INDICE
INDICE GENERALE STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO
CAPITOLO LXVII.
Scisma de' Greci e de' Latini. Regno e carattere di Amurat. Crociata di Ladislao Re d'Ungheria. Sconfitta e morte del medesimo. Giovanni Uniade. Scanderbeg. Costantino Paleologo, ultimo Imperatore di Costantinopoli.
Un Greco eloquente, padre delle scuole dell'Italia, ha paragonate fra loro e celebrate le città di Roma e di Costantinopoli[1]. Il sentimento che Manuele Crisogoras provò alla vista dell'antica Capitale del Mondo, sede de' suoi antenati, superò tutte le idee che egli avea potuto da prima formarsene; nè biasimò d'indi in poi l'antico sofista che esclamava essere Roma un soggiorno non fatto per gli uomini, ma per gli Dei. Questi Dei e quegli uomini erano spariti da lungo tempo; ma un entusiasmo eccitato da nobili ricordanze trovava nella maestà delle rovine di Roma l'immagine della sua antica prosperità. I monumenti de' Consoli e de' Cesari, de' Martiri e degli Appostoli, eccitavano per ogni lato la curiosità del filosofo e del cristiano. Manuele confessò, che l'armi e la religione di Roma erano state predestinate a regnar sempre nell'Universo; ma questa venerazione che gl'inspiravano le auguste bellezze della madre patria, nol fecero dimentico della più leggiadra fra le sue figlie, della Metropoli nel cui seno era nato. Mosso da fervor patrio e da sentimento di verità il celebre Bizantino, esalta con uno stile condegno i vantaggi naturali ed eterni di Costantinopoli, magnificando poi ancora i men saldi monumenti della potenza e dell'arti che l'aveano abbellita. Ma in questa seconda parte, osserva modestamente che la perfezione della copia ridonda a maggior gloria dell'originale, e che è un contento ai genitori il vedersi rinnovellati e perfin superati dai proprj figli. «Costantinopoli, dice l'Oratore, è situata sopra di una collina tra l'Europa e l'Asia, tra l'Arcipelago e il Mar Nero. Essa congiunge, a comune vantaggio delle nazioni, due mari e due continenti, tenendo a suo grado aperte, o chiuse le porte del commercio del Mondo. Il porto di essa, cinto da ogni banda dal continente e dal mare, è il più vasto e sicuro fra tutti i porti dell'Universo. Le porte e le mura di Costantinopoli possono essere paragonate a quelle di Babilonia. Alte, numerose e saldissime ne sono le torri; il secondo muro, o l'esterna fortificazione, basterebbe alla difesa e alla maestà di una Capitale men rilevante, e potendosi introdurre nelle sue fosse una grossa e rapida corrente, è lecito chiamarla un'isola artificiale, atta ad essere alternativamente circondata siccome Atene[2] dalla terra e dalle acque». Vengono citate due cagioni che naturalmente, e con efficacia, dovettero contribuire a far perfetto il disegno della nuova Roma. Il Principe che ne fu il fondatore, come quegli che comandava alle più illustri nazioni del Mondo, fece servire con vantaggio alla esecuzione de' suoi divisamenti le scienze e le arti della Grecia, e la potenza di Roma. Nella maggior parte dell'altre città, la grandezza loro fu proporzionata ai tempi e agli avvenimenti, onde in mezzo ai pregi delle medesime, scorgesi una mescolanza di disordine e di deformità; gli abitanti, affezionati al paese ove nacquero, nè vorrebbero abbandonarlo, nè possono correggere i vizj del secolo o del clima, nè gli errori de' loro antenati. Ma il disegno di Costantinopoli e la sua esecuzione furono l'opera libera di una sola mente, e a questo primitivo modello apportarono perfezione lo zelo obbediente de' sudditi e il fervore de' successori di Costantino. A questa grande fabbrica somministrarono i marmi le isole addiacenti che ne erano provvedutissime; gli altri materiali vennero trasportati dal fondo dell'Europa e dell'Asia; la costruzione de' pubblici e de' privati edifizj, de' palagi, delle chiese, degli acquedotti, delle cisterne, de' portici, delle colonne, de' bagni, e degli ippodromi, corrispose nelle dimensioni alla grandezza della Capitale dell'Oriente. Il superfluo delle ricchezze della città si sparse lungo le rive dell'Europa e dell'Asia; onde i dintorni di Bisanzo fino all'Eussino, all'Ellesponto e al gran Muraglione somigliano ad un popolato sobborgo, o ad una serie continuata di giardini. In questa seducente pittura, il descrittore confonde con oratoria destrezza il passato e il presente, i giorni della prosperità e quelli dello scadimento; ma la verità sfuggendogli, quasi a sua non saputa, dal labbro, sospirando confessa che la sua misera patria non è più altro se non se l'ombra o il sepolcro della superba Bisanzo. Le antiche opere di scoltura erano state sformate del cieco zelo de' Cristiani, o dalla violenza de' Barbari. I più belli edifizj demoliti; arsi i preziosi marmi di Paro o della Numidia per farne calce, o convertiti in trivialissimi usi. Un nudo piedistallo indicava il luogo ove sorsero le statue più rinomate: nè poteano in gran parte giudicarsi le dimensioni delle colonne che dai rimasugli di qualche infranto capitello. Dispersi vedeansi sul suolo i frantumi delle tombe degl'Imperatori; e i turbini e i tremuoti avevano aiutato il tempo in queste opere di distruzione; intanto che una volgar tradizione ornavano i vôti intervalli di monumenti favolosi d'oro o d'argento. Però Manuele eccettua da queste meraviglie, che non aveano esistenza se non se nella memoria degli uomini, o forse anche non l'ebbero che nella loro immaginazione, il pilastro di porfido, le colonne e il colosso di Giustiniano[3], la chiesa e soprattutto la cupola di S. Sofia, con cui termina convenevolmente il suo quadro, «poichè, non possono, dic'egli esserne in assai degno modo descritte le bellezze, ned è lecito nomar altri monumenti dopo avere favellato di questa». Egli però dimentica di notare che, nel secolo precedente, i fondamenti del colosso e della chiesa erano stati sostenuti e riparati per le solerti cure di Andronico il Vecchio. Trent'anni dopo che questo Imperatore si era creduto affortificare il Tempio di S. Sofia con due nuovi puntelli o piramidi, crollò d'improvviso l'emisfero orientale della cupola; le immagini, gli altari e il Santuario rimasero sepolti sotto le rovine; ma in breve questo guasto fu riparato, perchè i cittadini di tutte le classi lavorarono con perseveranza a far disparire i rottami, e i meschini avanzi delle loro ricchezze e della loro industria andarono impiegati a rifabbricare il più magnifico e venerabile Tempio dell'Oriente[4].
A. D. 1440-1448
Minacciati d'una prossima distruzione la città e l'impero di Costantinopoli, fondavano un'ultima speranza sull'unione della madre e della figlia, sulla tenerezza materna di Roma, e sulla obbedienza filiale di Costantinopoli. Nel Concilio di Firenze, i Greci e i Latini si erano abbracciati, avevano sottoscritto; avevano promesso; ma perfide e vane essendo queste dimostrazioni di amicizia[5], tutto l'edifizio dell'unione sfornito di fondamento disparve come un sogno[6]. L'Imperatore e i suoi prelati partirono sulle galee di Venezia; ma nelle fermate che fecero ai lidi della Morea, alle isole di Corfù o di Lesbo, udirono alte querele sull'unione pretesa, che dovea servire soltanto, diceasi, di nuovo strumento alla tirannide. Sbarcati sulla riva di Bisanzo, li salutarono, o a meglio dire li soprappresero le doglianze generali di una popolazione malcontenta e ferita nel più vivo de' suoi sentimenti, nello zelo religioso. Dopo i due anni che l'assenza della Corte era durata, il fanatismo fermentò nell'anarchia di una Capitale priva di Capi civili ed ecclesiastici; i turbolenti frati, che governavano la coscienza delle femmine e de' devoti, predicavano ai lor discepoli l'odio contro ai Latini, come sentimento primario della natura e della religione. Innanzi di partire per l'Italia, l'Imperatore avea fatto sperare ai suoi sudditi un pronto e possente soccorso; mentre il Clero, altero della sua purità ortodossa, o della sua scienza, riprometteasi, e aveva assicurata al proprio gregge una facile vittoria sui ciechi pastori dell'Occidente. Allorchè si trovarono delusi in questa doppia speranza, i Greci si abbandonarono alla indegnazione; i Prelati, che avevano sottoscritto, sentirono ridestarsi i rimorsi della loro coscienza: il momento del disinganno era venuto; e maggior soggetto aveano di paventare gli effetti del pubblico sdegno, che di sperare la protezione del Papa, o dell'Imperatore. Lungi dal profferire un accento di scusa sulla condotta che tennero, confessarono umilmente la loro debolezza e il lor pentimento, implorando la misericordia di Dio e de' lor compatriotti. A quelli che in tuono di rimprovero lor domandavano qual fosse la conclusione, quali i vantaggi riportati dal Concilio d'Italia, rispondeano con lagrime e con sospiri, «noi abbiam composta una nuova Fede, abbiamo barattata la pietà nell'empietà, abbiurato l'immacolato sagrifizio, siam divenuti azzimiti ». Chiamavansi azzimiti coloro che si comunicavano con pane azzimo, o senza lievito, e qui potrei essere costretto a ritrattare, o a schiarir meglio l'elogio che alla rinascente filosofia di quei tempi testè tributai. «Oimè! continuavano essi, ne ha vinti la miseria: ne hanno sedotti la frode, i timori e le speranze di una vita transitoria. Noi meritiamo ne venga troncata la mano che ha suggellato il nostro delitto, ne venga strappata la bocca che ha recitato il simbolo de' Latini». La sincerità del qual pentimento convalidarono prestandosi con maggiore zelo alle più minute cerimonie e al sostegno dei dogmi più incomprensibili. Segregatisi dalla comunione degli altri, non parlavano nemmeno coll'Imperatore, il contegno del quale fu alquanto più decente e ragionevole. Dopo la morte del Patriarca Giuseppe, gli Arcivescovi di Eraclea e di Trebisonda ebbero il coraggio di ricusare la sede rimasta vacante, intanto che il Cardinal Bessarione preferiva l'asilo utile e agiato offertogli dal Vaticano. L'Imperatore ed il Clero elessero, che altra scelta ad essi non rimanea, Metrofane di Cizico; ma quando veniva consagrato in S. Sofia, rimase vuota la chiesa. I vessilliferi della Croce abbandonarono il servigio dell'altare, e la contagione essendosi comunicata dalla città ai villaggi, Metrofane usò invano le folgori della Chiesa contro un popolo di scismatici. Gli sguardi dei Greci si volsero a Marco d'Efeso, difensore del suo paese, e riguardato come santo confessore, i cui patimenti vennero ricompensati con tributo d'applausi e di ammirazione. Ma il suo esempio e i suoi scritti propagarono la fiamma della religiosa discordia, benchè egli soggiacesse ben presto al peso degli anni e delle infermità; perchè l'evangelio di Marco non era un evangelio di tolleranza; onde fino all'estremo anelito chiese non si ammettessero ai suoi funerali i partigiani di Roma che dispensò dal pregare per l'anima sua.
Lo scisma non si ristette fra gli angusti limiti del greco Impero; tranquilli sotto il governo dei Mammalucchi, i Patriarchi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme adunarono un numeroso Sinodo, ove negarono la legittimità de' loro rappresentanti a Ferrara e a Firenze, condannando il Sinodo e il Concilio de' Latini, e minacciando l'Imperatore di Costantinopoli delle censure della Chiesa d'Oriente. Tra i settarj della comunione greca, i Russi erano i più potenti, i più ignoranti e superstiziosi: il loro primate, Cardinale Isidoro, corse rapidamente da Firenze a Mosca[7] per ridurre sotto l'autorità del Pontefice questa independente nazione: ma i Vescovi russi aveano attinta la loro dottrina fra le celle del monte Atos, e il Sovrano, non men dei sudditi, seguiva le opinioni teologiche del proprio Clero. Il titolo, il fasto, e la croce latina del Legato, amico di quegli uomini empj, così li chiamavano i Russi, che si radeano la barba e celebravano il divin sagrifizio colle mani coperte dai guanti, e le dita cariche di anelli, divennero altrettanti soggetti di scandalo a quella nazione. Condannato Isidoro da un Sinodo, e rinchiuso in un Monastero, non si sottrasse che con grande stento al furore d'un popolo feroce e fanatico[8]. I Russi inoltre negarono il passo ai Missionarj di Roma che voleano trasferirsi a convertire i Pagani al di là del Tanai[9], fondando il loro rifiuto sulla massima che il delitto d'idolatria è men condannevole di quel dello scisma. L'avversione che i Boemi mostrarono al Papa, rendè meritevoli di scusa i loro errori appo il Clero greco che mandò con una deputazione a chiedere in Lega questi sanguinarj entusiasti[10]. Intanto che Eugenio giubilava della conversione de' Greci, divenuti ortodossi, i partigiani di lui nella Grecia, vedeansi confinati entro le mura, o piuttosto nella reggia di Costantinopoli. Lo zelo di Paleologo eccitato dall'interesse, fu ben tosto raffreddato dalla resistenza, e temè cimentare la propria Corona e la vita, se avesse violentata la coscienza di una nazione, cui non sarebbero mancati soccorritori stranieri e domestici per sostenerla in una santa ribellione. Il Principe Demetrio, fratello dell'Imperatore, il quale soggiornando in Italia, avea serbato un silenzio che era conforme alla prudenza, e che pubblico favore gli conciliò, minacciava d'impugnar l'armi in difesa della religione; intanto l'apparente buon accordo de' Greci e dei Latini cagionava gravi timori al Sultano de' Turchi.
A. D. 1421-1451
«Il Sultano Murad, o Amurat, visse quarantanove anni e ne regnò trenta, sei mesi e otto giorni; Principe coraggioso e giusto, fornito di grande animo, paziente nelle fatiche, istrutto, clemente, caritatevole e pio: amava e incoraggiava gli uomini studiosi e tutto quanto eravi di eccellente nelle scienze e nell'arti. Buon Imperatore e gran Generale, niun altro riportò vittorie tante e sì luminose. La sola Belgrado resistè a' suoi assalti. Sotto il regno del medesimo il soldato fu sempre vittorioso, il cittadino, ricco e tranquillo. Allorchè avea sottomesso un paese, era prima cura di questo principe il fabbricare moschee, ricetti per le carovane, collegi, ospitali. Dava ogn'anno mille piastre d'oro ai figli del Profeta; ne inviava duemilacinquecento alle persone pie della Mecca, di Medina e di Gerusalemme»[11]. Questo ritratto è tolto da uno storico dell'Impero ottomano. Ma non avvi crudele tiranno che non abbia ottenuti encomj da un popolo schiavo e superstizioso, e le virtù d'un sultano non sono spesse volte che i vizi più utili ad esso o più aggradevoli ai suoi sudditi. Una nazione che non abbia mai conosciuto i vantaggi, eguali per tutti, delle leggi e della libertà[12], può lasciarsi sopraffare dalle arti del potere arbitrario. La crudeltà del despota assume indole di giustizia agli occhi dello schiavo che chiama liberalità la profusione, fregia del nome di fermezza la pertinacia. Sotto il regno di colui che non ammette scuse, comunque le più ragionevoli, vi sono pochi atti di sommessione impossibili, e là dove non è sempre in sicuro l'innocenza, dee necessariamente tremare anche il colpevole. Continue guerre mantennero la tranquillità de' popoli e la disciplina de' soldati. La guerra era il mestier dei giannizzeri, fra quali coloro che ne superavano i pericoli, aveano ricca parte alla preda e applaudivano alla generosa ambizion del Sovrano. La legge di Maometto raccomandava al Musulmani di adoperarsi alla propagazione della fede. Tutti gl'Infedeli erano nemici de' Turchi e del loro Profeta; la scimitarra era l'unico strumento di conversione di cui facessero uso i Maomettani. Ciò nullameno la condotta di Amurat, giusto e moderato lo palesò; per tale lo ravvisarono gli stessi Cristiani, che attribuirono la prosperità del suo Regno e la tranquilla sua morte ad un guiderdone largito dal Cielo agli straordinarj meriti di questo Sovrano. Nel vigor degli anni e della militare possanza, poche guerre intimò senza esservi costretto; la sommessione de' vinti facilmente lo disarmava; sacra ed inviolabile erane la parola nell'osservare i Trattati[13]. Gli Ungaresi quasi sempre furono gli aggressori. La ribellione di Scanderbeg l'irritò. Il perfido Caramano vinto due volte, due volte ottenne da Amurat il perdono. Tebe sorpresa dal despota, giustificò l'invasione della Morea: il pronipote di Baiazetto avrebbe potuto facilmente ritorre Tessalonica ai Veneziani che sì di recente l'aveano acquistata. Dopo il primo assedio di Costantinopoli, la lontananza, le sventure di Paleologo, le ingiurie che da lui sofferse Amurat, mai non indussero questo Sultano ad affrettare gli estremi momenti del greco Impero.
A. D. 1443
Ma il tratto più luminoso dell'indole e della vita di Amurat, fu quello senza dubbio di rinunziare il trono due volte. Se i motivi che il mossero non fossero stati inviliti da una mescolanza di superstizione, non potremmo ricusare encomj ad un Monarca filosofo[14] che, nell'età di quarant'anni, seppe discernere il nulla delle umane grandezze. Dopo avere rimesso lo scettro fra le mani del figlio, alle deliziose stanze di Magnesia si ritirò, ma cercando ivi la compagnia de' Santi e degli Eremiti[15]. Non prima del quarto secolo dell'Egira, la religione di Maometto si era lasciata corrompere ammettendo istituzioni monastiche alla sua indole tanto opposte. Ma durante le Crociate, l'esempio de' Monaci cristiani, greci ed anche latini, moltiplicò i varj Ordini di Dervis[16]. Il padrone delle nazioni si assoggettò a digiunare, ad orare, o a girar continuamente in tondo con altri fanatici che confondeano il capogiro colla luce del divino spirito[17]. Ma l'invasione degli Ungaresi il tolse ben tosto da questo entusiastico sonno, e il figlio di lui prevenne il voto del popolo volgendosi nell'istante del pericolo al padre. Sotto la condotta dell'antico Generale, i giannizzeri furono vincitori; ma reduce dal campo di battaglia di Warna, ripetè le sue preci, i suoi digiuni, i suoi giri in tondo coi compagni del suo ritiro a Magnesia: pietose occupazioni da cui lo trassero una seconda volta i pericoli dello Stato. L'esercito vittorioso disdegnò l'inesperienza del figlio; Andrinopoli fu abbandonata al saccheggio e alla strage; la sommossa de' giannizzeri indusse il Divano a sollecitare la presenza di Amurat per impedire l'assoluta ribellione di questa guardia; riconobbero essi la voce del lor padrone, tremarono ed obbedirono; e il Sultano videsi a proprio malgrado costretto a soffrire il suo luminoso servaggio, da cui in capo a quattro anni l'Angelo della morte lo liberò. L'età o le malattie, il capriccio o la sventura, hanno spesse volte costretti molti Principi a scender dal trono, ed hanno avuto tempo per pentirsi di questa irrevocabile risoluzione. Ma il solo Amurat, libero di scegliere, e dopo avere sperimentati e l'Impero e la solitudine, diede per una seconda volta alla vita privata la preferenza.
Dopo la partenza dei Greci, Eugenio non avea dimenticati i loro temporali interessi; e questa tenera sollecitudine del Pontefice a favore dell'Impero di Bisanzo era animata dalla paura di vedere i Turchi avvicinarsi alle coste d'Italia, e forse ben presto invaderle. Ma lo spirito che avea prodotte le prime Crociate, essendo svanito, i Franchi mostrarono una indifferenza così poco ragionevole, come il tumultuoso loro entusiasmo lo fu. Nell'undecimo secolo, un frate fanatico avea saputo spingere tutta l'Europa contro dell'Asia per liberare il Santo Sepolcro; nel decimoquinto i più possenti motivi di politica e di religione non bastarono ad unire i Latini per la comune difesa della Cristianità. Certamente l'Alemagna potea dirsi un ricettacolo non mai vôto di armi e di soldati[18]; ma per mettere in moto questo corpo composto di parti eterogenee, e languenti, vi sarebbe voluto l'impulso di una mano ferma e vigorosa, ben diversa da quella del debole Federico III, che non godea d'alcuna prevalenza come Sovrano, nè d'alcuna considerazione alla persona di lui tributata. Una lunga serie di combattimenti avea stremate le forze della Francia e dell'Inghilterra senza por termine alle loro nimistà[19]. Ma il Duca di Borgogna, Principe vano e fastoso, si fece, immune da spese e pericoli, un merito della opportuna pietà de' suoi sudditi, che sopra una ben guernita flotta veleggiarono dalle coste della Fiandra a quelle dell'Ellesponto. Le Repubbliche di Genova e di Venezia, per situazione di lido, meno estranee al teatro della guerra, unirono sotto lo stendardo di S. Pietro le loro armate. I Regni della Polonia e della Ungheria, che coprivano, per così esprimermi, le barriere interne della Chiesa latina, avevano il maggior interesse ad impedire i progressi dei Turchi. Essendo l'armi il retaggio dei Sarmati e degli Sciti, parea che queste nazioni sarebbero state le più atte a sostenere simile guerra, se volto avessero contra il comune nemico le militari forze che nelle loro discordie civili si distruggevano. Ma un medesimo spirito le rendeva incapaci d'accordo e di obbedienza; troppo povero il paese, troppo debole il Monarca per armare un esercito regolare, le bande di cavalleria ungarese e polacca difettavano d'armi e di que' sentimenti che in alcune occasioni prestavano una forza invincibile alla francese cavalleria. Pur da questa banda i disegni d'Eugenio e l'eloquenza del suo Legato, il Cardinale Giuliano, trovarono appoggio in un accordo di favorevoli circostanze[20]; l'unione di due corone sul capo di Ladislao[21], giovane, ambizioso e guerriero; e il valor d'un eroe Giovanni Uniade, il cui nome, già famoso fra i Cristiani, era formidabile ai Turchi. Ivi largheggiò il Legato d'un tesoro inesausto d'indulgenze e di perdoni; laonde molta mano di guerrieri alemanni e francesi essendosi arrolati sotto la sacra bandiera, nuovi confederati dell'Europa e dell'Asia rendettero, o fecero parere alquanto più formidabile la Crociata. Un fuggiasco despota della Servia esagerò le strettezze e il guerriero ardore de' Cristiani che abitavano l'opposta riva del Danubio; «questi avevano, al dir di lui, risoluto di difendere la propria religione e la propria libertà. L'Imperatore greco[22] con un coraggio ignoto ai suoi maggiori, assumendosi di custodire il Bosforo, promettea uscire di Costantinopoli a capo delle sue truppe e mercenarie e native. Intanto il Sultano di Caramania[23] mandava avviso della ritirata di Amurat che affari più incalzanti chiamavano nella Natolia; e se le flotte occidentali avessero potuto nel tempo medesimo occupare lo stretto dell'Ellesponto, la Monarchia ottomana sarebbesi veduta inevitabilmente smembrata e distrutta. Il Cielo e la terra dovevano senza dubbio arridere ad un'impresa che avea per iscopo la distruzione de' miscredenti»; nè il Cardinal Legato si stette dal divulgare in termini prudentemente equivoci la voce di un soccorso invisibile del figliuol di Dio e della sua Santa Madre.
La guerra santa essendo già il grido unanime delle Diete di Polonia e d'Ungheria, Ladislao, dopo avere varcato il Danubio, condusse l'esercito de' suoi sudditi e confederati fino a Sofia capitale de' Bulgari; nella quale spedizione riportarono due segnalate vittorie che vennero giustamente attribuite al valore e alla condotta di Uniade. Nel primo fatto d'armi, questi comandava un antiguardo di diecimila uomini, coi quali il campo turco sorprese; nel secondo, a malgrado del doppio svantaggio e di terreno, e di numero, sconfisse e fe' prigioniero il più famoso fra i Generali ottomani. La vicinanza del verno e gli ostacoli naturali e artificiali opposti dal monte Emo, fermarono questo Eroe, che sei giorni di cammino avrebbero potuto condurre dalle falde delle montagne alle nemiche torri di Andrinopoli, ovvero alla capitale amica del greco Impero. Si ritirò in buon ordine; e l'ingresso del suo esercito entro le mura di Buda presentò ad un tempo l'aspetto di un trionfo militare e di una procession religiosa, nella quale il Re accompagnato da' suoi guerrieri seguiva a piedi una doppia schiera di Ecclesiastici. Ivi librati in giusta lance i meriti e i riguardi che alle due nazioni belligeranti eran dovuti, l'umiltà cristiana temperò l'orgoglio della conquista. Tredici Pascià, nove stendardi, e quattromila prigionieri attestavano incontrastabilmente la vittoria degli Ungaresi, e i Crociati, nella cui parola tutti credeano, niuno essendovi presente per contraddirla, moltiplicarono senza scrupolo le miriadi di Ottomani lasciati morti sul campo della battaglia[24]. La più indubitata prova dei buoni successi de' Cristiani si stette nelle vantaggiose conseguenze di questa campale stagione; perchè giunse a Buda una deputazione del Divano incaricata di sollecitare la pace, di riscattare i prigionieri e di fare sgomberare la Servia e l'Ungheria. Mercè un tale Trattato conchiuso nella Dieta di Seghedino, il Re, il Despota, e Uniade, ottennero tutti i vantaggi pubblici e particolari cui poteano ragionevolmente aspettarsi. Una tregua di dieci anni fu pattuita; sull'Evangelio i discepoli di Gesù Cristo, sul Corano i seguaci di Maometto giurarono, invocando e gli uni e gli altri il nome di Dio[25], come proteggitore della verità e punitore dello spergiuro. Avendo gli Ambasciatori turchi posto che nella solennità del giuramento da darsi si sostituisse all'Evangelio l'Eucaristia[26], cioè la presenza reale del Dio de' Cattolici, i Cristiani nol vollero per non profanare i lor santi misteri. Una coscienza superstiziosa si crede meno legata dal giuramento in sè stesso che dalle forme esterne e visibili usate a fine di convalidarla[27].
A. D. 1444
Durante questa negoziazione, il Cardinale che la disapprovava ed era troppo debole per opporsi egli solo alla volontà del popolo e del Monarca, si stette in un cupo silenzio; ma sciolta non era per anche la Dieta, allorchè un messo gli portò avviso, che il Caramano era entrato nella Natolia; invasa dall'Imperator greco la Tracia; l'Ellesponto occupato dalle flotte di Venezia, di Genova e di Borgogna; i confederati consapevoli della vittoria di Ladislao, ignari del negoziato, impazienti di unire il proprio all'esercito degli Ungaresi. «In questo modo adunque (sclamò il Cardinale, inorgoglito dalle felici novelle),[28] deluderete le loro speranze e lascierete andar la fortuna? ad essi, al vostro Dio, e ai Cristiani vostri fratelli obbligaste la vostra fede; questo primo obbligo annulla un giuramento imprudente e sacrilego che avete fatto ai nemici di Gesù Cristo, del quale il Papa in questo Mondo è Vicario. Voi non potevate legittimamente nè promettere, nè operare senza la sanzione del Pontefice. In nome di lui santifico le vostre armi e vi sciolgo dall'essere spergiuri. Seguitemi per tanto nel cammino della gloria e della salute; e se vi rimane ancor qualche scrupolo, rovesciatene sopra di me la colpa e il gastigo». L'incostanza, indivisibile mai sempre dalle popolari assemblee, e il sacro carattere del Legato avendo rinvigoriti questi funesti argomenti, fu risoluta la guerra in quel luogo medesimo ove dianzi era stata giurata la pace; e quasi adempiessero il Trattato, i Cristiani assalirono i Turchi, che poterono allora con più giustificato motivo chiamarli infedeli. Le massime di quella età palliarono lo spergiuro di Ladislao, del quale avrebbero fatta in allora compiuta scusa il buon esito e la liberazione della Chiesa latina; ma quel Trattato medesimo che dovea legare la sua coscienza, lo aveva diminuito di forze. I volontari alemanni e francesi, appena udito promulgare la pace, si erano ritirati con indignazione. I Polacchi erano stanchi di continuare in una spedizione sì lontana dai loro paesi, e malcontenti fors'anche di obbedire a Capi stranieri; onde i Palatini si affrettarono a valersi della permissione avuta per tornare nelle proprie province o castella. I dispareri s'introdussero fra gli stessi Ungaresi, ned è inverisimile che una parte di questi fosse da lodevoli scrupoli trattenuta; in somma gli avanzi di Crociata che alla seconda spedizione si accinsero, si riducevano all'insufficiente numero di ventimila uomini. Un Capo de' Valacchi che raggiunse co' suoi vassalli l'esercito reale, non mancò d'avvertire, che da altrettanto numero d'uomini si facea accompagnare il Sultano sol per andare alla caccia; e presentando Ladislao di due corridori straordinariamente veloci, additò qual esito augurasse di tale impresa; nondimeno questo despota di Servia, dopo avere ricuperato il regno e riavuti i suoi figli, fu sedotto dalla promessa di nuovi possedimenti. L'inesperienza di Ladislao, l'entusiasmo del Legato e persino la persecuzione del valoroso Uniade, persuasero facilmente all'esercito che tutti gli ostacoli doveano cedere alla possanza invincibile della Croce e della spada. Attraversato il Danubio, si trovarono fra due strade diverse che poteano parimente condurli a Costantinopoli e all'Ellesponto. L'una retta, ma ardua e scoscesa, e per mezzo alle gole del monte Emo; l'altra più tortuosa, ma altrettanto più sicura che conducea per mezzo a pianure, e lungo le coste del Mar Nero, e tenendo la quale le truppe aveano sempre difeso il fianco, giusta il costume degli Sciti, dalle mobili trincee de' lor carriaggi. Questa via di fatto giudiziosamente preferirono. L'esercito cattolico passò per mezzo dell'Ungheria ardendo e saccheggiando senza misericordia le chiese e i villaggi de' Cristiani del paese; indi mise ultimo campo a Varna, paese situato in riva al mare, e il nome del quale è divenuto celebre per la sconfitta e la morte di Ladislao[29].
A. D. 1444
Erano su questo campo funesto i Cristiani allorchè invece di trovare la flotta che secondar dovea le loro fazioni, seppero che Amurat, abbandonata la sua solitudine di Magnesia, veniva con tutte le forze dell'Asia a sostenere le proprie conquiste in Europa. Alcuni Storici pretendono che l'Imperator greco intimorito o sedotto gli avesse dato libero il passo del Bosforo; e l'Ammiraglio genovese, cattolico e nipote del Papa, non è riuscito a scolparsi dell'accusa di aver consegnata, vinto dai doni, la guardia dell'Ellesponto. Da Andrinopoli il Sultano, forzando il cammino, si trasse fino a veggente dei Cristiani con un esercito di sessantamila uomini; talchè quando Uniade e il Legato ebbero scorto da vicino l'ordine e il numero dei turchi combattenti, questi guerrieri dianzi sì fervidi, proposero una ritirata che in quel momento non si potea più eseguire. Il solo Re si mostrò risoluto alla vittoria o alla morte. Generosa deliberazione che per poco dal trionfo non fu coronata. I due Monarchi combatteano nel centro, l'uno a fronte dell'altro, e i Beglerbegs, o Generali della Natolia e della Romania, comandavano la diritta e la sinistra rimpetto alle soldatesche d'Uniade e del despota. Dopo il primo impeto, le ali dell'esercito turco furono rotte, vantaggio che, in disastro si convertì; perchè nel loro ardor d'inseguire, i vincitori avendo oltrepassato l'esercito de' nemici, privarono i lor compagni di un necessario soccorso. Nel primo istante che Amurat vide i suoi squadroni prender la fuga, disperò della fortuna sua e dell'Impero; e stava per seguirla, quando un giannizzero veterano lo fermò per la briglia del suo cavallo; il Sultano ebbe la generosità di perdonare e anzi concedere un premio al soldato che, accortosi del terror del Monarca, ardì impedirgli la fuga. I Turchi portavano esposto a capo dell'esercito il Trattato di pace, monumento della cristiana perfidia, e aggiugnesi che il Sultano volgendo i suoi sguardi al Cielo implorasse la protezione del Dio di verità, chiedendo inoltre al Profeta Gesù Cristo che vendicasse questo empio scherno del suo nome e della sua religione[30]. Con un corpo inferiore di numero e a malgrado del disordine delle sue file, Ladislao si lanciò coraggioso sugl'inimici, addentrandosi fino in mezzo alla falange quasi impenetrabile dei giannizzeri. Allora Amurat, avendo ferito d'un dardo, se prestiamo fede agli Annali ottomani, il cavallo del Re d'Ungheria[31], Ladislao cadde sotto le lancie dell'infanteria, e un soldato turco con forte voce esclamò: «Ungaresi, ecco la testa del vostro Re» e la morte di Ladislao divenne il segnale della sconfitta de' Cristiani; e tardo fu il soccorso di Uniade, che, tornando addietro dopo avere inseguito imprudentemente il nemico, deplorò il suo errore e la pubblica calamità; vani ne riuscirono gli sforzi per ritirare il corpo del Re, calpestato dai vincitori e dai vinti che insieme si confondevano, onde le ultime prove del coraggio e della abilità di Uniade si adoperarono a salvare gli avanzi della sua cavalleria valacca. La fatal giornata di Warna costò la vita a diecimila Cristiani, e ad un numero molto maggiore di Turchi, ma che, atteso il loro numero, sì grande non compariva. Cionnullameno il Sultano filosofo non ebbe vergogna di confessare che una seconda vittoria simile a quella avrebbe avuta per conseguenza la distruzione del vincitore. Fece innalzare una colonna sul luogo ove Ladislao cadde morto; ma la modesta iscrizione scolpita su quel monumento celebrava il valore e deplorava la sventura del giovane Re, senza far cenno della sconsigliatezza con cui se la procacciò[32].
Non so risolvermi ad abbandonare il campo di Warna senza offrire ai leggitori un saggio del carattere e della Storia de' due primarj personaggi di questa impresa, Giovanni Uniade, e il Cardinale Giuliano. Giuliano Cesarini[33], uscito di nobile famiglia romana, avea fatti i suoi principali studj sull'erudizion de' Greci e de' Latini, e possedè tal pieghevolezza d'ingegno, per cui comparve splendidamente nelle scuole, alla Corte, e ne' campi. Vestita appena la porpora romana, ebbe l'incarico di trasferirsi in Alemagna, per chiedere all'Impero un soccorso d'armi contra i ribelli e gli eretici della Boemia. La persecuzione è indegna d'un Cristiano; la professione dell'armi non si addice ad un Sacerdote; ma le costumanze de' tempi scusavano la prima, e Giuliano nobilitò l'altra colla intrepidezza che mostrò rimanendo solo ed impavido in mezzo alla vergognosa sconfitta degli Alemanni. Come Legato del Pontefice aperse il Concilio di Basilea, ma Presidente di questa adunanza, si diè ben tosto a divedere campione zelantissimo dell'ecclesiastica libertà, e sostenne sette anni, con zelo ed intelligenza, l'opposizione mossa alle pretensioni pontificie. Autore de' più vigorosi espedienti che vennero presi contro l'autorità è la persona d'Eugenio, cedè indi ad alcuni motivi segreti d'interesse e di coscienza, per cui abbandonò all'impensata la fazion popolare. Ritiratosi da Basilea a Ferrara, intervenne nelle discussioni che agitarono i Greci e i Latini, ed entrambe le nazioni furono costrette ad ammirare la saggezza de' suoi argomenti e la profondità della sua teologica erudizione[34]. Vedemmo nell'ambasciata d'Ungheria quai fossero i funesti effetti degli eloquenti sofismi di questo Prelato; ma ne cadde ancor prima vittima, morto nella sconfitta di Warna, mentre accoppiava gli uffizj del Sacerdozio a quei della guerra. Le circostanze della sua morte vengono narrate in varie guise; ma l'opinion generale è che l'oro di cui andava carico, oltre al ritardarne la fuga, seducesse la barbara rapacità di alcuni fuggitivi Cristiani.
Da oscura origine, o almeno dubbiosa, Uniade si era innalzato per merito al comando degli eserciti dell'Ungheria. Valacco erane il padre, greca la madre; ed è possibile che la sua stirpe, ignota, derivasse dagli Imperatori di Costantinopoli. Le pretensioni de' Valacchi e il soprannome di Corvino, venutogli dal luogo ove nacque, potrebbero anche somministrare pretesti per attribuirgli qualche consanguinità co' patrizj dell'antica Roma[35]. Giovane ei fece le guerre d'Italia, e fu tra i dodici Cavalieri che tenne cattivi il Vescovo di Zagrado. Sotto nome di Cavalier Bianco[36], si acquistò splendida rinomanza, aumentatisi inoltre, il suo patrimonio per nobili e ricche nozze contratte, e la sua gloria per avere difese le frontiere dell'Ungheria, e riportate in un medesimo anno tre vittorie sugli Ottomani. Solo in virtù del credito di cui Uniade godeva, Ladislao di Polonia ottenne l'ungarese Corona; servigio importante di cui gli divennero ricompenso il titolo e l'ufizio di Vevoda della Transilvania. Due lauri alla sua corona militare aggiunse la prima Crociata di Giuliano, e, in mezzo ai comuni disastri, essendosi dimenticato il fatale errore ch'ei commise a Warna, fu nominato Generale e Governatore della Ungheria, durante l'assenza e la minorità di Ladislao III, Re titolare di questo Stato. Ne' primi momenti il timore impose silenzio all'invidia; indi un regno di dodici anni provò che ai meriti del guerriero univa quelli ancor del politico. Cionnullameno, esaminando più d'appresso le imprese sue militari, non ci dimostrano queste in Uniade un Generale che espertissimo potesse dirsi. Il Cavalier Bianco mostrò nell'armi più valor di braccio che di mente, e combattè qual Capo di una banda di Barbari indisciplinati, che assalgono senza timore, nè poi si vergognano di fuggire. La vita militare di Uniade offre una romanzesca vicenda di vittorie e disastri. I Turchi che del nome di lui si valeano per far paura agl'indocili fanciulli, lo chiamavano corrottamente jancus laïn, o il maladetto; odio che dava a divedere quanto lo apprezzassero. Non riuscì mai loro di penetrare nel Regno finchè Uniade lo difese; e allorquando speravano vedere inevitabilmente perduti e lui e la sua patria, Uniade apparve formidabile più di prima. Anzichè limitarsi ad una guerra di difesa, quattro anni dopo la rotta di Warna, ei si spinse una seconda volta nel cuore della Bulgaria, resistendo fino al terzo giorno agli sforzi d'un esercito ottomano quadruplo di quello che egli comandava. Abbandonato da' suoi, questo Eroe fuggiva solo per mezzo ai boschi della Valachia, allorquando il fermarono due masnadieri. Ma intantochè coloro si disputavano una catena d'oro che gli pendeva dal collo, ei riprese la spada uccidendo un d'essi, fugando l'altro. Dopo avere esposta a nuovi cimenti la vita e la libertà, riconfortò finalmente colla sua presenza un popolo afflitto. Belgrado difesa contra tutte le forze ottomane comandate da Maometto II (A. D. 1456), fu l'ultima impresa e la più gloriosa della sua vita. Durò quaranta giorni quell'assedio, e i Turchi erano pervenuti fino alla città, quando Uniade li costrinse a ritirarsi, onde le nazioni giubilanti confusero i nomi di Uniade e di Belgrado, intitolandoli i baloardi della Cristianità[37]. Ma questa famosa liberazione venne seguìta circa un mese dopo, dalla morte di quello che la operò; e può riguardarsi come luminosissimo epitafio di Uniade il rincrescimento espresso dal Sultano Maometto, perchè questa morte gli togliea la speranza di vendicarsi del solo nemico che lo avea vinto. Appena rimase vacante il trono dell'Ungheria, grato quel popolo alla memoria del suo benefattore, coronò il figlio di lui, Mattia Corvino, in età allora di diciotto anni. Ebbe questi un lungo e prospero regno, ed aspirò alla gloria di Santo e di conquistatore; ma il merito che più certa gloria gli partorì si fu l'incoraggiamento dato alle scienze, onde la stessa fama di Uniade ha dovuto il suo più grande splendore all'eloquenza degli Oratori e degli Storici latini, che il figlio di lui chiamò dall'Italia[38].
A. D. 1404-1413
Nel catalogo degli Eroi sogliono d'ordinario vedersi uniti i nomi di Giovanni Uniade e di Scanderbeg[39]; e veramente sono meritevoli della contemporanea nostra attenzione, per avere entrambi date tai brighe all'Impero ottomano, che può dirsi essere stata differita per essi la rovina del greco Impero. Giovanni Castriotto, padre di Scanderbeg, Sovrano ereditario[40] di una piccola Signoria dell'Epiro, o della Albania, posta fra le montagne e il mare Adriatico, vedendosi troppo debole per resistere al poter del Sultano, comperò la pace col sottomettersi alla sgradevole condizione di tributario. Diede per ostaggi, o mallevadori, i suoi quattro figli, che vennero circoncisi, educati nell'Islamismo, nella politica e nelle discipline de' Turchi[41]. I tre figli maggiori rimasti confusi tra la folla degli schiavi, perirono, dicesi, di veleno; ma la Storia non somministra prove che ci mettano in istato di ricusare, o ammettere una siffatta imputazione; sembra per altro improbabile per chi faccia attenzione alle cure e alle sollecitudini colle quali venne allevato Giorgio Castriotto, il quartogenito dei giovani Principi albanesi, che diede a divedere fin dalla più verde età il vigore e l'intrepido animo di un soldato. Tre vittorie successive da lui riportate sopra un Tartaro e due Persiani che aveano sfidati i guerrieri della Corte ottomana, gli meritarono il favore di Amurat, e il nome turco di Scanderbeg, Iskender Beg, ossia Alessandro Signore, attesta ad un tempo la gloria e la servitù del giovine Castriotto. Benchè il Principato del padre suo venisse ridotto in turca provincia, gli furono conceduti in ricompensa il titolo e il grado di Sangiacco, il comando di cinquemila uomini a cavallo, e tale condizione che prometteagli le prime Dignità dello Impero. Militò con onore nelle guerre dell'Europa e dell'Asia; nè possiamo starci dal sorridere sullo artifizio, o la credulità dello Storico, che pretende avere Scanderbeg, in tutti gli scontri, risparmiati i Cristiani, scagliandosi poi a guisa di folgore sopra tutti que' nemici che professavano la religione maomettana. — La gloria di Uniade è scevra di taccia; combattè questi per la sua patria e per la sua religione; e gli stessi nemici, che dovettero lodare i meriti del valoroso Ungarese, non risparmiarono al rivale di Uniade gli epiteti ignominiosi di traditore e di apostata. Agli occhi de' Cristiani la ribellione di Scanderbeg trova scusa ne' torti che il padre di lui aveva ricevuti, nella morte, sospetta, de' tre fratelli, nella schiavitù della patria e persino nell'invilimento cui si volea farlo soggiacere. Questi ammirano lo zelo generoso, benchè venuto tardi, con cui Scanderbeg difese la Fede e la independenza de' suoi antenati; ma, dall'età di nove anni, questo guerriero professava la dottrina del Corano, nè conoscea l'Evangelio. L'autorità e la consuetudine decidono della religion di un soldato, e ci sarebbe assai difficile lo spiegare come una nuove luce sopravvenisse a rischiararlo in età di quarant'anni[42]. Men sospetti d'interesse, o di vendetta, ci parrebbero i motivi che guidarono l'Albanese, se avesse infrante le catene nei primi istanti che ne sentì il peso; ma una sì lunga dimenticanza de' suoi diritti, gli avea non v'ha dubbio scemati; ed ogni anno di sommessione e di ricevuti premj, afforzava i mutui vincoli che univano insieme il Sultano ed il suddito. Se Scanderbeg, convertito alla Fede cristiana, meditava da lungo tempo il disegno di ribellarsi contra il proprio benefattore, qual'anima timorata potrà lodare una vile dissimulazione di cui si valeva per meglio tradire le promesse, che erano altrettanti spergiuri, e strumenti operosi alla rovina temporale e spirituale di tante migliaia d'uomini cui si protestava fratello? Scuseremo noi la corrispondenza segreta che, comandando l'antiguardo ottomano, egli mantenea con Uniade? O l'avere abbandonati gli stendardi, e tolta per tradimento la vittoria di mano al suo protettore? In mezzo alla confusione prodotta da una sconfitta, Scanderbeg seguì cogli occhi il Reis Effendi, o Segretario principale, e raggiuntolo, gli presentò un pugnale al petto costringendolo a scrivergli un firmano o chirografo di Governatore dell'Albania; indi temendo nocevole ai suoi disegni una troppo pronta scoperta, fece trucidare con tutto il seguito l'innocente complice del suo inganno. Traendosi dietro alcuni venturieri istrutti di questo disegno, si trasportò in fretta e col favore delle tenebre dal campo della battaglia ai suoi paterni dirupi. Alla vista del Firmano, Croia gli aperse le porte; e appena si vide padrone della Fortezza, svestì la maschera della dissimulazione, e abbiurata pubblicamente la Fede al Profeta e l'obbedienza al Sultano de' Turchi, si chiarì vendicatore della propria famiglia e del proprio paese. I nomi di religione e di libertà suscitarono una generale sommossa; la guerriera stirpe degli Albanesi giurò unanimemente di vivere e di morire col suo principe ereditario, nè alle guernigioni ottomane rimase altra scelta che del battesimo o del martirio. Convocatisi gli Stati dell'Epiro, Scanderbeg fu eletto condottiero della guerra contro i Turchi, obbligandosi tutti i confederati a somministrare il loro contingente in combattenti e soldati. Queste contribuzioni, le entrate de' suoi dominj, e le ricche saline di Selina, procurarono a Scanderbeg un'annuale rendita di dugentomila ducati[43], che egli, non distraendone alcuna parte ne' bisogni di lusso, per intero impiegò al pubblico servigio. Affabile ne' modi, nella disciplina severo, bandì dal suo campo tutti i vizj che avrebbero ammollito il coraggio de' suoi, e col dar esempio di pazienza, mantenne la sua autorità. Da esso condotti gli Albanesi, si credettero invincibili, e tali ai nemici sembrarono. Tratti dallo splendor di sua fama, i più prodi venturieri francesi e alemanni corsero sotto le sue bandiere, e vi furono ben accolti. Le sue truppe ordinarie sommavano ad ottomila uomini a cavallo e a settemila fanti: piccoli i cavalli, solerti i guerrieri; fu abilissimo nel calcolare i rischi e i vantaggi che le sue montagne offerivano; accese torcie additavano i siti pericolosi; tutta la nazione veniva distribuita ne' posti inaccessibili. Con queste impari forze, Scanderbeg resistè per ventitre anni a tutta la possanza dell'Impero ottomano, e due conquistatori, Amurat II, e il figlio di Amurat, più grandi del padre, trovarono sempre mala fortuna contro un ribelle che perseguivano con simulato disprezzo e con astio implacabile. Amurat, entrato nell'Albania a capo di sessantamila uomini a cavallo e di quarantamila giannizzeri, potè, non v'ha dubbio, devastar le campagne, occupare le città aperte, trasformare le chiese in moschee, circoncidere i giovanetti cristiani, immolare i prigionieri inviolabilmente fermi nella loro religione; ma le sue conquiste si limitarono alla piccola Fortezza di Seftigrado, il cui presidio dopo avere durato costantemente contro tutti gli assalti, fu vinto da un grossolano artificio e dagli scrupoli della superstizione[44]. Ma dopo avere perduta molta gente dinanzi Croia, Fortezza e residenza de' Castriotti, fu costretto a levarne vergognosamente l'assedio, e difendersi sempre, e nell'andata e nella tornata, contro un nemico quasi invincibile che incessantemente lo tribolava[45]. Vuolsi che il cordoglio sofferto pel cattivo esito di una tale spedizione contribuisse ad accorciare i giorni del Sultano[46]. In mezzo alla gloria delle sue conquiste, nemmeno Maometto II potè trarsi questa spina dal seno, ridotto a permettere ai suoi Luogotenenti di negoziare una tregua; sotto i quali aspetti il Principe d'Albania merita di essere riguardato come un abile e zelante difensore della libertà della sua patria. L'entusiasmo della religione e della cavalleria hanno collocato il nome di Scanderbeg fra quelli di Alessandro e di Pirro, i quali certamente non vergognerebbero di un concittadino sì intrepido; ma la debolezza del suo potere, e la picciolezza dei suoi Stati, lo mettono ad una distanza ben segnalata dagli Eroi che trionfarono dell'Oriente e delle legioni romane. Appartiene ad una sana critica il librare su giuste lanci il racconto luminoso delle imprese di Scanderbeg, dei Pascià e degli eserciti vinti, dei tremila Turchi che di propria mano immolò. Nell'oscura solitudine dell'Epiro e contro un ignorante nemico, i biografi di Scanderbeg poterono permettere alla loro parzialità tutte quelle agevolezze che agli scrittori de' Romanzi sogliono essere concedute. Ma la Storia d'Italia gettò sulle loro finzioni il lume della verità. Che anzi ne insegnano eglino stessi a diffidare della sincerità delle loro relazioni, col racconto favoloso delle imprese di Scanderbeg, allor che questi passando il mare Adriatico a capo di ottocento uomini andò in soccorso del Re di Napoli[47]. Avrebbero potuto confessare senza offuscar per questo la gloria del loro Eroe, che fu finalmente costretto di cedere alla Potenza ottomana. Ridotto a stremo, chiese un asilo al Pontefice Pio V, e convien dire che tutte le speranze gli fossero mancate, perchè morì fuggitivo a Lissa, isola spettante alla Repubblica veneta[48]. Ne violarono indi il sepolcro i Turchi, impadronitisi di questo paese, ma la pratica superstiziosa de' giannizzeri che portavano le ossa di Scanderbeg incastrate, a guisa di reliquia, ne' lor braccialetti, era una tacita confessione del rispetto in cui tenevano il suo valore; anche la rovina dell'Albania che seguì immediatamente dopo la morte di Scanderbeg, è per esso un monumento di gloria: ma, se avesse giudiziosamente bilanciate le conseguenze della sommessione e della resistenza, un più generoso amante della sua patria rinunziava forse ad una lotta ineguale, il cui successo dalla vita e dalla morte di un uomo sol dependea. Probabilmente lo confortò la speranza, ragionevole benchè illusoria, che il Pontefice, il Re di Napoli e la Repubblica di Venezia si unirebbero in difesa di un popolo libero e cattolico, vero guardiano delle coste del mare Adriatico e dell'angusto intervallo che disgiunge dalla Italia la Grecia. Il figlio di Scanderbeg, ancora fanciullo, fu salvato dal disastro che il minacciava: i Castriotti[49] ottennero un Ducato nel Regno di Napoli, e il loro sangue si è trasfuso fino ai dì nostri nelle più ragguardevoli famiglie di questo Reame. Una colonia di fuggitivi albanesi ottenne possedimenti nella Calabria, ove conservano tuttavia la lingua e i costumi de' lor maggiori[50].
A. D. 1448-1453
Dopo avere trascorsa tanta parte dell'intervallo frapposto allo scadimento e alla caduta dell'Impero Romano, eccomi finalmente al Regno dell'ultimo di questi Imperatori di Costantinopoli che il nome e la maestà de' Cesari sì debolmente sostennero. Dopo la morte di Giovanni Paleologo, che sopravvisse circa quattro anni alla Crociata dell'Ungheria[51], la famiglia Imperiale, si trovò, per la morte di Andronico e la professione monastica di Isidoro, ridotta ai tre figli dell'Imperator Manuele, Costantino, Demetrio, e Tommaso. Il primo e l'ultimo di questi viveano in fondo della Morea, ma Demetrio padrone degli Stati di Selimbria, venuto era ne' sobborghi a capo di una fazione. Le sciagure della patria non aveano raffreddati gli ambiziosi disegni di cotest'uomo, che già avea turbata la pace dell'Impero cospirando coi Turchi e cogli Scismatici. Straordinaria e perfino sospetta fu la sollecitudine da lui posta nel dar tumulo all'Imperatore defunto; e a giustificare le sue pretensioni al trono, Demetrio si valse di un debole e vieto sofisma, adducendo che egli era il primogenito dei figli nati nella porpora, e in tempo che il padre regnava. Ma l'Imperatrice madre, il Senato e i soldati, il Clero e il popolo, chiarendosi unanimi pel successore legittimo, anche il Despota Tommaso, che casualmente, e ignaro della morte del padre, era tornato a Costantinopoli, sostenne con fervore i diritti del fratello suo Costantino. Venne immantinente spedito, quale Ambasciadore ad Andrinopoli, lo Storico Franza, che Amurat ricevè con onore, rimandandolo poscia carico di donativi; ma, in mezzo alla benevolente condiscendenza del Sovrano turco, trapelavano le sue pretensioni a riguardare il Greco, siccome vassallo, indizio della prossima caduta dell'Impero di Oriente. Coronato a Sparta da due illustri Deputati del Regno, Costantino partì in primavera dalla Morea, evitando lo scontro di una squadra turca; e giunto a Costantinopoli fra le acclamazioni de' sudditi, celebrò il suo avvenimento al trono con feste e con liberalità che impoverirono l'erario, o piuttosto condussero ad estremo termine la miseria dello Stato. Ceduto immantinente ai suoi fratelli il possedimento della Morea, i due Principi Demetrio e Tommaso si riconciliarono alla presenza della loro madre, con giuramenti ed amplessi, pegni mal fermi della fragile loro amicizia. L'Imperatore pensò indi a scegliersi una moglie, che gli venne additata nella figlia del veneto Doge; ma i Nobili di Bisanzo ponendo in campo la distanza che v'era fra un Monarca ereditario ed un Magistrato elettivo, lo indussero ad un rifiuto, di cui in appresso, ne' momenti più angustiosi di Costantinopoli non si dimenticò il Capo di una tanto poderosa Repubblica. Costantino stette perplesso fra le famiglie reali di Georgia e di Trebisonda. Le relazioni dell'ambasceria di Franza, o ne riguardino i pubblici ufizj, o la vita privata, ci dipingono gli ultimi momenti del greco Impero[52].
A. D. 1450-1452
Franza, Protovestiario, o gran Ciamberlano, partì da Costantinopoli munito dell'autorità Imperiale, e sfoggiando con tal pompa che a renderla luminosa furono adoperati gli ultimi avanzi delle ricchezze del Regno. Il suo numeroso corteggio era composto di Nobili, di guardie, di frati e di medici, cui venne aggiunta una brigata di musicanti; ambasceria dispendiosa che durò oltre a due anni. Al suo arrivo nella Georgia, o Iberia, gli abitanti delle città e de' villaggi si affoltarono attorno a questi stranieri, ed eran sì semplici che provavano grande diletto in udendo armoniosi suoni senza sapere da che derivassero. In mezzo a quella folla trovavasi un vecchio più che centenario, stato lungo tempo prigioniero de' Barbari[53], e che allettava i suoi uditori raccontando le maraviglie dell'India[54], dal qual paese per un mare incognito era tornato nel Portogallo[55]. Da questa ospite contrada, Franza continuò il suo viaggio fino a Trebisonda, ove dal Principe di quell'Impero intese la morte di Amurat recentemente seguìta. Anzichè allegrarsene, questo esperto politico fu preso da giusta tema che un Principe, giovane ed ambizioso, non rispetterebbe a lungo il sistema saggio e pacifico del padre suo. Dopo la morte del Sultano, Maria, vedova del medesimo[56], cristiana e figlia del despota della Servia, era stata onorevolmente ricondotta alla sua famiglia. Mosso dalla rinomanza della beltà e de' pregi di questa Principessa, l'Ambasciatore la riguardò come la più degna su di cui la scelta dell'Imperatore potesse cadere; al qual proposito, lo stesso Franza racconta e combatte tutte le obbiezioni che su di tal parentado insorgeano. «La maestà della porpora, egli dice, basta per nobilitare un disuguale connubio, l'ostacolo della parentela può togliersi mercè la dispensa della Chiesa e il pagamento di alcune elemosine; la specie di macchia contratta dalla Principessa maritandosi con un Turco, è tal circostanza, alla quale si è data sempre passata». Aggiunge Franza, che benchè l'avvenente Maria toccasse da vicino i cinquant'anni, potea nondimeno sperar tuttavia di dare un erede all'Impero. Costantino ben accolse questo consiglio, che il suo Ambasciatore gli fe' pervenire valendosi della prima nave che partiva da Trebisonda; ma le fazioni della Corte si opposero a tal maritaggio, che per altra parte la Sultana rendè impossibile, consacrando piamente il resto de' suoi giorni alla professione monastica. Ridotto alla prima alternativa, Franza preferì la Principessa di Georgia, il cui padre abbagliato da un parentado sì luminoso, non solamente non pose, giusta l'uso di sua nazione un prezzo alla figlia, ma di più la dotò di cinquantaseimila ducati e di cinquemila di assegnamento annuale[57]. Assicurò inoltre l'Ambasciatore che le sollecitudini di lui non anderebbero prive di guiderdone, e poichè Franza avea una figlia e un figlio che era stato adottato al fonte battesimale dall'Imperatore, il Georgiano promisegli che della figlia sarebbesi preso pensiero la futura Imperatrice di Costantinopoli. Tornato in patria il messaggero, Costantino confermò il Trattato imprimendo di sua mano tre croci rosse sopra la bolla d'oro che lo guarentiva, e assicurando l'inviato del Principe di Georgia che, all'incominciare di primavera, le sue galee avrebbero salpato da Costantinopoli ai lidi georgiani, per condurgli da quelli la sposa. Conchiusa questa bisogna, l'Imperatore chiamò in disparte il fedele Franza, e usando seco lui i modi non della contegnosa benevolenza, ma di un amico sollecito di versare nel seno d'un altro amico, che dopo lunga lontananza rivede, i segreti affanni del proprio cuore, lo abbracciò, favellandogli in cotal guisa: «Dopo che ho perduti mia madre e Cantacuzeno, i quali soli mi consigliavano senza interesse o fini di passioni individuali[58], mi vedo attorniato d'uomini ai quali non posso concedere nè amicizia, nè confidenza, nè stima. Voi conoscete Luca Notaras, il grand'Ammiraglio; idolatra ostinato delle proprie idee, millanta per ogni dove ch'ei regola a piacer suo i miei pensieri e le mie azioni. Il rimanente de' cortigiani è guidato da spirito di parte, o da mire di personale vantaggio: sarò io dunque costretto, sopra cose di politica, o di nozze a non consultare che frati? Avrò d'uopo ancora per lungo tempo del vostro zelo e della vostra solerzia. In primavera, andrete a trovare uno de' miei fratelli per indurlo a sollecitare in persona i soccorsi delle Potenze dell'Occidente. Dalla Morea vi trasferirete a Cipro per eseguire una commissione segreta, e di lì nella Georgia, d'onde mi condurrete la sposa». — «I vostri comandi, o Sire, rispose Franza, non ammettono repliche; ma degnatevi pensare, gravemente sorridendo soggiunse, che se mi allontano sì spesso dalla mia famiglia, potrebbe venire a mia moglie la tentazione di cercarsi un altro marito, ovvero di farsi monaca». Dopo essersi alquanto scherzato su questi timori, l'Imperatore, assumendo un tuono più serio, assicurò il suo favorito, che lo allontanava per l'ultima volta, e che serbava al figlio di esso la mano della erede di un ricco ed illustre patrimonio, e allo stesso Franza il rilevante ufizio di Gran Logoteta, ossia di primario Ministro di Stato. Le nozze del figlio di Franza furono tosto concluse, ma quanto alla carica di Logoteta se l'era arrogata il Grande Ammiraglio, benchè questi due impieghi fossero incompatibili nel medesimo tempo. Fu d'uopo di una negoziazione, che durò qualche tempo, per ottenere, mediante un compenso, il consentimento di Notaras; e nondimeno la nomina di Franza non ebbe una assoluta pubblicità; tanto paventava l'Imperatore di inimicarsi questo audace e poderoso favorito. Fattisi durante il verno gli apparecchi dell'ambasceria, Franza deliberò di cogliere una tale opportunità per allontanare il proprio figlio, e collocarlo, ove meno imminenti pareano i pericoli, vale a dire nella Morea, presso i congiunti di sua madre. Questi erano i pubblici e privati divisamenti, che scompigliati ben tosto dalla guerra co' Turchi, sotto le rovine del greco Impero andaron sepolti.
CAPITOLO LXVIII.
Regno e carattere di Maometto II. Assedio e conquista definitiva di Costantinopoli fatta dai Turchi. Morte di Costantino Paleologo. Servitù de' Greci. Distruzione dell'Impero romano nell'Oriente. Atterrimento dell'Europa. Conquiste di Maometto II, sua morte.
L'assedio di Costantinopoli fatto dai Turchi, eccita primieramente i nostri sguardi e la nostra curiosità sul personaggio e sul carattere del possente distruttore di questo Impero[59]. Maometto II era figlio di Amurat II; la madre di lui, insignita de' titoli di Cristiana e di Principessa, trovossi verisimilmente confusa tra la folla delle tante concubine che venivano d'ogni paese a popolare lo harem del Sultano. Educato da prima nelle massime e ne' sentimenti d'un devoto seguace dell'Islamismo, finchè in lui durò questo fervore, non v'era volta in cui avesse toccate donne infedeli, che non si tergesse indi le mani e il volto colle abluzioni prescritte dalla legge. Ma sembra che, cogli anni e colla consuetudine di regnare, si ammollisse in lui la severità di così stretta osservanza; e l'animo ambizioso di questo principe, disdegnando riconoscere alcuna potestà maggior della sua, vuolsi che, in alcuni momenti di libertà, qualificasse senza riguardi il Profeta della Mecca coi predicati d'impostore e di masnadiero. Ma, agli occhi del pubblico, sempre mostratosi rispettoso alla dottrina e ai precetti del Corano[60], i suoi privati trascorsi non giunsero mai a saputa del popolo; però a tal proposito, non conviene prestar cieca fede alla credulità degli stranieri e de' settarj, ognor proclivi a pensare che uno spirito, recalcitrante alla verità, opponga poi all'errore e alle cose assurde un disprezzo ancor più invincibile. Addottrinato da abilissimi maestri, fece rapidi progressi nel corso degli studj che nel tempo della sua educazione gli vennero prescritti; assicurasi che egli parlasse o intendesse cinque lingue[61], l'araba, la persiana, la caldea o l'ebraica, la latina e la greca. Potea contribuire al suo diletto la persiana, alla sua edificazione l'araba; le quali due lingue d'ordinario tutti i giovani dell'Oriente imparavano. Attese le corrispondenze che trovavansi fra i Greci ed i Turchi, era naturale in lui il desiderio di conoscere la lingua d'una nazione ch'ei divisava di soggiogare: e doveva parimente essergli piacevole d'intendere gli encomj in versi, o in prosa latina[62], che all'orecchio gli pervenivano[63]; ma non intendiamo di qual giovamento potesse divenirgli, o qual merito raccomandasse alla sua politica il rozzo dialetto de' suoi schiavi ebrei. Famigliari erano ad esso la storia e la geografia, e ardea di nobile emulazione in leggendo le vite degli Eroi dell'Oriente e forse di quelli dell'Occidente[64]. I suoi studj di astrologia, poteano essere scusati dalle assurde massime di quel secolo, oltrechè questo studio, vano in sè stesso, suppone in chi lo professa alcuni principj di matematica; le generose sollecitazioni fatte ai pittori dell'Italia, perchè venissero a stare presso di lui, e le ricompense delle quali ai medesimi largheggiò, il palesarono acceso di un gusto profano per le belle arti[65]. Ma la religione e le lettere non pervennero a domare il suo carattere selvaggio ed impaziente di freno. Nè rammenterò già a questo proposito, perchè pochissima fede le presto io medesimo, la storia de' quattordici paggi fatti sventrare dinanzi a sè, per conoscere qual d'essi avesse mangiato un popone, nè l'altra leggenda della bella schiava da lui medesimo decollata per dare a divedere ai suoi giannizzeri che le donne non avrebbero mai soggiogato il loro padrone. Il silenzio degli Annali turchi che accusano di ubbriachezza soli tre Principi della dinastia ottomana[66], attesta la sobrietà di Maometto II; ma sono fuori di dubbio i suoi furori e l'inflessibilità delle sue passioni. Sembra dimostrato ad evidenza che, e nel campo, e nella reggia, lievissimi motivi lo indussero a versar torrenti di sangue, e che le sue inclinazioni, contrarie alla natura, arrecarono spessi oltraggi ai più nobili fra i suoi giovani prigionieri. Durante la guerra d'Albania, egli meditò le lezioni del padre, e ne superò di buon'ora la gloria, onde all'invincibile scimitarra di questo Sultano viene attribuita la conquista di due Imperi, di dodici Reami, e di dugento città, calcolo però falso e dalla sola adulazione instituito. Egli aveva indubitatamente tutte le prerogative di un soldato, e quelle fors'anche di un Generale: la presa di Costantinopoli suggellò la sua fama; ma ponendo in confronto le imprese, i soccorsi per eseguirle, e gli ostacoli, lo stesso Maometto II avrebbe dovuto rifiutar, vergognandone, l'adulazione di chi lo mettea al pari di Alessandro e di Timur. Le forze da lui guidate furono sempre superiori di numero a quelle dell'inimico, e nondimeno, le sue conquiste non si estesero al di là dell'Eufrate e del mare Adriatico, e nondimeno, ne interruppero il corso e Uniade, e Scanderbeg, e il Re di Persia, e i Cavalieri di Rodi.
A. D. 1451-1481
Sotto il regno di Amurat, Maometto gustò due volte i diletti del trono e due volte ne scese: la sua giovine età non gli permettea d'opporsi al ritorno del padre; ma non la perdonò più mai ai Visiri che questo salutare espediente aveano consigliato. Dopo avere sposata la figlia di un Emir turcomanno, e assistito alle feste che durarono due mesi, partì con sua moglie da Andrinopoli per Magnesia, ov'era la residenza del suo governo. In meno di sei settimane, lo richiamò un messaggio del Divano che annunziavagli la morte del padre, e la propensione che mostravano i giannizzeri a ribellarsi. Ma la rapidità del suo arrivo, e il vigore che ei dimostrò, li ricondussero tosto all'ubbidienza: attraversò l'Ellesponto con una scelta guardia, e alla distanza di un miglio da Andrinopoli, gli furono incontro, per prosternarsi ai suoi piedi, i Visiri e gli Emiri, gl'Imani e i Cadì, i soldati ed il popolo, che gioia e tenerezza ostentavano. Egli avea allora ventun anni, e allontanò ogni motivo di sedizione colla morte, indispensabile a' suoi fini, de' fratelli tuttavia fanciulli[67]. Vennero a congratularsi con esso, e a sollecitarne l'amicizia, gli Ambasciatori delle Potenze d'Asia e d'Europa, coi quali favellò in termini che additavano moderazione e pace. Ridestò fiducia nell'animo del greco Imperatore con solenne giuramento e lusinghevoli assicurazioni che andavano unite alla ratifica del Trattato stipulatosi dal padre suo coll'Impero; finalmente assegnò un ricco dominio, in riva allo Strimone, al pagamento annuale de' trecentomila aspri dovuti alla Corte di Bisanzo, che, per secondare le istanze del Sultano, custodiva un Principe della Casa ottomana. Ma i suoi confinanti dovettero palpitare in veggendo la severa austerità di questo giovane Monarca nel riformare il fasto della Casa imperiale. Le somme di danaro che da Amurat venivano consagrate al lusso, egli adoperò ai fini della sua ambizione. Licenziò, incorporandone una parte nel suo esercito, un reggimento di settemila falconieri; nella state di quel primo anno del suo regno, trascorse a capo delle sue soldatesche le province dell'Asia; e dopo avere umiliato l'orgoglio de' Caramani, ne accettò la sommessione, affinchè non gli dessero impaccio ad eseguire imprese di maggior conseguenza[68].
A. D. 1451
I Casisti musulmani, e soprattutto turchi, avean deciso non potere i Fedeli tenersi obbligati da una promessa contraria agl'interessi e ai doveri di lor religione, ed essere in facoltà del Sultano l'annullare i Trattati fatti da lui e da' suoi predecessori; privilegio immorale, che la giustizia e la magnanimità di Amurat avea disdegnato. Ma l'ambizione persuase al figlio di Amurat, il più orgoglioso di tutti gli uomini, la bassezza di discendere agli artifizj della dissimulazione e della perfidia. Colla pace sul labbro e colla guerra nel cuore, ei non pensava che ad impadronirsi di Costantinopoli, e a rompere co' Greci; i Greci stessi gliene somministrarono imprudentemente il pretesto[69]. I greci Ambasciatori, ai quali dovea parer ventura l'essere dimenticati, seguirono al campo il Principe turco per chiedergli il pagamento, anzi l'aumento della somma di danaro annuale ch'egli sborsava all'Impero di Bisanzo. Importunarono parimente con tale inchiesta il Divano; laonde il Visir, amico de' Cristiani in segreto, lor fece conoscere i sentimenti de' suoi colleghi e di Maometto. «Insensati e miserabili Romani, dicea Calil; noi conosciamo i vostri disegni, e voi non sapete il pericolo in cui vi state! Lo scrupoloso Amurat più non vive, e la sua Corona è passata sul capo di un giovane vincitore che alcuna legge non frena, che alcun ostacolo non può arrestare. Se vi scampate da lui, ringraziatene la divina bontà che differisce tuttavia il gastigo de' vostri peccati. Perchè volerci provocare in modo indiretto, e con vane minacce? Mettete in libertà il fuggitivo Orcano. Coronatelo Sultano della Romania. Chiamate gli Ungaresi dall'altra riva del Danubio, armate contro di noi le nazioni dell'Occidente, e siate sicuri esser questo il vero modo di fabbricarvi ed affrettarvi la vostra rovina». Ma se queste tremende parole del Visir spaventarono gli Ambasciatori, altrettanto li rincorarono l'umana accoglienza e gli affettuosi detti del Principe ottomano. Maometto promise loro che appena fosse di ritorno ad Andrinopoli, ascolterebbe le querele de' Greci, e si prenderebbe pensiero de' loro veri interessi. Poi, toccata appena l'altra riva dell'Ellesponto, abolì per prima cosa il pagamento annuale che solea farsi ai Greci, ordinando si scacciassero dalle rive dello Strimone tutti i loro impiegati. Date così a divedere le sue ostili intenzioni, non tardò un secondo decreto che minacciava assedio a Costantinopoli, e in tal qual modo incominciava a metterlo ad effetto. L'avolo di Maometto II avea sulla costa asiatica edificata una Fortezza che dominava il passaggio angusto del Bosforo. Ora il nipote risolvè di innalzarne una più formidabile di rincontro a questa sulla costa europea; laonde mille muratori ricevettero in primavera il comando di trovarsi in un paese detto Azomaton, situato ad una distanza circa di cinque miglia dalla Capitale dell'Impero greco[70]. L'eloquenza è l'espediente dei deboli; ma l'eloquenza dei deboli rare volte persuade, e gli Ambasciatori di Costantino adoperarono invano quest'arme per distorre Maometto dagli ideati divisamenti; ebbero bel rimostrare che l'avolo del Sultano, per fabbricare solamente una Fortezza nel proprio territorio, ne avea chiesta permissione all'Imperatore Manuele, nè trattavasi allora di una duplice fortificazione che rendesse i Turchi padroni dello Stretto, siccome questa, il cui fine non poteva essere se non se di rompere la lega fra le due nazioni, d'impedire il commercio de' Latini sul mar Nero, e fors'anche di affamare Costantinopoli. «Io non intraprendo nulla contro la vostra città, rispondea lo scaltrito Sultano, ma pensate che le sue mura sono il limite del vostro Impero. Vi siete forse dimenticati le strettezze in cui si trovò mio padre, quando vi collegaste cogli Ungaresi, quando questi invadeano dalla banda di terra il nostro territorio, e quando aprivate alle galee francesi l'ingresso dell'Ellesponto? Amurat dovette guadagnarsi colla forza il passaggio del Bosforo, e lo effettuò, perchè il poter vostro non corrispondeva alla vostra mala volontà. Mi ricordo che io, allora fanciullo, stavami ad Andrinopoli; quella volta i Musulmani tremarono, e i Gaburi[71] ci derisero per qualche tempo sulla nostra disgrazia. Ma quando mio padre riportò quella vittoria ne' campi di Warna, fece voto, sappiatelo, d'innalzare, per assicurarsi meglio, una Fortezza sulla riva occidentale; ed io devo mantenere i voti di mio padre: avete voi forse il diritto o la forza per impedirmi di far quel che voglio sul mio territorio? Perchè questo spazio di terra è mio, i possedimenti de' Turchi, in Asia, arrivano fino alle sponde del Bosforo; e quanto all'Europa i Romani l'hanno abbandonata. Tornate a casa vostra, e dite al vostro Re; che l'Ottomano presente è molto diverso dai suoi predecessori; che le sue risoluzioni oltrepassano tutto quanto quelli desiderarono; che egli fa più di quanto essi poteano risolvere. Partite, non vi verrà fatto alcun male; ma farò scorticar vivo il primo di voi che tornasse da me con un siffatto messaggio». Dopo una simile intimazione, Costantino, per valore e per grado il primo di tutti i Greci[72], avea risoluto di prender l'armi, e impedire che i Turchi si avvicinassero maggiormente, e sulla riva europea del Bosforo si stanziassero. Ma il rattennero i consigli de' suoi Ministri dell'Ordine civile ed ecclesiastico, che gli fecero abbracciare un men nobile e in uno men prudente sistema. Questi lo indussero ad opporre nuova pazienza a nuovi oltraggi, a lasciare agli Ottomani il biasimo di farsi i primi aggressori, ad affidare nella fortuna e nel tempo, così la loro difesa, come la distruzione di una Fortezza, che Maometto, i Consiglieri diceano, non potea conservar lungo tempo in vicinanza ad una vasta e popolosa Capitale. Tra le speranze de' creduli e i timori de' saggi, il verno trascorse, differendosi sempre di prendere provvedimenti che avrebbero dovuto stare a cuore di ciascun cittadino, nè lasciare a verun d'essi un istante sol di riposo. I Greci si accecarono sul pericolo che li minacciava, sintanto che il giungere di primavera e l'avvicinare di Maometto, li facesse certi della loro inevitabil rovina.
A. D. 1452
Rare volte vengono disobbediti gli ordini di un padrone che mai non perdona. Ai 26 di marzo, la pianura di Azomaton si vide coperta di uno sciame d'indefessi turchi operai, ai quali, e per terra e per mare, e dall'Europa e dall'Asia, venivano portati i materiali di cui abbisognavano[73]. Nella Catafrigia si preparava la calce; dalle foreste di Eraclea e di Nicomedia erano tratte le legna; gli scavi della Natolia somministravan le pietre. Ognuno dei mille muratori, aiutato da due manovali, aveva l'obbligo giornaliero di due cubiti di fabbrica. Datasi forma triangolare alla Fortezza[74], ciascun angolo di essa venne fiancheggiato da una grossa torre, la prima delle quali stava sul pendio della collina; le due altre occupavano le coste del mare. La grossezza delle mura era di ventidue piedi, di trenta il diametro delle torri; un saldo spianato di piombo formava il coperchio dell'edifizio. Maometto in persona sollecitava e con instancabile ardore regolava il lavoro; ciascuno dei tre Visiri volle per sè l'onore di avere terminata una delle tre torri; lo zelo de' Cadì con quello dei giannizzeri gareggiava; non v'era servigio, comunque triviale, che non venisse nobilitato dall'idea di servir Dio e il Sultano, e la solerzia della moltitudine animavano gli sguardi di un despota, il cui sorriso diveniva pronostico di felicità, un'occhiata severa, di morte. Atterrito l'Imperator greco in veggendo procedere un'opera ch'egli non era più in tempo di arrestare, cercò ma indarno, di ammollire con modi carezzevoli, e con donativi, l'animo d'un inesorabile nemico, che anzi desiderava e fomentava tutte le occasioni di venire ad aperta guerra; occasioni che non poteano più tardare ad offrirsi. Osservando alcuni Cristiani che gli avidi e sacrileghi Musulmani adoperavano, e certamente senza scrupolo, i frantumi di sontuose chiese poste in rovina, e perfino le colonne di marmo consagrate all'Arcangelo S. Michele, col volersi opporre, ricevettero la palma del martirio dalle mani stesse dei distruttori. Costantino avea chiesta una guardia turca che proteggesse i campi e i ricolti de' sudditi greci; e veramente Maometto questa guardia gli concedè, ma comandandole per prima cosa di lasciar pascolare liberamente i muli e i cavalli del campo, e di proteggere i Turchi contro i nativi, ogni qualvolta i secondi si avvisassero di assalire i primi. Accadde una notte che gli uomini del seguito d'un Capo ottomano aveano mandati i lor cavalli in mezzo a un campo di biade mature. Irritati i Greci dal danno, e più dall'insulto, vennero cogli Ottomani ad una rissa, in cui perirono parecchi individui dell'una e dell'altra nazione. Fu fatto su di ciò ricorso a Maometto, che n'ebbe massima gioia, cogliendo questa opportunità per inviar truppe che sterminassero gli abitanti di quel villaggio. I colpevoli, se tali poteano dirsi, s'erano dati alla fuga; ma quaranta agricoltori che, affidati alla propria innocenza, attendevano tranquillamente alla mietitura, caddero vittima delle scimitarre ottomane. Fino a quel momento, Costantinopoli ricevea fra le sue mura que' Turchi che per motivo di commercio, o di curiosità vi si traevano; ma a questo annunzio che accrebbe a dismisura il terrore, il Sovrano ordinò se ne chiudesser le porte; pure sempre lusingato dalla speranza di pace, mise liberi, il terzo giorno, i Turchi che vi si trovavan racchiusi[75], inviando a Maometto un ultimo messaggio, da cui traspirava la ferma rassegnazione di un cristiano e di un guerriero. «Poichè nè i giuramenti, nè i Trattati, nè la stessa sommessione possono assicurare la pace, egli scriveva al Sultano, prosegui gli atti della tua sacrilega nimistà. Solo in Dio è posta la mia speranza. Se gli piace di ammollire il tuo cuore, un sì felice cambiamento mi arrecherà gioia; se egli vuole che Costantinopoli sia tua, mi sottometterò senza lagnarmene ai suoi santi voleri. Ma fin che il Giudice de' Principi della Terra non avrà pronunziato fra noi, io devo vivere e morire difendendo il mio popolo». Maometto diè tal risposta che lo mostrava risoluto inesorabilmente alla guerra. Compiuto essendo e munito a dovere il novello Forte, vi pose un vigilante Agà, e quattrocento giannizzeri incaricati di sottoporre a tributo tutte le navi che, senza distinzion di paese, si trovassero a gittata delle nuove batterie; indi ritornò ad Andrinopoli. Una nave veneziana che ricusava obbedire ai nuovi dominatori del Bosforo, con un solo sparo di cannone fu mandata a fondo. Il capitano e trenta marinai si salvarono nel palischermo; ma condotti indi alla Porta carichi di catene, il loro condottiero venne impalato, eglino decollati: lo storico Duca narra di avere veduti a Demotica i loro corpi esposti alle belve[76]. L'assedio di Costantinopoli venne differito alla successiva primavera; intanto un esercito ottomano marciò nella Morea per dar faccende ai fratelli di Costantino. In questi calamitosi giorni (A. D. 1453), uno de' Principi Paleologhi, il despota Tommaso, ebbe la sorte, o il disastro di vedersi nascere un figlio. «Ultimo erede, dice l'afflitto Franza, dell'ultima scintilla dell'Impero romano[77] ».
I Greci ed i Turchi trascorsero il verno nella inquietudine e nell'ansietà; agitati i primi dal timore, fatti impazienti i secondi dalla speranza; e gli uni intesi agli apparecchi di difesa, gli altri a quelli d'assalto; ma più fortemente erano compresi da questi sentimenti, che per diverso motivo agitavano gli animi de' due popoli, i loro Imperatori, l'uno che temea di perder tutto, l'altro che ad acquistar tutto agognava; sentimenti che rendea più vivi in Maometto l'ardore della giovinezza e la violenza della sua indole. Intanto che impiegava l'ore di passatempo ad Andrinopoli[78] nel fabbricare il palagio Gehan Numa (la lanterna del Mondo), edifizio che ad altezza prodigiosa venne innalzato, i suoi pensieri non si dipartivano dal divisamento di conquistare la città de' Cesari. Alzatosi verso l'ora della seconda veglia della notte, mandò pel primo Visir; il messaggio e l'ora, l'indole del principe e i rimbrotti di una non innocente coscienza spaventavano non poco Calil-Baza, il quale, stato confidente di Amurat, fu anche tra coloro che consigliarono di richiamarlo al trono. Vero è che Maometto, all'atto di cingere la Corona, lo avea confermato nella carica di Visir colmandolo di apparenti favori; ma il vecchio Ministro non ignorava di camminare sopra un diaccio fragile e sdruccioloso, che potea rompersegli sotto i piedi, e in un abisso precipitarlo. L'affezione, forse innocente, dimostrata da questo Visir ai Cristiani gli avea, sotto il Regno trascorso, acquistato l'odievole nome di Gabur Ortascì, o di fratel balio degl'Infedeli[79]. Dominato dall'avarizia, mantenea col nemico una venale corrispondenza che fu scoperta e punita dopo la guerra. Nella notte in cui ricevè l'ordine di trasferirsi presso il Sultano, abbracciò la moglie e i figli, paventando di non più rivederli; indi riempiuto di piastre d'oro un calice, corse al palagio, ove prostratosi dinanzi a Maometto, gli offerse, giusta l'uso orientale, quell'oro, come lieve tributo e pegno di sommessione e di gratitudine[80]. «Non voglio, il Sultano gli disse, riprendermi quello che ti ho donato, ma piuttosto accumulare sul tuo capo nuove beneficenze. Però adesso pretendo da te un dono, che mi sarà più utile e che vale ben più del tuo oro; ti chiedo Costantinopoli». Riavutosi dalla sorpresa il Visir, gli rispose: «quel medesimo Dio che ti ha conceduto sì gran parte dell'Impero romano non te ne ricuserà la Capitale, e i pochi dominj che le vanno or congiunti. La Providenza dell'Altissimo e il tuo potere me ne assicurano; i tuoi fedeli schiavi ed io sagrificheremo i nostri giorni e i nostri averi per eseguire la tua volontà.» « Lala[81] (vale a dire mio precettore,) disse il Sultano, vedi tu quest'origliere? questa notte nelle mie agitazioni non ho fatto che mandarlo da una banda e dall'altra. Temi l'oro e l'argento dei Romani; del rimanente, noi vagliamo più di loro alla guerra, e, col soccorso di Dio e del Profeta, non tarderemo ad impadronirci di Costantinopoli.» Per indagar l'animo de' suoi soldati, ei trascorrea sovente le strade solo e travestito, nè era cosa priva di rischio l'aver riconosciuto il Sultano, quando agli occhi del volgo volea nascondersi. Molte ore d'ozio impiegava a delineare la pianta di Costantinopoli, a disputare co' suoi generali ed ingegneri sui luoghi ove conveniva innalzare le batterie, d'onde fosse meglio incominciare l'assalto, o dar fuoco alle mine, o applicare le scale. Durante il giorno, si provavano le fazioni e gli stratagemmi che il Sultano avea ideati la notte.
Nell'esaminare gli strumenti di distruzione, portava sollecita attenzione alla terribile scoperta fatta recentemente dai Latini, onde l'artiglieria di Maometto superò quella dell'altre nazioni d'allora. Un fonditor di cannoni, danese o ungarese, che trovava appena il suo vitto al servizio de' Greci, passò a quello de' Turchi, e largamente nel compensò il Sultano, rimasto contento fin dalla prima risposta che cotest'uomo erasi affrettato di dare ad una sua interrogazione. «Posso io avere un cannone fornito della forza di mandare una palla o un sasso che basti a rovesciare le mura di Costantinopoli?» — «Mi è nota, rispose il fonditore, la fortezza di queste mura, ma quand'anche fossero più salde di quelle di Babilonia, potrei metter contr'esse una macchina di tanto forte gittata che le buttasse a terra; sta poi a vedere, se i vostri ingegneri saprebbero appuntare e collocar questa macchina». Immediatamente, dopo una tale risposta, Maometto fece mettere una fonderia ad Andrinopoli; e provvedutosi quanto metallo a ciò abbisognava, in capo a tre mesi, il fonditore, che nomavasi Urbano, ebbe terminato un cannone di bronzo di una smisurata, e quasi incredibile grandezza. Il calibro era, dicesi, di dodici palmi, e lanciava una palla di pietra che oltre a sei quintali pesava[82]. Fu scelto dinanzi al nuovo palagio un vano di spianato per provare la nuova macchina; e affine di prevenire le infauste conseguenze del terrore che il primo sparo della medesima avrebbe incusso, venne avvertito il pubblico, un giorno prima di mettere il cannone in atto. Lo scoppio fu udito a una distanza di cento stadj all'intorno. Per trasportare questa macchina struggitrice, vennero congiunti insieme trenta carri, a tirare i quali sessanta buoi furono adoperati; dugento uomini stavano ad entrambi i lati, per mantenere in equilibrio e sostenere questa enorme massa, sempre in procinto di rotolarsi, or da una banda, or dall'altra; dugento cinquanta marraiuoli marciavano innanzi per agevolarle il passaggio e riparare le strade ed i ponti; onde fu d'uopo di due mesi circa di lavoro per far fare cencinquanta miglia alla macchina. Un arguto Filosofo[83] deride a tal proposito la greca credulità, giustamente osservando che non giova mai il fidarsi troppo alle esagerazioni de' vinti. Giusta il calcolo istituito dal medesimo, sol per lanciare con effetto alla distanza che fu presa una palla di due quintali, abbisognerebbe un quintale e mezzo di polvere; la qual massa non potendo in un tratto accendersi tutta, la palla uscirebbe, prima che il quindicesimo della polvere avesse preso fuoco, e sarebbe animata quindi da un minimo impulso. Ignorante, come confesso di esserlo in quest'arte struggitrice, aggiugnerò soltanto che la scienza dell'artigliere, di tanto migliorata ai dì nostri, preferisce il numero alla grossezza de' pezzi, la vivacità del fuoco allo strepito, o anche all'effetto di un solo scoppio. Nondimeno non ardisco rifiutare una testimonianza positiva ed unanime de' contemporanei, nè dee parere inverisimile che i primi fonditori, condotti, ne' loro sforzi, più dall'ambizione che dal sapere, tentassero ancora cose oltre al possibile. Però un cannone turco, più grande ancora, nelle dimensioni, del cannone di Maometto, custodisce tuttavia l'ingresso de' Dardanelli, e benchè ne sia incomodo l'uso, una recente prova ha dimostrato esserne tutt'altro che da disprezzarsi gli effetti. Tre quintali di polvere lanciarono lontano seicento tese un sasso pesante undici quintali; questo andò in tre pezzi, che attraversarono il canale lasciando il mare coperto di spuma, e percossero l'opposta collina, e con forza ne vennero rimbalzati[84].
A. D. 1453
Intanto che Maometto minacciava la Capitale dell'Oriente, l'Imperatore greco implorava con ferventi preci i soccorsi della terra e del Cielo; ma le potenze invisibili erano sorde alle sue supplicazioni, e la Cristianità vedea con indifferenza la caduta di Costantinopoli che non avea omai altra speranza di soccorso, fuorchè nella gelosia politica del Sultano d'Egitto. Fra gli Stati che avrebbero potuto soccorrere Costantinopoli, quali erano troppo deboli, quali troppo lontani; alcuni riguardavano immaginario il pericolo, altri inevitabile. I Principi dell'Occidente badavano soltanto alle interminabili querele che li disunivano; il Papa non sapea perdonare ai Greci la loro ostinazione, o doppiezza; ed anzi Nicolò V in vece di adoperare la sua mediazione perchè le armi e le ricchezze dell'Italia li favorissero, predisse la prossima lor distruzione; onde pel suo onore desiderava quasi l'adempimento di tal profezia.
Parve che provasse un istante di compassione allor che li vide al grado ultimo del disastro; ma questa compassione venne troppo tardi, e gli sforzi che produsse, mancando d'energia come di successo, Costantinopoli era già in mano de' Turchi, prima che le squadre di Genova e di Venezia uscissero dei loro porti per andarne in soccorso[85]; gli altri Principi, e persin quelli della Morea e delle isole della Grecia, si mantennero in una fredda neutralità: la colonia genovese dimorante a Galata negoziò a parte col Sultano, il quale non le tolse la lusinga che la sua clemenza le avrebbe permesso di sopravvivere alla rovina dell'Impero. Una gran parte di plebei, ed alcuni nobili abbandonarono da vili il loro paese, quando imminente era il pericolo; l'avarizia fece che i ricchi negassero all'Imperatore, e conservassero pei Turchi quelle ricchezze con cui poteano stipendiarsi più eserciti di mercenarj[86]. In tale stato d'invilimento e derelizione, Costantino si preparò nullameno a sostenere lo scontro col suo formidabil nemico, e per vero, il coraggio del Principe greco pareggiava i pericoli che gli sovrastavano; ma troppo minori erano le sue forze della lotta da sostenersi. Fin dai primi giorni di primavera, l'antiguardo turco, impadronitosi de' borghi e de' villaggi fino alle porte di Costantinopoli, concedea protezione e vita a quelli che si sommettevano; ma sterminava col ferro e col fuoco qualunque paese tentasse resistere. Mesembria, Acheloo e Bizon, città che sul mar Nero rimanevano ai Greci, si arrendettero alla prima intimazione. Unicamente Selimbria meritò l'onore di un assedio, o di un blocco, perchè i prodi suoi abitanti, intanto che erano stretti dal lato di terra, si posero in mare, corsero a devastar la costa di Cizico, e di ritorno, vendettero in mezzo alla pubblica piazza i prigionieri che in questa correria avevano fatti. Ma il silenzio, la sommessione furono generali all'arrivo di Maometto che pose il suo campo cinque miglia distante dalla Capitale del greco Impero, ed avanzatosi indi col suo esercito schierato in battaglia, collocò dinanzi alla Porta di S. Romano il proprio stendardo, dando incominciamento al memorabile assedio di Costantinopoli.
Le milizie europee ed asiatiche di Maometto teneano tutto lo spazio di destra e sinistra dalla Propontide al porto. I giannizzeri occupavano il fronte rimpetto alle tende di Maometto; una profonda fossa copriva le linee ottomane, e un corpo di Turchi a parte circondava il sobborgo di Galata, tenendosi in guardia contro la mal certa fede dei Genovesi. Filelfo, che, trent'anni prima dell'assedio dimorava in Grecia, fondandosi sopra dati accuratamente raccolti, assicura che le forze de' Turchi, tutte comprendendole senza eccezione, non poteano oltrepassare i sessantamila uomini di cavalleria e i ventimila di fanteria, rampognando alle nazioni cristiane la pusillanimità di essersi così docilmente sottomesse ad un pugno di Barbari. E per vero dire, se non si calcolassero che i Capiculi[87], soldati della Porta che andavano di conserva col Principe e dal suo erario venivano stipendiati, il loro numero doveva starsi all'incirca col calcolo di Filelfo; ma è da osservarsi che i Pascià mantenevano, o reclutavano una milizia provinciale a parte ne' proprj governi; che eranvi molti paesi soggetti ad una contribuzione militare; che per ultimo l'esca del bottino attraeva una grande moltitudine di volontarj sotto lo stendardo di Maometto; e lo squillo della sacra tromba, dovette condurvi uno sciame di fanatici affamati ed intrepidi, che, se altro non fosse, accrebbero lo spavento dei Greci e ne rintuzzarono al primo assalto le spade. Duca, Calcocondila, e Leonardo da Chio, fanno ascendere a trecento o quattrocentomila uomini l'esercito del Sultano; ma Franza, trovatosi in maggior vicinanza del campo, e meglio quindi in istato d'instituire le sue osservazioni, non contò più di dugencinquantottomila uomini, calcolo ragionevole che non oltrepassa nè i fatti che si sanno, nè i limiti della probabilità[88]. Men formidabile era la forza marinaresca degli assedianti; perchè comunque trecentoventi legni si stessero nell'acque della Propontide, solamente diciotto di questi meritavano di essere nominati navi da guerra, non consistendo quasi tutto il rimanente, se non se in piccioli navigli da trasporto, che versavano nel campo ottomano e uomini, e munizioni, e vettovaglie; e Costantinopoli, in questo suo stato di massima debolezza, contenea tuttavia più di centomila abitanti, che però tra i prigionieri, non fra i combattenti, fecero numero; operaj la maggior parte, preti, donne e uomini sforniti di quel coraggio, che talvolta per la comune salvezza le medesime donne hanno saputo mostrare. Comprendo, e sarei quasi proclive a scusare la renitenza di que' sudditi, che per obbedire alle voglie di un tiranno si vedono costretti a portar le armi in lontane contrade; ma colui che non ardisce cimentare la propria vita per difendere i propri averi ed i figli, ha perduta fra gli uomini i sentimenti più operosi e caratteristici dell'umana natura. Giusta un ordine dell'Imperatore, i suoi ufiziali si trasportarono in ciascun rione per prendere un registro di que' cittadini, non esclusi i frati, che fossero abili e pronti ad armarsi in difesa del loro paese; catalogo che fu rimesso a Franza[89] il quale, preso da dolore e confusione ad un tempo, portò l'annunzio al Sovrano, che tutto il numero dei difensori della nazione si riduceva a quattromila novecentosettanta Romani; infausta verità che Costantino e il suo fedele Ministro procurarono di tenere celata, intanto che venne tratto dall'arsenale un corrispondente numero di scudi, di balestre e di archibusi. Si aggiugnea il sussidio di duemila stranieri, comandati da Giovanni Giustiniani, Nobile genovese, al quale, oltre all'essere stata pagata anticipatamente e con generosità la sua soldatesca, venne promessa l'Isola di Lesbo in premio del suo valore e de' suoi buoni successi. Venne indi tirata dinanzi all'ingresso del Porto una grossa catena, cui difendevano alcune navi da guerra e mercantili, così greche come italiane, e furono trattenute pel servigio pubblico tutte le navi della Cristianità che, a mano a mano, giugneano dal mar Nero e dall'Isola di Candia. Dopo tutti questi provvedimenti, una Capitale di tredici, o forse sedici miglia di circonferenza, non poteva opporre a tutte le forze dell'Impero ottomano che una guarnigione di sette, o ottomila soldati. Stavano aperte agli assedianti l'Asia e l'Europa, mentre le forze e i viveri de' Greci scemavano ogni giorno senza che di fuori potessero sperare verun soccorso.
A. D. 1452
I primi Romani avrebbero impugnate l'armi, deliberati di vincere o di morire. I primi Cristiani si sarebbero abbracciati fra loro, aspettando con rassegnazione e carità la corona del martirio; ma i Greci di Costantinopoli, comunque non sentissero fervore che per gli affari di religione, non ne traevano altro frutto, che di reciproche nimistà e discordie. L'Imperatore Giovanni Paleologo avea, prima di morire, abbandonato il divisamento che tant'ira destò nei suoi sudditi, il divisamento di unir le due Chiese; il fratello di lui Costantino lo ripigliò quando, le angustie in cui trovavasi, gl'imposero come una necessità di ricorrere ad un'ultima prova di dissimulazione e di adulazione[90]. Inviò ambasciatori a Roma coll'incarico di chiedere temporali soccorsi ed assicurare il Santo Padre che i Greci al suo spirituale dominio si sommetteano. Questi scusavano ad un tempo il lor Sovrano, se avea da prima trascurato un tale dovere, a motivo dei tristi casi dello Stato che aveano assorte tutte le sollecitudini del Principe, in sostanza bramosissimo di vedere un Legato pontifizio nella sua Capitale. Benchè il Vaticano sapesse per prova quanto vi fosse poco da fidarsi nelle parole dei Greci, non potea con decenza mostrarsi sordo a tali voci di pentimento; ma più presto un Legato che un esercito gli concedè; laonde sei mesi prima della presa di Costantinopoli il Cardinale Isidoro nativo di Russia, vi comparve, qual nunzio del Pontefice, seguìto da un corteggio di preti e di soldati. L'Imperatore lo accolse qual padre ed amico; ne ascoltò rispettosamente i sermoni così in pubblico come in privato, e sottoscrisse l'atto di unione, nella stessa guisa che venne accettato nel Concilio di Firenze, al qual esempio si conformarono i più docili fra i sacerdoti e laici della Chiesa greca. Nel giorno 12 dicembre, i Greci si unirono alla celebrazione del divin sagrifizio e della preghiera, nel tempio di S. Sofia, ove fu fatta commemorazione solenne de' due Pontefici, vale a dire di Nicolò V, Vicario di Gesù Cristo, e del Patriarca Gregorio, che un popolo ribelle aveva esiliato.
Ma le vesti e la lingua del Prete latino ufiziante furono argomento di scandalo ai Greci, inorriditi in veggendolo consagrar pane senza lievito, e versar acqua fredda nel calice eucaristico. Uno Storico greco confessa arrossendo che nessuno de' suoi concittadini, compresovi lo stesso Imperatore, si prestò di buona fede a tale riconciliazione[91][92]. A discolparli dalla taccia di una sommessione così inconsiderata e plenaria, dicevano essersi riservati il diritto di rivederne l'atto in appresso; ma la migliore e più trista scusa ad un tempo che avessero, stava nel confessarsi spergiuri. Oppressi dai rimproveri di quei lor fratelli che non avevano tradita la propria coscienza, rispondeano lor sotto voce: «armatevi di rassegnazione anche per poco, aspettate di veder libera la città dall'immenso drago che spalanca la bocca per divorarci; ne saprete dire in allora se siam riconciliati davvero cogli azzimiti». Ma la pazienza non è la prerogativa caratteristica dello zelo religioso, nè cortigianesca disinvoltura è bastante a frenar la violenza del popolare entusiasmo. Persone d'ogni classe e d'entrambi i sessi si trasportarono in folla dalla chiesa di S. Sofia alla celletta del frate Gennadio[93], affine di consultare nel gran frangente questo religioso che reputavasi l'oracolo della Chiesa. Ma il santo personaggio non si mostrò: assorto, a quanto parea, nelle sue profonde meditazioni, o nelle sue estasi mistiche, lasciò solamente esposta in fronte alla sua porta una tavoletta, ove le turbe lessero le seguenti parole: «Sciagurati Romani! perchè abbandonaste voi la strada della verità? Perchè invece di mettere la vostra fiducia in Dio, negli Italiani l'avete posta? Col perdere la vostra fede, perderete anche la vostra città. Signore, abbi compassione di me. Io protesto al cospetto tuo che sono innocente di questo delitto. Sciagurati Romani, pensate bene, trattenetevi e pentitevi! nell'atto stesso che abbiurerete la religione dei padri vostri; nell'atto stesso che vi collegherete coll'empietà, cadrete schiavi sotto uno straniero servaggio». Udito questo avviso di Gennadio, le vergini spose di Dio, pure come gli Angeli, e superbe come i demonj[94], sorsero contra l'atto di unione, e maledirono qualunque lega coi partigiani presenti e futuri della Chiesa latina; le imitò, le approvò la maggior parte del Clero e del popolo. Uscendo del monasterio di Gennadio, i devoti Greci si sparsero per la taverna bevendo alla confusione degli schiavi del Papa, votando tazze ad onore della immagine della Santissima Vergine, e supplicandola a difendere questa città da Maometto, come altre volte l'avea protetta contro l'armi di Cosroe e contro il Cagano. Così inebbriati dal fanatismo e dai fumi del vino, esclamarono sconsigliatamente: «Che abbiam noi bisogno di soccorso e di unione? che abbiam noi bisogno dei Latini? vada lungi da noi il culto degli azzimiti». Frenesia epidemica che tenne in trambusto la popolazione per tutto il verno antecedente alla vittoria de' Turchi; la Quaresima e la prossimità delle feste, anzichè ispirare sentimenti di pace e di carità, non fece che rincalzare l'ostinazione e la prevalenza del fanatismo. I confessori che spiavano e atterrivano le coscienze, prescrivevano penitenze rigorosissime a chiunque avesse ricevuta la comunione dalle mani d'un prete accusato di consenso, o formalmente, o tacitamente, prestato alla Lega. La Messa celebrata da un tal sacerdote, contaminava, secondo costoro, quegli stessi che le aveano assistito; se preti, perdeano la virtù del carattere sacerdotale, e nemmen nel pericolo di morte istantanea, era permesso invocare il soccorso delle loro preghiere e delle loro assoluzioni. Appena celebratosi dai Latini il servigio divino nella chiesa di S. Sofia, fu riguardata come polluta, e il Clero e il popolo ne rifuggirono come da una sinagoga, o da un tempio di Pagani; onde questa venerabile Basilica, che, fumante non ha guari d'incensi, e splendente per immensa moltitudine di fiaccole, avea sì spesso risonato di preci e di rendimenti di grazie, rimase fra lo squallore di un assoluto e tetro silenzio. Più inviperito odio portavasi ai Latini che agli stessi Eretici ed Infedeli; talchè il primo Ministro dell'Impero, il Gran Duca, si spiegò apertamente che avrebbe preferita la necessità di vedere a Costantinopoli il turbante di Maometto all'odievol presenza della tiara del Papa o di un cappello di Cardinale[95]. Tal sentimento cotanto indegno di un cristiano e di un amico della sua patria, era divenuto a tutti i Greci comune, e tornò ad essi fatale. Costantino si trovò privo dell'affetto e del soccorso de' proprj sudditi, la viltà naturale de' quali prendea un religioso pretesto dal dovere di rassegnarsi ai decreti della Providenza, o dalla chimerica speranza di una liberazione miracolosa[96].
Due lati del triangolo in cui stassi Costantinopoli, vale a dire quelli che si estendono lungo il mare, erano inaccessibili ai nemici; la Propontide da una banda formava una difesa naturale, il porto ne formava un'artificiale dall'altra. Un doppio muro, e una fossa che avea cento piedi di profondità, copriva la base del triangolo situata fra le due rive dalla banda di terra; alle quali fortificazioni il Franza che le avea vedute, attribuiva una estensione di sei miglia[97]; quivi fu il principale assalto degli Ottomani. Costantino dopo avere ripartite le fazioni e il comando de' posti più pericolosi, si accinse a difendere l'esterno muro. Ne' primi giorni d'assedio, i soldati scesero nella fossa d'onde fecero una sortita in piena campagna, ma non tardarono ad avvedersi che, avuta proporzione del numero de' combattenti d'entrambi i campi, era più funesta ai Greci la perdita d'un Cristiano, che al nemico quella di venti Turchi; laonde dopo queste prime prove di coraggio, si limitarono prudentemente a lanciare armi di gittata dall'alto de' baloardi, prudenza che in tale istante non potea essere accusata, come viltà, comunque la popolazione greca fosse in generale pusillanime e vile; l'ultimo de' Costantini si meritò il nome di Eroe; la sua nobile truppa di volontarj parea infiammata dello spirito de' primi Romani, e gli ausiliarj stranieri sosteneano l'onore della cavalleria d'Occidente. In mezzo al fumo, fra lo strepito e il fuoco de' loro archibusi e de' loro cannoni, percoteano incessantemente con grandini di dardi il nemico. Tutte le bocche delle greche spingarde mandavano cadauna nello stesso tempo sui Turchi cinque e persin dieci palle di piombo della grossezza d'una noce; e giusta la spessezza delle file, o la forza della polvere, ciascun colpo potea trapassare l'armadura e il corpo di molti guerrieri; ma i Turchi bentosto, riparando la loro via con trincee, o tenendosi dietro alle rovine, si avvicinarono maggiormente. Ogni dì più periti nella scienza militare divenivano i Cristiani, ma i lor magazzini da polvere, mal provveduti sin da principio, non doveano tardare a votarsi. La loro artiglieria scarsa e di picciol calibro, non potea produrre grandi effetti, e se aveano ancora alcuni pezzi più rilevanti non si avventuravano a collocarli sopra vecchie muraglie, che l'impeto dello scoppio avrebbe crollate e rinversate[98]. Oltrechè, il micidiale segreto essendo già noto parimente agli Ottomani, questi lo adoperavano con tutta l'efficacia che possono infondere negl'ingegni di offesa il fanatismo, le ricchezze, il dispotismo. Ragionammo dianzi del gran cannone di Maometto, arme rilevante e segnalata nella Storia dell'epoca ora descritta; enorme bocca da fuoco che fiancheggiavano altre due quasi della stessa grandezza[99]. Dopo che i Turchi ebbero appuntato una lunga serie di cannoni contro le mura, quattordici batterie fulminarono nel tempo stesso i luoghi meno fortificati; ma nel descrivere una di tali batterie, gli Autori si valgono d'espressioni sì equivoche, che non intendiamo bene, se essa contenesse centotrenta pezzi di cannone, o centotrenta palle. Del rimanente, a malgrado del potere e della solerzia di Maometto, scorgesi l'infanzia dell'arte in quel tempo. Sotto un padrone che calcolava i minuti secondi, il gran cannone non potea trarre che sette volte al giorno[100]. Il metallo riscaldato scoppiò, sicchè molti cannonieri rimasero morti, e fu ammirata l'abilità di un fonditore che immaginò, per andar contro ad una nuova disgrazia, di versare, dopo ciascuno scoppio, una certa quantità d'olio entro i cannoni.
Le prime palle dei Musulmani lanciate a caso, aveano fatto più strepito che rovina. Mercè soltanto i suggerimenti di un ingegnere cristiano, i Turchi appresero a percotere direttamente i due lati opposti degli angoli salienti d'un baloardo. Per quanto poco destri fossero questi artiglieri, la moltiplicità de' colpi supplì alla poca abilità di addirizzarli, onde gli Ottomani, pervenuti finalmente sino all'orlo della fossa, si accinsero a colmare questa enormissima apertura a fine di procurarsi per traverso alla medesima una strada all'assalto[101]. Vi gettarono entro e massi e fascinate e tronchi d'alberi, e tal fu l'impeto di quei lavoratori, che i primi trovatisi in riva alla fossa, o i più deboli, vi caddero dentro e vi trovarono sepoltura. Intantochè gli assedianti davano indefessa opera a tale lavoro, la sola speranza di salute per gli assediati stavasi nel cercare di renderli inutili, a lunghi e micidiali scontri esponendosi, e distruggendo la notte tutta l'opera che i soldati di Maometto aveano fatta nella giornata. Ricorreva all'arte delle mine il Sultano; ma oltre alla difficoltà di valersene in un terreno, che era compatta rupe, gli opponeano altrettante contromine i cristiani ingegneri; perchè niuno aveva a que' giorni pensato a colmar di polve quelle vie sotterranee, e a produr così quegli scoppj che fanno saltare in aria le torri e le intere città[102]. Una circostanza che contraddistinse dagli altri assedj quello di Costantinopoli, si fu l'uso promiscuo dell'artiglieria antica e moderna. Fra mezzo ai metalli ignivomi vedeansi macchine opportune a lanciar sassi e dardi; uno stesso muro soffriva l'urto delle palle e dell'ariete ad un tempo; nè la scoperta della polvere avea fatto dimenticare l'uso del fuoco greco. Rotandosi su i suoi cilindri, avanzava un'immensa torre di legno, mobile arsenale di munizioni da guerra, coperto d'un triplice cuoio. I guerrieri che vi stavano chiusi entro, poteano senza pericolo, per le feritoie della medesima, trarre sugli assediati; la parte anteriore di essa avea tre porte, che davano abilità di sortire e di ritirarsi ai soldati. Una scala interna li conduceva al pianerottolo superiore di essa torre, d'onde poteano col ministerio di carrucole, sollevare una scala che, attaccandosi coll'estremità al baluardo nemico, diveniva un ponte per gli assedianti. Coll'unione di tutti questi diversi modi d'assalto, alcuni de' quali tanto più funesti si fecero ai Greci, perchè non ne aveano veruna cognizione, giunsero finalmente i Turchi a rinversare la torre di S. Romano; però vennero ancora respinti dopo un ostinato combattimento, che la notte interruppe e che divisavano rincominciare all'alba del nuovo giorno con più vigore, e maggiore fiducia di buon successo. Nè questi momenti conceduti alla speranza e al riposo vennero trascurati dalla solerzia dell'Imperatore greco e del genovese Giustiniani, che rimasti tutta la notte su i baloardi, affrettarono tutti que' provvedimenti da cui poteva ancora dipendere il destino della Chiesa e di Costantinopoli. Laonde all'apparire dell'aurora novella, l'impaziente Maometto vide, con istupore ed eguale afflizione, incenerita la sua torre di legno, tornata nel primo stato la fossa, restaurata la torre di S. Romano. Deplorando il mal esito de' concetti disegni, esclamò dimentico della riverenza che al proprio culto dovea: «Trentasettemila Profeti non bastavano a farmi credere, che gl'Infedeli in sì breve tempo avessero eseguito sì immenso lavoro».
La generosità de' Principi cristiani fu languida e tardi arrivò; ma fin dal momento in cui Costantino previde l'assedio della sua Capitale, intavolò negoziati nelle isole dell'Arcipelago, nella Morea e nella Sicilia per ottenerne i soccorsi più indispensabili. Cinque grandi vascelli mercantili[103], armati da guerra avrebbero già salpato da Chio nel primo giorno di aprile, se non li avesse trattenuti un ostinato vento di tramontana[104]. Un di questi portava bandiera imperiale; gli altri quattro, appartenenti ai Genovesi, andavano carichi di frumento e d'orzo, d'olio e di vegetabili, e soprattutto di soldati e marinai pel servigio della Capitale. Finalmente dopo un penoso indugio, spiegaron le vele col favore di un leggier vento australe, che fattosi più gagliardo nel secondo giorno, li portò ben tosto all'Ellesponto e alla Propontide; ma circondata per terra e per mare trovavasi la Capitale del greco Impero; e la squadra turca, situata all'ingresso del Bosforo, terminava a guisa di mezza luna alle due estreme rive per chiudere il passaggio a questi ardimentosi ausiliari, o per lo meno a fin di respingerli. Qualunque leggitore abbia presente alla memoria il quadro geografico di Costantinopoli, comprenderà e ammirerà la magnificenza di un tale spettacolo. I cinque vascelli cristiani procedeano innanzi, in mezzo a giulive acclamazioni, e forzando il ministerio delle vele e de' remi contro una squadra nemica di trecento navigli; i baloardi, il campo, le coste dell'Europa e dell'Asia, vedeansi coperte di spettatori impazienti con inquietudine dell'effetto che questo rilevante soccorso avrebbe prodotto; effetto che a prima vista non avrebbe dovuto sembrare dubbioso. La superiorità de' Turchi era tanta, che si togliea da ogni proporzione col numero de' Cristiani; e certamente, giusta un calcolo ordinario, la moltitudine e il valore de' combattenti gli avrebbe assicurati della vittoria. Cionnullameno l'imperfezione della loro marineria mostrava come questa fosse stata creata d'improvviso dalla volontà del Sovrano, e non nata gradatamente dall'ingegno inventivo della nazione; e giunti anche all'apice della grandezza, i Turchi confessavano che, se Dio avea conceduto ad essi l'Impero della terra, quello del mare rimanea agli Infedeli[105]; modesta confessione, la cui verità è stata confermata da una sequela dì sconfitte e da un rapido scadimento. Tranne diciotto galee bastantemente forti, il rimanente della squadra era composta di battelli aperti, rozzamente costrutti, mal governati, troppo caricati di combattenti, e sprovveduti di cannone; e poichè il coraggio ne deriva in gran parte dalla conoscenza delle nostre proprie forze, non è maraviglia se i più valorosi giannizzeri tremarono in veggendosi sopra un elemento nuovo per essi. Dalla parte in vece de' Cristiani, veniano governati da piloti abilissimi cinque grandi vascelli pieni di veterani dell'Italia e della Grecia, avvezzi da lungo tempo ai disagi e ai pericoli della navigazione. Intanto che davano opera a calare a fondo, o ad infrangere i deboli legni che impacciavano ad essi il cammino, le loro macchine d'artiglieria spazzavano il mare e versavano fuoco greco su quelle barche ottomane che osavano avvicinarsi per tentar l'arrembaggio; chè i venti e i flutti si chiariscono mai sempre pe' navigatori più abili. I Genovesi salvarono il vascello imperiale contro cui, nella mischia, più numerosa oste infieriva; e gravissima fu la perdita de' Turchi, respinti in due assalti, un più lontano, l'altro ov'erano petto a petto coi Cristiani. Maometto standosi a cavallo in su la piaggia, incoraggiava i Musulmani colla sua voce, con promesse di ricompensa, col timore che egli inspirava, più poderoso sovr'essi che lo stesso timore de' nemici. Il fervore del suo animo, i moti del suo corpo[106] sembravano imitare le azioni de' combattenti, e quasi foss'egli il padrone della natura, da niuna tema frenato, facea impotenti sforzi per ispinger nel mare il proprio cavallo. La violenza dei suoi rimproveri, i clamori del campo indussero la squadra turca ad un terzo assalto che fu più funesto ancor de' due primi; al qual proposito citerò, senza poterle prestar molta fede, la testimonianza di Franza, il quale afferma che i Turchi a loro confessione medesima perdettero nella strage di questa giornata più di dodicimila uomini. In somma fuggirono disordinatamente verso le coste dell'Europa e dell'Asia, intanto che la squadra de' Cristiani, in trionfo e immune da danni, procedea lungo il Bosforo, pervenuta a lanciar l'áncora con sicurezza dalla banda interna della catena del porto. Nell'ebbrezza di questa vittoria, sosteneano i Cristiani che il loro braccio era valevole ad annichilare tutto l'esercito dei Turchi. Intanto Balta Ogli, l'ammiraglio, ossia il Capitano-Pascià, ferito in un occhio, traeva da questa circostanza un sollievo coll'accagionarla della perdita della battaglia. Era costui un rinnegato della famiglia de' Principi di Bulgaria, stimabile per meriti militari, se un'abbominevole avarizia non gli avesse contaminati; e, sia d'un solo, o popolare il dispotismo, sotto il governo del medesimo, la disgrazia si ha per prova di delitto. Il grado e i servigi di questo guerriero apparvero nulli a fronte dello scontento di Maometto; onde dopo essere stato alla presenza del Sultano steso per terra da quattro schiavi, ricevè cento battiture applicategli con un bastone d'oro[107]. Essendone indi stata decretata la morte, il vecchio Generale ammirò la clemenza del Sovrano che si contentò di torgli le sue sostanze e mandarlo in esilio. Il soccorso navale che qui abbiamo descritto, ridestò la speranza ne' Greci e divenne una rampogna all'indifferenza dimostrata dalle nazioni occidentali collegate col greco Impero; massimamente in considerando che milioni di Crociati erano venuti in altri tempi a cercare una inevitabil morte ne' deserti della Natolia e fra le rupi della Palestina; e che qui non era sì grave il pericolo, attesa la situazione di Costantinopoli, munitissima per natura contra i nemici, e ai confederati accessibile. Non facea d'uopo d'un troppo rilevante armamento delle Potenze marittime per salvare gli avanzi del nome Romano e mantenere una Fortezza cristiana nel centro del turco Impero. Cionnullostante i tentativi fatti per liberare Costantinopoli si limitarono alla spedizione di questi cinque vascelli; le nazioni lontane non mostrarono cruciarsi nè poco nè assai de' progressi de' Turchi, e l'Ambasciatore ungarese, stavasi in mezzo al campo turco, per dissipare i timori e regolare le fazioni del Sultano[108].
Era cosa difficile pe' Greci l'indovinare i segreti del Divano; cionnullameno i loro autori sono persuasi che una resistenza così ostinata e maravigliosa avesse stancata la perseveranza di Maometto. Vuolsi ch'ei meditasse una ritirata, e che ben presto avrebbe levato l'assedio, se l'ambizione e la gelosia del secondo Visir non avesse prevalso ai perfidi suggerimenti di Calil-Pascià che si mantenea sempre in segreta corrispondenza colla Corte di Bisanzo. Vedea il Sultano l'impossibilità d'impadronirsi della Capitale, a meno di poterla assalire per mare nel tempo stesso che le sue truppe la batterebbero dalla banda di terra; ma come superare il passaggio del porto? La grossa catena che lo chiudea era difesa da otto grandi navigli, da venti più piccioli e da un ragguardevole numero di galee e di battelli; i Turchi, lungi dal vedersi in istato di forzare questo propugnacolo, doveano temere una sortita del navilio greco e una seconda battaglia in aperto mare. In mezzo a tali perplessità, il genio di Maometto concepì e pose ad effetto un disegno di maraviglioso ardimento; quello di far trasportare per terra i suoi legni più leggieri e le sue munizioni dalla riva del Bosforo a quella che guardava la parte più interna del porto, distanza di circa dieci miglia sopra terreno disuguale e coperto di macchie; e poichè era d'uopo radere in passando il sobborgo di Galata, il buon successo dell'impresa, o la morte di tutti i soldati in essa adoperati dependeano dalla colonia dei Genovesi; ma questi avidi mercatanti aspirando al favore di essere soggiogati per gli ultimi, il Sultano fu tranquillo per questa parte, e fece poi che la moltitudine degli operaj supplisse alle scarse cognizioni dei suoi meccanici. Spianata la strada, venne coperta di larghi e saldissimi tavolati, che, a renderli più scorrevoli, venivano unti con grasso di pecora e di bue. Poi per ordine del Sultano, vennero, col ministero di leve e carrucole, tratte fuor dello stretto, portate sopra cilindri e spinte su questi tavolati, ottanta galee o brigantini da cinquanta e da trenta remi, divenuti oziosi come le vele; due piloti stavano al governale e alla prora di ciascun navilio, e i canti e le acclamazioni delle ciurme allietavano questo rilevante lavoro. In una sola notte la flotta de' Turchi s'inerpicò alla collina, attraversò la pianura, venne lanciata nel porto, in un sito ove non trovavasi bastante acqua pe' navigli greci che erano più pesanti. Il terrore che tale impresa portò nell'animo degli assediati e la fiducia che per essa crebbe ne' Turchi, ne fece esagerare il reale vantaggio; questo fatto notorio e indubitabile ebbe a spettatrici entrambe le nazioni, onde gli Storici dell'una e dell'altra l'hanno raccontato[109]. Gli Antichi hanno più di una volta fatto uso di un simile stratagemma[110]. Le galee ottomane, mi giova ripeterlo, non erano che grossi battelli. Se raffrontiamo la grandezza de' navigli e la distanza, gli ostacoli e gl'ingegni adoperati per superarli, sono forse state eseguite ai dì nostri[111] imprese non meno maravigliose[112]. Appena Maometto ebbe navi e truppe nella parte superiore del porto, con botti unite da travi e anelli di ferro e coperte da un saldo tavolato, costrusse, ove l'acqua era più angusta, un ponte, o piuttosto un molo largo cinquanta, e lungo cento cubiti. Posto sopra questa galleggiante batteria uno de' maggiori cannoni, le ottanta galee, le truppe e le scale, si avvicinavano a quel sito d'onde i guerrieri latini altra volta aveano presa la città d'assalto. Viene rimproverato ai Cristiani di non avere distrutti questi lavori prima che fossero terminati; ma un fuoco più rilevante rendeva inutili le loro batterie; non quindi è che non tentassero una notte di ardere le galee e il ponte del Sultano; la sola vigilanza di Maometto impedì ad essi di avvicinarsi; onde que' primi legni de' Greci che troppo innoltrati si erano, vennero presi o calati a fondo; e quaranta giovani guerrieri, i più valorosi dell'Italia e della Grecia, furono inumanamente trucidati per ordine di Maometto. L'Imperatore di Bisanzo per parte sua fe' piantare sui baloardi le teste di dugentosessanta prigionieri musulmani, giusta ma crudel rappresaglia che non mitigava l'affanno delle strettezze in cui si trovava. Dopo un assedio di quaranta giorni, nulla potea più differire la caduta di Costantinopoli; poco numerosa di per sè stessa la guarnigione, ridotta era affatto per quel duplice assalto; il cannone degli Ottomani avea distrutte per ogni banda quelle fortificazioni che resistettero per dieci secoli ad ogni impeto di nemici; già più d'una breccia era aperta, e vicino alla porta di S. Romano, quattro torri erano state atterrate dall'artiglieria dei Turchi. Per dar lo stipendio alle truppe, deboli e in procinto di ribellare, Costantino si vide costretto a spogliare i tempj, promettendo di restituire il quadruplo di quanto da essi togliea; azione che ebbesi per sacrilega, e somministrò nuovi soggetti di scontento ai nemici dell'unione delle due Chiese. A tanti mali univasi lo spirito di discordia che vie più indeboliva le forze de' Cristiani; gli ausiliari genovesi e veneziani disputavano scambievolmente per la lor preminenza, e Giustiniani e il Gran Duca, l'ambizione de' quali non aveva estinto il comune pericolo, si mandavano a vicenda le rampogne di perfidi, o di codardi.
Durante l'assedio, si parlò per più riprese di pace e di capitolazione, e molti messi erano stati spediti dal campo alla città e dalla città al campo[113]. Le sventure aveano siffattamente scoraggiato l'Imperator greco, che ad ogni condizione sarebbesi sottomesso, purchè la sua religione e il suo diadema fossero stati in salvo. Maometto per parte sua desiderava di risparmiare il sangue de' proprj soldati e più ancora di assicurarsi le ricchezze di Costantinopoli; e con queste brame conciliava i doveri di buon Musulmano offrendo ai gaburi le alternative di farsi circoncidere, o di pagare un tributo, o di rassegnarsi alla morte. Con una somma annuale di centomila ducati sarebbe stata soddisfatta la cupidigia del Sultano, ma non l'ambizione, che al possedimento della Capitale dell'Oriente aspirava. Di fatto propose a Costantino un equivalente di questa città, e la tolleranza ai Greci, o se meglio il bramassero, la facoltà di ritirarsi con sicurezza; ma dopo un'infruttuosa negoziazione, protestò che avrebbe trovato un trono, o una tomba sotto le mura di Bisanzo. Per sentimento d'onore e per tema del biasimo universale, rifuggendo Paleologo persino dall'idea di consegnare agli Ottomani la Capital dell'Impero, risolvette di cimentare gli estremi disastri della guerra. Molti giorni vennero impiegati dal Sultano negli apparecchi dell'assalto, sol differito ancora per la fiducia che egli aveva nell'astrologia, scienza sua prediletta; onde lasciò respirare i Greci sino al dì ventinove maggio, annunziato dagli astri come giorno fausto e predestinato alla presa di Costantinopoli. La sera del ventisette, dopo aver dati gli ultimi ordini, spedì i comandanti de' corpi e gli araldi per tutto il campo, a divulgare i motivi della perigliosa impresa e ad eccitare i soldati ad adempiere con valore i proprj doveri. Il timore è una delle più forti molle morali sotto i governi dispotici; le minacce di Maometto espresse nello stile degli Orientali, annunziavano che se anche i fuggiaschi e i disertori avessero l'ali[114], non fuggirebbero alla giustizia inesorabile del Sultano. La maggior parte de' giannizzeri e de' Pascià perteneano per nascita a famiglie cristiane: ma successive adozioni perpetuavano la gloria del nome turco, e a malgrado del cambiamento degl'individui, l'imitazione e la disciplina mantengono lo spirito di una legione, di un reggimento o di un' oda. Prima di portarsi alla pia impresa, i Musulmani vennero esortati a purificare il loro spirito colla preghiera, il corpo con sette abluzioni, e ad astenersi da ogni nudrimento fino alla sera della domane. Uno stuolo di dervis trascorreva le tende per inspirare ai soldati la brama del martirio, e per assicurarli di futura perpetua giovinezza da trascorrersi in riva ai fiumi, e per mezzo ai giardini del paradiso, in braccio alle belle huris dagli occhi neri. Cionnullameno, Maometto calcolava anche più sull'effetto delle ricompense temporali e visibili. Venne promesso di raddoppiare gli stipendj in premio della vittoria. «La città e gli edifizj mi appartengono, dicea Maometto; ma lascio a voi i prigionieri e il bottino, l'oro e la bellezza; siate ricchi e felici. Le province del mio Impero son numerose; l'intrepido soldato che salirà il primo le mura di Costantinopoli, otterrà in guiderdone la più bella e la più ricca di queste da governare; la mia gratitudine accumulerà sovr'esso onori e fortune, oltre quanto uom sappia immaginare». Allettamenti sì variati e poderosi infiammarono gli animi de' soldati, che disprezzando la morte, e impazienti della battaglia, fecero risonare il campo dell'acclamazione maomettana. «Dio è Dio, non v'è che un Dio, e Maometto è l'Appostolo di Dio[115] », e da Galata fino alle Sette Torri, la terra e il mare vennero rischiarati dai fuochi che gli assedianti avevano accesi durante la notte.
Ben diverso era lo stato cui ridotti si vedeano i Cristiani che con impotenti grida deploravano i lor peccati, o il gastigo, del quale erano minacciati. Fu esposta in una processione solenne la celeste immagine della Vergine; ma la Vergine non ascoltò le loro preghiere; accusavano l'ostinazione dell'Imperatore che non avea voluto cedere la piazza, quand'era tuttavia in tempo di farlo, e anticipavano gli orrori della sorte che gli aspettava, sospirando la pace e la sicurezza di cui si lusingavano godere sotto il servaggio de' Turchi. I più nobili fra i Greci e i più prodi confederati vennero nella sera dei ventotto di maggio chiamati al palagio, perchè si preparassero a sostener con coraggio l'imminente assalto generale de' Turchi. L'ultimo discorso che ad essi fece Paleologo potè dirsi l'Orazione funebre dell'Impero romano[116]. Promise, supplicò, fece inutili sforzi per riaccendere ne' cuori altrui quelle speranze che già nel suo erano spente; niuna prospettiva ei poteva offrire che di tristezza e di lutto non fosse; tanto più che il Vangelo e la Chiesa cristiana non hanno promessa alcuna sensibile ricompensa agli Eroi che cadono in servendo la loro patria. Pure l'esempio del Principe e la noia di starsi rinchiusi in una città assediata, aveano armati del coraggio della disperazione questi guerrieri. Lo storico Franza che assistè a questa lugubre assemblea, con istile patetico la dipinge. Versarono lagrime, si abbracciarono; dimenticando le lor ricchezze e le loro famiglie, alla morte si consagrarono. Trasferitosi al suo posto ciascun de' Capi, trascorse la notte col far vigile sentinella sui baloardi. L'Imperatore, seguìto da alcuni fedeli compagni, entrò nella Chiesa di S. Sofia che stava per divenire tra poco una moschea. Piansero, orarono a piè degli Altari e ricevettero la comunione. Dopo aver riposato pochi momenti nel palagio che risonava di lamentazioni e di grida, chiese perdono a tutti coloro ch'ei potesse avere offeso[117], e montò indi a cavallo per visitare i posti e scoprire le fazioni del nemico. La caduta dell'ultimo de' Costantini è più gloriosa della lunga prosperità de' Cesari di Bisanzo.
Un assalto può talvolta sortir buon successo in mezzo alle tenebre; però la sapienza militare e le nozioni astrologiche del Sultano lo indussero ad aspettare il mattino di questo memorabile ventinove maggio 1453 dell'Era Cristiana. Un solo istante di quella notte non fu perduto per Maometto; le truppe, coi cannoni e colle fascine, si erano avanzate fin sull'orlo della fossa che in molti luoghi offeriva un sentiero spianato alla breccia; le ottanta galee quasi toccavano colle prore e colle scale da scalata i muri del porto men atti ad essere difesi. Il Sultano ordinò, sotto pena di morte il silenzio; ma le leggi fisiche del moto e del suono non obbediscono alla disciplina e al timore. Ben potea ciascun individuo soffocar la voce e misurare i passi, ma le pedate e il lavoro di un esercito producevano necessariamente confusi suoni che ferirono gli orecchi delle sentinelle della torre. Al sorgere dell'aurora, i Turchi incominciarono l'assalto per mare e per terra, senza avere sparato, giusta l'uso, il cannone del mattino; la loro linea d'assalto fitta e continua è stata paragonata ad una lunga corda torta o intrecciata[118]. Le prime file vedeansi composte della ciurma di quell'esercito, di un branco di volontarj che si batteano senz'ordine nè disciplina, di vecchi o di fanciulli, di contadini e di vagabondi, e finalmente di tutti coloro che aveano raggiunto l'esercito colla cieca speranza del bottino e del martirio. Un impulso generale avendoli spinti a' piedi della muraglia, i più arditi a salire sul baloardo vennero precipitati entro la fossa, e tanta era di costoro la calca che ogni dardo, ogni palla de' Cristiani ne atterrava qualcuno. Ma non andò guari che una sì penosa difesa stremò le forze e le munizioni degli assediati: i cadaveri di Ottomani che già empievano la fossa, divennero un ponte ai lor colleghi, e la morte delle prime turbe mandate al macello fu più utile al trionfo del Sultano che nol fosse mai stata la loro vita. I soldati della Natolia e della Romania condotti dai loro Pascià e Sangiacchi, fecero impeto gli uni dopo gli altri: si combatteva da due ore con vario ed incerto successo, ed i Greci aveano tuttavia qualche vantaggio, e ne guadagnavano ancora; ma uditasi la voce del greco Imperatore che eccitava i suoi soldati a compiere con un ultimo sforzo la liberazione del loro paese, si fecero innanzi i vigorosi ed invincibili giannizzeri che non avevano ancor combattuto. Stava spettatore e giudice del lor coraggio il Sultano a cavallo, con in mano una clava; e circondato da diecimila uomini della sua truppa domestica, da lui serbata ai momenti i più decisivi, colla voce e coll'occhio regolava e spingeva quelle onde di combattenti. Dietro questa terribile linea vedeasi una numerosa truppa di giustizieri, i quali, secondo l'uopo, stimolavano, rattenevano, punivano i soldati, che avevano il pericolo in prospetto, l'infamia e una inevitabil morte alle spalle, sol che avessero pensato alla fuga. La musica guerresca de' tamburi, delle trombe e de' timballi, soffocava le grida dello spavento e del dolore; e l'esperienza ha provato che l'effetto meccanico de' suoni rendendo più vivace la circolazione del sangue e i moti degli spiriti animali, produce sulla macchina umana una impressione superiore nell'efficacia all'eloquenza della ragione e dell'onore. L'artiglieria delle linee assalitrici, dalle galee del ponte, fulminava i Greci per ogni parte; e campo e città e assedianti e assediati vedeansi involti in mezzo a un nugolo di fumo che potea solamente essere dissipato o dalla liberazione, o dalla distruzione compiuta dell'Impero romano. Le singolari tenzoni degli Eroi della Favola e della Storia feriscono la nostra immaginazione e ne allettano; le dotte fazioni militari possono giovare a schiarire la mente e a migliorare un'arte necessaria, benchè perniciosa al genere umano; ma nella pittura di un assalto generale tutto è sangue, confusione ed orrore; laonde io disgiunto, per tre secoli e per l'intervallo di un migliaio di miglia, da una scena che andò priva di spettatori e di cui gli stessi attori non poteano formarsi un'idea esatta o compiuta, non mi accignerò a disegnarla.
Se Costantinopoli non fece più lunga resistenza, vuole accagionarsene la palla, o il dardo che, per traverso alla sua manopola, trafisse la mano del Giustiniani, il quale, alla vista del proprio sangue, e tormentato dall'estremo dolore che la ferita gli producea, sentì mancare il proprio coraggio. Era il Giustiniani, e col braccio, e col consiglio, il più fermo baloardo di Costantinopoli; allorchè abbandonava il suo posto per andare in traccia di un chirurgo, l'instancabile Imperatore che di questa ritirata si accorse, il fermò: «la ferita, esclamava Paleologo, è lieve, il pericolo imminente, necessaria la vostra presenza; per quale strada contate voi ritirarvi?» — «Per quella strada che Dio ha aperta ai Turchi» il tremebondo Genovese rispose, e sì dicendo, attraversò rapidamente una breccia del muro interno; col quale atto di viltà sfregiò una vita che era stata luminosa fra l'armi. Sopravvissuto pochi giorni al suo disonore, gli ultimi istanti del vivere ch'ei trascorse a Galata, o nell'isola di Chio, furono avvelenati dai rimproveri della sua coscienza e da quelli del pubblico[119]. La maggior parte degli ausiliari avendo seguìto l'esempio del Genovese, allentò la difesa nel momento medesimo che più invigoriva l'assalto. Il numero degli Ottomani era cinquanta volte maggiore, forse centuplo di quel de' Cristiani. Le doppie mura della Capitale continuamente spezzate per ogni banda, e senza posa, dall'artiglieria, un mucchio sol di rovine offerivano. Era inevitabile che, in una circonferenza di molte miglia, non si trovassero alcuni luoghi o più accessibili, o men custoditi, e se d'uno solo di questi punti s'impadronivano gli assedianti, diveniva quello il momento estremo della Capitale. Ora il giannizzero Hassan, cui statura e forze gigantesche la natura avea compartite, meritò il primo la ricompensa che avea promessa il Sultano. Tenendo con una mano la scimitarra, e coll'altra lo scudo, scalò il muro esterno; emuli del suo valore, il seguirono trenta altri giannizzeri, diciotto de' quali perirono sotto il ferro dell'inimico; giunto Hassan alla sommità, ove con dodici de' suoi compagni si difendea, venne precipitato nella fossa; fu veduto rialzarsi sulle ginocchia, e nuovamente una grandine di dardi e di pietre lo rinversò. Nondimeno, ei fece il più col mostrare che quella sommità di baloardo poteva raggiungersi. Ben tosto uno sciame di Turchi coprì le mura e le torri, e i Greci, perduto anche il vantaggio del terreno, si trovarono oppressi dall'immenso numero de' Musulmani che da un istante all'altro crescea. In mezzo alla calca, continuò lungo tempo a vedersi l'Imperatore greco[120] che gli ufizj di generale e di soldato compiea; ma finalmente disparve. I Nobili che combatteano al suo fianco sostennero sino all'ultimo respiro gli onorevoli nomi di Paleologo e di Cantacuzeno. Gli si udirono pronunciare queste dolenti parole: «Nè vi sarà alcun fra i Cristiani che voglia per pietà tagliarmi la testa?»[121] perchè la sua ultima angoscia veniagli dal timore di cader vivo fra le mani degl'Infedeli[122]. Risoluto di morire, aveva avuta la previdenza di spogliare la porpora: in mezzo alla mischia, cadde finalmente sotto i colpi d'ignota mano e rimase, sotto un mucchio di morti, sepolto. Da quell'istante, nessuno pensò oltre a resistere e la sconfitta fu generale; datisi a fuggire i Greci dalla banda della città, e angusto essendo alla moltitudine de' fuggiaschi il passaggio della porta di S. Romano, molti in questa trista gara perirono soffocati e schiacciati. I Turchi vincitori si fecero ad inseguirli precipitosamente per le brecce del muro interno, e intanto che avanzavano per le strade si unì ad essi il corpo che avea forzata la porta del Fenar dalla banda del porto[123]. Nel primo ardore d'inseguire i Cristiani, circa duemila di questi vennero passati a filo di spada; ma ben tosto l'avarizia vinse la crudeltà, e i vincitori confessarono che la strage sarebbe anche stata minore, se la prodezza di Costantino e de' suoi scelti soldati non gli avesse tratti in paura di trovare un'eguale resistenza in tutti i rioni della Capitale. Così, dopo un assedio di cinquantatre giorni, cadde finalmente sotto l'armi di Maometto II questa Costantinopoli, che avea disfidate le forze di Cosroe, del Cagano e de' Califfi. I Latini non ne aveano abbattuto che l'Impero, ma i Musulmani ne abbattettero la religione[124].
Presto si diffonde la notizia delle sventure; ma sì estesa è Costantinopoli che i più lontani rioni rimasero ancora per alcuni momenti nella felice ignoranza del loro infausto destino[125]. Ma in mezzo alla generale costernazione, fra le mortali angosce che ciascuno provava per sè o per la patria, fra il tumulto e lo strepito dell'assalto, certamente in quella fatal notte, il sonno avrà potuto dimorar poco fra gli abitanti di Costantinopoli, e duro fatica a credere che molte donne greche sieno state destate da profondo e tranquillo riposo per l'improvviso arrivo de' giannizzeri. Appena la pubblica sciagura fu certa, abbandonati vennero in un istante le case e i conventi; i tremebondi abitanti si ammucchiavano per le strade, a guisa di branchi d'impauriti animali, come se dall'unione di lor debolezza avesse potuto scaturire la forza, o sperando fors'anche ciascuno di trovarsi, in mezzo a tanta calca, meglio nascosto e sicuro. Da tutte le bande venivano a rifuggirsi nella chiesa di S. Sofia, onde in men d'un'ora, e padri, e mariti, e mogli, e fanciulli, e preti, e monache, e frati, empievano il Santuario, il coro, la nave, le logge superiori e inferiori del tempio; ne sbarrarono le porte, cercando un asilo in quel luogo sacro che, il dì innanzi ancora, credeano profanato perchè vi aveano celebrato il divin sagrifizio i Latini. La fidanza di questi infelici fondavasi sulla predizione di un fanatico, o di un impostore[126], il quale aveva annunziato che i Turchi prenderebbero bensì Costantinopoli e inseguirebbero i Greci fino alla colonna di Costantino sulla piazza rimpetto a S. Sofia; ma esser quello il termine delle calamità di Bisanzo; che un Angelo allora scenderebbe, con una spada in mano dal cielo, e consegnando questa spada e l'Impero ad un poverello seduto ai piedi della colonna, gli direbbe: «Prendi questa spada e vendica il popolo del Signore»; che all'udir tali accenti i Turchi si darebbero a fuga, e che i Romani vincitori scaccierebbero indi il nemico dall'Occidente e da tutta la Natolia sino ai confini della Persia. A tal proposito, Duca, con egual verità ed amarezza, rimprovera ai Greci la loro ostinazione e le loro discordie; «quand'anche, egli esclama, fosse comparso l'Angelo e vi avesse promesso di sterminare i vostri nemici a patto che sottoscriveste l'unione delle due Chiese, credo che in questo fatale momento avreste rifiutata una tal via di salute, ovvero per ottenerla, ingannato il vostro Dio[127].
Mentre i Greci aspettavano quest'Angelo che mai non veniva, i Turchi a colpi di azza atterravano le porte di S. Sofia; e poichè non trovarono resistenza, non vi fu spargimento di sangue, nè ad altro pensarono che a scegliere e custodire i loro prigionieri. La giovinezza, l'avvenenza e l'apparenza della ricchezza guidavano la scelta, e l'anteriorità della presa; la forza personale e l'autorità de' colpi sul diritto di proprietà decidevano. Non era trascorsa un'ora, che i prigionieri maschi si trovavano avvinti con funi, le donne coi loro veli e colle loro cinture: i Senatori vedeansi accoppiati ai loro schiavi, i Prelati ai sagrestani, abbietti giovinastri a nobili vergini, sin allora nascoste alle luce del giorno e fino agli sguardi dei più prossimi loro parenti; cattività che confuse i gradi sociali, e infranse i vincoli della natura; nè i gemiti de' padri, nè le lagrime delle madri, nè le lamentazioni de' fanciulli valsero a movere gl'inflessibili soldati di Maometto. Le più acute grida venivano mandate dalle monache che vedendosi strappate agli Altari, col seno scoperto e colle chiome scarmigliate, stendeano al Cielo le braccia, e dobbiamo credere che poche di esse potessero preferire le grate del Serraglio a quelle del monastero. Già le strade erano piene di questi sciagurati prigionieri, quasi animali domestici, aspramente in lunghe file condotti. Il vincitore frettoloso di cercar nuove prede facea correre, a furia di minacce e di colpi, queste vittime tremebonde. Nello stesso tempo le medesime scene di rapina si replicavano in tutte le chiese, in tutti i conventi, in tutti i palagi, in tutte le abitazioni della Capitale; nè vi furono santità, o solitudine di luogo, che le persone, o la proprietà de' Greci facessero salve. Più di sessantamila di questi infelici, trascinati, o su navigli, o nel campo, vennero cambiati, o venduti giusta il capriccio, o l'interesse de' lor padroni, e dispersi per le varie province dell'Impero ottomano. Giova qui il far conoscere le avventure di alcuni più spettabili di tali prigionieri. Lo Storico Franza, primo Ciamberlano e Segretario dell'Imperatore, cadde, non meno della sua famiglia, in potere dei Turchi. Ricuperata la libertà, dopo quattro mesi di schiavitù, osò nel successivo anno trasferirsi ad Andrinopoli, ove gli riuscì riscattare la moglie che apparteneva al Mir-Basi, o mastro della cavalleria; ma erano stati riservati ad uso di Maometto i suoi due figli, allora nel fiore dell'età e della bellezza; la figlia morì nel Serraglio, forse vergine tuttavia; il figlio in età di quindici anni, preferendo la morte all'infamia, spirò sotto il pugnale del Sultano, che contra il pudore del giovinetto attentò[128]. Sarebbesi forse Maometto immaginato di espiare un atto sì atroce colla letteraria generosità dimostrata nel far libera una matrona greca e due figlie della medesima, in grazia di un'Ode latina di Filelfo che nella nobile famiglia di questa matrona aveva condotto la moglie[129]? Molto avrebbe rilevato all'orgoglio, o alla crudeltà di Maometto, il poter aver tra le mani il Legato di Roma. Ma il Cardinale Isidoro pervenne a fuggire da Galata sotto l'abito d'un uom del volgo[130]; perchè le navi italiane padroneggiavano sempre la catena e l'ingresso del porto esterno. Dopo essersi segnalati per valore que' condottieri, finchè durato era l'assedio, profittarono, per salvarsi, dell'istante in cui il saccheggio della città dava divagamento alle ciurme de' Turchi. Sull'atto di salpare, videro coperta di supplichevoli turbe la spiaggia, ma caricarsi non poteano del trasporto di tanti infelici; i Veneziani e i Genovesi tracelsero i loro compatriotti; e gli abitanti di Galata, senza fidarsi alle promesse che avea fatte ai medesimi Maometto, abbandonarono le proprie case portando seco quanto aveano di più prezioso.
Nel dipingere il saccheggio delle grandi città, lo Storico si vede condannato agli uniformi racconti di infortunj, sempre i medesimi; perchè le stesse passioni producono gli stessi effetti, e quando queste non hanno più freno, oh come poco l'uom, venuto a civiltà, differisce dall'uomo selvaggio! In mezzo alle esclamazioni vaghe della pietà religiosa e dell'odio, non troviamo che vengano accusati i Turchi di avere versato, pel solo piacer di versarlo, il sangue dei Cristiani: ma, giusta le loro massime, che furono pur quelle degli Antichi, la vita de' vinti spettava ai vincitori, che, in ricompensa delle fatiche sostenute, poteano trar profitto dai servigi, dal prezzo di vendita, o dal riscatto de' lor prigionieri d'entrambi i sessi[131]. Il Sultano avea concedute ai suoi soldati tutte le ricchezze di Costantinopoli; e un'ora di saccheggio arricchisce più che il lavoro di molti anni; ma non essendo stato distribuito in una maniera regolare il bottino, non ne furono fatte le parti dal merito, onde i servi del campo che non aveano affrontati i rischi e le fatiche della battaglia, le ricompense del valore si appropiarono. Nè dilettevole, nè istruttivo riescirebbe il racconto di tante depredazioni, che vennero valutate quattro milioni di ducati, ultimo avanzo della ricchezza del greco Impero[132]. Una picciola parte di tale somma apparteneva ai Veneziani, ai Genovesi, ai Fiorentini e ai mercatanti di Ancona, i quali stranieri aumentavano con un continuo e rapido giro le loro sostanze; ma i Greci consumavano i proprj averi nel vano lusso d'abiti e di palagi, o li sotterravano convertiti in verghe e vecchia moneta, per timore che il fisco non li domandasse per la difesa della patria. Le più gravi querele vennero eccitate dalla profanazione e dallo spoglio delle chiese e de' monasteri. Il tempio di S. Sofia, il Paradiso Terrestre, il secondo Firmamento, il veicolo de' Cherubini, il Trono della gloria di Dio[133], fu spogliato delle offerte che per un volger di secoli vi avea portata la divozion de' Cristiani: l'oro e l'argento, le perle e le gemme, i vasi e i fregi che vi si contenevano, vennero indegnamente adoperati ad uso degli uomini. Poichè i Musulmani ebbero spogliate le sante immagini di tutto ciò che ai profani sguardi potevano offerir di prezioso, la tela o il legno de' quadri o delle statue vennero lacerati, infranti, abbruciati, calpestati, o adoperati in vili ministerj nelle stalle e nelle cucine. Ma quando i Latini s'impadronirono di Costantinopoli, si erano fatti leciti i sacrilegj medesimi; onde uno zelante Musulmano potea usare, a quanto era per lui monumento d'idolatria, quel trattamento che dai colpevoli Cattolici[134] aveano sofferto Gesù Cristo, la Vergine e i Santi. Un filosofo, in vece di far eco ai pubblici clamori, potrà osservare che declinando a quei giorni le arti, il lavoro non avea forse maggior prezzo del suo soggetto, e che la soperchieria de' preti, e la credulità del popolo, non quindi si stettero dal riaprire altre fonti di miracoli e di visioni; e più gravemente si dorrà della perdita delle biblioteche di Bisanzo che in mezzo al generale soqquadro vennero distrutte, o disperse. Dicesi che, in tale occasione, ventimila manoscritti andassero smarriti[135], che con un ducato se ne compravano dieci volumi, e che questo prezzo, troppo rilevante forse per un intero scaffale di libri teologici, era il medesimo per le Opere compiute di Aristotile e di Omero, cioè delle più nobili produzioni della scienza e della letteratura degli antichi Greci. Abbiamo però un conforto in pensando che una parte inestimabile delle nostre ricchezze classiche era già stata posta in sicuro nell'Italia, e che alcuni artefici di una città dell'Alemagna aveano fatto tale scoperta, per cui le opere dell'ingegno non temono più le ingiurie del tempo, o della mano dei Barbari.
Il disordine e il saccheggio incominciati a Costantinopoli fin dalla prima ora[136] di questa memorabile giornata del ventinove maggio, si prolungarono sino all'ottava ora, in cui Maometto arrivò trionfante per la porta di S. Romano, accompagnato dai suoi Visiri, dai suoi pascià e dalle sue guardie; ciascun de' quali, dice uno Storico bisantino, fornito della forza di Ercole e dell'agilità di Apollo, equivaleva a dieci uomini ordinarj in un dì di battaglia. Il vincitore[137] si mostrò sorpreso da maraviglia all'aspetto magnifico e peregrino a' suoi sguardi di quelle cupole, di que' palagi di uno stile così diverso da quello dell'architettura orientale. Giunto all'Ippodromo, o Atmeidan, ne ferì gli sguardi la colonna de' Tre Serpenti, e per dar prova di forza atterrò colla sua azza da guerra la mascella inferiore di uno di cotesti mostri[138], che i Turchi credeano essere gl'idoli o i talismani della città. Sceso da cavallo dinanzi alla porta maggiore di S. Sofia, entrò nel tempio, monumento della sua gloria, che egli si mostrò tanto geloso di conservare, che, accortosi d'uno zelante musulmano inteso a rompere il pavimento di marmo, con un colpo di sciabola lo avvertì avere bensì conceduti ai suoi soldati il bottino e i prigionieri, ma riservati al Sovrano i pubblici e privati edifizj. La Metropoli della Chiesa d'Oriente venne tosto per ordine del Sultano convertita in Moschea. Già i ricchi oggetti di cristiano culto che erasi potuto traslocare, non vi si trovavano più; vennero rinversate le croci, lavate, purificate e spogliate d'ogni ornamento le muraglie coperte di mosaici e di pitture a fresco. In quel giorno, o nel successivo venerdì, il muezin, ossia pubblico banditore, dalla sommità della più alta torre, gridò l' ezan, ossia pubblico invito a nome di Dio e del Profeta; l'Imano predicò, e Maometto II fece la namaz di preghiere e rendimenti di grazie su quell'Altar maggiore, ove poco prima erano stati celebrati al cospetto dell'ultimo de' Cesari i misterj de' Cristiani[139]. Uscendo del tempio di S. Sofia si condusse al palagio augusto, ove cento successori di Costantino aveano avuto soggiorno, ma deserto, e in poche ore spogliato di tutta la pompa imperiale; alla qual vista non potè starsi il vincitore dal meditare sulle vicissitudini dell'umana grandezza e dal ripetere gli eleganti versi d'un Poeta persiano.
«Nelle sale dei regi ordisce intanto
«Sue tele il ragno immondo, e dalle vette
«Superbe d'Erasciab, infausto canto,
«Sbattendo le negr'ali, il corvo mette[140].
Non quindi pienamente soddisfatto, pareagli imperfetta la sua vittoria, se non sapea che fosse divenuto di Costantino, se fuggitivo, se prigioniero, o se perito nella battaglia. Due giannizzeri chiesero l'onore e il prezzo di questa morte, e venne riconosciuto sotto un mucchio di cadaveri per le aquile d'oro ricamate sui suoi calzari; nè tardarono i Greci a ravvisare piangendo il capo del loro Sovrano. Maometto, dopo aver fatto esporre ai pubblici sguardi questo sanguinoso trofeo[141], concedè al suo rivale gli onori della sepoltura. Morto l'Imperatore, Luca Notaras, Gran Duca e primo Ministro dell'Impero[142], veniva dopo, come il più rilevante fra i prigionieri. Condotto a piè del trono co' suoi tesori, «e perchè, gli disse sdegnato il Sultano, non hai tu adoperati questi tesori in difesa del tuo Principe e della tua patria?» — «Essi ti appartenevano, rispose lo schiavo, Dio te gli aveva serbati». — «Se dunque mi erano serbati, replicò il despota, perchè hai avuta l'audacia di tenerli sì lungo tempo, e perchè ti sei fatta lecita una resistenza infruttuosa e funesta?». Il Gran Duca si scolpò allegando l'ostinazione degli ausiliari e alcuni incoraggiamanti segreti venutigli dal Visir; partì finalmente da questo pericoloso abboccamento con promessa fattagli di perdono e di vita. Trasportatosi indi Maometto a visitare la moglie di Notaras, principessa avanzata in età e oppressa da malattia e da cordogli, adoperò per consolarla le più tenere espressioni d'umanità e di figliale rispetto. Si mostrò del pari clemente co' primarj ufiziali dello Stato, di molti pagando egli stesso il riscatto, e chiarendosi per alcuni giorni l'amico e il padre de' vinti; ma cambiò ben presto la scena, e pochi giorni prima che egli partisse, l'Ippodromo fu macchiato del sangue de' più nobili prigionieri. I Cristiani parlano con raccapriccio della perfida crudeltà del vincitore; ne' loro racconti abbelliscono di tutti i colori d'un eroico martirio l'esecuzione del Gran Duca e de' suoi due figli, attribuendola al generoso rifiuto del padre che non volle consegnarli a saziare le turpi brame di Maometto. Ma uno Storico greco si è lasciato per inavvertenza sfuggire alcune parole di cospirazioni, di divisamenti di restaurare l'Impero di Bisanzo, di soccorsi che si aspettavano dall'Italia; trame di tal natura possono essere gloriose, ma il ribelle, abbastanza ardito per avventurarle, non ha diritto di lagnarsi se le sconta poi colla propria vita; nè merita biasimo un vincitore, se strugge nemici ne' quali non gli è più permesso il fidarsi. Il Sultano tornò nel giorno 18 giugno ad Andrinopoli, e sorrise sulle abbiette e ingannevoli congratulazioni inviategli dai Principi cristiani, che il presagio della prossima loro caduta vedeano in quella dell'Impero dell'Oriente.
Costantinopoli era rimasta vôta e desolata, priva di Sovrano e di popolo; ma niuno potea toglierle quell'ammirabile vantaggio di sito che la indicherà in tutti i tempi, siccome la Metropoli di un grande Impero, onde il Genio del luogo trionferà mai sempre delle vicissitudini delle età e della fortuna. Bursa e Andrinopoli, altra volta Capitali dell'Impero ottomano, non furono più che due città di provincia, poichè Maometto II pose la residenza propria e dei suoi successori sull'alto colle che a tal uopo Costantino avea scelto[143]. Ebbe l'antiveggenza di distruggere le fortificazioni di Galata, ove i Latini avrebbero potuto trovare un rifugio; ma non fu tardo nel far riparare i danni prodotti dall'artiglieria dei Turchi sulla Capitale; onde prima del mese di agosto, apparecchiata videsi immensa copia di calce a fine di ristorarne le mura, e il suolo, e gli edifizj pubblici e privati, sacri e profani, che tutti appartenevano al vincitore. Assegnò al suo Serraglio, o palagio uno spazio di otto stadj al vertice del triangolo; e quivi è che in seno della mollezza il Gran Signore (pomposo nome immaginato dagl'Italiani) regna in apparenza sull'Europa e sull'Asia, mentre nè la persona di lui, nè le rive del Bosforo sono in sicuro dagl'insulti di una squadra nemica. Concedè una ragguardevole rendita alla Cattedrale di S. Sofia, omai divenuta moschea, che guernita per ordine del Sultano di torricelle ( minaretti ), venne circondata di boschi e fontane, utili ad un tempo alle abluzioni dei Musulmani, e a procurar loro gradevoli rezzi. Un modello eguale fu preso per la costruzione dei giami, o moschee regie, la prima delle quali lo stesso Maometto edificò sulle rovine del tempio de' SS. Appostoli, e delle tombe de' greci Imperatori. Nel terzo giorno dopo la conquista, una invasione rivelò il sepolcro di Abu-Ayub, o Giob, stato ucciso durante il primo assedio che sotto le mura di Costantinopoli posero gli Arabi, e riverito qual martire; sulla cui tomba i nuovi Sultani cinsero d'allora in poi la spada imperiale[144]. Da questo punto Costantinopoli non appartiene più alle indagini dello Storico del romano Impero, nè quindi starommi a descrivere gli edifizj civili e religiosi che i Turchi profanarono, od innalzarono. Non tardò a tornare la popolazione, nè terminava il settembre, quando cinquecento famiglie si erano conformate al comando del Principe, che prescriveva loro, sotto pena di morte, di venire ad occupare le abitazioni della Capitale. Benchè il trono di Maometto fosse abbastanza difeso dai numerosi e fedeli suoi sudditi, con antiveggente politica egli aspirava a riunire il rimanente de' Greci, i quali accorsero in folla, quando si videro certi per le loro vite, per la lor libertà e per la professione del loro culto. L'elezione e la investitura del Patriarca venne eseguita cogli stessi cerimoniali che prima alla Corte di Bisanzo serbavansi. Laonde i Greci videro, con una soddisfazione non disgiunta da ribrezzo, il Sultano in mezzo a tutti gli apparati del regio fasto, consegnare nelle mani di Gennadio il Pastorale, simbolo del ministero ecclesiastico, che da questo Prelato si riassumeva, condurlo alla porta del Serraglio, presentarlo di un cavallo riccamente bardamentato, ordinare ai suoi Visiri e Pascià che il guidassero al palagio ai Patriarchi assegnato[145]. Scompartite fra entrambi i culti le chiese di Costantinopoli, vennero riconosciuti i limiti delle due religioni, e per sessant'anni, i Greci[146] godettero di queste distribuzioni regolate dalla giustizia, e de' vantaggi e de' privilegi della Chiesa greca, sintantochè, dopo questo volger di tempo, li violò Selim, nipote di Maometto. I difensori del Cristianesimo eccitati dai Ministri del Divano, solleciti d'ingannare il fanatismo di Selim, osarono sostenere che il parteggiamento ordinato da Maometto era un atto di giustizia, non di generosità; un Trattato, non un concedimento; e che se una metà di Costantinopoli fu presa di assalto, l'altra metà avea soltanto ceduto in virtù di una capitolazione; essere per vero dire caduta preda delle fiamme la patente che questi patti autenticava, ma supplire a tale perdita la testimonianza di tre vecchi giannizzeri, testimonianza comprata, che nondimeno sull'animo di Cantemiro ha maggior peso delle affermazioni positive ed unanimi degli autori contemporanei[147].
Abbandono all'armi turche i resti della Monarchia de' Greci nell'Europa e nell'Asia; ma scrivendo una Storia del decadimento dell'Impero romano in Oriente, devo accompagnare fino all'estinzione loro le due ultime dinastie[148] che regnarono a Costantinopoli. Demetrio e Tommaso Paleologo[149], fratelli di Costantino e despoti della Morea, rimasero soprappresi da estrema desolazione in udendo la morte dell'Imperatore e la rovina della monarchia. Privi di speranza di poterla difendere, si prepararono, non men de' Nobili che della lor sorte partecipavano, a cercare l'Italia, ove credeano che l'ottomano fulmine non li potrebbe percotere. Ma le prime loro inquietudini dissipò Maometto, che contentandosi di un tributo di dodicimila ducati, e inteso a devastare il Continente, e le isole che a mano a mano invadea, concedè ai popoli della Morea un respiro di sette anni; sette anni però che furono un periodo di cordogli, discordie e calamità. Trecento arcieri italiani più non bastavano a difendere l' Essamilione, quel baloardo dell'Istmo, sì di frequente rialzato e atterrato. I Turchi, impadronitisi delle porte di Corinto, tornarono da questa correria fatta nell'estiva stagione, con molto bottino e molta mano di prigionieri; della qual cosa querelandosi i Greci, vennero ascoltati con indifferenza e disprezzo. Gli Albanesi, tribù di pastori dediti al ladroneccio, portarono devastazione e morte per la penisola. Ridotti Demetrio e Tommaso ad implorare il fatale ed umiliante soccorso di un vicino Pascià, questi dopo avere soffocata la ribellione, prescrisse ai due Principi la regola di lor condotta. Ma nè i vincoli del sangue, nè i giuramenti rinovati a piè degli Altari, e all'atto della Comunione, nè la forza anche più imperiosa della necessità, valsero a calmare, o sospendere le domestiche loro querele. Ciascun d'essi mise a ferro e fiamme il territorio dell'altro, disperdendo in sì snaturata lotta le elemosine e i soccorsi venuti ad essi dall'Occidente, e adoperando il proprio potere unicamente ad atti barbari ed arbitrarj. Mosso dall'astio e dalle strettezze in cui si trovava, il più debole di essi ricorse al comune loro padrone; e quando fu maturo l'istante del buon successo e della vendetta, Maometto, chiaritosi l'amico di Demetrio, entrò con forze formidabili nella Morea. Poi occupata Sparta ( A. D. 1460), così disse al proprio confederato: «Voi siete troppo debole per tenere in freno una provincia sì turbolenta. Riceverò nel mio letto la figlia vostra, e voi passerete il tempo che vi rimane da vivere nella tranquillità, e in mezzo agli onori». Demetrio sospirò, ma obbedì. Consegnate le Fortezze e la figlia, seguì ad Andrinopoli il suo genero e Sovrano, dal quale ottenne pel mantenimento proprio e della sua Casa una città della Tracia e le addiacenti isole d'Imbros, Lenno e Samotracia. Ivi il raggiunse nel successivo anno un suo compagno d'infortunio, Davide, ultimo Principe della stirpe de' Comneni, il quale, fin d'allora che i Latini presero Costantinopoli, avea fondata sulla costa del mar Nero una nuova dominazione[150]. Maometto che continuava le sue conquiste nella Natolia, assediò con una squadra e un esercito la Capitale di Davide, che osava intitolarsi Imperatore di Trebisonda[151]. Ogni negoziazione si ridusse ad una interrogazione unica e perentoria: «Volete voi, gli chiese il Sultano, rassegnando il Regno, conservare le vostre ricchezze e la vita? o vi piace piuttosto perdere Regno, ricchezze e vita?» Il debole Comneno atterrito da tale inchiesta, imitò l'esempio di un suo vicino musulmano, il Principe di Sinope[152], che dopo una intimazione di tale natura, avea ceduto una città fortificata, quattrocento cannoni, e dieci, o dodicimila soldati. Gli articoli della capitolazione di Trebisonda (A. D. 1451) essendo stati adempiuti con tutta esattezza, Davide e la famiglia di esso vennero condotti in un castello della Romania. Ma poco dopo, essendo stato per lievi indizj preso in sospetto di mantenere una corrispondenza col Re di Persia, il vincitore immolò il Principe di Trebisonda e la famiglia del medesimo ai timori concetti, o alla propria cupidigia. Nè andò guari che il titolo di suocero del Sultano non fu all'infelice Demetrio una salvaguardia per sottrarsi alla confiscazione e all'esilio, perchè la sua abbietta sommessione, più che la pietà, il disprezzo di Maometto eccitò. I Greci del suo seguito vennero mandati a Costantinopoli, e a lui venne fatto un assegnamento annuale di cinquantamila aspri; sintantochè finalmente l'abito monastico e la morte, che in età grandemente avanzata il raggiunse, lo sciogliessero dalla podestà di un padrone terreno. Non sarebbe una quistione tanto facile da risolversi se la servitù incontrata da Demetrio sia stata più umiliante dell'esilio cui si condannò il fratello di esso, Tommaso[153]. Appena caduta in potere de' Turchi la Morea, si riparò questi a Corfù; indi in Italia con altri compagni, spogliati di tutto al pari di lui. Il suo nome, la fama delle sofferte sciagure, e la testa dell'Appostolo S. Andrea che si portò seco, gli ottennero ospitalità alla Corte del Vaticano, e un assegnamento annuale di seimila ducati, fattogli dal Papa e dai Cardinali, assegnamento che gli giovò a prolungare il corso di una miserabile vita. Andrea e Manuele, figli di Tommaso, vennero educati in Italia; il primogenito, sprezzato dai nemici, gravoso agli amici, s'invilì colla propria condotta e col matrimonio che contrasse. Non gli rimanendo più che il suo titolo di erede dell'Impero di Costantinopoli, lo vendè successivamente ai Re di Francia e d'Aragona[154]. Carlo VIII, ne' giorni della sua passeggera prosperità, aspirando ad unire l'Impero d'Oriente al Regno di Napoli, in mezzo ad una pubblica festa s'intitolò Augusto, e vestì la porpora de' Cesari; pel qual fatto i Greci allegraronsi, e paventarono gli Ottomani, credendo ad ogni istante veder giungere cavalieri francesi alle loro rive[155]. Manuele Paleologo, secondogenito di Tommaso, bramò rivedere la patria; e il ritorno di lui potendo sotto certi aspetti far piacere alla Porta, sotto nessuno intimorirla, trovò, per la grazia del Sultano, asilo e ospitalità in Costantinopoli; e quando morì, le esequie del medesimo vennero onorate da numeroso corteggio di Greci e di Musulmani. Avvi animali di sì generosa indole, che ricusano propagare la loro razza in istato di schiavitù. Ad una specie men nobile potrebbero a buon diritto dirsi appartenenti gli ultimi Principi della schiatta greca imperiale. Manuele accettò dalla generosità del Gran Signore due belle mogli, lasciando dopo di sè un figlio confuso fra la turba degli schiavi turchi, de' quali adottò l'abito e la religione.
A. D. 1455
Divenuti i Turchi padroni di Costantinopoli, fu sentita ed esagerata in Europa l'importanza di una tal perdita; e la caduta dell'Impero d'Oriente portò una macchia al Pontificato di Nicolò V, governo sott'altri aspetti, tranquillo e felice. Il dolore, o lo spavento che i Latini provarono, ridestò o ridestar parve l'entusiasmo delle Crociate. In una delle più rimote contrade dell'Occidente, nella città di Lilla fiamminga, Filippo, Duca di Borgogna, adunò i primarj suoi Nobili, presentandoli di una festa il cui pomposo apparecchio fu regolato in modo che facesse grande impressione negli animi e ne' sensi degli spettatori[156]. In mezzo ad un convito, comparve un Saracino, di statura gigantesca, conducendo un simulacro di elefante che sosteneva un Castello; usciva fuori del Castello una Matrona vestita a gramaglia che figurava la Religione. Deplorava questa le proprie sventure, accusando l'indolenza de' suoi campioni. Intanto avanzavasi il primo araldo dell'Ordine del Toson d'Oro, tenendo sul pugno un fagiano vivo, che offerse al Duca, giusta i riti della Cavalleria. Per corrispondere a questa bizzarra intimazione, Filippo, Principe in cui vecchia età e saggezza si univano, obbligò sè medesimo e tutte le proprie forze all'uopo di una guerra santa, da imprendersi contro i Turchi. I Baroni e Cavalieri convenuti a quest'Assemblea ne imitaron l'esempio, chiamando in testimonio del loro giuramento Dio, la Madonna, le Dame, e il fagiano, aggiugnendo voti particolari, non meno stravaganti del tenor generale di quel giuramento. Ma l'adempimento di tutte sì fatte obbligazioni dependendo da alcuni avvenimenti non anco avverati, ed estranei alla meditata impresa, il Duca di Borgogna, che visse altri dodici anni, potè, fino agli estremi della sua vita, mostrarsi persuaso, ed esserlo forse, di dover partire da un giorno all'altro. Se d'un eguale entusiasmo tutti gli animi fossero stati accesi in Europa, se l'unione de' Cristiani avesse pareggiato il loro valore, se da tutte le Potenze della Cristianità, dalla Svezia[157] venendo a Napoli, si fosse somministrato in giusta proporzione il contingente, spettante a ciascuna, di cavalleria, di fanteria e di sussidi, avvi motivo per credere, che gli Europei avrebbero riconquistata Costantinopoli e rispinti i Turchi oltre l'Ellesponto e l'Eufrate. Ma il Segretario dell'Imperatore, che scrivea tutti i dispacci, e che assistette ad ognuna delle Assemblee, Enea Silvio[158], uom preclaro per intendimento in politica e per li pregi del dire, ne dimostra, fondandosi su tutto ciò che avea veduto egli stesso, quanto lo stato della Cristianità in quei tempi, e la generale disposizione degli spiriti contrastassero coll'esecuzione di simile impresa. «La Cristianità, così si esprime, è un corpo privo di capo, una repubblica che non ha nè magistrati, nè leggi. Il Papa e l'Imperatore rifulgono di quella luce che deriva dalle eminenti dignità; son fantasmi che abbarbagliano la vista; ma, incapaci di comandare, non trovano chi voglia ad essi obbedire. Ogni paese è governato da un Sovrano particolare; ciascun Sovrano da parziali interessi. Qual'eloquenza potrebbe pervenire a radunare sotto uno stendardo medesimo un sì grande numero di Potenze, discordi fra loro per propria natura, nemiche le une delle altre? Quand'anche si giungesse a raccogliere le loro truppe, chi avvi che ardisse assumerne il comando? Qual ordine potrebbe instituirsi in questo esercito? qual disciplina militare prescrivere? Chi s'incaricherebbe di nudrire una moltitudine d'uomini tanto immensa? chi d'intenderne gl'idiomi, o di conciliarne le consuetudini incompatibili fra di loro? Qual uomo riuscirebbe a mettere insieme in pace gl'Inglesi e i Francesi, Genova e l'Aragona, gli Alemanni e i popoli dell'Ungheria e della Boemia? Se imprendiamo una tal guerra con poco numero di soldati, saremo oppressi dagl'Infedeli; se con grosso esercito, il saremo dal proprio nostro peso, dal disordinamento de' nostri». Cionnullameno, questo Enea Silvio fu quel medesimo, che, divenuto Papa, col nome di Pio II, trascorse il rimanente de' proprj giorni negoziando per una guerra da moversi ai Turchi. Questi parimente nel Concilio di Mantova destò alcune scintille di un entusiasmo, o vero fosse, o simulato; ma giunto ad Ancona per imbarcarsi egli stesso in compagnia delle truppe, le promesse de' Crociati andarono a terminare in iscuse; il giorno della partenza, che prima era stato dato con asseveranza, venne protratto ad un'epoca indefinita. L'esercito pontifizio si trovò composto soltanto di alcuni pellegrini alemanni, che lo stesso Papa fu costretto a rimandare, contentandoli con indulgenze e limosine. I successori di Pio II, e gli altri Principi dell'Italia, poco curanti dell'avvenire, dominati dal momento, non pensarono ciascuno che ad ingrandirsi dilatando i proprj confini: la distanza, o la prossimità degli oggetti era per essi la norma di giudicarne l'importanza, e la grandezza apparente era pure agli occhi loro la reale. Se avessero avuto più vaste e nobili mire, pel loro interesse medesimo, sarebbersi risoluti a sostenere una guerra marittima difensiva contro il comune nemico, e, col soccorso di Scanderbeg e dei suoi prodi Albanesi, avrebbero evitata l'invasione del Regno di Napoli. L'assedio di Otranto, presa indi e smantellata dai Turchi, sparse una generale costernazione; e già il Pontefice Sisto accigneasi a fuggire di là dall'Alpi, quando il nembo fu dissipato dall'avvenimento che pose fine alle imprese e alla vita di Maometto II (A. D. 1481), pervenuto all'età di cinquant'un anni[159]. Nell'ambizioso animo suo questo conquistatore agognava alla conquista dell'Italia, ove possedea già una città fortificata ed un vasto porto, e certamente, se viveva ancora, giusta ogni apparenza, avrebbe soggiogata, come la nuova, l'antica Roma[160].
CAPITOLO LXIX.
Stato di Roma dopo il secolo dodicesimo. Dominazione temporale de' Papi. Sedizioni nelle città di Roma. Eresia politica di Arnaldo da Brescia. Restaurazione della Repubblica. Senatori. Orgoglio de' Romani. Loro guerre. Vengono privati della elezione e della presidenza de' Papi, che si ritirano ad Avignone. Giubbileo. Nobili famiglie di Roma. Querele fra i Colonna e gli Orsini.
A. D. 1100-1500
Nel corso de' primi secoli del decadimento e del crollo dell'Impero romano, tenemmo immobilmente fissi gli sguardi sulla città sovrana che avea dato leggi alla più bella parte del Globo. Noi ne contempliamo i destini, prima con ammirazione, indi con sentimento di pietà, sempre con sollecitudine; e allorchè l'animo nostro si allontana dalla Capitale per esaminare le province, le riguardiamo sempre siccome rami, che successivamente si sono staccati dal corpo dell'Impero. La fondazione di una nuova Roma sulle rive del Bosforo, ne ha costretti a seguire i successori di Costantino, e trasportata la curiosità nostra nelle più rimote contrade dell'Europa e dell'Asia, per colà scoprire le cagioni e gli autori del lungo indebolimento della Monarchia di Bisanzo. Le conquiste di Giustiniano ne richiamarono in riva al Tevere per contemplar quivi la liberazione dell'antica Metropoli; ma fu tale liberazione, che ne cambiò soltanto, o ne aggravò forse la schiavitù. Roma avea già perduti i suoi trofei, le sue divinità e i suoi Cesari, nè la tirannide de' Greci fu meno umiliante, o oppressiva della dominazione dei Goti. Nell'ottavo secolo dell'Era cristiana, una disputa religiosa intorno al culto delle Immagini, eccitò i Romani a ricuperare la perduta independenza. Il loro Vescovo divenne[161] il padre temporale e spirituale di un popolo libero, e l'Impero d'Occidente, risorto per le geste di Carlomagno, abbellì collo splendor del suo nome la singolare costituzione della moderna Alemagna. Il nome di Roma si concilia mai sempre da noi un rispetto, che non sapremmo volergli negare. Questo clima, del quale non esamino or l'influenza, non era più il medesimo[162]; la purezza del sangue romano, passato per mille estranei canali, erasi contaminata; ma le venerabili rovine del Campidoglio, la rimembranza delle sue antiche grandezze, ridestarono una scintilla del carattere della nazione. Le tenebre del Medio Evo offrono alcune scene degne della nostra contemplazione, nè mi credo lecito il conchiudere quest'Opera senza volgere uno sguardo allo stato e alle vicende politiche della Città di Roma, che si sommise all'autorità temporale dei Papi ver l'epoca in cui i Turchi divennero padroni di Costantinopoli.
A. D. 800-1100
Nel principio del dodicesimo secolo[163], epoca della prima Crociata, i Latini rispettavano Roma, siccome la Metropoli del Mondo, siccome il trono del Papa e dell'Imperatore, i quali dalla Città Eterna conseguivano i titoli, gli omaggi di cui godevano, e il diritto, o l'uso del temporale loro dominio. Dopo avere per sì lungo tempo interrotta la Storia di questa Metropoli, non sarà inutile il ripetere in questo luogo, come una Dieta nazionale scegliesse al di là del Reno i successori di Carlomagno e degli Ottoni; e come questi Principi si contentassero del modesto titolo di Re d'Alemagna e d'Italia, sintantochè avessero varcato l'Alpi e l'Appennino per venire sulle rive del Tevere in traccia della Corona imperiale[164]. Giunti ad una certa distanza dalla città, riceveano gli omaggi del Clero e del popolo che correano ad essi incontro con Croci e rami d'olivo; le immagini de' lupi, de' lioni, dei draghi e dell'aquile, tutti questi terribili emblemi che sventolar vedeansi sulle bandiere, ricordavano le legioni e le Coorti che in altri tempi aveano combattuto per la Repubblica. L'Imperatore giurava tre volte di mantenere la libertà di Roma; la prima volta al ponte Milvio, un'altra alla porta della città, e finalmente sulla gradinata del Vaticano; indi le largizioni d'uso imitavano debolmente la magnificenza de' primi Cesari. Dal successore di S. Pietro, e nel tempio di questo Appostolo, l'Imperatore veniva coronato; i sacri cantici si confondevano colle voci del popolo, il cui consenso manifestavasi con queste acclamazioni: «Vittoria e lunga vita al Papa nostro Sovrano! Vittoria e lunga vita all'Imperatore nostro Sovrano! Vittoria e lunga vita ai soldati romani e teutonici[165]!» I nomi di Cesare e d'Augusto, le leggi di Costantino e di Giustiniano, l'esempio di Carlomagno e d'Ottone, confermavano la suprema dominazione degl'Imperatori; veniano scolpiti i loro titoli e le loro immagini sulle monete del Papa[166], e per autenticare la loro giurisdizione, metteano nelle mani del Prefetto della città la spada della giustizia; ma intanto il nome, le lingue e i costumi di un barbaro padrone ridestavano tutti i pregiudizj de' Romani. I Cesari della Sassonia e della Franconia non erano che i Capi di una feudale aristocrazia, nè poteano adoperare quella disciplina civile e militare che sola assicura l'obbedienza di un popolo lontano, impaziente del giogo della servitù, benchè forse incapace della libertà. Una sola volta in sua vita, ciascun Imperatore attraversava le Alpi conducendo seco un esercito di suoi vassalli alemanni. Ho descritto il tranquillo cerimoniale del suo ingresso e della sua incoronazione; ma erane assai di frequente turbato l'ordine dai clamori e dalla sedizione de' Romani, che si opponevano al proprio Sovrano come ad uno straniero che venisse ad invadere il lor territorio; sempre improvvisa, e spesso con vergogna per essi, accadeva la loro partenza. Se lungo era in appresso il lor regno, altrettanto durava la lor lontananza, e in questo mezzo, i Romani insultavano il potere imperiale e dimenticavano il nome degli Imperatori. I progressi dell'independenza nell'Alemagna e nell'Italia minarono le basi di questa sovranità, e il trionfo de' Papi fu la liberazione di Roma. L'Imperatore avea regnato per diritto di conquista; l'autorità del Papa fondavasi su l'opinione e la consuetudine, base meno imponente, ma salda di più. Il Pontefice, col liberare il proprio paese dalla prevalenza di un Principe straniero, si rendè più accetto al suo gregge, di cui veramente tornò a divenire il Pastore. La scelta del Vicario di Gesù Cristo, non dependendo più dalla nomina venale, o arbitraria di una Corte alemanna, veniva questi liberamente eletto dal Collegio de' Cardinali, la maggior parte originarj o abitanti di Roma. Gli applausi de' Magistrati e del popolo ne confermavano la nomina; onde per ultimo, potea dirsi derivata dal suffragio de' Romani questa Potenza ecclesiastica, alla quale nella Svezia e nella Brettagna obbedivasi. Que' medesimi suffragi che davano alla Capitale un Pontefice, la provvedevano di un Sovrano ad un tempo. Credeasi generalmente che Costantino avesse conceduto ai Pontefici il dominio temporale di Roma; talchè i giuspubblicisti più coraggiosi, i più audaci scettici, si limitavano a contrastare all'Imperatore il diritto di fare una tal donazione e la validità della medesima. L'opinione dell'autenticità, o della verità del fatto, avea poste profonde radici negli spiriti e per l'ignoranza, e per la tradizione di quattro secoli; e l'origine della favola si perdea all'aspetto di fatti che erano reali e durevoli. Il nome di Dominus, o di Signore, vedeasi scolpito sulla moneta del Vescovo; il diritto di lui veniva riconosciuto con pubbliche acclamazioni e giuramenti di fedeltà; il Vescovo di Roma, per consenso anche, o volontario, o forzato, degl'Imperatori alemanni, avea lungo tempo usata una giurisdizione suprema, o subordinata sulla città, o sul Patrimonio di S. Pietro. Oltrechè, il regno de' Papi, gradevole alle pregiudicate opinioni de' Romani, non era incompatibile colle loro libertà; e più sensate indagini avrebbero scoperta una sorgente anche più nobile del potere dei Papi, la gratitudine di una nazione che questi avevano tolta all'eresia e alla tirannide de' greci Imperatori. Non è difficile a comprendersi come, in un secolo di superstizione, la potenza regia e l'autorità sacerdotale dovessero l'una all'altra prestarsi forza, e come le chiavi del Paradiso fossero pel Vescovo di Roma il mallevadore più sicuro dell'obbedienza ch'egli volea ottener sulla Terra. I vizj personali[167] dell'uomo poteano, egli è vero, indebolire il carattere sacro del Vicario di Gesù Cristo; ma gli scandali del decimo secolo furono cancellati dalle virtù austere, e più pericolose, di Gregorio VII e de' suoi successori; onde nelle lotte di ambizione[168], che pei diritti della Chiesa sostennero, le sconfitte e i buoni successi li crebbero del pari nella venerazione del popolo. Vittime della persecuzione, furono veduti alcune volte errare nello squallore e nell'esilio; l'appostolico zelo, con cui si offerivano al martirio, non poteva a meno di commovere e conciliare ad essi gli animi di tutti i Cattolici. Tali altre volte, tonando dall'alto del Vaticano, creavano, giudicavano, rimovevano i Re della Terra; e il più orgoglioso fra i Romani non potea vergognare di sottomettersi ad un Sacerdote che vedea innanzi a sè i successori di Carlomagno, inchinati a baciargli il piede, o gloriosi di tenergli la staffa[169]. Anche un temporale interesse, consigliava alla città di Roma di difendere i Papi, e di assicurar loro tranquillo e onorato soggiorno nel proprio seno, poichè dalla sola presenza dei Papi, questo popolo, pigro quanto vanaglorioso, traeva in gran parte il vitto e le sue tante ricchezze. Gli è vero che la rendita stabile dei Pontefici erasi alquanto scemata, dacchè alcune mani sacrileghe aveano usurpato nell'Italia e nelle province un grande numero di dominj dell'antico Patrimonio di S. Pietro; perdita che non poteano compensare i vasti concedimenti di Pipino e de' suoi discendenti, più spesso reclamati che posseduti dal Vescovo di Roma; Ma una folla perpetua e ognor crescente di pellegrini e supplicanti nudriva il Vaticano e il Campidoglio; aumentatasi d'assai l'estensione della Cristianità, il Papa e i Cardinali non aveano posa pei tanti affari che lor derivavano dalle cause da giudicarsi, così ecclesiastiche come civili. In virtù di una nuova giurisprudenza[170], eransi introdotti nella Chiesa latina il diritto e l'uso delle appellazioni[171]; venivano sollecitati or con consigli, or con intimazioni i Vescovi e gli Abati del Settentrione e dell'Occidente a trasferirsi a Roma, per chieder grazie o portar querele, per accusare i loro nemici o per giustificarsi al Santuario de' Santi Appostoli. Citavasi un fatto che vuol essere riguardato siccome una specie di prodigio; vale a dire che due cavalli, spettanti all'Arcivescovo di Magonza e all'Arcivescovo di Colonia, rivalicarono l'Alpi, carichi tuttavia d'oro e d'argento[172]: nondimeno non tardò molto a vedersi come il buon successo de' pellegrini e de' clienti, meno alla giustizia della causa che al valor dell'offerta[173] fosse raccomandato. Cotesti stranieri faceano ostentato sfoggio di pietà e di ricchezze, e le loro spese, o sacre, o profane, per mille canali volgevansi all'utile de' Romani.
Ragioni tanto possenti doveano mantenere il popolo di Roma in una volontaria e pia sommessione verso il suo Padre temporale e spirituale. Ma l'opera del pregiudizio o dell'interesse è di frequente sconcertata dai moti indomabili delle passioni. Il Selvaggio che taglia l'albero per coglierne il frutto[174], l'Arabo che spoglia le carovane de' commercianti, sono animati dallo stesso impulso di una natura ancor rozza, che pensa al presente, non curandosi dell'avvenire, e sagrifica a momentanei diletti il lungo e tranquillo possedimento di più rilevanti vantaggi. In questa guisa, gli sconsigliati Romani profanarono la vigna di S. Pietro, rubarono le offerte de' Fedeli, offesero i pellegrini, senza calcolare il numero e il valore dei pellegrinaggi che il lor ladroneccio sacrilego interrompea. Anche l'influsso della superstizione è precario e variabile, e spesso l'avarizia, o l'orgoglio degli altri, diedero allo schiavo quella libertà che la sua soggiogata ragione non gli potea procurare. Gli oracoli de' preti[175] possono impadronirsi con forza della mente di un Barbaro; ma niuna mente, men di quella di un Barbaro, è proclive a preferire l'immaginazione ai sensi, a sagrificare i desiderj e gl'interessi di questo Mondo ad un motivo lontano, o ad un oggetto invisibile: nel vigore dell'età e della salute, i costumi di un tal uomo fanno continua lotta alla sua fede, lotta durevole sintanto, che la vecchiezza, le infermità, o gli infortunj destino nel suo cuore le paure, e lo spingano a soddisfare il duplice obbligo che la pietà e i rimorsi gl'impongono. Ho già altrove osservato, come l'indifferenza de' moderni tempi sulle cose religiose, sia oltre misura favorevole alla pace e alla sicurezza del Clero. Sotto il regno della superstizione, esso dovea sperar molto dall'ignoranza, ma temere anche molto dalla violenza degli uomini; il continuo aumento delle ricchezze de' sacerdoti avrebbe fatti questi i soli proprietarj di tutti i beni dell'Universo; ma che? questi beni, di cui largheggiava ad essi un padre pentito, venivano lor tolti da un figlio avaro; or si adoravano gli Ecclesiastici, or si commetteano attentati contro le loro vite; e gli stessi individui collocavano sull'Altare, o calpestavano il medesimo Idolo. Nel sistema feudale dell'Europa, le distinzioni e la misura de' poteri, sull'armi soltanto erano fondate; e nel tumulto che queste eccitavano, di rado la tranquilla voce della legge e della ragione ascoltavasi. Recalcitranti al giogo i Romani, insultavano la debolezza del loro Vescovo[176], che per effetto di ricevuta educazione e del suo carattere non potea convenevolmente, o con felice successo, valersi del diritto della spada. I motivi avutisi nell'eleggerlo, e le debolezze della sua vita erano l'argomento de' compagnevoli loro colloquj, e la prossimità del Pontefice diminuiva in essi quel rispetto che il nome e i decreti di lui negli animi di un barbaro Mondo imprimevano; osservazione che non isfuggì all'acume del nostro filosofo Istorico. «Intanto che il nome e l'autorità della Corte di Roma comprendean di terrore le più rimote contrade europee, immerse in una profonda ignoranza, e ignare affatto della condotta e del carattere del sommo Pontefice, questi era tenuto in sì poco rispetto dagl'Italiani, che i più inveterati nemici del medesimo assediavano le porte di Roma, ne sindacavano il governo entro la città; ed è accaduto che alcuni Ambasciatori, venuti dai confini d'Europa per testificare in Vaticano l'umile, o piuttosto abbietta, sommessione del maggior Monarca del suo secolo, durassero molta fatica prima di pervenire al trono appostolico, e poter prostrarsi ai piedi del Santo Padre[177].»
A. D. 1086-1305
Ne' primi tempi la ricchezza de' Papi eccitò invidia; la loro podestà trovò opposizioni, le lor persone si trovarono esposte a violenze. Ma la lunga guerra tra la Corona e la Tiara aumentò il numero e infiammò le passioni de' loro nemici. I Romani, sudditi e nemici ad un tempo del Vescovo e dell'Imperatore, non poterono mai parteggiare di buona fede, e con perseveranza, per gli odj mortali, che con tanto danno dell'Italia disgiunsero i Guelfi ed i Ghibellini; ma cercati da entrambe le fazioni, e sotto gli stendardi d'entrambe, spiegarono a vicenda sulle proprie bandiere l'Aquila alemanna, e le Chiavi del Principe degli Appostoli. Gregorio VII, che può essere o onorato, o detestato siccome il fondatore delle sovranità de' Pontefici, scacciato da Roma, morì in esilio a Salerno. Trentasei successori di questo Papa[178] sostennero fino al momento della loro ritirata in Avignone, una lotta disuguale contro i Romani: dimenticossi più d'una volta il rispetto dovuto ai loro anni e alla loro dignità; onde le Chiese, in mezzo alle religiose solennità, vidersi di frequente imbrattate da sedizioni e da stragi[179]. Il racconto di questi disordini sconnessi fra loro, privi di scopo, e sol suggeriti da una capricciosa brutalità, riuscirebbe noioso e sgradevole; quindi mi limiterò unicamente a narrare alcuni avvenimenti del dodicesimo secolo, atti a dipingere in quale stato allor si trovassero i Pontefici e Roma. Tra il 1099, e il 1118, mentre Pasquale II, nel giovedì della Settimana Santa, ufiziava, fu interrotto dalle grida della moltitudine che chiedea con imperioso tuono la conferma di un Magistrato da essa protetto. Il silenzio del Pontefice accrebbe il furore della ciurmaglia; e avendo egli ricusato di frammettersi negli affari della Terra, intantochè l'animo suo stava inteso a quelli del Cielo, gli fu annunziato con minacce e giuramenti ch'egli era per essere il promotore e lo spettatore della pubblica rovina. Poi nel giorno di Pasqua, trasferendosi egli col suo Clero, processionalmente e a piedi scalzi, alle Tombe de' Martiri, per due volte, una sul ponte S. Angelo, l'altra dinanzi al Campidoglio, venne assalito da un nembo di frecce e di sassi. Intanto si spianavano le case de' suoi partigiani; ond'ebbe a grande ventura il salvar la vita dopo avere corsi gravi pericoli. Levò indi un esercito nel Patrimonio di S. Pietro, e terminò i suoi giorni fra le acerbità di una guerra civile, e gemendo su que' disastri de' quali era stato egli stesso l'autore, o la vittima. Più scandalose ancora, sotto aspetti e religiosi, e civili, furono le scene che nel 1119 seguirono l'elezione di Gelasio II, successore di Pasquale II. Cencio Frangipani[180], possente e fazioso Barone, entrato in Conclave, furiosamente, e brandendo l'armi, spogliò, percosse, calpestò i Cardinali, e senza rispetto nè compassione al Vicario di Gesù Cristo, afferrò per la gola Gelasio, trascinandolo pe' capelli, non gli risparmiando percosse, ferendolo cogli speroni, e conducendolo in tal guisa fino alla propria abitazione, ove lo caricò di catene. Ma una sommossa del popolo liberò il Pontefice; e le famiglie rivali del Frangipani essendosi opposte ai costui furori, Cencio si vide costretto a chiedere perdono, benchè gl'increscesse meno della sua colpevole impresa che di non averla potuta condurre a termine. Pochi giorni dopo, il Pontefice assalito di bel nuovo a piè degli Altari, prese il tempo in cui i suoi nemici e i suoi partigiani si guerreggiavano a morte, per fuggirsene, vestito ancora degli abiti pontificali. I compagni di questa disastrosa fuga che eccitò tanta pietà negli animi delle matrone romane, vennero o dispersi, o balzati d'arcione, onde il Papa fu trovato solo, e mezzo morto di paura e di stento, ne' campi posti dietro alla chiesa di S. Pietro. Dopo avere, giusta il linguaggio della Scrittura, scossa la polve delle sue scarpe, l'Appostolo si allontanò da quelle mura, fra cui veniva insultata la sua dignità, la sua vita non era in sicuro; e confessando, senza volerlo, essere meglio assai l'obbedire ad un solo Imperatore che soggiacere a tanti padroni, fe' manifesta la vanità di questa possanza cotanto cercata dall'ambizione sacerdotale[181]. Basterebbero, non v'ha dubbio, cotesti esempj; ma non saprei starmi dal narrare le sventure che accaddero tra il 1144 e 1145 a Lucio II, e tra il 1181 e 1185, a Lucio III. Il primo di questi Pontefici, correndo in arnese guerresco all'assalto del Campidoglio, fu percosso in una tempia da un sasso, della qual ferita, pochi giorni dopo, spirò. Il secondo vide la sconfitta de' suoi partigiani coperti di ferite. Molti sacerdoti del suo corteggio essendo caduti prigionieri in una sommossa, i crudeli Romani cavarono a questi gli occhi, risparmiando un tal barbaro trattamento ad un solo, affinchè potesse farsi guida degli altri; poi fregiati, per derisione, di mitra, e costretti a cavalcare altrettanti giumenti colle facce volte alle code degli animali, dovettero giurare di mostrarsi in questo aggiustamento a capo del Clero, onde gli altri prendessero esempio da loro. La speranza, o il timore, la stanchezza, o il rimorso, le propensioni temporanee del volgo, ed altre eventuali circostanze produssero talvolta intervalli di pace e di sommessione: in questi, il Pontefice veniva fra giulive acclamazioni ricondotto nel palagio di Laterano, o nel Vaticano, d'onde le minacce e le violenze l'aveano discacciato. Ma profonda essendo la radice del male, questo continuamente covava; onde tali intervalli di calma erano preceduti e seguìti da sì fiere tempeste, che per poco la nave di S. Pietro non affondò. Roma offeriva continuamente lo spettacolo della guerra e della discordia: le diverse fazioni e famiglie non aveano miglior briga di fortificare e assediare chiese e palagi. Dopo aver data la pace all'Europa, Calisto II, che tenne la Cattedra pontificale fra il 1119 e il 1124, ebbe solo bastante possanza e fermezza per proibire ai particolari l'uso dell'armi nella Metropoli. Le sommosse di Roma eccitarono una generale indignazione presso i popoli che rispettavano il trono appostolico; e S. Bernardo, in una lettera ad Eugenio III suo discepolo, adopera tutta la vivacità del suo spirito e zelo, a delineare una pittura de' vizj di questa popolazione ribelle[182]: «Chi non conosce dice il Monaco di Chiaravalle, la vanità e l'arroganza de' Romani, popolo allevato nella sedizione, nazion crudele, intrattabile, che disdegna obbedire ogni qualvolta non sia tanto debole da non potere usar resistenza? Allorchè i Romani promettono di servire, aspirano a regnare; mentre vi giurano fedeltà, indagano l'istante opportuno per ribellarsi; se non sono ammessi ne' vostri consigli, se trovano chiuse le vostre porte, sfogano con violenti clamori il loro scontento. Abili a fare il male, non hanno mai imparata l'arte di fare il bene: odiosi al Cielo e alla Terra, empj verso le Divinità, dediti alla sedizione, gelosi de' loro vicini, crudeli verso gli estranei, nessuno amano, nessuno gli ama. Intantochè cercano d'inspirar timore, vivono eglino stessi in angosce continue ed obbrobriose; nè vogliono sottomettersi, nè sanno governarsi da sè medesimi; sleali verso i superiori; insopportabili agli eguali; ingrati a chi li benefica; imprudenti e se chiedono, e se ricusano; magnifici nel promettere, meschinissimi nell'adempire; per dir tutto, l'adulazione, la calunnia, la perfidia e la tradigione sono per lo più i soli accorgimenti della loro politica». Certamente questo lurido ritratto non fu colorato dal pennello della carità cristiana[183]; ma comunque bizzarro e tristo possa apparire, non è men vero che presenta la viva immagine de' Romani del secolo dodicesimo[184].
A. D. 1140
Gli Ebrei non aveano voluto riconoscere Gesù Cristo, allorchè apparve ai loro sguardi col carattere d'un uom del volgo; e parimente i Romani poteano non ravvisare nel Papa il Vicario di Cristo allorchè si mostrò loro avvolto in porpora e con orgoglio confacevole al Sovrano dell'Universo. La fermentazione degli animi, prodotta dalle Crociate, avea fatto risorgere nell'Occidente alcune scintille di curiosità e di ragione. La Setta de' Paoliziani, diffusasi da prima nella Bulgaria, venne a stanziarsi nell'Italia e nella Francia; mescolatesi colla semplicità del Vangelo le visioni de' Gnostici, i nemici del Clero posero in accordo le lor passioni e la loro coscienza, la divozione e l'amore della libertà[185]. Nel 1140, Arnaldo da Brescia[186], uomo non mai sollevatosi dagli ultimi gradi della Chiesa, e che vestendo l'abito di monaco, ravvisava in esso la divisa della povertà anzichè quella dell'obbedienza, primo diede fiato alla tromba della libertà romana. I suoi nemici che più d'una volta ridotti a mal partito dall'ingegno e dall'eloquenza di un tal uomo, non gli poteano contrastar questi pregi, confessavano a proprio malgrado la purezza speciosa della sua morale, onde gli errori di Arnaldo, andando uniti ad utili ed importanti verità, faceano impressione nel pubblico. Negli studj suoi teologici era stato discepolo del famoso e misero Abelardo[187], parimente caduto in sospetto di eresia; ma l'amante di Eloisa possedendo un'indole mansueta e pieghevole, coll'umiltà del pentimento i suoi giudici ecclesiastici disarmò. È cosa verisimile che Arnaldo abbia attinte alla scuola del suo maestro alcune definizioni metafisiche intorno la Trinità, contrarie alle massime de' suoi tempi: vennero vagamente censurate le idee da esso manifestate circa al Battesimo e all'Eucaristia; ma ad una eresia politica dovette la sua fama e tutte le sventure alle quali soggiacque. Osò rammentare quel detto con cui Gesù Cristo divulgava non appartenere a questo Mondo il suo regno, deducendone intrepidamente che gli onori e i possedimenti temporali erano il legittimo appannaggio de' laici; che gli Abati, i Vescovi e lo stesso Pontefice doveano rinunziare ai proprj dominj, o alla salute dell'anima; che, non parlandosi più di rendite di fondi, o capitoli per essi, le decime e le offerte volontarie de' Fedeli doveano bastar loro, e che queste ancora non erano già per metterli in istato di appagare le passioni del lusso e l'avarizia, ma per soccorrerli a condurre quella sobria vita che è anche addicevole a chi si dedica a spirituali fatiche. Un tal predicatore venne per qualche tempo colmato di patriottici onori, e colle sue pericolose dottrine diede ben presto eccitamento ai mali umori della città di Brescia giunta a ribellarsi contro al suo Vescovo. Ma il furor popolare è men durevole dell'odio sacerdotale; nè appena Innocenzo II[188] nel Concilio generale di Laterano ebbe condannata l'eresia di Arnaldo, il pregiudizio e la paura spinsero parimente le Magistrature di Brescia ad eseguire il decreto della Chiesa. Non potendo più trovare asilo in Italia, il discepolo di Abelardo attraversò l'Alpi, e videsi ben accolto in Zurigo, oggidì Capitale del principale fra i Cantoni della Svizzera, e che era stata, prima, un presidio de' Romani[189], indi villa reale, e casa di educazione per le figlie de' Nobili, ma divenuta a poco a poco una libera e fiorente città, ove i Commissarj dell'Imperatore giudicavano talvolta le appellazioni de' Milanesi[190]. Precursore di Zuinglio in un secolo men maturo alla riforma che quello di Zuinglio non l'era, fu nondimeno accolto con applausi da questo popolo valoroso ed ingenuo, il quale mantenne per lungo tempo nelle proprie opinioni il colorito che da Arnaldo avean ricevuto; il Vescovo di Costanza ed anche il Legato del Pontefice, sedotti o dal merito, o dalle sagaci arti di Arnaldo, giunsero a dimenticare a favor d'esso gli interessi del loro padrone e del proprio Ordine. Ma le violente esortazioni di S. Bernardo[191] avendo finalmente eccitato lo zelo di questi due Ecclesiastici, il nemico della Chiesa non trovò più partigiani, e ridotto a disperato partito, corse a Roma, ove a veggente del successor di S. Pietro innalzò lo stendardo della ribellione.
A. D. 1144-1154
Cionnullameno l'intrepidezza di Arnaldo non andava disgiunta da prudenza, perchè si vedea protetto, ed anche chiamato. Tonò eloquentemente dai Sette Colli per la causa della libertà, e mescolando nei suoi discorsi i passi di Tito Livio e di S. Paolo, le ragioni del Vangelo e l'entusiasmo della libertà che gli autori classici inspirano, diè a divedere ai Romani, quanto e per la lor sofferenza, e pe' vizj del Clero, avessero tralignato dai primi tempi della Chiesa e della Città. Li trasse colle sue esortazioni nel consiglio di ricuperare i loro diritti inalienabili d'uomini e di cristiani, a restaurare le leggi e i Magistrati della Repubblica, e a rispettar sì il nome d'Imperatore, ma a ridurre ad un tempo il loro Pastore a contentarsi del governo spirituale della sua greggia[192]. Pure nè manco questo Governo spirituale potè sottrarsi alle censure del Riformatore che insegnò al Clero inferiore, come dovesse resistere ai Cardinali, che aveano usurpata un'autorità dispotica su i ventotto rioni, ossia ventotto parrocchie di Roma[193]; il quale travolgimento di cose non potè farsi senza violenza e saccheggio, senza che si spargesse gran sangue, e atterrate venissero molte case. La fazione vittoriosa arricchì delle spoglie del Clero e dei Nobili della parte contraria. Arnaldo da Brescia ebbe tempo per godere, o deplorare gli effetti della sua impresa, perchè il regno di lui durò fra il 1144 e il 1154, nel quale intervallo di dieci anni, due Pontefici, Innocenzo II e Anastasio IV, or tremavano nel Vaticano, or vagavano esuli per le città de' dintorni. Un Pontefice più intrepido e più felice, salì finalmente il trono di S. Pietro, e in questi Adriano IV[194], il solo Inglese che abbia portata la tiara, e che da starsi nel monastero di S. Albano, per solo merito s'innalzò dallo stato di frate, e quasi di mendicante, alla cattedra pontificale. Egli diede idea di sè stesso fin dal momento del primo insulto fatto alla sua dignità: essendo stato ucciso, o ferito lungo la strada un Cardinale, lanciò anatema contro il popolo romano: da Natale a Pasqua la città fu priva de' conforti del culto religioso. I Romani che aveano disprezzato il loro Principe temporale, si sottomisero con dolore e spavento alle censure del loro Padre spirituale, espiando le commesse colpe col pentimento, e meritandosi l'assoluzione col bando del sedizioso predicatore. Non quindi soddisfatta la vendetta di Adriano, la imminente coronazione di Federico Barbarossa divenne funesta al riformatore che aveva offesi, benchè in una proporzione diversa, i Capi della Chiesa e quei dello Stato. In un parlamento che il Papa ebbe coll'Imperatore a Viterbo, gli dipinse i sediziosi furori, gl'insulti, e i timori ai quali la persona del Pontefice e il Clero trovavansi di continuo cimentati, e i funesti effetti dell'eresia di Arnaldo intesa a rovesciare ogni principio di subordinazione civile ed ecclesiastica. Federico si lasciò persuadere da queste ragioni, o sedurre fors'anche dalla brama di cingere l'imperiale corona. Ne' calcoli dell'ambizione, essendo affari di ben poca importanza l'innocenza, o la vita di un individuo, immolarono ad una riconciliazione momentanea il comune loro nemico. Arnaldo, dopo la sua ritirata da Roma, vivea sotto la protezione de' Visconti della Campania; l'Imperatore si valse della sua potestà per impadronirsene; il Prefetto della città ne pronunziò la sentenza; il martire della libertà (nell'anno 1155) fu arso vivo innanzi agli occhi d'un popolo indifferente ed ingrato; le ceneri di Arnaldo vennero gettate nel Tevere per timore che le reliquie di lui non divenissero un soggetto di venerazione agli Eretici[195]. Il Clero trionfò: la Setta dell'eresiarca fu dispersa non meno delle sue ceneri; ma la memoria di esso vivea ancora nello spirito de' Romani. Probabilmente alla scuola d'Arnaldo aveano attinto un nuovo articolo di fede, vale a dire che la Metropoli della Chiesa cattolica non è soggetta alle pene delle scomuniche e dell'interdetto. I Papi poteano rispondere che la giurisdizione suprema da essi adoperata sopra i Re e le nazioni, più particolarmente ancora comprendevano la città e la diocesi del Principe degli Appostoli. Ma chi gli ascoltava? Lo stesso principio che attenuava la forza delle folgori del Vaticano dovea temperarne l'abuso.
A. D. 1144
L'amore della libertà ha fatto credere che fin dal decimo secolo, e nelle prime lotte che ebbero cogli Ottoni, il Senato e il popolo romano restaurassero la repubblica; che tutti gli anni venissero scelti due Consoli fra i Nobili; che una Magistratura composta di dieci o dodici plebei facesse rivivere il nome e gli uffizj de' tribuni del popolo[196]; ma questo vistoso edifizio al lume della critica si dilegua. In mezzo alle tenebre del medio evo, scorgiamo, è vero, alcuna volta i titoli di Senatore, di Console, o di figlio di Console[197]; ma tali titoli venivano conceduti dagl'Imperatori, avvero i possenti cittadini se li davano da sè medesimi come distintivi del loro grado, della lor dignità[198] e fors'anche delle pretensioni che avevano di derivare da un'origine più pura e patrizia; ma non erano queste che apparenze prive di realtà e di conseguenza, fatte per additare un uomo, e non già un Ordine nel governo[199]. Solamente nel 1144, gli atti della Città incominciarono a contrassegnare le loro date dal risorgimento del Senato, come da un'epoca gloriosa pel popolo romano. L'ambizione di alcuni individui, e l'entusiasmo del popolo diedero affrettatamente forma ad una nuova costituzione; ma nel secolo dodicesimo, non eravi in Roma un antiquario, o un legislatore che fosse in istato di conoscere, e molto meno di ricondurre l'armonia e le proporzioni dell'antico modello. L'assemblea generale di un popolo libero e armato non può spiegarsi che con tumultuose e minaccevoli grida. Egli era ben difficile, che una cieca moltitudine, ignara delle forme e de' vantaggi di un governo ben combinato, adottasse la division regolare di trentacinque tribù, l'equilibrio delle centurie calcolate colle sostanze dei cittadini, le discussioni fra gli oratori degli opposti partiti, il lento metodo de' suffragi, messi ad alta voce, o per via di scrutinio. Arnaldo avea proposto il rinnovellamento dell'Ordine equestre; ma qual poteva essere il motivo, e quale la norma di una simile distinzione?[200] Come assoggettare a calcolo, colla povertà di que' tempi, la quantità necessaria di censo per appartenere alla classe de' Cavalieri? Non si abbisognava più degli uffizj civili, de' giudici e degli appaltatori del fisco; i feudi militari e lo spirito di cavalleria teneano vece più nobilmente del dover primitivo degl'individui dell'Ordine equestre, vale a dire del servigio che, in tempo di guerra, dovean questi prestare a cavallo. La giurisprudenza della repubblica era divenuta inutile, nè vi avea chi la conoscesse. Le nazioni e le famiglie italiane che obbedivano alle leggi della città di Roma, e alle leggi de' Barbari, aveano, senza accorgersene, formato un indigesto codice, ove una debole tradizione e imperfetti fragmenti conservavano la ricordanza delle Pandette di Giustiniano. I Romani avrebbero senza dubbio fatti risorgere colla loro libertà i titoli e gli uffizj de' Consoli, se non avessero fastidito un titolo, di cui tanto prodigalizzarono le città italiane, che finalmente divenne il solo distintivo per indicare gli agenti di commercio ne' paesi stranieri. Quanto ai diritti de' tribuni, il cui nome, formidabile un giorno, bastava ad arrestare i pubblici consigli, questi suppongono, o debbono produrre una democrazia autenticata dalle leggi. Le antiche famiglie patrizie erano suddite dello Stato; i Baroni moderni, i tiranni, i nemici della pace e della tranquillità pubblica, che insultavano il Vicario di Gesù Cristo, non avrebbero rispettato per lungo tempo il carattere d'un magistrato plebeo privo d'armi[201].
Ne fa or di mestieri osservare quegli avvenimenti che nel decorso del secolo dodicesimo, nuova Era per Roma ed epoca di una nuova esistenza, annunziarono o confermarono l'independenza di questa Capitale. 1. Il monte Capitolino, uno de' Sette Colli di Roma[202], è lungo circa quattrocento verghe, largo dugento. Una salita di cento passi conduce alla sommità della rocca Tarpea; salita che era assai più ardua, prima che le rovine degli edifizj ne avessero addolcito il pendio e colmati i precipizj. Fin dai primi secoli, il Campidoglio servì ad uso di tempio durante la pace, di Fortezza nelle stagioni di guerra; i Romani vi sostennero un assedio contro i Galli divenuti padroni della città; ne' tempi delle guerre civili tra Vitellio e Vespasiano[203], questo Santuario dell'Impero fu preso e dato alle fiamme. All'epoca istorica cui son pervenuto, i tempj di Giove e delle Divinità che gli facean corteggio, aveano dato luogo a monasterj e ad edifizj d'altra natura; distrutti intanto, o danneggiati dal tempo vedeansi il grosso muro e i lunghi portici che si scorgevano un giorno sul pendio della collina. Il primo uso che fecero i Romani di lor libertà, fu di fortificare nuovamente il Campidoglio al quale non per questo restituirono l'antica bellezza. Ivi posero la loro armeria, ivi teneano i consigli; e senza dubbio non potevano ascenderlo senza che i cuori i più freddi s'infiammassero alla rimembranza dei loro antenati. 2. I primi Cesari avevano il diritto privilegiato di far battere le monete d'oro e d'argento; cedettero al Senato quello di fabbricar monete di bronzo e di ottone[204], più vasto campo offerto agli emblemi e alle leggende di cui largheggiava l'adulazione, onde i Principi poterono dispensarsi dalla cura di celebrare eglino stessi le proprie virtù. Mostratisi meno ambiziosi dell'adulazione del Senato i successori di Diocleziano, i loro uffiziali ripresero a Roma e nelle province la soprantendenza di tutte le monete, prerogativa ereditata dai Goti che regnarono in Italia, non meno che dalle dinastie greche, francesi, alemanne. Il Senato di Roma ricuperò, nel secolo dodicesimo, questo diritto onorevole e lucroso di battere moneta, diritto che da otto secoli aveva perduto, e al quale sembrava che i Papi avessero rinunziato fin d'allora che Pasquale II portò oltre l'Alpi la sua residenza. Trovansi ne' gabinetti degli Antiquarj alcune di queste medaglie del dodicesimo, o del tredicesimo secolo, battute dalla Repubblica romana, fra le quali una in oro, sopra una faccia della quale è scolpito Gesù Cristo che tiene nella mano sinistra un libro con questa iscrizione: VOTO DEL SENATO E DEL POPOLO ROMANO, ROMA CAPITALE DEL MONDO; sta sulla parte opposta S. Pietro rimettendo la bandiera ad un Senatore in toga che gli è prostrato dinanzi, ed ha vicino a sè uno scudo ove sono scolpiti i nomi del Senatore e le armi di sua famiglia[205]. 3. Col declinare del poter dell'Impero, divenendo minori gli attributi del Prefetto della città, questi era finalmente disceso al grado di un uffiziale municipale: nondimeno rimaneva inappellabilmente in sua mano la giurisdizione civile e criminale; ricevea dai successori di Ottone una spada nuda in che consistevano la forma dell'Investitura a quella carica e l'emblema degli uffizj che le andavan congiunti[206]. Tal dignità non concedevasi che alle nobili famiglie di Roma: il Papa confermava l'elezione del popolo; ma i tre giuramenti, ai quali il nuovo Magistrato obbligavasi, gl'imponevano doveri contraddittorj, che forse lo avranno più d'una volta posto nell'imbarazzo[207]. I Romani divenuti independenti, fecero di meno di questo servo, il quale per così dire non apparteneva loro che per una terza parte, mettendo in vece di lui un patrizio; ma un sì fatto titolo, che Carlomagno non aveva sdegnato, era troppo grande per un cittadino, o per un suddito, onde, cessato il primo fervore della sommossa, acconsentirono senza fatica che fosse nuovamente nominato un Prefetto. Circa un mezzo secolo dopo, Innocenzo III, il più ambizioso, o certamente il più felice de' Pontefici, liberò i Romani e sè stesso da ogni avanzo di sommessione ad un Principe straniero, concedendo al Prefetto l'Investitura, mediante una bandiera e non più una spada, e chiarendolo assoluto da ogni specie di giuramento, o servigio verso gl'Imperatori alemanni[208]. Il governo civile di Roma venne affidato ad un ecclesiastico, o cardinale, o posto sulla strada di divenirlo; ma limitata oltremodo erane la giurisdizione, e nei tempi della libertà di Roma sol dal Senato e dal popolo ricevea le facoltà congiunte colla sua carica. 4. Dopo il risorgimento del Senato[209], i Padri Coscritti, se mi è lecito valermi di un tale vocabolo, vennero insigniti de' poteri legislativo ed esecutivo; ma la lor vista non estendeasi oltre all'orizzonte che li comprendea, e questo orizzonte era per lo più intorbidato dai tumulti e dalle violenze. Allorchè l'Assemblea era compiuta, la componeano in tutto cinquantasei Senatori[210], i primarj de' quali distingueansi col nome di Consiglieri; li nominava il popolo, forse ogn'anno; ma ciascun cittadino non dava il proprio voto che per la scelta degli elettori, de' quali ve ne avea dieci per ciascun rione, o parrocchia; la qual forma presentava ancora la base più salda di una libera costituzione. I Papi che, in questa civile burrasca, trovarono più espediente tenersi al porto per non naufragare, confermarono con un Trattato l'instituzione e i privilegi del Senato; aspettando dal tempo, dalla pace e dall'influsso della religione l'istante di riacquistare il perduto potere. I Romani, mossi talvolta da riguardi di pubblico, o privato interesse, faceano qualche sagrifizio momentaneo delle loro pretensioni, ed era allora che rinovavano il giuramento di fedeltà al successore di S. Pietro e a Costantino, Capo legittimo della Chiesa e della Repubblica[211].
In una città priva di leggi, mancando di unione e vigore i consigli pubblici, dovettero ben tosto i Romani ricorrere ad una forma di amministrazione più semplice e vigorosa. Un solo Magistrato, o due al più, vennero insigniti di tutta l'autorità del Senato, e non rimanendo eglino in carica che sei mesi, o un anno, la breve durata del loro governo contrabbilanciava l'estensione de' loro uffizj; pure i Senatori di Roma profittavano di questi istanti di regno per soddisfare la loro avarizia ed ambizione; per interessi di famiglia, o di parte, prevaricavano nelle loro sentenze; e non gastigando che i proprj nemici, sol fra i partigiani trovarono sommessione. Cotesta anarchia, non più temperata dalle pastorali cure del Vescovo, fece accorti i Romani della loro incapacità a governarsi da sè medesimi, onde cercarono di fuori que' vantaggi che dai proprj concittadini sperare omai non potevano. Nel medesimo tempo, gli stessi motivi indussero la maggior parte delle italiane Repubbliche ad adottare un provvedimento, che comunque possa apparire stravagante, pure era, il più confacevole allo Stato cui si vedeano ridotte[212]; e fu quello di scegliere in una città estranea, purchè fosse confederata, un Magistrato imparziale, di famiglia nobile e d'illibato carattere, guerriero ad un tempo e uomo di Stato, e che unisse a proprio favore i suffragi della fama e della sua patria. Ad un tale uomo delegavano per un determinato intervallo, così in tempo di pace come in tempo di guerra, il Governo. Il Trattato fra il Governatore e la Repubblica che lo chiamava nel proprio seno, veniva corroborato da giuramenti e sottoscrizioni, e in esso regolavansi colla più scrupolosa esattezza i doveri scambievoli de' contraenti, e la durata del potere, e l'ammontare dello stipendio da corrispondersi al Magistrato straniero. Giuravano i cittadini di obbedirgli, come a legittimo loro superiore, egli, di unire all'imparzialità di uno straniero quello zelo che avrebbe potuto pretendersi da un uomo nato in quella patria medesima. Chiamavasi Podestà[213]; e sceglieva egli stesso quattro, o sei Cavalieri o Giureconsulti che lo soccorressero nella guerra e nell'amministrazione della giustizia; il mantenimento della sua casa, ornata siccome convenivasi alla dignità, era a sue spese; non si permetteva nè alla moglie, nè ai figli, nè ai fratelli di lui, de' quali temeasi la prevalenza, d'accompagnarlo. Finchè durava nella Magistratura, non potea comprar poderi, o contrar leghe nel paese governato, nè tampoco accettare inviti in casa di un cittadino. Non sarebbe tornato in patria con onore, se prima non avesse data soddisfazione sulle doglianze che fossero potute sorgere sull'amministrazione da lui sostenuta.
A. D. 1252-1258
In questa guisa tra il 1252, e il 1258, i Romani chiamarono da Bologna italiana il Senatore Brancaleone[214], il cui nome e i pregi ha salvati dall'obblio uno Storico dell'Inghilterra. Sollecito della propria fama, e ben istrutto delle difficoltà che a sì grande carica andavano unite, questo Bolognese ricusò da prima l'onorevole incarico che offerto venivagli; ma arrendutosi finalmente, la durata del suo governo venne determinata a tre anni, nel quale intervallo di tempo, gli statuti della città rimasero sospesi. I colpevoli e i malvagi lo accusavano di crudeltà, il Clero lo sospettò di parzialità; ma gli amici della pace e del buon ordine, ritornati, per opera di questo Magistrato, nel possedimento di tali beni, ne encomiarono la fermezza e la rettitudine. Niun reo fu abbastanza potente per affrontarne la giustizia, o seppe tenersi assai occulto per isfuggirne gli effetti. Morirono per sentenza del medesimo sopra un patibolo due Nobili della famiglia Annibaldi; ad un cenno di Brancaleone, sordo a parziali riguardi, vennero atterrate in Roma e nelle campagne all'intorno cenquaranta torri, asili di masnadieri. Non distinguendo il Papa da un semplice Vescovo, lo costrinse a starsene nella sua diocesi: i nemici di Roma temettero e sperimentarono quanto valessero l'armi di questo Capo. Ma i Romani indegni della felicità che per esso avevano conseguita, pagarono d'ingratitudine i servigi del loro benefattore: eccitati dai ladroni pubblici d'ogni genere, de' quali erasi acquistato l'odio col proteggere la cosa pubblica, lo rimossero dalla carica confinandolo in un carcere, e se ne risparmiarono la vita, fu perchè Bologna avea, per la sicurezza di questa vita, ricevuti mallevadori. Brancaleone, prima di abbandonare la patria, era stato abbastanza antiveggente per pretendere che fossero mandati in ostaggio a Bologna trenta individui delle prime famiglie romane. Seppesi appena il pericolo in cui trovavasi a Roma il Podestà, la moglie di esso richiese che si facesse più severa guardia agli ostaggi; e Bologna, fedele all'onore, le censure pontifizie affrontò; la qual generosa resistenza lasciò il tempo ai Romani di paragonare col passato il presente; e Brancaleone, tratto finalmente dal carcere, venne ricondotto fra le acclamazioni del popolo al Campidoglio. Continuò indi a governare con fermezza e buon successo; talchè quando la morte del medesimo impose silenzio all'invidia, la testa dell'uom preclaro, racchiusa entro prezioso vaso, venne posta ad onore in cima ad una grande colonna di marmo[215].
A. D. 1263-1278
Essendosi ben presto veduto che la ragione e la virtù non avevano bastante forza, i Romani, in vece di assoggettarsi con volontaria obbedienza ad un semplice cittadino, scelsero a Senatore un Principe, che già munito di potere independente, si trovasse in istato di difenderli contra i nemici esterni e contra sè stessi. I lor suffragi si unirono a favore di Carlo d'Angiò (A. D. 1263-1278), Principe il più ambizioso e guerriero del proprio secolo, il quale accettò nel medesimo tempo e il Regno di Napoli offertogli dal Papa, e l'uffizio di Senatore che il popolo romano gli concedeva[216]. Avviandosi egli alla conquista del nuovo Regno, passò per Roma ove ricevette il giuramento di fedeltà dai cittadini; alloggiò nel palagio di Laterano, ed ebbe, durante questo soggiorno, una massima cura di non lasciar conoscere, benchè fortemente espressa in tutti i tratti della vita di questo Sovrano, la sua indole dispotica. Nondimeno egli sperimentò l'incostanza del popolo, che accolse di poi con eguali acclamazioni l'emulo del Principe d'Angiò, il misero Corradino, e i Papi videro con torvo occhio nel principe francese un sì possente rivale della loro supremazia sul Campidoglio. Benchè l'autorità di Senatore gli fosse stata conferita a vita, venne ordinato in appresso che dovrebbe rinovarsene l'Investitura ogni terz'anno; talchè l'inimicizia di Nicolò III potè finalmente costringere il Re di Sicilia a rassegnare il governo di Roma. Questo imperioso Pontefice, mediante una Bolla divenuta indi legge perpetua, pose in campo l'autenticità e la validità della donazione di Costantino, non meno essenziale alla pace di Roma che all'independenza della Chiesa; decretò che il Senatore verrebbe eletto ciascun anno, promulgando incapaci di assumere tale incarico gl'Imperatori, i Re, i Principi, e tutti i personaggi di grado troppo eminente ed illustre[217]. Ma Martino IV, che, nel 1281, sollecitava umilmente i suffragi del popolo per essere eletto Senatore, ritrattò le esclusioni pronunziate dalla Bolla di Nicolò III; onde, a veggente del popolo, e in virtù della popolare autorità, due elettori conferirono, non già al Pontefice, ma al nobile e fedele Martino, la dignità di Senatore e l'amministrazione suprema della Repubblica, vita durante dello stesso Pontefice[218], con diritto di adempirne gli uffizj, o da sè medesimo, se così gli parea, o per via di delegati. Cinquant'anni dopo all'incirca, venne conceduto lo stesso titolo all'Imperatore Lodovico di Baviera, grande conferma per la libertà di Roma, riconosciuta in tal guisa da due Sovrani, che accettarono un uffizio municipale nell'amministrazione della propria loro Metropoli.
A. D. 1144
Allorquando Arnaldo da Brescia avea sollevati gli spiriti contro la Chiesa, i Romani cercarono destramente di cattivarsi, ne' primi istanti della sommossa, la buona grazia dell'Imperatore, e di far valere i proprj meriti e il servigio che venivan prestando alla causa di Cesare. Le dicerie tenute dai loro Ambasciatori a Corrado III e a Federico I, offrono una mescolanza di adulazione e d'orgoglio, di ricordanze venute loro per tradizione e d'ignoranza in cui sulla propria Storia giacevansi[219]. Nell'arringa fatta al primo di questi due Principi (A. D. 1144), dopo alcuni cenni di lagnanza sul silenzio da lui serbato, e sulla poca premura che sembrava ei dimostrasse alla sorte di Roma, lo esortarono a valicar l'Alpi e a venire a ricevere dalle loro mani la Corona imperiale. «Noi supplichiamo la Maestà Vostra, gli dicevano, a non disdegnare la sommessione de' suoi figli e vassalli, e a non ascoltare le accuse de' comuni nostri avversarj che dipingono il Senato siccome il nemico del trono di Vostra Maestà, seminando germi di discordia per raccogliere frutta di distruzione. Sire, il Papa e il Siciliano hanno stretta un'empia lega tra loro; vogliono opporsi alla nostra libertà, e alla vostra coronazione. Il nostro zelo e il nostro coraggio, ne sieno grazie all'Altissimo, hanno respinto finora il lor tentativo. Noi abbiamo prese d'assalto le case e le Fortezze delle famiglie potenti, e soprattutto de' Frangipani, che a questi nostri nemici son dediti. Abbiamo soldati in alcune di queste rocche, altre ne abbiamo spianate. Il Ponte Milvio, che essi aveano rotto, e per opera nostra restaurato e munito, vi offre un varco; il vostro esercito può senza tema di essere molestato, dalla parte di Castel Sant-Angelo, introdursi nella città. In tutto quanto operammo fin qui, e in tutto quanto siamo per operare, non avemmo altro scopo fuor della vostra gloria e del servigio vostro, non dubitando noi che fra poco verrete voi stesso a ricuperare i diritti usurpati dal Clero, a far risorgere l'imperiale Dignità, a superare in rinomanza e splendore tutti i vostri predecessori. Possiate voi fermare la vostra residenza in Roma, nella Capitale del Mondo, dar leggi all'Italia e al Regno teutonico, e imitare Costantino e Giustiniano[220], che mercè il vigore del Senato e del popolo, ottennero lo scettro del Mondo[221]!». Ma queste prospettive luminose e fallaci non sedussero gran fatto Corrado, i cui sguardi a Terra Santa volgevansi, e che poi, reduce dalla Palestina, morì fra poco, e Roma nol vide.
A. D. 1155
Federico, nipote e successore di Corrado (A. D. 1155), apprezzò molto di più l'imperiale Corona, e più assolutamente di tutti i suoi predecessori governò il Regno d'Italia. Circondato da' suoi Principi secolari ed ecclesiastici, diede, nel suo campo di Sutri, udienza agli Ambasciatori di Roma che questo ardito e pomposo discorso gli addrizzarono. «Porgete orecchio alla Regina delle città; venite con intenzioni pacifiche ed amichevoli entro il recinto di Roma; essa ha infranto il giogo del Clero, ed è impaziente di coronare il suo legittimo Imperatore. Possano sotto il vostro felice influsso ritornare gli antichi tempi! Sostenete i diritti della Città Eterna, e fate che pieghi sotto il dominio della medesima l'insolenza degli altri popoli. Non evvi certamente ignoto che, ne' primi secoli, la saggezza del Senato, il valore e la disciplina dell'Ordine equestre, estesero le armi di Roma, vincitrici nell'Oriente e nell'Occidente, al di là dell'Alpi e sulle isole dell'Oceano. I nostri peccati aveano fatto, che, in tempo della lontananza de' nostri Principi, cadesse in dimenticanza il Senato, quella tanto nobile istituzione; onde collo scemare dalla nostra saggezza, la nostra forza scemò. Abbiamo restaurato il Senato e l'Ordine equestre; l'uno consagrerà i suoi consigli, l'altro le sue armi alla vostra persona e al servigio dell'Impero. Non udite voi il linguaggio della città di Roma? Essa vi dice: Voi eravate il mio ospite, vi ho fatto mio cittadino[222]. Eravate straniero di là dall'Alpi, vi ho scelto per mio Sovrano; mi son data a voi; ho posto nelle vostre mani quanto mi apparteneva. Il primo, il più sacro de' vostri doveri, è giurare, sottoscrivere che verserete il vostro sangue per la Repubblica, che manterrete la pace e la giustizia nel seno di essa, che osserverete le leggi della città e le patenti de' vostri predecessori, e che, per dare un compenso ai fedeli vostri Senatori, dai quali verrete acclamato in Campidoglio, sborserete cinquemila libbre d'argento. Finalmente, col nome di Augusto, assumetene anche il carattere». La fastosa eloquenza degli Ambasciatori non s'era ancora sfogata abbastanza, ma Federico impazientitosi della costoro vanità, non li lasciò continuare, e prese con essi il linguaggio d'un monarca e d'un conquistatore. «Il valore di fatto e la saggezza de' primi Romani, così gl'interruppe, furono celebri; ma non trovo la stessa saggezza in questa vostra diceria, e vorrei che nelle vostre azioni si ravvisasse il coraggio di quegli Antichi. Non meno di tutte l'altre cose del Mondo, Roma ha sofferte le vicissitudini del tempo e della fortuna. Le più nobili vostre famiglie sonosi trapiantate nella città regia edificata da Costantino, ed è lungo tempo che i Greci e i Franchi hanno stremato quanto rimanea delle vostre forze e della vostra libertà. Volete voi rivedere l'antica gloria di Roma, la saggezza del Senato e il coraggio de' Cavalieri, la disciplina del campo e il valore delle legioni? troverete tutto ciò nella Repubblica di Alemagna. L'Impero non si partì ignudo e spogliato da Roma. Anche i suoi ornamenti e le sue virtù valicarono l'Alpi, per rifuggirsi presso un popolo che ne è più degno[223]; saranno adoperati a difendervi; ma ne sia prezzo la vostra sommessione. Voi dite che i miei antecessori, od io, fummo chiamati dai Romani. È impropria una tale espressione; non ci hanno chiamati, implorarono la nostra venuta. Carlomagno e Ottone, le cui ceneri riposano su questo suolo, liberarono Roma dai tiranni stranieri e domestici che l'opprimevano, e il lor dominio fu il guiderdone d'avervi liberati. I vostri maggiori vissero, morirono sotto questo dominio. Siete miei, e vi chiedo a titolo di eredità, di cosa che mi appartiene. Chi oserà sottrarvi dalle mie mani? Le braccia de' Franchi e dei Germani son forse indebolite per vecchiezza?[224] Son io vinto? son prigioniero? Non mi vedo fors'io circondato dagli stendardi di un esercito potente e invincibile? Voi imponete condizioni al vostro padrone! voi pretendete giuramenti! se giuste le condizioni, i giuramenti sono superflui; se ingiuste, divengono un delitto. Potete forse dubitare di mia giustizia? Questa si diffonde sopra l'ultimo de' miei sudditi. Dopo avere restituito all'Impero romano il Regno di Danimarca, non saprò io difendere il Campidoglio? Voi prescrivete la misura e l'uso delle mie liberalità! Le spargo, è vero, con profusione; ma sono sempre volontarie. Tutto io concederò al merito rassegnato, tutto ricuserò alla importunità[225] ». Non poterono sostenere, nè l'Imperatore queste alte pretensioni di dominio, nè il Senato, le sue pretensioni di libertà. Federico, unitosi al Papa, e divenuto sospetto ai Romani, continuò il suo cammino alla volta del Vaticano; una sortita che i cittadini fecero dal Campidoglio turbò la coronazione; si sparse molto sangue; ma il numero e il valore degli Alemanni trionfarono; pure, ad onta di questa vittoria, Federico non si credette sicuro sotto le mura di una città, della quale s'intitolava Sovrano. Dodici anni dopo, volendo collocare un Antipapa sul trono di S. Pietro, assediò Roma, e dodici galee pisane entrarono nel Tevere; ma artifiziose negoziazioni, e un morbo epidemico che pose gli assedianti a tristo partito, salvarono il Senato ed il popolo, e d'indi in poi, nè Federico, nè i successori di lui, rinovarono sì fatta impresa. I Papi, le Crociate e l'independenza della Lombardia e dell'Alemagna, diedero ad essi cure bastanti. Cercarono anzi in lega i Romani, e fu allora che Federico II presentò il Campidoglio del grande stendardo, detto il Carroccio di Milano[226]. Estinta la Casa di Svevia, gl'Imperatori alemanni vennero confinati di là dall'Alpi, e le loro ultime coronazioni davano a divedere quanto i Cesari Teutonici fossero deboli e rifiniti[227].
Sotto il regno di Adriano, allorchè l'Impero estendeasi dal monte Atlante alle Grampiane colline, uno Storico dotato di grande immaginazione così presentava ai Romani il quadro delle prime loro guerre[228]. «Sora ed Algido, (chi 'l crederebbe?) furono oggetto di terrore; Satrico e Comicolo valsero per due province. Ci vergogniamo di aver combattuto con i Veruli, e coi Bovilli, e sì ne menammo trionfo. Tivoli, ora sobborgo, e Preneste divenuta al presente estiva delizia, si attaccavano offrendosi prima voti al Campidoglio. Tanto riputavasi Fiesole in quel tempo quanto Carra adesso; il bosco Aricino quanto la selva Ercinia; Fregella quanto Gesoriaco; il Tevere quanto l'Eufrate; ed, oh gran, vergogna! l'espugnazione di Coriolo riputata fu di gloria cotanta, che Caio Marcio Coriolano ne assunse il nome, come se debellata si fosse Numanzia, o l'Affrica tutta». Questa antitesi fra il passato e il presente seducea l'orgoglio de' contemporanei di Floro; qual sarebbe stata la loro umiliazione, se avesse potuto ad essi presentare l'immagine dell'avvenire, o vaticinare che dopo dieci secoli, Roma, spogliata d'impero, rinchiusa negli antichi suoi limiti, rincomincerebbe le medesime ostilità su quegli stessi territorj che ne abbellivano le ville e i giardini. Il paese che fiancheggia le due rive del Tevere veniva continuamente preteso siccome Patrimonio di S. Pietro, e posseduto sotto un simile titolo; ma i Baroni allora non conoscevano nè padroni, nè leggi, e le città troppo fedelmente imitavano le sommosse, e le discordie della Metropoli. I Romani de' secoli dodicesimo e tredicesimo si adoperarono senza posa a sottomettere, o distruggere i vassalli ribelli della Chiesa e del Senato; e se alcuna volta il Pontefice moderò le interessate loro mire e la violenza della loro ambizione, sovente ancora gl'incoraggiò col soccorso delle spirituali sue armi. Le picciole loro guerre furono quelle de' primi Consoli, e de' primi Dittatori che venivano tolti all'aratro. Assembratisi in armi alle falde del Campidoglio, uscivano dalla città, saccheggiavano, o ardevano i ricolti de' vicini, faceano tumultuose scaramucce; indi, dopo una spedizione di quindici, o venti giorni, fra le loro mura tornavano. Lunghi e mal condotti erano gli assedj; i vincitori si abbandonavano alle ignobili passioni della gelosia e della vendetta, ed anzichè rendersi più forti coll'amicarsi il nemico vinto, e profittare del suo valore, non pensavano che ad annientarlo. I prigionieri supplicavano per ottenere perdono in camicia e avvinti il collo da una fune; il vincitore intanto atterrava i baloardi e perfino le case delle soggiogate città rivali, e ne sperdea gli abitanti nei villaggi posti all'intorno. Per tal modo, e per un effetto di queste feroci ostilità, vennero successivamente distrutte le città di Porto, di Ostia, di Albano, di Tuscolo, di Preneste e di Tibure[229], o Tivoli, residenze de' Cardinali Vescovi. Porto e Ostia, le due chiavi del Tevere, non si rialzarono più mai[230]; le rive paludose e mal sane di questo fiume son coperte da torme di bufoli; esso è perduto pel commercio e per la navigazione. Le colline che offrivano refrigeranti ricetti contro l'arsura degli ultimi giorni della state, ripresero colla pace la primitiva vaghezza: sorta è Frascati in vicinanza alle rovine di Tuscolo: Tibure, o Tivoli, ha riacquistato il grado di picciola città[231]; e i borghi meno estesi di Albano e di Palestrina dalle ville de' Cardinali e dei Principi romani ricevono abbellimento. La struggitrice ambizione dei Romani fu spesse volte contenuta e repressa dalle città vicine e dai confederati di queste. Nel primo assedio di Tivoli, vennero scacciati dal loro campo; e nell'instituir paragone fra le due epoche di Roma che ora consideriamo, possono venire a raffronto le battaglie di Tuscolo[232] e di Viterbo[233], accadute l'una nel 1167, l'altra nel 1234, e le memorabili giornate del Trasimeno e di Canne. Nella prima di queste picciole guerre, trentamila Romani furono sconfitti da mille uomini di cavalleria alemanna che Federico Barbarossa avea inviati in soccorso di Tuscolo, e stando ai calcoli i più autentici e i più moderati, tremila furono i morti, duemila i prigionieri. Sessant'anni dopo, i Romani marciarono contro Viterbo, città dello Stato ecclesiastico, trovandosi in quella spedizione tutto il nerbo di Roma; e per effetto di una singolar lega, l'Aquila de' Cesari videsi sventolare congiunta alle Chiavi di S. Pietro sugli stendardi d'entrambi gli eserciti; e gli ausiliari del Papa erano comandati da un Conte di Tolosa e da un Vescovo di Winchester. Obbrobriosa fu la sconfitta de' Romani, che perdettero moltissimi di loro gente; se però è vero che il Prelato inglese abbia fatto sommare il numero de' combattenti a centomila, e a trentamila quello de' morti, la sola vanità di pellegrino gli poteva avere suggerita una simile esagerazione. Quand'anche rifabbricando il Campidoglio, fosse stato possibile il far risorgere la politica del Senato e la disciplina delle legioni, tanto era divisa l'Italia, che sarebbe stata lieve impresa il conquistarla per la seconda volta. Ma, ove parlisi di merito militare, i Romani d'allora non valeano più delle repubbliche circonvicine, alle quali erano poi inferiori nell'arti. L'ardor guerriero dei medesimi per breve tempo durava; e se talvolta secondavano qualche impeto di disordinato entusiasmo, ben presto ricadeano nel letargo, divenuto connaturale alla nazione, e trascurate le istituzioni militari, ricorreano per la loro difesa all'umiliante e pericoloso soccorso de' mercenarj stranieri.
L'ambizione è un loglio che cresce di buon'ora e rapidamente nella vigna del Signore[234]; sotto i primi Principi cristiani, la cattedra di S. Pietro veniva disputata dalla venalità e dalla violenza che vanno unite ad una elezione popolare. Il sangue contaminava i Santuarj di Roma, e dal dodicesimo al tredicesimo secolo venne da frequenti scismi turbata la Chiesa. Fintantochè il Magistrato civile pronunziò inappellabilmente su queste dissensioni, il disordine fu passeggiero e locale; fossero giudici del merito il favore, o l'equità, l'emulo escluso non potea impedire, o tardare il trionfo del suo rivale. Ma poichè gl'Imperatori ebbero perdute le antiche loro prerogative, poichè ebbe preso fondamento la massima che il Vicario di Gesù Cristo non può essere chiamato in giudizio da alcun Tribunale della terra, a ciascuna vacanza della Santa Sede, la Cristianità correa rischio di vedersi dilacerata dallo scisma e dalla guerra. Le pretensioni de' Cardinali e del Clero inferiore, de' Nobili e del popolo, vaghe erano e soggette a litigi; la libertà delle elezioni spariva per le sommosse di una città che non conoscea più superiori. Morendo un Pontefice, le due fazioni procedeano, in separate chiese, ad una doppia elezione. Il numero e il peso de' suffragi, l'epoca della cerimonia, il merito de' candidati erano altrettanti argomenti di rissa; i membri più rispettabili del Clero si guerreggiavan fra loro; e i Principi stranieri adoravano la Potenza spirituale senza poter distinguere la divinità vera dall'idolo[235]. Sovente gli stessi Imperatori prestarono occasione agli scismi col volere opporre un Pontefice nemico ad un Pontefice dedicato ai loro interessi. Ciascuno de' competitori sofferiva gli oltraggi de' satelliti del suo rivale, che non erano arrestati da alcuno scrupolo di coscienza nell'inferirli, e si vedea ridotto a comperarsi partigiani coll'appagare l'avarizia degli uni, l'ambizione degli altri. Alessandro III finalmente, nell'anno 1179, instituì un ordine di successione tranquillo e durevole[236], abolendo le elezioni tumultuose del Clero e del popolo, e attribuendo al solo Collegio dei Cardinali il diritto di scegliere il Papa[237]; e il non partecipare di questo privilegio pose ad uno stesso livello i Vescovi, i Sacerdoti ed i Diaconi. Il Clero parrocchiale di Roma ottenne il primo grado nella gerarchia; gli Ecclesiastici de' quali era composto, venivano presi indistintamente da tutte le nazioni della Cristianità; nè i possedimenti de' più ricchi Benefizj e de' Vescovadi più ragguardevoli erano incompatibili col titolo che questi Ecclesiastici ottenevano in Roma, nè cogli uffizj che quivi adempievano. I Senatori della Chiesa cattolica, i Coadiutori e i Legati del sovrano Pontefice, insigniti allora della porpora, simbolo della regia podestà, o del martirio, si pretendevano eguali ai Re; nè, fino ai giorni di Leone X, avendo ecceduto di numero i venti, o i venticinque, questa scarsezza rialzava sempre più la lor dignità. Per questo saggio provvedimento, dissipati gli scandali e le incertezze, rimase sì compiutamente troncata la radice dello scisma, che in un intervallo di sei secoli venne solo una volta il caso di duplice elezione. Accadde però che ad ogni elezione abbisognando due terzi de' suffragi, l'interesse e le passioni de' Cardinali spesse volte la differissero; intervallo di regno independente per essi che lasciava troppo a lungo la Cristianità priva di Capo. Di fatto correano tre anni di sede vacante, allorchè i suffragi si unirono a favore di Gregorio X, il quale volle togliere un sì fatto abuso per l'avvenire (A. D. 1274)[238] pubblicando una Bolla, che dopo avere sofferte varie obbiezioni, venne per ultimo nel Codice delle leggi canoniche registrata. Per essa si concedono nove giorni da impiegarsi nelle esequie del Pontefice defunto, e per dar tempo ai Cardinali assenti di convenire in Roma; nel decimo giorno, a tenore della ridetta Bolla, vengono confinati, con un servente per cadauno, entro una stanza comune, o conclave, non tramezzata da muri, o da tappezzerie, e munita di una sola finestrella, onde introdurre per essa le cose di cui i porporati prigionieri possano abbisognare; tutte le porte dell'edifizio dedicato al conclave vengono chiuse e affidate alla guardia de' Magistrati civili, affinchè non vi sia comunicazione di sorte alcuna fra l'interno e l'esterno; se l'elezione non è accaduta in termine di tre giorni, i Cardinali non possono più sperare pel lor nudrimento che una pietanza la mattina, ed un'altra la sera, e dopo altri dieci giorni trascorsi vengono messi a pane ed acqua, e picciola dose di vino: finchè dura la sede vacante, i Cardinali non possono por mano nelle rendite della Chiesa, nè frammettersi in affari di amministrazione, eccetto in alcuni casi di necessità, che sono rarissimi; ogni sorte di convenzioni e promesse è formalmente nulla fra gli elettori, l'illibatezza de' quali debb'essere guarentita da giuramenti, e sostenuta dalle preci de' Fedeli. Sono state in appresso arrecate diverse modificazioni sopra alcuni articoli il cui rigore appariva inutile quanto molesto; ma il precetto della clausura è rimasto nella sua integrità; onde il motivo della salute e il desiderio di riacquistare la libertà sono un grande impulso ai Cardinali per affrettare un tale momento. L'introduzione però dello scrutinio ha posto sopra le sorde pratiche de' Cardinali[239] uno specioso velo di riguardi di amore del prossimo e di urbanità[240]. In tal modo i Romani vennero privati della facoltà di eleggersi il loro Principe e Vescovo; ma in mezzo alla effervescenza della libertà che credeansi avere riconquistata, non si accorsero di perdere il più essenziale dei privilegi; privilegio che Lodovico di Baviera (A. D. 1328) seguendo le tracce di Ottone il Grande, volle ai medesimi restituire. Dopo alcune negoziazioni coi Magistrati, assembrò i Romani[241] dinanzi alla Chiesa di S. Pietro; nel qual luogo, rimosso dal soglio Giovanni XXII, Papa di Avignone, la scelta del successore di questo Pontefice venne ratificata dal consenso e dall'approvazione del popolo. Con una nuova legge liberamente adottata, fu statuito che il Vescovo di Roma non dimorerebbe mai fuori della città più di tre mesi l'anno, nè se ne allontanerebbe per un intervallo maggiore di due giornate di cammino; passati i quali termini, nè arrendendosi dopo una terza intimazione, sarebbe, come farebbesi con qualsivoglia altro impiegato pubblico, scacciato dalla sua residenza, e spogliato della sua carica[242]. Ma Lodovico non avea posto mente alla propria debolezza e alle opinioni pregiudicate de' tempi ne' quali vivea; fuor del ricinto del campo imperiale, il fantasma di Pontefice da lui fatto non potè ottenere veruna specie di considerazione: i Romani ebbero a vile la propria loro creatura; l'Antipapa implorò il perdono del suo Sovrano legittimo[243]; e questo assalto tentato fuor di tempo contro il privilegiato diritto de' Cardinali, a farlo più fermo giovò.
Se l'elezione de' Pontefici fosse tutte le volte seguita nel Vaticano, non sarebbero stati impunemente violati i diritti del Senato e del popolo; ma i Romani lasciarono cadere in dimenticanza cotali diritti durante l'allontanamento de' successori di Gregorio VII, che non si credettero obbligati a riguardare siccome precetto divino la residenza nella propria città, o diocesi. Men solleciti della cura particolare di questa diocesi, che del Governo universale della Chiesa, non poteano i Papi trovar dilettevole il soggiorno in una città, ove presentavansi continui impacci al loro potere, ove le loro persone a frequenti rischi vedeansi commesse. Laonde, fuggendo le persecuzioni degl'Imperatori e le guerre d'Italia, si rifuggirono, al di là dell'Alpi, nelle ospitali terre della Francia; altre volte per mettersi in sicuro contro le sedizioni di Roma, vissero e morirono in Anagni, in Perugia, in Viterbo, e nelle città circonvicine, ove trascorreano i giorni con maggiore tranquillità. Quando il gregge trovavasi offeso, o impoverito per la lontananza del Pastore, manifestava a questo in tuono imperioso, che S. Pietro avea collocata la propria Cattedra, non in un oscuro villaggio, ma nella Capitale del Mondo; lo minacciavano d'impugnar l'armi per correre a distruggere la città e gli abitanti così arditi per offerirgli ricetto. Allora i Papi obbedivan tremando; e appena giunti in Roma si chiedeva ad essi compenso pei danni derivati dalla lor diserzione; veniva ai medesimi rassegnata la lista delle case rimaste disaffittate, delle derrate che non ebbero spaccio, delle spese dei servi e degli stranieri stipendiati dalla Corte, che non erano tornate a profitto di Roma[244]. Poi dopo che avevano goduto alcuni intervalli di pace, e fors'anche di autorità, venivano da rinascenti sedizioni scacciati, e chiamati di bel nuovo or da imperiose intimazioni, or da rispettose sollecitazioni del Senato. In tali momenti, gli esuli e i fuggitivi, che seguivano la ritirata del Papa, poco scostavansi dalla Metropoli, ove non tardavano a ritornare; ma nel principio del secolo decimoquarto, il trono appostolico fu trasferito, a quanto sembrava per sempre, dalle rive del Tevere a quelle del Rodano, trasmigrazione che potè dirsi un effetto della violenta disputa accaduta fra Bonifazio VIII e il re di Francia[245]. Alle armi spirituali del Papa, la scomunica e l'interdetto (A. D. 1294-1308), vennero contrapposte l'unione de' tre Ordini del Regno e le prerogative della Chiesa gallicana; ma il Papa non potè sottrarsi ad altre armi più reali che Filippo il Bello ebbe il coraggio di adoperare. Standosi Bonifazio in Agnani, senza prevedere il pericolo che lo minacciava, il palagio e la persona di lui vennero assaliti da trecento uomini a cavallo, che Guglielmo di Nogaret, Ministro di Francia, e lo Sciarra-Colonna, Nobile romano, nemici del Papa, avevano posti in campo. Datisi i Cardinali alla fuga, gli abitanti di Agnani dimenticarono la fedeltà e la gratitudine che dovevano al loro Sovrano. Solo ed inerme, l'intrepido Bonifazio, si assise sulla sua scranna, aspettando, ad esempio degli antichi Senatori, il ferro de' Galli. Il Nogaret, estranio al nemico cui mosse guerra, si limitava ad eseguire gli ordini ricevuti dal proprio padrone; e il Colonna soddisfaceva il suo odio personale, opprimendo con ingiurie, e persino con percosse, il Pontefice; in sostanza i duri trattamenti e dell'uno e dell'altro che durarono tutti tre i giorni della cattività di Bonifazio, ne aveano irritata l'ostinazione al punto di mettere la vita di lui in pericolo. Pure questo indugio di cui non saprebbe spiegarsi bene il motivo, ridestando il valore de' partigiani della Chiesa, diede loro il tempo di moversi; talchè il Pontefice potè campare dalle sacrileghe mani che lo teneano in catene. Ma dopo la mortale ferita che il carattere imperioso di cotest'uomo aveva sofferto, non potè più riaversi, e morì a Roma, preso da un impeto di risentimento e di rabbia. Due notabilissimi vizj, l'avarizia e l'orgoglio, disonorarono la memoria di questo Papa; laonde il suo medesimo coraggio, che nella causa della Chiesa fu quello d'un martire, non valse a meritargli l'onore della canonizzazione. «Fu un magnanimo pescatore, dicono le Cronache di quella età, che con accorgimento di volpe s'impadronì del trono appostolico, vi si mantenne con coraggio di lione, vi morì di rabbia a guisa di cane». Gli succedè Benedetto XI, il più mansueto degli uomini, che però, ad onta della sua mansuetudine, scomunicò gli empj emissarj di Filippo il Bello, e mandò sulla città e sulla popolazione d'Agnani spaventevoli maledizioni, delle quali gli spiriti superstiziosi credono scorgere ancora gli effetti[246][247].
A. D. 1140
Morto Benedetto XI, l'accorgimento della fazione francese trionfò della lunga perplessità del Conclave col porre un partito, che la parte contraria indicasse tre Cardinali, fra i quali la prima sarebbe stata obbligata a sceglierne uno nel termine di quaranta giorni; speciosa offesa che venne accettata. L'Arcivescovo di Bordò nemico acerrimo del suo Re e della sua patria, fu primo ad essere posto in lista. Ma conosciuta era l'ambizione di questo porporato; un pronto messaggio avendo fatto inteso il Re che la scelta del Papa stava nelle sue mani, l'Arcivescovo seppe conciliare le voci della sua coscienza colle seduzioni del donativo che venivagli offerto. Le condizioni furono regolate in un parlamento privato; e seguì il tutto con tanta segretezza e celerità, che il Conclave applaudì unanimemente alla elezione dell'Arcivescovo di Bordò, che prese il nome di Clemente V[248]. Ma i Cardinali di entrambe le fazioni ricevettero ben tosto con comune maraviglia il comando di seguire il Pontefice al di là dell'Alpi, e s'accorsero che non doveano più far conto di tornare a Roma. Ne' patti segreti testè menzionati, Clemente V aveva promesso di trasferire la residenza pontificia in Francia, al qual soggiorno per proprio genio propendea. Dopo avere condotta attorno la sua Corte pel Poitou e per la Guascogna, dopo aver rovinate le città ove dimorava, e i conventi che trovava lungo il cammino, pose finalmente il suo domicilio in Avignone[249], rimasta per oltre a settantasette anni[250] la fiorente residenza del Pontefice di Roma e la Metropoli della Cristianità. Da tutte le bande, e per terra, e per mare, e lungo il Rodano, Avignone offre un facile accesso; le province meridionali della Francia non la cedono in bellezza a quelle dell'Italia; il Papa e i Cardinali vi fabbricarono palagi; i tesori della Chiesa condussero ivi ben tosto l'arti del lusso. Già i Vescovi di Roma possedeano la Contea del Venesino,[251] paese popolato e fertile, contiguo ad Avignone. Approfittandosi indi della gioventù e delle angustie in cui trovavasi Giovanna I, Regina di Napoli e Contessa di Provenza, comperarono da essa la Sovranità d'Avignone, che non pagarono più di ottantamila fiorini[252]. All'ombra della francese Monarchia, e in mezzo ad un popolo obbediente, i Papi rinvennero quella esistenza tranquilla e onorevole cui da tanto tempo erano peregrini. Pur l'Italia deplorava la loro lontananza; e Roma, solitaria e povera, dovette chiamarsi pentita di quell'indomabile spirito di libertà, che avea scacciati i successori di S. Pietro dal Vaticano; ma tardo ed inutile diveniva un tal pentimento. Col morire de' vecchi individui del Sacro Collegio, si andava questo a mano a mano empiendo di Cardinali francesi[253], che odiando e tenendo a vile Roma e l'Italia, perpetuarono una sequela di Pontefici tolti in seno di lor nazione, ed anche nella provincia ove risedeano, e affezionati con vincoli indissolubili alla lor patria.
A. D. 1300
I progressi dell'industria aveano formate e arricchite le Repubbliche dell'Italia; il tempo della loro libertà è l'epoca più fiorente per esse della popolazione e dell'agricoltura, delle manifatture e del commercio, e i loro lavori, da prima meccanici, condussero a poco a poco le arti dell'ingegno e del lusso. Ma la situazione di Roma era men favorevole, il suolo men fertile; i suoi abitanti inviliti dall'amore dell'ozio, inebbriati dall'orgoglio, s'immaginavano stoltamente che i tributi de' sudditi dovessero nudrir sempre la Metropoli della Chiesa e dell'Impero. La moltitudine de' pellegrini che visitavano le tombe degli Appostoli seguiva in tal qual modo a mantenere i Romani in simile abbaglio; l'ultimo Legato de' Papi, l'instituzione dell' Anno Santo[254], non fu men utile al popolo che al Clero. Dopo la perdita della Palestina, la beneficenza delle indulgenze plenarie assegnata alle Crociate, divenia priva di scopo, e rimase pel corso di otto anni stagnante il più prezioso tesoro della Chiesa. Bonifazio VIII, ambizioso in uno ed avaro[255], gli aperse un nuovo canale. Egli era istrutto quanto bastava per aver cognizione dei Giuochi Secolari, che sul finire di ciascun secolo si celebravano a Roma. Per esplorare senza pericolo la credulità popolare, venne composta una predica su questo argomento. Dopo sorde vociferazioni ad arte sparse, e dopo aver condotte opportunamente in campo le testimonianze di alcuni vecchi, nel giorno I gennaio del 1300, la chiesa di S. Pietro ringorgò di Fedeli, che gridavano ad alta voce per implorare le indulgenze dell'Anno Santo come era consueta cosa il concederle. Il Pontefice che spiava ed eccitava ad un tempo la devota loro impazienza, si lasciò facilmente persuadere, udite le testimonianze de' vecchi, della giustizia di questa domanda, e pubblicò un'assoluzione plenaria, a favore di tutti i Cattolici, che nel corso di quell'anno, e alla fine di ciascun secolo, visiterebbero umilmente le chiese de' Santi Pietro e Paolo; felice novella che si divulgò ben presto per tutta la Cristianità. Dalle province più vicine dell'Italia sulle prime, indi dalle più rimote contrade, quali erano l'Ungheria e la Brettagna, vidersi sciami di pellegrini che coprivano le strade, sospirosi di ottenere il perdono de' loro peccati, mercè un viaggio, aspro e dispendioso per vero dire, ma che almeno i rischi del servigio militare non offeriva. In mezzo a questo generale entusiasmo, vennero dimenticati tutti i riguardi che il grado o il sesso, la vecchiezza o le infermità potevano meritare, e tal fu la sollecitudine della divozione, che molti individui perirono calpestati per le strade e per le chiese in mezzo alla folla. Non è sì facile calcolare con esattezza il numero de' pellegrini, probabilmente esagerato dal Clero, abile nel diffondere la contagion dell'esempio. Ma uno Storico giudizioso che risedeva a Roma in que' giorni, assicura che durante il giubbileo non si trovarono mai meno di dugentomila stranieri nella città; e un altro testimonio afferma che in tutto l'anno vi concorsero più di due milioni di pellegrini. La più lieve offerta per parte di ciascun individuo avrebbe bastato a somministrare un immenso tesoro: ma due preti, muniti di rastri, non avevano notte e giorno altra faccenda che di raccogliere, senza contarli, i mucchi d'oro e d'argento tributati all'altar di S. Paolo[256]. Fortunatamente era un anno di pace e d'abbondanza, e benchè fossero care le biade ed enormi i prezzi delle osterie e degli alloggiamenti, l'accorto Bonifazio e gli avidi Romani aveano avuta l'antiveggenza di apparecchiare inesausti magazzini di pane e di vino, di carne e di pesce. In una città sfornita di commercio e d'industria, spariscono presto le ricchezze meramente accidentali. La cupidigia e la gelosia della successiva generazione la mossero a chiedere a Clemente VI[257] un secondo Anno Santo senza aspettar la fine del secolo. Il Papa ebbe la pieghevolezza di acconsentire, anche per concedere a Roma un tenue compenso di quanto essa aveva perduto per la traslocazione della Santa Sede; e a fine di non venire accusato di mancare alle leggi de' suoi predecessori, fondò la nuova assoluzione plenaria del 1350 sulla legge mosaica, dalla quale prese il nome di Giubbileo[258]. Si obbedì alla voce del Santo Padre, nè i pellegrini cedettero in numero, zelo e liberalità a quelli del primo Giubbileo. Ma soggiacquero al triplice flagello della guerra, della pestilenza e della fame; ne' castelli dell'Italia non venne rispettato il pudore delle vergini e delle matrone, e i feroci Romani, non più rattenuti dalla presenza del loro Vescovo, spogliarono ed assassinarono un grande numero di stranieri[259]. Vuole, non v'ha dubbio, attribuirsi all'avidità de' Papi l'accorciato intervallo de' Giubbilei, prima di cinquant'anni, poi di trentatre, finalmente di venticinque. La durata però del secondo di questi intervalli aveva avuto per suo ragguaglio il numero degli anni della vita di Gesù Cristo. La profusione delle Indulgenze, il numero dei Fedeli portato via dal Protestantismo, l'indebolimento della superstizione, diminuirono la rendita de' Giubbilei; ciò nondimeno l'ultimo che si è celebrato (il decimonono) fu un anno di gioia e di profitto per li Romani; nè, in ordine a ciò, il sorriso del filosofo turberà il trionfo del Clero e la prosperità di una popolazione[260].
Nell'incominciamento dell'undicesimo secolo, l'Italia vedeasi in preda alla feudale tirannide, gravosa del pari al Sovrano ed al popolo. Le numerose italiane repubbliche, dilatando ben tosto la loro libertà e dominazione nelle campagne circonvicine, vendicarono i diritti della natura umana. Rotta la spada de' Nobili, fatti liberi i loro servi, spianatene le Castella, questi ritornarono in seno alla società, e ripigliate le consuetudini dell'obbedienza, l'ambizione loro agli onori municipali si limitò; nelle orgogliose aristocrazie di Venezia e di Genova ciascun patrizio si mostrò sottomesso alle leggi[261]. Solo il debole e irregolare Governo di Roma non potè domare i suoi figli ribelli, che nella città, e fuor delle mura, disprezzavano l'autorità del Magistrato. Non era più una lotta civile fra i Nobili e i plebei che il Governo dello Stato si contendessero; i Baroni, mantenendo coll'armi la loro independenza, fortificavano i lor palagi e castelli in guisa che potessero reggere ad un assedio; e nelle domestiche loro querele metteano in campo numerose bande di vassalli e di servi. Non li rannodava al loro paese o l'origine, o alcun sentimento di affetto[262]; onde un vero Romano avrebbe respinti lungi da sè questi superbi stranieri che, disdegnando il nome di cittadini, assumeano orgogliosamente il titolo di Principi romani[263]. Per una sequela di oscure rivoluzioni, le famiglie aveano perduti i loro archivj; aboliti erano i soprannomi; il sangue di diverse nazioni mescolato erasi per mille canali all'antico; e i Goti, e i Lombardi, e i Greci, e i Franchi, e i Germani, e i Normanni avevano dal favor del Sovrano ottenuti i più bei possedimenti, siccome un tributo meritato dal valore. È cosa facile da immaginarsi che non altrimenti accader doveano le cose; ma l'innalzamento di una famiglia di Ebrei al grado di Senatori e di Consoli è il solo avvenimento di sì fatto genere, che troviamo in mezzo alla lunga cattività di questi sciagurati proscritti[264]. Sotto il Regno di Leone IX, un ebreo ricco e fornito d'ingegno, abbracciò il Cristianesimo, e ottenne al Sacro Fonte l'onore di cambiare l'antico nome in quello del regnante Pontefice, suo patrino. Pietro figlio del medesimo, avendo mostrato zelo e coraggio nella causa di Gregorio VII, questo Papa gli concedè il governo del Molo d'Adriano, detto indi la Torre di Crescenzio, oggi giorno Castel S. Angelo. Numerosa prole ebbero il padre ed il figlio: le lor ricchezze radunate dall'usura passarono nelle più antiche tra le famiglie romane; e tanto crebbero i parentadi, e il loro influsso, che un nipote del convertito giunse ad assidersi sulla Cattedra di S. Pietro. Sostenuto dalla maggiorità del Clero e del popolo, regnò molti anni sul Vaticano col nome di Anacleto, e l'invilimento del titolo di Antipapa gli derivò soltanto dall'eloquenza di S. Bernardo e dal trionfo d'Innocenzo III. Dopo la caduta e la morte di Anacleto la famiglia di lui non comparisce più nella Storia, nè avvi fra i Nobili moderni chi volesse da ebraica prosapia discendere. Non è mio disegno il dar qui a conoscere le famiglie romane che si estinsero a diverse epoche, o quelle che fino ai nostri giorni sonosi mantenute[265]. La famiglia de' Frangipani, contò Consoli nel risorgimento della Repubblica, e trae il proprio nome dalla generosità ch'essa ebbe di frangere, dividere il suo pane col popolo in tempo di carestia, ricordanza ben più gloriosa che non è quella di avere, siccome i Corsi e i loro aderenti, racchiuso un grosso quarto della città entro il recinto delle proprie fortificazioni. I Savelli, di derivazione, a quanto sembra, sabina hanno mantenuto il lustro dell'antica loro dignità. Trovasi sulle monete de' primi Senatori l'antico soprannome di Capizucchi; i Conti hanno conservati gli onori, non già i dominj de' Conti di Signia; e gli Annibaldi[266] debbono essere stati ben ignoranti, o modesti, se non hanno vantata dagli Eroi di Cartagine la lor discendenza.
Ma nel novero, e forse al di sopra dei Pari e Principi di Roma, fa di mestieri distinguere le famiglie rivali de' Colonna e degli Orsini, la cui Storia particolare forma una parte essenziale degli Annali di Roma moderna.
1. Il nome e le armi de' Colonna[267] hanno dato luogo a molte assai incerte etimologie. In queste ricerche gli Antiquarj e gli Oratori non hanno dimenticate nè la Colonna di Traiano, nè le Colonne d'Ercole, nè quella alla quale Gesù Cristo fu flagellato, nè l'altra luminosa che guidò nel deserto gl'Israeliti. Nel 1104, la Storia incomincia a parlarne la prima volta, e la spiegazione ch'essa offre sul loro nome, ne attesta fin d'allora la potenza e l'antichità. I Colonna aveano provocate le armi di Pasquale coll'impadronirsi di Cavae; possedeano per altro legittimamente i feudi di Zagarola e di Colonna nella Campagna di Roma; ed è probabile che quest'ultima città andasse ornata di qualche alta colonna, avanzo di una casa antica di campagna, o di un tempio[268]. Possedevano ancora una metà della città di Tuscolo, situata in quelle vicinanze, d'onde presumesi la loro discendenza dai Conti di Tuscolo che nel secolo decimo oppressero i Papi. Giusta l'opinione degli stessi Colonna e del Pubblico, traggono essi la propria origine dalle rive del Reno[269]; nè i Sovrani dell'Alemagna sonosi creduti inviliti per un'affinità reale, o favolosa con una Casa, che nelle vicissitudini di sette secoli, ha più volte ottenute le illustrazioni del merito, sempre quelle della fortuna[270]. Verso la fine del secolo decimoterzo, il più possente ramo della medesima era composto d'uno zio e di sei fratelli, tutti chiari nell'armi, o ad ecclesiastiche dignità sollevati. Pietro, l'un d'essi, scelto Senatore di Roma, fu portato sopra carro trionfale al Campidoglio, e da alcune voci salutato col titolo vano di Cesare. Giovanni e Stefano vennero creati Marchesi d'Ancona, e Conti della Romagna da Nicolò IV, tanto propenso alla loro famiglia, che ne trasse origine il ritratto satirico in cui si vede il Pontefice imprigionato entro una Colonna incavata[271]. Dopo la morte di questo Pontefice, s'inimicarono per l'alterigia del lor contegno Bonifazio VIII, il più vendicativo degli uomini. Due Cardinali della ridetta famiglia, l'uno zio dell'altro, essendosi chiariti contrarj all'elezione di Bonifazio, questi perseguì la lor gente coll'armi spirituali e temporali della Santa Sede[272]. Gridò una Crociata contro i suoi personali nemici; i beni dei Colonna vennero confiscati; le truppe di S. Pietro, e quelle delle famiglie nobili, rivali dei Colonna, assediarono le Fortezze che questi tenevano sulle due rive del Tevere; e rovinata Palestrina, o Preneste, primaria loro residenza, passò l'aratro sul terreno, ove fu questa città; il che era emblema di una eterna desolazione. I sei fratelli, spogliati d'onori, banditi, proscritti e ridotti a mentir panni, errarono per l'Europa, esposti ad infiniti pericoli, e sol confortati dalla speranza del ritorno e della vendetta; duplice speranza che dalla Francia fu secondata. Divisarono essi, e condussero a termine la spedizione di Filippo il Bello, e loderei la loro magnanimità, se avessero rispettato il coraggio e l'infortunio del tiranno prigioniero. Annullati gli atti civili di Bonifazio VIII, il popolo romano restituì ai Colonna gli antichi possedimenti e le dignità che aveano perdute. Potrà giudicarsi quanto ricchi eglino fossero dal calcolo delle loro perdite, e queste dedursi dai centomila fiorini d'oro, che vennero ad essi, su i beni de' complici e degli eredi dell'ultimo Papa, conceduti in compenso. I successori di Bonifazio VIII ebbero la prudenza di abolire tutte le censure, e tutti i decreti d'incapacità civile pronunziati contro una Casa, i cui destini vennero fatti più saldi e luminosi da questo stesso passeggiero disastro[273]. Lo Sciarra Colonna diede luminosa prova del suo ardimento nel far prigioniero il Papa ad Agnani; e lungo tempo dopo, quando Lodovico di Baviera venne coronato Imperatore, questo Sovrano, per attestare ai Colonna la sua gratitudine, permise ai medesimi di fregiare d'una Corona reale le armi lor gentilizie. Ma tutti gli altri Colonna superò in merito e rinomanza Stefano, primo di cotal nome, amato e stimato dal Petrarca, siccome eroe superiore al suo secolo, e degno di vivere agli antichi tempi di Roma. La persecuzione e l'esilio ne invigorirono l'ingegno nell'arti della pace e della guerra: vittima della sventura, fu scopo alla pietà, ma in uno al rispetto; la presenza del pericolo era per esso un eccitamento di più a palesare il suo nome che veniva perseguitato, e un dì essendogli chiesto: «Ov'è ora la vostra fortezza?» — «Qui» rispose, portandosi la mano al cuore. Con virtù, eguale sostenne il ritorno della prosperità, e fino all'ultimo de' suoi giorni, per riguardo e ai suoi maggiori e a sè stesso e a i suoi figli, Stefano Colonna fu uno de' personaggi più illustri della Repubblica Romana, o della Corte di Avignone.
2. Gli Orsini vennero da Spoleto[274] nel secolo dodicesimo, chiamati da prima i figli d'Orso, nome di qualche personaggio innalzato a grande dignità, del quale però non sappiamo altra cosa se non che fu il ceppo della famiglia Orsini. Si segnalarono bentosto fra i Nobili di Roma e pel numero e valore de' lor partigiani, e per le munitissime torri che li difendevano, e per le dignità senatorie e cardinalizie di cui molti di essi andarono insigniti, e per due Papi di lor famiglia, Celestino V e Nicolò III[275]. Le ricchezze degli Orsini provano quanto antico sia l'abuso del nepotismo. Celestino vendè, per arricchire i suoi nipoti, il dominio di S. Pietro[276], e Nicolò, che sollecitò per essi regj parentadi, volea fondare a favor loro nuovi Regni nella Lombardia e nella Toscana, e farli a perpetuità padroni della carica di Senatori di Roma. Quanto abbiam detto sulla grandezza dei Colonna porta splendore sopra gli Orsini, stati mai sempre antagonisti dei Colonna, ed eguali in forze, durante la lunga querela che per due secoli e mezzo turbò la Chiesa; querela di cui fu vera cagione la gelosia della preminenza e del potere; ma per procacciare alle loro liti uno specioso pretesto, i Colonna presero il nome di Ghibellini e le parti dell'Impero, gli Orsini quello di Guelfi, e parteggiarono per la Chiesa. L'Aquila e le Chiavi sventolarono su le loro bandiere, e queste due fazioni che si scompartivano fra loro l'Italia, non si diedero mai a più violenti furori, come allor quando era stata da lungo tempo dimenticata l'origine e la natura della loro disputa[277]. Dopo la ritirata de' Papi ad Avignone, si contrastarono, armata mano, il governo della Repubblica; convennero finalmente che in ciascun anno verrebbero eletti due Senatori rivali, perpetuando in tal guisa i mali della discordia. Le particolari nimistà di queste due Case disastrarono le città e le campagne, e la sorte si avvicendò continuamente nel favorire l'armi or di questa, or di quella. Ma niuno era morto sotto il ferro dell'altro fra gl'individui delle due famiglie, allorchè Stefano Colonna il Giovane sorprese e trucidò il più rinomato fra gli Orsini[278]. Non dovè Stefano il suo trionfo che alla violazione di una tregua; ma fu oltre ogni dire vile la vendetta degli Orsini che assassinarono dinanzi alla porta di una chiesa un fanciullo di Casa Colonna e due servi che lo seguivano. Il medesimo Stefano Colonna fu nominato Senatore di Roma per cinque anni, datogli un collega, che non dovea rimanere in carica più di un anno. La Musa del Petrarca abbandonandosi ai voti, o alle speranze del poeta, predisse che il figlio del suo rispettabile Eroe restituirebbe l'antica gloria a Roma e all'Italia; che la giustizia di esso sperderebbe i lupi, i leoni, i serpenti e gli orsi, tutte belve congiurate a rovesciare l'immobile e salda marmorea COLONNA[279].
CAPITOLO LXX.
Carattere del Petrarca e sua coronazione. Libertà e antico governo di Roma risorto per opera del tribuno Rienzi. Virtù e vizj, espulsione e morte di questo tribuno. Partenza dei Papi d'Avignone e loro ritorno a Roma. Grande scisma d'Occidente. Riunione della Chiesa latina. Ultimi sforzi della libertà romana. Statuti di Roma. Istituzione definitiva dello Stato ecclesiastico.
A. D. 1374
I moderni non vedono nel Petrarca[280] che il Cantore italiano di Laura e dell'amore. In questo armonioso Poeta l'Italia ammira, o piuttosto adora, il padre della sua lirica poesia, e l'entusiasmo o l'ostentazione del sentimento ne ripetono i canti o per lo meno il nome. Qualunque essere possa l'opinione di uno straniero, non avendo egli che una nozione superficiale della lingua italiana, dee starsi in ordine a ciò al giudizio di una nazione ragguardevole pe' suoi lumi. Nondimeno oso sperare, o presumo, che gli Italiani non mettano a confronto una serie di Sonetti e di Elegie d'un andamento sempre uniforme e noioso, co' sublimi componimenti dei loro epici Poeti, colla originalità selvaggia del Dante, colle regolari bellezze del Tasso, coll'inesausta varietà dell'inimitabile Ariosto. Mi vedo anche men atto a giudicare sul merito dell'amante, ed eccita in me poco interesse una passione metafisica concetta per una donna tanto vicina al chimerico, che si è dubitato se vi sia stata[281]; sì feconda[282] che mise al Mondo undici figli legittimi,[283] mentre il suo spasimato cantava e disacerbava i suoi amorosi affanni presso alla fontana di Valchiusa[284]. Secondo l'opinione del Petrarca e quella de' più gravi suoi contemporanei, questo amore era un peccato, e i versi che lo celebravano un futile passatempo. Egli dovette ai suoi versi latini e ad alcuni tratti di filosofia e di eloquenza, scritti nel medesimo idioma, la sua fama, di cui non tardarono a risonare la Francia e l'Italia: i suoi amici e discepoli si moltiplicarono in ciascuna città; e comunque il grosso volume delle sue Opere[285] or dorma in pace, dobbiamo nondimeno encomj e gratitudine all'uomo che coll'esempio e coi precetti fece rivivere il gusto e lo studio degli autori del Secolo d'oro. Il Petrarca aspirò dai suoi primi anni alla corona poetica; e dopo avere ottenuti nelle tre facoltà gli onori accademici, ei ricevè anche il grado supremo di maestro, o dottore in poesia[286]. Il titolo di Poeta laureato mantenutosi costantemente, piuttosto per consuetudine che per effetto di vanità alla Corte d'Inghilterra[287] venne inventato dai Cesari della Germania. Nelle provoche di musica dell'Antichità[288], il vincitore otteneva un premio; credeasi che Virgilio e Orazio fossero stati coronati nel Campidoglio; idea che accese la fantasia del Petrarca; fattosi sospiroso di ottenere gli onori medesimi[289], oltrechè il lauro[290] avea per lui un nuovo vezzo venutogli della somiglianza col nome di Laura. Il lauro, e Laura, fattisi scopo degli ardenti suoi voti, crebbero di pregio ai suoi occhi per la difficoltà di ottenerli; ma se la virtù, o la prudenza di Laura rendettero questa inesorabile[291], il Petrarca vinse almeno la ninfa della poesia, e potè vantarsi del primo trionfo. La vanità di questo Poeta non fu per vero delicatissima, poichè ad assicurarsi meglio l'adempimento delle sue brame, celebrò da sè medesimo le proprie fatiche e il buon esito delle medesime; popolare era divenuto il suo nome, i suoi amici s'adoperavano fervorosamente per lui, onde superò finalmente, colla destrezza dell'uom di merito che sa ostentare rassegnazione, le opposizioni pubbliche, o segrete della gelosia, o del pregiudizio. Aveva trentasei anni, quando fu sollecitato di accettare ciò che egli ardentemente agognava; e trovavasi nella sua solitudine di Valchiusa nel giorno in cui ricevette questo solenne invito per parte del Senato di Roma; ed altro simile ne ricevè dall'Università di Parigi. Certamente non era attributo nè della dottrina di una scuola di teologia, nè della ignoranza di una città abbandonata al disordine, il concedere questa Corona immortale, benchè ideale soltanto, che decretano al genio gli omaggi del pubblico e della posterità; ma tal molesta considerazione il Petrarca dal suo animo allontanò. Dopo alcuni momenti d'incertezza e di gioia si risolvè per gli onori che la Metropoli del Mondo offerivagli.
A. D. 1341
La cerimonia della coronazione[292] fu celebrata in Campidoglio sotto gli auspizj di quel supremo Magistrato della Repubblica che del Petrarca era ad un tempo il protettore e l'amico. Vi comparvero dodici giovani patrizj in abito di colore scarlatto, e sei rappresentanti delle primarie famiglie vestiti di verde, che portavano ghirlande di fiori. Appena il Senatore, Conte di Anguillara, collegato coi Colonna, si fu collocato sul trono, facendogli corteggio molti Principi e Nobili, il Petrarca venne chiamato da un araldo, e surse in piede. Dopo avere recitato un discorso sopra un testo di Virgilio e messi voti triplicatamente per la prosperità di Roma, s'inginocchiò innanzi al trono, d'onde il Senatore, ponendogli la Corona sul capo, pronunciò questi pochi detti ben più preziosi di essa: «Tale è la ricompensa del merito». Il popolo esclamò: «Lunga vita al Campidoglio e al Poeta!» Il Petrarca recitando un sonetto a gloria di Roma, fece sfarzo del suo ingegno poetico e d'un animo che sentiva la gratitudine. Trasferitosi il corteggio al Vaticano, Petrarca prostrandosi al Reliquiario di S. Pietro, si tolse dal capo la profana corona poc'anzi ottenuta. Il diploma[293] che venne porto al Petrarca, gli concedea il titolo e i privilegi di Poeta laureato dismessi d'uso da tredici secoli, conferendogli facoltà di portare a suo grado una corona d'alloro, o d'edera, o di mirto, di vestire l'abito di poeta, d'insegnare, disputare, interpretare, comporre in qualunque luogo, e sopra qualunque argomento di letteratura. Tal grazia gli ratificarono il Senato ed il popolo, insignendolo in oltre del carattere di cittadino di Roma, siccome premio allo zelo che per la gloria di cotesta città avea dimostrato; onore d'alto riguardo e da esso ben meritato. Avendo egli attinte negli scritti di Cicerone e di Tito Livio le idee di quegli egregi cittadini vissuti ne' bei tempi della Repubblica, coll'opera di sua ardente immaginazione, arricchivale del calore del sentimento, e ogni sentimento si trasformava in passione. La vista de' Sette Colli e delle maestose loro rovine invigorì queste vivaci impressioni. Prese ad amar sempre più una nazione che dopo averlo coronato, per proprio figlio adottavalo; gratissimo figlio che si mosse a pietà e ad indignazione all'aspetto della povertà e dell'invilimento di Roma; dissimulando i falli de' suoi novelli concittadini, applaudiva con entusiasmo agli ultimi eroi e alle ultime matrone della Repubblica; e trasportato dalle ricordanze del passato, e acceso di speranze sull'avvenire, cercava di velar fino a sè stesso l'obbrobrio de' tempi nei quali vivea. Roma agli occhi suoi era sempre la padrona legittima dell'Universo; il Papa e l'Imperatore, l'uno il Vescovo, l'altro il Generale di Roma, aveano abbandonato il loro posto facendosi lecita una ignominiosa ritirata sulle rive del Rodano e del Danubio; ma la Repubblica, rivestendo le antiche virtù, potea ricuperare l'antica libertà e l'antico dominio. Intantochè, giuoco dell'entusiasmo e della propria eloquenza[294], si abbandonava coll'animo alle luminose chimere che n'erano figlie, una vicissitudine politica, che parve pronta ad avverarsi, venne a rendere attoniti il Petrarca, l'Italia e l'Europa. Imprendo ora a ragionare dell'innalzamento e della caduta del tribuno Rienzi[295]. L'argomento è importante; i materiali in gran numero, e le contemplazioni animate di un bardo, fatto fervoroso del patriottismo[296], ravviveranno il racconto, copioso di circostanze, ma semplice, del Fiorentino[297] e soprattutto del Romano[298] che questa parte di Storia hanno trattata.
In un rione della città abitato solamente da artigiani e da ebrei, il maritaggio di un ostiere con una lavandaia diede vita al liberatore di Roma[299]. Nicola Rienzi Gabrini non potea ricevere da tali genitori nè dignità, nè ricchezze; ma eglino s'imposero sagrifizj per procurargli una liberale educazione, da cui riconobbe e la sua gloria e l'immatura sua morte. Questo giovane plebeo che studiò la storia e l'eloquenza negli scritti di Cicerone, di Seneca, di Tito Livio, di Cesare e di Valerio Massimo, sollevossi per ingegno al di sopra degli eguali e dei contemporanei. Con ardore instancabile interpretava i manoscritti, e le iscrizioni degli antichi marmi, e dilettandosi di traslatarli nella lingua volgare del suo paese, spesse volte si lasciava trasportar sì che esclamava: «Ove sono oggidì que' Romani, ove le loro virtù, la loro giustizia e possanza? Perchè non nacqui io in tempi più felici?[300] ». Dovendo la Repubblica inviare alla Corte di Avignone un'ambasceria composta di tre Ordini dello Stato, Rienzi per suo ingegno ed eloquenza fu nominato fra i tredici Deputati de' Comuni. Colà ebbe l'onore di arringare Papa Clemente VI, e il diletto di conversare col Petrarca, ingegno che a quel di Cola si confaceva; ma la povertà e l'umiliazione impacciavano le sue mire ambiziose, onde il patriotta romano vedeasi costretto a vestire un sol abito e a vivere delle elemosine dello spedale. Fosse per giustizia che si volle rendere al merito del medesimo, o aura temporanea di fortuna, si tolse finalmente da quello stato di abbiezione, ottenendo l'impiego di notaio appostolico, d'onde gli derivarono e uno stipendio giornaliero di cinque fiorini d'oro, e più estese ed onorevoli corrispondenze, e la facilità di esporre a pubblico confronto l'illibatezza delle sue parole e delle sue azioni, co' vizj che allor dominavano nello Stato. La sua eloquenza rapida e persuasiva facea grande impressione sulla moltitudine, ognor propensa all'invidia e alla censura. Mortogli un fratello per mano d'assassini, l'impunità di costoro l'infiammò di nuovo ardore, in un tempo in cui era impossibile scusare, o esagerare i disordini pubblici. Sbandite vedeansi dall'interno di Roma l'integrità e la giustizia, che pur d'ogni civile società sono lo scopo. Molti cittadini[301], i quali si sarebbero forse rassegnati agli aggravj che li ferivano soltanto nelle persone, o negli averi, mossi dalla gelosia, ingenita soprattutto ne' Romani, sentivano più d'ogni ingiuria il disdoro bene spesso arrecato al pudore delle lor donne; erano oppressi parimente dall'arroganza dei superbi Nobili e dalla prevaricazione de' Magistrati corrotti; e, giusta gli emblemi allegorici, per più riprese, e in diverse fogge comparsi sopra certe pitture che il Rienzi esponeva a pubblica vista nelle strade e nelle chiese, la sola differenza tra i cani e i serpenti consisteva in ciò che i primi abusavano dell'armi, delle leggi, i secondi. Intanto che la folla attratta dalla curiosità di questi quadri, stavasi contemplandoli, l'oratore pien d'ardimento, e sempre apparecchiato, ne svolgeva il senso, ne applicava la satira, accendea le passioni degli spettatori, e lasciava tralucere una lontana speranza di conforto e di liberazione. I privilegi di Roma, la sovranità di essa, eterna su i proprj Principi e le proprie province, erano, in pubblico e in privato, l'argomento de' suoi discorsi. Un monumento di servitù divenne fra le sue mani un titolo di libertà, uno sprone a ricuperarla; intendo il decreto col quale il Senato concedea amplissime prerogative all'Imperator Vespasiano, inciso sopra una tavola di bronzo, che vedeasi tuttavia nel coro della chiesa di S. Giovanni di Laterano[302]. Il Rienzi convocò, per udire la lettura di un tale decreto, molto numero di plebei e di Nobili, ad accogliere i quali avea fatto preparare un chiuso recinto. Egli vi comparve vestito d'un abito in cui scorgeasi la magnificenza e ad un tempo non so che di mistero; dopo letta e tradotta in volgar lingua questa iscrizione[303], ne fece il comento diffondendosi con fervida eloquenza sull'antica gloria del Senato e del popolo, dai quali ogni specie di poter legittimo derivava. L'indolente ignoranza de' Nobili non permettea loro d'accorgersi ove andassero a ferire queste singolari rimostranze; alcune volte per vero dire, maltrattarono con parole, e sin con percosse, il plebeo che voleva assumere le parti di riformatore; ma spesse volte ancora gli lasciarono la libertà d'intertenere colle sue minacce e predizioni i cittadini che attorno al palazzo Colonna assembravansi; e il moderno Bruto[304] sotto la maschera di pazzo buffone si nascondea. Mentre così comportava di essere scopo alle lor decisioni, la restaurazione del Buono Stato, sua espressione prediletta, compariva a mano a mano al popolo un avvenimento desiderabile, poi possibile, e per ultimo imminente: così preparati gli animi de' plebei ad applaudire al liberatore che veniva loro promesso, vi fu tra essi chi ebbe il coraggio di secondarlo.
A. D. 1374
Una profezia, o piuttosto una intimazione affissa alla porta del tempio di S. Giorgio, fu la prima spiegazione pubblica de' suoi disegni; un'assemblea di cento cittadini, convenuti di notte tempo sul monte Aventino, fu il primo passo verso l'esecuzione di questi disegni. Dopo avere preteso dai cospiratori un giuramento di mantenere il segreto e di aiutarlo, mostrò loro l'importanza dell'impresa e la facilità di condurla a termine: discordi fra loro i Nobili, privi di soccorsi, forti soltanto pel timore che l'immaginaria loro possanza inspirava; congiunti nel popolo il diritto e il potere; bastanti le rendite della Camera Appostolica ad alleggerire la miseria pubblica; l'utile che lo stesso Pontefice avrebbe trovato nel vederli trionfare de' nemici del governo e della libertà. Dopo avere assicurato alla manifestazione delle sue intenzioni l'appoggio di una banda di fedeli partigiani, ordinò loro, a suon di tromba, di essere, senz'armi, nella notte della domane, innanzi alla chiesa di S. Angelo per provvedere alla restaurazione del Buono Stato; fu questa notte impiegata nel far celebrare trenta Messe ad onore dello Spirito Santo. Allo schiarire del giorno uscì della chiesa col capo scoperto, armato di tutto punto, e fiancheggiato da cento cospiratori. Il Vicario del Pontefice, semplice Vescovo di Orvieto, indotto a sostenere una parte in questa singolare cerimonia, camminava alla destra del Rienzi, dinanzi al quale venivano portati tre stendardi, emblemi dei disegni de' congiurati. L'un d'essi stendardi, detto la bandiera della Libertà, rappresentava Roma, che, seduta sopra due lioni, tenea in una mano una palma, nell'altra un globo; sul secondo stendardo, bandiera della Giustizia, vedeasi S. Paolo colla spada sguainata; sul terzo, S. Pietro colle chiavi della Concordia e della Pace. Incoraggiavano il Rienzi gli applausi d'una innumerabile folla che intendea poco il significato di tutto questo apparecchio, ma datasi cionnullameno a grandi speranze: la processione si condusse lentamente dal Castel Sant'Angelo al Campidoglio. Nondimeno alcuni interni moti che il Rienzi si sforzava nascondere, non permetteano all'animo suo di darsi con piena tranquillità al sentimento del suo trionfo. Asceso, senza incontrare ostacoli e con apparente fiducia, sulla rocca della Repubblica, dall'alto del balcone arringò il popolo, che ne confermò gli atti e le leggi nel modo per lui il più lusinghiero. I Nobili, come se stati fossero sforniti di armi, e inabili a prendere verun partito, rimasero spettatori costernati e silenziosi di questa stravagante sommossa, per la quale era stato ad arte scelto il momento, in cui Stefano Colonna, il più formidabile di tutti i Nobili, dimorava fuori di Roma. Al primo sentore delle accadute cose, vi ritornò, e standosi nel suo palagio, ostentò di sprezzare questo movimento popolare, facendo noto al Deputato del Rienzi, che a proprio bell'agio avrebbe fatto gettar giù dalle finestre del Campidoglio il pazzo, dal quale quell'ambasceria gli veniva. Immantinente sonò a stormo la grande campana; e fu tanto rapida la sollevazione, e tanto incalzante il pericolo, che Stefano Colonna raggiunse a precipizio il sobborgo S. Lorenzo, d'onde, dopo avere preso fiato un istante, si allontanò, sempre colla medesima sollecitudine, fintantochè si vedesse in sicuro nel suo Castello di Palestrina, ove in appresso rampognò sè medesimo di poca antiveggenza, per non avere spenta la prima scintilla di un sì formidabile incendio. Dal Campidoglio emanò una intimazione generale e perentoria a tutti i Nobili, perchè si ritirassero tranquillamente ne' loro dominj; questi obbedirono, e la loro partenza assicurò la tranquillità di Roma, che sol cittadini liberi, ed obbedienti al nuovo ordine di cose, omai racchiudea.
Ma una sommessione volontaria coi primi trasporti dell'entusiasmo dileguasi, onde il Rienzi conobbe quanto gli rilevasse giustificare la sua usurpazione col darle forme regolari, e mediante un titolo legale sancirla. Dipendea dalla sua volontà che il popolo grato, ed ebbro del riacquistato uso del potere, accumulasse sopra di lui i titoli di Senatore e di Console, d'Imperatore e di Re; ma preferì l'antico e modesto nome di tribuno; sacro titolo del quale la protezione delle Comuni formava l'essenza: quell'ignorante plebe poi non sapea che il tribunato non avea mai conferito il diritto di partecipare al potere legislativo, o esecutivo della Repubblica. Col nome pertanto di tribuno, il Rienzi, acconsentendo i Romani, pubblicò salutarissimi regolamenti per la restaurazione e il mantenimento del Buono Stato. Conforme ai voti della onestà e della inesperienza, fu promulgata una legge per terminare entro quindici giorni tutte le cause civili. La frequenza in que' giorni degli spergiuri, e i gravi danni che ne derivavano, giustificano forse un'altra legge che puniva il calunniatore, o il testimonio falso, colla medesima pena cui sarebbe soggiaciuto, se colpevole, l'accusato. Il legislatore può vedersi costretto dai disordinamenti politici del tempo a percotere con pena capitale tutti gli omicidj, a prescrivere il taglione per qualsisia ingiuria. Non essendovi da sperare una buona amministrazione della giustizia che dopo avere abolita la tirannide de' Nobili, fu stabilito, che niuno, eccetto il supremo Magistrato, non avrebbe il possesso, o il comando delle porte, de' ponti, o delle torri dello Stato; che niun presidio particolare verrebbe introdotto nelle città o castella del territorio romano; che niun privato avrebbe il dritto di portar armi, o di fortificar la sua casa, nè in città, nè in campagna; che i Baroni sarebbero eglino stessi mallevadori della sicurezza delle pubbliche strade, e dello spaccio libero delle derrate; che ogni protezione conceduta ai malfattori ed ai ladri verrebbe punita con una menda di mille marchi d'argento. Inutili però e ridicoli sarebbero stati questi regolamenti, se non gli avesse sostenuti una forza capace di tenere a freno la licenza de' Nobili. Al primo momento di sospetto, la campana del Campidoglio potea mettere in armi più di ventimila volontarj; ma il tribuno e le leggi abbisognavano d'una forza più regolare e più stabile. In ciascun porto della costa, venne collocato un naviglio incaricato di proteggere il commercio. I tredici rioni della città somministrarono, vestirono, e pagarono a proprie spese una milizia permanente di trecensessanta uomini a cavallo, e di mille trecento fantaccini; e già si ravvisa lo spirito delle repubbliche nel donativo di cento fiorini, assegnato con decreto, come testimonianza dì pubblica gratitudine agli eredi de' militari che pel servigio dello Stato avessero perduta la vita. Senza timore di comparire sacrilego, il Rienzi adoperò le rendite della Camera Appostolica alla pubblica difesa, alla istituzione di pubblici granai, al sollievo delle vedove, degli orfani, e de' conventi poveri. L'imposta sui fuochi, l'altra sul sale, e l'altra sulle dogane, produceano ciascuna centomila fiorini annuali[305]; gli è forza credere che gli abusi fossero giunti al massimo eccesso, se, come vien detto, la giudiziosa assegnatezza del tribuno triplicò, in quattro, o cinque mesi, la rendita della tassa sul sale. Dopo avere così riordinate le forze e le rendite della Repubblica, il Rienzi intimò ai Nobili, che ne' solitarj loro castelli continuavano tuttavia a godere independenza, di trasferirsi al Campidoglio, per prestare ivi giuramento di fedeltà al nuovo Governo, e di sommessione alle leggi del Buono Stato. Temettero questi per la loro sicurezza, ma ben sentendo che un rifiuto sarebbe stato anche più pericoloso dell'obbedienza, i Principi, e i Baroni ritornarono a Roma, e come semplici e pacifici cittadini rientrarono nelle proprie case. I Colonna, gli Orsini, i Savelli, e i Frangipani si videro confusi dinanzi al tribunal d'un plebeo, di quel vil buffone che aveano sì spesse volte deriso, alla quale umiliazione aggiugneasi la rabbia di dover celare, senza averne la forza, l'interno dispetto. Egual giuramento fu pronunziato a mano a mano dalle diverse classi della società, dal Clero e dagli agiati cittadini, dai giudici e dai notai, dai mercanti e dagli artigiani. L'ardore e la sincerità delle giurate cose, vie più manifestavasi a proporzione dell'avvicinarsi alle ultimi classi. Tutti giurarono di vivere e di morire in seno della Repubblica e della Chiesa, l'interesse della quale il Tribuno ebbe l'arte di collegare al proprio, chiamando per formalità suo collega nella carica il Vescovo d'Orvieto, Vicario del Papa. Gloriavasi il Rienzi di avere liberati il trono e il Patrimonio di S. Pietro da un'aristocrazia di ribelli, e Clemente VI, rallegrandosi per allora di vedere depressi i Nobili, mostrava di credere alle manifestazioni d'affetto che gli venivano per parte del Riformatore, di averne per accetti i servigi e di confermare la podestà che il popolo gli avea conferita. Un intensissimo zelo per la purezza della Fede animava le parole, e forse il cuore del Rienzi; lasciò credere accortamente che lo Spirito Santo lo avesse incaricato di una missione soprannaturale, condannò a gravi multe pecuniarie coloro che non adempirebbero il dovere annuale della Confessione e della Comunione, si diede con opera indefessa e vigorosa a mantenere la felicità spirituale e temporale del fedele suo popolo[306].
Non si è forse mostrata giammai con tanto vigore la forza del carattere di un sol uomo, come nel subitaneo cambiamento politico, benchè passeggiero, che il tribuno Rienzi operò. Egli sottomise un covazzo di banditti alla disciplina d'un esercito, o d'un convento; paziente nell'ascoltare, pronto nel render giustizia, inesorabile nelle punizioni. Facilmente poteano avvicinarsi a lui il povero e lo straniero. Nè la nascita, nè le dignità, nè le immunità della Chiesa valevano a salvare un reo, o i complici del reo. Aboliti in Roma gli edifizj privilegiati, e tutti quegli asili che impacciavano ne' loro atti gli ufiziali della giustizia, adoperò il ferro e il legno de' distrutti cancelli alle fortificazioni del Campidoglio. Il vecchio padre dei Colonna, che avea nel proprio palagio dato asilo a un colpevole, soggiacque al duplice obbrobrio di averlo voluto salvare e di fare scorgere la sua impotenza. In vicinanza di Capranica erano stati rubati un mulo e un vaso d'olio. Il Signor del Cantone, che apparteneva alla famiglia Orsini, fu condannato a pagare il valore del mulo e dell'olio, ed inoltre un'ammenda di cinquecento fiorini, per non avere mantenuta ben difesa la strada; nè la persona de' Baroni, meglio delle lor case o terre, sottraevasi al rigor delle leggi. O fosse caso, o il facesse ad arte, Rienzi usava eguale severità ai Capi delle opposte fazioni. Pietro Agapito Colonna, stato Senatore di Roma, fu arrestato in mezzo alla strada per un'ingiustizia commessa, o per debiti; e Martino degli Orsini che ad altri atti di violenza e rapina aggiunse quello di predare un naviglio naufragato alla foce del Tevere, dovette riparare colla sua morte l'oltraggio fatto alla pubblica giustizia[307]. Nè il nome di lui, nè la porpora di due zii Cardinali, nè un maritaggio di recente contratto, nè lo stato di convalescenza, in cui trovavasi dopo una mortale infermità, furono circostanze atte a smovere l'inflessibile Tribuno, che volendo dare un esempio, avea scelta già la sua vittima. I pubblici ufiziali strapparono dal suo palagio e dal suo letto nuziale Martino; breve ne fu il processo, e fuor d'ogni dubbio apparve l'evidenza dei commessi delitti; la squilla del Campidoglio adunò il popolo; il reo, spogliato del suo manto, ginocchione, e colle mani legate dietro la schiena, ascoltò la sua sentenza di morte; poscia, concedutigli brevi momenti per confessarsi, venne condotto al patibolo. D'indi in poi, qualunque reo, perdendo ogni speranza di evitare il castigo, quanti eranvi scellerati, partigiani del disordine e oziosi, purificarono colla loro fuga i recinti e il territorio di Roma. «Allora, dice il Fortifiocca, le foreste si allegrarono per non essere più dai masnadieri infestate; i buoi ripigliarono i lavori dell'agricoltura; i pellegrini tornarono a visitare le chiese; le strade maestre e i pubblici alberghi si empierono di viaggiatori; il commercio, l'abbondanza, la buona fede ricomparvero ne' mercati, talchè una borsa piena di oro poteasi lasciar con sicurezza in mezzo ad una strada la più frequentata». Quando i sudditi non hanno motivo di temere per le proprie vite e sostanze l'industria e le ricchezze che la compensano, risorgono ben tosto di per sè stesse. Roma si manteneva sempre le Metropoli del Mondo cristiano, e gli stranieri che dalla felice amministrazione del Tribuno erano stati protetti, ne magnificavano per ogni dove la fortuna e la gloria.
Incoraggiato dal buon successo de' primi divisamenti, il Rienzi concepì un'idea anche più vasta, ma forse chimerica di per sè stessa; quella di unire i diversi Stati dell'Italia, fossero principati, o città libere, in una Repubblica federale, in cui Roma tenesse, come altre volte, e giustamente, il primo grado. Non meno eloquente negli scritti che ne' discorsi, incaricò di numerose sue lettere diversi messaggieri fedeli e solleciti, che portando in mano un bianco bastone, attraversavano i boschi e le montagne, e venivano, anche presso i paesi nemici, riguardati com'uomini insigniti del sacro carattere di ambasciatori. Fosse adulazione, o verità, raccontarono, tornando dal loro viaggio, di aver trovati gli orli delle strade piene di prostrate turbe, che imploravano al loro cammino un buon successo dal Cielo. Se le passioni fossero state capaci di ascoltar la ragione, se l'interesse pubblico avesse potuto trionfare del privato, certamente l'Italia confederata e retta da un Tribunale supremo, si sarebbe riavuta dai mali che le sue discordie intestine le aveano apportati, e avrebbe chiuse le Alpi ai Barbari del Settentrione. Ma l'epoca favorevole ad una tale unione era trascorsa; e se Venezia, Firenze, Siena, Perugia, e alcune città di minor ordine offersero al Buono Stato la vita e le sostanze de' lor cittadini, i tiranni della Lombardia e della Toscana non poteano che disprezzare, o abborrire il plebeo che era pervenuto a fondare una libera costituzione. Però le risposte che vennero e dalle une e dalle altri parti d'Italia, abbondavano di manifestazioni di amicizia e di riguardo al Tribuno. Nè andò guari che il Rienzi ricevè gli ambasciatori dei Principi e delle Repubbliche, e in mezzo a tanto concorso di stranieri, e con tutti quelli coi quali o per affari, o per piacere conversò il notaio plebeo, seppe mantenere il contegno or maestoso, or nobilmente affabile che ad un Sovrano si addice[308]. L'istante più glorioso del suo regno si fu allor quando Luigi, Re d'Ungheria, invocò la giustizia del Tribuno contro la cognata, Giovanna, Regina di Napoli, accusata di aver commesso al capestro il marito[309]. Il processo di questa Sovrana venne solennemente a Roma agitato; ma dopo avere uditi gli avvocati d'ambe le parti[310], il Rienzi ebbe il senno di differire ad altro tempo la decisione di un sì alto affare, che la spada dell'Ungarese non tardò poi a conchiudere. Oltre le Alpi, e soprattutto ad Avignone, questo grande cambiamento di cose eccitò curiosità, sorpresa ed applausi. Rammentando che il Petrarca era vissuto in intrinsechezza col Rienzi, e lo avea fors'anche confortato co' suoi consigli, non troveremo cosa maravigliosa, se gli scritti pubblicati dal Poeta in que' giorni spirano per ogni dove ardore di patriottismo e di gioia; il rispetto ch'egli professava al Pontefice, la gratitudine che doveva ai Colonna, sparvero a fronte de' più sacri obblighi di cittadino. Il Poeta laureato del Campidoglio approva la sommossa, ne applaudisce l'Eroe, e in mezzo ad alcuni suggerimenti, e ad alcune paure che trapelano nella sua Epistola hortatoria, annunzia alla Repubblica belle speranze di una grandezza eterna, e sempre più luminosa[311].
Intantochè il Petrarca alle sue visioni profetiche si abbandonava, rapidamente declinavano la fama e il poter del suo Eroe. Il popolo che avea contemplata ammirando l'ascensione della meteora, incominciava ad accorgersi delle irregolarità che essa dava a diveder nel cammino, e delle ombre che spesse volte ne oscuravano lo splendore. Più eloquente che giudizioso, più intraprendente che risoluto, il Rienzi non assoggettava, quanto avrebbe dovuto, le facoltà della sua mente all'impero della ragione, ed esagerava sempre in proporzione decupla a sè medesimo e gli argomenti della speranza e que' del timore; onde la prudenza che non avrebbe di per sè sola bastato ad innalzarlo a sì alto grado, non si prese cura di mantenervelo. Giunto all'apice della grandezza, le sue buone qualità presero insensibilmente l'indole di que' vizj che confinano con ciascuna virtù.
La giustizia di lui tralignò in crudeltà, la liberalità in profusione, il desiderio di fama in ostentazione e vanità puerile. Egli avrebbe dovuto non ignorare che i primi Tribuni, tanto forti e sacri nella pubblica opinione, non diversi nel tuono, nelle vesti, nel contegno da un qualunque altro plebeo, da questo si distinguevano solo allora, che adempiendo gli atti del proprio ufizio, trascorreano la città a piedi, accompagnati da un solo viator, o sergente[312]. Si sarebbero sdegnati i Gracchi, o forse non avrebbero frenate le risa in veggendo il lor successore attribuirsi i predicati di SEVERO E MISERICORDIOSO, LIBERATORE DI ROMA, DIFENSORE DELL'ITALIA[313], AMICO DEL GENERE UMANO, DELLA LIBERTÀ', DELLA PACE E DELLA GIUSTIZIA; TRIBUNO AUGUSTO. Con un apparecchio teatrale il Rienzi avea preparato il cambiamento politico della sua patria; ma di poi, abbandonatosi al lusso e all'orgoglio, abusò della politica massima che consiglia di parlare ad un tempo agli occhi e all'animo della moltitudine. Avea ricevuti tutti i doni esterni dalla natura[314]; ma l'intemperanza col farlo divenire troppo pingue, lo sformò; sol con una gravità e severità ostentate correggea in pubblico la sua propensione al riso smodato. Vestiva, almeno ne' giorni di gala, un abito di velluto, o di raso di varj colori, foderato di pelliccia e ricamato d'oro: il bastone della sua magistratura che tenea in mano, era uno scettro d'acciaio tratto ad estrema pulitura, sormontato da un globo e da una Croce d'oro, che racchiudeva un pezzetto della vera Croce. Allorchè trascorrea la città, od assisteva ad una processione, cavalcava un bianco palafreno, simbolo del Governo regio; gli sventolava sopra la testa il grande stendardo della Repubblica, su di cui erano dipinti il Sole in mezzo ad un campo di stelle, una colomba e un ramo d'olivo; gettava alla plebe piastre d'oro e d'argento; cinquanta guardie armate di labarde lo circondavano; lo precedea uno squadrone di cavalleria fornito di timballi e di trombe d'argento massiccio.
A. D. 1347
Il desiderio che manifestò di ottenere il grado di Cavaliere[315] diede solennità all'abbiezione de' suoi natali, e invilì la dignità del suo ufizio; oltrechè, col farsi armar cavaliere, divenne ad un tempo odioso ai Nobili, fra i quali prendeva sede, e ai plebei che da lui si vedevano abbandonati. Per una tal cerimonia, che dissipò le somme che rimaneano nell'erario, fu posto in opera tutto quanto il lusso e le arti di quella età potevano somministrare. Partitosi dal Campidoglio il corteggio, si trasferì al palagio di Laterano, trovando per tutto il cammino e decorazioni, e giuochi che ne festeggiavano il passaggio; l'Ordine civile e il militare marciavano, ciascuno, sotto le proprie bandiere; le matrone romane accompagnavano la moglie del Tribuno, e gli Ambasciatori de' diversi Stati dell'Italia, presenti alla cerimonia, dovettero certamente applaudire in pubblico, e deridere in loro cuore, una pompa tanto nuova e bizzarra. Giunto la sera alla Chiesa e al palagio di Costantino, congedò, ringraziandola la numerosa sua comitiva, e la invitò per la festa della domane. Ricevette l'Ordine dello Spirito Santo da un vecchio Cavaliere dopo la purificazione nel bagno. Nel compiere questa cerimonia, più che con ogn'altro suo atto, il Tribuno disgustò e venne in ira ai Romani per essersi valso dal vaso di porfido, d'onde, giusta una ridicola tradizione, Costantino avea per opera del Pontefice Silvestro ricevuto il risanamento dalla lebbra che lo affliggea[316]. Osò indi vegliare, o piuttosto dormire, nel recinto sacro del battistero; ed un caso fortuito avendo fatto cadere il suo letto solenne, venne tratto da ciò il presagio della sua vicina caduta. Nel seguente giorno, allorchè i Fedeli si adunavano per le cerimonie del culto, si mostrò alla folla in maestoso atteggiamento, vestito di porpora, colla spada e cogli speroni d'oro. Giuntane ad estremo grado la stoltezza e l'audacia, interruppe i Santi Misteri, alzandosi dal trono, e fatti alcuni passi verso l'Assemblea, ad alta voce gridò. «Noi intimiamo al Pontefice Clemente di comparire al nostro Tribunale; gli comandiamo di risedere nella sua diocesi di Roma; la stessa intimazione di presentarsi dinanzi a noi volgiamo al Collegio de' Cardinali[317], e ai due pretendenti Carlo e Lodovico di Baviera, che si arrogano i titoli d'Imperatori; ordiniamo parimente a tutti gli Elettori dell'Alemagna che c'instruiscano con qual pretesto hanno usurpato il diritto inalienabile del popolo romano, solo, antico e legittimo Sovrano dell'Impero[318] ». Sguainò indi la sua spada, vergine ancora, l'agitò per tre riprese verso le tre parti del Mondo, e nel delirio che lo avea preso, per tre volte esclamò: «E ciò ancor mi appartiene». Il Vescovo di Orvieto, Vicario del Papa, voleva adoperarsi ad arrestare il corso di tutte queste pazzie; ma una musica guerresca soffocava le sue deboli proteste; nè osò autenticarle col togliersi dall'Assemblea; ma anzi terminata la cerimonia, pranzò col suo collega Rienzi ad una tavola, fino a quel dì riservata pel solo Pontefice. Fu apparecchiato un banchetto sullo stile delle mense di cui un giorno i Cesari soleano presentare i Romani. Gli appartamenti, i portici, i cortili del palagio di Laterano vedeansi tutti ingombrati da tavole per gli uomini e per le donne di ogni grado: un torrente di vino sgorgava dalle narici del cavallo di bronzo che portava la statua del fondatore di Costantinopoli, e se d'alcuna cosa difettava quel convito, difettava sol d'acqua: le cure presesi per il buon ordine e la paura tennero in freno la popolare licenza. Venne indi assegnato il giorno per l'incoronazione di Rienzi[319]. I più ragguardevoli personaggi del Clero romano gli posero, l'un dopo l'altro, sul capo sette corone di differenti metalli, che rappresentavano i Sette Doni dello Spirito Santo: in tal guisa s'avvisava il Rienzi di seguir l'esempio degli antichi tribuni! Spettacoli così straordinarj ingannavano, o lusingavano il popolo, che nella soddisfatta vanità del suo Capo credea soddisfatta la propria. Ma poichè anche nella vita privata, si stolse dalle leggi della frugalità e dell'astinenza, i plebei che sopportato aveano con pazienza il fasto de' Nobili, quello del loro eguale mal tollerarono. La moglie, il figlio, lo zio del Rienzi, barbiere di professione, serbando nondimeno ignobili modi, aveano aperte case da Principi.
Così un semplice cittadino descrive in tuono compassionevole, e forse con qualche compiacenza, l'umiliazione dei Baroni di Roma: «Comparivano innanzi al Tribuno col capo scoperto, e colle braccia incrocicchiate sul petto, e cogli occhi bassi; e oh come tremavano![320] ». Fintantochè il Rienzi contenne unicamente col freno della giustizia la popolazione, fintantochè le sue leggi parvero essere quelle del popolo romano, la coscienza costringeva i Nobili ad apprezzare quell'uomo, che detestavano per orgoglio e per interesse; ma quando le stranezze del Tribuno fecero sì ch'essi aggiugnessero all'odio il disprezzo, concepirono la speranza di abbattere un potere, che non era più con egual vigore dalla confidenza pubblica sostenuto. La comune sventura ridusse per qualche tempo al silenzio la nimistà dei Colonna e degli Orsini, che si unirono co' loro voti contra il Rienzi, e forse combinarono insieme i divisamenti per perderlo. Venne in questo mezzo arrestato un masnadiere che aveva attentato contro la vita del Tribuno; e, posto alla tortura, accusò i Nobili, come suoi instigatori. Dacchè il Rienzi incominciò a meritarsi il destino de' tiranni, ne prese parimente le massime e le paure. Nello stesso giorno per tanto chiamò, sotto diversi pretesti al Campidoglio, i suoi principali nemici, tra i quali si noveravano cinque individui della famiglia Orsini, e tre della Colonna; ma in vece di trovarsi invitati ad un consiglio, o ad una festa, si videro tenuti prigionieri sotto la spada del dispotismo, o della giustizia; onde, o innocenti, o colpevoli, il timore per loro dovette essere eguale. Lo squillo della maggiore campana avendo adunato il popolo, vennero accusati di una cospirazione contro la vita del Tribuno; e benchè vi fosse fra i Romani chi deplorava la sciagura dei prigionieri, un solo non ardì di sollevare una mano, nemmeno una voce, per sottrarre al pericolo che le minacciava le teste dei primi Nobili di Roma. La disperazione sosteneva in essi l'apparenza del coraggio; eglino trascorsero fra le angosce in separate stanze la notte, e il venerabile Eroe dei Colonna, Stefano, picchiando alla porta del suo carcere, supplicò per più riprese le sentinelle perchè con una sollecita morte da sì indegna schiavitù il liberassero. L'arrivo di un confessore e il tintinnìo di una campana finalmente fecero ad essi manifesto il loro destino. Il salone del Campidoglio, preparato all'uopo del sanguinoso spettacolo, vedeasi tappezzato a rosso e a bianco. Cupa e severa mostravasi la fisonomia del Tribuno; stavano apparecchiati colle scuri in mano i carnefici; lo strepito delle trombe soffocava gli accenti che i Baroni condannati avrebbero voluto volgere ai circostanti; ma in un momento sì decisivo, lo stesso Rienzi non era men perplesso ed inquieto de' suoi prigionieri: temea lo splendore dei loro nomi, il risentimento delle famiglie, l'incostanza del popolo, i rimproveri dell'Universo; laonde, dopo avere arrecato ad essi mortale oltraggio, potè entrare in lui la speranza chimerica, che, perdonando, avrebbe ottenuto a sua volta perdono; e pronunziò un'elaborata diceria assumendo il tuono di cristiano e di supplichevole; chiamando sè umile ministro dei Corpi comunali, si fece ad intercedere da questi suoi padroni la grazia de' Nobili rei, offerendo la propria fede ed autorità, quali mallevadori della buona condotta che tenuta avrebbero per l'avvenire. «Se la clemenza de' Romani vi fa grazia, così volse ad essi il discorso, non è egli vero che promettete di consagrare la vostra vita e le vostre sostanze alla difesa del Buono Stato?». Soprappresi i Baroni da questa inesplicabil clemenza, risposero con una inchinazione di capo, e intantochè rinovavano il giuramento di fedeltà, giusta ogni credere, formavano voti sincerissimi di vendetta[321]. Un sacerdote promulgò a nome del popolo l'assoluzione loro; poi ricevettero il Pane Eucaristico in compagnia del Tribuno; indi, dopo avere assistito ad un banchetto, seguirono la processione; e per tal modo essendo stati adoperati senza risparmio tutti i contrassegni spirituali e temporali di riconciliazione, tornarono alle case loro insigniti de' nuovi titoli di Generali, consoli e patrizj.
La ricordanza del pericolo corso, più che la gratitudine per la loro liberazione, tennero per alcune settimane cheti gli Orsini e i Colonna; ma finalmente i più poderosi di entrambe le famiglie, usciti di Roma, innalzarono a Marino lo stendardo della sommossa. Riparate affrettatamente le mura di questo castello, i vassalli si trasferirono presso i loro Signori; chiunque, condannato in contumacia, non potea sperare la protezion delle leggi, si armò contro il Magistrato; per tutta la strada che conduce da Marino a Roma, venivano rubate le mandrie, devastati i vigneti e i campi di biada; e il popolo accusava Rienzi di quelle calamità che il governo di Rienzi gli avea fatto dimenticare. Cotest'uomo, il quale faceva assai miglior comparsa dalla tribuna che sul campo di battaglia, andò lento nelle provvisioni per arrestare i ribelli, e quando cominciò a decretarne, questi aveano già raccolti molti soldati e rendute inespugnabili le loro Fortezze. La lettura di Tito Livio non avea conferito a Rienzi nè il sapere, nè il valore di un Generale: ventimila Romani si videro costretti a tornar addietro, privi di buon successo e di gloria, dall'assalto del castel di Marino; il Tribuno intanto teneva a bada la sua vendetta or con pitture che mostravano i nemici col capo volto, ora annegando allegoricamente due cani; fossero almeno stati due orsi, giacchè egli intendeva di alludere agli Orsini. Con ciò convincendo sempre più della sua incapacità i ribelli, questi mandarono avanti con maggior vigore le loro fazioni. Sostenuti in segreto da un grosso numero di cittadini, si accinsero all'opera d'introdursi, fosse a viva forza, o per sorpresa, entro Roma, conducendo seco quattromila fantaccini, e mille seicento uomini a cavallo. Custodita accuratamente era la città; la campana a stormo sonò tutta la notte. Le porte furono a vicenda guardate con grande sollecitudine, ed aperte con incredibile audacia. Pur, dopo qualche titubazione, gli armati esterni credettero opportuna cosa il ritirarsi; e già le due prime divisioni di questo esercito si allontanavano, allor che i Nobili del retroguardo, vedendo libero l'ingresso di Roma, da un imprudente valore si lasciarono trasportare. Felici nel successo di una prima scaramuccia, furono indi oppressi dal numero de' Romani e senza remissione trucidati. Quivi perì Stefano Colonna il Giovane, dal quale il Petrarca aspettava la restaurazione dell'Italia. Prima di Stefano erano già caduti sotto il ferro nemico e Giovanni, giovanetto che porgea grandi speranze, e Pietro, che dovette augurarsi la tranquillità e gli onori della Chiesa, l'un figlio, l'altro fratello, e un nipote di Stefano, e due bastardi della famiglia Colonna; e il numero di sette, le sette corone dello Spirito Santo, chiamavale Rienzi, fu compiuto dalle mortali angosce di un inconsolabil padre, del vecchio Capo della Casa Colonna, che sopravvisse alla speranza e alle sciagure della sua gente. Il Tribuno, per animare vie più le sue truppe, immaginò un'apparizione e una profezia di S. Martino e di Bonifazio VIII[323]. Nell'inseguire almeno i nimici, Rienzi dimostrò un coraggio da eroe, dimenticando peraltro la massima degli antichi Romani che abborrivano i trionfi nelle civili guerre ottenuti. Asceso il Campidoglio, depose sull'altare la corona e lo scettro, millantando, nè privo affatto di fondamento era un tal vanto, di aver troncata un'orecchia, che troncar non poterono nè il Papa, nè l'Imperatore[324]. Ricusando, per sentimenti di bassa e implacabil vendetta, ai morti gli onori della sepoltura, i corpi dei Colonna, ch'ei minacciava esporre alla pubblica vista in un con quelli de' malfattori più abbietti, vennero nascostamente sotterrati dalle religiose di lor famiglia[325]. Il popolo entrando a parte del cordoglio di queste pie vergini, e pentitosi del proprio furore, detestò l'indecente gioia di Rienzi che andò a visitare il luogo ove quelle illustri vittime avean ricevuta la morte. Su quel terreno medesimo concedè al proprio figlio gli onori della cavalleria: ciascun de' Cavalieri della sua guardia percosse con lieve colpo il giovane neofito, e qui si stette tutta la cerimonia; l'abluzione del novizzo, ridicola quanto inumana, fu fatta entro uno stagno ancor tinto del sangue dei Nobili di Roma[326].
A. D. 1437
Un lieve indugio avrebbe salvati i Colonna; un mese dopo il suo trionfo, il Rienzi venne scacciato da Roma. Imbriacato dalle sue vittorie, perdè quelle poche virtù civili che gli rimanevano ancora, e le perdè senza essersi acquistata la fama di un abile guerriero. Sorse contro di lui una fazione ardita e vigorosa entro il recinto stesso di Roma, e quando, in pubblica assemblea[327], pose i partiti per creare una nuova imposta e per dar norme al governo di Perugia, trentanove Membri l'opinione di lui combattettero. Si volle accusarli di perfidia e di corruzione, ma respingendo questi l'accusa, e obbligando ad operare la forza per iscacciarli di lì, gli dimostrarono che se la ciurmaglia lo sosteneva ancora sul trono, disertato aveano dalla sua causa i più rispettabili cittadini di Roma. Il Papa e i Cardinali, non mai lasciatisi abbagliare dalle vane proteste del Rienzi, erano giustamente offesi dalla sua insolente condotta; onde la Corte d'Avignone mandò in Italia un Cardinale Legato, il quale, dopo una inutile negoziazione e due parlamenti col Rienzi, lanciò una Bolla di scomunica che spogliava il Tribuno del suo ufizio, qualificandolo co' nomi di ribelle, di sacrilego e di eretico[328]. I pochi Baroni che allor rimanevano si trovavano ridotti alla necessità di obbedire; l'interesse e la vendetta in quel momento li legarono al servigio della Chiesa; ma rammentando la morte tragica del Colonna, abbandonarono ad un uom di ventura il rischio e la gloria del cambiamento che si tentava. Giovanni Pepino, Conte di Minorbino nel Regno di Napoli[329], o per veri delitti, o per le sue ricchezze era stato condannato ad un perpetuo carcere; e il Petrarca che aveva sollecitato per la liberazione del prigioniero, contribuì indirettamente, e senza volerlo, alla perdita dell'amico. Con cencinquanta soldati introdottosi destramente in Roma il Minorbino, si trincerò entro il rione dei Colonna, e pervenne senza fatica a termine di una impresa che era stata giudicata impossibile. Dal primo istante di pubblico sospetto, la campana del Campidoglio non interruppe il suo tintinnìo; ma in vece di accorrere a questo così noto segnale, il popolo si tenne silenzioso e tranquillo, onde il pusillanime Tribuno, versando lagrime all'aspetto della pubblica ingratitudine, rassegnò il Governo e abbandonò il palagio di Stato.
A. D. 1347-1354
Il Conte Pepino senza l'uopo di sguainare la spada, restaurò la Chiesa e l'aristocrazia; si nominarono tre Senatori, primo de' quali fu il Legato, gli altri vennero scelti nelle famiglie rivali dei Colonna e degli Orsini. Abolite tutte le instituzioni del Tribuno, ne fu proscritta la testa. Nondimeno il nome di lui pareva tuttavia sì formidabile, che i Baroni stettero perplessi tre giorni prima di farsi coraggio ad entrare in città. Il Rienzi si trattenne più d'un mese nel Castel S. Angelo, d'onde tranquillamente si ritirò dopo essersi adoperato indarno a ridestare il coraggio e l'antica affezione de' Romani. Dileguatasi la lor chimera d'impero e di libertà, mostraronsi tanto inviliti, che sarebbero stati pronti ad abbandonarsi di proprio grado alla servitù, purchè tranquilla e ben regolata. Appena accorgendosi che l'autorità de' nuovi Senatori derivava ad essi dalla Santa Sede, non vedeano, che per riformare la Repubblica, quattro Cardinali avevano ricevuta una podestà da dittatori. Roma fu una seconda volta agitata per le sanguinose querele de' Baroni, che si abborrivano l'un l'altro, e disprezzavano le Comuni. Le lor Fortezze e nelle città e nelle campagne vennero rialzate, e di nuovo ancor demolite: e i tranquilli cittadini somigliavano, dice lo Storico fiorentino, ad un gregge di pecore, che i rapaci lupi divoransi. Ma quando finalmente l'orgoglio e l'avarizia de' Nobili ebbero stancata la pazienza de' Romani, una Confraternita della Beata Vergine protesse, e vendicò la Repubblica. Sonò a stormo la campana del Campidoglio; i Nobili armati tremarono innanzi ad una moltitudine d'inermi cittadini; il Colonna, uno di que' Senatori, ebbe a ventura di salvarsi, scalando una finestra del palagio; il suo collega Orsini morì lapidato a pie dell'Altare. Due plebei, Cerroni e Baroncelli, tennero successivamente il pericoloso ufizio di Tribuni. La mansuetudine del Cerroni rendendolo poco atto a sostenere un sì grave peso, dopo alcuni deboli sforzi si ritirò con una fama incontaminata, e con un onesto patrimonio, a godere pel rimanente della sua vita le delizie de' campi. Il Baroncelli, privo di eloquenza e di sublimità d'ingegno, per fermezza d'animo si segnalò. Tenendo però discorsi patriottici, correa sulle tracce dei tiranni; ogni sospetto che costui concepiva fruttava morte a chi ne era lo scopo, e a lui parimente fruttarono morte le sue crudeltà. In mezzo a tanti pubblici disastri, i falli del Rienzi vennero dimenticati, e i Romani si augurarono la pace e la prosperità del Buono Stato[330].
Dopo un esilio di sette anni, il primo liberatore di Roma venne alla sua patria restituito. Salvatosi dal Castel Sant'Angelo, sotto panni di frate, o di pellegrino, corse ad implorare l'amicizia del Re d'Ungheria che in Napoli allora regnava; nè avea intanto mancato di eccitare l'ambizione di tutti i venturieri coraggiosi, ne' quali a mano a mano scontrossi; era anche tornato a Roma, confuso tra la folla de' pellegrini del Giubbileo; indi nascostosi fra gli eremiti dell'Appennino, avea poscia errato per le città dell'Italia, dell'Alemagna e della Boemia. Niun lo vedea, ma il suo nome inspirava ancora terrore; e le angosce in cui stavasi la Corte di Avignone, provano il merito personale di cotest'uomo, o giovano fors'anche a supporlo maggiore che nol fosse di fatto. Uno straniero che aveva ottenuta udienza da Carlo IV, ebbe il coraggio di manifestarsi per il Tribuno della romana Repubblica, e fece attonita un'Assemblea di Ambasciatori e di Principi coll'eloquenza di un patriotta, colle narrate visioni profetiche, coll'annunzio della prossima caduta dei tiranni e del Regno dello Spirito Santo[331]; ma di qualunque genere si fossero le speranze che confortarono il Rienzi a manifestarsi, certamente altro non si guadagnò che di essere custodito qual prigioniero; nondimeno sostenne il suo carattere d'independenza e di dignità, mostrando di secondare, come per propria scelta, l'ordine espresso del Pontefice che ad Avignone il volea. Se la mala condotta tenuta da esso nel tribunato aveva allontanato da lui l'animo del Petrarca, la sventura dell'amico presente riaccese la fervida sollecitudine del Poeta, che si dolse acerbamente, perchè il liberatore di Roma venisse in tal modo dall'Imperatore di Roma consegnato al Vescovo di Roma. Il Rienzi fu condotto lentamente, ma con sicura scorta, da Praga ad Avignone, ove fece il suo ingresso a guisa di un malfattore; condotto in carcere, vi fu incatenato per una gamba; e quattro Cardinali ricevettero l'ordine di esaminarlo su i delitti di eresia e di ribellione, de' quali veniva accusato. Ma il processo e la condanna del Rienzi avrebbero chiamata l'attenzione pubblica sopra tali argomenti, che prudente cosa era di lasciare sotto il vel del mistero; la supremazia temporale de' Papi, il dovere della residenza in Roma, i privilegi civili ed ecclesiastici del Clero e del popolo romano. Il Pontefice regnante in allora, ben meritevole del nome suo di Clemente, sentì compassione per le sventure, stima per la grandezza d'animo del prigioniero; e crede inoltre il Petrarca ch'ei rispettasse in quest'uomo straordinario il nome e il sacro carattere di Poeta[332]. Divenuta più mite la prigionia del Rienzi, gli vennero conceduti libri; sicchè in Tito Livio e nella Bibbia che studiò assiduamente cercò la cagione e il conforto nelle proprie sventure.
A. D. 1354
Solamente sotto il Pontificato d'Innocenzo VI, il Rienzi potè sperare libertà e risorgimento, essendo la Corte di Avignone venuta in sentenza, che codest'uomo, altra volta sì fortunato nel ribellare, fosse quanto vi volea in quel momento per acchetare e tor di mezzo l'anarchia della Metropoli. Dopo avere la ridetta Corte obbligato il Rienzi a prometterle fedeltà, lo spedì in Italia col titolo di Senatore; ma la morte del Baroncelli in quel punto sopravvenuta, rendè per poco inutile la missione; che anzi il Legato, Cardinale Albornoz[333], uom versatissimo nella politica, gli permise a contraggenio e senza somministrargli soccorsi, di continuare in tale impresa piena di rischio. Ciò nondimeno il Rienzi fu accolto sulle prime con quanto favore uom poteva augurarsi; si ebbe per una pubblica festa il dì del suo ingresso; nè tardò colla facondia del dire e colla prevalenza che tuttavia possedea a far risorgere le leggi del Buono Stato; ma i vizj, così di lui come del popolo, ben presto coprirono di nubi un'aurora sì bella. Oh quante volte in Campidoglio ha dovuto augurarsi la prigionia di Avignone! Dopo un'amministrazione di quattro mesi, morì trucidato in una sommossa, che i Baroni romani avevano suscitata. Nel conversare, dicesi cogli Alemanni e co' Boemi, ne abbracciò i costumi d'intemperanza e di crudeltà; le sciagure ne aveano snervato l'entusiasmo senza invigorirne la virtù, o la ragione; a quelle vivaci speranze della verde età, stategli un dì presagio e certezza di buon successo, era in lui succeduta la fredda inerzia della diffidenza e della disperazione. Tribuno, avea regnato con un potere assoluto, ma sancito dalla scelta e dall'amor dei Romani. Senatore, i cittadini non vedeano in esso che il servile strumento di una Corte straniera, e intantochè a questi si rendeva sospetto, il Principe lo abbandonò. L'Albornoz, in cui parea sola intenzione di perderlo, si mantenne inflessibile nel negargli qualunque soccorso d'uomini, o di danari. Rienzi, suddito, non osava più metter mano nelle rendite della Camera Appostolica; e il primo sentor che diede di mettere imposte, fu segnale di clamori e di sedizione. Nemmeno nell'adempire gli atti della giustizia, evitò i rimproveri, per lo meno, d'uom crudele, e spinto da personali considerazioni; sagrificò alla propria diffidenza uno fra i più virtuosi cittadini di Roma; e allorquando fece eseguire la sentenza di morte pronunziata contro un assassino da strada, che in altri tempi gli avea somministrati danari, parve che il Magistrato o troppo si dimenticasse, o troppo si ricordasse delle obbligazioni del debitore[334]. Una guerra civile che ridusse a stremo il suo erario, stancò finalmente la pazienza de' cittadini; mentre i Colonna, rinchiusi nel lor Castello di Palestrina, non si stavano dal commettere ostilità, i mercenarj del Rienzi incominciarono ad avere a vile un Capo che mostravasi geloso fin d'ogni merito secondario. Quest'uomo offerse, durante l'intera sua vita, un miscuglio bizzarro di eroismo e di viltà. Nell'atto che una furiosa moltitudine assaliva il Campidoglio, e gli ufiziali civili, e militari del Rienzi lo abbandonavano, in quel momento il Senatore, intrepido, ebbe il coraggio di afferrare la bandiera della libertà, e di mostrarsi al verone, d'onde pronunziò eloquentissima aringa, a fine di commovere gli animi dei Romani, e farli convinti che alla propria caduta quella si unirebbe della Repubblica. Ma le imprecazioni e una grandine di sassi interruppe il suo dire; un dardo gli trapassò una mano, dal quale istante si diede in preda ad abbiettissima disperazione; e immerso nel pianto, fuggendo nel più occulto angolo del suo palagio, nè ivi ancora credendosi sicuro, si calò, col ministero d'un lenzuolo, in un cortile ove guardavano le finestre del suo ultimo asilo, divenutogli carcere. Abbandonato da qualsivoglia speranza, rimase ivi assediato fino alla sera, e sintantochè le porte del Campidoglio fossero state distrutte dal fuoco, e atterrate a colpi di azza. Il Senatore tentò fuggire sotto panni di plebeo, ma ben presto riconosciuto, venne tratto sul gran terrazzo del palagio, teatro fatale delle sue sentenze e delle loro esecuzioni. Privo di voce e di moto, ignudo per metà, e quasi morto, rimase così un'ora in mezzo alla moltitudine, di cui però erasi calmata la rabbia, fecendo luogo alla curiosità e alla maraviglia; un estremo sentimento di rispetto e di compassione parlava ancora negli animi a favore del misero, e forse avrebbe vinto sull'odio, se un assassino più risoluto degli altri non s'affrettava a piantargli un pugnale nel cuore. Il Rienzi spirò in quel medesimo istante; il corpo di lui trapassato da mille colpi (ultimo sfogo della rabbia dei suoi nemici) venne abbandonato pastura ai cani, e gli avanzi ne furono abbruciati. I posteri porranno in bilancia, le virtù e i vizj di quest'uomo straordinario; ma in un lungo periodo di anarchia e di servitù, spesse volte il Rienzi è stato celebrato coi nomi di liberatore della sua patria e d'ultimo cittadino romano[335].
A. D. 1355
Il primo e il più ardente fra i desiderj del Petrarca sarebbe stato la restaurazione di una libera Repubblica; ma dopo l'esilio e la morte del suo eroe plebeo, tornò a volger lo sguardo al Re dei Romani. Il Campidoglio fumava ancora del sangue di Rienzi, allorchè Carlo IV, scendea l'Alpi per farsi coronare Imperatore e Re d'Italia. Ricevè a Milano la visita del Poeta, del quale contraccambiò con illusioni l'adulazione; e accettò da esso una medaglia d'Augusto, promettendogli, senza sorridere, che avrebbe imitato il fondatore della Monarchia romana. Le speranze del Petrarca sempre deluse derivavano da una falsa applicazione dei nomi e delle massime dell'Antichità. Pure avrebbe dovuto accorgersi come i caratteri e i tempi non fossero ancora i medesimi, e quanto incommensurabile differenza disgiungesse il primo de' Cesari da un Principe boemo innalzato dal favore del Clero al grado di Capo titolare della germanica aristocrazia. Lungi ch'ei pensasse a restituire a Roma l'antica gloria e le antiche province, Carlo avea, mercè d'una segreta negoziazione, promesso al Papa di uscir di Roma il dì medesimo che verrebbe coronato; onde nella sua non gloriosa ritratta lo accompagnarono le rampogne del patriotta Poeta[336].
Il Petrarca che avea perduta ogni speranza del risorgimento della libertà e dell'Impero, a meno sublimi voti si limitò, accingendosi a riconciliare il Pastore col gregge, e a ricondurre nella sua antica e vera diocesi il Vescovo di Roma. Nè il suo zelo in ordine a ciò fu mai veduto affievolirsi; e nel fervore della gioventù, e quando ebbe acquistata la prevalenza degli anni, non si stette dal volgere successivamente a cinque Pontefici le sue esortazioni, e l'eloquenza del medesimo era dal sentimento, e dalla franchezza di una nobile libertà, sempre animata[337]: figlio di un cittadino di Firenze, preferì in ogni istante il paese che gli avea data la vita a quello cui la propria educazione dovea; l'Italia agli occhi del Petrarca fu mai sempre la regina delle nazioni e il giardino del Mondo. Certamente, ad onta delle sue fazioni domestiche, essa avea progredito nell'arti e nelle scienze, nella ricchezza e nella civiltà più della Francia; ma non fu poi tale fra lo stato delle due nazioni la differenza, che ne venisse un diritto al Petrarca di qualificare, siccome barbare, tutte le genti poste di là dall'Alpi. Intanto che facea segno all'odio suo ed ai disprezzi Avignone, la mistica Babilonia, ricettacolo secondo lui di tutti i vizj e d'ogni genere di corruttela, dimenticava, che questi scandalosi vizj non erano produzione indigena del suolo di Francia, ma venuti in compagnia del potere e del lusso della Corte dei Papi. Egli confessa per vero che il successore di S. Pietro è il Vescovo della Chiesa universale; ma soggiunge che l'Appostolo, non sulle rive del Rodano, ma su quelle del Tevere avea posta la sua residenza, nè può comportare, che mentre tutte le città del Mondo cristiano s'allegravano della presenza del loro Vescovo, la sola Metropoli rimanesse solitaria e deserta. Dopo la traslocazione della Santa Sede, i sacri edifizj di Laterano, del Vaticano, i loro altari, i lor Santi languivano inviliti ed ignudi; e come se l'offrire il ritratto d'una moglie vecchia, piangente e oppressa dalle infermità e dalla vecchiezza, agli occhi di un volubil marito fosse modo opportuno a ricondurglielo fra le braccia, il Petrarca solea dipingere Roma sotto la figura di una desolata matrona[338]; ma la presenza del Sovrano legittimo dovea dissipare le nubi che coprivano i Sette Colli; un'eterna gloria, la prosperità di Roma, la pace dell'Italia sarebbero state la ricompensa di quel Pontefice che avesse osato formare questa generosa risoluzione. Di cinque Papi, ai quali osò volgere tali conforti il Petrarca, i tre primi, Giovanni XXII, Benedetto XII e Clemente VI, o se ne presero spasso, o fors'anche se ne annoiarono; ma finalmente Urbano V tentò un sì memorabile cambiamento, che da Gregorio XI fu messo a termine. Questi due Pontefici incontrarono ostacoli pressochè insuperabili all'adempimento di un simil disegno. Un Re di Francia, che meritò il soprannome di Saggio, non volea sciogliere i Papi dalla soggezione in cui teneali l'obbligo di soggiornare nel centro del territorio francese; nativi di questa contrada erano la maggior parte de' Cardinali, affezionati alla lingua, ai costumi e al clima d'Avignone, ai magnifici loro palagi e soprattutto al vin di Borgogna. Riguardavano l'Italia, come un paese straniero e nemico; onde quando s'imbarcarono a Marsiglia, il fecero con tal ripugnanza, come se fossero stati banditi, o venduti in Terra infedele. Urbano V visse per tre anni in sicurezza e in modo onorevole nei Vaticano; vide protetta la propria dignità da una guardia di duemila uomini a cavallo, e ricevette quivi le congratulazioni del Re di Cipro, della Regina di Napoli, e degl'Imperatori d'Oriente e d'Occidente; ma ben tosto la gioia del Petrarca e degl'Italiani fece luogo al dolore e allo sdegno. Mosso da motivi di pubblica o di privata utilità, dai desiderj o proprj, o dei Cardinali, Urbano tornò in Francia, e la vicinissima elezione del suo successore vedeasi sciolta dalla tirannide patriottica de' Romani. Però le Potenze celestiali in soccorso di questi si adoperarono; una santa pellegrina, Brigida di Svezia, che disapprovava la partenza di Urbano, gli predisse la morte. Santa Catterina da Siena, la sposa di Gesù Cristo e la messaggera de' Fiorentini, eccitò Gregorio XI a ritornare a Roma; e parve che gli stessi Pontefici, questi grandi fautori dell'umana credulità[339], fossero persuasi delle visioni di una tal donna[340]. Non è però da tacersi che particolari ragioni autenticavano sì fatti avvisi del Cielo. Una banda di scorridori nemici entrati in Avignone aveano arrecato oltraggio alla Santa Sede; l'intrepido Capo che la conducea, pretese dal Vicario di Gesù Cristo e dal Sacro Collegio il pagamento di un riscatto, ed assoluzione ad un tempo; la qual massima de' guerrieri francesi che risparmiavano il popolo e spogliavano le chiese, era una nuova eresia pericolosissima per le sue conseguenze[341]. Intantochè questi motivi consigliavano il Pontefice ad abbandonare Avignone, Roma ne sollecitava ardentemente il ritorno. Il Senato ed il popolo lo riconosceano qual legittimo loro Sovrano, gli offerivano le chiavi delle porte, de' ponti e delle Fortezze, almeno in quanto spetta al rione transteverino[342]; ma protestavano in uno di non poter più sopportare lo scandalo della sua lontananza e i disastri che ne derivavano, nè nascondeano che, quando egli si fosse ostinato a rimanere sulle sponde del Rodano, si sarebbero veduti alla necessità di richiamare in vigore e sostenere l'antico loro diritto di elezione. Già era stato chiesto all'Abate di Monte Cassino che godea tanta rinomanza e presso il popolo e presso il Clero, se avrebbe accettata la tiara[343]; e il venerabile Ecclesiastico[344], aveva risposto: «Son cittadino di Roma, e il mio primo dovere è quello di obbedire alla voce del mio paese»[345].
A. D. 1378
Se la superstizione fosse competente ad indagare le cagioni delle morti immature[346], se gli eventi dessero norma a giudicare il merito delle azioni, dovrebbe credersi che l'espediente preso dalla Corte Pontificia, tanto ragionevole e provvido di per sè stesso, fosse stato una disobbedienza ai voleri del Cielo. Gregorio XI morì quattordici mesi dopo il suo ritorno al Vaticano, e venne dietro a tal morte il grande scisma che per oltre a quarant'anni tenne divisa la Chiesa. Composto in quel tempo di ventidue Cardinali il Sacro Collegio, sei di questi erano rimasti ad Avignone; undici Francesi, uno Spagnuolo, e quattro Italiani, entrarono, seguendo le ordinarie forme, in Conclave, ed essendovi ancora la legge che prescrive di scegliere il Papa fra i Cardinali, venne, con unanimità di voti, acclamato Sommo Pontefice l'Arcivescovo di Bari, suddito del Regno di Napoli, e uomo ragguardevole per zelo e sapere, che assunse il nome di Urbano VI. La lettera del Sacro Collegio ne attesta libera e regolare l'elezione, ed inspirato, come d'ordinario, dallo Spirito Santo il Corpo degli Elettori. Effettuatasi nel consueto modo la cerimonia dell'adorazione, dell'investitura e della coronazione, Roma e Avignone obbedirono alla potestà temporale di Urbano VI, alla supremazia ecclesiastica del medesimo, il Mondo latino. Per più settimane continuarono i Cardinali ad assembrarsi intorno di lui, largheggiandogli delle più vive proteste di affezione e di fedeltà. Ma non appena i calori della state diedero a questi un pretesto convenevole per partirsi da Roma, ad Anagni e a Fondi si congregarono; ove con sicurezza, e gettata la maschera, rendettero solenne la lor doppiezza ed ipocrisia. Scomunicato l' Anticristo di Roma, così allora chiamarono Urbano, procedettero ad una nuova scelta, il cui favore cadde sopra Roberto da Ginevra, che prese il nome di Clemente VII, e venne annunziato dal Sacro Concistoro alle genti, come il Vicario legittimo di Gesù Cristo. Chiarirono forzata, illegale, nulla di diritto, e dettata dalle minacce de' Romani e dal timor della morte la prima elezione; querela però che da alcune circostanze verisimili sembra giustificata. I dodici Cardinali francesi, unendo in sè oltre a due terzi de' suffragi ed essendo quindi padroni della elezione, non par presumibile, qualunque fosse la natura delle intestine loro dissensioni, che avessero liberamente sagrificati i proprj interessi e diritti a favore di uno straniero, la cui nomina dovea rendere certo e perpetuo l'allontanamento loro dalla patria. I racconti diversi, ed anche contraddittorj de' contemporanei[347], quali più, quali meno, confermano il sospetto di una popolare violenza. Proclivi per natura alla licenza e alla sedizione i Romani, a queste aggiugneano allora uno stimolo la coscienza de' loro diritti, e la paura di un'altra migrazione. Trentamila ribelli, dicesi, che assediavano il Conclave, colle loro minacce lo intimorirono; le campane di S. Pietro e del Campidoglio sonarono a stormo. «La morte, o un Papa italiano» era il grido universale. I dodici vessilliferi, o Capi de' rioni, in modo di caritatevole avviso, lo ripetevano; si fecero alcuni apparecchi per arder vivi i Cardinali refrattarj, e vedeasi grande probabilità, che se la tiara fosse stata conferita ad un Francese, niun di questi uscisse vivo dal Vaticano. Nè fu men forzata, continua a dirsi, la loro dissimulazione durante alcune settimane che trascorsero dopo il Conclave. Ma l'orgoglio e la crudeltà di Urbano li minacciava di pericoli anche maggiori, nè tardarono a conoscere quanto pesasse questo tiranno, sì freddamente atroce che diportavasi pel suo giardino recitando il Breviario in mezzo ai gemiti di sei Cardinali assoggettati, per suo ordine, alla tortura in una stanza vicina. Certamente con quel suo inesorabile zelo gli avrebbe costretti ad adempiere i loro doveri nelle parrocchie di Roma; e se, per sua mala ventura, non tardava la promozione di nuovi Cardinali che avea meditata, i Cardinali francesi in breve sarebbero stati in minor numero nel Sacro Collegio, e d'ogni appoggio sforniti. Tali motivi e la speranza di rivalicare le Alpi, li spinsero a turbare sconsigliatamente la pace e l'unità della Chiesa; e le Scuole cattoliche continuano a disputare sulla validità della prima, o della seconda elezione[348]. Vanità nazionale, anzichè sentimento del proprio interesse, regolò, in questa bisogna, le deliberazioni della Corte e del Clero di Francia[349]. Trascinate dall'esempio di questa nazione la Savoia, la Sicilia, l'Isola di Cipro, l'Aragona, la Castiglia, la Navarra e la Scozia, si posero dalla parte di Clemente VIII, e morto esso, da quella di Benedetto XIII. Roma e i principali Stati dell'Italia, l'Alemagna, il Portogallo, l'Inghilterra[350], i Paesi Bassi e i Regni del Nort conobbero valida l'elezione di Urbano VI, che ebbe Bonifazio IX, Innocenzo, e Gregorio XII per successori.
A. D. 1378-1418
Dalle rive del Tevere e da quelle del Rodano guerreggiandosi con penna e spada i due Papi, l'ordine civile ed ecclesiastico della società fu turbato, e gran parte di questi mali, che da essi principalmente divennero, percosse i Romani[351]. Invano aveano sperato, restituendo alla Capitale la Monarchia della Chiesa, di sottrarsi allo stato d'inopia ove giacevano, mediante i tributi e le offerte delle nazioni. La Francia e la Spagna sviarono il corso di queste ricchezze, nè due Giubbilei, celebrati nel solo volgere di dieci anni, valsero a compensarli di questa calamità. Le brighe prodotte dallo scisma, le armi straniere, le popolari sommosse costrinsero più d'una volta Urbano VI e i tre successori del medesimo ad abbandonare il Vaticano. La funesta nimistà degli Orsini e de' Colonna durava ancora; i vessilliferi di Roma s'impadronirono e abusarono de' privilegi della Repubblica; i Vicarj di Gesù Cristo assoldarono mercenarj e punirono colla spada, col pugnale, co' patiboli i ribellanti; undici deputati del popolo, chiamati a parlamento amichevole, furono uccisi a tradimento, e i lor cadaveri gettati in mezzo alla strada. Dopo l'invasione di Roberto il Normanno, i Romani aveano, fra le intestine loro discordie, evitato il pericoloso intervento degli stranieri. Ma in mezzo ai disordinamenti dello scisma, un ambizioso vicino, Ladislao, Re di Napoli, difese, e tradì a vicenda il Pontefice e il popolo; talchè il primo lo acclamava Gonfaloniere, o General della Chiesa, mentre i cittadini si rimettevano in lui per la scelta de' loro Magistrati. Tenendo questi assediata Roma per terra e per mare, vi entrò per tre riprese a guisa di barbaro conquistatore; profanò gli altari, stuprò le vergini, spogliò i mercatanti, fece le sue divozioni nella chiesa di S. Pietro, e lasciò nel Castel Sant'Angelo una guernigione de' suoi. Non però le costui armi furono sempre felici; e gli accadde di dovere unicamente all'indugio di tre giorni la conservazione della Corona e della vita; nondimeno trionfò, e soltanto la sua morte immatura liberò la Metropoli e lo Stato ecclesiastico dagli attentati di un vincitore ambizioso che avea preso il titolo, o certamente usurpata la potestà di Re dell'Italia[352].
A. D. 1394-1407
Non è già mia intenzione l'imprendere la Storia ecclesiastica dello scisma d'Occidente; ma mi è impossibile il non fermarmi alcun poco sovr'esso per la vivissima parte che Roma, argomento degli ultimi capitoli della mia Opera, ha avuta ne' contrasti insorti al proposito della successione de' suoi Sovrani. I primi consigli alla pace e alla riconciliazione de' Cristiani vennero dall'Università di Parigi e dalla Facoltà della Sorbona, i cui Dottori, almeno nella Chiesa gallicana, erano riguardati, siccome i maestri i più autorevoli di quanti per sapere teologico il fossero[353]. La suddetta Facoltà pertanto, poste saggiamente da banda tutte le indagini sulla origine dei diritti e sulle ragioni di una parte e dell'altra, propose come rimedio a tanti inconvenienti, che entrambi i Pontefici rassegnassero ad un tempo la tiara, dopo avere ciascun d'essi conferita ai suoi Cardinali la facoltà di congregarsi per una elezione legittima; propose parimente che le nazioni ricusassero obbedienza[354] a quello fra i due competitori, il quale al pubblico l'interesse di sè medesimo preferisse. Durante la proposta e l'accettazione della proposta, accadde il caso di sede vacante, e que' medici della Chiesa insistettero fervorosamente affinchè si prevenissero le funeste conseguenze di una scelta troppo affrettata. Ma la politica del Conclave e l'ambizione dei Cardinali, nè preghiere, nè ragioni ascoltavano; e per quante promesse venissero fatte dal nuovo eletto, costui, assunta la tiara, non si credea legato dai giuramenti che pronunziati avea Cardinale. L'artifizio de' Pontefici rivali, gli scrupoli, o le passioni dei loro partigiani, e le vicissitudini delle fazioni che governarono in Francia l'insensato Carlo VI, delusero per quindici anni i disegni pacifici della Università di Parigi. Una vigorosa risoluzione venne finalmente abbracciata; e una solenne ambascieria, composta del Patriarca titolare di Alessandria, di due Arcivescovi, di cinque Vescovi, di cinque Abati, di tre Cavalieri e di venti Dottori, si trasferì alle due Corti di Avignone e di Roma, chiedendo, a nome della Chiesa e del Re la rinunzia di entrambi i Papi, Pietro da Luna, detto Bonifazio XIII, l'un d'essi, Angelo Corrario, detto Gregorio XII, l'altro. Così per l'onore di Roma, come pel miglior successo della loro negoziazione, cotesti ambasciatori domandarono ai Magistrati della città un parlamento; nel quale, in modo asseverante fecero manifesto, come fosse mente del Re Cristianissimo di non togliere la Santa Sede al Vaticano, che era agli occhi del Monarca francese la residenza più di tutte addicevole al successor di S. Pietro. Da un eloquente Oratore, che aringò a nome del Senato e del popolo, venne risposto esprimendo il desiderio vivissimo de' Romani di contribuire alla riunion della Chiesa; furono compianti i danni temporali e spirituali che procedeano da sì lungo scisma, e implorata la protezione della Francia contro l'armi del Re di Napoli. Edificanti e capziose ad un tempo furono le risposte di Benedetto e di Gregorio, ambiziosi rivali, che, nella massima di non rinunziare la tiara, si mostrarono animati da un medesimo spirito. Convennero sì sulla necessità di far procedere un mutuo abboccamento fra loro, ma non mai si accordarono intorno al tempo, al luogo, alla forma di esso. «Se uno move un passo innanzi, dicea un impiegato di Gregorio, l'altro dà addietro; l'un di loro par di quegli animali che paventa la terra, l'altro una creatura che non può vivere in acqua. E di tal maniera, questi due vecchi preti, per pochi istanti di vita che lor possono ancor rimanere, la pace e la salute del Cristiano Mondo avventurano[355] ».
A. D. 1404
Finalmente l'ostinazione e gli artifizj de' due Pontefici stancarono la pazienza del Mondo Cristiano; sicchè per ultimo ognun d'essi videsi abbandonato dai proprj Cardinali, che a quelli della contraria fazione, come ad amici loro e colleghi, si unirono; diffalta da una banda e dall'altra, che una numerosa assemblea di Prelati e di Ambasciatori sostenne. Il Concilio di Pisa, giusto egualmente verso entrambe le parti, rimosse dal soglio e il Pontefice di Roma e quel d'Avignone. Ma il nuovo Pontefice eletto ad unanimità dal Conclave, Alessandro V, morì poco tempo dopo, ed essendogli stato immediatamente, e colle stesse forme, dato per successore Giovanni XXIII, il più dissoluto di tutti gli uomini, questa troppa fretta de' Francesi e degli Italiani, anzichè spegnere lo scisma, fece sì che i pretendenti al Trono di S. Pietro, in vece di due, fossero tre. Impugnati furono i nuovi diritti che il Concilio di Pisa, e il Conclave che venne dopo di esso, si erano attribuiti. I Re di Alemagna, di Ungheria e di Napoli parteggiarono per Gregorio XII, la divozione e l'amor patriottico rendè favorevoli gli Spagnuoli a Benedetto XIII, loro concittadino (Pietro De Luna). Gl'inconsiderati decreti del Concilio di Pisa soggiacquero a riforma per la convocazione del Concilio di Costanza; Concilio, ove l'Imperator Sigismondo sostenne rilevantissima parte, come avvocato o protettore della cattolica Chiesa; Concilio che pel numero e la dignità degl'individui d'Ordine civile ed ecclesiastico, dai quali venne composto, sembrò piuttosto l'adunata degli Stati generali d'Europa. Fra i tre competitori, la prima vittima fu Giovanni XXIII, che imputato di gravi colpe, tentò una fuga, ma venne ricondotto prigioniero; si cercarono palliamenti alle più scandalose di tali accuse, perchè questa volta il Vicario di Gesù Cristo non veniva incolpato di minori indegnità che di pirateria, assassinj, stupri, incesto e sodomia; poi dopo avere egli stesso riconosciuta giusta la sua condanna, espiò in un carcere l'imprudenza d'essersi creduto sicuro in una città libera di là dall'Alpi. Gregorio XII, la cui giurisdizione al ricinto di Rimini si era ristretta, scese con più onore dal trono; perchè l'Assemblea, in mezzo a cui rassegnò il titolo e l'autorità di legittimo Papa, era stata dal suo Ambasciatore medesimo convocata. Quanto a Benedetto XIII, per vincere la pertinacia di lui e de' suoi partigiani, dovette l'Imperatore imprendere un viaggio da Costanza a Perpignano. Finalmente i Re di Castiglia, di Aragona, di Navarra e di Scozia avendo ottenuto un onorevol Trattato, Benedetto fu, col consenso degli Spagnuoli, rimosso dal Trono; a questo vecchio però che non facea più timore a nessuno, fu lasciato il conforto di scomunicare, da starsene nel suo solitario Castello, due volte al giorno i reami ribelli, fattisi disertori della sua causa. — Dopo avere estirpati i resti dello scisma, il Concilio di Costanza procedè lentamente e ponderatamente all'elezione del futuro Capo della Chiesa e Sovrano di Roma. In una bisogna sì rilevante, furono aggiunti ai ventitre Cardinali, de' quali formavasi il Sacro Collegio, trenta deputati, tolti in egual numero dalle cinque grandi nazioni della Cristianità, l'italiana, l'alemanna, la francese, la spagnuola e l'inglese[356]. Il disgusto che naturalmente provar doveano i Romani per l'intervento di tanti stranieri, fu raddolcito dalla generosità di questi nel far cadere la nomina del Papa sopra un Italiano e Romano. Ottone Colonna, chiaro pel nome di sua famiglia e per meriti proprj, i voti del Conclave in sè radunò. Roma ravvisò con giubilo e sommessione il suo Sovrano nel più nobile de' suoi figli. Lo Stato ecclesiastico trovò nella possente famiglia del Pontefice la sua difesa, e dal Regno dei Colonna incomincia l'epoca della dimora stabile posta dai Papi sul Vaticano[357].
A.D. 1417
Martino V (Ottone Colonna) revocò a sè il diritto di batter moneta, diritto goduto per tre secoli dal Senato[358]; e dalle monete coniate col nome e coll'immagine del ridetto Pontefice, incomincia la serie delle medaglie dei Papi. Eugenio IV, successore di Martino, è il solo, d'indi in poi, fra i Pontefici che una ribellione abbia scacciato da Roma[359]; Nicolò V, successore di Eugenio, è l'ultimo che fosse importunato dalla presenza di un Imperatore romano[360]. — 1. Il contrasto ch'Eugenio ebbe coi Padri del Concilio di Basilea, e la molestia o il timore di una nuova tassa, incoraggiarono ed eccitarono i Romani ad impadronirsi nuovamente del governo temporale della città. Corsi alle armi, elessero sette Governatori della Repubblica, e un Contestabile del Campidoglio; indi tratto in carcere il nipote del Papa, assediarono nel suo palagio lo stesso Pontefice, costretto a fuggire sotto panni di frate, e grandinato da molti dardi de' sudditi, che il riconobbero, allorchè la barca ove appiattossi, scendeva il Tevere. Ma gli rimaneva ancora nel Castel Sant'Angelo un presidio fedele, e buona artiglieria; laonde le batterie pontifizie fulminavano senza posa la città, e una palla che giunta a segno, rovinò la batteria del ponte, disperse in un sol colpo questi Eroi novelli della Repubblica. Una ribellione di cinque mesi avea già stancata la loro costanza, oltrechè la tirannide de' Ghibellini avendo indotti i più saggi fra questi repubblicani ad augurarsi ancora il dominio del Papa, un pentimento unanime da una intera sommessione fu immediatamente seguìto. Le truppe di S. Pietro occuparono nuovamente il Campidoglio; tutti i Magistrati tornarono alle loro case; i più rei vennero puniti coll'esiglio, o colla morte; il Legato, appena giunse, a Capo di duemila fantaccini e di quattromila uomini a cavallo, fu salutato siccome padre della città. I Concilj di Ferrara e di Firenze, il timore, o il risentimento rendettero più lunga la lontananza di Eugenio da Roma. Al suo ritorno trovò sì un popolo sommesso, ma le stesse acclamazioni con cui entrando fu accolto, gli dimostrarono come per mantenersi fedeli i Romani, e per assicurare a sè medesimo tranquillità, gli facesse mestieri abolire quell'imposta che era stata una fra le cagioni della sommossa. — 2. Sotto il pacifico Regno di Nicolò V, Roma risorse e divenne più bella; si rischiararono le menti de' cittadini. Ma intantochè il Pontefice pensava agli ornamenti di Roma e alla felicità del suo popolo, fu preso da spavento per l'avvicinarsi di Federico III, che, nè per suo carattere, nè per possanza, le angosce del Pontefice giustificava. Nicolò V, dopo avere raccolte le sue forze militari entro le mura della Metropoli, e provveduto, quanto meglio il si poteva, con giuramenti e Trattati, alla propria sicurezza[361], ricevè con aria di soddisfazione il fedele avvocato e vassallo della Chiesa romana. Sì ben disposti alla sommessione erano gli animi, tanta la debolezza di Federico III, che niuna cosa turbò la pompa di quella coronazione; ma una tal vana cerimonia riusciva troppo umiliante ad una independente nazione; onde i successori di Federico III si sono dispensati da questo incomodo viaggio, e hanno creduto abbastanza autenticato il lor titolo dal suffragio degli alemanni Elettori.
Un cittadino romano osservò con compiacenza ed orgoglio, che il Re de' Romani, dopo avere salutati leggermente i Cardinali e i Prelati andatigli incontro, distinse in particolar modo il Senatore di Roma, e il suo abito di cerimonia, e che nel separarsi, il fantasma dell'Impero e il fantasma della Repubblica amichevolmente abbracciaronsi[362]. Giusta le leggi di Roma[363], questo primo Magistrato doveva essere dottore in legge, forestiere, e nato almeno ad una distanza di quaranta miglia dalla città, nè congiunto in parentado spirituale, o temporale, al terzo grado canonico, cogli abitanti di essa. Veniva nominato di nuovo a ciaschedun' anno; e uscendo di magistratura, ne soggiaceva a severo sindacato la sua amministrazione, nè era atto a rientrare in questa carica se non trascorreano prima due anni. Gli si pagavano tremila fiorini per le sue spese, e a titolo di stipendio. Mostravasi con una pompa degna della maestà della Repubblica, vestito d'un abito di broccato di oro, o di velluto cremisino, e nella state, di un drappo più leggiero di seta; tenea in mano uno scettro d'avorio; lo precedeano almeno quattro littori che portavano bacchette rosse avvolte in banderuole color d'oro, che era il colore della Città. Il giuramento, che giunto al Campidoglio egli prestava, indicavane gli ufizj e la podestà; era questo il giuramento di mantenere le leggi, di reprimere il superbo e proteggere il popolo, di amministrare atti di giustizia e di misericordia in tutto il territorio, ove la sua giurisdizione estendeasi. Avea per coadiutori tre forestieri istrutti, i due collaterali, e il giudice d'appello nelle cause criminali. Quelle leggi danno a divedere quanta bisogna doveano a questo somministrare i processi per delitti di furto, di ratto e di omicidio; e sì deboli erano coteste leggi, che sembra lasciassero campo alle querele private e alle unioni di cittadini armati che per comune difesa si collegassero. Il Senatore non aveva altro incarico fuor quello dell'amministrazione della giustizia. Il Campidoglio, l'erario, il governo della città e del territorio stavano nelle mani di tre Conservatori che si cambiavano quattro volte l'anno. La milizia de' tredici rioni adunavasi sotto gli stendardi de' Caporioni particolari, Capi di ciascun rione; e il primo di questi Capi veniva distinto col grado e titolo di Priore. Il potere legislativo del popolo risedeva nel Consiglio segreto e nelle Assemblee generali, composto il primo dei Magistrati e degl'immediati loro predecessori, di alcuni ufiziali del fisco e de' tribunali, e di tre classi di consiglieri che erano, tredici in una, ventisei nell'altra, quaranta nella terza, in tutto centoventi persone. Ogni cittadino maschio avea voto nell'Assemblea generale, privilegio fatto più ragguardevole dalla cura con cui veniva impedito che gli stranieri usurpassero il titolo di cittadini romani. Sagge e severe cautele prevenivano le turbolenze della democrazia. Ne' soli Magistrati era il diritto di proporre l'argomento della discussione, nè permetteasi ad alcuno il parlare, se non se salito sopra una cattedra, o una tribuna; le acclamazioni tumultuose venivano represse; si raccoglievano per via di scrutinio i suffragi; e i decreti, nell'essere pubblicati, portavano in fronte i rispettabili nomi del Senato e del popolo. Sarebbe difficile indicare in qual tempo la pratica sia stata perfettamente d'accordo collo Statuto; perchè i progressi dell'ordine si sono veduti a mano a mano collegati colla diminuzione della libertà; ma, nell'anno 1580, sotto il Pontificato di Gregorio XIII, e col consenso di questo Sovrano[364], fu formata una raccolta degli antichi Statuti, divisa in tre libri, e questi vennero accomodati ai tempi ne' quali vivevasi. I Romani seguono tuttavia questo codice di leggi civili e criminali, e comunque le popolari assemblee non si adunino più, dura l'usanza di un Senatore forestiere e di tre Conservatori che risedono in Campidoglio[365]. I Pontefici vollero alla politica de' Cesari uniformarsi; e il Vescovo di Roma, governando coll'assoluto potere di un Monarca spirituale e temporale, ostentò mai sempre di conservare le forme della Repubblica.
A. D. 1453
È una verità, or per le mani di tutti, che i caratteri straordinarj abbisognano di occasioni favorevoli a dimostrarsi, e che il genio di Cromwell, o del Cardinale di Retz, potrebbe ai dì nostri languire nelle tenebre. Quel fanatismo di libertà che portò il Rienzi sul trono, un secolo dopo condusse al patibolo il Porcaro, avvisatosi d'imitare il Rienzi. Stefano Porcaro, nato di nobile famiglia, e di fama illibata, possedea naturale eloquenza ed ingegno coltivato dallo studio; sollevatosi al di sopra di una volgare ambizione, concepì il disegno di restituire la libertà alla sua patria e di far così il proprio nome immortale. Essendo già stata riconosciuta la fallacia della supposta donazione di Costantino, una tale scoperta allontanava tutti gli scrupoli; il Petrarca era l'Oracolo dell'Italia; e ogni volta che il Porcaro si tornava alla memoria la famosa Ode[366] con cui viene dipinto l'Eroe patriottico di Roma, le visioni del Poeta a sè medesimo appropiava. All'occasione dei funerali d'Eugenio, egli tentò un primo sperimento sulle disposizioni degli animi della moltitudine, pronunziando un'elaborata allocuzione, colla quale allettava i Romani a prender l'armi e a riconquistare la libertà; e parea che questi lo ascoltassero volentieri, allor quando un grave personaggio imprese a difendere la causa della Chiesa e dello Stato. La legge chiariva colpevole d'alto tradimento un Orator sedizioso; ciò nonostante il nuovo Pontefice, mosso da compassione e da stima verso il Porcaro, preferì le vie più miti, assumendosi l'onorevole incarico di ricondurre l'uom traviato, e farsene anzi un amico. L'inflessibile repubblicano, chiamato ad Anagni, ne ritornò con nuova gloria, ma sempre più nelle sue massime infervorato. Spiò l'occasione favorevole per mettere in opera i divisamenti concetti; nè lungo tempo dovè aspettarla. In mezzo ai giuochi della piazza Navona, alcuni fanciulli e artigiani avendo attaccato briga, egli si sforzò per tramutarla in una sollevazione generale di popolo. Sempre umano Papa Nicolò, non volle nè manco punirlo, contentandosi, per allontanarlo dalla tentazione, di confinarlo a Bologna, ove gli assegnò un onesto viatico, non imponendogli altra obbligazione, fuor quella di presentarsi ogni giorno al Governatore della città. Ma il Porcaro, imbevuto della massima dell'ultimo dei Bruti, non doversi serbare nè gratitudine, nè fede ai tiranni[367], non pensò ad altro nel suo esilio che a declamare contro la sentenza, ei diceva, arbitraria del Pontefice, e a poco a poco riuscì a formarsi partigiani e ad intavolare una congiura. Il nipote di lui, giovane intraprendente, adunò in Roma una truppa di congiurati, e quando fu il giorno prefisso, diede in propria casa una festa agli amici della Repubblica. Il Porcaro, fuggito celatamente da Bologna, comparve in mezzo ai convitati con una veste di porpora e d'oro; la voce, il contegno, i gesti annunziavano in esso un uomo consagratosi, in vita e in morte, alla causa ch'ei reputava tanto gloriosa; si diffuse, mediante acconcio discorso, su i motivi e i modi dell'impresa; fece sonare i nomi di Roma e della libertà romana; parlò della mollezza e dell'orgogliosa tirannide de' preti, del consenso formale o tacito che al nuovo tentativo tutti i cittadini prestavano; promise il soccorso di trecento soldati, e di quattrocento esuli, da lungo tempo avvezzi a sofferire e a combattere; concedè loro, per renderli più arditi a ferire, la libertà di vendicarsi su chi volevano delle particolari ingiurie sofferte; per ultimo un milione di ducati in ricompensa della vittoria. «Domani, giorno dell'Epifania, ei soggiugnea, ne sarà facile l'arrestare il Papa e i Cardinali alla porta della chiesa di S. Pietro, o a piè dell'Altare; li condurremo carichi di catene sotto le mura di Castel Sant'Angelo; ivi li costringeremo colle minacce, e all'aspetto della morte, a restituirne questa Fortezza; saliremo indi il Campidoglio, sonerà a stormo la gran campana, e in una Assemblea popolare restaureremo l'antica Repubblica». Mentre egli trionfava nella sua immaginazione, era già stato tradito. Il Senatore, a capo di una numerosa guardia, circondò la casa, ove assembrati stavano i congiurati. Ben potè il nipote di Porcaro aprirsi un varco in mezzo alla folla; ma il misero Stefano fu tolto da un armadio ove, celatosi, gemea che i nemici avessero prevenuta di tre ore l'esecuzione del suo disegno. Dopo delitti tanto manifesti e moltiplicati, il Pontefice non ascoltò più che le voci della giustizia. Il Porcaro, e nove de' suoi complici, senza aspettare che confessassero le loro colpe, vennero appiccati, fra le invettive dei partigiani della Corte pontificia, il cui terrore durava ancora; i Romani largirono compassione e quasi i proprj suffragi a questi martiri della pubblica libertà[368]. Ma muti erano i suffragi, inutile la compassione, e la loro libertà fu perduta per sempre; e se in tempo di sede vacante si è veduta talvolta sollevarsi per mancanza di pane la plebe, son tali sommosse, che se ne trovano gli esempj in mezzo a qualunque servaggio il più abbietto.
Ma l'independenza de' Nobili, fomentata dalla discordia, sopravvisse alla libertà delle Comuni che può solamente sull'unione del popolo esser fondata. I Baroni conservarono per lungo tempo il privilegio di spogliare e di opprimere i proprj concittadini; le loro case erano Fortezze, od asili, entro cui proteggeano contro le leggi una truppa feroce di banditi e di rei, che aveano dedicato al servigio de' Nobili le proprie spade e i proprj pugnali. Il particolare interesse trascinò talvolta i Pontefici e i loro nipoti in tali querele domestiche. Sotto il regno di Sisto IV, Roma fu capovolta dalle lotte di queste famiglie rivali, e dagli assedj che impresero, e sostennero le une contro le altre. Il Protonotario Colonna soggiacque alla tortura e fu decollato dopo aver veduto andare in cenere il suo palagio; l'amico di esso, Savelli, caduto in man de' nemici, trucidato, perchè non volle unir le sue alle vittoriose grida degli Orsini[369]; ma i Pontefici, sicuri da starsi in Vaticano, di essere abbastanza forti per costringere i sudditi all'obbedienza, purchè avessero la fermezza necessaria a pretenderla non si atterrivano per sì fatti disordini che ai particolari si riferivano; e gli stranieri ammiravano, in mezzo questi stessi disordini, la moderazione delle imposte, e la saggia amministrazione dello Stato ecclesiastico[370].
A. D. 1500
Le folgori spirituali[371] del Vaticano dipendono dalla forza che l'opinione alle medesime attribuisce; se questa opinione è vinta dalla ragione, o dalle passioni, lo scoppio di queste folgori svapora nell'aere; e il sacerdote, privo d'appoggio, si trova esposto alla violenza del più picciolo avversario, sia questi nobile, ovvero plebeo. Ma poichè i Papi ebbero abbandonato il soggiorno di Avignone, la spada di S. Paolo divenne la guardiana delle chiavi di S. Pietro. Roma era dominata da un'insuperabile rocca, e ben possente è il cannone contro le sedizioni del popolo. Una truppa regolare di fanteria e di cavalleria militava sotto gli stendardi del Pontefice che aveva assai ampie rendite per sostenere le spese della guerra; l'estensione intanto de' suoi dominj lo metteva in istato di opprimere una città ribellante e coll'armi de' vicini e con quelle de' fedeli suoi sudditi[372]. Dopo l'unione dei Ducati di Ferrara e d'Urbino, lo Stato ecclesiastico si prolunga dal Mediterraneo all'Adriatico, e dai confini del Regno di Napoli alle rive del Po; la maggior parte di questa estesa e fertile contrada riconoscea, nel secolo decimosesto, la sovranità legittima e temporale de' Pontefici di Roma, i primi diritti de' quali fondaronsi sulle donazioni vere, o favolose dei secoli dell'ignoranza. Non potrei raccontare quanto, a fine di consolidar questo Impero, operarono in appresso i Papi medesimi, senza innoltrarmi di soverchio nella Storia dell'Italia, ed anzi in quella di tutta l'Europa; mi farebbe mestieri a tal uopo descrivere i delitti di Alessandro VI, le spedizioni militari di Giulio II, la illuminata politica di Leone X, argomenti dilucidati dalle penne de' più nobili Storici di quella età[373]. Durante il primo periodo delle loro conquiste, e fino alla spedizione di Carlo VIII, i Papi si trovarono abili a lottare con buon successo contra i Principi e i paesi vicini, le cui forze militari erano inferiori, o tutto al più, eguali a quelle della Corte di Roma; ma poichè i Monarchi della Francia, dell'Alemagna e della Spagna, si disputarono con armi gigantesche il dominio dell'Italia, i successori di S. Pietro chiamarono l'artifizio in soccorso della lor debolezza, nascondendo entro un labirinto di guerre e di Trattati le ambiziose lor mire, e la speranza, che mai non si diparte da essi, di confinare i Barbari al di là delle Alpi. I guerrieri del Settentrione e dell'Occidente, sotto gli stendardi di Carlo V, distrussero più d'una volta l'equilibrio cui il Vaticano intendea, e Roma fu, per sette mesi, in balìa d'un esercito sfrenato, più crudele ed ingordo di quanto mai i Goti e i Vandali fossero stati[374]. Dopo una disciplina tanto severa, i Papi, restringendo fra i confini del possibile la loro ambizione, la videro pressochè soddisfatta; e riprendendo la parte di padri dell'anime de' Fedeli, più di tutte l'altre convenevole ad essi, non si avventurarono d'indi in poi a guerre offensive, fuorchè una sola volta, in quella inconsiderata querela, per cui fu veduto il Vicario di Gesù Cristo collegarsi col Sultano de' Turchi per far la guerra al Regno di Napoli[375]. I Francesi e gli Alemanni abbandonarono finalmente il campo di battaglia; gli Spagnuoli ben assicurati ne' loro possedimenti di Milano, di Napoli, della Sicilia, della Sardegna e delle coste della Toscana, trovarono di proprio vantaggio il mantenere la pace e la sommessione dell'Italia, pace e sommessione durate dalla metà del secolo decimosesto alla metà del successivo. La politica religiosa della Corte di Spagna proteggeva e dominava il Vaticano; e i pregiudizj e l'interesse del Re Cattolico lo rendeano in tutte le occasioni propenso a sostenere il Principe contro il popolo; e in vece d'incoraggiamenti, soccorsi e asilo, che fino allora gli Stati vicini aveano offerti agli amici della libertà e ai nemici delle leggi, si videro questi d'ogni parte rinchiusi tra i ceppi del dispotismo. L'educazione e la consuetudine dell'obbedienza soggiogarono, col volger degli anni, lo spirito turbolento della Nobiltà e delle comuni di Roma, i Baroni dimenticarono le guerre e le fazioni de' loro antenati, e il lusso e il Governo li dominarono compiutamente. In vece di sostenere una turba di partigiani e satelliti, impiegarono le proprie rendite a quelle spese che, moltiplicando i diletti al proprietario, ne diminuiscono la possanza[376]. I Colonna e gli Orsini non lottarono d'allora in poi che sulla decorazione de' lor palagi e delle loro cappelle; e la subitanea opulenza delle famiglie pontificie pareggiò o superò l'antico loro splendore. Non si odono più in Roma nè le voci della discordia, nè quelle della libertà; e in vece di uno spumoso torrente, essa non presenta ora che un lago uniforme e stagnante.
La dominazione temporale del Clero è sempre stato soggetto di censura a' Teologi, del pari che a' Politici, ed a' Filosofi. I primi non la credeano legittima stando alla lettera del Vangelo: agli altri non piaceva il vedere in certo modo invilita l'antica maestà della padrona del Mondo, e rimembrando i suoi Consoli, i suoi trionfi, le sue glorie, trovavano troppo dissimile, e basso un Governo sacerdotale. Pure calcolando a mente tranquilla i vantaggi e i difetti di questo, si debbe dare le debite lodi ad un'amministrazione decorosa e pacifica, non soggetta ai pericoli d'una minorità, o agl'impeti d'un giovane Principe, non rovinata dal lusso, non esposta per sè medesima ai disastri di lunghe guerre. Bensì non è dessa esente dalle vicende di successioni frequenti, e rinovate in breve periodo, di Sovrani rade volte originarj di Roma, spesso in età senile; e più spesso inesperti della politica, privi per lo più della speranza di vivere tanto da terminare opere grandi, e del conforto di avere successori che sien partecipi de' loro alti pensieri, o capaci d'emularli. Tratti sovente dalla solitudine de' chiostri, deggiono di leggieri per la ricevuta educazione, e per l'acquistata consuetudine di vita essere estranei a idee mondane, a cure d'alti affari, troppo aliene dall'austerità e dalle massime d'una religione contraria alle passioni del secolo e all'ambizione del dominio. Può per altro nelle nunziature specialmente avere attinta qualche cognizione di Mondo, ma difficilmente sapranno lo spirito e i costumi d'un Ecclesiastico trasformarsi quanto sarebbe d'uopo per uguagliare l'accortezza, ed il senno d'un Principe temporale. Non mancarono per altro, e forse non mancheranno a quando a quando gli esempj di Pontefici degni di stare al paragone coi più grandi Potentati. Il genio di Sisto V[377] si sollevò dall'oscurità di un convento di Francescani; un regno di cinque anni, distrusse la razza de' banditi e di tutti quegli uomini malvagi che avea proscritta la legge; tolse agli scellerati i luoghi di secolare franchigia ove potevano rintanarsi[378]; creò una marineria e un esercito di terra, restaurò i monumenti dell'antichità, li pareggiò nei nuovi che eresse; e dopo aver fatto nobile uso delle pubbliche rendite, e dopo averle notabilmente accresciute, lasciò ricco di cinque milioni di scudi l'erario del Castel S. Angelo. Ma la crudeltà ne contaminò la giustizia; dalle mire di conquista fu condotta la sua solerzia; ricomparvero al suo morire gli abusi; vennero disperse le ricchezze, che egli aveva adunate; aggravò i posteri di trentacinque nuove imposte e della venalità degli ufizj; e quando ebbe mandato l'ultimo anelito, un popolo ingrato, od oppresso, ne rovesciò il simulacro[379]. La selvaggia originalità di Sisto V, tiene un luogo particolare nella Storia de' Papi, nè possono giudicarsi le massime e gli effetti della temporale loro amministrazione che mediante un esame positivo e comparativo delle arti e della filosofia, dell'agricoltura e del commercio, della ricchezza, e della popolazione dello Stato ecclesiastico[380]. Quanto a me, che desidero morire in pace con tutto il Mondo, in questi ultimi momenti della mia vita non offenderò volontariamente nè il Papa, nè il Clero di Roma.
CAPITOLO LXXI.
Descrizione delle rovine di Roma nel secolo decimoquinto. Quattro cagioni di scadimento e distruzione; il Colosseo citato ad esempio. La Città nuova. Conclusione dell'Opera.
A. D. 1430
Sul finire del Regno di Eugenio IV, il dotto Poggi[381] e un suo amico, servi entrambi del Papa, ascesero la collina del Campidoglio, e riposandosi fra le rovine delle colonne e de' templi, da quell'altura contemplarono l'immenso quadro di distruzione che ai loro sguardi appariva[382]. Il luogo della scena e questo spettacolo offerivano ad essi un vasto campo di moralizzare sulle vicissitudini della fortuna, che non risparmia nè l'uomo, nè le più orgogliose fra le sue opere, e che precipita nello stesso baratro gl'Imperi e le città, laonde convennero entrambi in questa opinione, non esservi, se si avea riguardo a quel che era stata, veruna città della Terra, che, più di Roma, offerisse un aspetto deplorabile e augusto ne' suoi stessi diroccamenti. «L'immaginazione di Virgilio, dicea il Poggi all'amico, descrisse Roma nello stato suo primitivo, e tal quale poteva essere allora, che Evandro accolse il fuggitivo Troiano[383]. La Rocca Tarpea che tu vedi da quella parte non presentava che una selvaggia e solitaria siepaglia; ai dì del Poeta, la cima di essa vedeasi coronata dai portici d'un tempio, e dai lor tetti dorati. Il tempio non è più; i Barbari si sono presi l'oro che lo fregiava; la ruota della fortuna ha compiuto il suo giro, e questo sacro terreno è nuovamente bruttato dalle ginestre e dai rovi. La collina del Campidoglio, su di cui ci siamo seduti, era, già tempo, la testa dell'Impero romano, la Fortezza del Mondo, il terrore dei Re. Onorata dalle pedate di tanti trionfatori, arricchita delle spoglie e dei tributi di un tanto numero di Nazioni; spettacolo che attraeva gli sguardi dell'Universo, oh! come è caduta, com'è cambiata, come ha perduta l'antica immagine! Le vigne impacciano il cammino de' vincitori, le immondezze lordano que' luoghi ove erano collocati gli scanni dei Senatori. Volgi gli occhi al monte Palatino, e dimmi se fra quegl'immensi e uniformi rottami puoi scorgere il teatro di marmo, gli obelischi, le statue colossali, i portici del palagio di Nerone; esamina gli altri colli della città, nè troverai per ogni dove che vôti spazj frastagliati soltanto da orti e rovine. Il Foro, ove il popolo romano dettava le sue leggi e creava i suoi Magistrati, non contiene oggidì che recinti serbati alla coltivazione de' legumi, o aree erbose che i bufali e i maiali calpestano. Tanti pubblici e particolari edifizj, che per la saldezza di lor costruzione parca sfidassero tutte le età, giacciono rovesciati, spogliati, sparsi nella polvere, come le membra di un robusto gigante; e quelle fra queste opere maestose, che alle ingiurie sopravvissero del tempo e della fortuna, rendono maggiormente dolorosa l'impressione del molto più che è distrutto[384] ».
Coteste ruine vengono partitamente descritte dal Poggi, uno de' primi che siasi dai monumenti della superstizione religiosa a quelli della classica sollevato[385]. 1. Fra le opere de' giorni della Repubblica si discernevano ancora un ponte, un arco, un sepolcro, la piramide di Cestio, e nella parte del Campidoglio occupata dai gabellieri, una doppia fila di portici che serbavano il nome di Catulo e la munificenza di questo Romano attestavano. 2. Il Poggi accenna undici templi, qual più, qual men conservato, partendosi dal Panteon, tutta via intero, fino ai tre archi, e alla colonna di marmo, avanzi del tempio della Pace, che Vespasiano fece innalzare dopo le guerre civili e il trionfo riportato sopra i Giudei. 3. Trascorre alquanto leggermente, contando fino a sette, le antiche terme, o bagni pubblici, tutti, egli dice, sì andati a male, che niun d'essi lascia più scorgere l'uso a cui doveva servire, nè la distribuzione diversa delle sue parti. Pure i bagni di Diocleziano e di Antonino Caracalla venivano ancora indicati co' nomi de' lor fondatori, e tuttavia empieano di maraviglia i curiosi, che contemplavano la saldezza di tali edifizj, la varietà de' marmi, la grossezza e la moltitudine delle colonne, confrontando i lavori e la spesa, che a queste fabbriche si saranno voluti, colla utilità e importanza delle medesime. Oggidì ancora rimangono alcune vestigia delle Terme di Costantino, di Alessandro, di Domiziano, ovvero di Tito. 4. Gli archi trionfali di Tito, di Severo e di Costantino si trovavano intatti, non ne avendo il tempo cancellate che le iscrizioni; il frammento di un arco trionfale diroccato, serbava il glorioso nome di Traiano; due altri ancora sulle lor basi vedeansi nella via Flaminia, consagrati alla men nobile ricordanza di Gallieno e di Faustina. 5. Dopo averne descritte le maraviglie del Colosseo, potea il Poggi passar sotto silenzio un picciolo anfiteatro di mattoni, che serviva verisimilmente alle guardie pretoriane; edifizj pubblici e particolari occupavano già il luogo ove stettero i teatri di Marcello e di Pompeo, nè altro più discerneasi fuorchè il sito e la forma del Circo agonale e del gran Circo. 6. Le colonne di Traiano e di Antonino duravano su i lor piedistalli, ma gli obelischi egiziani erano infranti, o sepolti sotterra. Già sparito quel popolo di Dei e d'Eroi, creati dagli scalpelli de' statuarj, non rimaneva che una statua equestre di bronzo, e cinque marmoree figure, delle quali le più notabili due cavalli di Fidia e di Prassitele. 7. I mausolei o sepolcri di Augusto e di Adriano non potevano essere interamente spariti; ma il primo non offeriva che un mucchio di terra; quel d'Adriano, chiamato Castel Sant'Angelo, avea preso il nome e le esterne forme di una Fortezza moderna. Se aggiungeremo alcune colonne sparse qua e là, e che più non ravvisavasi a qual uso servissero, tali erano le rovine dell'antica città, perchè le mura, lunghe dieci miglia di circonferenza, affortificate da trecento settantanove torri, e che per tredici porte si aprivano, davano a divedere gl'indizj di una più recente costruzione.
Erano trascorsi oltre a nove secoli dopo la caduta dell'Impero d'Occidente, ed anche dopo il Regno de' Goti in Italia, quando il Poggi questo doloroso quadro pingea. Durante il lungo periodo d'anarchia e di sventure, mentre coll'Impero, l'arti e le ricchezze abbandonavano le sponde del Tevere, certamente la Città non potè inorgoglirsi di nuovi abbellimenti, nè tampoco restaurare gli antichi; e poichè è legge di tutte le umane cose che retrocedano se non procedono, il progresso de' secoli accelerava la rovina dei monumenti dell'Antichità. Misurare i gradi dello scadimento, e additare a ciascuna epoca lo stato di ciascun edifizio, sarebbe lavoro inutile ed infinito; restringerommi pertanto a due osservazioni che ne gioveranno di norma ad esaminar brevemente ed in modo generale le cagioni e gli effetti dello scadimento medesimo. I. Due secoli prima della eloquente lamentazione del Poggi, un autore anonimo avea pubblicata una descrizione di Roma[386]. Forse per sua ignoranza, l'indicato scrittore ne ha additate sotto nomi bizzarri, o favolosi le stesse cose che il Poggi aveva vedute. Però questo topografo barbaro era d'occhi e d'orecchi fornito; non potea non vedere gli avanzi di antichità che rimanevano ancora, non farsi sordo alle tradizioni del popolo. Ora egli indica in apertissime note sette teatri, undici bagni, dodici archi trionfali, e diciotto palagi, molti de' quali erano spariti prima de' tempi in cui il Poggi scrivea. Sembra pertanto che molti fra i più saldi monumenti dell'antichità si conservassero per lungo tempo[387], e che i principj di distruzione abbiano operato sovr'essi con duplicato vigore ne' secoli decimoterzo e decimoquarto. 2. La medesima considerazione può venire applicata ai tre secoli successivi, e noi cercheremmo indarno il Settizonio di Severo[388], celebrato dal Petrarca e dagli Antiquarj del secolo decimosesto. Sintantochè gli edifizj di Roma furono interi, la saldezza della massa e la connession delle parti resistettero all'impeto de' primi colpi; ma incominciata la distruzione, i frammenti crollati al primo urto rovinarono affatto.
Dopo molte indagini praticate accuratamente sulla distruzione delle opere de' Romani, mi sono occorse quattro cagioni principali, l'azion delle quali si è per dieci secoli prolungata. 1. I guasti operati dal tempo e dalla natura. 2. Le devastazioni de' Barbari e de' Cristiani. 3. L'uso e l'abuso fattisi de' materiali somministrati dai monumenti dell'antichità; e per ultimo le discordie intestine degli abitanti di Roma.
I. L'uomo perviene ad innalzar monumenti ben più della sua breve vita durevoli; ma son pur questi, soggetti, siccom'egli, a perire, e nell'immensità de' secoli, la sua vita e le sue opere non hanno che un istante. Non è cosa facile cionnullameno il circoscrivere la durata di un edifizio la cui saldezza ne pareggi la semplicità. Quelle piramidi, maraviglie degli antichi tempi, eccitavano la curiosità d'uomini vissuti tanti secoli prima di noi[389]. Cento generazioni sono sparite come le foglie d'autunno[390]; pur dopo la caduta de' Faraoni e de' Tolomei, de' Cesari e de' Califfi, quelle stesse piramidi, ferme ed immobili sulle loro basi, s'ergono ancora sopra le traboccanti acque del Nilo. Un edifizio composto di diverse e dilicate parti è più soggetto a perire, e i silenziosi scavamenti del tempo vengono talvolta accelerati dai turbini e dai tremuoti, dalle innondazioni e dagl'incendj. Certamente l'atmosfera e il suolo di Roma hanno provate le proprie vicissitudini; e le alte torri di questa Metropoli sono state crollate dalle loro fondamenta; ma non appare che i Sette Colli si trovino collocati in veruna delle grandi cavità del Globo, nè la città ha sperimentati que' grandi sovvertimenti della natura che ne' climi, sotto cui sono poste Antiochia, Lima, o Lisbona, annientano in pochi istanti l'opera di molte generazioni. Il fuoco è l'agente più operoso della vita e della distruzione; la volontà, o solamente la negligenza degli uomini, può produrre e dilatare questo rapido flagello. Or vediamo tutte le epoche degli annali romani contrassegnate da calamità di tal genere. Il memorabile incendio, delitto, o sventura del Regno di Nerone, continuò, con più, o men di furore per sei, o nove giorni[391]. Le fiamme divorarono un immenso numero di edifizj accumulati in quelle strade anguste e tortuose; e quando cessarono, di quattordici rioni di Roma, sol quattro restavano intatti, tre furono compiutamente inceneriti, gli altri sette perdettero la loro forma sotto le rovine fumanti degli edifizj incendiati[392]. L'Impero trovandosi allora all'apice di sua gloria, la Metropoli uscì, bella di un novello splendore, delle sue ceneri, ma i vecchi cittadini deploravano l'irreparabile perdita de' capolavori de' Greci, de' trofei delle romane vittorie, dei monumenti dell'antichità primitiva, o favolosa. Nei tempi di squallore e di anarchia, ciascuna ferita è mortale, ciascuna perdita irremediabile, nè avvi sollecitudine di Governo, o solerzia di particolare interesse che vagliano a ristorare la devastazione. Ma due considerazioni ci portano a credere molto maggiore in una città fiorente, che in una povera, la devastazione dagl'incendj operata. 1. Le materie combustibili, i mattoni, i legnami e i metalli vi si consumano, o fondono più presto, mentre le fiamme assalgono invano ignude pareti, o grosse volte spogliate de' loro ornamenti. 2. Più spesso che altrove, nelle case de' poveri, una funesta scintilla produce gl'incendj; ma poichè il fuoco le ha consumate, i maggiori edifizj che resistettero alle fiamme, o a cui le fiamme non giunsero, rimangono soli in mezzo ad un vôto spazio, nè corrono ulteriore pericolo. — La situazione di Roma la espone in oltre ad innondazioni frequenti. Il corso de' fiumi che discendono dall'uno e dall'altro lato dell'Appennino, non eccettuandone il Tevere, è irregolare e poco lungo; basse le loro acque durante l'ardor della state, le piogge o il didiacciar delle nevi li gonfiano nella primavera, o nel verno, e in torrenti impetuosi traboccano. Giunti al mare, se il vento li rispinge, e divenuto incapace di contenerli il lor letto, rompono ed allagano senza ostacolo le pianure e le città de' dintorni. Poco dopo il trionfo che celebrò le vittorie riportate nella prima guerra punica, avendo le piogge straordinarie ingrossato il Tevere, un traboccamento più durevole e più esteso di quanti se ne erano dianzi veduti, distrusse tutte le fabbriche poste al di sopra delle colline di Roma. Diverse cagioni ricondussero gli stessi guasti, e giusta la natura della parte di suolo innondata, gli edifizj o vennero trasportati dal subitaneo impulso della corrente, o lentamente sciolti e scavati dallo stagnamento dell'acque[393]. Eguale calamità essendosi, ne' giorni d'Augusto, rinnovellata, il fiume ribelle rovesciò i palagi e i templi situati sulle sue rive[394]; nè le sollecitudini di cotesto Imperatore, a fine di mondarne e ampliarne il letto colmato dalle rovine, risparmiarono in appresso ai Cesari successori eguali fatiche e pericoli[395]. La superstizione e privati interessi si opposero per lungo tempo al disegno di aprire, scavando nuovi canali, nuovi sbocchi al Tevere, o ai fiumi che gli portano il tributo delle loro acque[396], impresa che fu eseguita di poi, ma troppo tardi, nè acconciamente, onde i vantaggi che se ne trassero non compensarono le fatiche e le spese. Il freno imposto ai fiumi è la più bella e rilevante fra quante vittorie gli uomini possano ottenere sulle ribellioni della natura[397]. Ora se il Tevere produsse simili guasti sotto un Governo vigoroso e solerte, chi poteva impedire, o chi potrebbe annoverare i disastri, che questo fiume arrecò alla città di Roma dopo la caduta dell'Impero d'Occidente? Finalmente il male condusse di per sè stesso il rimedio. Il cumulo delle rovine, e la terra staccatasi dai colli, coll'avere alzato il suolo, a quanto credesi, di quattordici o quindici piedi al di sopra dell'antico livello[398], ha fatto sì che la città paventi meno gli straripamenti delle acque[399].
II. Quegli autori d'ogni nazione che accagionano i Goti e i Cristiani dell'esterminio de' monumenti dell'antica Roma, avrebbero dovuto esaminare sino a qual punto poteano sì gli uni che gli altri essere spinti dal bisogno di distruggere, e fino a qual grado ebbero i modi e il tempo di abbandonarsi ad una tal propensione. Ho descritto molto prima il trionfo della barbarie e della religione; or mi rimane indicare con brevi cenni la correlazione o immaginaria, o reale che può concepirsi fra questo trionfo, e la rovina dell'antica Roma. Possiamo, quanto ne aggrada, comporre, o adottare, sulla migrazione de' Goti e dei Vandali, le idee romanzesche le più capaci di dilettare la nostra fantasia, supporre che uscirono della Scandinavia ardenti del desiderio di vendicare la fuga di Odino[400], d'infrangere i ceppi delle nazioni, di gastigar gli oppressori, di annichilare tutti i monumenti della letteratura classica, e di collocare la loro nazionale architettura sulle rovine degli Ordini toscano e corintio. Ma in realtà, i guerrieri del Settentrione non erano nè abbastanza selvaggi, nè abbastanza ragionatori per concepire questi divisamenti di vendetta e di distruzione. Allevati negli eserciti imperiali, i pastori della Scizia e della Germania, ne aveano adottata la disciplina; e sol perchè conosceano la debolezza cui era giunto l'Impero, ad invaderne gli Stati si accinsero. Ma coll'uso della lingua latina aveano appreso a rispettare i titoli e il nome di Roma; e benchè incapaci di aspirare a pareggiare le arti e i lavori d'un popolo tanto ad essi nella civiltà superiore, più ad ammirarli che a distruggerli si mostravan propensi. I soldati di Alarico e di Genserico, padroni per un momento di una Capitale ricca e che non opponea resistenza, si abbandonarono, è vero, a tutta l'effervescenza propria di un esercito vittorioso. Ma in mezzo ai licenziosi diletti della dissolutezza e della crudeltà, le ricchezze facili a trasportarsi furono il soggetto delle loro ricerche, nè poteano trovare motivi d'insuperbire, o di compiacersi, o di sperare vantaggio nel pensar che atterravano i monumenti de' Consoli e de' Cesari. Oltrechè, preziosi per loro eran gl'istanti. I Goti sgomberarono da Roma il sesto giorno[401], i Vandali il decimoquinto[402]; e benchè sia più facile impresa il distruggere un edifizio che l'innalzarlo, il precipitoso loro furore non sarebbe stato gran chè efficace sulle salde fabbriche dell'Antichità. Si ricorderanno i nostri leggitori, che Alarico e Genserico ostentarono rispetto verso gli edifizj di Roma; che questi edifizj vennero mantenuti nella loro integrità e bellezza sotto la prosperosa amministrazione di Teodorico[403]; e che il passeggiero sdegno di Totila[404] trovò un freno nelle stesse considerazioni di Totila, e ne' suggerimenti che i suoi amici e i suoi nemici gli diedero. Se la precitata accusa è mal applicabile ai Barbari, non può dirsi del tutto lo stesso, rispetto ai Cattolici romani. Le statue, gli altari, i templi del demonio erano cose abborrevoli agli occhi loro; e v'ha luogo a credere che, divenuti assoluti padroni della città, si adoperassero a cancellarne ogni vestigio d'idolatria de' loro maggiori. La demolizione dei templi dell'Oriente[405] lor ne offeriva un esempio, e serve in un d'appoggio a tale congettura; onde par verisimile che il merito, o il demerito di sì fatta azione dovesse in parte attribuirsi ai novelli convertiti. Nondimeno questa loro avversione si limitava ai soli monumenti della superstizione pagana, nè colpa eravi, o scandalo nel conservare gli edifizj che servivano agli affari, o ai diletti della società. Inoltre, la nuova religione pose in Roma la sua dimora, non per effetto di un popolare tumulto, ma pe' decreti degl'Imperatori e del Senato, e per le leggi di quella età. Fra tutti gl'individui, di cui la Cristiana gerarchia andava composta, i Vescovi di Roma furono comunemente i più saggi e i meno fanatici, e sarebbe certamente ingiustizia l'accusarli dell'azione meritoria di avere salvato il Pantheon[406] per impiegare al servigio della religione questo maestoso edifizio.
III. Il valore di ciascuna cosa che serve ai bisogni della specie umana è composto della sua sostanza e della sua forma, della materia e della manifattura. Il prezzo di essa dipende dal numero di quelli che la possono comperare, dalla estensione del mercato, e quindi dalla facilità maggiore o minore di trasportarla al di fuori, giusta e la natura stessa di questa merce, e la sua situazione locale, e le congiunture passeggiere di questo Mondo. I Barbari che s'impadronirono di Roma, usurparono in un istante i lavori di parecchie generazioni; ma eccetto le cose atte ad una immediata consumazione, non dovettero eccitare la lor cupidigia tutte quelle che non poteano trasportarsi o sul carriaggio de' Goti, o sul navilio de' Vandali[407]. L'oro e l'argento furono i primi soggetti della costoro avidità, perchè in ciascun paese, e sotto il minor volume possibile, procurano la più considerabile quantità delle proprietà e del lavoro degli altri. La vanità di un Capo di Barbari attribuisce forse prezzo ad un vaso, o ad una statua foggiati con questi preziosi metalli; ma la moltitudine, più grossolana, si affeziona alle sostanze, senza pensare alla forma; nè v'ha dubbio che, generalmente parlando, il metallo non sia stato fuso in verghe, o convertito in monete battute col conio dell'Impero. Agli scorridori meno operosi, o meno felici, non rimasero da portar via che il rame, il piombo, il ferro, il bronzo; i tiranni greci s'impadronirono di tutto quanto sottratto erasi ai Goti e ai Vandali, e all'Imperatore Costante che nel visitar Roma a guisa di masnadiero tolse perfino le piastre di bronzo che coprivano il Pantheon[408]. Gli edifizj di Roma poteano per vero venire considerati siccome una vasta miniera, che diversi e variati materiali somministrava; il primo lavoro, quello di scavarli dalle viscere della terra, era già fatto; inoltre, i metalli già purificati e gettati in forma; i marmi segati e ridotti a pulimento; e dopo aver soddisfatto la cupidigia degli stranieri, i resti della città, se si fosse trovato un compratore, rimanevano tuttavia buone materie di vendita. Erano stati denudati de' preziosi lor fregi i monumenti dell'Antichità, ma i Romani si mostravano propensi a demolire, eglino stessi, gli archi di trionfo e le mura, semprechè in ciò vedessero un guadagno maggiore delle spese del lavoro e del trasporto. Se Carlomagno avesse posta la residenza dell'Impero d'Occidente in Italia, lungi dal por mano agli edifizj de' Cesari, il genio di questo Monarca avrebbe fatto che aspirasse ad esserne il restauratore; ma poichè fini politici il rattennero tra le germane foreste, non potè soddisfare l'amor suo per le Arti, che dando ultima opera alla devastazione, e trasportando i marmi di Ravenna[409] e di Roma[410], nuovo ornamento al palagio che edificò in Aquisgrana. Cinque secoli dopo Carlomagno, Roberto, Re di Sicilia, il più saggio e colto Sovrano del suo secolo, si procacciò nello stesso modo, per aggiunger pregio alle proprie fabbriche, i materiali, che gli vennero facilmente condotti per la via del Tevere e del Mediterraneo, onde il Petrarca doleasi con indignazione che l'antica Capitale del Mondo terminasse da sè medesima di denudarsi per nudrire l'insolente lusso di Napoli[411]. Però i saccheggi, o le vendite de' marmi e delle colonne non furono comuni nel Medio Evo: e il popolo di Roma, superiore in ciò a qualunque altro popolo, avrebbe potuto valersi degli antichi edifizj ne' suoi bisogni pubblici o particolari; ma la situazione e la forma di questi stessi edifizj li rendea sotto molti aspetti inutili alla città e a' suoi abitanti. Ben la stessa di prima era la circonferenza delle mura; ma non il luogo della città, discesa dai Sette Colli nel campo di Marte, onde molti di que' famosi monumenti, che disfidavano le ingiurie de' secoli, trovavansi lungi dalle abitazioni, e poco meno che in un deserto. I palagi delle famiglie consolari non convenivano più ai costumi o alla condizione degli incliti lor successori; perduto erasi l'uso de' bagni e de' portici[412]; i giuochi del teatro, del circo, dell'anfiteatro disparvero dopo il sesto secolo; alcuni templi vennero adatti all'uso della religion dominante; ma generalmente veniva preferita per le chiese cristiane la forma di croce; e l'usanza, o un ragionevole calcolo, aveano determinato un particolare modello per le celle e gli edifizj de' chiostri, il cui numero si moltiplicò a dismisura sotto il reggimento ecclesiastico. La città conteneva quaranta monasteri d'uomini, venti di donne, sessanta Capitoli e collegi di canonici e di preti[413], che aumentavano, anzichè ristorarla, la spopolazione del decimo secolo. Ma se le forme dell'antica architettura vennero disdegnate da una popolazione che non sapea nè prevalersene, nè sentirne i pregi, non può dirsi così degli abbondanti materiali, che questa architettura somministrava, e che i Romani volsero a profitto de' lor bisogni o della loro superstizione; le più belle colonne d'Ordine ionico e d'Ordine corintio, i più preziosi marmi di Numidia e di Paro, vennero condannati a essere puntelli or d'un convento, or di una stalla. Le devastazioni che tuttodì non perdonano i Turchi alle città della Grecia e dell'Asia, ne porgono un esempio di quanto faceano a que' giorni i Romani. In questa progressiva distruzione de' monumenti di Roma, il solo devastatore meritevole di scusa è Sisto V, che al grandioso edifizio di S. Pietro adoperò le pietre del Settizzonio[414]. Un frammento, una rovina, comunque tronchi, comunque profanati, possono ancora destare un sentimento soave di patetica rimembranza; ma la maggior parte dei marmi (non bastò alla barbarie sformarli) vennero distrutti, ed arsi per trarne calce. Il Poggi, dopo il suo arrivo in Roma, avea veduto sparire il tempio della Concordia[415], e molti altri grandi edifizj; e un epigramma scritto a que' giorni annunzia una giusta e rispettabil paura, che continuando di quel tenore, si sarebbero alla perfine annientati tutti i sacri monumenti della veneranda Antichità[416]. I bisogni e i guasti operati dai Romani ebbero termine sol perchè la loro popolazione scemò. Il Petrarca, trasportato dalla sua immaginazione, ha potuto assegnare a Roma una maggiore quantità d'abitanti che non contenea[417], e però duro fatica a credere che anche nel secolo decimoquarto vi fossero più di trentatremila abitanti. Se da quell'epoca, venendo al Regno di Leone X, si aumentarono ad ottantacinquemila[418], non dubito che tale accrescimento non sia stato alla città antica funesto.
IV. Ho serbato a trattare per l'ultima la più possente fra le cagioni di distruzione, le guerre intestine di Roma. Sotto il dominio degl'Imperatori greci e francesi, la pace della città venne turbata da frequenti, ma passeggiere sedizioni. Sol declinando la autorità de' successori di Carlomagno, vale a dire nei primi anni del decimo secolo, trovasi la data di quelle guerre particolari, la cui licenza, violando impunemente le leggi del codice e del Vangelo, nè rispettò la maestà del Sovrano assente, nè la persona del Vicario di Gesù Cristo presente. Durante un oscuro periodo di cinque secoli, Roma fu perpetuamente dilaniata dalle sanguinose querele de' Nobili e del popolo, de' Ghibellini e de' Guelfi, degli Orsini e de' Colonna; ho descritto ne' due precedenti capitoli le cagioni e gli effetti di questi disordini pubblici, alcune particolarità de' quali sono sfuggiti alla conoscenza della Storia, altri non meritano che si porga ad essi attenzione. In questi tempi, ne' quali ogni disparere veniva risoluto colla spada, ne' quali niuno potea, per la sicurezza della sua vita, o delle sue proprietà, riposarsi sopra leggi prive di forza, i possenti cittadini si armavano or per assalire, or per respingere que' nemici che abborrivano, e di cui temevano l'odio. Eccetto Venezia, tutte le Repubbliche dell'Italia si trovavano alla medesima condizione; i Nobili si erano arrogato il diritto di fortificare le loro case, e d'innalzar salde torri[419] e valevoli a resistere contro un assalto improvviso. Le città ringorgavano di munizioni da guerra; Lucca contenea cento torri, la cui altezza aveano limitata ad ottanta piedi le leggi, e seguendo una convenevole proporzione, possono applicarsi le stesse singolarità agli Stati più ricchi e più popolosi. Allorchè il Senatore Brancaleone volle rimettere in vigore la giustizia e la pace, ebbe per prima cura, il dicemmo, di demolire cenquaranta delle torri che vedevansi in Roma, e negli ultimi giorni dell'anarchia e della discordia, sotto il regno di Martino V, uno de' tredici o quattordici rioni della città, ne contava ancora quarantaquattro. Sfortunatamente, erano, oltre ogni credere, accomodati ad uso sì pernizioso gli avanzi della Antichità; i templi e gli archi trionfali offerivano una base larga, e salda, quanto facea mestieri, a sostenere i nuovi baloardi di mattoni e di sassi; citerò ad esempio le torri che furono innalzate sugli archi di trionfo di Giulio Cesare, de' Titi e degli Antonini[420]. Vi voleano pochi cambiamenti per trasformare un teatro, un anfiteatro, o un mausoleo, in una forte ed ampia rocca. Non n'è d'uopo il ripetere che dal molo di Adriano si fece sorgere il castel Sant'Angelo[421]. Il Settizonio di Severo fu in istato di resistere all'esercito di un Sovrano[422]. Il sepolcro di Metella è sparito sotto le fortificazioni di cui venne gravato[423]; i Savelli e gli Orsini occuparono i teatri di Pompeo e di Marcello[424]; le informi Fortezze costrutte su questi edifizj, hanno a mano a mano acquistato il lustro e l'eleganza degl'italiani palagi. Le stesse chiese vennero cinte d'armi e di spalti, e le macchine da guerra collocate sul comignolo della chiesa di S. Pietro, atterrivano il Vaticano e il cristiano Mondo scandalezzavano. Ogni luogo fortificato è soggetto ad assalto, e quanto viene assalito, a distruzione. Se i Romani fossero riusciti a torre ai Pontefici il Castel Sant'Angelo, avrebbero annichilato questo monumento di servitù, come con un pubblico decreto era stata manifestata la loro deliberazione. Ciascuna piazza vedea esposti in un solo assedio al pericolo di essere atterrati tutti gli edifizj innalzati per sua difesa; chè certo in ognuna di tali occasioni non si risparmiavano a questo fine nè espedienti, nè macchine struggitrici. Dopo la morte di Nicolò IV, Roma, priva di Sovrano e di Senato, si trovò per sei mesi abbandonata al furore delle guerre civili. «Le case, dice un contemporaneo, Cardinale e poeta[425], rimasero rovinate sotto massi d'enorme grossezza, e lanciati con incredibile rapidità[426]; i colpi dell'ariete infransero le mura, le torri furono avvolte in mezzo a vortici di fuoco e di fumo, e l'avidità e il risentimento aizzavano l'ardore degli assedianti». La tirannide delle leggi compì l'opera della distruzione, e le diverse fazioni della Italia, abbandonandosi a cieche e sconsigliate vendette, spianarono a vicenda tutte le case e le castella de' loro avversarj[427]. Se pongonsi a confronto pochi giorni di straniere invasioni e secoli d'intestine guerre, non cadrà dubbio sul quanto le ultime sieno state alla città di Roma esiziali; a sostegno della quale opinione mi viene all'uopo citare il Petrarca. «Vedete, egli dice, questi avanzi che attestano l'antica grandezza di Roma! Nè il tempo, nè i Barbari superbir possono di una tanto incredibile distruzione; è forza attribuirla agli stessi cittadini di Roma, ai più illustri fra' suoi figli; e i vostri antenati (egli scrivea ad un Nobile della famiglia Annibaldi) compierono coll'ariete quel che l'Eroe Cartaginese non potè colla spada de' suoi guerrieri[428] ». La preponderanza di quest'ultima cagione aumentò il danno con azione reciproca, perchè la rovina delle case e delle torri che la guerra civile atterrava, costringeva continuamente i cittadini a procacciarsi dai monumenti dell'Antichità i materiali per novelli edifizj di distruzione.
Ognuna delle precedenti osservazioni può venire applicata all'anfiteatro di Tito che ha preso il nome di Colosseo[429], sia a motivo della sua estensione, sia a motivo della statua colossale di Nerone; e che forse sarebbe durato in eterno, se non avesse avuti altri nemici fuor del tempo e della natura; gli Antiquarj che hanno calcolato il numero degli spettatori, propendono a credere che al di sopra dell'ultima gradinata di pietra vi fossero logge di legno a diversi piani, consumate per più riprese dal fuoco, e dagl'Imperatori riedificate. Quanto eravi di prezioso, di portatile, o di profano, le statue degli Dei e degli Eroi, le ricche sculture di bronzo, o coperte di foglia d'oro o d'argento, furono prima del rimanente la preda della conquista, o del fanatismo, dell'avarizia de' Barbari, o de' Cristiani. Nelle enormi pietre di cui è costrutto il Colosseo scorgonsi molti forami, intorno a' quali le due più verisimili congetture son le seguenti: 1. Che i filari superiori fossero congiunti agl'inferiori coll'opera di rampiconi di bronzo, e che, non essendo in appresso sfuggiti all'occhio della rapina, i Barbari non abbiano disdegnati anche questi men preziosi metalli[430]. 2. Essendosi per lungo tempo tenuta una fiera, o un mercato nell'arena del Colosseo, e un'antica descrizione di Roma facendo menzione di operai che nel Colosseo prendevano stanza, alcuni han preteso che gli stessi operai o scavassero, o ingrandissero que' forami per introdurvi pezzi di legno ai quali si reggessero, le loro tende o bottegugge[431]. Maestoso, ad onta della semplicità cui venne ridotto, il Colosseo, eccitò il rispetto e lo stupore de' pellegrini del Settentrione, il cui rozzo entusiasmo si manifestò con quei sublimi detti, divenuti proverbio, e nell'ottavo secolo raccolti ne' suoi scritti dal venerabile Beda: «Rimarrà Roma fintantochè il Campidoglio rimanga in piedi. Quando cadrà il Colosseo, Roma cadrà, e quando cadrà Roma, rovinerà tutto il Mondo con essa»[432]. Giusta i moderni principj dell'arte militare, il Colosseo dominato da tre colline, non sarebbe stato scelto per servir di Fortezza; ma, per la saldezza delle sue mura e delle sue volte, attissimo era a resistere alle macchine d'assedio, e capace in oltre di contenere nel suo recinto un numeroso presidio; quando una fazione occupava il Vaticano e il Campidoglio, l'altra si trinceava al palagio di Laterano e al Colosseo[433].
Facemmo altrove menzione dell'abolizione de' giuochi dell'antica Roma. Non si prendano però troppo rigorosamente alla lettera quelle parole; perchè nei secoli decimoquarto e decimoquinto, la legge[434] o la consuetudine della città regolava i giuochi che, prima della Quadragesima, si celebravano sul monte Testaceo e nel circo agonale[435]. A questi presedea in solenne abito il Senatore, che aggiudicava e distribuiva il premio, vale a dire un anello d'oro, o il pallio, come a que' giorni veniva chiamato, pezzo di drappo di lana o di seta[436]. Il danaro occorrente ogn'anno per cotesti giuochi[437] e per le corse a piedi, o sopra carri, o a cavallo veniva da una tassa posta sopra gli Ebrei; eranvi anche altri giuochi più nobili, che si stavano in una giostra, o torneo, cui convenivano settantadue giovani romani. Nell'anno 1332, l'arena del Colosseo offerse un combattimento di tori sull'esempio de' Mori e degli Spagnuoli, riferito nel giornale di un autore contemporaneo che le usanze di que' tempi descrive[438]. Restaurata quanta parte di gradinate bastava perchè vi sedessero gli spettatori, con un bando, che fu pubblicato fino a Rimini e a Ravenna, s'invitarono i Nobili perchè venissero a far prova di abilità e coraggio in quell'agone pericoloso. La festa accadde nel giorno 3 di settembre; le Matrone romane, in tre drappelli divise, occupavano tre balconi coperti di drappo scarlatto; l'avvenente Jacova di Rovere conducea le Matrone transteverine, schiatta purissima, che ne offre anche ai dì nostri i lineamenti e il carattere dell'Antichità. Gli altri due drappelli erano, giusta il solito, formati da quelle delle famiglie che alla fazione Colonna, e alla Orsini spettavano; e ciascuna di queste fazioni avea di che inorgoglire pel numero e per la bellezza delle sue donne. Lo Storico vanta la forma di Savella degli Orsini, e aggiunge come i Colonna si dolessero perchè mancava la più giovane di lor famiglia, che ne' giardini della torre di Nerone si era rotta la noce d'un piede. Uno di que' vecchi cittadini più ragguardevole trasse a sorte i combattenti, i quali, scesi nell'arena, assalirono i tori, senza il soccorso d'altre arme fuor d'una lancia, e a piede, a quanto la descrizione dà a giudicare. Continua il Monaldesco descrivendo i nomi, i colori e le imprese dì venti de' più distinti fra que' Cavalieri, e fra questi nomi se ne trovano molti delle più illustri famiglie di Roma e dello Stato ecclesiastico, i Malatesta, i da Polenta, i Della Valle, i Cafarello, i Savelli, i Capoccio, i Conti, gli Annibaldi, gli Altieri, i Corsi. Ciascun d'essi avea scelto il suo colore giusta il proprio gusto e la sua situazione; e i motti delle imprese additavano, quai melanconia, quai prodezza, quali spirito di galanteria. Son solo come il più giovane degli Orazj, era l'impresa dell'intrepido; Vivo nella desolazione, quella d'un vedovo; Ardo sotto la cenere, di un amante timido; Adoro Lavinia, o Lucrezia, parole equivoche fatte per indicare una passion più moderna. Così è pura la mia fedeltà, molti che ad una insegna bianca si accompagnavano. Annego nel sangue; avvi morte più dilettevole? Così un feroce coraggio esprimeasi. Non v'è alcuno più forte di me? alla quale impresa una pelle di lione aggiugneva significato. L'orgoglio, o la prudenza degli Orsini non permise loro di entrare in una lizza, ove tre de' loro rivali ivan pomposi di tre divise, che l'alterigia provavano dei Colonna: — Son forte a malgrado del mio dolore — La forza pareggia in me la grandezza — Se cado, voi cadrete insieme con me. Quest'ultima impresa era volta, soggiunge lo Storico contemporaneo, agli spettatori, a fine d'indicare, che mentre l'altre famiglie soggiacevano al Vaticano, i soli Colonna sostenevano il Campidoglio. I combattimenti furono pericolosi e micidiali. Ciascun de' Cavalieri assalì a sua volta un toro selvaggio, e parve che la vittoria fosse per gli animali, perchè sol nove di questi giacquero sull'arena, e vi rimasero morti diciotto Cavalieri, feriti nove. Molte nobili famiglie dovettero piangere la perdita di qualche congiunto, ma la pompa delle esequie che vennero celebrate nel tempio di S. Giovanni di Laterano, e di S. Maria Maggiore, presentò di una seconda festa la popolazione romana. Non erano certamente queste le lotte, in cui i Romani avessero dovuto mostrarsi prodighi del loro sangue; nondimeno non possiamo, anche biasimandone la follia, risparmiar qualche lode alla loro prodezza; e quei chiari Cavalieri, che si segnalarono per magnificenza e coraggio nel cimentare le proprie vite alla presenza delle loro amate, inspirano una sollecitudine d'un genere ben più nobile che non le migliaia di prigionieri e malfattori che l'antica Roma, a malgrado di essi, traeva alla macelleria dell'Anfiteatro[439].
Il Colosseo fu rare volte adoperato a tale uso, e forse alla sola festa che abbiamo ora descritta. I cittadini che ogni dì abbisognavano di materiali, correano, senza timor nè rimorso, a demolire questo nobilissimo monumento. Uno scandaloso accordo del secolo decimoquarto assicurò alle due fazioni il diritto di trar marmi dalla comune cava del Colosseo[440]; onde il Poggi deplora la perdita della maggior parte di questi marmi ridotti in calce dagl'insensati Romani[441]. Per reprimere cotale abuso, e impedire i delitti, che in questo vasto e funereo recinto poteano di notte tempo commettersi, Eugenio IV lo cinse di mura, concedendone, mediante una patente durata per lungo tempo, il terreno e l'edifizio ai monaci di un vicino convento[442]. Dopo la morte del ridetto Pontefice, essendo stato questo muro, per cagione di una sommossa, atterrato, il popolo protestò, che il Colosseo non sarebbe mai più per l'avvenire diventato particolare proprietà, protesta che avrebbe meritato encomj ai Romani, se veramente avessero rispettato questo nobile ricordo della grandezza de' loro padri. Nella metà del secolo XVI, epoca del buon gusto e della erudizione, la parte interna del Colosseo trovavasi danneggiata; ma intatta erane la circonferenza esterna, lunga mille seicentododici piedi; e vi si vedevano innalzarsi a cento otto piedi tre ordini di logge, ciascuno di ottanta archi. Vuolsi imputare ai nipoti di Paolo III lo stato rovinoso cui presentemente è ridotto il Colosseo, e tutti i viaggiatori che vanno ad esaminare il palagio Farnese non possono starsi dal maledire il sacrilegio e il lusso di cotesti uomini oscuri pervenuti al principato[443]. Vien fatto eguale rimprovero ai Barbarini, e, sotto ciascun regno successivo, il Colosseo potè aspettarsi eguali oltraggi sino al momento in cui lo pose sotto la salvaguardia della religione Benedetto XIV, il più saggio di tutti i Pontefici, il quale consacrò un luogo che la persecuzione fece campo delle corone di un numero sì sterminato di martiri[444].
Allorchè il Petrarca vide per la prima volta questi monumenti, le cui rovine son superiori a quanto di bello possa descriversi, rimase attonito sulla stupida indifferenza[445] de' Romani[446]; e s'avvide che, eccetto il Rienzi e un dei Colonna, meglio dei Nobili e dei cittadini della Metropoli, un abitante delle rive del Rodano conoscea gli avanzi di tanti capolavori; d'aver fatta la quale scoperta lungi d'essere vano, avvilito mostrossi[447]. Un'antica descrizione della città, composta ne' primi anni del secolo XIII, dà a divedere l'ignoranza e la credulità de' Romani. Senza obbligarmi ad additare gli abbagli infiniti di luogo o di nomi che si veggono sparsi in quest'Opera, mi limiterò ad un passo che basterà a far sorgere sulle labbra de' leggitori un sorriso d'indignazione e di disprezzo. «Il Capitolio[448], dice l'Autore anonimo, vien così nominato perchè è il capo del Mondo. Di lì i Consoli e i Senatori governavano altra volta la città e tutte le contrade dello Universo. Le sue mura altissime e grossissime erano coperte di cristallo e d'oro, e sormontate da un tetto lavorato a cesello, opera oltre ogni dire ricca e preziosa. Al di sotto della rocca, sorgea un palagio, d'oro nella maggior parte, ornato di pietre preziose, e che valeva da per sè solo il terzo di tutto il Mondo. Vi si vedevano collocate per ordine le statue di tutte le province, ciascuna delle quali aveva una campanella al collo; e per opera di un incantesimo[449] ogni volta che una provincia si ribellava contro Roma, la statua che la rappresentava si volgea verso il punto dell'orizzonte ov'erano accampati i ribelli, la campanella sonava, il Profeta del Capitolio annunziava il prodigio, il Senato non ignorava più il pericolo che minacciava la repubblica». Trovasi nella stessa Opera un secondo esempio d'eguale assurdità, benchè riguardi cosa meno rilevante, cioè i due cavalli di marmo che alcuni giovani trasportarono dai bagni di Costantino al monte Quirinale. L'Autore ne attribuisce il lavoro a Fidia e a Prassitele, asserzione sfornita di fondamento, che nondimeno sarebbe scusabile, se il nostro descrittore non prendesse un abbaglio di oltre quattro secoli sul tempo in cui vissero questi statuarj greci. Egli li fa vivere sotto il regno di Tiberio, ed erano, secondo lui, filosofi o maghi, che adottarono la nudità per emblema delle loro cognizioni e del loro amore del vero; svelarono all'Imperatore le sue azioni più segrete, dopo di che, avendo ricusata ogni ricompensa pecuniaria, sollecitarono l'onore di lasciare alla posterità questo monumento di sè medesimi[450]. Lo spirito de' Romani in preda alle idee di magia, perdè ogni vezzo alle bellezze dell'arti; il Poggi non trovò più a Roma che cinque statue; ed è ventura che tant'altre, sepolte o a caso, o con premeditazione sotto le rovine, solo in tempi più fortunati si siano scoperte[451]. La statua rappresentante il Nilo, che orna oggidì il Vaticano, fu scoperta da alcuni giornalieri che scavavano il terreno di un vigneto vicino al tempio o al convento della Minerva. Ma il proprietario, impazientito delle visite d'alcuni curiosi, consegnò nuovamente alle viscere della terra un tal marmo, a costui avviso, senza valore[452]. La scoperta di una statua di Pompeo, alta dieci piedi, diede origine ad una lite, perchè trovata sotto un muro che separava i fondi di due proprietarj. Che fece il giudice per dar soddisfazione ai diritti d'entrambi? sentenziò la statua ad essere spaccata per mezzo, e stava per eseguirsi il decreto, se l'intercessione d'un Cardinale e la liberalità d'un Pontefice non avessero sottratto l'Eroe di Roma alle mani de' suoi barbari concittadini[453].
A. D. 1420
Ma dissipandosi a mano a mano le nubi della barbarie, la pacifica autorità di Martino V e de' successori del medesimo si adoperò in uno a riordinare il governo dello Stato ecclesiastico, e a riparare gli ornamenti della Capitale. I progressi di questo genere che incominciarono col secolo XV, non furono l'effetto naturale della libertà e dell'industria. — Una città di ordinario venne a grandezza per l'opera e la popolazione dei territorj che le stanno all'intorno; da questi traggono i cittadini, e le vettovaglie, e le materie prime delle manifatture e del commercio; ma la maggior parte della Campagna di Roma non offre che un deserto squallido e solitario: vassalli indigenti e privi di speranza d'un maggiore compenso vi coltivano indolentemente i dominj de' Principi, e del Clero che il terreno de' primi usurparono; i miserabili ricolti di questi dominj vengono o rinchiusi, o asportati dai calcoli del monipolio. — Il soggiorno di un Monarca, le spese di una Corte dedita al lusso, i tributi delle province, contribuiscono indi, benchè per cagioni men naturali, all'accrescimento di una Capitale. I tributi e le province colla caduta dell'Impero disparvero: se il Vaticano ha saputo tirare a sè alcune particelle dell'oro del Brasile, e dell'argento del Perù, il di più che viene a Roma dalle rendite de' Cardinali, dal salario degl'impiegati, dalle contribuzioni che mette il Clero, dalle offerte de' pellegrini e de' clienti, è un'aggiunta ben debole e precaria, sufficiente nondimeno a nodrire l'ozio della Corte e della città. La popolazione di Roma, inferiore di gran lunga a quella delle grandi Capitali d'Europa, non oltrepassa le censettantamila anime[454], e nel vasto recinto delle sue mura la maggior parte de' Sette Colli non offre che rovine e vigneti. Voglionsi attribuire alla superstizione e agli abusi del governo la bellezza e lo splendore della moderna città. Ciascun Regno, quasi senza eccezione, è stato segnalato dal rapido innalzamento di una nuova famiglia, arricchita, a spese della Chiesa e dello Stato, da un Pontefice privo di figli. I palagi dei suoi fortunati nipoti offrono dispendiosissimi monumenti d'eleganza e di servitù, entro i quali l'architettura, la pittura, la scoltura, in tutta la lor perfezione, si sono prostituite ai loro padroni. Le costoro gallerie, i costoro giardini racchiudono i pezzi più preziosi dell'Antichità, che il buon gusto o la vanagloria ha raccolti. Con maggior decoro i Pontefici hanno impiegate le rendite ecclesiastiche alla pompa del culto; ma non fa d'uopo indicare tutta la serie degli altari, delle cappelle e delle chiese, da essi piamente fondate; astri inferiori offuscati dallo splendore del Vaticano, dalla cupola di S. Pietro, il più nobile edifizio che sia mai stato alla religion consagrato. La gloria di Giulio II, di Leone X, e di Sisto V vi si trova collegata co' sublimi ingegni del Bramante, del Fontana, di Raffaello e di Michelagnolo. Quella stessa munificenza che fabbricò tanti templi e palagi, non si è mostrata meno sollecita nel far risorgere e pareggiare le opere degli antichi: rialzati gli obelischi che giacevano nella polvere, vennero collocati ne' luoghi più appariscenti di Roma, restaurati tre fra gli undici acquidotti de' Consoli e de' Cesari. Condotti per una serie di portici, di costruzione nuova ed antica, fiumi artificiali che gettano in belle vasche di marmo torrenti d'acqua salutifera e refrigerante; lo spettatore impaziente di salire le gradinate di S. Pietro, trovasi arrestato in cammino all'aspetto di una colonna di granito egiziano, che sorge all'altezza di centoventi piedi, in mezzo a due maestose fontane la cui perennità è inesauribile. Gli Antiquarj e i Dotti hanno portati schiarimenti sulla topografia e i monumenti dell'antica Roma[455]; e i viaggiatori vengono in folla dalle più remote contrade del Settentrione, dianzi selvagge, per contemplarvi rispettosamente le vestigia degli Eroi e visitare gli avanzi dell'Impero del Mondo.
La Storia della decadenza, e della caduta dell'Impero romano, pittura la più vasta e forse la più maestosa degli annali del Mondo, ecciterà l'attenzione di tutti coloro che videro le rovine dell'antica Roma; dee meritarsi ancora quella di ciascun leggitore. Le varie cagioni e gli effetti progressivi di questo politico cambiamento vanno collegati colla maggior parte degli avvenimenti della Storia più rilevanti: esso mette in chiaro lume la politica artifiziosa dei Cesari, che conservarono per lungo tempo il nome e il simulacro della Repubblica; gl'inconvenienti del militar dispotismo; la nascita, il progresso e le Sette del Cristianesimo; la fondazione di Costantinopoli, il parteggiamento della Monarchia; l'invasione de' Barbari della Germania e della Scizia che vi posero stanza; le istituzioni delle leggi civili; il carattere e la religione di Maometto; la sovranità temporale de' Papi; il risorgimento e la caduta dell'Impero d'Occidente; le Crociate de' Latini in Oriente; le conquiste de' Saracini e de' Turchi; la caduta dell'Impero Greco; lo stato e le sommosse di Roma nel Medio Evo. L'importanza e la varietà dell'argomento hanno potuto soddisfare lo Storico; egli ha sentite le proprie imperfezioni, ma sovente ancora ha dovuto incolpare la scarsezza de' materiali. Fra le rovine del Campidoglio, concepii il divisamento di un'Opera che ha occupati e ricreati circa vent'anni della mia vita, e che, comunque sia ancor lungi dal corrispondere pienamente ai miei desiderj, abbandono finalmente alla curiosità e all'indulgenza del Pubblico.
Losanna, 27 Giugno 1787.
( Nota allapagina 141 ) Molti teologi sanno fare alcune distinzioni intorno al Papa: lo considerano ora come uomo, ora come dottore, ora come Vescovo, ora come primo in potestà ed in onore fra' Vescovi, cioè Papa, ora come Sovrano. Secondo queste distinzioni ne viene, che i vizj personali di alcuni Papi non appartennero, nè devonsi attribuire che all'uomo; che gli errori non devonsi attribuire che al Dottore, e non al Papa. Noi daremo due fatti storici intorno a ciò, e mostranti l'effetto delle suddette distinzioni. Liberio Papa legittimo, e poscia dichiarato Santo, fu eletto l'anno 352, tempo in cui continuava ancora fieramente, malgrado la decisione, e la relativa professione di fede, ossia Credo etc. del Concilio generale di Nicea di 318 Vescovi ( Credo etc., da noi riferito distesamente nella nostra nota, pag. 89 e 90 del Tomo 12) dell'anno 325, la gran lite fra i Cristiani-cattolici, sostenitori della consustanzialità di Gesù Cristo con Iddio Padre, cioè coll'Esser Supremo, vale a dire della divinità di Gesù Cristo, ed i Cristiani-ariani (così detti dal prete Ario loro Capo) e semi-ariani, negando i primi la consustanzialità e la divinità di Gesù Cristo, ed accordando i secondi soltanto ch'egli sia simile a Iddio Padre, cioè all'Esser Supremo, ma non consustanziale allo stesso, ossia della stessa di lui sostanza, come avea deciso il Concilio di Nicea, essendo poi anche questa similitudine negata dagli Ariani. I Vescovi, il Clero, i laici Cristiani erano perciò divisi in due o tre parti: nella Chiesa dei paesi orientali, vale a dire dell'Asia Minore e Province vicine, sembra che il maggior numero fosse ariano e semi-ariano, e ne' paesi occidentali, Cattolico: il Concilio ariano di Tiro si convocò contro il Concilio di Nicea, appena terminato; ne abbiamo gli atti negli Storici ecclesiastici. Finchè visse l'Imperator Costantino, tanto famoso, i Cattolici da lui colla forza sostenuti e protetti, avevano prevaluto di molto, ma succedutogli Costanzo, suo figlio, gli ariani e semi-ariani, da lui fortemente sostenuti e protetti, ripresero nuove forze e potere nella gran lotta. Vi fu un Concilio provinciale di Cattolici in Roma a favor d'Atanasio, Vescovo d'Alessandria in Egitto, perseguitato dagli Ariani e da Costanzo, e di cui abbiamo un atto di credenza, ossia Simbolo, conforme alla decisione di Nicea. L'anno 341, presente Costanzo, si convocò in Antiochia un Concilio di 97 Vescovi, parte cattolici, e parte ariani; vi si scrissero alcune professioni di fede in cui non v'era la parola consubstantialem, determinata dal Concilio di Nicea; gli Ariani vi prevalsero di molto per l'influenza dell'Imperatore Costanzo. Vi fu poi anche un Concilio d'Ariani in Arles l'anno 353 contro i Cattolici e contro Atanasio, in cui fu deposto Paolino Vescovo di Treviri per non aver voluto sottoscrivere la condanna d'Atanasio. Per ordine di Costanzo si radunò ancora (siccome si era radunato, per comando di Costantino, il Concilio di Nicea dov'egli stette con pompa e potenza imperiale) l'anno 355 un Concilio di 300 Vescovi co' Legati di Liberio, per trattare, o terminare la grande controversia, che tutto lo Stato sconvolgeva, ed empieva di mali. Era Liberio contrario agli ariani e semi-ariani Vescovi, che in gran numero erano nel Concilio, e non voleva condannare Atanasio, ma avendo questi di molto prevaluto, fu Liberio mandato in bando in Tracia da Costanzo con Eusebio, Vescovo di Vercelli, che fu mal concio da bastonate, con Lucifero di Cagliari, con Paolino di Treviri, Vescovi pure sostenitori della consustanzialità. Vi fu un altro Concilio di Vescovi ariani in Antiochia contro Atanasio; ve ne fu un altro in Francia l'anno 356, adunato da Saturnino Arcivescovo d'Arles, già ariano, o semi-ariano, in cui fu bandito S. Ilario Vescovo cattolico di Poitiers; e così di seguito vi furono concilj contro concilj, anatemi contro anatemi. Intanto che Liberio Papa, cacciato dalla Sede di Roma, stavasi bandito in Tracia in trista situazione, si radunò un Concilio di 300 e più Vescovi tanto orientali, che occidentali in Sirmich, città della Schiavonia, l'anno 357, nel quale furono scritti e professati due atti di fede, il primo semi-ariano, e l'altro ariano. Liberio stanco della pena dell'esilio, e bramoso di ricuperare la Sede pontificia di Roma, sottoscrisse pur troppo l'atto di fede, ossia il Credo etc. semi-ariano, di quel Concilio, per unirsi a' semi-ariani, e obbedendo all'Imperatore Costanzo; ce lo conferma con dispiacere anche Severino Bini cattolico, e divoto de' Papi, e glossatore della nuova ed ampia Collezione de' Concilj di Labbe, edizion di Venezia: Post quam biennio exulasset (Liberio) ad subscribendum Sirmiensi confessioni primae, ad condemnandum innocentem Athanasium, et denique ad comunicandum cum Arianis, taedio exilii et calamitatum, denique spe recuperandae pristinae sedis, atque dignitatis inductus, infelix, infeliciter labitur, sibique vitae ac morum turpissimam maculam incurit. Labbe t. 3, p. 195, edizione di Venezia. Ma Liberio cedette all'umana debolezza, errò come dottore: fu poscia dolentissimo della sua condotta, dopo aver ricuperata la Sede de' Papi, che se non erano ancora sovrani, erano oltremodo ricchissimi. Ecco la lettera scritta da Liberio, essendo ancora in esilio, a' Vescovi ariani, o semi-ariani, pregandoli ad intercedere presso l'Imperatore la sua liberazione, ed il suo ritorno alla Sede di Roma, e colla quale dichiara di ricevere e tenere ferma la semi-ariana professione di fede del Concilio di Sirmich suddetto, dicendola vera e cattolica, cioè vera ed universale.
Pro deifico timore sancta fides vestra cognita est hominibus bonae voluntatis, sicut lex loquitur; juste judicate, filii hominum. Ego Athanasium non defendo, sed quia susceperat illum bonae memoriae Julius, decessor meus, verebar ne forte in aliquo praevaricator judicarer. At ubi cognovi, quando Deo placuit, juste vos illum condemnasse, mox consensum meum commodavi sententiis vestris: litteras super nomine ejus, idest de damnatione ipsius, per fratrem nostrum Fortunatianum dedi perferendas ad Imperatorem nostrum Constantium. Itaque, amoto Athanasio, a comunione omnium nostrum, cujus nec epistolia a me suscipienda sunt, dico me cum omnibus vobis, et cum universis episcopis orientalibus, seu per universas provincias, pacem et unanimitatem habere. Nam ut verius sciatis me veram fidem per hanc epistolam meam proloqui, dominus meus et frater comunis Demophilus, qui dignatus est pro sua benevolentia, fidem, et veram catholicam exponere, quae Sirmii a pluribus fratribus et coepiscopis nostris tractata, exposita, et suscepta est, hanc ego libenti animo suscepi, in nullo contraddixi, consensum accomodavi, hanc sequar, haec a me tenetur. Sane petendam credidi sanctitatem vestram, quia semper videtis in omnibus, me vobis consentaneum esse, dignamini, comuni consilio ac studio laborare quatenus de exilio jam dimittar, et ad sedem quae mihi credita est divinitus revertar. Epistola VII Liberii ad orientales episcopos. Bini stesso presso Labbe dice: haec est vera illa, et germana epistola Liberii, quam scripsit.
Ecco un'altra lettera di Liberio.
Epistola Liberii ad Ursacium, Valentem et Geminium (Vescovi ariani d'Occidente): eorum interventa liberari ab exilio, sediquae suae restitui cupit.
Quia scio vos filios pacis esse, diligere etiam concordiam, et unanimitatem ecclesiae catholicae idcirco non aliqua necessitate compulsus, teste Deo dico, sed pro bono pacis et concordiae, quae martyrio proponitur, his literis convenio, Vos charissimi domini mei. Cognoscat prudentia vestra. Athanasium qui Alexandrinae ecclesiae episcopus fuit, priusquam ad Comitatum Sancti Imperatoris pervenissem, secundum, literas orientalium episcoporum, ab ecclesiae romanae comunione separatum esse, sicut testis est omne praesbyterium ecclesiae romanae etc. In fatti Liberio, per l'intercessione de' Vescovi ariani presso l'Imperatore Costanzo, ritornò trionfante sulla sede romana; di che oltre tutti gli altri Storici, non che dell'eresia di Liberio, ci accerta S. Gerolamo, scrittore quasi contemporaneo: Liberius medio victus exilii in haereticam pravitatem subscribens Romam quasi victor intravit. S. Jeron. in Chron. S. Ilario Vescovo di Poitiers fermo sostenitore della consustanzialità e divinità di Gesù Cristo, deposto e bandito ora dall'Occidente, ora dall'Oriente dai Concilj ariani, così disse pure del Papa Liberio: Haec est perfidia ariana.... anathema a me tibi dictum Liberii, et sociis tuis... iterum tibi anathema, et tertio praevaricator Liberii. Lib. 6, fragm., edizione Parigi 1693.
Onorio I fu eletto Papa legittimo l'anno 625. Sorse allora questione fra' Vescovi, se Gesù Cristo, avendo due nature, divina ed umana, siccome avea dogmaticamente deciso contro i Cristiani-eutichiani, il quarto Concilio generale di Calcedonia, avesse anche due volontà, e non una sola. Questa nuova questione dogmatica doveva esser decisa da un altro Concilio generale, che fu perciò convocato molti anni dopo, e fu il sesto generale, essendo Papa Agatone, eletto l'anno 678. Questo Concilio, tenuto in Costantinopoli, decise aver Gesù Cristo due volontà, una divina, l'altra umana (vedi la nostra Nota T. 9, p. 94) contro i Vescovi, il Clero, ed i secolari Monoteliti, così detti perchè sostenevano aver Gesù Cristo una sola volontà, e furono condannati e dichiarati eretici. I principali sostenitori del monotelismo erano stati Macario Patriarca d'Antiochia, il Vescovo Teodoro Faranitano, i Patriarchi di Costantinopoli Sergio, Paolo, Pirro e Pietro, e Ciro Patriarca d'Alessandria. Il Papa Onorio, sotto il cui pontificato erasi mossa la questione, aveva scritto una lettera a Sergio, colla quale consigliava a lasciare la controversia, tanto una parte, che l'altra, dicendo doversi rifiutare ed escludere dalla professione di fede le parole nuovamente introdotte, esprimenti una o due operazioni e volontà in Gesù Cristo, perchè mettevano in campo questioni oscure ec. Ma i Monoteliti interpretarono la lettera a loro favore, posero Onorio nel loro partito, e divulgarono che Onorio pure credeva avere Gesù Cristo una sola volontà. Hist. sextae Synodi. Labbe, T. 7, p. 610.
Ecco la lettera.
Dilectissimo fratri Sergio, Honorius. Dopo alcune parole dice: Nec non et Cyro fratri nostro, Alexandrinae civitatis praesuli, quatenus novae adinventionis unius vel duarum operationum vocabulo refutato, claro Dei ecclesiarum praeconio nebulosarum concertationum caligines offundi non debeant, vel aspergi, ut profecto unius vel geminae operationis vocabulum noviter introductum ex predicatione fidei eximatur. Nam qui haec dicunt, quid aliud nisi juxta unius vel geminae naturae Christi Dei vocabulum, ita et operationem unam, vel geminam suspicantur? Saper quod clara sunt divina testimonia. Unius autem operationis vel duarum esse vel fuisse mediatorem Dei et hominum Dominum Jesum Christum sentire et promere ineptum est etc. Actio 13, Conc. VI. Labbe, sacrorum Conc. etc., edizione Veneta. T. II, p. 582. Il Concilio generale sesto suddetto, decidendo dogmaticamente contro i Monoteliti, comprese nella condanna anche Onorio, onde a questo venne macchia d'eresia in materia di dogma, dalla quale (non sembrando ciò chiaramente risultare dalle espressioni della sua lettera, mostrante piuttosto indifferenza e brama di pace) fu difeso dagli Scrittori premurosi di sostenere l'infallibilità de' Papi nelle materie dogmatiche e di religione.
Qualunque possano essere le difese d'Onorio, convien dire che le cose che stavano contro lui, sieno state tali da determinare il suddetto Concilio generale, ossia ecumenico sesto, a condannarlo cogli altri eretici Monoteliti. Ecco gli atti del Concilio:
Sancta Synodus dixit: Eos qui semel condemnabiles demonstrati sunt, et secundum sententiam nostram jamdudum ejecti de sacris diptychis, opportunum existit etiam in exclamationibus hos nominatim anathematizari. Georgius archiepiscopus hujus civitatis dixit; necessarium est nominatim memoratas personas anathematizari; et exclamaverunt universi; Multos annos Imperatoris etc. Theodoro haeretico Faranitano anathema, Sergio haeretico anathema, Cyro haeretico anathema, Honorio haeretico anathema, Pyrro haeretico anathema, Paulo haeretico anathema, Petro haeretico anathema, Macario haeretico anathema, Stefano haeretico anathema, Polychronio haeretico anathema, Aspergio Pergensi anathema, omnibus haereticis anathema, omnibus qui suffragantur haereticis anathema; augeatur fides christianorum; orthodoxo et universali Concilio multos annos. Actio 16. Sacrorum Conc. Nova etc. Labbe, T. II, p. 622.
Sanctum Concilium exclamavit (avendo già i Vescovi, ed i procuratori d'Agatone Papa, e d'altri Vescovi assenti, sottoscritti gli atti) omnes ita credimus, Sergio et Honorio anathema, Pyrro et Paulo anathema, Cyro et Petro anathema, Macario, Stefano, et Polycronio anathema: omnibus haereticis anathema, qui praedicaverunt et praedicant, et docent, et docturi sunt unam voluntatem, ut unam operationem in dispensatione Domini nostri Jesu Christi Dei nostri anathema. Actio 18. Labbe, T. II, pag. 655. Duas igitur in eo (Christo) naturales voluntates, et duas naturales operationes communiter, atque indivise procedentes praedicamus; superfluas autem vocum novitates, et harum adinventores procul ab ecclesiasticis septis abjicimus, idest Theodorum Faranitanum, Sergium et Paulum, Pyrrum simul et Petrum, qui Costantinopoleos praesulatum tenuerunt, insuper et Cyprum, qui Alexandrinorum sacerdotium gessit, et cum eis Honorium qui fuit Romae praesul, utpote qui eos in his, seculus est. Actio 18. Labbe, Tom. II, pag. 658.
Chi poi bramasse vedere la continuazione delle controversie fra Cristiani-cattolici e Cristiani-ariani e semi-ariani, ed altri, de' quali rimangono ancora alcune popolazioni in alcuni Stati sì d'Asia che d'Europa, legga i dotti Storici Tillemont, o Fleury, Moseim, o Du Pin, giacchè bisogna persuadersi che, essendo in tutti i secoli dall'epoca di Cristo, la Storia ecclesiastica più o meno intimamente legata alla civile e politica, e bene spesso qual principale agente, non si può saper bene quest'ultima, e in modo filosofico, cioè col discuoprimento delle cagioni e dei mezzi, e colla considerazione degli effetti, se non si sappia la prima. Questa verità dalla grand'Opera di Gibbon, ed anche dai nostri Commenti illustrativi, posta in luce, dovrebbe apprezzarsi da tutte le colte persone e letterate, le quali generalmente poco o nulla si curano dello studio della Storia ecclesiastica (che formò il fondamento del sapere Storico, morale e politico pei più grandi uomini dell'Era nostra) riguardandola come un soggetto da preti e da frati, o da uomini di poco conto, amanti di notizie e cognizioni poco importanti, mentre al contrario lo è da filosofi profondi, ricercatori dello stato, e delle variazioni e modificazioni della teologia, della filosofia e della morale degli uomini, nelle regioni d'Europa, ed in quelle non lontane d'Asia, cominciando dai Caldei, dagli Egizj, e da Platone fino a' nostri giorni. ( Nota di N.N. )
( Nota allapag. 142 ) Il diritto de' rei ecclesiastici, e particolarmente de' Vescovi condannati, d'appellare a' Papi, ed il potere di questi di mutare, o annullare le sentenze, date dai Concilj rispettivi, in materia di delitti, di deposizione, o di giurisdizione, non avuti ne' primi secoli del cristianesimo, e indi contrastati sempre con grande vigore, specialmente dalla Chiesa affricana (vedi i Concilj nazionali e provinciali di questa Chiesa, e le lettere da essi scritte a' Papi nel quarto e quinto secolo in Labbe, Sacrorum Conciliorum Nova et amplissima Collectio etc., edizione Venezia) furono proposti nel Concilio provinciale, o nazionale di Sardica l'anno 347, essendo presidente Osio, favoritore de' Papi, e Vescovo di Cordova, di cui abbiamo descritto la condotta ed il carattere (vedi la nostra Nota T. 12, p. 8); e cotale proposizione fu approvata da quel Concilio. Ma il diritto, ed il potere suddetti acquistarono forza maggiore e consuetudine generale nei paesi occidentali, dopo la promulgazione delle famose Lettere decretali, falsificate da Isidoro, e la loro accettazione dalla Chiesa occidentale, come vere ed autentiche, cioè nei secoli nono e decimo. Aggiungiamo qui, alle cose dette nella mostra Nota nel tomo nono pagina 307, le prove di retta critica della falsità delle suddette Lettere decretali di circa cinquanta Papi da Clemente succeduto a S. Pietro, fino a S. Silvestro, ed anche a Siricio che fu fatto Papa verso la fine del secolo quarto.
I. Perchè non sono scritte colla bella lingua latina di quei primi secoli.
II. Perchè il loro stile è lo stesso, segno che furono scritte da una stessa persona, e non da cinquanta differenti Papi, come il falsificatore ha voluto far credere.
III. Perchè in queste Lettere si citano sempre i passi della traduzione latina delle Sacre Scritture, nomata la Volgata, fatta da S. Gerolamo intorno la fine del quarto secolo, seguo che quelle lettere furono scritte dopo. S. Gerolamo morì l'anno 420.
IV. Perchè S. Gerolamo stesso, che compose un trattato delle Vite e degli Scritti degli Autori ecclesiastici che lo avevano preceduto, non fa menzione delle Lettere Decretali di que' cinquanta Papi, dateci da Isidoro, come scritte da essi.
V. Perchè non ne parlano i Papi Innocenzo I e Leone I, verso la metà del secolo quinto, e neppure gli altri Papi fino all'epoca in cui sono state promulgate, cioè verso la fine dell'ottavo secolo, o nel principio del nono.
VI. Perchè in queste Lettere si leggono le osservazioni ed i passi del Codice Teodosiano, fatto compilare da Teodosio II, che lo pubblicò l'anno 458, cioè cinquant'anni circa dopo Siricio, ultimo degli antichi Papi, a' quali quelle Lettere sono state attribuite.
VII. Perchè Dionisio detto il Picciolo, diligente collettore delle Lettere Decretali, e degli scritti de' Papi, fatti fino al suo tempo, cioè fino al principio del secolo sesto, non ebbe notizia delle Lettere Decretali, dateci da Isidoro, mentre più di tutti era in istato d'averle, se allora avessero esistito. Della sua grande diligenza egli stesso ci assicura; praeteritorum apostolicae sedis praesulum constituta qua valui cura, et diligentia collegi, ita etc. Epist. ad Julianum praesbyterum.
VIII. Perchè le loro date sono quasi tutte false. Le materie poi, contenute nelle suddette Lettere Decretali, provano pure la loro falsificazione, fatta in secoli posteriori, perchè parlano di Primati, di Patriarchi, d'Arcivescovi, e questi titoli non v'erano ne' primi secoli del cristianesimo, ne' quali l'impostore dice, che sono state scritte da' Papi. Egli dice nella sua prefazione, per darsi credito, che fu obbligato da ottanta Vescovi e da altri servi di Dio a fare la sua collezione de' canoni, che contiene le false Lettere Decretali suddette. Queste Lettere principalmente sostengono come doverose, e già consuete le appellazioni a' Papi, dalle sentenze dei Concilj, specialmente nelle cause de' Vescovi, e della loro deposizione per mancanze, errori, o delitti, dette poi da' canonisti cause maggiori; proibiscono di tener Concilj senza licenza del Papa; trattano delle accuse contro i Vescovi, e determinano molte regole per renderle assai difficili.
Isidoro falsificando le anzidette Lettere Decretali, ed attribuendole a' cinquanta Papi de' primi secoli, mirò a far credere a' suoi contemporanei dell'ottavo secolo, che le cose dette e sostenute in esse, erano già state ammesse, stabilite e poste in pratica ne' primi secoli del Cristianesimo; era questo il modo sicuro di venire a capo di conseguirle, in quel tempo di generale e profonda ignoranza; nè s'ingannò Isidoro nell'usare cotale artifizio, perchè l'effetto seguì il suo intendimento. Le false Decretali furono credute autentiche e vere per ottocento anni nella Chiesa occidentale latina, di tal modo ingannata in una cosa di fatto, cioè fin dopo il Concilio di Trento, tempo in cui, venuti i buoni studj d'istoria, d'erudizione, di critica, i Dotti, amanti del vero, ne provarono e pubblicarono la falsità, da quel tempo, da tutti gli eruditi anche cattolici riconosciuta. Credute vere ed autentiche dal Clero, e da' Principi e da' popoli le false Decretali, ne seguì, che si venne a capo, ciò che bramavasi, di conseguire le cose ch'esse sostenevano, sì perchè ammesse, stabilite e praticate ne' primi secoli del Cristianesimo, sì perchè avvalorate dall'autorità di cinquanta de' primi Papi.
L'animoso Nicolò I, già celebre, eletto Papa l'anno 859, insistè molto a costringere con minacce i Vescovi di Francia (gli altri già le avevano ammesse) a ricevere le dette Decretali d'Isidoro come canoni, sostenendone fortemente le massime: ecco una delle sue proposizioni, scritto in una sua lettera a' Vescovi di Francia: Etsi sedem apostolicam nullatenus appellasset (cioè il Vescovo reo condannato e deposto dal Concilio) contra tot tamen et tanta vos Decretalia (cioè le false d'Isidoro) efferre statuta, et episcopum, inconsultis nobis, deponere nulla modo debuistis. Epist. 42. Nic. I. Le cause de' Vescovi rei, la loro condanna e deposizione, decidevansi ne' Concilj delle rispettive province, dove la reità era stata commessa, e vi presiedeva l'Arcivescovo, ossia Metropolitano, secondo l'antico diritto canonico, stabilito dai Concilj anche generali; perciò i Vescovi di Francia generalmente non volevano ammettere le promulgate Decretali (benchè non ne ravvisassero la falsità) perchè erano contrarie a' canoni antichi, alle consuetudini ed alla autorità dei Metropolitani, data loro specialmente da' canoni del generale Concilio di Nicea. Incmaro Arcivescovo di Reims, nel nono secolo, il più erudito di queste materie che fosse in Francia in quel tempo, rimproverò fortemente Incmero Vescovo di Laon, perchè sosteneva le massime e l'autorità delle promulgate Decretali per sottrarsi dal poter del suo Metropolitano: quaerens adinventiones, ut te metropolitana subiectione posses exuere, libellum de patrum antiquorum (cioè de' Papi fino a Silvestro, o a Siricio) ante sacros Nicenae Synodi, et aliorum sanctorum canones, editis collegisti, in quibus sententias inter se dissonas, et contra evangelicam, et apostolicam et canonicam etc. Flodoardo, Hist. di Reims.
Ma avvenne che i Vescovi delle province belgiche, anche uniti in Concilj, ammisero le dette Decretali d'Isidoro, e fondarono i loro Decreti e Canoni sulle Decretali medesime, e ne trascrissero ed ammisero le sentenze ed i passi, siccome canoni: ce lo prova il dottissimo Arcivescovo di Parigi, nella metà circa del secolo decimosettimo, Pietro de Marca: Sane post tempora Riculfi sententiae aliquot selectae ex supposititiis epistolis, a gallicanis episcopis in canones suos transcriptae sunt. In Concilio Aquisgranensi, habito anno 836, quae de unctione olei infirmorum (Conc. Aquis. pag. 2, c. 8) Chrismate ab episcopis quotannis consecrando in Coena Domini, decernuntur juxta statuta Decretalium, e secunda epistola Fabiani, hausta sunt, etsi tacito Fabiani nomine. Caeterum frequentissime ab episcopis laudata fuisse verba epistolarum illarum decretalium et earum auctoritatem, probant tres ultimi Capitularium Libri, quos scriniis ecclesiae Mogunciacensis in unum corpus compegit Benedictus Levita jussu Autgari, ejus ecclesiae episcopi, eosque Lothario, Ludovico etc. De Marca Arch. Par. De Concordia Sacerdotii et Imperii, l. 3, c. 6.
Aggiuntasi poscia all'insistenza di Nicolò I, quella di Adriano II, e di Giovanni VIII, o IX, e crescendo la brama e l'interesse de' Vescovi di togliersi al rigore dei giudizj dei Concilj rispettivi col mezzo delle appellazioni a Roma, dove trovavano indulgenza, avvenne che finalmente anche i Vescovi di Francia, uniti in Concilio ammisero l'autorità delle Decretali d'Isidoro, citate e prese come canoni ne' giudizj, dati dai Concilj in materie ecclesiastiche, verso la fine del secolo decimo, e ce lo prova il prelodato Arcivescovo: Tandem eo deventom est ut tantis nominibus veterum pontificum cesserint una cum reliquis episcopis etiam gallicanae ecclesiae rectores, qui in Concilio Remensi ab Ugone et Roberto, regibus Francorum coacto anno nongentesimo nonagesimo secundo, Anaclecti, Julii, Damasi, et aliorum Pontificum epistolae expenderunt in causa Arnulphi, ac si in canonum censum receptae essent, Ibidem, l. 3, c. 7.
La nuova giurisprudenza ecclesiastica, cui allude l'Autore, ossia il nuovo diritto canonico, succeduto all'antico de' primi cinque secoli circa (raccolto nella Collezione di Dionisio il Piccolo ) onde antiquo juri novum successit, ci dice dottamente anche il De Marca, formossi delle suddette Decretali d'Isidoro, inserite nella sua Collezione generale dal Monaco Graziano, intorno l'anno 1150, la quale divenne testo in tutte le scuole, seminarj, ed università; degli scritti di Gregorio VII, delle Decretali d'Alessandro III, d'Innocenzo III, d'Onorio III, di Gregorio IX, di Bonifacio VIII, delle costituzioni dette Clementine, di Clemente V etc., ed ecco formato il nuovo Corpus juris canonici.
Vi fu anche un'altra cagione che contribuì naturalmente a cominciare a stabilire le appellazioni a Roma. Siccome i Papi, come Capi in particolar modo della Chiesa occidentale, avevano corrispondenza co' Concilj (generali, inviandovi anche i loro delegati) che nel quarto e quinto secolo, e dopo adunaronsi nelle province orientali, cioè a Costantinopoli e nel Asia Minore, così ne sapevano tutte le decisioni sì dogmatiche, che disciplinari, e tutti i canoni; perciò i lontani e i rozzi vescovi occidentali domandavano consiglio ed opinione nella fine del quarto secolo, e nel quinto, e dopo a' Papi, siccome rilevasi anche da alcune lettere d'Innocenzo I, colle quali risponde alle domande. Dall'uso delle consultazioni si passò a poco a poco, durante e dopo lunghi contrasti, ad ammettere ne' Concilj nazionali, o provinciali (vedi gli atti dei Concilj della Chiesa affricana fino a' tempi di S. Agostino, e del metropolitano Aurelio) i delegati de' Papi, a conoscere e a terminare le cause. Ne venne dalle dette maggiori notizie de' Papi un concorso d'appellanti, che volevano liberarsi dalle sentenze dei Concilj provinciali, e ne ridondò a' Papi sempre maggiore autorità, e sempre nuovi favoreggiatori. Per la falsificazione, ed ammissione delle false Lettere Decretali d'Isidoro, vennero a' Cattolici da' dottori protestanti acerbe accuse di soverchia credulità, ed a' Papi fiere invettive, cosa deplorata dal cattolico P. Constant, dotto Benedettino: vedi la nostra nota al Tomo nono p. 307.
Noi nello scrivere le annotazioni ai cinque ultimi volumi della grand'Opera d'Odoardo Gibbon abbiamo principalmente mirato, sviluppando e descrivendo le cose dogmatiche, e d'istoria ecclesiastica, a rendere innocue le cose da lui dette in materia dogmatica, od in altra importante, ed a munire il lettore dai tratti concisi e forti, che potevano fargli gagliarda impressione, qualora non fosse stato istruito dei luoghi delle Scritture Sacre, e dell'Istoria ecclesiastica e civile. Del resto noi non ci siamo proposti, nè pretendiamo d'aver purgato l'Opera del Gibbon da tutto ciò che il buon credente non deve ammettere: l'imprendimento e la difficile esecuzione di una confutazione compiuta avrebbe raddoppiato quasi i volumi dell'Opera; gravissimo inconveniente. Noi abbiamo fidanza che l'opera nostra non sia per essere discara a' sapienti, e sia utile e piacevole a coloro che non lo fossero.
FINE DEL DECIMOTERZO ED ULTIMO VOLUME.
INDICE
DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL DECIMOTERZO VOLUME
CAPITOLO LXVII. Scisma de' Greci e de' Latini. Regno e carattere di Amurat. Crociata di Ladislao Re d'Ungheria. Sconfitta e morte del medesimo. Giovanni Uniade. Scanderbeg. Costantino Paleologo, ultimo Imperatore di Costantinopoli.
A. D.
Parallelo fra Roma e Costantinopoli pag. 5
1440-1448 Scisma greco dopo il Concilio di Firenze 10
Zelo de' Russi e degli Orientali 13
1421-1451 Regno e carattere di Amurat II 15
1442-1444 Rassegna due volte successive il trono 17
1443 Lega formata da Eugenio contro i Turchi 19
Ladislao Re di Polonia e d'Ungheria marcia contr'essi 23
Pace de' Turchi 24
1444 10 novembre. Violazione del Trattato di pace 25
Giornata di Warna 28
Morte di Ladislao 29
Il Cardinale Giuliano 31
Giovanni Corvino Uniade 32
1457 Difesa di Belgrado e morte di Uniade 34
1404-1413 Nascita e educazione di Scanderbeg principe dell'Albania 36
1443 Tradisce il Sultano e fa guerra ai Turchi 38
Valore di Scanderbeg 40
1467 Morte 42
1448-1453 Costantino ultimo degli Imperatori Romani o Greci 44
1450-1452 Ambasceria di Franza 46
Stato della Corte di Bisanzo 49
CAPITOLO LXVIII. Regno e carattere di Maometto II. Assedio e conquista definitiva di Costantinopoli fatta dai Turchi. Morte di Costantino Paleologo. Servitù de' Greci. Distruzione dell'Impero romano nell'Oriente. Atterrimento dell'Europa. Conquiste di Maometto II; sua morte.
Carattere di Maometto II 51
1451-1481 Regno 55
1451 Intenzioni ostili di Maometto contro i Greci 57
1452 Costruisce una Fortezza sul Bosforo 62
Guerra de' Turchi 64
Apparecchi per l'assedio di Costantinopoli 66
Gran cannone di Maometto 68
1453 Costantinopoli assediata 71
Forze de' Turchi 74
De' Greci 75
1452 Fallace unione delle due Chiese 77
Ostinazione e fanatismo de' Greci 78
1453 Progredisce l'assedio di Costantinopoli 82
Assalto e difesa 85
Soccorso venuto agli assediati, e vittoria navale riportata dai Cristiani 87
Maometto fa trasportare il suo navilio per terra 92
Strettezze in cui trovasi la città 96
I Turchi si preparano ad un assalto generale 96
L'Imperator Costantino si congeda l'ultima volta dai Greci 99
1453 29 maggio. Assalto generale 101
Morte dell'Imperatore Costantino Paleologo 106
I Greci perdono la città e l'Impero 107
Costantinopoli saccheggiata dai Turchi 107
Prigionia de' Greci 110
Calcolo del bottino 112
Maometto II trascorre la città, S. Sofia, il palagio, ec. 116
Condotta di Maometto verso i Greci 118
Torna a popolare e ad abbellire Costantinopoli 119
Estinzione delle famiglie imperiali de' Comneni e de' Paleologhi 123
1460 La Morea perduta pe' Turchi 125
1461 Anche Trebisonda 126
1453 Dolore e spavento in cui è immersa l'Europa 129
1481 Morte di Maometto II 133
CAPITOLO LXIX. Stato di Roma dopo il secolo dodicesimo. Dominazione temporale de' Papi. Sedizioni nella città di Roma. Eresia politica di Arnaldo da Brescia. Restaurazione della Repubblica. Senatori. Orgoglio de' Romani. Loro guerre. Vengono privati della elezione e della presidenza de' Papi, che si ritirano ad Avignone. Giubbileo. Nobili famiglie di Roma. Querele fra i Colonna e gli Orsini.
1100-1500 Stato di Roma e cambiamenti politici del medesimo 135
800-1100 Imperatori di Roma francesi e alemanni 137
Autorità de' Pontefici in Roma 140
Fondata sull'affezione del popolo 140
Sul diritto 140
Sulle virtù degli stessi Pontefici 141
Sulle loro ricchezze 142
Incostanza della superstizione 143
Sommosse di Roma contro i Papi 145
1086-1305 Successori di Gregorio VII 147
1099-1118 Pasquale II 148
1118-1119 Gelasio II 149
1144-1145 Lucio II 150
1181-1185 Lucio III 150
1119-1124 Calisto II 151
1130-1143 Innocenzo II ivi
Pittura che S. Bernardo fa dei Romani 152
1159 Eresia politica di Arnaldo da Brescia 153
1144-1154 Esorta i Romani a far rinascere la repubblica 157
1155 Arso vivo 159
1144 Restaurazione del Senato 160
Campidoglio 163
Zecca 164
Prefetto della città 166
Numero de' Membri del Senato, e forma della loro elezione 167
Ufizio del Senatore 169
1252-1258 Brancaleone 171
1263-1278 Carlo d'Angiò 173
1281 Papa Martino IV 174
1328 L'Imperatore Luigi di Baviera 175
I Romani si volgono agl'Imperatori 175
1144 Corrado III 175
1156 Federico I 177
Guerre de' Romani contro le città confinanti 181
1167 Battaglia di Tuscolo 184
1234 Di Viterbo 185
Elezione de' Papi 185
1179 Diritto de' Cardinali fondato da Alessandro III 187
1274 Conclave instituito da Gregorio X 188
Lontananza de' Papi da Roma 192
1294-1303 Bonifazio VIII 193
1309 Traslazione della Santa Sede ad Avignone 195
1300 Instituzione del Giubbileo e dell'Anno Santo 198
1350 Secondo Giubbileo 202
Nobili o Baroni di Roma 203
Famiglia di Leone l'Ebreo 205
I Colonna 207
Gli Orsini 211
Contese ereditarie di queste famiglie 212
CAPITOLO LXX. Carattere del Petrarca e sua coronazione. Libertà e antico governo di Roma, risorto per opera del tribuno Rienzi. Virtù e vizj, espulsione e morte di questo tribuno. Partenza dei Papi d'Avignone e loro ritorno a Roma. Grande scisma d'Occidente. Riunione della Chiesa latina. Ultimi sforzi della libertà romana. Statuti di Roma. Istituzione definitiva dello Stato ecclesiastico.
1304-1374 Il Petrarca 214
1341 Coronato del lauro poetico a Roma 219
Nascita, carattere e divisamenti patriottici del Rienzi 222
1347 Si arroga il governo di Roma 227
Assume il titolo e gli ufizj di tribuno 229
Leggi del Buono Stato 229
Libertà e prosperità della repubblica di Roma 232
Il Tribuno rispettato in Italia 235
Celebrato dal Petrarca 237
Disonoratosi per vizj e follie 238
Ricevuto cavaliere 240
Coronato 243
Incute spavento ai Nobili di Roma che lo detestano 244
Questi s'armano contro il Rienzi 247
Sconfitta e morte di un Colonna 248
Caduta e fuga del tribuno Rienzi 250
1347-1354 Varie sommosse accadute in Roma 252
Nuovi avvenimenti del Rienzi 254
1351 Prigioniere ad Avignone 255
1354 Senatore in Roma 256
Morto nello stesso anno 259
1355 Il Petrarca visita l'Imperatore Carlo IV, indi il rampogna 259
Sollecita i Papi d'Avignone a porre in Roma la loro residenza 260
1367-1370 Ritorno d'Urbano V 263
1377 Gregorio XI rimette definitivamente la sede del Governo appostolico in Roma 263
1378 Morte di Gregorio XI 266
Elezione di Urbano VI 266
Di Clemente VII 267
Grande scisma di Occidente 269
Sciagure di Roma 270
1394-1407 Negoziazioni per la pace e la riunione de' scismatici 271
1409 Concilio di Pisa 274
1414-1418 di Costanza 275
Elezione di Martino V 277
1417 Martino V 277
1431 Eugenio IV 278
1447 Nicolò V 278
1434 Ultima sommossa di Roma 278
1452 Federico III, ultimo degl'Imperatori romani coronato a Roma 280
Statuti e governo di Roma 280
1453 Congiura del Porcaro 283
Ultimi disordini promossi dalla Nobiltà romana 287
I Papi acquistano un assoluto dominio ec. 288
Governo ecclesiastico 293
CAPITOLO LXXI. Descrizione delle rovine di Roma nel secolo decimoquinto. Quattro cagioni di scadimento e distruzione; il Colosseo citato ad esempio. La Città nuova. Conclusione dell'Opera.
Contemplazioni e discorsi del Poggi seduto sul colle del Campidoglio 298
Descrizione delle rovine di Roma 300
Scadimento successivo delle opere romane 302
Derivato da quattro cagioni 304
I. Dai guasti operati dal tempo e dalla natura 304
Turbini e tremuoti 305
Incendj 305
Innondazioni 307
II. Dalle devastazioni di cui e i Barbari e i Cristiani si sono fatti colpevoli 309
III. Dall'uso e dall'abuso de' materiali che i monumenti antichi somministravano 312
IV. Dai litigi domestici degli abitanti di Roma 319
Colosseo o anfiteatro di Tito 324
Giuochi di Roma 326
1332 Combattimento de' tori sull'arena del Colosseo 327
Guasti cui è soggiaciuto il Colosseo 330
Consacrazione del medesimo 332
Ignoranza e barbarie de' Romani 332
1420 Restaurazioni e abbellimenti di Roma 336
Conclusione dell'Opera 339
FINE DELL'INDICE
INDICE GENERALE DELLE MATERIE
CONTENUTE NELLA STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO
DI
EDOARDO GIBBON
Introduzione alla Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano, tom. I, pag. 1.
A
Abano, Saracino; eroismo di sua moglie a lui superstite, t. X, p. 193.
Abassidi, innalzamento di questa famiglia al rango di Califfi dei Saracini, t. X, p. 344.
Abdallah, sua prima invasione nell'Africa, t. X, p. 256. Saccheggia la fiera d'Abyla, t. X, pag. 200. Il Prefetto Gregorio e sua figlia, t. X, p. 258.
Abdalmalek, Califfo de' Saracini. Si rifiuta di corrispondere il tributo all'Imperatore di Costantinopoli, e stabilisce una moneta nazionale, t. X, p. 322.
Abdalbahman, Saracino, stabilisce il suo trono a Cordova in Ispagna, t. X, p. 350. Lusso della sua Corte, t. X, p. 355. Millanteria della sua felicità, t. X, p. 356.
Abdelaziz, Saracino; suo Trattato con Teodemiro Principe Goto di Spagna, t. X, p. 292. Sua morte, t. X, p. 296.
Abderamo. Sua spedizione e sue vittorie, t. X, p. 336. Sua morte, t. X, p. 342.
Abdol-Motaller, avolo del profeta Maometto. Sua storia, t. X, p. 44.
Abgaro. Ultimo re d'Edessa mandato prigioniero a Roma, t. I, p. 309.
Abgaro. Ricerche su l'autenticità della sua corrispondenza con Gesù Cristo, t. IX, p. 259.
Abissinia, invasa da' Portoghesi, t. IX, p. 135. Descrizione de' suoi abitanti, t. VIII, p. 75. Sua storia ecclesiastica, t. IX, p. 134.
Abissinj; loro conquiste, t. VIII, pag. 75. Loro alleanza con Giustiniano, t. VIII, p. 78.
Abissinj o Nubj; settarj, t. IX, p. 132. Loro Chiesa, t. IX, p. 134.
Abila, sua fiera, t. X, p. 200. I Saracini saccheggiano la sua fiera, t. X, p. 202.
Ablavio, Prefetto sotto Costantino il Grande, t. III, p. 358. Congiura contro questo favorito orgoglioso, t. III, p. 359. Vien messo a morte, t. III, p. 461.
Abu-Ayub. Sua storia, t. X, p. 319. Onori resi alla sua memoria dai Maomettani, t. X, p. 320.
Abubeker, Califfo. Suo regno, t. X, p. 128. Invade la Sorìa, t. X, p. 178.
Abu-Caab. Comanda i Mauri dell'Andalusia che soggiogarono l'Isola di Creta, t. X, p. 275.
Abulfeda, racconto ch'egli fa del lusso del Califfo Moctader, t. X, p. 349.
Abulfaraggio. Primate de' Giacobiti dell'Oriente, t. IX, pag. 118. Elogio della sua saggezza e della sua erudizione, t. X, p. 359.
Abbondanzio, generale d'Oriente, padrone dell'eunuco Eutropio reso da questo infelice ed esiliato, tom. VI, p. 280.
Abu-Soffian, principe della Mecca; congiura contro Maometto, t. X, p. 85. Battaglie di Beder e d'Ohud, t. X, p. 95. Assedia Medina senza successo, t. X, p. 97. Cede la Mecca a Maometto e lo riconosce come Profeta, t. X, p. 104.
Abu-Taher. Carmasio. Saccheggia la Mecca, t. X, p. 378.
Acacio, vescovo d'Amida; esempio straordinario di amore episcopale, tom. VI, p. 326.
Acaia. Sua estensione, t. I, p. 35.
Acri e tutta la Terra Santa perduta pei Latini, t. IX, p. 459.
Adautto. Il solo martire di qualche distinzione durante la persecuzione di Diocleziano, t. III, p. 98.
Adolfo, re de' Goti; conclude la pace coll'Impero e marcia nella Gallia, t. VI, pag. 192. Suo matrimonio colla principessa Placidia, t. V, p. 195. Suoi tesori, t. VI, p. 197. Marcia nella Spagna, t. VI, p. 214. Sua morte, t. VI, p. 215.
Adriano. Sua adozione all'Impero e suo carattere, t. I, p. 113.
Adriano II, restituisce le conquiste fatte da Traiano in Oriente, t. I, p. 10. Paralello di questo Imperatore ed Antonino Pio, t. I, p. 11. Suo sistema pacifico, t. I, p. 12. Sua moderazione e sua instancabile attività, t. I, pag. 11. Fu principe eccellente, soffista ridicolo e tiranno geloso della sua autorità, t. I, p. 113. Non ascolta che il suo capriccio nella scelta del suo successore, t. I, p. 114.
Adriano I, Papa. Sua alleanza con Carlomagno a danno dei Lombardi, t. IX, pag. 296. Riceve Carlomagno a Roma, t. IX, p. 302. Sostiene la falsa donazione di Costantino il Grande, tom. IX, p. 307.
Africa. Descrizione di questa parte del Mondo, t. I, p. 38. Guerra d'Africa a' tempi di Diocleziano, t. II, p. 125. Tirannia dei Romani, t. V, p. 79. Rivoluzione di Firmo, t. V, p. 81. L'Africa viene sottomessa da Teodosio, t. V, 82. Suo stato, t. V, pag. 86. Desolata dai Vandali, t. VI, p. 347. Assedio d'Ippona, t. VI, p. 349. Progresso de' Vandali in Africa, t. VI, pag. 354. Sorprendono Cartagine, t. VI, p. 356. Esuli e schiavi Africani, t. VI, p. 357. Favola de' sette dormienti, t. VI, pag. 359. Invasa da Giustiniano, t. VII, p. 319. Stato de' Vandali in questo paese, t. VII, p. 360. Contese intorno alle guerre dell'Africa, tom. VII, p. 369. Presa di Cartagine, t. VII, p. 381. Conquista dell'Africa fatta da Belisario, t. VII, pag. 389. Turbolenze dopo partito Belisario, tom. VIII, p. 81. Rivoluzione dei Mori, t. VIII, pag. 85. Prima invasione fatta da Abdallah, tom. X, p. 256. Assedio di Tripoli, t. X, pag. 259. Il Prefetto Gregorio e sua figlia; t. X, pag. 258. Vittoria degli Arabi, t. X, p. 259. Progressi de' Saracini in Africa, t. X, p. 269. Fondazione di Cairoan, tom. X., p. 268. Conquista di Cartagine, t. X, p. 269. I Musulmani compiono il conquisto dell'Africa, tom. X, p. 272. Adozione de' Mori, t. X, p. 275. Annientamento de' Magi della Persia, t. X, p. 303. Decadenza e caduta del cristianesimo in Africa, t. X, p. 308.
Aglabiti, t. X, p. 397.
Agostino (Sant'). Sua morte, t. VI, p. 350.
Agricola. Suo piano di conquistare l'Irlanda, t. I, p. 6.
Agricoltura. Sua perfezione in Occidente, t. I, p. 79. Introduzione de' fiori e delle frutta, t. I, p. 80. Coltivazione dell'ulivo, t. I, p. 81. Prati artificiali, t. I, p. ivi. Abbondanza generale, t. I, p. 82.
Ajace. Come è distinto il suo sepolcro, t. III, p. 243.
Aiznadin. Battaglia quivi seguìta, t. X, p. 188.
Alani. Invadono l'Asia e sono respinti da Tacito, t. II, p. 65. Soggiogati dagli Unni, t. V, p. 202. Loro alleanza cogli Unni e coi Goti, t. V, pag. 228. Loro discordie, t. V, p. 258.
Alarico, re de' Goti. Disfatto da Costantino, t. III, p. 353. Marcia nella Grecia, t. VI, p. 45. Egli è assaltato da Stilicone, t. VI, p. 50. Si rifugia colla sua armata nell'Epiro, t. VI, p. 187. È dichiarato generale dell'Illirico Orientale, t. VI, pag. 53. E re dei Visigoti, t. VI, p. 56. Invade l'Italia, t. VI, p. ivi. Battaglia di Pollenzia, tom. VI, p. 65. Suo ardire e ritirata, t. VI, pag. 67. Sua negoziazione con Stilicone t. VI, p. 98. Loro corrispondenza t. VI, pag. 100. Debolezza della Corte di Ravenna tom. VI, p. 114. Alarico marcia verso Roma t. VI, p. 116. Accetta un riscatto, e leva l'assedio di Roma t. VI, p. 157. Negoziazioni inutili t. VI, p. 160. Secondo assedio di Roma, t. VI, p. 166. Depone Attalo creato imperatore dai Goti e dai Romani t. VI, p. 171. Terzo assedio e saccheggio di Roma tom. VI, p. 173. Abbandona Roma e devasta l'Italia t. VI, p. 187. Sua morte t. VI, p. 191.
Alarico II, re de' Goti, combatte contro Clodoveo re dei Franchi e rimane ucciso per sua mano t. VII, p. 101.
Alberico. Sua ribellione, t. IX, p. 353.
Albigesi, loro persecuzione, t. XI, p. 38.
Albino (Clodio) governatore della Gran Brettagna si dichiara contro l'usurpatore Giuliano. Suo carattere e sue pretensioni t. I, p. 164. Artifizj e successi di Severo suo competitore; sua disfatta e morte t. I, p. 180.
Alboino, re de' Lombardi. Suo valore, amore, e vendetta t. VIII, p. 283. Intraprende la conquista dell'Italia t. VIII, p. 288. Viene ucciso da Rosmunda sua moglie t. VIII, p. 295.
Alessandro Severo. Elagabalo imperatore lo dichiara Cesare t. I, p. 221. Suo innalzamento al trono t. I, p. 222. Potere della sua madre Mammea t. I, p. 223. Saviezza e moderazione del suo governo t. I, p. 225. Sua educazione e virtuoso carattere t. I, p. 226. Giornale della sua vita ordinaria t. I, p. ivi. Felicità generale de' Romani t. I, p. 228. Alessandro ricusa il nome di Antonino t. I, p. ivi. Sedizione dei Pretoriani, e uccisione di Volpiano t. I, p. 230. Tumulti delle legioni t. I, p. 232. Fermezza dell'Imperatore t. I, p. ivi.
Alessandro Severo. Difetti del suo regno e del suo carattere t. I, p. 234. Digressione sulle finanze dell'Impero t. I, p. 235. Imposizione del tributo sopra i cittadini Romani, t. I, p. 236. Il tributo abolito t. I, p. 237. Tributi delle province t. I, p. ivi. Dell'Asia t. I, p. 238. Dell'Egitto tom. I, p. ivi. Della Gallia t. I, p. ivi. Dell'Africa t. I, p. ivi. Della Spagna t. I, p. 239. Dell'isola di Giera, t. I, p. ivi. Somma delle entrate, t. I, p. 240. Sua supposta vittoria contro Artaserse, t. I, p. 310. Dimostra del rispetto per la Religione Cristiana, t. III, p. 69. Sua morte, t. I, p. 255.
Alessandria. Descrizione di questa città, t. I, p. 417. Suoi tumulti, t. I, p. ivi. Sua distruzione, t. I, p. 418. Storia di S. Atanasio d'Alessandria, t. IV, p. 149. Del suo successore Giorgio di Cappadocia, t. IV, p. 295. Sedizione, e devastazione dei Templi, massacro di Giorgio, t. IV, p. 297. Ristabilimento di S. Atanasio, t. IV, p. 301. Distruzione del Tempio di Serapi, t. V, p. 374. Storia di S. Carillo Patriarca, t. IX, p. 28. Sua Biblioteca, t. I, p. 245.
Alessio, Imperatore, suo esercito e azioni campali, t. XI, pag. 161. Battaglia di Durazzo, t. XI, p. 168. Presa di Durazzo, t. XI, p. 168. Sua politica coi Crociati, t. XI, p. 318. Rispettato ed onorato dai Crociati, t. XI, p. 321. Buoni successi riportati nelle Crociate, t. XI, p. 381. Sue spedizioni per terra, t. XI, p. 385.
Alessio II, degradato dal rango supremo, t. IX, p. 220. Sua morte, t. IX, p. 230.
Aleppo, conquistata dagli Arabi, t. X, p. 216.
Alemagna. Indipendenza dei suoi Principi, t. IX, p. 363. Costituzione germanica, tom. IX, p. 366.
Alemanni. Loro origine, t. I, p. 384. Invadono la Gallia e l'Italia, t. I, p. 385. Sono respinti innanzi a Roma dal Senato e dal popolo, t. I, p. 385. Loro negoziazione coll'Imperatore Galliano, t. I, p. ivi. Violano il trattato di pace, t. II, pag. 23. Invadono nuovamente l'Italia, t. II, p. 26. Vinti da Aureliano, t. II, p. 24. Invadono nuovamente la Gallia, t. V, p. 56. Loro ritirata, t. V, p. 58. Odio ereditario fra loro e i Borgognoni, t. V, pag. 63. Disfatti e sottomessi da Clodoveo, t. VII, p. 81. Invadono per la terza volta l'Italia, t. VIII, pag. 128. Sono disfatti da Narsete, tom. VIII, pag. 130. Divengono vassalli e confederati de' Franchi, tom. IX, p. 335.
Alì, compagno di Maometto, t. X, p. 124. Suo carattere, t. X, p. 127. Suo regno, t. X, p. 134. Sue pretese al trono d'Arabia, t. X, p. 127. Sua ritirata, t. X, p. 130. Sua morte, t. X, p. 134. Sua posterità, t. X, p. 143.
Alp-Arslan, suo regno, t. XI, p. 229. Conquista dell'Armenia e della Georgia, t. XI, p. ivi. Sua morte, t. XI, p. 240.
Amalasunta, regina d'Italia. Suo governo, t. VII, p. 409. Suo esilio e morte, t. VII, p. 413.
Amadoniti, t. X, p. 400.
Amalfi, commercio di questa città, t. XI, p. 149.
Ambrogio (Sant') Vescovo di Milano, t. V, p. 307. Successo della sua opposizione contro l'Imperatrice Giustina, t. V, p. 309. Sua autorità e condotta, tom. V, p. 336. Impone una pubblica penitenza all'Imperatore Teodosio pel suo massacro di Tessalonica, t. V, p. 337. Resiste alle istanze ed ai prosperi successi dell'usurpatore Eugenio, t. V, p. 353. S'oppone all'erezione degli altari della Vittoria, t. V, p. 366.
Ammiano-Marcellino. Carattere ch'egli fa della nobiltà Romana, t. VI, p. 130.
Amorio. Guerra quivi seguìta tra Teofilo e Motassem, t. X, p. 384.
Amrou, suo carattere e vita, t. X, p. 230.
Amurat I, Sultano de' Turchi, t. XII, p. 328. Suo regno e sue conquiste in Europa, t. XII, p. ivi.
Amurat II, suo regno, t. XII, pag. 4000. Suo carattere, t. XIII, p. 15. Abdica due volte il trono, tom. XIII, p. 17. Sua morte, t. XIII, p. 19.
Anacoreti. Vivono in ritiro, e seguendo l'impulso della loro fantasia, tom. VII, p. 32.
Anastasio, imperatore d'Oriente. Suo regno, t. VII, p. 206. Sua guerra coi Persiani, t. VII, p. 304. Popola ed abbelisce la città di Dara, t. VII, pag. 344.
Anastasio II, imperatore dei Romani. Suo regno, t. IX, p. 163.
Anatolia, divisa fra gli Emiri Turchi, t. XII, p. 319.
Andragazio, generale di cavalleria di Massimo, t. V, p. 279.
Andronico il Vecchio, imperatore Greco, t. IX, p. 216. Chiama i Catalani, t. XII, p. 221. Superstizione sua e del suo secolo, tom. XII, p. 233. Si associa agli onori della porpora il suo figlio Michele, t. XII, p. 241. Rassegna l'Impero, t. XII, p. 343. Sua morte, t. XII, p. 245.
Andronico, (Michele), suo successore, t. XII, p. 245. Due mogli avute dal medesimo, t. XII, 246. Sua morte, t. XII, p. 248.
Andronico (figlio di Michele). Fugge dalla Capitale e leva un'armata, t. XII, p. 241. Sua incoronazione, t. XII, p. ivi. Suo regno, t. XII, p. 246. Sua malattia, t. XII, p. 251. Sua ambasceria a Papa Benedetto XII, t. XII, p. 416.
Anicia, (famiglia). Superava tutte le altre in pietà ed in ricchezza, t. VI, pag. 122. La prima famiglia senatoria che abbraccia il Cristianesimo, t. VI, pag. 124. I marmi del palazzo di questa famiglia passati in proverbio per dinotare la sua ricchezza e magnificenza, t. VI, p. 125.
Anima. Dottrina della sua immortalità, t. II, pag. 272. Opinioni che ne avevano i Filosofi, t. II, p. 273.
Annibale alle porte di Roma, t. VI, p. 119.
Annibaliano, nipote di Costantino, ottiene il titolo di Cesare, t. III, pag. 344. Esercitato nelle fatiche della guerra, t. III, p. 345. Governa le province del Ponto, della Cappadocia e della picciola Armenia, tom. III, p. 346. Massacrato per ordine di Costanzo, tom. III, p. 360.
Anno Santo. Sua instituzione, t. XIII, pag. 198.
Antemio, prefetto d'Oriente; usurpa la suprema autorità dopo la morte d'Arcadio, t. VI, p. 513. Suoi talenti, sua fermezza e fedeltà nella sua amministrazione durante la minorità di suo figlio Teodosio, t. VI, p. 313.
Antemio, genero di Marciano; suo innalzamento, e sue vittorie: creato Imperatore d'Occidente, t. VI, p. 512. Discordie fra lui e Ricimero, t. VI, p. 531. Sacco di Roma e morte di Antemio, t. VI, p. 535.
Antiochia. Progressi del Cristianesimo nella Chiesa di Antiochia, t. II, p. 334. Storia e processo pubblico del suo vescovo Paolo Samosateno, t. III, pag. 74. Tempio e sacro bosco di Dafne, t. IV, p. 288. Disprezzo e profanazioni del bosco di Dafne: tom. IV, p. 291. Tempio di Dafne abbruciato, t. IV, p. 292. Cattedra Episcopale d'Antiochia, t. IV, p. 293. Licenziosi costumi del popolo d'Antiochia, t. IV, p. 314. Loro avversione a Giuliano, t. IV, p. 316. Carestia di grano e pubblico disgusto, t. IV, p. ivi. Satira di Giuliano contro questa città, t. IV, 319. Libanio sofista, t. IV, p. 320. Severa inquisizione contro il delitto di Magia in Antiochia, t. V, pag. 29. Sedizione di questa città per alcuni editti, t. V, p. 328. Degradata dal suo rango, perde il nome ed i diritti di città, t. V, p. 329. Terribile castigo contro i suoi abitanti, t. V, p. 330. Perdono ed assoluzione generale accordata da Teodosio, t. V, pag. 332. Rovine di questa città; è rifabbricata da Giustiniano sotto il nome di Teopoli, tom. VIII, p. 47. Assediata dai Saracini, e ripresa dai Greci, t. X, p. 408. Assediata dai Crociati, t. IX, p. 340.
Antonio (sant'), nato nella Bassa Tebaide, fissa la sua ultima dimora sul monte Colzimo, vicino al mar Rosso, t. VII, p. 8.
Antonina, moglie di Belisario. Sua storia segreta, t. VII, pag. 465. Teodosio di lei amante, t. VII, pag. 466. Risentimento di Belisario e di Fozio suo figlio, t. VII, p. 469. Perseguita suo figlio, t. VII, p. 470. Fonda un monastero dopo la morte di Belisario, t. VIII, p. 143.
Antonini, loro adozione all'Impero romano, tom. I, p. 115. Loro sistema pacifico, t. I, p. 12.
Antonino, più conosciuto sotto il nome di Eliogabalo.
Antonino Pio: suo carattere e regno, t. I, p. 116. Suoi contrasti con Adriano suo predecessore, t. I, p. 12. Fa rispettare il nome romano, t. I, p. 12. Adotta Vero per suo successore, t. I, p. 115.
Apollinare, Patriarca d'Alessandria; suo pontificato, t. IX, p. 127.
Apostoli, loro tombe e reliquie t. VIII, p. 328.
Aquitania. Vi si stabiliscono i Goti, t. VI, p. 218. Conquistata dai Franchi, t. VII, p. 102.
Aquileja. Suo assedio, t. I, p. 273. Crispino e Monofilo dirigono il valore dei suoi abitanti, t. I, p. 274. Le teste di Massimino e di suo figlio, portate su picche, annunziano agli abitanti di Aquileja essere finito il suo assedio, t. I, p. 276. La morte di Massimino giunta in quattro giorni da Aquileja a Roma, t. I, p. 277. Una delle città più magnifiche de' Veneziani, t. VI, p. 448.
Arabi. Costumi de' Bedovini, o pastori Arabi, tom. X, pag. 10. Loro commercio, t. X, p. 16. Loro independenza nazionale, tom. X, p. 17. Loro libertà e loro carattere domestico, t. X, p. 22. Loro guerre civili e loro particolari vendette, t. X, p. 25. Loro tregua annuale, t. X, p. 28. Loro qualità e virtù sociali, t. X, p. 28. Loro amor per la poesia, t. X, p. 30. Esempi di generosità, tom. X, p. 31. Loro antica idolatria, t. X, p. 33. Loro sagrifizi e cerimonie religiose, t. X, p. 37. Loro unione, t. X, pag. 152. Carattere, de' loro Califfi, tom. X, pag. 155. Loro conquiste, t. X, p. 158. Invadono la Persia, t. X, p. 162. La conquistano, t. X, p. 171. Invadono la Sorìa, t. X, p. 178. Assedio di Bosra, t. X, p. 182. Assedio di Damasco, t. X, pag. 185. Damasco è presa d'assalto, t. X, p. 194. Conquista di Gerusalemme, t. X, p. 211. Conquista d'Aleppo e d'Antiochia, t. X, p. 216. Invadono l'Africa, tom. X, p. 256. Conquistano Cartagine, t. X, p. 269. Primi loro disegni sulla Spagna, t. X, p. 276. Prima loro discesa in Ispagna, t. X, p. 280. Seconda, tom. X, p. 282. Loro vittoria, t. X, pag. 283. Conquista della Spagna fatta da Musa, t. X, pag. 289. Prosperità degli Spagnuoli sotto gli Arabi, t. X, p. 297. Limiti delle conquiste degli Arabi, t. X, pag. 316. Primo assedio di Costantinopoli fatto dagli Arabi, tom. X, pag. 317. Pace e Tributo, tom. X, p. 320. Secondo assedio di Costantinopoli, t. X, p. 323. Invadono la Francia, t. X, p. 334. Spedizione e vittoria d'Abderamo, tom. X, pag. 336. Loro disfatta per opera di Carlo Martello, t. X, p. 340. Introduzione della letteratura fra gli Arabi, t. X, p. 358. Loro veri progressi nelle scienze, t. X, p. 361. Mancanza di gusto, di erudizione, e di libertà, t. X, p. 367. Soggiogano l'Isola di Creta, t. X, p. 374. Soggiogano l'Isola di Sicilia, tom. X. p. 376.
Arabia. Descrizione di questa parte, t. X, p. 6. Terreno e clima, t. X, p. 7. Tre Arabie: Arabia deserta, Arabia Petrea, e Arabia Felice, t. X, p. 10. Il cavallo, t. X, p. 12. Il cammello, t. X, p. 13. Città dell'Arabia, t. X, p. 14. La Mecca, t. X, p. 15. Suo commercio, t. X, pag. 16. Il Caaba o Tempio della Mecca, t. X, p. 34. Introduzione dei Sabei, t. X, pag. 39. Dei Magi degli Ebrei, e de' Cristiani, t. X, pag. 41. Liberazione della Mecca, t. X, p. 45. L'Arabia conquistata da Maometto, t. X, p. 105. Bene e male fatto da Maometto, in questo paese, tom. X, p. 150. Carattere de' suoi Califfi, t. X, p. 155. Esaltamento degli Abbassidi, t. X, p. 344. Caduta degli Ommiadi, t. X, pag. 349. Sedizione generale delle sue province, t. X, p. 395.
Arbezio. Veterano rispettabile del Gran Costantino meritò gli onori del Consolato, t. V, p. 28.
Arcadio, figlio di Teodosio, Imperatore d'Oriente, t. VI, p. 5. Suo matrimonio con Eudossia, t. V, p. 16. Suo Regno, t. VI, pag. 272. Amministrazione e carattere d'Eutropio, suo favorito, t. VI, p. 275. Ribellione di Tribigildo, t. VI, p. 285. Cospirazione e caduta di Gaina, tom. VI, p. 292. Morte d'Arcadio, t. VI, p. 310. Suo testamento supposto, t. VI, p. 312.
Ardarico, Re dei Gepidi, saggio e fedel consigliere di Attila, t. VI, 373.
Arianismo. Sua origine, suoi progressi, e lamenti religiosi da lui suscitati, tom. IV, pag. 97. Formole di fede Ariana, t. IV, pag. 104. Condotta degli Imperatori in punto di controversia ariana, t. IV, p. 112. Gli Ariani sono perseguitati da Costantino, t. IV, p. 114. Morte di Ario loro Capo, t. IV, p. 115. Costanzo li favorisce, t. IV, p. 117. Concilj Ariani, tom. IV, pag. 119. Vescovi Ariani, tom. IV, pag. 154. Crudeltà degli Ariani, tom. IV, pag. 162. Arianesimo di Costantinopoli, tom. V, p. 286. Sue rovine in quella città, t. V, pag. 292. In Oriente, t. V, p. 294. Conversione de' Barbari all'arianesimo, t. VII, p. 44. Sua rovina fra i medesimi, t. VII, p. 63.
Arinteo. Generale per la forza, pel valore, e per la bellezza superiore a tutti gli Eroi del suo tempo, t. V, p. 28.
Ario. I suoi nemici anche i più accaniti fanno giustizia alla sua erudizione, ed alla purezza de' suoi costumi, t. IV, p. 95. I vescovi d'Asia in maggior parte sembravano favorire le sue opinioni, t. IV, p. 96.
Arles. Centro del governo e del commercio dei Galli, t. VI, p. 229. Assediata dai Visigoti, t. VI, p. 417.
Armata romana (vedi Legioni).
Armenia. Conquistata dai Persiani, t. I, p. 400. Tiridate loro la toglie, e ne ottiene il trono, t. II, p. 130. Rivoluzione del popolo e dei Nobili, tom. II, pag. 131. I Persiani nuovamente occupano l'Armenia, tom. II, p. 139. Morte di Tiridate e stato di questo Regno, t. III, p. 365. Suo stato a' tempi di Costantino, t. III, p. 364. Sapore se ne impadronisce, e diventa una provincia Persiana, t. V, p. 89. Morte del re Tirano, e cattività d'Olimpia vedova del medesimo, t. V, p. 90. Dopo la morte di Sapore, Para rianima le speranze degli Armeni. Avventure di questo Principe, t. V, p. 93. Divisione di questo regno tra i Romani ed i Persiani, t. VI, p. 327. L'Armenia conquistata dai Turchi, t. XI, p. 228.
Armenj, Settarj, t. IX, p. 122.
Armorica (Provincia). Comprendevansi sotto questo nome le contrade marittime della Gallia tra la Senna e la Loira, tom. VI, p. 223. Rivolta di questo paese, t. VI, p. ivi.
Armorici, sottomissione loro e delle truppe romane, t. VII, p. 88.
Arnaldo da Brescia, sua eresia politica, t. XIII, p. 153. Esorta i Romani a far rinascere la Repubblica, t. XIII, p. 157. Arso vivo, t. XIII, p. 159.
Arriano, suoi viaggi, t. VIII, p. 62.
Arsenio, governatore d'Arcadia. Fugge dal palazzo di Costantinopoli e si ritira in un monastero d'Egitto, tom. VI, p. 16.
Arsenio, Patriarca, scomunica l'Imperatore Michele Paleologo, t. XII, p. 190.
Arseniani, loro sistema, t. XII, p. 200.
Artaserse, ristabilisce la monarchia de' Persiani, t. I, pag. 292. Vi stabilisce una amministrazione ferma e vigorosa, t. I, p. ivi. Trova dei nemici formidabili nei Romani, t. I, p. 296. Sua ambizione, tom. I, p. 305. Pretende dai Romani le province dell'Asia, e loro dichiara la guerra, tom. I, p. 309. Relazione più probabile della guerra, t. I, p. 312. Carattere e massime di Artaserse, tom. I, p. 313.
Arturo, re di Brettagna. Sua fama, suoi tesori, sua tavola rotonda, t. VII, p. 155.
Arti di lusso, tom. I, p. 82. Loro decadenza sotto Diocleziano, t. II, p. 168.
Arvando, prefetto della Gallia. Suo processo, t. VI, p. 521.
Asia. Conquiste di Trajano in questo paese, t. I, p. 9. Restituite da Adriano, t. I, pag. 10. Numero delle sue Città, tom. I, p. 75. Sue rendite, t. I, p. 291. Sue rivoluzioni, t. I, pag. ivi. Invasa dagli Alani, t. II, p. 65. Sua sicurezza dopo la conquista dell'Isauria, t. VII, p. 335. Origine ed impero de' Turchi, t. VIII, p. 20.
Asia Minore. Sue divisioni, t. I, p. 36. Come governata, t. I, p. 37. Conquistata da Cosroe, t. VIII, pag. 390. Indi dai Turchi, t. XI, p. 249.
Assalona. Giornata campale quivi seguìta a' tempi dei Crociati, t. XI, p. 365.
Assemblee delle sette province della Gallia, tom. VI, p. 229.
Assemblee Legislative, loro privilegio a' tempi di Costantino, t. IV, p. 70.
Assiria. Descrizione di questo paese, t. IV, p. 335. Invasa da Giuliano, tom. IV, p. 338. Assedio di Perisabor, t. IV, p. ivi. Di Maogamalca, t. IV, p. 340.
Attalo, Prefetto di Roma, eletto imperatore dai Goti e dai Romani, t. VI, p. 168. Vien deposto da Alarico, t. VI, pag. 171. Ristabilito e degradato un'altra volta, t. VI, pag. 208. Esiliato a Lipari, t. VI, p. 211.
Attanarico, luogotenente di Ermanrico. S'acquista gloria, e calamità in una guerra difensiva contro i luogotenenti dell'Imperatore, t. V, p. 102. Sua morte e funerali, t. V, p. 260.
Atanasio (Sant') d'Alessandria. Sua indole ed avventure, t. IV, p. 123. Persecuzioni contro di lui, t. IV, p. 127. Sua Lega coi Meleziani, t. IV, p. ivi. Primo esilio, t. IV, p. 130. Ristabilito nella sua sede, t. IV, pag. 131. Secondo esilio, t. IV, pag. ivi. Richiamato di nuovo, t. IV, pag. 134. Sua condanna, t. IV, p. 141. Esiliato di nuovo, tom. IV, p. 143. Sua espulsione da Alessandria, t. IV, p. 144. Contegno da lui tenuto, t. IV, p. 148. Suo ritiro, t. IV, p. 149. Cattedra Episcopale a lui restituita, t. IV, p. 300. Perseguitato, indi è scacciato da Giuliano, t. IV, p. 302. Sua morte, t. V, p. 45. Giusta idea della sua persecuzione, t. V, p. 46.
Atabek della Sorìa, t. XI, p. 405.
Atene. Sue scuole, t. VII, p. 347. Soppresse da Giustiniano, t. VII, p. 352. Proclo, e i suoi successori, t. VII, pag. 353. Ultimi filosofi, t. VII, p. 355. Diviso il greco Impero fra i Francesi e i Veneziani, toccò il principato d'Atene a Ottone De la Roche, t. XII, p. 226. Gauttiero di Brienne succede nel ducato d'Atene, tom. XII, pag. 229. Tagliato a pezzi colla sua cavalleria dai Catalani chiamati la Gran Compagnia, t. XII, pag. 229. Questi si dividono l'Attica e la Beozia, t. XII, p. ivi. Situazione presente degli Ateniesi, t. XII, p. ivi. Mutamenti politici avvenuti in Atene, t. XII, p. 226.
Attila, re degli Unni, sua figura, suo carattere, t. VI, p. 368. Acquista l'impero della Scizia e della Germania, t. VI, p. 371. S'impadronisce della Persia, t. VI, pag. 373. Muove la guerra all'imperio d'Oriente, t. VI, p. 374. Trattato di pace tra lui e l'Imperatore Orientale, tom. VI, pag. 376. Sue scorrerie in Europa sino a Costantinopoli, tom. VI, p. 377. Ambasciate da lui spedite a Costantinopoli, t. VI, p. 390. Ambasciata da lui avuta da Massimino, t. VI, p. 393. Suo contegno cogli ambasciatori Romani, tom. VI, p. 400. Riprende l'Imperatore Teodosio, che lo voleva far assassinare, e gli perdona, t. VI, p. 406. Conviti reali, t. V, p. 403. Cospirazione de' Romani contro la vita d'Attila, t. VI, p. 404. Minaccia ambidue gl'Imperi, e si prepara ad invadere la Gallia, t. VI, p. 410. Invade la Gallia, ed assedia Orleans, tom. VI, p. 428. Si ritira nelle pianure della Sciampagna, t. VI, pag. 434. Alleanza dei Romani e de' Goti contro di lui, t. VI, p. 435. Battaglia di Chalon, t. V, pag. 438. Ritirata d'Attila, t. IV, p. 440. Perde la battaglia di Chalon, t. VI, p. 441. Invade l'Italia, t. VI, p. 443. Fa la pace coi Romani, t. VI, pag. 450. Morte di Attila, t. VI, p. 454. Distruzione del suo Impero, tom. VI, p. 456.
Augusto, sua moderazione, t. I, p. 2. Imitato da' suoi successori, t. I, pag. 4. La conquista della Brittania fu la prima eccezione, t. I, p. 5. Seconda eccezione, la conquista della Dacia, t. I, p. 7. Adriano e i due Antonini abbracciano il sistema pacifico di Augusto, t. I, p. 12. Stabilimenti militari delle due flotte nei porti di Misene e di Ravenna, t. I, p. 13. Numero e disposizione delle legioni, t. I, p. 25. Distribuisce l'Italia in undici regioni, e vi comprende l'Istria, t. I, pag. 73. Situazione di Augusto, t. I, p. 89. Riforma del Senato, t. I, p. 90. Augusto depone l'usurpato potere, t. I, p. 91. È forzato a riassumerlo col titolo di Imperatore, ossia Generale, t. I, pag. 92. Luogotenenti dell'Imperatore, t. I, p. 95. Divisione delle province tra l'Imperatore ed il Senato, t. I, p. 96. Il primo conserva il comando militare e le sue guardie in Roma medesima, t. I, p. ivi. Idea generale del sistema imperiale, t. I, p. 102. I titoli di Augusto e di Cesare, t. I, pag. 105. Carattere e politica di Augusto, t. I, p. 106. Ripeteva con orgoglio: ho trovato la mia Capitale con semplici mattoni, e la tramando a' miei successori fabbricata in marmo, t. I, p. 66. Dopo la vittoria di Azio, giubilando il popolo Romano in segreto per la caduta dell'aristocrazia, Augusto lo seduce colle sue liberalità, t. I, p. 90. Dal suo zelo di riformare il Senato, fa conoscere ch'egli aspira ad essere padre della patria, t. I, p. 91. Pronuncia uno studiato discorso, ove vedesi l'ambizione sotto il velo del patriottismo, t. I, p. ivi. Si rifiutano i Senatori d'accettare la sommissione d'Augusto, t. I, p. 93. Tal giuoco d'Augusto è più volte da lui rinnovato, t. I, p. 94. Confida la sua autorità a dei luogotenenti, t. I, p. 99. Appaga con un facile sagrificio la vanità de' Senatori, t. I, p. 100. Anche in tempo di pace e nel centro della Capitale tiene presso di sè una guardia numerosa, tom. I, pag. 107. Il Senato gli accorda a vita il Consolato e la podestà tribunizia, t. I, pag. 108. Si fa aggiungere colla sua politica le dignità di Sommo Pontefice e di Censore, t. I, p. 109. Conserva la forma dell'antica amministrazione, t. I, p. 100. Chiedea umilmente per lui i suffragi del popolo, t. I, p. ivi. Il governo imperiale, da lui istituito, era una monarchia assoluta, rivestita di tutti i caratteri di una repubblica, t. I, p. 111. La sua Casa, sebbene numerosa e brillante, non era composta che di schiavi e di liberti, t. I, p. 113. Sapeva Augusto che i popoli si lasciano governare con vani titoli, t. I, p. 107. Ristabilisce la disciplina nelle armate, t. I, p. 108. Destina Tiberio a suo successore, t. I, p. 110. Tasse da lui imposte sui cittadini Romani, t. I, p. 240. Gabelle, t. I, pag. 241. Imposizioni sulle vendite, t. I, p. 242. Tasse sui Legati e sulle eredità, t. I, p. 243.
Augusto, figlio del patrizio Oreste, ultimo imperatore di Occidente, t. VI, p. 541. Implora la clemenza di Odoacre, tom. VI, p. 452. Viene rilegato nella villa di Lucullo, t. VI, pag. 546. Decadenza dello spirito romano, t. VI, p. 549.
Aureliano, generale di Claudio, è da lui destinato a suo successore, t. II, pag. 16. Sua origine e servigi da lui prestati, t. II, p. 18. Regno fortunato di Aureliano e severità della disciplina da esso mantenuta negli eserciti, t. II, pag. 19. Trattato da lui conchiuso coi Goti, t. II, p. 21. Cede ai medesimi la Dacia, t. II, p. 22. Fa la guerra agli Alemanni, e gli sommette, tom. II, p. 24. Acquista all'impero la Gallia, la Spagna, la Brittania, l'Egitto, la Sorìa e l'Asia Minore, t. II, p. 30. Vince i Palmireni nelle battaglie d'Antiochia e d'Emesa, t. II, p. 37. Altre operazioni di Aureliano, tom. II, p. 38. Stato di Palmira, tom. II, pag. 39. Assedio di questa città operato da Aureliano, t. II, p. 41. Resa della medesima, e cattività di Zenobia, t. II, p. 42. Distruzione di Palmira, tom. II, p. 43. Ribellione mossa in Egitto da Fermo, e repressa da Aureliano, t. II, p. 44. Trionfo di Aureliano, t. II, p. 45. Sua clemenza verso Tetrico e verso Zenobia, t. II, p. 47. Fastosa pietà dello stesso principe, t. II, p. 49. Ribellione da lui sedata in Roma, t. II, pag. 50. Corregge l'alterazione delle monete; osservazioni a tale proposito, t. II, p. 51. Atti crudeli esercitati da Aureliano, t. II, p. 53. Spedizione da esso impresa nell'Oriente, t. II., pag. 54. Sua morte dovuta ad un tradimento, t. II, pag. 55. Contesa straordinaria fra l'esercito ed il Senato per la scelta del suo successore, t. II, p. 57. Sentenza stata decretata da Aureliano contro il vescovo d'Antiochia, t. III, p. 75. Come Aureliano si prendesse cura di far eseguire tale sentenza, t. III, p. 76.
Aureolo invade l'Italia; è disfatto ed assediato in Milano, t. II, p. 6. Morte di Aureolo, t. II, p. 10.
Autari, re dei Lombardi, tom. VIII, p. 310.
Autuno. Assedio sostenuto da questa Città contro le legioni dei Galli, t. II, p. 203. È presa d'assalto e saccheggiata, t. II, p. 205.
Aversa. Fondazione di questa Città, t. XI, p. 124.
Avignone. Traslazione della Santa Sede in questa Città, t. XIII, p. 195.
Avito, Imperatore, t. VI, pag. 475. Suo genio per la guerra e per la negoziazione, t. VI, pag. 476. Vien deposto dal grado Imperatorio, t. VI, pag. 484. Sua morte, t. VI, p. 486.
Avari. Gli Avari fuggono innanzi ai Turchi, e si avvicinano all'impero d'Oriente, t. VIII, p. 25. Loro ambasciata a Costantinopoli, t. VIII, p. 26. Altra ambasciata a Giustino II, imperatore, t. VIII, p. 281. Distruggono il re ed il regno dei Gepidi, tom. VIII, p. 286. Orgoglio, politica e potere del Cacano degli Avari, tom. VIII, pag. 361. Guerra di Maurizio contro i medesimi, t. VIII, p. 367. Costantinopoli liberata dagli Avari e dai Persiani, t. VIII, p. 410.
Avvertimento opposto dal traduttore Pisano al capitolo XXXIII del Gibbon, t. VII, p. 187.
Azimo, o Azimomzio, nella Tracia sui confini dell'Illirico, si distingue per lo spirito marziale della sua gioventù, t. VI, p. 388.
Azio, osservazioni sulle cose Romane dopo questa battaglia, t. I, p. 90.
B
Bachi da seta. Loro introduzione nella Grecia, t. VII, p. 300.
Baharam, liberatore della Persia. Sue imprese, t. VIII, pag. 348. Sua ribellione, t. VIII, p. 351. Sua morte, t. VIII, p. 357.
Balbino, Console; dichiarato imperatore dal Senato, t. I, p. 267. Suo carattere e sue virtù, t. I, p. 269. Tumulto a Roma, t. I, p. 270. I pretoriani malcontenti, t. I, p. 279. Uccisione di Balbino, t. I, p. 280.
Balti, nobil razza dei Goti da cui discendeva Alarico, t. V, p. 330.
Baldovino, conte di Fiandra e di Hainaut, eletto imperatore d'Oriente, tom. XII, p. 105. Parteggiamento dell'impero Greco, tom. XII, p. 110. Sua sconfitta e cattività, t. XII, p. 124.
Baldovino II, imperatore di Costantinopoli, tom. XII, p. 137.
Baiazet, o Ilderim. Suo regno, t. XII, p. 331. Conquiste del medesimo dall'Eufrate al Danubio, t. XII, p. 332. Battaglia di Nicopoli dove sconfigge un esercito di cento mille Cristiani, t. XII, p. 335. Circostanze di questa vittoria e suo carattere, tom. XII, p. 337. Ferma la sua dimora a Bursa, t. XII, p. 338. Minaccia l'imperio de' Greci, e propone loro un Trattato che viene accettato con molta sommissione, t. XII, pag. 340. Guerra di Timur contro il Sultano Baiazet, t. XII. pag. 362. Giornata d'Angora, t. XII, p. 373. Sconfitta e prigionia di Baiazet, t. XII, p. 376. Storia della gabbia di ferro, t. XII, p. 377. Contraria al racconto dello Storico Persiano di Timur, ma attestata dai Francesi, dagli Italiani, dagli Arabi, dai Greci, dai Turchi, t. XII, pag. 380. Conghiettura probabile, t. XII, p. 383. Sua morte, t. XII, p. 384. Guerre civili dei figli di Baiazet, t. XII, p. 396.
Barbari. Loro scorrerie, t. II, pag. 7. S'introducono nell'Impero, e vi si stabiliscono, t. II, p. 13. Vittorie riportate da Probo contro i Barbari, t. II, p. 72, Probo incorpora i Barbari fra le milizie romane, t. II, p. 78. Dissensioni dei Barbari, t. II, p. 122. Condotta tenuta verso di loro dagl'Imperatori, tom. II, pag. 123. Diocleziano imita Probo nel distribuire i Barbari vinti tra i provinciali, t. II, p. 123. Dottrina dell'immortalità dell'anima presso i Barbari, tom. II, pag. 272. Aumento de' Barbari ausiliarii nelle legioni romane, t. II, p. 297. Stato de' Barbari nella Gallia, t. VI, pag. 221. Conversione dei Barbari al Cristianesimo, t. VII, p. 37. Rovina dell'Arrianismo fra i Barbari, tom. VII, p. 63. Leggi dei Barbari, t. VII, pag. 109. Pene pecuniarie per l'omicidio, t. VII, p. 113. Giudizii di Dio, t. VII, p. 116. Combattimenti giudiciali, t. VII, pag. 118. Divisione delle terre fatte da' Barbari, t. VII, p. 120. Loro stato al tempo di Giustiniano, t. VIII, p. 9.
Bardi. Fino a qual punto assicurassero l'immortalità da loro promessa agli Eroi, t. II, p. 41. Coi loro canti eccitano l'entusiasmo militare nel cuore de' loro concittadini, tom. II, p. 42. Nel momento delle battaglie celebravano le imprese degli antichi Eroi, tom. II, p. 43.
Bari. Conquista di questa città, t. XI, p. III.
Basilio I (il Macedone), fondatore di una nuova dinastia, t. IX, p. 186. Sua vita paragonata a quella di Augusto, t. IX, pag. 190. Riforma la giurisprudenza di Giustiniano, tom. IX, p. 193. Sua morte, t. IX, p. 194.
Basilio II. Sua educazione e suo regno, t. IX, p. 204. Sue spedizioni contro i Saracini, t. IX, p. 205. Distrugge il regno de' Bulgari, t. IX, p. 206.
Bassora, fondazione di questa città, t. X, p. 166.
Beder, battaglia quivi seguìta, t. X, p. 95.
Belisario, suo carattere e scelta, t. VII, pag. 365. Suoi servigi nella guerra persiana, t. VII, p. 366. A Dara prende al suo servigio Procopio suo fedel compagno, e storico di quelle gesta, t. VII, p. 367. Suoi preparativi per la guerra africana, t. VII, p. 368. Partenza della sua flotta, t. VII, p. 371. Sbarca sulla costa dell'Africa settentrionale, t. VII, p. 175. Sconfigge i Vandali nella prima battaglia, tom. VII, pag. 378. Prende Cartagine, t. VII, p. 381. Ultima disfatta di Gelimero e de' Vandali, tom. VII, pag. 384. Conquista l'Africa, tom. VII, p. 389. Ritorno e trionfo di Belisario, t. VII, p. 396. Suo consolato, tom. VII, p. 399. Sconfigge i Mori, tom. VII, p. 402. Belisario minaccia gli Ostrogoti d'Italia, t. VII, pag. 407. Invade e sottomette la Sicilia, tom. VII, p. 414. Invade l'Italia, e sottomette Napoli, tom. VII, pag. 420. Entra in Roma, t. VII, pag. 427. Valore di Belisario nell'assedio di Roma fatto dai Goti, t. VII, p. 428. Sua difesa fatta di quella città, t. VII, p. 430. Respinge un generale assalto de' Goti, t. VII, p. 435. Sue sortite, t. VII, p. 436. Libera Roma, tom. VII, p. 444. Ricupera molte altre città d'Italia, t. VII, p. 447. Gelosia de' generali romani, t. VII, pag. 450. Fermezza ed autorità di Belisario, t. VII, p. 453. Assedia Ravenna, tom. VII, p. 457. Sottomette il regno Gotico d'Italia, tom. VII, pag. 460. Fa prigione il re Vitige, tom. VII, p. 461. Ritorno e gloria di Belisario, t. VII, p. 462. Storia segreta di Antonina sua moglie, t. VII, p. 465. Teodosio di lei amante, t. VII, pag. 466. Risentimento di Belisario e di Fozio figlio di Antonina, t. VII, p. 469. Persecuzione del suo figlio, tom. VII, pag. 470. Disgrazia e sommissione di Belisario, t. VII, pag. 471. Belisario difende l'Oriente, t. VIII, pag. 50. Belisario comanda per la seconda volta in Italia, t. VII, p. 95. Roma assediata dai Goti, t. VIII, p. 97. Tentativo di Belisario, t. VIII, p. 99. Roma presa dai Goti, t. VIII, p. 101. Ripresa da Belisario, t. VIII, p. 105. Belisario richiamato per l'ultima volta, t. VIII, p. 107. Ultima vittoria di Belisario, t. VIII, pag. 139. Sua disgrazia e morte, t. VIII, p. 141.
Belle lettere, coltivate sotto il regno di Adriano e dei due Antonini, t. I, p. 143. Ricompense accordate agli Artisti, ai Professori ed ai Poeti, t. I, pag. 145. Loro decadimento sotto Diocleziano, t. II, p. 341.
Beniamino, Patriarca Giacobita, t. IX, p. 131.
Bernardo (San). Parte da lui presa nelle Crociate, t. XI, p. 398. Sua indole e sua missione, t. XI, p. 399.
Bessarione. Cenni su questo Cardinale, t. XII, p. 488.
Bitinia, conquista di questo paese, t. XII, p. 318.
Bisanzio, sua situazione e sua estensione al ricevere il nome di Costantinopoli, t. III, pag. 290. Difetti della sua storia, t. IX, p. 140. Relazioni della sua storia colle rivoluzioni del Mondo politico, t. IX, p. 144.
Boccaccio, suoi studj, t. XII, p. 481. Anima col suo Decamerone lo studio della lingua greca in Italia, t. XII, p. 483.
Bedovini, o pastori Arabi. Loro costumi, t. X, p. 10.
Boemondo, t. XI, p. 307.
Boezio. Suo carattere, studj, ed onori, t. VII, p. 244. Suo patriottismo, t. VII, p. 247. Viene accusato di tradimento, t. VII, p. 248. Sua carcerazione e morte, t. VII, p. 249.
Bonifazio. Uno dei settantatre intendenti d'Aglae, dama romana, t. III, p. 268. Per avere qualche sacra reliquia dell'Oriente, intraprende un pellegrinaggio, tom. III, p. 269.
Bonifazio, Generale di Placidia madre dell'imperatore Valentiniano III, t. VI, p. 337. Suo errore e rivolta nell'Africa, tom. VI, p. 339. Invita i Vandali, t. VI, p. 340. Passa in Africa, t. VI, p. 342. Enumera il suo esercito, t. VI, pag. 343. Suo tardo pentimento, t. VI, p. 345. Disfatta e ritirata di Bonifazio, t. VI, pag. 352. Sua morte, t. VI, p. 353.
Bonifazio VIII, Papa, t. XIII, p. 193.
Bonoso, generale romano, innalza lo stendardo della rivoluzione nelle Gallie, t. II, p. 82. Sconfitto da Probo, imperatore, t. II, p. 83.
Borgognoni. Loro origine e loro odio ereditario contro gli Alemanni, t. V, p. 61. Loro stato a tempi di Valentiniano, tom. V, p. 62. Loro stato a tempi de' Goti, t. VI, pag. 220. Loro stabilimento nelle Gallie, t. VI, p. 222. Abbracciano il Cristianesimo, tom. VI, p. 388. Motivi della loro fede, t. VI, p. 389. Effetti della loro conversione, t. VI, p. 393. Adottano l'eresia dell'Asia, t. VI, p. 399. Sono vinti e sottomessi da Clodoveo, t. VII, p. 19.
Bosra. Assedio di questa città, t. X, p. 182.
Bosforo. Descrizione di questa contrada, t. III, p. 291.
Bowidi, t. X, p. 400.
Brancaleone, t. XIII, p. 171.
Brettagna. Conquistata dai Romani, t. I, p. 4. Forma la divisione occidentale dell'Impero in Europa, t. I, pag. 73. Importanza di questo paese, t. II, p. 117. Carausio è riconosciuto per Sovrano di quella contrada, t. II, p. 118. Sua ribellione nella Brettagna, t. II, p. 119. La Brettagna ricuperata da Costanzo, t. II, p. 120. In qual modo fossero difese le sue frontiere, t. II, p. ivi. Fortificazioni, t. II, p. 121. Origine della Gran Brettagna, t. V, pag. 68. Invasa dagli Scoti e dai Pitti, t. V, p. 69. Sua ristaurazione portata da Teodosio, t. V, p. 76. Rivolta della sua armata, t. VI, p. 92. Costantino Imperatore della Gran Brettagna e dell'Occidente, t. VI, p. 94. Morte di questo usurpatore, t. VI, p. 192. La Gran Brettagna e l'Armorica scuotono il giogo del governo romano, tom. VI, pag. 223. Stato di questo paese, t. VI, p. 225. Nuove rivoluzioni nella Brettagna, t. VI, p. 145. Discesa in quel paese dei Sassoni, t. VII, p. 146. Stabilimento della Eptarchia Sassonica, t. VII, p. 149. Desolazione della Brettagna, t. VII, p. 157. Suo stato oscuro e favoloso, t. VII, p. 166.
Brettoni. Loro stato, t. VII, pag. 151. Loro resistenza, t. VII, p. 152. Loro fuga, t. VII, p. 154. Cercano di scuotere il giogo, t. VII, p. 158. Loro servitù, t. VII, p. 160. Loro costumi, t. VII, p. 164.
Bulgari. Loro origine, tom. VIII, p. 136. Loro costumi, t. VIII, p. 138. Invadono la Macedonia e la Tracia, t. VIII, p. 146. Belisario li costringe alla pace, tom. VIII, p. 149. Loro emigrazione, t. XI, p. 53. Discendono essi dalla razza primitiva degli Schiavoni, t. XI, p. 56. Loro primo regno, t. XI, p. 57. Loro cognizioni militari e costumanze, t. XI, p. 67. Dopo d'essere stati sommessi per più di centosettant'anni agli Imperadori di Costantinopoli, si ribellano, ed è riconosciuta la loro indipendenza, t. XII, p. 17. Si azzuffano coi Latini, e Giovaniccio, loro condottiero, riporta su d'essi una compiuta vittoria, facendo prigioniere l'Imperatore Baldovino, t. XII, p. 116.
C
Cacano degli Avari. Suo orgoglio politico, e potere, t. VIII, p. 361.
Cadessa, battaglia quivi seguìta, t. X, p. 163.
Cairovan, sua fondazione, t. X, p. 268.
Caledonii, loro guerre coi Romani, t. I, p. 192. Fingal e i suoi eroi, t. I, p. 193. Paralello de' Caledonii coi Romani, t. I, p. 194. Poemi d'Ossian, t. I, p. 195. Il loro paese invaso dagli Scoti e dai Pitti, t. V, p. 69.
Califato. Sua triplice divisione, t. X, p. 351.
Califfi. Loro impero in Oriente, t. X, p. 314. Loro magnificenza, t. X, p. 351. Effetti di questo lusso sul ben pubblico e sul bene individuale, tom. X, p. 356. Decadenza e divisione del loro impero, t. X, p. 387. Califfi di Bagdad, loro abbassamento, t. X, p. 401.
Caligola, indegno successore d'Augusto e condannato ad una perpetua ignominia, t. I, p. 107. Tentativi del Senato dopo la sua morte, t. I, p. 108. Immagine del governo riguardo agli eserciti, t. I, p. 108. Sua memoria come d'un tiranno, t. I, p. 119.
Calcedonia. Suo Concilio, t. IX, p. 60. Decreti di questo Concilio, t. IX, p. 64.
Calisto II, Papa, tom. XIII, p. 151.
Cantacuzeno Giovanni, sotto il regno di Andronico il Giovane, governa l'Imperatore, t. XII, p. 249. Sua buona sorte, t. XII, p. 250. Nominato alla reggenza dell'impero, t. XII, p. 251. Contrastatagli da Apocauco, dall'Imperatrice Anna di Savoja e dal Patriarca, t. XII, 252. Assume la porpora, t. XII, p. 254. Guerra civile, t. XII, p. 256. Vittoria di Cantacuzeno, t. XII, p. 257. Reingresso in Costantinopoli, tom. XII, p. 257. Regno di Cantacuzeno, tom. XII, pag. 271. Giovanni Paleologo muove le armi contro Cantacuzeno, tom. XII, pag. 264. Cantacuzeno nel mese di gennaio rassegna il trono, t. XII, p. 265. Sua disputa intorno alla luce del monte Tabor, t. XII, p. 265. Guerra de' Genovesi contra l'Imperatore Cantacuzeno, t. XII, pag. 274. Sconfitta della flotta di Cantacuzeno, t. XII, p. 275. Negoziazione di Cantacuzeno con Clemente VI, t. XII, p. 242.
Caracalla, figlio di Severo, t. I, p. 191. Sua ambizione, ed avversione pel fratello Geta, t. I, pag. 192. Suo avvenimento al trono, t. I, p. 195. Gelosia in odio del fratello, t. I, p. 196. Uccisione di Geta, t. I, p. 198. Rimorso, e crudeltà di Caracalla si estende per tutto l'Impero, t. I, p. 202. Getta i suoi tesori alle truppe, e ne corrompe la disciplina, t. I, p. 204. Assassinio di Caracalla, t. I, p. 205. Li soldati sforzano i Senatori a metterlo nel novero degli Dei, t. I, p. 206. Passione di questo Principe per imitare Alessandro il Macedone, t. I, p. 207. Gioia eccitatasi nel popolo per la sua morte, t. I, p. 208.
Carausio, sua ribellione nella Brettagna, t. II, p. 115. Suo potere in quel paese, t. II, p. 117. Riconosciuto in Sovrano di quella contrada dagli Imperatori Romani, t. II, p. 118. Sua morte, t. II, p. 119.
Cardinali, loro diritto fondato da Alessandro III, t. XIII, p. 187.
Carino, figlio di Caro, t. II, p. 90. Con Numasiano gli succede nell'Impero, t. II, p. 91. Vizj e sregolatezze di Carino, t. II, p. 90. Lusso dei giuochi Romani ordinati da Carino, t. II, p. 95. Discordie civili, t. II, p. 102. Sconfitta, e morte di Carino, t. II, p. 104.
Carizmj, loro invasione, t. IX, p. 448.
Carlo Magno, conquista la Lombardia, t. IX, p. 297. Imperatore di Francia, t. IX, p. 298. Sue donazioni ai Papi t. IX, p. 303. Settimo Concilio Generale, t. IX, p. 314. Ripugnanza di Carlo Magno, t. IX, p. 318. Incoronazione di Carlo Magno come Imperatore di Roma, e di Occidente, t. IX, p. 328. Suo carattere, t. IX, p. 329. Ampiezza del suo Impero in Francia, t. IX, p. 332. Nella Spagna, in Italia, in Germania, ed in Ungheria, t. IX, p. 334. Suoi vicini, e suoi nemici, t. IX, p. 358. Suoi successori, t. IX, p. 240.
Carlo Martello, Duca di Francia, sua inclinazione negli affari d'Italia, t. IX, p. 342. Vien fatto patrizio di Roma, t. IX, p. 368. Sconfigge i Saracini che avevano invasa l'Italia, t. X, p. 217.
Carlo IV, Imperatore di Germania; sua debolezza, e sua povertà, t. IX, p. 367. Sua pompa, t. IX, p. 370. Potere, e modestia di Augusto in confronto di lui, t. IX, p. 372.
Carlo V. S'impadronisce di Roma e vi dà il saccheggio, t. VI, p. 185.
Carlo d'Angiò, s'impadronisce di Napoli, e della Sicilia, t. XII, p. 210. Minaccia l'Impero Greco, tom. XII, p. 213. Altre sue azioni, t. XIII, p. 173.
Carmazi. Loro nascita, e progressi, t. X, p. 392. Loro imprese militari, tom. X, p. 593. Saccheggiano la Mecca, t. X, p. 395.
Caro. Elezione, e carattere di questo Imperatore, t. II, p. 86. Caro batte i Sarmati, e marcia in Oriente, t. II, p. 88. Dà udienza agli Ambasciatori Persiani, t. II, p. 89. Vittorie, e morte straordinaria di Caro, t. II, p. 90.
Cartagine. Sorge dalle ceneri con isplendore, t. I, p. 151. È sorpresa dai Vandali, t. VI, p. 194. Ridotta in potere di Belisario, t. VII, p. 381. Conquistata dagli Arabi, t. X, p. 269.
Catalani. Loro servigio, e guerra nell'Impero Greco, t. XII, p. 220.
Cavalieri di Rodi, t. XII, p. 321.
Caaba, o Tempio della Mecca, t. X, p. 34.
Cenobiti. Questi monaci, vivendo in comunità, seguivano la medesima regola, t. VI, p. 444.
Censure spirituali a tempo di Costantino, t. IV, p. 65.
Cesare. I titoli di Augusto e di Cesare, t. I, p. 105.
Cesari. Stirpe dei Cesari e della famiglia Flavia, t. I, p. 111.
Chiesa Cattolica. Pace e prosperità sua sotto Diocleziano, t. III, p. 77. Distruzione della Chiesa di Nicomedia, t. III, p. 86. Distruzione delle chiese, t. III, p. 92. Bandi successivi, t. III, p. 94. Pace della Chiesa, t. III, p. 103. Autorità della Chiesa, t. IV, p. 93. Distinzione tra la potenza temporale e la spirituale, t. IV, p. ivi. Fazioni religiose, t. IV, p. 94. Fede della Chiesa occidentale e Latina, t. IV, p. 109. Stato della chiesa alla morte di Giuliano e tolleranza religiosa universalmente pubblicata da Gioviano, t. V, p. 5. Unione delle chiese greca e latina, t. IX, p. 76. Particolarità di Giustiniano sulla sua amministrazione in materie ecclesiastiche, t. IX, p. 77. Unione delle chiese, t. IX, p. 97. Introduzioni delle immagini nella chiesa cristiana, t. IX, p. 253. Indolente superstizione della Chiesa greca, t. IX, p. 312. Riforma e pretensioni della Chiesa, t. IX, p. 353. Abusi nella Chiesa greca, t. XI, p. 5. Stato della chiesa di Gerusalemme e particolarità sulle peregrinazioni al santo sepolcro, t. XI, p. 255. Le chiese greche e latine si dividono e questo Scisma precipita la caduta dell'Impero romano in Oriente, t. XII, p. 5. Variazioni nella chiesa latina, t. XII, p. 10. Unione di Andronico il Vecchio colla chiesa latina, t. XII, p. 203. Unione delle due chiese disciolta, t. XII, p. 210. Corruttela che regnava nella chiesa latina ai tempi di Giovanni Paleologo II, t. XII, p. 444. Scisma, t. XII, p. 446. Unione della chiesa greca colla latina, t. XII, p. 469. Pace definitiva della chiesa, t. XII, p. 472. Paralello fra i Greci ed i Latini, tom. XII, P. 475.
Chnodomaro. Seguìto da altri sei Re, conduce la vanguardia dei Barbari, t. IV, p. 47. Nella memorabile battaglia di Strasburgo vien fatto prigioniere, tom. IV, p. 53.
Cibali, città della Panonia situata sulla Sava a 50 miglia da Sirmio, t. II, pag. 227. Battaglia quivi seguìta fra Costantino e Licinio, t. II, p. ivi.
Cina. Suo impero settentrionale, t. XII, p. 295. Suo impero meridionale, t. XII, p. 297.
Cipriano (San), Vescovo di Cartagine, tom. III, p. 49. Governa non solo quella chiesa, ma anche quella dell'Affrica, t. III, p. 50. Osservazioni intorno al suo martirio, t. III, p. ivi. Primi rischj corsi dal medesimo, e sua fuga, t. III, p. ivi. Suo esiglio, t. III, p. 51. Sua condanna, t. III, p. 53. Sua morte, t. III, p. 54. Motivi della condotta tenuta da Cipriano, t. III, p. 55.
Cirillo (San) Patriarca di Alessandria, t. IX, p. 28. Suo dispotismo tirannico, t. IX, p. 30. Un sinodo di vescovi d'Oriente si dichiara contro di lui, t. IX, p. 46. Sua vittoria, t. IX, P. 49.
Claudiano poeta, t. VI, p. 109. Avvilupato nella caduta del suo benefattore Stilicone, t. VI, pag. III.
Claudio, suo carattere e sua elevazione all'impero, t. XI, p. 8. Sua clemenza e giustizia, t. XI, p. 11. Intraprende la riforma dell'esercito, t. XI, p. 12. Sue angustie e costanza, t. XI, p. ivi. Vittoria da lui riportata contro i Goti, t. XI, p. 14. Sua morte. Raccomanda Aureliano per suo successore, t. XI, p. 16.
Cleandro, Ministro romano a' tempi dell'Imperatore Commodo, t. I, p. 135. Sua avarizia e crudeltà, t. I, p. 136. Sedizione da lui suscitata e sua morte, t. I, p. 137.
Clefone, Re dei Lombardi. Sua morte, t. VIII, p. 299.
Clemente Flavio Console, sposa Domitilla, tom. III, p. 184. Con un pretesto è giudicato e condannato a morte, t. III, p. 185.
Clemente VII Papa. Sua elezione, t. XIII, p. 267.
Clero Cristiano. Sua ordinazione a' tempi di Costantino, t. IV, p. 55. Sue sostanze, t. IV, p. 58. Giurisdizione civile, t. IV, p. 93. Sua avarizia repressa da Valentiniano, t. V, p. 21.
Clodio Albino, Governatore della Gran Brettagna. Godeva della confidenza di Marc-Aurelio, t. I, p. 163. L'Imperatore lo autorizza ad assumere il titolo e la dignità di Cesare, tom. I, p. 165. Schernisce le minaccie di Commodo, t. I, p. 167.
Clodione, re de' Franchi, t. VI, p. 282.
Clodoveo, re de' Franchi, t. VII, p. 77. Sua vittoria sopra Siagro, t. VII, p. 79. Sottomette gli Alemanni, t. VII, p. 80. Sua conversione al cristianesimo, t. VII, p. 84. Guerra co' Borgognoni, tom. VII, p. 90. Vittoria di Clodoveo, t. VII, p. 92. Totale conquista della Borgogna, t. VII, p. 94. Guerra Gotica, t. VII, p. 96. Vittoria di Clodoveo, t. VII, p. 99. Conquista l'Aquitania, t. VII, p. 102. Suo consolato, t. VII, p. 104.
Cofti o Giacobiti, sommessi, t. X, p. 236.
Colchide. Descrizione di questa provincia, della Lazica o Mingrelia, t. VIII, p. 54. Costumi degl'indigeni di questo paese, t. VIII, p. 58. Sue rivoluzioni sotto i Persiani, cinquecento anni avanti Cristo, t. VIII, p. 60. Sotto i Romani 60 anni avanti Cristo, t. VIII, p. 61. Rivolta e pentimento degli abitanti della Colchide, t. VIII, p. 64. Guerra Colchica o Lazica, e assedio di Petra, t. VIII, p. 69.
Colonna. Origine di questa famiglia, t. XIII, p. 207. Il suo stemma fregiato di una corona reale, t. XIII, p. ivi. Suo odio ereditario contro la famiglia degli Orsini, t. XIII, p. 212. Si arma contro Rienzi, t. XIII, p. 244. Sconfitta e morte di uno di questa famiglia, tom. XIII, p. 248. Ottone Colonna riunisce il conclave, t. XIII, p. 277. Questo Papa, chiamato poi Martino V, ristaura ed abbellisce Roma, t. XIII, p. ivi.
Commercio. Vario commercio cogli stranieri degli imperatori romani, t. I, p. 143. D'oro e d'argento, t. I, p. 145.
Commodo, Imperatore. Suoi vizii abbominevoli e suo avvenimento al trono, t. I, p. 127. Suo carattere, t. I, p. 128. Suo ritorno a Roma, t. I, p. 129. Vien ferito da un assassino, t. I, p. 130. Suo odio e crudeltà verso il Senato, t. I, p. 131. Suoi piaceri dissoluti, t. I, p. 138. Fa mostra della sua abilità nell'anfiteatro, t. I, p. 141. Combatte da gladiatore, t. I, p. 142. Sua infamia e stravaganza, t. I, p. 143. Cospirazione de' suoi domestici, t. I, p. 144. Sua morte, t. I, p. 145.
Comneno, Isacco I, Imperatore d'Oriente, t. IX, p. 211. Abdica il trono imperiale e si ritira in un convento, t. IX, p. 213.
Comneno, Alessio I. Ascende il trono, carattere e vita di questo principe, tom. IX, p. 220. Politica di questo principe, t. XI, p. 318. Ottiene omaggio dai Crociati, t. XI, p. 321.
Comneno Emanuele. Sua forza e sua destrezza nel maneggio delle armi, t. IX, p. 225. Tratti singolari del suo carattere, t. IX, p. 228.
Comneno, Alessio II. Degradato dal supremo rango e sua morte, t. IX, p. 230.
Comneno, Andronico I. Suo carattere e sue prime avventure, t. IX, p. 230. Suo avvenimento al trono, t. IX, p. 241. Ribellione de' suoi sudditi, t. IX, p. 243. Sua morte, t. IX, p. 244.
Comneno, Isacco II, sopranominato l'Angelo, tom. IX, p. 245.
Concilii provinciali, t. III, p. 67. Di Nicea, t. IV, p. 100. Di Rimini, t. IV, p. 111. Ariani, t. IV, p. 119. D'Arles, t. IV, p. 138. Di Milano, t. IV, p. 139. Di Costantinopoli a' tempi di Teodosio, t. V, p. 295. D'Efeso, t. IX, p. 33. Di Calcedonia, t. IX, p. 49. Di Costantinopoli, t. IX, p. 73. Secondo di Nicea, t. IX, pag. 311. Di Piacenza, t. XI, pag. 271. Di Clermont, t. XI, p. 275. Di Pisa, t. XIII, p. 274. Di Costanza, t. XIII, p. 275.
Conclave. Istituito da Gregorio X, t. XIII, p. 188.
Consoli. Loro elezione e loro attribuzioni, t. III, p. 267. Proconsoli e vice-prefetti, t. III, p. 280.
Conti di Edessa, tom. XII, p. 164. Conti di Devon, t. XII, p. 172.
Corano. Suoi pregi e contenuto, t. X, p. 60.
Corrado III, t. XIII, p. 175.
Coreisciti della Mecca; guerra difensiva di Maometto contro li stessi, t. X, p. 94.
Corona (Santa) di spine, t. XII, p. 144.
Cosroe I, re di Persia, t. VIII, p. 69. Fugge presso i Romani, t. VIII, p. 354. Suo ritorno e sua vittoria, t. VIII, p. 356. Sua ristaurazione e politica, t. VIII, p. 358. Invade l'impero Romano, t. VIII, p. 385. Conquista la Sorìa, tom. VIII, p. 387. La Palestina, tom. VIII, pag. 388. L'Egitto, t. VIII, pag. 389. L'Asia Minore, tom. VIII, p. 390. Suo regno e magnificenza, t. VIII, p. ivi. Viene disfatto da Eraclio, e i Persiani lo dichiarano deposto dal trono, t. VIII, pag. 419. È ucciso da Siroe suo figlio, t. VIII, p. 423. Trattato di pace coll'Impero orientale, t. VIII, p. 424.
Cosroe, Nushirwan, t. VIII, p. 35. Suo amor del sapere, t. VIII, p. 39. Sua pace e guerra coi Romani, t. VIII, p. 43. Invade la Sorìa, t. VIII, p. 46. Rovina Antiochia, tom. VIII, p. 48. Sue negoziazioni e trattati con Giustiniano, tom. VIII, p. 113. Conquista il Yemen, t. VIII, p. 340. Ultima sua guerra coi Romani, t. VIII, p. 342. Sua morte, t. VIII, p. 344.
Costante, figlio del Gran Costantino. Sua educazione, t. III, p. 345. Divisione dell'impero col fratello Costantino, t. III, pag. 361. Guerra civile col fratello Costantino, t. III, p. 372. Morte di Costante, t. III, p. 374.
Costante II, imperatore dei Romani, t. IX, pag. 132. Suo fratricidio e sua morte, t. IX, p. 133.
Costantino, soldato Brettone, è proclamato legittimo Imperatore della Brettagna e dell'Occidente, tom. VI, p. 93. È riconosciuto come tale nella Brettagna e nelle Gallie, tom. VI, pag. 94. Riduce in suo potere la Spagna, t. VI, p. 96. Contese del Senato romano, t. VI, p. 100. Divide coi Barbari il bottino delle Gallie e della Spagna, t. VI, pag. 203. Morte di questo usurpatore, t. VI, p. 208.
Costantino il grande, sua nascita, educazione e fuga, t. II, 175. Viene innalzato al trono, t. II, p. 179. È riconosciuto da Galerio che conferisce a lui il titolo di Cesare, t. II, p. 181. Veri motivi della Sede trasportata a Costantinopoli, t. II, pag. 182. Timori di nuove tasse nati nei Romani, t. II, p. 183. Suo governo nella Gallia, t. II, p. 199. Guerra civile tra Costantino e Massenzio, t. II, pag. 202. Preparativi di guerra da entrambe le parti, tom. II, p. 203. Costantino passa le Alpi, t. II, p. 206. Battaglia di Torino, tom. II, p. 207. Assedio e battaglia di Verona, t. II, p. 209. Vittoria di Costantino dinanzi a Roma, tom. II, p. 213. Ricevimento da lui avuto, e condotta da lui tenuta, t. II, p. 215. Si collega con Licinio, tom. II, p. 219. Sue contese con Licinio, t. II, p. 226. Prima guerra civile tra i medesimi, t. II, p. 227. Giornata di Cibali, e battaglia di Mardia, t. II, p. 229. Trattato di pace, t. II, p. 230. Pace generale e leggi di Costantino, t. II, p. 231. Guerra Gotica, t. II, p. 235. Seconda guerra civile fra Costantino e Licinio, t. II, p. 236. Giornata di Adrianopoli, t. II, p. 239. Assedio di Bisanzio e vittoria navale di Crispo, t. II, p. 240. Riunione dell'impero, t. II, p. 244. Sistema politico di Costantino e de' suoi successori, t. III, p. 234. Suo carattere, t. III, p. 328. Sue virtù, t. III, p. 329. Suoi vizj, t. III, p. 331. Sua famiglia, t. III, p. 333. Gelosia di Costantino, t. III, p. 337. Suoi figli e nipoti, t. III, p. 344. Loro educazione, t. III, p. 345. Ambasciate venute a Costantino dall'Etiopia, dalla Persia e dall'India, tom. III, pag. 356. Morte e funerali di Costantino, t. III, p. ivi. Fazioni nella sua Corte, t. III, p. 337. Massacro dei Principi suoi fratelli e nipoti, t. III, p. 359. Divisione dell'impero, t. III, p. 361. Guerra tra i figli di Costantino, t. III, p. 372. Conversione di Costantino, e motivi ed effetti, t. IV, p. 6. Sospetti caduti sopra di lui per la morte di suo figlio, t. IV, p. 7. Avanzo in esso di superstizione pagana, t. IV, p. 8. Diritto divino di Costantino, t. IV, p. 18. Aspettazione e fede di un miracolo, tom. IV, p. 23. Il Labaro, stendardo della croce, t. IV, p. 24. Segno di Costantino, t. IV, p. 27. Apparizione di una croce nelle nuvole, t. IV, pag. 32. La conversione di Costantino poteva essere sincera, t. IV, p. 34. Divozione e privilegi di Costantino, t. IV, p. 36. Suo battesimo protratto fino all'avvicinarsi della morte, t. IV, pag. 40. Cangiamento della religione nazionale, t. IV, p. 47. Distinzione della potestà spirituale e temporale, t. IV, p. 48.
Costantino II, figlio del precedente. Sua educazione, t. III, p. 345. Divide l'Impero co' suoi fratelli Costante e Costantino, tom. III, p. 361. Suo malcontento e sua invasione negli Stati di Costante, t. III, pag. 372. Sua morte, t. III, p. 385.
Costantino III, imperatore d'Oriente, suo regno e sua morte, t. IX, p. 150.
Costantino IV, sopranominato Pogonate. Suo regno e sua morte, t. IX, p. 155.
Costantino V, detto Copronimo, t. IX, p. 165. Suo regno dissoluto e crudele, t. IX, p. 166.
Costantino VI, cospira contro l'imperatrice Irene sua madre, t. IX, p. 170. Viene riconosciuto Imperatore, t. IX, p. 171. Irene ristabilita sul trono, lo fa mutilare, t. IX, p. 172.
Costantino VII, Porfirogeneta, t. IX, p. 197.
Costantino VIII, suo regno, t. IX, p. 196.
Costantino IX, sua educazione e suo regno, t. IX, p. 222.
Costantino X, o Monomaco, t. IX, p. 210.
Costantino XI, o Ducas, si dimentica dei doveri di un sovrano e di un guerriero, t. IX, p. 214.
Costantino XII, tom. IX, p. 216.
Costantinopoli. Disegno di questa Capitale, tom. III, p. 234. Descrizione di questa città, t. III, pag. 236. Bosforo, tom. III, p. 237. Porto di Costantinopoli, t. III, pag. 239. Propontide, t. III, p. 240. Elesponto, t. III, p. 241. Fondazione della città, t. III, p. 243. Estensione, t. III, p. 248. Progressi di questa grand'opera, t. III, p. 250. Edifizii, t. III, p. 251. Popolazione, t. III, p. 256. Privilegi accordati a questa città, t. III, p. 259. Dedicazione di Costantinopoli, t. III, p. 262. Forma di governo, t. III, p. 264. Gerarchie dello Stato, t. III, p. 266. Tre gradi d'onore, t. III, p. ivi. Consoli, t. III, p. 267. Patrizii, t. III, p. 271. Prefetti del Pretorio, t. III, p. 274. Prefetto di Roma e di Costantinopoli, t. III, p. 277. Proconsoli e Viceprefetti, t. III, p. 280. Governatori delle province, t. III, p. 281. Professione della legge, t. III, p. 285. Ufficiali militari, tom. III, pag. 288. Distinzione delle truppe, t. III, p. 291. Riduzioni delle legioni, t. III, p. 293. Difficoltà delle leve, t. III, p. 295. Aumento dei Barbari ausiliarii, t. III, p. 297. Sette ministri del palazzo, t. III, p. 299. Ciamberlano, t. III, p. ivi. Maestro degli ufficii, t. III, p. 301. Questore, t. III, p. 304. Tesoriere pubblico, t. III, p. 305. Tesoriere privato, t. III, p. 306. Conti de' domestici, t. III, p. 308. Agenti o ministri delatori, t. III, p. ivi. Uso della tortura, t. III, p. 310. Finanze, t. III, p. 312. Tributo generale e indizione, t. III, p. 313. Tasse in forma di capitazione, t. III, p. 317. Capitazione sul commercio e sull'industria, tom. III, p. 323. Liberi donativi, t. III, p. 325. Conclusione, t. III, p. 327. Chiesa di S. Sofia in Costantinopoli, t. VII, p. 319. Altre sue chiese e palazzi, t. VII, p. 325. Primo assedio di questa città fatto dagli Arabi, t. X, p. 317. Secondo assedio, t. X, p. 323. Costantinopoli presa ed assediata la prima volta dai Latini, t. XII, P. 57. Secondo assedio fatto dai medesimi Latini, t. XII, p. 70. Saccheggio, t. XII, p. 76. Parteggiamento del bottino, t. XII, p. 78. Miseria dei Greci, t. XII, p. 80. Sacrilegi e scherni, t. XII, p. 82. Distruzione delle statue, t. XII, p. 83. Costantinopoli ripresa dai Greci, t. XII, p. 151. Pericoli che minacciarono l'impero di Costantinopoli, tom. XII, p. 300. Nuove angustie di questa città, t. XII, p. 342. Assediata da Amurat II, t. XII, p. 406. Stato della lingua greca in questa città, t. XII, p. 452. Paralello fra i Greci ed i Latini, t. XII, p. 475.
Costanzo, assunto all'Impero da Diocleziano, tom. II, p. 110. Ricupera la Brettagna, t. II, p. 120. In qual modo le frontiere Brittaniche fossero difese, t. II, pag. 121. Libera la Gallia dall'invasione degli Alemanni, t. II, p. 123. In qual modo trattò i Barbari, t. II, p. 122. Suo carattere e sua situazione dopo la rinunzia di Diocleziano, t. II, p. 172. Sua morte, t. II, pag. 181.
Costanzo, figlio del gran Costantino, t. III, p. 96. Sua guerra coi suoi fratelli Costante e Costantino, t. III, p. 372. Nega d'entrare in negoziati con Magnenzio e Vetranione, t. III, p. 378. Sua guerra contro Magnenzio, t. III, p. 382. Battaglia di Mursa, t. III, p. 385. Conquista l'Italia, t. III, pag. 388. Costanzo solo imperatore, t. III, p. 394. Favorisce gli Ariani, tom. IV, p. 117. Suo sdegno contro di Atanasio, t. IV, p. 137. Divisione dell'Impero sotto di lui, t. IV, p. 154. Roma, t. IV, p. 156. Costantinopoli, t. IV, p. 158. Sua gelosia contro Giuliano, t. IV, pag. 178. Timori e invidia che l'agitavano, t. IV, p. 180. Ordina alle legioni della Gallia di condursi nell'Oriente, t. IV, p. 180. Morte di Costanzo, t. IV, p. 208.
Costanzo, generale. Suo carattere e vittorie, tom. VI, p. 206. È associato all'impero d'Occidente da Onorio di cui sposa la sorella, t. VI, p. 287. Sua morte, t. VI, p. 288.
Courtenai. Origine di questa famiglia, t. XII, p. 162. Courtenai di Francia, t. XII, p. 166. Loro unione con le altre famiglie di Francia, t. XII, p. 167. Courtenai d'Inghilterra, tom. XII, p. 171.
Courtenai Pietro, Imperatore d'Oriente, t. XII, p. 132. Sua prigionia e morte, t. XII, p. 134.
Courtenai Roberto, Imperatore d'Oriente, tom. XII, p. 134. Sua morte, t. XII, p. 136.
Crescenzio, Console, t. IX, p. 357.
Creta (Isola), soggiogata dagli Arabi, t. X, p. 374. Soggiogata dai Greci, t. X, p. 404.
Crisolara Manuele. Introduce in Italia la lingua greca, t. XII, p. 484.
Crisopoli (oggi Scutari). Battaglia quivi seguìta tra Costantino e Licinio, tom. II, p. 236.
Crispo. Sua virtù, t. II, p. 325.
Cristianesimo e Cristiani, t. II, p. 278. Virtù dei primitivi Cristiani, t. II, p. 239. Loro penitenza e pentimento delle colpe, t. II, p. ivi. Cura che avevano essi della propria fama, t. II, p. 295. Gli antichi Cristiani avversi al piacere ed alla voluttà, t. II, p. 298. Opinioni che aveano circa la castità ed il matrimonio, t. II, p. 299. Loro avversione agli affari della guerra e del governo, t. II, p. 302. Loro solerzia tutta intesa al governo della Chiesa, t. II, p. 304. Primiera loro libertà ed eguaglianza, t. II, p. 306. Loro generale proporzione in confronto coi Pagani, t. II, p. 344. Se i primi Cristiani fossero ignoranti e di vile condizione, t. II, p. 344. Alcune eccezioni rispetto alla loro dottrina, t. II, p. 345. Rispetto alla condizione ed alle ricchezze, t. II, p. 346. Disprezzo ch'ebbero per il Cristianesimo alcuni uomini celebri del primo e secondo secolo, t. II, p. 348. Profezie, t. II, p. 349. Miracoli, t. II, p. 351. Generale silenzio intorno le tenebre della Passione, t. II, p. 352. I Cristiani riguardati come Setta, t. III, p. 11. I loro costumi calunniati, t. III, p. 18. Imprudenza loro nel modo di difendersi, t. III, p. 19. I Cristiani confusi dai Gentili coi Gnostici, e conseguenze che da ciò ne derivarono, t. III, p. 20. I Cristiani accusati dell'incendio di Roma sotto Nerone e terribilmente puniti, t. III, p. 27. Passo di Tacito a tale proposito, tom. III, p. 28. Osservazioni sopra questo passo, t. III, p. 29. I Cristiani ed i Giudei egualmente oppressi sotto il regno di Domiziano, tom. III, p. 34. Ignoranza di Plinio su quanto s'aspetta ai Cristiani, t. III, p. 39. Procedure legali contro i Cristiani, istituite sotto il regno di Trajano e dei suoi successori, t. III, p. 40. Clamori popolari contro i Cristiani, t. III, p. 41. Ordine di giudicatura che si teneva rispetto a' Cristiani, t. III, p. 43. Equità dei Magistrati romani, t. III, p. 46. Ardore con cui i primitivi Cristiani agognavano il martirio, t. III, p. 57. A mano a mano illanguidito, t. III, p. 60. Tre vie per evitarlo, t. III, p. 61. Avvicendarsi di severità e di tolleranza, t. III, p. 63. Le dieci persecuzioni, t. III, p. ivi. Editti in favore dei Cristiani, che si attribuiscono, a Tiberio ed a Marco Antonino, t. III, p. 64. Stato dei Cristiani nel durare dei regni di Commodo e Severo, t. III, p. 66. Deteriorato sotto i successori del secondo di questi due Imperatori, t. III. p. 68. Pace e prosperità dei Cristiani sotto Diocleziano, t. III, p. 77. Progresso dello zelo fra i Cristiani e della superstizione fra i Pagani, t. III, p. 79. Alcuni soldati Cristiani puniti da Massimiano e Galerio, t. III, p. 82. Diocleziano indotto da Galerio ad incominciare una persecuzione generale contro i Cristiani, t. III, p. 84. Primo bando contro i Cristiani, t. III, p. 86. Zelo manifestato a tale proposito da un Cristiano, e punizione ch'ei n'ebbe, t. III, p. 88. Esecuzione che sortì il primo bando, t. III, p. 91. Bandi successivi, t. III, p. 94. Idea generale della persecuzione, t. III, p. 95. Stato dei Cristiani nelle province Occidentali, sotto Costanzo, e nel primo periodo del regno di Costantino, t. III, p. 96. Stato dei Cristiani nell'Italia e nell'Affrica sotto Massimiano e Severo, t. III, p. 97. Sotto Massenzio, t. III, p. 98. Nell'Illirico e nell'Oriente sotto Galerio e Massimino, t. III, p. 100. Editto di tolleranza pubblicato da Galerio, t. III, p. 102. Pace della Chiesa, t. III, p. 103. Massimino si prepara a rinnovare la persecuzione, t. III, p. 104. Fine delle persecuzioni, t. III, p. 106. Quanto possa credersi intorno ai patimenti de' martiri e de' confessori, t. III, p. 107. Numero dei martiri, t. III, 109. Conclusione, t. III, p. 111. Loro zelo ai tempi di Costantino, t. IV, p. 90. Loro scuole proibite da Giuliano, t. IV, p. 282. Disfavore in cui vennero, ed oppressioni usate da Giuliano, t. IV, p. 284. Condannati da Giuliano a riedificare i templi pagani, t. IV, p. 285. Cristiani nelle Gallie, t. IV, p. 11. Editto di Milano, t. IV, p. 12. Uso e bellezza della morale Cristiana, t. IV, p. 13. Dottrina e pratica dell'obbedienza passiva, t. IV, p. 14. Lealtà e zelo del partito Cristiano, t. IV, p. 20. Propagazione del Cristianesimo, t. IV, p. 43. Ordinazione del Clero cristiano, t. IV, p. 55. Sue sostanze, t. IV, p. 58. Sue censure spirituali, t. IV, p. 65. Zelo ed imprudenza dei Cristiani sotto Giuliano, t. IV, p. 304. I tre Capitoli del Cristianesimo, t. IX, p. 85. Unione della Chiesa greca e latina, t. IX, p. 97. Separazione perpetua delle Sette Cristiane d'Oriente, t. IX, p. 99. Cristiani di S. Tommaso nell'India, t. IX, p. 110. Cristiani presso gli Arabi, t. X, p. 41. Decadenza del Cristianesimo, e sua caduta in Affrica, t. X, p. 308. Tollerato dai Musulmani in Ispagna, t. X, p. 311.
Cristoforo, Ministro di Costantino VI, t. IX, p. 396.
Croati o Schiavoni della Dalmazia, t. XI, p. 55.
Crociate. Prima Crociata, t. XI, pag. 268. Considerate sotto l'aspetto della equità, t. XII, p. 280. Motivi spirituali, ed Indulgenze, t. XI, pag. 284. Motivi temporali, e mondani, t. XI, p. 290. Forza dell'esempio, t. XI, p. 293. Partenza dei primi pellegrini, condotti da Piero l'Eremita, t. XI, p. 295. Distrutti nell'Ungheria e nell'Asia, tom. XI, p. 297. Partenza dell'esercito de' Crociati, t. XI, p. 300. Cavalleria, t. XI, p. 309. Principi Latini convenuti a Costantinopoli, t. XI, p. 313. Rassegna e novero de' Crociati, t. XI, p. 327. Assedio di Nicea, t. XI p. 332. Battaglia di Dorilea, t. XI, p. 335. I Crociati si volgono all'Asia Minore, t. XI, pag. 337. Vittorie riportate dai Crociati, t. XI, p. 344. Fame e stremi cui si trovano ridotti i Crociati in Antiochia, t. XI, p. 345. Leggenda della Santa Lancia, t. XI, p. 349. Guerrieri celesti, t. XI, p. 352. Spedizioni per terra, incominciando dalla prima Crociata, t. XI, p. 385. Seconda Crociata condotta da Corrado III, e da Luigi VII, t. XI, p. 385. Terza Crociata condotta da Federico, t. XI, pag. 386. Passaggio de' Crociati pei dominj dello Imperator greco, t. XI, p. 389. Considerazioni sulla durata dell'entusiasmo delle Crociate, t. XI, p. 398. Terza Crociata per mare, tom. XI, pag. 427. Assedio di Acri, t. XI, p. 429. Quarta Crociata, t. XI, pag. 442. Quinta Crociata, t. XI, p. 443. S. Luigi, e sesta Crociata, t. XI, p. 448. Presa di Damieta, t. XI, p. 451. Settima Crociata, t. XI, p. 454. Acri e tutta la Terra Santa perduta pei Latini, t. XI, p. 459. Crociata dei baroni Francesi, t. XII, pag. 29. Unione della Crociata e partenza da Venezia, t. XII, p. 39. Assedio di Zara, t. XII, p. 42. Lega de' Crociati col giovane Alessio, t. XII, p. 44. I Crociati partono da Zara per Costantinopoli, t. XII, p. 47. Arrivo, t. XII, p. 50. Inutili tentativi dell'Imperatore per negoziare, tom. XII, p. 51. Passaggio del Bosforo, t. XII, p. 53. Conseguenze generali delle Crociate, t. XII, p. 155. Prigionia de' principi Francesi, t. XII, p. 335.
Cufa. Fondazione di questa città, t. X, p. 169.
D
Dacia. Conquistata da Trajano, t. I, p. 7. Divisa dall'Illirico e come governata, t. I, p. 34. Ceduta ai Goti da Aureliano, t. II, p. 22.
Dafne. Suo tempio e bosco a lei sacro, t. IV, p. 288. Disprezzo e profanazioni, tom. IV, p. 291. Reliquie trasferite alla Chiesa di San Babila, e tempio di Dafne abbruciato, t. IV, p. ivi.
Dalmazia. Divisione dell'Illirico e della Dalmazia, e come fossero governate, t. I, p. 34.
Dalmazio. Nipote di Costantino, che ottiene il titolo di Cesare, t. III, p. 373. Addestrato alle fatiche della guerra, t. III, p. 374.
Damasco. Assedio di questa città, t. X, p. 185. Presa d'assalto dopo d'aver ceduto per capitolazione, t. X, pag. 194. Persecuzione contro i suoi abitanti, t. X, p. 197.
Damaso, Vescovo di Roma. Sua ambizione e lusso, t. V, p. 52.
Damieta. Presa di questa città nelle Crociate, t. XI, p. 451.
Dandolo Enrico, Doge di Venezia. Riceve amichevolmente gli ambasciatori francesi, t. XII, p. 26. Favorisce la quarta Crociata, t. XII, p. 36.
Danubio. Cenni su questo fiume, t. V, p. 96.
Dara. Città situata alla distanza di quattordici miglia da Nisibi e fortificata da Giustiniano VII, p. 343.
Decio, Imperatore. Servigi, ribellioni, vittorie e regno di questo Principe, t. I, pag. 354. Marcia contro i Goti, t. I, p. 356. Ristabilisce la carica di Censore nella persona di Valeriano, t. I, p. 368. Disegno impraticabile e senza effetto, t. I, p. 370. Disfatta e morte di Decio e di suo figlio, t. I, p. 371. Loro elogio, t. I, p. 372.
Demetria. Vergine celebre, nipote di Proba, vedova del prefetto Petronio, t. VI, p. 79.
Demonj. Considerati dall'antichità siccome Dei, t. II, p. 256.
Disciplina ecclesiastica. Variazioni in essa avvenute, t. XII, p. 10.
Diocleziano. Sua elezione all'Impero, t. II, p. 2. Suo carattere, t. II, pag. 106. Guerra civile da lui estinta sul campo di battaglia, e atti di clemenza esercitati, t. II, p. 107. Associazione nell'impero de' due Cesari, Galerio e Costanzo, t. II, p. 110. Impero scompartito fra quattro principi. Loro concordia, t. II, pag. 111. Sua condotta coi contadini della Gallia, t. II, p. 113. Loro ribellione, t. II, pag. 114. Diocleziano imita Probo nel distribuire i Barbari vinti tra i provinciali, t. II, p. 123. Guerra d'Affrica e dell'Egitto, t. II, p. 124. Condotta tenuta da Diocleziano nell'Egitto, tom. II, p. 125. Sopprime tutti i libri d'Alchimia, t. II, pag. 127. Novità e progressi di quest'arte, t. II, p. 128. Guerra persiana, t. II, p. 129. Moderazione di Diocleziano, t. II, p. 140. Conclusione della pace, t. II, pag. 142. Condizioni della medesima, t. II, p. ivi. L'Arasse assegnato per confine ai due Imperi, t. II, p. ivi. Cessione di cinque province di là dal Tigri, t. II, pag. ivi. Trionfo di Diocleziano e di Massimiano, t. II, p. 145. Lunga loro assenza da Roma, t. II, p. 146. Loro residenza in Milano, t. II, pag. 147. Indi in Nicomedia, t. II, pag. 148. Abbassamento di Roma e del Senato, t. II, pag. 149. Nuovi corpi di guardie nominati da Diocleziano, Gioviani ed Erculiani, t. II, p. 150. Magistrature civili omesse, tom. II, pag. 150. Dignità e titoli imperiali, t. II, p. 151. Diocleziano cinge il diadema, ed introduce il cerimoniale persiano, t. II, pag. 153. Nuovo sistema di governo. Due Augusti e due Cesari, tom. II, p. 156. Aumento delle tasse, t. II, p. ivi. Rinuncia di Diocleziano, t. II, pag. 158. Paralello fra Diocleziano e Carlo V, t. II, p. ivi. Lunga malattia di Diocleziano, t. II, pag. 159. Prudenza di Diocleziano, t. II, p. 161. Si ritira in Salona, t. II, pag. ivi. Filosofia di cui dette prove, t. II, p. 162. Descrizione di Salona e del paese circonvicino, t. II, pag. 164. Palazzo di Diocleziano, t. II, p. 165. Decadenza delle arti, t. II, pag. 167. Stato in cui vennero le lettere, t. II, p. 168. Nuovi Platonici, t. II, p. 169. Turbolenze dopo la rinunzia di Diocleziano, t. II, p. 171.
Dione Cassio, storico romano. Vuol riformare l'armata. I Pretoriani dimandano la sua testa, t. I, p. 231. L'imperatore Alessandro Severo lo sottrae al furore delle truppe, t. I, p. 232.
Domiziano. Opprime i Cristiani ed i Giudei, tom. III, p. 34.
Domizio, pretore in Sicilia. Sua crudeltà esercitata su di uno schiavo, t. I, p. 131.
Donatisti. Loro scisma, t. IV, p. 79. Ribellione e furore dei Donatisti Cironcelioni, t. IV, p. 164. Loro suicidi religiosi, tom. IV, p. 167. Donatisti a' tempi di Valentiniano III, t. VI, p. 344.
Dormienti (favola dei sette), p. 359.
E
Ebioniti. Nazarei che s'erano rifiutati d'accompagnare il loro Vescovo Latino, t. II, p. 259. Il nome di Ebionita, termine di disprezzo, t. II, p. 260. Credevano che la religione Giudaica non potesse giammai essere abolita, t. II, p. 263. Onoravano Gesù Cristo come il più grande Profeta, t. III, p. 167.
Ebrei. Riguardati come nazione, t. III, p. 11. Sottomessi ai successori d'Alessandro; sortono dall'oscurità, t. III, p. 14. Loro attaccamento alla legge di Mosè, e loro avversione per ogni culto straniero, t. III, pag. 15. Erano più attaccati alle tradizioni de' loro maggiori, che alle pruove che avevano sotto gli occhi proprii, t. III, p. 17. Non era loro permesso il matrimonio cogli stranieri, tom. III, pag. 18. Riconoscevano nel Messia l'aspettato Gesù degli Oracoli, t. III, pag. 22. I quindici primi Vescovi di Gerusalemme furono tutti Giudei circoncisi, tom. III, p. 24. Sotto il regno d'Adriano giunsero al colmo le loro disgrazie, t. III, p. 26. Nella dottrina mosaica non facevasi alcun cenno dell'anima, t. III, p. 43. Orribili crudeltà commesse dagli Ebrei nelle città d'Egitto, di Cipro e di Cirene, t. III, p. 189. Loro antichi privilegi concessi dalla bonomia d'Antonino Pio, t. III, p. 190. Ebrei al tempo di Giuliano, t. IV, pag. 268. Loro persecuzione nella Spagna, t. VII, p. 69. Ebrei presso gli Arabi, tom. X, p. 41.
Edessa, città. Questo piccolo Stato conteneva la parte settentrionale e la più fertile della Mesopotamia, t. II, p. 30. Suo principato fondato da Baldovino, t. XI, p. 338.
Edrisiti, t. X, p. 397.
Efeso. Suo tempio di Diana abbruciato dai Goti, t. I, p. 398. Suo primo Concilio, t. IX, p. 43. Opposizione dei vescovi d'Oriente, t. IX, p. 47. Suo secondo Concilio, t. IX, p. 57.
Egidio. Sua rivolta nella Gallia, t. VI, p. 505.
Egitto. Descrizione di questo paese, t. I, p. 38. Guerra seguita in questo paese colle armi di Diocleziano, t. I, p. 238. Conquistato da Cosroe, t. VIII, p. 389. Invaso e conquistato da Amrou, t. X, p. 230. Sue città di Menfi, di Babilonia e del Cairo, t. X, p. 234. Amministrazione di questo paese, t. X, p. 250. Sua ricchezza e popolazione, t. X, p. 251.
Elagabalo, chiamato prima Bassiano e Antonino. Sue ribellioni, t. I, p. 211. Scrive al Senato, t. I, p. 214. Suo ritratto, t. I, p. 216. Sua superstizione, t. I, p. ivi. Sue sfrenate dissolutezze, t. I, p. 218. Disprezzo che i tiranni di Roma avevano per le leggi della decenza, t. I, p. 220. I soldati malcontenti, t. I, p. 221. Sedizione dei Pretoriani ed uccisione di Elagabalo, t. I, p. 222.
Eliopoli, assedio di questa città, t. X, p. 202.
Emesa, assedio di questa città, t. X, p. 202.
Emiliano, sue vittorie e ribellione, t. II, p. 375. L'armata lo proclama Imperatore sul campo di battaglia t. II, p. 376. Sue lettere al Senato, t. II, p. ivi. Soccombe sotto Valeriano, e sua morte, t. II, p. 377.
Enea di Gazza, filosofo della Setta di Platone, che riportò sagge osservazioni sui martiri dell'Affrica, tom. VI, p. 505.
Enrico, re dei Visigoti, t. VII, p. 75.
Enrico l'Uccellatore. Sue vittorie, t. XI, p. 75.
Enrico III, imperatore. Chiamato in soccorso dai Greci, t. XI, p. 172. Assedia Roma, t. XI, p. 174. Fugge all'avvicinar di Roberto, t. XI, p. 175.
Enrico IV, imperatore. Conquista il regno di Sicilia, t. XI, p. 203.
Enrico, re. Suo regno ed indole, t. XII, p. 127.
Enrico, re de' Visigoti, tom. VII, p. 75. I suoi successi lo rendono l'Oracolo dell'Occidente, e sua morte immatura, t. VII, p. 76.
Epifanio (Sant') vescovo di Pavia, parte, col benefico carico di mediatore per Roma, ove è accolto con quelle onorificenze dovute al suo merito e alla sua rinomanza, t. VI, p. 532.
Epiteto (lo Schiavo) onora il secolo in cui visse, t. II, p. 348.
Eracliano, conte dell'Affrica. Sua ribellione e disfatta, t. VI, p. 201.
Eraclio. Suo regno, t. VIII, p. 384. Suo cattivo stato, t. VIII, pag. 394. Implora la pace, t. VIII, p. 396. Si apparecchia alla guerra, t. VIII, p. 397. Sua prima spedizione contro i Persiani, t. VIII, p. 401. Sua seconda spedizione, t. VIII, p. 404. Costantinopoli liberata dagli Avari e dai Persiani, t. VIII, p. 410. Alleanze e conquiste di Eraclio, tom. VIII, pag. 414. Sua terza spedizione, t. VIII, p. 416. Sue vittorie, t. VIII, p. 417. Trattato di pace fra i due imperii, t. VIII, pag. 423. L'Ectesi, t. IX, p. 91. Suo secondo matrimonio, t. IX, p. 148. Sua morte, t. IX, p. 148.
Eracleone, t. IX, pag. 150. Punizione di Martina e di Eracleone, t. IX, p. 152.
Ermanrico. Sua conquista del Danubio, t. V, p. 96.
Ermenegildo. Sua rivolta e suo martirio nella Spagna, t. VII, p. 73.
Erode Attico. Suo esempio, t. I, p. 68.
Eudossia imperatrice. Suo carattere, sue avventure e suo matrimonio con Teodosio, t. VI, p. 320. Suo pellegrinaggio a Gerusalemme, t. VI, p. 322. Sua ambizione e sue contese con Pulcheria, t. VI, p. 323. Spogliata ignominiosamente degli onori del suo grado, e muore in esilio, t. VI, p. 324.
Eugenio il gramatico. Sua usurpazione a' tempi di Teodosio, t. V, p. 345. Teodosio gli dichiara la guerra, lo sconfigge, e muore tom. V, p. 347.
Eugenio IV, Papa, t. XII, p. 444. Lega da lui formata contro i Turchi, t. XIII, p. 19.
Eunapo. Suoi frammenti istorici e filosofici pieni d'invettive contro i principii dei suoi avversarii, tom. V, p. 387.
Eunuchi. Sono introdotti nella Grecia e in Roma, e loro potenza a' tempi di Costanzo, t. III, p. 394.
Euripide, poeta. Nella sua tragedia d'Ifigenia ha posta la scena nel Chersoneso Taurico, t. I, 388.
Europa. Stato delle sue fortificazioni circa il cinquecento, t. VII, p. 328.
Eusebio di Cesarea. Spiegazione equivoca da lui data al vocabolo homoousion, t. IV, p. 114.
Eutiche. Sua eresia, t. IX, p. 56.
Eutropio. Sua amministrazione e carattere, t. VI, p. 275. Sua venalità ed ingiustizia, t. VI, p. 278. Crudele ed ingiusta legge di lesa maestà, t. VI, 283. Caduta d'Eutropio, t. VI, 289.
Ezio, generale di Placidia, madre dell'Imperatore Valentiniano III, tom. VI, p. 357. Suo carattere ed amministrazione, tom. VI, p. 412. Sua relazione cogli Unni e cogli Alani, t. VI, p. 414. Gli vien tolta la vita da Valentiniano, tom. VI, p. 459.
F
Falcando, storico. Sue lamentazioni, t. XI, p. 201.
Fausta, figlia di Massimiano. Sposa il grande Costantino, t. III, p. 334. Suoi artificii contro Crispo figlio primogenito di Costantino, tom. III, p. 337. Condanna e supplicio di questo principe, t. III, p. 340. Suoi tre figli e loro educazione, t. III, p. 344.
Faustina, moglie di Marc-Aurelio, celebre per la sua bellezza e per le sue galanterie, t. I, p. 126.
Fede. Formole di fede Arriane, t. IV, p. 104.
Fede della Chiesa occidentale e latina, t. IV, p. 109.
Federico I. Cenni su questo Principe, t. IX, p. 361. Suoi successi, t. XIII, p. 177.
Federico II, t. IX, p. 362.
Federico III. Ultimo degli Imperatori romani coronato a Roma, t. XIII, p. 380.
Felice (S.) Vescovo d'Affrica, t. III, p. 91. Decapitato a Venosa nella Lucania, luogo celebre pel nascimento di Orazio, t. III, p. 92.
Fermo. Sua ribellione a' tempi di Valentiniano nelle province della Numidia e della Mauritania, t. V, p. 81. Ammazza in una contesa il proprio fratello, t. V, p. ivi. In una notte viene strozzato, t. V, p. 85.
Filippo, prefetto del pretorio. Sue brighe, dopo la morte di Gordiano, t. I, p. 286. È sollevato all'Impero, t. I, p. 287. Nel suo regno si rinnovano i giuochi secolari, t. I, p. 290.
Filippico, Imperatore dei Romani, t. IX, p. 162.
Filosofia Platonica, t. XII, p. 492.
Finanza ed imposte. Loro stato dai bei secoli della repubblica sino al regno di Alessandro Severo, t. I, p. 235. Imposizione del tributo sopra i cittadini Romani, t. I, p. 236. Il tributo abolito, t. I, p. 237. Tributi delle province dell'Asia, dell'Egitto, della Gallia, dell'Affrica, della Spagna e dell'isola di Giera, t. I, p. 238. Somma dell'entrate, t. I, p. 240. Tasse imposte da Augusto sui cittadini Romani t. I, p. ivi. Gabelle, t. I, p. 241. Imposizione sulle vendite, t. I, p. 242. Tasse sui Legati e sulle eredità, t. I, p. 243. Conforme alle leggi ed ai costumi, t. I, p. 244. Regolamenti degli Imperatori, t. I, p. 245. Editto di Caracalla, t. I, p. 246. La cittadinanza conferita ai provinciali per sottometterli alle tasse, t. I, p. 247. Diminuzione passeggiera del tributo, t. I, p. ivi. Conseguenza dell'universale cittadinanza romana, t. I, p. 248. Finanze sotto Costantino, tom. III, p. 312. Tributo generale o indizione, t. III, p. 313. Tasse in forma di capitazione, t. III, p. 317. Capitazione sul commercio e sull'industria, t. III, p. 323. Liberi donativi, t. III, p. 325.
Fingal e i suoi Eroi, t. I, p. 193.
Flavia. Famiglia di questo nome e sua stirpe, t. I, p. 111.
Flavio Clemente. Sua condanna e morte, t. III, p. 37.
Floriano fratello di Tacito. Usurpa il trono, tom. II, p. 67. Morte dell'usurpatore, dopo tre mesi, t. II, p. 68. I discendenti di Tacito e di Floriano rimangono nell'oscurità, t. II, p. 68.
Foca. Sua elezione, t. VIII, p. 373. Rivolta di Costantinopoli, t. VIII, p. 374. Creato imperadore, t. VIII, p. 377. Suo carattere, tom. VIII, p. 378. Sua tirannide, t. VIII, p. 379. Sua caduta e morte, tom. VIII, p. 381.
Fortificazioni d'Europa circa il cinquecento, t. VII, pag. 328. Dell'impero dall'Eusino sino alle frontiere della Persia, t. VII, p. 336. Di Dara in Persia, t. VII, p. 343.
Fozio, Patriarca di Costantinopoli. Sue dispute di ambizione coi Pontefici, t. XII, p. 12.
Francia. Origine di questo nome, idea dello stato generale di questo paese e delle sue rivoluzioni, t. VII, p. 73. Invasa dagli Arabi, t. X, p. 334. Liberata da Carlo Martello, t. X, p. 339. Riunione del ducato di Normandia alla corona di Francia, t. XI, p. 206.
Franchi. Loro origine e loro confederazione coi Romani, t. I, p. 379. Invadono la Gallia, t. I, p. 381. Devastano la Spagna, t. I, p. 387. Passano in Affrica, t. I, pag. 388. Loro ardita impresa, t. II, p. 80. Loro stabilimento nell'impero, t. II. p. ivi. Soggiogati da Giuliano, t. IV, pag. 63. Loro stabilimento nella Gallia sotto i re Merovingi, t. VI, pag. 421. Loro totale conquista della Borgogna, t. VII, p. 94. Loro conquista della Aquitania, t. VII, pag. 102. Totale stabilimento della Monarchia francese nella Gallia, tom. VII, pag. 105. Controversie politiche, t. VII, p. 108. Anarchia de' Franchi, tom. VII, 139. Invadono l'Italia, t. VII, p. 453. Loro discesa in questo paese cogli Alemanni, t. VIII, pag. 128. Ripugnanza loro e di Carlo Magno, t. IX, pag. 318. I Franchi e i Latini, t. X, p. 468. Loro carattere e loro tattica, t. X, p. 471. Loro tracotanza nelle Crociate, t. XI, pag. 225. Loro indugio, t. XI, p. 356. Marciano verso Gerusalemme, t. XI, pag. 357. Assediano e conquistano questa città nell'anno stesso, t. XI, p. 358. Loro Lega coi Veneziani, tom. XII, p. 336.
G
Gaina, Capo dei Goti. Fa massacrare Rufino, t. VI, p. 25. Primo generale d'Oriente, si dichiara contro Stilicone suo benefattore, t. VI, p. 27. Fomenta la ribellione di Tibigildo, tom. VI, p. 287. Sua cospirazione e caduta, tom. VI, p. 292.
Galerio. Sua associazione all'Impero, t. II, p. 110. Discende il Danubio contro i Barbari, t. II, p. 122. Come li trattasse, t. II, p. 123. Sua disfatta nella guerra della Persia, t. II, pag. 134. Ricevimento che gli fa Diocleziano, t. II, p. 136. Vittoria da lui riportata sui Persiani, t. II, p. ivi. Condotta da lui tenuta verso la famiglia del debellato Narsete, t. II, p. 137. Negoziazioni di pace, t. II, p. 138. Discorso da lui tenuto agli ambasciadori Persiani, tom. II, p. 139. Assume il titolo d'Augusto, t. II, p. 171. Sud carattere, t. II, p. 172. Sua ambizione sconcertata da due rivoluzioni, t. II, p. 175. Riconosce Costantino, e gli conferisce soltanto il titolo di Cesare, t. II, 180. Conferisce il titolo d'Augusto a Severo suo favorito, t. II, p. 181. Ribellione de' Romani contro di lui, t. II, p. 188. Invade l'Italia, t. II, p. ivi. Tristi successi di questa spedizione, e sua ritirata, t. II, p. 191. Innalza Licinio e Massimino al rango d'Augusti, t. II, p. 192. Sua morte, t. II, p. 196. Sorte sgraziata della sua vedova e del suo figlio, t. II, p. 222. Editto di tolleranza pubblicato prima della sua morte, t. III, p. 73.
Gallia. Sua divisione in sei province romane, t. I, p. 30. Sua estensione e sue città assai floride, t. I, p. 72. Forma parte dell'Impero, t. I, p. 73. I Barbari la invadono, t. I, p. 381. Gli Svevi vi discendono anch'essi sotto il nome di Alemanni, tom. I, p. 383. Acquistata all'Impero da Aureliano, t. II pag. 30. Successione degli usurpatori nella Gallia, t. II, p. 31. Sollevazione di Bonoso e Procolo nella Gallia, t. II, p. 82. Stato dei contadini della Gallia, ai tempi dei due Cesari Galerio e Costanzo, t. II, p. 113. Governo di Costantino nella Gallia, t. II, p. 199. Invasione della Gallia fatta dai Germani, t. III, p. 437. Prima campagna fatta da Giuliano nella Gallia, t. III, p. 441. Seconda campagna, t. III, p. 443. Città della Gallia restaurate, t. III, p. 454. Descrizione di Parigi, tom. III, p. 458. Cristiani della Gallia protetti, t. IV, p. 11. Gli Alemanni invadono la Gallia, t. V, p. 56. Desolazione della Gallia per l'invasione de' Germani, t. VI, pag. 89. Costantino è riconosciuto nella Gallia, t. VI, p. 94. Adolfo re dei Goti marcia nella Gallia, t. VI, p. 192. Rivoluzioni della Gallia, t. VI, p. 204. Stato dei Barbari nella Gallia, t. VI, p. 221. Assemblea delle sette province della Gallia, t. VI, p. 229. Attila si prepara ad invadere la Gallia, t. VI, p. 410. I Visigoti nella Gallia sotto il regno di Teodosio, t. VI, p. 416. I Franchi nella Gallia sotto i re Merovingi, t. VI, p. 421. Attila invade la Gallia, ed assedia Orleans, t. VI, p. 426. Attila si ritira nelle pianure della Sciampagna, t. VI, p. 434. Battaglia di Chalon, t. VI, p. 438. Rivolta d'Egidio nella Gallia, t. VI, p. 505. Conquiste dei Visigoti nella Gallia, t. VI, p. 524. Martino nella Gallia, t. VII, p. 12. Rivoluzione della Gallia, t. VII, pag. 73. Finale stabilimento della Monarchia francese nella Gallia, tom. VII, p. 105. Privilegi dei Romani nella Gallia, tom. VII, p. 136. Ampiezza dell'Impero di Carlo Magno nella Gallia, t. IX, p. 332. Invasione della Gallia eseguita dagli Arabi, t. X, p. 334. I Paoliziani fermano il loro soggiorno nella Gallia, t. XI, p. 30.
Gallo. Sua elezione in Imperatore Romano, tom. I, p. 273. Compra la pace pagando un annuo tributo ai Goti, t. I, p. 374. Disgusto popolare, t. I, p. 375. Rivolta d'Emiliano e abbandono ed uccisione di Gallo, t. I, p. 376. Sua morte vendicata, tom. I, p. 377.
Gallo, nipote di Costantino. Sua educazione, t. III, p. 397. Vien dichiarato Cesare, tom. III, p. 398. Sua crudeltà, sua imprudenza, t. III, p. 400. Fa massacrare i Ministri dell'Imperatore, t. III, p. 402. Pericoli della sua situazione, t. III, 404. Sua disgrazia e sua morte, t. III, p. 405.
Gallieno, divide il trono col suo padre Valeriano. Infortunio del suo regno, tom. I, p. 378. Esclude i Senatori dal servigio militare, t. I, pag. 385. Fa alleanza cogli Alemanni, t. I, pag. 386. Suo carattere ed amministrazione, t. I, pag. 407. Sua morte, t. II, pag. 7. Stato dei Cristiani sotto il suo regno, t. III, pag. 73.
Gelasio II, Papa, t. XIII, p. 149.
Gelimero. Usurpa il trono di Ilderico, t. VII, pag. 362. Fa la conquista della Sardegna, tom. VII, pag. 375. Viene disfatto da Belisario in Affrica, t. VII, p. 378. Fa mettere a morte Ilderico e i suoi partigiani, t. VII, p. 380. Ultima disfatta di Gelimero e dei Vandali, t. VII, p. 384. Sue angustie e schiavitù, tom. VII, p. 392. Fine di Gelimero nella Galazia, t. VII, p. 399.
Generali romani. Loro potere, t. I, p. 93.
Gengiskan, primo Imperatore de' Mongulli e dei Tartari, t. XII, p. 282. Sue leggi, t. XII, p. 285. Invade la Cina, t. XII, p. 289. Batte il Sultano Mohammed, e si impadronisce di Carizme, del Turkestan e della Persia, t. XII, p. 291. Sua morte, t. XII, p. 294.
Gennerido, soldato di barbara estrazione, gran generale della Dalmazia, della Pannonia, della Norica e della Rezia. Rianima la disciplina e lo spirito della repubblica, t. VI, p. 163.
Genovesi. Scacciati che furono i Latini da Costantinopoli, fermarono la loro dimora a Pera o Galata, t. XII, p. 269. Loro commercio e loro tracotanza al Mar Nero, t. XII, p 272. Loro guerra contro l'imperatore Cantacuzeno, t. XII, p. 274. Sconfitta data dai Genovesi alla flotta di Cantacuzeno, t. XII, pag. 275. Vittoria da essi riportata sui Greci e sui Veneziani, tom. XII, pag. 276. Rendonsi padroni della navigazione del Mar Nero, fino all'epoca della conquista de' Turchi, dopo la rovina di Costantinopoli, t. XII, p. 280.
Genserico, re dei Vandali. Suo ritratto, t. VI, p. 341. Sbarca in Affrica, t. VI, p. 242. Dà il sacco a Roma, t. VI, pag. 472. Sue spedizioni navali, tom. VI, pag. 507. Sue negoziazioni coll'Impero d'Oriente, tom. VI, pag. 508. Incendia la flotta Romana sulla costa dell'Affrica, t. VI, p. 522.
Geougi, popolo Tartaro. I loro principi ereditarj, discendenti dallo schiavo Moko, occupano un posto fra i Monarchi della Scizia, tom. VI, p. 77.
Gepidi. Invadono le province romane fra il Danubio e le Alpi, t. VIII, p. 9. Loro distruzione, t. VIII, p. 12. Morte del loro re Cunemondo, e distruzione di questo regno, t. VIII, p. 286.
Germani, loro origine, t. I, p. 321. Favole e congetture, t. I, p. 322. I Germani non conoscevano l'uso delle lettere, t. I, p. 324. Ignoranti nelle arti e nell'agricoltura, t. I, p. 326. Non avevano, nè maneggiavano metalli, t. I, p. 327. Loro indolenza, t. I, p. 328. Loro trasporto per le bevande spiritose, t. I, p. 330. Libertà dei Germani, t. I, p. 332. Assemblee del popolo, t. I, p. 334. Autorità dei Principi e dei Magistrati, t. I, p. 335. Più assoluti sui beni che sulle persone dei Germani, t. I, p. 336. Obbligazioni volontarie, t. I, pag. ivi. Castità dei Germani, tom. I, p. 338. Sue probabili cagioni, tom. I, p. 339. Cagioni che impedirono i progressi dei Germani, t. I, p. 345. Mancanza d'armi, t. I, p. ivi. Mancanza di disciplina, t. I, pag. 346. Dissensioni civili fra loro, t. I, p. 348. Fomentate dalla politica romana, t. I, pag. 349. Loro unione passeggera contro Marco Antonino, t. I, p. 350. Divisione delle tribù Germaniche, t. I, p. 351. Loro numero, t. I, pag. 352. Invadono la Gallia, t. III, p. 437. L'invadono di nuovo sotto Valentiniano, t. V, p. 56. Emigrazione de' Germani settentrionali, t. VI, pag. 77. Un branco d'essi invade la Gallia, tom. VI, p. 86.
Germania. Suo stato fino all'invasione de' Barbari sotto il regno dell'Imperatore Decio, t. I, pag. 316. Sua estensione, t. I, pag. 317. Suo clima, t. I, pag. 318. Suoi effetti sopra i naturali del paese, t. I, pag. 320. Stato della sua popolazione, tom. I, p. 331. Religione, t. I, pag. 341. Suoi effetti nella pace, t. I, pag. 342. Nella guerra, t. I, p. 343. I Bardi, t. I, p. 344. Dissensioni politiche fomentate dai Romani, t. I, p. 349. Spedizione di Probo nella Germania, t. II, pag. 75. Sottomessa da Attila, t. VI, pag. 371. Riunita da Carlomagno sotto il medesimo scettro, t. IX, p. 335.
Gerusalemme. Giuliano progetta la riedificazione del suo tempio, t. IV, p. 274. Descrizione di questa città, t. IV, p. 276. Pellegrinaggi, t. IV, p. 277. Il progetto della riedificazione non riesce, t. IV, p. 280. Conquistata da' Saracini, t. X, p. 211. Stato di questa città, e particolarità sulle peregrinazioni al Santo Sepolcro, t. XI, p. 255. Condizione di Gerusalemme sotto i Califfi Fatimiti, tom. XI, pag. 260. Numero de' pellegrini aumentato, t. XI, pag. 263. Conquistata dalle armi turche, t. XI, p. 265. Suo reame sotto i Crociati, t. XI, p. 367. Sue Assise, t. XI, pag. 371. Corte dei Pari, t. XI, p. 373. Legge de' combattimenti giudiziarii, t. XI, pag. 375. Corte de' Borghesi, t. XI, p. 377. Conquista del suo regno e presa della città fattasi dal Sultano Saladino, t. XI, p. 420.
Gesù Cristo. Sua Incarnazione, t. IX, p. 5. Nato solamente uomo, secondo gli Ebioniti, t. IX, p. 8. Sua nascita e suoi effetti, t. IX, p. 11. Gesù Cristo un Dio in tutta la sua dignità, secondo i Doceti, t. IX, p. 15. Il suo corpo incorruttibile, t. IX, p. 17. La doppia natura di Cerinto, t. IX, p. 20. La divina Incarnazione di Apolinare, t. IX, p. 22. Assenso degli Ortodossi al decreto della Chiesa cattolica, e disputa sulle parole con cui si esprimerebbe questo Dogma, t. IX, p. 26. Il Trisagion e la guerra di religione fino alla morte di Anastasio, t. IX, p. 73. Prima guerra religiosa, t. IX, p. 77.
Gesuiti. Loro missione in Etiopia, t. IX, p. 137. Conversione dell'Imperatore degli Abissini, t. IX, p. 138. Espulsione finale de' Gesuiti, t. IX, p. 140.
Geta, figlio di Settimio Severo. Nominato Imperatore con suo fratello Caracalla dopo la morte del loro padre, t. I, p. 195. Sua avversione contro il fratello Caracalla, t. I, p. 196. Negoziazioni con Caracalla per dividere l'Impero, t. I, p. 197. Viene ucciso dal suo fratello, t. I, p. 198. Posto fra gli Dei, t. I, p. 200.
Giacobiti, t. IX, p. 114.
Giamblico (il divino). Filosofo della scuola di Platone, ammirato come uno dei primi maestri nella scienza dell'allegoria, t. IV, p. 243.
Giannizzeri, t. XII, p. 330.
Gildone. Sua ribellione in Affrica, t. VI, p. 29. Condannato dal Senato di Roma, t. VI, p. 32. Guerra d'Affrica; disfatta e morte di questo usurpatore, t. VI, p. 36.
Giorgio di Cappadocia. Opprime Alessandria e tutto l'Egitto, t. IV, p. 296. Trucidato dal popolo, t. IV, p. 297. Indi venerato come Martire, t. IV, p. 299.
Giornandes. Misurò il campo Catalanico, conosciuto sotto il nome di provincia della Sciampagna, t. IV, 435.
Giovanni Zimiscè, tom. IX, p. 202.
Giovanni, o Calo Giovanni, t. IX, p. 223.
Giovanni XII, Papa, t. IX, p. 356.
Giovanni, usurpatore dell'Impero d'Occidente. Sua elevazione e sua caduta, t. VI, p. 332.
Giovanni Crisostomo (S.). Eletto Arcivescovo di Costantinopoli; suo merito, t. VI, p. 297. Sua amministrazione pastorale e suoi difetti, tom. VI, 300. Perseguitato dall'Imperatrice Eudossia, t. VI, p. 303. Sollevazione popolare in quest'occasione, t. VI, 304. Suo esilio, t. VI, p. 307. Sua morte, t. VI, p. 309. Sue reliquie trasportate a Costantinopoli, t. VI, p. 309.
Giovanni di Cappadocia, tom. VII, p. 312. Suoi edifizii ed architetti, t. VII, p. 315. Fabbrica della chiesa di Santa Sofia, t. VII, p. 319.
Giovanni di Brienne Imperatore di Costantinopoli, tom. XII, p. 137.
Giovanni Duca Vatace, tom. XII, p. 178.
Giovanni Paleologo. Suo regno, t. XII, p. 249.
Giovanni Corvino. Uniade, t. XIII, p. 32.
Gioviano. Eletto Imperatore, t. IV, 370. Seguita la guerra contra Sapore, t. IV, p. 373. Vergognosa negoziazione di pace, t. IV, 376. Debolezza di Gioviano, t. IV, p. 378. Evacua la provincia, e ritirasi verso Nisibi, t. IV, p. 380. Disapprovazione generale del suo negoziato di pace, t. IV, p. 383. Abbandona Nisibi, e restituisce a' Persiani le cinque province, t. IV, p. 385. Pubblica una tolleranza universale dopo d'avere stabilita la pace nella Chiesa e nello Stato, t. V, p. 9. Sua marcia da Antiochia, t. V, p. 11. Sua morte, t. V, p. 12. Trono vacante, t. V, p. 14.
Giovino. Incoronato a Magonza, e caduta di questo usurpatore, t. VI, p. 208. È decapitato, t. VI, p. 210.
Girolamo (S.). La sua gratitudine contribuì al merito ed al carattere assai sospetto di Damaso vescovo di Roma, t. V, p. 52. Piange gli orrori commessi dai Goti nella Pannonia, t. V, p. 245.
Giubbileo. Sua istituzione, e primo Giubbileo, t. XIII, p. 198. Giubbileo secondo, t. XIII, p. 202.
Giudei,. Unico popolo che siasi rifiutato di soscriversi al commercio universale del Genere umano, t. II, p. 247. Sottomessi ai successori di Alessandro, sortirono dall'oscurità, t. II, p. 248. Il loro attaccamento alle leggi di Mosè uguagliava l'abborrimento che avevano per le religioni straniere, t. II, p. 249. La religione Giudaica credeva più fermamente le tradizioni de' suoi maggiori che le testimonianze de' proprii sensi, t. II, p. 251. Era proibito ai Giudei di contrarre matrimonio o affinità colle altre nazioni, t. II, p. ivi. I Giudei convertiti, riconoscevano nella persona di Gesù il Messia annunciato da' vecchi oracoli, t. II, p. 255. I primi quindici Vescovi di Gerusalemme furono tutti Giudei circoncisi, t. II, p. 256. Sotto il regno di Adriano, il disperato fanatismo de' Giudei pose il colmo alle loro calamità, t. II, p. 258. La dottrina dell'immortalità dell'anima non accennata nella legge di Mosè, t. II, p. 276. Orribili crudeltà commesse dai Giudei nelle città d'Egitto, di Cipro e di Cirene, t. III, p. 8. L'indole mansueta di Antonino Pio restituisce ai Giudei gli antichi loro privilegi, t. III, p. 9. Sdegnando di trattare cogli altri popoli, godevano in libertà l'esercizio della loro insocievole religione, t. III, p. 11. Gl'Imperadori decretano una capitazione generale sul popolo Giudaico, t. III, p. 35. I Giudei sono protetti da Giuliano l'Apostata, t. IV, p. 279. Sono perseguitati nella Spagna, t. VII, p. 69. Oppressi da Giustiniano, t. IX, p. 82.
Giudizii di Dio. I Magistrati usavano nell'incertezza della testimonianza colle famose prove del fuoco e dell'acqua, t. VII, p. 117.
Giudizii del popolo. I cittadini di Roma e di Atene in materia criminale venivano giudicati dal popolo, t. VIII, p. 269.
Giulia, l'Imperatrice, moglie di Settimio Severo. Sue eccellenti qualità, t. I, p. 189. S'applicava alle lettere ed alla filosofia, t. I, p. 190. È assassinato nel suo palazzo, da Caracalla, Geta suo figlio, ed ella stessa vien ferita in una mano, volendo salvarlo, t. I, pag. 198. Giulia è costretta a ricevere l'assassino con sorriso di approvazione e di gioia, t. I, pag. 200. Ridotta, dopo la morte di Caracalla, alla condizione di suddita, con volontaria morte pon fine all'umiliante sua dipendenza, t. I, p. 211.
Giuliano, Didio, ricco Senatore, compra l'Impero dai Pretoriani, t. I, p. 160. È riconosciuto dal Senato, t. I, p. ivi. Prende possesso del palazzo, t. I, p. 161. Malcontento del pubblico, t. I, pag. 162. Gli eserciti della Brittania, della Sorìa e della Pannonia si dichiarano contro di lui, t. I, pag. ivi. Sue angustie dopo che Settimio Severo fu dichiarato imperatore dalle legioni Pannoniche, t. I, p. 169. Sua incertezza, t. I, p. 170. È abbandonato da' Pretoriani, t. I, p. 171. Condannato e decapitato per ordine del Senato, t. I, p. 172.
Giuliano, l'Apostata, nipote di Costantino. Sua educazione, t. III, p. 397. Suo pericolo e sua liberazione, t. III, p. 407. Suo esilio in Atene, t. III, p. 409. Vien richiamato a Milano, t. III, p. 412. Dichiarato Cesare, t. III, p. 413. Nuovo obelisco, t. III, pag. 419. Sua condotta e sua vita privata, t. III, p. 439. Prima campagna da lui fatta nella Gallia, t. III, p. 441. Seconda campagna, t. III, p. 443. Battaglia di Strasburgo, tom. III, p. 445. Vittoria di Giuliano, t. III, p. 447. Tre spedizioni di Giuliano al di là del Reno, t. III, p. 452. Città della Gallia ristaurate, t. III, p. 454. Sua amministrazione civile, tom. III, p. 456. Gelosia di Costanzo contro di lui, t. IV, p. 179. Giuliano proclamato Imperatore dalle legioni della Gallia, t. IV, p. 185. Sue proteste d'innocenza, t. IV, p. 188. Ambasceria a Costanzo, t. IV, p. 190. Quarta e quinta spedizione di Giuliano al di là del Reno, t. IV, pag. 192. Negoziato inutile, e intimazione di guerra, t. IV, p. 194. Giuliano s'accinge ad assalire Costanzo, tom. IV, pag. 197. Dal Reno marcia nell'Illirico, t. IV, p. 200. Giustifica la propria causa, t. IV, p. 204. Preparamenti ostili, t. IV, p. 206. Dopo la morte di Costanzo, Giuliano è riconosciuto da tutto l'Impero, t. IV, pag. 211. Governo civile e vita privata del medesimo t. IV, pag. 212. Conghietture sull'intervallo fra la morte di Costanzo e la partenza di Giuliano accintosi alla guerra Persiana, t. IV, p. 215. Riforma della Corte imperiale, tom. IV, p. 216. Tribunale di giustizia, t. IV, pag. 220. Punizione contemporanea dell'innocente e del reo, t. IV, p. 221. Clemenza di Giuliano, t. IV, p. 224. Propenso alla libertà ed alla repubblica, t. IV, p. 226. Sua sollecitudine verso le città greche, t. IV, p. 229. Giuliano oratore e giudice, t. IV, pag. 230. Indole di Giuliano, t. IV, p. 235. Religione di Giuliano, t. IV, p. 234. Educazione ed apostasia del medesimo, t. IV, p. 237. Abbraccia la mitologia del paganesimo, t. IV, p. 240. Allegorie, t. IV, p. 242. Sistema teologico di Giuliano, t. IV, p. 244. Fanatismo de' filosofi, t. IV, p. 246. Iniziazione e fanatismo di Giuliano, tom. IV, p. 247. Religiosa dissimulazione, tom. IV, p. 250. Scritti da esso composti contro la religione Cristiana, t. IV, p. 252. Tolleranza universale, t. IV, p. 254. Zelo e divozione di Giuliano nella ristaurazione del Paganesimo, t. IV, p. 256. Riforma del Paganesimo, t. IV, p. 259. Giuliano tenta di rifabbricare il tempio di Gerusalemme, t. IV, p. 274. Parzialità di Giuliano per gli Ebrei, t. IV, pag. 279. Giuliano perseguita Atanasio, e lo scaccia dalla sua sede, t. IV, p. 302. Cesari nominati da Giuliano, t. IV, p. 309. Risoluzione di marciare contro i Persiani, t. IV, p. 311. Da Costantinopoli passa in Antiochia, t. IV, p. 313. Il popolo d'Antiochia contrario a Giuliano, t. IV, p. 316. Giuliano compone una satira contro gli abitanti d'Antiochia, t. IV, p. 319. Marcia verso l'Eufrate, t. IV, p. 323. Suo disegno d'invadere la Persia, t. IV, p. 325. Alienazione del re di Armenia, t. IV, p. 327. Apparecchii militari, t. IV, p. 328. Giuliano entra nel territorio Persiano, t. IV, p. 330. Marcia pel deserto della Mesopotamia, t. IV, p. 331. Suoi successi, t. IV, pag. 333. Invade la Sorìa, tom. IV, p. 338. Assedio di Perisabor, t. IV, p. ivi. Di Maogamalca, t. IV, pag. 340. Personale condotta di Giuliano, t. IV, p. 342. Conduce la sua flotta dall'Eufrate al Tigri, t. IV, p. 346. Passaggio del Tigri, e vittoria de' Romani, tom. IV, p. 348. Stato di Giuliano, e sua ostinazione, tom. IV, p. 352. Incendia la flotta, t. IV, p. 355. Marcia contro di Sapore, t. IV, pag. 358. Ritirata ed angustie dell'esercito Romano, tom. IV, pag. 361. Giuliano è ferito mortalmente, t. IV, p. 364. Morte di Giuliano, t. IV, p. 366. Riflessioni sopra la sua morte, t. IV, p. 387. Suoi funerali, t. IV, p. 390.
Giulio Nipote. Imperatore di Occidente insieme con Glicerio, t. VI, p. 537. Sua abdicazione e sua morte, t. VI, p. 539.
Giuochi secolari. Rinnovati da Filippo, t. I, p. 287.
Giurisprudenza Romana, tom. VIII, p. 161. Leggi dei Re di Roma, t. VIII, p. 163. Le Dodici Tavole dei Decemviri, t. VIII, p. 166. Loro indole ed influenza, t. VIII, p. 169. Leggi del popolo, t. VIII, p. 171. Decreti del Senato, t. VIII, p. 174. Editti de' Pretori, t. VIII, p. ivi. Editto perpetuo, t. VIII, p. 176. Costituzioni degli Imperadori, t. VIII, p. 177. Loro potere legislativo, tom. VIII, p. 178. Loro rescritti, tom. VIII, p. 180. Forma della legge romana, t. VIII. p. 182. Successioni de' legisti civili, t. VIII, p. 184. Primo periodo, t. VIII, p. ivi. Secondo periodo, t. VIII, p. 186. Terzo periodo, tom. VIII, p. ivi. Loro filosofia, t. VIII, p. 187. Autorità, t. VIII, p. 189. Sette, t. VIII, p. 191. Riforma della legge romana fatta da Giustiniano, t. VIII, p. 194. Codice Triboniano, t. VIII, p. 195. Codice di Giustiniano, t. VIII, p. 195. Le Pandette o il Digesto, t. VIII, p. 199. Lode e censura del codice e delle Pandette, t. VIII, p. 200. Perdita della Giurisprudenza antica, t. VIII, p. 203. Incostanza legale di Giustiniano, t. VIII, p. 207. Seconda edizione del codice, t. VIII, p. 208. Le Novelle, t. VIII, p. ivi. Le Instituta, t. VIII, p. 209.
I Delle persone.
Liberti e schiavi, t. VIII, p. 210. Padri e figli, t. VIII, p. 213. Limitazione della potestà paterna, t. VIII, pag. 216. Mariti e mogli, t. VIII, p. 220. Riti religiosi del matrimonio, t. VIII, p. ivi. Libertà del contratto matrimoniale, t. VIII, p. 222. Libertà ed abuso del divorzio, tom. VIII, p. 223. Limitazioni della libertà del divorzio, t. VIII, p. 226. Incesti, concubine e bastardi, t. VIII, p. 229. Tutori e pupilli, t. VIII, p. 232.
II Delle cose.
Diritto di proprietà, t. VIII, p. 233. Di eredità e di successione, t. VIII, p. 237. Gradi civili di parentela, t. VIII, p. 239. Introduzione e libertà de' testamenti, t. VIII, p. 241. Legati, t. VIII, p. 243. Codicili e fedecommessi, t. VIII, p. 245.
III Delle azioni.
Promesse, t. VIII, p. 247. Benefizii, t. VIII, p. 248. Interesse del danaro, t. VIII, p. 251. Danni, tomi VIII, p. 252.
IV Dei delitti e delle pene.
Rigore delle Dodici Tavole, t. VIII, p. 254. Abolizione e non curanza delle leggi penali, t. VIII, p. 259. Si ristabiliscono le pene capitali, t. VIII, p. 262. Misura del delitto, t. VIII, p. 264. Vizio contro natura, t. VIII, p. 265. Rigore degli Imperatori cristiani, t. VIII, p. 267. Giudizii del popolo, t. VIII, p. 269. Giudizii scelti, tom. VIII, p. 271. Assessori, t. VIII, p. 273. Esilio e morte volontaria, t. VIII, p. 274. Abusi della Giurisprudenza civile, t. VIII, p. 275.
Giustiniano. Imperatore d'Oriente. Sua nascita, t. VII, p. 255. Sua adozione e successione all'Impero, t. VII, p. 258. Suo regno, t. VII, p. 262. Suo matrimonio con Teodora, t. VII, p. 266. Fazioni del Circo, t. VII, p. 277. Fazioni a Roma, t. VII, p. 279. Esse dividono Costantinopoli e l'Oriente, t. VII, p. ivi. Giustiniano favorisce gli Azzurri, t. VII, p. 281. Sedizione di Costantinopoli chiamata Nika, t. VII, p. 284. Angustia di Giustiniano, t. VII, p. 287. La sedizione è oppressa, t. VII, p. 289. Agricoltura e manifatture da lui protette, t. VII, p. 290. Stato delle rendite, t. VII, p. 303. Avarizia e profusione di Giustiniano, t. VII, p. 305. Perniciosi risparmii, t. VII, p. 306. Remissioni, t. VII, p. 307. Gravezze, t. VII, p. 308. Monopolii, t. VII, p. 309. Venalità, t. VII, p. 310. Testamenti, t. VII, p. 311. Ministri di Giustiniano, t. VII, p. 312. Sopprime le scuole di Atene, t. VII, p. 352. Estingue il Consolato romano, t. VII, p. 356. Risolve d'invadere l'Affrica, t. VII, p. 359. Debolezza dell'Impero di Giustiniano, t. VIII, p. 5. Sua negoziazione e Trattati con Cosroe, t. VIII, p. 72. Sua alleanza cogli Abissini, t. VIII, p. 78. Suoi preparativi per la guerra Gotica, t. VIII, p. 115. Sua morte e carattere, t. VIII, p. 144. Comete, t. VIII, p. 147. Terremuoti, t. VIII, p. 151. Peste, sua origine e natura, t. VIII, p. 154. Estensione e durata, t. VIII, p. 158. Particolarità sulla sua amministrazione in materie ecclesiastiche, t. IX, p. 77. Sue persecuzioni, t. IX, p. 79. Contro gli Eretici, t. IX, p. 80. Contro i Pagani, t. IX, p. 81. Contro gli Ebrei, t. IX, p. 82. Sua ortodossia, t. IX, p. 84. Eresia di Giustiniano, t. IX, p. 88.
Giustiniano II, t. IX, p. 156. Suo esilio, t. IX, p. 158. Suo ritorno al trono e sua morte, t. IX, p. 159.
Giustino, detto il Vecchio, Imperatore d'Oriente. Suo innalzamento al trono e suo regno, t. VII, p. 257. Adotta nell'Impero Giustiniano suo nipote, t. VII, p. 258.
Giustino II, detto il Giovane, Imperatore d'Oriente. Suo regno, t. VIII, p. 280. Suo Consolato, t. VIII, p. ivi. Ambasceria degli Avari e sua fermezza in quest'occasione, t. VIII, p. 281. Sua impotenza e sua abdicazione, t. VIII, p. 299. Sua morte, t. VIII, p. 303.
Giustino (Santo e Martire). Cercò la verità nelle scuole di Zenone, d'Aristotele, di Pitagora e di Platone, t. II, p. 342. Sotto la sua dottrina, lo spirito sublime degli Oracoli ebraici sfuma in una fredda allegoria, tom. II, p. 350.
Glicerio, imperatore d'Occidente con Giulio Nipote, t. VI, p. 537. Al diadema sostituisce la mitra, t. VI, p. 538. Assassina Giulio Nipote, t. VI, p. 539.
Gnostici, credevano che la religione giudaica non fosse punto istituita dalla sapienza divina, tom. II, p. 264. Non volevano sentir parlare del riposo della Divinità dopo l'opera de' sei giorni, tom. II, pag. 262. I più dotti fra i Padri hanno imprudentemente ammesso le sofistiche sottigliezze dei Gnostici, tom. II, p. 263. I Gnostici si distinguevano come la parte più culta, più dotta e più facoltosa del Cristianesimo, t. II, p. 264. I Gnostici fiorirono assai durante il terzo secolo, t. II, p. 265. Generalmente conosciuti sotto il nome di Doceti, t. IV, p. 108.
Goffredo di Buglione. Capo dei Crociati, t. XI, p. 302. Sua elezione e regno, tom. XI, p. 364.
Gontrano, nipote di Clodoveo, invade gli Stati gotici della Settimania o Linguadoca, t. VII, p. 140.
Gordiano, Proconsole d'Affrica, e suo figlio. Loro carattere ed innalzamento, t. I, p. 260. Sollecitano la conferma della loro autorità, t. I, p. 263. Il Senato ratifica l'elezione de' Gordiani, t. I, p. 263. Dichiarano Massimino pubblico nemico, t. I, p. 265. Prendono il comando di Roma e dell'Italia, tom. I, p. 265. Si preparano ad una guerra civile, t. I, p. 266. Disfatta e morte dei due Gordiani, t. I, p. 267.
Gordiano, parente dei precedenti. È dichiarato Cesare, t. I, p. 276. Resta solo Imperatore dopo la morte di Massimo e di Balbino, t. I, p. 281. Sua innocenza e sua virtù, t. I, p. 282. Suo assassinamento, t. I, pag. 285. Sistema di una repubblica militare, t. I, p. 285. Giuochi Secolari, t. I, p. 287. Decadenza dell'Impero romano, t. I, p. 288.
Goti, Ostrogoti e Visigoti. Loro origine dalla Scandinavia, t. I, p. 356. Loro religione, t. I, p. 358. Loro emigrazione dalla Scandinavia nella Prussia, t. I, p. 360. Instituzioni d'Odino loro legislatore, t. I, pag. ivi. Loro migrazione dalla Prussia nell'Ucraina, t. I, p. 362. La loro nazione si aumenta nel marciare, t. I, p. 363. Invadono le province romane, t. I, p. 365. Eventi diversi della guerra Gotica, t. I, p. 367. Loro ritirata, t. I, p. 374. Tributo ignominioso loro pagato dai Romani, t. I, p. 375. Conquistano il Bosforo, t. I, p. 388. Prima loro spedizione navale, t. I, p. 390. Assediano e prendono Trebisonda, t. I, p. 391. Seconda loro spedizione. Saccheggiano le città della Bitinia, t. I, p. 392. Loro ritirata, t. I, p. 393. Terza spedizione navale, t. I, p. 394. Passano il Bosforo e l'Ellesponto, t. I, p. 395. Devastano la Grecia, e minacciano l'Italia, t. I, p. 396. Loro divisioni e loro ritirata, t. I, p. ivi. Rovinano il tempio d'Efeso, t. I, p. 398. Loro condotta in Atene, t. I, p. 399. Invadono l'Impero, t. II, p. 13. Sono sconfitti dall'Imperatore Claudio, t. II, p. 15. Trattano con Aureliano che a loro cede la Dacia, t. II, p. 22. Loro guerra contro di Costantino, t. III, p. 351. Sconfitta da loro sofferta, t. III, p. 352. Causa della loro guerra ai tempi di Valentiniano, t. V, p. 98. Ostilità e pace, t. V, pag. 101. Loro ostilità cogli Unni, t. V, p. 173. Perdite sofferte dai Goti in tali ostilità, t. V, p. 205. Implorano la protezione di Valente, t. V, p. 209. Sono trasportati sul Danubio nell'Impero romano, t. V, p. 212. Loro angustie e malcontento, t. V, p. 215. Loro ribellione nella Mesia, e prime loro vittorie, t. V, pag. 218. Penetrano nella Tracia, t. V, p. 221. Operazioni della guerra Gotica, t. V, p. 224. Loro unione con gli Unni, gli Alani ec., t. V, p. 227. Valente marcia contro di essi, t. V, p. 233. Assediano Adrianopoli, t. V, p. 242. Saccheggiano le province romane, t. V, p. 244. Strage della gioventù Gotica nell'Asia, t. V, p. 246. Loro guerra con Teodosio, t. V, p. 254. Loro divisioni, disfatta e sommissione, t. V, p. 258. Loro stabilimento nella Tracia e nell'Asia, t. V, p. 265. Ostili loro sentimenti, t. V, p. 268. Loro ribellione, t. VI, p. 43. Loro rispetto per la religione cristiana, t. VI, p. 174. Loro ricchezze dopo invasa l'Italia, t. VI, pag. 197. Conquistano la Spagna, e la restituiscono all'Impero, t. VI, p. 216. Loro stabilimento in Aquitania, tom. VI, pag. 249. Abbracciano il Cristianesimo, t. VII, p. 39. Motivi della loro fede, t. VII, p. 40. Effetto della loro conversione, t. VII, p. 43. Restano involti nell'eresia Ariana, t. VII, p. 44. Distinzione fra essi e gli Italiani, t. VII, p. 219. Assediano Roma, t. VII, p. 428. Loro assalto respinto da Belisario, tom. VII, p. 435. Levano l'assedio di Roma, t. VII, p. 448. Perdono Rimini, tom. VII, p. 450. Si ritirano a Ravenna, t. VII, pag. ivi. Loro rivoluzioni, t. VIII, p. 88. Contrasto fra i vizi de' Greci e le virtù dei Goti, t. VIII, p. 92. Assediano Roma, t. VIII, p. 97. La prendono d'assalto, t. VIII, p. 101. Scacciati da questa città, la riprendono, tom. VIII, p. 110. Stato della loro Monarchia in Italia, t. X, pag. 278. Distruzione della loro Monarchia, t. X, p. 285.
Graziano, eletto Imperatore, t. V, p. 109. Sua vittoria, sugli Alemanni, t. V, p. 230. Investe Teodosio dell'Impero orientale, t. V, p. 248. Suo carattere e sua condotta, t. V, p. 271. Suoi difetti, t. V, p. 272. Rende malcontente le truppe romane, t. V, p. 274. Rivoluzione contro di lui nella Gran Brettagna, t. V, p. 276. Sua fuga e sua morte, t. V, p. 278.
Greci. Loro imprese in Oriente, t. X, p. 404. Soggiogano l'isola di Creta, t. X, p. 404. Conquistano la Cilicia, t. X, p. 406. Invadono la Sorìa, t. X, p. 407. Riprendono Antiochia ai Saracini, t. X, p. ivi. Passaggio dell'Eufrate, tom. X, p. 409. Pericolo di Bagdad, t. X, p. 410. Loro lotta coi Saracini e coi Franchi in Italia, t. XI, p. 110. Loro nuova provincia in Italia, t. XI, p. 113. Guerra coi Normanni, t. XI, p. 109. Fatti particolari, tom. XI, p. 116. Loro scisma, t. XII, pag. 5. Loro avversione ai Latini, tom. XII, pag. 6. Cause di una tale avversione, t. XII, p. 13. Scomunica contro di essi e contro il Patriarca di Costantinopoli, tom. XII, p. 15. Loro inimicizia spiegata contro i Latini, t. XII, p. 16. Loro dispareri coi Latini, t. XII, p. 65. Incomincia la guerra, t. XII, pag. 69. Loro ribellione, tom. XII, p. 115. Buoni successi dei Greci, tom. XII, p. 148. Prendono e riprendono Costantinopoli, t. XII, p. 151. Ristaurazione dell'Impero dei Greci, t. XII, p. 177. Perseguitati dall'imperatore Michele Paleologo, t. XII, p. 193. Riconquistano Costantinopoli, e ritorno del loro Imperatore, tom. XII, pag. 193. S'uniscono colla chiesa Latina, t. XII, p. 203. Perseguitati da Andronico il Vecchio, t. XII, p. 207. Si sciolgono dall'unione colla chiesa Latina, tom. XII, p. 210. Minacciati da Carlo d'Angiò, t. XII, p. 213. Mutamenti politici de' Greci, t. XII, p. 226. Sconfitta loro data dai Genovesi, t. XII, p. 276. Province asiatiche perdute dai Greci, t. XII, p. 319. Discordia de' Greci, tom. XII, p. 340. Stato del loro Impero, t. XII, p. 402. Stato del sapere fra i Greci, tom. XII, p. 434. Negoziazioni di Eugenio IV con essi, t. XII, pag. 448. Concilio de' Greci e de' Latini in Ferrara, t. XII, p. 458. Loro negoziazioni, t. XII, p. 464. Unione de' Greci coi Latini, t. XII, pag. 469. Loro ritorno a Costantinopoli, t. XII, pag. 471. Stato della loro lingua a Costantinopoli, t. XII, p. 472. Paralello fra i Greci e i Latini, t. XII, p. 475. Risorgimento della loro erudizione in Italia, t. XII, p. 477. I Greci in Italia, t. XII, p. 487. Pregi o difetti de' Greci, t. XII, p. 489. Loro forza contro Maometto II, t. XIII, p. 75. Loro ostinazione e fanatismo, t. XIII, p. 78. Perdono la città e l'Impero, t. XIII, p. 107. Loro prigionia, t. XIII, p. 110.
Grecia. Suo governo, t. I, p. 35. Divisione delle sue province, t. I, p. 57. Le arti sue soggiogano i trionfi di Roma, t. I, p. 59. Memorie sul greco Impero, t. X, p. 412. Scritti di Costantino Porfirogeneta, e imperfezione de' medesimi, t. X, p. 415. Ambasciata di Luitprando, t. X, pag. 418. I temi o le province dell'Impero, e loro limiti a diverse epoche, t. X, p. 419. Ricchezza e popolazione, t. X, p. 421. Stato del Peloponneso, t. X, p. 423. Degli Schiavoni, t. X, pag. 424. Gli uomini liberi della Laconia, t. X, p. 425. Città e rendite del Peloponneso, t. X, p. 426. Delle manifatture ed in particolare degli opificj di seta, tom. X, p. 427. Questi passano dalla Grecia in Sicilia, tom. X, p. 429. Rendita dell'Impero greco, t. X, pag. 430. Fasto e lusso degli imperatori, t. X, p. 432. Il palazzo di Costantinopoli, t. X, p. 433. Ammobiliamento ed ufficiali del palazzo, t. X, p. 436. Onori e titoli della famiglia imperiale, t. X, p. 438. Officj dello Stato e dell'esercito, t. X, p. 440. Adorazione dell'Imperatore, t. X, p. 443. Ricevimento degli Ambasciatori, t. X, p. 444. I Cesari della Grecia sposi di femmine straniere, t. X, p. 448. Legge immaginaria di Costantino, t. X, p. 449. Autorità dispotica degli Imperatori della Grecia, t. X, pag. 453. Forza militare della Grecia, t. X, p. 456. Sua marineria, t. X, p. 457. Gl'imperatori Greci e i loro sudditi vogliono conservare il nome di Romani, tom. X, pag. 477. Periodo d'ignoranza nella Grecia, t. X, p. 478. Rinascimento della letteratura, t. X, p. 479. Decadenza del gusto e dell'ingegno, t. X, pag. 483. Mancanza d'emulazione nazionale, t. X, p. 486. Spedizione de' Normanni nella Grecia, t. XI, p. 155. Invasa da Ruggero, gran Conte della Sicilia, tom. XI, p. 188.
Gregorio (San) il Grande. Credesi che facesse abbruciare la Biblioteca Palatina e la Storia di Tito Livio, t. VIII, pag. 327. Sua nascita e sua professione, tom. VIII, p. 329. Suo pontificato, t. VIII, p. 332. Sue funzioni spirituali, t. VIII, p. 333. Suo governo temporale, e suoi salutevoli avvisi intorno alla capitazione ed alle tasse, t. VIII, p. 335.
Gregorio II, Papa. Sue epistole originali all'Imperatore Leone, t. IX, p. 279.
Gregorio (San) di Nazianzo. Sua eloquenza e sua pietà, t. V, p. 288. Compromesso da Massimo, tom. V, p. 291. Presiede il Concilio di Costantinopoli, tom. V, p. 298. Suo ritiro, tom. V, p. 299.
Grombate, re dei Chioniti alleati di Sapore. Perde suo figlio sotto le mura di Amida, t. III, p. 430.
Grozio. Racconto ch'egli fa di centomila sudditi di Carlo V, uccisi dal carnefice ne' soli Paesi Bassi per le spirituali censure, t. III, p. 112.
Grutongi od Ostrogoti. Loro disfatta a' tempi di Teodosio, t. V, p. 262.
Guardie Pretoriane. Loro istituzione, t. I, p. 156. Loro campo, t. I, pag. 157. Loro forza, loro ardire e loro speciosi diritti, t. I, p. 158. Mettono l'Impero all'incanto, t. I, p. 159. Le guardie pretoriane abbandonano l'Imperatore Giuliano, t. I, p. 171. Loro disgrazia, t. I, pag. 172. Nuovo stabilimento de' Pretoriani, t. I, p. 185. Ufficio del Prefetto de' Pretoriani, t. I, p. 186. Rilassamento della loro disciplina, t. I, p. 204. Loro sedizione ed uccisione di Elagabalo, t. I, p. 222. I Pretoriani malcontenti di Massimo e di Balbino, t. I, p. 279. Li uccidono, t. I, p. 280.
Guardie Turche. Loro disordine, t. X, p. 389.
Guerre civili a' tempi di Settimio Severo, t. I, p. 177. Loro conseguenze crudeli, t. I, p. 180.
Guglielmo I, soprannominato il Cattivo, re di Sicilia, t. XI, p. 198.
Guglielmo II, soprannominato il Buono, re di Sicilia, t. XI, p. 200.
Guiscardo Roberto, Duca. Sua nascita e suo carattere, tom. XI, p. 139. Ambizione del medesimo, e buoni successi ottenuti, t. XI, pag. 143. Fatto duca della Puglia, t. XI, p. 145. Sue conquiste in Italia, t. XI, p. 146. Invade l'impero d'Oriente, t. XI, p. 155. Assedia Durazzo, t. XI, p. 158. Battaglia da esso data avanti questa città, t. XI, p. 165. Presa di Durazzo, t. XI, p. 168. Suo ritorno, t. XI, p. 170. Enrico III, Imperatore, fugge dall'assedio di Roma all'avvicinar di Guiscardo, t. XI, p. 175. Riporta le sue armi nella Grecia, tom. XI, p. 177. Sua morte, t. XI, p. 180.
Gundamondo, t. VII, p. 48.
Gundobaldo, o Gundebaldo, Re di Borgogna. Questo regno aveva per confini i due fiumi, la Savona ed il Rodano, s'estendeva dalla foresta de' Vosgi fino alle Alpi ed al mare di Marsiglia, t. VII, p. 90.
H
Haroun-al-Raschid. Sue guerre contro i Romani, t. X, p. 370.
Hosein. Sua morte, t. X, p. 139.
I
Iberia. Stato di questa provincia, t. II, p. 144.
Ica, figlio di Baiazetto, t. XII, p. 397.
Iksiditi, t. X, p. 400.
Ilarione (S.). Giovane Sirio. Ritirasi nella Palestina lungi sette miglia da Gaza, t. VII, p. 11. Ildebaldo, Re d'Italia. Sua crudeltà e sua morte, t. VIII, p. 89.
Ilderico, Re dei Vandali. Disfatto dai Mori, t. VII, p. 49. Dal trono passa alla carcere, t. VII, p. 359. Sua morte, t. VII, p. 360.
Illiria. Sua divisione in province, t. I, p. 34.
Imao Caf ed Altai; catena di monti considerevole nell'Asia, t. VIII, p. 20.
Immagini. Loro introduzione nella Chiesa cristiana, t. IX, p. 253. Loro culto, t. IX, p. 256. Immagine di Edessa, t. IX, p. 258. Copie dell'immagine di Edessa, t. IX, p. 262. Opposizione al culto delle immagini, t. IX, p. 264. Persecuzione delle medesime, tom. IX, p. 271. Vengono ristabilite in onore nell'Oriente dall'Imperatrice Irene, t. IX, p. 312. Definitivo stabilimento delle immagini sotto l'Imperatrice Teodora, tom. IX, p. 316. Ripugnanza dei Franchi e di Carlo Magno, t. IX, p. 318.
Imperatori romani. Loro stabilimenti militari, t. I, p. 13. Disciplina militare sotto i medesimi, t. I, p. 15. Esercizii, t. I, p. 16. Legioni romane sotto il loro comando, t. I, p. 18. Loro armi, t. I, p. 19. Loro cavalleria, t. I, p. 21. Truppe ausiliarie, t. I, p. 22. Artiglieria, t. I, p. 23. Accampamenti, t. I, p. 24. Marce, t. I, p. 25. Numero e disposizione delle legioni, t. I, p. ivi. Marineria, t. I, p. 27. Loro Luogotenenti, t. I, p. 95. Divisione delle province tra gl'Imperatori ed il Senato, t. I, p. 96. Conservano il comando militare e le loro guardie in Roma medesima, t. I, p. ivi. Prerogative imperiali, t. I, p. 99. Idea generale del sistema imperiale, t. I, p. 102. Corte degl'Imperadori, t. I, p. ivi. Apoteosi, t. I, p. 103. Loro titoli di Angusto e di Cesare, t. I, p. 105. Memoria infame di alcuni di essi, t. I, p. 119. Loro autorità nell'elezione dei Papi, t. IX, p. 347. Disordini, tom. IX, p. 350. Autorità che godevano in Roma, t. IX, p. 354.
Impero Romano. Quadro delle sue province, t. I, p. 29. La Spagna, t. I, p. ivi. La Gallia, t. I, p. 30. La Brittania, t. I, p. 31. L'Italia, t. I, p. 32. Il Danubio e la frontiera Illirica, t. I, p. 33. La Rezia, t. I, p. ivi. Il Norico, la Pannonia e la Dalmazia, t. I, p. 34. La Mesia, la Dacia, la Tracia, la Macedonia e la Grecia, t. I, p. 35. L'Asia Minore, t. I, p. 36. La Sorìa, la Fenicia e la Palestina, t. I, p. 37. L'Affrica, t. I, p. 38. Il Mediterraneo e le sue isole, t. I, p. 40. Idea generale dell'Impero romano, t. I, p. ivi. Principii del governo, t. I, p. 42. Spirito universale di tolleranza, t. I, p. 43. Del popolo e dei filosofi, t. I, p. 45. Dei magistrati, t. I, p. 47. Nelle province e in Roma, t. I, p. 48. Nell'Italia, t. I, p. 51. Nelle province, t. I, p. 53. Colonie e città municipali, t. I, p. 54. Divisione delle province Greche e Latine, t. I, p. 56. Uso generale delle due lingue, t. I, p. 59. Schiavi e loro trattamento, t. I, p. 60. Liberti, t. I, p. 61. Numero degli schiavi, t. I, p. 63. Popolazione dell'Impero romano, t. I, p. 64. Obbedienza ed unione, t. I, p. 65. Monumenti romani, la maggior parte de' quali innalzati a spese de' privati, t. I, p. 66. Presso che tutti i monumenti romani consacrati all'uso pubblico. Templi, teatri, acquedotti, ec., t. I, p. 71. Numero e grandezza dell'Impero nella Gallia, nell'Italia e nella Spagna, t. I, p. 73. Nell'Affrica e nell'Asia, t. I, p. 74. Vie romane, t. I, p. 76. Poste, t. I, p. 77. Navigazione, t. I, p. 78. Progresso dell'agricoltura nelle province Occidentali dell'Impero, t. I, p. 79. Introduzione de' fiori e de' frutti, t. I, p. ivi. Vino e ulivi, t. I, p. 80. Lino, prati artificiali, fertilità generale, t. I, p. 81. Arte di lusso, t. I, p. ivi. Commercio straniero, t. I, p. 82. Oro ed argento, t. I, p. 84. Felicità generale, t. I, p. 85. S'indebolisce il coraggio ed il talento, t. I, p. 86. Degenerazione, t. I, p. 88. Potenza consolare e tribunizia dell'Impero romano, t. I, p. 97. Magistrature, t. I, p. 99. Il Senato, t. I, p. 101. Immagine della libertà popolare, t. I, p. 107. Immagine del governo riguardo agli eserciti, t. I, p. 108. Loro ubbidienza, t. I, p. 109. Destinazione di un successore all'Impero, t. I, p. 110. Caduta dell'Impero romano in Occidente, t. VII, p. 169.
Impero Greco. Sue memorie, t. X, p. 412. I Temi o le province dell'Impero: loro limiti a diverse epoche, t. X, p. 419. Ricchezza e popolazione, t. X, p. 421. Stato del Peloponneso, t. X, p. 423. Degli Schiavoni, t. X, p. 424. Gli uomini liberi della Laconia, t. X, p. 425. Città e rendite del Peloponneso, tom. X, p. 426. Delle manifatture, ed in particolare degli opificii di seta, tom. X, p. 427. Questi passano dalla Grecia in Sicilia, t. X, p. 429. Rendita dell'Impero greco, t. X, p. 430. Fasto e lusso degli Imperadori, t. X, p. 432. Il palazzo di Costantinopoli, t. X, p. 433. Onori e titoli della famiglia Imperiale, t. X, p. 438. Officii dello Stato e dell'esercito, t. X, pag. 440. Autorità dispotica degli Imperatori, t. X, pag. 453. Gl'Imperatori greci e i loro sudditi vogliono conservare il nome di Romani, t. X, pag. 477. Ristauramento dell'Impero greco, t. XII, p. 177. Stato di questo Impero nel secolo XV, t. XII, p. 402. Successione ereditaria e meriti de' principi Ottomani, tom. XII, p. 407.
Isacco (l'Angelo), Imperatore dei Greci. Suo carattere e suo regno, t. XII, p. 21. Sua morte, t. XII, p. 70. — Alessio (l'Angelo) figlio del precedente. Sua usurpazione ed indole, t. XII, p. 25. Sua Lega coi Crociati, t. XII, p. 44. Rimesso in trono, t. XII, p. 61. Scacciato di nuovo da Morzuflo, t. XII, p. 70. Sua morte, t. XII, p. ivi.
Italia. Invasa da Alarico. Disfatta de' Goti a Pollenzia, t. VI, p. 56. Invasa da Radagaiso. Disfatta dei Germani avanti Firenze, t. VI, p. 79. Massacro di Pavia, t. VI, p. 105. Assedii successivi e saccheggio di Roma, t. VI, p. 153. Scorrerie per l'Italia, t. VI, p. 187. Pace coi Goti. Regolamenti per sollievo di Roma e dell'Italia, t. VI, p. 192. Invasione d'Attila e assedio di Aquilea, tom. VI, p. 443. Odoacre primo re d'Italia, t. VI, p. 542. Trista situazione di questo regno, t. VI, p. 552. Regno di Teodorico; divisione delle terre; separazione dei Goti dagl'Italiani, t. VII, p. 216. Governo civile dopo le leggi romane, t. VII, p. 227. Florido stata, di Roma e dell'Italia, t. VII, p. 230. Regno d'Amalasunta, tom. VII, p. 409. Di Teodato, t. VII, p. 417. Di Vitige, t. VII, p. 427. Invasione dell'Italia operata da Belisario, t. VII, p. 420. Molte città d'Italia ricuperate da Belisario, t. VII, pag. 447. Invasione dell'Italia, fatta dai Franchi, t. VII, p. 453. Belisario sottomette il regno Gotico d'Italia, t. VII, p. 460. Rivolta de' Goti, tom. VIII, pag. 88. Regno e vittorie in Italia di Totila, t. VIII, p. 90. Belisario comanda per la seconda volta in Italia, t. VIII, 95. Roma assediata dai Goti, t. VIII, p. 97. Tentativo di Belisario, t. VIII, p. 99. Roma presa dai Goti, t. VIII, p. 101. Ripresa da Belisario, tom. VIII, p. 105. Roma di nuovo presa dai Goti, t. VIII, p. 110. Narsete fa la conquista di Roma, t. VIII, p. 122. Disfatta e morte di Teja, ultimo re dei Goti, t. VIII, 124. I Franchi e gli Alemanni invadono l'Italia, t. VIII, p. 128. Narsete li sconfigge, t. VIII, p. 130. Roma divenuta la seconda città dell'Impero, t. VIII, p. 133. Invasione dei Bulgari, t. VIII, pag. 136. Alboino re dei Lombardi, t. VIII, p. 283. Imprende la conquista di tutta l'Italia, t. VIII, p. 288. Conquista di una gran parte dell'Italia fatta dai Lombardi, t. VIII, pag. 293. Calamità dell'Italia, tom. VIII, pag. 308. Stato dell'Italia nel secolo ottavo, t. IX, p. 275. Sua rivoluzione t. IX, p. 283. Repubblica di Roma, t. IX, p. 288. Discesa in Italia di Pipino e sua liberazione di Roma, tom. IX, p. 294. Conquista d'Italia fatta da Carlo Magno, t. IX, pag. 297. Incoronazione di Carlo Magno come Imperatore di Roma e dell'Occidente, t. IX, p. 323. Ampiezza dell'Impero di Carlo Magno in Italia, t. IX, pag. 334. Il regno d'Italia, t. IX, p. 359. Invasione di Roma eseguita dai Saracini, t. X, p. 379. I Paoliziani stabiliscono il loro soggiorno in Italia, t. XI, p. 30. Guerre de' Saracini, dei Latini e dei Greci in Italia, t. XI, p. 109. Conquista di Bari, t. XI, p. 111. Nuova provincia dei Greci in Italia, t. XI, p. 113. Comparsa dei Normanni in Italia, t. XI, p. 120. Loro milizie in questo paese e loro conquista della Puglia, t. XI, p. 127. Oppressione di questa provincia, t. XI, 131. Conquiste di Roberto Guiscardo in Italia, t. XI, p. 146. Disegni di conquista sull'Italia dell'Imperatore Manuele, t. XI, p. 193. Risorgimento dell'erudizione Greca in Italia, t. XII, p. 477. La lingua, greca si ferma in Italia per opera di Manuele Crisolara, tom. XII, p. 484. I Greci in Italia, t. XII, p. 487. Nicolò V protegge l'emulazione ed il progresso delle lettere greche in Italia, t. XII, p. 493. Cosimo e Lorenzo de' Medici consacrano per quello studio le immense loro ricchezze, t. XII, p. 496. Uso ed abuso dell'antica erudizione, tom. XII, p. 498.
K
Kan, Mongulli della Persia. Loro avvilimento, t. XII, p. 313.
Kipsack. Cenni su questo paese, t. XII, p. 301.
Koreishiti. Tribù che si oppone alla missione di Maometto, t. X, p. 82.
L
Labaro, o stendardo della croce, di cui il significato ci è ignoto, e di cui si è finora cercato invano l'etimologia, t. IV, p. 23.
Lactario. Monte ove i medici di Roma, dopo il tempo di Galieno, mandavano i loro ammalati a respirare un'aria più pura, t. VIII, p. 125.
Ladislao, re della Polonia e d'Ungheria. Marcia contro i Turchi, t. XIII, pag. 23. Battaglia di Warna, t. XIII, p. 28. Sua morte, t. XIII, p. 29.
Lascaris Teodoro, imperatore di Nicea, t. XII, p. 116. Ristaurazione dell'Impero greco da lui operata, t. XII, p. 178.
Lascaris II, t. XII, p. 181. Suo ritorno al greco Impero, t. XII, p. 195.
Lascaris Giovanni, pupillo di Michele, e legittimo Sovrano. Perde la sua dignità, t. XII, p. 197. Vien confinato in un lontano castello dove languisce per molti anni, t. XII, p. 198.
Latini. Loro inimicizia coi Greci, t. XII, p. 16. Stabiliscono delle fattorie a Costantinopoli, e vi comprano delle terre e delle case, t. XII, p. 18. Loro emulazione e progressi nelle lettere, t. XII, p. 493.
Lattanzio. Fa uso dell'eloquenza di Cicerone e della piacevolezza di Luciano per dimostrare la superstizione Pagana, t. II, p. 329. Pubblica al Mondo il glorioso esempio del Sovrano della Gallia, che fino dai primi momenti del suo regno conobbe e adorò la maestà dell'unico e vero Dio, t. IV, pag. 6.
Latroniano, celebre poeta, la cui riputazione pareggia il grido degli antichi, t. V, p. 304.
Lazii. Loro conversione, tom. VIII, p. 63.
Leandro. Passa il mare fra le città di Sesto e di Abido per possedere la sua bella, t. III, p. 241.
Legioni sotto gl'Imperadori, t. I, p. 18. Numero e disposizione delle legioni, t. I, p. 25. Loro ubbidienza, t. I, p. 109. Si dichiarano contro Giuliano, t. I, p. 162. Le legioni Pannoniche dichiarano Imperatore Settimio Severo, t. I, p. 168. Rilassamento della militar disciplina sotto Severo, tom. I, p. 183. Rilassamento della disciplina sotto Caracalla, t. I, p. 204. Loro malcontento, t. I, p. 220. Tumulti delle legioni sotto l'Impero di Alessandro Severo, t. I, p. 232. Sedizione in Roma, t. I, p. 278. Claudio intraprende la loro riforma, t. II, p. 12. Severità di disciplina in esse mantenuta da Aureliano, t. II, p. 19. Probo incorpora i Barbari fra le legioni romane, t. II, p. 78. Paralello tra la severa disciplina voluta da Aureliano e la più mite abbracciata da Probo, t. II, p. 84. Distinzione delle truppe a' tempi di Costantino, t. III, p. 291. Riduzione delle legioni, t. III, p. 295. Lusso effeminato nel loro campo sotto Graziano. L'infanteria depone l'armatura, t. V, p. 357.
Leone di Tracia, Imperatore d'Oriente, t. VI, p. 510. Sua fermezza e sua moderazione, t. VI, p. 511. Suoi preparativi contro i Vandali dell'Affrica, t. VI, p. 518. Cattivo successo in questa spedizione, t. VI, p. 521.
Leone III, detto l'Isaurico, Imperatore d'Oriente e fondatore di una nuova dinastia, t. IX, p. 164. Suo regno, e saggezza della sua amministrazione, t. IX, p. 165. Favorisce gli Iconoclasti, t. IX, p. 266. Ribellione in Italia, e distruzione delle sue statue, t. IX, p. 275.
Leone IV, Imperatore d'Oriente, t. IX, p. 168. Suo matrimonio con Irene, t. IX, p. 170. La dichiara Imperatrice nel suo testamento, t. IX, p. 171.
Leone IV, Pontefice romano. Sue vittorie e suo regno, t. X, p. 381.
Leone V, nominato l'Armeno, Imperatore d'Oriente. Suo regno, t. IX, p. 176.
Leone VI, detto il Filosofo, Imperatore d'Oriente. Suo regno, t. IX, p. 193. Violazione delle sue proprie leggi contro le quarte nozze, t. IX, p. 194.
Leone IX, Papa. Sua Lega coi due Imperi, t. XI, p. 133. Sua spedizione contro i Normanni, t. XI, p. 135. Disfatta e prigionia di questo Pontefice, t. XI, p. 136.
Leone Ebreo. Abbraccia il Cristianesimo, t. XIII, p. 205. Sua famiglia, t. XIII, p. ivi. Suo figlio governatore, tom. XIII, p. ivi. Suo nipote posto sul trono di S. Pietro, t. XIII, t. ivi.
Leonida. Come si sacrificasse co' suoi trecento guerrieri alle Termopili, t. VIII, p. 6.
Leonina. Fondazione di questa città, t. X, p. 384.
Leonzio Pilato, primo professore di lingua greca a Firenze e nell'Occidente, t. XII, p. 487.
Leta, vedova dell'Imperadore Graziano. Addolcisce per qualche tempo la pubblica miseria, e consacra al sollievo dell'indigenza le immense sue ricchezze, t. VI, p. 154.
Leto, Prefetto del Pretorio. Cospira contro l'Imperatore Commodo, t. I, p. 145. Eccita i Pretoriani contro Pertinace, t. I, p. 152. S'invola alla pubblica indegnazione dopo l'assassinio di questo Principe, t. I, p. 159.
Letteratura. Sua introduzione presso gli Arabi, t. X, p. 358. Suo stato nella Grecia, tom. XII, p. 434. In Francia, t. XII, p. 436. In Inghilterra, t. XII, p. 437. Uso e abuso dell'antica erudizione, t. XII, p. 498.
Libanio, sofista. Suoi scritti e suo carattere, t. IV, p. 320.
Liberio, Vescovo di Roma. Esiliato dall'Imperatore Costanzo, t. IV, p. 143. Questo Pontefice briga pel suo richiamo con criminose concessioni, t. IV, p. 143.
Licinio, Generale romano, innalzato alla dignità di Augusto, t. II, p. 191. Sei Imperatori contemporanei, t. II, p. 192. Divide con Massimino i dominii di Galerio, t. II, p. 198. Sua guerra con Massimino, t. II, p. 221. Vittoria da lui riportata, t. II, ivi. Sue crudeltà, t. II, p. 222. Contesa fra Costantino e Licinio, t. II, p. 226. Prima guerra civile fra i medesimi, t. II, pag. 227. Giornata di Cibali e battaglia di Mardia, t. II, p. 229. Trattato di pace, t. II, p. 230. Seconda guerra civile tra Costantino e Licinio, t. II, p. 236. Sommissione e morte di Licinio, t. II, p. 243.
Lingua latina. Suo decadimento e perdita, t. X, p. 473.
Lione. Resiste alle armi di Aureliano; castigo inflitto a questa città, t. II, p. 30.
Lombardi. Loro conversione, t. VII, p. 68. Loro stato a' tempi di Giustiniano, tom. VIII, p. 10. Loro origine, e loro emigrazioni, t. VIII, p. 11. Distruggono il Re e il regno de' Gepidi, t. VIII, p. 286. Conquista di una gran parte d'Italia fatta dai medesimi, t. VIII, p. 293. Loro regno, t. VIII, p. 314. Loro lingua e costumi, tom. VIII, p. ivi. Vestimenta e matrimonii, t. VIII, p. 319. Loro governo, t. VIII, p. 322. Loro leggi, t. VIII, p. ivi. Assaltano la città di Roma, t. IX, p. 291. Sono disfatti da Pipino Re di Francia, t. IX, p. 294.
Lombardia. Conquistata da Carlo Magno, t. IX, p. 297.
Lottario I, t. IX, p. 341. Divisione dell'Impero, t. IX, p. 342.
Lucio II, Papa, tom. XIII, p. 150.
Lucio III, Papa, tom. XIII, p. 150.
Lucullo. La sua casa assegnata per ritiro ad Augustolo figlio d'Oreste, t. VI, p. 546.
Luigi il Pio, t. IX, p. 341.
Luigi VII, re di Francia. Preso dai Greci al ritorno di una Crociata, e liberato per opera dell'ammiraglio di Ruggero, t. XI, p. 189. Intraprende la seconda Crociata, t. XI, p. 385.
Luigi IX, re di Francia. Intraprende la sesta Crociata, t. XI, p. 448. Sua cattività in Egitto, t. XI, pag. 452. Muore sotto le mura di Tunisi nella settima Crociata, t. XI, p. 454.
Luigi di Baviera, Imperatore, t. XIII, p. 175.
Luitprando. Sua ambasciata, t. X, p. 418.
Lupercali (la festa dei). La loro origine anteriore alla fondazione di Roma. Celebravansi ancora sotto il regno di Antemio, tom. VI, p. 515.
Lupicina, o Eufemia, Imperatrice di stirpe dei Barbari; di grossolani costumi, ma d'una virtù esemplare e senza macchia, t. VII, p. 271.
M
Macedonia. Suo governo, t. I, p. 35.
Macrino Opilio, prefetto del pretorio. Fa assassinare l'Imperatore Caracalla, tom. I, p. 205. Elezione e carattere di questo usurpatore, t. I, p. 207. Il Senato malcontento, t. I, p. 208. L'esercito malcontento anch'esso, t. I, p. 209. Procura di riformare le armate, t. I, p. 210. Rivoluzione di Elagabalo, e disfatta e morte di Macrino, t. I, p. 213.
Magi. Distruttori delle Are degli Arabi, t. X, p. 41. Annientamento de' Magi della Persia, t. X, p. 303.
Magìa. Severe indagini del delitto di Magìa a Roma e in Antiochia, t. V, p. 29.
Magnenzio. Sua usurpazione, t. III, pag. 376. Costanzo nega d'entrare in negoziati con Magnenzio, tom. III, p. 378. Guerra di Costanzo contro Magnenzio. Disfatta e morte di quest'ultimo, t. III, p. 382.
Majoriano, Imperatore d'Occidente. Suo carattere e suo innalzamento, t. VI, p. 487. Sue leggi salutari, t. VI, 491. Protegge gli edifizii di Roma, t. VI, pag. 493. Si prepara ad invadere l'Affrica per iscacciarne i Vandali, t. VI, p. 496. Perdita della sua flotta, t. VI, pag. 500. Sedizione nel suo campo, sua abdicazione e sua morte, t. VI, p. 502.
Malek-Sa. Suo regno e prosperità, t. XI, p. 242. Sua morte, t. XI, p. 246.
Mamalucchi d'Egitto, t. XI, p. 456.
Mamgo, Capo d'un'orda che accampava sui confini dell'Impero Cinese, tom. II, p. 132. Implora la protezione di Sapore, tom. II, p. ivi. Esiliato nell'Armenia, t. II, p. ivi. È trattato con distinzione rispettosa, t. II, p. 133.
Mammea, madre di Alessandro Severo. Rimane sola incaricata dell'educazione di suo figlio e dell'amministrazione dell'Impero, t. I, pag. 221. Conserva sempre sullo spirito d'Alessandro un potere assoluto, t. I, p. 223. Saviezza e moderazione del suo governo, t. I, p. 225. Sceglie sedici fra i più saggi Senatori per comporre il proprio Consiglio, tom. I, p. 225. Educazione e virtuoso carattere da lei ispirato ad Alessandro, t. I, p. 226. Ascolta con piacere le esortazioni d'Origene, t. III, p. 69.
Mammud il Gaznevida, uno dei principi più grandi della nazione de' Turchi, t. XI, p. 209. Sue dodici spedizioni nell'Indostan, t. XI, p. 211. Indole di Mammud, t. XI, p. 213.
Manuele, Imperatore d'Oriente. Respinge i Normanni che insultavano Costantinopoli, t. XI, pag. 191. Riduce la Puglia e la Calabria, t. XI, p. ivi. Suoi disegni di conquista sull'Italia e sull'Impero d'Occidente, t. XI, pag. 193. Andati a vuoto, t. XI, p. 195. Fa la pace coi Normanni, tom. XI, p. 197.
Maogamalca, città o Fortezza della Sorìa a undici miglia di distanza dalla Capitale della Persia. Assediata dall'Imperatore Giuliano, t. IV, p. 340.
Maomettani o Maomettismo. Prima loro guerra contro l'Impero romano, tom. X, pag. 109. Propagazione del Maomettismo, t. X, p. 301. Progressi de' Maomettani a danno delle Crociate, t. XI, p. 404.
Maometto, profeta. Sua nascita e sua educazione, t. X, p. 43. Sue qualità, t. X, p. 47. Credeva un solo Dio, t. X, pag. 51. Appostolo di questo Dio, ed ultimo dei Profeti, t. X, p. 56. Sua dottrina intorno a Mosè e intorno a Gesù Cristo, t. X, p. 58. Il Corano, tom. X, p. ivi. Consacra ed abbellisce la storia miracolosa di Mosè, t. X, p. ivi. Contenuto del Corano, t. X, p. 61. Falsi miracoli di Maometto, t. X, p. 65. Precetti di Maometto: preghiere, digiuni ed elemosine, t. X, pag. 68. Sue opinioni sulla Risurrezione, sull'Inferno e sul Paradiso, t. X, p. 72. Predica alla Mecca, t. X, p. 77. Opposizione alla sua missione fatta dalla tribù di Coreish, t. X, pag. 82. È scacciato dalla Mecca, t. X, p. 84. È ricevuto a Medina in qualità di principe, t. X, p. 85. Sua dignità regia, t. X, pag. 88. Dichiara la guerra agl'Infedeli, t. X, p. 89. Sua guerra difensiva contro i Coreishiti della Mecca, t. X, p. 94. Battaglie di Beder, d'Ohud e della Fossa contro i medesimi, t. X, p. 95. Soggioga gli Ebrei dell'Arabia, t. X, p. 99. Sommessione della Mecca, t. X, p. 101. Conquista dell'Arabia, t. X, p. 105. Dichiara la guerra all'Imperatore d'Oriente, t. X, p. 109. Sua morte, t. X, p. 112. Suo carattere, t. X, p. 117. Sua vita privata, t. X, p. 121. Sue mogli, t. X, p. 122. Suoi figli, t. X, pag. 125. Sua posterità, t. X, pag. 143. Suoi trionfi, t. X, p. 146. Stabilità della sua religione, t. X, p. 147. Del bene e del male da lui fatto nel suo paese, t. X, p. 150.
Maometto, figlio di Baiazetto, t. XII, p. 399.
Maometto II, suo carattere, t. XIII, p. 51. Suo regno, t. XIII, p. 55. Sue intenzioni ostili contro i Greci, t. XIII, p. 57. Costituisce una Fortezza sul Bosforo, t. XIII, p. 62. Guerra dei Turchi, t. XIII, pag. 64. Apparecchio per l'assedio di Costantinopoli, t. XIII, p. 66. Suo gran cannone, t. XIII, p. 68. Costantinopoli assediata, t. XIII, p. 71. Attacco e difesa, tom. XIII, p. 72. Forza de' Turchi, t. XIII, p. 74. Dei Greci, t. XIII, p. 75. Progredisce l'assedio, di Costantinopoli, t. XIII, pag. 82. Soccorso venuto agli assediati e vittoria riportata dai Cristiani, t. XIII, p. 87. Maometto fa trasportare i suoi navigli per terra, t. XIII, p. 92. Strettezze in cui trovasi la città, t. XIII, p. 96. I Turchi si preparano ad un assalto generale, t. XIII, p. ivi. Assalto generale, t. XIII, pag. 101. Costantinopoli saccheggiata dai Turchi, t. XIII, p. 107. Calcolo del bottino, t. XIII, p. 112. Maometto trascorre la città, Santa Sofia ed il palazzo, t. XIII, p. 116. Condotta di Maometto verso i Greci, t. XIII, p. 118. S'accinge a popolare e ad abbellire Costantinopoli, t. XIII, p. 119. S'impadronisce della Morea, t. XIII, p. 125. Conquista la città di Trebisonda, t. XIII, p. 126. Dolore e spavento in cui è immersa l'Europa, t. XIII, p. 129. Morte di Maometto II, t. XIII, p. 133.
Marcellino, governatore di Sicilia. Sua ribellione, tom. VI, p. 503. S'impadronisce della Dalmazia, e prende il titolo di Patrizio d'Occidente, t. VI, p. 504. Rinuncia alla sua indipendenza, e riconosce l'autorità di Antemio, t. VI, p. 519. Sua morte, tom. VI, p. 523.
Marcello, Vescovo di Roma. È esiliato per rendere la pace alla Chiesa, t. III, p. 99.
Marcello, Vescovo nella Sorìa. Animato d'uno zelo apostolico, fa abbattere tutti i templi della diocesi di Apamea, tom. V, p. 372. Sorpreso ed ucciso da un corpo di villani, tom. V, p. 373.
Marciano, Senatore. Succede al trono di Teodosio II, t. VI, p. 409. Culto da lui reso alla memoria di Pulcheria, t. VI, p. 510. Sua morte, t. VI, p. ivi.
Marco Aurelio, Imperatore, Principe Filosofo. Sue guerre difensive, t. I, p. 14. Suo carattere e suo regno, t. I, p. 116. La sua indulgenza per la moglie Faustina e pel figlio Commodo diviene un'ingiuria al Pubblico, t. I, p. 125. Passeggera unione degli Alemanni contro questo principe, t. I, p. 350. Supposti editti di questo principe, t. III, p. 64.
Marcomiro, re dei Franchi. Convinto innanzi al tribunale del Magistrato romano d'aver violato la fede dei Trattati, viene esiliato nella Toscana, t. VI, p. 88.
Mardia (piano di) nella Tracia. Seconda battaglia fra Costantino e Licinio, t. II, p. 229.
Maria, moglie d'Onorio. Muore ancor vergine, dieci anni dopo le sue nozze, tom. VI, p. 41.
Marina presso i Romani, t. I, p. 27.
Maroniti, t. IX, p. 109.
Marte, (la spada di). Scoperta da un Unno; la cava di terra, e l'offre ad Attila, t. VI, p. 370.
Martina, nipote e moglie di Eraclio, Imperatrice d'Oriente, t. IX, p. 148. Si impadronisce del governo a nome di suo figlio Eracleone, t. IX, pag. 149. Sono deposti e condannati come autori della morte di Costantino, t. IX, p. 151.
Martino, vescovo di Tours, uno dei Santi più illustri della Chiesa. Difende la causa della tolleranza, t. VII, p. 12. Scorre per la Gallia, distruggendo ed atterrando gl'idoli ed i templi, t. VII, p. 372.
Martino IV, Papa, t. XIII, p. 174.
Martino V, Papa. Sua elezione, t. XIII, p. 277. Suo governo, t. XIII, p. ivi.
Martiri e Martirio. Loro numero meno considerevole di quanto è stato esagerato, t. III, pag. 48. Su quanto possa credersi intorno ai patimenti de' martiri, t. III, p. 106. Loro numero, tom. III, p. 109. Culto dei martiri cristiani circa il quattrocento, t. V, p. 389. Riflessioni generali, t. V, p. 392. Martiri e reliquie favolose, t. V, p. 392.
Mascezel, figlio di Nabello affricano, t. VI, pag. 33. Riporta una vittoria facile, completa e quasi senza effusione di sangue, t. VI, p. 36. Accoglienza da lui avuta alla Corte di Milano, t. VI, p. 39. Rimane infelicemente annegato, t. VI, p. ivi.
Massenzio, figlio di Massimiano. Dichiarato Imperatore di Roma, t. II, pag. 184. Rifiuta la perfida amicizia di Galerio, Imperatore d'Oriente, t. II, p. 189. Sua tirannide nell'Affrica e nell'Italia, t. II, p. 199. Guerra civile tra lui e Costantino, t. II, p. 202. Indulgenze e timori di Massenzio, t. II, p. 211. Sua morte, t. II, p. 215. Distruzione della sua stirpe, t. II, p. 216. Persecuzione de' Cristiani sotto questo principe, t. III, p. 98.
Massimiano. Associato all'Impero da Diocleziano, t. II, p. 145. Sua lunga assenza da Roma, t. II, p. 146. Sua residenza in Milano, t. II, p. 147. Circo, teatro, zecca, palazzo, bagni fondati in questa città da Massimiano, t. II, p. ivi. Estingue il pericoloso spirito d'indipendenza, t. II, p. 149. Usurpa, se non gli attributi, i titoli della divinità, t. II, p. 153. Rinunzia di Massimiano alla imperiale dignità, contemporanea a quella di Diocleziano, t. II, p. 161. Suo feroce carattere, t. II, p. ivi. Riveste la porpora, t. II, p. 185. Arruola un numeroso corpo di Mori per la sua guerra Affricana, t. II, p. 186. Conduce a Roma prigioniero Severo, t. II, p. 187. Dà sua figlia Fausta in moglie a Costantino, e gli conferisce il titolo d'Augusto, t. II, p. ivi. Difende l'Italia invasa da Galerio, tom. II, p. 188. Massimiano si rifuggia nella Corte di suo genero Costantino, t. II, p. 194. Sparge artificiosamente rumore sulla morte di Costantino; occupando il suo trono, procura di svegliare una ribellione, tom. II, p. ivi. Segreta ma irrevocabil sentenza di morte contro di lui, t. II, p. 197. Stato de' Cristiani sotto il regno di questo Principe, t. III, p. 96. Condanna e supplizio dell'Imperatrice sua figlia, t. III, p. 359.
Massimino, Governatore d'Egitto e della Sorìa. Innalzato alla dignità d'Augusto, t. I, p. 193. Divide con Licinio i dominii di Galerio, t. I, p. 198. Guerra con Licinio, t. I, p. 221. Sconfitta da lui avuta, t. I, p. ivi. Sua morte, t. I, p. ivi. Ingratitudine e crudeltà di questo principe, t. I, p. 223.
Massimino, lottatore della Tracia. Sua nascita e sua fortuna, t. I, p. 252. Suoi impieghi ed onori militari, t. I, p. 253. Sua congiura contro l'Imperatore Alessandro Severo, t. I, p. ivi. Rivestito della porpora e proclamato dalle legioni, t. I, p. 255. Sua tirannia, t. I, p. 256. Oppressione delle province, t. I, p. 258. Ribellione in Affrica. Gli abitanti gli oppongono i due Gordiani già da essi proclamati Imperatori, t. I, p. 259. L'elezione di questi, venendo ratificata dal Senato, è Massimino dichiarato pubblico nemico, t. I, p. 265. Si prepara a far la guerra al Senato ed ai nuovi Imperatori, t. I, p. 271. Marcia verso l'Italia, t. I, p. 272. Avvenimento all'assedio d'Aquilea, t. I, p. 273. È assassinato insieme al suo figlio, nel suo proprio accampamento, da un partito di Pretoriani, t. I, p. 275. Suo ritratto, t. I, p. 276. Allegrezza universale nell'Impero romano all'annunzio di sua morte, t. I, p. 277. Sedizione in Roma, t. I, p. 278.
Massimo, Console. Dichiarato Imperatore dal Senato, t. I, p. 267. Suo carattere e sue virtù, t. I, p. 269. Tumulto in Roma, t. I, p. 270. Condotta di Massimo, tom. I, p. 275. Malcontento de' Pretoriani, t. I, p. 279. Sua morte, t. I, p. 280.
Massimo. Sua ribellione contro Graziano nella Gran Brettagna. Nominato Imperatore, t. V, p. 276. Suo Trattato di pace con Teodosio, t. V, p. 280. Versa il sangue dei suoi sudditi per opinioni religiose, t. V, p. 303. Invade l'Italia, t. V, p. 316. Sua disfatta e sua morte, t. V, p. 321.
Massimo (Petronio), Senatore e Console, t. VI, p. 460. Sua moglie rapita da Valentiniano, t. VI, p. 461. Eletto Imperatore d'Occidente: suo carattere e suo regno, t. VI, p. 467. Violenza da lui fatta all'Imperatrice Eudossia, t. VI, p. 468. Sua morte, t. VI, p. 470.
Materno. Sua ribellione, t. I, p. 133.
Maurizio. Suo regno, t. VIII, p. 307. Sua guerra contro gli Avari, t. VIII, p. 367. Stato degli eserciti romani, t. VIII, p. 371. Loro disgusto e ribellione, t. VIII, p. 372. Morte di Maurizio e de' suoi figli, t. VIII, p. 374.
Mebode. Suo zelo e sua prudenza, cagione della stabilità del diadema di Cosroe, t. VIII, p. 35.
Mecca (la). Vedi Arabia e Maometto. Assedio di questa città, t. X, p. 15. Sua liberazione, t. X, p. 45. Maometto predica in essa, t. X, p. 77. Viene discacciato da questa città, t. X, p. 84. Sommessione di questa città a Maometto, t. X, p. 101. Saccheggiata dai Carmatii, t. X, p. 395. Sua rivolta, t. X, p. ivi. Dinastie indipendenti, tom. X, p. 397.
Medina. Questa città riceve Maometto in qualità di principe, t. X, p. 85.
Mellobaude. Re de' Franchi, generale dell'Imperat. Graziano, t. V, p. 280.
Mensurio, Vescovo di Cartagine. Si rifiuta di consegnare un reo agli ufficiali della giustizia, t. III, p. 99.
Merovingi. Loro patrimonio e benefizii, t. VII, p. 122. Usurpazioni private, t. VII, p. 124. Servitù personale, t. VII, p. 126.
Mesia. Divisione dell'Illiria; come governata, t. I, p. 41.
Mesopotamia. Stato di questo paese a' tempi di Costantino, t. III, p. 364.
Metrodoro, gramatico. Chiamato a Costantinopoli da Giustiniano per insegnarvi l'eloquenza alla gioventù, t. VII, p. 318.
Micca Aurea, orsa feroce ed enorme. Valentiniano usava di questo animale come di una guardia fedele posta accanto alla sua stanza da letto, t. V, p. 37.
Michele, Imperatore de' Romani; sue pacifiche virtù t. IX, p. 170.
Michele II, il Balbo. Suo regno, t. IX, p. 174.
Michele III. Tratti straordinarii del suo carattere, t. IX, p. 183. Sua morte, t. IX, p. 187.
Michele IV, il Paflagonio; suo regno, t. IX, p. 208.
Michele V, detto Calafate. Suo regno, t. IX, p. 209.
Michele VI, o Stratiotico. Sua elevazione, t. IX, p. 211. Relegato in un monastero, t. IX, p. 214.
Michele VII, detto Parapinace, t. IX, p. 216.
Milano. Diviene la residenza degli Imperatori d'Occidente, t. II, p. 147. Malcontento generale su questo proposito, t. II, p. 149. Distruzione di questa città fatta dai Goti, tom. VII, p. 455.
Milenarii. Loro dottrina sulla seconda venuta del Messia, t. II, p. 279. I Padri della Chiesa ne fecero assai parole su questa loro dottrina, t. II, p. 281.
Miracoli. Loro forza ne' primi tempi della Chiesa, t. II, p. 286. Dubbi mossi sulla loro veracità, t. II, p. 289. Presente incertezza nel determinare l'epoca dei miracoli, t. II, p. 291. Utilità dei primi miracoli, t. II, p. ivi. Quanto fossero creduli, t. V, p. 393.
Misiteo. Sua amministrazione, t. I, p. 283. Guerra persiana, t. I, p. 284.
Mitridate. In un sol giorno fa massacrare ottantamila Romani, t. I, p. 63.
Moadin. Saccheggio di questa città, t. X, p. 167.
Moawiyah. Suo regno, t. X, p. 138.
Monaci. Origine loro e vita monastica, t. VII, p. 6. Sant'Antonio ed i monaci d'Egitto, t. VII, p. 9. Propagazione della vita monastica in Roma, t. VII, p. 11. Sant'Ilarione nella Palestina, t. VII, p. 12. San Basilio nel Ponto, t. VII, p. ivi. San Martino nelle Gallie, t. VII, p. ivi. Cause del rapido progresso della vita monastica, t. VII, p. 14. Ubbidienza de' monaci, tom. VII, p. 18. Loro vesti ed abitazioni, t. VII, p. 20. Loro vitto, t. VII, p. 22. Loro lavoro manuale, t. VII, p. 24. Loro ricchezze, t. VII, p. 26. Loro solitudine, t. VII, p. 28. Loro divozione e loro visioni, t. VII, p. 29. Cenobiti ed Anacoreti, t. VII, p. 31. San Simeone Stilita, t. VII, p. 34. Miracolo e culto de' monaci, t. VII, p. 35. Superstizione di quel tempo, t. VII, p. 36. Conversione de' Barbari, t. VII, p. 37.
Monarchia. Idea di questo governo, t. I, p. 89. Apparenza ridicola e solidi vantaggi d'una successione ereditaria, t. I, p. 249.
Monarchia francese. Suo stabilimento nelle Gallie, t. I, p. 105.
Mongulli, t. XII, p. 281. Loro primo Imperatore, t. XII, p. 282. Invadono la Cina, t. XII, pag. 289. Carizme, la Transossiana e la Persia, t. XII, p. 291. Loro secondo Imperatore, t. XII, pag. 294. Conquiste nell'Impero settentrionale della Cina, tom. XII, p. 295. Della Cina meridionale, t. XII, p. 297. Della Persia e dell'Impero de' Califfi, t. XII, p. 298. Della Natolia, t. XII, p. 300. Cinquecentomila Mongulli sotto gli ordini di Batoci, nipote di Octai, devastano il Kipsah, la Russia, la Polonia e l'Ungheria, t. XII, p. 301. Regnano a Tobolsk, t. XII, p. 306. I grandi Kan erano fissati sulle frontiere della Cina, t. XII, p. 309. Cublai fissa la sua residenza a Pekin, t. XII, p. 310. Rivolta dei Cinesi; eglino scacciano dal trono la razza degenerata dei Gengis, tom. XII, p. 311. Gl'Imperatori Mongulli si seppelliscono nell'oscurità del deserto, t. XII, pag. ivi. Loro invilimento, t. XII, p. 313. Timur o Tamerlano è innalzato al trono di Samarcanda, t. XII, p. 352. Sue conquiste, t. XII, p. 353. Dopo il regno d'Aurengzeb, l'Impero de' gran Mogolli si è disciolto, tom. XII, p. 396.
Monoteliti. Loro controversia, t. IX, p. 90.
Monumenti romani. La maggior parte innalzati dai particolari, t. I, p. 66. L'Odeone, t. I, p. 71. Templi, teatri, acquedotti, t. I, p. 72. Arco di trionfo di Costantino, t. II, p. 217. Bagni pubblici, t. VI, p. 146. Circo, t. VI, p. 147. Edifici di Roma protetti da Majoriano, t. VI, p. 494.
Mori. Loro adozione, t. X, p. 275.
Mosè, ancor vivente secondo Maometto, t. X, p. 58.
Mummolo. Esercitò il comando in Capo della Borgogna col titolo di Patrizio, t. VII, p. 137.
Murad o Amurat, sultano dei Turchi. V. Amurat.
Mursa o Essek, celebre città sulla Drava, t. III, p. 385. Battaglia fra i Romani dell'Occidente ed i Barbari della Germania, t. III, p. 386.
Murzulfo, Alessio. Usurpa il trono di Costantinopoli, t. XII, p. 69. Sua fuga, t. XII, p. 75. Sua morte, t. XII, p. 116.
Musa. Sua conquista della Spagna, t. X, p. 289. Sua disgrazia, t. X, p. 294.
Musa. Figlio di Baiazetto, t. XII, p. 398.
Mussulmani. Loro mali in Ispagna, t. X, p. 312. Loro progressi a danno delle Crociate, t. XI, p. 404.
Mustafà, figlio di Baiazetto, t. XII, p. 396.
N
Napoli. Assediata e ridotta da Belisario, t. VII, p. 420. Origine dell'investitura di questo regno conferita dai Pontefici, t. XI, p. 138.
Narbona. Assediata dai Goti, t. VI, 219.
Narsete, Eunuco, creato generale e posto al paragone con Belisario, tom. VII, p. 452. Suo carattere e sua spedizione contro i Goti, t. VIII, p. 115. S'impadronisce di Roma, t. VIII, p. 122. Sconfigge i Franchi e gli Alemanni che avevano invasa l'Italia, t. VIII, p. 130. Diviene il primo e il più potente degli Esarchi in Italia, t. VIII, p. 187. Suoi disgusti e sua morte, t. VIII, p. 290.
Natolia. Cenni su questa provincia, t. XII, p. 300.
Natri. Costumi di quegli abitanti, t. VIII, p. 57.
Navigazione presso i Romani, t. I, p. 78.
Nazioni (le, o la fossa ). Guerre contro Maometto, t. X, p. 98.
Nejtaliti o Unni bianchi; nazione guerriera e civilizzata che possedeva le città commercianti di Boccara e di Samarcanda, t. VIII, p. 23.
Nego, o principe sovrano dell'Abissinia. Gli erano ubbidienti sette regni, t. VIII, p. 77.
Nepoziano, nipote di Costantino. Prende il titolo di Augusto, t. III, p. 389. Regna soltanto ventotto giorni, t. III, p. ivi. Sua ribellione; è estinta col suo sangue e con quello di sua madre, t. III, p. ivi.
Nerone. Incendio di Roma sotto il suo regno, tom. III, p. 25. Perseguita i Cristiani, t. III, p. 27.
Nerva. Sotto il suo regno insegnò la rivelazione Cristiana che il Logos erasi incarnato nella persona di Gesù Nazareno, t. IV, p. 86.
Nestoriani, t. IX, pag. 101. Soli padroni della Persia, t. IX, p. 104. Loro missioni in Tartaria, nell'India e nella Cina, tom. IX, p. 106.
Nestorio, patriarca di Costantinopoli, t. IX, pag. 35. Sua eresia, t. IX, p. 37. Sua condanna nel Concilio d'Efeso, t. IX, p. 46. Suo esilio, t. IX, p. 53.
Niceforo, Imperatore de' Romani, t. IX, p. 174.
Niceforo II, nominato Foca. Suo regno, t. IX, p. 200. Sua morte, t. IX, p. 204.
Niceforo III, o Botoniate, t. IX, p. 218.
Niceta, Senatore e Storico di Costantinopoli; incendiato che fu il suo palazzo, si ritira a Selimbria, t. XII, p. 81.
Nicolò V, Sommo Pontefice, t. XIII, p. 278.
Nicomedia, antica Capitale dei re della Bitinia, conteneva grandi ricchezze, t. I, pag. 393. Saccheggiata dai Goti, t. I, p. 394. Per capriccio vi appiccano il fuoco, t. I, p. 395. Diocleziano vi impiega le ricchezze d'Oriente per decorarla, t. II, p. 148. Non cedeva in isplendore e in lusso che alle città di Roma, di Alessandria e di Antiochia, t. II, p. 148. Favorita residenza, come la città di Milano, degl'Imperadori Diocleziano e Massimiano, t. II, p. 148. Distruzione della sua Chiesa, t. III, p. 86. Nello spazio di giorni quindici due volte si appicca il fuoco al palazzo, t. III, p. 90. Ne sono di ciò, accusati i Cristiani, t. III, p. ivi.
Nicopoli. Fondata da Augusto come un perenne monumento della vittoria d'Azio, consacrato alla divota Paola, t. VI, p. 127. Battaglia quivi seguita, t. XII, p. 334.
Nigro Pescennio, governatore della Sorìa, t. I, p. 162. Dichiarasi nemico dell'usurpatore Giuliano, t. I, p. 163. Capitano inetto al comando, t. I, p. 165. La sua severa disciplina però affrancava il valore, e teneva in dovere le milizie, t. I, pag. ivi. Perdette nei piaceri di Antiochia quei preziosi momenti dei quali seppe approfittare l'attività di Severo, t. I, p. 166. Successi ed artificii di Severo, suo competitore, sua disfatta e sua morte, t. I, p. 174.
Ninive, città assai famosa anticamente, all'Est del Tigri ed all'estremità del ponte di Mosul, tom. VIII, p. 416.
Nisibi. Assedio di questa città, t. III, p. 369.
Nobiltà romana, genealogia de' Senatori, t. VI, p. 121. Famiglie antiche, tom. VI, p. 122. Opulenza della Nobiltà, t. VI, p. 125. Suoi costumi, t. VI, pag. 128. Quadro del suo carattere, t. VI, p. 130.
Noradino, t. XI, p. 407.
Norica. Divisione dell'Illirio; come governata, t. I, p. 39.
Normanni. Loro comparsa in Italia, t. XI, p. 120. Fondazione di Aversa, t. XI, p. 124. Loro milizie nella Sicilia, t. XI, p. 125. Conquistano la Puglia, t. XI, p. 127. Indole de' Normanni, t. XI, p. 130. Opprimono la Puglia, tom. XI, p. 131. Spedizione di Leone IV Papa, e de' due Imperi contro di essi, t. XI, p. 135. Disfatta e prigionia di questo Pontefice, t. XI, p. 136. Invadono l'Impero d'Oriente, t. XI, p. 150. Insultano Costantinopoli, e sono respinti dall'Imperatore Manuele, t. XI, p. 191. Loro pace con questo principe, t. XI, p. 197. Ultima guerra fra essi e i Greci, t. XI, p. ivi. Fine del loro regno in Sicilia; riunione del Ducato di Normandia alla Corona di Francia, t. XI, p. 206.
Novelle (centosessantotto), e sedici editti furono aggiunti alla raccolta della Giurisprudenza civile, t. VIII, p. 208.
Numeriano, Imperatore, figlio di Probo, gli succede nell'Impero, t. II, p. 91. Suo glorioso successo nella guerra di Persia e suo ritorno a Roma, t. II, p. 101. Sua morte, t. II, p. 102.
Nushirwan. Suo regno, tom. VIII, pag. 35. Suo amore del sapere, t. VIII, p. 39. Pace e guerra coi Romani, t. VIII, p. 43. Invade la Sorìa, t. VIII, p. 46. Rovina Antiochia, tom. VIII, p. 48. Sue negoziazioni e trattati con Giustiniano, t. VIII, p. 72. Conflitto tra Roma e la Persia, t. VIII, p. 339. Sua conquista dell'Iemen, t. VIII, p. 340. Ultima sua guerra coi Romani, t. VIII, p. 342. Sua morte, t. VIII, p. 344.
O
Odenate, Senatore Palmireno. Vendica la maestà di Roma avvilita da Sapore, t. I, p. 405. Associato all'Impero, riceve il titolo di Augusto, t. I, p. 414. Muore vittima d'un domestico tradimento, t. II, p. 35. Sua morte vendicata dalla sua vedova Zenobia, t. II, p. 36.
Odino, legislatore della Scandinavia. Sue Instituzioni e sua morte, t. I, p. 359. Bella ma incerta ipotesi a suo riguardo, t. I, p. 360.
Odoacre, Re d'Italia, t. VI, p. 542. Sua clemenza verso Augustolo ultimo Imperatore d'Occidente, t. VI, p. 543. Estensione dell'Impero occidentale, t. VI, p. 544. Carattere e regno di Odoacre, t. VI, p. 550. Miserabile stato d'Italia, t. VI, p. 552. Sue tre disfatte, t. VII, p. 22. Sua capitolazione e sua morte, t. VII, p. 214.
Ogige, il più antico personaggio della greca antichità. Sotto il suo regno mutò il pianeta di Venere di colore, di configurazione e persino il suo corso periodico, t. VIII, p. 149.
Ogori, o Varconiti, nazione stabilita alle sponde del Til, denominato il Nero, t. VIII, p. 25.
Ohud, battaglia quivi seguìta, t. X, p. 97.
Olga, suo battesimo, t. XI, p. 102.
Olibrio, Imperadore d'Occidente, t. VI, p. 533. Sua morte, t. VI, p. 537.
Olimpia, regina d'Armenia. Sua cattività, t. V, p. 90.
Olimpio, favorito dell'Imperatore Onorio. Cospira contro Stilicone, t. VI, p. 102. Perseguita tutti coloro tra' suoi amici che erano sfuggiti al massacro di Pavia, t. VI, p. 107.
Olimpiodoro, Storico; descrisse lo stato della città di Roma nell'epoca in cui l'assediarono i Goti, tom. VI, p. 126.
Omar, Califfo; suo regno, t. X, p. 129. Sua morte, t. X, p. 130.
Ommiadi. Loro caduta, t. X, p. 349.
Onoria, principessa. Sue avventure, t. VI, p. 425.
Onorio. Divisione dell'Impero fra lui ed Arcadio, t. VI, p. 5. Suo matrimonio e carattere, t. VI, p. 39. Sua fuga da Milano, t. VI, p. 59. Perseguitato ed assediato dai Goti, t. VI, p. 61. Battaglia di Pollenzia, t. VI, p. 64. Suo trionfo a Roma, tom. VI, p. 70. Abolisce i gladiatori, t. VI, p. 71. Fissa la sua residenza a Ravenna, t. VI, pag. 73. Ultimi suoi anni e morte, t. VI, p. 330.
Orcano. Suo regno, t. XII, p. 317. Sue nozze con una principessa Greca, t. XII, p. 324. Sua morte, e morte di suo figlio Solimano, t. XII, p. 328.
Oreste, figlio di Tatullo. Deve al favore di Nipote le dignità di patrizio e di gran Generale delle armate, t. VI, p. 539.
Orientali. Loro insensibilità, t. I, p. 120. Loro zelo, t. XIII, p. 13.
Oriente. Guerra d'Oriente ai tempi di Valentiniano, t. V, p. 88. Trattato di pace, t. V, p. 93. Discordie in Oriente in fatto di religione, t. IX, p. 67.
Origene. Tutto l'Oriente vantava la sua pietà ed il profondo suo sapere, t. III, p. 69. L'Imperatrice Mammea onorevolmente lo rimandò al suo ritiro di Palestina, t. III, p. ivi. Mandò varie lettere edificanti all'Imperatore Filippo, t. III, p. 70.
Ormuz, figlio di Nushirwan. Sua tirannia e vizi, t. VIII, p. 344. Viene deposto ed imprigionato, t. VIII, p. 351. Sua morte t. VIII, p. 354.
Ortodossi, perseguitati, tom. IV, p. 115.
Osio, vescovo di Cordova, esiliato d'ordine dell'Imperatore Costanzo, t. IV, p. 142. S'impiega la persuasione e la violenza per estorcere la ripugnante soscrizione del decrepito vescovo Osio, t. IV, p. 143.
Osservazioni generali sulla caduta del romano Impero in Occidente, t. VII, p. 171.
Othmano, Califfo de' Saracini; suo regno, t. X, pag. 130. Sua morte, tom. X, pag. 133.
Ottavio, figlio adottivo di Cesare; sua origine; qual parte egli prendesse nelle proscrizioni; rende schiava la repubblica, e prende il nome di Augusto, tom. I, p. 139.
Ottomani, loro origine, tom. XII, pag. 314. Invadono l'Europa, t. XII, p. 326. Ristaurazione del loro Impero, t. XII, p. 400.
Ottone, re di Germania. Ristabilisce e si appropria l'Impero d'Occidente, t. IX, p. 342. Transazione fra il suo Impero e quello d'Oriente, t. IX, p. 344.
Ovidio, esiliato sulle spiagge glaciali del Danubio, t. III, p. 349. Descrive coi più vivi colori l'abito ed i costumi de' Goti, e dei Sarmati, t. III, p. 350.
P
Pacomio (San). Occupava l'Isola di Tabenna nell'Alta Tebaide, t. VII, p. 10.
Padri della Chiesa. Loro morale, t. II, p. 296. Amore del dilettarsi e dell'operare insiti nell'umana natura, t. II, p. 297.
Paganesimo e Pagani. I Pagani della Grecia e di Roma, t. II, p. 275. Dottrina dell'immortalità dell'anima presso i Pagani, t. II, p. ivi. Condannati agli eterni supplizii, t. II, pag. 284. Loro proporzione generale coi Cristiani, t. II, p. 344. Progressi del loro zelo e della loro superstizione, t. III, p. 79. Il paganesimo tollerato sotto Costantino e sotto i suoi figli, t. IV, p. 173. Sua mitologia e sue allegorie adottate da Giuliano l'Apostata, t. IV, p. 240. Suo ristabilimento e sua riforma sotto quell'Imperatore, t. IV, p. 257. Suo stato a Roma, t. V, p. 358. Distruzione dei suoi templi, t. V, p. 359. Richiesta del Senato per l'altare della Vittoria, t. V, p. 363. Conversione di Roma, t. V, p. 366. Distruzione de' templi nella provincia, t. V, p. 369. Il tempio di Serapide in Alessandria, t. V, p. 374. Ultima distruzione del paganesimo, t. V, p. 377. La religione pagana è proibita, t. V, p. 382. Indi oppressa, t. V, p. 384. È finalmente estinta, t. V, pag. 386. Introduzione delle cerimonie pagane nel Cristianesimo, t. V, p. 399. Persecuzione di Giustiniano contro i Pagani, t. IX, p. 81.
Paleologo Michele. Sua famiglia e carattere, t. XII, p. 185. Suo innalzamento al trono di Nicea, t. XII, p 189. Coronato Imperatore, t. XII, p. 193. Sua conquista di Costantinopoli, t. XII, p. ivi. Suo ingresso, t. XII, p. 194. Manda in bando il giovane Imperatore Giovanni Lascari, suo pupillo e suo legittimo sovrano, dopo avergli fatto cavar gli occhi, t. XII, p. 197. È scomunicato dal Patriarca Arsenio, t. XII, p. 198. Fa coronare il suo figlio Andronico, e si unisce colla Chiesa latina, t. XII, p. 203. Eseguisce in persona le censure ecclesiastiche e perseguita i Greci scismatici, t. XII, p. 207. Sollecita i Siciliani a ribellarsi, t. XII, p. 214. Sua morte, t. XII, p. 218.
Paleologo Giovanni, figlio di Andronico il Giovane; eredita il trono in età di nove anni, t. XII, 249. Gli vien dato per tutore Giovanni Cantacuzeno, t. XII, p. 250. Sposa la figlia di Giovanni Cantacuzeno, t. XII, p. 261. Giovanni Paleologo muove le armi contro di Cantacuzeno, t. XII, 264. Battuto, ritirasi nell'isola di Tenedo, e dopo ritorna a Costantinopoli, t. XII, p. 265. È spettatore indifferente della rovina del suo Impero, tom. XII, p. 342. Sua morte, t. XII, p. 344. Trattato di Giovanni Paleologo con Innocenzo VI, t. XII, p. 423. Visita a Roma Urbano V, t. XII, p. 425.
Paleologo Manuele, figlio di Giovanni. Serve nelle armate di Baiazetto, t. XII, p. 341. Monta sul trono di Costantinopoli, t. XII, pag. 342. Nella sua infelice situazione implora la protezione del Re di Francia, t. XII, p. 344. Lascia il trono a Giovanni suo nipote, Principe di Selimbria, t. XII, p. ivi. Ritorna sul trono, t. XII, p. 439. Sua indifferenza pei Latini e sue negoziazioni, t. XII, p. ivi. Ragguaglio di un intertenimento famigliare dell'Imperatore Manuele, t. XII, p. 441. Sua morte, t. XII, p. 442.
Paleologo Giovanni II, Imperatore. Ottiene il permesso di regnare pagando un tributo, t. XII, p. 407. Suoi viaggi, t. XII, p. 429. Suo zelo, t. XII, p. 443. S'imbarca sulle galee del Pontefice, t. XII, p. 450. Accolto trionfalmente in Venezia, t. XII, p. 456. In Ferrara, t. XII, 457. Suo ritorno a Costantinopoli, t. XII, p. 471. Sua Lega cogli Ungheri, tom. XIII, p. 22. Sua morte, t. XIII, p. 44.
Paleologo Costantino, figlio di Giovanni, ed ultimo degli Imperatori Romani o Greci, t. XIII, p. 44. Spedisce Franza in ispeciale ambasciatore dal Sultano Amurat, t. XIII, p. 46. Suoi progetti falliti per la guerra de' Turchi, t. XIII, p. 50. Nel momento dell'assalto generale di Costantinopoli, dà l'ultimo addio ai Greci, t. XIII, p. 99.
Palestina. Sua descrizione, t. I, p. 37. Conquistata da Cosroe, t. VIII, p. 383.
Palmira. Descrizione di questa città, t. II, p. 39. Assediata da Aureliano, t. II, p. 41. Sua rivolta e sua rovina, t. II, p. 44.
Pandette (le), ossia il Digesto; composte in tre anni sotto il regno di Giustiniano, t. VIII, p. 199. Lode e censura delle Pandette, t. VIII, p. 200.
Pannonia. Divisione dell'Illiria, come governata, t. I, p. 39.
Paoliziani o discepoli di San Paolo. Loro origine, t. XI, p. 8. Loro Bibbia, t. XI, p. 10. Semplicità della loro dottrina e del loro culto, t. XI, p. 12. Ammettono i due principii dei Magi e dei Manichei, t. XI, p. 15. Si stabiliscono nell'Armenia e nel Ponto, t. XI, p. 17. Perseguitati dagl'Imperadori greci, t. XI, p. 19. Loro ribellione, t. XI, p 22. Affortificano Tefrica, t. XI, p. 23. Saccheggiano l'Asia Minore, t. XI, p. 24. Venuti in decadimento, t. XI, p. 26. Trapiantati dall'Armenia nella Tracia, t. XI, p. ivi. Soggiornano in Italia e in Francia, t. XI, p. 30. Persecuzione degli Albigesi, t. XI, p. 33. Caratteri e progressi della riforma, t. XI, p. 35.
Paolo di Tanis, Patriarca di Alessandria, t. IX, p. 126.
Paolo Samosateno, Vescovo di Antiochia. Nella sua giurisdizione ecclesiastica tutto era venale, t. III, p. 73. I Chierici da lui dipendenti imitavano il loro Capo nella soddisfazione di ogni sensuale appetito, t. III, p. 75. Alcuni errori da lui ostinatamente sostenuti intorno alla dottrina della Trinità, eccitano lo sdegno delle Chiese orientali, t. III, p. ivi. Degradato della sua dignità episcopale, t. III, p. ivi. Aureliano ne fa eseguire la sentenza, t. III, p. 77.
Paolino (San) successivamente monaco, e Vescovo, t. VI, p. 188. Consacrò il resto de' suoi averi e de' suoi talenti al servizio del glorioso martire San Felice, t. VI, p. 189.
Papi o Pontefici romani. Loro alleanza coi Re di Francia, t. IX, p. 298. Donazioni loro fatte da Pipino e da Carlomagno, tom. IX, p. 303. Stendonsi le decretali e la donazione di Costantino, t. IX, p. 308. Si separano dall'Impero d'Oriente, t. IX, p. 320. Autorità degli Imperatori nella elezione de' Papi, t. IX, p. 347. Disordini, t. IX, p. 350. Loro lunga e obbrobriosa schiavitù, t. IX, p. ivi. Riforma e pretese della Chiesa a questo proposito, tom. IX, p. 354. Essi scomunicano il Patriarca di Costantinopoli ed i Greci, t. XII, p. 15. Ricevono dai Greci il giuramento d'abiura e d'obbedienza, t. XII, pag. 206. Loro autorità temporale in Roma, tom. XIII, p. 140. Fondata sull'affezione del popolo, t. XIII, pag. ivi. Sul diritto, t. XIII, p. ivi. Sulle virtù degli stessi Pontefici, t. XIII, p. 141. Sulle loro ricchezze, tom. XIII, p. 142. Incostanza della superstizione, t. XIII, p. 143. Rivolta in Roma contro i Papi, t. XIII, p. 145. Gregorio VII, fondatore della sovranità de' Papi, viene scacciato da Roma, t. XIII, p. 147. Pasquale II, investito da una grandine di pietre e di dardi, t. XIII, p. 148. Gelasio II, preso pei capelli ed incatenato, t. XIII, p. 149. Lucio II e III. Il primo, percosso con un colpo di pietra nel cerebro, muore; ed il secondo, vede assalito da mille ferite il suo corteggio, t. XIII, pag. 150. Calisto II, proibisce l'uso delle armi, tom. XIII, p. 151. Martino IV, t. XIII, p. 174. Elezione dei Papi, t. XIII, p. 185. Diritti dei Cardinali stabiliti da Alessandro III, t. XIII, p. 187. Gregorio X istituisce il Conclave, t. XIII, pag. 188. I Papi s'assentano da Roma, t. XIII, p. 192. Bonifazio VIII, tom. XIII, pag. 193. Traslazione della Santa Sede ad Avignone, t. XIII, p. 195. Instituzione del Giubbileo, o dell'Anno Santo, t. XIII, p. 198. Secondo Giubbileo, t. XIII, p. 202. Ritorno d'Urbano V a Roma, t. XIII, p. 263. Gregorio XI ristabilisce la Santa Sede a Roma, tom. XIII, pag. ivi. Elezione d'Urbano VI, t. XIII, p. 266. Elezione di Clemente VII, t. XIII, p. 267. Martino V ed Eugenio IV, t. XIII, pag. 277. Nicolò V ultimo Papa frastornato dalla presenza d'un Imperatore Romano, t. XIII, pag. 278. Assoluto dominio acquistato dai Papi in Roma, t. XIII, p. 288. Loro governo ecclesiastico, t. XIII, p. 293. Sisto V, suoi vizi e sue virtù, t. XIII, p. 294.
Papiniano. Celebre giureconsulto, e prefetto del Pretorio, t. I, p. 186. Si rifiuta di fare l'apologia dell'assassinio di Geta: rimane vittima della sua coraggiosa resistenza, e la sua morte è compianta come una pubblica calamità, t. I, p. 201.
Para, Re di Armenia. Sue avventure, t. V, pag. 93. Sua morte, t. V, p. 106.
Parapinace, t. IX, p. 216.
Parigi. Descrizione di questa Capitale, t. III, p. 458.
Pasquale II. Vedi Papi.
Patrizii. Origine del loro Ordine; loro privilegi, t. III, p. 271. Qual rango li distingueva a' tempi di Costantino, t. IX, p. 300.
Pelagio (l'Arcidiacono) presenta innanzi a Totila il Vangelo, e la sua preghiera salva i Romani, t. VIII, p. 102.
Perenne, Ministro romano, t. I, p. 132.
Perisabor, o Anbar, città grande della Sorìa, alla distanza di cinquanta miglia da Ctesifonte, t. IV, p. 339.
Peroze, re di Persia. In una spedizione contro i Neftaliti, insiem coll'armata, perde la vita, t. VII, p. 340.
Persia. Sue rivoluzioni, t. I, p. 283. I Barbari dell'Oriente e del Settentrione, t. I, p. 290. Monarchia persiana ristabilita da Artaserse, t. I, p. 292. Riforma della religione de' Magi, t. I, p. 293. Teologia persiana: due principii, t. I, pag. 295. Culto religioso, t. I, p. 297. Cerimonie e precetti morali, t. I, pag. 298. Incoraggiamento dell'agricoltura, t. I, p. ivi. Potere dei magistrati, t. I, pag. 300. Spirito di persecuzione, tom. I, pag. 302. Stabilimento dell'autorità reale nelle province, t. I, p. 303. Estensione e popolazione della Persia, t. I, p. 304. Ricapitolazione, delle guerre tra i Parti ed i Romani, t. I, p. 305. Calamità di Seleucia e di Ctesifonte, t. I, p. 306. Conquista di Osroene fatta dai Romani, t. I, p. 308. Artaserse riclama le province dell'Asia, e dichiara la guerra ai Romani, t. I, p. 310. Relazione di questa guerra, t. I, pag. 313. Forza militare dei Persiani, t. I, p. 314. L'infanteria assai debole, ma la cavalleria eccellente, t. I, pag. 315. Conquista dell'Armenia sotto la condotta di Sapore, t. I, p. 400. Tiridate rimonta sul trono dell'Armenia, t. II, p. 130. Ribellione del popolo e de' Nobili, t. II, p. 131. I Persiani riprendono l'Armenia, t. II, p. 133. Guerra fra i Persiani ed i Romani, t. II, p. 134. Disfatta di Narsete; negoziazioni per la pace, t. II, p. 138. Avvenimento singolare di Sapore, t. III, p. 362. Questo principe vuol riprendere dai Romani le province al di là del Tigri; stato della Mesopotamia e dell'Armenia, t. III, pag. 364. Morte di Tiridate, t. III, pag. 365. Guerra coi Romani; battaglia Singara, t. III, p. 367. Negoziazioni coll'Imperatore Costantino, t. III, pag. 425. Invasione della Mesopotamia operata da Sapore, t. III, p. 429. Assedii di Amida e di Singara, t. III, p. 430. Invasione della Persia fatta da Giuliano l'Apostata, t. IV, p. 326. Sua marcia nei deserti della Mesopotamia, e suoi successi, t. IV, pag. 331. Invasione della Sorìa; assedii di Perisabor e di Maogamalca, tom. IV, p. 338. Passaggio del Tigri, ritirata e vittoria dell'armata romana, tom. IV, p. 348. Guerra nell'Armenia e cattività della regina Olimpia, t. V, p. 89. Morte di Sapore, t. V, p. 92. Avventure di Para re d'Armenia, t. V, p. 93. Divisione di questo regno fra i Romani ed i Persiani, t. VI, p. 327. Attila s'impadronisce della Persia, t. VI, p. 373. Morte di Peroze re di Persia, t. VII, p. 340. Guerra contro i Romani, t. VII, p. 342. Le porte Caspie e le porte Iberie, t. VII, p. 344. Stato della Persia nel sesto secolo, tom. VIII, p. 33. Regno di Nushirwan, t. VIII, p. 35. Pace e guerra coi Romani, t. VIII, p. 43. Guerra di Colchide o Lazica, t. VIII, pag. 53. Rivoluzione dopo la morte di Cosroe, t. VIII, p. 339. Il tiranno Ormouz suo figlio vien deposto, t. VIII, p. 350. Usurpazione di Baharam, t. VIII, pag. 358. Fuga e ristabilimento di Cosroe II, t. VIII, pag. ivi. Soggioga la Sorìa, l'Egitto e l'Asia Minore, t. VIII, p. 388. Spedizione de' Persiani ai tempi d'Eraclio, t. VIII, p. 401. Pace coi Romani, t. VIII, p. 423. La Persia invasa dagli Arabi, tom. X, p. 162. Battaglia di Cadesia, t. X, p. 164. Fondazione di Bassora, tom. X, p. 168. Saccheggio di Modain, t. X, p. 169. Fondazione di Cufa, tom. X, pag. 170. Conquista della Persia, t. X, p. 171. Morte del suo ultimo re, tom. X, p. 174. Annientamento dei Magi, t. X, pag. 303. La Persia soggiogata dai Turchi o Turcomani, t. XI, p. 219. Regno e carattere di Togrul-Beg, t. XI, pag. 221. Libera il Califfo di Bagdad, t. XI, p. 225. Sua investitura, t. XI, p. 226. Sua morte, t. XI, p. 227. Regno d'Alp-Arslan, t. XI, p. 229.
Pertinace, Senatore consolare. Eletto Imperatore; sua origine, t. I, 145. Riconosciuto dalle guardie pretoriane, t. I, p. 147. E dal Senato, t. I, p. 148. Virtù di Pertinace, t. I, p. 149. Procura di riformare lo Stato, t. I, p. 150. Suoi regolamenti, t. I, p. ivi. Sua popolarità, t. I, p. 152. Per questo si suscita il malcontento fra i pretoriani, che lo fanno assassinare, t. I, p. ivi. Congiura prevenuta, t. I, p. 153. Sua morte, t. I, pag. 154. Il Senato gli rende onori divini, t. I, p. 171. Suoi funerali e apoteosi, t. I, p. 173.
Pescennio, Negro nella Sorìa, t. I, p. 165.
Peste dell'anno 542 in Oriente e nell'Occidente, t. VIII, p. 154. Sua origine e sua natura, t. VIII, p. 155. Sua estensione e sua durata, t. VIII, p. 158.
Petra. L'assedio di questa città è un'impresa delle più rimarchevoli di questo secolo, t. VIII, p. 66.
Petrarca alla Corte d'Avignone. S'accinge con ardore allo studio della lingua greca, e si lega in amicizia col celebre Barlamo, t. XII, p. 478. L'Italia lo ammira come padre della poesia lirica, t. XIII, p. 214. È incoronato a Roma, t. XIII, p. 219. Impegna l'Imperatore Carlo IV a ristabilire la repubblica, t. XIII, p. 259. Sollecita i Papi d'Avignone a rimettere la Santa Sede in Roma, t. XIII, p. 260. Riferisce ai Romani la distruzione degli antichi monumenti, t. XIII, p. 261.
Piacenza. Concilio tenuto in questa città da Urbano II, t. XI, p. 271.
Piero l'Eremita, tom. XI, p. 268.
Pietro di Courtenai, Imperatore d'Oriente, tom. XII, pag. 132. Sua prigionia e morte, t. XII, p. 134.
Pilpai. Le favole morali e politiche di questo vecchio Bramino si conservavano fra i tesori del re dell'Indie con un misterioso rispetto, tom. VIII, p. 42.
Pipino libera Roma assalita dai Lombardi, t. IX, p. 294. Re di Francia, t. IX, p. 297. Donazione di Pipino ai Papi, tom. IX, p. 303.
Pisone (Calpurnio). Messo a morte dall'usurpatore Valente, t. I, p. 412.
Pittagora. Quando questi inventò il nome di filosofo, ebbe origine in Roma da Bruto I la libertà e il consolato, t. VII, p. 356.
Pitti (i). Invadono la Calcedonia, t. V, p. 71. E la Gran Brettagna, tom. V, p. 73.
Placidia, figlia del gran Teodosio, t. VI, p. 195. Suo matrimonio con Adolfo re dei Goti, t. VI, pag. ivi. Barbaro ed ignominioso trattamento con lei praticato dall'usurpatore assassino di suo marito, t. VI, p. 216. Ricondotta con onore al palazzo di suo fratello Onorio, t. VI, p. 117. Rimaritata a Costanzo ed associata all'Impero d'Occidente, t. VI, pag. 330. Sua amministrazione dopo la morte di questo principe e durante la minore età de' suoi figli, t. VI, p. 336. Suoi due generali Ezio e Bonifazio, t. VI, p. 339.
Platone. Suo genio nello scoprire la natura misteriosa della divinità, t. IV, p. 82. Questa segreta dottrina insegnavasi di soppiatto nei giardini dell'accademia, t. IV, p. 83. Con minore riserva nella celebre scuola d'Alessandria, tom. IV, p. 83.
Plauziano. Ministro e favorito di Severo; nominato prefetto del pretorio; suo infame dispotismo; massacrato sotto gli occhi dell'Imperatore, t. I, p. 186.
Plebei. Stabilimento di quest'Ordine, t. III, p. 272.
Plinio il Vecchio. Onora il secolo in cui fiorì, e il suo carattere innalza la dignità della natura umana, t. II, p. 348. Trascurò il fenomeno più grande di cui l'uomo sia stato testimonio dopo la creazione del Mondo, t. II, p. 351.
Plinio il Giovane. Gloriosa è la sua memoria, tom. III, pag. 348. Traiano, suo signore ed amico, lo nomina governatore della Bitinia e del Ponto, t. III, p. 39.
Plotino, filosofo della scuola di Platone, era riputato uno de' più grandi maestri della scienza delle allegorie, t. IV, p. 243.
Poggio, autore Italiano, t. XIII, p. 298. Osserva che Roma, fra tutte le città del Mondo, è quella che nella sua caduta offre un aspetto il più imponente insieme e il più compassionevole, tom. XIII, p. 300.
Politeismo. Suo risorgimento circa il 400, t. V, p. 396. La teologia semplice ne' primordii del Cristianesimo viene sfigurata coll'introduzione di una mitologia popolare, t. V, p. 399.
Polizia e Tribunali. Agenti o spie della Corte, t. III, p. 308. Uso della tortura, t. III, p. 310.
Pollenzia (la vittoria di), celebrata da Claudiano come il giorno più glorioso nella vita del suo Signore, t. VI, p. 98.
Polonia. Cenni su questa provincia, t. XII, p. 301.
Pompeo il Grande. Come vincesse due milioni di nemici in una battaglia ordinata, e riducesse mille cinquecento città dal lago Meotide sino al mar Rosso, t. VIII, p. 6.
Popolo romano. Suo numero in proporzione della forza militare, t. I, p. 155.
Porfirio, filosofo della scuola di Platone, assai stimato come eruditissimo nella scienza delle allegorie, tom. IV, p. 243.
Porfirogeneta, suoi scritti, t. X, p. 412. Loro imperfezione, t. X, p. 415.
Portoghesi in Abissinia, tom. IX, p. 135.
Poste. Loro stabilimento nelle province romane, tom. I, p. 77.
Postumio. Le virtù di questo principe sono la causa della sua caduta, t. II, p. 30.
Predicazione. Resa libera e pubblica a' tempi di Costantino, t. IV, p. 68.
Prefetti del Pretorio, t. III, p. 274. Di Roma e di Costantinopoli, t. III, p. 277. Viceprefetti, t. III, p. 280.
Pretestato, prefetto e filosofo Pagano, pieno d'erudizione, di gusto e di belle maniere, t. V, p. 54.
Priscilliano, Vescovo d'Avila in Ispagna. Capo di una Setta nominata i Priscillianisti, t. V, p. 300. Sua condanna insieme a quella de' suoi compagni, t. V, p. 303.
Prisco, lo storico, amico di Massimino. Coglie l'occasione della sua ambasciata per esaminare da vicino la vita domestica di Attila, t. VI, P. 393.
Probo, della famiglia Anicia, Dopo il saccheggio di Roma si ricovera sulle coste dell'Affrica, t. VI, p. 184.
Probo, suo carattere e sua elevazione al trono, t. II, p. 69. Sua condotta rispettosa verso il Senato, t. II, p. 70. Vittorie da lui riportate sopra i Barbari, t. II, p. 72. Libera la Gallia dall'invasione dei Germani, t. II, p. 73. Porta le armi nella Germania, t. II, p. 75. Muraglia fabbricata per suo ordine dal Reno al Danubio, t. II, p. 76. Incorpora i Barbari fra le milizie romane, t. II, p. 78. Estingue molte rivoluzioni nell'Oriente e nella Gallia colle sue guerre, t. II, p. 80. Riceve gli onori del trionfo, t. II, p. 83. Paralello tra la severa disciplina voluta da Aureliano, e la più mite abbracciata da Probo, t. II, p. 84. È barbaramente massacrato dalle sue truppe, t. II, p. 85. Autorità del Senato perita con Probo, t. II, p. 87.
Proclo. Si assicura che adoperasse dei medesimi mezzi d'Archimede per distruggere nel porto di Costantinopoli i vascelli dei Goti, t. VII, p. 353. Suoi successori, t. VII, p. 354. Ultimo dei filosofi, t. VII, p. 355.
Procopio. Sua ribellione contro l'Imperatore Valente, t. V, p. 22. Sua disfatta e morte, t. V, p. 27.
Procopio, retore. Suo carattere e suoi scritti, t. VII, p. 7. Compagno e Storico di Belisario, t. VII, p. 365.
Proculiani. Setta a' suoi tempi famosa, che divideva co' Sabiniani la giurisprudenza romana, t. VIII, p. 191.
Proculo, generale romano. Eccita le rivolte nella Gallia, t. II, p. 82. Soccombe sotto il genio superiore dell'Imperatore Probo, t. II, p. 83.
Promoto, generale d'infanteria che salvato avea l'Impero, respingendo l'invasione degli Ostrogoti, tom. VI, p. 8.
Propontide (la). Descrizione di questa provincia, t. III, p. 240.
Province romane. Divise fra l'Imperatore ed il Senato, t. I, p. 95. Governatori in esse spediti, t. I, p. 255.
Puglia. Conquistata dai Normanni, t. XI, p. 127. Oppressione di questa provincia, t. XI, p. 131.
Pulcheria, Imperatrice d'Oriente. Suo carattere e sua amministrazione, tom. VI, p. 315. Erede del coraggio e dei talenti del gran Teodosio, t. VI, p. ivi. Fa sposare Eudossia a suo fratello Teodosio il Giovane, t. VI, p. 318. Sue controversie con questa principessa, e sua vendetta, t. VI, p. 323. Suo matrimonio con Marciano, t. VI, p. 327. Sua morte, t. VI, p. 510.
Q
Quadi. Guerra contro di questo popolo, t. III, p. 421. Loro guerra a' tempi di Valentiniano, t. V, p. 103.
Quintilii (fratelli). Vittime della crudeltà di Commodo, t. I, p. 132.
Quintilio. Sua usurpazione e sua caduta, t. II, p. 17.
R
Radagaiso, Re de' Germani confederati. Invade l'Italia, t. VI, p. 79. Assedia Firenze, t. VI. p. 81. Minaccia Roma, t. VI, p. 82. Il suo esercito è vinto e distrutto da Stilicone, t. VI, p. ivi. La morte di questo illustre prigioniero disonora il trionfo di Roma e del Cristianesimo, t. VI, p. 86.
Radigero, Re de' Varni, tribù dei Germani che abitavano i dintorni del Reno e dell'Oceano, t. VII, p. 167.
Raimondo di Tolosa, t. XI, p. 305.
Ravenna. Assedio di questa città operato da Belisario, tom. VII, p. 387. Cenni su l'Esarcato, tom. VIII, p. 312.
Recaredo, primo re cattolico. Dal suo regno sino a quello di Witiza furono celebrati sedici Concilii nazionali, t. VII, p. 65.
Religione cristiana. Suoi progressi, ed importanza di tale ricerca, t. II, p. 245. Cinque cagioni dell'accrescimento del Cristianesimo, t. II, p. 247. Intolleranza de' primitivi Fedeli provenuta dalla religione giudaica, t. II, p. 247. Zelo di religione più liberale nei primitivi tempi, t. II, p. 253. Abborrimento in cui ebbero i primi Cristiani la idolatria, t. II, p. 268. Esteso anche agli uffizii e pratiche del civil vivere, t. II, p. ivi. Alle arti, t. II, p. 270. Alle pubbliche feste, t. II, p. 271. Opinioni sulla fine del Mondo, t. II, p. 279. Dell'incendio di Roma e del Mondo, t. II, p. 282. Tali timori utili a' progressi della religione cristiana, t. II, p. 283. Ricapitolazione delle cinque cagioni, t. II, p. 327. Debolezza del politeismo, t. II, p. 329. Lo scetticismo del Mondo pagano riuscì favorevole alla nuova religione; come pure la pace e l'unione dell'Impero romano, t. II, p. 331. Prospetto istorico dei progressi della religione cristiana in Oriente, t. II, p. 332. Chiesa d'Antiochia, t. II, p. 334. Egitto, t. II, pag. 336. Roma, t. II, p. 337. Affrica e province Occidentali, t. II, p. 337. Paesi posti oltre i confini dell'Impero romano, t. II, pag. 341. La religione cristiana è odiata dagli Imperatori romani, t. III, p. 6. Cagioni da cui questi potevano essere mossi, t. III, p. 7. La religione cristiana accusata d'ateismo è mal conosciuta dal popolo e dai filosofi, t. III, p. 12. Le assemblee che si teneano dai suoi seguaci riguardate come adunanze di cospiratori, t. III, p. 16. La religione cristiana si propaga nell'Armenia, t. III, p. 365. È rispettata dai Goti, t. VI, p. 174. Esposizione generale della persecuzione nell'Affrica, t. VII, p. 50. Frode de' Cattolici, t. VII, p. 57. Si diffonde nel Nord, t, XI, p. 105.
Religione ebraica. Rapidità de' suoi progressi, t. II, p. 247. Più opportuna alla difesa che alla conquista, t. II, p. 251. Ostinazione degli Ebrei convertiti e ragioni della medesima, t. II, pag. 254. Chiesa Nazarena di Gerusalemme, t. II, p. 256. Ebioniti, t. II, pag. 259. Gnostici, t. II, p. 261. Altre Sette ebree; progressi ed effetti che produssero nel Mondo, tom. II, p. 264.
Reliquie. Il Clero, istrutto dall'esperienza, che le reliquie de' Santi più valevano che non l'oro e le pietre preziose, si sforza di accrescere con esse il tesoro della Chiesa, tom. V, p. 393.
Rezia. Divisione dell'Illiria, e come governata, tom. I, p. 33.
Riccardo, re d'Inghilterra, nella Palestina, t. XI, p. 432. Trattato conchiuso dal medesimo e sua partenza, t. XI, p. 437.
Ricimero, Capo dei Barbari; sua origine, suoi servigi e suo potere, t. VI, p. 485. Depone Avito, t. VI, p. 486. S'oppone all'Impero di Maioriano, t. VI, pag. 487. Governa l'Italia col titolo di Patrizio, t. VI, p. 490. Sacrifica Maioriano alla sua ambizione, t. VI, p. 503. Regna in Occidente sotto il nome di Severo, t. VI, p. ivi. Il suo orgoglio umiliato alla Corte di Costantinopoli, t. VI, p. 508. Sua discordia con Antemio, t. VI, pag. 531. Saccheggia Roma, t. VI, p. 534. Sua tirannia e sua morte, t. VI, p. 536.
Rienzi-Gabrini (Nicola). Sua nascita, carattere e divisamenti patriottici, t. XIII, p. 222. Si arroga il governo di Roma, t. XIII, pag. 227. Assume il titolo e gli ufizi di Tribuno, t. XIII, p. 229. Leggi del Buono Stato, t. XIII, p. ivi. Libertà e prosperità della repubblica di Roma, t. XIII, p. 232. Il Tribuno rispettato in Italia, t. XIII, p. 235. Celebrato dal Petrarca, t. XIII, p. 237. Suoi vizi e sue follie, t. XIII, p. 238. Ricevuto cavaliere, t. XIII, p. 240. Sua incoronazione, t. XIII, p. 243. Incute spavento ai Nobili di Roma che lo detestano, t. XIII, p. 244. Questi si armano contro il Rienzi, t. XIII, p. 247. Abdica il governo, e fugge dal palazzo dello Stato, t. XIII, p. 250. Varie sommosse accadute in Roma, t. XIII, p. 252. Nuove avventure del Rienzi, t. XIII, p. 254. Prigioniere ad Avignone, t. XIII, pag. 255. Spedito a Roma col titolo di Senatore, t. XIII, p. 256. Muore nello stesso anno, t. XIII, p. 259.
Riflessioni d'ignoto autore sopra i capitoli 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, e 25 della Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano di Edoardo Gibbon, divise in tre lettere dirette ai signori Foothead e Kirk, Inglesi cattolici, t. V, p. 113. Altre del medesimo sopra i capitoli 26, 27, e 28 della medesima Storia, divise pure in tre lettere dirette agli stessi Signori, t. V, p. 402. Altre del medesimo sopra i capitoli 29, 30, 31, della stessa Storia in una lettera diretta agli stessi signori, t. VI, p. 232.
Riforma; indole e conseguenze, t. XI, p. 40.
Roberto Guiscardo. V. Guiscardo.
Rogaziani. Setta la quale sosteneva che Cristo non riconoscerebbe la purità della sua dottrina che nella Mauritania Cesarea, tom. IV, p. 81.
Roma. Sua libertà, tom. I, p. 50. Trionfante e soggiogata dalle arti della Grecia, t. I, pag. 59. Suoi monumenti, t. I, p. 66. Dissensioni civili fomentate dalla sua politica nella Germania, t. I, p. 349. Fame e peste in questa città, t. I, p. 414. Cerimonie superstiziose, t. II, p. 27. Sue fortificazioni, t. II, p. 28. Rivolta in occasione della riforma della moneta, ed osservazioni in tale proposito, t. II, p. 50. Giuochi del Circo e dell'anfiteatro sotto i regni di Carino e di Numeriano, t. II, p. 95. Roma cessa d'essere la Capitale dell'Impero, t. II, p. 145. Suo abbassamento, t. II, p. 149. Malcontento in tale proposito, t. II, p. 182. Progressi del Cristianesimo in Roma, t. II, p. 337. Incendio di questa città sotto il regno di Nerone, t. III, p. 25. Prefetti di Roma, t. III, pag. 280. Torbidi religiosi, tom. IV, p. 158. Il popolo esclama: un Dio, un Cristo, un Vescovo, t. IV, p. ivi. Indagini fatte in Roma pel delitto di magìa, t. V, p. 29. Stato del Paganesimo, t. V, p. 359. Conversione di Roma, t. V, p. 366. Minacciata dai Germani, e liberata da Stilicone, t. VI, pag. 82. Marcia di Alarico contro questa città, t. VI, pag. 116. Annibale alle sue porte, t. VI, p. 119. Sua nobiltà, t. VI, pag. 125. Suoi bagni e suoi giuochi pubblici, t. VI, pag. 146. Sua popolazione, tom. VI, p. 149. Primo assedio fatto dai Goti, t. VI, pag. 153. Fame, t. VI, p. 154. Peste e superstizione, t. VI, p. 156. Liberazione dall'assedio e negoziazioni inutili, t. VI, p. 157. Secondo assedio, t. VI, p. 166. Terzo assedio e saccheggio di Roma, t. VI, p. 173. Devastazione ed incendio di questa città, t. VI, pag. 176. Schiavi o fuggitivi, t. VI, p. 181. Saccheggio di Roma dato dalle truppe di Carlo V, t. VI, p. 185. Pace coi Goti, e regolamento per sollevare questa città dai passati infortunii, t. VI, p. 192. Saccheggiata nuovamente dai Vandali, t. VI, pag. 471. Sua prosperità sotto Teodorico, tom. VII, p. 230. Giustiniano abolisce il Consolato di Roma, t. VII, p. 371. Entrata in questa città di Belisario; è assediata dai Goti, t. VII, p. 428. Lutto generale della città, t. VII, p. 438. Liberata dal giogo dei Barbari, t. VII, p. 444. Nuovamente assediata dai Goti, t. VIII, p. 166. Oppressione generale e crudele carestia, tom. VIII, p. 167. I Goti padroni di Roma, t. VIII, p. 169. Ripresa da Belisario, t. VIII, p. 173. Nuovamente dai Goti, t. VIII, p. 182. Espugnata da Narsete, t. VIII, p. 200. Miseria ed avvilimento di questa città, t. VIII, p. 358. Tombe e reliquie degli Apostoli, t. VIII, p. 402. Repubblica di Roma; governo dei Papi, t. IX, p. 288. È investita dai Lombardi, t. IX, p. 291. Liberata da Pipino, t. IX, p. 294. Invasa dai Saracini, t. X, p. 379. Assediata da Enrico III, Imperatore d'Oriente, t. XI, p. 172. Stato e rivoluzione di Roma dopo il secolo duodecimo, t. XIII, p. 135. I successori di Carlo Magno e degli Ottoni s'accontentano del titolo di Re di Germania e d'Italia sino all'epoca in cui vennero incoronati Imperatori di Roma, t. XIII, p. 137. Giuravano essi tre volte di mantenere e proteggere la libertà di Roma, t. XIII, p. 138. Rivolta di Roma contro i Papi, t. XIII, p. 145. Arnaldo di Brescia, monaco, è il primo che tenta di risvegliare la libertà romana, t. XIII, p. 153. Sostiene, che la clava e lo scettro appartengono al magistrato civile, tom. XIII, p. 155. Ristabilimento della repubblica, t. XIII, p. 157. Morte di Arnaldo di Brescia, t. XIII, p. 159. È ristabilito il Senato, t. XIII, p. 160. Descrizione del Campidoglio, t. XIII, p. 163. Monete, t. XIII, p. 164. Prefetto della città, t. XIII, p. 166. Forma d'elezione dei membri del Senato, tom. XIII, p. 167. Branca Leone, podestà, t. XIII, p. 171. Carlo d'Anjou successore, t. XIII, p. 173. Luigi di Baviera, Imperatore romano, accetta quest'ufficio municipale nell'amministrazione della sua propria Metropoli, t. XIII, p. 175. Corrado III, t. XIII, p. ivi. Federico Barbarossa suo successore, t. XIII, p. 177. Discorso fatto a questo Imperatore dagli ambasciadori di Roma, t. XIII, p. 177. Orgoglio dei nobili o baroni romani, t. XIII, p. 203. Litigio dei Colonna e degli Orsini, t. XIII, p. 207. Ristabilimento della libertà e del governo di Roma operato dal Tribuno Rienzi, t. XIII, p. 222. Carlo IV scende dalle Alpi per farsi incoronare Imperatore e Re d'Italia, t. XIII, p. 259. Mali di Roma, t. XIII, p. 270. Ultima rivoluzione di Roma, t. XIII, p. 278. Federico III, ultimo Imperatore di Germania coronato in Roma, t. XIII, p. 280. Statuti e governo di Roma, t. XIII, pag. ivi. Cospirazione di Porcaro, t. XIII, p. 283. Disordini della nobiltà sotto il regno di Sisto IV, t. XIII, p. 287. La maggior parte d'Italia riconosce la sovranità dei Papi di Roma, t. XIII, p. 289. Vantaggi e difetti del governo ecclesiastico, t. XIII, p. 293. Descrizione che fa il Poggi delle rovine di Roma, tom. XIII, pag. 298. Deperimento per grado delle opere dell'antichità, t. XIII, p. 302. Quattro cause di distruzione, t. XII, p. 304. I. Guasti operati dal tempo e dalla natura, t. XIII, p. ivi. II. Devastazioni dei Barbari, t. XIII, p. 309. III. Uso ed abuso de' materiali che offrivano i monumenti romani, t. XIII, p. 312. I marmi di Ravenna e di Roma decorarono il palazzo fabbricato da Carlo Magno a Aix La Chapelle, t. XIII, p. 315. Le guerre intestine dei Romani, t. XIII, p. 319. Colosseo o anfiteatro di Tito, t. XIII, p. 324. Giuochi di Roma, t. XIII, p. 321. Combattimento del toro al Colosseo, t. XIII, p. 327. Guasti del Colosseo, t. XIII, p. 330. Consacrazione del Colosseo, t. XIII, p. 332. Ignoranza e barbarie dei Romani, t. XIII, p. ivi. Riparazioni ed abbellimenti di Roma sotto il Papa Martino V, t. XIII, p. 336. Bellezza e splendore della nuova città, XIII, p. 337.
Romani. Quarant'anni dopo la riduzione dell'Asia, ottantamila Romani furono in un sol giorno massacrati per ordine del crudele Mitridate, t. I, p. 54. Loro felicità sotto principi saggi e virtuosi, t. I, p. 118. Natura precaria della medesima, t. I, p. ivi. Somma loro miseria sotto i tiranni, t. I, p. 120. Spirito illuminato dei Romani e memorie della loro libertà, t. I, pag. 121. L'estensione del loro Impero toglieva loro ogni asilo, t. I, pag. 123. Loro pace e prosperità sotto Settimio Severo, t. I, p. 118. Oppressi da Caracalla, t. I, p. 200. Felicità generale sotto Alessandro Severo, t. I, p. 228. Osservazioni sulle loro finanze, dai bei secoli della repubblica sino al regno di questo principe, t. I, p. 236. Oppressione sotto Massimino, t. I, p. 258. Guerre coi Persiani, t. I, pag. 305. Conquista di Hosroene, t. I, p. 308. Guerra persiana, t. I, p. 309. Alleanza coi Goti contro Attila, t. VI, p. 432. Privilegi dei Romani nella Gallia, t. VII, p. 136. Nuova guerra persiana, t. VII, p. 340. Carattere dei Romani, secondo S. Bernardo, t. XIII, p. 152. Spediscono ambasciadori a Corrado III, e a Federico I, t. XIII, p. 175. Distruggono le città poste in vicinanza di Roma, t. XIII, p. 181. Battaglia di Toscolano, t. XIII, p. 184. Battaglia di Viterbo, t. XIII, p. 185.
Romano. Comandante militare nell'Affrica. La sua tirannia eccita una rivoluzione, t. V, p. 79. Sua impunità, t. V, p. 86.
Romano I, Lecapeno, t. IX, p. 196.
Romano II, Argiro, t. IX, p. 207.
Romano III, Diogene, imperatore d'Oriente, t. IX, p. 205. Sconfitto dai Turchi, t. XI, p. 233. Fatto prigioniere e liberato, tom. XI, p. 236. Sua morte, t. XI, p. 240.
Romano VI il Giovane, t. IX, p. 199.
Rosmunda, moglie d'Alboino re de' Lombardi. Fa assassinare suo marito, tom. VIII, p. 195. Sua fuga e morte, t. VIII, p. 298.
Rufino, favorito di Teodosio. Suo carattere ed amministrazione, t. VI, p. 7. Sue crudeltà, t. VI, p. 9. Opprime l'Oriente, t. VI, p. 12. Deluso nella speranza di maritare sua figlia coll'Imperadore Arcadio, t. VI, p. 15. Sua caduta e morte, t. VI, p. 25. Discordia fra i due Imperi, t. VI, p. 26.
Ruggero il Conte. Conquista la Sicilia, t. XI, p. 150. Invade l'impero d'Oriente, t. XI, p. 155.
Ruggero, gran Conte di Sicilia. Suo regno e sua ambizione, t. XI, pag. 181. Duca della Puglia, t. XI, p. 182 Primo re di Sicilia, t. XI, p. 183. Sue conquiste nell'Affrica, t. XI, p. 185. Invade la Grecia, t. XI, p. 188. Il suo ammiraglio libera Luigi VII, re di Francia, t. XI, pag. 189. Insulti portati sotto le mura di Costantinopoli, t. XI, p. 190. Respinto dall'Imperatore Manuele, tom. XI, p. 191.
Ruricio Pompejano, comandante a Verona, t. II, p. 208. Disfatto da Costantino e trovato fra i morti, t. II, p. 210.
Russia. Uso singolare nel matrimonio del Czar, t. IX, p. 67. Origine della sua Monarchia, t. XI, p. 80. Geografia e commercio di questo paese, t. XI, p. 85. Spedizioni navali de' Russi contro Costantinopoli, tom. XI, p. 89. Prima, t. XI, p. 91. Seconda, t. XI, p. 92. Terza, t. XI, p. 93. Quarta, t. XI, p. 94. Negoziazioni e profezie, tom. XI, p. ivi. Regno di Swatoslao, t. XI, p. 96. Disfatta de' Russi data da Giovanni Zimiscè, t. XI, p. 99. Sua conversione, tom. XI, pag. 101. Battesimo di Olga, t. XI, p. 102. Di Wolodimiro, t. XI, p. 104.
S
Sabei. Loro introduzione presso gli Arabi, t. X, p. 39.
Sabellianismo, t. IV, p. 99.
Saladino, Sultano. Regno e carattere di questo principe, t. XI, p. 414. Conquista il regno di Gerusalemme, tom. XI, p. 420. Prende la città nel medesimo anno, t. XI, p. 423. Assedia Tiro e San Giovanni d'Acri, tom. XI, p. 428. Sua morte, t. XI, p. 440.
Salerno, sua scuola, t. XI, p. 148.
Salona nella Dalmazia. Descrizione di questa città e de' suoi dintorni, t. II, p. 164. Palazzo di Diocleziano, t. II, p. 166.
Samanidi, t. X, p. 399.
Sapore re di Persia. Sue vittorie sui Romani, t. I, p. 401. Invade la Sorìa, la Cilicia e la Capadoccia, t. I, p. 403. Arditezza e successi di Odenate contro di lui, t. I, p. 405. Storia singolare delle sue avventure, t. III, p. 362. Dopo la morte di Costantino dichiara la guerra ai Romani, tom. III, pag. 364. Carnificina che ne fa, t. III, p. 369. Suo figlio preso dai Romani nel suo campo, frustato, posto alla tortura, e pubblicamente ucciso, t. III, pag. 370. Sue negoziazioni con Costanzo, t. III, pag. 425. Invade la Mesopotamia, t. III, p. 428. Assedia Amida, t. III, p. 430. Poi Singara, t. III, p. 433. Condotta dei Romani, t. III, p. 435. Vinto dai Romani sulle rive del Tigri; riprende forza, li sconfigge e li costringe a ritirarsi, t. IV, p. 348. Entra nell'Armenia, e conduce prigioniera la regina Olimpia, t. V, p. 89. Sua morte, t. V, p. 91.
Saracini. Loro condotta nella guerra di Sorìa, t. X, p. 179. Loro progressi in Affrica, t. X, p. 263. Assediano Costantinopoli, t. X, p. 317. Abbandonano quella città, t. X, p. 328. Invadono la Francia, e sono disfatti da Carlo Martello, t. X, p. 340. Si ritirano davanti i Francesi, t. X, p. 343. Soggiogano le isole di Creta e di Sicilia, t. X, p. 374. Invadono Roma, t. X, p. 379. Loro carattere e loro tattica, t. X. pag. 465. Loro lotta in Italia coi Franchi, t. XI, p. 109.
Sardica. Sua assemblea, t. IV, p. 133.
Sarmati. Costumi di questi popoli, t. III, p. 347. Loro stabilimento vicino al Danubio, t. III, p. 349. Sostenuti da Costantino nella loro guerra contro i Goti, t. III, p. 351. Loro espulsione, t. III, p. 354. Guerra loro fatta da Giuliano, t. III, p. 421. Costanzo gli fa guerra, e gli dà un re, t. IV, p. 404. Loro scorrerie nella Pannonia e nell'Illirico, t. V, p. 103. Loro guerra a tempi di Valentiniano, t. V, p. 103.
Sassoni. Loro origine e loro stato a' tempi di Valentiniano, t. V, p. 64. Loro discesa, t. VII, pag. 147. Stabilimento dell'Enarchia Sassonica, t. VII, p. 149.
Saturnino. Sua ribellione nell'Oriente, t. II, p. 81.
Scanderbeg, principe Albanese. Sua nascita ed educazione, t. XIII, p. 36. Tradisce il Sultano, e fa la guerra ai Turchi, t. XIII, p. 38. Suo valore, t. XIII, p. 40. Sua morte, t. XIII, p. 42.
Schiavoni. A' tempi di Giustiniano, t. VIII, p. 13. Loro scorrerie, tom. VIII, p. 16.
Scisma Greco dopo il Concilio di Firenze, t. XIII, p. 10.
Scisma d'Occidente, t. XIII, p. 269. Negoziazione per la pace e per la riunione degli Scismatici, tom. XIII, p. 271.
Sciti, ossia Tartari. Loro costumi pastorali, tom. V, p. 174. Loro vitto, t. V, p. 176. Abitazioni, t. V, pag. 179. Esercizii, t. V, pag. 181. Governo, t. V, p. 184. Loro guerre a tempi di Teodosio il Giovane, t. VI, p. 379. Stato degli schiavi, t. VI, p. 382.
Scizia, o Tartaria. Sua situazione ed estensione, t. V, p. 187. Conquiste degli Unni nella Scizia, t. V, pag. 192. Sue rivoluzioni, t. VI, p. 75. Sottomessa da Attila, t. VI, p. 371.
Scotti e Pitti a' tempi di Valentiniano, tom. V, p. 69. Loro invasione della Brittania, t. V, p. 73.
Sebastiano, usurpatore. Sua caduta e decapitazione, t. VI, p. 208.
Selgiucidi. Loro parteggiamento dell'Impero, t. XI, p. 248. Fondano il regno di Rum, t. XI, p. 252.
Senato romano. Sua riforma sotto Augusto, t. I, p. 90. Le province romane divise fra lui e l'Imperatore, t. I, p. 96. Il diritto d'eleggere i Magistrati conferito da prima al popolo, poi attribuito a questo corpo, t. I, p. 99. È fatto utile e maneggevole strumento del dispotismo dei Cesari, t. I, p. 101. Suo tentativo dopo la morte di Caligola, t. I, p. 108. Sua giurisdizione legale contro gl'Imperadori, t. I, p. 148. Dichiara infame la memoria di Commodo, dopo avergli prostituite grandissime e vilissime lodi, t. I, p. 149. Condanna a morte l'usurpatore Giuliano, e rende divini onori a Pertinace, t. I, p. 172. I soldati di Caracalla lo costringono ad annoverare questo principe nel numero degli Dei, t. I, p. 206. Consacra all'infamia la memoria di Elagabalo, t. I, p. 222. Dichiara l'Imperatore Massimino pubblico nemico, e ratifica l'elezione fatta in Affrica dei due Gordiani; assumendo intanto il comando di Roma e dell'Italia, t. I, p. 265. Suoi preparativi onde sostenere una guerra civile, t. I, p. 266. Dopo la morte di Gordiano dichiara Imperatori Massimo e Balbino, t. I, p. 267. Costretto dal popolo a nominare un terzo Imperatore, il giovane Gordiano, t. I, p. 270. Respinge i Barbari appostati sotto le mura di Roma, t. I, p. 386. Servizio militare interdetto ai Senatori da Galieno, t. I, p. 387. Vendetta presa dai Senatori contro la famiglia e gli amici di questo principe, t. II, p. 11. Singolare contesa fra il Senato e l'esercito per la scelta d'un Imperatore, t. II, p. 55. Autorità e prerogative di questo corpo, t. II, pag. 62. Si estingue l'una e le altre con Probo, t. II, p. 87. Abbassamento del Senato, t. II, p. 149. Eccitano i Senatori, e favoreggiano il pubblico malcontento contro gli Imperatori d'Italia, t. II, p. 183. Domandano il ristabilimento dell'altare della Vittoria, t. V, p. 363.
Serapide, di cui in Alessandria vi era un tempio. Questa divinità non sembra che avesse un culto particolare, o che appartenesse alla superstizione degli Egizii, t. V, p. 375. Descrizione del suo Tempio, t. V, p. 376. La sua statua colossale avvolta nelle rovine del suo tempio e della sua religione, t. V, p. 379.
Seta. Uso della seta presso i Romani, t. VII, p. 290. Trasporto della seta dalla Cina per terra e per mare, t. VII, p. 295.
Sette Cristiane. Loro indole generale, t. IV, p. 169.
Severo, favorito di Galerio, dichiarato Augusto da questo principe, t. II, p. 181. Viene a Roma, e vi trova gli animi avversi alla sua autorità, tom. II, p. 185. Fugge a Ravenna; sua disfatta e sua morte, t. II, p. 186. Crudeltà di Licinio esercitata contro i figli di questo principe, tom. II, p. 221.
Severo Alessandro; dichiarato Cesare da Elagabalo, è ben presto spogliato di questo titolo e degli onori, e vien protetto dalle guardie Pretoriane, t. I, p. 219. Suo esaltamento al trono, t. I, p. 223. Potere di sua madre Mammea, t. I, p. 323. Sua amministrazione saggia e moderata, tom. I, p. 225. Sua educazione, e suo virtuoso carattere, t. I, p. 226. Giornale della sua vita, t. I, p. 226. Fa la felicità dei Romani, t. I, p. 228. Rifiuta il nome di Antonino, t. I, p. ivi. Intraprende la riforma dell'esercito, t. I, p. 229. Rivolta delle guardie Pretoriane; a' suoi piedi e nel suo proprio palazzo vien massacrato il Prefetto Ulpiano, t. I, p. 230. Dione Cassio lo Storico da lui sottratto al furore de' Pretoriani medesimi, t. I, p. 231. Tumulto delle legioni; sua singolar fermezza in quest'occasione, t. I, p. 232. Difetti del suo regno e del suo carattere, t. I, pag. 234. È assassinato dalle sue truppe, t. I, p. 255. Sua pretesa vittoria sui Persiani, t. I, p. 310. Stato dei Cristiani sotto il regno di questo principe, e de' suoi successori, t. III, p. 97.
Severo Libio. Imperatore di Occidente. Suo regno oscuro e senza gloria, t. VI, p. 503.
Severo Settimio. Generale dell'armata della Pannonia, si dichiara contro l'usurpatore Giuliano, t. I, p. 162. Suo carattere, t. I, p. 167. Dichiarato Imperatore dalle legioni, t. I, p. 168. Sua marcia in Italia, tom. I, p. 169. S'avanza sino a Roma, t. I, p. ivi. Viene riconosciuto dal Senato, t. I, p. 171. Nega la sua protezione a' Pretoriani, t. I, p. 172. Suoi successi contro Negro ed Albino, t. I, pag. 174. Esito delle guerre civili, t. I, p. 177. Deciso da una o due battaglie, t. I, p. 178. Sua animosità contro il Senato, t. I, p. 181. Saviezza e giustizia del suo governo, t. I, p. 182. Pace e prosperità generale, t. I, p. 183. Rilasciamento della militar disciplina, t. I, p. ivi. Forma una nuova guardia Pretoriana, t. I, p. 185. Fa massacrare alla sua presenza Plauziano, suo ministro e favorito, t. I, p. 186. Opprime il Senato con un dispotismo militare, tom. I, p. 187. Nuove massime della prerogativa imperiale, t. I, p. ivi. Sua grandezza e suoi dispiaceri, t. I, p. 189. L'Imperatrice Giulia sua consorte, t. I, p. ivi. I due loro figli Caracalla e Geta, t. I, p. 191. Loro scambievole avversione, t. I, p. ivi. Tre Imperatori, t. I, p. 172. Morte di Severo Settimio, t. I, p. 195.
Siagro, Re de' Romani, disfatto da Clodoveo, t. VII, p. 79. Sua morte, t. VII, p. 80.
Siberia. Cenni su questa provincia, t. XII, p. 305.
Sicilia. Disordini di questa Isola, t. I, p. 416. Invasa e soggiogata da Belisario, t. VII, p. 414. Dagli Arabi, t. X, p. 377. Conquistata da Ruggero, t. XI, p. 150. Dall'Imperatore Enrico VI, t. XI, p. 203. Se ne impadronisce Carlo d'Anjou, fratello di S. Luigi, t. XII, p. 211. Tiranneggia i Siciliani, t. XII, p .212. Rivolta de' Siciliani animata da Michele Paleologo, t. XII, p. 213. Incoraggiata da Procida, t. XII, p. 215. Vespero Siciliano, tom. XII, p. 217. Pietro d'Aragona, Re di Sicilia, t. XII, p. 218. Morte di Carlo d'Anjou, t. XII, p. 219.
Soffaridi, t. X, p. 398.
Sofia (Santa). Chiesa in Costantinopoli. Sua fabbrica, t. VII, p. 319. Sua descrizione, t. VII, p. 321. Marmi, t. VII, p. 323. Ricchezza, t. VII, p. 325.
Silvano. Suo fine infelice t. III, p. 416.
Silverio Papa. Sua intelligenza coi Goti di renderli padroni di Roma: suo esilio, t. VII, p. 441.
Simmaco, Senatore Romano. Sua ambasciata a Teodosio per addimandargli il ristabilimento dell'altare della Vittoria, t. V, p. 363. Esiliato, t. V, p. 366. Sua morte, t. VII, p. 252.
Solimano. Figlio di Baiazetto, t. XII, p. 398.
Sorìa. Soggiogata dai Romani, t. I, p. 37. Spedizione d'Aureliano, t. II, p. ivi. Invasa da Cosroe I, Re di Persia, t. VIII, p. 46. Conquistata da Cosroe II, t. VIII, p. 388. Invasa dagli Arabi, t. X, p. 178. Assedio di Bosra, t. X, p. 172. Di Damasco, t. X, p. 185. Battaglia d'Aiznadin, t. X, p. 188. Damasco presa d'assalto dopo di essere stata presa per capitolazione, tom. X, p. 195. Si inseguono i suoi abitanti, t. X, p. 197. Fiera d'Abila, t. X, p. 200. Assedio d'Eliopoli e d'Emesa, t. X, p. 203. Battaglia d'Iermuck, tom. X, p. 207. Conquista di Gerusalemme, t. X, p. 211. D'Aleppo e d'Antiochia, t. X, p. 216. Fine della guerra di Sorìa, t. X, p. 225. Progressi de' vincitori, t. X, p. 228. Invasa da Niceforo Foca e da Zimiscè, t. X, p. 407. I Greci riprendono Antiochia, t. X, p. 408.
Spagna. Sua divisione in tre province Romane, tom. I, p. 29. Vicende posteriori e Monarchia, t. I, p. 74. Sottomessa da Costantino, t. VI, p. 96. Sue rivoluzioni, t. VI, p. 204. Invasa dagli Svevi, dagli Alani e dai Vandali, t. VI, p. 211. Liberata dai Goti, t. VI, p. 216. Spedizione di Teodorico, t. VI, p. 482. Conquiste de' Visigoti, t. VI, p. 524. Assemblea legislativa di questo paese, t. VII, p. 142. Codice dei Visigoti, t. VII, p. 145. Conquista de' Romani, t. VII, p. 405. Primi disegni degli Arabi sulla Spagna, t. X, p. 276. Loro discesa, t. X, p. 280. Musa conquista la Spagna, t. X, p. 289. Prosperità della Spagna sotto gli Arabi, t. X, p. 297. Decadenza e rovina del Cristianesimo in questo paese, t. X, p. 310.
Spedalieri Nicola. Saggio di confutazione dell'Istoria di Gibbon spettante all'esame del Cristianesimo, t. III, p. 115.
Spirito Santo. Processione di questa Persona dalla Santissima Trinità, t. XII, p. 7.
Stauracio, t. IX, p. 174.
Stefano di Chartres, t. XI, p. 303.
Stilicone. Ministro e generale dell'impero d'Occidente; suo carattere, t. VI, p. 18. Sua integrità nell'amministrazione militare, t. VI, p. 20. Durante la minorità di Onorio e d'Arcadio è a lui conferita la reggenza dei due imperi d'Oriente e d'Occidente, t. VI, p. 22. Rufino suo rivale fatto da lui assassinare, t. VI, p. 24. Intrighi ed artificii contro di lui; dichiarato nemico dello Stato dal Senato di Costantinopoli, tom. VI, p. 28. Sua condotta all'epoca della rivolta di Gildone in Affrica, tom. VI, p. 29. Scaccia i Goti e i Germani dall'Italia, t. VI, p. 82. Sue negoziazioni con Alarico, t. VI, p, 98. Intrighi del Palazzo contro di lui, t. VI, p. 102. Sua disgrazia e sua morte, t. VI, p. 104. Sua memoria resa infame, t. VI, p. 107.
Storia Bizantina. Suoi difetti, t. IX, p. 141. Sua unione colle rivoluzioni del Mondo politico, t. IX, p. 143. Disegno su questa Storia di Gibbon, t. IX, p. 144.
Svatoslao. Suo Regno, t. XI, p. 96. Sconfitta da lui avuta dalle armi di Zimiscè, t. XI, p. 98.
Svevi. Loro origine e loro fama, t. I, p. 384. Diverse tribù assumono il nome di Alemanni, t. I, p. ivi. Invadono la Gallia e l'Italia, t. I, p. 385. Il Senato ed il popolo li respingono da Roma, t. I, p. 385.
Sulpiciano, Governatore di Roma, ed avo di Pertinace. Sue pretese al trono dopo la morte di questo Principe, t. I, p. 160.
T
Tabor. Disputa intorno la luce del monte, t. XII, p. 265.
Tacito, Senatore Romano, eletto Imperatore. Suo carattere, t. II, p. 59. Poteri accordati al Senato, t. II, pag. 62. Gioia e confidenza nata ne' Senatori, t. II, p. 63. Viene riconosciuto anche dall'armata, t. II, p. 64. Vittorie da lui riportate in Asia sopra gli Alani, t. II, p. 65. Sua morte, t. II, p. 66. Suoi figli rimasti nell'oscurità, t. II, p. 69.
Tacito (lo Storico). Somma riputazione da lui acquistata nel secolo in cui fiorì, t. II, p. 349. Intraprende e compie la Storia di Roma in trenta libri, t. III, p. 31.
Taeriti, t. X, p. 398.
Tancredi, t. XI, p. 307.
Tangiu, gran potenza degli Unni, t. V, p. 191. Il Tangiu radunava spesso insieme sino due o trecentomila uomini di cavalleria, t. V, p. 193. Dopo un regno di mille trecento anni fu questa potenza distrutta, t. V, p. 199.
Tartari. Vedi Sciti.
Teja. Ultimo Re dei Goti in Italia, sua disfatta e sua morte, t. VIII, p. 124.
Teodato. Re dei Goti d'Italia. Suo regno e sua debolezza, t. VII p. 417. Sua morte, t. VII, p. 425.
Teodora Imperatrice. Sua nascita e suoi vizi, t. VII, p. 266. Suo matrimonio con Giustiniano, t. VII, p. 270. Sua tirannia, t. VII, p. 273. Sue virtù, t. VII, p. 274. Sua fermezza in una tristissima situazione, tom. VII, p. 276. Sua morte, t. VII, p. 277. Culto delle immagini da lei ristabilito in Oriente, t. IX, p. 316.
Teodorico, Re dei Visigoti. Suo carattere, t. VI, p. 478. Sua spedizione in Ispagna, t. VI, p. 482.
Teodorico, Re degli Ostrogoti. Sua nascita e sua educazione, t. VII, p. 201. Sue prime imprese, t. VII, p. 203. Suoi servigi e sua rivolta, t. VII, p. 206. Sua marcia in Italia, t. VII, p. 209. Sue vittorie riportate da Odoacre, t. VII, p. 211. Suo regno in Italia, t. VII, p. 216. Favoreggia la separazione dei Goti e degl'Italiani, t. VII, p. 217. Suo sistema colle Potenze straniere, t. VII, p. 220. Sue guerre difensive, t. VII, p. 223. Suo armamento navale, t. VII, p. 225. Governa l'Italia colle leggi romane, t. VII, p. 227. Si porta a Roma, t. VII, p. 231. Suo arianismo, t. VII, p. 236. Vizi del suo governo, t. VII, p. 239. È provocato a perseguitare i Cattolici, t. VII, p. 241. Suoi rimorsi e sua morte, t. VII, p. 252. Monumento a lui innalzato dalla sua figlia Amalasunta, t. VII, p. 254.
Teodoro Lascaris, Imperatore di Nicea, t. XII, p. 116.
Teodoro Lascaris II, t. XII, p. 181.
Teodosio, Generale di Valentiniano; libera la Gran Brettagna invasa dai Pitti e dagli Scozzesi, t. V, p. 76. Sottomette l'Affrica, t. V, p. 82. Decapitato a Cartagine, t. V, p. 85.
Teodosio, Patriarca d'Alessandria. Vien deposto, tom. IX, p. 126.
Teodosio il Grande, creato Imperatore, t. V, p. 248. Sua nascita e suo carattere, t. V, p. 250. Sua prudenza e suoi successi nella guerra contro i Goti, tom. V, p. 254. Suo trattato di pace con Massimo, t. V, p. 280. Suo battesimo e suoi scritti ortodossi, t. V, p. 273. Raduna un Concilio a Costantinopoli, t. V, p. 296. Suoi editti contro gli eretici, t. V, p. 300. Prende le armi per soccorrere Valentiniano II contro Massimo, t. V, p. 318. Sua vittoria, e suo ingresso trionfale nell'antica Capitale dell'Impero, t. V, p. 323. Virtù di questo Principe, t. V, p. 324. Suoi difetti, t. V, p. 347. Sua clemenza dopo la sedizione d'Antiochia, tom. V, p. 332. Massacro di Tessalonica da lui ordinato, t. V, p. 333. Sua penitenza, t. V, p. 337. Sua generosità, t. V, p. 341. Intraprende la guerra contro l'usurpatore Eugenio, e sua vittoria, t. V, p. 347. Sua morte, t. V, p. 353. Divisione definitiva dell'Impero Romano fra i suoi figli, t. VI, p. 5.
Teodosio II, Imperatore d'Oriente. Sua educazione e suo carattere, t. VI, p. 317. Suo matrimonio colla bella Atenaide nominata dopo Eudossia, t. VI, p. 320. Acre gelosia contro questa Principessa. La priva degli onori del suo grado, t. VI, p. 323. La divisione dell'antico regno d'Armenia rende ancora qualche splendore al suo spirante impero, t. VI, p. 330. Vittoria da lui riportata contro l'usurpatore Giovanni, t. VI, p. 332. Assassinio da lui tentato contro Attila andato a vuoto, e perdono ottenuto, t. VI, p. 406. Sua morte, t. VI, p. 408.
Teodosio III, Imperatore d'Oriente. Suo regno, t. IX, p. 163.
Teofilo, t. IX, p. 180.
Teologia. Dottrina dei Filosofi su l'immortalità dell'anima, t. II, p. 273. Dei Pagani della Grecia e di Roma, t. II, p. 275. Dei Barbari, t. II, p. 276. Dei Giudei, t. II, p. ivi. Dei Cristiani, t. II, p. 278. Dottrina dei Millenarj, t. II, p. 279. Verità contestata dei miracoli, t. II, p. 289. Politeismo, t. II, p. 327. Donatisti, t. IV, pag. 79. Trinitari, t. IV, p. 81. Sistema di Platone insegnato prima della venuta di Cristo nelle scuole d'Alessandria, t. IV, p. ivi. Rivelato dall'Apostolo Giovanni, t. IV, p. 85. Gli Ebioniti ed i Doceti, t. IV, p. 86. Natura misteriosa della Trinità, t. IV, p. 88. Zelo dei Cristiani, t. IV, p. 90. Autorità della Chiesa, t. IV, p. 94. Tre sistemi sulla Trinità: l'Ariano, il Triteismo, ed il Sabelliano, t. IV, p. 97. Concilio di Nicea, t. IV, p. 100. Sette degli Ariani, t. IV, p. 106. Fede della Chiesa latina o Occidentale, t. IV, p. 109. Concilio di Rimini, t. IV, p. 111. Concilii ariani, t. IV, p. 119. Concilii d'Arles e di Milano, t. IV, p. 139. Storia Teologica sulla dottrina dell'Incarnazione, t. IX, p. 5. La natura umana e divina di Gesù Cristo, t. IX, p. 8. Inimicizia fra' Patriarchi d'Alessandria e di Costantinopoli. San Cirillo e Nestorio, t. IV, p. 28. Concilio tenuto in Efeso, t. IX, p. 43. Eresia d'Eutiche, t. IX, p. 56. Concilio generale tenuto in Calcedonia, t. IX, p. 64. Discordia civile ed ecclesiastica, t. IX, p. 67. Intolleranza di Giustiniano, t. IX, p 77. I tre Capitoli, t. IX, p. 86. Controversia de' Monoteliti, t. IX, p. 90. Stato delle Sette di Oriente. I Nestoriani, i Giacobiti, i Maroniti, gli Armeni, i Cofti, e gli Abissini, t. IX, p. 100.
Tertulliano Affricano. Annuncia l'ultimo giudizio, l'universale giudizio del Mondo, t. II, p. 284. Per dimostrare la stravaganza del paganesimo usa dell'eloquenza di Cicerone, e dello stile faceto di Luciano, t. II, p. 329. Assai versato nello studio della lingua latina, t. II, p. 345.
Tessalonica. Rivolta e massacro generale de' suoi abitanti, t. V, p. 333. Penitenza pubblica per questo imposta a Teodosio il Grande da Sant'Ambrogio, t. V, p. 337.
Tetrico, re d'Aquitania; suo regno e sua disfatta, t. II, p. 32. Ristabilito nel suo posto, e nella sua fortuna dalla clemenza d'Aureliano, t. II, p. 48.
Tiberio, figlio adottivo d'Augusto, è da lui chiamato a succedergli nell'Impero, t. I, p. 110. Supposti editti di questo Principe, t. III, p. 64.
Tiberio II. Associato all'Impero d'Oriente, t. VIII, p. 301. Suo regno, t. VIII, p. 303. Sue virtù, t. VIII, p. 305. Sua morte, t. VIII, p. 306.
Timur o Tamerlano, Principe Emireno. Sua Storia, tom. XII, p. 346. Sue prime imprese, t. XII, p. 350. Innalzato al trono del Zagatai, t. XII, p. 352. Sue conquiste, t. XII, p. 353. Della Persia, t. XII, p. ivi. Del Turkistan, t. XII, p. 355. Del Kipsak della Russia ec., t. XII, p. 356. Guerra di Timur contro il Sultano Baiazetto, t. XII, p. 359. Invade la Sorìa, tom. XII, pag. 366. Saccheggia Aleppo, t. XII, pag. 368. Damasco, t. XII, p. 370. Bagdad, t. XII, pag. 371. Ingresso di Timur nella Natolia, t. XII, p. 372. Giornata d'Angora, t. XI, p. 373. Sconfitta e prigionia di Baiazetto, t. XII, p. 376. Storia della gabbia di ferro, t. XII, p. 377. Contraria al racconto dello Storico Persiano di Timur, t. XII, p. 379. Attestata dai Francesi, t. XII, pag. 380. Dagli Italiani, t. XII, p. ivi. Dagli Arabi, tom. XII, p. 381. Dai Greci, t. XII, p. 382. Dai Turchi, t. XII, p. 383. Conghietture probabili, t. XII, p. ivi. Termine delle conquiste di Timur, t. XII, p. 384. Trionfo a Samarcanda, t. XII, pag. 388. Morto nella spedizione della Cina, t. XII, p. 390. Indole e pregi di Timur, t. XII, p. 391.
Tiranni di Roma, t. I, p. 353. Il loro vero numero non era più di diciannove, t. I, p. 410. Carattere e merito de' tiranni, tom. I, p. ivi. Oscurità della loro nascita, t. I, p. 411. Causa della loro ribellione, t. I, p. 412. Loro morti violenti, t. I, p. 415. Fatali conseguenze di queste usurpazioni, t. I, p. 414. Disordini della Sicilia, t. I, p. 416. Tumulti d'Alessandria, t. I, p. 412. Ribellioni degli Isaurici, t. I, p. 418. Fame e peste, t. I, p. 419. Diminuzione della specie umana, t. I, p. 420.
Tiridate Armeno. Imprese sue giovanili, t. II, pag. 129. Suoi impegni con Licinio, t. II, p. ivi. Ritoglie l'Armenia ai Persiani, t. II, p. 130. Stato in cui trovavasi questo paese, t. II, p. ivi. Sollevazione del popolo e de' Nobili, t. II, p. 131. Tiridate tornato al trono d'Armenia, tom. II, p. 143.
Tito. Chiamato da Vespasiano a succedergli, t. I, p. 111. Associato all'Impero, t. I, p. 112.
Togrul-Beg. Suo regno ed indole, t. XI, p. 222. Libera il Califfo di Bagdad, t. XI, p. 224. Ne riceve investitura, t. XI, p. 226. Sua morte, t. XI, p. 227.
Tolleranza religiosa, t. X, p. 300.
Totila, re d'Italia. Sue vittorie, t. VIII, p. 90. Sue qualità e sue virtù, tom. VIII, p. 94. Assedia Roma, t. VIII, pag. 99. S'impadronisce di quella città, t. VIII, p. 101. Viene scacciato da Belisario, t. VIII, p. 105. La riprende di nuovo, t. VIII, p. 110. Sua disfatta e sua morte, tom. VIII, p. 118.
Tracia. Suo governo, t. I, p. 35.
Trajano Imperatore. Si segnala nella guerra contro i Daci, t. I, p. 9. Anche nell'Asia, t. I, pag. 10. Sua adozione, e suo carattere, t. I, p. 112. Investe della sovrana autorità il suo nipote Adriano, t. I, p. 113. Forma legale di procedura da lui stabilita contro i Cristiani, t. III, p. 40.
Transossiana. Conquista di questo paese, t. X, p. 177.
Trasimondo, t. VII, p. 48.
Tribigildo. Capo degli Ostrogoti. Sua ribellione, t. VI, p. 285.
Trinità. Controversie su questo mistero, t. IV, p. 81. Sistema platonico anteriore a Cristo di 360 anni, tom. IV, p. 81. Rivelato dall'Apostolo S. Giovanni, t. IV, p. 85. Natura misteriosa della Trinità, t. IV, p. 88. Tre sistemi della Trinità, t. IV, p. 97.
Trisagion e la guerra di religione fino alla morte di Anastasio, t. IX, p. 73.
Triteismo, t. IV, p. 98.
Truppe. Proporzione della forza militare colla popolazione di uno Stato, t. I, pag. 155. Distinzione delle truppe sotto Costantino, t. III, p. 291. Riduzione delle legioni, t. III, p. 293. Difficoltà degli arruolamenti, t. III, p. 295. Numero dei Barbari ausiliari aumentato, t. III, p. 297.
Tulondi, t. X, p. 400.
Turchi, loro origine, e loro Impero nell'Asia, t. VIII, p. 20. Rapidità delle loro conquiste, t. VIII, p. 25. Loro alleanza coi Romani, t. VIII, pag. 30. Loro discordia coi Persiani, t. X, p. 131. Loro emigrazioni, t. XI, p. 61. I Turchi Selgiucidi, t. XI, p. 208. Loro rivolta contro Mammud conquistatore dell'Indostan, t. XI, p. 209. Loro costumi e loro emigrazioni, t. XI, p. 217. Sconfiggono i Gaznevidi, e soggiogano la Persia, t. XI, p. 220. Regno e carattere di Togrul-Beg, t. XI, p. 222. I Turchi invadono l'Impero romano, t. XI, p. 228. Fanno la conquista dell'Armenia e della Georgia, t. XI, p. 229. Regno d'Alp-Arslan, t. XI, p. ivi. Di Malek-Shah, t. XI, p. 242. Divisione dell'Impero dei Selgiucidi, t. XI, p. 248. Conquista dell'Asia Minore, t. XI, p. 249. Regno Selgiucida di Rum, tom. XI, p. 252. Stato di Gerusalemme; dettaglio sui pellegrinaggi che vi si fanno, t. XI, p. 255. Califfi Fatimiti, t. XI, p. 353. Sacrilegio di Hakem, t. XI, p. 261. Aumento del numero de' pellegrini, t. XI, p. 263. Conquista di Gerusalemme fatta dai Turchi, t. XI, p. 265. Crociata e marcia de' primi Latini a Costantinopoli, tom. XI, p. 279. Conquista di Nicea, d'Antiochia, e di Gerusalemme fatta dai Franchi, e liberazione del Santo Sepolcro, t. XI, p. 344. Guerra contro i Crociati, t. XI, p. 390. Conquista dell'Egitto fatta dai Turchi, t. XI, p. 408. Origine degli Ottomani, t. XII, p. 314. Regno d'Otmano, t. XII, p. 315. Conquista della Prussia, t. XII, pag. 317. Regno d'Orcano, t. XII, p. ivi. S'impadroniscono della Bitinia, tom. XII, p. 319. Prendono il titolo d'Emiri, t. XII, p. ivi. Molti Emiri si dividono l'Anatolia, t. XII, p. ivi. Le province asiatiche che formavano parte dell'Impero romano, conquistate dai Turchi, t. XII, pag. 320. I Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme difendono Rodi per più di due secoli, t. XII, p. 321. I Turchi s'approfittano della discordia de' Greci per passare in Europa, t. XII, p. ivi. Matrimonio d'Orcano con una principessa greca, t. XII, pag. 324. Gli Ottomani si stabiliscono in Europa, t. XII, p. 326. Morte d'Orcano e di Solimano suo figlio, t. XII, p. 328. Regno d'Amurat I, e sue conquiste in Europa, t. XII, p. ivi. Instituzione de' Giannizzeri, t. XII, p. 330. Regno di Baiazetto I, e sue conquiste, t. XII, p. 331. Crociata e cattività de' Principi Francesi, t. XII, p. 335. Loro riscatto, t. XII, pag. 338. Minacciano l'Impero greco, t. XII, p. 342. Alla battaglia d'Angora, fatto prigioniero Baiazetto, resta disfatta l'armata Turca, tom. XII, pag. 373. Lega d'Eugenio contro i Turchi, tom. XIII, pag. 19. Marcia di Ladislao contro di essi, tom. XIII, p. 23. Pace, tom. XIII, p. 24. Violazione del Trattato di pace, t. XIII, p. 25. Giornata di Warna, tom. XIII, p. 28. Perdono la Morea, t. XIII, p. 125. E Trebisonda, tom. XIII, p. 126.
U
Ucrania. Descrizione di questa provincia; emigrazione dei Goti, t. I, p. 365.
Ugo di Vermandois, t. XI, p. 303.
Ulfila, apostolo de' Goti, tom. VII, p. 37.
Ulpiano, prefetto del Pretorio, assassinato dalle stesse sue guardie non ostante la difesa del popolo, tom. I, p. 230.
Ungari. Loro emigrazione, t. XI, p. 61. Origine fisica di questi popoli, t. XI, p. 65. Loro cognizioni militari e costumanze, t. XI, p. 67. Scorrerie degli Ungaresi; paesi ove si fermano, t. XI, p. 70.
Ungheria. Cenni su questa provincia, t. XII, p. 301.
Uniade. Sua morte e difesa di Belgrado, t. XIII, p. 32.
Unnerico, t. VII, p. 48.
Unni e Goti, t. V, p. 173. Loro sede primitiva, t. V, pag. 191. Loro guerra coi Cinesi, t. V, p. 193. Loro decadenza e rovina, t. V, p. 196. Loro emigrazioni, t. V, p. ivi. Unni bianchi di Sogdiana, t. V, p. 200. Unni del Volga, tom. V, p. 201. Loro vittoria sopra gli Alani, t. V, pag. 202. Loro vittorie sui Goti, t. V, p. 205. Condotti da Attila, t. VI, p. 364. Loro stabilimento nella moderna Ungheria, t. VI, p. 365. Invadono la Persia, tom. VI, pag. 373. Attaccano l'Impero Orientale, tom. VI, p. 376.
Urbano II al concilio di Piacenza, t. XI, p. 271.
Urbano V. Suo ritorno a Roma, t. XIII, p. 263.
Urbano VI. Sua elezione, tom. XIII, p. 266.
V
Valente, fratello di Valentiniano. È associato all'Impero, t. V, p. 19. Rivolta di Procopio, t. V, p. 22. Disfatta e morte di questo usurpatore, t. V, pag. 27. Ordina severe indagini sul delitto di magia, tom. V, p. 29. Sua crudeltà, t. V, p. 34. Sue leggi e suo governo, t. V, p. 37. Professa l'Arianismo, e perseguita i Cattolici, t. V, p. 43. Giusta idea della sua persecuzione, tom. V, p. 46. Riceve i Goti nell'Impero, t. V, pag. 212. Rivolta di questi, e operazioni di una guerra contro di essi, t. V, p. 233. Battaglia d'Adrianopoli, t. V, p. 236. Disfatta di Valente, ed orazione funebre pronunciata per lui e per la sua armata, t. V, p. 238.
Valentiniano, eletto Imperatore. Suo carattere, t. V, p. 15. Riconosciuto anche dall'armata, t. V, p. 17. Associa suo fratello Valente nell'Impero, t. V, p. 19. Divide definitivamente gli Imperi d'Oriente e d'Occidente, t. V, p. 20. Prescrive le più severe indagini sul delitto di magia, t. V, p. 29. Sua crudeltà, t. V, p. 34. Sue leggi e suo governo, t. V, p. 37. Assicura una tolleranza religiosa, t. V, p. 41. Reprime l'avarizia del Clero, t. V, p. 49. Passa il Reno e lo fortifica, t. V, p. 60. Sua spedizione nell'Illiria, t. V, p. 106. Sua morte, t. V, p. 109.
Valentiniano II. Eletto Imperatore, t. V, p. 109. Sua fuga, t. V, p. 318. Teodosio prende le armi per soccorrerlo, t. V, p. ivi. Carattere di questo principe, t. V, p. 342. Sua morte, t. V, p. 344.
Valentiniano III, Imperatore d'Occidente, t. VI, p. 334. Assassina il Patrizio Ezio, t. VI, p. 459. Viola la moglie di Massimo, tom. VI, p. 461. Sua morte, t. VI, p. 463.
Valeria, sorte sgraziata di questa Imperatrice, e di sua madre, t. II, p. 222.
Valeriano. L'officio di censore affidato a lui, tom. I, p. 370. Vendica la morte di Gallo, ed è proclamato Imperatore, t. I, p. 377. Suo carattere, t. I, p. 378. Divide il trono col suo figlio Galieno, t. I, p. 379. Calamità generale dei Regni di questi due Principi, t. I, p. 379. Irruzione dei Barbari, e origine della confederazione de' Franchi, t. I, p. ivi. Sua marcia in Oriente. Vinto colà e fatto prigioniero da Sapore, t. I, p. 401. Avventura di questo Principe, t. I, p. 406. Stato dei Cristiani sotto il suo regno, t. III, p. 73.
Vandali. Sbarcano nell'Affrica, t. VI, p. 342. Desolazione da essi prodotta in quel paese, t. VI, p. 348, loro successi, t. VI, p. 354. Sorprendono Cartagine, t. VI, p. 356. Loro potenza navale, t. VI, pag. 384. Saccheggiano Roma, t. VI, p. 471. Loro spedizioni navali, t. VI, pag. 506. Abbracciano il Cristianesimo, t. VII, p. 39. Motivi della loro fede, t. VII, pag. 40. Effetti della loro conversione, t. VII, p. 43. Adottano l'eresia d'Ario, t. VII, pag. 44. Persecuzione dei Vandali ariani contro gli ortodossi, t. VII, pag. 47. Ilderico e Gelimero, t. VII, p. 49. Quadro generale di questa persecuzione, t. VII, p. 50. Situazione de' Vandali nell'Affrica, t. VII, p. 360. Disfatta dei Vandali per opera di Belisario, t. VII, p. 378.
Varangi di Costantinopoli, t. XI, p. 83.
Vatace (Giovanni duca). Fa la guerra a Roberto Imperatore Latino, e distrugge la sua armata, tom. XII, p. 136. Succede a Teodoro Lascaris nell'Impero di Nicea, t. XII, p. 178.
Venezia. Fondazione di questa Repubblica, tom. VI, p. 447. Stato de' Veneziani, t. XII, p. 32. Mantengono l'onore della loro bandiera, t. XII, p. 34. Loro primitivo governo, t. XII, pag. 35. Si collegano coi Francesi per la quarta Crociata, t. XII, p. 36. Condizioni del Trattato, e sua ratifica, t. XII, pag. 38. I Crociati a Venezia, t. XII, p. 41. Quivi s'imbarcano, e diriggono il loro esercito contro Zara, t. XII, p. 42. Indi contro Costantinopoli, t. XII, 57. Dopo la presa di Costantinopoli i Veneziani si riservano quasi per più d'una metà l'Impero d'Oriente, t. XII, p. 110.
Vero (Elio) e suo figlio. Loro adozione all'Impero fatta da Adriano e da Antonino, t. I, p. 114.
Vescovi. Loro instituzione come presidenti del Collegio della Chiesa, t. II, p. 307. Progresso dell'autorità episcopale, t. II, p. 312. Dignità del governo episcopale, t. II, p. 326. Stato dei Vescovi sotto gl'Imperatori Cristiani, t. IV, pag. 50. Loro elezione, t. IV, p. 52.
Vespasiano, Imperatore. Elegge Tito a suo successore, t. I, pag. 110. Origine di questo Principe, t. I, p. 111.
Vetranione. Veste la porpora dopo l'assassinio di Costante, t. III, p. 376. È deposto da Costanzo, t. III, p. 379.
Visigoti nella Gallia sotto il regno di Teodosio, t. VI, p. 416. Loro alleanza coi Romani, t. VI, p. 430. Loro conquista nelle Gallie e nella Spagna, tom. VI, p. 524. Loro conversione in Ispagna, tom. VII, p. 65. Loro stabilimenti, t. VII, p. 141. Loro codice, t. VII, p. 144. Loro neutralità, t. VII, p. 405.
Vitige. Re d'Italia, t. VII, p. 424. Assedia Belisario in Roma, t. VII, p. 428. Rispinto, e forzato a levare l'assedio, t. VII, p. 448. Sua ritirata, t. VII, p. 461. Sua cattività, t. VII, p. 462.
Vittoria. Artifici di questa Principessa, t. II, p. 31.
Vittorino. Traviamenti di questo principe: sua morte, t. II, p. 30.
Volodomiro. Principe di Russia, t. X, p. 453. Suo battesimo, t. XI, p. 104.
Z
Zenghi, t. XI, p. 406.
Zenobia. Carattere di questa Principessa, t. II, p. 33. Sua bellezza, sua erudizione e suo valore, t. II, p. 34. Vendica la morte di suo marito, t. II, p. 35. Regna nell'Oriente e nell'Egitto, t. II, p. 36. Assediata nella sua Capitale, t. II, p. 37. Prigioniera di Aureliano, t. II, p. 42. Sua condotta, t. II, p. 43. Clemenza dell'Imperatore; e doni a lei fatti dal medesimo, t. II, p. 48. Adotta i costumi delle Dame romane, t. II, p. ivi.
Zenone, Imperatore d'Oriente. Suo regno, t. VII, p. 204.
Zenone, Vescovo. Suo formolario l' Henoticon, t. IX, p. 69.
Zimiscè Giovanni, Imperatore romano. Sue conquiste in Oriente, t. X, p. 405.
Zingis-Kan, o Gengis-Kan. Primo Imperatore de' Mongulli e de' Tartari, t. XII, p. 282. Sue leggi, t. XII, p. 285. Invade la Cina, t. XII, p. 289. Invade Carizme, la Transossiana e la Persia, t. XII, p. 291. Sua morte, t. XII, p. 294. Suoi successori, t. XII, p. 306. Adottano i costumi della Cina, t. XII, p. 308.
Zoe, t. IX, p. 209.
Zoroastro, legislatore persiano. Sua teologia, tom. I, p. 295. Spirito di persecuzione che disonora il suo culto, t. I, p. 302.
FINE
NOTE:
1. L'epistola di Manuele Crisoloras all'Imperatore Giovanni Paleologo non offenderà gli occhi, o le orecchie di persone dedite allo studio dell'antichità ( ad calcem Codini, De antiquitatibus C. P., 107-126); la sottoscrizione prova che Giovanni Paleologo fu associato all'Impero prima dell'anno 1411, epoca della morte di Crisoloras. L'età de' due più giovani figli di esso, Demetrio e Tommaso, entrambi Porfirogeneti, mostra una data anche più autentica, almeno l'anno 1408 (Ducange, Fam. byzant., p. 224-247).
2. Uno Scrittore ha osservato che si poteva navigare attorno alla città di Atene (τις ειπεν την πολιν των Αθηναιων υδνασθαι και παραπλειν και περαπλειν, alcuno disse che si poteva costeggiare e navigare intorno alla città di Atene ). Ma quanto può essere vero intorno alla città di Costantinopoli, non conviene ad Atene, situata cinque miglia in distanza del mare, nè circondata, o traversata da canali navigabili.
3. Niceforo Gregoras ha descritto il colosso di Giustiniano (l. VII, n. XII), ma le sue dimensioni son false e contraddittorie. L'editore Boivin ha consultato il suo amico Girardon, e lo scultore gli ha date le giuste proporzioni di una statua equestre. Pietro Gillio ha parimente veduta la statua di Giustiniano che non posava più sopra una colonna, ma stavasi in un cortile esterno del Serraglio. Egli era a Costantinopoli quando venne fusa per convenirla in un pezzo d'artiglieria ( De topograph., C. P. l. II, c. 17).
4. V. Gregoras (l. VII, 12, l. XV, 2), intorno alle rovine e alle riparazioni di S. Sofia. Andronico fece puntellare la chiesa, nel 1317, e la parte orientale della cupola rovinò nel 1345. I Greci esaltano, colla solita pompa del loro stile, la santità e la magnificenza di questo paradiso terrestre, soggiorno degli Angeli e del medesimo Dio ec.
5. Stando all'originale e sincero racconto di Siropulo (pag. 312-351), lo scisma de' Greci si manifestò la prima volta che ufiziarono a Venezia, e venne confermato dall'opposizione generale del Clero e del popolo di Costantinopoli.
6. Quanto allo scisma di Costantinopoli, V. Franza (l. II, c. 17), Laonico Calcocondila (l. VI, p. 155-156) e Duca (c. 31). L'ultimo di questi si esprime con franchezza e libertà. Fra i moderni meritano distinzione il Continuatore del Fleury (t. XXII, p. 238-401, 402 ec.), e lo Spondano (A. D. 1440, n. 30) Ma quando si parla di Roma e di religione, il retto sentire di quest'ultimo annega entro un mare di pregiudizj e di pretensioni.
7. Isidoro era Metropolitano di Chiovia, ma i Greci, sudditi della Polonia, hanno trasportata questa residenza dalle rovine di Chiovia a Lemberg o Leopold (Herbestein, in Ramusio, t. II, p. 127); d'altra parte i Russi si posero sotto la dependenza spirituale dell'Arcivescovo, divenuto, dopo il 1588, Patriarca di Mosca. Levesque, ( Hist. de Russie, tom. III, p. 188-190), compilazione d'un manoscritto di Torino, Iter et labores archiepiscopi Arsenii.
8. Il singolare racconto del Levesque ( Storia di Russia, t. II, p. 242-247) è tolto dagli archivj del Patriarcato. Gli avvenimenti di Ferrara e di Firenze vi sono descritti con altrettanta imparzialità ed ignoranza. Ma si può credere ai Russi intorno a quanto riguarda i lor pregiudizj.
9. Il Cammanismo, ossia l'antica religione de' Cammari, o Ginosofisti, è stata respinta ai deserti del Nord dalla religione più popolare dei Bramini dell'India; e una Setta di filosofi che andavano affatto ignudi, si vide costretta ad avvilupparsi in pellicce. Coll'andar del tempo tralignarono in una Setta di astrologhi o ciarlatani. I Morvan, o Tsceremissi della Russia europea, professarono questa religione formata sul modello terrestre di un Re, o di un Dio, de' suoi Ministri, o Angeli, e degli spiriti ribelli, che al governo di questo superiore si oppongono. Poichè queste tribù del Volga non ammettono le immagini, poteano a miglior diritto rinversar sui Latini il nome d'idolatri, che ad essi davano i Missionarj. (Levesque, Storia dei popoli sottomessi alla dominazione de' Russi, t. I, p. 194-237, 423-460).
10. Spondano ( Annal. eccles., t. II, A. D. 1451, n. 13). L'epistola de' Greci colla traduzione latina trovasi tuttavia nella Biblioteca del Collegio di Praga.
11. V. Cantemiro, Storia dell'Impero Ottomano, pag. 94. Scrivendo Murad o Morad, sarei forse più corretto, ma ho preferito il nome generalmente conosciuto a questa esattezza scrupolosa, nè molto sicura, quando è d'uopo convertire in lettere romane i caratteri orientali.
12. Le leggi e la loro osservanza sono certamente un benefizio a tutti comune. La libertà poi, se non è regolata da prescrizioni governative, facilmente diviene turbolenta e piena di gravi mali. (Nota di N. N.)
13. V. Calcocondila (l. VII, p. 186, 188), Duca (c. 33) e Marino Barlezio nella Vita di Scanderbeg (pag. 145-146). La buona fede mostrata da Amurat verso la guernigione di Sfetigrado fu un esempio ed una lezione al figlio di lui Maometto.
14. Il Voltaire ( Essai sur l'Histoire générale, cap. 89, p. 283, 284) ammira il filosofo turco. Avrebbe egli fatto lo stesso elogio ad un Principe cristiano che si fosse ritirato in un Monastero? Il Voltaire alla sua usanza era intollerante e bacchettone.
15. Cioè eremiti, o solitarj della religione maomettana, ch'ebbero origine quattro secoli circa dopo la di lei fondazione, detti Santi da' Maomettani. (Nota di N. N.)
16. V. nella Biblioteca orientale del d'Herbelot gli articoli Derviche, Fakir, Nasser, Rohbaniat. Nondimeno gli scrittori arabi e persiani hanno trattato leggiermente questo argomento, e fra i Turchi soprattutto questa specie di monaci si è moltiplicata.
17. Rycault, nell'opera, ( Etat présent de l'Empire Ottoman, pag. 242-268) narra molte particolarità tratte da intertenimenti personali avuti co' primarj Dervis, i quali per la maggior parte fanno ascendere la loro origine al regno di Orcano; ma non fa menzione dei Zichidi di Calcocondila (l. VII, pag. 286), fra i quali Amurat si ritirò. I seid di questo autore sono discendenti di Maometto.
18. Nel 1431, l'Alemagna mise in armi quarantamila uomini a cavallo, o sergenti, per far la guerra agli Hussiti della Boemia (Lenfant, Hist. du Conc. de Bâle, t. I, p. 318). Nell'assedio di Nuys sul Reno, nel 1474, i Principi, i Prelati e le città inviarono ciascuno il lor contingente; e il Vescovato di Munster (che non è de' più grandi) somministrò millequattrocento uomini a cavallo, seimila fanti, tutti vestiti di verde, e dugento carriaggi. Le forze congiunte del Re d'Inghilterra e del Duca di Borgogna erano appena eguali ad un terzo di questi eserciti d'Alemanni ( Mém. de Philippe de Comines, lib. IV, c. 2). Le potenze dell'Alemagna possono far conto sopra sei o settecentomila combattenti ben pagati ed ottimamente disciplinati.
19. Solamente nel 1444 la Francia e l'Inghilterra convennero di una tregua d'alcuni mesi ( V. Foedera del Rymer, e le Cronache delle due nazioni).
20. Nel descrivere la Crociata dell'Ungheria mi è stato guida lo Spondano ( Annal. eccles. A. D. 1443, 1444). Egli ha letti accuratamente e paragonati coll'abilità di un vero critico gli scritti de' Greci e degli Ottomani, le Storie dell'Ungheria, della Polonia e dell'Occidente. Chiaro mostrasi ne' racconti, e allorchè può spogliarsi dai pregiudizj religiosi, non sono da sprezzarsene le deduzioni.
21. Ho tolta dal nome di Ladislao la lettera W, con cui lo cominciano per la maggior parte gli Storici ( Wladislao ), o il facciano per uniformarsi alla pronuncia polacca, o per distinguerlo dal suo rivale, l'infante Ladislao d'Austria. Callimaco (l. I, part. II, pag. 447-486), Bonfinio ( Dec. III, l. IV), Spondano e Lenfant parlano diffusamente delle gare di questi due principi per conseguire il trono d'Ungheria.
22. Gli Storici greci, Franza, Calcocondila e Duca, non ci dimostrano il loro Principe come personaggio molto operoso in questa Crociata. Sembra che dopo esserne stato instigatore, l'abbia indi impacciata colla sua pusillanimità.
23. Cantemiro attribuisce al Caramano l'onore del divisamento citando una lettera incalzante che scrisse al Re d'Ungheria. Ma le Potenze maomettane son di rado istrutte degli affari della Cristianità, e la situazione de' Cavalieri di Rodi e la loro corrispondenza danno a credere che essi abbiano avuto parte a questo disegno del Sultano di Caramania.
24. Nelle loro lettere all'Imperatore Federico III, gli Ungaresi ammazzarono trentamila Turchi in una sola battaglia; ma il modesto Giuliano riduce il numero de' morti a soli seimila, o fors'anche duemila Infedeli (Enea Silvio, in Europa, c. 5, et epist. 44-81, apud Spondanum ).
25. Siccome tanto i Cristiani che i Maomettani ammettevano ed ammettono l'esistenza di un Esser Supremo, creatore e reggitore d'ogni cosa, così ambidue i partiti, fecero in nome di lui il loro giuramento: la differenza poi fra il dogma de' primi, e quello de' secondi è questa: i Maomettani ammettono soltanto l'unità di Dio, cioè che c'è un solo Dio senza trinità di persone, contro i politeisti, ossia idolatri, che ammettono molti Dei; i Cristiani poi credono all'unità dell'essenza di Dio, ed alla trinità della di lui persona, contro i Maomettani e contro i politeisti ad un'ora. (Nota di N. N.)
26. Non è da meravigliarsi che i Turchi maomettani sapendo, che i Cristiani credono alla transustanziazione, abbiano chiesto che giurassero l'osservanza del Trattato sul pane eucaristico, ossia mutato nel corpo reale di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, pensando che cotale giuramento legasse vie più le loro coscienze (non superstiziose per quella credenza) che quello fatto sull'Evangelio. (Nota di N. N.)
27. V. l'origine della guerra de' Turchi e la prima spedizione di Ladislao nel quinto e sesto libro della terza decade di Bonfinio, che molto felicemente imita lo stile e l'ordine di T. Livio. Nondimeno Callimaco (l. II, p. 487-496) lo supera in purezza di lingua ed autenticità.
28. Non pretendo farmi mallevadore per l'esattezza letterale del discorso di Giuliano, le cui espressioni variano in Callimaco (l. III, p. 505-507), in Bonfinio ( Dec. III, l. VI, p. 457, 458) e in altri Storici che hanno forse adoperata la propria loro eloquenza nel far parlare gli Oratori di questo secolo; ma tutti s'accordano nell'attribuirgli il consiglio dello spergiuro, che i Protestanti hanno amaramente censurato, e mal difeso i Cattolici, cui tolse ogni coraggio la rotta di Warna.
29. Varnes, o Warna, era sotto la denominazione greca di Odessa, una colonia di Milesj così chiamati ad onore di Ulisse (Cellario, t. I, p. 374. D'Anville, t. I, p. 312). Giusta la descrizione dell'Eussino data da Arianno (p. 24-25, nel primo volume de' Geografi di Hudson ) essa era situata 1740 stadj lontano dalla foce del Danubio, 2140 da Bisanzo, e 360 a tramontana del Promontorio del monte Emo che sporge nel mare.
30. Alcuni Autori cristiani affermano che Amurat si trasse dal seno un'ostia diversa da quella su di cui avea giurato di mantenere i patti della negoziazione. I Musulmani più semplicemente suppongono ch'ei si appellasse al Profeta Gesù Cristo, nella quale opinione sembra accordarsi anche Callimaco (l. III, p. 516; Spondan., A. D. 1444, n. 8).
31. Un critico giudizioso, crederà difficilmente a quegli spolia opima di un general trionfante, ottenuti sì rare volte dal valore, e sì spesso inventati dall'adulazione (Cantemiro, p. 90, 91). Callimaco (l. III, p. 517) dice con più semplicità e verisimiglianza: Supervenientibus janizaris, telorum multitudine, non tam confossus est, quam obrutus.
32. Oltre ad alcuni passi preziosi di Enea Silvio accuratamente raccolti dallo Spondano, i nostri migliori testi sono tre Storici del secolo XV, Filippo Callimaco ( De rebus a Wladislao Polonorum atque Hungarorum rege gestis, libri III, in Bell., scriptor. rer. hungar., t. I, p. 433-518), Bonfinio ( Décad. III, l. V, pag. 460-467) e Calcocondila (l. VII, p. 165-179). I due primi erano Italiani, ma trascorsero la loro vita in Polonia e nell'Ungheria (Fabricius, Bibl. lat. medii infimae aetatis, t. I, p. 524; Vossius, De Hist. lat., l. III, c. 8-11; Dictionn. de Bayle, Bonfinius) v. quanto al teatro della guerra del secolo XV un Trattatello di Felice Petancio, Cancelliere di Segnia ( ad calcem Cuspinian. de Caesaribus, p. 716-722).
33. Il sig. Lenfant ne fa conoscere l'origine del Cardinale Giuliano ( Hist. du concil. de Bâle, t. I, p. 247, ec.) e le guerre da esso fatte in Boemia (p. 515, ec.). Spondano e il Continuatore di Fleury raccontano, secondo le circostanze, i servigi da esso prestati a Basilea ed a Ferrara, e l'infausto fine che ebbe.
34. Syropulo fa un elogio ben generoso de' meriti del suo nemico (p. 117): τοιαυτα τινα ειπεν ο Ιουλιανος, πεπλατυσμε ως αγαν και λογικως, και μετ’ επιστημης και δεινοτητος Ρητορικης, disse Giuliano alcune cose molto ampiamente e logicamente, e con sapiente e vigorosa rettorica.
35. V. Bonfinius ( Déc. III, l. IV. p. 423). Come mai gli Italiani poteano pronunziare senza vergogna, o il Re d'Ungheria ascoltare, nè arrossirne, la ridicola adulazione che confondea il nome di un villaggio della Valachia col soprannome glorioso, ma accidentale, di un ramo della famiglia Valeria dell'antica Roma?
36. Filippo di Comines ( Mém., l. VI, cap. 13) si fonda sulla tradizione de' tempi, e tesse uno splendido elogio ad Uniade, chiamato col singolar nome di Cavalier Bianco di Valeigne (Valachia). Calcocondila e gli Annali turchi del Leunclavio però ne mettono in dubbio il valore e la fedeltà.
37. V. Bonfinio (Déc. III, l. VII, p. 492), e Spondano (A. D. 1457, n. 17). Uniade ebbe comune la gloria di difendere Belgrado con Capistrano, Frate dell'Ordine di S. Francesco; ma ne' lor racconti nè il Santo, nè l'Eroe si degnano far menzione l'uno dell'altro.
38. V. Bonfinio (Déc. III, l. VIII, Déc. IV, l. VIII). Ridondano di sana critica le singolari osservazioni che ha fatte lo Spondano sul carattere e sulla vita di Mattia Corvino (A. D. 1464, n. 1; 1475, n. 6; 1476, n. 14-16; 1490, n. 4, 5). La prima ambizione di questo Principe era volta a meritarsi l'ammirazione degl'Italiani. Pietro Ranzani, Siciliano, ne ha celebrate le imprese nell' Epitome rerum hungaricarum. (p. 322-412). Galesto Marzio di Narni ha raccolte tutte le arguzie e le sentenze di Mattia Corvino (p. 528-568); e abbiamo inoltre una relazione particolare sul suo matrimonio e sulla cerimonia della sua incoronazione. Queste tre Opere trovansi unite nel primo volume Scriptores rerum hungaricarum del Bell.
39. Ser Guglielmo Temple nel suo pregevole Saggio sulle virtù eroiche (vol. III, p. 385 delle sue Opere) collegò Uniade e Scanderbeg ai sette uomini che ad avviso di lui meritarono, senza averla cinta, una Corona; Belisario, Narsete, Gonzalvo di Cordova, Guglielmo I, Principe d'Orange, Alessandro, Duca di Parma, Giovanni Uniade e Giorgio Castriotto, o Scanderbeg.
40. Bramerei trovare alcuni Comentarj semplici ed autentici scritti da un amico di Scanderbeg, ove mi venissero dipinti a dovere il luogo, l'uomo ed i tempi. La vecchia Storia nazionale di Marino Barletti, prete di Scodra ( De vita, moribus et rebus gestis Georgii Castrioti, ec., lib. XIII, p. 367, Strab. 1537, in fol. ), non cel dà a divedere che avvolto in bizzarri panni e carico di menzogneri ornamenti. V. Calcocondila, l. VII, p. 185; l. VIII, p. 229.
41. Marino tratteggia appena e con ripugnanza tutto quanto si riferisce alla educazione e alla circoncisione di Scanderbeg (l. I, p. 6-7).
42. Se Scanderbeg morì nel 1466, compiendo il sessantesimoterzo anno della sua età (Marino, l. XIII, p. 270 ), ne deriva che nacque nel 1403. Se in età di nove anni, novennis (Mar. l. I, pag. 1-6), fu dai Turchi rapito ai genitori, sarà ciò accaduto nel 1412, vale a dire nove anni prima che Amurat II salisse il soglio: questo Principe ereditò dunque, non comprò egli lo schiavo albanese. Spondano ha osservata questa contraddizione (A. D. 1341, n. 31; A. D. 1443, n. 14).
43. Per buona sorte Marino ci ha istrutti delle rendite di Scanderbeg (l. II, p. 44).
44. Vi erano due Dibras, Dibras Superiore, e Dibras Inferiore, uno nella Bulgaria, l'altro nell'Albania. Il primo distante settanta miglia da Croia (l. I, pag. 17) era contiguo alla Fortezza di Sfetigrado, i cui abitanti ricusarono di attinger l'acqua ad un pozzo, ove era stata usata la perfidia di gettare un cane morto (l. V, pag. 139-140). Una buona carta dell'Epiro ne manca.
45. Si paragoni il racconto del turco Cantemiro colla prolissa declamazione del prete Albanese (l. IV, V, VI), copiata da tutti quelli che vennero dopo.
46. Ad onore del suo Eroe, il Barletti (l. VI, p. 188-192) fa morire il Sultano sotto le mura di Croia, di malattia per dir vero; ma questa ridicola favola è smentita dai Greci e dai Turchi, che convengono unanimemente sul tempo e sulle circostanze della morte di Amurat avvenuta dopo.
47. V. le sue imprese in Calabria, ne' libri IX, X di Marino Barletti, ai quali può contrapporsi la testimonianza, o il silenzio del Muratori ( Ann. d'Ital. t. XII, p. 291) e dei suoi Autori originali (Giovanni Simoneta, De rebus Francisci Sfortiae, in Muratori, Script. rerum Ital., tom. XXI, p. 728, ed altrove). La cavalleria albanese divenne ben tosto famosa in Italia sotto il nome di Stradiotti ( Mém. de Comines, l. VIII, c. 5).
48. Lo Spondano, fondato sopra ottime autorità e giudiziose considerazioni, ha ridotto il colosso di Scanderbeg a proporzioni ordinarie (A. D. 1461, n. 20; 1463, n. 9; 1465, n. 12, 13; 1467, n. 1). Le lettere che lo stesso Scanderbeg scriveva al Papa e la testimonianza di Franza, riparatosi a Corfù, vicino al luogo dell'asilo sceltosi dall'Albanese, ne dimostrano le angustie cui si vide questi ridotto, angustie che Marino cerca palliare con poco garbo (l. X).
49. V. intorno alla famiglia de' Castriotti il Ducange ( Fam. Dalmat., XVIII, p. 548-550).
50. Colonia d'Albanesi citata dal sig. Swinburne nel suo viaggio alle Due Sicilie (vol. I, p. 350-354).
51. Chiara ed autentica è la Cronaca di Franza, ma invece di quattro anni e sette mesi, lo Spondano (A. D. 1445, n. 7) attribuisce sette o otto anni al regno dell'ultimo Costantino, fondandosi sopra una lettera apocrifa di Eugenio IV al Re di Etiopia.
52. Il Franza (l. III, c. 1, 6) è meritevole di confidenza e di stima.
53. Supponendo che cotest'uomo fosse preso nel 1394, allorchè Timur invase la Georgia la prima volta, (Serefeddino l. III, cap. 50), egli è possibile che abbia seguito il suo padrone tartaro nell'Indostan, nell'anno 1398, e di lì siasi imbarcato per le Isole degli aromi.
54. I felici e virtuosi Indiani vivevano oltre a cencinquanta anni, e possedevano le più perfette produzioni de' regni vegetabili e minerali; gli animali vi erano di statura gigantesca, draghi di settanta cubiti, formiche lunghe nove pollici (formica indica), pecore grandi come gli elefanti, e anche elefanti grandi come pecore. Quidlibet audendi.... etc.
55. Il nostro centenario s'imbarcò in una nave che veleggiava alle Isole degli aromi, per trasferirsi a uno de' porti esterni dell'India, invenitque navem grandem ibericam qua in Portugalliam est delatus. Un tal passaggio descritto nel 1477 (Franza, l. III, c. 30), vent'anni avanti la scoperta del Capo di Buona Speranza, è immaginario, o miracoloso; però questa singolare geografia sente l'antico e vecchio errore che collocava le sorgenti del Nilo nell'India.
56. Cantemiro che chiama la figlia di Lazzaro Ogli, l'Elena de' Serviani, mette l'epoca delle sue nozze con Amurat nell'anno 1424. Non sarà cosa sì facile da credersi che durante ventisei anni in cui stettero insieme il Sultano corpus ejus non tetigit. Dopo la presa di Costantinopoli, ella si rifuggì presso Maometto II, Franza (l. III, c. XXII).
57. Il leggitore istrutto avrà a memoria le offerte di Agamennone ( Iliade, l. V, n. 144) e l'uso generale degli antichi.
58. Cantacuzeno (ignoro se fosse parente dell'Imperatore di questo nome) era Gran Domestico, zelante difensore del simbolo greco, e fratello della regina di Servia, presso la quale fu inviato col carattere d'ambasciadore (Siropulo, p. 37, 38-45).
59. Per chi voglia formarsi idea del carattere di Maometto II, è cosa egualmente mal sicura il creder troppo ai Turchi e ai Cristiani. Il ritratto più moderato di questo conquistatore lo abbiamo da Franza (l. I, c. 33), in cui gli anni e la solitudine aveano raffreddati i sentimenti dell'odio. V. anche Spondano (A. D. 1451, n. 11), il Continuatore di Fleury (t. XXII, pag. 552), gli Elogia di Paolo Giovio (l. III, p. 164-166) e il Dictionnaire de Bayle (t. III, p. 272-279).
60. Cantemiro (p. 115): «Le moschee da lui fondate attestano il rispetto che mostrò in pubblico alla religione. Disputò liberamente col Patriarca Gennadio intorno alle religioni, greca e musulmana» (Spond., A. D. 1453, n. 22).
61. Quinque linguas praeter suam noverat; graecam, latinam, chaldaicam, persicam. L'autore che ha tradotto il Franza in latino, ha dimenticata la lingua araba, che sicuramente tutti i Musulmani studiavano per poter leggere il libro del Profeta.
62. Filelfo con un'Ode latina chiese al vincitore di Costantinopoli la libertà della madre e delle sorelle di sua moglie, ed ottenne la grazia. L'Ode fu portata a Maometto dagl'inviati del Duca di Milano. Evvi chi attribuisce allo stesso Filelfo l'intenzione di ritirarsi a Costantinopoli; la qual cosa mal concilierebbesi co' suoi Discorsi, spesse volte intesi a suscitare la guerra contro i Musulmani. (Vedine la Vita scritta dal Lancelot nelle Mém. de l'Acad. des inscript., t. X, p. 718-721, ec.).
63. Roberto Valturio, nel 1483, pubblicò a Verona i suoi dodici libri De re militari, prima Opera che faccia menzione dell'uso delle bombe. Sigismondo Malatesta, principe di Rimini, e protettore del Valturio, intitolò la stessa opera, con un'epistola latina, a Maometto II.
64. Se crediamo al Franza, Maometto II studiava assiduamente la vita e le azioni di Alessandro, di Augusto, di Costantino e di Teodosio. Ho letto in qualche luogo che per ordine di Maometto erano state tradotte in latino le Vite di Plutarco. Ma se questo Sultano sapea il greco, una tal traduzione non poteva essere che ad uso de' suoi sudditi; e per vero dire, se le vite di Plutarco sono una scuola di valore, lo sono anche di libertà.
65. Il celebre Gentile Bellino, che Maometto II avea fatto venir da Venezia, n'ebbe in dono una catena e una collana d'oro con una borsa di tremila ducati; ma sono incredulo, al pari del Voltaire, sulla storia ridicola dello schiavo decollato per far vedere al pittore il meccanismo de' muscoli.
66. Questi Imperatori dediti all'ubbriachezza furono Solimano I, Selim II e Amurat IV (Cantemiro, p. 61). I Sofì della Persia a tale proposito offrono un catalogo più lungo e compiuto. E nell'ultimo secolo i nostri viaggiatori europei assistettero alle orgie di questi principi, e ne parteciparono.
67. Uno di questi giovani principi di nome Calapino, fu sottratto alle mani del suo barbaro fratello e condotto a Roma, ove ricevè il battesimo col nome di Calisto Ottomano. L'imperatore Federico III gli concedè un dominio nell'Austria, ove terminò i suoi giorni. Cuspiniano, che, in sua gioventù, aveva conversato a Vienna con questo principe, in allora vecchio, ne loda la pietà e la saggezza ( De Caesaribus p. 672, 673).
68. V. l'avvenimento di Maometto II al trono, in Duca (c. 33), in Franza (l. I, c. 33; l. III, c. 2), in Calcocondila (l. VII, p. 199) e in Cantemiro (p. 96).
69. Prima di descrivere l'assedio di Costantinopoli, noterò che, ad eccezione di poche cose dette per incidenza da Cantemiro e dal Leunclavio, non ho potuto intorno a questo avvenimento procurarmi alcuna relazione fatta dai Turchi, nè alcun racconto che stia a petto di quello della presa di Rodi eseguita da Solimano II ( Mém. de l'Acad. des Inscript., t. XXVI, p. 723-769). Ho dovuto quindi fidarmi de' Greci, i cui pregiudizj in questa occasione si trovano in qualche modo diminuiti dalle angustie del momento. Seguirò soprattutto Duca (c. 34-42), Franza (l. III, c. 7-20), Calcocondila (l. VIII, p. 201-214) e Leonardo di Chio ( Historia C. P. a Turco expugnatae, Norimberga, 1544, in 4.); l'ultimo di questi racconti è il più antico, perchè porta la data dei 16 agosto dell'anno medesimo della presa di Costantinopoli, ed essendo stato composto settantanove giorni dopo di essa, nell'isola di Chio, dà a divedere la prima confusione di idee e di sensazioni eccitate da un simile avvenimento. Intorno al medesimo si possono parimente trarre alcuni schiarimenti da una lettera del Cardinale Isidoro ( in Farragine rerum turcicarum, ad calc. Calcocondyles, Clauseri, Basilea, 1584) al Papa Nicolò V, e da un Trattato che nel 1581 Teodosio Zigomala inviò a Martino Crusio ( Turco-Graecia l. 1, p. 74-98, Basilea, 1584). Spondano (A.D. 1453, n. 1-27) in pochi cenni, ma da critico valente, passa in rassegna i materiali e i fatti diversi. Mi prenderò la licenza di lasciar da un canto le relazioni di Monstrelet e de' Latini, i quali, lontani dal teatro dell'azione, le fondavano soltanto su quel che avevano udito dire.
70. Pietro Gilli ( De Bosphoro Tracio, l. II, cap. 15), Leunclavio ( Pandect., p. 445) e Tournefort ( Voyage dans le Levant, t. II, lettre XV. p. 443, 444) sono gli autori che danno a conoscere meglio la situazione della Fortezza e la topografia del Bosforo. Ma mi augurerei la carta, ossia la pianta, che il Tournefort spedì in Francia al Ministro della marina. Il leggitore può trascorrere nuovamente il capitolo XVII di questa Storia.
71. Duca esprime col vocabolo di Kabur il predicato di spregio che i Turchi applicano agl'Infedeli; Leunclavio e i moderni scrivono Giaur. La prima di queste parole, giusta il Ducange ( Gloss. graec., t. I, p. 530), viene da Καβουρον, che in greco volgare significa testuggine, «col quale, continua il Ducange, i Turchi voleano indicare un moto retrogrado fuor della fede». Ma sfortunatamente per l'interpretazione del Ducange, Gabur ( Bibl. orient., p. 375) non è altra cosa che il vocabolo Gheber, ghebro, che è passato dalla lingua persiana alla turca, ed applicato prima agli adoratori del fuoco, venne appropiato a quei della Croce.
72. Il Franza attesta il senno e il coraggio del suo padrone. Calliditatem hominis non ignorans imperator prior arma movere constituit; parla con dileggio delle opinioni assurde dei cum sacri tum profani proceres che egli aveva veduti e uditi, amentes spe vana pasci. Duca non apparteneva al Consiglio privato.
73. Invece di questo chiaro ed ordinato racconto, gli Annali turchi (Cantemiro, p. 97) fanno rinascere la ridicola favola del cuoio, e dello stratagemma adoperato da Didone per fabbricare Cartagine. Questi Annali, fuorchè per coloro che le preoccupazioni anticristiane traviano, sono molto men da apprezzarsi delle Storie scritte dai Greci.
74. Circa le dimensioni di questa Fortezza, chiamata oggidì il Vecchio Castello d'Europa, Franza non è affatto d'accordo con Calcocondila, la cui descrizione fu verificata sopra luogo dall'editore Leunclavio.
75. Fra i Turchi trovatisi a Costantinopoli, quando ne furono chiuse le porte, eranvi alcuni paggi di Maometto, sì convinti dell'inflessibil rigore del lor padrone, che chiesero venisse loro tagliata la testa, poichè volevansi ad essi impedire i modi di tornare al campo prima del tramontare del Sole.
76. V. Duca (c. 35). Franza (l. III, c. 3), che avea navigato sul vascello veneto, ne riguarda siccome un martire il Capitano.
77. Auctum est Palaealogorum genus, et imperii successor, parvaeque Romanorum scintillae haeres natus, Andraeas, ec. (Franza, l. III, c. 7). Espressione energica ispirata dal dolore.
78. V. Cantemiro, p. 97, 98.
79. Il presidente Cousin traduce il vocabolo Συντροφος, Coeducato, padre, balio. Egli segue, è vero, la versione latina, ma nella sua fretta, ha trascurata la nota, ove Ismaele Boillaud ( ad Ducam ) riconosce e corregge il proprio errore.
80. L'uso di non mostrarsi al Sovrano, o ai superiori, senza offrirgli doni, è antichissimo fra gli Orientali; sembra analogo all'idea de' sagrifizj, più antica ancora e più generale. V. alcuni esempj di questa costumanza presso i Persiani, in Eliano ( Hist. Variar., l. I, c. 31, 32, 33).
81. Il Lala de' Turchi (Cantemiro, p. 54) e il Tata dei Greci (Duca, c. 35) vengono dalle prime sillabe che i fanciulli pronunciano; e può osservarsi che queste voci primitive, fatte per indicare i genitori, sono sempre la ripetizione d'una medesima sillaba composta d'una consonante labiale o dentale seguita da una vocale aperta (De Brosses, Mécanisme des langues, t. I, p. 231-247).
82. Il talento attico pesava circa sessanta mine, o libbre ( V. Hooper on Ancient Weights Measures, etc.); ma tra i Greci moderni questa denominazione classica è stata applicata ad un peso di cento e di centocinque libbre (Ducange, ταλαντον). Leonardo da Chio misura la palla, o il sasso del secondo cannone: Lapidem qui palmis undecim ex meis ambibat in gyro.
83. V. Voltaire, Hist. génér., c. 91, p. 294, 295. Si sa che questo autore aspirava alla monarchia universale nella letteratura. Onde il vediamo nelle sue poesie pretendere il titolo di astronomo, di chimico, ec., e sollecito di ostentare il linguaggio di tali scienze.
84. Il Barone di Tott (t. III, p. 85-89), che nell'ultima guerra fortificò contro i Russi i Dardanelli, ha descritto, con tuono enfatico ed anche comico, la sua prodezza e la costernazione in cui furono gli Ottomani. Ma questo ardimentoso viaggiatore non possede l'arte d'inspirar confidenza.
85. Non audivit indignum ducens, dice l'ingenuo Antonino; ma poichè i timori e la vergogna non tardarono a crucciar l'animo del Pontefice, il Platina dice in tuono d'abile cortigiano: In animo fuisse Pontifici juvare Graecos. Enea Silvio dice ancora in termini più asseveranti: Structam classem, ec. (Spond., A. D. 1453, n. 3).
86. Antonino, in Proëm. epist. cardinal. Isid., ap. Spond. Il dottore Iohnson ha ottimamente espressa questa circostanza caratteristica nella sua tragedia, l'Irene.
The groaning Greeks dig up the golden caverns,
The accumulated wealth of hoarding ages;
That wealth which, granted to their weeping prince,
Had rang'd embattled nations at their gates.
I quali versi così furono trasportati nella nostra lingua:
Dal grembo della terra, ove gli avari
Progenitori li celaro, a stento
Le gemme e l'oro ritogliean; tesori
Che, del lor prence conceduti al pianto,
Falangi di guerrieri avrian condotte
Nanti le porte di Bisanzo, e salva
Da servitù de' Cesari la sede.
87. Presso i Turchi, le truppe poste a guardar il palagio chiamansi Capiculi, quelli che difendono le province Seratculi. La maggior parte de' nomi e delle istituzioni della milizia turca precedevano il Canone Nameh di Solimano II, sul qual codice il Conte Marsigli, giovandosi anche della propria esperienza, compose il suo Stato militare dell'Impero ottomano.
88. L'osservazione di Filelfo venne confermata nel 1508 da Cuspiniano ( De Caesaribus in epilog. de militia turcica, p. 697). Il Marsigli prova che gli eserciti effettivi de' Turchi son men numerosi assai di quanto appariscono. Leonardo da Chio, non conta più di quindicimila giannizzeri nell'esercito che assediò Costantinopoli.
89. Ego, eidem (Imperatori) tabellas exhibui, non absque dolore et maestitia, mansitque apud nos duos, aliis occultus numerus. (Franza, lib. III, c. 8). Purchè si perdonino a Franza alcuni pregiudizj nazionali, non saprebbe desiderarsi un testimonio più autentico di lui, sia intorno ai fatti pubblici, sia intorno ai consigli privati.
90. Spondano racconta il fatto di questa unione non solamente con parzialità, ma d'una maniera imperfetta. Il Vescovo di Pamiers morì nel 1642, e la Storia di Duca, che parla di questi avvenimenti (c. 36, 37) con verità e coraggio eguali, non fu pubblicata che nel 1649.
91. Il Franza, uno del numero de' Greci conformisti, confessa aversi avuto ricorso a tale riconciliazione solamente propter spem auxilii; e favellando di quelli che non vollero assistere al divin servigio in comune nella chiesa di S. Sofia, afferma con soddisfazione che extra culpam et in pace essent (l. III, c. 20).
92. Già i Greci, vale a dire l'Imperatore, la Corte, ed alcuni Vescovi, Commissarj de' rimasti in Oriente, tanto al Concilio di Lione, che a quello di Firenze, non si unirono momentaneamente nella credenza co' Latini, ammettendo nel Credo ec. l'aggiunta filioque, usando nel tempo de' due Concilj il pane azzimo e riconoscendo il primato del Vescovo di Roma, ed ammettendo il purgatorio ed altre cose, che per avere soccorsi contro i Turchi, che minacciavano perfino Costantinopoli; l'unione nella credenza fra Cristiani-greci e Cristiani-latini, durò come quella dei loro Vescovi ne' due detti Concilj; i Vescovi greci, nell'aderire a' Latini per bisogno, non furono sinceri; il fatto lo provò, perchè andati alla loro patria, la divisione nella credenza tornò, e dura anche oggidì e durerà. (Nota di N. N.)
93. Il nome secolare di lui era Scolario, al quale sostituì l'altro di Gennadio nel vestir la cocolla, ovvero nell'atto di divenir Patriarca. Essendo quell'istesso che avea difesa a Firenze cotesta unione, perseguendola poi a Costantinopoli con tanto accanimento, Leone Allazio ( Diatrib. de Georgiis in Fabric. Bibl. graec., t. X, p. 760-786) ha creduto che vi fossero due uomini di tal nome; ma il Renaudot (p. 343-383) ha confermata l'identità della persona, e la doppiezza del carattere.
94. Quest'ultima espressione è inconveniente; bastava dire, ostinate nella loro opinione, e fanatiche: si sa pur troppo che in cotali controversie non vi fu e non v'è luogo a via di mezzo, a riconciliazione ed a pace. (Nota di N. N.)
95. Φσκιολιον, καλυπτρα ammettono assai bene l'interpretazione cappello di Cardinale. La differenza di vesti incrudeliva ancor la discordia fra i Greci e i Latini.
96. Il buon credente non deve dire chimerica la speranza di qualche miracolo; ma bisogna saperlo domandare, e meritarlo. (Nota di N. N.)
97. Fa d'uopo ridurre le miglia greche ad una picciola misura che si è conservata nelle werste di Russia, che sono di cinquecento quarantasette tese di Francia. I sei miglia del Franza non eccedono le quattro miglia inglesi, secondo il d'Anville ( Mésures itineraires, p. 61-123, ec.).
98. At in dies doctiores nostri facti paravere contra hostes machinamenta, quae tamen avare dabantur. Pulvis erat nitri modica exigua; tela modica; bombardae, si aderant, incommoditate loci primum hostes offendere maceriebus alveisque tectos non poterant. Nam siquae magnae erant, ne murus concuteretur noster, quiescebant. Questo passaggio di Leonardo da Chio è singolare ed importante.
99. Al dire di Calcocondila e di Franza, il grande cannone scoppiò. Duca pretende che l'abilità dell'artigliere evitasse questo disastro. È evidente che i primi e l'ultimo di questi Storici non parlano dello stesso pezzo.
100. Circa un secolo dopo l'assedio di Costantinopoli, le squadre di Francia e d'Inghilterra si diedero il vanto di avere, in un combattimento di due ore accaduto nella Manica, tratti trecento colpi di cannone ( Mémoires de Martin du Bellay, l. X, nella Collection générale, t. XXI, p. 239).
101. Ho scelti alcuni singolari fatti, senza aspirare all'instancabile quanto truce eloquenza adoperata dall'Abate Vertot nelle sue prolisse narrazioni degli assedj di Rodi, di Malta, ec. Questo vivace Storico, fornito di una mente romanzesca, e sollecito di piacere co' proprj scritti ai Cavalieri di Malta, ne ha adottato l'entusiasmo e lo spirito cavalleresco.
102. La dottrina delle mine artificiali trovasi per la prima volta accennata in un manoscritto del 1480 di Giorgio da Siena (Tiraboschi, t. VI, parte I, p. 324). Vennero tosto adoperate nel 1487 a Sarzanella; ma il loro miglioramento appartiene al 1503, e ne viene attribuito l'onore a Pietro di Navarra, che ne fece uso con buon successo nelle guerre d'Italia ( Hist. de la Ligue de Cambrai, t. II, p. 93-97).
103. È cosa singolare che i Greci non si accordano sul numero di questi famosi vascelli. Duca ne indica cinque, Franza e Leonardo, quattro, Calcocondila, due: forse l'ultimo indica solamente i due più grandi; gli altri comprendono ancora i piccoli. Il Voltaire, che ne assegna uno di questi a Federico III, confonde fra loro gl'Imperatori d'Oriente e d'Occidente.
104. Il Presidente Cousin trascura manifestamente, o piuttosto ignora affatto ogni erudimento della lingua e della geografia, quando fa che un vento australe trattenga a Chio questi vascelli, e che un vento di tramontana li conduca a Costantinopoli.
105. Può vedersi qual fosse la debolezza e lo scadimento della turca marineria in Rycault ( State of the ottoman Empire, p. 372-378), in Thevenot ( Voyages, part. 1, p. 229-242) e nelle Mémoires du baron de Tott (t. III). Questo ultimo Scrittore si mostra sempre sollecito di dilettare e sorprendere i suoi leggitori.
106. Devo confessarlo, in questo momento mi si rappresenta alla immaginazione la pittura animata che ne offre Tucidide (l. VII, c. 71) dell'atteggiamento degli Ateniesi, allorchè, perplessi ed inquieti, stavano contemplando la battaglia navale che accadde nel gran porto di Siracusa.
107. Giusta il testo esagerato, o corrotto di Duca (c. 38) questo bastone d'oro pesava cinquecento libbre. Il Bouillaud legge cinquecento dramme, o cinque libbre, peso che bastava per tenere in azione il braccio di Maometto sul corpo del suo ammiraglio.
108. Duca, mal istrutto, a confessione di lui medesimo, degli affari dell'Ungheria, attribuisce a questo fatto un motivo di superstizione. «Gli Ungaresi, dic'egli, credeano che Costantinopoli sarebbe il termine delle conquiste de' Turchi.» V. Franza (l. III, c. 20) e Spondano.
109. La testimonianza unanime di quattro Greci vien confermata da Cantemiro (p. 96), che fonda sugli Annali turchi le sue narrazioni; pur sarei proclive a ridurre la distanza di dieci miglia, e a prolungare l'intervallo d'una notte.
110. Franza cita due esempj di navigli trasportati in tal guisa sull'Istmo di Corinto per uno spazio di sei miglia; l'un, favoloso, riguarda le imprese d'Augusto dopo la battaglia di Azio; l'altro, vero, si riferisce a Niceta, Generale greco del decimo secolo. Il ridetto Storico poteva aggiugnere l'audace impresa operata da Annibale per introdurre nel porto di Taranto le sue navi (Polibio, l. VIII, pag. 749, edizione di Gronov.).
111. Questa fazione fu probabilmente consigliata ed eseguita da un Greco di Candia, che in una occasione di tal natura prestò servigio simile ai Veneziani (Spond., A. D. 1438, n. 37).
112. A questo luogo, intendo favellar soprattutto delle imbarcazioni eseguite dai nostri, nel 1776 e 1777, sui laghi del Canadà, impresa che tanti disagi costò e tornò sì inutile nell'effetto.
113. Calcocondila e Duca non vanno d'accordo sul tempo e i particolari della negoziazione, nè questa essendo stata, o gloriosa, o salutare, il fedele Franza risparmia al suo principe fin la taccia d'aver pensato ad arrendersi.
114. Queste ali (Calcocondila, l. VIII, p. 208) non sono che una figura orientale; ma nella Tragedia inglese Irene, la passione di Maometto esce dai limiti della ragione e perfino dal senso comune.
Should the fierce North, upon his frozen wings,
Bear him aloft above the wondering clouds,
And seat him in the Pleiads' golden chariot —
Thence should my fury drag him down to tortures.
«Quand'anche l'impetuoso vento del Nort sulle sue ali addiacciate li portasse al di sopra delle nubi stupefatte, e li collocasse nel dorato carro delle Pleiadi, il mio furore li toglierebbe di là per consegnarli a nuovi tormenti».
Indipendentemente dalla stravaganza di questo discorso senza conclusione, noterò, 1 Che l'azione de' venti non opera al di là dell'atmosfera. 2 Che il nome, l'etimologia e la favola delle Pleiadi appartengono unicamente al popolo greco ( Scholiast. ad Homer. Σ. 686, Eudacia in Ionia, p. 339; Apollodoro, l. III, c. 10; Heyne, p. 229, not. 682), e non han che fare coll'astronomia degli Orientali (Hyde, Ulugbeg. Tabul. in Syntag. Dissert., t. I, p. 40-42; Goguet, Origine des arts, etc; t. VI, p. 73, 78; Gebelm, Hist. du Calendrier, p. 73) studiata da Maometto. 3 Il carro delle Pleiadi non entrò nè nelle scienze dell'astronomia, nè nella favola: temo che il dottore Iohnson abbia confuso le Pleiadi coll'Orsa Maggiore, ossia col Carro, il Zodiaco con una costellazione del Nort.
Αρκτον θ’ ην και αμαξαν επικλησιν καλεουσι
Chiamò l'orsa anche carro.
115. Il Franza prende collera per queste acclamazioni dei Musulmani, non perchè adoperavano il nome di Dio, ma perchè vi frammetteano quello del Profeta. Il pio zelo del Voltaire è eccessivo ed anche ridicolo.
116. Sospetto assai che Franza si sia fabbricato a suo modo questo discorso il quale sa di predica e di convento siffattamente da indurre il dubbio se Costantino lo abbia mai pronunziato. Leonardo gli attribuisce un'arringa diversa, in cui si mostra più riguardoso verso gli ausiliari latini.
117. Questo contrassegno di umiltà, che la divozione talvolta ha suggerito ai principi giunti all'estremità della vita, è un perfezionamento aggiunto alla dottrina del Vangelo sul perdono delle ingiurie: è cosa più facile il perdonare novecentonovantanove volte, che il chiedere una sola volta perdono ad un inferiore.
118. Oltre alle diecimila guardie, ai marinai e ai soldati di mare, il Duca annovera dugencinquantamila Turchi, o a cavallo o fantaccini, che a questo assalto generale parteciparono.
119. Il Franza nel censurare severamente la ritirata del Giustiniani, esprime il proprio cordoglio e quello del pubblico. Duca, per motivi che a noi sono ignoti, lo tratta con più riguardi e dolcezza; ma le parole di Leonardo da Chio manifestano un'indegnazione che era tuttavia nel suo primo impeto, gloriae, salutis, suique oblitus. I Genovesi, compatriotti del Giustiniani, sono sempre stati sospetti e spesse volte colpevoli in tutto quanto operarono nelle loro spedizioni dell'Oriente.
120. Duca dice che l'Imperatore fu ucciso da due soldati turchi. Se prestiam fede a Calcocondila, egli rimase ferito in una spalla, indi schiacciato sotto la porta della città. Franza, trasportato dalla disperazione, si precipitò in mezzo ai Turchi, nè fu spettatore della morte di Paleologo; al quale possiamo senza taccia di adulazione applicare que' nobili versi di Dryden.
«Per la vasta pianura, è vana speme
«Di rinvenirlo; allorchè ai vostri sguardi
«Di cadaveri un monte appaia, a quello
«V'inerpicate; e giunti in su la cima,
«Il troverete; al generoso aspetto
«Come nol ravvisar? Coi lumi al cielo
«Ancor conversi, in su quel letto istesso
«Giace supin che di nemiche salme
«Pria gli compose il formidabil brando.121. Spondano (A. D. 1453, n. 10), che spera l'Imperatore in luogo di salute, vorrebbe potere assolvere questa sua inchiesta dalla colpa di suicidio.
122. Leonardo da Chio giustamente osserva, che se i Turchi avessero riconosciuto l'Imperatore, non avrebbero perdonato a sforzi per salvare un prigioniero di tanta importanza che Maometto dovea desiderare d'aver fra le mani.
123. V. Cantemiro, p. 96. I vascelli Cristiani che si trovavano alla bocca del porto, aveano sostenuto e tardato l'assalto da quella banda.
124. Calcocondila non arrossisce della ridicola supposizione che gli Asiatici saccheggiassero Costantinopoli per vendicare le antiche sciagure di Troia; laonde i gramatici del secolo decimoquinto fanno derivare con compiacenza la grossolana denominazione Turchi dall'altra più classica Teucri.
125. Allorchè Ciro sorprese Babilonia, che stava celebrando una festa, la città era sì grande e sì poca la cura degli abitanti nel farne la guardia, che lungo tempo vi volle prima di far giungere ai lontani rioni la notizia della vittoria del Re persiano. V. Erodoto (l. 1, c. 191) e Usher ( Annal., p. 78) che cita su di ciò un passo del Profeta Geremia.
126. Nelle sue prime parole, che i Turchi prenderebbero Costantinopoli, la predizione era facile a farsi, e ad avverarsi pel tristissimo stato de' Greci; il resto fu ben lungi dal verificarsi: il linguaggio poi ond'è espressa e modificata, è proprio del tempo della presa di Costantinopoli, e della circostanza d'una prossima pubblica sciagura, che mettendo spavento grandissimo negli animi, li dispone a ricevere le predizioni e a divenirne fanatici; quel linguaggio poi rassomiglia molto ad uno stile più antico. Vi sono sempre stati veri e falsi Profeti, e vi furono imperfette, e perfette predizioni; fatta dal buon credente l'eccezione de' Profeti della Sacra nostra Scrittura, la considerazione de' tempi, delle politiche e civili circostanze, del carattere nazionale, del clima, della religione, della specie di letteratura del paese di cui si tratta, somministra fondamenti e mezzi per ben intendere le loro mire e per giudicarle. (Nota di N. N.)
127. Questa animata descrizione è tolta da Duca (c. 39), che due anni dopo si trasferì presso il Sultano, come ambasciatore del principe di Lesbo (c. 44). Fino alla conquista di Lesbo, accaduta nel 1463 (Franza, l. III, c. 27), questa isola avrà ringorgato di fuggiaschi bizantini, i quali non avranno fatto altro che raccontare, e forse arricchir di favole la storia della loro sventura.
128. V. Franza, l. III, c. 20, 21. Le sue espressioni son chiare: Ameras sua manu jugulavit.... volebat enim eo turpiter et nefarie abuti. Me miserum et infelicem! Del rimanente, ei non poteva sapere che per via di vaghe vociferazioni le sanguinolente, o infami scene, che accadeano in fondo al Serraglio.
129. V. Tiraboschi (t. VI, part. I, pag. 290) e Lancelot ( Mém. de l'Acad. des Inscript. t. X, pag. 718). Sarei curioso di sapere come egli abbia potuto lodare cotesto pubblico nemico, dopo averlo in più d'un luogo vilipeso, come il più corrotto e il più barbaro de' tiranni.
130. I Comentarj di Pio II, suppongono che Isidoro mettesse il suo cappello di Cardinale sulla testa d'un morto; che questa testa venisse recisa e portata in trionfo, intanto che il padrone vero del cappello, era contrattato, venduto, e liberato, come un prigioniero di poco prezzo. La grande Cronaca dei Belgi orna di nuove avventure la fuga d'Isidoro. Ma questi (dice Spondano, A. D. 1453, n. 15), le tacque nelle sue lettere, per paura di perdere il merito e la ricompensa di avere sofferto per Gesù Cristo.
131. Il Bosbec si diffonde con piacere e approvazione su i diritti della guerra e sulla schiavitù tanto comune fra gli Antichi e fra i Turchi ( De legat. turcica, epist. 3, p. 161).
132. Somma indicata in una nota in margine dal Leunclavio (Calcocondila, l. VIII, p. 211); ma quando ci vien raccontato che Venezia, Genova, Firenze ed Ancona perdettero cinquanta, venti e quindicimila ducati, sospetto sia stata dimenticata una cifra, ed, anche in tale supposizione, le somme tolte agli stranieri avrebbero appena oltrepassata la quarta parte dell'intero bottino.
133. V. gli elogi esagerati e le lamentazioni di Franza (l. III, cap. 17).
134. È vero che i Latini, o Cattolici, prendendo Costantinopoli, commisero degli eccessi per l'odio che portavano a' Cristiani greci-scismatici; ma i mali cagionati da' Turchi prendendo Costantinopoli sono stati maggiori. Il vedere nella Storia l'odio persecutore e sanguinario fra Cristiani-cattolici, e Cristiani-scismatici, e quello ancora che per simili cagioni venne, merita la nostra compassione riguardando a' traviamenti del fanatismo, riprovati dalla buona morale. L'uomo imparziale, e dotto della Storia civile ed ecclesiastica, conosce che i mali prodotti dalle molte e lunghe controversie e guerre per motivi di religione, e di riti, non furono inferiori a quelli derivati dall'altre guerre. (Nota di N. N.)
135. V. Duca (c. 43) e una lettera 15 luglio 1453 scritta da Lauro Quirini al Pontefice Nicolò V (Hody, De Graecis, p. 192 sopra un manoscritto della Biblioteca di Cotton).
136. Faceasi uso a Costantinopoli del Calendario Giuliano che conta i giorni e le ore incominciando da mezza notte; ma qui sembra che Duca le conti dal nascere del Sole.
137. V. gli Annali Turchi, pag. 329, e le Pandette di Leunclavio, p. 448.
138. Ho già parlato di questo monumento singolare dell'antichità greca ( V. il cap. XVII di quest'Opera).
139. Dobbiamo a Cantemiro (pag. 102) le descrizioni fatte dai Turchi sulla trasformazione della chiesa di S. Sofia in Moschea, acerbo argomento delle lamentazioni di Franza e di Duca. È cosa non priva di vezzo l'osservare, come una medesima cosa appare sotto aspetti contrarj a un Musulmano, e a un Cristiano.
140. Il distico originale, da cui questi versi sono tradotti, vien riportato da Cantemiro, e trae nuova bellezza dall'applicazione che ne fu fatta. Così nel saccheggio di Cartagine, Scipione ripetè la profezia famosa di Omero. Parimente un egual sentimento di generosità trasportò la mente de' due conquistatori sul passato o sull'avvenire.
141. Non posso persuadermi con Duca ( V. Spondano, A. D. 1453, n. 13) che Maometto abbia fatto portare la testa dell'Imperator greco all'intorno per le province dalla Persia, dell'Arabia ec. Egli sarebbe stato certamente contento di meno inumani trofei.
142. Franza era il personale nemico del Gran Duca, nè il tempo, o la morte di questo nemico, o la solitudine del chiostro, poterono inspirargli qualche sentimento di compassione o di perdono. Duca propende a lodarlo siccome un martire. Calcocondila è neutrale, ma egli è però quel fra gli Storici che ne dà qualche traccia sulla cospirazione ordita dai Greci.
143. V. intorno alla restaurazione di Costantinopoli, e alle fondazioni de' Turchi, Cantemiro (p. 102-109), Duca (c. 42) Thevenot, Tournefort, e gli altri nostri moderni viaggiatori. L'Autore del Compendio della Storia ottomana (tom. I, p. 16-21) fa una pittura esagerata della grandezza e della popolazione di Costantinopoli, dalla quale nondimeno possiamo comprendere che, nel 1586, i Musulmani erano in questa Capitale men numerosi de' Cristiani e ancor degli Ebrei.
144. Il Turbé, o monumento sepolcrale di Abu-Ayub, trovasi descritto e delineato nel Tableau général de l'Empire ottoman (Parigi, 1787, grande in folio ), Opera la cui magnificenza supera forse l'utilità.
145. Franza descrive una tale cerimonia, che è stata probabilmente abbellita passando dalle labbra de' Greci in quelle de' Latini. Il fatto vien confermato da Emanuele Malasso, che ha scritta in greco-volgare la Storia de' Patriarchi dopo la presa di Costantinopoli, inserita nella Turco-Graecia del Crusio (l. V, p. 106-184). Ma i leggitori, anche i più proclivi a credere, si persuaderanno difficilmente che Maometto abbia adottata la seguente formola cattolica: Sancta Trinitas quae mihi donavit imperium, te in patriarcham novae Romae delegit.
146. Lo Spondano descrive (A. D. 1453, n. 21; 1458, n. 16), seguendo la Turco-Graecia del Crusio, la schiavitù e le intestine dissensioni della Chiesa greca. Il Patriarca successore di Gennadio si gettò in un pozzo per disperazione.
147. Cantemiro (p. 101-105) si tiene fermo sulla unanime testimonianza de' Turchi antichi e moderni, facendo osservare che questi autori non si sarebbero fatta lecita una menzogna per diminuire la loro gloria nazionale, giacchè ella è cosa più onorevole il prendere una città d'assalto che per capitolazione; ma, 1. sospette mi sembrano tali testimonianze, non citandosi particolarmente dal ridetto Storico alcun autore, mentre gli Annali Turchi del Leunclavio affermano senza eccezione, che Maometto s'impadronì di Costantinopoli per vim (p. 329). 2. Lo stesso argomento varrebbe a favore dei Greci, i quali non avrebbero posto in dimenticanza un Trattato sì onorevole, e in un vantaggioso per essi. Il Voltaire, giusta il suo stile, preferisce i Turchi ai Cristiani.
148. V. Ducange ( Fam. byzant., pag. 195) intorno la genealogia e la caduta de' Comneni di Trebisonda, e v. parimente questo Antiquario, sempre esattissimo nelle sue ricerche, sulle cose degli ultimi Paleologhi (p. 244-247, 248). Il ramo de' Paleologhi di Monferrato non si estinse che nel secolo successivo; ma essi avevano dimenticato la loro origine e i congiunti che lasciarono nella Grecia.
149. Nella obbrobriosa Storia delle dispute e delle sciagure de' due fratelli, Franza (l. III, c. 21-30) mostra eccedente parzialità a favor di Tommaso. Duca (c. 44-45) è troppo laconico; troppo diffuso Calcocondila (l. VIII, IX, X) che inoltre impaccia con soverchie digressioni i proprj racconti.
150. V. la perdita, o la conquista di Trebisonda in Calcocondila (l. IX, pag. 263-266), in Duca (c. 45), in Franza (l. III, c. 27), in Cantemiro (p. 107).
151. Il Tournefort (t. III, lett. 17, p. 179) afferma che Trebisonda è mal popolata; ma il Peyssonel, l'ultimo ed il più esatto fra gli osservatori, le attribuisce centomila abitanti ( Commercio del mar Nero, t. II, p. 72, e in quanto spetta alla provincia, p. 53-90). La prosperità e il commercio di questo paese vengono continuamente disturbati da due Ode di giannizzeri, in una delle quali si arrolano per l'ordinario trentamila Lazi ( Mém. de Tott, t. III, p. 16, 17).
152. Ismael-Beg, principe di Sinope, o Sinople, godea una rendita di dugentomila ducati, derivatagli soprattutto dalle sue miniere di rame (Calcocondila, l. IX, p. 258, 259). Peyssonel ( Com. del mar Nero, t. II, p. 100) attribuisce alla moderna città di Sinope trentamila abitanti; calcolo che sembra smisurato. Nondimeno, sol trafficando con una nazione, può conseguirsi una giusta idea della sua popolazione e ricchezza.
153. Lo Spondano, seguendo il Gobelin ( Comment. Pii II, l. V), narra l'arrivo del despota Tommaso a Roma, e il ricevimento che v'ebbe (A. D. 1461, n. 3).
154. Con un atto che porta la data de' 6 settembre, 1494, trasportato di recente dagli archivj del Campidoglio alla Biblioteca reale di Parigi, il despota Andrea Paleologo, serbandosi la Morea ed alcuni privilegi, trasmise a Carlo VIII, re di Francia, gl'Imperi di Costantinopoli e di Trebisonda (Spond., A. D. 1493, n. 2). Il sig. di Foncemagne ( Mém. de l'Acad. des Inscript., t. XVII, p. 539-578) ne ha offerta una dissertazione intorno a quest'atto che gli era pervenuto in copia da Roma.
155. V. Filippo di Comines, il quale conta con soddisfazione il numero de' Greci, che speravasi di eccitare a sommossa. Aggiunge a questi suoi calcoli l'osservazione, che i Francesi non avrebbero dovuto eseguire, se non se una traversata di mare di sole settanta miglia e facile assai; e che la distanza da Valona a Costantinopoli non è che di diciotto giorni di cammino ec. In questa occasione la politica dei Veneziani salvò l'Impero dei Turchi.
156. Vedi la descrizione di tale festa in Olivieri della Manica ( Mémoires, part. I, c. 29, 30) e la compilazione e le osservazioni del sig. di S. Pelagia ( Mém. sur la Chevalerie, t. I, p. III, p. 182-185). — Così il fagiano, come il pavone, venivano riguardati augelli reali.
157. Un computo fatto in que' tempi diè a divedere che la Svezia, la Gozia e la Finlandia, conteneano un milione e ottocentomila combattenti; onde erano ben più popolate che nol sono oggidì.
158. Lo Spondano, nel 1454, seguendo Enea Silvio, ha fatta una pittura dello stato d'Europa, che di proprie osservazioni ha arricchita. Questo pregiabilissimo Annalista, e il Muratori, hanno narrato la sequela delle cose accadute dal 1453 al 1481, epoca della morte di Maometto, alla quale io chiuderò il presente capitolo.
159. Oltre ai due Scrittori d'Annali accennati nella nota precedente, i leggitori potranno consultare il Giannone ( Istoria Civile, t. III) intorno all'invasione di Napoli fatta dai Turchi. Quanto alla descrizione del Regno e delle conquiste di Maometto II, mi sono valso talvolta delle Memorie istoriche de' Monarchi ottomani di Giovanni Sagredo, edizione di Venezia del 1677, in 4. O in tempo di pace, o di guerra, i Turchi furono sempre scopo all'attenzione della Repubblica di Venezia. Il Sagredo, Procuratore di S. Marco, potè in virtù della sua carica, veder per entro a tutti i dispacci ed archivj della sua Repubblica, e l'Opera di questo Nobile non va priva di meriti nè per la sostanza, nè per lo stile. Nondimeno dà a divedere troppa acredine contro gl'Infedeli, e la sua narrazione (di sole settanta pagine in quanto spetta a Maometto) diviene più ricca di particolari ed autentica, coll'avvicinarsi agli anni 1640 e 1644 che la compiscono.
160. Terminando qui i miei lavori che si riferiscono all'Impero greco, darò alcuni cenni sulla grande Raccolta degli Scrittori di Bisanzo, de' quali più d'una volta ho citati i nomi e le testimonianze nel corso della presente Storia. Aldo e gl'Italiani non impressero in greco che gli Autori Classici dei tempi migliori; ma dobbiamo agli Alemanni le prime edizioni di Procopio, di Agatia, di Cedreno, di Zonara ec. I volumi della Bisantina (36 vol. in fol. ) sono comparsi successivamente (A. D. 1648, ec.) per opera della Tipografia del Louvre, cui hanno prestati alcuni soccorsi le Tipografie di Roma e di Lipsia. Ma l'edizione di Venezia del 1729, meno costosa per vero dire, e più abbondante di quella di Parigi, altrettanto le cede in lusso e correzione. I Francesi che furono incaricati di questa edizione, non possedono tutti eguale grado di merito; le note storiche però di Carlo Dufresne Ducange aggiungono pregio al testo di Anna Comnena, di Cinnamo, di Ville-Hardouin. Le altre Opere pubblicate da questo Scrittore sullo stesso soggetto, vale a dire il Glossario greco, la Costantinopolis christiana, le Familiae byzantinae, spargono sulle tenebre del Basso Impero una vivissima luce.
161. Cioè Gregorio II che fu eletto Vescovo di Roma circa l'anno 716, tempo in cui, appunto, l'Imperatore Leone Isaurico voleva abolire il culto delle Immagini, introdottosi circa due secoli prima, sostenendolo in Italia Gregorio cogli altri Vescovi. Cotale controversia mise a sollevazione l'Italia contro l'Imperatore suo Sovrano, e diede occasione a Gregorio d'opporsi biasimevolmente al pagamento delle pubbliche gravezze, ch'egli non doveva confondere colla quistione del culto delle Immagini, e di prendere dominio temporale in Roma e ne' vicini territorj. Fu questo il primo passo de' Papi (anteriore agli atti di Pipino, ed ai diplomi de' principi Carolini, e degli Ottoni), poco considerato dalla maggior parte degli Storici, alla potestà e sovranità temporale. (Nota di N. N.)
162. L'Abate Dubos, che ha sostenuta ed esagerata l'influenza del clima con minore acume del Montesquieu, succedutogli in questa opinione, fa un'obbiezione a sè stesso dedotta dal tralignamento de' Romani e de' Batavi; e sul primo di questi esempj risponde; 1. essere l'alterazione, sofferta dai Romani, meno reale che apparente; e doversi attribuire alla prudenza de' Romani moderni, se tengono celate entro sè stessi le virtù de' loro maggiori; 2. aver sofferto un grande e sensibile cambiamento l'aere, il suolo e il clima di Roma. ( Réfléxions sur la Poésie et la Peinture, p. II, sect. 16).
163. Ho tenuti per tanto tempo lontani da Roma i miei leggitori, che mi è forza insinuar loro di richiamare a memoria o rileggere il Capitolo XLIX di questa Storia.
164. Gli autori che descrivono meglio la coronazione degli Imperatori alemanni, soprattutto di quelli dell'undicesimo secolo, sono il Muratori, che si tiene ai monumenti originali ( Antiquit. ital. medii aevi, t. I, Dissert. 6, p. 99, ec.) e il Cenni ( Monument. domin. pontific., tom. II, Dissert. 6, p. 261). Non conosco quest'ultimo che per le compilazioni fattene dallo Schmidt ( Storia degli Alemanni, tom. III, p. 225-266).
165. Exercitui romano et teutonico! Si scorgea di fatto la realtà dell'esercito degli Alemanni, ma quanto chiamavasi esercito romano, non era più che magni nominis umbra.
166. Il Muratori ne ha offerta la serie delle monete pontificie ( Antiquit., t. II, Dissert. 27, pag. 548-554). Non ne trova che due anteriori all'anno 860; e noi ne abbiamo, da Leone III fino a Leone IX, cinquanta, nelle quali vedonsi il titolo e l'effigie dell'Imperatore regnante; nessuna di quelle di Gregorio VII, o di Urbano II, è pervenuta sino a noi; sembra però che Pasquale II non volesse permettere sulle proprie monete questo contrassegno di dependenza.
167. Vedi lanota di N. N. in fine del Volume.
168. Il Teologo dice, che que' contrasti ostinatissimi non derivano d'ambizione, ma da zelo. (Nota di N. N.)
169. V. Ducange, Gloss. Mediae et infimae latinitatis, t. VI, p. 364, 366, Staffa. I Re prestavano questo omaggio agli Arcivescovi, e i vassalli ai loro Signori (Schmidt, t. III, pag. 262). Era una delle più sagaci arti della politica della Corte di Roma il confondere i contrassegni della sommessione figliale con quelli della feudale.
170. Vedi lanota di N. N. alla fine del Volume.
171. Lo zelante S. Bernardo ( De Consideratione, lib. III, t. II, p. 431-442, edizione di Mabillon, Venezia 1750) e il giudizioso Fleury ( Discours sur l'Hist. eccles., IV e VII) deplorano queste appellazioni che tutte le Chiese portavano innanzi al Pontefice romano; ma il Santo, che credeva alle false decretali, condanna solamente l'abuso di tali appellazioni: lo Storico, più avveduto, rintraccia l'origine e combatte i principj di questa nuova giurisprudenza.
172. Germanici..... Summarii non levatis sarcinis onusti nihilominus repatriant inviti. Nova res! Quando hactenus aurum Roma refudit? et nunc Romanorum consilio id usurpatum non credimus (S. Bernard., De Consideratione, l. III, c. 3, p. 437). Le prime parole di questo passo sono oscure, e verisimilmente alterate.
173. È già noto a' dotti d'istoria civile ed ecclesiastica quanto grandi sieno stati i mali e gli abusi in ciò, e quante le cattive e ridicole consuetudini, che, contrarie alle vere idee della religione, influirono a corrompere in quel tempo la buona morale pubblica. (Nota di N. N.)
174. «Allorchè i Selvaggi della Luisiana vogliono cogliere il frutto, tagliano il tronco, e dalla pianta atterrata lo svelgono. Ecco qual è il governo dispotico» ( Esprit de Lois, lib. V, cap. 13). Le passioni e l'ignoranza sono sempre dispotiche.
175. Gli oracoli de' preti (così non bene denominando l'Autore le decisioni ecclesiastiche) non sono in sostanza, se rettamente dati, che cose derivanti più o meno direttamente dalle Sacre Scritture, o da queste dedotte, e definite coll'autorità de' Concilj, de' SS. Padri e de' Papi, e quindi il buon cattolico che crede alle Sacre Scritture, ed ai giudizj di quelle autorità, riceve per mezzo de' preti spiegazioni, istruzioni e precetti, giacchè i laici o non vogliono, o non possono istruirsi su i libri anzidetti. Se poi si abusò per ignoranza o per arte, cagionando in tempi d'ignoranza e di fanatismo mali grandissimi, ciò è da condannarsi. (Nota di N. N.)
176. Giovanni di Salisbury in un colloquio famigliare con Adriano IV, suo compatriotta, accusa l'avarizia del Papa e del Clero: Provinciarum diripiunt spolia, ac si thesauro Craesi studeant reparare. Sud recte cum eis agit Altissimus, quoniam et ipsi aliis et saepe vilissimis hominibus dati sunt in direptionem ( De Nugis Curialium, l. VI, c. 24, p. 387). Nella pagina successiva, biasima la temerità e l'infedeltà de' Romani, l'affezione dei quali invano si sforzavano i Papi di cattivarsi con donativi anzichè per virtù meritarla. Dobbiamo dolerci che Giovanni di Salisbury, avendo scritto sopra tanti argomenti diversi, non ci abbia somministrata, in vece di tratti di morale e di erudizione, qualche notizia di sè medesimo, e de' costumi del suo tempo.
177. Hume's, History of England, vol. I, p. 419. Lo stesso autore, sulla testimonianza di Fitz-Stephen, racconta un atto di crudeltà, singolarmente atroce, commesso contro i preti da Goffredo, padre di Enrico II. «In tempo ch'egli (Goffredo) dominava la Normandia, il Capitolo di Seez avvisò di procedere senza il consenso del suo Signore alla elezione di un Vescovo. Goffredo ordinò che i Canonici e il Vescovo testè nominati venissero privati delle parti genitali, indi che sopra un piatto gli venisse portata la prova materiale dell'esecuzione della sentenza». Quegl'infelici aveano bene ogni ragione di lamentarsi del dolore e del pericolo di vita ai quali soggiacquero; ma poichè aveano fatto voto di castità, il tiranno non li privò che d'una ricchezza per essi inutile.
178. Trovansi negli Storici Italiani del Muratori ( t. III, p. 277-685) le Vite de' pontefici, da Leone IX insino a Gregorio VII, composte dal Cardinal d'Aragona, da Pandolfo da Pisa, da Bernardo Guido ec., che hanno tolte da autentici monumenti le narrate cose; e ho sempre avuta questa raccolta dinanzi agli occhi.
179. Le date che si troveranno a mano a mano in questo capitolo possono riguardarsi come citazioni degli Annali del Muratori, eccellente guida, da cui d'ordinario non mi diparto. Egli adopera e cita con magistrale sicurezza, la sua grande Raccolta degli Storici Italiani, divisa in vent'otto volumi, e benchè io l'abbia consultata, possedendo nella mia biblioteca un tale tesoro, ho fatto ciò per diletto, non per un bisogno che l'Autor degli Annali, coll'esattezza delle sue citazioni, mi avrebbe risparmiato.
180. Non posso a meno di qui trascrivere il seguente energico passo di Pandolfo da Pisa: Hoc audiens inimicus pacis atque turbator jam factus Centius Frajapane, more draconis immanissimi sibilans, et ab imis pectoribus trahens longa suspiria, accinctus retro gladio sine mora concurrit, valvas ac fores confregit. Ecclesiam furibundus introiit, inde custode remoto papam per gulam accepit, distraxit, pugnis, calcibusque percussit, et tamquam brutum animal intra limen ecclesiae acriter calcaribus cruentavit; et latro tantum Dominum per capillos et brachia, Iesu bono interim dormiente, detraxit, ad domum usque deduxit, inibi catenavit et inclusit.
181. Ego coram Deo et Ecclesia dico, si unquam possibile esset, mallem unum imperatorem quam tot Dominos (Vit. Gelas. II, p. 398).
182. Quid tam notum saeculis quam protervia et cervicositas Romanorum? Gens insueta paci, tumultui assueta, gens immitis et intractabilis usque adhuc, subdi nescia, nisi cum non valet resistere ( De Consideratione, l. IV, c. 2, pag. 441). Il Santo riprende fiato, continuando di poi in tal guisa: Hi invisi terrae et caelo, utrique injecere manus, etc. (p. 443).
183. Il Petrarca, nella sua qualità di cittadino romano, si fa lecito di osservare, che S. Bernardo, comunque santo, era uomo; che avea potuto lasciarsi trasportare dalla collera, e fors'anche pentirsi dopo del proprio impeto, ec. ( Mém. sur la vie de Pétrarque, t. I, p. 330).
184. Il Baronio nel dodicesimo volume de' suoi Annali trova una scusa semplice e facile, separando i Romani in due categorie, di Cattolici l'una, di Scismatici l'altra. Spetta ai primi tutto il bene, ai secondi tutto il male che è stato detto di Roma.
185. Il Mosheim che dà conto delle eresie del dodicesimo secolo, nelle Inst. Hist. eccles. (p. 419-427), porta favorevole opinione di Arnaldo da Brescia. Ho fatto parola altrove della Setta de' Paoliziani (c. 54) seguendoli nelle loro migrazioni dall'Armenia fino nella Tracia e nella Bulgaria, nell'Italia e nella Francia.
186. Arnaldo da Brescia ci è stato dipinto in originale da Ottone di Freysingen ( Chron., l. VII, cap. 31; De Gestis Frederici I, l. I, c. 27; 1. II, c. 21), e nel terzo libro di Ligurinus, poema di Gunther, Autore che vivea nel 1200 (Fabricius, Bibl. lat. med. et infim. aetat., t. III, p. 174, 175). Il Guilliman ( De rebus helveticis, lib. III, cap. 5, pag. 108) copia il lungo tratto che a quest'eresiarca si riferisce.
187. Il Bayle, trascinato dalla sua malnata inclinazione a buttare in giuoco tutte le cose, si è sbizzarrito con inconsideratezza e dottrina eguali, quando nel suo Dizionario critico è venuto agli articoli Abelardo, Fulbert, Eloisa. Il Mosheim con somma aggiustatezza ne racconta le dispute di Abelardo e di S. Bernardo intorno a diversi punti di teologia scolastica e positiva ( Instit. Hist. eccles., p. 412-415).
188.
— Damnatus ab illo
Praesule, qui numeros vetitum contingere nostros,
Nomen ab INNOCUA ducit, laudabile vita.
Meritano qualche applauso la sagacia e l'esattezza del poeta che trae partito, per fare un complimento, dalle angustie in cui lo ponea il nome anti-poetico di Innocenzo II.
189. Si è trovata a Zurigo una Iscrizione di Statio Turicensis, in caratteri romani (d'Anville, Notice de l'ancienne Gaule, p. 642-644); ma la Città e il Cantone mancavano di prove per arrogarsi ed appropiarsi in privilegio i nomi di Tigurum e di Pagus Tigurinus.
190. Il Guilliman nella sua Opera De rebus helveticis (l. III, cap. 5, pag. 106) ci dà conto della donazione fatta nell'anno 833 dall'Imperatore Lodovico il Pio alla badessa Ildegarda sua figlia. Curtim nostram Turegum in ducatu Alemanniae in pago Durgaugensi, unitamente ai villaggi, ai boschi, ai prati, alle acque, ai censi, alle chiese, ec.... tutte le quali cose formavano un magnifico donativo. Carlo il Calvo concedè a Zurigo il Jus monetae; la città venne cinta di mura sotto Ottone I, e gli Antiquarj di questo paese ripetono con piacere quel verso del Vescovo di Freysingen.
Nobile Turegum multarum copia rerum.
191. V. S. Bernardo ( Epist. 195, 196, t. I, p. 187-190). In mezzo alle sue invettive, il Santo si lasciò sfuggire una confessione importante, qui, utinam tam sanae esset doctrinae, quam districtae est vitae. Afferma inoltre che Arnaldo sarebbe stato per la Chiesa un acquisto prezioso.
192. Arnaldo consigliava ai Romani,
Consiliis armisque suis moderamina summa
Arbitrio tractare suo: nil juris in hac re
Pontifici summo, modicum concedere regi
Suadebat populo. Sic laesâ stultus utraque
Majestate, reum geminae se fecerat aulae.
La poesia del Gunther qui s'accorda colla prosa di Ottone.
193. V. Baronio (A. D. 1148, n. 38, 39) che ha seguito il manoscritto del Vaticano: egli inveisce violentemente contro Arnaldo (A. D. 1141, n. 3), cui pure dà colpa delle eresie politiche che a quei giorni dominavano nella Francia, e gli effetti delle quali il ferivano.
194. I leggitori inglesi possono consultare la Biografia Britannica, articolo Adriano IV; ma i nostri autori nazionali nulla hanno aggiunto alla fama, o al merito del loro concittadino.
195. Oltre allo Storico e al Poeta da me citati, anche il Biografo di Adriano IV racconta gli ultimi fatti di Arnaldo (Muratori, Script. rer. ital., t. III, part. I, p. 441, 442).
196. V. Ducange ( Gloss. latin, med. et infim. aetat. Il Decarchones, t. II, p. 726) riferisce, seguendo il Biondi, il seguente passo ( Decad. II, l. 2): Duo consules ex nobilitate quotannis fiebant, qui ad vetustum consulum exemplar, summae rerum praeessent; e il Sigonio ( De regno Italiae, l. VI, opp. t. II, p. 400) parla de' Consoli e de' Tribuni del decimo secolo. Il Biondi ed anche il Sigonio si sono troppo attenuti al metodo classico di supplire colla ragione e coll'immaginazione alla mancanza di monumenti.
197. Nel Panegirico di Berengario (Muratori, Script. rer. ital., t. II, part. I, p. 408) parlasi di un Romano consulis natus, nel principio del decimo secolo. Il Muratori ( Dissert. 5) ha trovato negli anni 952, 956 un Gratianus in Dei nomine consul et dux, e un Georgius consul et dux; nel 1015, Romano, fratello di Gregorio VIII, si intitolava superbamente, ma in un modo alquanto vago, Consul et Dux et omnium Romanorum Senator.
198. Gl'Imperatori greci, fino al secolo decimo, hanno usato coi Duchi di Venezia, di Napoli, d'Amalfi, ec., del titolo di υπατος o console (Vedi Chron. Sagornini in diversi luoghi), e i successori di Carlomagno non rinunziarono ad alcune delle loro prerogative. Ma in generale, i nomi di Console e di Senatore che si usarono altra volta presso i Francesi e gli Alemanni, non vogliono dir altro che Conte, o Signore ( Seigneur; Ducange, Gloss. ). Gli Scrittori monastici cedono di frequente all'ambizione di mettere in uso belle espressioni classiche.
199. La forma più costituzionale è quella che trovasi in un Diploma di Ottone (A. D. 998): Consulibus Senatus populique romani; ma verisimilmente è apocrifo un tale atto. Lo Storico Dithmar (Muratori, Dissert. 25) narrando la coronazione di Enrico I, accaduta nel 1014, lo rappresenta: A senatoribus duodecim Vallatum quorum sex rasi barba, alii prolixa, mystice incedebant cum baculis. Il Panegirico di Berengario fa menzione del Senato (p. 406).
200. Nell'antica Roma, l'Ordine equestre, soltanto sotto il consolato di Cicerone, che si dà merito dell'instituzione di quest'Ordine, divenne un terzo ramo della repubblica, prima composta unicamente del Senato e del popolo. (Plinio, Hist. nat. XXXIII, 3; Beaufort, Republ. rom., t. I, p. 144-155).
201. Il Gunther descrive ancora il sistema democratico immaginato da Arnaldo di Brescia:
Quin etiam titulos urbis renovare vetustos;
Nomini plebeio secernere nomen equestre,
Jura tribunorum, sanctum reparare senatum,
Et senio fessas mutasque reponere leges.
Lapsa ruinosis et adhuc pendentia muris
Reddere primaevo Capitolia prisca nitori.
Ma alcune di tali riforme erano chimere, altre si riducevano a sole parole.
202. Dopo lunghe dispute fra gli Antiquarj di Roma, sembra cosa oggidì convenuta, che la cima del monte Capitolino, presso al fiume, sia il mons Tarpeius, l' Arx, e che sull'altra sommità, la chiesa e il convento di Aracoeli, occupati dai Franciscani Scalzi, tengano il luogo ove fu un giorno il tempio di Giove (Nardini, Roma antica, l. V, c. 11-16).
203. Tacit., Hist. III, 69, 70.
204. Questo parteggiamento delle monete fra l'Imperatore e il Senato non è per altro un fatto positivo, ma opinione verisimile de' migliori Antiquarj ( V. la Scienza delle Medaglie del P. Joubert, t. II, pag. 208-211, nella edizione, perfetta quanto rara, del Barone della Bastia).
205. La dissertazione ventesimasettima sulle Antichità d'Italia (tom. II, p. 559-599 delle Opere del Muratori) offre una serie di monete senatoriali che portavano gli oscuri nomi di Affortiati, Infortiati, Provisini, Parparini. Nel durare di quest'epoca, tutti i Papi, senza eccettuarne Bonifazio VIII, si astennero dall'usare il diritto di batter moneta, ripreso poi da Benedetto XI, il quale ne usò in modo regolare nella Corte di Avignone.
206. Uno Storico alemanno, Gerardo di Reicherspeg (in Baluz. Miscell., t. V, pag. 64, V. Schmidt, Storia degli Alemanni, t. III, pag. 265 ), così descrive la costituzione di Roma dell'undicesimo secolo: Grandiora urbis et orbis negotia spectant ad romanum pontificem, itemque ad romanum imperatorem; sive illius vicarium urbis praefectum, qui de sua dignitate respicit utrumque, videlicet dominum papam cui facit hominium, et dominum imperatorem a qua accipit suae potestatis insigne, scilicet gladium exertum.
207. Un autore contemporaneo (Pandolfo da Pisa nella Vita di Pasquale II, pag. 357, 358) racconta come accaddero nel 1118 l'elezione del Prefetto e la formalità del giuramento: Inconsultis patribus..... loca praefectoria.... laudes praefectoriae... comitiorum applausam.... juraturum populo in ambonem sublevant.... confirmari eum in urbe praefectum petunt.
208. Urbis praefectum ad ligiam fidelitatem recepit, et per mantum quod illi donavit de praefectura eum publice investivit, qui usque ad id tempus juramento fidelitatis imperatori fuit obligatus, et ab eo prefecturae tenuit honorem (Gesta Innocent. III, in Muratori, tom. III, part. I, p. 487).
209. V. Ottone di Freysing, Chron. VII, 31; De gestis Frederici I, l. I, c. 27.
210. Un Autore inglese, Ruggero Hoveden, fa menzione dei soli senatori della famiglia Capuzzi ec., quorum temporibus melius regebatur Roma quam nunc (A. D. 1194) est temporibus LVI senatorum (Ducange, Gloss., t. VI, p. 191, SENATORES).
211. Il Muratori ( Dissert. 42, t. III, p. 785-788) ha pubblicato un Trattato originale, il cui titolo è: Concordia inter D. nostrum papam Clementem III et senatores populi romani super regalibus et aliis dignitatibus urbis, etc., anno 44 Senatus. Ivi il Senato assume il linguaggio dell'autorità: Reddimus ad praesens.... habebimus.... dabitis praesbyteria... jurabimus pacem et fidelitatem, etc. Lo stesso autore ne offre ancora una chartula de Tenimentis Tusculani, che porta per data il quarantasettesimo anno della stessa epoca, e vien confermata decreto amplissimi ordinis senatus acclamatione P. R. publice Capitolio consistentis. Trovasi quivi la distinzione fra i senatores consiliarii e i semplici senatori (Murat., Diss. 42, t. III, p. 787-789).
212. Il Muratori ( Dissert. 45, t. IV, p. 64-92) ha data ottimamente a conoscere questa forma di governo, e l' Oculus pastoralis, che trovasi in fine di tale Opera, è un trattato, o sermone sugli obblighi de' Magistrati stranieri.
213. Gli Autori latini, quelli almeno del secolo d'argento, aveano già trasportato dall'uffizio alla persona insignita di esso il vocabolo potestas.
Hujus qui trahitur praetextam sumere mavis.
An Fidenarum Gabiorumque esse POTESTAS.
(Juven., Satir. XI, 99)
214. V. la Vita e la morte di Brancaleone nella Historia major di Mattia Paris, p. 741, 757, 792, 797, 799, 810, 823, 833, 836, 840. I pellegrinaggi e le sollecitazioni delle cause mantenevano in corrispondenza le Corti di Roma e di S. Albano; e il Clero inglese, pieno d'astio contro i Papi, si rallegrava in veggendoli umiliati ed oppressi.
215. Così Mattia Paris conchiude il tratto che si riferisce a Brancaleone: Caput vero ipsius Brancaleonis in vase pretioso super marmoream columnam collocatum, in signum sui valoris et probitatis, quasi reliquias, superstitiose nimis et pompose sustulerunt. Fuerat enim superborum potentum et malefactorum urbis malleus et exstirpator, et populi protector et defensor, veritatis et justitiae imitator et amator (p. 840). Un biografo d'Innocenzo IV (il Muratori, Script., t. III, parte I, p. 591, 592) fa un ritratto men favorevole di questo Senator ghibellino.
216. Quegli Storici, le cui Opere trovansi inserite nell'ottavo volume della Raccolta del Muratori, Nicolò di Iamsilla (p. 592), il monaco di Padova (pag. 724), Sabba Malespini (lib. II, cap. 9, p. 808), e Ricordano Malespini (c. 177, p. 999), parlano della nomina di Carlo d'Angiò all'uffizio di Senatore perpetuo di Roma.
217. L'arrogante Bolla di Nicolò III, che fonda la sua temporale sovranità sulla donazione di Costantino, ne rimane tuttavia, e Bonifazio VIII avendola inserita nella sesta delle Decretali, i Cattolici, o almeno i Papisti, debbono riverirla siccome legge sacra e perpetua.
218. Devo al Fleury ( Hist. eccles., t. XVIII, p. 306) una compilazione di quest'atto dell'autorità del popolo, ch'egli ha tolto dagli Annali ecclesiastici di Odorico Rainaldo, A. D. 1281, n. 14, 15.
219. Ottone, Vescovo di Freysingen, ha conservato tali lettere e discorsi (Fabricius, Bibliot. latin. medii et infim. t. V, pag. 186, 187). Ottone era forse lo Storico che potea fra tutti i suoi colleghi vantare più eccelsi natali. Figlio di Leopoldo, marchese d'Austria, e di Agnese figlia dell'Imperatore Enrico IV, era divenuto fratello di Corrado III, zio di Federico I. Ha lasciata una Cronaca de' suoi tempi in sette libri, e una Storia De Gestis Frederici I, in due libri; questa ultima Opera si trova nel sesto volume degli Storici del Muratori.
220. Noi desideriamo, diceano que' Romani ignoranti, di restituire l'Impero in cum statum, quo fuit tempore Constantini et Justiniani, qui totum orbem vigore senatus et populi romani suis tenuere manibus.
221. V. Ottone di Freysing., De gestis Freder. I, l. I, c. 28, p. 662-664.
222. Hospes eras, civem feci. Advena fuisti ex transalpinis partibus, principem constitui.
223. Non cessit nobis nudum imperium, virtute sua amictam venit, ornamenta sua secum traxit. Penes nos sunt consules tui, etc. Cicerone, o Tito Livio non avrebbero disdegnate queste immagini che adoperava un Barbaro nato ed allevato nell'ercinia Foresta.
224. Ottone di Freysingen, che conoscea certamente il linguaggio della Corte e della Dieta alemanna, parla de' Franchi del dodicesimo secolo come della nazione regnante ( proceres Franchi, equites Franchi, manus Francorum ): aggiunge nondimeno l'epiteto Teutonici.
225. V. Ottone di Freysingen ( De Gestis Frederici I, l. II, c. 22, pag. 720-723). Nella traduzione e nel compendio di questi atti autentici e originali, mi sono permesse alcune libertà, senza per altro discostarmi dal senso.
226. Il Muratori ( Dissert. 26, tom. II, p. 492) ha tolto dalle Cronache di Ricobaldo e di Francesco Pipino questo bizzarro avvenimento, e i pessimi versi che accompagnarono il donativo.
Ave decus orbis, ave! Victus tibi destinor, ave!
Currus ab Augusto Frederico Caesare justo.
Vae Mediolanum! Jam sentis spernere vanum
Imperii vires, proprias tibi tollere vires.
Ergo triumphorum urbs potes memor esse priorum
Quos tibi mittebant reges qui bella gerebant.
Ecco ora un passo delle Dissertazioni italiane: Nè si dee tacere che nell'anno 1727, una copia di esso Carroccio in marmo, dianzi ignoto, si scoprì nel Campidoglio, presso alle carceri di quel luogo, dove Sisto V l'avea fatto rinchiudere. Stava esso posto sopra quattro colonne di marmo fino colla seguente inscrizione, ec., il soggetto della quale collimava con quello dell'Inscrizione antica.
227. Il Muratori narra con imparziale erudizione ( Annal., t. X, XI, XII) quanto si riferisce al declinare delle forze e dell'autorità degl'Imperatori in Italia; e i nostri leggitori potranno raffrontarne i racconti colla Storia degli Alemanni (tom. III, IV) scritta da Schmidt, che con quest'Opera si meritò la stima de' proprj concittadini.
228. V. Floro, l. I, c. 11, (traduzione Liguì, edizione Bettoni del 1823, p. 17, 18). Può leggersi con molta soddisfazione questo passo di Floro che meritò gli elogi di un uomo sommo ( Oeuvres de Montesquieu, t. III, p. 634, 635, edizione in 4).
229. Ne a feritate Romanorum, sicut fuerant Hostienses, Portuenses, Tusculanenses, Albanenses, Labicenses, et nuper Tiburtini destruerentur (Mattia Paris, p. 757). Questi avvenimenti vengono accennati negli Annali e nell'Indice del Muratori (vol. XVIII).
230. V. la vivace pittura che ne presenta il P. Labat ( Voyage en Espagne et en Italie ) dello stato e delle rovine di queste città, sobborghi, per così dire, di Roma, e quanto egli dice sulle rive del Tevere, ec. Era egli riseduto lungo tempo in vicinanza di Roma. V. anche una descrizione più esatta di questa città che il P. Eschinard (Roma, 1750, in 8) ha unita alla Carta topografica del Cingolani.
231. Il Labat (t. III, p. 233) porta un decreto che, prima di questo risorgimento, era stato emanato dal Governo romano, e nel quale trovavasi una espressione che feriva crudelmente l'amor proprio e la povertà de' Tivolesi: In civitate Tiburtina non vivitur civiliter.
232. Per assicurarsi questa data, il Muratori ha avuta la saggezza di ponderare le testimonianze di nove autori, contemporanei alla battaglia.
233. V. Mattia Paris, (p. 345). Il Prelato che comandava una parte dell'esercito pontifizio, era Pietro di Roche, stato Vescovo di Winchester trentadue anni. Lo Storico inglese ce lo dipinge, come guerriero e uomo di Stato (p. 178-399).
234. I fatti su i quali l'Autore scorre colla sua solita rapidità, sono veri pur troppo, ma null'altro proveranno se non se i Papi, ed i preti in generale, essendo uomini, furono talvolta presi, come gli altri, da ambizione, da avidità, e da altre passioni, e quindi alcune volte i partiti loro, pel grande loro potere su gli animi, furono terribili; l'espressione figurata la vigna del Signore, onde l'Autore disegna la Chiesa, non era da usarsi, perchè i teologi dicono che la Chiesa è il corpo mistico, cioè misterioso di Cristo, nel quale veramente non devono essere le cose anzidette, avendo egli detto a' suoi seguaci pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis; ma pur troppo la Storia ecclesiastica e civile è piena di fatti, che mostrano avere i Cristiani spesse volte dimenticato quelle parole. (Nota di N. N.)
235. Se il volgo riguardava quale idolo il Papa, s'allontanava assai dal vero cristianesimo e dalla vera idea che devesi avere del Papa. (Nota di N. N.)
236. V. Mosheim ( Instit. Hist. eccl., p. 401-403). Lo stesso Alessandro non rimase per poco vittima di una di queste tumultuose elezioni; e Innocenzo, il cui merito era dubbioso, fu riconosciuto Papa soltanto, perchè l'ingegno e il sapere di S. Bernardo fecero piegare a favore di lui la bilancia. Vedine la Vita e gli scritti.
237. Il Thomassin ( Discipl. de l'Eglise, t. I, pag. 1252-1287) ha discusso con molto senno sopra tutto quanto si riferisce all'origine, ai titoli, all'importanza, alle preminenze, agli abiti, ec. de' Cardinali, ma la loro porpora non ha conservato lo stesso splendore. Il sacro Collegio venne aumentato e determinato al numero di settantadue individui, onde raffigurasse, sotto l'autorità del Vicario di Gesù Cristo, il numero de' suoi discepoli.
238. V. la Bolla di Gregorio X ( Approbante sacro Concilio nel SESTO della legge canonica, l. I, t. 6, c. 3) vale a dire nel supplemento alle Decretali che Bonifazio VIII promulgò a Roma nel 1298, diramandole a tutte le Università dell'Europa.
239. L'ingegno del Cardinale di Retz gli dava diritto di dipingere il Conclave del 1665 al quale assistè ( Mem. t. IV, p. 15-57). Ma non so in qual conto debbano tenersi il sapere e la veracità di un anonimo italiano, la cui Storia ( Conclavi, in 4, 1667) è stata continuata dopo il regno di Alessandro VII. La fortuna accidentale dell'Opera offre agli ambiziosi una lezione non fatta per iscoraggiarli. Per mezzo a un intricato labirinto si arriva alla cerimonia dell'adorazione, e la pagina successiva comincia dai funerali del Candidato prescelto.
240. Le espressioni del Cardinale di Retz sono positive e pittoresche. «Vi si stette sempre col medesimo rispetto, e colla medesima civiltà, che vengono osservati ne' gabinetti dei Re; colla stessa gentilezza che vedeasi adoperata alla Corte di Enrico III; con quella famigliarità che appartiene ai Collegi, colla modestia addicevole ai noviziati, con quella carità, almeno in apparenza, che regnar potrebbe in mezzo a fratelli perfettamente concordi tra loro».
241. « Richiesti per bando (così si esprime Giovanni Villani) senatori di Roma, e 52 del populo, e capitani de' 25, et consoli (Consoli?) e 13 buoni huomini, uno per rione ». Noi non abbiamo cognizioni bastanti su quella età per determinare qual parte di una tale costituzione fosse solamente temporanea, e qual altra ordinaria e permanente. Però, gli antichi statuti di Roma ne porgono in ordine a ciò qualche debole lume.
242. Il Villani (l. X, c. 68-71, in Muratori, Script. t. XIII, p. 641-645) parla di cotesta legge, narrando l'avvenimento con molto meno orrore di quello che ne dimostra il prudente Muratori. Coloro che hanno studiati i tempi barbari de' nostri Annali, avranno anche veduto quanto le idee, o, a dir meglio, le assurdità della superstizione, sieno incoerenti e variabili.
243. V. nel primo volume de' Papi d'Avignone la seconda Vita originale di Giovanni XXII (p. 142-145), la confessione dell'Antipapa (p. 145-152) e le laboriose note del Baluzio (p. 714, 715).
244. Romani autem non valentes nec volentes ultra suam celare cupiditatem, gravissimam contra papam movere caeperunt quaestionem, exigentes ab eo urgentissime omnina quae subierant per ejus absentiam damna et jacturas, videlicet in hospitiis locandis, in mercimoniis, in usuris, in redditibus, in provisionibus, et in aliis modis innumerabilibus. Quod cum audisset papa, praecordialiter ingenuit, et se comperiens MUSCIPULATUM etc-. (Mattia Paris, p. 757). Circa alla Storia ordinaria della vita de' Papi, alle loro azioni, alle morti, residenze in Roma, e allontanamenti, ci contentiamo di accennare ai nostri leggitori gli Annalisti ecclesiastici, Spondano e Fleury.
245. Oltre alle Storie generali delle Chiese d'Italia e di Francia, abbiamo un prezioso Trattato, composto da un Dotto, amico del sig. de Thou, che ha per titolo Histoire particulière du grand différent entre Boniface VIII et Philippe le-Bel, par Pierre Dupuis (t. VII, part. II, p. 61-82); ed è inserito nelle Appendici delle ultime e migliori edizioni della Storia del Presidente De Thou.
246. Non è cosa sì facile da comprendersi, se il Labat (t. IV, pag. 53-57) scherzi, o parli sul serio, quando racconta che il paese d'Agnani si risente tuttavia di questa maledizione di Benedetto XII; e che la natura, fedele suddita de' Pontefici, vi tarda ciascun anno la maturità delle biade, degli olivi e delle vigne.
247. Se il Labat scriveva di buona fede, egli era grandemente ingannato dalle sue cieche prevenzioni, e dal fanatismo; e se faceva la satira della stupida credulità del popolo d'Agnani di quel tempo, avea ben ragione di farla; ma colle satire non s'istruiscono, ma s'irritano i popoli; vi vogliono libri ben fatti e scuole. (Nota di N. N.)
248. V. nella Cronaca di Giovanni Villani (l. VIII, c. 63, 64, 80, in Muratori, t. XIII) l'imprigionamento di Bonifazio VIII e l'elezione di Clemente V. I particolari di tale elezione, come quelli di molti aneddoti, non sono troppo chiari.
249. Le Vite originali degli otto Papi di Avignone, Clemente V, Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI, Innocenzo VI, Urbano V, Gregorio XI e Clemente VII, furono pubblicate da Stefano Baluzio ( Vitae paparum Avenionensium, Parisiis, 1693, 2 vol. in 8), con lunghe note e ben fatte, e con un volume d'atti e documenti. Collo zelo di un uomo amante della sua patria e di un editore, giustifica, o scusa pietosamente i caratteri de' suoi concittadini.
250. Gl'Italiani paragonano Avignone a Babilonia, e chiamano la migrazione della Santa Sede in quella città cattività di Babilonia. La Prefazione del Baluzio confuta gravemente tali metafore più addicevoli alla fantasia del Petrarca che alla ragione del Muratori. L'abate di Sade si va trovando in impaccio tra la sua affezione verso il Petrarca e l'amore di patria. Osserva modestamente che molti svantaggi locali di Avignone sono spariti, e che gl'Italiani venuti a stanziarsi colà, seguendo la Corte de' Pontefici, vi aveano portati que' vizj contro cui l'estro del Petrarca si è scatenato (t. I, p. 23-28).
251. Filippo III, re di Francia, cedè nel 1273 la Contea del Venesino ai Pontefici, dopo avere egli ereditati i dominj del Conte di Tolosa. Quarant'anni prima, l'eresia del Conte Raimondo avea somministrato un pretesto agli stessi Papi di impadronirsi di questa Contea; e fin dall'undicesimo secolo riscoteano diversi diritti d'oscura origine sopra alcune terre citra Rhodanum (Valois, Notitia Galliarum, p. 459-610; Longuerue, Déscript. de la France, t. I, p. 376-381).
252. Se un possedimento di quattro secoli non tenesse vece di un diritto, sì fatte obbiezioni basterebbero a rendere nullo il contratto; ma farebbe sempre di mestieri restituire la somma, perchè fu realmente pagata. Civitatem Avenionem emit... per ejusmodi venditionem pecunia redundantes, etc. ( Secunda vita Clement. VI, in Baluzio, t. I, p. 272; Muratori, Script., t. III, part. II, p. 565). Giovanna, e il secondo marito della medesima, furono sedotti dal danaro contante, senza del quale non avrebbero potuto ritornare nel loro regno di Napoli.
253. Clemente V fece in una sola volta una promozione di dieci Cardinali, nove francesi, uno inglese ( Vit. quarta, pag. 63, Baluzio, p. 625, etc.). Nel 1331 il Papa ricusò due Prelati raccomandatigli dal Re di Francia, quod XX cardinales, de quibus XVII de regno Franciae originem traxisse noscuntur, in memorato collegio existant (Thomassin, Discipl. de l'Eglise, t. I, p. 1281).
254. Le prime nozioni intorno a ciò, ne vengono dal Cardinale Giacomo Gaetano ( Maxima Bibl. patrum, t. 25); sarei imbarazzato a decidere se il nipote di Bonifazio VIII fosse uno stupido, o un malvagio; le incertezze sono minori rispetto al carattere dello zio.
255. Sanno già le colte persone la condotta di Bonifazio VIII, e conoscono il di lui carattere; egli fu ed è disapprovato per avere voluto colle scomuniche sottomettere l'autorità del re di Francia, Filippo il Bello, nelle cose temporali, e per avere quindi recato molti mali. (Nota di N. N.)
256. V. Giovanni Villani (l. VIII, c. 36) nel dodicesimo volume della Raccolta del Muratori, e il Chronicon Astense, nell'undecimo volume della stessa Raccolta. Papa innumerabilem pecuniam ab eisdem accepit, nam duo clerici, cum rastris, etc.
257. Le due Bolle di Bonifazio VIII e di Clemente VI si trovano nel Corpus juris canonici, ( Extravag. commun., l. V, tit. 9, c. 1, 2).
258. Gli Anni e i giubbilei sabbatici della legge di Mosè ( Car. Sigon. de republ. Hebraeorum, Opp., tom. IV, lib. III, c. 14, 15, pag. 151, 152); la sospensione di ogni specie di cura e lavori, quella restituzione periodica dei fondi, quell'affrancamento dai debiti e dalla servitù, ec., offrono una bella idea, ma l'esecuzione ne sarebbe impossibile in una repubblica non teocratica; e avrei piacere, se mi si potesse dimostrare che gli Ebrei osservavano di fatto questa rovinosa festa.
259. V. la Cronaca di Mattia Villani (t. I, c. 56) nel volume decimoquarto del Muratori, e les Mém. sur la vie de Pétrarque (t. III, p. 75-89).
260. Il sig. Chais, Ministro della Comunione protestante all'Aia, ha trattato profondamente questo argomento nelle sue Lettres historiques et dogmatiques sur les Jubilées et les Indulgences (Aia, 1751, 3 v. in 12); Opera laboriosa, e che riuscirebbe dilettevole, se l'Autore non avesse preferito il carattere di teologo polemico a quel di filosofo.
261. Il Muratori ( Dissert. 47) cita gli Annali di Firenze, di Padova, di Genova ec., l'analogia degli altri avvenimenti, la testimonianza di Ottone di Freysingen ( De Gestis Freder. I, lib. II, cap. 13) e la sommessione del Marchese d'Este.
262. Nell'anno 824 l'Imperatore Lotario I si credè in necessità d'interrogare il popolo romano per intendere dai singoli individui, secondo qual legge nazionale intendevano di essere governati.
263. Il Petrarca inveisce contro questi stranieri, tiranni di Roma, in una declamazione, o epistola piena di ardite verità, e di assurda pedanteria, che pretendeva applicare le massime ed anche i pregiudizj dell'antica Repubblica a Roma, qual trovavasi nel secolo decimoquarto ( Mem., t. III, p. 157-169).
264. Il Pagi ( Critica, t. IV, p. 435, A. D. 1124, n. 3, 4) racconta l'origine e le avventure di questa famiglia di ebrei, traendo le sue testimonianze dal Cronographus Maurigniacensis, e da Arnulphus Sagiensis de Schismate ( in Muratori, t. III, part. I, p. 423-432). I fatti debbono sotto alcuni aspetti esser veri; ma piacerebbemi che fossero stati narrati freddamente prima di farne un argomento di rimprovero all'Antipapa.
265. Il Muratori ha pubblicate due dissertazioni (41 e 42) su i nomi, i soprannomi e le famiglie d'Italia. La critica ferma e moderata di questo Storico può forse avere offesi alcuni Nobili che delle favolose loro genealogie superbiscono. Nondimeno poche once di oro puro vagliono meglio di molte libbre di metallo grossolano.
266. Il Cardinale di S. Giorgio, nella sua Storia poetica, o a meglio dire versificata, della elezione e coronazione di Bonifazio VIII (Muratori, Scriptor. Ital., tom. III, parte I, p. 641, ec.) ne fa conoscere lo stato di Roma e le famiglie ch'essa racchiudeva all'epoca di tale coronazione (A. D. 1295):
Interea titulis redimiti sanguine et armis
Illustresque viri Romana a stirpe trahentes
Nomen in emeritos tantae virtutis honores
Intulerant sese medios festumque colebant,
Aurata fulgentes toga sociante caterva.
Ex ipsis devota domus praestantis ab URSA
Ecclesiae, vultumque gerens demissius altum
Festa COLUMNA Jocis, nec non SABELLIA mitis;
Stephanides senior, COMITES, ANNIBALICA proles,
Praefectusque urbis magnum sine viribus nomen.
(l. II, c. 5, 100, p. 647, 648)
Gli antichi statuti di Roma distinguono undici famiglie di Baroni, che debbono prestare in consilio communi, e dinanzi al Senatore, il giuramento di non concedere asilo nè protezione ai malfattori, agli esiliati ec., giuramento che poi non osservavano.
267. Possiam dolerci che i Colonna non abbiano eglino stessi pubblicata una Storia compiuta e critica della illustre loro famiglia; la quale idea mi viene suggerita dal Muratori ( Dissert. 42, t. III, p. 647, 648).
268. V. Pandolfo da Pisa, in vit. Pascal. II, in Muratori, Script. Ital., t. III, part. I, p. 335. Questa famiglia possede tuttavia vasti fondi nella Campagna di Roma; ma ha venduto ai Rospigliosi il feudo Colonna (Eschinard, p. 358, 359).
269. Te longinqua dedit tellus et pascua Rheni, dice il Petrarca; e nel 1417 un duca di Gheldria e di Juliers si riconobbe (Lenfant, Histoire du Concile de Constance, t. II, p. 539) discendente degli antenati di Martino V (Ottone Colonna). Ma il re di Prussia osserva nelle Mémoires de Brandebourg, che ne' suoi stemmi lo scettro è stato confuso colla Colonna. Per sostenere l'origine romana di questa famiglia, fu ingegnosamente supposto ( Diario di Monaldeschi, ne' Script. ital., t. XII, p. 553) che un cugino dell'Imperatore Nerone, nel fuggir da Roma, andasse ad edificare la città di Magonza.
270. Non è a questo luogo da tacersi il trionfo romano, o l'ovazione di Marc'Antonio Colonna, che avea comandate le galee del Papa alla battaglia di Lepanto (De Thou, Hist., l. VII, t. III, p. 55, 56; Muratori, Oratio 10, opp. t. I, p. 180-190).
271. Muratori, Annali d'Italia, t. X, p. 216, 220.
272. Il grande affetto dimostratosi sempre dal Petrarca alla famiglia Colonna ha indotto l'abate di Sade a raccogliere molte particolarità intorno la condizione, in cui si trovavano i Colonna nel secolo decimoquarto, la persecuzione che soffersero da Bonifazio VIII, il carattere di Stefano e de' suoi figli, i loro litigi cogli Orsini, etc. ( Mém. sur Pétrarque, t. I, pag. 98-110, 146-148, 174-176, 222-230, 275-280). La critica del Sade spesse volte corregge i fatti narrati dal Villani sopra semplici tradizioni, e gli errori di alcuni moderni meno esatti. Vengo assicurato che il ramo di Stefano è estinto.
273. Alessandro III avea promulgati incapaci di possedere alcun beneficio ecclesiastico tutti i Colonna che parteggiarono per l'Imperatore Federico I (Villani, l. V, c. 1), e Sisto V abolì l'usanza di rinovare ogni anno la scomunica emanata contro di essi ( Vit. di Sisto V, t. III, pag. 416). Il tradimento, il sacrilegio e l'esilio sono di frequente la miglior prova di antica nobiltà.
274.
— Vallis te proxima misit
Apenninigenae qua prata virentia sylvae
Spoletana metunt armenta gregesque protervi.
Il Monaldeschi (t. XII, Script. ital., pag. 533) attribuisce origine francese alla casa Orsini. Può essere che in tempi lontanissimi sia migrata di Francia in Italia.
275. La Vita di Celestino V, pubblicata in versi dal Cardinale di S. Giorgio (Murat., t. III, part. I, pag. 613, ec.) contiene il seguente passo assai chiaro, nè privo di eleganza (l. I, c. 3, p. 203. ec. ).
— Genuit quem nobilis Ursae (Ursi?)
Progenies, romana domus, veterataque magnis
Fascibus in clero, pompasque experta senatus,
Bellorumque manu grandi stipata parentum
Cardineos apices nec non fastigia dudum
Papatus iterata tenens.
Il Muratori (Dissert. 42, t. III) vorrebbe si leggesse Ursi, ed osserva che il primo pontificato di Celestino III, Orsino, era sconosciuto.
276. Filii Ursi, quondam Celestini papae nepotes, de bonis Ecclesiae romanae ditati ( Vit. Innocent. III, in Muratori, Script., t. III, p. 1). La prodigalità usata da Nicolò III a favore de' suoi parenti apparisce anche meglio dalle Opere del Villani e del Muratori. Ciò nonostante gli Orsini avrebbero trattati con disdegno i nipoti di un Papa moderno.
277. Il Muratori nella sua Diss. 51 sulla Antichità d'Italia, spiega l'origine delle fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini.
278. Il Petrarca (t. I, p. 222-230) come partigiano de' sentimenti dei Colonna, ha celebrata una tale vittoria; ma due autori contemporanei, l'uno di Firenze (Giovanni Villani, lib. X, c. 220), l'altro di Roma (Lodovico Monaldeschi, p. 533, 534), contraddicono l'opinione del Poeta, e si mostrano men favorevoli all'armi Colonna.
279. L'abate di Sade (t. I, Notes, p. 61-66) ha applicato il sesto Sonetto del Petrarca Spirto Gentil, ec., a Stefano Colonna il Giovane.
ORSI, lupi, leoni, aquile e serpi
Ad una gran marmorea COLONNA
Fanno noja sovente ed a sè danno.
280. Les Mémoires sur la vie de François Pétrarque (Amsterdam, 1764; 1767, 3 vol. in 4) presentano un'Opera abbondante di particolarità, originale e gradevole assai; lavoro eseguito con impegno, e da tale che avea studiati accuratamente e il Poeta, e i contemporanei del Poeta; ma in mezzo alla Storia generale del secolo in cui visse l'eroe del racconto, lui medesimo perdiamo troppo sovente di vista, e l'autore comparisce talvolta snervato per troppa ostentazione di urbanità e di galanteria. Nella prefazione posta al primo volume, l'abate di Sade accenna, esaminando partitamente il merito di ciascheduno, venti biografi italiani, che hanno trattato ex professo l'argomento medesimo.
281. L'opinione di coloro che voleano Laura essere solamente un personaggio allegorico, prevalse nel secolo decimoquinto, ma i circospetti Comentatori non s'accordavano, volendo alcuni che Laura fosse la Religione, altri la Virtù, e persino la Santissima Vergine, ec. V. le Prefazioni del primo e secondo volume dell'abate di Sade.
282. Laura di Noves, nata verso l'anno 1307, nel gennaio del 1325, sposò Ugo di Sade, gentiluomo di Avignone, che fu geloso, ma non, a quanto sembrò, per effetto di amore, perchè contrasse novelle nozze, sette mesi dopo la morte di Laura, accaduta nel 6 di aprile 1348, ventun anni esattamente dal dì, che Petrarca, vedendola per la prima volta, si accese d'amore per lei.
283. Corpus crebris partubus exhaustum: l'abate di Sade, biografo del Petrarca, e sì ardente di zelo e d'affetto per questo Poeta, discende in decimo grado da un figlio di Laura. Gli è verisimile essere questo il motivo che gli ha suggerito il disegno della sua Opera, e lo ha fatto sollecito di rintracciare tutte le particolarità di una Storia sì rilevante per la vita e la fama della sua progenitrice ( V. soprattutto il tom. I, p. 123-133, note, p. 7-58, e il t. II, p. 455-495, note, p. 76-82).
284. La fontana di Valchiusa, cotanto nota ai nostri viaggiatori inglesi, è stata descritta dall'abate di Sade ( Mémoires, t. I, p. 340-359) che ha seguìto le Opere del Petrarca, e le sue proprie nozioni locali. Essa per verità non era che un ritiro da eremita, e la sbagliano assai que' moderni che nella grotta di Valchiusa mettono insieme Laura e il suo amante.
285. L'edizione di Basilea, del secolo decimosesto, senza additar l'anno, contiene milledugencinquanta pagine, stampate in carattere piccolo. L'abate di Sade predica con forza per una nuova edizione delle Opere latine del Petrarca; ma io dubito se sarebbe nè molto proficua al Tipografo, nè molto dilettevole al Pubblico.
286. V. Seldeno, Titles of Honour (t. III delle sue Opere, p. 457-466). Un secolo prima del Petrarca, S. Francesco avea ricevuta la visita di un poeta qui ab imperatore fuerat coronatus et exinde rex versuum dictus.
287. Da Augusto fino a Luigi XIV, la Musa de' poeti non è stata che troppo menzognera e venale; pure io dubito, se in verun secolo, o in veruna Corte, siavi mai stato, come alla Corte d'Inghilterra, un poeta stipendiato coll'obbligo di somministrare due volte all'anno, e sotto tutti i regni, e qualunque fosse l'occasione, una certa quantità di versi, e una certa dose di cantici di lode da cantarsi nella Cappella regia, e credo, alla presenza del medesimo Re. Mi esprimo con tanto maggiore franchezza sulla ridicolosità di un tal uso, che non vi sarebbe miglior tempo d'abolirlo siccome questo in cui viviamo sotto un Monarca virtuoso, ed avendo per poeta un uomo sommo.
288. Isocrate ( Panagir., t. I, pag. 116, 117, ediz. Battie. Cambridge, 1729) vuole di Atene sua patria, la gloria dell'istituzione αγωνας και τα αθλα μεγισαμη μονον ταχους και ρωμης, αλλα και λογων και γνομης, degli agoni e dei premj massimi non solo per la velocità e per la forza, ma ancora per l'eloquenza e pel sapere. I Panatenei vennero imitati a Delfo, ma non v'ebbe ai Giuochi Olimpici alcuna corona per la musica fuor quella che la vanità tirannica di Nerone si arrogò (Svet., in Ner., c. 23, Philostrat. presso il Casaubon. ivi, Dione Cassio, o Xifilino, l. LXIII, p. 1032, 1041, Potter's greek Antiquities, v. I, p. 445-450).
289. I Giuochi Capitolini ( certamen quinquennale MUSICUM equestre; gymnicum ) vennero istituiti da Domiziano (Svet., c. 4) nell'anno 86 di Gesù Cristo (Censorino, De die Natali, c. 18, p. 100, ediz. Havercamp), nè furono aboliti che nel quarto secolo (Ausonio, De professoribus Burdegal. V). Se la corona fosse stata conceduta a poeti d'un merito straordinario, l'esclusione di Stazio ( Capitolia nostrae inficiata lyrae, Sylv., l. III, v. 31) potrebbe darne a divedere qual fosse il merito di coloro che concorrevano alle corone dei giuochi del Campidoglio; certamente i poeti latini vissuti prima di Domiziano sol dall'opinione pubblica furono coronati.
290. Il Petrarca e i Senatori di Roma ignoravano che l'alloro fosse la corona de' Giuochi Delfici, non quella de' Capitolini (Plinio, Hist. nat., XV, 39; Histoire critique de la république des lettres, t. I, p. 150-220). I vincitori del Campidoglio venivano coronati con una ghirlanda di foglie di quercia (Marziale, l. IV, ep. 54).
291. Il pio discendente di Laura si è sforzato, e non senza efficacia, a difendere la purità della sua progenitrice contro le censure di gravi personaggi, e contro le derisioni del mondo maligno (t. II, not., p. 76-82).
292. L'abate di Sade descrive con molta esattezza tutto quanto alla incoronazione del Petrarca si riferisce (t. 1, p. 425, 435, t. II, p. 1-6, not. p. 1-13). Questi racconti sono tolti dagli scritti del Petrarca e dal Diario romano del Monaldeschi, che ha avuto il senno di non frammettere alle sue narrazioni le favole di cui ne ha recentemente presentati Sannuccio Delbene.
293. L'atto originale trovasi pubblicato fra i documenti giustificativi alle Mémoires sur Pétrarque (t. III, p. 50-53).
294. Per avere prove sull'entusiasmo che il Petrarca nodriva per Roma, voglia soltanto il leggitore aprire a caso le Opere dello stesso Poeta, o quelle del suo francese biografo. Questi ha scritto il primo viaggio del Petrarca a Roma (t. I, p. 323-335); ma in cambio di tanti fiori di rettorica e di morale, sarebbe stato meglio che, per dilettare il suo secolo e la posterità, il Poeta avesse offerta una descrizione esatta della città e della propria Coronazione.
295. Il Padre Du Cerceau, Gesuita, ha scritto la Histoire de la Conjuration de Nicolas Gabrini, dit de Rienzi, tyran de Rome, en 1347, Opera pubblicata a Parigi, nel 1748, in 12, dopo la morte dell'autore. Ho tolti da quest'Opera alcuni fatti e diversi documenti che trovansi in un libro di Giovanni Hocsemio, Canonico di Liegi, Storico contemporaneo (Fabricius, Biblioth. latin. medii aevi, t. III, p. 273; t. IV, p. 85).
296. L'abate di Sade che fa sì grande numero di scorrerie sulla Storia del secolo decimoquarto, necessariamente ha dovuto trattare, come proprio soggetto, una vicenda politica, che fece nel Petrarca una sì viva impressione ( Mémoires, t. II, p. 50, 51, 320, 417, not. p. 70-76; t. III, p. 221-243, 366-375). V'ha luogo a credere che nessuna idea, o nessun fatto accennati nelle Opere del Petrarca gli sieno sfuggiti.
297. Giovanni Villani, l. XII, c. 89-104, in Muratori, Rerum Ital. script., t. XIII, p. 969, 970, 981-983.
298. Il Muratori ha inserito nel suo terzo volume delle Antichità italiane (p. 249-548) i Fragmenta historiae romanae ab anno 1327, usque ad annum 1354, scritti nel dialetto che usavasi a Roma e a Napoli nel secolo decimo quarto, con una versione latina a comodo degli stranieri. Contengono questi le particolarità le più autentiche sulla Vita di Cola (Nicolò) di Rienzi; erano stati pubblicati nel 1627, in 4., col nome di Tommaso Fortifiocca, del quale non parlasi nell'Opera, se non se come d'uomo punito dal Tribuno per delitto di falso. La natura umana rade volte è capace di una così sublime, o stupida imparzialità; ma chiunque sia l'autore di tali Fragmenti, gli ha scritti sul luogo e nel tempo della sommossa, e dipinge senza secondi fini e senza arte i costumi di Roma e l'indole del Tribuno.
299. La prima e la migliore epoca della vita del Rienzi, quella in cui governò col carattere di Tribuno, trovasi descritta nel capitolo decimottavo dei Frammenti poc'anzi citati (p. 399-479). Questo capitolo, nella nuova divisione, forma il secondo libro della Storia, che contiene trent'otto capitoli, o sezioni meno estese.
300. A taluno forse non dispiacerà di trovar qui un saggio dell'idioma che parlavasi a Roma e a Napoli nel secolo decimoquarto: Fo da soa juventuine nutricato di latte de eloquentia, bono gramatico, megliore rettuorico, autorista bravo. Deh como et quanto era veloce lettore! moito usava Tito Livio, Seneca, et Tullio, et Balerio Massimo, moito li dilettava le magnificentie di Julio Cesare raccontare. Tutta la die se speculava negl'intagli di marmo le quali iaccio intorno Roma. Non era altri che esso, che sapesse lejere li antichi pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava; quesse fiure di marmo justamente interpretava. Oh come spesso diceva: Dove suono quelli buoni Romani? dove ene loro somma justitia? Poteramme trovare in tempo che quessi fiuriano!
301. Il Petrarca raffronta la gelosia de' Romani col carattere facile de' mariti avignonesi ( Mém., t. I, p. 330).
302. I frammenti della Lex Regia trovansi nelle Inscrizioni del Grutero (t. I, p. 242) e in fine al Tacito dell'Ernesti, con alcune dotte annotazioni dell'editore. (t. II).
303. Non posso omettere un sorprendente e ridicolo abbaglio del Rienzi. La lex Regia conferisce a Vespasiano la facoltà di dilatare il Pomaerium, vocabolo famigliare a tutti gli Antiquarj, ma non al Tribuno, che lo confondeva con pomarium (verziere), e traducea lo Jardino de Roma, cioene Italia; il quale significato adottarono e il traduttore latino (p. 406) e lo Storico francese (pag. 33), meno scusabili nella loro ignoranza. Che più? La dottrina del Muratori su questo passo si è addormentata.
304. Priori (Bruto) tamen similior, juvenis uterque, longe ingenio quam cujus simulationem induerat, ut sub hoc obtentu liberator ille P. R. aperiretur tempore suo.... Ille regibus, hic tyrannis contemptus. (Opp., p. 536).
305. Leggo in un manoscritto perfumante quatro SOLDI, in un altro quatro FIORINI; differenza non lieve, perchè il fiorino valeva dieci soldi romani (Muratori, Dissert. 28). Verrebbe dalla prima versione che le famiglie di Roma ascendessero solamente a venticinquemila, la seconda le porterebbe a dugencinquantamila; ma temo assai che la prima versione sia più conforme allo stato di scadimento in cui trovavasi Roma in allora, e alla poca estensione del suo territorio.
306. V. Hocsemio, p. 398, presso Du Cerceau ( Hist. de Rienzi, p. 194). Le quindici leggi pubblicate da questo tribuno trovansi presso lo Storico che, per far più presto, chiamerò Fortifiocca, l. II, c. 4.
307. V. Fortifiocca (l. II, c. 11). La descrizione di questo naufragio ci dà a conoscere alcune particolarità del commercio e della navigazione del secolo decimoquarto. 1. Il naviglio era stato costrutto a Napoli, e noleggiato pe' porti di Marsiglia e di Avignone. 2. I piloti, originarj di Napoli e dell'isola Oenaria, e meno abili dei piloti siciliani e genovesi. 3. Lo stesso naviglio tornava allora, costeggiando, da Marsiglia; assalito da una tempesta, si rifuggì alla foce del Tevere, ma mancatagli la corrente, fu costretto a naufragare; la ciurma, veduta l'impossibilità di salvarlo, scese a terra. 4. Questo naviglio portava all'erario regio la rendita della Provenza, e contenea molte balle di pepe, di cannella e drappi di Francia, per un valore di ventimila fiorini, preda assai rilevante a quei giorni.
308. Nello stesso modo un vecchio conoscente di Oliviero Cromwell, che si ricordava di averlo veduto entrar goffamente, e con ignobile atteggiamento nella Camera de' Comuni, fu attonito del contegno facile e maestoso del Protettore sul trono ( V. Harris's Life of Cromwell, pag. 27-34, sulle testimonianze di Clarendon, Warwick, Witelocke, Waller, ec.). Un uomo che senta il proprio merito e il proprio potere assume facilmente le maniere confacevoli alla sua dignità.
309. V. le particolarità, le cagioni e gli effetti della morte di Andrea nel Giannone (t. VI, l. XXIII, p. 111, 130 dell'ediz. Bettoni, Milano) e nelle Mémoires sur la vie de Pétrarque (t. II, p. 143-148, 245-250, 375-379, not., p. 21-37). L'abate di Sade vorrebbe attenuare il delitto di questa Regina.
310. L'avvocato che arringò contro Giovanna di Napoli non poteva aggiungere nulla alla forza de' ragionamenti espressi in poco nella lettera di Luigi di Baviera: Johanna! inordinata vita praecedens, retentio potestatis in regno, neglecta vindicta, vir alter susceptus, et excusatio subsequens, necis viri tui te probant fuisse participem et consortem. Giovanna di Napoli ha molti tratti singolari di somiglianza con Maria di Scozia.
311. V. l' Epistola hortatoria de capessenda republica, che il Petrarca scrisse al Rienzi ( Opp., pag. 535-550) e la quinta egloga o pastorale dello stesso Petrarca, allegorica dal principio al fine, e piena di oscurità.
312. Plutarco nelle sue Quistioni romane ( Opusc., t. I, p. 505, ediz. gr. Enr. Stef.), pone sopra principj sommamente costituzionali il genere semplice del poter dei Tribuni, i quali, propriamente parlando, non erano magistrati, ma argini opposti alla magistratura. Era di lor dovere ομοιουσθαι σχηματι, και σολη και διαιτη τοιε επιτνγχανουσι των πολιτων... καταπατεισαιδαι δει, assomigliarsi nel contegno, nell'abito e nella vita ai seguaci dei cittadini.... il tribuno dee passeggiare, (è detto di C. Curione) και μη σεμνον ειναιτη τον δημαρχον οψει... οσω δε μαλλον εκταπεινουται τω σωματι, τοσουτω μαλλον αυξεται τη δυναμει, e non essere d'aspetto severo in vista.... Quanto più comparisce umile all'esterno, tanto più cresce in potere. Ma nè il Rienzi, nè forse lo stesso Petrarca erano in istato di leggere un filosofo greco. Ciò nondimeno Tito Livio e Valerio Massimo, che entrambi studiavano, avrebbero potuto instillar loro questa modesta dottrina.
313. Non si saprebbe come tradurre in inglese questo titolo energico, ma barbaro, Zelator Italiae[*], che il Rienzi assumea.
* Forse desiderosissimo di una Italia in italiano si accosterebbe al concetto che Cola di Rienzi voleva esprimere. Dico si accosterebbe, perchè desiderare non è adoperarsi per ottenere. Studiosissimo, zelantissimo renderebbe meglio il zelator, ma senza un verbo col segnacaso genitivo di vedere, di creare, si cadrebbe nell'oscuro, e forse nel barbaro, anche in italiano. ( Nota del Trad. Ital. )
314. Era bell'uomo (l. II, c. I, p. 399). È da osservarsi che il riso sarcastico dell'edizione di Bracciano non si trova nel manoscritto romano pubblicato dal Muratori. Di ritorno dal suo primo esilio, veniva dipinto siccome un mostro. Rienzi traeva una ventrasca tonna trionfale a modo de un abbate asiano or asinino (l. III, c. 18, p. 523).
315. Comunque stravagante possa sembrare una tal festa, se ne erano vedute altre simili. Nel 1327, un Colonna e un Orsini furono creati cavalieri dal popolo romano, che tentava questa via per avvicinare le due famiglie; fu apprestato a ciascuno de' due candidati un bagno d'acqua di rose; lor vennero apparecchiati letti con reale magnificenza, e a S. Maria d'Araceli sul Monte Capitolino furono serviti dai venti buoni uomini. Ricevettero indi da Roberto, re di Napoli, la spada di cavalieri ( Hist. rom., l. I, c. 2, p. 259).
316. Tutti credeano in quel tempo alla lebbra e al bagno di Costantino (Petr. epist. fam. VI, 2); e il Rienzi, per giustificare in appresso la propria condotta presso la Corte di Avignone, allegò che un divoto Cristiano non poteva avere profanato un vaso di cui s'era servito un Pagano. Cionnullameno quando venne lanciata contro il tribuno una Bolla di scomunica, fra i motivi della medesima veniva anche specificato questo delitto (Hocsemio, presso il Du Cerceau, p. 189, 190).
317. Questa intimazione verbale fatta al Pontefice Clemente VI, narrata dal Fortifiocca, e che trovasi in un manoscritto del Vaticano, viene negata dal biografo del Petrarca (t. II, not., p. 70-76); egli si giova però d'argomenti più speciosi che atti a convincere. Non è maraviglia, se la Corte di Roma non desiderò di entrare in una quistione sì dilicata.
318. Quanto ai due Imperatori rivali, che il Rienzi citò al suo tribunale, è l'Hocsemio (Du Cerceau, p. 163-166) che racconta questo tratto di libertà e di follia.
319. È cosa singolare che il Fortifiocca non abbia fatto cenno di questa coronazione, verisimile per sè stessa, e confermata dalle testimonianze dell'Hocsemio e del medesimo Rienzi (Du Cerceau, p. 167-170-229).
320. Puoi se faceva stare denante a se, mentre sedeva, li baroni tutti in piedi ritti co le vraccia piegate, e co li capucci tratti. Deh como stavano paurosi ( Hist. rom., l. II, c. 20, p. 409)! Gli ha veduti, ce li fa vedere.
321. La lettera, colla quale il Rienzi giustifica la condotta tenuta verso i Colonna (Hocsemio, presso Du Cerceau, p. 222-229), svela al naturale un mariuolo ad un tempo ed un pazzo[322].
322. Trovo un concetto affatto identico nel Cantore del Ricciardetto.
«E v'è un misto di matto e di briccone.» ( Nota dell'Ed. )
323. Rienzi, nella lettera che abbiam citata poc'anzi, attribuisce a S. Martino il Tribuno e a Bonifazio VIII, nemici della Casa Colonna, a sè medesimo e al popolo romano, la gloria di questo combattimento, che il Villani (l. XII, c. 104) trasforma in una regolare battaglia. Il Fortifiocca (l. II, c. 34-37) descrive partitamente e con semplicità il disordine del combattimento, la fuga de' Romani, e la viltà di Rienzi.
324. Parlando della caduta della famiglia Colonna, intendo qui solamente quella di Stefano. Il Padre Du Cerceau confonde spesse volte il padre ed il figlio. Dopo l'estinzione del primo ramo, questa Casa si è perpetuata ne' rami collaterali da me non conosciuti in un modo abbastanza esatto. Circumspice, dice il Petrarca, familiae tuae statum, Columniensium domos: solito pauciores habeat Columnas. Quid ad rem? Modo fundamentum stabile, solidumque permaneat.
325. Il Convento di S. Silvestro era stato fondato e dotato dai Cardinali della Casa Colonna a favore di quelle loro parenti che volessero abbracciare la vita monastica, e la stessa Casa Colonna continuò sempre a proteggerlo. Nel 1318 le religiose erano in numero di dodici. Le altre figlie di questa Casa aveano la permissione di sposare i lor cugini in quarto grado, dispensa fondata sul picciolo numero delle nobili famiglie romane, e sulle strette loro parentele ( Mém. sur Pétrarque, t. I, p. 110; t. II, p. 401).
326. Il Petrarca scrisse alla famiglia Colonna una lettera piena di ricercatezza e di pedanteria ( Fam., l. VII, epist. 13, p. 682, 685). Vi si vede un'amicizia annegata in mezzo al patriottismo. Nulla toto orbe principum familia carior; carior tamen respublica, carior Roma, carior Italia.
« Je rends graces aux Dieux de n'être pas Romain. »
327. Polistore, autore contemporaneo che ha conservati molti fatti originali, nè privi di vezzo per gli eruditi ( Rer. Ital., t. XXV, c. 31, p. 798-804), accenna oscuramente questa assemblea, e le opposizioni che trovò il Rienzi nella medesima.
328. Il P. Du Cerceau (p. 196-252) ha tradotti i Brevi e le Bolle di Clemente VI contra il Rienzi seguendo gli Annali Ecclesiastici di Oderico Rainaldi (A. D. 1347, n. 15-17-21) che trovò questi atti negli archivj del Vaticano.
329. Mattia Villani descrive l'origine, il carattere e la morte di questo Conte di Minorbino, uomo di natura incostante et sanza fede. Era stato avo del Minorbino un astuto notaio che arricchitosi delle spoglie de' Saracini di Nocera, comperò indi la Nobiltà. V. il suo imprigionamento, e gli sforzi fatti a pro del medesimo dal Petrarca (t. II, p. 149-151).
330. Mattia Villani (l. II, c. 47; l. III, c. 33-57-78) e Tommaso Fortifiocca (l. III, c. 1-4) narrano le turbolenze accadute in Roma fra l'intervallo della partenza e del ritorno del Rienzi. Non mi sono fermato sulle amministrazioni del Cerroni e del Baroncelli che imitarono unicamente il Rienzi, loro modello.
331. Lo zelo di Polistore, l'Inquisitore dominicano ( Rer. ital., t. XXV, c. 36, p. 819), ha, non v'è dubbio, esagerato queste visioni, non saputesi nè dagli amici, nè dai nemici del Rienzi. Se questi avesse affermato, che il Regno dello Spirito Santo sottentrava in vece di quello di Cristo, che la tirannide del Pontefice doveva essere abolita, non si sarebbe tardato a convincerlo di eresia e di ribellione, senza dar disgusto al popolo di Roma.
332. La maraviglia, e quasi gelosia, del Petrarca è una prova, se non della verità di questo fatto incredibile, almeno della buona fede di chi lo racconta. L'abate di Sade ( Mém. t. III, p. 242) cita la sesta epistola del lib. decimoterzo del Petrarca; ma egli ha consultato il manoscritto reale, non l'edizione ordinaria di Basilea (p. 920).
333. Egidio, o Gille Albornoz, Nobile spagnuolo, Arcivescovo di Toledo, e Cardinale Legato in Italia (A. D. 1353-1367), restituì coll'armi e col consiglio l'autorità temporale ai Pontefici. Sepulveda ne ha scritta la vita; ma il Dryden non ha potuto ragionevolmente supporre che il nome di Albornoz, o di Volsey fosse pervenuto all'orecchio del Mufti della tragedia del Don Sebastiano.
334. Il P. Du Cerceau (p. 344-394) ha tolta da Mattia Tillani e dal Fortifiocca la sua relazione sulle azioni e la fine del Cavaliere di Montréal, vissuto da ladro e morto da eroe. Capo di una compagnia libera (la prima di queste bande che avesse ancora desolata l'Italia) si arricchì e divenne formidabile; aveva impiegato danaro in tutti i banchi, e a Padova, solamente, sessantamila ducati.
335. Il Fortifiocca che non si mostra nè amico, nè nemico del Rienzi, ne racconta con tutte le particolarità (l. III, p. 12-25) l'esilio, la seconda amministrazione e la morte. Il Petrarca che amava il Tribuno, intese con indifferenza la morte del Senatore.
336. L'abate di Sade descrive in piacevole modo, e attenendosi allo stesso Petrarca, la fiducia e le speranze deluse del Poeta ( Mem. t. III, p. 375-413); ma il maggior cordoglio, benchè il più nascosto, fu per lui la corona che il Poeta Zanubi ottenne dalle mani medesime dell'Imperatore Carlo IV.
337. V. nell'Opera aggradevole ed esatta dell'abate di Sade le lettere scritte dal Petrarca, nel 1334, a Benedetto XII (t. I, p. 261-265), nel 1342, a Clemente VI (t. II, p. 45-47) e nel 1336, ad Urbano V (t. III, p. 677-691); l'elogio dell'ultimo di questi Pontefici (p. 711-715), l'apologia del medesimo (p. 771); e si consulti ( Opp. p. 1068-1085) ove si rinverrà il parallelo pieno di fiele che il Petrarca instituisce fra il merito della Francia e quel dell'Italia.
338.
Squallida sed quoniam facies, neglectaque cultu
Caesaries; multisque malis lassata senectus
Eripuit solitam effigiem; vetus accipe nomen;
Roma vocor.
(Carm. l. II, p. 77.)
Protrae una tale allegoria al di là di tutti i limiti, e sin della pazienza dei leggitori. Le lettere in prosa che il Petrarca scrisse ad Urbano V sono più semplici e più persuasive ( Senilium, l. VII, p. 811-827; l. IX, epist. 1. p. 844-854).
339. In vece di credulità bisognava dire fede, o credenza, perchè credulità significa credenza eccessiva senza motivi di credibilità. S. Paolo scrisse rationabile obsequium vestrum. Si sa poi da quella parte d'istoria Ecclesiastica risguardante i Papi specialmente, ch'essi furono premurosissimi, per loro istituto, di tener fermi gli animi nella credenza. (Nota di N. N.)
340. Non ho tempo di trattenermi sulle leggende di Santa Brigida e di Santa Catterina: la seconda di queste leggende potrebbe somministrare alcune dilettevoli storie. L'impressione che fecero sull'animo del Papa è attestata dai discorsi tenuti da lui medesimo al letto di morte, quando avvertì i circostanti ut caverent ab hominibus, sive viris, sive mulieribus, sub specie religionis loquentibus visiones sui capitis, quia per tales ipse seductus etc. (Baluzio, Not. ad vit. pap. Avenionensium, t. I, p. 1223).
341. Questa spedizione di scorridori viene narrata dal Froissard (Chronique, t. I, p. 230) e nella Vita del Du Guesclin ( Collection générale des Mémoires historiques, t. IV, c. 16, p. 107-113). Fin dall'anno 1361 la Corte avignonese avea sofferte violenze da bande d'uomini della stessa indole, che indi attraversavano l'Alpi ( Mémoires sur Pétrarque, tom. III, p. 563-569).
342. Il Fleury, seguendo gli Annali di Oderico Rinaldi, cita il Trattato originale stipulato e sottoscritto nel dì 21 decembre, 1776, fra Gregorio XI e i Romani ( Hist. eccl., t. XX, p. 275).
343. La prima Corona, o regnum (Ducange, Gloss. lat., t. V, p. 702), che vedesi far comparsa sulla mitra de' Papi, significa la donazione di Costantino, o di Clodoveo. Bonifazio VIII vi aggiunse la seconda per dare a divedere che i Pontefici, oltre al regno spirituale, un regno temporale possedono. I tre Stati della Chiesa vengono rappresentati dalla triplice Corona che adottarono Giovanni XXII, o Benedetto XII ( Mém. sur Pétr. t. I, p. 258, 259).
344. Il Baluzio ( Not. ad pap. Avenion., t. I, p. 1194, 1195) cita diverse testimonianze intorno alle minacce degli ambasciatori romani e alla rassegnazione dell'Abate di Monte Cassino, qui ultro se offerens, respondit se civem romanum esse, et illud velle quod ipsi vellent.
345. Possono leggersi, nelle Vite di Urbano V, e di Gregorio XI, Baluzio, ( Vit. pap. Avenion., t. I, p. 363-486), Muratori, ( Script. rer. ital., t. III, part. I, pag. 613-712) il ritorno de' Papi a Roma, e l'accoglienza che dal popolo ricevettero. Nelle dispute dello scisma vennero esaminate severamente, benchè con parzialità, tutte le circostanze; soprattutto allor quando accadde la grande verificazione che decise sull'obbedienza della Castiglia, verificazione alla quale il Baluzio, seguendo un manoscritto della Biblioteca di Harlay, rimanda sì di frequente i proprj leggitori nelle sue note, p. 1281, etc.
346. Può forse, chi crede l'immortalità dell'anima, ravvisare nella morte un gastigo per l'uom dabbene? Mostrerebbe così una perplessità nella propria fede. Ma un filosofo non può essere di concorde avviso coi Greci ον οι θεοι φιλουσιν αποθνησκει νεος, muore giovane chi è amato dagli Dei (Brunck, Poetae Gnomici, p. 231). V. in Erodoto (l. I, c. 31) la Novella e morale de' giovani d'Argo.
347. Il Sig. Lenfant, nella Storia del Concilio di Pisa, ha compilati e paragonati fra loro i racconti de' partigiani d'Urbano, e di quei di Clemente, degl'Italiani e degli Alemanni, de' Francesi e degli Spagnuoli. Sembra che gli ultimi si mostrassero più operosi e verbosi in questa querela. Il loro editore Baluzio ha nelle sue Note somministrate le prove sopra tutti i fatti e i detti che vengono narrati nelle Vite di Gregorio XI e di Clemente VII.
348. Sembra che i numeri adottati dai successori di Clemente VII, e di Benedetto XIII, sciolgano a svantaggio della legittimità di questi Pontefici la quistione. Gl'Italiani li chiamano, senza riguardo, Antipapi, mentre i Francesi, dopo avere ventilate le ragioni d'entrambe le parti, si limitano a dubitare e a tollerare (Baluz., in Praef. ). È cosa singolare, o piuttosto è cosa da non maravigliarsene, che l'una e l'altra fazione ebbero Santi, visioni e miracoli.
349. Il Baluzio si studia ( Not. p. 1271-1280) a giustificare la purezza e la pietà de' motivi di Carlo V, Re di Francia: «Questo Principe ricusò di ascoltare le ragioni di Urbano; ma e i partigiani di Urbano non ricusarono forse di ascoltare quelle di Clemente etc.?».
350. Una lettera o declamazione pubblicata col nome di Eduardo III (Baluzio, Vit. papar. Avenion., t. I, p. 553), mostra con quanto zelo la nazione inglese si movesse contra la fazione di Clemente; nè a sole parole si limitò questo zelo. Il Vescovo di Norwick sbarcò a capo di sessantamila fanatici sul Continente (Hume's, History, vol. III, p. 57, 58).
351. Oltre a quanto narrano in generale gli Storici, i Giornali di Delfino Gentile, di Pietro Antonio e di Stefano Infessura, nella grande Raccolta del Muratori, ne danno a conoscere quai fossero in quella età lo stato e le sciagure di Roma.
352. Il Giannone (T. VI, l. XXIV, c. VI, p. 247, ediz. Bettoni) suppone che Ladislao si fosse intitolato Rex Romae, benchè tale titolo più non si conoscesse dopo l'espulsione dei Tarquinj. Ma si è scoperto in appresso che conveniva leggere Rex Ramae, di Rama, oscuro regno congiunto a quel di Ungheria.
353. Qual precipua e decisiva parte abbia sostenuta il Regno di Francia nello scisma di Occidente, leggesi in una Storia particolare, composta sulla traccia di autentici documenti da Pietro Dupuis, ed inserita nel settimo volume dell'ultima edizione dell'opera del Presidente De Thou, amico dello stesso Dupuis (part. XI, p. 110-184).
354. Giovanni Gerson, uno de' più intrepidi fra que' dottori, autore, o per lo meno il propugnatore zelante di questo partito, regolò spesse volte in ordine a ciò la condotta dell'Università di Parigi e della Chiesa Gallicana, come egli medesimo ne parla a lungo ne' proprj scritti teologici, dei quali abbiamo una buona compilazione eseguita dal Le Clerc ( Bibl. choisie, t. X, p. 1-78).
355. Leonardo Bruni di Arezzo, un di quelli che maggiormente contribuirono al risorgimento della letteratura classica nell'Italia, e che, dopo avere servito parecchi anni alla Corte di Roma, qual Segretario, abbandonò questa carica per assumere l'altra onorevole di Cancelliere della Repubblica di Firenze (Fabr., Bibl. med. aevi, t. I, p. 290). Il Lenfant nella sua Opera ( Concile de Pise, t. I, p. 191-195) ne ha offerta la traduzione di questa curiosa lettera.
356. Non posso passare sotto silenzio la grande lite nazionale che gli ambasciatori dell'Inghilterra sostennero valorosamente contro quelli di Francia. Pretendeano questi che la Cristianità fosse per essenza scompartita in sole quattro grandi nazioni, l'Italia, l'Alemagna, la Francia e la Spagna, sole, secondo essi, che avessero voce nella grande contesa; e quanto ai Regni men vasti (la Danimarca, il Portogallo ec., e vi aggiugnevano l'Inghilterra) non erano che compresi sotto l'una, o l'altra di queste generali divisioni. Gl'Inglesi affermavano per parte loro che le Isole Britanniche, di cui la principale era l'Inghilterra, dovevano essere riguardate come quinta nazione, e quinta nell'aver voce; e per rialzare lo splendore della loro patria ricorsero a tutti gli argomenti che la verità e la favola ai medesimi suggeriva. Comprendendo nelle Isole Britanniche l'Inghilterra, la Scozia, il paese di Galles, i quattro Regni d'Irlanda e le Orcadi, presentarono questi territorj di otto reali Corone, distinte per quattro o cinque lingue, l'inglese, la gallese, il dialetto della contea di Cornovaglia, la scozzese e l'irlandese; asserirono che la maggiore fra queste Isole era lunga, da tramontana ad ostro, ottocento miglia, corrispondenti a quaranta giorni di cammino; che la sola Inghilterra contenea trentadue contee, o cinquantaduemila parrocchie (asserzione un poco avanzata) oltre alle cattedrali, ai collegi, ai priorati, agli ospitali. Furono allegate la missione di S. Giuseppe di Arimatea, la nascita di Costantino, la legazione de' due Primati, ec.; nè venne posta in obblivione la testimonianza di Bartolomeo di Glanville (A. D. 1360 ) il quale non vedeva che quattro Regni nella Cristianità; 1. quel di Roma; 2. quel di Costantinopoli; 3. quel dell'Irlanda, passato negl'inglesi Monarchi; 4. quel della Spagna. Gl'Inglesi trionfarono ne' Consigli; ma per vero dire aggiunsero grande peso alle loro fazioni le vittorie di Enrico V. Ser Roberto Wingfield, ambasciatore di Enrico VIII presso l'Imperatore Massimiliano I, trovò a Costanza le allegazioni d'entrambe le parti, e le fece stampare a Lovanio nel 1517. Vennero indi più correttamente pubblicate nella Raccolta di Vonder-Hardt (t. V), che si giovò di un manoscritto di Lipsia; ma non ho veduto che la compilazione di tali atti pubblicata dal Lenfant ( Conc. de Const., t. II, p. 447-453; ec.).
357. Un Ministro protestante, il sig. Lenfant, che abbandonando la Francia, si ritirò a Berlino, ha scritta con molta buona fede, diligenza ed eleganza, la Storia de' tre successivi Concilj di Pisa, di Costanza e di Basilea, in sei volumi in 4. La parte men pregevole di quest'Opera è quanto si riferisce al Concilio di Basilea, la migliore, quella che tratta del Concilio di Costanza.
358. V. la Diss. 27 delle Antichità del Muratori, e la prima Istruzione della Scienza delle Medaglie del P. Joubert e del Barone della Bastia. La Storia numismatica di Papa Martino V e de' suoi successori venne composta da due frati, Moulinet, oriondo francese, e Bonanni, oriondo italiano. Credo però che la prima parte della Serie sia stata rifatta con più recenti medaglie.
359. Oltre alle Vite di Eugenio IV ( Rer. Ital., tom. IX, p. 869, e t. XXV, p. 256) il Giornale di Paolo Petroni e di Stefano Infessura, sono i testi più sicuri ed originali che si abbiano intorno alla ribellione de' Romani contra Eugenio IV; il primo che vivea in que' giorni a Roma, tiene il linguaggio di un cittadino, pavido, nella stessa guisa, della tirannide de' preti e di quella del popolo.
360. Il Lenfant ( Conc. de Basle, t. II, pag. 276-268) nel descrivere la coronazione di Federico III, segue Enea Silvio, spettatore ed attore di questa sfarzosa cerimonia.
361. Il giuramento di fedeltà che il Papa prescriveva all'Imperatore, è stato registrato e consacrato nelle Clementine (l. II, tit. 9); ed Enea Silvio, il quale si oppose a questa nuova pretensione del Pontefice, non prevedea che dopo il volgere di pochi anni, ascenderebbe egli stesso il trono di S. Pietro, e abbraccerebbe allora le massime di Bonifazio VIII.
362. Lo senatore di Roma, vestito di brocarto con quella beretta, con quelle maniche, e ornamenti di pelle, co' quali va alle feste di Testaccio e Nagone, non ferì forse gli sguardi di Enea Silvio; ma il cittadino di Roma parla con ammirazione e compiacenza di una tal circostanza.
363. V. negli Statuti di Roma il Senatore e i tre Giudici (l. I, c. 3-14), i Conservatori (lib. I, cap. 15, 16, 17; l. III, c. 4), i Caporioni (lib. I, c. 18; l. III, c. 8), il Consiglio segreto (lib. III, cap. 2), il Consiglio comune (l. III, c. 3). Il titolo delle querele domestiche, delle disfide, e degli atti di violenza, ec., occupa molti capitoli (c. 14-40) del secondo libro.
364. Statuta almae urbis Romae auctoritate S. D. N. Gregorii XIII, Pont. Max. a senatu populoque Rom. reformata et edita Romae, 1580, in folio. I vecchi statuti cadendo in disuso, nè convenendo più per l'avvenire ai Romani, furono raccolti in cinque libri non pubblicati. Luca Peto, dotto giureconsulto e antiquario venne incaricato di esserne il Triboniano; per altro io m'augurerei il vecchio codice colla sua rozza corteccia di libertà e di barbarie.
365. Nel tempo ch'io stetti a Roma, e nel tempo parimente che vi soggiornò il sig. Grosley ( Observ. sur l'Italie, t. II, p. 361), il Senatore di Roma era il sig. Bielke nobile svedese che aveva abbracciata la religione cattolica. Gli Statuti accennano anzichè determinare i diritti del Papa sulla elezione del Senatore e de' Conservatori.
366.
Sopra il monte Tarpeio, Canzon, vedrai
Un cavalier che Italia tutta onora
Pensoso più d'altrui che di sè stesso
Petr. Canz. Spirto gentil ec.
( Nota dell'Ed. ).
367. Nicolò V ben lungi dall'essere un tiranno avea trattato Stefano Porcaro con molta clemenza, e questi avendo giurato fedeltà doveva osservarla. (Nota di N. N.)
368. Il Machiavello ( Ist. fiorentina, l. VI, p. 373-375, edizione Bettoni) ne porge un racconto brevissimo e in un curiosissimo della cospirazione del Porcaro. La troviamo parimente nel giornale di Stefano Infessura ( Rer. Ital., t. III, part. II, p. 1134, 1135) e in uno scritto particolare pubblicato da Leone Battista Alberti ( Rer. Ital., t. XXV, p. 609-614). È cosa non priva di vezzo l'istituir paragone fra lo stile di questi due scrittori, e fra le opinioni del cortigiano e del cittadino. Facinus profecto quo... neque periculo horribilius, neque audacia detestabilius, neque crudelitate tetrius, a quoquam perditissimo uspiam excogitatum sit.... Perdette la vita quell'uomo da bene, e amatore dello bene e libertà di Roma.
369. I disordini di Roma, inveleniti oltre ogni dire dalla parzialità di Sisto IV, vengono narrati ne' Giornali di Stefano Infessura e di un cittadino anonimo che ne furono spettatori. V. le turbolenze dell'anno 1484 e la morte del Protonotario Colonna (t. III, part. II, p. 1083-1158).
370. « Est toute la terre de l'Eglise troublée pour cette partialité (dei Colonna e degli Orsini), comme nous dirions Luce et Grammont, ou en Hollande Houc et Caballan; et quand ce ne serait ce différend, la terre de l'Èglise serait la plus heureuse habitation pour les sujets, qui soit dans tout le monde (car ils ne payent ni tailles ni guères autres choses), et seraient toujours bien conduits (car toujours les papes sont sages et bien conseillés); mais très-souvent en advient de grands et cruels meurtres et pilleries ».
371. Non può negarsi, che le scomuniche, le quali escludono alcuno dal numero de' fedeli, non fanno effetto sull'animo di quelli che non credono alla loro forza ed alle loro conseguenze. Per altro le scomuniche devono avere un giusto e certo soggetto. Ogni diritto di scomunicare, ed ogni scomunica, ha la sua origine e la sua forza da quelle parole di Cristo riferite nell'Evangelio. Si autem peccaverit in te frater tuus vade et corripe eum inter te et ipsum solum; si te audierit lucratus eris fratrem tuum; si autem non audierit adhibe tecum adhuc unum vel duos, ut in ore duorum vel trium testium, stet omne verbum. Quod si non audierit eos, die ecclesiae; si autem ecclesiam non audierit sit tibi sicut Ethaicus et Publicanus. S. Matteo, c. 18. La Storia civile ed ecclesiastica concordemente ci mostrano quali grandi e replicati abusi sieno stati fatti del diritto di scomunicare, secondando le passioni, e recando mali e disordini gravissimi. (Nota di N. N.)
372. L'assegnatezza di Sisto V portò a due milioni e mezzo di scudi romani la rendita dello Stato ecclesiastico ( Vit. t. II, p. 291-296), e sì bene fornito era l'esercito pontifizio, che in un mese Clemente VIII potè occupare con tremila uomini a cavallo, e ventimila fantaccini lo Stato di Ferrara (t. III, p. 64). D'indi in poi (A. D. 1593) le armi del Pontefice han presa per buona sorte la ruggine; e la rendita, almeno in apparenza, debb'essere cresciuta.
373. Soprattutto dal Guicciardini e dal Machiavello. Il leggitore può consultare l'Istoria generale del primo, l'Istoria fiorentina, il Principe, e i Discorsi politici del secondo. Il Guicciardini e il Machiavello, Fra Paolo e il Davila degni loro successori, sono stati considerati a buon diritto, come i primi Storici de' moderni popoli fino a questo momento, in cui la Scozia è surta al vanto di contendere cotesta palma all'Italia.
374. Nel descrivere l'assedio di Roma fatto dai Goti (c. XXI) ho paragonati i Barbari coi sudditi di Carlo V, anticipazione che mi feci lecita senza scrupolo, siccome usai nel narrare prima del tempo le conquiste dei Tartari, per la poca speranza che allora era in me di terminare quest'Opera.
375. Il racconto delle deboli ostilità cui si lasciò trascinare per ambizione il Pontefice Paolo IV della famiglia Caraffa, leggesi nel Presidente De Thou (l. XVI, XVIII) e nel Giannone (t. VIII, l. 33, c. 1, p. 203-232, edizione Bettoni). Due bacchettoni cattolici, Filippo II e il Duca d'Alba, osarono separare il principe romano dal Vicario di Gesù Cristo. Nondimeno il carattere sacro che ne avrebbe santificata la vittoria, giovò onorevolmente a proteggerlo nella sconfitta.
376. Il dottore Adamo Smith ( Wealth of Nations, vol. I, p. 495-504) spiega in ammirabile guisa il cambiamento dei costumi e le spese che trae seco il progresso della civiltà. Forse dimostra con troppa acredine, che le mire le più personali ed ignobili hanno partoriti gli effetti i più salutevoli.
377. Un Italiano uscito del suo paese, Gregorio Leti, ha pubblicata la Vita di Sisto V ( Amsterd. 1721, 5 vol. in 12), opera circostanziata e dilettevole, ma non fatta per inspirare piena fiducia. Nondimeno quanto vi si legge sul carattere del Pontefice, e sui principali fatti di questa Storia trovasi confermato negli Annali dello Spondano e del Muratori (A. D. 1585-1590), e nella Storia contemporanea del grande De Thou. (l. LXXXII, c. 1, 2; l. LXXXIV, c. 10; l. C, c. 8).
378. I Ministri esteri, ad esempio della Nobiltà romana vollero avere questi luoghi privilegiati, quartieri, o franchigie. Giulio II avea abolito l' abominandum et detestandum franchitiarum hujus modi nomen; ma le franchigie ricomparvero ancora dopo Sisto V. Non so trovare ove fosse la giustizia, o la grandezza di Luigi XIV quando, nel 1687, spedì a Roma un ambasciatore (il Marchese di Lavardin) con mille ufiziali, guardie e servi armati per sostenere questo iniquo diritto e insultare Innocenzo XI in seno della sua Capitale. ( Vita di Sisto V, t. III, p. 260-278; Muratori, Annali d'Italia, t. XV, p. 494-496, e Voltaire, Siècle de Louis XIV, t. II, c. 14, p. 58, 59).
379. Questo oltraggio diede origine ad un decreto scolpito in marmo e collocato in Campidoglio; decreto il di cui stile è di una semplicità nobile e repubblicana. Si quis, sive privatus, sive magistratum gerens, de collocanda vivo pontifici statua mentionem facere ausit, legitimo S. P. Q. R., decreto in perpetuum infamis et publicorum munerum expers esto M. D. X. C. mense Augusto ( Vita di Sisto V, tom. III, p. 469). Credo che un tale decreto venga tuttavia osservato, nè dubito di affermare che dovrebbero mettere una simile proibizione tutti i principi meritevoli veramente di statua.
380. Le Storie della Chiesa, dell'Italia e della Cristianità mi hanno giovato a comporre questo capitolo. Nelle Vite originali de' Papi si scopre sovente lo stato della città e della Repubblica di Roma, e gli avvenimenti de' secoli XIV, XV trovansi registrati nelle rozze Cronache che ho esaminate accuratamente, e che ora, seguendo l'ordine dei tempi, indicherò ai leggitori.
1. Monaldeschi (Ludovici Boncomitis), Fragment. Annalium roman. (A. D. 1328), in Scriptores rerum italicarum del Muratori, t. XII, p. 525. N. B. La fiducia che può essere inspirata da questo fragmento, viene alquanto diminuita da una singolare interpolazione mediante cui l'Autore racconta la sua propria morte, accaduta quando compieva il centoquindicesimo anno.
2. Frammenta Historiae romanae ( vulgo Thomas Fortifiocca, in romana Dialecto vulgari ) A. D. 1327-1354, nel Muratori ( Antiquit. med. aevi ital., t. III, p. 247-548), base autentica della Storia del Rienzi.
3. Delphini (Gentilis) Diarium romanum (A. D. 1370-1410) in Rerum italic., etc. t. III, part. II, p. 846.
4. Antonini (Petri), Diarium romanum (A. D. 1404-1417) t. XXIV, p. 969.
5. Petroni (Pauli) Miscell. historica romana (A. D. 1433-1446), t. XXIV, p. 1101.
6. Volaterrani (Jacob), Diarium rom. (A. D. 1472-1484), t. XXIII, p. 81.
7. Anonymi Diarium urbis Romae (A. D. 1481-1492), t. III, part. I, II, p. 1069.
8. Infessura (Stephani), Diarium romanum (A. D. 1294, 1378-1494), t. III, part. II, p. 1109.
9. Historia arcana Alexandri VI, sive excerpta ex Diario Joh. Burcardi (A. D. 1492-1503) edit. a Godefr. Gulielm. Leibnizio, Hanov. 1897, in 4. I manoscritti che si trovano nelle diverse Biblioteche dell'Italia e della Francia possono giovare a compire la grande e preziosa Opera del Burcardo, (Foncemagne, Mém. de l'Acad. des Inscript., t. XVII, p. 597-606).
Eccetto l'ultima Opera, questi frammenti e giornali si trovano nella Raccolta del Muratori, mia scorta e mio maestro nella Storia d'Italia. Il Pubblico gli debbe in ordine a ciò: 1. Rerum italicarum Scriptores (A. D. 500-1500) quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit, etc., 28 vol. in fol., Milano, 1723-1738-1751. Rimangono a desiderarsi un soccorso di tavole cronologiche ed alfabetiche che servano di chiave a questa grand'Opera, tuttavia in disordine e in uno stato difettoso. 2. Antiquitates Italiae medii aevi, 6 volumi in fol.; Milano, 1738-1743, in settantacinque Dissertazioni piene d'interesse su i costumi, il governo, la religione ec. degli Italiani del Medio Evo con un supplimento considerabile di chirografi, cronache, ec. 3. Dissertazioni sopra le Antichità italiane, 3 vol. in 4; Milano, 1751, traduzione in italiano dell'Opera precedente, eseguita dal medesimo Autore, e che per essere citata merita la stessa fiducia del testo latino Antiquitates. 4. Annali d'Italia, 18 volumi in 8; Milano, 1753-1756, compilazione arida, ma esatta ed utile della Storia d'Italia, dopo la nascita di Gesù Cristo fino alla metà del secolo XVIII. 5. Delle Antichità Estensi ed Italiane, 2. vol. in fol.; Modena, 1717-1740. Nella Storia di questa nobile famiglia d'ond'escono gli attuali Re d'Inghilterra, il Muratori non si è lasciato trasportare dalla fedeltà e dalla gratitudine che, come suddito, doveva ai Principi della Casa d'Este. In tutte le sue Opere si manifesta scrittore laborioso ed esatto, e cerca sollevarsi al di sopra de' pregiudizj ordinarj ad un prete. Nato nel 1672, morì nel 1750, dopo avere trascorsi circa 60 anni nelle Biblioteche di Milano e di Modena. Vita del Proposto Ludovico Antonio Muratori, scritta da Gian Francesco Soli Muratori, nipote e successore del medesimo. Venezia, 1756, in 4.
381. Ho già dato conto (nel t. XII, c. LXV, p. 380, 381) dell'età, dell'indole, e degli scritti del Poggi, ed ivi (not. 1) ho parimente citata la data in cui comparve il suo elegante dialogo De Varietate fortunae, da cui questo tratto è stato tolto.
382. Consedimus in ipsis Tarpeiae arcis ruinis, pone ingens portae cujusdam, ut puto, templi, marmoreum limen plurimasque passim confractas columnas, unde magna ex parte, prospectus urbis patet (p. 5).
383. Aeneid., VIII. Questa antica pittura di una tinta sì dilicata, e condotta con tanta maestrìa dovea commovere vivamente un Romano, e i nostri studj della giovinezza ci mettono in istato di partecipare con esso d'un tal sentimento.
384. Capitolium adeo.... immutatum ut vineae in senatorum subsellia successerint, stercorum ac purgamentorum receptaculum factum. Respice ad Palatinum montem.... vasta rudera.... caeteros colles perlustra omnia vacua aedificiis, ruinis vineisque oppleta conspicies (Poggi, De Variet. fortunae, p. 21).
385. V. Poggi (p. 8-22).
386. Liber de mirabilibus Romae, ex registro Nicolai cardinalis de Aragonia, in Bibliotheca sancti Isidori, Armadio IV, n. 69. Il Montfaucon ( Diarium italicum, p. 283-301) ha pubblicato un tal libro con brevissime, ma altrettanto giudiziose note. Scriptor, così si esprime, XIII circiter saeculi, ut ibidem notatur; antiquariae rei imperitus, et, ut ab illo aevo, magis et anilibus fabellis refertus: sed, quia monumenta quae iis temporibus Romae supererant pro modulo recenset, non parum inde lucis matuabitur qui romanis antiquitatibus indagandis operam navabit (p. 283).
387. Il P. Mabillon ( Analecta, t. IV, p. 502) ha pubblicata la relazione di un pellegrino anonimo del nono secolo, che descrivendo le Chiese e i Luoghi Santi di Roma, accenna molti edifizj, e soprattutto alcuni portici che prima del secolo decimoterzo non erano più.
388. V. intorno il Settizonio le Mém. sur Pétr., (tom. I, p. 325, Donato, p. 338, e Nardini, p. 117-414).
389. L'epoca della costruzione delle piramidi è antica e sconosciuta. Diodoro di Sicilia (t. I, l. I, c. 44, p. 72) non ci sa dire se fossero innalzate, mille, o tremilaquattrocento anni prima della Olimpiade decimaottava. Ser John Marsham, che ha diminuita la lunghezza delle dinastie egiziane, porterebbe quest'epoca a circa venti secoli prima di Gesù Cristo. Canon. Chronicus (p. 47).
390. V. l'aringa di Glauco nella Iliade (Z. 146). Omero adopera di frequente questa immagine naturale e malinconica.
391. Il dotto critico sig. De Vignolles ( Hist. crit. de la rep. des lettres, t. VIII, pag. 74-118; IX, pag. 172-187) pone accaduto questo incendio nell'A. D. 64, 19 luglio, e la persecuzione de' Cristiani, che ne conseguì, incominciata nel 15 novembre dello stesso anno.
392. Quippe in regiones quatuordecim Roma dividitur, quarum quatuor integrae manebant, tres solo tenus dejectae; septem reliquis pauca tectorum vestigia supererant, lacera et semiusta. Fra gli antichi edifizj che furono consunti, Tacito novera il tempio della Luna innalzato da Servio Tullio, la cappella e l'altare consagrati da Evandro praesenti Herculi, il tempio di Giove Statore, fabbricato per adempire il voto di Romolo, il palagio di Numa, il tempio di Vesta, cum penatibus populi romani. Deplora parimente le opes tot victoriis quaesitae et Graecarum artium decora.... multa quae seniores meminerant, quae reparari nequibant ( Annal. XV, 40, 41).
393. A. U. C. 507, repentina subversio ipsius Romae praevenit triumphum Romanorum.... diversae ignium aquarumque clades pene absumpsere urbem. Nam Tiberis insolitis auctus imbribus et ultra opinionem, vel diurnitate vel magnitudine redundans, omnia Romae aedificia in plano posita delevit. Diversae qualitates locorum ad unam convenere perniciem; quoniam et quae segnior inundatio tenuit madefacta dissolvit, ei quae cursus torrentis invenit, impulsa dejecit (Oros., Hist., l. IV, c. 11, p. 244, edizione Havercamp). Fa d'uopo osservare che lo Storico cristiano si studiava d'ingrandire i disastri del Mondo pagano.
394.
Vidimus flavum Tiberim, retortis
Littore Etrusco violenter undis,
Ire dejectum monumenta regis
Templaque Vestae.
(Hor. Carm. l. I, od. II).
Se il palagio di Numa e il tempio di Vesta furono atterrati ai giorni di Orazio, quella parte de' ridetti edifizj che fu consumata dall'incendio di Nerone, come potea mai meritare gli epiteti di vetustissima o d' incorrupta?
395. Ad coercendas inundationes, alveum Tiberis laxavit ac repurgavit, completum olim ruderibus, et aedificiorum prolapsionibus coarctatum (Svetonio, in Augusto, c. 30).
396. Tacito racconta le rimostranze che le diverse città dell'Italia portarono al Senato per allontanare sì fatto provvedimento. Può a questo proposito osservarsi quai progressi ha fatti la ragione. In un affare di tal natura noi consulteremmo del certo gl'interessi locali; ma la Camera de' Comuni ributterebbe con disdegno questo superstizioso argomento: La natura assegna ai fiumi il corso che ad essi è proprio ec.
397. V. le Epoques de la Nature dell'eloquente filosofo Buffon. La sua descrizione della Guiana, provincia dell'America Meridionale, è quella di un terreno nuovo e selvaggio; ove le acque abbandonate a sè medesime non sono per anche state regolate dall'industria degli uomini (p. 212-561, edizione in 4).
398. Il sig. Addisson nel suo Viaggio in Italia ha osservato questo fatto singolare quanto incontrastabile, V. le sue Opere (t. II, p. 98, edizione di Baskerville).
399. Cionnullameno ne' tempi moderni il Tevere qualche volta ha recati alla città di Roma notabili danni. Gli Annali del Muratori citano tre grandi innondazioni che produssero tristissime conseguenze negli anni 1530, 1557, 1598 (t. XIV, p. 268-429; t. XV, p. 99, ec.).
400. Profitto di questa occasione per dichiarare che dodici anni di più mi hanno fatto dimenticare, o per meglio dire rifiutare questa Storia della fuga di Odino da Azoph nella Svezia, Storia alla quale non ho prestata seria fede giammai ( V. quanto ne ho detto al capit. X). I Goti probabilmente non sono altra cosa che Germani; ma oltre quanto Cesare e Tacito ne hanno favellato, le Antichità della Germania non presentano che favole e oscurità.
401. V. il capitolo XXXI di quest'Opera.
402. Cap. XXXI, ivi.
403. Cap. XXXIX, ivi.
404. Cap. XLIII, ivi.
405. Cap. XXVIII, ivi.
406. Eodem tempore petit a Phocate principe templum, quod appellatur PANTEON, in qua fecit ecclesiam sanctae Mariae semper Virginis, et omnium Martyrum; in qua ecclesia princeps multa bona obtulit ( Anastasius vel potius liber pontificialis in Bonifacio IV, Muratori, Script. rer. ital., t. III, part. I, p. 135). Secondo un autore anonimo citato dal Montfaucon, Agrippa avea consacrato il Pantheon a Cibele e a Nettuno. Bonifazio IV, alle calende di novembre, lo dedicò alla Vergine, quae est mater omnium Sanctorum (p. 297, 298).
407. Flaminio Vacca ( V. Montfaucon, p. 155, 156, ed anche pag. 21, in fine della Roma antica del Nardini) e parecchi Romani, doctrina graves, andavano persuasi che i Goti avessero sotterrati in Roma i lor tesori, e prima poi di morire indicati i siti ove gli aveano ascosi, filiis nepotibusque. Lo stesso Vacca narra diversi aneddoti per provare che, ai suoi giorni, alcuni pellegrini, discendenti de' conquistatori goti, dai paesi di là dall'Alpi, venivano a Roma per iscavarne i dintorni, e portarsi via la loro eredità.
408. Omnia quae erant in oere ad ornatum civitatis deposuit: sed et ecclesiam B. Mariae ad Martyres quae de regulis aereis cooperta discooperuit (Anastas. in Vitalian., pag. 141). Questo Greco, vile al pari che sacrilego, non ebbe nè manco il miserabile pretesto di devastare un tempio pagano, perchè il Pantheon era già divenuto una Chiesa cattolica.
409. V. intorno alle spoglie di Ravenna la concessione originale di Papa Adriano I a Carlomagno ( Cod. Carolin., epist. 67, nel Muratori, Script. ital., tom. III, part. II, pag. 223).
410. Citerò la testimonianza autentica del Poeta sassone (A. D. 887-899), De reb. gestis Car. M., l. V, 437-440, negli Historiens de France (t. V, p. 180).
Ad quae marmoreas proestabat ROMA columnas,
Quasdam praecipuas pulchra Ravenna dedit.
De tam longinqua poterit regione vetustas
Illius ornatum Francia ferre tibi.
E aggiugnerò, secondo la Cronaca di Sigeberto ( Histor. de France, t. V, p. 378), extruxit etiam Aquisgrani Basilicam plurimae pulchritudinis, ad cujus structuram a ROMA et Ravenna columnas et marmora devehi fecit.
411. Un passo del Petrarca ( Op., p. 556, 557, in epistola hortatoria ad Nicolaum Laurentium ) è sì energico, ed all'uopo, che non posso starmi dal trascriverlo: Nec pudor aut pietas continuit quominus impii spoliata Dei templa, occupatas arces, opes publicas regiones urbis, atque honores magistratuum inter se divisos (mancherà un habeant ), quam una in re, turbulenti ac seditiosi homines et totius reliquae vitae consiliis et rationibus discordes, inhumani foederis stupendâ societate convenerant, in pontes et moenia atque immeritos lapides desaevirent. Denique post vi vel senio collapsa palatia, quae quondam ingentes tenuerunt viri, post diruptos arcus triumphales (unde majores horum forsitan corruerunt), de ipsius vetustatis ac propriae impietatis fragminibus vilem quaestum turpi mercimonio captare non puduit. Itaque nunc, heu dolor! heu scelus indignum! de vestris marmoreis columnis, de liminibus templorum (ad quae nuper ex orbe toto concursus devotissimus fiebat), de imaginibus sepulchrorum sub quibus patrum vestrorum venerabilis civis (dee dire cinis ) erat, ut reliquas sileam, desidiosa Neapolis adornatur. Sic paulatim ruinae ipsae deficiunt. Ciò non toglie che il re Roberto fosse l'amico del Petrarca.
412. Pure Carlomagno con cento de' suoi cortigiani entrò nel bagno e vi nuotò ad Aquisgrana (Eginhart, c. 22, p. 18); e il Muratori accenna alcuni di questi bagni pubblici che nell'anno 814 si fabbricavano ancora a Spoleto ( Annali, t. VI, pag. 416).
413. V. gli Annali d'Italia. Lo stesso Muratori avea trovato questo e il precedente fatto nella Storia dell'Ordine di S. Benedetto pubblicata dal Mabillon.
414. Vita di Sisto V, di Gregorio Leti, t. III, p. 50.
415. Porticus aedis Concordiae, quam, cum primum ad urbem accessi, vidi fere integram opere marmoreo admodum specioso; Romani postmodum ad calcem aedem totum et porticus partem disjectis columnis sunt demoliti (p. 12). Il tempio pertanto della Concordia non è stato distrutto in una sedizione, come io avea letto in un Trattato manoscritto del Governo civile di Roma, che mi era stato prestato, mentre colà dimorai, e che veniva, cred'io, a torto attribuito al celebre Gravina. Il Poggi assicura parimente che furono ridotte in calce le pietre del sepolcro di Cecilia Metella (p. 19, 20).
416. Questo epigramma, che è di Enea Silvio, divenuto indi Papa Pio II, è stato pubblicato dal Mabillon, il quale lo tolse da un manoscritto della regina di Svezia ( Musaeum italicum., t. I, p. 97).
Oblectat me, Roma, tuas spectare ruinas;
Ex cujus lapsu gloria prisca patet.
Sed tuus hic populus muris defossa vetustis
Calcis in obsequium, marmora dura coquit;
Impia tercentum si sic gens egerit annos
Nullum hinc indicium nobilitatis erit.
417. Vagabamur in illa urbe tam magna; quae, cum propter spatium, vacua videretur, populum habet immensum ( Opp., p. 605, Epist. familiares, 11, 14).
418. Queste particolarità intorno alla popolazione di Roma nelle diverse epoche, sono state tolte da un ottimo Trattato del Medico Lancisi. De Romani Coeli qualitatibus, p. 122.
419. Tutti i fatti che si riferiscono alle torri di Roma e dell'altre città libere dell'Italia, trovansi nella laboriosa, ed erudita compilazione pubblicata dal Muratori col titolo Antiquitates Italiae medii aevi, Dissert. 26, t. II, p. 493-496 nell'Opera latina, e t. I, p. 446 della stessa Opera volgarizzata.
420. Templum Jani nunc dicitur, turris Centii Frangapanis; et sane Jano impositae turris lateritiae conspicua hodieque vestigia supersunt (Montfaucon, Diarium italicum, p. 186). L'Autore anonimo (p. 285) accenna arcus Titi, turris Cartularia; arcus Julii Caesaris et senatorum, turres de Bratis, arcus Antonini, turres de Cosectis, etc.
421. Hadriani molem.... magna ex parte Romanorum injuria.... disturbavit: quod certe funditus evertissent, si eorum manibus pervia, absumptis grandibus saxis, reliqua moles extitisset (Poggi, De varietate fortunae, p. 12).
422. Di Enrico IV, (Muratori, Annali d'Italia, tom. IX, p. 147).
423. Mi giova in questo luogo citare un passo importante del Montfaucon: Turris ingens rotunda.... Caeciliae Metellae.... sepulchrum erat, cujus muri tam solidi, ut spatium per quam minimum intus vacuum supersit; et TORRE DI BOVE dicitur, a boum capitibus muro inscriptis. Huic sequiori aevo, tempore intestinorum bellorum seu urbecula adjuncta fuit, cujus maenia et torres etiamnum visuntur; ita ut sepulchrum Metellae quasi arx oppiduli fuerit. Ferventibus in urbe partibus, cum Ursini atque Columnenses mutuis cladibus perniciem inferrent civitati, in utriusve partis ditionem cederet magni momenti erat (p. 142).
424. V. Donato, Nardini e Montfaucon. Nel palazzo Savelli si scorgono tuttavia considerabili avanzi del teatro di Marcello.
425. Giacomo, Cardinale di S. Giorgio, ad velum aureum, nella Vita di Papa Celestino V da esso composta in versi. (Muratori, Script. ital., t. I, part. III, p. 1, l. I, cap. 1, vers. 132, ec.).
Hoc dixisse sat est, Romam caruisse senatu
Mensibus exactis heu sex; belloque vocatum (probabilmente vocatos )
In scelus in socios fraternaque vulnera patres,
Tormentis jecisse viros immania saxa;
Perfodisse domus trabibus, fecisse ruinas
Ignibus; incensas turres, obstructaque fumo
Lumina vicino, quo sit spoliata supellex.
426. Il Muratori ( Dissertazioni sopra le Antichità Italiane, t. I, p. 427-431) ne fa sapere che venivano sovente adoperati sassi del peso di due o tre quintali; qualche volta persino di dodici, o diciotto cantari di Genova (ogni cantaro pesa cinquanta libbre).
427. La sesta legge de' Visconti abolì questa funesta usanza, prescrivendo severamente di conservare pro comuni utilitate le case de' cittadini messi in bando ( Galvaneus, nel Muratori, Script. rer. ital., t. XII, p. 1041).
428. Tali cose scriveva il Petrarca al suo amico, che arrossendo e piangendo additavagli, maenia, lacerae specimen miserabile Romae, e annunziava l'intenzione di restaurarle ( Carmina latina, lib. II, epist. Paulo Annibalensi, XII, p. 97, 98).
Nec te parva manet servatis fama ruinis
Quanta quod integrae fuit olim gloria Romae
Reliquiae testantur adhuc; quas longior aetas
Frangere non valuit, non vis aut ira cruenti
Hostis, ab egregiis franguntur civibus heu! heu!
Quod ille nequivit (Hannibal)
Perficit hic aries.
429. Il marchese Maffei, nella quarta parte della sua Verona illustrata, parla degli anfiteatri e specialmente di quelli di Roma e Verona, delle loro dimensioni, e logge di legno, ec. Sembra che, per riguardo alla sua estensione, l'anfiteatro di Tito abbia ottenuto il nome di Colosseo, o Culiseo, perchè eguale denominazione fu data all'anfiteatro di Capua, che non possedea una statua colossale; oltrechè la statua di Nerone era stata collocata nel cortile ( in atrio ) del suo palagio, non nel Colosseo (p. IV, l. I, c. 4, p. 15-19).
430. Giuseppe Maria Suares, dotto Vescovo, al quale dobbiamo una Storia di Preneste, ha pubblicata una particolare dissertazione sulle sette, o otto cagioni probabili di questi forami, dissertazione ristampata indi nel Tesoro di Sallengro. Il Montfaucon nel Diarium (p. 233) decide che l'avidità de' Barbari est una germanaque causa foraminum.
431. Donato, Roma vetus et nova, p. 285.
432. Quamdiu stabit Colyseus, stabit et Roma; quando cadet Colyseus, cadet Roma; quando cadet Roma, cadet et Mundus (Beda, in Excerptis, seu collectaneis presso il Ducange, Gloss. med. et infimae latinitatis, tom. II, p. 407, edizione Basilea). Gli è d'uopo attribuire queste parole ai pellegrini anglo-sassoni, condottisi a Roma prima dell'anno 735, tempo in cui Beda morì; perchè non credo che il venerabile monaco sia mai uscito dell'Inghilterra.
433. Non mi riesce di trovare nelle Vite de' Papi, offerteci dal Muratori ( Script. rer. ital., t. III, p. 1), il passo che attesta questa distribuzione delle fazioni nemiche; so che appartiene o alla fine dell'undecimo secolo, o al principio del decimosecondo.
434. V. Statuta urbis Romae, lib. III, cap. 87, 88, 89, p. 185, 186. Ho già offerta un'idea di questo codice municipale. Il giornale di Pietro Antonio dal 1404 al 1417 (Muratori, Script. rer. Ital., t. XXIV, p. 1124) fa parimente menzione delle corse di Nagona e del monte Testaceo.
435. Benchè gli edifizj del circo agonale non durino ancora, questa piazza ne conserva tuttavia la forma ed il nome; ma il monte Testaceo, questo cumulo singolare di maiolica rotta, sembra solamente serbato ad una costumanza annuale di buttare dall'alto al basso alcune carra di maiali per dare divertimento alla plebaglia ( Statuta urbis Romae, p. 186).
436. Il pallio, giusta il Menagio, viene da palmarium, ma questa è una ridicola etimologia. È cosa facile da concepirsi come gli uomini abbiano potuto trasportare l'idea e il vocabolo di questo manto, o abito, alla sua materia prima, indi al dono che ne veniva fatto, siccome premio della vittoria (Muratori, Diss. 33).
437. Per sovvenire a tali spese, gli Ebrei di Roma pagavano ogn'anno millecentotrenta fiorini; e questo conto bizzarro, per cui ai mille cento que' trenta venivano aggiunti, era in memoria delle trenta monete d'argento ricevute da Giuda in prezzo della vendita di Gesù Cristo. Vi era una corsa a piedi di giovani, tolti così dai cristiani, come dagli Ebrei. ( Statuta urbis, ivi ).
438. Lodovico Buonconte Monaldesco nel descrivere questi combattimenti di tori, anzichè ripetere cose che egli si potesse ricordare, ha seguìta la tradizione, qual trovasi nel più antico de' frammenti degli Annali romani (Muratori, Script. rer. ital., t. XII, pag. 535, 536). Comunque bizzarre ne sembrino tali particolarità, pure trovasi nel modo in cui vengono raccontate, il carattere della verità.
439. Il Muratori ha pubblicata una Dissertazione a parte, la ventinovesima, intorno ai giuochi degl'Italiani del Medio Evo.
440. Il Barthelemi in uno scritto breve, ma istruttivo ( Mém. de l'Acad. des Inscript., t. XXVIII, p. 585), ha parlato di questo accordo delle fazioni, de Tiburtino faciendo, nel Colosseo, fondandosi sopra un alto originale che trovasi negli Archivj di Roma.
441. Coliseum.... ob stultitiam Romanorum majori ex parte ad calcem deletum (Poggi, p. 17).
442. Eugenio IV ne fe' donazione ai Monaci olivetani, come lo assicura il Montfaucon, fondandosi sopra le Memorie di Flamminio Vacca (n. 27); questi Monaci, egli dice, speravano sempre di trovare un'occasione favorevole per far rivivere un tal diritto.
443. Dopo aver misurato il priscus amphitheatri gyrus, il Montfaucon (p. 142) si contenta d'aggiugnere che all'avvenimento di Paolo III era tuttavia intatto; tacendo clamat. Il Muratori ( Ann. d'Ital., t. XIV, p. 372) si spiega con maggior libertà sull'attentato del Pontefice Farnese e sull'indignazione del popolo romano. Contro i nipoti di Urbano VIII non vi sono altre prove che quel detto popolare: Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barbarini; ma può essere che la sola somiglianza delle parole lo abbia suggerito.
444. Il Montfaucon, come Antiquario e prete disapprova lo smantellamento del Colosseo: Quod si non suopte merito atque pulchritudine dignum fuisset quod improbas arceret manus, indigna res utique in locum tot martyrum cruore sacrum tantopere saevitum esse.
445. Però gli Statuti di Roma (l. III, c. 81, p. 182) assoggettano ad una menda di cinquecento aurei chiunque demolirà un antico edifizio, ne ruinis civitas deformetur, et ut antiqua aedificia decorum urbis perpetuo repraesentent.
446. Il Petrarca nel suo primo viaggio a Roma (A. D. 1337, Mémoires sur Pétrarque, t. I, p. 322, ec.) rimane stupefatto miraculo rerum tantarum, et stuporis mole obrutus... Praesentia vero, mirum dictu, nihil imminuit: vere major fuit Roma, majoresque sunt reliquiae quam rebar. Jam non orbem ab hac urbe domitum, sed tam sero domitum, miror ( Opp., pag. 605, Familiares 11, 14. Joanni Columnae ).
447. Egli eccettua, lodandone le rare cognizioni, Giovanni Colonna. Qui enim hodie magis ignari rerum romanarum, quam romani cives! Invitus dico, nusquam minus Roma cognoscitur quam Romae.
448. L'Autore, dopo avere in questa maniera descritto il Campidoglio, aggiunge: Statuae erant quot sunt mundi provinciae, et habebat quaelibet tintinnabulum ad collum. Et erant ita per magicam artem dispositae, ut quando aliqua regio romana imperio rebellis erat, statim imago illius provinciae vertebat se contra illam; unde tintinnabulum resonabat quod pendebat ad collum; tuncque vates Capitolii qui erant custodes senatui, etc. Cita l'esempio de' Sassoni e degli Svevi, i quali dopo essere stati soggiogati da Agrippa, nuovamente si ribellarono; ma tintinnabulum sonuit; sacerdos qui erat in speculo in hebdomada senatoribus nuntiavit. Agrippa tornò addietro e ridusse ad obbedienza i Persiani (Anonym., in Montfaucon, p. 297, 298).
449. Lo stesso Scrittore assicura che Virgilio captus a Romanis exiit, ivitque Neapolim. Guglielmo di Malmsbury nell'undecimo secolo ( De gestis regn. anglor., l. II, pag. 66) parla di un mago, e ai tempi di Flaminio Vacca (n. 81, 103) era opinione volgare che gli stranieri (i Goti) invocassero i demonj per trovare i tesori nascosti.
450. V. l'Anonimo (p. 289). Il Montfaucon (p. 191) giustamente osserva che, se Alessandro è rappresentato in uno de' cavalieri, queste statue non possono essere l'opera, nè di Fidia, nè di Prassitele, vissuti, l'uno nell'Olimpiade 83, l'altro nell'Olimpiade 104, vale a dire prima del vincitore di Dario (Plinio, Hist. nat. XXXIV, 19).
451. Guglielmo di Malmsbury (l. II, p. 86, 87) racconta la scoperta miracolosa (A. D. 1046) del sepolcro di Pallante, figlio d'Evandro, ucciso da Turno; fin dal punto di questa morte, egli narra, si vide sempre qualche luce nel sepolcro del defunto; vi si trovò un epitaffio latino; il corpo ben conservato apparteneva ad un giovane gigante e portava nel petto una larga ferita ( Pectus perforat ingens, ec.). Se questa favola ha per fondamento una ben che menoma testimonianza de' contemporanei, bisogna bene compassionare gli uomini e le statue che in quel secolo barbaro apparvero.
452. Prope porticum Minervae, statua est recubantis, cujus caput integra effigie, tantae magnitudinis, ut signa omnia excedat. Quidam ad plantandas arbores scrobes faciens detexit. Ad hoc visendum, cum plures in dies magis concurrerent, strepitum audientium fastidiumque pertaesus, horti patronus congesta humo texit (Poggi, De varietate fortunae, p. 12).
453. V. le Memorie di Flamminio Vacca (n. 57, p. 11, 12) sul finire della Roma antica del Nardini (1704, in 4).
454. Nel 1709, il numero degli abitanti di Roma, non compresi otto o diecimila ebrei, sommava a centrentottomila cinquecento sessantotto (Labat, Voyage en Espagne et en Italie, t. III, p. 217, 218 ). Nel 1740, la popolazione ascendeva a cenquarantaseimila ottanta anime; nel 1765, quando ne partii, se ne contavano censettantunmila ottocento novantanove, non calcolati gli ebrei. Ignoro se l'aumento della popolazione abbia continuato.
455. Il padre Montfaucon divide in venti giorni le osservazioni che ha fatte sulle diverse parti di questa città ( Diarium. italic., c. 8-20, p. 104-301). Doveva almeno dividerlo in venti settimane, o venti mesi. Questo dotto Benedettino, passando in rassegna i topografi dell'antica Roma, esamina i primi sforzi del Biondi, di Fulvio, Marziano e Fauno, di Pirro Ligorio, che sarebbe stato senza confronto il migliore di tutti, se alle sue fatiche fosse stata pari l'erudizione; considera indi gli scritti di Onofrio Panvinio, qui omnes observavit, poi le Opere recenti, ma imperfette, del Donato e del Nardini. Ciò nullameno il Montfaucon desidera sempre una pianta e una descrizione più compiuta dell'antica città, ad aggiungere il quale scopo raccomanda le seguenti cose: 1. misurare lo spazio e gl'intervalli delle rovine; 2. studiare le iscrizioni e gli avanzi de' palagi ove se ne trovano: 3. cercare tutti gli atti, chirografi, e giornali del Medio Evo che somministrano il nome di un luogo o di un edifizio di Roma. Appartiene soltanto alla munificenza d'un Principe o a quella del Pubblico il fare eseguire questo lavoro, come il Montfaucon lo vorrebbe; però l'estesissima pianta, pubblicata dal Nolli nel 1748, somministrerebbe una base salda ed esatta per la topografia dell'antica Roma.