I Robinson Italiani

Il mias, uscito dai rami, si lasciò scivolare lungo il tronco come un vero ginnasta, e.... (Pag.93 ). Emilio Salgari

I Robinson Italiani

Avventure illustrate da G. Gamba

Genova A. Donath, editore — 1897

Proprietà Letteraria

565 96. — Firenze, Tip. di Salvadore Landi, dirett. dell' Arte della Stampa.

INDICE

Capitolo I Un dramma in mare

— Al fuoco!...

— Ohe!... Piccolo Tonno!... Sogni o sei sveglio!...

— Al fuoco!...

— Ma tu hai bevuto, furfante!...

— No! Vedo del fumo!

— Con quest'oscurità!... Il ragazzo è diventato pazzo. —

Una voce che aveva l'accento strascicante dei nostri uomini del mezzodì, echeggiò furiosamente sulla tolda della nave:

— La gran scialuppa fugge!... San Gennaro mandi a picco quei pesci-cani del malanno!...

— Chi a picco? — tuonò una voce a prua.

— Fuggono!... Eccoli laggiù che arrancano! Il diavolo faccia la festa a quelle canaglie!

— Ed il fuoco è scoppiato a bordo! —

Una salva di urla e domande s'alzò fra le tenebre:

— I miserabili!...

— Hanno incendiato il brigantino!...

— Ma no!...

— Sì!... Esce del fumo dalla dispensa!

— Mille tempeste!

— Capitano! Ufficiale di quarto!

— Ohe! Tutti in coperta!

— S. Marco ci aiuti!

— Alle pompe! Alle pompe!

— E quei furfanti fuggono!... —

Un uomo semi-nudo, di statura media, ma tarchiato come un giovane toro, col viso coperto da una folta barba, si slanciò fuori dal boccaporto del quadro di poppa, tuonando:

— Cosa succede qui? —

L'ufficiale di quarto, che aveva lasciato allora il castello di prua, gli si precipitò incontro, dicendo con voce rotta:

— Capitano.... i ribelli sono fuggiti!

— I due maltesi?

— Sì, capitano.

— Ma quando?

— Or ora.

— Ma per dove? Non erano incatenati?

— È vero, ma pare che abbiano spezzate le catene.

— Sangue di Mercurio!... Portatemi un fucile e date ordine d'inseguirli od io....

— È impossibile, comandante.

— Chi lo dice? — urlò il capitano.

— Il fuoco è scoppiato a bordo. —

Il capitano, udendo quelle parole, aveva fatto due passi indietro e la sua energica ed abbronzata fisonomia, si era alterata.

— Il fuoco a bordo! — esclamò. — E la polvere che portiamo?... Sei quintali!... Tanto da farci saltare in aria tutti quanti, ma ben alto!... Seguitemi, signor Balbo e tu, nostromo fa' preparare le pompe e fa' immergere le manichelle. —

Ciò detto si slanciò sul castello di prua seguito dal secondo, e gettò un rapido sguardo sul mare.

A cinquecento metri dalla nave, una macchia oscura che si confondeva coi flutti color dell'inchiostro, s'allontanava rapidamente verso il sud. Quantunque la distanza fosse già notevole, si udivano i colpi precipitati di alcuni remi.

— Miserabili! — disse il capitano, facendo un gesto di furore. — E non un alito di vento che gonfi le nostre vele su questo mare dannato!

— Lasciate che vadano a farsi impiccare altrove, capitano Martino, — disse il secondo.

— E se la nave fosse perduta?... Ci hanno privati della sola scialuppa che possedevamo. Il canotto, lo sapete, è stato portato via dalle onde la scorsa settimana.

— Costruiremo una zattera.

— Sì.... — disse il capitano, come parlando fra se stesso. — Se ci rimarrà il tempo!... Alle pompe!... Alle pompe o siamo tutti perduti! —

Stava per scendere dal castello, quando una speranza gli balenò nel cervello.

— Signor Balbo, datemi il porta-voce.

— Cosa volete fare?

— Silenzio.... affrettatevi. —

Il secondo balzò in coperta senza perdere tempo a scendere la scaletta, entrò nella camera comune dell'equipaggio, afferrò il porta-voce del nostromo e lo portò al capitano.

La voce robusta dell'uomo di mare echeggiò come una tromba, coprendo i comandi precipitati del nostromo, le grida dei marinai ed il fracasso delle pompe che già cominciavano ad assorbire l'acqua.

— A bordo!... — aveva tuonato il capitano. — A bordo o vi faccio appiccare ai pennoni del contra-pappafico. —

Una voce lontana, che veniva dal largo e che aveva una intonazione ironica, rispose:

— Buona fortuna a tutti!

— A bordo e vi perdono tutto!

— No!...

— V'inseguiremo e vi uccideremo canaglie! —

Nessuna voce rispose a quest'ultima minaccia: la scialuppa era scomparsa fra le tenebre.

— Dio vi punirà, — disse il capitano con voce sorda. — Alle pompe e che Dio protegga noi! —

Il nostromo, in quel frattempo, aveva fatto preparare la pompa di prua e quella di poppa, aveva fatto immergere in mare le manichelle e portare sul ponte tutti i mastelli e le secchie disponibili.

I dodici marinai che componevano l'equipaggio della nave, stavano pronti alle sbarre, ed attendevano trepidanti gli ordini del capitano.

Del fumo denso, impregnato d'un acuto odore di catrame e di materie grasse, sfuggiva ad intervalli dalle fessure del boccaporto maestro. Il fuoco doveva essere scoppiato nella dispensa che era situata presso la camera comune dell'equipaggio e doveva essersi comunicato al carico della stiva.

Il capitano aveva dato ordine di aprire il boccaporto, per poter constatare la gravità dell'incendio. Il mastro ed alcuni marinai stavano levando già i passanti di ferro che servono come da catenacci.

Sotto si udivano dei cupi brontolii, dei ronzii sordi, poi delle detonazioni come se scoppiassero dei recipienti pieni di liquidi alcoolici, mentre il catrame delle commessure della tolda cominciava a ribollire in causa del calore interno.

Nessuno fiatava, ma sul viso di tutti quegli uomini si leggeva già una profonda angoscia. Quei volti abbronzati dal sole equatoriale e dai venti del mare erano diventati pallidi e quelle fronti, ordinariamente serene anche in mezzo alle tempeste, erano diventate cupe.

L'ultima traversa stava per venire levata, quando il boccaporto s'alzò violentemente, rovesciandosi sulla tolda come sotto una spinta misteriosa.

Subito una fiamma enorme, una vera colonna di fuoco, irruppe dalle profondità della stiva e s'allungò verso le vele di gabbia dell'albero maestro, illuminando sinistramente la notte e tingendo le onde di riflessi sanguigni.

Un immenso urlo d'orrore, d'angoscia, di spavento echeggiò sulla tolda della disgraziata nave, perdendosi lontano lontano sul mare.

Tutti si erano gettati indietro per non venire investiti da quella vampa mostruosa, che si contorceva colle selvagge contrazioni dei serpenti e perfino gli uomini delle pompe, avevano abbandonate precipitosamente le traverse.

— Ai vostri posti! — tuonò il capitano.

Il solo nostromo, un vecchio dalla barba bianca ma coi lineamenti energici, si mosse per spingere le manichelle sull'orlo della stiva.

Il capitano impallidì.

Raccolse una scure dimenticata sull'argano e alzandola minacciosamente, ripetè con un tono di voce da non ammettere repliche:

— Ai vostri posti, o vi faccio sentire come pesa quest'arma!... —

L'equipaggio sapeva per prova, che il comandante non era uomo da scherzare. Dopo una breve esitazione tornò alle pompe, mentre due o tre altri marinai, che non potevano trovare posto alle traverse, s'impadronivano dei mastelli.

La colonna di fuoco, dopo d'aver minacciato d'incendiare la gran gabbia, si era abbassata, rientrando a poco a poco nella stiva, ma dal boccaporto spalancato irrompevano, ad intermittenze, pesanti nuvoloni di fumo denso e nero che una calma assoluta manteneva quasi sopra la tolda, e nembi di scintille le quali s'alzavano lentamente, disperdendosi sui neri flutti dell'oceano.

Passato il primo istante di terrore, tutti si erano messi alacremente al lavoro, sapendo che se non riuscivano a spegnere l'incendio una morte orribile li attendeva, non essendovi ormai a bordo più nessuna scialuppa.

Le pompe funzionavano rabbiosamente senza posa, versando torrenti d'acqua nelle profondità ardenti della stiva, mentre gli uomini dei mastelli s'affannavano a vuotare i loro recipienti, avanzandosi fra il fumo e le scintille.

Il capitano ed il secondo, ritiratisi a poppa, stavano abbattendo, a gran colpi di scure, una parte della murata di babordo. Pareva che avessero intenzione di allestire il materiale per la costruzione d'una zattera.

Stavano per assalire la murata del cassero, quando un nuovo personaggio, uscito allora dal quadro, comparve sulla tolda.

Era un uomo che aveva varcato la trentina di qualche anno, di statura bassa, un po' inferiore alla media, con petto assai sviluppato, larghe spalle e membra muscolose senza però essere grosse.

Il suo viso largo, un po' angoloso, col mento appuntito, era pallido, leggermente abbronzato dalla salsedine del vento marino; la sua fronte ampia, appena segnata da una ruga precoce, indicava che quell'uomo era inclinato alla riflessione; i suoi occhi, sormontati da due sopracciglia folte, dall'ardita arcata, erano profondi, ma talora scintillavano e pareva allora che volessero penetrare nel più profondo dei cuori; le sue labbra strette, ombreggiate da un paio di baffi rossicci, indicavano che quello sconosciuto doveva possedere una incrollabile energia.

Vedendo quelle nubi di fumo e quelle folate di scintille che s'innalzavano attraverso l'alberatura del veliero, e quei riflessi sanguigni che si proiettavano sul viso dei marinai, corrugò la fronte, ma senza manifestare alcuna impressione di terrore.

— Un incendio? — diss'egli, volgendosi verso il capitano. — Se non mi svegliavo, mi lasciavate adunque arrostire tranquillamente nella mia cabina?

— Siete voi, signor Emilio? — chiese il comandante sporgendosi dal cassero.

— In persona, comandante.

— Venite ad aiutarci, se vi preme la pelle.

— La cosa è grave?

— Gravissima, signore. La stiva è piena di fuoco e....

— Che cosa?

— Corriamo il pericolo di saltare in aria, — disse il capitano a voce bassa, per non farsi udire dai marinai.

— Dite?...

— Che vi sono sei quintali di polvere sotto il carico di cotone. —

Colui che veniva chiamato il signor Emilio, trasalì, poi balzando sulla scaletta del cassero con un'agilità sorprendente, da farsi invidiare dal più svelto gabbiere di bordo, raggiunse i due comandanti.

— Siamo nelle mani di Dio, adunque, — diss'egli, impugnando una scure.

— Sì, e non so se avremo il tempo per finire la zattera.

— Un tempo sono stato ufficiale di mare come voi, capitano e di tali costruzioni me ne intendo. In acqua la boma della randa e poi picchiamo dentro all'albero maestro. Ci potranno servire per un primo punto d'appoggio.

— Ben detto, signor Emilio. —

La boma, staccata alla base, fu gettata in mare tenendola attaccata ad un gherlino, poi i tre uomini assalirono vigorosamente l'albero maestro.

Ormai non si illudevano più sulla salvezza del veliero. L'incendio, quantunque vigorosamente combattuto dall'equipaggio, il quale non cessava un solo istante dal manovrare le pompe, guadagnava rapidamente e minacciava l'intera alberatura.

La grande fiamma, per un istante domata, tornava a irrompere attraverso il boccaporto, bruciando le vele ed i cordami. Da un istante all'altro poteva avvenire la spaventevole esplosione.

Il capitano ed il secondo, pur continuando a maneggiare con furore le scuri, impallidivano a vista d'occhio ed anche il loro compagno cominciava a perdere la sua ammirabile calma. Vi erano certi momenti in cui s'arrestavano per tendere gli orecchi onde meglio raccogliere i sordi brontolii delle fiamme divoratrici o gli scricchiolii dei corbetti che si fendevano o il fragore dei puntali che cadevano a due a due per volta.

— Presto!... presto!... — ripeteva il capitano.

L'albero, reciso, ad un tratto oscillò con un lungo crepitìo, poi l'enorme tronco piombò sulla murata di babordo fracassandola e immerse nelle onde illuminate la punta dell'alberetto, seco trascinando pennoni, vele e cordami.

Quasi nel medesimo istante una sorda detonazione echeggiò nel ventre infiammato del legno. Era scoppiata una parte della polvere?...

Il capitano gettò un urlo d'angoscia.

— Tutti in acqua!... La polvere! la polvere! la po.... —

Non finì. Mentre alcuni uomini, più agili degli altri, balzavano sopra le murate, uno spaventevole scoppio rimbombò sul mare.

Una fiamma gigantesca, livida, irruppe dal boccaporto; il ponte ed i fianchi del veliero si squarciarono con indicibile violenza e l'intera massa galleggiante fu sollevata sui flutti.

Per alcuni istanti una enorme nuvola ondeggiò sull'oceano, poi una pioggia di rottami incandescenti piombò sulle onde sibilando, e la carcassa del veliero, sventrata, invasa dalle acque irrompenti attraverso alle squarciature, scomparve nei profondi baratri del mare di Sulu.

Capitolo II Sull'albero maestro

La Liguria era salpata da Singapur il 24 agosto del 1840 diretta ad Agagna, la città più popolosa delle isole Marianne, con un carico di cotoni lavorati, destinati ai capi di quelle isole ed una grossa partita d'armi e sei quintali di polvere per i presidii spagnuoli.

Quantunque fosse stata varata in un cantiere genovese nove anni prima, era in quell'epoca ancora un bel veliero, saldo di costole, di forme eleganti come lo sono tutti i navigli che si costruiscono dai Liguri, con un solido sperone e portava splendidamente la sua alta alberatura da brigantino a palo.

Il capitano Martino Falcone, uno di quei lupi di mare della riviera, pieno d'audacia e d'energia, l'aveva acquistato coi suoi risparmi, e da vero discendente del grande Colombo, aveva intrapreso le lunghe navigazioni, più pericolose sì ma ben più rimunerative del grande e piccolo cabotaggio.

Formato un equipaggio di scelti marinai, raccolti in tutti i porti dell'Adriatico e del Tirreno, aveva intrapreso degli arditi viaggi in India, nell'estremo oriente ed anche nel grande Oceano Pacifico, infischiandosene delle tempeste, dei tifoni dei mari della China, e delle pericolose scogliere della Malesia e della Polinesia.

Per nove anni aveva percorso tutti quei mari con invidiabile fortuna, accumulando delle somme assai rotonde, affrontando vittoriosamente le ire dei marosi e le furie dei venti e senza mai cambiare i suoi bravi marinai dei quali mai aveva avuto a dolersi, ma nel suo penultimo viaggio, la fortuna aveva cominciato ad abbandonarlo.

Una tempesta che lo aveva sorpreso all'entrata dello stretto di Malacca, mentre da Rangun si recava a Singapur, aveva malmenata la sua nave in tale modo, da costringerlo, appena giunto a destinazione, a metterla in cantiere per delle lunghe riparazioni.

Quella disgrazia doveva essergli fatale.

Due dei suoi più valenti marinai, stanchi di quel riposo prolungato, avevano rotto l'arruolamento e si erano imbarcati su altre navi, sicchè, giunto il momento della partenza, aveva dovuto mettersi in cerca d'altri per completare l'equipaggio.

La mala fortuna gli aveva fatto trovare due marinai maltesi, sbarcati alcune settimane prima da una nave inglese. Perchè avevano lasciata la nave che dalle acque del Mediterraneo li aveva portati sulle coste della Malacca?... Nessuno lo sapeva ed il capitano Martino, che preferiva avere a bordo dei marinai del Mediterraneo e possibilmente degli italiani, non aveva cercato di scoprirne il motivo, tanto più che la nave inglese aveva lasciato il porto tre settimane prima, in rotta pei porti del Celeste Impero.

Pochi giorni dopo però, doveva pentirsene di quei nuovi arruolati. Appena in alto mare, fuori di vista dalle coste della Malacca, i maltesi avevano cominciato a dare segni d'insubordinazione.

Lavoravano il meno possibile, non compivano mai interamente i quarti di guardia sia notturni che diurni, si ribellavano ai comandi del nostromo, poi a quelli del secondo e finalmente a quelli del capitano.

Dovendo poggiare a Varauni per prendere una ragguardevole provvista di olii canforati, pure destinati agli isolani delle Marianne, aveva deciso di sbarazzarsene; ma giunto nel porto della capitale del regno di Borneo, i due maltesi, che da qualche giorno pareva che fossero pentiti, con mille promesse erano riusciti a farsi mantenere a bordo.

Era stato precisamente a Varauni che il capitano Falcone aveva imbarcato, in qualità di passeggiero, quell'uomo che abbiamo udito chiamare il signor Emilio, dietro speciali raccomandazioni del console olandese.

Quel passeggiero non era un olandese, ma un italiano come tutto l'equipaggio della Liguria. Era un veneziano da parecchi anni stabilitosi nel Borneo, dove aveva fatto una considerevole fortuna trafficando in canfora.

Antico ufficiale di marina, poi esploratore per conto del governo olandese, quindi negoziante ricchissimo, si era imbarcato per fare delle esplorazioni per suo conto nelle isole del grand'Oceano.

Uomo istruitissimo, amabile, energico quanto il capitano, aveva tenuto buona compagnia a tutti, facendosi amare dai marinai e dagli ufficiali.

La navigazione era stata ripresa sotto i più lieti auspici, essendo il mare tranquillissimo ed il vento favorevole.

Già la Liguria aveva perduto di vista le coste del Borneo e s'inoltrava attraverso il mare di Sulu, compreso fra il vasto gruppo delle Filippine al nord e all'est, la lunga e sottile isola Palavan all'ovest e le sponde settentrionali del Borneo, quando una disputa violentissima, che doveva avere più tardi terribili conseguenze, scoppiò a bordo, per opera dei due turbolenti maltesi.

Essendosi rifiutati di prendere parte alla manovra, mentre la Liguria correva delle lunghe bordate avendo il vento contrario, un bollente palermitano, stanco di vedere quei due fannulloni con le mani in tasca, perduta la pazienza, aveva lasciato andar loro due sonori scapaccioni.

I due maltesi, più bollenti del siciliano, avevano estratti i coltelli, assassinando un catanese che era accorso in aiuto del compatriotta.

Il capitano comparso sul ponte, attirato dalle grida dei rissanti, aveva atterrato i due furfanti con un buon colpo di manovella sapientemente applicato sui loro dorsi, poi li aveva fatti incatenare e cacciare nella sentina, per consegnarli più tardi alle autorità spagnuole di Guam.

Pareva che tutto fosse finito, quando una sera, mentre una calma assoluta aveva immobilizzata la Liguria in mezzo al mare di Sulu, i due maltesi che si trovavano forse in possesso d'una lima, erano riusciti a evadere imbarcandosi sull'unica scialuppa che era rimasta a bordo e che secondo l'usanza delle nostre navi, era stata tenuta ormeggiata alla poppa.

Ma questo non era tutto: i due miserabili, forse per vendicarsi del colpo di manovella del capitano, avevano dato fuoco alla dispensa e fors'anche al carico di cotoni.

I lettori sanno il resto: la nave, due ore dopo, balzava in aria per lo scoppio delle polveri e la fumante carcassa s'inabissava sotto le onde tenebrose del mar di Sulu.

················

L'orribile rimbombo era appena cessato e la pioggia di rottami incandescenti era terminata, quando in mezzo al gorgo enorme scavato dal rottame nella sua immersione, si udì ad echeggiare una voce umana.

Ora risuonava acuta, limpida, ed ora strozzata come se la gola dell'uomo che la emetteva, volta a volta venisse bruscamente invasa dalle onde prodotte dal gorgo.

Una forma oscura s'agitava fra la spuma, spariva un istante, poi ricompariva ed allora la si vedeva agitare le braccia con suprema energia.

Chi era quel fortunato che ancora sopravviveva all'orrendo disastro, mentre forse tutti gli altri avevano seguito la povera nave attraverso i profondi abissi del mare?...

La luna che allora cominciava a sorgere a fior dell'orizzonte, facendo scintillare getti d'argento fuso, permetteva di vedere quel superstite della tremenda esplosione.

Era un marinaio giovane ancora, poichè non doveva avere più di venticinque a vent'otto anni, colla pelle del viso assai abbronzata, i lineamenti marcati, gli occhi neri e vivaci ed i capelli e la barba pure nera. Era uno di quei tipi che s'incontrano di sovente nella riviera di levante o di ponente della Liguria, veri tipi di marinai pieni d'audacia e di fuoco.

Quantunque appena sfuggito al tremendo pericolo e solo, su quel mare che era forse abitato dai feroci pesci-cani, mostri comunissimi nelle acque della China e della Malesia, pareva tranquillo.

Nuotava con sovrumana energia, alzandosi sulle onde per gettare all'intorno dei rapidi sguardi, e fra una battuta dei piedi e delle mani, gridava:

— Ohe!... Da questa parte! —

Nessuno però rispondeva alla sua voce, all'infuori dei gorgoglii delle acque ancora agitate dal gorgo scavato dalla nave. Erano adunque tutti periti, i marinai e gli ufficiali della Liguria?... Maledizione sui miserabili che avevano provocato l'incendio e l'esplosione!...

Il marinaio avanzava sempre, cercando qualche rottame della disgraziata nave per avere almeno un punto d'appoggio, ma la luna non rischiarava ancora sufficientemente il mare: bisognava aspettare che si alzasse di più sull'orizzonte.

Per la ventesima volta aveva lanciata la sua chiamata, quando gli parve di udire, in distanza, una voce umana.

S'arrestò anelante, trattenendo il respiro, rovesciandosi sul dorso per mantenersi a galla, senza aver bisogno di muovere le braccia e le gambe ed ascoltò con profonda ansietà.

No, non si era ingannato!... Dinanzi a lui, ad una distanza di tre o quattrocento metri, si udivano delle voci.

— Dei compagni!... — esclamò, con viva emozione. — Dunque non tutti sono morti fra l'esplosione? —

Con un colpo di tallone s'alzò su un'onda che stava per investirlo e lanciò un acuto sguardo dinanzi a sè.

Sui flutti argentei illuminati dall'astro notturno, gli parve di scorgere due forme umane ed una massa nerastra con delle antenne tese in alto. Un grido gli irruppe dal petto:

— Ohe!... ohe!... Aiuto, camerati! —

Una voce limpida, acuta, che veniva dal largo, subito gli rispose:

— Da questa parte!

— Chi siete voi?

— Albani e Piccolo Tonno.

— Il signor Emilio ed il mozzo, — mormorò il marinaio. Poi alzando la voce:

— Ed il capitano?

— Scomparso.

— Avete trovato un rottame?

— L'albero maestro: affrettatevi.

— Vengo! —

Il marinaio nuotava sempre e con maggior vigore, consumando le sue ultime forze. Ormai, alla luce azzurrina della luna, distingueva perfettamente i suoi compagni i quali si tenevano a cavalcioni dell'albero maestro.

Già non distava che una gomena, quando credette udire dietro di sè un tonfo ed un rauco sospiro.

Si volse rapidamente, ma altro non vide che un fiotto di spuma che s'allargava in forma di cerchio.

— Qualche cadavere tornato a galla? — si chiese, rabbrividendo.

Un grido che veniva dalla parte del rottame, s'alzò sul mare:

— Attenzione, marinaio!...

— Cosa avete scorto? — chiese il nuotatore, con inquietudine.

— Avete un pesce-cane alle spalle.

— Gran Dio!...

— Avete un coltello?

— Il mio di manovra.

— Tenetelo pronto: vengo in vostro soccorso! —

S'udì un tonfo, poi balzò in aria uno sprazzo d'acqua scintillante. Il signor Emilio aveva lasciato l'albero e nuotava verso il marinaio con lena affannosa, per aiutarlo contro l'assalto dell'affamato squalo.

Il nuotatore, in preda ad una terribile ansietà, sapendo per prova con quale formidabile nemico aveva da lottare, si era arrestato, rannicchiando le gambe per tema di sentirsele mozzare da un istante all'altro.

Aveva però estratto dalla cintola il coltello di manovra, una specie di navaja spagnuola acuminata, taglientissima e lunga mezzo piede, arma pericolosa nelle mani d'un uomo risoluto.

Nessun altro rumore giungeva ai suoi orecchi, però la sua ansietà cresceva di momento in momento, poichè lo squalo poteva giungergli sott'acqua e tagliarlo in due con un solo colpo di mascelle.

Ad un tratto vide emergere bruscamente, a meno di dieci passi, una testa enorme, sotto la quale s'apriva una bocca larga quanto una botte sfondata e irta di parecchie file di denti triangolari.

— Aiuto!... — urlò il disgraziato.

— Non temete, — rispose una voce. — Siamo in due a combatterlo! —

Capitolo III L'assalto del Pesce-cane

Il signor Albani, l'ex-ufficiale di marina, che doveva essere un forte nuotatore, era improvvisamente emerso dietro allo squalo. La luna faceva scintillare il coltello che teneva stretto fra i denti.

Con un'ultima bracciata passò dietro al mostro nel momento in cui questo stava per inabissarsi e raggiunse il marinaio, il quale non osava più muoversi pur tenendo in pugno l'arma.

— Non temete Enrico, — disse il signor Emilio, con voce tranquilla, — se lo squalo ci assale, avrà il suo conto.

— Che ci arrivi sotto? — chiese il marinaio, che riprendeva animo, sapendo d'avere un valoroso compagno.

— La luna illumina l'acqua e potremo vederlo: aspettate! — Si tuffò e gettò sotto i flutti un rapido sguardo, ma non vide nulla. Risalì a galla e tornò a guardare e scorse subito, a venti passi, un legger remolìo che indicava l'imminente comparsa d'un corpo gigantesco.

— L'abbiamo alle spalle, — disse. — Mettete il coltello fra i denti e affrettiamoci a battere in ritirata verso l'albero.

— Non verremo assaliti?

— Non lo credo; troverà dei numerosi cadaveri senza dare addosso ai vivi, — rispose il signor Emilio, con un sospiro.

— Ma credete che siano tutti morti gli altri?

— Lo credo: affrettiamoci. —

Si misero a nuotare rapidamente, volgendo di frequente il capo per vedere se il pesce-cane li seguiva, ma pareva che il mostro non pensasse più a loro. Appariva e scompariva emettendo dei rauchi sospiri, vibrava qualche colpo di coda sollevando delle vere ondate, ma si teneva lontano; senza dubbio aveva trovato ben altre prede senza correre alcun pericolo.

In pochi minuti i due nuotatori attraversarono la distanza che li separava dall'albero su cui si teneva il loro compagno, colui che abbiamo udito chiamare il Piccolo Tonno.

Quest'ultimo superstite, era il mozzo della Liguria. Era un ragazzetto di quindici o sedici anni, agile come una scimmia, bene sviluppato, con un viso intelligente e furbesco.

Aveva gli occhi grandi e neri, tagliati a mandorla, il profilo regolarissimo che rammentava quello delle razze greco-albanesi, una boccuccia da donna con due labbra vermiglie, le guancie, un po' abbronzate, pienotte ed i capelli neri.

Era stato imbarcato tre anni prima dal defunto capitano Falcone, il quale lo aveva raccolto morente di fame sulle spiagge d'Ischia. Non aveva conosciuto nè il padre, nè la madre, e solo ricordavasi di aver passata la sua gioventù in compagnia d'un vecchio pescatore, vivendo assieme fino al giorno in cui quel poveraccio era morto.

Rimasto solo, aveva errato a capriccio sulle sponde o nelle campagne delle isole, vivendo di granchi e di frutta che rubava alla notte, finchè sopraggiunto l'inverno, estenuato, ridotto a pelle ed ossa, era caduto morente sulla riva, dove era stato trovato dal capitano, che erasi colà recato per visitare una sua vecchia parente.

Ubaldo detto il Piccolo Tonno — tale era il suo nome, poichè mai ne aveva avuto un'altro, — aiutò i compagni a salire sul rottame, cercando contemporaneamente che l'albero non girasse su sè stesso.

— Auff!... — esclamò il marinaro, scuotendosi di dosso l'acqua che gli aveva inzuppato le vesti. — Ancora mezz'ora ed io correvo il pericolo d'andare a picco come una palla di cannone.

— E di venire tagliato in due da quel mangiatore d'uomini, è vero camerata, — disse il mozzo.

— Senza il signor Emilio, non so se a quest'ora avrei ancora attaccate le gambe. Grazie, signore; non dimenticherò mai....

.... aveva atterrato i due furfanti con un buon colpo di manovella sapientemente applicato.... (Pag.11 ).

— Lascia andare, Enrico, — disse Albani, interrompendolo. — Pensiamo invece a levarci d'impiccio da questa situazione che è poco allegra.

— Non domando di meglio.

— Hai udito nessun grido.

— Nessuno, signore. Io credo che i nostri disgraziati compagni siano tutti morti.

— Povero capitano e poveri marinai!... Maledizione sui traditori!

— Dio li punirà, signore. Anche avendo la scialuppa non andranno lontani, poichè non devono avere con loro che pochi viveri.

— Non vi era che una bottiglia vuota nell'imbarcazione, — disse il Piccolo Tonno, col suo accento strascicante dei meridionali. — Io lo so, avendo pulita la scialuppa ieri mattina.

— Scorgete dei rottami? — chiese il signor Emilio.

— Non vedo che una botte galleggiare laggiù, — disse il marinaio.

— Fosse almeno piena.

— Mi pare vuota, poichè è più di mezza sopra l'acqua.

— Pure, dei rottami ve ne devono essere. I pennoni e l'albero di trinchetto devono galleggiare e vorrei prima vederli.

— Cosa sperate, signore?

— Può esservi qualche naufrago da raccogliere.

— Non lo credo, — disse il marinaio, crollando il capo. — Avrebbe risposto alle mie ed alle vostre chiamate.

— I rottami possono essere lontani e.... ma, non vi pare che siamo già molto distanti dal luogo della catastrofe?

— Infatti, signore, mi sembra che noi ci allontaniamo.

— Forse qualche corrente ci trascina.

— Lo credo anch'io.

— Ciò è grave.

— Perchè?...

— Perchè ci allontana dai rottami, mentre avremmo forse potuto raccogliere del legname bastante per costruirsi una zattera e anche qualche cassa o qualche barile contenente dei viveri.

— Proviamo a chiamare, signore, — disse Ubaldo Piccolo Tonno. — Se qualche nostro compagno si è salvato, cercheremo di raggiungerlo o lui cercherà di raggiungere noi.

— Proviamo, — disse Albani.

Tre tuonanti chiamate echeggiarono:

— Ohe!... Ohe!... Ohe!... —

Tesero gli orecchi ed ascoltarono con viva attenzione, ma nessuna voce rispose.

Ripeterono le chiamate con maggior vigore, ma invano. Solamente i gorgoglii dell'acqua ed i soffi rauchi dello squalo, giunsero agli orecchi dei naufraghi.

— Sono tutti periti, — disse il marinaio. — Non siamo vivi che noi, ma perduti nell'immensità del mare e chissà a quale spaventevole sorte destinati.

— Non disperiamo, — disse il signor Albani. — Se Dio ci ha conservati in vita, non sarà certo per farci poi morire di fame e di sete o sotto i denti degli squali.

— Ma come siamo sfuggiti alla catastrofe?

— Perchè ci siamo gettati in mare prima che la nave scoppiasse.

— Voi, ma io no, signore, — disse Enrico. — Io stavo per varcare la murata di prua, quando mi sono sentito proiettare in aria in mezzo ad un nuvolone di fumo e poi piombare in mezzo alle onde, mentre intorno a me cadevano, sibilando, rottami d'ogni specie. Come sono tornato a galla ancora vivo? Io non lo so.

— È stato un miracolo che i rottami non ti abbiano ucciso.

— Lo credo, signore. Ed ora, cosa faremo? Riusciremo a salvarci o siamo serbati ad una lenta e straziante agonia? —

Il signor Albani non rispose: cogli sguardi fissi distrattamente sulla luna, che seguiva il suo corso in mezzo ad un cielo senza nubi, pareva che meditasse profondamente.

Pensava al modo d'uscire da quella situazione che d'ora in ora diventava più grave o alle ultime parole del marinaio?...

I suoi compagni, pure pensierosi, tristi, tenendosi strettamente a cavalcioni di quell'avanzo della Liguria, gettavano sguardi inquieti sulla sconfinata superficie del mare, forse colla speranza di veder apparire, sulla linea argentea dell'orizzonte, qualche macchia oscura o qualche punto luminoso che indicasse la presenza d'una nave salvatrice.

— Ascoltatemi, — disse ad un tratto l'ex-uomo di mare, scuotendosi. — Sapete dove precisamente trovavasi la Liguria nel momento del disastro?... Tu, Enrico, eri di quarto, se non m'inganno.

— All'est delle isole Sulu, — rispose il marinaio.

— Sapresti dirmi la distanza?

— Lo ignoro, signore. Quando il capitano ha fatto il punto, non ero presente.

— E nemmeno io, — disse Piccolo Tonno.

— Forse siamo a due o trecento miglia da quell'Arcipelago, — disse il signor Albani, come parlando fra sè stesso.

— Lo credo, — rispose Enrico.

— Una distanza enorme da attraversare, per degli uomini che sono privi d'un canotto e senza un sorso d'acqua e dei biscotti.

— Senza poi contare che l'Arcipelago di Sulu è abitato dai più birbaccioni pirati della Malesia, — aggiunse il marinaio.

— Vediamo, — disse il signor Albani. — Dove ci porta questa corrente, che ci allontana dal luogo del disastro.

— Aspettate, signore, — disse il mozzo. — Ho una piccola bussola in tasca, regalatami dal capitano. —

Estrasse il prezioso oggetto, lo espose ai raggi della luna e guardò la lancetta.

— Andiamo verso l'est, — rispose poi.

— Verso l'Arcipelago? — chiese il marinaio.

— Sì, — confermò il signor Emilio.

— Quale velocità credete che abbia questa corrente?

— Forse un miglio e mezzo all'ora.

— Supponendo che l'Arcipelago fosse lontano trecento miglia, impiegheremmo?...

— Duecento ore, ossia otto giorni e otto ore.

— Ventre di pesce-cane!... — esclamò il marinaio. — Tanto da morire di fame con tutto comodo!...

— Se non di fame, per lo meno di sete, — disse il signor Emilio. — Col calore che regna su questo mare, non potremo resistere.

— E poi otto giorni senza chiudere occhio! — aggiunse Piccolo Tonno. — Temo di non dover più mai rivedere nè Ischia, nè Napoli.

— Nè io papà Merlotti, il taverniere di via Sottoripa, mio buon amico, — disse il marinaio. — Addio, Genova!...

— C'è tempo a morire, amici miei, — disse l'ex-uomo di mare. — È vero che questo mare è poco battuto dalle navi, ma possiamo venire raccolti da qualcuna, oppure venire spinti verso qualche isola dell'Arcipelago. Ve ne sono parecchie lontane dal gruppo principale e chissà che qualcuna non ci sia vicina.

— Per ora non ne vedo, signore.

— Navighiamo da mezz'ora, Enrico. Aspetta domani mattina o posdomani.

— Ma non abbiamo nulla da porre sotto i denti, signore.

— In due o tre giorni non si muore.

— Ma il sonno? Resisteremo noi?

— Vi sono delle funi appese all'albero ed anche dei pezzi di vela. Chi c'impedirà di fabbricare, alla meglio, un'amaca, di appenderla ai due pennoni o fra la crocetta e un'antenna?...

— È vero, — disse il mozzo.

— Zitto, — disse il marinaio.

— Cos'hai udito? — chiese Albani.

Un tonfo si udì dietro all'albero. I tre naufraghi si volsero di comune accordo e videro una massa nerastra emergere a pochi passi di distanza, fissando su di loro due occhi rotondi, colla pupilla azzurrognola e l'iride verde-oscuro.

Una bocca enorme, semi-circolare, s'aprì emettendo un rauco brontolìo, mostrando una corona di denti piatti, triangolari, frastagliati, che si muovevano come se già gustassero la preda agognata.

— Ancora quel dannato pesce-cane! — esclamò il marinaio, impallidendo. — Ma che non ci lasci proprio più?

— Attenti alle gambe, — disse Albani.

— Ed alla coda, — aggiunse il mozzo.

Lo squalo, che doveva aver seguito il rottame colla speranza d'impadronirsi, presto o tardi delle vittime, allungò il grosso capo appiattito verso l'albero, come se volesse conoscere più da vicino le prede e con un poderoso colpo di coda uscì più di mezzo dall'acqua.

I tre naufraghi, con un moto istintivo, pur tenendosi sempre a cavalcioni dell'albero, si erano gettati indietro, aggrappandosi ai cordami del pennone di gabbia, il quale mantenevasi ritto, mentre l'altra metà trovavasi sommersa.

— Su le gambe, — gridò Albani.

— Fulmini!...

— S. Gennaro mandi un accidente a quel mangiatore d'uomini!...

— Attenzione!... —

Lo squalo stava per ritentare l'assalto e certamente più impetuoso del primo, poichè quei mostri, sebbene pesino cinque ed anche seicento chilogrammi, sono dotati d'una agilità straordinaria. Con un colpo della loro possente coda riescono a slanciarsi fuori dall'acqua per parecchi metri, ed una volta ne fu veduto uno toccare perfino l'estremità del pennone di trinchetto d'una nave negriera, per impadronirsi d'un cadavere che era stato appositamente colà sospeso. Gli occhi del mangiatore d'uomini tradivano un'ardente bramosia e la sua bocca si era aperta smisuratamente, illuminandosi di quella luce vivida e sinistra che simili mostri proiettano durante la notte. S'immerse un istante come se volesse prendere maggiore slancio, poi si scagliò uscendo tutto intero dall'acqua, ma invece di colpire i naufraghi che si erano lasciati cadere precipitosamente, varcò l'albero e cadde dall'altra parte, imbrogliandosi fra i bracci del pennone, le sartie ed i paterazzi.

Quasi nel medesimo istante si udì Piccolo Tonno a urlare.

— Una scure!... Una scure!... —

Capitolo IV Terra!... Terra!...

La paura aveva fatto impazzire il mozzo od i suoi occhi avevano proprio veduto un'arma?... Il marinaio ed il signor Albani, che erano risaliti prestamente sull'albero, cercarono il loro compagno e lo videro correre, mantenendosi ritto meglio d'un equilibrista giapponese, verso l'estremità del tronco, abbassarsi rapidamente e fare sforzi disperati come se volesse strappare un oggetto profondamente infisso nel legno.

— Ehi, Piccolo Tonno!... — gridò il marinaio. — Vuoi farti mangiare dal pesce-cane?...

— Una scure!... Una scure!... — ripeteva il mozzo, raddoppiando gli sforzi.

— Ma dov'è? — chiese il signor Albani.

— È qui, infissa nell'albero.

— Una scure lì?...

— Sì, signor Emilio.

— Spicciati, mio piccolo Tonno! — urlò il marinaio. — Il pesce-cane sta per ritornare! —

Il mozzo raccolse le proprie forze e con una strappata irresistibile staccò la scure. Si raddrizzò mandando un grido di trionfo e la porse al signor Emilio.

Lo squalo, sbarazzatosi dalle corde che lo avevano imprigionato sotto le pinne triangolari, ritornava verso l'albero per tentare un terzo e forse più pericoloso assalto. Nuotò fino a dieci passi dai naufraghi, s'inabissò un'ultima volta e rinnovando il colpo di coda balzò innanzi, ma andò a cadere proprio sopra all'albero il quale affondò sotto quell'enorme peso.

Il marinaio ed il mozzo caddero in acqua, ma l'ex-uomo di mare si tenne fermo stringendo le gambe con suprema energia, poi pronto come il lampo, alzò la scure e la lasciò cadere con forza disperata sullo squalo che gli passava dinanzi.

Risuonò un colpo sordo ed uno sprazzo di sangue schizzò in aria.

Il mostro agitò furiosamente la possente coda spezzando di colpo il pennone di pappafico che sporgeva dall'acqua e sparve, formando dietro di sè un risucchio spumeggiante.

— Ucciso? — gridarono il marinaio ed il mozzo, che erano tornati prontamente a galla.

— Non lo credo, ma suppongo che ne avrà abbastanza per ora e che non avrà più voglia di ritornare all'attacco, — rispose Albani.

— E la scure?... Perduta forse?...

— No, Enrico; è un'arma troppo preziosa per non conservarla.

— Ma come quell'arma si trovava infissa nell'albero?

— Credo che sia quella adoperata dal nostromo. Mi ricordo che quando l'albero cadde, si era allontanato precipitosamente per non farsi schiacciare dal pennone di gabbia.

— Ma che non sia morto lo squalo!

— Ti dico che non oserà tornare.

— Mi premeva che fosse stato ucciso. Almeno avremmo avuto della carne in abbondanza.

— Più coriacea d'un mulo vecchio.

— Ma in mancanza di meglio poteva servirci, signor Albani. Oh!...

— Cos'hai ancora?...

— S'alza la brezza.

— E soffia da ponente, — disse il mozzo.

— Buono! — esclamò Albani. — Ci spingerà più rapidamente verso l'Arcipelago delle Sulu.

— Un'idea, signore!

— Parla, Enrico.

— Ecco qui il pezzo del pennone di pappafico rotto dalla coda dello squalo.

— Ebbene, cosa vuoi concludere?...

— Che non ci mancano nè funi, nè vele. Possiamo approfittare di questa brezza.

— È vero: affrettiamoci, amici. —

Si misero tutti tre al lavoro senza perdere tempo, sapendo per esperienza che in quei climi caldi le brezze notturne cessano, ordinariamente, col levar del sole.

Ritirarono il pennone spezzato che era stato trattenuto da una fune e lo rizzarono cacciando una estremità fra le crocette le quali servivano, in certo modo, da morsa.

Assicuratolo con dei pezzi di paterazzi e di sartie, ritirarono dall'acqua la vela di gabbia e servendosi dell'alberetto come d'antenna, la spiegarono meglio che poterono, cercando di mantenere più larga che era possibile, l'estremità inferiore.

La brezza che soffiava regolarmente ed abbastanza fresca, non tardò a gonfiarla e l'albero cominciò a filare verso l'est, lasciandosi dietro una leggiera scia gorgogliante.

Non manteneva una linea dritta, come ben si può immaginare e derivava di frequente per mancanza d'un timone o almeno d'un remo, ma pure guadagnava sempre e aiutava efficacemente l'azione della corrente.

I tre naufraghi, che tenevano le scotte allargate, già si rallegravano di quella corsa, quando videro riapparire improvvisamente lo squalo.

— Ancora lui! — esclamò il marinaio, tendendo le pugna. — Ma che non voglia più lasciarci, quel dannato mangiatore d'uomini?... Bisognerà sfondargli il cranio per fargli rinunciare questa caccia accanita?

— Ha fame, — disse Albani, — e quando questi mostri hanno appetito, seguono le prede con una costanza incredibile.

— Eppure gli avete accarezzato rudemente il corpo.

— Bah! Posseggono una vitalità straordinaria e se non si toccano al cuore o al cervello, non muoiono. Aggiungi poi, che noi siamo naufraghi e quando quei mostri feroci scorgono un rottame od una zattera non la lasciano più, certi di avere, presto o tardi, delle prede.

— Spera adunque che una tempesta scagli le sue onde contro di noi e ci strappi da quest'albero.

— Senza dubbio, Enrico.

— Fortunatamente il tempo non accenna a cambiare, almeno per ora.

— E se cambierà ci troveremo allora tanto vicini alle Sulu, da non temerlo altro.

— Ah!... Se quel pesce-cane mostrasse ancora la sua testa presso l'albero!...

— Lascia che nuoti a suo comodo, Enrico. Ti assicuro che non c'inquieterà! Occupiamoci invece della nostra vela e procuriamo di tenerla ben tesa. —

La brezza notturna si manteneva costante, anzi accennava ad aumentare, quantunque ormai mancassero poche ore allo spuntare dell'alba.

Il rottame, che manteneva la sua stabilità in causa della botte e del pezzo del castello che servivano come di bilanciere, continuava ad avanzare con una velocità di due o tre nodi, guadagnando via verso levante.

La corrente da canto suo lo aiutava, facilitando la corsa.

Già altre due ore erano passate, quando il Piccolo Tonno, che si levava di frequente in piedi per abbracciare maggior orizzonte, sperando sempre di scorgere qualche punto luminoso, che indicasse la presenza di una nave, segnalò alcuni volatili che filavano verso l'est.

— Che siano uccelli costieri? — chiese Enrico, con una certa emozione.

— Fa ancora troppo oscuro per poterli distinguere, — rispose Albani, che li osservava con grande attenzione. — Dal loro volo pesante non mi sembrano nè procellarie, nè fregate.

— Si tengono sempre lontani dalle coste, questi volatili?

— Ordinariamente sì, perchè s'incontrano perfino a cinque o seicento miglia dalle isole e dai continenti.

— Allora quelli uccelli che fuggono verso levante saranno dell'Arcipelago.

— Possono anche essere emigranti, amico mio, e diretti chi sa mai dove.

— Signore!... — esclamò in quell'istante il mozzo, con voce rotta.

— Cos'hai? — chiese Albani.

— Là!... là!... Guardate!...

— Dove?...

— Dinanzi a noi!... Alzatevi in piedi!... —

Albani ed il marinaio s'affrettarono a obbedirlo e scorsero, ad una grande distanza, emergere dall'orizzonte una massa oscura la quale spiccava nettamente sulle acque illuminate dalla luna.

— Un'isola!... — esclamò il marinaio, con voce soffocata.

L'ex-uomo di mare non rispose. Colla fronte aggrottata, gli sguardi fissi fissi, guardava con profonda attenzione quella massa nerastra che somigliava vagamente alla cima d'una montagna.

— Un'isola?... — ripetè il marinaio, con crescente ansietà.

— Sì, — rispose finalmente il veneziano. — No.... non possiamo ingannarci.... la terra è là! —

Due grida di gioia irruppero dal petto dei due marinai:

— Evviva!... Evviva!... Grazie a Dio, noi siamo salvi!...

— Sì! — ripetè Albani, che continuava a guardare. — Terra!... Terra laggiù!...

— Lasciate che vi abbracci, signor Albani!... — gridò il marinaio, che pareva impazzisse per la gioia.

— Fa' pure ma bada di non cadere, — disse il veneziano, ridendo. — Il pesce-cane ci segue sempre.

— Non lo temo più. —

Il marinaio gli gettò le braccia al collo, poi volgendosi verso il mozzo:

— Un abbraccio anche a te, mio Piccolo Tonno! — disse.

— Bada!... Mi fai abbandonare la scotta.

— La riprenderemo poi. —

E l'espansivo marinaio strinse al petto anche il mozzo.

Il rottame continuava a filare in direzione dell'isola, spingendolo il vento precisamente da quella parte.

Il picco pareva che di momento in momento s'alzasse sull'orizzonte. Quale terra sorgeva laggiù?... Era un'isola appartenente all'Arcipelago di Sulu e abitata, oppure una di quelle scogliere deserte che sono così numerose in quel mare?... Pel momento ai naufraghi poco importava il saperlo; a loro bastava di poter toccare quella terra per riposarsi e per dissetarsi, essendo certi di trovare un po' d'acqua o per lo meno delle frutta.

Albani, tenendosi ritto presso il pennone di pappafico, guardava con crescente attenzione il picco che spiccava sempre più nettamente sull'orizzonte, il quale ormai cominciava a rischiararsi, approssimandosi l'alba. Pareva che cercasse d'indovinare a quale terra apparteneva.

— Vedete nulla, signore? — chiese il marinaio, che non poteva rimanere zitto.

— Nulla, — rispose il veneziano.

— Nemmeno un punto luminoso?

— No.

— Sembra vasta quell'isola?

— Non mi pare.

— Che sia deserta?

— Te lo dirò quando saremo sbarcati.

— Io la preferirei disabitata, signore, — disse il mozzo.

— Briccone! E come faresti a procurarti dei viveri se non possediamo un fucile?

— Abbiamo una scure e due coltelli.

— Che Robinson miserabili!... Crosuè aveva almeno delle armi da fuoco e la dispensa della nave.

— Ne faremo a meno.

— Vorrei vederti alla prova.

— Scorgo le sponde dell'isola, — disse in quell'istante Enrico.

Il signor Emilio ed il mozzo, aiutandosi l'un l'altro per mantenersi in equilibrio, s'alzarono in piedi.

L'isola non distava che cinque o sei miglia ed ora la si scorgeva perfettamente.

Pareva che non dovesse essere vasta, poichè la sua fronte non si estendeva per parecchie miglia verso l'est e verso l'ovest ed il suo monte s'alzava per tre o quattrocento metri, formando, presso le vetta, due punte dentellate a mo' di sega.

Dinanzi alle spiagge si vedevano emergere delle masse oscure, probabilmente delle scogliere corallifere e attorno ad esse si vedeva l'acqua spumeggiare per un vasto tratto.

— La risacca sarà violenta laggiù — disse il marinaio, — ma noi approderemo egualmente. Piccolo Tonno, lascia andare la scotta: cammineremo di più. —

La brezza che era aumentata invece di diminuire, urtava la vela con una certa violenza, imprimendo al rottame delle brusche scosse. La tranquilla superficie del mare cominciava a rompersi e delle larghe ondate si formavano, correndo da ponente a levante.

Alle 4 del mattino, quando le prime luci dell'alba cominciavano a far impallidire gli astri, i naufraghi giungevano dinanzi alle prime scogliere dell'isola.

La risacca si faceva sentire violentemente. Le ondate e le contro-ondate si urtavano con grande furia, rompendosi e accavallandosi con lunghi muggiti e coprendosi di spuma.

Il rottame, scosso da tutte le parti, trabalzava disordinatamente minacciando di rovesciare in acqua i naufraghi. Già il pennone e la vela erano caduti in causa di quelle spinte disordinate.

Ad un tratto toccò: si era arenato su d'un basso fondo.

— In acqua!... — gridò il signor Emilio.

Il marinaio mise il coltello nella cintola e abbandonò l'albero. Aspettò che l'onda, spinta dalla risacca, passasse e si slanciò verso la spiaggia arrestandosi dinanzi ad una specie di caverna entro la quale le acque si precipitavano con lunghi muggiti.

I suoi compagni l'avevano seguito correndo.

Capitolo V I mostri dell'Oceano

Quella parte dell'isola, a prima vista, non presentava passaggi per salire la costa, la quale era alta assai e scendeva quasi a picco. Pel momento l'unico rifugio era quella caverna, la quale doveva essere stata scavata dall'impeto continuo delle ondate.

Nè a destra nè a sinistra, scorgevasi alcun tratto di terra tanto larga da permettere ai naufraghi di sedersi e tanto meno di sdraiarsi.

Quantunque nella caverna entrassero le onde, il marinaio s'inoltrò, sperando di trovare nell'interno un posticino per potersi riposare.

Aspettò un istante perchè l'ondata uscisse, poi si spinse arditamente innanzi seguito dal signor Emilio e dal mozzo, ma d'improvviso si ritrasse emettendo un grido di sorpresa e di terrore.

Una specie di braccio assai grosso, appena visibile fra quella prima luce che penetrava a stento dall'apertura, gli era piombato addosso, stringendolo a mezzo corpo.

Dapprima il marinaio credette che fosse un braccio umano, ma ben presto s'accorse d'essersi ingannato: dinanzi a lui brillavano due occhi grandi, rotondi, fosforescenti i quali lo fissavano in tale modo che parevano volessero affascinarlo.

Il marinaio era coraggioso, ma nel trovarsi dinanzi a quel mostro misterioso, fra quelle semi-oscurità, colle onde che gli urlavano intorno minacciando di rovesciarlo e con quel braccio che lo stringeva già con grande energia, si sentì rimescolare il sangue e rizzare i capelli.

— Signor Emilio!... — urlò con voce strozzata.

— Cosa avete? — chiese il veneziano, che nulla aveva potuto vedere, trovandosi ancora indietro.

Il marinaio non potè rispondere. Quel braccio lo stringeva in modo da soffocarlo e alle reni gli faceva provare un dolore così acuto, come gli si succhiasse il sangue a forza.

Non si era però smarrito d'animo. Facendo uno sforzo disperato trasse il coltello dalla cintola e con un rapido colpo tagliò netto quel membro dotato di quella forza straordinaria.

Il veneziano correva allora in suo aiuto, tenendo ben stretta in pugno la scure. Con un solo sguardo, vide subito con quale formidabile avversario avevano da fare.

— Indietro! — urlò.

Il marinaro girò sui talloni lanciandosi verso l'apertura, ma due altre braccia lo afferrarono cercando di sollevarlo, mentre altre tre piombavano sul suo compagno.

— Ah!... Canaglia! — urlò Albani, furibondo.

Non badando che alla propria rabbia, si era scagliato a corpo perduto contro quei due grandi occhi che brillavano fra l'oscurità, menando colpi disperati, mentre il marinaio agitava pazzamente il coltello percuotendo a destra ed a sinistra.

Ad un tratto si sentirono inondare da una scarica di liquido denso e che tramandava un acuto odore di muschio, mentre le braccia che li stringevano cadevano inerti.

Mezzi soffocati ed acciecati guadagnarono a tentoni l'uscita, presso la quale si teneva il mozzo, urlando come un ossesso.

— Fulmini di Genova! — esclamò il marinaio, correndo a tuffarsi nelle onde. — Che m'abbia acciecato?...

— Ma siete inondati d'inchiostro! — urlò il mozzo. — Ma cosa è accaduto adunque?...

— Aspetta un po' che mi lavi!... Mondaccio birbone.... Sono profumato come un caimano!... —

Il veneziano era pure balzato in acqua e si lavava con grande vigore, stropicciandosi il viso, i capelli e le vesti.

— Ma cos'è accaduto, dunque? — ripeteva il mozzo, il quale lanciava sguardi impauriti verso la caverna.

— Auff! — esclamò finalmente il marinaio, riguadagnando la sponda. — Era inchiostro di prima qualità!...

— Ma avete combattuto contro dei calamai? — chiese il mozzo, che ormai rideva a crepapelle.

— No, contro uno solo, ma se tu l'avessi veduto, ragazzo mio, non avresti più una goccia di sangue in corpo. Che braccia!... E che occhi!... Se mi stringeva un po' di più, mi faceva uscire gl'intestini dalla bocca, te lo assicuro.

— Un polipo formidabile, adunque?...

— Enorme.

— E l'avete ucciso?

— Lo credo.

— E stava in quella grotta come nella sua casa?

— Precisamente, Piccolo Tonno.

— Ah!... San Gennaro, aiutami!...

— Cosa c'è?...

— Oh! l'orribile mostro!...

— Fulmini!... Ancora lui!... Signor Emilio! —

Albani, che aveva allora terminato di lavarsi, guadagnò prontamente la riva, ma subito si arrestò.

Dalla caverna marina, usciva in quel momento il mostro che li aveva poco prima assaliti, tentando di tornare in mare.

Quel calamaro gigante faceva paura. Era di dimensioni enormi, poichè poteva pesare mille chilogrammi, biancastro ma quasi gelatinoso, con delle braccia lunghe sei metri, fornite d'un grande numero di ventose destinate a succhiare il sangue delle vittime, con un becco grandissimo, di sostanza cornea, che somigliava, nella forma, a quello dei pappagalli e con due occhi grandi, piatti, dai glauchi colori.

S'avanzava penosamente, essendogli state recise tre braccia e cercava di approfittare delle onde che la risacca scagliava contro la caverna.

— Fuggite! — gridò il signor Emilio.

Sul fianco destro della caverna si prolungava una fila di scoglietti, gli uni collegati agli altri da banchi di sabbie che la bassa marea aveva lasciati scoperti, e che si univano ai piedi dell'altra sponda.

I naufraghi senza più esitare si slanciarono verso quegli scogli, cercando di giungere presso la riva e si arrestarono dinanzi ad una rupe gigantesca che s'inalzava per due o trecento piedi.

Il calamaro gigante, fortunatamente, pareva che non pensasse a dare a loro una seconda battaglia, ma a raggiungere il mare. Attese che una nuova onda giungesse presso la caverna e quando la vide ritirarsi, si lasciò trascinare via.

Per qualche istante furono vedute le sue braccia agitarsi fra la spuma, poi l'intera massa scomparve sotto le acque.

— Buon viaggio! — gridò il marinaio, respirando liberamente. — Fulmini!... Come era brutto!... Non ne ho mai visto uno simile!...

— I cefalopodi sono piuttosto rari, — disse Albani.

— Si chiamano cefalopodi, quei mostri?...

— Sì, Enrico.

— Sono pericolosi?...

— Posseggono tale forza nelle loro braccia, da stritolare un uomo robustissimo. Aggiungi poi, che le loro ventose dove si applicano succhiano il sangue, e se tu non fosti stato vestito, le avresti provate.

— Ma il furfante morrà, così mutilato.

— Non crederlo, amico mio. I cefalopodi hanno la vita dura e per ucciderli bisogna colpirli al cuore o meglio nei cuori, poichè ne hanno tre.

— Ma ha perduto tre braccia, signore.

Il signor Albani spaccò un frutto, adoperando la scure per non ferirsi le mani.... (Pag.37 ).

— Col tempo le rifarà.

— Cosa dite?... Torneranno a crescergli le braccia?...

— Sì, fra sette anni. Ma lasciamo andare il cefalopodo e cerchiamo di scalare questa costa. Vedo degli alberi lassù e promettono delle frutta, se non m'inganno.

— Siamo marinai signore e spero che ci riusciremo. —

Il sole spuntava allora, illuminando il mare e l'isola. Alzando gli occhi verso l'alta sponda, i naufraghi ormai distinguevano perfettamente degli alberi di mole enorme, coperti di folte e grandi foglie, in mezzo alle quali apparivano delle grosse frutta spinose, di forma un po' allungata.

— Se non m'inganno sono durion, — disse il signor Emilio. — Sarà un po' difficile far cadere quelle frutta, ma chissà che a terra ve ne siano. —

Si misero a osservare la rupe, ma alla base era così liscia, da non permettere la salita nemmeno ad un gatto o ad una scimmia. Quattro metri più sopra però vi erano numerosi crepacci e delle radici e degli sterpi, i quali potevano offrire una scalata.

— Corpo d'un tre alberi sventrato! — esclamava il marinaio, che si rompeva inutilmente le unghie contro quella parete liscia e dura. — Che non si possa giungere lassù?

— Colla pazienza ci riusciremo, — disse il signor Emilio. — Dov'è il rottame?

— Si è arenato presso la caverna, — rispose il mozzo.

— Va' a tagliare un paterazzo dell'albero. —

Il mozzo si recò presso la caverna e poco dopo ritornava tirando la lunga e grossa gomena incatramata.

— Formiamo ora una scala umana, — disse il veneziano. — Tu, Enrico, appoggiati alla rupe, io salgo sulle tue spalle e Piccolo Tonno sulle mie, portando con lui il paterazzo.

— Sarai poi capace di salire? — chiese il marinaio al mozzo.

— Mi basta cacciare un piede ed una mano in una di quelle fessure, — rispose Piccolo Tonno.

— Avanti allora! —

Il marinaio s'appoggiò alla rupe inarcando il robusto dorso, il signor Emilio gli salì sulle spalle con un solo salto, poi il mozzo, che si era legata la fune attorno ai fianchi, s'arrampicò con un'agilità da scoiattolo, aggrappandosi ad una radice e puntando i piedi nudi entro un crepaccio.

— Ci sei? — chiese il marinaio.

— Salgo, — rispose il ragazzo.

Il signor Emilio balzò a terra e guardò in aria. Piccolo Tonno s'arrampicava sul fianco della rupe con rapidità sorprendente e con sicurezza, tenendosi stretto agli sterpi o alle radici ed approfittando delle più lievi sporgenze e delle più piccole fessure.

In pochi istanti raggiunse felicemente la vetta della grande rupe, la quale si addossava alla spiaggia.

— Cosa vedi? — chiese il marinaio, impaziente.

— Tanti alberi e delle canne immense.

— Vi sono delle capanne? — chiese il signor Emilio.

— Non ne vedo.

— Lega la fune, poi gettala.

— Signor Albani!...

— Cosa c'è ancora?...

— Vedo delle scimmie.

— Non valgono il giupin[1] ma allo spiedo basteranno pei nostri stomachi affamati, — disse il marinaio. — Giù la fune, ragazzo mio!... —

Il mozzo legò un capo del paterazzo attorno la punta d'una roccia e gettò l'altro, il quale cadde in acqua.

— A voi, signore, — disse Enrico.

Albani afferrò la fune e si mise a salire con una lestezza, che dimostrava come quell'uomo fosse famigliarizzato cogli esercizi ginnastici, e raggiunse il mozzo il quale ammirava estatico alcuni uccelli dalle penne splendidissime, che volteggiavano attorno agli alberi.

Quella parte dell'isola, le cui sponde erano così elevate, pareva che fosse assai accidentata e che formasse le ultime pendici della montagna già scorta, la quale s'alzava a meno di un miglio dal mare.

Quel terreno saliva e scendeva in forma d'ondulazioni assai accentuate, ed era coperto da folte boscaglie, le quali poi s'arrampicavano sui fianchi del monte.

Si vedevano alberi d'ogni specie incrociare i loro rami, tanto crescevano uniti, gli uni altissimi e grossi assai, altri esili e più bassi e altri ancora nodosi e contorti, tutti coperti da piante arrampicanti che formavano dei pittoreschi festoni.

Molti uccelli di diverse specie volavano quà e là fuggendo in mezzo agli alberi più folti, mentre sulle sponde volteggiavano bande di rondini salangane e parecchi volatili acquatici.

Nessuna traccia d'abitanti si scorgeva su quella costa: non canotti, non capanne, non un fuoco o del fumo che indicassero la presenza di qualche abitante. Si vedevano invece numerose scimmie, di quelle chiamate nasi lunghi ( Nasalis larvatus ) dalla fisonomia comica, col naso lungo, grosso, a punta rigonfia e rossa come quella dei discepoli di Bacco e che erano occupate a saccheggiare le frutta degli alberi.

— Nessun abitante, signore? — chiese il marinaio, raggiungendo Albani.

— No, finora, — rispose questi.

— E da mettere sotto i denti, nulla?... Ho un appetito formidabile e vi assicuro che darei un anno di vita per una zuppiera di quel giupin, che papà Merlotti sapeva fare così delizioso.

— Ed io due per un piatto di maccheroni col pomodoro, — disse il mozzo.

— Per ora vi accontenterete delle frutte di questi durion, — rispose Albani, sorridendo.

— Sono buone, almeno? — chiese il marinaio.

— Le migliori e le più nutrienti di tutte, ma....

— C'è un ma?...

— Non so se saprete vincere l'odore ingrato che esalano.

— Toh!... Sono le frutta più squisite e hanno un profumo che non tutti possono affrontare!... Che specie di frutta sono adunque?

— Deliziose, ti ho detto.

— Puzzassero anche di catrame, io le manderò giù — disse il mozzo. — Ho lo stomaco vuoto e reclama la colazione molto imperiosamente.

— Seguitemi, — disse Albani. — Ecco delle frutta ben mature che sono già cadute. —

Capitolo VI I Robinson italiani

Presso un piccolo poggio, sorgeva un gruppo d'alberi altissimi, col tronco grosso assai e perfettamente liscio, coperti, ad un'altezza di sessanta o settanta piedi dal suolo, da foglie assai folte.

Ai piedi di quei colossi si vedevano delle frutta grosse come la testa d'un uomo, ma di forma oblunga, coperti da una buccia verde-giallognola, irta di punte acutissime e lunghe parecchi centimetri.

Alcune erano ancora chiuse, ma altre presentavano delle fessure dalle quali sfuggiva un odore niente affatto piacevole, poichè rassomigliava a quello esalante dai formaggi putridi e dall'aglio guasto. Attraverso però quelle spaccature si scorgeva una polpa biancastra, che pareva promettente.

— Che odore! — esclamò il marinaio, arricciando il naso e facendo una brutta smorfia. — Che quest'albero produca del formaggio di Gorgonzola un po' troppo guasto?

— O del cacio-cavallo putrido? — chiese il mozzo.

— Toh! — esclamò il veneziano. — Io vi offro delle migliori e più delicate frutta della flora malese e voi cominciate a protestare di già.

— Le vostre frutta saranno squisitissime, signore, ma tramandano un profumo da far scappare perfino i cani.

— Io invece ti dico, Enrico, che i cani addenterebbero subito e con molto piacere la polpa di queste frutta, anzi ti dirò che sono ghiottissimi, avendo il sapore più d'una sostanza animale che vegetale. Orsù, non fate gli schizzinosi. —

Il signor Albani spaccò un frutto, adoperando la scure, per non ferirsi le mani con quelle punte pericolose, ed estrasse la polpa che conteneva, facendo uscire dei grossi semi avviluppati in una pellicola.

— Inghiottisci questa polpa, — disse, offrendola al marinaio. — Se l'odore ingrato ti dà noia, turati il naso. —

Il marinaio, quantunque avesse i suoi dubbi sulla squisitezza di quelle frutta, ne mise un pezzo in bocca e, contro ogni previsione, la inghiottì avidamente.

— Ma è deliziosa! — esclamò. — Migliore della crema più delicata e più profumata delle frutta più pregiate dei nostri paesi. Mangia, mio Piccolo Tonno, mangia!... I gelati della tua Napoli la perdono nel confronto. —

Il mozzo, incoraggiato da quelle parole, si turò il naso e mandò giù.

— Chi direbbe che queste frutta così puzzolenti sono così buone! — esclamò. — Ancora, signor Emilio, ancora! —

Le frutta abbondavano e, possedendo la scure, i naufraghi non si trovavano imbarazzati ad aprirle. Abituatisi presto a quell'odore ingrato, fecero una vera scorpacciata di quella polpa tenera e così delicata.

— Ma i semi non si mangiano? — chiese il marinaio.

— Sì, — rispose Albani. — Si arrostiscono come le nostre castagne e ne hanno anche il sapore.

— Signor Albani, facciamo una raccolta di queste frutta.

— Si guastano presto, Enrico, non ne vale quindi la pena, e poi questo cibo è sostanzioso fino ad un certo punto. Bisognerà trovare qualche cosa di più solido.

— Della carne? Credete che vi siano degli animali in quest'isola?

— E perchè no? Troveremo dei babirussa, dei tapiri forse, delle scimmie e fors'anche degli animali pericolosi, delle tigri per esempio.

— Delle tigri!... Diavolo!... E noi non abbiamo che una scure e due coltelli! Non so cosa accadrebbe di noi se uno di quegli animali ci assalisse!... Udiamo, signore, cosa avete intenzione di fare? Mi pare che la nostra situazione non sia molto brillante.

— Sedetevi ed ascoltatemi, amici miei, — disse Albani. — Io non so in quale isola noi abbiamo approdato, ma credo che sia una di quelle che formano l'Arcipelago di Sulu e che sia disabitata.

Forse m'ingannerò, ma temo che noi siamo destinati a fare la vita dei Robinson e ad intraprendere una vera lotta per poterci trarre d'impiccio.

Questo mare poco noto, poco frequentato dalle navi, essendo noi lontani dalle linee che ordinariamente tengono i velieri, che dalle isole della Sonda si recano alle Filippine, non ci offrirà tanto presto l'occasione di venire raccolti, e chissà per quanto tempo saremo costretti a rimanere qui.

Fortunatamente se quest'isola sembra deserta è ricca di piante, e la flora malese può procurare, per chi sappia approfittarne, mille cose sufficienti ai bisogni della vita.

Non scoraggiatevi quindi: si tratta di lavorare e se Dio ci protegge, spero di potervi far passare tranquillamente, senza timori e senza sofferenze, tutto il tempo che saremo costretti a fermarci su quest'isola.

Siamo i più poveri di tutti i Robinson, poichè gli altri, cominciando da Selkirk, il capo-scuola, l'eroe di Daniel de Foë, possedevano almeno delle armi da fuoco, mille cose utilissime che traevano dalle loro navi naufragate, ma colla fermezza e colla volontà noi nulla avremo da invidiare agli altri.

Intanto, amici miei, pensiamo a fabbricare un ricovero che è il più urgente di tutto. Col tempo poi fabbricheremo delle armi mortali quanto i fucili....

— Delle armi!... — esclamarono i due marinai stupiti. — Ma dove le troverete?...

— A suo tempo lo saprete, — rispose Albani. — Poi cercheremo il pane....

— Anche il pane!...

— Sì, amici, e vi assicuro che il forno che costruiremo avrà molto da lavorare.

— Fulmini!

— Terremoto del Vesuvio!

— Poi verrà il resto. Avremo del vino, dell'olio, le candele, le stoviglie, ecc. Conosco la flora malese e so quante cose indispensabili alla vita può produrre. La natura penserà a darci tutto.

— Ma voi siete un grand'uomo, signore! — esclamò il marinaio.

— Niente affatto, — rispose Albani, sorridendo. — Ho viaggiato assai, specialmente nella Malesia, e metterò a profitto tutto ciò che ho imparato nelle mie escursioni. Al lavoro, amici!... Prima di questa sera, bisogna avere un ricovero.

— Ma non abbiamo ancora bevuto, signore, — disse il marinaio, — ed io sarei ben felice di poter ingollare un sorso d'acqua.

— Ecco una pianta che ci darà dell'acqua buonissima, — rispose il veneziano. — La natura comincia il suo ufficio di provveditrice dei Robinson. —

Egli si era avvicinato ad una specie di liana ramosissima che s'arrampicava attorno ad un durion, formando dei graziosi festoni, e aveva impugnato il coltello che aveva preso al mozzo.

— Preparatevi ad accostare le labbra, — disse.

Con un colpo secco la troncò e dai due capi si videro tosto sgorgare due zimpilli d'acqua limpidissima.

— Non sarà velenosa, signore? — chiese il marinaio, esitando.

— No, uomo diffidente: bevi con tuo comodo che ce n'è per tutti. —

Enrico ed il mozzo applicarono le labbra ai due pezzi della liana e bevettero avidamente, poi lasciarono il posto al signor Albani che si era rifiutato di accettarlo prima.

— È vera acqua, signore, — disse il marinaio. — Ma che specie di pianta è questa, che fa l'ufficio delle fontane?

— Si chiama aier dagli abitanti delle Molucche e d'Amboina, ma è poco conosciuta dai naturalisti europei. Solamente Rumfio e il nostro Rienzi, il valoroso esploratore di queste regioni, ne hanno fatto cenno. È però comunissima e gl'isolani ne fanno molto uso quando l'acqua diventa scarsa nei serbatoi e nei torrenti.

So che anche le frutta di questa liana contengono molto umore acqueo.

— Che piante strane! — esclamò Piccolo Tonno.

— Ne troveremo delle altre che ci daranno dell'acqua. Seguitemi, amici.

— Dove ci conducete?...

— A trovare i materiali per la nostra capanna. Vedo laggiù una piantagione di bambù e quelle canne robustissime e facili a trasportarsi, ci serviranno a meraviglia.

— Ed i rottami, non possono servirci? —

Il veneziano parve colpito da quella domanda.

— È vero, — disse. — Vi sono i cordami, le vele e anche le aste di ferro dei pennoni che ci possono giovare per molti usi. È meglio che riportiamo tuttociò a terra, prima che la marea respinga il rottame al largo. Questa notte potremo accontentarci d'una tenda. —

Tornarono verso la spiaggia cercando un passaggio che permettesse a loro di scendere verso il mare e lo trovarono a duecento passi dalla grande rupe. Colà la sponda s'abbassava dolcemente formando una piccola cala, entro la quale avrebbe potuto trovare un comodo rifugio un piccolo bastimento, essendo difesa da una doppia linea di scogliere.

Denudatesi le gambe, trovandosi i banchi sabbiosi, che costeggiavano la sponda, sommersi, in causa dell'alta marea, si diressero verso la caverna marina, dinanzi alla quale trovarono ancora arenato il rottame.

Si misero tosto all'opera per ricavare tuttociò che poteva essere a loro necessario. Il legname era inutile, essendovene ad esuberanza nell'isola e preferendo adoperare i bambù i quali si prestano meglio di tutti nelle costruzioni delle capanne; ma s'impadronirono delle funi, dei paterazzi e delle sartie che potevano essere molto utili, quindi levarono tutte le ferramenta dei pennoni e specialmente le sbarre che servono d'appoggio ai gabbieri e poi le vele che erano tre, quella di gabbia, di pappafico e di contra-pappafico.

— Serviranno a fare delle amache e dei vestiti, — disse il veneziano. — La tela è ancora in buono stato.

— Ma ci mancano gli aghi, signore, — disse il mozzo.

— Troveremo il modo di fabbricarne.

— Di acciaio?...

— Non ho questa pretesa, ma certe ossa di pesci ci serviranno a meraviglia.

— Lo dite sul serio? — chiese Enrico.

— Certo, incredulo marinaio. Gli abitanti nordici, gli Esquimesi per esempio, credi che abbiano degli aghi d'acciaio?... No, si servono di ossa di pesci e noi li imiteremo.

— Ed il filo?...

— Lo avremo dalle vele, quantunque sia certo di trovare qui degli alberi che potrebbero procurarcelo. L' arenga saccharifera produce una sostanza cotonacea che i malesi adoperano come esca e che si potrebbe filare.

— Ma voi, signor Emilio, siete un uomo miracoloso. Sapreste procurarvi tutto anche in un'isola deserta.

— Sì, purchè abbia degli alberi, — rispose il veneziano, ridendo. — Orsù, torniamo alla sponda. —

Si caricarono d'una parte degli oggetti ricavati dal rottame e riguadagnarono il gruppo di durion, presso cui contavano di accamparsi finchè non trovavano un posto migliore.

Dopo essersi un po' riposati, scesero nuovamente la sponda e riportarono il resto.

Erano allora le quattro pomeridiane, a giudicarlo dall'altezza del sole. Essendo troppo stanchi per cominciare nuovi lavori, colla vela di gabbia che era molto grande e con pochi rami d'albero improvvisarono una comoda tenda, quindi fecero un'ampia raccolta di legne secche onde mantenere il fuoco acceso durante la notte, temendo qualche visita pericolosa da parte degli abitanti a quattro gambe della foresta. Fortunatamente avevano la possibilità di accendere quelle legne, avendo il marinaio ritrovate in una delle sue tasche l'acciarino, la pietra focaia e l'esca, che conservava in una scatola metallica assieme alla pipa, diventata, ohimè, inutile ormai, mancando il tabacco.

Il pranzo fu molto magro quella sera, ma si accontentarono. La minuta era semplice, ma fortunatamente abbondante: granchiolini di mare arrostiti sui carboni, delle ostriche, delle frutta di durion e una sorsata d'acqua data da un'altra liana che avevano scoperta a breve distanza dalla piantagione di bambù.

— A chi il primo quarto di guardia? — chiese Albani. — Non sarebbe prudente addormentarci tutti, non sapendo quali animali si nascondono nei boschi o quali uomini abitino quest'isola.

— Lo farò io, — disse il marinaio.

— Bada di non lasciar spegnere il fuoco.

— Non abbiate timore.

— E se scorgi qualche cosa di sospetto, chiamaci senza indugio.

— Dormite tranquilli. —

Il signor Emilio ed il mozzo scivolarono sotto la tenda, mentre il marinaio si sdraiava presso il fuoco colla scure a portata della mano.

Capitolo VII La Tigre

Pareva che quella prima notte, sulle sponde di quell'isola sconosciuta, dovesse trascorrere tranquilla, poichè nessun rumore veniva dalla parte dei boschi che si estendevano in direzione della montagna, la cui massa spiccava sul fondo costellato del cielo.

Non si udivano che i monotoni gorgoglii delle onde le quali, spinte dall'alta marea, venivano ad infrangersi dolcemente contro le scogliere e sui bassi-fondi sabbiosi.

Il marinaio però, non del tutto rassicurato da quel silenzio, vegliava attentamente, non ignorando che nelle isole della regione chino-malese, numerosi e formidabili sono gli animali che abitano le selve e le jungle.

Riattizzava ad ogni istante il fuoco, il solo riparo che poteva difenderlo contro una aggressione, ben poco potendo contare sull'efficacia della scure; aguzzava gli sguardi fissandoli ora verso la piantagione di bambù ed ora verso i grandi alberi e tendeva gli orecchi con profonda attenzione.

Vegliava da due ore, quando udì, a non molta distanza, un grido rauco che rassomigliava ad un miagolìo ma infinitamente più potente di quello che emettono i gatti.

Il marinaio s'alzò di scatto gettando all'intorno uno sguardo inquieto. Quella nota gutturale, breve, l'aveva udita ancora: era il grido della tigre.

— Mille terremoti!... — esclamò, impallidendo. — Ecco un vicino molto pericoloso, che starebbe bene a casa di messer Belzebù!... Se si avvicina, non so se la nostra scure ed i nostri coltelli potrebbero impedirgli di divorarci!... Avessimo almeno delle lancie!... To'!... E perchè no? La cosa mi sembra possibile! —

I suoi sguardi erano caduti sulla legna raccolta che doveva alimentare il fuoco, in mezzo alla quale aveva scorto due giovani bambù lunghi due o tre metri, canne leggiere bensì, ma d'una resistenza a tutta prova e che gl'indiani ed i giavanesi adoperano per fabbricare le aste delle loro picche.

— Ecco quanto mi occorre per avere una buona arma superiore alla scure, — disse.

Afferrò una di quelle canne, la spogliò delle foglie, estrasse da una tasca una funicella ed in pochi istanti legò solidamente il suo coltello all'estremità di quell'asta.

Aveva appena terminato, quando vide uscire da una folta macchia un'ombra, la quale s'avanzava verso il fuoco con grande lentezza, mostrando due occhi che avevano dei bagliori verdastri. S'alzava, si abbassava fino a toccare col ventre la terra, poi s'arrestava come se fosse indecisa o fiutasse l'aria, poi si stirava come un gatto e agitava la sua lunga e sottile coda.

Pareva però che non avesse molta fretta ad avvicinarsi al campo, tenuta forse in rispetto dal fuoco, il quale proiettava sulle piante vicine dei riflessi sanguigni.

— Una tigre od un grosso gatto selvatico? — si chiese il marinaio, le cui inquietudini aumentavano. — Diavolo! La cosa diventa seria e mi pare che valga la pena di tirare le gambe ai compagni. —

Scivolò rapidamente sotto la tenda e scosse vigorosamente Albani ed il mozzo, dicendo:

— Presto, uscite!... Un grave pericolo ci minaccia.

— Chi?... Cosa succede? — chiese l'ex-uomo di mare, stropicciandosi vigorosamente gli occhi.

— Credo che si tratti d'una tigre, signore.

— D'una tigre?... Usciamo! —

Quando si trovarono all'aperto, videro l'animale tranquillamente accovacciato a trenta passi dal fuoco.

Non era più possibile ingannarsi, trovandosi in piena luce: era una vera tigre; ma di razza malese, più tozza, più bassa di zampe e meno elegante di quelle reali del Bengala.

Quelle dell'Arcipelago della Sonda hanno il pelo più lungo e più spesso, le basette meno sviluppate, i ciuffi di pelo del ventre e delle coscie sono invece meno abbondanti.

Sono feroci al pari delle altre, ma fanno più paura, poichè hanno uno sguardo così falso, così minaccioso che fa male a vederlo, e ordinariamente tengono la lingua penzolante e la coda bassa.

La fiera, nello scorgere quei due uomini e quel ragazzo, aveva alzata la testa emettendo un sordo brontolio che nulla di buono pronosticava, ma non si era alzata. Solamente la sua coda, che spazzava il terreno con moti convulsi, tradiva od una certa inquietudine od un imminente scoppio di collera.

— È un vicino pericoloso, — disse il signor Albani, il quale però non sembrava molto spaventato.

— San Gennaro ci protegga, — mormorò il mozzo, battendo i denti.

— Cosa dobbiamo fare? — chiese il marinaio, che era diventato assai pallido.

— Restiamo tranquilli, — rispose il veneziano. — Non oserà avvicinarsi al fuoco.

— Non ci assalirà?...

— Non lo credo, ma non muovetevi, perchè questi animali sono coraggiosi e se credono di essere minacciati, non esitano a scagliarsi.

— E non possediamo nemmeno un fucile a pietra!... Nemmeno una pistolaccia qualunque!... Signor Albani, bisogna trovare il modo di fabbricarci delle armi innanzi a tutto o le tigri ci mangeranno.

— Dopo la capanna verranno le armi e vi prometto che saranno più formidabili dei fucili.

— Ma dove le troverete!...

— A suo tempo lo saprete e....

— Zitto signore, — disse il mozzo, interrompendolo.

Dalla parte della piantagione di bambù si erano udite le foglie ad agitarsi, come se un grosso animale cercasse di aprirsi il passo. La tigre aveva voltata la testa verso quelle canne giganti, poi si era alzata agitando rapidamente la coda.

— Che un'altra tigre si avvicini? — chiese il marinaio.

— O qualche preda? — disse il veneziano. — Sarebbe la ben venuta.

— Per la tigre?

— E anche per noi, poichè ci leverebbe d'attorno questo incomodo vicino. —

Le grandi canne continuavano intanto ad agitarsi e le foglie a sussurrare, e la tigre diventava più attenta.

Ad un tratto una grossa ombra comparve sull'orlo della piantagione e dopo una breve esitazione si diresse verso il fuoco, come se fosse attratta da una irresistibile curiosità.

L'oscurità era troppo profonda perchè si potesse ben distinguerla, ma le sue forme rassomigliavano a quelle d'un tapiro o di un babirussa, animali molto comuni nelle isole dell'Arcipelago Chino-Malese.

Quell'animale era già giunto a cento o centoventi passi, quando il marinaio disse: — Guardate la tigre! —

Il felino era strisciato rapidamente e senza far rumore, dietro ad una fila di cespugli e s'avanzava verso la preda, con passo silenzioso, schiacciandosi, per così dire, contro terra.

D'improvviso si arrestò, si raccolse su sè stesso, poi s'innalzò descrivendo una lunga parabola e piombò, con precisione matematica, sul dorso dell'animale.

S'udì un grugnito acuto seguito dal grido gutturale e stridente della belva, poi si videro i due avversarii dibattersi alcuni istanti, quindi cadere l'uno sull'altro.

— Morti entrambi? — chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano seguito con viva ansietà le fasi di quella lotta.

— No, — rispose Albani. — La tigre sta dissanguando la preda.

— Canaglia! — esclamò il marinaio. — Ah!... se avessi un fucile!...

— Eccola che si rialza, — disse il mozzo.

Infatti il formidabile felino, abbeveratosi col sangue caldo della vittima, erasi rialzato. Girò due o tre volte attorno alla preda, poi l'addentò per la nuca e malgrado fosse assai più grossa di lui, se la trascinò in mezzo alla piantagione per divorarsela con suo comodo.

— Buona digestione, — disse il mozzo.

— E domani avremo della carne fresca, — aggiunse Albani.

— Che ne lasci per noi?... — chiese il marinaio.

— Quando si sarà sfamata se ne andrà, senz'altro occuparsi degli avanzi. Sono certo di trovare domani, nella piantagione, buona parte di quel disgraziato animale. Andate a riposare ora, amici miei: comincio il mio quarto.

— Non tornerà la tigre?...

— Non lo credo, d'altronde in caso di pericolo vi chiamerò. —

I due marinai si ritirarono sotto la tenda ed il veneziano si sedette presso il fuoco, dopo d'aver gettato sui tizzoni dell'altra legna.

Il resto della notte passò senz'altri allarmi, però il signor Albani ed il mozzo udirono, in mezzo alle foreste, urla di tigri, grugniti e sibili i quali indicavano a sufficienza, come quell'isola fosse ricca di selvaggina d'ogni specie e anche di animali pericolosi.

Urgeva quindi fabbricarsi tosto una solida capanna, per non correre il pericolo di venire assaliti o di passare le notti in continui allarmi.

— Andiamo, amici, al lavoro — disse il veneziano, quando spuntò il sole. — Prima di sera bisogna avere un ricovero.

— Non dimentichiamo però la carne lasciata dalla tigre, signore — disse il marinaio. — Se continuiamo a mangiare frutta, fra due settimane non potremo più reggerci in piedi.

— Con un po' di pazienza ci procureremo tutto, Enrico. Pensa che siamo sprovvisti d'ogni cosa, che siamo i più miseri di tutti i Robinson e che dovremo cominciare dalle cose di prima necessità. Fra un mese spero di non udirti più a lamentare.

— È lungo un mese, signore. Sapete che comincio a soffrire per la mancanza del pane?...

— Fra poco il pane abbonderà.

— Lo dite sul serio?...

— Sì, ma prima dovremo costruire il forno e per ora preferisco avere una capanna.

— Diamine! Anche il forno! Avremo da lavorare molto, prima di possedere tuttociò che è necessario alla nostra esistenza.

— In marcia! —

Lasciarono la tenda, armati della lancia e della scure e si diressero verso la piantagione di bambù, la quale si estendeva per un lungo tratto, costeggiando una specie di pantano che conservava ancora delle traccie di umidità.

Quella piantagione era formata da parecchie varietà di bambù. V'erano i tuldo che sono dei più grandi della specie, che in soli trenta giorni acquistano un'altezza da quindici a diciotto metri ed una grossezza di trenta centimetri; i balcua chiamati dagl'indigeni balcas-bans, pure altissimi ma sottili; i blume chiamati anche hauer-tgiutgiuk, armati di spine ricurve e coperti di foglie assai strette; i bambù selvaggi chiamati teba-teba, storti e pure spinosi, ed infine dei bambù giganti, i più alti e più grossi di tutti, poichè toccano sovente perfino trenta metri d'altezza con una circonferenza di un metro e mezzo a due, ma che sono però i meno solidi.

— Qui abbiamo quanto ci occorre — disse il veneziano. — Voi non vi potete immaginare quante cose utilissime si possono ricavare da queste piante.

— Da queste canne! — esclamò il marinaio, con tono incredulo. — Tutt'al più serviranno a fare delle case.

— T'inganni, Enrico; anzi ti dirò che ben poche piante sono preziose e più utili di queste.

— Sarei curioso di sapere a cosa ci potrebbero servire.

— Cominciamo dai germogli, se vuoi: ti piacciono gli asparagi?

— Gli asparagi!... Ma cosa c'entrano quei deliziosi....

— Ah!... ti piacciono assai!... — lo interruppe il signor Albani. — Allora ti dirò che le giovani gemme di queste canne, cucinate in acqua e condite, somigliano ai nostri asparagi.

Costruzione della capanna aerea. (Pag.50 ).

— Scherzate!...

— No, quando avremo una pentola e dell'olio, te li farò assaggiare.

— Dell'olio! — esclamarono il marinaio ed il mozzo stupiti. — Ma sperate di trovare degli olivi qui?...

— No, poichè qui non crescono, ma lo troverò anche senza quelle piante.

— Uomo miracoloso!... — esclamò Enrico.

— Da questi bambù, specialmente da quello comune, si può estrarre lo zucchero o meglio una materia zuccherina che gl'indiani chiamano tabascir.

— Terremoto di Genova!

— Zitto, marinaio. I semi del bambù comune vengono mangiati come riso da molte popolazioni dell'Indo-Cina.

— Anche il riso!...

— Non è tutto. Colle foglie e coi fusti schiacciati, poi stemperati in acqua e uniti con un poco di cotone si ottiene una buona carta molto usata dai Chinesi. Coi fusti poi, tagliati a metà, si fanno condotti d'acqua per l'irrigazione dei campi, oppure si adoperano come tegole, o si fanno capanne solide e leggere, o aste per le lance, o scale, o palizzate mentre quelli spinati servono per fare dei recinti così formidabili da arrestare qualsiasi assalto. Colle foglie poi si possono fabbricare dei panieri, delle stuoie, dei tralicci, ecc.

Volete infine dei recipienti?... Basta tagliare un bambù sopra e sotto i due nodi ed ecco un barilotto dove l'acqua si conserverà benissimo. Volete anche una barca?... Tagliate un bambù gigante, turate le due estremità, oppure serbate i due nodi a prua ed a poppa ed ecco un'ottima scialuppa. Cosa volete ottenere di più da una pianta?

— Ma queste canne sono meravigliose, signore!... — esclamò il marinaio. — Come è utile sapere tante cose!... Io non avrei ricavato nemmeno un bastone da queste canne, mentre invece sono così preziose!... Basterebbero questi bambù per procurarci ciò che ci necessita.

— No, Enrico, non bastano, e nella foresta troveremo altre piante più preziose che ci procureranno quello che non possono darci queste. Basta: al lavoro, amici. —

Capitolo VIII La capanna aerea

I tre uomini si misero al lavoro, abbattendo grande numero di bambù, specialmente dei più alti, ma molti anche di quelli spinosi, volendo il signor Albani costruire anche un recinto, per meglio difendersi dagli assalti delle tigri e che potesse anche servire per racchiudere gli animali che proponevasi di addomesticare.

Atterrate le canne, il marinaio ed il mozzo cominciarono a trasportarle alla spiaggia, di fronte alla piccola cala, avendo scelto quel luogo per erigere la capanna, mentre il signor Albani, armato della lancia, entrava nella piantagione per cercare gli avanzi della grossa preda uccisa dalla tigre.

Doveva avere però un altro scopo, perchè di tratto in tratto si arrestava, spostava i bambù ed esaminava il terreno con profonda attenzione, scavando qua e là delle buche, talvolta assai profonde. Pareva che volesse accertarsi della qualità della terra su cui crescevano quelle canne giganti.

Aveva già fatto numerosi buchi servendosi della lancia, quando si arrestò dinanzi a un piccolo bacino pieno d'acqua, che si celava nel più fitto della piantagione.

Esaminò il fondo, essendo l'acqua limpidissima e pochissimo alta, poi si risollevò, mormorando a più riprese:

— Credo d'aver trovate le mie pentole!... Se quest'acqua non è stata assorbita, è segno che sotto lo strato di terra vi è uno strato impenetrabile. — Si rimboccò le maniche, si denudò le braccia e le immerse, rimuovendo la terra del fondo. Scavò per parecchi minuti esaminando sempre il fango che levava, poi estrasse una materia grigiastra, lievemente grassa.

— Argilla, — disse, con una certa soddisfazione. — Non mi ero ingannato; ho trovato le mie pentole. —

Continuò a scavare ricavando dell'altra argilla, ne fece una grossa palla che avvolse nella propria giacca, poi continuò a inoltrarsi nella piantagione, seguendo una specie di sentiero cosparso di bambù spezzati o piegati, che doveva essere stato aperto dal felino. Dopo dieci minuti giungeva in una piccola radura in mezzo alla quale scorse, distesa a terra, una grossa carcassa semi-spolpata e sanguinante.

— Adagio, — mormorò, impugnando la lancia. — La tigre può trovarsi vicina. —

Fiutò più volte l'aria per sentire se c'era odore di selvatico, odore che tradisce la presenza di quei grossi e feroci felini, poi s'avanzò cautamente, guardando dinanzi, a destra ed a sinistra.

La preda abbattuta dalla tigre era un babirassa, animale grosso come un cervo, la cui carne è eccellente avendo il gusto di quella del cinghiale. Attorno alle ossa vi era ancora tanta polpa da nutrire dieci uomini affamati.

Tagliò un bel pezzo che pesava parecchi chilogrammi, poi abbandonò rapidamente quel luogo pericoloso, temendo di venire sorpreso dal felino, il quale forse sonnecchiava nei dintorni.

Quando uscì dalla piantagione, il marinaio ed il mozzo stavano trasportando gli ultimi bambù.

— Avete trovata la colazione, signore? — chiese Enrico.

— Sì, amico, e anche delle pentole.

— Delle pentole!... Eh! via, scherzate?

— Non dico di averle trovate già fatte e pronte per metterle sul fuoco, ma porto con me dell'argilla per fabbricarle.

— Ma voi siete la provvidenza in persona, signore! Mio Piccolo Tonno, ti farò assaggiare il giupin!... Terremoto di Genova! Ti leccherai le dita!...

— Ed i maccheroni, signor Emilio?... Ah!... Cosa darei per averne un piatto!... Altro che giupin!

— Ehi, furfante! Non disprezzare il giupin! — esclamò il marinaio.

— Non vale i maccheroni, — ribattè il mozzo. — Vorrei preparartene un piatto a mio modo e scommetterei che mangeresti anche il piatto, marinaio.

— Roba da napoletani!...

— Lave del Vesuvio! Disprezzare i maccheroni! Tu perdi la testa, marinaio!

— Il giupin, ti dico!...

— I maccheroni!...

— Avete finito? — chiese il signor Emilio, che rideva, vedendoli arrabbiarsi pei loro piatti favoriti. — Litigate pei maccheroni e per la zuppa alla marinara, mentre non possiamo avere nè l'uno nè l'altra, anzi non abbiamo nemmeno i recipienti dove cucinarle. Calmatevi, ragazzi miei, e pensiamo invece a fabbricarci il ricovero, innanzi a tutto.

— Credo che abbiate ragione, signor Albani, — disse il marinaio. — Parliamo di cose che sono ancora molto lontane o che forse non potremo mai avere.

— Col tempo, chissà!...

— Sperate di farmi mangiare la zuppa?...

— Ed anche i maccheroni, forse.

— Ah! signore! — esclamò il mozzo, cogli sguardi ardenti.

— Basta, andiamo alla spiaggia.. —

Il marinaio ed il mozzo si caricarono degli ultimi bambù e si diressero verso la costa, mentre il signor Albani si dirigeva verso un folto macchione dai cui alberi pendevano delle numerose corde vegetali, che pareva avessero delle lunghezze straordinarie.

— Ecco le funi per i nostri bambù, — mormorò. — Abbiamo tutto sottomano. —

Quelle specie di liane erano rotang (calamus), fibre assai resistenti, che appartengono alla famiglia delle palme, assai comuni in tutto l'Arcipelago Indo-Malese. Sono arrampicanti grossi pochi centimetri, ma sono i più lunghi di tutti, poichè raggiungono perfino i trecento metri.

Resistono lungamente anche in acqua ed i Malesi, i Burghisi ed anche i Giavanesi, se ne servono per formare l'attrezzatura dei loro piccoli velieri.

Ne tagliò parecchi, poi raggiunse i compagni per cominciare subito la costruzione, volendo prima di sera mettersi al coperto contro un ritorno offensivo della tigre o di altre sue compagne.

Avendo a sua disposizione dei bambù assai lunghi e resistenti, il veneziano decise di abbandonare la solita forma delle capanne per costruirne invece una aerea, adottando il sistema dei Dayachi, veri maestri in tali costruzioni, arditissime sì, ma ben più sicure delle altre, contro gli attacchi di qualunque avversario.

Per poter lavorare più rapidamente e con maggior comodo, costruì dapprima una lunga scala giovandosi di quattro bambù lunghissimi e di altri più brevi e più sottili pei piuoli, poi tracciò sul terreno un rettangolo perfetto che doveva servire di base all'intera capanna.

— A noi due, Enrico, — disse poscia. — E tu, Piccolo Tonno, va' a raccogliere intanto i rotang che ho tagliati. —

Scelse trenta bambù della specie gigante, li fece tagliare onde avessero tutti l'eguale lunghezza, quindi li dispose lungo le linee del rettangolo, mentre il marinaio, sull'alto della scala l'incrociava a metà, legandoli solidamente coi rotang recati dal mozzo.

A operazione finita, tutti quei bambù rassomigliavano a tanti X, le cui basi erano state infisse nel suolo, mentre le punte estreme dovevano servire a ricevere le traverse di sostegno destinate al piano della capanna. Si rifocillarono con un pezzo di babirassa arrostito dal mozzo, poi si rimisero al lavoro con febbrile attività, sulla cima dei bambù.

Alle quattro tutte le punte erano già riunite fra di loro con numerose traverse. Allora cominciarono a riempire i vuoti adoperando i bambù più grossi, formando il pavimento della capanna aerea che rinforzavano con continue legature.

La notte li sorprese, mentre stavano collocando a posto gli ultimi bambù.

— Basta, — disse il signor Albani, che era madido di sudore. — In questa prima giornata abbiamo fatto fin troppo e non bisogna stremare le nostre forze. Per questa notte ci accontenteremo di dormire a cielo scoperto.

— È una costruzione ammirabile, signore, — disse il marinaio che era orgoglioso del lavoro fatto.

— Solida, leggiera e sicura.

— Non saliranno le tigri?

— Siamo a dodici metri dal suolo e non credo che con un salto possano giungere fino a noi.

— Ma.... ed il camino? Non s'incendierà la nostra capanna, cucinando quassù?

— Possiamo costruirlo con dei sassi, ma preferisco fabbricarlo nel recinto, Enrico.

— Ah!... Inalzeremo anche una cinta?

— Sì, per i nostri animali.

— Per quali animali? — chiese il marinaio, stupito.

— Per quelli che prenderemo, e costruiremo anche una uccelliera.

— Che possiamo prendere degli animali, sia pure, ma degli uccelli!... Volete fabbricare anche delle reti?...

— Delle reti no, ma ottenere del vischio sì. Ho scorto un albero che ce lo darà.

— Lampi di Giove!... Io comincio a credere che su quest'isola deserta ingrasserò!... Quanti Robinson c'invidierebbero! E dire che noi siamo sbarcati con una semplice scure e con due coltelli!... Signor Albani, se voi realizzerete tutte le vostre promesse, io non lascierò più quest'isola, nemmeno se venissero dieci navi a levarmi.

— Fra un mese, spero che non ci mancherà nulla. —

La cena fu magra quella sera, non avendo avuto tempo per procurarsi nemmeno delle frutta, ma s'accontentarono egualmente. Dopo quattro chiacchiere rizzarono la tenda in cima al pavimento della capanna e s'addormentarono profondamente.

Il loro sonno non fu interrotto da alcun avvenimento. Forse la tigre era ritornata, ma non osò assalire quell'abitazione che doveva avere, almeno di notte, un aspetto formidabile.

All'indomani, appena sorto il sole, si rimettevano al lavoro con nuova lena. Non essendo però il mozzo necessario, avendo ormai issati sulla piattaforma tutti i bambù occorrenti, lo mandarono sulla spiaggia a far raccolta di ostriche e di granchi e possibilmente di uova d'uccelli, avendo scorto numerosi nidi di volatili scoglieri.

Durante il mattino, Albani ed il marinaio rizzarono i sostegni delle pareti e le traverse del tetto, il quale doveva essere a due pioventi, e prepararono anche un certo numero di tegole, spaccando a metà dei bambù di media grossezza.

Il mozzo intanto non aveva perduto tempo ed aveva fatta un'ampia provvista di crostacei, di ostriche e anche di uova di uccelli marini trovate fra le rupi della costa. Aveva però portato anche varie specie di aranci chiamati dai malesi giàruk ed alcuni di quelli, grossi come la testa di un ragazzino, prodotti dal citrus docunanus e che in quelle regioni sono conosciuti sotto il nome di buâ kadarigsa.

Il lavoro proseguì con alacrità anche nel pomeriggio. Il veneziano ed il marinaio coprirono il tetto colle tegole di bambù, sovrapponendovi delle larghe e lunghe foglie di banani, recate dal Piccolo Tonno, quindi alzarono le pareti intrecciando giovani canne e foglie, ma che si riservavano più tardi di rinforzare con bambù più resistenti per potere, nel caso, far fronte anche ad un attacco violento, sia da parte degli animali come degli uomini.

Rimaneva da costruire la cinta, ma non essendo pel momento necessaria, decisero di innalzarla in tempi migliori e d'occuparsi pel momento delle armi, poichè avevano notato delle tracce numerose di grossi animali nei dintorni della capanna. Essendo però troppo stanchi per intraprendere una marcia nell'interno dell'isola, avendo il signor Albani dichiarato che per avere delle armi potenti gli occorreva innanzi a tutto trovare un albero, ma che non aveva ancora scorto nei dintorni, il terzo giorno lo impiegarono nel fabbricare delle stoviglie. L'argilla non era stata dimenticata. Il previdente veneziano l'aveva tenuta all'ombra di alcuni cespugli, in un luogo umido.

Andò a prendere la grossa palla, la bagnò per bene e si mise a fabbricare dapprima una specie di pentola, un po' informe è vero ma sufficiente pei loro bisogni, poi due pentolini e finalmente tre tondi.

Espose quei suoi capilavori al sole onde si seccassero a perfezione, per non correre il pericolo di vederli scoppiare esponendoli subito al fuoco, poi la mattina del quinto giorno li pose a cucinare a lenta fiamma.

Tre ore dopo i naufraghi della Liguria possedevano la loro pentola, i loro tegami, i loro piatti e perfino delle forchette e dei cucchiai di legno, fabbricati dal marinaio col legno duro d'un nipa, una specie di palma che cresceva presso la costa.

Quel giorno assaggiarono il primo brodo, avendo avuto le fortuna di uccidere, con una sassata fortunata, una cacatua nera che si era impigliata in mezzo ad un folto cespuglio spinoso.

I Robinson cominciavano già ad essere contenti.

Capitolo IX Gli alberi del veleno

Erano appena cessate le ultime strida degli uccelli notturni, quando i naufraghi abbandonarono la capanna, per mettersi in cerca dell'albero necessario per le armi che intendevano di procurarsi.

Le tenebre lottavano penosamente contro la luce che invadeva rapidamente lo spazio, tingendo il mare di splendidi riflessi madreperlacei con scintillii d'argento, ma che accennavano a diventare rapidamente d'oro.

Per l'aria volavano ancora pesantemente alcuni di quei grossi pipistrelli chiamati dai malesi kuleng e dai naturalisti pteropus edulis, bruttissimi, col corpo delle dimensioni d'un piccolo cane, colle ali così larghe che unite misurano un metro e perfino un metro e trenta centimetri. Ma già cominciavano ad alzarsi fra i rami degli alberi bande di pappagalli colle penne splendide; delle coppie di superbi chimancus albas, grossi come piccioni, col becco lungo e sottile, le penne nere, vellutate, a riflessi verdi fino a mezzo corpo e quelle posteriori più candide della neve e terminanti in due lunghe barbe arricciate; di epimachus speciosus, grossi come i falchi comuni, colle penne nere che parevano di seta, con certe sfumature indefinibili e con delle code lunghe un buon mezzo metro, sottilissime e con riflessi d'oro e stormi di graziosi cicinnurus regius, grandi come i nostri tordi, colle piume del dorso rosso-cupe con screziature d'argento, il collare verde-dorato, il petto bianco e con due grossi ciuffi di piume sotto la gola, rossicci e verdastri.

Tutti questi bellissimi volatili volteggiavano senza manifestare alcun timore, appressandosi talvolta ai naufraghi come se nulla avessero da paventare da parte di quegli uomini, il che indicava come non ne avessero prima mai veduti.

Oltrepassata la piantagione dei bambù, Albani guidò i compagni in mezzo ad una fitta foresta, i cui tronchi erano così uniti, da rendere spesso il passaggio assai difficile.

I rami e le foglie di tutte quelle piante s'intrecciavano in una confusione indescrivibile, impedendo alla luce di giungere fino a terra, mentre migliaia e migliaia di rotang s'attortigliavano attorno ai fusti o s'allungavano fra i cespugli o pendevano in forma di festoni o formavano delle vere reti, contro le cui maglie la scure talvolta si trovava impotente.

La flora indo-malese, così ricca, così svariata, pareva che si fosse concentrata in quella foresta, che sembrava si estendesse su quasi tutta l'isola. Si vedevano là delle piante che avrebbero potuto fornire, ai poveri naufraghi della Liguria, mille cose utilissime, ma il signor Albani pareva che pel momento non si occupasse di loro e non si arrestava dinanzi ad alcuna, nè rispondeva alle domande dei compagni, i quali, pur avendo poca conoscenza di quegli alberi, avevano scoperti dei manghi e dei cocchi carichi di frutta deliziose.

Ad un tratto però, il veneziano si lasciò sfuggire un grido:

— Finalmente! —

Erano giunti sul margine d'una piccola radura in mezzo alla quale si rizzava isolato un grande albero, alto più di trenta metri, col tronco dritto, snello, senza nodi fino a tre quarti d'altezza e coperto da un fogliame folto di colore verde-cupo.

Per un raggio di trenta e più metri, il terreno era spoglio d'ogni vegetale, e anche le piante che crescevano al di là di quelle zone apparivano malaticcie e colle foglie semi-ingiallite, come si trovassero a disagio presso quel solitario.

— Non levatevi il berretto, — disse Albani.

— Per quale motivo, signore? — chiese il marinaio.

— Perchè le emanazioni di quest'albero non mancherebbero di procurarvi delle emicranie acute.

— Che specie d'albero è quello?

— Uno dei più velenosi che esistano: è il bohon-upas.

— Viriamo di bordo, signore.

— Al contrario, Enrico. È la pianta che cercavo per fabbricare le nostre armi.

— Volete adoperare il veleno di quell'albero?

— Sì, e ti assicuro che è potente.

— Io ho udito parlare ancora di questi upas a Giava, signore, ed anche a Sumatra.

— Ti credo.

— Volete avvelenare delle freccie col succo di quella pianta?...

— Sì, Enrico.

— Ma come faremo a estrarlo?

— Come fanno i selvaggi del Borneo: ora lo vedrai. —

Il veneziano aveva recato con sè un pentolino ed una canna di bambù tagliata per metà e aguzzata ad una estremità. Afferrò la scure e fece ai piedi dell'albero una profonda incisione, cacciandovi dentro il cannello. Vi mise sotto il pentolino, poi si ritrasse sollecitamente sotto il bosco, invitando i compagni a seguirlo.

— Non è prudente respirare le esalazioni di quel succo velenoso, — disse. — Si corre il pericolo di perdere i denti e di contrarre dei dolori difficili a guarirsi. Attendiamo qui che il recipiente si riempia.

— Ma così potente è il veleno di quell'albero? — chiese il marinaio.

— Tanto potente, che come vedi, nessuna pianta può crescere sotto l'ombra di quel solitario e che gli uccelli che si posano inavvertentemente sui suoi rami, cadono fulminati. Se tu ti sdraiassi sotto quell'ombra, non tarderebbero a coglierti dei dolori e se tu non avessi un berretto, potresti perdere i tuoi capelli.

— E voi userete quel veleno?...

— So come si deve adoperarlo, avendo veduto parecchie volte i Kajan del Borneo a raccoglierlo e poi manipolarlo.

— Un uomo colpito da una freccia intinta nel succo dell' upas, muore?...

— Sì, in capo a dieci o quindici minuti. Sembra che il principio venefico dell' upas, secondo le ultime ricerche fatte dai naturalisti, consista in un alcaloide vegetale ed in un acido che non fu ancora determinato.

L'uomo colpito da una freccia avvelenata prova subito un tremito convulso, una debolezza estrema, poi un'ansietà penosa, difficoltà di respirazione, quindi vomiti, convulsioni tetaniche e spira fra dolori atroci.

— E non vi sono rimedi contro tale veleno?...

— È difficile la guarigione, però alcuni feriti sono sopravvissuti, essendo stati curati con grande quantità di bibite alcooliche. Anche l'ammoniaca si dice che abbia dato buoni risultati.

— Ma basta bagnare le freccie nel succo, perchè diventino micidiali?...

— No, bisogna prima lasciarlo condensarsi al sole, poi mescolarlo con altri succhi. Se avessimo del tabacco sciolto in un po' d'acqua basterebbe, ma non possedendone, troverò di meglio.

— Un'altra pianta velenosa?...

— No, del succo di gambir. Ho veduto già parecchie di quelle piante e so dove trovarle.

— Il succo dell' upas solo non basterebbe?...

— Sì, ma perde facilmente le sue qualità venefiche, mentre mescolato al gambir si conserva per un anno. Andiamo a vedere se il pentolino è pieno. —

Il recipiente era già quasi colmo d'un succo lattiginoso, il quale continuava a scendere abbondantemente dall'incisione fatta. Il veneziano lo rimescolò con un bastoncino, poi affidò il pentolino al mozzo, dicendogli:

— Non temere nulla; il succo appena scolato non ha alcuna efficacia e anche se delle goccie ti lordassero le mani, nulla ti accadrebbe. —

Si rimisero in cammino per tornare alla capanna, ma il signor Albani continuava a guardare gli alberi, come se cercasse qualche altro vegetale. Avevano già percorso mezzo chilometro, quando indicò ai compagni una pianta sarmentosa coperta d'una corteccia rosso-cupa, con piccoli rami cilindrici e foglie ovali terminanti in una punta acuta e liscia d'ambo le parti, ma verso il picciuolo armate di spine uncinate.

— Ecco un gambir! — esclamò. — Raccogliamo queste foglie. — Stava per alzare le mani, quando si volse bruscamente.

— To'!... To'!... — esclamò. — Ecco un arbusto che raddoppierà la potenza del veleno dell' upas.

— Un'altra pianta velenosa? — chiese il marinaio.

— Sì, Enrico, e forse più terribile, poichè si dice che il succo introdotto nella circolazione del sangue ha un effetto più rapido producendo il tetano e quindi la morte. Tu raccogli le foglie del gambir, mentre io mescolo al succo dell' upas alcune goccie di questo cetting ( strichnos tientè ). —

Fece un'incisione nell'arbusto che si era attortigliato attorno ad una palma sontar e lasciò che l'umore lattiginoso si mescolasse con quello dell' upas, mentre i marinai facevano un'ampia provvista di foglie di gambir.

Quand'ebbero terminato lasciarono la foresta, non senza aver prima fatta raccolta di frutta di durion e di grossi aranci.

Ritornati alla capanna e rifocillatisi alla meglio con ostriche, crostacei e frutta, il signor Albani si mise al lavoro per preparare le armi.

Espose al sole il veleno perchè si condensasse, mise a bollire nella pentola le foglie di gambir dalle quali si estrae, dopo sessanta ore di cottura, quella sostanza bruno-scura, di consistenza elastica, conosciuta in commercio col nome appunto di gambir e che viene impiegato per fissare i colori, specialmente sulle stoffe di seta, ma che i bornesi ed i malesi adoperano invece per far meglio aderire i succhi velenosi alle loro armi ed alle loro freccie.

Ciò fatto fece accendere un grande fuoco e mise ad arroventare due delle sbarre di ferro dei pennoni, scelte fra le più regolari e le meno grosse.

— Ma cosa fate? — chiedeva insistentemente il marinaio, il quale seguiva con viva curiosità quelle diverse operazioni, ma senza capire gran cosa.

— Aspetta un po', — rispondeva il bravo veneziano.

Aveva tagliato da una pianta dei rami che avevano un diametro di tre centimetri, una lunghezza di un metro e mezzo, rigorosamente diritti, e li aveva spogliati accuratamente dalle foglie.

Attese che l'asta del pennone fosse ben infuocata, poi cominciò a forare uno di quei bastoni, invitando il marinaio a imitarlo con un altro ramo.

Rinnovando parecchie volte l'operazione, dopo due ore i due bastoni erano interamente traforati.

— Il più è fatto, — disse il veneziano. — Ora fabbrichiamo le frecce.

— Una parola, signore, — disse il marinaio. — Ma dove sono gli archi?... Questi bastoni traforati non si piegano.

— Niente archi. —

Il marinaio ed il mozzo lo guardarono con stupore.

— Gli archi sono difficili da maneggiare e poi occorre un legno adatto che queste piante non possono darci. Io ho preferito costruire delle sumpitan come usano quasi tutti i popoli della Malesia.

— Cosa sono queste sumpitan?

— Delle cerbottane. Sono armi di grande precisione e si maneggiano con grande facilità.

— Ma voi siete un uomo straordinario, signor Albani! — esclamò Enrico. — E sperate colle vostre cerbottane di uccidere gli animali feroci?...

— Certo, amico mio.

— Ma gli animali colpiti dalle frecce avvelenate, si possono mangiare?...

— No, ma adopereremo delle frecce non avvelenate. Basta: continuiamo il nostro lavoro. —

Il signor Albani aveva raccolto delle canne sottili di giovani bambù e le aveva tagliate, dando a ciascuna una lunghezza di venti centimetri. Adattò all'estremità di ognuno uno spino assai acuto fornitogli dai bambù selvaggi e all'altra una specie di tappo di midolla vegetale, in forma di cono, del calibro della canna delle cerbottane.

Prese le sue armi ed i suoi dardi ed invitò gli amici a seguirlo. Presso un macchione di palme una banda di kakatoe nere, splendidi uccelli grossi come un gufo, col capo sormontato da un ciuffo di piume, stava appollaiata fra i rami, cicalando a piena gola.

Il veneziano introdusse una freccia nella cerbottana, accostò questa alle labbra e dopo d'aver mirato con grande attenzione, soffiò con forza.

Il leggiero dardo s'innalzò rapidamente e andò a colpire una delle più grosse kakatoe. L'uccello, ferito sotto la gola, con una precisione così straordinaria che indicava come il cacciatore fosse già assai esperto nel maneggio di quell'arma, interruppe bruscamente i suoi cicalecci e cadde a terra starnazzando disperatamente le ali.

Il mozzo fu lesto a raccoglierlo e scappò verso la capanna gridando:

— Vado a metterlo allo spiedo.

— Che colpo maestro!... — esclamò il marinaio, la cui sorpresa non aveva più limiti. — Ma voi avete adoperato ancora queste canne?

— Sì, a Pontianak, — rispose il veneziano, sorridendo.

— E credete che riuscirò anch'io a colpire gli uccelli?...

— La cosa non è poi tanto difficile. Fra tre settimane, esercitandoti tutti i giorni, potrai diventare un abile cacciatore.

— Ora che possediamo le armi, che cosa ci procurerete, signor Albani?...

— Il pane.

— Il pane!... E ne troverete?...

— Ho già veduto stamane delle piante che contengono la farina e domani andremo a tagliarle. Poi, se non sopravvengono degli incidenti, penseremo al resto. Andiamo a cenare, Enrico: abbiamo bisogno di un arrosto, dopo tanti molluschi e tante frutta. —

Capitolo X Il pane dei Robinson

Il giorno seguente, armati delle loro cerbottane e di numerose freccie, raccolte in un turcasso ricavato da quei preziosissimi bambù, lasciavano la capanna per mettersi in cerca della farina, facendosi ormai sentire vivamente a tutti il desiderio di avere del pane o qualche sostanza che potesse surrogarlo.

La grande foresta non era lontana, sicchè in pochi minuti si trovarono sotto le vôlte di verzura.

Prima però di mettersi in cerca delle piante che aveva già scorte, il previdente veneziano voleva accertarsi se esisteva qualche sorgente d'acqua limpida, poichè le liane che fino allora li avevano dissetati cominciavano a diventare rade ed il piccolo fossato, dal cui fondo era stata presa la creta, erasi prontamente disseccato.

Le loro ricerche non furono però lunghe. In un angolo remoto della foresta scopersero un bacino d'acqua sorgiva, situato sulla cima di un rialzo di terra, ciò permetteva di farla scendere fino alla capanna adoperando dei canali di bambù.

Contentissimi per quella scoperta si misero in cerca delle piante che dovevano fornir loro della farina, piante che sono molto numerose e svariate, e che crescono senza coltura alcuna in tutte le isole del grande Arcipelago Indo-Malese.

Disgraziatamente pareva che in quell'isola mancasse la specie più pregiata, poichè il signor Albani non riusciva a scorgere nè i metroscilon sagus nè i metroscilon rumphii che sono gli alberi sagu più produttivi ed anche i più comuni.

Guardava tutti gli alberi con attenzione, si cacciava in mezzo ai macchioni più folti, ritornava sui propri passi, ma invano. Saliva anche sui poggi e s'arrampicava sugli alberi più alti sperando di scorgere le foglie gigantesche di quelle preziose piante, ma nulla.

Due giorni dopo il forno funzionava a meraviglia ed i biscotti si accumulavano.... (Pag.68 ).

— Amici miei, — diss'egli, scoraggiato. — Temo di dover mancare alla mia promessa.

— Non trovate le vostre piante? — chiese il marinaio.

— Credevo di aver scorto dei sagu, ma invece mi sono ingannato.

— Ma cosa sono questi sagu?...

— Degli alberi che nel loro interno contengono una specie di farina eccellente ed in grande quantità. Sono le piante più preziose, poichè da una sola si può ricavare tanto pane da nutrire un uomo per un anno intero.

— Terremoti di Genova!

— È come te la racconto, amico. Una pianta che chiede otto o dieci giorni di lavoro per trasformare la farina che contiene in pane, che produce trecento chilogrammi di fecola assai nutritiva, ossia milleottocento pani, e quattro o cinque di questi bastano pel nutrimento giornaliero d'un uomo.

Si è calcolato ciò che costerebbe il lavoro d'estrazione della fecola e della fabbricazione del pane e si è constatato che con tredici lire si può avere del buon biscotto per tutto l'anno.

— Ma dove crescono quelle piante prodigiose?...

— In tutta la Malesia.

— Se si potesse acclimatizzarle anche in Italia, più nessuno soffrirebbe la fame. Con cinque alberi ogni famiglia ne avrebbe abbastanza.

— È vero, Enrico, ma nessuno invece ha mai tentata la coltivazione di sagu nei nostri climi, mentre invece potrebbero forse svilupparsi benissimo nella nostra Sicilia.

— Ed è eccellente il pane di sagu?...

— Buonissimo, anzi si comincia a diffondere anche in Europa. Ora adoperano la farina granulata nelle minestre, ma verrà un giorno che vedremo anche il pane in commercio.

— E noi che ci troviamo qui, nei paesi dove quegli alberi crescono, non potremo averlo?... Mi dispiace, signor Albani. Sentivo il bisogno di aver un po' di pane.

— Del pane ne avrete, ma sarà di qualità inferiore.

— Non importa, signore, — dissero il marinaio ed il mozzo.

— Seguitemi: ho veduto parecchie arenghe saccarifere che ci forniranno della farina e qualche cosa d'altro non meno importante. —

Ritornò sui proprii passi, fece attraversare ai compagni parecchie macchie d'alberi grandissimi e s'arrestò dinanzi ad un gruppo di piante d'aspetto maestoso, che rassomigliavano alle palme, col tronco grosso e liscio e colle foglie piumate che sostenevano dei grappoli di frutta rotonde.

— Ecco degli alberi preziosissimi, — disse il veneziano. — Sono forse i più utili di quanti crescono nell'Arcipelago della Sonda.

— Io non vedo che delle frutta, signore, — disse il marinaio. — E forse con quelle che si fa il pane?...

— No, quantunque anche quelle frutta siano mangiabili, privandole però prima accuratamente della corteccia, essendo velenosa.

Ascoltatemi e vi dirò quante cose noi possiamo ricavare da queste piante: nel tronco contengono della fecola nutritiva che le popolazioni povere delle isole mangiano sia sotto forma di pane, sia in minestra. Non è così delicata come quella dei sagu, ma non è nemmeno cattiva ed i nostri corpi si abitueranno facilmente.

— Buono! — esclamò il marinaio. — Faremo la zuppa.

— Ed i maccheroni, — disse il mozzo.

— Facendo delle incisioni sui tronchi, — continuò Albani, — si ottiene un succo molto dolce, chiaro, limpido, il quale, mediante l'evaporazione, si può trasformare in siroppo.

— Faremo le ciambelle! — esclamò Piccolo Tonno. — Come mi piacciono, signor Emilio!

— E delle caramelle come quelle che si mangiano in Piemonte, — disse il marinaio.

— Lasciando fermentare quel succo, che i malesi chiamano toddi, otterremo un liquore inebriante, molto pregiato e che chiamano tuwah. Somiglia all' arak.

— Mi piace molto l' arak, signore! — disse Enrico. — Terremoto di Genova!... Che alberi miracolosi!

— Non ho ancora finito, — disse il veneziano. — Dalle foglie possiamo ricavare il gomuti, una specie di crine che si può filare e che serve per fabbricare delle funi molto resistenti, e colle foglie si possono intrecciare delle belle stuoie. Cosa volete chiedere di più ad una pianta?...

— Ma se tutte queste piante potessero crescere in Italia, non vi sarebbe più miseria da noi! — esclamò il marinaio. — Ma queste terre sono paradisi terrestri!...

— Che noi sfrutteremo, marinaio, — disse Albani. — Mano alla scure e abbattiamo uno di questi alberi.

— E lo zucchero?... — chiese il mozzo.

— Per ora cerchiamo di procurarci il pane; un altro giorno avremo lo zucchero o anche il tuwak. —

Il marinaio afferrò la scure e intaccò l'albero più grosso, vibrando colpi formidabili. La corteccia era dura ma il genovese aveva i muscoli solidi e dopo un quarto d'ora la pianta rovinava al suolo con grande fracasso.

Il signor Albani mostrò ai suoi compagni una massa biancastra, farinosa, racchiusa nella corteccia dell'albero.

— Ecco il nostro frumento per fare il pane, — disse. — A me ora la scure: bisogna tagliare la pianta in varii pezzi per estrarre la fecola. —

Si mise a maneggiare l'arma con grande vigore, tagliando l'albero in pezzi lunghi un metro. Il marinaio di quando in quando lo surrogava nell'aspro lavoro.

Quand'ebbero ottenuto sette cilindri di lunghezza quasi eguale, il veneziano, che pareva fosse instancabile, tagliò un grosso ramo che doveva servire come di pestello, e si mise a percuotere con grande forza la fecola racchiusa in quei tronchi, facendola uscire.

Il mozzo, che aveva trovate varie foglie di banani selvatici di grandi dimensioni, la raccoglieva con molta cura. Quella sostanza farinosa però non era ancora adoperabile, poichè si trovava mescolata a fibre vegetali che dovevano essere eliminate.

Quando il sole tramontò, possedevano già oltre cento chilogrammi di fecola. La impacchettarono nelle foglie e ritornarono alla capanna carichi come muli, ma contentissimi di possedere quella preziosa provvista che prometteva del pane sostanzioso, se non delizioso, come quello che si ottiene colla farina di frumento.

L'indomani s'affrettarono a fabbricarsi una specie di crivello con fibre di rotang e sbarazzarono la fecola dalle fibre vegetali. Impazienti di assaggiare quel pane, fecero delle torte mescolando un po' d'acqua marina, mancando di sale, ed a mezzodì poterono finalmente gustare la loro farina.

Fu un successo completo. Il marinaio ed il mozzo divorarono parecchie focaccie dichiarandole eccellenti. Quella fecola non era gustosa come la farina, ma ricordava un po' quella della patata e possedeva soprattutto delle qualità assai nutrienti.

Fu decisa la costruzione d'un forno, per fare dei biscotti che potessero conservarsi. Il signor Albani non si trovò imbarazzato.

I gusci delle ostriche e di altre conchiglie, cucinati in un grande fuoco gli fornirono della calce ottima, il lido gli fornì la sabbia, e le rupi i sassi occorrenti. Due giorni dopo il forno funzionava a meraviglia ed i biscotti si accumulavano rapidamente in una piccola capanna costruita sotto quella aerea e che era stata destinata come magazzino.

Ma se il pane abbondava, scarseggiava la carne. Di frutta e di crostacei ne avevano divorati fin troppi ed il bisogno di avere della selvaggina s'imponeva, come pure soffrivano la mancanza del sale, non avendone trovato in alcuna parte.

Fortunatamente il mare era a due passi e poteva darne in grande quantità, delle tonnellate se lo avessero voluto. Bastava scavare delle buche, riempirle d'acqua marina e lasciare che il sole s'incaricasse dell'evaporazione.

La costruzione di quei bacini non si fece però attendere. Cercarono un terreno roccioso, lo scavarono pazientemente rovinando i loro coltelli e servendosi di recipienti di bambù, vi versarono dentro l'acqua del mare. Quattro giorni dopo anche la questione del sale era risolta. Ne possedevano già alcuni chilogrammi e molti altri stavano per ricavarne, essendo la temperatura così calda da far evaporare rapidamente il liquido salmastro dei bacini.

— Ora che possediamo le armi, il pane ed il sale, le cose più necessarie per l'esistenza, — disse il veneziano, — ci occuperemo a procurarci degli animali. Mi sembra che quest'isola abbondi di selvaggina e non ci sarà difficile tendere degli agguati in mezzo alla foresta.

— Ma come prepareremo le trappole? — chiese il marinaio.

— Scavando delle buche profonde due o tre metri e coprendole con un leggiero traliccio di bambù.

— Ma voi non avete pensato ad una cosa, signore.

— E a quale?

— Che non possediamo nè una zappa, nè un badile.

— Diamine, è vero, Enrico.

— Se dovessimo adoperare i nostri poveri coltelli e le mani, ci vorrebbero quindici giorni per scavare una tale buca.

— Hai ragione.

— Bisogna proprio creare tutto in quest'isola.

— Siamo, o meglio eravamo i più poveri Robinson.

— E, senza trappole, non si potrebbe uccidere egualmente gli animali?

— Sì, colle frecce, ma i capi grossi non cadrebbero di certo con delle frecce così deboli, e poi, non bisogna distruggerli tutti, poichè l'isola può essere piccola e potremmo correre il pericolo di trovarci, un brutto giorno, senza carne.

— Diavolo! — esclamò il marinaio, che si grattava furiosamente la testa.

— Io vorrei radunare parecchi animali, Enrico, e lasciarli moltiplicarsi, uccidendone solamente quando ci occorrerebbero.

— Ma senza zappa.... to'!... E perchè no?... Possiamo lavorarle.

— Che cosa?

— Le sbarre di ferro dei nostri pennoni, signore.

— È vero, Enrico.

— Ma ci manca un martello.

— Lo abbiamo: il dorso della scure può bastarci.

— Ma potremo fabbricarci i badili?...

— Li faremo di legno durissimo. Gli alberi che hanno delle fibre tenaci non mancano.

— Ma noi siamo uomini miracolosi, signore!...

— La necessità aguzza il nostro ingegno, — disse Albani. — Oggi riposiamo, ma domani fabbricheremo le nostre zappe e forse posdomani possederemo degli animali vivi.

— E quando degli uccelli?...

— Quando avrò fabbricato del vischio. Colla pazienza e colla perseveranza, avremo tutto. —

Capitolo XI Mias pappan e Boa constrictor

Si erano coricati subito dopo che il sole era tramontato, contando di alzarsi prima dell'alba per mettersi al lavoro.

Dormivano profondamente sognando già trappole piene di animali e recinti popolati di tapiri, di babirussa, di scimmie d'ogni specie, e di uccelli, quando un urto che fece oscillare vivamente l'intera costruzione aerea, svegliò bruscamente il mozzo che si era addormentato sulla piattaforma esterna per godersi il fresco della notte.

Dapprima credette di aver sognato e si limitò a gettare all'intorno uno sguardo semi-assonnato, ma un secondo scrollo che fece gemere i bambù della capanna, lo decise ad alzarsi per vedere di che cosa si trattava.

Si trascinò sull'orlo della piattaforma e guardò giù.

La luna, allora sorta, rischiarava tutta la costa come in pieno giorno e permetteva di distinguere minutamente ogni cosa. Indovinate quale fu lo stupore del piccolo mozzo nello scorgere, appeso alle traverse che servivano di sostegno alla casa aerea, uno strano animale che rassomigliava ad un uomo.

— To'! — esclamò, più meravigliato che atterrito. — Un selvaggio che si diverte a fare della ginnastica sotto di noi!... Quel signore è allegro, a quanto sembra. —

Quell'essere singolare, che invece di dormire si divertiva a fare dei capitomboli, delle orizzontali e delle verticali, con una sveltezza da muovere ad invidia un maestro di ginnastica, pareva che si occupasse, almeno pel momento, di sapere cos'era quella costruzione sospesa fra cielo e terra. Balzava da un bambù all'altro, eseguiva de' volteggi meravigliosi e pareva che manifestasse la sua soddisfazione con certi grugniti e con certi soffi potenti, che producevano delle apprensioni nell'animo del mozzo.

— Lave del Vesuvio! — esclamava questi. — Ma che voce ha quell'uomo?... Si direbbe che ha in gola una canna d'organo od un contrabbasso! —

S'alzò per andare a svegliare i compagni, ma uno scrollo più violento degli altri, lo fece stramazzare sulla piattaforma.

— Corpo d'un pappafico! — esclamò. — Crolla la capanna.

Quasi nell'istesso istante si udì il marinaio a gridare.

— In piedi! Il terremoto! —

Si slanciò sulla piccola piattaforma seguito dal signor Albani, il quale non credendo affatto al terremoto, s'era invece armato d'una cerbottana e di alcune frecce tinte nel succo dell' upas.

— Cosa succede, Piccolo Tonno? — chiese Enrico, scorgendo il mozzo. — È il terremoto?...

— Sì, ma un terremoto a quattro gambe che fa una ginnastica indiavolata, — rispose il mozzo.

— Cosa vuoi dire? — chiese Albani.

— Che vi è abbasso un certo uomo che si diverte a scrollare la nostra capanna.

— Un uomo!... — esclamarono il marinaio ed il veneziano.

— Potete vederlo: è sotto di noi. —

S'appressarono entrambi all'orlo della piattaforma, ma subito retrocessero vivamente. Il misterioso personaggio, udendo senza dubbio quelle voci, si era arrampicato fino alla piattaforma, sporgendo innanzi la testa. Altro che uomo!... Quella testa, se rassomigliava a quelle umane, era ben brutta!... Era una testaccia enorme coperta di folti peli rossicci, colla faccia larga, gli zigomi assai sporgenti, coperta da rughe profonde e con una bocca così larga che gli andava da un orecchio all'altro, armata d'una doppia fila di denti bianchissimi e acuti come quelli delle tigri.

L'espressione di quel volto era così feroce, da agghiacciare il sangue.

— Tuoni di Genova! — esclamò il marinaio — che uomo è questo!...

— Indietro! — gridò Albani, con voce alterata. — Il mias pappan è peggiore delle tigri. —

Il marinaio ed il mozzo quantunque ignorassero cosa fosse un mias pappan, furono lesti a girare sui talloni.

Il mostro guardò i tre naufraghi con due occhi che mandavano sinistri bagliori, fece udire un rauco brontolìo, poi scomparve, ma impresse ai bambù un tale urto che parve che l'intera capanna si disarticolasse.

— Fulmini! — urlò il marinaio, precipitandosi verso la scure.

— Un altro urto come questo e ci romperemo le gambe! — gridò il mozzo. —

Il signor Albani, che pareva in preda ad una viva agitazione, aveva cacciata rapidamente una freccia nella cerbottana e si era steso presso l'orlo della piattaforma. Sembrava che aspettasse che il mostro formidabile apparisse, per lanciargli la freccia mortale.

Il mias però pareva che non avesse fretta di lasciare i bambù di sostegno e lo si udiva a brontolare ed a soffiare proprio sotto la piattaforma. Pareva che fosse occupato a fare qualche cosa, forse a slegare i sostegni, poichè la capanna continuava a subire delle scosse fortissime.

— Signore! — esclamò il marinaio, volgendosi verso Albani, il quale cercava di puntare la cerbottana. — Se queste scosse continuano, la nostra capanna farà un tremendo capitombolo.

— Lo so, ma non riesco a scorgere quel dannato orang-outan — rispose il veneziano.

— Si tratta d'una scimmia, adunque?

— Sì, ma delle più formidabili e che può tenere testa a dieci uomini armati di fucile.

— Fulmini!...

— Zitto! —

In mezzo ai cespugli che crescevano presso il recinto, si era udito un grido, una specie di grido lamentevole che aveva qualche cosa d'umano.

— Chi è che si lamenta? — chiese il marinaio, stupito.

— Pare che succeda qualche cosa fra i cespugli, — disse Albani.

— Il mostro! — esclamò Piccolo Tonno. — Eccolo là, guardatelo! —

Infatti l' orang-outan, con un balzo immenso si era lanciato sui bambù esterni, e discendeva con rapidità fulminea.

Quello scimmione faceva paura. Era alto quanto un uomo di media statura; il suo petto ampio, tozzo, muscoloso, eccessivamente grosso era coperto d'un lungo pelame rossiccio; le sue spalle larghe, potenti, con un'ossatura enorme, dimostravano che quell'essere doveva possedere una vigorìa straordinaria, incalcolabile; le sue braccia lunghe un metro e più, nodose come tronchi d'albero, irte di muscoli, terminavano in certe manaccie armate d'unghie robuste e leggermente arcuate e le sue gambe massiccie, enormi, finivano invece con piedi di dimensioni esagerate, pure armati d'unghie ricurve.

Questi scimmioni che i malesi ed i dayachi chiamano mias pappan o miass kassà, vivono nascosti nelle più fitte foreste del Borneo e delle isole vicine, tenendosi per lo più sugli alberi.

Dotati d'un vigore tremendo e d'una agilità meravigliosa, salgono con rapidità fulminea sugli alberi più alti, per provvedersi di frutta, e sono capaci di attraversare una foresta intera senza mai scendere a terra.

Non si trovano però a disagio a terra e corrono facilmente, non mantenendosi diritti però, poichè si servono delle mani e dei piedi. Il loro galoppo è però uno dei più stravaganti e ridicoli muovendo simultaneamente il braccio e la gamba destra e viceversa, sicchè pare che corrano obliquamente.

Conscii della loro forza, affrontano coraggiosamente le più formidabili fiere delle foreste: non temono nè gli uomini, nè i coccodrilli, nè i serpenti, nè le tigri e quando sono assaliti sono d'una ferocia spaventevole.

Lasciati tranquilli però, non assalgono nessuno e se incontrano degli uomini si limitano a guardarli con curiosità, poi proseguono tranquillamente la loro via.

Il mias che era salito sui bambù della capanna, attratto senza dubbio da una irresistibile curiosità, doveva avere dei gravi motivi per scendere così precipitosamente e così la pensava il veneziano, poichè invece di inviargli la freccia mortale, aveva rialzata la cerbottana, curioso di sapere cosa stava per accadere.

Giunto a terra, il mias pappan attraversò con un solo balzo il recinto e si precipitò verso i cespugli emettendo una specie di latrato furioso.

Ad un tratto un oggetto lungo lungo e grosso gli piombò addosso e lo avvolse da capo a piedi.

— Un boa!... — esclamò il veneziano.

— Un serpente? — chiesero il marinaio ed il mozzo.

— Sì, amici: è un avversario degno del mias. —

Il veneziano non s'ingannava. I boa constrictor sono avversari capaci di tener testa alle tigri e anche agli orang-outan, poichè posseggono tale forza, da stritolare fra le loro spire perfino un bue.

Sono i più lunghi ed i più grossi di tutti, poichè sovente arrivano ai nove e perfino ai dieci metri e hanno una circonferenza che eguaglia le coscie d'un uomo. Non sono però velenosi, ma sono forse più pericolosi degli altri, poichè quando riescono ad afferrare una preda non la lasciano più. Si accontentano però anche di prede piccole, di topi, di rane, di lucertole, di scimmie, ma, se riescono, non lasciano sfuggire nè le tigri, nè i babirussa, nè i tapiri, nè i mias quantunque soccombano di frequente nella lotta con questi ultimi.

L' orang-outan, sentendosi imprigionare di colpo dal boa e vedendo sopra di sè la testa del rettile i cui occhi dardeggiavano su di lui sguardi d'ardente cupidigia, aveva lanciato un grido rauco, furioso.

Essendogli rimasto un braccio libero, afferrò il rettile sotto la testa e lo torse come fosse una pagliuzza, ma le spire non si sciolsero, anzi strinsero con maggior vigore, facendo scricchiolare la potente ossatura dell'uomo dei boschi.

Quella stretta doveva essere stata tremenda, poichè si vide lo scimmione dilatare spaventosamente la bocca come se l'aria fosse per mancargli, ed i suoi occhi, che mandavano sinistri bagliori, quasi uscire dalle orbite.

La sua robusta mano afferrò la testa del rettile e la schiacciò come fosse una nocciuola, poi coi piedi armati di quelle unghie robuste che con un solo colpo sventrano un uomo, si mise a lacerargli la coda, facendola a brani.

Il serpente sibilava di rabbia, perdeva sangue dalle due estremità, ma ancora non si decideva ad abbandonare l'avversario, e pareva che approfittasse dell'ultime convulsioni dell'agonia per raddoppiare la stretta irresistibile.

Ad un tratto si sentì come uno scricchiolìo d'ossa infrante, e rettile e mias caddero entrambi a terra, ancora strettamente avvinti.

— Morti? — chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano seguito, con viva ansietà, le fasi di quella tremenda lotta.

— Mi pare di udire ancora la respirazione del mias, — rispose il veneziano. — Sarà cosa prudente lanciargli una freccia, prima di scendere. —

Alzò la cerbottana e soffiò dentro con forza. Il dardo silenzioso partì rapido e andò a conficcarsi nel petto dell'uomo dei boschi.

Si udì un sordo grugnito, ma poco dopo la respirazione della scimmia gigante cessava.

— Ora possiamo discendere, — disse Albani.

— No, signore! — esclamò il mozzo.

— Perchè?... Sono morti entrambi.

— Guardate, là, presso i cespugli. —

Il veneziano ed il marinaio guardarono nella direzione indicata e videro uscire dai cespugli una scimmia che aveva già una statura superiore ad un metro e di complessione robusta. S'avanzava titubando verso il gruppo formato dal mias e dal boa, emettendo dei gemiti che avevano qualche cosa d'umano.

— È il figlio dell' orang-outan — disse Albani.

— Era adunque una femmina, — disse il marinaio. — Povero piccino!... Potrà vivere solo?

— È già sviluppato, — rispose Albani.

— Lo lascieremo andare?...

— Penso che potrebbe esserci utile, Enrico.

— Quello scimmiotto!...

— Faremo di lui un valente e robusto servitore.

— Ma quando diverrà grande ci accopperà, signore.

— I dayachi ne adottano sovente e mai hanno avuto da lagnarsi. In schiavitù pare che perdano i loro istinti feroci. Quel mias, col suo vigore straordinario, ci potrà rendere dei grandi servigi.

— Allora andiamo a prenderlo.

— Io avrò cura di lui, signore, — disse il Piccolo Tonno. — Mi piacciono assai le scimmie. —

Si lasciarono scivolare dai bambù che servivano a loro come di scala e s'avvicinarono al giovane mias, il quale continuava a girare attorno alla estinta madre emettendo acuti gemiti.

Il marinaio l'afferrò per le braccia e cercò di trascinarlo nel recinto, ma ricevette una spinta così poderosa, che cadde colle gambe in aria.

— Terremoto! Che vigore! — esclamò.

— Prendiamolo colle buone, — disse Albani.

Si mise ad accarezzarlo e gli offrì delle frutta. Il piccolo mias, dapprima si mostrava diffidente, ma finì coll'accettare e divorare con ingordigia la deliziosa polpa dei durion.

A poco a poco, offrendogli sempre nuove frutta, fu attirato nel recinto ed il marinaio lo legò con una robusta gomena senza ricevere altre spinte.

— Si abituerà presto, — disse Albani. — Fra due settimane ci seguirà come un cagnolino e fra un mese avremo un ottimo servitore ed un abile provveditore di frutta. Lasciamolo ora tranquillo e riprendiamo il nostro sonno. —

Capitolo XII Le scimmie alla pesca dei granchi

Dieci giorni erano trascorsi dalla cattura del piccolo mias, ma i Robinson, quantunque non avessero ancora abbandonata la costa per tentare una esplorazione nell'interno o nei grandi boschi del sud, entro i quali potevano trovare molte preziose risorse, non erano rimasti inoperosi.

Si erano fabbricati molti oggetti indispensabili: una tavola, delle scranne, dei recipienti, adoperando i grossi fusti dei bambù giganti, delle comode amache, adoperando dei pezzi di vele, un condotto d'acqua che partiva dalla sorgente scoperta in mezzo al bosco e che metteva capo nel recinto.

Avevano inoltre dissodato un tratto di terra servendosi delle zappe fabbricate colle aste di ferro dei pennoni, sperando di trovare in qualche angolo dell'isola delle sementi utili, ed avevano scavate delle trappole, ma senza successo, poichè pareva che la grossa selvaggina avesse abbandonata quella costa.

Erano però riusciti a prendere alcuni volatili che avevano rinchiusi in una specie di uccelliera, costruita con molta pazienza dal marinaio, adoperando fibre di rotang e giovani bambù.

Per impadronirsi di quegli uccelli, avevano dovuto procurarsi una specie di vischio assai tenace, ricavato dalla giunta wan (Erceola elastica), pianta arrampicante appartenente alla famiglia delle apocinee, che fornisce una specie di gomma adoperata dai malesi appunto per prendere i volatili.

Con quel vischio erano riusciti a procurarsi parecchie coppie di buceros rhinoceros, chiamati comunemente tucani o calaos-rinoceronti, grossi e stravaganti uccelli dalle penne nere sopra, e bianche sotto, coda lunga trenta e più centimetri e becco enorme, lungo quanto l'intero corpo del volatile, di colore giallo-rossiccio e sormontato da una protuberanza ossea in forma d'una grossa virgola.

Avevano pure preso degli arghi giganti, uccelli superbi, più grandi dei pavoni, che pare portino un vero mantello di piume nere a striature biancastre ed a macchie rosso-brune, e che hanno delle code lunghe oltre mezzo metro, terminanti in due penne leggermente curve, ed alcune coppie di colombe magnifiche, chiamate così poichè sono le più belle e le più graziose di tutte. Sono grosse come i piccioni di Spagna, ma hanno le penne del petto d'una tinta azzurra con riflessi ramigni e quelle del dorso verdi-cupe con riflessi d'oro.

Questi uccelli si erano presto abituati e non fuggivano più quando vedevano avvicinarsi il mozzo, il quale recava a loro grande numero di semi e anche dei vermi di terra e delle briciole di pane.

Un mattino però, anche il recinto cominciò a popolarsi. Il marinaio aveva osservato che delle scimmie si recavano di frequente verso la spiaggia, poco prima dello spuntare dell'alba, ma non era mai riuscito ad avvicinarle, nè a sapere cosa andassero a fare in riva al mare.

Spinto dalla curiosità, decise di mettersi in agguato presso alcune scogliere, in compagnia del mozzo. Messisi d'accordo, un mattino s'alzarono prima ancora che gli astri cominciassero a impallidire, lasciando che il signor Albani dormisse saporitamente nella sua amaca.

Scesero la sponda in vicinanza della piccola baia e si nascosero dietro ad alcune scogliere, per attendere l'arrivo dei quadrumani.

— Vediamo cosa vengono a fare, — disse il marinaio al mozzo.

— Che vengano a prendere un bagno? — chiese Piccolo Tonno.

— Io non ho mai veduto una scimmia in acqua e credo anzi che la temano come i gatti.

— Allora verranno a fare la cura dell'acqua marina. Tu sai che è un ottimo purgante.

— Sì, burlone.

— O che abbiano qualche canotto e che si rechino a diporto sul mare?

— No, andranno a pescare, — disse il marinaio, ridendo.

— Non mi stupirei, Enrico. Hanno la manìa d'imitare ciò che fanno gli uomini.

— Taci! Eccole!

— Di già?

— Sta per spuntare l'alba. —

Le scimmie infatti giungevano. Erano dieci o dodici, alte dai quaranta ai cinquanta centimetri, col pelame oscuro e rassomigliavano ai semnopitechi.

S'avanzavano in fila indiana, con una gravità ridicola, ed in silenzio. Scesero la sponda, si schierarono sugli scogli e si misero ad esaminare l'acqua con grande attenzione.

I due marinai, in preda alla più viva curiosità, non perdevano di vista alcun movimento.

Ad un tratto le videro volgere il dorso al mare e immergere in acqua le loro lunghe code pelose, facendole leggiermente ondeggiare.

— Te lo dicevo io che venivano a prendere un bagno, — mormorò Piccolo Tonno.

— Alle loro code! — esclamò Enrico, crollando il capo. — Io credo che abbiano un altro scopo. Oh!... Questa è strana!... Hai mai veduto delle scimmie a pescare? —

Un quadrumane, dopo d'aver fatto una brutta smorfia come se avesse provato un acuto dolore, aveva ritirato prontamente la coda, imprimendole un rapido movimento innanzi ed indietro. Qualche cosa che si era attaccato a quell'appendice balzò in aria, e cadde contro una vicina roccia con sordo rumore.

— Corna di cervo! — esclamò il marinaio, stupito. — Pescano i granchi!... —

Era proprio vero: quella banda di scimmie pescava i granchi di mare, usando d'un sistema curiosissimo, ma anche doloroso.

Trovandosi quei crostacei entro i crepacci subacquei delle rocce, i furbi quadrumani andavano a stuzzicarli colle code e quando li sentivano a stringere, con una mossa fulminea gli strappavano dal loro elemento e con moto rotatorio gli scagliavano contro i sassi della riva, rompendo i loro gusci.

Ciò fatto traevano colle adunche dita la carne saporita, che divoravano con grande avidità.

— Non ho mai veduto nulla di simile, — diceva il marinaio, sempre più stupito.

— To'!... Se noi le imitassimo! — esclamò il mozzo.

— E quale coda immergeresti?

— Le mani.

Le scimmie alla pesca dei granchi. (Pag.77 ).

— Per farcele rovinare?... Credi tu che quelle scimmie non provino dolore? Guarda che brutte smorfie che fanno, quando si sentono tenagliare la coda. Ma.... to'!... Pare che la pesca vada male! —

Due scimmie che avevano immersa la loro coda, urlavano disperatamente, ma senza essere più capaci di ritirare la loro appendice. Invano puntavano colle mani e coi piedi e facevano sforzi furiosi: i granchi pareva che non volessero lasciare l'acqua e uscire dai buchi.

Le loro compagne stavano per precipitarsi in loro soccorso, quando il marinaio balzò fuori dal nascondiglio, gridando:

— Addosso, Piccolo Tonno! —

La banda fuggi rapidamente, ma le due prigioniere, non ostante i loro strappi, rimasero sulla spiaggia.

I due marinai furono lesti ad afferrarle e con due vigorose strappate liberarono le code, traendo a galla due granchi grossi come un cappello, i quali non lasciarono la preda se non dopo che furono uccisi.

— Venite con noi, carine, — disse Enrico. — Vi condurremo a tenere compagnia al mias. —

Presero per le braccia le due prigioniere e malgrado le loro proteste ed i loro morsi, le trassero nel recinto.

— Altri servi? — chiese il veneziano, che stava scendendo dalla capanna. — A quanto pare volete farvi servire per bene.

— No, signore, — disse il marinaio, ridendo. — Conduciamo due pescatori che ci procureranno dei deliziosi granchi. Avete mai veduto delle scimmie a pescare?...

— I granchi?...

— Sì.

— Ne ho vedute parecchie, specialmente a Giava.

— To'!... Ed io credevo di raccontarvi una novità strabiliante.

— È una novità molto vecchia per me, Enrico, — disse Albani. — Sciancatello! —

Colui che si chiamava con quel nome, era il mias. L'aveva così appellato Piccolo Tonno, perchè lo scimmione era un po' sciancato, forse in causa di qualche capitombolo dalla cima di qualche altissimo albero.

Il giovane mias, che ormai si era affezionato ai suoi padroni, quantunque fosse sempre di umore triste, malinconico, come tutti quelli della sua specie, e che ormai passeggiava liberamente pel recinto senza mai allontanarsi, udendo la voce del veneziano abbandonò il casotto che gli era stato costruito e andò a guardare con curiosità le nuove venute.

Queste però vedendoselo dinanzi, dapprima manifestarono una viva apprensione, poi sentendosi libere cercarono d'arrampicarsi su pel recinto per salvarsi nei vicini boschi, ma Sciancatello, da bravo guardiano, fu lesto ad afferrarle per la coda ed a tirarle giù, annunciando la sua imminente collera con dei sordi grugniti; poi, per far loro capire che gli dovevano obbedienza, somministrò a ciascuna un calcio così magistrale, da farle piroettare due volte in aria.

— Bravo Sciancatello!... — gridarono i due marinai, schiattando dalle risa.

— Con tale maestro diventeranno docili ben presto, — disse il veneziano.

— Lo credete, signore? — chiese il marinaio.

— Ne sono certo e conto molto sulla loro docilità, per intraprendere la progettata spedizione sulla cima di quel monte.

— Per lasciarle qui in compagnia dello Sciancatello?

— Al contrario, Enrico; intendo di condurle con noi e di affidare a loro una parte del nostro bagaglio. —

I due marinai scoppiarono in una omerica risata.

— Te lo dico sul serio, — disse Albani. — Le nostre scimmie ci seguiranno come portatori.

— Allora insegnerò loro a fare cucina, signore, — disse il mozzo.

— Per mangiare più peli di coda che zuppa! — esclamò il marinaio. — No, non voglio simili aiutanti. Piuttosto insegnerò loro a raccogliere legna secca pel fuoco.

— Ed a recarsi alla fontana a prendere acqua.

— Sia pure, Piccolo Tonno. Ah, che bei servi!... Signor Albani, vi assicuro che non speravo di poter avere anche dei servi oltre il pane e tante cose utili da voi procurateci, quando sono sbarcato su quest'isola.

— Ti accontenti facilmente.

— Vi pare che io possa lagnarmi?...

— No, ma io intendo procurarti di più. Quando avremo visitati i boschi, spero di ritornare con molte cose che ancora ci mancano. Voglio che qui regni l'abbondanza e che più nulla manchi a noi, che siamo abituati alla vita civile.

— Ma cosa volete ricavare ancora dalle piante?...

— Molte cose ancora.

— Mi mettete in curiosità. Quando faremo questa escursione?...

— Fra un paio di giorni. Mi preme di conoscere quest'isola che non sappiamo ancora se sia vasta o piccola, abitata o disabitata. Quest'oggi cominceremo a fare i nostri preparativi.

— Ma nulla ci manca, signore. Abbiamo pane, possiamo portare con noi alcuni uccelli, l'acqua è a nostra disposizione, e possediamo perfino dei liquori. Cosa volete di più?

— Avere una tenda.

— Abbiamo ancora delle vele.

— È vero, ma ci occorrono delle bisaccie per porvi le nostre provviste.

— Le vele ce le daranno.

— Ma come cucirete la tela?

— Diavolo!... È sempre la solita istoria: manchiamo di tutto. Ma dove troveremo noi gli aghi?... Non possiamo già fabbricarli.

— E allora bisogna cercarli.

— Ma dove?...

— Ce li procureranno i pesci colle loro spine. I popoli nordici, gli Esquimesi, i Samoiedi, i Ciuki ecc., come t'ho già detto, cuciono le loro vesti servendosi appunto di spine di pesci e noi faremo altrettanto.

— Ma bisogna pescarli questi pesci e non possediamo ami.

— Fortunatamente ce li daranno le piante.

— E quali? — chiese il marinaio stupito.

— Ancora i bambù. Quelli chiamati hauer-tgiutgiuk o di Blume, hanno le spine ricurve le quali possono servire di ami.

— Andiamo a cercarle, signore, e poi andremo a pescare. Sono impaziente di mettermi in viaggio per conoscere un po' la terra che ci ospita.

— Andiamo, Enrico; sono anch'io curioso di conoscere il dominio dei Robinson Italiani. —

Capitolo XIII Attraverso i boschi

Il 18 settembre, cioè venticinque giorni dopo il loro approdo su quell'isola, i naufraghi si mettevano in marcia per fare una esplorazione del loro dominio, se non totale, almeno parziale.

Non conoscendo ancora l'estensione di quella terra, avevano deciso di guadagnare la vetta dell'alta montagna, certi di poter di là abbracciare tutte le coste e di formarsi un'idea più o meno esatta della possessione.

Si erano provveduti di una trentina di chilogrammi di pane rinchiusi in solidi sacchi di tela, accuratamente cuciti essendosi già procurati gli aghi desiderati colle spine di alcuni grossi pesci, delle armi con frecce avvelenate e senza veleno per abbattere se non della grossa selvaggina almeno degli uccelli, di alcuni litri di tuwak, forte ed eccellente liquore ricavato dal succo fermentato dell' arenga saccharifera, di sale ed anche di carne avendo torto il collo ai loro più grossi uccelli.

Le due scimmie li seguivano portando nei loro sacchi la pentola, alcuni tondi, le forchette, e lo Sciancatello, già robusto, portava la tenda e una parte di pane.

Le due scimmie dapprima si erano mostrate ricalcitranti a portare la loro parte di bagaglio, ma l' orang-outan, che si era armato d'un randello, le aveva ben presto domate e marciavano sotto la sua sorveglianza, pronto a battere sulle loro spalle un pezzo musicale da far strappare urla di dolore.

Il mondo alato si risvegliava sotto la brusca invasione della luce. In mezzo alle foglie degli alberi e dei cespugli ingemmati dalla rugiada notturna, svolazzavano a gruppi i più belli uccelli, le cui penne variopinte, a riflessi d'oro e d'argento o di rame, scintillavano vagamente sotto i primi sprazzi luminosi dell'astro diurno, sorgente sull'orizzonte.

I graziosi epimachus arruffavano le loro penne vellutate e brillanti, come se fossero cosparse di pagliuzze d'oro, e le loro lunghe code sottili; i bellissimi chimachus, volatili grossi come un piccione, col corpo anteriore nerissimo con striature d'oro e il posteriore candido, e la coda formata di barbe lunghissime ed arricciate, si spennacchiavano reciprocamente coi loro becchi sottilissimi ma assai lunghi; i charmasyna, specie di pappagalli, colle piume rosse e gialle a striature nere, cominciavano i loro cicalecci scordati ed importuni, mentre le splendide parozie dorate, scintillanti di mille colori, immobili sulle più alte cime degli alberi, si ubbriacavano di sole, lasciando ondeggiare graziosamente le cinque barbe piantate sulle loro teste e terminanti in una specie di fiocco, ai soffi della brezza marina.

Miriadi d'insetti svolazzavano poi in tutte le direzioni: farfalle sfolgoranti, di dimensioni straordinarie, s'incrociavano sopra i fiori o attorno ai vasi vegetali dei calamus rimasti ancora aperti; farfalline rosse, gialle, azzurre ed anche battaglioni di lucertoline volanti, chiamate dai Malesi draco, bizzarri animaletti lunghi venti centimetri, colla coda compressa, colle zampine unite da una membrana che serve come di ali e che permette a loro di spiccare delle volate di venti e perfino di trenta metri.

I naufraghi, oltrepassata la piantagione di bambù che si estendeva su un lungo tratto di costa, s'internarono sotto i boschi, piegando un po' verso levante, sembrando a loro che da quel lato la montagna fosse meno aspra e anche meno boscosa.

Si videro però ben presto costretti a rallentare la marcia, poichè quella parte della grande boscaglia era assai fitta e impediva di procedere direttamente.

Migliaia e migliaia d'alberi intrecciavano i loro rami frondosi o le loro foglie piumate, impedendo ai raggi del sole di penetrare fino a terra. La ricchissima e svariata flora malese, aveva là tutti i suoi campioni.

Si vedevano bellissimi alberi della canfora, coi tronchi così grossi che cinque uomini non sarebbero riusciti ad abbracciarli, e che esalavano un acuto profumo; degli splendidi sunda-matune o alberi tristi, così chiamati perchè i fiori di tali alberi, che esalano un profumo squisito, non si aprono che di notte; dei pergolati di pepe, piante sarmentose che si avviticchiano attorno agli alberi, che hanno le foglie somiglianti a quelle dei nostri fagiuoli e i cui granelli aromatici disposti a grappolini dapprima verdi, poi rossi e quindi bruni quando sono giunti a perfetta maturanza; grandi upas, chiamati anche bohon-upas, snelli, alti oltre trenta metri e coperti di larghe foglie che formavano dei superbi ombrelli; noci moscate, piante somiglianti ai nostri allori, alte dai sei ai sette metri, già cariche di noci mature che esalavano acuti profumi; garofani coi rami già irti di quei mazzolini aromatici che vengono poi posti in commercio, quando sono ben seccati, col nome di chiodi di garofano; quindi, confusamente mescolati, stretti e avviluppati da lunghissimi rotang che formavano delle vere reti, si vedevano a centinaia alberi che producono il belzoino, ragia odorifera che scola incidendo il tronco di quella specie di abeti; alberi della cannella, alberi cotoniferi che producono una specie di bambagia serica, tecche colossali dal legno incorruttibile; alberi del ferro coi cui rami si fanno delle mazze pesantissime che non si possono scheggiare tanto sono resistenti le fibre di quel legno, ed una infinità d'alberi gommiferi preziosissimi.

Non mancavano però gli alberi da frutta. Di tratto in tratto, in mezzo a quel caos di vegetali, i naufraghi scoprivano dei mangostani carichi di quelle frutta deliziose che dànno una polpa bianca, delicata, divisa in chicchi e che messa in bocca si fonde come un gelato; o dei manghi chiamati dai Malesi buâ-mamplan ma di qualità inferiore, essendo per lo più impregnati d'un forte odore di resina; o dei pombo, grossissimi e succolenti aranci, o dei nefelium che producono delle frutta racchiudenti una polpa bianca, semi-trasparente, succosa, dolce ma un po' acidula.

I naufraghi non si lasciavano sfuggire quelle occasioni per fare ampia raccolta delle frutta migliori. Di ciò s'incaricava lo Sciancatello il quale si prestava colla miglior grazia del mondo, inerpicandosi sulle cime più alte delle piante per cogliere le più grosse e le più mature.

Verso le dieci del mattino, dopo d'aver percorso almeno sei chilometri, distanza ragguardevole se si pensa ai lunghi giri che erano costretti a fare per trovare dei passaggi ed ai numerosi ostacoli, si trovarono dinanzi ad una foresta di alberi forniti di foglie gigantesche, d'aspetto maestoso. Nello scorgerli, il signor Albani non potè frenare un grido di contentezza.

— Una foresta di banani! — esclamò. — Ci regaleremo una scorpacciata di frutta deliziose, amici miei, e che potranno variare la nostra provvista di pane.

— I banani? — chiese il marinaio.

— Sì, Enrico.

— Io non li ho mangiati che come frutta.

— Ed io ti dico che possono anche surrogare il pane e che servono a fare dei piatti squisiti. Quando sono maturi, cioè quando l'amido è completamente scomparso tramutandosi in materia zuccherina, non servono che come frutta, ma quando le buccie sono ancora verdi, messi ad arrostire sotto la cenere, possono surrogare il pane essendo ricchi di fecola.

Allora le frutta si possono anche tagliarle, seccarle al sole e conservarle per molto tempo.

Se poi sono più giovani, si possono mangiarle in salsa, oppure quando sono vicine alla maturità, si possono fare delle fritture squisite. Andiamo a fare raccolta, amici. —

Quel bosco era meraviglioso, essendo formato da migliaia di piante. Fra i vegetali erbacei, nessuno rivaleggia coi banani per ricchezza di foglie e per maestà.

Queste piante, nei climi caldi acquistano proporzioni gigantesche, e non di rado le foglie raggiungono un'altezza di quattro o cinque metri ed una larghezza di uno e anche più.

Molte di quelle piante già reggevano a stento dei grappoli enormi, carichi di frutta allungate, un po' curve, racchiudenti una polpa tenera e profumata. Ve n'erano di varie specie, ma il signor Albani diede il sacco a quelle chiamate pisang-mas, che dànno frutta più piccole, d'un bel colore giallo d'oro e che sono le migliori.

Accesero il fuoco all'ombra d'una pianta che aveva delle foglie mostruose e fecero una appetitosa colazione con banani maturi o con banani verdi cucinati sotto la cenere. Le scimmie e Sciancatello non furono dimenticati e fecero una vera scorpacciata di quelle frutta.

Mancava l'acqua, quantunque quel terreno fosse umidiccio, ma il signor Albani non tardò a scoprire, sul margine della foresta poco prima attraversata, dei nepentes.

Queste piante sono le più bizzarre che immaginare si possa. Appartengono alla specie degli arrampicanti e le loro foglie sono arrotondate in forma di vasi, forniti d'una specie di coperchio che si abbassa alla notte e si alza di giorno.

Durante la notte le piante assorbono l'umidità del suolo e la raccolgono in quei vasi, i quali ne contengono di frequente perfino mezzo litro. Non è però un'acqua limpida e fresca come generalmente si crede, servendo quei recipienti di tomba a numerosissimi insetti, ma basta per dissetare, essendo del resto buonissima.

Dopo un riposo di qualche ora, il drappelle si rimetteva in marcia salendo i primi contrafforti della montagna, ma attraverso a foreste sempre fitte e assai intricate.

Avevano già percorso un chilometro, quando lo Sciancatello si arrestò bruscamente, emettendo dei sordi brontolii e dando segni d'una certa agitazione.

— Ehi, Sciancatello, cosa succede? — chiese il marinaio. — Hai sentito qualche tigre? —

Il mias pareva che ascoltasse con profonda attenzione, come se cercasse di raccogliere qualche rumore non ben distinto. Guardava le cime degli alberi, poi osservava i cespugli ed il suo volto manifestava ora stizza ed ora contentezza.

— Che sia impazzito? — chiese Piccolo Tonno.

— O che abbia una colica? — chiese invece il marinaio. — Ha divorato troppi banani di certo.

— No, — disse Albani. — Ha sentito qualche cosa.

— Ma io non vedo nulla, nè odo nulla.

— Pretenderesti di aver l'udito acuto come quel figlio dei boschi, Enrico? —

Ad un tratto l' orang dilatò fino agli orecchi la sua immensa bocca e gli uscì uno scoppio di risa fragoroso.

— Ehi, Sciancatello! — gridò il marinaio. — Che i banani t'abbiano fatto l'effetto d'una solenne bevuta? Se ti sei ubbriacato, ti faremo una doccia, figliuol mio. —

L' orang non l'ascoltava più. Con un gesto imperioso aveva fatto cenno alle due scimmie di seguirlo e si era diretto verso un albero altissimo, coperto d'un fogliame folto assai e si era messo ad osservarlo continuando a manifestare la sua gioia con scoppi di risa.

— Che lassù ci siano delle frutta ricercate dalle scimmie? — chiese il marinaio.

— Io non vedo che foglie, — rispose il mozzo. — Ma.... non udite questo ronzìo?...

— Sì, — disse il veneziano. — Oh!... Ora comprendo!... Non vedete lassù quel nuvolo d'insetti?...

— Sì, sì! — confermarono i due marinai.

— Sono api selvatiche ed il nostro orang si prepara a saccheggiare l'alveare per mangiarsi il miele.

— Il goloso! — esclamò il marinaio. — Ma non gli permetterò di mangiarselo tutto. Diavolo!... Voglio fare delle ciambelle io!...

— Zitto, — disse il veneziano.

— Cosa avete udito?

— Un grugnito.

— Dove?...

— Lassù, fra le foglie.

— Che lo Sciancatello trovi un competitore?

— Lo credo, Enrico, poichè mi pare quelle api siano molto spaventate.

— Forse un altro mias?...

— Non lo so.

— Brutto incontro, signor Albani.

— Abbiamo le freccie mortali.

— Sciancatello sale, — disse il mozzo. —

Infatti l' orang, dopo una breve esitazione, aveva cominciata l'ascensione, ma procedeva con una certa diffidenza e portava con sè il randello.

Di tratto in tratto si arrestava per ascoltare, alzava il viso come se cercasse di discernere qualche animale che pareva si nascondesse fra il fogliame, poi scuoteva la testa e riprendeva l'ascensione.

Giunto ai primi rami si rizzò, abbracciò il tronco dell'albero e radunando le sue forze si mise a scrollarlo con furore, emettendo dei sordi abbaiamenti ma che sembravano colpi di tosse: era il suo modo per manifestare la sua collera.

In alto si udirono dei grugniti, poi si vide una massa nera scendere lungo il tronco.

— Una bestia! — urlò il mozzo.

Lo Sciancatello, vedendosi a tiro quell'animale, gli appioppò una legnata così tremenda, da strappargli un vero urlo, poi con un calcio cercò di precipitarlo giù, ma l'altro, che stringeva forte il tronco, teneva duro.

Lo si vide però poco dopo lasciarsi scivolare luogo l'albero con grande rapidità, quindi piombare a terra in causa d'un'ultima e più furiosa scossa dell' orang.

Capitolo XIV Miele e patate dolci

Quell'animale che voleva defraudare lo Sciancatello del miele, era grosso quanto un cane di Terrannova, ma più basso di zampe, col muso un po' appuntito ed il pelame nero e lucidissimo.

Rassomigliava in tutto agli orsi neri, ma era però più allungato e sembrava anche molto più agile.

Appena trovatosi a terra, non cercò di far fronte agli uomini, ma di darsela a gambe nel bosco; il signor Albani però che sapeva con che specie d'animale aveva da fare, con quattro colpi di randello lo fece cadere al suolo, poi levatasi rapidamente una fune, gliela legò al collo, dicendo:

— Adagio, mio caro; abbiamo un recinto nella nostra capanna e vi starai benone. —

In quell'istante si udì l' orang scrollare ancora furiosamente l'albero ed emettere grida di rabbia, poi un colpo sordo che pareva una tremenda bastonata.

Un altro animale, simile al primo, scendeva precipitosamente lungo l'albero e venne a cadere quasi ai piedi del marinaio. Questi credette bene d'imitare il veneziano; con due colpi di randello stordì il disturbatore delle api, quindi lo legò solidamente, aiutato dal mozzo.

— Bravi, amici, — disse Albani. — Un maschio ed una femmina!... Faremo razza e fra pochi mesi avremo anche noi della carne eccellente.

— Ma ci direte che bestie sono, signore, — disse il marinaio.

— Sono orsi.

— Terremoto! Orsi! — esclamò il marinaio, balzando indietro.

— Hai paura?

— Se sono orsi, ho motivo di spaventarmi.

— Sono inoffensivi, Enrico. Quelli del Borneo e di tutte le isole Malesi, non sono feroci come gli altri. Come vedi, sono più piccoli di tutte le altre specie e quantunque abbiano denti e artigli, non se ne servono quasi mai e sfuggono l'uomo. Questa doppia cattura ci sarà di molto vantaggio, poichè alleveremo degli orsacchiotti che ci procureranno, di tratto in tratto, degli arrosti succolenti.

— Ed il miele? — chiese il mozzo. — Quel briccone di Sciancatello ce lo divorerà tutto.

— Ah!... furfante! — urlò il marinaio. — Mangia le mie ciambelle. Ehi, Sciancatello!... Scendi o ti romperò il mio randello sul groppone, brutto ingordo! —

L' orang pareva fosse diventato sordo. Lo si udiva a rompere i rami e scuotere le foglie, mentre le api fuggivano a sciami, ronzando. Il ghiottone stava senza dubbio saccheggiando l'alveare.

Il marinaio, furioso, temendo di non poter assaggiare il miele, nè di fare le sue ciambelle, cercava di scuotere l'albero per costringere l' orang a scendere, ma invano.

Il veneziano ed il mozzo invece ridevano a crepapelle.

— Basta, goloso! — continuava a urlare il marinaio. — Scendi o ti mando a raggiungere tua madre con una freccia che ti farà crepare. Scendi, ladrone ingordo! —

Il mias continuava a rimanere sordo a quella tempesta d'invettive e di minaccie ed il marinaio s'arrabbiava maggiormente, credendolo occupato a rimpinzarsi di miele.

— Addio, ciambelle, — diceva il mozzo, sempre ridendo. — Questa volta è lo Sciancatello che si mangia il dolce.

— Terremoto di Genova! — tuonò il marinaio. — Gli darò tale lezione da fargli vomitare tutto il miele!... Gli fracasserò le ossa!...

— Eccolo che scende, — disse Albani. — Pare che abbia terminato la colazione. —

Infatti lo Sciancatello scendeva attraverso i rami e le foglie, ma senza fretta. Pareva che fosse imbarazzato a portare qualche cosa, perchè con una mano sosteneva un voluminoso pacco.

— Cosa rimorchia quel gaglioffo? — chiese il marinaio.

— Ci porterà la cera colla quale faremo delle buone candele, — disse il Piccolo Tonno.

— Gliela farò mangiare dietro al miele!... Non m'importa un fico della cera!... Scendi, canaglia, che t'accarezzerò le spalle!... —

Lo Sciancatello scendeva, ma sempre con gran precauzione e tenendo stretto il pacco.

— Il furbo! — esclamò il mozzo. — E poi dicono che le scimmie sono meno intelligenti degli uomini!...

— Perchè? — chiese Enrico.

— Non vedi che ha messo i favi dell'alveare nella tenda che portava a bandoliera?...

— Ehi!... To'!... Una goccia!... Fulmini!... È miele! —

Il marinaio, che stava sotto l'albero, aveva ricevuto una grossa goccia sul viso e si era accorto che era miele. La sua fronte si rasserenò.

— Che lo Sciancatello sia più onesto di quello che credevo? — mormorò.

Il mias, uscito dai rami, si lasciò scivolare lungo il tronco come un vero ginnasta e giunto a terra aprì la tenda che trasudava miele da tutte le parti.

Era piena di favi, ma non già spremuti del succo delizioso, bensì ancora pieni. Il marinaio fece quattro salti attorno all'albero, poi aprì le braccia e si strinse al petto il peloso scimmione, esclamando:

— Dammi un abbraccio, figliuol mio!... Tu sei il più onesto di tutte le scimmie e di tutti gli orang-outan della terra! —

Lo Sciancatello si meritava quell'elogio, poichè invece di aver saccheggiato l'alveare per proprio conto, portava i favi intatti ai suoi padroni.

Il marinaio non perdette tempo. Si rimboccò le maniche, si fece dare la pentola e si mise a spremere la cera, facendo uscire larghi goccioloni di miele profumato.

S'accorse ben presto che quel recipiente non bastava a contenere tutto il succo, ma il signor Albani s'affrettò a trovare altri recipienti formando dei coni impenetrabili colle larghe foglie d'un arecche.

Quando l'operazione fu terminata, calcolarono la loro provvista a dodici chilogrammi, detraendo qualche chilogrammo regalato all'onesto Sciancatello ed alle due scimmie.

— Quante ciambelle! — esclamò il marinaio. — Capperi!.. Ne mangeremo a sazietà.

— Ma non hai pensato ad una cosa, Enrico, — disse Albani. — Come faremo ad attraversare i boschi con questi recipienti?... La montagna è ancora alta, amico mio.

— Fulmini!... Ma io non lascierò qui il mio miele, signore. Gli orsi o le scimmie me lo mangerebbero.

— Lo credo, e poi non possiamo condurre con noi gli orsi.

— Lasciatemi qui e salite voi la montagna.

— Non avrai paura delle tigri?

— Ho la cerbottana e le freccie sono avvelenate.

— Ti lascieremo anche lo Sciancatello; è un buon compagno che sa maneggiare solidamente il suo randello.

— Quando sarete di ritorno?...

— Temo che saremo costretti ad accamparci sulla cima della montagna. Domani all'alba faremo ritorno.

— Sarete capaci di trovarmi?... Potete smarrirvi in questi boschi.

— Conosco il mezzo per dirigermi. Addio, Enrico.

— Buon viaggio, signore. Vi preparerò delle ciambelle intanto e sentirete come saranno deliziose!... Me ne intendo, io! —

Si salutarono un'ultima volta ed il veneziano ed il mozzo si rimisero in cammino lasciando al marinaio anche le due scimmie poichè, non essendovi più il randello dell' orang, potevano approfittare per fuggire.

Il signor Albani, pur camminando rapidamente, aveva la precauzione di fare, di quando in quando, delle incisioni sui tronchi degli alberi, ma sempre su quelli che si trovavano alla sua destra. In tal modo non correva più il pericolo di non ritrovare, nel ritorno, la via percorsa.

Il terreno cominciava a salire, ma era sempre coperto da folti cespugli, da grandi macchie d'alberi che avevano delle foglie smisurate e interrotto di tratto in tratto da enormi massi di natura vulcanica e da fenditure profonde che dovevano servire di letto ai torrenti, durante la stagione piovosa.

Su quei pendii abbondavano le piante gommifere, per lo più isonandra gutta i cui tronchi, incisi, danno una materia attaccaticcia simile al caucciù.

Il signor Albani però, che guardava attentamente tutti i vegetali, scoprì alcuni alberi molto preziosi per loro, poichè potevano surrogare il pane fatto col midollo delle arenghe saccharifere.

Erano dei buâ kaluwi, così chiamati dai Malesi, ma che i botanici conoscono col nome di artocarpus incisa, alberi che producono delle frutta grosse, prive di semi, contenenti una polpa giallastra che ha il sapore di certe specie di zucche.

Più sopra ne scoprì altre appartenenti alla stessa specie, ma assai più produttive. Erano i buâ naglesa o artocarpus integrifolia meglio conosciuti col nome di alberi del pane, piante grandissime che producono le frutta più grosse di tutti i vegetali, rotonde, coperte di scaglie puntive e così pesanti, che due uomini non sempre riescono a portare un solo frutto.

— Se ne piomba una sul cranio, lo schiaccia come una nocciuola, — disse il mozzo. — Non ho mai vedute frutte così grosse, signor Emilio.

— Ci faranno sudare a portarle alla capanna, Piccolo Tonno, — rispose il veneziano.

— Contate di venire a raccoglierle?

— Certo.

— Sono adunque eccellenti?

— Hanno il sapore dei fondi del carciofo e quella polpa, cucinata sui carboni, può supplire il pane.

— Ma non si conserverà.

— I polinesiani la conservano, pigiandola entro buche scavate nel terreno, ma prende un sapore acidulo non però sgradevole a chi riesce ad abituarsi.

— Ma ci vorrebbero dei facchini, per portare fino alla spiaggia tutte quelle frutta.

— Se non avremo dei facchini, avremo degli animali ed un carretto, spero.

— Un carretto?...

— E perchè no?...

— Ma chi lo tirerà?... Le scimmie forse?...

— Chi?... Ho notato parecchie orme di babirussa e se riesco a prenderne due, vedrai che ti farò andare in carro, mio Piccolo Tonno.

— Ma voi volete procurarci mille comodi, signore.

— È la mia idea. Orsù, continuiamo la marcia o giungeremo tardi sulla vetta. La montagna è ancora alta assai. —

Ripresero l'ascensione attraverso a quelle selve che diventavano sempre più difficili e più intricate, recidendo gli smisurati rotangs che formavano talvolta delle reti impenetrabili e fugando grandi bande di volatili e specialmente di podargus, bruttissimi falchi colla testa grossa, il becco corto e largo come una bocca, la testa coperta di pochi ciuffi di peli e le penne del corpo bigie a screziature nere.

Anche qualche aquila audace, uccellacci grossi come tacchini, armate di robusti artigli, colle larghe ali nere ed il dorso rossastro variegato di nero, volava via emettendo acute grida.

A mezza costa s'imbatterono in numerosi drappelli di scimmie, occupati a saccheggiare gli alberi fruttiferi. Ve n'erano di varie specie, ma erano talmente selvatiche, che fuggivano rapidamente appena scorgevano i due naufraghi, celandosi nei più fitti nascondigli della foresta.

Si scorgevano bande di ducs, scimmie colla coda lunga, la faccia piatta, i piedi neri e le orecchie invece color carne viva; delle lawados dalla faccia priva di pelo, color rosso fino a metà, colla testa coperta da una specie di parrucca fatta di peli grigiastri e molto folti; delle scimmie dal naso lungo e grosso e parecchie altre che il veneziano non poteva ben distinguere perchè fuggivano troppo rapidamente.

Alle quattro, mentre stavano per riposarsi all'ombra d'un arecche, il signor Albani additò al compagno una pianta poco alta, munita di larghe foglie d'un bel verde, dicendo con voce allegra:

— Ecco una scoperta preziosa. Finalmente avremo una piantagione!...

— È una pianta di tabacco, forse? — chiese il mozzo. — Quale fortuna per Enrico, che non sogna che pipe e sigari!...

— Non è tabacco, ma qualche cosa di meglio: scava! —

Piccolo Tonno estrasse il coltello e si mise a scavare la terra attorno alla pianta, con infinite precauzioni. Poco dopo metteva allo scoperto un tubero assai grosso, pesante un buon chilogrammo e che rassomigliava ad un pomo di terra.

— Cos'è questo? — chiese egli, sorpreso.

— Un ubis, — rispose Albani.

— Non vi comprendo.

— Una patata dolce.

— Lave del Vesuvio!... Una patata!...

— E delle migliori, ragazzo mio.

— La metteremo a cucinare sotto la cenere.

— Niente affatto, goloso. La conserveremo, dissoderemo un pezzo di terra e fra tre o quattro mesi faremo la nostra raccolta.

— Sperate di trovarne altre?...

— Ne sono certo, Piccolo Tonno. Avanti, e giriamo intorno gli sguardi. —

Il mozzo si mise nella borsa il prezioso tubero e ripresero le mosse guardando a destra ed a manca.

Tre ore dopo giungevano sulla vetta della montagna, carichi di altri sette ubis che avevano scoperto sotto la boscaglia.

Capitolo XV Un terribile quarto d'ora

Appena si trovarono sulla più alta roccia di quella vetta, la quale s'innalzava isolata in mezzo a quelle folte foreste, girarono con viva curiosità gli sguardi all'intorno, certi di poter finalmente scorgere i contorni della loro possessione.

Le loro previsioni erano esatte: quella terra che gli ospitava non era un continente ma bensì un'isola, poichè dall'alto di quella montagna potevano scorgere tutto all'intorno il mare, il quale scintillava sotto gli ultimi raggi del sole prossimo al tramonto.

Quell'isola pareva che avesse una estensione ragguardevole, poichè si prolungava per un grande tratto verso il sud. La sua forma rassomigliava vagamente ad un immenso cucchiaio, allargandosi verso il nord e restringendosi verso il sud, ma con frastagliamenti più o meno pronunciati, con piccole baie e con alcuni isolotti microscopici disseminati qua e là e con lunghe file di scogliere.

Fin dove potevano spingere lo sguardo, i due naufraghi non iscorgevano che foreste, le quali si estendevano fino alle sponde del mare, impedendo di vedere se quella terra era popolata o deserta. Pareva che i corsi d'acqua mancassero assolutamente, si scorgevano però qua e là dei serbatoi, dei bacini, ma forse salmastri, trovandosi in prossimità del mare.

Il veneziano aguzzava gli sguardi sperando di scoprire più oltre altre isole, ma invano. All'est, all'ovest, al nord ed al sud non appariva alcuna terra.

— Ebbene, signore? — chiese il mozzo. — Sapete ora dove ci troviamo?

— Su di un'isola, come lo avevo supposto, ma su quale, io lo ignoro, — rispose Albani.

— Ma dove credete che quest'isola sia situata?

— Nel mar di Sulu, di questo son certo.

— Sono molte le terre sparse in questo mare?

— Sono oltre cento, ma molte non sono forse ancora state tutte visitate. Sono divise in quattro gruppi distinti: Cagayan Holo, Bassilan, Holo e Tawi-Tawi.

— E sono tutte abitate?....

— In gran parte e per lo più da pirati intrepidi che scorrono il mare fino sulle coste delle Filippine. Non vi è che un'isola i cui abitanti sono di costumi miti, che è stata scoperta da un nostro compatriotta e che porta appunto il suo nome.

— Da un italiano?

— Sì, Piccolo Tonno; da Rienzi, un intrepido esploratore che visitò quasi tutte le isole di Sulu.

Quell'isola è situata a 6° 26′ di lat. nord e 119° 33′ di long. est del meridiano di Parigi e fa parte del gruppo di Bassilan.

Quando il nostro compatriota la scoprì e sbarcò, un capo dell'isola, certo Maulant, gli andò incontro e saputo chi era, volle, secondo il costume del paese, scambiare il nome gridando: Io mi chiamo datou Rienzi e si battè il petto, poi battendo quello del viaggiatore disse: Tu sei il datou (capo) Moulant. Quindi gli offrì il suo kriss e Rienzi gli regalò le sue pistole.

Da quell'epoca l'isola fu chiamata Rienzi e porta ancora il nome del nostro compatriotta.

— Fa piacere, signor Albani, nel sapere che i nostri compatrioti hanno fatto anche qui delle scoperte.

— Ti credo, Piccolo Tonno, ma.... guarda!... I miei occhi s'ingannano od è proprio del fumo che s'alza laggiù?...

— Dove, signor Emilio?...

— Verso quella punta lontana, al sud, dietro a quei boschi. —

Il mozzo aggrottò la fronte e aguzzò gli sguardi nella direzione indicata. Le tenebre cominciavano a calare sull'isola, pure scorse come un leggero pennacchio grigiastro.

— Del fumo! — esclamò il mozzo, stupito. — Ma allora quest'isola è abitata!...

— O è nebbia? — disse il signor Albani, che era diventato pensieroso.

— Ecco quello che bisognerebbe sapere, signore.

— Vi sono almeno quindici miglia di foreste da percorrere, Piccolo Tonno. Stento a credere che quest'isola sia abitata.

— E perchè?...

— Avremmo incontrato qualcuno, mentre non abbiamo veduto che delle scimmie.

— Possono essere dei pescatori qui sbarcati.

— O dei pirati, vuoi dire.

— Brutta compagnia, signore.

— Se sono dei pirati non tarderanno a imbarcarsi. Ardo ora dal desiderio di possedere un canotto per fare il giro dell'isola.

— Lo costruiremo?...

— Sì, Piccolo Tonno, ma quando avremo trovata qualche pietra per affilare la nostra povera scure che è ormai rovinata. Orsù, accampiamoci e domani mattina andremo a trovare Enrico.

— Non correrà pericolo, il marinaio, solo in mezzo alla foresta?

— Ha lo Sciancatello e quel mias è ormai tanto robusto da mettere in fuga anche le tigri col suo randello e poi Enrico ha la sua cerbottana. Prepariamoci un ricovero, ragazzo mio. —

Abbandonarono la vetta che era assolutamente nuda e rientrarono nella foresta costruendosi un ricovero con alcuni bastoni, che poi ricoprirono con una mezza dozzina di foglie d'arecche, lunghe tre metri e larghe uno.

Rosicchiarono un biscotto, accesero il fuoco per tenere lontane le fiere, poi Albani si coricò sotto quella tettoia improvvisata, mentre il mozzo montava il primo quarto di guardia, tenendosi accanto la cerbottana nella quale aveva prima introdotta una freccia avvelenata. Tutto era tranquillo sulla cima della montagna: non si udiva che il lieve sussurrìo delle fronde agitate dal venticello notturno.

Nè le scimmie, nè i falchi, nè le aquile si udivano, però il mozzo non osava chiudere gli occhi, quantunque il sonno gli pesasse sulle palpebre. Per vincerlo si alzava di sovente e faceva il giro della tettoia, scrutando con grande attenzione la tenebrosa foresta che scompariva giù pei fianchi della montagna.

Di quando in quando poi si spingeva verso il margine della boscaglia e tendeva gli orecchi, sperando di udire, nei piani inferiori, echeggiare la voce lontana del marinaio, ma senza risultato. Senza dubbio il genovese dormiva tranquillamente sotto la vigilanza dello Sciancatello, sognando forni pieni di ciambelle.

Il sonno però lo assaliva con maggior frequenza e per quanti sforzi facesse, le palpebre già fin troppo grevi, gli si abbassavano.

Si era seduto a pochi passi dal fuoco, contro il tronco d'un albero semi-divorato dal tarlo e che gli aveva offerto una specie di seggiola, fischiando fra i denti una barcarola. Lottava ancora contro il sonno, ma erano gli ultimi sforzi.

Finalmente non seppe più resistere e involontariamente chiuse gli occhi, sognando la sua lontana isola natìa.

Quanto dormì?... Non potè mai saperlo, ma una brutta sorpresa lo aspettava al suo risvegliarsi. Là, a quindici passi un animale grosso, col pelame giallastro rigato di nero, colla testa somigliante a quella dei gatti ma molto più grossa, stava sdraiato al suolo, guardandolo con due occhi dai riflessi verdastri, ma che tradivano un'ardente bramosìa.

Il povero mozzo, nel vedersi dinanzi quell'animale, che pareva pronto a scagliarsi su di lui e mettere alla prova i tremendi artigli, impallidì orribilmente e s'irrigidì contro l'albero, mormorando con un filo di voce:

— Sono morto! —

Aveva riconosciuto in quella formidabile avversaria una tigre.

Gettò all'intorno uno sguardo smarrito: il signor Albani russava tranquillo e fidente sotto la piccola tettoia ed il fuoco stava per ispegnersi, lanciando gli ultimi sprazzi di luce come un lumicino moribondo.

Si guardò ai piedi sperando di aver vicina la cerbottana, ma il fusto cilindrico gli era caduto dalle ginocchia, era rotolato pel pendio ed era andato ad arrestarsi a' piedi d'un sontar, a circa dieci metri di distanza.

Il disgraziato ragazzo si sentì rizzare i capelli e gli parve di sentire sulle membra i denti terribili della fiera.

— Sono morto, — ripetè, rabbrividendo fino in fondo all'anima.

E poteva ben considerarsi spacciato, poichè al primo movimento che avesse osato fare per riprendere la cerbottana o al primo grido che avesse lanciato per svegliare il veneziano, la tigre non avrebbe indugiato ad assalirlo.

Girò lentamente la testa e guardò la fiera. Stava accovacciata al medesimo posto, ma pareva che non avesse fretta di assalire. Si stirava come un gatto che ha fatto una buona dormita, ondeggiava mollemente la coda, si lisciava il pelo del petto e dei fianchi con graziosa civetteria e sembrava non facesse alcun caso della futura vittima.

Ad un tratto però parve che concentrasse la sua attenzione sulla cerbottana che stava ai piedi del borasso, la cui estremità era munita del coltello del mozzo. Quella lama, che un raggio di luna faceva scintillare come uno specchio da due soldi, aveva certamente destata la sua curiosità.

Si diresse verso l'albero con passo silenzioso, ma con una certa diffidenza, volgendo di quando in quando la testa verso il ragazzo che manteneva una immobilità assoluta, poi allungò una zampa e la trasse a sè. Vedendo quella canna rotolare e la luce della lama apparire e scomparire, parve che ci provasse gusto, poichè dimenticando la vittima si mise a giuocherellare, emettendo dei profondi rom-rom di contentezza.

A vederla si avrebbe scambiata per un grosso gatto allegro, anzichè per una tigre sanguinaria.

Piccolo Tonno, più sorpreso che mai, cominciava a respirare ed a sperare. Se quella fiera era di così buon umore, vi era speranza di salvare la pelle. Non osava però ancora a muoversi, poichè la maledetta tigre, pur giocando, volgeva di tratto in tratto la testa verso di lui, come volesse assicurarsi che non abbandonava il posto.

— Che voglia solamente spaventarmi? — pensava il ragazzo. — Oh! Se potessi scivolare sotto la tettoia e svegliare il signor Albani! —

Ma non trovava mezzo per avvertire il compagno del tremendo pericolo che correvano. Coricato su di un fianco, con un braccio sotto il capo, il veneziano continuava a dormire saporitamente, nè accennava a svegliarsi.

Ad un tratto un'idea attraversò il cervello del ragazzo.

— Dio mi aiuti, — mormorò.

Tenendo gli sguardi sempre fissi sulla fiera, si curvò lentamente, con infinite precauzioni, verso terra. Il cuore gli batteva forte forte, un tremito nervoso gli scuoteva le membra e grossi goccioloni di sudore freddo gli bagnavano la fronte, ma continuava ad abbassarsi, mentre la sua mano frugava il terreno.

Trasalì sentendo sotto le dita un oggetto duro, ma ritirò il braccio lentamente, sempre guardando la tigre che continuava a giuocherellare colla cerbottana.

— Un sasso, — mormorò, respirando. — Non sbagliamo il colpo.

Attese il momento in cui la tigre volgevagli il dorso e rapido come il lampo scagliò il sasso sotto la tettoia. Il signor Albani sentendosi cadere sul viso quell'oggetto, si alzò bruscamente guardandosi attorno. Comprese tutto a prima vista?... È probabile, perchè senza pronunciare parola, senza fare un gesto al mozzo, raccolse silenziosamente la sua cerbottana e tenendosi coricato come fosse ancora addormentato, accostò l'arma formidabile alle labbra.

Un'istante dopo s'udì un leggiero sibilo e la tigre interruppe bruscamente i suoi giuochi, guardandosi attorno. Vedendo quel leggiero cannello sospeso al suo collo, lo spezzò con un colpo di zampa e si rimise a giuocare come fosse stata punta da un semplice moscerino.

Ad un tratto però la si vide spiccare un salto immenso, emettendo un rauco ruggito, poi ricadere su di un fianco, quindi dibattersi in preda a tremende convulsioni.

Piccolo Tonno si precipitò verso la tettoia, gridando:

— Ah!... Signor Emilio!

Il veneziano era già balzato fuori. Aprì le braccia e se lo strinse al cuore, esclamando:

— Grazie, mio valoroso ragazzo! —

In quell'istante la tigre, fulminata dal potente veleno dell' upas e del cetting, cessava di vivere.

Capitolo XVI Una luce misteriosa

La tigre abbattuta dalla freccia mortale scagliatale dal veneziano, era una delle più grosse, poichè misurava oltre due metri dall'estremità della coda al naso ed era alta un buon metro, quantunque quelle delle isole indo-malesi siano di solito più basse di quelle del Bengala che chiamansi reali.

Il terribile veleno l'aveva ridotta in uno stato miserando. La bocca, contorta dagli ultimi spasimi, non aveva più forma; gli occhi le uscivano dall'orbita fra un cerchio di sangue, ed il pelo, poco prima liscio, era diventato arruffato. Una spuma sanguigna mista ad una serosità giallastra, le colava dalle labbra.

— È proprio morta? — chiese il mozzo, che le girava attorno, ma tenendosi prudentemente ad una certa distanza.

— Il veleno dell'upas è infallibile, — rispose il veneziano, scuotendo con un piede quella massa inerte.

— Sono vendicato del terribile quarto d'ora che questo animalaccio mi ha fatto passare, signor Albani. Io non so come il mio cuore non si sia spezzato. Ah!... Che paura, signore!...

— Ti credo, mio povero ragazzo. Un cacciatore di professione non avrebbe provato meno paura di te e ti dico che sei un valoroso.

— Grazie, signore.

— Va' a coricarti che ne hai bisogno; veglierò io fino all'alba.

— Non ho più sonno, credetelo, e preferisco farvi compagnia accanto al fuoco.

— O meglio mi aiuterai a scuoiare la tigre. Ricaveremo una splendida coperta. —

Gettarono sul fuoco semi-spento dei rami secchi, trascinarono colà la tigre e levato il coltello dalla cerbottana, il signor Albani si mise al lavoro aiutato dal piccolo mozzo.

— Che animalaccio! — esclamava Piccolo Tonno, che non si stancava di ammirarlo. — Che collo e che muscoli!... Simili fiere non devono trovarsi imbarazzate a trascinare nei loro covi le grosse selvaggine.

— Si sono vedute talvolta delle tigri, superare delle cinte portando in bocca dei grossi capi di bestiame. Da ciò puoi immaginarti quale forza posseggono tali carnivori.

— È vero, signore, che le tigri assalgono indistintamente tutti gli animali, perfino i leoni e gli elefanti?...

— Sono frottole, ragazzo mio, spacciate da cacciatori che non hanno mai abbandonato le loro case. Le tigri sono più astute di quello che si crede e non si misurano con degli animali che possono disputare a loro la vittoria. Se la prendono colle antilopi, colle scimmie, coi tapiri, coi babirussa perchè sanno che non possono difendersi, o cogli animali domestici, ma sfuggono gli altri. Non osano nemmeno assalire i bufali, poichè sanno per esperienza che quei grossi ruminanti posseggono delle corna acute e che non indietreggiano.

— Pure assalgono gli uomini.

— Sì, ma quando sono vecchie.

— Oh!... Questa è strana!... — esclamò il mozzo.

— Te lo dissi già, le tigri sono molto furbe. Sapendo che gli uomini posseggono delle armi, finchè sono giovani e agili e hanno lo slancio necessario per piombare sugli animali della foresta, lasciano in pace gli uomini. Talvolta però, spinte dalla fame, fanno delle vittime umane, ma preferiscono gli uomini di colore e possibilmente le donne ed i fanciulli, conoscendo già la potenza delle armi da fuoco degli uomini bianchi. Quando cominciano a diventar vecchie lasciano le foreste, e vanno a nascondersi in vicinanza dei villaggi e specialmente nei pressi delle fonti, ove sanno che si recheranno le donne a prendere acqua, e cominciano le stragi.

Pare però che la carne umana sia un cattivo nutrimento per le tigri, poichè diventano brutte, rognose e perdono il pelo. Si direbbe che diventano lebbrose come gli antropofagi della Polinesia.

— E non si possono ammaestrare le tigri?...

— Sì e molti rajah indiani ne tengono libere nei loro palazzi, ma sono sempre pericolose.

— Si potrebbero abituare a non mangiare mai carne?

— Hanno provato anche ciò, ma privandole della carne diventavano brutte e spelate come quelle che mangiano vittime umane.

— Non saremo certamente noi che cercheremo di addomesticare le tigri....

— Taci!... — esclamò il signor Albani, interrompendolo bruscamente.

— Cosa avete udito? — chiese il mozzo, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Una lontana detonazione.

— È impossibile, signore!... Se quest'isola è deserta....

— Non lo sappiamo ancora, anzi quel fumo scorto ieri sera indicherebbe il contrario. Vieni, ragazzo mio. —

Gettò a terra la pelle sanguinante della tigre che aveva allora staccata e salì sulla rupe che formava la vetta della montagna.

Giunto sulla cima guardò verso al sud e gli parve di scorgere, nel medesimo punto ove poche ore prima aveva veduto alzarsi la colonna di fumo, un debole chiarore che pareva proiettato da un fuoco acceso sotto i boschi.

— Della luce! — esclamò. — Ma allora laggiù accampano degli uomini!

— Ma chi siano? Degli abitanti o dei naufraghi? — chiese Piccolo Tonno. —

Il signor Albani non rispose: continuava a guardare quel chiarore che talvolta diventava più vivo, spiccando distintamente fra le tenebre e che ora pareva accennasse a spegnersi.

Verso le due del mattino quella luce si estinse bruscamente, nè più ricomparve. Il signor Albani attese fino all'alba sperando di udire qualche altra detonazione, ma invano.

— Forse saranno stati dei pirati, — mormorò egli. — Non credo che quest'isola sia abitata.

— Scendiamo, signore? — chiese il mozzo.

— Sì, Piccolo Tonno. —

Si caricarono della pelle della tigre e delle patate dolci che avevano raccolte nella foresta e si misero a scendere le balze della montagna, regolando la loro direzione sulle incisioni che avevano fatte sugli alberi.

Tre ore dopo udivano la voce del marinaio, che saliva dal fondo d'una valletta boscosa.

— Ohe!... marinaio! — gridò il mozzo.

— Presente, — urlò Enrico con voce tuonante.

— Nulla di nuovo?

— Sto abbeverando i miei orsi. —

Il signor Albani e Piccolo Tonno affrettarono il passo e poco dopo giungevano ad una capanna di frasche, dinanzi alla quale il marinaio e lo Sciancatello stavano trascinando gli orsi che parevano ricalcitranti.

— Buon giorno, signor Albani, — disse Enrico. — Avete passata una buona notte sulla montagna?...

— Sì, uccidendo una tigre che voleva mangiare Piccolo Tonno, — disse il veneziano.

— Corna di Belzebù!...

— Non inquietarti, l'abbiamo uccisa, Enrico. E tu, hai dormito bene?...

— Come un ghiro, signore. Sciancatello è una sentinella valorosa che non lascia avvicinare nessuno e anche le due scimmie sono davvero bravine. Dunque, dove siamo noi?

— Su di un'isola.

— Deserta?

— Ecco quello che ignoriamo. Hai udito e veduto nulla?

— Veduto no, ma due ore or sono stato svegliato da un certo fragore, che mi parve un lontano colpo di fucile.

— L'ho udito anch'io.

— Allora non siamo soli su quest'isola.

— Chi può dirlo? Lo sapremo quando saremo in grado d'intraprendere una vera esplorazione attorno a questa terra.

— E quando potremo tentarla?...

— Fra alcune settimane, ossia quando avremo un canotto. Ritorniamo, amici: ho fretta di giungere alla capanna. —

Il marinaio afferrò le funi dei due orsi, lo Sciancatello prese la pentola del miele, Albani si caricò della tenda e della cera e si misero in cammino preceduti dal mozzo che portava la pelle della tigre e dalle due scimmie.

Volendo però visitare un'altra parte di quella grande foresta, sperando di trovare nuovi alberi utilissimi, avevano presa un'altra direzione, deviando un po' verso l'est, certi di raggiungere egualmente la loro capanna aerea.

Gli alberi però non variavano. Incontravano sempre macchioni di arecche, di sontar, di durion, di pombo, di piante gommifere, strette le une alle altre da smisurati rotang e da radici colossali, che s'innalzavano da tutte le parti come serpenti immani.

Fecero però una scoperta curiosissima, d'un gruppo di fiori di proporzioni gigantesche. Erano delle aroidee, piante che emettono una sola foglia la quale s'innalza, compreso il gambo che somiglia ad una vera colonna, per ben quindici metri.

Dal centro di quel gambo che aveva un diametro di un metro, usciva un fiore così grande, da imbarazzare un gigante se avesse voluto metterselo all'occhiello della giacca, poichè era alto due metri con un diametro di uno e mezzo.

Cosa strana però: quei fiori, invece di avere un profumo delizioso, esalavano un odore appestante, come di pesce corrotto.

Anche qualche pianta utile venne scoperta, ma essendo ormai tutti carichi, dovettero pel momento rinunciare a saccheggiarla. Erano dei mangostani, alberi somiglianti ai nostri ciliegi, chiamati dai popoli della Malesia re delle frutta, poichè dànno infatti le frutta migliori che immaginare si possa.

Sembrano melogranate, ma la polpa candida che contengono riunisce gli aromi più squisiti e si fonde in bocca come un gelato.

Verso le quattro del pomeriggio, i naufraghi si trovarono sulla costa orientale, la quale si elevava assai sul mare, difesa da rupi colossali che s'innalzavano per parecchie dozzine di metri, coperte da piante arrampicanti e da sterpi.

La foresta terminava addosso a quelle rupi, ma non era più fitta come prima. Anzi si vedevano qua e là delle piccole radure, invase bensì da erbe grasse, ma prive di alberi annosi.

Il signor Albani, che da qualche minuto girava gli occhi con una certa attenzione, si era fermato esaminando il terreno delle radure. Rimuoveva le piante, le divideva coi piedi e pareva che cercasse con ostinazione qualche cosa d'importante.

— Sperate di trovare delle altre patate dolci? — gli chiese Enrico, che si era pure fermato per riposarsi un po'.

— Cerco una o meglio delle tracce, — rispose il veneziano.

— Le tracce di qualche nuovo animale?...

— No, d'una antica coltivazione.

— Oh!... d'una coltivazione!... — esclamarono il marinaio ed il mozzo.

— Sì, amici, e sono certo di non ingannarmi. Questo terreno è stato lavorato e sgombrato dagli alberi che un tempo lo coprivano. Guardate: ecco qui le tracce d'un solco e qui, sotto queste erbe, gli avanzi d'un albero tagliato e d'un altro mezzo sradicato.

— Fulmini!... — esclamò Enrico. — Che quest'isola sia proprio abitata?...

— O per lo meno un tempo lo fu, — disse Albani.

— Ma da chi?...

— Forse da qualche colonia d'isolani delle Sulu.

— Ma molto tempo fa?...

— Da molti anni di certo.

— Ma si dovrebbero vedere le tracce di qualche capanna, se non gli avanzi.

— Potrebbe esistere nei dintorni.

— Cerchiamola, signore. —

Il veneziano non rispose. Teneva gli sguardi fissi su di un gruppo di piante che cresceva in mezzo ad una di quelle radure.

— Cosa guardate, signore? — chiese il marinaio, stupito di non ricevere risposta.

— Dimmi, Enrico, — disse Albani, con una certa emozione, — gradiresti una tazza di caffè?...

— Terremoto di Genova!... Avreste forse trovato....

— Del caffè?... Sì, Enrico, l'ho trovato. Seguitemi, amici. Fra pochi giorni noi assaggeremo la deliziosa bevanda. —

Capitolo XVII Le tracce d'un'antica colonia

Quelle piante, che lo sguardo acuto del veneziano aveva scoperto fra tutti quegli alberi che circondavano quelle piccole radure, erano alte cinque o sei metri, col fusto diritto, le foglie opposte, ovali, d'una tinta verde-cupa lucentissima e somiglianti a quelle dei lauri cerasi.

Alcune, situate troppo all'ombra, erano coperte di fiori bianchi disposti a ciocche, esalanti un profumo che ricordava quello delicato dei gelsomini, ma altre, più esposte al sole, avevano i rami adorni di gruppetti di certe frutta, somiglianti alle ciliege duracine, sia per la forma che pel colore.

Il veneziano staccò alcune di quelle frutta, le aprì facilmente e mostrò ai compagni una specie di nocciolo, ma che pareva formato d'una semplice pellicola.

— Ecco il caffè, diss'egli.

— Il caffè!... — esclamarono i due marinai. — Ma non somiglia ai chicchi che noi abbrustoliamo e che poi maciniamo. —

Il signor Albani sorrise. Ruppe la pellicola e fece uscire due chicchi semi-ovali, un po' teneri ancora, bianco-verdognoli, ma che dovevano acquistare una consistenza cornea dopo una breve esposizione al sole.

— È vero caffè!... — esclamò il genovese, al colmo della gioia. — Ma come queste piante si trovano su quest'isola?... Forse che crescono anche allo stato selvaggio?...

— Nel loro paese d'origine, ossia in Arabia sì, ma qui no, Enrico. Queste piante sono qui trasportate e coltivate.

— Ma da chi?...

— Dagli uomini che hanno dissodate e coltivate queste radure.

— Ma venuti da dove? — insistette il marinaio.

— Chissà, forse da Mindanao o da Palavan o dalle Filippine. Dopo la comparsa degli uomini bianchi, in quasi tutte le isole della Sonda e dell'arcipelago del Mar Cinese meridionale, si coltiva in minore o maggior copia il granello profumato.

— Che siano stati poi divorati dalle fiere, i coltivatori?...

— Possono aver abbandonata l'isola o essere invece stati sterminati o ridotti in schiavitù dai pirati delle Sulu.

— Sarei curioso di trovare le loro tracce, signor Emilio. Almeno sarei certo se quest'isola è ancora abitata o deserta.

— Forse perlustrando le coste lo sapremo, Enrico. Volete che raccogliamo il nostro caffè?... Vedo un grande numero di bacche giunte a perfetta maturanza, e che altro non chiedono che di essere esposte al sole per seccare.

— Ma fra due ore sarà notte.

— Nessuno ci proibisce di accamparci qui.

— È vero, signore; raccogliamo il nostro moka. —

Legarono i due orsi ad un albero e aiutati da Sciancatello si misero a raccogliere le frutta, accumulandole entro la tela della tenda. Il mozzo intanto tagliava dei rami e delle foglie, improvvisando un ricovero per difendersi dall'umidità della notte.

Alle sette di sera la raccolta era terminata. A colpo d'occhio potevano ricavare dieci o dodici chilogrammi di chicchi.

— Ecco una gita fortunata!... — esclamava il bravo marinaio, che pareva entusiasmato. — Cospettaccio!... che lusso!... Perfino il caffè, e lo zucchero non ci manca!... Se potessimo trovare anche del tabacco io sarei l'uomo più felice della terra.

— Sarà difficile trovarne, non usandolo i popoli di queste regioni, ma cercherò qualche cosa che possa surrogarlo, Enrico, — disse il signor Albani. — Portiamo il nostro moka sotto la tettoia e stritoliamo un po' di biscotti bagnati nel miele.

— Ah!... Salvatelo, signor Albani!... — esclamò il mozzo, scoppiando in singhiozzi. (Pag.122 ).

— To'!... Anche voi lo chiamate moka come noi marinai, — disse Enrico, caricandosi della tenda piena di caffè.

— È il suo vero nome, poichè le prime piante furono scoperte precisamente sulla costa araba ove sorge la città di Moka.

— È stato qualche scienziato a scoprirle?

— Niente affatto; un povero pastore di capre, Enrico. Anzi lo hanno scoperto le capre.

— Oh!... Questa è curiosa!...

— Tu dunque non conosci la storia del caffè?...

— No, signore.

— Ti dirò adunque che la scoperta dell'aromatico granello, diventato ora un articolo di prima necessità a mezza popolazione del nostro globo, risale a molti secoli.

Narrano gli Arabi, che un povero pastore di capre, disperato per non aver potuto sposare una sua cugina, per dimenticare il suo dolore, sonnecchiava tutto il giorno.

Una volta, svegliatosi prima del tempo, con sua grande sorpresa vide tutte le sue capre saltellare come se fossero impazzite. Si alzò per conoscere la causa di quella pazza allegria e vide alcune di esse occupate a mangiare delle bacche sferiche e scarlatte, quindi mettersi a saltellare e prendere parte alla danza generale.

Volle a sua volta assaggiarle e poco dopo sentì svanire la sonnolenza e sparire le sue malinconie.

Il giorno appresso cercò altre di quelle bacche e continuò così per molti giorni, diventando sempre più allegro.

Passato per di là un pellegrino, sorpreso di vedere capre e pastore a saltellare in compagnia, volle conoscere il motivo di quell'allegria e appagata la sua curiosità, fece un'ampia raccolta di quel caffè e lo portò nel suo romitaggio. Egli ne faceva uso prima delle preghiere, poichè il buon maomettano aveva l'abitudine di addormentarsi recitandole, mentre quelle bacche lo tenevano sveglio.

Fu il primo a torrefarle, poichè avendo pochi denti, gli riusciva difficile a spezzare i granelli. Ridottele poscia in polvere, provò a mescolare la profumata bacca all'acqua calda e ottenne il primo caffè.

Fatta conoscere la scoperta agli altri monaci, questi ne adottarono l'uso, il quale si estese poi anche in Europa per mezzo di pellegrini mussulmani.

— Ma fu adottato molto tardi in Europa?... — chiese Enrico.

— Verso il 1600, ma dapprima corse il pericolo di venire respinto ancora in Arabia.

— Forse che non piaceva allora?...

— Tutt'altro, ma essendo prima stato introdotto in Turchia, gli ulema o preti mussulmani cercarono di proibirlo, ritenendolo una bevanda eccitante, ma il sultano Solimano ebbe il buon senso di dare a loro torto e permise che si aprissero in Costantinopoli le cinquanta prime botteghe di caffè. Verso il 1650 si estese poi l'uso anche in Italia, Francia ed altri Stati.

— Si pagava caro allora?...

— Moltissimo: circa centoventi lire alla libbra.

— Avrei preferito comperare un barile di vino, — disse Enrico, ridendo. — E in queste isole della Sonda, è molto tempo che lo si coltiva?...

— Dal 1690, anno nel quale gli Olandesi lo piantarono nella loro splendida isola di Giava, diventata ora così celebre per le sue ricche piantagioni di caffè.

— Signor Albani, — disse il marinaio, arrestandosi dinanzi alla tettoia costruita dal mozzo. — Che ci siano delle altre piante preziose in questi dintorni?... Gli antichi coloni potrebbero averne trasportate e coltivate delle altre.

— È possibile, Enrico. Domani faremo una passeggiata in queste vicinanze. —

Essendo molto stanchi per quella lunga marcia, s'affrettarono a divorare alcuni biscotti intinti nel miele profumato delle api selvatiche, regalandone alcuni a Sciancatello, alle due scimmie ed agli orsi, poi si coricarono su di un soffice e fresco strato di foglie senza prendersi la cura di montare la guardia, sapendo che il mias non avrebbe lasciato avvicinarsi alcuno.

Ai primi albori, dopo una parca colazione, il signor Albani ed Enrico si mettevano in cammino per esplorare quella parte della foresta, mentre il mozzo rimaneva a guardia dei due orsi in compagnia dello Sciancatello e delle scimmie. Di passo in passo che si avanzavano lungo il margine della foresta, incontravano tracce sempre evidenti di coltivazione. Si vedevano dei solchi, ma appena tracciati, distrutti probabilmente dalle piogge o dalla invasione dei vegetali; dei tronchi atterrati ma ormai infraciditi ed ora ricettacolo di migliaia d'insetti; poi delle buche profonde, forse delle antiche trappole per gli animali della foresta, e anche molti grossi rami nettamente tagliati e accatastati con un certo ordine, come se fossero stati messi a seccare.

Forse su quei tratti sgombri, un tempo molte piante utilissime erano cresciute, ma i rotangs e le male erbe le avevano senza dubbio soffocate dopo l'abbandono dei coloni, crescendovi accanto o distendendovisi sopra.

Il signor Albani osservava tutto attentamente sperando di scoprire altre piante, ma invano. Ad un tratto però, in mezzo ad un caos di alte graminacee, di piante arrampicanti e di radici enormi, il suo sguardo acuto scoprì dei ciuffi di foglie scannellate, armate di piccole spine nerastre, verdi sopra e bianchiccie di sotto, sostenenti nel mezzo delle frutta ovali, lunghe quindici o sedici pollici e con un diametro di dieci, d'un bel colore giallo dorato.

— Degli ananassi! — esclamò, inoltrandosi e scostando le radici e le erbe.

— Deliziosi! — esclamò il marinaio, che altre volte ne aveva assaggiati. — Mi piacciono assai, signor Albani. Che siano nati da loro?...

— Sì, ma importati dai misteriosi coloni che dissodarono queste terre. Saranno diventati selvatici, ma trapiantandoli in altri terreni e curandoli, torneranno a diventare squisiti. —

Raccolse una di quelle belle frutta che esalavano un odore squisito e l'assaggiò. La polpa, che si fondeva in bocca, era assai gustosa, ma così aspra da far sanguinare le gengive come quella degli ananassi bianchi dell'India.

— Coltivate nel nostro campicello, diventeranno migliori, — disse il veneziano. — Quando sarà giunto il momento di piantarle, verremo qui a prenderle. —

Raccolsero le frutta mature, e proseguirono l'esplorazione piegando verso la spiaggia, la quale era sempre coronata da rupi altissime, sulle quali nidificavano centinaia di rondini marine.

Stavano per intraprendere la scalata d'una di quelle rocce per dare uno sguardo al mare ed alla costa, quando al marinaio parve di vedere una piccola apertura tenebrosa, semicoperta da un ammasso di piante arrampicanti che si erano abbarbicate tenacemente ai crepacci.

— Una caverna? — si chiese egli, arrestandosi.

— Sarebbe una bella scoperta, — disse Albani.

— E perchè, signore?...

— Potrebbe servirci da magazzino ed in caso di pericolo anche di rifugio.

— Infatti non siamo lontani dalla nostra capanna aerea. Non vi sono che mille duecento o milletrecento metri. Ho veduto or ora il tetto della nostra dimora.

— Non credevo che fosse così vicina. Andiamo a esaminare la caverna.

— Ci vorrà un lume, signore.

— Ecco là un albero gommifero che ci procurerà una buona torcia, — disse il veneziano, indicando una isonandra gutta.

Il marinaio andò a tagliare alcuni rami, ne accese uno, poi spostò la cortina di piante arrampicanti e s'inoltrò in quell'apertura che pareva si allungasse assai entro la grande rupe.

Un odore strano, come di sterco, colpì l'olfatto dei due naufraghi, ma sporgendo innanzi la torcia per la tema di cadere in qualche crepaccio, tirarono innanzi bensì con una certa diffidenza.

Dinanzi a loro s'apriva un corridoio stretto, alto un metro e mezzo, il quale scendeva dolcemente, descrivendo una curva lievemente accentuata. Era però assai asciutto e non si vedevano nè stalagmiti, nè stalattiti, l'assenza dei quali indicava come non regnasse là dentro l'umidità.

Percorsi dieci passi, si trovarono improvvisamente dinanzi ad una grotta circolare, colla vôlta assai alta ed il suolo sparso d'una sabbia finissima e bianchissima e anche questa perfettamente asciutta.

Stavano per continuare l'esplorazione, avendo scorto all'estremità un antro che pareva formasse un secondo corridoio, quando videro irrompere di là un nuvolo di quegli enormi pipistrelli che i Malesi chiamano kulang ed i naturalisti pteropus eduli.

Ebbero appena il tempo di gettarsi da una parte e di abbassare la torcia. Quei brutti volatili attraversarono la grotta sbattendo vivamente le loro enormi ali membranose, provocando una rapida corrente d'aria, e fuggirono pel corridoio che conduceva all'esterno.

— Al diavolo quei ributtanti pipistrelli!... — esclamò il marinaio. — Che ve ne siano degli altri?...

— Non lo credo, — rispose Albani. — Andiamo innanzi, Enrico. —

Il marinaio ed il suo compagno entrarono nel secondo corridoio, che era basso e stretto come il primo, ma che scendeva più rapido, e si trovarono in una seconda caverna pure circolare ma più ampia della prima, poichè misurava una circonferenza di almeno quaranta metri.

Quella caverna doveva trovarsi quasi a livello del mare, poichè si udivano là dentro dei fragori prolungati, prodotti senza dubbio dalle ondate che si rompevano ai piedi della rupe.

— Vi è un foro lassù, — disse il marinaio, indicando una apertura irregolare, grande come una moneta da cinque lire, per la quale penetrava un po' di luce. — Andiamo a vedere se si scorge il mare. —

Si era avvicinato alla parete per salire su alcuni massi accatastati sotto quel pertugio, quando Albani lo vide arrestarsi bruscamente, poi indietreggiare vivamente, esclamando:

— Terremoti e tuoni!... Un cadavere!... —

Capitolo XVIII Il serpente dagli occhiali

Il signor Albani, udendo quell'esclamazione, si era spinto innanzi colla più viva curiosità.

Là, accanto alla parete, disteso su di un letto di foglie secche, giaceva infatti un cadavere interamente nudo, ma ridotto allo stato di mummia.

Era un uomo di statura bassa, membruto, col petto largo, colla faccia quasi quadra, ossuta, col naso schiacciato, la bocca larghissima che mostrava dei denti acuti, ma che invece di essere bianchi erano neri come quelli dei popoli che usano masticare il betel.

La sua pelle era d'un colore rosso mattone, ma con delle sfumature olivastre.

Accanto a quella mummia si vedeva uno di quei pugnali lunghi un piede, colla lama serpeggiante, d'un acciaio finissimo, usato dai Malesi, i quali dànno a tali armi il nome di kriss, ed una cerbottana, ma spezzata a metà.

— Un Malese!... — esclamò il veneziano. — Che sia uno dei coloni che dissodarono parte della foresta e che piantarono il caffè?...

— Ma quest'uomo deve essere morto da molto tempo, — osservò il marinaio, il quale però si teneva ad una rispettosa distanza.

— Forse da parecchi lustri.

— Ma come si è così ben conservato?...

— Questa caverna è asciuttissima, poco arieggiata e molto fresca ed il cadavere non si è imputridito, ma lentamente disseccato.

— Che questo povero diavolo, sia stato ucciso?...

— Non vedo alcuna ferita sul suo corpo, Enrico.

— Avete ancora l'idea di utilizzare questa tomba?...

— Questa tomba, come tu la chiami, sarà una magnifica cantina per conservare i nostri viveri. Seppelliremo la mummia, se ti dà fastidio, e poi trasporteremo le nostre ricchezze.

— Quel morto mi fa un certo senso, signor Albani!

— Bah!... Usciamo e andiamo a trovare Piccolo Tonno. —

Fecero il giro della caverna per vedere se vi erano altre mummie, raccolsero il kriss, arma preziosa per loro che non possedevano che una scure e due coltelli ormai rovinati, ed entrarono nella seconda. Stavano per uscire dal corridoio, quando il marinaio s'arrestò di colpo, emettendo un urlo di dolore.

— Enrico!... — esclamò il veneziano, balzando innanzi col kriss in pugno.

— Qui.... aiuto!... Mi morde!... — urlò il genovese, con voce rauca.

Il signor Albani abbassò gli sguardi e impallidì spaventosamente. Un serpente, lanciatosi fuori dalle piante arrampicanti che ostruivano l'ingresso della caverna, aveva conficcati i suoi denti velenosi nel polpaccio della gamba sinistra del disgraziato marinaio.

Quel rettile traditore era grosso come una bottiglia nera, lungo poco più di due metri, col corpo coperto di squame bruno-giallastre, scintillanti come scagliette d'oro e con due cerchi biancastri situati dietro alla testa e che raffiguravano perfettamente un paio di occhiali.

Il veneziano, senza badare al tremendo pericolo a cui si esponeva, si era precipitato innanzi. Aveva riconosciuto in quel rettile, il terribile serpente dagli occhiali, il cui morso ben di rado perdona.

Il mostro, vedendo quel nuovo nemico, aveva lasciato il marinaio e si era rizzato sulle sue anella dilatando enormemente la sua gola, potendo, a volontà, aprire le sue due prime costole.

Pronto come il lampo Albani tese il braccio e con un solo colpo lo decapitò, poi balzando sopra il corpo che si contorceva rabbiosamente, ricevette fra le braccia il marinaio. Senza perdere un istante lo adagiò su di un cumulo di foglie secche, gli rimboccò i calzoni mettendo a nudo il polpaccio, lacerò un fazzoletto, l'unico che possedeva, e legò strettamente la gamba. Ciò fatto, senza pensare che poteva avvelenarsi, applicò le labbra alla ferita, nel luogo ove scorgevansi due leggieri puntini sanguinosi e aspirò fortemente, sputando a più riprese.

Il marinaio, semi-svenuto, pareva che non vedesse nulla. Pallido come un cadavere, coi lineamenti alterati, gli occhi vitrei, la fronte coperta di sudore che doveva essere freddo, respirava affannosamente, con grande stento.

Il signor Albani non era meno pallido del marinaio, nè meno alterato. Anche la sua fronte era bagnata d'un sudore freddo, ma operava senza perdere un istante. Egli non ignorava le terribili proprietà del veleno del serpente dagli occhiali chiamato anche cobra-capello; sapeva che iniettato in certa quantità, produce la morte in meno di un quarto d'ora.

Egli tentava tutte le risorse suggeritegli dall'esperienza, ma aveva ben poca fiducia di riuscire a salvare il disgraziato compagno. Solo un miracolo poteva strapparlo alla morte.

Succhiata la ferita, mezzo eroico ma pericolosissimo, poichè poteva bastare una ferita impercettibile alle labbra o alle gengive per avvelenare il generoso uomo, impugnato il coltello aveva fatto sul polpaccio morsicato una profonda incisione in forma di croce.

Colle dita allargò il taglio facendo, con un'energica pressione, schizzare fuori il sangue, poi raccolta la torcia che era ancora accesa e la cui punta era ormai un carbone ardente, l'applicò sull'incisione.

Il marinaio, sentendosi bruciare la viva carne, trabalzò come fosse stato toccato da una scarica elettrica di grande potenza, urlando con voce rotta:

— Cosa.... fate.... signore!...

— Calmati, Enrico, cerco di salvarti, — rispose Albani con voce commossa.

— Mi.... calcinate.... le carni.... signore....

— È necessario, amico mio. —

Il marinaio si dibatteva, ma il veneziano lo teneva come inchiodato colla sua destra, mentre colla sinistra continuava a bruciare le carni.

— Terremoto.... basta! — urlò il marinaio.

— Sì, basta, — rispose l'Albani, ritirando la torcia.

— Soffro.... mi pare che il cuore mi si geli.... Signor Albani.... è finita.... Ed eravamo.... così felici!... L'avete almeno.... ucciso?...

— Sì, — rispose il veneziano, tergendosi rapidamente due lagrime che gli rotolavano per le gote.

— Signore.... ho la testa che mi.... gira.... Mi pare che.... il cervello bruci.... E Piccolo Tonno?... Voglio.... vederlo.... voglio.... —

Non potè finire. Le forze improvvisamente lo abbandonarono e ricadde indietro cogli occhi stravolti, coi lineamenti alterati. Solamente il suo corpo, di quando in quando, provava dei sussulti e dalle labbra gli usciva un sibilo precipitato.

Il signor Albani lo guardava con due occhi smarriti come se temesse, da un istante all'altro, di vedere il disgraziato compagno morirgli dinanzi.

Un grido lo strappò da quella muta disperazione. Piccolo Tonno era improvvisamente comparso sul margine della foresta.

— Gran Dio!... — esclamò il mozzo. — Cosa è accaduto, signor Albani?... Enrico!...

— Taci, — gli disse il veneziano.

— Ditemi cosa è accaduto, signore.

— E stato morso da un serpente.

— E muore?...

— Non disperiamo, ragazzo mio, — disse Albani, frenando le lagrime.

— Ah!... Salvatelo, signor Albani!... — esclamò il mozzo, scoppiando in singhiozzi. — Voi che sapete tante cose, potete strapparlo alla morte.

— Ho fatto tutto ciò che potevo.

— Avete qualche speranza?...

— Forse.

— Ma ditemi....

— Taci, Piccolo Tonno. Va a cercarmi dell'acqua.

— Ho la mia fiasca piena. Prendete, signore. —

Albani prese la fiasca che il ragazzo gli porgeva e lavò il sangue che continuava a sgorgare dalla ferita, poi vedendo che il polpaccio del marinaio si era notevolmente gonfiato, slegò il fazzoletto e lo annodò più sopra per evitare la perdita del membro offeso.

Enrico pareva sempre svenuto. Però a poco a poco il suo pallore acquistava una tinta meno sbiadita e la sua respirazione, dapprima affannosa, accennava a diventare più tranquilla, più regolare.

Albani gli tastò il polso e s'accorse che non era più agitato. Una viva commozione gli si dipinse sul viso.

— Piccolo Tonno, — disse al mozzo, che continuava a singhiozzare. — Sta per compiersi un miracolo che pochi minuti or sono non speravo.

— Riuscirete a salvare Enrico?...

— Comincio a sperarlo.

— Non era adunque velenoso quel serpente?...

— Anzi dei più velenosi, poichè i cobra-capello o serpenti dagli occhiali uccidono l'uomo più robusto in un quarto d'ora e quasi mai si possono salvare le persone morsicate.

— Ma siete certo che non morrà?...

— Il quarto d'ora è già trascorso ed Enrico è ancora vivo, anzi pare che migliori. Guardalo: ora dorme. —

Infatti il marinaio era caduto in un profondo letargo, ma i colori gli erano tornati sul viso e la sua respirazione diventava sempre più regolare. Come era sfuggito alla morte?... Quale miracolo si era compiuto?... Albani, è vero, aveva operato rapidamente tentando tutti i mezzi conosciuti, ma non sempre efficaci, specialmente contro i morsi di quei terribili serpenti del tropico, che secernono un veleno dieci volte più potente di quello delle nostre vipere.

Forse i calzoni di tela grossa del marinaio avevano assorbito gran parte del mortale liquido, nel momento che i denti del rettile li attraversavano o forse il rettile aveva esaurita poco prima la sua riserva.

— Va' a vedere sotto quelle piante arrampicanti, — disse Albani al mozzo. — Voglio trovare la causa di questa guarigione miracolosa. Il cobra è uscito di là, nel momento che Enrico passava.

— Cosa sperate che io trovi? — chiese il mozzo, sorpreso. — Qualche rimedio forse?

— No, ma forse la certezza che Enrico non morrà. —

Piccolo Tonno s'armò d'un grosso ramo d'albero e si cacciò fra le piante, che scendevano lungo le pareti della grande rupe come una fitta cortina. Poco dopo ritornava, trascinando per la coda uno di quei grossi scoiattoli volanti chiamati pteromys.

— Signor Albani, — disse, — ho trovato questo animale che potrà servirci da pranzo. Mi pare che sia stato ucciso di recente.

— Da' qui, ragazzo mio, — rispose il veneziano, raggiante. Afferrò il pteromys e s'accorse che era ancora leggiermente tiepido, segno evidente che era stato ucciso da forse mezz'ora.

Esaminatolo, vide subito su di un fianco due profondi fori, regolarissimi, dai quali uscivano ancora poche goccie di sangue.

— Ecco chi ha salvato Enrico!... — esclamò con gioia.

— Come!... Questo scoiattolo ha salvato il nostro compagno? — chiese Piccolo Tonno, sempre più stupito.

— Sì, ragazzo mio. Il cobra, pochi istanti prima che noi uscissimo dalla caverna, aveva sorpreso questo animale scaricando su di lui tutta la sua provvista di veleno, sicchè quando ha morso Enrico era divenuto se non del tutto inoffensivo, poco pericoloso. Rallegriamoci, Piccolo Tonno: Enrico guarirà e forse molto presto. Le mie cure pronte hanno bastato per strapparlo alla morte.

— Infatti Enrico ora dorme tranquillo, signore.

— E lo lasceremo dormire. Metteremo qui il nostro campo per ora.

— Volete che mi rechi alla capanna?

— Sì, Piccolo Tonno. Andrai a prendere un pezzo di vela per riparare Enrico dal sole, delle provvigioni e torcerai il collo ad un paio di tucani per preparare del brodo al nostro ammalato.

— E condurrò gli orsi nel recinto. —

Il ragazzo partì correndo verso il luogo ove aveva lasciato le scimmie e gli orsi ed il signor Albani si sedette accanto al marinaio, attendendo ansiosamente che si svegliasse.

Ormai era certo della guarigione di lui, poichè solamente una parte infinitamente piccola di veleno doveva essergli stata iniettata. Il genovese aveva riacquistato il colore primitivo, un bel bruno leggermente dorato, aveva il polso regolare, la respirazione libera, naturale, ed erano scomparsi i brividi ed anche il freddo sudore che inondavagli la fronte.

Quel riposo, che si prolungava, doveva produrgli un notevole miglioramento e rimetterlo in forze.

Un'ora dopo Piccolo Tonno era di ritorno accompagnato da Sciancatello e dalle due scimmie cariche di provviste. Aveva condotti i due orsi nel recinto, aveva fatta una visita alla capanna aerea che aveva ritrovata nel medesimo stato in cui l'avevano lasciata ed al magazzino dei viveri ed aveva torto il collo ai due più grossi tucani.

Fu rizzata la tenda per proteggere il marinaio dal sole, poi accesero il fuoco e misero a bollire il volatile più grasso per preparare una buona zuppa al povero ammalato.

Ciò fatto, sedutisi all'ombra, attesero pazientemente che il compagno si svegliasse.

Capitolo XIX I babirussa

Il sonno del marinaio si prolungò fino a mezzodì, sempre tranquillo, regolare.

Quando aprì gli occhi, il bravo genovese parve stupito di trovarsi coricato sotto quella tenda improvvisata, fra i suoi due compagni e lo Sciancatello che si era accoccolato ai suoi piedi, come se avesse indovinato che il suo amico era ammalato.

— Cosa fate qui? — chiese, guardando ora il signor Albani ed ora il mozzo, che lo osservavano sorridendo.

Poi si rammentò subito di quanto era avvenuto.

— Ma non sono morto!... — esclamò. — Ah!... Signor Albani, vi devo la vita!... Mio Piccolo Tonno, io non speravo di vederti ancora!

— Come stai? — chiese il veneziano, stringendogli affettuosamente la mano che gli veniva sporta.

— Sono debole, assai debole, signore, e mi pare di aver la testa vuota, ma mi sento vivo e ciò mi basta, lo potete credere, — disse il marinaio, sorridendo. — Provo ancora dei dolori acuti alla gamba ferita, ma bah! cesseranno. Terremoto!... Mi avete proprio calcinate le carni.

— Era necessario, Enrico; se non agivo così, correvi il pericolo di morire in capo ad un quarto d'ora.

— Piuttosto di abbandonare voi, avrei preferito perdere entrambe le gambe.

— Basta, — disse Albani, vedendo che il marinaio faceva degli sforzi crescenti per terminare le parole. — Manda giù questa tazza di brodo e poi torna a chiudere gli occhi. Il riposo ti farà molto bene.

— Lo credo anch'io, signore. Mi sento invadere da una nuova sonnolenza irresistibile. —

Vuotò la tazza di brodo, poi ingollò alcuni sorsi di tuwak, quindi tornò a coricarsi. Pochi minuti dopo s'addormentava ma non era un assopimento, era un vero sonno.

Durante l'intera giornata il signor Albani ed il mozzo, vegliarono accanto al ferito in compagnia di Sciancatello il quale, vedendo il suo amico coricato, di tratto in tratto rompeva in gemiti lamentevoli.

Verso il tramonto, il marinaio, che si sentiva meno debole ed in appetito, mangiò una coscia di tucano e stritolò un biscotto, innaffiando la cena con una nuova e più abbondante sorsata di tuwak.

I suoi compagni erano contentissimi di quella rapida e veramente prodigiosa guarigione. Lo stesso marinaio, che al mattino si credeva già spacciato, era meravigliato.

— Quasi si potrebbe credere che i serpenti dagli occhiali non sono così velenosi come raccontano i viaggiatori, — diss'egli. — Dovevo morire in un quarto d'ora ed invece sono più vivo di prima.

— Puoi ringraziare quel povero scoiattolo, che ha ricevuto prima di te la provvista di veleno del rettile, — disse Albani. — Senza quel fortunato caso, saresti morto.

— Malgrado le vostre cure?...

— Sono mezzi che riescono contro i morsi delle vipere, ma assai di rado contro quelli dei cobra-capello o dei serpenti del minuto o dei sonagli.

— Ma dove hanno il loro magazzino di veleno, quei dannati rettili?... Nei denti forse?...

— In una glandola situata nella mascella superiore. Basta una leggiera pressione perchè il liquido mortale esca e scenda attraverso i denti per mezzo di due appositi canaletti.

— E si muore sempre?...

— Sempre proprio no, poichè dipende dalla maggiore o minor quantità di veleno iniettato nella ferita. Una piccola dose può cagionare solo una breve malattia, o dei gravi disturbi che possono, dopo un dato tempo, produrre la morte. Certi altri serpenti, pure velenosi, producono sovente delle malattie assai strane, ma senza uccidere. Sono gonfiezze dolorose, che si riproducono tutti gli anni nell'epoca istessa in cui seguì il morso, eruzioni di vesciche che durano parecchi mesi e che continuano a ripetersi ogni anno, causando alle vittime dolori di capo, debolezze e oppressioni di cuore.

— E quando si riceve tutta la scarica di veleno, si muore presto?...

— Ecco: il minute-snake o serpente del minuto, che è uno dei più piccoli, essendo lungo appena venti centimetri, uccide ordinariamente in novantasei secondi; il cobra-capello, come ti dissi, in un quarto d'ora; i serpenti a sonagli pure in quindici minuti ma talvolta in due soli; il serpente di Giava in cinque minuti, ma alcuni uomini vissero pure dieci e perfino sedici giorni; la vipera europea può uccidere un bambino in un'ora ma un adulto vive anche alcune settimane.

— È vero, signore, che il veleno si può bere impunemente?...

— Qualche volta sì, specialmente quando lo stomaco non ha compiuta la digestione, ma è sempre pericolosissimo, poichè se si mescola al sangue per mezzo di qualche piccola escoriazione, l'uomo è perduto.

E poi, non tutti i veleni si possono inghiottire. Ve ne sono alcuni, che sono così potenti, che basta bagnarsi un dito per venire presi da leggieri sintomi di avvelenamento. Specialmente quello dei rettili tropicali, può venire assorbito dai pori della pelle. Ma basta coi serpenti, amico mio; torna a coricarti e domani, se ti potrai reggere, faremo ritorno alla nostra capanna aerea.

— Zoppicando, ma ci verrò, signor Albani. Mi pare che sia trascorso un mese dalla nostra partenza.

— A domani dunque. —

Piccolo Tonno aveva acceso il fuoco per tenere lontane le fiere, avendo scorte sui margini di quella foresta delle orme che potevano essere state fatte dalle tigri, e si era seduto fuori della tenda assieme al mias, per fare il suo primo quarto.

Il signor Albani si coricò presso al marinaio che cominciava già a russare, quantunque avesse dormito quasi tutta la giornata.

Durante la notte vi fu un allarme, nell'ultimo quarto di guardia, essendo state scorte delle grosse ombre vagare presso il margine del bosco, ma senza conseguenze, poichè bastò la presenza del mias per fugarle.

Quando Enrico si svegliò, pareva ormai perfettamente guarito. Solamente la gamba era un po' gonfia e la piaga prodotta dalla bruciatura gli produceva dei dolori acuti.

Nondimeno volle partire, desiderando ardentemente di rivedere la capanna e sopratutto il fornello per preparare le famose ciambelle.

Lo Sciancatello ed il mozzo si caricarono della tenda, delle armi e dei viveri, ed Enrico, appoggiatosi al braccio del veneziano, diede coraggiosamente il segnale della partenza. Zoppicava assai e di tratto in tratto impallidiva per gli spasimi che soffriva, pure non emetteva alcun gemito.

Arrestandosi ogni due o trecento passi per concedere al ferito un po' di riposo, verso le nove giungevano a cinquecento passi dalla capanna aerea, attorno alla quale svolazzavano, gridando e cinguettando, bande di pappagalli colle penne variopinte e stormi di rondini marine.

Si erano arrestati per concedere ad Enrico un ultimo riposo, quando scorsero le loro due scimmie scendere a precipizio i pali di sostegno della capanna e arrestarsi presso una buca, che era stata scavata sul margine della piantagione di bambù per prendere la grossa selvaggina.

....... il ragazzo si permise il lusso d'una trottata, in compagnia delle due scimmie e dello Sciancatello.... (Pag.138 ).

I due quadrumani parevano in preda ad una viva agitazione; gridavano, saltellavano attorno alla buca e alzavano e dimenavano le loro lunghe e pelose braccia.

— Cosa succede laggiù? — chiese il mozzo. — Che le nostre scimmie vogliano fare un capitombolo nelle trappole?

— O che qualche loro compagna sia caduta entro?

— Non si troverebbe imbarazzata a uscire, — rispose il veneziano.

— Ma urlano proprio sui margini di una delle buche che abbiamo scavate per la grossa selvaggina, signor Albani, — disse il mozzo.

— Sarà caduto qualche animale. Affrettiamoci, amici, e preparate le cerbottane, poichè potrebbe essere qualche tigre. —

Allungarono il passo sorreggendo il marinaio ed in pochi minuti giunsero sull'orlo della buca. Come il veneziano aveva preveduto, lo strato di leggiere canne che copriva la trappola aveva ceduto sotto il peso d'un grosso animale, il quale ora si trovava prigioniero in fondo all'escavazione.

Era grande come un cervo ma somigliava, per le forme, ad un maiale, quantunque avesse le gambe molto più alte e più sottili. Aveva però il collo egualmente grosso, il grugno sporgente ma armato di due denti ricurvi e solidi, che partendo dalla mascella superiore salivano fino agli occhi. Il suo pelo era invece cinereo-rossiccio, corto e lanoso.

— Cos'è? — chiesero il marinaio ed il mozzo.

— Un babirussa — rispose Albani, — un animale che appartiene all'ordine dei pachidermi moltungulati ma che forma un genere particolare della famiglia dei porci.

— È buona la sua carne? — chiese il marinaio.

— Somiglia a quella del porco.

— Guardate, signore! — esclamò in quell'istante il mozzo. — Vi sono anche due piccini.

— Buono! — disse il veneziano. — Ecco che il nostro recinto comincia a popolarsi: due orsi, tre scimmie, tre babirussa ed una uccelliera discretamente fornita!... In tre settimane abbiamo ottenuto più di quanto potevamo sperare ed il vitto è ormai assicurato. Alla capanna, Piccolo Tonno; festeggieremo il lieto avvenimento e la guarigione del nostro bravo Enrico con un banchetto.

— Ed io vi offrirò delle ciambelle, — disse il marinaio. — Sciancatello!... Spero che avrai risparmiato il mio miele.... —

Capitolo XX Nuove scoperte

Quantunque l'abbondanza cominciasse già a regnare nella capanna, possedendo ormai una grossa provvista di pane, un recinto fornito di selvaggina piccola e grossa, delle armi per procurarsene dell'altra, dei liquori e dello zucchero estratto dalle arenghe saccarifere, ecc., i naufraghi, da persone previdenti, non s'arrestarono.

Il veneziano voleva dotare quella microscopica colonia di ben altre cose che ancora difettavano e assicurare, in caso di carestia, dei viveri sufficienti a nutrirla per lungo tempo.

Non avendo pel momento alcuna premura di visitare l'isola per accertarsi se era abitata o deserta, non potendo fabbricarsi una scialuppa, se prima non trovavano delle pietre adatte per arrotare la scure che era ormai ridotta in uno stato miserando, appena il marinaio si trovò in grado di camminare da solo, si dedicarono a diversi lavori ritenuti urgenti.

Allargarono innanzi a tutto il recinto per separare gli animali, ingrandirono l'uccelliera, essendo aumentato considerevolmente il numero degli uccelli, avendo il mozzo raddoppiata la produzione del vischio estratto dalla giunta wan; poi si misero a dissodare un bel tratto di terreno per piantare le patate dolci che avevano religiosamente conservate.

Furono i due marinai che si occuparono delle coltivazioni. Il signor Albani invece si occupava a scorazzare le foreste in compagnia dello Sciancatello, per cercare nuove e utili piante, che potevano essere di grande giovamento alla piccola colonia.

Le sue escursioni non erano improduttive, poichè tutte le sere ritornava alla capanna o con delle pianticelle, che si affrettava a piantare nel terreno dissodato, o con delle nuove frutta.

Aveva già scoperte altre patate dolci, certe specie di cipolle squisite, dei tuberi che somigliavano alle rape ed aveva portate parecchie frutta d'artocarpo e di più specie: delle buâ mangha (artocarpus integrifolia) che sono di dimensioni enormi pesando perfino sessanta chilogrammi; delle buâ champandak, varietà più piccola, ma più dolce e più delicata, e dei tambul (artocarpus incisa o albero del pane).

Il bravo veneziano aveva fatto servire quella polpa giallastra cucinata nel forno, in pentola e sui carboni e l'aveva perfino adoperata, con molto successo, nella preparazione di certi pasticci, ma una parte l'aveva messa in serbo seppellendola entro buche scavate in terra, dopo d'averla avvolta entro foglie di banani.

Così conservata, quella polpa diventava leggiermente acida dopo un certo tempo, ma non disaggradevole e serviva a variare il solito pane.

Non era però ancora contento il brav'uomo. Mentre i suoi compagni, terminato il dissodamento del campicello si occupavano a scavare una profonda buca presso la sponda, volendo arricchirsi anche d'un vivaio di pesci, continuava a percorrere con accanimento le foreste per cercare degli alberi che riteneva indispensabili.

Un giorno finalmente, i due marinai lo videro tornare al campo raggiante di gioia. Recava una specie di palla grossa come la testa d'un fanciullo, coperta da filamenti duri e rossicci.

— Cosa ci recate, signore? — chiese il marinaio.

— Ciò che cercavo con tanto accanimento, — rispose il veneziano. — Ero certo di trovarla su quest'isola.

— Mi pare che sia una noce di cocco, se non m'inganno.

— Sì, è una noce di cocco, Enrico. Ho scoperto una cinquantina di piante.

— Ma.... signore, — disse il marinaio con aria imbarazzata. — Non so davvero il perchè vi siete tanto affannato a cercare le noci di cocco. Contengono della deliziosa acqua zuccherata e una polpa che si mangia volentieri, ma nella foresta ci sono delle frutta migliori.

— T'inganni, Enrico. Dimmi, marinaio, non ti piacerebbe aver a tavola un bicchiere di buon vino bianco?...

— Certo, signore, e mi sorprende che mi domandiate se sarei contento. È un bel pezzo che non bevo un po' di succo di quel grand'uomo di Noè.

— E un piatto di cipolle condite coll'olio?...

— Terremoti di Genova!... Un piatto di cipolle all'olio!... Rinuncierei alle ciambelle!...

— E un buon bicchiere di latte!...

— Lampi!...

— E un liquore che somiglia all'acquavite?

— Tuoni!...

— E una bella rete per pescare? O delle soffici stuoie per dormire?

— Corna di cervo!...

— Ebbene, amico mio, queste noci di cocco possono darci tuttociò. —

Il marinaio guardò il signor Albani con due occhi che pareva gli volessero uscire dalle orbite.

— Scherzate? — chiese.

— No, Enrico: le piante delle noci di cocco sono preziose quanto i bambù e forse più ancora. Se hai sete, prendi una noce ancora acerba e troverai dentro dell'acqua fresca e zuccherata. Vuoi dell'olio?... Non hai che da spremere la polpa d'una noce matura, ma non bisogna lasciarlo diventare rancido, poichè allora acquista un gusto sgradevole pei palati degli europei, mentre è un pregio di più per quello dei Malesi. Se vuoi del latte basta mescolare la polpa all'acqua. Se vuoi del vino bianco, si espone il liquido al sole, si lascia fermentare ed ecco fatto. Se poi vuoi dell'acquavite, non hai altro che filtrare il latte attraverso un panno e lasciarlo fermentare per un certo numero di giorni.

— Ma le reti?

— Le giovani fronde posseggono dei filamenti sottili ma resistenti, che si possono adoperare come filo. Gran numero di popoli se ne servono per fabbricare delle bellissime reti, mentre coi filamenti che avvolgono le frutta tessono delle stuoie, fanno delle corde e anche della tela un po' grossolana bensì, ma resistente.

— Allora il nostro vivaio è assicurato, signor Albani, — disse il marinaio, che pareva volesse scoppiare dalla contentezza. — Delle reti!... Ma io so intrecciarle e prenderò tanti pesci da riempire cento buche!... Ehi!... Piccolo Tonno!... Manda un evviva o io faccio quattro salti mortali e mi rompo il collo. —

Ad un tratto s'interruppe bruscamente, si grattò la testa più volte con aria imbarazzata, poi avvicinandosi al signor Albani, disse:

— Ascoltatemi, signore.... Voi che sapete trovare mille cose utili per noi, non potreste cercare se in quest'isola cresce qualche pianta di tabacco?... Per Bacco!... È un mese che non tiro una boccata di fumo, nè che metto sotto i denti una misera cicca.

— Tu mi domandi una cosa veramente impossibile, — disse il veneziano. — Su queste isole il tabacco non cresce allo stato selvaggio, ma si può trovare da surrogare la cicca.

— Con che cosa, signore? — chiese il marinaio, guardandolo con occhi ardenti.

— Sai cosa masticano i Malesi?...

— Il siri.

— Hai mai provato a masticarlo?...

— Mai, signore.

— Eppure non è cattivo e quantunque annerisca i denti è molto meno velenoso del tabacco. Tutti i popoli della Malesia, dell'Indo-Cina e anche dell'India meridionale lo usano. Vuoi provarlo?...

— Ma sapete prepararlo?... Ah!... Se potessi averne, vorrei provare.

— Allora seguimi. Dedicheremo questa mezza giornata a preparare il siri. —

Il veneziano condusse il marinaio, il quale era ormai perfettamente guarito, nella foresta e si arrestò sotto una bella palma colle foglie disposte a ventaglio, dal cui centro pendevano dei grappoli di noci di colore oscuro.

— Cos'è questa pianta? — chiese il marinaio.

— Una palma pinang e quelle noci sono le areca adoperate nella composizione del siri. —

Abbracciò la palma e la scosse vigorosamente, facendo cadere una pioggia di noci già ben mature.

Stava raccogliendole, quando girando gli sguardi scorse un arbusto arrampicante avviticchiato ad una giovane pianta gommifera.

— To'! — esclamò. — Senza tante ricerche abbiamo già sottomano le foglie aromatiche del betel.

— Dove sono? — chiese il marinaio.

— Va a raccogliere alcune foglie di quella pianta arrampicante. Ora non ci occorre che un po' di succo amaro e astringente del gambir. Se ben ricordo, devo aver veduto delle piante presso quella macchia di alberi e....

— Che cosa?... —

Il veneziano non rispose: colla testa alzata guardava con vivo interesse alcune piante di alto fusto e d'aspetto maestoso, che prima non aveva vedute.

— Ebbene, signore? — chiese il marinaio, sorpreso di non ricevere risposta.

— Enrico, abbiamo fatto un'altra scoperta straordinaria, — disse Albani. — Ora non ci mancheranno più nemmeno le candele.

— Le candele!...

— Sì, Enrico. La stagione delle pioggie non è lontana e mi crucciavo, pensando che saremmo stati costretti a passare delle serate piuttosto lunghe senza un po' di luce.

— Ma dove vedete queste candele?... Avete scoperto un altro alveare?...

— Meglio ancora: degli alberi che producono la cera.

— Corna di rinoceronte!... Anche degli alberi che dànno le candele!... Ma adunque anche in un'isola deserta si possono procurarsi tutti gli agi della vita, quando si è sapienti come voi?

— Guarda quegli alberi. —

Il marinaio guardò nella direzione indicata e scorse un gruppo di piante colossali, alte più di quaranta metri, con un diametro di un metro e venti o trenta centimetri, coperte d'un ammasso di foglie verdi-cupe, in mezzo alle quali si scorgevano delle frutta che somigliavano alle prugne.

— Che giganti!... — esclamò il marinaio. — Come si chiamano?...

— Nell'Indo-Cina vengono chiamati cay-cay.

— Ma dov'è la cera?...

— Rinchiusa nelle frutta.

— Oh!... Questa è strana.

— Quando le frutta sono mature, e lo sono ora, si raccolgono e si mettono al sole fino a che la polpa si distrugga naturalmente e non rimanga che il nocciuolo.

Allora si spezzano e si raccolgono le mandorle le quali sono quelle che contengono la cera.

— Una cera simile a quella delle api?...

— Più grassa, poichè sembra burro indurito. Le mandorle dapprima si mettono in un mortaio di legno o di pietra, poi si schiacciano per bene finchè sono ridotte in pasta, quindi questo si scalda e si spreme facendo uscire la cera.

— E se ne ricava molta, da una mandorla?...

— In media ce ne vogliono cinquecento per averne un chilogramma.

— E brucia bene?...

— Benissimo, non fa odore e la sua fiamma è assai viva.

— Si mette anche in commercio quella cera?...

— Sì, Enrico. Si formano dei pani del peso di due o tre chilogrammi e si vendono a buon prezzo. La cera che si ottiene dapprima è giallastra, ma al contatto dell'aria a poco a poco si schiarisce e le candele che si fabbricano sono di bell'aspetto come le altre.

— Ma sapete, signor Albani, che è una cosa assai meravigliosa?... Io non avevo mai saputo che ci fossero degli alberi che potessero surrogare le api.

— Ve ne sono altri, specialmente nell'America del Sud, ma in quelle piante la cera si trova sotto le foglie in forma di sottili laminelle.

— Bisogna venire a raccogliere queste mandorle, signore?

— Sì, Enrico e dobbiamo andare a raccogliere anche le noci di cocco prima che maturino troppo.

— Ma come faremo a portare tante cose alla capanna?... Ci vorrebbero quindici giorni.

— Lo so e bisognerà costruire un ruotabile.

— Una carriuola?...

— Qualche cosa di meglio e di maggior capacità. Il babirussa comincia ad addomesticarsi e lo faremo servire da asino.

— Bell'idea, signor Albani. Ma.... e il nostro siri? Occorre altro per prepararlo?

— Mi dimenticavo l' uncaria. Andiamo a vedere laggiù in quel macchione. —

Si diressero verso il margine della boscaglia e dopo d'aver visitate accuratamente parecchie macchie, scoprirono finalmente la pianta desiderata.

Era un frutice sarmentoso coperto d'una corteccia bruno-rossastra, con rami cilindrici e foglie lanceolate munite di spine ricurve.

Il veneziano fece un'incisione e raccolse, in un pentolino di terra, il succo che scolava.

— Il siri sarà pronto per questa sera, — disse poi. — Basta ridurre in polvere le noci d'areca, mescolarle col succo dell' uncaria gambir concentrata e avvolgere la pasta in un pezzetto di foglia aromatica di betel. I Malesi, per rendere il siri più piccante, vi mescolano un pizzico di calce viva che ottengono abbruciando delle conchiglie, ma senza è preferibile.

Ecco le tue cicche, marinaio: spero che ti abituerai e che sarai contento. —

Capitolo XXI Una capsula in mezzo alla foresta

Avvicinandosi la stagione delle piogge, la quale in quelle regioni quasi equatoriali dura parecchie settimane e quasi senza interruzione, i naufraghi si misero alacremente al lavoro per intraprendere la costruzione di un carretto o di un ruotabile qualunque, per portare sollecitamente nei loro magazzini le nuove frutta scoperte.

Già, dopo il mezzodì, delle nuvole di colore nero, coi margini tinti di rame, si alzavano verso il sud roteando vorticosamente in aria e sciogliendosi poi in furiosi acquazzoni.

Prima però di cominciare la difficile costruzione, innalzarono parecchie tettoie, per riparare gli animali, e anche uno spazioso magazzino capace di contenere delle provviste per sei mesi.

Terminati quei lavori, che richiesero parecchi giorni, diedero mano alla costruzione del ruotabile servendosi di bambù grossissimi, non avendo una sega per ottenere delle tavole, e di grosse spine e di rotang per unire come meglio potevano i diversi pezzi.

Furono però costretti a interrompere più volte il lavoro per riparare i loro attrezzi. La scure ed i due coltelli, già mezzo rovinati, non tagliavano quasi più ed erano obbligati ad arrossarli al fuoco per ribattere il filo del metallo con delle grosse pietre.

Dopo quattro giorni la cassa era pronta, ma mancavano le ruote, nè sapevano come ottenerle con quegli arnesi così imperfetti.

Provarono a tagliare il tronco d'un albero ma il ferro della scure rimbalzava sulle fibre legnose, non avendo ormai più il filo.

Stavano per rinunciare, disperando ormai di riuscire, quando un giorno il mozzo, che si era spinto molto lontano lungo le sponde del mare per raccogliere gli uccelli che si lasciavano prendere sui rami coperti di vischio, fece una scoperta importante.

Su una costa aveva trovato delle vere pietre arenarie, di dimensioni non piccole. Ritornò precipitosamente alla capanna a portare la lieta notizia.

Si poteva ormai dire che anche la questione delle ruote era risolta. Il veneziano lasciò che il marinaio si occupasse del ruotabile e intraprese la costruzione d'una macchina da arrotino.

Confricando le pietre le une contro le altre e bagnandole, riuscì ad arrotondarne una. La montò su di una cassetta, costruì una manovella e finalmente riuscì ad arrotare la sua scure ed anche i coltelli dei marinai.

Quelle armi, maneggiate pazientemente, furono sufficienti per tagliare due pezzi d'un tronco d'albero ben rotondo, d'un diametro considerevole. S'intende che quelle ruote erano piene come quelle che vengono adoperate dai boers del Capo di Buona Speranza, ma in fatto di solidità potevano dare dei punti alle altre.

Il 1º ottobre i naufraghi, dopo d'aver fatta una bardatura di tela da vele doppiata, attaccarono il babirussa sotto il carretto. L'animale, quantunque ormai avesse perduta la sua selvatichezza, mercè le continue e assidue cure di Piccolo Tonno, dapprima si mostrò ricalcitrante, ma dopo parecchie prove finì coll'abituarsi ed il ragazzo si permise il lusso d'una trottata fino alla piantagione di bambù in compagnia delle due scimmie e dello Sciancatello il quale, con una gravità comica, impugnava fieramente una frusta regalatagli da Enrico.

La mattina dopo, essendosi il tempo rimesso al bello, i Robinson abbandonavano la loro casa per recarsi nelle foreste a raccogliere le noci di cocco e le mandorle dei cay-cay.

Lo Sciancatello li accompagnava, essendo incaricato di salire sugli alberi; le due scimmie invece, che ormai non pensavano più a riacquistare la libertà, erano state lasciate a guardia dei recinti.

Il babirussa procedeva bene; si era abituato facilmente alla bardatura e guidato dal mozzo, tirava senza sforzo apparente quel primitivo carrettone, quantunque dovesse essere non poco pesante.

Raggiunto il margine del bosco arrestarono l'animale, non potendo il veicolo entrare fra quegli alberi e lo Sciancatello, il marinaio ed il signor Albani si misero a raccogliere le mandorle dei cay-cay e le noci di cocco le cui piante non erano molto lontane.

Quelle frutta messe in sacchi di tela, venivano poi portate al margine del bosco e caricate sul veicolo.

Durante una di quelle gite, il marinaio fece una scoperta assai strana, che li preoccupò assai. Mentre si era curvato a terra per raccogliere il coltello che gli era caduto, i suoi sguardi erano stati attirati da un piccolo oggetto che scintillava fra alcune foglie disseccate.

Dapprima lo credette un pezzo di vetro o una scaglietta di mica, ma indovinate quale fu la sua sorpresa, nel riconoscere invece una capsula di fucile non ancora sparata!...

— Signor Emilio! — esclamò, con un'emozione che è facile immaginare. — Guardate!...

— Una capsula! — esclamò il veneziano, aggrottando la fronte. — Chi può averla perduta? —

La prese e si mise ad esaminarla girandola e rigirandola fra le dita e cercando, ma invano, qualche segno, qualche marca che potesse indicargli la provenienza o la fabbrica.

— Cosa dite, signore? — chiese il marinaio.

— Dico, — rispose Albani con voce grave, — che qualcuno si è spinto fin qui.

— Ma chi?...

— Udiamo: sei certo di non averne avuta una nelle tue tasche?...

— Certissimo, signore.

— E Piccolo Tonno?...

— Nemmeno, poichè il solo capitano aveva la chiave dell'armeria di bordo.

— Allora su quest'isola sono sbarcati degli uomini e sono venuti a ronzare sul margine del bosco.

— Ma chissà quanto tempo fa.

— No, Enrico, qualche giorno fa, poichè questa capsula è ancora lucente come se fosse appena levata dalla scatola. Se fosse stata smarrita da una settimana, l'umidità delle notti l'avrebbe ben presto ossidata.

— È vero, signore. Ma chi credete che siano gli uomini che l'hanno perduta?... Dei naufraghi forse?...

— Se fossero persone oneste sarebbero venuti a trovarci, poichè dal margine di questa foresta si distingue benissimo la nostra casa. Devono essere degli uomini che hanno interesse a tenersi nascosti.

— Ma chi? Dei pirati delle Sulu, forse?...

— Chi può dirlo? Quel fumo che io ho scorto dall'alto della montagna e quella luce, indicavano il loro accampamento, ora sono certo di non ingannarmi.

— Ma cosa vorranno quegli uomini?... Assalirci per saccheggiarci, forse?...

— Può darsi.

— Mi mettete delle inquietudini. Bisogna prendere una decisione, signore: non possiamo vivere sotto la minaccia di venire da un istante all'altro assaliti.

— Lo so e la decisione l'ho presa.

— E quale sarebbe?

— Costruirci un canotto e perlustrare tutte le coste. Se quegli uomini sono accampati verso il sud, scopriremo la loro capanna o la loro scialuppa.

— E abbandoneremo a loro la casa aerea ed i nostri raccolti?...

— Qualcuno di noi rimarrà a guardia, Enrico, e cercheremo intanto di fortificare la nostra piccola possessione. Spero, del resto, che quegli sconosciuti nulla intraprenderanno contro di noi durante la stagione delle piogge.

Non occupiamoci di loro per ora e pensiamo a riempire i nostri magazzini. —

Ripresero la raccolta delle noci e delle mandorle e quando il carretto fu ben carico, fecero ritorno alla loro abitazione.

Alla notte però, per prudenza, stabilirono i quarti di guardia. Non sapendo ancora chi erano quegli uomini sbarcati nell'isola, nè conoscendo le loro intenzioni, la più elementare prudenza li consigliava a vegliare.

Nessuna persona però, fu veduta ronzare nei dintorni dei recinti, nè quella notte, nè in quelle seguenti. Senza dubbio quegli sconosciuti non avevano più osato inoltrarsi in quella parte dell'isola e chissà, forse al pari dei naufraghi si tenevano lontani, temendo qualche brutta sorpresa.

Intanto il veneziano ed i suoi compagni continuavano a riempire i loro magazzini.

Tutti i giorni si recavano nella foresta e ritornavano col carretto carico di noci di cocco, di frutta d'artocarpo, di mandorle di cay-cay, di banani che poi mettevano in conserva nello sciroppo estratto dalle arenghe saccharifere e anche di nuova farina per rinnovare la loro provvista di pane.

Il veneziano aveva scoperte altre piante che ne davano di quella migliore e più abbondante. Aveva trovato, ai piedi della montagna, quei sagù che prima aveva cercato con tanta ostinazione ma con esito negativo.

Quegli alberi, che crescono dovunque nelle isole Indo-Malesi, anche allo stato selvaggio, non avendo bisogno di coltura, sono alti dai tre ai quattro metri, grossi uno e portano un ciuffo di grandi foglie.

Dopo sette anni si possono tagliare e allora dànno ognuno circa centocinquanta chilogrammi d'una fecola biancastra, simile alla farina che produce il frumento.

Quella fecola è racchiusa nel tronco, fra gl'interstizii di una densa rete di fibre. Tagliato l'albero in varii pezzi, con una mazza si fa uscire la polpa, la si passa allo staccio con un po' d'acqua e s'impasta formando dei pani.

Leggiermente torrefatta, può servire come minestra ed è eccellente.

Anche il succo che esce dal tronco inciso e che scola abbondantemente è buono, poichè offre una bevanda zuccherina, gratissima e salubre, ma ha l'inconveniente di fermentare rapidamente.

I Robinson fecero ampie provviste di quella fecola e una parte la abbrustolirono per prepararsi delle buone minestre. Il forno, in quei giorni, sotto la vigilanza del mozzo trasformato in panettiere, non stette un istante in riposo.

Quando i magazzini furono pieni, anche il veneziano ed il marinaio si misero al lavoro fabbricando candele colla cera delle mandorle, e trasformando l'acqua zuccherata e la polpa tenera dei cocchi in vino bianco ed in acquavite, che poi racchiudevano entro recipienti d'argilla cotta, perchè si conservassero a lungo.

Anche dell'olio ricavarono e poterono finalmente permettersi il lusso di mangiare qualche piatto di cipolline, essendo già nate nel campicello. Quell'olio però non durava più di due o tre giorni, poichè diventava rancido, prendendo un sapore così disgustoso, che i loro palati non riuscivano a tollerare.

Trovarono però il modo di surrogarlo con altro molto migliore e che poteva conservarsi lungamente. Essendo comparse sulla spiaggia delle grosse testuggini marine, colà radunatesi per deporre le uova, un mattino riuscirono a sorprenderne parecchie su di un banco, mentre stavano scavando le buche che dovevano servire di nido.

Le più grosse furono tosto uccise ed il grasso, fuso al fuoco, diede un olio limpidissimo, profumato, più squisito del burro ed in grande quantità. Le altre invece furono gettate nei vivai, dopo però averli accuratamente coperti con graticciate di bambù per impedire ai rettili di fuggire. Ormai potevano attendere senza apprensioni la stagione delle piogge, essendo abbondantemente provvisti di tuttociò che era necessario alla loro esistenza.

Capitolo XXII Il «tia-kau-ting»

Trovandosi così ampiamente provvisti e temendo che le tettoie costruite non fossero sufficienti a difendere dalle violenti piogge le copiose ricchezze che le ingombravano e soprattutto le fecole di sagù ed i biscotti che si alterano facilmente coll'umidità, un giorno pensarono di utilizzare la caverna per trasformarla in un magazzino.

Riparata come era e perfettamente asciutta, era certo da preferirsi alle tettoie che erano coperte solamente da foglie. Essendo poi lontana appena un miglio, le piogge non avrebbero impedito ai naufraghi di recarsi fino alla grande rupe per provvedersi, di quando in quando, di ciò che avevano bisogno.

Per preservare i loro biscotti e le loro fecole dagli insetti che potevano cercare rifugio nella caverna durante le piogge, costruirono dapprima dei recipienti circolari, somiglianti alle botti, servendosi ancora dei grossi fusti dei bambù selvaggi che poi impeciavano perfettamente, con una specie di gomma estratta dalla isonandra gutta, pianta che produce il cauciù.

Riempiti moltissimi recipienti, un mattino attaccarono il babirussa alla loro carretta già ben carica e si misero in cammino per la costa orientale, fiancheggiando il margine della foresta.

Mezz'ora dopo giungevano dinanzi alla caverna, la cui entrata era stata ormai interamente coperta dalle piante arrampicanti.

Procedendo con precauzione, per tema di trovare qualche altro cobra-capello, spostarono la cortina vegetale e s'inoltrarono nel corridoio con una candela accesa. Giunti nella prima caverna, il mozzo che li precedeva, s'arrestò bruscamente esclamando:

— Mille bombarde!... Degli scorpioni!... Alziamo i tacchi!

— Al diavolo le bestie velenose!... — urlò il marinaio, girando velocemente sui talloni. —

Il signor Albani aveva fatto qualche passo indietro, temendo di trovarsi dinanzi a dei veri scorpioni velenosi, ma abbassata la candela che portava, vide invece un centinaio di animaletti neri, assai più piccoli degli scorpioni ma che pure si raddrizzavano agitando minacciosamente le loro zampette anteriori.

— Ehi!... Marinaio!... Piccolo Tonno! — gridò.

— Fuggite, signore, — risposero Enrico ed il mozzo, che si trovavano già fuori.

— Ma no, amici miei, non sono scorpioni e non vi è alcun pericolo. —

I due marinai, sapendo per prova che il signor Albani non s'ingannava mai, rientrarono, ma con una certa prudenza.

— Non sono adunque scorpioni? — chiese Enrico, arrestandosi all'estremità della galleria.

— No, amico mio. Sono insetti inoffensivi, somiglianti agli stafilini delle nostre campagne.

— Ma ho veduto che si alzavano assumendo le forme paurose degli scorpioni.

— È il loro modo per spaventare.

— Ma che siano proprio così furbi gl'insetti, signore? — chiese il marinaio, stupito.

— Tutti hanno le loro furberie per difendersi.

— Io non l'avrei mai creduto.

Il pirata, colpito in mezzo al dorso dal sottile cannello, cadde all'indietro.... (Pag.153 ).

— Mancando per lo più di armi difensive, ricorrono sempre a mille astuzie e talvolta assai curiosissime. Vi è per esempio un ragno, il migolodonte che è comune anche da noi, il quale per sfuggire i nemici più forti di lui, si scava una celletta chiudendola con una specie di turacciolo. Nascosto dietro a quella porticina spia le prede e le assale quando è certo di vincerle, ma se si trova dinanzi ad un insetto più robusto di lui, corre a rintanarsi e si aggrappa al turaccioletto perchè non venga levato.

— Oh!... È strana!...

— Ma altri sono più furbi, — continuò l'istruito veneziano, mentre il mozzo, formata una scopa con delle larghe foglie, cacciava fuori gl'insetti. — Vi sono delle semplici larve che per proteggere il loro debole corpo, si rivestono d'una corazza formata di fili tenuissimi che sottraggono al loro corpo e che poi coprono di granelli di terra. Altre invece, si avvoltolano nel fango il quale disseccandosi basta a proteggerle.

— Ma voi mi narrate delle cose da sbalordire!... — esclamò il marinaio. — Io non avrei mai creduto che quei piccoli esseri fossero così astuti!...

— Figurati che vi sono dei coleotteri che appena si accorgono di essere osservati, contraggono le gambe, si lasciano cadere su di un fianco e fingono di essere morti. Altri invece cercano d'ingannare cambiando forma. L'altro giorno io ho osservato una bella farfalla di colore oscuro, che si era posata in mezzo ad un cespuglio. Desiderando di prenderla, la cercai a lungo e finalmente la scoprii, ma per sfuggirmi aveva ripiegato le ali così bene che sembrava una vera foglia secca.

— La volpona!...

— Signore, — disse in quell'istante il mozzo, — la caverna è pulita.

— Non ancora, — disse il marinaio. — Vi è un morto da seppellire.

— Lave del Vesuvio!... Un morto! — esclamò Piccolo Tonno, girando intorno due occhi stralunati.

— Una specie di mummia egiziana che dorme forse da vent'anni. Non essere schizzinoso, ragazzo mio, e andiamo a seppellirlo. —

Entrati nella seconda caverna, portarono via la mummia seppellendola ai piedi d'un albero, poi si misero a scaricare la carretta facendo rotolare i recipienti nel magazzino.

— Staranno al fresco, — disse Enrico.

— È una bella grotta, — disse il mozzo. — Non vale quella azzurra del mio golfo, ma è comoda e l'abiterei volentieri se ci si vedesse.

— Allargheremo quel piccolo buco e apriremo una finestra, mio Piccolo Tonno. Un po' d'aria conserverà meglio i nostri viveri. —

Avendo portato con loro la scure, demolirono un pezzo di parete senza molta fatica, essendo la rupe di tufo assai friabile e aprirono una finestra tanto larga da permettere di sporgere il capo.

Quell'apertura si trovava a circa venti piedi da una scogliera che si estendeva dinanzi alla rupe e le onde, rompendosi contro quegli ostacoli, talvolta la spruzzavano di spuma.

Di là si dominava un bel tratto di costa e di mare, e si potevano scorgere perfino i vivai, formando l'isola, in quel luogo occupato dalla caverna, una specie di angolo assai acuto.

Una nave che avesse cercato di approdare in vicinanza della capanna aerea, sarebbe stata facilmente scorta.

Guardando verso l'est, Albani vide una lunga fila di frangenti che finiva ai piedi d'un isolotto lontano venti o venticinque miglia e che pareva piuttosto vasto.

Durante la giornata, i Robinson fecero parecchi viaggi trasportando nella caverna gran parte delle loro provviste. Alla sera chiusero l'entrata della galleria con dei massi grossissimi, per impedire agli animali della foresta di penetrare nei magazzini e fecero ritorno alla capanna aerea.

Le tenebre erano già calate da un'ora, quando vi giunsero. Cenarono in fretta, essendo assai stanchi, poi si coricarono, ma il mozzo, prima d'imitarli andò sulla piattaforma a ritirare, come faceva sempre, le pertiche che servivano da scale.

Stava per rientrare nella capanna, quando volgendo gli sguardi sul mare, verso il nord-est, vide scintillare un punto luminoso, il quale spiccava nettamente sulla superficie cupa dell'acqua.

— Un fanale?... — mormorò, con stupore.

Comprendendo quanta importanza poteva avere quella scoperta, si precipitò nella capanna gridando:

— Accorrete, signor Albani!... Ho veduto il fanale d'una nave! —

Il veneziano ed il marinaio balzarono in piedi e uscirono sulla piattaforma, chiedendo ansiosamente:

— Dov'è?...

— Guardate laggiù, verso il nord-est, — rispose il mozzo.

— Terremoto di Genova!... — esclamò il marinaio. — È proprio un fanale!...

— Sì, — confermò il signor Albani, che pareva commosso.

— Che una nave s'avvicini alla nostra isola?...

— Lo credo, Enrico.

— Una nave europea forse?...

— No, poichè avrebbe due fanali, uno rosso ed uno verde, mentre quello è bianco e mi sembra che proietti molta più luce di quelli usati dalle nostre navi.

— Bisogna fare dei segnali, signore; accendere dei fuochi sulla spiaggia.

— No, — disse Albani, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Vi comprendo, — disse Enrico. — Voi temete che noi c'imbarchiamo e che abbandoniamo quest'isola. Ebbene, signore, v'ingannate: io non partirò da questa terra sulla quale mi trovo tanto felice da non desiderarne nessun'altra.

— E nemmeno io, signore, — aggiunse Piccolo Tonno.

— Non è questo il motivo, amici miei, — rispose Albani. — È la prudenza che mi consiglia di non attirare per ora l'attenzione di quei naviganti.

— Ma cosa temete?... — chiesero i due marinai.

— Che quella nave sia montata da persone, che starebbero bene appiccate ai pennoni di contra-pappafico. Non dimentichiamo che noi ci troviamo in una regione che è corseggiata dai più sanguinari pirati dell'Arcipelago Chino-Malese, da quelli delle Sulu.

— Credete proprio che sia equipaggiata da quei ladroni?

— Potrebbe anche essere una onesta giunca Chinese in rotta per le Molucche, usando quelle navi portare un solo fanale, una lanterna monumentale sospesa all'albero di trinchetto; ma potremmo anche ingannarci. Se però lo volete, amici miei, accendete pure i fuochi.

— Ah! no, signore! — esclamarono Enrico e Piccolo Tonno.

— Allora aspetteremo l'alba. Sul mare regna una calma perfetta e quella nave non andrà lontana.

— Ditemi, signor Albani, — disse il marinaio. — Credete che i pirati delle Sulu conoscano l'esistenza di quest'isola?...

— È probabile, Enrico, frequentando essi questo mare.

— Che possano sbarcare qui?...

— Non saprei veramente cosa potrebbe attirarli.

— Forse per cercare dell'acqua o per procurarsi del legname?

— Si può ammetterlo.

— In tale caso bisognerebbe lasciare la capanna e salvarci nelle foreste.

— O nella caverna, — disse Piccolo Tonno.

— Di certo, — rispose il veneziano. — Se quegli uomini ci sorprendono, ammesso che siano pirati, non esiterebbero a farci prigionieri e poi a trarci in schiavitù.

— Ma non ci faremo agguantare, signore. Abbiamo le frecce avvelenate e ci difenderemo. Per mio conto, questa notte non dormirò.

— Basterà che vegli uno per turno.

— Allora a me il primo quarto, — disse il mozzo.

— Bada di tenere ben aperti gli occhi veh! — disse Enrico. — Al primo indizio di pericolo, svegliami con un buon calcio, se vuoi.

— Non temere, marinaio. Non perderò di vista il fanale. —

Il veneziano ed il genovese, sapendo che potevano dormire sicuri finchè il mozzo vegliava, approfittarono per andarsi a coricare. Una guardia in tre era affatto inutile e poi cadevano per la stanchezza.

Piccolo Tonno, sedutosi all'estremità della piattaforma, accanto allo Sciancatello, non chiuse gli occhi un solo minuto. Per essere più certo di essere sveglio e per allontanare il sonno, di quando in quando si pizzicava le braccia con molto vigore.

Il fanale di quella nave rimaneva intanto sempre immobile, a circa sei miglia dall'isola. Continuando a regnare sul mare una calma assoluta, quel veliero si trovava nella impossibilità di superare l'isola o di accostarsi.

Il marinaio surrogò il mozzo poco prima della mezzanotte, poi questi fu surrogato dal veneziano verso le tre del mattino. I due primi però, divorati dall'impazienza, non tardarono a tenergli compagnia, essendo l'alba vicina.

Osservando bene il fanale, s'accorsero che si era sensibilmente avvicinato all'isola. Forse l'alta marea o qualche corrente avevano trascinata la nave.

Verso le quattro, il sole, dopo un'aurora di pochi minuti spuntò sull'orizzonte, rischiarando bruscamente il mare e la nave, la quale ormai non distava che tre o quattro miglia.

Un solo sguardo bastò al veneziano per sapere con quale naviglio aveva da fare. Non era una vera nave, ma una di quelle barche velocissime, con due alberi sostenenti vele di grandi dimensioni, collo scafo assai basso, chiamate tia-kau-ting, usate dai pirati e dai contrabbandieri del mar chinese meridionale e del mare di Sulu.

— Lo avevo sospettato, — mormorò, aggrottando la fronte.

— Un legno corsaro? — chiese il marinaio, che aveva pure riconosciuto in quella barca un tia-kau-ting.

— Questa non è una regione per esercitare il contrabbando, — disse Albani. — Amici miei, scendiamo e cerchiamo di porre in salvo le nostre ricchezze. Quei furfanti, scorgendo la nostra capanna, non mancheranno di fare una visita a questa costa. —

In meno che lo si dica furono a terra. Non erano rimaste molte provviste sotto la tettoia e anche perdendole poco danno ne avrebbero risentito, avendo riempita quasi la caverna della mummia, ma premeva a loro porre in salvo gli animali ed i volatili del recinto che si erano procurati con tante fatiche.

Attaccarono la carretta al babirussa, vi gettarono dentro i loro pochi arnesi, le stoviglie, i pochi pezzi di tela che ancora possedevano e quante provviste vi potevano stare, poi legarono i volatili che erano ormai una ventina e fuggirono verso la caverna seguiti dalle due scimmie che conducevano i due piccoli babirussa e dallo Sciancatello che trascinava i due orsi.

Un quarto d'ora dopo giungevano nei loro vasti magazzini sotterranei. Albani ed il marinaio incaricarono il mozzo di mettere ogni cosa a posto, poi armati delle cerbottane e di due fasci di frecce avvelenate, fecero ritorno alla costa settentrionale, per sorvegliare le mosse di quel tia-kau-ting sospetto.

Quando giunsero sul margine della piantagione di bambù, il legno, spinto da una leggiera brezza che soffiava dal nordest, navigava lentamente verso l'isola, colla prora volta verso il luogo ove sorgeva la capanna aerea. Ormai non vi era alcun dubbio: l'equipaggio stava per approdare.

— Mille terremoti! — esclamò il marinaio, aggrottando la fronte. — Quelle canaglie hanno scorto la nostra capanna e vengono di certo a distruggerla.

— Noi non sappiamo ancora quali siano le loro intenzioni, Enrico, — disse Albani. — Forse vengono a cercare dell'acqua od a raccogliere del legname per riparare qualche guasto.

— Scorgete quel gruppo di persone a prora?

— Sì, lo vedo.

— Non vi sembrano uomini di colore?

— E per di più dei sulani o dei bughisi, poichè non iscorgo i larghi cappelli di rotang che usano i marinai chinesi.

— Allora sono pirati.

— Aspettiamo, per giudicarli, Enrico.

— Guardate, signore!...

— Cosa vedi ancora?...

— Due grosse spingarde sul castello e due piccoli cannoni sul cassero. —

Albani aggrottò la fronte.

— Brutto segno, — mormorò. — Un tia-kau-ting armato, non può essere montato che dai pirati. —

Il piccolo veliero intanto continuava ad avanzarsi, dritto la piccola cala fiancheggiante la caverna marina, correndo bordate. A prora si vedevano parecchi uomini semi-nudi, dalla tinta oscura, armati di certi moschettoni che dovevano essere di fabbricazione antica, a miccia od a pietra.

A poppa se ne vedevano altri raggruppati dietro ai due piccoli pezzi d'artiglieria, come se non attendessero che un comando per farli tuonare contro la capanna aerea. Giunto a trecento metri dalla spiaggia, il tia-kau-ting si mise in panna. Una scialuppa venne calata in acqua, dieci uomini armati di moschetti vi presero posto ed arrancarono verso la piccola cala, procedendo però con precauzione, come se temessero qualche insidia o qualche scarica improvvisa.

Quegli individui erano tutti di statura alta, bene conformati, di carnagione rossastra, col viso un po' piatto, ma colle ossa delle gote assai sporgenti, il naso diritto e cogli occhi nerissimi come i loro capelli, ma un po' obliqui.

Le loro vesti consistevano in una semplice camicia che scendeva fino alle ginocchia ed in una larga cintura sostenente certi sciaboloni colla punta a doccia, somiglianti ai parangs dei bornesi.

In pochi minuti la scialuppa approdò ed otto uomini sbarcarono, dirigendosi silenziosamente verso la capanna aerea.

Il marinaio ed il signor Albani, nascosti fra i folti bambù, non li perdevano d'occhio. Entrambi però parevano in preda ad una viva commozione, temendo di veder distruggere la loro casa alla quale ormai si erano tanto affezionati.

— Se me la guastano, guai a loro, — disse Enrico, cacciando risolutamente una freccia avvelenata nella cerbottana.

Capitolo XXIII Le devastazioni dei pirati

I marinai del tia-kau ting, giunti a venti passi dalla capanna aerea, si erano arrestati armando i loro moschettoni e alzandosi sulle punte dei piedi per vedere se sulla piattaforma si trovava nascosto qualche isolano.

Non scorgendo alcuno e non udendo rumore di sorta, circondarono la costruzione, poi uno di loro, il più agile ed il più ardito, s'aggrappò alle pertiche e si mise a salire.

I suoi compagni tenevano sempre le armi alzate, pronti a rispondere al primo attacco; mentre la piccola nave, che era ormai giunta nella rada, puntava le spingarde.

L'uomo giunse ben presto sulla piattaforma ed entrò nell'abitazione. Poco dopo usciva, mandando delle grida che parevano di collera.

Scambiò alcune rapide parole coi compagni che parevano non meno furiosi di lui, poi si mise a gettare giù i pochi viveri che ancora vi erano, mentre gli altri saccheggiavano la tettoia di quel po' che conteneva.

Non sembravano però soddisfatti di quel magro bottino, poichè i due naufraghi li udivano sempre a urlare come ossessi e li vedevano correre dalle palizzate del recinto alla capanna, sfogando il loro malumore con tremende sciabolate che avventavano all'impazzata contro i bambù.

I loro compagni che erano rimasti a bordo, ancorata la piccola nave, si erano affrettati a raggiungerli per prendere parte al saccheggio. Vedendo quei pochi viveri, montarono pur loro in furore e si misero a demolire la cinta, poi la tettoia, quindi a calpestare le pianticelle del piccolo campo, poi, non soddisfatti, cominciarono a tagliare i bambù di sostegno per far capitombolare anche la capanna aerea.

I due naufraghi, fremendo di collera, assistevano impotenti a quella barbara devastazione, alla distruzione del loro campicello coltivato con tante cure e alla demolizione della loro casa che avevano fabbricata con tante fatiche.

Il marinaio soprattutto, pareva che da un istante all'altro dovesse scoppiare.

— Canaglie! — esclamò. — Distruggere in tal modo le nostre risorse future e la nostra dimora, che ora doveva proteggerci dalla stagione delle piogge!... Ladroni!... Se avessi una buona carabina, vedreste come vi tratterei.

— Lasciali fare, Enrico, — rispondeva Albani. — Accontentiamoci di salvare la pelle.

— Ma io non posso assistere a tanta devastazione, signore! Bisogna che uccida qualcuno!

— Per farci inseguire e prendere?... No, Enrico, lasciamoli fare. La pazienza e la buona volontà non ci mancano e ripareremo facilmente i guasti. —

In quell'istante la capanna aerea, privata dei bambù di sostegno, capitombolava a terra con grande fracasso, disarticolandosi, mentre i pirati, contenti come fanciulloni, ridevano e schiamazzavano per quella prodezza.

Era troppo pel marinaio, che aveva il sangue bollente. Dimenticando ogni prudenza, prima che il signor Albani avesse potuto trattenerlo, si era scagliato fuori dalla piantagione, guadagnando un macchione che si estendeva fino a trenta passi dalla capanna.

Puntare la cerbottana, soffiarvi dentro, lanciare una freccia mortale e abbattere un uomo che si trovava a buona portata, fu l'affare d'un lampo.

Il pirata, colpito in mezzo al dorso dal sottile cannello, cadde all'indietro emettendo un urlo di dolore. I suoi compagni si volsero bruscamente e vedendo il marinaio che fuggiva attraverso il macchione, ora apparendo ed ora scomparendo in mezzo agli alberi, scaricarono i loro moschettoni, ma ormai era troppo tardi. Enrico si era gettato in mezzo ai bambù e quella scarica non ottenne altro effetto che quello di produrre molto baccano e un nuvolone di fumo.

Il signor Albani si era lanciato dietro al compagno che fuggiva colla velocità d'un cervo. Aveva veduto i pirati correre sulle loro tracce e premendogli di tenere a loro celato il luogo che serviva di rifugio, aveva stimato essere miglior partito di guadagnare le fitte foreste dell'interno.

In dieci minuti i due fuggiaschi attraversarono la piantagione ed essendo pratici dei luoghi, si nascosero in mezzo ad un bosco così intricato, da rendere vano l'inseguimento.

— Saliamo quell'albero, — disse il veneziano, indicandone uno che era coperto da un fogliame densissimo e per di più cinto e ricinto da una vera rete di calamus.

Aiutandosi l'un l'altro giunsero sul tronco, accomodandosi fra le biforcazioni dei rami.

— Imprudente, — disse Albani al genovese, quando potè tirare il fiato. — Se tardavi un istante a nasconderti nella piantagione, ti facevi crivellare da quella scarica.

— È vero, sono stato molto imprudente, signore, — rispose il marinaio, — ma non ho potuto frenarmi vedendo quelle distruzioni.

— Ed ora scorazzeranno l'isola per vendicare il loro compagno.

— Lo credete?...

— Certo, Enrico. Forse spereranno di trovare altre capanne da saccheggiare o qualche villaggio e di fare degli schiavi.

— Ma non sarà facile a loro, scoprire la nostra caverna.

— Se scorgono le nostre tracce la troveranno. Seguendo i solchi lasciati dalle ruote del nostro carretto, non s'inganneranno.

— Terremoti!... che sorprendano Piccolo Tonno?...

— Taci!... —

Una forte detonazione era echeggiata verso il mare, seguita poco dopo da un'altra.

— Cosa succede?... — chiese il marinaio. — Che i furfanti siano stati assaliti da qualche incrociatore spagnuolo?...

— Sparano le spingarde contro la piantagione di bambù, sperando di scovarci, — rispose Albani. — Sono certo di non ingannarmi.

— Fortunatamente siamo lontani e bene imboscati.

— Ma temo che Piccolo Tonno, udendo questi spari, ci creda in pericolo e si metta in cerca di noi.

— Volete che cerchiamo di guadagnare la caverna?... Non deve essere molto lontana.

— Non sappiamo ancora da qual lato i pirati ci cercano, e lasciando questo nascondiglio potremmo trovarci improvvisamente dinanzi a loro. Se avessimo anche noi dei fucili, si potrebbe tentare la ritirata, ma colle nostre cerbottane sarebbe una imprudenza che potrebbe costarci la vita. Queste armi sono preziose nelle imboscate e nelle sorprese, ma poco valgono nella difesa.

Facciamo appello alla nostra pazienza e aspettiamo la notte per ritirarci verso la costa orientale.

— Ma Piccolo Tonno?...

— Speriamo che non commetta l'imprudenza di lasciare il ricovero. Gli avevo detto di non muoversi fino al nostro ritorno e per nessun motivo.

— Tacete, signore, mi pare di udire delle voci laggiù. —

Tesero gli orecchi rattenendo il respiro e udirono infatti delle persone che parlavano a voce alta, presso il margine della boscaglia.

I pirati dovevano aver attraversata la piantagione dopo d'averla frugata in tutti i sensi e si disponevano a perlustrare le foreste, ma non doveva essere cosa facile essendo immense ed avendo l'isola una superficie ragguardevole.

Forse stavano dirigendosi verso la montagna, credendo lassù di scoprire le capanne o i villaggi che supponevano eretti su quelle spiagge.

Le voci a poco a poco si allontanarono verso l'ovest ed il silenzio ritornò nella foresta. Anche dalla parte del mare, non si udivano più a tuonare le spingarde della piccola nave.

Il signor Albani ed il marinaio, quantunque desiderassero ardentemente di lasciare quel nascondiglio e di ripiegarsi verso la caverna, non osarono muoversi, per paura che qualche pirata si trovasse imboscato a breve distanza da loro.

Trascorse un'ora, poi un'altra, ma le voci non si udirono più; solamente i pappagalli ed i tucani-rinoceronti continuavano a cicalare sulle più alte cime degli alberi.

— Tentiamo la sorte, signore, — disse Enrico. — Piccolo Tonno sarà molto inquieto non vedendoci a ritornare, e poi stritolerei volentieri un biscotto.

— Sali prima sui rami superiori e guarda se scorgi qualcuno. L'albero è alto assai e forse potrai vedere ciò che succede anche sulla spiaggia. —

Il marinaio non si fece ripetere l'ordine. Aggrappandosi ai rami ed ai calamus, raggiunse le cime più elevate e di là girò gli sguardi.

Essendo quell'albero uno de' più alti della foresta, potè senza fatica scorgere un grande tratto della costa settentrionale.

Il tia-kau-ting era ancorato nella piccola cala, ma sotto le rupi. Un albero era stato abbassato e sulla spiaggia, degli uomini erano occupati ad atterrare una pianta dal fusto diritto.

— Ora comprendo perchè quei birbanti hanno approdato, — mormorò il marinaio. — Avevano il trinchetto da cambiare. —

Abbassò gli sguardi verso la piantagione di bambù; ma vide che le alte canne erano immobili, segno evidente che nessun uomo stava attraversandola. Guardò verso la montagna e gli parve di vedere dei corpi apparire e scomparire fra i cespugli ed i macchioni.

Soddisfatto delle sue osservazioni stava per ridiscendere, quando vide sul margine del bosco, a circa trecento passi dalla loro macchia, un uomo che stava sdraiato a terra, ma che pareva si avanzasse strisciando come i serpenti.

— Corna di cervo!... — esclamò.

Si lasciò scivolare lungo il tronco e raggiunse il signor Albani che lo aspettava ansiosamente.

— Se ne sono andati? — chiese questo.

— Il grosso della truppa marcia verso la montagna, ma noi stiamo per venire sorpresi, signore, — rispose il marinaio. — Uno di quei furfanti ha scoperto le nostre tracce e si avvicina.

— Uno solo?...

— Non ne ho veduti altri. Affrettiamoci a fuggire prima che giunga.

— No, Enrico, — rispose il veneziano. — Se ci scorge darà l'allarme e attirerà l'attenzione de' suoi compagni rimasti sulla nave.

— Cosa volete fare, adunque?... Non è lontano che trecento passi.

— Lasciarlo passare oltre.

— E se ha scoperte le nostre tracce?...

— Peggio per lui, poichè lo uccideremo, — disse Albani, con voce risoluta. — Non bisogna che scoprano la nostra caverna o saremo perduti.

— Udite?...

— Sì, un ramo si è spezzato. Lascia fare a me, Enrico. —

Il veneziano si era messo a cavalcioni d'un solido ramo ed aveva impugnata la cerbottana.

Il pirata si avvicinava, strisciando attraverso alla boscaglia. Si udivano le foglie secche stridere ed i rami spezzarsi e si vedevano le cime dei cespugli ondeggiare lievemente.

Certamente quell'uomo doveva aver scoperte le loro tracce rimaste impresse sul suolo umido della foresta, e le seguiva senza deviare. Fra qualche minuto doveva giungere presso l'albero.

Il signor Albani ed Enrico, nascosti fra il fogliame, trattenevano il respiro, ma aguzzavano gli occhi per scoprire il nemico. Entrambi tenevano le cerbottane vicine alla bocca.

Ad un tratto, una testa apparve fra due cespugli. Si alzò lentamente guardando con grande attenzione i rami degli alberi vicini, poi strisciò innanzi e l'intero corpo apparve allo scoperto. Il pirata teneva fra i denti un largo coltello e nella destra un lungo fucile a pietra.

I due Robinson, vedendosi in procinto di venire scoperti, non esitarono più. Le due freccie tinte nel veleno mortale dell'upas partirono con un sibilo appena percettibile, colpendo l'uomo alla gola e alla spalla sinistra.

Sentendosi ferire, il pirata si strappò furiosamente i due leggieri cannelli e balzò in piedi armando precipitosamente il fucile, ma le forze improvvisamente lo tradirono e cadde al suolo in preda a spaventevoli convulsioni.

— Fuggiamo, — disse Albani. —

Si lasciarono cadere al suolo e senza occuparsi del loro nemico, la cui morte ormai era certa, fuggirono precipitosamente verso l'est. Percorsi però cinquecento metri, rallentarono la corsa, temendo che nelle vicinanze vi fossero altri pirati.

— Ecco due canaglie di meno, — disse il marinaio. — Rincresce uccidere delle persone quasi a tradimento, ma si tratta di salvare la pelle e non si deve guardare le cose tanto pel sottile. Speriamo che per qualche po' ci lascino tranquilli e ci permettano di giungere al nostro rifugio.

— Badiamo a non smarrirci in mezzo a questi boschi, — disse Albani. — Il sole è là: sta bene.

— Credete che abbiano scoperto i solchi del carretto?...

— Speriamo che non si siano spinti fino alla costa orientale.

— Ho veduto che degli uomini salivano la montagna, ma possono visitare le coste.

— Allora sorprenderanno i misteriosi individui che hanno perduta quella capsula.

— Ma quelli possiedono dei fucili e potranno facilmente respingerli, signore. Ah! Se si potesse sapere chi sono e unire le nostre forze per cacciare questi scorridori del mare!

— Bisognerebbe attraversare tutta l'isola e perderemmo tanto tempo. E poi, non credo che i pirati si fermino molto qui.

— Ho veduto dei marinai della nave abbattere un albero e abbassare il loro trinchetto.

— Ora si comprende perchè hanno approdato. Senza dubbio qualche tempesta ha guastato il loro albero.

— Così deve essere, signor Albani.

— Allora fra due o tre giorni riprenderanno il mare e saremo liberi. Alto, marinaio!

— Cosa avete veduto?

— Qualcuno si è nascosto fra quella macchia.

— Terremoti di Genova!... Un altro pirata?

— No, mi parve un animale.

— Una tigre, forse?

— Non lo so, marinaio. Armiamo le cerbottane e aspettiamo che si mostri. —

Capitolo XXIV Assediati nella caverna

Il signor Albani ed il marinaio si erano arrestati dietro al tronco d'un colossale durion, non osando avanzarsi senza prima sapere quale era il nemico che dovevano affrontare.

I cespugli che formavano la macchia continuavano ad agitarsi, come se l'uomo o l'animale si aprisse un varco con fatica. Pareva che fosse imbarazzato a uscire fra quei rami che erano assai fitti e molto frondosi.

Finalmente, dopo un ultimo e violento sforzo, riuscì ad aprirsi il passaggio ed a mostrarsi. Nello scorgerlo, i due Robinson avevano alzato di comune accordo le cerbottane, entro le quali avevano fatto scivolare rapidamente due frecce.

Non era un uomo, ma una tigre che pareva avesse le gambe assai ammalate, poichè si muoveva con grande pena ed anche delle forme assai strane, poichè pareva assai più larga delle altre e per di più gobba.

— Ma quella bestia è deforme! — esclamò il marinaio, stupito.

— Ed io non riesco a scorgere le sue gambe, — disse il veneziano, che non lo era meno.

— Che sia ferita?...

— O che non sia una vera tigre invece?

— Cosa volete dire? —

Il veneziano non potè dare maggiori spiegazioni, poichè la tigre, alzandosi bruscamente si sbarazzò della superba pelliccia e dinanzi ai due Robinson comparve.... Piccolo Tonno!

— Mille terremoti!... Il piccino! — esclamò il marinaio, balzando innanzi.

— Nella pelle della tigre uccisa sulla montagna, — rispose il mozzo, correndo a loro incontro. — Ah! signor Albani, quante ansie in queste quattro ore! Temevo che vi avessero uccisi, udendo tutti quegli spari.

— Per poco, — disse Enrico.

— Si è mostrato alcun pirata presso la caverna? — chiese Albani.

— Nessuno, signore.

— E Sciancatello?

— L'ho lasciato a guardia degli animali.

— Ma per quale motivo avevi indossato la pelle della tigre?

— Per spaventare i pirati, nel caso che li avessi incontrati.

— Il furbo! — esclamò Enrico.

— Sei un bravo ragazzo, — disse Albani. — Orsù, non perdiamo tempo e fuggiamo. È lontana la caverna?

— Dieci minuti, — rispose il mozzo.

— Andiamo, amici. —

Il mozzo si caricò della pelle della tigre e tutti e tre si misero in cammino, cercando di tenersi in mezzo alle macchie più fitte.

— In ritirata! — comandò Albani, vedendo altri nemici affollarsi.... (Pag.171 ).

Dopo pochi minuti giungevano senz'altri incontri alla caverna. Spostarono la cortina vegetale, levarono i macigni che ostruivano la stretta entrata e passarono nel magazzino dove si trovavano Sciancatello, le due scimmie, i babirussa e gli uccelli.

Il mozzo durante l'assenza dei suoi compagni, non aveva perduto inutilmente il suo tempo. Aveva disposto ogni cosa in ordine, messi in libertà i volatili dopo d'aver tesa una piccola rete di fibre di cocco dinanzi alla finestra per impedire che volassero fuori, preparati tre giacigli di grandi e fresche foglie e riempiti d'acqua tutti i recipienti disponibili, avendo trovato uno stagno poco discosto.

— Bravo ragazzo, — disse Albani. — Ora qui possiamo sostenere un lungo assedio senza inquietarci.

— Credete che verranno ad assediarci? — chiese il marinaio.

— Se scoprono i solchi del nostro carretto, verranno qui di certo.

— Non si potrebbero far sparire?

— Ci vorrebbe molto tempo e ci esporremmo al pericolo di venire sorpresi. Se vogliono assediarci, vengano pure; ci difenderemo colle cerbottane.

— Ma possono forzare la galleria.

— Vi sono molti macigni qui e la barricheremo per bene, Enrico. Uno di noi monterà la guardia al di fuori, dietro la cortina vegetale e al primo indizio di pericolo verrà tosto ad avvertirci e chiuderemo la galleria.

— Vado io, — disse Piccolo Tonno. — Sciancatello mi terrà compagnia.

— Noi poi ti surrogheremo, — disse il marinaio.

Il mozzo s'armò della sua cerbottana, invitò Sciancatello a seguirlo e andò a nascondersi in mezzo alle piante arrampicanti, mentre i suoi compagni, che non avevano mangiato dalla sera innanzi, si preparavano la colazione.

L'intera giornata trascorse tranquilla. Si udì qualche colpo di moschetto rombare sulla montagna e qualche altro verso la costa settentrionale, ma nessun pirata si mostrò nelle vicinanze della caverna.

Probabilmente, supponevano che gli abitanti della capanna aerea si fossero rifugiati fra le fitte foreste del grande cono dominante l'isola.

Prima che il sole tramontasse, Albani ed il marinaio scalarono la rupe gigantesca, per vedere se il tia-kau-ting si trovava ancora nella piccola cala.

Lo videro ancorato allo stesso posto che occupava al mattino e ancora privo del suo albero di trinchetto.

— Temo che occorra del tempo, prima di ripararlo, — disse Albani.

— Forse avrà degli altri guasti, — rispose Enrico.

— Se rimangono qui parecchi giorni, scopriranno di certo le nostre tracce.

— E fors'anche i nostri vivai, signore. Mi rincrescerebbe trovarli poi senza un pesce e senza una testuggine.

— Colla pazienza ripareremo a tutto, Enrico. L'energia e la buona volontà non ci mancano.

— È vero, ma aver lavorato per quelle canaglie è dura e non so rassegnarmi. E poi, sapendo ormai che l'isola è abitata, potrebbero di quando in quando ritornare.

— Non credo che i pochi viveri trovati gli inducano a intraprendere un secondo viaggio. Perderebbero il loro tempo inutilmente e poi, dalla cima della montagna, si persuaderanno che l'isola è deserta. —

Essendo calata la notte ridiscesero, ma il marinaio si arrestò al di fuori, nascosto fra i vegetali. Temendo sempre di venire sorpresi, avevano deciso di vegliare anche alla notte, per essere pronti a barricare la galleria.

Nulla accadde durante il primo quarto di guardia del marinaio. Alla mezzanotte il mozzo lo surrogò in compagnia di Sciancatello, il quale si prestava volentieri a quel servizio, quasi avesse compreso che i suoi padroni correvano un grave pericolo.

Il mozzo vegliava da due ore, rannicchiato in mezzo alle piante che lo coprivano del tutto, colla cerbottana in mano, quando lo Sciancatello, che sonnecchiava accanto a lui, si alzò bruscamente emettendo un sordo brontolìo.

— Oh!... oh!... — esclamò il ragazzo. — C'è qualche cosa di nuovo! —

Si alzò e scostando prudentemente le piante, guardò verso il margine della foresta, ma non vide alcuno. Però, essendo il cielo coperto da nuvoloni, non era cosa facile distinguere una persona a due o trecento passi, con quell'oscurità.

— Che abbia fiutata qualche tigre? — mormorò il mozzo. — Ecco un nemico che non è migliore degli altri. —

Il mias continuava a brontolare ed a muovere gli orecchi come se cercasse di raccogliere meglio dei lontani rumori. A volte si curvava verso terra, poi aspirava fortemente l'aria pel naso.

— Qualche cosa succede nella tenebrosa foresta, — disse il mozzo, che era diventato inquieto. — Andiamo ad avvertire i compagni. —

Scivolò lestamente nella galleria e tirò le gambe al veneziano ed a Enrico dicendo:

— Presto, in piedi.

— I pirati? — chiese il marinaio, rizzandosi colla cerbottana in mano.

— Io non lo so, ma Sciancatello dà segni d'inquietudine.

— Usciamo, — disse Albani, — gli uomini dei boschi sentono i nemici a grandi distanze. —

In un baleno si trovarono tutti e tre all'aperto. Sciancatello ascoltava sempre e brontolava, colla testa volta verso la spiaggia settentrionale.

— Il pericolo viene di là, — disse Albani.

— Ma io non vedo nulla, — rispose Enrico.

— Pretenderesti di avere gli occhi del mias?...

— Che i pirati abbiano scoperte le tracce del carretto?

— Lo temo, poichè Sciancatello guarda da quella parte.

— Mille terremoti!...

— Cos'hai?...

— Ho veduto un uccello alzarsi fra quella macchia d'alberi.

— Sarà stato un pipistrello gigante, — disse Piccolo Tonno.

— No, dal volo mi parve invece un tucano.

— Allora i nemici vengono di là, — disse Albani.

— Zitto!...

— Ho udito dei rami a muoversi. —

In quell'istante il mias emise un brontolìo sonoro e fece atto di slanciarsi innanzi, ma il mozzo fu pronto a trattenerlo.

— Conducilo nella caverna, — disse Albani. — Potrebbe tradirci. —

Poi mentre Piccolo Tonno s'affrettava a obbedire, si distese al suolo per non venire scorto, tenendo la cerbottana presso le labbra. Il marinaio lo imitò.

Pareva che i nemici si avanzassero seguendo le tracce del carretto, che dovevano aver rimarcato anche presso la capanna aerea. Si udivano di tratto in tratto i cespugli a stormire e lo scricchiolìo delle foglie secche, ma non si potevano ancora distinguere in causa dell'oscurità che pareva diventasse sempre più fitta, continuando ad accumularsi in cielo nuvoloni nerissimi.

— Guardate, — disse ad un tratto il marinaio.

— Vedo, — rispose Albani.

— Seguono le tracce.

— Sì, Enrico.

— E sono parecchi.

— Appena ci accorgiamo che muovono verso di noi, mira il più vicino ed io mirerò il secondo. Saranno due di meno. —

A cento passi si vedevano dei corpi neri avanzarsi fra le erbe e le foglie, strisciando con precauzione.

Erano dieci o dodici e tutti armati di fucili, a quanto pareva.

— Mira giusto, — mormorò Albani, accostando la cerbottana alle labbra. Vengono diritti alla caverna.

— Ho scelto il mio uomo. —

Le due frecce partirono con un sibilo lamentevole. I due pirati che strisciavano in prima fila s'alzarono di scatto, emettendo due urla di dolore, mentre i suoi compagni scaricavano a casaccio le loro armi, non potendo scorgere gli assalitori.

— Nella caverna! — esclamò Albani.

Protetti dalla cortina vegetale scivolarono rapidamente nel corridoio e accumularono rapidamente le pietre, otturando l'ingresso.

— Presto, formiamo una barricata, — continuò Albani. —

Piccolo Tonno, che aveva accesa una candela, accorreva in loro aiuto con Sciancatello. Si misero a rotolare i massi che abbondavano nella prima caverna e li accumularono nel corridoio.

Intanto al di fuori si udivano i pirati a vociferare come ossessi ed echeggiavano gli spari. Non avendo potuto vedere da quale parte erano state lanciate le freccie, non avevano ancora scoperto l'ingresso della galleria, ma non dovevano tardare a giungervi dinanzi, se seguivano le tracce del ruotabile.

I tre Robinson e lo Sciancatello continuavano a rotolare macigni, volendo murare tutta la galleria per impedire agli assedianti di avanzarsi, o almeno rendere molto difficile la loro entrata.

Già mezzo corridoio era stato ostruito, quando udirono le voci echeggiare all'altra estremità.

— Ci hanno scoperti, — disse Enrico.

— Ma non entreranno, — rispose Albani. — Abbiamo più di duecento frecce ed i nostri proiettili, lo sappiamo per prova, valgono meglio delle loro palle.

— Ci assedieranno.

— Cosa importa a noi?... Abbiamo dei viveri per otto o dieci mesi.

— Ma scarseggiamo d'acqua, signore, — disse Piccolo Tonno. Non ne avremo che per dieci o quindici giorni.

— Ci basterà, amici. Questo assedio non durerà molto. Preparate le armi e teniamoci pronti a respingere l'assalto.

Capitolo XXV L'uragano

La situazione dei Robinson stava per diventare grave assai, essendo ormai cosa certa che i pirati, resi furiosi per la morte di quattro compagni, dovevano essere decisi a vendicarli e a tutto tentare pur di avere in mano gli abitanti dell'isola.

Essendo numerosi, armati di fucili e anche di spingarde e di due piccoli pezzi d'artiglieria, non vi era da fare molto assegnamento sulla resistenza che avrebbe potuto opporre quell'ammasso di macigni che ostruiva la galleria. Pure i tre bravi superstiti della Liguria, non sembravano molto inquieti.

Invece di perdere tempo a discutere sui migliori mezzi di difesa, continuavano a lavorare con accanimento.

Non contenti di aver chiusa la prima galleria, accumularono altri ostacoli presso la seconda che conduceva nell'ultima caverna. Essendo quella assai più stretta e tortuosa della prima, si prestava meglio alla difesa, non permettendo agli assalitori che d'inoltrarsi uno alla volta.

Terminati quei preparativi, tornarono nella prima caverna per udire cosa facevano i pirati.

L'attacco pareva che non fosse ancora cominciato, poichè le pietre formavano una massa compatta. Udivano però i pirati a parlare e di quando in quando percuotere la barricata coi calci dei fucili.

Pareva che si consigliassero prima d'intraprendere qualche cosa o che aspettassero dei soccorsi.

— Aspetteranno che sorga il sole, — disse Albani. — Forse spereranno di trovare qualche altra entrata.

— Perderanno il tempo inutilmente, — disse il marinaio.

— Ma v'è la finestra, — osservò il mozzo.

— È tanto piccola che un uomo non vi può passare, — rispose Albani. — E poi è alta più di quindici piedi e la roccia è tagliata a picco. —

In quell'istante uno sparo rimbombò destando tutti gli echi delle caverne, facendo balzare bruscamente in piedi gli animali e strepitare gli uccelli. Un pirata, trovato un buco aperto fra i macigni, aveva introdotto la canna del fucile, ma senz'altro effetto che quello di produrre un baccano indiavolato, poichè la palla doveva essersi schiacciata contro gli altri massi.

— Sprecano la loro polvere, — disse Enrico, ridendo.

— E perdono il loro tempo, — aggiunse Piccolo Tonno. — Mi rincresce solamente pei nostri animali che si spaventeranno assai, udendo questa musica che per loro è nuova. —

Gli spari si succedevano con grande frequenza, formando un baccano assordante, ma senza miglior successo, poichè tutte le palle s'arrestavano in mezzo a quell'ostacolo che aveva uno spessore di quattro metri.

Solamente un po' di fumo entrava nella caverna attraverso alle fessure, dileguandosi nella seconda e quindi uscendo dalla piccola finestra.

Ben presto però i pirati dovettero convincersi dell'inutilità delle loro fucilate, poichè poco dopo cessarono. Si udivano però invece picchiare furiosamente contro la solida barricata, come se cercassero di aprire dei fori per introdurre le loro armi e aprire un fuoco più efficace.

Essendo però la galleria ad imbuto, i sassi tenevano duro e riusciva difficile il tirarli fuori. Sarebbe stato necessario un ariete per demolire quell'ammasso enorme o per lo meno un pezzo d'artiglieria.

L'alba era già spuntata, senza che i pirati fossero riusciti a forzare il passo. Già i Robinson si rallegravano di quel primo successo, quando al di fuori scoppiarono urla di gioia.

— Terremoti e lampi!... — esclamò il marinaio, diventato bruscamente inquieto. — Cosa sta per succedere?

— Che abbiano scoperta un'altra apertura? — chiese il mozzo, girando gli sguardi intorno.

— Saranno giunti altri uomini, forse quelli che ieri perlustravano la montagna, — disse Albani. — Bah!... Dieci o trenta è tutt'uno. Se poi.... —

Una formidabile detonazione che fece tremare il suolo della caverna, gli troncò la parola.

— Una mina! — esclamò il mozzo.

— No, è una spingarda, — rispose il marinaio. — Io conosco quelle armi.

— Non sarà certo con delle palle da una libbra che sfonderanno l'ostacolo, — disse Albani, che conservava una calma ammirabile. — A vostro comodo, signori schiumatori del mare, e tu, intanto, mio Piccolo Tonno, va a prepararci qualche cosa da porre sotto i denti. —

I pirati dopo quel primo colpo si erano arrestati, forse per constatare gli effetti di quella prima scarica, ma ben presto ripresero il fuoco.

Il marinaio ed il signor Albani udivano le palle fracassare i macigni, ma la massa che ingombrava la galleria era tale, che ci avrebbero voluto cento libbre di polvere per aprire una breccia.

Tuttavia al decimo colpo una palla, essendo scivolata attraverso a qualche fessura, entrò nella caverna e andò a conficcarsi sulla parete opposta.

— Oh!... oh!... — esclamò il marinaio. — La cosa diventa seria, signor Albani.

— C'è del tempo, — rispose il veneziano.

— Ma se continuano questa musica, finiranno coll'aprire un foro.

— E noi risponderemo colle frecce.

— Ma se riescono a entrare!...

— Avranno il tempo?...

— Cosa volete dire?...

— Ascolta, — disse il veneziano. —

In lontananza si era udito come un sordo rullìo.

— Il tuono?... — chiese Enrico.

— Un uragano che si avanza e che viene in nostro aiuto, — rispose Albani. — È un'ora che il tuono brontola e che odo le onde sfasciarsi con crescente impeto contro la base della rupe.

— Voi dunque contavate su questo alleato?...

— Sì, Enrico. Fra poco il vento comincierà a soffiare, il mare a diventare burrascoso e non avendo l'isola delle baie riparate, i pirati saranno costretti a riprendere il largo o il loro tia-kau-ting si frantumerà contro la costa. Ecco perchè io ero tranquillo e fidente dell'inutilità degli sforzi degli assedianti. Odi?...

— Sì, il tuono rumoreggia ancora. —

Intanto i pirati continuavano a sparare contro la galleria con crescente furia. Dovevano essersi accorti del pericolo che poteva correre il loro tia-kau-ting e raddoppiavano i loro sforzi per demolire quell'ostacolo che opponeva una resistenza incredibile.

Di tratto in tratto sospendevano il fuoco e percuotevano l'ammasso con dei grossi rami o con dei tronchi d'albero e quegli urti cagionavano maggiori danni delle palle, poichè sconquassavano i macigni semi-infranti.

I tre Robinson che cominciavano ad inquietarsi, tardando l'uragano a scoppiare, si erano collocati dietro i due angoli della caverna, per non farsi fracassare dai grossi proiettili della spingarda e spiavano il momento opportuno per lanciare sugli assalitori le loro frecce mortali. Anche Sciancatello si era unito a loro, tenendo in mano un grosso bastone, arma formidabile nelle sue robuste mani.

Al di fuori il tuono brontolava sempre e si udivano le onde a infrangersi con crescente furore contro la base della rupe, ma il vento non si era ancora scatenato. Solamente delle raffiche si rovesciavano, a lunghi intervalli, sull'isola.

Ad un tratto i macigni, frantumati e sconnessi dalle palle, cedettero sotto un ultimo e più vigoroso urto, operato forse con un tronco d'albero di gran mole, spinto a tutta forza dagli assalitori che dovevano essere numerosi.

Una breccia s'aprì presso la vôlta della galleria, proiettando nella oscura caverna un getto di luce. Alcuni fucili furono introdotti e fecero una scarica, scrostando la parete opposta.

Il marinaio e Albani, pronti come il lampo, appena videro ritirarsi le armi, puntarono le cerbottane, lanciando attraverso a quella breccia due frecce.

Un urlo acuto li avvertì, che i loro proiettili non erano andati perduti.

— Ecco uno che non ci seccherà più, — disse il marinaio, lieto di quel primo successo. — Avanti a chi tocca! —

I pirati, sorpresi da quella resistenza e resi guardinghi da quelle frecce che sapevano ormai essere avvelenate, avevano sgombrato rapidamente l'entrata della galleria.

— Occupiamo il posto, — disse Enrico.

— No, — rispose Albani. — Non commettiamo imprudenze.

— Ma si sono ritirati, signore. La luce entra liberamente attraverso la breccia.

— Possono spiarci. —

Un urto formidabile scosse la massa di macigni, facencendone cadere altri. Albani, Enrico ed il mozzo risposero con tre frecce.

Un altro grido echeggiò al di fuori, seguito da un clamore spaventevole e dallo scoppio di parecchi fucili. Quasi nel medesimo istante una luce livida si proiettò dentro la seconda caverna accompagnata da una scarica elettrica così fragorosa, che parve che l'intera rupe dovesse crollare sul capo degli assediati.

— L'uragano!... — esclamò Albani, con voce lieta. — Finalmente saremo liberati da quei furfanti! Tenete duro, amici miei e non economizzate le frecce. —

I due marinai non facevano davvero economia. Tenendosi nascosti dietro gli angoli della galleria, continuavano a scagliare i loro dardi avvelenati attraverso alla breccia.

I pirati, non potendo avvicinarsi senza venire colpiti, si sfogavano scaricando attraverso la galleria i loro moschettoni, ma senza recare danni.

Furiosi però di essere tenuti in scacco da quei pochi difensori, ripresero la loro catapulta e scagliandola impetuosamente innanzi, riuscirono ad allargare il foro, facendo diroccare la barricata.

Un uomo, il più audace, si cacciò nella galleria e irruppe nell'interno prima che i Robinson avessero potuto scorgerlo, essendo l'oscurità diventata profonda in causa delle folte nubi che si addensavano rapidamente in cielo, ma Sciancatello gli appioppò una legnata così potente, da farlo fuggire urlando di dolore.

— In ritirata! — comandò Albani, vedendo altri nemici affollarsi confusamente sotto la galleria.

I tre Robinson e Sciancatello si slanciarono nella seconda caverna, accumulando nella seconda galleria sassi, colli di viveri, recipienti d'acqua e dietro la carretta.

L'uragano allora scoppiava con rabbia estrema. I lampi si succedevano ai lampi, i tuoni scrosciavano con estrema intensità, toccando tutta la gamma in meno di un minuto, e sul mare si udiva il vento a fischiare ed a ruggire, mentre le onde schizzavano la spuma perfino dentro la piccola finestra della caverna.

I pirati avevano fatta irruzione dentro la galleria emettendo urla di vittoria, ma si erano subito arrestati dinanzi alla seconda, la quale pareva che dovesse presentare una resistenza non minore.

Le loro grida di vittoria si cambiarono ben presto in urla di rabbia, di delusione. Pure, decisi a vendicare i loro compagni, l'avevano assalita percuotendola col tronco d'un albero, quando in lontananza si udì a tuonare un colpo di cannone, seguito poco dopo da un secondo sparo.

L'assalto cessò bruscamente. Si udirono ancora delle grida, ma che parevano diventassero rapidamente più fioche.

— Se ne sono andati, — disse Albani, che ascoltava rattenendo il respiro.

— Sì, — disse Enrico. — Quegli spari erano segnali di pericolo.

— Amici miei, ringraziate quest'uragano.

— Alla finestra, signore, gridò Piccolo Tonno. — Potremo vedere la nave a uscire dalla piccola rada. —

Il veneziano si diresse verso la finestra e guardò fuori. Il mare aveva preso un aspetto pauroso. Immense ondate, d'una tinta verde cupa, correvano all'impazzata verso le spiagge dell'isola, frangendovisi contro con indescrivibile violenza, mentre un vento impetuoso sconvolgeva le nere masse di vapori e le folgori descrivevano i loro pericolosi angoli.

Si vedevano le alte piante che rizzavansi sulla cima delle rupi, torcersi come fuscelli di paglia sotto le sferzate dall'uragano, mentre le foglie ed i rami volteggiavano in tutti i sensi.

— È un vero ciclone, — disse il marinaio. — Non vorrei essere sul tia-kau-ting.

— Non abbandonerà la cala di certo, — rispose Piccolo Tonno.

— E allora le onde lo frangeranno contro le scogliere, — disse Albani. — La cala non ha alcun riparo e saranno costretti a prendere il largo.

— Speriamo che si affoghino tutti, — disse Enrico. — Ecco che doppia quel capo!... Guardate, signor Albani! —

Il veneziano volse gli sguardi verso il nord e vide infatti il tia-kau-ting fuggire verso l'est, con le sole vele basse terzaruolate. Balzava disperatamente sulle onde, ora apparendo sulle creste spumanti ed ora scomparendo nei baratri mobili.

— Che il mare v'ingoi tutti!... — gridò il marinaio. — Ecco il mio augurio! —

Pochi minuti dopo la piccola nave scompariva sul fosco orizzonte, mentre la bufera si scatenava con estrema violenza.

Capitolo XXVI Il varo della «Roma»

Durante tutta la giornata e l'intera notte, l'uragano imperversò senza interruzione, sollevando il mare a mostruosa altezza, atterrando grande numero d'alberi, specialmente lungo le spiagge e allagando le bassure. Il tuono non stette zitto un solo momento, con grande spavento degli animali rinchiusi nella caverna.

I Robinson, quantunque ardessero dal desiderio di visitare la costa settentrionale per constatare la gravità dei danni e per assicurarsi se i pirati avevano scoperti i loro vivai ai quali molto tenevano, essendo assai ricchi di pesci e di testuggini, non furono capaci di lasciare il loro rifugio.

All'indomani però un vigoroso colpo di vento dell'est ricacciò le nubi all'ovest, ed il sole tornò a mostrarsi.

Sapendo ormai che il bel tempo doveva durare poco, per essere prossima la stagione delle piogge, i naufraghi della Liguria approfittarono subito di quella calma per recarsi sulla costa.

Attaccarono il babirussa al carretto e seguendo la spiaggia, si diressero verso il luogo ove due giorni prima sorgeva la loro elegante e ardita capanna aerea.

Dei pirati non vi era più alcuna traccia, avendo portato con loro non solo le armi degli uomini colpiti dalle freccie mortali, ma anche i cadaveri. Solamente alcune palle di spingarda erano state abbandonate fuori dalla caverna.

L'uragano aveva prodotto grandi guasti lungo la costa che percorrevano. Numerosi alberi erano stati atterrati dalla furia del vento e dalle folgori e molti altri erano privi di foglie e di rami. Il suolo poi era sparso di frutta d'ogni specie, di cespugli divelti e di ammassi di piante arrampicanti, specialmente di nepentes e di calamus.

Quando giunsero sulla spiaggia, presso la piccola cala, un grande sconforto li invase, scorgendo le distruzioni barbare fatte dai pirati. La grande capanna era stata completamente fracassata, sventrata ed i pezzi delle pertiche di sostegno avevano servito alla cucina di quei feroci scorridori del mare; le palizzate del recinto erano state divelte e giacevano all'ingiro ridotte in pezzi; il campicello era stato pure devastato e calpestato, ma fortunatamente essendo le pianticelle appena spuntate, non erano state strappate.

— Miserabili! — esclamò il marinaio, che pareva dovesse scoppiare. — Quale devastazione!... Bel gusto rovinare la nostra capanna e le nostre cinte!

— Non scoraggiamoci, amici, — disse Albani. — L'energia non ci manca ed in una settimana potremo riparare a tutto.

— Rifabbricheremo un'altra capanna?

— E più ampia della prima, Enrico. La piantagione di bambù è pronta a darci quanto legname ci sarà necessario. Andiamo a vedere se hanno risparmiato i nostri vivai. —

Ebbero la consolazione di trovarli intatti. Essendo nascosti dietro a delle rupi piuttosto elevate, erano sfuggiti ai devastatori, i quali non si erano certo occupati di perlustrare le coste.

Contenti di quella scoperta, visitarono la piccola cala sperando che i pirati, nella loro partenza precipitosa, avessero abbandonato sulla spiaggia qualche oggetto che poteva essere utilissimo, ma non trovarono che l'albero del trinchetto del tia-kau-ting e per di più affatto privo di qualsiasi cordame.

Esaminatolo, s'accorsero che a metà altezza era stato profondamente intaccato da un proiettile che doveva essere stato di calibro considerevole.

— Con questo guasto non avrebbero potuto continuare il loro viaggio, — disse Albani. — Hanno approdato qui per ricambiarlo, prevedendo non lontana l'epoca delle grandi piogge le quali provocano sovente degli uragani formidabili.

— È vero, — confermò Enrico.

— Credete che il tia-kau-ting si sia salvato dall'uragano? — chiese Piccolo Tonno.

— Uhm!... Ho i miei dubbi, — rispose Albani. — Non sarei sorpreso se un giorno, le correnti o le onde, trascinassero qui i suoi rottami. Orsù, amici miei, riprendiamo i nostri arnesi e torniamo a fare i falegnami. Le grandi piogge non sono lontane e avremo appena il tempo necessario per rifabbricare la capanna.

— Abbiamo la caverna, signore, — disse Piccolo Tonno.

— Ma preferisco la capanna, — disse Enrico. — Là dentro mi pareva di essere in prigione. Al lavoro! —

I tre Robinson non perdettero il loro tempo. La piantagione di bambù non era lontana che pochi passi e fornì loro il legname occorrente per rifabbricarsi la loro capanna aerea e le cinte per gli animali.

Per una settimana intera lavorarono con lena febbrile, dall'alba al tramonto, non prendendo che dei brevi riposi. La stagione delle piogge incalzava, e ogni giorno, verso sera, il cielo si copriva di nubi le quali poi si scioglievano in abbondanti acquazzoni.

La capanna ricostruita nel medesimo posto ove prima sorgeva, era più vasta, più comoda e più solida, avendo raddoppiato i pali di sostegno ed allargato il tetto in modo che riparasse tutta la terrazza anteriore.

Dieci giorni dopo anche la cinta destinata agli animali era terminata. Anche questa era più vasta e riparata da una tettoia per difendere i quadrupedi, i quadrumani ed i volatili dalle piogge.

Finalmente ripararono anche il campicello che il mozzo, in quel frattempo, aveva zappato, circondandolo d'una palizzata per difenderlo dai guasti che potevano produrre gli animali selvaggi. Terminati tutti quei lavori, si recarono alla caverna per ricondurre gli animali. Le povere bestie, quantunque il mozzo avesse provveduto a loro, tutti i giorni, foglie fresche e acqua in abbondanza, pareva che avessero sofferto da quella specie di prigionia entro quella caverna poco arieggiata e poco illuminata e si mostrarono molto soddisfatte ritornando al recinto.

Il 25 ottobre il marinaio e Albani, approfittando del bel tempo, fecero una rapida esplorazione nei boschi della costa orientale. Già da parecchi giorni li tormentava un desiderio intenso: quello di scoprire il cadavere del pirata che per poco non li aveva sorpresi, mentre si erano nascosti sull'albero. Speravano che fosse sfuggito alle ricerche dei suoi compagni e di ritrovare il suo fucile e le sue munizioni.

Avendo attraversato quella parte della foresta correndo, non era facile ritrovare l'albero su cui si erano nascosti, ma dopo lunghe e pazienti indagini riuscirono finalmente a scoprire il cadavere, ma non rimaneva che uno scheletro malamente scarnato dalle tigri. Il fucile e le munizioni erano scomparse, portate via certamente dagli altri pirati, però in un cespuglio vicino trovarono una corta ma pesante sciabola d'acciaio che poteva essere a loro di molta utilità.

— Ci gioverà nella costruzione della scialuppa, — disse Albani.

— Siete ancora deciso a fabbricarla? — chiese il marinaio.

— Sì, poichè ho sempre il vivo desiderio di visitare le coste meridionali dell'isola.

— Volete trovare gli uomini che hanno perduta la capsula e che hanno acceso quel fuoco, da voi scorto dall'alto della montagna?

— Sì, Enrico.

— Purchè i pirati non li abbiano uccisi.

— Non possono essersi spinti fino alle coste meridionali dell'isola. Non sarebbero accorsi così presto ad assediarci nella caverna. Ritorniamo, amico mio; il tempo ricomincia a rannuvolarsi e fra breve avremo dell'altra pioggia. Ormai la buona stagione è terminata. —

Il veneziano non s'ingannava. L'indomani le piogge dirotte cominciarono con grande violenza e quasi senza interruzione.

Dall'alba al tramonto e anche gran parte della notte, acquazzoni violentissimi si succedevano accompagnati da lampi abbaglianti e da scrosci così formidabili, che pareva che l'isola intera dovesse subissarsi.

Venti furiosi soffiavano di frequente, sconvolgendo il mare, il quale rompevasi disordinatamente sulle spiagge e causando dei bruschi abbassamenti di temperatura, specialmente alla notte.

Torrenti e stagni si formavano in tutte le parti dell'isola correndo verso il mare, ma quell'umidità, anzichè danneggiare le boscaglie, ne favoriva lo sviluppo. Anche il campicello si avvantaggiava molto, poichè le patate dolci, le cipolle ed i grossi tuberi crescevano a vista d'occhio.

La mattina del 16 novembre la Roma prese il largo.... (Pag.186 ).

I nostri Robinson non potevano però abbandonare la capanna aerea, ma non rimanevano inoperosi e trovavano il modo d'occupare il loro tempo.

Avevano costruito un fornello d'argilla che avevano collocato nell'interno della loro casa e seduti dinanzi al fuoco, accomodavano le loro vesti già molto sdrucite in quelle frequenti corse in mezzo ai boschi o si cucivano delle nuove giacche colle vele che ancora possedevano, o il signor Albani dava lezione di scrittura ai due marinai, i quali facevano progressi straordinarii, quantunque dapprima si fossero mostrati molto restii, non avendo mai stretto fra le dita una penna.

Sembrerà molto strano che si fossero provvisti perfino di carta, d'inchiostro e di penne, pure il signor Albani non si era mostrato molto imbarazzato a trovare tutto ciò in quell'isola deserta.

La foresta, ancora la foresta, gli aveva somministrato tutto.

Per ottenere la carta era ricorso ai gluga (Broussonetica papyrifera) chiamati dai giavanesi e dai malesi daluwang, perchè ne ricavano la carta conosciuta con tale nome.

Per ottenerla, il signor Albani aveva scelto alcune piante adulte, ne aveva staccata la corteccia e l'aveva lasciata macerare, dopo d'averla tagliata in pezzetti quadrati. Dopo alcuni giorni l'aveva levata, quindi battuta con una specie di spatola di legno, riunendola in fogli più o meno grandi, i quali asciugandosi avevano poi preso la voluta consistenza.

Avrebbe dovuto immergerla in una soluzione di acqua di riso per renderla più levigata, ma non avendone, si era accontentato di bagnarla in una colla assai diluita di fecola di sagù, ottenendo eguale successo.

Con questo processo molto semplice, usato da secoli da tutti i popoli della Malesia, aveva ottenuto un centinaio di fogli di carta abbastanza buona, sulla quale si esercitavano i due marinai.

Le penne le aveva ricavata dall' arenga saccharifera. Questa pianta preziosa, oltre dare, come già dicemmo, il toddi, o liquore zuccherino, il tuwah o liquore inebriante, le fibre di gomuti per fare delle funi solidissime che non marciscono anche tenute in acqua lunghissimo tempo ed una specie di cotone che viene adoperato come esca e che può anche essere filato, somministra ai malesi ed ai giavanesi anche le penne da scrivere. Per ottenerle si scelgono le fibre più grosse che stanno fra le foglie e che servono per la fabbricazione del gomuti e vengono adoperate per scrivere, ma più come pennello che come penna.

Non potendo trovare di meglio, non avendo trovato nè oche, nè anitre, i due marinai dovettero adattarsi e non si trovarono scontenti poichè i loro sgorbi riuscivano egualmente.

Più difficile fu procurarsi l'inchiostro, ma dopo lunghe ricerche anche quell'ultima difficoltà fu vinta con successo insperato, e fu ancora la foresta che lo somministrò.

In una delle sue escursioni, il signor Albani aveva veduto parecchi alberi conosciuti sotto il nome eucalyptus microcorys o di alberi-sevo, così chiamati perchè dopo tagliati conservano una certa untuosità.

Dapprima non vi aveva fatto alcun caso, quantunque non ignorasse che da quelle piante si estrae un olio essenziale molto adoperato e ricercato dai verniciatori, ma essendosi poi rammentato che dalle scheggie di quei tronchi, tenute immerse un certo tempo, si ricavava del buon inchiostro, aveva voluto fare la prova.

Tagliati alcuni pezzetti li aveva messi in una pentola piena d'acqua, mettendovi entro un pezzo di ferro e dopo tre giorni aveva ottenuto un inchiostro nerissimo e di buona qualità, che scorreva facilmente sulla carta di gluga.

Come si vede i naufraghi, mercè la loro instancabile attività, potevano attendere tranquilli il termine della stagione delle piogge, senza annoiarsi e senza inquietudini.

Quindici giorni dopo però la furia delle piogge era cessata. Pioveva ancora e con grande violenza, ma ad intervalli e per lo più al mattino e verso sera, in causa dei venti del sud che accumulavano, in quelle ore, grandi masse di vapori sopra l'isola.

I Robinson decisero di approfittare di quei momenti di sosta per realizzare il loro grande progetto, ossia di costruirsi una scialuppa. Non avevano ancora scordata la capsula trovata nel bosco, nè la colonna di fumo che avevano scorto dall'alto della montagna e ardevano dal desiderio di conoscere i misteriosi individui che abitavano le sponde meridionali dell'isola.

Un canotto era necessario, non osando attraversare tutte le foreste che li dividevano da quelle lontane spiagge, prima perchè ormai sapevano come fossero popolate da numerose tigri, poi perchè in caso di pericolo difficilmente avrebbero potuto ritornare sollecitamente alla loro capanna per difendere le loro ricchezze radunate con tante fatiche, e portare soccorso a colui che avrebbe dovuto rimanere a guardia della possessione.

Con una scialuppa a vela, il ritorno invece sarebbe stato più facile e più pronto.

La grande difficoltà stava però nel modo di costruirla. Gli alberi non mancavano di certo, ma erano gli attrezzi che scarseggiavano, non possedendo che la scure, la sciabola del pirata ed alcuni punteruoli per forare, ottenuti colle sbarre di ferro dei pennoni. Se avessero dovuto scavare un tronco con quelle sole armi, avrebbero dovuto impiegare dei mesi e poi, avrebbe resistita la scure, che era già stata mezza consumata, avendola arrotata almeno venti volte?...

— Se adoperassimo il fuoco? — disse il marinaio. — Io so che gl'isolani del Grand'Oceano non adoperano altro mezzo, signore.

— Ecco un'idea che mi era sfuggita, — disse il veneziano. — Col fuoco possiamo riuscire, ma è la pianta che bisognerà trovare.

— So dove si trova un durion di dimensioni gigantesche, signor Albani, — disse il mozzo.

— Purchè non sia molto lontano dalla spiaggia.

— A pochi passi; dalla piattaforma possiamo scorgerlo.

— Andiamo a vedere. —

Uscirono dalla capanna ed il mozzo indicò ai compagni un albero enorme che si rizzava presso una piccola cala, situata dietro la caverna marina che aveva servito a loro di primo rifugio la notte che erano approdati.

Quel durion era alto più di quaranta metri ed aveva un diametro di due e mezzo. Atterrandolo in modo da farlo cadere verso la sponda, il varo della scialuppa poteva diventare facile.

— Approfittiamo di questo po' di tempo, — disse il veneziano. — Domani mattina il tronco può essere a terra.

Presero la scure e si diressero verso quella piccola insenatura, la cui sponda scendeva dolcemente verso il mare, come un piccolo cantiere.

Il durion s'alzava proprio sul ciglione della ripa e tagliandolo o bruciandolo alla base, doveva necessariamente inclinarsi verso l'acqua.

— Ci risparmierà delle lunghe fatiche, — disse il veneziano, dopo d'aver esaminato il terreno. — Fare scendere in acqua la scialuppa, sarà cosa facile. Animo, amici, tagliamo alcuni giovani alberi che poi ci serviranno per far scorrere il tronco del durion, quando sarà giunto il momento del varo. —

Poco lontani dalla spiaggia crescevano alcuni gruppi di mangostani, alberi che hanno il tronco liscio e perfettamente rotondo.

Ne abbatterono quattro e collocarono i tronchi sulla spiaggia, ad una distanza di quattro metri l'un dall'altro, poi assalirono la base dell'albero gigante con grande lena.

Era un lavoro aspro e lunghissimo, ma non possedendo una sega, non avevano la scelta dei mezzi. Se fosse stato secco, avrebbero potuto accendere un fuoco intorno alla base del colosso, ma quella corteccia era troppo umida per incendiarsi.

Tutto il giorno lavorarono di scure, scambiandosi di mezz'ora in mezz'ora, ma le tenebre calarono senza che fossero riusciti a tagliare la metà del durion.

Avendo però levata tutta intorno la scorza, radunarono un grande numero di rami secchi e li accesero, sperando di carbonizzare una parte delle fibre interne, semplificando il lavoro dell'indomani.

Le loro speranze non andarono deluse, poichè all'alba trovarono il piede del colosso in gran parte carbonizzato. Con pochi colpi di scure potevano ormai abbatterlo.

Premendo a loro di farlo cadere dalla parte del mare e precisamente sui tronchi dei mangostani, mandarono lo Sciancatello sul colosso a legare dei rotang, poi mentre il mozzo vibrava gli ultimi colpi di scure, il veneziano ed il marinaio si collocarono sulle due sponde della piccola cala, operando delle vigorose strappate con quelle solidissime fibre vegetali. Anche il mias li aiutava, mettendo in opera il suo vigore straordinario.

Alle dieci del mattino l'albero gigante, dopo una breve oscillazione, cadeva con grande fracasso, precipitando sui tronchi dei mangostani. I suoi immensi rami s'immersero nelle acque della cala, sollevando una vera ondata.

— Hurrà!... hurrà!... — urlarono i due marinai, giocondamente.

— Il più è fatto ormai, — disse il signor Albani, che non era meno lieto dei compagni. — Fra quindici giorni avremo finalmente anche la scialuppa. —

Essendo il tronco lungo quaranta metri, decisero di abbruciarlo in gran parte, bastando dieci metri per la costruzione della loro scialuppa.

Il mozzo fu incaricato di quel lavoro, operazione facile non dovendo far altro che raccogliere legna e badare che il fuoco non si spegnesse. Il marinaio ed il veneziano s'occuparono della costruzione del galleggiante.

Continuando però la stagione delle piogge, furono prima costretti a innalzare una tettoia per lavorare al coperto. Furono ancora i bambù che fornirono a loro il legname necessario e di facile lavorazione.

Tre giorni dopo, il veneziano ed i suoi compagni si mettevano al lavoro.

Mentre il mozzo manteneva un fuoco infernale attorno al tronco, carbonizzando lentamente la parte che non era necessaria, il veneziano ed il marinaio maneggiavano la scure e la pesante sciabola del pirata, per spianare la parte superiore del colosso.

Ottenuto lo spianamento, ricorsero anche loro al fuoco, accumulando grandi quantità di carboni accesi, i quali, a poco a poco, distruggevano le fibre interne del durion che poi venivano accuratamente livellate.

Dodici giorni furono necessarii per scavare l'albero, altri tre per tagliare la prua e altrettanti per la poppa.

Il 28 ottobre collocavano le panchine e l'albero, il 29 il timone veniva messo a posto, ed il 30, alle dieci del mattino, la scialuppa veniva varata nella piccola baia, fra gli hurrà dei due marinai.

Quell'imbarcazione misurava nove metri e poteva stazzare sei tonnellate. Era un po' pesante, ma galleggiava benissimo e sotto vela doveva filare molto bene.

— Diamole un nome, signore, — disse il marinaio, prima di alzare la vela.

— Le daremo un nome che ricordi la nostra patria lontana, — disse il veneziano.

Si levò il cappello di fibre di rotang e con voce commossa gridò:

— Viva la nostra Roma!...

— Viva la Roma!... Hurrà!... hurrà!... hurrà!... — urlarono i marinai, scoprendosi il capo.

— Su la vela, — disse Albani. — Alla barra, Piccolo Tonno. —

Il pennone fu issato sull'alberetto, portando in alto la vela, la quale si gonfiò sotto la brezza del nord-est. Il marinaio legò la scotta, ed il mozzo mise la barra all'orza.

La Roma virò di bordo sul posto, rasentò la spiaggia a tribordo, superò la piccola scogliera che si staccava dalla caverna marina e si slanciò sulle onde, inclinata graziosamente a babordo.

Filava come un uccello marino, balzando leggermente sui flutti e spezzando le onde spumeggianti. Pareva che avesse perduta la sua pesantezza e che non trovasse alcuna difficoltà nelle brusche virate di bordo, che il marinaio ed il mozzo le facevano fare.

Dopo d'aver bordeggiato un po' al largo, i Robinson piegarono verso l'est volendo visitare quella parte della spiaggia che si univa alla loro caverna e che non avevano ancora potuto osservare in causa delle alte rupi, tagliate quasi a picco, che la difendevano.

Essendo il vento favorevolissimo anche pel ritorno, soffiando da levante, misero la prora verso il sud-est, tenendosi a breve distanza dalla costa.

Numerose scogliere difendevano l'isola da quel lato, alte assai, sventrate, minate dall'eterna azione dei flutti. Si vedevano sovente delle caverne marine assai spaziose, entro le quali si precipitavano, con fragore assordante, le onde e dove di quando in quando si vedevano uscire dei tentacoli armati di ventose.

Pareva che in quelle nere cavità abbondassero dei grossi polipi, dei cefalopodi, non però così grandi come quello che aveva assalito i naufraghi la notte che erano approdati su quell'isola.

Anche i pesci abbondavano e si vedevano a nuotare in grande numero, attraverso le acque trasparenti e tranquille dei piccoli seni.

Il veneziano che osservava attentamente, vedendo il mozzo immergere rapidamente un braccio armato di coltello per colpire una specie di raja col corpo assai appiattito e arrotondato in forma di disco, colle natatoie pettorali assai ampie e la coda piatta, che passava presso la poppa, con un grido lo arrestò.

— Imprudente!... —

Il mozzo lo guardò con sorpresa.

— Era un bel pesce che avrebbe potuto servirci da cena, signore, — disse.

— Ma che ti avrebbe intorpidito, — rispose Albani. — Le scariche elettriche di quei pesci sono tutt'altro che piacevoli.

— Ma cos'era adunque?...

— Una torpedine.

— Alla larga, — disse Enrico. — Conosco quei pesci diabolici.

— Io non ne ho mai veduti, — disse il mozzo.

— Ti dirò allora che posseggono una vera batteria elettrica; è vero, signor Albani?

— Sì, Enrico, una batteria che intorpidisce le membra e che fa strappare delle urla di dolore a chi riceve la scarica.

— Ma io non avevo già intenzione di prendere quel pesce colle mani, ma di colpirlo col coltello.

— Avresti ricevuto egualmente la scossa, ragazzo mio. Quei pesci possiedono tale potenza fulminante, da comunicarla perfino alle corde delle reti tenute in mano dai pescatori.

Ho veduto una volta dei pescatori a cadere, per aver messo i piedi su delle sabbie, sotto le quali si erano nascoste le torpedini.

— Ma che posseggano una vera batteria elettrica nel loro corpo? — chiese il marinaio.

— Qualche cosa di simile, Enrico. Il loro apparecchio è formato da tanti piccoli dischi di una sostanza speciale, semitrasparente, disposti in pile verticali e racchiusi in vani sovrapposti, le cui divisioni membranose ricevono una grande quantità di vasi e di fili nervosi che vanno a terminare alla superficie dei dischi.

— Così armati, quei pesci non si lascieranno certo mangiare dai loro nemici.

— No, poichè possono fulminarli anche ad una certa distanza, ma dopo la prima scarica perdono gran parte della loro potenza difensiva e....

— Che cosa?...

— Guardate laggiù, presso quella scogliera, — disse Albani, che si era improvvisamente alzato. — Non scorgete qualche cosa, che le onde trastullano?

— Sì, — dissero i due marinai. — Si direbbe un rottame.

— Governa laggiù, Piccolo Tonno, — disse il veneziano. —

La scialuppa si scostò dalla spiaggia dirigendosi verso una massa nerastra, che cozzava contro una fila di scoglietti a fior d'acqua.

Pochi minuti dopo la raggiungeva. Era un rottame, un pezzo di poppa d'una piccola nave, dipinta di nero, sul cui fasciame esterno si scorgevano delle lettere biancastre, ma che ormai l'acqua salata aveva corrose e rese indecifrabili.

— Mille terremoti! — esclamò il marinaio. — O io m'inganno assai o questa è la poppa del tia-kau-ting dei pirati.

— Lo credo anch'io, — disse Albani. — Mi ricordo di aver scorto sulla sua poppa delle lettere e dei fregi bianchi.

— Dio ha punito quelle canaglie, signore. Il mare ha inghiottito tutti.

— Lo avevo previsto. Era impossibile che con una nave così piccola potessero affrontare quel formidabile uragano. Ora almeno potremo intraprendere il nostro viaggio attorno all'isola, senza temere un improvviso loro ritorno. —

Essendo il sole prossimo al tramonto e temendo che il vento cambiasse direzione, virarono di bordo e un'ora dopo ritornavano alla piccola cala.

— Siete contenti, amici? — chiese il veneziano, sbarcando.

— Così contento, signore, che io non lascierò più quest'isola, — disse il marinaio.

— E nemmeno io, — disse Piccolo Tonno. — Rimarrò qui per sempre, dovessero venire dieci navi a prendermi. Cosa manca a noi?... Siamo sbarcati senza un tozzo di pane, ed ora siamo più felici di un re. Cosa potremmo desiderare di più?...

— È vero, signore; e tutto ciò lo dobbiamo alla vostra attività e alla vostra scienza, — aggiunse Enrico.

— Grazie, signor Albani: a voi dobbiamo la vita.

— Abbracciatemi, amici, — disse il veneziano, commosso. Sono felice di avervi fatti contenti. —

Capitolo XXVII Gl'incendiarii della «Liguria»

Venti giorni dopo il varo della scialuppa, essendo ormai cessata la stagione delle piogge, cominciarono i preparativi della partenza, essendo risoluti ad esplorare le sponde meridionali dell'isola, per conoscere i misteriosi individui che abitavano quella parte della loro possessione.

Non potendo abbandonare gli animali ed i volatili che si trovavano nel recinto, nè il campicello che poteva venire saccheggiato dalle scimmie, avevano deliberato che il mozzo dovesse rimanere a guardia della capanna. Del resto, il ragazzo aveva accettato ben volentieri di rimanere a terra in compagnia di Sciancatello e delle due scimmie, premendogli di conservare le ricchezze accumulate con tante fatiche.

La mattina del 16 novembre, il veneziano ed il marinaio, dopo d'aver imbarcate delle provviste capaci di nutrirli per una settimana e di aver abbracciato Piccolo Tonno, salivano sulla scialuppa.

— Ti raccomando la capanna ed i nostri animali, — disse Albani al ragazzo. — Se il vento ci sarà favorevole, fra quattro giorni contiamo di essere di ritorno.

— Non temete, signore, — rispose il mozzo. — Avrò cura degli animali e del campicello. Buon viaggio, signore. —

La Roma prese il largo e oltrepassata la piccola penisola che chiudeva la baia verso occidente, virò di bordo costeggiando l'isola. Il mozzo, dall'alto d'una rupe, con Sciancatello a fianco, li salutava col cappello di fibre di rotang.

Era una splendida mattina: il cielo era purissimo, d'un azzurro profondo, ed il sole splendeva in tutto il suo fulgore, salendo rapidamente sull'orizzonte.

Il mare tranquillissimo, s'increspava appena appena sotto i soffi regolari del venticello dell'est. Solamente presso le spiagge si rompevano le onde della risacca, balzando e rimbalzando e sfasciandosi in una pioggia di pagliuzze d'oro.

La scialuppa filava rapidamente, colla vela ben gonfia, tenendosi a quattrocento metri dalle spiagge, lasciandosi a poppa una scia biancheggiante e perfetta.

Il marinaio si era messo presso la scotta e masticava beatamente il suo siri, ed il signor Albani si era seduto accanto alla barra del timone.

Le coste dell'isola fuggivano rapidamente, ma i due Robinson potevano osservarle con loro comodo, mantenendo sempre la scialuppa a breve distanza. Il signor Albani, che si era munito di carta e di penna, tracciava le punte, le piccole baie, le scogliere, dando a tutte un nome.

Così aveva notate le baie Aida Maria e Principessa Elena, i capi Savoia e Piemonte, la punta Ischia, e le scogliere Venezia, Rialto e Pellestrina.

Le coste si mantenevano però sempre assai alte e dirupate, rendendo difficili gli approdi. Sulle cime i boschi si succedevano ai boschi con poche interruzioni, prodotte per lo più da spaccature profonde causate, a quanto pareva, da antichi torrenti.

Si vedevano macchioni di alberi del garofano, di arecche, di tamarindi, di cocchi bellissimi, di goiani, di mangostani, di cedri selvatici; enormi alberi della canfora le cui esalazioni giungevano perfino alla scialuppa, di durion altissimi e di bambù smisurati.

Grande numero di uccelli volteggiavano sulle sponde, sulle scogliere e sopra quei macchioni si vedevano bande di pappagalli d'ogni colore, di loris rossi ma colla gola nera, di cacatoe nere e bianche, di terenguloni col dorso color di smeraldo, la coda azzurra ed il ventre giallo dorato; di rondini salangane, leggiadri uccelli di mare color turchino metallico sopra e nero lucentissimo sotto; di splendidi fagiani, di epimachi reali neri, turchini, verdi e rossi, e di alcioni i quali volteggiavano superbamente sopra la superficie del mare.

Verso il mezzodì, nel momento che stavano rosicchiando alcuni biscotti, i due Robinson scorsero, in fondo ad una baia dalle sponde tagliate a picco, degli alberi così enormi, da strappare a entrambi delle esclamazioni di sorpresa.

Erano alti più di cento metri e così grossi che otto uomini non sarebbero stati capaci di abbracciarli. Rassomigliavano alle querci giganti della California, ma portavano dei fiori rossi, molto larghi, i quali tramandavano un profumo così acuto che si espandeva per parecchie centinaia di metri sul mare.

— Cosa sono? — chiese il marinaio.

— Non lo saprei, — disse Albani, — ma somigliano a certi alberi scoperti ultimamente nell'isola di Formosa.

— Quei colossi devono avere un bel numero di anni.

— Certo, Enrico.

— Ditemi, signore, vivono molto gli alberi?

— Delle migliaia d'anni, taluni.

— Delle migliaia d'anni!... Volete burlarvi di me, signore?...

— Niente affatto. Si sa che gli ontani, per esempio, vivono in media 360 anni, l'edera 450, gl'ippocastani 600, gli ulivi 700, i cedri 850, e le quercie perfino 1500.

— Fulmini!... Millecinquecento anni!...

— Oh ma vi sono delle piante che hanno l'esistenza ben più lunga. Gli annali botanici ricordano dei tigli di 2000 anni, dei castagni e dei platani di 1200 anni e anche dei rosai celebri che varcarono i dieci secoli. Gli alberi che hanno maggior durata sarebbero invece i baobab, alberi enormi che crescono in Africa e se ne sono veduti alcuni, ai quali i botanici non hanno esitato a dare sessanta secoli di vita.

— Seimila anni!...

— Sì, Enrico.

— E gli animali che campano di più, quali sarebbero?

— Le tartarughe giganti dell'Imalaya.

— Credevo che fossero gli elefanti.

— No, poichè quelle tartarughe possono campare cinque o seicento anni.

— Che bella esistenza!...

— Forse non tanto bella, poichè quelle testuggini, rinchiuse nelle loro rocce, passano degli anni interi in una specie di torpore. Bada alla vela, Enrico: vi sono delle scogliere subacquee dinanzi a noi e dobbiamo evitarle con cura. —

Infatti dinanzi alla scialuppa si vedevano emergere, attraverso l'acqua profonda ma trasparente, delle punte grigiastre le quali avevano delle ramificazioni strane. Alcuni di quegli scoglietti erano rotondi ma altri, che si trovavano ad una profondità maggiore, rassomigliavano a tronchi sostenenti dei rami, i quali si allungavano assai in varie direzioni.

— Sono scogli coralliferi, — disse Albani, che li osservava con viva curiosità. — Sono in lavorazione e fra pochi anni e forse prima, tutti quei rami giungeranno a fior d'acqua.

— Ma sono coralli vivi? — chiese il marinaio, stupito.

— Vivi, Enrico: guarda all'estremità di quei rami: cosa vedi?...

— Ma.... non saprei; come dei fiorellini.

— Sono gruppi di polipi corallini.

— Ma come fanno quei molluschi, che mi dissero essere gelatinosi e piccolissimi, a costruire questi scogli che sembrano di granito?

— È una cosa facilissima a spiegarsi. Un giorno qualunque, alla profondità di quaranta o cinquanta metri, si fissa un polipo corallino. Si nutre, cresce, mette dei rami come una pianta e produce delle uova le quali si fissano, dopo un certo tempo, a breve distanza. Nascono altri polipi, crescono e cominciano anche loro a ramificare.

La piccola colonia a poco a poco ingrandisce, s'intreccia e forma dapprima un banco rudimentale che gl'indigeni chiamano ordinariamente focaccie di corallo.

Su quel banco spuntano migliaia di altre gemme, migliaia di altri rami che poi si solidificano e s'innalzano, s'allargano e continuano a intrecciarsi finchè giungono a fior d'acqua. Solamente allora le costruzioni cessano, poichè i polipi rifuggono dalla luce del sole, ma se non s'innalzano più, continuano però ad allargarsi.

Le onde spezzano sovente quei coralli, ma quei guasti sono tosto riparati, anzi i detriti corallini servono a rinforzare, a cementare sempre più ed a rialzare il banco. Ecco adunque lo scoglio costruito, scoglio che col tempo, continuando il lavoro dei polipi, può diventare un'isola.

— Il corallo che serve di base alle isole costruite dai polipi, è eguale a quello che noi peschiamo sulle coste della Sicilia, della Sardegna e dell'Algeria?

— No, Enrico, il corallo nobile che ha quella bella tinta rosea o rossa non si trova che nel nostro Mediterraneo. I nostri polipai sono di specie un po' diversa e le piante sono rivestite da una specie di membrana con fiori da cui escono i polipetti.

— Ma da cosa derivano quelle belle tinte rosse?...

— Una volta si credeva che la tinta provenisse dall'ossido di ferro, ma ora si sa invece che la si deve ad una particolarità di polipi.

— E la nostra isola, credete che sia stata costruita dai polipi coralliferi?

— No, Enrico.... ma.... guarda lassù!...

— Dove? — chiese il marinaio.

— Su quella rupe. —

Il marinaio guardò nella direzione indicata e non senza una viva sorpresa, scorse una pertica altissima, sulla quale ondeggiava uno straccio bianco.

— Un segnale?... — chiese egli.

— Così sembra, — rispose il veneziano, cacciando la ribolla del timone all'orza.

— Ma collocato lassù da chi?...

— Forse dagli individui che hanno perduto quella capsula.

— Ma allora devono essere marinai; dei selvaggi non avrebbero innalzato quel segnale di soccorso.

— Lo credo anch'io, Enrico.

— Che ci sia qualche carta, ai piedi di quell'albero?...

— È precisamente per accertarmi di ciò, che dirigo la scialuppa verso quella rupe.

— Forse sapremo chi sono quegli uomini, signore, — disse il marinaio.

— Speriamolo. —

Virarono di bordo e diressero la scialuppa verso la sponda. In quel punto la costa si ripiegava formando una profonda insenatura, chiusa all'estremità da una grande rupe che si innalzava per ottanta o novanta metri.

Tutto il ciglione dell'alta spiaggia era coperto d'alberi, sopra i quali si vedevano svolazzare grandi stormi di anhinga, uccelli che hanno il collo così lungo che valsero a loro il nome di uccelli serpenti, sormontato da una testa piccola, affilata, cilindrica, con un becco acuto e diritto.

Questi volatili sono valenti nuotatori, avendo i piedi palmati, ma a terra si trascinano penosamente. Diffidenti assai, non meritano un colpo di fucile, poichè la loro carne è detestabile come quella dei cormorani.

Arenata la scialuppa su di un piccolo banco di sabbia, il signor Albani ed il marinaio si misero a scalare la rupe, aggrappandosi ai rotang che pendevano dall'alto e puntando i piedi nelle fessure.

In dieci minuti si trovarono sulla cima, dinanzi a quella specie d'albero sormontato dallo straccio. Un cumulo di sassi s'innalzava presso la base e pareva che nascondesse qualche cosa.

— Vi è qualche documento lì sotto, — disse il veneziano. —

Con una scossa fece crollare quel cumulo ed ai loro occhi apparve una bottiglia, sulla quale stava scritto in lettere dorate:

« Marsala-Palermo »

I due Robinson si guardarono in viso l'un l'altro, colla più grande sorpresa.

— Marsala! — esclamò Albani. — Che questa bottiglia abbia appartenuto ad una nave italiana?...

— Guardate se contiene qualche documento, signore, — disse il marinaio, che pareva in preda ad una viva emozione. —

Il veneziano l'alzò esponendola contro i raggi del sole e vide nell'interno un pezzo di carta.

Spezzò il vetro, s'impadronì del documento, lo spiegò e lesse queste righe, tracciate con una matita:

« Harry Tompson e Marino Novelli-naufragati il 6 settembre 1840-punta meridionale dell'isola. »

Due grida irruppero dalle labbra dei Robinson, una di sorpresa, ma l'altra feroce.

— I maltesi!... — aveva esclamato il veneziano.

— I traditori!... — aveva urlato il marinaio, con intraducibile accento d'odio. — Andrò a ucciderli!... —

Capitolo XXVIII Una triste scoperta

In seguito a quali vicende i due maltesi, che erano fuggiti su una scialuppa pochi istanti prima che il fuoco scoppiasse a bordo della Liguria, erano tornati indietro, mentre parevano diretti verso le coste settentrionali del Borneo?...

Erano stati respinti da una tempesta o dopo d'aver errato tredici giorni per l'ampio mare di Sulu, a corto di viveri e forse senz'acqua, erano tornati verso il nord per cercare di approdare su qualche isola dell'Arcipelago?...

Comunque fosse, ormai i Robinson sapevano chi erano gli individui che abitavano le sponde meridionali dell'isola e sapevano ormai con quali individui, forse ancora pericolosi, avevano da fare.

— I traditori!... — aveva esclamato il marinaio, con voce rauca!... — Andrò a ucciderli! —

Il signor Albani nulla aveva risposto a quella fiera minaccia che tradiva l'odio nutrito dal marinaio verso gli autori, forse volontarii, della tremenda catastrofe. Si era limitato ad incrociare le braccia sul petto, guardando tranquillamente il viso del genovese, ancora alterato da una collera selvaggia.

— Giù un sorso, — continuò il marinaio, porgendogli una fiaschetta.... (Pag.200 ).

— Imbarchiamoci, signore, — disse Enrico. — Andremo a vendicare le vittime della Liguria. —

Il signor Albani non si mosse. Forse nel suo cuore, in quel momento, si combatteva un'aspra battaglia fra il desiderio di tutto obliare e quello di seguire la legittima collera del vendicativo marinaio.

— No, Enrico, — disse ad un tratto. — Il sole sta per tramontare e non conosciamo questi paraggi, che possono nascondere delle scogliere pericolose alla nostra scialuppa.

— Ci terremo lontani dalle sponde, signore.

— Non abbiamo nessuna fretta e possiamo accamparci su questa rupe.

— La fretta l'ho io, signor Albani. Li sorprenderemo nel sonno, i due miserabili, e li uccideremo.

— Non dobbiamo erigerci a giustizieri, noi, Enrico.

— Vorreste lasciarli vivere ancora?...

— La sventura li avrà domati.

— Hanno fatto saltare la nave, signore.

— Forse c'inganniamo. Chissà, l'incendio può averlo prodotto il caso.

— Ah!... no, non perdonerò mai a loro!...

— Perdono io.

— Voi!...

— Sì, Enrico. Io non permetterò che i Robinson italiani, macchino la loro isola con un delitto. No, amico mio, siamo generosi e cerchiamo invece di unire i nostri sforzi a quelli di loro pel bene di tutti.

— Ma.... signor Albani....

— Se sono colpevoli, penserà Dio a punirli.

— E sia, — disse il marinaio, — ma prima udranno se la mia voce tuonerà contro le loro infamie.

— Va' a legare il canotto, mentre io improvviserò un ricovero.

— Siete deciso ad accamparvi su questa rupe?

— Non è prudenza avventurarci su queste sponde che noi non conosciamo e che possono nascondere delle scogliere subacquee pericolose. All'alba spiegheremo le vele ed a mezzodì toccheremo di certo le coste meridionali dell'isola. —

Il marinaio, che pareva avesse spenti i suoi propositi di vendetta, scese la rupe e andò a legare la scialuppa onde impedire al flusso di portarla al largo, mentre il signor Albani, tagliate alcune foglie di arecche e alcuni rami, improvvisava un riparo.

Cenato con una kakatoa nera arrostita al mattino e con pochi biscotti, si misero accanto le cerbottane e s'addormentarono, certi di non venire disturbati su quell'alta rupe che era quasi tagliata a picco.

La notte fu tranquilla. Furono svegliati parecchie volte dalle grida rauche delle tigri, ma nessuno di quei pericolosi animali osò scalare la grande rupe.

All'alba i due Robinson si rimettevano in viaggio, con una fresca brezza che soffiava dal nord al nord-ovest.

Il tempo si manteneva splendido ed il mare tranquillo e solamente presso le sponde, la risacca lo sconvolgeva fortemente, in causa forse della grande profondità dell'acqua e della ripidità delle coste.

L'isola cominciava ormai a ripiegare verso il sud-est, ma senza baie e senza sporgenze. La grande montagna che dominava quel lembo di terra perduta nel mare di Sulu, era già molto lontana.

Fra breve la scialuppa doveva girare l'estrema punta meridionale, la quale si allungava in forma d'una penisola piuttosto stretta e molto bassa, poichè quando le foreste mostravano delle aperture, il marinaio, tenendosi ritto sul banco, riusciva a scorgere il mare delle coste orientali.

Verso le dieci, il signor Albani additava una lunga scogliera, e sulla spiaggia un'altra pertica sulla cui cima si agitava uno straccio.

— Devono avere laggiù la loro capanna, — disse il veneziano. — Quella punta è la più meridionale dell'isola.

— Ah! sono laggiù, — disse il marinaio, aggrottando la fronte. — Canaglie!... Sono curioso di vedere quale cera assumeranno vedendo le loro vittime.

— L'isolamento e la lotta per l'esistenza li avranno domati, Enrico.

— Non lascierò la mia cerbottana però, e al primo atto offensivo, vi giuro, signor Albani, che invierò due frecce avvelenate a quei traditori. —

La scialuppa fu diretta verso quel segnale, il quale sorgeva a fianco d'un fitto macchione di alberi altissimi. I due naufraghi aguzzavano gli sguardi sperando di veder apparire sulla spiaggia i due traditori, ma invano.

Solamente degli anhinga stavano appollaiati sulle scogliere, come uccelli che nulla hanno da temere.

— Che se ne siano andati? — disse il marinaio. — Se quei volatili, che sono ordinariamente così diffidenti, rimangono là, vuol dire che non ci sono abitanti su quella costa.

— Lo sapremo presto, — rispose il veneziano, che pareva un po' contrariato.

In pochi minuti la scialuppa superò la distanza e si arenò entro un piccolo seno riparato da una scogliera corallifera

La legarono ad una punta rocciosa, s'armarono delle cerbottane, non sapendo quale accoglienza avrebbero potuto ricevere e sbarcarono. Le prime cose che caddero sotto i loro sguardi, furono i rottami d'una scialuppa: un pezzo di poppa, un pezzo di chiglia e un pezzo di fasciame su cui stava ancora dipinto, in lettere rosse: Liguria-Genova.

— Sono adunque naufragati? — si chiese il veneziano.

— Così deve essere, — rispose il marinaio. — Le onde hanno infranto la loro scialuppa contro queste scogliere. Dio li ha puniti.

— Ma dove sarà la loro capanna?...

— Forse dietro quella macchia. —

Salirono la sponda e s'internarono nella macchia, procedendo con precauzione e senza far rumore. Fatti pochi passi, si trovarono dinanzi ad una casupola col tetto semi-sfondato, costruita con rami d'albero e cinta da una piccola palizzata di bambù.

All'intorno si vedevano delle penne di uccelli, dei tizzoni semi-spenti, dei pezzi di bottiglie e degli stracci. Un odore acre, insopportabile, usciva da quella piccola costruzione.

— Vi è qualche cosa che imputridisce là dentro, — disse il marinaio, arrestandosi.

— È odore di carne corrotta, — disse il veneziano, impallidendo. — Che i due naufraghi siano morti?...

— O che si siano uccisi?... È odore di morto.

— Andiamo innanzi, Enrico.

— Proviamo a chiamarli prima. Ohe!.. Marino!.. Harry!.. —

Nessuno rispose alla chiamata. Invece uscirono parecchi strani animaletti somiglianti ai ricci, ma più grandi, col corpo irto di aculei, ma col muso lungo e sottile, con una bocca piccolissima munita di certe lamine cornee e le zampe armate di artigli.

— Cosa sono? — chiese il marinaio, balzando indietro.

— Echidnei, — rispose il veneziano. — Sono i più strani animali che esistano, e si ignora ancora il loro modo di generare essendo conformati più come gli uccelli, che come gli animali.

— Sono pericolosi?...

— No, poichè non possono nemmeno mordere. Andiamo avanti, Enrico. —

Malgrado l'orribile fetore che usciva, i due Robinson entrarono nella catapecchia, ma subito si arrestarono, soffocando un grido d'orrore.

Colà, disteso su di un mucchio di foglie secche, stava un uomo coi lineamenti spaventosamente alterati, magro come un fakiro indiano, col petto ossuto semi-nudo, le mani contratte convulsivamente, e già in piena putrefazione.

Intorno a lui vi erano un fucile, una scatola che doveva aver contenuto della polvere, gli avanzi di un pesce e alcuni stracci.

Un solo sguardo, bastò ai due Robinson per riconoscere quell'uomo.

— Harry!... — esclamarono.

— Morto, — disse il marinaio. — Forse assassinato dal suo compagno.

— No, — disse Albani. — Non vedo alcuna ferita su di lui.

— Ucciso da qualche male, forse? —

Il veneziano, invece di rispondere, si curvò sugli avanzi di quel pesce.

— La giustizia di Dio lo ha punito, — mormorò. —

Raccolse il fucile, osservò la scatola per vedere se conteneva ancora della polvere, ma la rigettò via essendosi accorto che era vuota, poi uscì rapidamente seguito dal marinaio.

— Cerchiamo Marino, — disse. — Se ha mangiato quel pesce, non deve essere andato molto lontano.

— Quel pesce?... Ma cosa è accaduto, signore? — chiese Enrico.

— Quel disgraziato Harry è morto avvelenato.

— In quale modo?...

— Ha mangiato un tetrodone.

— Non vi comprendo.

— È un pesce velenosissimo. Forse quei due naufraghi, che devono aver sofferto delle lunghe privazioni dopo d'aver esaurite le loro munizioni, a giudicarlo dalla magrezza spaventosa di Harry, hanno pescato dei tetrodoni e si sono avvelenati.

— Ma sono pericolosi quei pesci?...

— Sì, Enrico. In questi mari, come pure in quelli dell'Australia e nell'Oceano Pacifico, vi sono alcuni pesci che non si possono mangiare senza pericolo. Quiros e Cook, i due grandi navigatori, per poco non morirono avendo mangiato certi pesci somiglianti agli spari e gl'isolani di queste regioni sanno che i tetrodoni sono velenosissimi.

— Ma Marino?...

— O è fuggito vedendo morire il suo compagno, od è caduto nella foresta.

— Lasciamo che le tigri se lo mangino e ritorniamo alla nostra capanna. Sono inquieto per Piccolo Tonno.

— No, Enrico, dobbiamo prima assicurarci della sorte di Marino.

— Ma forse le tigri avranno divorato il suo cadavere.

— Sarà rimasto il fucile.

— Credete che questi furfanti abbiano esaurite le munizioni?

— Ne sono certo. Devono essere fuggiti con poche cariche.

— E si saranno trovati presto alle prese colla fame, mentre noi, sbarcati senz'armi, senza nulla, nuotiamo nell'abbondanza per merito tutto vostro, poichè senza di voi, io e Piccolo Tonno ci saremmo ben presto trovati nelle istesse condizioni dei due maltesi. Pure in quest'isola abbondano gli alberi fruttiferi, e per due marinai non doveva essere difficile procurarsi dei mangostani, dei durion, delle noci di cocco, ecc.

— E credi tu che le frutte possano bastare, Enrico?... Per alcuni giorni sì, ma poi le forze se ne vanno se non si mangiano delle materie fecolose o della carne. Chissà quali scorpacciate di frutta avranno fatte quei due disgraziati per ingannare la fame insaziabile che li rodeva, ma hai veduto in quale stato abbiamo trovato Harry e.... To'!... Cos'è questo? —

Si era curvato lestamente e si era impadronito d'una scatoletta che si trovava semi-nascosta fra le foglie secche.

— Una scatola da capsule vuota, — disse. — Questa è prova che le loro munizioni sono state esaurite.

— Zitto, signore.

— Cos'hai?...

— Guardate!...

— Dove?...

— Lassù, su quell'altura!... È lui!... —

Capitolo XXIX Il maltese

Erano allora usciti dal macchione che copriva quella penisoletta, formante il limite estremo della costa meridionale.

Il terreno saliva dolcemente formando una specie di collina ingombra di gruppi di arecche, di banani selvatici, di cespugli e di rotang i quali si allungavano sul pendio in forma di smisurati serpenti.

Un uomo saliva penosamente l'altura, appoggiandosi ad un bastone. Poteva avere trent'anni: era di statura alta, ma magro al punto che le sue vesti stracciate gli danzavano attorno le membra ischeletrite.

I suoi capelli e la sua barba incolta e nerissima, gli davano un aspetto poco rassicurante, selvaggio.

— È lui, Marino! — ripetè il marinaio.

— In quello stato!... — esclamò Albani, con voce commossa. — Se tardavamo a rintracciarlo, non avremmo trovato che un cadavere.

— Ehi, Marino! — gridò il marinaio, che pareva avesse dimenticato completamente i suoi propositi di vendetta.

Il maltese udendosi chiamare per nome si arrestò di botto, girando intorno uno sguardo smarrito, poi facendo uno sforzo supremo cercò di affrettare il passo, come se volesse fuggire.

— Fermati, disgraziato, — gridò il veneziano. — Non ti vogliamo fare alcun male. —

Il naufrago però pareva che non lo udisse. S'aggrappava ai cespugli, agli sterpi, ai sassi e continuava a fuggire verso la sommità del colle. Doveva però essere esausto di forze, poichè traballava ad ogni passo e sembrava che dovesse cadere per non più rialzarsi.

I due Robinson si erano messi a inseguirlo, scalando rapidamente le rupi e intimandogli di fermarsi, ma senza buon esito. Una paura invincibile doveva aver invaso il maltese, il quale ormai doveva aver riconosciuto i suoi inseguitori.

Ad un tratto però, dopo d'aver superata una rupe, le forze bruscamente lo abbandonarono e cadde in mezzo ad un cespuglio, senz'essere più capace di risollevarsi.

Albani ed il marinaio in pochi salti lo raggiunsero.

— Disgraziato, dove volevi fuggire? — gli chiese il primo.

Il maltese aprì due occhi semi-spenti e disse con voce rauca:

— I vendicatori!... Tanto meglio: sarà finita.

— No, i vendicatori, — disse Albani. — Non spetta a noi vendicare le vittime della Liguria da voi incendiata. —

Nell'udire quelle parole, un lampo aveva illuminato gli sguardi del maltese.

— Incendiata!... — esclamò. — Da chi incendiata?...

Poi fissando uno sguardo bestiale sulle loro tasche che apparivano gonfie, mormorò con voce semi-spenta:

— Muoio di fame! —

Il marinaio si sentì toccare il cuore da quella domanda. Prese una manata di biscotti e glieli porse, dicendogli con una certa emozione, che invano cercava di nascondere:

— Prendi, camerata. —

Il maltese si gettò su quei biscotti coll'avidità d'un lupo a digiuno da tre settimane, stritolandoli voracemente.

— Giù un sorso, — continuò il marinaio, porgendogli una fiaschetta di bambù piena di succo fermentato dell'arenga saccarifera. — Ti farà bene, camerata. —

Il naufrago ingollò il contenuto, poi restituì la fiaschetta dicendo:

— Grazie, Enrico: ecco come voi pagate le canaglie della mia specie!

— Lascia andare: noi abbiamo dimenticato tutto, è vero, signor Albani?...

— Sì, — rispose il veneziano.

Il maltese li guardò a lungo, mentre i suoi occhi incavati si riempivano a poco a poco di lagrime.

— Ma è vero che la Liguria è stata incendiata? — chiese egli, con un singhiozzo.

— Sì, — rispose Albani con voce grave. — Voi avete commessa un'infamia che ha costato la vita a quasi tutto l'equipaggio.

— Ma no, signore! — esclamò il maltese. — Harry mi aveva giurato d'aver dato fuoco a pochi stracci imbevuti di petrolio per spaventare l'equipaggio e impedirgli di darci la caccia.

— Ed invece aveva dato fuoco alla dispensa per scatenare un incendio tremendo e far saltare la nave.

— Allora quell'infame ha mentito!... Signor Albani, Enrico, vi giuro sulla memoria di mia madre che io non ho acceso quel fuoco e che Harry mi aveva ingannato. Ma.... e così.... è saltata la Liguria?...

— Con tutto l'equipaggio.

— Allora appiccatemi: voi ne avete il diritto.

— No, la terra dei Robinson italiani non si macchierà d'un delitto: ti portiamo il perdono. —

Il maltese si era precipitato alle loro ginocchia, piangendo. Il marinaio ed il veneziano lo rialzarono dicendo:

— Non se ne parli più; tutto è dimenticato.

— Grazie, signori: io sarò, d'ora innanzi, il vostro schiavo.

— No, schiavo, ma nostro amico. Seguici alla scialuppa.

— No per di là, — disse il maltese con terrore, vedendo il veneziano scendere in direzione della capanna. — Là vi è Harry.

— Lo abbiamo veduto. Dimmi: è molto tempo che è morto?

— Sette giorni, signore.

— In quale modo?

— Mangiando un pesce.

— Lo avevo sospettato.

— Io mi ero recato nella foresta per cercare delle frutta, non avendo ormai più nulla da porre sotto i denti, e Harry si era recato alla spiaggia per cercare delle ostriche. Quando ritornai, lo vidi rotolarsi per terra in preda a dolori atroci.

Credetti dapprima che fosse stato morsicato da un serpente velenoso, ma alla mia domanda m'indicò gli avanzi d'un pesce che aveva arrostito a poi mangiato.

Cercai di calmare i suoi dolori, facendo bollire in una scatola di latta delle erbe che credevo medicinali, ma tre ore dopo il disgraziato aveva cessato di vivere.

Allora mi prese una paura invincibile e fuggii su questa collina. Erano sette giorni che io erravo fra queste macchie come una belva feroce, sfinito dalla fame, senza aver più il coraggio di scendere alla capanna.

Abbiamo sofferto, sapete, signore: voi vedete in quale stato miserando io sono ridotto. Sono pelle ed ossa. —

— Ma non vi eravate diretti verso le coste del Borneo?

— È vero, signore, ma non possedendo alcuna bussola e temendo di smarrirci sempre più, ritornammo al nord sperando di raggiungere l'Arcipelago di Sulu, finchè una notte naufragammo su queste coste.

La scialuppa si era sfasciata contro le scogliere ed a grande fatica potemmo toccare terra con un fucile, trenta cariche e alcune bottiglie di Marsala.

Finchè avemmo polvere e palle potemmo vivere alla meglio abbattendo degli uccelli, ma quando terminammo le munizioni ci trovammo ben presto alle prese colla fame. Le frutta della foresta non erano sufficienti a mantenerci in forze e soffrimmo dei digiuni tremendi che ci ridussero a scheletri viventi.

— Una domanda.

— Parlate, signore.

— Sapevi che noi eravamo qui?...

— Sì, — rispose il maltese. — Avevamo intrapreso un viaggio nell'interno dell'isola sperando di trovare degli indigeni, ed un giorno vi scorgemmo mentre stavate coltivando un campicello.

— E perchè non siete venuti a chiedere ospitalità?

— Per paura di venire presi e appiccati, come ne avreste avuto il diritto. Ma.... avevamo anche veduto il Piccolo Tonno; è rimasto nella scialuppa forse?...

— No, alla capanna.

— Una capanna, un campicello, una scialuppa, un recinto con degli animali, delle scimmie!... Ah!... Quanto v'invidiavamo, signor Albani!... Voi in mezzo all'abbondanza e noi morenti di fame. Oh!... l'abbiamo espiato il nostro delitto, credetelo.

— Non avrai più nulla da invidiarci, Marino. D'ora innanzi farai parte della nostra famiglia e tutti lavoreremo pel benessere della nostra piccola colonia. Alla scialuppa, Enrico: più nulla abbiamo da fare qui. —

Scesero la collina e aprendosi un passaggio attraverso alla foresta, giunsero sulla spiaggia che percorsero fino alla piccola baia, presso la quale stava legata la scialuppa.

Volsero un ultimo sguardo alla catapecchia sotto la quale il maltese Harry dormiva l'eterno sonno, spiegarono la vela e presero frettolosamente il largo girando la penisola, volendo visitare le coste orientali della loro possessione.

Quella penisola fu chiamata di Harry, a ricordo del disgraziato maltese.

Il mare non era più tranquillo come prima, essendo cresciuta la brezza. Larghe ondate venivano dall'est e correvano a infrangersi, con grande fragore, sulle scogliere dell'isola, rimbalzando e spumeggiando.

Anche il cielo, che al mattino era limpidissimo, andava coprendosi di nuvole le quali salivano dal sud-sud-est, minacciando d'invadere tutta la vôlta celeste e di rovesciare sull'isola un furioso acquazzone.

I Robinson però, vedendo che la scialuppa, malgrado la sua pesante costruzione si manteneva benissimo, balzando agilmente sulle onde, continuavano a tenersi al largo, avendo fretta di giungere alla loro abitazione.

Il signor Albani tuttavia non si ristava dal rilevare le spiagge dell'isola, assegnando nomi alle piccole insenature, ai capi, alle penisolette e alle scogliere.

Verso le quattro del pomeriggio, lo stato del mare peggiorò tanto da far nascere delle inquietudini. Delle ondate altissime continuavano a salire dall'est, minacciando di subissare la scialuppa, e raffiche impetuose gonfiavano la vela il cui albero si curvava in modo da temere che dovesse spezzarsi.

— Sono ondate di fondo, — disse il veneziano. — Qualche violenta tempesta deve essere scoppiata verso l'est.

— Pure stamane il cielo era limpido ed il mare tranquillo, — disse Enrico. — Noi non abbiamo udito alcun tuono.

— Le ondate di fondo, che sono prodotte dalla lunga continuazione d'una violentissima bufera, percorrono delle distanze incredibili, Enrico. Forse la tempesta che ha mosso questi cavalloni è scoppiata a parecchie centinaia di miglia dalla nostra isola, forse nei paraggi delle isole Sanghir, cioè nel mare delle Celebes o più oltre, alle Molucche od a Mindanao.

— E voi credete che queste onde possano percorrere tali distanze senza perdere la loro forza?...

— Sì, Enrico. Nell'Oceano Pacifico si sono osservate delle ondate di fondo che venivano da più di mille miglia.

— Ditemi, signor Albani, è vero che in certe tempeste si sono osservate delle onde alte qualche centinaio di metri?... Se devo dire il vero, io non ne ho mai vedute.

— Sono frottole spacciate dai marinai. È bensì vero che per coloro che sono a bordo delle navi, specialmente piccole, sembra che le montagne d'acqua abbiano delle altezze inverosimili, ma si è constatato che in media quelle altezze si riducono a pochi metri.

— Oh! questo poi....

— È verissimo, Enrico. Delle osservazioni accuratissime fatte nell'Oceano Atlantico durante delle furiose tempeste, hanno limitato quelle altezze a soli sei metri, però se ne sono vedute di quelle che toccavano i nove e anche i tredici.

— È sempre una bella altezza.

— Presso il Capo Horn invece ne furono vedute di quelle che toccavano i quindici metri ed il navigatore Dumont d'Urville affermò di averne vedute talune che superavano i trentatrè metri.

— Quali urti poderosi devono produrre quelle masse!

— Tremendi senza dubbio, per le navi che devono sopportarle. Bada alla scotta: sta per giungere una raffica impetuosa, Enrico. —

Il vento cresceva di violenza rapidamente col calare delle tenebre, soffiando dall'ovest, ossia da terra e le onde raddoppiavano la rabbia scagliandosi con maggior furia contro la scialuppa.

I Robinson erano allora giunti in un luogo pericolosissimo, essendo irto di banchi e di scoglietti a fior d'acqua, difficilissimi ad evitarsi.

Non essendo prudente tenersi in mare coll'uragano che cresceva a vista d'occhio, e con quella scialuppa che era così pesante e sprovvista di chiglia, decisero di poggiare verso la costa.

Disgraziatamente i banchi e le scogliere crescevano di numero sulla loro sinistra, e per colmo di sventura il vento era contrario e tendeva a ricacciarli al largo.

— Mille terremoti! — esclamò il genovese, che cominciava a diventare inquieto. — Temo che sia una cosa assai difficile l'approdare, signor Albani. Bisogna virare al largo o noi perderemo la scialuppa.

— Non scorgi alcun passaggio fra le scogliere?

— È impossibile vederlo, con quest'oscurità che ci piomba addosso e con questa spuma che rimbalza dovunque. Corriamo il pericolo di urtare.

— E al largo le onde ingrossano, — disse Marino.

— Tentiamo la sorte, amici.

— Vi dico che è impossibile, signore, — ripetè Enrico. — Qui non si passa.

— Allora viriamo al largo. —

Volsero la poppa all'isola e s'allontanarono verso l'est per girare quei banchi e quelle scogliere, ma pareva che si estendessero assai, poichè a due miglia di distanza si vedevano le onde a rimbalzare a prodigiosa altezza, come se trovassero degli ostacoli continui.

Il mare intanto non cessava dall'ingrossare spaventosamente ed il vento ululava sinistramente fra l'attrezzatura della piccola scialuppa. La notte era calata con grande rapidità e quelle tenebre, che solo di tratto in tratto venivano rotte da qualche lampo, rendevano maggiormente critica la situazione dei Robinson, poichè non potevano quasi più scorgere i frangenti che si moltiplicavano dinanzi a loro.

Enrico, a prora, sbarrava gli occhi e segnalava al veneziano i luoghi ove le onde si rompevano, ma non sempre riusciva a scorgere le scogliere o presentire la vicinanza dei banchi subacquei. Già due volte la scialuppa aveva toccato uno di quei numerosi ostacoli, correndo il pericolo di rovesciarsi o di spaccarsi.

Marino, colla scotta in mano, si teneva pronto a stringere il vento od a lasciar andare la vela, mentre Albani manovrava il lungo remo che serviva di timone.

Si erano già allontanati dall'isola cinque o sei miglia, ma quella fila di scogli continuava a pararsi dinanzi a loro senza permettere il passaggio. La scialuppa fortunatamente resisteva alla furia del vento e del mare, ma danzava disperatamente, precipitando negli avvallamenti dei marosi con delle scosse inquietanti e di quando in quando imbarcava acqua.

Ad un tratto, al chiarore d'un lampo, Enrico scorse verso l'est una massa oscura che sembrava uno scoglio di grandi dimensioni od un isolotto.

— Fulmini e terremoti! — esclamò.

— Cos'hai? — chiese Albani.

— Temo, signore, che dovremo spingerci assai lontani se vorremo girare questa dannata catena di frangenti. Mi sembra che si spinga fino a quell'isolotto che ho scorto all'est.

— Lontano assai?...

— Parecchie miglia di certo. —

Albani, non ostante il suo coraggio straordinario, provò una vera inquietudine.

— Se tentassimo di ritornare? — disse.

— Avremo le onde a prora, signore, — risposero Enrico e Marino.

— È vero, e la scialuppa correrebbe il pericolo di subissarsi di colpo, ma non oso spingermi tanto lontano dall'isola, amici.

— La scialuppa resiste, signore, — disse il genovese. — Se possiamo girare queste scogliere, troveremo al di là un mare più tranquillo, servendoci tutti questi ostacoli d'argine.

— Ma le onde aumentano e minacciano di spezzarmi il remo, ed il vento soffia sempre più impetuoso dall'ovest.

— Dannato uragano! — esclamò Enrico. — Orsù, bisogna andare innanzi, signore. Il pericolo è dinanzi come dietro a noi.

— Prendi un'altra mano di terzaruoli, Marino, — disse Albani. — Avanti, e che Dio ci protegga! —

La scialuppa, spinta da quel ventaccio furioso che aumentava sempre, filava come una freccia. Malgrado la sua pesantezza, saliva arditamente le onde librandosi sulle creste spumeggianti come un'alcione, poi precipitava negli avvallamenti, quindi risaliva ancora, ma imbarcava sempre acqua.

Enrico aveva dovuto abbandonare il suo posto d'osservazione a prora, e col suo cappellaccio di fibre di rotang, s'affannava a vuotarla per renderla più leggiera.

Le scogliere intanto continuavano sul tribordo. Al chiarore dei lampi si vedevano emergere le loro punte nere e aguzze, e attorno ad esse il mare si rompeva con mille muggiti paurosi, lanciando a grande altezza delle colonne di spuma.

Lo scoglio segnalato dal marinaio, lo si scorgeva ormai distintamente alla luce livida dei lampi. Pareva l'estremità d'un monte sottomarino, coi fianchi dirupati, la base corrosa in mille modi dall'eterna azione delle onde. Attorno a quel picco solitario, si vedevano le onde sfasciarsi con rabbia estrema e la spuma lo circondava da ogni parte come se presso di esso si estendessero altri scoglietti.

— Attenzione, signor Albani! — gridò d'improvviso Enrico, che aveva ripreso il suo posto a prora. — Dei frangenti a babordo!... —

Il veneziano, che si era alzato per essere più pronto ad agire, cacciò il remo all'orza, mentre Marino lasciava scorrere la scotta della vela.

La scialuppa era allora giunta di fronte allo scoglio e si preparava a girarlo.

— Vedi nulla dinanzi a noi? — chiese Albani.

— Mi pare che il mare sia sgombro dinanzi allo scoglio.

— Possiamo virare?

— Lo credo, signore.

— Vira! — gridò Albani.

Aveva appena lanciato quel comando, che un'onda gigantesca, prendendo la scialuppa di traverso, la scagliò fuori di rotta, verso la fronte orientale dello scoglio.

Avvenne un cozzo violento seguito da tre grida di spavento.

La Roma, rovesciata dall'impeto delle onde, si capovolse, poi scomparve in mezzo alla spuma, mentre l'uragano raddoppiava di violenza.

Capitolo XXX I naufraghi

Pochi istanti dopo quel disastro, che privava i Robinson dell'imbarcazione, un uomo sorgeva fra le onde urlanti che si scagliavano rabbiosamente contro le basi dello scoglio. Era riuscito ad aggrapparsi alle punte di alcuni scoglietti e facendo sforzi disperati per non venire trascinato via dalle contro-ondate, saliva verso la sponda puntando i piedi nei crepacci e cacciando le dita nervose entro le fessure.

Sottrattosi agli assalti brutali dei marosi, s'arrestò gettando all'intorno uno sguardo smarrito. La scialuppa non si vedeva più, ma una forma nera si dibatteva fra la spuma, cercando di approdare.

I naufraghi. (Pag.208 ).

— Signor Albani!... — gridò. — Siete voi?...

— Chi chiama? — chiese il naufrago che si dibatteva.

— Sei tu, Marino?...

— Sì....

— Ed il signor Albani?... —

Una voce che veniva dal largo rispose:

— Eccomi!...

— Mille terremoti! — riprese il genovese, dall'alto della spiaggia.

Dove siete, signore?

— Non inquietarti, Enrico. Le onde mi portano. —

Intanto il maltese, che lottava alla base della rupe, era pure riuscito a mettersi in salvo, ma si era arrestato scrutando i flutti color dell'inchiostro.

— Eccolo laggiù, Enrico, — gridò. — Lo vedo nuotare a cinquanta passi.

— Tenete duro, signore, — tuonò il genovese. — Veniamo in vostro soccorso.

— È inutile, — rispose il veneziano. — Ci sono!... —

Un'onda l'aveva preso e lo spingeva verso lo scoglio. Fu veduto un istante librarsi sulla cresta del cavallone, in vicinanza dei frangenti, poi echeggiò un grido di dolore.

— Fulmini! — tuonò il genovese, impallidendo. — Marino!...

— Eccomi, camerata, — rispose il maltese che scendeva a precipizio la scogliera, per correre in soccorso del povero veneziano.

— Lo vedi?...

— No, — disse Marino con voce strozzata. — Non lo vedo più! —

Enrico si era lasciato scivolare giù dalla china.

Gettò un rapido sguardo sui frangenti approfittando d'un lampo, ma non vide più il signor Albani.

Una terribile commozione scompose i lineamenti del bravo marinaio, mentre un grido di disperazione gli erompeva dal petto.

— Perduto?... Ucciso forse?... — esclamò con voce rotta. — Marino.... Bisogna cercarlo! —

I due marinai, senza badare al pericolo, avevano raggiunta la base dello scoglio e si erano messi a correre lungo i frangenti, lottando disperatamente contro i marosi che minacciavano di travolgerli e di trascinarli al largo.

Parevano impazziti pel dolore. Si cacciavano fra i banchi e le rocce che circondavano la rupe, chiamando ad alta voce il loro disgraziato compagno; cadevano sotto l'assalto brutale, irresistibile, delle acque, ma si risollevavano e senza badare alle contusioni, alle punte aguzze che rovinavano i loro piedi, continuavano le loro ricerche correndo or qua or là e raddoppiando le chiamate.

Ohimè! Nessuna voce umana rispondeva: solamente i fischi del vento ed i muggiti del mare in tempesta si udivano attorno allo scoglio solitario.

Dopo un'ora di sforzi sovrumani, pesti, sanguinolenti, affranti, scoraggiati, si videro costretti a rinunciare a quella lotta che poteva tornare a loro fatale. Marino dovette trascinare Enrico sulla spiaggia, poichè il bravo marinaio stava per lasciarsi portar via dalle onde, non volendo troncare le ricerche, quantunque non fosse più in grado di reggersi in piedi.

— Vieni, camerata, — disse il maltese, spingendolo sotto una rupe che poteva ripararli dal vento e dalla pioggia che cominciava a cadere a torrenti.

— Bisogna cercarlo ancora, Marino, — singhiozzò il marinaio. — No, non può essere morto.

— Lo cercheremo più tardi. Tu non hai più forze, ed io non posso tenermi in piedi.

— Credi che sia morto?...

— Non disperiamo, Enrico. Le onde possono averlo spinto lontano da qui, sulla sponda di levante o meridionale.

— Ma non ha risposto alle nostre chiamate.

— Questi muggiti non gli avranno permesso di udirci.

— Povero signor Albani! Andiamo a cercarlo, Marino.

— Ma con questa oscurità è impossibile.

— Andiamo, ti dico.

— Ma le onde ti trascineranno.

— Ci terremo sulla spiaggia. Vivo o morto, bisogna che lo trovi. —

Il marinaio, che pareva fuori di sè, si era rialzato facendo appello a tutta la sua energia, e seguìto dal maltese si era messo a percorrere la spiaggia, mescolando le sue chiamate alle urla della bufera.

Di tratto in tratto si arrestavano, credendo di udire fra i fischi del vento, la voce del loro disgraziato compagno, poi riprendevano le ricerche spingendosi fino alla linea dei frangenti.

Pioveva a dirotto e l'oscurità era così profonda da non poter discernere un oggetto qualsiasi a sei passi di distanza, pure i due marinai non s'arrestavano. Curvi per resistere ai soffi tremendi del ventaccio, inzuppati d'acqua, scalzi, avendo perduto i loro stivali già assai malandati, frugavano i crepacci aperti fra le scogliere, entro i quali ingolfavansi le onde con cupi muggiti, le spaccature, le cavità, salendo e discendendo, aiutandosi l'un l'altro.

Raddoppiavano le chiamate per dominare i fragori della tempesta, ma senza mai ottenere una risposta. Esausti, s'arrestarono una seconda volta entro una cavità situata sulla sponda settentrionale dello scoglio.

— È morto, — singhiozzò Enrico. — Il mare lo ha inghiottito. —

Il maltese non rispose: anche lui aveva ormai perduto ogni speranza.

— Cosa faremo noi senza quell'uomo che era la nostra provvidenza? — continuò il marinaio, con crescente disperazione. — Che importa a me ormai di quest'isola senza di lui?... E tutto per salvare voi, incendiarii!

— Enrico! — disse Marino, con dolore.

— Sì, per salvare voi, — ripetè il genovese con voce rauca. — Senza di voi, non avremmo intrapreso questo viaggio fatale.

— È vero, — mormorò il maltese. — Hai ragione d'incolparmi, ma io troverò il signor Albani o il mare m'inghiottirà.

— Ti dico che è morto.

— Troverò almeno il suo cadavere. —

Si era alzato e stava per scendere lo scoglio, quando fra gli urli della bufera gli parve di udire una voce umana. Tornò rapidamente indietro gridando:

— Hai udito, Enrico?... —

Il marinaio, assorto nel suo dolore, parve che non lo avesse inteso.

— Ma non hai udito? — ripetè il maltese, scuotendolo.

— Che cosa? — chiese il marinaio, alzando il capo.

— Una voce umana.

— Dove?

— Laggiù, — disse il maltese indicando la punta estrema dello scoglio.

— Lui, forse?...

— Taci! —

Fra i muggiti delle onde si era udito un grido. Pareva che un uomo invocasse aiuto.

Enrico era balzato in piedi.

— Sì! — esclamò. — Ho udito, Marino.

— Il signor Albani?

— Non lo so, ma accorriamo. —

Si erano lanciati tutti e due innanzi, lasciandosi scivolare per le chine col pericolo di fiaccarsi il collo o di rompersi le gambe sulle scogliere sottostanti.

La voce si udiva sempre, ma ad intervalli e sembrava che fosse proprio quella del signor Albani. Pareva che provenisse dalla punta estrema dello scoglio, ma essendo quella parte assai dirupata ed interrotta da spaccature, da rocce che dovevano essere cadute dall'alto e da frane, i due marinai, che non avevano alcun lume, non potevano procedere speditamente per non cadere nell'abisso aperto dinanzi a loro.

Dopo dieci minuti però, giungevano alla punta estrema, la quale in causa forse della sua forma, era maggiormente dirupata e guastata dalle onde che dovevano batterla senza posa. Sostarono un istante tendendo gli orecchi e udirono distintamente una voce fioca che invocava aiuto, ma pareva che salisse fra le onde.

— Mille milioni di fulmini! — gridò Enrico. — Che il signor Albani sia ancora in acqua?... E non un lume per poterlo scorgere!

— Ma è impossibile che nuoti ancora, — disse il maltese. — Sono già due ore che la scialuppa si è rovesciata, e nessun nuotatore potrebbe resistere tanto tempo con queste ondate.

— Ma viene dal mare, ti dico!... Odi?... —

Non era possibile ingannarsi: la voce echeggiava alla base dello scoglio, ma, cosa strana, questa volta sembrava che uscisse di sotto terra, piuttosto che fra le onde:

— Signor Albani! — gridò Enrico. Siete voi?...

— Sì, — rispose la voce, un istante dopo.

— Nuotate ancora?

— No.... sto per affogare....

— In nome di Dio, ditemi ove siete! —

Questa volta non ottenne alcuna risposta.

— Scendiamo, Marino, — disse Enrico. — Forse sarà aggrappato ai frangenti. —

Scesero la ripa e s'inoltrarono lottando contro le onde che li assalivano da tutte le parti. Tenendosi per mano, per essere pronti ad aiutarsi scambievolmente, giunsero poco dopo dinanzi ad un'apertura nera, che sembrava s'internasse sotto la sponda.

— Una caverna marina! — esclamò il maltese.

— Entriamo, — rispose Enrico con voce risoluta.

— E non affogheremo lì dentro?... Le onde la invadono.

— Non importa: avanti! —

Attesero che le onde spinte innanzi dal vento si rompessero, poi si cacciarono arditamente entro quella oscura galleria, dove l'acqua muggiva e rimuggiva infrangendosi contro le pareti.

— Signor Albani! — gridò Enrico. — Siete qui?

— Aiuto, Enrico, — articolò una voce fioca.

Il marinaio, sospinto da una nuova onda che si rovesciava entro la caverna con mille fragori, si lasciò trascinare innanzi e andò a cadere contro un corpo che non aveva la consistenza della roccia, e che pareva si tenesse coricato in fondo all'antro marino.

Rammentandosi, in quel momento, dell'orribile cefalopodo che lo aveva assalito nella caverna dell'isola, balzò in piedi per fuggire, ma un gemito lo trattenne.

— Ma siete voi, signor Albani? — gridò.

— Aiutami, Enrico, — disse il veneziano. — Le onde mi affogano.

— Mille terremoti!... Voi, signore! Siete ferito forse? — chiese precipitandosi verso il disgraziato compagno.

— Sì, Enrico.... portami via di qui. —

Il marinaio si curvò cercandolo a tastoni, e trovatolo, lo afferrò fra le robuste braccia, serrandoselo contro il petto. Marino veniva in suo aiuto.

Attesero che l'onda si ritirasse, poi abbandonarono precipitosamente la caverna, correndo lungo la spiaggia per non venire trascinati fra i frangenti.

Giunti sotto la sporgenza della rupe che poco prima avevano scoperta, si arrestarono, coricando il signor Albani nel luogo meno esposto alla pioggia e al vento.

— Grazie, amici, — balbettò egli con voce fioca.

— Ditemi, signore, dove siete ferito? — chiese il marinaio reggendogli il capo.

— Sono tutto contuso e ammaccato, ma spero che non sia cosa grave. Mi pare di avere le costole spezzate, tanto violento è stato il colpo ricevuto dall'onda che mi ha scagliato contro i frangenti.

— Gran Dio!

— Rassicurati, Enrico, non sono rotte, — disse Albani, sforzandosi a sorridere. — E la scialuppa?

— Perduta, signore; ma lasciamo che il mare se la porti e occupiamoci di voi. Cosa dobbiamo fare?

— Vorresti chiamare un medico, forse?...

— Scherzate! Ammirabile uomo!

— Lasciami riposare qui e per ora non chiedo di più.

— Ma voi soffrite!

— Bah!... Tutto passerà, Enrico. Domani mattina vedremo se si è guastata qualche molla della mia macchina, ma spero che tutto sia intatto. Sono scombussolato e ben pesto, ecco tutto.

— Ma era molto tempo che vi trovavate nella caverna?

— Un paio d'ore di certo, se non di più.

— Vi hanno spinto le onde?

— Non lo saprei. Quando fui gettato sui frangenti, ricevetti tale urto da smarrire i sensi o poco meno. Cosa sia poi accaduto, io non lo so; quando ritornai in me mi trovai in fondo alla caverna che le onde invadevano, minacciando di affogarmi. Facendo uno sforzo disperato mi trascinai fino all'estremità dell'antro, e là svenni una seconda volta.

— Non avete udito le nostre grida, signore? — chiese Marino.

— Era impossibile udirle, poichè le onde che invadevano la caverna producevano dei fragori assordanti.

— Vi avevo creduto morto, signore, — disse Enrico. — Quale disgrazia per noi, se voi foste mancato!

— Avreste ormai potuto fare anche senza di me.

— No, signore. Senza di voi la nostra isola non avrebbe avuta più alcuna attrattiva.

— Bravo giovane, — mormorò il signor Albani, commosso. — Quanta affezione in questi uomini di mare! —

Capitolo XXXI Sullo scoglio

L'uragano imperversò tutta la notte senza un istante di tregua. Il mare, furiosamente aizzato dal ventaccio impetuoso di ponente, flagellò senza posa lo scoglio con tremendi muggiti, irrompendo con crescente impeto entro le spaccature e le caverne marine, smuovendo dei massi del peso di parecchi quintali e lanciando i suoi sprazzi fino sotto la rupe dove trovavansi rannicchiati i tre naufraghi.

Anche la pioggia continuò a cadere, scrosciando sopra le cime dell'isolotto e scendendo attraverso le balze in torrentacci impetuosi.

Verso l'alba però, le nubi che si erano accumulate in cielo, si ruppero sotto un vigoroso vento del settentrione e l'acquazzone cessò quasi istantaneamente.

Poco dopo il sole fece capolino fra uno squarcio di quelle masse di vapori, fugando bruscamente le tenebre e illuminando il mare ancora tempestoso. L'isola apparve subito verso l'est, ma ad una distanza tale che i naufraghi si guardarono in viso sbigottiti.

— Ma è la nostra isola o un'altra? — si chiese il genovese. — È impossibile che ci siamo allontanati tanto!

— Non ne scorgo altre, — disse Marino. — E poi la nostra deve trovarsi in quella direzione.

— È molto lontana? — chiese Albani, il quale trovandosi ancora coricato, non riusciva a scorgerla bene.

— Almeno venticinque miglia, signore, — rispose Enrico.

— Tanta via abbiamo adunque percorsa ieri sera, per trovare un passaggio fra i frangenti?... Ciò è grave, amici miei. Aiutatemi ad alzarmi.

— No, signore, rimanete coricato; siete ancora assai debole.

— Mi sento meglio, Enrico.

— Ma voi siete ferito, signore. Vedo delle goccie di sangue sui vostri calzoni.

— Ho una contusione sopra il ginocchio destro, ma è nulla, amico mio. Credevo di aver riportato delle ferite ben gravi. —

Appoggiandosi alle braccia del genovese e di Marino, si alzò e guardò verso l'est.

Ad una distanza di venticinque e forse di trenta miglia, si scorgeva l'alta montagna dell'isola, spiccare nettamente sul fondo luminoso del cielo, ma le coste non erano visibili. Una fila di frangenti, staccandosi dallo scoglio, si stendevano in quella direzione, ma quegli scoglietti, tutti di origine corallifera, non erano uniti, anzi pareva che ad una certa distanza, mancassero totalmente. Forse più oltre esistevano quei banchi che avevano impedito alla scialuppa di passare, ma essendo il mare ancora assai agitato, non si potevano scorgere.

— La cosa è grave, — ripetè il signor Albani, che era diventato pensieroso. — Come attraverseremo noi queste venticinque o trenta miglia, ora che abbiamo perduta la scialuppa?... Che siamo destinati a rimanere prigionieri su quest'isolotto?...

— Voi riuscirete a trarvi d'impiccio, signore, — disse Enrico. — Voi sapete tanto che potrete trarre utilità da tutto.

— Ma quest'isolotto mi sembra un arido scoglio privo di tutto, Enrico.

— Non lo abbiamo ancora visitato, signore.

— Aiutatemi a salire quella rupe. Di lassù potremo meglio vedere se la linea dei frangenti si estende fino alla nostra isola e accertarci delle risorse che potrebbe offrire questo scoglio. —

I due marinai passarono le loro braccia sotto le ascelle del veneziano e sorreggendolo lo condussero sulla cima dell'isolotto, il quale alzavasi una cinquantina di metri sul livello del mare.

Di lassù potevano dominare tutto il mare all'intorno, distinguere, un po' confusamente però, le alte sponde della loro isola e riconoscere con un solo sguardo il loro nuovo rifugio.

Il signor Albani non si era ingannato. Quell'isolotto, che sorgeva all'estremità di quella lunga fila di frangenti e di banchi, non poteva offrire a loro alcuna risorsa, nè fornire in modo alcuno, i mezzi per far ritorno alla loro capanna.

Pareva che fosse l'estremità d'un antico vulcano, sollevatosi in causa di qualche cataclisma sottomarino, poichè i suoi fianchi erano coperti di vecchie lave, di lapilli e di incrostazioni marine. Si vedevano soprattutto, anche verso la cima, numerosi gusci di conchiglie e pezzi di quel corallo, così comune in quei mari, dove i piccoli infusorii costruiscono quelle meravigliose scogliere che poi finiscono col diventare delle vere isole.

Quello scoglio aveva però delle dimensioni ragguardevoli, poichè poteva avere una circonferenza di oltre mille metri. Non era tuttavia tutto dirupato: mentre le sue coste meridionali scendevano quasi a picco, quelle settentrionali e occidentali calavano dolcemente e alla base si spianavano formando una vera spiaggia sabbiosa.

Nessun albero cresceva fra quelle rocce; solamente pochi magri cespugli e delle piante sarmentose si vedevano crescere in fondo ai burroncelli, alimentate dalle piogge che dovevano raccogliersi in quelle bassure.

Gli animali dovevano mancare, ma non così gli uccelli, poichè su certe rupi tagliate a picco sul mare, si udivano di quando in quando dei cicalecci allegri.

Probabilmente dovevano essere rondini marine della specie delle salangane, volatili assai comuni in tutte le isole di quegli arcipelaghi e sopratutto in quelle deserte o poco abitate, non amando di essere disturbate.

— E così, signore? — chiese Enrico al veneziano, il quale continuava a osservare l'isolotto. — Credete che si possa riguadagnare la nostra isola?

— Temo, amico mio, che questa avventura inaspettata ci faccia passare dei brutti momenti, — rispose Albani. — Dimmi: credi tu che la scialuppa si sia fracassata contro i frangenti?

— No, signore, poichè si è capovolta prima di toccare la sponda di questo dannato scoglio.

— Se non si è spezzata, galleggerà adunque ancora.

— Lo credo, essendo tutta d'un pezzo e assai pesante.

— Speriamo che le onde l'abbiano spinta sui frangenti e arenata su qualche banco. Senza di quella noi non potremo lasciare quest'isolotto.

— Ma le onde possono averla spinta assai lontana, signore, — osservò Marino. — Il vento soffiava dall'ovest e l'avrà trascinata all'est.

— È vero, — disse Albani, scuotendo il capo.

— Ma vi sono i frangenti, — disse Enrico. — Possiamo, nuotando, passare dall'uno all'altro e avvicinarci all'isola.

— Ma vi sono delle interruzioni considerevoli nella linea, — rispose Albani. — E poi tu sai che in queste acque i pescicani e le torpedini sono numerose e non possediamo ora alcuna arma per difenderci.

— Saremo adunque costretti a perire di fame su questo deserto scoglio?...

— Non disperiamo così presto, Enrico. Quando il mare si sarà calmato, vedremo se i frangenti ed i banchi ci permetteranno di avvicinarci all'isola e poi, chissà, un grande fuoco si potrebbe forse scorgere dalla piattaforma della nostra capanna.

— Avete ancora l'acciarino e l'esca?

— Sì, Enrico, è sempre rinchiuso nella sua scatoletta impermeabile.

— E credete che Piccolo Tonno possa scorgere un fuoco acceso su questo scoglio?

— Forse, poichè io credo che questo vulcanello non sia molto lontano dalla costa settentrionale. Intanto, amici miei, cerchiamo un ricovero e se è possibile qualche cosa da porre sotto i denti. Le conchiglie non devono mancare su quella spiaggia sabbiosa. —

Lasciarono la cima e girando attorno alla base di quel cono vulcanico, riuscirono a scoprire una profonda cavità sufficiente a ripararli dai raggi del sole che erano cocentissimi, essendosi ormai il cielo sgombrato in gran parte dai vapori che lo coprivano.

Il signor Albani e Marino si spogliarono delle loro vesti per metterle ad asciugare, ma Enrico continuò a esplorare l'isolotto colla speranza di trovare arenata la scialuppa o di scoprire, in fondo a qualche burroncello, degli alberi che potessero fornire una zattera.

Le sue ricerche furono però vane, poichè non vi erano che cespugli e anche questi erano poco numerosi e non in grado di fornire un galleggiante qualunque. Visitando però la spiaggia sabbiosa, fece un'ampia raccolta di datteri di mare, di conchiglie di varie specie e trovò anche alcune di quelle deliziose ostriche chiamate di Singapore, pesanti qualche chilogramma. Vide anche numerose tracce di testuggini, ma non riuscì a scoprirne alcuna, quantunque fosse certo che ve ne fossero nascoste in mezzo alle scogliere.

Si provò a sollevare qua e là le sabbie, non ignorando che quei rettili hanno l'abitudine di seppellire le loro uova, ma senza frutto, essendo abilissime nel far sparire le più piccole tracce.

Ritornando trovò anche un serbatoio d'acqua di capacità considerevole, racchiuso fra due rocce profondamente incavate. Quella scoperta lo rallegrò assai, poichè non vi era almeno il pericolo di morire di sete, nel caso che la loro prigionia si prolungasse.

Durante la giornata il mare continuò a mantenersi agitatissimo, impedendo ai naufraghi di poter accertarsi fin dove si estendeva la linea dei frangenti e dove si ergevano i banchi che avevano impedito il passaggio alla scialuppa. Solamente verso sera le onde cominciarono ad abbassarsi, ed a percuotere con meno violenza la base dello scoglio.

Quando le tenebre calarono, i naufraghi riguadagnarono la vetta portando con loro delle piante arrampicanti secche e dei rami strappati ai cespugli, per tentare dei segnali.

Appena giunti sulla cima guardarono verso l'isola, la cui alta montagna si disegnava confusamente sull'orizzonte stellato, cercando di scoprire qualche punto luminoso che indicasse la direzione della capanna aerea.

— Guardate, signor Albani, — disse ad un tratto il maltese, che teneva gli sguardi fissi verso il nord-ovest.

Il veneziano ed Enrico guardarono nella direzione indicata e sul margine estremo della loro isola, quasi a fior d'acqua, scorsero un lumicino che non poteva confondersi colla luce d'una stella.

— È Piccolo Tonno che si prepara la cena dinanzi alla capanna, — disse Enrico. — Se quel bravo ragazzo sapesse che noi lo spiamo ansiosamente e che invochiamo il suo aiuto! Ah! Come sarei contento di dividere il suo pasto!

— Sì, — disse Albani. — Quel fuoco è stato acceso dal ragazzo. Non mi ero ingannato sulla posizione di questo scoglio. Deve essere quello che noi abbiamo scorto dalla finestra della nostra caverna.

— Dunque noi ci troviamo di fronte ai nostri magazzini?

— Se non proprio di fronte, un po' più al sud, ma a venticinque o trenta miglia di distanza.

— Credete che Piccolo Tonno possa scorgere il nostro fuoco?

— Certo, Enrico.

— E che accorra in nostro aiuto?

— Ecco quello che non possiamo sapere. Può temere che il fuoco sia stato acceso da dei pirati e invece di farci dei segnali, fuggire.

— Diavolo, — mormorò Enrico, grattandosi furiosamente la testa. — Ma non vedendoci ritornare, dovrebbe immaginarsi che una disgrazia ci è toccata.

— Ma dovranno trascorrere prima parecchi giorni, non avendogli fissata l'epoca del nostro ritorno. Però, vedendo tutte le sere questo fuoco, finirà forse col persuadersi che si cerca di attirare la sua attenzione. Orsù, accendiamo gli sterpi. —

Radunarono sulla più alta cima del cono le legne portate e le accesero. Una grande fiammata si alzò subito, lanciando in aria nembi di scintille che il venticello notturno spingeva sul mare come tante minuscole stelle.

L'antico vulcano pareva che si fosse risvegliato dal suo sonno secolare. I suoi fianchi, illuminati da quel falò che il vento ravvivava, pareva che si fossero coperti di lave ardenti, mentre il mare tutto all'intorno, si tingeva di riflessi sanguigni.

Quel vivo chiarore, che spiccava nettamente sul fondo oscuro del cielo e sui flutti, non doveva passare inosservato al mozzo, malgrado la notevole distanza che separava lo scoglio dalle sponde settentrionali dell'isola.

Il falò per un quarto d'ora scintillò fra le tenebre, poi non più alimentato si abbassò lentamente, finchè si spense del tutto.

I naufraghi, ritti sulla più alta punta, guardavano sempre verso il nord-est, sperando di vedere il punto luminoso a ingrandirsi, ma invece tutto d'un tratto scomparve.

— Piccolo Tonno non ci ha compresi, — disse Enrico. — Forse si sarà invece spaventato.

— È probabile, — rispose Albani, — ma finirà col persuadersi che questo fuoco è un segnale.

— Ripetiamolo, signore.

— È inutile, Enrico. Piccolo Tonno deve aver scorta questa luce e poi dobbiamo economizzare le piante che sono così scarse su quest'isolotto. Anche mantenendo il fuoco acceso tutta la notte, non riusciremmo a persuadere il mozzo che è un segnale di pericolo.

Ripetendolo per parecchie sere e non vedendoci ritornare, forse s'immaginerà che siamo noi che chiediamo aiuto.

Scendiamo, amici, e andiamo a dormire. —

Essendo inutile vegliare, non avendo da temere assalti da parte di nessuno ed essendo assai stanchi, non avendo dormito la notte precedente, s'affrettarono a ritornare al loro ricovero ed a chiudere gli occhi.

Il loro sonno non fu turbato da alcun incidente e poterono riposare tranquillamente fino allo spuntare del giorno, malgrado i muggiti delle onde, le quali si sfasciavano sempre contro lo scoglio con grande violenza.

L'indomani però, il mare era ritornato calmo. Solamente delle larghe ondulazioni lo percorrevano, rompendosi contro i frangenti.

Inghiottirono alcune dozzine d'ostriche che il maltese era andato a raccogliere sulla spiaggia sabbiosa, poi risalirono sulla vetta del vulcano per vedere se sulla loro isola si scorgeva qualche segnale, ma invano. Nessuna colonna di fumo s'alzava sulle spiagge, nè sulla cima della montagna.

Senza dubbio Piccolo Tonno, non sospettando chi erano gli autori di quel segnale, aveva stimato cosa prudente il non rispondere. Probabilmente aveva creduto che fossero dei pirati o dei pescatori delle Sulu o del Borneo, individui che stavano meglio lontani anzichè cercare di attirarli sull'isola.

Rivolsero allora la loro attenzione sui frangenti, per vedere se era possibile di tentare il passaggio, ma in causa delle larghe ondulazioni che di tratto in tratto si rovesciavano sulle scogliere, non fu possibile scorgere i banchi che dovevano prolungarsi in direzione dell'isola. Bisognava aspettare che il mare tornasse perfettamente calmo.

— Per oggi nulla possiamo tentare, — disse Albani. — Questa sera ripeteremo i segnali e se non avremo alcuna risposta, domani, se il mare sarà tranquillo, ci avventureremo sui frangenti. —

Un po' scoraggiati da quelle delusioni, ridiscesero e si diressero verso la spiaggia per fare raccolta di ostriche, non avendo altro cibo disponibile.

Mentre i due marinai, immersi fino alle ginocchia, frugavano le scogliere vicine raccogliendo gli appetitosi molluschi e cacciando i granchiolini, il signor Albani, quantunque zoppicasse ancora, esplorava l'isolotto sperando di scoprire qualche testuggine o per lo meno qualche buca ripiena d'uova di quei rettili.

Ma le sue ricerche riuscirono infruttuose. Si scorgevano bensì sulle sabbie delle tracce recenti, ma non una testuggine emergeva sulla riva.

Risalì le rocce visitando i burroncelli, sperando di trovare almeno qualche pianta utile, ma non riuscì a vedere che dei cespugli semi-intristiti, delle piante arrampicanti quasi disseccate e degli sterpi. Abbondavano invece le lave, le pomici, specialmente in una valletta che risaliva verso la cima del cono.

Avendo trovato un vero torrente di lava raffreddata, ma che non sembrava tanto vecchia, servendosi d'una grossa pietra spezzò le diverse croste e s'accorse, che a una certa profondità, quella lava conservava ancora un certo calore.

— Cosa fate, signore, — chiese Enrico, che aveva terminata la sua raccolta. — Sperate di trovare qualche tesoro sotto quelle pietre?

— No, guardavo se fra queste lave vi erano delle sostanze minerali che potessero giovarci.

— Dell'oro forse?

— No, ma del ferro.

— E ne avete trovato?

— No, Enrico, ma ho fatto una scoperta curiosa.

— E quale, signore?

— Ho trovato delle lave che conservano ancora un certo calore.

— Delle lave eruttate da questo vulcanello?

— Sì, Enrico.

— E ancora calde! — esclamò il marinaio, con stupore. — Ma allora non è un vulcano spento.

— Se il cratere più non esiste, dev'essere spento.

— Ma noi non lo abbiamo mai veduto eruttare, signore.

— Può essere spento da venti, da cinquanta fors'anche da cento anni.

— Ma se dite che le lave sono ancora calde!... Dovrebbe averle eruttate pochi giorni fa e noi non abbiamo veduta alcuna fiamma in questa direzione.

— Grazie, señor, del vostro aiuto. Senza di voi, noi saremmo stati trascinati.... (Pag.242 ).

— Ti dirò, amico mio, che le lave, coprendosi quasi subito d'una crosta e avendo una irradiazione debolissima, conservano il loro calore per molti anni, anzi secondo taluni scienziati degni di fede, perfino per un secolo.

— Mille terremoti!... Se queste cose me le narrasse un altro, parola da marinaio, che non vi crederei.

— Aggiungerò che l'irradiazione delle lave è così minima, che si sono veduti dei vulcani vomitare massi di ghiaccio e lave insieme.

— Dei massi di ghiaccio uscire da un vulcano fiammeggiante?

— Sì, Enrico. In Islanda questo strano caso si è verificato sovente.

— Ditemi, signore, che sia molto antico questo vulcanello?

— Non lo credo, essendo le conchiglie che abbiamo vedute ammucchiate nei suoi burroni, ancora in ottimo stato.

— Ma io sarei curioso di sapere come fanno queste isole a sorgere dal mare. Che si sprofondino, si può ammetterlo, ma che si innalzino, mi sembra inesplicabile.

— S'innalzano in seguito ad una spinta formidabile che viene causata dalle masse di vapori racchiuse nella crosta terrestre. Come tu forse saprai, nell'interno del nostro globo, non sono spenti i fuochi. L'acqua che filtra attraverso i pori della crosta, trovandosi un dì o l'altro a contatto con quei fuochi, si evaporizza.

— Vi comprendo, signor Albani. Il vapore, non trovando sfogo, urta e spezza la crosta.

— Sì, Enrico, ma l'urta con forza irresistibile, rovesciando le gallerie sotterranee, producendo guasti immensi specialmente in alto e sollevando qua e là la crosta terrestre.

Un cataclisma simile, formidabile di certo, è avvenuto in un'epoca più o meno lontana sul fondo di questo mare e la spinta deve essere stata tale, da sollevare considerevolmente la crosta e da portare questo cono fuori dalle acque.

Le isole così formate non sono rare. Quasi tutte le Azzorre sono di origine vulcanica e anche non molti anni or sono, nel 1812 se non erro, una ne sorse improvvisamente presso le coste della nostra Sicilia, ma che i flutti più tardi distrussero.

— Quei sollevamenti producono dei terremoti?

— Sono anzi dovuti ai terremoti.

— Ma come si sarà poi spento questo vulcano?

— Forse per la brusca invasione delle acque del mare.

— Deve essere scoppiato come una bomba.

— Di certo, Enrico. Forse era molto più alto, ma scoppiando si sarà mozzato, riempiendo poi il cratere di rottami.

— Vi sono stati altri vulcani che sono scoppiati, signor Albani?

— Parecchi, ma non sempre in causa dell'irrompere delle acque e non sempre si sono poi spenti. Anche il nostro Etna è scoppiato formando la così detta Val del Bove, e così pure il nostro Vesuvio nel 79 subissando Ercolano, Pompei e Stabia sotto la pioggia di cenere e di lapilli. Quando nell'America centrale scoppiò il Coseguina, coperse le campagne circostanti d'uno strato di cenere alto cinque metri per una superficie di quarantanove chilometri, e la detonazione fu udita a millecinquecentosessanta chilometri di distanza.

— Fulmini!... Che rombo!...

— Quando invece nel 1698 scoppiò il Timboro nell'isola di Sumbava, causò la caduta di una tale massa di rottami eguali a tre volte la mole del Monte Bianco, si estese su una superficie eguale a quella dell'Italia e di mezza Francia, mentre le pomici galleggiavano sul mare con uno spessore d'un metro.

— Lampi e terremoti! Ringraziamo questo vulcanello che ha avuto il buon senso di scoppiare cinquanta o cent'anni fa. Da simili mostri è meglio tenersi lontani, signore. —

Capitolo XXXII I segnali fra l'isola e lo scoglio

Alla sera i tre naufraghi risalivano il cono, portando con loro altri cespugli e delle bracciate di alghe marine che avevano raccolte sulle sponde dello scoglio e poi seccate al sole.

Avevano intenzione di accendere varii fuochi per meglio attirare la curiosità del mozzo. Forse vedendo ripetersi, anzi moltiplicarsi quei segnali, poteva finalmente comprendere che qualche disgrazia doveva essere toccata ai compagni.

Guardarono dapprima con profonda attenzione verso la punta estrema della loro isola e il maltese, che aveva lo sguardo più acuto di tutti, non tardò a distinguere ancora il punto luminoso, già osservato la sera innanzi. Pareva però che non fosse più a livello del mare, ma che ardesse su di una punta elevata, forse sulla cima d'una rupe.

— Che Piccolo Tonno sia andato a cucinarsi la cena sulle scogliere? — disse Enrico. — O che abbia acceso quel fuoco più in alto per renderlo meglio visibile?

— Io credo che il bravo ragazzo abbia un motivo per averlo acceso lassù, — disse Albani.

— E quale, signore?...

— Di accertarsi se si risponde.

— Affrettiamoci ad accendere i nostri fuochi. —

Coi rami e colle alghe secche formarono tre cumuli distanti parecchi passi l'uno dall'altro e li accesero, soffiandovi sopra per alimentarli meglio.

Quando si rialzarono, videro che il punto luminoso che si scorgeva sulla estrema punta dell'isola, erasi ingrandito considerevolmente. Poco dopo altri due punti comparvero, ad una certa distanza dal primo.

Un grido di gioia irruppe dalle labbra del maltese e di Enrico.

Ormai non vi era più dubbio: Piccolo Tonno corrispondeva ai loro segnali.

— Io sono certo che quel bravo ragazzo si è immaginato che siamo noi ad accendere questi fuochi, — disse Enrico.

— Lo credo anch'io, — disse Albani.

— Allora domani verrà in nostro soccorso.

— Ma in qual modo, se il canotto non esiste più? — chiese Marino.

— Costruirà una zattera, — rispose Albani. — Il ragazzo è intelligente e non indietreggierà dinanzi ad alcuna difficoltà.

— Bisogna continuare i segnali, — disse Enrico. — Andiamo a raccogliere dell'altra legna, Marino. —

I due marinai scesero nei burroncelli in cerca di altri cespugli, mentre Albani rimaneva in vedetta sulla cima del cono.

Era già trascorso un quarto d'ora, quando vide un quarto punto luminoso apparire quasi di fronte allo scoglio, ma assai basso, quasi a fior d'acqua. Ben presto però quel punto si dilatò, ingigantì, e una colonna di fumo, a riflessi rossastri, si alzò verso l'isola, sormontata da fasci di scintille. Pareva che laggiù ardesse un lembo della grande foresta.

— Piccolo Tonno ci avvisa che ormai sa che noi ci troviamo qui, — disse Albani ai due marinai, che salivano il cono carichi di rami e di piante arrampicanti. — Non ci possiamo ingannare.

— Ma come abbia fatto a saperlo così presto? — chiese Enrico. — Che qualcuno dei nostri oggetti sia stato spinto verso le sponde dell'isola?...

— Forse, — rispose Albani. — Qualche remo, o le cerbottane, o l'albero che si sarà staccato dalla scialuppa.

— To'! Un altro gruppo d'alberi che brucia un po' più al sud. Il piccino minaccia di distruggere tutte le nostre foreste.

— Non sarà così imprudente, Enrico. Alimentate i falò che stanno per spegnersi. —

Nuovi rami furono gettati sui tizzoni ardenti, ravvivando le fiamme. Il cono era ormai interamente illuminato e doveva essere visibile ad una grande distanza. Anche sull'isola però i fuochi proiettavano una viva luce, spiccando nettamente sul fondo oscuro del cielo.

Per due ore i naufraghi ed il mozzo continuarono a scambiarsi segnali, poi da una parte e dall'altra i falò si spensero. Ma nè Albani, nè Enrico, nè il maltese pensarono a dormire, nè ad abbandonare la vetta del cono, sperando di vedere apparire sulle spiagge dell'isola qualche altro fuoco.

Aspettavano ansiosamente l'alba, certi di vedere il mozzo navigare verso di loro con qualche zattera, ma pareva che quella notte fosse eterna e che le tenebre non volessero andarsene.

Anzi il tempo minacciava di mandare a male le loro speranze, poichè il cielo tornava a coprirsi di pesanti nuvoloni come se volesse far scoppiare un nuovo uragano, mentre la brezza aumentava soffiando, di quando in quando, con una certa violenza.

Se il mare tornava a montare, Piccolo Tonno non avrebbe certo potuto accorrere tanto presto a liberarli da quella prigionia, che ormai tutti trovavano insopportabile.

Verso le tre del mattino, il tuono cominciò a brontolare fra le nubi, mentre alcuni lampi solcavano il cielo verso l'est. Il mare già cominciava a muggire contro le spiagge dell'isolotto e sui frangenti.

— Mille milioni di folgori! — esclamò Enrico, furioso. — Che non ci lascino più, questi dannati uragani!

— Forse sarà l'ultimo della stagione, — disse Albani.

— L'ultimo o il penultimo, verrà a impedirci la partenza.

— Pur troppo, Enrico.

— Ah! Se Piccolo Tonno si affrettasse!

— Non oserà avventurarsi fra i frangenti ed i banchi prima che sorga l'alba. Armiamoci di pazienza e aspettiamo. —

Si accoccolarono dietro ad una rupe per mettersi al riparo dal vento, che soffiava con grande violenza su quella vetta isolata e attesero l'alba, tenendo gli sguardi fissi sull'isola.

Intanto l'uragano s'avanzava con estrema rapidità, ma questa volta veniva da oriente. Ormai tutte le stelle erano scomparse sotto fitte masse di vapori che il vento spingeva innanzi a sè, ed il mare s'alzava muggendo sordamente ai piedi dello scoglio. Se continuava, Piccolo Tonno non avrebbe certo osato affrontare da solo, su una zattera, quelle onde.

Alle quattro un po' di luce cominciò ad apparire verso oriente, tingendo le onde di riflessi color dell'acciaio.

Albani, il genovese e Marino si erano alzati in preda ad una viva ansietà, fissando i loro sguardi verso l'isola. Parve a loro di distinguere, quasi subito, una macchia grigiastra che filava lungo i frangenti.

— È una vela! — esclamò il maltese. — Sono certo di non ingannarmi.

— Che quel bravo piccino si sia già messo in mare? — disse Enrico. — Ah! Come lo abbraccierei volentieri quel coraggioso ragazzo!

— Sì, è una vela, confermò Albani, dopo un'attenta osservazione. — Ha di certo costruita una zattera e issato un albero.

— No, una zattera, — disse il maltese, che si era arrampicato sulla punta più alta del cono. — Vedo una macchia nera di forma allungata sotto quella vela.

— Tu hai le traveggole, camerata.

— No, marinaio, — rispose Marino. — Io ti dico che Piccolo Tonno corre in nostro aiuto con una scialuppa.

— Con una scialuppa! — esclamarono Albani ed Enrico.

— Sì!... Sì!... Ora la distinguo bene.

— Ma dove vuoi che abbia trovata una scialuppa? — chiese Enrico.

— Che sia la nostra? — si chiese il veneziano.

— È impossibile, signore!

— E perchè impossibile? Qualche corrente può averla trascinata verso la nostra isola e Piccolo Tonno può averla trovata arenata.

— Infatti, signore, se il ragazzo non l'avesse trovata, non credo che avrebbe risposto così presto ai nostri segnali. Piccolo Tonno è prudente, e invece di accendere quei fuochi avrebbe spento anche quello del fornello per tema di attirare la nostra attenzione, avendo tutti i motivi per crederci dei pirati.

— Sì, è la nostra scialuppa, — gridò Marino. — Ora la riconosco perfettamente. —

Ormai non era più possibile ingannarsi. Anche Albani ed Enrico potevano distinguerla, essendo già giunta presso i primi frangenti ed essendosi il sole mostrato fra uno squarcio delle nubi.

Piccolo Tonno la guidava con mano sicura, tenendosi lontano dai frangenti, per tema che le onde lo spingessero addosso a quei pericolosi ostacoli.

Vedendo addensarsi l'uragano, s'affrettava, tenendo una linea rigorosamente diritta per risparmiare via.

I marosi lo assalivano con grande impeto, ma egli non si spaventava per questo e lo si poteva vedere con una mano su di un lungo remo che gli serviva da timone e coll'altra alla scotta della vela.

Il signor Albani, Enrico ed il maltese, fuori di loro per la gioia, profondamente commossi, avevano lasciata la vetta del vulcanello e si erano radunati presso i primi frangenti.

— Bravo mio Piccolo Tonno! — urlava il genovese. — Sei un vero marinaio! —

Alle sette del mattino la scialuppa, dopo d'aver superato un banco, s'arenava sulla sponda sabbiosa, e il bravo ragazzo, che piangeva e rideva ad un tempo, si precipitava fra le braccia del signor Albani prima, poi di Enrico e finalmente di Marino.

— Ah! — esclama egli. — Vi avevo pianto credendovi tutti annegati. Un abbraccio ancora, signor Albani, un altro mio buon Enrico.

— Ma quando hai trovata la scialuppa? — gli chiese Albani.

— Ieri sera, poco prima del tramonto.

— Ma dove?

— Si era arenata presso i vivai delle testuggini. Potete immaginarvi quale fu la mia disperazione nel trovarla rovesciata, e quale fu la mia gioia quando scorsi i tre fuochi accesi su questo scoglio. Non dubitai più che foste voi e mi affrettai a rispondere.

— Avevi veduto il fuoco acceso due sere or sono?

— Sì, signore, e mi ero assai spaventato temendo che dei pirati stessero per approdare alla nostra isola. Quanto sono felice, signore! Vi credevo perduti ed invece trovo un compagno di più.

— Anche tu mi perdoni? — chiese Marino.

— Se ti hanno perdonato il signor Albani ed Enrico, vorresti che non ti perdonassi io?... Orsù, abbracciami: sei dei nostri, un Robinson italiano anche tu, ma.... e il tuo compagno? Eravate fuggiti in due.

— Ti narreremo tutto più tardi, Piccolo Tonno, — disse Albani. — Affrettiamoci a lasciare questo scoglio o correremo il pericolo di naufragare un'altra volta. —

Un ritardo poteva infatti riuscire a loro fatale, poichè le onde continuavano ad alzarsi ed il vento a crescere, mentre larghi goccioloni cominciavano a crepitare sulla superficie del mare.

Abbandonarono senza rimpianti quel vulcanello, dove avevano corso il pericolo di fare la fine dei naufraghi della Medusa senza quelle ostriche provvidenziali, e presero il largo mettendo la prua verso la costa orientale dell'isola.

Albani si era rimesso al timone, Enrico a prora per meglio vedere i frangenti, e piccolo Tonno ed il maltese alla vela.

L'oscurità cresceva di momento in momento. Il sole era già scomparso dietro ai densi nuvoloni e quantunque fossero appena le dieci del mattino, pareva che cominciasse ad annottare.

Fortunatamente il vento era favorevolissimo e la scialuppa, ricevendo le onde a poppa, non correva, almeno pel momento, pericolo alcuno. Filava come una rondine marina, lasciandosi portare da quelle masse liquide e spumeggianti, tenendosi a due o trecento passi dalla linea dei frangenti.

— Presto, presto, — diceva il signor Albani, che vedeva l'uragano ingrossare a vista d'occhio, e che di quando in quando veniva inondato dall'acqua. — Lasciate andare tutta la vela. —

Già le coste dell'isola erano perfettamente visibili, quando il marinaio, volgendosi verso l'est per misurare la distanza percorsa, vide sul fosco orizzonte due punti biancastri che parevano corressero dal sud al nord.

— Due uccellacci o due vele? — si chiese egli. — Guarda laggiù, Marino, tu che hai gli occhi più acuti di me. —

Il maltese si volse, fissando i suoi sguardi che potevano sfidare i migliori cannocchiali, sui due punti indicati.

— Sono due grandi vele, — disse poi.

— Un altro tia-kau-ting forse? Non ci mancherebbe che un nuovo attacco dei pirati, ora.

— Guarda bene, Marino, — disse Albani.

— Mi sembra, dalla forma delle vele, che quella nave sia piuttosto una giunca, — rispose il maltese.

— Ti pare che si avvicini all'isola?

— Sì, tenta di appoggiare verso queste coste.

— Che siano pirati, signore? — chiese Enrico.

— Le giunche ordinariamente sono montate da marinai chinesi. Se fossimo nel golfo del Tonchino, si potrebbero avere dei dubbi, ma le giunche che navigano in questi mari esercitano un onesto traffico.

— Che l'uragano ci mandi altri compagni? Sulla nostra isola non vi sono porti che possano servire di rifugio.

— Forse quella nave spererà di trovarne. Se quei marinai troveranno modo di sbarcare, non avranno da lagnarsi di noi. Badiamo alla nostra scialuppa intanto: il mare ingrossa e minaccia di farci passare un brutto quarto d'ora. —

Non distavano allora che due miglia dall'isola, ma le onde, trovandosi strette fra la costa che era assai dirupata e la linea dei frangenti, ritornavano al largo tumultuosamente, provocando delle contro-ondate pericolosissime.

Il signor Albani si era alzato in piedi per meglio vedere dove si nascondevano gli scoglietti, segnalati isolatamente da uno spumeggiare incessante e da colonne d'acqua rimbalzanti.

La scialuppa, affogata sotto gli assalti di quelle masse liquide, pareva che ad ogni istante dovesse scomparire, ma si rialzava sempre.

A mezzodì girò un'alta scogliera che si estendeva dinanzi alla costa e si cacciò in una specie di canale formato da rupi tagliate a picco, in una specie di fiord profondo, che era riparato dal vento e dalle onde.

— Finalmente! — esclamò Enrico.

Ammainarono la vela e legarono la scialuppa ad un enorme macigno mentre cadeva una pioggia diluviale.

— Cerchiamo un ricovero, — disse Albani, salendo la costa. — Non possiamo, con questo tempaccio e così stanchi, recarci fino alla capanna.

— Ma i nostri magazzini non devono essere lontani, — disse Enrico.

— Due miglia, — rispose Piccolo Tonno.

— Sotto questo diluvio sono troppe.

— Ci devono essere delle caverne, — disse Albani. — Tutte queste rocce sono più o meno traforate.

— Cerchiamone una, signore. Io cado dal sonno e non mi reggo più, — disse Marino.

Stavano per volgere le spalle al mare e cacciarsi fra le alte rupi della costa, quando il maltese chiese:

— E la giunca?

— Si vede ancora? — chiese Albani, fermandosi.

Il maltese guardò verso l'est, ma più nulla si vedeva sull'orizzonte. Certamente la pioggia impediva di scorgerla o l'equipaggio aveva abbandonato l'idea di poggiare verso l'isola e aveva ripresa la rotta verso il nord.

— È scomparsa, — disse Marino.

— Meglio per loro, — rispose Enrico. — Si sarebbero fracassati su queste scogliere. Andiamo: è un vero diluvio questo e non abbiamo l'arca di quel bravo uomo che si chiamava Noè. —

Capitolo XXXIII Il naufragio della giunca

Pioveva a dirotto, con furia indicibile ed i lampi cominciavano a solcare le tenebrose masse di vapori, quando trovarono una cavità che poteva servire a loro di ricovero.

Era una specie di grotta aperta alla base d'un'alta rupe, larga qualche metro, ma assai profonda, a quanto sembrava. Senza curarsi di visitarla per accertarsi se era sgombra od occupata da qualche pericoloso abitante della vicina foresta, vi si cacciarono dentro per mettersi al riparo da quel diluvio che precipitava dalle sconvolte nubi.

Rosicchiati alcuni biscotti di sagù, e vuotato un recipiente di toddy che il mozzo aveva imbarcati nella scialuppa prima di lasciare l'isola, si accovacciarono in un angolo, l'uno stretto contro l'altro, cercando di dormire, non avendo chiuso gli occhi durante tutta la notte. Erano più che sicuri, che nessun animale feroce avrebbe lasciato il suo covo per mettersi in cerca di preda.

L'uragano scoppiava allora con un assordante fragore di tuoni, segnando forse la fine della cattiva stagione.

La pioggia cadeva a torrenti, a colonne, come se fra le nubi si fosse spezzato il fondo d'un serbatoio immenso.

Il ventaccio ululava e sibilava entro le tenebrose selve torcendo i rami ed i tronchi e strappando le grandi canne dei bambù, ed il mare si rompeva con fracasso indescrivibile contro le scogliere, muggendo su tutti i toni.

Di quando in quando dei lampi abbaglianti solcavano le nubi, mostrando lo spumeggiante oceano, seguiti da scrosci così formidabili da far tremare l'isola intera.

I quattro Robinson, quantunque fossero molto stanchi, non erano capaci di dormire con tutto quel fracasso. Di tratto in tratto uscivano per dare uno sguardo alla loro scialuppa, temendo che anche dentro il canale irrompessero le onde e la sfracellassero contro la spiaggia.

Di frequente volgevano anche gli sguardi in direzione dello scoglio solitario, credendo di veder apparire improvvisamente la giunca scorta al mattino, ma quella nave non si vedeva più.

Verso sera, continuando a imperversare l'uragano, si cacciarono in fondo alla piccola caverna e accomodatisi alla meglio, cercarono di gustare un po' di sonno. I tuoni erano diventati più radi, ma il vento soffiava sempre con estrema violenza, contorcendo gli alberi delle vicine foreste.

— Speriamo domani di ritornare alla nostra caverna, — disse Enrico. — Mi pare che sia trascorso un secolo e rivedrò con piacere Sciancatello. —

I suoi compagni non risposero. Russavano già come ghiri.

Il loro sonno però non fu lungo, poichè non erano trascorse due ore, quando gli orecchi acuti del maltese furono colpiti da una detonazione che pareva provenisse dalla parte del mare. Non era lo scroscio d'un fulmine, nè lo sfasciarsi d'una montagna d'acqua contro le scogliere, ma un cupo rombo che rassomigliava allo sparo d'un piccolo pezzo d'artiglieria o per lo meno d'una grossa spingarda.

Sorpreso ed un po' inquieto s'alzò, lanciando sul mare burrascoso un lungo sguardo, ma non scorse che tenebre, fra le quali appena si distinguevano le creste spumanti delle onde.

— Che mi sia ingannato o che abbia sognato? — mormorò.

Ascoltò alcuni minuti, ma non udendo ripetersi quella detonazione, tornò a coricarsi. Stava per richiudere gli occhi, quando udì un secondo sparo.

Non si era ingannato: un cannone od una grossa spingarda aveva tuonato al largo.

— Signor Albani! — esclamò, scuotendolo vigorosamente. — In piedi, Enrico, su, Piccolo Tonno. —

Il veneziano ed i suoi compagni furono lesti ad alzarsi.

— Cosa succede? — chiese Albani.

— Si sparano delle cannonate sul mare, signore, — disse il marinaio.

— Delle cannonate!...

— Udite!... —

Un terzo sparo era echeggiato al largo, ripercuotendosi fra le rupi dell'isola.

— La giunca, forse? — si chiese Albani.

Abbandonarono precipitosamente la piccola grotta e si slanciarono verso la spiaggia senza curarsi dell'acquazzone che li inzuppava.

Essendo i lampi diventati radi, l'oscurità era così profonda da non permettere di scorgere ciò che succedeva sul mare. Però in mezzo ai fischi del vento ed ai muggiti delle onde, si udivano al largo echeggiare delle grida umane.

— Qualche nave minaccia di naufragare, — disse Albani. — L'uragano deve spingerla verso quest'isola.

— Ma non si vede, — risposero i tre marinai.

— Bisogna accendere un fuoco, per far comprendere a quei disgraziati che qui possono trovare dei soccorsi.

— Con questa pioggia!...

— Cercate di abbattere qualche pianta resinosa o gommifera. Ho scorto alcuni giunta-wan presso la grotta e bruceranno come paglie imbevute di resina. Avete qualche arme?

— Sì, — disse Piccolo Tonno. — Ho il mio coltello.

— Andate a tagliarli. —

In quell'istante sul tenebroso orizzonte si vide a balenare una fiamma e poco dopo s'udì echeggiare un colpo di cannone.

— Presto! — gridò Albani. — È una nave!... —

I tre marinai si slanciarono verso la grotta, tagliarono alcune bracciate di quelle grosse piante arrampicanti sature di gomma e le trasportarono sulla spiaggia ammucchiandole sotto la sporgenza d'una roccia.

Il signor Albani aveva già accesi alcuni fiocchi di cotone ed un pezzo di candela datagli dal mozzo. In pochi istanti i giunta-wan presero fuoco quantunque fossero bagnati ed una grande fiammata s'alzò, illuminando le scogliere e le onde che venivano ad infrangersi contro la costa.

In quel momento il cielo, come se fosse geloso di quella luce, s'illuminò: un lampo immenso fendette le nubi come una immane scimitarra, facendo scintillare il mare fino agli estremi confini dell'orizzonte.

— La giunca! — avevano gridato i tre marinai.

Non si erano ingannati. Alla livida luce di quel lampo avevano scorto, a circa un miglio dalla spiaggia, una di quelle navi di forme pesanti e barocche, colla prua alta e quasi quadra, che i chinesi chiamano giunche. Certamente doveva essere quella segnalata al mattino.

Era stata veduta per pochi istanti, ma i tre marinai sapevano ormai che quella nave si trovava in condizioni disperate, poichè non avevano scorto alcun albero, nè alcuna vela.

Senza dubbio l'alberatura era stata abbattuta dalla furia dell'uragano e quella carcassa, impotente a dirigersi, veniva trascinata, spinta, scaraventata verso le scogliere dell'isola.

Di quando in quando il cannone tuonava sul ponte della povera nave e s'alzavano grida acute, grida disperate invocanti soccorso.

— Enrico, — disse il veneziano, che non poteva tenersi fermo. — Credi che si possa affrontare le onde colla nostra scialuppa?...

— No, signore; sarebbe un'imprudenza che ci costerebbe la vita senza poter recare alcun aiuto ai naufraghi.

— Ma noi non possiamo rimanere qui inoperosi, mentre quei disgraziati corrono il pericolo di venire subissati.

— Le onde li spingono verso di noi, signore, — disse il maltese. — Quando la giunca si sfascierà, saremo pronti a soccorrere i naufraghi.

— Taci!... Ho udito uno scroscio! —

Un urlo immenso s'alzò sul mare, seguito da un ultimo sparo e da uno scroscio terribile.

— A terra! — gridò il signor Albani, agitando un tizzone acceso e avvicinandosi alle scogliere.

Un altro lampo illuminò la notte.

La giunca ormai aveva investita la scogliera e si era rovesciata sul tribordo, sventrandosi contro le punte aguzze dei coralli. Al baleno di quel lampo i Robinson avevano scorto parecchie persone correre disordinatamente sul ponte inclinato della nave, in mezzo alle onde che montavano a bordo schiumeggiando e muggendo.

Il signor Albani, i due marinai ed il mozzo, muniti di tizzoni fiammeggianti erano balzati nella scialuppa la quale, trovandosi entro quella specie di canale riparato dalle scogliere, poteva prendere il largo senza correre il pericolo di venire subissata.

Puntando i remi sui bassifondi, in pochi istanti attraversarono il canale e si trovarono dietro alle rocce, ma proprio in quel momento si udì uno schianto più formidabile di prima e alla luce dei tizzoni i Robinson videro la povera nave aprirsi a metà, quindi sfasciarsi da prua a poppa sotto l'impeto irresistibile ed incalzante delle ondate.

— Fulmini! — esclamò Enrico, impallidendo.

— Sono stati inghiottiti! — urlarono il maltese ed il mozzo.

— No, disse Albani. — Odo delle grida! —

Infatti fra i muggiti dei marosi si udivano a echeggiare delle grida. Pareva che alcuni uomini fossero riusciti ad aggrapparsi alla scogliera.

— Coraggio! — gridò il veneziano. — Veniamo in vostro aiuto. —

S'aggrappò alle sporgenze della scogliera e si issò seguito da Enrico, mentre il maltese e Piccolo Tonno tenevano ferma la scialuppa.

Le onde balzavano sopra le rupi e le attraversavano scendendo dall'opposta parte come cateratte furiose, ma i due Robinson continuavano a salire perlustrando i crepacci e rimuovendo i rottami della nave.

Ad un tratto incespicarono contro degli ostacoli che stavano ammucchiati entro un crepaccio.

— Terremoti! — urlò il marinaio, rimettendosi prontamente in equilibrio.

Delle voci lamentevoli risposero a quella esclamazione.

— Vi sono dei naufraghi qui, — disse Albani.

Alcune forme umane s'alzarono dinanzi a lui, emettendo dei gemiti.

— Coraggio, giovanotti, — disse il marinaio. — Vi è una scialuppa pronta a trasportarvi. Su, mille fulmini!... Saldi in gambe e attenti alle onde.

— Caballeros, — disse una voce.

— To'!... degli spagnuoli! — esclamò il veneziano. — Seguiteci!...

— Dei poveri tagali, signore, — disse la voce di prima.

— Tagali o spagnuoli seguiteci, ma badate alle onde. Vi sono altri superstiti?...

— Mancano i chinesi.

— Enrico, incàricati dei chinesi se ne troverai ancora di vivi. Io mi occupo di questi poveri naufraghi. Affrettatevi o le onde vi porteranno via. —

Cinque persone si erano alzate e tenendosi per mano lo avevano seguito, scendendo con precauzione la scogliera. Il maltese e Piccolo Tonno li attendevano tenendo ancora accesi due grossi rami di giunta-wan.

Il veneziano ed i naufraghi salirono nell'imbarcazione. Solamente allora i Robinson s'accorsero che quei miseri strappati alle onde non erano tutti uomini: vi erano tre ragazze, un giovanotto ed un vecchio.

— Conducili alla sponda, — disse Albani al maltese. — Io vado a visitare la scogliera. —

Spinse la scialuppa al largo e raggiunse il marinaio, il quale frugava tutti i crepacci gridando a piena gola.

— Hai trovato nessun altro? — gli chiese.

Quattro anni dopo, cioè nel 1845, quando la squadra inglese approdò in quell'isola.... (Pag.250 ).

— Pare che le onde abbiano portato via i chinesi, — rispose il marinaio. — Non odo alcuna voce.

— E la giunca?...

— Il mare ha spazzato via tutti i rottami. —

Percorsero tutta la scogliera tenendosi strettamente per mano per meglio resistere alla furia dei marosi, visitarono tutti i crepacci, tutte le spaccature, ma non trovarono alcun altro naufrago.

— Il mare li ha inghiottiti, — disse il marinaio. — È inutile prolungare le nostre ricerche con questi colpi d'acqua che minacciano di trascinarci via.

— Disgraziati! — mormorò Albani. — Orsù, ritorniamo. —

Il maltese ed il mozzo, sbarcati i naufraghi presso la caverna, avevano riattraversato il canale e li aspettavano sotto la scogliera. S'affrettarono a raggiungerli e si fecero condurre sulla spiaggia.

— Pensiamo ai naufraghi, ora, — disse il veneziano. — Tu, Marino, va a tagliare una nuova bracciata di giunta-wan per asciugarci un po'. —

Capitolo XXXIV I tagali

I naufraghi si erano rannicchiati dinanzi ai tizzoni, gli uni stretti addosso agli altri, per asciugarsi le vesti grondanti d'acqua.

Come si disse erano cinque: tre ragazze, un giovanotto ed un vecchio.

Erano tutti tagali, abitanti che popolano l'Arcipelago delle isole Filippine. Questa razza è una delle più belle, delle più intraprendenti, delle più industriose e delle più gagliarde dei mari della China.

La loro carnagione non è olivastra come quella dei Malesi nè bruna come quella dei Bughisi, ma bensì rossastra. Le loro gote sono prominenti, ma il contorno del viso è più romboidale che quadrato, il loro naso un po' prominente, i loro occhi lievemente obliqui ma non stonano, anzi hanno una certa grazia.

Le tre fanciulle, che potevano avere dai quindici ai vent'anni, erano graziosissime, con certi occhietti vivaci e neri, la carnagione leggiermente ramigna, le labbra d'un bel rosso incarnato e con denti più bianchi dell'avorio.

Indossavano delle sottanine a pieghe, a colori vivaci e una camicia ricamata, mentre i loro piedi sparivano entro scarpine di velluto a fregi d'oro. Al collo portavano collane di perle e agli orecchi grandi pendenti di provenienza spagnuola.

Il giovanotto non aveva più di venticinque anni, ed il vecchio doveva toccare già la sessantina. Erano entrambi di alta statura, snelli, ma il primo aveva i tratti del volto un po' diversi da quelli dei tagali e anche la carnagione che era più terrea, quasi grigiastra. Erano però entrambi vestiti di tela, ma colla camicia svolazzante fuori dai calzoni, secondo l'uso del loro paese.

Il vecchio, vedendo avvicinarsi il signor Albani, s'alzò, dicendogli:

— Grazie, señor, del vostro aiuto. Senza di voi, noi saremmo stati trascinati via dalle onde.

— Altre persone avrebbero fatto altrettanto, — rispose Albani, modestamente. — Ehi, Piccolo Tonno, abbiamo ancora un po' di tuwah?... Un sorso farà bene a questa povera gente.

— Sì, signore, — rispose il ragazzo.

Ritornò nella scialuppa e poco dopo saliva portando un recipiente di bambù pieno di quella forte bevanda ed una provvista di biscotti.

Le ragazze ed i due uomini, dopo nuovi ringraziamenti bevettero alcuni sorsi e mangiarono alcuni biscotti.

Il vecchio intanto narrava la sua istoria. Le ragazze erano sue figlie, il giovanotto era il fidanzato della più giovane e si erano imbarcati su di una giunca chinese in rotta per le Molucche, onde visitare una possessione che il futuro genero possedeva a Ternate, essendo molucchese.

Presso le Sanghier un violento uragano aveva assalita la giunca la quale era stata respinta verso l'ovest, malgrado gli sforzi disperati dell'equipaggio composto di quindici uomini.

Appena avvenuto l'urto, malgrado i consigli del capitano chinese, si erano gettati in acqua e le onde li avevano respinti sopra la scogliera. Poco dopo, la nave, sventrata dalle punte corallifere, scompariva con tutti coloro che la montavano.

— Abitavate a Manilla? — chiese Albani al vecchio.

— No, alle isole Calamine, — rispose il tagalo. — Ero capo d'un villaggio.

— Avete udito dal capitano chinese, il nome di quest'isola?

— No, signore. Credo che il capitano ne ignorasse l'esistenza.

— Dunque voi non sapete quale terra sia questa.

— Suppongo che sia una delle Sulu, poichè dalle Sanghir siamo stati trascinati sempre verso il nord-ovest.

— Lo credo anch'io, — disse il molucchese.

— Siete anche voi naufraghi? — chiese il vecchio.

— Sì, ma non inquietatevi per questo. Possediamo una casa, degli animali, dei viveri e un campo e non soffrirete la fame.

— Non possedete alcuna nave per abbandonare quest'isola?

— Una sola scialuppa, quella che avete veduto, la quale non può affrontare una lunga navigazione. Noi siamo come prigionieri su quest'isola, ma non ci lamentiamo, poichè col lavoro e colla perseveranza, ci siamo procurati tuttociò che è necessario all'esistenza umana.

— Ma noi?... — chiese il vecchio.

— Se vorrete, farete parte della nostra famiglia, della famiglia dei Robinson italiani, ma ad una condizione: che ci dobbiate obbedienza e che al pari di noi, lavoriate pel benessere di tutti.

— Signore, — disse il vecchio capo, con voce commossa. — A voi dobbiamo lo nostra esistenza, quindi disponete interamente di me, delle mie figlie e del mio futuro genero: noi, se lo vorrete, saremo vostri servi o come vostri schiavi.

— No, nè servi nè schiavi sulla terra dei Robinson italiani, — disse il veneziano. — Voi sarete nostri compagni, anzi fratelli, poichè come noi siete naufraghi e qui distinzioni non voglio che esistano. È vero, Enrico?... È vero, Piccolo Tonno e Marino?

— Sì, signore, siamo tutti eguali qui, — disse il genovese, — ma tutti noi riconosceremo in voi il capo, il governatore dell'isola.

— Ben detto! — esclamò il maltese.

— No, amici, — disse Albani.

— Sì, signore, — disse il marinaio. — Voi ci avete guidati, voi ci avete salvati dalla fame e dalle tribolazioni, voi, colla vostra sapienza e colla vostra abilità, ci avete data un'esistenza felice, è quindi giusto che noi tutti vi riconosciamo per nostro capo.

— Allora cercherò di mostrarmi degno della fiducia che riponete in me. Siamo tutti vigorosi, siamo tutti pronti a lavorare e cercheremo di trasformare quest'isola, pochi mesi fa deserta e selvaggia, in una colonia fiorente, degna della patria italiana.

— Viva il signor Albani! — urlarono il maltese, Enrico e Piccolo Tonno. — Viva il nostro capitano!... —

Intanto cominciava a spuntare l'alba e l'uragano andava calmandosi rapidamente. Il cielo si sgombrava, il vento, dopo d'aver urlato su tutti i toni, aveva ceduto e le onde si spianavano.

I Robinson decisero di esplorare un'ultima volta la scogliera per vedere se vi era qualche altro naufrago, o se potevano raccogliere qualche avanzo del carico della giunca che potesse tornare a loro utile, poi di partire per raggiungere la capanna aerea, avendo ormai quasi esaurito le provviste.

Albani ed i due marinai attraversarono il braccio di mare e si recarono sulla scogliera, ma la loro gita fu inutile, poichè nulla rinvennero. Le onde avevano spazzato via i rottami della nave, e nessun naufrago fu trovato.

Essendo in quel frattempo spuntato il sole ed essendosi il mare calmato, deliberarono di partire senza perdere tempo.

Non potendo però la scialuppa portarli tutti in causa della sua eccessiva immersione, il maltese, che aveva ormai una certa conoscenza dell'isola, fu incaricato di guidare i naufraghi verso le coste settentrionali, mentre Albani, Enrico e Piccolo Tonno s'incaricavano di ricondurre l'imbarcazione.

Questi diedero la cerbottana del mozzo, onde potessero difendersi in caso d'un attacco da parte delle tigri, poi spiegarono la vela prendendo rapidamente il largo.

Poco dopo anche il maltese ed i naufraghi della giunca si mettevano in cammino, seguendo la costa.

La Roma, spinta da un vento assai fresco che le permetteva di raggiungere una velocità di cinque nodi, si tenne a due miglia dalle spiagge per evitare le profonde insenature che l'isola descriveva e per evitare le scogliere che si stendevano in tutte le direzioni.

Se quella velocità non scemava, ai loro calcoli, potevano giungere nella piccola baia della costa settentrionale poco dopo il mezzodì.

— Come sono contento di rivedere la nostra capanna, — disse Enrico, che manovrava la vela in modo da farle raccogliere più vento che poteva. — Sarà inquieto quel bravo Sciancatello, non avendoci veduti a ritornare.

— Se non glielo avessi impedito, mi avrebbe seguito, — disse il mozzo.

— Quale sorpresa pei tagali, quando vedranno i nostri animali, la nostra bella casa, il nostro campo ed i nostri magazzini. Sono brave persone, i tagali, signor Albani?

— Sono i più industriosi ed i più robusti di tutte le razze dell'isole della Sonda. Sono compagni preziosi che ci saranno di molto giovamento.

— Bisognerà costruire delle altre capanne, signore.

— Si costruiranno.

— E raddoppiare, anzi triplicare le nostre provviste.

— Le triplicheremo e dissoderemo un bel tratto di terreno.

— Signore, — disse il marinaio, esitando. — Non vi sembrano belle le figlie del capo?...

— Sono graziose davvero, Enrico.

— Mi frulla in capo un'idea.

— E quale?...

— Terremoto!... — esclamò il genovese, che da qualche istante si grattava furiosamente il capo.

— Di' su, amico.

— Sapete, signor Albani, che non mi rincrescerebbe.... che....

— Parla, — disse il veneziano, che lo guardava sorridendo.

— Ormai ci sono.... orsù.... meglio che ve lo dica.... lampi e fulmini!... Se il capo mi dasse una figlia per sposa?...

— Ah!... furfante!... Tu pensi già a piantare famiglia!...

— C'è la maggiore che mi piace, signor Albani. Terremoto!... È una bella ragazza e mi sembra che deve essere anche molto buona.

— Si domanda.

— Ma il capo?...

— Credo che si terrà molto onorato d'imparentarsi con un uomo di razza bianca.

— Fulmini!... Che bella colonia!... E so che a Marino piaceva l'altra, sapete?... Il volpone la guardava con certi occhi da triglia!...

— Buono! — esclamò il veneziano, ridendo. — Ecco una colonia che non perirebbe più mai. Ne parlerò al capo.

— Voi?...

— E perchè no?... Fra un mese celebreremo tre matrimoni: il tuo, quello di Marino e quello del molucchese.

— Signore!... — esclamò in quell'istante il mozzo, che stava ritto a prora.

— Cos'hai?...

— La capanna!... Eccola lassù che sporge dietro quel gruppo d'alberi!... Urràh!... —

Il veneziano guardò verso la costa la quale piegava bruscamente verso l'ovest. Dietro ad un macchione di piccoli durion, si vedeva sorgere il tetto della capanna aerea.

Una viva emozione si dipinse sul viso di Enrico e del veneziano.

— Urràh!... urràh! — urlò il marinaio, con quanta voce aveva in gola.

Poco dopo videro Sciancatello correre sulla cima delle rocce seguito dalle due scimmie. L'affezionato orang-outan spiccava salti di gioia e dondolava comicamente la testa e le braccia.

La Roma, oltrepassata una scogliera, entrava nella piccola cala attigua ai vivai. I tre Robinson l'arenarono, tirandola in secco sulla sabbia.

Enrico, che era in preda ad una viva emozione, si prese Sciancatello fra le braccia e per poco non depose due baci su quelle gote pelose.

— Andiamo a vedere se l'uragano ha causato dei guasti, — disse Albani. — Sono inquieto pei nostri animali. —

Il ventaccio, malgrado la sua violenza, non aveva atterrate nè le tettoie, nè le cinte. Nemmeno la casa aerea, quantunque fosse così esposta, aveva sofferto.

— Affrettiamoci a preparare il pranzo pei nostri nuovi amici, — disse Albani. — Fra un paio d'ore saranno qui.

— Corro al vivaio a prendere una testuggine e dei pesci, — disse Enrico.

— Ed io vado a spillare del toddy e del vino bianco, — disse Piccolo Tonno.

— Io invece andrò a torcere il collo a un paio di tucani, — concluse Albani. — Prepareremo ai nostri compagni un vero pranzo e mostreremo a loro come delle persone laboriose possono trovare mille risorse anche su quest'isola deserta. —

Capitolo XXXV La famiglia dei Robinson

Quattro ore dopo il maltese ed i naufraghi della giunca, che avevano marciato con grande rapidità, giungevano nella possessione dei Robinson italiani, dove gli aspettavano un pranzo poco meno che luculliano.

Rinunciamo a descrivere il loro stupore, la loro meraviglia, nel trovare su quell'estrema punta di quell'isola deserta e selvaggia una tavola così riccamente imbandita, una casa così comoda, quel campo coltivato con cura estrema, quel recinto già popolato di parecchi animali e di numerosi volatili, e quei magazzini riboccanti di viveri.

E rinunciamo pure a descrivere le congratulazioni fatte a quegli operosi Robinson che approdati con quasi nulla, mercè la loro attività, la loro costanza, avevano saputo procurarsi più di quanto sarebbe stato necessario alla loro esistenza. Potevano ben dire che quella microscopica colonia, nel suo piccolo, era in caso di gareggiare colle secolari e più fiorenti colonie delle isole dell'arcipelago della Sonda.

Il maltese sopratutto era il più stupito, memore delle miserie e dei lunghi digiuni sofferti sulle coste meridionali di quella istessa isola, che a lui ed al suo compagno era sembrata inabitabile.

L'indomani la piccola colonia, sotto la direzione del valente ed infaticabile veneziano, si metteva animosamente al lavoro. I tagali, il molucchese ed il maltese non chiedevano altro che di essere utili ai Robinson italiani per non essere, in alcun modo, di peso.

In quindici giorni altre tre belle capanne sorsero su quella sponda, formando un villaggio piccolo sì ma graziosissimo, poi sorsero nuovi recinti, altre uccelliere, altri vivai.

Un mese dopo il campicello aveva una estensione dieci volte maggiore. Avevano abbruciata una parte della foresta, una parte della piantagione di bambù e dissodato la terra, cingendola poi con una grande palizzata per difenderla dalle escursioni degli animali selvaggi.

Banani, durion, mangostani, noci di cocco, sagu, palme d'ogni sorta e arenghe saccarifere erano state piantate. Per di più i tagali avevano triplicata la produzione delle patate dolci avendone trovate altre sui fianchi della montagna, e avevano seminate altre piante utilissime pure trovate nei boschi: ignami, che sono grossi come tuberi che raggiungono un peso di quaranta libbre, somiglianti alle nostre patate; dei piccoli poponi colla polpa candidissima, ma molto succolenti, e uva marina che ha il sapore dell'acetosella.

Dalla foresta poi avevano ricavato grandi quantità di farina di sagu che poi avevano convertito in biscotti ed in gallette, riempiendo i nuovi magazzini appositamente costruiti e assicurandosi gli alimenti per lungo tempo.

Anche le altre piante non erano state dimenticate, sopratutto quelle preziose arenghe saccarifere, dai cui succhi avevano estratto zuccheri, sciroppi, liquori, nè le noci di cocco dalle quali avevano ricavato una provvista considerevole di vino bianco, gustoso, che si conservava benissimo in una profonda cantina, scavata sotto una rupe, in prossimità della costa.

Un giorno, il signor Albani, vedendo che le loro vesti, in causa di quelle continue escursioni nelle foreste se ne andavano pezzo a pezzo, ebbe l'idea di trarre anche della tela da quei preziosi alberi.

Furono ancora quelle miracolose arenghe saccharifere, che gli procurarono la materia prima, ossia una specie di cotone di cui i popoli della Sonda si servono per adoperarlo come esca.

Ne fece raccogliere una quantità considerevole, lo mescolò colle fibre più sottili degli alberi di cocco e lo fece filare dalle tre tagale.

Avuto il filo, aiutato dai marinai, dopo lunghe e pazienti prove potè costruire una specie di telaio ottenendo della tela grossa e ruvida bensì, ma discreta e sopratutto robustissima.

La prima pezza fu regalata alla fidanzata del bravo genovese, la seconda a quella di Marino e la terza a quella del molucchese. Ormai la dote c'era e non mancava che il matrimonio.

Due mesi dopo, ultimati quei diversi ed importanti lavori, i due marinai ed il molucchese, con grande gioia del vecchio capo, impalmavano le tre brave ragazze secondo il rito tagalo, rito molto spiccio e molto semplice, che richiede una tazza e un po' di liquore di toddy che gli sposi devono bere in compagnia.

Le tre coppie felici andarono ad abitare in tre belle capanne costruite appositamente dietro alla casa aerea, all'ombra d'un macchione di splendidi durion.

L'esistenza della colonia era ormai assicurata....

················

Quattro anni dopo, cioè nel 1845, quando la squadra inglese dell'estremo Oriente, comandata dal contrammiraglio Campbel approdò in quell'isola dopo una visita fatta al sultano delle Solù, trovò la colonia più fiorente che mai e già cresciuta di numero.

Gran parte dell'isola era stata dissodata ed i coloni nuotavano nell'abbondanza. Vasti magazzini si ergevano sulle coste settentrionali, i campi erano ricchi di tutte le produzioni più importanti dell'arcipelago della Sonda, i recinti pullulavano di scimmie, di babirussa, di orsi neri e di tapiri già addomesticati.

Fu solamente in quell'occasione che i coloni, aumentati di quattro ragazzini e di tre ragazzine, appresero che la loro isola era la più meridionale dell'arcipelago delle Solù e che distava sole ottanta miglia da Tawi-Tawi.

Quei coloni erano così felici, che rifiutarono di abbandonare la loro terra. Si limitarono ad accettare parecchi oggetti indispensabili, sopratutto armi da fuoco e munizioni per sterminare le ultime tigri che ancora infestavano le boscaglie della montagna, degli attrezzi rurali e delle sementi contro scambio di viveri freschi.

Accettarono anche una baleniera, offerta a loro dal contrammiraglio, perchè potessero mettersi in relazione con Tawi-Tawi.

Oggi quest'isola, colonizzata dai naufraghi della Liguria si chiama Samary, tale essendo il suo nome prima dell'approdo dei Robinson italiani. È una delle più prosperose dell'arcipelago, ed è abitata da una razza di meticci discendenti dai marinai italiani, dal molucchese e dalle tre figlie del capo delle Calamine.

INDICE

Cap. I. Un dramma in mare Pag. 1

» II. Sull'albero maestro 8

» III. L'assalto del Pesce-cane 15

» IV. Terra!... Terra!... 22

» V. I mostri dell'Oceano 29

» VI. I Robinson italiani 36

» VII. La Tigre 43

» VIII. La capanna aerea 50

» IX. Gli alberi del veleno 57

» X. Il pane dei Robinson 64

» XI. Mias pappan e Boa constrictor 70

» XII. Le scimmie alla pesca dei granchi 77

» XIII. Attraverso i boschi 84

» XIV. Miele e patate dolci 91

» XV. Un terribile quarto d'ora 98

» XVI. Una luce misteriosa 104

» XVII. Le tracce d'un'antica colonia 111

» XVIII. Il serpente dagli occhiali 118

» XIX. I babirussa 125

» XX. Nuove scoperte 130

» XXI. Una capsula in mezzo alla foresta 137

» XXII. Il «tia-kau-ting» 143

» XXIII. Le devastazioni dei pirati 152

» XXIV. Assediati nella caverna 159

» XXV. L'uragano 166

» XXVI. Il varo della «Roma» 172

» XXVII. Gl'incendiarii della «Liguria» 186

» XXVIII. Una triste scoperta 192

» XXIX. Il maltese 199

» XXX. I naufraghi 208

» XXXI. Sullo scoglio 216

» XXXII. I segnali fra l'isola e lo scoglio 227

» XXXIII. Il naufragio della giunca 235

» XXXIV. I tagali 241

» XXXV. La famiglia dei Robinson 248