Le Aquile della Steppa

EMILIO SALGARI

Le Aquile della Steppa

ROMANZO

illustrato da 18 disegni di A. TANGHETTI

GENOVA A. DONATH, Editore — 1907

Proprietà artistica e letteraria della Casa Editrice A. Donath, Genova, la quale, avendo adempiuto alle formalità che la legge prescrive, provvederà, non solo contro le contraffazioni, ma anche contro le imitazioni. Legge 19 settembre 1882 N. 1012.

Rocca S. Casciano 1907. — Stab. Tip. Cappelli.

INDICE

CAPITOLO I. Un supplizio spaventevole.

— All'armi Sarti!... Eccolo!... —

Un urlìo assordante fece eco a quel grido; poi un'onda di uomini si rovesciò attraverso le strette viuzze del villaggio fiancheggiate da casette d'argilla grigia, di meschino aspetto come già lo sono tutte quelle che abitano i turcomanni non nomadi della grande steppa turanica.

— Fermatelo con una palla nel cranio!

— Lesti, giovanotti!

— Addosso a quel cane!

— Fuoco! —

Una voce imperiosa, che non ammetteva replica, dominò tutto quel baccano:

— Guai a chi fa fuoco! Cento tomani[1] a chi me lo porta vivo! —

Chi aveva dato quell'ordine era un bel vecchio, uno dei più belli che si potessero trovare nelle steppe turchestane, che doveva aver già varcata la sessantina, di forme piuttosto tozze e robuste con spalle ampie e braccia muscolose e la pelle fortemente abbronzata e resa ruvida dagli ardori intensi del sole e dai venti frizzanti della grande steppa, gli occhi neri e ancora pieni di fuoco, il naso un po' adunco, come il becco dei pappagalli, ed una lunga barba bianca che gli scendeva fino a metà del petto.

Dal costume che indossava si poteva subito capire che apparteneva ad una casta elevata, poichè il suo ampio turbante era di seta, variegata ed intessuta con pagliuzze d'oro, la sua lunga zimarra di panno finissimo con alamari d'argento ed i suoi stivali, dalla punta assai rialzata, di marocchino rosso.

Inoltre impugnava una vera sciabola di Damasco, una di quelle famose lame che si fabbricavano anticamente in quella celebre città e che pare fossero formate con sottilissime lamine di ferro e d'acciaio sovrapposte, onde renderle flessibili fino all'elsa.

Al comando lanciato dal vecchio, tutti gli uomini che lo circondavano abbassarono i fucili e le pistole e, tratti dalle loro larghe cinture i kangiarri, quelle corte sciabole che somigliano così tanto ai jatagan dei turchi, si gettarono nuovamente a corsa furiosa, urlando:

— Addosso!

— Lesti!

— Non bisogna che ci fugga!

— Ci sono cento tomani da guadagnare! —

Un uomo, che era saltato poco prima giù da un terrazzo d'una di quelle casupole, fuggiva dinanzi a loro, facendo sforzi prodigiosi per mantenere la distanza.

Quantunque non fosse più giovane, balzava coll'agilità di un'antilope, descrivendo di quando in quando brusche curve, onde non lo si potesse prendere di mira e agitando disperatamente le braccia come per darsi maggior slancio.

Era un uomo di forme grossolane, con un collo da toro, il viso angoloso e di tinta quasi terrea, con una lunga barba nera e gli occhi piccoli, leggermente obliqui, simili a quelli che hanno i ghirghisi, quegli irrequieti ed indomabili predoni della steppa della fame, che dove pongono il piede non lasciano più nemmeno crescere un filo d'erba.

In una mano teneva un jatagan dalla lama larga e leggermente ricurva, e nell'altra una specie di chitarra col manico lunghissimo e le corde di seta, uno di quegli istrumenti che i turchestani chiamano la guzla.

L'inseguimento diventava accanitissimo. I Sarti, che all'allarme dato si erano precipitati nelle vie, erano una cinquantina, quasi tutti giovani e lesti di gambe, e gareggiavano fra di loro per guadagnarsi i cento tomani promessi dal vecchio: una somma grande per quegli uomini della steppa, che non posseggono quasi mai denaro.

— Fermati, canaglia! — gridavano tutti in coro, roteando minacciosamente i kangiarri a rischio di ferirsi fra di loro. — Fermati, cane d'un mestrire[2]! La tua guzla non ti salverà! —

Il suonatore raddoppiava i suoi sforzi e precipitava la corsa, mugolando ed ansando come una bestia feroce.

Aveva il volto congestionato, gli occhi fuori dalle orbite, le sue tempie battevano febbrilmente, e dal suo largo petto uscivano veri sibili, tanta era affannosa la respirazione.

Uscito dalle strette viuzze del villaggio, si dirigeva verso l'immensa steppa, coperta di erbe altissime, forse colla speranza di trovarvi nel mezzo un nascondiglio.

Ad un tratto un urlo di gioia sfuggì agli inseguitori.

— Tabriz! Ecco Tabriz! Ah! il furbo! —

Un uomo di statura gigantesca, che montava un magnifico cavallo persiano dal pelo lucentissimo, era uscito da una via laterale ed era passato come un uragano a fianco dei corridori.

Il fuggiasco, udendo il galoppo del cavallo, mandò una bestemmia e si fermò alzando l' jatagan.

— Non mi avrete vivo! — urlò; — prima ucciderò un buon numero di voi. —

Il cavaliere gli correva addosso con velocità fulminea.

Il mestvire fece un salto di fianco, per evitare l'urto, ma il cavaliere con una strappata a destra e con una stretta delle ginocchia, fece fare al suo destriero un volteggio fulmineo, che nessun altro sarebbe stato capace di fare e lo urtò così violentemente da gettarlo a terra.

— Sei preso, mio caro! — disse il gigante.

Balzò da sella e si precipitò sul fuggiasco ancora stordito da quell'urto violentissimo, gli strappò di mano l' jatagan, poi lo alzò in aria come fosse stato un fanciullo, gridando:

— Eccolo, Giah Agha beg! È tuo, padrone! —

Il mestvire si dimenava disperatamente, digrignando i denti e tentando di colpire, coi suoi pesanti stivali ferrati, l'ercole, senza però riuscirvi.

Gl'inseguitori in un momento circondarono i due uomini, urlando a squarciagola:

— È preso! È preso! Strozzalo, Tabriz! Dàgli una buona stretta di mano! Vendica Talmà! —

Il vecchio che giungeva ultimo, con un gesto imperioso, arrestò il gigante, il quale aveva già cominciato a stringere il collo del prigioniero colle sue formidabili mani.

— No, Tabriz, — disse. — Deve parlare prima e dirci dove hanno portata Talmà. Egli è un complice, fors'anche uno dei capi di quelle maledette Aquile della steppa.

— Non è vero, beg! — gridò il mestvire, con voce strangolata. — Io non sono che un povero suonatore di guzla e non ho aiutato quei miserabili a rapire la sposa di Hossein! Lo giuro! Lo giuro!

— Taci, cornacchia! — rispose il gigante, scuotendolo ruvidamente. — Taci, o ti rompo le costole con una buona stretta, di quelle che so dare io solo.

— Siete miserabili! assassini! Volete la mia morte per divertirvi!

— Portalo al villaggio, Tabriz, — disse il vecchio beg, saettando con uno sguardo feroce il prigioniero.

Poi, volgendosi verso gli altri, chiese:

— Avete del gesso nelle vostre capanne? —

Udendo quelle parole il mestvire diventò spaventosamente pallido, poi un urlo d'angoscia gli sfuggì:

— Ah! No! No! Grazia!

— Gettalo sul cavallo, Tabriz, — disse il vecchio, senza nemmeno rispondere al prigioniero, nè impietosirsi del terrore immenso che traspariva dai suoi occhi dilatati e dai suoi lineamenti sconvolti. E voi andate a raccogliere tutto il gesso e portatelo sulla piazza del villaggio.

— Un momento, padrone, — disse il gigante. — Bisogna assicurarlo bene; questi rettili mordono. —

Gettò a terra il disgraziato suonatore, gli posò un ginocchio sul dorso per tenerlo fermo, poi levatasi la fascia di grosso feltro che gli stringeva la lunga zimarra, gli legò strettamente le mani dietro la schiena.

Lo sollevò e lo mise sul suo cavallo, prendendo in mano le briglie.

— Siamo pronti, padrone, — disse poi al beg.

La truppa si mise in marcia ritornando verso il villaggio, ove si erano radunati i vecchi, le donne ed i fanciulli.

Il mestvire non aperse più bocca, nè fece alcuno sforzo per liberarsi dai legami. Il suo pallore non era ancora scomparso dal suo viso e di quando in quando un forte tremito lo faceva sobbalzare, specialmente quando i suoi sguardi s'incontravano con quelli del vecchio beg.

Giunti dinanzi ad una casupola, che aveva un aspetto migliore delle altre, Tabriz arrestò il cavallo e levò dall'arcione il prigioniero, mentre il beg diceva agli uomini che lo accompagnavano:

— Dieci di voi si mettano dinanzi alla porta colle armi cariche e gli altri vadano a cercare il gesso.

Il supplizio di questo miserabile sarà pubblico.

Ed ora lasciatemi tranquillo.

— Sì, Agha beg, — risposero in coro coloro che avevano preso parte all'inseguimento.

Tabriz, che teneva il prigioniero fra le braccia, con un calcio spostò la pietra che serviva di porta ed entrò in una camera piuttosto vasta, dalle pareti grigiastre, malamente illuminata da due pertugi che somigliavano a feritoie.

Depose il prigioniero su un vecchio tappeto persiano, senza slegargli le mani e si sedette accanto a lui col kangiarro snudato, risoluto ad ammazzarlo come un lupo rabbioso, al primo tentativo di rivolta.

Il vecchio beg stette in piedi, dardeggiando sul miserabile uno sguardo feroce.

— Parla, — gli disse con voce minacciosa. — Dove hanno condotto Talmà?

— Io non so nulla, — rispose il prigioniero. — Io sono sempre stato un povero suonatore di gutzla ed un narra istorie e non ho mai avuto nulla a che fare colle Aquile della steppa.

— Tu menti, cane! — urlò il vecchio, esasperato. — Innanzi tutto non saresti fuggito dinanzi ai Sarti, se tu avessi avuto la coscienza tranquilla, e poi vi è un uomo che giura di averti veduto poco prima degli sponsali di mio nipote Hossein, parlare con un ghirghiso, che fu poi notato fra la banda delle Aquile.

— Quell'uomo si è ingannato, beg, lo giuro sulla testa di mia moglie e dei miei fanciulli.

— Non vuoi dunque dirmelo? — gridò il vecchio, alzando il pugno.

— Non posso confessare ciò che io non so, — rispose il mestvire con voce ferma. — Tu puoi uccidermi, farmi subire il tremendo supplizio del gesso, se lo vuoi; ma da me non saprai nulla, perchè io non ho mai fatto parte di alcuna banda di briganti.

— È la tua ultima parola?

— Sì, beg.

— Sta bene: vedremo se saprai resistere. —

Un forte tremito scosse il miserabile, e la sua fronte si coprì di goccioloni di sudore, tuttavia non aggiunse verbo.

— Tabriz, — disse il vecchio, — non lasciarlo un solo istante. Io vado a preparargli la fossa. —

Era appena uscito, quando entrò nella stanza un giovane di statura appena superiore alla media, dal colorito giallo pallido e di forme esili, con indosso un costume sfarzoso fra il georgiano ed il persiano, con molti ricami d'oro sulla giubba e sui larghi calzoni di seta bianca, ed un superbo sciallo di Kerman annodato intorno ai fianchi, fra le cui pieghe erano passati due kangiarri, coll'impugnatura di diaspro orientale.

I suoi occhi che avevano la tinta e anche il lampo dell'acciaio, non possedevano quello sguardo fiero e limpido, che si osserva in quasi tutti i turcomanni; avevano invece qualche cosa di ambiguo, di falso, che metteva un certo malessere in chi doveva per qualche istante sostenerlo. Anche i suoi lineamenti duri, angolosi, erano molto lontani dall'avere quel bell'ovale che si nota nei discendenti degli antichi persiani; il suo naso era molto adunco, la bocca assai larga con labbra sottilissime, atteggiate ad un mezzo sorriso niente franco.

— Tu padrone? — disse Tabriz, salutandolo con un cenno del capo.

— Sono giunto in questo momento precedendo mio cugino Hossein, — rispose il giovane, fissando con uno sguardo inquieto il prigioniero.

— Non avete trovato nulla?

— Abbiamo rovinati inutilmente mezzi i nostri cavalli.

— Dov'è mio zio?

— È uscito poco fa, onde preparare a questo miserabile, che si ostina a non parlare, una tomba che lo stringerà per bene. —

Un fremito fugace corse pel corpo del giovane, ed i suoi occhi irrequieti tornarono a posarsi sul prigioniero.

— Non vuole parlare? — disse, dopo un momento di esitazione.

— No, signor Abei.

— Lasciami solo con quest'uomo, Tabriz. Voglio provare io a farlo cantare.

— Guardati, padrone: questo è pericoloso e capace di tutto.

— Ho due kangiarri che tagliano come rasoi, non ho quindi nulla da temere da costui.

Mettiti di guardia fuori dalla porta. Farai presto ad accorrere.

— Sì, padrone, — rispose il gigante alzandosi.

Appena furono soli, il giovane si curvò rapidamente sul prigioniero, dicendogli sottovoce:

— Tu ormai sei perduto e, se anche tutto confessassi, non usciresti egualmente vivo dalle strette del gesso, perchè mio cugino Hossein, fra poco, sarà qui, e quello non ti farà grazia.

— Lo so, signor Abei Dullah, — rispose il prigioniero. — Io sono uomo finito ormai.

— Tu hai moglie e figlioli.

— È vero, signore.

— Io m'impegno di far giungere alla tua famiglia duemila tomani se tu manterrai il segreto e non pronuncerai il mio nome. D'altronde nessuno ti crederebbe svelando me.

— Me lo giuri, signore?

— Sul Corano.

— Ora che so che mia moglie ed i miei figli non soffriranno la fame, morrò più tranquillo, — disse il mestvire con rassegnazione, — e sopporterò da ghirghiso gli spasimi delle tremende strette.

— Bada!

— Non temere, signore. —

Abei si rialzò e chiamò Tabriz, il quale fu pronto ad accorrere.

— Quest'uomo non parlerà, — gli disse. — Lo uccideremo inutilmente senza cavargli dalla bocca se ha preso parte al rapimento di Talmà, e senza sapere il luogo ove l'hanno condotta le Aquile. Povero Hossein! Impazzirà dal dolore! —

Grida feroci coprirono le sue ultime parole.

— Il prigioniero! Il prigioniero! —

Una banda d'uomini irruppe nella stanza, armati di kangiarri e di fucili dalla canna lunghissima.

— Tutto è pronto, Tabriz! — gridò uno di loro. — Il beg lo aspetta.

— L'ora suona, — disse il gigante, alzando il prigioniero. — Preparati pel gran viaggio e raccomanda la tua anima al Profeta. —

Il mestvire curvò il capo senza rispondere e si lasciò spingere fuori dalla stanza.

Subito la scorta lo circondò, quantunque Tabriz lo tenesse strettamente per un braccio.

Attraversate tre o quattro viuzze che erano ingombre di persone, di cavalli e di cammelli, il drappello giunse ben presto sulla piazza del villaggio, dove si trovava il vecchio beg circondato da altri uomini armati, fermo sull'orlo d'una fossa profonda un metro e mezzo, e larga appena sessanta centimetri, sia da un verso che dall'altro.

Il mestvire, nel vederla, impallidì, spaventosamente ed i suoi occhi, che erano diventati sanguigni, cercarono ansiosamente quelli di Abei Dullah, il nipote del beg. Un rapido cenno fattogli dal giovane, parve rasserenarlo ed infondergli un po' di coraggio.

Il beg gli si era appressato, chiedendogli:

— Vuoi parlare?

— Ti ho già detto che non so nulla. E poi, — aggiunse con amarezza, — anche se io ti dicessi od inventassi qualche cosa, non salverei egualmente la mia vita. Tuo nipote Hossein non mi risparmierebbe.

— No, di certo, perchè sei tu che hai organizzato il rapimento di Talmà, miserabile! Ormai sei uomo morto, ma prima di comparire dinanzi al Profeta pel giudizio supremo, dovresti dirci dove le Aquile hanno nascosta la fanciulla.

Le buone azioni non vengono scordate dal grande giustiziere.

— Non so nulla e non mi strapperai altra parola. Vuoi la mia morte? Ebbene sono pronto a subirla.

— Calatelo, — comandò il beg.

Tabriz tolse al prigioniero le vesti, lasciandolo quasi nudo, gli legò strettamente le gambe, poi lo assicurò ad un grosso piuolo che era piantato profondamente nella fossa.

— A voi, ora, — disse l'implacabile vecchio volgendosi verso alcuni uomini, che tenevano in mano sacchetti coperti di una polvere bianca, che altro non era che gesso.

Cominciarono a vuotarli entro la fossa, coprendo a poco a poco il disgraziato mestvire, poi, quando il gesso gli giunse alle spalle, vi gettarono sopra parecchie secchie d'acqua.

Il condannato, che fino allora aveva dimostrato un grande coraggio, non potè frenare un urlo d'angoscia.

Lo spaventevole supplizio cominciava, spaventevole perchè è ben più terribile della decapitazione, dell'impiccagione e fors'anche del palo. Inventato dai Persiani, che si sono, in tutte le epoche, mostrati crudelissimi nei mezzi di dare la morte e che lo usano tuttavia in certe provincie, quantunque sia stato soppresso nelle grandi città ove vi sono consoli europei, è stato subito adottato dai turcomanni, dagli afgani e dai belucistani, più feroci degli stessi persiani.

Il gesso, dopo bagnato, come si sa, non tarda a rapprendersi ed espandersi, chiudendo come entro una morsa di ferro l'oggetto che gli si affida. Ognuno può facilmente figurarsi quale pressione deve esercitare su un corpo umano che non può offrire la resistenza del metallo.

Il sangue sotto la formidabile stretta, che aumenta di momento in momento, si arresta, le gambe e le braccia si immobilizzano, le costole cedono, il corpo si schiaccia.

Il disgraziato mestvire che aveva la sola testa fuori dalla massa che gli si serrava addosso, aveva cominciato a urlare spaventosamente. Il suo viso, disfatto da un terrore impossibile a descriversi, si copriva d'un freddo sudore.

Il beg assisteva impassibile all'agonia del miserabile, guardandolo freddamente. Anche gli altri non dimostravano alcuna compassione per le sofferenze atroci del povero suonatore di guzla. Solo Abei Dullah, il nipote del beg, di quando in quando dava in un sussulto.

— Confesserai? — chiese ad un certo momento il vecchio, curvandosi sul moribondo.

Questi gli lanciò uno sguardo carico d'odio, e non aprì le labbra.

— Dell'altra acqua! — disse il beg.

Due altri secchi furono vuotati, insieme ad un altro sacchetto di gesso. Il collo del mestvire fu subito imprigionato ed il suo volto divenne paonazzo.

L'asfissia cominciava.

— Parlerai? — ripetè il beg.

— Sì, — rantolò il moribondo.

— Dove hanno condotto Talmà?

— A... a... Samar... —

Non finì la frase. Roteò gli occhi all'ingiro, aprì spaventosamente la bocca come per aspirare l'ultima boccata d'aria, poi la testa cadde all'indietro.

L'asfissia lo aveva ucciso.

CAPITOLO II. La tenda del “beg„.

La luce si era spenta sull'immensa steppa, che si estende sempre piana e coperta di sole erbe e che d'estate il sole bruciante dissecca e che i freddi invernali fanno rivivere rigogliose, dalle rive orientali del mar Caspio a quelle occidentali del mar d'Aral.

La notte non prometteva di essere buona. Era oscurissima, senza luna e senza stelle, essendosi il cielo tutto coperto di vapori e piuttosto fredda, poichè verso l'autunno cominciano già le forti brinate su quelle pianure, che durante l'estate invece pare che avvampino. Un vento tagliente e secco, che soffiava dal Caspio, passava di quando in quando, con mille sussurrii, curvando le alte erbe e facendo oscillare l'alta tenda di Giah Agha, malgrado la grossa pietra che era stata appesa alla cinghia centrale, onde darle maggiore stabilità.

I turcomanni, quei terribili nomadi che hanno dato sovente tanto filo da torcere ai russi, ai persiani, ai belucistani e anche agli afgani, sono già famosi nelle costruzioni delle loro tende, le quali possono benissimo resistere anche ai venti più impetuosi, che si scatenano sovente su quelle lande sterminate.

Dànno ad esse una forma tutta speciale, che non ha nulla di comune con quelle degli arabi e tanto meno coi wigwam delle pelli rosse dell'America del nord.

Sembrano cupole, ma molto alte, e nella loro costruzione non adoperano che pertiche molto elastiche, piantate profondamente nel suolo, curvate in alto e quindi legate saldamente ad un cerchio e coperte di feltro, assai spesso, impenetrabile alla pioggia e di colore per lo più assai oscuro.

Ordinariamente non hanno proporzioni molto vaste. Quella però del vecchio Giah Agha, era invece assai alta, ampia alla base e coperta d'un doppio strato di feltro.

Anche l'interno indicava come quel vecchio fosse ben qualche cosa di più d'un semplice allevatore di cammelli o di cavalli.

Il terreno, sgombrato prima dalle erbe, era coperto da un tappeto persiano a tinte bellissime ed a disegni svariati; all'intorno vi erano dei grandi cuscini di seta rossa con ricami d'argento e alti cofani di cedro del Libano, con armature d'acciaio; appese alle pertiche si vedevano delle armi degne d'un principe, come archibugi dalla canna lunghissima e finamente arabescata ed i calci con intarsi di madreperla e placche d'argento; kangiarri di finissimo acciaio, colle impugnature adorne di turchesi, pure colla canna molto lunga con qualche versetto del Corano incisovi sopra.

In un angolo, su bastoni, quattro bellissimi falchi, colla testa chiusa in un cappuccio di cuoio e le zampe trattenute da una lunga catenella d'argento, squittivano sommessamente ogni volta che la grossa pietra, sospesa alla correggia, dondolava, imprimendo alla tenda un violento rollìo.

Giah Agha, sdraiato su un soffice cuscino, colla testa appoggiata ad una pertica della tenda, fumava placidamente, guardando distrattamente i falchi e prestando orecchio ai sussurrii del vento.

Il suo narghilè, di vero cristallo, con dorature all'intorno, gettava di quando in quando, con lentezza misurata, dalla pipa sovrastante, nuvolette di fumo impregnate d'un acuto odor di rosa, che si confondevano con quelle che escivano dalle labbra del fumatore.

Aveva già quasi terminato tutto il tabacco contenuto nel camino, e l'acqua racchiusa nel narghilè cominciava a gorgogliare, quando ad un tratto, nel momento in cui una raffica violenta faceva oscillare con maggior forza la tenda, il beg fece un gesto d'impazienza:

— Che sia toccata qualche sventura a quel bravo Hossein? — disse. — E Abei Dullah? — si chiese, poi. — Dove si sarà fermata la carovana? Siamo alla vigilia degli sponsali e hanno le armi da pulire ed i cavalli da preparare per la gran corsa. —

Quasi per confermare i suoi sospetti, nel medesimo istante si udì a rombare nella tenebrosa pianura un colpo di fucile, che si ripercosse lungamente entro la tenda.

Il vecchio lasciò cadere la lunga cannuccia di pelle del narghilè e si alzò a sedere, chiamando ripetutamente:

— Tabriz! —

Un uomo subito entrò, facendo un leggero inchino. Era un turcomanno d'aspetto brigantesco, di statura erculea, con una gran barba rossiccia ed ispida e due occhi grifagni.

Indossava il costume delle basse classi: cappello villoso che aveva la forma d'una pina, zimarra di feltro grossolano, con una larga cintura di pelle, entro cui erano passati due kangiarri dalle lame ricurve e alti stivali di pelle nera, terminanti in una punta molto rialzata.

— Che cosa vuoi, beg? — chiese il gigante.

— Hai udito?

— Sì, beg[3].

— Che sia stato Hossein a far fuoco?

— È il suo archibugio che ha sparato, padrone, — rispose Tabriz. — Distinguerei quel colpo fra mille.

— Su chi avrà fatto fuoco? — chiese il vecchio con ansietà.

— Non inquietarti, beg; tuo nipote è l'uomo più coraggioso che esista in tutta la steppa ed io dormirei tranquillo, anche se lo sapessi insidiato da venti uomini.

— Prima di partire egli mi ha parlato delle Aquile della steppa e tu sai, che quando sbucano dai deserti dell'Aral, non sono mai in poche. —

Il gigante alzò le spalle.

— Hossein, se ne ride di costoro. E poi chi non conosce nella steppa Giah Agha? Chi oserebbe assalire i suoi nipoti? Sanno bene quei banditi che quantunque tu sia vecchio, hai ancora la mano lesta e che la tua tribù conta guerrieri valorosi.

Forse che l'anno scorso non hai fatto acciecare dieci barbe bianche[4], che avevano guidato una partita di Aquile contro una tua carovana? La lezione sarà bastata, padrone.

— Ascolta, Tabriz.

— Non odo altro che il vento a sussurrare fra le erbe, — rispose il turcomanno.

— Ha con sè i cani, Hossein?

— Sì, beg.

— Non li odi ad abbaiare?

— Non ancora.

— Eppure non sono tranquillo.

— Vuoi che salga a cavallo e che vada incontro a tuo nipote?

— Non vi è bisogno, mio bravo Tabriz, — disse in quel momento una voce sonora.

— Eccomi, padre: come vedi, ritorno intero. —

Un giovane era improvvisamente comparso sulla porta della tenda, che era rimasta sollevata.

Il nuovo venuto poteva avere vent'anni. Era un bellissimo tipo che s'avvicinava più a quello maschio e perfetto dei vicini persiani, piuttosto che a quello angoloso e ruvido dei turchestani.

La sua statura era alta e slanciata, ma pure vigorosissima, molto superiore a quella ordinaria dei turchestani e dei tartari; il suo viso bellissimo, con occhi molto neri, vividi, sormontati da folte sopracciglia, così nere che pareva fossero state tinte coll'antimonio, con una bella bocca che una fanciulla gli avrebbe invidiato, ombreggiata da due baffetti castani che terminavano in due punte ardite.

Su quel viso si leggeva la franchezza e l'audacia; nelle sue membra si indovinava una forza più che comune.

Se, come abbiamo detto, rassomigliava nei tratti del viso più ai persiani, che sono i più belli uomini dell'Asia, che ai turchestani, indossava pure un costume che ricordava quello dei grandi signori d'Ispahan o di Teheran.

Invece della lunga zimarra turcomanna, indossava una giubba piuttosto corta, con larghi bordi dorati, aperta sul dinanzi in modo da mostrare la bianca camicia di seta, che ricadeva su una larga fascia di seta rossa; calzoni larghi, alla turca, che scendevano fino alle ginocchia; alti stivali con molte pieghe, di marocchino giallo, simili a quelli usati dagli usbechi.

Sul capo, invece del turbante, portava quella specie di kolbak villoso dei tartari indipendenti, con un piccolo pennacchio.

— Eri inquieto, padre? — chiese il giovane, levandosi il fucile dalla canna lunghissima, che teneva sospeso attraverso il dorso e togliendosi dalla cintola una specie di jatagan un po' ricurvo, chiuso in una guaina di pelle rossa adorna di laminette d'oro.

— Sei stato tu a far fuoco, figlio mio? — chiese il vecchio, la cui fronte si era subito rasserenata.

— Sì, ho sparato a cinquecento metri dalla tenda, — rispose il giovane.

— Contro chi?

— Mi pareva di aver veduto un'ombra umana scivolare fra le erbe e, temendo che cercasse d'accostarsi a me per assassinarmi a tradimento, ho sparato per farle comprendere che io stavo in guardia, e che non era uomo da lasciare la mia pelle nella steppa.

— L'hai ucciso?

— Non lo so, ma fra poco i cani saranno qui e se è veramente caduto, porteranno qualche cosa dei suoi indumenti. To'! Eccoli che giungono! —

Due cani si erano slanciati in quel momento entro la tenda, abbaiando festosamente intorno al giovane.

Uno era una specie di levriero che i turcomanni chiamano tazè, grosso, alto, di taglia pesante, con mascelle formidabili e capace di lottare contro una fiera; l'altro invece era un gurdios, una specie di bassotto, cogli orecchi a punta, razza molto adatta ad ogni specie di caccia, soprattutto a quella della volpe, che quei cani inseguono con ostinazione straordinaria, per giorni e notti intere.

Hossein guardò il grande levriero e s'avvide che non teneva nulla fra le possenti mascelle e che il muso non era lordo di sangue.

— Possibile che io abbia mancato quell'uomo! — esclamò. Eppure vi sono ben pochi nella steppa che adoperino l'archibugio come me.

— Tu devi aver fatto fuoco su un'ombra, — disse il vecchio sorridendo. — E poi le hai vedute tu le Aquile della steppa?

— No, padre, — rispose il giovane che lo chiamava ordinariamente con quel dolce nome. — Uno dei nostri cammellieri mi ha detto però, che ieri mattina alcuni pastori lo avevano avvertito di tenere gli occhi bene aperti, perchè avevano veduto passare la notte innanzi, parecchi cavalieri sospetti.

Il vecchio beg scrollò le spalle, poi disse:

— Nessun oserà assalire noi, nipote. Non occupiamoci che del tuo matrimonio.

— Domani mattina devi presentarti alla tua fidanzata coi tuoi più begli abiti e le tue più belle armi. —

Il viso del bel giovane si illuminò d'una intensa gioia.

— Sospiro l'istante di rivederla e di farla mia, quella fanciulla. Sono tre mesi che io non la rivedo più.

— L'ami intensamente?

— Più della mia vita, padre. Io credo che nessuno sarà più felice di me in tutta la steppa.

— Ed hai ragione, Hossein. Se tu sei il più bel giovane che si possa trovare fra l'Aral ed il Caspio, essa è la più splendida creatura che Allah abbia creata. —

Hossein parve che seguisse cogli occhi socchiusi una visione che gli danzava dinanzi, poi, scuotendosi bruscamente, disse:

— Tabriz, le mie armi. Voglio che siano così lucenti da abbagliare i dolci occhi della mia bella Talmà. —

Il gigantesco turcomanno, che fino allora erasi tenuto presso l'apertura che funzionava da porta, guardando con una specie d'adorazione il giovane, s'accostò ad un grosso cofano, cerchiato di ferro e trasse due splendidi kangiarri, che avevano le impugnature d'argento finamente cesellate e adorne di turchesi e di smeraldi, poi due pistole coi calci intarsiati di placche d'oro e una sciabola di Damasco, sulla cui lama erano incisi tre versetti del Corano.

Hossein prese un pezzo di feltro e, sedutosi su un cuscino, si mise a strofinare vigorosamente le lame. Il vecchio intanto aveva ripreso il cannello del suo narghilè e si era rimesso a fumare, con lentezza quasi studiata, seguendo attentamente tutte le mosse del giovane, con visibile compiacenza.

Tabriz, seduto presso la porta, fra i due cani che gli si erano accovacciati ai fianchi, scrutava attentamente la tenebrosa pianura spingendo lontano gli sguardi.

Per parecchi minuti nella tenda regnò un profondo silenzio, rotto solo dallo scricchiolìo delle pertiche; poi il vecchio, staccando dalle labbra il bocchino d'ambra, disse, volgendosi verso Hossein, che era tutto occupato a lucidare le sue armi:

— Che la carovana non ci raggiunga prima dell'alba?

— Io non lo credo, padre, — rispose il giovane. — I cammelli erano troppo sfiniti e anche i cavalli, eccettuato quello di mio cugino, non si trovavano in miglior stato.

— Perchè Abei non è venuto anche lui con noi? Stava meglio qui che accampato nella steppa. La carovana ha uomini sufficienti per difendersi. —

Il giovane depose il kangiarro che stava lucidando, si alzò in piedi e, guardando fisso il vecchio, gli disse:

— Non ti sembra padre che da qualche tempo mio cugino abbia cambiato umore?

— È vero, — rispose il beg, dopo un momento di riflessione.

— Ho notato che è diventato eccessivamente freddo e molto avaro di parole.

Forse egli pensa troppo sovente alla sua bellissima cugina. Abbia pazienza: appena compirà i vent'anni, gli daremo la fanciulla che ama. Tu sulle rive dell'Aral; lui su quelle del Caspio: io nella steppa. Uniremo i due mari e la gran pianura coi nostri cuori. —

Hossein lo lasciò parlare, quando però ebbe finito, gli disse:

— L'ama! T'inganni padre! Egli la detesta e sai il perchè? —

Il vecchio beg fece un gesto di stupore.

— Perchè gli dissero che la figlia del Khan dei Tadjicki, non avrebbe accettato che la mano d'un uomo....

— Continua, — disse il vecchio, vedendo il giovane fermarsi esitante.

— Che si chiamasse Hossein beg. —

— Tu!

— Così si dice.

— Io l'ho destinata a tuo cugino! — gridò il vecchio, aggrottando la fronte.

— Hossein-beg non ama che la bella Talmà, — soggiunse il giovane. — Il suo cuore non batte che per la più bella fanciulla dei Sarti. Che cosa puoi temere da me, padre? Tu sai che io sono leale. —

La fronte del beg subito si rasserenò.

— Sì, — disse, — tu sei troppo leale per ingannare tuo cugino. Siete cresciuti insieme, i vostri padri che caddero entrambi valorosamente innanzi alle falangi del Khan di Bukara, erano fratelli e avete nelle vostre vene il medesimo sangue.

Io vi ho adottati come se foste carne della mia carne e vi amo più che foste miei figli, e le mie ricchezze un giorno saranno vostre, ma guai a voi se sorgesse una rivalità. Il vecchio beg, l'antico guerriero delle rive del Caspio, che ha fatto tremare perfino i russi, sarebbe inesorabile.

— Sono leale, — ripetè Hossein — e non amo che te e Talmà. —

In quell'istante Tabriz si alzò rapidamente, trattenendo i cani che mugolavano e che parevano pronti a lanciarsi nella steppa.

— Che cos'hai? — chiese il beg che si era subito accorto di quella mossa improvvisa.

— È il vento che sussurra o sono veramente i dolci suoni della guzla, quelli che giungono ai miei orecchi? Chi può essere l'uomo che con una simile notte si diverte a provare la chitarra in mezzo alla steppa?

Aveva pronunciate appena quelle parole, quando il grosso levriero mandò un forte latrato.

— Odo anche il galoppo d'un cavallo, — disse Tabriz. — Che sia qualcuno della carovana? —

Hossein prese, senza parlare, il suo lungo fucile che aveva deposto su un cofano e l'armò.

— Che cosa fai? — chiese il beg.

— Può essere un'Aquila della steppa, padre, — rispose il giovane, raggiungendo Tabriz, che cercava di discernere qualche cosa fra quella cupa tenebra.

— Sì, è un cavallo, — disse il gigantesco turcomanno, — e mi pare che il galoppo provenga da occidente. Guarda, padrone, lo vedi? —

Sulla cupa linea dell'orizzonte che un lieve bagliore prodotto da qualche lampo lontanissimo di quando in quando rischiarava, si scorse un cavaliere che giungeva a corsa sfrenata.

— Chi vive? — gridò Hossein puntando il fucile.

Una voce che il vento portava rispose subito:

— Abei Dullah.

— Mio cugino! — esclamò Hossein. — Perchè ha abbandonato la carovana che porta i regali di nozze per Talmà? Che le Aquile della steppa l'abbiano assalita? —

Il cavaliere che s'avanzava velocissimo, facendo fare al suo destriero dei salti straordinari, per evitare le spaccature del suolo, in pochi momenti giunse presso la tenda, poi, da abilissimo cavallerizzo, con un salto fu a terra.

— Buona ventura, Hossein, — disse, — mentre Tabriz arrestava il cavallo. — Nostro padre veglia ancora?

— Non si dorme alla vigilia d'un matrimonio, — rispose Hossein. — E poi io devo preparare le mie armi.

CAPITOLO III. Il «mestvire.»

Il vecchio beg, vedendo entrare il nipote che colla sua esilità e coi suoi lineamenti angolosi faceva una meschina figura dinanzi a suo cugino Hossein, che era la forza e la bellezza personificata, si alzò chiedendogli con una certa ansietà:

— Rechi forse qualche brutta nuova, Abei?

— No, padre, — rispose il giovane, cercando di sfuggire lo sguardo indagatore del vecchio. — La carovana che porta i regali di nozze di mio cugino, non corre alcun pericolo, quantunque sia stata segnalata, da qualche giorno, verso il settentrione, una grossa banda di Aquile della steppa.

— Perchè hai lasciati soli i nostri uomini? — chiese il beg severamente.

— Per passare insieme a mio cugino la sua ultima notte di libertà. Domani egli sarà unito per sempre colla fanciulla che ama, colla bella Talmà, ed io non potrò più godere della sua gradita compagnia.

D'altronde i nostri uomini sono abbastanza numerosi per tener lontane le Aquile. —

Quelle parole erano state pronunciate con una simulazione così sottile, da sfuggire agli orecchi del beg e anche a quelli d'Hossein.

— Il tuo cavallo è pronto per la gran corsa? Io voglio che tu mostri ai Sarti come sono famosi i cavalieri delle steppe del Caspio.

— Sono sette giorni che non gli dò che fieno ben secco, — rispose Abei Dullah. — Correrà come il vento, come le trombe di sabbia del deserto turanico.

Tabriz, portami un narghilè e del kumis. Voglio tenere compagnia a mio cugino. —

Mentre il gigantesco turcomanno, che aveva legato il cavallo ad un piuolo piantato presso la tenda, dove se ne trovavano altri tre di forme splendide, recava un gran vaso contenente del latte di cammello fermentato e una pipa di cristallo ripiena per metà d'acqua, terminante in un cilindro concavo ripieno di quel fortissimo tabacco chiamato tumbak, Abei si era seduto dinanzi ai falchi, scuotendo le loro catene per svegliarli.

Hossein invece aveva ripresa la sua occupazione, mentre il beg ricoricatosi sul suo largo cuscino, si era rimesso fra le labbra il bocchino d'ambra.

Per alcuni minuti tutti rimasero silenziosi. Abei sorseggiata una tazza di thè, accese il suo narghilè e pareva che si divertisse a stuzzicare i falchi; chi però l'avesse attentamente osservato, l'avrebbe più volte sorpreso a contrarre le labbra con un brutto sorriso ed a fissare insistentemente Hossein, con uno sguardo che aveva dei lampi cupi.

Fu ancora Tabriz che ruppe il silenzio.

— È una guzla che suona nella steppa, — disse.

Abei Dullah trasalì e smise bruscamente di fumare.

— Vedi nessuno? — chiese il vecchio.

— Non ancora.

— Che sia qualche suonatore o qualche canta istorie del villaggio di Talmà? —

Hossein alzò il capo.

— Che sia la fidanzata che me lo manda? Tu sai, padre, che i Sarti usano più che presso di noi, radunare i famosi canta istorie durante i banchetti nuziali.

Un uomo era comparso e affrettava il passo, guidato dalla luce che spandeva la lampada.

— Che Allah vi protegga, miei buoni signori, — disse quando fu presso la tenda. — Lasciate che io allieti la notte del futuro sposo della bella Talmà, la bella fra le belle.

— Avanzati, — gli disse Tabriz.

— La tenda del beg Giah Agha questa notte è aperta a tutti, anche alle Aquile della steppa, se giungono con buone intenzioni. —

Il suonatore s'appressò, pizzicando le corde della sua guzla e varcò la soglia della vasta tenda, esponendosi in piena luce.

Era lo stesso uomo che doveva più tardi sopportare lo spaventevole supplizio inventato dalla mente infernale dei carnefici persiani.

Portava sul capo un pesante berrettone di pelle d'agnello nero, in forma di cono tronco e indossava una lunga zimarra di panno grossolano, di colore oscuro, che gli scendeva fino alle grosse scarpe piatte e ferrate, colla suola alta.

Tutto il suo armamento consisteva in una specie di jatagan dalla lama assai larga; però da un certo rigonfiamento della zimarra si poteva supporre che nascondesse sotto la fascia delle altre armi e fors'anche delle pistole.

— Da dove vieni? — gli chiese il beg.

— Dalla casa della bella Talmà, mio signore, — rispose il suonatore con fare umile e curvando il suo dorso di bisonte. — Ho suonato sotto le sue finestre fino al tramonto del sole.

— È lei che ti manda? — chiese Hossein.

Il suonatore ebbe una breve esitazione e, prima di rispondere, diede, di sfuggita, uno sguardo ad Abei, il quale si divertiva sempre a stuzzicare i falchi.

— No, — disse poi.

— Come hai saputo che noi eravamo accampati qui?

— Un pastore sarto mi avvertì ed io sono venuto per allietare la vostra veglia. Sono un povero uomo che deve approfittare delle buone occasioni per vivere e queste non toccano tutti i giorni.

— Il mio servo ti darà da mangiare e da bere, — disse il beg — e la tua borsa non se ne andrà vuota.

Tabriz reca qualche cosa a quest'uomo. —

Il gigante aprì un cofano e prese un piatto d'argento colmo di pezzetti d'agnello, tagliati a dadi, arrostiti nel grasso, ed un fiasco pieno di kumis, e mise l'uno e l'altro a fianco del suonatore, il quale si era seduto sul tappeto, colle gambe incrociate e stava accordando la sua guzla.

— Vi voglio narrare, miei signori, — disse finalmente il suonatore, pizzicando dolcemente le corde di seta, — la istoria del pentolaio di Albonaz. L'avete mai udita?

— No, — rispose il beg.

— Allora ascoltatemi, miei signori.

— Ai piedi della catena dell'Albonaz abitava, in un piccolo villaggio, un mollah[5] chiamato Tafilet. Un giorno andò a trovarlo un pentolaio che lo conosceva moltissimo, avendogli venduto sovente dei vasi.

Il mollah, che era ospitalissimo, offerse al pentolaio delle more secche, e dei fichi, non avendo di più in casa, perchè era poverissimo; dopo di che i due amici sdraiatisi all'ombra d'un boschetto di melagrani che dominava un fiumiciattolo, si posero a fumare ed a discorrere.

Ad un certo punto il pentolaio disse al mollah:

— Nella mia casa ho una ragazza che è bella come un fiore della steppa e che ha raggiunto l'età da maritarsi; se io la potessi collocare convenientemente, mi darebbe la libertà che da lungo tempo aspetto, e potrei così prendere un'altra moglie, essendo morta quella che aveva prima.

— Amico carissimo, — rispose il mollah, — io pure ho una fanciulla il cui viso è bello come la luna, i cui capelli sembrano oro filato e le sue labbra sono più rosse dei più bei fiori dei melagrani, sotto i quali noi fumiamo e discorriamo.

Ma a che giovano a me le sue bellezze? Le spose, carissimo amico, valgono ben meglio delle figliuole, perchè accudiscono con maggior cura alle faccende di casa. —

Dopo quei discorsi i due vecchi si accordarono per scambiarsi le loro figlie. Il pentolaio sposò quella del mollah e questi quella dell'amico.

Disgraziatamente la figlia del pentolaio era una testolina bizzarra e, poco dopo il matrimonio, cominciò a fare gli occhi dolci ai giovani cacciatori dell'Albonaz, che frequentavano il villaggio durante i giorni di mercato per vendere la selvaggina della montagna.

Il mollah, essendosene accorto, le tagliò il naso e la rimandò a casa del padre, avvertendolo che l'aveva così conciata perchè mettesse giudizio.

Il pentolaio, vedendosi giungere la figlia così atrocemente mutilata, rimase molto perplesso e fece fra sè il seguente ragionamento:

— Se mia figlia si mostra nel villaggio senza naso, i ragazzi e le donne si burleranno di me e mi chiameranno il padre della fanciulla senza naso. Come potrò io sopportare una simile onta? —

Uccise perciò sua figlia, onde nessuno potesse deriderlo, ma poi, assalito dai rimorsi, si disse:

— Il mollah è un gran bruto, e voglio vendicarmi di lui. —

Chiamò sua moglie e gli tenne il seguente discorso:

— Tuo padre ha tagliato il naso a mia figlia ed io per non venire deriso l'ho uccisa.

Ora è necessario che anch'io mi vendichi ed a mia volta taglierò a te il naso e per soprappiù anche gli orecchi e ti rimanderò a casa di tuo padre. —

Udendo quelle parole la moglie scoppiò in un dirotto pianto e chiese a suo marito di farle grazia per qualche giorno.

— Non te la voglio negare, — rispose il pentolaio. — Aspetterò domani e nel frattempo affilerò meglio il mio coltello. —

Erano le undici di sera ed il pentolaio che, contrariamente alla proibizione del Profeta beveva molto, dormiva profondamente.

La moglie che non voleva perdere nè il suo naso, nè i suoi orecchi, si alzò dal letto senza far rumore e abbandonò la casa.

La notte era fredda, burrascosa e molto oscura, ma la figlia del mollah sapeva dove si trovavano le tende della tribù dei Teringi, ai quali voleva domandare protezione. Ella non ignorava che ritornando presso suo padre questi l'avrebbe uccisa per evitare d'attaccare lite col pentolaio e che se si fosse indirizzata alle autorità del suo paese, queste non avrebbero preso per lei interesse alcuno e che l'avrebbero rimandata a suo marito con quella facilità con cui si restituirebbe ad un macellaio una pecora smarrita.

Perciò, dopo aver attraversata una immensa steppa, senza porre tempo in mezzo, dopo di aver scalato montagne altissime e d'aver guadato fiumi rapidissimi dalle acque gelate e di essersi smarrita molte volte, giunse finalmente, non già presso la tribù che cercava, bensì ad un campo russo del mar Caspio.

L'aurora spuntava e la moglie del pentolaio, figlia del mollah, era salva. —

Qui il mestvires s'interruppe per alcuni istanti pizzicando le corde della sua guzla.

— E poi? — chiese Hossein, che aveva ascoltato con vivo interesse quell'istoria.

— E poi, — disse il suonatore con un marcato accento beffardo, — sposò il capo di una tribù turcomanna e lasciò nelle mani del suo sposo, dopo tre soli mesi di matrimonio, il suo naso e le sue orecchie. —

E scoppiò in una risata che fece impallidire il fiero giovane.

— Che cosa vuoi concludere colla tua istoria? — chiese Hossein, aggrottando la fronte.

— Che tutte le donne sono traditrici, — rispose il suonatore.

— E lo dici a me che sto per sposare Talmà? La tua istoria nasconde un ammonimento o qualche cosa d'altro?

— Io non lo so, mio signore, — rispose il mestvire con fare umile. — Io narro ciò che ho imparato e nulla di più.

— Racconta qualche cosa di meglio — disse il beg, vedendo che il fiero giovane stava per irritarsi maggiormente.

— I mestvire della nostra steppa sono più poetici nei loro racconti, — aggiunse poi.

Il suonatore parve che si raccogliesse, invece al di sotto delle sue folte palpebre guardava intensamente Abei Dullah, il quale sembrava che non si fosse affatto interessato di quella narrazione; poi votò a metà il vaso contenente il kumis e disse:

— Ascoltate questa dunque. — Accordò la chitarra, e cominciò a cantare:

— Io ho cercato la tomba della mia diletta e non ho potuto trovarla. Ahimè! Sospiravo dicendo: Dov'è la mia diletta?... Allora io vidi una rosa fra le spine: essa era sola, isolata. La interrogai col cuore palpitante: Sei tu la mia diletta? La rosa, in segno d'assentimento, trasalì ed inclinandosi dolcemente, lasciò cadere delle gocce di rugiada simili a lagrime.

Allora un usignuolo volò sopra la mia testa e si nascose in un cespuglio.

Indirizzandomi a lui, con voce dolce, gli chiesi:

— Sei tu la mia diletta? —

L'usignuolo stese le ali, colse col suo becco la rosa, e nel suo melodioso linguaggio, mi rispose di sì.

Improvvisamente una bianca stella rischiarò col suo dolce fulgore me, la rosa e l'usignuolo. Interrogai la stella, magnifica nella sua bellezza: Sei tu la mia diletta?

Ella mi rispose con un guizzo di luce che diresse verso i miei occhi.

In quel momento l'aria mi accarezzò dolcemente il viso, sussurrandomi agli orecchi: Ecco colei che cerchi: non inquietarti per lei. Passano tranquillamente i giorni dal mattino alla sera, passano tranquillamente le notti dalla sera all'aurora. L'essere che tu hai amato si è diviso in tre: in un usignuolo, in una rosa ed in una stella! —

Il mestvire si era alzato.

— La notte è oscura ed i lupi possono uscire dalle loro tane, — disse, — ed io domani devo trovarmi dinanzi alla casa della bella Talmà e dovrò suonare e cantare a lungo. Buona notte miei signori.

— Perchè non ti fermi qui? — chiese il beg. — Non mancano nè i cuscini, nè i tappeti, e se vuoi bere e mangiare ne avrai finchè vorrai.

— Preferisco tornare alla mia umile casetta, — rispose il suonatore. — Ho molto da pensare per scovare nella mia testa i più bei racconti che dovrò narrare domani dopo gli sponsali. —

Il beg si levò da una tasca una borsa contenente parecchie monete e la gettò al mestvire che la prese al volo.

— Buona fortuna, mio signore — disse con un leggero accento beffardo, guardando Hossein che si era rimesso al lavoro, strofinando vigorosamente la canna d'una delle sue pistole.

Scambiò un rapido cenno con Abei Dullah, che stava sdraiato presso i falchi e dopo d'aver fatto un profondo inchino, uscì, gettandosi a bandoliera la guzla. Per alcuni istanti, fra i soffi del vento, si udì il suonatore a canticchiare, poi il sussurrìo delle alte erbe contorte dalle raffiche, coprì la sua voce.

CAPITOLO IV. L'assassinio.

La notte era così oscura che il mestvire, quantunque dovesse conoscere a menadito la steppa dei Sarti, stentava a dirigersi.

Nessuna stella brillava nel cielo tenebroso ed il vento scompigliava incessantemente le alte erbe, curvandole fino al suolo, mentre in lontananza, di quando in quando, rullava sordamente il tuono senza che alcun lampo lo accompagnasse.

— Ecco una notte propizia per le Aquile della steppa, — disse il suonatore, ridendo. — Piomberanno più rapide dei falchi di Abei Dullah sulla preda, e la bella Talmà domani non avrà più lo sposo.

Abei sa condurre bene i suoi affari, ma è generoso più del Khan di Bukara. Povero beg! La tua barba bianca vale meno di quella d'un giovane di vent'anni. —

Alzò la testa e guardò le nuvole che passavano sospinte dalle raffiche, che si susseguivano sempre più frequenti.

— Apriamo bene gli occhi, — disse.

Si rialzò la lunga zimarra e si tolse due lunghe pistole che teneva nascoste sotto, passandosele nella cintura di pelle che reggeva l' jatagan, poi riprese la marcia, canticchiando fra i denti:

— Uno beve il vino come berrebbe l'acqua e resta dolce come un agnello; un altro beve e canta come un usignuolo; un terzo beve e diventa simile ad un bue, s'agita e monta in furore; un quarto, beve e diventa feroce come una tigre e incarna l'anima del diavolo; un quinto beve e fa le smorfie come una scimmia; il sesto beve e non diventa felice se non si avvoltola nel fango come un maiale; un settimo.... —

Il cantore si era bruscamente interrotto, scrutando attentamente le tenebre dinanzi a sè.

Tese gli orecchi, curvandosi innanzi per meglio ascoltare, e fra il sussurrìo delle erbe raccolse un fischio.

— Hadgi, — mormorò. — Poteva attendermi più lontano. Se quel gigantesco turcomanno mi avesse accompagnato, mi troverei ora in un bell'imbarazzo. —

In lontananza si scorgeva la tenda del beg, sempre illuminata. Dall'apertura un'onda di luce usciva, riflettendosi, come una lunga striscia sulle erbe.

— Nessuno si occupa di me, — disse, — fuorchè Abei Dullah, ma quello si guarderà bene dal tradirsi. —

Accostò due dita alla bocca e mandò un lungo fischio. Un altro rispose a breve distanza, poi fra le alte erbe sorse, a pochi passi dal mestvire, un'ombra umana.

— Aquila? — chiese il suonatore, mettendo una mano sul calcio d'una delle sue pistole.

— Sono Hadgi, capo, — rispose l'uomo che era sorto fra le erbe.

— Non credevo d'incontrarti a così breve distanza dalla tenda del beg, — disse il suonatore di guzla.

— Era necessario che ti vedessi presto.

— Perchè? — chiese il mestvire.

— Pare che qualche Sarto si sia accorto della nostra presenza perchè la casa di Talmà si è chiusa, questa sera, più presto del solito e si sono uditi dei rumori come se barricassero le porte.

— I tuoi uomini hanno commessa l'imprudenza di mostrarsi in quei dintorni?

— No, capo, — rispose Hadgi.

— Nemmeno nel villaggio dei Sarti?

— Sono rimasti tutto il giorno nascosti sotto le alte erbe.

— Chi può averci traditi? Eppure è necessario fare il colpo questa notte, finchè Hossein è lontano. Io l'ho solennemente promesso a suo cugino.

— Noi siamo pronti.

— Capirai che io non voglio perdere i cinquemila tomani che mi ha promessi. Nemmeno il Khan di Chiva pagherebbe tanto per una fanciulla, fosse la più bella del Turchestan, del Belucistan e della steppa ghirghisa.

— E nemmeno noi desideriamo perdere la nostra parte, — disse Hadgi, accarezzandosi la lunga barba nera.

— Sono a posto i miei uomini?

— La casa di Talmà è ormai circondata a debita distanza e le Aquile della steppa non aspettano che il loro capo per cominciare l'attacco.

Non sarà affare lungo, se Hossein non interviene. Quel giovane è più terribile del beg e non è un pauroso come suo cugino.

— Lo so meglio di te, ma egli non vedrà nulla. La tenda è lontana e gli spari non giungeranno fino agli orecchi di quel giovane. D'altronde cercheremo di non far uso delle armi da fuoco.

Ti sei informato di quali forze dispone Talmà?

— Non ha che otto servi ed un paio di donne.

— Va bene: andiamo, Hadgi. La mezzanotte non deve essere lontana. —

I due banditi si misero in cammino attraverso le alte erbe.

Hadgi, che aveva forse migliori occhi del suo compagno o maggior istinto d'orientazione, si era messo dinanzi e s'avanzava curvo perchè il vento continuava a far cadere sulla steppa granelli di sabbia in gran numero.

Le steppe turchestane, al pari delle pianure belucistane, sono famose per le loro piogge di sabbia. Basta che il vento s'alzi e le sabbie dei vicini deserti si levano ed in così grande quantità da intercettare talvolta perfino i raggi solari.

Anche le trombe di sabbia sono molto comuni in quei paesi e non occorre il vento per sollevarle. Durante le giornate belle, quando non si sente il menomo soffio, si vedono delle grandi colonne elevarsi dal suolo, girare su sè stesse e sfilare maestosamente attraverso a quelle sconfinate pianure.

Se ne vedono anzi talvolta parecchie allo stesso orizzonte, avente ciascuna una origine propria.

Gl'indigeni, che le temono assai perchè impediscono loro, in certi giorni, di lasciare le tende, le chiamano Shaitans, ossia diavoli.

Il mestvire ed Hadgi continuavano la loro marcia un dietro all'altro, coi loro alti cappelli di lana nera, ben cacciati sulla fronte, onde ripararsi gli occhi da quelle ondate di sabbia, quando il primo si fermò bruscamente, dicendo:

— Non odi nulla tu, Hadgi?

— Sì, il vento che rugge attraverso le erbe, — rispose l'altro.

— No; ascolta bene. Questo è il galoppo di un cavallo.

Che qualche servo di Talmà sia riuscito a uscire inosservato dalla casa e che si rechi ad avvertire il beg? —

Arma il tuo archibugio. Sei sicuro dei tuoi colpi?

— Non sbaglio mai, capo.

— Affrettati. —

I due banditi si appiattarono fra le erbe, che in quel luogo erano alte più d'un metro e mezzo, l'uno alzando il cane del suo lunghissimo moschetto e l'altro armando una pistola.

— A te, l'uomo; a me, il cavallo, — disse il mestvire.

Malgrado il vento, si udiva distintamente il galoppo d'un cavallo slanciato a corsa sfrenata. Essendo il suolo della steppa argilloso, i ferri del destriero battevano forte, quantunque fosse coperto di vegetali.

Ben presto sulla fosca linea dell'orizzonte si delineò confusamente un cavaliere.

— Peccato non poterlo guardare in viso, prima di mandarlo all'altro mondo, — disse Hadgi.

— Tu sei certo che nessuno dei nostri si è mosso.

— Ho dato loro ordine che qualunque cosa avvenisse, non lasciassero i dintorni della casa e tu sai, capo, come i nostri uomini ci obbediscono.

— Allora non preoccuparti d'altro e uccidi il cavaliere, — disse il mestvires freddamente. — Uno più, uno meno, la nostra coscienza non si turberà.

Prendilo di mira: ci passerà a meno di cinquanta passi.

Hadgi puntò l'archibugio appoggiando il gomito sinistro sul ginocchio, per poter meglio tirare, mentre il mestvire alzava la pistola al di sopra delle erbe.

Il cavaliere passava appunto allora, a quaranta o cinquanta passi, aizzando l'animale con fischi.

Due lampi illuminarono la notte, seguiti da due detonazioni che le urla stridenti delle raffiche subito soffocarono.

Il cavaliere s'abbattè sul collo del cavallo mentre questi faceva uno scarto improvviso, mandando un lungo nitrito di dolore.

— Toccati! — gridò il mestvire con un sorriso feroce. — Le Aquile della steppa non sbagliano mai.

Accorriamo, Hadgi. —

Con sua somma sorpresa udì la voce del cavaliere a gridare:

— Non abbastanza, birbanti! Balza, Kasmin! —

Il cavallo aveva fatto un altro salto di fianco, poi aveva ripresa la sua corea sfrenata, mentre il cavaliere si teneva stretto al suo collo, indizio sicuro che doveva aver ricevuto qualche grave ferita.

— Ci sfugge! — urlò il mestvire con rabbia.

— Non preoccuparti, capo, — rispose Hadgi. — Quell'uomo non giungerà vivo nella tenda del beg.

La mia palla deve avergli attraversato il capo, o fracassata la colonna vertebrale.

— Sarà vero, tuttavia avrei desiderato vederlo cadere qui. Che cosa fare ora?

— Correre subito alla casa di Talmà e attaccarla, capo. Se tardiamo, perdiamo i tomani di Abei Dullah.

— Hai ragione: corriamo. La cosa sarà spiccia e non troveremo molta resistenza. —

Mentre le due Aquile della steppa si slanciavano attraverso le erbe, il cavallo aveva continuata la sua corsa indiavolata, dirigendosi verso il fascio luminoso che indicava la tenda del beg.

Ansava fortemente, sordi nitriti gli sfuggivano dalla bocca insieme a getti di saliva che gli lordavano il lucente pelo nero.

Il cavaliere si teneva sempre stretto al collo, come se fosse ormai impotente a reggere le briglie ed a reggersi diritto sulla sella.

Anche dalla sua bocca usciva di tratto in tratto un lungo gemito e, quando il cavallo rallentava un istante, si portava una mano al fianco destro, comprimendolo fortemente.

In venti minuti il destriero superò la distanza che lo separava dalla tenda del beg, dinanzi alla quale s'arrestò stramazzando sulle ginocchia anteriori.

Tabriz, il gigantesco turcomanno, che aveva già udito quel galoppo precipitoso, era prontamente accorso, afferrando fra le possenti braccia il cavaliere, prima che fosse sbalzato di sella.

Anche Hossein che si era munito di una torcia erasi slanciato fuori.

— Un uomo ferito! — esclamò.

— Ed un cavallo che muore, — disse Tabriz.

— Portalo subito dentro. —

Il gigante varcò la soglia della tenda e depose il cavaliere su un largo cuscino, reggendogli il capo onde il sangue non lo soffocasse.

Tutti si erano accostati; anche il vecchio beg, guardava con profonda ansietà il ferito, che sembrava fosse lì lì per spirare.

Era un giovane di ventiquattro o venticinque anni, dai lineamenti angolosi, la pelle molto bruna, con una piccola barba rossastra ed il naso adunco, come il becco d'un pappagallo.

Indosso aveva una lunga zimarra di panno grossolano, con una cinghia di cuoio giallo a cui era appeso un kangiarro.

Da un buco aperto nel fianco destro, usciva un getto di sangue il quale si allargava sempre più sulla zimarra.

— Questo è un Sarto, — disse Hossein, impallidendo. — Chi lo avrà assassinato?

— Soffiagli in bocca, Tabriz, — disse il beg, vedendo che il ferito non si decideva aprire le labbra.

Il gigante ubbidì e si vide subito il ferito riaprire gli occhi azzurrastri e fissarli su Hossein, poi la sua bocca si socchiuse dicendo con voce rantolosa:

— Talmà... alla casa... le Aquile... della steppa... presto... —

Hossein mandò un grido.

— Che cosa dici tu? È in pericolo Talmà?... Parla, prima che la morte ti colga. —

Il ferito fece col capo un segno affermativo, poi dopo d'aver fatto uno sforzo supremo, burbugliò con un accento così debole che parve un soffio:

— Aquile... agguato... intorno casa... accorrete!.. —

Poi si rizzò a sedere, mantenendosi per qualche istante in quella posa, stralunò gli occhi, ebbe un sussulto che si ripercosse in tutte le sue membra, quindi ricadde pesantemente sul cuscino.

— Morto! — esclamò il vecchio beg.

— Ma io lo vendicherò, — disse Hossein, i cui occhi avevano lampi vividi. — Le Aquile sono sbucate dalle steppe!... Ah!... Non sanno ancora quanto pesi il mio kangiarro. Tabriz! Il mio cavallo, il mio fucile e le mie pistole.

— Dove vuoi andare, cugino? — chiese Abei.

— A salvare Talmà o morire con essa, — rispose il prode guerriero con impeto.

— Tu sei un valoroso, Hossein, — disse il beg, guardandolo con orgoglio, — e sei degno figlio di colui che con un solo gesto faceva tremare i predoni della steppa ghirghisa. Ma tu stai per commettere una imprudenza. Aspettiamo che giunga la nostra scorta, o meglio mandiamo Tabriz a richiamarla. In un'ora e mezzo i nostri uomini possono essere qui.

— M'incarico io di andarla a raccogliere, — disse Abei con sottile sorriso ironico. — Io, al pari di te, cugino, non ho paura delle Aquile della steppa.

— E tu, padre? — chiese Hossein. — Vorresti rimanere qui solo? —

Il vecchio si era alzato col viso contratto e gli occhi fiammeggianti.

— Si provino ad assalirmi entro la mia tenda quei rettili, — disse.

— Va', Hossein, va' a difendere la tua bella Talmà; tu, Abei, corri a radunare la scorta e prendi alle spalle le Aquile della steppa e sopra tutto non risparmiarle.

— I nostri cavalli sono pronti, partiamo, — disse in quel momento Tabriz, comparendo sulla soglia della tenda.

— Parti, Hossein e non risparmiare i colpi di punta, — disse il vecchio. — Io ti seguirò col mio pensiero. —

Abbracciò il valoroso giovine e lo condusse fino fuori.

— In sella, padrone, — disse Tabriz, gettandosi ad armacollo due lunghi archibugi. — Sfonderemo le linee di quei bricconi e passeremo fra loro come due proiettili.

Su, Agar, preparati a gareggiare col vento. —

Un momento dopo Hossein ed il suo gigantesco servo scomparivano fra le ombre della notte.

CAPITOLO V. Attraverso la steppa.

I cavalli, che i due coraggiosi montavano, avevano preso uno slancio fulmineo, come se avessero davvero voluto gareggiare col vento, che spazzava senza posa la sterminata pianura.

Erano due animali superbi, di razza persiana, meglio configurati e meno magri dei cavalli arabi, colla testa leggera e le gambe sottili e nervose.

La steppa turchestana è ricchissima di cavalli, allevandone le tribù nomadi un grande numero; ma se sono d'una resistenza incredibile, non hanno lo slancio impetuoso di quelli persiani, specialmente di quelli che provengono dal Khorassan, che sono i più stimati, pagandosi mai meno di cinquanta piastre ciascuno.

Dobbiamo dire però che hanno bisogno di maggiori cure di quelli turchestani, i quali invece nulla richiedono, usando, i loro proprietari, sottoporli a prove straordinarie, prima di metterli in vendita.

Tanto Hossein, quanto Tabriz, tendevano attentamente gli orecchi, temendo di udire in lontananza qualche scarica che annunciasse il principio dell'attacco; essendo però il vento girato al sud e la casa della bella Talmà assai lontana, non era possibile che potessero udire così presto il rombo dei lunghi archibugi delle Aquile della steppa.

— Giungeremo in tempo, padrone? — chiese Tabriz, quand'ebbero percorso qualche miglio. — I nostri cavalli vanno con uno slancio indiavolato, tuttavia non potremo giungere all'abitazione della tua fidanzata prima di un'ora, ed in un'ora si può prendere d'assalto anche un fortino.

— Se hanno mandato quel povero messo, è segno che i servi di Talmà non si arrenderanno prima del mio arrivo, — rispose Hossein, il quale si sforzava di apparire calmo, quantunque veramente non lo fosse affatto.

— Chi può aver spinto le Aquile della steppa fino qui?

— Piombano dove sanno di fare un buon colpo e Talmà è ricca.

— Mi viene però un altro sospetto, padrone.

— Quale, Tabriz?

— Non oso dirtelo.

— Devi parlare.

— Ho udito a narrare che il Khan di Samarcanda e che anche quello di Bukara, si sono sovente serviti delle Aquile per provvedere di belle fanciulle i loro harem. —

Hossein provò un tale colpo al cuore da vacillare sulla sella.

— Vuoi uccidermi, Tabriz? — disse, con voce soffocata.

— Io non volevo dirtelo, signore.

— Possibile che quei miserabili siano qui venuti attirati dalla bellezza di Talmà, piuttosto che dalla sua ricchezza?

— La fama della bellezza della tua fidanzata, può essere volata molto lontana e può essere penetrata anche entro gli harem di quei Khan.

— Guai a loro! — urlò il giovane. — Per quanto siano potenti, il mio kangiarro saprebbe raggiungerli.

— La mia non è stata che una supposizione, padrone, — disse il gigante.

— E nondimeno mi ha colpito profondamente il cuore, più dolorosamente d'un colpo di pugnale.

— Possono avere di mira solamente le ricchezze della tua fidanzata, signore.

— Vadano pure i cofani pieni d'oro e di gioielli di Talmà, ma non lei. L'amo così immensamente, Tabriz, che non potrai mai fartene un'idea, m'intendi?

Se corro attraverso la steppa, mi pare di vederla fuggire dinanzi a me fra le alte erbe, come una visione celeste; se dormo, mi pare di vederla entrare silenziosamente nella tenda del beg e accostarsi al mio capezzale e sussurrarmi parole d'amore; se inseguo una fiera o caccio col falco, mi pare che perfino gli animali volatili abbiano qualche cosa di comune con Talmà.

M'intendi, Tabriz? Aizza il tuo cavallo, senza tregua, senza compassione. Se muore poco importa. Abbiamo cavalli in abbondanza.

— Cani di predoni! — ruggì il gigante. — Ne farò un macello di quei ladri! È tempo che le Aquile ritornino nelle loro maledette steppe della Ghirghisia.

— Sferza, Tabriz. —

I due stalloni persiani, quantunque galoppassero da quasi una mezz'ora, non rallentavano, anzi pareva che aumentassero continuamente la loro corsa, non ostante che le sabbie trasportate dal vento, si abbattessero in vere trombe su di loro.

Ad un tratto Tabriz mandò un grido.

— Hai udito, padrone?

— Che cosa?

— Una scarica di fucili.

— Arresta il tuo cavallo. —

Il gigante, con una strappata violenta, fece fare al suo destriero un volteggio fulmineo, poi lo costrinse a piegarsi sui garretti, perchè il ventre toccò le erbe della steppa.

Hossein, che era forse il più abile cavaliere della steppa, aveva fermato quasi di colpo il suo, a rischio di spezzargli le gambe.

Le raffiche in quel momento si succedevano con estrema violenza, trascinando trombe di sabbia, che giravano vorticosamente attraverso le tenebre, spezzandosi e rovesciando sulle steppe vere cortine di granelli.

— Ascolta attentamente, padrone, — disse Tabriz.

— Non odo che i ruggiti del vento, — rispose Hossein, che si era curvato innanzi e che nondimeno si sentiva bagnare la fronte.

I due cavalli, colla testa curva fino in mezzo alle alte erbe, pareva che ascoltassero anch'essi, pur soffiando rumorosamente:

Ora erano fischi stridenti che terminavano in un lungo gemito, come d'una persona sgozzata; ora invece erano sibili prolungati, che morivano quasi subito come se tra le erbe si spegnessero ad un tratto; oppure muggiti assordanti, che parevano prodotti dal rompersi delle onde del mar Caspio o da quelle dell'Aral.

— Odi, padrone, — chiese improvvisamente il gigante, raccogliendo le briglie e stringendo le ginocchia per lanciare nuovamente, a corsa sfrenata, il suo magnifico khorassano, che sembrava impaziente di riprendere lo slancio.

— Sì, una scarica di archibugi, — disse Hossein, che era diventato pallidissimo.

— Assalgono la casa di Talmà.

— Partiamo!... Partiamo!... —

I due cavalli persiani, sentendo allentare le briglie, ripartirono colla velocità d'una tromba.

L'abitazione di Talmà non doveva essere lontana più di tre miglia, distanza che quegli impareggiabili corridori potevano superare in meno d'un quarto d'ora.

— Prepara le pistole ed il kangiarro, Tabriz, — disse Hossein, che pareva in preda ad una terribile collera.

Galoppavano colla testa curva, per non venire acciecati dalle trombe di sabbia che non cessavano di roteare sulle ali del vento e respiravano rumorosamente.

Quella seconda corsa durò, sempre velocissima, un'altra mezz'ora; poi Hossein che tendeva sempre ansiosamente gli orecchi e che scrutava attentamente la tenebrosa pianura, trattenne nuovamente, quasi di colpo, il suo khorassano, a rischio di venire sbalzato a terra.

— Attenti, Tabriz! — esclamò.

— Che cos'hai, padrone? — chiese il gigante.

— I lupi.

— Brutto segno. Avranno le Aquile dietro di loro.

— Fermiamoci un momento e vediamo. Se la casa di Talmà fosse stata già assalita, a quest'ora avremmo udito qualche colpo di fucile. Giungeremo quindi a tempo. —

I banditi che infestano le steppe turchestane, hanno una maniera speciale e curiosissima per dare la caccia agli uomini; maniera ben triste, ma molto sicura perchè non lascia alcuna traccia dei delitti che commettono: seguono i lupi.

È saputo da tutti che quelle bestie non aggrediscono che gli uomini isolati, o per lo meno che siano in piccoli gruppi. Appena i loro lugubri ululati, che il vento porta assai lontani, giungono agli orecchi dei predoni, questi balzano sui loro cavalli e prendendo la via più breve, piombano sui disgraziati viaggiatori, che vengono senza pietà scannati e derubati.

I lupi, intimiditi da quella improvvisa comparsa di tanti cavalieri, non osano avanzare e s'arrestano a qualche distanza, in attesa che il delitto sia compiuto. Appena i banditi se ne vanno, entrano a loro volta in scena e la cena, soventi volte molto abbondante, non manca mai loro.

Si afferma anzi dai turchestani, che i lupi non assaltino mai, anche se sono in grossissimo numero, i banditi della steppa. Si vede che hanno ormai capito che quelli sono i loro provveditori di carne umana, e perciò li rispettano; tuttavia non possiamo assicurare l'autenticità di questo fatto.

Hossein e Tabriz si erano guardati intorno. Piccole ombre cogli occhi fosforescenti che sembravano di bragia, correvano con fantastica celerità per la pianura, spiccando grandi salti al di sopra delle alte erbe.

— Sono ben lupi, quelli, — disse Hossein, senza manifestare alcuna inquietudine.

— Sì, padrone, — rispose Tabriz, levando dalle fonde due pistole, armi forse migliori del lungo archibugio.

— Non inquietiamoci per quelli, — disse il giovane. — Non mi sembrano in tal numero da osare un attacco, e poi i nostri khorassani hanno le zampe più leste delle loro.

— E lo sanno, padrone; guarda come son tranquilli.

— Si tratta ora di sapere se le Aquile della steppa si trovano dietro di noi o dinanzi.

— È difficile indovinare da quale parte verranno.

— Che cosa mi consigli di fare?

— Riprendere lo slancio e far correre i lupi, mio signore. Finora non hanno cominciato ad ululare e forse i predoni sono ancora molto lontani.

— Avanti dunque!... E teniamoci in sulle difese. —

I due khorassani mandarono un lungo nitrito, alzarono gli orecchi e ripartirono cogli occhi scintillanti, le narici dilatate e la bella testa non più curva innanzi, bensì gettata indietro. I carnivori salutarono la partenza dei khorassani con uno spaventevole ululato, che si ripercosse lungamente nella tenebrosa pianura, non ostante i fischi ed i muggiti delle raffiche.

— I maledetti ci annunciano alle Aquile, — disse Tabriz serrando le ginocchia e armando una delle due pistole.

— Non far fuoco per ora, — disse Hossein. — I banditi potrebbero anche credere che i lupi diano la caccia a qualche drappello di onagri (asini selvaggi) o di gazzelle. —

I lupi facevano sforzi prodigiosi per non perdere terreno e continuavano a balzare fra le erbe, ululando a tutta gola.

Divisi in due file, galoppavano a destra ed a sinistra dei due khorassani, tenendosi ad una distanza di cinquanta o sessanta metri.

Non essendo più di una trentina fra tutti, non si sentivano abbastanza forti per precipitarsi risolutamente all'attacco. Probabilmente contavano o sull'esaurimento delle forze dei cavalli, o sulla caduta dell'uno o dell'altro, per avventarsi.

Quella corsa sfrenata durava solo da pochi minuti, quando Tabriz scorse sulla linea dell'orizzonte, che aveva cominciato un po' a rischiararsi, grandi ombre che si serravano rapidamente.

— Padrone! — disse. — Le Aquile sono dinanzi a noi. Guarda quella linea oscura che si muove laggiù. Si preparano a chiuderci il passo.

— Le Aquile! — esclamò Hossein, alzandosi sulle larghe staffe d'acciaio, per abbracciare maggior spazio.

— Sì, padrone, non m'inganno, io. —

Hossein mandò un vero ruggito:

— Quei miserabili sperano di arrestare il nipote di Agha beg!... Passeremo attraverso le loro fila come palle di cannone!... Fuori il kangiarro, Tabriz!

— L'ho già in mano, — rispose il gigante.

— Le briglie fra i denti e una pistola nella ventriera.

— È fatto.

— A tutta corsa!... Sfonderemo la loro linea.

— Non ne dubitare, signore. —

Giunti a cinquanta passi, una voce chiese improvvisamente:

— Chi vive? Fermatevi!...

— Amici della steppa, — rispose Hossein alzando il kangiar.

— Fermatevi!...

— Sì, aspetta un momento!... Aizza, Tabriz, e piombiamo addosso a quei miserabili. —

Un cavaliere si era staccato dalla linea e muoveva incontro a loro a piccolo trotto.

Hossein alzò la lunga pistola che aveva nella mano sinistra, mirò qualche istante, poi fece fuoco.

Il bandito, colpito in mezzo al petto dall'infallibile palla del giovane, allargò le braccia abbandonando le briglie e l'arcione e stramazzò pesantemente fra le erbe, mentre il suo cavallo, spaventato dal lampo e dalla detonazione, dopo d'aver spiccato un gran salto di fianco, si dava a precipitosa fuga attraverso alla steppa.

— Carica, Tabriz! — urlò il giovane. — Addosso a quei cani! —

I due cavalieri giunsero come un uragano sui banditi schierati su una lunga linea. Erano quindici o venti, bene montati e anche bene armati; tuttavia Hossein e Tabriz non esitarono un momento a caricarli, sapendo bene che nessuno avrebbe potuto arrestare lo slancio indiavolato dei due khorassani.

— Addosso! — urlò un'ultima volta il prode figlio del beg, che aveva presa un'altra pistola.

Serrarono i ginocchi sui fianchi dei cavalli e spararono simultaneamente due colpi, poi fecero impeto sulla fila, menando colpi furiosi a destra ed a sinistra coi kangiarri.

Parve che quella carica furiosa e l'audacia dei due turchestani, producesse un gran panico fra quei banditi, poichè invece di stringere la fila e di chiudere il passo, fecero fare ai loro cavalli un salto di fianco, lasciando libero il varco. Lo strano si è poi che non pensarono, nella confusione, di far uso dei loro fucili, che pur tenevano fra le mani.

I due cavalieri, dopo d'aver spaccata la testa ai due banditi, che si erano trovati a portata di mano, passarono come una tromba attraverso i nemici, ormai disorganizzati dal loro slancio impetuoso, continuando la loro rapidissima corsa attraverso le fitte erbe della pianura.

— Allenta le briglie, Tabriz! — gridò Hossein, — I banditi ci daranno ora la caccia. —

Alcune detonazioni rimbombarono alle loro spalle e tosto essi udirono i proiettili a fischiare non già in alto, bensì rasente le erbe.

Tabriz si volse e si guardò alle spalle.

Le Aquile della steppa, furiose di non aver potuto arrestare a tempo i due audaci cavalieri e anche smaniose di vendicare la morte dei loro tre compagni, si erano messi in caccia, urlando ferocemente.

Come però abbiamo detto, se i cavalli turchestani hanno una resistenza straordinaria, non hanno la velocità e lo slancio dei cavalli persiani e specialmente di quelli del Khorassan, sicchè era molto difficile che potessero raggiungere i due fuggiaschi, quantunque le cavalcature di questi avessero galoppato quasi un paio d'ore.

Dopo il primo slancio impetuosissimo, i cavalli turchestani erano infatti rimasti indietro, non ostante le frustate furiose dei loro cavalieri.

— Non ci perderanno di vista, — disse Hossein.

— Fra poco saremo alla casa di Talmà e allora.... — rispondeva Tabriz, quando una scarica fragorosa, echeggiata in quel momento dinanzi a loro, gli interruppe bruscamente la frase.

Hossein mandò un grido:

— Attaccano!....

— Sì, la casa della tua fidanzata, signore, — aggiunse Tabriz, che era diventato pallido.

— Ah!.... Miserabili!... — urlò Hossein.

Una seconda scarica rintronò in quell'istante, più debole della prima ed in altra direzione.

— Sono impegnate due lotte! — esclamò Tabriz. — Una al nord e l'altra ad oriente. Che cosa significa questo doppio attacco?

— Non lo comprendi? Quei birbanti si sono divisi in due schiere: l'una contro la casa di Talmà e l'altra contro il villaggio dei Sarti, per impedire a questi di accorrere in aiuto della loro signora.

Nemici alle spalle, nemici dinanzi e nemici sul fianco!.... Se non moriamo questa notte, camperemo cent'anni!....

— Ci inseguono sempre?

— Sono lontani, signore, tuttavia non pare che abbiano intenzione di lasciarci. Mi stupisce però una cosa.

— Quale?

— Che non facciano più uso dei loro fucili. Potrebbero ancora colpirci.

— Vorranno prenderci vivi.

— Infatti quando siamo passati attraverso a loro, hanno sparato ai nostri cavalli, piuttosto che su noi. Le palle rasentavano le erbe della steppa.

— E noi approfitteremo di questa loro misteriosa magnanimità per far strage dei loro corpi. Ah!... Un'altra scarica!... Quei cani spingono l'assalto.

— Spingi il tuo cavallo.

— Vola come un falco.

A quella seconda scarica altre erano successe subito dopo. Le Aquile della steppa dovevano avere trovata una forte resistenza da parte dei servi di Talmà e fors'anche da parte dei Sarti, che occupavano il villaggio.

Le detonazioni risuonavano sempre più vicine.

I due valorosi, curvi sulla sella, col kangiarro in mano, spiavano ansiosamente l'orizzonte. Una estrema ansietà si era impadronita di entrambi e sul loro viso si leggeva una collera intensa.

— Talmà, vengo! — ripeteva Hossein. — Resisti, ancora pochi minuti. L'uomo che ami sta per giungere. —

Poi a un tratto esclamò:

— Ecco la casa della mia bella fanciulla! I banditi l'assalgano. —

Lampi brillavano fra le erbe e altri lampi balenavano al di sopra d'una massiccia costruzione giganteggiante nelle tenebre.

— Padrone — disse Tabriz, — giriamo dietro la casa. Le Aquile attaccano di fronte e non vedo brillare alcun lampo dalla parte della cinta.

— Sia pure, quantunque abbia un desiderio intenso di piombare su quelle canaglie e di sciabolarle.

— È meglio essere prudenti, signore. Sono in troppi e non si sa mai dove vada a finire una palla di pistola o di moschetto.

— Gira al largo, dunque. Ci prenderemo più tardi la nostra rivincita. —

Invece di dirigersi direttamente verso la casa, vi passarono dietro, senza che le Aquile della steppa, troppo affaccendate a dare l'attacco, si fossero accorte del loro arrivo.

CAPITOLO VI. Talmà la bella.

Mentre i turcomanni, popolo assolutamente nomade, vive sotto le tende, il sarto che forma una tribù a parte, quantunque abiti pure la grande steppa che si svolge fra il mar Caspio e l'Aral, vive in massicce costruzioni, che fino ad un certo punto possono chiamarsi case.

Non essendovi foreste nel Turckestan, perchè nel corso dei secoli sono scomparse, avendo gli abitanti abbattuti gli alberi senza sostituirli con altri, il sarto non può avere legname, sicchè ricorre alla terra che è di natura argillosa.

Ne cava una quantità sufficiente per edificare la sua casa, forma mattoni che lascia poi seccare al sole, non potendo in nessun modo cuocerli, sempre per la mancanza dell'occorrente combustibile.

Quelle abitazioni, basse, massicce e colle loro pareti grigiastre, fanno una pessima impressione. Le camere poi sono piccolissime, col soffitto poco elevato e le porte così anguste, che chi le abita, per entrarvi, è costretto a curvarsi.

Tutta la costruzione è di terra, salvo le architravi delle porte, formate da piccoli pezzi di legno levati con infinita fatica dagli arctha, quei giganteschi ginepri che crescono solo nelle valli lontane o sui pendii delle colline, o tolti dalle piante che si allevano, con cure infinite, nei giardini.

Si capisce che quelle case che hanno i tetti formati da semplici canne, coperte di putrelle appena disgrossate, non possono avere lunga durata. Le piogge, che in quelle regioni talvolta durano parecchie settimane, le rovinano in modo tale, che il povero sarto sovente è costretto ad abbandonare la sua dimora, che lentamente si sfascia, e costruirsene un'altra.

Solo alle famiglie ricche è concesso d'avere delle case ampie e solide, coi fondamenti di mattoni cotti, con porticati, cortili e terrazze sulla cima. Nel disegno non differiscono però molto da quelle dei poveri e sono del pari massicce, pesanti, piuttosto basse, forse per evitare un disastro, essendo quelle steppe scosse di frequente da terremoti formidabili.

Invece di essere semplici, son doppie, ossia divise in due parti distinte da un cortile; una è lo eskhiri, che è riservato esclusivamente alle donne, dove possono attendere alle loro occupazioni e divertirsi al coperto d'ogni sguardo indiscreto; l'altra che chiamasi sakkir e anche birun, è destinata agli uomini, ai loro amici ed ai cavalli.

La casa di Talmà, non era una abitazione di poveri, essendo figlia d'un beg, sarto che aveva accumulate molte ricchezze. Aveva cortili, terrazze, muraglie massicce, finestre tutte interne, chiuse da sbarre di ferro, sicchè si poteva considerare come una vera fortezza, imprendibile da parte di uomini armati di sole pistole e d'archibugi.

Hossein e Tabriz, come abbiamo detto, erano giunti dietro la casa, senza che i banditi se ne fossero accorti.

Balzarono agilmente a terra prendendo i loro fucili e le pistole, immaginandosi che le Aquile non avrebbero tardato a circondare l'abitazione e s'accostarono al recinto che si estendeva dietro e dove si trovavano i cavalli ed i montoni della figlia del beg sarto.

— Lascia liberi i nostri khorassani — disse il giovane Tabriz. — Sapranno ritrovare la nostra tenda anche senza di noi. Non voglio che i banditi li vedano. —

Il gigante tolse le briglie ed il morso, onde fossero maggiormente liberi, poi sferrò loro due poderosi calci.

I due khorassani, non abituati a quel brutale trattamento, s'impennarono violentemente, poi partirono ventre a terra, scomparendo ben presto fra le tenebre.

— Se ne sono andati, padrone, — disse il gigante.

— Sali sulla cinta e aiutami.

— Un momento, padrone. Bisognerebbe avvertire i difensori della casa, se no, credendoci Aquile, ci prenderanno a fucilate.

— È vero, — rispose il giovane a cui batteva forte il cuore. — Come fare? —

Hossein stava per rispondere, quando un'ombra umana comparve sul terrazzo sovrastante la casa.

— Amici! — gridò Hossein, mentre dalla parte opposta rimbombava una scarica. — Sono il figlio del beg Agha. Non fare fuoco. —

L'uomo che aveva già puntato il fucile, avendoli oramai scorti, abbassò l'arma.

— Getta una fune, presto, — aggiunse il giovane. — I banditi stanno per giungere. —

L'uomo scomparve subito.

— Sali sulla cinta, — continuò Hossein, volgendosi verso Tabriz. — Li vedo giungere. —

Il gigante spiccò un salto e s'aggrappò con ambe le mani all'orlo superiore del muricciuolo, formato di argilla battuta; si issò mettendosi a cavalcioni, poi porse le mani al suo giovane padrone e lo innalzò colla stessa facilità, come avrebbe fatto con un fanciullo.

Al di là della cinta vi erano numerosi cavalli i quali, spaventati dalle detonazioni che echeggiavano continuamente sulla fronte della casa s'inalberavano, cercando di spezzare le corregge che li trattenevano ai pali piantati nel suolo.

Tabriz e Hossein attraversarono correndo il recinto e giunsero sotto la casa, nel momento in cui una corda a nodi veniva gettata dal terrazzo.

— A te, padrone, — disse il gigante. — Affrettati perchè vengono.

Per un momento posso tener testa a quei ladroni. —

Dietro il muricciuolo, che avevano poco prima varcato, si udivano i banditi della steppa a schiamazzare. Anche essi si preparavano a dare la scalata al recinto.

Hossein strinse la fune, senza perdere tempo e si issò lestamente fino sulla terrazza, dove un servo di Talmà lo aspettava, tenendo in mano il moschetto già armato.

— Tu, signore! — esclamò quell'uomo. — Non ti aspettavo così presto.

— Taci e preparati a far fuoco, — rispose Hossein, togliendosi dalla spalla il fucile.

— Vi è Tabriz che deve ancora salire. —

Due spari rintronarono in quel momento dietro la muraglia del recinto. Due banditi subito apparvero sull'orlo, per aiutare i compagni a salire.

— Sali, Tabriz! — Gridò Hossein.

Poi volgendosi verso il servo di Talmà, aggiunse:

— Tira!... A me quello di destra, e a te quello di sinistra. —

Due detonazioni seguirono una dietro all'altra ed i banditi, che erano già a cavalcioni della cinta, stramazzarono dall'altra parte.

In quel momento Tabriz metteva i piedi sul terrazzo.

— Va' a vedere la tua Talmà, padrone, — disse poi.

Il giovane attraversò la terrazza, tenendosi curvo onde non esporsi ai tiri dei banditi e scese una gradinata coperta, che metteva capo ad una specie di veranda, dove alcuni uomini, nascosti dietro il parapetto, facevano fuoco.

— Talmà! — gridò Hossein, vedendo fra loro biancheggiare una forma femminile.

Un gran grido rispose:

— Il mio prode fidanzato!... Siamo salvi!... Fuoco, amici, fuoco! —

Poi la giovane si slanciò fuori dal gruppo, cadendo fra le braccia di Hossein.

Talmà giustificava pienamente la rinomanza d'essere la più bella fanciulla della grande steppa turchestana.

Quantunque non dovesse avere più di quindici anni, era quasi alta come Hossein, con forme bene sviluppate, come amano quei popoli, fra cui la magrezza nelle donne equivale a tutto ciò che può esservi di brutto, con grandi occhi oscuri, sormontati da bellissime sopracciglia dall'arcata perfetta e capelli neri come l'ala dei corvi, che teneva raccolti in un gran numero di trecce adorne di gruppetti di perle.

Come già tutte le donne sarte, indossava una zimarra di seta verde, aperta sul dinanzi per lasciar vedere parte della camicia di seta bianca e calzoni larghi e imbottiti internamente, in modo da non lasciar trasparire la gamba, e calzava alti stivaletti di cuoio rosso, colla punta assai rialzata.

Attorno alle anche, aveva uno sciallo di kachemire, dalle splendide tinte, annodato sul dinanzi coi due capi pendenti fino quasi a terra.

Malgrado l'imminenza del pericolo, non dovesse averle lasciato tempo di occuparsi troppo della sua persona, aveva ai polsi dei ricchissimi e pesanti braccialetti d'oro e agli orecchi dei lunghi pendenti, formati da perle riunite con turchesi e con rubini.

— Giungi a tempo, mio valoroso Hossein, — disse la fanciulla, la cui voce tremava. — E tuo zio? E Abei? Sei giunto colla tua scorta?

— Solo con Tabriz, ma non temere, mia dolce Talmà. Fra un'ora o due i miei uomini saranno qui e faremo un macello delle Aquile della steppa.

È tutta asserragliata la casa?

— Tutte le porte sono barricate.

— Di quanti uomini disponi?

— Di nove: uno l'ho mandato a te. L'hai veduto?

— Sì, ed è anche morto. Vieni via di qui: le palle fioccano da tutte le parti. Occupiamoci della difesa.

— Hossein, non esporti ai loro fucili! — gridò Talmà, vedendo che stava per precipitarsi verso il parapetto della galleria.

— Non temo — rispose il giovane, liberandosi con dolce violenza dalle braccia di Talmà.

— Rifugiati nella tua stanza: non corriamo alcun pericolo per ora. —

La fanciulla fece un energico gesto di diniego.

— Sono la figlia d'un beg, — disse. — Ho anch'io nelle mie vene il sangue d'un guerriero.

Voglio sfidare le palle di quei miserabili al tuo fianco, mio valoroso Hossein. —

Il giovane guardò la fidanzata con orgoglio, poi disse:

— Come sei la più bella fanciulla della nostra steppa, sei anche la più ardita. Vieni, mia dolce Talmà, noi mostreremo alle Aquile come sanno combattere gli uomini del Caspio e le fanciulle dell'Aral. —

La prese per una mano e la trasse verso il muricciuolo dove i servi, inginocchiati, l'un presso l'altro, mantenevano un fuoco vivissimo contro i predoni, che tentavano di farsi sotto per dare la scalata alla casa.

La lotta si era impegnata vivissima. Gli assedianti, che erano in grosso numero, erano sbucati dalle alte erbe, in mezzo alle quali si erano tenuti fino allora nascosti per non esporsi al tiro degli assediati e strisciavano sulla terra sgombra, spingendo innanzi a loro una scala lunga e massiccia.

Parecchi si erano però tenuti indietro e, mezzo celati sul margine della steppa erbosa, sparavano sulla galleria per cercare di allontanare i difensori.

Hossein e Talmà, riparati da uno dei massicci pilastri che reggevano l'orlo del terrazzo sovrastante, avevano a loro volta aperto il fuoco, mentre un servo, inginocchiato dietro di loro, ricaricava i fucili di ricambio.

La fanciulla, abituata alle scorrerie dei banditi della steppa, che più volte avevano già assaliti i villaggi sarti, non manifestava alcun timore e sparava tranquillamente, orgogliosa di mostrare il suo coraggio al nipote del fiero beg.

Solo, di quando in quando, volgeva la testa verso il fidanzato scambiando con lui un sorriso.

La fucilata diventava di momento in momento più intensa. I banditi irritati di essere tenuti in iscacco da un così piccolo numero di difensori, che credevano di spazzare via con tutta facilità, si spingevano audacemente innanzi, quantunque molti di loro giacessero a terra morti o feriti.

Hadgi li spingeva all'attacco, urlando ferocemente e promettendo ai suoi uomini le teste dei servi di Talmà. Forse fra i banditi vi era anche il mestvires, che era il vero capo di quell'accozzaglia di ladri, però il furfante si guardava bene dal mostrarsi.

Hossein non si scoraggiava però e fucilava i più furibondi, senza mai mancarli una sola volta.

— Che cosa fa dunque mio cugino? — si chiese ad un certo momento. — A quest'ora dovrebbe essere qui.

— Sei inquieto per loro è vero, Hossein? — chiese la bella Talmà, che col viso animato da una viva collera non risparmiava i predoni. — Che sia accaduta qualche disgrazia al beg?

— A lui, no!... Egli quantunque vecchio è troppo temuto dalle Aquile e nessuno oserebbe assalirlo.

È per mio cugino che sono piuttosto inquieto. Non comprendo come non si veda ancora.

— Che i banditi ci prendano prima che egli arrivi? Sono spaventata per te, mio Hossein. Tu lotterai fino alla fine, per cadere sotto i colpi di quei miserabili, — disse Talmà, con un singhiozzo.

— Taci, luce dei miei occhi, — disse Hossein, quasi con rabbia. — Non angosciare il guerriero che combatte.

Fuoco Talmà, là in mezzo a quel gruppo!... Tabriz, a me! —

Il gigante, che sparava sempre sul terrazzo, non ostante il fragore della fucilata, aveva udito il grido del suo padrone.

— Che due di voi vadano a sostituirlo, — continuò Hossein, volgendosi verso i servi che facevano fuoco in mezzo ad una fitta nuvola di fumo.

Tabriz in quel momento comparve, tenendo in mano il suo lungo fucile che fumava ancora.

— Che cosa vuoi, padrone? — chiese, curvandosi dietro uno dei pilastri per evitare le palle che sibilavano attraverso la veranda, conficcandosi nella parete.

— Sono entrate nel recinto le Aquile? — chiese Hossein.

— No, mio signore. Sono ancora a cavalcione del muricciuolo e non pare che abbiano fretta di spingersi sotto la casa.

— Ho bisogno della tua forza.

— Sono pronto a tutto.

— Indietro, Talmà.

— Ah!... Tu, signora! — esclamò il gigante, che non l'aveva ancora veduta. — Non è questo il tuo posto.

— Lasciami sparare ancora un colpo, Tabriz. —

Alcune grida mandate dai servi, li avvertirono che qualche cosa di grave stava per accadere.

Hossein gettò un rapido sguardo al di sopra del parapetto.

— Hanno alzata la scala! — gridò.

— Lascia che salgano padrone, — disse Tabriz, rimboccandosi le ampie maniche e mostrando due braccia grosse, quanto quelle d'un gorilla e irte di enormi sporgenze. —

Hossein spinse la fanciulla verso una delle stanze che avevano le porte sulla galleria.

— Là, amica, — disse con voce alterata. — Questo è il momento terribile e bisogna che tu non ti trovi presso di me.

Il mio cuore tremerebbe troppo per te.

— No, Hossein. Se dobbiamo morire, voglio cadere al tuo fianco, mio prode! — gridò la fanciulla con esaltazione.

— È il guerriero che comanda, non l'uomo che ama, — rispose il fiero nipote del terribile beg. — Obbedisci! —

Si strappò bruscamente dalle braccia di Talmà, che lo avevano avvinghiato e si slanciò attraverso il fumo, levandosi dalla cintura le pistole.

— Eccomi, Tabriz, — disse. — Salgono!

— Sì e li aspetto, — rispose il gigante con voce tranquilla.

Dieci o dodici banditi si erano subito inerpicati sulla scala, tenendo i kangiarri stretti fra i denti, mentre altri facevano un fuoco infernale, mandando le palle contro il soffitto della galleria.

— A te, Tabriz! — gridò Hossein, dominando, colla sua voce squillante, i clamori assordanti dei banditi.

Il gigante, che stava rannicchiato dietro al parapetto, s'alzò di colpo, afferrò le due estremità della scala e, facendo appello a tutte le sue forze, la spinse innanzi.

Resa pesantissima pel numero degli assalitori i quali s'innalzavano rapidamente, dapprima resistette, poi si rovesciò all'indietro, cadendo fra le erbe della steppa.

Tutti quelli che la montavano capitombolarono fra un immenso urlo di spavento, rompendosi chi la testa, chi le braccia, chi le gambe.

— Ecco fatto, — disse Tabriz, ridendo. — Spero che quei bricconi non torneranno nella steppa della fame in troppo buona salute. —

In quel punto si udì uno dei servi di Talmà ad urlare:

— Vedo dei cavalieri che accorrono!... I Sarti! I Sarti!... —

Hossein si era precipitato verso il parapetto, mentre Tabriz, che pareva fosse diventato improvvisamente furioso, con un colpo di spalla faceva crollare uno dei pilastri della veranda, a rischio di far cadere una parte del terrazzo sovrastante, coprendo di macerie le Aquile che stavano per rialzare la scala.

Quattro o cinque drappelli di cavalieri giungevano a briglia sciolta, attraversando la steppa come un uragano. Ai primi chiarori dell'alba si poteva distinguere un bel vecchio dalla lunga barba bianca, cavalcare alla loro testa su un destriero nero come un corvo e che spiccava dei salti straordinari.

— Mio zio! — esclamò Hossein. — Amici, Tabriz, siamo salvi. —

Un grido che parve un colpo di tuono, uscì dalle labbra del vecchio.

— Agha beg vi uccide, miserabili!... È il terrore delle Aquile!... Fuoco e caricate col kangiarro!... Spazziamo queste canaglie!... —

I banditi, accortisi dell'arrivo di quei drappelli che erano numerosissimi e ansiosi di prendere parte alla lotta, si ripiegarono disordinatamente verso la steppa.

— In sella! — comandò Hadgi, il luogotenente del mestvires. — Riprenderemo al momento opportuno la partita. —

Una tromba squillò sonoramente. Era il segnale della fuga.

I banditi che si trovavano dietro la casa di Talmà e che sparavano sul terrazzo, udendo quel segnale, abbandonarono precipitosamente la cinta, raggiungendo i loro camerati che saltavano in sella, sotto il fuoco vivissimo degli assediati.

— Al galoppo! — ordinò Hadgi — La partita è perduta. —

Le Aquile allentarono le briglie e s'allontanarono in due lunghe file, scomparendo verso occidente, prima che il vecchio beg ed i suoi drappelli avessero avuto il tempo di chiudere loro la ritirata e d'impegnare la lotta.

CAPITOLO VII. La scomparsa di Abei Dullah.

Il vecchio beg, rimasto solo a guardia dell'immensa tenda, dopo la partenza precipitosa di Hossein e di Tabriz pel nord e di Abei Dullah per l'occidente trovandosi la scorta in quella direzione, aveva fatto subito i suoi preparativi di difesa, non essendo improbabile che qualche manipolo di banditi cercasse di approfittare dell'assenza dei due giovani e del servo, per tentare un colpo di mano.

La notizia dell'imminente matrimonio di Hossein con Talmà la bella, doveva essersi sparsa a grande distanza nella steppa, essendo il vecchio beg conosciuto da tutte le tribù e, siccome i regali di nozze dei ricchi sono sempre costosissimi, non era difficile supporre che quell'attacco fosse diretto più contro quei regali, che contro i fidanzati, almeno così la pensava il beg.

Giah Agha era però un tale uomo da far tremare anche da solo parecchie Aquile della steppa. Nella sua gioventù era stato un guerriero indomito e gli anni non avevano calmati ancora i suoi istinti battaglieri, nè scemata la fama di coraggiosissimo, che si era guadagnata.

Non appena i tre cavalieri scomparvero fra le tenebre, staccò i suoi archibugi che erano appesi ai pali della tenda, una mezza dozzina circa e tutti splendidi e di lunga portata, avendoli acquistati dai persiani che godevano allora fama di abilissimi armaiuoli; si cacciò nella cintura le sue due pistole ed il kangiarro, che aveva l'impugnatura d'oro con turchesi e rubini e andò a sedersi sulla soglia della tenda, mettendosi accanto il narghilè.

— Se i ladroni verranno poi a farmi visita li riceverò come si meritano — disse, riaccendendo la pipa, che nel frattempo si era spenta.

— D'altronde la scorta non tarderà a giungere. Il cavallo di Abei nulla ha da invidiare per velocità e per resistenza a quello di Hossein ed al mio.

Il mio!... Sarà meglio che lo metta al sicuro e che me lo tenga presso.

Heggiaz!... —

Un nitrito rispose subito alla chiamata del vecchio, poi un superbo cavallo sorse dall'ombra, accostandosi all'entrata della tenda e presentando il suo muso al padrone.

Era tutto nero, col pelo lucentissimo e bardato con un lusso che solo un ricco beg può permettersi. Le briglie e la sella avevano pendenti formati di zecchini e catenelle d'oro e la gualdrappa, che scendevagli fino al ventre per ripararlo dall'umidità della notte, era tutta ricamata in argento con numerosi gruppetti di perle di Barehin ai quattro angoli.

Il beg gli gettò sulle nari una boccata di fumo odoroso, che il cavallo, al pari dei cammelli turchestani, parve gradire, poi gli disse:

— Coricati presso di me, mio bravo Heggiaz. Tu senti meglio di me i nemici, anche quando sono ancora lontani. —

Il cavallo obbedì docilmente, coricandosi fra le alte erbe che crescevano intorno alla tenda.

Il beg si era rimesso a fumare colla sua solita pacatezza, seduto su un pesante cofano che Tabriz aveva colà collocato, onde rinforzare meglio le pertiche reggenti la vasta tenda.

Di quando in quando s'interrompeva, per mettersi meglio in ascolto e per scrutare le tenebre. Non udiva che il sibilar rabbioso delle raffiche e dentro lo squillare inquieto dei falchi.

Passò un'ora, poi un'altra ne trascorse, senza che alcun essere umano si mostrasse sulla steppa. Il beg non fumava più colla calma abituale; aspirava rabbiosamente il fumo della sua pipa, facendo gorgogliare fortemente l'acqua profumata coll'essenza di rosa, racchiusa nel vaso di vetro.

Cominciava ad inquietarsi.

— Abei dovrebbe essere già qui colla scorta, — si ripeteva. — Che gli sia accaduta qualche disgrazia o che abbia incontrato qualche drappello di Aquile rimaste indietro? E di Hossein che cosa ne sarà? Che sia giunto alla casa di Talmà?

Io non tremo per lui, ha Tabriz con sè che vale da solo dieci uomini e poi Hossein è più audace e più forte di Abei. —

Ad un tratto il cavallo mandò un lungo nitrito e alzò di colpo la testa verso l'occidente.

— Che cos'hai udito, mio bravo Heggiaz? — chiese il beg, che si era pure levato, lasciando cadere il cannello di cuoio rosso del narghilè e armando precipitosamente uno dei suoi sei fucili. — È Abei che torna colla scorta o qualche Aquila che cerca d'accostarsi? —

Tese gli orecchi, curvandosi verso il suolo, mentre l'intelligente animale mandava un secondo nitrito e allungava maggiormente il collo verso l'ovest.

— Deve essere Abei, — disse il beg, il cui udito ancora finissimo aveva raccolto un lontano galoppo.

Dopo alcuni minuti il vecchio vide un cavallo galoppare sfrenatamente verso la tenda, privo del cavaliere. Mandò un grido:

— Qui, Ader! —

Il destriero fece, senza fermarsi, il giro della tenda, forse per aver tempo di frenare lo slancio, poi andò a urtare Heggiaz con tanta violenza da cadere sulle ginocchia.

— Solo, torna solo senza Abei! — esclamò il beg, precipitandosi verso il cavallo. — Quale disgrazia è successa? È impossibile che sia caduto, lui che è pure un abilissimo cavaliere e Ader poi non avrebbe lasciato il suo padrone. —

Sollevò il cavallo e lo trasse entro la tenda, sotto la lampada. Con un solo sguardo si avvide che quel bellissimo animale, un farsistano come il suo, non aveva alcuna ferita.

Anche la bardatura era intatta, come quando era partito.

Il vecchio fece un gesto disperato.

— E non poter sapere nulla!... Abei scomparso, Hossein e Talmà in pericolo!... Che cosa fare?... Maledette Aquile, che il Profeta vi danni e che l'arsura non cessi di disseccare la vostra steppa della fame! —

Stette un momento immobile guardando, cogli occhi dilatati da una collera intensa, la pianura che il vento e le sabbie spazzavano, poi prese una risoluzione disperata:

— Andiamo a chiamare in aiuto i Sarti. —

Legò il cavallo del nipote ad un palo della tenda, spense la lampada, onde colla sua luce non attirasse l'attenzione degli scorridori della steppa, abbassò il pesante tessuto di feltro che serviva da portiera, quindi, gettandosi sulle spalle un fucile, uscì, gridando:

— Heggiaz! —

Il nobile animale s'accostò al padrone. Pareva che avesse compreso che cosa si domandava da lui.

Il vecchio, a cui l'età non aveva ancora tolta la forza, si aggrappò alla criniera e mettendo un piede nella larga staffa d'acciaio, montò in sella.

— Via, mio bravo Heggiaz, e non fermarti fino al villaggio dei Sarti. —

Il farsistano sentendo allentare le briglie, partì come un fulmine verso il settentrione.

Il villaggio dei Sarti, che era una specie di feudo di Talmà, essendo stato suo padre beg di una di quelle tribù sedentarie, si trovava più prossimo alla casa assediata dalle Aquile della steppa. In meno di un'ora e mezzo, con quel cavallo che poteva gareggiare con quelli di Hossein e di Tabriz, il vecchio contava di giungervi.

Fortunatamente i banditi, sicuri di non venire disturbati, ansiosi soprattutto di impadronirsi della casa, avevano commesso l'imprudenza di non lasciare delle vedette disperse per la pianura, cosicchè il beg potè attraversare la distanza che lo separava dai Sarti, senza fare alcun cattivo incontro, eccettuato qualche piccolo gruppo di lupi che non si provò nemmeno a dargli la caccia.

Era la mezzanotte quando entrò nel villaggio. Era quello formato da un centinaio e mezzo di casupole molto basse, costruite con argilla grigia, con finestre così strette da sembrare feritoie e con porte basse, chiuse da una enorme pietra che si spostava dal di dentro.

Un'oscurità profonda ed un silenzio perfetto regnavano nelle viuzze fangose e tortuose. I Sarti dormivano della grossa, non immaginandosi nemmeno lontanamente, che in quel momento le Aquile fossero sbucate dalla steppa della fame e che fossero piombate sulla casa della loro principessa e padrona.

Il beg spinse il suo cavallo fino in mezzo ad una piazzetta che formava il centro del villaggio e s'arrestò dinanzi ad una casa un po' più vasta delle altre, sormontata da un terrazzo.

Si levò un archibugio e lo scaricò in aria, mormorando:

— Se non sono tutti ubbriachi, si sveglieranno. —

La detonazione s'era appena spenta, che si videro degli sprazzi di luce attraverso le feritoie, poi s'udirono delle grida partire da diverse case.

Un uomo era comparso sulla cima del terrazzo, armato d'un fucile e munito d'una torcia.

— All'armi Sarti! — urlò con voce tuonante. — Le Aquile della steppa!

— Taci, cornacchia! — gridò il vecchio. — Invece di strepitare a codesto modo scendi e raccogli tutti i tuoi uomini.

— Chi sei?

— Giah Agha beg. —

L'uomo scomparve e poco dopo la pietra, che serviva di porta a quella casa, veniva spostata e parecchi Sarti uscivano, portando delle lampade, ma tenendo anche prudentemente nell'altra mano i moschetti armati.

— Tu, signore! — esclamò una voce con stupore.

— Voi dormite, mentre i banditi assalgono la casa della vostra padrona, — disse il beg. — Questo non è il momento di tenere gli occhi chiusi e le armi appese alla parete.

— La casa della principessa attaccata! — gridarono parecchie voci.

— Tacete e non perdete tempo. Radunate più combattenti che potete e seguitemi. Daremo a quelle maledette Aquile una terribile lezione. —

Altri uomini accorrevano da tutte le parti armati di fucili, di pistole, di cangiarri e di jatagan.

Udendo che le Aquile avevano assediato la casa della loro giovane signora, si dispersero come uno stormo di passeri per tornare poco dopo coi loro cavalli di battaglia.

— Quanti siete? — chiese il beg.

— Almeno in duecento, — rispose il più anziano della truppa.

— In sella e seguitemi. Giah Agha vi conduce. —

La fama del vecchio guerriero era troppo nota nella steppa.

I Sarti, che sono d'altronde valenti soldati, vivendo in continua guerra colle orde dei Kirghisi e degli Usbechi, quegli eterni scorridori della grande pianura turanica, in un lampo furono tutti a cavallo ed il plotone lasciò la piazza, mentre le loro donne ed i vecchi che erano pure usciti, gridavano loro dietro:

— Tornate vincitori! —

Ed il mullah del villaggio, salito sul suo piccolo minareto mezzo diroccato, urlava a squarciagola:

Slonchay!... Dismillahir rahmnvir rahim! — (All'erta!... Suoni la mia parola in nome di Dio santo ed inesorabile).

Il beg, si era messo alla testa dello squadrone e, siccome il suo cavallo era tutt'altro che stanco, lo conduceva con una velocità vertiginosa, temendo di giungere troppo tardi.

Avevano percorso appena un paio di miglia, quando i cavalieri cominciarono a udire confusamente le scariche di moschetteria.

— Preparate le armi! — gridò il beg, reggendosi sulle larghe staffe e levandosi dalla fascia il kangiarro. — Nessuna compassione per quei ladroni. —

Continuarono la corsa sfrenata per parecchi minuti ancora, mentre le scariche diventavano intense e più forti.

Kabarda! Kabarda!...[6] — gridarono ad un tratto i cavalieri.

Degli uomini fuggivano al galoppo attraverso la steppa, mentre dei lampi balenavano fra le erbe e più in alto, sul terrazzo e sulla veranda della casa di Talmà, che era ormai visibile.

Nuher (scudiero), suona la carica! — gridò il beg.

Un uomo, che lo seguiva da presso, levò da una fonda della sella una specie di flauto e si mise a suonare rabbiosamente, cavando dall'istrumento delle note stridenti, che si propagavano a grande distanza.

I banditi che assediavano la casa, sentendosi rovinare addosso quella turba di cavalieri, si erano dispersi precipitosamente per raggiungere i loro animali nascosti fra le alte erbe.

Solo otto o dieci che erano già a cavallo e che dovevano essere quelli che erano scappati poco prima, si radunarono per tentare di sostenere l'urto, ma appena si videro dinanzi il vecchio beg che caricava alla disperata col kangiarro alzato, volsero anche essi le spalle, senza nemmeno perdere tempo a scaricare qualche colpo di pistola.

— Padre! — gridò Hossein, che lo riconobbe subito, cominciando le tenebre a diradarsi.

— Dov'è Talmà? — chiese il vecchio, mentre scendeva da cavallo.

— È qui presso di me.

— Aprite la porta. —

I Sarti in quel frattempo avevano continuata la loro corsa, smaniosi di vendicarsi di quei terribili predoni, che già più volte avevano devastate le loro terre e predate buona parte delle loro mandrie.

Le lastre di pietra che barricavano le due porte della casa, (porte alte e non già basse, essendo quelle un distintivo delle case abitate da persone d'alta condizione), furono levate ed il beg entrò preceduto dallo scudiero.

Sul pianerottolo della scala che conduceva sulla galleria, Hossein e Tabriz l'aspettavano.

— Sia lodato Iddio ed il suo profeta, — disse il vecchio, abbracciando la giovane e poi il nipote. — Temevo di non poter giungere in tempo. Spero che le Aquile non torneranno più a guastare la vostra felicità.

— Grazie dell'augurio, padre, — rispose la bella Talmà colla sua voce armoniosa.

— Ed Abei? — chiese Hossein. — Insegue i banditi?

— Io non l'ho più veduto, — rispose il beg. — Solo il suo cavallo è tornato alla tenda, senza cavaliere.

— Abei scomparso! — esclamarono ad una voce Hossein e Talmà.

— Io temo, figli miei, che gli sia toccata qualche sventura avanti che abbia potuto raggiungere la scorta.

— E non andremo a cercarlo? — chiese Hossein.

— Sì. Affiderò la missione di trovare Abei a Tabriz. Mi addolorerei troppo che egli non assistesse al matrimonio di questi ragazzi. —

Tabriz, che era conosciutissimo dai Sarti, scelse venti cavalieri, montò Heggiaz che pareva fosse appena uscito dalla scuderia, non ostante la lunga corsa fatta e diede il comando di partire, mentre il beg e Hossein gli gridavano dalla veranda:

— Ritorna presto e con lui. —

CAPITOLO VIII. La steppa turcomanna.

In quell'immenso spazio che si estende fra il mar Caspio ad occidente ed il mar d'Aral ad oriente, toccando i confini della Persia, dell'Afganistan, della Duzungaria cinese e del Belucistan, vive un gran popolo fiero, bellicoso, che nessuno degli stati confinanti è stato mai capace di soggiogare.

Solo i russi, dopo non lievi lotte e non pochi sacrifici, sono riusciti, pochi anni or sono, a frenare; ma non del tutto a dominare, poichè tutti i Kanati che sono compresi in quel vastissimo territorio, si possono considerare anche ora, quasi indipendenti.

Quel grande popolo è conosciuto sotto il nome generico di turcomanni, quantunque racchiuda nel suo seno varie razze, che ben poco hanno di comune l'una coll'altra, fuorchè una sola cosa: l'istinto del ladroneccio.

Il turchestano infatti somiglia molto al terribile tuareg, quel formidabile predone che ha fatto dell'immenso deserto del Sahara, il suo impero. Pel tuareg le sabbie del deserto, pel turcomanno la steppa: entrambi sono avoltoi e quali avoltoi!...

Quel popolo, eternamente irrequieto, che nei secoli passati ha rovesciato nell'Asia Minore e nella penisola balcanica quei terribili turchi, che unitisi agli arabi fecero tremare per tanto tempo le più agguerrite nazioni bagnate dal Mediterraneo, occupa tutta la grande steppa non solo, ma bensì anche la valle dell'Ox, parte del Kkorossan e perfino una porzione del Belucistan.

Il paese dove vive non è altro che una landa sterminata, che sembra sia stata in tempi remotissimi il fondo di qualche gigantesco bacino, caldissima e arida nell'estate, fredda e generalmente nevosa nell'inverno, bagnata solamente nella primavera e nell'autunno da piogge abbondanti, le quali sviluppano erbe altissime.

Come nel Sahara, così nella steppa vi sono oasi dove si coltivano, con buon successo, granaglie di varie specie: riso, lino, cotone e frutta molto deliziose, specialmente nelle valli aperte dal Syr-Ceria, dal Kisil e dall'Oxus, i tre maggiori fiumi che scorrono attraverso la steppa e le cui rive sono coperte di giunchi, di canne e di alberi.

Quattro razze distinte si contendono quel paese, e tutte sono più o meno dedite al ladroneccio, sdegnando l'agricoltura, quantunque tutte si occupino attivamente dell'allevamento dei cammelli, dei cavalli e dei montoni.

Gli Usbechi, che sono i più numerosi e che formano perciò la razza dominante, oriundi dalle rive del Volga, che abbandonarono nel XV secolo, occupano la maggior parte della steppa, vivendo sotto tende. Piccoli, robusti, sono coraggiosissimi e perciò insofferenti d'ogni giogo e non si occupano d'altro che dell'allevamento dei cavalli.

I turcomanni, padri degli Osmani che conquistarono col valore delle loro armi la Turchia Europea e le rive del mar Nero, occupano la steppa che si estende dalle sponde meridionali del Caspio a quelle occidentali dell'Aral, e questi sono i più temuti; ma accanto a loro vi sono i Kirghisi, popolo nomade e selvaggio, vivente esclusivamente di preda, sempre in lotta coi suoi vicini ai quali ruba le mandrie, i cammelli ed i cavalli. Questi sono i veri predoni della steppa, sono le terribili Aquile, che calano con rapidità fulminea e che con eguale rapidità scompariscono, lasciando dietro di loro solo delle rovine fumanti.

La Russia ha conquistato il loro paese, sottoponendo volta a volta sotto il suo dominio la grande, la media e la piccola orda, senza però che sia riuscita a cambiare i loro istinti briganteschi. Ed infatti i Kirghisi sono rimasti quelli che erano cent'anni fa.

La quarta razza che vive nella steppa turchestana è la Bukara, chiamata anche Tadjika ed è la più incivilita; e per sua disgrazia anche la più debole, sicchè deve sopportare il giogo delle altre tre. È l'unica che non sia nomade, preferendo vivere nella città e nei villaggi, dedicandosi al commercio ed all'agricoltura, ed a questa appartengono i Sarti che sono una frazione di essa.

Ciò premesso, riprendiamo la nostra narrazione.

Il drappello di Tabriz galoppava sempre, dirigendosi innanzi a tutto verso la tenda del beg per mettere al sicuro i bagagli, che contenevano grandi ricchezze e preziosi gioielli, destinati a Talmà, e che i banditi potevano predare senza che alcuno potesse opporsi a loro.

Il gigante non era troppo tranquillo, potendo darsi che le Aquile avessero lanciati alcuni cavalieri attraverso la steppa per sorvegliare il beg ed i suoi due nipoti, quindi si affrettava, incitando i Sarti, a non risparmiare ai loro cavalli i colpi di frusta.

Le tenebre si erano a poco a poco dileguate e, quantunque l'autunno fosse già inoltrato, il sole dardeggiava sulla steppa dei raggi ancora caldissimi, i quali assorbivano l'umidità del suolo trasformandola in leggere cortine di nebbia.

Attraverso alle erbe fuggivano con velocità fantastica truppe di gazzelle non più grosse di caprioli, col dorso, il collo e le estremità delle membra coperte d'un pelame candidissimo, la testa fulva e grigia, armata di due corna nere e aguzze e gli occhi contornati da una fascia bianca che dà loro un aspetto stranissimo.

Anche molte lepri scappavano quasi di sotto le gambe dei cavalli, non essendo quelle turchestane timide come le nostre, nulla avendo da temere da parte degli uomini, reputando la loro carne non meno impura di quella del maiale.

Alle sette del mattino Tabriz, che aguzzava gli sguardi e che non aveva rallentata la corsa dell'instancabile Heggiaz, scopriva finalmente la tenda del beg, la quale sorgeva isolata in mezzo alla sterminata pianura.

— Pare che le Aquile l'abbiano rispettata, — disse, volgendosi verso il nuker che gli cavalcava a fianco. — Avrebbero potuto fare un bel bottino che le avrebbe in parte compensate della batosta subita dinanzi la casa di Talmà.

— Hanno troppa paura del tuo beg, — rispose il Sarto.

— Sai chi è che comanda le Aquile?

— Mi hanno detto che le guidava un turcomanno delle rive del Caspio.

— Non sono Kirghise dunque quelle?

— Non credo.

— Avrei giurato che venivano dalla steppa della fame, — disse Tabriz. — Kirghise o Turcomanne sono sempre pericolose, quando spiegano le ali. Rallenta.

— Perchè, Tabriz?

— Vi possono essere banditi là dentro e prenderci con una fucilata a bruciapelo. —

Essendo giunti ad un centinaio di passi dalla tenda, Tabriz fermò il proprio cavallo e lo costrinse a nitrire, pizzicandogli fortemente un orecchio.

Un altro nitrito che usciva dalla tenda rispose subito.

— È il cavallo di Abei Dullah, — disse subito il gigante. — Possiamo andare innanzi con tutta sicurezza. —

Allentò le briglie e in pochi slanci raggiunse la tenda. Saltò a terra e alzò il pezzo di feltro che serviva da porta, affrettandosi a puntare una pistola, ma non vide che il cavallo di Abei legato ad un palo della tenda.

— È strano! — mormorò. — Nessuna scalfittura sul cavallo di Abei; nemmeno le ginocchia sono lorde di fango. Questo cavallo non è caduto; come mai Abei Dullah è stato preso? Ecco un bel mistero che sarà forse difficile dilucidare. —

Fece scendere da cavallo due Sarti e ordinò loro di mettersi a guardia della tenda, poi risalì su Heggiaz, dicendo agli altri:

— Seguitemi e aprite gli occhi. —

Il drappello sferzò le cavalcature e riprese la corsa. Tabriz si era prontamente deciso.

Era sua intenzione di muovere direttamente verso l'Ungus Bett, sulle cui rive Abei aveva lasciata la scorta dei cammelli. Se Abei s'era diretto verso quel corso d'acqua, doveva trovare in quella direzione le sue tracce o per lo meno il suo cadavere.

— State attenti se vedete delle aquile non già umane, bensì pennute, — disse volgendosi verso i Sarti che lo seguivano. — Se calano sulla steppa è segno che vi sarà un cadavere da fare a pezzi.

— Che l'abbiano ucciso? — chiese il nuker che aveva ripreso il posto al suo fianco.

— Non lo credo, quantunque quel cugino d'Hossein non mi sia mai stato... troppo simpatico — disse Tabriz.

— Vuoi dire che se fosse morto... —

Il gigante fece con una mano un gesto vago, senza rispondere e aizzò Heggiaz.

Nuvoli di koabara, che sono una specie di ottarde di statura piccola, colle piume bigio giallastre a macchiette brune, la testa adorna d'un ciuffetto, il collo lunghissimo, fornito sotto la gola di lunghe penne sottili e biancastre, con punteggiature nere ed il becco somigliante ad un chiodo, fuggivano lungo le rive di quei piccoli bacini.

Tabriz non si degnava nemmeno di guardarle, quantunque quei grassi volatili avessero potuto fornire a lui e ai suoi uomini una succolenta e deliziosa colazione, che tutti avrebbero assai gradita. Egli seguiva cogli sguardi una traccia aperta fra le erbe che a qualunque altro occhio sarebbe sfuggita, ma non certo al suo.

— L'ha aperta il cavallo di Abei questa via, — mormorava. — Si vedono le erbe calpestate e ripiegate dai suoi robusti zoccoli.

Finirò per trovarlo. —

Quella galoppata durava già da un'ora ed il gigante cominciava a distinguere, attraverso la nebbia che s'alzava sulla steppa, come un gran nastro d'argento che il sole faceva vivamente scintillare indicante il fiume, quando un grido echeggiò in mezzo alle erbe che sorgevano altissime sulle rive.

Kabarda!... Kabarda!... —

Tabriz arrestò di colpo Heggiaz, facendolo piegare fino a terra e vide parecchi grossi falchi volare in truppa serrata, sfiorando colle loro robuste ali le erbe della steppa.

— V'è qualcuno laggiù, — disse.

Fece fare a Heggiaz un gran salto e si diresse verso il fiume gridando con voce stentorea:

— Chi chiama?.

— Aiuto!

— Veniamo: abbiate pazienza un momento.

— Aiuto!...

Tabriz si lasciò sfuggire un grido.

— È la voce di Abei! — esclamò. — Che io abbia avuto tanta fortuna? —

Quel grido era partito fra mezzo un altro gruppo di canne, costeggiante uno stagno con le erbe circostanti che quasi interamente coprivano.

Tabriz discese da cavallo, subito imitato dal nuker ed entrambi si diressero con precauzione verso le piante acquatiche.

— Sei tu signore? — chiese il gigante — aprendo le canne coll'archibugio.

— Non m'inganno io! — esclamò la voce che aveva chiamato aiuto. — È Tabriz che mi parla! —

Il turcomanno s'avanzò rapidamente e scoprì, in mezzo alle piante, il nipote del beg colle gambe e le braccia legate da solide corregge.

— Che cosa fai costì, mio signore? — chiese il gigante.

— Vedi bene che sono legato, — rispose Abei, che pareva o fingeva di essere arrabbiato.

— Ti hanno sorpreso le Aquile, signore?

— Vuoi che mi sia legato da me?

Tabriz estrasse il kangiarro ed in pochi colpi recise le corregge, non senza notare però che i nodi erano così poco stretti da poterli allargare con un piccolo sforzo.

— Sono sei ore che mi trovo qui — disse Abei saltando lestamente in piedi. — Potevi giungere ben prima.

— Avevamo da difendere Talmà, signore, — disse Tabriz — e quelle maledette Aquile ci hanno tenuto occupati fino all'alba.

— L'hanno portata via?

— Chi?...

— La bella Talmà?

— È stato un vero miracolo se non l'hanno rapita. Qualche ora di ritardo e prendevano d'assalto la casa. —

Abei era diventato pallidissimo ed una profonda ruga si era disegnata sulla sua fronte.

— E Hossein è là? — chiese coi denti stretti.

— Col beg.

— E chi sono codesti cavalieri che t'accompagnano?

— I Sarti di Talmà. —

Abei represse a stento un moto d'ira.

— E le nozze? — chiese.

— Questa sera, signore, verso il tramonto. Partiamo o non potrai prendere parte alla caccia, nè alla corsa, mentre il beg conta sui tuoi falchi e sul tuo cavallo.

La carovana si sarà già messa in viaggio ed i regali di nozze non mancheranno al momento opportuno.

— Conducetemi un cavallo — proseguì Tabriz, volgendosi verso la scorta.

Un sarto s'avanzò e balzò a terra dinanzi ad Abei dicendogli:

— Lunga vita al nipote del grande beg. Ecco il mio cavallo signore. —

Abei salì in sella senza parlare, mentre il Sarto montava dietro ad uno dei suoi compagni; poi il drappello partì al galoppo, tornando, innanzi a tutto, verso la tenda per smontarla e trasportarla alla casa di Talmà e prendere i cavalli che dovevano già essere ritornati.

Abei non aveva più aperto bocca. Pareva in preda a tetri pensieri e punto soddisfatto di quanto era accaduto durante la notte. Di quando in quando la profonda ruga ricompariva sulla sua fronte e il suo viso già poco simpatico assumeva un aspetto bruttissimo.

— Signore, — gli disse ad un certo momento Tabriz, — si direbbe che tu sei molto incollerito.

— È vero, — rispose il nipote del beg. — L'ho con quelle dannate Aquile e poi vi è un pensiero che mi turba.

— Quale?

— Vorrei sapere chi le ha spinte a tentare questo colpo di mano e per conto di chi hanno agito.

— È quello che mi ero già chiesto anch'io, — rispose il gigante. — Qui sotto ci deve entrare la mano di qualche uomo potente.

— Di un Khan?

— Quello di Khiva o di Bukara. Eh!...

— Può darsi — disse Abei. Poi ricadde nel suo mutismo, aizzando il piccolo e villoso cavallo datogli dal Sarto.

Un'ora dopo giungevano alla tenda. I due cavalli che Tabriz e Hossein avevano lasciati liberi, brucavano le erbe come meglio potevano, avendo ancora il morso.

I Sarti, aiutati dal gigante, levarono le pertiche, piegarono l'immensa tela di grosso feltro, caricarono tutto sui cavalli, compresi i cofani, poi si rimisero in marcia.

Abei non si era occupato che dei suoi falchi ai quali ci teneva immensamente.

Verso le tre del pomeriggio la carovana giungeva dinanzi alla casa di Talmà, che brulicava di persone accorse in gran numero da tutti i vicini villaggi di quella parte della steppa, per assistere alle nozze.

I matrimoni che si celebrano nelle steppe turaniche, attirano sempre un gran numero di persone, perchè quello è un giorno di festa e di baldoria per tutti, anche per gli stranieri, anche pei nemici, i quali vengono considerati come ospiti e nulla hanno quindi da temere, almeno fino a che le feste durano.

Quando si tratta specialmente d'un matrimonio fra persone cospicue, non è raro vedersi radunare delle migliaia di cavalieri giunti da villaggi anche lontanissimi, perchè sanno che gli sposi daranno cacce, corse di cavalli e soprattutto banchetti colossali, dove s'immoleranno centinaia di montoni e dove il latte inacidito e fermentato di cammelle scorrerà a fiumi.

Il beg, i suoi nipoti e Talmà erano troppo noti nella steppa dei Sarti, perchè il pubblico scarseggiasse: e forti drappelli di cavalieri, in abito da festa, con immensi turbanti variopinti, o altissimi kalbak villosi, cinture piene d'armi scintillanti, e lunghissimi fucili gettati attraverso le spalle erano accorsi.

Chi erano e da dove venivano?

Nessuno avrebbe osato far loro una tale domanda perchè, secondo le leggi dell'ospitalità turchestana, sarebbe stata un'offesa sanguinosa.

Moltissimi erano Sarti del Tackhunt, a giudicarli dalla lunga vestaglia, colle maniche molto larghe presso la spalla e strette all'estremità e tanto lunghe che basta chiudere il pugno, perchè ricadano e riparino le mani dal freddo e dall'umidità, quindi persone amiche.

Ve n'erano molti altri però con giubbe invece corte, di grosso panno, strette da larghe fasce di cotone, lunghe sovente perfino dieci metri e con ampi calzoni e alti stivali gialli o rossi, a punta rialzata, e con certe facce barbute, d'aspetto brigantesco e poco rassicurante, appartenenti ad altre tribù e forse molto lontane.

I servi di Talmà, aiutati dai Sarti del vicino villaggio e dalla scorta del beg, che era giunta felicemente colla carovana, avevano fatti i preparativi per le nozze. Immense tavole erano state disposte dinanzi alla casa pel banchetto notturno ed un numero infinito di caldaie erano state allineate sul margine della steppa, piene di pezzi di montone.

Tutto il giorno i cuochi, improvvisati, non avevano fatto altro che scannare animali e mungere le cammelle, affinchè tutti gli ospiti potessero mangiare a crepapelle e bere a sazietà e poter vantare dovunque la ricchezza e la generosità del vecchio beg, di Hossein e della sposa.

Quello però che pel momento maggiormente interessava tutta quella gente era la caccia col falco, che doveva aprire la festa, poichè tutti i turchestani sono appassionatissimi per tali divertimenti.

Quattro gazzelle, animali velocissimi, più agili dei cervi e dei caprioli, dovevano fornire la preda ai rapaci volatili di Abei.

Uno squillo di corno, lanciato dallo scudiero, avvertì che gli ospiti si erano disposti su due immense file sulla fronte della steppa, trattenendo a stento i loro piccoli, brutti, ma ardenti cavalli, che la caccia alla quale dovevano prendere parte anche i fidanzati, stava per cominciare.

La porta maggiore della casa di Talmà si era aperta, e pel primo era comparso Abei, sfarzosamente vestito, montato sul suo bellissimo cavallo e tenendo sul pugno sinistro, coperto da uno spesso guanto, il suo falcone favorito.

Subito dopo erano usciti Hossein e Talmà, seguiti dal vecchio beg e da Tabriz.

Il primo indossava uno splendido costume persiano di seta bianca, con grandi cordoni ed alamari d'oro e sul berrettone conico un pennacchio ornato di diamanti e di smeraldi; Talmà invece aveva il suo vestito da sposa, che risaltava vivamente sulla candida giumenta che le serviva da cavalcatura.

Aveva i capelli divisi in due grosse trecce, che le ondeggiavano sulle spalle e che contornavano splendidamente il suo visino bianco-rosa, allungate artificiosamente con spighette formate da peli di cammello e intrecciate con mazzolini di bellissime perle di Bahrem.

Sul capo portava una specie di tiara d'argento dorato, adorna di turchesi, assai alta, un vero edifizio, coperta in parte da un lungo velo intessuto con pagliuzze d'oro e con numerose fila di sottilissime catenelle e di pietre preziose, come rubini, zaffiri e smeraldi e che terminava al di sotto della cintura, in un ricchissimo e probabilmente antichissimo merletto.

La sua veste era ampia, di seta rossa, diritta, priva delle maniche affinchè si potessero scorgere i meravigliosi braccialetti che le ornavano le bellissime braccia, — regali del fidanzato; — era stretta alle anche da una fascia pure di seta, ricamata in oro, di colore azzurro ed abbellita sul petto da piastrine d'argento e d'oro, somiglianti nella forma alle cartucce dei moderni fucili e che probabilmente dovevano contenere degli amuleti o dei versetti del Corano.

Al di sotto di quella veste, che non le scendeva oltre le ginocchia, formando ampie e ricche pieghe, Talmà portava dei larghi calzoni alla turca, di seta bianca, con festoni d'oro, allacciati alle caviglie, un po' sopra delle scarpette di cuoio rosso splendidamente ricamate in argento.

Il beg veniva ultimo, colla sua famosa scimitarra di damasco che avrebbe potuto bastare a comperare le splendide armi dei suoi nipoti, tutto racchiuso in una severa zimarra di panno bruno, stretta da una fascia di pelle gialla ed il capo coperto da un immenso turbante, il cui pennacchio era trattenuto da uno smeraldo di valore inestimabile.

Tutti in pugno tenevano i falchi, i quali squittivano incessantemente o starnazzavano le ali come se fossero impazienti di strappare gli occhi alle disgraziate gazzelle.

Un urlo selvaggio, partito da mille bocche, salutò la comparsa degli sposi:

Uran!... Uran!...

Era quel grido formidabile dei cavalieri turchestani, che tante volte aveva fatto impallidire i poveri abitanti della steppa; un grido che somigliava all'urrah leggendario dei cosacchi, urlo di guerra ed insieme di entusiasmo.

Da una specie di capannuccia costruita in mezzo alle alte erbe, quattro graziose gazzelle, catturate vive alcuni giorni innanzi, si erano buttate a corsa disperata attraverso la steppa; e tutta quella turba di cavalieri, preceduta dai fidanzati, da Abei, dal beg e da Tabriz, si era slanciata innanzi come una tromba furiosa, devastatrice, aizzando i cavalli e lanciando il terribile grido di guerra.

Era un uragano che passava attraverso alla steppa, peggio ancora, una meteora fra un fracasso assordante, un mugolìo feroce di veltri galoppanti sui fianchi dei cavalieri, con le lingue penzolanti e le code al vento.

CAPITOLO IX. Il colpo di testa delle Aquile.

I turchestani non hanno, al pari dei signori e dei feudatari europei, rinunciato alla loro passione per la caccia col falco, perchè gli sconvolgimenti che hanno recato tanti danni nel medio evo, li hanno lasciati perfettamente tranquilli nelle loro steppe.

Essi non contano nella loro istoria un Carlo V, che diede in feudo ai cavalieri di S. Giovanni l'isola di Malta, purchè gli passassero ogni anno un falcone bianco bene ammaestrato; nella loro religione non hanno avuto sacerdoti che si dedicassero come da noi, all'allevamento di quei rapaci volatili, tanto da trascurare le loro pratiche religiose; non hanno avuto di quei baroni inglesi che reclamavano il diritto di collocare i loro falchi sopra gli altari, mentre si celebravano le sacre funzione; non un Francesco I che aveva un falconiere maggiore, capo di quindici nobili e di cinquanta servi, incaricati della cure e dall'addestramento dei suoi trecento volatili; nè un Lodovico II che castigava colla pena di morte chiunque rubasse un falco, e con un anno ed un giorno di carcere chi sottraesse un solo uovo da un nido.

Tuttavia tutti i ricchi turchestani, specialmente i beg, i khan e lo sciàh di Persia, hanno una passione estrema pei falchi cacciatori, senza raggiungere le stranezze dei nostri antichi feudatari.

Nell'ammaestramento usano però i medesimi sistemi e adoperano, al par dei nostri antenati, il falcone di passo, eccettuato l'astore, che fa eccezione alla regola e che quantunque nidifichi sul posto si abitua facilmente.

Catturato il volatile, che deve essere sempre un adulto e non già un piccino, per qualche tempo lo lasciano tranquillo su un pezzo di legno piantato nel suolo, non troppo alto, offrendo di quando in quando qualche piccolo uccello ucciso di fresco o qualche pezzo di montone ancora sanguinante. Sono però così diffidenti e così selvaggi, che per uno o due giorni disdegnano il cibo; ma la fame, quella tremenda fame che doma le tigri ed i leoni, li vince e non esitano più.

Quello è il primo passo. Il falco che comincia a conoscere il suo fornitore, si lascia facilmente collocare sul pugno del falconiere, il quale lo obbliga a restarvi per un certo tempo.

Ordinariamente, quegli uccelli rapaci si arrendono con molta fatica e cercano di gettarsi a terra; ma essendo legati, a poco a poco si abituano, specialmente se si ha cura di privarli del sonno e di trattenerli il più che sia possibile, di notte, alla luce di una lampada. Il falco non tarda allora a riconoscere l'uomo che lo cura e che gli dà da mangiare, anche se lo tiene sul pugno. È sempre questione di appetito.

Solo allora gli si permette di fare qualche volata trattenendolo dapprima con una correggia non più lunga di mezzo metro, costringendolo però a ritornare sul pugno del falconiere.

Ciò ottenuto si sostituisce una funicella di trenta o quaranta e anche più passi ed incomincia il secondo ammaestramento: ossia di partire al fischio e di ritornare al medesimo segnale.

Fino dalle prime lezioni però i turcomanni e anche i persiani, hanno cura soprattutto di abituare i loro falchi alle grida dei cacciatori; ai nitriti dei cavalli ed ai latrati dei cani, onde non si spaventino al momento della caccia e, caso strano, vi si prestano facilmente.

Quando i falchi conoscono ormai il loro falconiere e rispondono alla sua chiamata, tornando sollecitamente sul suo pugno, comincia il secondo periodo d'educazione, ossia di insegnare loro di cacciare al vivo come si dice.

Da principio i falconieri legano per le zampe qualche uccello, che sia piuttosto grosso, poi lo lasciano in libertà, tenendo però sempre il filo in mano ed invitano il falco ad inseguirlo. Questi non si fa quasi mai ripetere l'ordine, parte come un fulmine, raggiunge e ghermisce la preda; bisogna lasciargliela divorare girandogli però intorno e gridando e fischiando onde si abitui a non aver paura e lasciarsi prendere assieme alla vittima.

Un mese ordinariamente di quell'esercizio quotidiano, basta per addestrarlo perfettamente alla caccia libera.

Allora il falco è pronto a tutto: ad inseguire e prendere i volatili, a cacciare le lepri e anche a misurarsi colle velocissime gazzelle, alle quali strappa gli occhi, tenendole quasi ferme fino all'arrivo dei cavalieri.

La cavalcata, preceduta sempre da Abei che era un falconiere emerito, con Hossein che le cavalcava a fianco, continuava la sua corsa furiosa attraverso la steppa. La bella Talmà si reggeva molto bene in sella, essendo tutte le donne turchestane abilissime cavallerizze ed anche instancabili.

Col suo lungo velo svolazzante, la sua tiara scintillante, il viso animato dal piacere della corsa, gli occhi vivissimi, era davvero bella e si poteva facilmente comprendere come avesse profondamente colpito il cuore di Hossein e forse di qualche altro ancora.

Le gazzelle, spaventate dalle grida dei cavalieri, dal rombo assordante di tutte quelle centinaia di cavalli lanciati a corsa sfrenata e dai latrati furibondi dei veltri, fuggivano disperatamente, balzando come palle di gomma al di sopra delle alte erbe.

Le povere bestie facevano sforzi prodigiosi per mantenere la distanza e vi riuscivano, almeno pel momento, quantunque i magri e agilissimi veltri avessero già sorpassati i cavalli.

Uran!... Uran!... — urlavano sempre ferocemente i cavalieri, sferzando le loro cavalcature. Era una carica furibonda che passava sopra la steppa e che faceva volare le erbe falciate dai robusti zoccoli di tutti quei cavalli.

— Attenti! — disse a un certo punto Abei che dirigeva sempre la caccia. — A te, Talmà!... Lancialo! —

La fanciulla staccò la catenella d'argento, che tratteneva il volatile e alzò il pugno che era coperto da un grosso guanto, mentre Abei lanciava un fischio.

Il rapace uccello allargò le ali, sbattendole tre o quattro volte, poi spiccò la volata, innalzandosi.

Avanti gli altri! — gridò Abei, mentre liberava il suo.

Quello di Hossein partì come un fulmine, quasi in linea retta, seguito subito da quello di Abei.

I tre volatili muovevano velocissimi addosso alle povere gazzelle, che sembravano smarrite. Anche quello di Talmà era ridisceso e volava in linea quasi retta tenendosi a dieci o dodici metri dal suolo.

D'un tratto i tre rapaci piombarono, con un accordo perfetto, fra le corna delle povere bestie, fermandole quasi di colpo e facendole cadere sulle ginocchia.

— Bravi, miei piccini! — gridò Abei entusiasmato.

Le povere bestie si dibattevano disperatamente, mandando lamenti dolorosi, i falchi divoravano loro ferocemente gli occhi.

I veltri arrivavano in gruppo serrato, colle lingue penzolanti, precedendo di duecento passi i cavalieri, latrando spaventosamente.

In un lampo furono addosso alle gazzelle, le quali scomparvero alla lettera sotto quella massa di carne.

Abei, Hossein e Talmà, con un ultimo slancio furono però sopra alle feroci bestie, che già lavoravano di denti sulle carni dei poveri animali e con urla e frustate le costrinsero a lasciare le prede.

Era però troppo tardi per salvarle. Giacevano l'una presso l'altra, strangolate, dilaniate, sanguinanti.

Hossein, che era disceso di sella, tagliò un piede alla più grossa e lo porse galantemente a Talmà, dicendole:

— Alla regina della caccia. —

Poi rimontò a cavallo, gridando:

— Il banchetto aspetta i nostri ospiti. —

I falchi, ad un fischio di Abei, erano tornati docilmente, riprendendo i loro posti, sui pugni inguantati.

La cavalcata si era riordinata attorno ai fidanzati, mandando grida formidabili, poi si era nuovamente sciolta, formando gruppi pittoreschi, i quali non tardarono a slanciarsi ventre a terra in direzione della casa di Talmà.

S'avventavano, poi tornavano indietro, facendo fare ai cavalli dei fulminei volteggi, s'incrociavano come se fossero lì lì per impegnare una lotta spaventosa.

Era la fantasia turcomanna, meno bella forse di quella dei barberi dell'Africa settentrionale, ma più impetuosa.

I kangiarri scintillavano in aria, le pistole ed i lunghi moschetti tuonavano, dando l'illusione d'un vero combattimento fra due corpi di cavalleria nemica, mentre echeggiava l'urlo di guerra di quei terribili nomadi: Uran!... Uran!...

E così, sempre volteggiando attorno ai fidanzati ed al vecchio beg, urlando e sparando, il corteo ritornò dinanzi alla casa di Talmà, dove i cuochi lavoravano e si agitavano dinanzi alle immense caldaie borbottanti e fumanti.

Ognuno smonta e i cavalli vengono legati a gruppi di dieci o quindici intorno alle pertiche, piantate appositamente; poi tutti prendono d'assalto le tavole che si piegano sotto una moltitudine di tondi e di vasi d'argilla.

Agnelli cucinati interi, vengono portati su grandi lastre di rame e fatti subito a pezzi e subito divorati, mentre veri torrenti di khoumis inebbriante e fiumi di latte di cammella scorrono.

Tutti vanno a gara per dimostrare la potenza dei loro ventricoli. È carne gratuita quella e simili baldorie non succedono di frequente e ne approfittano.

Il beg è ricchissimo, la bella Talmà ha mandrie numerose di cammelli e di montoni, possono quindi pagarsi il lusso di sfamare almeno una volta i poveri nomadi della steppa, che tribolano trecento giorni dell'anno su trecentosessantacinque.

Mentre tutte quelle possenti mascelle triturano carne ed ossa, con un crescendo spaventevole e le pentole e le caldaie si vuotano a vista d'occhio, una banda di suonatori passa attraverso le immense tavole, allietando gli orecchi coi dolcissimi suoni delle guzle.

Alla testa di quei suonatori, sbucati chi sa da dove, vi è il mestvires. Il briccone che ha già mangiato e bevuto copiosamente ad una tavola appartata, sembra allegro e dardeggia di quando in quando uno sguardo ardente sulla bella Talmà, che è seduta a fianco d'Hossein, sotto una specie di padiglione di stoffa rossa e gialla, adorno di nastri molticolori, che il vento fa svolazzare capricciosamente.

Suona e canta nel medesimo tempo, guidando la sua piccola truppa, formata da una diecina di brutti figuri barbuti, che hanno più l'aspetto di briganti che di cantastorie.

Mancava un'ora al tramonto, quando Talmà, Hossein ed il beg si alzarono rientrando in casa.

Era il segnale della fine del banchetto e della celebrazione del matrimonio. Abei era rimasto seduto alla tavola: di fronte a lui si era fermato il mestvires, fingendo di accordare la sua guzla.

Il nipote del beg ed il bandito si scambiarono un lungo sguardo, poi un rapido cenno, quindi il secondo s'allontanò velocemente, intanto che i suoi compagni, approfittando della confusione che regnava, si sbandavano scomparendo fra le alte erbe della steppa.

I convitati, vuotata un'ultima tazza di khumis, si erano affrettati a raggiungere i loro cavalli dovendo scortare gli sposi e si erano disposti su due lunghissime file, una a destra e l'altra a sinistra della porta principale della casa.

Tutto d'un tratto un grido altissimo s'alzò, perdendosi lontano lontano nella steppa sconfinata:

— Viva gli sposi! —

Talmà era ricomparsa sulla bianca cavalla, sotto un nuovo velo di seta trapunto in oro che copriva quasi tutta la parte posteriore del suo bellissimo animale.

Teneva fra le braccia un agnellino dalla lana candidissima, ucciso pochi momenti prima e adorno di nastri di seta a varie tinte.

Si fermò un momento a guardare i cavalieri, poi lanciò la sua cavalla a corsa sfrenata attraverso la steppa, tenendosi ben stretto al seno l'agnellino.

Pochi momenti dopo Hossein usciva a sua volta, montando il suo splendido cavallo e si lanciava sulle tracce della fidanzata, seguito dal beg, da suo cugino e da Tabriz, gridando con voce stentorea:

— Amici, aiutatemi a raggiungerla!... La mia stella fuggel...

— Eccoci! — urlarono in coro i cavalieri, snudando i kangiarri, — Uran!... Uran!...

Non era che una commedia, poichè Talmà non aveva nessuna voglia di fuggire al suo valoroso fidanzato: ma così doveva fare, poichè nelle cerimonie nuziali si deve sempre simulare il rapimento della fidanzata.

Il ratto della sposa figura sempre presso tutte le tribù turcomanne e anche afgane e belucistane.

I Sarti si limitano a dare la caccia alla sposa e strapparle l'agnello che porta con sè.

Presso altre tribù turaniche invece, s'impegnano delle vere lotte per strappare la sposa dalla sua tenda.

Il giorno fissato pel matrimonio il fidanzato, seguito dai suoi più fedeli amici armati come se dovessero andare alla guerra, si presenta dinanzi alla tenda della fidanzata intimando imperiosamente ai genitori di lei di consegnargli la sua futura sposa, se non vogliono provare la buona tempra delle sue armi.

La giovine si trova già seduta nel mezzo della tenda, colle sue più belle vesti, circondata dalle sue amiche e dai suoi parenti.

La prima risposta è un rifiuto netto, ma il fidanzato, spalleggiato dagli amici entra a forza e ripete la domanda. Seguono discussioni animate, poi da una parte e dall'altra vengono alle mani; talvolta scorre perfino del sangue, però il fidanzato finisce sempre per vincere ed a portarsi via la fidanzata, malgrado la resistenza che essa finge di opporre.

I suoi amici la gettano su un tappeto, che quattro robusti garzoni sorreggono e fuggono, protetti dai cavalieri, i quali hanno non poco da fare a difendersi dai colpi di pietra e dai pugni di terra, che scagliano dietro a loro le amiche ed i parenti della sposa.

E tutto non finisce sempre lì pel povero innamorato, perchè presso alcune tribù, dopo pochi giorni di luna di miele, la sposa deve fingere una nuova fuga, rifugiandosi presso i suoi parenti più prossimi, dove si ferma talvolta perfino un anno, mentre il marito prende parte ad arrischiate scorrerie, per poter accumulare tanto da riscattare la moglie, quando non rimane fra i morti sul campo di battaglia.

La bella Talmà, che, come abbiamo detto, cavalcava superbamente, faceva galoppare la sua bianca cavalla, allontanandosi nella steppa e aizzandola colla voce e colla frusta dal manico cortissimo.

Rideva forte e di quando in quando si volgeva a guardare l'immensa turba dei cavalieri che galoppava sfrenatamente sulle sue tracce, urlando e sparando, preceduta da Hossein, dal beg e da Abei.

La giovine aveva già percorsi tre o quattro chilometri, avanzandosi sempre nella pianura, quando la sua cavalla fece uno scarto improvviso, poi stramazzò pesantemente fra le erbe, sbalzandola di sella.

Talmà mandò un grido, poi rimase distesa, mezza svenuta.

Quasi nel medesimo istante dieci o dodici uomini, guidati da Hadgi, il luogotenente del mestvires, sorsero fra le erbe altissime, gettandosi su di lei.

— I cavalli! — gridò il luogotenente, afferrando la fanciulla. — Presto!... —

I banditi mandarono alcuni fischi stridenti e dodici cavalli, di forme vigorose, sorsero come per incanto fra le erbe, dove fino allora erano rimasti coricati e nascosti.

Hadgi si slanciò verso il più vicino, tenendo tra le braccia Talmà che non era ancora tornata in sè, ed aiutato da uno dei suoi uomini, salì in arcione, gridando:

— Via!... Lasciate la corda! —

I banditi erano partiti ventre a terra dietro al luogotenente, mentre urla terribili s'alzavano fra i cavalieri del beg:

— Ferma!... Ferma! —

Alcuni spari rintronarono senza colpire i rapitori, i quali erano ormai troppo lontani.

Hossein, pallido, smarrito, cacciò gli sproni nel ventre del suo persiano, facendogli fare dei balzi immensi.

— Talmà!... Mia Talmà! — urlava con angoscia. — Miserabili!... Fermatevi o vi uccido tutti! —

I cinque o seicento cavalieri si erano messi in caccia, sferzando rabbiosamente i loro cavalli, i quali ormai stanchi dalla fantasia fatta prima del banchetto, non potevano competere con quelli freschi e ben riposati dei banditi.

D'improvviso, i cavalli di Hossein, del vecchio beg, di Abei e di Tabriz, che erano giunti nel medesimo luogo ove Talmà era stata sbalzata di sella, a loro volta stramazzarono, scaraventando a destra ed a sinistra i loro cavalieri.

Gli altri, che giungevano in gruppo serrato, non fecero in tempo a frenarsi e andarono a catafascio fra una confusione indicibile.

Per alcuni minuti fu un dibattersi spaventevole di uomini e di cavalli, fra urla, bestemmie e nitriti: gli animali, spaventati, appena in piedi si davano a una corsa disperata attraverso la steppa, fuggendo in diverse direzioni; i cavalieri, sagrando, si alzavano, tastandosi le costole ammaccate.

Parecchi perdevano sangue dal naso, altri zoppicavano, avendo ricevuto dai cavalli dei calci poderosi. Grida ed imprecazioni s'incrociavano:

— Canaglie!...

— Banditi!...

— Ci hanno giuocati!...

— Hanno tese delle corde sotto le erbe!...

— Furfanti!...

— E scappano!...

— Diamo loro la caccia!...

— A cavallo! — tuonò in quel momento una voce.

Era Hossein. Il bravo giovine, quantunque fosse stato scaraventato a dieci passi dal suo cavallo, non aveva riportata alcuna ferita essendo le erbe, in quel luogo, altissime e anche foltissime.

Venti o trenta uomini, quasi tutti Sarti, quindi fedelissimi, che avevano potuto trattenere a tempo i loro cavalli, avevano risposto prontamente all'appello.

— Eccoci, signore!...

— Diamo addosso a quei banditi! — gridò Hossein, che pareva impazzito. — Su, in sella, avanti senza tregua!...

La mia Talmà!... Bisogna che li uccida tutti!... A me, Tabriz! —

Il gigante era già in piedi; ma appena montato in sella il suo persiano gli era caduto sotto, mandando un nitrito doloroso.

— Signore, non posso! — esclamò con terrore. — Il mio povero animale si è spezzato le gambe anteriori.

— A me, zio!... A me, Abei! — gridò Hossein. — Distruggiamo quei miserabili! —

Il beg aveva fatto un gesto disperato. Il suo cavallo al pari di quello di Tabriz si era rotte le gambe nella caduta.

— Avanti, nipoti! — gridò poi.

I venticinque o trenta cavalieri si slanciarono dietro Hossein, urlando ferocemente: — Ammazza!... Ammazza!. —

Ma le Aquile della steppa erano troppo lontane, per avere qualche speranza di raggiungerle.

Approfittando di quel colpo maestro, dovuto a parecchie funi tese abilmente un po' al di sotto delle cime delle erbe, i banditi avevano ormai guadagnato più d'un chilometro e filavano, a corsa sfrenata, attraverso la steppa infinita, risalendo verso il settentrione.

— Abei, — disse il beg, vedendo che non era ancora salito in arcione, — che cosa fai? —

Il giovine stava per rispondere, quando alcune scariche risuonarono in lontananza.

— Padre; — disse Abei, — assalgono i Sarti!... Andiamo a dare una lezione a quelle canaglie, così mio cugino non avrà nemici alle spalle. Sbarazziamogli la via.

— Un doppio attacco, — mormorò il beg, mentre i suoi occhi avvampavano d'ira. — Ah!.. È troppo!... Bisognerà sterminare quei banditi!... Tabriz, un cavallo!... —

CAPITOLO X. Hossein alla riscossa.

I Sarti ed i loro compagni avevano finito per riprendere una parte dei loro cavalli, i quali, dopo una galoppata sfrenata attraverso la pianura, passato il panico, erano tornati in buon numero verso i loro padroni, sicchè non fu difficile a Tabriz di sceglierne due e di condurli dinanzi al beg.

— Padrone, che cosa vuoi fare? — chiese il gigante. — I banditi sono ormai lontani. E questi animali sono troppo stanchi.

D'altronde hanno alle calcagna Hossein e anche Abei.

— È partito anche Abei?...

— Sì, padrone. Eccolo laggiù che galoppa con un gruppo di Sarti.

— Accorriamo! — gridò il beg, balzando in sella. — Andiamo a difendere le vostre famiglie, Sarti, e ricordatevi che non si deve accordare quartiere alle Aquile della steppa. —

Due centinaia di cavalieri avevano risposto all'appello e si erano stretti intorno al vecchio ed a Tabriz.

Gli altri correvano ancora dietro ai loro animali, poichè tutti non erano ancora tornati e non pochi erano rimasti sul luogo, trovandosi nell'impossibilità di seguire il beg, essendosi le loro cavalcature storpiate.

— Avanti! — tuonò Giah Aghà. — Cerchiamo di prendere una terribile rivincita. —

La truppa si era messa in corsa, preparando i moschettoni e le pistole. Non si dirigeva verso la casa di Talmà, non scorgendosi da quelle parti alcun cavaliere, bensì verso il villaggio, udendosi in quella direzione ancora qualche sparo.

— Padrone, — disse Tabriz, che cavalcava a fianco del beg, — riescirà Hossein a raggiungere quei miserabili? —

Il vecchio fece un gesto disperato:

— Non mi aspettavo una simile sorpresa! Povero Hossein, povero ragazzo, impazzirà!... Per conto di chi hanno agito quei ladri?.... Vi è qui sotto un mistero che non riesco a dilucidare.

— No, padrone, le Aquile non hanno rapita Talmà per tenersela loro. Qualche Khan, o qualche Emiro deve entrarci nella partita.

— È quello che sospetto anch'io — rispose il beg, con un sospiro. — Ma per quanto corrano quei banditi, noi sapremo ritrovarli, prima che lascino la steppa. Ah!...

— Cos'hai padrone?

— Hai ben guardato i rapitori?

— Mi è stato impossibile. Sono stato scaraventato a terra così malamente, che quando mi sono rialzato i banditi erano già lontani.

— Sai chi ho veduto fra di loro?

— Non lo saprei padrone.

— Alcuni di quei suonatori che accompagnavano il mestvires.

— Impossibile!...

— Li ho perfettamente riconosciuti

— Dunque quel cane d'un cantastorie è un alleato delle Aquile! forse una loro spia! — esclamò il gigante, digrignando i denti. — Lo accopperò con un pugno!... Bisogna ritrovarlo a qualunque costo.

— È per questo che torno più che in fretta, — disse il beg.

— Io l'ho veduto nel momento in cui ci preparavamo a lasciare la casa di Talmà, avviarsi verso il villaggio dei Sarti.

— Preghi Allah di non farsi trovare!...

— Mentre io pregherò di lasciarcelo catturare, — rispose il beg. — Se lo trovo non uscirà vivo dalle mie mani. Gli ho riserbato un supplizio che gli farà maledire il giorno in cui è venuto al mondo!... —

La banda, che si era aumentata d'un altro manipolo di cavalieri, passò al galoppo dinanzi alla casa di Talmà, che era guardata da una dozzina di servi armati e proseguì la corsa velocissima verso il villaggio, che si distingueva vagamente in lontananza, illuminato dagli ultimi raggi del sole tramontante.

Le detonazioni erano cessate ed una grande calma, rotta solo dal galoppo precipitato dei cavalieri, regnava sulla landa sterminata.

Tutti aguzzavano gli sguardi, tormentando i grilletti dei loro fucili, impazienti di far pagare alle Aquile il loro infame tradimento; ma nessun cavaliere appariva sulla distesa verdeggiante.

I banditi, dopo d'aver fatto una dimostrazione ostile contro il villaggio, dovevano essersi dispersi. Ciò d'altronde non sorprendeva nessuno, essendo abitudine dei banditi della steppa di dividere le loro forze, per fare due attacchi simultanei, in modo da confondere e disorganizzare gli assaliti.

Bastarono tre quarti d'ora ai cavalieri del beg per attraversare la distanza che separava la casa di Talmà dal villaggio dei Sarti.

I vecchi, rimasti a difesa delle donne e dei fanciulli, erano schierati dinanzi alle prime case e sulle terrazze, coi loro bravi moschettoni in mano ed i kangiarri ed i jatagan alla cintura.

Quantunque non più giovani, erano ancora formidabili guerrieri, capaci di difendere lungamente le loro case.

— Le Aquile? — chiese il beg, appena fu in mezzo a loro, mentre Tabriz lo aiutava a scendere da cavallo.

— Scomparse, signore, — rispose un vecchio dalla lunga barba bianca, che si era improvvisato conduttore dei suoi compagni. — Non hanno fatto che alcune scariche, poi si sono allontanate verso il settentrione.

Sembra che non avessero alcuna intenzione di assalire il villaggio.

— Conosci il mestvires?

— Il narra-istorie che suona la guzla?

— Sì, — rispose il beg.

— Mezz'ora fa era ancora qui e scommetterei che si trova in qualche casa.

— Non è partito colle Aquile?

— No, beg, di questo ne sono certo.

— L'avevi mai veduto, prima che si spargesse la voce del matrimonio di mio nipote con Talmà?

— Mai, signore.

— Non sai da dove sia venuto?

— Sarà caduto dall'Afganistan, dal Belucistan o dalla Persia.

— Hai udito, Tabriz? — chiese il beg.

— Sì, padrone, — rispose il gigante. — Bisogna prenderlo vivo o morto.

— Morto!... Vivo, Tabriz: egli sa certo molte cose e deve parlare. —

Poi, volgendosi verso i cavalieri che gli stavano d'intorno, aggiunse:

— Circondate il villaggio voi e, se il mestvires cerca di fuggire, prendetelo, ma vivo, mi avete udito, vivo lo voglio! —

I due o trecento cavalieri, che scortavano il vecchio beg, si dispersero colla rapidità del lampo, formando intorno al villaggio un cerchio immenso, essendosi disposti ad una notevole distanza l'uno dall'altro.

Era impossibile che un uomo, per quanto agile e risoluto, avesse potuto guadagnare la steppa inosservato, senza cadere sotto i colpi dei Sarti e degli amici loro, accorsi a prendere parte alle feste matrimoniali di Hossein e della bella Talmà.

Prese quelle disposizioni, il beg, seguito da una cinquantina d'uomini, fra vecchi e giovani era entrato nelle strette viuzze del villaggio, risoluto a scovare il birbaccione. I lettori sanno il resto e conoscono l'orrendo supplizio del gesso, fattogli subire dall'implacabile beg

················

Subito dopo la morte del mestvires, il beg, seguito da Tabriz e da Abei, si era diretto verso una delle migliori case del villaggio, che gli abitanti avevano messo a sua disposizione e che, quantunque in piccolo, rassomigliava un po' a quella di Talmà, avendo una terrazza, una galleria che le girava d'intorno e cortili chiusi.

Doveva essere la casa di qualche signore della borgata, poichè, oltre le cose accennate, aveva sul dinanzi un peristilio sorretto da colonnette di legno, l' aivane, sotto il quale i Sarti usano mangiare e riposarsi durante le giornate caldissime; all'indietro il migmankama, ossia l'appartamento destinato alle donne, con profonde nicchie destinate a contenere i cofani e gli arnesi dell'economia domestica.

Il beg, che sembrava di pessimo umore, era passato nella sala centrale, tutta crivellata di buchi, aperti nello spessore dei muri e con una specie di pozzo nel mezzo, pochissimo profondo, ove i Sarti usano deporre gli oggetti d'uso giornaliero, ossia il vaso che serve per preparare il the, la grossa brocca che adoperano per le abluzioni, che usano fare al mattino ed alla sera, qualche libro onde l'ospite, se è letterato, cosa piuttosto rara nella steppa, possa passare qualche ora ed il piatto di rame, finamente cesellato, su cui si servono il caffè, i pasticcini dolci, le pipe ecc. alle persone che vanno a fargli visita.

Il beg si era lasciato cadere su un tappeto di feltro, prendendosi la testa fra le mani, mentre Tabriz bestemmiava a mezza voce ed Abei giuocava distrattamente coi bottoni della sua ricchissima giacca di seta bianca, come se nessuna preoccupazione grave lo tormentasse. Pareva che la disgrazia toccata al cugino non lo avesse troppo scosso e tanto meno la morte del povero mestvires.

Tabriz, vedendo che l'oscurità cominciava ad invadere la stanza, accese una candela di sego piantata su ad un pezzo di legno appeso alla vôlta, sprigionando un fumo densissimo e nauseabondo.

Già il Sarto è molto economo in fatto di luce. Se è un benestante, fa uso di candele di sego, se è un povero lavoratore, adopera un semplice stoppino di cotone immerso in un pessimo olio, che dà più fumo che luce o semplicemente fa uso di un bracere che colloca su una tavola. È bensì vero che non ama vegliare molto e che alle nove si corica.

— Padrone, — disse Tabriz, che tendeva gli orecchi, — non sono ancora di ritorno? Che li abbiano raggiunti? —

Il beg, per la seconda volta, aveva fatto un gesto di scoraggiamento.

— Non è possibile, — rispose poi, con un lungo sospiro. — Li vedremo giungere a mani vuote.

— Che cosa faremo? Che il mestvires abbia detto proprio il vero?

In tal caso la persona che ha fatto rapire Talmà si troverebbe a Samarcanda. E chi sarà l'Emiro che ha udito a decantare la bellezza della fanciulla? —

Il beg era rimasto muto: pareva che la robusta fibra di quel vecchio si fosse tutta d'un colpo infranta.

Tabriz, non ricevendo risposta si volse verso Abei, che stava sdraiato su un tappeto guardando distrattamente la fiamma della candela che il venticello notturno, ingolfandosi attraverso le strette feritoie che servivano da finestra, alzava ed abbassava.

— Che cosa ne dici tu, signore? — gli chiese.

— Che sarebbe necessario andare a Samarcanda, — rispose il giovane con un sottile sorriso. — Il momento veramente non sarebbe troppo buono, perchè quella città è ora occupata da stranieri.

— Da chi? — chiese il beg scuotendosi.

— Dai russi, padre — rispose il giovine.

— Chi te lo ha detto?

— Un turcomanno, che stamani è venuto qui ad assistere alle feste. Si dice che il governatore russo del Turchestan prepari anzi una spedizione per punire severamente le tribù dei Bechs, che si sono ribellate all'Emiro di Bukara. —

In quel momento un galoppo fragoroso, che si propagò rapidamente attraverso le strette viuzze della borgata, fece balzare vivamente in piedi il beg e Tabriz.

— Ritornano! — esclamarono entrambi.

Abei era diventato un po' pallido ed una improvvisa ansietà si era dipinta sul suo viso.

— Sono essi, padrone! — grido Tabriz, correndo verso la porta. — La riconducessero almeno! —

Anche Abei si era rialzato e, per non tradire la sua emozione, si era abbassato sulla fronte il ricco turbante, tirandosi innanzi le due larghe fasce multicolori che gli pendevano sulle spalle.

Il galoppo era cessato, ma giù nella via si udivano numerose persone a vociare. Domande e risposte s'incrociavano fra i cavalieri e gli abitanti usciti tutti nelle vie e sulle terrazze.

Tabriz aveva appena aperta la porta, quando Hossein comparve, coperto di polvere ed il viso disfatto da un dolore così intenso, che Abei fu costretto, a volgere altrove gli occhi.

Il vecchio beg gli mosse incontro, stringendoselo al petto.

— Nulla, è vero? — chiese.

— Fuggiti, padre, portando con loro la mia felicità, — singhiozzò il giovane. — I miserabili!... che cosa aveva fatto loro Talmà?... Ah padre!... Mi pare che il mio cuore se ne vada a pezzi!...

— Noi sapremo ritrovarla, Hossein.

— Ma forse non più viva, — disse il giovane con un rauco singhiozzo. — Ho sete di sangue, padre!... Bisogna che uccida!...

— Le uccideremo queste maledette Aquile, te lo prometto, Hossein, dovessi consumare tutta la mia fortuna.

Intanto sappiamo dove i rapitori si dirigono e questo è già molto.

— Sì, a Kitab.

— No, t'inganni, a Samarcanda, — disse il beg.

— Chi te lo ha detto? — gridò il giovane.

— Il mestvires, che io ho fatto morire fra le strette del gesso poche ore or sono; quel miserabile era la spia delle Aquile.

— Quel miserabile ti ha ingannato, padre.

— Ma no, — disse Abei, che si era fatto innanzi e che pareva in preda ad una vera costernazione. — L'ha confessato prima di morire, cugino.

— Ha mentito! — gridò Hossein. — È a Kitab, che hanno condotto o che stanno conducendo Talmà.

— Chi te lo ha detto? — chiese il beg, stupito.

— Uno di quei banditi che ferii dapprima con un colpo di fucile e che poi, quando mi ebbe confessato dove portavano Talmà, uccisi con un colpo di kangiarro.

— Chi avrà detto il vero? Quello od il mestvires.

— Il mestvires, io credo — disse Abei.

— No, il bandito, — disse invece Hossein. — Era tanto spaventato vedendomi sopra di lui coll'arma alzata, che non credo possa aver mentito in quel momento. È a Kitab che noi troveremo Talmà, il mio cuore me lo dice.

— Tabriz, — disse il beg, dopo un breve silenzio. — Tu sei stato in quella città?

— Sì, padrone, — rispose il gigante. — Mia madre era una Shagrissiab, parente del Beg Djurà bey.

— Sicchè hai delle conoscenze in Kitab.

— Degli amici, padrone.

— Quanto tempo ti occorre per arruolare cinquanta uomini? Tra gli ospiti qui venuti e che appartengono per la maggior parte a tribù bellicose, potrai trovare facilmente degli uomini decisi a tutto. La mia borsa è aperta: spendi liberamente.

— Fra un'ora saranno qui. Ho veduto non pochi Ghirghisi e Shagrissiabs fra di loro e quella gente, per pochi tomani, giuoca la pelle, senza guardarsi indietro.

— Va': non bisogna perder tempo.

— Padre! — esclamò Hossein, mentre Tabriz usciva frettolosamente.

— All'alba partirai con Abei, — disse il beg. — Forse giungerai a Kitab, contemporaneamente alle Aquile e potrai impedire a quei miserabili di consegnare Talmà a colui che le ha incaricate di rapirla.

Bisogna far presto. Da un momento all'altro i russi possono giungere.

— I russi!... — ripetè Hossein.

— Sì, muovono verso i Shagrissiabs, Tabriz lo ha saputo, e quei dannati moscoviti non tarderanno ad assediare la città.

Tu devi giungere colà prima di loro. Abei ti aiuterà nella tua impresa. —

Il giovane pallido, che si teneva nell'angolo meno illuminato della stanza, aveva fatto una brutta smorfia.

— Hai capito, Abei? — disse il beg, stupito di non ricevere risposta. — Spero che non avrai paura di attraversare la steppa con tuo cugino.

— Un simile viaggio coi russi in campagna, non sarà facile, padre, — rispose Abei.

Un lampo terribile avvampò negli occhi del vecchio beg.

— E che? — gridò con voce tuonante. — Avresti tu paura? Saresti un figlio degenere di tuo padre? Egli morì in battaglia di fronte al nemico e cadde da eroe.

— Sono pronto a morire per la felicità di mio cugino, padre, — disse Abei frettolosamente. — Tu sai che io lo amo come mio fratello e che non ho paura dei banditi della steppa.

— Perdonami, sai se io sono violento, — disse il beg. — È il mio carattere.

— Fra me e te, Abei, faremo tremare le Aquile — disse Hossein. — E se è vero che Beg Djura bey ha fatto rapire da loro la mia Talmà, noi frugheremo le sue viscere colle punte dei nostri kangiarri.

— Sì, cugino, — rispose Abei. — Talmà ricadrà nelle tue mani.

— Andate a riposarvi onde essere pronti per domani mattina, — disse il beg. — Ho bisogno di essere solo.

— È impossibile che io possa dormire, — disse Hossein, prendendosi il capo fra le mani, con un gesto disperato.

— Triste notte di nozze!... Mi avessero almeno ucciso le Aquile!

— E la vendetta?... Un uomo della steppa non muore invendicato, — disse il beg con voce sorda. — Uscite, l'uomo deve essere forte prima della battaglia. —

Poi, avvicinandosi a Hossein che pareva facesse degli sforzi prodigiosi per frenare le lagrime, aggiunse con voce raddolcita, ponendogli le mani sulle spalle:

— Giuro su Allah, che chiunque possa essere l'uomo che ha fatto rapire Talmà, e che ha infranta la tua felicità, proverà il filo del mio kangiarro. Giah Aghà non ha mai mancato ai suoi giuramenti e ne avrai la prova. —

Abei, udendo quelle parole, era diventato livido, poi il suo sguardo obliquo s'era fissato, con terribile intensità, su suo cugino.

— Andate, — disse il beg. — Ecco Tabriz che ritorna. —

I due giovani erano appena usciti, quando il gigantesco turcomanno comparve.

— È fatto, padrone — disse.

— I cavalieri?

— Arruolati: venti tomani, a spedizione finita.

— Chi sono?

— Quasi tutti Shagrissiabs e Sarti.

— Solidi?

— Gente rotta alla guerra. —

Il beg stette un momento pensieroso, poi, accostandosi lentamente al gigante e battendogli famigliarmente su una spalla, gli chiese:

— Che cosa ne pensi tu di Abei?

— Perchè mi fai codesta domanda, padrone? — chiese il gigante con profonda sorpresa.

— Credi tu che ami veramente Hossein?

— Tu!... Padrone!...

— Veglierai su Abei, — disse il beg con voce imperiosa.

— Su tuo nipote?...

— Egli non mi pare franco, Tabriz! È un po' di tempo che io lo osservo e che noto in lui delle continue esitazioni.

Egli è geloso di Hossein, geloso della sua lealtà, del suo coraggio, della sua bellezza, e forse d'altro ancora.

— Padrone!...

— All'alba: lo hai detto agli arruolati?

— Sì, saranno qui tutti, dinanzi alla porta.

— Tu conosci Sagadska.

— Il capo degli Illiati?

— Sì.

— Egli potrà darti forse delle informazioni preziose. Di là devono passare le Aquile, se è vero che si recano a Kitab.

— Vedrò quel capo.

— Va' a coricarti: è già tardi.

— Sì, padrone.

— E veglia su Hossein e bada ad Abei.

— Te lo prometto.

— Va'! —

CAPITOLO XI. Il campo degli Illiati.

Cominciava ad albeggiare sulla steppa. Gli uccelli s'alzavano fra le erbe e volteggiavano allegramente, trillando, sfuggendo velocissimi agli assalti fulminei dei falchi e degli sparvieri che piombavano, ad ali chiuse, dalle alte regioni dell'aria.

Cinquanta uomini, armati di lunghissimi fucili, di pistole e di kangiarri, con immensi turbanti e lunghe zimarre di color bruno e montati su piccoli cavalli villosi, si erano fermati dinanzi alla porta della casa occupata dal beg, allineandosi su quattro file.

Erano tutti uomini di statura piuttosto bassa, tarchiati, con spalle larghissime e lunghe barbe ispide e rossicce, i nasi arcuati come becchi di pappagalli, la pelle terrea e gli occhi da uccelli da preda.

Molti erano Sarti, sudditi di Talmà; i più però appartenevano alle tribù nomadi dei Shagrissiabs, pastori e banditi ad un tempo, venuti dal Khanato di Bukara, attirati dal desiderio di divertirsi alle spalle dei ricchi sposi e di mostrare la loro bravura nelle corse dei cavalli, essendo i migliori cavalieri della steppa turanica.

Gente di fegato ad ogni modo, pronta a qualsiasi sbaraglio per un po' di tomani, una moneta troppo preziosa in quelle pianure, dove l'oro è così raro.

Il beg, Hossein, Abei e Tabriz, svegliati dal fracasso prodotto dai cavalli, erano prontamente discesi sulla via, passando rapidamente in rassegna la truppa.

— Credo, Hossein, — disse il beg, — che con questi uomini potrai giungere senza troppi fastidi a Kitab, anche se è vero che i Russi marcino attraverso la steppa. Cerca di evitarli però e di non lasciarti cogliere entro le mura della città a menochè...

— Continua, padre.

Beg Djura bey non ti restituisca o ti faccia restituire Talmà. In tal caso ti lascio libertà di dare addosso a quegli odiati moscoviti.

— Va bene, padre.

— In sella, figliuol mio, e non dimenticarti che io aspetto il tuo ritorno con angoscia. —

Gli mise una mano sul capo e lo congedò, dicendogli:

— Hai la mia benedizione; Allah l'ha concessa alle mie mani. —

Hossein, Abei e Tabriz salirono sui cavalli, e la truppa partì al trotto, fra i saluti delle donne affollate sulle terrazze e gli spari dei Sarti, dirigendosi verso oriente, trovandosi Kitab nel Kanato dell'Emiro di Bukara.

Dieci minuti dopo, i cinquantatrè cavalieri galoppavano già sulla steppa, premurosi d'attraversare l'Amu-Darja che è, si può dire, l'unico fiume che attraversa quelle sterminate pianure e che serve di frontiera alle tribù turcomanne indipendenti.

Fin dove giungevano gli sguardi non si scorgevano che erbe ed erbe.

Nella steppa gli abitanti sono piuttosto rari e non s'incontrano che là dove scorre qualche fiumiciattolo o dove si trova qualche stagno, non essendovi nelle altre parti acqua sufficiente per abbeverare i cammelli ed i montoni, i quali formano l'unica ricchezza delle tribù turaniche.

Distese immense che potrebbero nutrire mandrie sterminate, non contano nemmeno dieci famiglie nomadi, mentre vi potrebbero vivere comodamente centomila persone, perchè quel suolo è tutt'altro che ingrato.

L'acqua non manca nel sottosuolo: basterebbe costruire dei pozzi artesiani e quelle lande, oggi inutili, potrebbero diventare il granaio dell'Asia.

La truppa procedeva su una lunga linea, ad un trotto moderato, con Tabriz e Hossein alla testa. Abei invece, che pareva non amasse troppo la vicinanza del cugino, dopo i fatti avvenuti, era passato in coda, col protesto di impedire che qualche cavaliere disertasse.

Hossein, in ventiquattro ore, pareva che fosse invecchiato d'un paio d'anni. Non era più il giovane ardente di prima, che cavalcava con una maestria da far invidia ai più famosi cavalieri della steppa, con quell'aria marziale che faceva tremare i banditi più audaci e che li metteva in fuga colla sua sola presenza.

Una cupa disperazione s'era impadronita di lui, accasciandolo completamente.

— Mio povero signore! — disse Tabriz, che l'osservava con profondo dolore. — Si direbbe che tu disperi del tuo destino.

— La luce rosea che mi irradiava fino a poche ore or sono, io non la scorgo più, mio buon Tabriz, — rispose il giovine, soffocando un singhiozzo. — Mi sembra che una notte eterna mi avvolga.

— Hai torto, signore. Alla tua età non si dispera mai.

— L'amavo troppo.

— E anche Talmà t'ama.

— Come potrà resistere, povera fanciulla, lontana da me? La costringeranno a dimenticarmi.

— Fra quattro giorni noi saremo a Kitab, signore, e tue zio è un beg troppo noto, perchè il Beg Djura bey si rifiuti di renderti giustizia.

— E se fosse stato lui a farla rapire?

— L'affare sarebbe ben diverso allora; tuttavia io non credo che il Beg abbia ora tempo per occuparsi di Talmà, se è vero che i russi marciano già verso il khanato.

— Potessi sapere chi è il miserabile che me l'ha rapita!

— Lo scoveremo, non dubitare, padrone.

Sagadska conosce tutti i banditi della steppa e può dare qualche preziosa informazione sulla direzione presa dalle Aquile.

Egli tiene molti uomini sulle rive dell'Amu-Darja per la raccolta delle rose e quelli ci diranno se i rapitori l'hanno attraversato.

Padrone, non disperiamo e cerchiamo invece di guadagnare via. —

I cavalli mantenevano un galoppo abbastanza rapido, senza aver bisogno di essere eccitati: era d'altronde la loro andatura ordinaria, che potevano continuare per moltissime ore, senza nulla chiedere ai loro padroni prima del tramonto.

A mezzodì la banda fece una breve fermata sulla rive d'uno stagno, ombreggiate da quattro o cinque di quegli enormi platani turchestani, che hanno sovente una circonferenza di settanta piedi ed il cui legname duro e venato, più bello e superiore di quello dei nostri noci, serve a fabbricare bellissimi mobili.

Un paio d'ore dopo la truppa riprendeva le mosse, avanzandosi sempre più nel cuore della steppa. I cavalli, ben riposati e ben pasciuti, galoppavano con maggior slancio del mattino.

Tabriz, che conosceva la steppa a menadito, avendo vissuto molti anni al di qua ed al di là dell'Amu-Darja, conduceva ora la carovana orizzontandosi col sole, non avendo i turcomanni alcuna conoscenza della bussola, istrumento che forse non hanno mai veduto, e che d'altronde non è affatto necessario a quei nomadi, avendo l'istinto dell'orientazione al pari dei piccioni viaggiatori.

La regione, a poco a poco cominciava a diventare meno deserta. In lontananza, qualche gruppo di tende appariva; tende di forma conica, di feltro nero, perdute in mezzo alle erbe dove bande di cammelli e di montoni pascolavano in gran numero; poi su certi tratti sabbiosi qualche moschea screpolata, col suo minareto sottile, di colore bianco, spiccava fra tutto quel mare di verzura, indicando il luogo ove, chissà quante centinaia d'anni prima, una borgata e fors'anche una città popolosa era esistita.

Quelle rovine sono frequenti in certe parti della steppa, dove i vicini persiani hanno lasciato tante tracce della loro antichissima colonizzazione. Forse quello era il vero paese della terra sacra dei magi di Zoroastro, del Zend-Avesta, il paese dove Saadi e Hfar hanno poetato ed amato e dove Leilah ha sorriso.

Verso il tramonto, Tabriz, che già da qualche ora osservava attentamente il paese, come se cercasse qualche traccia, indicò a Hossein un gruppo di tende di colore oscuro, che sorgeva in una specie di oasi, dove crescevano rigogliose piante di melagrano, dalle frutta grossissime e assai stimate, outon bokhàra che producono susine eccellenti d'inverosimile grossezza, cotogni dal tronco enorme e ciliegi altissimi.

— Il campo dell'Emiro degli Illiati, — disse poi volgendosi verso Hossein, che l'interrogava cogli sguardi.

— È là che abita quel Sagasdka di cui tu mi hai parlato?

— Sì, signore.

— È un amico di mio zio?

— Un tempo hanno combattuto insieme contro i bukari ed i belucistani, — rispose Tabriz. — Se le Aquile della steppa sono passate attraverso il suo territorio, ce lo dirà subito.

— A quest'ora non si rammenterà più nemmeno il nome di Giah Aghà, — disse Abei, che aveva ripreso il suo posto in testa alla colonna. — Si dimenticano facilmente gli amici, nella steppa.

— Al contrario, signore, — rispose Tabriz, un po' piccato. — Si ricordano forse più che altrove, avendone sovente bisogno per far fronte ai ladroni della pianura od ai soldati degli Emiri.

— Vedrai che non si degnerà nemmeno di riceverci nel suo accampamento e che ci tratterà come pezzenti sospetti.

Hanno ben altro da fare questi Illiati, che d'occuparsi delle Aquile e dei nostri affari.

— Sarà come tu dici, signore, — rispose Tabriz, — io però obbedirò alle istruzioni datemi da tuo zio.

— Mio zio crede troppo nelle amicizie, — rispose Abei, con tono ironico.

Tabriz lo guardò con una certa sorpresa, aggrottando leggermente la fronte.

Hossein, assorto nella sua tristezza, sembrava che non avesse udito nulla, anche perchè si era spinto più innanzi degli altri, frettoloso di giungere al campo degli Illiati.

— Tuo zio, signore, — riprese il gigante un po' irato, — ha sempre saputo scegliere i suoi amici ed io, che sono più vecchio di te ne so qualche cosa. —

Nell'accampamento degli Illiati si era manifestato in quel frattempo un vivissimo movimento. La numerosa truppa dei cavalieri di Hossein, bene armati, doveva aver messo in apprensione quei nomadi, i quali avevano probabilmente fatto più volte conoscenza coi banditi della steppa della fame, ghirghisi, bukari e shagrissiabs.

I cammelli ed i montoni, che pascolavano a centinaia e centinaia per la pianura, venivano spinti a precipizio verso i recinti costruiti nei dintorni dell'accampamento, intanto che gruppi di uomini balzavano in sella dei loro cavalli, disponendosi sotto le piante, per tenersi al riparo dietro i grossi tronchi.

Gli Illiati sono tribù assolutamente nomadi che si distaccano un po' dai turchestani vivendo esclusivamente sotto tende e cambiando luogo secondo le stagioni ed i bisogni dell'immenso loro gregge, che forma la loro principale ricchezza.

Al principio della primavera scendono dalle montagne, che attraversano la parte meridionale del Khanato di Bukara e la Persia, e si espandono per la steppa turanica formando vasti accampamenti, del resto semplicissimi, posti di preferenza intorno ad uno stagno o sulle rive d'un torrente e riparati dal vento, temendo molto le cortine di sabbia.

I loro usi e le loro abitudini differiscono da quelle degli altri turchestani, alla cui razza d'altronde non sembra veramente che appartengano e richiamano al pensiero gli antichi tempi dei pastori patriarcali.

Gli uomini, che hanno tipo tartaro, più che turcomanno, sono tutti bellissimi, di alta statura e ben conformati; le donne godono fama di essere le più graziose della steppa.

Tabriz, che conosceva l'indole diffidente di quei nomadi, fece fermare la truppa e s'avanzò in compagnia d'Hossein, verso i giardini che circondavano l'accampamento, tenendo l'archibugio colle bocca volta verso terra:

— Dite al vostro Emiro che i nipoti del beg Giah Aghà chiedono ospitalità, — gridò, appena fu a portata di voce. — Sagadska non si rifiuterà di riceverli. —

Fra gli Illiati vi fu uno scambio di parole, poi un vecchio che aveva una lunga barba bianca e che mancava d'un occhio, si fece innanzi e, mentre i suoi uomini disarmavano, rispose:

— Che i nipoti del mio amico entrino nel campo: sono sotto la protezione delle leggi dell'ospitalità. —

La truppa, non avendo ormai più nulla da temere dopo quelle parole, s'avanzò sotto gli alberi, mettendo piede a terra e levando le briglie e le selle ai cavalli, mentre Tabriz ed i nipoti del beg entravano sotto una vasta tenda, sulla cui soglia li attendeva il capo della tribù, circondato da una mezza dozzina di ragazzine.

— Siete miei ospiti, — disse, invitandoli a farsi innanzi.

— Sei tu Sagadska? — chiese Tabriz.

— Io sono l'amico del beg Giah Aghà, — rispose l'illiato. — Che i suoi nipoti si siedano al mio fianco.

— Grazie della tua ospitalità, — gli rispose Hossein. — Noi siamo qui venuti perchè abbiamo bisogno da te di consigli e d'informazioni.

— Dopo la cena tu avrai quello che vorrai, — rispose l'illiato.

— Lascia ora che io compia i miei doveri d'ospitalità e non preoccuparti della tua scorta: avrà viveri e tende per riposarsi al coperto. —

Sotto la grande cupola di feltro era già stata stesa, su un vasto tappeto persiano, una tovaglia, su cui due giovani pastori avevano collocato parecchi tondi d'argento, lusso che solo un capo tribù poteva permettersi.

— Accomodatevi, — disse Sagadska. — Siete giunti in un buon momento, festeggiando oggi il dodicesimo anno della mia ultima figlia.

I servi erano tornati portando vasi e tondi carichi di cibi e di manicaretti che esalavano profumi appetitosi e che deposero dinanzi agli ospiti.

Tutti i popoli della steppa, quando hanno i mezzi sufficienti e ricorre qualche circostanza straordinaria, amano mangiare bene e la loro cucina non è così ordinaria come si potrebbe credere in individui che vivono all'aria aperta e sempre in pericolo, quantunque stupide prescrizioni del Corano la circoscrivano, vietando il maiale, la lepre anche e molti crostacei, perchè ritenuti impuri.

Il loro piatto forte è sempre però il montone che si arrostisce a pezzi con burro e grasso od intero se è giovane, dopo d'averlo ben imbottito di mandorle, di datteri, d'uva secca, di bacche e di rose, di pimento e di spezie diverse; il secondo è il pilat, composto di riso bollito, con pezzi pure di montone. Amano però molto anche i pasticci, che sanno preparare non meno bene dei persiani e anche la carne bollita, che condiscono con varie salse assai appetitose.

I cuochi del capo avevano fatto quella sera veri prodigi, servendo un gran numero di piatti, ai quali avevano tenuto dietro vasi pieni di magnifiche melogranate, grossissime, dolcissime e senza il granello interno, cotogni profumatissimi e poponi pesanti trenta o quaranta libbre, acquosi, dolci, e colla polpa rossa, bianca, gialla o verdognola.

Servito il caffè, il capo fece portare quattro bellissime pipe, per metà ripiene d'acqua profumata con essenza di rosa e la ciotola carica di quel fortissimo tabacco chiamato tumbak, che è così pregiato da tutti i popoli turanici.

— Ora ti ascolto, — disse Sagadska, quando le pipe cominciarono a funzionare, rivolgendosi a Hossein che aveva appena toccato cibo. — Leggo nei tuoi occhi una profonda tristezza, che sarebbe incompatibile colla tua età.

Quale disgrazia può aver colpito i nipoti del mio vecchio amico Giah Aghà?

— Mi hanno rapito ieri la fidanzata, nel momento in cui stavo per impalmarla.

— Chi? — gridò il vecchio.

— Le Aquile della steppa — aggiunse Tabriz, — e siamo venuti a chiederti se i tuoi uomini le hanno vedute. —

Il vecchio battè le mani chiamando ad alta voce:

— Mursa Rabat! —

Un giovane pastore, che indossava una corta zimarra di panno grossolano con i bordi gialli e maniche larghissime e alti stivali di pelle rossa, era subito entrato.

— Narra ai miei ospiti chi hai incontrato stamane.

— Un grosso numero di cavalieri che mi parvero ghirghisi e usbeki, — rispose il giovane. — E alla loro testa vi era un uomo di forme tarchiate che teneva fra le braccia una fanciulla...

— Talmà! — esclamò Hossein.

Il giovane guardò il nipote del beg come per chiedergli di chi volesse parlare, poi, ad un cenno del suo capo, proseguì:

— La fanciulla indossava un costume da sposa ed aveva sul capo la tiara di metallo.

— Era lei! — gridarono ad una voce Tabriz e Hossein, mentre Abei si mordeva le labbra.

— La tua fidanzata? — chiese l'Emiro degli Illiati.

— Sì, la mia Talmà, — rispose Hossein, facendo un gesto disperato.

— Calmati signore, — disse Tabriz, e ascoltiamo quest'uomo. Dove si dirigevano quei cavalieri?

— Verso levante, — rispose Mursa Rabat.

— Verso il fiume dunque?

— Sì, mio signore.

— Si dibatteva la fanciulla?

— Non mi parve.

— Viva lo era però.

— Sì, la vidi alzare un braccio, come per minacciare il cavaliere che la portava.

— A che ora li hai veduti?

— Verso mezzodì.

— Galoppavano forte?

— No, filavano a piccolo trotto e mi parve che le loro cavalcature fossero molto stanche, perchè alcune rimanevano sovente indietro.

— Ed erano molti? — chiese Hossein.

— Un centocinquanta per lo meno, — rispose il giovine illiato.

— Come possono essere diventati così numerosi? Quelli che mi hanno rapito Talmà non erano più d'una dozzina.

— La cosa è facile a spiegarsi, — disse Tabriz. — Si saranno riuniti a quelli che hanno fatto una dimostrazione armata contro il villaggio.

— Non sarà il numero che ci tratterrà dall'inseguirli, Tabriz, — disse il nipote del beg, con accento feroce.

— Sai dove vanno? — chiese Sagadska.

— A Kitab, — rispose Hossein.

— Che cosa vanno a fare colà? Ignorano dunque che i russi hanno lasciato Samarcanda in buon numero, con cannoni e falconetti, per calmare le idee bellicose di Djura e del bey di Schar?

— È dunque vero? — chiesero ad una voce Hossein ed Abei.

— Sì, miei cari ospiti; una forte colonna di moscoviti, comandata dal colonello Miklalosvky, con molta fanteria ed alcune sotnie di cosacchi, muove verso le due città, coll'ordine di prenderle d'assalto e di restituirle, domate, all'Emiro di Bukara. Tutti ne parlano nella steppa orientale e le informazioni che ho ricevute devono essere esatte.

— Allora noi non abbiamo tempo da perdere, signor Hossein, — disse Tabriz.

— Sì, se volete entrare in città prima che i russi la cingano d'assedio, — disse l'illiato. — Sono stanchi i vostri cavalli?

— Galoppano da stamane.

— Ne ho trecento intorno al campo, — proseguì il capo. — Scegliete i migliori e partite senza indugio o giungerete troppo tardi.

Per conto di chi è stata rapita la fanciulla?

— Del Beg Djura, sospettiamo, — disse Hossein.

Sagadska scosse il capo.

— Uhm! — fece poi. — Lui ed il bey di Schar hanno troppe faccende che pesano sulle loro spalle per ora. No, sarà per qualche altro, tuttavia non vi sarà difficile ritrovare la ragazza. Kitab è poco popolosa e Schar lo è meno ancora.

Volete un consiglio da amico?

— Parla, — disse Hossein.

— Rivolgetevi direttamente a Beg Djura, ditegli che sono io che vi mando e che se le sue cose andranno male, troverà sempre un rifugio fra le tribù degli Illiati.

Partite, amici e varcate al più presto l'Amu-Darja al guado d'Ispas, là dove i miei uomini raccolgono le rose.

Può darsi che da loro abbiate qualche notizia dei rapitori.

Venite a scegliere i cavalli: sono di buona razza e correranno meglio di quelli delle Aquile. —

CAPITOLO XII. Il Traditore.

Era mezzanotte quando la truppa, montata su cavalli freschi, quasi tutti di razza persiana, lasciavano l'accampamento avviandosi verso l'Amu-Darja.

La notizia ormai pienamente confermata che un corpo russo scendeva da Samarcanda per cinger d'assedio Kitab, li spingeva ad affrettarsi, non avendo alcun desiderio di venire di buona o di cattiva voglia coinvolti in quella campagna, quantunque tutti, da veri turchestani, nutrissero un odio profondo contro quegli insaziabili conquistatori, che allungavano le loro poderose zampe d'orsi su tutta l'Asia centrale.

Sapevano per pratica come finivano sempre quelle guerriglie ed a quali orrori si esponevano i disgraziati insorti contro lo strapotente e barbaro nemico.

Non fu che allo spuntare del giorno, dopo una corsa furiosa, velocissima, che la truppa giunse senza aver fatto cattivi incontri sulla via dell'Amu-Darja, nei pressi del guado conosciuto sotto il nome di Ispas.

L'Amu, che i turchestani chiamano anche Djicon, è il più grosso dei tre fiumi che solcano l'immensa steppa e che vanno ad ingrossare le acque del mar d'Aral.

Nasce da una delle più alte vette del Bolor, nel Pamir e scorre dapprima sotto il nome di Pani, svolgendosi attraverso regioni fertilissime, percorre tutta la steppa turanica, non ricevendo che pochi fiumiciattoli e, come abbiamo detto, va a scaricarsi nell'Aral dove forma un vastissimo estuario.

In quasi tutto il suo percorso le alte piante, che nella steppa non possono svilupparsi per la siccità che regna durante i mesi caldi, coprono le sue rive, producendo uno strano contrasto colle eterne erbe che per centinaia e centinaia di chilometri si susseguono ininterrottamente, con una monotonia desolante.

Platani di dimensioni colossali, querce, cedri, ginepri e micgasia, che lanciano il loro bellissimo stelo a cinque o sei metri, crescono a profusione, ma le piante che soprattutto interessano gli abitanti delle rive sono i rosai, i quali coprono in certi punti delle estensioni vastissime, raggiungendo sovente un'altezza di quindici piedi.

Come si sa, tutti i popoli orientali fanno un consumo enorme di acqua di rose. Si profumano le vesti e le barbe, bagnano, anzi inzuppano addirittura i fazzoletti delle persone che vanno a visitarli, ne mettono nell'acqua delle loro pipe e perfino nei loro pasticci dolci, sicchè dove quegli splendidi e profumati fiori allignano, vi è una ricchezza non indifferente da raccogliere.

Il luogo ove i cavalieri erano giunti, era una di quelli dove appunto i gentili fiori crescevano a profusione.

Sotto i faggi, le betulle ed i platani, che coprivano la riva del fiume, enormi rosai si ergevano, tutti coperti di fiori bianchi, carnicini, gialli, rossi, scarlatti, i quali esalavano profumi inebbrianti che i cavalieri aspiravano avidamente, essendo quello per modo di dire, il loro profumo nazionale.

— Se qui ci sono tante rose, troveremo ben presto anche i raccoglitori del capo degli Illiati, — disse Tabriz, fermando il suo cavallo.

— Aspettiamo che le tenebre si diradino ed intanto andiamo a vedere se il guado si trova veramente qui. —

Mentre la scorta scendeva di sella, per concedere ai cavalli un po' di libertà ed un po' di riposo, ben meritato d'altronde dopo quella lunga galoppata, Tabriz, Hossein ed Abei si spinsero verso il fiume, passando sotto giganteschi platani che spandevano al di sotto delle loro fitte fronde, costantemente inumidite dalle acque, una deliziosa frescura.

L'Amu-Darja scorreva dolcemente, gorgogliando fra gli ammassi di giunchi che avevano ormai ingombrato buona parte del suo letto, formando qua e là minuscoli isolotti, sopra i quali volteggiavano numerose coppie di uccelli acquatici.

In quel luogo il fiume non era più largo di cento cinquanta metri e le sue acque, assai trasparenti, non avevano che qualche metro e mezzo di profondità, almeno fino ad un certo tratto dalla riva.

— Sì, è questo il guado, — disse Tabriz.

— L'hai indovinato, signore, — rispose in quel momento una voce che usciva da una grande macchia di rosai, accavallati confusamente gli uni sopra gli altri in modo da formare un colossale e meraviglioso cespuglio.

Tabriz si era subito voltato.

Un uomo, piuttosto vecchio, era sgusciato fra quell'ammasso di rose, tenendo in mano un cesto di vimini, di forma allungata, pieno già di fiori.

— Sei un illiato di Sagadska? — gli chiese il gigante.

— Sì, signore.

— Ci manda qui il tuo capo, che ci diede ospitalità ieri sera, per chiederti se hai visto passare dei cavalieri.

— Io ho dormito come un orso questa notte, — rispose il raccoglitore di rose, — ma te lo potranno dire i distillatori che non hanno spenti i fuochi ieri sera.

Vuoi seguirmi? Non sono che a pochi passi, dietro a quel macchione di platani: guarda, si scorge il fumo trapelare attraverso le foglie.

— Guidaci e avrai una manata di pouls[7].

— Vieni, signore, — rispose l'illiato, tutto lieto di ricevere una mancia.

Attraverso le fronde di quei giganteschi alberi, i tre cavalieri cominciavano infatti a scorgere colonne di fumo e bagliori prodotti da grandi fuochi brucianti sotto i lambicchi.

Ben presto giunsero in mezzo ad una spianata, dove una dozzina d'uomini, semi-nudi, anneriti dal fumo, madidi di sudore, con lunghe barbe ispide, s'affaccendavano intorno a sette od otto falò, sopra i quali bollivano immense caldaie di rame, piene di rose.

I distillatori turchestani e persiani, lavorano sul luogo ove le rose vengono raccolte, onde i fiori conservino tutto il loro profumo. Usano lambicchi affatto primitivi e caldaie della capacità di cento a centoventi litri.

I fiori, appena portati dai raccoglitori, vengono messi nell'apparecchio distillatore, nella quantità di nove a dieci chilogrammi, ai quali aggiungono in media cinque o sei volte il loro peso d'acqua.

Con questo sistema distillano non già l'essenza, bensì l'acqua di rose, la quale poi, per riuscire perfetta, ha bisogno di una nuova operazione o meglio d'una seconda distillazione.

Dopo la seconda bollitura, si vedono apparire piccoli globuli oleosi d'una tinta giallo-pallida. Il liquido rimasto si pone entro bottiglie dal collo lunghissimo, i globuli i quali costituiscono l'essenza e che si radunano alla superficie del recipiente, vengono raccolti mediante speciali cucchiai perforati.

Uno spazio di quaranta are, coperto di rosai, può dare durante le stagioni favorevoli, da mille ottocento a duemila chilogrammi di fiori, e di quegli spazi ve ne sono di più ampii sulle rive dell'Amu-Darja, — dai quali i distillatori possono trarre e con poca fatica da seicento a settecento cinquanta grammi di essenza.

Considerato che ogni grammo si paga, sia nel Turchestan che in Persia, circa una lira, si può facilmente comprendere quanto quell'industria sia produttiva, specialmente per uomini che assai di rado trovano il modo di guadagnare denaro nelle loro steppe.

Il capo dei distillatori vedendo apparire i tre cavalieri, guidati dal raccoglitore di rose, lasciò le caldaie, mosse loro incontro e li salutò cortesemente con un:

— Allah vi sia propizio! —

Informato su ciò che desideravano, l'illiato rispose subito:

— Dei cavalieri!... Dei banditi volete dire?... Quelli che sono passati ieri sera, dopo il tramonto, non erano persone oneste.

— Dopo il tramonto, hai detto? — chiese Hossein.

— Sì, hanno guadato il fiume alla luce delle stelle.

— Quanti erano?

— Un centinaio e mezzo per lo meno.

— Vi era una fanciulla con loro?

— Sì, cavalcava una giumenta ed era avvolta in un velo bianco.

— Non era fra le braccia di un uomo grosso e tarchiato?

— No!...

— Però ho veduto anche quello e teneva la giumenta per le briglie.

— Piangeva la fanciulla?

— Non ho avuto tempo di osservarla. I cavalieri hanno attraversato frettolosamente l'Amu-Darja, scomparendo sotto gli alberi dell'opposta riva.

— Si sono accampati colà? — chiese Tabriz.

— Non te lo potrei dire, mio signore.

— Erano stanchi i loro cavalli?

— Mi parvero sfiniti.

— Padrone, — disse Tabriz, volgendosi verso Hossein, — partiamo senza indugio e guadiamo il fiume. Se i nostri animali non cadono, giungeremo a Kitab contemporaneamente alle Aquile.

— Vorrei raggiungerle prima e sterminarle tutte, — soggiunse il giovane, con impeto.

— Tu dimentichi, cugino, che essi sono in centocinquanta e tutti certamente coraggiosi, — osservò Abei, che tormentava nervosamente i suoi piccoli baffi, irsuti. — Ti hanno dato una prova lampante nell'assalto alla casa di Talmà.

— Fossero anche trecento, nessuno mi tratterrebbe di assalirli.

— Ben detto, signore, — disse Tabriz. — Piomberemo addosso a quei predoni, come la notte che i lupi ci scortavano. —

I cinquanta uomini in un baleno furono in arcione, scesero la riva, preceduti da Tabriz ed entrarono nel fiume le cui acque, come abbiamo detto, in quel luogo erano piuttosto basse.

La traversata dell'Amu-Darja fu compiuta senza incidenti, non essendovi nei corsi d'acqua del Turchestan nè coccodrilli, nè gaviali, come in quelli della non lontana India.

La truppa si trovava sul territorio del Khan di Bukara, lo stato più vasto della Tartaria Indipendente. Indipendente di parola, non di fatto, perchè anche su quella immensa regione che comprende varii Kanati, l'avida zampa dell'orso moscovita vi si è appoggiata.

Gli antichi scrittori arabi hanno chiamato quel territorio un paradiso terrestre e lo sarebbe forse, essendo fertilizzato dall'Amu-Darja e dai suoi affluenti, se non fosse abitato da un popolo nomade, dato al ladroneccio più sfacciato, stanziato solo nell'inverno nelle città e nei villaggi ed errante colle sue gregge nelle vaste pianure, durante le altre stagioni.

Samarkanda, che è la città più importante, ha avuto un passato splendido, essendo stata scelta come capitale dal famoso conquistatore asiatico Timur-Lent, meglio conosciuto sotto il nome di Tamerlano. Aveva allora una popolazione numerosissima ed era così potente da poter mettere in campo da sola ben sessantamila cavalieri ed i suoi trafficanti si spingevano fino alla Grande Tartaria Chinese, nel cuore del grande continente asiatico.

Oggidì, quantunque estenda ancora i suoi sobborghi nella meravigliosa valle del Sogd, quantunque abbia la sua accademia di scienze, traffichi ancora animatamente e abbia molte fabbriche, ove si tesse la seta più stimata dell'Asia, ha molto perduto del suo antico splendore al pari di Bukara, ove risiede per la maggior parte dell'anno il potentissimo e anche barbarissimo Khan, e che fu centro di uomini dotti e celebri non solo per l'Oriente, ma anche per l'Europa: vi fu il famoso Ebu-Sino, da noi chiamato Avicenna.

Era il momento, per la banda condotta dai due nipoti del beg e da Tabriz, di stare molto in guardia, perchè tutto il kanato, specialmente verso il fiume, è percorso incessantemente da orde di Usbechi e da Ghirghisi.

Tabriz, appena messo piede sulla riva opposta dell'Amu-Darja, fece fare alla truppa una seconda fermata, poi accompagnato dal solo Hossein, fece una galoppata sotto le altissime e frequenti piante, risalendo verso il settentrione.

— Che cosa cerchi, Tabriz? — chiese Hossein, vedendolo guardare attentamente la terra.

— Le tracce dei banditi, — rispose il gigante. — Per di qua devono ben essere passati e sarei ben lieto di trovarle. —

Continuarono ad avanzarsi sotto i platani e le betulle, che coprivano la riva, finchè un grido di trionfo sfuggi a Tabriz.

— Eccole!... —

Sul suolo, che era umidissimo in quel luogo, si scorgevano nettamente numerose impronte lasciate dagli zoccoli d'un grosso numero di cavalli.

Tabriz balzò a terra per meglio osservarle, quando Hossein lo vide rialzarsi prontamente e staccare il lungo archibugio che pendeva dalla sella del suo cavallo.

— Cos'hai, Tabriz? — chiese il giovine.

Il gigante invece di rispondere, gli fece segno colla mano di star zitto, poi armò il fucile appoggiando il calcio alla spalla è puntandolo verso un folto cespuglio che circondava la base d'un enorme platano. Hossein, temendo giustamente un improvviso attacco, trovandosi, come abbiamo detto, in un territorio frequentato dai banditi delle steppe, si era affrettato ad imitarlo.

— Che cos'hai veduto o udito dunque? — chiese il giovane impazientito, non vedendo comparire nessuno.

Un gemito che uscì dal mezzo del cespuglio fu la risposta.

— Vi è qualche ferito là dentro, — disse finalmente Tabriz. — Hai udito, signore?

— Sì. —

Tabriz s'avvicinò cautamente al platano e colla canna dell'archibugio mosse le fronde dei cespugli, dicendo:

— Mostra il tuo viso, amico noi non siamo briganti. —

I rami subito si mossero ed un uomo piuttosto attempato, quasi interamente nudo, non avendo indosso che una camicia brandellata, comparve.

— Risparmiate la vita ai un povero uomo, — disse. — Allah ha proibito di uccidersi fra correligionari.

— Chi sei? — Chiese il gigante, abbassando il fucile.

— Un usbeko di Kitab.

— Che cosa fai costì così nudo?

— Sono stato assalito da una banda di briganti, derubato dei miei montoni che aveva qui condotti a pascolare, bastonato e per sopra mercato anche spogliato delle mie vesti.

— Quando?

— Ieri sera.

— Erano Aquile della steppa?

— Può darsi.

— Avevano una fanciulla con loro?

— Non l'ho veduta.

— Quanti erano quei briganti?

— Una ventina.

— Non ve n'erano altri nel bosco?

— Sì, mi pare d'aver udito dei cavalli a nitrire al di là degli alberi. Signore non lasciarmi qui solo, così nudo e senz'armi. Vi sono dei lupi e delle pantere fra queste macchie. —

Tabriz interrogò Hossein collo sguardo.

— Potrà servirci da guida, — rispose il giovane.

— Sali dietro di me, — disse il gigante all'usbeko. — Vedremo di darti qualche cosa per coprirti.

— Io sarò il tuo schiavo, — rispose il disgraziato, con voce gemente. — Oramai ho tutto perduto.

— Ti vendicheremo, disse Tabriz. — Stiamo cercando appunto le Aquile. —

Salì in sella e dietro di lui montò l'usbeko, profondendosi in lunghi ringraziamenti.

Quando tornarono verso il guado, i Sarti ed i Shagrissiabs erano ancora in sella, pronti a riprendere la corsa.

Tabriz privò qualcuno della giacca, un altro d'una coperta, onde coprire l'usbeko, e mentre Hossein informava Abei dell'accaduto, si rimisero in cammino al piccolo trotto, dietro le tracce lasciate dalle Aquile.

Attraversata la zona che aveva un'estensione di poche centinaia di metri, la truppa ritrovò la steppa.

Quantunque il Khanato di Bukara sia infinitamente più fertile del Turchestan occidentale, non è privo di steppe, le quali si stendono per centinaia di miglia. Anche là si manifesta quel singolare fenomeno che si osserva nei territori dei Cosacchi e dei Curdi del mar Caspio.

Alla base delle montagne, le foreste cessano bruscamente per non ritrovarle che lungo le rive dei fiumi ed il suolo calcareo scompare per cedere il posto alla terra nerastra della steppa, sulla quale spuntano e crescono benissimo erbe e cereali, quando un po' d'acqua li favorisce.

Tutti coloro che hanno percorso quelle pianure immense, si sono chiesti la soluzione di quello strano problema: perchè la steppa col suo manto di terra fertile, tanto più ricca, inquantochè non è mai stata coltivata, quindi ancora vergine, non produce alcuna pianta da fusto? I venti ardenti e troppo gelati che soffiano impetuosissimi su quelle sconfinate pianure, s'oppongono forse alla vegetazione arborescente?

Forse la spiegazione dello strano fenomeno lo si deve al fatto, più probabilmente, che lo strato di terra fertile non è più profondo di trenta o quaranta centimetri e che si basa su un fondo d'argilla compatta, impenetrabile alle radici delle piante.

Di passo in passo che la truppa s'allontanava dall'Amu-Darja, cominciavano ad apparire, specialmente inoltrandosi sempre più nel territorio bukarino, accampamenti intorno agli stagni.

Gruppi di tende nere, di forma conica, si mostravano di quando in quando, poi lunghe carovane di cammelli e torme immense di montoni, dalla coda grossissima, scortati da cavalieri armati e dall'aspetto poco rassicurante.

Erano per lo più usbechi e turchi, padri questi degli Osmani che hanno conquistata l'Asia Minore, l'Arabia e la Turchia europea, uomini fieri e bellicosi, che sono sempre in armi contro i ghirghisi ed i bukari.

Tutte quelle carovane si dirigevano verso la frontiera occidentale, con una certa fretta che colpì Tabriz.

— Si direbbe che fuggano dinanzi a qualche pericolo, — disse il brav'uomo a Hossein. — Vediamo di che cosa si tratta. —

Spinse il cavallo verso un gruppo di turchi che scortavano un centinaio di cammelli e che guardavano sospettosamente la truppa d'Hossein, chiedendo spiegazioni.

— I russi, — gli fu risposto.

— Sono già intorno a Kitab?

— Non ancora, ma fra poco.

— Bisogna affrettarsi, — mormorò il gigante, tornando verso i suoi compagni. — Corriamo il pericolo di rimanere tagliati fuori dalla città. —

CAPITOLO XIII. Kitab.

Non ostante gli sforzi prodigiosi compiuti dai cavalli e la fretta dei cavalieri, la notte li sorprese a una quarantina di chilometri da Kitab, nei dintorni del minuscolo e ormai deserto villaggio di Iskander.

Animali e uomini erano così sfiniti da quella marcia, che durava da quasi quarantotto ore, da rendere impossibile una maggiore avanzata.

Hossein e Tabriz, che non volevano rovinare completamente le loro cavalcature, dalle quali attendevano preziosissimi servigi nell'attacco ai briganti della steppa, si videro quindi costretti a dare il segnale della fermata.

D'altronde non pareva che i russi avessero già investita Kitab perchè, anche poco prima del tramonto, avevano incontrate immense greggi di montoni e lunghe file di cammelli che fuggivano verso occidente, senza però troppo affrettarsi, mentre invece non avevano ancora scorto nessun gruppo di cosacchi dell'avanguardia.

Essendo state le dieci o dodici capannucce di fango secco, che costituivano il minuscolo villaggio, abbandonate dagli abitanti, la scorta senz'altro le occupò, legando i cavalli intorno ai pali che erano piantati dinanzi alle porte.

— Ripartiremo dopo la mezzanotte, — disse Hossein a Tabriz e ad Abei. — Cinque o sei ore di riposo saranno bastanti per i nostri uomini e per i nostri cavalli. —

Cenarono alla lesta, colle provviste che erano rinchiuse nei sacchetti di pelle appesi alle selle, poi tutti si stesero al suolo, divisi in gruppi e non tardarono ad addormentarsi, essendo affranti.

Due uomini soli non avevano chiusi gli occhi: Abei e l'usbeko che Hossein e Tabriz avevano raccolto quasi nudo nella piccola foresta dell'Amu-Darja.

Durante la corsa, quei due uomini si erano già scambiate parecchie occhiate e qualche rapido cenno, come se già da tempo si conoscessero e attendessero l'occasione propizia d'incontrarsi.

Il nipote del beg, che doveva essere impaziente di trovarsi solo coll'usbeko, quando si fu ben assicurato che suo cugino e Tabriz dormivano profondamente, uscì silenziosamente dalla capanna e strisciò verso il primo gruppo di cavalli, dove si scorgeva vagamente, coricata fra le erbe, una forma umana.

— Dormono, — disse Abei sotto voce. — Che cosa significa la tua presenza qui, Hadgi. —

Il luogotenente del disgraziato mestvires si era prontamente alzato, girando all'intorno uno sguardo sospettoso.

— Ti aspettavo, signore, — disse poi, — per ricevere da te nuovi ordini. Noi non avevamo previsto l'invasione dei russi. Sai che stanno per assalire Kitab?

— L'ho appreso lungo il viaggio, — rispose Abei.

— Quella gente può guastare i tuoi affari, signore, ed è per questo che io ti ho aspettato sulle rive del fiume. Ero certo che Hossein ci avrebbe inseguiti e che sarebbe passato per quel guado, che d'altronde è l'unico che esista su cinquanta miglia di fiume.

— Hai giuocato una carta pericolosa.

— Perchè, signore? Hossein e Tabriz non mi conoscono ed ingannarli era cosa facilissima.

Non ho fatto altro che spogliarmi e nascondere le mie vesti e le mie armi in mezzo ad un folto cespuglio. Come hai veduto, hanno creduto a quanto io ho loro narrato e non hanno avuto il menomo sospetto.

— Sei un birbante intelligente, — disse Abei.

— Si fa quello che si può, signore, — rispose il bandito, sorridendo.

Ditemi ora dove devo condurre Talmà. Questi russi che s'avanzano rapidamente m'inquietano non poco.

— Non hai tu qualche rifugio fra le montagne di Kasret-Sultan?

— Vi sono lassù delle caverne meravigliose, signore, quantunque trasudino petrolio da tutte le parti.

— Tu entrerai in Kitab, attraverserai la città, mettendo bene in vista Talmà, e alla sera te ne andrai fra le montagne. Non vi sarà alcun pericolo.

Se anche la fanciulla griderà di essere stata rapita e che voi siete Aquile, nessuno se ne preoccuperà. Dirai che è una pazza che riconduci alla sua famiglia e poi hanno ben altro da fare quegli abitanti in questi momenti.

— Non comprendo però lo scopo di questa gita attraverso a Kitab.

— Non è necessario che tu per ora abbia maggiori spiegazioni. Quasi tutti i tuoi uomini mi conoscono, è vero?

— La sera che tu ti sei presentato al nostro accampamento, per proporci il tuo affare, signore, vi erano tutti e nessuno ha scordato il tuo viso.

— Lascerai dunque a Kitab un paio dei tuoi banditi, onde mi guidino più tardi al tuo rifugio.

— Bada, signore, che i russi calano rapidissimi e che se t'indugi, correrai il pericolo di farti assediare in Kitab.

— È quello che desidero, — rispose Abei.

— Non ti capisco.

— Non importa: a te deve solamente importare di guadagnarti la somma che t'ho promessa e che ti appartiene, ora che il mestvire è morto.

— L'ho saputo, — disse Hadgi. — Tuo zio è stato troppo crudele, però devo essergli riconoscente, perchè da luogotenente sono diventato il capo delle Aquile.

— Non ti lagnare dunque.

— Oh no, signore, — disse il bandito.

— Ora vattene. Che siano già giunti a Kitab i tuoi uomini?

— Aspetteranno che li raggiunga, prima di entrare nella città.

— Allora spicciati.

— Addio, signore: conta sulla mia fedeltà.

— E tu sui miei tomani — rispose ironicamente Abei.

Hadgi staccò un cavallo, gli avvolse la testa onde non nitrisse, balzò in sella e si slanciò attraverso la steppa, dileguandosi ben presto fra le tenebre.

— I russi giungono in buon punto, — mormorò Abei, quando il bandito fu scomparso. — Baba beg, non si sarà scordato di essere stato un giorno salvato da mio padre e mi aiuterà.

Ah!.... Tu volevi tutto per te, cugino: la bellezza e la felicità, il coraggio e l'ammirazione di tutte le donne della steppa!... Ed a me, che sono pure figlio d'un beg, nulla? Almeno Talmà l'avrò, dovessi ucciderti!... Senza quella fanciulla che io ho amata segretamente prima di te, che cosa sarebbe la mia vita? Voi due non conoscete ancora Abei! —

Strisciò verso la capanna ed entrò senza far rumore, coricandosi sulla gualdrappa che gli serviva da tappeto.

Hossein e Tabriz dormivano sempre profondamente e di nulla si erano accorti.

Era appena passata la mezzanotte, quando i Sarti ed i Shagrissiabs si svegliarono; chiamandosi reciprocamente.

Hossein e Tabriz, destati da quel vocìo e dai nitriti dei cavalli, si alzarono prontamente uscendo all'aperto.

— In sella, — comandò il giovane. — All'alba entreremo in Kitab.

Signore, — disse un Sarto, avvicinandoglisi, — manca il mio cavallo.

— E anche l'usbeko che hai raccolto, — disse un altro.

— Che vada a farsi appiccare dove vuole, — disse Tabriz. — Non inquietiamoci per la fuga di quel birbante. Montate e partiamo.

Quello a cui manca il cavallo salga dietro a qualche compagno.

Lesti od i russi giungeranno prima di noi. —

In meno di un minuto i cavalli furono insellati ed imbrigliati e la truppa riprese le mosse, sempre guidata da Tabriz.

La steppa, a poco a poco scompariva. Numerosi villaggi si mostravano, specialmente verso il sud, dove le terre erano solcate da affluenti dell'Amu-Darja; e giardini ricchi d'alberi, di prugni, d'albicocchi, di melogranati e anche di viti, cominciavano ad estendersi in tutte le direzioni.

Qua e là, in mezzo alle erbe, platani, betulle, pioppi, ulivi, querce, cedri e anche pini, formavano gruppi pittoreschi, specialmente intorno agli stagni, sorgendo fra colossali cespi di rose di China, coperti di fiori bianchi e rossi.

La banda s'affrettava. I cavalli ai quali quel breve riposo era bastato per rimetterli in gambe, galoppavano splendidamente, senza aver bisogno di venire aizzati.

Ai primi albori, Tabriz indicò a Hossein il profilo della catena dei Kasret-Sultan-Geb, che s'innalza dietro a Kitab e poco dopo una selva di esili minareti dalle cupolette scintillanti.

— Ci siamo, signore, — disse.

Hossein provò come una scossa e si portò una mano sul cuore.

— Che fra poco la riveda? — si chiese con angoscia.

— Se non ci hanno ingannati e se si trova veramente laggiù, noi la riprenderemo alle Aquile, signore.

Il nome che porta tuo zio è troppo noto nella steppa, perchè il nuovo Emiro di Kitab non lo abbia già udito risuonare ai suoi orecchi ed egli non si rifiuterà di aiutarci nelle nostre ricerche, specialmente se la nostra domanda sarà appoggiata da qualche migliaio di tomani, somma che apprezzerà assai in questi momenti.

— Lo conosci tu Djura-Bey?

— L'ho veduto più d'una volta, — rispose Tabriz.

— Che uomo è?

— Un ambizioso, che già più volte ha tentato di ribellarsi al suo padrone, l'Emiro di Bukara. Egli vorrebbe, a quanto sembra, imitare Yakub, l'antico luogotenente dell'Emiro, che dopo essersi fatto dichiarare dal popolo Atalek gazi, ossia difensore della fede, si è formato un bel regno a spese del suo signore, e dei chinesi della Duzungaria.

Disgraziatamente avrà da fare i conti coi russi e la finirà male.

— Noi non ci intrigheremo nei suoi affari.

— Ehi... Chissà, cugino, — disse Abei, che cavalcava al suo fianco. — Djura-Bey potrebbe domandare il nostro appoggio. Cinquanta uomini, montati come lo sono i nostri, potrebbero essergli di grande utilità in questo momento.

— Rifiuteremo, — disse Hossein.

— E lui ti dirà che te la cerchi tu, Talmà.

— È certo che vorrà approfittare dell'occasione per rinforzare il suo piccolo esercito, — disse Tabriz. — D'altronde non mi spiacerebbe menare le mani sui russi.

— Vedremo, — concluse Hossein.

Kitab era ormai in vista e si spiegava dinanzi agli occhi dei cavalieri, trovandosi quella città su un'altura, al pari di Schaar, la sua vicina, pure ribellatasi all'autorità dell'Emiro di Bukara.

Si vedevano distintamente le sue moschee dipinte in bianco, colle cupole dorate, i suoi ridotti, le sue mura merlate ed i suoi splendidi giardini, divisi in vasti quadrati e cinti da terrapieni altissimi per rinforzare le difese della città.

Tabriz e Hossein stavano per dar l'ordine di sferzare i cavalli, quando in lontananza si udirono alcune scariche di moschetteria e alcuni colpi di cannone.

— I russi! — esclamarono entrambi.

— Affrettiamoci o giungeremo troppo tardi, — disse Abei, spronando impetuosamente il cavallo. — Vedo delle nubi di polvere verso il settentrione: là vi è qualche corpo di cavalleria.

— Allentate le briglie: ventre a terra! — gridò Tabriz.

I cinquanta cavalli, eccitati dalle grida e dai colpi di piede dei cavalieri, partirono a corsa sfrenata, facendo rimbombare il suolo che non era più coperto d'erbe. Pareva che un vero uragano passasse.

I colpi di fucile si seguivano regolari, segno evidente che quelli che facevano fuoco erano soldati perfettamente disciplinati, che non sparavano a casaccio e di quando in quando vi facevano eco delle detonazioni secche, poderose, che sembravano prodotte da racchette o da falconetti, piuttosto che da veri pezzi d'artiglieria.

Al di là della lunga distesa di giardini, s'alzavano di tratto in tratto nuvoloni di polvere, che in certi momenti offuscavano perfino la luce del sole. È già noto che tutto il Turchestan orientale e settentrionale è polverosissimo, e che basta un soffio d'aria od il galoppo di qualche squadrone di cavalleria per sollevare cortine immense d'una specie di sabbia quasi impalpabile, che ricade molto lentamente e che attraversa intere regioni prima di depositarsi.

Certamente un vivo combattimento doveva essersi impegnato, fra i cavalieri del Bek di Kitab e di quelli dello Schaar ed i cosacchi che il colonnello russo Miklalowsky, incaricato dal governatore generale del Turchestan di domare i ribelli, conduceva da Samarcanda.

Già le truppe di Hossein non distavano che poche centinaia di metri dalla torre sovrastante la porta di Ravatak, quando scorsero una nuvola di cavalieri scendere a galoppo sfrenato le alture, mentre sopra le loro teste scoppiavano delle granate.

— I Shagrissiabs! — gridò Tabriz. — Pare che abbiano avuto il loro conto se scappano in quel modo!...

Un sorriso comparve sulle labbra di Abei.

— Allah mi protegge, — mormorò fra i denti. — Era quello che aspettavo. Chi rifiuterà il nostro soccorso? —

I cavalieri del Bek di Kitab e quelli del Bek di Schaar giungevano a briglia sciolta, urlando ferocemente e volgendosi di quando in quando, per fare delle scariche, che non dovevano fare troppo danno ai russi, nascosti in mezzo al polverone.

— Lesti, amici! — gridò Hossein. — Giungeremo prima di loro! —

Con un ultimo slancio i cavalli superarono le ultime centinaia di metri e, varcato il ponte levatoio, irruppero sotto la porta di Ravatak, mentre sui ridotti della cittadella tuonavano le racchette ed i falconetti del Beg Djura bey.

CAPITOLO XIV. I fanatici del Turchestan.

Kitab, senza avere l'importanza di Bukara, di Kiva e di Samarcanda, le tre città più popolose e più famose del Turchestan, e ritenute le tre regine della steppa, come le chiamano i turani, era nel 1875 una città ragguardevole, se non pei suoi commerci, per la sua popolazione e per le sue fortificazioni che, collegate con quelle di Schaar, la rendevano molto temuta.

Non era veramente una rôcca, assolutamente inespugnabile per truppe specialmente europee, tuttavia i barbari la ritenevano talmente salda, da non osare assalirla, nè sfidare i suoi venti pezzi d'artiglieria che guarnivano, insieme ad un certo numero di falconetti, i ridotti della cittadella.

Come tutte le città turchestane, aveva un gran numero di moschee con altissimi minareti, spaziosi bazar, una salda cittadella, bellissimi giardini; ma le sue case basse, ad un solo piano, coi loro muri di terra battuta, dello spessore d'un metro, coi tetti sorretti da travicelli e di canne impastate di creta, le davano un aspetto piuttosto miserabile. Solo il palazzo del bey a più piani, con vaste gallerie e terrazze di stile mezzo Chinese e mezzo mussulmano, risaltava colla sua mole maestosa, in mezzo a quel caos di casupole che le piogge di quando in quando sgretolavano e scioglievano.

Nel momento in cui i cinquanta cavalieri irrompevano sotto la porta di Ravatak, slanciandosi a gran galoppo attraverso le vie con Hossein, Abei e Tabriz alla testa, una viva emozione regnava nella città.

Uomini a cavallo ed a piedi s'incrociavano in tutte le direzioni, urlando ferocemente e agitando forsennatamente fucili, scimitarre, jatagan e kangiarri, mentre schiere di donne e fanciulli fuggivano pei giardini, spingendosi innanzi, a legnate, bande di cammelli e greggi innumerevoli di montoni.

In tutte le case echeggiavano grida e bestemmie e sulle terrazze rimbombavano colpi di fucile, sparati a casaccio contro un nemico invisibile, poichè nessun russo fino allora si era mostrato, nemmeno dietro alla cavalleria di Djura-bey, che si rifugiava in pieno disordine verso la città, fra un tumulto spaventevole.

— Al bazar! — gridò Tabriz ai suoi uomini. — Andiamo a prendere possesso del caravanserraglio. —

La truppa attraversò, sempre al galoppo, la parte meridionale della città, non senza aver travolto più d'un fuggiasco e si fermò su una vasta piazza, in parte coperta da immense tende ed ingombra di banchi completamente vuoti, poichè tutti i rivenditori erano scappati, portandosi via le loro preziose merci.

Tabriz dopo d'aver dato uno sguardo all'intorno, s'avviò verso un massiccio fabbricato, che si ergeva in un angolo della piazza e che aveva parecchie porte.

— Occupiamo il caravanserraglio, innanzi tutto — disse a Hossein che lo interrogava collo sguardo. — Aspettiamo che si ristabilisca un po' di calma, prima di andare a far visita a Djura-Bey.

I russi non saranno così sciocchi di assalire la città, senza aver prima aperte delle brecce.

— Credi che non approffittino della fuga dei cavalieri del beg per dare subito l'assalto? — chiese il giovane.

— Kitab è bene fortificata, signore, ed i russi non devono ignorarlo.

Pel momento non vi è alcun pericolo.

— Cugino, — disse Abei, — se non ti spiace m'incarico io di andar a trovare il beg di Schaar, che è l'alleato di Djura. A me non potrà rifiutare il suo appoggio, avendo un debito di riconoscenza da saldare con mio padre.

— Me ne hai parlato una volta, — rispose Hossein. — Mi pare che tuo padre gli abbia un giorno salvata la vita.

— Sì, cugino.

— Se ne ricorderà ancora il beg?

— Glielo rammenterò io quel prezioso favore, e vedremo se oserà dimenticarsi di mio padre.

— Che sia tornato?

— Se la sua cavalleria è rientrata, suppongo che non sarà rimasto fuori dalle mura ad aspettare le palle dei falconetti russi, — disse Tabriz.

— Saprò io scovarlo fuori, — rispose Abei. — O nel palazzo di Djura o nella cittadella lo troverò.

Se tardo non inquietarti, cugino. —

Mentre i cavalieri entravano nel caravanserraglio, che non era altro che un immenso stanzone destinato a servire di ricovero alle carovane provenienti dalla steppa, Abei, dopo aver rifiutato una scorta salì lentamente verso il centro della città, dove su una piccola altura sorgeva la cittadella, formata da quattro ridotti e da terrapieni cintati e merlati.

— È più probabile che lo trovi lassù, fra i suoi cannoni, — si era detto il nipote del beg con un perfido sorriso. — Mio caro cugino, ti giuocherò un tiro che darà Talmà in mia mano..

I miei tomani voglio spenderli bene. —

Quantunque al di là dei giardini non tuonassero più le racchette ed i falconetti dei russi e nessun pericolo pel momento minacciasse la città, la popolazione non si era ancora calmata.

Torme di armati continuavano a percorrere le vie, come se fossero impazziti o come se i russi fossero già sotto le mura della città, e sulle terrazze si sparava sempre. Anche i cannoni della cittadella tuonavano, con un crescendo spaventevole, sprecando inutilmente le munizioni, mentre sulla cima degli esili minareti si udivano le voci strillanti dei muezzin a gridare a squarciagola:

— All'armi, figli d'Allah e credenti d'Ali e d'Hussein!... Ecco gl'infedeli! —

Abei continuava a salire le vie tortuose che conducevano alla cittadella, senza preoccuparsi di tutto quel baccano. Girava invece continuamente gli sguardi intorno a sè, colla speranza di incontrare qualcuno dei banditi che Hadgi doveva aver lasciato in Kitab.

Era ansioso di sapere se le Aquile avevano avuto il tempo di uscire e di condurre, sulle montagne, Talmà.

— È impossibile che non si siano accorti del nostro arrivo, — mormorava. — Cinquanta uomini e per di più a cavallo si notano subito.

Chissà che non mi aspettino nei dintorni del caravanserraglio. —

Erano le nove del mattino, quando giunse dinanzi alla cittadella, che era guernita di quattro ridotti in forma di mezzaluna.

Su uno di quelli scorse subito un uomo piuttosto attempato, vestito come un principe, con grandi ricami d'oro sulla lunga casacca bianca ed il capo riparato da un immenso turbante di mussola verde, il colore che possono portare solo coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, e che dà a quelle persone una specie di titolo di santità.

S'avvicinò ad una delle porte del ridotto; ma dovette subito fermarsi perchè la sentinella che vegliava, un shagrissiabs, di statura gigantesca ed immensamente barbuto, l'aveva subito preso di mira con una specie di trombone, minacciando di crivellarlo con una tempesta di pallottoloni mescolati a chiodi.

— Metti da parte la tua racchetta, — gli disse Abei, con accento ironico. — Va' invece ad avvertire Baba beg che il nipote di beg Giah Aghà e figlio di Abei Hakub, desidera vederlo. Sarà tanto di guadagnato per la vostra causa. —

Il shagrissiabs, impressionato dal tono altero del giovane e anche dalla sua calma, chiamò alcuni compagni e trasmise loro la domanda.

Un momento dopo la porta si spalancava a due battenti ed Abei entrava nella cittadella, scortato da quattro artiglieri, passando fra due altissime muraglie di mattoni, che oscillavano pericolosamente ogni volta che i cannoni dei ridotti tuonavano sulla cima delle scarpate.

All'estremità dello stretto sentiero, che girava intorno ai bastioni, su una piccola spianata dove si trovavano collocate, su dei cavalletti, alcune racchette, lo aspettava il beg di Schaar, appoggiato sulla sua lunga e molto arcuata scimitarra.

— È vero che tu sei il figlio di Abei Hakub? — chiese l'ex luogotenente dell'Emiro di Bukara, mentre il giovane scendeva da cavallo.

— Forse che non somiglio a mio padre, beg? — chiese il giovane. — Mi hanno detto che sono il suo ritratto.

— Infatti — disse il beg, — tu mi ricordi l'uomo a cui io devo la vita. Che vuoi da me?

— Hai saldato verso mio padre il tuo debito di riconoscenza? — chiese Abei.

Il beg lo guardò un po' inquieto, mentre faceva cenno agli artiglieri di allontanarsi.

— Tu giungi in un brutto momento, giovanotto, — gli disse poi. — Abbiamo i russi alle porte della città.

— Od invece in un buon momento? — disse Abei. — Io non sono qui venuto solo, anzi ti ho condotto cinquanta cavalieri, che forse valgono come duecento dei tuoi shagrissiabs. —

Il beg lo guardò con un certo stupore, poi un sorriso illuminò il suo volto.

— Come? — esclamò — tu vieni a chiedermi di pagarti il debito di riconoscenza che io devo a tuo padre e nel tempo stesso mi porti degli aiuti?

— Sì, ma ad una condizione, beg, — disse Abei.

— Quale?

— Che tu mandi i miei uomini ed i loro capi dove sarà più intenso il fuoco dei russi.

— Io non ti comprendo, giovinotto, — disse Baba, il cui stupore aumentava.

— Tu devi riconoscenza a mio padre?

— È vero: egli mi ha salvato la vita nella steppa, un giorno in cui una torma di ghirghisi nella piccola orda, mi aveva assalito e stava per opprimermi.

— Rispondi prima ad una domanda che ti rivolge il figlio del tuo salvatore.

— Parla.

— Ieri dei cavalieri che giungevano dalla steppa sono entrati qui, è vero?

— Sì, me l'hanno detto.

— Avevano una fanciulla con loro?

— Anche questo è vero. Pare che si trattasse di qualche matrimonio perchè la fanciulla indossava le vesti nuziali ed aveva sul capo una tiara ricchissima.

— Dove si trovano ora?

— Non lo so. Hanno attraversata la città a corsa sfrenata, uscendo dalla parte opposta.

— Non si sono fermati? — chiese Abei, con uno slancio di gioia.

— No.

— Il tuo debito di riconoscenza è pagato, beg.

— In qual modo?

— La truppa che io ti ho condotto è guidata da mio cugino, pur lui nipote del beg Giah Aghà: Metti i suoi uomini in prima linea, esponili al fuoco dei russi più che potrai e non curarti d'altro.

Al resto penserò io: tu mi hai pagato.

— Ecco una cosa a buon mercato, — disse il beg, sorridendo. — Io non indagherò il mistero che ti spinge a sacrificare quegli uomini.

Ho bisogno di valorosi e mi varrò di loro.

— Quando credi che i russi daranno l'assalto?

— Non prima di domani.

— Hai qualche speranza di tenere testa a loro?

— Sì, se riuscirò a fanatizzare i miei cavalieri e la popolazione. Questa sera lancerò i muezzin attraverso le vie della città e farò loro invocare la protezione di Alì e di Hussein, portando in giro la veste verde dell'uno e la spada dell'altro e le colombe bianche, simbolo del loro martirio.

— Ho la tua parola, beg?

— L'hai, — rispose Baba, — così se morrò nella pugna anche questo debito l'avrò pagato. —

— Ci rivedremo al fuoco. —

Abei risalì sul suo cavallo, salutò con un gesto della mano il beg e uscì dalla cittadella, scendendo a piccolo trotto, verso la piazza del bazar.

Dieci minuti dopo, ilare e sorridente, rientrava nel caravanserraglio. Tabriz e Hossein, che stavano preparandosi il pranzo, avendo acquistato alcuni montoni per loro e per la scorta, vedendolo, si affrettarono a muovergli incontro.

— Dunque, cugino? — chiese il giovane, che era diventato pallido.

— La tua Talmà è qui — rispose Abei.

— Dove? — gridò Hossein.

— Ecco quello che Baba beg non sa ancora, tuttavia ha un sospetto e mi ha giurato sul Corano che ci aiuterà a ritrovarla.

— Ah!...

— Adagio, cugino, disse Abei. — Quello che temevo si è avverato.

— Che cosa dici? — Chiese Hossein diventando livido.

— Egli esige, come compenso, che noi lo aiutiamo a prestargli man forte contro i russi.

— Se non è che per questo, noi sciaboleremo per bene quei maledetti moscoviti, — disse Tabriz che nutriva vecchi rancori contro gli occidentali. — Purchè trovi Talmà e ce la restituisca, noi faremo dei veri miracoli d'eroismo, è vero, signore?

— E le Aquile? — chiese Hossein.

— Sono fuggite dopo d'aver lasciato qui Talmà.

— Ma a chi l'hanno lasciata? Te lo ha detto, Abei?

— Non lo sa ancora.

— Signore, — disse Tabriz. — Se Baba beg ha giurato sul Corano, da buon mussulmano, manterrà la sua promessa.

Per ora aiutiamolo a respingere quei dannati moscoviti. Sarebbe stato meglio non imbarazzarci in questa ribellione, tuttavia giacché siamo coinvolti anche noi, meneremo le mani meglio che potremo. Sarà sangue straniero che scorrerà e non già turchestano.

— Pranziamo, — disse Abei. — Fra poco comincerà la processione degli sfregi in onore di Ali e di Hussein, che Djura bey ha ordinata per fanatizzare le sue truppe, e noi, come difensori della fede, dobbiamo prendervi parte.

— E Talmà? — chiese Hossein, come se uscisse da un sogno.

— Non temere, cugino. La ritroveremo e forse più presto che tu non creda. Da Kitab non è uscita, il beg me lo ha assicurato e colui che ha pagato le Aquile per rapirtela, pagherà colla vita la sua bricconata. È vero Tabriz?

— M'incarico io di strozzarlo, — rispose il gigante, mostrando le sue mani vellose come quelle d'un orso. — Una stretta sola e crac!... Il collo mi rimarrà fra le dita. —

Il pranzo fu tuttavia molto silenzioso; Hossein, Tabriz e anche Abei parevano profondamente preoccupati, specialmente quest'ultimo il quale non riusciva a staccare gli sguardi dalle mani, poderose e terribili, del gigante della steppa, che pareva lo minacciassero.

Al rimbombo delle cannonate e alle urla dei Shagrissiabs, era subentrato a poco a poco un profondo silenzio. Gli abitanti ormai rassicurati che i russi, almeno per quel giorno, non avevano alcuna intenzione di assalire la città, si erano ritirati nelle case, per prepararsi alla processione della sera, che alcuni araldi di Djura bey ed i muezzin, dall'alto dei minareti, avevano ormai annunciata, per invocare sui difensori della fede la protezione di Hussein e di Hussan, i due santoni venerati dai turchestani e dai persiani, discendenti da Maometto.

Il sole era appena tramontato, quando su tutti i minareti della città echeggiarono, nell'aria tranquilla, le voci squillanti dei muezzin.

— Ecco la luna dell'Islam che sorge!.... Alla gloria d'Hussein e di Alì!... Mostrate, fedeli, ai nostri santi, la vostra fede! —

Tabriz ed i cavalieri della scorta si erano prontamente messi a cavallo.

— Mostriamo che anche noi siamo credenti, — disse Hussein. — E poi chissà che non incontri Talmà nella processione. —

Quando uscirono, tutta la città era coperta di lumi. I bastioni della cittadella, i merli delle muraglie, le scarpate, i muri dei giardini, le terrazze, scintillavano di punti bianchi, rossi, gialli, verdi, azzurri, con un effetto fantastico ed insieme splendido, e attraverso le tortuose vie della città alta, si vedevano scendere delle vere fiumane di torce, che si lasciavano dietro delle nuvole di fumo e di scintille.

Pareva che Kitab fosse in festa e che più nessun pericolo la minacciasse.

Masse di gente s'accalcavano nella gran piazza, dove sorgeva la moschea dedicata ai due santoni, salmodiando con voce rauca e nasale i versetti del Corano, in attesa di organizzare la processione e di cominciare la festa del sangue.

I turchestani sono i più fanatici dei turchi e, fino ad un certo punto, rassomigliano in ciò agli indiani. Non si gettano come questi sotto i carri di pietra per farsi schiacciare a centinaia e centinaia, tuttavia celebrano tutte le loro feste religiose con grande effusione di sangue.

Un certo numero di fanatici, scelti fra i molti concorrenti, si mettono a capo delle processioni, armati di sciabole, di jatagan, di pugnali, di coltellacci e cinti di pesanti catene che trascinano fragorosamente per le vie e si tagliuzzano con una voluttà feroce e ributtante il viso, le braccia, il petto, invocando a squarciagola i loro santi protettori.

Il loro orgasmo è tale che i parenti e gli amici che li accompagnano sono sovente costretti a strappare loro di mano le armi od a calmarli, onde non finiscano per scannarsi. Malgrado tale sorveglianza, dopo ogni processione, si contano sempre parecchi morti e quelli sono gli invidiati, perchè tutti sono convinti che saliranno senz'altro nel paradiso del profeta.

Quando Abei, Hossein ed i loro cavalieri giunsero sulla vasta piazza, che era decorata con bandiere verdi e con tende nere su cui si leggevano, trapunti in oro, alcuni versetti del Corano, la processione si era ormai organizzata.

Tre o quattrocento fanatici, coperti d'una zimarra lunghissima di tela bianca, onde le macchie ed i rivi di sangue spiccassero maggiormente, tutti armati di scimitarre affilatissime ed i fianchi cinti di grosse catene, che trascinavano con un fragore infernale sui ciottoli della via, aprivano il corteo, fiancheggiati da parenti e da amici, che reggevano lunghe torce fiammeggianti.

Seguivano parecchi muezzin, i quali conducevano per le briglie tre cavalli bianchi, di razza araba, splendidamente bardati, con lunghe gualdrappe di seta trapunte in oro ed in argento e alti pennacchi sulla testa.

Uno portava sulla sella due scimitarre a doppio taglio, con due mele infilzate nella punta, il frutto prediletto di Alì, l'amico e nipote di Maometto, trucidato dai settari di Omar, che aspiravano in sua vece al califfato; il secondo un bellissimo cavallo vestito di seta verde con ricami magnifici, che voleva raffigurare quello che indossava Alì il giorno del suo assassinio; il terzo invece una cesta di vimini con entrovi due colombe e che volevano rappresentare la strage di Hussein e di tutti i suoi fedeli sterminati nelle pianure di Kirbdeil, mentre stavano per muovere alla conquista del califfato.

Venivano poi soldati, cavalieri, cittadini, muniti tutti di torce, pigiandosi, urtandosi, fra un frastuono spaventevole prodotto da migliaia e migliaia di voci che urlavano a squarciagola:

— Alì — Hussein! — Proteggeteci dagli infedeli! — Sterminateli, fulminateli! — Allah! — Allah! —

In mezzo a quella folla, stretta da tutte le parti, come impacchettati, si scorgevano i due Beks di Kitab e di Schaar, coi loro immensi turbanti verdi, montati su bianchi cavalli e seguiti da un brillante stato maggiore.

La processione si era messa in moto a passo accelerato, poiché i fanatici che marciavano alla testa, per meglio esaltarsi e anche per raddoppiare il fracasso delle pesanti catene, si erano messi a correre, mandando delle urla che più nulla avevano d'umano.

Le loro armi taglientissime scintillavano sinistramente alla luce sanguigna proiettata da quelle centinaia e centinaia di torce.

D'un tratto un grido formidabile si sprigiona da quei tre o quattrocento petti: sembra un immenso e spaventevole ruggito:

— Alì! — Hussein! —

Quei furibondi cominciavano a tagliuzzarsi la fronte, le labbra, il naso, le spalle, le braccia, che erano nude, con una voluttà feroce! Il sangue zampillava copioso, macchiando e scorrendo sulle bianche zimarre e colando sui ciottoli.

Lo spettacolo è orribile, ributtante, ma non impressiona nessuno: anzi tutti invidiano quei disgraziati, che si mutilano atrocemente, convinti di guadagnarsi, con tutto quel sangue che perdono, il sospirato paradiso del Profeta.

Di quando in quando uomini mezzi dissanguati, stramazzano al suolo colla schiuma alla bocca, gli occhi schizzanti dalle orbite; subito gli amici od i parenti li raccolgono e li portano nelle case vicine, dove le donne si affrettano a lavarli, fasciarli e rinvigorirli con tazze di kumis o con acquavite di segala.

Quella corsa, poiché era diventata una vera corsa attraverso alle vie più spaziose della città, durava da una mezz'ora, fra un baccano sempre più spaventevole, quando Abei, che al pari degli altri aveva dovuto scendere da cavallo per non calpestare la folla, che lo stringeva d'ogni parte, si sentì tirare per una manica, assai vigorosamente.

Tabriz e Hossein, divisi dalla scorta, erano già molto innanzi in quel momento.

— Signore, — sussurrò una voce nell'orecchio del giovane.

Abei si era voltato. Un uomo molto barbuto, che aveva il viso in parte nascosto da un ampio turbante, gli stava dietro, tenendolo sempre per la manica.

— Che cosa vuoi? — gli chiese.

— Lasciate passare questi imbecilli, — disse quell'uomo. — Appoggiatevi contro il muro e tenete ben saldo il vostro cavallo. —

Poi aggiunse, spingendolo ruvidamente contro la porta d'una casa:

— Hadgi...

— Aspetta, — rispose Abei, mentre un lampo di gioia gli brillava negli occhi.

La turba passò, seguendo i fanatici che non cessavano di sfregiarsi i corpi; poi, quando gli ultimi uomini scomparvero verso la parte bassa della città, dove giganteggiava un'altra moschea e si trovarono soli, l'uomo barbuto aiutò Abei a salire in sella, dicendogli:

— Non abbiamo tempo da perdere. I russi s'avvicinano.

— Sei uno degli uomini che Hadgi ha lasciato qui perché mi guidino?

— Sì, signore.

— Sei solo?

— Ho quattro compagni che mi aspettano presso la porta di Ravatak e tutti ben montati.

— Dov'è la fanciulla?

— Al sicuro, fra le montagne di Kasret Sultan Geb.

Affrettiamoci o resteremo anche noi assediati.

— Andiamo, — disse Abei. — Domani i russi assaliranno Kitab, succederà certo un massacro, Tabriz e Hossein difficilmente sfuggiranno alla morte... e Talmà sarà mia. —

Aveva messo il cavallo al trotto ed il bandito lo seguiva a piedi, correndo come un'antilope.

In quindici minuti Abei ed il bandito raggiunsero i gradini che si estendevano dietro l'alta muraglia, poi piegarono a dritta per arrivare alla porta che supponevano fosse ancora aperta.

Già la intravedevano, quando quattro cavalieri mossero loro incontro.

— Che cosa c'è? — chiese il bandito che si era fermato.

— Troppo tardi! — rispose uno dei cavalieri. — La porta è stata chiusa. —

Quasi nel medesimo istante si udirono le sentinelle di guardia della scarpata e dei bastioni esterni a gridare:

— All'arrmi!... I russi! —

Poi un colpo di cannone rimbombò fra le tenebre, ripercuotendosi fra i ridotti della cittadella.

Le colonne del maggior generale Abramow marciavano all'attacco della città ribelle.

CAPITOLO XV. L'assalto di Kitab.

Le popolazioni dell'Asia centrale e specialmente quelle che occupano quell'immensa regione, che si estende dalle rive orientali del mar Caspio ai confini meridionali della Duzungaria Chinese e che è conosciuta col nome di Tartaria Indipendente, sono di una irrequietezza incredibile.

È raro che passi un anno senza che forti insurrezioni scoppino in questo od in quel Kanato, scatenate per lo più dalla sfrenata ambizione dei luogotenenti degli Emiri, assetati, come i loro padroni, di potere.

Le pene tremende che spettano ai ribelli vinti, non spaventano quegli spiriti irrequieti e giuocano la loro vita, senza darsi pensiero di quello che toccherà loro più tardi.

Dopo che Yakub, un luogotenente dell'Emiro di Bukara, ribellatosi al suo signore, si è formato un piccolo regno nella Duzungaria, un po' a spese dei tartari ed un po' alle spalle dei chinesi, diventando oggidì uno dei più prosperi dell'Asia centrale e anche dei più civili, molti hanno cercato d'imitarlo, quantunque sempre con pessima fortuna.

I bey di Kitab e di Schaar, alleatisi, forti dell'appoggio loro promesso dalla tribù dei Shagrissiabs e della robustezza delle loro città, si erano a loro volta ribellati all'autorità dell'Emiro di Bukara, colla speranza di rendersi prima indipendenti e poi di emulare le gesta fortunate di Yakub.

Probabilmente vi sarebbero riusciti, se la diplomazia russa, sempre vigilante su tutto ciò che succede nell'Asia Centrale, che ritiene come un futuro suo boccone, non ci avesse messo lo zampino.

Quella ribellione aveva turbato i sonni tranquilli del governatore del Turchestan, e siccome il suo protetto, l'Emiro di Bukara, non si trovava in grado di calmare gli spiriti belligeri dei due beg, si era affrettato a offrirgli il suo aiuto.

Subito un corpo di spedizione era stato formato colle truppe di guarnigione a Samarcanda, composto di nove compagnie di fanteria, di due sotnie di cosacchi del Don, di dodici cannoni e otto racchette, il tutto sotto gli ordini del maggior generale Abramow.

Quelle truppe non erano certamente molte, ma potevano dar da fare agli indisciplinati Shagrissiabs, buoni soldati nelle imboscate e pessimi in una vera battaglia, malgrado l'impetuosità dei loro attacchi e le loro urla ferocissime.

Il corpo di spedizione, divisosi in due colonne, si era messo in marcia senza indugio.

Quella di destra era stata messa sotto gli ordini del colonnello Miklalowskye, quella di sinistra era stata affidata al tenente colonnello Schovnine e doveva spingersi verso Kitab per la via più breve, mentre l'altro aveva avuto l'ordine di far sosta a Diam.

Trattandosi di una guerra che non poteva durare che qualche settimana, le truppe non avevano ricevuto che viveri per soli dieci giorni e le munizioni invece al completo. A Diam però, già occupato da due compagnie del sesto battaglione di linea del Turchestan e che doveva formare la riserva, il maggior generale Abramow aveva fatto ammassare una certa quantità di provvigioni, nel caso che la guerra dovesse prolungarsi oltre le previsioni.

L'11 Agosto del 1875, la colonna di destra occupava, dopo una lunga e rapidissima marcia, il villaggio di Makrt, nel piano dei Shagrissiabs, senza aver sparato un colpo di fucile.

Gli abitanti erano così lontani dal pensare ad una invasione russa, che erano stati sorpresi mentre coltivavano i loro giardini ed i loro campi, sicchè non avevano avuto il tempo di organizzare la menoma resistenza.

L'indomani però la colonna si trovava alle prese con numerose bande di cavalieri, le quali, dopo averla lasciata passare senza attaccarla, fecero fuoco sui carri dei bagagli e sulla retroguardia, uccidendo e ferendo non pochi uomini.

Due colpi di racchetta e poche fucilate erano state sufficenti a disperdere quegli uomini, più banditi che buoni soldati.

Il 13, alle cinque pomeridiane, la colonna di Miklalowsky giungeva, senza combattimenti, ai giardini di Urens-Reshlak, la cinta esterna dei Shagrissiabs.

La medesima sera faceva la sua congiunzione colla colonna guidata dal tenente colonnello Schovnine, la quale fino allora non aveva avuto l'occasione di consumare una sola cartuccia.

Il 14, di buon mattino, alcune masse nemiche, comparivano improvvisamente sul fianco dell'accampamento e, giunte a tiro di fucile, aprivano un fuoco piuttosto violento quantunque male diretto, poi si squagliavano subito dinanzi ad alcune scariche dei cacciatori del Turchestan.

Respinti i cavalieri di Bek-Djura bey e del beg di Schaar, il generale Abramow, seguito dal suo stato maggiore, da una compagnia di linea e da venti cosacchi e appoggiato da due cavalletti di racchette, eseguiva una rapida ricognizione sotto le mura di Kitab, non ostante il fuoco del nemico, onde scegliere il punto per aprire una breccia d'assalto e alla sera iniziava il bombardamento della città, dopo d'aver disposti i suoi uomini su due colonne.

················

Abei, udendo tuonare il cannone e vedendo i soldati di Djura bey e del beg di Schaar, accorrere in massa verso le mura, per respingere l'imminente attacco dei russi, non aveva potuto trattenere una bestemmia.

Ormai si trovava chiuso nella città assediata, esposto agli orrori d'un assalto, con forse poche probabilità di salvare la pelle e di poter più tardi raggiungere i banditi ed impadronirsi di Talmà.

— Siano maledetti Djura bey e quel furfante di beg di Schaar! — esclamò coi denti stretti. — Vadano all'inferno Hussein, Alì e Maometto insieme! —

I banditi lo avevan circondato, aspettando i suoi ordini e chiedendosi il motivo di quell'improvviso scatto di rabbia.

— E voi, stupidi, non potevate mostrarvi prima? — gridò finalmente Abei, minacciandoli col pugno.

— Vi abbiamo cercato dappertutto, signore, — disse colui che lo aveva guidato. — Saremmo stati anche noi più contenti di andarcene, prima che i russi ci chiudessero il passo.

— Siete dei cretini! —

Stette un momento come pensieroso, poi, alzando le spalle e dando una strappata alle briglie, mormorò:

— Bah! Forse sarà meglio. Cerchiamo di spingere gli altri e di non esporre la mia pelle.

Vedremo se torneranno vivi nella steppa! —

Volse il cavallo e si diresse a piccolo trotto verso la piazza del bazar, mentre i cannoni della cittadella rombavano furiosamente, rispondendo alle artiglierie russe che battevano in breccia la porta di Ravatak e la torre sovrastante.

Quando giunse al caravanserraglio, trovò Hossein e Tabriz in sella, pronti a prendere parte alla difesa della città coi loro cinquanta uomini.

Un messo di Baba-beg li aveva già avvertiti che l'assalto stava per cominciare e che la loro presenza sulle mura era necessaria.

— Ti credevamo già morto, — disse Hossein, vedendolo. — Le palle russe cominciano a piovere nelle vie.

— Mi ero solamente smarrito, cugino, — rispose Abei, — e devo ringraziare gli uomini che m'accompagnano se mi hanno messo nella buona via, Kitab non la conosco.

— Giungi in buon punto. I russi si preparano ad espugnare la città.

— È alla porta di Ravatak che tenteranno l'attacco, — disse Tabriz.

— Vieni, cugino, — disse Hossein, che pareva avesse dimenticato per un istante Talmà. — Mostriamo ai moscoviti, come sanno battersi i nomadi della steppa turchestana. —

Ad un suo cenno i cinquanta uomini, rinforzati dai banditi di Hadgi, avevano lanciato i cavalli al galoppo, avviandosi verso la porta di Ravatak.

I russi avevano cominciato l'attacco con molto vigore, sicuri di trionfare facilmente di quelle muraglie che non potevano offrire una lunga resistenza, malgrado il loro aspetto imponente, essendo costruite solamente con mattoni seccati al sole.

Il generale Abramow aveva preso le sue misure con grande attenzione; approfittando dell'oscurità, aveva fatto scavare una profonda trincea di fronte alla porta, onde battere vigorosamente le torri della muraglia esteriore, armandola con cannoni e con racchette ed aveva fatto nascondere i suoi cacciatori dietro un piccolo burrone situato a sinistra, un po' avanti della batteria.

I Shagrissiabs, quantunque non avessero alcun dubbio sull'esito finale della battaglia, erano accorsi in massa sulle muraglie merlate, sparando furiosamente, intanto che dalla cittadella tuonavano i pezzi ed i falconetti sotto la direzione del beg di Schaar, tentando di contrabbattere le batterie russe di destra.

Le palle cadevano in gran numero sulla città, sfondando facilmente le deboli terrazze e facendo fuggire le donne fra clamori spaventevoli, e provocando qua e là incendii che nessuno si curava di spegnere.

Quando Hossein ed Abei giunsero alla porta di Ravatak, il cannoneggiamento era divenuto intensissimo.

Centinaia e centinaia di Shagrissiabs, nascosti dietro le mura dei giardini o ammassati sulle creste delle muraglie, mantenevano un fuoco vivissimo quantunque poco efficace, trovandosi i cacciatori del Turchestan ben nascosti entro il burrone ed i pezzi al coperto dietro la trincea.

I cinquanta uomini d'Hossein, scesi da cavallo, si erano subito dispersi, appiattandosi dietro i merli della muraglia ed aprendo anch'essi il fuoco.

Hossein e Tabriz avevano preso il comando d'una batteria di falconetti, bocche da fuoco che conoscevano perfettamente e che sapevano maneggiare anche con molta abilità.

Una immensa colonna di fumo s'alzava al di sopra delle altissime muraglie e delle torri, abbattendosi sui giardini sottostanti, rendendo incerto anche il tiro dei russi e un'altra giganteggiava sopra la cittadella dove i ventinove pezzi del beg di Schaar non cessavano di tuonare.

Disgraziatamente i Shagrissiabs, quantunque fossero tre o quattro volte più numerosi degli assalitori, non erano nè ben guidati, nè ben disciplinati, combattendo ciascuno per proprio conto, e le loro artiglierie, composte tutti di vecchi pezzi, non potevano recare gran danno.

Per di più le loro muraglie non offrivano che una ben magra resistenza agli obici russi, sicchè, verso le sette del mattino, i pezzi istallati sulla torre di Ravatak erano ridotti al silenzio e una grande breccia era già stata aperta nella muraglia.

I cacciatori del Turchestan cominciavano a uscire dal burrone, marciando all'assalto su due colonne.

— Tabriz, — disse Hossein che non aveva cessato di far giuocare contro il nemico i falconetti, credo che tutto stia per finire. —

I Shagrissiabs, non resisteranno dieci minuti all'ultimo attacco.

— Tale è anche la mia opinione, signore, — rispose il gigante, la cui fronte si era rannuvolata. — Questi uomini non valgono quelli della steppa. Hanno troppa paura delle baionette dei moscoviti.

— Come finirà quest'avventura?

— Male di certo se non filiamo più che in fretta, cugino, tanto più che non abbiamo più nulla da fare qui, — disse una voce dietro di lui.

— Che cosa vuoi tu dire, Abei? — chiese Hossein, voltandosi verso il cugino.

— Che ho saputo or ora e per bocca di Baba-beg, che Talmà non si trova più qui, — rispose il nipote del beg.

— Hai detto? — gridò Hossein.

— Che i banditi l'hanno portata, prima che i russi giungessero, fra le montagne di Kasret-Sultan.

— E quel furfante non ce lo ha detto prima?

— Pare che non lo sapesse.

— Invece è stato zitto per valersi dei nostri cinquanta cavalieri! — disse Tabriz.

— Può darsi, — rispose Abei.

— Che cosa fare, Tabriz? — chiese Hossein.

— Mi pare che non ci rimanga che una cosa sola, signore, — rispose il gigante.

— Di andarcene prima che i russi diano l'assalto?

— Sì, mio signore. I Moscoviti non hanno, a quanto sembra, forze sufficenti per circondare tutta la città e penso che noi potremmo uscire senza troppe molestie dalla porta di Rachid.

Da quella parte non odo a tuonare il cannone, ciò indica che il nemico non si è ancora mostrato.

— È una defezione la nostra, — disse Hossein.

— È buona guerra, signore, — rispose Tabriz. — Giacché il beg ci ha giuocati, ora facciamola a lui.

Se la cavi come meglio potrà. Andiamo, signore, lasciamo qui i suoi falconetti e finché abbiamo tempo, sgombriamo.

Noi non abbiamo niente a che fare coll'Emiro di Bukara, tanto meno coi suoi protettori. —

Poi, alzando la voce verso i suoi uomini, gridò, dominando colla sua voce stentorea il rombo delle artiglierie ed il crepitìo della moschetteria:

— A cavallo, amici!... Andiamo a caricare i russi! —

La confusione che regnava in quel momento sui bastioni e sulle muraglie di Ravatak era tale, che nessuno si poteva occupare della defezione dei cinquanta cavalieri.

I russi spingevano l'attacco con grande vigore. I cavalieri del Turchestan ed i cosacchi correvano all'assalto, mandando fragorosi urrah e portando seco un gran numero di scale per superare le altissime muraglie.

Le migliaia di fucili che tuonavano dietro le merlature e dietro le mura dei giardini, non arrestavano affatto l'assalto dei moscoviti, i quali muovevano addosso alle mura a passo di carica, preceduti dai loro trombettieri e protetti dal fuoco intensissimo dei pezzi nascosti dietro la trincea.

Hossein e Tabriz, prevedendo l'imminente resa della città e non amando essere coinvolti in quella ribellione che non li interessava affatto, avevano lanciato i cavalli a galoppo sfrenato per raggiungere la muraglia opposta, prima che i russi potessero completare l'aggiramento.

Tutte le vie erano ingombre di fuggiaschi. Donne e fanciulli, correvano all'impazzata, urlando spaventosamente, carichi degli oggetti più preziosi, mentre le palle delle artiglierie russe cadevano dovunque, provocando nuovi incendi.

Sulle case della città alta, una immensa nuvolaglia nera s'alzava, carica di scintille, volteggiando turbinosamente e calando verso i giardini.

Gli scoppi coprivano le urla dei fuggiaschi. Erano le polveriere della cittadella che saltavano, facendo diroccare le scarpate e sventrando i ridotti sui quali ancora tuonavano, ma con poca fortuna, i ventinove pezzi ed i falconetti del beg di Schaar.

Hossein e Tabriz, seguiti da Abei, dai cinquanta cavalieri e dai banditi di Hadgi, attraversarono la città, travolgendo sotto le zampe dei cavalli non pochi fuggiaschi e raggiunsero la porta di Rachid, che era guardata solamente da pochi cavalieri Shagrissiabs, non essendosi mostrata, in quella direzione, alcuna compagnia di russi.

— Aprite! — gridò Tabriz, sfoderando il kangiarro. — Ordine di Djura-bey.

— Che cosa vuoi fare? — chiese il comandante del drappello.

— Caricare i russi alle spalle, — rispose il gigante. — Sbrigati o prenderanno d'assalto la torre di Ravatak. —

La porta, laminata con lastre di bronzo, che non era stata barricata, fu spalancata ed i cavalieri passarono come un uragano sul ponte levatoio gettato attraverso il profondo fossato.

— Preparate gli archibugi! — gridò Hossein. — Questa calma non mi assicura.

— Vedi nulla? — chiese poi a Tabriz, che spingeva i suoi sguardi attraverso i folti cespugli che coprivano i margini dei burroni.

— No, signore, — rispose il gigante. — Tuttavia non sono completamente tranquillo.

Questo silenzio mi ha l'aspetto di un agguato.

— Carichiamo a fondo.

— Sono pronto, signore!

— E passeremo come siamo passati attraverso le linee delle Aquile?

— Non ne dubito.

— Il kangiarro fra i denti! Al galoppo! —

Il primo burrone non era che a mille metri dall'ultimo giardino. I cavalieri vi giunsero sopra a corsa sfrenata, ma nel momento di scendere il declivio videro sorgere una selva di baionette.

Era troppo tardi per arrestare i cavalli. La colonna passò di volata, atterrando quanti russi si trovavano sul suo passaggio, facendo fuoco colle pistole e maneggiando tremendamente gli affilatissimi kangiarri; trecento passi più innanzi si trovava un secondo burrone e fu da quello che partì una scarica così intensa e così micidiale da rovesciare più di metà dei cavalli.

— A terra! — gridò Hossein. — Tutti dietro i cavalli!... Fuoco nel burrone!... Da due parti! —

I Sarti ed i Shagrissiabs della scorta, quantunque in gran parte scavalcati, si erano gettati dietro gli animali, rispondendo con una scarica terribile.

Abei, approfittando della confusione, aveva fatto un cenno imperioso ai banditi di Hadgi.

— Qui, presso di me... non esponetevi... un colpo supremo... o non vi darò un tomano. —

Il volto del miserabile era diventato, in quel momento, lividissimo; però i suoi occhi mandavano lampi cupi.

Si era lasciato cadere dietro al suo cavallo, armando le sue due lunghe pistole. Non guardava i russi che si erano schierati sul margine dei due burroni e che si preparavano a fucilare i cinquanta cavalieri, bensì Hossein e Tabriz che stavano sdraiati dinanzi a lui, a pochi passi di distanza, riparati dietro i loro cavalli che avevano fatto coricare.

— Amici! — gridò Hossein. — Aspettate che si mostrino!... Finchè a Kitab tuona il cannone non avremo da temere. Eccoli!... Fuoco! —

Una cinquantina e più di cosacchi erano sorti sull'orlo del burrone, avanzandosi con precauzione in mezzo alle erbe, coi moschetti puntati.

La scorta non indugiò a far fuoco, con un accordo splendido, mirando molto in basso.

Quindici o venti moscoviti, colpiti alle gambe ed al basso ventre rotolarono nel burrone che stava dietro a loro, insieme a numerosi cavalli che si erano alzati fra i cespugli.

Quella scarica disorganizzò per un momento gli assalitori, ma subito una mezza sotnia di cosacchi sorse come per incanto fra le erbe, aprendo un fuoco violentissimo, appoggiato da due falconetti mascherati dietro un piccolo rialzo.

Una dozzina di Sarti, quantunque protetti dai cavalli, stramazzarono al suolo, fulminati da una bordata di mitraglia.

— Ah!... Tabriz! — esclamò Hossein. — Siamo presi!...

— Non ci rimane che di caricare, signore, — rispose il gigante.

— A fondo?

— Di volata.

— Da' il comando, prima che i russi ci ammazzino o ci storpino tutti i cavalli. —

Il gigante stava per alzarsi, quando due nuove scariche rimbombarono dinanzi e dietro la scorta. I moscoviti avevano fatto fuoco dai due burroni e quella scarica fu disastrosissima per la scorta.

I cavalieri erano stramazzati, più di metà, per non più rialzarsi.

— A cavallo! — urlò Hossein, balzando in piedi. —

In quel momento un colpo di pistola rimbombò dietro di lui... e cadde sul proprio cavallo.

Tabriz si voltò, col kangiarro in pugno, digrignando i denti e urlando:

— Tradimento!... Tradi... —

Non potè finire. Un secondo sparo echeggiò a tre passi di distanza, confondendosi colle scariche dei russi e anche il gigante colpito al dorso, cadde a fianco del suo signore, mandando un vero ruggito di furore.

Aveva veduto la mano che gli aveva cacciato in corpo quel proiettile foderato di rame, come usano gli uomini della steppa.

Quasi nel medesimo istante una voce squillante aveva gridato:

— A cavallo!... Caricate! —

Abei, che stringeva ancora fra le mani le pistole fumanti, con un salto da tigre si era gettato sul suo farsistano, che alla voce del padrone erasi prontamente levato.

— Caricate! — ripetè il nipote del beg. — Giù col kangiarro! —

Quindici uomini, fra i quali i banditi di Hadgi, sfuggiti miracolosamente alle scariche dei russi, avevano risposto all'appello.

Un urlo terribile, feroce, si sprigionò dai loro petti.

Uran!... Uran!...

Poi quel drappello di demoni, senza curarsi di coloro che giacevano al suolo, contorcendosi fra gli ultimi spasimi dell'agonia, era partito con un impeto irrefrenabile, piombando coi kangiarri alzati fra i cosacchi, che occupavano il margine del burrone.

Quell'attacco fu così fulmineo, che i russi, per non venire travolti, si gettarono alla rinfusa a destra ed a sinistra, senza nemmeno tentare di farvi fronte.

Il drappello, preceduto da Abei, passò come un uragano, discese il burrone, poi lo risalì in volata e scomparve fra le alte erbe della steppa, salutato da un'ultima, ma troppo tardiva scarica.

CAPITOLO XVI. Il rifugio dei banditi.

Mentre Abei, colla sua piccola scorta, galoppava verso la catena dei Kasret-Sultan-Geb, per raggiungere la caverna, dove si trovavano rifugiate le Aquile della steppa, Kitab assalita sempre vigorosamente dalle due colonne d'assalto del colonnello Miklalovsky a poco a poco cadeva.

Una larga breccia era già stata aperta a fianco della porta di Ravatak ed i cannoni della torre, tutti smontati, non potevano più far nulla.

Era dunque quello il buon momento per dare il colpo supremo alle orde dei Shagrissiabs.

Questi che si erano ammassati sulle terrazze e sulle mura, non avevano indugiato ad aprire un fuoco vivissimo coi loro moschettoni, non potendo contare che sull'appoggio di pochi falconetti e di qualche racchetta, ancora piazzati sui ridotti della cittadella.

Malgrado quella pioggia di palle, i russi piantarono le loro scale, alcune sulla breccia, altre sulla muraglia e sui parapetti, montando lestamente all'assalto.

I Shagrissiabs, che si erano radunati in buon numero sulla cresta della cinta, già sgomentati per la perdita della loro artiglieria, al primo apparire delle baionette russe, si erano dati alla fuga attraverso i giardini urlando a squarciagola:

— Il nemico!... Il nemico!... Si salvi chi può! —

Secondo le istruzioni ricevute, le due colonne d'assalto, appena superata la cinta, si erano subito messe in marcia verso la cittadella sui cui ridotti i falconetti sparavano ancora.

Una frazione però aveva dato la scalata alla torre di Ravatak ed aveva rovesciato nel fossato i due cannoni che la difendevano.

Le due colonne, dato fuoco ad alcune capanne per illuminare la via, avevano continuata la loro marcia, rinforzate dalla riserva che l'avevano in quel frattempo raggiunta.

I Shagrissiabs nascosti nelle strette vie che dividevano i giardini racchiusi fra le due cinte, pur fuggendo, non cessavano di far fuoco. Anche i ridotti non erano diventati ancora muti.

Il generale Abramow, frettoloso di finirla, lanciò allora all'assalto una terza colonna, coll'ordine d'impadronirsi della seconda cinta e di entrare nelle vie della città.

Un quarto d'ora dopo i russi superavano anche quella muraglia senza aver incontrato molta resistenza, quantunque Djura bey e Baba, il beg di Schaar, disponessero ancora di circa ottomila uomini fra fanti e cavalieri.

Le colonne, compiuta la loro riunione, s'avanzarono allora senza por tempo in mezzo, verso la terza cinta.

Le vie strette dei giardini erano piene di Shagrissiabs fuggiaschi, coi quali i russi dovettero impegnare delle accanite lotte a corpo a corpo, e giunta la colonna ad un crocivio, fecero alto, incendiando varii mucchi di fieno.

Appena sorto il sole, le truppe moscovite, con pochi colpi di granata, sfondavano le ultime difese.

I Shagrissiabs s'erano riuniti nella torre vicina all'ultima breccia, aprendo nuovamente un fuoco intensissimo e micidiale, ciò che obbligò il generale Abramow a farla prender d'assalto, con non poca fatica, poiché gli assediati non volevano cedere.

La cittadella nel frattempo era stata abbandonata dai due beg e dai loro artiglieri. Vistisi ormai perduti, avventarono sui russi la loro cavalleria e anche quel supremo sforzo non ebbe che un esito infelice.

Alle otto del mattino tutta Kitab era nelle mani dei russi ed i Shagrissiabs facevano atto di sottomissione, esempio che fu subito seguito anche dalla guarnigione di Schaar.

L'assalto era costato ai Shagrissiabs più di seicento morti, ma non si poté sapere il numero dei feriti; ai russi diciannove soli morti, fra cui un ufficiale e cento e due feriti, fra i quali un generale, quattro ufficiali superiori e tre inferiori.

Furono trofei della vittoria quattro stendardi, ventinove cannoni ed un gran numero di falconetti e d'armi da taglio.

················

Abei intanto continuava la sua corsa, non essendo stato più inquietato dai russi nascosti nei burroni e che d'altronde, non possedendo ottimi cavalli, non avrebbero potuto dargli la caccia.

I banditi di Hadgi, praticissimi della regione, si erano messi alla testa del drappello, il quale si componeva quasi esclusivamente di Sarti, ossia di amici fedelissimi di Talmà, pronti a qualunque sbaraglio pur di liberare la loro signora.

La frontiera della Tartaria chinese, o meglio della Duzungaria, non era lontana.

I cavalli, da due giorni ben riposati, divoravano d'altronde le miglia, col medesimo slancio impetuoso, senza dar segno di stanchezza.

A mezzodì il drappello saliva già i primi contrafforti, che erano coperti da folte foreste, per la maggior parte da macchie immense di querce, di cedri selvatici, di pini e di ginepri sopra i quali si vedevano volteggiare in gran numero aquile d'Astrakan, falconi, merops e sparvieri.

Giunto ad una certa altezza, dove si cominciava a scorgere un sentiero serpeggiante attraverso ad un burrone, i banditi si erano fermati, guardando Abei.

Questi aveva subito compreso che non dovevano trovarsi lontano dal rifugio delle Aquile e che era giunto il momento di prendere delle precauzioni, onde i Sarti non potessero accorgersi della sua intesa coi rapitori di Talmà.

— Amici, — disse, alzando la voce e volgendosi verso i Sarti che stavano caricando i loro moschettoni, fingendosi in preda ad una profonda commozione, — mio cugino è caduto sotto il piombo dei russi, ma io ho giurato al beg, mio zio, di condurre a buon fine l'impresa che ci ha spinti lontani dalla steppa.

La mia vita appartiene a Talmà, la vostra signora, ed io non tornerò al di là dell'Amu-Darja, senza quella povera fanciulla.

Siete sempre decisi ad aiutarmi?

— Siamo pronti a morire, — risposero i Sarti ad una voce.

— Questi uomini, che ci hanno guidato fino qui, — riprese Abei, — sanno ove si sono rifugiate le Aquile e dove Talmà è stata condotta. Accomodatevi qui e aspettate il mio ritorno.

— Signore, — disse un vecchio Sarto dalla lunga barba grigia, — dove vai tu? Non esporre la tua vita senza che noi ti scortiamo.

Il beg tuo zio ti ha affidato a noi e dobbiamo proteggerti.

— Non farò che una ricognizione, che giudico necessaria, — rispose Abei. — Siamo in numero troppo esiguo ormai per tentare un assalto diretto contro quei banditi e dovremo ricorrere ad una sorpresa, se vorremo liberare Talmà.

Non inquietatevi quindi per me e aspettate senza ansie il mio ritorno. —

I Sarti, completamente rassicurati dalle parole del nipote del beg, discesero da cavallo, accampandosi in mezzo ad una folta macchia di colossali platani.

Allentò le briglie e riprese la salita, scortato dai banditi.

Oltrepassato il burrone che si estendeva per qualche miglio, fiancheggiato da altissime querce, i cavalieri si trovarono improvvisamente dinanzi ad un gruppo di uomini barbuti, con immensi turbanti sul capo e armati di fucili, di pistole e di kangiarri, che diedero l'alt con voce minacciosa.

— Giù le armi, — disse uno dei banditi della scorta, facendo un segno. — Annunciate il capo Abei Dullah, nipote del beg Giah Aghà. —

Gli archibugi, che erano già stati puntati, furono subito abbassati, gli uomini s'inchinarono profondamente ed i cavalieri continuarono a salire il sentiero fermandosi dinanzi ad un'alta parete rocciosa che mostrava alla sua base un largo crepaccio.

Altri banditi erano comparsi, sorgendo fra i cespugli che coprivano la base della muraglia, puntando anche essi i fucili: poi scorgeudo i loro camerati che scortavano Abei, si erano subito messi in posizione d'attenti.

— Andate a chiamare il capo, — disse uno della scorta, mentre Abei scendeva da cavallo e si gettava dietro una macchia d'astrogolli, per timore di venire scorto da Talmà.

Pochi momenti dopo Hadgi usciva dalla caverna e raggiungeva Abei, che si era seduto su un masso.

— Cominciavo ad inquietarmi del tuo ritardo, signore, — disse il bandito, facendo un goffo inchino. — Ho udito tutta la notte a rombare il cannone a Kitab.

L'hanno presa?

— Credo che ormai tutto sia finito per Djura bey, — rispose Abei. — E Talmà?

— È nella caverna, strettamente sorvegliata. Comincia ad annoiarsi quella fanciulla; non fa che piangere.

— M'incarico io di consolarla.

— E tuo cugino, signore? Dove l'hai lasciato?

— I russi l'hanno ucciso insieme a Tabriz.

— Ne sei bene sicuro? Io ho più paura di quei due uomini, che di tutti i Shagrissiabs di Djura bey.

— Io non ho potuto bene accertarmi se Hossein sia proprio morto, perchè i russi non me ne hanno lasciato il tempo. L'ho visto cadere, assieme a Tabriz, colpiti entrambi alle spalle...

— Alle spalle! — esclamò Hadgi, guardando maliziosamente Abei. — Da palle di piombo o da palle rivestite di rame?

— Non occuparti di ciò, — disse Abei, seccato.

— E se fossero stati solamente feriti?

— I russi non ischerzano colle spie: le deportano nelle steppe del Don o le fucilano.

— Non ti comprendo, signore.

— Ho fatto scivolare ieri sera, nella fascia di mio cugino, delle lettere compromettenti. Non sono uno sciocco io.

— Anzi, un uomo meraviglioso, — disse il bandito, con sincera ammirazione.

— Basta, lasciamo i morti e occupiamoci dei vivi. Hai preparato il tuo piano? Ricordati che io devo comparire come un salvatore, o tutto l'edificio che ho innalzato con tanta pazienza e tanta abilità, andrà a catafascio, insieme ai tomani che devo sborsarti.

— Tu hai una scorta, — rispose il bandito, dopo qualche istante di riflessione, — è vero?

— Una quindicina d'uomini.

— Io farò credere a Talmà che devo assentarmi colla maggior parte dei miei banditi per accorrere in aiuto di Kitab e non lascerò che una diecina d'uomini a guardia della caverna.

Questa sera tu darai l'attacco, i miei, alle prime fucilate, scapperanno come lepri, per un passaggio che è noto solo a noi e ti prenderai la fanciulla.

Che cosa vuoi di più semplice?

— Sei furbo.

— I tomani, ora, signore, perché noi non ci rivedremo forse mai più.

Ritorno nella steppa della fame e non ripasserò, per parecchi anni di certo la frontiera di Bukara... —

Abei si tolse dall'ampia fascia due carte e le consegnò al bandito.

— Una per te, una per la famiglia del mestvire. Presentati a Jurtschi Omar, banchiere a Samarcanda e ti verrà subito versata la somma. Egli è già stato avvertito da parecchie settimane.

— Grazie, mio signore.

— Sii leale colla famiglia del povero mestvire.

— Giuro sul Corano che non mancherò di versarle fino all'ultimo tomano. Addio, signore, questa sera io sarò ben lontano. —

Abei lo congedò con un gesto, raggiunse il cavallo e ridiscese verso il campo, sempre seguito dai banditi che l'avevano fino allora scortato.

I Sarti lo aspettavano, in preda ad una vivissima ansietà, colle armi in mano, temendo qualche improvviso attacco da parte delle Aquile.

— Accampatevi pure, amici, — disse loro Abei, smontando. — Sono riuscito a scoprire il rifugio dei banditi e quello che maggiormente ci interessa, ho anche saputo da un pastore che quasi tutte le Aquile hanno lasciato queste montagne per accorrere in aiuto dei Shagrissiabs di Schaar e che solo un piccolissimo drappello veglia su Talmà.

— Signore, — disse un vecchio Sarto, che pareva esercitasse una certa influenza sui suoi compagni, — se è vero quello che ti hanno raccontato, partiamo subito, invadiamo la caverna e facciamo a pezzi quei miserabili.

— No, — rispose Abei, con voce ferma, — aspetteremo questa sera per sorprenderli.

— Tuo zio, il beg, non avrebbe esitato un solo istante. —

Abei aggrottò la fronte.

— Sono sì o no il capo io? — rispose poi. — Sono io che comando ora e non già il beg mio zio.

Accampatevi e lasciatemi riposare. So bene quello che faccio. —

Levò al proprio cavallo le briglie e la sella, onde potesse pascolare liberamente; stritolò una galletta di granoturco che uno dei banditi gli aveva offerto e andò a sdraiarsi all'ombra d'un platano, mentre i superstiti della scorta, vedendolo così tranquillo s'affrettavano ad imitarlo, in attesa di menar poderosamente le mani contro le Aquile.

Nessun avvenimento turbò il loro riposo. Quando il sole fu prossimo al tramonto, Abei, che aveva sempre dormito o forse aveva voluto farlo credere, si alzò e dopo d'aver insellato il cavallo disse:

— Avanti, amici: il momento è giunto di riprenderci una buona rivincita. Pensate che la liberazione di Talmà, la vostra signora, dipende dal vostro valore.

— Siamo pronti, signore, a dare la vita per la padrona, — rispose ad una voce la scorta.

— Seguitemi dunque: è il nipote di Giah Aghà che vi guida, — gridò Abei sfoderando il kangiarro.

— Sono cariche le vostre armi?

— Sì, signore!...

— Avanti, cavalieri della steppa! —

Si misero a salire la montagna, seguendo un sentieruzzo che era fiancheggiato da folte piante, le quali nascondevano completamente uomini e cavalli. D'altronde l'oscurità era diventata profondissima, essendosi steso al di sopra delle montagne un denso velo nebbioso.

Il drappello, giunto a tre o quattrocento passi dall'entrata della caverna, si arrestò e gli uomini saltarono a terra onde poter avvicinarsi inosservati e sorprendere i banditi, che forse, ritenendosi perfettamente sicuri fra quelle aspre montagne, non vegliavano.

— Signore, — disse un Sarto, rivolgendosi ad Abei. — Attaccheremo a fondo o assedieremo i banditi?

— È necessario prendere la caverna d'assalto, — rispose il nipote del beg. — I banditi che si sono recati a Schaar potrebbero ritornare e sorprendere invece noi.

Seguitemi e appena saremo dinanzi al rifugio fate fuoco, e poi avanti coi kangiarri. —

Si spinsero innanzi, tenendosi nascosti fra le piante e procedendo curvi.

Abei ed i banditi che lo avevano scortato, camminavano in testa a tutti, non desiderando questi ultimi separarsi dai loro camerati.

Erano giunti ad una trentina di metri dalla caverna, quando si udì una voce a gridare:

— All'armi!...

— Sotto, amici! — comandò Abei, slanciandosi innanzi.

I Sarti, in pochi salti, superarono la distanza, fecero fuoco attraverso la fenditura, poi s'avventarono risolutamente innanzi coi Kangiarri e le pistole.

Nella caverna Si udirono alcuni spari, poi delle grida che pareva si allontanassero rapidamente.

Abei stava per guidare i suoi uomini entro il rifugio, quando una voce che gli fece battere il cuore lo arrestò:

— Non fate fuoco, amici!...

— Talmà! — esclamò Abei.

— Sì... sono io... cognato! — rispose la fanciulla, correndogli incontro.

— I banditi?

— Fuggiti tutti!...

— Viva la nostra signora! — gridarono i Sarti, circondandola.

— E Hossein? — chiese con angoscia Talmà. — Perchè non è qui?

— È presso il beg, — rispose Abei. — Una ferita lo ha costretto a ritornare con Tabriz.

— Lui ferito!...

— È nulla, sorellina. Un semplice colpo di baionetta ad un braccio, datogli da un russo durante l'assalto di Kitab.

Quando giungeremo nella tua steppa sarà guarito. A cavallo Talmà. Fra due giorni saremo alla tua casa. —

Tornarono frettolosamente là dove avevano lasciati i cavalli, e pochi momenti dopo il drappello scendeva frettolosamente la montagna.

················

Verso il tramonto del secondo giorno Abei, che aveva preceduto la scorta di qualche miglio, lasciando Talmà sotto la protezione dei Sarti, entrava nella tenda del beg, che era stata alzata di fronte alla casa della signora della steppa.

— Padre, — disse al vecchio, fingendo di asciugare due lagrime, — ti riconduco Talmà, che io ho strappata ai banditi; ma devo annunciarti che tu ormai non hai più che un figlio solo che rallegri, se lo potrà, la tua vecchiaia. —

Giah Aghà, udendo quelle parole, si fece pallidissimo e si slanciò verso il nipote, afferrandolo per le braccia:

— Hossein! — gridò, con un singhiozzo.

— È morto assieme a Tabriz sotto le mura di Kitab. Il piombo maledetto dei moscoviti ha ucciso entrambi. —

Il vecchio beg si era tenuto per alcuni istanti ritto, cogli occhi sbarrati, il viso sconvolto da un dolore intenso, poi si era lasciato cadere su uno dei divani che circondavano la tenda, scoppiando in singhiozzi.

— Padre, — disse Abei, — tu hai perduto un figlio, ma potrai ancora avere una figlia perchè Talmà è viva e salva.

Se tu lo vorrai, surrogherò mio cugino e avrai una famiglia.

— Sì, — mormorò il beg.

PARTE SECONDA

CAPITOLO I. I prigionieri.

— Avanti!...

— Eccoci, sergente.

— Vi sarà forse qualcuno da raccogliere laggiù, fra i due burroni.

Caricavano bene quei Shagrissiabs, benchè non fossero molti. Se Djura bey avesse avuto due migliaia di cavalieri così ardimentosi, non so se Kitab sarebbe in nostra mano.

— E troveremo anche molti dei nostri, è vero, sergente?

— Ne sono caduti non pochi.

Bada, Olaff, che la lanterna non si spenga. La notte si fa troppo oscura.

— No, sergente.

— Avanti dunque e guardate ove posate i piedi. —

Quattro fantaccini di linea turchestana, guidati da un sergente cosacco, di forme vigorose, con una selva di capelli rossi che gli sfuggivano al di sotto del villoso cappello in forma di torre, s'avanzavano con precauzione fra i due burroni, dove la scorta di Hossein era stata quasi interamente sterminata dai russi.

Il sergente ed i quattro soldati, uno dei quali portava la lanterna, superato il primo burrone, avevano rallentata la marcia e armati i fucili, potendo darsi che vi fosse qualche ferito nascosto e che li salutasse con qualche colpo di fuoco prima di spirare.

— Non dobbiamo essere lontani, — disse il sergente. — Se le Aquile rapaci sono qui, i morti non mancheranno.

Aprite gli occhi, ragazzi!...

— Fa oscuro come in fondo alla bocca d'un cannone, — borbottò colui che teneva la lanterna.

— Manda una benedizione alla luna perchè si mostri, tu che sei figlio d'un pope.

— Preferirei di dar fuoco a tutte queste erbe.

— E arrostire anche noi poco allegramente, è vero Olaff?

Tu non sei un cosacco e non conosci perciò la steppa; quando brucia, fa paura mio caro, ed i pozzi di petrolio di Baku, farebbero una ben meschina figura insieme coi loro serbatoi!

Ah!... Ci siamo! Uomini e cavalli! Vi è un bel gruppo di morti qui. —

A cinquanta metri dal secondo burrone vi era una massa di cadaveri. Uomini e cavalli erano caduti confusamente insieme, sotto le scariche dei cacciatori del Turchestan, formando come una immensa catasta.

— Vediamo se vi è qui in mezzo qualcuno dei nostri — disse il sergente, prendendo la lanterna e proiettando la luce dinanzi a sè. — Di questi bricconi di Shagrissiabs non ci cureremo gran che e non li disputeremo ai falchi ed alle aquile, ma daremo sepoltura almeno ai camerati.

— E poi vi può essere qualche ferito da soccorrere, — disse Olaff.

Il cosacco ed i suoi compagni si cacciarono, non senza un po' di ripugnanza, fra quei cadaveri, tirando a forza gli uomini che si trovavano sotto i cavalli.

I Sarti ed i loro camerati presentavano, anche nella morte, un aspetto fierissimo.

Tutti stringevano ancora fra le mani, rattrappite dalle ultime convulsioni dell'agonia, kangiarri, jatagan e pistole, ed avevano i lineamenti alterati dalla rabbia della lotta.

— Sono ben brutti, — diceva il sergente, chinandosi su ciascuno. — Sembrano veri briganti.

— Ma non questo, sergente! — esclamò ad un tratto un soldato che si era precipitosamente curvato su uno dei combattenti. — Farebbe una splendida figura anche fra le guardie nobili del Padre bianco (lo Tzar).

— Vediamo un po' Mikalow. —

Il sergente spinse innanzi la lanterna ed un grido gli sfuggì:

— Oh!... Il bel giovane!...

— Sembra un principe, — disse Olaff.

— E tale da innamorare qualunque fanciulla, — aggiunse un altro.

— Che splendide armi! — esclamò il sergente. — Questo deve essere il figlio di qualche Emiro o di qualche beg.

Peccato che l'abbiano ucciso e così giovane!...

— Vediamo sergente, se è veramente morto, — disse Olaff.

— Alzatelo. —

Due soldati trassero il giovane di sotto ad un cavallo che in parte lo copriva e lo esaminarono attentamente.

— Nessuna ferita dinanzi, — disse il sergente. — Voltatelo... Ah!... Eccolo qui un foro nel dorso, sotto la scapola sinistra... una palla di certo...

To'!.. Vediamo... mi sembra impossibile che questa ferita abbia potuto causare la morte a questo giovane...

Per tutti gli etmani della Kabardia!. Un fremito!... Oh ragazzi, non è ancora spirato! Me ne intendo io di ferite! —

I quattro soldati, che avevano provata una subitanea simpatia per quel bel giovane, quantunque dovesse essere stato un loro nemico, lo avevano deposto frettolosamente sul cadavere d'un cavallo, probabilmente il suo a giudicarlo dalla ricchezza della gualdrappa che era ricamata in oro e dalla bellissima sella tutta a borchie d'argento.

Il sergente gli tolse il kangiarro che teneva ancora in mano, pulì la lama con un lembo della sua grossa casacca e gliela mise dinanzi alle labbra che erano semi-aperte, mormorando:

— L'aria è fredda questa notte; vedremo se l'acciaio si appannerà. —

Attese un mezzo minuto, poi fece un gesto di gioia.

Sull'acciaio si era distesa lentamente come una leggerissima ombra, la quale aveva offuscato lo scintillìo del metallo.

— Respira! — esclamò il cosacco.

— Sia pure nostro nemico, eppure sarei ben lieto che questo giovane si potesse salvare e... —

Si era bruscamente interrotto, retrocedendo vivamente. Anche i quattro soldati lo avevano imitato, armando rapidamente i loro fucili.

Un'ombra gigantesca era sorta a pochi passi da loro, chiedendo con voce rauca:

— Che cosa fate voi, canaglie? Siete i corvi della steppa? Giù quel giovane, o Tabriz vi ucciderà!...

— Noi siamo russi e non già ladri, — disse il sergente, snudando la sciabola.

Il gigante era rimasto un momento silenzioso, fissando i suoi occhi ora sulla lanterna ed ora sul giovane, poi un grido lacerò il suo petto.

— Il mio signore!... Morto!...

Morto!... Dannazione d'Allah e del miserabile che l'ha ucciso!..

— Chi, Ercole? — chiese il sergente — e se tu invece t'ingannassi?

— È il mio padrone! — ruggì Tabriz.

— Un principe?

— Il nipote di un beg... di Giah Aghà!...

— Me l'ero immaginato che doveva essere un pezzo grosso, ma rassicurati. Ercole mio, non è ancora spento e forse non se ne andrà nel paradiso di Alì, Hussein, Maometto e compagni.

— Vive?...

— Sembra. —

Tabriz fece un salto innanzi, poi cadde subito sullo stesso cavallo su cui trovavasi Hossein.

— Maledetta palla che quel traditore mi ha cacciato nel dorso — disse, digrignando ferocemente i denti.

— Anche tu ferito?

— Per me non mi preoccupo, — disse Tabriz. — Ci vuol ben altro che una palla.

— Infatti sei più robusto d'un orso.

— Sergente, — disse Olaff, — noi perdiamo tempo in chiacchiere inutili, mentre questo giovane ha bisogno di cure.

— Hai ragione, sono uno stupido. Slacciate una coperta e portiamolo al campo. Penseranno i nostri medici a salvarlo.

Lesti, ragazzi!... Torneremo più tardi. Tu, Ercole, puoi seguirci? Ci vorrebbe un elefante per portare te.

— Salvate lui, il mio padrone, — disse Tabriz, con voce singhiozzante.

— Io vi seguirò egualmente.

È lui che voglio che viva.

— Uhm! — grugnì il cosacco. — Purchè non lo fucilino più tardi, o l'Emiro di Bukara non lo faccia acciecare.

Non è troppo tenero quel selvaggio principe coi ribelli che turbano i suoi sonni. —

Un soldato aveva spiegata rapidamente la coperta di lana, che portava a tracolla ed i suoi camerati vi avevano adagiato sopra Hossein con infinite precauzioni.

Il cosacco, prima di dare il comando di mettersi in marcia, levò al ferito la ricca giubba persiana, tagliò la camicia di seta, diede uno sguardo alla ferita prodotta, a quanto pareva, da una palla di pistola e vi cacciò dentro un pizzico di filaccia di lino fasciandola poi lestamente, quantunque il sangue si fosse oramai raggrumato impedendo l'uscita a quello che rimaneva nel corpo.

— Là, — disse, facendo schioccare contemporaneamente la lingua e le dita. — Credo che un medico dell'esercito non avrebbe potuto fare di meglio. Oh!.... M'intendo io di ferite! —

Poi, volgendosi verso Tabriz che si manteneva ritto per uh vero miracolo di suprema energia, gli chiese:

— E per te, Ercole, che cosa posso fare? Vuoi che visiti anche la tua ferita?

— Farai quello che vorrai, moscovita, ma più tardi, quando saremo al campo.

— Ecco un magnifico orso, — borbottò il sergente, con vera ammirazione; — che pelle dura hanno questi Shagrissiabs! —

Poi alzando la voce:

— Lesti, all'accampamento, camerati! —

I quattro soldati afferrarono i quattro lembi della coperta e guidati dal sergente che teneva alta la lanterna, si misero in marcia a passo affrettato, seguiti da Tabriz il quale pareva che fosse improvvisamente guarito della sua ferita.

In venti minuti raggiunsero il primo burrone, poi in altri dieci si trovarono dinanzi ai giardini di Kitab, dove ardevano giganteschi falò, i quali facevano vivamente scintillare un gran numero di fasci d'armi.

Molte tende, per lo più piccole, si rizzavano qua e là e molti soldati russi fumavano placidamente le loro immense pipe di porcellana, commentando a bassa voce gli avvenimenti della giornata e narrandosi le prodezze compiute durante l'assalto della torre di Ravatak, il solo luogo si può dire, ove i Shagrissiabs di Djura bey e di Baba-beg avevano opposta un'accanita resistenza.

Il sergente ed i suoi soldati, dopo d'aver risposto alla parola d'ordine delle sentinelle, attraversarono l'accampamento ed entrarono sotto una vasta tenda sulla cui cima ardeva un grosso fanale, accanto ad una bandiera rossa, attraversata da una grande croce bianca.

Nell'interno vi era una ventina di materassi, sui quali giacevano degli uomini che avevano la testa fasciata di bende più o meno insanguinate: russi feriti dai kangiarri, dagli jatagan e dalle scimitarre dei Shagrissiabs, nell'attacco dei giardini di Kitab.

Nel mezzo, sotto una lanterna, un capitano medico, molto barbuto, con un grosso sigaro in bocca, stava seduto su un tamburo leggendo qualche vecchio giornale.

Vedendo entrare il sergente alzò il capo, senza smettere di fumare.

— Che cosa mi porti, Alikoff? — chiese. — Non è ancora finita la raccolta dunque?

— No, capitano, però quello che vi conduco non è uno dei nostri. —

Il capitano aggrottò la fronte e fece un gesto come di stizza.

— Un ribelle?

— Sì, capitano.

— Portatelo a Djura bey od al suo socio, Baba beg.

— Non potrebbe giungere vivo fino a loro. È un pezzo grosso che vi reco capitano, il figlio d'un beg, sembra.

— Bah!.... Vediamo! —

Gettò via il sigaro e s'accostò ai quattro soldati che reggevano la coperta su cui si trovava Hossein.

— Per S. Piero e S. Paolo! — esclamò. — Che bel giovane! Dove l'hai pescato, Alikoff?

— In mezzo ad un cumulo di cadaveri.

— Non è morto?

— Non ancora, capitano.

— Dov'è ferito?

— Al dorso.

— Ferita non gloriosa se vogliamo. Fallo deporre su quel letto vuoto e fammi portare i ferri.

— Ve n'è un altro, capitano, — disse il sergente, indicando Tabriz, che in quel momento entrava.

Il medico squadrò il gigante con un certo stupore, poi disse, un po' sorridendo:

— A quello basterà una buona zuppa per rimetterlo in gambe.

— No, capitano, ha una palla in corpo anche lui e non delle nostre, — rispose il sergente.

— Ed è venuto qui senza aiuto?

— Da solo.

— Avrebbe l'anima attaccata al corpo con chiavarde di acciaio? — esclamò il capitano.

— Sembra, signore.

— Allora può aspettare. Pensiamo prima a questo giovane che è più interessante di quel bufalo della steppa.

Se non è morto finora non morrà nemmeno più tardi. Fallo passare in un altro letto. —

Si avvicinò ad Hossein che era stato già deposto su un materasso e si curvò su di lui, aprendogli la camicia di seta bianca e appoggiando un orecchio sul cuore.

— Batte, — disse dopo qualche istante. — Ferita grave senza dubbio; forse non è mortale.

Cerchiamo di estrargli la palla, innanzi a tutto. —

Gli tolse la ricchissima e lunghissima fascia di seta che gli stringeva i fianchi ed in quell'atto vide cadere a terra un piccolo plico.

Lo raccolse lestamente e se lo mise in tasca, non così presto che Tabriz non l'avesse veduto. Il turchestano però non credette opportuno di fare qualche rimarco, temendo di ritardare l'estrazione del proiettile.

Il sergente intanto aveva portato la cassetta dei ferri chirurgici, mentre due infermieri preparavano fasce e filamenti di lino.

Il capitano dopo d'aver fatto bene accomodare il giovane sul ventre, si mise subito all'opera, scandagliando prima la ferita e poi allargandola.

Agiva rapidamente, con mano sicura, da uomo pratico in fatto di ferite.

Trascorse qualche minuto, lungo quanto un secolo pel povero Tabriz che non aveva voluto ancora coricarsi, poi il capitano ritirò dolcemente una specie di pinza, mostrando al sergente ed agli infermieri una palla rotonda, tutta coperta di sangue.

— Fortunatamente la scapola l'ha fermata, — disse. — Se avesse continuato il suo cammino, avrebbe attraversato il polmone.

— Non è una palla russa, è vero, signore? — chiese Tabriz i cui occhi avvampavano d'una collera terribile.

Il capitano la lasciò cadere in un bacino di rame per pulirla dal sangue, poi la ritirò.

— È rivestita di rame, — disse poi. — È una palla turchestana.

Vi uccidevate fra voi, dunque?

— No, signore. È stato commesso un infame delitto ed il fatto risulta limpidamente dalla ferita ricevuta dietro le spalle, mentre questo valoroso giovane non ha mai mostrato i talloni al nemico.

— Bah!... Avete sempre questioni voi o... —

Un sospiro che sfuggì a Hossein gl'interruppe la frase.

— Buon segno, — disse il capitano.

Poi, voltandosi verso Tabriz:

— Ora a te, gl'infermieri s'occuperanno del giovane. —

Tabriz andò a sdraiarsi su un materasso vuoto, che si trovava prossimo a quello del nipote del beg e si spogliò, senza aver bisogno dell'aiuto del sergente.

— Una ferita quasi identica e anche questa alla scapola, ma a sinistra invece che a destra, — disse il capitano medico.

— L'uomo che vi ha sorpresi alle spalle, ha fatto un doppio colpo. La faccenda sarà più facile dell'altra.

Per sfondare un simile dorso ci vuole ben altro che la palla d'una pistola.

— Quella d'una racchetta, capitano, — aggiunse il sergente.

— E forse non bastava ancora, — rispose il medico, sorridendo.

L'operazione non durò più di due minuti e riuscì completamente. Tabriz non mandò nessun lamento, anzi nemmeno un sospiro.

— Turchestana, è vero? — chiese il gigante, quando udì la palla cadere nel bacino.

— Precisa dell'altra, — rispose il capitano.

— Il miserabile! — ruggì Tabriz.

— Conosci l'assassino!

— Sì capitano.

— Un turchestano come te.

— Sì.

— Un cattivo camerata.

— Che un giorno ritroverò, signore e che ucciderò come fosse una belva feroce, quantunque nipote di un beg e parente del mio signore.

— Taci e pensa a guarire ora. Gli ammalati non devono parlare.

— Permettimi una parola, signore.

— Parla.

— Rispondi della vita del mio signore? Credi che sopravviverà?

— Ora che gli ho estratta la palla non corre più alcun pericolo. Fra un paio di giorni potrà parlare, ma bada, per ora di lasciarlo tranquillo.

Resisti alla febbre che fra poco ti coglierà e non seccarmi altro. —

Ciò detto lasciò la tenda-ospedale e passò in una più piccola, che s'alzava a breve distanza e che era del pari illuminata.

Non conteneva che un piccolo letto da campo, un tavolino sgangherato ed una sedia in non migliore stato.

Accese un nuovo sigaro, si sedette e poi estrasse il plico che era caduto mentre svolgeva la fascia di Hossein.

— Può contenere dei documenti importanti pel generale, — mormorò, stracciando la busta di carta-pecora.

Il plico non conteneva che due foglietti, ma ciò che vi era scritto sopra doveva essere ben grave, poichè il dottore aveva fatto un soprassalto e la sua fronte si era aggrottata.

— Un complotto contro il maggior generale Abramow, e contro l'Emiro! — esclamò ad un tratto. — Djura bey ha fatto bene a scappare, perché se fosse stato preso non so chi lo salverebbe.

E quei due eran gl'incaricati di commettere l'assassinio! Non valeva la pena di estrarvi due palle per farvene cacciare in corpo più tardi una dozzina.

Vedremo però come la intenderà il khan di Bukara. —

CAPITOLO II. Il tradimento d'Abei.

Non fu che dopo tre giorni di febbre intensissima, accompagnata da frequenti accessi di delirio, durante i quali non faceva che invocare, con voce straziante, Talmà, che Hossein poté finalmente riconoscere il suo fedele turchestano.

Lo stupore del povero giovane fu tale, nel vedersi quasi accanto, ancora però sdraiato, il gigante, che credette dapprima di essere ancora in preda al delirio.

Tabriz, vedendo che lo guardava cogli occhi sbarrati, senza parlare, aveva indovinato subito ciò che passava attraverso il cervello di Hossein.

— Non t'inganni, mio signore, sono proprio io, il tuo fedele servo — disse il gigante. — Come stai? Meglio di ieri di certo, a quanto mi sembra.

Possiamo dire di essere scampati alla morte per un pelo di cammello.

— Tabriz!.... Tu! — esclamò Hossein.

— Parla sottovoce, mio signore od il capitano medico ti proibirà di aprire la bocca.

Sei ancora troppo debole.

— Che cosa è successo? Che cosa fai tu, lì? Dove siamo noi? V'è nel mio cervello una confusione inestricabile.

— Sono accadute certe cose, mio signore, che è meglio che tu le ignori per ora, — rispose Tabriz con voce sorda. — Tu vuoi sapere dove siamo? In un ospedale da campo dei moscoviti, sotto le mura di Kitab.

— E allora?....

— Taci, mio signore, non nominarla. Tu non devi pensare alla fanciulla per ora; ti basti sapere che oramai conosco la persona che assoldò le Aquile della steppa.

Le nostre due ferite mi hanno aperto gli occhi.

— Che cosa vuoi dire Tabriz?

— Che noi non siamo caduti sotto il piombo dei moscoviti.

Un miserabile ci ha colpiti a tradimento alle spalle e quel miserabile era un turchestano al pari di noi.

— Chi! Tu conosci il suo nome?

— Sì, padrone, ma non te lo dirò fino a che non sarai perfettamente guarito. —

Poi abbassando la voce, in modo da non poter essere udito dai feriti che occupavano gli altri letti e che erano tutti russi gli chiese:

— Padrone, avevi dei documenti tu, nella tua fascia?

— Io! Nessuno, Tabriz. —

Il gigante si era fatto smorto.

— Qualche altro tradimento? — si chiese poscia, aggrottando a più riprese la fronte e tirandosi rabbiosamente la barba.

Il dottore li guardò in un certo modo che sembrava dire: vi terrò d'occhio.

— E dunque, Tabriz? — Chiese Hossein vedendo che il gigante rimaneva muto.

— Quando il capitano medico ti ha levata la fascia ti sono cadute delle carte, signore.

— Non è possibile: io non ne avevo in dosso. Vado alla guerra col kangiarro io e non munito di pezzi di carta.

— Sarà come tu dici, mio signore, — disse Tabriz, vedendolo inquietarsi. — Mi sarò ingannato.

Silenzio, signore: ecco il capitano. —

Il capitano era entrato seguito da alcuni infermieri e vedendo Hossein col capo curvo dalla parte di Tabriz, gli aveva subito piantato addosso gli occhi assumendo un'aria poco benigna.

— Come state, giovanotto? — gli chiese poscia, con accento ruvido.

Lo dicevo che non sareste morto.

— Mercè le vostre cure però e la vostra abilità, — rispose cortesemente Hossein. — Mio zio, il beg Giah Aghà, vi sarà riconoscente, signore.

— Chi lo sa! — disse il capitano, con un certo imbarazzo. — Badate che voi ed il vostro compagno siete in istato d'arresto.

— Come prigionieri di guerra?

— Ah!... Questo non lo so. Silenzio, non parlate troppo.

La vostra febbre non è cessata. Occorre riposo assoluto a bocca chiusa. —

Poi, volgendosi verso Tabriz, aggiunse:

— Tu fra un paio di giorni potrai alzarti. Hai una fibra meravigliosa, mio caro. —

Poi, senza attendere la risposta del gigante, passò oltre, visitando rapidamente gli altri ammalati.

Era appena uscito quando due cosacchi, armati di fucile, andarono a collocarsi presso i due letti occupati da Hossein e da Tabriz.

— Ecco le nostre guardie, — disse il gigante, che era ridiventato inquietissimo.

— Silenzio, — disse uno dei due soldati con un tono da non ammettere replica. — Abbiamo l'ordine d'impedirvi di parlare.

— Di parlare! — ripetè l'altro come un'eco fedele.

Tabriz rispose con una specie di grugnito e si cacciò sotto le coperte mentre Hossein faceva altrettanto.

Sei giorni trascorsero, durante i quali i due cosacchi vigilarono costantemente per turno sui due feriti. Tabriz era già guarito, ma non aveva potuto avere il permesso di mettere i piedi fuori dalla tenda-ospedale, nè di poter scambiare una parola col suo giovane padrone.

La sorveglianza era diventata così stretta attorno al gigante da non poter fare un passo.

— Capitano, — disse il sesto giorno Hossein, vedendo entrare il russo, — mi pare che sia tempo di lasciare il letto.

La ferita si rimargina rapidamente ed il riposo non è fatto per gli uomini della steppa.

— Fate pure — rispose il russo, voltandogli le spalle.

Tabriz era accorso per aiutare il suo padrone a vestirsi, ma il cosacco, che lo seguiva come la sua ombra, fu lesto a fermarlo, dicendogli:

— Siete prigioniero. —

Il gigante inarcò le braccia e strinse le pugna, pronto a fulminare il panduro del Don. Uno sguardo imperioso di Hossein lo arrestò, prima che quei possenti muscoli si stendessero.

— Un momento di ritardo e tu eri morto, — disse, digrignando i denti. — Che cosa si vuole da me?

Un drappello di soldati era nel frattempo entrato. Tutti avevano le baionette inastate e parevano pronti a farne uso, in caso di resistenza.

— Signore, — disse il gigante, che pareva furibondo. — Devo buttar giù questi imbecilli?

— Non muovere un dito, — rispose Hossein, che aveva finito di vestirsi coll'aiuto di un infermiere. — Vediamo di che cosa ci accusano questi moscoviti.

Un prigioniero di guerra non è un bandito della steppa. —

Il sergente, che li aveva raccolti sul campo di battaglia, aveva assunto il comando del drappello, dicendo ai due turchestani:

— Dovete seguirci: vi consiglio di rimanere tranquilli perchè ho l'ordine di farvi fuoco addosso, in caso di ribellione.

Spero che tutto finirà bene per voi, miei poveri ragazzi!

— E di che cosa ci si accusa? — disse Hossein. — Di aver cercato di lasciare Kitab prima che venisse presa, non desiderando noi immischiarci negli affari di Diura-bey e di Baba-bey?

— Ah!.... Io non lo so, signor mio. Andiamo: al maggiore non piacciono i ritardi. —

I cosacchi presero in mezzo Tabriz e Hossein e lasciarono la tenda-ospedale, conducendoli in un'altra più piccola, che si trovava in mezzo ad un giardino, all'ombra di un platano gigantesco e dinanzi alla quale vegliava un soldato del 6º battaglione di linea del Turchestan.

Nell'interno non vi erano che due persone sedute dinanzi a un tavolo.

Uno era un maggiore russo, piuttosto attempato, con una barba rossiccia e già brizzolata ed il petto coperto di decorazioni.

L'altro invece era un bukarino, qualche pezzo grosso dell'Emiro, a giudicarlo dall'ampio turbante verde che gli copriva il capo, dai ricami d'oro che ornavano la sua casacca e dalla ricchezza del suo kangiarro e della sua scimitarra.

Il maggiore, che stava fumando un grosso sigaro, vedendo entrare i due prigionieri, fissò i suoi occhi grigiastri e ancora vivissimi su Hossein.

— Tu sei? — gli chiese, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Il nipote del beg Giah Aghà, — rispose il giovane.

— Lo conoscete? — chiese il magiore volgendosi verso il rappresentante dell'Emiro di Bukara.

— Sì, Giah Aghà è uno dei più noti e de' più ricchi beg della steppa occidentale, — rispose il buccaro. — Ha dato anzi molto filo da torcere al mio signore, alcuni anni sono.

— Un pericoloso allora.

— Lo credo.

— Suo nipote non lo sarà meno dunque.

— Certo.

— Correte, a quanto pare, nel giudicare, — disse Hossein ironicamente.

— Nega di aver combattuto contro di noi, se l'osi, — disse il maggiore. — Sei caduto dinanzi al battaglione che io comandava.

— Non dico il contrario, — rispose Hossein, — ma mi preme dirvi, maggiore, che io non volevo misurarmi coi moscoviti, non essendomi mai interessato nè degli affari di Djura-Beg, nè di quelli dell'Emiro.

Io fuggiva colla mia scorta onde dare battaglia ad una banda di Aquile, che mi avevano rapita la fidanzata.

— Là!.... Là! — fece il maggiore, con un sorriso beffardo.

— Non sono un ragazzo io per bere simili istorie.

Una vampa d'ira salì in viso al fiero nipote del beg, mentre Tabriz faceva come una mossa per slanciarsi sui due uomini e fulminarli con due tremendi pugni.

— Io non ho mai mentito, maggiore, — gridò Hossein. — Non sono un bandito, nè un predone della steppa io!.... Mio padre era un principe!

— Io dico che tu sei venuto qui con un'altra missione e ne ho le prove, — disse il russo.

— Quale missione?

— Di attentare alla vita dell'Emiro di Bukara e anche a quella del maggiore generale Abramow, comandante in capo della spedizione.

— Coloro che vi hanno detto codeste cose, hanno mentito! — gridò Hossein con indignazione.

— E le lettere che ti abbiamo trovate indosso?

— Quali lettere?

— Ah l'infame! — ruggì Tabriz. — L'avevo sospettato!....

— Ah!.... Vedi! — esclamò il maggiore, sogghignando. — Il tuo servo si è tradito e ti ha involontariamente perduto.

— Che cosa volete dire, maggiore? — chiese Hossein smarrito.

— Che quando il capitano medico ti fece spogliare, trovò nascoste nella tua fascia due lettere, le quali ti davano le istruzioni necessarie per compiere il doppio colpo.

— È impossibile.

— Non credi?

— No, è impossibile.

— Ebbene, guarda, — disse il maggiore aprendosi la giubba e levandosi da una tasca interna due fogli. — Riconosci questa calligrafia? —

Hossein vi gettò sopra uno sguardo, poi indietreggiò vivamente, pallido come un cencio lavato, cogli occhi dilatati, mentre un grido straziante gli sfuggiva dalle labbra.

— La calligrafia di mio cugino!.... Ah!.... Il miserabile!.... l'infame!... È lui che mi ha colpito alle spalle per rubarmi Talmà....

— Sì, mio signore, — disse Tabriz, con accento irato. — Io l'ho veduto a far fuoco su di noi ed ora te lo dico.

È tuo cugino che ha tramato tutto.

— Infame!.... Infame! — urlò Hossein.

Il maggiore ed il rappresentante dell'Emiro non sembravano affatto commossi, nè per l'esplosione di dolore del disgraziato Hossein, nè dello scoppio d'ira di Tabriz.

Anzi il primo sussurrò agli orecchi del secondo:

— Come sono abili commedianti questi selvaggi della steppa! —

Poi, volgendosi verso Hossein, che si era lasciato cadere su una sedia, nascondendosi il viso tra le mani, gli chiese ruvidamente:

— Dunque l'hai conosciuta questa calligrafia.

— Sì, è di mio cugino Abei, — rispose il giovane.

— Dov'è codesto tuo cugino?

— È fuggito.

— Dove?

— Che ne so io?

— Sarà colle Aquile, mio signore, — disse Tabriz. — E stato lui ad assoldarle, non ho più alcun dubbio.

— Dove si sono rifugiati quei banditi? — chiese il maggiore.

— Sulle montagne, probabilmente, — rispose Tabriz.

— Ed il cugino è con loro?

— Lo suppongo.

— Quello è stato più furbo di voi, — disse il maggiore ironicamente. — Penserà l'Emiro ad andarlo a trovare, se ne avrà tempo. —

Stette un momento silenzioso, poi battè le mani.

Il sergente ed i suoi cosacchi che si erano fermati dinanzi alla tenda, entrarono.

— Conducete questi uomini nella cittadella, — disse loro, — doppia sorveglianza, — aggiunse poi.

— Signore, che cosa volete fare di noi? — chiese Hossein, balzando in piedi.

— Deciderà il rappresentante del Khan, — rispose il russo. — D'altronde la vostra sorte mi pare che sia oramai decisa.

Voi siete due pericolosi che meritereste, per mio conto, un po' di Siberia, in fondo a qualche miniera.

— Dunque voi non credete a quanto vi abbiamo detto?

— Bah!....

— Ci trattate come banditi....

— No, come ribelli dell'Emiro di Bukara.

— Non abbiamo preso parte alla ribellione noi!.... ve lo giuro!....

— Avete fatto fuoco contro di noi e basta.

— Perchè i vostri c'impedivano di andarcene. Siete miserabili che abusate della vostra forza.

— Ehi, giovinotto, non siamo nella steppa qui, ricordatelo e pensa a quello che tu devi dire. Vi è del piombo nei nostri fucili.

— E del buon acciaio, nei nostri kangiarri, — rispose fieramente Hossein.

— E dei pugni che accoppano, nelle nostre braccia — aggiunse Tabriz.

— Conduceteli via, — disse il maggiore, volgendosi verso il sergente. — Ne ho abbastanza di costoro.

— Andiamo — disse il cosacco, spingendo fuori Hossein e Tabriz.

Rimasti soli, il maggiore riaccese il sigaro che aveva lasciato spegnere, poi guardando il rappresentante dell'Emiro, che conservava un'impassibilità strabigliante, gli chiese:

— Credete a quanto hanno narrato quei due prigionieri?

— No, — rispose asciuttamente il buccaro.

— Non credete neppure che quel giovane sia un personaggio distinto? Veramente mi ha l'aria di un pezzo grosso della steppa.

— Può darsi che sia un nipote del beg Giah Aghà.

— Un uomo forte quel beg?

— Che gode d'una grande autorità nella steppa occidentale, per aver purgato il suo paese dai banditi che lo infestavano e per aver sventato, sia coll'astuzia, sia colle armi, le mire, sia pure ambiziose, del mio signore, che desiderava estendere i suoi domini al di là dell'Amu-Darja.

— Credete che quel giovane volesse proprio attentare alla vita dell'Emiro?

— Non ho alcun dubbio; anzi aggiungerò che io sospetto appartenga alla setta dei babi[8].

— Dei Babi? Chi sono costoro?

— Fanatici che vorrebbero rovesciare tutti gli Emiri e anche lo sciah di Persia, e che hanno già dato molto da fare a quest'ultimo.

Quei furfanti, malgrado abbiano già ricevuto delle tremende lezioni in Persia, a Zindjan specialmente, dove tutti i loro compagni furono passati a fil di spada dalle truppe di Nasser-el Din, si sono infiltrati anche nel nostro kanato.

— Sicchè, cosa volete concludere?

— Che quei due prigionieri devono essere condotti a Bukara, insieme coi ribelli catturati. Tale è l'ordine del mio signore.

— E se non fossero due affiliati alla setta dei Babi?

— Deciderà l'Emiro, — rispose il buccaro, con voce ferma.

— Ricordatevi però che dopo l'interrogatorio, voi dovete riconsegnare a noi tutti i ribelli, e vivi.... ricordatevelo bene, vivi. L'Europa tiene gli occhi su di noi.

— Noi non uccideremo nessun ribelle, ve lo prometto a nome dell'Emiro. Noi rispetteremo i trattati.

— Anche quei due sono vostri, ma, Babi o no, ce li ritornerete. Abbiamo troppe terre disabitate intorno al Caspio, e quella gente non si troverà male laggiù e taglieremo nello stesso tempo le ali ai pretendenti come Djura-Bey e Baba Bey.

Noi già non lavoriamo sempre per i begli occhi del vostro signore.

Domani adunque i ribelli di Kitab saranno a vostra disposizione e avrete il permesso di trattenerli in Bukara per una settimana, non di più, m'intendete? Io parlo a nome del maggior generale Abramow e del governo del Turchestan.

Ora potete andare. —

CAPITOLO III. Le spie di Abei.

— Nulla?

— No Karawal.

— Tu vuoi guadagnare i tomani del nipote del beg bevendo caffè e passeggiando per Kitab?

— È impossibile sapere qualche cosa. Seppelliscono alla rinfusa i cadaveri senza badare se siano stati poveri o ricchi.

— Sei uno stupido.

— Allora tu sei stato più fortunato, Karawal.

— Cioè più furbo e più lesto di te, Dinar.

— Morti, è vero?

— Vivi, vivissimi come me e te. I sospetti del nipote del beg erano ben fondati.

— Non era dunque proprio sicuro di averli uccisi?

— Non si sa mai dove va a finire una palla, — sentenziò gravemente Karawal. — Talvolta fulmina e tal'altra invece risparmia.

Fidati ora delle palle! Abei doveva colpirli col kangiarro, mio caro: l'acciaio non sbaglia come il piombo.

— E concludi?

— Che Hossein e Tabriz sono vivi come lo siamo noi.

— Ti hanno ingannato.

— Sei uno stupido, Dinar. Li ho veduti io, con questi miei due occhi uscire da una tenda-ospedale, in mezzo ad un gruppo di cosacchi.

— Sicchè sono in mano dei russi!....

— Adagio, mio caro. Ho saputo d'altro.

— Che cosa?

— Che domani verranno condotti a Bukara insieme coi ribelli fatti prigionieri a Kitab.

— E noi?

— Li seguiremo.

— La nostra missione dovrebbe essere finita a questo punto.

— Già, il nipote del beg ci avrebbe promessi cinquecento tomani per fargli solamente sapere se suo cugino e Tabriz erano veramente morti. Se non volevi altro impiccio dovevi seguire Hadgi nella sua ritirata ed accontentarti dei dieci o dodici tomani che ti avrebbe dato per tanto lavoro, come si sono appagati quei due imbecilli che erano in nostra compagnia.

Karawal sa fare i propri affari.

Già, io sono uno stupido, — disse Dinar.

— Un cretino, anzi.

— Come vuoi, non me ne offendo. Io non ho la veste d'un uomo che un giorno diverrà il capo d'una banda di Aquile.

— È il mio sogno e, dovessi rinnegare Maometto, lo diverrò, — disse Karawal.

— Dunque dicevi?

— Che noi li seguiremo e che se l'Emiro li risparmia, i nostri kangiarri ripareranno l'errore.

— Con quel demonio di Tabriz!....

— Un buon colpo a tradimento e anche lui cadrà.

— Sei spiccio, tu.

— Mi premono i tomani di Abei.

— E non verremo sospettati, noi?

— Chi potrà avere dei sospetti su due poveri loutis[9] che cercano di guadagnare qualche cosa? Eppoi siamo abbastanza trasformati perchè Tabriz e Hossein possano riconoscerci. Non hanno di certo mai fatto attenzione a noi; erano troppo occupati durante il matrimonio e anche durante il banchetto.

Padrone! Un'altra tazza. Abbiamo fatto una buona giornata ieri. —

Questa conversazione aveva luogo in uno dei tanti kabne-kahnè di Kitab, ossia in un piccolo caffè, dove ordinariamente si radunavano gli sfaccendati per sorseggiare una tazza di eccellente caffè, giuocare agli scacchi e alla dama, ed ascoltare le storielle dei mestvires ed a fumare del buon tumvak, profumato dall'acqua di rose contenuta nei nargul....

Eran due tipi di veri bricconi, quei due uomini che si facevano credere due mostratori di scimmie, per nascondere il loro vero essere.

Uno aveva poco più di vent'anni, l'altro invece quasi il doppio, con un brutto ceffo quasi interamente coperto da una barba rossiccia e ispida, che gli nascondeva però male una terribile cicatrice, la quale gli attraversava tutto il volto, passandogli fra il naso e le labbra.

Entrambi indossavano lunghe zimarre mezze sdruscite, portavano sul capo alti cappelli villosi, rassomiglianti a quelli che usano i persiani, e tenevano in mano fruste dal manico corto.

Vuotata la seconda tazza di caffè, che era stata loro portata, Karawal, lo sfregiato, aveva subito ripreso a voce bassa, urtando col piede Dinar:

— Hai capito quale è il mio piano?

— Sì e no.

— Come hai l'intelligenza corta, Dinar! Tu non riuscirai mai a nulla, figliuol mio.

— Sono ancora giovane, Karawal.

— Io alla tua età ero un briccone emerito, e rubavo, quasi sotto il naso dei pastori illiati, cammelli e cavalli, senza contare i montoni.

— Spero di poter un giorno diventare anch'io così abile.

— Te lo auguro di cuore. Dunque il mio piano è d'informare Abei che il suo colpo è andato fallito, così affretterà le nozze con Talmà.

Accetterà la fanciulla?

— Le donne fanno presto a rassegnarsi e anche a dimenticare. E poi forse che il signor Abei non è anche lui un nipote del beg?

— E poi?

— Poi seguiremo i due prigionieri e non li lasceremo, se riescono a sfuggire alle granfie dell'Emiro di Bukara, finchè non li avremo soppressi. Le buone occasioni non mancheranno ed è necessario che non tornino più mai nella steppa o non prenderemo un solo tomano.

Mi hai compreso Dinar?

— Perfettamente, — rispose il giovane.

— Oh!.... Ecco che la tua intelligenza comincia a schiudersi; sotto di me farai della strada, figliuol mio.

Orsù riprendiamo le nostre scimmie e andiamo a fare i nostri preparativi di partenza.

— Ci permetteranno di seguire i prigionieri?

— Non dubitare: i loutis sono ben veduti da tutti. —

Pagarono e uscirono, girando intorno al piccolo caffè che nella forma sembrava un grosso dado di pietra. Dietro, sotto una piccola tettoia, stavano incatenati due scimmie, quadrumani che si trovano sulle montagne del Chachemir e sulle pendici dell'Himalaya, alte più di mezzo metro, con una coda di venticinque centimetri, di corporatura massiccia, e ricca di pelo di color verdastro e la faccia invece di tinte ramigno chiare, del più singolare effetto.

Sono, si può dire, le sole scimmie che sopportano benissimo il freddo, trovandole perfino a tremila metri d'altezza, là dove le nevi abbondano; sono però anche cattivissime e difficili a domarsi, non temendo di assalire perfino i cacciatori coi loro robustissimi denti.

I due finti loutis, dopo d'averle in parte liberate, presero le catene e le trassero attraverso le vie della città, camminando velocemente, malgrado le proteste ringhiose dei quadrumani.

La popolazione di Khitab non aveva ancora riprese le sue abitudini. Spaventata dalla presenza dei russi, i quali bivaccavano ancora sulla piazza e sulle vie principali, attorno ai falconetti, alle racchette ed ai fasci d'armi, si teneva ancora ben tappata nelle case, per timore di passare un altro brutto quarto d'ora, sicchè tutte le strade erano ancora deserte, quantunque il maggior generale moscovita avesse imposto a tutti di non disturbare alcuno.

In meno di mezz'ora Karawal e Dinar attraversarono la città e si trovarono in mezzo ai giardini della porta d'oriente, dove i russi avevano radunati, sotto ampie tende, guardate da un doppio cordone di sentinelle, i prigionieri che dovevano essere inviati all'Emiro di Bukara.

Scavalcarono un muro ed entrarono in un orto che era stato abbandonato dai suoi proprietari, accampandosi sotto un superbo melagrano.

— Qui è come fossimo in casa nostra e nessuno verrà a disturbarci, finchè i russi non torneranno a Samarcanda, — disse Karawal al compagno. — E di qua noi sorveglieremo i prigionieri. —

Trassero dalle loro bisacce di pelle, delle gallette di maiz e un po' di montone arrostito e si misero a mangiare; poi terminato il frugale pasto e date alle scimmie alcune melegranate, si coricarono fra le erbe, che crescevano sotto la pianta, accendendo i loro cibuc.

La notte li sorprese che stavano ancora fumando.

Karawal, arrampicatosi sulla muraglia, diede un lungo sguardo al piccolo campo russo, che si distingueva benissimo alla luce dei falò accesi fra tenda e tenda, cominciando le notti a essere fredde, poi rassicurato dalla calma che regnava, raggiunse il compagno.

Si gettò accanto a Dinar che cominciava già a russare, coprendosi la testa con un lembo della sua lunga zimarra.

Uno squillo di tromba li svegliò poco dopo i primi albori.

Karawal, che già dormiva cogli orecchi ben aperti, per modo di dire, fu pronto a svegliare il compagno e le due scimmie.

— In marcia, — disse. — Andiamo a vedere che cosa succede a Bukara. —

Presero le scimmie, scavalcarono il muro e s'avviarono verso l'accampamento.

Da una tenda vastissima, da quella che aveva una doppia fila di sentinelle, uscivano gruppi di Shagrissiabs, legati a venti a venti per mezzo d'una lunga catena, che passava attraverso alle loro larghe e solide cinture di pelle, fiancheggiati da cavalieri usbeki e bukari, che montavano piccoli cavalli villosi, dalle zampe robustissime.

Erano i prigionieri di Kitab, i più compromessi nell'insurrezione, che il governatore del Turchestan aveva promessi all'Emiro, colla condizione di restituirglieli vivi, dopo averli interrogati per sapere le responsabilità che spettavano agli abitanti delle due città ribellatesi e colpirli di ammende indubbiamente rovinose.

Fu nel quarto gruppo che Karawal e Dinar scoprirono Tabriz e Hossein, legati l'uno presso l'altro con una doppia catena.

Il gigante pareva addirittura inferocito e lanciava sguardi terribili sugli usbeki e sui bukari dell'Emiro; Hossein invece sembrava completamente annichilito da quel nuovo colpo, che gli faceva forse perdere per sempre la fanciulla, così intensamente amata.

— Uhm!... — fece Karawal, tirandosi la barba. — Non so come se la caveranno coll'Emiro.

Comincio a sperare che non sarà necessario che noi si faccia uso dei nostri kangiarri.

Non vorrei trovarmi al loro posto.

— L'Emiro li ucciderà?

— Forse non l'oserà perchè i moscoviti gli terranno gli occhi addosso; tuttavia ti ripeto che non vorrei trovarmi lì in mezzo.

Ha dei cavatori d'occhi famosi quel caro principe.

— Lo so, — disse Dinar. — L'anno scorso ho veduto acciecare una cinquantina di vecchi, perchè avevano assalita una carovana che gli apparteneva. Ti giuro che ho riportata una impressione profonda.

— Ti credo. Ecco gli ultimi: mettiamoci in coda. —

La carovana si era messa in moto. Si componeva di oltre trecento prigionieri e di duecento cavalieri bukari e usbeki, sotto la condotta del rappresentante dell'Emiro, quello stesso che aveva assistito, nella tenda del maggiore russo, all'interrogatorio di Hossein e di Tabriz.

I due finti mostratori di scimmie, si erano messi dietro a tutti, senza che alcuno facesse loro attenzione.

La colonna, girata la parte occidentale di Khitab, prese definitivamente la via di ponente, rasentando le ultime pendici dei Sarset-Sultan, onde guadagnare la così detta steppa di Karnak-Tschul, che divide Khitab da Bukara.

Tabriz e Hossein, frammisti coi prigionieri del quarto gruppo, oppressi da quel colpo di fulmine che non si aspettavano, camminavano l'uno a fianco all'altro, sorvegliati attentamente da un manipolo di usbeki, che pareva avesse ricevuto l'ordine di esercitare, particolarmente su di loro, una speciale vigilanza.

Certo, il rappresentante dell'Emiro aveva dato degli ordini a parte, per quei due pericolosi, come li aveva chiamati il maggiore, e dovevano infatti essere tali coi documenti trovati indosso a Hossein.

Il gigante, che stentava a rassegnarsi, di quando in quando alzava gli occhi verso i cavalieri, guardandoli ferocemente e chiedendosi quanti pugni sarebbero stati necessarii per demolirli tutti.

— Se non ci fossero gli altri, — borbottava, — non so come la passereste con me, canaglie! Io non avrei paura ad impegnare la lotta anche se sono senz'armi. —

La colonna era entrata nella steppa, nell'eterna steppa che doveva accompagnarla fin quasi alle porte di Bukara, ma non era quella verdeggiante e rigogliosa dei Sarti, piena di erbe e di fiori come le praterie del Far-West americano.

Era una landa sconfinata, senza boschi e senza campi, impregnata fortemente di sale, con pochissime graminacee e così dure da essere appena tollerate dai cammelli e senza accampamenti, perchè quei terreni erano incapaci di nutrire le numerose mandrie degli usbeki.

Quantunque l'aria fosse tranquilla, immense cortine di polvere sfilavano all'orizzonte: quelle cortine che al tramontare del sole prendono la strana tinta d'un azzuro cupo, sì da dar l'illusione che all'orizzonte si estenda un mare sconfinato.

Sotto i piedi dei cavalli, altra polvere s'alzava, avvolgendo l'intera colonna come in una leggerissima nube di fumo, ricadendo addosso ai prigionieri, penetrando nelle loro gole, per quanto tenessero le labbra strette, e nei loro occhi.

— Ecco il paese dannato o meglio maledetto, — disse Tabriz, guardando a Hossein. — Hai mai veduto, mio signore, una steppa più arida di questa? Quale differenza col nostro mare di verzura! Se soffiasse la burana passeremmo indubbiamente un brutto quarto d'ora.

— Che cos'è codesta burana? — chiese Hossein, quasi distrattamente.

— Un terribile uragano di polvere, che qualche volta riesce fatale alle carovane.

— Venga pure: quasi lo desidero. Almeno tutto sarebbe finito, Tabriz! — rispose il povero giovane con voce sorda.

— Ah!.... Signore, tu non devi scoraggiarti; tu devi vivere per la vendetta.

— Ormai non spero più in nulla.

— Hai torto, signore.

— Noi non usciremo vivi dalle mani dell'Emiro.

— Io credo il contrario.

— Chi ci difenderà dalla terribile accusa, ora che non possiamo contare più su nessuno? Mio zio ormai mi crederà morto e non interverrà per aiutarci.

— Pur troppo questo è vero, signore, — disse Tabriz, con un sospiro. — Il tuo miserabile cugino gli avrà dato ad intendere che noi siamo stati uccisi dai russi.

— Ha voluto Talmà e la mia vita! — esclamò Hossein, che ebbe uno scatto di furore. — La mia Talmà!.... Anche quella avrà creduto alla mia morte!

Ah!... L'infame!... Sì, Tabriz, tu hai ragione; bisogna vivere per la vendetta.

Guai a lui il giorno che tornerò nella steppa dei Sarti!

La punizione sarà tremenda!....

— Così ti voglio vedere, signore, — disse il gigante.

— Purchè l'Emiro creda alla nostra lealtà e ci risparmi.

— Eh signore! Non sono ancora ben certo che l'Emiro abbia il piacere di vederci e di far la nostra conoscenza.

Non siamo ancora a Bukara ed in una settimana possono succedere di gran cose, — disse Tabriz, abbassando la voce.

— Che cosa vuoi dire?

— Le catene per un caso qualunque possono spezzarsi, i prigionieri trovarsi liberi, piombare sulla scorta e farla a pezzi.

— Mediti un'evasione tu?

— Mi basterebbe un po' di burana, signore. Eh! Chissà!... Quelle cortine che filano laggiù indicano che se qui regna la calma più assoluta, laggiù invece qualche po' di vento soffia.

Non disperiamo, signore, te lo ripeto.

— Non so quali aiuti speri da un uragano di polvere.

— Tu non hai mai veduto gli uragani di polvere, perchè nella tua steppa non succedono. Me ne saprai dire qualche cosa se avremo la fortuna di vederne uno.

Silenzio, signore. Mi pare che i nostri guardiani aguzzino gli orecchi, per sorprendere i nostri discorsi. —

In lontananza, mescolate a grossi cristalli di sale, che mandavano bagliori acciecanti, si stendevano a perdita d'occhio, grandi dune di sabbia, interrotte solo da qualche magro cespuglio, che qualunque animale, per quanto affamato, avrebbe sdegnato.

Nessuna tenda appariva in alcuna direzione. Era ben la steppa della fame quella, senz'acqua dolce per dissetarsi e senza gazzelle che potessero fornire un arrosto al povero viaggiatore.

Il Sahara africano, tanto temuto dalle carovane, non deve esser peggiore.

A mezzodì la colonna fece un primo alt presso una minuscola oasi, formata da un gruppetto di quercioli intristiti e da un paio di palme selvatiche.

I prigionieri, non abituati a marciare a piedi, essendo i turchestani tutti cavalieri, non si reggevano più e avevano le gole arse da quella continua pioggia di polvere finissima, e le palpebre rosse e gonfie.

Perfino Tabriz, abituato a vivere quasi sempre a cavallo, non ne poteva più degli altri.

I soldati dell'Emiro fecero una magrissima dispensa di viveri, non avendo condotto con loro che una dozzina di cammelli carichi di provviste, poi rizzarono le loro tende da campo, lasciando i prigionieri ad arrostire sotto il sole ed esposti alle cortine di sabbia che lentamente s'avanzavano, spinte forse da una impercettibile brezza di tramontana.

Tabriz, che aveva trascorsa una parte della sua gioventù in quella steppa maledetta e che sapeva qualche cosa sui movimenti di quelle sabbie, non si stancava di osservarle con profonda attenzione, nonchè di bagnarsi il dito pollice e di alzarlo più che poteva, come fanno i marinai per conoscere la direzione del vento.

— Purchè non cambi, — disse ad un certo momento a Hossein, che si era sdraiato al suo fianco, immerso nelle sue tristezze.

— Chi? — domandò il giovane.

— La brezza, — rispose il gigante. — È la tramontana che provoca la burana.

— Deboli speranze.

— Eh no!... Signore!... Guarda lassù, guarda bene!... È il cielo che si oscura.

— Una nube che passa.

— No, signore, sono le cortine di sabbia che diventano più fitte. Soffia vento forte verso la frontiera settentrionale, Iskandù e Karakie devono aver ormai le vie coperte di polvere e nella steppa di Karnak Tschul, se vi sono delle carovane, non devono trovarsi bene.

Anche i soldati dell'Emiro se ne sono accorti: li vedi? —

Infatti una certa agitazione si era improvvisamente manifestata fra i bukari e gli usbeki.

Erano usciti tutti dalle loro tende ed interrogavano ansiosamente, cogli occhi dilatati, l'orizzonte che a poco a poco andava oscurandosi, quantunque il cielo fosse sgombro da qualsiasi nube.

Burana!... Burana!... — si udivano a mormorare con inquietudine.

Levarono prestamente le tende e diedero il segnale della partenza.

— Perchè non vi fermate qui, stupidi? — chiese Tabriz ad uno degli usbeki che gli passava accanto. — Qui siamo al riparo degli alberi.

— Più avanti saremo al riparo delle colline, — rispose il cavaliere.

— Presto, camminate più rapidamente che potete, se volete salvare la vita, non avendo noi tende bastanti per ripararvi tutti. —

La colonna si era messa nuovamente in marcia, quasi correndo. I bukari e gli usbeki, che cavalcavano sui fianchi, incitavano i prigionieri a raddoppiare il passo, sagrando e facendo scoppiettare, le loro fruste con gesti minacciosi.

— Avanti!... Avanti!... — gridavano tutti.

Cammelli e cavalli cominciavano a dar segni d'inquietudine. I primi nitrivano sordamente e tremavano; i secondi allungavano più che potevano il collo e dondolavano nervosamente la testa.

La burana s'avvicinava. Il cielo cominciava ad oscurarsi e folate di vento, vere raffiche, cariche di polvere, giungevano una dietro l'altra, rendendo difficilissima la respirazione, sia agli uomini che agli animali.

Qua e là immense trombe di sabbia si formavano come per incanto, s'alzavano a prodigiosa altezza e si slanciavano a corsa furiosa turbinando su sè stesse con mille stridori.

Qualcuna, incontrando sul suo passaggio la carovana, si spezzava bruscamente, rovesciando addosso ai disgraziati prigionieri una tale massa di sabbia da seppellirli fino alle ànche.

Quella corsa, che era diventata sfrenata, durò un quarto d'ora, poi il rappresentante dell'Emiro, che cavalcava in testa a tutti, fece suonare l'alt.

Le colline non erano ancora visibili e la burana stava per spazzarli via.

— Salvatevi come potete! — lo si udì a gridare fra i ruggiti del vento. — Tutti a terra dietro ai cavalli.

— Non dubitare che ci salveremo, — disse Tabriz. — Padrone, sta' pronto a tutto.

Fra poco saremo avvolti tra le sabbie e più nessuno vedrà il suo vicino.

Non preoccuparti della catena. Al momento opportuno saprò spezzarla.

— Non morremo soffocati, Tabriz? — chiese il giovane, che guardava con un certo timore le colonne di sabbia.

— Confidiamo in Allah, — rispose il gigante. — Stammi ben vicino, e aspettiamo. —

CAPITOLO IV. La burana.

La burana che soffia nelle steppe turchestane si può paragonare al simun che sconvolge le sabbie dell'immenso deserto di Sahara, e forse è più pericolosa ancora, perchè sovente la burana è così ardente da soffocare le persone, che vengono sorprese senza il riparo di una tenda.

Ordinariamente quegli uragani si scatenano dopo le prime piogge, vere piogge fangose, perchè il menomo soffio di vento, solleva sempre, come abbiamo detto, delle immense cortine di sabbia, sicchè l'acqua si mescola a tutto quel polverone e lo trascina alla superficie della terra formando dovunque una fanghiglia alta parecchi centimetri.

Il cielo si copre di nuvole gialle, il vento si scatena e tutta la steppa si copre di colonne di sabbia roteanti e di cortine, oscurando ogni cosa.

La violenza di quei venti è tale da trasportare le sabbie perfino nell'India, dove la burana viene invece chiamata hot-winds ed il suo calore è tale da far appassire in pochi istanti le piante e da spogliare gli alberi del loro fogliame.

Il turchestano e anche il persiano o l'indiano possono resistere; l'europeo invece cade asfissiato, se non si trova ben ricoverato.

Gli abitanti delle città sono anche essi costretti a prendere delle precauzioni, non bastando le muraglie delle loro case a difenderli dai soffi asfissianti del simun asiatico.

Tutte le aperture che servono da finestre vengono turate con pagliericci, formati da stuoie strettamente intrecciate e abbondantemente bagnate, sicchè il vento passando in mezzo a quell'umidità, perde una parte del suo calore, permettendo così gli abitanti di respirare.

Nella steppa vi è anche la burana fredda che soffia d'inverno, e anche quella non è meno pericolosa. Invece di sabbia è la neve che turbina e copre sovente le carovane, assiderando uomini ed animali.

Come abbiamo detto, al grido del rappresentante dell'Emiro, la colonna si era subito fermata alzando rapidamente le tende e disponendo cavalli e cammelli su una doppia linea, dalla parte ove soffiava il vento, onde potessero servire come da trincea e scavando la sabbia in modo da formare, dietro le tele spiegate, delle profonde buche.

Quelle precauzioni indispensabili erano state appena ultimate, quando la burana che marciava con velocità straordinaria, piombò sull'accampamento con un frastuono indiavolato.

L'aria si era ottenebrata come se il sole fosse improvvisamente tramontato, ed in alto ed in basso si udivano ruggiti, urla e fischi stridenti, come se tutti i demoni dell'inferno fossero stati vomitati sulla steppa, e si abbandonassero ad una gazzarra strepitosa.

Cortine e cortine di sabbia s'abbattevano senza posa sull'accampamento con un strano stridìo, accumulandosi qua e là e coprendo volta a volta i cavalli, i quali nitrivano dolorosamente, mentre i cammelli gridavano in modo lugubre, dimenando disperatamente le teste.

Tabriz, tenendo per mano Hossein, si era gettato entro una buca di difesa, dalla parte dove il vento soffiava, da una piccola tenda che s'appoggiava addosso a due cammelli.

Due usbeki che vi si trovavano dentro, avevano cercato dapprima di respingerli, gridando che i prigionieri dovevano pensare per loro conto a salvarsi, ma vedendo quel gigante coi pugni alzati e libero della catena che senza troppi sforzi aveva strappata, si erano affrettati a fare a loro un po' di posto.

Era quello il momento in cui la burana si rovesciava, spingendo innanzi a sè centinaia e centinaia di trombe di sabbia, che giravano vertiginosamente salendo verso il cielo.

Tabriz accostò le labbra ad un orecchio di Hossein, sussurrandogli.

— Ecco il momento: approfittiamo. —

Poi, senza aggiungere altro, si alzò come per meglio accomodarsi entro la buca che era piuttosto stretta anche per soli quattro uomini, e, colla rapidità del lampo, fulminò i due soldati dell'Emiro con due pugni terribili, due veri colpi di mazza piombati in mezzo ai loro crani pelati.

I disgraziati non ebbero nemmeno il tempo di mandare un grido ed erano piombati in fondo alla buca, raggomitolandosi su loro stessi.

— Le armi, signore! — gridò il gigante, cercando di dominare colla sua possente voce i ruggiti della burana.

Hossein si era gettato sull'usbeko più vicino, strappandogli dalla cintura le sue due lunghe pistole, a doppia canna ed il kangiarro; Tabriz aveva fatto altrettanto coll'altro.

— Seguimi, signore, — disse il gigante, prendendo per una mano il nipote del beg. — Copriti la testa, chiudi bene la bocca e possibilmente anche gli occhi.

Meglio morire sepolti fra le sabbie che fra i tormenti! —

Si passarono le armi nelle cinture, strapparono la tela che poteva ancora servire loro, e lasciarono la buca, scomparendo fra le ondate di sabbia che il vento scaraventava sopra l'accampamento ed in tale copia da non permettere alle guardie di scorgere nulla a due passi di distanza.

Il rischio a cui si esponevano i due turchestani era gravissimo, poichè da un istante all'altro una tromba roteante poteva investirli, atterrarli e seppellirli o anche assorbirli e trascinarli in alto: tuttavia si erano messi coraggiosamente in marcia, carponi, tentando di tenersi la bocca ed il naso coperti colla tenda, che il ventaccio cercava di strappare loro di mano.

Dove si dirigevano? Non potevano saperlo, essendo diventata l'oscurità profondissima e continuando le cortine di sabbia a passare sopra di loro.

Tabriz teneva sempre stretto per una mano Hossein, pel timore che il giovane si smarrisse fra le dune, che cambiavano ad ogni istante aspetto.

— Coraggio, signore! — gridava di quando in quando, allorchè la raffica furiosa era passata.

— Tura la bocca e chiudi gli occhi. —

Ansanti, semi-soffocati, continuamente acciecati, ed incessantemente sbattuti al suolo, vagavano or qua ed or là, senza direzione alcuna, spinti da un solo desiderio: quello di allontanarsi dall'accampamento.

Di quando in quando una tromba li investiva, coprendoli quasi interamente di sabbia o rotolandoli e sbattendoli attraverso le dune, ma il gigante, che possedeva una forza incalcolabile, non tardava a rialzarsi ed a sbarazzare Hossein, che da solo non avrebbe certamente potuto uscire da quelle tombe, pronte a rinserrarsi su di lui e per sempre.

Per dieci o quindici minuti i due turchestani lottarono disperatamente contro le raffiche, procedendo a casaccio, finchè una tromba di sabbia li investì.

Tabriz, che l'aveva scorta a tempo, aveva afferrato strettamente fra le possenti braccia il nipote del beg e si era gettato col viso contro terra, colla speranza di sfuggire all'assorbimento e anche all'asfissia.

Disgraziatamente la tromba era una delle più colossali e s'avanzava con tale impeto da sciogliere in un momento le dune che incontrava nella sua corsa vertiginosa.

I due uomini, quantunque strettamente avvinti, formassero un peso notevole, si sentirono come sradicare dal suolo, poi trarre in alto in un moto circolare velocissimo.

Quanto durò quella spaventevole corsa? Non lo seppero mai.

················

Quando Tabriz aprì gli occhi, la burana era cessata. Solo poche cortine di sabbia filavano all'orizzonte, ondeggiando lentamente, ora allargandosi ed ora stringendosi ed il cielo era tornato limpido.

Tutt'intorno a lui regnava un caos: dune di sabbia sventrate, monticelli mozzati, sterpi ammonticchiati alla rinfusa, strappati chi sa mai dove, mucchi di pietruzze, stracci provenienti forse da tende strappate a chissà quante diecine di miglia di distanza.

Tabriz guardò il sole che era rosso come un disco di metallo incandescente e che era prossimo al tramonto, si tastò le costole tutte ammaccate, poi girò all'intorno gli occhi, ripetendo con voce angosciata:

— E Hossein?.... E Hossein? —

Quantunque provasse un vivo dolore ad una gamba, si era messo a correre affannosamente attraverso le dune che la grande tromba di sabbia aveva formate nello spezzarsi.

— Padrone!.... Padrone! — gridava come un pazzo, mentre si soffregava gli occhi infiammati dalla sabbia.

Un grido rauco gli rispose ad un tratto. Era partito da un monticello di sterpi e di pietruzze.

— Signore! — esclamò Tabriz, scavalcandolo precipitosamente.

Al di là, steso al suolo, col viso contro terra, stava un uomo con metà del corpo, dalla cintura ai piedi, sepolto sotto altissimo strato di sabbia che gl'impediva di muoversi.

— Grande Allah! — urlò il gigante. — Salvo!.... Salvo!....

— Ma imprigionato e tutto pesto, — rispose il giovane con voce appena intelligibile.

— Un momento, signore.

— Presto.... Tabriz.... soffoco....

Il gigante, servendosi delle mani e dei piedi, rovesciò il monticello, o meglio lo disperse, poi, afferrando per le braccia il giovane lo trasse a sè, mettendolo a sedere e sbarazzandolo dalla polvere che gli copriva il viso.

— Tabriz... una goccia d'acqua... una sola... — chiese Hossein che stentava a parlare. — Brucio!...

— Ah signore!.... Dove trovarne qui?....

— Ho le fiamme.... in gola.... mi sembra di.... morire....

— Dell'acqua!... Dell'acqua! — esclamò Tabriz, girando intorno gli occhi. — Il mio signore muore!... Dell'acqua!.... —

Sperare di trovarne fra quelle sabbie, che tutto avevano coperto e specialmente in quella terribile steppa della fame e della sete, sarebbe stata una follia. Anche se, per un caso raro, qualche rivoletto si fosse trovato in quel luogo, la gran tromba di sabbia l'avrebbe completamente coperto nello sfasciarsi.

— Acqua! — ripetè Hossein. — Dammi da bere, Tabriz.

— Ma sì!.... — gridò il gigante, estraendo rapidamente il kangiarro che aveva ancora alla cintura, fra le due pistole. — Un po' di sangue può per un momento egualmente dissetare. —

Si rimboccò una manica, mettendo a nudo il braccio sinistro, un braccio grosso quanto un ramo d'albero, gonfio di muscoli, e colla punta dell'arma si punse una vena.

— Bevi, mio signore, — disse mentre il sangue zampillava.

Hossein aveva gettato la testa indietro facendo un gesto di ribrezzo e mormorando:

— No.... Tabriz!....

— Bevi, mio signore, — rispose il gigante freddamente, accostandogli il braccio alle labbra. — Ti salvo! —

La sete del giovane doveva essere terribile, perchè accostò la bocca e bevette avidamente il sangue caldo che sgorgava dalla puntura.

— Bevi senza paura, mio signore, — diceva il gigante sorridendo. — Il mio corpo ne è ben fornito. —

Hossein ingoiò tre o quattro sorsi, poi si ritrasse.

— Grazie, mio fedele Tabriz, — mormorò. — M'hai ridata la vita.

— Ne hai abbastanza? —

Hossein fece col capo un cenno affermativo, poi cadde all'indietro come colpito da un improvviso torpore.

Il gigante si strappò un pezzo della manica, si fasciò strettamente la ferita, d'altronde piccolissima, gettò sul padrone uno sguardo soddisfatto, poi si alzò, mormorando:

— Lasciamolo un po' riposare; pel momento nessun pericolo ci minaccia e poi fra pochi minuti le tenebre scenderanno. —

Salì su un monticello di sabbia, il più alto che vi era in quel luogo e guardò attentamente tutto all'intorno.

— Dove trovare un albero od una sorgente? — si chiese. — Sono rari in questa steppa maledetta, nondimeno qualche po' di verdura di quando in quando la si può trovare.

Se potessi sapere dove ci troviamo noi!.... Siamo lontani dall'accampamento o vicini? Ecco il pericolo.

Bah!.... Tabriz ha le gambe lunghe ed è in forza. Non fermiamoci qui. —

Prese Hossein fra le braccia, serrandoselo ben stretto al petto, come se fosse un fanciullo e si mise risolutamente in marcia, dirigendosi verso ponente.

— Sempre diritti finchè troveremo l'Amu-Darja, — mormorò.

Il sole scompariva fra una gran nuvola rossa, che diventava rapidamente oscura e le tenebre cominciavano a calare. All'orizzonte opposto però un altro disco, reso grande dalla rifrazione e pure rosso, sorgeva lentamente: era la luna.

Tabriz continuava ad avanzare, salendo e scendendo le dune sabbiose, cogli orecchi tesi, cogli occhi sempre in movimento. Cercava di raccogliere qualche lontano rumore o di scorgere qualche cavaliere.

Certo i soldati dell'Emiro, passata la burana, dovevano aver scoperti i loro due camerati accoppati da quei due tremendi pugni e forse in quel momento stavano cercando in tutte le direzioni i fuggiaschi.

Era quella la paura che aveva invaso Tabriz e che lo spingeva a camminare più rapidamente che era possibile, quantunque zoppicasse.

Per una buona ora il gigante resistette energicamente, avanzandosi verso una macchia oscura che la luna illuminava, facendola scintillare in causa dei frammenti di sale che conteneva.

Stava per raggiungerla, quando Hossein riaprì gli occhi scivolandogli quasi subito di fra le braccia.

— Tu mi hai portato? — disse, arrossendo.

— Era necessario, mio signore, — rispose Tabriz.

— Che io sia diventato un fanciullo?

— Non so se un altro meno solido di te avrebbe resistito a quella terribile volata, che ci ha fatto fare quella maledetta tromba. Puoi vantarti di avere le ossa ben dure, signore.

— Quanto sei buono, Tabriz!

— Non ho fatto altro che il dovere di buon servo affezionato, — rispose modestamente il gigante. — Stai meglio ora?

— Sì, ma la sete mi divora sempre.

— Abbi un po' di pazienza ancora. Vedo delle piante dinanzi a noi e spero di trovare qualche goccia d'acqua o per lo meno delle frutta che ci permettano di dissetarci.

— Sai dove siamo noi?

— È impossibile saperlo.

— Lontani o vicini all'accampamento?

— La nostra volata deve essere stata lunga e la tromba marciava con una velocità prodigiosa.

Riparleremo di ciò più tardi; cerchiamo ora di raggiungere quel gruppo d'alberi. Puoi camminare o vuoi che ti porti ancora?

Non pesi molto, per le mie braccia.

— Preferisco servirmi delle mie gambe mio buon Tabriz.

— Avanti allora, mio signore. Non distiamo che mezzo miglio, e forse meno; tieni pronte le armi.

— Che cosa temi?

— Nelle rade oasi della steppa della fame, si rifugiano banditi e belve feroci, e gli uni non sono meno pericolosi delle altre.

— Andiamo, Tabriz. —

Ad occidente si scorgevano gruppi di piante che occupavano una superficie di parecchi ettari e quasi tutte d'alto fusto; era quindi probabile che vi dovesse essere dell'acqua, non potendo i vegetali crescere in mezzo a quelle sabbie salate, se non trovano nel sottosuolo un po' d'umidità.

I due fuggiaschi, animati dalla speranza di tuffare le loro aride labbra in qualche fresca sorgente, non tardarono a raggiungere quella specie d'oasi che sembrava, almeno apparentemente, disabitata.

Fu però una disillusione, poichè quelle foreste non promettevano a prima vista alcun frutto. Non vi erano che dei platani semi-intristiti, degli honna, alberi che danno solo una materia colorante, usata dalle donne turchestane e persiane per tingersi le mani ed i piedi e soprattutto le unghie, delle assa fetida (resina antispasmodica) e degli alberi d'incenso, di nessuna utilità pei due assetati.

— Non siamo fortunati, — disse Tabriz, che si era fermato sul margine dell'oasi. — Qui non troveremo nè un fico, nè un melogranato.

— E nemmeno una goccia d'acqua? — chiese Hossein, con spavento.

— Non abbiamo ancora esplorato queste macchie, signore.

— Impugna le pistole e andiamo avanti. —

Dopo avere tesi gli orecchi, colla speranza di udire il mormorio di qualche ruscelletto, s'inoltrarono cautamente sotto le piante aprendosi il passo fra gruppi di mikanseta levigata, belle piante della famiglia dei baccari, che spuntano anche sui terreni più aridi, e d'astragalli, e guardando attentamente a terra, essendo di solito quelle oasi infestate da certi ragni, grossi come una noce e la cui morsicatura è talvolta mortale.

Avevano attraversati già tre o quattro gruppi di alberi, quando Tabriz si arrestò bruscamente, armando la pistola.

— Cos'hai veduto? — chiese Hossein, imitandolo.

— Mi è sembrato d'aver udito un lieve mugolìo.

— Dove? — chiese Hossein.

— In mezzo a quel gruppo d'astragalli, — rispose Tabriz, indicando una fitta macchia di quelle piante.

— Che vi sia nascosto qualche animale?

— È probabile, signore. Le pantere non mancano nella steppa della fame.

— Buon segno se ne trovassimo una qui.

— Perchè signore?

— Significherebbe che qui vi è dell'acqua.

— È vero.

— Andiamo a vedere. Siamo in due e non abbiamo paura, noi.

— Specialmente quando abbiamo dei kangiarri, — aggiunse il gigante.

Non sapendo con quale animale avevano da fare, s'avanzarono tenendosi dietro i tronchi degli alberi, onde avere, in caso d'improvviso attacco, almeno un riparo e, giunti dinanzi al gruppo d'astragalli, sostarono mettendosi in ascolto.

— Dell'acqua! — esclamò ad un tratto Tabriz, mentre il suo viso diventava raggiante. — La odo a gorgogliare.

— Dov'è?

— Lì in mezzo. Non odi, mio signore?

— Sì, mi pare.

— Siamo salvi!.... Accorriamo!....

— E la belva?

— Fosse anche una tigre non mi farebbe paura, — disse il gigante snudando il kangiarro.

Si era gettato dentro alla macchia, ma non aveva fatti cinque passi che incespicò in qualche cosa di molle, mentre sotto di sè udiva un miagolìo e si sentiva nel medesimo tempo, graffiare gli stivali.

— Fermo, Hossein! — gridò.

Uno scroscio di risa gli rispose; poi la voce del giovane si fece udire:

— Tu schiacci dei gatti, Tabriz. Ricordati che Maometto ha proibito di ucciderli. —

CAPITOLO V. L'oasi.

Il gigante che era caduto lungo disteso, un po' piccato da quello scoppio di risa e da quelle parole ironiche, si era prontamente alzato bestemmiando e ben deciso di fare a pezzi gli animali prediletti del Profeta, quantunque non credesse affatto che fossero tali.

— To'!.... To'! — esclamò ad un tratto, levando in aria il suo kangiarro. — Ah!.... Tu, mio signore, li chiami gatti, questi?

Guardati.... La madre può essere vicina. —

Due animali, non più grossi di due gatti comuni, dal pelame giallognolo, cosparso di macchie leggermente nerastre, giocherellavano in mezzo agli astragalli, senza darsi alcun pensiero dei due turchestani.

— Tu dunque, Tabriz, avresti paura di queste due bestiuole? — chiese Hossein, vedendo il gigante girare intorno gli sguardi.

— Due delle mie dita sono già troppo per strangolarli, — rispose il gigante. — È della loro madre e del loro padre che io ho paura, signore.

— Che animali sono dunque codesti?

— Oncie.

Una specie di pantere, piuttosto rare a dire il vero.

— Pericolose?

— Non meno delle pantere, quantunque siano un po' più piccole.

— Vuoi uccidere questi piccoli?

— Non irritiamo i loro genitori, signore. Dissetiamoci, giacchè qui odo scorrere dell'acqua e poi prendiamo il largo e andiamo ad accamparci sul margine dell'oasi. —

Con una mano levò le foglie secche che coprivano il suolo e mise allo scoperto un rivoletto d'acqua, che scorreva quasi interamente nascosto.

— A te, padrone, mentre io ti faccio la guardia, — disse.

Il giovane, che si sentiva morire di sete, si gettò a terra mettendosi a bere avidamente. Stava per alzarsi, quando udì Tabriz a gridare:

— Le armi, padrone! —

Hossein d'un balzo fu in piedi, colle pistole puntate.

— Che cosa c'è? — chiese.

— Sono i genitori che tornano!... Fuggiamo!... —

Si slanciarono fuori dalla macchia d'astragalli, dirigendosi frettolosamente verso il margine dell'oasi, dove contavano, in caso di pericolo, di mettersi in salvo su qualche alto albero, avendone scorti alcuni in quella direzione.

Se avessero avuto dei buoni archibugi, avrebbero indubbiamente fatto fronte alla belva o alle belve, non essendo improbabile che oltre alla femmina vi fosse anche il maschio.

Non possedendo che delle vecchie pistole, di portata limitatissima e di scatto malsicuro, non avevano osato soffermarsi, specialmente in mezzo a quella folta macchia, dove potevano correre il pericolo di venire assaliti di sorpresa e da due parti.

Giunti sotto un grosso melogranato selvatico, Tabriz e Hossein si erano fermati guardando attentamente sotto le piante e tendendo gli orecchi.

— Che ti sia ingannato Tabriz? — disse Hossein, dopo qualche minuto di attesa, non vedendo comparire alcun animale sotto gli alberi.

— No, signore, ho udito i cespugli a muoversi e giurerei anche di aver veduto, fra le foglie, a brillare due occhi ardenti.

— Sono dunque così pericolosi quegli animali, per far battere in ritirata un uomo come te?

— Valgono le pantere e...

— Taci!...

— Un ramo che si è spezzato, è vero?

— No, un fruscìo come se qualcuno cercasse d'aprirsi il passo fra gli astragalli.

— Saliamo su quest'albero, signore. Saremo più sicuri che a terra. —

Il gigante prese Hossein e lo alzò lungo il tronco del melogranato fino al ramo più basso, a cui il giovane si aggrappò mettendosi lestamente a cavalcioni.

Il gigante che poteva abbracciare la pianta, si mise ad arrampicarsi, facendo sforzi prodigiosi per far presto.

Stava per toccare il ramo, quando udì Hossein a gridare:

Eccoli!... Presto, Tabriz! —

Due animali, che avevano la taglia delle pantere, si erano slanciati fuori degli astragalli con un balzo immenso, poi si erano precipitati verso l'albero, mandando un ruggito sommesso, d'un timbro ben diverso da quello del leone.

In un lampo furono sotto al melogranato ed il più grosso, il maschio senza dubbio, con un slancio straordinario afferrò Tabriz per una gamba, tentando di tirarlo giù.

Fortunatamente il gigante aveva gli stivali dalla pelle resistentissima e possedeva un sangue freddo ammirabile.

Allungò lestamente una mano verso il ramo ed in due tempi vi si issò sopra, mentre la belva, delusa, si lasciava ricadere a terra.

— Un momento di ritardo e mi tirava giù, — disse Tabriz, che si era messo a cavalcioni del ramo, dietro a Hossein.

— Le accomoderemo ora noi perbene, mio bravo Tabriz. I tuoi stivali sono in buono stato?

— Sono di pelle di cammello e non cedono facilmente.

— Cerchiamo di fare un buon doppio colpo.

— E di non mancarlo soprattutto, signore. Non abbiamo che otto palle fra tutti e due a nostra disposizione e dei cattivi incontri possiamo farne ancora.

Abbiamo commessa una grave imprudenza a non prendere a quei due usbeki le loro munizioni! —

Le due belve, mancato il primo attacco, si erano messe a girare e rigirare intorno alla pianta, senza osare di salire, ciò che sarebbe stato per loro facile, essendo gli once abilissimi arrampicatori.

Erano due bellissime bestie, grosse quanto una pantera nera di Giava, dal pelame pallido, cosparso di grandi macchie nere, un po' irregolari, e di anelli rotondi un po' oscuri ed una coda lunga, somigliante a quella delle pantere africane.

Pur girando, non staccavano i loro occhi dai due turchestani, saettando su di loro lampi verdastri e fosforescenti.

— Che siano affamati o irritati perchè abbiamo scoperto il loro covo? — si chiese Hossein.

— Forse l'uno e l'altro, — rispose Tabriz. — Signore, affrettiamoci a sbarazzarci di questi importuni.

— Proviamo queste pistolacce, dunque, benchè non valgano le nostre, — disse Hossein.

— A me il maschio che è il più grosso, e a te la femmina, — aggiunse poi.

S'accomodarono meglio che poterono sul ramo, mirarono attentamente le due bestie che si erano fermate a pochi passi dall'albero, come se studiassero il modo di spingere vigorosamente l'assalto e fecero fuoco quasi contemporaneamente, scaricando due colpi ciascuno.

Quando il fumo si dileguò, videro contorcersi a terra la femmina; il maschio invece, spaventato dalle detonazioni, scappava, spiccando salti di cinque o sei metri.

— Che l'abbia mancato? — si chiese Hossein.

— Cattiva polvere, signore, — rispose Tabriz. — Non so per quale miracolo sia riuscito a me di buttare a terra la femmina.

— Mi spiace di non aver abbattuto il maschio.

— Forse tu l'hai ferito, padrone.

— Avrei desiderato vederlo cadere; più tardi può tornare.

— E lo riceveremo con un'altra scarica, signore.

— Allora scendiamo e teniamo d'occhio il maschio. —

Hossein si penzolò dal ramo e si lasciò cadere a terra. Il gigante, che temeva la ricomparsa del maschio, fu pronto a imitarlo.

— Ecco un bell'arrosto, — disse, guardando la femmina.

— Che puzzerà di selvatico, — rispose Hossein.

— Se mangiamo le gazzelle e gli onagri, possiamo piantare i denti anche su questa bestia, purchè il maschio non venga a protestare.

— Hai un bell'appetito tu, Tabriz?

— Più sete che fame, signore. Ho la gola arsa.

— L'acqua non è lontana...

— E i piccini, signore.

— Fuori il kangiarro.

— Sono pronto a spaccare il muso all'once, — disse il gigante, sfoderando l'arma. — Se viene avrà il suo conto. —

Respinsero coi piedi il cadavere della belva e s'inoltrarono risolutamente verso la macchia d'astragalli, in mezzo alla quale scorreva il rivoletto d'acqua che in nessuna altra parte dell'oasi avevano trovato.

Il maschio pareva che fosse scomparso, giacchè in mezzo al verde cupo del fogliame non si scorgeva il suo mantello biancastro. Tuttavia i due turchestani procedevano con precauzione, tenendo le pistole pronte ed i kangiarri snudati, ben decisi a consumare le ultime quattro cariche in caso di pericolo.

Non vedendo l'once, entrarono nella macchia e giunsero là dove i due piccini, abbandonati a sè stessi, stavano giuocando fra di loro, mordendosi a sangue.

— Ecco l'arrosto, — disse Tabriz, dopo d'aver dato un rapido sguardo all'intorno.

Due strette poderose bastarono per strozzare i due piccini.

Sollevò poi colle mani le foglie che coprivano il suolo e si mise a bere a larghi sorsi, mentre il nipote del beg vegliava.

Stava per alzarsi, quando un'ombra gigantesca lo attraversò, piombando, con uno slancio terribile, addosso ad Hossein e atterrandolo, prima che avesse avuto il tempo di puntare la pistola o d'alzare il kangiarro.

— A me, Tabriz! — Aveva urlato il giovane.

— Ah!... Brutta bestia! — urlò.

L'once non era che a tre passi.

Tabriz, con un solo salto, superò la distanza, afferrò la bestia per la coda e la trasse a se con vigore sovrumano, facendole fare un mezzo giro.

L'once, che forse non s'aspettava quell'attacco brutale, si volse ringhiando e mostrando i denti.

Ma già Tabriz aveva abbandonata la coda per impugnare il kangiarro.

La lama scintillò un momento in aria, poi cadde fischiando.

— Ecco il tuo conto! — urlò Tabriz.

La testa dell'once completamente staccata, cadde a terra.

— Bel colpo! — esclamò Hossein. — Tu taglieresti la testa anche ad un toro.

— Si fa ciò che si può, signore, — rispose il gigante, pulendo la lama sul corpo della belva. — Il braccio è solido; su ciò non ho alcun dubbio.

Presero i due piccoli once e tornarono verso il margine dell'oasi, dove fecero raccolta di rami secchi.

Tabriz, che aveva conservato l'acciarino e l'esca, accese il fuoco, levò la pelle ai due once e, dopo d'averli infilati in un bastone, li mise sui tizzoni ardenti, girandoli di quando in quando, ma anche brontolando:

— Se avessimo almeno una pipa e del buon tomak! Che colazione squisita!... Ah!... già, ci vorrebbe anche una sorsata di kumis, ma dove trovare delle cammelle in questa maledetta steppa? È proprio la steppa della fame! —

Mentre sorvegliava l'arrosto, Hossein, col capo appoggiato al tronco d'un albero, pareva si fosse immerso in profondi pensieri.

Il suo sguardo fissava distrattamente la fiamma che arrostiva i due once. Pensava probabilmente a Talmà e all'infame tradimento di suo cugino.

— Padrone, — disse ad un tratto Tabriz. — Il piatto forte è pronto. Peccato che non ci sia qualche focaccia di maiz e un po' di tabacco. —

Levò i due gatti, come li chiamava e li mise su un mazzo di foglie di melogranato, spaccandoli con due colpi di kangiarro.

— Se saranno un po' coriacei, — disse, — non sarà colpa mia.

Pianta i denti, signore. Abbiamo ben diritto di mangiate anche noi. —

I due once non tardarono a scomparire, specialmente nel ventre di Tabriz, poi i due fuggiaschi, sicuri di non venire disturbati, credendo che l'oasi non servisse di rifugio ad alcun animale feroce, si gettarono sotto l'ombra d'un grosso platano, cercando di dormire.

Quanto durò il loro sonno?

Certo non lo seppero mai.

Un grugnito rauco, che non doveva promettere nulla di buono, svegliò ad un tratto Tabriz, il quale stava sognando la verdeggiante steppa dei Sarti.

— Padrone!... — gridò, — ti senti male?... —

Un secondo grugnito, più forte del primo e due gambe che gli compressero improvvisamente il petto, lo decisero ad alzarsi.

Una massa oscura, indecisa, gli stava sopra, cercando di afferrarlo.

— Signore! — urlò. — Gli usbeki dell'Emiro!... All'armi! —

Hossein, che dormiva quasi con un solo occhio, era balzato in piedi.

L'oscurità, resa più cupa dall'ombra proiettata dall'albero, era però così profonda che dapprima nulla distinse.

— Tabriz! — gridò.

— L'ho preso!...

— Chi?...

— Ah!... cane!... Sono abbastanza forte!...

— Tabriz!...

— Lo getto giù.

— Chi?...

— Lottare con me!... Stupido!... Ed ora ti farò a pezzi! —

Un urlo feroce, che fece gelare il sangue a Hossein, echeggiò fra le tenebre, seguito tosto da una bestemmia.

— Bestia maledetta! Mordi?..

A te!... Prendi questo!... E questo ancora! Ne hai abbastanza?...

— Tabriz!...

— Aspetta che lo finisca, signore. Un colpo ancora? Prendi dunque, brutta bestia!... —

Un ringhio furioso seguì quelle parole, accompagnato da una specie di tonfo.

— È caduto! — urlò Tabriz. — Era tempo!... Che razza di bestia sarà questa? Voleva lottare con me!... Le costole le ho dure io e anche le braccia sono solide!

— Che cos'hai ucciso, Tabriz? — chiese Hossein che aveva armata la pistola.

— Non lo so davvero, signore. Accendi qualche legno, giacchè vi è ancora qualche brace. —

Hossein prese un ramo che stava per consumarsi, frugò fra i carboni non ancora spenti e quando lo ebbe acceso l'alzò, sviluppando una fiamma abbastanza luminosa.

— Tabriz, — esclamò, — questo è un orso!...

— Me n'ero accorto io, — rispose il gigante. — Voleva impegnare una vera lotta con me!... Mi aveva afferrato così strettamente che lo credetti un usbeko. Il pelame lo ha tradito.

— E tu credevi che quest'oasi fosse deserta!...

— Pare invece, signore, che sia un serraglio.

— Due once ed un orso!...

— Vediamo bene, Tabriz.

— Accosta il tizzone, signore. —

CAPITOLO VI. Il “Loutis.„

Non si erano ingannati: l'animale che aveva cercato di sorprenderli nel sonno, era veramente un orso d'una razza speciale, che non si trova che sul continente asiatico e specialmente fra la grande catena che, dipartendosi dall'India, si spinge verso l'Afganistan e la Tartaria in lunghe direzioni.

Infatti non aveva il corpo massiccio degli orsi neri e bruni: era invece di forme svelte, col muso molto aguzzo, le orecchie rotonde e grandi, col pelame nerastro, a striature bianche sul petto e con una specie di criniera sul collo.

Quel bestione che doveva pesar non meno di duecento chilogrammi, avrebbe potuto vincere facilmente un uomo, che non avesse posseduto la forza straordinaria di Tabriz e soffocarlo con una stretta poderosa, essendo tutti robustissimi e anche coraggiosissimi.

Il kangiarro del gigante, manovrato da quel braccio d'atleta, aveva aperte tre spaventose ferite sul corpo della belva, dalle quali il sangue usciva a torrenti.

— Gli ho spaccata la spina dorsale, — disse Tabriz, che non sembrava affatto impressionato. — Se i bukari e gli usbeki hanno delle pessime pistole, sanno affilare a meraviglia i loro kangiarri.

— Come mai questo animale, che abita ordinariamente le montagne, si trova qui? — chiese Hossein che lo guardava con vivo interesse.

— È quello che mi domandavo anch'io — rispose Tabriz. — Deve essere disceso dal Kasret-Sultan, spinto forse dalla fame.

— Tu le conosci queste bestie?

— Ne ho cacciate parecchie durante la mia gioventù, signore.

— Pericolose, è vero?

— Si rivoltano contro i cacciatori e sono il terrore degli allevatori di cavalli, signore. Quantunque siano amanti del miele e delle frutta, non disprezzano la carne quando l'hanno assaggiata.

Sanno però ricompensare le loro vittime.

— In quale modo, Tabriz?

— Procurando agli allevatori di cavalli degli arrosti squisiti. La carne di queste bestie vince quella dei più grassi montoni e me ne dirai qualche cosa fra poco. —

Il gigante così parlando aveva ripreso il kangiarro e con pochi colpi vigorosi, aveva tagliato le gambe deretane dell'animale.

— Signore, scuoia questi due squisiti bocconi, mentre io preparo il forno. Faremo una colazione magnifica. —

Servendosi sempre del kangiarro scavò una buca profonda un paio di piedi e la riempì di rami secchi accumulando gli uni sugli altri.

— Ecco un forno superbo che cucinerà perfettamente gli zamponi di quel gaglioffo che voleva divorarmi.

È necessario ora avvolgerli nelle foglie, onde non si brucino.

— M'insegni a far cucina tu?

— Così Talmà non avrà da lamentarsi di te. Ah!... Stupido che sono! Non doveva rammentartela! —

Hossein si era rialzato lentamente, pallidissimo.

— Perdonami, signore, — disse il gigante.

— Anzi parliamone, — disse Hossein incrociando le braccia. — Metti a cucinare gli zamponi prima.

— È fatto, signore — rispose il gigante sbarazzando rapidamente la buca dai tizzoni mezzi consunti e collocando sulle ceneri calde i due prosciutti dell'orso.

Riempì la buca di terra e vi accese sopra una bracciata di rami onde il calore si conservasse sotto.

— Ed ora padrone? — disse.

— Penso a Talmà! — rispose Hossein. — Che cosa mi consigli di fare?

— Uccidere tuo cugino, signore. — È lui che ha pagato le Aquile, ne sono ormai sicuro; è lui che ha tramato tutto, è lui che ha cercato di assassinarci.

Uccidilo senza pietà, senza misericordia!... Se non lo farai tu, giuro sul mio kangiarro, che lo farò io!... Parola di Tabriz!

A te sono sfuggiti certi sospetti che avevano colpito me e tuo zio.

— Il beg?...

— Sì, anche lui si era accorto indubbiamente di qualche cosa, perchè prima che noi lasciassimo la steppa, mi incaricò di sorvegliare Abei.

— Lui!...

— Sì, lui.

— Vuoi farmi impazzire, Tabriz?

— No, ti apro gli occhi. D'altronde forse che non abbiamo le prove che egli ha tentato di assassinarci? Che per maggior sicurezza ti aveva messo dei documenti compromettenti nella fascia? Che cosa vuoi di più? Da un simile uomo si può anche aspettarsi che fosse d'accordo colle Aquile.

— Tabriz, bisogna che l'uccida! — ruggì Hossein.

— Sono del tuo parere, signore.

— Ma di Talmà che cosa sarà successo? — gridò il povero giovane, prendendosi disperatamente la testa fra le mani. — È questo che io vorrei sapere. —

Tabriz stava per aprire le labbra ed esprimere forse qualche terribile sospetto, poi subito le rinchiuse. Certo non osava dire quello che pensava riguardo la sorte di Talmà.

— Dimmi qualche cosa, Tabriz, — disse Hossein.

— Calmati, signore, — rispose finalmente il gigante. — Hai tu dimenticato tuo zio? Quell'uomo non lascerà la tua fidanzata nelle mani dei banditi, dovesse sacrificare metà della sua fortuna per mettere in armi tutti i Sarti della nostra steppa.

— Ed a chi la darà poi se qualcuno spargerà la voce che io sono stato ucciso sotto le mura di Kitab?

— Vorrà ben accertarsene prima, signore. Il beg non si accontenterà di una semplice voce e manderà indubbiamente dei messi fedeli a Kitab per assumere informazioni sulla nostra sorte.

E poi non siamo ora liberi noi?

— Non siamo ancora usciti dalla steppa della fame, Tabriz.

— Bah!... Gli usbeki ci crederanno sepolti sotto le sabbie o portati via da qualche tromba e non perderanno tempo a cercare i nostri cadaveri.

Di costoro non mi preoccupo punto e sono più che certo che ora quei furfanti galoppano verso Bukara. —

Hossein pareva che si fosse tranquillizzato. L'accesso di disperazione che l'aveva colpito poco prima era, se non del tutto, almeno in parte scomparso.

— Può darsi che tu abbia ragione — disse finalmente. — Quanto credi che sia lontano l'Amu-Darja?

— Non potremo raggiungerlo prima di otto giorni, padrone. Non possiamo contare che sulle nostre gambe e pur troppo noi, abituati a vivere quasi sempre sui cavalli, siamo pessimi camminatori.

Cerchiamo di far onore al pasto se vogliamo rimetterci in forza, poi ce ne andremo portando con noi qualche provvista.

— E dell'acqua soprattutto.

— Sì, padrone.

— Che non sapremo dove mettere non avendo noi nessun recipiente.

— L'orso ci offrirà la sua vescica e quella ne conterrà parecchi litri.

Padrone, l'arrosto deve essere cotto a puntino. Dimentica tutto e lavora di denti. —

Colla punta del kangiarro disperse i tizzoni quasi semi-spenti, ammucchiati sopra la buca, scavò il suolo e senza badare all'intenso calore che si sprigionava da quel forno primitivo, levò destramente l'arrosto, il quale esalava un profumo squisito.

— Ecco un boccone che anche l'Emiro di Buckara ci invidierebbe, — mormorò il gigante.

Strappò da un cespuglio alcune larghe foglie e vi depose il zampone, dopo averlo sbarazzato del suo involucro.

— Cottura perfetta, signore, — disse. — Vedi come la pelle è magnificamente screpolata e arrosolata? —

Tagliò l'arrosto in quattro parti e si misero tutti e due a mangiare.

Avevano ingoiati però pochi bocconi, quando una voce gioviale disse dietro di loro:

— Buona sera, signori. Non vi è nulla per un povero loutis che muore di fame e che non ha più la sua scimmia per guadagnarsi da vivere? —

Tabriz e Hossein, colti all'improvviso, balzarono precipitosamente in piedi, impugnando i kangiarri.

L'uomo che era sbucato fra le macchie d'astragalli, fece un cenno con ambe le mani, come per dire:

— Da un povero diavolo par mio non avete nulla da temere, signori.

— To'! — esclamò Tabriz dopo d'averlo squadrato attentamente, — io ti ho veduto ancora.

— E anch'io, signore — disse Karaval, poichè era lui.

— Tu facevi parte della carovana che conduceva a Bukara i prigionieri fatti a Kitab, è vero?

— Sì, io la seguivo per divertire colle mie scimmie quei disgraziati e nel medesimo tempo per guadagnare qualche cosa.

— Se non m'inganno avevi un compagno.

— Anche questo è vero, — rispose Karaval.

— Come ti trovi ora qui? — proseguì Tabriz, guardandolo un po' sospettosamente. — Perchè non hai seguita la carovana?

— Nel momento in cui le sabbie precipitavano sull'accampamento degli usbeki, mi sono sentito sollevare in aria e scaraventare non so dove. Una tromba mi avrà preso fra le sue spire e portato via.

— Come siamo stati portati via noi, — disse Hossein.

— Quando rinvenni, mi trovai solo in mezzo alle dune, colle ossa tutte peste. — Mi orizzontai come meglio potei e cercai di riguadagnare l'accampamento, ma non trovai più nè tende, nè usbeki, nè prigionieri, nulla.

— Erano partiti tutti?

— Uhm! ne dubito, mio signore, — rispose il birbante. — Io credo che quei poveri diavoli siano rimasti sotto la sabbia insieme coi cammelli.

— Non sei però certo, — disse Tabriz.

— Là dove si erano accampati non ho veduto altro che una enorme collina sabbiosa. Se avessi avuto qualche istrumento, per tentare qualche scavo, sono sicuro che sotto avrei trovato degli uomini e anche degli animali.

— E poi? Continua.

— Poi mi sono messo subito in marcia per raggiungere quest'oasi, onde non espormi al pericolo di morire di sete.

— Dunque tu conosci questa steppa?

— Vi sono nato, signore, e poi noi, conduttori di scimmie, camminiamo tutto il tempo della nostra vita, sicchè la Tartaria, la Persia, i Kanati e il Belucistan ci diventano presto famigliari.

— Siedi fra noi allora e mangia — disse Hossein. — Abbiamo carne in abbondanza.

— Lo vedo, signore, — rispose Karaval gettando uno sguardo ardente sull'orso che giaceva a pochi passi dal forno.

Tutti e tre si rimisero a lavorare di denti senza aggiungere altra parola. Il birbante divorava avidamente come se non avesse mangiato da quarantott'ore; però, quando non si vedeva osservato, fissava intensamente ora il gigante ed ora il nipote del beg e un fugace sorriso malizioso gli spuntava sulle sottili labbra.

Il furfante doveva essere ben contento di aver ritrovati i fuggiaschi!

Terminato il pasto, inaffiato da una lunga sorsata d'acqua, non avendo nemmeno il mostratore di scimmie un sorso di kumis, i tre uomini s'accordarono, prima di lasciare l'oasi, di cucinare un altro pezzo d'orso e di preparare un otre per non esporsi al pericolo di morire di sete durante il viaggio nella steppa.

Quei preparativi però richiesero parecchie ore e non fu che verso il tramonto che i tre uomini lasciarono il rifugio, incamminandosi nella direzione opposta, che avrebbe dovuto tenere la carovana.

Tabriz, sempre sospettoso, non aveva prestata intera fiducia alle affermazioni del mostratore di scimmie.

La steppa sabbiosa, dopo un uragano, cambia sovente aspetto e non è facile riconoscere un luogo che prima era ben noto, accumulandosi le dune in modo straordinario e cambiando totalmente forma, altezza e direzione.

La regione che percorrevano era tutta coperta di tepè, cioè di monticelli composti, più che di sabbia, di terra finissima, disposta a strati orizzontali pieni di avanzi di animali. Nessun essere vivente animava quella terribile steppa della fame, nessuna erba o cespuglio la rallegrava.

Le lepri e le gazzelle che sono così comuni nelle altre steppe e anche le piccole e deliziose ottarde, mancavano assolutamente.

— Che brutto paese! — esclamava Hossein che camminava a disagio su quei monticelli, tanto più che non era abituato a far lunghe passeggiate.

— E ne avremo almeno per otto giorni, è vero, loutis? — rispondeva Tabriz che sudava copiosamente.

— Sì, prima di riveder le limpide acque dell'Amu-Darja, mio signore.

— Non c'inganneremo noi sulla buona direzione? — chiedeva Hossein.

— Un mostratore di scimmie non si sbaglia mai. Noi vi giungeremo di certo, se potremo rinnovare la nostra provvista d'acqua e se le nostre gambe non cederanno. —

Il sole era tramontato da parecchie ore e i nostri viaggiatori, estremamente stanchi, si decisero di fermarsi fra due alte dune, che formavano una specie di burroncello piuttosto profondo, dove si trovavano gli scheletri di alcuni cammelli e di alcuni cavalli.

— Siamo in compagnia poco allegra, — disse Tabriz. — Però questi morti ci daranno meno fastidio dei vivi.

— Se è vero che anche i vivi che ci tenevano compagnia siano morti, — rispose Hossein.

— Speriamo che siano rimasti sepolti sotto una montagna di sabbia, signore. Se fossero scampati alla burana sarebbero già alle nostre spalle, seguendo le nostre tracce che si conservano su questi terreni fino a che non soffia il vento.

Loutis, sai dove ci troviamo?

— A non molte ore di marcia da un'altra oasi, — rispose Karaval. — Vi giungeremo prima di mezzodì.

— Troveremo acqua colà?

— Lo spero signore.

— E anche animali?

— In tutte le oasi non ne mancano.

— Se siamo così vicini, sarà meglio dividere la notte in quarti di guardia, — disse Hossein.

— È inutile signore, — rispose Karaval. — Nessuno verrà a turbare il nostro sonno; possiamo dormire tranquilli.

Fra le dune, dove l'acqua manca, non si vede quasi mai nessuno.

Ceniamo e dormiamo onde essere ben riposati per domani all'alba. —

Divorarono un altro pezzo d'orso, si dissetarono parcamente, si scavarono una buca nella sabbia e vi si lasciarono cader dentro, dopo essersi messi a fianco le armi.

Non erano trascorsi dieci minuti che Tabriz e Hossein dormivano della grossa.

Non così però Karaval. Il bandito, forse più abituato alle marce a piedi, o meno dormiglione, aveva ancora gli occhi aperti e con un orecchio appoggiato sulla sabbia pareva che ascoltasse con profonda attenzione.

Mezz'ora era già trascorsa, quando bruscamente, quantunque silenziosamente, si alzò.

— Deve essere lui, — mormorò.

— Non è tanto stupido quanto io l'avevo creduto. —

Si levò in piedi, badando di non far scricchiolare le sabbie e guardò quasi ferocemente Tabriz e Hossein, che dormivano profondamente l'uno presso all'altro, tenendo una mano sui loro kangiarri.

— Sarebbe una bella occasione e tutto sarebbe finito! — mormorò. — Due!... E poi con quel gigante che può reggere a parecchie palle di pistola meglio d'un orso!... Fin che ammazzo l'uno, l'altro mi salta addosso e allora, mio caro Karaval, addio ai tuoi sogni ambiziosi!... Non rimarrà che Hadgi, sempre Hadgi, quell'imbecille!...

No, meglio essere prudenti e aver pazienza. Io non sono uno stupido. —

Attese alcuni minuti, poi vedendo che nè Tabriz, nè Hossein si muovevano, scivolò lungo la duna più alta, senza produrre il menomo rumore.

La salì carponi e giunto sulla cima si fermò, borbottando:

— Non deve essere lontano; i miei orecchi non s'ingannano mai e percepiscono sempre i più deboli rumori. Un capo brigante deve avere l'udito finissimo se vuol diventare... —

Si era bruscamente interrotto, armando per precauzione una pistola che si era levata di sotto alla lunga zimarra e che il rigonfiamento della lunga e altissima fascia aveva impedito a Tabriz ed a Hossein di scorgere.

— Un futuro capo deve essere sempre prudente — disse.

Un'ombra, che l'oscurità impediva di ben definire, era comparsa sulla cima d'un'altra duna e si era fermata, probabilmente animata dallo stesso spirito di diffidenza che aveva invaso il bandito.

— Non mi sembra un animale, — borbottò finalmente Karaval.

Accostò due dita alle labbra e mandò un lievissimo fischio, appena modulato. Un segnale eguale rispose subito, poi l'uomo che stava sulla duna opposta si lasciò scivolare sulla sabbia, toccando il fondo.

Karaval l'aveva immediatamente imitato.

— Non mi sono ingannato: Dinar, — disse il bandito. — Ragazzo mio, tu diventi un bravo brigante e più rapidamente di quello che credevo.

— Ho una buona guida — rispose modestamente il giovane.

— Se continui così, tu diverrai un giorno, quando avrò sotto i miei ordini una banda di Aquile, il mio luogotenente.

— Sarò l'uomo più fortunato della terra.

— Ah!... Anche tu sei ambizioso!... Bene, benissimo, coll'ambizione si può conquistare anche il mondo.

— Vi ho seguiti senza difficoltà. Sono dunque loro?

— Per Alì, Maometto e tutti i Santi del nostro paradiso!...

— Non ho mai dubitato della tua sagacia, Karaval.

— Sarai mio luogotenente, figliuol mio. Sai nulla dei Bukari?

— Non li ho più riveduti.

— Che siano morti davvero?

— Ne ho il sospetto.

— Allora abbiamo fatto bene a darcela a gambe anche noi, quando abbiamo veduto il nipote del beg e Tabriz a scappare. È stato un grave rischio però.

— E che cosa intendi di fare ora, Karaval? —

Karaval si accarezzò la barba per qualche istante, guardando le stelle come se aspettasse da quelle qualche ispirazione, poi disse con voce grave:

— È necessario ricondurli a Bukara. — Dalle mani dell'Emiro non usciranno vivi, di questo sono sicuro e poi noi riceveremo un altro compenso, così prenderemo due piccioni con una fava.

— Sei un genio, Karaval. E come faremo a riconsegnarli all'Emiro?

— Sull'Amu-Darja vi è un posto di usbeki e di ghirghisi, metà briganti e metà soldati dell'Emiro, incaricati di guardare la frontiera.

Io conosco il capo che li comanda perchè un tempo era anche lui un'Aquila.

— Continua.

— Hai paura di attraversare da solo la steppa della fame?... Tu sei giovane e le tue gambe sono robuste ed in sei giorni potresti giungere al posto, fors'anche in otto, perchè si trova più al nord della strada carovaniera che conduce a Bukara e abboccarti con quel capo. Con cinquanta tomani quell'uomo sarebbe capace di andare in capo al mondo e di affrontare qualunque pericolo. E poi lui avrà di certo una ricompensa dall'Emiro.

— E poi?

— Ritorni stupido, ragazzo? Mi pare che anche un bambino potrebbe ora capire ciò che poi accadrebbe. Io conduco i miei due uomini verso l'Amu-Darja, il capo è pronto, ci ferma e ci prende tutti e tre. Hai capito?

— Sì, Karaval.

— Una volta presi ci conduce a Bukara e il colpo è fatto.

— Tu diverrai un gran capo.

— Non ne dubito neppure, — rispose gravemente Karaval, lisciandosi la barba.

— Ed il signor Abei non lo informeremo di ciò?

— Ci vorrebbero quindici o venti giorni per raggiungere la steppa dei Sarti, e poi non abbiamo nessuno su cui contare e fidarci. Saprà tutto al nostro ritorno.

— Dove si trova quel capo tuo amico?

— A Georlu-Tochgoi: sai andarci?

— Vi ho pescato coi cormorani in mia gioventù. Abbondano le garitse laggiù, quei pesci squisiti che tanto piacciono a noi uomini della steppa.

— Figliuol mio, parti senza indugio e cerca soprattutto di arrivare a quel luogo e possibilmente intero.

— Addio Karaval. —

Il giovane loutis si gettò sulle spalle una bisaccia che doveva contenere certamente dei viveri, si mise le pistole sopra la fascia e risalì la duna scomparendo, come un'ombra, dall'altra parte.

— Ecco come si fanno gli affari, — disse Karaval stropicciandosi allegramente le mani. — Hadgi, di fronte a me, non è altro che un cretino.

Ed ora andiamo a ritrovare i miei protettori. —

CAPITOLO VII. Nella steppa della fame.

Un po' prima dell'alba, desiderando approfittare della frescura mattutina, Tabriz e Hossein, guidati da Karaval, riprendevano la marcia attraverso all'arida ed interminabile steppa della fame.

Quell'immensa pianura sembrava che fosse diventata ancor più brulla del giorno innanzi. Le dune di sabbia, impregnate fortemente di laminelle di sale, si succedevano senza interruzione, gettate là a capriccio dalle raffiche furiose della burana, senza un filo d'erba, senza nemmeno una magra gramigna.

Un silenzio di morte, silenzio impressionante, regnava attorno ai tre uomini: non il grido d'un uccello, non il trillo d'un grillo, non il ronzio d'un insetto qualunque. Non per niente i turchestani l'hanno battezzata la steppa della fame.

Quantunque la stagione fosse già avanzata, regnava ancora, fra quelle dune interminabili, una temperatura da forno, che metteva a dura prova la resistenza di Hossein e di Tabriz non troppo abituati ai climi ardenti, poichè la loro steppa, anche nell'estate, è relativamente fresca e bene ventilata.

Solo Karaval procedeva con passo sicuro, infischiandosi del polverone che sollevavano i suoi piedi e delle ardenti carezze del sole. Si vedeva che il birbante era ben acclimatato e che quella terribile e aridissima steppa gli era molto familiare.

A mezzodì i tre uomini fecero una fermata d'un paio d'ore dietro una duna, che essendo altissima, proiettava un po' d'ombra, poi ripresero la dolorosa marcia, avendo affermato il bandito che prima del tramonto avrebbero potuto giungere ad una seconda oasi dove vi era qualche probabilità di trovare dell'acqua, e fors'anche qualche capo di selvaggina.

Infatti qualche ora dopo la scomparsa del sole, giungevano sul margine d'un gruppo di alberi che copriva due o tre ettari di terreno, alberi mezzo intristiti, è vero, ma che tuttavia promettevano un po' di frescura.

— Che l'anima di Alì ti porti all'inferno, loutis, — disse Tabriz che non si reggeva quasi più. — Noi non abbiamo le tue gambe per compiere simili marce. Trecento miglia sempre in sella non ci spaventano; queste camminate invece ci accoppano.

— Mio signore, — rispose Karaval umilmente, — nella steppa della fame non bisogna arrestarsi, se si vuole salvare la pelle. Guarda: il calore ha quasi vuotata la nostra riserva d'acqua. Fermati un giorno solo fra le dune e vedremo se tu uscirai vivo dalla steppa.

— Mi sembra d'aver fatto la traversata dell'Asia intera.

— Troveremo almeno qui dell'acqua? — chiese Hossein, che si era lasciato cadere, sfinito, su un tronco d'albero atterrato.

— Lo spero, mio signore, — rispose Karaval. — Accampati qui, mentre io vado a cercarla. —

Il bandito impugnò l' jatagan che portava alla cintura, prese l'otre che era già quasi vuoto e si cacciò in mezzo alle piante, non senza una certa apprensione, sapendo che le oasi erano frequentate da animali feroci. Pur camminando monologava come era sua abitudine:

— Vorrei sapere se quello stupido di Dinar è giunto qui e se si è fermato. Il ragazzo ha le gambe migliori delle mie, questo è vero, pure sarei stato ben contento di rivederlo e di dargli... —

Si era interrotto bruscamente e si era fermato dietro il tronco d'un grosso albero che sorgeva, quasi isolato, in mezzo ad un gruppo di cespugli.

— Mio caro Karaval, — mormorò dopo qualche istante — bada alla tua pelle. Non tutti i banditi della steppa della fame ti conoscono ancora e nemmeno tutte le bestie. Un ramo non si rompe da sè, quando la burana non soffia, almeno così mi diceva mio padre. —

Rimase immobile, cercando di confondersi col tronco, spiando attentamente le piante vicine, che erano pure rinserrate, alla loro base, da fitti cespugli; poi non udendo più nulla, riprese la marcia sempre guardingo e fiutando l'aria come i cani da caccia.

Aveva percorsi altri venti o trenta passi, quando udì un breve tonfo, come se qualche corpo fosse caduto in un pozzo d'acqua.

— Da bere ce n'è, — mormorò Karaval; — vorrei però sapere chi si disseta. Apri gli occhi, amico. —

Scostò le fronde e si trovò dinanzi ad una pozza circolare, di una dozzina di metri di circonferenza, piena d'acqua limpidissima.

La superficie avrebbe dovuto essere liscia, non soffiando alcun alito di vento; invece cerchi concentrici s'allargavano rompendosi, con un dolce sussurrìo contro le rive.

— Qualcuno ha attraversato questo minuscolo stagno, — mormorò il bandito, che diventava sempre più preoccupato.

Si guardò intorno e fece subito un salto entro la pozza, sollevando uno sprazzo d'acqua e affondando fino alle anche.

Un animale che fino allora doveva essersi tenuto nascosto in mezzo ai cespugli che circondavano il microscopico stagno, con un gran salto si era slanciato sulla riva, cadendo nel medesimo posto poco prima occupato dal bandito.

Un secondo di ritardo e Karaval se lo sentiva sulle spalle.

L'animale, deluso dalla mossa fulminea del bandito, mandò una specie di belato, somigliante a quello d'una pecora.

— Non sei un montone, mio caro, — disse Karaval. — So quanto vali e conosco le tue unghie, ma non mi lascerò prendere tanto facilmente. —

Infatti quell'animale era non lungi dal rassomigliare ad una pecora o ad un montone. Aveva la testa d'un cane, piccola e allungata ed il corpo d'un gatto, di dimensioni grossissime, con gambe alte ed il pelame lungo e ispido, di colore grigio-giallognolo a macchie nere e brunastre.

— Un ghepardo! — esclamò poi il bandito. — Brutto vicino! —

Si trattava precisamente di uno di quei prossimi parenti delle pantere e dei leopardi, che sono così abbondanti nell'India, e che non sono rari nelle steppe turchestane.

Quantunque per corporatura sieno inferiori ai loro prossimi parenti, non sono meno sanguinari, nè meno audaci, anzi sono così coraggiosi da lottare con vantaggio perfino contro i leopardi.

Sono grandi cacciatori, essendo dotati d'uno slancio straordinario e d'una corsa così veloce, da raggiungere anche le gazzelle.

Quantunque pericolosi, si lasciano però facilmente addomesticare e gl'indiani e gli arabi del Sahara se ne servono abilmente nelle cacce.

Il ghepardo, irritato dal fiasco fatto, si mise a girare rapidamente intorno alla riva dello stagno, soffiando e sbuffando, senza però osare di mettere le zampe nell'acqua.

Karaval quantunque non ignorasse che quegli animali mai si avventurano su un fiume, per quanto piccolo sia, avendo la medesima avversione dei gatti domestici, si era portato frettolosamente nel centro dello stagno, onde conservare una distanza tale da togliere al ghepardo ogni speranza di poterlo agguantare con un gran salto.

— Pericolo non ne correrò — si disse, — e la mia pelle anche questa volta non verrà scucita; tuttavia mi trovo come prigioniero ora, che la polvere delle mie pistole non può più prendere fuoco, dopo questo bel tuffo. Come uscirò di qui se gli altri non accorreranno in mio aiuto? —

Il ghepardo, sempre più furioso di non poter ghermire la preda continuava la sua corsa circolare a gran salti, cercando inutilmente un luogo abbastanza stretto che gli permettesse di spiccare un salto. Di quando in quando s'arrestava bruscamente, piantandosi sulle gambe ben tese e guardando ferocemente il bandito, poi riprendeva la sua corsa.

Accortosi finalmente che sprecava le sue forze senza alcun vantaggio, si coricò sulla riva, dinanzi ad un folto cespuglio, ringhiando sordamente e sferzandosi i fianchi colla coda, come un gatto irritato.

Ecco l'assedio, disse Karaval. — Questo è peggiore forse di quello di Kitab, perchè mi è impossibile muovermi.

— Che cosa fanno il nipote del beg e Tabriz? Che si siano nuovamente addormentati? Quelli non sono uomini da camminare su queste sabbie.

Dunque signor ghepardo, che cosa facciamo? Una partita a pugni contro le vostre unghie vi assicuro che non l'accetterò mai. —

La belva, quasi l'avesse compreso, gli soffiò contro, dimenando la testa e raggrinzando il naso.

A un certo momento fece un salto aguzzando gli occhi.

— Ha udito qualche rumore, — disse Karaval. — Che siano il nipote del beg e Tabriz che si avvicinano? Sarebbe già tempo. —

Il ghepardo continuava ad ascoltare, dando segni evidenti d'inquietudine. Ad un tratto spiccò un secondo salto evitando d'internarsi nel cespuglio, ma subito risuonarono due detonazioni, una a breve distanza dall'altra.

Karaval lo vide ripiegarsi due volte su sè stesso, poi allungarsi senza fare più alcun moto.

— Grazie, miei signori! — gridò il bandito attraversando velocemente lo stagno e salendo la riva. — Mi trovate fresco come una rosa e anche ben bagnato.

— E con quanta paura indosso? — chiese Hossein, comparendo assieme a Tabriz, colle pistole ancora fumanti in mano.

— Nemmeno una briciola, mio signore, ve l'assicuro, — rispose Karaval. — Il ghepardo non poteva assalirmi e mi trovavo come entro una rocca forte.

— Ti aveva assediato per bene però, — disse Tabriz.

— Questo è vero, signore, e la pazienza cominciava a scapparmi. Sospettavate che qualche brutta avventura mi fosse toccata!

— Credevamo anzi di non trovare più che il tuo scheletro, — disse Hossein.

— Tutto va bene quando le cose finiscono bene, — sentenziò gravemente il bandito. — Dissetatevi, miei signori; è acqua di sorgente questa e non ne berrete di così buona nella steppa della fame.

— E berremo anche la polvere che avevi indosso, — aggiunse Tabriz.

— La colpa non è mia, signore. Non potevo lasciarmi divorare come un pasticcio, per lasciarvi l'acqua pura.

— Non siamo schifiltosi, — disse Hossein.

Si dissetarono abbondantemente, tuffando avidamente le labbra semi-arse nella freschissima acqua, poi tutti e tre fecero ritorno all'improvvisato accampamento, senza più occuparsi del ghepardo che d'altronde non meritava gli onori d'uno spiedo, essendo la carne di quelle belve coriacea e di pessimo sapore.

Tabriz, durante l'assenza del bandito, era riuscito a scoprire, in mezzo ad un cespuglio, due nidi di ottarde turchestane e non avendo potuto impadronirsi delle femmine, aveva fatto raccolta d'uova, due dozzine, che sembravano ancora fresche e che cucinate sotto la cenere, dovevano servire da cena.

— Passeremo qui la notte, — disse Hossein. — Le marce attraverso a questa steppa ondulata, ammazzano anche i più forti.

— Io non ho alcuna fretta, mio signore, — rispose Karaval, che pensava al suo compagno. — Giungere al fiume dieci giorni prima o dopo, per me poco importa. —

Cenarono facendo onore alle uova che si divisero fraternamente; fecero raccolta di legna onde il fuoco non si spegnesse durante la notte, non essendo ben sicuri che non vi fossero altri animali feroci nascosti fra i cespugli dell'oasi o fra le dune di sabbia dei dintorni, e si coricarono, cercando però di dormire con un solo occhio.

La notte passò tranquilla quantunque fossero più volte svegliati dalle urla d'una coppia di lupi di montagna.

Il sole non era ancora sorto che già i tre uomini erano in marcia dovendo attraversare una notevole distanza prima di giungere all'oasi di Kara Kum, la sola che potesse rifornirli d'acqua e promettere qualche capo di selvaggina, essendo ormai finito l'arrosto d'orso.

Quantunque non soffiasse alcun alito di vento, cortine di sabbia ondeggiavano verso ponente, ossia nella direzione che dovevano tenere i tre uomini, ora alzandosi ed ora abbassandosi.

— Che stia per scoppiare un'altra burana? — chiese Hossein.

— No, signore, — rispose Karaval, che guardava attentamente il cielo.

— L'atmosfera è limpidissima e non scorgo alcun cirro che annunzi del vento.

— Eppure quelle sabbie si sollevano turbinando, — disse Tabriz.

— Senza vento non si alzerebbero in quel modo, — riprese Karaval, che si fermò per meglio osservarle.

— Vi deve essere qualche grossa truppa di animali laggiù, che galoppa sfrenatamente, — aggiunse poi.

— Delle gazzelle forse! — chiese Hossein.

— No, animali più grossi, — rispose poi Karaval.

— Non saranno già elefanti, — disse Tabriz. — La steppa non ne ha mai avuti.

— Scommetterei che sono onagri.

— Asini selvaggi? — chiese Hossein.

— Sì, mio signore. Talvolta si mostrano anche nella steppa della fame e sono sempre in gran numero.

Guardiamoci da loro. Quando si mettono in corsa non si arrestano nemmeno dinanzi ad un cannone, e so io se i loro calci sono potenti.

Un giorno ne ho ricevuto uno che per poco non mi uccise.

Se vi caricano gettatevi dietro le dune e lasciateli passare senza far fuoco.

— Eppure, mangerei volentieri un arrosto d'asino, — disse Tabriz. — La carne di quegli animali è apprezzata perfino dagli Emiri.

— E anche dallo scià di Persia, — aggiunse Hossein. Si dice che tutti i giorni ne abbia a tavola.

— L'assaggerete un'altra volta, — concluse Karaval.

Le cortine di sabbia continuavano ad alzarsi, cambiando sovente e molto bruscamente direzione. Pareva che gli onagri si divertissero a galoppare ora in un senso ed ora in un altro, senza alcuna meta fissa.

È quella d'altronde la loro abitudine. Instancabili trottatori, passano le loro giornate a gareggiare fra di loro, non fermandosi che qualche minuto per mangiare qualche po' di gramigna, essendo d'una sobrietà estrema.

— Che quegli asini si divertano a spaventarci? — chiese Tabriz, fermandosi. — Non vedi tu che si ostinano a sbarrarci la via?

— Me ne sono accorto da un po', — rispose Karaval, che si mostrava inquieto.

— Allora è segno che ci hanno veduto.

— Certo, signore.

— Che cosa facciamo dunque? — chiese Hossein.

Il bandito stava per rispondere, quando fra le cortine di sabbia apparvero numerosi drappelli di onagri, galoppanti sfrenatamente.

Per statura rassomigliavano agli asini comuni; però le loro forme sono più snelle, i loro orecchi un po' più corti ed il loro pelame grigiastro, attraversato sulla schiena da una riga nera che s'incrocia con altre due all'altezza della spalla.

— A terra! — gridò Karaval con voce tuonante.

In pochi salti raggiunsero la duna più vicina, che formava come un piccolo bastione d'un paio di metri d'altezza, e di qualche centinaia di metri e vi si gettarono dietro stendendosi l'uno accanto all'altro.

Gli onagri, tre o quattrocento per lo meno, caricavano con furia irresistibile, varcando, con agilità stupefacente, le dune di sabbia che trovavano sulla loro corsa.

Precedevano la truppa i maschi, poi venivano i piccini, indi le femmine; però vi era una forte retroguardia formata, a quanto pareva, dagli animali più forti.

Giunti dinanzi alla duna, dietro la quale si tenevano nascosti i tre turchestani, che si erano scavate frettolosamente delle buche, s'arrestarono un momento, poi con un gran salto la varcarono, sollevando una immensa colonna di polvere e continuarono la loro corsa indiavolata.

Il loro slancio era stato tale che nè Hossein, nè Tabriz, nè il bandito erano stati toccati da quei terribili zoccoli.

— Salvi! — gridò il gigante, alzandosi prontamente con una pistola in mano.

Ad un tratto una bestemmia gli sfuggì.

Due masse giallastre avevano varcata la duna, cercando di piombare sulla retroguardia degli onagri.

— Attento, signore! — gridò poscia.

— Che cos'hai, Tabriz? — chiese Hossein allarmato.

— I leoni!...

— I leoni!...

— Fuggite! gridò il bandito, scalando rapidamente la duna. — Lassù, presto! —

Cinquanta passi più innanzi s'alzava un monticello di sabbia in forma di ridotto, alto una dozzina di metri e Karaval vi si dirigeva a corsa disperata per mettersi in salvo sulla cima.

— Gambe, signore, — disse Tabriz, slanciandosi dietro al bandito.

In un baleno attraversarono la distanza e s'arrampicarono lestamente sull'alta duna, levando dalla cintura i kangiarri.

I due leoni che davano la caccia agli onagri, accortisi un po' troppo tardi della presenza dei tre uomini, s'erano fermati, come se fossero indecisi fra l'inseguimento di quei velocissimi animali e quelle prede umane.

Di quella sosta avevano subito approfittato gli scaltri asini per frapporre una bella distanza. Galoppavano ormai a più di cinquanta metri, continuando a scavalcare le dune con una forza indiavolata.

— Quei birbanti ci hanno lasciati in un fastidio, — disse Karaval. — I leoni non potranno più raggiungerli e cercheranno di rifarsi della colazione perduta colle nostre polpe. Sono maschio e femmina, e probabilmente a ventre vuoto.

— Da dove vengono quelle bestie? Nella nostra steppa non ne ho mai veduto uno, — domandò Tabriz.

— Dai deserti della Persia di certo, — rispose Karaval. — Ve ne sono in quel paese e non pochi anche.

— Badate, — disse in quel momento Hossein. — S'avvicinano. —

I leoni si erano accostati alla prima duna, e l'avevano superata, scendendo dalla parte opposta.

Non erano animali grossi come quelli di Barberia, essendo quelli persiani di taglia più piccola; tuttavia non erano meno temibili, possedendo uno slancio forse più impetuoso di quelli africani e maggior agilità.

Pareva però che non avessero molta premura di dare l'assalto alla seconda duna e che volessero prima rendersi un conto esatto dei mezzi di difesa degli assediati, poichè di quando in quando sostavano per guardare, manifestando anche una certa inquietudine a giudicarlo dalle mosse irrequiete delle loro code.

— Prendiamo posizione, — disse Tabriz. — Io la fronte, voi altri l'altra china: sono sicuro che tenteranno l'attacco da due parti.

— Se non aspetteranno la notte, — disse Karaval.

— E noi dovremo rimanere qui ad arrostirci e a rosicchiarci le unghie? Non abbiamo nulla da mettere sotto i denti.

— Ti rifarai più tardi, con una coscia di leone, Tabriz, — disse Hossein.

— Pessima selvaggina anche quella, signore. Il ghepardo valeva di più.

— Pare che i leoni tengano consiglio, — disse Hossein che non li perdeva di vista.

Poi, volgendosi verso Karaval gli chiese:

— Sono cariche le tue pistole?

— Sì, signore; dubito però che la polvere prenda fuoco. Deve essere ancora bagnata.

— Ed io non ho che una sola carica. E tu Tabriz?

— Due sole, padrone.

— Tre colpi sono già qualche cosa.

— E poi abbiamo i kangiarri e anche quelli valgono. Ah!... I signori leoni continuano l'esplorazione!... Non credevo che fossero così prudenti.

— Cercano di guadagnarsi la colazione senza esporre le loro giubbe, — disse il bandito.

Le due belve, contrariamente alla loro abitudine, dimostravano infatti un'eccessiva prudenza.

Dopo essersi avvicinati alla collinetta, quasi strisciando sulle sabbie, si erano divisi per farne il giro in senso contrario, misurando cogli occhi l'altezza e cercando probabilmente il punto migliore per procedere all'attacco.

Compiuta quella seconda esplorazione, si erano sdraiati l'uno presso l'altro, mandando due sordi ruggiti.

— Ecco l'assedio, — disse il bandito. — Ieri sera il ghepardo, ora i leoni. Finirò per trovarmi un asilo nel ventre d'una bestia feroce. —

CAPITOLO VIII. L'attacco dei leoni.

Tutte le belve, a qualunque razza appartengano, non osano, anche se spinte dalla fame e sicure della vittoria, assalire in pieno giorno l'uomo, mentre invece non esitano, se si presta loro l'occasione, a scagliarsi su una gazzella, su un antilope e perfino contro le gigantesche giraffe.

Si direbbe che lo sguardo umano le rende titubanti, e perciò attendono sempre le tenebre per agire.

I due leoni, impressionati fors'anche dall'aspetto risoluto dei tre turchestani e dalla taglia gigantesca di Tabriz, invece di muovere direttamente all'attacco, si erano accovacciati aspettando la scomparsa del sole, per espugnare la posizione, forse colla magra speranza di sorprendere i difensori addormentati.

— Io comincio a credere — disse Tabriz, — che quei signori abbiano lo stomaco meno vuoto di quello che abbiamo supposto finora e che ieri sera abbiano inghiottita una cena più abbondante della nostra.

— Perderemo un tempo troppo prezioso, — disse Hossein, che pensava in quel momento a Talmà.

— Dopo l'Amu-Darja noi troveremo quanti cavalli vorremo, signore, ed in un paio di giorni giungeremo dal beg.

— E la troverò colà? — chiese Hossein con angoscia.

— Zitto, signore, questo non è il momento nè il luogo opportuno per parlare di ciò.

Ah!.. I leoni si permettono il lusso di schiacciare un sonnolino!... Se vi potessi sorprendere vi accarezzerei per bene i gropponi col mio kangiarro. —

Infatti le due belve, vedendo che i tre uomini non si decidevano a scendere, avevano posata la testa fra le zampe anteriori, socchiudendo gli occhi. Non vi era però da fidarsi di quel sonno più apparente forse che reale. Le orecchie erano tese ben diritte, per raccogliere i più lievi rumori, ed i tre turchestani non ignoravano l'acutezza dell'udito di quei terribili animali.

Nondimeno Tabriz, che cominciava ad averne abbastanza di quell'assedio che dovevano sostenere sotto un sole cocentissimo, a ventre vuoto e per di più fra il polverone che l'ultima galoppata degli asini selvaggi aveva sollevato e che non si era ancora disperso, credendo che i leoni assopiti dal calore si fossero veramente addormentati, si decise a tentare la discesa.

— Accada quello che si vuole, vado ad attaccarli, — disse a Hossein.

— Allora t'accompagno anch'io, — rispose il giovane.

Voi state per commettere una pazzia, — signori, — disse Karaval. —

Il birbante non diceva quelle parole per salvare le loro vite, bensì per la paura che venissero sbranati e di dover poi sostenere l'assedio da solo.

— Se tu hai paura rimani, — rispose Tabriz.

— Io non sono un soldato come voi. Non sono che un povero loutis.

— Resta dunque. —

Armarono le pistole e trassero i kangiarri, poi cominciarono a scendere con infinite precauzioni, onde non far franare le sabbie.

Volevano accostarsi fino a tiro di pistola, non dubitando dell'esattezza dei loro colpi.

I due leoni pareva si fossero realmente addormentati, poichè non accennavano ad aprire gli occhi.

Avevano compiuto metà discesa, quando un ruggito, che si era propagata fra le dune, come un colpo di tuono, echeggiò improvvisamente.

Il maschio si era alzato di scatto colla criniera irta, raccogliendosi prontamente su sè stesso, come se si preparasse a spiccare il salto.

— In guardia, signore! — gridò Tabriz.

Non aveva ancora finito che il leone si scagliava contro Hossein che si trovava più in basso.

Il giovane s'appoggiò alla duna e sparò risolutamente, con una calma ammirabile, il suo ultimo colpo di pistola.

Il leone, arrestato per così dire al volo, cadde da una parte, rotolando quasi ai piedi di Tabriz.

— Prendi! — urlò allora il gigante assestandogli un poderoso colpo di kangiarro.

La terribile lama squarciò netto il collo della belva, facendo sprizzare alto il sangue.

Intanto la leonessa, svegliata dal ruggito del compagno e dal colpo di pistola, era pure balzata in piedi, ma ebbe un momento di esitazione, e quello fu la salvezza dei turchestani.

Due spari rimbombarono, seguiti da un ruggito formidabile, poi, dileguatosi il fumo, Tabriz e Hossein scorsero la leonessa a fuggire attraverso la steppa, varcando a gran salti le dune.

— Ehi, loutis — gridò il gigante, volgendosi verso Karaval.

— Hai veduto come noi, uomini della steppa turchestana, sappiamo ammazzare i vostri leoni?

— Sparate meglio dei cosacchi del Don, voi, — si limitò a rispondere il bandito.

— Possiamo riprendere la marcia?

— Sono ai vostri ordini, signori. Abbiamo perduto già troppo tempo e giungeremo tardi all'oasi di Kara-Kum. —

Non vedendo più la leonessa, lasciarono frettolosamente la collinetta e dopo d'essersi bagnate le labbra coll'acqua, contenuta nella vescica, si misero senz'altro in marcia affrettando il passo.

Fu solamente tre ore dopo il tramonto, che giunsero all'oasi, completamente sfiniti e quel che era peggio, affamati.

Quella macchia però essendo più vasta delle altre e ricca d'alberi e di cespugli, fornì loro dell'acqua ancora più fresca di quella del piccolo stagno del ghepardo e uova in abbondanza, essendo abitata da veri stormi di houbara.

Cenarono di buon umore, accanto al pozzo e si stesero poscia presso il fuoco montando, uno per volta, la guardia, non essendo sicuri che non vi fossero delle belve.

Nei giorni seguenti continuarono la terribile marcia attraverso a quell'interminabile steppa ed al sesto giorno scoprivano finalmente la zona alberata che segue l'Amu-Darja, dalla sua sorgente fino alla sua foce.

Karaval aveva manovrato in modo da portarsi vicinissimo alla stazione comandata dal capo ghirghiso o usbeko che fosse, suo amico, che vegliava la frontiera per incarico dell'Emiro. Conoscitore profondo della steppa della fame, e di tutte le sue oasi, era sicurissimo di non essersi ingannato.

— Signori, — disse fermandosi dinanzi ai primi alberi e fingendo una gioia immensa, — ecco la parte più difficile del nostro viaggio compita.

Non ci rimane che di attraversare il fiume e saremo nella steppa degli Illiati, che confina con quella dei Sarti.

— Tu sei un brav'uomo, — gli rispose Hossein, — e avrai un regalo degno d'un nipote d'un beg.

— Troveremo un guado? — chiese Tabriz.

— Ecco il difficile, signore, — rispose il bandito. — L'Amur qui deve essere larghissimo e profondissimo e senza una barca non potremo attraversarlo.

Però, se non m'inganno, non dobbiamo essere lontani da una stazione di pescatori di garitse. Conoscete quei deliziosi pesci che somigliano alle trote?

— Ci preme conoscere più i pescatori che i pesci, — disse Tabriz.

— Volete lasciare a me l'incarico di andarli a cercare?

Mancano tre ore al tramonto e le mie gambe sono ancora in ottimo stato.

Qui d'altronde nulla avrete da temere, essendo queste rive quasi disabitate.

— Tornerai con una barca? — chiese Hossein.

— Ve lo prometto, signore. Continuate la marcia fino al fiume, accendete il fuoco e aspettatemi.

— Intanto cercheremo di procurarci la cena, — disse Tabriz.

— Addio, signori, contate su di me, — concluse il bandito allontanandosi.

Mentre egli seguiva il margine della zona alberata, Tabriz e Hossein si erano cacciati sotto le vôlte di verzura, premurosi di giungere sulla riva del fiume.

Una vegetazione splendida, formata però quasi esclusivamente da querce e da platani e da enormi cespi di rose ancora in fiore, formava come una fascia di qualche chilometro di estensione, non potendo le infiltrazioni delle acque spingersi più lontano.

Che frescura deliziosa però sotto quelle ombre, specialmente per uomini che, da otto giorni, si arrostivano da mane a sera sotto un sole implacabile e che avevano sempre marciato.

— Qui mi sembra di rivivere, — disse Tabriz. — Si direbbe che i pori della mia pelle disseccata, assorbano voluttuosamente l'umidità del fiume.

E poi questa è l'aria della nostra steppa, signore.

— Mista ad aria satura di vendetta, — aggiunse Hossein che era diventato tetro.

— Se non l'ucciderete voi, lo finirò io, signore. L'ho giurato, e gli uomini della steppa sanno mantenere le loro promesse, checchè avvenga.

— Mio zio non perdonerà: è implacabile come noi, lo conosco troppo bene. Vi è sempre però un sospetto che mi cruccia.

— Quale, signore?

— Che Abei mi abbia surrogato, credendomi morto.

— Non parlare di ciò, ora, signore. Ecco il fiume: lasciamo l'argomento scottante e vediamo se possiamo guardare l'Amu-Darja senza attendere il ritorno del loutis. —

Il fiume in quel luogo era largo cinquecento metri per lo meno, e le sue acque scorrevano rapidissime ed a quanto sembrava dovevano essere anche assai profonde.

Per di più la riva opposta non offriva alcun approdo, essendo formata da altissime rocce tagliate a picco, di colore nerastro e che trasudavano una materia vischiosa, di colore oscuro, che scivolava lentamente nel fiume in forma di serpenti.

— Senza una barca noi non potremo passare, — disse Tabriz. — E poi dovremo ancora scendere o risalire il fiume.

Dinanzi a noi si trova un terreno petrolifero. Non vedi la nafta che cola da quelle rupi?

— Aspettiamo il loutis, — rispose Hossein. — Sapendo di ricevere un premio, non mancherà di ritornare.

— Vado a cercare qualche cosa da porre sotto i denti. Troverò certo qualche albero da frutta. —

La breve gita di Tabriz, non fu troppo fortunata. Tuttavia riportò un po' di ribes e delle bacche, sufficienti a calmare momentaneamente la fame.

— Ci accontenteremo di questo per ora — disse il gigante. — Il loutis sa che siamo a secco di viveri e non mancherà di portarci almeno qualcuno dei suoi famosi pesci. —

Divorarono la frugalissima cena, accesero il fuoco per segnalare alla loro guida la loro presenza, poi si sedettero sulla riva, sotto una grossa quercia che lanciava rami giganteschi in tutte le direzioni.

Entrambi erano diventati muti e non staccavano gli sguardi dalla sponda opposta che serviva di barriera alla loro steppa. Certo pensavano al beg, a Talmà e soprattutto ad Abei, al miserabile che per poco non li aveva uccisi e che era stato la causa di tutte le loro disgrazie.

Le tenebre erano calate da un paio d'ore, quando Tabriz, che di quando in quando osservava il basso corso del fiume, scorse un certo numero di punti luminosi che si riflettevano vivamente nelle acque del fiume.

— Quelle sono barche di pescatori, — disse alzandosi. — Il loutis ce ne aveva promessa una e giunge invece con una flottiglia. Avrei meglio desiderato che fosse una sola, piuttosto di tante.

— Temi qualche sorpresa, Tabriz? — chiese Hossein che pareva uscisse allora da un sogno.

— Io non ho mai avuto rapporti coi pescatori dell'Amu-Darja, quindi non ti posso dire se sono galantuomini o birbanti.

— Nulla potrebbero toglierci. I bukari dell'Emiro mi hanno preso perfino l'ultimo tomano.

— E anche a me, signore. —

I punti luminosi intanto ingrandivano a vista d'occhio e le barche cominciavano a delinearsi abbastanza nettamente. A bordo si scorgevano parecchi pescatori, che arrancavano con gran lena per vincere la forza della corrente.

Tabriz contò sei barche, piuttosto pesanti, essendo tutte scavate nel tronco d'un albero, montate ognuna da cinque pescatori, quattro ai remi ed il quinto al timone.

Dinanzi ad ognuna, all'estremità d'un lungo bastone che reggeva una specie di borsa, formata di filo di rame, ardevano pezzi di legno, cosparsi di nafta o di petrolio, onde proiettassero maggior luce.

Sui bordi, Tabriz e Hossein scorsero, non senza un certo stupore, degli uccelli dalle gambe piuttosto lunghe, che si tenevano l'uno accanto all'altro e che sembravano liberi.

— Sono pescatori o cacciatori? — si chiese Tabriz. — Che cosa fanno quei volatili? —

In quel momento una voce a loro ben nota s'alzò sulla prora della prima scialuppa, gridando:

— Eccomi, signori!... Giungo in buon punto.

— Il loutis! — esclamarono Tabriz e Hossein.

La scialuppa, con pochi colpi di remo, giunse presso il fuoco che ardeva sulla riva, ed il bandito balzò a terra, dicendo:

— Noi siamo ospiti di questi pescatori e non avrete nulla da temere da parte loro. Sono brava gente.

— Acconsentono a farci attraversare il fiume? — chiese Hossein.

— Sì, signore, non prima di domani mattina però, essendo ora occupati alla pesca della garitsa. E poi per trovare un approdo, noi siamo costretti a discendere il fiume per parecchie miglia, essendo qui la riva opposta tagliata a picco per un lunghissimo tratto e troppo pericolosa.

— Ce n'eravamo accorti, — disse Tabriz.

— Vi è una zona petrolifera al di là delle rocce. Imbarcatevi, signori, e assisterete ad una pesca divertente.

— A ventre vuoto?

— Ho pensato a voi: vi è sotto la prora un canestro con pesci arrostiti e gallette di maiz, nonchè un fiasco di kumis e anche delle pipe. —

Balzarono nella barca che era la più lunga di tutte e si sedettero a prora, mentre i pescatori prendevano subito il largo ridiscendendo la corrente.

— Dimmi un po', loutis, — disse Tabriz, che aveva subito dato l'assalto al canestro.

— Che cosa fanno quegli uccelli che si tengono ritti sul bordo e che non sono legati?

— Servono a pescare le garitse, signore. La notte è oscura e quei deliziosi pesci si lasceranno prendere in gran numero.

— Da chi?

— Da questi uccelli, signore. Sono cormorani del mar d'Aral, dei pescatori infaticabili, che sono stati ammaestrati per la pesca della garitsa.

— Che pesci sono?

— Una specie di trote e abbondano qui. —

Le sei barche si erano disposte su due linee e si erano portate in mezzo al fiume, mentre i pescatori remavano dolcemente all'indietro, onde la corrente non le trasportasse troppo rapidamente.

Sul mar d'Aral e sui suoi fiumi che scaricano entro esso le loro acque, come nei mari e nei fiumi della China e del Giappone, si fa uso dei cormorani, di quegli avidissimi uccelli acquatici, che noi chiamiamo smergli, per ottenere delle pesche abbondanti.

Gli uomini della steppa si servono dei falchi per la caccia, i pescatori pure di volatili, e gli uni e gli altri non hanno da lagnarsi, perchè oltre a procurarsi un buon divertimento, si procurano, con quasi nessuna fatica, selvaggina terrestre ed acquatica. Si sa che i cormorani sono grandi distruttori di pesce e che sono anche pescatori abilissimi, potendo tuffarsi sott'acqua e rimanervi per qualche tempo. È appunto sull'avidità di quei trampolieri che i pescatori contano, ed in quale misura anche!...

Un cormorano bene ammaestrato può mantenere comodamente una famiglia di pescatori, e anche procurarle una certa agiatezza. Ordinariamente però i pescatori non ne hanno mai meno d'una mezza dozzina, che tengono con cure infinite.

È di notte che il cormorano lavora con maggior lena, sicchè i suoi padroni difficilmente se ne servono di giorno, almeno quelli delle rive del mar d'Aral e dei fiumi della steppa settentrionale.

Aspettano di solito le notti oscurissime, perchè quelle sono le più propizie per la pesca e prendono il largo coi loro uccelli che stanno appollaiati sui due bordi della barca.

Un fuoco arde sempre all'estremità d'un bastone per attirare i pesci. Quando questi cominciano a mostrarsi a fior d'acqua, i cormorani, ad un fischio del padrone si mettono animosamente al lavoro.

Di solito sono i più giovani che cominciano l'attacco. In un lampo si tuffano, afferrano il primo pesce che guizza dinanzi a loro e lo portano fedelmente al padrone, fedelmente perchè non possono divorare la preda. Se non avessero al collo un anello di rame che stringe loro il gozzo, vi sarebbe da dubitare sulla loro fedeltà e probabilmente il padrone aspetterebbe invano la preda.

Sono però così stupidi che, quantunque delusi nelle loro speranze e spronati un po' anche dalle loro abitudini, tornano subito in acqua alla caccia d'altri pesci, portandoli sempre.

È vero che a pesca finita potranno fare delle scorpacciate d'interiora, che l'avaro padrone getta loro in abbondanza.

Non è raro che un solo cormorano in una notte riesca a prendere quindici, venti e talvolta anche trenta chilogrammi di pesce. Moltiplicando per sei, ossia pel numero degli uccelli contenuti in ogni barca, si può comprendere quali guadagni faccia l'equipaggio che si compone di solito di non più di cinque persone.

La flottiglia dei pescatori, che continuava a scendere il fiume, dopo d'aver percorso un paio di chilometri, rinnovando costantemente i pezzi di legno, che bruciavano entro le borse di filo di rame, aveva cominciato a lanciare i volatili.

Quegli infaticabili pescatori lavoravano con vero accanimento. Appena a bordo ripartivano, tuffandosi profondamente, colla speranza mai esaudita, di poter finalmente saziare la loro ingordigia.

Già le barche erano mezze piene, quando giunsero in un luogo ove l'Amu-Darja s'allargava, formando una specie di lago che era cosparso d'isolette boscose.

— Qui faranno la grande pesca, — disse Karaval a Tabriz. — È questo il luogo ove le garitse si radunano in maggior copia. —

Le sei scialuppe continuavano ad avanzare, ma i cormorani, appena toccata l'acqua, s'affrettavano a ritornare a bordo rifiutandosi assolutamente di ritornare.

Una certa agitazione si era manifestata fra i pescatori.

Osservavano l'acqua, fiutavano l'aria e non osavano più avanzare.

Ad un tratto un altissimo grido s'alzò fra l'equipaggio della prima scialuppa.

— Fuggite!... La nafta. —

Quasi nell'istesso tempo, l'acqua s'infiammava intorno alle imbarcazioni, rompendo furiosamente le tenebre che gravitavano sul fiume.

CAPITOLO IX. Fra l'acqua e il petrolio.

Tutta la regione che si estende fra le rive del mar Caspio e quelle dell'Aral, altro non è che un immenso serbatoio di nafta, un serbatoio inesauribile che darà un giorno miliardi e miliardi a chi saprà sfruttarlo.

Da secoli gli abitanti di quei paesi avevano già notato fenomeni straordinari, ma per loro assolutamente inesplicabili, come l'apparizione improvvisa di vampe, uscenti da rocce e da crepacci trasudanti una materia che altro non era che nafta.

Sembra che dei bacini immensi si estendano su una superficie pure immensa e anche a non molta profondità, come lo hanno dimostrato i pozzi scavati in questi ultimi anni, specialmente nei dintorni del mar Nero.

Tuttavia quella vasta regione è rimasta, quasi fino ai nostri giorni, infruttuosa, quantunque si conoscesse l'esistenza della nafta fino dal secolo scorso, specialmente nei dintorni di Baku, la cui città era tenuta come sacra dagli adoratori del fuoco in causa d'una grande fiamma che usciva da una roccia situata presso le rive del mar Nero.

Non fu che nel 1870 che quegli immensi serbatoi attirarono l'attenzione degli scienziati e degli industriali, e fu con grande meraviglia che si constatò la loro esistenza e la loro prodigiosa ricchezza.

Alcuni pozzi scavati intorno alle rive meridionali del mar Nero, fecero finalmente comprendere quale ricchezza si nascondeva nel sottosuolo.

Ovunque i getti furono abbondanti. L'olio minerale salì alla superficie in così grandi quantità, specialmente dal pozzo chiamato Droogio, presso Baku, da non poterlo frenare con alcun mezzo.

Fu un vero torrente di nafta verdastra, che andò a terminare in buona parte nel mar Caspio, mettendo in serio pericolo le navi che si trovavano in quei paraggi, perchè uno zolfanello gettato inavvertitamente in acqua, sarebbe stato sufficiente per distruggerle tutte.

Il petrolio discese da un giorno all'altro, ad un centesimo al litro!...

Non è, come abbiamo detto, solamente sulle rive del Caspio, che il sottosuolo nasconde serbatoi prodigiosi di nafta. Tutto il Turchestan settentrionale, che segue le sponde orientali del mar Caspio, fino a quelle meridionali dell'Aral, è una regione petrolifera che darà certamente un giorno altre favolose ricchezze. Perfino lungo certi fiumi dell'interno, le rocce trasudano nafta, ora nerastra ed ora verdastra e quelle segnano i buoni punti che un pozzo venga aperto ed il petrolio subito salirà alla superficie a riempire milioni e milioni di barili.

Lo strano sì è poi, che quei serbatoi non si estendono solamente sotto la così detta terra ferma, bensì anche sotto quei mari, talvolta perfino sotto i letti dei fiumi.

Di quando in quando, forse in causa di qualche scossa di terremoto o per altri motivi ancora ignorati, dai crepacci escono delle enormi masse di gaz di nafta, le quali formano alla superficie dell'acqua innumerevoli bolle.

Uno zolfanello od un pezzo di stoppa accesa, gettata via dai naviganti, basta per provocare migliaia e migliaia di fiamme, simili a quelle dei becchi di gaz, ma più grosse e di forma conica.

Lo spettacolo è ammirabile, tanto più che non è veramente troppo pericoloso pei naviganti. Guai però se invece dei gaz sale la nafta, come talvolta avviene!.... Allora è un mare di fuoco che si estende spaventosamente e disgraziate quelle navi che per mancanza di vento non riescono ad allontanarsi più che in fretta.

················

Al grido di terrore e d'angoscia mandato dagli uomini della prima scialuppa, un altro non meno alto, non meno terribile era partito dalle altre.

La nafta bruciava!.... Era la morte e quale atroce morte, che minacciava i pescatori di garitse!...

Le fiamme, sviluppatesi con rapidità incredibile, s'allargavano sulle acque sature d'olio minerale, mandando una luce biancastra simile a quella che sviluppa l' alcool.

I cormorani, spaventati si erano alzati, spiccando il volo verso le isole, prima che i pescatori, fra quella confusione, avessero pensato a trattenerli.

La fuga dei volatili aveva impressionato maggiormente i pescatori, credendo di vedere in quella la loro perdita.

Tabriz e Hossein, non meno impressionati, erano balzati subito in piedi, gridando assieme a Karaval:

— Ai remi!... Ai remi!... —

Un momento di ritardo era la fine di tutti.

Il capo della flottiglia, comprendendo che non vi era da esitare, aveva lanciato un comando.

— Alle isole!... Coraggio! —

Le sei scialuppe si erano messe in corsa. Per buona fortuna dinanzi a loro l'acqua non aveva ancora preso fuoco, però era necessario spegnere prontamente i pezzi di legno che ardevano entro le borse di filo di rame, onde evitare di allargare l'incendio.

Mentre i rematori arrancavano disperatamente, tendendo i muscoli fino al punto di farli quasi scoppiare, i timonieri si erano affrettati a ritirare le aste rovesciando i tizzoni sui pesci, che ingombravano il fondo delle scialuppe.

Lo spettacolo che offriva quella specie di lago formato dalle acque dell'Amu-Darja, diventava di momento in momento più spaventoso.

Pareva che si fosse trasformato, per opera magica, in un piccolo mare di fuoco. Fiammate si alzavano dappertutto dietro le imbarcazioni fuggenti, spandendo in alto una luce intensa, quasi accecante.

Le acque ribollivano con leggeri crepitii, in causa di masse considerevoli di gaz che salivano senza posa alla superficie assieme alla nafta, sviluppando nuove fiammate che sovente raggiungevano delle altezze di parecchi metri.

Si sarebbe detto che un vulcano avvampava sotto il laghetto.

I pescatori fuggivano sempre verso le isole. Avrebbero desiderato meglio guadagnare le rive del fiume; l'onda di fuoco però glielo impediva, e attraversarla sarebbe stato come andare incontro ad una morte certa.

Per fortuna quelle terre che occupavano quasi il centro del laghetto non erano lontane, sicchè bastarono cinque minuti di corsa sfrenata per raggiungere la prima che era la maggiore.

Sbarcarono in fretta, tirarono a terra le barche e si gettarono sotto gli alberi, sdraiandosi fra i giunchi che erano altissimi.

— Bell'avventura! — disse Tabriz che si era gettato fra Hossein e Karaval. — Come finirà?

— Bene, spero, — rispose il bandito. — Aspetteremo che la nafta si sia consumata e andremo a far colazione al villaggio dei pescatori con una dozzina o due di garitse.

— Alla malora i tuoi pesci! — esclamò Tabriz. — Non sogni che quelli e per quelli per poco non ci facevi arrostire vivi!

— Non è colpa mia, signore.

— Se tu fossi stato la cagione, non so se avresti ancora la testa piantata sul tuo collo.

— Non temete, — disse Karaval. — Il fuoco non durerà molto. —

Pareva però che l'incendio, invece di scemare, aumentasse continuamente, come se dai crepacci apertisi nel letto del laghetto, la nafta non cessasse di risalire alla superficie.

Un turbine di fuoco scendeva colla corrente, riversandosi verso il basso corso dell'Amu-Darja e si scorgeva, anche molto lontano, il cielo riflettere quei lividi bagliori. Si sarebbe detto che un lampeggiare continuo riempiva l'atmosfera con una luce però fissa e non già tremolante.

L'acqua continuava a ribollire e un numero infinito di pesci saliva alla superficie, per bene cucinati.

— Peccato non poter mettere una mano lì dentro. Ci guadagneremmo una cena bastante per cinquecento persone, — disse Tabriz.

Hossein non rispose.

Guardava con inquietudine quelle fiammate, che ormai circondavano le isole, facendo crepitare i canneti ed i giunchi che coprivano le rive.

I pescatori non sembravano però impressionati, ora che si trovavano a terra. Quel fenomeno, in apparenza terribile, non doveva essere nuovo per loro e dovevano anche conoscerne la portata.

Stesi fra le erbe, al disotto delle piante che li proteggevano dal calore e dal fumo, guardavano tranquillamente quelle immense fiammate, che la corrente travolgeva verso lo sbocco del lago.

Avevano ragione di non preoccuparsi troppo, poichè, dopo tre o quattro ore, le fiamme cominciarono a decrescere, la luce divenne meno intensa e finalmente, esauritasi la nafta, le tenebre tornarono a piombare sul laghetto.

— Non credevo che tutto finisse così bene, — disse Tabriz a Hossein. — Avevo paura di morire arrostito come un cagnolino. —

Il giovane rispose con un lieve sorriso.

— Padrone, — proseguì, il gigante, — non ti ho mai veduto così preoccupato come ora, eppure non siamo che a poche centinaia di passi dalla nostra steppa.

— Taci, Tabriz, — rispose Hossein.

— È proprio vero che non si è mai contenti in questo mondo, — brontolò il turchestano..

Quantunque non vi fosse più alcun pericolo, i pescatori attesero l'alba prima di lanciare nuovamente in acqua le loro scialuppe.

Si erano appena imbarcati che già i cormorani avevano ripresi i loro posti. Quei ghiottoni non avevano probabilmente dimenticati gl'intestini dei pesci, presi durante la sera e che per diritto spettavano a loro.

Le sei scialuppe attraversarono il laghetto, le cui acque erano tornate fresche, imboccarono il canale meridionale e dopo qualche chilometro si arrestarono dinanzi ad un villaggio composto d'un centinaio di casupole e che era difeso da una specie di ridotto, armato d'una mezza dozzina di falconetti e sormontato da una bandiera verde, il vessillo dell'Emiro di Bukara.

Scoprendola, Tabriz e Hossein si erano guardati l'un l'altro con apprensione.

Loutis, — disse il primo, rivolgendosi a Karaval con aria minacciosa, — dove ci hai condotti tu?

— In un villaggio di pescatori, signore.

— E quella bandiera?

— Questi sono sudditi dell'Emiro, signore, però sono certissimo che non vi daranno nessun fastidio. Non facevano già parte della carovana e probabilmente non hanno saputo ancora nulla della presa di Kitab.

Che cosa potete temere voi da loro?

— E in quel ridotto non vi saranno degli usbeki?

— Che importa a loro se degli uomini chiedono di attraversare l'Amur-Daria?

— Puoi aver ragione, — disse Tabriz, un po' rassicurato dalle parole del bandito.

Il gigante e Hossein sbarcarono colla speranza di partire subito, appena deposto a terra il pesce predato dai cormorani.

— Venite a far colazione nella casupola d'un mio amico, — disse Karaval. — Prima di un'ora il pesce non sarà a terra e intanto assaggeremo una dozzina di garitse.

— Se si tratta d'una sola ora, vada, — disse Tabriz.

— Le emozioni di questa notte a dire il vero mi hanno aguzzato l'appetito. Vieni, signore. —

Hossein, che sembrava sempre preoccupato, li seguì ed entrarono in una catapecchia che aveva le pareti di fango ed il tetto di canne palustri e che formava una sola stanza non troppo vasta.

Un uomo, giovane assai, poichè poteva avere appena vent'anni, quasi avesse indovinato il desiderio dei suoi avventori, stava friggendo in una padella di rame, piena di grasso di cammello, dei pesci.

— Padrone, — disse Karaval, scambiando col cuciniere un rapido sguardo, — servi qualche cosa a questi signori.

— Ho delle garitse pronte, — rispose il cuciniere, che non era altri che Dinar. — Sono già cotte a puntino e doveva servirle al comandante dell'Emiro.

— Ne manderai degli altri più tardi — rispose Karaval. — Noi paghiamo. —

Dinar levò i pesci, li depose su un piatto di creta e li servì ai tre uomini, che si erano seduti intorno ad una tavola, l'unica che si trovasse nella camera.

— Signori, — disse Karaval, quand'ebbe mangiato un paio di pesci, — mentre voi terminate la colazione vado a noleggiare la scialuppa.

Fra un quarto d'ora noi saremo al sicuro al di là della frontiera.

— Va', — rispose Tabriz, che faceva onore ai pesci e che aveva la bocca piena.

Anche Hossein attaccava con molto appetito i pesci e pareva che per un momento avesse dimenticato Talmà, il beg ed anche Abei.

— Signore, — disse il gigante, quando il piatto fu vuoto, — un'altra dozzina ci starebbe, almeno, nel mio stomaco.

Quel birbone di loutis aveva ragione di vantare questi eccellenti abitanti dell'Amu-Darja. Non ne ho mai mangiati di così delicati.

— Se ti fa piacere ordina, — rispose Hossein che era ricaduto nei suoi pensieri. — Il loutis pagherà lui per ora.

Tabris si era voltato gridando:

— Ehi, cuciniere, fa lavorare ancora una volta la tua padella.

— Sì, quando mi avrete detto chi siete e dove andate, — rispose una voce che non era quella di Dinar.

Tabriz si era alzato vivamente, subito imitato da Hossein.

Il cuciniere era scomparso e invece, dinanzi alla porta, si trovava un uomo barbuto, d'aspetto poco rassicurante, che aveva nella larga fascia un vero arsenale fra pistole, jatagan e kangiarri, accompagnato da una mezza dozzina d'usbeki, armati non meno formidabilmente di lui.

— Chi sei e che cosa vuoi tu? — chiese Tabriz, afferrando istintivamente la pesante scranna su cui si era seduto.

— Un ufficiale dell'Emiro di Bukara, — rispose l'uomo barbuto, con alterigia, — snudando con un gesto tragico uno dei suoi kangiarri.

— Allora mandami il cuciniere, onde ci prepari degli altri pesci, così potrai assaggiarne anche tu in nostra compagnia. —

L'ufficiale aggrottò la fronte e fece un gesto sdegnoso.

— Io, con voi! — esclamò.

— Ehi, quell'uomo, — disse Tabriz, — ora sappi che questo signore, che ha fatto colazione con me, è il nipote d'uno dei più famosi beg della steppa dei Sarti. Giù il cappello!...

— Voi non siete altro che banditi, ricercati dal mio signore, — rispose l'ufficiale. — Arrendetevi o vi faccio a pezzi... —

Non potè terminare la frase. Tabriz, preso da un'impeto di furore, aveva alzata la sedia e gliel'aveva scaraventata addosso con tale impeto da farlo stramazzare al suolo più morto che vivo.

Gli uomini che lo accompagnavano si erano subito gettati avanti coi kangiarri e cogli jatagan in mano, cercando d'irrompere nella stanza e di precipitarsi addosso ai due turchestani.

Hossein che li teneva d'occhio, con una mossa fulminea aveva sollevato la tavola e l'aveva scaraventata attraverso la porta, sbarrando loro il passo.

— Addosso coi kangiarri, Tabriz! — gridò poi.

I sei usbechi, arrestati di colpo e spaventati anche dalla statura imponente di Tabriz, avevano dato indietro, scaricando due o tre colpi di pistola a casaccio.

Vedendo poi roteare in alto i due kangiarri dei turchestani, ritennero più opportuno alzare i tacchi e scapparsene, senza occuparsi del disgraziato ufficiale che era rimasto svenuto dinanzi alla porta.

— Siamo stati traditi! — gridò Tabriz, che pareva in preda ad un terribile accesso di collera. — Il loutis ci ha venduti!...

— Sì, il miserabile! — rispose Hossein.

— Gli strapperò il cuore!

— Ed io gli taglierò la testa!...

— Canaglia!...

— Birbante!...

— Ah!... C'è l'ufficiale!

— Buona presa, Tabriz!

— E buon ostaggio!... Vieni con me, mio caro. —

Allungò le braccia al di là della tavola, abbrancò il disgraziato per la giubba e lo alzò come se fosse un fantoccio.

— Ecco di che rinforzare la nostra barricata, — disse. — Vedremo se gli usbeki oseranno fucilarlo.

— Non migliorerà di molto la nostra situazione, Tabriz, — disse Hossein. — Come potremo resistere noi, che abbiamo le pistole scariche?

— E queste, signore? — disse il gigante, levando le due a doppia canna, che portava alla cintura il prigioniero.

— Quattro palle valgono ancora qualche cosa, quando si sanno mandare all'indirizzo giusto.

Vengano!... Ah!.... I birbanti!...

E quel cane di loutis diceva che questo era un villaggio di pescatori!... Non morrò contento se non gli mangerò il cervello per lo meno. —

Due dozzine di usbeki erano comparsi a breve distanza dalla casupola, armati non solo di pistole e di armi bianche, bensì anche di moschettoni.

Li guidava un uomo piuttosto attempato, d'aspetto imponente, che portava sul capo il turbante verde, il distintivo degli uomini che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca e che perciò hanno il diritto di essere considerati come una specie di santoni.

— Chi sarà quel brutto muso? — si chiese Tabriz, che lo spiava attraverso il vano lasciato fra la sommità della tavola e la volta della porta. — Non sarà il tuo turbante verde che ti salverà dalle palle della pistola di questo imbecille.

Padrone, sei pronto? Qui si tratta di difendere la pelle e la nostra libertà.

— Li aspetto, — rispose semplicemente Hossein, che si era inginocchiato dietro alla tavola.

Cerchiamo di dare una buona lezione a questi furfanti. —

CAPITOLO X. L'assedio.

Gli usbeki che, dal primo ricevimento avuto, avevano compreso di aver da fare con due, pronti a qualunque sbaraglio e ben decisi a difendere la loro vita, giunti a cinquanta passi dalla catapecchia, si erano fermati per consigliarsi sul miglior mezzo di marciare all'attacco.

Temendo di ricevere qualche scarica, si erano stesi al suolo, dietro una macchia di cespugli, forse coll'intenzione di aprire il fuoco, tenendosi dietro quel riparo che, se non li copriva dalle palle, per lo meno li nascondeva.

— Uhm! — disse Tabriz, che li spiava. — Non mi sembrano molto coraggiosi i soldati dell'Emiro.

Con due dozzine d'uomini, a quest'ora avrei dato l'assalto anche al ridotto.

— La partita non è ancora cominciata, — rispose Hossein, che non condivideva l'ottimismo del gigante. — Tu hai dimenticato che sul ridotto vi sono dei falconetti e che questa catapecchia ha le muraglie di fango. —

In quell'istante un colpo di fucile partì dietro il cespuglio, ed una palla si piantò profondamente nella tavola che serviva da barricata.

Tabriz fece un salto, riparandosi dietro lo stipite della porta.

— Pare che si siano finalmente decisi, — disse, sorridendo. — Sono di una prudenza che rasenta quella dei conigli.

— Non esporti, Tabriz.

— Lascerò a loro sprecare le munizioni, signore. Ci tengo anch'io a non farmi crivellare, almeno fino al giorno che ti avrò vendicato.

— Taci! — disse Hossein con voce sorda.

— Sì, è meglio lasciar parlare gli archibugi e le pistole, per ora. —

Una scarica tenne dietro alle sue parole. Le palle si piantarono nelle pareti di fango e nella tavola e alcune perfino sul soffitto.

— Padrone, — disse ad un tratto il gigante. — Non spaventarti se io griderò, anzi farai meglio ad imitarmi.

— Perchè?

— Lascia fare a me. La mia idea mi sembra buona. —

Una seconda scarica rintronò, avvolgendo il cespuglio d'una nuvola di fumo.

Tabriz aveva mandato un urlo, come d'un uomo colpito a morte.

— Grida anche tu, padrone, — disse poi subito. — Forte!... Forte!... —

Quantunque Hossein non riuscisse a comprendere il piano del gigante, aveva mandato a sua volta un lungo urlo.

— Ed ora silenzio, — aveva sussurato Tabriz. — Fingiamo di essere morti. —

Gli usbeki, che avevano udite quelle due grida, si erano prontamente alzati coi moschettoni ancor fumanti, guardando la casupola.

Stettero qualche minuto immobili, poi, non udendo alcun rumore, nè vedendo ricomparire i due assediati, fecero alcuni passi innanzi, incoraggiati dai sagrati del capo.

Gli usbeki, credendo che gli assediati fossero stati veramente uccisi dalla seconda scarica, si erano fatti animo e s'avanzavano, lentamente però, cercando di scoprire, dietro la tavola che ostruiva la porta, i due cadaveri.

Erano tanto sicuri di trovarli morti o agonizzanti, che non avevano nemmeno presa la precauzione di ricaricare i loro moschettoni.

— Attento, padrone, — sussurrò Tabriz che si teneva sempre nascosto dietro lo stipite della porta. — Salta la tavola e piomba su quei furfanti.

— Ho il kangiarro ben saldo in mano.

Il capo degli usbeki, che era dinanzi a tutti e che impugnava una specie di scimitarra assai ricurva e dalla lama larghissima, giunto a quattro o cinque passi dalla porta si fermò, gridando:

— Vi arrendete? —

Nessuno rispose.

— Sono proprio morti, — disse poi, volgendosi verso i suoi uomini. — Non mi aspettavo che tiraste così bene. —

I ventiquattro uomini si fecero coraggiosamente innanzi per rimuovere la tavola, quando d'un tratto videro il gigantesco Tabriz e Hossein varcarla con un solo salto e piombare in mezzo a loro.

Uran!... Uran!... —

Il terribile grido degli scorridori della steppa turchestana lanciato dai due assediati, fu accompagnato da due colpi di kangiarro che fecero stramazzare a terra due usbeki colle gole squarciate.

— Sotto, padrone! — urlò Tabriz, che menava disperatamente le mani.

— Cacciamo questi poltroni. —

Quell'attacco fulmineo e soprattutto la vista di quel colosso, sconcertò gli assedianti. Spararono appena qualche colpo di pistola, poi volsero i tacchi come lepri. Anche il loro comandante, che era sfuggito per un vero miracolo ad un colpo di kangiarro, vibratogli da Hossein, se l'era data a gambe non meno velocemente degli altri.

— Credo che per ora ne abbiano abbastanza, — disse Tabriz, rifugiandosi prontamente entro la catapecchia. — Guardati dalle palle, signore.

Ci tempesteranno di certo.

— Finchè adopreranno i fucili non avremo molto da temere, — rispose Hossein, che si era coricato dietro la parete. — Il mio timore è che si servano dei falconetti che abbiamo veduto sul ridotto.

— Pare che per ora non ci abbiano pensato, signore. La faccenda si guasterebbe troppo presto, non potendo queste muraglie resistere a simili tiri.

— Che cosa fanno dunque quei poltroni?

— Ci spiano, signore, e tengono un secondo consiglio. Pare che piaccia più ai bukari parlare che menare le mani.

To'!... M'ingannavo: ecco che si preparano a consumare un po' di polvere dell'Emiro. —

Sette od otto colpi di fucile vennero sparati dietro al cespuglio, producendo molto baccano e molto fumo, ma niente di più perchè le palle di quei vecchi moschettoni non riuscivano ad attraversare le muraglie di fango, anzi nemmeno la tavola che aveva uno spessore non comune.

— Avanti!... Musica!... — disse Tabriz che pareva si divertisse immensamente. — Ci vuol ben altro che le vostre palle, stupidi!... Bisogna venirci a scovare col kangiarro in pugno, miei cari, e... —

Si era interrotto bruscamente ed aveva spiccato un salto verso la tavola senza prendersi alcun pensiero delle palle che continuavano a fioccare con un lungo mugolìo.

— Tabriz, che cosa fai? — gridò Hossein.

— Il miserabile!...

— Chi?...

— Il loutis.

— Con gli usbeki?...

— Sì, padrone.... Canaglia, si è nascosto, ma lo terrò d'occhio!... È necessario che l'uccida!...

— Via di lì, Tabriz!...

— Hai ragione, padrone. Sono uno stupido a espormi così... un po' più basso e la mia testa scoppiava. —

Una palla aveva attraversato il suo cappello portandoglielo via dal capo.

— Hai veduto, Tabriz? —

Gli spari si succedevano senza tregua. I bukari facevano grande spreco di munizioni, senza ottenere alcun successo, poichè i due assediati si guardavano bene dal mostrarsi.

La fucilata durò una buona mezz'ora, poi parve che gli assedianti si fossero finalmente accorti dell'inutilità dei loro tiri, poichè il fuoco bruscamente cessò.

— Tabriz, — disse Hossein, — che vengano all'attacco?

— Mi pare che non ne abbiano l'intenzione, almeno pel momento, — rispose il gigante, che li spiava per una fessura lasciata fra la tavola e lo stipite della porta.

— Che ci cannoneggino?

— Eh, non lo so, mio signore, tuttavia non sono molto tranquillo.

— Io vorrei sapere come finirà quest'avventura.

— Li vedi ancora?

— No, sono tutti scomparsi, signore.

— Saranno andati a far colazione.

— E noi?

— Cerchiamo: quel maledetto taverniere avrà qualche cosa da porci sotto i denti.

Guarda i bukari tu, signore, mentre io frugo. —

Nella stanza non vi erano che alcune casse addossate alle pareti ed un vecchio cofano tarlato su cui trovavasi un pagliericcio che doveva servire da letto al proprietario della casupola.

Tabriz aprì le une e l'altro e fu tanto fortunato da trovare una mezza dozzina di gallette di maiz, nonchè una terrina di pesci già cucinati e conservati nel grasso di cammello.

— E vi è anche lì in quell'angolo un fiasco di kumis, — disse il brav'uomo, fregandosi le mani. — Per un paio di giorni i viveri sono assicurati ed in quarant'otto ore possono succedere molte cose.

Padrone, si degnano mostrarsi?

— Non vedo nessuno, Tabriz, — rispose Hossein. — Si direbbe che hanno abbandanato il villaggio.

Che se ne siano proprio andati? —

Il gigante non rispose. Il giovane, non ottenendo risposta, si volse e vide Tabriz curvo verso una delle quattro pareti, che rimuoveva una tavola di quercia che era incastrata nel fango.

— Che cosa cerchi? — chiese Hossein.

— Dietro questa tavola vi deve essere qualche cosa, — rispose il gigante. — Resiste!... Eh cederà alle mie braccia!... —

Con uno sforzo la strappò mettendo allo scoperto un'apertura che aveva non meno di un mezzo metro di circonferenza, che pareva mettesse in qualche caverna sotterranea o per lo meno in qualche cantina.

— To'! — esclamò.

— Signore, mettiti a guardia della porta: io parto in ispezione.

— Per dove?

— Lo saprai presto.

Il gigante scivolò attraverso l'apertura e scomparve.

Hossein si era subito ricollocato dietro alla tavola che serviva di barricata, senza però riuscire a scorgere nessun usbeko.

Erano occupati gli assedianti a studiare qualche nuovo mezzo per far capitolare gli assediati o, disperando di riuscire nel loro intento, avevano preso il largo sulle loro barche? A dire il vero Hossein non prestava molta fede alla loro scomparsa, essendo in buon numero e potendo reclamare per di più l'aiuto dei pastori, pure loro sudditi dell'Emiro.

Il giovane era a questo punto delle sue riflessioni, quando un getto di fumo irruppe bruscamente attraverso la porta, costringendolo a dare indietro.

Qualcuno doveva aver gettato qualche fastello di legna accesa alla base della parete, coll'evidente intenzione di allontanare i due assediati.

— Altro che scappati! mormorò Hossein.

Un colpo di tosse gl'impedì di parlare. Un altro getto di fumo era entrato, proveniente dall'altra parete ed era quello così acre, così puzzolente, da obbligare il giovane a fare altri due passi indietro.

— L' alfek — esclamò. — L'erba puzzolente degli stagni amari!.. Ora ci affumicheranno per bene e non so se potremo resistere a lungo.

— Per tutti i diavoli dell'universo! — gridò in quel momento una voce dietro di lui, interrotta da due colpi di tosse. Giungo in buon punto.

— Tabriz!...

— Eccomi, signore.

— Stanno per prenderci. Il vento soffia dinanzi a noi e fra poco la camera sarà piena.

— Non siamo presi affatto, signore. Seguimi subito, prima che s'accorgano della nostra fuga dobbiamo essere lontani. Ah!... Ah!... Che bel giuoco! —

Se il gigante rideva, voleva significare che le cose non andavano così male come credeva Hossein.

Questi senza perdere tempo in chiedere spiegazioni, si era slanciato dietro al fedele servo che si era nel frattempo riempito le tasche di gallette e anche di pesci, poco badando se si ungeva di grasso di cammello.

— Attàccati alla mia zimarra, padrone — gridò Tabriz. — Tu non hai gli occhi dei gatti.

— E dove mi conduci?...

— Non occupartene pel momento. Corri sempre dietro di me, o quel fumo puzzolente ci raggiungerà e cadremo a mezza via. —

Il gigante camminava in fretta, colle braccia allargate, per toccare le due pareti del passaggio e pareva proprio che ci vedesse, perchè non esitava un solo istante a spingersi innanzi.

Hossein invece non riusciva a scorgere assolutamente nulla, non filtrando il menomo raggio di luce in quel corridoio tenebroso.

Dapprima scesero, poi, dopo aver percorso un centinaio di metri, cominciarono a salire, senza però che l'oscurità si dileguasse.

— Ci siamo, — disse ad un tratto il gigante. — Ecco l'aria fresca del colle che giunge.

Ancora quindici o venti passi ed i falconetti lavoreranno.

— I falconetti!... Sei diventato pazzo, Tabriz.

— Oh! Vedrai padrone, come li prenderemo alle spalle! Voglio affogarli tutti nel fiume, compreso il loutis.

Alt!... Ecco la porta! —

Tabriz si era fermato di colpo.

Le sue mani scorsero su una superficie metallica, poi, trovata la maniglia, spinse con forza.

Tosto un fascio di luce illuminò il corridoio.

— Una porta di ferro? chiese Hossein sottovoce.

— Sì mio signore.

— Dove mette?

— Non saresti capace d'indovinarlo.

— Non farmi perdere la pazienza.

— Vieni. —

Attraversarono la porta e si trovarono in una specie di magazzino che era ingombro di casse e di botti e che riceveva la luce da due strette feritoie.

— Dove siamo dunque? — ripetè Hossein, impazientito.

— In una polveriera. Queste botti e queste casse sono piene di munizioni. Me ne sono assicurato prima.

— Tabriz, mi hai condotto nel ridotto che abbiamo veduto quando siamo sbarcati?

— Sì, mio signore.

— Siamo entrati nella tana dei lupi di Bukara. Non ci faranno a pezzi ora?...

— Non lo credo. Intanto chiudiamo la porta e spranghiamola, giacchè vedo qui delle sbarre di ferro.

È solida e non cederà facilmente ed i bukari, che ci assediavano, non potranno entrare nel corridoio prima di parecchie ore.

— Sei certo che non ci sia nessuno nel ridotto?

— Prima non ho udito alcun rumore e non ho veduto nessuno. Tutti i bukari devono trovarsi sulla riva del fiume in attesa di vederci uscir dalla taverna.

Seguimi, signore. —

Attraversarono il magazzino e si trovarono in una specie di scuderia, dove quattro bellissimi cavalli persiani stavano riempiendosi di erbe profumate.

— Ecco, per guadare il fiume e correre attraverso la nostra steppa, — disse Tabriz.

— E superbi, — aggiunse Hossein.

— Taci, padrone.

— Che cos'hai udito?

— Una porta scricchiolare.

— Che i bukari vengano a rifornirsi di munizioni?

— Non ci mancherebbe altro! —

Vedendo in un angolo un mucchio di fieno abbastanza alto da celarli entrambi, vi si gettarono dietro armando precipitosamente le pistole.

Un passo pesante e cadenzato s'avanzava risuonando entro una specie di corridoio, che poteva anche essere un'opera coperta conducente al ridotto, avendo Tabriz scorto delle feritoie.

Poco dopo un vecchio bukaro, armato d'archibugio, entrava nella scuderia dirigendosi verso il magazzino delle munizioni.

Tabriz aveva fatto atto d'alzarsi, ma Hossein l'aveva subito trattenuto, sussurrandogli:

— Lascialo andare: potrebbe dare l'allarme. Quando si sarà rifornito di palle e di polvere tornerà sulle rive del fiume.

Così infatti accadde. Il bukaro uscì dal magazzino, portando due sacchetti che dovevano essere pieni di munizioni e se ne andò come era venuto, senza essersi accorto di nulla.

Quando non udirono più i passi, i due turchestani balzarono in piedi nel medesimo tempo.

— Presto, padrone — disse Tabriz.

Attraversarono rapidamente l'opera coperta e sbucarono finalmente all'aperto, dinanzi alla batteria che era composta di quattro falconetti installati su un terrapieno.

Nessuna sentinella vegliava. A quanto pareva, il capo, sicuro di non venir assalito da nessuno, aveva fatto scendere tutti i suoi uomini per dare l'attacco alla casupola.

Tabriz fece una rapida esplorazione e trovata la porta che, dal sentiero fiancheggiante la collinetta, metteva nel ridotto, la chiuse con fragore, sbarrandola con una grossa trave.

— Ed ora, padrone, rideremo, — disse il gigante.

CAPITOLO XI. La sconfitta degli usbeki.

Come abbiamo detto, quella specie di fortino, destinato a difendere i guadi dell'Amu-Darja, che si trovavano in quel punto della frontiera, sorgeva su una collinetta non più alta d'un centinaio di metri e che probabilmente era l'unica che sorgesse nella steppa occidentale.

Non era un gran che, tuttavia si componeva d'un gruppetto di fabbricati costruiti con mattoni cotti al sole e uniti con fango, che si stringevano addosso ad un terrapieno munito di merlature e difeso da quattro falconetti con palle da una libbra.

Tabriz e Hossein, appena chiusa la porta, erano saliti sul terrapieno da dove potevano dominare tutto il villaggio e anche un tratto dell'Amu-Darja.

Di lassù scorsero subito la catapecchia del trattore, che si trovava isolata all'estremità meridionale del villaggio.

Fastelli di legna puzzolente bruciavano dinanzi alla porta, mandando in aria grosse nubi di fumo nerastro e, poco distante, i bukari in agguato, dietro ai cespugli, coi fucili in mano, pronti a salutare gli assediati con una scarica e impedire la loro fuga.

Erano una quarantina, tutti bene armati; ed a loro si erano aggiunti alcuni pescatori, forse più per curiosità che per aiutarli validamente, non avendo che fiocine e qualche scure.

Tabriz ad un tratto fece un balzo.

— Il loutis! — esclamò.

— Dov'è?

— Eccolo là che attraversa il fiume su una barca, con due cavalli.

— Che fugga?

— Scommetterei che quel birbante ha ricevuto il prezzo del tradimento e che ora si mette in salvo.

— Non dobbiamo lasciarcelo scappare, Tabriz, — disse Hossein con impeto. — Voglio avere quell'uomo nelle mie mani.

— Perché padrone?

— Perchè ho il sospetto che egli sia una delle Aquile pagate da Abei.

— Aspetta un momento, padrone. Gli fracasserò la barca.

— Lo voglio vivo ti ho detto.

— Farò il possibile. Tu tira sugli usbeki, io su quel cane e sul suo compagno, che mi sembra sia il taverniere. —

Esaminarono i falconetti.

— Carichi tutti, — disse il gigante.

— Mira giusto.

— E tu getta a terra più bukari che puoi. —

Si curvarono sui due piccoli pezzi che formavano le due estremità della batteria, abbassandoli fino al punto esatto di mira, poi diedero fuoco alle micce, che stavano chiuse in una cassetta.

— Ci sono — disse Hossein.

Una fortissima detonazione scosse l'aria e il proiettile andò a cadere in mezzo agli usbeki facendone stramazzare due al suolo.

Un momento dopo anche Tabriz faceva fuoco, spaccando la poppa della barca sulla quale si trovavano Karaval e Dinar.

Vi fu fra i bukari un momento di stupore impossibile a descriversi, poi vedendo ondeggiare sul ridotto due nuvole di fumo e temendo una nuova scarica si dispersero in tutte le direzioni, urlando e bestemmiando.

— Agli altri due padrone, — disse Tabriz. — Non lasciamo a loro il tempo nè di rimettersi dallo spavento, nè di radunarsi.

— Non aver fretta: non sprechiamo colpi.

— Vi è il magazzino che ci provvederà, signore.

— La barca affonda!...

— Ma troppo tardi, signore.

Ecco che quei birbanti sono già a cavallo e si dirigono verso la riva.

Ecco là il guado!... Ne approfitteremo. —

Karaval e Dinar, vedendo la barca affondare, si erano gettati risolutamente in acqua costringendo i cavalli ad imitarli.

Trovandosi in quel momento a poche diecine di passi dalla riva ed in un luogo ove l'acqua era bassa, avevano attraversata rapidamente la distanza, mettendosi in salvo sotto gli alberi.

— Ah! Signore! — esclamò, vedendoli scomparire. — Perchè non mi hai permesso di ammazzarli.

Hossein non ebbe il tempo di rispondergli. Urla feroci erano scoppiate alla base della collinetta, accompagnate da parecchi colpi di fucile.

I bukari avevano compreso con chi avevano da fare, e chi erano gli uomini che li cannoneggiavano, e forti del numero si preparavano alla riscossa.

— Padrone, — disse Tabriz, la cui fronte si era annuvolata, — scarica gli altri due pezzi, mentre io vado a far provvista di munizioni.

— Porta anche dei fucili e conduci due cavalli dietro la porta, — rispose Hossein. — Teniamoci pronti a fuggire. —

Mentre Tabriz s'allontanava correndo, il coraggioso giovane sporse il capo fra due merli per meglio osservare dove si trovavano i nemici.

Tenendosi nascosti dietro le rocce, erano già giunti alla base del sentiero e si spingevano animosamente innanzi, incoraggiati dai sagrati tuonanti del loro capo.

— Li prenderò d'infilata, — mormorò Hossein. — Si presentano in linea profonda e due palle faranno un bel vuoto se ben dirette. —

Senza occuparsi dei colpi d'archibugio, che non potevano offenderlo, essendo riparato dalle grosse merlature del ridotto, mise in batteria i due falconetti ancora carichi, in modo che le palle infilassero il sentiero, e uno dopo l'altro, li scaricò!

Il primo colpo portò via la testa al comandante che precedeva la truppa; il secondo mandò a gambe all'aria una mezza dozzina d'usbeki.

Gli altri s'arrestarono un momento, come se indecisi fra il continuare la marcia o darsela a gambe. La morte del loro capo li decise. Volsero le spalle e discesero a corsa sfrenata il sentiero, dirigendosi verso il fiume, dove si trovavano parecchie barche ancorate sulla riva.

Quando Tabriz giunse colle munizioni per le due bocche da fuoco, si erano già imbarcati tutti e aiutati dai pescatori scendevano, arrancando disperatamente l'Amu-Darja.

— Giungi tardi, — gli disse Hossein. — Ormai siamo padroni del villaggio.

— Fuggiti? — chiese il gigante.

— Non si scorgono quasi più.

— Che siano andati in cerca di rinforzi?

— È probabile, Tabriz, e noi non saremo così sciocchi d'aspettarli.

— Lo credo, padrone.

— I cavalli?

— Sono pronti: ho scelto i due migliori.

— I fucili?

— Ne ho appesi due a ciascuna sella. Non vi era da scegliere nel magazzino.

— A cavallo prima che tornino e guadiamo subito il fiume. —

Scesero di corsa lo spalto del ridotto e corsero verso la porta dietro la quale si trovavano i cavalli, i più belli dei quattro, che erano nella scuderia.

Traversarono quella specie di saracinesca gettata su un profondo fossato, balzarono in sella e scesero di galoppo il sentiero.

Il villaggio era stato completamente abbandonato. Usbeki e pescatori, temendo di venire mitragliati dai quattro falconetti, che si trovavano sul ridotto, si erano messi frettolosamente in salvo.

— Se non salviamo la pelle questa volta, non la salveremo più, — disse Tabriz. — Alì e Maometto hanno giurato di proteggerci.

— Sì, e per punire il miserabile che ha ingannato mio zio, che ha cercato di assassinarci e che mi ha rubato Talmà! — rispose Hossein con intraducibile accento d'odio. — Ecco la vendetta che comincia. La steppa turanica sta dinanzi a noi!.. Al guado, Tabriz!...

— Questi cavalli non avranno paura dell'acqua, — rispose il gigante.

I cavalli non opposero alcuna resistenza e balzarono nel fiume sollevando due altissime ondate. Il fondo esisteva a qualche metro al di sotto, sicchè i due animali poterono avanzarsi senza correre alcun pericolo di sprofondare.

I due turchestani in meno di dieci minuti attraversarono il fiume, salendo la riva che in quel luogo non era molto ripida.

— Sulle tracce del loutis e del suo compagno, Tabriz, — disse Hossein.

— Hanno già lasciato come un varco fra queste erbe, — rispose il gigante. — Non faticheremo molto a seguirli.

Saranno già lontani, tuttavia un'ora di vantaggio non sarà gran cosa.

— Batti i fianchi dei cavalli. —

Si erano appena lanciati sotto le piante, quando un colpo di fucile rimbombò accompagnato dal grido:

— Alt!.. Siete presi!...

— L'archibugio, Tabriz! — urlò Hossein.

— È pronto — rispose il gigante.

— Ventre a terra!

— E carichiamo, — aggiunse Tabriz.

Quella minaccia fortunatamente non ebbe altro seguito, sicchè i due turchestani, con non poca sorpresa, poterono oltrepassare indisturbati la zona alberata e raggiungere l'immensa steppa degli Illiati, confinante con quella dei Sarti.

— Ecco la libertà! — gridò Tabriz.

— E la vendetta, — aggiunse Hossein i cui occhi si erano accesi d'una terribile fiamma. — Siamo sempre sulla traccia del loutis?

— Sì, padrone, non la perderò più. Ecco dove sono passati i due cavalli. Le erbe non si sono ancora raddrizzate.

— Che gli usbechi si siano rassegnati?

— Lo credo, signore. —

La steppa verdeggiante, quella superba pianura che pareva un oceano di erbe, quasi sempre in movimento come le onde instabili, quantunque non ne possedesse il muggito sinistro ed impressionante, s'apriva dinanzi a loro.

In mezzo si vedeva netto il solco aperto dai due cavalli montati dal loutis e dal suo compagno, non avendo avuto il tempo, le erbe, calpestate dai robusti zoccoli dei due corridori, di rialzarsi.

Il sole volgeva ormai al tramonto e si tuffava in un nimbo d'oro porpureo, ma la luna non doveva tardare ad alzarsi e piena di splendore.

Sull'immensa pianura non si scorgeva nulla, affatto nulla: nè tende d'Illiati, nè gruppi di cammelli o di cavalli pascolanti, nè i due fuggiaschi. Tuttavia nè Tabriz, nè Hossein disperavano di raggiungere l'uomo che li aveva così vilmente traditi e che per poco non era stata la causa della loro morte o per lo meno della loro prigionìa.

— Prima che raggiungano le rive del mar Nero o le frontiere della Persia, piomberemo loro addosso, — diceva Tabriz. — È impossibile che abbiano potuto trovare cavalli più rapidi dei nostri.

— Dove credi che fuggano?

— Verso la frontiera persiana piuttosto che verso il mar Nero.

— In tal caso saranno costretti a passare per la steppa dei Sarti.

— Certo, padrone.

— Quell'uomo mi occorre, Tabriz. Sarà un testimonio prezioso.

— Che io vorrei uccidere prima di tradurlo dinanzi a tuo zio.

— E avresti torto.

— Può darsi, signore. Eh!...

— Cos'hai!

— Due punti neri all'orizzonte.

— I fuggiaschi?

— Potrebbero essere anche lepri, signore. Il sole sparisce e la luce fugge rapidamente.

Aspettiamo la luna. —

Hossein con una strappata improvvisa arrestò il suo cavallo e guardò attentamente la sterminata pianura, che si estendeva a perdita di vista dinanzi a lui.

— Sì, due punti neri — disse poi. — Lupi no, mi sembrano cavalli.

— Ragione di più per affrettarci, signore. —

I due cavalli, che valevano i farsistani del vecchio beg, ripartirono ventre a terra, aspirando rumorosamente l'aria.

In quel momento il sole scomparve e l'oscurità piombò sulla steppa, dopo un brevissimo crepuscolo.

— Signore, — disse Tabriz. — Rallentiamo e aspettiamo la luna. Non tarderà a mostrarsi.

— Allora li raggiungeremo di notte.

— È quello che desidererei. In qualche luogo si fermeranno, signore. I loro cavalli non sono già di ferro e avranno bisogno di un po' di riposo. —

Misero i due corridori al passo, attendendo pazientemente il sorgere dell'astro notturno. Una pallida luce, che accompagnava quella delle stelle prossime all'orizzonte, annunciava già la sua imminente comparsa.

Tabriz teneva gli occhi fissi sul sentiero aperto dai fuggiaschi, temendo di smarrirlo, quantunque quel solco fosse così largo e così marcato fra le altissime erbe, da non potersi ingannare sulla sua direzione.

Non era trascorso un quarto d'ora, quando un grande disco, simile ad una lastra di rame infuocato, sorse quasi improvvisamente all'estremità dell'immensa pianura erbosa, proiettando per alcuni minuti, un immenso fascio di luce rossa che diventava rapidamente azzurrognola.

— Ecco la luna che viene in nostro aiuto, — disse Tabriz. —

Ci vedremo come in pieno giorno e scopriremo ben presto i fuggiaschi.

Su questo mare di verzura i loro cavalli si distingueranno senza alcuna fatica.

To', non vedo più le due macchie nere. Che si siano fermati in qualche luogo?

— O che accorgendosi di essere seguiti abbiano forzate le loro cavalcature e che abbiano guadagnato su di noi qualche altro miglio?

— È impossibile signore che i loro cavalli possano competere con questi. Devono essersi fermati in qualche luogo e ti consiglierei di procedere con cautela.

Sono in due e noi pure siamo in due e potrebbero essere buoni bersaglieri, quantunque non abbia mai udito che un loutis ed un taverniere siano diventati di punto in bianco guerrieri.

— Ti ho detto che io sospetto invece che quel falso ammaestratore di scimmie fosse un bandito della steppa.

— Ah!... La cosa sarebbe ben diversa. Ragione di più per diventare prudenti.

— Mettiamo allora i cavalli al trotto.

— E armiamo gli archibugi, padrone. Possiamo essere costretti a rispondere da un momento all'altro. —

Strinsero le briglie e le ginocchia, obbligando i due persiani a moderare il loro slancio impetuoso e si rizzarono sulle staffe per abbracciare maggior orizzonte. Cercavano un punto luminoso che indicasse l'accampamento dei due fuggiaschi.

— Nulla, — continuava a brontolare Tabriz. — È un agguato che ci preparano. Io lo sento o meglio lo fiuto come i lupi che sentono la preda.

Ecco il momento di stare in guardia e di sorprendere invece loro, giacchè il padrone vuole averli in mano vivi. —

Continuarono a galoppare per una quindicina di minuti, poi Tabriz, che precedeva Hossein per difenderlo da qualche improvvisa scarica, rattenne violentemente il proprio cavallo, dicendo rapidamente:

— Alt, padrone!...

— Siamo giunti?

— Inalbera il cavallo! —

Un lampo illuminò la steppa a dieci o dodici passi dinanzi a loro, seguito dal rombo d'un grosso moschetto.

Il cavallo di Tabriz che sotto un vigoroso colpo di tallone si era alzato sulle zampe deretane, cadde di quarto trascinando il cavaliere.

Hossein afferrò uno dei due archibugi che gli pendevano dalla sella e sparò a casaccio a fior di terra.

Un grido echeggiò fra le erbe.

— Karaval!... Son morto!...

— Ed io invece sono vivo, — urlò Tabriz, alzandosi.

Da abilissimo cavaliere, nel momento in cui il suo persiano riceveva la scarica in mezzo al ventre, aveva allargate le gambe e abbandonate le staffe, sicchè era caduto molto più lontano senza rimanere sotto l'animale.

Intanto un uomo si era alzato fra le erbe e si era dato a fuga precipitosa. Era Karaval.

Il bandito non aveva avuto il tempo di montare a cavallo e contando sulla propria agilità e credendo di sfuggire meglio ai colpi dei suoi nemici e di nascondersi, al momento opportuno, fra le erbe, aveva preferito giuocare di gambe.

Tabriz lo aveva però scorto e quantunque non avesse preso con sè nessun archibugio, si era slanciato risolutamente sulle sue tracce, contando sul proprio kangiarro.

Hossein si era provato a sua volta ad inseguirlo, però non aveva percorsi dieci passi che si era sentito scaraventare in aria.

Il suo cavallo aveva urtato in qualche ostacolo, probabilmente contro qualche fune tesa fra le erbe, ed era caduto sbalzando di sella il cavaliere.

Quel capitombolo non poteva avere tristi conseguenze fra quelle masse erbose alte un paio di metri.

Tabriz intanto continuava ad inseguire accanitamente Karaval, urlando senza posa:

— Fermati, birbante, o ti spaccherò il cranio! È Tabriz che ti dà la caccia, il gigante!...

Mi basta un pugno per accopparti!... —

Il bandito, pazzo di terrore, continuava a scappare, sbuffando come una foca. Aveva le ali ai piedi e pareva che avesse ritrovata l'agilità dei suoi vent'anni.

Tabriz però non lo lasciava e colle sue lunghe gambe e i suoi slanci di cavallo selvaggio guadagnava sempre più.

Ad un tratto il bandito incespicò e cadde. Tabriz d'un colpo gli fu addosso afferrandolo pel collo e sollevandolo come un fantoccio.

— Sei preso, miserabile! — urlò.

— Grazia! — rantolò il miserabile che non osava più dibattersi.

— Sì grazia, se parlerai. Dammi intanto il tuo kangiarro e anche il tuo archibugio, che vale in questo momento meno d'un bastone e aspettiamo il padrone.

— Il signor Hossein?

— Come! — urlò Tabriz stringendolo con maggior violenza, fino a fargli uscire la lingua d'un buon palmo. — Tu lo conosci?... Ah!... Ti sei tradito!... Il nipote del beg non si era ingannato.

— Grazia... mi strangoli.

— Non ora, — rispose il gigante, allargando il pugno.

— È necessario che tu parli prima, furfante. —

Gli tolse il kangiarro, ed il fucile lo depose dinanzi a sè, sull'erba, dicendogli con voce minacciosa:

— Un moto, una parola e ti accoppo con un pugno, e bada che con un pugno io un giorno ho ammazzato un cammello. Mi hai capito?

— Non sono sordo, signor Tabriz, — rispose Karaval con voce tremante.

Una voce in quel momento si alzò fra le erbe!

— L'hai preso? —

Era Hossein che si avanzava conducendo per la briglia il proprio cavallo, non che i due dei banditi.

— È in mia mano, signore — rispose il gigante — e non mi scapperà più, te l'assicuro. —

Hossein legò i tre cavalli insieme, li fece coricare fra le erbe, poi impugnato il kangiarro si precipitò come una belva addosso a Karaval. Una collera terribile avvampava nei suoi occhi.

— Miserabile! — urlò. — La morte causata da un colpo d'arma bianca sarebbe troppo dolce per te, come sarebbero pure troppo dolci le più atroci torture.

— Grazia, signore, — balbettò Karaval che tremava come se avesse la febbre. — Io non ho agito per mio conto.

— Che cosa vuoi dire? — chiese Hossein stupito.

— Che se fosse stato in me non vi avrei tradito. D'altronde, voi, mi dovreste un po' di riconoscenza, perchè senza di me, voi non sareste mai usciti vivi dalla steppa della fame.

— Questo briccone è più furbo del diavolo, — mormorò Tabriz.

— Per conto di chi hai agito? — chiese Hossein che aveva alzata la terribile lama sulla testa del bandito. — Del capo delle Aquile?

— No, signore. Dopo che Talmà fu liberata da vostro cugino Abei, io non l'ho più riveduto, quindi egli ignorava che voi foste ancora vivi.

— Di chi dunque? —

Il bandito ebbe una lunga esitazione.

— Parla o ti faccio arrostire a lento fuoco.

— Di vostro cugino.

— D'Abei! — ruggì Hossein.

— Sì, m'aveva preso ai suoi servizi onde tornassi a Kitab a cercare i vostri cadaveri.

— Per quale motivo?

— Per assicurarsi se voi, signore, eravate proprio morto.

— Ah!... Canaglia!... Anche quello voleva!

— Come avrebbe potuto sposare Talmà? Ci voleva qualcuno che testimoniasse la vostra morte.

— L'infame!...

— Una parola, padrone, — disse Tabriz.

Poi rivolgendosi verso il bandito:

— Tu sai chi è stato a colpirci a tradimento con due colpi di pistola, mentre noi facevamo fronte ai moscoviti.

— Sì: mi hanno detto che è stato Abei.

— Hai udito, signore?

— Sì, — rispose Hossein coi denti stretti. — Quell'infame voleva la mia fidanzata e anche la mia vita.

Prosegui: che ordini ti aveva dato mio cugino quando tu tornasti a Kitab?

— Di riportare nella steppa i vostri cadaveri, se l'avessi potuto.

— E se ci aveste trovati solamente feriti?

— Di perdervi a qualunque costo e di consegnarvi all'Emiro, avendoti egli messo, nella fascia, dei documenti compromettenti.

— Vedi, padrone, che io non mi ero ingannato, — disse Tabriz.

Hossein stette qualche minuto silenzioso, poi volgendosi verso il bandito che si teneva le mani sul capo come per difenderlo da qualche colpo di kangiarro, gli disse:

— Sarei nel mio diritto di ucciderti, invece io ti farò dono della vita, ad una condizione. —

Tabriz fece una smorfia e scosse il capo, come se fosse poco contento di quelle parole.

— Parla, mio signore, — disse Karaval, respirando a pieni polmoni.

— Che tu deponga dinanzi al beg, mio zio, di quale infame missione ti ha incaricato mio cugino.

— Sono pronto a farlo.

— Tabriz, lega le braccia a quest'uomo e mettilo in sella.

— Partiamo?

— Subito: ho sete di vendetta.

— Ecco la fine della tragedia, — mormorò il gigante.

Legò poi solidamente le braccia al bandito, lo pose su uno dei tre cavalli e ripartirono a piccolo trotto attraverso la steppa sconfinata.

CAPITOLO XII. La giustizia del “beg„.

Giah-Aghà, il formidabile beg della steppa turchestana, seduto sui cuscini di seta che contornavano la sua spaziosa e ricca tenda, innalzata di fronte alla casa della bella Talmà, fumava silenziosamente il suo narghileh come era sua abitudine.

I servi entravano ed uscivano per portare i suoi ordini ai conduttori delle innumerevoli mandrie di cammelli, di montoni e di cavalli che pascolavano nelle ubertose steppe dei Sarti, dove l'erba cresceva gigante.

Eppure il beg quella sera non appariva tranquillo come il solito. Di quando in quando, come se presentisse che qualche cosa di tragico e di terribile dovesse accadere, s'alzava a sedere, respingendo quasi con rabbia il bocchino d'ambra del suo cannello e come se l'essenza di rose, mescolata nella bottiglia dorata, avesse perduto improvvisamente il suo delizioso profumo.

I suoi occhi, sempre vividi e nerissimi, malgrado l'età, si fissavano sui quattro falchi di Abei, che squittivano sui loro bastoni in croce.

Al di fuori forti raffiche si succedevano sbattendo vivamente il feltro grossolano della tenda, impenetrabile alla pioggia.

Già due volte aveva ricaricato il caminetto del suo narghileh, quando i due cani di guardia mandarono un lunghissimo ululato, che aveva qualche cosa di lugubre.

— Karon, — disse il beg, staccando il bocchino d'ambra e gettando in aria un ultimo getto di fumo, — chi si avvicina?

— I nostri uomini, signore, che accampano all'aperto, nulla hanno avvertito; i cani avranno fiutato qualche animale, — rispose Karon.

— No, — disse il beg. — Non urlerebbero così! E poi a quest'ora si sarebbero slanciati sulla steppa. Va' a vedere. —

Il servo, che era una specie di maggiordomo, che aveva preso il posto di Tabriz, uscì dalla tenda e dopo d'aver interrogato i guardiani dei cammelli, dei montoni e dei cavalli, si avanzò risolutamente attraverso le alte erbe, quantunque fosse sicuro che i cani ed anche il beg si fossero ingannati.

Aveva percorso un tre o quattrocento passi, quando i suoi orecchi furono colpiti da un galoppo precipitoso, che pareva prodotto da più cavalli.

Temendo che qualche banda di briganti fosse per irrompere sull'accampamento, tornò rapidamente nella tenda del beg, informandolo di quanto aveva udito.

— Che sia Abei che ritorna dalla casa di Talmà? — chiese il vecchio.

— Non si fa mai accompagnare, beg, — rispose il maggiordomo. — Egli non ha bisogno d'alcuna scorta e poi i cani lo conoscono troppo bene, per abbaiare in quel modo. —

In quel momento si udirono i guardiani del bestiame a gridare:

— Chi vive?... —

Una voce formidabile che parve un colpo di tuono, si alzò fra le tenebre:

— Cerchiamo il beg Giah-Aghà, nostro signore! —

Pochi minuti dopo, tre cavalli neri, coperti di schiuma e montati da tre uomini, giungevano dinanzi alla tenda del beg, gridando:

— Largo agli amici! —

Giah-Aghà aveva lasciato cadere il cannello del narghileh e si era fatto pallidissimo, esclamando:

— Che i morti ritornino o che i miei orecchi troppo vecchi si siano ingannati?

— T'inganni, zio, solo i vivi ritornano, — rispose una voce.

Un uomo è comparso sulla porta della tenda, esponendosi alla luce che proiettava la lampada sospesa al di sopra della pietra che teneva ferma l'ossatura.

Il beg mandò un urlò:

— Hossein!

— Sì, zio, sì padre, — rispose il giovane, che era pallido come uno spettro. — Sono io che vengo a reclamare giustizia al beg della steppa turchestana. —

Giah-Aghà era rimasto immobile, come se fosse stato fulminato.

— Hossein! — balbettò.

— E ci... sono anch'io, padrone, — disse Tabriz, avanzandosi ed entrando nel raggio proiettato dalla lampada. — Ed anch'io non sono un morto! —

Con uno scatto improvviso, che un giovane di vent'anni gli avrebbe invidiato, il beg si alzò.

— Hossein!... — ripetè per la terza volta. — Tabriz! Da dove venite voi? Da questo o dall'altro mondo?

— No, padre, — rispose Hossein; — da questo mondo, poichè non siamo morti come ti aveva fatto credere mio cugino. Le sue palle non ci hanno uccisi. —

Il vecchio beg fece un salto innanzi, cogli occhi in fiamme, il volto trasfigurato.

— Hossein! — gridò, — che cosa dici tu?

— Dico che mio cugino ha fatto fuoco su di me e su Tabriz a tradimento, per ucciderci, mentre noi stavamo combattendo disperatamente contro i moscoviti che assalivano Kitab: dico e accuso mio cugino di aver assoldate le Aquile della steppa per rapirmi Talmà; dico e accuso mio cugino di aver nascosti nella mia fascia dei documenti compromettenti, per farmi fucilare dai russi o dai soldati dell'Emiro e di aver cercato più tardi di farci assassinare una seconda volta.

Padre: vendetta, vendetta! È tuo nipote che la chiede al beg della steppa turchestana! —

Tabriz a sua volta si era fatto innanzi, dicendo con voce solenne.

— Ed io confermo, padrone, tutte le accuse di tuo nipote e ti porto un altro testimonio, l'uomo pagato che doveva assassinarci una seconda volta.

Karaval! Fatti innanzi! —

Il bandito, che fino allora si era tenuto nell'ombra, s'avanzò verso il centro della tenda.

— Parla tu! — gridarono ad una voce Hossein e Tabriz.

— Tuttociò che ti hanno narrato questi uomini, o beg, è vero e lo giuro su Maometto e su Alì, — disse il miserabile. — Io sono stato assoldato da tuo nipote Abei, per assassinarli nel caso che i due colpi di pistola non li avessero finiti o di consegnarli all'Emiro di Bukara.

Abei mi ha dato cento tomani, da dividerli con un mio compagno, che Tabriz ha ucciso nella steppa.

Fa' portare qui il Corano ed io giurerò, se vuoi, sul libro sacro. —

Un grido rauco, che rassomigliava all'urlo strozzato d'una belva in furore, era sfuggito dalle labbra del beg.

— Basta, — disse. — Ho troppe prove. D'altronde dubitava. —

Poi, slanciandosi verso Hossein e serrandoselo con frenesia fra le braccia, gli disse:

— Allah sia ringraziato! Tu avrai giustizia! —

Con un gesto maestoso si volse verso il maggiordomo che stava fermo sulla porta della tenda, dicendogli:

— Recati subito alla casa di Talmà e fa' venire qui immediatamente Abei.

— È inutile, signore, — rispose il maggiordomo. — Odo il galoppo del suo cavallo.

— Hossein, Tabriz e anche tu, brigante, uscite e non entrate se non quando Abei sarà qui.

— Una domanda, padre, — disse Hossein.

— Parla.

— L'ha sposata Abei?

— No: non gliel'ho permesso, perchè io non ho avuto la prova della tua morte.

— Grazie, padre.

— Uscite! —

Si riadagiò sul cuscino di seta, riaccese il narghileh, con una calma più apparente che reale, poi fece scorrere con una feroce voluttà la sua famosa scimitarra di Damasco entro la guaina di marocchino laminato d'oro.

— La giustizia del beg sarà tremenda come un colpo di tuono, — mormorò.

Il galoppo d'un cavallo si udiva in quel momento distintamente.

Un terribile sorriso comparve sulle labbra del fiero beg.

— Eccolo! — mormorò.

Il cavallo si era fermato dinanzi alla vasta tenda ed un giovane, vestito tutto di seta bianca, ricamata in oro, con bottoni di turchese, era entrato, dicendo:

— Buona sera, padre. —

Era Abei.

Giah-Aghà piegò appena il capo e staccando dalle labbra il bocchino, chiese quasi con noncuranza:

— Come sta Talmà?

— Piange sempre, padre, — rispose il giovane, con voce irata. — Pare che non sia capace di dimenticare quel povero Hossein.

— Forse dubiterà che sia morto, — disse il beg, con sottile ironia.

— L'ho veduto io a cadere sotto il piombo dei moscoviti, insieme con Tabriz. Che cosa spera ancora?

— Sei ben sicuro che siano morti? — chiese il beg con voce fremente.

— Dubitereste, padre? — chiese Abei, impallidendo.

— Accostati ed ascoltami. —

Abei era diventato livido ed inquieto, tuttavia obbedì e si avvicinò al vecchio beg.

— Voltati indietro, ora, — disse Giah Aghà.

Abei guardò con ispavento il vecchio, nei cui occhi balenava una fiamma terribile.

— Padre! — esclamò con angoscia.

— Voltati! — urlò il beg. —

Abei girò il capo e mandò un grido.

Hussein, Tabriz e Karaval erano comparsi improvvisamente sulla porta della tenda.

— Li vedi? — ruggì il beg.

Con un rapido gesto sfoderò la scimitarra di Damasco. Un lampo brillò in aria ed Abei cadde colla testa quasi staccata dal busto.

— Ecco la vendetta del beg della steppa turchestana, — esclamo Giah-Aghà, con voce tuonante. — Hossein, sei vendicato. —

Karaval, spaventato, si era slanciato fuori dalla tenda, fuggendo a tutte gambe, temendo di subire l'egual sorte. Tabriz che lo teneva già d'occhio gli aveva tenuto dietro.

Due spari rimbombarono quasi subito, seguiti da un grido, poi il gigante ricomparve, tenendo in pugno due pistole ancora fumanti.

— Padrone, — disse, accostandosi a Hossein, che guardava con terrore il cadavere d'Abei, — tu avevi promessa salva la vita al bandito, ma io non avevo giurato nè su Maometto, nè su Alì, e l'ho ammazzato. Dei traditori ve ne sono perfino troppi nella steppa.

Anche il vecchio beg guardava il corpo di Abei; quando l'ultimo fremito cessò, alzò gli occhi verso Hossein e gli disse con voce pacata:

— Giustizia è fatta. Prendi il mio miglior cavallo e recati da Talmà che da tanti giorni ti piange. —

Poi, volgendosi verso Tabriz, che pareva aspettasse qualche ordine:

— Seppellisci nella steppa quest'uomo, — gli disse, additandogli Abei. — Non è mio nipote.... è un miserabile. Va'!... Portalo via!... —

INDICE

PARTE PRIMA.

Capitolo pag.

I Un supplizio spaventevole 3

II La tenda del «beg 12

III Il «mestvire 22

IV L'assassinio 28

V Attraverso la steppa 37

VI Talmà la bella 45

VII La scomparsa di Abei Dullah 55

VIII La steppa turcomanna 62

IX Il colpo di testa delle Aquile 74

X Hossein alla riscossa 85

XI Il campo degli Illiati 94

XII Il traditore 105

XIII Kitab 115

XIV I fanatici del Turchestan 121

XV L'assalto di Kitab 134

XVI Il rifugio dei banditi 144

PARTE SECONDA.

Capitolo

I I prigionieri 155

II Il tradimento d'Abei 165

III Le spie di Abei 173

IV La burana 186

V L'Oasi 196

VI Il Loutis 203

VII Nella steppa della fame 215

VIII L'attacco dei leoni 224

IX Fra l'acqua e il petrolio 235

X L'assedio 245

XI La sconfitta degli usbeki 253

XII La giustizia del «beg 268

NOTE:

1 . Il tomano vale 11 lire e 60 cent. 2 . Suonatori ed insieme narratori di leggende turchestane. 3 . Capo d'una tribù con titolo principesco. 4 . Vecchi. 5 . Prete mussulmano. 6 . Guarda!... Guarda. 7 . Monete di rame che valgono un po' più di cinque centesimi. 8 . Questa setta che pretendeva di armonizzare la religione mussulmana colle idee moderne, era stato fondata da Mullah Alì che fu uno dei seguaci che uccise, nell'aprile del 1904, lo sciah di Persia Nasser-el-Din, con un colpo di pistola. 9 . Mostratori di scimmie.