PROPRIETÀ LETTERARIA

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Società Lito-Tipografica Lombarda BOLLINI e COLOMBO MILANO—Via A. Kramer, 19

1904

Al lettore,

Quando nel 1899 usciva per la prima volta sotto forma di Strenna (dell'Istituto dei Rachitici) questa raccolta di poesie che ora si ripresenta nella serie delle Opere complete di Emilio De-Marchi come parte integrante del pensiero e dell'animo suo, il compianto Senatore Gaetano Negri che alla profonda intuizione filosofica univa tanta genialità artistica e amore per tutte le cose gentili presentava il poeta con queste parole:

" Vecchie cadenze e nuove ", chiama l'Autore la raccolta delle sue poesie, volendo farci intendere che, se in alcune di esse, si ritrovano le forme e i procedimenti stilistici del tempo vecchio, egli non rifugge dagli allettamenti e dalle raffinatezze dello "stil novo" ch'egli ode. E sta bene. Ma ciò che ci piace, sopra tutto, è che il De-Marchi, e nelle vecchie e nelle nuove cadenze, non abbandona mai quel supremo, direi anzi, quell'unico precetto dello scriver bene, e in prosa ed in versi, che è di scrivere solo quando "amore spira" e di significare a quel modo ch'ei detta dentro. Tutta la differenza, come già ci insegnava Dante, fra gli scrittori profondi e gli scrittori superficiali, fra gli scrittori che rimangono e quelli che non vivono che un'ora di fugace applauso, è tutta qui. Gli uni hanno la sincerità dell'ispirazione a cui risponde la sincerità dell'espressione. Gli altri non hanno che l'artifizio dell'una e dell'altra. Tutte le discussioni d'arte, di scuola, di metodo, non sono che logomachie retoriche e pedantesche. Bisogna che le penne, come dice il padre Dante, vadano "strette diretro al dittatore" Quando ciò avvenga, tutte le cadenze, e vecchie e nuove, sono buone.

"Il De-Marchi divide la sua raccolta in tre parti, ognuna delle quali ha un titolo suggestivo. I segreti pensieri, la prima, Le vaganti immagini, la seconda, Gli intimi sensi, la terza. Il lettore, nei Segreti pensieri e nelle Vaganti immagini, segue gli inquieti atteggiamenti e il continuo agitarsi dello spirito moderno, davanti a problemi a domande, a misteri che ci appaiono tanto più insolubili ed oscuri, quanto più viva è la luce con cui l'intelligenza li rischiara e li determina; negli Intimi sensi egli risentirà la nota tranquilla di un'anima che, nella coscienza del dovere e nella fede degli ideali, sa trovar il conforto e la ragione della vita. Nelle due prime parti, la varietà e la snellezza dei metri riproducono la prontezza dell'impressione e del riflesso che essa suscita nel pensiero; nella terza, l'onda pacata del verso sciolto, condotto con classico magistero, porta sovra di sè la meditazione serena che armoniosamente si svolge con una cadenza misurata e sicura. Fra le belle cose di questa ultima parte, sono due componimenti Le ore della vita e Funerale bianco, che mi sembrano aver un pregio ben singolare di poesia e di pensiero. Si sente in quei versi il palpito di un uomo che è passato per le prove dolorose della vita, e trasmette agli altri la commozione profonda, ma non sconfortante, non disperata, di cui serba le tracce indelebili."

PARTE I

I SEGRETI PENSIERI

PRELUDIO

CANTA L'USIGNUOLO

"Benvenuto, vicin, di nuovo in questa Erma dimora, che al lume si accende. Che fu gran tempo spento al pianto mio; Or che la notte la finestra splende, Ove tu preghi su tuoi canti pio, La veglia del giardin non è più mesta.

"Il verde delle foglie anche si accende, La paura si dissipa di questa Antica frasca, nido al pianto mio: Brillan le stelle e vanno per la mesta Vôlta del ciel in un circolo pio Intorno ad una che lucida splende.

"È vuoto il nido tuo…. è vuoto il mio: La speranza non più nel cor accende Garrule gioie e lieti amori in questa Notte del viver nostro; indarno splende La danza delle stelle… In nota mesta Al tuo risponde il mio querelar pio.

"Ma se un raggio di giubilo non splende, Ci conforti, fratel, il cantar pio, Che rompe il duolo della notte mesta. Piangon le mute cose al pianto mio (La nostra sorte altra non è che questa) Nel canto il morto spirito si accende.

"S'apron l'ali agli affanni e scioglie il pio Vol la pietà, se una canzone mesta Nell'alta solitudine si accende. Degli alberi al dolor mescolo il mio Dolor canoro ed ogni stella a questa Grazia vedo tremar che in alto splende.

"A noi concesse un buono Iddio la mesta Voce del canto onde l'amor si accende. Cantano i cuori amanti al canto mio, E se tu canti, la virtù più splende: Null'altro ufficio agli uomini è più pio, Null'altra sorte è pura come questa"

A UNA GIOVINE POETESSA

Quel che nel verso mio matura a stento All'ombra dell'antico biancospino Fiorisce In un momento In mille rose in mezzo al tuo giardino.

Quel che nel verso mio languido pianto Suona o singhiozza nella notte oscura Esce limpido canto Presso il mattin dalla tua bocca pura.

Quel che alle carte io chiedo dei poeti E faticosamente intesso al verso, Al ciel, ai campi lieti, Al mar tu strappi armonioso e terso.

Tu colle mani verginelle infiori, O della vita interprete sincera, I giovinetti amori: Io sol conforto la vecchiezza a sera.

Piegarsi come salice al tuo pianto Sento il dolore di mia vita oscura, Ma quando ride il canto Del tuo sorriso, rìde la Natura.

—Oh, cessi alfin—a me dice la gente Una nenia che l'anima ci schianta; A te, musa innocente, Gridan l'altre fanciulle: canta, canta…

LITANIE VECCHIE E LITANIE NUOVE

Nell'ore languide dei caldi estati, Mentre ronzavano Api e farfalle d'oro nei prati, E nella nitida chiesetta il sole Pingea l'altare, Non altro udivasi che un susurrare Di labbra e un morbido Striscio di suole. Poi nulla, Attonita nel paradiso, Bianca la tonaca e bianco il viso, La pia badessa, dicendo l' Ave, In un soave Sonno chiudeva le luci stanche Entro una nuvola di cose bianche. Il rossignolo nella foresta. Facea la siesta. L'aria tacea calida. Solo All'ora inutile un oriolo Metteva il segno Nella sua vecchia cassa di legno.

* * *

Cangiano i tempi: crollano i santi Dai pinti portici: Se alcun ne resta, come si vede, Su per i canti, È dell'intonaco più forte il merito Che della fede. Stridon le macchine, stridono i garruli Telai. La grande Anima torna d'un mondo fossile E pei comignoli urla e si spande. Due mila ruote Un soffio, un sibilo Agita, scuote Indemoniate da cento spiriti: Treman le vôlte, Balzan gli scheletri delle sepolte.

* * *

I tempi nuovi filano i vecchi, Dai denti striduli degli apparecchi Esce il rosario della felice Età che dice:

"O Pane, o Pane, o bianco o giallo, Ave boccone! Dal primo fallo d'Adamo e d'Eva Confitto in l'ugola l'uomo solleva. Oggi non basta di un'età casta La salmodia: Sui fusi rotola la litania E l'orazione: Ave, boccone!

"Te a mattutino, te a mezzogiorno E te a compieta Chiama una gente irrequieta, Che in mezzo ai vortici degli arcolai Tesse la tela dei lunghi guai: Ave, boccone, cotto nel forno!

"Sudore e lagrime inteneriscono Un pan di cenere e di carbone Che il dente macina della malsana, Macchina umana. Ave, boccone!

"O Pane, o Pane, o giallo o nero, Tu sol sei vero, Ave, spes unica. Se tu ne manchi, Cedono i fianchi, cedon le braccia, E nella macina il cor si schiaccia."

* * *

Così risonano nel rombo immenso Del giorno e salgono, monache pie, De' nuovi tempi le litanie In mezzo a nugoli di nero incenso. Ma s'io ritorno per il sentiero Quando la bianca luna si specchia Nei rotti muri del monastero, Mi par d'intendere, o monacelle, Le campanelle Che ancor vi chiamano a salmodia: " O rosa mistica, O domus aurea, Ave, Maria.. "

* * *

A queste note, Che d'una morta speranza parlano, Del cor io sento strider le ruote E sonar l'ora d'una passata Notte stellata.

IL TELEGRAFO SULLA MONTAGNA

Van per la verde valle e s'inseguono, Salgono il clivo in ordin lento I retti tronchi, la rupe sfidano, Sfidano il vento.

Carche di folgori dal ciel le nuvole Scendon, ma i tronchi salgono ancora, Traendo il gracile filo, dell'aquila Alla dimora

Il pie' confitto nella vulcanica Roccia, fedeli soldati all'erta, Dell'uom la scossa alma trascinano Per la deserta

Region dei turbini, oltre le vergini Cime, alle soglie d'irti ghiacciai, Ove non pose capra selvatica Orma giammai.

Mentre più candido cade sugli omeri Dell'alpe il verno e tutto tace, Mentre la spuma del fiume rigida Sepolta giace:

Mentre sopiti dormono i pascoli, Che udir nel maggio mugghiar gli armenti, Sull'agil trama caldo lo spirito Va delle genti,

Vanno le alate novelle ai popoli, Vanno gli amori. Da lande ignote Escon le insidie e delle lagrime L'aride note.

Spesso nell'ululo piange dei turbini Un cuor di madre, a cui da sponde Arse pel vuoto sen dello spazio Piange e risponde

Del caro figlio l'estremo anelito: L'ansie s'inseguono al filo ordite, Urtano i baci estremi e cadono Spesso due vite.

Cinge la sorda terra una nervea Rete, che spasima e pianto stilla: Palpita il mondo del nostro palpito Alla scintilla.

Così la Mente d'un invisibile Nume la cieca materia avviva, E a noi da cieli inaccessibili La voce arriva.

Tolti gli indugi, muore più rapida L'ora felice; ai tardi mali, Tu dei viventi forse il più misero, Hai dato l'ali.

LA TRASMISSIONE DELLA FORZA ELETTRICA

(Paderno-Milano, 29 Settembre 1898)

L'oziosa cascata di candide piume Vestita, delizia di oziosi poeti, Che versa da secoli dell'acque il volume Scherzose tra i muschi dei ruvidi greti, Dei gelidi laghi la chioma fluente, Dei cieli, dell'iride lo specchio lucente, La liquida ninfa—mirabile gioco! Sprigiona, sfavilla dall'anima il fuoco.

Quell'acqua che molle sull'alpe beveste Nel cavo del tufo freschissima e chiara, Che lenta trascina nel verde la veste A greggi, a pastori sì limpida e cara, Da viva coscienza d'un subito invasa Scintilla sul desco dell'umile casa, Nel grave silenzio per lungo viaggio Sui bruni miei canti diffonde il suo raggio.

Non più di remoti destini contenta Agli echi susurra del povero sasso, Non più del molino si abbraccia alla lenta Costanza e alla ruota fa muovere il passo: Percossa da nuova superba parola Lo spirto dell'acque precipita, vola, Divora le tenebre, le macchine invade, Riempie di sibili le morte contrade.

Così d'una blanda memoria lontano Discende la forza a un giovine cuore, Così la carcassa di morbida mano L'incendio vivifica d'un fervido amore, Così dalle lagrime di muta pupilla La fede d'un nobile coraggio scintilla E scende infocato da pure sorgenti Benevolo e forte il Genio alle genti.

Rallégrati, Italia!—non più della lorda Fuliggine il limpido tuo cielo si oscura, E manda il comignolo dall'ugola ingorda Di nordica nebbia mal compra sozzura. Per rupi e dirupi, per morbidi clivi Correndo, saltando, tra lauri ed ulivi Discende al tuo popolo da vette lontano Sul raggio del sole men sudicio il pane.

Sia caro l'augurio! Se ancora feconda Dal sasso deriva sì limpida e piena, Se ancor nelle sabbie de' secoli abbonda, O madre, la pura italica vena, Sia caro l'augurio! l'umano destino Dai cento ruscelli che versa Appennino, Se al ciel non contrasti la sorte nemica, Attenda una luce che vinca l'antica.

Qui dove dischiuse del morto metallo I sensi e ne trasse gli spiriti ardenti, Qui dove le forze nel ferreo cavallo Più indomite strinse al cenno frementi, Qui dove di nuovo miracolo ardito Disdegna gli spazi del mondo finito E sciolto dai lacci l'ignoto rischiara, L'italico genio i tempi prepara.

A UN VINCITORE IN UN DUELLO

Or che l'orgoglio è pago e che le strette Corser dei fidi amici e alfin respira La bella, che ti spinse alle vendette,

Or che pende la spada e cessa l'ira, Che a te discende per antica vena, E rossa la tua gloria il mondo gira,

A te vien la mia Musa e una serena Notte invoca di stelle all'agitato Spirto sfuggito agli aspri colpi appena.

Umile ancella essa si pone a lato Del letto, e mentre van ombre e perigli Ti chiama al sonno il canto delicato.

A nova luce tu al mattino i cigli, O signor, aprirai; ma se ghermiva La morte il core coi feroci artigli,

A ben più nera e lacrimosa riva Or scenderesti, ove il fratel si duole Della ferita che il tuo ferro apriva.

Ivi non scende a colorire il sole I soavi desiri e della cara Vita son morte tutte le parole.

Nella palude senza fine amara, Lugubre navicel, cerca e non trova Ove sbattuta approdi ivi una bara.

E allora, o ciechi, il dolce amor che giova, Che negli umani affanni il sole accende Di vita in questa così breve prova?

Perchè da un cieco alto mister si scende In questa valle inermi pellegrini, Se nella rete sua l'odio ci prende?

Non come esigui e vani moscerini Nascemmo intorno a un lume a far ronzio, Ma per toccare agli ultimi gradini

D'un sacro tempio, ove il mortal desio Trova riposo, dove l'uom sicuro Di sua coscienza si abbandona in Dio.

Sia pace dunque, almen nel picciol muro Che c'imprigiona in una mesta sorte, Dove il sangue che cade è fango oscuro.

Tramontan presto le giornate corte Del vivere ed ancor bianca è la sera, Che già bussa nell'anima la Morte.

Allor ci sarà buona la preghiera Dell'opra nostra, se con lampa accesa Ci accompagni sull'ultima scogliera;

L'ira non già, non la fraterna offesa, Non la vendetta, non dell'odio il vanto, Non la minaccia, che sull'urna stesa

Nella tenebra eterna ulula il pianto.

ORA DI TEDIO

Non il piangere, no, tedio è il sentire Morire in mezzo al core la speranza: Non il morir, ma il non poter morire, Quando non più che la memoria avanza.

Non l'onda umana, non la furibonda Tempesta al marinar reca tormento: Ma il deserto del mar senza una sponda, Ma il legno infranto e non un fil di vento.

Non dir tu che la man stendi per via Che il chieder pane è una miseria infame, È più miseria, è più malinconia Viver tra i vivi e non aver più fame.

Arder nel fuoco e far dal fuoco uscire Una fiammante idea, gemer in croce E dalla croce il mondo benedire Come Gesù colla morente voce,

Questa che il cor distrugge od affatica Od altra ancora più nemica sorte Ti salvi dal languir misera ortica, Non morto, no, ma segno della morte.

Pur ch'io senta il mio cor, fategli intorno Di spine una corona e pur ch'io viva Mi basta il breve luccicar d'un giorno Di grande incendio scintilluzza viva.

IL TEMPO E LA MANO

Come il Tempo si uccida ah non mel' chiedere, azzimato garzon, ch'io questo solo conosco che la vita è un fil brevissimo d'erba o più breve tra due fili un volo.

So che l'ora è una goccia, che dal vertice scende al fiume per vie ridenti o cupe; or rugiada d'un fior, or scarsa lagrima ai dolori che spetrano la rupe.

So che il Tempo tra i doni è il sol che esiguo Iddio comparte a' suoi figliuoli eguale; ma quel che il perde al bell'ordito ingiuria della sua tela povera e mortale.

Chè nel tessuto (e questo anche conoscere i consigli mi diedero materni) può ricamare ognun d'eterne istorie con operosa man i segni eterni.

La Mano e l'opra, o mio fanciullo, innalzano argin non breve al cieco andar del fiume, nè tutto quel che s'inabissa perdesi in oscuro mistero o in vane spume.

Il Tempo passa, ma restìo sul margine siede il pensier del navigante. Ancora il fuoco vive del lontan crepuscolo, mentre già nasce la novella aurora.

De' morti amori ancor le rose ridono nelle canzoni e la pietade ordita prega nel sacro arredo a cui la gracile man della Santa consumò le dita.

Il Tempo passa, ma nel marmo candida palpita ancora calda alle percosse la bella Ninfa, che stancò di Fidia la mano e i morti popoli commosse.

Non men se l'ardua chiave intrudi ed agiti nei giri arcani di ferrato scrigno, senti del morto fabbro uscir lo spirito, che ti parla così dal vecchio ordigno:

"Vivi nell'opra tua, garzon, se il vivere ti piace e il viver breve anche t'è grave: o in marmo o in tela o in un pensier recondito o di mestizia in un lavor soave

"agita i giorni del tuo Tempo e semina nella speranza i frutti del tuo cuore. D'una pianta vitale all'ombra pallida di cento vite rigermoglia il fiore."

"PER QUARANT'ANNI PARROCO"

Questa nel vecchio sasso D'un uom la storia, o grande Machiavello! Ignoto oltre il cancello Giace sepolto in un coi morti il tumulo Nell'erba folta antica, Che ondeggia ai colpi rigidi del vento: E va l'amara ortica Per l'obliato muro a piacimento.

Costui di stridi e lagrime Non fe' sua gioia, nè macchiò le mani Nel vil sangue del popolo, Come sta scritto dei più chiari eroi: Non arse ville, nè gli piacque il mobile Trofeo dei penzolanti corpi umani, Come si legge ne' volumi tuoi: Non dei tiranni coll'oblique insidie Il pallido coraggio Sostenne e i nappi taciti di morte, O crebbe illustre di natura oltraggio; Povero prete, il suo latin col povero Divise e il poco pane e l'umil sorte.

Di carte filosofiche Non consumò nè raddoppiò volumi: Nè dal suo labbro balbettante uscirono Dell'eloquenza i fiumi D'oziosi grandi alto sollazzo e noia: Predicò, benedisse, al capo languido De' morenti arrecò l'ultima gioia, Pregando a sè l'eguale in l'ultim'ora: Cultor d'umili cose Come chi per amor veglia e lavora Nel picciol orto egli incurvò le pallide Mani tra i rovi e suscitò le rose.

Se non parlan di lui le larghe pagine Che il volgo bacia ed ama, Se della rauca fama Non vola alto il clangor, nostra è l'ingiuria: Nostra che il falso orniamo Ed ai superbi alziam templi di lauro, Mentre la dolce ai vivi Virtù nemmen sepolta adombra un ramo Di lagrimosi ulivi.

Taccia l'insulsa istoria! Tu sola, o santa poesia, sei vera, Che il vivo senso delle morte cose E i tenui affetti susciti In mezzo all'ombre, ai sassi, alle nemiche Care al Silenzio e d'ogni ben gelose Invidiose ortiche. Ove manchi il sospiro di Natura, Irrigidite larve e di cuor vuote Stan le passate immagini Di questa labil vita, che si oscura Di giorno in giorno in disperato oblìo. Amor, luce di Dio, le scalda e scuote.

Sia gloria e luce all'ignorato atleta: Se mai del pianto egli schiarì le torbide Fonti e dei vivi alleggerì le spalle, Per quante sciolse dalla rozza creta De' suoi fratelli mistiche farfalle, Per quel che disse e tacque E che non scrisse, o grande Machiavello, Al vergognoso avello Sia pace e luce e gloria!

Di lui qual altro fu maggior poeta, Di lui che tanto umano Spirito strinse nelle sacre dita? Che val la morta mano D'un re che impugna un'asta irruginita Di fronte a questa carità serena Che dei più ciechi osò guidare i passi?

Restino ai grandi i sassi; Egli altro onor non brama Di quel che colla man leggiera e piena In mezzo all'erbe il grato april ricama.

L'AGNELLINO DORME

Nell'ombra alta del frassino Dove più l'erba è molle, Dorme i sogni innocenti:

Sogna la balza morbida, Il verde ampio del colle, I giochi e l'acque garrule e lucenti.

Accanto bruca e vigila La madre e sparsa giace La greggia in suo riposo:

Mentre un sonar di fistole Sveglia nell'erma pace Dell'imminente sasso il Nume ascoso.

Dormi, agnellino! Il semplice Spirto frattanto ignori Quel che prepara il cielo….

Or or giunse alla bettola E cionca tra i pastori Cieco d'un occhio un uom dal rosso pelo.

Tonda la faccia ed ilare, Nude le braccia, a sghembo Sul ciglio alza il cappello;

Mentre affilato luccica Nel rovesciato lembo Di sanguinosa tunica il coltello.

Sogna, agnellino, e dissipi L'alterne orrende voci A te pietoso il vento,

Perchè non scenda al misero Tuo cor dei patti atroci Nel traboccar dei nappi lo spavento.

Il sangue tuo discendere Dovrà prezzo del vino, Ma tu, lieto, nol sai….

Se non è dato il leggere Nel prossimo destino, Meglio è sognar così come tu fai.

Perchè superbo e misero Cerco al saper atroce Dell'avvenir la sorte?

Passan le liete immagini All'ombra della croce, Che sulla culla ci piantò la morte.

IL CONTADINO

CANTILENA

Di nostra vita sparge lentamente Il mesto pan, più caro al ciel che agli uomini, Il contadin paziente. Al gelo, al sole, al monte, al colle, al piano Si muove egual la bionda spiga a tessere Del contadin la mano. Quando beati sulla prima aurora Sognano i ricchi nelle piume morbide, Il contadin lavora. Se avvampa agosto torrido la testa, A freschi lidi i cittadini emigrano: Il contadino resta. Se la gragnuola stermina o più rara Fa la messe, Epulone il ciel bestemmia: Il contadin ripara. Mentre dei campi, alle sfrenate voglie D'una bella, il signor i frutti sperpera, Il contadin raccoglie. Raccoglie e pane e vino e biade e strame Agli uomini e alle bestie e spesso, ah misero! Il contadino ha fame. Se di fortuna cangia la bandiera, Fatti feroci i fortunati stridono: Il contadino spera. Mentre di Dio la provvidenza nega Sardanapalo in suo supremo orgoglio, Il contadino prega, Per molte vie tu ville a te procacci, O tesorier, ma non avanza fabbriche Il contadin nè stracci. Quando sente d'aver compiute l'ore Di sua giornata, all'ospedal si strascica Il contadino e muore. Han sulle fosse i re della fortuna Croci di marmo, di bronzo e di porfido; Il contadin nessuna.

CONCA ALPINA

Dentro il còncavo Della rupe umido seno, Non più grande D'una coppa il tuo s'espande Specchio lucido sereno.

Il ciel nitido Vi discioglie l'oltremare: S'arde in ciel rossa una nuvola Sangue pare.

Bella a sera Nel tuo freddo orror ferrigno, Quando incombe la bufera, Quando trema sul macigno Un sottil candor lunare.

Pari a questa Piccioletta anima mia La tua conca all'armonia Apri tutta dì natura.

Sotto i brividi Della rigida tempesta Senti il gelo Che t'invade e che t'indura, Umil conca d'acqua pura Presso il cielo.

IL ROSARIO DELLA NONNA

Pende dal chiodo sul guancial, di grani fitto il rosario della nonna mia: pende e sui sonni miei torbidi o vani l'ombra distende pia:

Fanciullo, il tintinnir mi piacque e il lento volger di questa coronina antica; e ancor quando la tocco ancor ne sento uscir la voce amica

dei cari giorni e dei misteri santi, che stanno ora confitti al vecchio muro: che non temon di dotti e di pedanti il perfido scongiuro.

Serban le perle le ancor calde impronte delle tue dita, o nonna, ove passasti, quando inchinata al tuo Signor la fronte de' tuoi pensier più casti

gli svelavi i tesori intimi, arcani; onde non morti ancor dopo molt'anni come piccoli cor battono i grani pieni dei santi affanni.

Forse già tutte consumò le nude ossa la terra e accanto al sasso pio della tua tomba già forse si schiude un fior che non è mio;

ma quel che fu tuo spirito immortale palpita e vive in questo scapolare, che il ciel congiunge colla terra e vale per me più d'ogni altare.

Presso qui sta di gravi opere denso un armadio di libri, che raduna in poco il mare della scienza immenso che sta sotto la luna;

che la ragione delle cose amara mi distilla nel cerebro e l'essenza com'acido purifica e rischiara della volgar coscienza;

a cui, del capo urtando al vecchio legno, chiedo la notte e chiedo il dì la sorte del viver mio, ma invan chiedo.—ed un segno che plachi un po' la morte:

chè tutt'insieme il venerando stuolo non fa più breccia, quando il cuore assale, di quel che faccia lento un vermiciuolo nel logoro scaffale….

Ma tu, sol che ti tocchi, una dolcezza versi che definir non san le scuole: scintilla amor e passa una carezza su tutto ciò che duole.

Morremo e immota in suo rigor di sasso starà dei saggi la ragion superba: tu, povera umiltà, col picciol passo, ove più dura e acerba

scende la via, sorreggi il piede e il fianco alla languida vita; e sull'eterna scala ove trema il pellegrin più stanco innalzi una lucerna.

LA CAPRA ED IO

Sovra la rupe aerea, Dove non giunge mai Foglio di stampa od orma d'esattore, Soli tra spini e cardi Tra le nebbie emergenti e i scialbi sassi Siamo una capra ed io.

Non prati, non ovili, Ma solamente burroni scoscesi Fra cui serpeggia e luccica Al sol d'un'acqua povera la striscia: Intorno alto il silenzio Scende nel lento scendere del giorno.

Io lei rimiro ed essa Sui piè diritta e rigida Guarda il borghese ignoto che la guarda E non sappiam che dire. Qual scienza mai d'una barbara capra Intese i biascicati sillogismi? Del mio scarso viatico Porgo alla bestia un morsellin di pane, Che lieta il muso sporge E mangia e ancor ne chiede: io la cornuta Testa carezzo, chè già sento un nuovo Affetto entrarmi in seno.

O sacra forza d'un boccon di pane! Già in fondo agli occhi gialli Io veggo il lento fluttuar di un'anima Che mi ringrazia; parmi Che anche un pensier si snodi Tra la cornuta e l'uomo.

Un picciol suon non più che di zanzara È degli umani il dire In riva al mar ch'ogni pensiero asconde. Meglio parla il silenzio Degli occhi che una luce a noi riflettono Degli infiniti flutti.

"—Amici entrambi del deserto, i cari Verdi cerchiamo e l'ombre Dei più segreti boschi; Guardar nel fondo degli abissi e i cieli Correr col guardo è giubilo Comune—-essa mi dice s'io l'intendo.—

"Se de' belati tuoi, fratel, l'ascoso Senso non colgo, la pietà del cuore Sento nel pan che dài. Una sola bontà forse ne spinge Per i sassi del mondo Verso un fonte che scioglie i tristi arcani.

"Rotta questa di carne e d'unghie e d'ossa Compagine diversa, Nel ben comune scioglierem le voglie Or impedite, e cara In altri mondi men ricchi di mali Sarà di questo incontro la memoria.

"Però ti prego, o senza-corni, stendi La mano alla mammella E un po' del latte mio spremi a ristoro Della riarsa sete: Chè più del pane è dolce Il beneficio che si rende altrui."

Obbediente all'amoroso invito Porsi la mano e molle Trassi alle labbra il tiepido tesoro. Povera capra, addio! Se Dio tien nota, ci vedremo all'ultimo Di Giosafat in qualche ombra romita.

Perchè ride, marchesa? Se tra gli umani irsuti arido è spesso Il favellar e il vivere Qual colpa n'ha la capra? Qual colpa il servo suo quando all'altero Riso non ride e l'anima non trova?

LA FANCIULLA BENEFICA

Quando tu scendi al poveretto albergo in man recando del tuo cor la manna, ogni misero a te guarda e sorride come ad angelo suo.

La madre cui la voce acuta strazia del bambinel, che invan le batte il seno, ti saluta:—Da qual discesa a noi scala celeste, o buona?

Cercano i fantolini, alto levando le mani picciolette, onde dal tergo ti si spicchino l'ale e donde al crine tanto splendor ti venga,

inebriati al suon delle soavi parole. Ed io, quando tu passi, anch'io cerco, ma invan, dei molli piè la molle orma nel fango impressa:

chè un alito ti porta tra le case e per le vie correnti, un caldo affanno ti accende ai mali altrui, sì che non pesa a te la tua persona.

—Addio—ti gridan dalla soglia i ciechi padri che ascoltan trasognati il sole sulla morta pupilla.—Addio fanciulla, bella siccome il sole!

In tua beltà tu scendi entro gli spiriti chiusi nell'ombra, vision lucente, scendi e vi lasci un pio calor di santo raggio che d'alto piove.

Dal capezzal di gravi morbi afflitto ti chiama e bianca a te volge la testa la moribonda, quando vai pietosa tra i molti letti in fila.

Sì, tu, come la mite entra di luna luce per le finestre, ai molti mali rechi un sorriso e ancor più dolce mesci ai pianti umili il pianto.

Bontà, raggio di Dio, passa le pietre, trapassa i cuori nel dolor sepolti, di lei vivono i morti e in lei non muore chi sen riveste e cinge.

Tu, perchè buona, fatta già sicura tra noi mortali dubitosi e tardi cammini innanzi e colla mano accesa a noi rompi la via;

si che possiamo nella triste valle credere a un raggio dell'eterna Luce e sul tuo piede rintracciar la meta delle lontane cose.

IL FIUME E LA VITA

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando, Tra i rochi sassi nel silenzio vai: Donde partisti e quando E dove e perchè vai forse che il sai?

Tu mi risvegli e ti sento passare Pieno di pianti nel frigido letto: Alzo la testa, e se attendo mi pare Che meco pianga, o vecchio poveretto, Perchè sei stanco di dover andare.

Mentre riposa ciascuna persona, Tu sol non cessi dal lungo tuo guaio: Fai nel passar una romba che suona Come il girar d'un immenso arcolaio, A cui la testa lenta si abbandona.

E lento mi abbandono sul guanciale, Tornando ai sogni in cui tu piangi ancora. Qual forza ne trascina entro il fatale Corso del tempo e mai senza dimora Uomini e fiumi in un destin uguale?

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando Tra i rochi sassi nel silenzio vai: Che vai tu domandando? Segui tua forza che non resta mai.

* * *

Nell'ombra d'un altissimo mistero Nato dal pianto di fonte romita, Sceso saltando per picciol sentiero (Che per noi prende il nome della Vita) Di balza in balza con rumor leggiero

Garrulo strepitasti, o fresco umore, Di giovinezza tua cérulo e molle, Ora questo baciando ora quel fiore In un bel gioco tra le verdi zolle (Che per noi prende il nome dell'Amore).

Dai caldi soli poi fatto vorace, Più che d'acque lucente di tue spume, Sprezzasti il verde dell'antica pace Per penetrar gli abissi, avido fiume, Portando guerra come ai forti piace.

Così si ruppe il giovanil tormento Di questo cor contro le sorti cupe Del viver, nè temette lo spavento Che mugge ai piedi dell'aerea rupe, Quando si sparse la gran forza al vento.

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando, Tra i rochi sassi nel silenzio vai: Precipitar amando È legge antica che non cangia mai.

* * *

Fatta più saggia l'anima si stende In più docile corso. Ama la riva Dei campi ove più densa erra e discende L'ombra dei salci e la canzon giuliva: E lieta dona quel che lieta prende.

L'estate in noi si specchia e corre l'onda In mezzo ai fiori e in mezzo all'erbe piena: L'opra dell'uomo placida seconda Quando ai molini le sue forze mena, O d'antica città bacia la sponda.

I neri ponti dagli archi fuggenti, Gli ardui castelli e le ruvide mura Senton l'istorie delle vecchie genti, O sacro fiume, entro la notte oscura Uscir dall'ombre de' tuoi fiotti lenti.

Le sente del poeta il mesto cuore, Che ripieno di spiriti e leggende Evoca i tempi e fa riscoccar l'ore De' giorni morti, mentre il corso scende Nella barca che porta il suo dolore.

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando, Tra i rochi sassi nel silenzio vai: Proceder forte oprando Questo ti salvi se di più non hai.

* * *

Alle città siccome fresca vena Scendi di vita a rinnovar la forza, L'acqua tua lava il fango che avvelena Le dimore dei vivi e l'aria ammorza De' giorni tristi e della calda arena.

Così sognai recar, fiume regale, Ai pigri affanni l'onda de' miei canti Come tu scendi in tuo furor fatale: Così coi versi flagellar sonanti Il fango che sugli uomini più sale.

Gran sogno, ohimè… Già l'onda, ohimè si lagna D'esser poca allo sdegno… ohimè, già stanca Nella maremma s'impaluda e stagna L'acqua morta che pullula e che manca… Già della morte il mare mi guadagna.

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando, Tra i rochi sassi nel silenzio vai: Senza cercare il quando Andiamo al fine che non manca mai.

AD UN GENEROSO SIGNORE

Mugge dall'ampio casolar la mandra, Che bianco fiume a te versa di latte, Donde poi tragge il tuo castaldo un aureo Fiume al palagio: ma ti sforzi invano Esser contento. Oh perchè mai si adira Coscienza quasi vergognosa e freme Il cor, quando tu vedi a un pigro nume Fumar dell'opra altrui la valle e il piano?

Balzan veloci i tuoi cavalli al caldo Schioccare delle ferze e corre il suono De' tuoi cocchi tra i pallidi tuguri, Ove il popol si annida, ultimo gregge. Ma se dall'alto ai neri tetti il guardo Volgi, che stanno come pietre al sole, Ah delle cose il tuo pensier ravvisa L'intimo error e la spietata legge.

Non versa a te l'oblìo della menzogna Il vin che invecchia nelle oscure celle, Dolce vendemmia degli antichi tralci, Che ruppe ai padri il tedio doloroso: Nè al gioco cerchi o alla superflua mensa O al tripudio di Venere danzante, Come de' pari tuoi l'agile sciame, Contro all'acerba Idea sonno e riposo.

No, tu sei giusto. L'armonia del vero Suona com'arpa dall'esatte corde Nel tuo spirto magnanimo ed aperto Al caldi venti dell'affetto. Il trono Su cui ti diede di seder la sorte Non per stolto dominio, e ben lo sai, Fu a te largito o per sollazzo al volgo, Ma sol per esser regalmente buono.

Tu sai come maturi entro il suo solco L'opra dell'uomo, che non dorme al rezzo: Sai come, esempio al pigro, anzi rampogna, Il miel dall'arnia che più freme fili: Rompe il sasso la stilla e schiude il ferro Alla marmoree ninfe il passo e il volo: Sai come scorra, spola entro il traliccio, L'umana volontà dagli aurei fili.

Già di natura tra i più fitti arcani Leggesti fanciulletto, allor che in traccia Dei boschi andando e dei deserti monti, T'era saggia maestra la formica. Allor ti apparve l'inquieto affanno Delle cose operanti ed il segreto Della Vita, che a palmo invidia a palmo Il campo al ferreo piè della Nemica.

Fu tuo dolor la stretta onde si duole Nella viscida ragna il moscherino E del morente grillo entro la tana Miserasti tu placido la sorte: Tu non del tuo, ma del dolore altrui Doloroso ti muovi e guardi e temi Non il tuo danno, ma l'ingiuria e il fato Che all'umil giusto fa men giusto il forte.

Già con medica man indi mirasti Degli anni in sul fiorir (quando più scorre Amore ai sensi rugiadoso e molle) A far incontro al Mal colpi leggiadri: Sì che l'opra si spande, e come il sole Spazza la nebbia in fondo alla palude, È luce ove tu scendi, è vita, è pace, È perdono, è sorriso almo di madri.

E a te letizia corre incontro e ride, Se dal palagio tra gli scossi campi Al lavor de' tuoi servi arrechi il dono Della parola che le voglie esorta. Oprar con loro anche t'è bello e senti, Quando poi siedi co' tuoi figli a mensa, Uscir dal pane un pio savor di fame Ai denti ignoto della gente morta.

IL CANTONIERE

Col suon corrente la muta frangono notte le ruote. Accusa il fischio spaventevol la macchina che arriva, che brace e fumo vomita.

Passan sui piani, ove la candida neve dimora, le calde macchie del sangue, che dall'orbite i fanali biechi nell'ombra versano.

Passa ed il lento sonno e la tiepida dolcezza rompe dei baci, o tenera sposa, che voli al sospirato amplesso, un bianco lume vivido,

che getta un rapido saluto e rapido cade nel perso aere…. Morbida reclini in seno al tuo diletto e sogni nella rapita immagine,

una casetta sogni di candide nevi coperta e un fuoco e un palpito d'amor nella silente erma campagna e senza fine un giubilo;

una casetta che april di glicini circondi e irraggi il sol di fulgidi eliotropi sull'orlo d'una verde ombrosa solitudine!

Stan nelle valli coi bruni vertici al ciel le chiese; lucenti si aprono agli ozî dei palagi l'alte porte; le ville ai poggi ridono:

Gridano i borghi vivi del fremito dell'arte: Invidia agita ed Odio le case sparse nel fecondo piano, che al mio fuggir s'involano:

Tu, guardiano, pago alla povera capanna, al segno fisso, propizio genio custode dei destini erranti, ai nostri sogni vigili:

ai nostri affanni vigili: e principi rendi e tesori securi ai popoli, tu la coscienza che giammai non dorme, tu dell'amor un palpito.

Passan le genti innanzi e sfuggono come ombre labili in acqua tremula: nei carri alati van gemiti e canti, vanno le cure e tornano;

pazze alla meta le voglie corrono, corron sdraiate molli e trionfano le viaggianti vanità più stolte; tu sol, tu resti assiduo.

Al raggio fervido del sole, al perfido urlar del vento, ai geli, al piovere dell'irte nevi, a te pur sempre eguale, la tua bandiera sventoli.

Non gloria il drappo ne l'aria sventola (non è di sangue lordo e di lagrime) non rauca stride la cornetta a segno di morte…. Al ben degli uomini

sacra d'un uomo sta la miseria, sacro il dovere che sorge rigido contro la fame. Ignoto ai vivi e al tempo di te che resta?—Un numero.

A UN VECCHIO CROCIFISSO

O buon Gesù, che invecchi sulla croce, Scendi, ripiglia la tua veste bianca; Vedi l'umanità, che a te la stanca Mano distende e stanca alza la voce.

Il morto capo sgombra dall'incenso In cui ti celi all'occhio dei meschini; Dalle valli, dai monti e dai confini Ultimi ascolta un singhiozzar immenso.

Scendi dal legno e le stecchite braccia Sciogli, a stringere il mondo un'altra volta, La tua greggia, o pastor, che va disciolta, Teneramente al cor stringi ed allaccia.

Non vedi il nembo presso all'orizzonte Già grave d'odio annuvolar la terra? Dall'odio seminato urla la guerra E volge sangue della vita il fonte.

Indarno il lento cantico di pace Mandano i sacerdoti alla tua croce, Chè rauca è fatta al chèrico la voce E ignoto il libro tuo nel tempio giace.

Regna avarizia dei potenti in cuore Famelica, e di lacrime si pasce: Onde mal nasce e invidia già chi nasce Il sonno a quel che affaticato muore.

Scendi; ritorna nella veste bianca O del pietoso Amor biondo profeta! Anche una volta l'aspre voglie accheta, Sfamaci, o Padre, poi che il pan ci manca.

Sull'orme tue risorgeran gli ulivi E stilleran dalle tue man gli unguenti Dietro al profeta torneran le genti, Recando in braccio i pargoli giulivi,

Vieni nel tuo splendor mite, siccome Il dì che andasti placido sul mare; Il popol vieni, Amico, a consolare, Che mal si segna nel tuo santo nome.

PARTE II

LE VAGANTI IMMAGINI

CANTILENE DI NATALE

I.

Vorrei, se fossi il Re delle magìe, Stender stanotte un bianco ampio mantello Di neve sopra i tetti e per le vie E in ogni casa alzare un focherello.

Al suon di pastorali melodie Andrei pel mondo in groppa a un asinello A scongiurar gli affanni e l'altre arpie, Che stridono l'ingiuria al poverello.

Tornar farei gli arcangeli dei morti A rendere alle madri lagrimanti Con un sorriso i pargoli risorti;

E a quanti sono derelitti amanti, A quanti sono generosi e forti Farei nel core gli amorosi incanti.

II.

Allora, o verga magica, vorrei Stender lunga una tavola imbandita A fiori, a lumi, a lucidi trofei, Colma d'ogni allegrezza più squisita.

E Siri e Turchi ed Arabi e Giudei, Misti al popol di Cristo che ne invita, E ciechi e vecchi logori vedrei Inebriarsi a una seconda vita.

O festa lunga fino all'orizzonte! Verrian dal mar le navi pellegrine, Verrian dai campi i miseri e dal monte,

Verrian gli afflitti e l'anime meschine, Ch'han la vergogna ed il delitto in fronte, A chieder grazia, disciogliendo il crine.

III.

Al nuovo cenno si aprirebbe il coro Del paradiso e giù dagli sgabelli Vedrei scendere i santi in veste d'oro Luminose le barbe ed i capelli.

In litania d'amor, nel concistoro S'udrian cantar cogli esuli fratelli: IN TERRA PAX, IN TERRA PAX… e a loro Dal cimiter rispondere gli avelli.

E rose e perle e di mille colori Le gioie spargerei sul mio cammino, Adornando di lauro ogni stamberga.

Quando il gallo cantasse a mattutino, Vedreste, o bimbi, un gran giardino a fiori, E tramutato il mondo in Norimberga.

IV.

Stanotte a mezzanotte, quando spunta La dicembrina luna, Andiam, devoti amici, sulla punta De' piedi a meditar presso una cuna.

Nel tenero sorriso De' bimbi che riposano È in terra un luccicar di paradiso.

A mezzanotte fra tintinni e canti Per una liscia scalinata d'oro, Scende nei sogni loro Iddio con tutti i santi.

* * *

Se Dio tu cerchi invan nella morente Speranza dei mortali, E stanche in ciel va dibattendo l'ali La superba ragion che il dubbio espia, Oh credi almeno a questa poesia! Fin che sorride un piccol innocente Nei sogni della culla, È Dio che dolcemente Colla ragion dei padri si trastulla.

LA CHIESETTA

Sul sasso ignuda sta, carca le spalle D'anni e di doglie la chiesetta antica; Dal fondo guarda a lei tutta la valle, Come tu pensi alla lontana amica. Apresi a stento un praticel davanti Tra gli orli dell'abisso e il vecchio muro, Che le scosse sentì di non so quanti Secoli e sta di sua bontà sicuro, Una sola è la squilla, agli echi tutti Nota del monte e povero è l'altare; Un Cristo piange il suo dolor dai brutti Occhi tra ceri stanchi d'aspettare. Aspetta stanco anch'esso un cataletto Che un qualche morto a scuoterlo si muova; Per l'ampia soglia luminoso e schietto Entra il sol, entra il vento, entra la piova, Entra del fieno l'alito e dei fiori, Entran le rondinelle, entrano i cuori.

CANZONETTE DI PRIMAVERA

I.

La bella primavera, o cittadini, Di violette adorna, Ecco tra noi ritorna. April l'accoglierà ne' suoi giardini E sotto i pergolati Di fresco inghirlandati,

Uscite ad incontrarla, o quanti siete Belle fanciulle e quanti Desiderosi amanti: E voi, che vecchi stanchi, non potete Discendere le scale, Correte al davanzale.

Ella sen vien di molli aure vestita Nel rugiadosi umori Il sen colmo di fiorì: E dove passa colle rosee dita Crolla le siepi e scioglie Del mandorlo le foglie.

S'increspa il flutto e brilla Bianco nel prato il torrentel; sul clivo S'illumina ogni villa. Andiamo ad incontrare, O cittadini, in lungo stuol giulivo Le rondini sul mare.

II.

Di raggi d'oro il sole Rallegra le finestre: E dalle stalle fuggono le fole, Che le comari al novellar maestre Allungan, quando fiocca, Sul filo della rocca.

S'apre il mattin. D'argento, Fanciulla, è l'alba e ride: Tu la mantiglia sciorinando al vento, Scoti la polve e le lusinghe infide, Che in mezzo a false rose Il carneval vi pose.

O mio dolore assorto, O miei pensieri bruni, Itene fuor, libratevi nell'orto A far bisbiglio tra le siepi e i pruni: E vi trasformi il sole In rose ed in viole.

LASCIAMOLE VOLAR….

Alle allieve del Collegio Bianchi-Morand l'ultimo giorno di scuola.

Apriamo le finestre oggi a costoro, Apriam la gabbia d'oro, Lasciamole volar queste figliuole All'aria, al verde, al sole.

Già troppo le vedemmo gli occhi inchini Sui vecchi libri e sui gualciti lini A tessere la vita Rinchiusa e scolorita.

Mal tornan le viole Entro il recinto oscuro, Lenta si svolge abbarbicata al muro L'edera senza sole.

Oggi le chiaman dall'erbose rive Dai margini fioriti a larghi gridi Dai numerosi lidi Del mar, dalle cascate fuggitive

Le liberali voci di natura A respirar la pura Energia della vita tutta quanta Che gioca, ride, canta.

Lasciamole volar. Le selve, i piani Han bisogno di voci allegre e oneste Ahimè! già troppo meste Son le giornate dei lavori umani….

Queste alle selve, ai monti Vadano, il crin fiorito Degli altri uccelli al gorgheggiante invito A farsi belle a specchio delle fonti

Nel sangue che scintilla Più vivo balza il cor che lo riceve Divina è la pupilla Che più lembi di ciel dischiude e beve:

Quanto rapì nella stagione oscura Il pigro e curvo inverno, Col suo tesoro eterno A cento a cento renderà natura.

Il sol che pinge i fiori Il mar che mai non posa Ritornerà sui languidi pallori Il bel color di rosa.

A lor che un giorno soffriran la guerra Dei torbidi elementi Giovi produrre le radici in terra Profonde e dar tutta la chioma ai venti.

A lor che un giorno forniranno i nidi Nei verdi amplessi ai teneri usignuoli Tornin benigni i soli Tornin le brezze degli aperti lidi.

Lieto trionfo nostro Sarà quel dì che sulle belle gote Vedrem stampato in rubiconde note Quel che scriviamo in troppo nero inchiostro.

Volate dunque ad imparar la grande Storia che parla e vive Nelle libere cose. Iddìo la spande Nell'universo e in mezzo al cor la scrive.

Nell'ampia scuola ove il saper si stende Del ciel, nel libro aperto di natura Ragiona una scrittura Che molte cose insegna a chi la intende;

Per gli stellati numeri si svolve Una dottrina arcana Che tutta passa della scienza umana La radunata polve.

Questa dolce sapienza or dunque cada A voi nel grembo e vi rinfreschi i cuori Siccome la rugiada Che rende sul mattin l'anima ai fiori

Volate dunque e sia festoso sciame Di rondinelle ai grandi voli esperte; Se del saper vi pungerà la fame Qui troverete le finestre aperte.

I CONSIGLI DEL VECCHIO MARINAJO

Che la tua nave o figlio abbia buon legno, Che ben si regga sui fasciati fianchi, E scarsa all'uopo ove una cosa manchi:

Dico la forza natural del core, Che guarda le tempeste, e soffre, oblia La noia e il male dell'incerta via.

Vero padron dell'acqua e degli scogli Solo è colui che nel voler ripone Dell'arrivar la scienza e la ragione.

Questo più che il timon, più che le vele, Più che la scienza delle astruse stelle Ti caverà dal sen delle procelle.

Nè per rumor di ciel, nè per incanto Che dalle rive a te mandi l'invito Tu dalla rotta non piegar d'un dito,

Ma sempre va dentro la notte oscura Col lume a prora della vecchia fede, Ch'oltre la notte e le tempeste vede.

Stolto è infierir coll'onda o contro i sassi O colle rauche spume. Avanti! aspetta A far dal lido una miglior vendetta!

L'agili brezze, i molli increspamenti E gli abbracci del mar, sono pei forti: Restano i cataletti agli altri morti.

È il mare, il mare il campo di battaglia; Morti ci culla e ci porta alla sponda L'irrequieto palpito dell'onda.

Il pigro no, meschin, nè il sonnecchiante Non l'incostante o il pazzo arrischi il mare, Ai vili resta il bere o l'affogare.

Sempre arriva chi vuole, e sempre vuole Chi sull'antenna innalza una speranza E nel pensier di chi l'aspetta avanza.

IL MAESTRO CONTENTO

Purchè d'inverno il fuoco non mi manchi E un botticel nell'angol del camino, Mi creda, professor, rinuncio ai banchi Dove lei spiega il greco ed il latino.

Che vuole? l'aria è pura alla campagna E sdrucciola dai monti imbalsamata: Il sole, grazia a Dio, non si sparagna Nell'abbaino un tanto la fiammata:

Ma schiara i muri ed entra da padrone Ad asciugar i travicci tarlati, Scaldando l'ali d'oro a una legione Di farfalle, che brillano sui prati.

Esco al mattin, ove qua e là si perde Un sentierol che mena alla ventura Fra due file di salici e nel verde Delle foglie che fremon la frescura.

Vado lungo il sentier, la mente e il cuore Che svolazzano via secondo l'estro, Finchè dal campanil, sonando, l'ore A scuola non invitino il maestro.

Ritorno e avvien talvolta che da un denso Cespuglio io tragga i renitenti fuori. Ma del cespuglio, quando ben ci penso, Siam noi le spine ed essi sono i fiori.

Son cento insieme, ma trecento, mille Se parlano e fra tanto ondeggiamento Di teste bionde spiccan le pupille, Come lucciole in campo di frumento.

E quando al cicalìo segue la pia Cantilena al gran Padre dei bambini, È inutil, professor, ch'ella mi stia A citarmi i suoi Greci e i suoi Latini;

Allora provo—e piango—un senso nuovo Come se navigassi in un gran mare…. Un non so che, mi scusi, che non trovo Nei libri che m'han fatto studiare.

Fra quei piccini dalle mani ladre, Dai musi tinti e che non taccion mai, Vi son di quei che chiamano la madre Ita lontana, assai lontana, assai….

Vi son cervelli modellati a stampo Dei crani d'una volta e ingegni vivi In cui divin guizza talora un lampo…. È il pan che manca che li fa cattivi.

Io penso (se tra i banchi una lacuna Ricorda un saggio che morì giocando) Che mal si resta a specular la bruna Ora di morte e a ritardarne il quando.

Bello il morir, quando s'ignora il mondo, Piegando come un uccellin la testa. E il funeral, spettacolo giocondo, Si fa con fiori e le campane a festa.

Qui nel mio seggio in legno di castagno Io sono quel che son, nè i birbi sanno Che sol trecento e trentatre guadagno Lirette magre quanto lungo è l'anno.

Non sanno i punti che nel vecchio tema Dello sdruscito ferraiol ricamo: E note son che valgono il poema, Come fa lei coi classici, mettiamo.

A sera il luogo è bello entro un tranquillo Vïal divago al cimiter pian piano; Brillan le stelle, si riscuote il grillo E dei fanciulli il chiasso da lontano.

Sì, quando un giorno essi diranno (il volto Fisso al cancello l'uno all'altro in spalla) —L'han sepolto laggiù, l'hanno sepolto….— Io dal cespuglio balzerò farfalla.

LA VILLETTA CHIUSA

Chiusa e muta ogni finestra Sta il casino abbandonato Nel giardin giallo di foglie: Il novembre sulle soglie E sul verde assiderato Pioggia e neve insiem balestra.

La vagante e già si spessa Di profumi ampia liana Cade affranta lungo il muro: Nel bacin di marmo puro Più non mesce la fontana L'onda a specchio di sè stessa.

Freddo versa l'occidente Un chiaror quasi lunare Sul balcone delle rose: Stanno immemori le cose Tra i lenzuoli ad aspettare Nell'interno oscuro, algente.

Tornerà l'aprile in fiore, Sarà lieta ancor la gronda De' tuoi gridi, o rondinella: Al balcone ancor più bella Tornerai, signora bionda, Al fiorir d'un nuovo amore.

Ma in un cuore già fiorito, Se il crudel dubbio si avanza, E la fe' muore di gelo, Più non torna amico il cielo, Più non si apre alla speranza Un'amore intirizzito.

DOPO LA PIOGGIA

Fra i corni della Grigna apresi e pare Una scena di mare umido il ciel: E l'aria vaporosa Come sul corpo di novella sposa Cinge alla vetta rugiadosa un vel.

Scendon le nubi che trasporta il vento, Lasciando un lento strascico regal Che s'imporpora al sole: Si screzia nel color delle viole Il trasparente lembo boreal.

Dentro le valli a corsa si allontana E si rintana il carro aspro dei tuon. Qui salta ilare il fonte Che fa la barba bianca al vecchio monte, Empiendo il sasso d'un pazzo frastuon.

O ristorati dall'iniquo caldo, O di smeraldo prati, o vigne, o bel Poggio di folti ulivi, Alfin vi vedo morbidi e giulivi Della frescura che a voi diede il ciel.

Io no, che sempre sitibondo e roco, Dall'alto invoco un refrigerio al cor; Ma per mutar di vento, Raccolto appena il desiderio, sento Che torna in polve il desiderio ancor.

IL FUNERALE DEL POVERO

Il morto passa in mezzo al rumor grande Della città, che brulica e non sente La voce che dal feretro si spande… Ad altre cose ha da pensar la gente.

La gente?—butta la spregiata creta Nell'angolo dei cocci e passa via. Oh ch'io ti segua, io sol, zoppo poeta, Col mio rosario e colla fede mia:

"Ave, corpo mortal, in cui piangea Tra duri ceppi l'anima divina, O rozzo vaso d'un'eterna Idea, O diroccato altar, ave, o rovina!

"Ave, spirto immortale, che s'inciela A terger l'ali in più sereni amori. O sfuggita da sozza ragnatela Farfalla nata per gli eterni fiori.

"Tu scendesti una notte al lume bianco Degli astri in mezzo ai campi, ove ti accolse La madre poverina entro il suo fianco; Poi de' suoi baci tiepidi ti avvolse….

"Era di sangue e latte il picciol viso, La bocca era una frugola vermiglia: Il cor nel dolce mar degli occhi fiso, Tutta stringendo in te la sua famiglia,

"Contemplò la tua mamma una gioconda Serenità che valica i confini Della mente e che i sensi umani innonda: Amor ti sprimacciò gli stracci lini.

"Di tua magrezza vergognoso al sole Quindi posando sul materno petto, Nel bel canto imparasti le parole Che schiudono le porte all'intelletto.

"Poi corresti, fanciul, scalzo nel giallo Frumento a fare l'eco alla cicala, E a te dalla cascina ilare il gallo Rispondea starnazzando sulla scala.

"Natura, al poverin sempre gentile, T'empiè di bacche le siepi e di more, Nè ti rifiutò del lieto aprile Un bel raggio e d'un prato il più bel fiore.

"Te respinto dagli usci alfin raccoglie Nelle sue braccia e t'offre un cataletto Entro un lettuccio squallido di foglie Pur dianzi cadute a farti il letto.

"E ancora, o Madre pia, culli i tuoi morti A un modo istesso e il nome non ne chiedi; Di pratoline e di virgulti smorti A tutti una ghirlanda alfin concedi.

"Ave, corpo mortal, in cui piangea Tra duri ceppi l'Anima divina, O rozzo vaso d'un'eterna Idea, O diroccato altar, ave, o rovina!

IL FABBRO

Tra i muti casolari odi frequente il suono che rimbalza sull'incude: è Bellincion, che colle braccia nude batte il ferro rovente.

Ei sta fosco Vulcan da mane a sera al mantice, al martel, alla tenaglia: batte, inchioda, arroventa, il ferro scaglia rosso nell'acqua nera.

Copron serrami e toppe aspre e ferraglie l'affumicata volta della muda: ansa la vampa sulla carne ignuda le sue stridente scaglie.

Grida al compagno e cade in una dura danza la solfa delle salde braccia: tuona il martel, che rompere minaccia le costole a natura.

Se il vino canta e scalda il sentimento, piomban sì giusti i colpi del martello, che la torre merlata del castello balla sul fondamento.

Quindi egli siede ai caldi occhi del sole sull'uscio e in così grasse risa il pane accompagna che fuggono lontane le donne alle sue fole.

Oppur si piglia in braccio o sui ginocchi un suo vezzoso bambinel di latte: e le morbide incudini gli batte, soffiandogli negli occhi.

Dell'uom barbuto e nero il picciol fiore mitiga i sensi e le parole audaci: scendon spesse carezze e scendon baci che fan rovente il cuore.

I VECCHIETTI

—Quanti anni son passati, Anselmo? venti trent'anni che si viene insiem noi due a goder questo fresco? —Se ti senti ancor padrone delle gambe tue, o che importano i venti ed i trent'anni? ognun si aggiusta colle forze sue. —Sta ben! ma Giovannin non è Giovanni; e settant'anni sulla gobba un peso sono, che pesa settecento affanni. —Settanta è un bel fardello, ben inteso… —Or ti zoppica il pie'…. —Ti manca il fiato: —L'occhio ti trema dalla luce offeso: —Lo ragazze non sanno che sei nato: —D'accordo…. le ragazze. Oh che vorresti che inseguissero quello ch'è scappato? —Di dosso, gua', ti cascano le vesti: —E gli scalini? un sito non c'è dove non sian tropp'alti, orribili, molesti. —Se fai di camminar tre o quattro prove, sudi in gennaio e ghiacci sotto il sole; è brutto quando è bello e quando piove. —Per me il difficil sta nelle parole: penso a curato e dico cardinale, e la gente non sa quel ch'uno vuole. —E le gazzette? —Se le stampan male! —E quel che stampan? —È l'ira di Dio d'ogni ordine politico e morale. —Non è che un litigar sul tuo sul mio, di cani e gatti un odio vergognoso. —E le leggi? —Le leggi un arruffìo. —Davanti a questo vivere odioso, se l'impiccarsi un'eresia non fosse, cosa indegna d'un uomo religioso, guarda m'impicc…. uh! uh! —Gianni, che tosse! e che ci fai? —È un mese che la curo. —Provasti le pastiglie Delafosse? —Fanno bene? —È il rimedio più sicuro. —Dove si piglian? —Sai, quello speziale che sta vicino a San Giovan sul Muro… —Corro. Non vo' che invecchi, io, questo male.

LE DUE POESIE

—Buon dì, signor Maestro. —Bravo, sei tu, Marcello? e a quando queste nozze? —A quando? Iddìo lo sa. Son disperato e temo già d'esser fritto e bello spacciato. —O che mi dici? —Che l'è un'iniquità. S'è messa sui puntigli, mi fa le brutte scene: dice che non mi vuole e non vuol dir perchè. —Un caso grave insomma. Però tu le vuoi bene. —Lo cerchi come il mio un altro ben, se c'è. —Ci vai? —La non mi guarda. —Scrivi una bella lettera, in cui le tue ragioni esponi come va. Le dici che tu l'ami, che sol disposto.. eccetera.. a far ogni promessa. —Sta bene, ma c'è un ma. Lei sa come si scrive noi dotti poverini: il nome o bene o male, un te lo mette giù; ma il core ti s'impiglia in mezzo a quegli uncini per poco che tu voglia estenderti di più. Se lei me la scrivesse la lettera? —Ti pare? e che le devo dire? —Ma scriverla per me. —S'intende, la tua Lisa non te la vo' rubare. —Le dica che fa male, che una ragion non c'è, Le dica che non dormo da dieci notti intere, che così non la posso durare un pezzo ancor; che se proprio si ostina e non mi vuol vedere io…. io…. per quanto è vero che credo nel Signor, io che ho già la febbre e l'anima avvilita uno di questi giorni una pazzia farò: o che mi ammazzo… —Aspetta che trovo una matita; —o ammazzo lei, capisce? —Lisa? ammazzarla? oibò! —Se buono sono e tenero, non c'è ragion, perdio, che come un can soffrire mi facciano così: e se c'è qualche terzo che tocca ciò ch'è mio, scriva pure che come mi vede adesso qui, non ho paura. Venga colle ragioni sue, foss'anche il brigadiere, in un campo quaggiù, Scriva che, se li trovo, li ammazzo tutti e due, come due can' li ammazzo. —È amor questo, Gesù? O falso è Metastasio od io son rimbambito senza capir un'acca di quel che sia l'amor. —Ora però ha capito. —Capito, arcicapito. —Li ammazzo tutt'e due. — Accetta, o bella, un fior! —Se non mi farà piangere, morir di crepacuore, se ancora la mi stende con cortesia la man, non più vino e bestemmie, ma sol casa ed amore sarò per lei, paziente, onesto cristian: dica che tutti gli angeli non valgono un capello della mia Lisa e un bacio di lei vale per me il sol, il paradiso…. —… la luna… Tu bel bello mi fai scrivere un libro. —Ma lei saprà cos'è questo tormento e a lei non manca la grammatica, E Dio la benedica, Maestro; tornerò. —Addio: ma in queste cose che conta è più la pratica, la pratica, la pratica, ahimè, che più non ho.

O divo Metastasio, ed io son rimbambito, credendo che una cosa fosse così così tra il chiaro della luna e il giùggiolo candito, Amore… C'ingannammo: e t'ingannai, Mimì. Perdona alla grammatica, perdona anche ai poeti, mia vecchia, e facciam voti che si rinasca ancor. Ma se si torna a nascere, restiamo analfabeti, perchè l'altra non guasti la poesia del cuor.

LA SARTINA

—Aiuto, aiuto, olà… di quà… correte, S'è buttata nell'acqua una ragazza. —O poverina! com'ha fatto? è pazza? —Sarà la storia solita, sapete.

—La portan fuori. —Bravo il bersagliere! —È morta? —Vuol spirare ogni momento. Indietro…. per di quà… fate piacere, Oh signor benedetto, che spavento!

—L'avete vista? —O Vergine dolorata, Ha un viso bianco come un pannolino. Fa la sartina ed era innamorata D'un zerbinotto. —È morta? —Il signorino,

Quando fu stufo ha dato un bel saluto (È la solita storia!) alla biondina. —Per divertirsi è buona la sartina, Ma si sposa il vestito di velluto.

—Gliel'ha scritto. —E la Clelia? —Nulla ha detto. Pareva anzi, a vederla, indifferente: Se il traditor le aveva il pugnaletto Ficcato in core, che ci fa la gente?

—Stette tranquilla tutto il giorno. A scuola Andò siccome il solito: non dette Alcun segno di smanie o di vendette, E a casa non ne disse una parola.

—Cenò colla sua mamma; e quando questa Fu andata a letto, scese sullo spalto Ch'era già buio e raccolta la vesta, Si buttò dentro l'acqua con un salto.

ANGELINA

PER NOZZE

Madonna, a cui degli Angeli è il bel nome e l'innocente riso, s'io possedessi il delicato stile, onde vanno lodate ancor le chiome di Laura e lo saranno eternamente, farìa di voi, Madonna innamorata, innamorar la gente.

Un lieto spiritel d'amor gentile saltò nel core a Quei che in voi si specchia come in sua dolce stella; mentre che passa il giovinetto aprile, ite al trionfo dell'amor, voi bella ed egli forte di virtute onesta; ite e vi accolga nel suo caldo raggio padre fecondo il Maggio.

Se ciò Ragione con Amor comanda, altro non resta a noi che il coglier fiori e fare una ghirlanda.

MARIA

PER NOZZE

…………………………………… O ridente Maria, picciolo albergo come alveare ove l'industria e l'arte alzan piccioli lari, ove si accosta il desiderio a mendicar sommesso e frettoloso vi fiammeggia il sole, queste le nostre case. Alla finestra ove per uso sederai traendo il filo entro la chiara onda del giorno l'ore vedrai discendere graziose come foglie da scossi alberi al vento sulla tua testa e sul tuo cuor, Maria, e te beata!—il cielo innanzi aperto una picciola selva ivi raccolta sul davanzal e giù nel sottoposto giardin il verde tremulo che sale dolce al guardo teatro e alla speranza: Il saltellar, il cicalar perduto dei passeri sul tetto allor che accade pien di pace il meriggio; e il suon d'un passo che ritorna improvviso a te le care queste saranno ripetute gioie che, traboccando, non sa dar la spuma del profano piacer.

Altre dell'ara domestica languir lascian la fiamma vestali dissipate: ad altre il gioco piace e la mesta vanità di un'ora agitata ove più ferve il periglio men di pugnar che d'esser vinte altere: Tu, sacrata dal pio raggio materno, uscita or or dalle materne dita, farai tua festa il governar, succinta Penelope al mattin, in pria che l'ora entri a rider d'entrambi: e poi col canto non meno sgombrerai dagli occhi altrui che dagli angoli intorno la tristezza: finchè non torni ripercosso in molte labbra il tuo riso tenero nascente a far la casa risonar del padre, come al sol che li scalda alzano i nidi un mormorio che tutto agita il bosco.

L'ACQUA E IL SASSO

Dice l'Acqua al Sasso:—Io garrula Rompo al monte gli aspri fianchi, Fresca scendo ai campi, agli aridi Cespuglietti, ai fiori stanchi: Di mia voce apro il silenzio Delle valli e rido al cielo: Sempre lieta ad un'incognita Meta io scivolo ed anelo. Quando mai tu muovi un passo? Nel mio corso io sono il simbolo Del progresso che si avanza….

—Ed io sono la Costanza!— In suo cor brontola il Sasso.

IL SORRISO

( Duetto per Mandolino e Chitarra )

IL MANDOLINO - Ridi, sorridi, Carolina: il riso Al cuore è un elisir soave…. LA CHITARRA - e buon.

IL MANDOLINO - Più dei colori di un lieto viso, Più che la pallida malinconia, Che l'occhio ottenebra talvolta a sera Della pensosa padrona mia, Più che la bionda treccia o la nera. O Carolina, amo il sorriso, Ridi, sorridi, mentre è primavera LA CHITARRA - Chi tardi ride ride fuor di ton.

IL MANDOLINO - Se come morbide piume le nude Mani trascorrono alla carezza E fanno spesso pallido il viso, Come sul mare vivida brezza, Che i flutti increspa, erra il Sorriso E il mar dell'anima agita, schiude. Ridi, sorridi e lascia che l'ebbrezza Dello spirito scorra.. LA CHITARRA - in lieto suon.

IL MANDOLINO - Altri di Venere vanti le rose E il pie' che candido il marmo imita, O vanti i glauchi occhi di mare. Sol nel sorriso scorre la vita E rider senti tutte e parlare Quante già furono donne amorose. Ridi, sorridi e lasciati adorare. LA CHITARRA - Chi non ride è una mummia od un birbon

PREDICHETTA

—Sì, vivremo al di là, belle signore, Del ciel a tutti aperta è la gran strada, Ma non si deve credere Che bastino i rosari o che si vada In carrozza alla casa del Signore.

E non basta tienimeli, ve l'assicuro, Il far di magro e d'olio, o al Santo Padre Mandar ricami e ninnoli O a rischio di parere più leggiadre Vestirsi la quaresima di scuro.

Perchè possa al di là viver ciascuno È della fede mia primo argomento Che è d'uopo saper vivere Molto bene al di quà, fare per cento Il bene e non vantarsene per uno.

Chi sè confronta spesso al poverello E sol per sè non si condisce il pane Costui potrà risorgere Nell'alba luminosa del domane, Che preludia ad un vivere più bello.

Chi si contenta perchè mai di pianto Fe' spargere una stilla e tutto ha sciolto Verso il fratello il debito In fredda pace dormirà sepolto, Ma l'alba non vedrà del Giorno santo.

Sol chi dai cuori toglier sa le spine E ristorar gli inariditi steli O sa pietoso scorrere Sull'umano fallir…. quei rompe i cieli E schiude il tempo che non ha più fine.

Voi non vivrete bigottine avare, Che offrendo al Sacrè Coeur l'essenza e il fiore Dei vostri oziosi spiriti, Or cercate all'altar, ora all'amore Un passatempo che non sia volgare.

Chi troppo il corpo suo carezza e loda Non andrà tra gli spiriti immortali Che a Dio fan corte e gloria; All'alto volo si domandan ali Che Parigi non mise ancor di moda.

FESTE E GLORIE

BRINDISI DEI TIPOGRAFI

FERRAGOSTO

Stampiam nel vivido Color del vino L'allegro brindisi; L'ore s'affoghino Del reo destino In fondo al calice.

Coro Stampiam col vino.

Un giorno i monaci Sopra i salteri Alluminavano I larghi margini Curvi e severi Coi volti pallidi.

Coro Sopra i salteri.

Taceano i gotici Archi, o soltanto Le malinconiche Ore del vespero Rompeva il canto Tetro di Davide.

Coro Sia lieto il canto.

Ecco di Guttemberg L'arte risplende! Come dal Sinai In nuove tavole Ecco discende La legge ai popoli.

Coro Onore a Guttemberg.

Scosse dal magico Spirto inquïeto Dal chiostro fuggono Sciolte le lettere Dell'alfabeto In nozze libere.

Coro Dal chiostro fuggono

Si sbigottiro Alla malìa I vecchi secoli: E si difesero Con una pia Giaculatoria.

Coro Si sbigottirono

Noi di fuligine Suffusi e forti, Urtiam le macchine, Che acute strillano Destando i morti Dentro la polvere.

Coro Sorgono i morti.

Ai colpi cedono Della tempesta I monti. Ai ruderi Cedono i ruderi: Il libro resta Tempio granitico.

Coro Il libro resta.

Cedono al vecchio, Che gli anni fila, Sfingi e Piramidi, Ed è l' Iliade De' suoi tremila Anni ancor giovane.

Coro Cantiam l' Iliade

Stampiam nel vivido Sangue latino La bella Italia Cinta di lauro. Stampiam col vino Viva l'Italia.

Coro Viva l'Italia!

Stampiam sugli angoli Del Bel Paese Dei nostri martiri Che trapassarono, Le sante imprese, Le glorie, il numero.

Coro Onore ai martiri!

Al lieto applauso L'ombre usciranno Del vecchio Panfilo, Degli Aldi a bevere Il vin dell'anno Nuovo in un brindisi.

Coro Sia gloria a Panfilo

Dei nostri pargoli Nel bel candore Stampiam la vergine Fede coi teneri Baci.—L'amore Stampiam nell'anima.

Coro Stampiam l'amore.

A VICTOR HUGO

SALMO

Anno 1885

Tu muori, o te felice, ultimo vate, A cui sorrise eterna giovinetta La gloria, a cui sorride oggi la morte.

Bello è il morir ove chi passa incontri Già festeggianti sull'aperta via Le create speranze pellegrine.

Ahi tristo se allo spegnersi del sole Non si ralluma una segreta lampa Nella cella del cor! Piomba la creta

Negli abissi dell'umida spelonca Ove regna la morte e si dissolve Anche l'amore al crepitar dell'ossa.

A Te i campi si schiudon della luce, A Te l'azzurro padiglion del cielo, E il fluttuante mar dell'infinito.

Dalla soglia del mondo anche dipartono Teco i fantasmi del tuo santo core: E come nebbia in un baglior di sole

Volano teco ove in lor patria stanno I sogni e stanno l'anime fanciulle Delle belle fanciulle e degli eroi.

Ecco vengon dai gotici segreti Di_ Nostra Donna_ le vaganti istorie, Teco vengon le mitiche leggende

Cozzanti nel rumor aspro dell'armi E i regi e le fortune alte di Francia E il pianto e il core dell'afflitto Reno.

A Te vengono incontro in un sereno Nembo di fiori e di farfalle i bimbi Come a padre gentil—Salve—gridando,

—Candido vecchio, o coronato araldo Della pace, o signor del dolce canto, Che porti in ciel la voce della terra.

—Noi siamo i sogni, le speranze, gli astri, Che tu chiamavi coi notturni inviti, O poeta, noi siamo gl'Ideali.

—Noi, se ci prega un pio col mesto canto, Scendiam nei solchi arsi dal sol e siamo Ai solchi la rugiada mattutina.

—Noi scendiamo alla culla ove sospira L'orfanello ed entriam larve ridenti Nella rete dei suoi teneri sonni.

—Obbedienti al delicato incanto Delle tue dita scorrerem di fiori A seminar la terra, e di sorrisi,

—Finchè ritornerà sopra i gradini Del tempo l'armonia della tua cetra Finchè un sospir mandi dal cor Natura—

O vivi, o gente altera ed infeconda, Più amor non freme nell'umana selva? Ahi, la voce di Lui spinta dal vento

Come una voce d'organo si perde Nei silenzi del ciel!—Col suo poeta Muore un raggio di Dio sopra la terra.

ALL'ITALIA

Madre ritorna, Italia, Madre de' figli tuoi, Lascia l'amor de' fatui Ed adiposi eroi, Che di lor ciancie assordano I monti, i lidi, i piani: Dai baci onde son viscide Asciugati le mani.

Non più rugosa suocera Di trapassati tempi Vantar ti senta i palpiti E gli ammuffiti esempi; Ma d'una gente libera Che i campi suoi lavora, In guarnellin più semplice, Ringiovanita nuora,

Ti vegga al sole, all'aria Nude le spalle e bruna Tra messi d'oro e pampini Coglier la tua fortuna. Così forse pel Tevere Di sangue ancor non rea Venne l'antica Ausonia Ad incontrar Enea.

Il vecchio elmo di Scipio, Che ti stracciò la chioma, Lascia alla morta polvere Dell'infeconda Roma. Sorgi, fanciulla, al tenero Sospir d'un nuovo amore Di nuove nozze a tessere La veste tricolore.

Stesa la mano al vomero, Cinta di fiori e spiche, L'opere tue vendemmia Sulle memorie antiche: Forte dall'urne esauste Di mutola rovina Il risonante spirito Aliti la fucina.

Se della lenta gondola Già il dondolar ti piacque, Dal lido a lidi incogniti Ti chiama il ciel dell'acque Novellamente a stendere Le forti reti d'oro, Che ad asciugar Venezia Appese al Bucintoro.

Più che del flauto il morbido Suon della luna ai rai, Ti sia dolce la musica De' striduli telai, Sì che procace e cariche D'oro le mani, il rude Vicin non torni a ridere Di tue bellezze ignude;

Nè de' tuoi cenci, o misera, Schifi il tesoro immondo, Che il freddo aspro sparpaglia Per l'ampie vie del mondo: Nè più muoia di lagrime Sommersa la parola, Che lieta nasce a Portici Canzone o barcarola.

Ch'io vegga, ove la querula Rana la morte insulta, Uscir dai rovi indomiti Della maremma inculta Al tocco della giovane Tua man gli aranci in fiore… Oh chi mi vieta un agile Sogno, un sospir d'amore?

Voi no, nell'armi attoniti Irruginiti eroi, Voi no, rochi di fatue Ciancie… Chi parla a voi? Ai baldi, ai forti, ai vergini Cuori distende il canto Oggi il poeta e mormora Un requie al camposanto.

ODE A VERDI

Febbraio 1887.

Se ricordi, il luogo è questo Dove un giorno al suon di spade Saltellanti per le strade, E fra pali insanguinati, Dei Crociati Intonasti il pio lamento, Che le cento Dell'Italia torri scosse, Ed i morti sobbalzare Fece all'orlo delle fosse.

Era pien di gridi il vento, Pieno il mare: E venìa per le lontane Terre il suon delle campane Calde ancor della battaglia. O momento! Il cader delle tue note Era maglio che percote, Era incendio entro la paglia.

Morta è l'aria. Più non viene De' tuoi numeri prigione Mista al suon delle catene D'Israello la canzone. Tace il monte e tace Scilla Che balzò, divino Araldo, Del tuo Vespero alla squilla. Chiuso è il cielo. Sui gradini Dell'altar spenta è la face Dell'Idea Che agli italici destini Nel crepuscolo splendea. Nella cenere dei morti Vedi i gelidi risorti Ricercar, se sopravanza, Una brace Per accender la speranza.

"Dare, avere—avere e dare" Ecco l'inno che borbotta Or la gente al santo Affare Curva e ghiotta Sul messale a conteggiare; A noi figli di mercanti Bella musica è il tintinno Del marengo quando rotola Nella ciotola.

"Dare, avere—avere e dare" Questo è il santo intercalare, Questo è l'inno, Che prostrato gracchia il coro Fra gl'incensi al vitel d'oro.

Già nel tempio, ove solea Sparger fiori ed ire sante La bell'arte, una platea Fescennina adora inchina L'Elefante. Cerco invan pudor di gota Ove ignuda salta e strilla una gallica sibilla A sè stessa sola ignota.

Se dal ciel ove dimori Nella luce benedetta Della gloria, in mezzo ai cuori Non ci scagli una saetta, O Signor degli alti canti, Una gente di mercanti, Che non canta e che non prega, Farà tempio la bottega.

Ma tu puoi, tu che raccogli, Eco eterna di natura Nella mano Il fragor dell'uragano; Tu che togli Alle selve, al mar, all'etra L'armonia che scande i cieli; E tra i fili della cetra Tu che Dio soffermi e sveli; Tu che cinto d'alti canti Quest'erranti Muse ancor ritorni a noi; Sì, tu puoi, Stretta in man l'antica tromba, Trarne un suon aspro di rame, Che ci tolga dallo strame, Che ci svelga dalla tomba.

La coscienza antica e sorda Più non ha che questa lenta Delle sette ultima corda: Se a temprar l'affetto e il canto Una mano non si attenta, Onde scorra agile e pia Della vita l'armonia, Sul liuto, ahimè! del core Il dolor va senza pianto, Senza voce erra l'amore.

ALLA TOMBA DI RE VITTORIO EMANUELE II

CAVALCATA

Anno 1885

Vidi apparir sulla strada romana Che le rovine del Foro discende, Su scalpitanti cavalli una strana Torma di spirti, il fior delle leggende.

Uscian dall'urne ove giacciono i morti Quale ciascuno il tempo seppellì: Chiusi nell'armi venivano e forti Entro i sereni splendori del dì.

Quanti mietè paladini la spada, Quanti del Cedron riempion la valle, Quanti ne vide la bella contrada D'Adige e Po, Normandia, Roncisvalle.

Quanti portaron la lancia in torneo Dell'armi degni e degli sproni d'or, Passano tutti in trionfal corteo Sotto l'arco di Tito Imperator.

Viene con lor Carlo Magno di bruno Ferro coperto, imperator sovrano, E secolui catafratto ciascuno Che strinse la quirina aquila in mano.

Cesare vidi e Traiano che tante Armi distese e nel marmo effigiò, E molle nella porpora fiammante Quei che all'Imperio le leggi dettò.

Viene con lor su tedeschi cavalli Ezio terror dell'Unnica rapina, E Stilicon che sugli ultimi valli Vide spirare la virtù latina.

E dietro ancor la selvaggia coorte Seguo sonando dei barbari re, Con Berengario primo a cui la sorte La corona di ferro indarno diè.

Ecco sen vien Arduino d'Ivrea Dentro il cappuccio del suo mesto sajo, Ma le vive speranze ond'egli ardea Mandan dagli occhi bagliori d'acciajo.

Passano cento, ne seguono cento, Dai campi sorgono e dalle città: Passati gli elmetti d'or del cinquecento, Sforza, Ferruccio, Gaston di Foà.

Le variopinte tue divise ancora Vidi e le piume e i kolbacchi di pelo, Che scongiurar una terribil ora, Eugenio, quando respinta dal cielo

Roma tremò che non vedesse il corno Della fatal mezzaluna e gridò. Ma da Belgrado non fe' più ritorno Chi la tua spada, o Savoia, provò.

Ride di luce il ciel sopra la strada Che le rovine del Foro discende, Ecco un rullo che par fulgor che cada, È la Gran Guardia che mai non si arrende.

Viene ancor esso e non agita il ciglio Placido il Grande Imperator crudel: E il bel delle battaglie Angel vermiglio Incalza i Mille e ne fiammeggia il ciel.

Tanta immortale semenza di prodi, Che nel sol mattutin s'agita, parmi Un trionfo di Numi.—Lontan odi Al Panteon salir l'onda dell'armi.

E mille voci di sotterra uscite Alzano il grido: "Salute, o gran Re! Noi di tre storie larve impallidite Come a signore ci prostriamo a te.

Salve, o gran Re, nella tomba securo, O dell'Italia paladino amante. Al suo dolor le tue lagrime furo Non men dell'opre gloriose e sante.

Per te fu vista una virtù risorta Distender l'ali cinta dell'allor, E d'una gente che pareva morta Sangue stillar l'inaridito cor.

Pria che l'amor del tuo popolo e prima Che cessi il verde onor della tua gloria Nel mar sommersa andrà l'ultima cima Dell'Appennin, o mentirà la Storia".

Mentre del canto ancor l'aer risona, Galoppa il bell'esercito pel ciel. Ma Carlo Magno lascia la corona E la spada Bajardo sull'avel.

I FRATELLI CAIROLI

Per l'inaugurazione del monumento Cairoli in Pavia

Maggio 1900

Balzan dal bronzo squallidi com'ombre Vaganti in aria bruna Nel silenzio de' cuori e di fortuna.

Ma vermigli di sangue entro i fulgori Dell'armi, vivi passeggiar la terra A seminar la guerra Delle sorti fatali.

Italia, Italia, era il bel grido. A noi Gente che tace Gridan dal bronzo i giovani immortali Ah! non sia morte il sonno della Pace!

PARTE III

GLI INTIMI SENSI

SUL CAMPO DELLA BATTAGLIA

I.

Venimmo al bivio e:—Qui—disse la guida (Un veteran tedesco)—qui si ruppe La legion dei francesi. Entro la fossa, A cui bevono i prati, a cento a cento Incalzati cadevano travolti, Dai nostri. I moribondi brancicando Tiravan dentro i vivi e senza ponte Vi passò lo squadron della Gran Guardia Coi pesanti cavalli. Altri sul posto Disceser dei caduti e novamente Si contrastò, fin che si vide il mucchio Emergere dei morti e far parete Ai combattenti. Allor fu che dal colle La mitraglia tedesca e morti e vivi Spazzò via come volano le stoppie Per il campo al soffiar dell'uragano. Un bel colpo, perdio! ma finalmente Verso sera potè l'imperatore (Che Dio salvi) passar colla sua scorta.

* * *

Proseguimmo pel campo. Essa era pallida Come uno spettro e nella mia mettendo La sua mano e coll'altra i lembi sparsi Stringendo della veste:—Ahimè!—proruppe— Non lasciar che mi afferrino codesti Poveri morti!

* * *

Il veteran cortese, A cui già sorridea dei quattro marchi Il lucente ideal, seco ci trasse Verso un ponte e:—Di qui—disse segnando Colla man la via lunga che discende La sodaglia—passò dopo la rotta Il sesto fanteria, quando improvviso Si ruppe il ponte al saltar della mina; Pel diavolo, un bel colpo! Ancor si scava E trovan ossa e ciondoli e nell'oro Chiusi sottili ricciolotti d'oro.

* * *

La meschina, la man sempre nascosta Nella mia, balbettò tutta tremante: —Quali voci usciran quindi di notte Da queste zolle? e come sboccia ancora Da tanto sangue un fiore?

* * *

Il veterano Ci condusse a veder il freddo ossario Che raduna gli avanzi. Ergesi in vetta Al poggio, in mezzo ai pallidi cipressi La smorta cripta, a cui salì per breve Scala color di cenere. Un disteso Leon sta sulla porta e va dicendo: Qui riposa il valor. Escono a fregio D'eroico stil sull'orlo delle lunghe Finestre i nudi teschi degli eroi Avidamente per le vuote occhiaie Beventi il sol. Intorno scende e tace La mal colta campagna e tace un bosco Pien di sinistri agguati e di rimorsi. Ella si strinse anche di più vicina Al mio cor timorosa e mentre l'uscio Del buio cimitero cigolava Sui rauchi chiovi a palesar la ridda Degli stinchi, inciampò lì sulla soglia, Quasi in un fiero ed insolente oltraggio Che l'afferrasse:—Oh! lascia ch'io mi sieda— Disse—qui sui gradini all'aria e al sole: Non per questo siam nate.

* * *

Il veterano Tutta sapea di quelle tibie infrante L'epica istoria, e ballottando i crani Nella tremula man, tutta mi sciolse La leggenda dell'odio ch'ei ricanta Per quattro marchi ed un bicchier di birra Com'è descritta in violente note Sopra la scorza logora dell'ossa.

II.

La man levata a maledir proruppi Allor dall'infocata ira travolto: —Il sol piombi feroce su quest'erbe Polverose, nè rivolo discenda, Nè rugiada sull'arida sodaglia A ristorar la maledetta creta, Che di sangue fremente un giorno ingorda S'inebriò. Tal sia. Possa ogni campo, Che vide un giorno scempio scellerato Far di natura e dell'umano affetto, Inaridir così nelle sue glebe! Sia maledetto il pan che da una spiga Sanguigna spremi e possa a' tuoi figliuoli Saper sì triste, che ciascun lo sputi In terra e sia di vermi anche ribrezzo! Non dei nidi di festa, non di molle Usignol suoni il pianto ove il ruggito Corse d'umane belve e scese il ferro La vita a lacerar nei palpitanti Visceri umani!

* * *

Consacrato altare È il cuor dei figli al naturale amore, Ove il trofeo dei padri si conserva E pendono le pie vostre corone Sempre verdi di preci e di sospiri, Povere madri; ma vi reca il piombo Rovina e morte. Maledetta taccia L'aria che intese e gli ultimi raccolse Arsi singhiozzi. Rondine non spieghi Per la maligna landa irta di scheltri Le memorie del mar liete e del cielo, Ma sol vi gracchi la nera cornacchia Dai tristi auguri e vagoli l'irsuto Can che la bava della febbre asciuga Nelle amare ginestre. Ove la buona Pietà fu morta, cessi anche il profumo Dei fiori sacri alla pietà dei morti, Dei fiori sacri al crine delle spose, Dei fiori onde l'altar si veste e ride.

* * *

A queste mie singhiozzanti parole Essa mi porse lagrimosa il volto E singhiozzando meco:—Oh! non per questo Siam nate—mormorò—non per comporre I figli nostri trucidati e rotti Nell'empia sabbia! non per questo il duolo Del crear ricerchiamo e le vigilie Ansiose delle culle e non di baci Infiniti copriamo i tenui corpi (Divino incanto) e non le picciolette Mani atteggiam nei lacci d'una dolce Preghiera di perdon! non per nutrire Del latte nostro una terra selvaggia Cerchiam l'amore giovinette e tutta Sveliam la grazia dei sorrisi e il sacro Mister della bellezza. O sciagurate! Tutto il tesor dei seminati grani Per le valli del mondo un sol non vale Grano d'amor che germini nel core D'un tuo dolce fratel. Ma se di tante Vedovate il dolor una non pesa Ragion di ferro, e per le figlie nostre Meglio è morir di spasimo nei tetri Asili delle vedove speranze, Maledetta la man che in sen ci pone Il cuore e in mezzo al cor il mesto affanno!

* * *

—Viva l'imperator! disse il canuto Veterano: e baciò stretta nel pugno La mercede che a lor frutta la gloria.

IL CANTO DELLA PIETÀ

Essa diceva il suo dolor. La voce Scaturiva dal cor come un gorgoglio D'acque interrotte, che fan specchio al piede D'una pallida Niobe di marmo. Anch'essa nata era di carne viva La bella donna e quel suo cuor di sasso Avea pur gorgheggiato entro la festa Degli usignoli, quando april dischiude L'anima ai fiori ed escono i profumi Dalle selve com'onda pia d'incenso Verso un gran dio.

È allor che si diffonde La giovinezza per il mondo e voce La natura non ha che non diventi Armonia sulle corde d'un pensiero Innamorato. Il cor, come rosata Conchiglia tolta ai ceruli misteri Dell'onda, emana un mistico frastuono, Che vien da un'invisibile e ritorna A una sponda invisibile, tra cui Non anco rugge la tempesta umana. E mi dicea come morì travolta Dalla sterile vita in un'angoscia D'oltraggiate speranze, invan stringendo Nella man l'ombra dei fuggenti sogni Fatti quasi rimorsi. E non bagnava Il suo mesto parlar stilla di pianto, Ch'è pur sì dolce a chi racconta i mali: Ma gli occhi aperti e cristallini tutta Rinfrangean la mestizia del deserto, Ove più non ritorna ombra di bella Cosa passata e sol vi regna il nulla Che ripensa sè stesso.

Allor si ruppe La pietà del mio cor: e col mio pianto Lei piangendo e le gelide di marmo Piccole mani accarezzando, e tutta Spirando su di lei l'anima accesa: —Ch'io senta, dissi, oh ch'io per te ritrovi Il tuo dolor, oh ch'io per te la piena Versi del pianto mio sulle tue mani A riscaldarle: e la mia mano ardente Ti cerchi il cor fatto di pietra e un fiato Passi della pietà che mi distrugge Per le rigide labbra. A desolate Rovine è vita il pio pensier dell'uomo, Che le penetra spesso, onde par quasi Ch'escan le storie più lontane e torni La voce delle cose. Io so che a qualche Simulacro sepolto la carezza D'un amoroso artefice ha potuto La bellezza ridar d'una divina Luce scomparsa e l'immortal sorriso Che fu delizia già del mondo. O estinta Ove scenda la mia che ti carezzi Spiritual pietà, di fibra in fibra Trascorrerà la vita, delle spine Risentirai la punta e colar sangue Vedrò dalle tue carni e gli occhi pregni Farsi di pianto e trasalir le membra Entro i soavi spasimi—soavi Se ci fan questa vita anche una volta Ritrovar sul cammin della speranza. —Nulla può—mi rispose—a un corpo morto Pietrificato in un dolor eterno Dar vita e forza, non s'altri lo ponga Nelle fiamme del sol. In me già spenta È la memoria d'ogni antico sogno E giace il desiderio in un oscuro Angolo come spada irrugginita: Lascia ch'io posi qui sul mio sepolcro Statua dolente di me stessa morta, In fin che il tempo colla lenta ingiuria poco a poco il mio nome cancelli Dalla pietra e la gialla edera stringa Del mio destin la bruna urna caduta.

* * *

Così dicendo, aprì gli occhi solenni, Che parver vuoti d'ogni idea e fece Infine al fondo a me tutta palese L'infinita tristezza. Un senso oscuro Quasi di morte allor mi assalse e curvo Sopra i ginocchi, al suo rigido corpo Appoggiato, intonai l'inno del pianto, A cui dal sen delle dolenti cose Mille voci risposero piangendo. Un fremito mandò scossa la selva Pei rami infranti e dei rapiti fiori Si querelò sul margine il cespuglio Delle rose di maggio. In un lamento Singhiozzando la tortora proruppe Dall'alto nido e raccontò l'angoscia Dei rotti amori. E fin dentro le grotte Del cavo tufo risonò la lenta Storia d'oscure lagrime stillanti, Di cui le ortiche pasconsi e s'imbeve L'orrida spina. Dai meandri, in cui S'appiatta il verme, un susurrìo di duoli

Venne a narrar come si soffra indarno Di vita fin nell'ultime radici Poi che una legge di dolor governa I sostegni del mondo e sol si pasce Di sè stessa natura. Ecco non una In braccio al vento trema arida foglia Senza dolor, non sfiorasi una siepe, Ma quando autunno misero sparpaglia Per le fredde campagne quasi un sciame D'anime stanche, stridono i viali Che le vedon fuggir e lunghe stendono A lor le braccia gli alberi morenti Sopra i bianchi crepuscoli.

Più triste Sarìa di quest'uman gregge la sorte Nella valle del duol ove non fosse Della pietà la lagrimosa fonte A ristorar le forze inaridite. Forse a rimedio d'immutabil sorte E d'inconsulto error questa nel coro Ci pose un dio di lagrime sorgente, Che sovra i mali ampia trabocca e spegne Di molti mali il furibondo orgoglio. Sgorga la fonte e qual si apre al ristoro Della rugiada un fior consunto, un fiore Torna così di pallida speranza Sulla tomba dell'anima e diffonde Il non morto profumo. Essa è divina E vien da noi questa bontà del pianto, Che benedice alle morenti cose E le morte consacra. Ai colpi acerbi Della forza che strugge, una gentile Forza che sana contrappone e tragge Dall'ingiuria l'amor. Ove non fosse, Nido di serpi il mondo ed esecrata Sorte sarìa la vita e combattuta Ragion l'amor come tra i ciechi armenti; Ma la pietà che stilla e che ti avvolge Di lagrime in un tiepido lavacro Ti fa più bella pensierosa e santa, Alta ti posa sull'altar del duolo Quasi raggiante, e in te fissarsi è luce Al lontan pellegrin ch'erra smarrito Per la sassosa valle e che già teme D'essere morto o faticosamente Conduce il peso dell'inutil vita.

* * *

Un vermiglio color corse le guancie, La man che ghiaccia resistea si sciolse In un tiepor di calde rose al sole; Si schiusero le labbra e fatto indarno Argine all'onda che le gonfia il petto, Proruppe il pianto vincitor dei mali.

SOLITUDINE ( Chiaravalle Milanese )

Qui si apre in mezzo ai pioppi, nel profumo Del buon fieno, che a mucchi odora al sole, Il mio regno, Tacete! ogni rancore Di voce è spento e va lento per l'aria La fatica degli uomini nel lento Fumo dei campi. Oh quanto egli è soave L'errar su l'orme di sè stessi, ignoti Agli occhi dei saccenti! oh come il filo Dolce si snoda dei pensieri all'ombra Coperta d'una siepe! ecco ti sfugge Di mano il libro che portasti grave Di logorati sillogismi e stai A leggere te stesso.

Erra a mancina Una garrula allodola: si stende Un vol di corvi a destra, che fan lunga Macchia nel ciel; là svolgasi nel mezzo Una gloria di nuvoli d'argento. Piena di rotte immagini.

Se l'ora Poi tramonta col sol dietro la rete D'una boscaglia che s'incendia, o suona Un cinguettìo di passeri raccolti, Senti, amico, vibrar come d'un'ala Di farfalla la morbida carezza Sulla carne del cuor. Tu nel languente Crepuscolo t'immergi e ti par quasi Di spegnerti nell'ora che si spegne.

* * *

Ma se porgi l'orecchio, è nel tramonto Di quest'ora che parlano le oscure Cose del mondo a chi timido veglia Al lume d'una fede. Odi, son mille E mille voci ch'escono dal campi Ottenebrati, come se uno spirito Pulsasse da ciascun filo dell'erba: E nel passare fremon non so quanti Altri spiriti spessi entro la chioma Delle molli robinie: e luci e stridi Corron per l'aria nera, in cui susurrano Ignoti stillicidî di piangenti Anime che ti chiaman….

Son le vostre Anime antiche già passate a stormi, Lavoratori della terra, stanchi Di seminare il pan duro nel duro Seno della natura. Or che disciolta È la prigion del corpo e giace in polve La struttura dell'ossa entro il recinto, Che biancheggia laggiù dietro i cipressi, Al morire del dì tornati le voglie Dei buoni spirti a folleggiar tra i solchi, E guizzando ti toccano, o vibrante Anima mia. Mi parlano e rispondo Un pensiero che sdegna il rauco suono Della parola e non sarà mai scritto. Che se per vago error non sbaglia il senso Arcano che mi fa non istraniera Questa tristezza, anch'io fui già del volgo Forse altra volta o cadde alcun dei miei Ne' rotti solchi. O forse in una sola Anima ondeggia il mar delle tristezze E in me percote, mormorando, il flutto D'antichissimi pianti….

* * *

Ancor non era Nata in quei giorni, o verde Chiaravalle, Nel dolente pensier d'un cenobita Quest'abbazia, che in mezzo ai prati erompe Gotica mole e par fatto di pietra Malinconico sogno.

O Chiaravalle, Quante migrar dalle tue chiostre al cielo Consolate colombe e quante ancora Vorrian fermar nelle tue nicchie brune Una pace che fugge! A stento il nido Nelle rovine tue nasconde il picchio, A cui lacera il cor spesso il rimbombo Del cacciator malvagio; e l'ombre stesse Del padri incappucciati (s'egli è vero Che si adunino a notte in mezzo al coro, Quando la luna luccica inquieta A turbare il gran sonno degli avelli) L'ombre dei padri esterefatte balzano Al reo fischiar della macchina nera, Che solca l'orto del convento e versa Bave di foco ed aliti d'inferno Sulla mesta Certosa. O Chiaravalle, Alle tue mura già scende l'insulto Della vita che rugge e che trascina Gli stridenti bisogni. Indarno all'urto Potran dei vivi reggere le antiche Mal sorrette dai santi absidi tue All'incalzar del tempo. Alla cresciuta Prole d'Adamo è scarsa aiola il mondo, Sì che ogni valle ne trabocca e ingombra È d'ogni solitudine l'asilo.

* * *

Questi pochi che ancor restano a noi Viottoli deserti assai più cari Ci sian, fratelli, e per le ombrose vôlte Andiam recando i desideri e i sogni Cari agli dei, che il grosso volgo ignora.

IL CANTO DELL'ULIVO

Battaglia di Abba Carima

Il tuo bel giovinetto Aldo partìa Per la terra dei mali un dì d'aprile, Mentre di rose rubiconde e bianche Fiorìa tutto il giardin: e ancor fiorisce Maggio che lui già d'Africa il deserto Preme sepolto… e non avea vent'anni, Povera madre!—il tremolante bacio Tu non sentisti allor che sull'arcione Ei balzò vigoroso e via si tolse Dalla soglia paterna e dagli sguardi Delle pallide amiche. Oh almen se morta Fossi e discesa innanzi a lui, tu prima Ad aspettarlo sull'oscuro ingresso, Ombra ridente, non vedrei te folle Nella vedova casa andar vagando Senza pianto a cercar, ombra mai viva, L'orme sanguigne del tuo figlio ucciso. Mai non si sazia l'egra fantasia Che si specchia nel reo sogno (se un sogno La reità può vincere del vero) A rinnovar le non mai viste scene Di dolor, di terror, di scempio atroce. Quando dall'ambe quando dagli acuti Inesplorati sassi, ove s'infranse Non la menzogna, ma d'Italia il cuore, Fur visti uscir neri nugoli densi Di vive fiere umane e scender quasi Torrenti nel fragor cupo dell'armi A travolger le candide coorti, Il segreto a cercar della fiorente Lor giovinezza coll'immondo ferro.

A quest'assalto d'indomati affanni Arde la fronte. Una vampa ti assale, Misera donna, qual di sabbie aduste Pregne di sangue. Nell'odor del sangue Balzi la notte esterefatta e scalza Discendi a supplicar qualche rugiada Dal ciel che brilla immobile sul capo.

* * *

Pace, fratelli, alle materne angoscie Pace preghiamo! e se la pace è tolta Alle torbide voglie, alti dal cielo Preghiamo i sonni all'umido guanciale, Fin che sugli occhi placido discenda Come lento crepuscolo l'oblio.

* * *

Ecco dorme la madre: e per incanto Dagli assopiti sensi ecco fiorire Una verde vision di spessi ulivi, Tra cui sen viene in veste più che neve, Reggendo il tronco d'una spada infranta, Il suo bel giovinetto Aldo, più bello Dell'Arcangelo in viso e più raggiante.

"Da una terra di sogni, ove non giunge "Che il sospir delle madri, a te ritorno, "Madre—egli dice.—Ivi l'eterno ulivo "Della pace frondeggia e a te un germoglio "Ne reco intesto a una stillante lama "Prendi, mia cara, e nella sacra terra "De' padri miei la morbida radice "Spargi ed il pianto delle oneste donne "Le sia ruscello. A seminar l'ulivo "Ti porgo il ferro della fredda lama, "Che penetrò quest'ossa e vi si ruppe. "Ove del bianco ramo esce in tenera "Ombra, rinasce il suon delle canzoni, "Danzano i cuori, il negro sen la terra "Schiude al tesoro del crescente pane, "Ritorna il lento faticoso ardire "Del ben oprare, che il furor di pochi "Sgomina spesso e il vaniloquio assorda: "Dell'umano alvear vola il ronzio "Lieto, frequente, a sparger la dolcezza "Che il sacro fiore della vita emana. "Olio stilla il bel ramo e il lume scende "Dalle lampade ai libri, ai miti altari, "Alle nebbie dei secoli. Di questo "Amabile arboscel sparsa la via "Fu di Cristo quel dì che al mondo sparse "La nuova legge, ah non compiuta, e invano "Scritta nel libro, o sacerdoti, e in oro "Scolpita invan nelle marmoree imposte, "Se vivente non sia legge dei cuori. "A voi madri, a voi spose, a voi sorelle, "Serbato è il seminar questa di pace "Viva radice all'ombra dell'amore, "Che per voi crescerà grande coi rami "Sopra le case e le dormenti culle; "Ma non si posi il sacrosanto bacio "Della donna sull'orma empia del sangue, "Nè il dolce amplesso la fatica onori "Di chi sogna lo strazio empio dei corpi "E il fluttuar del sangue e le nequizie "Oscure della Morte.

"Noi per sempre "Caduti il lacrimar poco ristora, "Ma ne ravviva il pio pensier dei vivi, "Se dal nostro morir tranno argomento "Di futura giustizia. Anche la morte "È un proceder avanti, è un mite sogno "Che rispecchia gli eventi ancor non nati, "Se dalle tombe sanno estrarre i vivi "L'idea sepolta e dispiegarla al sole."

EVOCAZIONI

I.

Chi togliere mi può questa possanza Ch'eccita il core delle morte cose? Se un dio si agita in me, ben alla forza Che schiaccia il mondo io mi ribello e balzo Sopra il dolor e là dove trascorsa È poc'anzi la Sfinge scolorita Figlia di morte col massiccio carro, Del mio pensier (io magico poeta) Suscito i fiori e a nuove danze incito Le figlie del mio sogno. Inutilmente Tenta intralciarmi di sua spine il passo L'orrida selva, oppur di sue tristezze Accumulate mi fa cerchio e muro L'ora che passa. Il mio poter s'innalza Incontro al fato e dalla morte chiamo Fonte viva d'immagini viventi. A lor io mi accompagno e vo superbo Del mio corteo, qual simile non ebbe Il gaio re della leggenda Arturo E nessun dei dipinti Saladini, Che di Georgia trassero e di Samo Le più candide spose. Io son tal sire Nell'ampio regno del pensier, che tutte Meco trascino le letizie e i giochi Che infiorano le culle. Io d'ogni bionda Pargoletta che ride esser presumo Fratello e d'ogni bimbo ingenuo amico. Chi può vietar che al core del poeta Scenda la voce e l'innocente invito Dei fanciulli che chiamano? e chi vuole Un amplesso intralciar d'anime amanti?

II

So che beato estimasi tra i pochi Chi stringe nella man la chiave d'oro, Ch'apre gli scrigni del pensiero e svela Il tesor degli affetti e le riposte Gemme della sapienza.

Anche beato Chi può del libro rompere i suggelli Che di Natura l'ultime contiene Immobili ragioni e chi alla fonte Può ber della Virtù, dove di quercia Incoronata sta la veneranda Esperienza, che le sempre eguali Leggi ritrae con giusta mano e fila.

Ma più beato chi del cor dirige I dolci incanti a suscitar le larve Delle remote o spente illusioni, A richiamare i tramontati giorni Nella veste raggiante e sa dei morti Baci evocar le timide fragranze, Come allor che la vita altro non era Che un fior di più nel semplice giardino Di giovinezza. Al rifiorir di queste Essicate memorie, io non so come, Sento che tutta l'anima s'inebria Di savia gioia e sembra che il ricordo, Ombra del ver, scenda del ver più bello.

Io la serbo nel cor questa parola Ch'apre le fonti alla dolcezza e chiama Tutti gli erranti spiriti che vanno Per la luce e per l'ombra. Ecco, s'io dico Il sacro motto, a me tornan le belle Donne che alla tristezza di Natura Intessero un sorriso e tutte passano A me davanti colla man gittando In mezzo a molti fior frasche d'ulivo: E passan le gentili a te facendo Molle la strada, per la qual tu scendi Estrema, nel dolor cinta, ma in pace Tra le modeste ancelle dell'amore.

Chi trattener vi può nella leggiera Procession che sfila sotto l'arco Ch'io v'innalzo, o divine visioni? E qual nembo è sì forte che vi possa Sgominar nel pensier che vi rimena In terra? Ancor se il mio voler indugia A ripeter l'incanto, ecco ch'io traggo A me vassalli quanti cavalieri Portar la grazia del valor dipinta Nei bianchi scudi e furono di dame Pallide grazioso patimento: E par che al lor trascorrere risuoni Il rumor del torneo misto ai singhiozzi Delle mandole. E voi dal tempo chiamo E voi governo, ombre sepolte all'ombra Dei vecchi monasteri, illividite Nei passeggiati marmi, invan da mille Anni consunti nelle cripte e spenta Fin nella mente degli scribi illustri, Che di vostr'ombra pascono la scarna Gloria che li fa vivi. E vanno i canti Per l'alte ogive e fremon le dipinte Finestre al pio riverbero che emanano I dischiusi sepolcri. A cento a cento Escono le devote anime bianche Delle mistiche spose a cui fu sposo, Il morto in croce e talamo l'avello.

* * *

È questa la virtù, madre, che spesso Mi mena a favellar presso la sponda Del tuo riposo all'ombra d'una tenera Edera affettuosa che ti abbraccia Per amor mio. Colà dove ti è dato Dal ciel per premio di sognar te stessa Nel silenzio campestre, odo la nota Voce che parla. Nel morir del sole Vedo l'immagin tua venir tra l'erbe Folte nel mezzo alla fiammante festa Dei fior di prato, onesta apparizione Più vicina al mio cor che mai non fosti, Come ogni cosa che dal cor germoglia.

"Il dolce immaginar caro ti sia— —Sento che dici—più che il vero e il fasto Dei chiassosi trionfi. A te sia bello Richiamar quel che fugge e far coi fiori Del tuo pensier ghirlande a' figli tuoi. Altri dai vivi a mendicar si affanni La carità del vivere, o se piace, Un lumicin di fatua gloria errante Entro le stoppie. A te sia pane e luce Il santo giusto che per sè risplende: Nè ti spiaccia seder spesso coi morti Pensoso ad ascoltar quel che la terra Racconta al ciel, a cogliere virgulti Molli di pianto, a riempir le mani Di speranze a chi va senza conforto Per le strade del mondo.

Alcun t'invidi Nella vecchiezza tua, quando d'intorno Rifiorirà la selva delle belle Cose pensate e nel varcar la soglia Ti verrà dietro l'ultima speranza.

LE ORE DELLA VITA

Disciolto il vago sogno, esco pei campi sotto la neve e nella nebbia occulti, quasi occulto a me stesso o a me sol noto quanto basta per dir: son un che piango, Per il nudo deserto in ordin mesto mi seguono, lasciando dietro un solco di tristezza nel pian candido, i morti pensieri della vita e quei che all'alba del primo gioco giovanil sereni nunzi di glorie e fantasie di pace all'innocente cor disser le prime insidie e quelli che al maturo senso schiusero il mito delle eterne cose. E seguon lagrimando, angeli vinti nella breve battaglia intorno al vinto lor signore, le rotte ali strisciando alle ruvide spine. Escono al pianto nostro dalla socchiusa urna del Tempo l'Ore cadute, che passar nel regno della mia vita luminose o brune, e ognuna a ricordar alza la voce quel che già fummo.

* * *

"Io son—una ricorda— l'ora del Sogno. Io son quella che i casti giorni dipinse e suggerì le rime preludiando all'amor. Se ti rimembri, molto ti piacqui in sul fiorir degli anni, allor che mi traevi ramingando per vie solinghe a ricamar la trama de' reconditi boschi o di solinga tomba a baciar le squallide viole. Nella vergine veste a te le immagini spesso recai, che ti facean dal forte sonno balzar ed allungar la mano a rosei lembi ed a fuggenti chiome.

* * *

"Son io—mi dice una seguente voce— l'ali fremente dell'amor son io, Ora che mai si oblia, quella che prima raccolsi sul bocciuol d'un rugiadoso labbro il singhiozzo d'un soave affanno, soave ancora a ricordar. La bella mal renitente a te sporse la bocca molle d'ogni dolcezza, onde fu a lungo inebriata poi, lieta di canti, l'aurora del tuo maggio e a lei men triste degli anni brevi il pallido tramonto.

* * *

"Io te guidai per la superba via e forte in man ti equilibrai la spada della Giustizia—un'altra erra dicendo in ton più grave.—Del voler ti cinsi i fianchi il dì della battaglia e l'ira t'armai di solitudine sdegnosa contro il volgo dei mali. Io nelle gare de' vili il core ti sostenni e stetti fiera in disparte a ritemprar la forza dei sacri sdegni. In altro scudo io penso non brami d'esser collocato il giorno che, nudo in terra, ma la fronte al cielo cadrai.

* * *

"Deh, non fuggir quel che ti attrista Io, io del tuo Dolor l'Ora più fiera col mio singhiozzo non dovrei nell'ombra rinnovellare i gemiti e gli auguri… (così se stessa una dolente accusa). Al cor molle di gioie e di speranze io stesi il dito acuto e tanto il tenni fin che quasi lo spensi. Amor e fede ne strappai spaventosa e al suol, non morto, ma sanguinante ti lasciai nel sangue della tua vita alla pietà dei buoni umil bersaglio. Ma del ben ti schiusi l'intime fonti e nel tuo pianto immersa i lenti moti dirizzai de' sensi a seguir della logora mestizia i passi tra i bisogni aspri de' miseri, chè scuola è il nostro mal ai mali altrui. Io non già t'insegnai l'orride piaghe a denudar del volgo e a far d'un cencio alta bandiera all'irritante musa, ma dal palagio all'umil tana a dito mostrai qual sia del vivere lo stento e il signorile affanno.

* * *

"Ed io, mi guarda, amico, io son la mite Ora che prega, che teco inginocchiata, ove il materno occhio vegliava, il tenero sospiro della Fede sorella al sen raccolsi. Andar senza di me, forte non lieto, sciogliesti poi, nume a te stesso. E ancora sulla soglia ti aspetto ove negletta mi lasciasti, se mai d'una cocente stilla di sangue ti lacrimi il cuore, o se disperazion dai desolati cieli più nera piova. Invan tu speri dimenticarmi. A chi bevve profonda la mia dolcezza in sul mattin, più lunga di me nel vespro tornerà la sete.

* * *

"Volgiti lieto al mio chiamar. All'opra sempre desta tu vedi in me la pronta Ora del tuo Lavor, madre a robuste speranze, quella che ai cresciuti danni porsi il ristoro dei raccolti frutti, che all'ombra edificai d'una sicura coscienza del tuo vivere la casa. Sai come al martellar forte e frequente si scosse il tuo vigor: dalle riposte fantasie scaturì qualche non rozzo simulacro e l'idea venne all'incude del sonante lavor docile ancella.

* * *

"Ed io son l'Ora del Dover—(sommessa parla un'ultima voce)—umile vissi nella tua vita e taciturna; scarse lodi raccolsi; di ragion ministra me di me stessa mi contento e pago".

* * *

Questo dell'Ore che fuggir il grido tra il doloroso e il lieto, a cui tra il lieto risposi e il doloroso:—O mie fedeli, o del mio viver sacre e benedette sorelle, il ricordar dite che giova? voi ben sapete come voli il tempo e in picciol spazio irrigidisca il labbro delle parlanti cose. In aria un segno di voi, di me non resterà più vivo di quanto lasci nel volar la nera rondinella che passa. Ove il più bello ci venga tolto e in particelle, in polve volga di noi la più divina parte, qual gioia il dir: noi fummo? e quale il vanto d'aver coi mali avuta inutil guerra? ogni cosa vien meno e tutto oscura un'estrema d'Oblìo ora che tace sopra gli stessi mali eternamente.

* * *

"Non vano esser vissuti!—a me col pieno coro rispondon le vaganti amiche— non vano, ove in gentil opra di bene si perpetui l'affanno. Anche se sciolta e sparsa al vento è la dolente polve, erra come di fior morto il profumo nella stanza dei vivi. A un Nume è sacro, non a sè quell'incenso che dall'ara sale continuo nella oscura cella, nè inutil scende la rugiada all'erbe che poi dissipa il sol. Non a sè stessa edifica la pietra. Al tempio giova non men l'ignoto che sepolto giace coccio sotto le basi e il crisolito ardente che prostrato il volgo adora. Ogni Ora nasce quando è il tempo e ognuna scende dell'infinito Essere in grembo di sua ragione coronata in fronte in una tenue, che all'orecchio sfugge del querulo mortal, vasta armonia. Nulla è vano, fratel. Non la stanchezza che mosse della terra i lenti semi, non il pianto che largo li feconda, non la morte che scioglie e riconduce il mister della vita. Alza la speme, chè a chi vien dietro non è vano il solco di chi prima passò. Migrano a sciami associati gli spiriti, siccome scendon nel freddo tempo in lunga riga gli stornelli a portar salva in più caldo lido del caro stuolo la speranza. Non ognuno per sè, ma ognun sorregge della stirpe il destin colla brav'ala non mai stanca, che tremola all'invito degli spazi del ciel ampi e del mare".

FUNERALE BIANCO

IN MORTE DI IDA DONATI

luglio 1895.

Giovani amici e giovinette in pianto Precedono il trionfo della Morta Per l'ampie strade. Il ciel ride giulivo, Mentre lenta si avanza la coorte Dal dolor disarmata, a cui la rigida Non conosciuta man ha tolto il vivo Fiore d'una speranza. Erra il profumo Per l'aria delle mille rose bianche, Che per amor di lei voller morire Sulla pallida testa. Il popol scarso Che stette all'ombra delle case in questo Giorno chiaro di festa, al venir lento Guarda del carro, e guarda i fiori e i bianchi Visi delle compagne e— Addio, mia cara…. Dice ciascuno in cor, chè ognun ritiene Sua figlia ogni fanciulla che si avvia Al camposanto. In ogni giovinetta Vita che muore ognun sente morire Sè stesso, o almen di sè la più ridente Memoria e coll'ignota si accompagna Bara che passa quasi lagrimando. Una spenta dolcezza.

A questo incanto Giova il saper che bella era e gentile La verginella ora caduta in grembo Alle funebri rose e giova il dire; "Questa che passa avea libata appena La gioia che fa bello ogni sorriso E soave ogni lagrima. Non una Ora bruna volò di triste augurio Intorno al capo giovanil che dorme Senza rughe e senz'ombre. Inesplorato Enigma a lei fu della vita il senso E amor (l'antico tempestoso affanno) Non fu per lei che un sogno mattutino. Col suo pensier il suo bel corpo passa Come puro alabastro al culto eterno Di purissimi spiriti. Non cadde Per forza, no, di vento o di tempesta, Ma come si disfiora un ramoscello Nel chiaro specchio d'un ruscello vivo, Sì che la vita sua continua e scende Di core in core in una fresca idea Di giovinezza".

* * *

A quante più leggiadre Candide fantasie passan nei sogni Dei poeti gentili il nome presta E le sembianze un'innocente morta, Che poi ritorna rivestita e ardente Di gloria a noi. Così non cadde il sogno Amoroso di Dante nel trionfo Di Beatrice morta e va soave Nel triste verso il nome di Nerina: Così per voi tra i vivi si perpetua Il culto della Grazia, o a noi rapite Ancor ridenti nell'esiguo fato Di pochi aprili!

* * *

Alcun che a notte muta Si smarrì tra gli avelli, ove più folti Erano i gigli nelle nivee tombe, Sentì voci tornar come di canto Dolcissimo e fuggir vide una luce Palpitante nel sasso, in cui rifulge Il nome delle belle adormentate Nel silenzioso oblio.—"Noi siam le vostre Sopite illusioni ma non spente— —Dicevano le voci—e nei scolpiti Nomi fermiamo l'ideal che fugge. Noi la bellezza siam che mai non ebbe Dal tempo insulto o da infedeli amanti, Noi siam la vostra giovinezza immota, O padri stanchi e declinanti, e il vostro Giovine core a custodir siam morte: Per voi serbiamo in ogni tempo un fiore Di bel ricordo e allo scoccar dell'ora Ultima, allor che la speranza cade, Da questi tabernacoli di marmo Angeli vostri usciamo luminose Di nostra luce a rischiarare a voi La tenebrosa via, per cui sì triste È l'andar soli e l'arrivare ignoti".

LAGRIME

Dopo la morte della figlia Cesarina.

IL TRISTE RITORNO

Caro è fuggir la stanca afa d'agosto Per voi cercar, e quete ombre dei faggi, Scossi e ridenti al tremolo Rezzo che manda a voi l'umida valle.

Caro volger le spalle Al fragor della gente e al vasto tedio Che il piano ammorba per trovar voi, care Ombre nere dei pini, sulla via.

Lasciato indietro il mare Delle cure in tempesta, ecco qui snodasi Dietro il clivo la pace e vien innanzi Sparso di suoni un bel pascolo verde.

Il sentierol si perde Tra le roccie lassù, lambendo il margine Della chiesetta, albergo alto ed aperto Alle rondini pie. S'incurva al basso

Dove coll'acque si trastullan l'anatre Un ponticel co' pie' tra sasso e sasso: Ivi il molino innalza Tra verdi spruzzi ed urti il soffio ansante.

Or non fa l'anno ed io salìa la balza Di questi monti e meco era una tenera Fanciulletta cantante…. Or sola è l'ombra mia lungo la via.

Voi ridete del vostro verde eguale, O prati, o boschi, e sotto all'arco provano L'ali le spesse rondini al ritorno, Che già le chiama il mare.

Rota e ripete la sua nota il rauco Operoso molin tra l'acque chiare, Che nuovo pane a nuovi figli appresta. Io sol vo stanco e solo

Cercando invan la mia canzon. In questa Foggia il ritorno è un picciolo morire. O voi, ombre, prendetemi Dei cipressi davanti al muricciolo.

* * *

Era cara con lei questa segreta Stradella, che nei campi umile gira, La mattina di maggio e nella queta Ora che il vespro tra gli alberi spira.

Nella mestizia mia correa giuliva La sua parola come un'acqua chiara Tra lenti sassi garrula si avviva.

Della tristezza dissipato il fosco Velo, sentivo nella voce cara Rider le cose, gorgheggiare il bosco.

Ancor tra i campi cerco la segreta Ombra là dove il mio dolor mi attira: Ma tace il torrentel, chiusa è la meta, E un gran tramonto nell'anima spira

* * *

Ombre placide e molli, ombre silenti Del bosco, io vi ritrovo e trovo insieme Quel che passò tra voi nell'ore estreme Della mia gioia e de' bei giorni spenti.

Qualche cosa di mio tra le piangenti Vostre foglie va lieto ed erra e freme, Tal che il mio core, desiando, teme Di rivivere in voi l'ore ridenti.

Una voce, destando echi lontani, Par che mi chiami in quella parte e in questa Ove più folto perdesi il viale:

E i passi guida affascinati e vani In mezzo ai tronchi un'agitarsi d'ale Ed il fuggire d'una rosea vesta.

* * *

Mentre le luci di mia vita a poco A poco si spegnevano nel muto Crepuscolo degli anni e mentre fioco Moriva il sol di nuvoli involuto,

Mia cara lampa, io ben sperai che al fuoco Avrei della tua fiamma ancor potuto Toccar le corde coll'antico gioco E cader sul mio povero liuto.

Alla tua luce avria la stanca mano Scosse l'ultime note e men dolente Saria finito il salmo della vita.

Or che sei spenta erra la man smarrita Nel desolato buio eternamente A ricercar le vecchie corde invano.

* * *

Tutta bianca al tornar del nuovo aprile Fiorìa la siepe e tiepida fluiva Per ogni verde riva La tua fraganza, o violetta smorta.

Per queste balze andava essa gentile Cogliendo fiori come in un giardino, È morto il biancospino, Morta è la siepe insiem da ch'ella è morta.

Non più pei freschi rugiadosi seni Di questa valle, ov'ella corse e scese, Ancor dal sole accese Le rosette vedrò che il maggio porta. Aridi e spenti, sol di stecchi pieni, Rivedrò i boschi e serpeggiar le ortiche Nel folto delle spiche: Chè tutto è morto qui da ch'ella è morta.

VOCE DALL'ALTO

Dalla mia spoglia uscita Or batto l'agil volo, Non in un angol solo Del ciel, com'io credea, Ma vezzeggiata idea Dovunque il tuo pensier mi cerca e brama.

Nel Dio che a sè mi chiama, Che in ogni stella splende, Lo spirito si accende Della mia vita corta: Seco mi tragge e porta Ovunque il tuo pensier erra e riposa.

Quel che la bianca rosa Dolce profumo esala Son io: son io dell'ala Il frullo accanto al nido; Son io percossa al lido L'onda che lenta mormora e sospira.

Nella sua dolce spira Il venticel mi vuole, Senton le mie parole Le foglie scosse e i rami, Tutto che cerchi ed ami Di me racchiude una memoria, un'eco.

Quando tu piangi, teco Intenerir mi fai: Se al poverel tu dai La tua pietade io sono; Io sono il tuo perdono, Io son di te quel che giammai non muore.

Strette in un solo amore, Fiamme d'un solo Iddio, Tu sulla terra ed io Dal ciel donde scendea Siamo la stessa Idea, Che vince d'ogni morte ogni furore.

* * *

Pianger perchè?—se mia fortuna piangi, Giusto non sei, nè pio, Che tutta nel morir recai finita La gioia di mia vita.

Pianger perchè?—se il mal che mi fu tolto Piangi, ed accusi Iddio Se per assenzio mi fu dato miele, Il piangere è crudele.

Pianger perchè?—se questo pianto amaro, Ch'ora ti solca il viso, Non proverò giammai, non è pietosa Invidiabil cosa?

Pianger perchè?—non dir: Morte ha diviso Di polvere due grani; Ma ricongiunse in suo voler potente La goccia alla sorgente.

* * *

Or sai più cose che non t'eran note Prima e che forman la tua scienza nuova: Sai che il dolore quanto più percote Del cor le forze invigorisce e prova.

Sai che cenere e fumo, ove le vere Cose s'infiamman, son le cose vane: Che come gemma tra le scorie nere Tra i fuggevoli beni amor rimane.

Sai quanto amari son del pianto i rivi, Che i dolori trascinano del mondo, E quanta forza danno i morti ai vivi A portar la speranza fino in fondo.

In mezzo al rombo degli umani guai Dolce rifugio sai che aspetta e tace Oltre il Tempo la Morte: ed anche sai Come sorrida un angelo di pace.

LE VISIONI DEL CIECO

I.

Solo presso lo scoglio, ove il dolor mi lega, vedo nel vuoto abisso passar gli anni caduti e le cadute cose.

Giran le spente occhiaie qua e là dentro la bruma dell'ombra che mi serra e, brancicando, ancora qualche fantasma io stringo.

Nell'addormito spirito, quale su mar deserto repente un alcione candido irrompe, il cieco così della mia tenebra

Orror fende una donna, uno splendr che i muti segni richiama e suscita delle memorie spente nel gran mar delle lagrime,

Quale si annuncia candida, qual sorge dalle fonde acque in un riso tremulo che luccica sull'acque e in sen dell'acque specchiasi

Aurora rinascente, così donna più bella non parve ad occhi vivi. Pei rivoli del pianto tutta m'inebria l'anima.

Va dalla riva all'ultima onda una via lucente, in cui scende l'immagine bianca ad un dolce invito; onde convien che il gracile

Corpo io raccolga e rotte l'ultime inerzie, segua la folgorante traccia, in fin che morto io tocchi del mar l'ultima riva.

II.

Fanno nel cielo bianco i curvi rami della selva, che molta neve ingombra, de' vani, sottilissimi ricami.

Per i viali della terra, sgombra d'ogni speranza, passa una mortale tristezza, che il candor del suolo adombra.

Lugubri augelli van sbattendo l'ale contro i gelidi tronchi. Io piango. È questa la morta selva piena d'ogni male.

Torna la donna in una verde vesta, che tiene un molle ramicello in mano e vien benedicendo la foresta.

Non cade, no la sua pietade invano nel rigido dolor, ma il segno santo della prudente piccioletta mano

Alla tristezza scioglie il duro incanto.

III.

Ogni nebbia si dissipa e prevale il sol che nasce da un bel mar turchino, entro la selva che mutò colore.

Approdan vele stanche al litorale, donde scendono donne nel giardino, che fa la selva tra le piante in fiore.

Hanno nel viso le signore sante le soavi memorie e reca ognuna un picciol vaso di preziosa essenza.

Per i viali muovono le piante senza versar dai corpi ombra veruna come di sogno molle evanescenza.

IV.

Vanno le donne angeliche nell'alta erba fiorita in lagrime la cenere strisciando di lor veste, E morta, ma ridente nel suo splendor celeste, portano una fanciulla tra i gigli impallidita.

Di soave tristezza inebriate, il suono mandan le bianche voci. L'anima sofferente le segue umile e casta del pianto alla sorgente, ove le belle attingono la grazia del perdono.

Presso la soglia candida, da cui l'onda deriva, si prostra il fiero sdegno, l'ira si prostra cieca: più t'immergi nell'acqua che la fontana reca, più la fanciulla morta a te ritorna viva.

"Io sono la speranza nata dal tuo piacere, ho il sol dentro ai capelli e molte spine ai piedi: io son la pura essenza di quel che pensi e credi, l'anima profumata son delle cose vere.

"Morta son viva e passo nei sogni del mortale, spargendo colle mani aperte la semente di nuovi sogni. Io sono la bella sorridente, che stillo eterni aromi dai morti fior del male."

V.

Venian per la selva silente Con passo dolente le donne, Non vive, ma come sottili Fantasmi gentili nel viso. Mi cinser la testa pietose D'un olio di rose soave: Mi tolser la nebbia che ingombra Lo spirto com'ombra letale, E—Figlio—mi dissero—Ave!

* * *

Noi siamo le eterne sorelle Noi siamo le belle immortali, Che sciolto il mister della Sfinge, Di morte non spinge la mano. Ci accoglie la selva divina, Che verde sconfina nascosa Ai cupidi sguardi dei vivi Di rose e d'ulivi fiorente: Riposa, riposa, riposa.

* * *

Solleva lo sguardo smarrito Ascolta l'invito piacente: Dal monte chi rotola in questa Eterna foresta rivive. Per balze scoscese e dirotte Stancasti la notte: sei vinto. Riposa, riposa, riposa. L'effluvio di rosa immortale Richiami lo spirito estinto.

* * *

Chi beve all'eterna fontana Che limpida emana da Dio S'inebria di santa certezza, Gli anelli disprezza di morte. Piantate per sempre le tende, L'affanno distende di un'ora. Ristora nel placido oblìo Lo stanco desìo, dell'alma Le crude ferite ristora.

VI.

Le belle voci e il vago incantamento Aprir nel sasso la feconda vena, Che corse come un rivolo d'argento. La risorta fanciulla, a cui serena Splendea la pace nel raggiante viso, Mi die' dell'acqua colla mano piena, Reggendomi degli occhi col bel riso.

* * *

Inebriare è pallida parola, Se il dolce esprimer vuoi di paradiso, In cui mi trasse la gentil carola. Ma non dirò del sovrumano amplesso Ond'io fui cinto e della bianca stola Che me condusse fuori di me stesso.

* * *

S'anco è sognare, o miseri mortali, Questo cieco veder che n'è concesso, Se spento è il sole, resta il cielo all'ali.

PREGHIERA

_Quando verrà quel dì… quel dì, Signore, Che vorrete con voi l'anima mia, Fata che presso al letto del dolore Venga a seder la santa Poesia. Essa, che tutti sa di questo cuore I desiderii, colla grazia pia Farà che la tremante ora fatale Passi sotto un bell'arco trionfale.

Di giovinetti tutti i casti ardori, Che in rima chiusi tante volte e in prosa, I veduti tramonti e i bianchi albori Del cielo ed ogni più ridente cosa, Le fanciullette amate e i baci e i fiori Svaniscon meco in un color di rosa: E nella notte che starà davanti Scenda la luce dei sognati istanti._

INDICE

PARTE PRIMA

Al lettore, Pag. 7

I segreti pensieri.

Preludio: Canta l'usignuolo, " 13 A una giovano poetessa, " 15 Litanie vecchie e litanie nuove, " 17 Il telegrafo sulla montagna, " 21 La trasmissione della forza elettrica, " 24 A un vincitore in un duello, " 27 Ora di tedio, " 30 Il tempo e la mano, " 32 "Per quarant'anni parroco", " 35 L'agnellino dorme, " 39 Il contadino— Cantilena, " 42 Conca alpina, " 44 Il rosario della nonna, " 46 La capra ed io, " 49 La fanciulla benefica, " 53 Il fiume e la vita, " 56 Ad un generoso signore, " 61 Il cantoniere, " 65 A un vecchio crocifisso, " 68

PARTE SECONDA

Le vaganti immagini

Cantilene di Natale, " 73 La chiesetta, " 76 Canzonette di primavera, " 77 Lasciamole volar, " 79 I consigli del vecchio marinaio, " 83 Il maestro contento, " 85 La villetta chiusa " 89 Dopo la pioggia " 91 Il funerale del povero " 93 Il fabbro " 96 I vecchietti " 98 Le due poesie " 100 La sartina " 103 Angelina " 105 Maria " 106 L'acqua e il sasso " 108 Il sorriso " 109 Predichetta " 111

Feste e glorie

Brindisi dei tipografi " 115 A Victor Hugo (salmo) " 120 All'Italia " 123 Ode a Verdi " 127 Alla tomba di Re Vittorio Emmanuele II " 132 I fratelli Cairoli " 137

PARTE TERZA

Gli Intimi sensi

Sul campo della battaglia " 141 Il canto della pietà " 148 Solitudine (Chiaravalle Milanese) " 154 Il canto dell'ulivo " 159 Evocazioni " 164 Le ore della vita " 170 Funerale bianco " 178

Lagrime

Il triste ritorno " 183 Voce dall'alto " 191 Le visioni del cieco " 195 Preghiera " 203