, anzichè a biasimarle, allegando la passione e la possanza di Orcano, εγγυτατος και τη δυναμει τους κατ’αυτον ηδη Περσικους (Turos) υπεραιρων Σατραπας, avvicinando e per potenza superando i Satrapi persi (Turchi) (l. XV, 5). Esalta in appresso il governo civile e militare di Orcano. V. il regno di questo Principe in Cantemiro, p. 24-30.

371. Può leggersi in Duca (c. 8) una pittura animata e concisa di questo fatto che, colla confusione di un colpevole, Cantacuzeno attesta.

372. Cantemiro, e in questo luogo, e quando parlasi delle prime conquiste dell'Europa, ne dà assai cattiva opinione dei suoi testi turchi, nè io ho molto maggiore fiducia in Calcocondila (l. I, p. 12). E l'uno e l'altro hanno dimenticato di consultare il quarto libro di Cantacuzeno che in ordine a ciò può riguardarsi come un monumento autentico più di tutti. Duolmi sempre degli ultimi libri di Niceforo Gregoras, non ancor pubblicati, benchè siavi il lor manoscritto.

373. Incominciando dall'epoca ove Gregoras e Cantacuzeno finiscono la loro Storia, s'incontra una lacuna di più di un secolo. Giorgio Franza, Michele Duca e Laonico Calcocondila, non iscrissero che dopo la presa di Costantinopoli.

374. V. Cantemiro p. 37-41 e le rilevanti sue note.

375. Volto bianco e volto nero sono, in lingua turca, espressioni, di lode l'una, e di rimprovero l'altra. Hic niger est, hunc tu Romane caveto, era anche un apoftegma de' latini.

376. V. la vita e la morte di Morad o Amurat I in Cantemiro (pag. 33-45), nel primo libro di Calcocondila e negli Annali turchi di Leunclavio. Un'altra Storia racconta che il Sultano fu trafitto nella sua tenda da un Croatto; il quale avvenimento venne citato all'ambasciatore Busbek (ep. 1, p. 98) come una scusa della cautela insultante che usavasi verso gli ambasciatori delle Corti straniere, non ammessi alla presenza del Sovrano, se non se in mezzo a due guardie turche che gli tenevano le braccia.

377. La Storia del regno di Baiazetto I, o Ilderim Bayazid trovasi in Cantemiro (p. 46), nel secondo libro di Calcocondila e negli Annali turchi. Il soprannome di Ilderim, o lampo, sembra una prova che i conquistatori e i poeti hanno mai sempre sentita la verità di questa massima, starsi nel terrore il principio del sublime.

378. Cantemiro che esalta le vittorie riportate sopra i Turchi da Stefano il Grande (pag. 47) ha composta una descrizione del Principato antico e moderno della Moldavia, opera la cui pubblicazione è stata promessa da lungo tempo e ancor non si vede.

379. Leunclavio, Annal. Turcici, p. 318, 319. La venalità dei Cadì è da lungo tempo un argomento di querele e di scandali. E se non vogliamo prestar fede ai nostri viaggiatori, possiamo crederlo ai medesimi Turchi (d'Herbelot, Bibliot. orient., p. 216, 217-229-230).

380. Un tal fatto attestato nella Storia araba di Ben-Sciunà, nativo di Sorìa, e contemporaneo di Baiazetto (de Guignes, Hist. des Huns, t. IV, pag. 336), annulla la testimonianza di Saad Effendi, e di Cantemiro (pag. 14, 15), i quali pretendono che Otmano fosse stato innalzato alla dignità di Sultano.

381. V. le Decades rerum hungaricarum ( Dec. III, l. II, p. 379) del Bonfini, Italiano, che nel secolo XV fu chiamato in Ungheria per comporre ivi la sua eloquente Storia di quel reame. Le preferirei per altro una rozza cronica del paese scritta in que' tempi, se sapessi che vi fosse, e come procacciarmela.

382. Non dovrei molto dolermi delle molestie e delle cure che mi costa quest'opera, se potessi trarre tutti i miei materiali da libri simili alla Cronaca del dabbenuomo Froissard (vol, IV, c. 67-69-72-74-79-83-85-87-89), che leggea poco, facea molte interrogazioni, e tutto credeva. Le memorie del maresciallo di Boucicault (parte 1, c. 22-28) aggiungono alcuni fatti, ma sembrano aridi e non compiuti a petto della ingenua loquacità del Froissard.

383. Il Barone di Zurlauben ( Hist. de l'Acad. des inscript., t. XXV) ne ha offerte le Memorie compiute della vita di Engherando VII, Sere di Couci, chiaro per distinto grado e per ragguardevoli possedimenti che ebbe così in Francia come in Inghilterra. Nel 1375, egli condusse nella Svizzera un corpo di venturieri per ricuperare un vasto patrimonio che ei pretendeva appartenergli, come erede della sua bisavola, figlia dell'Imperatore Alberto I di Austria (Sinner, Viaggio nella Svizzera occidentale, t. I, p. 118-124).

384. La carica militare di Maresciallo, tanto rispettabile anche ai dì nostri, lo era maggiormente quando due soli personaggi la sosteneano (Daniel, Histoire de la Milice française, t. II, pag. 5). Uno di questi due, il famoso Boucicault, era Maresciallo della Crociata. Difese indi Costantinopoli, governò la repubblica di Genova, s'impadronì di tutta la costa dell'Asia, fu ucciso alla battaglia di Azincourt.

385. Al proposito di questo odioso racconto, l'abate di Vertot cita la Storia anonima di S. Dionigi, l. XVI, c. 10-11; Ordre de Malte, t. II, p. 310.

386. Serefeddin-Alì ( Storia di Timur-Bec, l. V, c. 13) fa sommare fino a dodicimila gli ufiziali e i servi spettanti al treno di caccia di Baiazetto. Timur in una sua caccia, sfoggiò con una parte delle spoglie dei Principe turco; 1. diversi cani da corsa colle copertine di raso; 2. più leopardi coi collari tempestati di gemme; 3. cani levrieri della Grecia; 4. mastini d'Europa, che pareggiavano in forza i leoni dell'Affrica ( idem, l. VI, c. 15). Baiazetto si dilettava principalmente di dar coi falchi la caccia alle grue (Calcocondila, l. II, pag. 35).

387. Intorno ai regni di Giovanni Paleologo e del figlio di lui Manuele dal 1354 al 1402, si consultino Duca (c. 9-15), Franza (l. I, c. 16-21) e il primo e secondo libro di Calcocondila, che in mezzo ad una moltitudine di episodj annegò il suo principale argomento.

388. V. Cantemiro, p. 50-53. Duca (c. 13-15) è il solo che confessi l'istituzione di un Cadì a Costantinopoli e dissimula anche l'affare della Moschea.

389. Mémoires du bon messire Jean-le-Maingre, dit Boucicault, maréchal de France, parte prima, c. 30-35.

390. Questi Giornali vennero comunicati a Serefeddino, o Scerefeddin-Alì, che compose in lingua persiana la Storia di Timur-Bek, tradotta in francese dal sig. Petis de la Croix, Parigi 1722, in quattro volumi in 12; autore che ho preso per mia guida, seguendolo fedelmente. Si mostra esattissimo nella geografia e nella cronologia, e merita confidenza ne' raccontati fatti, benchè talvolta con un linguaggio da schiavo encomj la fortuna e le virtù del suo eroe. Può scorgersi dalle Instituzioni di Timur, quanto questo Principe fosse sollecito di procurarsi cognizioni e nel proprio paese, e dagli stranieri ( Instit. de Timur, p. 215-217, 349, 351).

391. Questi Comentarj non sono ancor conosciuti in Europa, ma il signor White ne fa sperare la traduzione per cura del suo amico, Maggiore Davy, che ha letto in Asia questo racconto fedele e minuto delle cose attenenti ad un'epoca rilevante e feconda d'avvenimenti.

392. Non so se l'originale di queste Instituzioni, scritte in lingua turca o mongulla, rimanga tuttavia. Il Maggiore Davy, col soccorso del signor White professore di lingua araba, ha pubblicata in Oxfort nel 1783 in 4, la traduzione persiana, unendovi una traduzione inglese, e un prezioso indice. Quest'opera è stata da poco in qua tradotta in francese (Parigi 1787) dal signor Langlès, versatissimo nelle antichità dell'Oriente, che vi ha aggiunta una vita di Timur e varie note di molto pregio.

393. Shaw Allum, il presente Mogol, legge, apprezza, ma non può imitare le Instituzioni del suo illustre antenato: il traduttore inglese crede giustificata l'autenticità delle medesime dalle prove inserite nell'opera; ma per chi formasse alcuni sospetti di frode o finzione, la lettera del Maggiore Davy non sarebbe atta a distruggerli. Gli Orientali non hanno mai coltivata l'arte della critica. La protezione di un Principe non è men lucrosa di quella di un libraio, nè può riguardarsi come cosa incredibile che un Persiano fosse stato il vero autore dell'Opera, e avesse rinunziato all'onore di comparir tale per aumentare il prezzo e il valore della medesima.

394. Trovasi l'originale delle favole raccontate intorno a Timur nella seguente opera assai apprezzata per pomposa eleganza di stile: Ahmedis Arabsiadae (Ahmed-Ebn-Arabshà) vitae et rerum gestarum Timuri, arabice et latine. Edidit Samuel Henricus Manger. Franequerae, 1768, 2 t. in 4. In questo autore nativo della Sorìa si ravvisa un nemico sempre malevolo, e spesse volte ignorante: i titoli stessi de' suoi capitoli portano l'impronta dell'astio; tai sono i seguenti. In qual modo il malvagio; in qual modo l'empio; in qual modo la vipera ec. Il copioso articolo Timur, inserito nella Biblioteca Orientale, offre un miscuglio di opinioni, perchè il d'Herbelot ha tolti indifferentemente i suoi materiali (p. 887-888) da Kondemir, da Eb-Sciunà, e da Lebtarik.

395. Demir o Timur, significa in lingua turca ferro; e Beg è la denominazione di un gran signore, o di un principe. Il cambiamento di una lettera o di un accento produce il vocabolo leng o zoppo, e gli Europei, per corruzione, hanno confuso i due vocaboli nell'unico Tamerlano.

396. Dopo avere raccontate alcune ridicole favole, Arabshà è costretto a riconoscere Timur-Lenc, siccome un discendente di Gengis per mulieres, aggiugnendo con mal umore laqueos Satanae (part. I, c. 1, p. 25). La testimonianza di Abulgazi-kan (part. 2, c. 5; part. 5, c. 4) è chiara, irrefragabile e decisiva.

397. Giusta una genealogia, il quarto antenato in linea ascendente di Gengis e il nono di Timur erano due fratelli; i quali convennero che la posterità del primogenito succederebbe alla dignità di Kan, e che i discendenti del più giovine sosterrebbero le cariche di ministri e di generali; tradizione che servì almeno a giustificare le prime imprese dell'ambizioso Timur ( Instituzioni, p. 24-25, compilate dai fragmenti manoscritti della Storia di Timur ).

398. V. la Prefazione di Serefeddino e la Geografia di Abulfeda ( Chorasmiae ec., Descriptio, pag. 60, 61) nel secondo volume di Hudson.

399. V. al proposito della nascita di Timur e dell'avviso che intorno ad essi portarono gli Astrologi, il Dottor Hyde ( Synt. Dissert., t. II, pag. 466). Nacque l'anno di Grazia 1336, 9 aprile, 11°, 57', P. M. lat. 36. Non so se abbiano avverata al giusto la grande congiunzion de' pianeti, da cui Timur, come altri conquistatori, hanno tratto il soprannome di Shach-Keran, o Padrone delle Congiunzioni ( Bibl. orient. pag. 878).

400. Le Instituzioni di Timur danno assai impropriamente ai sudditi del Kan di Kasgar il nome di Uzbeg, o Uzbek; nome che perteneva ad un'altra popolazione di Tartari dimorante in una diversa contrada (Abulgazi, part. V, cap. 5, part. VII, c. 5). Se fossi ben sicuro che questo equivoco di nome si trovasse anche nell'originale turco, non esiterei da inferirne che le Instituzioni furono composte un secolo dopo la morte di Timur, e successivamente alla migrazione degli Uzbek nella Transossiana.

401. Il primo libro di Serefeddino è consacrato alla vita privata del suo eroe; e lo stesso Timur, ovvero il suo segretario, si diffonde con compiacenza ( Instit., p. 3-77) sulle tredici spedizioni che fanno maggiore onore al merito personale di questo Principe, merito personale che traluce anche in mezzo ai racconti di Arabshà (part. 1, c. 1-12).

402. Il secondo e il terzo Libro di Serefeddino narrano le conquiste della Persia, della Tartaria, e dell'India; parimente Arabshà (c. 13-35). V. anche il prezioso Indice delle Instituzioni.

403. Abulgazi-kan commemora la venerazione che hanno i Tartari pel misterioso numero 9, e divide per questa sola ragione in nove parti la sua Storia Genealogica.

404. Arabshà (parte I, c. 28, pag. 183) racconta che il codardo Timur fuggì nella sua tenda; che per non essere inseguito da Mansur si travestì da donna. Chi sa che per un vizio contrario, Serefeddino non abbia esagerato il valor del suo eroe. ( V. l. III, c. 25).

405. L'Istoria di Ormuz somiglia assai a quella di Tiro. La vecchia città situata sul Continente, fu distrutta dai Tartari e venne fabbricata la nuova in un'isola sterile e priva di acqua dolce. I Re di Ormuz arricchiti dal commercio dell'India e dalla pesca delle perle, possedevano vasto territorio in Persia e in Arabia; tributarj indi de' Sultani di Kerman, e oppressi sotto la tirannide de' lor Visiri, ne furono nell'anno 1505 liberati, per cadere sotto nuova tirannide, dai Portoghesi. V. Marco Polo (l. I, c. 15-16, fol. 7, 8), Abulfeda ( Geogr., Tab. XI, p. 261, 262), una Cronaca originale di Ormuz nella Storia della Persia di Stephen (p. 376-416) ovvero in Texeira; e gl' Itinerarj inseriti nel primo volume di Ramusio, o Lodovico Bartema (1503, fol. 167), di Andrea Corsali (1517, fol. 202, 203) e di Odoardo Barbessa (1516, fol. 315-318).

406. Arabshà avea viaggiato nel Kipsak e acquistate grandi conoscenze della geografia e delle vicissitudini di quel paese settentrionale (parte I, c. 45-49).

407. Instit. di Timur, pag. 123-125. Il White, l'editore, si lagna del racconto sterile e superficiale di Serefeddino (l. III, c. 12, 13, 14), che ignorava i disegni di Timur e i veri motivi che lo guidavano nelle sue azioni.

408. È cosa più facile il persuadersi delle pellicce di Russia, che delle verghe d'oro e d'argento; ma inoltre, Antiochia non è mai stata famosa per le sue tele, e in quel tempo era già rovinata. Penso piuttosto che queste tele di manifattura europea, vi fossero state portate per la strada di Novogorod, e forse da alcuni mercanti delle città anseatiche.

409. Il signor Levesque ( Hist. de Russie, l. II, pag. 247; Vie de Timur, p. 64-67, pubblicata prima della traduzione francese delle Instituzioni ) ha corretti gli errori di Serefeddino e contrassegnati i veri limiti delle conquiste di Timur, o Tamerlano. Sono superflui i suoi argomenti; e gli Annali di Russia bastano per provare che Mosca stata presa sei anni prima di quest'epoca da Toctamis, si sottrasse all'armi d'un più formidabile conquistatore.

410. Il viaggio di Barbaro a Tana seguito nel 1436, dopo che la città era stata rifabbricata, cita un Console egiziano del Gran Cairo ( Ramusio, t. II, folio 92).

411. Trovasi la relazione del saccheggio di Azoph in Serefeddino (l. III, c. 55), e più minutamente ancor lo descrive l'autore di una Cronaca italiana (Andrea de Redusiis de Quero, in Chron. Tarvisiano, in Muratori, Script. rer. italic., t. XIV, pag. 802-805). Egli avea conversato co' Miani, due fratelli veneziani, uno de' quali era stato delegato al campo di Timur, e l'altro avea perduti ad Azoph i suoi tre figli e dodicimila ducati.

412. Serefeddino dice semplicemente (l. III, cap. 13) che poteva appena discernersi un intervallo fra la sera e il mattino. Può facilmente risolversi questo problema, nella latitudine di Mosca posta al 56.°, col soccorso di un'aurora boreale e di un lungo crepuscolo: ma una giornata solare di quaranta giorni (Kondemiro, presso d'Herbelot, p. 880) ci restringerebbe a tutto rigore nel Cerchio polare.

413. Circa la guerra dell'India, V. le ( Instit. p. 129-139), il quarto libro di Serefeddino, e la Storia di Ferista in Dow, (vol. II, pag. 1-20) che offre idee generali sugli affari dell'Indostan.

414. L'impareggiabile Carta dell'Indostan delineata dal Maggior Rennel, ha per la prima volta stabilito, con verità ed esattezza, la situazione e il corso del Pungiab, ossia de' cinque rami orientali dell'Indo; e la Memoria Critica dello stesso geografo spiega con discernimento e chiarezza la spedizione di Alessandro, e l'altra di Timur.

415. I due grandi fiumi, il Gange e il Burampooter, traggono la loro sorgente nel Tibet dai fianchi opposti della catena delle stesse montagne, alla distanza di milledugento miglia l'uno dall'altro, e dopo un corso tortuoso di duemila miglia si congiungono presso al golfo del Bengala. Tale però si è il capriccio della fama, che il Burampooter sol di recente è stato scoperto, e il Gange, da un gran numero di secoli è famoso nella Storia antica e moderna. Cupela, ove Timur riportò l'ultima sua vittoria, debb'essere situata presso Loldong lontano mille cento miglia da Calcuta. Gl'Inglesi vi accamparono nel 1774 ( Memoria di Rennel, pag. 7-59-90, 91-99).

416. V. le Instituzioni (p. 141) sino alla fine del primo libro, e Serefeddino (l. V, c. 1-16) fino all'arrivo di Timur nella Sorìa.

417. Noi abbiamo tre diverse copie di queste lettere minacciose, nelle Instituzioni (p. 147), in Serefeddino (l. V, c. 14) e in Arabzà (t. II, c. 19, p. 183-201), le quali s'accordano più nella sostanza che nello stile. Vi è apparenza che sieno state tradotte, con più o meno libertà, dal turco in lingua araba e in lingua persiana.

418. L'Emiro Mongul dà a sè medesimo e a' suoi compatriotti il nome di Turchi, e avvilisce Baiazetto e la sua nazione valendosi del nome meno onorevole di Turcomani. Però io non comprendo in qual maniera gli Ottomani potessero trarre origine da un piloto turcomano. Questi pastori si trovavano, avuta considerazione al loro soggiorno, ben lungi dal mare e da ogni affare marittimo.

419. Giusta il Corano (c. 2, pag. 27, e i Discorsi di Sale, p. 134) un Musulmano che avesse ripudiato tre volte la moglie, cioè ripetuta per tre volte la formola del divorzio, non poteva ripigliarla se prima un altro non la sposava e ripudiava nuovamente. Una tal cerimonia è assai umiliante di per sè stessa, senza il bisogno di aggiugnere che il primo marito dovea per obbligo star presente allorchè il secondo godea della moglie ripudiata dall'altro ( Stato dell'Impero Ottomano, Richauld, l. II, c. 21).

420. Arabshà attribuisce particolarmente ai Turchi il dilicato riguardo, comune a tutti gli Orientali, di non parlare mai in pubblico delle lor donne; ed è quasi da maravigliarsi che Calcocondila abbia avuta qualche conoscenza e sul pregiudizio de' Turchi, e sulla natura dell'insulto.

421. Circa allo stile de' Mongulli, V. le Instituzioni (p. 131-147), quanto ai Persiani, si consulti la Biblioteca orientale (p. 882); non trovo per altro nè che gli Ottomani abbiano assunto il titolo di Cesari, nè che gli Arabi lo abbiano mai dato ai medesimi.

422. V. i regni di Barkok e di Faragio nel De Guignes (t. IV, l. 22), che ha tolto dai testi di Abul-Mahasen, di Ebn-Sciunà e di Aintabi, alcuni fatti da noi aggiunti ai nostri materiali.

423. Intorno a questi fatti recenti ed interni, possiamo fidarci ad Arabshà, benchè in altre occasioni si mostri molto parziale (t. I, cap. 64-68; t. II, c. 1-14). Timur dovea certamente comparire odioso ad un uomo nato in Sorìa; ma la notorietà de' fatti era tale, che avrebbe obbligato questo scrittore a rispettare se non il suo nemico, la verità. Le invettive ch'ei move contro Timur servono a temperare la ributtante adulazione di Serefeddino.

424. Sembra che Arabshà abbia copiate queste curiose conversazioni (t. I, c. 68, p. 625-645) dal Cadì o storico Ebn-Sunà, uno de' principali attori; ma come potea questi viver settantacinque anni dopo le narrate cose? (d'Herbelot p. 772)

425. Serefeddino (l. V, c. 29-43) e Arabshà (t. II, c. 15-18) narrano le spedizioni e le conquiste di Timur nell'intervallo tra la guerra di Sorìa e l'ottomana.

426. Questo numero di ottocentomila è tolto da Arabshà, o piuttosto da Ebn-Sunà ( ex rationario Timuri ) che fonda i suoi racconti sulla testimonianza di un ufiziale carizmio (t. I, cap. 68, p. 617); ed è cosa meritevole di osservazione che Franza, Storico greco, non aggiugne a questo computo più di ventimila uomini. Il Poggio ne conta un milione; un altro contemporaneo latino ( Chron. Tarvisianum, V. Muratori, t. IX, p. 800) ne conta un milione centomila; e un soldato alemanno che trovavasi alla battaglia di Angora, attesta il prodigioso numero di un milione seicentomila (Leunclavius, ad Calcocond., l. III, p. 82). Timur, nelle sue Instituzioni, non si è degnato calcolare nè le sue truppe, nè i suoi sudditi, nè le sue rendite.

427. Il Gran Mogol per vanità, e a profitto de' suoi ufiziali, lasciava immensi vôti negli specchi de' suoi eserciti. Il Sere di Bernier, Penge-Hazari, era comandante di cinquemila cavalli che si riducevano a cinquecento ( Voyages, tom. I, p. 288, 289).

428. Lo stesso Timur fa ascendere a quattrocentomila uomini il numero degli Ottomani ( Istit., p. 153 ). Franza lo riduce a cencinquantamila (lib. I, c. 29), il Soldato alemanno lo vuole di un milione e quattrocentomila. Sembra evidente che l'esercito de' Mongulli fosse più numeroso.

429. Non è inutile il calcolare la distanza fra Angora e le città vicine colle giornate di carovana, ciascuna delle quali è di venticinque miglia. Da Angora a Smirne venti, a Kiotaia dieci, a Bursa dieci, a Cesarea otto, a Sinope dieci, a Nicomedia nove, a Costantinopoli dodici o tredici ( V. i Viaggi di Tournefort al Levante, t. II, let. XXI).

430. V. I Sistemi di Tattica nelle Instituzioni; gli editori inglesi (p. 373-407) vi hanno aggiunte accuratissime Tavole per agevolarne l'intelligenza.

431. «Il Sultano medesimo, dice Timur, dee mettere coraggiosamente il suo piede nella staffa della pazienza »: Metafora tartara che è stata omessa nella traduzione inglese e conservata dal traduttor francese delle Instituzioni (p. 156, 157).

432. Serefeddino afferma che Timur si valse del fuoco greco (l. V, cap. 47); ma l'universale silenzio de' contemporanei combatte lo stravagante sospetto venuto al Voltaire, il quale suppone che Timur mandasse a Dely diversi cannoni su di cui si trovassero scolpiti ignoti caratteri.

433. Timur ha dissimulata questa sì rilevante negoziazione co' Tartari; ma la confermano evidentemente le testimonianze degli Annali arabi (t. I, c. 47, p. 391), degli Annali turchi (Leunclav. p. 321) e degli Storici persiani (Kondemir, presso il d'Herbelot, p. 882).

434. Nella guerra di Rum, o della Natolia, ho aggiunti alcuni fatti, tolti dalle Instituzioni, al racconto di Serefeddino (l. V, c. 44-65) e di Arabshà (tom. XI, c. 20-35). Sol in quanto si riferisce a questa parte della storia di Timur, si possono citare gli Storici turchi (Cantemiro, p. 53-55, Annali di Leunclavio, pag. 320-322) e i Greci (Franza, l. I, c. 29; Duca, c. 15-17; Calcocondila, l. III).

435. Il Voltaire che nella sua opera Essai sur l'Histoire générale (c. 88) ricusa questa favola popolare, dà una prova del suo scetticismo ordinario, per cui soprattutto è poco proclive a credere quanto è eccesso così nei vizj come nelle virtù; incredulità spesse volte fondata sulla ragione.

436. V. La Storia di Serefeddino (l. V, c. 49-52, 53-59, 60), Opera terminata a Siraz nell'anno 1424, e dedicata a Ibraim, figlio di Sarok, figlio di Timur, che, vivendo tuttavia il padre, regnava sul Farsistan.

437. Dopo aver letto Kondemir, Ebn-Sunà ec., il dotto d'Herbelot ( Bibl. orient., p. 882) può ben affermare a suo grado non trovarsi questa favola in nessuna autentica Storia; ma col negare che Arabshà l'abbia in modo aperto adottata, rendè assai dubbiosa la sua critica precisione.

438. « Et fui lui-même (Baiazetto) pris et mené en prison, en laquelle mourut de dure mort» ( Mém. de Boucicault, parte I, c. 37). Queste Memorie vennero composte in tempo che il Maresciallo era tuttavia governatore di Genova, d'onde venne scacciato nel 1409 in conseguenza di una sedizione o sommossa del popolo (Muratori, Ann. d'Ital., t. XII, p. 473, 474).

439. Il leggitore troverà un soddisfacente racconto della vita e delle opere del Poggi nella Poggiana, Opera aggradevole del signor Lenfant, e nella Bibliotheca latina mediae et infimae aetatis di Fabrizio (t. V, pag. 305-308). Il Poggi nato nel 1380, morì nel 1459.

440. Il dialogo De varietate fortunae, del quale nel 1723 è stata pubblicata a Parigi una compiuta ed elegante edizione in 4., fu composta poco prima della morte di Papa Martino V (p. 5), e quindi verso l'anno 1430.

441. Vedi elogio luminoso ed eloquente di Timur! (p. 36-39) Ipse enim novi, dice il Poggi, qui fuere in ejus castris.... Regem vivum cepit, caveaque in modum ferae inclusum per omnem Asiam circumtulit egregium admirandumque spectaculum fortunae.

442. Chronicon Tarvisianum (in Muratori, Script. rerum ital., t. XIX, pag. 800) e gli Annales Estenses (t. XVIII, p. 974). I due autori, Andrea De Redusii da Quero e Giacomo di Delaito, erano contemporanei, ed entrambi Cancellieri, l'uno di Treviso e l'altro di Ferrara. La testimonianza del primo è più asseverante.

443. V. Arabshà, t. II, c. 28-34, che viaggiò in regiones Rumaeas, A. H. 839; A. D. 1435, 27 Luglio (t. II, c. 2, pag. 13).

444. Busbequius, in legatione turcica, epist. 1, p. 52. Questa rispettabile autorità viene un poco indebolita dalle susseguenti nozze di Amurat II con una Serviana, e di Maometto II, con una Principessa dell'Asia (Cant., p. 83-93).

445. V. Giorgio Franza (l. 1, c. 29) e la sua vita in Hank ( De scriptor. byzant. pag. 1, c. 40). Calcocondila e Duca parlano vagamente delle catene di Baiazetto.

446. Annales Leunclav., pag. 321. Pococke, Prolegom. ad Abulphar. Dynast.; Cantemir, p. 55.

447. Un Sapore, Re di Persia, essendo stato fatto prigioniero Massimiano o Galerio Cesare, lo rinchiuse entro una vacca artificiale, coperta della pelle di uno di questi animali. Tale è almeno la favola raccontata da Eutichio ( Annal., tom. 1, p. 431, vers. Pococke). Il racconto della vera Storia ( V. il secondo volume della presente Opera) ne insegnerà ad apprezzare l'erudizione orientale di tutt'i secoli che precedettero l'Egira.

448. Arabshà (t. II, c. 25) descrive come può farlo un viaggiatore curioso e giudizioso ad un tempo, gli stretti di Gallipoli e di Costantinopoli. Per procacciarmi una giusta idea di cotesti avvenimenti ho confrontato i racconti de' pregiudizi dei Mongulli, de' Turchi, de' Greci e degli Arabi. L'ambasciatore di Spagna parla dell'unione de' Cristiani cogli Ottomani per la difesa comune ( Vita di Timur, p. 96).

449. Quando il titolo di Cesare passò nel Sultano di Rum, i Principi greci di Costantinopoli (Serefeddino, l. V, cap. 54), vennero confusi co' piccioli Sovrani cristiani di Gallipoli e di Tessalonica col titolo di Tekkur, per corruzione da του κυριου, signore (Cantemiro, p. 51).

450. V. Serefeddino (l. V, c. 4) che descrive in un esatto Itinerario la strada della Cina, sol vagamente, e con frasi di retore, indicata da Arabshà (t. II, c. 33).

451. V. Synopsis Hist. Sinicae, pag. 74-76. Nella quarta parte delle relazioni del Thevenot, Du Halde ( Hist. de la Chine, t. I, p. 507, 508, ediz. in-fol. ); e per la cronologia degl'Imperatori cinesi, il De Guignes ( Hist. des Huns, t. I, p. 71, 72).

452. Circa al ritorno, al trionfo e alla morte di Timur, V. Serefeddino (l. VI, c. 1-30) e Arabshà (t. II, c. 35-47).

453. Serefeddino (l. VI, c. 24) accenna gli Ambasciatori di uno de' più possenti Sovrani dell'Europa, che noi sappiamo essere stato Enrico III, Re di Castiglia. La relazione delle due ambascerie di questo Monarca, non priva di vaghezza, trovasi in Mariana ( Hist. Hispan., l. XIX, c. 11, p. 329, 330; Osservazioni sulla Storia di Timur-Bek, pag. 28-33). Sembra ancora esservi stata qualche corrispondenza fra l'Imperatore Mongul e la Corte di Carlo VII Re di Francia ( Hist. de France par Velli e Villaret, t. XII, p. 336).

454. V. la traduzione della relazione persiana di questa ambasceria nella quarta parte delle relazioni del Thevenot. Gli Ambasciatori portarono in dono all'Imperatore della Cina un vecchio cavallo che Timur avea cavalcato. Partirono dalla Corte di Herat nel 1419, e vi ritornarono da Pechino nel 1422.

455. V. Arabshà (t. II, c. 96). I colori più splendenti o più miti son tolti da Serefeddino, dal d'Herbelot e dalle Instituzioni.

456. Da trentadue pezzi e sessantaquattro case, egli portò il suo nuovo giuoco a cinquantasei pezzi e centodieci o centotrenta case; ma, eccetto la Corte di Timur, l'antico giuoco degli scacchi parve già composto abbastanza. L'Imperatore Mongul mostravasi piuttosto contento che corrucciato quando perdea con un de' suoi sudditi, e un giuocatore di scacchi può apprezzare tutto il valore di questo elogio.

457. È vero che uomo ortodosso altro non vuol dire, che uomo di retta opinione; ma, i Cristiani cattolici non applicano l'aggettivo greco ortodosso, che ad un Cristiano cattolico, per qualificarlo di retta opinione, o credenza, e per distinguerlo da eretico, che vuol dire il contrario; questi vocaboli ebbero, ed hanno il potere di determinare l'opinione generale senza esame, e ciò è cosa comodissima. (Nota di N. N.)

458. V. Serefeddino (l. V, c. 13-25). Arabshà (t. II, c. 96, p. 801-803) accusa d'empietà l'Imperatore e i Mongulli che preferiscono l'Yacsa, o la legge di Gengis ( cui Deus maledicat ) allo stesso Corano; nè vuol credere che l'autorità e l'uso di questo codice Pagano sieno stati da Sarok aboliti.

459. Oltre ai passi di questo sanguinoso racconto, il leggitore può ricordarsi la nota 2, pag. 382 del sesto volume di questa Storia, ove ho parlato di Timur, e vi troverà un calcolo di circa trecentomila teste che servirono di monumento alla sua crudeltà. Fuorchè nella tragedia di Rowe del 5 novembre, io non mi sarei mai aspettato udir gli encomj dell' amabile moderazione di Timur ( Prefaz. di White, p. 7). Però si può perdonare un impeto di generoso entusiasmo in chi legge, e molto più in chi pubblica le Instituzioni.

460. Vedansi gli ultimi Capitoli di Serefeddino, Arabshà e De Guignes ( Hist. des Huns, t. IV, l. XX; Storia di Nadir-Sà di Fraser, p. 1-62). La Storia dei discendenti di Timur vi è superficialmente narrata, e mancano la seconda e terza parte di Serefeddino.

461. Sà-Allum, attuale Mogol, è il decimoquarto discendente di Timur, venuto da Miran-Sà, terzo figlio di questo conquistatore. V. Dow nel secondo volume della Storia dell'Indostano.

462. Il racconto delle guerre civili dalla morte di Baiazetto fino a quella di Mustafà, trovasi in Demetrio Cantemiro (p. 58-82) presso i Turchi; presso i Greci, in Calcocondila (l. IV e V); in Franza (l. I, c. 30-32) e in Duca (c. 18-27). Quest'ultimo Storico si mostra meglio istrutto e racconta maggiori particolarità.

463. V. Arabshà (t. II, c. 26), la cui testimonianza in questo luogo non ammette eccezione. Anche Serefeddino attesta l'esistenza di Isa, del quale i Turchi non fanno parola.

464. Arabshà, loc. cit.; Abulfeda, Geog. Tab. XVII, p. 302, Busbequius, epist. 1, pag. 96, 97, in Itinere C. P. et Amasiano.

465. Duca, Greco contemporaneo, loda le virtù d'Ibraimo (c. 25). I suoi discendenti sono i soli Nobili della Turchia, contenti di amministrare le pie fondazioni dei loro antenati ed esenti da qualsivoglia pubblico uffizio. Il Sultano va a visitarli due volte l'anno (Cantemiro, p. 77).

466. V. Pachimero (l. V, 29), Niceforo Gregoras (l. II, c. 1), Serefeddino (l. V, c. 57) e Duca (c. 25). L'ultimo di questi Scrittori, osservatore esatto ed attento, merita fede soprattutto in quanto all'Ionia e alle sue isole si riferisce. Fra le nazioni che abitavano la novella Focide, nomina gli Inglesi (Ιγγληνοι, Ingleni ). Citazione che attesta l'antichità del commercio del Mediterraneo.

467. Sul sistema di navigazione e sulla libertà dell'antica Focide, o piuttosto de' Focei, si consultino il primo libro di Erodoto e l'Indice geografico dell'ultimo e dotto traduttore francese di questo illustre Greco, il sig. Larcher (t. VII, p. 299).

468. Plinio ( Hist. natur., XXXV, 52) non comprende la Focide fra i paesi che producono l'allume. Egli nomina primieramente l'Egitto, indi l'isola di Melos, le cui miniere di allume sono state descritte dal Tournefort (t. I, let. IV), uomo del pari commendevole e come viaggiatore, e come naturalista. Dopo avere perduta la Focide, i Genovesi scopersero nel 1459 questo prezioso minerale nell'isola d'Ischia (Ismaël Bouillaud, ad Ducam, c. 25).

469. Fra tutti gli Scrittori che hanno vantata la favolosa generosità di Timur, quegli che ha maggiormente abusato di una tale supposizione, è senza dubbio l'ingegnoso Ser Guglielmo Temple, ammiratore per massima d'ogni virtù posta fuori del suo paese. Dopo avere conquistata la Russia, e passato il Danubio, a udir lui, l'Eroe tartaro libera, visita, ammira e ricusa la Capitale di Costantino. Qual disgrazia che il seducente pennello di questo Scrittore si scosti ad ogni linea dalla storica verità! pur le sue ingegnose finzioni si possono ancora perdonar meglio de' grossolani errori del Principe Cantemiro ( V. le sue Opere, vol. III, pag. 349, 350, edizione in 8.).

470. Intorno i regni di Manuele e di Giovanni, di Maometto I e di Amurat II, V. la Storia ottomana di Cantemiro (p. 70-95), e i tre scrittori greci Calcocondila, Franza e Duca, da preferirsi sempre quest'ultimo ai suoi rivali.

471. L' aspro de' Turchi derivato dalla parola greca (ασπρος) è, o era una piastra di metallo bianco, o d'argento, il cui prezzo è assai invilito ai dì nostri; ma che allora valeva almeno la cinquantaquattresima parte di un ducato, o zecchino di Venezia, e i trecentomila aspri, si riguardino come pensione, o come tributo, equivalgono in circa a duemila cinquecento lire sterline (Leunclavius, Pandect. turc. p. 407, 408).

472. Intorno all'assedio di Costantinopoli del 1422, V. la relazione distinta e contemporanea di Giovanni Canano, pubblicata da Leone Allazio in fine della sua ediz. di Acropolita (p. 188, 189).

473. Cantemiro (pag. 80). Canano che indica Seid-Besciar senza dirne il nome, suppone che l'amico di Maometto si prendesse qualche libertà erotica sullo stile del suo maestro, e che al Santo e ai suoi discepoli fossero state promesse le più avvenenti monache di Costantinopoli.

474. Il traviamento del Dervis è l'effetto o d'una immaginazione riscaldata e ingannata dalla propria credulità, o un'impostura artificiosa; ma la Madonna, che noi crediamo aver fatto molti miracoli, poteva fare anche l'indicato, e non v'era bisogno di scherzi. (Nota di N. N.)

475. Per farne credere questa miracolosa apparizione, Canano si riporta alla testimonianza medesima del Santo dei Turchi; ma chi si farà mallevadore a noi per questo Santo?

476. V. Rychauld (l. I, c. 13). I Sultani turchi si danno il titolo di Kan. Non pare per altro che Abulgazi riconosca gli Ottomani per suoi cugini.

477. Il terzo fra i Visiri, Kiuperli, ucciso alla battaglia di Salankanen nel 1691 (Cantemiro, p. 382), osò dire che tutti i successori di Solimano erano stati imbecilli, o tiranni, e venuto il tempo di spegnerne la discendenza (Marsigli, Stato militare, pag. 28). Questo eretico in politica era uno zelante repubblicano, che sostenea la causa della Rivoluzione inglese contro l'Ambasciatore di Francia (Mignot, Hist. des Ottomans, t. III, pag. 434); osava ancora mettere in ridicolo il singolare privilegio che rende le cariche e le dignità ereditarie nelle famiglie.

478. Calcocondila (l. V) e Duca (cap. 23) ne offrono un grossolano abbozzo della politica ottomana, dandone ad un tempo a conoscere la metamorfosi de' fanciulli cristiani in soldati turchi.

479. Questo saggio della disciplina e della educazione dei Turchi è tolto principalmente dall' Etat de l'Empire ottoman di Richaut, dallo Stato militare dell'Impero ottomano del Conte Marsigli, (ediz. dall'Aia, 1732 in folio ) e da una Description du Sérail, approvata dallo stesso sig. Greaves, attento viaggiatore, e pubblicata nel secondo volume della sua Opera.

480. Osservando la Nota dei centoquindici Visiri stati fino al momento dell'assedio di Vienna (Marsigli, pag. 13), la loro carica può riguardarsi come un contratto per tre anni e mezzo.

481. V. le giudiziose e dilettevoli lettere del Busbek.

482. Il primo e secondo volume de' Saggi chimici del Dottore Watson contengono due preziosi discorsi intorno alla scoperta e alla composizione della polvere.

483. Intorno a ciò non possiamo gran che fidarci sull'autorità de' moderni. È vero che il Ducange ha raccolti i passi originali ( Gloss. lat., t. I, pag. 675, Bombarda ); ma in mezzo alla luce dubbiosa che da questi primi Scrittori ne vien tramandata, osserviamo che le denominazioni, i contrassegni dello strepito, del fuoco, e d'altri effetti che sembrano indicare la nostra artiglieria, potrebbero ancora convenire alle macchine degli Antichi e al fuoco greco. Quanto al cannone, di cui gli Inglesi, dicesi, fecero uso alla battaglia di Crécy, l'autorità di Giovanni Villani ( Cron., l. XII, c. 65) parmi contrabbilanciata dal silenzio del Froissard. Nondimeno il Muratori ( Antiq. Italiae medii aevi, t. II, Dissert. 26, p. 514, 515) ne offre un passo decisivo del Petrarca ( De remediis utriusque Fortunae dialog. ), il quale nell'anno 1344 malediceva questa folgore artifiziale, nuper rara, nunc communis.

484. Il cannone de' Turchi che Duca fa comparire (c. 30) per la prima volta dinanzi a Belgrado nel 1436, giusta Calcocondila (l. V, p. 123), servì nel 1422 all'assedio di Costantinopoli.

485. Questa singolare istruzione è stata tolta, cred'io, dagli archivj del Vaticano, per cura di Odorico Raynald, e inserita nella sua continuazione degli Annali del Baronio (Roma, 1646-1677, in dieci volumi in folio ). Io non mi sono prevalso che dell'Abate Fleury ( Hist. eccles., t. XX, p. 1-8), le compilazioni del quale Scrittore ho sempre trovate chiare, esatte ed imparziali.

486. Si vegga la nostra Nota (pag. 89) che tratta del Concilio di Lione. (Nota di N. N.)

487. L'ambiguità di questo titolo è felice, o ingegnosa; e Moderator come sinonimo di rector, gubernator, è un termine di latinità classica ed anche ciceroniana, che si troverà non nel Glossario del Ducange, ma nel Thesaurus di Roberto Stefano.

488. La prima epistola ( sine titulo ) del Petrarca, rappresenta il pericolo della barca e l'incapacità del piloto. Haec inter, vina madidus, aevo gravis ac soporifero rore perfusus, jam jam nutitat, dormitat, jam somno praeceps atque (utinam solus) ruit..... heu quanto felicius patrio terram sulcasset aratro, quam scalmum piscatorium ascendisset. Una tale satira impone al biografo di questo Pontefice l'obbligo di pesarne le virtù e i vizj, che sono stati esagerati dai Guelfi e dai Ghibellini, dai Cattolici e dai Protestanti ( V. le Memorie sulla vita del Petrarca, t. I, p. 259; II, n. 15, p. 13-16). Fu Papa Benedetto XII che diede occasione al proverbio bibamus papaliter.

489. V. le Vite originali di Clemente VI nel Muratori ( Script. rer. ital., t. III. parte 2, pag. 550-589), in Mattia Villani ( Cron., l. III, c. 43, in Muratori, t. XIV, p. 186), che lo chiama molto cavalleresco, poco religioso; in Fleury ( Hist. eccles., tom. XX, p. 127) e nella Vita del Petrarca (t. II, p. 42-45). L'Abate di Sade gli si mostra assai più indulgente; ma è da notarsi che questo Scrittore era prete e gentiluomo ad un tempo.

490. Questa matrona è conosciuta sotto il nome, probabilmente sformato, di Zampea, ed aveva accompagnata la sua padrona a Costantinopoli, ove rimase sola con essa. Gli stessi Greci non le poterono negar lode di donna prudente, erudita e cortese. Cantacuzeno (l. I, c. 42).

491. Era opportuno il provare l'asserzione con una particolare citazione. (Nota di N. N.)

492. V. tutta questa negoziazione in Cantacuzeno (lib. IV, c. 9), che in mezzo agli encomj di cui largheggia alla propria virtù, svela le inquietudini di una coscienza colpevole.

493. V. un così ignominioso Trattato in Fleury ( Hist. eccles., p. 151-154), che lo ha tolto da Raynald, e questi forse dagli archivj del Vaticano. Esso non meritava il fastidio di adulterarlo.

494. V. le due Vite originali di Urbano V nel Muratori ( Script. rer. ital., t. III, parte 2, p. 623-635) e gli Annali ecclesiastici di Spondano (t. I, p. 573, A. D. 1369, n. 7) e Raynald (Fleury, Hist. eccles., t. XX, p. 223, 224). Credo che gli Storici pontifizj, se hanno esagerato, abbiano esagerato di poco le genuflessioni di Paleologo.

495. Paulo minus quam si fuisset Imperator Romanorum. Nondimeno il suo titolo d'Imperatore de' Greci non gli venia disputato ( Vit. Urbani V, p. 623).

496. Privilegio riserbato ai soli successori di Carlomagno, i quali anche non poteano goderne che il giorno di Natale: in tutte le altre feste, questi diaconi coronati, si contentavano di presentare al Papa il messale e il corporale, quando diceva la messa. Nondimeno l'Abate di Sade ha la generosità di credere cosa possibile, che siasi derogato alla regola per un riguardo ai meriti di Carlo IV, ma non in quello stesso giorno, che era il primo novembre 1368. Sembra che l'Abate apprezzi al giusto e l'uomo, e il privilegio ( Vie de Pétrarque, t. III, p. 735).

497. A malgrado della denominazione italiana corrotta (Mattia Villani, l. XI, c. 79, in Muratori, t. XV, pag. 746), l'etimologia di Falcone in bosco ci dà la parola inglese Hawkwood, vero nome del nostro audace concittadino (Tommaso Walsingham, Hist. anglican., inter scriptores Cambdeni, p. 184). Dopo ventidue vittorie e una sola sconfitta, morto nel 1394 Generale de' Fiorentini, questa repubblica lo fece seppellire con onori che non avea conceduti nè a Dante, nè al Petrarca (Muratori, Annali d'Ital., t. XII, p. 212-271).

498. Questo torrente d'Inglesi, o il fossero per nascita, o per la causa che difendevano, calò di Francia in Italia dopo la pace di Bretignì, nel 1360. Il Muratori ( Ann., tom. XII, p. 197) esclama con più di verità che di cortesia: «Ci mancava ancor questo, che dopo essere calpestata l'Italia da tanti masnadieri Tedeschi ed Ungheri, venissero fin dall'Inghilterra nuovi cani a finire di divorarla.»

499. Calcocondila, (l. I, p. 25-26) pretende che Paleologo si trasferisse a visitare la Corte di Francia: ma il silenzio degli Storici nazionali confuta abbastanza quest'asserzione. Non sono nè manco molto inclinato a credere che egli abbandonasse l'Italia, valde bene consolatus et contentus, come ne vien detto nella Vita di Urbano V, p. 623.

500. Il ritorno di Paleologo a Costantinopoli, accaduto nell'anno 1370, e la coronazione di Manuele nel 25 settembre 1373 (Ducange, Famil. byzant., p. 241), lascia un intervallo per la cospirazione e pel gastigo d'Andronico.

501. Mém. de Boucicault, p. 1, c. 35, 36.

502. Calcocondila (l. II, c. 44-50) e Duca (c. 14) parlano leggermente, e a quanto sembra, con ripugnanza del viaggio di Manuele nell'Occidente.

503. V. Muratori, Annali d'Italia, t. XII, pag. 407. Giovanni Galeazzo fu il primo e il più potente dei Duchi di Milano. La sua corrispondenza con Baiazetto è attestata dal Froissard; contribuì a salvare, o liberare i prigionieri francesi di Nicopoli.

504. Intorno al ricevimento di Manuele a Parigi, V. Spondano ( Annal. eccles., t. I, p. 676, 677, A. D. 1400, n. 5), il quale cita Giovenale degli Orsini e i monaci di S. Dionigi, e Villaret ( Hist. de France, t. XII, p. 331-334), che non cita nessuno, conforme la nuova usanza degli Scrittori francesi.

505. Il dottore Hody ha tolto da un manoscritto di Lambeth ( De Graecis illustribus ) una nota che si riferisce al soggiorno di Manuele nell'Inghilterra. Imperator, diu variisque et horrendis paganorum insultibus coarctatus, ut pro eisdem resistentiam triumphalem perquireret, Anglorum regem visitare decrevit etc. Rex (dice il Walsingham p. 364) nobili apparatu.... suscepit (ut decuit) tantum Heroa; duxitque Londonias, et per multos dies exhibuit gloriose, pro expensis hospitii sui solvens, et eum respiciens tanto fastigio donativis. Egli ripete la medesima cosa nel suo Upodigma Neustriae (p. 556).

506. Shakespear comincia e termina la tragedia di Enrico IV col voto fatto da questo Principe di prender la croce, e col presentimento che egli avea di morire a Gerusalemme.

507. Questo fatto viene raccontato nella Historia politica (A. D. 1391-1478), pubblicata da Martino Crusio ( Turco-Graecia, p. 1-43). L'immagine di Cristo, alla quale l'Imperator greco ricusò omaggio, era forse un lavoro di scoltura.

508. Leonico Calcocondila termina col cominciar del verno del 1463 la Storia de' Greci e degli Ottomani; e l'affrettata conclusione della medesima ne dà a supporre che in quello stesso anno lo Storico tralasciasse di scrivere. Sappiamo che egli era di Atene, e che alcuni contemporanei dello stesso cognome assai giovarono al rinascimento dell'idioma greco in Italia. Ma questo Scrittore, nelle lunghe sue digressioni, ha avuta mai sempre la modestia di non parlar di sè stesso. Leunclavio, editore, e Fabrizio ( Bibl. graec., tom. VI, p. 474), sembrano ignorare del tutto lo stato di lui e la Storia della sua vita. Quanto alle sue descrizioni dell'Alemagna, della Francia e dell'Inghilterra, V. l. II, p. 36, 37, 44-50.

509. Non mi starò qui a notare gli errori geografici di Calcocondila. Egli ha forse nella sua descrizione seguito e male inteso il testo di Erodoto (l. II, cap. 33), soggetto a varia interpretazione ( Erodoto di Larcher, t. II, p. 219, 220). Ma questi moderni Greci non aveano dunque mai letto Strabone, nè alcuno de' loro geografi?

510. Un cittadino della nuova Roma, finchè questa nuova Roma durò, non si sarebbe degnato di onorare il Ρεξ, Re alemanno del titolo di Βασιλευς, o Αυτοκρατωρ Ρομαιων, Monarca, o Autocratore Romano; ma Calcocondila avea spogliato ogni spezie di vanità, accennando il Principe di Bisanzio e i suoi sudditi colle esatte ed umili denominazioni di Ελληνες e Βασιλευς Ελληνων, Greci e Re de' Greci.

511. Nel secolo decimoquarto veniva tradotta in prosa francese la maggior parte de' vecchi romanzi che divennero la lettura favorita de' cavalieri e delle dame della Corte di Carlo VI; e si può meglio perdonare ad un Greco l'aver credute vere, se credè vere, le imprese di Olivieri e di Orlando, che ai Frati di S. Dionigi, i quali inserirono nelle loro Cronache di Francia le favole dell'Arcivescovo Turpino.

512. Δονδινη.... δε τε πτολιε δυναμει τε προεχουσα των εν τη νητω ταυτη πολεων, ογβω τε και τη αλλη ευδαιμονια των προς εσπεραν λειπομενη, Londra.... città che per potenza avanza tutte le altre città dell'isola, e in ricchezza e in ogni genere di prosperità si lascia indietro quante ve n'ha in Occidente. Ne' tempi di Fitz-Stephen, ossia nel secolo dodicesimo, sembra che Londra per ricchezza e grandezza abbia goduto di una tal primazia; primazia ch'ella ha conservata di poi col crescere in estensione progressivamente, e proporzionatamente agli aumenti per cui le altre capitali dell'Europa abbellivansi.

513. Ammettendo anche che il doppio significato del verbo Κυω ( osculor e in utero gero ) desse luogo ad equivoco, non può dubitarsi di ciò che Calcocondila intendeva dire, e dell'abbaglio da lui preso, ponendo mente all'orror pio che il comprende nell'annunciare questo barbaro uso (p. 49).

514. Erasmo ( epist. Fausto Andrelino ) parla in modo scherzevole dell'usanza che hanno gl'Inglesi di baciare gli stranieri, senza badare al sesso, all'atto del loro arrivo, ma non ne deduce quindi sinistre supposizioni.

515. Noi potremo forse applicare questa osservazione alla comunanza delle donne che Cesare e Dione Cassio hanno supposta in vigore fra gli antichi Brettoni (l. LXII, t. II, p. 1007), e V. Dione colle giudiziose note del Reimar. Gli Arreoy di Taiti, corporazione la cui infamia ne sembrava da prima evidentissima, ci appaiono men colpevoli col nostro aumentar di nozioni sulle costumanze di questo popolo buono e pacifico.

516. V. Lenfant ( Hist. du Concile de Constance, tom. II, p. 576), e quanto alla Storia ecclesiastica di que' tempi, gli Annales dello Spondano, la Biblioteca del Dupin (t. XII) e i tomi XXI, XXII della Storia, o piuttosto della continuazione di Fleury.

517. Fin dalla prima giovinezza, Giorgio Franza, o Phranzès fu impiegato al servigio dello Stato e del palagio; e l'Hank ( De script. byzant., parte I, c. 40) ne ha raccolta da' suoi scritti la vita. Avea ottantaquattro anni, quando Manuele morendo, lo raccomandò caldamente al suo successore. Imprimis vero hunc Phranzen tibi commendo, qui ministravit mihi fideliter et diligenter (Franza, l. II. c. 1). L'Imperatore Giovanni nondimeno si comportò freddamente verso di lui, ai servigi del medesimo preferendo quelli dei despoti del Peloponneso.

518. V. Franza, lib. II, c. 13. Poichè vi sono tanti manoscritti greci nelle biblioteche di Roma, di Milano e dell'Escuriale, è un obbrobrio che noi siamo ridotti a valerci delle traduzioni latine e delle compilazioni di Giacomo Pontano ( ad calcem Teophlact. Simocattae, Ingolstadt, 1604), che mancano ad un tempo di eleganza e di esattezza (Fabricius, Bibl. graec., t. VI, p. 615-620).

519. V. Ducange, Fam. byzant., p. 243-248.

520. L'estensione esatta dell'Essamilione posto fra i due mari, era di tremila ottocento orgigie, o tese di sei piedi greci (Franza, l. I, c. 38), lunghezza equivalente ad un miglio greco, più corto di quello di seicentosessanta tese francesi che il d'Anville pretende adoperarsi in Turchia. La larghezza dell'Istmo viene comunemente riguardata di cinque miglia ( V. i Viaggi di Spon, Wheeler e Chandler).

521. La prima obbiezione degli Ebrei cade sulla morte di Gesù Cristo; se era stata volontaria, egli era dunque colpevole di suicidio, al che l'Imperatore rispose allegando un mistero. Si fanno indi a disputare sulla Concezione di Maria Vergine, sul significato delle profezie (Franza, l. II, c. 12, fino alla fine del capitolo).

522. Ciò si riferisce a poco dopo l'anno 1420 in cui era guerra grandissima, fra il Concilio generale di Basilea, ed il Papa Eugenio IV. Vegga il Lettore la nostra Nota (p. 468); gl'illustri Storici Fleury e Lenfant ci diedero dottamente la Storia dei Concilj di Costanza e di Basilea. (Nota di N. N.)

523. Nel Trattato delle materie benefiziarie di Fra Paolo (vol. IV dell'ultima e migliore edizione delle sue Opere), questo autore dilucida con eguale franchezza e dottrina tutto il sistema politico de' Pontefici. Quand'anche rimanessero annichilate Roma e la sua religione, lor sopravviverebbe questo prezioso volume come un'eccellente Storia filosofica, e come un salutare avvertimento.

524. Il Papa Giovanni XXII nel 1334 lasciò morendo in Avignone diciotto milioni di fiorini d'oro, e un valore di altri sette milioni in argenterie e suppellettili. V. la Cronaca di Giovanni Villani (l. XI, c. 20, nella Raccolta del Muratori, t. XIII, pag. 765) il cui fratello avea saputi questi particolari dai tesorieri del Papa. Un tesoro di sei, o otto milioni nel secolo decimoquarto sembra sterminato, e quasi incredibile.

525. Il sig. Lenfant, protestante dotto e giudizioso, ne ha offerta una Storia de' Concilj di Pisa, Costanza e Basilea, in sei volumi in 4.; ma l'ultima parte, composta in fretta, non descrive compiutamente che le turbolenze della Boemia.

526. Gli atti originali, ossia le minute del Concilio di Basilea, formano dodici volumi in folio, che tuttavia si conservano in quella pubblica Biblioteca. Basilea era una città libera, vantaggiosamente situata sul Reno, e difesa dalla Confederazione degli Svizzeri suoi vicini. Il Papa Pio II, che portando il nome di Enea Silvio, era stato segretario del Concilio, vi fondò nel 1459 una Università. Ma che cosa sono un Concilio, o una Università, a petto de' torchi di Froben, o dei lavori di Erasmo?

527. Questa espressione è troppo forte anche ammettendo, che l'autorità d'un Concilio generale sia superiore a quella del Papa. Chi poi volesse avere notizia di tutte le cose seguìte, durante i grandi contrasti scandalosi fra i Papi, ed i Concilj generali di Pisa, di Costanza e di Basilea, che noi qui per brevità non possiamo dare, legga lo Storico fedele ed imparziale di Fleury, e meglio ancora il dottissimo Moseim ne' Secoli decimoquarto e decimoquinto. L'Autore qui non ne dà che un esatto, ma brevissimo sospetto. (Nota di N. N.)

528. L'annalista Spondano (A. D. 1433, n. 25, t. I, p. 824) non mette molta asseveranza nel raccontare questa ottomana ambasceria attestata solo da Crantz.

529. Syropulus, p. 19. Da questo computo sembra essersi esagerato dai Greci il numero de' laici e degli ecclesiastici che seguirono di fatto l'Imperatore e il Patriarca; ma il grande Ecclesiarca non ne offre un conto esatto. I settantacinquemila fiorini che in questa negoziazione i Greci chiedevano al Papa (p. 9), erano una somma superiore ai loro bisogni e che sperar non potevano di ottenere.

530. Mi valgo indifferentemente delle voci ducati, o fiorini; i primi ricevono la loro denominazione dai Duchi di Milano, i secondi dalla repubblica di Firenze. Queste monete, le prime d'oro che si coniassero in Italia, e forse nel Mondo latino, possono, rispetto al peso e al valore, venir paragonate ad un terzo di ghinea d'Inghilterra.

531. Dopo la traduzione latina di Franza, trovasi una lunga epistola greca, o declamazione di Giorgio di Trebisonda che consiglia a Paleologo il dar preferenza ad Eugenio e all'Italia; e parla con disprezzo dell'Assemblea scismatica di Basilea, de' Barbari della Gallia e dell'Alemagna, collegatisi per trasportare la cattedra di S. Pietro di là dall'Alpi: οι αθλιοι (egli dice) σε και την μετα σου συνοδον εξα των Ηρακλειων στηλων και περα Γαδηρων εξαξουσι, que' miserabili ancora secondo te trasportano il Concilio fuori delle colonne d'Ercole, al di là di Cadice. Ma che? Non vi erano carte geografiche a Costantinopoli?

532. Siropolo (p. 26-31) esprime la propria indignazione e quella de' suoi compatriotti. Ben cercarono scuse alla commessa imprudenza i deputati di Basilea, ma non poteano o negare, o cambiare l'atto del Concilio.

533. Bisognava provare con una citazione, onde appagare il Lettore, che Eugenio IV si procacciò cotale decreto del Concilio generale di Basilea. (Nota di N. N.)

534. Condolmieri, nipote e Ammiraglio del Papa, dichiara espressamente, οτι οριουμονεχει παρα του Παπα ινα πολεμηση οπου αν ευρη τα κατεργα της συνοδου, και ει δυνηθη καταδυση και αφανιση, che ebbe comando dal Papa di combattere ovunque trovasse le squadre del Concilio, e potendo, le calasse a fondo e perdesse. I Padri del Sinodo diedero ordini men perentorj ai loro marinai, e fino al momento in cui le due squadre incontraronsi, le due fazioni cercarono di nascondere ai Greci lo scambievole animo ostile.

535. Siropolo narra le speranze di Paleologo (p. 36) e l'ultimo consiglio datogli da Sigismondo (p. 57). L'Imperatore seppe a Corfù la morte dell'amico, e se ne fosse stato avvertito più presto, sarebbe ritornato a Costantinopoli (p. 79).

536. Lo stesso Franza, benchè per diversi motivi, era del parere di Amurat (l. II, c. 13). Utinam ne synodus ista unquam fuisset, si tantas offensiones et detrimenta paritura erat. Siropolo parla anche dell'ambasceria ottomana. Amurat mantenne la sua promessa; e forse minacciò (pag. 125-219), ma non assalì la città.

537. Il lettore sorriderà sul modo ingenuo con cui il Patriarca fece note le concette speranze ai suoi favoriti: τοιαυτην πληροφοριαν σχησειν ηλπιξ, και δια του Παπα εθαρρει ελευθερωσαι την εκκλησιαν απο της αποτεθεισης αυτου δουλειας παρα του βασιλεως, sperava avere siffatto assenso, e temeva non fosse dal Papa liberata la Chiesa per la dependenza mostrata dal Re (p. 92), nondimeno gli sarebbe stato difficile di mettere in pratica le lezioni di Gregorio VII.

538. Il nome cristiano di Silvestre è tolto dal Calendario latino. Nel greco moderno la voce πουλος, piccolo, si aggiunge alla fine di una parola per esprimere un diminutivo; ma non v'è alcun argomento che dia diritto all'editore Creyghton a sostituire Sguropulus ( Sguros, fuscus ) al Syropulus del manoscritto di questo Storico, che ha posta la propria firma negli atti del Concilio di Firenze. Perchè l'autore non potrebbe egli essere di origine siriaca?

539. Dalla conclusione di questa Storia, ne deduco la data del 1444, quattro anni dopo il Sinodo. Allorchè il grande Ecclesiarca rassegnò la sua carica (Sect. XII, p. 330-350), il tempo e il ritiro aveano sedate le sue passioni; e Siropolo, benchè spesse volte parziale, non è mai caduto negli eccessi.

540. ( Vera historia unionis non verae inter Graecos et Latino, Hagae Comitis 1660, in folio ). Roberto Creyghton, cappellano di Carlo II, durante l'esilio di questo Principe, la pubblicò il primo con una traduzione pomposa e poco fedele. Il titolo polemico è sicuramente d'invenzione dell'editore perchè il principio dell'opera manca. Quanto al merito della narrazione e anche dello stile, Siropolo può essere collocato fra i migliori scrittori di Bisanzo: ma la sua Opera è esclusa dalla raccolte ortodosse dei Concilj.

541. Siropolo alla pagina 63 esprime francamente la sua intenzione ιν ουτω πομπαων εν Ιταλοις μεγας βασιλευς παρ εκεινων νομιξοιτο, affinchè dalla pompa giudicassero quelli quanto fosse grande quel Re in Italia. La traduzione latina di questo passo, eseguita dal Creyghton può somministrare un'idea delle sue vistose parafrasi. Ut pompa circumductus noster Imperator Italiae, populis aliquis deauratus Jupiter crederetur, aut Croesus ex opulenta Lydia.

542. Senza obbligarmi a citare Siropolo ad ogni fatto particolare, osserverò che la navigazione de' Greci da Costantinopoli sino a Venezia e Ferrara, trovasi nella sua quarta Sezione (p. 67-100), e che questo Istorico possede il raro merito di mettere ciascuna scena innanzi gli occhi de' suoi leggitori.

543. Nel tempo del Sinodo, Franza si trovava nel Peloponneso; ma il despota Demetrio gli fece un esatto racconto del modo onorevole con cui l'Imperatore ed il Patriarca vennero accolti a Venezia e a Ferrara ( Dux..... sedentem Imperatorem adorat). I Latini ne parlano dando minore importanza alle cose.

544. La sorpresa che sentirono il Principe greco e un ambasciatore di Francia al primo veder Venezia ( Mém. de Philippe de Comines, l. VII, c. 18), è incontrastabile prova che questa città nel secolo decimoquarto era la prima e la più bella di tutte l'altre del Mondo cristiano. Quanto alle spoglie di Costantinopoli che vi scorsero i Greci, V. Siropolo (p. 87).

545. Nicolò III d'Este, regnò quarant'otto anni (A. D. 1343-1441), possedendo Ferrara, Modena, Reggio, Parma, Rovigo e Comacchio. V. la Vita nel Muratori ( Antichità Estensi, t. II, p. 159-201).

546. Le popolazioni delle città latine risero assai del vestire de' Greci, delle lunghe tonache, delle larghe maniche e della barba. L'Imperatore non si distingueva dagli altri che pel colore porporino dell'abito e pel diadema, o tiara, la cui punta andava fregiata di un magnifico diamante (Hody, De Graecis illustribus, p. 31). Un altro spettatore però afferma l'usanza del vestir greco, essere più grave e più degna che non l'italiana (Vespasiano, in vit. Eugen. IV. Muratori, t. XXXV, p. 261).

547. Intorno alle cacce dell'Imperatore, V. Siropolo (p. 143, 144-191). Il Papa gli avea spediti undici cattivi falconi, ma egli ne comprò uno addestrato a maraviglia e condottogli dalla Russia. Qualche leggitore maraviglierà forse di trovar qui la denominazione di Giannizzeri, ma i Greci tolsero questa voce agli Ottomani senza imitarne l'instituzione; e la vediamo spesso volte usata nell'ultimo secolo del greco Impero.

548. Non senza vincere molte difficoltà, i Greci avevano ottenuto, che invece de' viveri in natura venisse loro fatta una distribuzione in danaro. Furono quindi assegnati quattro fiorini al mese alle persone di onorevole grado, e tre a ciascun servo. L'Imperatore ne ebbe trentaquattro, il Patriarca ventinove, e il Principe Demetrio ventiquattro. La paga intiera del primo mese, non andò che a seicento novantun fiorini, la qual somma dimostra che il numero de' Greci non oltrepassava i dugento (Syropulus, p. 104, 105). Nel mese di ottobre 1438, erano dovute le somme di quattro mesi addietro, e tre mesi ancora in aprile del 1439, e cinque e mezzo in luglio, epoca della unione (p. 172-225-271).

549. Siropolo (p. 141, 142-204-221) deplora la prigionia de' Greci che venivano ritenuti quasi per forza in Italia, dolendosi intorno a ciò della tirannide dell'Imperatore e del Patriarca.

550. Trovasi una relazione chiara ed esatta delle guerre d'Italia nel quarto volume degli Annali del Muratori. Sembra che lo scismatico Siropolo (p. 145) abbia esagerato il temere e il correre a precipizio del Papa, allorchè si ritirò da Ferrara a Firenze. Gli atti provano che fu assai tranquilla, e convenevolmente eseguita una tale ritirata.

551. Siropolo novera fino a settecento Prelati nel Concilio di Basilea; ma l'errore è palpabile e fors'anche volontario. Nè gli ecclesiastici di tutte le classi che furono presenti al Concilio, nè tutti i Prelati lontani che esplicitamente o implicitamente ne riconosceano i decreti, avrebbero bastato a formar questo numero.

552. I Greci opposti all'unione non voleano di qui decampare (Syropulus, p. 178-193-195-202). I Latini non vergognarono di tirar fuori un vecchio manoscritto del secondo Concilio di Nicea, ove era stata aggiunta al Simbolo la parola Filioque, alterazione evidente.

553. Un Greco celebre dice: Ως εγω οσαν εις ναον εισελθω Λατινων ου προσκυνω τινα των εκεισε αγιων, επει ουδε γνωγιξω τινα, quando entro in una chiesa de' Latini non adoro nessuno de' Santi che colà sono, perchè non li conosco (Syropulus, pag. 109). Vedasi in quale impaccio si trovarono i Greci, alle p. 217, 218, 252, 253, 273.

554. V. la disputa urbana di Marco d'Efeso e di Bessarione in Siropolo (pag. 257), che non cerca mai di palliare i vizj de' suoi compatriotti, e rende imparziale omaggio alle virtù de' Latini.

555. Quanto all'indigenza de' Vescovi greci, V. un passo di Duca (pag. 31). Uno di questi prelati possedea per tutta sostanza tre vecchi abiti, ec. Bessarione avea guadagnato quaranta fiorini d'oro, facendo scuola vent'un anni in un monastero, ma ne avea spesi ventotto nel suo viaggio del Peloponneso, e a Costantinopoli il resto (Syropulus, p. 127).

556. Siropolo pretende che i Greci non abbiano ricevuto danaro prima di sottoscrivere l'atto di unione (p. 283); racconta nondimeno alcune circostanze sospette, e lo Storico Duca afferma che si lasciarono corrompere dai donativi.

557. I Greci esprimono in tuon doloroso i loro timori d'un esilio, o d'una schiavitù perpetua (pag. 197), e l'impressione che fecero sovr'essi le minacce dell'Imperatore (p. 260).

558. Io mi dimenticava d'un altro dissenziente[559] d'un grado meno sublime ma ortodosso oltre ogni dire, il cane favorito di Paleologo, che solito a star sempre tranquillo sui gradini del trono abbaiò furiosamente, sinchè durò la lettura del Trattato d'unione, e vano fu l'accarezzarlo e il flagellarlo per ridarlo al silenzio (Syropulus, p. 265-267).

559. Un accidente non doveva porgere soggetto di spargere il ridicolo sulla lettura del Decretum unionis etc. del Concilio generale di Firenze: se poi l'unione dei Vescovi greci coi latini non fu sincera, com'è vero, e come risulta della Storia, per cui lo scisma continuò, e continua ancora, ciò non ha relazione al ridicolo. (Nota di N. N.)

560. Bisogna osservare a questo passo dell'Autore, che è massima de' Decretalisti e de' Curiali della Corte di Roma, ed anche di molti Teologi, specialmente Italiani, che devonsi considerare soltanto autorevoli quegli atti e decreti del Concilio generale di Basilea, dati prima che nascesse la dissensione, e la guerra fra il Concilio stesso, ed il Papa Eugenio IV, e finchè questi approvò il Concilio, e che quelli fatti dopo il decreto di scioglimento del Concilio stesso, scritto da Eugenio, in un col di lui trasferimento, e nuova convocazione a Ferrara, e indi a Firenze, non sono da valutarsi, perchè il Papa presiedette quello di Ferrara, e indi quello di Firenze. Per altro il Concilio generale di Pisa, dal quale fu eletto il Papa Alessandro V, erasi adunato, ed aveva decretato, non molto tempo prima, senza l'intervento di Papa, e tuttavia è riputato legittimo, ed autorevole da tutt'i Teologi, ed anzi lodato per l'elezione canonica d'Alessandro in quel tempo di gravi turbolenze. Questa contraddittoria diversità d'opinione de' Teologi, favoritori della Corte di Roma, deriva dall'aver voluto il Concilio di Basilea, seguendo l'esempio del Concilio di Costanza, ristabilire l'aristocrazia de' Vescovi nel governo della Chiesa, specialmente dopo il decreto d'Eugenio dello scioglimento, lo che il Concilio non venne a capo di fare, per l'avveduta politica di quel Papa. Del resto lo scioglimento della questione intorno i decreti autorevoli e non autorevoli del Concilio di Basilea (che noi ora lasciamo volentieri a' controversisti, perchè esigerebbe una dissertazione, che paragonasse lo stato ed i fatti de' primi cinque secoli de' Cristiani antichi con quello de' moderni), dipende dalla soluzione di un'altra, cioè se l'autorità di un Concilio generale sia superiore, o no, a quella del Papa. (Nota di N. N.)

561. Le Vite de' Papi raccolte dal Muratori (t. III, part. II, t. XXV) ne rappresentano Eugenio IV, come un Pontefice di costumi illibati ed anche esemplari. Se osserveremo però in quale arduo stato egli si trovasse, avendo vôlti in se gli sguardi di tutto il Mondo e di tanti nemici, vedremo in ciò un motivo, che lo costringeva ad essere molto circospetto.

562. Siropolo credè minore obbrobrio l'assistere alla cerimonia dell'Unione che sottoscriverne l'atto; ma poi fu obbligato a far l'uno e l'altro, e adduce cattive scuse per difendere la sua obbedienza ai comandi dell'Imperatore, p. 290-292.

563. Non v'è più oggi giorno alcuno di questi atti originali dell'Unione. Di dieci manoscritti, cinque de' quali si conservano a Roma, gli altri a Firenze, Bologna, Venezia, Parigi e Londra, nove sono stati assoggettati all'esame di un Critico abile, il sig. Bréquigny, che li ricusa a motivo della differenza delle sottoscrizioni greche e degli abbagli nella scrittura. Alcuni però di questi possono essere riguardati come copie autentiche, sottoscritte a Firenze prima del 26 agosto, nel qual tempo il Pontefice e gl'Imperatori si separarono ( Mém. de l'Académie des Inscript., t. XLIII, p. 287-311).

564. Ημιν δε ως εδοκουν φωνας, mi pareano voci senza significato (Syropulus, p. 297).

565. Tornando a Costantinopoli, i Greci s'intertennero a Bologna d'Italia cogli Ambasciatori d'Inghilterra, i quali dopo alcune interrogazioni e risposte su tale argomento, risero della pretesa unione di Firenze (Syropulus, p. 307).

566. Le unioni de' Nestoriani e de' Giacobiti ec., sono sì inconcludenti, o favolose, che invano ho scartabellata, per trovarne qualche vestigio, la Biblioteca Orientale dell'Assemani, schiavo fedelissimo del Vaticano.

567. Ripaglia, situata presso Thonon nella Savoia, ad ostro del lago di Ginevra, oggidì è una Certosa. Il sig. Addisson ( Viaggio d'Italia, vol. II, pag. 147, 148, ediz. delle sue Opere per cura di Baskerville) ha celebrato il luogo e il fondatore. Enea Silvio, e i Padri di Basilea non si stancano di lodare l'austero vivere del Duca eremita; ma sfortunatamente, il proverbio francese faire ripaille, fa fede dell'opinione generalmente diffusa sulla vita molle di questo ex-Pontefice.

568. Anche i Papi erano uomini, e di che mai gli uomini non abusano? Ma dagli abusi particolari che si fossero verificati rispetto ad alcuni Pontefici, era egli lecito il dedurne la conseguenza generale per tutti: Continuarono ad abusarne? (Nota di N. N.)

569. Intorno ai Concilj di Basilea, Ferrara e Firenze ho consultati gli Atti originali che formano i volumi XVII, XVIII dell'edizione di Venezia, terminati dalla Storia chiara, ma parziale, di Agostino Patrizio, Italiano, del secolo XV. Essendo stati i compilatori de' medesimi il Dupin ( Bibl. eccles., t. XII) e il continuatore di Fleury (t. XXII), il rispetto che la Chiesa gallicana serba ad entrambe le parti gli ha tenuti in una circospezione quasi ridicola.

570. Il Meursio, nel suo primo Saggio, cita tremila seicento vocaboli greco-barbari; e ne aggiunse mille ottocento in una seconda edizione, lasciando cionnullameno molto lavoro da farsi al Porzio, al Ducange, al Fabrotti, ai Bollandisti, ec. (Fabr., Bibl. graec., t. X, pag. 101, ec.). Trovansi parole persiane in Senofonte, e latine in Plutarco; tale è l'inevitabile effetto del commercio e della guerra; ma questa lega non corruppe in sostanza l'idioma.

571. Francesco Filelfo era un sofista, o filosofo vanaglorioso, avido e turbolento. La vita di lui è stata accuratamente composta dal Lancelot ( Mém. de l'Acad. des Inscr., tom. X, p. 691-751), e dal Tiraboschi ( Storia della Letteratura italiana, t. VII, p. 282-294), in gran parte seguendo le tracce delle lettere dello stesso Filelfo. Le Opere di questo e de' suoi contemporanei, scritte con troppa ricercatezza, sono poste in dimenticanza; ma le loro lettere famigliari dipingono gli uomini e i tempi.

572. Sposò, e forse aveva sedotta, la nipote di Manuele Crisoloras, donzella ricca, avvenente, e di nobile famiglia, congiunta di sangue coi Doria di Genova e cogli Imperatori di Costantinopoli.

573. Groeci quibus lingua depravata non sit... ita loquuntur vulgo hac etiam tempestate ut Aristophanes comicus, aut Euripides tragicus, ut Oratores omnes, ut historiographi, ut philosophi.... litterati autem homines et doctius et emendatius.... Nam viri aulici veterem sermonis dignitatem atque elegantiam retinebant, inprimisque ipsae nobiles mulieres; quibus cum nullum esset omnino cum viris peregrinis commercium, merus ille ac purus Groecorum sermo servabatur intactus (Philelp., epist. ad ann. 1451, ap. Hodium, p. 188, 189). Osserva in un altro luogo, uxor illa mea Theodora locutione erat admodum moderata et suavi et maxime attica.

574. Filelfo cerca ridicolosamente l'origine della gelosia greca, o orientale ne' costumi dell'antica Roma.

575. V. lo stato della letteratura de' secoli XIII e XIV nelle Opere del dotto e giudizioso Mosheim ( Instit. Hist. eccles., p. 434-440, 490-494.)

576. Sul finire del secolo XV, trovavansi in Europa circa cinquanta Università, molte delle quali fondate prima dell'anno 1300. Bologna noverava diecimila studenti, una gran parte di giurisprudenza; le ridette Università vedeansi tanto più popolate di scolari quanto era minore il numero delle medesime. Nell'anno 1357 gli studenti d'Oxford da trentamila divennero seimila ( Hist. de la Grande-Bretagne, par Henri, vol. IV, p. 478). Nondimeno questo numero ridotto superava ancora il numero degli studenti da cui questa Università oggi giorno è composta.

577. Gli Scrittori che hanno trattato più fondatamente il soggetto della restaurazione della lingua greca in Italia, sono il dottore Humph. Hody ( De Graecis illustribus, linguae graecae litterarumque humaniorum instauratoribus, Londra, 1742, in 8. grande) e il Tiraboschi ( Istoria della Letteratura italiana, t. V, p. 364, 377; t. VII, p. 112-143). Il Professore di Oxford è un dotto laborioso; ma il Bibliotecario di Modena ha il vantaggio di essere storico nazionale e moderno.

578. In Calabria quae olim magna Graecia dicebatur, coloniis graeci repleta, remansit quaedam linguae veteris cognitio (Dottore Hody, p. 2). Se i Romani la fecero sparire, fu restaurata dai Monaci di S. Basilio, che nella sola città di Rossano possedeano sette conventi (Giannone, Istoria di Napoli, t. I, p. 520).

579. Li barbari, dice il Petrarca parlando degli Alemanni e dei Francesi, vix, non dicam libros sed nomen Homeri audierunt. Forse in ordine a ciò il secolo XIII era men felice di quello di Carlomagno.

580. V. il carattere di Barlamo nel Boccaccio ( De geneal. Deorum, l. XV, c. VI).

581. Cantacuzeno, l. II, c. 36.

582. Intorno l'amicizia del Petrarca con Barlamo, e i due abboccamenti che ebbero nel 1339 ad Avignone, e nel 1342 a Napoli, V. le eccellenti Mémoires sur la vie de Petrarque (t. I, p. 406-410; t. II, p. 75-77).

583. Il Vescovado ove si ritirò Barlamo era la Locride degli Antichi, Seta Cyriaca nel Medio Evo, e corrottamente Hieracium, Geracia ( Dissert. chorograph. Italiae medii aevi, p. 312). La dives opum del tempo de' Normanni fu ben tosto ridotta all'indigenza, poichè la stessa sua Chiesa era povera; nondimeno la città contiene ancora tremila abitanti (Swinburne, p. 340).

584. Trascriverò un passo di questa lettera del Petrarca ( Famil. X, 2): Donasti Homerum non in alienum sermonem violento alveo derivatum, sed ex ipsis Graeci eloquii scatebris, et qualis divino illi profluxit ingenio.... Sine tua voce Homerus tuus apud me mutus, immo vero ego apud illum surdus sum. Gaudeo tamen vel adspectu solo, ac saepe illum amplexus atque suspirans dico: O magne vir, etc.

585. Intorno alla vita e agli scritti del Boccaccio, nato nel 1313 e morto nel 1375, il lettore può consultare Fabrizio ( Bibl. lat. medii aevi, t. I, p. 248, ec.) e Tiraboschi (t. V, p. 83-439-451). Le edizioni, le traduzioni e le imitazioni delle sue Novelle, o Favole sono innumerevoli. Egli avea nondimeno rossore di comunicare quest'opera frivola e forse scandalosa al suo rispettabile amico Petrarca, nelle Lettere e Memorie del quale comparisce in modo onorevole.

586. Il Boccaccio si permette una onesta vanità: Ostentationis causa graeca carmina adscripsi..... jure utor meo; meum est hoc decus, mea gloria scilicet inter Etruscos graecis uti carminibus. Nonne ego fui qui Leontium Pilatum, etc. ( De genealog. Deorum, l. XV, c. 7). Quest'Opera, dimenticata oggi giorno, ebbe tredici, o quattordici edizioni.

587. Leone, o Leonzio Pilato, è abbastanza conosciuto, da quanto ne dicono il Dottore Hody (p. 2-11) e l'Abate di Sades ( Vie de Petrarque, t. III, pag. 625-634-670-673). L'Abate di Sades con molta abilità imita lo stile drammatico e animato del suo originale.

588. Il Dottore Hody (p. 54) biasima acremente Leonardo Aretino, il Guerini, Paolo Giovio, ed altri, per avere affermato che le lettere greche erano state restaurate in Italia, post septingentos annos, come se, dic'egli, fossero state in fiore fino alla fine del settimo secolo. Forse cotesti Scrittori appoggiavano i loro computi alla fine dell'Esarcato, perchè la presenza de' militari e de' magistrati greci in Ravenna dovea in qualche modo avervi conservato l'uso della lingua che si parlava in Bisanzo.

589. V. l'articolo di Manuele, o Emmanuele Crisoloras, in Hody (p. 12-54) e Tiraboschi (t. VII, pag. 113-118). La vera data dell'arrivo di questo dotto in Italia, si contiene fra il 1390 e il 1400, nè ha d'altra epoca sicura che il regno di Bonifazio IX.

590. Cinque o sei cittadini nativi di Arezzo, hanno preso successivamente il nome di Aretino; il più celebre e il men degno di esserlo, visse nel secolo XVI. Leonardo Bruni l'Aretino, discepolo di Crisoloras, fu dotto nelle lingue, oratore, storico, segretario di quattro Pontefici e cancelliere della Repubblica di Firenze, ove morì nel 1444, in età di settantacinque anni (Fabr., Bibl. medii aevi, t. I, pag. 190 ec.; Tiraboschi, t. VII, p. 33-38).

591. V. questo passo nell'Aretino. In Commentario rerum suo tempore in Italia gestarum, apud Hodium, p. 28-30.

592. Il Petrarca, che amava questo giovinetto, si dolea sovente di scorgere nel suo discepolo una impaziente curiosità, una indocile irrequietezza, e un'inclinazione all'orgoglio, che però ne annunciavano il genio e i futuri pregi ( Mém. sur le Pétrarque, t. III, p. 700-709).

593. Hinc graecae latinaeque scholae exortae sunt, Guarino Philelpho, Leonardo Aretino, Caroloque, ac plerisque aliis tamquam ex equo Trojano prodeuntibus, quorum emulatione multa ingenia deinceps ad laudem excitata sunt ( Platina in Bonifacio IX ). Un altro Autore italiano aggiunge i nomi di Paulus Petrus Vergerius, Omnibonus Vincentius, Poggius, Franciscus Barbarus, etc. Ma dubito se un'esatta cronologia concederebbe a Crisoloras l'onore di avere formati tutti questi dotti discepoli (Hody, p. 25-27, ec.).

594. V. in Hody l'articolo di Bessarione (pag. 136-177), Teodoro Gaza, Giorgio da Trebisonda, e gli altri Maestri greci da me nominati, od omessi, si vedono citati ne' diversi capitoli di questo dotto Scrittore. V. anche Tiraboschi nella I e II parte del suo sesto tomo.

595. I Cardinali picchiarono alla porta di Bessarione, ma il suo conclavista ricusò di aprire per non distoglierlo da' suoi studj. «Ah! Nicolò, diss'egli, poichè lo seppe, il tuo rispetto mi ha fatto perdere la tiara, e a te un cappello di Cardinale».

596. Eran fra questi Giorgio da Trebisonda, Teodoro Gaza, Argiropolo e Andronico da Tessalonica, Filelfo, Poggio, Biondi, Nicolai, Perotti, Valla, Campano, Platina ec. Viri (dice Hody, collo zelo di uno scolaro) nullo oevo perituri (p. 137).

597. Giovanni Lascaris era nato prima della presa di Costantinopoli, e continuò i suoi studj fino al 1535. I più chiari protettori di lui furono Leone X e Francesco I, sotto gli auspizj de' quali fondò i Collegi greci di Roma e di Parigi (Hody, p. 247-275). Egli lasciò figli in Francia; ma i Conti di Ventimiglia, e le numerose famiglie che ne derivano, non hanno altro diritto a questo cognome, fuor d'un dubbioso contratto di nozze colla figlia dell'Imperatore greco nel secolo decimoterzo (Ducange, Fam. byzant., p. 224-230).

598. Francesco Florido ha conservati e confutati due epigrammi contro Virgilio, e tre contro Cicerone, chiamando l'autor di essi Graeculus ineptus et impudens (Hody, p. 274). Abbiamo avuto ai nostri giorni un Critico inglese, Geremia Markland, che ha trovata nell'Eneide multa languida, nugatoria, spiritu et majestate carminis heroici defecta, e molti versi ch'egli avrebbe arrossito di confessare per suoi ( Praefat. ad Statii Sylvas, p. 21, 22).

599. Emmanuele Crisoloras e i suoi colleghi sono stati accusati d'ignoranza, d'invidia e d'avarizia ( Sylloge, ec., t. II, p. 235). I Greci moderni pronunciano il β come il v consonante, e confondono le tre vocali η ι υ e molti dittonghi. Tale era la pronunzia comune, che il severo Gardiner, mettendo leggi penali, mantenne nell'Università di Cambridge; ma il monosillabo βη, ad orecchio attico, ricordava il belar di un agnello, e un agnello sarebbe stato senza dubbio miglior personaggio di riscontro che un Vescovo o un Cancelliere. I Trattati dei dotti che corressero la pronunzia, e particolarmente di Erasmo, si troveranno nella Sylloge di Havercamp (due volumi in 8., Lugd. Bat., 1736-1740). Ma è cosa difficile additar suoni per via di parole, e la pratica delle lingue viventi ci fa conoscere che la pronunzia delle lingue non può essere data ad intendere che col fatto e dai nativi che parlano bene le medesime. Osserverò qui che Erasmo ha approvata la nostra pronuncia del θ, th (Erasmo, t. II, p. 130).

600. Giorgio Gemisto Pleto, autore di voluminose opere sopra diversi argomenti, fu maestro di Bessarione e di tutti i Platonici del suo secolo. Invecchiando, visitò l'Italia, ma tornò presto a terminare il corso di sua vita nel Peloponneso. V. una singolare diatriba di Leone Allazio de Georgiis, in Fabrizio ( Bibl. graec., t. X, p. 739-756).

601. Il Boivin ( Mém. de l'Acad. des Inscript., tom. II, p. 715-729) e il Tiraboschi (t. VI, part. I, p. 259, 288) hanno descritto con chiarezza lo stato della filosofia platonica nell'Italia.

602. V. la vita di Nicolò V composta da due autori contemporanei, Gianotto Manetto (t. III, parte II, pag. 905-962) e Vespasiano da Firenze (t. XXV, p. 267-290), nella Raccolta del Muratori. Si consulti anche il Tiraboschi (t. VI, p. 1-46, 52-109) e Hody agli articoli, Teodoro Gaza, Giorgio da Trebisonda ec.

603. Il lord Bolingbroke osserva con eguale spirito e aggiustatezza che i Pontefici in ordine a ciò mostrarono minore politica del Muftì, rompendo eglino stessi il talismano che tenea da sì lungo tempo soggetto il Mondo ( Lettere sullo studio della Storia, l. VI, p. 165, 166, ediz. in 8., 1779)[604].

604. V. la Nota di N. N. nella seguente pagina.

605. Fu grande, a dir vero, il merito di Nicolò V; e le Opere de' classici Greci, ch'egli procacciò con tante spese, e con tante cure alle nazioni, allora ignorantissime d'Europa, furono per il fatto il fondamento, ed il motivo dei progressi delle nostre cognizioni nella Storia antica; ed erano esse grandemente da preferirsi ai settantaquattro canoni detti Arabici, scritti e falsamente attribuiti, quasi ducento anni dopo, al Concilio generale di Nicea, onde renderli autorevoli; agli otto libri delle Costituzioni, e dei canoni falsamente attribuiti agli Appostoli per la medesima ragione; alle false decretali del Vescovo Isidoro, delle quali detto abbiamo in altra nota nel Tomo IX, p. 307, ed a varie altre leggende di simil conio, spacciate col favore della generale e profonda ignoranza, ed estrema credulità, e che conservavansi manoscritte, prima che vi fosse l'arte della stampa, negli Archivj della Chiesa romana con grande gelosia, e che oggidì sono inserite e stampate anche nel Labbe, Collectio Magna Conciliorum, con le dovute annotazioni d'uomini dottissimi e cattolici, dimostranti la nessuna loro autenticità, siccome fece pure il Fleury nella sua Storia ecclesiastica, ed altri uomini sapienti e cattolici. Per altro se conservavansi nel Vaticano questi scritti, che la buona critica che dopo venne discoprì apocrifi, ve ne erano altresì un grande numero d'autentici pure, intorno le materie della religione. (Nota di N. N.)

606. V. la Storia letteraria di Cosimo e di Lorenzo de' Medici in Tiraboschi (t. VI, p. 1, l. 1, c. 2), che non lascia privi di giusti encomj Adolfo d'Aragona, Re di Napoli, i Duchi di Milano, di Ferrara, d'Urbino ec. La repubblica di Venezia è quella che ha men diritto alla riconoscenza dei dotti.

607. V. Tiraboschi (t. VI, parte I, p. 104), e la compilazione della prefazione di Giovanni Lascaris alla Antologia greca, stampata a Firenze nel 1494. Latebant (dice Aldo nella sua Prefazione agli Oratori greci, presso Hody, p. 249) in Athos Thraciae monte; eas Lascaris.... in Italiam reportavit. Miserat enim ipsum Laurentius ille Medices in Graeciam ad inquirendos simul et quantovis emendos pretio bonos libros. È cosa meritevole di osservazione che questa indagine fu agevolata da Baiazetto II.

608. Negli ultimi anni del secolo decimoquinto, Grossino, Linacero e Latimero, che aveano studiato a Firenze sotto Demetrio Calcocondila, introdussero la lingua greca nell'Università di Oxford. V. la Vita di Erasmo, non priva di singolarità, che ha composta il dottore Knight; benchè zelante campione della sua Accademia, questo Biografo è costretto a confessare che Erasmo, maestro di lingua greca a Cambridge, l'aveva imparata ad Oxford.

609. I gelosi Italiani bramavano riserbarsi il monopolio della cattedra di lingua greca. Quando Aldo si trovò in procinto di pubblicare i suoi Comentarj intorno Sofocle ed Euripide, Cave, gli dissero, cave hoc facias, ne Barbari istis adjuti, domi maneant; et pauciores in Italiam ventitent ( V. il dottore Knight, nella sua Vita di Erasmo, pag. 365, tolta da Beato Renano).

610. La Tipografia di Aldo Manuzio, Romano, fu posta a Venezia verso l'anno 1494. Egli stampò oltre a sessanta voluminose Opere di greca letteratura, la maggior parte delle quali erano tuttavia manoscritte e conteneano Trattati di diversi autori; di alcuni di questi egli compose due, tre e sino a quattro edizioni (Fabrizio, Bibl. graec., t. XIII, p. 605 ec.). Questo merito di Aldo non ci dee far dimentichi nullameno che il primo libro greco, la Gramatica di Costantino Lascaris, fu stampata a Milano nel 1476, e che l'Omero, stampato a Firenze nel 1488, è adorno d'ogni fregio dell'arte della Tipografia. V. gli Annali tipografici del Mattaire e la Bibliografia istruttiva del Debure, Stampatore-libraio di Parigi, distintosi per le sue cognizioni.

611. Sceglierò tre singolari esempli di questo classico entusiasmo, 1. Nel tempo del Sinodo di Firenze, Gemisto Peto, standosi ad intertenimento famigliare con Giorgio da Trebisonda, gli pronosticò che ben presto tutte le nazioni, rinunciando all'Evangelio e al Corano, abbraccierebbero un culto simile a quello dei Gentili (Leo Allatius, apud Fabricium, t. X, p. 751). 2. Paolo II perseguitò l'Accademia romana fondata da Pomponio Leto, i cui primarj individui erano stati accusati di eresia, di empietà e di paganesimo. (Tiraboschi, t. VI, parte I, p. 81, 82). 3. Nel successivo secolo alcuni studenti e poeti celebrarono in Francia la festa di Bacco, e immolarono, dicesi, un capro per festeggiare il buon successo ottenuto dal Jodelle nella rappresentazione della sua tragedia, la Cleopatra ( Dictionnaire de Bayle, art. Jodelle; Fontenelle, t. III, p. 56-61). Per vero dire la mal intesa divozione spesse volte ha creduto scoprire una seria empietà in quanto era solamente giuoco della immaginazione e del sapere.

612. Il Boccaccio non morì che nell'anno 1375, nè possiamo assegnare un'epoca anteriore del 1480 al Morgante Maggiore di Luigi Pulci, e all' Orlando Innamorato del Boiardo (Tiraboschi, t. VI, parte II, p. 174-177).