EMILIO RAGA
I
DRAMMI DE' CAMPI
PADRE DON GIUSEPPE LA VENDETTA—PROPRIETARI E FITTAIUOLI SEQUESTRO.
MILANO Emilio Quadrio, Editore Via Rastrelli, 8.
1886.
PROPRIETÀ LETTERARIA
L'Edizione è stampata su carta Filadelfia filogranata E. Q.
PADRE DON GIUSEPPE
Peppe, figliuol mio, sii sempre buon cristiano, e timorato di Dio, che Dio t'aiuterà, e ti guarderà dal peccato e dalle male persone.
Ciò lo zio Saverio non si stancava mai dal ripetere a quel monello del nipote, che una sua figliuola, morendo, gli aveva lasciato sulle braccia e corroborava tali parole con degli esempi che n'aveva piena la testa, e che raccontava con quella commovente ingenuità e con quella fede propria de' buoni vecchi.
Lui invece stava ad ascoltarlo broncio broncio, con gli occhi bassi, che alzava solamente quando il vecchio volgeva altrove i suoi, e per saettargli uno sguardo di bestia restia ad addomesticarsi.
Una delle curiosità archeologiche di S. Giovanni era di certo lo zio Saverio, con quella sua figura incartonita da mummia egiziana sotto un berrettino bianco, insaccato sempre in una specie di giubba di grosso panno turchino, a falde quadrate, in brache corte e stivaloni col nappino, tutti rabeschi. Sì che per le strade i monelli gli andavan dietro, e gli facevano la baiata, senza far parere che la facessero a lui. Ma se ne fosse anche accorto? quei panni non li avrebbe smessi per tutti i tesori del mondo: aveva visti vestiti così suo nonno, suo padre, mill'altri dell'istesso ceto con essi; dovevano trovarci tutto il loro comodo in quella foggia di vestire dacchè l'avevano adottata, e con la tenacità del suo buon senso contadinesco non capiva perchè dovesse far diversamente da loro egli, cui quella foggia non dava punto noia, e sacrificare ai tempi come tanti e tanti che, a dir vero, gli parevano assai leggieri di mente. Per lui invece era uomo di carattere don Francesco che portava ancora il codino: per questo anche, quando l'incontrava, gli faceva un saluto più rispettoso di quello che facesse al padre arciprete o al figliolo del barone (che veniva da Cammarata in S. Giovanni per la sola festa di giugno) tutt'attillato nel suo vestito alla moda, una vergogna per un capo di paese!
Ma se seguiva con tanta tenacità la moda dei suoi padri, ne aveva radicati nell'anima le massime e i principi, poichè bisogna dire che era l'onestà in persona, qualità che in quella famiglia s'erano tramandata di padre in figlio. Epperò nominava sempre mastro Gaetano suo avo, ch'era stato il tutto in casa del vecchio barone, in mezzo all'oro e all'argento, e quando morì le spese del mortorio dovette fargliele il padrone: nominava sempre mastro Andrea suo zio, morto povero in canna per il suo buon cuore; non parlava di suo padre, i Berlingrieri potevan dire che uomo era, e quanta fiducia avevano riposta in lui, senza che se ne avessero avuto a pentir mai. Sicchè ebbe a morir di vergogna quel giorno in cui un vicino venne a dirgli che aveva visto passar per la piazza Peppe, il nipote, legato come Gesù Cristo. Nascose la faccia tra le mani, e cadde a sedere sulle tavole del letto, dove restò come impietrito, senza poter piangere.
—Compare Saverio, bisogna fare la volontà di Dio, gli disse mastr'Antonio un suo vicino che aveva risaputa la cosa, e entrava in compagnia di certe donnicciuole le quali venivano un po' per consolare, un po' per appagare la loro curiosità. E il vecchierello fece la volontà di Dio: prese il bastone, e curvo come se sul suo capo in que' pochi momenti fossero passati dieci lunghi anni, andò da don Francesco. Chi meglio di lui poteva aiutarlo in quel frangente?
Don Francesco domandò un quarto d'ora per vestirsi, passato il quale, i due pezzi d'antichità si misero in via. E tanto fecero, e tanto dissero, che finalmente vennero in chiaro di quel ch'era accaduto. Da qualche tempo quelli che possedevano poderi nelle vicinanze del paese non erano più padroni delle loro frutta: man mano che maturavano andavan per coglierle, e restavano col naso in aria, e la bocca spalancata; c'era stato chi aveva risparmiato loro l'incomodo.
Si davano al diavolo; facevano delle sfuriate ai mezzaioli o ai garzoni, i quali protestavano: che ci potevano fare? il ladro era più destro di loro.
Sputava fuoco più di tutti un certo don Biascio Sivoli, detto Ciacè, il quale aveva un pero; un famoso pero che faceva pere burrone non meno famose; mezzo chilo l'una, e mai bacate; e non solo non ne poteva mangiar più lui, ma, quel ch'era peggio, manco mandarne al sor giudice che ogni volta in piazza, appena lo vedeva, non mancava dal fargli gli elogi di quelle pere: e il galantuomo ne andava in visibilio. Tanto più che aveva una causa pendente con quella carogna del farmacista, e sperava di vincerla con le pere. Ah, birboni! l'intendevan così? E ne parlò a mastr'Andrea, un perticone, capo degli sbirri, con una vera faccia d'orco.
—Lasci fare a me, rispose questi. Però, se scopro il ladro…. un paniere eh, restiamo intesi.
—Una cesta, mastr'Andrea, una cesta.
E don Biagio dormì tra due guanciali.
Gli sbirri, è chiaro, la san più lunga de' mezzaiuoli e dei garzoni, sì che in capo a otto giorni mastr'Andrea coglieva il ladro proprio sul pero, e col corpo del delitto addosso. Era il nipote dello zio Saverio.
Un mese di carcere, il dolore del nonno, le lunghe ammonizioni che questi gli fece, ricordando mastro Gaetano, mastr'Andrea, e tutti i santi della famiglia, non fecero nè caldo, nè freddo, a quel monellaccio che aveva proprio il furto nel sangue.
—Non lo farò più, nonno, disse piagnucolando con quella sua aria d'ipocrita nel visaccio appastato dalla lordura, e l'indomani fu da capo. Però non rubò più frutti, ma galline, che portava a una vecchia mendicante, la quale le andava a dare per niente in certe case dove sapeva che si chiudevano gli occhi.
In quel tempo anche Castrenze, il figlio del Capurbano, aveva le mani lunghe.
I due monelli s'annusarono, fecero comunella insieme, e incoraggiandosi l'un l'altro, riuscirono a rubare certe posate d'argento.
Peppe le prese, e andò a portarle alla vecchia.
—Quanto mi date di queste qui nonna? disse mostrandogliele di sotto al giubboncello.
Alla ladra luccicarono gli occhi; e tira di qua, tira di là, gli dette dodici tarì.
I due amici quella sera gozzovigliarono nella taverna di mastro Nicasio: e all'uscire, nell'allegria del vin bevuto, a Peppe venne un'idea.
—Aspettami qui, disse all'amico, e corse diviato in casa della vecchia.
Questa dormiva: la fece alzare, si fece aprire, ed entrò tutt'agitato.
—…. Sapete…. disse giungendo le mani, quelle posate….
—Ebbene…,
—Son del Capurbano, il padre di Castrenze….
—Misericordia!
—Ieri seppe che gliele rubò il figliuolo….
—E?…
—Diventò un diavolo dell'inferno, e gli fece confessare che cosa ne aveva fatto.
—E come si fa ora?… oh, Vergine santa!…
Il furbo si stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro inferiore: e' non lo sapeva…. no, davvero non lo sapeva…. l'affare era brutto assai….
E quando l'ebbe impaurita a dovere, disse dimenando il capo:
—Via…. forse…. si può accomodare ogni cosa.
—E come?
—Datemele, le darò a Castrenze, egli le rimetterà al posto…. troverà una scusa….
—E i miei dodici tarì?
—Che volete, ce li siamo mangiati: chi poteva supporre una cosa simile!
—Io voglio i miei dodici tarì, strillò la vecchia.
—Ebbene vi si restituiranno i vostri dodici tarì, non abbiate paura. Credete d'aver da fare con ladri? accordateci un po' di tempo per poterle mettere assieme…. Se poi preferite andare in prigione….
La vecchia borbottò qualche cosa, andò al pagliericcio, ne scucì un poco da un lato, cacciò la mano dentro, ne cavò fuori le posate, e le dette al monello.
—Non ti dimenticare di portarmi il mio danaro, sai!
Ma già Peppe era lontano.
Trovò l'amico che l'aspettava con impazienza.
—Guarda, gli disse: e alzato il lembo del giubboncello, gli mostrò le posate.
—Oh, e come hai fatto a riaverle!
Peppe gli raccontò ogni cosa, tra scaltri ammicchi, e sghignazzamenti.
—E ora che ne faremo? domandò Castrenze.
—Le porterò a un altro, to'.
—Bravo.
E così fece: e l'indomani nuova gozzoviglia nella taverna del Maffioso: e nella piazza il solito «aspetta.»
Quello che questa volta aveva preso le posate era un contadino conosciuto per uomo che soleva tenere il sacco a' piccoli ladri: un vecchio tabaccoso che pareva la morte secca. Prendeva il fresco, appollaiato come un barbagianni sulla soglia dell'uscio, quando arrivò Peppe correndo.
—Che hai, gli domandò col suo risolino scaltro, sei inseguito dagli sbirri?
—No…. entrate… devo parlarvi. E chiuso l'uscio, seguitò. Queste posate….
—Ebbene?
—Sono del Capurbano, il padre di Castrenze.
—Diavolo!
—Seppe che gliel'aveva rubate il figliuolo, lo prese per un orecchio, lo condusse in una stanza, serrò l'uscio, e lì di dove vieni? vengo dal mulino. Capite…. svesciò ogni cosa…. anche che le posate l'avete voi.
—Davvero!
—Maria santissima, rispose il monello facendo croce delle mani sul petto.
—E come si ripara ora?
—Ci sarebbe un rimedio, insinuò il tristerello.
—E quale? Di su…. presto….
—Datemi le posate…. Castrenze le rimetterà al posto, io negherò…. voi pure, e tutto sarà finito.
—E i dieci tarì che ti detti?
—Ce li siamo mangiati, parola d'onore; però domani cercherò di portarvene tante galline.
Il contadino si fece bestemmiando a un angolo della stanza, sollevò un mattone con la punta d'un coltello che s'era levato di tasca, prese le posate e gliele dette.
—Non ti dimenticare di portarmi le galline, sai!… se no…. quanto è vero Dio….
—Oh, per chi mi prendete! E intascate le posate, andò via.
Quel giochetto durò otto giorni; e i due amici se la passavano proprio come tanti re.
Ma ci fu il duro che non cadde nella rete; che negò non solo di saper di posate, ma minacciò anche di prendere a pedate nel sedere il tristerello se non batteva il tacco, e addio cuccagna.
Il diavolo addosso però l'aveva mastro Andrea che inghiottiva male i lavacapi che gli faceva il sor giudice, gonfiando le gote, e sbuffando. Al degno sbirro era entrato il sospetto che autore di tutte quelle birbonate fosse Peppe: ma come fare ad averne la certezza?
—Riga diritto ragazzo! gli diceva facendo gli occhiacci ogni volta che l'incontrava per la strada.
Ma lui cacciava le mani in tasca, e alzava le spalle, ed esclamava:
—O che vi salta in mente, mastr'Andrea!
—Basta, sono affari tuoi codesti…. uomo avvisato, mezzo salvato.
E lo sbirro tirava per la sua via brontolando.
Intanto non aveva pace: e fruga di qua e domanda di là, finalmente ci riuscì a risapere ogni cosa. Le posate al farmacista gliele aveva rubate Castrenze, l'avevano vendute insieme con Peppe e s'eran mangiato il danaro da mastro Nicasio! Il povero sbirro si mordeva le pugna: ah, il birbone aveva qualche santo dalla sua! come fare a parlare? quella forca di Castrenze era figlio del Capurbano!!
Ma era uomo di mondo mastro Andrea, e stimò esser da sciocco il perdere tutto il benefizio di quella scoperta. «Non si sa mai come possano andare le cose» era la sua massima. Basta andò diviato dallo zio Saverio. Gli era stato sempre amico…. ricordava sempre i bei tempi che facevano a sussi alla Rupe, dalla buon'anima di suo padre, e non voleva guastarsi con lui…. Però rimediasse, e presto…. un altro caso simile, e addio…. era costretto a parlare poi, se non voleva perdere il pane; aveva moglie e figliuoli da mantenere lui.
E quando l'ebbe tenuto tanto sulla corda, che il pover'uomo ansava, e lo guardava spaurito, non sapendo dove diavolo volesse andare a parare l'amico, a qualche cosa di serio per certo, gli disse: è successo questo, questo, e quest'altro.
Lo zio Saverio spalancò tanto d'occhi; poi tirò giù il berrettino, e cominciò a grattarsi la zucca.
—Birbone!… ripeteva con voce piagnucolosa, birbone!… E non sapeva dir altro.
Anche questa volta prese il bastone, e corse da don Francesco. Il buon galantuomo scosse il capo e il codino, e guardando il vecchio che pendeva dalle sue labbra, disse:
—Qui bisogna rimediare seriamente.
—E come? Santo Dio, non ho forse fatto di tutto per….
—Umh, interruppe l'altro grattandosi l'orecchio, ne siete proprio sicuro?… Siete stato troppo debole, compare Saverio, troppo debole! Certi esseri, vedete, che hanno un curioso naturale, bisogna tenerli sotto appena escono dalle fasce, altrimenti è impossibile ridurli: il trattarli poi con un po' di fra Pioppo non fa mica male. (Fra Pioppo, chi non lo sapesse, per don Francesco era il bastone). Avete lasciato prender radice ai cattivi istinti, compare Saverio; e ora, Dio non voglia che sia troppo tardi!
Lo zio Saverio lo guardava tutto sgomento, e a bocca aperta: don Francesco strinse le sopracciglia, e stette a pensare.
—Via mandiamolo a Bronte, e facciamolo prete, disse a un tratto.
E impietosito della cera che seguitava a fare il vecchio, cercò di consolarlo.
Stesse tranquillo, nel seminario l'avrebbero ammansato; ben altri musi che il nipote que' padri avevano rimesso nella buona via; sarebbe tornato una pasta di miele, istruito, e con la zimarra per giunta, il che valeva un bel «don» e un certo lustro alla famiglia, mettersi alla pari co' galantuomini nientemeno! Amici lo zio Saverio ne aveva, si sarebbero dati attorno e il nipote arciprete gliel'avrebbero fatto fare: si strappava un'anima dalle granfie del diavolo, e un vero regalo si faceva al paese, poichè, via…. fatta eccezione di quelle…. monellerie, era dei Rizzotto, buona gente di padre in figlio. In quanto a danari, in simili occasioni ce ne vogliono, accomodava tutto lui…. la retta era una miseria…. tuttavia, al bisogno, egli presterebbe volentieri qualcosa…. con l'ipoteca sul podere della Rupe che aveva limitrofo, s'intendeva.
—Piuttosto mandate vostro nipote da me, concluse, gli darò una tiratina d'orecchio, e lo preparerò alla cosa.
Lo zio Saverio se n'andò contento come una pasqua.
—Benedetto quel codino! mormorava per strada dimenandosi come un'anitra in que' suoi stivaloni. Benedetto quel codino!… Questi son gli uomini! E in quel mentre una truppa di ragazzacci gli urlava dietro: olé! olé! …
Peppe alle prime parole di don Francesco ricalcitrò: però al sentire di «don» d'arcipretura, e di cinquecento lire all'anno, oltre le messe, cambiò d'un tratto: prese la sua aria d'ipocrito, chinò la testa, e balbettò ch'era pronto a partire, e che avrebbe fatto l'obbligo suo. Andò via vispo e allegro, col capo pieno di pensieri. Sapeva che i preti oziavano dalla mattina alla sera, scuffiavano di santa ragione, stavan grassi, grassi, ben pasciuti, se togli gli ammalati, e quelli di temperamento gracile…. Dicevano ch'eran ladri…. come se ladri non ce ne fossero un po' per tutto! che si servivano dell'ordine santo per gabbar questo e quello…. col purgatorio purgavano le borse, per via della paura che facevano dell'inferno beccavano legati ed eredità…. ebbene peggio per i gonzi che si lasciavano purgare le borse e avevano paura dell'inferno to'! E tutte queste belle cose non che gli facessero nausea, ma destavano anche in lui molta ammirazione per que' benefattori dell'umanità. Oh, il bel mestiere! Li accusava però d'esser poco cauti: via era troppa la sfrontatezza con cui operavano! egli si sentiva di far più di loro, con la differenza che non sarebbe stato mai tanto minchione da farsi scorgere: bisognava aspettare una buona occasione, agire nell'ombra…. Era contento della fortuna che gli capitava inopinatamente…. e poi quel «don» lo solleticava Egli don Giuseppe…. anzi padre don Giuseppe! riverito, ossequiato, rispettato, adulato, anche da quelli che ora lo minacciavano di calci nel sedere…. a capofila quel cane di mastr'Andrea, se lo avesse trovato vivo!
Via, il sogno era troppo bello, e stava in lui di mutarlo in realtà.
E spinto da queste molle, nascondendo quel che covava nell'animo con l'ipocrisia più raffinata, tenne nel seminario una buona condotta, cercò d'apprendere, e nov'anni dopo si presentava a Cefalù per far gli esami. Era una formalità già s'intende: i vescovi pur di far preti, consacrerebbero un asino vestito: tanti boari, tanti villanzoni duri di testa e di cuore eran passati, passò dunque anche lui, che, alla fine dei conti, il breviario e 'l messale li sapeva leggere, e fu prete.
In paese gli amici prepararono la cavalcata: don Alessio Berlingrieri, come il più ricco, mandò la sua cavalla coperta alla lettera di nastri e fronzoli; i Salamaria, gl'Inchilli, i Salines, i vetturini dai vestiti di velluto nuovo, dalle lunghe berrette di seta nera, e 'l fazzoletto rosso nel taschino, con le mule dalle gualdrappe di stoffe antiche d'ogni colore, e le sonagliere di rame argentato, e i pennacchi variopinti; i figli dei galantuomini, con gran codazzo di dipendenti, partirono a cavallo, facendo sfoggio di bardature strane: selle de' loro nonni, briglie arrugginite lunghe un braccio, che facevano storcer la bocca alle povere bestie, sproni alla D'Artagnan…. una vera mascherata, che, tuttavia, fece gonfiare il nuovo don Giuseppe. Egli, pavoneggiandosi nella zimarra nuova, sulla cavalla di don Alessio la quale procedeva all'ambio, non avendo più nulla del vecchio mariuolo ch'era un tempo, ebbe una parolina dolce per tutti, distribuì gran strette di mano e qualche inchino, mantenne anche un contegno serio con Castrense, divenuto un giovane d'importanza anche lui, dacchè al 60 aveva aiutato i compagni a mettere la bandiera tricolore sul campanile.
Fecero l'entrata in paese in una lunga fila, con gran scalpitio di mule e di cavalli, con un tintinnio assordante di sonagli, fra un popolo d'uomini, di donne, di bambini, di monelli, che accorrevano da ogni parte a baciar la mano e ad acclamare il nuovo prete, il fortunato giovine sposato di fresco alla chiesa. Il vecchio nonno che l'aspettava sulla soglia dell'uscio, col solito berrettino bianco sulla testa tremolante, ebbe a venir meno al vederselo arrivare in pompa, e scordò le pene e gli stenti sofferti, e il vivere a stecchetto per mantenere in seminario quel diavolo, ora che l'abbracciava prete, col «don» festeggiato dai galantuomini di cui poteva dirsi alla pari.
Sì che quando due mesi dopo fu in fin di vita, il pover'uomo ci pensava ancora commosso, con gli occhi umidi. Gli posò le mani sul capo e lo benedisse: moriva contento di lasciarlo un santo, e in una certa agiatezza; la buon'anima della sua figliuola che glie l'aveva tanto raccomandato, non poteva lamentarsi di lui….
Poi cambiato tono, baciandogli la mano, soggiunse con gravità:
—Reciti le ultime preghiere dei morti, sua revevenza, io sento già d'andarmene.
Lui, il sacerdote, s'era sentite sul capo, senz'ombra di commozione, quelle mani tremolanti di vecchio già fredde per l'avvicinarsi della morte, solo la maschera che stavagli di permanenza sul viso dacchè era entrato nel seminario, s'atteggiò al più vivo dolore: a forza di volontà arrivò anche a spremere due lacrime dagli occhi, avendo veduto che i pochi astanti piangevano. Poi s'alzò, si fece grave, e con voce ferma intonò le preghiere dei morti, nel mentre che un pensiero occupavagli il cervello suo malgrado: «faceva bene quel vecchio a andarsene; oramai in quella casa sarebbe stato di troppo.»
Le cerimonie funebri, le visite e le solite consolazioni degli amici lo annoiavano maledettamente: aveva fretta di cercare il gruzzolo che stimava ci dovesse essere per certo. Sicchè la sera, quando restò solo, cacciò un sospiro di soddisfazione. Si levò la zimarra che gli dava impaccio, e in maniche di camicia, con le lunghe tasche di traliccio legato ai fianchi e ciondolanti giù per le anche, al lume d'una lucerna che andava posando or su un mobile or sur un altro, si mise a rovistare per tutto: apriva e chiudeva i cassetti d'un vecchio canterano, mettendo la poca biancheria sossopra; casse, cavandone fuori abiti vecchi nelle cui tasche frugava con le mani febbrili; imposte d'armadi coi tintinni di stoviglie. Poi prese il bastone sul quale soleva appoggiarsi il povero vecchio, e cominciò a battere sull'impiantito, sui muri, ascoltando il suono che rendevano, attentamente. Ma non trovava quel che cercava, e si rimetteva a rovistare da capo.
A un tratto gli balenò un'idea. Corse al letto del nonno, mandò per aria cuscini e coperte, afferrò il pagliericcio di sul quale non era poi molto che i becchini avevano levato un cadavere, lo scucì, ne fece cadere la paglia…. Trasalì. Aveva sentito un rumore sordo, argentino…. Si buttò sulla paglia, vi cacciò le mani tramestando…. afferrò un grosso batuffolo, e così inginocchiato com'era, con la faccia in fiamme, e gli occhi luccicanti, cominciò a svolgerlo…. Scaraventò ogni cosa al muro: non aveva trovato che una ventina di colonnati, e tre monete d'oro. Nel silenzio si sentì com'una pioggia d'argento, un rotolare, un abbandonarsi tremolando di monete.
—Ah, esclamò il sacerdote tra' denti stretti, il vecchio ghiotto se li mangiava i danari!
S'alzò lentamente, prese il lume, e, tutt'accigliato, si diede a cercar le monete: le raccattava e le cacciava nelle lunghe tasche. Le aveva contate, il numero tornava; però non era contento; sperava che figliassero il cupido! e stette ancora una diecina di minuti, cercando in ogni cantuccio, sotto a' mobili, curvo, spargendo per terra l'olio della lucerna, la quale teneva molto bassa, mentre la sua ombra s'allungava sul muro, s'accorciava, s'alzava, s'abbassava, si voltava, si rivoltava d'una maniera assai grottesca.
Entrò nella sua camera, posò la lucerna e andò a buttarsi sul letto.
Che disinganno! aveva contato su quel denaro, che era sicuro di trovare, per alzar la casa, e arredarla come si conveniva al suo nuovo stato…. Non se l'aspettava un tiro simile! E ora come fare? poteva stare in quella stamberga? No: non era stato quello il suo sogno. Sapeva che in questo mondo tutto il rispetto, tutti gli ossequi son per i ricchi e un pochino anche per gli agiati, avessero meriti o pur no: tutto il disprezzo, tutta la diffidenza per i bisognosi, per i pezzenti carichi anche di tutte le virtù: non voleva essere del numero di quest'ultimi…. per i suoi fini era necessario che non ci fosse, o almeno mostrasse di non esserci. Bisognava dunque provvedere…. Basta, prenderebbe ad imprestito segretamente la somma necessaria sul fondo e sulla casa.
Intanto si confortava col consolo che uno alla volta gli facevano gl'intimi: caffè, latte, biscotti la mattina; brodi, galline lesse, arrosti di maiale, dolci il mezzogiorno; ova, e intingoletti la sera. Per bacco! non aveva mai sguazzato in tanto bene di Dio! si lasciava pregare un pochino per non parere, asciugava qualche lacrimetta che riusciva a spremer dagli occhi, cacciava un sospiro lamentevole, poi ventre mio fatti capanna!
Ma dopo il settimo, l'ultimo giorno che si ricevono nuove visite di condoglianze dagli amici, ebbe a provare un nuovo e più amaro disinganno: sulla casa e sul fondo c'era già una discreta ipoteca. Lo aveva spogliato dunque quel vecchio ladro! E non gli passò mai per la mente che l'infelice, vivendo di solo pane, avesse speso quel danaro, di cui egli si credeva defraudato, per mantenerlo nel seminario, farne un dotto e un santo, come soleva dire!
Vendè i mobili vecchi, affittò la casa dov'era nato, prese per sè una stanzetta piccola, ma pulita, in casa di mastr'Antonio per quattr'once all'anno, l'arredò decentemente e con una certa civetteria strana in quell'omaccione, comprò una zimarra nuova, un cappello nuovo da servir pe' giorni di festa, e così alloggiato, e rimpannucciato, attese. Attese una buona occasione con la cocciutaggine d'una bestia malefica accrescendo la dose di quella sua ipocrisia già mostruosa.
Cominciò a insinuarsi nelle grazie de' galantuomini, e de' ricchi burgisi, con l'orecchio teso e un miele di sorriso sulle labbra, con una scaltra adulazione anco che abboccare tutti gli uomini: in processo di tempo s'impadronì delle coscienze di tutti, poi, a poco a poco, senza mostrare le sue arti, entrò ne' negozi del tale, nelle vedute, nelle speranze del tal altro. Così fu più della giornata in casa di tutti; il beniamino delle monache, che, alla morte del padre don Alfio, lo fecero cappellano; e rappresentando destramente e con disinvoltura, la parte d'indispensabile, adoperandosi sotto sotto con le mani e co' piedi, potè diventare il factotum nelle amministrazioni di certe opere pie.
Un pensiero gli stava sempre fitto nel cervello: «aspettare una buona occasione.»
Oramai in paese non si parlava che di lui. Chi l'avrebbe detto! quel monello diventare un così santo uomo!… e che acume, e che prudenza, e che savia accortezza, e che scienza! Bisognava sentirlo a citare que' passi latini sempre a proposito, con quell'aria di chi sappia la sua lingua sulla punta delle dita, abbia buttato sangue sui volumi degli antichi grandi scrittori! faceva accaponare la pelle addirittura!
E per un consiglio s'andava da padre don Giuseppe; per venir fuori da un affare spinoso s'andava da padre don Giuseppe. Un padre aveva un figliuolo discolo? andava da padre don Giuseppe: un marito aveva la moglie, o una figliuola cervellina? andava da padre don Giuseppe. Anche da giudice conciliatore gli facevan fare in certe liti tra loro. Bisognava vedere allora l'aria che assumeva il furbo matricolato: voleva gli si raccontasse ogni cosa minutamente; egli ascoltava attentamente, gravemente; scrollava il capo, appoggiava la fronte sulla palma della mano, mandava un certo sibilo delle labbra; guardava i contendenti, diceva che la questione era arruffata…. poi finiva con lasciar tutti contenti, e con l'idea che in quell'occasione aveva sudato sangue, ma era stato un vero Salomone. E crescendo quella sua riputazione di dottrina e di saggezza, don Alessio Berlingrieri gli dette a istruire la figliola; i Salamaria, risaputa la cosa non vollero esser da meno di quel villano rifatto che si sentiva un gran che perchè aveva quattro soldi, e gli affidarono il figliuolo; i Satines la figliuola; i Rossetti il nipote. Eran danari quelli che cominciò a riscuotere ogni mese, senza contare i regali che fioccavano. Il furbo conosceva i suoi polli: ricevuto un regalo dal tale, lo annunziava con grandi elogi, come per mostrare la sua riconoscenza a tante gentilezze contro i suoi meriti; sì che i gonzi invasi dalla furia dell'orgoglio, facevano a sopraffarsi, con quanto gusto del prete ognuno immagini.
Ma un giorno quella famosa occasione che aspettava da tanto tempo, parvegli si presentasse finalmente. La moglie di quell'avaro del borgese Pietro Sgrò, in punto di morte, profittando del momento ch'egli ascoltava la sua confessione, gli domandò se si prenderebbe l'incarico di dividere ai parenti di lei una certa somma ch'era riuscita a sottrarre al marito.
—Che somma? domandò il reverendo il quale si sentì rimescolar tutto, e cercava di nascondere la sua agitazione sotto a una leggera tosserella.
—…. Ducent'onze padre….
—Oh la pu…! esclamò dentro di sè il degno sacerdote.
Sperava una somma molto maggiore…. Basta bisognava contentarsi anche di quella, tanto per cominciare; eran anni che aspettava.
Accettò. La morente levò di sotto al cuscino un involto, e glielo dette. Egli lo fece sparire nelle sue larghe tasche, poi domandò a chi dovesse dividere que' danari.
—Darà cent'onze a Masi…. cento alle figliuole del povero Salvatore…. Raccomanderà loro che preghino per l'anima mia…. E ora, padre, mi dia la santa assoluzione….
— Ego absolvo te a peccatis tuis, biascicò il prete con un crocione, mentre pensava: alzerò la mia casa…. pagherò quel maledetto debito a don Francesco finalmente!
Poi andò ad aprir l'uscio, e fece entrare i parenti, e il marito che si faceva brutto per cercar di piangere.
L'ingegno nel furto però don Giuseppe l'aveva avuto sempre; l'affare delle posate bastava a mostrarlo chiaramente; e poi il suo programma, lo sappiamo, era di far tutto quello che facevano i preti, senza farsi scorgere: mangiarsi tutti i danari, in questo caso, sarebbe stato da sciocco, ed egli non lo era. Aspettò che fosse seppellita la gnora Grazia, poi andò da i parenti: dette dieci onze a Masi, dieci onze alle due orfanelle. Era un legato segreto affidato a lui dalla buon'anima della gnora Grazia, non bisognava farne parola per via del marito che avrebbe potuto reclamare…. lo sapevano che spilorcio era…. E se ne partì accompagnato dalle benedizioni di quei poveretti che spogliava così indegnamente!
Ci ho rimesse vent'onze…. borbottava per via. Però se la cosa si venisse a risapere…. avrei impiegato bene quelle vent'onze. La fiducia alletta, potrei farmi ricco senza correre tanti rischi….
E trovò scaltramente il modo che la cosa si risapesse.
Dai quattro canti del paese si levò un concerto di lodi. Era un santo, quel che si dice un santo? pochi, ne' suoi piedi, avrebbero dato una tal prova d'onestà.
Egli pagò don Francesco, alzò la casa, l'arredò, andò ad abitarvi, prese una serva vecchia, tanto per evitare le ciarle.
I primi passi erano fatti: la riputazione se l'era acquistata, aveva la casa, aveva un bel podere, una cinquantina di lirette al mese ricavava dalle lezioni, due tarì al giorno dalla messa; oltre gl'incerti, come essere nozze, accompagnamento di morti, vespri e via discorrendo, senza contare il ben di Dio che gli mandavan gli amici, i galletti delle penitenti, i dolci del monastero. Per bacco, quello di prete era un bel mestiere, quando si sapeva fare!
Allora messo in appetito, non ebbe più freno; dimenticò in certo modo anche la sua solita prudenza. Cominciò a fare «dei piccoli negozi» come diceva lui: comprava lino, abbracio, accia, scarpe, mussolina, ferro e altro, e li dava a credito per il doppio del valore; comprava frumento, fave, orzo, cicerchi, e li dava all' addita (interessi) di quattro tumoli a salma (il 25 per cento!) con l'obbligo di pagare anche la differenza in più tra 'l prezzo corrente nell'inverno, e quello corrente nella raccolta, e frutti di quella differenza per giunta!! prestava danari agli interessi di un taro al mese per onza!! Tutto questo in piccolo, s'intende, egli non aveva ancora tanti capitali.
Queste faccenduole lo tennero occupato tre anni. Impelagata nell'interesse, la carne non lo tormentò co' suoi stimoli: era vissuto nella castità; senza nemmen l'ombra d'un cattivo pensiero. Ma ora lo scopo, in certa maniera, era raggiunto; grazie a Dio, le cose eran ben avviate; ora egli viveva nell'abbondanza; e a quella pasciona aveva fatto la pelle lustra. Fu un risveglio di bestia in fregola.
Non lottò del resto: contrariato debolmente fin da piccolo, era avvezzo ad abbandonarsi a' suoi appetiti: s'era dato al furto e all'usura, con una facilità di prostituta, così fece in quest'altra occasione.
Via, i suoi colleghi non bacchiavano le acerbe e le mature? Nel confessionario facevano servir Cristo da mezzano, nelle case dov'erano ricevuti senza sospetto, sotto al manto della religione insidiavano le pecorelle. Anche i capi davano un bell'esempio! bastava leggere le storie per apprenderne delle grosse su vescovi, cardinali e papi…. O che forse il loro arciprete non aveva in casa la ganza? Era naturale: li aveva ridotti tanti cani arrabbiati la legge sul celibato, e doveva essere un grande imbecille…. o peggio, quel Gregorio VII, e tante pecore quei del concilio…. guarda un po' cosa si voleva dalla natura umana! La cosa era andata sinchè aveva avuto l'attrattiva della novità, poi quei consacrati ristucchi, se n'erano infischiati e del papa, e della legge. E avevano fatto bene. Si parlava loro di Dio, di coscienza…. ah, ah, ah, se uno moriva di sete gli andassero mo a dire di non bere perchè così voleva Dio, e la coscienza! Buffonate! Del resto, egli non cercava di spiegarlo, ma il fatto era lì chiaro e lampante: molti e molti preti, per non dir quasi tutti, e alcuni li conosceva lui, con le mani imbrattate d'ogni sozzura andavano a alzar l'ostia la mattina per farci calare un Dio, e questo Dio ci calava senza tante smorfie, era chiaro.
E dunque?
E quel «dunque» lo portò a un terribile dilemma.
O Dio esiste, e allora come tollera per uno tollera per mille.
O Dio non esiste, e allora….
Allora e non ebbe più freno. Si mosse a cercare con calore, con una smania sempre più crescente, alimentata com'era da' suoi pensieracci: i suoi sguardi si fecero procaci, le sue parole con le donne d'una certa libertà pulita, senza sguaiataggine, ciò che dava meglio nel segno: curò anche con più civetteria quel suo enorme corpaccio… E una notte nella febbre che l'agitava, si rammentò delle due orfanelle che aveva spogliate.
Poverette! non avevano padre, non avevano madre; le dieci onze erano bastate appena per pagar la casa, qualche debituccio, e levarsi i panni d'addosso….
Però egli sempre ligio alla sua massima favorita, non le prese in casa con sè, come avrebbero fatto gli altri: ci andava di nascosto la notte, chiotto chiotto, chiuso nello scappolaro che nemmen Dio l'avrebbe conosciuto.
In quel torno, ad alimentare la proverbiale maldicenza di provincia, una notizia soffiò nel paesetto, e prese ben presto la violenza del famoso venticello della calunnia. Marietta, l'unica figliuola dei Salines, l'allieva del reverendo padre don Giuseppe, era gravida! Anna, la loro serva, lo diceva anche a chi non voleva saperlo. Era scivolata dunque la piccina con quell'aria di madonnina infilzata! ma bravo! Però si ignorava chi fosse stato a fare il tiro: si nominava Mico, il vetturino, un bel pezzo di giovanotto…. Ecco perchè i Salines se n'erano andati in campagna due mesi prima del solito! Via farebbero bene ora a turarsi la bocca, non dir più corna degli altri, come solevano.
E che il tiro l'avesse fatto il prete non passò per la mente a nessuno, tanto la sua riputazione d'uomo onesto lo metteva al di sopra d'ogni sospetto; e poi era stato lui, si diceva, a strappar di bocca alla ragazza il nome del birbante che l'aveva sedotta, era stato lui a confidarlo ai parenti sotto al suggello della confessione, raccomandando la prudenza, poichè i panni sucidi si lavano in famiglia.
E il tiro lo aveva fatto proprio il reverendo. Si lasciavan soli durante la lezione, e con la porta chiusa; egli sapeva insinuarsi tanto bene, essa lasciava fare guardandolo con quella sua aria di bambocciona…. il resto va da sè.
E incoraggiato dal buon esito, cominciò a guardare con gli occhi dolci la figlia di don Alessio. Però dovette ingoiare le sue voglie, e beverci sopra: la fanciulla era tanto selvaggia nel suo inconscio pudore, tanto contegnosa, imponeva tanto a quel bruto, da fargli comprender che ad insister oltre avrebbe compromesso l'edifizio così abilmente e pazientemente innalzato, avrebbe perduta l'amicizia del vecchio, la quale gli fruttava più d'ogni altra.
—Basta, non manca tempo, pensò. Chi sa…. forse in seguito….
E, da vero volpone, pel momento mutò registro affatto.
II.
Quelle vecchie cartacce di famiglia, se don Alessio l'avesse dissotterrate, avrebbero provato chiaramente che a S. Giovanni s'ingannavano di grosso a crederlo un villano rifatto. Ma o che non gli importasse di quella credenza, o ch'avesse svolte un tempo quelle pergamene e chi sa per quale diavoleria l'aveva prese, scritte com'erano in latino, o che n'ignorasse l'esistenza, fatto sta esse dormivano in fondo ad una cassapanca di querce annerita dal fumo e dagli anni, che giaceva impolverata nella soffitta con gli altri mobili rotti. Si chiamava Berlingheri, non Berlingrieri come pronunziavano nel paese, e discendeva da uno dei tanti rami dell'antica casa di Tolosa, così celebre nella storia. Chi sa quante peripezie dovette subire attraverso i secoli quella famiglia (venuta nel reame di Napoli con Carlo d'Angiò) prima di ridursi in Sicilia; chi sa per quali vicende i membri di essa si videro costretti a scingere la spada, e a impugnare o zappa o lesina o martello; a seconda dell'inclinazione d'ognuno, e dell'opportunità, dovendo pur vivere, perchè ora fosse perduto ogni vestigio dell'antico splendore. Si saran certo divisi come i pulcini delle quaglie appena messe le penne, si saran moltiplicati nei vari paesi trascinandosi dietro la fatalità che li colpiva poichè tutto deve mutarsi quaggiù; e qua la morte li avrà distrutti, là si sarà contentata d'assottigliarli, e la miseria aveva cancellata la nobiltà. Ora non restavano che un vecchio agrimensore a P…… povero come Giobbe con una nidiata di figliuoli per soprassello, don Alessio e la sorella donna Costanza, don Bastiano, loro fratello, ammogliato a Cammarata. Il padre un vecchio burgisi cupo, avaro tanto che non avrebbe dato un Cristo a baciare era arrivato a forza di stenti e di privazioni a raggranellare un patrimonio. Aveva mandato i figliuoli maschi a scuola in casa di un prete dove fecero quel che poterono, aveva tenuto la femmina sempre in casa a filare e tessere, ed era contento di lasciarli ricchi col cappello, che, senz'altro, dava loro diritto al «don.»
Don Bastiano dunque, il primogenito, aveva quarantasei anni; una moglie ristecchita gialla come un rigogolo, e un figliuolo per nome Giovanni il quale studiava a Palermo.
Grasso, con un ventre enorme, con un'aria di bue che sonnecchi, don Bastiano non era punto un testone. Nei paesi d'attorno non c'era chi gli potesse stare alla pari nell'amministrare un patrimonio: arbitriava, come si dice da noi, e con l'industria agraria, per la quale si può dire ch'era nato, era riuscito a duplicare il suo in pochi anni.
Invece don Alessio, il minore, aveva battuta tutt'altra via; egli la sentiva diversamente del fratello, col quale si dissomigliavano anche di persona: era corto, magro assaettato. Non voleva saperne di arbitri; per lui ciò era un voler comprare impicci a contanti, senza alcuna utilità: si contentava d'aumentare il suo col metter da parte qualche soldo.
—Ma io mi sono arricchito così! urlava don Bastiano quando il discorso cadeva su quell'argomento, il che era per solito, e tu, con lo startene con le mani alla cintola, hai accresciuto di poco quel che ti lasciò la buon'anima.
—Se io ho accresciuto il mio di poco o di molto non lo so…. rispondeva lui, nè voglio dirlo…. si vedrà appresso. Se mi mettessi in quelle brighe, ne uscirei con una canna in mano. Scuoti pure la testa.
E si bisticciavano, mentre avrebbero potuto risolvere la questione in due parole: don Alessio non aveva le attitudini necessarie a quel genere d'industria.
Però la campagna piaceva anche a lui; e specialmente andava pazzo per un suo podere a due tiri di schioppo da S. Giovanni, dove aveva finito con lo starsene tutto l'anno. La villetta sorgeva e sorge tuttavia a mezza costa del colle alle cui falde s'aggruppano le case del paese, con la parrocchia del campanile a ventola grigio per gli anni, dalle commessure delle cui pietre screpolate pendono dei ciuffi d'erba. A sinistra si estende un'ampia costiera nuda, tagliata dalla linea bianca dello stradale, rotta da borratelli e da frane; di fronte e a destra la valle; e dopo questa s'alzano colline e colline, le une dietro le altre, sino alla massa brulla della montagna di S. Calogero che chiude lo sfondo col più pittoresco effetto che mai.
Questo podere gliel'aveva portato in dote la moglie figlia d'un signore decaduto di Cammarata. Era ben poca cosa veramente, ma egli l'aveva ingrandito assai, e migliorato.
Così dava sfogo a una sua manía: non poteva vedere un appezzamento di terra vicino alle sue, che non avesse a far di tutto per averlo: metteva in campo lusinghe, persuasioni, tendeva gherminelle, offriva cambi con altre terre, minacciava anche, messo con le spalle al muro. E se tutto ciò non approdava a nulla, perdeva la pace, se ne sognava la notte, era preso dalla malinconia, e faceva fioccare l'offerte, sino a che il proprietario, abbagliato, non cedesse.
Allora diventava un giovinotto a vent'anni: non voleva che la persona s'allontanasse, temeva che ci dormisse sopra; correva a casa, si cambiava d'abito, prendeva il danaro necessario, e via dal notaro. Respirava. L'indomani immancabilmente metteva in capo il suo largo cappellaccio, di feltro grigio, prendeva un suo lungo bastone che pareva un bastone di pecoraio, e se n'andava diviato nella nuova proprietà. Provava un vivo piacere a vedere rompere i limiti divisori, squarciar la terra dall'aratro se campo seminativo, dalla zappa se vigna, e spingeva quel suo amore per la terra sin a curvarsi a raccogliere anche lui de' sassi e gettarli nei mucchi rotondi che faceva inalzare apposta perchè occupassero meno spazio, a estirpare i minimi fili d'erba che i giornalieri si lasciavano dietro. Ciò sin a tanto che un nuovo amore non venisse a fargli scordare il primo, un nuovo acquisto non richiedesse le carezze già prodigate al precedente. Così aveva fatto la fortuna di tanti poveri diavoli, che, se ridevan di lui, in fondo lo benedicevano. Questa brama però aveva le sue colonne d'Ercole: cessava appena il confine arrivasse a una via, a un torrente, anche a un ruscello. Bisognava vedere allora con quanta indifferenza guardava le terre al di là! non l'avrebbe prese manco regalate. Ciò per non guastar l'ordine. Era di sangue caldo, gridava per ogni nonnulla; ma in fondo poi era una pasta di zucchero: in quella casa il bernoccolo della bontà l'avevan tutti.
Donna Costanza, la sorella, aveva avuto sempre una particolare affezione per lui; sì che avevano finito con far tutt'una casa. Era una donna di media statura, grossa, con un faccione rotondo dal naso a ballotta; proprio una botta, come dicevan tutti, ma che aveva tali pregi da far dimenticar quasi la sua bruttezza, per la quale, del resto, in paese non aveva potuto trovare un cane che le abbaiasse. Non è a dire se ciò arrivava all'anima della poveretta che lo sapeva, benchè si fosse rassegnata. Anzi aveva spinto il buon senso a tal punto, da non voler acconsentire a farsi vedere da uno spiantato d'un paese vicino, venuto con un mezzano di matrimoni per conoscerla e sposarla qualora gli piacesse, diceva lui: aveva compreso esser quella una pura formalità, quel coso voler la dote e non lei.
Aveva fatto la serva alla cognata, una donna superbiosa da stomacare, e quando questa era morta al parto, s'era data a prodigare tutte le sue cure alla neonata: l'aveva cresciuta, le aveva insegnato quel poco che sapeva di lavori donneschi, le aveva trasfuso tutti i buoni sentimenti della sua anima candida, e ne aveva fatto un angelo. Fu così che la piccola Lola non s'accorse della sostituzione e l'amò come una vera madre.
Sin dal primo giorno però aveva avuto il governo della casa; il che la solleticava un pochino: lei provvedeva alle spese giornaliere, lei s'occupava delle provviste. Sicchè era sempre attorno or per una cosa, or per un'altra, e un po' di riposo l'aveva solo la sera, quando, messa a letto la nipotina e fattala addormentare con una fiaba, andava a sedersi vicino al tavolino dove il fratello faceva invariabilmente la solita partita a scovertino con padre don Giuseppe. Essa amante d'ogni giuoco (benchè non giocasse che al solo lotto) stava a guardare attentamente e con un vivissimo piacere. Nella stanza regnava il silenzio rotto solo dalla voce monotona de' giuocatori:—Coppe.—A lei.—Bastoni.—Tre d'assi…. Don Alessio, bizzoso quanto mai al giuoco, dava un gran pugno sul tavolino: era il segnale, e cominciavano a bisticciarsi. Donna Costanza cercava d'acquetarli…. Basta, ci riusciva: ma eccoti il reverendo a cominciare a sua volta…. A un'ora e tre quarti precisi si stabiliva di fare l'ultime tre partite, a due ore si cenava, a tre tutti erano a letto. Si faceva una piccola eccezione alla regola, quando il reverendo restava a cenare alla villa, o quando c'era Giovanni, il nipote, il che era sempre un avvenimento.
Aveva appena aperto gli occhi gnaulando, quando la mamma decretò, che gli si sarebbe messo nome Giovanni com'il nonno, e se ne sarebbe fatto un avvocato. Chi ha roba, ha liti. Il bimbo era venuto su sano e robusto, con tutt'altra inclinazione che per il codice, a giudicarne dalla sua passione pe' bastoni, su' quali cavalcava tutto il santo giorno, e per certi cappelli da generale con fiocchi e franzoli di carta, sua manifattura, che mettevano come un fruscio di foglie dovunque passasse galoppando. Poi una sera, in casa dello zio, gli avevano messa sulle braccia la cuginetta nata d'allora, e gli avevan detto ridendo: bacia la tua piccola sposina. Il fanciullo era diventato rosso sino alla radice dei capelli, aveva fatto una smorfia che voleva essere un sorriso, e aveva appiccato un bacio tanto forte sulla guancetta della bimba, che questa s'era messa a strillare. Così li avevano fidanzati sin dal nascere; e a mantenere sempre viva quell'idea ne' loro piccoli cervelli, la nonna alludeva, don Bastiano e donna Rosaria alludevano, don Alessio, donna Costanza, le serve…. fino i gatti di casa: tutt'e due ricchi, tutt'e due figli unici, era naturale: la sposa non avrebbe cambiato nemmeno di cognome. Essi soli non pronunziarono parola che accennasse a quell'accordo de' parenti: però la piccola Lola, sin dall'età della ragione cominciò ad imporsi con certe prepotenze di donnina viziata, a tenergli il broncio come un'amante quand'egli non le andasse a' versi, e Giovanni a fare ogni suo volere, benchè non fosse tanto pieghevole. Egli passava alla villa le feste e le vacanze. Facevano a rincorrersi o a rimpiattino, scorazzavano pe' campi, saccheggiavano il frutteto, alzavano casette e forni con pezzi di mattoni e terra bagnata, riempendo la casa, per solito silenziosa, delle loro risa e delle loro grida infantili, insudicciandosi, e facendo spazientire la zia. Fin la partita disturbavano la sera, e, cosa incredibile, don Alessio li lasciava fare sorridendo.
Ma un bel giorno Giovanni arrivò col babbo. Veniva a salutare lo zio, la zia e la cuginetta, prima di partire per Palermo: aveva compiti i dieci anni e la nonna aveva detto: è tempo ch'egli entri in collegio.
I due cugini non si videro che dopo sette anni. Il ragazzo s'era cambiato in un bel giovinetto che si pavoneggiava un pochino nella divisa di colleggiale di panno turchiniccio con le mostre rosse, la bimba in una fanciulla, che, a cagione del suo sviluppo precoce, mostrava più anni di quelli ch'avesse realmente. Dovettero pensar certo alle allusioni che s'eran fatte in famiglia sul loro avvenire, poichè si guardarono timidamente, arrossirono, si confusero, non seppero se non balbettare poche parole. Don Alessio e donna Costanza sorrisero e la vecchia serva dette loro d'occhio.
Agosto, settembre e ottobre, passarono come in un sogno delizioso. Oh, le belle passeggiate ne' dintorni! le scorpacciate di more sotto al grand'albero, con la faccia e le mani impiastricciate di rosso, facendo a rubarsi le più grosse, e le più mature! Oh, le belle sere passate al lume di luna nell'aia, sdraiati sulla paglia, a sentire l'allegre canzoni de' contadini, accompagnate dallo scaccia pensieri; o i cori stupendamente intonati con quelle cadenze larghe e malinconiche che fan vibrare le parti più riposte del cuore! E la raccolta delle frutta nell'autunno, e la vendemmia con i balli nel prato al suono dello zufolo accompagnato dall'accordo delle voci dopo la tramuta! Sì che lo studente, ritornato a Palermo, alzava la faccia spesso dal libro, e con l'anima inondata di mesta tenerezza, restava assorto in que' ricordi, fra' quali si moveva la figura della cugina col visino bianco tanto simpatico, e gli occhioni bruni e le grosse trecce nere che soleva portare sulle spalle. E or la vedeva seduta in casa, curva sul suo lavoro d'ago o di ricamo; or in mezzo a' campi per la viottola costeggiata di siepi di sambuco, con una rosa fra' capelli; or seduta nell'aia col bel viso illuminato in pieno dalla luna; or sotto al gelso, a rizzarsi sulla punta de' piedini, e stender la mano per cogliere una grossa mora: la manica del vestito scivolando, lasciava a nudo un braccio bianco come neve: oh, quella manica caramente indiscreta! Allora sì, aveva un bel rileggere il periodo, fare tutti i suoi sforzi per carpirne il senso; dopo due o tre parole la mente ricorreva dietro a quel caro fantasma. Pensava con un dolce trasalimento che una volta in cui lei gli mostrava certi cardellini che un contadinetto le aveva portati la mattina stessa, le loro mani s'erano incontrate nel carezzarli, ed essa s'era fatta rossa rossa: ricordava anche com'era vestita quel giorno…. d'una veste di mussola azzurro cupo, con delle mostre di tela color caffè crudo, aveva sul capo, e annodato sotto il mento, un fazzoletto di seta bianca: pensava che l'ultima volta ch'egli lasciò la villa, nell'accomiatarsi, aveva tenuto a lungo fra le sue la mano che la fanciulla gli abbandonava, e s'erano guardati a lungo negli occhi: quel suo sguardo l'aveva accompagnato come una carezza nel montare a cavallo, nel voltarsi indietro a salutar per l'ultima volta là dove la via si perde fra gli alti castagni che nascondono la vista della spianata… gli pareva di vederlo ancora dopo tanto tempo. E assaporava tutta la dolcezza di que' ricordi, provava la tristezza della lontananza, il desiderio di quel luglio nella cui metà si solevano dar le vacanze, immaginava eventi per i quali la sua presenza fosse inesorabilmente necessaria, ne' luoghi a lui ora tanto cari.
Però l'amore a quell'età soggiace all'incostanza dell'anima ancora fanciulla: oggi è fiamma, domani cova sotto le ceneri, o si spegne del tutto. L'esser libero per la prima volta in una grande città, i divertimenti, gli amici con le loro tentazioni, lo distrassero: i ricordi si presentarono meno vivi, i pensieri non più caldi e insistenti come prima: cominciò con qualche scappatella, sinchè ruppe la cavezza affatto, e la fanciulla fu quasi dimenticata.
In quel torno la nonna cadde malata gravemente. Giovanni chiamato in fretta da Palermo, arrivò appena in tempo per baciarle la mano l'ultima volta. Passato il lutto, s'aprì il testamento. Ma la vecchia aveva fatto prima delle donazioni a don Bastiano, il testamento non era tanto chiaro, don Alessio si piccò per un nonnulla, e messe su causa. Con la causa nelle due famiglie entrò una certa animosità, sicchè cessarono dal vedersi.
A Giovanni ciò non fece nè caldo nè freddo: ora egli aspettava con impazienza la fine delle vacanze per tornare a divertirsi in città, dove anzi si diceva che il signorino facesse il cascamorto con la figlia d'un ricco negoziante.
Intanto in paese, per non perder tempo, guardava con fissità da facchino le grosse figlie del cancelliere della pretura, che andavano in sollucchero civettando della maniera più grottesca; faceva la posta alle servotte che andavano all'acqua in piazza, sull'imbrunire. Le pedinava; sussurrava loro dietro delle parolacce e delle proposte; ne ghermiva qualcuna in un vicolo deserto o sotto a un arco buio. Ciò secondo lui era essere un giovine di spirito, uno che sappia davvero cosa vuol dire far vita.
—Che caro pazzo, dicevan tutti. E se ne imitavano le mode, se ne scimmiottavano le maniere, si ricercava la sua compagnia, la sua amicizia.
La sera in Casino si faceva crocchio attorno a lui; egli raccontava le sue avventure, con parole molto libere, tra le grasse risate, e gli sguardi accesi di voglia di quei più o meno barbuti signori, tra gli ammicchi e' sogghigni dei giovinastri, de' quali qualcuno s'alzava rosso come un gambero, e spariva per tutta la sera. Gli attempati anzi affettavano di dargli dei consigli, infilando famigliarmente il braccio sotto al suo: tutto ciò per strappargli delle confidenze: come stesse a quattrini, se era in via di rovinare il babbo, poveretto, un uomo che non se lo meritava davvero. E lasciatolo appena, andavan dicendo roba da chiodi de' fatti suoi. Aveva le mani bucate quel giovine; quella casa era bell'e ita; non era credibile quanti debiti avesse quel poco di buono a Palermo; una sera, nientemeno, aveva speso mille lire per una cena in un certo locale…. in un certo costume…. cosa da far nausea addirittura!
—Uh, chi gli darà la figliuola ora a quel vizioso? A pronuncia! esclamano le mamme, segnandosi col pollice sulla fronte, come per scacciarne la tentazione.
Trascorsero cinque anni. Si decise la causa che vinse don Bastiano. Si misero di mezzo alcuni amici intimi, e i due fratelli pacificarono. In quell'occasione si pianse di commozione e di gioia; nessuno però ne provò tanta quanto la giovinetta, oramai sicura di rivedere il suo Giovanni. Essa non aveva scordato le belle passeggiate, e le canzoni dell'aia, e i balli dell'autunno. Lo amava di più anzi quell'ingrato che non s'era fatto più vivo, forse per quel che sentiva raccontare della sua vita sbrigliata (è così fatta la natura umana) forse perchè come certi teneri cuori non doveva amare che una sola volta.
Si rividero. Arrossirono come al solito sino al bianco degli occhi, balbettarono come al solito, e passata la prima commozione provarono tutt'e due una viva tenerezza.
—Dio, come s'è fatto bello! pensò l'una tutto il giorno.
—Come s'è fatta bella! pensò l'altro. E in capo a poche settimane non solo tornò ad amarla come prima, ma confessò a sè stesso che oramai non poteva vivere senza di lei.
Tuttavia malgrado ciò, malgrado fosse compreso dal fascino che facevan sempre più crescere i colloqui intimi ne' quali parlavano del più e del meno con tenere inflessioni nella voce, le carezze degli occhi, certi rossori subitanei, certi dolci sorrisi, certi tocchi innocenti…. que' mille nonnulla insomma che per gli innamorati sono tante incantevoli rivelazioni, non osò mai farle una dichiarazione. Egli tanto ardito con l'altre donne, dinanzi a lei diventava timidissimo. Aveva tentato diverse volte cercando di farsi coraggio con tutti gli argomenti possibili, ma inutilmente: non poteva pronunziarla quella parola che il cuore gli spingeva sulle labbra, e non s'accorgeva ch'essa stava ad aspettarla ogni volta tutta tremante.
Un giorno però ardì rubarle un guanto. Era un piccolo guanto grigio, molto sciupato, che cacciò rapidamente nel taschino del panciotto: e ne lo cavava fuori spesso, e lo baciava, e ne aspirava l'odore con certi dolci fremiti, come se sotto al naso e sulle labbra, ci avesse la piccola manina della fanciulla con la punta dell'indice punzecchiata dall'ago.
Lola lo cercò con una singolare insistenza; fece un mondo di domande al cugino…. avrebbe fatto supporre essersi accorta ch'era stato lui a prenderglielo. Quel guanto ebbe la virtù di guarire in certo modo il giovine dalle sregolatezze passate. Ora era agitato d'altri pensieri. Aveva ventitre anni e si sentiva stanco di quella vita da scapestrato…. Oh, la vita beata coniugale, nella pace, tra una nidiata di figlioletti rosei e ricciuti, senza cure e senz'impicci! E provava una dolcezza infinita. Gran destino era il suo che quella benedetta nonna avesse disposto ch'egli doveva prendere la laurea prima d'ammogliarsi!… Basta, era il penultim'anno quello, e per di più n'era passata la metà: un anno e sei mesi si fanno sur un piede, che diavolo!
Anche la sua timidità era scomparsa dopo quell'atto ardito; almeno egli lo credeva: anzi aveva giurato a sè stesso che, arrivato a Badalà, non si sarebbe lasciata sfuggire la prima occasione favorevole; l'avrebbe pronunziata quella parola che doveva rendere completa la sua felicità.
E aspettò le vacanze in preda a un'impazienza vivissima.
III.
Se fosse dato a ognuno di far correre il tempo a seconda de' propri desideri, la vita, dall'età della ragione all'ora della morte, non sarebbe che un breve passo. Finalmente vennero quelle penultime vacanze tanto desiderate, e l'ora in cui il giovane potè montare la sua storna, e seguito da due campieri, mettersi in via per S. Giovanni.
La villetta gli apparve all'uscir dalla gola della Ferma, imporporata da' raggi del sole in sul tramonto. Come gli batteva il cuore! come parvegli interminabile quel breve tratto di via che doveva ancora percorrere per arrivarci! Che faceva lei in quel momento?… Se era al terrazzino poteva riconoscerlo alla cavalla…. Come la troverebbe?… s'era mutata?… Oh, se non l'avesse a guardar più negli occhi con quella dolcezza di paradiso che faceva di lui il più felice degli uomini!
E una voce interna gli diceva, che stesse tranquillo, la sua Lola sarebbe stata con lui come per il passato, che cessasse dal dubitare, essa l'amava. E quella villetta in mezzo ad un bel verde, circondata sin dove l'occhio arrivava, da stoppie gialle, tramezzate qua e là da favuli bruni, da vigneti, da qualche boschetto, gli sembrava un vero Eden, dove, con quell'Eva, si sarebbe potuta passare la vita intera nelle voluttà dell'amore.
Al paesetto sonava l' Angelus quando il ponte di legno che accavalcava il piccolo borro, secco in quella stagione, risonò sotto lo scalpitare delle cavalle. S'internarono in una viottola ripida tra due siepi di rose d'ogni mese, si curvarono sul collo delle cavalle per evitare i rami del famoso moro, e poco dopo, per il viale de' castagni, sbucarono nella spianata. Due grossi mastini si slanciarono abbaiando; una fanciulla, con un cucito in mano, s'affacciò appena nel terrazzino e rientrò vivamente arrossendo: Giovanni però l'aveva veduta.
Le solite feste dello zio Alessio e della zia Costanza non mancarono; non mancò il solito invito fatto sempre con la solita frase: «questa volta, spero, vorrai passare alcuni giorni con noi;» gli offrirono vino, gli offrirono caffè. E don Alessio cominciò a darsi moto; s'affacciò alla terrazza, urlò con quanto n'aveva in canna allo stalliere di menar nella stalla la cavalla del signorino; s'adirò anche perchè non l'aveva già fatto, e lì un diavoleto: poi rientrò, andò, come soleva a dir le sue ragioni alla sorella, e senz'attender risposta, nell'anticamera ad affacciarsi all'uscio della scala e chiamar Elisabetta che portasse i lumi…. A quel buon vecchio entrava il diavolo in corpo ogni volta che arrivava il nipote!
Lola intanto non compariva, e il giovine n'era proprio indispettito: via, dopo un anno quasi che non lo vedeva, avrebbe dovuto essere un pochino più sollecita: non avrebbe fatto l'istesso lui…. no certo…. ma lui l'amava, e lei chi sa….
Ma quel suo monologo interno fu interrotto in punto dalla comparsa della fanciulla…. Oh, quanto s'era fatta più bella! S'avanzava con una certa esitazione, con un certo imbarazzo, i quali davano una grazia nuova al suo corpo grande e ben formato che non mancava di flessuosità e d'eleganza, mettevano in quel caro visetto un non so che, che lo rendeva adorabile. Non erano i suoi occhi no, che l'ingannavano, o la dubbia luce della sera, s'era fatta più bella.
Gli si fece incontro, e gli strinse la mano tutta commossa, e gli domandò notizie dello zio, della zia, di lui, con le solite carezze nel tono della voce, e negli occhi. Già ora egli si chiariva del perchè di quel ritardo: l'aveva vista di volo nel vano del terrazzino, ma poteva giurare che in luogo di quel nastro celeste, su' suoi capelli c'era un fazzoletto a scacchi rossi e neri…. e il lembo dello sottana, ch'era scomparso rapidamente, gli pareva di vederlo ancora, non era grigio per certo: e quella cipria sul viso…. no, essa non adoperava la cipria ogni giorno. Dunque s'era fatta bella per lui. E una viva tenerezza aveva già cacciato il dispetto, quel brutto dispetto che gli aveva fatto fare il proponimento d'andarle incontro tutto gaio e indifferente, e d'indirizzarle un complimento che voleva essere anche un frizzo.
Quella sera anche padre don Giuseppe, che gli era stato sempre antipatico, non gli parve più, quello. Quando il prete comparve sulla soglia dell'uscio con un «buona sera a tutti quanti» che rintronò la stanza come il mugghio d'un toro, e un «oooh, don Giovannino! ben arrivato!» direttogli con tutt'e due le mani stese, il giovine confessò a sè stesso d'essersi ingannato sul conto suo: via, in quel faccione d'appoplettico, non si poteva negare, una certa espressione di di bontà c'era, e quell'alta persona, dalle membra enormi, non aveva proprio quell'andatura stupida d'un bruto che l'aveva colpito altre volte. Spesso l'aveva pensato, spesso aveva esternato quel suo pensiero in famiglia: «quel prete m'ha tutta l'aria d'un birbante» aveva giudicato leggermente. I suoi occhi grigi, lucenti come acciaio brunito, eran duri…. ma egli poteva anche affettarla quella durezza…. quanti non c'è che hanno il ticchio di mostrarsi diversi da quel che sono! ne aveva conosciuti lui di quelli che si studiavano a farsi una cera burbera, mentre in fondo eran gli uomini più buoni del mondo….
Ma venne l'ora della partita, e don Alessio non transigeva: si preparò il tavolino, con il lume, le carte, e le solite fave per gettoni; i due avversari presero posto l'uno di faccia all'altro, motteggiando; donna Costanza sedette al suo con la calza.
—Coppe.
—Bastoni…. Danaro.
—A lei. E al tono della voce, e al modo che don Alessio pronunziava quel «a lei» si capiva che cominciava a stizzirsi.
—Bastoni…. Sei di napoletana.
Il solito pugno di don Alessio, le solite recriminazioni.
I due giovani, in piedi vicino al tavolino, se ne stettero un pezzo a veder giocare: si guardavano sorridendo all'escandescenze del vecchio. Quando donna Costanza s'alzò, chiamata dalla serva tutta in faccende per il nuovo ospite, prima l'una, e poi l'altro, vennero nel terrazzino. Giovanni rientrò a prendere due sedie, e sedettero.
Era una sera senza luna, con un bel cielo stellato.
L'arma mi sentu nnesciri
canticchiava lo stalliere con voce di canna fessa, e per la campagna silenziosa vibravano i tocchi lenti della campana del paese, la quale annunziava un'ora di notte.
—Questo è il momento…. pensò Giovanni: e il cuore gli si mise a battere come se volesse saltargli fuori dal petto. Pensò e ripensò a una frase tanto per cominciare il discorso, ma non gli riuscì di trovarne: il suo cervello era vuoto. Si stizzì, si rimproverò d'essere uno scolaretto, un uomo dappoco. Fu lei, che, con la sua voce melodiosa, ruppe quel silenzio imbarazzante.
—Ti sei divertito a Palermo?
—No…. cioè…. così così…. Esitò ancora un poco, poi, per uscire da quel ginepraio, si mise a parlare di teatri, di serate deliziose passate alla villa, di scampagnate fatte con amici, di bagni….
La fanciulla aveva inarcate le sopracciglia. Non stava certo in pena il signorino lontano da lei…. E in un lampo intravvide la figura della figliuola del negoziante, com'essa aveva cercato di rappresentarsela le tante volte pensandoci, dal giorno che aveva sentito dire qualche cosa in proposito. Essa andava certo ai bagni…. Giovanni l'aveva vista…. non lo diceva, il perchè era chiaro! alla sola idea che il giovine avesse potuto veder colei nell'acqua, ricoperta d'un semplice velo di mussolina, le si strinse il cuore. Oh, no, non approvava che le signore, e in ispecie le ragazze, andassero a bagnarsi con gli uomini; lei ne sarebbe morta di vergogna.
E glielo disse secco secco.
Ma lui, non essendosi accorto di quel mutamento repentino nel viso, e nelle maniere della cugina, le dava la berta. Via che c'era di male, tutte lo facevano: era uno de' tanti pregiudizi che l'uso avrebbe finito col cancellare.
—La moda, cara mia, la moda,… E parlò della moda, e poi di passeggiate e d'equipaggi. Egli voleva incoraggiarsi con quel diluvio di parole; però non ci riusciva.
—E tu, disse infine quand'ebbe esaurito anche quel tema, com'hai passato il tempo?
—Al solito, rispose lei: qui, lo sai, non ci si può divertire certo come a Palermo.
E disse quest'ultime parole con un leggiero tono d'amarezza.
Allora il giovane si accorse di quella sua cera brusca, e ne fu proprio sgomento. Che aveva dunque!… che le aveva fatto!… Non era molto, essa lo guardava con la solita dolcezza, n'era sicuro…. Perchè allora? Non ci si raccapezzava. E maledisse in cor suo la disgrazia che lo perseguitava. Qual più bella occasione di questa? Ora era perduta completamente: egli non aveva il coraggio di dirle una mezza parola di amore vedendola a quel modo. E mise un sospiro, e si contentò di guardare con la coda dell'occhio la manina che la fanciulla aveva abbandonata sul grembo. Se non fosse stato per quella diavoleria a lui ignota, forse a quell'ora stringerebbe tra le sue quella manina gentile e graziosa.
IV.
Il vecchio orologio a pendolo, chiuso in un armadio impiallacciato, sonò l'ora canonica, e si fissarono al solito l'ultime tre partite.
—Resterà a far penitenza con noi stasera, disse don Alessio al prete. E questi accettò con un sonoro «grazie» mentre un largo sorriso rallegrava quel suo faccione da frate gaudente. Corbezzoli! quella sera si doveva mangiar bene in casa dell'amico, s'era soliti di festeggiar sempre l'arrivo del nipote…. c'eran certi atomi odorosi nell'aria che venivano dalla cucina, da far credere che si mangerebbe carne…. Umh….
E giocò distratto, e perdette con gran piacere del vecchio, che lo veniva stuzzicando con un mondo di monellerie.
Un'insalata di lattughe dalle foglie crespe, metà d'un verde tenero, metà d'un bianco gialliccio, una montagna di costole di castrato arrosto il cui odore aveva fatto perder la bussola al reverendo, de' funghi delle Madonie con salsa d'acciughe, varie sorta di frutta, ecco il solido di quella cena di provincia: rappresentava il liquido un vinetto nero, un po' frizzante, ma buono in fondo, e che il prete tracannava a gran bicchieri.
Egli parlava poco: macinava a due palmenti: e restringendosi ad approvare spesso col capo, o con qualche «già» con qualche «sicuro» con qualche «è fuor di dubbio» messi con arte a posto debito, ascoltava don Alessio che aveva preso l'aire nel suo discorso favorito. Quella mattina era sceso al paese per certi suoi affari, quando, vicino alla chiesa, gli s'era attaccato a' panni don Castrenze, il già sindaco. Aveva un diavolo per capello quell'uomo, per il tiro che gli aveva giocato il partito contrario con alla testa i bottegai, tutti borbonici sino alla punta delle unghie. Imbecille! lo sapeva lui don Alessio, chi era stato a accoccargliela…. E chi era stato aveva fatto benone, perdinci! Oramai eran tutti ristucchi di quell'inetto ch'era diventato consigliere per caso, e sindaco per intrighi. Un bel bindolo! Già col Governo degli italianissimi bastava mostrarsi idrofofo per le cose passate, ad essere ritenuto un gran che, e poter pervenire a qualunque carica politica o amministrativa: don Castrense che predicava essere stato un di quelli che avevano attaccato la bandiera tricolore ai ferri del campanile (e le due parole sottolineate egli le pronunziava con un'enfasi canzonatoria) era uomo da papparsi il comune col cassiere e i consiglieri bell'e vestiti per di più! Ora strillava come una gazza spennacchiata, perchè l'avevano disturbato nel meglio…. non era potuto riuscire che a levarsi quel debito con i Salamanà. In soli pochi mesi di sindacato! Era dei sorteggiati di quell'anno, perchè aveva sostituito un morto, e aveva avuto un solo voto! c'era da scommettere che se lo fosse dato lui. Dunque gli aveva riempito la testa d'un mondo di chiacchiere: voleva ricorrere al re in persona, sarebbe andato a Roma così minchione come poteva parere, e quell'elezioni l'avrebbe fatte annullare. Era pazzo, poveretto…. si sarebbe visto! Anzi l'indomani scriveva al deputato sul proposito.
—Sta fresco a pigliarsela con lei! esclamò il prete riempendosi il piatto di funghi. Mi pare che voglia fare a' cozzi co' muriccioli.
—Lasciamolo correre, riprese il vecchio con un sorriso di disprezzo, alcunchè sodisfatto dell'adulazione dell'amico: e seguitò a enumerare i giusti motivi che lo spingevano a spalleggiare gli avversari di don Castrenze, mentre il reverendo, con la bocca piena, ciondolava il capo d'alto in basso, mostrando di saperla lunga in quegli occhiacchi. Via, l'ira e lo zelo di don Alessio si sarebbero spiegati subito, quando si fosse saputo che don Castrense aveva due tumuli di terra a pochi passi dalla villa, giusto gli ultimi che ci volevano per compire l'unità del podere secondo l'intendeva il proprietario, e si negava a venderli, si negava tenacemente.
Donna Costanza faceva la cera di chi cominci ad essere preso dal sonno: i due giovani, seduti l'uno vicino all'altro, apparentemente ascoltavano; al modo come giocavan d'occhi c'era da supporre che la loro piccola burrusca fosse passata com'una burrasca di aprile.
Ma alle frutta si cambiò discorso: per via d'uno dei nuovi eletti, parente d'un latitante, si venne a parlare del famoso don Peppino, il capo d'una banda che spargeva il terrore nel territorio vicino.
Don Alessio prese la palla al balzo. Ce n'erano stati dei banditi in Sicilia, e non pochi ancora: Pestalonga, Pasquale Bruno, anticamente; i fratelli Palumbo, e Sbirrillo ne' tempi più recenti; ma sanguinari, ma feroci come questi, mai più! Era alla civiltà, era al progresso, era al governo degli eretici conculcatori d'ogni legge, che si dovevano tali uomini. Nella borgata di Braccamena, i contadini, stanchi dei delitti d'ogni sorta che commetteva la banda, avevano stabilito di dar man forte alle autorità: una notte otto uomini, armati sino a' denti, avevano assaltato la borgata, e fatta irruzione nelle case, avevano strappato dalle braccia della famiglia tre cittadini, li avevano trascinati in campagna, ne avevano fucilati due, avevano rimandato il terzo a portar la notizia.
—Oh, poveretti! esclamò la fanciulla sottovoce, e si voltò a guardare il cugino tutta spaurita.
S'era mai sentita una cosa simile? si poteva supporre che tali fatti avvenissero sotto un governo ben costituito? E i rei impuniti al solito…. Maniscalco! Maniscalco! ecco che ci voleva: quello sì che era uomo, e del mestiere per bacco! Avrebbe messi in un pugno sbirri e manutengoli, e, o me li consegnate, o me li consegnate, avrebbe detto loro. E glieli avrebbero consegnati, perchè sapevano che non si scherzava con lui. Ora eran tutti una cosa; cani e selvalgina mangiavano insieme nell'istesso piatto, e chi ne andan di mezzo erano i poveri cittadini.
Ora anche il prete parlava, era sazio.
—Non per nulla pesa sugli italiani la scomunica del pontefice. Un Dio c'è poi, per quanto i tristi si spolmonino a negarlo; e la chiesa è la chiesa!
E rosso come un gallo pel vin bevuto, posò i grossi pugni sulla tavola, girando in volto a tutti que' suoi occhiacci.
—Avete ragioni da vendere, approvava don Alessio scrollando il capo d'alto in basso: e le parole vostre son parole d'oro. Non si potrebbe spiegar diversamente la sfrontata sicurezza con cui que' malandrini scorazzano la campagna, perpetrano delitti. È il castigo di Dio! proprio il castigo di Dio!
E via di questo tenore! che' mettendosi in que' discorsi non c'era chi potesse arrestarlo.
Le donne rabbrividivano: esse avevano paura: guardavano verso il terrazzino come se già il famoso bandito fosse per presentarvisi.
Gesù Maria! se gli saltasse il ticchio di fare una escursione da quelle parti…. Davvero, non era prudenza star in campagna, una disgrazia poteva accadere…. scongiuravano don Alessio a pensarci. Ma questi faceva spallucciate energiche, mandava la cosa in burla. O che sarebbero venuti a fare in casa loro i briganti? egli era un uomo onesto che non aveva fatto mai male a nessuno, la sua casata era conosciuta, ed era stata rispettata sempre, scacciassero quelle paure.
—Sicuro, appoggiava il prete, si sapeva in Sicilia chi erano i Berlingrieri: buona gente, ma se toccati da vicino, buoni a mostrare i denti, a non lasciar posar mosche sul naso.
Del resto c'eran gli amici, che all'occasione, si sarebbero fatti fare a pezzi per loro.
—Grazie…. è la bontà de' miei concittadini…. rispose don Alessio con un inchino portando la mano al petto. Ma Costanza, disse poi voltosi alla sorella, stasera non hai nulla da darci? per esempio…. un pezzettino di dolce…. Non lo credo. Il reverendo mi fa cenno che ha ancora sete.
—Io!… ma le pare! esclamò questo arrotondando le parole, e col solito sorriso largo che trovava sempre che spirasse buon vento di ghiottornie.
—Eh, via, non lo neghi.
Il reverendo si strinse nelle grosse spalle, facendovi rientrare quanto più potè il suo collo di toro; e donna Costanza che s'era alzata sorridendo, andò a prendere un piatto dalla credenza, e s'avviò nell'altra stanza.
—Ehi, una di quel suggellato, le gridò dietro il fratello.
Quella sera era allegro: era arrivato il nipote, e aveva potuto fare la sua sfogatina, il che gli capitava di rado: aveva dimenticato perfino don Castrenze, e la sua cocciutaggine a non volergli vendere que' benedetti due tumoli di terreno senza i quali non poteva proclamare l'unità del suo podere.
Anche Giovanni gongolava. Quell'idea di dolci venuta allo zio, non poteva capitare in miglior punto: avrebbe passato un altro po' di tempo vicino a colei ch'egli oramai non chiamava più in sè stesso che la sua Lola. Tutta l'anima del giovane era piena di quell'amore, e ogni altra cura non faceva che sfiorarla appena. Durante la cena non aveva pronunziate più di venti parole, e chiuso nell'estasi, aveva capito ben poco di quanto avevano detto i due amici. Del resto gliene importava uno zero di don Castrenze, di don Peppino e la sua banda, troppo lontana per poter fare uno strappo alla sua felicità, della scomunica e del sommo pontefice per giunta: via avesse a perire anche l'umanità, salvo le due famiglie ben inteso, non si sarebbe commosso per questo. Ora parlava sottovoce con la fanciulla: le domandava se campavano ancora i canarini che le aveva portato l'anno scorso, e sbirciava di quando in quando la manina di lei sempre lì sul grembo, tentatrice, con una voglia pazza d'impadronirsene, senza che ardisse di farlo. Campavano ancora, rispondeva lei, di nuovo con la solita tenerezza negli occhi bruni, con la solita melodia nella voce, l'indomani glieli avrebbe mostrati. Eran maschio e femmina: uno, il meno giallo, non cantava, cinguettava solamente, e il giorno innanzi gli aveva veduto nel becco una delle pagliuzze ch'essa aveva messe apposta nella gabbia per vedere se facessero il nido. E quest'ultime parole le disse con un dolce sorriso che stampò delle grazie infantili nel suo viso di vergine, dal quale il povero innamorato non poteva staccar gli occhi alla lettera.
Donna Costanza comparve con un piatto di torromini e biscotti in una mano, e una bottiglia sigillata e tutt'impolverata nell'altra.
L'orologio battè la mezzanotte.
La vecchia Elisabetta che s'era ammammolata in cucina, nel ciondolare il capo con soverchio abbandono, si svegliò in sussulto: sentì ancora risa, voci allegre, e tintinnìo di bicchieri. Sbarrò gli occhi, sporse le labbra, si fece la croce con la mano manca, poi si grattò la gamba, e tornò ad ammammolarsi. Eran circa trent'anni che serviva in quella casa, mai i padroni avevano fatto così tardi!
V.
Giovanni si svegliò al canto del gallo: aveva dormito poco e male. Vicino alla cugina le ore erano passate così celeri, aveva provato sensazioni così dolci, che gli pareva mill'anni di rivederla, e riprovarle. E poi quella mattina si sentiva tutt'altro ardire: via la dichiarazione che ruminava da tanto tempo, e che di vacanze in vacanze aveva rimesso a più propizia occasione, l'avrebbe fatta finalmente! bisognava approfittare di quelle buone disposizioni. Era che gli aveva cagionato de' batticuori violenti davvero al povero innamorato quel momento definitivo! benchè si fosse sforzato a persuadersi che il suo amore era ben accetto, che un fiasco non l'avrebbe fatto di certo. Ma tutto stava nel cominciare: tanto è vero che il peggio passo è quello dell'uscio; dato il quale si sentiva in cuore di poter dire tanto da farne volumi addirittura, senza che quel fiume di parole venisse a decrescere, quella sorgente viva di tenerezza che lo alimenterebbe, a disseccarsi.
Guardò alle imposte: appena un barlume trapelava dalle commessure: però il letto gli pareva seminato di spine; balzò a sedere, si vestì, e s'affacciò al terrazzino.
L'oriente si tingeva dell'incarnato e dell'arancio dell'aurora: era un cantuccio di luminosa accensione nel cielo limpido, d'un azzurro argentato, sotto alla cui volta si disegnavano netti, tutti in giro, i contorni bruni dei monti. Per la campagna fresca, luccicante dalla guazza, esalante acri profumi di stoppie umide nelle quali dormivano la masse nere dei boschetti, e de' gruppi d'alberi, e le casette biancicanti tra 'l verde delle vigne come macchie di calce intrisa, una pace, una tranquillità senz'un soffio: nella valle, e sul paesetto si stendeva una nebbia bassa che aveva l'aria d'un gran lago grigio dal quale il campanile emergesse come uno scoglio solitario.
Lei era là, dietro all'imposte serrate ermeticamente di quell'ultima finestra, e dormiva nel suo letto verginale…. forse sognava di lui. Quale incanto nel rappresentarsi quella figura di vergine addormentata, quanti pensieri a quel pensiero e che dolce rimescolio!
Ma le allodole trillavano, si svegliavano le passere accovacciolate ne' tetti, fu il segnale del concerto al quale presero parte tutti i volatili. La vetta brulla di S. Caloggero si tinse di porpora, a oriente apparve l'orlo d'una palla dorata, la luce irruppe giù per le spalle dei monti, salutata dai tocchi a festa delle campana della parrocchia. Poi, scendendo sempre più, mise de' riflessi d'oro nel lago grigio delle nebbie, le quali si squarciarono, si divisero in gruppi, si sollevarono e batterono quasi in ritirata, indugiando per le gole, dinanzi alla gloria invadente di quel bel sole d'agosto.
La porta della stalla girò sui cardini, sulla soglia comparve la figura scamiciata e grottesca dello stalliere. Egli si ritirò; aprì la bocca a uno sbadiglio sghangherato, poi rientrò lentamente. Nelle stanze si sentivano rumori di passi, d'imposte che si aprivano: la casa si svegliava.
Giovanni dette un ultimo sguardo alla finestra della cugina, e rientrò. Si lavò, si lisciò con la massima cura, poi andò fuori a sedersi sotto al pergolato, dove se ne stette un'ora buona a scrivere con una bacchetta il nome della fanciulla sulla sabbia del vialetto, e a scancellarlo subito dopo averlo scritto. Ritornando la trovò nella spianata.
—Dove sei stato che non t'ho visto?
—Sotto al pergolato.
—Che bella giornata!
—È un incanto. E tu dove vai?
Accennò con gli occhi a un paniere pieno di mondiglia di grano ch'aveva infilato nel braccio, e rispose:—A dar da mangiare alle galline ed ai piccioni.
S'era alzata allora: aveva in dosso un vestito da mattina di mussolina celeste; un fazzoletto di seta dell'istesso colore, annodato sotto il mento, inquadrava graziosamente il suo visino con i capelli un po' arruffati sulla fronte e gli occhi ancora gonfi dal sonno.
Puri, puri, pì, pì, pì. E a questa specie di billi billi siciliano, calò dai tetti un nugolo di piccioni, accorse dalle stalle, dal pollaio di tra gli alberi sotto la spianata, gran quantità di pollami: galli altissimi di un bel rosso dorato, con grosse creste rosse; chiocce con pulcini nati di fresco; pulcini già grandicelli, spennacchiati, con la malagrazia di fanciulli a sette o otto anni, pollastre linde, lucide, con l'andatura spigliata di giovinette; vecchie galline, favorite dalla testa pelata, per le spesse carezze dei pennuti sultani…. tutt'attorno a Lola il suolo ne brulicava alla lettera. Lei, con un'espressione di piacere infantile nel viso, alzando in aria il paniere curvo da un lato, ne faceva cadere il grano; e movendosi lentamente, lo veniva gettando a strisce a zig zag.
Puri, puri, pì, pì, pì. Ed era un pigiarsi vorace, un rumore sordo di becchi che battevano il suolo, tramezzato da qualche schiamazzo, da salti e beccate con le penne del collo arruffate nel contrastarsi il becchime, dal pigolio dei pulcini e dal chiocciar delle chiocce, dal tubar dietro la compagna di qualche piccione, che, da vero innammorato, preferiva al cibo la galanteria.
Giovanni guardava quel quadro con un nuovo incanto: sentiva nascersi un coraggio da leone. Questa volta…. ma via, n'aveva fatti abbastanza, si sarebbe visto alla prima occasione.
—Saliamo? domandò la giovinetta. E salirono sopra.
Per le scale erano soli: Giovanni sentì battersi il cuore…. fu per parlare…. ma pensò che non era quello il momento. Per le scale!… e poi, poteva sopravvenire qualcuno…. Egli sentiva che gli avessero troncato le parole in bocca, non l'avrebbe fatta più quella benedetta dichiarazione!
Vennero nell'anticamera. Sulla lunga tavola, attorno a un piatto colmo di biscotti, eran disposte delle ciotole, e due bottiglie col latte. Lola scese in cucina, e poco dopo ritornò col caffè caldo: presero il caffè e latte. Anche questa sarebbe stata una buona occasione…. eran soli…. Ma via! non era nemmen da pensarci! Come si poteva fare una dichiarazione con una ciotola in una mano e un biscotto nell'altra? Bisognava esser pazzi, o sciocchi affatto. Dove diamine l'aveva la testa!
Qui non c'era a ridire.
Ma la fanciulla lo condusse a vedere i canarini, nella gabbia appesa a un chiodo nel muro della terrazza: disse un mondo di cose sul come l'aveva allevati, sul come li governava, sul bene che loro voleva.
—Quanto sono carini! Queste sole parole egli potè trovare restando a guardarli come il villano alla fiera il saltimbanco che dia nella gran cassa, sulla soglia della baracca.
Ma al passeggio don Alessio, per mostrare a donna Costanza il rigoglio di certi piantoni di peri che aveva fatto mettere in quella primavera, li lasciò soli. Lei andava lentamente, con lo scialle rosso piegato sul braccio, guardando il cielo acceso dagli ultimi raggi del tramonto; e dal suo bel viso traspariva la dolcezza dei pensieri che l'agitavano.
Egli cominciò a parlare dell'incanto della campagna, de' piaceri che vi si gustavano…. e quel discorso, girato e rigirato con una tenacità degna di miglior risultato, non potè riuscire dov'egli voleva tirarlo. Via, questa volta non c'era nessuna scusa; bisognava confessare che quella sua timidezza era spinta al ridicolo; era ingrullito per certo. Non seppe darsene pace, ne provò un'umiliazione profonda. Ma che farci? era quella la sua natura, certe ritrosie dell'anima non si spiegano. Pensò di scriverle.
Ma eccoti lì delle nuove esitazioni che pareva l'aspettassero al varco. Darebbe la lettera a lei? gliela metterebbe nel cestino? e se la zia Costanza andasse a frugarvi dentro, e la trovasse? Darla e lei dunque…. Ma come? con che scusa? Ah, la cosa non era così facile come aveva creduto sulle prime!
E s'era deciso a ritornare al vecchio progetto, vo' dire a quello d'una dichiarazione a voce, quand'una sera lei lo trasse in disparte in fondo alla terrazza, e, con gran mistero, gli domandò se sapesse far dolci.
Il giovane cascò dalle nuvole!
—Dolci?… no, non ne so fare, rispose.
—Non ne hai visti fare nemmeno?
—Nemmeno.
—Oh!… E la fanciulla mise un sospiro.
—Ma perchè mi fai….
—Mi pare che la nonna ne soleva fare.
—Sì.
—E non t'è venuta mai la curiosità di salire in cucina in quell'occasione…. di domandarne almeno la ricetta!
—No, non me ne sono curato. Ma….
—Hai fatto male, disse lei gravemente: un giovine deve saper fare un po' di tutto.
—Ma perchè mi fai codeste domande insomma?
—Sai, domani è il compleanno del babbo…. volevo fargli una sorpresa…. Avremmo fatto un dolce noi due in segreto, e Lisabetta l'avrebbe presentato a tavola, dopo aver finto prima di passare la frutta…. Capisci ora?
Il giovane capiva pur troppo! capiva che sarebbe stata una bell'occasione quella per far la sua dichiarazione, e gli sfuggiva per non saper far dolci! Non essergli venuta mai la voglia d'imparare a farne! Aveva ragione la cugina, un giovane deve saper fare un po' di tutto. Però non si dette per vinto così presto.
—Potremmo fare un riso col latte….
—Bravo! esclamò Lola, battendo le mani come una bambina.
Il riso l'aveva, il latte l'avrebbe fatto portar di nascosto in cucina dal zu Giorgi l'indomani prestissimo…. Ma s'arrestò a un tratto; s'appoggiò alla ringhiera avvicinandosi di più al giovine, e voltosi verso di lui, soggiunse: Ma siamo sempre da capo…. Come si fa?
Giovanni scrollò la testa. L'aveva mangiato a casa sua tante volte, era il caval di battaglia della nonna, e aveva guardato con tanto d'occhi il babbo a farne delle scorpacciate. Non sapeva altro.
—Come si fa…. come si fa…. cominciò a dire. Ci vuol lo zucchero certo.
—Oh, la bella scoverta! esclamò la giovinetta ridendo. Lo zucchero va in tutti i dolci.
—Si bolle il riso.
Qui ci fu una gran discussione. Si bolliva nell'acqua? Si bolliva nel latte? Lo zucchero si metteva prima? dopo? a bollire col riso?… Compresero che avrebbero fatto un pasticcio.
—Una crema, propose la fanciulla. Ma eran sempre daccapo. E restarono in silenzio, a pensare ciascuno dal canto suo come risolvere il difficile problema: poichè se a Giovanni rincresceva di non trovare una maniera qualunque di fare quel benedetto dolce, a Lola, forse per le stesse ragioni, dispiaceva ch'ei non la trovasse.
Ma a un tratto essa alzò la graziosa testolina, e mise il dito alla bocca.
—Aspetta…. aspetta…. E senz'altro via di corsa, lasciando il giovane in asso.
Tornò poco dopo, con in mano il calendario che don Alessio teneva appeso a un chiodo nella parete sopra il tavolino.
Un grosso cuoco in berrettino bianco, e grembiale di tela, con una casseruola in una mano e un mestolo nell'altra, col faccione rubicondo aperto in un beato sorriso, faceva bella mostra di sè sul cartoncino inverniciato, sul quale era incollato un pacchetto di foglietti che portavan scritto, la data del giorno, il santo, il mese, le fasi della luna, l'ora del mezzogiorno e della mezzanotte, un avvenimento storico; e dietro una pietanza nuova, qualche dolce e la maniera di apparecchiarli.
L'uno stretto all'altro, agitati da una dolcezza indicibile, cominciarono a sollevare a uno a uno que' foglietti, e a leggervi dietro, curandosi di non staccarli per non fare andar in collera il babbo.
Trota in gratella…. spinacci in teglia…. lesso di cavolfiore…. frittura di pesce…. ragout di filetto…. ceci e tagliatelle…. Nemmen l'ombra d'un dolce! Diavolo, cominciavano a esserne inquieti, quando la fanciulla mise un piccolo grido,… Torta di pasta dolce con crema!
Aveva trovato quel che cercava. Staccò il foglietto pian piano, e si misero a leggerlo. «Prendi cinque o sei….»
Ma si rimescolarono a un rumore di passi, e nel voltarsi vivamente, Lola vide entrar nella terrazza donna Costanza. Nascose in fretta calendario e foglietto sotto al grembiale, e fare cenno a Giovanni con rapido aprir d'occhi.
La zia s'avanzò col suo passo grave, squadrò, i due giovani, e disse:
—Cosa fate lì voialtri due?
—Noi? rispose Lola. Nulla.
—Nulla, ripetè Giovanni arrossendo un pochino.
—Che cosa hai nascosto sotto al grembiale mentre io entravo?
—Io…. sotto al grembiale! riprese la fanciulla con tutta naturalezza. E mostrò le palme delle mani. La furbetta, voltandosi un poco, era riuscita a cacciar in tasca ogni cosa.
La zia Costanza li minacciò col dito, poi si fece alla madia dove teneva a seccare la conserva di pomodoro, la rivoltò con un cucchiaio di legno, e se n'andò.
L'indomani i due giovani s'incontrarono nell'anticamera, e si fecero dei cenni. Quanta delizia già in quella piccola congiura!
A volere che la cosa andasse, bisognò mettere a parte del segreto Elisabetta. Lola riuscì a prender di soppiatto zucchero, ova, fior di farina, cioccolatta e via discorrendo: Giovanni stava alle vedette. Quando tutto fu pronto, scesero in cucina. Lessero e rilessero quel piccolo fogliettino, forse più di quel che era necessario, unicamente per il piacere di starsene così vicino l'uno all'altro che sentivano il calore delle loro guance, il tocco leggiero de' capelli, per il piacere di guardarsi negli occhi da vicino nel voltarsi per commentare quelle parole in verità punto sibilline.
Ma in questa entrò la zia…. Diavolo, non ci avevano pensato che quella benedetta donna trottolava per la casa dalla mattina alla sera! non c'era che fare, bisognava mettere anche lei a parte del segreto.
Donna Costanza sorrise di compiacenza, giurò di non fiatare; volle che le si leggesse il foglietto, dette qualche consiglio, assistette ai primi preparativi. Ma aveva ad accudire ad altre faccende e se n'andò.
—Lisabetta, non c'è acqua, disse Lola che ne cercava nelle brocche. E la serva, che aveva finito d'infornare allora allora la torta, andò a prenderne.
Restarono soli.
Via, era l'ora… una simile occasione perdio, non sarebbe capitata mai più. Ma Giovanni tremava, parevagli che una mano gli stringesse la gola…. E il tempo passava…. Oh, egli soffriva realmente! Anche lei tremava la poveretta, e si affaccendava senza scopo di qua e di là, tanto carina con le braccia a metà nude, e il grembialino bianco, e le ciglia impolverate leggermente di farina.
—Lola…. disse finalmente il giovine con voce soffocata, avvicinandosele.
E lei che si faceva al forno per vedere a che punto di cottura fosse la torta, si fermò, e si voltò col viso in fiamme e gli occhi lucenti…. Ma giusto in quel punto, risonò il passo della serva che ritornava con l'acqua. Giovanni aveva perduto troppo tempo a decidersi! Si discostarono bruscamente; e lei al colmo dell'agitazione, dimenticando di premunirsi del cencio, afferrò il manico del chiusino con la mano nuda…. Cacciò un grido e lo lasciò subito. Era arroventato. A quel grido il giovine si voltò, comprese, fece un balzo verso di lei, le prese la mano, e guardò.
—Ti sei scottata?….
—No, rispose la fanciulla vivamente e cercando di ritirare la mano, no…. davvero…. è niente…. E sorrideva mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
—Come! ti par niente! oh, non vedi che alzan le bolle…. Lisabetta…. presto…. acqua….
E Lisabetta, che, posata la brocca in fretta, era corsa anche lei, ne prese in un catino. Giovanni vi immerse la mano della fanciulla, tenendola sempre tra le sue, costernato e nell'istesso tempo agitato dolcemente.
—Ti senti meglio?
—Sì, rispondeva lei. E si ricambiavano mille carezze con gli occhi e col tono della voce.
VI.
Con tutto ciò il dolce non riuscì tanto cattivo, e a tavola vi fecero onore tutti, il prete, in ispecie, che non risparmiò i superlativi. Ma chi fu proprio tocco da quel grazioso pensiero, fu don Alessio che dovette contenersi per non fare i lucciconi. Egli avvolse in un unico sguardo di tenerezza la figliuola e il nipote i quali rimbeccavano donna Costanza, che, con qualche motto in proposito del famoso dolce, gli andava stuzzicando scherzosamente. Però questo solo sfogo non bastò ai suoi affetti traboccanti, e voltosi al reverendo che diluviava a scoppiacorpo, cominciò a parlargli sottovoce, dando di tratto in tratto delle occhiate amorose alla figliuola. Ne aveva quella sola, e l'adorava, era proprio la parola adatta, l'adorava! e lei se lo meritava, la poverina, ch'era un angelo di virtù e di bontà. Sua moglie, bon'anima, gliel'aveva raccomandata tanto! e non aveva nulla a rimproverarsi: l'aveva cresciuta bene, educata bene…. (aiutato in tutto dalla sua buona sorella era vero) aveva lavorato tanto per lei, ch'era riuscito a farle una dote…. discreta. E disse delle compre ch'avevano fatto, dei miglioramenti co' quali aveva triplicato il valore dei suoi fondi. E sempre per quella benedetta commozione che fa parlare più del dovere, toccò un certo tasto: oltre alle compere, oltre ai miglioramenti, privandosi del superfluo, era riuscito a mettere insieme un tesoretto…. la figliola l'avrebbe trovato alla sua morte tutto in bella moneta d'oro e d'argento, la sola moneta sicura.—Chi la sposerà non farà un cattivo affare di certo…. e….
Ma troncò lì il discorso, l'attenzione degli altri essendosi rivolta verso di lui.
Finirono tardi di desinare, poi andarono a spasso.
Il prete era pensieroso. Ascoltava donna Costanza che gli raccontava un suo sogno dal quale intendeva ricavare i numeri e giocarli tanto era strano.
—Mi pareva ch'era di domenica, e attraversavo il paese per andare alla parrocchia a sentir la messa cantata. Per le strade non c'era un'anima: però sentivo un bisbigliare confuso, senza potermi capacitare di dove venisse. Guardai a destra, guardai a sinistra, guardai in aria, nulla! E quel bisbigliare seguitava non solo, ma cresceva dietro di me via via che andavo avanti. Allora presa dal terrore affrettavo il passo tanto che finivo con mettermi a correre. Arrivavo nella piazza proprio trafelata. La porta grande della parrocchia era parata a nero, si sentiva un salmodiare, che, senza sapermene spiegare il perchè mi faceva drizzare i capelli sulla fronte. Guardo a destra…. e che vedo? una cosa orribile! giù in fondo alla strada un gruppo di gente che mi mostravano a dito: però erano impalati ne' loro vestiti neri, avevano le facce color di cera, gli occhi spenti… Son morti, pensai con raccapriccio…. Guardo a sinistra, altri morti; ma quelli ridevano piegati in due con le mani sulle ginocchia; guardo nel vicolo accanto alla casa degl'Inchilli, morti che mi facevano segno d'avvicinarmi. Mi volto per ritornare indietro, ma altri morti sbucavano dalle strade laterali e venivano verso di me guardandosi e consultandosi. Allora quasi pazza di terrore, corro per rifugiarmi in chiesa. Ed eccoti che per quanto corressi non riuscivo a fare che un brevissimo tratto di strada: e i morti crescevano, crescevano d'ogni lato: tutta la strada n'era piena zeppa… già mi circondavano…. mi toccavano quasi…. Oh, Dio!… Finalmente riuscii a salire il primo scalino…. il secondo…. il terzo…. misi il piede in chiesa. Lì a un tratto diventavo leggiera come una piuma: mi pareva d'andare sfiorando appena il pavimento. Le navate erano parate a nero, e nel mezzo della principale c'era una morta stesa sopra una bara e circondata di ceri: i preti, in paramenti neri, cantavano la messa all'altar maggiore. Io mi avanzavo: ma arrivata vicino a quella morta, cacciava uno strido. Mi svegliai. In quella morta avevo riconosciuta me stessa.
—Che gliene pare?
Il reverendo si voltò come un trasognato.
—Di che cosa? domandò a sua volta..
—Ma del sogno che gli ho raccontato!
—Bello, bello davvero.
—Bello!! un sogno simile!!
—Bello!… dico bello così…. per dire…. bello insomma perchè ci sono i numeri con certezza.
—Volevo ben dire!… Dunque…. per me prenderei prima d'ogni altra cosa morti.
—Sessantasette, approvò gravemente il prete che sapeva il libro dei sogni sulla punta delle dita.
—Poi messa cantata, è chiaro.
—Messa cantata ottantanove.
—Ma un momento…. i morti si movevano.
—Morto che si muove trentuno.
—In ultimo, spavento.
—Novanta.
Don Alessio camminava avanti con la figliuola da un lato, e il nipote dall'altro. Raccontava loro quante gherminelle aveva teso a Filippo Mesi per indurlo a vendergli un fondo limitrofo alle terre di Badalà, che poteva valere un par di centinaia d'onze tutt'al più: come, finalmente, non potendo venirne a capo per nessun verso, gli s'era presentato un giorno nel fondo stesso con cinquecent'onze d'argento nella bissacca sulla baia, una famosa cavalla che aveva in quel tempo. E lasciato un discorso e presone un altro, cominciò ad enumerare i pregi della cavalla.
Una gioia schietta agitava dolcemente l'anima della fanciulla, le trapelava dal bel viso. Interrompeva con un'esclamazione di piacere il racconto caloroso del padre a ogni cespo di fiori che vedeva lungo il ciglio dei fossi, correva a saccheggiarlo, se n'adornava con grazia infantile il petto, e' capelli. Brividi voluttuosi scorrevano pel corpo di Giovanni, che, felice di vivere, aspirava gli acri profumi dei nocciuoli, le cui chiome d'un verde cupo sopravanzavano i muri dall'un lato e dall'altro della strada, taceva, ascoltava, dava spesso alla cugina de' lunghi sguardi appassionati.
Quando tornarono alla villa, alla parrocchia sonava l'avemaria.
Don Alessio fece accendere i lumi, fece preparare il tavolino, e la partita cominciò.
—Danaro.
—Prendo con una donna.
—Bastoni.
—Spade….
Ma il reverendo giocava molto distratto. Egli non solo perdette quella partita ma cinque o sei altre in fila: sicchè don Alessio non ci capiva proprio nella pelle a cagione di quel fortunato accidente non mai successo dacchè giocavano; e si rifaceva motteggiandolo.
Giovanni in piedi, guardava rodendosi dal dispetto: doveva sorridere allo zio, il quale, a ogni facezia che diceva gli rivolgeva uno sguardo, e Dio sa come sorrideva.
Perchè Lola aveva salito in fretta, ed era andato diviato nella sua camera «che vi faceva per tardar tanto?… Che vi faceva? lo sapeva lui che vi faceva! Non lo amava, insospettita dalla scena della mattina ch'egli volesse dichiararle il suo amore, voleva fargli comprendere con bel garbo che ne abbandonasse il pensiero. Ebbene…. la contenterebbe. L'indomani, partiva, in quella casa non ci avrebbe messo più piedi….
Tuttavia pensava con amarezza che la sua posizione era orribile…. Che figura umiliante! Dio, che figura umiliante! Ma chinava le spalle, poichè non c'era rimedio: bisognava pensarci prima piuttosto; non esser tanto animale da spingersi sino a quel punto, in cucina; considerare come un salutare avvertimento la forte ripugnanza ch'aveva sempre sentita tutte le volte che il suo cattivo genio gli suggeriva di spiegarsi…. Ma d'altra parte chi poteva supporre…. chi poteva pensare…. Essa lo guardava con tanta tenerezza, usava con lui que' modi atti a incoraggiarlo piuttosto…. Che sciocco! O che importava ciò? Era civetta: tutte a un modo le donne.
Andò a sedersi nel terrazzino, e abbandonò il capo sulla palma della mano, abbattuto per quel leggiero e dubbio incidente, proprio come se si fosse trattato d'un affar grave e certo.
Ma un odore di fiori campestri lo fece trasalire: alzò la faccia. La fanciulla che s'era avvicinata bel bello, stava davanti a lui, e lo guardava inquieta.
—Che hai?
—Nulla…. mi duole il capo.
—E stai al fresco?
—Mi son seduto qui apposta…. un poco d'aria mi farà bene.
Lei stette ancora a guardarlo come per accertarsi che non si trattava di cosa grave, poi, certo rassicurata, andò a prendere una sedia e sedè al solito accanto a lui.
No, una fata col suo tocco magico non avrebbe potuto operare nel giovine un cambiamento così completo e istantaneo. Egli sentì allargarsi il cuore, sentì svanire i dubbi, sentì che l'anima sua era ripresa dal fascino dell'amore.
Lei taceva; e un respiro concitato le sollevava il petto. La manina bruciata, cinta d'una fascia bianca, era lì nel grembo, tentatrice più del solito….
Giovanni la prese dolcemente tra le sue, e l'accarrezzò. Lola non la ritirò: abbassò gli occhi e arrossì.
—Ti fa male ancora? domandò il giovine con un fil di voce.
—No, mormorò lei.
E stettero così, palpitanti, in un rimescolio pieno d'incanto.
Ma egli si fece più ardito; le cinse la vita con un braccio; senti ch'essa s'abbandonava e la strinse appassionatamente.
—T'amo…. mormorò con voce tremante. T'amo….
La fanciulla trasalì. Alzò lentamente gli occhi umidi di tenerezza sul viso di lui, poi li abbassò con un sospiro.
I fiori ch'essa aveva sul petto e tra' capelli, esalavano un soavissimo odore, mentre i grilli col loro canto monotono, li addormentavano in quell'estasi che provavano completa per la prima volta.
VII.
Padre don Giuseppe intanto seguitava a perdere. La testa al giuoco il degno sacerdote non ce l'aveva per nulla: a quella malaugurata confidenza fattagli a tavola dal povero Berlingheri egli, scosso violentemente, aveva dato quel passo che separa la colpa del delitto, aveva risoluto di metter le mani a qualunque costo sul danaro dell'amico. Non un rimorso, non l'ombra d'un rammarico, una gioia feroce, la soddisfazione d'aver finalmente colta al varco, e per un caso veramente fortunato, quella buona occasione che aspettava da tanto tempo…. Non se la sarebbe lasciata scappare!! Ma questa sua risoluzione, per quanto tenace, s'era imbattuta subito in un ostacolo non facile a superarsi, benchè sotto la forma di due parole, e un punto interrogativo: «E come?»
Qui un subbuglio di pensieri. Insinuarsi destramente nell'animo dell'amico, e cavargli di bocca dove teneva nascosto il tesoro? La cosa non sarebbe stata tanto difficile…. Ma poi?…. Doveva tenerlo certo nella sua camera, e in qualche altro luogo riposto…. Come penetrarvi, come avere il tempo d'operare? Correrebbe novantanove gradi di probabilità su cento di perdere la riputazione o peggio, senza guadagnar nulla. Aprirsi con Lisabetta…. e fare il tiro mentre i padroni fossero fuori di casa?… Umh…. Lisabetta stava coi Berlingheri da trent'anni, doveva essere incorruttibile…. Oh, se avesse potuto far con Lola quel che aveva fatto con l'altra…. ma quella fraschetta gli aveva imposto sempre con quell'aria di regina che assumeva a ogni benchè leggiero tentativo…. Con donna Costanza…. Sorrise internamente, trovando buffa l'idea. Tuttavia pensò che ci sarebbe potuto riuscire: peccato che la cosa non gli fosse venuta in mente prima…. una donna brutta e vecchia, quando si sa fare, si tira a quel che si vuole! Disgraziatamente era troppo tardi: una simile faccenda richiedeva del tempo, egli non voleva aspettare, poichè poteva darsi benissimo che nel frattempo all'amico saltasse il grillo d'impiegare i danari, e non gli garbava punto di restare a denti asciutti. Come dunque? E bruciato dalla febbre della cupidigia, vi aveva fatto il capo grosso a passeggio, mentre giocava, ci fece il capo grosso nell'andarsene a casa, ci fece il capo grosso seduto al tavolino mentre faceva dei ghirigori con l'indice sulla coperta impolverata del breviario, a cena, a letto nell'insonnia. E come?… E come?… ed era la sua tortura.
A volte si credeva in possesso del tesoro, e l'impiegava in mille modi. Davanti agli occhi poi, ci aveva un barbaglio d'oro e d'argento: vedeva napoleoni e dodici tarì in ogni punto, come un allucinato; se ne sognava delle cascate addirittura con un tintinnio carezzevole all'orecchio.
E se il suo pensiero fosse volto ad altro, lo rimettevano in carreggiata i danari che dava la mattina alla serva per la spesa, le posate a tavola, i bottoni di metallo de' giubboni dei contadini che incontrava per strada, la catenella d'oro, il pomo d'argento del bastone d'un amico, la sua tabacchiera…. i candelieri dorati dell'altar maggiore, i turibuli allineati nell'armadio socchiuso della sagrestia, il calice, i ricami d'oro degli arredi…. Sin nell'ostia che alzava tra le dita per consacrarla, al posto del Cristo in croce, ebbe a vedere diverse volte una nube d'oro!
E diventava più feroce nella brama: e con una strana fosforescenza negli occhi, e quel color di febbre che non lo lasciava nè notte, nè giorno, ripeteva in sè stesso cocciutamente ch'egli lo voleva quel tesoro, sì, lo voleva!… anche se per impadronirsene fosse stato necessario di passare sui cadaveri di suo padre e di sua madre.
E come…. e come… Ed era la sua tortura.
Cominciò a vagar per le strade come un trasognato, rendendo il saluto senza sapere a chi lo rendesse; a rispondere a sproposito nei consulti, non a tono nelle conversazioni; a passeggiar continuamente come una bestia feroce nella gabbia, brutto, con le mani dietro la schiena, quand'era in casa….
Un giorno arrivò anche ad ascoltare le querimonie d'un debitore carico di famiglia, il quale voleva una dilazione: e a gran sorpresa del meschinello rispose con un «va bene, si vedrà» che non aveva mai detto dal tempo che s'era messo a spogliare i poverelli!
—Che ha padre don Giuseppe? cominciavano a domandarsi in paese.
—Ma!
—Che ha padre don Giuseppe?
—Ma!
E amici e conoscenti n'erano proprio inquieti, tanto più che il loro Salomone non pareva avesse più quella lucidità di mente meravigliosa. Che stesse per impazzire? Oh, Dio nol volesse! Quella sarebbe stata davvero una grave sventura per il paese.
Ma egli non impazziva, no: l'aveva saldo il cervello, benchè un pensiero glielo martellasse dalla mattina alla sera, senza profitto. Che diamine era successo dunque in lui, sempre d'ingegno così sveglio? non era più quel Peppe d'un tempo che aveva ideato quel bel tiro delle posate?
E un giorno a quest'idea gli si presentò davanti agli occhi la figura losca di don Castrenze. Avevano continuato a essere amici, avevano riandato sempre il tempo passato…. Anche lui aveva seguitato a cercar d'ingegnarsi: come avesse pagato il debito ai Salamaria si sapeva. Era sicuro perciò che in questo frangente l'avrebbe aiutato volentieri. Sì, era una buona ispirazione la sua, il cuore non l'ingannava. In due avrebbero veduto meglio nella cosa. Ed egli che non ci aveva pensato prima!
Non mise tempo in mezzo: si buttò il ferraiuolo sulle spalle, prese il cappello, e uscì.
Il galantuomo giusto era in casa. Ricambiarono i saluti e sedettero; parlarono per un pezzo del più e del meno, e infine il reverendo entrò con bel garbo nella faccenda per la quale era venuto.
Ma il volpone voleva tastar prima il terreno: operare con cautela era la sua massima, e trattandosi di ciò non perdeva mai la bussola. Fece cadere il discorso su don Alessio. Per indisporre Castrenze contro il vecchio, gli disse ch'era stato lui a buscherarlo nell'elezioni: l'aveva cantato chiaro a cena, la sera ch'era arrivato don Giovannino, il nipote.
Osservò con soddifazione che gli occhi dell'amico mandavan fiamme addirittura, ascoltò pacatamente il sacco di vituperi che questi vomitò contro il Berlingheri. Allora cominciò a far le parti del galantuomo, pioggiandolo accortamente, dicendogli ch'egli aveva preso le sue difese, convincendolo del bene che gli aveva sempre voluto e gli voleva. Era l'amico d'infanzia, il vecchio compagno delle scappatelle passate. Oh, i bei tempi d'allora! Si ricordava eh, quella graziosa burla delle posate!
Il galantuomo cambiata a un tratto l'espressione del viso, dichiarò che non poteva pensarci senza sbellicarsi dalle risa, e rise battendosi le coscie. Al che il reverendo trasalì di gioia: ora s'inoltrava più sicuro nel suo discorso, un vero capolavoro con tant'arte, con tanto accorgimento, l'aveva condotto! Quand'ebbe dato gli ultimi tocchi, ritornò a parlare di don Alessio; prese un'aria di mistero e disse del tesoro.
Qui s'animò, s'accese, le sue frasi diventarono poetiche, e affascinò l'amico addirittura.
Lo fece restare a bocca aperta nel provargli con cifre, vuol dire matematicamente, che il tesoro doveva montare a diciottomila onze! Manasia era affittato mille e duecent'onze all'anno; il fittaiolo aveva l'obbligo di pagare la fondiaria e la sopratassa comunale: la Ceppa, diciotto salme di terreno tutto seminativo, a buttarla giù non doveva dar meno di duecent'onze all'anno: Badalà, l'aveva sempre sentito dire all'amico, gli dava legna, vino, olio, frumento, e legumi per uso di casa, ecc.: i canoni di Serravalle rendevano quattrocento cinquant'onze all'anno. Pareva non ci fosse altro…. no, non c'era altro. Mille e duecento, dunque, e duecento, mille e quattrocento, e quattrocento cinquanta, mille ottocento cinquanta. Metteva mille ottocento via, numero rotondo, i cinquanta andavano per il resto della fondiaria. Il vecchio non spendeva più di trecent'onze all'anno…. quattrocento, là. Ne restavano mille e quattrocento. Ah…. comprava delle terre ogni anno. Bene, metteva c'impiegasse cinquecent'onze: non di più certo…. Da mille e quattrocento dunque, leva cinquecento, ne restano novecento. Erano vent'anni che don Alessio accumulava quella somma! Novecento per venti facevan giusto diciottomila!!
Allora, veduto l'amico ansante sotto al fascino di quella cifra, parlò chiaro: voleva impadronirsene a ogni costo, chiedeva il suo aiuto, avrebbero diviso, s'intendeva.
Castrenze accettò la proposta con grand'entusiasmo; nella foga dell'ammirazione e della riconoscenza, arrivò anche ad alzarsi, e a correre a stringersi nelle braccia il colosso, egli piccolo, grassotto, con gli occhi uno a Cristo e l'altro a S. Giovanni in quel suo muso di faina!
L'aveva sempre detto lui, ingegno come quello di Peppe non ce n'era, no, non ce n'era: e i più scaltri poi non eran degni neppure di legargli le scarpe. Diciottomila onze! una fortuna per Gesù Cristo! quelli erano affari! Si poteva rischiare a occhi chiusi la libertà…. e anche la pelle, per una simile conquista! Bravo, aveva fatto bene a parlarne con lui.
E quand'ebbe sfogata tutta la sua gioia, e l'amico l'ebbe ascoltato approvando, ventilarono la cosa rossi dal piacere, e con gli occhi lustri.
Era chiaro, loro due soli non potevano fare il tiro, tanto più che il prete non voleva cercar d'appurare dove don Alessio tenesse nascosti i denari: bisognava dunque ricorrere ad altri, benchè in questo caso verrebbe a toccar meno a ciascuno: ma non c'era scampo, o bere o affogare. Allora il reverendo propose qualcuno del paese. Ma don Castrenze tentennò il capo, non eran uomini quelli, de' quali si sarebbero potuti fidare. La villa era vicinissima al paese; anche che riuscissero a penetrarvi con l'astuzia, non potrebbero spennare il gallo senza che stridesse…. e non contava le galline…. epperò un chiasso, un diavoleto che potevano attirar carabinieri e paesani armati da quelle parti, e compromettere ogni cosa; figurarsi poi a volerci entrare di viva forza, unico mezzo forse. No, no, prima di tutto era necessario allontanar quel pericolo.
Egli sapeva chi li avrebbe levati d'imbarazzo: dovendo dar parte della somma a qualcuno, meglio darla a uomini sul cui aiuto potevano contar senza meno, ch'avrebbero assicurato la riuscita della cosa, allora com'allora molto dubbia…. Dovevano esserne con don Peppino. Aveva un amico che l'avrebbe fatto abboccare col capobanda: Peppe fidasse in lui pienamente. Peppe approvò; lodò la sagacia e la prudenza di Castrenze…. gli raccomandava però…. di non compromettere la sua veste sacerdotale. E avendogli questi detto che in ballo ci avevano a esser tutti, rispose che anche lui l'intendeva così; ma voleva che lo si facesse passare per un tal Serafini, campiere a spasso: all'occasione si sarebbe travestito da campiere.
Presa dunque questa deliberazione, stettero a parlare ancora della casa. Fermavano la maniera di diportarsi entrati in casa, com'essere: far cantare a ogni costo l'amico nel caso che non volesse cantare; tenere gli occhi alle mani dei compagni, ladri, ma ladri! ch'avrebbero potuto far sparire un migliaio d'onze in men che non si dice. Discutevano il come cancellare in seguito ogni traccia del reato; si sarebbero travestiti, avrebbero poi fatto sparire gli abiti, si sarebbero procurato un alibi…. Se riuscivano a metter le mani su' danari volevano goderseli in santa pace, che diavolo! Arrivarono anche a far progetti sul come l'avrebbero impiegati: il prete voleva ingrandire il suo fondo della Rupe, don Castrenze voleva metter su negozio di frumento, darlo a' contadini nell'inverno a quattro tumuli a salma…. Ciò dava il benefizio del ventiquattro per cento; non c'era mica male!
Si separarono coi cervelli in fiamme, dandosi la posta per l'indomani, chi sa fosse sfuggita loro qualche cosa.
E l'indomani don Castrenze che la notte non aveva dormito, andò ad aspettare il prete in piazza, vicino la porta piccola della parrocchia dove questi era solito dir messa.
Mezz'ora dopo il reverendo venne fuori in fretta. Nemmen lui aveva dormito la notte; era uscito presto; aveva vagato per il paese come un cagnaccio randagio; aveva abborracciato la messa col capo pieno di pensieracci; e correva al ritrovo.
—Bisogna far presto, disse sottovoce a don Castrenze, proprio presto…. può darsi che l'amico impieghi i danari; resteremmo con un palmo di naso.
Don Castrense accennò di sì col capo a varie riprese. Anche lui era di quel parere: partiva a momenti, andava a trovar l'amico che doveva farlo abboccare con don Peppino. E fattesi reciproche raccomandazioni e reciproche proteste, si divisero. Don Castrenze era già lontano, quando il reverendo lo richiamò con un «pst pst» energico. Voleva dirgli si ricordasse di non compromettere la sua veste sacerdotale….
Serafini…. campiere a spasso…. restavano intesi….
—Si parla una volta, rispose il guercio, stringendo la mano che l'altro gli tendeva come ultima raccomandazione.
VIII.
Il galantuomo desinò un po' più presto del solito. Alzatosi da tavola, sellò il morello, mise nelle bisaccie il gabbione col furetto, due pani bianchi, un fiasco di vino, un quarto di ricotta salata, un po' di salsiccia e quattro sedani: e montato a cavallo, con Vespa e Monaca dietro partì per Pietracaduta.
Arrivò sul far della notte. La luna già levata in un cielo senza una nuvola, batteva sulle vecchie mura della masseria con la mandria da un lato riparata da spini su' muriccioli a secco, si specchiava nell'abbeveratoio vicino, facendone scintillare le acque, increspate da un leggiero venterello. Dietro, sotto a' suoi raggi, verdeggiava tutt'in giro la costa, senza un albero, sparsa qua e là di sassi, e sulla cui sommità spiccava nell'azzurro un mastino acculato che abbaiava.
Allo scalpitìo del cavallo s'affacciò alla porta un contadino.
—Ehi!
—Ehi!
—Che volete?
—C'è compare Giorgi?
—C'è. Si voltò verso l'interno, e chiamò:—Su Giorgi!… su Giorgi!…
—Oh.
—C'è uno che cerca di voi.
Un momento dopo comparve il campiere. La luna l'illuminò tutto, facendo luccicare i fregi di rame della giberna ch'aveva ad armacollo: era un uomo chionzo dal naso a trombetta, con una barba ispida, e nera: era vestito di bordiglione, portava, schiacciata indietro sul capo una scarzetta di felpa con una lunga nappa di seta.
—Ehi!
—Salutiamo, compare Giorgi.
—Oooh, don Castrenze!
Il galantuomo era sceso da cavallo; s'abbracciarono e si baciarono.
—Quant'è che non lo vedo!…. Presto, Masi, conduci il cavallo nella stalla; levagli le bisaccie di dosso e portale su. (Poi avviandosi con l'amico)—Come va tanto bene?
—Son venuto un po' per vedervi, è un secolo che non si fa quattro chiacchiere….
—Grazie.
—Un po' perchè mi bisognano un par di conigli per regalarli.
—Ci corre con poca fortuna: l'altr'ieri ci furono quattro cacciatori di Cammarata, e spazzarono via ogni cosa…. Basta, con tutto ciò non resteremo a denti asciutti; so certe tane in un dirupo….
Frattanto erano entrati nella fattoria. Giorgi andò a staccare da un chiodo una lucernetta di latta, e s'incamminò facendo lume. Salirono per una scaletta ripida di cinque o sei gradini, e vennero nella stanza de' campieri. Era piccola, a tetto, dalle pareti sudice: a sinistra due letti con le panchette di legno, e su ciascuno uno strapunto abballinato a quadretti bianchi e azzurri; a destra un deschetto addossato alla parete, e due rozzi sgabelli. Al capezzale de' due letti tre o quattro immagini di santi affumicate, incollate con midollo di pane, un fascio di taglie di ferula. Da tutta quella roba esalava un puzzo di caprino ch'appestava.
Giorgi Ciulla posò la lucerna sul deschetto.
S'accomodi, disse all'amico accennando uno sgabello, e mi permetta: vado a preparare qualcosa da mangiare: si contenterà del poco che c'è. Se avessi saputo….
Entrava Masi con le bisacce.
—Non state a incomodarvi, compare, ho portato un po' di salsiccia. E fattosi incontro al contadino, la cavava fuori dalle bisacce coi sedani, il pane, il fiasco e la ricotta: dava l'una al campiere, posava le altre cose sul deschetto.
—Oh, non c'era proprio bisogno…. basta, sempre compito don Castrenze! E Giorgi, dicendo ciò solo per cerimonia, stendeva la mano, e pensava con piacere che di quella salsiccia ne prenderebbe una satolla.
Mezz'ora dopo i due amiconi erano seduti al deschetto senza tovaglia, davanti alla salsiccia che aveva quel bel colore dorato degli arrosti cotti appuntino. Giorgi si levò di tasca il coltello, l'aprì, e si mise a tagliare il pane: dette la parte dell'orliccio all'amico, ne posò un'enorme fetta accanto al suo piatto; partì la salsiccia, aspettò, lasciandoci gli occhi sopra, che l'amico si servisse, infilzò il coltello in un rocchio, e si mise a mangiare a bocconi doppi.
—E che si dice, compare Giorgi, domandò il galantuomo ammiccando.
—E che s'ha a dire, don Castrenze, rispose con la bocca piena: ci angustiano.
—Al solito, eh?
—Già.—E tra un boccone e l'altro prese l'aire.—Vengono quegli sbirroni de' carabinieri, si mangiano mezza masseria, poi fuori con la solita storia: ci avete a far pigliare i briganti, se no all'isola! vengono quegli sbirroni dei militi, spazzano il resto, e poi: ci avete a far pigliare i briganti, se no all'isola! i soldati l'istesso, con la differenza però che quegli lì se gliene date, ne prendono, se no, niente. Ma siate ragionevoli, noi che l'abbiamo legati alla cintola i briganti? nella masseria non ci vengono…. A chi lo dite? è come parlare al muro. A me mi paiono pazzi! Lasciamo stare che non potremmo mostrarci più a fronte scoperta, che ognuno avrebbe il diritto di sputarci in faccia, mi spiego?…
Il galantuomo alzò le sopracciglia, e approvò col capo.
—Ma quando ci fosse toccata una schioppettata nella schiena, seguitò Ciulla, o che loro ce la leverebbero?
Infilzò il coltello in un altro rocchio al quale attaccò un morso, e abbassando la voce riprese:
—Prima che venisse don Peppino dalla Calabria, i briganti di Sicilia, parlo di quelli de' nostri tempi s'intende, non erano che la…. (e disse la parola) di tutti i briganti! tanti scassa pagliai buoni solo a rubar cavalle, mule, caci, scappolari, o barde o bisacce, assaltavano qualche volta il procaccio, facevano qualche sequestro …. ma che razza di sequestri: fatti senz'abilità e senz'accordo….
—Come quello del marchese di S. Gabriele, per esempio.
—Appunto. Ma venuto don Peppino la cosa cambiò aspetto: si cominciarono a far furti seri, si cominciò a fare alle schioppettate con la forza, a ammazzar spie, a organizzare sequestri, veri sequestri…. Non parliamo di quelli de' fratelli Sala; la colpa fu di compare Vincenzo, che, lasciato a guardia de' sequestrati, pensò d'ubbriacarsi….
—Che bestia!
—Lei lo sa, i due giovini che non erano minchioni, gli fracassarono il cranio con una terribile legnata, e se la svignarono. Ma quello di Salemi però fu fatto da maestri, quel che si dice da maestri.
—È vero.
E il campiere trasportato dalla mania che aveva di chiacchierare, usciva sempre più dal proposito: ora raccontava i particolari del sequestro Salemi.
—Lei non l'ignora certo, propose l'affare don Santo Rufola soprastante dei Carabillò. Per mezzo suo si sapeva che Salemi doveva andare a Termini, anche l'ora della partenza s'era appurata, e ch'egli portava dei salsiciotti che doveva regalare al suo avvocato! Don Peppino fa appostare i suoi uomini a Sbalzo di Franco, tra gli ulivi sopra lo stradale: lui in stivaloni verniciati e giacchetta di velluto, a cavallo alla sua storna sellata come la cavalla d'un principe, si mette a passeggiare fumando tranquillamente. Che razza d'uomo, eh!
—Per Gesù Cristo!
—E in pochi giorni, duemila e cinquecent'onze in tasca, in barba a tutti gli sbirri della Sicilia!… Ah, la vita del brigante ha de' pericoli, ma è bella soggiunse con un sospiro. Borsa piena, libertà, senza pastoie di legge e del diavolo! Se non avessi moglie e figliuoli!…
E annaffiò il suo rammarico bevendo al fiasco con gran rumore di labbra: poi disse strizzando un occhio:
—Si lascia bere questo vinetto!
E il galantuomo solleticato dalla lode, facendo cerchio dell'indice e del pollice uniti, e alzando la mano, esclamò con enfasi volgare, ch'era di quello pisciato dal Padre Eterno!
—È di Malfarina?
—Già.
—Famosa contrada.
Allora si ricordò che aveva lasciato il discorso a mezzo.
—Dunque, dicevo io, perchè le cose ora vanno di tutt'altro modo? perchè la banda ora è ordinata e disciplinata come si deve: capo, vice capo, gregari, affiliati, manutengoli, spie, e gli statuti, come dicono loro, certe leggi con le quali il marchese tiene tutti in un pugno. Capisce lei! Andate a scherzare con questa gente! Bisogna rigar diritto se non si vuol avere una schioppettata, o una citazione….
—Una citazione!
—Sicuro.
—E cos'è questa citazione?
—Cos'è questa citazione? Vengo e la servo: ha da sapere che n'han inventata un'altra: appena vien loro un sospetto, vi mandano un pezzo di carta scritta, proprio come fa la giustizia, dove vi s'intima di farvi trovare il tal giorno, alla tal ora, nel tal luogo: lì il capo, il vice capo, e il più anziano, siedono su' sassi come se fossero giudici, vi dan l'avvocato per difendervi, uno v'accusa, e vi fan la causa! Finiscono per lo più con mandarvi all'altro mondo. Perciò li vadano a prender loro i briganti se n'hanno voglia e coraggio, tanto son pagati per questo: noi ci lascino stare per i fatti nostri a buscarci il pane, che andiamo per le serre di notte e di giorno, e non si sa mai quel che può capitarci.
—Avete ragione.
E per far vedere ch'anche lui era in giorno di queste cose, si messe a raccontare come fossero stati uccisi il tal campiere, il tal pastore, il tal contadino, fucilati i due della borgata di Roccamena, per non aver voluto badare ai fatti loro; e per l'istessa ragione costretti a snocciolare grosse somme tizio e sempronio, ricchi proprietari; come al fattore di Marcatobianco, che una notte aveva lasciato fuori senza pane e senz'orzo compare Ciccio Raja, avessero fatto lo smacco di rubar due mule e sette cavalle, tra cui la famosa Bordellina, la cavalla morella che ora cavalca don Peppino.
—Ora a proposito, ditemi una cosa…. riprese dopo un po' di silenzio, è veramente calabrese questo don Peppino?
Il campiere che ingoiava un grosso boccone, accennò di sì col capo.
—Calabresissimo, disse poi.
—O perchè allora lo chiamano il Lombardo?
—È lui che dice che è lombardo.
—E con quale scopo?
—Eh… ce l'avrà certo il suo scopo…. chi sa che corbellerie grosse avrà fatto in Calabria…. e com'è naturale lei mi capisce….
—E… ditemi un'altra cosa…. perchè lo chiamano il Marchese?
—Glielo dirò in due parole.
Prese un sedano, e cominciò a nettarlo.
—Ha da sapere che una domenica di marzo dell'anno scorso andavo al picco dell'Avvoltoio, per certe mie faccenduole: nel bosco incappai in un appiattamento di bersaglieri. Alto, mi gridò l'ufficiale alzandosi di dietro a un pietrone. Mi fermai.
—Chi siete?
—Il campiere di Pietracaduta.
—Come vi chiamate?
—Giorgi Ciulla.
—Di dove venite?
—Dalla masseria.
—Dove andate.
—Al picco dell'Avvoltoio,
—Avete permesso d'armi?
—Sissignore.
—Mostratemelo.
—E perchè no.
—Me lo levai di tasca e glielo detti. Lo lesse guardandomi di quando in quando come se volesse farmi il ritratto: poi approvò col capo, e me lo restituì.
—Avete visto briganti?
—E dove! alla masseria non ci vengono; io giro un po' pel feudo, vedo passare tanti e tanti…. ma la trazzera è del re e non si può impedire: la gente lo portano scritto in fronte se sono briganti o no?
—Avete la lingua molto sciolta, brutto muso.
—Io non so se sia un brutto muso; questo so, che aria chiara non ha paura di tuoni.
—Basta. Andate. Ci vorrebbe la legge…. (non so più che cosa avesse bestemmiato) per questi birboni!
—Bacio la mano.
E seguitai per la mia via. Avevo fatto un mezzo miglio, quando vidi venire verso di me un uomo a cavallo a una cavalla baia. Quello lì, dissi, mi pare Nino D'Amico…. Se è lui, ha da esser devoto a qualche santo. Mi avanzo: era lui.
—Salutiamo.
—Oh, co….co….compa….pare Giorgi! (Tartaglia un poco, disse, al galantuomo sorridendo).
—Dove si va, compare Nino?
—Scendo alla masseria per parlar con Ntoni il capraro.
—Ringraziate Dio d'avermi incontrato, gli dissi io allora.
—Perchè?
—Nel bosco ci sono appostati i bersaglieri.
Basta, tornò, e ce n'andammo insieme. Mi disse che doveva parlare a Ntoni per l'affare della morella che gli avevano rubata, e che don Peppino, pregato da lui, aveva fatto cercare: s'era trovata, e Ntoni poteva andarla a prendere alla Gerbina: mi disse che alla masseria di quel feudo quel giorno c'era condito, mi ci volle condurre a ogni costo, e ci andammo. Lì trovammo don Peppino. Nino Di Marco, compare Ciccio Raja, Mamola…. tutti i picciotti insomma; e alcune donne, Maria la Ciminnita e sua figlia Peppa, una certa donna Rosa da Villafrate, Anna Caltabellotta l'innamorata del capitano, una ragazza a quindici anni, che, gli assicuro, si può bere in un bicchier d'acqua. Gli amici mi fecero un mondo di cose, ci abbracciammo, e ci baciammo. Intanto seppi che s'erano riuniti alla Gerbina per decidere se dovevano ammettere nella banda Antonino Mistretta detto il Salemitano e Vincenzo Biggica. Il Salemitano era vecchio nell'arte; ma Biggica non aveva dato nessuna prova, si figuri che non aveva commesso manco un reato! era però un giovane di buoni principii; a cui piaceva la vita libera, e che aveva tanto in uggia gli sbirri, che si cambiava di colore ogni volta che ne vedeva uno. Basta, si chiusero nella stanza di sopra, confabularono un quarto d'ora, e finalmente uscirono.
Don Peppino s'avvicinò a Biggica e al Salemitano: fece al primo una predichetta come ne suol fare, gli mise innanzi agli occhi i pericoli della vita del brigante, quale fine l'aspetta…. qua, là, egli non aveva reati sulla coscienza, era giovine, aveva una madre da mantenere, pensasse alla povera vecchierella…. Insomma un certo discorso che ci fece piangere tutti. Finalmente gli disse, che la banda riunita, secondo i regolamenti, respingeva la sua domanda, e accettava quella di Mistretta. Allora ci avvicinammo tutti a compare Nino, e ci congratulammo con lui; e il povero Biggica restò in disparte come un can bastonato. Sedemmo a tavola. Compare Raimondo aveva fatto le cose proprio bene, e ci fu mangiare per trenta. Basta, andiamo che sentivo spesso Anna Caltabellotta chiamar don Peppino ora il Marchese, ora il suo Capitano delle Montagne, facendosi tutta sdolcinata. Ero seduto vicino a compare Nino D'Amico che mangiava come un lupo.
—Compare, gli domandai sottovoce, mi fareste il piacere di dirmi perchè quella sgualdrina chiama il vostro capo ora il Marchese, ora il Capitano delle Montagne? Compare Nino lasciò un osso di capretto che stava stritolandolo addirittura, e mi rispose:—Compare, è un segreto del nostro capo…. però voi m'avete liberato da un gran pericolo, e non posso negarvi nulla: ma!…
—Oh, non dubitate. (Lo dico a lei perchè è dei nostri). Dunque compare Nino si chinò e mi disse all'orecchio:—È un marchese incaricato da Francesco di venire a organizzare in Sicilia un brigantaggio come quello del Napoletano.
—Davvero! esclamò don Castrenze.
—Che posso dirgli, riprese il campiere stringendosi nelle spalle.
—Stento a crederci…. perchè…. Ragionate con me: se le cose andassero come vuol dar a intendere D'Amico, don Peppino non ci avrebbe avuto difficoltà ad accettar nella banda Biggica, Dolce, De Felice, Graziano e tant'altri. Ma, direte voi, non s'eran fatti ancora conoscere: ed io vi rispondo, che in affari di quella sorta, non si guarda tanto pel sottile.
—Sì, ma….
—Io suppongo piuttosto che don Peppino, da quel volpone matricolato che è, sparga queste voci per farsi amici i proprietari malcontenti, averne protezione, e cavargli i danari di tasca senza farli strillar tanto. Che ve ne pare?
Compare Giorgi si strinse di nuovo nelle spalle, poi dette un'altro lungo bacio al fiasco.
—Ma non gli ho raccontato il meglio, riprese asciugandosi le labbra col rovescio della mano. Ci alzammo da tavola. Don Peppino dette la mano alla sua favorita, e invitò i compagni a fare altrettanto con le loro belle. Andavano a fare una passeggiata nel bosco, ci dissero, e partirono senz'altro. Restammo io, compare Nino, Mistretta, Biggica e altri, si figuri come. Ci guardammo negli occhi. Puliamoci il muso, dissi levandomi il fazzoletto di tasca. Tutti si messero a ridere.
E Giorgi anche ora rise a squarciagola della sua barzelletta, mentre il galantuomo si restrinse a un certo suo sorriso di satiro, che scoprì i denti neri nella bocca che gli arrivava agli orecchi.
Accesero le pipe, appoggiarono i gomiti sul deschetto, le guance nelle palme, e restarono a guardarsi, cacciando gran boccate di fumo.
—E ora a noi, pensò il galantuomo, e, senza levarsi la pipa di bocca, cominciò a tastare le acque: e se il Marchese ci veniva spesso alla masseria, se era uomo da potersigli fare una confidenza senza che uno avesse poi a pentirsene, e se qualche giorno compare Giorgi potesse farlo abboccare con lui… Si trattava d'un affare delicato…. rischioso…. ma d'oro, proprio d'oro! E insinuandosi a poco a poco, sempre cauto, cercando di cogliere i minimi moti del volto ruvido del campiere, finì con dire, a pezzi e bocconi, quel tanto perchè quegli comprendesse. Non nominò la persona a cui doveva farsi il tiro, ma parlò di Pietro Serafini di Mezzoiuso, campiere a spasso, che gli aveva proposto l'affare…. e finalmente gli domandò se voleva essere della partita anche lui. Ma non ci sarebbe stato bisogno di tante precauzioni: Ciulla era il più gran birbone ch'esistesse sotto la cappa del cielo. Egli approvò, e accettò. Non conosceva quel Serafini, ma quando ne rispondeva don Castrenze non ci trovava a ridire. Gli parve buona l'idea di parlarne a don Peppino, però c'era un piccolo guaio: il Capitano messo alle strette dai soldati, carabinieri e militi, che andavano per quelle campagne come le cavallette, era ricorso alla sua solita tattica, se n'era andato alla marina di Ribera. Appena tornato però, era sicuro che veniva a Pietracaduta, gli parlerebbe, avvertirebbe poi l'amico, indicandogli il giorno che doveva venire alla masseria per concludere ogni cosa.
Per evitar qualche guaio, gli scriverebbe: «Domani verrà il pecoraio che vuol vendere la cavalla.»
Tutto ciò, l'indomani dopo aver preso un par di conigli col furetto, don Castrenze andò a raccontare al reverendo, il quale fu contrariato dall'intoppo: ma non c'era che fare, e si rassegnò: con una certa pazienza, poichè…. insomma…. l'affare era avviato benino. Annunziò con gran piacere al guercio che don Giovannino era partito quel giorno stesso, per ritornare agli studi: un impiccio di meno.
IX.
«Domani arriva il pecoraio che vuoi vendere la cavalla.» Seguivano i saluti, e la firma dell'onesto Ciulla. I due amici che aspettavano quella lettera da più di due mesi e con la più viva impazienza, furono alleggeriti da un gran peso. Se ne stettero tutta la sera in gran colloquio, riepilogando, ponderando, discutendo, aggiungendo, togliendo, e si separarono contenti come pasque, ricaduti nei soliti sogni, con un grato tintinnio d'oro degli orecchi.
—Ti raccomando di non compromettere la mia veste sacerdotale…. aveva detto il prete al solito al galantuomo, e questi aveva risposto:—Si parla una volta.
L'indomani, in groppa al morello, con le bisaccie ben gonfie, e Vespa e Monaca dietro, il guercio arrivava a Pietracaduta.
Il campiere l'aspettava: messero il cavallo in istalla, e fecero le viste d'andarsene a caccia.
—È venuto? domandò il galantuomo sottovoce, quando s'ebbero allontanato un poco dalla masseria.
—Stamattina, rispose Ciulla nell'istesso tono.
—Dov'è?
—Sulla montagna.
—Gli avete parlato.
—Gli ho parlato.
—Accetta?
—…. Ci son guai.
—Guai!
—Guai.
—Ma perchè?
—Perchè…. perchè…. Lei mi disse che a parte dell'affare ci doveva essere un suo amico.
—Pietro Serafini.
—Già.
—E?…
—Io, se si ricorda, gli domandai di dov'era.
—Ed io vi risposi, di Mezzoiuso.
—Gli dissi che non lo conoscevo.
—Ed io soggiunsi, che rispondevo di lui personalmente.
—Da parte mia non ci trovai a ridire: si figuri! ma…
—Spiegatevi.
—Pare che don Peppino non l'intenda così: egli non conosce questo Serafini….. e ciò sarebbe niente…. ma il peggio è che compare Nino D'Amico che è di Mezzoiuso e conosce tutto il paese, non sa nemmeno lui chi sia: anzi giura e spergiura che a Mezzoiuso questo casato non c'è. Allora il capitano è montato su tutte le furie; n'ha fatto una partaccia; m'ha detto che io non dovevo mettere innanzi un affare senza aver preso prima le debite informazioni sulle persone, questo è proibito dagli statuti della banda; la passavo liscia perchè egli mi conosceva da tanto tempo. Si figuri! Mi son sfegatato inutilmente a fargli comprendere che ero sicuro di lei, che ne rispondevo come di me stesso: m'ha ordinato di mettere in chiaro ogni cosa al più presto, se no guai per tutti! Lo vede in quale impiccio mi trovo per causa sua? Ora bisogna rimediare: lei lo sa meglio di me, con quei diavoli lì non si scherza…. se ci avesse a arrivare quel po' di carta scritta, saremmo in un precipizio.
—Carta scritta…. carta scritta…. disse il galantuomo un po' inquieto. Ma insomma mi spiegherete una volta cosa significano tutte queste storie?
—Non ha capito?
—Io no.
—Oh!… ma la cosa è chiara…. il capitano teme…. che lei….
Storse il muso e alzò le sopracciglia, dicendo, che non c'era bisogno d'aggiunger altro.
—Io! esclamò il galantuomo all'atto del campiere. Io!!
Questi scrollò il capo.
Allora il guercio non potè più tenersi: egli che non era arrossito di vergogna per l'infamia che meditava, arrossì all'idea che lo si credesse spia e traditore. Rizzò con una grottesca dignità la sua piccola persona.
—Io! io! E si batteva il petto. Io!… Ma io sono un galantuomo, compare Giorgi, e voi lo sapete, e lo sa tutto il paese, e la provincia e tutta la Sicilia….
—St…. piano; si calmi.
—E anche voi, compare Giorgi, riprese riabbassando la voce, anche voi, dubitate di me!
—Io! che dice mai!
—Non cercate di discolparvi. Dubitare di me! dubitare di me! Oh, quando s'arriva a questo punto, vo far vedere se sono una spia,… un traditore.
—Ma chi le ha detto….
—Andiamo dal capitano! interruppe afferrando bruscamente Giorgio per un braccio. Andiamo dal capitano!… spiegherò ogni cosa, e vedremo! Non avrei aperto bocca per tutto l'oro del mondo avevo giurato all'amico. Ma ora si tratta della mia riputazione, del mio onore, sì, del mio onore, e non transigo. Andiamo dal capitano!
Lassù nella montagna il capitano, che aveva visto venire i due amici, aveva preparato, come suol dirsi, la scena: s'era seduto sur un sasso in una piccola spianata, sotto a un enorme castagno, dalle cui gemme turgide cominciavano a spuntare le prime foglioline d'un colore verde pallido: aveva disposto gli otto compagni, armati sino a' denti, e che tenevano i cavalli per le briglie, a semicerchio, quattro a destra, quattro a sinistra, e col fucile tra le gambe, e con l'aria più mafiosesca che mai, aspettava.
Egli era alto, segaligno, dagli occhi grigi, la cui espressione cupa di smarrimento dava, a prima vista, alla sua faccia lunga, olivastra, col naso leggermente schiacciato, con le labbra sottili e pallide, quell'aria sinistra che rende paurosa la fisonomia d'un pazzo. Vestiva con una certa eleganza; il che era naturale perdio! o che doveva lasciar credere che fosse un marchese da burla! Giacchetta e panciotto di velluto nero, cravatta di seta azzurra con spillone di corallo, calzoni attillati di panno grigio sotto agli stivaloni verniciati: aveva una catenella d'oro, anella d'oro alle dita, in capo un cappello di feltro grigio a falde strette, alto di cocuzzolo, con una bella penna di falco. Ma tutto ciò strillava maledettamente sulla sua persona ordinaria; gli dava l'aria d'un contadino vestito da signore, generava un miscuglio di leggiadro e di rozzo, di grottesco e di feroce, curioso a vedersi. Presentazione del galantuomo, sguardo bieco e penetrante del bandito, cenno reale dello stesso, al quale i compagni obbedirono subito allontanandosi.
—Dunque, voi siete quello che proponeste a compare Giorgi l'affare di S. Giovanni?
Così il capitano cominciò il suo interrogatorio, fissando don Castrenze come se volesse leggergli nell'anima.
—A servirla.
—Assicuraste che l'affare è buono.
—A servirla.
—Gli parlaste d'un certo Pietro Serafini di Mezzoiuso, campiere a spasso.
—A servirla.
Il Marchese aggrottò le sopracciglia: quell'«a servirla» cominciava a fargli montar la senapa al naso. Tuttavia si contenne.
—Come va che nessuno sa chi sia costui! Nino D'Amico, che conosce tutto Mezzoiuso, assicura che a Mezzoiuso non ci sono nè Pietri, nè Serafini…..
E di punto in bianco, con orrende bestemmie, e un piglio feroce, aggiunse che avrebbe fatto tutti a pezzi. se non spiegavano come stesse quella faccenda.
Lungo la via il guercio aveva preparato il suo discorso: voleva intrecciar le braccia sul petto, guardar il Capitano ciondolando il capo d'alto in basso, poi dirgli il fatto suo fuor dei denti. O che modo era questo di sospettar della gente! Non ci avrebbe creduto nemmeno se gliel'avesse detto il Papa, per Gesù Cristo! conosciuto com'era da un uomo come compare Giorgi Ciulla, gli pareva che prima di darglisi la taccia di spia e di traditore, si sarebbe dovuto andare un po' più adagino…. Egli era un galantuomo, e lo sapeva il paese, la provincia, la Sicilia tutta…. e piuttosto che macchiarsi d'un infamia simile avrebbe messo il collo sotto la mannaia, etc., etc.
Ma la paura ch'ebbe del volto livido e del brutto sguardo del bandito gli ricacciò in gola quel piccolo squarcio d'eloquenza: invece svesciò subito ogni cosa, come colui che non gli paia l'ora di discolparsi. Sì, Pietro Serafini era un nome d'invenzione: egli aveva creduto regolare mantenere il segreto, per una delicatezza verso il suo amico, che indossava la veste sacerdotale: l'amico stesso gli aveva fatto giurare di non tradirlo. Però ora si trattava della sua riputazione, del suo onore, e non stava a far più tanti complimenti…. Serafini era padre don Giuseppe Rizzotto.
E a un moto di sorpresa che non poterono frenare Ciulla e il Capitano, al sentir pronunziare in una faccenda simile il nome di colui che godeva fama di santo, Don Castrenze, che capì tutt'altro, soggiunse: che se non gli credevano, farebbe abboccare con don Peppino l'amico, travestito da campiere s'intendeva. Per grazia di Dio aveva da far con gente che comprendevano il pudore del prete. Oltre di ciò, venuta l'ora, nè lui ne l'amico si sarebbero mossi dal lato del Capitano che avrebbe potuto farne il suo piacere al minimo indizio di tradimento. C'era che dire?
Non c'era che dire. Tuttavia per un resto di dubbio, o che, il bandito dichiarò che voleva parlare col prete, concedeva che venisse travestito da campiere.
—Padronissimo, rispose il galantuomo.
E il Marchese, dopo averci pensato su un pochino, riprese:
—Domenica sera dunque.
—Dove?
—Nel bosco di Melia…. tra due ore e due ore e mezzo…. e precisamente alle Tre Croci. Conoscete il luogo?
—Sissignore.
—Chi arriva il primo aspetta.
—Bene. E il segno per riconoscerci?
—….Quando due uomini a cavallo, incappottati, vi passeranno vicino, domandate loro:—Amici, è questa la via che conduce a Pietracaduta?
Gli dette commiato con queste parole:
—Badate!… prenderò delle informazioni.
—Oh, ci ho tanto piacere!
Quel giorno stesso il galantuomo, arrivato davanti alla sua casa, smontò, menò il morello nella stalla, portò di sopra le bisacce e il cappotto, e via a trovare il reverendo.
Costui tornava dal dir messa, e stava prendendo il caffè. Ne offerse all'amico, poi gli domandò:
—Che cosa hai fatto?
—Tutto.
—Parlasti con don Peppino?
—Ci parlai.
—Accetta?
—Sì: ma vuole abboccarsi con te.
—E…. ti sei ricordato di non compromettere la mia veste sacerdotale?
—Oh!
—Bene.
—Stasera, a tre ore, il Capitano ci aspetta nel bosco di Melia, alle Tre Croci.
Allora il prete gli disse che s'era provveduto degli abiti per travestirsi, e gli raccontò come. Glieli aveva prestati Mommo il Vappo, il guardiano delle vigne della Rupe, un po' cugino del suo mezzaiuolo. Gli aveva dato a bere che gli abbisognavano per una certa sua tresca; gli raccomandava anzi il silenzio. Il bietolone s'era messo a ridere: gli era parsa assai buffa la cosa; per questo anzi aveva cercato di scavare come stesse. Ma lui s'era mostrato dispiaciuto di non poterlo contentare, in quel caso, più che in ogni altro, bisognava saper tenere il segreto, tanto più che n'andava l'onore d'una famiglia onesta, e via discorrendo.
Castrenze aveva certi abiti vecchi di suo padre: si sarebbe legato oltre un fazzoletto attraverso un occhio, a causa di quel benedetto strabismo. Ciò per la sera del tiro. Accomodato a quel modo, sfidava tutti gli occhi del mondo a riconoscerlo.
Si separarono dandosi la posta alla Rupe, in sull'avemmaria.
Erano due ore e un quarto quando i due amici, a cavallo e incapottati, entravano nel bosco di Melia, e s'indirizzavano alle Tre Croci, dove l'aspettava don Peppino.
La sera era placida. I raggi della luna, stentando a penetrare il fogliame spesso de' lecci, arabescavano qua e là il suolo erboso, mettevano sotto alla volta di quelle piante secolari un chiarore incerto, nel quale i tronchi neri si rizzavano come strani fantasmi. Nel silenzio s'udiva lo scalpitio delle cavalcature che si arrampicavano per la viottola ciottolosa, di tratto in tratto l'abbaiare sinistro d'una volpe.
Andarono su su per una diecina di minuti. Ma svoltando a sinistra, nell'internarsi in una specie di viale cupo e profondo, all'altro capo del quale si vedeva come un gran buco d'un chiarore pallido, sentirono un fischio che fece loro rizzar la testa vivamente.
—Castrenze…. mormorò il prete.
—Oh, rispose il guercio, fermando il cavallo, e voltandosi.
—L'hai sentito?
—Sì.
—Che diamine vuol essere.
—Umh…. Il Capitano è diffidente, forse avrà sparsi i suoi compagni attorno il luogo dell'appuntamento…. sarà un di essi che l'avverte del nostro arrivo.
—O se invece fossero i soldati?
—Eh, per Gesù Cristo!… i soldati non fischiano.
Ciò detto si rimise in via dando di calcagno al morello; e il prete gli andò dietro borbottando.
Poco dopo venivano in una radura, e si fermavano.
Era un luogo quasi circolare, nella cui parte superiore si vedevano tre mucchi di pietre, su ciascuno de' quali era conficcata una rozza croce di legno. Un'altra via, dirimpetto a quella che avevano percorso i due amici, s'ingolfava più cupa e più profonda.
—Non c'è nessuno, disse il prete sottovoce, dopo avere spinto lo sguardo un po' da per tutto.
—Aspettiamo.
Ma in questa sentirono un fruscio di sterpi smossi, e videro sbucare dalla via dirimpetto, due uomini a cavallo, armati e incapucciati, i quali pareva andassero per i fatti loro.
Padre don Giuseppe si strinse nel cappotto.
—Amici, è questa la via che conduce a Pietracaduta? domandò il galantuomo, quando que' due gli passarono vicino.
—Don Castrenze…. disse quello ch'era avanti.
Era don Peppino. Don Castrenze gli presentò l'amico. Allora smontarono, e stretti in un gruppo, tenendo le bestie a mano, si messero a confabular sottovoce. Don Peppino faceva delle domande al falso Serafini; voleva altri e più precisi schiarimenti sull'affare, voleva aver la certezza che il sacerdote non avesse preso un granchio a secco: si trattava di risicare la libertà, e probabilmente la pelle, intendeva far le cose a occhi aperti: del resto glielo spiattellò chiaro e tondo, non l'avrebbe passata liscia, se l'affare de' danari fosse una favola. Ma il falso Serafini protestava, portava la mano al petto in segno di giuramento; dimenticando il personaggio che rappresentava, stava per aggiungere: «sul mio ordine sacro» Fortuna che si contenne in tempo! Però al Capitano non restò più alcun dubbio, e quell'istessa sera volle visitare il paese, per fare il suo disegno d'attacco, diceva lui.
—Fece un fischio, poi ordinò si montasse a cavallo, e via pel bosco.
Giunsero a S. Giovanni quando all'orologio della parrocchia sonava mezzanotte: i rintocchi lenti e malinconici del «ntin-ntan» si perdevano per la campagna tutta verde, silenziosa nel chiarore del plenilunio. Giù, a' piedi del monte, il paesetto dormiva, costeggiato dallo stradale, dominato dalla villa, i cristalli delle cui imposte scintillavano. A destra della villa biancicava un'erta a mandorli tutti fioriti, che spandevano attorno un odore delicatissimo.
Il galantuomo e compare Nino restarono in cima alla costa a tenere i cavalli, il capobandito e il sacerdote scesero a piedi alla volta di S. Giovanni. Lo girarono, poi l'attraversarono per lungo e per largo. Don Peppino s'era levato di tasca una specie di grosso taccuino, sur un foglio del quale tracciava linee e linee con un mozzicone di lapis: egli si dava una grand'aria d'importanza dinanzi allo strano cicerone che badava a dir sottovoce, via via che ci arrivavano: questa è l'entrata di S. Saverio, la principale del paese…. questa è l'entrata di S. Brigida…. E intanto salivano e scendevano secondo gli accidenti del terreno, e passavano davanti a una sfilata di casipole a uscio e tetto o a un piano, con finestrini che parevano tanti piccoli buchi quadrati: fra quelle casipole s'aprivano vicoli e vicoletti sucidi che mandavano zaffate di puzzo appestante. Dei cagnacci si levavano di tratto in tratto di vicino agli usci, latrando; qualche asino, svegliato, ragliava dentro la stalla. E lo strano cicerone seguitava sottovoce: questa è l'entrata delle Grotte, o la via della Piazza, o la via del Monastero. E il Capitano tracciava linee e scriveva. Ora passavano davanti a case di miglior aspetto; erano a due piani, coi terrazzini; qualcuna con finestre verdi, su' cui oggetti erano allineati de' vasi di fiori.
—Questa è la caserma dei carabinieri, disse il reverendo: e si fermò all'imboccatura del vicolo, preso a un tratto dal restìo.
Il fabbricato sorgeva immediatamente fuori del paese, e stendeva la sua ombra sur una piccola spianata selciata con ciottoli: era un vecchio monastero in rovina, con le sue inferriate inginocchiate, e il portone a angolo acuto.
Il Capitano lo girò e rigirò, fermandosi di tratto in tratto a guardarlo attentamente, come se dovesse comprarlo. Era una sua bravazzata.
—Non ha che una sola uscita? domandò poi al falso Serafini.
—Due, rispose questi. C'è pure quella della chiesa, nella quale si può penetrare per il coretto.
—M'avete detto che per solito non ci sono che tre carabinieri, un vice brigadiere, e un brigadiere…
—Sì.
—Ne siete sicuro?
—Sicurissimo…. Però può darsi il caso che da una sera all'altra capiti qualche pattuglia da Cammarata, e ci resti.
—Bene starete all'erta; nel caso dei casi il vostro amico sa da chi farci avvertire. E ora andiamocene….Sarebbe inutile visitare i dintorni della villa i picciotti, quando sarà l'ora, ce li condurrete voi e il vostro amico: io avrò troppo da fare qui.
E fini con un sorriso mafiosesco.
—Resta a fissare il giorno, disse il reverendo incamminandosi.
Il bandito stette a pensarci su.
—Non può essere prima del ventinove di marzo, disse infine.
—Il ventinove di marzo! Ancora altri dieci giorni!…Badate, in simili faccende non si perde tempo.
—Lo so; ma non c'è che fare.
—Vediamo….
—È impossibile. Della gente ce ne vuole…. devo avvertire i picciotti …. far certi preparativi….
Ma l'omaccione insisteva: era impaziente: con un po' di buona volontà non c'era bisogno poi di tanto tempo per riunire gli amici, al Capitano certo non sarebbero mancati i mezzi. Le cose lunghe diventan serpi…. un caso qualunque poteva far scoprire tutto, ci pensasse. Oltre di che se si presentasse una buona occasione, il vecchio potrebbe impiegare il danaro, e lasciar tutti con un palmo di naso….
Allora l'altro l'interruppe. A lui la cosa premeva più che a ogn'altro, figurarsi! ma bisognava essere ragionevoli: non si poteva riunire i picciotti in meno d'otto giorni…. e poi, o che s'assaltava un paese al lume di luna?
Questa ragione, più d'ogni altra, calmò gli ardori troppo evangelici del reverendo: egli si persuase. Il ventinove di marzo dunque. Il capitano manderebbe un suo fidato a Pietracaduta, Ciulla penserebbe a far avvisare don Castrenze: l'importante era stabilire il luogo dove riunirsi la sera, prima di dar l'assalto. E scelsero la così detta Tribunella, una cappellina poco più su dallo stradale, a mezzo miglio del paese, che alcuni fedeli avevano eretta alla Madonna Addolorata. Intanto salivan la costa di buon passo. Don Peppino ruminava il disegno d'attacco: non poteva nascondere a sè stesso la difficoltà dell'impresa, e per il contorno irregolare del paese, e per la vicinanza di Cammarata, e per la posizione della caserma dei carabinieri: tuttavia di dar addietro non ci pensava nemmen per sogno: s'affidava alla sua vecchia esperienza, all'arditezza de' compagni, s'affidava alla fortuna che l'aveva sempre aiutato nei pericoli.
Il reverendo lo seguiva sbuffando; il colosso sudava sotto al cappotto, mentre un pensieraccio, sortogli in mente nel volger gli occhi alla villa, gli faceva scorrere dei brividi di piacere per il corpo; finalmente si sarebbe presentata quell'altra occasione che aspettava da tanto tempo…. voleva prender due piccioni a una fava: Lola, quella bella fanciulla che s'era mostrata così sdegnosa con lui, egli l'avrebbe in mano, e in quella confusione…. La vedeva nel letto verginale…. dibattersi nella sua stretta…. sentiva palpitare sotto alle sue, quelle tenere carni…. E agitato da una viva impazienza, gli sapeva mill'anni, imprecava alla luna che, giusto in que' giorni, doveva venire, con quella faccia da mascherone, a rompergli le uova nel paniere!
Un quarto d'ora dopo i due compaesani l'uno accanto all'altro, tirandosi dietro le cavalcature, il prete ragguagliando di tutto don Castrenze, s'allontanavano giù per la discesa verso la Rupe, i banditi a cavallo, e per la via dond'erano venuti.
Il capo aveva ripreso a ruminare il suo disegno di attacco, e lo veniva perfezionando: bisognava occupare tutte le cantonate delle strade principali, circondar la caserma de' carabinieri…. quel posto lo riserbava per sè e alcuni dei più arditi: bisognava atterrir gli abitanti con urli e schioppettate, alla minima voce, al minimo rumore che partisse dalla villa…. Ed enumerava gli uomini su' quali poteva contare: quei di Prizzi, que' di Mezzoiuso, que' di Lercara, que' di Burgio…. Valvo co' suoi: stabiliva la maniera come avvertir tutti il più presto possibile.
Intanto, un'altr'ordine di pensieri travagliava la mente del confidente, e gli mandava in tanto veleno il tacchino di cui quel giorno s'era inzeppato nella masseria di Melia.
—Assaltare un paese!… assaltare un paese!… ripeteva tra di sè dimenando il capo sotto al cappuccio. Assaltare un paese!…
Gli parevano tutti pazzi, non poteva darsene pace: e spinto dalla tremerella che aveva addosso al solo pensarci, diceva una fitta d'ingiurie a sè stesso. Era un porco, uno schifoso, una carogna, la cosa più bassa e vile del mondo! Gli stava bene…. gli stava bene! S'era voluto buttare alla campagna, come se la vita del bandito fosse seminata di rose!… Se si presentava dopo quel maledetto furto (che gli fossero cadute le mani!) il più che poteva incogliergli era una condanna di due o tre anni: puh! la gran cosa! meglio ora che c'era tutto il verso di morire com'un cane, con una schioppettata? Brr, gli venivano i bordoni solo a pensarci.
Prese una positura più comoda sulla sella, si strinse di più nel cappotto, e dopo un poco riprese il filo delle sue idee. Ma poi santissimo diavolo, glielo lasciassero dire, gente che si senton uomini davvero dovevano accettare una proposta simile? cose, cose da stordire! S'affrontavano i pericoli, non c'era che dire, ma gettarsi in bocca al lupo!… cercare di farsi tagliare a pezzi da una popolazione spalleggiata da carabinieri, soldati, militi e sbirri del municipio!… Oh, questa no, non poteva mandarla giù…. E poi, chi lo diceva che non ci fosse sotto un tranello?… Basta a rischio, di farsi dare del minchione, egli voleva dir la sua.
Spronò la cavalla, e andò a mettersi accanto al Capitano.
—Do do do do don Peppino.
—Che che che che vuoi, riprese il Marchese contraffacendolo.
—Pe pe per….memettete che che…. dica uuuuuna parola?
—Parla.
—I…. i…. du due san… gio….vannesi mi mi mi pa….paiono du du due i i intriganti…. io no no non…. credo che sa sa sarete…. ta ta tanto pazzo da fi fidarvi di di di di lo….ro, da da….d'accecce….ttare uuna prooo….posta da da gente che che co co….noscete poco, fa fa fatta forse pe pe per….
—I consigli tienli per te quando non ti si chiedono, imbecille!
—E una! disse tra di sè compare Nino tutto mortificato: pazienza. Fermò la cavalla e si rimesse dietro.
—Non vogliono consigli? non gliene darò dei consigli…. se n'accorgeranno quando si troveranno nel ballo, e non ci sarà più rimedio…. allora diranno: ce l'aveva predicato D'Amico, o perchè non volemmo dargli retta? Quello è uomo che ha naso e giudizio!… Facciamo pure: per parte mia, mi tagliassero anche a pezzi, non dirò più una parola…. Ma giusto in quella, il lamento lugubre d'un gufo fece rimescolar tutto compare Nino: si segnò col pollice sulla fronte, giù pel naso sulla bocca, e sul petto: Mamma mia! quello era un canto di cattivo augurio. E in un baleno gli ritornò in mente quel che aveva inteso raccontare essere occorso al tale o al tal altro, per aver sentito quel canto; e s'esaltò e s'impaurì talmente, che, malgrado il proponimento fatto, e il timore che aveva del capo bandito, non potè più tenersi. Spronò la cavalla e tornò a mettersi accanto a lui.
—Do do don Pappino, disse con la bocca piccina.
—Che vuoi?
—A a a avete se sentito quel la la….mento?
Il Capitano trasalì: l'aveva sentito anche lui, e gli aveva fatto molto senso.
—L'ho sentito, rispose affettando quella tranquillità che non aveva.
—È è è i i il ca canto de de del gu gu gu gufo.
—E?…
—A….a….a….apporta disgrazia.
Gli occhi del bandito mandarono un lampo: si voltò; con un gesto violento allontanò da sè un lato del cappotto, e disse fra denti stretti:
—L'apporti tu la disgrazia, ceffo di sagrestano, e jettatore!… e se seguiti a rompermi i corbelli…. sangue…. il gufo avrà cantato per te. Riprovati ora!
—E due, disse tra di sè compare Nino, che, a quel rabbuffo mise davvero la coda tra le gambe, fermò la cavalla e tornò dietro. Questa volta vi restò, fattosi piccin piccino dentro il cappotto, non osando nemmen di fiatare, tanta era la paura che incuteva il capobandito a' suoi compagni, quando si degnava di montare in collera.
Ma l'effetto era fatto; una misteriosa inquietudine s'era impadronita di costui.
Il canto di quel gufo era davvero di cattivo augurio: gli avesse a incogliere qualche disgrazia? E gli si presentò dinanzi agli occhi la morte, col suo sinistro riso di scheletro; vide dietro di lei il buio dell'ignoto…. parvegli di sentir grida e gemiti, e fu preso dal terrore: sbattè le palpebre, come per far sparire quella tetra visione, mentre l'anima sua si rimpiccioliva, si rannicchiava basita nel fondo più riposto del suo corpo. C'era un Dio, l'aveva inteso dire: ogni scellerato (ed egli in quel momento riconosceva d'esserlo) doveva render conto delle proprie azioni a Lui, Giudice severo e inesorabile…. Aveva pur sentito parlare d'inferno, di pene eterne, nel fuoco eterno, tra gli eterni gemiti dei dannati…. E il bandito feroce, impasto di iena e di leone; lo strano innestatore che era venuto ad applicar le mazze del brigantaggio calabrese alla pianta incespugliata e rachitica del brigantaggio siciliano; l'uomo alla cui scuola dovevano perfezionarsi Umberto Riggio e Biagio Valvo, i quali a loro volta dovevano formare capi feroci quali De Pasquale, Leone, Rinaldi, Rocca, Capraro, Sajeva, Plaja ed Alfano, si frugò con mano febbrile nel petto, ne tirò fuori l'abitino della Madonna con un sacchetto gonfio di vari santi, e lo portò alle labbra fervorosamente. Allora tentò di scusarsi, d'attenuare la gravità de' suoi delitti, cercando nella sua vita passata, accusando il destino, mentre andava al passo irrequieto e nervoso della Bordellina che rodeva la briglia e drizzava l'orecchie a ogni ombra, a ogni leggero rumore.
A' suoi occhi si presentava un primo quadro: suo padre e sua madre, onesti contadini, nella loro casipola di Lungro di Cosenza, che dicevano il rosario, seduti attorno al focolare dove bolliva la minestra di patate: la morte l'aveva spazzati col suo soffio gelato, quasi tutt'e due a una volta, sicchè era restato orfano a dodici anni appena, sotto la tutela d'un suo zio, guardiano nella Sila dell'Acquafridda. Egli la vedeva la sua Sila, quell'immensa foresta di querci e di pini secolari, tetra, solitaria, e fredda, di cui conosceva i più cupi recessi, dove tendeva tagliole a ogni sorta di bestie selvatiche. Egli lo vedeva quel suo zio, un vecchio lupo che aveva perduto il pelo ma non il vizio, e aveva contribuito a spingerlo nella via delle scelleratezze, raccontandogli la vita dei banditi celebri, levandone le azioni alle stelle. Non lo poteva dimenticare; erano lunghe storie di sangue, di stupri, di rapine, che avevano lasciato un solco rovente nell'anima sua, l'avevano gettato in preda a fantasticherie selvagge, a cocenti brame d'emulazione. Sicchè qual meraviglia se a sedici anni servisse già di spia e da provveditore di viveri ai briganti, avesse la sguardo bieco, il lampo sinistro degli occhi d'un vero masnadiere? E il vecchio se ne compiaceva; e guardandolo, esclamava allegramente: Mannaia alla madonna, non par vero! non ne ha nulla di quell'imbecille di suo padre che, con la sua probità, non riuscì ad altro che a crepar sulla paglia: parrebbe piuttosto figlio mio, parrebbe! E nei momenti di maggior buon umore, soleva dire, con un riso sgangherato che gli faceva il volto pavonazzo, e mostrava due file di denti piccoli e aguzzi fra' peli della barbona ispida e grigia, che doveva esser certo sonnambulo, e qualche notte durante il raccolto, nell'assenza del cugino, s'era dovuto cacciare, senza volerlo, nel letto della cugina, mannaia alla madonna!
Che colpa ci aveva lui dunque, se lo si era educato a quel modo? Chi gli aveva tolto il padre e la madre? Oh, era ben disgraziato, ecco! e a volere che la legge fosse giusta, bisognerebbe che l'istesso capestro stringesse il collo del delinquente, e quello di colui che l'ha tirato su per le forche!
Ma ad interrompere quelle sue considerazioni, si presentavano altre figure: sua moglie Rachele…. la sua bimba…. Oh, la sua bimba! la sua bimba! La vedeva rosea e ricciutella, andar per la casa barcolloni, o a carezzarlo con le sue piccole manine quando la prendeva in braccio, e la mangiava dai baci; la vedeva stringere i pugnetti e i pochi dentini quando le diceva; fai le rabbie…. E aveva dovuto abbandonarla appena slattata! Maledetto il giorno che scrisse quella malaugurata lettera minatoria al barone di Firmo, si fosse aperta la terra ad inghiottirlo!
E a quel dolce ricordo delle gioie della famiglia gli batteva il cuore, lo tormentava il pensiero che non le avrebbe potuto godere mai più. Ma il quadro cambiava bruscamente: fuggiva, sapendosi cercato dai carabinieri…. entrava nella banda Bellucci…. era preso in una casipola nelle vicinanze di Scigliano…. ammanettato, sedeva sul banco dei rei, davanti alla Corte di Cosenza. Rabbrividiva: in un fondo nero apparivano tre ombre insanguinate ad accusarlo: lo guardavano bieche….. egli le riconosceva, erano il sindaco di Saracisa…. il signor De Giovanni di S. Donato…. Rafaele il povero mulattiere. Chiuse gli occhi per non vederli, e fu peggio: essi stavano lì nel fondo nero, inesorabili, scrollando i teschi d'alto in basso quasi per dire, lo vedi come ci ha ridotto?
Allora, per sottrarsi a quella terribile visione, evocò altri ricordi. Rivide l'isola di S. Stefano, le figure più spiccate de' compagni d'ergastolo, e tra quelle, in un gruppo a parte, schivi d'insozzarsi al contatto di que' miserabili con cui l'accumunava indegnamente il governo borbonico, i detenuti politici Silvio Spaventa, Luigi Settembrini, Gennarino Placo…. Era stato Gennarino Placo, che, scorgendo forse in lui un cuore non corrotto del tutto, l'aveva preso a benvolere, ne aveva voluto conoscere le vicende, gli aveva parlato di morale, d'onestà, di riabilitazione ad una vita nuova col pentimento del passato, gli aveva insinuato mille buone massime, gli aveva insegnato a leggere e scrivere. Oh, perchè gli aveva insegnato a leggere e scrivere! Anche qui egli ci vedeva la mano del Destino trasportato insieme ad altri nell'ergastolo di Palermo vuoto per la rivoluzione del sessanta, perchè sapeva leggere e scrivere messo a capo de' ranceri i quali andavano a far la spesa accompagnati da un custode, aveva avuto l'agio di poter prendere il volo, un giorno che questi, invece di tenere gli occhi addosso a' galeotti com'era suo dovere, s'era messo a guardar dietro a una bella donnetta, che, con le sottane raccolte sgambettava per la strada, e mostrava le calze.
Qui si rasserenò un poco. Aveva due vie aperte dinanzi a sè, quella del delitto, e quella del lavoro: ma quattro lunghi anni di galera gli erano stati di terribile esempio; ma le massime del maestro di S. Stefano avevano lasciato un'impronta benefica nell'anima sua: era rientrato in sè stesso. Aveva vissuto nel piccolo mondo della sua foresta, separato completamente dall'altro, ignaro delle leggi, e, in certo modo, delle consuetudini di essa, non respirando che vita brigantesca, non sentendo levare al cielo che briganti, non sentendo ricordare che fatti di sangue; s'era persuaso dunque che fosse quella la vera vita col diritto della libertà, della volontà, della forza. Ma senza nemmeno pensarci (il suo maestro glielo aveva dimostrato) egli aveva conculcato la prima pel trionfo delle altre due; aveva stuprato, aveva rubato, aveva assassinato…. egli, l'amante feroce di quella libertà, l'aveva calpestata! E non aveva il diritto, di far tutto ciò! aveva visto altri uomini ad arrestarlo, altri uomini a condannarlo, altri ad approvare quella condanna, a biasimare quel che suo zio gli aveva raccontato ammirando!… anche qualcuno dei suoi compagni di sventura aveva sentito a parlare di rassegnazione, di giustizia…. Non era forse Iddio che lo aveva fatto incontrare col maestro di S. Stefano, gli aveva dato l'agio di fuggire, perchè mutasse vita?
Allora aveva scelto la via del lavoro, e vi si era incamminato pieno di gioia e d'ardore. Aveva inventato un romanzo: s'era dato per un tal Giuseppe Del Santo da Bergamo, un garibaldino che aveva versato il sangue per la patria, dopo d'averle sacrificato un posto di segretario, che occupava in casa di un ricco signore di Padova: aveva parlato di sciagure domestiche, di persecuzioni, ed era riuscito a gettar la polvere negli occhi di tutti. Ed eccotelo cambiato in maestro, e insegnare l'abbiccì a' contadinotti delle borgate di Nicoricchia, dell'Uditore e Trabucco; e nelle ore libere, scriver lettere e far di conti. Era retribuito scarsamente, è vero; certe volte doveva contentarsi d'un piatto di maccheroni…. ma s'era attaccato con ardore all'idea di mutar vita, e avrebbe sofferto la fame e peggio. «Il pane tanto più è saporito, e onorato, quanto più è bagnato dal sudore della fronte di colui che lo mangia.» E questa sacra massima lo confortava, ricordandogli l'uomo grande che aveva fatta la luce nelle tenebre dell'anima sua.
Viveva tranquillo come se quella vita dovesse durar sempre, quando un punto nero apparve in quell'orizzonte sereno. Nel marzo del 1862, risaputo che il fittaiuolo dell' ex feudo Scale; vicino Piana dei Greci, cercava uno che sapesse far di conti, era andato alla masseria, aveva parlato con costui, avevano stabilite le condizioni. Però non era potuto star là che una quindicina di giorni, non andando d'accordo col fattore Alegna, un mafioso che lo metteva con le spalle al muro. Egli era uomo da farlo stare a dovere; ma aveva risoluto d'evitare che un qualche guaio lo ricacciasse nell'antica via. Era tornato a Nicoricchia. Ma quindici giorni di lontananza (è così fatta la natura umana) erano bastati a far sbollire l'entusiasmo destato in que' borghigiani dal garibaldino, il quale aveva versato il sangue per la patria, dopo averle sacrificato un posto di segretario, che occupava in casa d'un ricco signore di Padova, e l'istesso piatto di maccheroni non c'era tutti i giorni.
A quel ricordo, anche ora, benchè sotto l'incubo della paura della morte, e del redde razionem, il bandito sentiva accendersi il sangue, e un pensiero s'agitava in confuso nella sua mente: caso mai quel Megna gli capitasse tra le mani…. oh, gliela farebbe pagar cara!
Riprese il filo delle sue idee. Un bel giorno, durante il passo delle quaglie, era venuto a Nicoricchia il figlio del commendatore Pallanza. Egli l'aveva risaputo, s'era fatto presentare al giovine da un giardiniere suo amico, gli aveva raccontato il solito romanzo, lo aveva ammaliato come aveva ammaliato gli altri, e lo aveva pregato di fargli avere un posto, tanto da poter vivere, o a Palermo, o in qualche feudo. Il giovine aveva promesso d'aiutarlo. Difatti, un mese dopo, gli faceva arrivare una lettera per il signor Lo Cicero, fittaiuolo di Marcatobianco.
Così il destino l'aveva condotto bel bello nei luoghi (covo di ladroni) che dovevano esser teatro dei suoi nuovi e più sanguinosi delitti! A che era valso l'aver sofferto la fame pur di perseverare nella buona via? Aveva cercato d'allogarsi alle Scale, e s'era imbattuto in Megna; sarebbe potuto restare a Nicoricchia, e s'era imbattuto in Pallanza. A Marcatobianco doveva imbattersi in Micca!
Micca era bella; sì…. egli si sentiva trascinato verso di lei; sì…. s'era mostrato galante, troppo insistente; sì…. ma non era vero che avesse tentato di violarla! Un giorno di luglio essa s'era addormentata tra' covoni, in un campo mietuto: egli, che cavalcava da quelle parti, sonnecchiando al sole che cadeva cocente e terribile sulla campagna, non s'era accorto di lei se non quando il suo cavallo aveva fatto uno scarto. Essa si svegliava in sussulto, supponeva quel che non era, balzava in piedi spaventata, e correva d'un fiato alla masseria. L'indomani sconciava, e moriva. Che colpa ci aveva avuto lui?… Il marito gli era nemico; egli l'aveva soppiantato; s'era valso di quella disgrazia per perderlo nell'animo dei padroni. Era stato chiamato in Alia, e licenziato.
La luna tramontava: sotto a' suoi raggi obliqui la campagna prendeva un aspetto livido di mostro spirante.
Il bandito scrollava mestamente il capo sotto al cappuccio: si ricordava ch'era uscito dal paese assai sconfortato…. pensava, con una certa amarezza, che aveva servito il signor Lo Cicero bene, e onestamente…. Gli erano state affidate delle grosse somme, per andare a pagar la fondiaria o la ricchezza mobile; non aveva avuta mai la tentazione d'appropriarsele e non farsi più vedere: e l'avrebbe potuto far facilmente…. Basta, solo in mezzo a sterminati campi di stoppie e di favuli flagellati dal sole, senza cavallo, senza sapere dove battersi il capo, aveva veduto il precipizio all'orlo del quale si trovava, e questa volta l'aveva misurato con occhio indifferente. Passavano giusto certi mulattieri, era montato in dosso a una loro mula, deciso d'andare a Termini. Però vicino a Raciura, preso a un tratto da una di quelle strane sensazioni che certe volte soglion essere foriere dei gravi avvenimenti della vita, cambiava idea, smontava, e s'internava nel bosco.
Perchè?
Là, in un pagliaio di pecorai, doveva imbattersi in que' banditi che aveva conosciuto durante la sua dimora a Marcatobianco, per raccontar loro quel che gli era successo; cavalcare un par di mesi con essi; dar prove non dubbie del suo coraggio in uno scontro improvviso, allo svolto d'una via, con soldati e militi; cedere alle preghiere, e accettare il comando della banda….
Si rivedeva a Malfarina, sur un poggio a cavaliere di due valli, dopo aver letti gli statuti della nuova associazione, tra i compagni pieni d'entusiamo, i quali, agitando i berretti in aria con un urrà formidabile, guardavano in qua e in là dove scorgessero paesi, quasi in atto di sfida alla società che si preparavano ad attaccare.
Da quel giorno aveva affogato i rimorsi nel sangue: non del tutto però, poichè, come si vede, di tempo in tempo ritornavano a galla.
Albeggiava. A destra, da una masseria in costa, si elevava un pennacchio di fumo; abbaiavano i cani, le pecore belavano nelle mandrie; un branco di mulacchie si svegliavano stridendo nel bosco; cominciava il concerto delle calandre ne' seminati ondeggianti al soffio d'un venterello fresco…. La natura si ridestava allegra e rugiadosa in quella bella mattinata di marzo, sotto alla volta celeste d'un cielo senza una nuvola.
Il Marchese fece bocca da ridere: l'apparire del giorno, i rumori della vita, l'avevano rinfrancato, avevano scacciato le nebbie de' suoi tristi pensieri. O dove l'aveva la testa per aver ruminato tutte quelle sciocchezze! il canto d'un uccellaccio, le paure d'una carogna, l'avevano colpito al punto….
Finì il pensiero con un sogghigno. Voleva farne di più d'ora in avanti, per punirsi di quella debolezza da femminuccia…. Dio? che Dio! Inferno? che inferno! Il vero inferno era la _vicaria_¹, e sinchè aveva in mano la carabina, non ce lo caccerebbero certo! Alla masseria per Cristo! lì l'aspettavano i compagni: manderebbe Mamala ad avvertire que' di Mezzoiuso, D'Aquila que' di Prizzi, Di Marco que' di Lercara, egli e Savona andrebbero a Granza, a trovar Valvo…. L'assalto di S. Giovanni farebbe epoca. E col cuore allargato da una gioia feroce, diede un par di spronate alla Bordellina, che, a quest'attacco repentino, s'impennò, saltò un ruscello, e via per la costa come una saetta.
¹ Vicaria, carcere principale di Palermo, onde vicaria per carcere in generale.
—Ma ma….maria san….santissima! ha iiil di di diavolo iin corpo!… barbugliò compare Nino, mentre tirava a due mani le briglie della sua cavalla, che, al partire dell'altra, s'era messa a far salti. E gli andò dietro alla meglio.
X.
Otto giorni dopo, sul far della sera, attorno alla casipola del Daino pascolava ancora una mandria di pecore; il pecoraio, seduto sur un sasso, e col bastone tra le gambe, provava con lo zufolo una polca che aveva sentito sonare, nell'ultima festa, alla banda del suo paese. E chi sa quanto ancora sarebbe restato lì, curvo, con gli occhi intenti, dimentico dell'ora e di sè stesso, se un ragazzetto non fosse venuto, a nome del Ciulla, ad avvertirlo ch'era già tardi, scendesse con le pecore. S'alzò, intascò lo strumento, radunò la mandria a urli, fischi e sassate, e se la cacciò davanti per la viottola sparsa di ciottoli, che mena alla valle, all'estremità superiore del cui tappeto verde tagliato da un borro, spiccava la macchietta rossa del tetto della masseria di Pietracaduta. La casipola tra il lusco e il brusco, restò come ingrugnata, solitaria nell'altipiano col monte a ridosso, dal cui pendio calava lentamente una nebbia fitta.
Poco dopo, dalla strada detta Bocca di Capra, sbucarono otto uomini a cavallo: andavano un dietro l'altro avvolti in lunghi cappotti, come una sfilata d'ombre nere nella nebbia invadente. Venuti vicino la casipola, smontarono; lasciarono i cavalli in custodia a uno di loro, si fecero all'uscio consunto, chiuso con un bastone, infilato per traverso in un cappio di corda macera fermato al buco della chiave, l'aprirono, ed entrarono.
Dopo una mezz'ora, eccoti altre ombre sfilare nella nebbia:
—Ehi!
—Ehi!
Smontavano, lasciavano i cavalli, ed entravano.
Ciò sino a mezzanotte passata.
Dieci minuti dopo, l'unica stanzaccia terrena della casipola offriva uno spettacolo strano. Nel focolare scoppiettava una bella fiammata: e tutt'attorno sedevano tre uomini: don Peppino nel mezzo, Biagio Valvo, a destra, Umberto Riggio a sinistra; se ne stavano, ritti a gruppi, altri banditi, e campieri, e pastori, fin proprietari, associati alla banda. La fiammata illuminava in pieno le loro facce barbute o rase del tutto, dall'espressione dura e feroce, faceva luccicare i fregi di rame delle giberne e de' fucili, i bottoni d'acciaio dei giubboni dei pastori. E sulle loro teste, coperte di scorzette di felpa con lunghe nappe, di berrette di Padova, o di berrettini a barca di panno nero, galleggiava un denso strato di fumo, che faceva lacrimare gli occhi d'alcuni, in ispecie di due induvidui del primo gruppo a destra. Questi due davano nell'occhio per più ragioni: erano vestiti d'abiti di panno fine, dal taglio in certo modo elegante a confrontarlo con quello degli altri abiti, che pareva fatto con l'accetta; le loro faccie, punto feroci, erano solamente un pochino abbronzate; anche nel loro atteggiamento c'era qualcosa di mortificato….Si sarebbero detti due galantuomini smarriti in quella combricola di birbanti. Erano Pallanza, e Rossetti, due proprietari de' paesi vicini. Davan pure nell'occhio gli uomini del quarto gruppo, per il modo strano ond'erano armati: oltre al fucile a due canne, avevano chi un'accetta, chi un palo di ferro, chi un martello e lunghi scalpelli, chi una mazza d'acciaio.
Era un vocìo rotto da risa feroci: que' signori parlavano velatamente dell'assalto di S. Giovanni prossimo a compiersi, e si millantavano con una mimica smodata. Ma a un tratto il brigante calabrese s'alzò e impose il silenzio con un gesto. Il farabutto, che dava a quanto faceva una specie di strana solennità, atteggiò quella sua brutta faccia a un'aria mafiosesca, guardò tutti in giro e cominciò ad arringarli, come deve fare un generale prima del combattimento. Disse che li aveva fatti avvertire di trovarsi quella sera nella casipola del piano del Daino, a norma degli statuti dell'associazione: sapevano di che si trattava. Pensassero che la riuscita di quel colpo di mano, oltre d'impinguare le loro borse, assodava, col terrore, il loro potere definitivamente. Quello era uno smacco che davano alla forza armata, un di quegli smacchi che fan cascar le braccia addirittura e per un pezzo. Raccomandava l'ubbedienza ai capi: stava dinanzi a lui il fiore vero della malandrineria siciliana, e non parlava d'altro; era sicuro che ognuno farebbe il suo dovere.
Finito questo breve discorso, che fu accolto con un mormorio di approvazione, il Marchese cominciò a far l'appello dei banditi.
Di Montemaggiore risposero: Biagio Valvo, Carmelo Lo Cicero, Cruciano Mesi, Pietro Salpietra, Angelo Mazzarese, Antonino Berretta. Di Prizzi: Luciano D'Aquila, Paolo e Filippo Gaucitano, Raimondo Sarese, Francesco Maralà detto Piede di palo, don Nicola Rospetti, don Giuseppe Palenza (i due proprietari), Giuseppe Sambra detto il Dannato, Sebastiano Chilli, Giuseppe Occhibianchi. Di Mezzoiuso: Carmelo Mamola detto Cairone, Pietro Sgrò, Pietro Morale, Giorgio Vittoriano (campieri manutengoli), Antonino Mistretta detto il Salemitano. Di Lercara: Antonino Di Marco, Francesco Raja, Pietro Reina detto il Malo villano, Giovanni Pessa, Gaetano Manzella, Serafino Cilì. Di Burgio: Nicasio Savona, Giuseppe Carabillò, Umberto Riggio.
Mancava Nino D'Amico! e il Capitano avendo fatto osservar ciò aggrottando le sopracciglia, a giustificarlo prese la parola Carmelo Mamola detto Cairone. Il suo compaesano egli l'aveva lasciato dispiaciutissimo di non aver potuto venire; al momento della partenza, l'aveva visto lui coi suoi propri occhi, la cavalla s'era messa a zoppicare, aveva un'inchiodatura…. non c'era nè il tempo nè la maniera di procurarsene un'altra. Conchiudeva, che in grazia della buona volontà, era giusto tener compare Nino come presente, e fargli aver poi la sua parte di bottino.
Che gran furbo quel tartaglione! aveva trovato il modo di serbar la pancia a' fichi senza che avesse a risentirsene il borsellino.
E il Marchese che lo conosceva, represse un sorriso, e guardò i due colleghi. Avendo costoro approvato con un cenno del capo, accettò la proposta di Mamola. Subito dopo si fece l'esame degli strumenti portati dai Cercarsi. I tre capi se li passarono di mano in mano approvando con un lento muover di testa, dichiarando ch'erano atti a sfracellare porte, a rovinare muri, a scassare casse ed armadi….
—C'è permesso? disse in quella una voce. Ed al voltarsi, i banditi videro Ntoni sulla soglia dell'uscio, illuminato tutto dalla fiamma. Il capraio piegava letteralmente sotto al peso di due castrati scorticati e senza testa, che portava a cavalluccio legati per le zampe di dietro.
—Compare Giorgi manda questi a lor signori.
Delle grida di gioia, assai imprudenti a quell'ora nel silenzio della notte, accolsero il capraio e le sue parole: ma un delizioso trasalimento dello stomaco l'aveva spinto per que' petti feroci, pieni dell'allegrezza della prossima rapina. Si messero altra legna sul fuoco, si prepararono delle bacchette di ferro da fucile, per servir da spiedi ed arrostir le due bestie, che già alcuni avevano levate di dosso al capraio, appendevano a due cavicchi, e cominciavano a fare in pezzi….
Per non destar sospetti, la banda prima che aggiornasse si sparse per la campagna in piccoli drappelli. Nella casipola non restarono che il Capitano, Biagio Valvo, e Giorgi Ciulla il quale era arrivato durante la notte.
XI.
Il vecchio orologio a pendolo sonò due ore: il prete contò le fave ammucchiate alla sua destra: poi esaminò le carte, e accusò i punti motteggiando.
—Come si perde questa partita! esclamò don Alessio rimasto come un allocco. Perdio!…
Ma si battè subito sulla bocca, e voltosi alla sorella che guardava sorridendo, soggiunse:—A momenti mi fa bestemmiare come un eretico questo cristiano!
—Ma se non sa giocare, riprese il prete motteggiando sempre.
—Io!!
—Lei, lei.
Il vecchio lo guardò un poco, posando i pugni stretti sull'orlo del tavolino, poi si messe a ciondolare il capo.
—Dica piuttosto che ha il diavolo dalla sua!
E lì un diluvio di ragioni, per via delle quali egli credeva di dimostrare con la più bella evidenza, che nè quella, nè molte altre partite, avrebbe dovuto perdere.
Il reverendo rideva proprio di cuore e romorosamente al suo solito; buttava giù facezie su facezie, con una disinvoltura come se non covasse nulla nell'animo. S'alzò, strinse la mano dell'amico, raccomandò all'amica che gliela desse lei qualche lezioncina al fratello quando non aveva troppo da fare. Si messe il cappuccio che soleva portare la sera e le giornate fredde in luogo del cappello, s'avvolse nel ferraiuolo, e, dicendo che aveva un gran sonno, e che appena arrivato a casa avrebbe cenato, e sarebbe andato a letto, uscì.
—Era tardi…. che non avesse a arrivare a tempo al luogo del ritrovo?… Aveva fatto male ad andare alla villa quella sera….
Ecco cosa pensava, nello scender le scale, preceduto da Lisabetta che gli faceva lume! Ma riflettè subito che il non andarci sarebbe stato un errore: la sua assenza giusto quella sera, si sarebbe potuto commentare, e certe volte basta un minimo che a metter la giustizia sulle peste…. Si compiaceva, del resto, del come aveva saputo nascondere per due buone ore l'agitazione che lo divorava. Eh, eh, caso mai avesse a accadere qualche guaio…. come per esempio, Dio nol voglia, un arresto…. sarebbe una testimonianza assai giovevole a lui quella dei suoi amici che l'avevano veduto tutta la sera così calmo e burlevole. O che si può supporre che uno abbia tanta forza d'animo da padroneggiarsi a quel modo, momenti prima di commettere un reato, e per due buone ore?…
Arrivò davanti alla porta di casa sua in pochi minuti. La serva l'aveva mandata a lavare alla Rupe: si levò la chiave di tasca, aprì con gran rumore, entrò, rinchiuse con gran rumore, salì a tastoni, accese il lume. Si levò il ferraiulo, il cappuccio, la zimarra, il collare, le ampie tasche, le scarpe con le fibbie; infilò sbuffando un par di stivaloni, panciotto e bonaca di bordiglione, si legò al collo un fazzoletto rosso, mise sul capo un cappellaccio di feltro nero, la giberna ad armacollo, prese un par di pistole, un coltellaccio a molla, il fucile, e così cambiato che nemmeno il nonno, se fosse tornato al mondo, l'avrebbe riconosciuto, soffiò nel lume, e via al buio remando. Tutto ciò in fretta e furia, camminando in punta di piedi, prendendo ogni cosa con la massima precauzione come oggetto da rompere.
Era tardi; che non avesse a arrivare a tempo al luogo del ritrovo? Ma ci arrivò che non c'era ancora un'anima, tutto sudato ed ansante. Era una di quelle notti buie che cielo e terra paiono confusi. Ascoltò: nel profondo silenzio non si sentiva che il lontano ugiolare d'un cane, in quel caos di tenebre non si vedeva che un punto rosso, tremolante, la lampada della cappellina. Egli v'andò; la girò per accertarsi che non ci fosse gente appiattata dietro, poi si postò tra due macchie di rovi poco distanti, e vi restò immobile, con l'orecchie e con gli occhi tesi, rattenendo il respiro, per sentir meglio.
Venivano?… non venivano?… che diavolo facevano a tardar tanto!
E nel tabernacolo, dietro la piccola grata di legno, l'immagine della Madonna Addolorata, col seno trafitto da sette spade, guardava con gli occhi neri di vetro, terribili nel volto scialbo, quel degno ministro di Dio, acquattato lì a pochi passi, armato sino ai denti, tormentato da due inquietudini: che i compagni avessero a prendere un'altra strada, e si avessero a dimenticare di lui, che avesse a capitare qualche pattuglia!
Ma a un tratto dei cani abbaiarono a sinistra…. si udì uno scalpitio che si veniva avvicinando sempre più…. Come gli batteva forte il cuore! Comparve nel crocicchio un'ombra a cavallo…. e si mise a fischiettare un'arietta popolare allora in voga: il segnale. Finalmente!!
—Castrenze!
—Lasciamo stare i nomi, per Gesù Cristo! esclamò il galantuomo impaurito, e a voce bassissima, che le piante non hanno orecchie e sentono.
—E gli altri dove sono?
—Vengon dietro…. giù nello stradale.
Quando i due amici giunsero nello stradale, vi si fermava una massa nera d'uomini a cavallo. Erano i briganti.
Il galantuomo si rimise a fischiettare; e don Peppino, riconosciutolo a quel segno, ordinò a tutti che smontassero, e dessero le bestie ai sei contadini che dovevano restare a custodirle sotto la sorveglianza di Ciccio Raja. Fu un fantastico agitarsi d'ombre, un bisbigliare confuso, uno scalpitìo d'uomini e di cavalli.
—Presto!… Presto!… E i vari gruppi s'ordinavano dietro a' capi, mentre il Marchese distribuiva, a quelli i quali dovevano assaltare la villa, il palo, la mazza, gli scalpelli e i martelli che aveva fatto portare ai contadini.
—Siamo pronti? domandò infine.
—Pronti, risposero i vari capi.
—Avanti dunque picciotti!
E in queste tre parole, proferite dal Marchese a voce un po' più alta, c'era la ferocia della tigre oramai certa che sbranerà la vittima agognata da tanto tempo, la lieta baldanza d'un capitano che sa di comandare uomini avvezzi a mostrare il viso.
Tuttavia capo e gregari si avanzarono con una certa trepidità: uno del cavalli mise un nitrito che fece rimescolar tutti involontariamente. Ma arrivarono senza intoppi alle prime case del paesello, e si fermarono. Lì fu un nuovo agitarsi d'ombre, e un nuovo bisbigliare: e il Marchese cominciò ad affaccendarsi di nuovo con quell'aria da generale, che, per la sua natura d'istrione, soleva assumere sempre che se ne offrisse il destro. Postava uomini a guardia dell'imboccatura della strada principale; uomini a tutte le cantonate dei vicoli che mettevano in piazza, luogo di riunione in tutti i paesi di provincia; uomini all'imboccatura opposta della strada: e intanto s'avanzavano in sull'arme, quatti quatti rasente i muri delle case addormentate, non facendo rumore nemmen per uno: uomini all'entrata delle Grotte; uomini a quella di S. Brigida, dalla quale si diramava la via che saliva alla villa.
Oh, i sangiovannesi sono bene accerchiati, e quelli che faranno il tiro lassù potran stare sicuri di non esser disturbati per un pezzo! Via dunque, avanti reverendo! avanti ladroni di strada meno disprezzabili di quell'uno in veste nera! il passo è libero, e le vittime, due povere donne e un vecchio, aspettano, senza difesa.
—Fate presto, e con prudenza…. raccomandò loro il marchese: e le sette iene un momento dopo disparvero nell'ombra di quella notte senza stelle.
—Oh, se potessi prendere due piccioni ad una fava! pensava il sacerdote con un brutale rimescolio. Basta…. forse non sarà difficile.
XII.
Povera Lola…. Il lumino da notte posato sul tavolino, davanti a un quadretto dell'Immacolata Concezione, con un cestino da lavoro per riparo dal lato destro, spandeva un debole chiarore in una parte della stanzetta, allungava smisuratamente l'ombra del cestino nell'altra parte dov'era il letto in cui essa dormiva. La coperta bianca modellava il suo corpo rannicchiato. Sul cuscino spiccava la sua testolina bruna, con gli occhi chiusi, e le labbruzza semiaperte a un respiro dolce e regolare.
Dormiva con le braccia in croce sul petto, e sognava di Giovanni. Quante volte il giovine, spintovi dalle sue domande, non le aveva descritto il nuovo quartierino che aveva affittato in una bella casa in via Macqueda! A lei pareva d'essere a Palermo (in un Palermo foggiato dalla sua immaginazione, cioè, un giardino immenso sparso di palazzi, con una larga via nel bel mezzo, via Macqueda) e davanti a quella casa. Trepidante, entrava, saliva le scale, sonava all'uscio del terzo piano…. le apriva una serva (vecchia) che la squadrava tra curiosa e meravigliata.
—È in casa il vostro padrone?
—Sissignora. Signo….
—St…. interrompeva lei con un gesto.
Attraversava in punta di piedi l'anticamera, il salotto, spingeva un uscio pian piano, e guardava…. Come le batteva il cuore! Egli era al tavolino, coi gomiti appoggiati sul piano, e le guance tra le palme: pensava di certo. A che pensava? Essa, camminando sempre sulle punte de' piedi, veniva sin dietro alle sue spalle… gli buttava le braccia al collo.
—Oh!…
E qui una dolce sorpresa, un alzarsi di scatto, un abbraccio in cui si confondevano le loro persone, un bacio in cui si confondevano l'anime loro. Lui le domandava com'era venuta…. e tornava ad abbracciarla, a baciarla, senza darle il tempo di spiegarsi…. Uno accanto all'altro con un braccio attorno alla vita, visitavano la stanzetta. Essa la vedeva come il giovane gliel'aveva descritta tante volte: con l'armadione, il tavolino carico di libri dal lume con la ventola istoriata, gli abiti pendenti dall'attaccapanni, il letto col zanzariere di velo bianco…. di sotto alla balza della coperta venivan fuori le punte d'un par di graziose pianelle, quelle stesse che lei gli aveva ricamate, e regalate prima di partire….
E nella stanzetta, tutta un profumo verginale, un moscerino ronzava di quando in quando.
Ma a un tratto essa si desta…. e presa da un terribile batticuore, si rizza sur un gomito…. poi a sedere sul letto…. Chiusa nella camicia da notte, con gli occhi spalancati, con le mani tra' capelli, sta ad ascoltare…. Che è, Dio mio!… sente abbaiare i cani furiosamente…. sente un rumor di sassi che rimbalzano sul suolo…. il guaito d'un dei cani certo colpito…. uno scalpitìo nella spianata…. un colpo dato alla porta, uno strano scricchiolio….
Ma sono i ladri di sicuro…. e cercano di scassare la porta!
A quest'idea balza fuori delle coperte, e volgendo sguardi atterriti verso la finestra, dà di piglio alla sottana che è col resto degli abiti su una sedia ai piedi del letto, se l'infila in fretta, s'infila la veste, le pianelle, e mentre cerca d'agganciarsi alla meglio la vita con le dita tremanti, corre all'uscio: l'apre, si slancia nella camera della zia.
Donna Costanza, supina, col volto gonfio e la bocca aperta, russava sodo.
—Zia…. zia….
La fanciulla, ritta innanzi al letto, bianca come una morta e tremando verga a verga, la chiamava con voce soffocata, e la scoteva.
—Eh, eh….
—Zia…. zia….
—Cosa vuoi…. che cosa c'è?… balbettò essa finalmente con gli occhi ancora tra' peli.
—I ladri…. cercano d'entrare in casa….
—Gran Signora Maria! barbugliò la povera donna, e balzò dal letto, e s'infilò la veste che la nipote aveva preso di sulla sedia e le porgeva. Batteva i denti.
Attraversarono la camera come pazze, un andito, spinsero l'uscio del salotto….
Ma anche l'uscio della stanza di don Alessio, e quello che metteva nell'anticamera si apersero in quel mentre, e sulla soglia dell'uno apparve il vecchio, su quella dell'altro la serva.
Il povero Berlingheri era in maniche di camicia, con la vecchia giberna ad armacollo, la lucerna in una mano, il fucile nell'altra: aveva la faccia più bianca del berrettino da notte tirato sin sull'orecchie. Lisabetta non aveva avuto certo il tempo di buttarsi qualcosa addosso: la camicia nera, rattoppata, le cadeva da un lato sul braccio, mostrava a nudo metà del petto vizzo, sussultante. Era morta dallo spavento: batteva palma a palma, si dondolava sulla vita.
—I ladri…. i ladri…. ripeteva con una nenia strana come se cantasse. Stan scassando la porta…. stan scassando la porta….
—Padre….
—Fratello mio….
—Co…. cocoraggio Co…. coraggio…. tartagliava l'infelice per rassicurare quelle povere donne. E posò la lucerna sul tavolino, e stringendo nelle mani quel fucilone che pareva una canna da pescare, andò alla feritoia, ne aprì lo sportellino con la mano tremante, riuscì a introdurre la lunga canna nell'apertura, chiuse gli occhi, e tirò il grilletto. Parve che il fucile facesse cecca, però il colpo partì immediatamente dopo. Allora fuori di sè, come se quell'atto avesse esaurite le sue ultime forze, lasciò l'arma che s'arrestò a mezza aria con la canna dentro alla feritoia, e si messe a urlare con voce rantolosa:
—Aiutooo!… aiutooo!…
A quello sparo, a quegli urli, due tremendi colpi rintronarono tutta la casa, e la porta di fuori volò in ischegge, fra un tintinnire metallico, certo del chiavistello che, sconficcato e lanciato per aria, cadde, e ribalzò sul pavimento.
Lisabetta balzò a un angolo della stanza, vi si rannicchiò coprendosi la faccia con le mani, invocando tutti i santi del calendario, sempre con quella strana nenia: donna Costanza, Lola, corsero strillando a stringersi al povero vecchio, e l'abbracciarono: stettero tutt'e tre a guardar la porta, quasi paralizzati. E ad accrescere orrore a quella scena, dal paesetto, per il silenzio della notte, s'elevò un clamore infernale, e uno coppiettìo di fucilate.
Allora perdettero la testa affatto, e si misero a correre per la stanza all'impazzata, cercando un'uscita senza poterla trovare.
—Giovanni mio…. Giovanni mio…. ripeteva tra di sè la povera fanciulla con ambascia, nè in quella confusione poteva connetter altro. Poterono infilar l'uscio della camera di don Alessio, spintivi dal pericolo imminente, come intesero per le scale un rumor di passi precipitosi che si venivano avvicinando. Andarono a cacciarsi in un camerino che c'era a destra entrando, e dove il vecchio soleva tenere gli abiti e la biancheria. Stettero nell'angolo più riposto, abbracciati, immobili tra gli abiti, rattenendo il respiro, nell'ingenua speranza di non esser trovati.
Un calcio poderoso fece spalancare con violenza l'uscio del salotto, che la serva aveva richiuso, e i banditi irruppero urlando: non vi muovete o siete morti! Uno di que' demóni era avanti, con la lanterna in una mano e il fucile nell'altra, gli altri venivan dietro in sull'orme, con certi visacci da atterrire. Il reverendo con il cappellaccio sugli occhi, il galantuomo con la faccia attraversata dalla benda, attesa la schioppettata avevano creduto prudente tenersi tra gli ultimi: non si sa mai quel che può succedere…. molte volte gli agnelli soglion diventare leoni!… Però videro lo schioppo a mezz'aria con la canna cacciata nella feritoia, e ripresero animo: se chi aveva sparato aveva abbandonata l'arme, potevano star sicuri di non incontrare nuova resistenza. I banditi intanto si scagliarono addosso alla povera Lisabetta ch'era rimasta rannicchiata nell'angolo. L'afferrarono per i capelli, e la costrinsero a mostrare il volto, la minacciarono coi pugni stretti, e coi calci dei fucili, l'ingiuriarono domandandole dove s'eran cacciati i suoi padroni. Ma l'infelice era esterrefatta, li guardava con gli occhi istupiditi, non riuscendo che a mettere dei suoni inarticolati. Con una pedata la mandarono ruzzoloni, e avanti. Si slanciarono nella camera da letto del vecchio, urlando, non vi movete, o siete morti! Oh, sì, il poveretto, che tremava nel camerino stretto alle due povere donne, ne aveva proprio voglia di muoversi! Cercarono da per tutto: dietro a' mobili; sotto il letto; e accortisi finalmente dell'uscio del camerino, lo sfondarono a calci, e dentro.
Seguì una confusione terribile:—Son qua…. son qua….—Non vi movete, sangue….—Assassino….—Si…. signori miei…. si….gnori miei…. E strilli di donne.
A un tratto rimbombò un colpo d'arme da fuoco…. si sentì il rumor d'un corpo che stramazzi…. un grido straziante: Figlia…. figlia mia….
In quella confusione, un fucile s'era scaricato accidentalmente. Povera Lola!
A un silenzio lugubre di pochi secondi successero uno scalpiccio, delle bestemmie, delle frasi smozzicate di minacce: afferravano il povero padre, lo strappavano a forza dal corpo della figlia, lo trascinavano fuori dal camerino: anche donna Costanza trascinavan fuori, ma come peso inerte: più fortunata in questo dal fratello, essa era svenuta. La lanterna che teneva uno dei banditi, e rischiarava or qua or là quella terribile scena tra il fumo e il puzzo della polvere, gettò una striscia di luce sul corpo della povera fanciulla, a metà sprofondato dentro una cesta sotto agli abiti appesi, con le braccia, il capo e i capelli penzolanti, gli occhi sbarrati nel volto livido.
S'accorsero che donna Costanza era svenuta quando un di loro tornò col lume ch'era andato a prendere nel salotto: la lasciarono stramazzar per terra, e corsero al vecchio che i compagni tenevan per le braccia, e pel petto della camicia. L'infelice era istupidito dal dolore. Signori miei…. balbettava, signori miei…. la mia povera figlia….
Tuttavia fu necessità che desse loro i danari. Ripetendo come un ebete, tutto…. tutto…. si fece al letto, frugò, con le mani tremanti, sotto al cuscino, ne levò una chiave, andò a rimuovere un piccolo armadio, e aprì uno sportello ben praticato nella parete e imbiancato com'essa.
Agli occhi avidi dei banditi che s'affollavano, si presentarono, schierati in quel nascondiglio, cinque o sei sacchetti rigonfi. Fu un pigiarsi, uno stendere confuso di manacce, un ghermire rapace. E il povero vecchio, approfittando del momento in cui supponeva i banditi bastantemente occupati, si mosse per accorrere in aiuto della figliuola, che, con quella pietosa ostinazione di chi perde un essere caro, non voleva credere ancor morta, benchè l'avesse veduta stramazzare senza mettere un grido.
Ma una mano di ferro gli si posò sul braccio, e lo costrinse ad arrestarsi.
—Dove vai, assassino!
Era il feroce Mamola, e lo guardava bieco.
Era dunque quel povero padre l'assassino! quel povero padre che agonizzava nello spasimo di sapere ferita a morte la sua creatura, a pochi passi da lui, chiedente l'aiuto che barbaramente gl'impedivano di darle.
—Signori miei…. per pietà…. signori miei, la mia povera figliuola…. se ne muore senza soccorso.
—Ancora col solito ritornello! riprese il bandito bruscamente. Lasciala stare quella…. (e l'infame osò pronunziare la terribile parola) pensa alla tua vita piuttosto!
Il povero padre mise un gemito.
All'ordine dato dal feroce Mamola, tutti i sacchi furono posati sul tavolino, e sotto gli sguardi cupidi e diffidenti del Rizzotto, e del galantuomo, si sciolsero, e si esaminò quel che c'era dentro, un par di migliaia d'onze al più, in moneta d'oro e d'argento. Non era certo quello il tesoro, il vecchio furbo voleva prenderli per minchioni…. Fu per questo che Mamola gli si piantò davanti, e fissandolo co' suoi occhiacci iniettati, e afferrandolo con mal piglio per il braccio, gli disse:
—Via, vecchia carogna, dicci dov'è nascosto il resto del danaro….
Il poveretto protestò, si contorse, disse che con quel chiodo nel cuore di non potere dar soccorso presto alla figliuola, pur che lo lasciassero in pace, gli avrebbe dati dei milioni se li avesse posseduti…. Sì, egli aveva altre sei mila onze, però due giorni addietro le aveva prestate al fratello, cui bisognavano per compir la somma necessaria alla compra del Cigno, messo in vendita dai Carabillò di Cammarata…. Se non gli credevano gli potrebbe far leggere….
Un terribile schiaffo, datogli da Mamola, gli troncò le parole in bocca.
—Oh, ammazzatemi che è meglio! barbugliò l'infelice con le labbra insanguinate.
—Ah, inventi frottole!… ah, voi rubarci la somma più grossa!… Tò, pezzo di ladro!… Tò, pezzo d'assassino!… Il resto dei danari, sangue…. il resto dei danari, o ti scanno….
E il bandito, orribile a vedersi con la faccia livida tutta rasa, con la schiuma alla bocca, picchiava e picchiava di santa ragione a ogni esclamazione, e col pugno, e col fucile volto per la bocca, mentre il debole vecchio, stordito, accecato, e tutto contuso, or pencolava da un lato, or dall'altro. Una pedata lo fece cader di peso…. Dovettero levarglielo dalle mani.
Nè il galantuomo, nè il reverendo avevano preso parte a questa brutta scena: temevano d'essere riconosciuti malgrado il loro travestimento: il primo se n'era stato vicino al tavolino a guardare i sacchi col danaro; il secondo, sinistro col cappellaccio nero sul naso, e quel che si vedeva dal volto con uno sgraffio sanguinante dall'angolo della bocca sin sotto al mento, andava battendo col martello sulle pareti, chi sa ci fosse praticato qualche nascondiglio. Ora però parvegli venuto il momento d'immischiarsi anche lui in quella faccenda. Il vecchio era tenace. Che busse! ci voleva altro per rompergli lo scilinguagnolo: e quella gente era capace di lasciare il banco e il benefizio…. Bella davvero! non ci mancava altro…. essersi messo all'arrischio di perdere la libertà, e forse la vita, perchè? per niente! e la andrebbe così, se il vecchio non cantasse!
E quest'idea lo tormentava; attirava dal profondo dell'anima sua un nembo d'ira e di collera, che gli veniva offuscando la ragione.
I banditi si consultavano: il feroce Mamola, non ancora sodisfatto, di tratto in tratto si voltava a guardar bieco, degrignando i denti, il povero Berlingheri seduto in terra, con le mani tra le gambe, con gli occhi fissi all'uscio del camerino, dal quale venivano ancor fuori strappi di fumo.
—Figlia mia…. figlia mia….
Fuori gli spari e gli urli erano cessati.
Il prete entrò risoluto nel gruppo dei banditi, e mise bocca nel discorso anche lui, con la voce bassa e cambiata. Che facevano? volevano perdere un tempo prezioso in chiacchiere inutili? volevano già andarsene? Non divideva per nulla il loro parere. Bisognava anzi restare ancora un poco, adoperare altri mezzi per far cantare quell'ostinato. O perchè eran venuti dunque, per quella miseria ch'era lì sul tavolino? E si strinse nelle spalle con disprezzo. Egli era pronto a metter le mani nel fuoco, il vecchio avaro le seimila onze l'aveva in casa…. non poteva essere altrimenti; quella dell'imprestito era una storiella da far dormire in piedi.
E con un sogghigno di cattivo augurio, finì dicendo, che lasciassero fare a lui.
Senza aspettar risposta, ordinò che alcuni, guidati dal suo compagno, facessero repulisti di quel che c'era di buono nella casa; gli altri restassero con lui per aiutarlo a confessare quel vecchio ladro.
Allora il guercio, dopo d'avere ricambiato un'occhiata col sacerdote, prese la lanterna, e Mamola dispose che tre banditi andassero con lui. Ben presto fu un rumore di passi precipitosi, di mobili scassati, di stoviglie rotte…. frugavano da per tutto, buttando all'aria ogni cosa.
Intanto il prete e Mamola s'avvicinavano a donna Costanza ancora giacente in terra. Essa doveva sapere qualche cosa; era donna, e, secondo loro, non poteva avere la forza d'animo d'un uomo. Ma ebbero un bello scuoterla, un bel pizzicarla, un bel pungerla a sangue con una forcina levatale di fra le trecce, restò immobile, senza dar segni di vita.
Il povero don Alessio non aveva veduto nulla di quella scena, egli seguitava a starsene con gli occhi fissi all'uscio del camerino, ripetendo sottovoce, e in un modo da commuovere anche un cuore di pietra: figlia mia!… figlia mia!…
I due bricconi vennero a piantarglisi davanti; e il prete abbassando il capo di traverso per timore d'essere riconosciuto, con la voce cambiata al solito, e ora anche un po' arrocchita dalla rabbia, gli ordinò che s'alzasse. Dovette ripeter l'ordine due volte, dovette posar la mano sulla spalla dell'infelice vecchio, e scuoterlo brutalmente, perchè questi ubbidisse, aiutandosi alla meglio.
—Apri bene le orecchie. Ti consiglio di desistere dalla tua cocciutaggine: sarà meglio per te. Via, dov'è il resto del danaro.
—Signori miei….
—Persuaditi con le buone.
—Oh, Dio mio ma se vi giuro su quel che c'è di più sacro….
Un'onda di sangue venne ad arrossare il volto del reverendo.
—Per l'ultima volta…. non costringerci a usare la violenza.
L'infelice giunse le mani.
—Oh, ma se anche avessi dei milioni, esclamò con un vero grido dell'anima, credete che non ve l'avrei già dati, pur di poter soccorrere presto la mia creatura che lasciate morire barbaramente? Figlia…. figlia mia….
E il povero vecchio, nascosta la faccia tra le mani, scoppiò in singhiozzi.
—Di nuovo con la solita storia? Ah, sei ostinato dunque! Vedremo di farti cantare vecchio barbagianni.
E con un sogghigno da demonio, andò a prendere la lucerna e la dette a Mamola, poi girò due o tre volte su sè stesso, guardando come se cercasse qualcosa: vide dei giornali ammontati sull'armadio, andò a prenderne alcuni, e cominciò ad attorcerli.
—Spogliatelo, disse freddamente.
I banditi si scagliarono sul vecchio, e in men che non si dice gli ebbero strappati d'addosso la giberna che aveva ancora ad armacollo, la camicia ed i calzoni.
—Si…. si… signori miei…. si…. gnori miei….
L'infelice aveva compreso quel che volevano fargli e non sapeva che balbettare, guardando or questo or quello con gli occhi vitrei, mentre nel suo povero corpo nudo, tenuto dai due manigoldi, non c'era muscolo che stesse fermo . . . . . . . . . . . .[**]
Quel che successe fu orribile!
Venti minuti dopo, nella casa saccheggiata, tra un puzzo nauseante di carne bruciata, regnava un silenzio lugubre: lo rompeva di quando in quando un rantolo.
XIII.
Alla villa, travestito com'era, non l'aveva riconosciuto nessuno; era rincasato quatto quatto senza che lo vedesse anima nata; era andato a nasconder gli abiti del Vappo in cantina, dentro una botte vuota cacciandoveli per il cocchiume; e risalito, era andato a guardarsi allo specchio, premendo i lati dello sgraffio per farne uscire tutto il sangue; poi aveva soffiato nel lume, e, in maniche di camicia e in ciabatte, s'era buttato sul letto. Nella stanza buia fumò un punto rosso, digradò a poco a poco, si spense, spargendo attorno un puzzo di lucignolo. Quel giorno sarebbe un giorno di battaglia…. aveva da pensare a un mondo di cose, la vera sicurezza dipendendo dal modo di condursi. Ma che pensare! aveva nel capo una gran confusione, un passaggio continuo di idee incalzantesi in tumulto; nell'orecchie un concerto di grida strazianti, di gemiti, di colpi; davanti agli occhi, tra il turbinare delle figure bieche dei compagni, i quadri più spiccati delle scene della notte: l'irrompere nella casa; il volto di Lisabetta istupidito dal terrore; il gruppo pietoso illuminato ad un tratto dalla lanterna, nel camerino, tra gli abiti che pendevano dall'attaccapanni; il saccheggio con il luccicare degli oggetti d'oro e d'argento, con i fagotti di biancheria; il corpo scarno del vecchio, con il berrettino sin sull'orecchie, contorcendosi nella violenza dello spasimo; e i più distinti d'ogni altra cosa, il fucile a mezz'aria con la canna cacciata nella feritoria; il cadavere della fanciulla a metà sprofondato dentro la cesta.
Così trascorsero due ore, durante le quali, a forza di volontà venne calmandosi. Allora potè pensare al modo di condursi; fu un disegno lungo, elaborato, nel quale pesò ogni parola, studiò ogni atteggiamento, fino i minimi gesti. Albeggiava quando l'aveva già portato al punto da non volere che gli ultimi tocchi. S'alzò, stette a origliare: e sentì dei rumori che venivano di fuori: un passo frettoloso, l'aprirsi discreto di un'imposta…. poi voci di donna. Andò a tuffar la faccia nella catinella piena d'acqua fresca, s'asciugò, si guardò lo sgraffio nello specchio, e infilatasi una specie di giacchetta nera che soleva portare in casa, si fece alla finestra, aprì lo sportello adagio adagio, e stette a guardare e a sentire curando di non farsi scorgere. Passava gente; la vicina dirimpetto, con una covata di figliuole d'ogni statura e d'ogni pelo attorno, era al terrazzino: tutte a una bocca raccontavano alla gnora Dia, la moglie del calzolaio, quel che avevano sentito e quel che avevano fatto nella notte. Il prete, da starsene dov'era, non poteva veder quest'ultima, ma la riconobbe dalla voce. Era un vero stridìo di gazze:—Chi sa quant'erano.—Avevano preso posto alle cantonate.—Gesù Maria!—Che paura!—E noi! figuratevi….—Mio marito….—Già, il babbo voleva uscire; dovemmo aggrapparci a' suoi panni, perchè, vedete, pensammo: si va a far ammazzare…. perchè nessuno ce lo può levare di testa, si trattava di rivoluzione.—Mio marito invece tremava come una foglia….—Eravamo in camicia, o che avemmo tempo di buttarci addosso qualche cosa? e battevamo i denti d'un modo!…—Io avevo potuto prendere uno scialle—Noi andammo a rannicchiarci in un angolo della camera: mio marito diceva che lì saremmo state al sicuro, chi sa qualche palla…—Da noi non ne è entrata nessuna.—E da noi nemmeno, per fortuna.—Meno male!—Questa piccina qui era restata in letto, nella confusione, ce n'eravamo dimenticate: non aveva avuto la forza di scendere, tanta era la paura che aveva povera piccina!… E le ragazze in coro:—E strillava, e strillava… la mamma corse a prenderla in braccio….—Finalmente….
Ma la signora s'interruppe, passava un conoscente.—Eih, don Pietro.
—Oh, donna Brigida.—Avete sentito, eh!—Pur troppo!—E non si sa nulla di quel ch'è stato?—Nulla. A porta S. Brigida han trovato pezzi di bardatura, un fodero di coltello, una bacchetta di pistola…. e che più? ah, un piccone, uno scalpello…. Vi saluto, vado a sentire quel che si dice in piazza.
—E via.
—Nessun morto, nessun ferito? gli gridarono dietro.
—No, almeno a quel che ho sentito dire.
Era strana! E lì commenti e supposizioni. E tutta quella roba a S. Brigida? E i carabinieri che cosa facevano? E la forza di Cammarata?… Possibile che non avessero sentito tutto quel diavoleto?
Il reverendo richiamata alla memoria la prima scena, come un buon attore poco avanti di far la sua entrata, aprì la finestra.
Una comare, sulla soglia dell'uscio, raccontava, che alle prime schioppettate s'era andata a nascondere nella carboniera, per questo la vedevano tutta nera: un'altra, che col suo bambino in braccio s'era buttata in ginocchioni davanti al quadro dell'Addolorata: una vecchia sdentata, con la voce strascicante e lamentosa, voleva persuader tutti a ogni costo, che il miracolo gliel'aveva fatto S. Giovannuccio, glielo aveva fatto S. Giovannuccio benedetto, con tanto fervore essa l'aveva pregato mentre tremava sotto le coltri! Si vedeva chiaro, non era successo nulla…. a lei non lo levava nessuno dalla testa, erano stati i diavoli ad assaltare il paese….
Ma in quella si voltarono tutte, e fu un vero concerto.—Padre don Giuseppe….—Padre don Giuseppe….—Ha sentito?… Che gastigo di Dio!…
—Ah, lasciatemi, stare, disse lui ciondolando il capo gravemente. (Si fece un gran silenzio). Ma che cosa è stato?
—O che sappiamo noi: verso quattr'ore….
—No, eran quattr'ore e mezzo…
E lì di nuovo il racconto di quello che avevano sentito e avevano fatto.
Egli disse, ch'era andato appena a letto, lo sapevano, soleva far molto tardi, la sera studiava sempre, quando sentì quell'inferno! Saltò fuori dalle coperte, tempestò un pezzo per la stanza…. capivano…. un poco di paura…. e finalmente riuscito a vestirsi, non osando accendere il lume, per timore che quegli scellerati, vedendo luce, avessero a tirare qualche schioppettata alla finestra, salì in granaio e se ne stette in ascolto. Cessati gli urli e le schioppettate, un po' rassicurato, tanto per vedere cosa succedeva, aveva aperto lo sportellino della finestra: allora, tomm…. una schioppettata, e tanto vicina che il lampo lo abbagliò. Dovettero certo tirargliela dal vicolo dirimpetto: e per la paura, aveva spinto lo sportello della finestra tanto in fretta, che la punta estrema gli aveva lacerato la faccia. Eh, lo vedevano? (E mostrava lo sgraffio). Un miracolo di Dio come con quella schioppettata non l'avessero ammazzato netto!!
—Poveretto!!—A un sant'uomo!!—Oh, gli assassini!!—Certo i diavoli!! strillava la vecchia più di tutte. E tutte dimentiche dei propri guai, badavano a impietosirsi del pericolo corso dal santo sacerdote.
—E la gnora Peppa?
—Fortunatamente per lei, ieri la mandai a lavare alla rupe.
Via, la trovata non era tanto cattiva: aveva il vantaggio poi d'esser semplice, e punto verbosa. E la ripetè con faccia tosta in istrada a' conoscenti; nel negozio d'Occhipinti dove, passando, l'invitarono a entrare; in piazza dove la gente con l'occhio all'erta almanaccava in capannelli; nella sacristia, tra un crocchio di preti, mentre si vestiva per dire, in suffragio delle anime del purgatorio, una messa che un devoto gli aveva pagato il giorno avanti. E la disse più grave e più raccolto del solito quella messa, alzando di più la voce e strascicandola di più nell'orazione pe' morti, raddolcendola con più unzione nell' orate fratres, e nel Dominus vobiscum. Le sue manacce, da' ditoni simili a salsicciotti, non tremarono per nulla nell'elevar l'ostia santa: fece sentire con un susurrare solenne l' hic est enim …. Si spogliò, attraversò la chiesa quasi deserta inchinandosi davanti all'altar maggiore, si segnò con l'acqua benedetta, e uscì. In quella scorse lo stalliere del Berlingheri, che, appena lo vide si liberò dai curiosi che gli erano stretti attorno per avere ragguagli, e gli corse incontro gridando:
—Padre don Giuseppe…. padre don Giuseppe….
—Che cosa è stato…. che volete….
—Alla villa….
—Che cosa è stato!… rispondete in nome di Dio….
—L'ho cercato per tutto il paese…. presto, venga…. Stanotte i briganti hanno assaltato la casa…. hanno ammazzato la signorina…. il padrone sta per spirare….
—Ah! gridò lui fattosi bianco come un cencio: e lasciato cadere il cappello, che non aveva messo in capo apposta, battè le mani contorcendole. Poi a un tratto si messe a correre come un disperato.
In piazza, dove già lo stalliere aveva detto la cosa, c'era come un ronzìo di sommossa, un muoversi confuso, un domandare, con facce nelle quali la curiosità aveva ceduto il posto a una vera costernazione, tanto que' buoni paesani volevan bene a' Berlingheri: a veder passare il prete tutto stravolto, senza cappello, e di corsa che pareva un pazzo, ognuno esclamava, l'ha saputa ora la cosa, poveretto…. oh, la sente davvero!
Egli correva, correva: uscì da porta S. Brigida, e senza rallentare il passo, via per la salita. Sboccò nella spianata che non ne poteva proprio più: il suo petto era un vero mantice, aveva le narici strette, con due fessette pallide dai lati, il volto tra livido e pavonazzo.
—Oh, Dio!… oh Dio!… che sciagura…. ripeteva: e così attraversò la spianata, piena tanto di gente, che ce n'era fin sugli alberi, passò la soglia della porta, guardata da militi e soldati, salì le scale, e piombò nel salotto.
—Oh Dio!… oh Dio!… che sciagura….
Ma lì ebbe un brivido e s'arrestò. L'uscio della camera di don Alessio era guardato da soldati: e per quelli spalancati dell'andito e della camera di donna Costanza, si vedeva la povera Lola stesa sul letto. L'avevano vestita di bianco, con scarpette di seta celeste: aveva le mani in croce sul petto, gli occhi chiusi nel visino pallido di morta, e una corona di rose d'ogni mese attorno ai capelli bruni. Le figliuole del fattore, aggruppate ai piedi del letto, stavano a guardarla piangenti, con le mani intrecciate e abbandonate giù pel grembo, addolorate come se fosse loro morta una sorella.
Ma l'assassino, rimessosi quasi subito, voltò, attraversò l'andito, e si slanciò nella stanza.
—Morta!… veramente morta! esclamava, battendo palma a palma, e guardando tra sorpreso e dolente or l'una or l'altra delle astanti.
E quelle buone ragazze proruppero in lamenti.
—Lo vede?… lo vede? ripetevano tra' singhiozzi, oh, chi l'avrebbe detto, non più tardi di ier l'altro venimmo a vederla, ed era piena di vita e di salute! Oh, povera padroncina…. tanto giovane… tanto buona…
—Oh Dio!… oh Dio!…
Poi fattosi grave la benedisse…. osò anche inginocchiarsi, appoggiare le sue manacce intrecciate sulla sponda del letto, e su di esse la fronte…. pregar per la vittima!
—E don Alessio? e donna Costanza?… domandò alzandosi.
—Sono nella camera del padrone…. c'è il giudice…. c'è il delegato…. Oh Dio!… oh Dio!…
In quella s'udirono per le scale passi affrettati, e una voce piangente di vitello:—Fratello!… fratello mio!…
Era il povero don Bastiano che arrivava.
XIV.
È passato un anno. In S. Giovanni non si parla più dell'accaduto che a punti di luna, quando per caso cada il discorso o su' i Berlingheri, o sul podere di Badalà, la cui villetta, chiusa giorno e notte che pare una tomba, mette ora una nota triste nel paesaggio.
—Che cosa terribile, eh! si suole esclamare in tale occasione. E, non par vero, ancora misteriosa!
—E la povera donna Costanza?
—Sempre a un modo. È pazza e non è pazza: non parla mai, guarda tutti in faccia atterrita… del resto è tranquillissima.
—O che l'avete vista?
Qualcuno rispondeva di sì. Qualche altro di no: gliel'aveva detto tizio ch'era andato a Cammarata in casa di don Bastiano per questo e quest'altro.
—Poveretta!
—Ha i capelli tutti bianchi.
—Eh, non si scherza! quella razza di quarti d'ora lì… E poi, il fratello morto, la nipote morta…. E don Giovannino, a proposito?
—Viaggia…. Dicono che sia a Parigi di Francia.
—Come ha fatto presto quello lì a dimenticare! chi l'avrebbe detto, a vederlo tanto disperato, e così ridotto che pareva una mostra d'uomo!
—Che volete, è andato sempre così il mondo…. E poi o che non ce li contate i vent'anni?
—Capisco…. Basta, la peggio l'han sempre i morti.
Quello che seguitava a ingrassare era il reverendo, benchè non gli fossero toccate che sole ventisett'onze per il bell'affare che aveva fatto: ma questa puntura era venuta scemando col crescere della sicurezza: solo di quando in quando si bisticciava col galantuomo il quale, invece dimagrava a occhiate, tanto era inconsolabile di non aver potuto metter su quel suo famoso negozio di frumento, per via del quale sarebbe arrichito certo, e in poco tempo.
In quei momenti di recrudescenza i due degni amici dialogavano a voce bassa, e facendo sforzi inauditi per contenersi, a causa di quelle benedette mura che non hanno orecchie, e certe volte sentono.
—Ci hai colpa tu! tu ci hai colpa!… esclamava il prete, rosso come un gallinaccio, e col ditone steso verso il galantuomo.
—Io!! rispondeva questi verde invece come l'aglio.
—Tu!! non bisognava ricorrere a quella gente, io non volevo.
—Smetti via, non hai senso comune. A chi volevi ricorrere, di'?
—Anche al diavolo, ma a quella gente no.
—Per Gesù Cristo, non dire sciocchezze, chè si trattava d'assaltare un paese!… Poi a un tratto scappandogli la pazienza:—Piuttosto dove l'avevi la testa mentre svaligiavano la casa? non avevamo stabilito che bisognava tener gli occhi alle mani di quei ladroni?
—State a sentirlo un po'!
—Ma tu pensasti di far tutt'altro…. bene ti stia! Perchè ti lamenti ora?
—Bestia! io non li lasciai un momento quei pezzi di ladri. L'imbroglio fu a Useria…. perchè non ci andaste quando fecero la divisione?
—E tu perchè non ci andasti?
—Io…. io…. la mia veste sacerdotale..,.
—Eh, non mi rompere i corbelli con la tua veste sacerdotale!
—Dovevo guardarmi le spalle….
—E credi che le mie l'abbia di legno? Che belle storie! E poi, caro mio, sappi una volta che nella divisione d'Useria non ci furono imbrogli: Ciulla, che vide tutto co' propri occhi, me l'assicurò: e quanto a onore, Ciulla ne ha da vendere, non mi seccare.
—Ciulla…. Ciulla…. ripetè il reverendo ingrossando la voce tutto stizzito.
—St…. parla piano.
E quegli riabbassando la voce:—Ciulla è più ladro di santo Dima, capisci!
—Che rispondere a un pazzo simile, per Gesù Cristo!
—Ci sei tu pazzo, e babbaleo per giunta!
—Oh…. sai che ti dico?…
E lo mandava a quel paese.
Così finiva sempre l'edificante conversazione, e il sacerdote s'alzava in furia, prendeva in furia il cappello, e se n'andava tempestando, e giurando in cor suo di non cacciarsi più in simili impicci, neanche se gli tagliassero la testa; specialmente poi quando il diavolo si compiaceva di metterlo nella dura condizione d'aver da fare con certa gente.
Intanto godeva più che mai la stima dei suoi compaesani: per loro era l'istesso santo, l'istesso scienziato che citava passi latini da far accapponar la pelle addirittura, l'istesso rifugio e il salvatore di tutti. E sinceramente, di questa sua fortuna un pochino meravigliato n'era anche lui. O che Dio e i santi dormivano?
Ma un bel giorno tutto il paese fu in subbuglio.—È vero quel che si dice?—Verissimo!—Ooooh!—A un uomo di quella fatta!—Al fior fiore vero dell'onestà!—A un santo!—Si può arrivare fin lì!—Che governo di birbanti!—Già, è la setta….
Sissignore, a un uomo di quella fatta, al fior fiore vero dell'onestà, a un santo, il sor delegato, con seguito di sbirri, aveva fatto una perquisizione per la casa. Perchè? Non se ne sapeva niente. Figurarsi l'indignazione quando corse di bocca in bocca che non gli avevano trovato nulla! i carabinieri dovettero uscire perchè non succedesse qualche diavoleria. Lui che aveva avuto una gran tremerella addosso, oramai rassicurato, s'atteggiò a vittima. Non potè uscire per due giorni, tante furono le visite che ricevette! In abito corto abbottonato trascuratamente, seduto sulla sua sedia a braccioli nella positura di chi abbia ricevuto una fitta di nerbate, s'alzava, con una smorfietta di dolore strana in quel suo faccione rubicondo, e ogni nuovo visitatore che arrivava: questo, chiunque fosse, muto, con uno sguardo espressivo, andava a stringere calorosamente tra le sue la mano che anche lui gli abbandonava, muto, e con uno sguardo espressivo.
—Sia fatta la volontà di Dio! esclamava il prete alzando gli occhi al cielo: e sospirando, ritornava al seggiolone e vi s'abbandonava.
Allora cominciavano le domande, alle quali rispondeva con voce rotta: e gli amici a metter fuori tutte le esclamazioni d'indignazione che ci siano nel dialetto siciliano.
—Sia fatta la volontà di Dio! badava a ripeter lui senza stancarsi. Devo essere un gran peccatore s'Egli si degna di colpirmi.
—Peccatore! ma che peccatore! protestavano tutti; e sin quella faina di Castrenze, cogli occhi uno a Cristo e l'altro a S. Giovanni che non pareva mai dove guardassero, protestava, e corbezzoli, con che calore!
Poi per una quindicina di giorni andò per il paese, serio, grave, rigido nella zimarra nuova, affettando con dignità di non guardare gli sbirri quando gl'incontrava. E per tutto, al suo passaggio, erano scappellate a destra, scappellate a sinistra, e bisbigli di rispetto e di commiserazione, e mute strette di mano, e allusioni contro quel governo di birbanti, e la setta idrofoba, e contro certe persone del paese, che, di sicuro, ci mettevano lo zampino. Fin le comari correvano all'uscio quando passava, e prendendo i figlioletti per un braccio, gliel'additavano affibbiandoglielo per martire.
Era una cosa proprio commovente! come anch'egli soleva dir sul serio certe volte, per una strana allucinazione delle nature veramente malvage.
Ma un bel giorno il bandito Mistretta detto il Salemitano cadde nella rete: e tra l'altre cose, confessò che all'assalto di S. Giovanni di Cammarata c'era stato il famoso don Peppino con la sua banda, e gli affiliati, gente in libertà, che lavoravano per essa, e che si solevan chiamare per dar man forte negli affari arrischiati: malfattori di Lercara, di Prizzi, di Burgio, di Montemaggiore, di Mezzoiuso, circa trentadue. Tutte queste cose gliele aveva confidate Ciccio Raja.
La giustizia si mise sulle peste di compare Ciccio, e compare Ciccio fu preso. Anche lui confessò: nominò alcuni dei malfattori ch'ebbero parte nell'assalto di S. Giovanni: Raimondi, D'Aquila, Mamola, Riggio, don Peppino, Di Marco, ed altri: aggiunse che la cosa l'avevano proposta due sangiovannesi, un galantomicchio e un prete di cui ignorava i nomi; ciò l'aveva risaputo da Di Marco che l'ignorava anche lui. Gli si domandò di don Peppino. Rispose che non era più in Sicilia; viste le cose assai imbrogliate, aveva creduto regolare di lasciar zitto zitto i compagni con un palmo di naso, a cavarsela come potrebbero. Certo s'era imbarcato.
Come si vede non spirava più buon vento per il reverendo; pare che Dio e i santi si fossero svegliati; tanto più che la polizia, messasi, benchè troppo tardi, nella buona strada, riusciva ad appurare che il bandito calabrese era a Susa d'Affrica, e a farlo arrestare.
Consegnato al Console italiano a Tunisi, fu imbarcato in una nave che partiva per la Sicilia. Durante il viaggio, carico di ferri, buttato come un cane in fondo alla stiva tra un buio pesto e 'l rombo dell'acque che suscitavano nella sua mente idee d'inferno e di dannati, nelle prigioni poi dello stato, arso dalla febbre, in una specie di buco umido, ebbe più orribile la visione della morte, col terrore dell'ignoto. Lo spavaldo, che, in quella bell'alba di marzo, aveva avuto rabbia e vergogna de' suoi rimorsi, cadde più che mai in potere di queste vipere dell'anima.
Era nelle mani della giustizia umana, e non voleva comparire davanti a quella assai più terribile, la Divina, aveva commesso tanti delitti, che non s'illudeva, i giurati lo condannerebbero a morte…. Che fare in tal frangente? Come sfuggire il pericolo?
Confessare. E s'attaccò a quest'ancora di salvezza.
Allora con la speranza gli entrò nell'anima il sollievo: e la sua natura d'istrione prendendo a poco a poco il sopravvento, in quel modo di condursi intravvide una bella parte, quella di masnadiere pentito, mutato in benefattore della società, coll'additarle que' nemici che, senza di lui, sarebbero rimasti per essa una continua minaccia. Il male che aveva fatto lo riparava con il bene che intendeva di fare. Egli osò evocare la nobile figura del maestro di S. Stefano, quasi a riceverne lode e conforto!
Il dieci d'aprile, nella sala degli esami del carcere giudiziario di Palermo, fece la sua propalazione davanti al presidente Carlo Morena, assistito da un vice cancelliere. Disse che si chiamava Angelo Pugliesi, raccontò la sua vita per disteso, diede i più minuti particolari dei suoi delitti, e di quelli de' compagni (37 nientemeno, e nella sola Sicilia!) nominando tanto i banditi, quanto gli ausiliàri, e i manutengoli, infarcendo il tutto di considerazioni filosofiche, di massime morali, di leggiadre descrizioni di luoghi, di citazioni di passi di scrittori, e della Bibbia. In ultimo toccò dell'imbarco.
«Una sera, verso gli ultimi di giugno, una di quelle navi che fanno il piccolo cabotaggio s'accostò a un punto designato lungo la spiaggia siciliana, e m'imbarcai. In meno di tre giorni approdavamo a Susa d'Affrica.
«Questa è la sola pagina della mia sciagurata storia che lascio in bianco, spero che la giustizia non me ne vorrà male. È un debito che pago alla riconoscenza. Eppure non lo farei, se sapessi che chi mi accordò la sua protezione fosse un malvagio, un cospiratore contro la sicurezza dello Stato; ma non è tale, posso dire anzi ch'è ben altro. Memore forse, che quando ero il temuto Lombardo, il Capitano delle Montagne lo salvai da pericoli assai gravi, commosso dalle preghiere che gli feci inginocchiato ai suoi piedi, non potè tenersi dal beneficarmi. D'altronde più che vi penso, meno comprendo qual male egli abbia potuto fare allo Stato. E se male ci fosse, perchè si dovrebbe perseguitare lui solo? Il signor Francesco Cerra, il colonello Torselli, e un altro signorino, nell'anno scorso non fecero l'istessa cosa per Valvo, Lo Cicero, e Mesi, famigerati banditi di Montemaggiore? Non è giusto aver due pesi e due misure.
«A ogni modo mi si strapperà il cuore, ma non questo segreto, ma non il nome del mio benefattore.
«Arrivato a Susa, me ne andai in locanda, dove m'ammalai: come guarii, presi a pigione una camera nella via Fondacoh, e messi su un piccolo negozio di grano e di vino.
«A Susa conobbi un certo signor Pistoletti, negoziante veneto, residente là da venticinque anni, e garibaldino fanatico, tuttochè vice-console austriaco. Scrissi a Bonifacio in Cattolica, pregandolo di farmi arrivare una lettera di raccomandazione per il suddetto signore, la quale avrebbe dovuto firmare con la sua qualità d'aiutante maggiore della Guardia Nazionale. Per via di quella raccomandazione speravo di poter avere un posto in commercio. A Bonifacio scrissi altre tre lettere, in due delle quali lo pregavo di farmi esigere, per mezzo d'un certo Marretta, campiere del barone Paceco, alcuni miei crediti, cioè: sei onze da Umberto Riggio, e quattordici onze da Salvatore Raimondi: nella terza lo pregavo di cercar d'indurre lo stesso barone Paceco a darmi a mutuo cinquant'onze che gli avrei restituite entro un anno. Da Bonifacio ricevei…. non ricordo se due o tre lettere di risposta. Mi scriveva che il barone non voleva darmi a mutuo il danaro chiestogli, che era impossibile poter riscuotere i miei crediti. Mi accludeva la commendatizia per Pistoletti, mi dava notizie di lui, della sua famiglia, degli amici comuni. M'avvertiva infine che il generale Medici aveva fatto il possibile per sapere dal barone Paceco dove fossi, che questi aveva risposto di non volere denunziare un miserabile che volontariamente se n'era andato tra' beduini…. Forse non tutti la pensarono così!
«Ma io non ho rancore con questi signori, anzi li ringrazio d'aver offerto al governo i mezzi di rintracciarmi e arrestarmi.
«Dall'Affrica non ebbi carteggio nè col barone, nè con suo figlio Gasparino amico mio strettissimo. Da questo ebbi bensì una lettera, scritta, salvo errore, con inchiostro turchino sbiadito; poco prima che partissi dalla Sicilia, e quand'egli supponeva che sarei andato a Malta. Difatti in quella lettera me ne accludeva una di raccomandazione per un certo signor Mendolia negoziante in quella città. Mi pregava di scrivergli sotto l'indirizzo d'Agostino Paruta. Non conosco questo Paruta, non so se esista, non scrissi lettera all'indirizzo di lui.
«Ad avere altre commendatizie per Pistoletti, non che per il signor Gaetano Vittoriano, ricco negoziante a Tunisi e rappresentante la società Florio, scrissi due lettere al signor Francesco Cerra di Callavuturo. Egli rispondeva alla mia prima solamente con lettera firmata F. G. Mi diceva che avrebbe cercato di sapere se il Pistoletti facesse parte della sua Loggia Massonica, nel qual caso mi ci raccomanderebbe: mi parlava del felice arrivo in America di Valvo, Mesi, e Lo Cicero. Dirò due parole intorno all'origine ed entità dei miei rapporti col signor Cerra. L'incontrai per la prima volta, nell'inverno 1864-1865, nel bosco di Ganci da dove passavo con alcuni della mia banda, cioè: con Di Marco, D'Amico, Mamola, Riggio e Raja. Egli era con il suo campiere per nome Ciccio o Cicchitello. Ci avvicinammo, ci parlammo: mi disse che tutte le volte che mi trovassi nei dintorni delle sue masserie potrei andarci, o mandare per orzo, cibarie, e quanto m'occorresse. Accettai l'offerta, e me ne prevalsi più volte. L'incontrai una seconda ed ultima volta nell'aprile del 1865, sopra le case di S. Maria, mentre andavo a Garbonogara. Egli era accompagnato dall'istesso campiere. Mi parlò del furto di sei o sette cavalle, che poco prima era stato commesso nel feudo Ferricino appartenente all'amministrazione di Ferrandina di cui egli era a capo, e mi pregò a trovare il modo di fargliele riavere.
«Nel maggio e giugno dell'istesso anno, mentre ero nelle case della Lucania ricevei una lettera del Cerra, nella quale mi ripeteva la preghiera: risposi che avrei fatto il possibile per servirlo. Difatti avendo risaputo alcuni giorni dopo, che il furto delle cavalle era stato commesso da taluni della mia banda, li costrinsi a restituirle immediatamente.
«Il 25 novembre, mentre passavo davanti all'ufficio del Vice consolato Italiano in Susa, mi sentii chiamare dal cancelliere: salii: e stavo per domandargli in che potevo servirlo, quando quel Dragomanno che era un turco, con quattro sbirri ch'erano pure turchi, mi saltarono addosso, e con modi non umani ma turchi, cercavano di legarmi. Nego d'aver tentato di respingere quel puzzolente sudiciume; gridai però ch'ero italiano; che non ero in flagranza di reato, che anzi mi trovavo in territorio straniero, e in mancanza di trattati d'estradizione, non poteva mettermi le mani addosso nessuno, meno d'ogni altro poi i turchi. Ma quando venne il Vice console, e con parole e modi umani mi dichiarò che il mio arresto era stato ordinato con dispaccio del Console generale in Tunisi, davanti al quale avrei potuto far valere le mie ragioni, m'arresi, e c'intendemmo. Egli proibì a que' manigoldi di legarmi, e permise che libero, ma con coloro dietro, andassi a casa per dare assetto alla mia roba. Alla presenza di quei signori misi ogni cosa in una cassa, lacerai alcune carte di nessuna importanza, cioè canzoni e sonetti che solevo scarabocchiare nelle mie ore d'ozio, alcune bozze di lettere che avevo scritto per conto di qualche italiano mio vicino, e specialmente del muratore Pietro Lombardo, consegnai al Dragomanno un portafogli, dal quale non levai altro che sette napoleoni, e ciò col suo permesso. Sarebbe per lo meno errore il dire che in quella lacerazione ci sia stata sorpresa, proibizione; ci siano stati dissidi o che altro.
«Nel carcere di Susa ci stetti un giorno soltanto. Domandai l'occorrente per scrivere, e mi venne accordato. Stavo scrivendo una lettera a Bonifacio, nella quale l'avvertivo del mio arresto, e del sequestro delle sue lettere, quando mi piombarono un'altra volta addosso i prelodati Dragomanni e manigoldi, i quali, con modi pure prelodati me la strapparono di mano. Volevo avvertir Bonifacio, non perchè m'avesse assistito, dato mano, e consigliato nei miei misfatti, ma perchè non avesse a soffrire onta o danno per la mia amicizia.
«A Tunisi, dove stetti quattro o cinque giorni, scrissi una lettera al Console francese, vidi il Console generale italiano, che, con tratto gentile, mi notificò che il mio arresto era stato ordinato dal prefetto di Palermo, e che in questa città avrei potuto mettere in campo le ragioni intorno all'illegalità della mia cattura, o altro. Dal carcere di Tunisi vennero a levarmi un maresciallo e non so quanti carabinieri di qui. Nel viaggio da Tunisi a Palermo, i passeggieri al veder me gracile, smilzo, un vero fuscello di paglia, ma pure attorniato da molti armati, e carico di ferri, facevano le maraviglie, e qualcuno di essi sorrideva. Avrei sorriso anch'io se l'animo mio non si fosse trovato allora travagliato da tanti tristi pensieri! Dall'isola a cui m'avvicinava, ero partito pochi mesi prima, dopo d'avervi commessi tanti delitti, specialmente una grassazione e un sequestro che mi avevano fruttato assai bene: eppure ne partivo povero, miserabile! tutto il mio tesoro consisteva in trent'onze che avevo avuta poco prima da una mano caritatevole, per non dir paurosa e tremante…. Quanta morale in questo fatto! Tranne una briciola d'ingegno, che mi diede la madre natura, e un poco d'istruzione di cui sono obbligato ai prigionieri di S. Stefano, io sono un volgarissimo malfattore: eppure, con l'aver magnificato le mie azioni perverse, con l'avermi accollati dei pensamenti, e dei colori politici, che disgraziatamente non ebbi mai, con l'aver dato al mio arresto un'apparenza bellicosa, si riuscì a trarre la mia persona dal volgare, e a sublimare la mia tristizia…. Anche al malvagio qualche volta sorride la fortuna! Sì, da quest'isola a cui m'avvicinava, io era partito pochi mesi prima col rimorso, e colla speranza; e ora vi ritornavo con la rassegnazione, e con la confidenza nei miei giudici, e nel governo del re.
In questa sua propalazione particolarizzata minutamente, disse, che l'affare di S. Giovanni l'avevano proposto un prete e un galantomicchio; che il prete si chiamava don Giuseppe Rizzotto, che del galantomicchio aveva dimenticato il nome.
Il fulmine scoppiò in S. Giovanni con l'arresto del reverendo, il quale, vestito com'era in abito lungo, fu fatto passare per la piazza. Il degno sacerdote non aveva più l'aria dignitosa, e l'atteggiamento di martire che avevano imposto a' gonzi: andava livido, disfatto, a occhi bassi, tra uno stuolo di militi e carabinieri, proprio nell'attitudine d'un vero malfattore.
Lo condussero a Termini, e di là a Palermo, dove fu interrogato da un giudice istruttore, e gli fu notificato che sarebbe stato messo a confronto con don Peppino, il quale doveva farne la ricognizione.
Quel giorno domandò di travestirsi. Gli erano cresciuti i capelli, e un po' anche la barba; in abito civile, senza cappello, si sforzava a far l'indiano, Dio sa come, dentro in mezzo a tre o quattro altre persone pescate per figurare da comparse.
Restò di stucco quando il capo bandito, lento e grave, dopo aver squadrato ben bene que' signori, si avvicinò a lui, e disse:
—Se non erro, il prete di S. Giovanni di cui parlai nella mia propalazione, è quello che tocco con la mia mano destra.
E lui, a un tratto, sentì salirsi un'ondata di sangue al viso, e perduta la bussola, gridò con voce strozzata, e scotendo le mani in aria:
—Messere e scellerato!… anima del diavolo!… dove m'avete conosciuto!… dove m'avete visto!… E accortosi della bestialità che aveva fatta, calmandosi subito: Quest'uomo è pazzo.
—Oh, non son pazzo, reverendo, insistè l'altro scrollando il capo mestamente. Non è forse vero che alcuni giorni prima della grassazione m'abboccai alle Tre Croci con voi e con un vostro amico? Non è forse vero che la sera del 29 marzo voi ci veniste all'incontro, ci accompagnaste in paese, e conduceste i depredatori a Badalà? Non è forse vero che ne' giorni seguenti aveste la vostra parte di bottino da un campiere che cavalcava una cavalla storna?
—Quello che dice quest'uomo è falso: io è la prima volta che lo vedo.
—Ripeto che, se il mio non è errore, voi siete il prete grassatore di S. Giovanni, e che le cose tra me e voi andarono come ho detto.
Così, venuta l'ora del dibattimento, fu accomunato nella gabbia con gli altri malfattori.
Oh, faceva una ben strana figura quel coso enorme, tutto nero tranne il colletto della camicia, il faccione di luna piena, e le mani, in mezzo a brutti ceffi, e grinte d'assassini, vestiti anche loro a festa, con abiti nuovi che nell'occasione soglion provvedere gli amici, per decoro di corporazione. E benchè avesse ripreso un po' d'animo, a forza di persuadersi che po' poi prove veramente chiare della sua colpabilità non ce n'erano, pur non aveva potuto riuscire a vincersi a tal punto, che dal suo atteggiamento grave e tranquillo, e più che altro da' suoi sguardi, non trasparisse una cert'aria di bestia grossa presa alla tagliola. E la folla che ogni giorno s'accalcava sempre più nell'aula, guardava gli altri, ma finiva poi con fissar gli sguardi pieni a un tempo di curiosità e di disprezzo, sul suo faccione in cui mostravan solo la sofferenza interna due cerchi neri attorno agli occhi.
Egli in principio soffrì una gran molestia di quegli sguardi, per sfuggirvi non c'è sacrifizio che non avrebbe fatto: ma vi si abituò presto; tanto più che lo distrasse lo svolgersi della causa per lui, d'interesse tanto vitale.
Che batticuore, appena il Pubblico Ministero s'alzò freddo e minaccioso nella toga, e con gesti lenti da incorruttibile procuratore della legge, cominciò a tessere vita e miracoli dei banditi, che, quasi, ammaliati, non avevano la forza di distoglier gli occhi dal suo volto bruno, pallido, severissimo! Ebbe un forte riscossone quando nell'aula, tra 'l silenzio della folla che pendeva dalle labbra dell'oratore, risonarono le tremende parole: «La sera del 29 marzo 1865, un'orda di malfattori invadeva il paesetto di S. Giovanni….» E uno più forte ancora, quando il giovane magistrato, dopo una descrizione viva delle sevizie fatte al povero Berlingheri, tuonò volgendosi verso di lui: «Tormenti barbari, inusitati, adoperati da un mostro che, il giorno avanti e il giorno dopo quel tremendo caso, pur vestiva l'abito sacro di prete!»
Nè ciò fu tutto: che dovette asciugarsi anche il rapporto del presidente: il quale per di più, venuto alla grassazione di S. Giovanni, e al punto critico, l'accennò con l'indice teso, e lo nominò.
«Vi fo cenno qui d'uno degli accusati, che vi si presenta con l'abito di sacerdote, che è appunto uno di coloro che martirizzarono il Berlingheri.
«È Rizzotto.
«Egli spinse la banda a quella grassazione: egli le facilitò la via a compierla; egli, col più nero tradimento compensò l'affetto che trovava in casa Berlingheri!»
Tanto che il reverendo pensava tutto stizzito: Ma che diavolo hanno in corpo questi signori, a volermi presentare per forza sotto quella maledetta veste sacerdotale, se io, apposta per non profanarla in questa gabbia d'assassini, mi son fatto un vestito nuovo da secolare!
Respirò sin dal principio dell'interrogatorio del Lombardo.
—Pugliesi, alzatevi, disse il presidente. Più tardi sentirete le vostre dichiarazioni scritte. Poco fa domandaste la parola: che volevate dire?
—Volevo dire che comparisco colpevole, e non lo sono. Volevo dire che sono più disgraziato che reo. Volevo dire che per campare la vita feci il maestro di scuola, poi m'allogai col signor Lo Cicero.
—Ma questo lo sapevamo. Parlate piuttosto della vostra carriera di brigantaggio.
—Ma che devo dire? (ride). Dirò che tutto ciò che dettai al signor Morena è un romanzo. La mia vera dichiarazione è quella che feci a Nicolosi e a Scandurra, il resto è menzogna. Mi tacciarono di borbonismo, mi volevano responsabile di mille reati, mi chiusero in segrete come borbonico. Ma io non sapevo nulla di tutte queste cose. Calunniai Rospetti, Rizzotto, Palenza, calunniai tutti questi signori che siedono con me sul banco degli accusati. Insomma feci un romanzo.
—Ma siete voi uomo da inventare un romanzo? Chi ve lo suggeriva? E la vostra pubblica notorietà di brigante?
—Era la necessità. Ero pazzo.
—Ma i pazzi non parlano come parlaste voi.
—Ma se la presidenza lo vuole, io racconterò questa storia.
—Ci verremo in seguito. Dite per ora: la presidenza venne ad interrogarvi, voi faceste delle confessioni, ma non voleste dichiarar tutto: rimandaste il resto alla pubblica discussione. Ciò non prova che volevate mentire?
—Io ho detto che in quel momento non potevo perchè ero ammalato. Ma alle sue interrogazioni forse non ho risposto com'oggi?
—Intanto parlate: che cosa volevate dire?
—Tornato dall'Affrica fui interrogato. Non dissi nulla, mi dichiarai innocente. Mi menarono in segrete. Mi custodivano due guardie, e non mi lasciarono mai: esse mi dicevano che mi si farebbe la causa. Mi fecero soffrire la fame, traveder la mannaia, mi fecero molte sevizie, ero ammalato e non mi permisero neanche d'andare allo spedale. Poi venne il presidente Morena, e mi domandò, se quando fui arrestato in Susa avevo armi. Risposi di no. Ma avendomi egli mostrato una pistola, gli dissi, è mia. In quell'occasione cominciai a lagnarmi dei pessimi trattamenti. Il capo-guardiano invece disse male di me, inventando che volevo guardie continentali, ed altro. Ricorsi al presidente perchè m'aiutasse, e mi liberasse da tanti guai. Ma stetti sempre sulla negativa, e fu per questo che mi ricacciarono in segrete, dove soffrii più di prima. La testa mi fumava, mi sentivo avvilito: scrissi una supplica a Morena perchè venisse al carcere. Difatti venne. Io, quando fui interrogato da Scandurra su' diversi reati, avevo un lapis, e notavo tutto quello che mi si domandava. Così ero in giorno di tutti gli avvenimenti; e con questi appunti, e con qualche cosa che lessi nei giornali, formai il mio romanzo, e lo dettai al signor Morena. ( Ilarità ).
—Voi avevate paura della morte, e dei mali che vi si minacciavano. Ma la presenza del magistrato doveva incoraggiarvi: come vi decideste a mentire? E poi, è strano quel che dite, che la dichiarazione da voi fatta cioè, sia un romanzo; e più strano ancora, anzi ridicolo, che con i ricordi che scrivevate col lapis, e con ciò che potevate ricavare dai giornali, formaste quella favola. Dite piuttosto una ragione seria che vi spingeva a mentire.
—Per far piacere al signor Morena che voleva servita così la giustizia.
—Ma qual piacere facevate, e qual premio riceveste?
—La cessazione delle mie sofferenze. E gli altri che dichiararono come me, forse non mentirono?
—Ma voi mentite ora: ma voi non sapete nemmeno dare aspetto di verità alle vostre invenzioni! Chi non sa che battevate la campagna! non lo diceste voi stesso?
—Lo dissi perchè ci fui costretto…. E poi la mia dichiarazione potrebbe far reo me, non gli altri.
—Dunque siete reo, lo confessate voi stesso.
—Non sono reo; sono uno sventurato: non tanto nero quanto mi dipingono…. Signor Presidente, dice Guerrazzi, che la trama del mondo si compone di fili di ferro!
—Sventurato!… Come!… quel feroce don Peppino, il terrore delle vicine contrade, che fu causa prima dei misfatti atroci che funestarono questa provincia, non siete voi? Rispondete! Non siete voi quel tal don Peppino?
—Sono io. Ma tutto quello che dissi è un'esagerazione: e forse con tale esagerazione, ho contribuito a mostrarmi più importante di quel che sono.
—Nella vostra storia, che ora volete far passare per romanzo, avete nominato molte persone che si associarono con voi per commettere ogni sorta di delitti: dove le avete conosciute tutte queste persone?
—Oh! nelle campagne, in diverse occasioni: quando fui soprastante del signor Lo Cicero percorsi quasi tutta la Sicilia. Conobbi il signor Palenza alla fiera, Di Marco, Mistretta e altri, non ricordo più in quali feudi: e li ho calunniati tutti.
—Questo è troppo poco: dovete spiegar chiaramente in quale occasione avete conosciuto gli accusati: il che per altro avete spiegato abbastanza, e con tutte le possibili particolarità.
—L'ho detto. Conobbi tutti questi signori in varie occasioni, come per esempio ho conosciuto il presidente Morena, la S. V. Ill., e il procuratore generale Noce. ( Sensazione ).
—Pugliesi, quanto tempo passò dal giorno che vi abboccaste col presidente Morena, a quello in cui vedeste me? gli domandò il Procuratore Generale.
—Non ricordo precisamente…. credo…. due mesi circa.
—Perchè dunque dopo tanto tempo voi ripeteste tutto a me?
—Io!… Non ripetei nulla, non parlai, non ammisi, nè negai i fatti dichiarati al signor Morena. Ah! signor Procuratore Generale, tra me e voi, io solo devo essere il mentitore….
—Questo è troppo!… Non faceste la ricognizione di Rizzotto, e lo confondeste? Alla mia presenza non vi si fecero passar sotto gli occhi quasi tutti gli accusati, e non confermaste quello che avevate confessato?
—In quell'occasione nè mi disdissi, nè confessai nulla.
A questo punto la difesa, per bocca dell'avvocato Cuccia, domanda che nel verbale si prenda nota di quest'ultimo incidente tra il Proc. Gen. signor Noce, e don Peppino il Lombardo, come nuovo del tutto, e non consacrato nel processo scritto. Succede un incidente; ma dopo breve discussione, il Presidente ordina che le circostanze sopraddette siano inserite nel verbale.
Sono le 3 pom., e il Presidente dichiara sciolta l'udienza.
E l'indomani venne la volta di compare Ciccio Raja, e di compare Nino D'Amico.
—Raja, alzatevi, disse il Presidente. Come vi chiamate?
—Francesco Raja del fu Antonino, d'anni ventiquattro, di Lercara.
—Che ne dite delle vostre imputazioni?
—Che ne devo dire? io mi son fatto sempre gli affari miei.
—Gli affari vostri lasciategli stare: parlate piuttosto degli affari della banda…. i furti commessi, gli omicidi, la verità insomma, quella verità che del resto avete dichiarato.
—Io non so nulla. Se avessi saputo tutte queste cose, l'avrei dette ai carabinieri, i quali mi tennero nella caserma tre mesi. Furono il giudice Nicolosi e il sindaco di Lercara che mi consigliarono a dirle, promettendomi la liberazione. Lo stesso fece il giudice Scandurra. Io ero solo, in segrete, e digiuno. Poi venne nel carcere il presidente Morena; mi fece dare da mangiare, e mi unì col Lombardo. Così, rassicurato anche dalle sue parole, feci quelle confessioni che mi suggerì egli stesso.
—Ma voi rispondete tutti a un modo!… Perchè fuggiste dal carcere se eravate innocente?
—Per affari di _Zita_¹. Intanto morì mio padre, e fu per questo ch'esitai a presentarmi: finalmente mi presentai.
¹ Promessa sposa.
—Perchè vi misero insieme con don Peppino, quale ragione ci poteva essere?
—Io che ne so: è certo che fummo insieme: anzi lui mi dava da mangiare, e mi faceva imparare a mente tutto quello che dovevo poi dire.
—Pugliesi come va quest'affare?
—Ecco, signor Presidente: io avevo vitto in abbondanza, e lo dividevo con Raja. È vero ancora che gli suggerivo il modo come regolarsi.
—D'Amico alzatevi. Come vi chiamate?
—Antonino D'Amico, detto Sprio, di Salvatore: ho ventisett'anni, e sono di Mezzoiuso.
—Voi avete una parte importante in questa causa, che ne dite?
Il «sagrestano» come soleva chiamarlo ne' bei tempi il Capitano delle Montagne, era diventato una mostra d'uomo, durante i sei mesi ch'era stato in prigione: alle parole del Presidente si fece bianco come un cencio di bucato, mise le mani in croce sul petto, e, con voce piangolosa, rispose:
—Io non so di parte…. io sono innocente come Maria Santissima….
—Qui non c'entra Maria Santissima. Don Peppino, il vostro capo, v'accusa d'aver preso parte al sequestro Salemi, alla ribellione contro la guardia nazionale di Caccamo, al furto di due mule, avvenuto la sera del 20 febbraio 1865.
—Signore, questo don Peppino ha infamato tutti! ha infamato mezza Sicilia!
—Pugliesi lo sentite?
Il bandito s'alza agitato.
—Che vogliono più da me costoro?… il mio animo è commosso…. Mi pare che ho detto più volte d'averli calunniati, ed essi si rivolgono tutti contro di me
—Che volete, è un'ingratitudine! sono ingrati tutti.
—Mi punge il cuore, signor Presidente, L'hanno tutti con me, con me solo…. Che vogliono? Se siamo rei….
—Voi dite, se siete rei?…
—Se siamo rei provvederà Iddio,
…….provveda Iddio Ch'uom per delitti mai lieto non sia ALFIERI.
—Bisogna aver pazienza: non corrispondono bene, a quel che fate ora in loro difesa.
—Mi sento pungere il cuore. Non sono ambizioso, e perciò non sono crudele, poichè, dice Aristodemo, che «uomo ambizioso è uom crudele.» Io sono nervoso. Stetti quattordici giorni in segrete, patii la fame, e per levarmi da quelle angustie feci il mio romanzo. Che vogliono dunque da me? Io me ne appello alla Corte, ai giurati, al popolo.
—Sì, sì: avete ragione: avete detto abbastanza, e vi abbiamo compreso.
—Mistretta alzatevi. Come vi chiamate?
—Antonino Mistretta, detto il Salernitano, d'Antonino: pecoraio, di Lercara.
—Raccontate quello che fece la banda di Don Peppino; e ricordatevi che faceste una confessione al presidente Morena.
—Quando io fui chiamato da Morena, vennero con me il Lombardese e Ciccio Raja, e mi dissero come regolarmi.
—Questo lo sapevamo, ora parlate tutti d'un modo: non c'è cosa che non vi fu fatta fare o dire per forza. Va bene: sedete.
E così Di Marco, disse che s'era fatto sempre gli affari suoi; Mesi, ch'era innocente come Gesù Cristo; Di Salvo, ch'era un uomo onesto; il reverendo, che lo si voleva calunniare; Raimondo, che non sapeva di che intendessero parlargli…. Secondo questi signori, pareva che i giudici avessero tutto il torto, essi avrebbero dovuto sedere sul banco dei rei, e loro giudicarli!
Come andava tutto questo imbroglio?
Della faccenda, secondo il solito, se n'era immischiata la mafia.
Come!… un brigante tanto celebre, una delle colonne del malandrinaggio, doveva far la figura d'infame, e cascettone!!¹ Come!… si doveva permettere che un buon numero di fratelli fossero dati mani e piedi legati in potere della giustizia!! non si direbbe mai!!… E un bigliettino, piccolo sì, ma gravido di minaccie, fatto arrivare destramente al benefattore della società, fece cambiar le cose di punto in bianco. Non voleva morire il già Marchese: e sapeva benissimo che dalla mafia la resipiscenza è giudicata viltà, la rivelazione tradimento, e si puniscono con la morte. Del resto era sicuro che i suoi giudici, e il governo del re (come soleva dire) benchè si disdicesse, gli sarebbero sempre grati delle confessioni fatte, e gli ammetterebbero l'istesso le circostanze attenuanti: chè, in fin dei conti, aveva fatto una gran luce dove non c'erano che tenebre. Si disdirebbe dunque, salvando così capre e cavoli, e si disdisse.
¹ Denunziatore.
XV.
La sala è gremita di spettatori: tra un silenzio che si sarebbe sentito volare una mosca, il capo dei giurati legge il verdetto.
Tutti gli occhi son fissi su di lui, battono tutti i cuori: sin l'usciere, un uomo giallo e stecchito, ha lasciata l'espressione della sua abituale e severa indifferenza, e ascolta a bocca aperta, con i segni della più viva curiosità.
—Sul mio onore, e sulla mia conoscienza il verdetto dei giurati è questo:
Primo reato. L'accusato Angelo Pugliesi è colpevole come capo d'associazione di malfattori, per avere nel corso degli anni 1864-1865 comandato un'associazione di malfattori in numero non minore di cinque, organizzata all'oggetto di delinquere contro le persone e le proprietà, sotto il nome di don Peppino il Lombardo? A maggioranza sì. A maggioranza concorrono circostanze attenuanti.
Il benefattore della società si sentì rinascere.
Il capo dei giurati seguitava: lesse i verdetti, tutti affermativi, d'altri cinque reati, e finalmente venne al settimo.
Il reverendo è livido, il suo petto pare un mantice addirittura: è tutt'occhi e orecchie, e fa sforzi inauditi per contenersi. Anche tra la folla corre un fremito, e mille sguardi vanno a ficcarsi per un momento sul sacerdote, e su' due proprietari.
Primo. L'accusato Angelo Pugliesi è colpevole di depredazione, per avere il giorno 29 marzo 1865 in S. Giovanni di Cammarata depredati valori in oro ed argento, oggetti preziosi ed altro, a danno dei signori Alessio e Costanza Berlingheri? A maggioranza sì.
Secondo. Nell'affermativa della prima quistione, la depredazione anzidetta fu commessa insieme, dall'accusato Angelo Pugliesi e da altre persone? A maggioranza sì.
Terzo. Nell'affermativa della prima quistione, la depredazione anzidetta fu commessa di notte, e propriamente nel periodo corso da un'ora dopo il tramonto del sole, a un'ora prima della sua levata? A maggioranza sì.
Quarto. Nell'affermativa della prima quistione, la depredazione anzidetta, fu commessa dall'accusato Angelo Pugliesi munito d'armi? A maggioranza sì.
Quinto. Nell'affermativa della depredazione anzidetta, fu commessa nella casa d'abitazione dei depredati signori Berlingheri? A maggioranza sì.
Sesto. Nell'affermativa della quinta quistione, l'accusato Angelo Pugliesi aveva convivenza in quel tempo coi depredati? A maggioranza no.
Settimo. Nell'affermativa della prima e quinta quistione, la depredazione fu commessa dall'accusato Angelo Pugliesi penetrato avendo nella casa d'abitazione dei depredati mediante rottura delle chiusure che facevano impedimento a entrarvi? A maggioranza sì.
Ottavo. Nell'affermativa della prima quistione, il valore della commessa depredazione eccede le L. 500? A maggioranza sì.
In tutte le altri quistioni, riguardanti l'omicidio volontario in persona della signorina Lola Berlingheri, e i maltrattamenti in persona del signor Alessio Berlingheri. A maggioranza no. A maggioranza concorrono circostanze attenuanti.
Per Mesi Cruciano, e Salpietra Pietro, come sopra, e sino all'ottava quistione. A maggioranza sì.
In tutte le altre, inclusa la sesta, come sopra. A maggioranza no.
Per D'Aquila Luciano, Sambra Giuseppe, Maralà Francesco, Rospetti Nicolò, Mesi Andrea, Mistretta Antonino, Rizzotto sacerdote Giuseppe, Raimondi Salvatore, Palenza Giuseppe. A maggioranza no.
Oh! quel no! fu come un tocco di bacchetta magica, che mutò il reverendo di punto in bianco. Si fece di mille colori…. avrebbe voluto volare, per saltar al collo di quel capo dei giurati che l'aveva pronunziato; avrebbe voluto urlare, per dare sfogo alla gioia feroce che gli si agitava nel petto.
Ma con uno sforzo supremo di volontà riuscì a calmarsi. Era salvo. Ridiventò grave, sereno, non senza un po' di tristezza che metteva come un velo simpatico in quella sapiente mistura d'espressioni: arrivò anche ad alzar gli occhi al cielo in un atteggiamento che fece impressione negli spettatori, mentre in cor suo gridava:—Bella! bella! gliel'ho accoccata, questa volta gliel'ho propria accoccata!
E il capo dei giurati seguitava a leggere, con voce nasale, i verdetti del resto dei reati.
XVI.
Chi vuol vederlo, vada a S. Giovanni: egli vive ancora: grasso, ben pasciuto, più rispettato che mai, più in odor di santo che mai, e dice messa. Ora s'è fatto un poco vecchio, ecco, e di tanto in tanto soffre di gotta.
Non par vero come certuni riescono a gettar sempre la polvere negli occhi alla gente! Egli stesso n'è maravigliato: e riandando come la scampò bella, non può far a meno di pensare che Dio e i santi dormono. Però non senza una certa inquietudine oramai, poichè pensa pure che c'è un proverbio il quale, dice: «Dio non paga il sabato!»
LA VENDETTA
I.
Di Peppe Sala ad Altavilla alcuni se ne ricordano ancora. Era un giovine bruno, pulito sempre come una mosca, con un par d'occhi neri, veramente siciliani, in un viso piuttosto femminile.
Era figlio del curatolo Francesco e d'Anna Ciro.
—Non ho rubato mai, non ho fatto lo sbirro mai; soleva dire il curatolo: e stendendo la sua larga manaccia aperta, soggiungeva, con un certo suo ghigno particolare: ma sangue della…. qua sotto non c'è mai piovuto! E ammazzava un uomo proprio come se ammazzasse una quaglia.
E questa razza di principii s'eran radicati talmente nell'animo suo, da non ritener degno della sua affezione e della sua stima Masi, il figlio primogenito, condannato alla galera per una grassazione; Vito, il secondo, che s'era impinguato bene nella rivoluzione del sessanta, se n'era andato a Ficarazzi, nel cui contado aveva preso moglie e se ne stava a far fruttare il maltolto. Erano invece i suoi cucchi, Menico, campiere all'Uliveto, il quale una volta, con una schioppettata, s'era levato un certo bruscolo dagli occhi; Peppe, il più piccolo, a cui dava certi ammonimenti per l'avvenire da far accapponare la pelle addirittura, e prometteva molto. Tanto che, nei suoi momenti di espansione, il curatolo gli posava la manaccia sul capo, e lo mostrava agli amici dell'istesso pelo, esclamando:
—Questo qui sarà il malandrino vero, che farà onore al nome dei Sala!
La moglie, una buona pasta di donna, legata a quel birbone per una delle tante strane vicende della vita, non aveva avuto mai voce in capitolo. Se essa s'azzardava di fare la minima osservazione, il curatolo la interrompeva bruscamente:
—Andate a filare voi, che non siete nata per altro! E abbassava que' suoi occhiacci di traverso, e con una espressione che levava le repliche.
La poveretta taceva, consolandosi con offrir le sue pene a Dio, con pregarlo che illuminasse il marito che facesse chiudere per sempre gli occhi a lei, prima di vedere anche l'ultimo dei figliuoli nella via della forca.
Gli occhi però li chiuse il marito, e come si meritava. Crivellò di coltellate un povero diavolo padre di famiglia, perchè gli aveva fatto una testimonianza contraria in una causa per un limite divisorio, e fu giustiziato.
La carcere e gli avvocati si mangiarono l'unico fondo che possedevano: Masi era in galera: Vito a' Ficarazzi; Menico aveva messo su casa da sè; la povera vedova e Peppe restarono soli tra gli stenti. Belli effetti davvero aveva prodotto la morale del curatolo Francesco!
Ma in quella donna, così debole davanti al marito, forza ed energia ce n'era chi sa quanta, sicchè non si perdette di coraggio: mise su telaio, e lavorando il giorno e parte della notte, riuscì ad accozzare il desinare con la cena. Intanto, stando sempre all'orecchio del figliuolo, cercava di distruggere, con buone massime, il male che avevano già fatto nell'animo di lui i feroci ammonimenti del padre.
E i suoi sforzi, in certo modo, furono coronati da un buon risultato.
Peppe, a vent'anni, non si vedeva alla taverna, non bazzicava fannulloni; il sindaco tanto per fare un poco di bene alla povera donna, lo aveva fatto nominare guardia campestre, e lui faceva il suo dovere, e, non c'era caso, portava alla mamma tutti i denari che, col suo mandato in mano, andava a riscuotere dal signor Peretti, il cassiere comunale. Ora soleva dire, che d'ammazzare un uomo se ne può fare a meno, e di rubare, quando s'han buone braccia, l'istesso: specialmente poi se ci sono novantanove probabilità su cento di finire accorciati o in gattabuia: grazie tante! Aveva i suoi difettucci, è vero: andava pazzo per gli abiti nuovi, per le donne, per le tarantelle, e in ispecie per la sciolissa, il suo caval di battaglia: ma era giovane, e i giovani il loro sfogo lo devono fare. Del resto se aveva la morosa non si rovinava per questo; era molto accorto il giovinetto: lo solevano chiamare Bellomo, e un bell'uomo c'era davvero, sì che le ragazze se lo mangiavano con gli occhi quando passava per le strade, dondolandosi come deve fare uno che appartenga a una famiglia di malandrini veri; e la domenica, in chiesa, quando vestito tutto di velluto si faceva vanto col fazzoletto di seta rossa, celiando con gli amici: e le maritate gli davano certe occhiate assassine, che volevano dir chiaro e tondo: sei un bell'uomo, prendici: talchè non aveva che a gettare il suo fazzoletto come un sultano; e lo gettava in modo che scambio di dare era lui che riceveva…. non senza farsi pregare un pochino, bisogna dirlo.
E la mamma vedendolo così buono e senza vizi, non si stancava dal ripetergli: O Peppe perchè non ti mariti? E gli proponeva la tale e la tal altra, e in ispecie faceva elogi sperticati di Serena, una brunetta un po' bruttina ma capricciosa, figlia del curatolo Nino Macca: era vispa e allegra come un'allodola, buona massaia sempre attorno come una trottola, tanto che non c'era casa pulita come quella dei Macca ad Altavilla; i suoi erano stati curatoli di padre in figlio, e ne avevano della roba sotto il sole. Ora che tante disgrazie li avevano ridotti a vivere nello stento, a rinsanguarsi un pochino bisognava pensarci.
Però lui non voleva saperne.
—A Pasqua, rispondeva scherzando; benchè sapesse che sua madre aveva una voglia pazza di sballottare un nipotino prima di morire.
Ma dàgli oggi dàgli domani, si guastò il capo, anche lui, e cominciò a passare e ripassare di sotto alle finestre della figlia del curatolo Nino. La ragazza andò in visibilio; non le pareva vero che Bellomo avesse messi gli occhi sopra di lei: e resasi certa che egli faceva sul serio, si scaldò in tal modo da giurare in cor suo che sarebbe stata di Peppe, o della morte. D'allora in poi si vide dalla mattina alla sera alla finestra, dietro le graste di garofani e di basilico. E Peppe, da uomo pratico in simil genere di cose, azzardò degli «emh…. emh….» da accatarrato, cavò e ricavò il fazzoletto di tasca, e se lo passò sotto il naso, con una certa grazia da innamorato; e quando vide che la ragazza non che si movesse dalla finestra, ma gli faceva anche il bocchino, guardandolo teneramente, le fece la serenata.
Ma mancò poco che quella sera non succedesse un guaio. Un altro, che pretendeva la figlia del curatolo, aveva avuto l'istessa intenzione. Epperò Peppe, ai primi accordi, s'avanzò, dondolandosi della più terribile maniera, e stendendo il braccio, fece cessar la musica: poi chiamò in disparte l'amico che se ne stava appoggiato alla cantonata, chiuso nel suo cappotto, e in quattro parole gli disse il fatto suo. Insomma quella ragazza la voleva lui, e avrebbe fatto e avrebbe detto sangue…. se a qualcuno fosse passata qualche idea stramba per la testa.
Quel tale, un giovinetto stento, diventò verde come l'aglio: avrebbe voluto fare un sproposito…. ma i Sala erano conosciuti in paese, e comprese che la sarebbe andata a finir male. Non se la sentì di rispondere per le rime, e messa la mano aperta sul petto, disse che, sulla legge d'onore, non ne sapeva niente che compare Peppe volesse quella ragazza…. perchè lui aveva rispettato sempre gli amici, santo diavolo!…. Basta, se compare Peppe d'ora in poi lo vedeva da quelle parti, gli sputasse pure in faccia.
—Scusate, concluse in fine, stendendogli la mano.
—Non c'è di che, rispose Peppe sempre in tono mafiosesco.
E l'altro se n'andò con le pive nel sacco, mordendosi le dita, seguito dagli orbi con violini e chitarre, i quali, protestando che non volevano sentire tante storie, vollero esser pagati: per loro eran pronti a andare a sonare anche davanti a un reggimento di soldati, se lui gliel'ordinasse!
Peppe tornò l'indomani sera, e le sere dopo: e si sgolava ch'era un piacere, mentre Serena, a letto, ascoltando la voce giovanile e appassionata di lui, si sdilinquiva di tenerezza.
Ma le cose non potevano durare a quel modo. Il giovine non aveva agio di poter parlare alla ragazza, chè in casa del curatolo le donne non eran punto usciaiuole: e pensa e ripensa, non trovò altro che aprirsi con comare Santa, una vicina, intima della famiglia. Questa promise d'incaricarsi della faccenda. E difatti, alcuni giorni dopo, profittando d'un momento che restò sola con Serena, le disse che Peppe la voleva.
—Matrimoni e vescovati dal cielo son destinati, rispose lei tutta scarlatta.
E questo la vicina riferì a Peppe.
Peppe comprese, e la sera stessa confidò tutto alla mamma che accolse quella notizia gongolante. Allora, senza metter tempo in mezzo, concertarono il da fare. Bisognava far tastar la famiglia, e in ispecie comare Betta; il curatolo faceva sempre il volere della moglie in tutto e per tutto: comare Santa ch'era stata tanto buona d'incaricarsi della prima commissione, si sarebbe potuta incaricare anche della seconda.
Comare Santa, dopo tre giorni d'astute evoluzioni in casa del curatolo, potè dare una risposta al giovine che l'aspettava con una viva impazienza. Aveva una faccia da mortorio: infarcì il discorso di lunghe esitazioni, la pigliò larga, per render meno amara la pillola, e finalmente fece comprendere all'innamorato che in casa della picciotta, nessuno voleva saperne di lui. E di discorso in discorso, da vera chiaccherona che era, si lasciò scappare che il fratello, interrogato sulle faccende che già si buccinava in paese, da un tale che lei non poteva nominare, aveva risposto:
—Il garzone di stalla l'abbiamo accaparrato sino da maggio scorso.
Peppe mutò colore, ma non disse verbo; si contentò solo di morsicchiarsi i peli de' baffi, come deve far uno che appartenga a una famiglia di malandrini veri,
Epperò una sera che incontrò ne' campi Pietro, il fratello di Serena, l'abbordò: e sangue…. di qua, e sangue…. di là gli domandò che cosa significavano tutte quelle storie! i Sala n'avevano avuto dei garzoni, e i servi non l'avevano fatto mai a certuni!
Pietro ebbe paura, e si mosse a balbettare: e Peppe, per sfregio, gli dette delle due dita aperte sul naso, gli sputò in faccia, e lo chiamò «rognoso» minacciando d'appioppargliela di quelle che levano il pelo, se non pensasse a metter giudizio. Tanto lui lo sapeva chi erano i Sala!
Otto giorni dopo si concluse il parentado. Fu la maraviglia di tutta la strada, e se ne chiacchierò per un buon mese: nessuno poteva capacitarsi come mai il curatolo Nino avesse chinata la testa! Peppe era un bel giovine, ma non aveva camicia addosso. Oh, l'invidia se le rodeva tutte quelle mamme che avevano figliuoli scapoli! e scagliavano ingiurie contro i Macca, proprio come se quella buona gente le avesse derubate.
II.
Per un paio d'anni le cose andarono proprio bene: Serena cantava sempre come un'allodola, ed ora era la casa di Peppe ch'era pulita come un soldo, e quella del curatolo che non si sarebbe riconosciuta più: sì che il babbo e la mamma, quando andava da loro la domenica, se la mangiavan dalle carezze la figliuola, e piagnucolavano, dicendo che avevano perduto il loro braccio destro.
Peppe faceva la sua giratina in campagna, tornava la sera, e portava alla moglie quando delle quaglie, quando una lepre, o una pernice, o delle erbe per la minestra, pur di non presentarsi a mani vuote. Essa gli porgeva il bimbo, egli lo prendeva in braccio, lo sballottava, lo baciucchiava, faceva un po' il chiasso con lui, poi lo ninnava e andava a metterlo a letto. Allora la mamma cominciava il rosario. In quel mentre Serena, rispondendo con la sua voce argentina ai pater, ave e gloria che la vecchia biascicava con gravità, ammaniva il desco, trovava il tempo di dare una occhiata al bimbo che dormiva nella stanza vicina. Si faceva un po' di cena, chiacchierando con quella schietta allegria di chi ha l'animo tranquillo e la coscienza netta, e si andava a letto.
Ma a un tratto, senza alcuna causa apparente, entrò il diavolo in casa. Non più lepri, nè pernici, nè erbe per la minestra. Peppe arrivava tardi, tutto accigliato, andava ad appoggiar lo schioppo al solito angolo nella sua camera, sedeva al desco senza nemmen levarsi il cappello, e durante la cena, a fare assai, poteva dire una diecina di parole, egli tanto ciarliero! Poi diventò bisbetico, si stizzì a ogni nonnulla, e quel malumore inesplicabile crescendo sempre, cominciò col dare un calcio al cane, senza un perchè, e finì con battere la moglie. La mamma in prima l'ammonì, poi lo sgridò fortemente, perchè quelle porcherie a lei non le andavano. Ma fu fiato buttato.
Serena piangeva e taceva. Le sapeva male alla poveretta che il vicinato venisse a trapelar qualche cosa: aveva detto le tante volte e con tanto piacere che il marito le voleva un bene dell'anima!
Tuttavia di quel mutamento non se ne poteva dar pace. Che aveva Peppe per non volerle più bene, per arrivare al punto di batterla? essa non gli aveva fatto nulla. Punto linguacciuta; sommessa sempre; affezionata, chè non vedeva lume che per gli occhi di quell'ingrato; non se ne stava con le mani in mano come fan tante, anzi era accurata e attiva in casa…. Perchè dunque?… Perchè?… E in quell'almanaccare, e in quel supporre, un pensiero venne come un baleno, a far sussultare tutto l'essere della poveretta: «egli l'ingannava!» Il mutamento repentino…. il dare in escandescenze senza un perchè…. il suo malumore, lo starsene taciturno, egli, per solito così ciarliero e allegro…. tutto…. tutto lo provava luminosamente!
Doveva finir così: il lupo perde il pelo ma non il vizio! Ah, lo scellerato! aveva cambiato la faccia di sua moglie per quella d'una femminaccia…. E non eran due anni che s'erano sposati! Gliel'avevano predicato i suoi: bada, Serena, è uno scapestrato che suol fare d'ogni erba un fascio; non ha camicia addosso; ti prende per la dote; un giorno o l'altro ti disprezzerà, vedrai. Essa aveva fatto la sorda, e quel giorno era venuto. Ora non avrebbe più pace.
E stimolata dalla gelosia, si dette in gran moto per cercar d'appurare. Tastò le vicine; adoperò tutti i sotterfugi, per non destar sospetto, e metterle in guardia, e finalmente riseppe qualche cosa, immaginò il resto, esagerandolo.
Già a scoprir gli altarini fu una sua amica che ce l'aveva col marito, perchè da ragazza l'avrebbe voluto lei. Essa non si fece pregare, tanta era la voglia che n'aveva; l'avrebbe fatto l'istesso un giorno, anche se la giovane non avesse dato quel passo. Compare Liberto Campagna il carbonaio, una sera, aveva visto, quel che si dice visto co' propri occhi, Peppe dietro una macchia, con Rosa, la figlia del su Cicco Ricovási, e si baciavano. Che voleva di più!
Serena tornò a casa, che pareva, una morta. La vecchia era in cucina a risciacquar le stoviglie. E il bimbo che si trastullava col gatto, conosciuta la madre al passo, le venne incontro con le braccina in aria, ciampicando.
—Mamma…. mamma…. mammuccia.
Essa lo prese in braccio, lo coprì di baci, poi se lo strinse al petto, e scoppiò in pianto. E il piccino, che non sapeva cosa avesse la mamma, fece il greppo e si messe a piangere anche lui.
Ma parve che al contatto di quel corpicino, alle lacrime di quell'innocente, Serena riacquistasse tutte le sue forze: e balbettando parole di tenerezza rotte da' singhiozzi, cercò d'acquietarlo, gli asciugò gli occhi febbrilmente, asciugò pure i suoi, sorrise anche per mostrare che non aveva più nulla. Ma un pensiero le era sorto nella mente: lascerebbe il marito…. Non sul momento però…. voleva rinfacciargli prima il suo tradimento, godere della sua confusione…. E in cor suo sperava ch'egli s'avesse a discolpare.
Aspettò rodendo l'aglio tutto quel dopo desinare, e parte della sera; e quando vide arrivare allegramente _Uncecchinamici_¹, il can bracco, segno certo che il marito era nella strada, corse nella sua camera. Guardò dolorosamente il bimbo che dormiva, con una manina sotto la guancia, e con le labbruzza appena socchiuse, poi si mise ad aprir casse e far fagotti.
¹ Non c'è più amici: nome che i mafiosi soglion dare al loro cane, e il perchè è chiaro.
Peppe entrò senza guardar la moglie, senza badare al trasmestio che faceva.
E aveva posato il fucile, e stava per levarsi la giberna che portava ad armacollo, a uso siciliano, quando Serena, che si sentiva proprio scoppiare, venne a piantarglisi davanti come una furia, con le mani arrovesciate su' fianchi.
—Scellerato!… malacondotta!… esclamò soffocata dall'ira e dal dolore.
Egli si voltò bruscamente.
—Che cosa c'è! disse poi, aggrottando le sopracciglia.
Serena, tutto in un fiato, gli buttò in faccia quel che sapeva.
Peppe trasalì, sentì stringersi il cuore: era palese dunque quel segreto che lui e l'amante avevano cercato di custodir tanto!
Però non era uomo da perdersi d'animo anche se colto alla sprovvista, e in un momento ponderò le conseguenze, stabilì una certa maniera di condursi.
Chi aveva parlato? questo bisognava appurare; e per allora scaltrezza e sangue freddo, e specialmente spargere ceneri sul fuoco…. al resto si penserebbe dopo. Cercò di padroneggiare sè stesso, mise un freno alla voglia pazza che aveva di menar le mani, e scoppiò in una risata che scosse l'animo di Serena, e vi ravvisò la speranza non ancora morta del tutto. Via questa volta gliel'avevano data a bere troppo grossa: che burloni! lo sapevano con chi avevano da fare! E questo avviene quando s'è credenzoni di soverchio. O s'eran voluti divertire alle sue spalle, o li aveva spinti l'invidia…. non se ne usciva. Il loro accordo, l'affezione che si avevano, faceva rabbia a tutti. Ah! ah! ah! ma quelle eran cose che non potevano stare nè in cielo, nè in terra: la figlia del su Cicco era una ragazza onesta, e il meno che pensava era di farsi all'amore con lui, padre di famiglia….
Ma essa proruppe in lacrime:
—Vuoi ingannarmi, è chiaro…. ho saputo la cosa da una persona sicura, che non aveva proprio motivo di farsi beffa di me, nè d'invidiarmi…. Tu mi ammaliasti con quella tua aria di buon giovine, mi togliesti quasi per forza dalla casa paterna, per farmi poi questo tradimento, cambiar la mia faccia per quella d'una sgualdrina! Mi sta bene!… me l'avevano predicato i miei: Serena, un giorno te ne pentirai!… Ma io me ne vado sai, ti lascio in libertà con la tua bella; puoi anche menartela in casa, se ti fa piacere: io non son donna da sopportare in santa pace un oltraggio simile, anzi sono stata troppo buona ad aspettarti.
E si asciugava gli occhi col grembiale.
Allora il furbo le fu attorno con mille moine: era diventato un agnellino: benchè lei si schermisse, cercava d'abbracciarla, ripetendole sempre che non ce n'era vero niente di quel che le avevano impastocchiato, egli non voleva bene che a lei, a lei sola… era pazza che pensava d'andarsene? come farebbe lui senza di lei: e poi, voleva far gongolare gl'invidiosi?… Non lo amava più se non gli credeva…. tornava a giurarglielo, era innocente come Gesù Bambino….
Mentiva, è vero; ma nella sua voce c'era tanta tenerezza, nelle sue proteste tanta insinuazione, che la moglie cominciò a esserne commossa. Era che gli pareva attraente quella piccina con le lacrime non bene rasciutte ancora sugli orli delle palpebre, gli occhi sfavillanti, le guance accese, per gelosia. Un po' d'amor proprio soddisfatto lo solleticava dolcemente, si sentiva crescer nel petto delle voglie brutali.
Si fece più insistente. E Serena si calmò: ora non ci credeva più che il marito l'avesse tradita; la sua amica aveva mentito, per invidia, era chiaro. Resisteva ancora, tanto per non darsi vinta subito, ma debolmente: mentre lui parlava, seguitava ad asciugarsi gli occhi col grembiale, tutta imbroncita, con il petto ancora gonfio di sospiri interrotti.
—Levati…. levati, ripeteva a ogni carezza del marito, alzando una spalla, e voltandosi a mezzo per svincolarsi.
Egli riuscì a prenderla tra le braccia, e le appiccò un lungo bacio sulle labbra ancora umide dalle lacrime.
III.
Come quella diavoleria fosse successa, Peppe stesso non lo sapeva!
Era una mattina di maggio fresca e odorosa, che il sole, attraverso un velo uguale di nebbia d'un colore bianco perlato, appariva pallido e senza raggi. Egli, dopo d'aver fatta la sua giratina, s'era seduto vicino la fontana tra le alte quercie, sopra un sasso nascosto quasi da una ginestra in fiore: e con le gambe penzoloni, e con il fucile sulle ginocchia, almanaccava, cullato dal mormorio dell'acqua cadente. Almanaccava intorno a quel che gli avrebbe potuto dare un campicello a grano, che aveva preso a mezzeria quell'anno, tanto per cercare d'industriarsi ora che aveva un bimbo: e aveva sentito una voce fresca e argentina, e s'era voltato. Aveva riconosciuto Rosa, la figliola del su Cicco Ricovási. La ragazza, con la brocca ritta sulla spalla, tenendola per l'anza, con il braccio piegato ad arco, veniva per la viottola sotto alla volta verde che formavano i rami intrecciati delle quercie, e cantava una canzone contadinesca d'amore, d'un ritmo largo e malinconico. Era vestita di nero: un fazzoletto nero, picchiolato di bianco, attorno alla fronte, legato con civetteria dietro la nuca, dava una grazia particolare al suo viso abbronzato leggermente, e con grandi occhi castagni, lasciava veder parte delle grosse trecce castagne sulle spalle. La sua andatura svelta e d'un'eleganza naturale, faceva tremolare il suo petto di vergine, non stretto da fascetta, faceva risaltare tutti i rilievi della sua persona grande e ben fatta.
Egli, appoggiato la mano destra sul sasso, e facendosi puntello del braccio, aveva ficcato gli occhi tra le foglie, e divorava quella bellezza rigogliosa, con un rimescolio nel sangue che non aveva provato mai.
La fanciulla venne alla fontana, mise la brocca sotto la foglia di castagno, che, tenuta ferma da un sassolino, faceva le veci del cannello, e seguitando a cantare, appoggiò un piede su una pietra, si curvò, e alzata la sottana più sopra al ginocchio, e rimboccata la calza, prese una pulce sulla gamba bianca come la neve. La stropicciò tra l'indice e il pollice, poi la schiacciò tra l'unghie. E stava per prenderne un'altra, quando a un leggiero scricchiolìo come di ramo che cominci a spezzarsi, si tacque, lasciò cadere la sottana vivamente, e vivamente alzò la faccia fatta di bragia. Fra' i fiori gialli della ginestra intravvide due occhi ardenti fissi su lei, un volto che parvegli quella di Bellomo senz'altro. Prese la brocca, la rimise sulla spalla, e s'allontanò in fretta, tutta vergognosa.
Peppe restò a seguirla con gli occhi accesi di desiderio.
—Gliele cercherei io le pulci, gliele cercherei! aveva pensato tutto quel giorno, con una brutale insistenza, e quella notte e la notte appresso, aveva sognato di quella gamba bianca come la neve, e d'altre cose ancora.
Si conoscevano. Anzi Peppe aveva fatto il chiasso con lei durante l'ultima raccolta dell'olive. La fanciulla non aveva più madre, non sorelle, non altre parenti prossime: una sua zia, con la quale stava ad Altavilla, era morta nell'anno; per necessità dunque se ne era dovuta andare a stare col padre e col fratello, il su Carluccio, campieri nella Riserba del marchese di C. Costoro dovevano pur badare alla roba del padrone, e per lo più, durante il giorno la lasciavano sola. Chi si sarebbe azzardato di fare uno sfregio ai Ricovàsi! Peppe cominciò a gironzare nei dintorni. Sulle prime il giovane veramente non aveva delle brutte idee: ammogliato, essa era zitella…. e poi i Ricovàsi non eran gente da lasciarsi posar mosche sul naso, e le cose potevano volgere al brutto…. benchè lui, in fin de' conti se ne infinchiasse della loro mafia, non si chiamava Sala per nulla…. gli piaceva di scherzare, ecco, come si suole nel loro ceto, e per questo e non per altro i piedi lo portavano sempre da quelle parti, appena metteva il naso fuori del paese, con lo schioppo a spalla, e un cecchinamici, il can bracco, dietro.
Ma la ragazza lo sfuggiva.
—Comare Rosa, ehi…. comare Rosa! lui le gridava dietro. Però inutilmente, poichè lei abbassava il capo, e faceva finta di non sentire.
Ma un giorno s'incontrarono repentinamente allo svolto d'una viottola, e non ci fu verso di svignarsela.
—Si può sapere perchè scappate quando mi vedete, comare Rosa?
La ragazza abbassò gli occhi tutta vergognosa, e per darsi un'aria seria aggrottò le sopracciglia.
—Chi è che scappa, rispose secco secco.
—Voi, per la madonna!
—È pazzo sto cristiano!
—No, che non son pazzo.
—Proprio?
—Quant'è vero Dio!
—Via, lasciatemi andare per i fatti miei….
—V'aiuto io a portarla quella brocca.
—Io non ho bisogno di nessuno, chè so portarla da me.
Un sorriso fine sfiorò le labbra di Bellomo; e dondolava il capo con un suo affare assai burlesco.
—Siete in collera con me…. si vede…. ma che colpa ci ho io se v'ho veduta la gamba, comare Rosa, fuori di casa dovevate cercarvele le pulci!
Alla ragazza vennero le fiamme al viso; s'era adirata; ma nell'alzar gli occhi vide quel sorriso nel muso giovanile di lui, perdè il contegno affatto, gli assestò un pugno, e s'allontanò in fretta, mentre il giovane le gridava dietro ridendo.
—Eh, che non c'è stato niente di male; le cose belle son fatte per vedersi, comare Rosa.
Da quel giorno gli scherzi in proposito fioccarono: egli l'era sempre tra' i piedi, vicino la fontana, nel gran viale del bosco, nella casa dov'essa abitava, quando ci poteva andare ora con una scusa ora con un'altra. E quella benedetta gamba faceva sempre le spese della conversazione. Ora, scaldato a quel giuoco, Bellomo la covava con certi occhi che cominciavano a mostrar chiaro quel che voleva da lei: e lei che s'era mostrata rigida sin allora, cominciava ad ammollirsi sotto il suo sguardo dolce, e che non mancava d'una certa potenza; più d'ogni altra cosa, era quel suo viso quasi femminile che le faceva battere il cuore d'una maniera strana, e la disarmava man mano. Sorrise a fior di labbra, ascoltò con un leggiero incarnato sulle guance, rispose allo scherzo, rise…. E Peppe sapeva che una donna assediata che ride, è come una fortezza che capitola.
Una sera nell'ora del crepuscolo, erano soli sotto agli alti alberi, vicino la fontana. La luna, sorpassando una sottile striscia di nuvole, si levava come una palla rosea nel cielo azzurrino. La fanciulla, seduta sull'erba, con gli occhi bassi, con le guance tinte d'un leggiero rossore, fingeva d'esser tutta intenta a giocare con dei sassolini, mentre ascoltava Peppe, che, appoggiato al tronco d'una querce, con un braccio sulla bocca del fucile, parlava con una voce dolce dolce. Via, perchè metter su muso quando glielo diceva?… egli le voleva un gran bene, il cuore non mentisce. Che c'era poi di male? il Signore aveva fatto l'uomo e la donna perchè s'amassero liberamente, senza pastoie, secondo il loro piacere…. Se lo ricordava quel giorno?… gliel'aveva detto sempre: l'aveva veduta vicino la fontana…. e non aveva avuto più pace. Che ci poteva fare se si era innamorato di lei? che ci poteva fare se non poteva stare senza vederla? Oh, quella gamba!… soggiunse ridendo, l'aveva fatto quella gamba gigli e rose il male! Doveva per questo ricompensarlo con quella freddezza, con quel rigore, fingendo di non capire…. quel che voleva da lei? E si messe a cantar sottovoce:
Nice racchiudimi Nel tuo giardino, Al fin di cogliere Quel fior carino.
Prendi quel fiore, Donalo a me Questo favore Voglio da te.
Tu ti fai stupida, Per non capire, Il fior che chieggoti, Sai che vuol dire:
Nice quel fiore Donalo a me, Questo favore Voglio da te…
Poi si fece serio a un tratto. Egli non poteva più vivere a quel modo…. non l'avrebbe durata a lungo: lo sapeva quel che gli restava a fare…. il mare c'era perchè un cristiano, stanco di soffrire, ci s'andasse a buttare…. Oh, glielo diceva davvero! l'avrebbe veduto poi, quando non ci sarebbe stato più rimedio. Via… l'ascoltasse una volta…. non chiedeva poi un gran che: che anche lei gli volesse un po' di bene…. tanto così, e glielo dicesse.
Rosa lo guardò, ma non aprì bocca: riabbassò la testa, e si rimesse a giocare co' sassolini.
—Una sola parola…. gna' Rosa…. ditemi almeno di sì col capo….
Lei seguitava a tacere. Allora Peppe fece un passo, e stese la mano, per prenderle il mento, e farle alzare la testa: ma la fanciulla non gliene dette il tempo; balzò in piedi, svelta come una gatta, e via di corsa per la viottola della casa.
Il giovine restò in asso. Di primo lancio fu per inseguirla, ma si rattenne: temeva di guastar tutto nel meglio; quella era l'ora che solevano tornare il padre e il fratello, l'avrebbero potuto vedere.
—Scappa pure, disse tra' denti, guardando verso dove era scomparsa la fanciulla, ma dacchè tu stai a sentirmi, ci cadrai, o non son più Peppe Sala!
Gli bruciava il sangue, aveva sete. Andò alla fontana, e appoggiato il fucile a un cespuglio, s'inginocchiò vicino alla sponda, si curvò, e si mise a bere avidamente.
Un'ombra nera baluginò fra' grossi tronchi, e un sasso cadde nel bel mezzo della fontana: l'acqua, rotta, schizzò nel viso e nel petto di Bellomo. Nell'istesso tempo scoppiava una risata argentina, e la testa di Rosa, illuminata dalla luna, sporse di dietro a un tronco vicino.
Peppe restò come un allocco, ma passata la prima impressione, s'alzò di scatto, e balzò verso di lei.
—Ah, mariola!… ah, mariola!…
Egli ansante, essa ridendo sempre, cominciarono a inseguirsi attorno al tronco. La ragazza, attenta a ogni suo movimento, gli sfuggiva, arrestandosi in tempo, girando pel verso opposto: pareva che facessero a rincorrersi come i bambini attorno a qualche mobile. Ma si stancò, e a lui venne fatto d'afferrarla per il lembo della veste: la strinse tra le braccia, mentr'essa ansante, arrovesciava la testa, e rideva sempre.
—Ah, mariola!… ah, mariola!… ripeteva lui stupidamente.
—No…. via…. lasciatemi….
Ma il giovine tacque a un tratto; gli dette una stretta brutale, e caddero di stramazzo.
—No…. no…. Maria…. santissima….
IV.
Fu scherzando, e senza fargliene accorgere, che Peppe levò di bocca alla moglie il nome della persona che l'aveva incitato contro di lui: tanto più che la poveretta non capiva nella pelle per il rinsavire del marito. Bellomo andò in casa di quella persona, e le disse due paroline all'orecchio: poi procedette con più precauzioni.
La tresca durò ancora per altri sei mesi.
—Peppe, sono gravida! gli disse una sera Rosa bruscamente, mentre attingeva l'acqua alla fontana.
Egli la guardò impallidendo.
—Santo diavolo! esclamò poi, e abbassò il capo, senz'aggiungere altro.
Anche lei stava zitta: erano accasciati sotto a quel colpo al quale non avevano pensato che di volo, come cosa troppo molesta, atta a metter freddo nel bollore delle loro ebbrezze!
—Bisogna nasconderlo quanto più si può a tuo padre e a tuo fratello Rosa…. riprese lui: in questo mentre penseremo…. provvederemo….
—Farò di tutto, balbettò la fanciulla, e scoppiò in lacrime.
Peppe la lasciò piangere: non si mosse: con gli occhi bassi, e le sopracciglia aggrottate, non ebbe una parola di conforto per l'infelice che aveva perduta.
Penseremo…. provvederemo!
Ora invece pensava che non era stata onesta la sua condotta: il padre…. via, bisogna confessarlo, era nel pieno diritto di far salsiccia di lui. Che farebbe egli nei suoi piedi? E aveva figli, e non era giusta che avesse a cimentar la vita a quel modo. Come fare dunque?… Come fare?… La cosa la sapevano loro due solamente…. se lei si potesse maritare!… Ma il marito s'accorgerebbe certo…. bene, ce n'eran tanti dei mariti che avevano fatto la faccia brutta la prima notte, e il marito di Rosa con gli altri: non stava lì la difficoltà. Piuttosto come fare a trovarlo subito questo marito? se avesse una sommetta nelle mani, non diceva…. Oh, un terribile nodo era venuto al pettine, e la cosa non poteva andar così liscia…. Maledetta quella sera!… si era cacciato in un bell'imbroglio. E più cercava il modo d'uscirne, e meno lo trovava. Lo divorava una rabbia sorda, l'aveva quasi con la poveretta perchè era gravida!
Essa seguitava a piangere zitta zitta. Avrebbe commosso anche i sassi.
—Addio, Peppe, disse infine, vedendolo star lì, con gli occhiacci bassi, e la cera brutta.
—Addio.
La fanciulla prese la brocca già piena da un pezzo, e tutta bagnata dall'acqua che s'era venuta riversando per la bocca, se la mise sulla spalla, e s'allontanò asciugandosi gli occhi col grembiule.
V.
Quant'astuzia per nascondere il suo stato al padre, e al fratello! Quante cure, quanti palpiti, quanti dolori, quante angoscie! povera fanciulla, pagava ben caro il suo fallo!
Intanto Peppe cominciava ad allontanarsi: oramai essa non lo vedeva che rare volte, e alla sfuggita: un'altra spina, e la più pungente, nel cuore di Rosa che l'amava sempre. Non pensava più a lei dunque quell'ingrato, nè a darle aiuto, come aveva promesso; l'abbandonava dopo averla ridotta in quello stato! E a lungo andare, per quanto cercasse di padroneggiarsi, non riuscì più a nascondere l'agitazione crescente; le lacrime che, suo malgrado, a volte le sgorgavano dagli occhi; l'abbattimento che la coglieva all'improvviso, e come un colpo di mazza. Fu a questi sintomi che il su Cicco s'insospettì. Cominciò ad osservarla da capo a' piedi, e darle certe occhiattacce che la facevano rimescolar tutta: era più spesso in casa, la coglieva alla sprovvista.
—Ma che ha costei? domandava a sè stesso tenacemente, stillandosi il cervello, che ha costei?…
E una sera intravvide la verità come in un lampo. Fu una scena terribile. Erano soli nella vasta stanza terrena, e la scarsa luce d'un lume a olio gettava un debole chiarore sulle pareti nere come filiggine. Fuori il vento gemeva lugubremente tra l'alte quercie, l'acqua batteva su' vetri. Essa, avvolta in un vecchio scialle, accoccolata vicino al focolare quasi spento, recitava il rosario tra di sè: moveva le labbra con fervore, e chiudendo spesso gli occhi, faceva scorrer tra le dita le pallottole della corona. L'infelice abbandonata dagli uomini, si rivolgeva a Dio. Il su Cicco la guardava fisso, e con uno strano sguardo.
—Alzati! le ordinò a un tratto, cambiato nel volto, e con una leggiera rancedine.
Rosa s'alzò. Egli la squadrò dal capo a' piedi, come soleva da qualche tempo, poi le disse bruscamente:
—Tu sei gravida!
L'infelice diventò bianca come una morta, e si mise a tremare.
—Io…. balbettò, io…. non è vero.
—Tu sei gravida! ruggì il su Cicco. Non mentire…. è meglio per te. E balzò in piedi. Rosa ricadde accoccolata, nascose la faccia nelle mani, e scoppiò in lacrime.
Seguì un silenzio.
—Dunque è vero! riprese il padre con una calma sinistra. Poi proruppe a un tratto. S'avvicinò alla figliola, e stringendo indietro le pugna, e curvandosi a bruciarla col soffio ardente che gli usciva dalla bocca, gridò terribile in volto:
—Chi fu….
—Mamma mia!
—Zitta, non nominare tua madre; tu non ne sei più degna…. Il nome di quell'assassino….
—Mamma mia!
—Ah, vuoi morire dunque!
E balzato all'angolo della stanza, afferrò il fucile, l'armò e lo spianò contro la figlia. Questa cacciò uno strido, si curvò tutta da un lato, e si fece riparo con le mani, barbugliando suoni inarticolati.
Ma il su Cicco non voleva che spaventarla. Più che all'onore, pensava allo sfregio fatto alla sua riputazione di malandrino, e bramava sapere il nome di colui che gliel'aveva fatto, per lavarlo col sangue. Posò dunque il fucile, e ritornò vicino alla figlia.
—Il nome di quell'uomo….
Lei si rizzò sulla vita, restò genuflessa, col corpo abbandonato sulle ginocchia, storcendo le mani per l'angoscia.
—Dimmelo…. seguitò lui co' denti stretti, dimmelo, che è meglio per te.
La povera fanciulla si riscosse, ma non rispose nemmeno questa volta. Allora lui, cieco d'ira, l'afferrò per i capelli, la buttò in terra, e mostrandole il pugno, quasi volesse fracassarle il cranio, con gli occhi fuori della testa, e con le vene del collo rigonfie, urlò schiumante:
—Lo dirai, baldracca, lo dirai chi è stato, se non vuoi ch'io ti schiacci come una vipera….
—Non posso dirvelo…. balbettò lei in un rantolo.
—Lo dirai….
—Per la Vergine Santa…. non posso…. ammazzatemi, oh! ammazzatemi che è meglio!
—Parla, se no, quanto è vero Dio, davvero t'ammazzo.
Lei rispose con un gemito.
—Senti…. bisogna che me lo dica…. quell'uomo deve sposarti.
—Non posso…. non ve l'ho detto che non posso? Oh, mamma mia!
Il su Cicco trasalì: restò immobile, curvo sulla figlia: era stato come fulminato da un pensiero orribile.
—Ah!… tu non puoi dirlo! articolò infine, fattosi più livido ancora. E lasciò i capelli della figliuola, lentamente, senza cessar dal guardarla, come se volesse leggerle nell'anima. Rosa s'alzò tutta pesta e impolverata, e si trascinò nella sua camera, singhiozzando, con la faccia nascosta tra le mani.
Il su Cicco restò in mezzo alla stanza. Egli si passò la mano sulla fronte, come se facesse tutti i suoi sforzi per cacciar quel pensiero che gli bruciava il cervello, gli faceva scorrere per il corpo brividi di ribrezzo.
Un soffio di vento fece oscillare la fiammella della lucerna.
—Che tempaccio da lupi, disse una voce.
Il su Cicco trasilì, e si voltò vivamente. Era il figliolo ch'egli non aveva sentito entrare. Il giovine era imbacuccato nel suo ampio cappotto di bordiglione; richiuse l'uscio, battè i piedi per fare sgocciolar l'acqua degli stivaloni, appoggiò lo schioppo a un angolo della stanza, si levò il cappotto d'addosso, e l'appese a un chiodo.
—Ho parlato con mastr'Antonio….
Ma allora s'accorse del turbamento del padre, ed esclamò:
—Che cos'avete!… Che è stato…
—Niente, rispose lui secco secco. Poi dopo un momento di silenzio soggiunse avviandosi:—Sali devo parlarti.
—Ma che diamine è stato insomma!
—Sali: te lo dirò sopra.
E l'uno avanti, l'altro dietro con il lume in mano, vennero nella camera dove dormivano. Lì il padre si messe davante al figlio, gli piantò gli occhi in faccia, e gli disse bruscamente:
—Carluccio, tua sorella è gravida!
—Che cosa dite!… gridò il giovine fattosi pallido come un morto.
—Or ora me l'ha confessato lei stessa.
Nelle pupille del su Carluccio avvampò una fiamma giallognola.
—…. E non l'avete scannata?
—No…. prima bisognava sapere il nome dell'uomo che mi fece questo sfregio.
—E…. ve lo disse? domandò il giovane afferrando il braccio del padre.
—No. E fissando il figliolo con più intensità, soggiunse:—Chi la disonorò, non può sposarla….
—…. Dov'è colei?
—Nella sua camera.
—Venite…. lo dirà a suo fratello.
L'infelice era seduta sulla sponda del suo lettuccio. Aveva le mani abbandonate in grembo, nel volto marmoreo i suoi occhi fissi, orribilmente sbarrati, ardevano d'un fuoco sinistro. L'aveva presa uno strano intorpidimento che ammortiva le sue sensazioni; aveva nel cervello annebbiato un formicolio. Vedeva la faccia del padre, con quell'espressione terribile, e a un tempo Peppe, pallido, insanguinato, con i capelli irti, stender le braccia verso di lei. Stentava a mettere insieme le idee.
—Bisogna avvertirlo… bisogna avvertirlo…. Queste sole parole galleggiavano nel quasi annegamento della sua intelligenza; e le ripeteva e le ripeteva tra di sè, pronunziandole senza voce, con le sole labbra.
Non sentì il rumor dei passi de' due uomini che venivano: si riscosse solo quando si spalancò l'uscio, ed entrarono. Balzò in piedi, e corse a rannicchiarsi contro il muro, come un bambino il quale abbia paura. Mugolava.
Il su Carluccio digrignava i denti come una bestia feroce; aveva gli occhi iniettati: fissò un momento la sorella, poi le saltò alla gola.
—Baldracca, urlò, baldracca, se mio padre non ha avuto il coraggio d'ammazzarti, io t'ammazzo sangue della…. Il nome del tuo ganzo…. parla…. dici il nome di colui!…
E stringeva. La povera fanciulla era diventata pavonazza; aveva gli occhi fuor della testa, la lingua penzoloni, e gorgogliava. Vedeva il fratello terribile nel volto, risoluto; sentiva d'impazzire…. Ebbe paura. Accennò con gli occhi che voleva parlare, e quando il fratello allentò la stretta, Peppe Sala, disse come in un rantolo, e s'abbandonò contro la parete.
VI.
Carluccio quella notte non dormì; stette supino nel letto, a occhi aperti, meditando. Egli non sentiva nemmeno un lamento che di tratto in tratto veniva dalla carboniera, dove avevano chiuso la povera Rosa. Uscì che non era ancora aggiornato: si tirava dietro, per la cavezza, la cavalla nuda.
Non pioveva più; grossi nuvoloni neri vagavano per il cielo, oscurando di tratto in tratto la luna vicina al tramonto: il vento era caduto; si sentiva il fremito lontano del mare che si rompeva sulla spiaggia.
Saltò a cavallo, e, di buon passo, venne al limite del bosco, nelle vicinanze del Mandorlo. Lì smontò; attaccò una pastoia alle gambe della bestia, gli levò la cavezza, e con quattro palmate sulla groppa la cacciò dentro a un seminato che verdeggiava a poca distanza da quel luogo.
Il cielo ad oriente, si tingeva d'una sfumatura di roseo. Egli dette delle lunghe occhiate in giro, poi ritornò lentamente verso la casa.
Nello sboccare dalla viottola della valle, non s'accorse d'una testa livida, che s'affacciò appena di sopra a un muro d'un casolare diroccato, poco discosto. Il su Cicco, armato sino a' denti, aspettava Bellomo alla posta.
Carluccio entrò nella stalla, appese la cavezza a un cavicchio, poi s'avviò su per la montagna.
Tutto quel giorno si sentì a urlare, con quanto ne aveva in canna, ingiurie e minacce, infarcite di bestemmie, ora a un pecoraio che faceva l'addormentato, mentre le sue bestie passavano il limite dell'aggina, ora a un carbonaio che si chinava a raccoglier legna secche nel bosco, ora a un mezzaiuolo che aveva legato il mulo vicino a un prato di fieno, ora a un passante il quale faceva le viste di sbagliar la via per cacciarsi sotto agli ulivi. Intanto s'ostinava a restare in cima al ciglio d'un ripido pendio erboso, che andava a finire all'orlo d'una rupe.
—Su Carluccio, ve ne prego, impastoiatela nella montagna quella benedetta cavalla…. anco or ora ho dovuto cacciarla dal seminato.
—Sulla legge d'onore, compare Peppe, stamattina mio padre l'ha impastoiata nella valle del Lupo!
Erano ritti sul ciglio del pendio, dove Peppe, che aveva sentito la voce del giovine, era arrivato allora allora. Cadeva il crepuscolo tra gli ultimi rumori della campagna che pareva s'intorpidisse sotto alla fredda serenità di quella sera di gennaio. Una fascia rosea, nell'orizzonte davanti a loro, si confondeva con la linea lucente del mare color di lavagna.
—Non voglio contradirvi…. ma come mai, impastoiata, poteva scendere dalla valle del Lupo sino al Mandorlo!
—Se non l'avessi veduto io, con questi miei occhi, mio padre a impastoiarla nella valle, non ci crederei nemmeno. Ah! è una bestia indiavolata quella lì!
Si voltò, e diede un rapido sguardo in qua e in là: un leggiero pallore cominciava ad apparirgli nel viso.
—Vedete, mi farete perdere il pane, su Carluccio….
—Dio non voglia, compare Peppe, piuttosto la sera la metteremo dentro….
—Grazie….
—Non c'è di che.
—Ma non pretendo tanto, basta che la teniate un po' d'occhio…. Non è per altro, ma quella carogna di don Valentino m'ha minacciato d'andare a ricorrere al sindaco, se la cosa avesse a seguitare; e lo sapete che io ho moglie, figliuoli, e una madre da mantenere.
Carluccio faceva tutti i suoi sforzi per non lasciare trapelar nulla dell'agitazione che in lui si veniva facendo sempre più viva.
—Ma era proprio dentro al seminato quella rozza rognosa? domandò nel tono più naturale che potè.
—Certo. Laggiù, guardate, poco più sotto dalla no….
Ma la parola morì in urlo disperato. Carluccio, profittando del momento ch'egli si voltava accennando con il dito, gli aveva dato una fortissima spinta. Peppe sbalzò nel pendio battendo l'aria con le braccia, cadde, rotolò come un sasso, poi disparve nel vuoto.
Un capraio che cercava una capra smarrita tra i grossi macigni della vetta, s'era accorto d'ogni cosa, e aveva conosciuto il su Carluccio: s'acquattò, tutto tremante, dietro un cespuglio. Il poveretto lo sapeva che s'egli l'avesse visto, l'avrebbe ammazzato di certo.
VII.
Avevano cenato sole, in silenzio, alla scarsa luce della lucernetta, inghiottendo i bocconi lentamente, poi la vecchia aveva alzato la testa, aveva fissato la nuora con tenerezza pietosa, e le aveva detto:
—Non farne delle solite, Serena, vai a letto, egli non verrà manco stasera.
—Sì, mamma, aveva risposto la poveretta con un groppo alla gola, e s'era alzata, e s'era messa a sparecchiare. La vecchia seguitava a guardarla con la sua aria intenerita. Finalmente s'appoggiò al desco con tutt'e due le mani, s'alzò, le si avvicinò, e:
—Sarà appostato per sorprender qualche bestia ne' seminati, le disse a mo' di consolazione. L'attirò a sè, la baciò in fronte, come soleva tutte le sere, prese un lumino, l'accostò alla lucerna, con mano tremante, l'accese, e gettato un altro sguardo alla nuora s'allontanò strascicando le ciabatte.
Serena finì di sparecchiare, s'aggirò ancora un pezzo per la camera, mettendo in assetto le sedie, tirando fuori il lucignolo della lucerna, fermandosi ad ascoltare ogni piccolo rumore che venisse dalla strada: poi prese i piatti accastellati, e andò in cucina a risciacquarli.
Tornò con la granata, spazzò la camera, e aperto uno sportellino della finestra senza cristalli, guardò fuori. Il paese dormiva nell'oscurità, sotto al cielo scintillante di stelle; di tempo in tempo risonava sul selciato, allontanandosi, un passo affrettato, si sentiva il grugnito d'un maiale che grufolava nelle immondizie, il chicchiriare dei galli che si rispondevano di porta in porta.
Era mezzanotte.
Serena stette così lungamente, bevendo l'aria fredda della notte, col cuore stretto da un'angoscia indefinita.
Un soffio gelato la tolse da quel torpore: il vento s'era messo a spirare da tramontana. Chiuse lo sportellino, spense il lume, il cui lucignolo faceva il fungo tristamente, ed entrò nella sua camera. S'udiva il russare sonoro della vecchia.
Era stanca, rifinita, e tremava dal freddo: s'avvolse in un vecchio scialle, sedè al capezzale del letto, dove con le manine in croce, con le guancette accese, con il respiro dolce tra le labbruzza semiaperte, dormiva il suo figlioletto, e si mise a piangere in silenzio.
L'indomani tutte le autorità del paese erano in moto: un contadino era venuto a dire che sotto alla Rupe Rossa c'era il cadavere d'un uomo. In piazza si formavano de' capannelli: tra un bisbigliare confuso, tra un sospettoso luccicar d'occhi dentro al cappuccio degli scappolari, si parlava dell'accaduto.
Era corsa voce che si trattasse d'una disgrazia, ma non ci credeva nessuno: conoscevano il luogo, ed era assai difficile che uno vi potesse precipitare a caso; compare Peppe non era uomo da buttarvisi apposta: non c'è alcun perchè del resto. Dunque l'avevano ammazzato, e poi l'avevano buttato di sotto: doveva essere un furbo matricolato quello che aveva fatto il colpo! Forse era stato un carbonaio a cui aveva dato delle nerbate; o Vito, a cui aveva fatto pagar le spese del danno fatto dal mulo nel campo di don Ciccio; o Brasi col quale s'eran barattate quattro parole un po' vive la domenica avanti. Insomma conchiudevan tutti che qualche cosa sotto ci doveva essere: non s'ammazza un uomo per niente. Lasciava in mezzo d'una strada un figlio, la moglie, la madre vecchia; quello era il vero guaio! in quanto a lui, se l'avevano ammazzato gli stava bene…. doveva avere qualche peso sulla coscienza…. vanno a finir sempre così gl' infami!
Nel Casino, i galantuomini parlavano pure della cosa, con certi visi contenti, come se avessero preso un terno.
Un malfattore di meno, susurravano sommessamente, per paura che non li avessero a sentire gli scappolari che passeggiavano in piazza, tutti birboni que' Sala!… Il padre era morto sul patibolo, e il fratello maggiore era in galera; gli altri due li aspettava la forca.
E facevano voti che si scoprisse il reo, e lo si mandasse in gattabuia, a vedere il sole a scacchi per sempre. Uno al giorno ne doveva succedere di quei casi! i lupi così si sarebbero divorati presto tra di loro, e il paese sarebbe finalmente purgato dalle cattive erbacce.
Intanto, con gran rumore di daghe e di giberne ballonzolanti, venivano al passo di corsa quattro carabinieri e il brigadiere, un omaccione baffuto, che pareva si volesse mangiare i cristiani, con gli occhi. Cessò il brusìo, i capannelli si sciolsero; quella gente si voltava a guardarli di traverso, sputando loro dietro, a voce sommessa, ogni sorta di parolaccie.
Anche nel Casino dei galantuomini si dicevano corna di que' poveri diavoli, sempre in moto, in fin de' conti, per tutelare le vite e gli averi dei cittadini, a rischio di prendersi una schioppettata! Guarda gli sbirri! correvano ora che c'era il morto: dovevano trovarsi là a impedire il fatto piuttosto! ma amavano starsene colle mani sulla pancia, tutto il santo giorno, aspettando la sera, per andare a dormire in casa delle baldracche. Così si mangiavano a ufo il denaro del governo, il quale, poi, era il sangue che cavavano a tutti. Era per mantenere que' fannulloni che quei del parlamento ammontavano dazi sopra dazi, sicchè a' contribuenti non restava altro da fare che dar la loro roba al governo, riserbandosi un tanto al giorno per vivere. Ci voleva una rivoluzione, ci voleva, per fare una bella ripulita!
In quel mentre il brigadiere era andato a prendere il delegato, e il pretore, e s'erano avviati alla montagna, sotto alla Rupe Rossa. Trovarono Peppe giacente sconciamente tra sassi, tutto rotto ed insanguinato. Il povero Bellomo aveva la bocca storta, gli occhi appannati; pareva che guardasse di sottecchi con un sogghigno sinistro.
Oh! se l'avessero visto quelle ragazze che se lo mangiavano con gli occhi la domenica in chiesa, quando, sotto all'organo, si faceva vento col fazzoletto di seta rossa!
L'adagiarono sur una scala a pioli, che avevano portato apposta, e il triste gruppo si mise in cammino lentamente.
Fuori del paese aspettavano molti curiosi, imbaccucati ne' loro scappolari di bordiglione, che parevano tanti fantasmi neri. Anche lì era un brusìo, un ondulare di cappucci, un domandare, un rispondere, un allargare i commenti della mattina, un ricambiarsi l'istesse notizie, con un po' di frangia però, per il tempo che c'era passato sopra; mentre alcuni monelli si cacciavano tra' diversi gruppi, chiamandosi per nome, vociando e ridendo, come se si trattasse d'assistere a qualche spettacolo di fiera.
Un po' in disparte dagli altri, c'era un gruppo di facce patibolari: gran barba, coloriti smorti, o abbronzati, occhi irrequieti, che non si fermavano più d'un secondo in un viso, come se temessero che per quella via si leggesse loro nell'anima. Erano i pezzi grossi della mafia. Susurravano tra di loro, a frasi smozzicate, con certe mosse di bestie male addomesticate, con certi sorrisi, pallidi, guardando i curiosi che gli si avvicinavano troppo, di sbieco in modo da far paura. Tenevano il manico del mestolo della pentolaccia dei delitti del paese, e la sapevano lunga, benchè non ne facessero le viste.
—Oh, oh!… guarda compare Carluccio, esclamò un di loro, e gli altri si voltarono lentamente. Quello lì ne ha del fegato!
E si ricambiarono uno sguardo d'intelligenza.
Carluccio, chiuso nel suo scappolaro che non lasciava veder altro che gli stivaloni di vacchetta, la punta del naso, e il lampo de' suoi occhi grigi, s'avanzava mogio mogio, come se non fosse fatto suo.
—Salutiamo il su Carluccio, dissero a coro quei mafiosi.
—Salutiamo.
—Povero compare Peppe, eh!
Ma lui non ne voleva sentire a parlare, santo diavolo! non poteva ancora darsene pace; non comprendeva come mai potessero succedere certe cose! l'aveva visto nel bosco sull'imbrunire, sano e pieno di vita….—Dove si va, compare Peppe?—Alla montagna, su Carluccio.
—C'è cosa?—Niente. Devo andare a parlare a un carbonaio…. Non ci voleva credere la mattina, quando gli avevano detto la cosa.
Intanto i carabinieri e i soldati, seguiti dal delegato e dal pretore, venivan su per l'erta: fra le divise si vedeva la scala con sopra la massa inerte del morto. S'affollarono tutti, rizzandosi sulla punta dei piedi, per veder meglio.
In quel mentre s'udirono delle strida che fecero voltare i curiosi, e poco dopo, da una via, sboccarono la moglie e la vecchia madre di Peppe, e parenti e vicini, i quali cercavano di calmarle.
Serena, senza scialle, con i capelli stracciati, con il volto chiazzato di lividure, per i pugni che vi si era dato, e vi si dava di continuo, con la disperazione negli occhi impietrati, veniva avanti, esclamando a scatti, con voce che non aveva più nulla dell'umano:
—Figlio!… figlio!…—Poi urlava come una fiera.—Dov'èee!… Dov'èee!… lasciatemi passare!
—Figlio mio Peppe…. figlio mio Peppe…. veniva piangendo dietro la povera vecchia, con una nenia straziante. Era anch'essa in capelli, pallida, e di tratto in tratto batteva le mani aggrinzate palma a palma.
E quella gente, che aspettava il morto, con una curiosità priva di commozione affatto, a quella vista non resse. Furono attorno alle due donne, cercarono di calmarle, di farle tornare indietro: qualcuno piangeva.
—Lasciatemi andare!… urlava la povera Serena, lasciatemi andare!…
E aveva un piglio terribile.
Risonò uno strido straziante, uno di quegli stridi che sogliono cacciare le anime veramente disperate. Allo svolto della via, l'infelice aveva visto in confuso tra le divise, la scala con sopra la massa inerte del cadavere del marito.
—Peppe!… oh, Peppe!… urlò strappandosi i capelli: e con quella forza sovrumana che da il dolore, rovesciando quelli che cercavano di tenerla, corse a buttarsi sul morto.
La povera vecchia, sostenuta da due donne, guardava quello spettacolo, tremante, con gli occhi invetrati, mettendo di tratto in tratto dei rantoli che stringevano il cuore.
VIII.
Dalla sezione cadaverica, che si fece l'istesso giorno nella sagrestia di S. Giuseppe, risultò che Peppe non aveva ferite nè d'armi bianche, nè da fuoco, il suo fucile s'era trovato carico, proprio all'orlo del precipizio, trattenuto da un cespuglio. Nessun indizio che mettesse la giustizia nella buona via; tutto faceva credere ch'egli fosse precipitato per un fatale accidente. Le autorità ne fecero rapporto ai superiori.
Trascorse un mese: all'accaduto non ci pensava più nessuno.
—To', carogna rognosa…. to'…. Santissimo diavolo, t'ammazzo se ti vedo un'altra volta con le capre nella Riserba!
Così il su Carluccio, con un nerbo in mano, tempestava di colpi un povero capraio giacente in terra.
—Ahi!… c'erano entrate appena, su Carluccio…. Ahi! m'ammazzate! urlava il poveretto, mettendo avanti un braccio per difendersi la faccia, e chiudendo gli occhi a ogni nerbata.
—To'…. to', assassino! seguitava il su Carluccio, con gli occhi iniettati di sangue, e con la schiuma alla bocca.
—Ahi!… Ahi!… mamma mia!…
—To'…. to'…. E zombava, e zombava, senza stancarsi.
—Sono morto…. balbettò il capraio, e restò inerte.
Egli s'allontanò bestemmiando, e voltandosi spesso a urlar minacce ed ingiurie al giacente.
Ma l'istessa sera il capraio, con la testa fasciata, tutto livido e pesto, si portò all'Uliveto come meglio potè, e domandò del su Menico, il fratello campiere di Peppe.
—M'hanno detto che tu cerchi di me.
—Gnor sì, su Menico.
—Che vuoi?
—Devo parlarvi.
—Sbrigati.
—…. Qui no.
—Oh! oh!…. è importante quello che devi dirmi?
—Importantissimo.
—Ma tu che hai che sei tutto fasciato?
—Son caduto, mentre inseguivo una capra nelle balze del Pero.
—Vieni dunque.
E lo condusse poco lontano dalla casa, sotto un ulivo saracinesco.
—Ora puoi parlare.
—Giurate, prima di tutto, che non mi nominerete mai…. qualunque cosa succeda.
Quello lo guardò fisso e a lungo.
—Da picciotto d'onore, disse poi portando la mano al petto.
—…. V'hanno detto…. che vostro fratello Peppe è caduto per caso dalla Rupe Rossa….
—Sì, rispose il su Menico, aggrottando le sopracciglia.
—Ebbene…. non è andata così liscia la cosa.
—Che dici!
—La verità.
—L'ammazzarono dunque! esclamò, fattosi verde come l'aglio.
—Gnor sì.
—…. E…. chi fu?…
—Il su Carluccio.
E gli raccontò quel che aveva veduto.
Il su Menico portò la mano destra alla bocca, e si attaccò un morso in un dito.
IX.
Uno splendido sole di marzo illuminava la campagna: tirava una brezzolina pungente. Il su Cicco, dondolandosi sulla sua robusta cavalla baia, faceva la solita girata per il bosco.
Si sentì un colpo.
— M'ammazzaru!… gridò il campiere, e cadde da cavallo.
Ma col pallore della morte nel viso, si sollevò sopra un braccio, e arrivò anche a cavar fuori la pistola dalla tasca del giubbone: ma in quella si sentì un secondo colpo, e una palla venne a bucargli l'osso frontale.
La domenica dopo, verso ventitrè ore, il su Menico passeggiava, con un suo cognato, nella piazza d'Altavilla, tra un mondo di gente.
Un uomo armato s'affacciò alla cantonata d'un vicolo, spianò lo schioppo, e fece fuoco due volte: il su Menico e il cognato stramazzarono senza manco poter dire, Gesù aiutatemi!
Nessuno si mosse ad arrestare il feroce omicida, che, di buon passo, senza punto affrettarsi, imboccò un vicoletto vicino, e scomparve.
Era il su Carluccio. A pochi passi dal paese l'aspettava un contadino con la cavalla, vi saltò sopra, e via di galoppo.
In quel tempo Valvo e Cicero, o che avessero dato fondo alle venticinque mila lire pagate loro prima di imbarcarsi, e si vedessero alle strette; o che rimpiangessero la vita d'ozio e di violenze, che avevano menato per tanti anni e con tanta fortuna; o che la mafia, per mezzo d'amici di là, avesse fatto pratiche insistenti per aver di nuovo nelle campagne ausiliari così potenti; o per tutte queste cose insieme; erano ritornati dall'America, e battevano nei contorni di Termini. Il su Carluccio andò a trovarli, e fu accolto proprio a braccia aperte.
PROPRIETARI E FITTAIOLI
I.
Zu Vito, qualcosetta sul fitto ce l'avete a crescere, disse all'antico fittaiolo il babbo Striati prima d'andare dal notaro a rinnovar l'atto scaduto.
—Che dice mai vostr'eccellenza! io ci ho rimesso ogni anno.
—Eh, via!
—Glielo giuro per il santo giorno ch'è oggi.
Striati si strinse nelle spalle, come per dire: non so che farci, e il zu Vito lo guardò freddamente.
—I giardini glieli lascio piuttosto, aggiunse abbassando que' suoi occhiacci iniettati.
—Fate pure, rispose il vecchio. E mise i giardini all'asta.
Quella sera nel paesetto ci fu un movimento insolito. Il zu Vito Sala, suo figlio Brasi, Bartolomeo Lalla il socio, s'eran messi in giro: e bisbigliavano or con questo or con quello, alla cantonata d'un vicolo, sotto la tettoia della piazza, nelle vicinanze d'una taverna, nel vano della porta laterale della chiesa, nello stradone fuori del paese. Era un batter palmate sulla spalla con un «badiamo!» un far festa, con un «non ne potevo dubitare;» un far proteste di servizi futuri, portando la mano al petto; un accorto minacciar guai, masticando certe frasi smozzicate, che finivano poi con un «ma se lo dicevo io che gli amici son sempre amici!» un contegno da can cucciolo, con certi mastini che solevano mostrare i denti….
E il risultato di quest'armeggiare fu, che l'asta dei giardini dello Striati restò deserta tre volte. In mancanza di meglio, il proprietario dovette contentarsi dell'offerta del zu Vito, alle quali, profittando dell'occasione, il furbo aveva anche fatto un piccolo calo. Striati comprese che il tiro glielo avevano fatto i fittaiuoli; ma dovè roder l'aglio: li conosceva, e non era un leone.
Morì due anni dopo, lasciando erede de' suoi beni Nino il figliuolo unico.
Il vecchio era stato uno stravagante, una specie di progettista visionario, che, con cocciutaggine strana, aveva messo in atto disegni e disegni, i cui frutti non eran poi rispondenti alle spese. Ed ora aveva dovuto chiudere una filanda, sei mesi dopo che l'aveva aperta; or una locanda che doveva dar tesori; or un mulino a vapore; or una fabbrica di sapone; e i danari se n'andavano a palate. Il patrimonio dunque un certo assesto lo voleva. Nino progettista anche lui è vero, ma dotato di quella sagacia che mancava al padre, fece delle transazioni con gli uni, degli accordi con gli altri, vendè come ferro vecchio il materiale delle macchine, ridusse i fabbricati in case, e l'appigionò. Allora potè respirare un poco, e volgersi con più calma alle cose di campagna. Anche lì trovò del marcio, e non poco: i due giardini d'aranci, e un bel podere, affittati per ventimila lire all'anno al zu Vito e socio, n'avrebbero potuto dar quaranta, per lo meno! era stato proprio uno sperpero, e sarebbe stato urgente rimediarci. Ma c'era disgraziatamente quel benedetto contratto di fitto, e bisognava rispettarlo. Non c'era dunque che fare; e il giovine, il cui genio era per la campagna, non volendo starsene a oziare dalla mattina alla sera, come facevano in paese tant'altri figli di galantuomini, mise su una ventina di mila lire, e partì per Palermo, col proposito di darsi a negoziare. Spirato il contratto, sarebbe ritornato a Ficarazzi, per coltivare i suoi fondi a conto proprio, co' nuovi sistemi che in quel mentre avrebbe avuto l'agio di studiare. Così faceva cessare quella vergognosa camorra di cui era stato vittima quel grande onest'uomo di suo padre. Non s'illudeva, l'impresa era rischiosa: sperava però d'animar gli altri con l'esempio, e l'unione fa la forza.
Fu allora che conobbe Serafina Borelli. Tutti abbiamo il nostro destino!
Era figlia d'un capitano borbonico morto al 60: essa e la madre campavano sur una pensionuccia vitalizia, e su' lavori di cucito e di ricamo, che procurava loro una donna del vicinato. Con tutto ciò la fanciulla era sempre attillatina: protraendo il lavoro sino a notte avanzata, guadagnava per conto suo, tanto da poter comprare certi scampoli di lana, che aveva a meno prezzo; li tagliava e li cuciva da sè, e se ne faceva dei vestiti assai eleganti. Del resto anche un cencio non sarebbe parso più quello sul suo bel corpo. Tutti i guai però li soffriva lo stomaco: era a danno dell'interno che s'adornava l'esterno.
Sul conto suo correvano strane voci. Si parlava di un promesso sposo morto d'un modo misterioso, c'era chi diceva che si fosse ucciso perchè fallitagli la speranza dell'eredità d'uno zio, lei non l'aveva voluto più; s'accennava a un vecchio signore che madre e figlia avevano pelato a dovere, però quest'ultima non avrebbe concesso nemmen la punta d'un dito. Tutto sommato, passava per una ragazza troppo scaltra, troppo viva, per gli uni; capricciosa, per gli altri; ma onesta: su questo poi eran tutti d'accordo.
Abitavano un modesto quartierino sotto a quello dello Striati: Nino, il dopo desinare, soleva leggere nel terrazzino, pigliando il fresco; anche la fanciulla prese a poco a poco l'abitudine di lavorare nel suo: cominciò un ricambio di sguardi furtivi e timidi in principio, più arditi in seguito, carezzevoli e tenerissimi in ultimo: fu così che il giovine impiegò due mesi a leggere un opuscoletto d'agricoltura, Serafina quasi altrettanto a ricamare un par di pianelle che voleva regalare alla mamma.
Nino aveva un vizio, quello d'innamorarsi subito; ne aveva un altro più grave, innamoratosi nuotava subito nell'etere più puro, e quella ragazza pareva fatta apposta per fargli perdere la testa. Onde le cose non potevano arrestarsi a quel punto; tanto più che la vecchia signora aveva odorato un buon partito e adoperava con lui que' modi accorti, propri di certe mamme, quando si cacciano in capo d'attirare un merlotto nella rete del matrimonio. Egli seppe che le domeniche solevano passar la sera in casa della signora del secondo piano: si dette attorno, e trovò presto modo di farvisi presentare. Lì si giocava a mosca cieca, o al giuoco dell'anello, e s'improvvisavano quattro salti alla buona, al suono squarrato d'un pianoforte che aveva anni quanto, il Tantum ergo. Nino ballava sempre con Serafina; quando gli toccava di star nel mezzo con gli occhi bendati, correva brancolando verso di Serafina, se sentiva il riso che la furbetta soffocava apposta nel fazzoletto di batista, o il fruscìo particolare delle sue sottane; si fermava più del dovere curvo davanti la fanciulla, quando passava l'anello; e le parlava dolcemente, guardandola negli occhi, agitato nel sentire le sue mani tra quelle tiepide di lei abbandonate nel grembo. Si che la Borelli madre lo seguiva con lo sguardo, tutta gongolante, che pareva fosse lei l'innamorata di quel ricco giovinotto; e le mamme delle altre fanciulle stringevano le labbra in aria contegnosa, ripensando a quel tal vecchio signore che si diceva madre e figlia avessero pelato a dovere. La vecchia se n'accorgeva, ma non se ne incaricava, aveva tutt'altro per la testa: badava invece a mostrarsi più gentile che mai col giovinotto, e una sera l'invitò a andare in casa loro qualche volta, se ne potevano ricevere l'onore. Nino accettò con riconoscenza, si sbracciò in mille proteste; l'onore era suo, che diavolo! e l'indomani sera ci andò.
Era incappato nella rete.
Quando le disse per la prima volta che l'amava, erano alla finestra.
La mamma, con un par d'occhiali sul naso aguzzando le sopracciglia, faceva la calza, seduta vicino alla lucerna. C'era un bel lume di luna, e nell'aria olezzante di zagara vibravano i malinconici accordi d'una chitarra. La fanciulla lo guardò teneramente, poi mise un sospiro, e abbandonò la bionda testolina sulla spalla di lui.
Si sposarono. Egli aveva fatto un nido delizioso della sua villetta nelle vicinanze de' Ficarazzi, vi andarono a nascondere la loro tenerezza appena sbocciata.
Ma due mesi dopo Serafina era già stanca di quel testa testa. Le parole d'amore mormorate dolcemente con la bocca sulla bocca, nel sedile di legno sotto i lilla del giardino; le lunghe passeggiate silenziose, di sera al lume di luna, stretti l'uno all'altro, guardando le stelle, raccogliendo con un trasalimento di tenerezza i rumori della campagna; le mute estasi sotto al boschetto degli aranci, o seduti sul ciglione d'un campo, con le mani tra le mani; i lunghi desinari pieni di carezze e di baci; per lei avevano perduto presto ogni incanto. Nell'anima sua era successo quel che succede nell'anima d'un fanciullo, che studiandosi con ardore a cercar di scoprire il congegno d'un balocco, finalmente ci riesce. Ora provava altri vaghi desideri, si sentiva nascer nel petto altre aspirazioni indefinite, intravvedeva, come attraverso a un velo, altri orizzonti più rosei, più opalini, il vero mondo, quello dal quale l'aveva tenuta lontana la sua povertà, con le feste, i teatri, le conversazioni, le passeggiate, e le mille altre frivolezze che ne fanno l'attrattiva…. Pensava di sollevare quel velo, con un trasalimento anzioso.
Tornarono a Palermo.
II.
—Donna Maricchia!… Donna Maricchia!… gridò Serafina due volte: poi battè il piedino sull'impiantito tutta stizzita. Oh, la maledetta donna, che ninnolona!… Donna Maricchia!…
—Vengo…. signurina, vengo….
E la cameriera, comparve, correndo.
—Non vi spiccerete mai, dunque, nel fare una cosa!
—O che non ci voleva il tempo per chiamar Masi, dargli i denari, e….
—Basta!… L'abito, presto… a momenti arriva la carrozza.
Era in semplice fascetta e sottanina di cambrì ricamata, con braccia e petto nudi, lisciata, incipriata: aveva le ciocche de' capelli della fronte rinvoltate in pezzetti di carta bianca, l'orecchie rosse scarlatte.
Andò a guardarsi allo specchio.
—Eccomi, dissemi la cameriera ritornando con una gonnella di seta celeste pallido, adorna di merletti bianchi, nella quale aveva infilate le braccia.
Serafina si voltò, incrociò le mani sul petto, e pian pianino con la massima accuratezza, onde non s'avesse a guastare i capelli, vi messe il capo dentro.
—Ah!… piano…. ma dove l'avete la testa!
Un gangheretto s'era appiccato a' capelli. La cameriera cercava di distrigarnelo, mentre diceva:
—È niente, è niente…. non s'inquieti….
—Apriteli gli occhi, siete proprio insopportabile, con questo vostro fare in fretta!
E distrigato finalmente il gangheretto dai capelli, potè infilarsi la gonnella: l'agganciò, la girò, la rigirò, vi battè su con le mani perchè prendesse le giuste pieghe, si coprì con un accappatoio bianco, e sedè allo specchio ai cui lati ardevano due candele steariche in candelieri di vetro verde.
Cominciò l'operazione difficile e delicata, di sprigionare le ciocche dai cartellini, e disporre i ricci sulla fronte.
Per solito era bisbetica la signora; ma quella sera, chi sa perchè, lo era molto di più.
Nella stanza vicina, per l'apertura dell'uscio socchiuso, si vedeva il marito, il quale, vestito con severa eleganza, se ne stava a leggere, seduto vicino a un tavolino carico di libri e di carte. Di quando in quando dava un'occhiata alla moglie, e si rimetteva a leggere.
La strada rintronò sotto le ruote d'una carrozza, e i vetri tintinnavano…. Fu una confusione. La cameriera stava aggiustando una rosa tra' capelli della signora, una bella rosa bianca, imitata perfettamente.
—Date qua, disse, e gliela strappò quasi di mano: s'alzò, curvò la testa, e alzati gli occhi quanto più potè, e arcuate le braccia, s'aggiustò la rosa, con le mani quasi convulse.
—Presto.. la collana….
Ora c'era anche il marito, e correva di qua e di lì.
—Il fazzoletto…. I guanti…. Il ventaglio…. Il binocolo…. Il mazzo di fiori….
Nell'affaccendarsi, padrone e serva cozzarono come due cariatidi… Auff! finalmente, ricoperta dall'elegante beduina bianca, essa prese il braccio di lui, e s'avviarono.
In carrozza fu un altro affare: bisognò ch'egli osservasse se la rosa era al posto, se la collana di perle stava nel centro sul petto, volle affibbiati i guanti, volle che calasse i cristalli; moriva dal caldo, si sentiva proprio una fiamma sulle guance…. era una vergogna presentarsi in teatro troppo accesa in volto.
Egli prestava tutti que' minuti servizietti, con l'affetto, con la premura, d'un marito innamorato pazzamente di sua moglie.
—E…. quel tuo amico che, mi dicesti, devi presentarmi stasera, è un cavaliere…. autentico, n'è vero? Credo che non sarà come tanti e tanti ridicoli che si appiccicano titoli i quali non hanno esistito mai; ciò che del resto fa onore alla loro immaginativa. E finì con una risatina squillante.
—Oh, tutt'altro! è un cadetto della casa Traforello, casa principesca, cara mia!! I suoi antenati vennero in Sicilia con Ruggiero, nientedimeno, ed eran nobilissimi allora!!!
Serafina sgranò tanto d'occhi.
E lui continuò a parlargliene non senza una certa vanità. Leggerino…. ma tutto cuore. Erano stati compagni di collegio, amicissimi dopo; più d'una volta aveva levato d'imbarazzo quello scapato!… Il padre l'aveva lasciato ricco, egli però aveva fatto un bel bucolino nel patrimonio, col gioco, con le donne, con la smania esagerata de' viaggi: erano celebri le sue ultime pazzie per la Loss. Quante volte non l'aveva ammonito!… Ora era in via di rimettersi sposando la signorina Ascenti la quale aveva una dotona. Non gli aveva voluto accertar la cosa, ma gliel'aveva lasciato comprendere, sempre con quella sua aria di noncuranza, come se gliene importasse davvero un fico delle migliaia di lire. Che caro matto!
La carrozza entrò nell'atrio del Bellini, e si fermò davanti alla larga scala che conduce a' palchi.
III.
—Serafina, il cavaliere Mario Furlani.
Il qual cavaliere, presentato dal marito, s'inchinò riunendo i talloni con un movimento di buona scuola, bisbigliando un «fortunato….» e mangiandosi il resto per amore di brevità. Era alto, bruno, elegantissimo, e aveva i lineamenti regolari. Veniva da Tunisi, dove era stato a caccia, e una tinta bronzina dava qualcosa di più maschio alla sua fisonomia di bel giovine.
Serafina gli dette uno di que' rapidi sguardi, che basta alle donne per squadrare un uomo, poi inchinò il capo con un sorriso pieno di gentilezza.
Com'è naturale, il discorso cadde sul suo viaggio: egli ne parlò a lungo abbandonandosi sulla spalliera della sedia, con delle arie stanche d'uomo che abbia abusato de' piaceri, gingillandosi col medaglione della catenella, lanciando sguardi languidi in un palco di rimpetto, dove se ne stava a contemplarlo, con una specie d'ingenua adorazione, una fanciulla con due occhi a mandorla dolcissimi, lucenti come due perle nere.
A Serafina quella sera parve assai simpatico l'amico di suo marito.
—Che te ne pare? le domandò questo tornati a casa, mentre lei, spogliandosi davanti allo specchio veniva denudando il suo bel corpo di statua.
—È molto educato.
—Dici ciò in un modo…. Ti par brutto forse?
—Affetta una cert'aria d'uomo stanco….
—Ma questa è stata sempre una sua debolezza, che farci…. E poi, devo dirtelo? a me sembra che ciò dia un non so che di piccante alla sua figura giovanile. Non ne convieni?
—…. Quant'anni ha?
—Ventitrè o ventiquattro, credo: siamo quasi coetanei.
La giovine non disse altro: continuò a spogliarsi lentamente: nello specchio si rifletteva la sua bella figura discinta, con gli occhi abbassati amorosamente sul petto e sulle braccia nude.
Accolse Mario cortesemente, mettendo ogni suo studio a usar con lui modi cordiali e disinvolti: era un nobile che aveva avvicinate marchese, contesse e duchesse, voleva fargli vedere che anche nel ceto medio c'eran di quelle che s'innalzavan sul comune. Ed ebbe ad arrossire di piacere, un giorno che il marito le disse sorridendo, un po' invanito anche lui, che Mario aveva mostrato una sincera maraviglia, e fatte con lui le sue congratulazioni per la squisita educazione di lei; gliel'aveva detto francamente, perchè a un amico si può dir tutto, non se l'aspettava.
IV.
Trascorsero una ventina di giorni. Il giovine s'era fatto più assiduo, Serafina più cortese.
Una sera essa lo vide nel palco delle signore Ascenti. Parve che trasalisse: portò il binocolo agli occhi lentamente, e guardò. Il cavaliere aveva un braccio appoggiato sulla spalliera della sedia della fanciulla, e parlava con la sua solita aria d'uomo stanco; Rosalia, volta verso di lui, non cessava dal contemplarlo, assorta nella solita ingenua adorazione.
—Son le Ascenti quelle signore in quel palco dove si pavoneggia il tuo amico? domandò Serafina al marito, senza levarsi il binocolo dagli occhi.
—Sì, rispose Striati, dopo aver dato un'occhiata da quel lato.
—Dunque il matrimonio è concluso?
—Non ancora: ma certo egli farà la domanda quanto prima. Sono nostre vicine, sai; hanno una villa ne' dintorni dei Ficarazzi, a pochi chilometri dalla nostra; ci vanno ogn'anno in maggio…. bisognerà invitar Furlani da noi per la villeggiatura.
—Il tuo amico deve parlar certo del Bey di Tunisi, dacchè la futura sposina lo guarda a quel modo con la bocca aperta, disse lei con un sorriso sarcastico impercettibile, come se non avesse sentito quel che aveva detto il marito.
E gli Ugonotti, a un tratto, dovettero certo dilettarla di più che le altre sere, perchè d'allora in poi l'ascoltò attentamente fino all'ultima nota, col braccio nudo appoggiato sul parappetto del palco, e la guancia sulla palma, senza far più uso del binocolo, come soleva sempre.
Sin da quella sera (Mario essendo venuto a farle visita) essa cominciò a trattarlo freddamente; s'adirò anche perchè lui non mostrava d'essersi accorto del suo mutamento repentino, e seguitava a frequentare in casa come per solito: non si curava dunque di lei quello scapestrato! E al marito che un giorno gliene ritesseva l'elogio, disse: che a lungo andare quel suo amico ristuccava; era ridicolo con quei suoi modi svenevoli, pretenzioso colla sua aria di superiorità…. Ma Nino le troncò le parole in bocca:
—Che dici mai!… E ne seguì una discussione che durò mezz'ora buona, senza nessuna conclusione; i due avversari erano mossi da passioni affatto diverse, per potersi intendere.
Allora Serafina cominciò a pungere il cavaliere con qualche frizzo. Lo toccò nel debole. Ah, quel caro Mario, che spirito! solevan dire di lui i suoi amici; e a ogni suo motto un gaio sorriso scopriva i dentini bianchi delle giovani signore; sicchè si lanciò in quella guerricciuola d'epigrammi, che gli dichiarò Serafina, con quel piacere di chi sa di riuscir bene in una data cosa, con quella presunzione che suol dare il lungo buon successo.
Alle prime scaramucce nessuno de' due avversari perdette un palmo di terreno; la giovine non ardiva ancora di servirsi di tutte le sue armi: ma a poco a poco gli assalti cominciarono a farsi più vigorosi e più incalzanti. Furlani non ne aveva la meglio: però l'amor proprio non gliene faceva accorgere; prendeva gusto anzi a quel gioco. Non aveva avvicinata mai una donna di tanto spirito! era proprio quel che si dice un forte avversario, bisognava star bene in gamba con lei, tutt'altri sarebbe stato battuto dieci volte…. cento volte, ma lui…. non c'era questo pericolo! E si riscaldava, e lontano da lei immaginava dialoghi dove egli ne diceva di quelle da far strabiliare, col sorriso sarcastico della bella donna davanti agli occhi, con quello sguardo che non aveva visto che a lei, con quei suoi gesti pieni di grazia, con la sua voce dal tono così dolce nell'orecchie.
E aspettava l'indomani, e l'ora ch'era solito andare in casa Striati, con un'impazienza che rasentava la smania: non giocava più, non andava più ad altre conversazioni, non frequentava più gli amici.
Trascurava anche le Ascenti.
Aveva conosciuta Rosalia sin da piccina; i loro genitori erano stati amicissimi, quantunque quello della fanciulla fosse realista, il suo liberale. Costretto a partire con questo che fuggiva l'ira borbonica, aveva ripensato a lei con tenerezza da fratello, rappresentandosela sempre con quel musetto malizioso di birichina, con quegli occhioni a mandorla dolcissimi, unica cosa che avesse di bello veramente.
Quando la rivide, essa usciva allora da Sales; la fanciulla a diciott'anni, nel suo vestito semplice e grazioso d'educanda, non aveva smesso per nulla l'aria della ragazzetta a sei o sette: era cresciuta però, ed egli si trovò imbarazzato, non sapendo se dovesse darle del tu, del lei o del voi come via di mezzo. Fortuna ch'essa venne in suo aiuto dandogli del voi, arrossendo leggermente, col gaio e fresco sorriso di un tempo; e per più giorni scorsero il capitolo dei ricordi.
Egli cominciò a frequentare in casa di quelle signore, allettato dal buon viso che gli si faceva, contento di ritrovare di tanto un cantuccio quieto di paradiso, in mezzo all'inferno della sua vita rotta ad ogni dissipatezza. Rosalia l'accoglieva sempre gaia, sorridente, stordendolo e interessandolo col suo cinguettìo di piccola passera: e gli raccontava le biricchinate che faceva con le compagne nell'educandato, enumerava i gastighi che le avevano dato, parlava della vita che vi si menava, di quello che le avevano insegnato: e interrompeva il discorso or per andare a prendere un ricamo, un album di disegni, e mostrarglielo: or per leggere una pagina d'un libro francese, o quella d'un libro inglese; or per sonare un pezzo sul pianoforte, provando una gioia innocente nel mostrare al suo amico, che po' poi non aveva perduto il tempo affatto. Ciò senz'ombra di civetteria, con mille osservazioni, con mille domande le quali lo spingevano indirettamente a dire il suo parere, ch'essa ascoltava con un vivo color di rose sulle guance. E la fanciulla giunta a quello stadio della vita in cui la donna stende le sue aspirazioni verso l'uomo, come l'edera i suoi teneri getti sotto al tiepido sole di primavera, si veniva sempre più attaccando a lui, che, suo malgrado, si migliorava a quel tocco vergine.
Ma una sera un suo amico volle condurlo a ogni costo dalla Loss, ballerina allora celebre per bellezza, per bravura, e per qualcos'altro ancora… quel demonio l'afferrò per i capelli.
Alla fine della stagione partì con lei senza nemmeno andare a salutar la sua piccola amica.
Tornò due mesi dopo, con la borsa vuota, e un disinganno di più: la bella l'aveva piantato per un ricco signore in off.
Egli per consolarsi se n'andò a caccia a Tunisi.
Fu dopo questa scappata che il suo avvocato, il quale aveva anche per cliente la signora Ascenti, gli propose il matrimonio con Rosalia, mettendogliene in mostra tutti i vantaggi. Ma egli era in uno di quei momenti in cui la ferita recente fattavi da una donna, vi mette nell'anima l'indifferenza, e l'avversione per tutte le altre. Rispose che conveniva con lui su' vantaggi di quel matrimonio; ma che non l'avrebbe contratto, per la semplice ragione ch'era troppo giovine, e non voleva incatenarsi per sempre senza mature riflessioni.
Però due giorni dopo andò a far visita alle Ascenti.
Trovò la povera Rosalia acciaccata assai. Un vivo rossore coperse le sue guance smunte appena lo vide, poi s'alzò con un lampo di vera gioia negli occhi, e gli andò incontro vivamente, senza pensare a ciò che facesse, ch'era presente la mamma. Alle domande premurose del giovine rispose con un certo imbarazzo ch'era stata ammalata; però ora si sentiva meglio: volle sapere dov'era stato, perchè non era venuto a salutarle prima di partire. Egli se la cavò con alcune bugie dette abilmente, e della cosa non se ne parlò più.
In capo a otto giorni Rosalia s'era rimessa del tutto, gli eran tornati i colori e la gaiezza. A questi sintomi Mario s'accorse della passione che la fanciulla aveva per lui. Era ingenua e buona, vicino a lei provava una dolcezza placida, un senso di quieto benessere, quei suoi occhi neri lo riscaldavano come un raggio di sole primaverile….
Fu in quel tempo che conobbe Serafina.
Intanto tra di loro la guerra seguitava più accanita che mai: però egli cominciava a toccare le prime serie sconfitte. Diventò inquieto, perdette quella fede in sè stesso tanto necessaria in simili occasioni; Serafina venne sempre guadagnando terreno, fino a che una sera lo ridusse al silenzio.
Era il primo caso di simil genere che succedeva a Mario; e ne provò un'umiliazione profonda. Riandava i vari discorsi, ricordava certe frasi degli ultimi dialoghi; ora gli venivano spontanee le risposte; delle risposte da levarle il pelo addirittura! E domandava a sè stesso come mai non gli erano corse alle labbra su quel subito, quale strana potenza esercitava quella donna su di lui per fargli perdere la bussola a quel modo! Faceva proposito di ritornare all'assalto, ci ritornava e n'aveva sempre la peggio: davanti a quel diavolo di donna ora si sentiva impacciato.
E a un tratto, senza un buon perchè, sentì un amaro dispetto. Stimava strana la condotta della moglie dell'amico: aveva avuto un curioso capriccio ad assalirlo con frizzi fino dai primi giorni della loro conoscenza: egli era stato sempre cortesissimo con lei; le aveva usato que' riguardi che un gentiluomo deve a una signora; le sere del suo abbonamento le aveva fatto la corte in palco, regolarmente, come a una duchessa; non aveva mancato mai alle visite di dovere; trovava frasi nuove, gentili sempre per i suoi abbigliamenti; era arrivato al punto di lodare la sua abilità nella musica, cosa non vera di certo: diamine, non aveva nulla da rimproverarsi! Prese un'aria seria, un pochino anche altera, cominciò a diradare le sue visite, poi non ci andò più. O che si credeva quella pedina!
Ma era agitato, non poteva star fermo; volle riprendere le antiche abitudini, e s'annoiò da per tutto, anche in casa delle Ascenti. Provava un certo malessere nell'ore ch'era solito andare da Serafina; se ne stava musone, com'un bambino contrariato…. Gli dispiaceva per l'amico…. per lui solamente…. un caro giovine, cortesissimo, tutto cuore…. chi sa cosa ne pensava di quel suo brusco cambiamento….
E otto giorni dopo fu il marito stesso che lo levò da tante pene. S'incontrarono in Toledo.
—Galantuomo!…
—Oh! Nino! esclamò il giovine arrossendo: e gli stese la mano che l'altro affettò di non voler prendere.
—C'è la peste in casa mia che non ti si vede più?
Allora egli mentì. Era stato ammalato, aveva avuto delle febbrerelle nervose, che l'avevano lasciato debole di molto: quella mattina s'era sentito meglio, e aveva voluto far quattro passi.
Striati si dispiacque, lo rimproverò perchè non gli aveva fatto saper nulla della malattia, sarebbe andato a trovarlo; in sua compagnia l'amico non avrebbe sentito la noia di doversene stare in letto….
Poi fecero un buon tratto di via insieme, discorrendo, e non lo lasciò se prima non si fece promettere che sarebbe andato a casa sua come per solito. Serafina gli aveva domandato diverse volte di lui.
L'indomani Mario non si tenne, e all'ora solita, si presentò di nuovo in casa Striati. Nel salire le scale, il cuore gli batteva con violenza. Trovò lei nel salotto, sdraiata mollemente sur una poltrona, co' piedi incrociati sul panchetto imbottito, ricoperto di velluto cremisi: leggeva. Era seria, pallida, aveva gli occhi lucenti come se avesse la febbre, e nella sua persona nel suo abbigliamento, c'era qualcosa di negletto, che colpiva di più perchè insolito.
Alzò gli occhi dal libro con un «oh!…» languido, e gli stese la mano languidamente, mentre con l'altra posava languidamente il volume chiuso sul marmo del caminetto.
Gli domandò della sua salute; nulla del perchè non s'era fatto più vivo.
Da quel giorno non più frizzi: ritornò cortese come prima, ma restò malinconica. Parlava poco, quando c'era lui, faceva cader sempre il discorso sulle aspirazioni dell'anima, sull'insussistenza della felicità vera, sull'altra vita che doveva esser certo migliore della presente…. Sì che il giovine, gaio per solito, senza sapersene spiegare il perchè, cominciò a veder nero anche lui.
Una sera desinavano in famiglia: marzo, per l'imposte aperte del terrazzo, metteva nella stanza una profumata tiepidezza di primavera. Parlavano dell'imminente villeggiatura.
—Vuoi farci un regalone? disse Striati al cavaliere Mario Furlani che gli stava seduto dirimpetto; vieni in campagna con noi.
Mario dette una rapida occhiata a Serafina.
La bella donna pareva tutt'intenta nel piacere d'assaporare una pera che tagliava lentamente fra i ditini rosei bagnati dal succo.
—Ti ringrazio, Nino…. ma per ora non posso: forse in seguito profitterò del tuo gentile invito.
Serafina, senza insistenza, aggiunse qualche parola, costretta com'eravi dalla sua qualità di padrona di casa: poi domandò al giovine se avesse delle serie occupazioni in città.
Quel dopo desinare Mario fu di cattivo umore: se n'andò prima assai del solito, adducendo per scusa, che l'aspettavano in casa Ascenti.
V.
Partirono per la campagna, e del cavaliere non se n'ebbe più notizia.
—A proposito…. il tuo amico non viene più? domandò Serafina quindici giorni dopo al marito intento a lavorare attorno a un opuscolo sugli agrumi, che aveva intenzione di pubblicare. E con la mano soffocò un leggiero sbadiglio.
—Mah!… chi può contare su quella testa bislacca, rispose lui alzando il capo lentamente. E poi, confessalo, tu non l'hai incoraggiato di molto.
—Io?
—Tu.
—Dovevo forse inginocchiarmi davanti a lui.
—No, Dio mio; ma avresti dovuto insistere quando io l'invitai; anche per semplice cortesia.
Poi, rimettendosi a scrivere, continuò a frasi interrotte:
—Quand'uno v'è antipatico…. non è permesso di dimostrarglielo…. È certo per la tua fredda accoglienza che non è venuto…. le Ascenti son qua da otto giorni…. Non è bene, vedi…. egli è un mio carissimo amico…. Del resto…. l'hai giudicato male…. è un buon giovine in fondo….
Lei s'alzò stringendosi nelle spalle: si fece alla finestra, e si mise a stamburinare su' vetri. La campagna, sotto a un velo grigio uniforme, era triste: giù, nel mezzo giorno, un cantuccio di cielo celeste pallido, ti faceva pensare a un di que' tramonti limpidi, striati d'opale e di croceo.
Serafina guardò quel cantuccio lungamente, poi mise un sospiro.
—Senti, disse voltando il capo bruscamente verso il marito, se credi realmente che sia per causa mia che il tuo amico non viene…. scrivigli; ti prometto che farò la pace con lui. E s'allontanò con la sua solita risatina rapida e squillante.
Egli l'accompagnò con uno sguardo pieno d'amore, poi chinò il volto sulla carta, su cui la penna seguitò a stridere.
Cinque o sei giorni dopo arrivò Furlani. Nino fece gran festa all'amico, la moglie l'accolse co' soliti frizzi che riaprirono nell'anima del giovine le ferite dell'amor proprio appena rimarginate. Ma lei o non se ne accorse, o finse di non accorgersene: pareva come se oramai sicura ch'egli non potesse scapparle, si volesse divertire a tormentarlo: era ridivenuta gaia, e civettuola.
Ma avendogli ei detto un giorno, non senza un leggiero pizzico d'ironia, che i suoi affari non permettevano che stesse di più a godere delle delizie della loro villa, e della loro gradita compagnia, essa cambiò maniere a un tratto.
Fu un vero sollievo per il giovine ch'era stato a un pelo dall'andarsene. Di questo suo compiacimento si adduceva a ragione che le Ascenti erano a villeggiatura, non avrebbe potuto veder più Lia ogni giorno…. ora gli era necessaria quella fanciulla….
E a scongiurare un nuovo pericolo, si mostrò premurosissimo verso di Serafina, s'adattò a ogni suo desiderio, corse a ogni suo minimo cenno.
E la capricciosa ne profittava.
—Cavaliere, ho dimenticato di sopra l'ombrellino…. sareste tanto gentile d'andarmelo a prendere? Lo troverete sul pianoforte.
Accompagnava queste parole con uno sguardo languido, con un sorriso che aveva, direi quasi, il solo incarico di mostrare i dentini bianchi e ben disposti nella bocca di corallo, e il cavaliere s'inchinava e andava a prender l'ombrellino.
—O Dio…. il mio cappellino…. dove l'ho lasciato dunque?… ah, sì, nel chioschetto. Cavaliere…. sareste tanto gentile d'andarlo a prendere?
E il cavaliere s'inchinava, e andava a prendere il cappellino.
Ed ora era un libro che aveva dimenticato sotto un capanno, or un fazzoletto sul sedile di marmo vicino la vasca, e il cavaliere andava a prendere il libro, o il fazzoletto.
A volte poi si faceva appuntare una forcina fra le trecce bionde; a volte si sdraiava mollemente sotto agli aranci, e vi restava delle ore, mentre lui, sedutole vicino, tracciava col bastone de' geroglifici sul terreno, e rispondeva al suo cinguettìo approvando di tratto in tratto con de' cenni del capo. In quell'ora la campagna, e per lo più soleva essere rinfrescata da un venterello di mare; in un boschetto vicino, un'upupa faceva sentire nel silenzio il suo bu, bu, bu, malinconico, cui una tortora accompagnava col suo canto grave e gutturale: a volte vi schiamazzavano de' cardellini. Essa, stanca finalmente, taceva; poi s'alzava bruscamente, metteva un sospiro, e gli domandava il braccio: voleva passeggiare.
E il cavaliere s'alzava, s'inchinava, e offriva il braccio.
Lei o andava lentamente, abbandonata tutta sul giovine, con gli occhi nuotanti nella tenerezza, con un leggiero velo di malinconia nel volto leggiadro; o lo trascinava a celeri passi, vispa, gaia come una bambina, affascinante sempre ne' suoi abbigliamenti che modellavano a pennello le curve ardite del suo bel corpo di fata.
Epperò in processo di tempo Mario cominciò ad accorgersi che i fini di lei tendevano a tutt'altro che ad una semplice dimostrazione d'amicizia; gli era parso di leggerlo nel languore dei suoi occhi azzurri…. Oh! egli era espertissimo in simil genere di cose, e una donna appena innamorata la conosceva subito.
Non ne fu turbato, nè inquieto. No, realmente, non gli piaceva proprio quella donna…. benchè non si poteva negare che fosse bella.
Però si mise a osservare…. Non voleva mica accertarsi della cosa per un fine cattivo; tutt'altro…. ma ci avrebbe avuto un bel gusto a potersi vendicare un pochino della sconfitta durata, della condotta capricciosa di lei. Era sicuro del fatto suo: amava Rosalia che quanto prima avrebbe chiesto in isposa; stimava troppo l'amico, col quale aveva anche un'infinità di obblighi, e non pensava certo ad ingannarlo; oibò, che infamia! sarebbe rimasto saldo come una rupe, freddo come il marmo, lasciando che lei si riscaldasse a sua posta. Oh, il bel giochetto!… Via, si risolveva senza meno, era troppo forte la tentazione: quella signora gli aveva fatto ingollare parecchi bocconi amari. Stabilì il modo di condursi: si poteva riepilogar tutto in due parole, freddezza e ironia.
E seguitò a starsene vicino a lei sotto gli aranci, ad ascoltare il suo cicaleccio, a sostenere il fuoco dei suoi occhi, a sentire il tiepido contatto del suo corpo, quando gli s'abbandonava sul braccio, come se lei non fosse fatta di carne, e lui neppure. Affettò d'adattarsi a' suoi capricci per semplice e pura cortesia, lasciando anzi trapelare la noia che gli arrecava una tal cosa, e gongolava all'idea della rabbia ch'essa doveva provare a una condotta simile. La sera sedevano al fresco, sul sedile di legno tra i lilla del giardino: lui le parlava del marito, con una vena inesauribile; lei affettava un'aria distratta, sfogliava de' fiori. A un tratto alzava la testolina bionda, con un movimento tutto proprio, e gli rompeva le parole in bocca; cominciava a parlar d'un mondo di cose: era un vicino che metteva in canzonella; una storiella scandalosa che spiatellava lì con parole un po' libere, col solito risolino rapido e squillante; o sferzava spiritosamente una signora, sua intima amica; o cinguettava di mode, di balli, di teatri, di ricevimenti; o faceva progetti per il carnevale venturo; mescolando a tutto ciò osservazioni curiose, trovando frizzi per tutti, ma non più per il cavaliere. Ciò quando non raccontava le sue contrarietà domestiche, le quali chiamava, sospirando, guai irreparabili. Allora era lei che gli parlava del marito, aggiustando con un abbassar d'occhi e un allungar di muso un merletto indiscreto che lasciava veder troppo dei tesori del seno, una ciocca ribelle, ritirando rapidamente sotto al lembo della sottana un piedino un po' troppo scoperto per un suo brusco movimento. Eran di carattere affatto opposto…. essa allegra, amante di divertirsi; egli serio, dedito tutto agli affari, felice solo quando poteva occuparsi de' suoi progetti d'amministrazione, fare i suoi calcoli presuntivi su quanto potrebbe dare or questo or quello dei suoi fondi, messi in cultura da lui, con i nuovi sistemi, quando poteva tracciar disegni di pozzi artesiani, di case coloniche, di grandi magazzini. E imbrattava carta e carta tutto il santo giorno senza stancarsi mai. Quel lavoro che lo faceva vivere in mezzo a un mondo di progetti animati da una ridda di cifre, appagava pienamente tutti i suoi desideri. Era buono, era affettuoso con lei, non poteva negarlo…. ma il vederlo sempre lì, serio, dedito a una cosa, le urtava i nervi davvero!
E così dicendo, aveva un certo modo di far bocca da ridere, che faceva venir voglia di mangiarla.
Furlani la lasciava dire: poi usciva in elogi sperticati sugli uomini che si dedicavano al miglioramento delle proprie condizioni: e sosteneva la tesi con calore, enumerando i vantaggi che ne ricavano l'individuo e la società, citando nomi ed esempi d'ogni sorta di gente, e d'ogni nazione, finchè lei s'alzava di scatto: voleva rientrare…. c'era troppo fresco….
Ma a lui invece piaceva di star fuori, e la vedeva allontanare con un sorriso fine, torcendo tra l'indice e il pollice or l'una or l'altra delle punte de' suoi baffi neri.
E ad aggravare anche di più questa sua condotta stizzosa, gli venne in idea di fare il galante con donna Maricchia la cameriera. Bella! superba! era contentissimo di questa sua pensata, proprio quel che ci voleva al compimento dell'opera. E senza mettere tempo in mezzo, cominciò a farle gli occhi dolci.
Donna Maricchia andò in brodo di giuggiole: quell'elegante e bel giovinotto, un signore davvero, innamorato di lei! Oh, la stizza che n'avrebbe il sor cuciniere il quale faceva il superbo come se fosse un gran personaggio! e una volta che la serva da strapazzo gli disse: perchè non sposate donna Maricchia? ebbe il coraggio di rispondere: criati, tuccati e mamati. Sfacciato! essa toccata e maneggiata! essa!… ne voleva crepar dalla rabbia! E sognava un Eldorado: il cavaliere doveva esser ricco. E tutta riscaldata faceva progetti sul modo di condursi con lui: mostrar di cedere, e non cedere; fargli perder la bussula, e mungergli il borselino. Ora era lei che guardava il cuciniere d'alto in basso, come se quell'amorazzo che supponeva nutrisse per lei il cavaliere, l'avesse elevata all'altezza d'una gran dama: e affettava i modi sciolti e civettuoli della padrona, ne scimmiottava d'una maniera assai buffa le arie, la foggia d'abbigliarsi, il riso, quel riso che l'era parso sempre così grazioso.
Ma con gran sorpresa del giovine, e anche un po' con una certa stizza, Serafina non mostrò accorgersi di nulla: egli che a ogni galanteria sbirciava il volto della bella donna, non vide mai contrarsene un muscolo. Era sempre gaia, sempre premurosa, aveva sempre qualcosa da fargli fare, con quella vocina melata, e con quel sorriso ammaliatore che mascheravano un vero comando.
Il marito andava, veniva sempre affacendato come se amministrasse una provincia. Uno sguardo carezzevole alla moglie, un sorriso all'amico, qualche parola buttata lì mentre s'allontanava in fretta, e la sua faccia bruna riprendeva l'aria seria d'uomo d'affari.
VI.
Una sera Mario e Serafina passeggiavano in giardino. A un tratto lei che da un pezzo non faceva altro che aggiustarsi il fisciù tirandolo or da un lato or dall'altro, gli disse:
—Cavaliere, appuntatemi un po' questo benedetto fisciù che mi gira attorno il collo. E senza dargli tempo, gli voltò la schiena, e gli si fermò davanti abbassando la testa, e porgendogli uno spillo per sopra la spalla. Egli trasalì: tuttavia cercando di non guardare la sua bella nuca bianca, introdusse due dita dentro la goletta fissò il fisciù col pollice, e v'appuntò lo spillo.
Quand'essa si rivolse s'accorse ch'era pallido.
—Che cosa avete? esclamò guardandolo con un'aria di bambina meravigliata.
—Io?… nulla!
Un lampo s'accese negli occhi azzurri di lei.
—Via, riprese poi strascicando le parole, chi volete che lo dica alla vostra sposina? rassicuratevi; non ci ha visto nessuno. Ah, ah, ah, ah!
E il suo riso, questa volta non tanto schietto, scoppiò nell'aria tiepida, e fece fuggire una cutrettola che cantava a poca distanza sulla siepe fiorita, e saltellava, or alzando la coda, ora abbassandola con i movimenti graziosi propri di quelle bestiole.
Furlani aggrottò le sopracciglia; un leggiero sorriso gli sfiorò appena le labbra, ma non rispose.
Era la prima volta che Serafina alludeva alla signorina Ascenti, e ciò turbò Mario, lo fece soffrire realmente. Rientrò in sè stesso: aveva fatto male a mettersi in quell'imbroglio, a lasciar che le cose arrivassero a un tal punto…. dove si sarebbe andato a parare seguitando così? Sinchè si trattava d'uno scherzo…. d'una vendetta innocente…. non c'era che dire; ma ora la faccenda cominciava a farsi seria. Egli non amava Serafina…. era vero: ma il marito poteva leggergli nel cuore? E se s'insospettisse?… bastava uno sguardo, una parola, un gesto…. non diceva una scena come quella della sera! Soffriva al solo pensarlo. Nino era un carissimo amico: quante volte, con un prestito opportuno, non l'aveva levato da posizioni assai scabrose! queste erano azioni da non dimenticarsi mai…. Bisognava smettere.
Ma a un tal pensiero si sentì stringere il cuore, provò uno strano sconforto. Rivedeva netta l'immagine di lei, con tutte le seduzioni: si ricordava del suo sorriso, delle sue parole, de' suoi minimi gesti…. E la scacciava; cercava di contrapporle l'immagine di quell'altra. Ma quell'immagine si presentava sbiadita, la vedeva come attraverso un vapore. Amava Lia…. l'amava con tutta l'anima sua…. la povera fanciulla non era bella; ma era tanto buona, aveva gli occhi così dolci!… O ch'egli non aveva forse provato un momento di vera felicità quella sera…. l'istessa in cui gli Striati erano partiti per la villeggiatura?… La signora Ascenti li aveva lasciati un momento soli; erano seduti l'una vicino all'altro, e sfogliavano un album di disegni: le loro guance s'erano sfiorate. Lei s'era voltata rossa rossa, guardandolo co' suoi occhi neri, lucenti per la commozione vivissima…. Ma in quella avevano sentito il passo pesante della mamma. Egli però aveva accostato il suo piede a quello della fanciulla, ed essa non l'aveva ritirato.
Ma, cosa strana, a que' ricordi non provava più quella dolcezza che aveva provato le altre volte ripensandoci: vedeva invece il vestito a righe bianche e celesti dell'altra, col contorno netto dalle gambe accavalciate, e il piedino che usciva a metà di sotto alla balza, e si dondolava nervosamente….
Bisognava far la domanda quanto più presto, e stringer le cose: aveva accomodato gli affari suoi alla meglio, ma bisognava provvedere definitivamente e presto, se non voleva rovinarsi. Lia aveva una buona dote: avrebbero messo casa con lusso, comprati quattro cavalli inglesi e due carrozze. Ci voleva una cameriera per lei, un cameriere per lui, due servitori…. Il giorno avanti era sceso in giardino…. sotto a un capanno Serafina leggeva un foglio…. gli era parso una lettera…. lo nascose appena vide lui…. Che era quel foglio? perchè l'aveva nascosto?…
VII.
Era triste; un abbattimento profondo l'accasciava sotto al suo peso, quel pomeriggio, mentre andava su per l'erta, in cima alla quale biancheggiava tra gli ulivi la villa della signora Ascenti: respirava con voluttà l'odor di fieno segato ch'esalava dalla campagna; quasi senza pensiero, ascoltava il canto d'una quaglia che veniva di lassù, tra le vigne d'un bel verde dorato. Passò il cancello, e si trovò nel giardino: andava lentamente.
A un tratto si fermò accecato: aveva sentito un rapido e leggiero fruscio di sottane, e, in un lampo, due manine tiepide su' suoi occhi.
—Lia, disse Mario commosso; poi prese le manine della fanciulla, le staccò dolcemente, e si voltò tenendole sempre tra le sue.
Scoppiò un riso infantile.
—Cattivo! m'avete riconosciuta subito, esclamò la fanciulla, e fece il broncio.
Egli la guardò a lungo negli occhi, l'attirò a sè rapidamente, e stampò un bacio sulle sue labbra di vergine, soffocandone un piccolo grido: poi fuggì come un pazzo, e la lasciò tutta commossa e sorpresa.
Tornò due ore dopo.
Rosalia era con sua madre, nel salotto a pian terreno. Egli sedè mentre rispondeva alla signora, che, sdraiata sulla poltrona, con le mani intrecciate sul ventre, e in una beata sonnolenza, gli aveva domandato se fuori facesse caldo.
La fanciulla pareva agitata; lo guardava con una espressione di tenerezza inquieta; si sarebbe detto che frenasse a stento le lacrime.
Il sole cadeva dietro gli alti colli, quando la grossa signora mise un lungo sospiro, e s'alzò in tre tempi: era l'ora solita della passeggiata.
—Ci accompagnate? domandò al Furlani.
—Con tanto piacere, signora, questi rispose inchinandosi.
—Lia, figliuola mia, vieni a metterti il cappellino dunque.
E la signora uscì, seguita dalla fanciulla che vicino all'uscio si voltò due volte.
Furlani sedette. Egli fissava gli occhi al suolo, immerso ne' suoi pensieri, quando sentì il rumor d'un uscio che s'apriva. Rosalia s'avanzava verso di lui, in punta di piedi, rapidamente. Mario s'alzò.
—Perchè siete fuggito! mormorò la fanciulla, posandogli le mani sulle spalle, e guardandolo teneramente; io…. non ero in collera con voi….
E a un tratto, rizzandosi su' piedini, gli porse le labbra, con un moto di bimba, d'un incanto irresistibile….
Toccò a lei a scappare questa volta, temendo non avesse a sopravvenire la mamma.
Mario quella sera tornò alla villa molto tardi: trovò Serafina in giardino.
La giovine avvolta con grazia in un bernusse bianco, passeggiava lentamente. I raggi della luna battendole in pieno viso, davano un tono perlato alla sua pelle finissima di bella bionda. Sembrava malinconica: ma nello scorgere il cavaliere, i suoi mobili lineamenti presero un'aria di scherno.
—Rincasate tardi stasera, cavaliere…. o dove siete stato?
—Dalle Ascenti, signora, rispose lui alzando il capo quasi in atto di sfida.
—E lo dite in tono così tragico? Siete curioso davvero! Io, vedete…. avevo fatto un piccolissimo giudizio temerario….
—E quale, se è lecito?
—Avevo supposto che vi fosse saltato in capo di fare una veglia d'amore; sapete, come solevan gli antichi cavalieri…. e che perciò vagavate per i campi annebbiando la luna con i vostri sospiri. Ah, ah, ah, ah!
E infilò il braccio in quello del giovine, e lo trascinò verso la casa, i cui lumi rilucevano attraverso le foglie degli alti alberi.
Allora mutò gioco: tornò a pungerlo con epigrammi; faceva cadere a bella posta il discorso sulle signore Ascenti delle quali faceva grandi elogi; affettava di schivarlo, pur mostrandosi a lui in tutte l'ore del giorno, a lampi come una visione, baluginando fra i gruppi d'alberi del giardino; passeggiando in fondo a un viale, lentamente, in aria meditabonda, con un libro socchiuso in mano; salendo rapidamente su per le scale; passando e ripassando per lo scrittolo, mentr'egli vi s'intratteneva col marito; socchiudendo gli usci con arte, acciò, anche nell'andare da una stanza all'altra, egli la vedesse sdraiata mollemente nella poltrona, con i piedi incrociati sopra un alto sgabello, con gli occhi vaganti nel vuoto. Curava molto di più il suo abbigliamento, le sue acconciature; tendeva insidie con la seminudità del seno e delle braccia sotto a' leggieri veli, con la procacia degli atteggiamenti che mettevano in risalto le sporgenze ardite del suo petto di vergine romana, delle sue anche di Venere afrodite.
Furlani di triste diventava cupo: aveva smesso di fare il galante con la cameriera: ora davanti all'amico era assalito da subitanei rossori.
Aveva dei parossismi strani, indefiniti, che lo lasciavano in un abbattimento profondo…. Una volta che lei sdraiata sotto gli aranci gli diede il ventaglio per farsi vento, provò la voglia brutale di prenderla tra le braccia.
Fu ricordandosi di questo particolare, che quella stessa sera, chiusosi nella sua camera, ebbe un'arcana paura. Che voleva concludere quella donna…. dove voleva trascinarlo?… e a lui quali strane idee passavano per la mente…. Bisognava fuggire se non era un miserabile.
E tutta la notte credette che l'indomani lo farebbe.
Ma l'indomani non lo fece; non ne ebbe il coraggio: si sentì preso dal solito malessere, dal solito orribile stringimento di cuore: parvegli come se tutto morisse dentro di lui e attorno a lui. Però addusse a sè stesso le solite scuse: non avrebbe potuto veder più Lia ogni giorno…. si sarebbe mostrato più freddo con Serafina, ecco…. doveva stancarsi finalmente quella donna! Del resto egli non l'amava…. no, non l'amava…. E poi, aveva un mezzo sicuro per non cadere nell'infamia, evocare l'immagine dell'amico. Essa sola bastava a mettergli freddo nell'anima: presentandosi, anche se fosse lì lì per soccombere, era certo di rialzarsi incrollabile come uno scoglio.
VIII.
Una mattina s'era alzato presto: se ne stava con i gomiti appoggiati sul parapetto della finestra, e il capo tra le palme delle mani, più abbattuto del solito.
Il sole indorava le cime degli alberi del giardino e il tetto della casa; per l'aria fresca, imbalsamata di zagara, le rondini svolazzavano stridendo.
Egli pensava ch'era ben strano il caso che metteva lui, emerito scapestrato non uso a indietreggiare davanti a una qualsiasi pazzia, nella dura condizione di vedersi sempre attorno, delirante d'amore, una donna bella…. come un angelo, elegante, spiritosa, piena del fuoco della gioventù, e non potere stender la mano per toccarla con un dito! Fra lui e lei stava l'amico, a cui oltre il cuore, lo legava la riconoscenza…. Tuttavia doveva esser ridicola la figura ch'egli faceva davanti a Serafina…. chi sa che concetto s'era dovuto formar di lui la capricciosa! E insieme a un certo rammarico, provava un senso d'umiliazione, che pungeva la sua vanità.
—Eppure…. quanti amici non tradiscono gli amici?…
E chi sa quali conseguenze avrebbe tirato da questa premessa così piena di verità, se, a un tratto, un fruscìo di sottane non l'avesse riscosso, e fattolo voltare vivamente. Serafina veniva per il viale sottostante, correndo a piccoli salti come una bambina, dondolando le gomita. L'aria rotta modellava attorno al suo corpo la sottana d'un elegante vestito di mussolina a grandi righe bianche e celesti, scopriva i suoi piedini calzati di scarpette di pelle lucida, con borchiette d'acciaio, e, a lampi, qualcosa delle sue gambe ricoperte di calze anch'esse a righe bianche e celesti: fra' capelli biondi spiccavano due rose bianche.
—Cavaliere, venite, gli gridò senza fermarsi, vado a governare i miei fiori.
E passò accesa leggermente in volto, col seno tremolante sotto a' veli trasparenti del fisciù.
Una subitanea contrazione stirò i muscoli del viso del giovine: rientrò, prese il cappello, e scese in giardino. Ubbidiva a uno di que' moti irresistibili, che spingono l'uomo suo malgrado, annebbiandone la ragione.
La sera però disse all'amico ch'egli partiva…. gli levava l'incomodo….
Ma Nino non lo lasciò finire. Era un cattivo amico se voleva lasciarlo così presto; erano soli, egli allegrava la casa. Comprendeva che in questo c'era un po' d'egoismo da parte sua, poichè doveva annoiarsi mortalmente in una casa dove c'eran pochi divertimenti; ma che farci, in fondo a ogni affetto ce n'era sempre un zinzino dell'egoismo. Del resto conosceva una certa persona con cert'occhi neri, che doveva compensarlo a ribocco delle ore di noia ch'era costretto a passare in compagnia d'un uomo sempre dedito a' suoi affari, e d'una donna un po' lunatica.
Ma Furlani insistette: disse che affari urgenti…. doveva dar sesto alle cose sue…. prima di pregar l'amico a far la domanda della mano della signorina Ascenti che oramai s'era deciso a sposare…. piuttosto sarebbe ritornato…..
Allora Nino levò le braccia in aria e voltò il capo, protestando che non voleva sentire a parlare…. Era a disposizione dell'amico quando volesse per la domanda, ma non poteva comprendere tanta fretta a voler tornare a Palermo: tra venti giorni tutt'al più, sarebbero ritornati insieme, e venti giorni non eran poi gran che, tanto più ch'egli poteva veder la signorina quando gli piacesse.
Furlani balbettò, si fece rosso, e finì con acconsentire a restar ancora qualche giorno.
Intanto in Serafina cresceva l'amore per i fiori.
Mario per due giorni non s'affacciò alla finestra: il terzo sentì de' sassolini battere sull'imposta socchiusa. Provò un rimescolio in tutta la persona, corse ad affacciarsi, e vide Serafina mentr'era per lanciare un altro sassolino. La sirena si messe a ridere come una biricchina colta in flagranza.
—Non venite? gli disse poi: ed aspettò.
Allora ogni mattina lui si faceva trovare alla finestra: lei passava, e lo chiamava.
Era tornata gentile, la sua voce aveva qualcosa di carezzevole, che sin'allora non aveva avuto mai, i suoi occhi un'espressione di dolcezza infinita: non aggiustava più sul petto un merletto indiscreto, che mostrava troppo de' tesori del seno, non abbassava più il lembo della sottana sul piedino troppo scoperto, si abbandonava nella sua pudica seminudità, contenta che ei la frugasse tutta con gli occhi accesi di desideri. Si accoccolavano insieme in mezzo alle aiuole, e le loro mani s'incontravano tra 'l verde delle piante; si chinavano insieme su' fiori, e le loro guance e i loro capelli si sfioravano; li coglievano insieme, poi sedevano sull'erba, e facevano insieme de' mazzolini che scambiavano, governavano insieme un giacinto, un tuberoso, un geranio, una rosa bianca; e quella vita in mezzo a' fiori l'inebbriava, i profumi avvelenavano loro il sangue, soffocando i rimorsi dell'uno, irritando sempre più i desideri dell'altra.
Il marito andava, veniva sempre affaccendato: uno sguardo carezzevole alla moglie, un sorriso all'amico, qualche parola buttata lì mentre s'allontanava in fretta, e la sua faccia bruna riprendeva l'aria seria d'uomo d'affari.
IX.
Quella mattina egli era partito pel podere di Biavalle: doveva vedervi un semenzaio d'aranci, i cui arboscelli voleva comprare pel suo podere del Salice: era tardi, e s'era portato l'occorrente per far colazione sul posto.
Mario avrebbe voluto andar con l'amico; ma la via si doveva fare a cavallo, non c'erano altre bestie che il cavallo per Nino, un'asina per l'uomo ch'egli doveva condur seco: si poteva mandar a' Ficarazzi: però si sarebbe perduto troppo tempo. Convenne ch'egli restasse.
Si chiuse in camera, prese un libro e si mise a leggere.
Un picchio all'uscio gli fece alzar la testa: era la cameriera, la quale, tutta in contegno, con gli occhi bassi e una cera brusca che mostrava la stizza, veniva ad avvertirlo che la colazione era pronta. Però egli rispose che si sentiva indisposto, pregava la signora d'asciolvere senza di lui.
Ma partita la cameriera, cominciò a provare una smania sorda: aveva delle distrazioni, non comprendeva più quel che leggeva. Buttò il libro sul tavolino, s'alzò e si mise a passeggiare innanzi e indietro: poi si stese supino sul letto, dove restò a lungo con gli occhi aperti e immobili. Gli ronzavano le orecchie.
Un tossicchiare a sbalzi, misto a un fruscio di sottane, e a uno scricchiolìo di sabbia, sotto un passo leggiero, lo fecero rimescolare. Si rizzò sur un gomito, e stette ad ascoltare, con un gran batticuore, l'allontanarsi rapido di quel passo.
Era lei…. Mario l'aveva conosciuta alla camminatura. Ricadde sul letto.
Era lei…. E gli rientrò addosso l'agitazione della febbre, il respiro gli si fece affannoso, la gola secca. Poi vide delle larve di donna, nude, lascive; si contorcevano in mille modi sotto a' veli del cortinaggio, l'invitavano con le braccia aperte, con gli sguardi procaci….
Era lei…. Allora col cervello in fiamme, e le passioni in tumulto, cominciò a ribattere a uno a uno tutti gli argomenti che da più giorni il suo onore agonizzante metteva in campo per impedir la caduta; scacciò con un'ostinazione feroce il fantasma importuno dell'amico, il fantasma importuno della fanciulla di cui aveva incoraggito l'amore fino all'esaltazione, mostrando di dividerlo. Non una corda vibrava più nell'anima sua all'idea di spezzare que' due cuori…. Lo confessava finalmente non sentiva che per Serafina, non respirava che per Serafina…. n'aveva pieno l'essere! La rivedeva come l'aveva veduta quella tal mattina, correre per il viale, con il vestito a righe bianche e celesti, che l'aria rotta modellava attorno alla sua bella persona, con il petto tremolante sotto a' leggieri veli del fisciù; la rivedeva accoccalata in mezzo ai fiori…. trasaliva nel riprovare le sensazioni del tocco tiepido della sua mano tra 'l fresco degli steli, del solletico irritante de' loro capelli che si sfioravano…. Essa lo schermiva con quel suo sguardo beffardo, sentiva la scala del suo riso argentino… Soffocava.
S'alzò barcollando, prese il cappello, e uscì.
Il tempo si cambiava, vagavano per il cielo delle larghe nuvole grigie: qualcuna passava sotto al sole, e l'oscurava. Egli si spinse per i viali dando delle occhiate acute in qua e in là.
Ma il moto, l'aria aperta, la freschezza dell'ombra; calmarono il suo sangue agitato: portò una mano alla fronte. Manco male, quella terribile crisi era passata; era rientrato in sè stesso, si sentiva saldo di nuovo; provava anzi una vera pena, una certa vergogna d'essersi lasciato vincere. Poche ore ancora e l'amico sarebbe tornato…. Ma alla villa senza di lui non bisognava restarci più: alle strette andrebbe a chieder da pranzo alle Ascenti; si stupiva come mai non ci avesse pensato quel giorno stesso. E vide Rosalia triste, seduta alla finestra, a spiar la strada che serpeggiava fra gli ulivi, con la solita angelica rassegnazione….
—Povera fanciulla! esclamò con un sospiro, poi chinò la testa mestamente.
Una folata di vento squassò le cime degli alberi, sollevò a spire la polvere e le pagliuzze del viale; caddero de' goccioloni che batterono con rumore sulle foglie. Mario si scosse, e guardò in aria: da ponente veniva un tempaccio nero, brontolò un tuono. Egli era vicino al chioschetto e v'entrò per ripararvisi. Sulla soglia si voltò, poi si fece alla scala a chiocciola, salì e venne nell'unica stanzetta del piano superiore. Era ammobiliata con un divano addossato alla parete principale, un tavolino carico d'album e di libri, delle sedie di Genova sottilissime.
Si levò il cappello, e lo posò sul tavolino, sedette, prese un album, e l'aprì a caso. S'era abbattuto in un'incisione che rappresentava una donna a cavallo, ferma in mezzo alla radura d'un bosco: appoggiava il gomito sul ginocchio, posava la guancia sulla palma della mano, fissava gli occhi pensosi nel vuoto, come assorta in un profondo dolore. C'era scritto sotto: Le dernier rendez-vous.
Senza sapersene spiegare la causa, egli provava una dolce commozione nel contemplare quella figura di donna afflitta: l'atteggiamento gli pareva indovinato; vi si leggeva un romanzo. Lei era stata una giovinetta bella ed elegante, che il caso, l'inconsideratezza, o la ferrea volontà de' suoi, aveva legato a un uomo ricco, ma d'indole, di principi, di sentimenti affatto opposti, e perciò non atto a comprenderla. S'era imbattuta nell'anima sorella, nell'uomo che sapeva apprezzare al loro giusto valore i tesori d'affetti che racchiudeva il suo cuore ancor vergine, e lo aveva amato. Ma il marito era venuto a interrompere i loro sogni di paradiso, s'era gettato brutalmente in mezzo alla loro felicità…. Forse aveva avuto de' sospetti…. la menava via. Ecco perchè aspettava l'amante con quell'aria così desolata. Povera colomba!…
Uno scoppiettìo sul tetto di legno venne a distoglierlo da que' pensieri: chiuse l'album, s'alzò mettendo un sospiro, venne alla finestra, e guardò di dietro a' vetri…. Trasalì! Cadeva una grandine minuta, sotto a quella, Serafina correva verso il chioschetto, rialzandosi le gonnelle a due mani. I nastri neri del suo capellino di paglia a larghe tese, svolazzavano al vento; il grembiule di seta nera, le cui cocche erano infilate dentro la cintura, era pieno di fiori; ne uscivano dai due lati, e cadevano per terra. Il giovane stette un istante a divorare con gli occhi quella figura seducente, poi a un tratto, senza considerar bene quel che facesse, come seguendo l'impulso d'un istinto, corse a serrar l'uscio, e vi restò vicino, appoggiato alla parete: ascoltava con un dito tra le labbra, rattenendo il respiro. Pareva che il cuore gli volesse saltar fuori dal petto.
Sentì i passi di lei nel piano di sotto, li sentì per la scala a chiocciola…. Si scosse l'uscio due volte, a brevi intervalli.
—Curiosa! esclamò Serafina. E dopo un poco: Bravo! bravo! vedo il vostro cappello sul tavolino. Cavaliere, aprite; lo scherzo questa volta non è riuscito.
Guardava certo per il buco della chiave. Non c'era che fare.
Il giovane andò ad aprire: era turbatissimo. Serafina entrò frettolosa, tutta gaia, ridendo. Non era stato scaltro abbastanza…. se voleva farle uno scherzo….
Ma lui protestò balbettando. No, davvero…. non voleva farle uno scherzo… l'acqua l'aveva colto mentre passeggiava, s'era riparato nel chioschetto, nelle cui vicinanze si trovava: aveva chiuso per distrazione…. poi s'era messo a sedere, aspettando che cessasse di piovere. Assorto in pensieri, non aveva sentito il rumor de' passi….
Lei seguitava a ridere, lo guardava con una certa incredulità. Anch'essa era scesa in giardino; voleva cogliere de' fiori per metterne un mazzo a tavola: la grandine l'aveva colta, era tutta bagnata.
In questo mentre s'era slogato il grembiule, e aveva buttato i fiori sul divano: s'esalò un odore acutissimo, un misto di vaniglia, di garofani, di gelsomino, di malva d'Egitto. Si levò il cappellino, e lo posò su una sedia; poi arcuate le braccia, si mise a ravversarsi i capelli, messi un po' in disordine dalla corsa. Parlava sempre, interrompendosi con un certo riso, come se le facessero il solletico. Certo dei granelli di grandine erano entrati nella goletta del suo vestito; vi si liquefacevano, sentiva qualcosa scorrerle giù per la pelle…. brr, che freddo.
E introdusse delicatamente il fazzoletto nell'imbusto, e se lo passò a più riprese sul petto. Dunque, voleva farle uno scherzo; lo negava inutilmente, era uno scherzo che voleva farle. Non bisognava lasciare il cappello sul tavolino allora…. che bamboccione.
Egli la guardava muto, con uno strano sguardo.
—Che avete?… Il poverino è diventato di sasso! Via, asciugatemi le spalle piuttosto…. da me non ci riesco.
E cavato fuori il fazzoletto dal petto glielo porse. Il giovine lo prese, e cominciò a passarlo sul vestito, premendovelo con la mano tremante.
—Qui, diceva lei accennando. E lui ubbidiva.
—Qui. E lui ubbidiva.
La mussolina era trasparente; lasciava intravvedere le spalle, e il petto d'una bianchezza marmorea, le braccia con una leggiera peluria bionda. Un profumo inebbriante s'esalava dal suo corpo giovine; quel fazzoletto tiepido, uscito allora allora dal suo petto, scottava le mani di Mario…. Si sentì stringere la gola…. la sua ragione s'offuscò…. Corse all'uscio e mise il paletto.
Serafina si voltò bruscamente.
—Perchè serrate? domandò spaventata.
Ma il giovine non rispose: s'avanzava verso di lei, pallido, risoluto.
X.
Ebbrezze, e tormenti crudeli; trepidazioni e speranze; rimorsi e ribellioni; pronte risoluzioni, distrutte da non men pronti pentimenti; si divisero l'anima di Mario per alcuni giorni. Ma sul bel viso di lei non si contrasse un muscolo; vi si leggeva la placidità dell'innocenza, come se l'adulterio non v'avesse impresso un marchio di vitupero. Era più gaia, più ciarliera del solito. Una volta arrivò al punto di far l'imbroncita col marito, a proposito d'una bella ragazza, figlia del curatolo di Biavalle, ch'egli raccontava, guardando la moglie con un sorriso fine, avergli fatto sempre un mondo di gentilezze: e a Mario che la guardò stupefatto, essa dette un'occhiata lunga e ardente, una vera occhiata felina.
Non rumori, non trepidazioni, non pentimenti; nemmeno un senso di pietà per l'uomo che l'aveva beneficata! provava la soddisfazione d'essere finalmente riuscita nel suo intento, attaccando al suo carro Mario, un nobile, innamorato per di più d'una graziosa fanciulla; il piacere d'aver sollevato un velo a cui non era permesso toccare. Ciò che, con Eva, ha spinto sempre tutte le donne ad assaggiare il frutto proibito. E a poco a poco, e per l'abito alla colpa, e perchè ammaliato sempre più dai vezzi della sua complice, e per l'esempio di tanta sua indifferenza e arditezza, e per il desiderio di godere anche lui i piaceri cocenti di quell'amore, senza l'amaro di molesti pensieri, nell'animo del Furlani venne operandosi un mutamento rapido, che lo condusse a imporre silenzio alla coscienza, con una scrollata di spalle; e se questa non bastasse, a imbavagliarla con la solita massima «il mondo è andato sempre così.»
S'univano due o tre volte al giorno nel chioschetto, si baciavano a ogni passo sotto gli alberi del giardino, o coltivando i fiori. Il timore di potere esser veduti accresceva a mille doppi la voluttà di quegli abbracciamenti, anzi in quell'occasione, essa aveva un certo modo di guardarsi attorno spaurita, fatta pallida a un tratto, che all'amante piaceva assai.
Il marito, sempre dedito agli affari, non scendeva in giardino che rarissime volte; la serva, sopraccarica di lavoro, aveva tutt'altro per il capo che di divertirsi a passeggiare; il cuciniere preferiva la via de' Ficarazzi, in giardino non c'erano taverne. Solo il giardiniere ci veniva una volta alla settimana, per lo più di sabato: dava l'acqua alle piante, rastrellava le foglie e i ghiajottoli de' viali, sarchiava l'aiuole, trapiantava dei fiori dove ce n'era difetto. Essi lo sapevano, e quel giorno eran più cauti.
Accecati dalle prime ebbrezze della colpa non s'accorgevano però d'un pericolo che stava sospeso sulle loro teste come la spada di Damocle: donna Maricchia. La cameriera era entrata in sospetto, e li spiava dalla mattina alla sera, verde come l'aglio, tanta era la rabbia che se la mangiava dentro. Non le importava tanto del cavaliere che s'era fatto gioco di lei, s'arrovellava maledettamente per la gioia clamorosa del cuciniere, al quale, in un momento di vanità, aveva fatto capire che le cose erano inoltrate.
—Signora cavalieressa! le diceva ora a tutto pasto quel figliuol d'una buona donna: e le dava dell'eccellenza, e la faceva un inchino canzonatorio, e poi si teneva le costole dal ridere…. L'avrebbe strozzato!
Ma non potendo, si sfogava sputando veleno contro la padrona. Oh, la femminaccia! non era credibile! Non aveva camicia quando la sposò il padrone, e lo ricompensava a quel modo quel povero signore! bisognava che l'avesse nel sangue la cialtrona…. E lui, che bell'amico! Un bell'ambo davvero!
E sfilava la corona senza badar punto che ci fosse a sentirla: sicchè ben presto, come suol succedere, il segreto di pochi diventò il segreto di molti.
XI.
Intanto, con l'entrar del mese di giugno, sull'uomo d'affari già bastantemente affaccendato, cadevan nuove faccende: quell'anno spirava l'affitto del zu Vito Sala e socio. Tutti i nodi vengono al pettine, anche quello c'era venuto finalmente. E il guaio era che i fittaioli ora avevan da fare col figliolo, assai diverso dal padre: nemico giurato di qualunque bindolo o soverchiatore, non aveva paura, il suo genio era per la campagna, era risoluto a levar loro i giardini, e coltivarli a conto proprio. E que' galantuomini che lo conoscevano, cominciarono a darsi attorno inquieti: e tasta di qua, e domanda di là, vennero in chiaro di qualche cosa.
Però fecero i furbi, finsero di non darsene punto per intesi. Solamente un giorno…. così…. incontrando il proprietario per caso…. gliene fecero una parolina.
Striati la pigliò larga: fece capire che c'era ancora tempo, egli non era ben risoluto sul da fare…. si dovevano visitare i giardini, osservare come li avevano coltivati, se ci avevano fatto quelle piantagioni alle quali s'erano obbligati nell'atto di fitto…. allora avrebbe potuto dare una risposta.
I fittaiuoli ricambiarono un'occhiata.
Epperò, quindici giorni dopo, il zu Vito si presentò allo Striati. Per bocca d'un tizio aveva saputo ch'egli voleva mettere i giardini all'asta, sperando un aumento. Lui veniva, benchè non ci fosse convenienza, a buttar cent'onze sul fitto…. Era proprio perchè ci aveva affezione a que' giardini, c'era stato dodici anni! che quanto a guadagno non ce ne aveva avuto mai. Ora erano gli ulivi che non ne facevano una maledetta, a causa delle brinate, ora le vigne, ora i frutti, ora il santissimo diavolo, Dio glielo perdonasse! il prezzo degli agrumi era calato di molto, i sommacchi non li volevano nemmen regalati.
Allora il progettista non si tenne. Cominciò a parlare per sommi capi dei nuovi modi di cultura, enumerando le diverse forme d'aratri, accennando all'estirpatrici e alle trebbiatrici; dei letami, non dimenticando il guano del Perù; degli allevamenti de' vaccini con pale di fichi d'india, e l'erbe conservate fresche, nelle fosse, a strati col sale; poi, scendendo agli agrumi, disse che voleva sbarbare tutti gli aranci, e mettere in vece limoni; a far ciò, secondo lui, c'era un vantaggio enorme: se ne spremeva il sugo, e s'imbottava, se ne salava la polpa in barili, s'estraeva lo spirito dalle bucce: si mandava il tutto in America dove ce n'era gran richiesta. Disse delle nuove fabbriche per magazzini, che voleva far alzare; de' pozzi artesiani, che voleva fare scavare; e dopo una buona mezz'ora, concluse che i giardini non li dava più, li coltivava a conto proprio. Non perchè fosse scontento de' fittajuoli…. tutt'altro…. ma perchè voleva far gli esperimenti de' nuovi modi di cultura, mediante i quali era sicuro che la sua rendita doveva raggiungere la rispettabile cifra di cinquanta mila lire all'anno.
Il Sala, che l'aveva ascoltato pazientemente, capendo poco in tutti que' garbugli messi fuori con tanto calore, si fece verde come l'aglio; i suoi occhiacci mandarono un lampo sotto alle sopracciglia irsute; ma li abbassò subito di traverso come suo padre, buon'anima, e parve che si calmasse. Fece il maravigliato.
—Coltivare i fondi a conto proprio!… lasciamo andare co' nuovi sistemi, che, col buon permesso dell'eccellenza vostra, io ritengo invenzioni del diavolo, venutoci dalla Talia, col Cacò, col _telegranfa_¹ ed altre porcherie simili per rovinare la povera gente…. ma con quelli che abbiamo appresi dai nostri nonni…. è una bagattella! ci vogliono danari a palate, e a fare assai, si può riprendere le spese. E poi, o che son per i signori questi sopraccapi? i signori nascono per starsene nelle camere, mangiare, bere e dormire; vostra eccellenza può farlo meglio degli altri; che è ricco, e non lesina sullo spendere. Passa il suo inverno a Palermo, la buona stagione in villa, dove è sempre il padrone, e può divertirsi come crede, senza impicci…. e con la massima sicurezza…. c'è chi veglia sull'eccellenza vostra…. È una gran bella cosa potere stare in campagna rispettato come Dio in persona…. senza ricevere smacchi da nessuno…. senza metter fuori un soldo…. che per la madonna, nessuno deve manco pensare a fargli un torto sinchè i Sala calpesteranno le sue terre! Ma tutte queste chiacchiere non approdarono a nulla. Striati aveva proprio messi i piedi al muro.
¹ Dell'Italia con la strada ferrata, col telegrafo….
Il zu Vito uscì calmo in apparenza, ma la rabbia se lo mangiava vivo.
—Vuoi levarmi il pane, borbottava tra' i denti, vuoi levarmi il pane…. bada a te, carogna, ti leverò la vita!
Era quel tal figlio del curatolo Sala d'Altavilla, giustiziato per avere ucciso barbaramente un padre di sette figli, il quale gli aveva fatto una testimonianza contraria in una causa per un limite divisorio. Al sessanta, profittando di que' momenti d'anarchia, con una combriccola di bricconi pari suoi, assaltato nel cuor della notte il monastero delle Benedettine, avevano violato le più giovani tra quelle infelici, e fatto un grosso bottino. Quietatesi le cose, non spirando più buon vento per lui, gli era parso giusto espatriare, ed era venuto a' Ficarazzi, dove s'era dato al commercio degli agrumi. Non passò molto che si fece scorgere anche lì. Ma un tratto si mise a fare il bacchettone: comprò una lunga corona, prese un'aria di collotorto assai strana in quella sua faccia da lupo, bazzicò in chiesa dalla mattina alla sera.
Che il diavolo si sia fatto santo? pensavano nel paese; ma con uno storcer di muso ognuno mostrava la sua incredulità. Via, non ci poteva esser stoffa di santo in quella birba! E si stillavano il cervello inutilmente. Si capì tutto però quando sposò la sora Vincenzina, un tocco di ragazza nera come la pece, nipote e ganza del canonico Di Lorenzo dicevano le male lingue. Fu con i quattrini che gli lasciò il vecchio avaro che prese in affitto i giardini dello Striati, i quali ora avrebbe potuto quasi comprare, tanto ci aveva guadagnato!
Il zu Vito scendeva le scale lentamente, con le mani dietro la schiena, ruminando nell'anima nera pessimi disegni, quando incontrò la cameriera che veniva dalla cucina col caffè caldo, per servirlo al padrone che soleva prenderlo a quell'ora. Gli venne in idea di parlar della faccenda alla signora…. Da che mondo e mondo le donne hanno avuto molto potere sugli uomini: egli voleva evitare…. sinchè fosse possibile….
Pensò chieder di lei alla cameriera.
—Buona sera, donna Maricchia.
—Serva sua, zu Vito.
—Devo parlare alla padrona, sapreste dirmi dove potrei trovarla?
—Oh, ci vuol poco! è nel giardino col cavaliere.
Nel tono con cui donna Maricchia disse quelle parole, in un certo atto che fece con la bocca, c'era qualcosa d'ironico che non sfuggì a vecchio furbo: e un pensiero ratto come un lampo balenò nella sua testaccia.
—Il cavaliere…. riprese facendo il nesci, è forse quel zerbinotto tutt'attillato, con i baffetti neri, che, si dice, sia un palermitano amico del padrone?
—Già, è lui…. un bell'amico davvero!!
Poi s'avvicinò al vecchio, gli posò una mano sul braccio, e, abbassando la voce, seguitò.
—Devo andarmene, che il caffè si raffredda…. ma certune, m'intend'io, vorrebbero esser squartate vive!… vorrebbero esser squartate vive!
E si fece a salire, barbottando: squartate vive!… squartate vive!…
—Santo diavolo! pensava il fittaiuolo seguitando a scendere lentamente. Ora guarda!…
—Basta, tutti così questi galantuomini!
E fece un gesto chiudendo l'anulare ed il medio.
Il mafioso, come suol succedere, aveva dimenticato le sue.
Egli dovette certo mutar pensiero, poichè non andò più a trovar la signora per parlarle dell'affare, come aveva ideato poco prima.
XII.
Da quella sera in poi chi si fosse trovato ne' dintorni della villa, avrebbe veduto delle novità strane: Brasi Sala il figliuolo del zu Vito, e il socio Lalla, si aggiravano attorno alle mura del giardino, fingendo di cercare delle erbe; di quando in quando davano degli sguardi in qua e in là, poi uno s'allontanava prendeva la rincorsa e con un salto s'aggrappava alla cresta del muro, si sollevava pian pianino sui polsi, e affacciava quel tanto della testa ch'era necessario per potere veder dentro senz'esser visto. La sera era l'istesso armeggio; però quello che prendeva la rincorsa faceva lo slancio più forte, saltava a cavalcione del muro, spiava nell'oscurità, con l'orecchie tese, e si calava dall'altro lato. Il compagno restava ad aspettare appiattato. Quello stava nel giardino due o tre ore, poi ne usciva dell'istessa maniera.
Ciò durò alcuni giorni.
Una mattina il zu Vito Sala andò in casa del notaro Anselmi.
—Il notaro? domandò alla serva ch'era venuta ad aprirgli.
—Non c'è.
—Dove potrei trovarlo?
—Al Casino di compagnia, o da don Perico Spada.
Il vecchio andò da don Perico, poi al Casino; e data un'occhiata dentro la sala, e veduto il notaro che giuocava, aspettò che alzasse gli occhi, e con l'indice aperto gli fece segno che voleva parlargli.
Il notaro lasciò la partita, s'alzò premurosamente e uscì.
—Devo parlarle, gli disse il mafioso. Vengo da casa sua; sarebbe stato mio dovere aspettarla, o tornarci… ma ora che lo trovo qui…. la cosa è d'urgenza….
Ma il notaro, dimenando la sua piccola persona, si sbracciò in complimenti. Non faceva bisogno di scuse, gli dispiaceva anzi che il zu Vito si fosse incomodato…. lo sapeva, egli era tutto per gli amici; per lui poi si sarebbe gettato in mare.
E fattosi serio a un tratto, restò con la testa un po' inchinata sulla spalla, in atto di chi ascolti col più vivo interesse e con la massima attenzione.
Il zu Vito si carezzò la bocca, poi gli raccontò come s'eran passate le cose tra lui e Striati, e lo pregò che volesse andar da quest'ultimo, a fargli intendere ragione.
—Sicuro…. principiò il notaro tutto indignato. Ma l'altro l'interruppe.
Parlò delle cattive annate, del poco o nessun guadagno, concluse che duecent'onze, benchè non ci fosse proprio convenienza, sul fitto ce li voleva buttare; ci aveva affezione a que' giardini, eran dodici anni che ci stava….
—Sicuro!…
—Del resto il padrone si levi di testa quelle pazzie di macchine e modi nuovi di cultura, se non vuol ridursi con una canna in mano.
—Sicuro!… Ci anderò io…. glielo metterò io il cervello a posto a quel matto! Levarsi i giardini per coltivarli a conto proprio! oh, lo stravagante! Egli non lo sa che ci vuole per far ciò…. non ci basterebbe una miniera. E poi, quando si trova uno tanto buono da farvi guadagnare duecent'onze all'anno; mille e duecento in sei anni!
E via di questo tenore, incoraggito de' segni d'approvazione del mafioso, del quale aveva sempre avuta una paura maledetta.
E l'indomani entrò nello scrittoio dell'amico come una bomba: non gli diede tempo d'aprir bocca. Era pazzo!!.. voleva levare i giardini ai Sala e al loro socio Lalla!!.. Lo sapeva con chi aveva da fare? I Sala madrandini di padre in figlio, Lalla poi una tigre nata sputata; vero degno allievo di quel brigante di suo zio che l'aveva preso con sè sin da quando era piccino. «Ammazziamolo» questa parola aveva sempre in bocca quel tristo, e ammazzava davvero anche per un nonnulla…. figuriamoci!… Striati faceva male ad impuntarsi. Egli aveva veduto il Sala il giorno avanti; gli era parso brutto in faccia…. poteva succedere qualche guaio.
Nino lo guardava sorridendo, senza parlare.
Anselmi s'avvicinò, posò le mani sul piano della scrivania, si curvò appoggiandovisi, e continuò:
—Sorridi?… Quando il principe Torres s'incornò a voler coltivare i suoi fondi a conto proprio, gli amici glielo dissero, bada a quel che fai! Ma lui stimò bene fare il sordo. Prende il primo curatolo: bomm…. una schioppettata tra fichidindia, e cade senza poter dire, aiutatemi Cristo! Ne prende un secondo: non doveva essere un minchione quello lì, eh! eppure una mattina che non era ancor giorno chiaro, mentre andava sul posto dove l'aspettavano i giornalieri per mettersi al lavoro, bomm…. una schioppettata di dietro a un muro, e cade anche quello. Chi fu? Vattel'a pesca. Il principe prende un terzo curatolo: era un Beato Paolo che non aveva paura nemmen di Dio: tant'è il terzo giorno gliel'ammazzano! Il risultato fu che quel signore non trovò più curatoli, egli non potè più stare a Palermo, e i fondi restarono incolti. Dovette venderli con gran perdita, e se non li comprava il zu Deco Zara, un osso duro quello, non so come il principe se la sarebbe potuta cavare.
Il povero colonello Verrone, continuò l'Anselmi, dopo un breve silenzio, un po' più animato perchè stizzito dall'eterno sorriso dell'amico che lo guardava sempre senza parlare, levò i giardini ai Manfrici: aveva ragione da vendere; erano affittati per mille e quattrocent'onze, e n'avrebbero potuto dar due mila per lo meno. Usciva poco, mai la sera, stava sempre guardingo. Chiusosi nella camera da letto, qualunque cosa succedesse, non apriva se la serva, una vecchia che stava con lui da trent'anni, non gli facesse il segnale convenuto tra loro: eppure una mattina fu trovato ucciso nella camera da letto!… Il Singardi….
—Li so questi fatti, amico mio, interruppe il giovine con perfetta calma; e appunto per questo levo i giardini ai Sala e compagnia bella.
Il notaro non s'aspettava una risposta simile; meno poi fatta con tanta calma: era le mille miglia lontano dal supporre un uomo di ferro in quel mingherlino: e sì che l'aveva frequentato! Lo guardò sbarrando tanto d'occhi, e con un, oooh! uscitogli proprio dall'anima: e Nino si contentò d'accennar di sì col capo a due riprese.
—È pazzo! continuò l'Anselmi come se parlasse a sè stesso.
—No che non son pazzo.
—Tu vuoi dunque…. Ma via, via, bando agli scherzi; accomodo io la cosa, e con tuo vantaggio: duecent'onze all'anno di più te le fo dare…. per sei anni, fan mille e duecent'onze: proprio mille e duecent'onze trovate…. quel che si dice trovate.
—Nè duecento, nè quattrocento: non è per questione d'interesse che non voglio affittar più i miei fondi. La ringrazio sempre però….
—È forse per le tue solite ubbie d'innovazioni?… interruppe il notaro, che cominciava a scaldarsi.
—Oibò!
—Perchè dunque?
—Perchè…. perchè non voglio.
—Questa non è una buona ragione, e non me n'appago.
—Ma non capisce dunque che quella gente vuol farmi commettere una viltà, ed io non son uomo da commetterne? gridò il giovine animandosi ad un tratto e dando un pugno sul tavolino.
—Una viltà!
—Mi pare.
—Ma nossignore, strillò l'altro più forte, nossignore: perchè aumentano duecent'onze all'anno sul fitto. Tu cedi a un vantaggio, non alla forza.
—L'han saputo abbindolar bene a quel che pare! rispose Striati ritornato calmo, e scrollando il capo. Stia a sentirmi un po'…. Ma sieda prima di tutto, mi fa pena vederlo all'impiedi. Col volere imporsi, con le minacce….
—Ma figlio mio, proruppe il notaro rosso come un gallo, unendo le palme, chi ti ha detto che que' signori vogliono imporsi, chi ti ha detto che abbiano minacciato! ma…. ma…. ma…. Que' tuoi scartafacci ti han fatto uscir di cervello, e sogni un mondo di sciocchezze, santo Dio!… Poi continuò strascicando le parole: Sala venne da me ieri, mi disse umilmente, e con il massimo rispetto, che ti pregassi a non volergli levare i giardini.
—È che lei non li conosce que' birboni, non l'ha studiato come l'ho studiato io.
—Parla tu dunque che li hai studiati, e li conosci, riprese il notaro stringendosi nelle spalle.
—Sì, io che li ho studiati e li conosco! Hanno il miele in bocca ed il coltello a cintola…. A sentirli son poveri diavoli, servi umilissimi del proprietario a cui danno dell'eccellenza: vogliono i giardini perchè ci hanno affezione, e non per idee di guadagno; non ce ne hanno avuto mai. Poi con frasi smozzicate, che pare cadan nel discorso e non ci sian messe ad arte, vi fan capire che dovete fare quello che vogliono loro. Siete stati rispettati, e non lo sarete più, sicchè non potrete venire con sicurezza nelle vostre proprietà; non vi sono state imposte taglie, e vi s'imporranno; non s'è attentato alla vostra vita, e vi s'attenterà!… Canaglia! pretta canaglia!… Ah, son mafiosi? ma lo sarò anch'io se mi mettono con le spalle al muro! Ah, sparano a tradimento? non li temo; mi circonderò d'uomini fidati e coraggiosi, che pagherò bene…. gli darò quello che dovrebbero rubarmi quei ladroni! mi guarderò e ce la vedremo. So sparare anch'io, non credano, anch'io so sparare! E acceso di sdegno, girava intorno uno sguardo terribile, come se già avesse di fronte i Sala e il Lalla.
Il notaro s'accorse troppo tardi d'aver preso un bel granchio nel supporre che avrebbe ottenuto il suo intento più facilmente col metter paura a quel diavolo: tuttavia cercò di rimediare alla meglio. Si strinse nelle spalle. Quelli eran discorsi che non avevano nè capo nè coda: egli voleva ostinarsi a credere che i fittaioli volessero imporsi, avessero minacciato: ciò, glielo ripeteva, non risultava da quello che gli aveva detto il Sala il giorno avanti. Era stato il miglior amico del vecchio Striati, voleva bene a Nino come a un figliolo…. lo sapeva nascere: per questo era entrato in apprensione, e aveva parlato di que' tali fatti deplorevoli…. lo sapeva ch'egli non era uomo d'aver paura; però lo pregava per l'amicizia che lo aveva legato al padre suo, per il bene che gli voleva, a desistere da quel proposito.
Nino scosse il capo risolutamente.
—No, disse poi, non posso. A lei han parlato con moderazione e umiltà, a me han tenuto un discorso misto, nel quale non furono risparmiate allusioni e accorte minacce…. So anche quello che fecero con mio padre. I fondi sono miei, ne posso disporre secondo il mio talento: nessuno ha il diritto d'impedirmelo. Se le condizioni dei proprietari nell'agro palermitano e suoi dintorni sono deplorevoli assai, di chi è la colpa se non degli stessi proprietari? Han cominciato con aver paura, si sono affidati a malfattori per difenderli da' malfattori….
—Sfido io! bisogna pure che ci vada uno ne' suoi fondi: e quando non può diversamente….
—Ah!… per carità non dica di queste cose: il bel risultato che hanno ottenuto! i protettori han capito con che razza di gente avevano da fare, n'han profittato; si sono associati, e a poco a poco i veri padroni son diventati loro…. ciò mi pare che si chiami cader dalla padella nella brace. A costoro bisogna mostrare i denti, o guai…. Io glieli mostrerò! soggiunse poi risolutamente.
Nemmen per quest'altra via arrivava allo scopo il povero notaro; e non sapeva proprio a che santo votarsi. Il guaio era che provava una paura ladra, alla sola idea di dover dare una risposta negativa a quell'uomo che aveva ritenuto sempre una tigre pronta a slanciarsi addosso a chi nulla nulla lo contrariasse.
—Tu gli mostrerai i denti? disse.
—Glieli mostrerò.
—E che otterrai?
—Non lo so, rispose il giovine malinconicamente: forse la mia arditezza scoterà gl'inerti….
—Idee che non stanno nè in cielo nè in terra, amico mio: invece ti daran del pazzo…. qualcuno si restringerà a darti dell'imprudente, ecco, e tutto morirà lì…. E a te resterà il male e il malanno e l'uscio addosso. Ma dimmi un poco, continuò poi unendo l'indice e il pollice a mo d'anello, o come si potrebbe qualificare altrimenti uno che, ammesso ci sia una potente associazione la quale colpisca nell'ombra avendo quasi sempre l'impunità, pensi di volerla combattere solo? Vuoi far tu, quello che non han potuto fare le leggi coadiuvate da tutto quel complesso di forze che si chiama giustizia?
—Lo so: ma se a questa giustizia gli si agevolasse la via; se, come è debito d'ogni buon cittadino gli si desse una mano….
—Già!… un bel metodo quello per buscarsi una schioppettata dietro la schiena!
—Oh!… ma se per fare il proprio dovere si badasse al danno che ne potrebbe venire….
—Nino…. dimmi quel che vuoi, ma non tutti hanno questo coraggio. E qui si voltò, guardò intorno in aria spaurita, e quasi temesse che alle mura e a' mobili spuntassero le orecchie, abbassata la voce in modo che Striati stentava a sentire, seguitò:
—Dai retta a me, lasciamo le chiacchiere da parte…. la nostra condizione è terribile, pur troppo terribile: e noi non possiamo farci nulla…. nulla! Che ne vuoi! il proverbio siciliano dice: il pesce puzza dalla testa: e questo è il caso nostro. Come non si pensa a riformare una polizia inetta in tutta l'asserzione del termine!… Come s'abolisce in fatto la pena di morte che esiste in dritto, quando si tratta di certe tigri che meriterebbero peggio! come s'abolisce! Come si farebbe grazia a un parricida, come si fa grazia agli assassini di Catalfamo! È generoso l'atto, ma non fa al caso. L'indulgenza, dove ci vorrebbe il massimo de' rigori. Intanto la si mantiene per i militari! eh via!… Meno male se ci fosse un'isola qualunque in Affrica o in Oceania, dove si potessero deportare tutti questi birboni: sarebbero come morti per la società non solo, ma una tal pena sarebbe salutare per gli altri, incuterebbe un vero terrore…. E guardatosi un'altra volta intorno, soggiunse: basta, non è il caso di discutere di codeste cose….
E ripreso il tono naturale della voce:
—Nino, te ne prego…. te ne scongiuro….
—Senta, non insista più oltre…. mi fa proprio pena dover negare a lei qualche cosa per la prima volta in vita mia…. ma non se n'abbia a male. Non desisterei dal mio proposito non dico se n'andasse la mia vita, ma quella di mia moglie, de' miei figlioli, se n'avessi…. se anche sapessi che col desistere farei ritornare in vita mio padre e mia madre!
Che fare? Andarsene. E questo fece il notaro, maledicendo in cor suo i coraggiosi e gli ostinati.
Stette in agitazione tutto quel giorno e la notte, e non si risolvè di scrivere al zu Vito che l'indomani dopo aver desinato. Via…. non si fidava proprio di dargli quella risposta a voce.
XIII.
Cominciò lo sparo di mortaretti, a brevi intervalli, poi di seguito con un rumore assordante; il sagrestano dava nelle campane: nella piazza alcuni si scoprirono, altri si scoprirono e s'inginocchiarono; qualche spirito forte continuò a passeggiare col sigaro in bocca e 'l berretto in capo dando sguardi di disprezzo in qua e in là. In chiesa il prete benediceva con la piscide una folla di lavoranti e di donnicciole, che prostrati nell'oscurità cadente dalle volte altissime, si battevano il petto con sonori pugni, gemendo dei mea culpa tra i sospiri.
S'aprì la porta principale, e la folla venne fuori coprendosi: parte si sparse e si formò a capannelli nella piazza; parte, in ispecie le donne e i fanciulli, cominciò a sbandarsi e diramarsi per le strade. Giù giù, sulla vetta del Pellegrino stampato nell'immenso azzurro, moriva un raggio purpureo.
Il zu Vito Sala, con la sua lunga corona in mano, comparve l'ultimo sulla soglia; si fermò, si voltò verso l'interno. La sua persona alta, dal cranio senza un pelo e lucente, spiccò qualche minuto ritta sullo sfondo nero dell'apertura: le sue labbra smorte bisbigliarono in fretta le ultime orazioni, si fece la croce tre volte, si chinò a baciar tre volte il suolo toccandolo con le punte delle dita che poi portava alla bocca, tre volte l'altar maggiore, e uscì.
Nel mettersi il berretto in capo dette un lungo sguardo nella piazza come se vi cercasse qualcuno, e si spinse tra la folla lentamente. Al suo avanzarsi era un tirarsi da banda, un salutar rispettoso, un seguirlo con gli occhi, un far commenti sulla sua cera brutta.
Diamine, non era per nulla il decano de' mafiosi!
Egli andò diviato a un gruppo di giovani in mezzo a' quali il suo socio Lalla dava una lezioncina di morale com'egli ne sapeva dare, con stizzatine d'occhi e gesti che spiegavano le parole oscure, e stava concludendo:
—Dunque tenetelo bene in mente, il mondo si compone d'uomini, ominicchi e cucurucù: gli uomini son quelli che non si lascian posar mosche sul naso, che sono amici degli amici, che hanno occhi e non vedono, che hanno bocca e non parlano, che hanno le mani e se ne servono in tutte le maniere; gli ominicchi sono i mezzi mezzi, quelli che non sono nè carne nè pesce: i cucurucù sono gl'infami e cascettoni, quelli che han per vizio di mangiarsi la zucca….¹ mi capite? I primi van rispettati perchè se lo meritano; i secondi non calcolati…. sino a un certo punto; ma i terzi, sangue…. bisogna ridurli al silenzio…. non farli parlare più….
¹ Far la spia.
E con l'indice e il medio della destra tesi e uniti, e col suo più brutto sogghigno, fece una rapida croce in aria.
—Vi raccomando dunque i cucurucù! Del resto il mondo è andato sempre così, sin da' tempi de' nostri protopasti;¹ o che forse Caino non ridusse al silenzio Abele?…
¹ Voleva dire «protoparenti.»
Ma il zu Vito lo toccò nella spalla.
—Col permesso, una parola, gli disse con la sua voce burbera.
—Che faceste? domandò Lalla quando si furono allontanati dalla folla.
—Niente.
La faccia livida e tutta rasa del socio, se togli i pochi peli del labbro inferiore, si rabbuiò, e i suoi occhi neri dai globi tinti d'una sfumatura turchiniccia mandarono un lampo: non fece altro gesto che portare la mano ai peli della mosca e tirarli a rivoltare il labbro.
—Vuole ostinarsi? domandò poi in un certo tono.
—Pare.
E gli disse quel che gli aveva scritto il notaro.
—Bene, rispose Bartolomeo con un sorriso pallido: faccia a modo suo quel signore.
E il Sala che comprese alle parole, e più che altro all'espressione di quel sorriso, borbottò:
—Non è ancor l'ora…. Prima c'è da fare un altro tentativo.
—E quale?
—Andiamo a casa vostra: di queste cose non se ne parla in strada…. Vi dirò solamente: m'avete domandato con insistenza il perchè ho voluto sapere quel che facevano in giardino la signora e il cavaliere; bene stasera vi sarà spiegato.
—Umh…. son storie…. per me non mi ricredo: il vero mezzo è il mio; bisogna adoperar quello se non si vuol fare un buco nell'acqua….
—Non è come dite voi: lasciatevi servire da me che non ho i capelli bianchi per nulla.
Lalla scosse il capo.
Camminarono l'uno vicino all'altro, silenziosi e con le mani in tasca.
XIV.
All'orologio a pendolo tra le due librerie sonavano le nove, allorchè Matteo, il giovane che andava far la spesa e i servizi minuti a' Ficarazzi, entrò nello scrittoio: si levò il berretto, e in punta di piedi, per non disturbare il padrone così intento a scrivere che non aveva nemmeno alzata la testa, andò a posare sulla scrivania le lettere e i giornali. Poi restò a pochi passi di distanza, non arrischiandosi di muovere che i soli occhi, i quali or alzava al soffitto, or posava sullo Striati, or sulle file de' libri luccicanti d'oro dentro le vetrine.
Nino coprì d'una scrittura minutissima l'intero foglio, rilesse aggiungendo qua e là qualche virgola o qualche punto, scosse due volte la testa d'alto in basso in segno d'approvazione, posò la penna, e alzò gli occhi in volto al giovine.
—La posta, disse questi, con quel laconismo al quale l'aveva abituato il suo padrone.
—Bene.
—Ha ordini da darmi?
—No.
—Matteo s'inchinò, e uscì.
Striati prese le lettere e i giornali; mise questi da bando, e s'accingeva ad aprir quelle, quando gliene cadde sott'occhio una di carta grossolana, piegata in quattro, e chiusa con midolla di pane. L'indirizzo fatto con certi caratteracci che parevano arpioni addirittura, era pieno zeppo d'errori d'ortografia.
« Al sigor «Sigor <sc>Antoninno Striati</sc> « Ficarazza.
La voltò e rivoltò tra le mani, facendo un mondo di congetture, poi si strinse nelle spalle e l'aprì.
Era corta, ridicola, ma fulminante.
«SIGOR DON ANTONINNO,
«E becco! becco! vostra mogle vi fa li corna con lo vostro amico, tutti lo sanno e voi non venne accorgite o fate finta di non venne accorgere, si baciono tutto il iorno sotto l'arvole del iardino si oniscono ogni sera nel cirschetto cinise e vi saloto!!!!
N. N. che timpira le pinne.»
L'infelice sbarrò gli occhi e si fece bianco come un morto; parvegli come se una mano di ferro gli avesse abbrancato il cuore e cercasse di stritolarglielo. Felice, immerso sino ai capelli nei suoi sogni…. che colpo! che risveglio crudele!
S'alzò vacillante.
Essa lo tradiva, essa lo tradiva…. ed egli sentiva di amarla come un forsennato!… E l'altro…. il suo migliore amico, quegli che aveva beneficato tante volte! Aah!…
S'appoggiò al tavolino con tutt'e due le mani, e restò per un pezzo immobile, con gli occhi stupidamente fissi e il viso contratto.
Essa lo tradiva…. essa lo tradiva….
Tutt'a un tratto si scosse, rilesse la lettera, e la spiegazzò tra le mani convulse….
Ma qui un filo di speranza venne a fargli circolar di nuovo il sangue liberamente, a sospender le angosce che dilaniavano il cuore di quel disgraziato.
—La lettera è anonima, balbettò. Oh, se non fosse vero….
Ma non fu che un momento. La lettera parlava chiaro…. di baci sotto gli alberi…. di convegni nel chioschetto…. E queste parole, ch'egli ripeteva mentalmente, erano come tanti ferri roventi ch'entrassero nella sua carne viva. Precisava i luoghi! Dunque chi l'aveva scritta aveva visto, o aveva risaputo da chi aveva visto!…
Si mise a camminare in qua e in là per la camera, agitatissimo.
«Tutti lo sanno!…
Il suo nome dunque correva per le bocche di tutti, tra i sogghigni, e i maligni sottintesi, vituperato dal ridicolo. S'ardiva anche supporre ch'egli facesse le viste di non accorgersene…. Egli!! egli che meditava d'affogare il tradimento nel sangue…. egli, che voleva vederla boccheggiante ai suoi piedi quella donna, che per disonorarlo con più sicurezza, l'addormentava con carezze più tenere, con baci più caldi…. egli, che voleva strappare il cuore dal petto di quell'altro che aveva avuto il corpo della donna sua…. gli toglieva quanto gli restasse di bene sulla terra, lo lasciava senz'amore, senza fede, solo per sempre, disperato….
Ma in questo un passo nella camera vicina fece sussultare tutto l'essere suo: aveva riconosciuto il passo della moglie.
Si fermò, senza pensiero, con gli occhi fissi all'uscio, e nell'attitudine d'una belva che stia per scagliarsi sulla preda. Guai se Serafina fosse entrata!… Ma per fortuna il passo passò oltre. Striati si voltò, stette in ascolto, poi balzò alla finestra, s'appiattò dietro le tende, e spinse uno sguardo feroce nel giardino.
Ei mi disse, io ben rammento Quando in fronte mi baciò….
s'intese cantare in tono appassionato, con certi tremolii nella voce, e poco dopo l'adultera comparve nel viale.
Deh, raffrena il tuo tormento, Non temere io tornerò.
Portava con la solita grazia il vestito a righe bianche e celesti che piaceva tanto all'amante, aveva il capo avvolto capricciosamente in un velo bianco, e s'appoggiava sull'ombrellino come sur un bastone.
Egli la seguiva con gli occhi, la faccia pallida contratta da un sorriso ironico.
Ei piangeva, e col suo pianto Tutto il volto mi bagnò. Ah! Mi stringeva al seno ei tanto, Mi diceva, io tornerò.
La bella donna scomparve tra le piante, la sua voce che s'era fatta via via più debole, si spense in un mormoro. Io tornerò… io tornerò….
Nino si levò dalla finestra, e fece alcuni passi per la camera come un uomo smarrito, quella romanza aveva risvegliato in lui l'eco della felicità passata: gliel'aveva sentito cantare giovinetta, tante volte, nei bei tempi del loro amore, quand'essa era un angelo ancora…. Oh! questo ricordo! In tal momento gli bruciava l'anima più d'ogni altra cosa. E suo malgrado riandò que' tempi, con un tumulto di pensieri rapido sì, ma qua e là particolarizzato…. Quando la vide la prima volta; come nacque in lui quell'amore ch'era stato la vita sua; come crebbe…. come solevano incontrarsi per le scale; com'essa salisse sempre mollemente, seguita dalla mamma, appoggiandosi con grazia sull'ombrellino…. vedeva il suo viso di fanciulla con un leggiero strato di cipria, i begli occhi azzurri ch'essa apriva man mano nel guardarlo, il che gli aveva fatto sempre provare un trasalimento di piacere…. Egli si stringeva al muro per lasciarle passare, e salutava, lei si faceva rossa rossa inchinando il capo, e saliva più in fretta certo per tenerlo meno incomodato…. Rivedeva il salotto della vecchia signora, i mobili un poco frusti, il vecchio pianoforte, e in un angolo la statua in gesso di Napoleone I con gli stivaloni e il solito cappello, con la mano dentro lo sparato della sottoveste…. si rivedeva bendato a correre brancolando verso di lei, sentiva il riso che lei soffocava nel fazzoletto, il fruscio delle sue sottane…. E riandò la dichiarazione d'amore, e la vita beata di promessi, e il matrimonio…. essa era pallida, commossa, divinamente bella e nell'abito bianco sotto al gran velo…. e il paradiso della loro villetta, ora mutato in inferno!… Mario si presentò a' suoi occhi…. Che ricordi terribili! Lui lo presentava a Serafina…. lui gliene parlava spesso…. lui lo portava alle stelle…. lui s'affannava a farlo entrare nelle grazie di lei…. stolto! metteva in quell'anima i primi germi dell'amore!… lui s'adirava quand'essa gliene diceva male…. lui lo ricondusse a casa quando se n'era allontanato…. lui lo invitò a villeggiatura…. lui insistè perchè restasse quando, forse spinto dal rimorso voleva fuggire…. lui!… sempre lui!!… Oh!… ma quale rabbia di distruggere la sua felicità l'invadeva!… chi lo guidava dunque, e con quali fini! chi l'addormentava nella sicurezza tanto da lasciar la donna sua, il suo idolo, la sua unica felicità…. il suo tutto, senz'assistenza, senza consigli, in balia del primo venuto…. chi…. chi l'accecava mentre gli altri vedevano!…
Un'orribile fatalità pesava sul suo capo!…
Sentiva d'impazzire.
Andò a una sedia e vi s'abbandonò: restò immobile, con le mani intrecciate tra le gambe, con il capo basso, fissando gli occhi ardenti al suolo.
Lo si volle ridurre senza scopo dinanzi a sè dunque, senza speranza, circondato da un orizzonte nero, inesorabilmente nero…. Lo si volle assassinare…. Oh, se non fosse vero!…
Ma tanti particolari a' quali non aveva badato prima, gli si presentarono a un tratto con la rigidità dell'evidenza: e un giorno aveva visto questo…. e un giorno quello…. e un giorno avevano fatto questa cosa, un giorno quest'altra… sì che si persuase che non c'era più dubbio.
Allora il suo cuore ulcerato tornò a battere per l'omicidio. S'eran fatti gioco di lui…. l'avevano tradito infamemente…. e aveva levato l'una dalla miseria, trattato l'altro come un fratello, e s'erano uniti per disonorarlo…. non avevano sentito nessuna pietà per l'uomo che gettavano in un inferno di sofferenze:—nemmeno lui n'avrebbe per loro…. no, non ne avrebbe: non si riderebbero più di lui, non se ne riderebbero per dio!!…
S'alzò, andò in uno stanzino dove teneva le armi, staccò da un chiodo una rivoltella nella sua custodia, e se l'affibbiò alla cintola…. Era quasi calmo. Ritornò nello scrittoio, e sonò un campanello: poco dopo comparve donna Maricchia: la cameriera aveva il viso arcigno secondo il solito.
—Il cavaliere?
—È uscito.
—Dov'è andato?
—Matteo l'incontrò nella via de' Ficarazzi.
—Diavolo!… Basta, anderò solo. Dite alla signora che vado a Buonriposo, dall'Anselmi: in caso che tornassi tardi non stia con premura.
Prese il cappello, scese le scale, attraversò il viale principale del giardino, e uscì all'aperto.
Che quiete per la campagna, che limpidezza nel cielo, quanta dolce malinconia su per que' colli che l'ombra veniva invadendo man mano! giù, giù il piano sottostante sparso di paesetti e di ville biancicanti tra 'l verde degli aranci, la distesa azzurrina del mare, sparsa di vele, erano indorati ancora da' raggi del sole.
Lui, camminando a celeri passi come se fosse inseguito, fantasticava dalla vendetta e l'assaporava.
Si fermò su un poggiolo, tra un folto d'ulivi, dal quale si dominava tutta la villa, con le strade che la circondavano.
Di lì poteva osservare senz'esser visto.
Annottava quando si riscosse, e scese a gran passi, con gli occhi che mandavano lampi.
Arrivò alla villa, e vi oltrepassò il cancello: si spinse per i viali cautamente, fermandosi ad ascoltare, con la mano all'impugnatura della rivoltella. Non s'imbattè in alcuno, e potè appostarsi dietro a una siepe, tra un gruppo di rose, di faccia all'entrata del chioschetto. O essi c'erano, e dovevano uscirne, o non c'erano, e ci verrebbero….
Ma sobbalzò: gli era parso di sentire lontani scoppi di risa, e voci confuse…. Impugnò la rivoltella e attese. Le voci s'avvicinarono.
—No, diceva Serafina scherzosamente; e a quel no, seguiva un fruscìo di sottana come di donna che corra…. lui certo l'inseguiva…. se ne sentivano i passi: poi più nulla. Un usignuolo cominciò i suoi soavi gorgheggi nel folto, poco discosto dallo Striati.
—Che succede dunque! pensò angosciosamente: e sentì scorrersi un brivido per tutto il corpo. Che fare?… restare?… uscir di qui e andare a vedere?…
E s'era deciso a mettere in atto quest'ultimo pensiero, quando sentì vicinissimo l'istesso fruscìo di poco prima…. Guardò…. Una donna passava vicino a lui correndo in punta di piedi, leggiera come un'apparizione…. entrò nel chioschetto….
Era Serafina, Nino l'aveva riconosciuta.
Passarono cinque minuti che all'infelice parvero cinque secoli….
La sabbia del viale scricchiolò sotto a un passo…. apparve un'ombra.
—Serafina…. chiamava sottovoce. Serafina….
Era Mario.
—Serafina… Serafina….
Egli passò vicino allo Striati, e s'avanzò verso il chioschetto.
—Serafina….
Scoppiò un riso soffocato, ed un, ah! di contento. Due corpi si confusero sulla soglia…. un mormorio, poi più nulla.
Nino, con uno sforzo supremo di volontà, soffocò un rantolo partitogli proprio dall'anima…. Ogni speranza era finita e per sempre! nel suo petto ora ruggivano l'amore, la gelosia, l'ira, il dolore, con un concerto d'inferno! Ebbe la forza d'aspettare; e si sentiva la demenza nel cervello!… e quando a lui parve ch'era l'ora, balzò di dietro alla siepe come una fiera, andò al chioschetto, avanzò la testa nell'apertura del piccolo vestibolo…. non c'erano. Entrò, salì per la scaletta a chiocciola cercando di fare il meno rumore possibile….
Una spallata all'uscio che andò in frantumi, due urli…. e sei lampi seguiti da sei detonazioni, rischiararono sei volte la faccia livida orribilmente contratta del marito offeso, il gruppo informe dei due amanti rotolantesi.
XV.
Vagò per la campagna tutta la notte. All'alba fu visto in paese, tutt'impolverato, a capo scoperto, con i capelli arruffati e madidi, e due cerchi neri attorno agli occhi. Andava a costituirsi al tenente de' bersaglieri che comandava il distaccamento di Ficarazzi.
XVI.
Quella sera di febbraio il casino de' galantuomini presentava l'aspetto solito.
Il notaro Ballarino faceva l'eterna partita a belladonna con l'avvocato Ambrò, bestemmiando di tratto in tratto, e appiottando pugni al tavolino. Don Illuminato lo speziale predicava contro i rappresentanti del comune (perchè ci avrebbe voluto esser lui rappresentante del comune, dicevano le male lingue) fra un cerchio d'intimi che approvavano ciondolando il capo: egli guardava a volte don Girolamo il cameriere, un galantuomo anche lui, che andava e veniva, con le mani dietro la schiena, e si fermava a dir la sua. Don Mimì, il vice-pretore alto una spanna, sempre col giornale in mano, che lo copriva tutto, e don Sariddo il dottore, don Biagio, sempre infreddato e don Paolino secco come una lanterna, col nasone come una vela, se ne stavano seduti sul divano: essi, sputecchiando in continuazione, aggiustavano l'Europa. La solita brigata di giovinotti parodia della moda della città, parlava di Peppa la serva, o di Caterina la baldracca di via S. Brigida, con certi sghignazzamenti da satiri.
Qualche nuovo arrivato chiudeva l'ombrello e batteva i piedi sulla soglia dell'uscio a vetri per scuoter l'acqua e il fango degli stivali, guardando come un alluccinato. Attorno al fuoco un gruppo d'anziani stavano a sentire a bocca aperta don Santuccio, il quale con quella sua aria di domandar sempre se il mondo fosse a vendere perchè aveva quattro soldi, perorava arrotondando le parole, e dicendo sproposito da can barbone.
I giurati l'avevano assolto, non c'era che dire: la moglie gli faceva le corna, be', egli l'aveva colta in flagrante, l'aveva uccisa, aveva ferito il ganzo: quella sorte d'onte si lavano col sangue….
Gli anziani approvavano gravemente.
Ma perchè ritornare nel luogo dov'era successo il triste dramma! seguitava don Santuccio, chiamando in suo aiuto qualche frasona letta ne' giornali: perchè venire a calpestare quel suolo caldo ancora del sangue di quella disgraziata!… non sapeva comprenderlo.
Allora chi ne disse una e chi un'altra. Era un uomo senza cuore; un sanguinario feroce; un'anima nera; un vero assassino se non era ancor sazio dopo la vendetta!…
Dando addosso a Striati sapevano di far piacere a don Santuccio, il quale l'odiava, come odiava tutti quelli ch'eran più ricchi di lui.
Ma il signor Lavia ch'era entrato giusto allora, e posato l'ombrello e il cappotto s'era avvicinato e aveva sentito il discorso, interruppe quel concerto con il suo fare di me n'impippo, curandosi poco del nababo del paese. Che diavolo dicevano! perchè parlavano quando non sapevano le cose? Quello che accusavano era un disgraziato tormentato dal rimorso, un infelice il quale amava ancora la moglie che aveva uccisa nel primo impeto: ora imponeva a sè stesso una terribile espiazione. Poteva dirlo lui che lo sapeva da fonte sicura, dal notaro Anselmi, figurarsi! Striati non usciva mai di casa, passeggiava innanzi e indietro nello scrittoio dalla mattina alla sera, tanto che aveva già logorato un'intera fila di mattoni…. La notte poi non dormiva: sino all'alba ognuno avrebbe potuto veder la finestra della sua camera illuminata…. C'era anche chi l'aveva visto inginocchiato nel chioschetto sul posto dov'era morta la moglie, si voleva che ci stesse per ore ed ore, curvo con la fronte per terra, versando un fiume di lacrime…. Via, l'amico che aveva messo il lutto e la desolazione in quella casa, era un fior di canaglia!
Don Santuccio storceva la bocca, scrollava il capo: ma nessuno gli badava più, ascoltavan l'altro con gli occhi spalancati.
—In tutto questo chi ci ha guadagnato è stato il zu Vito Sala col socio Lalla, concluse il signor Lavia: Striati era proprio risoluto a levar loro i giardini; ma dopo quel che successe, è chiaro, doveva aver tutt'altro per il capo: dalla carcere stessa mandò una procura ad Anselmi, e fu stipulato l'atto per….
—Sentite questa ch'è classica! gridò intanto don Mimì levando il naso di sul giornale. E s'abbandonò bruscamente sulla spalliera del divano sicchè le sue corte gambette si sollevarono da terra. Ma tutti fecero orecchie di mercante, chi con una spallucciata, chi con un moto impercettibile delle sopracciglia. Era entrato in tasca a tutti quell'ometto finalmente con quella sua smania di voler leggere a ogni costo, come se poi la gente non avesse occhi, o non avesse sentito leggere mai. Lo vedevate dalla mattina alla sera sempre dietro a un giornale, a frugar col naso nelle colonne, stimando classiche tutte le sciocchezze che i redattori avevano buttato giù fra uno sbadiglio e un altro. E il bello era che' esigeva d'essere ascoltato! ma per lo più, non ci coglieva che don Girolamo. Il galantuomo, senza capire un acca di quel che sentiva, calava la testa che aveva troppo pesante, dicevano almeno le male lingue, e l'altro incoraggito, passava sin anche agli annunzi di quarta pagina, permettendosi de' commenti dotti su' cert'acque, su certi rimedi, che spianavano a un beato sorriso il volto appassito e grave dell'ascoltatore.
Però questa volta don Mimì fece il duro. L'avevano a sentire…. a dargliela in mille non avrebbero potuto indovinare la cosa classica che gli leggerebbe…. proprio non l'avrebbero potuto indovinare.
E allora, o che fossero spinti dalla curiosità, o che, prima s'avvicinò uno, poi un altro, poi tutti. Lui, quando l'ebbe visti riuniti, chi in piedi e chi seduto, temendo che non se n'avessero a pentire, cominciò in fretta:
«Vita indorata….»
Nel piacere d'aver un così numeroso uditorio, nella voglia di far presto, non sapeva nemmen più quel che si leggesse: ma qualcheduno rise, e lui si corresse subito arrossendo:
«Vita dorata.»
«Questa sera saranno celebrate le nozze tra la signorina Rosalia Ascenti dei baroni di Roccabruna e il cavaliere Mario Furlani di Traforello….»
Qui ci furono degli oh! di sorpresa con sguardi analoghi e un raddoppiamento d'attenzione: e il vice-pretore, tutto contento di quell'effettaccio prodotto, lanciò un'occhiata come per dire: ve l'aveva detto io? Poi seguitò:
«Chi conosce gli sposi consentirà con noi che nella vita coniugale troveranno tutte quelle felicità che da sinceri amici loro auguriamo. La cerimonia avrà luogo circondata dalla più splendida pompa quale si addice al casato dei fidanzati. Abbiamo avuto occasione di ammirare il ricchissimo corredo della giovane sposa e ne siamo rimasti sorpresi! Tacciamo delle splendide tele di Svizzera, Inghilterra, Napoli, Firenze, degli ammirevoli ricami, dell'eleganza degli abiti, ma non possiamo non ricordare fra gli oggetti preziosi un magnifico Bandò e un finimento di brillanti e perle smaltati in argento, dono dello sposo, manifattura dei fratelli Sieripepoli, due ricchissimi solitari per orecchini, dono dell'ottimo marchese della Stella, una elegantissima Broche (don Mimì leggeva broche) di perle e brillanti, dono della baronessa del Friuli, un paio d'orecchini di grossissime perle, dono del conte Calvagno, un braccioletto d'oro e perle, regalo della marchesa di Sant'Agrippina, portante nell'interno un motto d'augurio, un altro braccioletto in brillanti e perle della baronessa del Poggio, un'elegante margherita tempestata di brillanti, regalo della duchessa Ariani, e in fine il regalo del principe di Traforello, consistente in una ricca stella di brillanti il cui splendore può essere solo offuscato dalla grazia e dalla bellezza della gentilissima sposa.
«Gli sposi appena terminata la cerimonia civile e religiosa, partiranno alla volta di Napoli, ed indi si recheranno a visitare le principali città d'Italia.»¹.
¹ Dal Precursore di quel tempo.
SEQUESTRO
I.
Era una ragazza alta, tutta ciccia, bianca e rosa, proprio quel che da noi si dice sciacquata, con un par di begli occhi ladri, e mastro Pasquale n'era cotto davvero. L'aveva chiesta in moglie a mastro Cruciano, padre di lei, un giorno che, tornando da consegnare un paio di scarpe a una contadina che abitava in campagna, l'aveva incontrato solo nello stradale, dietro al suo asinello bianco, con gli arnesi da bottaio nelle bisacce. Il vecchio furbo aveva data una sbirciatina alla bonaca di velluto del giovine, la quale mostrava la corda; al berretto a barca unto e bisunto che gli cadeva sull'orecchio; al cencio rosso, sbiadito, ch'aveva attorcigliato attorno al colletto della camicia d'un colore dubbio; poi gli aveva domandato con un certo tono tra il serio e il canzonatorio:
—Che cosa porti tu a mia figlia, buona lana?
Mastro Pasquale s'era grattata la zucca e aveva risposto un pochino imbarazzato:
—Due tumoli di vigna al Comune, la casa e l'arte, mastro Cruciano, l'arte che val più della casa e della vigna…. lo sapete non sono un cattivo calzolaio.
Il bottaio l'aveva ascoltato, tentennando il capo con un buffo storcer di bocca, poi aveva ripreso:
—Porta aperta a chi porta, e chi non porta parta. E contando sulla punta delle dita, aveva continuato; sulla vigna c'è l'ipoteca di don Liborio, sulla casa pure; in quanto all'arte…. hai fatto forse un contratto con Domeneddio che tu abbia ad aver sempre la salute?
—Avete ragione, mastro Cruciano, fu l'ultima malattia di mia madre che mi rovinò: però…. col lavoro, e un po' di fortuna, ci arriverò a pagare don Liborio…. ci arriverò, credetelo.
—Paga e riparleremo della cosa. E aveva tagliato corto, non volendo saperne altro.
Il giovine innamorato era rimasto in mezzo alla via, acciucchito come se avesse ricevuta una forte bastonata nel capo, poi s'era avviato verso il paese anche lui, con le braccia ciondoloni e il viso lungo un'auna.
Quella sera staccò la chitarra dal chiodo al quale soleva tenerla appesa, s'imbacuccò in un suo cappotto intarlato, e, tutto solo, andò a sfogare la sua pena alla cantonata solita, vicino la casa della bella Carmela, con una canzone di dolore accompagnata di accordi lenti in tono minore.
S'aprì la finestra della camera della fanciulla, e si intese a tossicchiare: il giovine s'avvicinò strisciando lungo il muro, e a voce bassa, nel silenzio della notte, ebbe luogo il dialogo più appassionato che mai. Risultato del quale fu il fermare di comune accordo, che l'indomani sera a tre ore di notte lei scenderebbe con le scarpe in mano, troverebbe lui nella strada, e zitti e quieti farebbe fagotto in barba all'orco che aveva avuto il torto di non comprendere come l'amore se ne infischi di case, di vigne, e anche del diavolo.
Disgraziatamente però, e forse per quest'ultima ragione, il diavolo si piccò a volerci metter la coda: l'orco, il quale aveva il sonno così leggiero che l'avrebbe svegliato anche il volar d'una mosca, a' primi accordi era saltato fuori dal letto, e rassicurata la moglie che s'era rizzata a sedere inquieta, aveva girato il nottolino pian piano, aperto appena lo sportello della finestra senza vetri, e messo l'orecchio in quel po' po' di spiraglio, aveva sentito parte del dialogo dei due amanti, parte n'aveva indovinato. Sì che l'indomani sera mastro Pasquale e 'l cugino Santo Zumboli, che aveva condotto con sè per dargli man forte nella bisogna, se fosse stato necessario, avevano allungato il collo senza alcun profitto. In casa di mastro Cruciano c'era stato l'inferno, e la bella Carmela guardata a vista, non potè affacciar più nemmeno il naso.
Il calzolaio bestemmiò, imprecò, esaurì tutte le minaccie; la fanciulla pianse, si disperò, parlò di morire, ma mastro Cruciano rise scrollando le spalle: eran cose quelle che sarebbero passate col tempo; non voleva affogar la figliola lui con quello spiantato.
Mastro Pasquale lo riseppe, e aveva proprio un diavolo per capello: era un mastro onorato lui, e quella birba di bottaio non aveva diritto di trattarlo a quel modo. Era povero, è vero, ma non era una buona ragione questa per negargli la figliola; almeno non aveva fatto i quattrini strappando a brano a brano la camicia d'addosso la povera gente come aveva fatto lui! che si sapeva da tutti come l'aveva messa insieme quella mezza salma di terreno per la quale ora si sentiva meglio di Vittorio Emanuele in persona. Già è andato sempre così il mondo: a' birboni vento in poppa. E prendendo l'aire su questo tema, sputando dalla stizza, e strabuzzando gli occhi, usciva dal seminato: parlava d'ingiustizia; della disuguaglianza delle classi; di rivoluzione; diceva che aveva ragione poi la gente a rubare quando vedeva che la terra che domeneddio aveva fatta per tutti se la dividevano quattro carogne oziose…. Sangue…. avrebbe voluto farla lui da padrone, non diceva assai…. una quindicina di giorni, per aggiustare ogni cosa. Tu, povero, hai vissuto fra gli stenti, come un cane sulla paglia putrida; to' questa è terra, coltivala, mangia e divertiti: tu, ricco, te la sei goduta facendo spanciate d'ogni ben di Dio, mentre i tuoi fratelli morivano di fame; to', questa è zappa, butta sangue, imparerai come facevan gli altri a buscarsi un tozzo di pane…. Cose tutte che aveva sentito dire a don Pietro Nuvoli, un repubblichetto rosso, che in ogni occasione spifferava la sua tiritera per moralizzare il popolo, diceva lui.
Con questo però mastro Pasquale non poteva conseguire i suoi fini, è chiaro; nè se ne poteva dar pace; e coloro che pagavan per tutti, a notte fatta, erano i vicini di mastro Cruciano; a' quali Dio sa per quanto tempo l'innamorato avrebbe rotte le tasche co' suoi berci dolorosi accompagnati dai soliti accordi in tono minore, se una sera due carabinieri non l'avessero invitato a battere il tacco e non farsi veder più in quelle vicinanze, prima con un certo garbo, poi a spintoni, quand'egli alzò la voce dicendo, ch'era un abuso di potere quello che a un libero cittadino impediva di cantare dove meglio gli paresse.
La proibizione di questo sfogo innocente, che gli faceva digerire la bile, lo mise alla disperazione; fu quel che si dice il colpo di grazia. Non lavorò più, andò bighellonando con la pipa in bocca, con le mani in tasca, torvo e accigliato; cominciò a frequentare le taverne; diventò amico del bicchiere e delle carte, pellagra che s'attacca al corpo e poi arriva l'anima.
In queste brutte disposizioni soffiava il cugino Zumboli.
Era costui uno spilungone di vent'anni, verde come l'aglio e senza un pel di barba. Berretto sull'orecchio, cacciatora di velluto nero tutta tasche e taschette, anella di similoro alle dita. Sputava senza levarsi la pipa o il sigaro di bocca, facendo schizzar la saliva; camminava dondolandosi sulla vita dalla più buffa maniera; giocava; amava il vino; amava le donne; arraffava, quando poteva; cacciava fuori il coltello a ogni piccolo diverbio, e certe volte non per burla. Non era un santo, come si vede. Usciva allora dalle carceri di Termini, dove l'avevano mandato a villeggiatura «per un porco cappotto» diceva lui. L'aveva levato di sulle spalle a uno, di notte, perchè il suo era vecchio. Ma i giudici, si sa, certe ragioni non le sanno apprezzare, e al farabutto quella scappatella gli era costata un occhio della testa, senza contare un anno di prigione, aveva dovuto impegnar la casa per pagar l'avvocato.
In quelle tante disdette però ebbe di buono che nei _cameroni_¹ potè perfezionarsi. Ora parlava d'affari grossi, e profittando delle condizioni d'animo in cui si trovava il cugino, con certi discorsi velati cercava di tirarlo dalla sua. Quella carogna di mastro Cruciano; eh; gliel'aveva fatta, porca cagna!… e il peggio era che non si poteva tentar più nulla, la ragazza era guardata con tanto d'occhi. Però egli s'occupava del bene del cugino come del suo proprio…. aveva esaminata la faccenda sotto tutti gli aspetti, e non trovava altra via che questa: potersi presentare un bel giorno al padre della ragazza, e dirgli: mastro Cruciano, ho spegnata la vigna, ho spegnata la casa, ho qui una ventina d'onze per le spese del matrimonio…. Ma per far questo ci volevano dei soldi; il cugino avrebbe un bello spremere le sue forme, soldi non gliene darebbero certo…. Ne aveva fatto mai col lavoro? no: nemmen lui. Oh, quella non era via d'arrivarci…. E però minchione chi aveva fegato in corpo e non cercava d'ingegnarsi….
¹ Sale comuni dei detenuti.
Sì che mastro Pasquale eccitato sempre più da questi discorsi, mostrava il pugno al cielo, urlando tutto rosso, con gli occhi che pareva volessero schizzargli dalle orbite, e i denti stretti.
—Ah!… venderei l'anima al diavolo pur di farla vedere in candela a quel cane d'un bottaio!
Allora Santo si metteva a ridere; lo canzonava. No, ora il diavolo anime non ne comprava più, forse era agli sgoccioli come loro.
—Ma qui c'è Santo, porca cagna! continuava picchiandosi il petto con la mano tutt'aperta: qui c'è Santo!… Ho certi progetti pel capo…. basta, purchè all'ultimo non mi facciate il minchione.
E una sera, dopo aver barato alla zecchinetta, e pelato a dovere certi gonzi che s'eran lasciati prendere all'amo, con l'esca di qualche piccola vincita, gozzovigliavano nella bettola di mastro Mariano Ruvoli. Era tardi ed erano soli nella stanzaccia affumicata, rischiarata appena da un lume a petrolio. Dall'uscio aperto della cucina veniva un odor di carne soffritta di cui si sentiva lo sfriggolare: il bettoliere preparava lo stufato di pecora per l'indomani.
Mastro Pasquale co' gomiti appoggiati sull'orlo del deschetto, e con le mani cacciate tra' capelli, guardava fisso il cugino Zumboli, che, tagliatosi un fettone di pane, e sbocconcellando, e facendo di tratto in tratto la zuppa segreta, parlava con la bocca piena, a frasi interrotte. Coi lamenti…. coi sospiri…. non si arrivava a togliersi d'impaccio, era chiaro…. Per esempio…. egli sarebbe restato fra gli artigli di quell'usurario di don Giuseppe, che aveva giurato di buttarlo fuori di casa se a mezz'agosto non pagava; il cugino in balìa di quella sanguisuga di don Liborio…. e senza la figlia di mastro Cruciano per di più…. Che fare dunque?… o rassegnarsi….
Qui l'innamorato scosse il capo.
—O tentare un affare….
E Santo guardò il cugino, per vedere che impressione gli facesse questa proposta.
Il cugino ascoltava con molta attenzione; ci prendeva gusto al discorso, almeno a giudicarne dal luccicare solito de' suoi occhi.
—Ma quest'affare…. bisogna cercarlo, seguitò Santo. E abbassò la voce.
Sforzare un magazzino?… una cantina?… per far che? per portar via poche salme di frumento, o qualche barile di vino…. E se ci scoprono? la galera nè più nè meno come se ci mettessimo a rubare una diecina di mila onze! Grazie tante. Per un porco cappotto sono stato un anno in villeggiatura a Termini…. Mio nonno mi soleva dire: «figliuolo mio, stammi a sentire, e abbilo per massima, l'appropriarsi d'una sommerella è furto; ma il metter le mani su d'una somma che ci può far cambiare di stato, è conquista.» Mi dispiace di non averci pensato prima…. Per me, ora lo dico chiaro e netto, non mi metterò al rischio, se non c'è un buon affare a vista…. Che ne dite?
Mastro Pasquale posò i pugni sul desco. Santo diavolo…. sì…. anche lui n'aveva piene le tasche finalmente!… Gli piaceva quel discorso…. alla cosa ci aveva pensato su anche lui. Sì, una decisione l'avrebbe presa…. Se il cugino diceva davvero, egli era pronto.
E riprendeva il tema favorito dell'ingiustizia, dell'ineguaglianza delle classi.
Le sante massime di don Pietro l'aveva ascoltate attentamente, l'aveva ruminate, l'aveva meditate, ne aveva tirate delle conseguenze. Essi erano gli oppressi; i proprietari gli oppressori…. era una guerra dunque tra di loro, continua, accanita…. Che si faceva nelle guerre? chi vinceva arraffava, e per di più metteva i piedi sul collo ai vinti. Questo stesso, in piccolo, poteva farlo anche loro: era un valersi del diritto della conquista senza tante storie. Del resto i bisnonni de' proprietari presenti un tempo l'avevano rubate quelle che ora costoro chiamavano col nome pomposo di proprietà: don Pietro lo cantava chiaro.
Ma le leggi? Egli se ne infischiava! Belle quelle leggi! o che forse non l'avevano fatto i ricchi per conservare il maltolto? C'era per lo mezzo quella benedetta giustizia, era vero…. bisognava adoperare certe precauzioni…. se no….
Il cugino Santo, fattosi allegro in viso, approvava. Bravo! questo era parlare, porca cagna! Avevano ragioni da vendere. La cosa era tanto chiara che l'avrebbe capita un bambino. Ora il cugino poteva tenersi veramente per marito della figliola di mastro Cruciano.
—Vedete…. io stentavo a parlarvene…. gli disse infine. Codeste son cose rischiose, e….
—Avete avuto torto: ancora non mi conoscete!
—Dunque….
—Sì.
—Cercheremo….
—Sì.
—E trovato….
—Carogna chi se ne pente!
—Qua la mano!
—Qua!
E si strinsero la mano.
Quella sera mastro Pasquale uscì dalla bettola meno torvo del solito, Santo un po' alticcio.
Il calzolaio dette le volte per il letto, nel suo stambugio buio, stillandosi il cervello a trovare il buon affare che bisognava al cugino Zumboli. Sei ore…. sett'ore…. ott'ore…. i tocchi lenti dell'orologio della chiesa vibravano sonori nel silenzio della notte…. Svaligiavano la parrocchia…. imbacuccati ne' cappotti, una notte nera si facevano cheti cheti alla porta piccola…. aprivano con un grimaldello…. entravano…. Una lampada appesa davanti all'altar maggiore, rischiarava appena la navata principale. Egli si sentiva scorrere un brivido per l'ossa. Accendevano un cerino, penetravano nella sagrestia, scassavano l'armadio…. Che luccichio d'oro e d'argento!… Cacciavano nelle tasche di dietro della cacciatora calici, pissidi, turiboli alla rinfusa…. Riattraversavano la chiesa, uscivano…. A chi avrebbero venduta tutta quella roba? Era difficile trovare un compratore…. bisognava nascondere gli oggetti, trattare con più d'uno, e gli oggetti erano conosciuti…. No, no, non era cosa da farsi.
Assaltavano il procaccio: uscivano armati e di notte dal paese…. s'appostavano nello stradale…. aspettavano…. S'udiva un tintinnio di campanelli, poi un rumor di ruote e uno scalpitar di cavalli: si vedevano i lampioni accesi nell'oscurità. Ma…. e que' due cosi avvolti ne' loro mantelli e sdraiati sull'imperiale?… Carabinieri! Brr…. sentiva freddo al solo pensare che bisognava fare alle schioppettate.
Oh!… c'era don Peppino, quel negoziante napoletano arrivato non era molto…. Si diceva che in pochi giorni aveva venduta molta roba…. Ci avrebbe avuto proprio gusto a svaliggiarlo quel forestiere. Ma…. e i danari li lasciava nel cassetto del banco?
Undici ore…. Un barlume penetrò per le fessure della finestra, in quella che un nome guizzò nella mente di mastro Pasquale, e dietro a quello un'idea: egli aveva trovato il buon affare che abbisognava al cugino Zumboli…. Oramai era sicuro, sposerebbe Carmela. Scese il letto, si vestì in fretta, prese in fretta quel suo straccio di cappotto, uscì e andò nel vicolo vicino, a picchiare all'uscio di Santo. Questi, digerendo ancora la cotta presa la sera avanti, russava con i pugni chiusi, steso bell'e vestito sul pagliericcio. Aprì un occhio, si stirò con un sonoro sbadiglio, poi s'alzò e andò a tirare il paletto.
II.
Da quel giorno i due cugini furono veduti sempre insieme: alle cantonate di certi vicoli, con le mani nelle tasche e le pippe in bocca, a guardar vagamente, in aria preoccupata; in campagna nelle vicinanze del paese, sdraiati sotto un ulivo, o a cavalcioni sul parapetto d'un ponte nello stradale, l'uno di faccia all'altro, a bisbigliare gesticolando: sicchè qualcuno che li conosceva, vedendoli, ebbe a esclamare tra sè, attente galline, le volpi si consigliano! Poi una sera con un tempo chiuso e un ventaccio da mandar per aria i sassi, avvolti ne' loro cappotti, uscirono dal paese, e s'avviarono attraverso i campi, per certe scorciatoie conosciute da essi. E cammina cammina l'un dietro l'altro in silenzio, vennero davanti a un fabbricato lungo, a uscio e tetto, che s'intravvedeva appena come una massa più scura nell'oscurità della notte. Lontano lontano si sentiva il mare a urlare e frangersi sugli scogli con colpi sordi. Picchiarono.
Un cane si messe a latrare furiosamente, la voce burbera d'un vecchio l'abbonacciava; poi l'istessa voce domandò:
—Chi è?
—Siamo noi su Francesco.
—Chi voi?
—Mastro Pasquale Carrarella e mastro Santo Zumboli.
L'uscio girò sugli arpioni, e i due cugini entrarono.
—Qua, Turco! gridò il vecchio al grosso mastino nero che s'era avventato addosso a' nuovi arrivati.
La stanza, piuttosto grande, era piena di fumo: nel bel mezzo, sotto a una pentola di creta accomodata su de' sassi disposti a guisa d'alari, ardevano delle legna verdi di ginestra, la cui fiamma tra 'l fumo gettava dei riflessi opachi sur un sacco pieno di roba, un fucile, un fascio di taglie di ferula, un cappello di paglia, che pendevano dalle pareti nere; sul jarzo, una specie di letto fatto con travicella e traverse rivestite di cannucce. Su un deschetto una lumera nella sua padellina di ferro, faceva il fungo tristamente.
Il su Francesco era grasso bracato, con una faccia da mascheron di fontana, nella quale si scorgevano appena un par d'occhietti vivi, rossi e lacrimosi pel fumo: era vestito di bonaca e calzoni di bordiglione, aveva in capo una scarzetta di felpa con una lunga nappa di seta.
—Salutiamo il su Francesco.
—Salutiamo, rispose il campiere, con una cera maravigliata e sbuffando com'era il suo solito: poi ficcò i suoi occhietti in volto a' due giovani.
—Che diavolo andate facendo a st'ora e con sto tempo da cani!… C'è cosa?…
—Niente, rispose mastro Pasquale.
—Niente, ripetè mastro Santo.
Ma il su Francesco non glieli levava que' suoi occhietti d'addosso, ci credeva poco a quel «niente»—Umh…. pensò, a me non la danno a bere…. Basta, sentiremo. Ma perchè non sedete, disse poi ad alta voce.
I due cugini sedettero su de' _furrizzi_¹ attorno al fuoco. Il campiere andò a smoccolare il lume, v'aggiunse dell'olio, poi venne a sedersi anche lui, e si mise ad attizzare il fuoco. Mastro Santo e mastro Pasquale si dettero d'occhio.
¹ Specie di sgabello fatto con ferule.]
—Su Francesco…. cominciò quest'ultimo, dobbiamo parlarvi.
—A me?
—A voi.
—Lo dicevo io che la cosa non era tanto liscia! pensò il su Francesco. Sentiamo, disse poi a' due cugini:
Il quella il cane rizzò le orecchie ringhiando; poi balzò all'uscio e si mise ad abbaiare. I tre uomini si voltarono e stettero ad ascoltare.
Non si sentiva che il fischiar del vento e la lontana romba del mare…. Ma poco dopo picchiarono.
—Chi è? gridò il campiere con la sua vociaccia di basso.
—Io.
—È Sciaverio. E andò ad aprire.
Il cane si mise a mugolare e a scodinzolare. Entrò un giovine alto, stecchito con una faccia pallida tutta rasa, in cui si movevano due occhi neri, foschi e irrequieti. Benchè le notti fossero ancora fredde e soffiasse quel ventaccio, egli era senza cappotto. Si salutarono.
—Niente? domandò il padre ammiccando.
—Niente, rispose il figlio mentre appoggiava il fucile a un angolo.
—Dunque?… riprese il su Francesco, quando furono seduti di nuovo attorno al fuoco, voltosi al Carrarella. Questo guardò Sciaverio.
—È sangue mio, disse il campiere con un certo orgoglio: aveva compreso che volesse dire quello sguardo.
Allora mastro Pasquale riattaccò il discorso interrotto. Ma la pigliava larga. Correvano tempi maledetti…. lavoro non ce n'era…. i ricchi se n'infischiavano de' poveri: in mezzo agli agi, non credendo punto alla miseria, serravano i cordoncini della loro borsa…. si stringevano nelle spalle.
Guai a pigliare a imprestito! vi scorticavano vivo. Di fame si poteva morire? No di certo. Dunque imbecille chi non cercava d'ingegnarsi quando aveva fegato in corpo, e…. Basta…. Egli e il suo compagno avevano ideato un cert'affare…. venivano a proporgli se volevano esserne a parte. Lo conoscevano abbastanza…. per questo fidavano tanto in lui che non si sarebbero perduti in chiacchiere….
E abbassata la voce, soggiunse:
—Si tratta d'un sequestro.
—D'un sequestro!…
Mastro Pasquale accennò di sì col capo. Ma il su Francesco si messe a fare certe musate…. sbuffò come un cavallo che s'adombri….
—Lo sapete che è un sequestro, e quel che ci vuole per farlo?
—Se lo sapessimo non saremmo qui, rispose il cugino Santo. Sappiamo che siete uomo, e di quelli che non se n'incontra tutti i giorni; non perchè ci siete davanti.
—Vi ringrazio…. ma…. capirete…. queste non son risposte che si possan dare su due piedi. Bisogna pensare…. bisogna vedere….
Ma il Carrarella interruppe storcendo il muso, e il cugino Santo si messe a tentennare il capo che non la finiva più. No, no…. non l'intendevan così loro; le cose lunghe diventan serpi: o si stabiliva il tutto quella sera, o non se ne sarebbe parlato più. Eran sicuri che il su Francesco piuttosto che lasciarsi scappare una parola, si sarebbe fatto tagliare a pezzi: cercherebbero un'altra persona s'egli non volesse saperne della cosa, e buona notte.
E però il campiere si cacciò sbuffando la scarzetta fin sopra gli occhi.
Per la Madonna di Gibilmanna! o che volevano canzonare? era vecchio era…. grosso, pieno di reumatismi, che la sua vita se l'era mangiata la tramontana su per le serre: non si fidava più; no, non si fidava più: e se non fosse per il suo figliuolo…. Basta, non voleva nemmen sentirne a parlare di quella faccenda.
—E chi vi dice che dovete lavorare!… insistè mastro Pasquale alzando le spalle. Esser diretti vogliamo; lo capite? esser diretti e non altro. Mi pare che….
Ma il furbo accennava sempre di no col capo. E il figliuolo ammiccò a compagni.
—Via, padre, disse voltosi al campiere, ora che gli amici son venuti sin qua, non gli si ha a dare questo dispiacere agli amici….
Seguì un silenzio. E mentre tutti pendevano dalle labbra del su Francesco, la pentola alzò il bollore.
—Va' a prender la pasta, Sciaverio, disse il vecchio; gli amici stasera mangeranno un boccone con noi.
—Grazie, risposero i due giovani a una bocca, e Zumboli posando una mano sul ginocchio del campiere, esclamò:
—Non ce l'avete a dire di no, porca cagna! non ce l'avete a dire….
—E al su Francesco che s'ha a ricorrere, dissi a Santo appena stabilita la cosa, se si vuole che il tutto vada bene, soggiunse il Carrarella posandogli la mano sull'altro ginocchio.
Intanto Sciaverio era ritornato con la pasta, scoprì la pentola, e ve lo lasciò cader dentro: poi prese il mestolo, e rimestò.
Il su Francesco s'alzò, andò a prendere dal sacco un pezzo di formaggio e una grattugia, sedette e si mise a grattare. I due cugini si guardarono scoraggiati.
—E…. chi volete sequestrare? domandò finalmente il campiere.
—Conoscete i signori Savarella? rispose mastro Pasquale rinfrancatosi ad un tratto.
—Sì.
—Se son ricchi lo posso saper io, che da tant'anni sono il calzolaio di casa…. il canonico ne ha sotterrato della moneta d'oro e d'argento!
—Sequestreremo don Bastiano, il più piccolo, disse accostando il furrizzo, il cugino Santo: e anche Sciaverio accostò il suo, con gli occhi lustri; tanto interesse destava in ognuno quella conversazione. Avevano ricominciato a parlar sottovoce.
—Dunque accettate? domandò mastro Pasquale.
—Sì, accetta, accetta, rispose Sciaverio guardando il padre.
—Via…. dacchè volete così…. è proprio per non far negativa agli amici.
—Viva! esclamarono i tre giovani in coro: e le loro facce s'irradiarono d'un'allegrezza schietta.
—E ora, poichè la cosa deve farsi, vi vo' dare una lezioncina ragazzi, disse il su Francesco in aria d'importanza, seguitando a grattare. Sbuffò e rispose: Son del mestiere, credetelo. E in nomine patri, quando si vuol fare un sequestro bisogna studiar le abitudini di chi si deve sequestrare….
—È fatto, rispose mastro Pasquale con un certo orgoglio. Va ogni giorno alla Rocca, sapete, quel bel fondo vicino lo stradale.
Santo e Sciaverio ascoltavano attentamente, col gomito sul ginocchio e la guancia nella palma: anche il mastino, sdraiato tutto lungo sul ventre, guardando il padrone con le iridi gialle, pareva prendesse gusto alla cosa.
—A che ora?
—Il dopo desinare.
—Invariabilmente?
—Qualche rara volta di mattina.
—Ma ciò non è tutto…. riprese il campiere con un certo risolino che voleva dire, qui amicone ti coglierò in difetto. Bisogna prendere conoscenza esatta dei luoghi.
—È fatto anche questo.
Il campiere lo guardò maravigliato.
—Mastro Pasquale, vi lascerete addietro i primi briganti, ve lo dico io. Caspita come la gioventù apprende presto a' nostri giorni! e dicevate di non sapere….
—E li conosco come casa mia! interruppe il Carrarella rosso dal piacere per quell'elogio fattogli da un tant'uomo: ci fui anche a villeggiatura una volta…. que' signori, per loro bontà, m'han voluto sempre un gran bene. Sullo stradale, a due miglia circa dal fondo, c'è un dirupo a ginestre e ogliastri, dove si può star nascosti tutta la giornata, senza timore d'esser veduti.
—Bene. Ora andiamo al resto e per ordine. Chi deve fare il tiro?
—Qui è lo scoglio, disse il Carrarella grattandosi la zucca, e anche il cugino Santo accennava di sì con il capo. Volevano i danari quei due farabutti, ma di rischiar la pelle, no, non se la sentivano.
—Per la madonna! ma lo faremo noi, lo faremo! esclamò Sciaverio con un lampo in que' suoi occhiacci foschi. E….
—No…. no…. interruppe il campiere, dimenando il capo gravemente, noi soli non si può far la cosa, chè non si tratta di mangiare un piatto di pasta, o di dar fondo a un fiasco…. Ne parlerò a Nicola Tagliaferro: a que' santi lì bisogna ricorrere, se non si vuol far qualche frittata; non ho i capelli bianchi per nulla io! so come vanno queste faccende.
Dette un par di colpi alla grattugia per far cadere nel piatto il cacio che vi restava attaccato, e andò a posar ogni cosa sul deschetto: poi tornò, scoprì la pentola, rimestò, assaggiò la pasta, l'aggiustò di sale, aggiunse una manciata di legna al fuoco e sedette. Intanto i tre giovani discutevano con gran gesti.
—Statemi a sentire, interruppe il campiere. Tu, Sciaverio, cercherai di veder Nicola; gli dirai che gli vorrei parlare di premura: un di questi giorni si faccia trovare a Cozzo di Lampo …. Voi altri e (e si volse a' due cugini) ve n'andrete prima che aggiorni…. badate che non s'accorga anima viva che venite di qua. Vi farò avvisare quando sarà l'ora.
—Non dubitate, faremo quel che ci dite.
—E più che ogni altra cosa a-cqua-in-bo-cca! che il parlare assai non è stato mai una buona cosa.
Mastro Pasquale e mastro Santo portarono una mano al petto, con uno sguardo che voleva dire, ci giudicate male….
Intanto la pasta s'era cotta. Sciaverio distribuì le scodelle, i cucchiai di legno; levò la pentola dal fuoco; andò a versare metà della broda vicino all'uscio; curando col mestolo che non avesse a cadere della pasta, poi scodellò.
Durante una diecina di minuti, tra un fumicare che faceva un velo di vapori alle quattro figure sedute attorno al focolare, non si udiron altro che gran sibili di labbra.
III.
Quindici giorni dopo il su Francesco potè abboccarsi con Tagliaferro. Ma questi tentennò il capo. Era latitante da due mesi appena…. allora come allora non conosceva nessuno: per assaltare il Savarella non ci volevan meno di sei armati…. Avevano ragione gli sbirri! questa volta l'avevano vinta; erano riusciti a distruggere la prima banda del mondo…. Rocca tradito a Polizzi da quell'infame di Martino, s'era ammazzato per non cader vivo nelle mani dei soldati; compare Turiddo l'avevano preso a Gangi in casa del suo amico mastro Paolo, un ometto quanto un soldo di cacio, ma che si sarebbe fatto squartare piuttosto che tradire un amico…. questo significa aver principi! compare Micu, ridotto alle strette a Cozzo di Sona, s'era arreso a un capitano de' bersaglieri; compare Angelo Rinaldi, il poveretto, venduto come Cristo dall'innamorata, era stato fatto a pezzi sotto S. Mauro…. Che voleva dunque? correvan brutti tempi, non si poteva più vivere!… Se ci fossero ancora que' Beatipaoli lì…. non faceva per dire, avrebbe potuto dare all'amico tutto l'aiuto possibile…. Però non si perdesse d'animo per questo: era solo, solo lo servirebbe: trovasse gente e conquibus.
E vedendo che il campiere alla parola conquibus fece certe musate, intese per aria, e soggiunse, che in simili faccende la prima cosa era il danaro.
Sicchè l'uomo in cui mastro Pasquale e il cugino Santo avevano tanta fiducia, si trovò arenato al primo passo.
—Bene, disse al bandito: conto su di voi…. Si troverà il danaro, si troveranno gli uomini e ci riparleremo.
Raccontò ogni cosa al figliolo, chiedendo consiglio e aiuto. Ora che avevano promesso agli amici, non bisogna venir meno.
Sciaverio, al caso, sarebbe stato uomo da menar le mani, ma cervello la natura non gliene aveva dato che una bricciola, tanto per non essere un bruto affatto. Pensa di qua, rumina di là, non trovò altro che d'aprirsi con tre mafiosi suoi amici: mastro Calcedonio Barreca, mastro Salvatore Manna, assessore comunale! il barbiere Lo Faso, tutti di Lascari. Quei tre galantuomini accettarono; ma d'arrisicar la pelle non vollero saperne nemmen loro. Se si fosse trattato di andar a tirare al giovine una schioppettata di dietro a un sasso, o al tronco d'un albero…. umh, non dicevano! Però vollero abboccarsi con Carrarella e Zumboli. La riunione ebbe luogo con gran mistero, a notte avanzata, nella taverna del sopraddetto mastro Calcedonio. Non si concluse nulla di definitivo è vero, ma da quella sera s'ebbe qualcosa in cassa: l'assessore comunale, per la buona riuscita dell'impresa, tra un mormorio adulatore degli amici che alla proposta di dar denari s'eran guardati in faccia, aveva offerto generosamente cinquanta lire.
IV.
Maggio, giugno, luglio e agosto, se n'andarono in trattative ed esitazioni: il difficile era trovare sei o sette uomini che ardissero assaltare a petto scoperto un povero giovine accompagnato per lo più dal solo cocchiere, e qualche volta da un fattore più vecchio di Noè, il quale soleva portar lo schioppo per abitudine. Ma venne settembre, e con esso la festa della Madonna di Gibilmanna. Da tutte le parti accorre gente a quel santuario famoso, che sorge sopra un alto colle delle Madonie, al limite d'un bosco, di dove si domina la pianura pittoresca, che dalla spiaggia di Cefalù, corre sino a Palermo. Ciò si chiama, fare il viaggio. È la promessa che le sposine del popolo strappano a' loro sposi, profittando d'un momento di tenero abbandono o d'espansione brutale; è il voto che le maritate preferiscono a ogni altro; e han ragione: contentasi la Madonna, e si divertono un mondo. Lì si passeggia, si fan spanciate sotto alle querci secolari, s'assiste alle sacre funzioni, stipati nella chiesa, come sardelle, tra un puzzo di caprino che appesta, si ride, si fa all'amore….
Sciaverio ci soleva andare; ci andò anche quell'anno, tanto più che il tristo era di cattivo umore per non aver potuto riuscire nel suo intento. Fu lì che s'imbattè nell'amico Gaspare Maraviglia, e all'«oh!» di piacere che mandarono tutt'e due, il figlio del su Francesco si ricordò che quel giovinetto gliel'aveva fatto conoscere un anno avanti, nell'istessa festa, un compare di suo padre, dicendogli con una stizzatina d'occhio, questo è de' nostri. Se era de' loro, egli poteva confidarsi con lui, e lo fece. L'imberbe mariuolo accolse la proposta a braccia aperte. Santo diavolone! eran due mesi che se ne stava in ozio, egli si sentiva arruginire. Gli disse che a volere che la cosa andasse, bisognava parlarne a certi suoi amici di Palermo, uomini veri, e si dettero la posta per i quindici del mese, a un'ora di notte, nella taverna del zu Deco Arculeo, la prima che s'incontrava all'uscir di porta Montalto, fatti una ventina di passi a destra.
Ritornato dalla festa, Sciaverio riferì ogni cosa a mastro Pasquale e al cugino Santo: andarono insieme da mastro Calcedonio, e fatti venire gli altri soci, si stabilì che s'accettava la proposta di Maraviglia. Bisognava vedere come que' compari gonfiavano! Era un vero onore per loro aver da fare con quelli della città, tutta gente provata, per l'esistenza di Dio! Delegarono a trattar le cose in Palermo Sciaverio, mastro Pasquale e Santo, l'incaricarono di mille saluti, di mille proteste d'amicizia e di rispetto, e il più tenero di tutti fu il signor assessore.
I danari dati da costui erano ancora lì non tocchi, i tre birboni un bel giorno presero tre posti in un carretto, e partirono per Palermo.
Alla taverna d'Arculeo trovarono Maraviglia.
—Questi sono gli amici di cui vi parlai, gli disse Sciaverio: mastro Pasquale Carrarella, e mastro Santo Zumboli.
I tre giovani si strinsero la mano; Gaspare offrì del vino, e mezz'ora dopo uscirono. Il giovine malandrino li fece girare un pezzo per vicoli e vicoletti, e per porta S. Agata li condusse in via Vespro.
Nuvoloni neri vagavano per il cielo come tanti fantasmi, l'aria, carica d'elettricità, era soffocante: di tratto in tratto un colpo di vento alzava turbini di polvere dalla via che si stendeva lunga, deserta, tagliata a grandi intervalli dalla luce de' fanali a gas, e n'avvolgeva i quattro amici, i quali andavano silenziosi e in fretta.
All'angolo di via Filiciuzza, un uomo, con le mani in tasca e il naso in aria, aspettava appoggiato al muro, sotto il fanale. Egli si volse a Maraviglia.
—Ehi! compare Gaspare.
—Oh! compare Turiddo!
—Dove si va?
Ma Gaspare gli si avvicinò, e gli disse piano: Son gli amici….
—Bene.
—E gli altri?
—Aspettano a casa mia.
—S'ha da discorrer là?
—Sì: vi staremo al sicuro meglio che in ogni altro posto…. voi lo sapete, mia moglie non è per nulla dei Mimì, dove son malandrine anche le donne.
Ed egli avanti seguitando a bisbigliare con Maraviglia, e gli altri dietro come tanti baccalà. Fecero un centinaio di passi a sinistra, poi imboccarono una traversa tra due pilastri, e poco dopo una viottola costeggiata d'agrumi, in fondo alla quale, tra 'l fogliame, luccicava un lume come una stella.
Vi arrivarono. L'uomo picchiò in un certo modo.
Entrarono in una stanza col pavimento a mattoni rossi, nel cui fondo era un letto di rame rifatto, con una bella coperta bianca. A cappezzale un crocefisso tra due quadri dalle cornici larghe e dorate, dentro alle quali spiccavano sotto il vetro due rozze litografie impiastricciate di colori, rappresentanti l'uno a S. Francesco di Paola col suo famoso bastone, l'altra un Gesù affranto sotto il peso della croce. Pendevano dalle altre pareti altri quadri, un miscuglio di sacro e di profano: il Sacro Cuore di Maria, Rinaldo che con un terribile colpo della sua durlindana spacca un cavaliere d'alto in basso, Giuditta che tiene pe' capelli la brutta testa d'Oloferne, una deposizione della croce, il mago Malagigi. Addossato alla parete a destra del letto, un canterano impiallicciato, e su questo un bambino Gesù di cera, dentro a una scarabattola, circondata di chicchere.
Attorno a una tavola eran seduti tre uomini. Costoro s'alzarono.
—Son gli amici, dissi volgendosi a loro il zu Turiddo: mastro Pasquale Carrarella, e mastro….
Aveva dimenticato il cognome esotico del mafioso, e si voltò verso di Maraviglia.
—E mastro Santo Zumboli, aggiunse questi.
—Compare Gaspare, continuò il zu Turiddo accennando con la mano gli amici ai forestieri, compare Deco, compare Vito.
I quali compari per bacco avevano certe faccie che Dio te ne liberi: per questo anzi incussero maggior rispetto ai due mafiosucci provinciali, già storditi dal movimento e dal chiasso della città, abbagliati e rimpicciniti dalla disinvoltura e dallo spirito tutto palermitano di quel monellaccio di Maraviglia. Sciaverio a Palermo c'era stato altre volte.
—Strano caso! pensava tuttavia mastro Pasquale. Si dicono i nostri cognomi, si tacciono quelli degli altri…. basta…. ne san più di noi. E cercò d'atteggiare il volto all'aria più mafiosesca che potè. Egli aveva accettato quell'incarico con tanto orgoglio; aveva aspettato con tanta febbre il giorno fissato per la partenza; il suo arrivo, l'accoglienze che stimava gli avrebbero fatte, la fantasia glieli aveva dipinto con sì bei colori, che ora faceva il viso dell'armi alla realtà. S'aspettava delle vere ovazioni il farabutto, e si vedeva accolto come uno qualunque.
Se ciò fosse accaduto agli altri due solamente, non avrebbe avuto a ridirci: ma a lui…. a lui che aveva avuto l'idea di quell'affare!…. Basta, vedrebbe in seguito. E però in un lampo pensò alla bella Carmela con una tenerezza mista a un certo accoramento, tanto si sentiva umiliato. E ricambiati i complimenti, e sedutisi, compare Gaspare, il più anziano, accennando al Maraviglia, disse sottovoce a' due Roccellesi:
—L'amico ci ha detto tutto; però vorremmo essere informati meglio da voi.
Mastro Pasquale fece un «emh, emh,» tanto per prepararsi a parlare: ma Sciaverio che non ne aveva meno voglia di lui, fu più lesto, e cominciò a raccontare ogni cosa, sottovoce anche lui, rifacendosi da capo, gesticolando, con gli occhi fosforescenti come quelli d'un gatto.
—E siete sicuro che que' signori siano veramente ricchi come dite? domandò l'anziano quand'egli ebbe finito.
—Sicurissimo.
Allora il calzolaio pensò ch'era quello il momento opportuno di metter bocca anche lui nel discorso, se voleva fare un po' di figura.
Alzò la mano, la mulinò in aria spalancando tanto d'occhi e allungando il muso; e quando s'ebbe fatto così buffo ed espressivo nel volto, disse:
—Ricchi!… milionari volete dire!
E spiegato così quell'armeggio, venne fuori con la solita storia. Poteva saperlo lui che da tant'anni era il calzolaio di casa: il canonico ne aveva sotterrata della moneta d'oro e d'argento! Oltre a ciò egli rispondeva di tutto: sapeva le abitudini della casa, conosceva i luoghi. Alla Rocca c'era stato anche a villeggiatura, chè, a dire la verità, que' signori gli avevano voluto sempre un gran bene, per loro bontà. E fece una lunga descrizione dei dintorni del fondo, del posto dove si potevano appiattare gli armati per aspettar la carrozza, del posto dove in quel mentre alcuni altri potrebbero stare alle vedette per evitare ogni sorpresa. Don Bastiano alla Rocca ci andava ogni giorno, di mattina, rarissime volte il dopo desinare: sempre in carrozza. Di ciò potevano starne sicuri, egli aveva osservato tutto con la più scrupolosa esattezza, poichè insomma…. l'idea di quel buon affare era venuta a lui. E finì carezzandosi il mento, e sporgendo il labbro inferiore, atto che aveva sempre ritenuto per il più mafiosesco che mai.
I triumviri l'avevano ascoltato con le mani ciondoloni tra le gambe, accennando di sì col capo in aria grave degna dell'occasione.
Nella stanza vicina de' passi leggeri andavano e venivano; si sentiva il rumore di qualche sedia spostata; di tratto in tratto lo gnaulare d'un marmocchio, una voce di donna lo ninnava:
Sant'Antunino quann'era malatu….
—E che somma gli si può chiedere? domandò un di que' tre con voce chioccia.
Aveva una grinta verde d'assassino.
—Duecento mila lire di sicuro.
I compari ricambiarono uno sguardo.
Si ventilarono altri particolari: si decise che quando tutto fosse pronto, partirebbero da Palermo cinque uomini armati, ben provvisti di danaro; si stabilì per luogo di ritrovo il bosco di Gibilmanna, che Maraviglia conosceva bene. Compare Nicola prenderebbe il comando, s'incaricherebbe di trovare il luogo dove condurre il sequestrato, del modo come far snocciolare la somma a' parenti. Degli armati, fatto il tiro, due resterebbero a ogni evento, gli altri se ne ritornerebbero.
Qui Santo che non aveva potuto trovar modo di dir la sua, e pur bramava di far vedere che non era un minchione, cavò fuori da uno de' tanti taschini del panciotto una scatola di bosso, vi battè da un lato con le due dita, l'aperse, e la presentò al zu Turiddo.
Questi la guardò con una cert'aria maravigliata.
—Così giovine, e prendete tabacco?
—No, rispose in tono d'uomo vero; ne porto per offrirne agli amici.
—Grazie.
—Umh, pensò Santo, saran malandrini….non lo nego….ma certi usi di mafia pare che non li sappiano.
La seduta si chiuse con i soliti boccali di vino, mandorle e nocciuole tostate.
Compare Gaspare, compare Turiddo, compare Deco, e compare Vito, eran quattro birboni matricolati, che nella loro gioventù se n'erano infischiati davvero dei dieci comandamenti di Dio, specie dei due che proibiscono d'ammazzare e di svaliggiare il prossimo, E però certi screzi tra quelle lane e la giustizia che li aveva agguantati diverse volte, e mandati là dove si vede il sole a scacchi: a causa di che se n'eran poi stati come cani che scottati dall'acqua calda, temono quella fredda. S'eran ritirati, menavan proprio una vita esemplarissima, e la polizia rassicurata pienamente sul conto loro, gli aveva levato finalmente gli occhi d'addosso, e le mani paterne di sul capo. Ma quella razza di gente perde il pelo, giammai il vizio; sicchè avevano profittato di quella specie di tregua per uscire di quando in quando dall'ombra, e mostrar le zanne: sempre però guardinghi «odorando il vento infido» mettendo avanti i picciotti che ammaestravano per piacere e per il loro utile.
Quella sera, all'uscire dal giardino di P., si portarono in una certa casa di via Filiciuzza, dove stavano i capi d'una potente mafia che incuteva terrore a tutta quella contrada. Era in casa solamente il maggiore dei cinque fratelli: un uomo alto, grosso, con barba nera, tutto mutria, nella faccia dallo sguardo bieco. I quattro compari si presentarono umili, con i berretti in mano: dissero di che si trattava, domandarono il permesso di poter operare, e nell'istesso tempo se la famiglia voleva essere a parte della cosa. Il temuto mafioso volle saper tutto; ascoltò con le sopracciglia aggrottate; poi fece un atto di disprezzo con le labbra. Li ringraziava…. ma non accettava…. eran già troppi quelli che dovevano dividersi il danaro.
La ragione vera del rifiuto però non era questa: si sarebbe potuta rinvenire ne' misfatti di cui s'erano macchiati que' miserabili.
Un giorno spariva il loro cugino Gaspare Amoroso. Quand'era andato a fare il soldato aveva indossato la divisa di carabiniere; ciò disonorava tutto il parentado, bisognava provvedere. Si provvide decidendo la morte di quell'infelice: s'ordinò d'ucciderlo ai Mimì e a Carratello. E i Mimì e Carratello ubbidirono. Due mesi dopo, si trattava di dare una lezioncina…. così, a mo' d'avviso…. alla mafia dei Badalamenti, acerrima nemica della loro: si dava incarico ai fratelli Mendola d'uccidere Turretta, un fido de' Badalamenti. Ma uno dei fratelli piangeva, egli non voleva lordarsi le mani di sangue…. Pur dovette ubbidire, tale era la paura che incutevano i capi! e Turretta cadde. Ma il destino conduceva da quelle parti Buscemi, un amico della vittima…. uccisero anche Buscemi. S'era accorto di tutto, e i soli morti non parlano. E un'altra volta toccò al Matranga: aveva disonorato il curatolo Spatola seducendone la moglie: il curatolo ricorse ai capi, i capi ordinarono a D'Alba d'uccidere il seduttore, e il seduttore fu ucciso. L'istessa sorte ebbe Seidita, un comparo ritenuto spia del Questore, e per mano dell'istesso d'Alba: l'istessa sorte, e per mano di Bonafede, ebbe Antonino Badalamenti il quale, pare avesse fatto orecchie di mercante a quel piccolo avviso, e mostrava ancora i denti.
Però non un mandato di furto era stato dato dai capi di quella formidabile associazione, volevano tenere la contrada atterrita sotto al loro ginocchio di ferro, ma si sarebbero creduti disonorati a metter le mani in un furto. Si restringevano a lasciar fare, ecco. Strana morale in certi birboni!
L'indomani era domenica. Maraviglia non volle che gli amici partissero. Li menò a spasso per la città, facendo da cicerone. Fecero una fermatina ai Cintorinari dove tutte le feste sogliono riunirsi alcuni della mafia; e lì presentazioni, e strette di mano a bizzeffe, sì che a mastro Pasquale e al cugino Zumboli tornò lo spirito, e con esso il sorriso in volto. Via, s'erano ingannati, non bisognava giudicar mai di primo tratto. Terminarono quella bella giornata con un desinare nella taverna d'Arculeo, dove Maraviglia aveva credito assoluto, trincando alla buona riuscita dell'affare.
Intanto il povero Savarella viveva tranquillo contento come una pasqua, non sospettando per nulla che terribile tempesta si stesse addensando sul suo capo.
V.
S'eran trovati gli uomini per fare il tiro, i danari per provvedere alle prime spese, bisognava trovare un luogo sicuro dove poter tenere nascosto il sequestrato. Nicola s'era lambicato il cervello inutilmente. Bisognava aprir tanto d'occhi, in simili faccende la riuscita dipende tutta dalla scelta del luogo. Sciaverio lo levò da tanto imbarazzo proponendogli la terra del Chiarchiaro: sorgeva solitaria in riva al mare, sulla punta destra d'un seno: era d'un suo amico, un certo mastro Vanni Greco, un vecchietto magro magro, con una barbaccia grigia, e gli occhi rossi come Caronte; non sapeva se compare Nicola lo conoscesse. E all'accennar di no del bandito, per provargli che si potevano fidar pienamente di colui, Sciaverio, si fece a tesserne l'elogio. Era un furbo matricolato, vecchio nell'arte…. amico degli amici, e che sapeva tener la bocca cucita. Reggeva il sacco ai contrabbandieri, favoriva i picciotti che andavano per il mondo, e li trattava bene quando capitavano nella sua torre. Oltre di ciò era riuscito a gettar la polvere negli occhi degli sbirri, sicchè quegli imbecilli lo tenevano in gran conto. Mastro Vanni? un galantomone!… e perciò mai un minimo sospetto su di lui, mai una perquisizione nella sua stamberga. Questa scelta offriva loro un altro vantaggio: nella torre c'era un nascondiglio ch'e' sfidava a scoprirlo i più furbi del mondo: figurarsi! una caterratta sotto il letto, mascherata di mattoni, e che, per mezzo d'una scala di legno, metteva in un sotterraneo dove l'amico teneva in deposito ogni genere di roba.
—Che ne dite?
A Nicola piacque l'idea, incaricò Sciaverio di trattare con mastro Vanni.
VI.
S'avvicinava la sera: nello stradale deserto, in una a un rumor di ruote, s'udiva un tintinnio di sonagliere cadenzato col trotto lento di due cavalli…. Una carrozza di viaggio sboccò dal gomito che fa la via in quel punto, e s'avanzò tra un filare d'ulivo attraverso i quali di tratto in tratto s'intravvedeva il mare liscio e turchino, e una folta siepe di spina santa, che chiudeva campi a sommacco.
—Frusta i cavalli, Masi, si fa tardi, disse al cocchiere, mettendo la testa fuori dello sportello, don Bastiano, un giovine bruno, abbronzato dal sole come tutti coloro che passan la vita più in campagna che in città.
—Juh, fece il cocchiere, applicando ai cavalli due sonore frustate, e il veicolo si mosse con più celerità.
Don Bastiano quella sera sembrava assai inquieto: ficcava gli occhi sospettosi tra 'l folto degli ulivi, spingevali al di là della siepe, li fermava con una certa insistenza in una macchia di ginestre e ogliastri, cui la carrozza si veniva avvicinando. Nella campagna regnava la tranquillità, la pace, un silenzio solenne, punto adatti a rassicurare un'anima paurosa. Una sottile striscia di nebbia s'avvanzava ad avvolgere la strana punta di S. Caloggero, all'estremità della cui larga falda, Termini biancicava nell'ombra crescente.
—A terra! sangue…. a terra! s'udì a urlare, e cinque malandrini in sull'arma si sbucarono dalla macchia come cinque insatanassati. Il cocchiere, cambiato nel volto, fermò i cavalli bruscamente. Due degli assalitori balzarono al timone, due altri alle tirelle e le tagliarono in un baleno, il quinto mise la testa dentro allo sportello, e disse al giovine pallido e spaurito:
—Non abbia paura, eccellenza, non vogliamo farle alcun male.
—Ecco il mio portafogli…. balbettava l'infelice frugandosi nelle tasche con le mani tremanti; il mio orologio….. vi darò tutto…. volentieri…. amici….
—Che dice mai! interruppe Nicola con un sorriso beffardo. Noi non siamo ladri volgari. Piuttosto abbia la bontà di scendere e di venire con noi.
Egli era molto mutato, aveva la barba rasa, vestiva panni di bandito elegante che affoghi nell'abbondanza. —Volete dell'altro danaro…. dove ve lo posso fare arrivare?… non dubitate ve lo manderò…. puntualmente.
Ma Nicola scosse la testa.
—Manderò il cocchiere a prenderne…. Vi prego…. non vogliate dar questo terribile colpo alla mia famiglia…. mia madre è vecchia ed inferma, ne morrebbe certo.
Era un furbo matricolato Nicola; a lasciar correre, si sarebbe fatto un buon capo, di sangue freddo, d'una certa gentilezza, un po' canzonatore. Atteggiò il volto alla più viva pietà. Lo sapeva egli solo se il cuore glie ne dolesse…. conveniva che sua eccellenza aveva ragione…. avrebbe voluto poterla contentare…. ma i suoi compagni erano inesorabili; e pur troppo egli, il capo, doveva render conto del suo operato a quelle tigri.
Intanto costoro avevano fatto smontare il cocchiere, e l'avevano legato, uno l'aveva condotto nella macchia, e con una spinta l'aveva fatto cader bocconi.
I cavalli, dati pochi passi fiutando il suolo, s'erano fermati a pascolare tranquillamente sul ciglio della via.
—Pregateli a nome mio, signore, forse non si negheranno.
—Mi proverò, rispose il bandito stringendosi nelle spalle.
Andò ai compagni, fece le viste di chieder grazia per il ricattato, poi ritornò allo sportello, e allo sguardo pieno d'ansia del povero giovine tentennò il capo.
—L'ho pregati, l'ho scongiurati, eccellenza, ma non c'è stato verso di persuaderli. Bisogna venir con noi. Piuttosto faccia presto: se avesse a sopraggiungere la forza, non risponderei più della sua vita.
E aprì lo sportello.
—Ha armi?
—La rivoltella, rispose don Bastiano che al tono deciso del masnadiere comprese che l'insister oltre sarebbe stato inutile, e senza meno pericoloso.
—Abbia la bontà di favorirmela.
Il ricattato si levò l'arme dalla cintura, gliela diede, e smontò.
In un baleno lo bendarono, lo circondarono e s'internarono nella macchia, curando di passar vicino al povero cocchiere che non s'arrischiava di muoversi, tant'era atterrito. Ma fu una finta, per far credere a questi che s'avviavano verso Cerda; poichè, fatti un trecento passi o poco più, ritornarono; e deviando a sinistra, si cacciarono per una viottola ripida che serpeggiava tra gli ulivi. Presto vennero in cima a un colle, vicino a un casolare diroccato tra un gruppo di querci, mastro Pasquale e il cugino Santo tenevano a mano sette cavalcature: cioè, tre cavalle con sella, e quattro mule con barde. Gli occhi di costoro s'accesero d'una viva gioia; guardavano il ricattato come se volessero divorarlo.
Nicola mise un fischio, e poco dopo apparve il su Francesco tirandosi dietro la cavalla, e sbuffando: se n'era stato alle vedette. Il bandito ammiccò come per domandare se si vedesse gente: il campiere alzò la mano e gli occhi.
—Monti, eccellenza, disse il bandito al povero Savarella che aveva guidato vicino una delle cavalle, e lo aiutò a salirvi su, e gli buttò sulle spalle un cappotto di cui gli mise il cappuccio sulla testa.
Intanto anche gli altri erano montati a cavallo e si erano chiusi ne' cappotti, Nicola fece l'istesso, e messosi in mezzo il ricattato, un dietro l'altro s'avviarono per il pendio opposto. Calava una notte dolce e serena, nel cui chiarore incerto que' ribaldi parevano tant'ombre nere in processione.
VII.
Il cocchiere arrivò davanti il portone di casa Savarella un'ora prima di far giorno. Picchiò un bel pezzo. Fu il canonico che si risentì per il primo. Saltò fuori dal letto, cercò nel buio i calzoni, se l'infilò e fattosi alla finestra, ne aprì l'impannata, mise la testa fuori, e domandò:
—Chi è?
—Io.
—Masi!
—Eccellenza, sì.
—A st'ora…. e con i cavalli…. e mio fratello!…
—Mi faccia aprire.
—Cosa è successo, bontà divina!
—Mi faccia aprire.
Nel tono della voce del servo c'era qualcosa che fece raccapricciare il canonico. Chiuse tutto tremante, cercò gli zolfanelli, accese il lume, e presolo con una mano, e messa l'altra davanti la fiamma, andò in punta di piedi verso la camera delle persone di servizio.
—Gnora Santa, chiamò picchiando all'uscio, gnora Santa.
—Chi è, rispose una voce chioccia e squarrata.
—Io, il canonico: vestitevi presto.
—Che cosa è stato?
—Vestitevi.
S'intese un tramestìo, poi uno strascicar di ciabatte, s'aprì l'uscio e comparve una vecchia mezzo vestita, e con gli occhi ancora tra' peli.
—Che cosa è stato?
Il prete le diede il lume e una chiave.
—Non so…. per amor di Dio andate ad aprire.
—A chi?
—A Masi.
—A Masi?
—Sì…. presto….
—Santa madre della Gibilmanna! esclamò picchiandosi il petto, che sia successa qualche disgrazia a don Bastiano?
—Non lo so… Masi torna coi cavalli.
—Santa madre!… E seguitando a picchiarsi il petto, scese le scale.
Il canonico s'era fermato sul pianerottolo, ma non potendosi resistere alla viva inquietudine che lo tormentava, si risolvè, e scese anche lui.
La gnora Santa aprì, levò il chiavistello, tirò a sè un imposta del portone, e il cocchiere entrò, tirandosi dietro i cavalli che impuntavano a causa della luce improvvisa.
—Masi…. disse la serva.
—Che cosa è stato? domandò il prete ansiosamente.
—Niente…. non abbia paura…. han sequestrato don Bastiano.
—Santa madre della Gibilmanna!
Il canonico, sbarrando tanto d'occhi in viso al cocchiere, era restato immobile, pallido come un morto, senza aver l'animo di dire una parola: poi piegò le ginocchia, e si lasciò cadere sur uno scalino….
—E dove l'han sequestrato? domandò la serva.
—Alla Ginestra…. Cinque malandrini sbucarono a un tratto dalla macchia come cinque diavoli…. A terra!… a terra!… oh, S. Paolo benedetto!… due saltarono al timone, due alle tirelle che tagliarono…. il quinto disarmò il padrone…. Mi fecero scendere, mi legarono, e mi buttarono bocconi nella macchia….
—Fratello mio, esclamò il povero canonico coprendosi la faccia con le mani.
Uno de' cavalli si scosse facendo tintinnare la sonagliera così forte, che Masi e la gnora Santa fecero un gran balzo, e si guardarono sbigottiti.
—Io restai più di un'ora senza potermi muovere, riprese il cocchiere rimettendosi, tutto vergognoso della paura avuta. Sarei ancora là se non fosse passato un carrettiere. Accorse a' miei lamenti, mi slegò, mi domandò del fatto…. M'aiutò a prendere i cavalli; io montai, e me ne venni al trotto.
—Povero don Bastiano…. povero don Bastiano…. ripeteva la gnora Santa.
Poco dopo per la casa era un bisbigliare sommesso, con esclamazioni di spavento e di pietà: l'altre serve si erano alzate anch'esse, e circondavano Masi che ricominciava il suo racconto.
—È stato alla Ginestra…. cinque malandrini sbucarono dalla macchia come cinque diavoli…. A terra!… a terra!…
E a quel grido anche alle serve le si accaponava la pelle.
Il canonico era entrato nella camera degli altri due fratelli, e l'aveva svegliati.
—Cosa è stato? domandarono: e si rizzarono a sedere sul letto, e si soffregavano gli occhi ancora gravi per sonno.
—Niente…. vestitevi, e venite nella mia camera.
Si vestirono in fretta, sbattendo i denti, presi da un freddo improvviso, e andarono nella camera del fratello maggiore.
E il pover'uomo dava loro la triste notizia, quando entrò la sorella tutta discinta, e inquieta.
—Cosa è successo…. cosa è stato….
—Niente, Annuccia…. non spaventarti, rispose il povero canonico.
—Voi piangete e non è successo niente!
In quella intese uno scalpiccìo, si voltò, e vide Masi e le serve che la guardavano con un certo viso che parlava chiaro. Li fissò portando le mani alle tempie bruscamente.
—Bastiano…. disse, e cacciò uno strido.
Il canonico corse verso di lei.
—Zitta, te ne prego…. sveglierai la mamma…. l'han sequestrato, povero fratello….
Una vecchierella corta, magra, curva per gli anni e per le pene, con quel colore pallidiccio di donna inferma nel volto scarno ed aggrinzato, comparve sulla soglia dell'uscio, e sentì quelle parole:
—Figlio mio!… esclamò con quel grido dell'anima proprio delle sole madri, s'abbandonò sull'imposta, e cadde.
Tutti balzarono, verso di lei, la sollevarono, l'adagiarono sulla poltrona. Le serve corsero per acqua, Masi andò per il medico.
Essa guardava or l'uno or l'altro de' suoi figli con gli occhi sbarrati, stupidi, non rispondendo punto alle loro premure.
Verso le nove fu un andirivieni di gente: parenti, amici, persone di casa, conoscenti, andavano a far un atto del loro dovere, con visi d'occasione. E lì cento domande, e cento racconti del fatto, ed esclamazioni di dolore, di stupore, e parole di conforto, e supposizioni, e commenti d'ogni genere. Quelli che rappresentavano il partito contrario negli affari comunali avevano il miele in bocca, e il rasoio a cintola. L'avevano preveduto, bisbigliavano tra di loro con un vivo compiacimento interno, un giorno o l'altro doveva finire così. Buona gente que' Savarella, tranne il canonico…. Non aveva avuto mai naso quel benedetto cristiano…. con la sua tirchieria, con la sua ambizione smodata, qualche nemico se l'era fatto…. Il suo sogno favorito era di spadroneggiare in consiglio, farsi nominar sindaco, dominare il paese, e asciugare la cassa…. Si credeva più potente di Domeneddio! e affè che l'aveva avuta una tremenda botta finalmente, una di quelle botte tra capo e collo che vi fanno sputar l'anima! Bene gli stava. Accade sempre così quando invece di badare a' fatti propri, si vuol rompere le tasche ai cittadini. Dispiaceva loro piuttosto per il povero don Bastiano, una pasta d'angelo davvero, che proprio non gli pareva fratello a quell'altro…. Ve' che strilli il sordido! i briganti non gli estorcerebbero meno di centomila lire: dove prenderli? dovrebbe imprestarsene una buona parte…. Si comincia così, e poi…. e poi non si sa dove si va a parare. Umh, quella era una casa rovinata per certo. Gli onesti, e son sempre i meno, erano atterriti e addolorati a un tempo: essi non si tenevano: parlavano a voce alta, accesi in volto, gesticolando. Sì, il governo era debole, i capi delle provincie e dei circondari tante schiappe; pareva che i ministri li cercassero apposta col lanternino per farne un regalo alla Sicilia. Avevano distrutta la banda di Rinaldi, che batteva la campagna da sei anni; bravi davvero! tanto il topo s'aggira attorno alla trappola sinchè ci resta: ma non avevano distrutto il malandrinaggio. E poi, i Leone, i Capraro, i Saieva, gli Alfano, non comandavano ancora orde di scellerati che seguitavano a farne d'ogni colore in barba alla giustizia? Come s'erano formate quelle bande? Ecco il dito sulla piaga! Via, pertutto dove c'eran uomini c'eran delitti, pertutto i rei cercavano di prendere il volo; meglio uccel di bosco che uccel di gabbia, dice il proverbio.
L'inettitudine della polizia che non sapeva tender bene le sue reti, la lentezza con cui s'istruivano i processi…. e un pochino anche un certo odor di nerbate, allargavano la piaga. I latitanti erano il semenzaio delle bande, una minaccia continua, un pericolo continuo; dunque era da supporre che si facesse di tutto per cercar d'arrestarli, commessa la sciocchezza d'esserseli lasciati scappare: invece non se ne faceva nulla! Erano scassa pagliai da quattro alla crazia, e non metteva conto d'occuparsene seriamente; anzi si cercavano con svogliatezza, come i cacciatori di grossa selvaggina cercano le allodole….
Piaceva la cuccagna del soprassoldo, ecco! E veniva pur troppo il tempo che gli scassa pagliai fatto l'abito a una vita travagliosa e piena di pericoli, il callo ai delitti, minacciavano la società seriamente! Allora cominciava un'altra farsa. Si mandavano, soldati, carabinieri, militi, a rinforzare i distaccamenti: e sin qui transeat, meglio tardi che mai. Ma eccoti che la cosa degenerava in vera torre di Babele: ordini, contrordini, dispacci, controdispacci, il comandante il corpo de' carabinieri a' carabinieri, il comandante dei militi a' militi; il generale ai maggiori e questi agli ufficiali; il prefetto ai sottoprefetti e questi ai delegati, ciascuno per conto proprio, volendo per i suoi solamente l'onore della cattura della banda, e perciò avversandosi a vicenda, tenendosi celata a vicenda una buona notizia, sfuggendosi a vicenda quando si trattava dell'arresto d'un brigante, che poi novantanove volte su cento si lasciavano scappare…. Nè questo era tutto: dal comando dei carabinieri si sguinzagliavano di soppiatto carabinieri travestiti; dal comando dei militi, militi travestiti; dalla prefettura delegati straordinari, con pieni poteri, e squadriglie d'occasione: il che, essendo causa d'equivoci strani, non solo accresceva la confusione, ma generava un servizio zoppicante, che faceva maggiore l'ardire e la iattanza dei malfattori, soffocava il coraggio dei cittadini. I quali poi, per assicurare vita e proprietà, loro malgrado dovevano far buon viso a quella canaglia. E si osava bandir la croce addosso alla Sicilia!! Questo diceva la gente onesta, e non aveva torto.
Intanto, segretamente, s'era mandato qualcuno ad aggirarsi nelle vicinanze del passo della Ginestra, ad aspettare notizie del ricattato: i banditi certo dal canto loro dovevano cercare di far arrivare la solita lettera alla famiglia. Ma in tutto quel giorno non si vide anima nata. La costernazione era orribile. Solo la povera vecchierella non sentiva, nè doveva sentire più nulla: in letto, sollevata fra un monte di cuscini, guardava tutti con quegli occhi sbarrati nel volto pallido e affilato.
VIII.
Malupirtusu è un'aspra gola che sbocca nel littorale nord della Sicilia, a un piccolissimo tratto del quale dà il nome, e divide una linea di montagna che corre lungh'esso, da un lato sino a Cefalù, dall'altro sino a S. Stefano. La via regia che ne taglia l'estremità delle falde, esce da Cefalù, rientra in un largo seno, si mostra in una sporgenza, passa tra due alte pareti di sasso tagliate a picco, costeggia la gola di cui accavalcia il torrente con un ponte, poi corre diritta salendo leggermente, sinchè si perde tra le schegge e i macigni rossastri d'un promontorio.
Il luogo, dovunque si volga lo sguardo, è d'una bellezza selvaggia: è un arruffio di borri ispidi di triboli e di spine; di coste a ginestre e a fichidindia; di vallate tutto un fitto di roselle con delle querci gigantesche, solitarie, che si rizzano a grandi distanze; di colli con un po' di falda a macchia, il resto nudo e sassoso, se togli qualche oleastro dal tronco contorto, qualche cespuglio abbarbicato nelle fessure dei precipizi; d'erte a bosco, a uliveto, dove s'inerpicano cerri secolari, o ulivi saracineschi dai tronchi neri e bitozzoluti. E qua ti dà nell'occhio un dirupo con qualche albero scortecciato dalle radici scoperte simili a giganteschi tentacoli di polipo, il quale par che pencoli, alzando al cielo i rami secchi quasi scarne braccia che chiedano aiuto; là una rupe giallognola solcata di larghe venature rossastre; o un cumulo di macigni coperti di borraccina, che ti fan pensare a mostruosi giganti che ce li avessero trasportato per l'innalzamento d'un edifizio titanico, del quale poi, Dio sa per quali circostanze, fu di mestiere abbandonare il disegno. Per tutto si svolgono allo sguardo picchi rotondi, o stranamente acuminati, tagliati in isbieco, o a pan di zucchero, gli uni boschivi, gli altri brulli e sassosi. Sotto la via si stende la spiaggia arida, sabbiosa, sparsa qua e là di scogli neri, or solitari or a gruppi, e l'immensità del mare che si confonde con l'orizzonte, in fondo al quale, fra una nebbia azzurrognola, s'intravveggono i monti dell'isole di Lipari.
La torre del Chiarchiaro (ora distrutta) sorgeva sull'estrema punta d'un piccolo promontorio, dalla parte di terra nascosta alla vista d'alti macigni e cespi di fichidindia.
—È tardi, disse mastro Vanni: dovrebbero esser già qui.
—Aspetteranno che annotti, nascosti nella macchia. Nicola è prudente, rispose Sciaverio.
Se ne stavano appoggiati agli stipiti dell'uscio, chiusi nei loro cappotti, con gli occhi fissi nella via che serpeggiando fra' macigni, sboccava nella spianata una trentina di passi distante dalla torre.
Il sole declinava dietro una massa di nuvoloni torreggianti, che si venivano facendo d'un colore di fiamma; il mare, agitato leggermente, correva alla spiaggia livido, sfumante, e con un fruscìo crescente sempre più, vi si slanciava, sollevandosi qua e là in mille sprazzi. Qualche gabbiano con l'ali tese tracciava cerchi a fior d'acqua, si posava, si lasciava cullare dalle onde, poi s'alzava a volo da capo: giù in fondo due vele fuggivano verso il Finale.
—Che fosse successo qualche diavoleria? riprese il vecchio dopo un po' di silenzio.
—Umh…. non lo credo.
Mastro Vanni borbottò qualche cosa che l'altro non intese.
Il sole declinava, declinava; il rosso delle nuvole a grado a grado cambiavasi in cenericcio, le onde quasi d'inchiostro luccicavano cupe alla morente luce del giorno.
Sta picciuttazza ch'è nfanfara, Ch'è nfanfara, ch'è nfanfara….
si mise a canticchiar fra' denti Sciaverio, di sicuro per nascondere al compagno una certa inquietudine che cominciava a impadronirsi anche di lui. Ma s'interruppe a un tratto….
—Sst, fece, posando una mano sul braccio del vecchio gufo, e restò ad origliare.
—Che c'è? domandò questi.
—M'è parso d'aver sentito un fischio.
—Che fischio e fischio! chi sa a che ora verranno stasera…. se…. basta, Dio ce la manda buona.
Vaia ti dicu finiscila, Finiscila, finiscila….
ripigliò Sciaverio fra' denti, sbirciandolo di traverso.
Mastro Vanni si stringe nelle spalle, aperse il suo cappottaccio, vi s'avvolse meglio dentro, e riappoggiatosi allo stipite della porta, si rimesse a borbottare.
Trascorse un quarto d'ora, durante il quale s'era fatto notte. Si sentiva sempre il fruscio monotono del mare, i tonfi cupi dell'ondate che si rompevano sugli scogli. Un baleno senza tuoni accendeva le nuvole di una luce scialba, con guizzi e serpeggiamente rapidissimi.
—Lampeggia, ricominciò il vecchio: non ci mancherebbe altro ora, la tempesta!
Sciaverio non rispose.
Ma pochi minuti dopo i due birboni trasalirono: un vero fischio questa volta echeggiava lungo e modulato.
—Sono qua…. disse mastro Vanni gongolante.
—Dubiterete ancora, uccellaccio del malaugurio! E Sciaverio messi i due indici nella bocca rispose con l'istesso fischio lungo e modulato.
Allora alla luce rapida del balenio, si vide nella spianata una fila d'ombre nere a cavallo…. Poi un gruppo confuso: uomini smontati, bestie, un uomo solo a cavallo. Ma anche questo dovette smontare, poichè poco dopo, a un altro baleno, si videro alcuni ricacciarsi fra' macigni tirandosi dietro le cavalcature, cinque venire verso la torre.
—Ehi….
—Ehi, rispose il capofila, il quale tenendo il ricattato per una mano se lo tirava dietro.
—A st'ora?
—A st'ora.
Entrarono nella torre.
Quella del pian terreno era una larga stanzaccia affumicata, col solito focolare nel mezzo qualche furrizzo, un lettaccio, una tavola, un fucile a una canna appeso a un chiodo, un vecchio armadio a muro. Tutto ciò visto al debole chiarore della fiamma azzurrognola che mandavano alcuni tizzi, era d'un effetto strano: pareva d'essere in un antro da tregenda.
Mastro Vanni chiuse l'uscio, poi andò ad accendere un lume e una lanterna.
—Perchè così tardi? domandava intanto Sciaverio sottovoce a mastro Pasquale.
—Lasciateci stare, rispose questo nell'istesso tono: mancò poco che non c'incontrassimo con la forza!
—Per la madonna!
—Calavamo pel bosco di Lanzeria, e giù nel torrente c'erano i bersaglieri…. noi non l'avevamo veduti: fortuna che ce n'avvertì un porcaio! Tornammo subito indietro, e dovemmo fare un gran giro. Basta, grazie a Dio l'abbiam scampata bella, e siamo qua.
—Porca cagna…. cominciò compare Santo. Ma Nicola venne a interromperlo.
—Presto, di guardia dietro la porta, disse ai due cugini; non è tempo di ciarlare questo. E si riavvicinò al ricattato, che se ne stava nel mezzo della stanza, immobile, a capo basso, come persona stanca e abbattuta, illuminato pienamente dalla lanterna di mastro Vanni il quale lo covava con gli occhiacci rossi come quelli di Caronte. Don Bastiano era ancora bendato; la benda, un fazzoletto a quadrelli rossi e bianchi, spiccava nel suo viso pallido sotto al cappuccio: dei sospiri sollevavano le sue spalle di tratto in tratto.
Nicola richiamò i due cugini che stavano già per Uscire.
—Ehi, disse, che creanza è questa! baciate la mano a sua eccellenza prima d'andarvene.
—E mentre i due giovani prendevano un dopo l'altro la mano del povero Savarella che lasciava fare, e la baciavano, il bandito cacciò fuori tanto di lingua.
Dietro l'uscio Santo e Pasquale si consultarono. Li avevano fatto uscire, avevano fatto restare il palermitano…. non c'era altra via che menasse alla torre che la viottola fra' macigni, e questa era ben custodita: perchè dunque l'avevano mandati a far la guardia? Certo perchè non vedessero dove nascondevano il sequestrato…. Diffidavano di loro. Ma loro non eran uomini da lasciarsi gabbare tanto facilmente: uno farebbe la guardia, l'altro guarderebbe per il buco della chiave. E senza metter tempo in mezzo, mastro Pasquale v'applicò l'occhio.
Avevano spostato il letto. Il ricattato era sempre immobile nel mezzo della stanza; gli stavano vicino Sciaverio e Maraviglia: Nicola con la lanterna in mano faceva lume al vecchio gufo, che, inginocchioni nel posto ove prima era il capo del letto, con un pezzo di ferro aguzzo aveva sollevato i quattro mattoni dell'angolo incastrati nella ribalta. Posò il ferro, si rivolse, prese la lanterna che gli dava Nicola, appoggiò la mano libera sull'impiantito, introdusse nell'apertura prima una gamba e poi l'altra, e cominciò a scendere sotterra, a poco a poco come uno spettro.
Allora il bandito s'avvicinò al Savarella.
—Venga, eccellenza. E lo prese per una mano, lo condusse vicino l'apertura, lo fece inginocchiare, gli fece fare gli stessi movimenti che aveva fatto mastro Vanni, e quando scomparve, si calò giù anche lui.
Sciaverio e Maraviglia restarono: bisbigliando, andarono a sedersi al fuoco sul quale stesero le mani per riscaldarsele.
Una diecina di minuti dopo nell'apertura ricomparve la faccia di vampiro di mastro Vanni.
—Eccellenza, si può levare la benda, disse Nicola al ricattato.
Don Bastiano si levò il cappuccio di sul capo, e si sciolse la benda: sbattè le palpebre abbagliato dalla luce improvvisa, poi guardò intorno.
Si trovava in una specie di grotta con la volta a cupola, dalle cui pareti trasudava un umidore verdastro. In un angolo c'era per terra uno strapunto, con un guanciale e una coperta di lana piegata: dall'altro lato un furrizzo, e un deschetto: sul deschetto una lucerna di stagno a due beccucci, un paniere coperto con un tovagliolo, due bicchieri, due bottiglie, una di acqua l'altra di vino, una castellina di piatti, e delle posate d'ottone.
Sarà stanco, disse il bandito con gentil premura.
—Un poco, rispose l'infelice: e mise un sospiro.
Allora Nicola cominciò a fargli animo. Via faceva male a prendersela a quel modo; era una bazzecola che non metteva conto impensierirsene!
Tanti e tanti s'erano trovati nell'istesso caso di lui, per questo avevano creduto che fosse il finimondo? avevano pagato e tutto era finito.
Era dura la maniera di cavarsela…. ma… che farci? correvan certi tempi che si scarseggiava di tutto…. non si poteva poi campar d'aria! Chi doveva venir loro in aiuto se non i ricchi? Essi dovevano coprire i bisognosi col manto della carità…. Via scrivesse una letterina al canonico, e gli prometteva di ricondurlo a casa, senza che gli fosse stato torto un capello. Voleva vederlo allegro però, sangue…. Nel paniere (e accennava con la mano) c'era del pesce fritto, un poco di carne fredda…. non s'era potuto aver altro in quella confusione: ma l'indomani si provvederebbe meglio. Se il vino era buono poi, lo conoscerebbe assaggiandolo. Dunque voleva che mangiasse bene, bevesse meglio, senza pensare a guai.
Il furrizzo era troppo basso perchè il Savarella potesse mettersi a scrivere al deschetto: e perciò Nicola prese un piatto e glielo porse rivoltato, gli dette un foglio di carta piegato, che s'era levato di tasca in una a un calamaio di corno a vite. L'aperse, si mise coccoloni davanti a don Bastiano; e gli diede la penna. Questo s'era seduto, aveva posato il piatto sulle ginocchia; e spiegatovi sopra il foglio, prese la penna, l'intrinse nel calamaio, e domandò:
—Che devo scrivere?
—Manca talento a vostra eccellenza?
—Io non so…. dettate voi.
—Ma….
—Ve ne prego.
—Come comanda…. Scriva dunque….
E cominciò:
CARO…. FRATELLO,
Mi trovo…. nelli mano…. di pericolosi…. malfattori…. li quali….. vogliono…. la somma…. di due…. cento…. mila…. liri….
Il povero giovine trasalì; si fece bianco come un cencio, e alzò il capo.
—Duecentomila lire…. balbettò con un fil di voce. E il bandito accennò di sì tranquillamente.
—Duecento mila lire! ma…. dove volete che li prenda il povero mio fratello tutti questi danari.
—Oh! che dice mai! riprese l'altro. E scegliendo i termini, seguitò: vostra eccellenza butta giù troppo la sua casa: il canonico, se vuole, può pagar questo ed altro ancora.
—V'ingannate: vi giuro anzi….
—Non si sfiati. Mi vorrà dire che non l'ha nel cassetto…. comprendo: ma si sa come vanno queste cose; non s'ha la somma ma si può trovarla.
—E dove? tutto il nostro patrimonio riunito…. non ammonta a duecento mila lire…. Siate buono signore….
Ma Nicola tagliò corto stringendosi nelle spalle. Gli dispiaceva…. voleva poterlo contentare…. ma aveva ricevuto dai suoi compagni ordini assoluti, non poteva mancarvi…. Essi erano sicuri che la famiglia, volendo, poteva trovare quella somma….
E finì con un risolino:
—Il nibbio quando afferra la gallina, sa se è grassa o magra.
—Volete la mia morte allora.
Nicola affettò un'aria di stupore grandissimo.
—La sua morte!… o perchè dovremmo volere la sua morte! Tutt'altro. Che la famiglia paghi, e a vostra eccellenza non sarà torto manco un capello, la mia parola è una: anzi faremo voti che Dio gli accordi lunga vita e prospera salute al primo bicchiere che vuoteremo dopo che avremo ricevuti i danari.
Che rispondere?
—Dettate, disse il povero giovine con un sospiro. E l'altro rispose:
—Dunque…. li quali vogliono la somma di duecentomila liri…. La somma dovrà essere portata…. da due individui…. che l'uno…. deve cavalcare…. una mula mirrima¹…. Verranno per Cerda…. Fontana russa…. alla serra dei Gancitani…. Si avvicinerà uno…. che gli domanderà…. se…. portano olio…. a Petralia…. La somma…. la divono…. consignari a quillo…. Se non trovano…. a nissono…. dovranno…. ritornari…. per la stissa…. strata….
¹ Storna.
E Savarella aveva firmato questa strana lettera, quando il bandito, accennando col dito teso verso la carta, soggiunse:
— Omissis …. Non facciate…. passo…. al giostizia…. se no…. la mia vita…. è…. in pericolo…. E fate presto…. che lo tempo longo…. è peggio pel malato.
Cinque minuti dopo il bandito, dopo d'avere raccomandato di nuovo al povero giovine di stare allegro, e non pensare a guai, usciva e serrava l'uscio della grotta a doppia mandata.
Il ricattato restò solo, immobile sul furrizzo, a capo basso e con le mani contratte sulle ginocchia.
Che notte orribile che aveva passata, e che giorno più orribile ancora! quanti pensieri in quel povero cranio, alimentati continuamente dal pericolo presente, dal timore dell'avvenire incerto, dai ricordi della famiglia, del rammarico d'essersi avventurato così solo, in tempi non ancora quietati del tutto!… Poi spossato per tante commozioni, intirizzito dal freddo, rotto dalla fatica, era caduto in una specie d'inerzia del corpo e dell'anima: il dolore gli aveva accordato una tregua. Ora lo riassaliva con più ferocia, con più accanimento: ridestava quel timore, que' pensieri, que' ricordi in folla, ne suscitava altri propri della nuova piega che prendevano le cose.
—Duecento mila lire! mormorava dimenando il capo dolorosamente, duecento mila lire!… Poi batteva palma a palma e soggiungeva: una morte orrenda e disperata!
E riandava i tanti ricatti, pigliando materia a nuovo terrore: vedeva Porcari, Sgadari, Rose, tra le braccia della famiglia nel tripudio del ritorno, ma vedeva Saeli, Sciortino, Catalfano, bruttati di sangue, lividi, mutilati…. vedeva sè stesso con lo spavento nel volto, nelle mani dei suoi carnefici, tra un lucicchio di coltelli; sentiva il freddo doloroso del ferro in vari punti della persona, lo smarrimento della morte…. Si vedeva cadavere bruttato di sangue, livido, mutilato come quegli altri.
—Duecento mila lire! ripeteva dimenando il capo dolorosamente: duecento mila lire!
Ma un crampo allo stomaco lo fece trasalire: non aveva mangiato da trentasei ore; aveva fame: e macchinalmente portò gli occhi al paniere.
Allora un ricordo venne come un lampo a dargli una più forte puntura: due sere avanti aveva cenato allegramente in famiglia…. Parevagli di sentire le care voci dei suoi. Annuccia lo canzonava piacevolmente per un certo matrimonio che gli era stato proposto con una ricca signorina; il fratello canonico, a cui spiaceva che la cosa si mettesse in burla, cercava di interromperla con delle gravi considerazioni…. Lui, pur rimbeccando la sorella, guardava la mamma: lo sapeva quanto gli stesse a cuore quel matrimonio alla buona vecchierella! e vedendo a rannuvolarsi il suo povero volto disfatto dalla malattia, ammiccava con gli occhi per rassicurarla….
Non si potè più frenare: il suo cuore traboccò come un vaso troppo pieno: nascose la faccia tra le mani, e pianse: pianse a lungo, inconsolabilmente.
Nel silenzio s'udirono i singhiozzi del disgraziato, i colpi cupi e monotoni del mare che assaltava lo scoglio con la cocciutaggine delle potenze brute.
IX.
La polizia s'era messa in moto. Arrivavano bersaglieri, guardie a cavallo, comandanti, delegati…. un mondo di gente insomma, che si sparse per le campagne, e si diede a batterle per ogni verso.
Tuttavia la lettera fatta scrivere al povero don Bastiano, pervenne alla famiglia.
Un uomo a cavallo, chiuso nel cappotto, l'aveva consegnata al fattore della Rocca sull'imbrunire, mettendo ogni suo studio nel nascondersi il viso dentro il cappuccio.
Il canonico la lesse; diventò bianco come un panno lavato e la diede a' suoi fratelli.
—Duecento mila lire!… duecento mila lire!… si messe a balbettare con le braccia ciondoloni. Meschino me!… meschino me!…
Don Ciccio e don Salvatore s'abbandonarono sulle sedie, l'uno con la testa tra le palme, l'altro dondolandola.
—Duecento mila lire!… duecento mila lire!… casa rovinata…. casa rovinata!
Gli scellerati volevano morto il fratello dacchè domandavano quella somma ch'essi non avrebbero potuto pagar mai!
Basta, fu il fattore che riuscì a calmarli in certo modo. Egli non aveva i capelli bianchi per nulla; sapeva come andavano quelle cose; i ladri domandavano sempre molto e poi finivano col contentarsi di una miseria.
Provvedessero la mula storna, del resto se n'incaricava lui.
Una mula storna?… o chi diamine n'aveva delle mule storne?… ah, sì, Peppe Facce di vino; e si mandò da questo.
Peppe era in viaggio; ma tornava la sera; la moglie promise di mandarlo a servire il canonico verso un'ora di notte.
—Bacio la mano a vostra eccellenza, disse togliendosi il berrettino di cotone nero.
—Vi saluto, compare Peppe; accomodatevi e mettete in capo.
—M'ha mandato a comandare? riprese il trafficante d'oli rimettendo il berrettino e sedendosi.
—Sì…. Volevo dirvi…. se domani potreste andare a portare un carico d'olio a Petralia.
—Per vostra eccellenza anderei anche a buttarmi in mare.
—Grazie, compare Peppe…. Verrà con voi il fattore…. Pare che ci sia richiesta d'olio da quelle parti e se se ne potesse fare una vendita in grosso….
—Bene, per questo lasci fare a noi.
—Andate a prendere gli otri dunque: faremo il carico…. Stanotte il su Mariano passerà da casa vostra e vi metterete in via.
Così partirono due ore prima che aggiornasse, senz'essere molestati e due ore circa dopo mezzogiorno arrivarono alla serra de' Gancitani: un luogo affatto nudo ed alpestre, con una sola casaccia in costa.
Lì si fermarono; e il su Mariano dette uno sguardo intorno. Non si vedeva un'anima: lo stradale che si stendeva lungo e bianco fra' maggesi neri di grano marzuolo era deserto; l'istessa casa, con una fila di piccole finestre quadrate dall'imposte rosse chiuse ermeticamente dietro l'inferriate, pareva deserta.
—Compare Peppe, disse il fattore, non vogliamo prendere un boccone?
—Prendiamo un boccone, su Mariano.
Smontarono. Il fattore levò le bisacce di dosso alla cavalla, ne cavò fuori un pane, il fiasco con il vino e un microscopico pezzettino di cacio avvolto in un tovagliolo. Sedettero in terra e si misero a mangiare, mentre le bestie pascolavano lungo il ciglio della via.
—Compare Peppe, disse il su Mariano portando in bocca un briciolino di cacio, che aveva tagliato con la punta del coltello; è venuta l'ora di dirvi il perchè del nostro viaggio.
—Non c'è bisogno, su Mariano; ier sera intesi tutto per aria…. Portate i danari a' briganti, eh?
—No, compare Peppe, non porto i danari ai briganti, ma vengo per cercare d'accomodar la cosa…. Vogliono sedicimila onze nientedimeno! O dove l'hanno i miei poveri padroni tutti questi danari! tutto quello che posseggono non arriva manco a trentamila….
Ma in questa s'era voltato e aveva veduto muoversi delle teste, lassù, dietro a certi pietroni.
—Oh, oh!… disse: credo che sian qui.
—Dove?… io non li vedo.
—Là; dietro a quelle liste.
—…. È vero.
—Guardate, scende uno…. E il su Mariano, per darsi certo un po' di coraggio, preso il fiasco, ne levò il turacciolo, si passò il rovescio della mano sulle labbra e bevve a lunghi sorsi.
Difatti, un uomo, avvolto nel suo cappotto, scendeva di buon passo.
—Ehi! disse, come fu vicino a' due che mangiavano.
—Volete restar servito? disse il fattore: e gli porgeva il fiasco.
—No, grazie…. Di dove si viene?
—Dalla Roccella.
—Chi siete?
—Il su Mariano Grasso, fattore dei signori Savarella.
—Portate olio a Petralia?
—Già.
E così dicendo il fattore s'alzò, s'avvicinò a quell'uomo al quale non aveva levato gli occhi d'addosso, e gli disse sottovoce:
—Siete l'amico che aspettiamo?
—Portaste i danari?
—Vorreste camminare un poco se non vi dispiace?
—Camminiamo.
—Come potevo portarli i danari, fratello mio! son somme da chiedersi queste? Meno male se i miei poveri padroni fossero in istato di poterle pagare…. voi altri stessi che avrete prese prima tutte le informazioni, dovreste saperlo: tutto quel che possiedono è assai se arriva a una trentina di mila onze: li volete ridurre all'elemosina? E poi, i Savarelli han rispettato sempre i latitanti; e alla Rocca pane, alla Rocca vino, alla Rocca orzo non n'è mancato mai a nissuno. Per me, non dico!… non ho fatto mai la spia, anzi sono stato sempre l'amico degli amici, che, per loro bontà, a dirla tale e quale, m'han rispettato sempre. Dovevo a questo l'aver fatto i capelli bianchi senza aver ricevuto mai uno smacco. Ora pare che i tempi siano cambiati. Basta, sinchè uno a i denti in bocca, ei non sa cosa gli tocca. Ah! quella buon'anima di compare Angelo e quel cristianone di compare Vincenzo! ma l'uno, poveretto, lo fecero a pezzi sotto S. Mauro, l'altro s'ammazzò a Polizzi per non cader vivo nelle mani della giustizia…. Se ci fossero loro!…
E per insinuarsi nell'animo di quell'uomo, si messe a contargli il come e il quanto lo rispettassero compare Angelo e compare Vincenzo.
Nicola (era lui) l'aveva ascoltato stringendosi di più nel suo cappotto.
Umh, gli disse infine, compare Mariano aveva torto se credeva che gli si avesse voluto fare uno smacco: che si sapeva che uomo era; ma…. i tempi correvan difficili… non c'era più alcuna risorsa, non più amici fidati. Santo diavolo, lo credeva? erano quanto gli sbirri di Pulcinella in quella faccenda e a ciascuno sarebbe toccata una miseria. Via, glielo dicesse schiettamente, valeva la pena di risicar la pelle per una miseria? E dunque!…
Tuttavia, a solo riguardo suo…. era una libertà che si prendeva senza consultare i compagni, dalla somma ci levava due mila onze e non se ne doveva parlar più. C'era che dire?
Ma il su Mariano tentennava il capo. Due mila onze! si trattava di tutt'altro! dovevano farlo a lui questo favore, dovevano scendere più giù, molto più giù…. si dovevano contentare d'un caffè.
Nicola si voltò bruscamente. Che caffè e caffè…. E siccome l'altro insisteva, tagliò corto:
—Infine, che siete venuto qua a prenderci per minchioni?
E usciva fuori con la solita storia di pelle e di sbirri di Pulcinella. Sangue…. ammazzerebbero don Bastiano e buona notte.
Allora il fattore si fece umile umile: alla sola idea che quegli assassini potrebbero ammazzare il povero padrone, si sentiva commosso, gli spuntavano le lacrime. Oh, no, questo mai! diceva con voce tremante, questo mai! Che ne guadagnerebbero? Egli l'aveva allevato quel povero giovine e l'amava come un suo figliolo…. che colpa ci aveva se…. Si sfogassero su di lui piuttosto: quando volessero, egli verrebbe coi suoi piedi ad esporsi a' loro colpi, purchè non torcessero un capello al suo povero padrone. Egli l'aveva allevato, l'amava come un figliolo….
—Non parlate di levare un centesimo di più allora.
—Ma sentite….
Insomma dopo un ora di tira tira, di consulte e bisbigli con i compagni che aspettavano nascosti lassù nelle liste, si stabilì che i Savarella pagherebbero centomila lire; e questo a riguardo del su Mariano che era un amico. Egli stesso porterebbe il danaro tra due giorni a' Gammisini: lo riconoscerebbero a un fazzoletto rosso, che si legherebbe attorno il capo.
Il buon vecchio si fece promettere che durante quel tempo non farebbero un male al suo padrone, e li lasciò.
X.
Al canonico la somma parve ancora enorme. S'aggirava per la camera tutto costernato. Meschino me!… Meschino me!… giungeva le mani, alzava gli occhi al cielo. Don Ciccio, don Salvatore, andavan dietro al fratello, con gran sospiri, ripetendo ch'eran rovinati.
La sola Annuccia, poveretta, pareva non accorgersi di nulla: era come una Maria, al capezzale della mamma, la quale seguitava a guardar tutti con quegli occhi sbarrati nel volto pallido e affilato.
Il povero fattore si grattava la zucca: aveva fatto di tutto, ripeteva, che colpa ci aveva se non era riuscito che a metà? I padroni si calmassero però, ogni speranza non era poi perduta. I banditi gli avevano promesso formalmente che a don Bastiano non gli torcerebbero un capello; questo era l'essenziale…. Intanto bisognava vedere…. bisognava cercare….
E avvicinatosi finalmente al canonico e tiratolo in disparte, a voce bassa e con mistero, gli disse:
—Al Barone ha da ricorrere vostra eccellenza…. lui può tutto. Non metta tempo in mezzo, accetti il consiglio del suo povero servo che non si sbaglia.
La speranza entrò nel cuore del canonico.
—Buona idea, disse: ed io che non ci avevo pensato!
Don Salvatore e don Ciccio s'avvicinarono: vollero esser messi anche loro a parte della buona idea.
Approvarono.
Buona, proprio buona! non c'era altra via. La comunicarono alla povera Annuccia, i cui occhi si ravvivarono: s'alzò, si curvò sulla madre, e gli disse la cosa a voce alta, come si farebbe con un sordo.
Si mandò dunque il fattore in casa del Barone: il canonico aveva scritto a quest'ultimo una lettera tutta complimenti, pregandolo di voler favorire a casa loro. Non dimenticò d'aggiungere che sarebbe stato debito suo di recarsi al palazzo, ma lo scusavano le circostanze: gli perdonasse pertanto la libertà che si prendeva.
Il Barone arrivò poco dopo, tutto sudato. Era un ometto di media statura, secco, con un cordone di barba nera, naso e mento aguzzi.
Il canonico era andato ad incontrarlo a piè della scala, seguito da don Ciccio e don Salvatore, e si buttò tra le sue braccia piangendo. Egli, dati que' conforti che si soglion dare in simili occasioni, entrò col capello in mano asciugandosi il capo pelato con la pezzuola bianca. Aveva una paura maledetta delle correnti d'aria il povero Barone; sicchè adocchiò un angolo che a lui parve riparato, e andò a sedervisi: sedettero anche gli altri. Allora il canonico cominciò a spiegargli il perchè aveva ardito d'incomodarlo…. ma e' gli dava poco ascolto; guardava con una certa inquietudine un uscio spalancato di faccia a lui, e si dimenava sulla sedia come se avesse la voglia dell'acqua: sì che il canonico, accortosi infine di quell'armeggìo, e comprendendo alla direzione dello sguardo, disse a uno dei fratelli d'andare a chiudere.
Il Barone lo ringraziò col suo più gentile sorriso, e un inchinar di testa.
Oramai era tranquillo, e poteva ascoltare. E ascoltò tutto attentamente. Di tratto in tratto aggrottava le sopracciglia, allungava il muso, approvava con un moto della testa. Ciò dava un non so che di buffo alla sua figura: in tutt'altre occasioni uno sarebbe stato tentato di scoppiargli a ridere sul mostaccio.
Tuttavia era un ometto che la sapeva lunga, e il suo rispetto l'aveva portato. Prese a cuore l'affare; promise di tentar tutte le vie; si spinse sino ad accertare che po' poi sarebbero restati contenti, fidassero in lui. La verità era che non ci stava nella pelle che avessero ricorso a lui: il bon uomo s'inorgogliva d'esser utile a qualche cosa, di poter distrigare una matassa arruffata, cavar qualcuno fuori da un ginepraio: ciò, a buoni conti, mostrava quanto prevalesse in paese. S'alzò e accomiattandosi dai tre fratelli, stringendo la mano ad ognuno, e portandosela al cuore, con uno sguardo che suggellava le sue promesse, e uscì accompagnato sin nell'entrata dai Savarella che si sbracciavano in ringraziamenti.
La sera stessa fece venire da un suo fondo nelle vicinanze del paese, un certo tomo: un maurino alto e barbuto come un S. Cristoforo, tutto butterato dal vaiuolo. Lo condusse nello scrittoio, chiuse l'uscio con la massima cura, a causa di quelle benedette correnti d'aria, sedette, e cominciò:
—Pietro, devo parlarti.
—Comandi, eccellenza.
Come tutti i maurini, parlava con accento rapido e vibrato, appoggiando la voce sulle prime sillabe.
—L'altr'ieri al passo della Ginestra, Tagliaferro ed altri sequestrarono il povero don Bastiano Savarella.
—Lo so, rispose il camparo con un risolino scaltro.
—Avevano domandato alla famiglia due centomila lire e le volevano portate ai Gancitani….
—Lo so.
—Ci andò il su Mariano Grasso e ottenne qualche cosa…. la diminuzione di metà della somma….
—Lo so.
—Però, come vedi, la pretesa è ancora pazza.
Allora quello che sapeva tutto, per far gl'interessi degli amici, trovò la parola.
—Eccellenza, i tempi corrono difficili…. A dividersi quel danaro chi sa quanto diavolo saranno; e a ognuno non toccherà manco da comprarsi un boccon di pane…. La gente poi non può morire di fame!
—Capisco…. riprese il Barone a mo' di transazione, non volendo per i suoi fini contrariare le idee curiose che aveva il maurino su' mezzi adoperabili per procacciarsi da vivere. Ma quando uno non l'ha quella somma, ed è nell'impossibilità di trovarla!
Pietro si strinse nelle spalle.
—Tu lo sai meglio di me, i Savarella non sono poi tanto ricchi da poter pagare ottomila onze come niente: se i picciotti non possono morire di fame, un galantuomo non può ridursi sulla paglia per loro! bisogna esser ragionevoli.
Insomma…. quella mattina era stato dai Savarella… aveva promesso di mischiarsi nella cosa, si dovevano aiutare.
E qui, conoscendo l'uomo, cominciò a adularlo: fidava in lui, pienamente in lui; l'aveva scelto apposta fra tante persone di servizio che aveva, appunto perchè era persuaso che un altro Pietro non c'era in tutta la Sicilia a cercarla con il lanternino di Diogene: destro, coraggioso, scaltro, fidato, di gran conoscenze, di grande abilità, e tenace da non dare addietro nell'impresa più rischiosa. Egli solo poteva fargli fare una buona figura in quella faccenda, e va discorrendo.
Il maurino, così barbuto e grosso com'era, apparteneva alla specie di quegli uomini-pesce che mordono alla lode, quanto più sperticata: oltre di ciò il Barone l'aveva beneficato: era ammonito e non lo voleva nessuno; si sarebbe perduto se non l'avesse pigliato al suo servizio, e aveva moglie e figlioli, gli aveva fatto levare l'ammonizione, provvedimento che se non fosse arbitrario, sarebbe un buon correttivo per il siciliano, appunto perchè lo teme come la peste; quanta riconoscenza dunque non aveva egli per quell'uomo? Lo soleva chiamare il suo secondo padre, e veramente si sarebbe fatto fare a pezzi per lui. Queste due cose insieme fecero sì che trovasse al solito la parola, si sbracciasse in proteste, giurasse di mettere il mondo sossopra: fecero sì che alzasse la mano aperta a un quattro, quando il Barone ripigliò tutto contento:
—Via, dillo tu stesso quel che gli si ha a far dare ai picciotti.
Quattromila onze…. diavolo! il buon gentiluomo storse il muso: erano ancora troppo… vedesse se ci fosse verso di far risparmiare agli amici qualche altra coserella. Quattromila onze!…
Ma a tutto questo il colosso rispondeva:
—Sono sicurissimo che i picciotti non si contenteranno di meno, ed io non voglio che a una persona grande come vostra eccellenza tocchi una negativa.
L'ultimo argomento era grave e non c'era a ridire. Il Barone strinse le labbra, abbassò gli occhi e prese in mano la stecca.
—Basta, dacchè non c'è proprio rimedio, avrai le quattromila onze. Ma…. (E fissò bene il maurino) rispondi della buona riuscita?
—Ne rispondo.
—Proprio?
—Proprio.
—Non c'è che dire.
E stava per alzarsi quando Pietro gli domandò:
—Dove bisogna portarli i danari?
—A' Gammisini; e precisamente nel poggio sopra la fattoria: bisogna che ti leghi un fazzoletto rosso attorno al capo.
Il Barone ritornò dai Savarella e senza nominar persone, disse loro che aveva accomodato ogni cosa (tanto era sicuro del suo uomo) però aveva sudato una camicia per indurre gli amici a contentarsi di quattromila onze, non un soldo di meno.
Il canonico fece una boccaccia; gli pareva ancora enorme quella somma; ma non c'era che fare, o mangiar questa minestra o saltar questa finestra! in fondo era un bon uomo, amava davvero il fratello; andò nella sua camera e benchè sentisse come uno schianto alle viscere, tirò la cassa che teneva sotto il letto, l'aperse, e, con gran sospiri ne cavò fuori cinquantun mila lire, trenta in carta, ventuno in oro.
Quando l'ebbe consegnata al Barone, si lasciò cadere su d'una sedia. Aveva la faccia cadaverica. Oh, certo ne morrebbe!
XI.
Nel focolare della vecchia torre dei tizzi ardevano lentamente mettendo nell'oscurità della vasta stanzaccia chiarori incerti, ballonzolanti. Si udivano due russi formidabili, simili ai rumori di due seghe che mordessero nel legno a rilento, ed or s'alternassero or si confondessero. Metteva l'uno Sciaverio, avvolto nel cappotto, rannicchiato sulle asserelle del letto, con la testa appoggiata sullo strapunto abballinato; l'altro mastro Vanni, seduto al fuoco, a testa china, la sudicia barbaccia sul petto, e le mani penzolanti tra le gambe, illuminato dalla luce azzurrognola dei tizzi, la quale gli dava un aspetto fantastico di stregone.
Fuori, l'acqua cadeva come Dio la sa mandare, mentre il vento e il mare pareva facessero a chi potesse urlare di più.
—Che tempaccio da cani! borbottò il vecchio aprendo a un tratto gli occhiacci rossi, e dando uno sguardo bieco alla porta scossa furiosamenente dal vento: poi ricadde nell'immobilità e tornò ad assopirsi.
L'altro seguitava a russar sodo.
Trascorse un quarto d'ora circa.
Tom…. tom…. In quel fracasso risonarono due formidabili picchi. Mastro Vanni si destò in sussulto, e stette a origliare.
—M'è parso d'aver sentito picchiare…. disse tra sè: e lo prese un forte batticuore. Chi poteva essere a quell'ora e con quella razza di tempo?
Tom…. tom….
S'alzò, e in punta di piedi andò a riscotere Sciaverio. Chi è in difetto è in sospetto: Sciaverio fece un balzo come se nell'aprir gli occhi avesse visto gli sbirri, e tutto arruffato e stravolto, saltò alla gola di mastro Vanni.
—Compare…. Scia…. gorgogliò il vecchio quasi soffocato, afferrandolo per le braccia, compare Scia…. verio, son io…. che diavolo fate….
—Vi venga la peste! esclamò l'altro a bassa voce, rimettendosi: si sveglia così la gente! non so che mi è parso…. Che cosa c'è dunque….
—Picchiano.
Tom…. tom….
—Sentite? continuò mastro Vanni. Chi può essere a st'ora e con sto tempo?…
—Tom….. tom….
—Che sia successa qualche diavoleria, e….
—Sst, fece Sciaverio; poi con voce minacciosa gridò:
—Chi è?
—Io…. aprite.
—A st'ora non s'apre a nessuno: andate per i fatti vostri.
—Son io, compare Sciaverio: mastro Pasquale.
E questo nome s'udì chiaro, come se chi era dietro la porta l'avesse gridato con la bocca sul buco della serratura.
Era proprio il roccellese, avvolto nel suo straccio di cappotto, fradicio mezzo, e inzaccherato come un cane.
Grandi esclamazioni di piacere dei due birboni rinfrancati, ressa per sapere che ci fosse di nuovo, come era andato l'affare.
Ma il mafioso badava a sfogarsi col tempo, con delle bestemmie da turco: si levò il cappotto, e andò ad appenderlo a un cavicchio, si levò il berrettaccio unto, e con una pezzuola si messe ad asciugarsi l'acqua e il sudore: finalmente pronunziò un «tutto è andato bene» che allargò i cuori di que' due galantuomini. Mastro Vanni andò a prendere una bracciata di legna secche, che buttò sul fuoco; poi sedettero, e il roccellese cominciò il suo racconto.
Si rifece da capo. Partiti dalla torre un'ora prima che aggiornasse, come sapevano, avevano cavalcato sino a Cozzo di Lampo: lì consegnata la lettera a un amico per portarla al fattore della Rocca, erano andati a Basalaci, nel fondo d'un altro amico, dove erano restati parte del giorno, e la notte. L'indomani all'alba erano partiti per i Gancitani, dove, con l'aiuto di Dio erano arrivati senza cattivi incontri. Acquattati fra pietroni in una certa lista sopra lo stradale, avevano veduto venire i due individui che dovevano portare il danaro. Nicola era andato a incontrarli: e dopo un'ora di confabulazione con uno di essi, era tornato dicendo, che i Savarella tenevan duro, egli aveva dovuto ridurre la somma. Però era l'ultima concessione che faceva, si sarebbero adoperati i mezzi violenti se il sabato non avessero portato ottomila onze ai Gammisini. Basta, contrariamente alle sue parole, ai Gammisini s'era contentato di due mila e cinquecent'onze. Però la cosa non gli pareva tanto liscia…. Avevano mandati lui e Santo a far la guardia, essi perciò non avevano visto nulla di quel che avevano fatto i compagni con quello che portava i denari. Nicola s'era scusato con dire, che i danari glieli aveva portati Pietro Carollo, un amico a cui non si poteva dare una negativa, tanto più che stava col barone *, e l'istesso barone aveva mandato a dire che accettassero le sue preghiere, facessero a modo suo: il Barone era una persona grande, comprendevano…. Poi s'erano messi a fare un certo conto senza sugo…. tanto a questo, tanto a quest'altro; tanto per quello, tanto per quell'altro…. un vero pasticcio in cui non aveva compreso un'acca. Si figurassero! Nicola, fra l'altre, aveva detto, che bisognava dare cent'onze all'uomo del Barone, e i palermitani ad approvare! Cent'onze a colui per aver portato semplicemente la somma, e che razza di somma! e a loro che avevano ideato, maturato, condotto a bene l'affare rischiando la pelle, che cosa toccava? Cento vent'onze per uno!… cento vent'onze! Era credibile?
—Basta i pesci grossi mangian sempre i pesci piccoli!
E dietro quest'osservazione filosofica, consegnò a Sciaverio e a mastro Vanni duecento quarant'onze.
I due birboni intascarono il danaro tutti scontenti, mentre mastro Pasquale ciondolava il capo come per dire, lo vedete in che mani siamo capitati? E però Sciaverio voleva fare, e voleva dire.
Quella era una porcheria che non s'era letta mai, con i compagni non s'agiva così. Che pezzi di ladri! o perchè non se n'andavano al passo a spogliar la gente? Ma lui, sangue della maiorca, non l'ingollava, no, non l'ingollava! voleva andare in cerca di quella carogna di Nicola, voleva, per dirgli il fatto suo fuor de' denti: o era più ladro di Santo Dima, o non sapeva che voleva dire fare il brigante. Ladro, s'aveva spogliato i compagni, e queste cose non si fanno; dappoco, se l'era lasciato prendere per minchione dall'uomo del Barone, o anche dal diavolo; lui, nei suoi piedi, avrebbe messe le spalle al muro, e, o duecento mila lire, o duecento mila lire! se no tagliava a pezzi il sequestrato, e un po' per volta lo faceva pervenire alla famiglia, sangue….
Mastro Vanni, asciugandosi gli occhiacci rossi con la pezzuola sudicia, metteva buone parole. Non eran cose nemmen da pensarci quelle! volevan fare la guerra tra fratelli? dar questo mostruoso spettacolo al mondo? far ingrassare i nemici? Via, mastro Pasquale s'era potuto ingannare. Non si giudicava così…. su due piedi, e alla leggiera in cose sì gravi, lui non contava Nicola un tal uomo.
Allora mastro Pasquale, per amor della pace, disse anche la sua, arrivò fino a confessare che s'era potuto ingannare…. che non avrebbe messo certo le mani nel fuoco ad accertare la cosa.
Così Sciaverio si calmò.
Bisognava liberare il sequestrato e presto, quella razza di mercanzia il meno che si può tenere è il meglio, non si sa mai quel che può accadere da un momento all'altro. Mastro Pasquale era venuto anche per questo. S'alzarono. Ognuno si levò il fazzoletto di tasca, lo piegò a punta, se lo mise sul volto, e l'annodò dietro la nuca in modo che non si vedessero che i soli occhi sotto il berretto: si misero i cappotti, e sulla testa i cappucci: mastro Vanni andò a accendere una lanterna, prese una corda, e così camuffati, sinistramente brutti a vederci, spostarono il letto, alzarono la ribalta, e si calarono per il buco.
Steso sullo strapunto, Savarella dormiva un sonno agitato come se avesse la febbre. Appena velati gli occhi, s'era messo a sognare che i suoi carnefici armati di coltelli e pistole, l'inseguivano nell'istesso angusto sotterraneo.
Egli correva correva in giro anelante, con l'angoscia nel cuore. L'afferravano…. si svincolava con la forza che dà la disperazione…. lo riafferravano…. si svincolava di nuovo, si rimetteva a correre….
Così per ore ed ore pareva a lui. Ma le forze gli venivano meno, il corpo, dalle gambe in su, gli si faceva pesante come di piombo, sentiva piegarsi sotto le ginocchia, sinchè ansimante, madido di sudore, cadeva, e gli assassini gli si facevan sopra. Nel voltarsi atterrito, vedeva branditi sulla sua testa coltelli e pistole, vedeva delle facce sinistre dove si leggeva l'intendimento implacabile di dar morte. Egli rannicchiato contro la parete, facendosi riparo delle mani, con i capelli irti sulla fronte, apriva la bocca a un grido straziante…. e sentì una detonazione, e gli parve come se un colpo di mazza gli avesse sfracellato il cervello…. Si destò in sussulto. Restò immobile, a guardare con gli occhi torbidi, spalancati, come un uccello abbacinato: glie li percoteva una striscia di luce vivissima. Dietro a quella luce, nell'oscurità parevagli di sgorgere in confuso, ritte due ombre nere, sinistre.
—Sono morto, pensò in un baleno. Dove sono? E l'angoscia che gli stringeva ancora il cuore, diede luogo a un terrore misterioso.
—Alzatevi, disse una voce cupa e soffocata.
Egli non si mosse.
—Alzatevi, ripetè l'istessa voce, e questa volta una mano si posò bruscamente sul suo braccio, e lo scosse. Allora sveglio del tutto a quel tocco, comprese. Erano i briganti che gli stavano davanti, uno dei quali teneva in mano una lanterna. Ubbidì senza aver fiato di dire una parola, assalito da un altro terrore: n'era certo, venivano per ammazzarlo: pensò alla famiglia, raccomandò l'anima a Dio, e aspettò con quella rassegnazione di chi, fra tanti pericoli, abbia avuto il tempo di assuefarsi all'idea della morte.
Lo bendarono, gli misero il cappotto, in mano un capo della corda ch'avevano portata, raccomandandogli di tenervisi come guida per camminare, un di loro terrebbe l'altro capo.
—Andiamo, disse l'istessa voce. E si mossero.
Dunque dacchè lo menavano via, non volevano ammazzarlo, lì era chiaro: l'ammazzerebbero fuori, in qualche punto remoto per risparmiarsi la fatica di trasportarvelo cadavere. E il povero don Bastiano, fatto questo pensiero si sforzò d'andar loro dietro alla meglio. Così vennero su nella stanzaccia. Mastro Vanni andò ad origliare all'uscio, l'aprì, sporse il capo fuori, tornò a dire che tutto era tranquillo. Sciaverio avanti, tenendo sempre un capo della corda; il ricattato dietro, tenendo l'altro; ultimo mastro Pasquale; chi più chi meno trepidanti, uscirono dalla torre e si messero nella via, tra 'l vento, e l'acqua che or li sferzava da un lato or dall'altro.
Gira, rigira, inciampa, scivola, dopo tre ore di faticoso cammino per viottole alpestri, infossate e sassose, si fermarono finalmente: e l'infelice perduto per l'indugio la calma e la rassegnazione; sballottato dalla speranza alla disperazione; dal dubbio alla certezza, dall'angoscia più orribile ad una calma passeggiera: credè arrivato l'ultimo suo momento.
In quel buio d'inferno, tra gli urli degli elementi scatenati, gli si presentò sinistro ed orribile: e sentì scolorarsi il viso, mancarsi le forze.
Gli levarono il cappotto, gli levarono la benda, e la solita voce cupa, questa volta minacciosa, gli disse:
—Questo è lo stradale che conduce al vostro paese: andate avanti, senza voltarvi, se no siete morto.
Don Bastiano in prima non comprese: però subito dopo gli s'affacciò il pensiero che se lo mandavan via, volevano liberarlo. Sentì rinascersi, sentì allargarsi il cuore…. non gli pareva vero d'essersela cavata finalmente…. libero…. libero…. davanti a lui l'esistenza che aveva tanto rimpianto…. Non pensò che quella gente gli aveva fatto passare brutti momenti, non che gli aveva estorto una grossa somma provò una viva riconoscenza per loro, e un bisogno strapotente di esternarla.
—Grazie, disse; signori miei, gra….
Ma la voce tagliò corto più minacciosa che mai, ordinandogli di far presto senza tante ciarle inutili. I due principianti, come si vede, non avevano per nulla la squisita gentilezza del maestro, vecchio all'arte, e di buona scuola. Don Bastiano non se lo fece dire due volte, e via svelto e forte come se non avesse durato alcuna fatica, respirando l'aria umida a pieni polmoni, punto molestato da quella pioggia ostinata, che gli batteva sul viso, e cominciava già ad annuvolarlo.
Albeggiava allorchè arrivò a casa bagnato sino alla camicia. Afferrò il martello del portone e picchiò a varie riprese. La gnora Santa che, già alzata, s'era messa allora a spazzar la casa, venne ad aprire la finestra e sporse il capo fuori. Ebbe a strabiliare.
—Don Bastiano!… esclamò picchiandosi il petto: Madre santa della Gibilmanna! Don Bastiano….
Si ritirò in fretta, corse all'uscio della camera del canonico, picchiò a buttarlo giù….
—È tornato il padrone, gridava quasi senza fiato, è tornato il padrone….
Corse all'uscio della camera di don Ciccio e di don Salvatore….
—È tornato il padrone…. è tornato il padrone…. Poi via a precipizio per le scale.
In men che non balena nella casa tutti furono svegli, e accorrevano mezzo vestiti.
—Dov'è…. dov'è….
Fu una vera festa, un'allegrezza grande; abbracci, baci, lagrime, domande mozze, risposte mozze, e nuove domande, e nuove risposte, ed esclamazioni d'orrore, di pietà, di gioia, di ringraziamento a Dio ed ai Santi protettori…. E dopo, questo tumultuoso sfogo di affetti, condussero il giovine nella camera della madre, preparandolo per via come meglio poterono a quella vista, avendo fede ch'essa guarirebbe al vederselo davanti d'un tratto.
Nella stanza assettata ed estremamente pulita, dai vetri della finestra penetrava la luce scialba di quella mattina piovosa, a rendere più triste il quadro doloroso che si presentò agli occhi del ritornato. Nel letto di ferro sotto al gran crocefisso tra due reliquari a fili d'argento, sostenuta da un monte di cuscini, giaceva l'ammalata col viso e le mani scarne abbandonate, che parevano di cera. Aveva gli occhi chiusi: li aprì appena entrarono i figliuoli.
—Madre mia…. madre mia…. gridò don Bastiano correndo verso il letto. Ma si fermò sbigottito.
—È Bastiano: disse Annuccia che gli veniva dietro: mamma, è Bastiano, tornato finalmente….
La povera vecchia restò immobile, e non rispose: fissava i suoi figliuoli con gli occhi sbarrati nel volto pallido ed affilato.
Bastiano guardò come un trasognato la sorella, il canonico, gli altri fratelli già attorno al letto, muti e addolorati; il labbro gli fremeva per la commozione: poi nascose un tratto la faccia tra le mani, e diede in un pianto convulso.
XII.
Mastro Pasquale e il cugino Santo se ne stettero due settimane come volpi in sospetto. Il primo, a chi gli domandava dov'era stato, rispondeva, in Palermo a comprar coiame: il secondo nella Piana di Benfornello a badare le donne che raccoglievano le ulive; il su Francesco aveva voluto così. E si stringevano nelle spalle, come per scusarsi d'aver derogato alla sua condizione di maestro. Intanto osservavano, ascoltavano, mettevano una parolina qua e là anche loro ne' vari discorsi che si andavan facendo, e già s'intende per sviare di più l'opinione pubblica, del resto sviata bastantemente. Mandarono proprio un respirone quando finalmente credettero di poter dormire tra due guanciali: in quella faccenda quanti nel paese erano in cattivo odore s'eran nominati, tranne loro due e compagnia bella. Porca cagna! come soleva esclamare il cugino Santo, dunque avevano ottenuto il loro scopo pienamente: centovent'onze in tasca, non più stenti, la possibilità di poter appagare i loro desideri: e imprudentemente cominciarono con rimpannucciarsi, e pagare i debiti.
Un bel giorno il calzolaio andò a trovare lo Zumboli: si comunicarono l'ultime osservazioni fatte, gli ultimi discorsi intesi, nessuno s'occupava più della cosa, non se ne parlava più. Allora presi da un'allegria pazza, si misero a ballare l'uno di faccia all'altro, accompagnandosi con la voce, facendo scoppietti con le dita a mo' di castagnette. Si fermarono allorchè ebbero sfogato un poco, e si guardarono.
Il calzolaio ammiccò furbescamente con certi movimenti del viso.
—Ho capito, disse il cugino Santo che non aveva capito affatto.
—È l'ora d'andare da quella carogna di mastro Cruciano, disse mastro Pasquale.
—Andiamo.
—Andiamo.
E ci andarono.
—Salutiamo mastro Cruciano, dissero i due farabutti a una bocca, postandosi sul piede destro con una mano al fianco e l'altra appoggiata sulla canna americana.
Il vecchio furbo, con un par d'occhiali sul naso legati dietro la nuca con una cordellina, era al pancone, nell'entrata della sua casetta, che gli serviva anche di bottega, tutto intento a combaciare le doghe d'un barile. Non alzò che gli occhi, e di su gli occhiali stette a guardare i due cugini, un po' cambiato nel volto.
—In che posso servirvi, domandò finalmente in tono agrodolce, a causa di compare Santo che aveva il vizio di cavar fuori il coltello anche per un nonnulla.
—Favorisci, rispose il Carrarella.
Il bottaio, sempre immobile con le doghe in mano, non disse verbo: guardò con la coda dell'occhio mastro Santo, che lo fissava con l'aria più mafiosesca che mai, ed aspettò. Il cuore gli batteva un pochino.
—Mastro Cruciano…. riprese un momento dopo il calzolaio alzando il capo come se si risolvesse a un tratto, vi ricordate di quel giorno che vi fermai nello stradale per…. per farvi un certo discorso?
—Che discorso, disse il vecchio.
—Fate lo gnorri?
Mastro Cruciano non rispose.
—Mi spiegherò meglio…. Vi ricordate di quel giorno che vi fermai nello stradale, per domandarvi in moglie vostra figlia?
li bottaio diventò livido, tanto era la bile. Ah, sangue…. avrebbe fatto uno sproposito avrebbe fatto, se quella carogna non avesse avuto la scaltrezza di condurre con sè il mafioso! Ma…. Flemma…. flemma…. disse fra di sè: flemma, mastro Cruciano…. Questo giovinastro è un di quelli che amano di venir subito alle brutte anche senz'un ombra di perchè, e tu non devi comprometterti….
E si contentò d'accennar di sì col capo.
—Vi ricordate quel che mi rispondeste?
Nuovo accenno col capo.
—Porta aperta a chi porta….
—E chi non porta parta…. Ebbene?
—Siete sempre dell'istesso parere?
—Più che mai.
—Oh! bene…. Dunque questa volta non parto…. perchè porto.
Il calzolaio avrebbe voluto godere un pochino ancora della sorpresa che, a un tratto, lesse nel viso del vecchio; ma si teneva a fatica, tanta era la voglia che aveva di spiattellar la cosa: sicchè seguitò quasi subito:—Sulla casa non c'è più ipoteca, sulla vigna neppure, ho qui vent'onze per le spese del matrimonio (e batteva nei taschini del panciotto nuovo) a casa una quarantina d'onze, che potremo impiegare in terre vicine al vostro fondo.
Al tintinnare dell'argento, le sopracciglia di mastro Cruciano s'erano distese come per incanto; a queste ultime parole cambiò faccia del tutto: i suoi occhietti grigi luccicaron di cupidigia, la sua bocca s'aprì a un sorriso di vecchia volpe. Gli venne sulla punta della lingua una domanda: O come avete fatto a far tutti questi danari in così poco tempo? Ma poi pensò che non gli apparteneva d'immischiarsi nei fatti altrui: dacchè i danari c'erano il giovine era il benvenuto: non avrebbe sperato mai un tal partito per sua figlia.
—Dite davvero? domandò tuttavia con un resto di dubbio.
Mastro Pasquale mise il pollice nel giro del panciotto nuovo, e rispose pavoneggiandosi:
—Vedrete non solo, ma toccherete anche con mano. Ci trovate a ridire?
—Oh, no.
—Dunque?…
—Ebbene…. se mia figlia vi vuole ancora…. questa volta troverete la porta aperta, disse il vecchio ridendo. E posò le doghe.
—Questo è parlare approvò il cugino Santo. E messa la canna americana sotto il braccio, cavò fuori la scatola, vi battè da un lato con le due dita, l'aprì e offrì tabacco al bottaio.
In questa su per le scale s'udì un rapido fruscio dì sottane, e mastro Pasquale guardò da quella parte vivamente.
Quella furbacchiotta di Carmela certo stava in ascolto.
L'indomani sera mastro Pasquale Carrarella trovava la porta aperta, e accompagnato dal cugino Santo, entrava in casa del bottaio come promesso della bella Carmela.
Quella notte Santo non potè dormire: dalla sposa aveva bevuto molto: riscaldato dal vino, riscaldato dall'occhiate di fuoco, che la grossa ragazza dava continuamente allo sposo, e dalle allusioni licenziose del bottaio che amava di scherzare, e dai discorsi che gli aveva fatto poi il cugino Pasquale vagando per le vie sino a notte avanzata, giurò in cuor suo che avrebbe preso moglie anche lui.
E senza metter tempo in mezzo, entrò in caccia. Conosceva le donne il degno compare, era persuaso che un po' di lusso non ha mica i bachi per attirare la loro attenzione, farsi notare, ed esserne amato poi con un po' di buona volontà. E si messe a fare sfoggi. Ordinò un bell'abito di panno lustro…. oh, non c'era donna che doveva resistere a quell'abito di panno lustro! si fece portare da Palermo un cappello di feltro nero, e una cravatta di seta verde: cambiò con veri anelli gli anelli di similoro, comprò un orologio d'argento, una catenella d'argento, a collana, che, girando e rigirando per gli occhielli del panciotto, andava a finire nel taschino sinistro. Ora lui, appena uno domandasse che ora era, cavava subito fuori il piccolo orologio d'argento, e facendo schizzar la saliva e indugiando acciò la gente potesse avere il tempo di ammirarlo, parlava di tre e di quattro…. Insomma era diventato proprio un bel maestro risplendente d'oro e d'argento. Porca cagna? non li risparmiava, no, i denari del povero don Bastiano, il galantuomo, sicchè le ragazze da marito cominciarono a mangiarselo con gli occhi.
Ma se lo mangiava anche con gli occhi il sor maresciallo dei carabinieri, un surnione che la sapeva lunga con que' baffacci pendenti nel volto color di zafferano, e gli occhi di coccodrillo che pareva volessero entrarti a forza nell'anima. E il peggio era che il bel cacciatore di mogli non se n'accorgeva punto. Egli era troppo occupato a dondolarsi sulla vita lungo le strade, facendo gli occhi dolci a ogni bertuccia che vedesse alla finestra.
—Costui è stato sempre uno spiantato, un fannullone, ladro ed attaccabrighe…. un pessimo soggetto insomma, che il mio predecessore mi raccomandò caldamente…. Fa tutti questi sfoggi…. Vediamo. Fu allogato nella Piana di Benfornello, almeno si dice; stette assente una diecina di giorni…. Cosa gli potevano dare? due lire al giorno tutt'al più…. via mettiamo tre…. doveva mangiare, eh: dunque non ha potuto mettere da parte che una ventina di lire. Venti lire gli dev'essere costato il solo orologio. Credito? umh, chi gli deve far credito? Bara alle carte? no; io so che non gioca da molto tempo…. Da dove li prende dunque i danari?…
Queste cose ruminava senza posa il maresciallo, e ne perdeva il sonno delle notti.
E una mattina svegliatosi, a mente fresca ebbe una strana idea: Che avesse avuto parte nel sequestro Savarella?
Fu come una pulce nell'orecchio. Poteva darsi; così sì spiegava la fonte di quella galanteria; l'amicone, del resto, era capace di questo ed altro. Nel dubbio poi non c'era da esitare: lo si doveva arrestare, salvo poi a rilasciarlo se fosse innocente. Ma bisognava andare adagino nel tender la rete, e con tutta la massima oculatezza: il malandrino doveva avere de' compagni che prenderebbero il volo senza meno a metterli in sospetto….
E ci studiò tanto che una notte potè ammanettarlo senza farlo strillare, senza che se ne fosse accorto neanche una mosca.
Due ore prima d'aggiornare, un contadino che passava dalla caserma; sentì nel silenzio della notte dei gemiti cupi e cavernosi: «Ahi… Aaahi….» poi come un rantolo: «Ooh…. m'ammazzate.»
Affrettò il passo, con i capelli irti dallo spavento.
XIII.
— Assira vitti a Fillari!
Mastro Pasquale, accompagnandosi con la chitarra, cominciò quel recitativo di sua invenzione, mentre lanciava un'occhiata assassina alla bella Carmela.
La grossa ragazza, seduta tra due amiche con le mani nelle mani di essa, comprese, e fece il viso rosso per il piacere d'esser Filari.
La mamma, una grassona ancora appariscente che cuciva seduta vicino al lume, alzò la faccia e sorrise al futuro genero, e dette uno sguardo tenero alla figliola, contenta anch'essa che la sua Carmela fosse Fillari.
Le due amiche guardavano a bocca aperta, ascoltando con grande aspettazione. Desideravano da molto tempo di sentir cantare mastro Pasquale di cui in paese si diceva mirabilia, e la fanciulla, per contentarle, l'aveva pregato di venire quella sera con la chitarra.
—Quant'era bella…. quant'era sciacquata…. quant'era graziosa….. era un fiore di qualità! seguitava Carrarella grottescamente sdolcinato.
A un tratto si fece serio, protese il capo, e fissando sempre la ragazza, scappò fuori con un grande accordo, e con una esplosione di voce appassionata:
Sugno na navi misira….
Cominciava l'aria; e l'accompagnamento si fece d'un fantastico patetico che scosse dolcemente le donne: le dita del maestro pizzicavano le corde con un'agilità straordinaria. Aveva il viso paonazzo, gli occhi che pareva volessero schizzargli dall'orbite, tanta era l'espressione che ci metteva in quell'aria.
Sugno na navi misira, Ridutta senza vili; Vorrei di nuovofragarimi Pri tia donna crodili.
Carmela, benchè la parola fosse stranamente storpiata, comprese che l'amante voleva naufragarsi per lei, e ne provò un sussulto nelle viscere, stavano per spuntarle le lacrime. Via, non si dice a quel modo che uno vuol naufragarsi, per poi non farlo se mai venisse il caso!
Vorrei di nuovofragarimi
aveva ripreso l'amante col ritornello,
Pri tia donna crodili.
In quella s'udì un gran picchio all'uscio.
—Chi è? domandò la moglie del bottaio voltandosi.
—La forza, fu risposto, come ne' melodrammi, da una voce beffarda.
Tutti si guardarono in viso; e il promesso sposo diventò bianco come un panno lavato. I picchi seguitavano.
—Vengo, vengo, gridò la moglie del bottaio: e si alzò, e andò ad aprire.
Era il maresciallo con due carabinieri.
—Bravo!… bravo! disse il burlone entrando: e faceva l'atto di battere le mani, volto al promesso sposo cui eran cadute le braccia e la chitarra.
Voi cantate come un usignuolo! Oh, benedetto! ma io vi voglio alla caserma, voglio che mi facciate un po' divertire i miei carabinieri che s'annoiano maledettamente senza far nulla…. Via, perchè avete lasciato cadere la chitarra!
Mastro Pasquale aveva compreso, e si vide perduto. Cercò di prendere una risoluzione: la porta era guardata da due omaccioni colossali, che avrebbero levata ogni voglia di resistenza al solo vederli con que' baffacci alla Vittorio Emanuele; restava la finestra…. non era tanto alta… un colpo di pistola al maresciallo e profittando dello scompiglio che avrebbe messo la sua morte, si sarebbe potuto…. ma era poi certo che sotto la finestra non ci fosse nessuno?… Nell'incertezza bisognava tentare: perso per perso….
Questi pensieri passarono per la mente del maestro in men che non si dice: egli portò macchinalmente la mano alla tasca interna della bonaca. Ma il sor maresciallo, pur motteggiando, non lo lasciava con que' suoi occhiacci da coccodrillo: s'accorse dell'atto, comprese l'intenzione, e in un baleno gli saltò addosso come un gatto tigre, lo ghermì per il colletto, e con l'altra mano l'ebbe presto disarmato.
—Resistenza alla forza…. diceva con i denti stretti, resistenza alla forza! provati brutto muso di rospo…. In nome del re e della legge sei in arresto!
E lo trascinava verso l'uscio.
Le due amiche che avevano guardata questa scena come tante statue, si misero a strillare; la sposa credè giusto di svenire; e la mamma dimenticando che il calzolaio gli aveva fatto gustare il piacere di vedere la sua Carmela mutata in Fillari, lo rinnegava.
—Boia!… boia!… gli urlava dietro: m'ha assassinata una gioia di figliola!… Signor maresciallo, noi non ne sapevamo niente che costui fosse un birbante: Maria santissima! no, davvero….
—Sono un galantuomo! strillava intanto il ghermito, ripreso un poco d'animo. Perchè m'arrestate! lasciatemi andare, certo ci dev'essere sbaglio…. Volete tacere, brutta strega! (e si voltava, a far gli occhiacci alla moglie del bottaio). Lasciatemi andare…. io sono un galantuomo!…
—Cammina, cammina galantuomo…. rispondeva il maresciallo trascinandolo sempre.
E giù per la scala, nell'entrata, fuori nella via, la moglie del bottaio e le due amiche, affaccendate attorno alla grossa ragazza che ora metteva qualche sospiro, intesero ancora questo grido:
Sono un galantuomo…. sono un galantuomo….
XIV.
L'arrestarono tutti quanti, e gli fecero la causa: chi fu condannato a dieci anni, chi a venti, chi ai lavori forzati a vita….
Finisce sempre così a quella gente!
FINE
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