LA DONNA NELLA VITA E NELLE OPERE
DI GIACOMO LEOPARDI
EMMA BOGHEN-CONIGLIANI
LA DONNA NELLA VITA E NELLE OPERE DI GIACOMO LEOPARDI
Adelaide Antici Leopardi — Ferdinanda Leopardi Melchiorri Paolina Leopardi — Marianna Brighenti — Teresa Carniani Malvezzi — Antonietta Tommasini — Paolina Ranieri — La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi
FIRENZE — G. BARBÈRA EDITORE — M·DCCC·XCVIII
Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.INDICE
A Federico Conigliani.
Non è un dono, ma quasi una restituzione la dedica di queste pagine, cui il tuo consiglio e il tuo aiuto cooperarono altrettanto che la mia penna; gradiscile ad ogni modo quale ricordo di studi e ricerche comuni e quale pegno minimo di una riconoscenza incancellabile.
PREFAZIONE.
Se la donna ha sempre molto potere su l'animo de l'uomo, moltissimo n'ebbe su quello di Giacomo Leopardi, che, adolescente, la vagheggiò in uno splendido ideale poetico; giovane, l'agognò con una dolorosa potenza di desiderio e d'amore; uomo, l'ebbe a sdegno, infelice per lei, pur sempre adorandola: madre, sorella, congiunta, amata, non amante, ma spesso amica sincera e devota, essa ebbe gran parte ne la vita di lui, nel suo pensiero, e fu tutto pel suo cuore.
I biografi studiarono con minuziosa accuratezza i rapporti del Poeta con alcune donne; lasciarono altre e non giustamente in dimenticanza: cito ad esempio l'Antonietta Tommasini; l'epistolario leopardiano conta numerose lettere a lei dirette (e molte ne mancano ancora certamente) fra le quali alcune scritte con un abbandono d'affetto quasi unico ne gli anni maturi del grande Recanatese.
Questo volumetto si propone il modesto scopo di tratteggiare i ritratti di parecchie fra le donne congiunte, per affezione o per parentela, al Leopardi; di cogliere, per quanto è possibile ne le memorie non più recenti, la loro intima personalità, di vederle nei loro rapporti con lui, e derivarne quanto di elementi reali e quanto di soggettivo fosse ne l'ideale femmineo del cantore di Silvia.
Certo alcune nascondono nel mistero l'anima loro, ma non sì che qualche raggio almeno non possa scorgerne un occhio pazientemente indagatore: son figure varie, da l'austera e rigida contessa Leopardi, di cui le mani candide paiono sempre congiunte con mistico terrore ne la preghiera, a la buona Tommasini, che chiude il suo libro per assaporare tutta la serena dolcezza del vespro nel suo giardino fiorito e segue con lo sguardo pensoso i ragazzi pei campi, gli uccelli fra il verde, le nuvole nel cielo, così semplice ne la sua vita borghese, illuminata da tanta luce di vera poesia; da la bellissima bionda Ranieri, che non s'accorge de le passioni che desta, del mondo che le sorride ed ha ne gli occhi miti e profondi tutta la fiamma di carità che la esalta, a la disavvenente, ma tenera ed appassionata Paolina, invano avida d'amore, piangente invano le sue lagrime non comprese; da la gran dama Malvezzi, tutta brio nel circolo di dotti e d'artisti da cui è attorniata e ammirata, a la cantante Brighenti, che nasconde sotto il belletto il pallore de le guancie, e sotto il suo sorriso d'artista festeggiata le ansie de la sua anima di donna; ne l'una un palpito de la pietà di Elvira, ne l'altra l'ingenua illusione d'un lieto avvenire di Silvia; in questa l'inconscia indifferenza de la donna del Primo Amore, in quella la mestizia de la donna del Sogno, in tutte v'ha qualche cosa che si conforma a l'ideale leopardiano; e se nessuna è precisamente la figura di questo o quel canto, ne l'animo che li dettò rimangono tutte, immagini care, e si fondono in un'alta idea poetica.
Si potrà notare che solo ne l'ultimo studio ho accennato a la Cassi, a la Fattorini e a la Belardinelli, di cui mancano qui i medaglioni, come mancano quelli de la Targioni-Tozzetti, de la Lenzoni, de la Buonaparte; ma le tre prime, a parer mio, quali inspiratrici del poeta furono creature più pensate che reali, vissero la vita de la sua fantasia, ne la quale, mai dimenticate, risorsero spesso, Silvia e Nerina specialmente, vivacissime parvenze d'un indimenticabile sogno. Senza dir poi che quanto se ne sa, fu detto e assai ben detto da altri.
Su la Targioni mi duole non aver potuto trattenermi; ma le notizie che intorno a la bella e graziosa Fanny si possono ritrarre dai libri sono affatto insufficienti a diradar l'ombra fitta che ce la nasconde, e la famiglia non acconsente a darne altre.
La Carlotta Lenzoni de' Medici e la Carlotta Buonaparte non furono pel poeta che gradite, fuggevoli conoscenze.
Debbo qui render grazie al conte Giacomo Leopardi, che mi fu largo di aiuto e con le sue ricerche mi procurò la conferma di quanto io scrissi riguardo a l'ignorato amore di Paolina Leopardi per Raniero Roccetti; al conte Nerio Malvezzi, che mi favorì parecchie notizie intorno a la Teresa Carniani Malvezzi e non poche lettere inedite a lei rivolte da chiari letterati del suo tempo; al prof. Americo De Gennaro Ferrigni, cui debbo non pochi ragguagli intorno a la vita di Paolina Ranieri; ed a parecchie altre gentili persone, che facilitarono le mie ricerche intorno a Madama Padovani, e che mi procurarono gran numero d'autografi inediti di Marianna Brighenti.
Se sotto la mano inesorabile de la critica tanti rosei veli cadono e tante figure che ci compiacevamo ammirare appaiono degne piuttosto di pietà, lasciandoci il rimpianto di un'illusione perduta e quasi un posto vuoto e difficile ad esser rioccupato nel pensiero, a taluno potrà, spero, riuscir piacevole che qualche immagine ormai sbiadita, se non cancellata dal tempo, ci si ravvivi dinanzi bella e degna e ci riveli amicamente un'ora, un momento de la vita del grande, cui abbellì di qualche raro sorriso la dolorosissima esistenza.
Esse, le donne gentili e care al poeta, rendano accetto con la loro grazia l'omaggio, invero troppo umile, di queste pagine pel Centenario che Recanati e l'Italia celebrano quest'anno.
Emma Boghen-Conigliani.
Firenze, febbraio 1898.
Adelaide Antici Leopardi
ADELAIDE ANTICI LEOPARDI.
La marchesina Adelaide Antici aveva diciannove anni quando nel 1797 diede la sua mano al conte Monaldo Leopardi, di due anni soltanto maggiore di lei. Il matrimonio fu celebrato a Recanati, nella cappelletta degli Antici: la sposa, che apparteneva ad una delle più nobili e ragguardevoli famiglie di quella città ed entrava in una famiglia altrettanto nobile e ragguardevole, era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendidi e intelligenti, benchè velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d'un castano chiaro tendente al biondo, da l'aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l'austerità naturale; ed il suo viso, soprattutto i suoi occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto.
Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo: nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un'antica matrona travestita.[1]
Alla festa di San Vito, protettore di Recanati, il conte Monaldo fissò per la prima volta gli occhi su la marchesina Antici e non seppe distorneli a lungo; la rivide a le feste del Corpus Domini e non pensò più che a lei, quantunque la sapesse promessa ad un conte Castracane di Cagli, del quale però si diceva ch'ella fosse tanto scontenta da voler riprendere la propria libertà. Monaldo andò senz'altro dal fratello della fanciulla, Carlo Antici, che era amico suo, e saputo con certezza ch'ella s'era già sciolta da la prima promessa, lo pregò di chiederle se avrebbe accettato lui per marito. Adelaide gli fece rispondere francamente ch'era stata domandata dal conte Borgogelli di Fano, il quale attendeva solo l'assenso e la donazione di una zia per combinare in modo definitivo il matrimonio, ella frattanto non poteva prendere alcuna decisione. Monaldo, innamorato, rispose: Aspetterò; e non aspettò molto, chè, malgrado un astio antico tra le due famiglie per ragione d'interessi, gli fu data la preferenza; di che i vecchi Leopardi non rimasero punto soddisfatti, ed ecco perchè. Quel tal conte Castracane era andato la prima volta a Recanati per conoscere Amalia, sorella maggiore di Adelaide, ma, veduta questa, s'era innamorato di lei e non aveva voluto più saperne della prima; la madre e gli zii di Monaldo avevano proposto a costui di sposare egli Amalia e, quantunque questa fosse, com'egli medesimo assicura, una carissima e amabilissima giovane, egli aveva rifiutato. Sentendo più tardi aver il conte chiesta la mano di Adelaide, si mostravano avversi a tale unione, ma nè il loro rifiuto ostinato e minaccioso, nè i gravi dispiaceri che gliene vennero, nè la tenuità della dote che il suocero gli fissò, mentre già gliene aveva offerta una maggiore per Amalia, lo smossero dalla sua decisione. La madre un giorno lo pregò con tanto calore di non sposare la marchesina Antici, da giungere ad inginocchiarsi dinanzi a lui per supplicarlo di cedere, ma egli rialzatala e postosi egli medesimo in ginocchio, le baciò la mano, confessandole che restava fermo nel suo proponimento.
Fissò di condurre la sposa a Pesaro, perchè ella non soffrisse amarezze e mortificazioni, entrando in una casa dove tanti non la volevano: ma compiute le nozze, mentre la carrozza attendeva già pronta, egli s'avvicinò ad Adelaide e le disse: — Andiamo a baciar la mano a mia madre. — La buona contessa, scordando ogni risentimento, abbracciò e benedisse la nuora, pregandola di ritornar presto, molto presto da Pesaro: e i due giovani, lieti di questa riconciliazione, passarono ne l'appartamento dello zio Ettore, il quale si fece loro incontro così frettoloso ed agitato, che essi, sapendolo vivacissimo, temettero chi sa che cosa.
— Dove andate?
— Veniamo ad usarvi un atto di rispetto e a baciarvi la mano.
— Dove andate partendo di qui?
— Partiamo per Pesaro.
— Oibò — replicò egli rivolgendosi a Monaldo — non sarà così: la vostra sposa appartiene ora alla nostra famiglia e voi non ce la toglierete. Andiamo dal decano, il quale sarà di un sentimento uguale. — (Così narra Monaldo stesso nel c. XXXIX dell' Autobiografia.)
Scesero con lui nelle stanze del decano, zio Pietro, che li abbracciò, piangendo di tenerezza e, ricordando l'opposizione sua al matrimonio:
— Il Diavolo — disse — mi aveva preso per i capelli, anzi per la perrucca, chè di capelli non ne ho più, — ed egli pure li pregò di restare.
Adelaide stringeva forte il braccio di Monaldo per indurlo ad acconsentire, egli interpretava invece quella timida preghiera come incitamento a non cedere e insisteva per partire; per troncare gl'indugi, lo zio Ettore senz'altro se ne andò da gli Antici ad annunziare che la pace era fatta, e ordinò di riporre i cavalli nelle stalle e la carrozza nella rimessa. Intanto Monaldo aveva avuto agio di conoscere il desiderio della sposa ed egli pure di buon grado, saputo di non far dispiacere a lei, acconsentì a rinunziare al viaggio. La riconciliazione fu sincera e la nuova contessa Leopardi visse poi sempre in perfetta armonia coi congiunti, amandoli ed essendone ricambiata d'affetto vero.
Educata severamente, Adelaide, prima del suo matrimonio, aveva passato la vita fra la casa e la chiesa, e quantunque il suo spirito, naturalmente vigoroso, fosse nato piuttosto per comandare che per obbedire, per forza di virtù e di consuetudine ella si era fatta mite, obbediente, modesta. Religiosissima, poneva innanzi a tutti gli altri i suoi doveri di donna cattolica, ma la sua non era la fede che riscalda il cuore e lo apre ai più divini affetti de l'indulgenza e de la carità, la fede che mantiene nell'anima un'alta serenità ed insegna ad amare; la sua era una fede rigida, tirannica e benchè, con la potenza della religione sincera, le desse forza e conforto nei più dolorosi momenti della sua vita, diveniva non di rado un tormento per lei e per chi le stava dintorno. Questa donna ultrarigorista, vero eccesso di perfezione cristiana,[2] per quel poco che si permetteva di pensare con la sua mente, ch'era tuttavia una mente aperta, ferma, acuta, andava in tutto d'accordo nelle idee col conte suo marito; anch'ella, come lui, era ciecamente ligia al passato; anche in lei i racconti dei profughi francesi capitati nelle Marche avevano inspirato il terrore, anzi l'orrore della rivoluzione. Ella e Monaldo del pari avevano accolte le convinzioni della famiglia, degli amici, della società aristocratica e clericalissima in cui vivevano; tutt'e due avevano alto concetto della propria casa; solo Monaldo pensava che a sostenerne il decoro occorresse lo sfarzo di una vita opulenta; ella avrebbe preferito un solido patrimonio, come quello della sua casa paterna. Rimasto orfano di padre, da bambino, Monaldo aveva ottenuto a diciott'anni dal governo pontificio l'amministrazione del suo patrimonio, e, quando s'ammogliò, aveva già sperperato somme non lievi, credendo di seguir così degnamente le tradizioni di famiglia e l'esempio dello zio marchese Mosca, principescamente generoso. Nel 1796 aveva speso mille scudi nell'armare, stipendiare e fornir di cavalli un milite per aderir all'appello di Pio VI ai sudditi contro i Francesi; nello stesso anno un trattato di matrimonio con la nobile Diana Zambeccari di Bologna, trattato ch'egli prima accettò e poi non volle più conchiudere in nessun modo, gli costò tanto, che i danni derivatine furono calcolati da lui ventimila scudi. Nel 1801 fece risorgere l'Accademia dei Disuguali, l'accolse in casa sua e ne sostenne le spese; nel 1802 si obbligò per cinquecento scudi in favore di un suo nemico.
Nel 1797 anche nelle Marche si accese la rivoluzione e in Recanati fu instituita una repubblica affatto democratica, che abolì la nobiltà e i suoi titoli e privilegi, e di questo e delle ruberie dei Francesi il conte Monaldo mostrò così vivamente e apertamente lo sdegno, che dal comandante della colonna francese, un tal Contavice, fu condannato a morte. Denari e amicizie autorevoli riuscirono a salvarlo, e questo suo pericolo fu potuto nascondere a la contessa incinta, che però poco di poi vide il marito arrestato e dovette passare giorni di orribile agitazione e di pianto. Dopo questo periodo di pene e di tristezze le sale del palazzo Leopardi, che già erano state liete nello splendore della vita fastosamente signorile, amata dal giovane Monaldo, e nelle gioviali compagnie raccolte intorno a la sposa, ritornarono lietissime, chè gaie voci infantili vennero a ridestarne gli echi.
Nel 1798 nasceva il primogenito, cui, come era di prammatica da secoli nella famiglia, venne posto il nome di Giacomo. Le inquietudini provate dalla sposa influirono dannosamente su la salute del bambino, che nacque delicato e gracile, benchè apparentemente sano e senza alcun difetto; un anno dopo veniva al mondo Carlo e un altr'anno di poi Paolina.
Par che la voce del suo primo nato risvegli in ogni donna un'anima nuova, l'anima della madre, un ignoto tesoro di amore, d'indulgenza, di sacrificio, un'anima pura ed elevata anche nelle donne che meno sono tali, un'anima che vive tutta nell'intensità del più caldo affetto umano. Ma quest'anima non si destò nella contessa Adelaide, che non conobbe le carezze infantili, la divina poesia per cui la madre sente il figlio vivere ancora della sua vita; forse un amore troppo ardente ed espansivo non poteva accordarsi col rigore della sua fede; ella rimase la stessa, irriprovevole nelle premure solerti per i suoi piccini, ma senza calore, senza spontaneità di tenerezza, come se di tutti i suoi atti la ragione soltanto fosse il movente e il dovere la guida. Questa l'apparenza; ma chi può indovinare il secreto dei cuori, chi può dirci se quella sua fredda ritenutezza fosse un dovere ch'ella imponesse a sè medesima, o una naturale disposizione dell'anima?
Vi hanno caratteri che, pur possedendo poche virtù, sono apprezzati, anzi ammirati, perchè quelle loro virtù sono appariscenti ed amabili, e d'ordinario gli uomini si accontentano di ciò che piace, senza indagare oltre; come questi caratteri vengon d'ordinario giudicati migliori di quel che sono in realtà, così altri ve n'hanno che son creduti peggiori che non siano per l'opposta ragione: le loro virtù son nascoste, i difetti palesi, e questi e quelle, inamabili, allontanano i cuori piuttosto che attirarli. Tale era Adelaide. Certo la prodigalità di Monaldo era un difetto, l'economia di lei, in tesi generale almeno, una virtù; ma gli è facile comprendere come, a quasi tutti, quella virtù dovesse riuscir incresciosa, quanto simpatico questo difetto. Così la sua ritenutezza la fece credere forse assai meno sensitiva che non fosse in realtà.
La sventura temprò ben presto il vigoroso carattere di lei, come il fuoco tempra una buona lama: riusciva ormai impossibile chiuder gli occhi a la rovina imminente del patrimonio, già carico di debiti, pei quali certi creditori usurai giungevano a pretendere il ventiquattro per cento d'interesse. La contessa, rimasta da prima estranea a l'amministrazione, non tardò a convincersi che una mano di ferro doveva sostituirsi a la debole mano di Monaldo nel governo de la famiglia per salvar questa, e decise che quella mano di ferro sarebbe la sua, bianca mano di donna, ma rigida e ferma quant'altra mai. A questo compito ella s'accinse con una saldezza di propositi, uno spirito di sacrificio ed un'energia, quali ben difficilmente si troverebbero in una giovane e bella dama. La vita della famiglia cambiò interamente, benchè nulla fosse tolto agli agi consueti: tavola abbondante, carrozza, cavalli; ma dov'era possibile senza disagio, al lusso fu sostituita la più stretta economia, la quale divenne legge inesorabile per tutti della casa e prima di tutti la stessa Adelaide. Ella vendette subito una parte de' suoi gioielli e più tardi i rimanenti; conservò solo, ricordo d'un tempo lieto, un anello di brillanti, che rimase come un oggetto sacro nella famiglia, così che Carlo volle metterlo nel dito della sua seconda moglie, Teresa Teja, il giorno delle nozze.
D'allora in poi la contessa non portò che ornamenti d'un valore insignificante, fra i quali un finimento di coralli; vestì modestamente, seguendo la moda della rivoluzione francese; ma, invece delle basse scollature del vestire a la ghigliottina, portò sempre una larga cravatta, che le fasciava a più giri il collo fin sotto il mento. Le rade volte in cui usciva di casa, se d'inverno, si avvolgeva in un'ampia pelliccia di martora, che, nella sua immutabile ricchezza, conciliava con l'economia quel decoro de l'abito, cui Monaldo teneva tanto; se d'estate, portava in testa «un cappello colossale di paglia» che, mentr'ella stava in carrozza, «salutava per lei.»[3] Il compito ch'ella si era fissato non consisteva soltanto nella salvezza del patrimonio, nella ricchezza futura di casa Leopardi, ma anzitutto nel mantenere l'avita intatta fama di probità, l'onore del nome; e perciò a punto ella intese subito a far un concordato coi creditori, concordato reso men difficile dal papa, che impose certi limiti a gli usurai, detraendo quella parte che rappresentava il frutto d'un'ingorda usura da la somma del debito, il quale in quarant'anni doveva essere gradualmente estinto. Interdetto Monaldo, la casa dipese da l'autorità assoluta di Adelaide, autorità, che apparve talora inflessibilmente tirannica, tanto più che le ristrettezze economiche eran tenute con ogni cura nascoste. Senza dubbio, più generosa, ella avrebbe reso più felici o meno infelici i suoi e sarebbe riuscita più cara a loro e più simpatica ai posteri; è giustizia però il notare che la sua non fu, o non sempre, gretta avarizia, e ch'ella, come già disse l'Avoli, non mostrò mai d'amare il danaro pel danaro, nè la roba per la roba: per migliorare le sue terre, per conservare in buono stato il palazzo, non le spiacque spendere e, benchè meno volontieri, acconsentì che il marito e i figli comperassero gran numero di libri. Di buon grado faceva elemosine e senza menarne alcun vanto, donava cibi o legna, e dalle finestre gettava spesso ai mendicanti qualche moneta; anzi perchè queste non le mancassero mai, ne teneva sempre pronte a quel pio scopo in una ciotola di legno nella sua camera. Anche non di rado assisteva ella medesima qualche ammalato povero, pel quale ordinava al cuoco di serbarle il miglior brodo. La sua rettitudine era scrupolosa; e si narra che, morto Monaldo, facesse pagare, senza rivelar il proprio nome, due mila e trecento scudi ad un conte maceratese verso il quale il marito le aveva confessato uno scrupolo di trovarsi in debito.
Vi ha in questo rigido carattere di donna qualche cosa che merita ancor più che rispetto, ammirazione, ed è la sua lealtà, cui ella aggiungeva altri non comuni pregi, quale, ad esempio, una dote che non può accordarsi con un cuore non buono, tanto meno quando lo spirito è altero e abituato al comando: la facilità di perdonare; respinta con tanta ostinazione dai parenti dello sposo, è la prima a fare un umile passo verso di loro e diviene per essi una figlia sommessa a pena le aprono le braccia. Taccio le tristezze che le vennero dal marito e da' figliuoli e ricordo una lettera ad una sorella, che probabilmente è la Eleonora, sposatasi poi nel 1806 al marchese Baviera di Sinigaglia. Adelaide loda la giovine d'essersi pentita d'un'offesa recata a la madre in un impeto di collera; le rammenta che ella dovrà fare la felicità di uno sposo e che tali impeti turberebbero la pace della futura famiglia; che tutti abbiamo dei difetti, ma che tutti dobbiamo posseder la forza di reprimere le nostre passioni e chiude con un tratto di delicato perdono: «Vi protestaste ieri che non fate alcun caso della mia stima. Ad onta di questo, siate persuasa che nessuno vi stima e vi ama quanto la vostra affezionatissima sorella.»[4]
Nella lunga e difficile impresa cui si accinse, la contessa fu sostenuta da un vivo affetto per la casa, dalla pietà religiosa e dalla naturale vigoria di uno spirito, che non conosceva la debolezza femminile, la vanità, l'amore al lusso; ma s'ella salvò il patrimonio ai figliuoli, non offerse mai loro il conforto d'un cuore carezzevolmente, teneramente materno: l'espansione, la confidenza, che attirano confidenza, espansione ed affetto, le furono ignoti. Curava i bimbi con molta premura, li teneva a dormire in camere attigue alla sua, medicava ella stessa persino i loro geloni, amava di seguire i fanciulli con lo sguardo, anche nei loro rumorosi giuochi, nel chiasso, cui si abbandonavano gaiamente nei due giardini di casa, ma in quello sguardo non c'era mai una carezza. «Tutto era compassato in lei: anche i battiti del cuore. Si sarebbe quasi indotti a credere che la rigida marchesa volesse fare anzi tempo de' suoi figliuoletti uomini maturi, che le loro risa argentine turbassero la sua serenità di amministratrice e custoditrice suprema della casa»; così parla di lei il Traversi, uno dei più indulgenti verso i genitori di Giacomo fra tutti i cultori degli studi leopardiani. Monaldo, con le sue idee e il suo sistema di autorità senza confini e senza discussione, sarebbe stato il più duro dei padri, se a gli errori del giudizio non avesse largamente rimediato la bontà de l'anima; egli sapeva qualche volta ridiventar fanciullo co' suoi figli, che se trovarono talora la tenerezza in famiglia, fuori de la loro cerchia fraterna, la trovarono in lui; e più espansivo e più tenero sarebbe stato, se l'affetto di cui aveva pieno il cuore non fosse stato compresso dal dubbio di affievolire la propria dignità, di derogare a l'autorità paterna. Adelaide era un tipo affatto diverso, parlava poco e con calma e gravità; d'ordinario chiusa in sè stessa, non amava che altri le leggesse ne l'animo, e se un improvviso dolore la colpiva, scoppiava in pianto, ma andava subito a chiudersi nelle suo camere, da cui non usciva finchè non si era calmata. Nessun impeto visibile in lei: ella concedeva a pena la sua mano al bacio de' bambini e sospirava nel vederli vivacissimi e gai, mentre ne godeva la buona suocera sua, Virginia Mosca, che, rimasta vedova giovanissima, s'era dedicata tutta a' figliuoli. La sera nel suo mezzanino, dov'ella sedeva sopra un sofà, conversando col suo vecchio cavalier servente Volunnio Gentilucci, irrompevano i nipoti, che precipitandosi a gara per abbracciarla rovesciavano spesso il tavolino e la lucerna; e non di rado scherzavano alle spalle del cavaliere, il quale non poteva nè pur sfogarsi a sgridarli, perchè, se ci si provava, l'affettuosa vecchia era sempre pronta a dar ragione a loro e ad impermalirsi con lui. Graziosa scena questa de' due vecchietti eleganti e compiti, che stentano a tenersi il broncio, davanti alla contagiosa allegria d'una brigata di birichini!
* * *
Non è difficile immaginare, da le notizie che se ne hanno, quale fosse la vita dei ragazzi Leopardi: studi severissimi e faticosissimi co' precettori, rare e patriarcali distrazioni, chiasso co' cugini o qualche tombola giuocata ne l'orto di certi frati, pratiche religiose continue e continua sorveglianza.
Tutti sanno come il primogenito, gracile per natura, perdesse interamente la salute e divenisse gibboso per le soverchie fatiche durate sui libri, e come fra lui ed i fratelli da un lato e il padre da l'altro, sorgesse, e a poco a poco si facesse profondo, il dissidio, perchè la stretta tutela in cui eran tenuti irritava i loro animi non meno fantastici che appassionati, e perchè nelle idee e negli affetti essi venivano scostandosi da Monaldo. È pure assai noto come la disperazione di Giacomo giungesse a tal segno da risolverlo a tentar la fuga dalla casa paterna, progetto fallito per caso. Che faceva, che pensava intanto la contessa? Tutt'assorta nel suo compito di amministratrice, non si accorse forse che tardi de la perduta salute e de la deformità di Giacomo; ed è doloroso il notare come questi, giovanetto, affettuosissimo per natura e di una sensitività esaltata, persuaso di dover morire ben presto, mentre seduto sul letto, di notte, al lume di una fioca lucerna, scrive, fra le lagrime, il suo Appressamento alla morte e si duole di dover perire come infante che parlato non abbia, senza che alcuno conosca il suo grande spirito, Giacomo, che teneramente si rivolge alla Vergine, non ha una parola per sua madre. Doloroso del pari è il rileggere quanto il marchese Solari scriveva a Monaldo, dichiarandogli apertamente che per lui la causa della tentata fuga di Giacomo doveva essere l'eccessiva severità della contessa.
Nei dissidi fra il padre ed i figliuoli ella teneva naturalmente dal primo, ma senza punto tentare di piegarlo a più indulgenza verso di quelli, senza punto usar loro quelle giuste larghezze che li avrebbero calmati, perchè non comprendeva quei cuori giovanili ed il loro bisogno di vita e di libertà. Ed ella avrebbe potuto tutto, ella che comandava veramente e cui tutti obbedivano. «Io a casa mia non sono padrone che delle frittate,» soleva dire Monaldo, che si sfogava a gridare contro le prepotenze delle mogli italiane, ma rimaneva sempre impigliato nelle gonne della sua e non osava, nè anche per cose lievissime, affrontare il muso di lei, come scrisse Paolina. Per quei giovani focosi, esaltati, era un vivere senza vita, senz'anima, senza corpo, che faceva desiderar loro ad ogni momento la morte. In Giacomo, infelicissimo fra tutti, e nella grandezza del suo spirito conscio di tutte le sue sventure, si spense ogni vivacità, ogni allegrezza, e venne a mancare a poco a poco persino la speranza e la fede: egli, dopo anni di dolore che gli parvero secoli, riuscito ad andarsene di casa, si ricorda assai spesso di mandare i suoi saluti alla madre, ma non le scrive quasi mai; ed ella a sua volta tarda lunghi anni a dargli un aiuto materiale, e non lo dà finchè non è richiesto; e pure ella doveva sapere quanto questa domanda dovesse riuscir incresciosa a l'animo delicatissimo ed altero del figliuolo. «Son più le volte che senza qualche soccorso di amico sarebbe stato digiuno, che non quelle in cui avrebbe mangiato,» asseriva G. B. Niccolini alla marchesa Lucrezia Niccolini-Monti, andata sposa in Recanati, cui aveva chiesto se la famiglia Leopardi navigasse in pessime acque, rimanendo stupito al sentire che no. Certo però Adelaide non supponeva le reali strettezze di Giacomo, perchè, come Monaldo ebbe a scrivere a questi, ella credeva le lettere una miniera d'oro, la quale rendesse inutile ogni altro sussidio a quel figlio che pure ella amava tenerissimamente.
Che lo amasse ne fa fede tutto l'epistolario leopardiano. Nel 1825, quando Giacomo da Milano tornò a Bologna e scrisse a casa degli accordi con l'editore Stella e della lezione al giovane greco, Paolina, che in quel tempo non era certo tenera della madre, rispondeva al fratello: «La mamma vuole che ti saluti e ti risaluti; essa quasi piangeva dalla consolazione nel leggere la tua ultima, e si rallegra con te e spera che sarai sempre più contento.»[5]
Anche la breve letterina, una delle due che ci rimangono, scritta da Adelaide al figlio il 29 novembre 1822, quand'egli, per la prima volta lontano da casa, si trovava a Roma, ha frasi affettuose, e assai più che non dicano significano forse quelle righe: «Molto mi ha rallegrato la vostra lettera, ma molto più quella che avete scritto al babbo da Spoleto. Vedo che conoscete bene i vostri doveri a suo riguardo e ciò mi è garante della vostra buona condotta in avvenire.»
Chi rammenti i dissapori profondi tra Monaldo e Giacomo deve sentir qui il dolore che ne provava Adelaide, e un rimprovero, un consiglio dato con una delicatezza veramente femminile e veramente materna. «Sapete quanto io vi amo sinceramente e qual spina mi sia stata al cuore il vedervi sempre malcontento e di malumore.... abbiatevi moltissima cura e non trattate persone indegne.... amatemi e credete sempre all'affetto sincero della vostra affezionatissima madre, che vi abbraccia e vi benedice.»[6]
Queste semplici frasi spirano un affetto sincero e una santa premura, della quale nelle lettere dei parenti a Giacomo si trova traccia ben spesso: ora è Paolina (9 dicembre 1822, pag. 47, vol. cit.) che scrive al fratello: «Mamma non fa che lodarsi di voi e compiacersi grandemente delle vostre lettere»; ora è Adelaide stessa che dice al suo « carissimo ed amatissimo figlio, al suo figlio d'oro » d'esser tanto lieta delle sue buone notizie e di aver infinita riconoscenza pei parenti di Roma, che gli si mostrano gentili (26 gennaio 1823, pag. 82, vol. cit.); ora è Monaldo, che gli parla della grandissima consolazione provata dalla madre, sentendo che egli non si è piaciuto di Milano quanto in casa temevano: «Giacchè ci avrebbe amareggiati assai, o la vostra lunga dimora costì, o il vedervene partire con molto rammarico» (30 agosto 1825, pag. 121, vol. cit.); ora è di nuovo Paolina, che ringrazia il fratello per parte della madre e con viva riconoscenza della premura usatale di cercar d'una sua antica servente e di dargliene notizie: «Mamma vuole che ti saluti nuovamente e che ti parli del suo grande affetto per te.» (13 dicembre 1825, pag. 143-144, vol. cit.) Malgrado questo, Giacomo non aveva altro pensiero, altro desiderio che quello di starsene lontano da Recanati, ed è certo che non poco vi contribuiva il ricordo della severità che la contessa metteva in tutti i particolari della vita domestica. «Veramente ottima donna ed esemplarissima, si è fatta delle regole di austerità assolutamente impraticabili, e si è imposti dei doveri verso i figli, che non riescon loro punto comodi»; scriveva Paolina (26 maggio 1830) a Marianna Brighenti; Paolina, che già trentenne doveva farsi indirizzare le lettere dell'amica presso il suo vecchio precettore, non permettendole la madre ch'ella facesse amicizia con alcuno, perchè ciò, secondo lei, distoglieva da l'amore di Dio; e non voleva veder lettere dirette a la figlia, a la figlia trentenne, nè pure se fossero state del suo santo protettore. La povera contessina, che desiderava conoscere di persona le sue amiche Brighenti e sapeva di non poterle accogliere in casa, doveva rinunziare anche al piacere di vederle in chiesa o da la finestra (esse sarebbero andate a Recanati sol per procurarle questa gioia), perchè in chiesa andava unicamente la festa e accompagnata, e quel ch'ella poteva vedere da la finestra era sempre sorvegliato da sua madre, la quale girava per tutta la casa, si trovava da per tutto e a tutte le ore. (Vedi Lett. di Paolina ad Anna Brighenti, 4 marzo 1831 ). Tale severità irritava anche la mite contessina; mentre d'altra parte Adelaide, più che tutti gli altri di famiglia, si dava pensiero di cercare uno sposo a quella figliuola e voleva che si tentasse di combinare, anche quando le più gravi difficoltà eran palesi. Più duro di tutti i figli verso di lei fu Carlo, nelle lettere del quale troviamo frasi acerbe assai; una volta (Lett. a Giac., vol. cit., pag. 182-183) dubitando che Adelaide avesse aperta una sua lettera a Giacomo, consegnatale perchè la francasse, riscriveva al fratello dicendogli di questo dubbio e come la madre avesse rifiutato ostinatamente di toglierglielo, e prorompeva contro la curiosità donnesca e l'imperiosità insopportabile di lei; confessando però egli stesso d'essere in un momento di rabbia incredibile. Pare che la contessa e Monaldo aprissero infatti la corrispondenza dei figliuoli e la intercettassero talvolta, cosa che formava la disperazione specialmente del primogenito; nè la buona intenzione con cui lo facevano, basta a giustificarli. Ma nella loro severità, come ne l'inesorabile economia di Adelaide, non v'era mai punto mal animo, e la contessa doveva amar di cuore tutti i suoi cari, se mostrava tanto rincrescimento quando s'allontanavano da lei, se una volta il ritorno improvviso di Monaldo la fece quasi svenire,[7] se non seppe mai rifiutare a Giacomo i soccorsi ch'egli chiese (modestissimi è vero e domandati in modo che niuno che avesse cuore poteva negarli); ma li accordò anzi con parole tali da commuover lui, che pur diceva non esser più capace di verun sentimento; se la sua vita intiera fu consacrata a la famiglia; se quand'ella morì, nella sua camera fu trovata la seggiolina in cui eran stati seduti tutti i suoi figliuoli bambini, seggiolina che, con atto di tenerezza materna, ella aveva conservata religiosamente per fanti anni; e se infine Monaldo, pur dichiarandosi tanto discorde da lei quanto son lontani fra loro il cielo e la terra, pur credendosi castigato dal cielo nel suo matrimonio contrario al volere della madre, dichiara Adelaide buona moglie, saggia, affettuosa e pia, afferma che ventisei anni di matrimonio non smentirono un momento la condotta irreprensibile ed ammirata da tutti di quella donna forte, intenta solo ai doveri del suo stato, incurante d'ogni piacere od interesse che non fosse quello della famiglia o di Dio; confessa di averle obbligazioni innumerabili e che il suo ingresso nella famiglia Leopardi fu una vera benedizione. Monaldo stesso nel suo testamento dichiara Adelaide la sua amatissima consorte ed aggiunge: «Sono poi certo che i miei figli la rispetteranno e obbediranno come loro degna e venerata madre, rammentandosi qualmente essa, non solo è stata l'edificazione e la benedizione della famiglia con la sua costante religione e pietà; ma, con la sua saggia economia, prudenza e giudizio, ha ristaurato il patrimonio domestico dalle percosse dei tempi trascorsi; e se la casa nostra si è conservata in mezzo a tante burrascose vicende, questo è dovuto primieramente alla misericordia di Dio, e poi alle cure, diligenze e fatiche di questa savia, amorosissima donna.»[8]
La sorveglianza instancabile di Adelaide, la sua durezza, dovevano riuscir penose a lei stessa, che soffriva per sè e soffriva forse di far soffrire; ma rimaneva inflessibile, persuasa che questo fosse il suo dovere. A ragione il Finzi crede che una delle principali cause per cui ella e Monaldo rifiutarono sempre di mantener lontano di casa Giacomo, fosse la cura de l'anima di lui, che, secondo loro, lungi da la casa paterna cedeva a malvagi amici e si perdeva.
Come il conte e la contessa non comprendevano i figli, così questi non sempre compresero loro; e Giacomo, che ne' suoi pensieri giudicava l'educazione moderna un formale tradimento ordito da la vecchiezza contro la gioventù, se, com'è probabile, pensava a l'educazione propria, si lasciava sopraffare da l'amarezza: «Non lascia d'esser notabile che tra gli educatori, i quali, se mai persona al mondo, fanno professione di cercare il bene dei prossimi, si trovino tanti che cerchino di privare i loro allievi del maggior bene della vita, che è la giovanezza. Più notabile è, che mai nè padre, nè madre, non che altro istitutore, non sentì rimordere la coscienza di dare ai figliuoli un'educazione, che muove da un principio così maligno. La qual cosa farebbe più maraviglia, se già lungamente, per altre cause, il procurare l'abolizione della gioventù, non fosse stata creduta opera meritoria.»
È notevole il giudizio che di Adelaide dà il canonico Avoli:[9] egli la crede donna più di mente che di cuore, di propositi virili, più che di tenerezze materne, pensa che non possa venir giudicata se non severamente nei nostri tempi, e che per averne criterio equo sia «necessario trasportarsi con la memoria a circa un secolo addietro.» Ricorda come appaia naturale che, malgrado la più sincera affezione, l'accordo fra Adelaide e Monaldo non fosse perfetto, poichè l'uno era splendido fino alla prodigalità, l'altra calcolatrice, economa, massaia.
In tutta la vita e in tutta l'opera di Giacomo Leopardi non vi è un riflesso della tenerezza materna; ma in tutta quella nobile vita e in tutto lo splendore di quell'opera risenti l'elevatezza di pensiero, cui il poeta fu educato. Il Michelet diceva che il mondo vive la vita della donna, la quale gli dà due elementi di civiltà, la grazia e la delicatezza, che è un riflesso della purità. La grazia mancò alla contessa Adelaide, alla rigida signora che, dalle fredde nebbie del suo mistico cielo, non sapeva distoglier gli occhi, se non per curarsi della prosperità materiale della famiglia, tanto che «il fine che si era proposto le fece dimenticare che l'immediata felicità dei figli poteva qualche volta anteporsi a la futura.»[10] Ma non le mancò la purezza, la più alta dignità femminile: i figli non si sentirono attratti da l'anima sua, videro però quell'anima sempre candida, quella vita sempre d'una trasparenza assoluta, come d'una gemma che nulla offusca, e ne ritrassero la morale elevazione, ammirabile in tutti e più che mai in Giacomo.
Adelaide Antici ebbe il premio che meritavano i suoi sacrifici: vide tornato pienamente in fiore il patrimonio dei Leopardi, e questo per opera sua, ma quante pene le amareggiarono questa gioia! Pianse, morti in giovane età, il suo Luigi e il suo Pier Francesco; e, quantunque la rassegnazione, ch'ella credeva dovere di donna cristiana, le facesse piegare umilmente il capo ai voleri della Provvidenza, sarebbe ingiusto negare il dolore di questa madre, che ci è dipinta inginocchiata, pregando fra le lagrime nella camera vicina a quella dove stava per spirare l'ultimo figlio rimasto a la sua casa (ultimo se si pensi che Carlo non ne faceva quasi più parte e di più non aveva prole), di questa donna che a l'annunzio de la sventura, cui non sapeva ancora credere, scoppia in violenti singhiozzi e vuol poi prestare ella stessa colle mani tremanti gli estremi uffici al suo caro perduto. Ella vide sola nel mondo la sua Paolina, perdette il marito, due nipoti; e quel Giacomo, che le aveva dato pel primo il nome di madre, fu perduto per lei più che gli altri, morto solo, lontano e senza fede.
Il prof. Filippo Zamboni nel 1847 visitava la casa Leopardi: vide i manoscritti del poeta ed entrò nella camera ove questi era nato: Adelaide, maestosa nella persona, austera, coi capelli candidissimi, era ritta in piedi dinanzi ad un gran letto. Accennando ad un ritratto di Giacomo, il professore esclamò con entusiasmo: «Benedetta colei che in te s'incinse!»
Ella, rimasta immobile, levò solo gli occhi al cielo, esclamando: Che Dio gli perdoni! «Dunque la madre di Giacomo Leopardi non lo credeva fra i beati! Non v'è giorno ch'io non ci ripensi ancora con terrore,» scrive lo Zamboni, vinto da la sua commozione. Ma in quella risposta c'è forse tutta l'anima della contessa, co' suoi cupi terrori religiosi, che le amareggiarono le più pure sorgenti de gli umani affetti, che l'agghiacciarono dinanzi a l'immagine d'un Dio di spavento, non di misericordia. «Che Iddio gli perdoni!»; io credo che in queste parole ci fosse un profondo dolore e un amore profondo, un barlume de l'intima tragedia di cui il secreto fu portato nella tomba da l'austera contessa, sdegnosa del mondo.
Ella morì il 2 agosto 1857. Carlo, passate le giovanili intemperanze, dettava per lei una pietosa epigrafe, in cui la chiama «insigne per pietà ed affetto coniugale, mirabile nel ristorare l'economia domestica: con sè avara, premurosissima per la famiglia».
* * *
La critica leopardiana si è affaticata indefessamente a discutere e a ricercar notizie intorno ai genitori del grande Recanatese, ed avida del vero, ha raccolto ogni minuzia, conscia che talora anche le minuzie possono riuscir utili o gradite: tutto quel che ha potuto ha raccolto e narrato: da le piccole malizie cui, per aver danaro ad insaputa della moglie, ricorreva Monaldo, come il vender di nascosto grano o vino d'accordo coi castaldi, il far creder alla contessa d'aver comperato e di dover quindi pagare libri che prendeva invece dalla propria biblioteca per mostrarglieli; a le rampogne di lei per la minima spesa, fosse pur quella d'una maglia di lana, cui ella non avesse prima consentito, ai mantelli dei ragazzi divenuti troppo corti e allungati con due palmi di pelone. E pure molto e molto si desidererebbe di conoscere ancora intorno a lei; quanto si sa è forse il peggio, non il buono de l'anima sua, le esteriorità meschine de l'esistenza, piuttosto che l'intima vita. Giacomo, il quale non ignorava affatto come la vera padrona e quindi l'arbitra della sorte dei figli fosse lei, Giacomo, che nella piena del suo dolore si lasciò spesso sfuggire pungentissime parole contro il padre, tacque di Adelaide, in cui non aveva trovato una madre secondo il suo cuore, ma sentiva un'anima vigorosa; sentiva forse nella grandezza del proprio spirito anche qualche cosa che gli veniva da lei.
NOTE.
1. Vedi F. Tribolati, Il Leopardi e la sua famiglia (nel Fanfulla della Domenica, 24 luglio 1881).2. Vedi E. Costa, Lettere di Paolina Leopardi a Marianna e Anna Brighenti. (Parma, Battei, 1888; in 16º, di pagg. XIX -308.)3. Vedi C. Antona Traversi, Studi su G. Leopardi. (Napoli, Detken, 1887; in 16º, pagg. VIII -363, pag. 54.)4. Vedi Quattro lettere inedite di Adelaide Leopardi pubblicate per nozze Voglia-Ceccaroni da Maria e Leandro Mazzagalli Morotti. (Foligno, Campitelli, 1885; in 16º, di pagg. 11.)5. Lettere scritte da G. Leopardi a' suoi parenti, edizione curata su gli autografi da G. Piergili. (Firenze, Le Monnier, 1878; in 16º, di pagg. XXVII -304. Lettera di Paolina, 6 ottobre 1825, pag. 131.)6. Vedi volume citato alla nota precedente. Lettera di Adelaide, 29 novembre 1822, pagg. 33 e 34.7. Vedi C. Antona Traversi, Documenti e notizie intorno alla famiglia Leopardi. (Firenze, Münster, 1888; in 16º, di pagg. X -382.) (Da le Memorie inedite di Monaldo. — Nota del 24 gennaio 1802, pag. 93, volume citato.)8. Vedi nel volume citato di C. Antona Traversi, Testamento di Monaldo Leopardi, da pag. 179 a pag. 221.9. Vedi Autobiografia di Monaldo Leopardi, con appendice di A. Avoli. (Roma, Tipografia A. Befani, 1883; in 8º, di pagg. IX -431), da pag. 263 a pag. 269.10. Vedi A. D'Ancona, La famiglia di G. Leopardi, nella Nuova Antologia, 15 ottobre 1878.
FERDINANDA LEOPARDI MELCHIORRI
FERDINANDA LEOPARDI MELCHIORRI.
Il severo palazzo dei conti Leopardi fu poche volte lieto di così gaie e magnifiche feste come nel 1777; una bimba era nata al conte Giacomo e a la marchesa Virginia Mosca, e con la pompa e lo sfarzo insolito si voleva soprattutto far onor al compare che tenne la piccina a battesimo e da cui ella ebbe il nome, Ferdinando di Borbone duca di Parma, a la corte del quale il marchese Mosca, fratello de la giovane madre, aveva dimorato lungamente.
Dopo Monaldo, il primogenito dei Leopardi, venne al mondo questa piccola Ferdinanda e dopo di lei Vito ed Enea, rimasti tutti in tenerissima età (il maggiore non aveva ancora cinque anni) orfani di padre. Così dopo le feste lietissime suonò sollecita l'ora del lutto per l'antico palazzo, per la giovine signora e pei teneri bambini, fra i quali quella che ne patì di più fu forse la Ferdinanda, intelligente ed affettuosa più che nol comportasse l'età; i ragazzi soffrono spesso ne le avversità quanto non immaginiamo, la loro forza di sentimento pareggia non di rado quella degli adulti, e di più essi non sono abituati a la sventura, la quale li colpisce come qualche cosa di innaturale, di mostruoso.
La contessa Virginia, quantunque vedova assai giovane, non volle rimaritarsi, affezionatissima com'era a' suoi figli; e rimase tutta dedita ad essi e al governo de la casa, retto con generosità, anzi con lusso, per volere dei fratelli del defunto, i quali si attribuivano certi diritti, perchè a lui avevano ceduto gran parte del patrimonio a lo scopo di costituire un maggiorascato. I fanciulli crescevano fra tutti gli agi de la vita, accarezzati da l'indulgenza materna e da quella di parecchi familiari, tra cui il cappellano di casa Don Vincenzo Ferri, bruttissimo uomo da la tinta affricana, con gli occhi di gatto e la bocca larghissima, ma buono quanto brutto, che sapeva con la sua inalterabile piacevolezza rallegrare quei ragazzi ed anche sopportarne, inalterabilmente rassegnato, le non poche impertinenze. Ferdinanda era una affettuosa bambina, e non pure la madre, ma i fratelli l'adoravano, tanto che quando nel 1790, a tredici anni, ella fu posta in monastero a Pesaro, la casa parve rimasta vuota e non poco ci volle prima che la famiglia si abituasse a l'assenza di lei. Monaldo narra di non aver mai versato lagrime più dolenti e più sincere di quelle che gli costò la partenza de la sorellina. Due anni più tardi andò con la madre a trovarla e un altr'anno di poi ella ritornò in casa, e con lei parve tornata la grazia, quasi direi la luce, ne le antiche sale, dove tutti vivevano in mirabile armonia, benchè la famiglia fosse numerosa. Ne facevan parte la madre, il prozio canonico Carlo, i quattro zii Luigi, Pietro, Ettore, Ernesto, e i tre figliuoli Monaldo, Vito e Ferdinanda (Enea era morto bambino), senza dire che in casa e a la stessa mensa stavano pure il precettore Torres, il cappellano Ferri, il pedante Diotallevi, il canonico Pascal, francese emigrato raccolto per carità. Sola giovine donna fra tanti uomini, presso a una madre amorosa, Ferdinanda, vezzeggiata da tutti, cresceva di carattere dolcissimo: ella la confidente de la contessa, per quanto lo permettevano i rigori de l'antico metodo d'educazione; ella l'amica dei fratelli, ella la padroncina venerata.
I suoi studi erano superficiali, elementarissimi; con l'osservazione, la lettura, la riflessione costante però, ella si formò un corredo non meschino d'idee; ma la sua scienza fu soprattutto nel cuore, fu la scienza di amare, di viver per gli altri, di trovare la gioia più cara nel far del bene: e non pure nel compiere veri e propri benefizi, ma ancora nel ridestare un sorriso, nel richiamare un'amabile parola su le labbra di quanti l'avvicinavano, nel godere di veder tutti lieti intorno a sè, anche quando nel suo cuore c'erano de le lagrime e poteva parerle cosa consolante ch'altri piangesse con lei.
Non bella, ma graziosa nel portamento, soave ne lo sguardo pensoso dei miti occhi azzurri, a sedici anni era un delicato fiorellino, cui avrebbe giovato il rimaner ancora sotto la protezione de l'ombra materna: vollero maritarla invece, e Monaldo, da poco messosi a capo de la famiglia, acconsentì di buon grado a darle la dote di otto mila scudi, più di quel che avrebbe potuto. Lo sposo fu il marchese Pietro Melchiorri di Roma,[11] bel nome, onestà perfetta, ingegno non volgare, che si dilettava soprattutto di studi architettonici, ma scarso patrimonio e cuore non in tutto rispondente a quello d'un'appassionata giovinetta sedicenne. La sposa entrò nel 1795 con poco lieti auspici ne la casa maritale, quel palazzo Melchiorri, presso la Minerva, oggi detto de la Palombella e sede di ben nota scuola femminile; vi trovò con la matrigna, nove tra sorelle e fratelli del marito, coi quali la mitezza de la sua indole la fece viver d'accordo, benchè il dissesto economico di quella casa potesse offrire non poche occasioni, o se si vuole pretesti, a la discordia; ma ella ebbe forse a desiderare più d'una volta la pace e le dolcezze de la casa materna.
Si fece una cara abitudine de la lettura, che continuava indefessamente, finchè gli occhi deboli e spesso ammalati glielo permettevano; scriveva con piacere e con facilità lettere, che, se non sono un modello di perfezione letteraria, rispecchiano nitidamente ne la loro sincerità la sua anima gentile; amava anche occuparsi in qualche ricamo od altro lavoro piacevole, il quale lasciasse libertà di meditazione a la mente, che veniva coltivandosi da sè stessa con l'acume naturale.
Le contrarietà e i dolori, l'esperienza de la vita e de gli uomini, lungi da l'affievolire, affinarono la sua tenerezza squisita, che non si smentì mai. Aspetto e modi aveva tutti gai ed affabili, senza affettazione e senza vivacità soverchia; rifuggente dai complimenti e da le espansioni non sincere, era tuttavia graziosa in famiglia, graziosa co' conoscenti e con tutti; non facile a concedere il suo affetto, di cui ella medesima, anche ne la sua modestia, comprendeva il valore, era sdegnosa di volgari amicizie e di sentimenti fiacchi, e, intimamente sola ed appassionata, trovava ne la religione un sollievo; senz'esser punto bigotta, aveva slanci mistici sinceri, cercava ne l'idea de l'infinito e de l'eterno la quiete de l'animo e giungeva così a scordare i suoi dispiaceri col trascurarli e col tenere sempre alto lo spirito.[12]
Certo Ferdinanda ne l'intimo suo dovette combattere dolorose lotte e aver momenti di desolata stanchezza dinanzi a le miserie ed a le ingiustizie del mondo, così diverso dal suo cuore e da' suoi sogni; come una flessibile pianta al soffio del vento si china umilmente, ma ne resta sfrondata, ella piegavasi a le sventure, ma sentiva morire in sè stessa ogni gioia, ogni cara illusione; pur senza consolarsi sapeva rilevar il cuore da l'abattimento per rivolgersi più che devotamente, amorosamente a Dio, baciando la mano che la percuoteva, sentendo con dolcezza sopra di sè la protezione di un padre vigile e amoroso, cui ella chiedeva sommessa un ristoro a' suoi mali, ristoro che attendeva paziente, dicendo a sè stessa come dirà più tardi al suo grande nipote: «È da vile il non saper soffrire.» Così acquistava la pace e una certa indifferenza per le proprie pene, che era tutt'altro che freddezza.
Religiosa fu certo quanto la cognata sua Adelaide Antici Leopardi, ma quale diversità tra la fede rigida, opprimente di questa e la fede tutta d'amore e di carità di quella! Per Adelaide la religione fu spesso un terrore e un tormento, per Ferdinanda sempre un conforto; quella pregava piangendo anche in quei momenti che avrebbero dovuto esser più lieti per lei; questa ritrovava un sorriso ne la preghiera, anche quando il suo cuore era più oppresso; per la prima la fede era un mistero di tenebre, per la seconda un mistero di luce.
La tristezza di Ferdinanda dipendeva certo in buona parte da un'indole per natura disposta a la malinconia e da una finezza di sentire che doveva ad ogni momento esser ferita da le due realtà de l'esistenza. Ella era una vera Leopardi, uno di quegli esseri che pensano troppo ed amano troppo in un mondo dove non soltanto poco si pensa e poco si ama, ma ancora poco si apprezzano il pensiero e l'affetto, creature che di rado trovano fra gli uomini chi le somigli, e vivono perciò quasi estranee fra i loro simili, infelici perchè non possono nè mutare le cose, nè mutare sè stesse, vedendosi negate anche le gioie che godono i volgari, perchè a loro il sogno scolora la realtà. Come, a quanto dicono, Ferdinanda somigliava a Giacomo Leopardi ne le fattezze, negli occhi, nel sorriso, così gli somigliava ne la grande e funesta sensitività. Ma oltre a ciò non fu certo arrisa da la fortuna la sua modesta vita. Non pare che pel marito ella provasse grande trasporto d'affetto, benchè avesse per lui ogni premura e fosse degna di lode come moglie al pari che come donna. Nelle poco liete vicende de la sua nuova famiglia vennero a confortarla i figliuoli; di tre fanno menzione le sue lettere: Nanna, Peppe (quel Giuseppe, che fu illustre archeologo ed intimissimo di Giacomo Leopardi, il quale nel prediligere il figliuolo ricordava forse le tenere premure e la santa amicizia de la madre) e Camillo, divenuto poi benedettino ne la badia di San Pietro in Perugia. D'un altro figlio di lei, Anton Giacomo, fa cenno Monaldo ne le sue memorie: il povero bambino, travagliato da una lunga malattia che l'aveva fatto sottoporre a una cura penosissima, moriva a diciotto mesi il 21 marzo 1803, lasciando afflittissima la madre, che lo aveva assistito con indefessa premura, non staccandosi mai da lui, nè pure per concedersi qualche minuto di riposo, dormendo anzi, o meglio vegliando, ne lo stesso letto col piccolo ammalato. Anche morto, volle tenerlo fin che potè fra le proprie braccia e vestirlo ella stessa.
Monaldo ricorda ancora la malattia orribile di un altro figliuolo di Ferdinanda, che nel 1801 a due anni stava per esserle tolto e che contro ogni speranza improvvisamente risanò, crede il conte, per un miracolo de la Madonna.
Di tutti i figli Ferdinanda fu ugualmente tenera: nel giugno del 1821, sentendo che certi assassini infestavano i dintorni del collegio in cui aveva posto in educazione il suo Camillo, andò in fretta a riprenderlo, benchè probabilmente egli non corresse alcun pericolo.
* * *
Affezionatissima a Monaldo e a la famiglia di lui, essendo nel '19 a Recanati, intuì la grandezza di Giacomo non ancora compresa da nessuno, sentì nel suo cuore la bontà e gli affanni di quel Grande e l'amò con la soavità e l'effusione di tenerezza che nella propria casa egli non aveva conosciuta, nè conobbe mai. Il timido giovanetto che, tranne coi fratelli, parlava pochissimo e quasi per forza, le aperse l'animo suo e la chiamò più che zia, amica. In lui, chiuso in sè talmente da lasciar a pena trasparire un raggio de la sua luce intellettuale, ella apprezzò le maniere correttissime, la dignità di un dolore che doveva attrarre simpaticamente lei così amica de la malinconia e così pietosa; avvicinatasi al nipote sospinta da un affettuoso interesse, riuscì a farlo parlare, ne ammirò i pensieri ed i sentimenti; e finch'ella rimase a Recanati, godette di tenerselo quanto più poteva vicino e d'interrogarlo, sofferse di vederlo penare. Ella non osava ancora dir nulla, ma in cuor suo bramava di consolarlo e di guidarlo con la sua mano affettuosa di donna nel mondo da lui sospirato e in cui egli avrebbe potuto trovare le distrazioni necessarie al suo spirito, troppo assorto in sè stesso e negli studi. Sapendo di poter poco, nulla osava offrirgli che il suo affetto, ma questo caldo, espansivo, tenero, tutto devozione: e quanta gioia per lei nel veder rasserenarsi la fronte del giovanetto, nel vederlo sorridere a' suoi scherzi! Ella pensava già di intromettersi presso Monaldo in favore di Giacomo, pur non avendo la certezza di far cosa gradita a questo, le mancava il coraggio d'iniziare i suoi tentativi. Tornata a Roma, dopo una dimora a Recanati, gli scrive da prima quasi con una certa timidezza, poi sempre con più aperta effusione. Le loro due prime lettere partono contemporaneamente, senza che l'uno sappia de l'altra: il giovinetto ha tanto bisogno di sentirsi amato e la gentile signora gli ha fatto per la prima intravedere le materne dolcezze!... Egli le chiede con abbandono il conforto de le sue parole: ella sarà una de le poche persone cui egli potrà aprire il suo cuore: ed ella risponde lungamente, teneramente, il suo Giacomo troverà il cuor de la zia non tanto dissimile dal proprio e gli dipinge apertamente sè stessa, lo rimprovera con dolcezza per la sua malinconia, lo esorta a non lasciarsi andare a una sensitività senza freno, che lo renderebbe infelicissimo, a uscir di casa, e quando sa che quest'ultimo consiglio è stato ascoltato gli scrive: «In certo modo nella mia solitudine godevo di farvi compagnia, venendo con voi ed accompagnandovi fuori di casa, come se personalmente fossi con voi»; discute con lui di filosofia, quantunque con modestia confessi e si dolga di non aver bastante ingegno per rispondere adeguatamente a le riflessioni di lui; e tuttavia si prova a persuaderlo che la vita non è necessariamente sventura, che l'uomo non è creato per soffrire.... poi ride de la propria gravità: «Giacomo mio, io rido con me stessa, perchè mi pongo a trattare di certa materia che non è da me; ma voi mi siete tanto a cuore che per non sentirvi infelice, divengo filosofo, teologo e tuttociò che a questo scopo può bisognare»; (lettera 2 febbraio 1820) ed egli risponde che le espressioni de la tenerezza di lei, gli parrebbero quasi esagerate, se non conoscesse il cuore da cui partono.
Ferdinanda si duole e si compiace insieme di queste parole; protesta che non sa essere se non sincera, non che talora non debba ella stessa piegarsi a fare qualche complimento; se le convenienze lo esigono, lo fa, ma così di mal grado e con tanta parsimonia che teme sempre di far scorgere quanto questo l'annoi. Invece con le persone che ama e stima non dura alcuna fatica ad essere espansiva: «I miei sentimenti escono dal cuore, vanno alla penna, alla carta, come un vaso d'acqua posto in pendenza versa ciò che contiene entro sè stesso.» (Lettera 8 aprile 1820.) Il suo interesse pel nipote si fa sempre più vivo, ella si strugge di toglierlo da le sue tristezze, vorrebbe giovargli a costo di qualunque sacrificio proprio, si studia intanto di consolarlo, e lo prega, lo scongiura di vincere per amor di lei la sua malinconia, assicurandolo ch'egli ha in sè tutto ciò che può conciliare la stima e l'affetto, benchè egli, affranto dal suo dolore, creda l'opposto. Vuole che si distragga: « Nella natura troverete delle delizie che non troverete mai nel silenzio di una camera,» gli dice e lo esorta a uscire in campagna; chiamandolo col dolce nome di figlio suo gl'impone di non avvilirsi, di non rendersi la vita un tormento; e sempre gli accenna il Cielo come il miglior conforto di chi soffre. Ma ella non tarda ad accorgersi che una consolazione di parole non basta al nipote, e, ardendo d'affetto e di compassione, ella, pur tanto ritrosa ad impicciarsi dei fatti altrui, ella che doveva ben conoscere il carattere autoritario di Monaldo, prega il fratello di mandarle Giacomo a Roma per qualche tempo. Il conte, ostinatissimo in fondo, ma cedevole a l'apparenza, non nega, anzi pare disposto a dare un consenso, che certo non era punto nelle sue intenzioni, se ci vollero ancora due anni per piegarlo a lasciar uscire di Recanati il figliuolo. E Ferdinanda pertinace nel suo zelo non si stanca d'insistere, senza dirne però nulla al nipote pel timore che le alternative di speranza e di dubbio debban troppo tormentare quell'anima agitata e sensitiva; però quando sa che gli son date speranze d'ottenere un impiego a Bologna, gli rivela il suo desiderio e i suoi tentativi: ella vorrebbe che in casa sua egli acquistasse abitudini di società e facesse la conoscenza di persone autorevoli con l'aiuto de le quali egli potrebbe poi trovare un impiego a Roma. Perori egli stesso la sua causa presso il padre, questi non è disamorato, anzi è degno d'affetto, e la sua freddezza apparente dipende tutta dal dispiacere di vedersi escluso da la confidenza dei figli. La donna gentile insiste teneramente perchè quel ghiaccio si fonda, perchè Giacomo parli al padre a cuore aperto: s'egli potrà andare a Roma troverà in lei una madre affettuosa che non lascierà nulla d'intentato per compiacerlo.
Ma mentre Ferdinanda è tutta lieta di questa speranza, un'inaspettata, gravissima sventura viene a colpirla: il 30 novembre 1820 muore la contessa Virginia Mosca-Leopardi, sua madre. Ferdinanda non era punto preparata a questo dolore; solo otto giorni innanzi ella aveva scritto a la contessa, rallegrandosi di sentirla star meglio e compiacendosi de la poca gravità de gl'incomodi che l'affliggevano, facendole coraggio, pregandola d'ascoltar la messa in casa e ad ora tarda, perchè il Signore gradisce il buon cuore e non vuol che si faccia più di quel che le proprie forze permettono. Ferdinanda che quasi in ogni lettera raccomandava premurosamente la madre al nipote, sfoga con lui il suo cordoglio: sofferse tanto a la funesta notizia che credette di dover seguire ne la tomba la sua perduta; la mente non poteva distrarsi dal doloroso ricordo, il cuore non sapeva aver altro desiderio che quello de la diletta defunta, e, pur cercando ne la fede e ne la famiglia la forza per rassegnarsi a quella sciagura, non riusciva a trovarla; le sue intime pene furon tali in realtà che la condussero anzi tempo al sepolcro. Ella medesima, che tante volte aveva scongiurato Giacomo di vincere la tristezza, ora gli scriveva che il proprio dolore, in cui le pareva forse di sentir viva ancora la sua mamma, le riusciva carissimo e che cercava di nasconderlo agli sguardi di tutti, perchè non si tentasse di toglierglielo; unico conforto per lei era quello di non averne nessuno.
La compagnia del fratello Vito e della famiglia di lui, rimasti a Roma per qualche tempo, le diede distrazione, se non sollievo; partiti loro, avrebbe voluto ella pure tornar a Recanati, ma sentiva di non poter reggere ai cari e penosissimi ricordi che là ogni cosa le avrebbe ridestato nell'animo.
Ma il suo era uno di quei cuori che dimenticano le proprie ferite per curare le altrui; e anche ne la dolorosa oppressione del suo spirito, ella trova parole materne per Giacomo e vuol adoperarsi a farlo uscire di Recanati, poichè questo ormai è il supremo desiderio di lui. Pel nipote fa quello che non avrebbe mai fatto per sè stessa, chiede un'udienza al cardinale Segretario di Stato a fine di raccomandargli il grande e infelicissimo giovane, cui ella vorrebbe venisse concesso il posto vacante di professore di latino a la Biblioteca Vaticana. Non si stanca di cercar persone che insistano a favore di lui; le dicono che il Mai potrebbe molto ed ella prega amici e conoscenti che lo dispongano in favore del nipote. Questi le diviene sempre più caro, perchè sempre più ella comprende quanto le somigli nella delicata, profonda sensitività: «Gli animi sensibili si conoscono, s'intendono, si amano.» (Lettera 21 marzo 1821.) Pure la gentile Ferdinanda si duole di questa sensitività, perchè comprende che è causa di intimi strazi, da cui la vita è amareggiata per sempre; consiglia il suo Giacomo a rendersi il cuore più forte, più fermo; forse allora potrà essere meno infelice. «Ma se non l'ottenete.... Ebbene riposate nei cuore vostro, che sarà sempre migliore di quello degli altri; chè rare volte si combinano de' cuori umani sensibili e onesti.»
Le sue premure per la cattedra non riuscirono a nulla, perchè quel posto era già promesso ad altri; così Ferdinanda non ebbe la tanto desiderata gioia d'aversi Giacomo vicino.
Le ultime lettere di lei rivelano una grande stanchezza, un languore invincibile, ma fino l'ultima è ardente d'affetto pur ne le malinconiche parole che si riferiscono ai parenti di Giacomo, i quali si erano mostrati offesi da l'insistenza di lei, che voleva ad ogni costo togliere il nipote a la micidiale tristezza in cui si consumava a Recanati. A questo proposito Teresa Teia Leopardi scrive ne le sue Note biografiche: «La sua tenerezza per Giacomo le fece oltrepassare i limiti di una prudente intervenzione tra lui ed i suoi genitori. Ne so abbastanza su quelle intime scaramucce.» Queste scaramucce accrescevano l'amarezza de la marchesa Melchiorri, che lentamente si avvicinava al sepolcro, rassegnata ai voleri del Cielo, ma col cuore oppresso da mille pene: Monaldo non le rispondeva più, ed ella scriveva al nipote, e furon le ultime parole che gli rivolse: «Mille cose.... a chi poi?... A chi si ricorda di me in casa vostra; vogliamo dire, caro Giacomo, che tu parlerai sempre solo a te stesso di me! Basta. Saluti a tutti.» (Lettera 29 maggio 1822.) Così, ne la sua mortale spossatezza, Ferdinanda si scuoteva per raccogliere le proprie forze nei suoi gentili affetti, e non potendo forse scrivere a lungo, diceva a Giacomo di pensar egli stesso le espressioni de l'amore di lei assicurandolo ch'ella vi consentiva per quanto grandi fossero.
In quell'estate, andando a Nocera pei bagni, da cui sperava poter ritrarre qualche giovamento a la malferma salute, vi moriva senza avere avuto la gioia di riabbracciare il nipote, ch'ella aveva amato come una madre vera; e, ironia de la sorte, nel novembre di quello stesso anno 1822, Giacomo otteneva finalmente di recarsi a Roma con lo zio Antici. Ella, la buona anima gentile, non era più là per accoglierlo e fargli festa, ma dal cielo forse sorrideva al grande spirito di lui che ella, prima fra i parenti, aveva saputo comprendere.[13]
NOTE.
11. La famiglia Melchiorri originaria di Recanati vi ebbe sede fino a l'anno 1568, in cui Benedetto Melchiorri trapiantò un ramo di quella casa in Roma, dove già risiedeva il fratello di lui monsignor Girolamo, vescovo di Macerata e di Recanati. Marcello figlio di Benedetto ebbe la primogenitura instituita da lo zio Girolamo; acquistò il feudo di Torrita che gli diede titolo baronale; sposò la Pantasilea Massimi e fece erigere il magnifico palazzo Melchiorri. Spentosi nel 1757 il ramo romano di casa Melchiorri, vi sottentrò il ramo recanatese.12. Vedi Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, edizione curata su gli autografi da G. Piergili (Firenze, Le Monnier, 1878; in 16º, di pag. XXVII -304). Lettera di Ferdinanda, 18 dicembre 1819, pag. 4. In questo volume sono contenute tutte le lettere importanti di Ferdinanda; in famiglia ne rimane solo qualcuna scritta ne l'adolescenza da l'istituto di Pesaro. Nel volume si trovano anche tutte le altre lettere de la Melchiorri qui citate.13. Il comune di Nocera Umbra porrà quest'anno (1898) una lapide commemorativa ne la chiesa ove Ferdinanda è sepolta. De la marchesa Melchiorri non fu possibile trovare alcun ritratto. Si sa che di lei giovanetta venne fatta una bella miniatura, la quale però andò smarrita.
Paolina Leopardi
PAOLINA LEOPARDI.
Sopra un'altura a breve distanza dal mare, in una posizione incantevole, è Recanati: poco lungi, sopra un altro colle, sorge Loreto con la sua Sacra Casa, oggetto da secoli di pii pellegrinaggi; intorno, nell'ampio orizzonte chiuso lontano da la linea del mare e da la catena degli Appennini, si elevano il maestoso Monte Morello, oggi ameno passeggio, ma rozzo, ermo, selvaggio al principio del secolo, il Monte Tabor signoreggiante la vallata che il Potenza solca con l'argentea linea delle sue acque, il Monte Sanvicino.
Il borgo, o cittadina, se la si vuol chiamar così, un'ampia strada principale da cui si partono alcune vie traverse, non ha la tristezza, l'aria selvaggia che molti gli suppongono, e non potrebbe esser tetro in quella ubertosa regione tutta vigneti ed olivi che nell'argento de le loro foglie nascondono i rami contorti e nodosi, sotto la diffusa luce del sole meridionale, in quella regione ridente, dinanzi al mare, che ne profuma l'aria di fresche, salubri esalazioni, fra i suoi monti sonanti d'acque pure e i suoi floridi campi ove il grano s'indora nel luglio ardente e fioriscono candidi e rosei meli e ciliegi nel puro aprile. Non è tetro Recanati, ma nella gioiosa festa de' suoi dintorni ha un'aria seria e severa al par di molte città e villaggi antichi nostri; nelle mura vetuste, nelle strette vie, nelle chiese severe, quali il duomo e Sant'Agostino, nei conventi, nei campanili, quali la torre di piazza o torre del borgo, quella, antichissima, di Sant'Agostino, che con l'alto cono attirava i fulmini e fu perciò abbattuta, nei neri palazzi Carradori, Roberti, Antici, Leopardi spira l'austerità del passato. Quiete e silenti quasi sempre le vie, ove suonava di rado (parlo del secolo scorso, ma si potrebbe dir lo stesso del nostro) il cigolío di un carro pesante e il rintocco pensoso di una campana, il canto di una donna, il gorgheggio dei rosignoli, non infrequenti ospiti degli ampi giardini, più verdi che fioriti.
Un palazzo grande, severo, di antica architettura, da le alte finestre ad inferriate, in mezzo a' due giardini, uno a levante l'altro a ponente, quello più aperto, adorno di gruppi di vasi d'aranci e limoni e d'una vasca, questo più ombroso e fresco co' suoi alberi fitti che ne fanno una specie di boschetto, ove mesti s'ergono alcuni cipressi e s'apre amena una loggia: al primo piano un vestibolo a colonne, con armi, bassorilievi, qualche cosa di severo e solenne, qualche ampia sala tappezzata di damasco, ornata di specchi e di mobili dorati, parecchie altre vaste, quasi nude nel semplicissimo arredamento: ecco il palazzo avito dei conti Leopardi. In esso al conte Monaldo e a la contessa Adelaide, dopo i due primi figliuoli, Giacomo e Carlo, nasceva addì 5 ottobre 1800 una bambina, venuta prematuramente a la luce di sette mesi e cui vennero posti i nomi di Paolina, Francesca, Saveria, Salesia, Placida, Blancina, Aloisia. Fu battezzata dal canonico Ettore Leopardi ed ebbe a padrini il marchese Carlo Antici, fratello di Adelaide, e la marchesa Francesca Della Branca Mosca, la quale, malcontenta di restare in Pesaro, tornato a la repubblica italiana o cisalpina, era andata in Recanati nella casa del nipote, dove morì nell'aprile del 1801.
Paolina crebbe sempre vicina ai fratelli, partecipe de' loro giuochi, educata rigidamente al par di loro, istruita con loro e assai più seriamente che non si solessero istruire le fanciulle del suo tempo. Nella casa severa, tra gli austeri genitori, attorniati da una brigata domestica numerosa, ma non lieta, di cui facevan parte lo zio di Monaldo, Ettore canonico, l'ex-gesuita Don Giuseppe Torres, il cappellano Ferri, Don Sebastiano Sanchini di Mondaino, Don Vincenzo Diotallevi; brigata, cui veniva non di rado ad aggiungersi la compagnia di parenti ed amici per lo più aristocraticamente gravi, di ecclesiastici tutti compresi di politica reazionaria; sempre sorvegliati dai genitori, dal precettore o dal pedagogo, i ragazzi Leopardi, affettuosissimi d'indole, si stringevano fra loro, ad un tempo compagni, amici, fratelli, e sin da allora prendeva radice nei loro cuori quel vivissimo affetto che li legò così saldamente e che tanto conforto diede a la loro gioventù.
Giacomo, esile, ma allora diritto e snello, pieno di vita, avea la carnagione bianca, gli occhi azzurri, dolci e fieri insieme; Carlo, più robusto e nerboruto, era di una natura meno profonda e riflessiva, e, anche bambino, bello, spiritoso e mordace come fu di poi; Paolina, vestita sempre semplicissimamente di nero, piccola e gracile, aveva capelli bruni e corti, occhi di un azzurro incerto, viso olivastro e rotondetto; era brutta, ma di una gentilezza, di una bontà, che potevan farla parere graziosa a chi la conoscesse intimamente. Ella si adattava ai chiassosi giuochi dei fratelli, benchè preferisse i divertimenti più tranquilli; le piaceva soprattutto dir la messa dinanzi ad un altarino, e per questo e pel suo aspetto, Giacomo e Carlo solevan chiamarla Don Paolo, nome che le rimase a lungo. Il primogenito, com'era il più pronto d'ingegno, era anche il più prepotente, e ad ogni costo voleva primeggiare su tutti; la sorella cedeva di buon grado e, ancora fanciulletta, cominciava ad avere per lui una specie di culto devoto, tanto più che negli studi la supremazia di lui era evidente e che egli non soleva mai farsi pregare per dar aiuto ai fratelli nello svolgimento dei loro temi o nelle risposte da dare al maestro. Primo insegnante dei ragazzi fu Don Torres di Vera Cruz, che era stato anche precettore di Monaldo; ma questi, memore del pessimo insegnamento ricevuto, benchè conservasse per sempre un'affettuosa amicizia per quell'ex-gesuita, volle che i figli ricevessero un indirizzo migliore, e li affidò a Don Sebastiano Sanchini, tenuto in casa e verso cui si aveva ogni riguardo, come verso l'altro pedagogo Don Vincenzo Diotallevi, buon uomo questo, grasso e florido, il quale, con l'ostentazione d'un coraggio che non era punto nella sua natura, dava talora occasione agli scherzi dei fanciulli. Il Sanchini non fu un portento, ma certo doveva meritare assai più encomio che biasimo, se ben presto in tutti i suoi scolaretti fu vivissimo l'amore a lo studio, amore che in Paolina (non parlo di Giacomo) non venne mai meno e fu di conforto a la malinconica vita. Questa prima istruzione era rivolta a la lingua italiana, a la latina, a la francese, a le scienze naturali, a la storia, a la geografia, ed aveva a fondamento l'educazione religiosa e morale. Paolina non raggiungeva ancora nove anni, quando, il 30 gennaio 1808, in uno di quei pubblici saggi che Monaldo soleva far dare a' suoi figliuoli, rispose a dieci questioni di dottrina e ad altre dieci, e non facili, di storia e di geografia antica; l'8 febbraio del 1810 in un altro saggio rispondeva a venti questioni di filosofia e di scienze naturali, queste ultime riguardanti le meteore, il terremoto, il sole, la luna, i pianeti, le comete, gli ecclissi, il flusso e riflusso del mare: in quello stesso giorno ella doveva parlare de la storia di Spagna, del Portogallo, di Svezia, di Danimarca e Norvegia, da le più antiche memorie che ce ne restano sino al 1800. Ella aveva coi fratelli una parte nei dialoghi che Monaldo componeva e faceva loro recitare pubblicamente. Il Sanchini in una lettera (1º ottobre 1810) che da Mondaino, ov'era andato a passar le vacanze autunnali, scriveva a' suoi alunni, ha un paragrafo tutto per Paolina: «Mulieri invite Latii sermone litteras exarandas me trado. Mos invaluit, has fusum et colum tractare debere. At de te, Paulina, erit fortasse dissimiliter, nisi desidia marcescere voles. Perpende, mulier sicuti nata es, semper mulier eris; propterea muliebres facultates quoque ediscendæ sunt, et ex istis magis quam ex illis maior eris. Sed de hoc satis ne aliquis dicat sutor, ne ultra crêpidas. Cura valetudinem tuam. Vale.»[14]
Nel decembre del 1811 Paolina scriveva una lettera in latino a Monaldo, dandogli relazione de' suoi studi; questa lettera, che fu pubblicata da l'Avoli negli Studi in Italia (anno V, vol. 2º, pag. 692), prova il buon indirizzo e la severità de l'insegnamento che le veniva dato.
In una grande stanza ben arieggiata e luminosa stavano disposti l'uno dietro l'altro i quattro tavolini da studio dei ragazzi, ultimo quello di Paolina; a tutti insieme (anche al piccolo Luigi) dava le sue lezioni Don Sanchini, compreso de la gravità del suo ufficio e armato d'un lungo staffile, ch'egli però brandiva, dice la Teja, più per la forma che per l'azione. Agli studi s'alternavano ancora i giuochi nei due giardini di casa, le allegre scampagnate, il chiasso coi cugini e le cuginette. Paolina amava in quella prima età gli scherzi e l'allegria, era di carattere affettuoso e franco, e nella soggezione in cui viveva coi genitori, specialmente con la rigida Adelaide, si stringeva a Carlo e ancor più a Giacomo, pel quale si sarebbe gettata nel fuoco. Non aveva che dodici anni, quando per fargli un favore, ricopiava il manoscritto d'un suo compendio di logica e ne riceveva per ringraziamento questa graziosa ed erudita lettera:
«All'Ill.mo Signore, Padrone colendissimo »Il Signor Don Paolo Leopardi. »Casa.
»Recanati, 28 gennaio 1812.
»Amico carissimo, ricevo in questo momento il plico, che voi m'inviate, accompagnato da una obbligantissima lettera. Essa è ben degna per la sua brevità di esser commendata da' Lacedemoni, e dagli altri popoli della Grecia, i quali, dovendo rispondere in lettera ad alcuna inchiesta, non iscrivevano talvolta che la semplice parola: No. Il piacere che voi mi avete fatto col tòrre a copiare il mio picciol Compendio di Logica, non vi sembrerà forse sì grande, quanto lo è in realtà. Un buon copista è assai raro, ed io non reputo lieve vantaggio l'averne ritrovato uno, che sia conforme al mio desiderio. Il restauratore dell'italiana Poesia, Francesco Petrarca, lamentavasi che, avendo egli in poche settimane condotto a fine il suo libro latino De Fortuna, etc., non potea dopo più anni averne copia, che pienamente il soddisfacesse, poichè di mille errori eran ripiene tutte quelle, che egli avea avute da' vari copisti. Se io fossi vissuto al tempo di Petrarca, e l'avessi udito lamentarsi meco in tal modo, avrei facilmente appacificate ed acquetate le sue querele coll'insinuargli di darvi a copiar la sua opera, e son certo che, malgrado la sua delicatezza in questa materia, egli ne sarebbe rimasto soddisfatto. Nè crediate che il mestier del copista sia da disprezzarsi. Teodosio, uno de' più grandi Imperatori d'Oriente, s'impiegava ancor egli nel copiare gli altrui scritti, e non vivea che del danaro ricavato da questa non ignobil fatica. Voi potrete dirmi, che Teodosio non operava in tal modo, perchè di sè degno riputasse un tal genere di lavoro, ma solamente per un effetto della sua profonda umiltà e virtù cristiana; ma io, per convincervi di quanto ho preso a dimostrarvi, vi apporterò un altro esempio. Non ci dipartiamo dal Petrarca. Egli avendo intrapreso di fare un viaggio, non ben mi rammento per qual fine, e ritrovata, cammin facendo, un'opera di Cicerone, di cui non avea per anche contezza, non istimò cosa vile il copiarla da capo a fondo. Ma è ormai tempo di finirla, poichè mi avvedo che, avendo fatto l'elogio dello stile laconico, sto per cadere nei difetti dello stile asiatico. Sono affezionatissimo per servirvi di cuore
» Giacomo Leopardi. »[15]
Paolina, crescendo, andava arricchendosi oltre che d'un'ottima cultura generale, di una cognizione chiara e non superficiale de la letteratura italiana, latina e francese; meno profondamente, conobbe anche lo spagnuolo. In italiano scriveva con facilità e con semplice eleganza, tanto che del suo modo di scrivere Giacomo le fece lode più volte; egli chiamava le sue letterine e il suo stile così gentili da non parer non solamente recanatesi, ma neanche italiani; e pensava forse a la lunga ed accurata lettura che Paolina aveva fatto de le lettere di Mad. e de Sévigné, ch'ella chiamava la sua opera classica, asserendo di saperle tutte a memoria. L'approvazione di Giacomo faceva strabiliare la sua modesta sorella, che gli confessava di vergognarsi quasi di scrivere a lui, temendo ch'egli scoprisse l'inganno di quelli che la lodavano pel suo stile.
Il Viani nel pubblicare l'epistolario, a la pagina in cui Giacomo encomia le lettere di Paolina, appone una nota in cui conferma quel giudizio e aggiunge che la coltura, l'ingegno e la gentilezza de la contessina erano veramente singolari. Ad aprire la mente di lei certo giovavano assai le lunghe conversazioni con Giacomo, che, timidamente ritroso e chiuso in sè con tutti, taciturno, malgrado l'immenso suo tesoro d'idee, non soltanto nelle conversazioni, ma sol che si trovasse fra due o tre persone riunite ed anche con gli stessi genitori, era espansivo coi fratelli; con loro voleva e poteva discutere, perchè in fondo in quasi tutte le idee generali andavan d'accordo, e questa era la condizione ch'egli credeva indispensabile per poter discutere utilmente e piacevolmente con qualcuno. Paolina, oltre a fargli da copista, a scriver lettere per lui, ad esser confidente di tutte le sue pene e prima ammiratrice dei suoi scritti, era con Carlo la sua unica compagnia, quando i gravi mali, di cui egli sofferse agli occhi, lo costringevano a passare le intere giornate chiuso al buio in una stanza, fremendo e delirando pel nuovo dolore di non poter studiare, che veniva ad aggiungersi a le sue tante pene. Ella era così abituata a creder ciecamente nel primogenito, a prender parte a tutti i pensieri, a tutti gli affetti di lui, che ritroviamo nel suo cuore in gran parte il cuore di Giacomo: al par del fratello ella nascondeva sotto un aspetto timido e un'abitudine di taciturnità, che in lei pure era mal giudicata come prova di uno spirito arcigno, un'anima ardente, assetata d'amore, pronta ad affezionarsi, anzi a darsi tutta con un entusiasmo che aveva qualche cosa di romanzesco e di sentimentale, a chi le dimostrasse qualche tenerezza. Come Giacomo, ella portava nell'amicizia il linguaggio passionato de l'amore, e, quantunque pregiasse sopra ogni cosa la intelligenza, la coltura, la finezza de l'educazione, pure persino a le persone di servizio si affezionava talmente da durar a pianger parecchi giorni quando qualcuna di esse a lei cara lasciava la casa. Vivacissima anch'ella di fantasia, anch'ella odiava Recanati, sognando di là da quei monti e da quel mare un mondo meraviglioso, un'ignota felicità; il pensiero che vi fosse qualche cosa ch'ella non doveva veder mai, le era un vero e proprio tormento; e quando rifletteva, come Giacomo giovanetto, quante belle cose ha il mondo, si sentiva struggere, anelava a i ghiacciai de la Svizzera, al cielo di Napoli, a le aurore boreali de la Russia, e non era ancora riuscita a vedere i tanti e bellissimi punti di vista del suo paese. Se ne le letture, che eran tutta la sua distrazione, ella trovava belle pitture di luoghi, bei racconti di viaggi, gettava via il libro e scoppiava in pianto. Anch'ella nel confronto de la povera realtà coi sogni superbi, si sentiva profondamente infelice, e peggio era quando i suoi non riuscivano a capire, essi che adoravano la loro casa, quel ch'ella desiderasse, e venivano osservandole che infinite persone si sarebbero chiamate felici di poter cambiar sorte con lei, di non mancar mai del pane, di poter dormire a proprio grado, lavorare o no a proprio talento. Capiva ella stessa di dover parer incontentabile, ma non sapeva rassegnarsi, sentendo in sè tanta vivacità di fantasia e soprattutto tanta inutile potenza d'affetti; e si lasciava prendere da un'infeconda tristezza che le annebbiava il mondo, le amareggiava la vita. Comune con Giacomo aveva l'amore a la natura, ne la contemplazione de la quale le pareva che si addolcissero le sue pene e che il suo spirito trovasse qualche cosa de le ineffabili bellezze e de le dolcezze sognate: «Io credo,» ella scrisse più tardi, «che oramai non resti all'uomo dabbene altro piacere da gustare che nel contemplare le bellezze infinite della natura: tutto il resto non è più fatto per lui, o egli non vi si può adattare.»[16] Come Giacomo sentiva rinnovarsi la vita, risvegliarsi ai più teneri moti l'anima sua al ricomparire de la primavera, così Paolina aveva una estrema predilezione per i bei mesi di aprile e di maggio, in cui vediamo fiorite le siepi; e pareva che ne la natura e ne la primavera ella amasse di riposare il suo cuore offeso da la vita e dagli uomini. La commovevano profondamente le due arti sorelle: poesia e musica; ed il suo amore per esse era tanto intelligente, quanto vivo: adorava i veri poeti, non poteva soffrire non pure i cattivi, ma neanche i mediocri; e più tardi le sue amiche Brighenti, per quanto facessero, non poterono piegarla a indulgenza verso il Cagnoli e il Perretti, loro intimi.
La musica, in particolare le appassionate melodie di Bellini, che parve nelle sue note trasfondere tutti gli entusiasmi de la gioventù, tutte le ardenti lacrime de le alte sventure, commoveva ineffabilmente Paolina, che avrebbe voluto ascoltarla tutta sola, libera di ridere, di piangere, di gridare, secondo le impressioni de l'animo suo. Giudicò la morte del grande maestro una disgrazia immensa; al primo sentirne la notizia, mandò un grido di dolore, e sospirava tutte le volte che le accadeva di riparlarne.
Paolina giovanetta era religiosa, ma lontana da ogni mistico esaltamento, dal suo cuore la prece usciva sincera e fervida, ma i suoi occhi cercavano la terra, le bellezze e le gioie d'una vita pura e onesta sì, ma umana. E quegli occhi intelligenti e buoni eran la sola leggiadria de la giovanetta, sempre piccola, esile, bruna e di più difettosa nella persona.
S'intende facilmente come anch'ella rodesse a fatica il freno ne la casa paterna e come, quando tra i fratelli ed il padre l'accordo fu rotto e incominciò quella lotta muta e tanto penosa per gli uni come per l'altro, ella fosse tutta con Giacomo e con Carlo, prendesse parte a le piccole e disgraziate cospirazioni, a le rivolte più pensate che reali, e soffrisse con loro de le sempre mancate speranze, degli scoramenti che li opprimevano. Ella pure piangeva la sua vita e il suo cuore sepolti in quel soggiorno abbominevole e odiosissimo, in quella notte tenebrosa, e non trovava sollievo che in questo pianto, in questa commiserazione di sè stessa, ne la coscienza di esser considerata nulla, ma di valer pur qualche cosa.
Quando nel novembre del 1822 il marchese Carlo Antici, dopo lunghe preghiere ed insistenze, ottiene di condur seco Giacomo a Roma, Paolina resta sconsolata, non sa credere a la lontananza di quel suo compagno di tutte le ore, di tutti i momenti, di tutti i pensieri, lo cerca sempre ne la casa che le par più triste e più vuota, sempre le pare di sentire i suoi passi e si muove ad incontrarlo. Le lettere del fratello le sono di scarsa, ma vera consolazione, e ancor più l'idea ch'egli deve amarla sempre e ricordarsi spesso di lei; rispondendogli, ella mette tutta l'anima ne le proprie parole: le piace di sentire ch'egli trova a Roma persone sciocche, ridicole ed incolte, pensando che a queste egli deve pur preferir la sua sorella: gli chiede notizia de le donne di Roma, dei parenti, del Mai, gli narra con grazia le piccole novità di Recanati, lo prega di averla sempre cara, s'interessa a tutte le cose sue, smania di poter fargli alcun che di gradito, e per questo gli parla dei libri nuovi che arrivano in casa e del loro contenuto. Poi si sfoga con lui de la sua noia, de le speranze che persin esse le mancano; gli confessa il suo intimo desiderio di morir giovane, di non veder la fine de l'anno che incomincia (1823): finirà col farsi monaca per disperazione; nulla di nuovo le è accaduto, ma ogni giorno che passa accresce la sua infelicità. Infine confida a lui le sue speranze di matrimonio. Simile anche in questo al fratello, ell'era insieme d'una timidezza e di un riserbo che a chi non l'avesse conosciuta, potevan parere indizio d'animo freddo, ma nascondeva sotto queste apparenze un cuore appassionato e un desiderio d'amore che occupava tutto il suo spirito, la sua fantasia, i suoi pensieri, e come un divino miraggio oscurava tutto il resto del mondo a' suoi occhi. «Fervidissima era l'anima sua assetata d'amore, sempre in traccia d'un affetto cui consacrare tutta sè stessa, a cui donare tutto il tesoro de' suoi affetti e de' suoi entusiasmi, ma d'un affetto degno veramente di lei e capace di comprendere tutte le delicatezze del suo carattere.»[17]
La povera anima, diceva Carlo, era costumata a l'idea de' sacrifici, ma non le era ancora concesso di farne. Una prima probabilità di matrimonio le arride nel progetto di dar la sua mano a un tal Peroli di Sant'Angelo in Vado o di Urbino, uomo già innanzi con gli anni, di punto spirito, di poca amabilità, bruttissimo, però creduto ricco e buon uomo, come Monaldo lo chiama, e che mostrava di potersi molto affezionare a la giovanetta, la quale lo vedeva troppo disprezzato e fors'anche deriso, e lo sentiva troppo inferiore a se per poter accoglierlo con trasporto; tuttavia lo accettava, parendole che un avvenire ignoto dovesse pur sempre esser migliore de la sua monotona, malinconica vita.
Fu ben altro quando ella amò per la prima, anzi per l'unica volta nella sua vita, chè, com'ella disse più tardi a le sue amiche Brighenti, per lei le occasioni di sentirsi battere il cuore erano rare ed ella somigliava a le Francesi e ripeteva con una di esse: Je suis si heureuse quand le cœur me bat! (Lettera 29 aprile 1831.) Molte vive, improvvise, ma fuggevoli simpatie ella ebbe, un solo amore; e ne confidava il secreto a le Brighenti: quando esse le annunciavano che Giacomo era in compagnia d'un tal Ranieri, giovane signore napoletano, Paolina, arrossendo e delirando d'ansia e di dolore, chiedeva le dicessero se quegli fosse veramente napoletano e se non si chiamasse Ranieri di nome, invece che di cognome; e narrava d'aver amato un giovane marchigiano di nome Ranieri, il quale verso il '29 era a Bologna; d'averlo adorato con un ardore da non potersi immaginare, d'esser stata sua sposa, poichè tutto era combinato, e persino il consenso dei Leopardi era stato ottenuto, sebbene egli non fosse ricco, nè di nobiltà paragonabile a quella di lei. Egli era quale ne' suoi sogni ella aveva sospirato il proprio compagno, giovine, amabilissimo, intelligente, colto; ma un dì le venne un dubbio ch'egli non seppe sciogliere, e che le distrusse ogni felicità, ogni speranza, le fece ricusare il fidanzato, pur rimanendo con la sua immagine indelebilmente scolpita nel cuore e col dolore crudele di non aver saputo inspirargli l'amore ch'ella sentiva per lui, ardente, furioso. D'allora in poi bastò il nome di Ranieri per farla palpitare e, sentendo che Giacomo era con un giovane di tal nome, s'era fissata fosse insieme a colui ch'ella non poteva scordare e che, volti a la peggio i suoi affari, era andato prima a Bologna e poi a Roma, senza che da un pezzo ella potesse più saperne nulla: «Ma se so ch'egli è felice, quasi lo sono ancor'io,» soggiungeva con vera femminile tenerezza.
A proposito di questo amore il Costa scrive: «Una sola volta parve che il bel sogno ( di Paolina ) fosse divenuto realtà, quando un giovane marchigiano di nome Ranieri, del quale è ignoto ancora ch'io mi sappia il casato, non avendone parlato nessuno degli studiosi di cose leopardiane, parve innamorato di lei.»[18] Il Costa scriveva queste parole nel 1887, ma d'allora in poi non è a mia cognizione che alcuno tentasse sollevare il velo del pudico secreto di Paolina.
Carlo il 9 febbraio 1823 scriveva a Giacomo d'essere stato a la cena del gonfaloniere vicino di tavola di Roccetti e gli narrava d'aver trovato quel giovane amabile, geniale di fisonomia e di talento e cultura sufficiente, non ignaro di lettere, ammiratore dei versi di Giacomo, e autore egli stesso di qualche buona poesia. Carlo ricordava come altre volte gli fosse venuto in pensiero di dar a quel giovane Paolina, che in varie occasioni l'aveva visto, aveva parlato con lui e l'aveva trovato assai piacente; ma non ne aveva fatto più nulla, saputo della poca entrata di lui. «Ora,» egli racconta, «sembra che tanto Paolina, quanto il partito superiore, sieno disposti a passar sopra questo punto. È certo che è assestatissimo, e non si tratterebbe se non di calar di piede, non di stare incerti sul piede proprio. Per il tratto e l'educazione può stare al pari di un signore molto più ricco, veste benissimo e il suo fare riservatamente polito e nello stesso tempo sicuro e disinvolto ha una certa somiglianza con quello di Camillo. Begli occhi, ottima e sanissima bocca. Vedi che sulla persona non c'è nulla da dire; sta all'interessata a dire, se questo è quello che essa conta il più. O piuttosto essa l'ha già detto; ora si aspetta ch'egli dichiari in qualche modo il suo sentimento, che non sembra bene d'interpellare direttamente, trattandosi d'un affare in cui egli è quello che guadagna.» Giacomo rispondeva che veramente poche consolazioni avrebbe potuto provare uguali a quella di veder effettuato quel progetto circa il matrimonio di Paolina; era certo che Carlo dal lato suo non avrebbe lasciato cosa che potesse giovare a questo effetto; e aggiungeva non poter sapersi se la sorella dovesse nel nuovo stato e con quel compagno esser contenta; ma che certo per lei non v'era altro partito, se non quello di maritarsi presto e possibilmente con un giovane. (Lettera 20 febbraio 1823.) Paolina, tutta lieta di questo assenso del fratello, pochi giorni dopo gli scriveva d'essere estremamente contenta di Roccetti per la sua figura, ch'ella non avrebbe potuto desiderare migliore, per il suo spirito, per la sua cultura, educazione ecc.; ma un dubbio le restava e tale da farla tremare: i costumi di quel giovane, dei quali aveva sentito parlare altra volta dai fratelli, costumi tali da spaventarla. Ell'era persuasa d'aver a rimpiangere il vecchio Peroli, o almeno l'amore ch'egli le avrebbe portato, e ch'ella non si credeva capace d'inspirare ad un giovane, neanche avendone infinito per lui: «Come» scrive «ne avrei per Roccetti, che se avessi veduto più a lungo, me ne sarei innamorata; e sarebbe stato tanto peggio per me, chè fino ad ora non se ne capezza niente.» (Lettera 3 marzo 1823.) Giacomo di rimando le dava consigli e le diceva: «Circa l'affare di R.... è verissimo che a me pare che vi convenga. È anche vero che R.... è un giovane come tutti gli altri.» Aggiungeva però che un uomo di talento, quale era Roccetti, dopo essersi divertito assai ed anche annoiato de la galanteria, doveva sentire il bisogno di una che lo amasse da vero e che unisse a la tenerezza, la gioventù e il buon cuore. S'egli aveva tal desiderio, nessuna avrebbe potuto soddisfarlo meglio di lei, che sapeva amare ed era istruita al di sopra di quattro quinti delle sue pari; ed egli stesso doveva essere ottimamente disposto a divenire un buon compagno; non già che Paolina non dovesse in tal caso aspettarsi da lui nessun tratto di gioventù, ma certo egli si guarderebbe da l'offenderla, proverebbe pena se credesse di averne procurata a lei, o sarebbe sempre suo, o mostrerebbe di essere, e tornerebbe presto e veramente a lei, quand'anche se ne fosse mai allontanato per qualche momento. (Lettera 19 marzo 1823.)
Poco a presso Carlo scriveva al fratello che Roccetti, fatto interpellare, aveva detto definitivamente d'essere in trattato con un'altra; ove non avesse potuto combinare, ben volentieri avrebbe accettato Paolina. Carlo aggiungeva sapersi chi era quest'altra: una vedova uscita da la casa mercantile Cesaretti di Ancona, con una dote minore o al più uguale a la loro sorella, giovane però e avvenente. (Lettera 6 marzo 1823.)
Il 27 marzo, pregando Giacomo d'informarsi se Paolina avesse potuto convenire al cavalier Marini di Roma, Carlo aggiungeva: «Roccetti non ha detto più nulla.» Ma due anni di poi Monaldo scriveva al suo primogenito: «Ti piacerà di sentire che ho fatto sposa Paolina, e il suo sposo è Peroli. Questo buon uomo, sentendola libera dal trattato Roccetti, venne qua e tutto fu combinato.» (Lettera 30 agosto 1825.) Monaldo non poteva alludere certo a quelle prime trattative col Roccetti, che non avevano punto impegnata Paolina; bisogna dunque credere che nel frattempo, e cioè mentre Giacomo era a Recanati dopo il suo ritorno da Roma, poichè in nessuna lettera a lui se ne trova notizia, tali trattative fossero state riprese e condotte a buon fine, benchè poi l'impegno venisse sciolto.
Paolina Mazzagalli, che, come vedremo, fu intima della contessina Leopardi, espandendo in un'affettuosissima lettera la sua amicizia, scrive a la cugina: «S'io vi possedessi, confesso tremerei.... tutte le volte che dovrei allontanarvi da me, perchè è vero che tutte le cose preziose si conservano con gelosia; e persuadetevi che anche Rossetti avrebbe fatto così, se.... ma io dimenticavo che egli è infelice e che per questo voi non l'amate più!!.. Questa idea mi spaventa e mi fa temere per la nostra amicizia.»[19]
Credo che quel Rossetti sia un errore di lettura del manoscritto o di stampa e che si debba invece leggere Roccetti. Una volta ancora troviamo questo nome tra le carte leopardiane ed è in una lettera di Paolina a Giacomo: «Così per una curiosità, se hai veduto e sentito nominare a caso Roccetti che fosse costì dimmelo un poco. Che se non puoi dirmi di averlo nè veduto, nè sentito nominare, non me ne far motto, che è inutile. Si dice ch'egli sia costì in una compagnia comica, e si dice che faccia il carabiniere dopo avere dato sacco a la roba sua.» A questa lettera del 10 giugno 1827, Giacomo rispondeva punto per punto il 18 giugno, ma di Roccetti non faceva parola.
Da le lettere citate risulta chiaramente come Paolina amasse questo Roccetti e se ne interessasse ancora dopo parecchi anni, com'egli fosse giovane, assai piacente, di poca fortuna e di poca nobiltà, come ella gli sia stata promessa ed infine (se è proprio di lui che parla la Mazzagalli) come verso il 1828 egli fosse infelice; appare ancora probabile, poichè Paolina ne chiede, che sul finire del '27 egli si trovasse a Bologna in pessime condizioni economiche. Se si pensi ora quel che la contessina confessava a le amiche intorno al suo Ranieri: che era giovane, amabile, non ricco, non molto nobile, poichè in un'altra lettera ella scriveva: «Mi pareva impossibile di poter lasciare il mio cognome, cui voglio assai bene, per uno tanto meschino. Quando ero sposa del mio Ranieri, non mi pareva sacrifizio quello che andavo a fare, poichè l'amore velava il tutto»; marchigiano (e il Traversi, il solo, ch'io sappia, che abbia fatto cenno una volta, ma brevissimamente del Roccetti, lo asserisce di Filottrano); per qualche tempo fidanzato a lei, più tardi disgraziato negli affari, e che nel 1828 era a Bologna, apparirà, s'io non erro, più che probabile che il Roccetti e Ranieri sieno tutt'uno; Roccetti il cognome, Ranieri il nome.
Ero a questo punto de le mie induzioni quando l'egregio signor conte Giacomo Leopardi, ora degno rappresentante di quella illustre famiglia e premurosissimo per gli studi leopardiani, pregatone da me, fece fare de le ricerche a Filottrano e mi comunicò poi la seguente lettera:
MUNICIPIO DI FILOTTRANO. Gabinetto.
Lì 10 agosto 1897.
Preg. mo Sig. r Conte,
Dai nobili signori Giuseppe Roccetti e Geltrude Melchiorri nasceva qui in Filottrano il 9 settembre 1795 un bambino, cui venne imposto il nome di Raniero, tenuto al Sacro Fonte dai nobili Giacomo Martorelli-Mazzoleni-Fiorenzi di Osimo e Virginia Mosca, moglie del conte Giacomo Leopardi da Recanati. Così nel registro dei nati del suddetto anno. Il giovane Roccetti Raniero, dalle informazioni avutesi da qualche persona vecchia del luogo, che lo conobbe, corrispondeva perfettamente alla descrizione che se ne fa nella lettera del conte Carlo. Si sa pure di esso che, attesi dissesti di famiglia, entrò al servizio del governo pontificio nella carriera giudiziaria, raggiungendo, a quanto si ricorda, il grado di governatore. Morì in fresca età a seguito di malattia mentale, ma non sa dirsi il luogo. Del resto a Filottrano non si sa abbiano esistito altri Roccetti di nome Ranieri, ma lo si ripete, la descrizione della lettera fa esser certi si tratti di quello di cui si dettero i pochi cenni biografici. Offrendomi per ogni occasione mi pregio protestarmi....
Il Sindaco.
Il romanzo di Paolina, così splendido ne la sua fantasia e nel suo cuore, così povero ne la realtà, finiva miseramente; ed è probabile che il dubbio di cui ella parla, inducesse lei a lasciare il fidanzato, come che le peggiorate condizioni di lui persuadessero i Leopardi a non dargli la figliuola.
Per un momento si pensò a combinare un matrimonio fra Paolina ed Osvaldo Carradori, ma pare che le cose sieno andate poco più innanzi del pensiero. Adelaide, che più degli altri si preoccupava di trovar marito a la figlia, saputo che il cavalier Marini di Roma, vedovo, voleva riprender moglie e la desiderava savia, ben educata, di ottime qualità morali, piuttosto che ricca, faceva chiedere a Giacomo se potesse esser quello un partito accettabile per Paolina; ed anche Monaldo parlava al suo primogenito de l'istesso argomento, narrandogli avergli l'Antici proposto il cavaliere come genero. Monaldo l'aveva conosciuto ventidue anni prima, ed era in forse se quell'uomo, certo tutt'altro che giovane, potesse non dispiacere a Paolina. Giacomo, rispondendo, tratteggiava tosto il ritratto del cavaliere, di cui già prima avea talvolta parlato per incidenza a' suoi e sempre con simpatia: il Marini mostrava quarantacinque o cinquant'anni, non appariva punto vecchio con la sua amabile e ridente fisonomia, col colorito sano e la persona non alta, ma ben proporzionata; di maniere piacevolissime, d'indole quieta e inclinata a la vita di famiglia, possedeva ottimamente l'arte di farsi amare. Era stato affezionatissimo a la sua prima moglie, zoppa e brutta, possedeva un buon patrimonio, del quale facevan parte alcune campagne ne le vicinanze di Roma, ed a la figliuola, che stava per maritare, dava una dote di ventimila scudi. Bastava molto meno per esaltare Paolina, incantata dal solo progetto di andare ad abitare in una grande città. Ma mentre Giacomo le dava ogni buona speranza, narrando a Monaldo che il Marini, cui era stata fatta la proposta, se n'era mostrato assai contento, l'Antici scriveva non esserci più illusione di combinare; e Paolina ne strabiliava e si raccomandava al fratello, aspettando le sue lettere con un palpito terribile, piangendo di speranza e di timore; mentre fremeva per la paura terribile che si avesse intanto a combinare con un pretendente vecchio e di orrido paese e cognome. Malgrado i filosofici consigli di Giacomo, che procurava di calmare le sue smanie e di farle acquistare quel poco d'indifferenza verso le cose proprie, senza la quale non è possibile, non pure esser felici, ma neanche vivere, ella non sapeva metter un freno a le sue inquietudini, e gli scriveva: «Sicura di divenire sposa del cav. Marini, son certa che non proverò mai più dei sentimenti così vivi di agitazione, di speranza, di timore; e quando avrò perduta la speranza di divenirla, mi sarà indifferente qualunque altra sorte incontrassi; chè certo non potrà essere altro che spaventevole. Scusate, caro Giacomuccio mio, queste ciancie; ve ne domanderò perdono in ginocchio, quando verrete; e noi tutti lo desideriamo tanto.» (Lettera 25 aprile 1823.)
Questa esaltazione parve a taluno strana, ridicola e financo spregevole; ma credo inspiri solo compatimento in chi ripensi a l'insoddisfatto bisogno d'affetto che Paolina aveva ne l'animo, a la monotona e triste vita ch'ella conduceva in realtà e che la sua fantasia le faceva parere peggiore che mai; ed è da notare ancora che del Marini aveva Giacomo scritto tutto il bene, anche prima che si trattasse di dargli Paolina, che questa aveva nel fratello una fede cieca e si era fatta forse di quell'uomo un ideale racchiudente per lei tutte le seduzioni del mondo. Ne l'agosto del 1825 ell'era finalmente fidanzata al Peroli, ma non lieta per questo. In fondo a l'anima le restava il dubbio che, quantunque fosse fissato persino il giorno de le nozze, il quale doveva essere il 21 di novembre, si finisse col non farne nulla; poi quel suo sposo non giovane, bruttissimo, senza spirito, non soddisfaceva punto il bisogno ch'era in lei d'essere orgogliosa de l'uomo di cui avrebbe portato il nome; si aggiunga la pena di vedersi derisa per quel fidanzamento, annunziando il quale ella scriveva a Giacomo: «Ero preparata a sostenere più scherni e sarcasmi di quelli che in fatti mi si preparavano, giacchè finora (almeno nel mio piccolo cerchio) non vi è stato alcuno che, a saputa mia, mi abbia condannata; ma io mi ricordavo de' vostri insegnamenti e consigli, e mi ero armata di molto coraggio. Non so se questo basterà per regolarmi in appresso, quando avrò cambiato stato.» (Lettera 19 agosto 1825.) Il parentado venne lungamente protratto, finchè fu sconchiuso in causa de la dote, che il Peroli pretendeva di sei mila scudi, mentre i Leopardi non volevano darne che quattro o cinquemila.
Il progettato matrimonio doveva far però provare a Paolina il tenero compiacimento di vedersi indirizzata da Giacomo la bellissima canzone Nelle nozze della sorella Paolina.
Questa canzone, composta ne l'estate del 1821, quando pendevano le prime trattative per accasare la contessina Leopardi col Peroli, «segna un nuovo momento artistico nella vita di Leopardi.»[20] Come Giacomo amasse Carlo e Paolina appare da tutto l'Epistolario; cito una frase sola, ma eloquente, della lettera con cui egli ringraziava il conte Alessandro Cappi d'un capitolo Dell'amor fraterno: «Se lodassi i sentimenti come vorrei, forse le mie lodi non sarebbero senza sospetto, perchè ancora io non ho provato in mia vita e non provo affetto più caldo e più dolce, nè ho cosa più preziosa e più cara di quell'amor fraterno ch'Ella sì degnamente e sì virtuosamente celebra.» (Vedi Lettera da Bologna, 12 maggio 1826, pagg. 118 e 119 de l' Appendice a l'Epistolario.) Ma se vivissimo era l'affetto del poeta per la sorella, le consuetudini de la famiglia, la ritenutezza, che soffocava ogni espansione, e lo stato d'animo di Giacomo, il quale nel suo dolore vedeva tutto triste e solo ne l'antichità credeva di scorgere il mondo ancor giovane e forte e virtuoso, tolgono al Canto ogni tenera effusione: esso non è inspirato da' domestici affetti, ma da l'amor patrio. Pare che dopo quel momento di molle dolcezza che gli dettava il Consalvo, il poeta s'irrigidisse nel suo severo concetto di virtù eroica spartana, e che pur pensando a la donna e a l'amore, l'anima sua non si commovesse più di palpiti soavi, ma mirasse fredda a un eccelso ideale. Qualche cosa di affettuoso è solo ne l'introduzione, in quel nido paterno, silenzioso, popolato da le vaghe illusioni, da le sorridenti immagini de la giovanezza, quel nido che la sorella dovrà abbandonare, entrando, sposa e perciò più libera, nel mondo di cui conoscerà le vicende. L'idea di questo mondo, del quale tante volte doveva aver dolorosamente parlato a Paolina, si affaccia tristissima al poeta: corre un'etade obbrobriosa, un tempo di lutto per l'Italia, i figli de la sorella avranno bisogno di forti esempi, perchè l'empio destino nega a la virtù ogni dolcezza e non regge impavido colui, che non fu severamente educato. Nel suo sentenziare vi ha la rigidezza che egli crede necessaria al virtuoso:
O miseri o codardi
Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
Tra fortuna e valor dissidio pose
Il corrotto costume.
Questa severità par additare a Paolina, in quel poco lieto matrimonio, il conforto de la virtù e de la maternità. Uno dei concetti principali del Leopardi giovane era che la natura umana, invecchiando, decadesse; egli abborriva la vecchiezza, e la sua idea de l'umanità si conformava a quella de l'uomo: il mondo antico era giovane e perciò stesso grande e generoso, l'età moderna, decrepita, aveva perduto e forza e virtù. Ma solo al Cielo spettava il provvedervi: a Paolina egli consiglia d'educare i suoi figli non amici, ma sprezzatori de la fortuna, cuori vigorosi più alti d'ogni vile timore e d'ogni speranza fallace: non saranno felici, ma avranno l'ammirazione dei posteri, poichè la nostra schiatta che, ignava, disprezza la virtù viva, ipocritamente la celebra estinta. E rivolgendosi a le donne vanta il loro potere, chiedendo loro ragione dei vizi presenti; amore, il vero amore è sprone al bene, ne è capace soltanto l'uomo coraggioso, che solo dovrebbe essere amato; il ricordo de la giovanetta sposa spartana, che cinge il brando a lo sposo e poi spande le negre chiome sul corpo esangue e nudo di lui, ritornato sopra il suo scudo; il ricordo di Virginia, la bellissima fanciulla, che scende volonterosa a l'Erebo per la salvezza de la patria, son posti come degni esempi a le donne italiane; e se ne la prima parte del canto predomina il sentenziare austero, che ne la rigida forma, scevra d'ogni soave calore d'affetto, d'ogni dilettosa immagine di fantasia, sembra simboleggiare la severità e le gramaglie de la virtù, cui l'empio fato interdice ogni aura soave, in questa seconda parte il cuore del poeta si scalda dinanzi a le antiche donne, non meno leggiadre che grandi, e si commuove al loro dolore e a la loro sventura; la fantasia ridesta dipinge il quadro de' suoi più vaghi colori e ci fa rivedere la giovane sposa china sul corpo del marito morto, che ricopre co' neri capelli disciolti, Virginia vaghissima ne la sua gioventù piena di lieti sogni, quando il rozzo acciaro del padre le rompe il bianchissimo petto. La canzone ricorda l'Alfieri ed il Foscolo, che entrambi accendevano in quel tempo di affetto patrio il cuore de gl'Italiani; foscoliano è l'intento civile di questi versi e il fare sdegnoso e fiero; ad una del Foscolo somiglia pure l'immagine de la sposa spartana. L'Alfieri ci ha dato una Virginia più romana di quella del Recanatese, perchè l'Alfieri dinanzi a lei è rimasto scrittore e soprattutto cittadino: il Leopardi ha creato, come ben disse il De Sanctis, una Virginia umana, perchè innanzi ad essa si è sentito uomo ed artista, ha provato un doloroso schianto davanti a quel rozzo acciaro che ha ucciso la vaga fantasima de la sua mente. Con l'immagine di Virginia il poeta chiude il suo canto, lasciando nel lettore l'impressione grandiosa di quel popolo salvato da quella donna; evita un ritorno ai tempi suoi, al suo paese, ma par che il suo silenzio nasconda un augurio: quello che, come il romano, risorga anche il popolo italico per la femminile virtù.
Ho parlato a lungo di questa canzone perchè essa è il più bel monumento che ricordi ai posteri Paolina, e perchè, quantunque il poeta poco si fermi su di lei propriamente, se la credeva capace d'intendere e di gradire questo severo e in alcune parti sublime canto, doveva di lei aver ne la mente una ben alta idea; doveva crederla una di quelle donne da cui la patria ha diritto d'attender molto.
* * *
Sciolta dal Peroli, Paolina conservò ancora per lungo tempo la speranza di trovare un marito.
Nel 1832 moriva un tal Staccoli di Urbino ch'ella aveva corso pericolo di sposare; e in quello stesso anno ell'era incerta se accettare o no un tale che l'aveva chiesta parecchie volte ne la sua prima gioventù e che Giacomo stesso non avrebbe trovato strano di vederle fidanzato e marito. Era un buon giovane recanatese, alieno da le compagnie allegre, religioso, ma non colto, di poco spirito, di poco talento, di bassa famiglia, e l'altera contessina, che non poteva esser scevra dei pregiudizi de la sua casa, soffriva al solo pensiero di lasciare il suo nome per prenderne uno popolano, e capiva di non poter ricambiare l'amore che quel tale le avrebbe portato. Monaldo di matrimoni per la figlia non ne voleva più sentir parlare: Adelaide invece, avversa a un tempo a questo giovane, ora gli si mostrava propensa. A Marianna Brighenti, che le aveva consigliato di accettare, Paolina rispondeva: «Quello che dici, che le azioni e le virtù formano il più bel cognome, va bene; ma, se io non avrò per marito uno del mio grado, che conti, come dici, i quarti di nobiltà che ho io, almeno dovrà essere uno che per i suoi talenti, per il suo ingegno, per le sue azioni si sia fatto un nome, non uno di cui debba arrossire ogni momento, ogni volta che parla — mi ami egli pure quanto vuole, non è affatto certo che io possa amarlo, che possa amare una persona tenuta da tutti per meschina in ogni genere: l'amore di una tal persona non ha nessun pregio agli occhi miei perchè io non posso nè stimarla, nè amarla — e se un'occhiata della persona amata compensa di tutto, se, come dice la Staël, questa occhiata è una felicità tale che pare non vi sia forza per sostenerla, e bisogna chinare gli occhi, bisogna ch'essa sia realmente amata di fatto e non di solo diritto.» (Lettera 23 agosto 1832.) Certo ne la decisione di Paolina l'orgoglio di casta aveva qualche parte, tanto più possiamo convincercene, quando vediamo come seccamente a le amiche Brighenti, che avevano supposto ella avesse amato un tal Monaldo Fidanza, suonatore, ella rispondesse: «Sappi che da suo padre noi compriamo il panno bleu per le livree.» (Lettera Sabato Santo 1832.) Certo però ne la sua decisione, oltre a molta ragionevolezza, vi è molta dignità, e il sacrifizio ch'ella faceva, ricalcando i suoi ferri da sè stessa, aveva per compenso la sua libertà e la soddisfazione di sè. Una de le sue subite simpatie per un forestiero, di cui ella non sapeva nulla, le aveva fatto capire in quei giorni ch'ella avrebbe avuto la forza di fare qualunque sacrificio, ma per un uomo che ne fosse degno. Di queste improvvise simpatie ne troviamo parecchie ne la vita di Paolina, di cui l'animo era ardente, quanto fredda l'esistenza. Nel 1831 un tal Lanyres, tenente degli usseri, ebbe alloggio per qualche giorno in casa Leopardi; era un bel giovane, pieno d'ardire e d'entusiasmo, e Paolina fu assai presso ad innamorarsene; ma, quando seppe la parte ch'egli aveva presa nei fatti d'arme provocati da le varie insurrezioni scoppiate allora in Italia, parte che la coscienza di lei non approvava, la sua simpatia cessò, ed ella vide partire il bell'ufficiale senza versare una lacrima.
Nel '34 un'amica di Pesaro scriveva a la contessina che un dottore ed avvocato di Bologna, vedovo da poco de la contessa Muzzarelli ferrarese, uomo di cinquant'anni, bravo e religioso, cercava in moglie una signora senza curarsi d'averne una gran dote. Paolina ne chiedeva a le Brighenti, le quali le rispondevano dandole pessime informazioni di quel tale, ex maestro di casa, avarissimo; e questa volta pure, Paolina rinunziava senz'altro al progetto. Le lunghe delusioni l'avevano troppo amareggiata, perch'ella volesse ancora coltivarle ne l'anima; come Giacomo per le donne, ella ebbe pungentissime parole per gli uomini, i quali dichiarava indegni d'un sospiro e meritevoli di odio per lo sprezzo con cui riguardano quelle che non rimangono impassibili a le loro proteste, meritevoli di esecrazione per la gioia trionfante che provano, facendo del male con la coscienza di farne.
Come Giacomo ricordò per sempre con un'estasi malinconica il primo entrare di giovanezza, i giorni vezzosi, inenarrabili, quando per la prima volta le fanciulle sorridono al rapito mortale e ogni cosa intorno gli sorride, mentre il mondo par che lo accolga festeggiando e gli s'inchini; così Paolina s'era accorta ben presto che l'esistenza non è bella come la promettono i sogni; era entrata piena di confidenza ne la vita, sperando di trovarla un continuo incanto, sicura d'incontrarvi un cuore, almeno un cuore, che l'amasse, ma d'un amore purissimo, qual'ella sentiva di meritarlo, perch'era preparata a corrispondergli con tutto il fuoco de l'anima sua, e perchè non si sentiva in nulla inferiore a quelle anime fortunate, che avevano pur trovato in terra la felicità. «Poi troviamo che questo mondo delizioso si converte in luogo pieno di spini, pieno di nemici, in cui non basta star immobili per non soffrire, e addio speranze, addio cari sogni de' nostri primi anni; bisogna cangiar pensieri, bisogna prepararsi a combattere sempre, ad ogni momento, e stare in guardia sopra di noi stesse per non cambiar natura, per non diventar tutt'altro da quello ch'eravamo, poichè non v'ha dubbio che il rischio è grande.» (Lettera... settembre 1831.) Non cambiò natura la buona Paolina; ma se conservò fino a la più tarda età un ingenuo desiderio di piacere, seppe rassegnarsi filosoficamente al suo stato ed anche scherzarne con una grazia amabile: «Anche lo spirito santo dice che omnia tempus habent, e il tempo mio è un pezzo che già è passato»; scriveva nel 1845 a la sua Marianna, dichiarandole, che, se anche i mariti fossero piovuti da tutte le parti, ell'era ben decisa di morire con la verginale corona di biancospino in capo; voleva il biancospino e non i soliti gigli, come emblema del suo vivissimo amore per la primavera, e concludeva: «Non parlar dunque più dell'idea o della speranza di vedermi moglie di un Modenese o di un Bolognese, ma odora piuttosto l'essenza del biancospino e ricordati allora della tua amica, che morirà prima di aver provato un istante di vera gioia al mondo.» (Lettera 17 agosto 1845.)
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Simile anche in questo al suo grande fratello, Paolina poco felice ne l'amore, fu fortunatissima ne l'amicizia; e la prima e la più ardente fu quella per Giacomo, il quale prima di andarsene da Recanati, non aveva intimità che con lei e con Carlo. E quando da' suoi viaggi ritornava al borgo natío, passava le lunghe serate con la sorella, raccontandole «tante storielle, tante avventure, tante osservazioni filosofiche, antropologiche ec.» Quando il Giordani nel 1818 fu a Recanati, Paolina l'accolse con entusiasmo e con venerazione, pendeva, come i fratelli, da le labbra di lui, che dimostrò d'interessarsi affettuosamente a la sorte de la contessina e continuò per molto tempo a chiederne con gentile premura le notizie.
Ma Giacomo e Carlo, cresciuti in età, non furono più i suoi indivisibili compagni, e Paolina sentì vivissimo il desiderio de l'amicizia ed in questa trasfuse tutto il fuoco de l'anima sua, cui era negato l'amore. La prima intima amica sua fu la cuginetta Paolina Mazzagalli, bellissima giovane, bianca e bionda, d'un'indole tutta bontà e d'un'intelligenza non volgare.
La Leopardi se n'era fatto un idolo, pensava a lei vegliando e dormendo, non aveva altro desiderio che quello de la sua compagnia, ne la quale, in seri ma piacevoli discorsi, passava spesso le lunghe serate; e il suo trasporto aveva talmente ingelosito Adelaide, che la figliuola ne era disperata. Ma peggio fu qualche anno di poi, quando Carlo, che in parecchie lettere al fratello parla de la Mazzagalli con simpatia sempre crescente, se ne innamorò d'una tale passione da voler farla sua, anche contro il divieto de' genitori, i quali (a quel che ne dice Paolina) trovavano scarsa la dote de la giovane. A questa ragione deve certo aggiungersi la contrarietà eccessiva di Monaldo pei matrimoni fra cugini, che, anche ottenuto l'assenso de la chiesa, gli parevano peccaminosi.
Di più la bellezza, la gioventù, lo spirito, la vivacità de la fanciulla, facevan temere ai severi Leopardi, ch'ella non fosse per riuscire una buona moglie, dubbio smentito poi dai fatti.
Mentre Monaldo era a Roma per una lite, Carlo sposò la cugina, ed il padre suo ne sofferse oltre ogni credere; ne le lettere agli altri figliuoli egli sfoga un dolore sincero e profondo: gli par d'aver perduto per sempre il figliuolo e vuol stringersi al cuore quelli che gli rimangono, come se temesse di vedersi sfuggire anche loro. Dal suo matrimonio in poi, Carlo lasciò la casa paterna, e s'immagini con quanto dolore di Paolina, cui erano tolti insieme due dei più cari affetti, il fratello e l'amica; ella ne pianse disperatamente, e con le sue lacrime e le sue preghiere ottenne dal padre che Carlo venisse riammesso in casa, almeno per qualche breve visita. Bandita invece ne rimase la sposa, che Paolina però ebbe sempre assai cara, ed invero le affettuosissime lettere de la Mazzagalli provano com'ella meritasse tutto l'amore de la cognata.
Ne l'ottobre del 1829 Giacomo, desiderando notizie dei Brighenti, incaricava Paolina di scriver a Marianna figlia de l'avvocato Pietro, bella ed amabile giovane, che gli era stata assai cara; la cattiva salute che gli rendeva penosa qualsiasi occupazione gl'impediva di scrivere da sè, e fors'anche egli, sempre assai affezionato a la sorella, pensava di procurarle così, come le procurò infatti, un'amicizia preziosa.
La Brighenti rispondeva premurosamente, e Paolina poco tardava ad inviarle un'altra sua, mostrando vivissimo desiderio d'aver nuove de le imprese e de le glorie de la giovane cantante. La contessina ne le sue giornate solitarie e claustrali bramava saper qualche cosa de la vita che si mena nel mondo; e di Marianna il fratello le aveva lungamente parlato in quelle conversazioni che la interessavano talmente da serbarsene ne la memoria i particolari anni ed anni più tardi; per darne un esempio, ne la sua lettera del 15 febbraio 1828, fa cenno di quella madama Padovani che Giacomo aveva conosciuto a Bologna nel 1826 e ch'ella suppone da lui già pienamente dimenticata. Paolina prima ancora d'aver l'affetto de la Brighenti, cercava il nome di lei nei giornali teatrali e godeva di vederla lodata; quando poi la semplice corrispondenza divenne tenera intimità, la Leopardi non ebbe più secreti per l'amica sua. Adelaide non voleva veder lettere, dirette a la figlia e perciò quel buon vecchio del Sanchini aveva consentito che Marianna indirizzasse a lui le sue: quando ne era giunta qualcuna, per darne subito avviso a Paolina, egli metteva un vaso su la sua finestra, che era di faccia a la finestra di lei; e a tarda sera poi le portava in biblioteca i desiderati caratteri de l'amica, cui ella rispondeva di notte senza che la madre se n'avvedesse. Morto il Sanchini, Paolina, a quanto pare, confessò ogni cosa ad Adelaide, che le permise di continuare, dice il Costa, quella corrispondenza durata già parecchi anni. Noto però che ancora per qualche tempo Paolina si fece indirizzare le lettere a falsi nomi.
La Brighenti, che aveva apprezzato Giacomo ed a cui egli certo aveva parlato di sua sorella, come ne parlava spesso agli amici e più spesso a le amiche stimate e care, mostrò per la Leopardi un interessamento, una premura, cui la povera giovane non era troppo avvezza e che la intenerirono. Morto Luigi, uscito di casa Carlo, Giacomo lontano, Pier Francesco ancora ragazzo, ella non aveva più un cuore cui aprire il proprio, e non le sembrò vero di confidarsi a la nuova amica, di narrarle de la noia di Recanati, dei rigori de la madre, de le continue delusioni, de la malinconia sempre più grande: ne riceveva parole così delicatamente buone che ne restava commossa fin ne l'intimo: «È venuta finalmente quest'altra ( lettera ), ed io la tengo, e la metto sul mio cuore, cui fa provare della calma e delle sensazioni così nuove e così dolci, ch'io vorrei sapere e potervi ringraziare quanto lo meritate per tanta vostra bontà, per tanto amore che mi mostrate.» (Lettera 15 giugno 1830.) Così Paolina a l'amica ch'ella non solo amava, ma ammirava pe' suoi continui trionfi d'artista, invidiando gli spettatori che avevan potuto sentirla. A mani giunte le chiede il suo ritratto, promettendo di tenerlo come cosa preziosa, anzi come il più caro oggetto ch'ella potesse possedere, e quando Marianna gliel'invia, ella è felice e lo bacia lungamente, benchè non lo trovi quale lo sognava e non lo creda somigliante; abituata a le sue vesti più che semplici, ella prova un vero diletto nel notare il ricco abbigliamento e l'elegante acconciatura de l'amica. Terza ne la corrispondenza entra intanto Anna, la seconda figlia del Brighenti, a la quale pure Paolina si affeziona ben presto, e quando esse le propongono d'andar a Recanati per vederla (marzo 1831) ed ella deve rifiutare in causa dei rigori d'Adelaide e de la nessuna libertà che gode, ne piange di dolore e di dispetto. Poi le due sorelle vanno a Fermo, ella che le sa così vicine e pur si sente tanto divisa da loro, lamenta la sua sovrana infelicità ed invidia l'incertezza de la sorte di quelle sue care, quel non sapere dove andranno in breve, le vaghe speranze ch'esse debbono veder sorridersi, e che la farebbero andar in estasi. Allorchè Marianna ai primi del '37 deve andar a l'estero, Paolina se ne mostra così afflitta che le scrive: «Quando tornerai in Italia chi sa se la tua Paolina sarà più viva: ma se n'è dato ne l'altra vita di pensare con amore a quelle persone che abbiamo amate in questa, oh sii certa che tu sarai sempre la mia diletta.» Speranze e sventure, gioie e dolori, tutto la Leopardi confida a le amiche, e quando giunge a Recanati la funesta notizia de la morte di Giacomo, piangendo e delirando, la contessina si getta fra le braccia di Marianna e in una tenerissima lettera sfoga il suo crudele dolore e cerca la pietà di colei, che era pur stata cara al suo perduto.
Quella fatale notizia veniva ad aggravare di un nuovo lutto la famiglia Leopardi, che in quei giorni era profondamente afflitta perchè Pier Francesco aveva promesso di sposare una donna non degna di lui, e per questo aveva lasciato la casa paterna, dove venne ricondotto a forza. Il terrore, la disperazione di Monaldo e d'Adelaide per quella temuta vergogna de la loro famiglia eran tali che parvero aver occupato tutto l'animo loro, in modo da non lasciarvi posto al cordoglio per la morte di Giacomo, cordoglio che poco a presso essi sentirono veracemente. Ma l'affettuosa Paolina ne fu colpita subito. Quantunque da lungo ella scrivesse poco o nulla a Giacomo, quantunque egli stesso mostrasse di temere che la sua lontananza avesse affievolito l'amore dei congiunti per lui, Paolina, appena sa ch'egli non è più, prova un'angoscia, di cui a pena credeva capace il cuore umano, e sospira di raggiungere il diletto fratello con cui ogni sorriso le è mancato nel mondo. Ella ritorna con desolata tenerezza ai ricordi de la fanciullezza e de la gioventù per trovarvi l'immagine del suo Muccio; ama Antonio Ranieri come un fratello ed invidia la sorella di lui, che ha prestato a Giacomo gli estremi soccorsi. «Per compiacere a Ranieri ho dovuto ricercare tra le sue carte rimaste a noi; tu non puoi mai figurarti il mio penare. Fra i pianti e gli urli io scorreva quei cari caratteri, poi rimetteva ogni cosa al suo luogo, precisamente com'egli le aveva lasciate, che mi pareva ch'ei dovesse tornare e voleva che trovasse a suo luogo ogni cosa, avendone lasciate le chiavi a me, e sperando che fosse contento della mia esattezza, poi io mi svegliava e mi dava pugni nella fronte per quell'orribile pensiero che tutto è già finito, e per quell'inganno che per un momento mi aveva trattenuta.» (Lettera 24 agosto 1837.)
Riavutasi lentamente da quel colpo così doloroso, Paolina raccolse tutto il suo affetto sui genitori, particolarmente su Monaldo, verso il quale ella, come Carlo, si mostrò ne l'età matura molto più indulgente che ne la giovanile. E coi genitori amò doppiamente i fratelli che le eran rimasti ed i nipoti: l'intelligentissima Luigia seconda figlia di Carlo, morta poi quasi bambina nel 1842, e i figliuoli di Pier Francesco, soprattutti la Virginia, che era divenuta proprio tutto il suo cuore. Anche a le cognate Cleofe Ferretti e Teresa Teja si mostrò sempre affezionatissima.
A le Brighenti continuò a scrivere sempre, però più raramente; la compagnia de la sposa di Pier Francesco e dei nipotini le faceva forse sentir meno vivamente il bisogno d'altri affetti, e l'ardore de la sua gioventù, venuto a poco a poco calmandosi, non aveva più necessità di sfoghi confidenziali. Ad ogni modo Paolina non dimenticò mai le amiche, le quali prima felici, ammirate, festeggiate, dovettero poi ritirarsi a Modena dove caddero in miseria, soccorse di aiuto materiale e di morali consolazioni da lei, che già parecchi anni prima aveva premurosamente cercato, benchè invano, di procurar un impiego a l'avvocato Pietro.
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A Paolina ed a' suoi la sorte non aveva risparmiato le sventure: le sorde lotte de' figli col padre prima; poi la partenza di Giacomo, l'allontanamento di Carlo da casa, le dolorosissime perdite di Luigi, di Giacomo, di Paolina Mazzagalli, de le due figlie di Carlo; infine le nuove discordie di Carlo co' suoi, dopo il matrimonio di Pier Francesco. Monaldo e Paolina cercarono del pari un conforto negli studi, e il primo, quasi a compensarsi de la scarsa autorità che avea in casa, si volse ad occuparsi di cose pubbliche, stampò parecchie opere e diresse anche per alcuni anni il giornale La Voce della Ragione. Paolina, che ne la sua prima gioventù aveva acquistato una buona cultura, continuò sempre ad amare le lettere, a veder molti libri e soprattutto ad approfondirsi ne la letteratura francese, di cui i capolavori le eran sempre stati cari: aveva una predilezione speciale per le due grandi scrittrici Madame de Sévigné e Madame de Staël. Quando le sue illusioni giovanili vennero mancandole, ella cercò più che mai distrazione ne lo studio, i libri la riavvicinarono a Monaldo, poichè ella cominciò a prestare a lui quell'aiuto che, giovanetta, aveva dato a Giacomo; anzi, mentre pel fratello era stata in generale una copista ed un'ammiratrice, per Monaldo fu un collaboratore. Ella soleva tradur molto dal francese; dal Nobili nel 1832 fece pubblicare il libretto « Viaggio notturno intorno alla mia camera —[21] de l'autore del Viaggio intorno alla mia camera.» Probabilmente anteriore a questa è un'altra pubblicazione di Paolina di cui si fa cenno in questo brano di lettera ad Anna Brighenti (Bologna, 18 luglio 1838): «Lessi la vita di Mozart in francese, una volta, e la ridussi in italiano; poi ad una signora che mi chiedeva qualche cosa da fare un libretto in occasione di nozze, diedi quella, poi la censura di costì ne tolse i più piccanti pezzi e mi fece gran rabbia; la nipote di Mozart che trovavasi in Bologna ne volle copia da mio fratello, e se la portò in Germania.»
Quando Monaldo attese a redigere La Voce della Ragione (dal 1832 al 1835), Paolina leggeva per il padre i libri, opuscoli e giornali francesi, notava quel che poteva fare al suo caso, traduceva gli articoli che le parevano opportuni pel giornale, correggeva le prove di stampa, così che il conte in una sua memoria dichiara d'aver avuto il massimo aiuto pel suo periodico da lei che «travagliava giorno e notte per quest'impresa, con uno zelo ed un disinteresse di che potrà solo ricevere il premio da Dio.» Clemente Benedettucci suppone che la contessina abbia dato aiuto al padre anche per altre pubblicazioni e la cosa non appare improbabile. Ella inoltre mandò parecchie traduzioni dal francese a la gazzetta di Modena La Voce della Verità. In questa comunità di spirito con Monaldo ella, che non aveva mai amato i liberali, i quali le parevano aver dimostrato troppo chiaramente quanto son diverse le cose dalla teorica alla pratica, venne accostandosi ognor più a lo zelo religioso e a le idee politiche del padre.
Probabilmente prima ancora de' suoi vent'anni aveva cominciato per abitudine a far estratti de le sue letture e traduzioni; questi suoi lavori si conservano in quarantacinque volumi ne la biblioteca di casa Leopardi.
Gli ultimi giorni di Monaldo furono consolati da le amorose cure de la figliuola, che, vistoselo rapire il 30 aprile del 1847, sentì riaprirsi nel suo cuore tutte le vecchie ferite; nè sapeva darsi conforto, quantunque gli ultimi momenti di lui fossero stati tranquillissimi e consolati da la religione e da la filosofia: «Quando ha veduto prossimo il suo fine, e se ne avvedeva più dalle lagrime nostre, che dal male istesso, ci ha chiamati d'intorno, ci ha dato serii ammonimenti, poi ne ha esortati ad imparare come si muore in conversazione, poichè egli ha parlato sempre con grandissima presenza di spirito, rimanendo noi tutti meravigliati di tanta pace, di tanta calma.» (Lettera 7 maggio 1847.)
Finchè era vissuto Monaldo, i suoi figliuoli, anche avendo sempre in cuore la memoria di Giacomo, non osavano parlarne, perchè il padre avea fatto chiaramente intendere che questo discorso l'addolorava; Paolina però aveva pregato caldamente le Brighenti di procurarle tutto quello che vedevano scritto intorno al suo grande e povero Muccio, ed anche tutte le edizioni che s'andavano facendo de le opere di lui. Ella riceveva e conservava ogni cosa di nascosto del padre; morto questi, ella potè manifestare più apertamente il suo culto per la memoria del fratello, di cui comprendeva ed adorava la grandezza, così da provar quasi un senso di affettuosa riconoscenza per tutti gli ammiratori di lui. Il Piergili descrive accuratamente un libretto, una specie di diario, in cui Pier Francesco e Paolina, aiutati talora da Vito Frati, annotavano quanto, a loro cognizione, veniva scritto intorno al poeta di Silvia e di Nerina: libri, giornali, manoscritti. Questo diario fu presto interrotto, perchè i critici del grande Recanatese non tardarono a moltiplicarsi indefinitamente. Ancor vivente Giacomo, Paolina voleva esser sempre nel novero de gli associati a le opere di lui, e quando sperava di presto accasarsi, si proponeva di aver un esemplare di ciascuna edizione nel suo nuovo soggiorno. Più tardi la cura per le cose di Giacomo fu uno de' suoi più cari pensieri, quantunque ella fosse divenuta tanto ferventemente religiosa da non poter persuadersi che il fratello fosse morto senza fede, giungendo fino a benedire la bugia del Ranieri e le invenzioni del Curci. I più chiari studiosi di cose leopardiane si rivolsero a lei, che diede gentile ascolto a tutti e non si stancò di promuoverne gli studi e le ricerche. Ella pregò caldamente il Brighenti di scrivere la vita di Giacomo; e quando il Viani, che fu suo intimissimo, ed ebbe da lei numerose notizie, le mostrò il desiderio ch'ella stessa scrivesse una biografia del fratello, ella gli dichiarò di non sentirsene capace e pregò Carlo, il confidente intimo di Giacomo, di togliersi lui quest'incarico: ma neppur Carlo credette che le forze gli bastassero; e Paolina scriveva al Viani, «Io sarò certo tenuta da Lei, caro sig. Viani, per una stupida e di cattivo cuore, non solo con Lei, ma con Giacomo ancora. O no non lo faccia: stupida forse sì, ma di cattivo cuore non mi creda. Verso di Giacomo non potrei, chè lo piango giorno e notte; verso di Lei neppure chè... Mi creda piuttosto disgraziata.»[22] A lo stesso Viani, Paolina scriveva o narrava molti ricordi de la vita del fratello. Notevole, fra le altre, è la lettera di lei ad Antonio Erculei, professore nel seminario di Roma, che voleva dettare una dissertazione su Giacomo Leopardi, diffondendosi particolarmente su la morte del poeta. Ella gli narra tutto quel che ne sa; gli copia una lettera del padre Curci e parecchi frammenti del Ranieri a Monaldo, del Brighenti a lei, di V. Balietti, che nel '37 era segretario de la Nunziatura di Napoli, a la contessa Ippolita Mazzagalli.[23] Ella giudicava povera cosa l'elogio di Giacomo scritto dal Montanari di Pesaro, godeva de le asserzioni del Curci e fremeva di dolore e di sdegno a le ingiurie contro la memoria del suo diletto, consolandosi quando il Giordani sorgeva a farne vendetta.
La pubblicazione de le lettere di Giacomo al Brighenti la contrariava e l'amareggiava quanto mai, perchè il buon nome del padre le era caro, quanto la gloria del fratello, e più tardi per difendere Monaldo ella dettava la breve memoria Monaldo Leopardi e i suoi figli, in cui di sè null'altro dice se non che d'esser stata per tutta la vita compagna indivisibile del padre.
Anche il Carducci giovane rivolgeva a Paolina una lettera calda d'ammirazione pel poeta e di venerazione per lei; e, accennando a lei, il Drach, nella prima delle sue conferenze, dice fra l'altro: «.... dans la famille Leopardi la science semble être héréditaire comme ses titres de haute noblesse.»
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Oltre a quelle accennate, altre due sventure colpirono la povera Paolina: nel 1851 perdette il fratello Pier Francesco, nel 1857 la madre.
Finchè Adelaide visse, Paolina, anche innanzi e ben innanzi con gli anni, fu tenuta sempre come una ragazza: non poteva uscir sola, e d'ordinario, già cinquantenne, soleva farsi accompagnare da una buona donna di Recanati, Artemisia Fucili, divenuta sua confidente, e seguire dal servo Benedetto Benedettucci in livrea. Un di ottenne d'andar a Loreto con l'amica, ma venne rimproverata perchè fu di ritorno troppo tardi, e quando la sua compagna per scusarla notò timidamente ch'ella non usciva quasi mai di casa, si narra che Adelaide soggiungesse: «Bella ragione, è tanto grande la nostra casa, altro che Loreto!»[24] Morta la madre, ella si trovò ricca, e mentre da un lato, divenuta usufruttuaria del patrimonio, frugalissima per natura e di abitudini modeste, ella spendeva poco e mal volentieri anche per la cura de le campagne; da l'altro, ancora bambina ne l'animo, benchè poco lungi dai sessant'anni, godeva di vestire con grande sfarzo, di seguir a puntino le mode più capricciose, facendo venire una sarta appositamente per lei, da Ancona a Recanati. Un ritratto ce la rappresenta già vecchia con un amplissimo abito a enormi scacchi ornato di trine; nel suo buon viso avvizzito solo l'altissima fronte ricorda Giacomo, benchè molti asseriscano che ne la sua gioventù ella gli somigliasse assai.
Generosa di cuore, malgrado quella ritenutezza a spendere, che parve in lei ed in Carlo una malattia de l'età, di rado sapeva negare il suo aiuto, e al servo Benedettucci donò persino la culla di Giacomo, che sarebbe stata per la famiglia un preziosissimo ricordo. Ella amava trattenersi a tarda sera sola in giardino, e guardando quelle paterne aiuole, su cui scintillavano le vaghe stelle de l'Orsa, ascoltando la rana gracidante nei campi e il canto di qualche contadino, certo rievocava l'immagine del fratello, cui quei luoghi e quei suoni avevano inspirato tanta dolcezza di poesia. Una sera, così passeggiando, s'incontrò in un ladro che stava per rubare dei limoni; senza gridare, nè chiamare aiuto, ella cacciò con severe parole l'intruso.
Negli ultimi anni uscì di Recanati parecchie volte: con la Fucili fece una gita di tre giorni in Ancona, un'altra a Grottamare, divertendosi come una bambina. Nel 1867 volle andare in pio pellegrinaggio a Napoli per visitarvi la tomba di Giacomo e de le liete reverenti accoglienze ricevute fu orgogliosa e commossa.
Di tali sentimenti duole ella parli assai poco ne le lettere scritte ad Artemisia Fucili; è da notare però che questa era una buona, ma povera donna, da cui forse certe espansioni non sarebbero state comprese.
Timorosa del freddo che la faceva soffrire assai, ne l'inverno del 1869 Paolina scelse Pisa per sua residenza temporanea, memore de l'amore che Giacomo aveva avuto per quella gentile città e del sollievo che quel dolce clima gli aveva dato; e forse mentre i suoi occhi stanchi avranno contemplato il divino spettacolo del tramonto riflettente le sue fiamme ne le acque de l'Arno, il suo cuore si sarà commosso al ricordo del grande fratello che ne la bellezza de la natura aveva trovato uno dei pochi sublimi conforti a la vita travagliata. In una gita a Firenze ammalò di bronchite e tornata a Pisa dopo pochi giorni vi morì il 13 marzo 1869. La Teja, che l'assistette negli ultimi momenti, scrive: «Mi fu concesso di accorrere al suo letto di morte. Giunsi in Pisa l'11 marzo nel mattino, e più non la lasciai. Al mio arrivo essa mi mostrò una lettera che mi scriveva e che conservo, dicendomi con la sua grazietta infantile: hai fatto bene di venire, perchè non so come avrei continuato a scrivere.» A la Teja nel suo testamento lasciava con affettuose parole alcuni mobili, il suo ritratto e una carrozza: suo erede instituiva il nipote Luigi.
Per la pietà dei figli di Pier Francesco, la salma di Paolina ebbe l'ultimo ricetto in Recanati, ne la chiesa di Santa Maria di Varano, e su la sua tomba si legge quest'epigrafe:
PAOLINA LEOPARDI NATA IN RECATATI IL 1º OTTOBRE 1800 MORTA IN PISA IL 13 MARZO 1869 VOLLE ESSERE QUI RICONDOTTA A DORMIRE FRA I SUOI CARI ANIMA DOLCE TERESA TUA CHE CORSE PER TROVARSI ALLA TUA PARTENZA E CARLO CHE PER ULTIMO NOMINASTI POSERO QUESTO SEGNO DI UNA MEMORIA CHE DURERÀ IN LORO QUANTO LA VITA.
NOTE.
14. Vedi Lettere scritte a G. L. da' suoi parenti, edizione curata da G. Piergili. Firenze, Le Monnier, 1878, pag. XXII. Da questo volume sono tratte anche le altre lettere dei parenti a Giacomo qui citate.15. Questa lettera si legge a pag. XXIII e XXIV de le note al volume citato di G. Piergili.16. Vedi Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti, pubblicate da E. Costa. Parma, Battei, 1888, in 16º, di pagg. XIX -308. (Lettera a Marianna, 17 agosto 1831, a pag. 56.) Da questo volume son tratte anche tutte le altre citazioni di lettere de la Leopardi a le Brighenti.17. Vedi E. Costa, Paolina Leopardi (nel Fanfulla della Domenica, 17 luglio 1887).18. Vedi ivi.19. C. Antona Traversi, Paolina Leopardi (vedi Vita Italiana. Roma, nuova serie, fascicolo 8º, 10 settembre 1896, pag. 104). La lettera della Mazzagalli porta la data 12 febbraio 1828.20. F. De Sanctis, Studio su G. Leopardi; edizione postuma curata da R. Bonari. Napoli, 1894.21. Pesaro, Nobili, in 12º, di pagg. 98, 1832.22. Vedi Appendice all'Epistolario e agli scritti giovanili di G. L., per cura di P. Viani. Firenze, Barbèra, 1878, in 16º, di pagg. LXXXIV -258. Lettera 29 novembre 1844, a pagg. XXVII e XXVIII.23. Quest'ultima lettera si trova nelle Opere inedite di G. Leopardi, pubblicate dal Cugnoni. Halle, Max Niemeyer, 1878-80, due volumi. Vol. I, pagg. CXXXIII, CXXXIV.24. Questo e parecchi altri aneddoti citati si trovano nel volume di C. Antona Traversi: Studi su G. Leopardi, Napoli, Detken, 1887, in 16º, di pagg. 363, o in quello: Notizie e aneddoti sconosciuti intorno a G. Leopardi e alla sua famiglia, Napoli, Detken, 1887.
Marianna Brighenti
MARIANNA BRIGHENTI E LA SUA FAMIGLIA.
Marianna Brighenti nacque l'8 ottobre 1808 a Massa Finalese, in provincia di Modena, da Maria e Pietro Brighenti; prima di lei nel 1801 era venuto al mondo il primogenito de la famiglia, Luigi; e due anni più tardi nasceva un'altra bambina, Anna. L'avvocato Pietro era tenerissimo de' suoi, e a quei bambini, come non mancarono le affettuose cure dei genitori, così arrise da prima anche la fortuna.
Il Brighenti, nato in Castelvetro nel 1775 di buona famiglia, aveva fatto i primi studi a Vignola, di dove, vestito l'abito religioso, quattordicenne, era entrato nel seminario vescovile di Modena; poi aveva compiuto a l'Università il corso di filosofia e giurisprudenza, ottenendone la laurea nel 1798, ed era stato capitano de la guardia nazionale. Poco dopo conseguita la laurea, aiutò Ugo Foscolo ne l'edizione bolognese, allora incominciata, de la Vera storia di due amanti infelici; anzi la curò da solo, quando, partito l'autore per Milano, dove sperava trovare impiego, il tipografo Marsigli volle continuare ad ogni modo la stampa del libro. A questo proposito un curioso aneddoto è narrato dal giornaletto modenese La Ghirlandina (8 e 19 febbraio 1855), aneddoto rettificato da Antonio Cappelli ne la Memoria Ugo Foscolo arrestato ed esaminato in Modena.[25] Il Brighenti, desideroso di grandezza, ardente di carattere, ambizioso, si diede a la politica, e stava per recarsi in Francia, quando preso d'amore per la bella Maria di Francesco Galvani, nobile modenese di condizione assai superiore a la sua, non seppe più allontanarsi da la patria. Dopo due anni di vani tentativi per ottenere l'assenso dei genitori de la fanciulla, fuggì con lei, che sposò, e che gli fu, com'egli stesso ebbe a dire, un angelo di bontà, di rassegnazione e di conforto nelle sue tristi fortune.
A ventitrè anni, fautore convinto de le idee liberali francesi, venne nominato ispettore, cioè commissario di polizia, nei dipartimenti de l'alto Po, del Reno e del Panaro. I rivolgimenti politici lo costrinsero poi a rifugiarsi a Bologna, dove attese a la pratica legale e di dove, cacciato, andò a Livorno e vi stette finchè ritornati i Francesi riebbe il suo ufficio; ed anzi da esso passò ad altri più importanti e che gli davan quindi maggior onore e profitto; fu segretario aggiunto al Ministero di polizia in Milano, ebbe parte nel riordinamento della polizia a Modena, a Reggio, a Bologna, a Ferrara, a Rovigo; poi fu vice prefetto a Massa e Carrara, indi a Cesena.
La famigliuola venne gettata nel lutto da la morte del bimbo Luigi, pel quale Pietro Giordani, allora quasi sconosciuto, dettava una pietosa epigrafe. Dopo questa sventura i Brighenti più che mai si strinsero a le loro due fanciullette, che crescevano d'indole dolce, fra le carezze e gli agi e il generale rispetto che gli uffici del padre procuravan loro.
A Cesena, verso i primi del 1807, l'avvocato salvava la vita al Giordani e gli dava inoltre largo aiuto ne la disperata miseria in cui, scampato a la morte, quegli cadeva; di che, divenuto celebre, il letterato gli conservò sempre una profonda gratitudine ed anche quando, non si sa certo, ma si suppone il perchè, parve ritogliergli con la stima l'amicizia sua, non cessò di adoperarsi in ogni modo per riuscirgli utile. In quello stesso anno 1807 gli dedicava con belle ed alte parole il discorso Sullo stile poetico del marchese di Montrone: gli diceva aver molto e lungamente desiderato di dargli qualche segno de l'amore e de la riverenza che gli portava per le sue tante virtù, e fra queste aver in pregio sopra tutte la fede ne l'amicizia, di che il Brighenti era «esempio a qualunque età ammirabile, alla nostra quasi incredibile.» Confessava essergli debitore di quanto non aveva voluto mai obbligarsi a nessuno; e sperava ch'egli avrebbe gradita la dedica di quel libro del marchese di Montrone, uomo da ambedue loro ugualmente onorato ed amato.[26] Nel 1809 il Giordani raccomandava Pietro Brighenti a Vincenzo Monti per l'ufficio di Direttore de la pubblica istruzione in Italia. Pare che in questi suoi tempi fortunati l'avvocato modenese avesse sensi veramente generosi; varrebbe a provarlo quest'aneddoto narrato da la figlia sua Marianna ne la biografia di lui ch'ella scrisse e che rimane tuttavia inedita, biografia da lei regalata autografa a l'avvocato Geminiano Corazziari, il quale a sua volta ne fece dono al Museo del Risorgimento Italiano in Modena (Sezione documenti): «Era il Brighenti segretario del Ministero di grazia, allorchè in Milano vennero tradotti quattro de' più nobili e cospicui Modenesi, i quali posero in mano al Brighenti una cedola di mille luigi, se procurava loro la libertà ed egli lacerò l' ordine, perchè sapeva che fra pochi giorni sarebbero stati fatti uscire, dietro le di lui premure. Sì nobil modo di agire cattivogli l'animo di que' signori, che sempre l'ebbero quale amico.»
Dopo la restaurazione il Brighenti, pel quale era già stato firmato un decreto che lo nominava prefetto a Belluno e cavaliere della Corona di ferro, povero e sospettato se ne andò nel 1815 a Bologna, dove per procurare il pane a la moglie ammalata e a le due figliuole si diede ad imprese musicali. Ne la musica era peritissimo; di argomento musicale scrisse parecchio: l' Elogio di Matteo Babini suo maestro di canto e artista illustre, elogio detto al Liceo filarmonico di Bologna ne la solenne distribuzione dei premi il 9 luglio 1819 e pubblicato più tardi dal Nobili: il discorso Su la musica rossiniana e sul suo autore, edito a Bologna nel 1830 (in-8º di pp. VI -30, Tipogr. Emidio Dall'Olmo) e ristampato poi ad Arezzo nel 1833 (Tipogr. Bellotti). Era socio ordinario ne la classe dei cantanti ed uno dei tre consultori de l'Accademia filarmonica bolognese.
Volle provarsi in speculazioni mercantili, ma vi perdette molto danaro e non avrebbe saputo come cavarsi d'impaccio, se la moglie non gli avesse generosamente permesso di valersi de la sua dote. Si volse allora a l'industria libraria, che gli diede molto profitto con l'edizione del Giordani, poco invece con quella de le opere di Vincenzo Monti, rimasta sette mesi sotto sequestro, e coi due giornali l' Abbreviatore e il Caffè di Petronio. In questo (anno 1825, n i 17, 29 e 34) si trovano alcuni articoli firmati Mario Valgano modenese; li scrisse la moglie stessa del Brighenti, la quale sotto il medesimo pseudonimo si era fatta editrice de le opere di Pietro Giordani. L'avvocato frequentava i più noti letterati: il Mezzofanti, lo Strocchi, il Marchetti, il Costa, il Borghesi, il Monti, il Perticari; e più volte rivide il Giordani, il quale, sempre premuroso di lui e de le sue ragazzine, gli prevedeva in queste, consolazione e fortuna, consigliandolo ad esser forte ne le avversità e a conservar la sua salute, chè studiando costantemente forse sarebbe riescito a divenire egli medesimo un bravo cantante; ad ogni modo avrebbe potuto «formare Mariannina e formarla non solamente abile cantatrice; chè questo è ancora il meno; ma amabile e prudente e accorta e insieme ingenua e rispettabile. Vedrete che tesoro è una tale virtuosa.»[27]
Le previsioni del Giordani dovevano avverarsi a puntino: la grazia unita al senno, l'arte e l'intelligenza accoppiate a purezza di costumi e ad ingenuità furono le più care doti di Marianna. L'altra sorella Anna mostrava meno ingegno; il padre tentò invano di far anche di lei una cantante; pareva che dovesse riuscire discretamente ne la pittura, benchè il Giordani prevedesse che con quella placida fantasia non sarebbe mai stata grande e sperasse solo di vederla divenire una buona ritrattista. A quanto afferma il conte Giorgio Ferrari Moreni, Anna «trattò con franchezza il bulino, come lo dimostrano due sue incisioni felicemente condotte.»[28] Anzi tutte e due le ragazze tentarono l'incisione, sperando di trarne un discreto guadagno, ma non poterono continuare, poichè ne soffriva la loro salute. Il letterato piacentino prendeva tanto interesse a Marianna e ad Anna che, dovendo ne la primavera del 1818 andare a Roma, si proponeva di fermarsi a Bologna soltanto per vederle. Ambedue eran cresciute belle, e ancor più graziose che belle; tali appaiono nei due ritratti che reciprocamente si fecero e che son conservati ne l'archivio Valdrighi di Modena; non erano molto istruite, ma non certo incolte; educate a quei sentimenti gentili che, se non dal mondo, il quale di rado li sa pregiare, hanno il loro premio in sè stessi, ne la loro intima dolcezza, cui nessun'altra è comparabile, le due sorelle si amavano vivamente, quantunque non poco diverse di carattere: Marianna da la fisonomia mobile ed espressiva, da la svelta persona un po' gracile, era di un'indole profonda e seria; Anna più florida d'aspetto, tutta fuoco ed allegria; avevan comune la vita intiera, gioie, dolori, studi. Quando a Bologna si trovaron gettate in una condizione meschina, vi si rassegnarono senza troppo rimpiangere gli agi perduti, paghe de le loro gioiose speranze e de l'amore che legava strettamente tutta la famigliuola e che trova espressioni ingenue e sincere nei versi da loro composti per gli onomastici del padre, de la madre, o l'una per quello de l'altra, versi poveri d'arte, ma ricchi d'affetto, di cui alcuni appartengono a la loro prima giovanezza, altri, come certe delicate letterine scritte molto più tardi, mostrano in Marianna ed Anna, già donne mature, sempre la medesima riverente tenerezza, la medesima filiale sommessione, che ha qualche cosa d'infantile e di commovente.[29] Sotto la guida del padre le due ragazze si diedero assiduamente a lo studio del canto; ne le opere e nei concerti diretti da lui il loro gusto si affinava e il loro spirito si distraeva piacevolmente; egli cantava spesso anche ne le sacre funzioni per poter con quel guadagno straordinario condurre le figliuole al teatro; inoltre era solito di presentare a la famiglia gli amici e conoscenti suoi, fra i quali v'erano alcuni de' migliori ingegni di quel tempo; e ne le gradite conversazioni le due giovani acquistavano non poca cultura e finezza. Il loro carattere era venuto intanto pienamente svolgendosi: Marianna, sotto un aspetto di gaiezza franca e modesta, nascondeva un cuore appassionato e uno spirito riflessivo; semplice ne le maniere, affabile insieme e dignitosa, era riconosciuta da tutti per una vera dama; ciò che meravigliava i volgari, i quali non pensano di poter trovare signorilità d'animo e di modi in gente povera e non nobile. La bella persona e la grazia del suo canto le guadagnavano le simpatie generali, cui ella preferiva d'assai l'affetto e l'amicizia di quelli che mostravano di comprendere il suo cuore tenerissimo, il quale s'apriva a la vita gioiosamente, ricco d'un tesoro di speranze, d'avvenire, d'amore inesaurabile. La tenerezza fu il sorriso de la sua gioventù e la consolazione di tutta la sua vita; benchè ella troppo facile ad accendersi ed a credere gli uomini migliori che non sono, restasse sempre dolorosamente ferita da la delusione. Ella guardava la vita con uno sguardo serio, e anche nei brevi momenti di felicità ch'ella ebbe, intendeva e compativa il dolore; più de la fortuna, degli onori, del lusso, apprezzava la gioia d'esser amata, gioia che cercò avidamente e instancabilmente, non potendo credere che l'anima sua pronta a concedersi tutta nella purezza di un affetto devoto, non dovesse trovar mai un'altr'anima, che la ricambiasse con ugual forza e nobiltà di sentimento.
Anna più vivace, più schiettamente allegra, civettuola senza malizia, era buona anch'essa, ma ne la vita voleva godere e ridere; le piaceva di vedersi ammirata, corteggiata; e, come non dava, non chiedeva passioni tragiche, rifuggendo per istinto da le pene di cuore; soffrire non voleva, e men che mai soffrire per amore, perciò, riserbando a le poche persone intime tutto il suo affetto, ricambiava di sorrisi, di scherzi, di arguzie i suoi ammiratori. Paolina Leopardi paragonava le due sorelle Brighenti a Minna e Brenda di Walter Scott, a Rosina ed Elena di Lafontaine.
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Nel 1818 il Giordani, che doveva recarsi a Bologna, avvertiva il Leopardi di scrivergli colà e di raccomandare la lettera a l'avvocato Brighenti; e di costui gli parlò poi come d'una carissima persona, quando fu a Recanati, mostrando questa volta, come molte altre in diverse occasioni, il gentile desiderio di veder stringersi in affettuosa relazione fra loro gli amici suoi; è probabile ch'egli esortasse il grande Recanatese a porsi in corrispondenza col Brighenti. Partito il Giordani, giunse in casa Leopardi una lettera de l'avvocato modenese per lui, e Giacomo (21 settembre 1818) colse quest'occasione per avviare la relazione epistolare che l'amico gli aveva consigliata e che non interruppe più per lunghissimo tempo. Da prima si valse del Brighenti per l'acquisto di certi libri e per la diffusione di qualche esemplare de le sue prime canzoni; nel 1820 le lettere divennero più intime e più frequenti, perchè il Leopardi volle affidar a l'avvocato l'incarico di far stampare le tre Canzoni Ad Angelo Mai — Per una donna malata (intitolata anche altrimenti: Sopra malattia di una donna poi guarita ) — Sullo strazio di una giovane (altrimenti intitolata: Sopra una donna morta col suo portato ); cui, per consiglio del Brighenti, si sarebbero dovute aggiungere le due canzoni già pubblicate a Roma: All'Italia e Sul monumento di Dante. Il Modenese conosceva queste due ultime da un pezzo, anzi intorno ad esse egli aveva raccolto notizie e giudizi dai letterati suoi amici, prendendone appunto sopra un esemplare de l'edizione romana di Bourlié, esemplare che ancora ci rimane:[30] tali osservazioni sono in generale sarcastiche, ma il Brighenti si era ricreduto nel giudizio intorno al Leopardi poeta, e, trattandosi de l'edizione che il giovane recanatese l'aveva pregato di fargli fare, si mostrava sinceramente premuroso. Come era sua abitudine, da che l'accordo col padre era rotto, Giacomo non parlò affatto in famiglia di questa sua progettata pubblicazione, che Monaldo però venne tosto a scoprire con un'ira che gli fece immediatamente scrivere al Brighenti per impedir ogni cosa; non voleva che venissero ripubblicate le due prime canzoni, le quali erano spiaciute a lui, quanto erano riuscite care ai liberali; e nè pure voleva saperne de la canzone Sullo strazio, perchè «s'immaginò subito mille sozzure nell'esecuzione e mille sconvenienze nel soggetto»; ed anche perchè il poeta ne aveva tolto l'argomento da un fatto vero e recente. In quest'occasione l'amicizia fra Giacomo e l'avvocato divenne intimità, ed il primo aprì al secondo i dolori secreti de l'anima sua con giovanile espansione, benchè si dicesse vecchio moralmente, anzi decrepito. L'avvocato, padre tenero de le sue figliuole, desideroso «che l'animo dei genitori abbia sempre a confortarsi della felice riuscita della loro prole,» non ha coraggio di trasgredire l'ordine di Monaldo, ma cerca di serbarsi l'amicizia di ambedue i Leopardi e di metterli d'accordo, e dopo lungo scrivere e riscrivere, ottiene finalmente che venga data a la luce la sola canzone Ad Angelo Mai, inspirata da le scoperte ciceroniane del dotto monsignore. Giacomo Leopardi aveva avuto il disegno di dettare alcune lettere, che con buona quantità di osservazioni critiche dimostrassero il pregio di quella classica scoperta, ma da un lato la malferma salute non gli aveva permesse le fatiche d'un lavoro d'erudizione, da l'altra al suo entusiasmo conveniva piuttosto la poesia che la prosa. Egli accompagnò il Canto con una lettera dedicatoria al conte Leonardo Trissino, ne la quale scrive: «Ricordatevi che ai disgraziati si conviene vestire a lutto, ed è forza che le nostre Canzoni rassomiglino ai versi funebri;» e gli dice ancora: «Diamoci alle Lettere quanto portano le nostre forze e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti.» Questo concetto che l'opera andasse innanzi a la parola per importanza civile era ben fermo nel poeta, che nel Parini scriveva l'antichità potersi figurare come in Argo la statua di Telesilla, poetessa guerriera e salvatrice della patria: «la quale statua rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di volerlosi recare in capo; e a' piedi alcuni volumi quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria.»
Più tardi il Giordani accennava al rincrescimento che per la dedica provò il pauroso conte Trissino; invero la Canzone si ricollega a le due prime leopardiane per l'amor patrio che la inspira, anzi l'infiamma tutta, ed è aperto e non dissimulato come in quelle; lo stesso Giacomo, accennando ironicamente al permesso dato dal padre, perchè questa Canzone venisse pubblicata, permesso cagionato dal nome di un monsignore ch'essa portava in fronte, aggiungeva: «Non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una Canzone piena di orribile fanatismo»; il fanatismo era tale che se i censori papali lasciaron passare la Canzone, la polizia austriaca invece ne fece caso e la sequestrò[31] messa su l'avviso da un tal Luigi Brasil, che per molti anni fu secondo aggiunto presso la direzione generale di polizia austriaca in Venezia. Il Piergili con valide argomentazioni dimostrò la più che probabilità che anche il Brighenti si tenesse in relazione secreta con la polizia sotto lo pseudonimo di Luigi Morandini; ed il marchese Gualterio trovò il nome del Modenese in un elenco di confidenti de la polizia di Milano. Certo l'avvocato pel sequestro de l'opuscolo leopardiano non mostrò alcun rincrescimento. In una lettera al Leopardi scrive il Brighenti, con un manifesto senso d'amarezza e d'invidia, degli spioni in cocchio che «sono la delizia dei circoli dei nostri patrizi.» Le strette del bisogno avevan forse vinto l'onestà di lui, che per trovar il modo di assicurare la sua famiglia della necessaria sussistenza, ciò che gli lacerava il cuore, avvilito de la umile e disprezzata condizione in cui era caduto, disperato di saper trarsene altrimenti, dopo aver trovati inutili tutti i mezzi di risorsa, a cercar i quali s'era tormentato il cervello, cedette a provvedere a la sorte de le figliuole facendosi delatore. Ma de la sua colpa nulla seppero Marianna ed Anna. Egli non poteva ignorare d'averle troppo onestamente e rettamente educate, perchè esse preferissero un pane infame a la miseria: le giovani poterono venerare il padre loro e andarne altere, perchè l'inganno in cui vissero risparmiò al loro cuore uno strazio che sarebbe stato più amaro di tutte le altre sventure, di tutte le altre delusioni.
Le due ragazze lessero certamente in quel tempo la Canzone al Mai, e se Anna, che amava i teneri sospiri dei poeti arcadi, potè non farne gran caso, Marianna dovette sentirsi presa d'ammirazione per quel cuore appassionato, credente ed amante, in contrasto con lo scetticismo di quel grande spirito, e fremere dinanzi a la maestà de le figure di Dante, del Petrarca, del Colombo, del Tasso, de l'Alfieri, con tanto entusiasmo rievocate. Ella che dal padre e forse dal Giordani aveva sentito parlare de la grandezza e de l'infelicità del contino recanatese, non poteva restar indifferente al grido di dolore, che si leva da quelle pagine, a la voce di quel desolato poeta, che ne la vanità d'ogni cosa adora i sogni leggiadri, rimpiange le poetiche favole antiche e lo stupendo potere de la cara immaginazione, conforto ai nostri affanni, e anela a l'amore, ultimo inganno di nostra vita, al grande e al raro, abbia pur nome di follia.
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Quando Giacomo Leopardi, che mai ebbe un sospetto su l'avvocato modenese, andando a Milano presso l'editore Stella passò da Bologna, gli furon fatte gentili accoglienze e premure perchè rimanesse, cortesi proposte con segni di grande stima. In quei nove giorni contrasse più amicizie che a Roma in cinque mesi: vi conobbe il conte e la contessa Pepoli, il professore Paolo Costa, il conte Antonio Papadopoli e tutta la famiglia de l'avvocato Brighenti, da cui certo ricevette buona parte di quelle accoglienze allegre, senza diplomazie, di quelle gran carezze, di cui tanto si lodava e che lo rinfrancavano talmente da fargli scorgere qualche spiraglio di luce, traverso la nebbia fitta del suo scetticismo. Probabilmente da l'avvocato stesso gli vennero quelle proposte di occupazioni letterarie ch'egli sperava non richiedenti gran fatica e convenienti al suo ingegno.
Tornato Giacomo da Milano a Bologna per fermarvisi lungamente, trovò premurosissimo il Brighenti, il quale gli aperse la propria casa, lo accolse fra gl'intimi; e le conversazioni confidenti con Marianna ed Anna, giovani e graziosissime, riuscivano ben gradite a lui che fin da due anni prima scriveva a Carlo: «Il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che non girare attorno all'Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina.» (Lettera 5 aprile 1823.) Egli aveva già orribilmente sofferto, ma nulla aveva perduto ancora di quella sensitività, che fu una de le più grandi caratteristiche de l'anima sua: voleva ancora toujours sentir, toujours aimer, toujours espérer (lettera 23 giugno 1823), persuaso che quella sua sensitività fosse il più prezioso dei doni, sol che si trovasse un oggetto meritevole di essa; nell'amore giudicava il piacere dato da un solo istante di rapimento e d'emozione profonda, preferibile a tutte le gioie che provano le anime volgari. Egli timido, riservato, malinconico, preferì subito Marianna, seria anche nel sorriso, appassionata, un po' incline a la tristezza, come tutte le anime profonde, Marianna, che nel suo canto sapeva trasfondere tanta intima espressione d'affetto, ad Anna mordace, sempre allegra, leggera. Marianna era nel pieno splendore de la gioventù e de la bellezza, e il suo talento musicale e la sua voce destavan già ammirazione in quanti la conoscevano, sì che appar anche più naturale che il Leopardi, il quale adorava la bellezza e sentiva profondamente le impressioni de la musica, gradisse la compagnia di lei, specie in quei giorni non lieti, sventrati da le noiose lezioni al conte Papadopoli e al giovane Greco di cui s'ignora il nome. Il Recanatese, frequentando la casa Brighenti, dava qualche aiuto a l'avvocato per un'intrapresa edizione de le opere di Vincenzo Monti, e qualche consiglio pel periodico Il Caffè di Petronio, giornale di notizie teatrali e bibliografiche, di cui l'avvocato stesso era fondatore e compilatore; passava qualche ora in piacevole conversazione con la famiglia, spesso vi era invitato a pranzo, mandava in dono a l'amico i formaggi marchigiani mandatigli dal padre: e quella franca e cordiale ospitalità (franca e cordiale almeno per parte de le donne) gli rasserenava lo spirito: i suoi biglietti di quel tempo a l'avvocato sono con le lettere a Pier Francesco bambino le cose più sinceramente allegre e graziosamente scherzose ch'egli abbia mai scritte; e lungo tempo dopo egli ricordava ancora con vivo piacere la bella serata del Natale 1825 da lui trascorsa in casa de la famiglia di Marianna. Nè fu la sola; assai spesso, dopo desinare, il poeta amava restar a tavola con gli amici, e in quell'ora egli ordinariamente assai parco di parole, si compiaceva di ragionare a lungo, esponendo i suoi pensieri con modestia e con riserva, ma con quell'arguzia acuta e talora pungente che sarebbe stata una de le doti caratteristiche del suo spirito, se la noia e il dolore non ve l'avessero soffocata. Questo piacevole filosofare, che ricordava al Viani le Dispute conviviali di Plutarco, il Convito di Platone e il Simposio di Senofonte, era uno dei più graditi piaceri di Giacomo, tanto più che gli dava agio di mostrare la superiorità del suo spirito e di piacer forse anche a gli occhi de le donne intelligenti, malgrado la non bella persona e il vestire dimesso. Se poi entravano ne la conversazione uomini di poco senno, egli taceva tosto, non amando di contraddire, soltanto allorchè sentiva qualche troppo grosso sproposito tirava una presa di tabacco con un rumore affettato, cosa che faceva ridere chi ne intendeva il senso. Narra il Brighenti che in una di quelle conversazioni serali Giacomo componesse questa sciarada: Uccide il primiero — Uccide il secondo — Uccide l'intero. — Amore.
Marianna comprese presto d'aver destato un sentimento più fervente de l'amicizia nell'animo del poeta; e quantunque un altro uomo le occupasse tutto il pensiero,[32] quantunque ella non sentisse pel Recanatese che una pietosa tenerezza e una ammirazione reverente, seppe ne la sua bontà far sì che di quella passione non corrisposta egli potesse serbarsi in cuore un senso di dolcezza e di conforto. A lei medesima rimase per sempre una cara memoria di quell'affetto che molti anni dopo rivelò a Paolina Leopardi; e una lettera di Giacomo, certamente una lettera d'amore, si trovava ancora preziosamente conservata fra i più diletti ricordi di lei, quando la bella ed ammirata artista era divenuta una povera e disgraziata vecchia quasi ottuagenaria.
Tornato a Recanati, Giacomo nei suoi confidenti colloqui con Paolina le parlava con vivo affetto dei Brighenti, dicendo che avrebbe desiderato rivedere il Modenese, come un figlio desidera rivedere il padre, e di Marianna le narrava con tanta ammirazione, da lasciar indovinare l'amore che per lei aveva provato, mettendo in curiosità Paolina così da farle domandare la descrizione, ne' più minuti particolari, de la bella Brighenti.
Giacomo ne faceva il ritratto, compiacendosi forse di poter parlare di quella donna a lui cara con quell'altra anima femminile, che, quantunque diversamente, gli era cara altrettanto: gli parve che Marianna e Paolina fossero fatte per intendersi e per amarsi; così, quando la malferma salute gli rese grave lo scrivere, colse l'occasione opportuna per far entrare in corrispondenza fra loro le due giovani, pregando la sorella di richiedere da Marianna, a nome di lui, notizie dei Brighenti. Fors'anche ne la sua delicatezza, comprese che fra lui e la graziosa Majà (come la chiamavano sempre) non essendo possibile, dopo quanto era avvenuto, una corrispondenza, il mezzo migliore e più gentile di coltivare l'amicizia che la giovane gli aveva offerta, era quello di deporla ne le mani di Paolina, la quale aveva tanto del suo cuore. La contessina invero, che non trovava in famiglia corrispondenza a la sua innata ed espansiva tenerezza e che sentiva il bisogno di confidarsi ad un'anima capace d'intenderla, nutrì per Marianna un affetto vivissimo, le rivelò i suoi più intimi secreti e custodì quelli di lei con gelosa premura.
Le tendenze artistiche di Marianna, chiare fin dal tempo de' suoi primi studi, la bella voce di lei e le sue facoltà musicali, le promettevano una buona riuscita su la scena, tanto più che nella sua delicata sensitività essa comprendeva e sapeva rendere le passioni e, bella e graziosa della persona, appariva adatta ad incarnare i più simpatici tipi femminili, cui poesia e musica hanno dato una vita ideale. Ell'era ancora ai primi passi de la sua carriera e già tutti prevedevano in lei un'ottima cantante; Giacomo Leopardi se ne rallegrava sinceramente e ancora nel 1830 rammentava con riconoscenza la cordialità e l'affezione ch'ella gli aveva dimostrato. Mentre Giacomo era a Bologna, il Brighenti fece fare il ritratto di lui dal disegnatore Lolli per la progettata edizione delle sue opere ed alcuni anni dopo gliene dava in dono il rame inciso dal Guadagnini, dono che fu carissimo a tutta la famiglia Leopardi.
Paolina, che da le parole del fratello, tanto più disposto a sprezzare che ad ammirare gli uomini, e da le stesse ingenue e gentili lettere di Marianna, si era formato un alto concetto di quell'amica, la considerava ormai come un essere privilegiato, cui natura avesse largito in copia i doni onde con gli altri è tanto avara, e si rallegrava, come d'un'insperata fortuna, d'averne il cuore.
Nel maggio del 1829, malgrado le proteste di certi parenti, Marianna esordiva a Bologna con la Semiramide del Rossini, nel teatro privato di Emilio Loup, e Giacomo Leopardi, avuta notizia degli applausi ch'ella aveva ottenuti, compiacendosene salutava cordialissimamente lei, la madre e la sorella. In quell'autunno (novembre 1829) Marianna (e fu il primo suo teatro d'importanza e perciò detto da alcuni il suo vero esordire) cantò nel Teatro di Corte di Modena nell'opera del maestro Alessandro Gandini Zaira (poesia di F. Romani, quella stessa che era stata non felicemente musicata anche dal sommo Bellini). Per la parte di Zaira era stata scelta la Corinaldesi, cui da ultimo venne sostituita Marianna, la quale piacque e pel talento e per lo squisito sentire e per la singolare bravura, come afferma il maestro Gandini stesso;[33] il quale parlando d'un'altra artista, la Giuseppina Jabre Noel, che nel 1830 eseguì a Modena la stessa opera, dice che mancava de la finitezza tanto ammirata ne la Brighenti. De l'esito de la Zaira e dei meriti artistici di Marianna parlarono con lode il Messaggiere Modenese, il 2 gennaio 1830, nº 1, ed il Censore Universale dei Teatri di Milano redatto dal Prividali, nei suoi n i 91 e 92 (novembre, 1829).
L'anno a presso nel luglio Marianna andava a Siena nell'Imper. e Real Teatro dei Rinnovati a sostenervi le parti di Giulietta e di Egilda nelle opere Giulietta e Romeo ed Arabi; e vi otteneva un così grande trionfo che il Giornale dei Teatri di Bologna ne parlava con entusiasmo, narrando come per la sua serata era stato pubblicato a stampa il suo ritratto e le si era offerto un sonetto in cui un tal A. C. la vantava vincitrice d'Euterpe stessa. Io ebbi occasione di vedere questo ritratto e precisamente l'esemplare che la Brighenti donava a Paolina Leopardi; è lavoro anti-artistico e parrebbe quasi una caricatura, tanto la fisonomia vi è intieramente diversa da quella che vediamo negli altri ritratti che ci rimangono de la cantante; ma la fantastica Paolina si dilettava, osservandovi la superba veste di velluto azzurro a ricami bianchi, ornata di scintillanti gioielli d'oro e di perle, il velo trapunto a fiori, che da l'altissima pettinatura scende a velare le spalle nude, il diadema e la collana di perle, l'ornamento d'oro e di gemme, che scintilla su la bianca fronte.
Ancor più forte che per la gioia di questi primi trionfi il cuore di Marianna batteva per un nuovo affetto, il quale pareva prometterle sicura felicità, giacchè colui che l'aveva destato, un certo Mori, chiedeva a l'avvocato la mano de la figliuola; era un uomo colto, assai amante de le belle arti, intorno a cui pubblicò alcuni anni dopo qualche articolo su l' Antologia di Firenze. Perchè il matrimonio non avvenisse, si ignora; la buona Paolina, che fu a parte di questo secreto, giacchè Marianna piena di speranza e di gioia, benchè ancora dubitosa, gliene fece oscuramente cenno, chiamava questo il primo amore di Marianna artista. Qualche tempo a presso anche Anna scriveva a la Leopardi del Mori, di cui la sorella era stata innamoratissima. Ammirata dovunque per la sua voce, pel suo talento, per la sua bellezza, e dovunque rispettata per la sua perfetta onestà e per la signorile dignità del suo portamento, Marianna ebbe dovunque andò moltissimi corteggiatori, ma fra questi cercò vanamente un cuore degno del suo e sempre fiduciosa, sempre tenera, passò di delusione in delusione, soffrendo intime pene ogni volta che dovette persuadersi di non essere amata nè come, nè quanto credeva. Nelle sue lettere a Paolina ella si rivela aliena da ogni arte di civetteria, e i suoi sentimenti, cui la fortuna non doveva accordare quella costanza che certamente avrebbero avuto, se in degno modo ricambiati, erano di una tale purezza che la Leopardi, cui non doveva certo far meraviglia la severa virtù femminile, se ne stupiva e ne godeva tanto più, quanto più capiva che molti erano i pericoli in mezzo a cui passava l'amica e la frequenza e la difficoltà degli scogli ch'ella sapeva evitare, anche se il suo cuore era infiammato da la passione; virtuosa, non per freddezza, nè per calcolo, ma per vera dignità d'animo. Questa virtù punto arcigna, era piena di grazia e talvolta anche tutta spirito e brio; può farne fede questo sonetto, che Marianna scrisse non so precisamente in quale anno, ma certo nella sua gioventù e che si trova autografo ed inedito fra le carte lasciate dal prof. cav. Silingardi, amicissimo dei Brighenti, al Municipio di Modena:
Signor Conte..... le vuo' dire
Cosa che al certo riesciralle ingrata,
Ma non voglio che il mondo abbia a ridire
Che corrispondo a gente maritata.
La padroncina mia femmi sentire
Certo di lei sonetto, in cui spiegata
V'era la doglia che la fe' soffrire
Con parole e sospiri all'impazzata.
Dirle mi piace: sono una fanciulla
Onesta e virtuosa ed il suo affetto
Inver da me non otterrà mai nulla;
Non già ch'io non le sia riconoscente,
Che di cuor la ringrazio del sonetto,
Ma circa amor, non ne facciamo niente.
Se nei versi citati predomina la grazia onesta, ma scherzosamente birichina, un profondo sentimento inspira questi altri che pure autografi ed inediti si trovano fra le carte del Silingardi.
Il 1º luglio 1827 fu uccisa da un amante a Modena la fanciulla Maria Pedina: «la fortezza con la quale la detta giovanetta serbò intatta la sua innocenza diede argomento a la seguente Invocazione, scritta da Marianna Brighenti.»
INVOCAZIONE.
Alma gentil che colassù n'andasti
Tutta raggiante di eterno splendore,
A te sì pura e fortemente casta,
A te beata che alla gioia vivi,
A te, dimesse, vengon mie parole,
Spinte da affetto e somma riverenza.
E con queste ti prego, o virtuosa,
Ad impetrarmi vero e caldo amore
Per la virtude, che ti fu sì cara,
Che amasti di morir pria che tradire
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Ottienmi da quel Dio, cui se' sì cara,
Di seguir tuo costume e che mia morte
Possa mertar delle belle alme il pianto.
Ne le lettere da Pisa, Marianna fa cenno d'aver sofferto assai per un'afflizione de la Caterina Ferrucci, e già prima per mezzo di Giacomo aveva fatto donare a Paolina un libro di quella scrittrice, con la quale è quindi da supporsi ella avesse pure contratta amicizia, cosa che certo le fa onore e dà indizio de la serietà del suo carattere.
Tornata a Bologna, sempre ne la fida compagnia de la sorella, Marianna fu in istretta ma onesta relazione col famoso cantante Rubini, e più tardi conobbe intimamente anche la Malibran, insieme a la quale cantò in qualche opera. Ne l'aprile del 1831 ebbe il diploma de l'Accademia filarmonica bolognese. Nel Carnevale del 1830 a Piacenza sostenne la parte di Giulia ne la Vestale; da la fine del 1830 fin verso a l'aprile del 1831 fu a Ferrara e vi destò un grande entusiasmo sostenendo la parte di Rosina nel Barbiere di Siviglia e quella di Giulietta nella Giulietta e Romeo del Vaccaj. Dopo un breve soggiorno a Bologna, nell'aprile del 1831 fu a Ravenna ad eseguirvi l' Otello di Rossini col celeberrimo tenore Bonoldi, ed anche a canto a quello straordinario Otello parve una dolce, fine Desdemona; modesta e affabilissima tuttavia, ricercò i consigli de l'illustre compagno e ne seppe profittare. A Ravenna cantò pure Anna, eseguendo la grande scena di Nerestano nella Zaira del maestro Gandini, lodata per la sua grazia, per l'intonazione e la soavità de la voce. Qui per la sua beneficiata Marianna cantò la cavatina della Niobe in cui sapeva infondere rara drammatica efficacia, la ripetè per la serata di Bonoldi, quasi a ringraziarlo degli amorevoli insegnamenti di cui le era stato largo, e piacque così che il pubblico l'obbligò a ripeter tutte le sere quel pezzo. Le si dedicava allora un sonetto:
Altre sentii gli armonici concenti
E le soavi melodiose note,
Or liete modular, ora gementi,
Onde fur l'alme in ascoltando immote;
Ma non sentii giammai que' loro accenti
Tante recarne meraviglie ignote,
Come il tuo dir, che, innamorando i venti,
D'ineffabil dolcezza i cuor percuote.
Segui, o giovane Donna; e il bel Paese
Che Appennin parte, e l'Alpe e il Mar circonda,
Quand'abbia in te tante dolcezze intese,
Varca animosamente i monti e l'onda,
E fa col canto tuo quell'alme accese,
Sì che all'onor d'Italia Eco risponda.
Ne l'agosto del 1831 Marianna era a Fermo, dove ebbe trionfi non soliti neanche per lei, sostenendo la parte d' Imogene nel Pirata del Bellini: si ammiravano ancora più che la bellezza de la sua persona e de la voce, la perfetta intelligenza d'arte, la grazia squisita, la forza di sentimento, l'azione dignitosa sempre e sempre ragionata; le cronache del tempo ci dicono che applausi frenetici scoppiavano ad ogni suo pezzo e che gli animi fremevano ne la pena e nel delirio di quella Imogene soave e appassionata. Le si dedicava allora un'epigrafe in cui era detta donzella candida del cuore, soave del costume, dell'arte del canto peritissima, da natura dotata di voce che nell'anima si sente, ad esprimere gli affetti potentissima; ed un altro ammiratore le diceva in un sonetto:
Con preghi e doni ho chiesto al Ciel sovente
Che riso segua di mia vita l'ore;
Ma or più del riso m'è grato il dolore
Che pel tuo gorgheggiar nel cor si sente.
La Brighenti passò in Ancona, dove cantò pure il Pirata nell'ottobre del 1831 e si compiacque del pregio in cui era tenuta non soltanto come artista, ma anche come donna degna di vera stima. «Tutti voialtri sapete bene quanta ammirazione cagioni il contegno vostro e della mia amica in particolare, sì raro a trovarsi tra gente della sua professione; tutti voialtri lo sapete, pure non posso fare a meno di dirvi che quasi ho sentito io medesima fare un elogio grande della eccellente educazione, della condotta irreprensibile e savissima, di tante doti di spirito e di cuore, dell'eccellente carattere della prima donna dell'opera di Ancona, senza dirvi poi nulla intorno alla sua bravura nel canto, di cui quello che parlava si mostrava contentissimo;» scriveva Paolina Leopardi ad Anna Brighenti. (Lettera 8 novembre 1831.)
Ai primi di autunno del 1831 Marianna era ad Ascoli per darvi il Pirata; là incominciò a sentire le acute spine nascoste fra le rose de la sua corona d'artista, e pare gliele facesse sentir l'impresario e sentir talmente ch'ella pensava di rompere il suo contratto con lui; s'aggiungeva a questo la poca frequenza e la freddezza di quel pubblico, poco educato a l'arte, il triste soggiorno di quella cittadina, appena rallegrato da le gentilezze di qualche ammiratore, uno dei quali, Ignazio Cantalamessa, volle fare il ritratto de le due sorelle, riuscito benissimo, si dice, specialmente quello di Marianna. Ma anche quel pubblico freddo e poco intelligente finì per animarsi al canto de la Brighenti e si accese fino ad un entusiasmo indescrivibile quand'ella cantò la famosa cavatina de la Niobe.
Marianna andò poi a Roma, trepidante per l'esito che vi avrebbe ottenuto, commossa vivamente da gli alti affetti che la città eterna ridestava in lei, pure anche là l'attendevano amarezze, torti de l'impresario, fatiche eccessive, cui la sua costituzione piuttosto gracile non potè resistere; si ammalò e invece d'andare a Corfù, come ne aveva il progetto, dovette ritornare a Bologna. Ristabilita nel settembre del 1832 cantava a Cremona I Normanni a Parigi; e, dopo un'altra dimora a Bologna, ne l'aprile del 1833 passava ad Arezzo a darvi per l'apertura del Teatro Petrarca l' Anna Bolena e la Straniera. Feste entusiastiche le furon fatte dal pubblico meravigliato e commosso: ne la sua serata, in cui cantò al solito la cavatina de la Niobe, fu accompagnata a casa in una portantina, circondata da coristi con torcie accese e preceduta da una banda, poi le acclamazioni la costrinsero ad affacciarsi a la finestra per ringraziare.[34]
Ad Arezzo un poeta chiamava la voce di lei prestigio arcano, incanto più soave dell'estasi d'amore e le diceva:
Forse fu Amor che in queste basse arene
A diradar di nostra mente il velo,
E ad invaghirci dell'eterno Bene,
Come alla mente diè il pensier veloce,
E diede il sole allo splendor del cielo,
A te diede degli angeli la voce.
La madre aveva seguito fin qui le figliuole, ma d'ora innanzi la stanchezza e la salute infermiccia la persuasero a lasciarle, tanto più ch'ella aveva veduto per prova come potesse affidarle a sè medesime, senza dir poi che il padre le accompagnava sempre. Marianna continuava a chieder notizie di Giacomo Leopardi e poteva darne talvolta anche a la sorella di lui.
Nel dicembre del 1833 la Brighenti cantò a Pisa ne la Straniera; e con la dolcezza e flessibilità de la voce, mirabilmente atta a secondare gl'impulsi del vivo sentimento e i dettami de l'acuta intelligenza, incantò l'uditorio. «Il cantare ed agire de la Brighenti non è effetto di altrui insegnamento, è creazione sua propria,» fu scritto allora. Ne la stessa città ella diede anche La gioventù di Enrico V del Pacini che piacque mediocremente.
Andata a Livorno vi cantò l' Anna Bolena, la Norma e i Capuleti; ed un poeta entusiasta scriveva per lei una Canzone con questo ritornello: poco importa più il peso de le noie e dei dispiaceri quotidiani:
Chè la sera la Brighenti
Tutto quanto fa scordar.
Andata a cantar l' Anna Bolena a l'Alfieri di Firenze nel novembre del 1833, rimase afflitta di non rivedervi il Leopardi, già partito per Napoli, chè gli applausi e gli omaggi entusiastici anche qui non le impedirono di ripensare affettuosamente a l'amico infelice.
Nel novembre del 1834 Marianna fu l'idolo dei Novaresi. Il Giordani, che sempre s'interessava de la sorte di lei e frequentemente chiedeva di sapere ogni suo successo e di onore e di lucro, le scriveva a Novara pregandola di continuargli la sua carissima benevolenza: «Sarà molto lieto a me quel giorno che vi rivedrò, e potrò ripetervi di voler esser sempre vostro amicissimo.» In quella città, Marianna cantò la Norma: «Al suo apparire, scrive il Censore universale dei Teatri (4 febbraio 1835), tutto l'affollato uditorio proruppe in una strepitosa selva d'applausi. Ma quando si ascoltò poi l'eroica declamazione di quell'imponente primo recitativo ed il soavissimo canto di quella gentil cavatina, per quanto fosse ancor viva in tutti la rimembranza dei già valutati pregi di questa virtuosa, d'ogni passata estimazione infinitamente maggiore si fece l'ammirazione presente... Chi vide all'apertura del Teatro Petrarca in Arezzo raffigurar la Brighenti il carattere de l' Anna Bolena, me l'aveva già dipinta con i più vivi e seducenti colori, gli stessi più sperimentati fra i suoi compagni ne parlavan allora con entusiasmo. Chi vede ora la stessa artista maggiormente abbellire di sè stessa il bel teatro nuovo di Novara, per rappresentarvi quello di Norma, si mostra più trasportato ancora di quegli Aretini, che in materia di musica hanno un gusto finissimo.» E nota la verità de la sua azione, la squisitezza del canto, l'ammirabile efficacia ne la espressione dei sentimenti soavi, pietosi, terribili, la forza drammatica.
A Novara un maestro di musica amò non degnamente Marianna; e quando, nel lasciarla, le chiese compatimento e stima, l'altera risposta di lei dovette fargli comprendere com'ella riserbasse questi sentimenti a chi li meritava.
Il canto non era una miniera d'oro per la Brighenti, e malgrado il fasto apparente, cui la professione la costringeva, ella non aveva potuto migliorare in modo stabile la condizione de la sua famiglia, sì che pregava Paolina Leopardi di raccomandare l'avvocato per un impiego; ma non se ne fece nulla, malgrado le premure de la buona contessa; e, certamente per ottenere più lauti guadagni, dopo esser stata a Reggio, a Ravenna (maggio e giugno 1835), a Genova (ottobre 1835), a Vicenza (gennaio 1836), Marianna si decise a partir per l'estero, accompagnata dal padre. Già nell'aprile del 1835 aveva cantato a Reggio, ne l' Uggero il Danese di Mercadante e ne la Semiramide di Rossini, e le sue note che brillavano, volavano, accentate e colorite, il buon gusto del suo fraseggiare, la precisa franchezza de l'intonazione avevano destato il solito entusiasmo: tutta una schiera di poeti, ed alcuni non volgari, si era levata ad acclamarla; fra le altre poesie noto un Sonetto di Un plaudente, un'Ode, probabilmente del Cagnoli, un altro sonetto di Luigi Ferri, un Canto, che forse è quello di Prospero Viani, cui egli accenna ne l' Appendice a l'Epistolario leopardiano:
Alta è la notte: il pallido
Raggio di Cinzia un pio
Nell'alma infonde incognito
Di meditar desio,
E versa in me dolcissimo
Di pianto voluttà.
È la fedel mia cetera
A me compagna. . . . .
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
È un canto malinconico,
La voce è di Licori,
Che della Dania vergine
Canta gl'infausti amori.
Oh come ancor mi suonano
Que' mesti accenti in cor!
A Ravenna la Brighenti cantò la Semiramide e i Normanni a Parigi, a Genova nel teatro Carlo Felice l' Elisa e Claudio di Mercadante, e la Nina pazza per amore del maestro Coppola; a Vicenza ancora la Nina, la Chiara di Rosemberg e la Norma, facendo notare come le parti ricche di sentimento e di drammaticità le convenissero fra tutte.
Nel luglio del 1836 era già a Lisbona, ove trovava morali e materiali compensi, che la confortavano de la lontananza da la patria e da la madre; la sorella e il padre erano sempre con lei. Vi diede l' Otello di Rossini, poi andò ad Oporto e, quantunque assai affaticata, dovunque fece trionfare l'arte italiana. Dal Portogallo passò in Ispagna, a Madrid, dove cantò la Straniera; quel pubblico che vi aveva udite ne la parte d'Alaide la Tosi e la Lalande e che allora era entusiasta della De Alberti rimase freddo da prima per la Brighenti, ma la freddezza cominciò a dileguarsi al duetto di lei con Pasini calorosamente applaudito, e sparì a la commovente ultima scena, eseguita con rara potenza drammatica. Tuttavia ne le prime sere non si poteva dire che ella avesse conquistato l'uditorio; piacque di rappresentazione in rappresentazione sempre più: poi ne la Donna del lago trionfò pienamente, ed applausi, fiori, versi piovvero su di lei, divenuta l'idolo del teatro.
L'artista era soddisfatta, ma la donna soffriva; il 1º luglio 1837 ella riceveva da Paolina il doloroso annunzio de la morte di Giacomo: «Oh! piangiamo insieme, amici miei, le scriveva fra l'altro la Leopardi, piangiamo insieme, chè abbiamo perduto tutti il nostro fratello, il nostro amico, nè lo rivedremo più in questo mondo, dopo tanta speranza, dopo tanto desiderio.» Marianna sofferse acerbamente a la funesta notizia e cercò di dare con le proprie lacrime un conforto a l'amica sua.
Sempre applaudita, era tuttavia vivamente desiderosa di ritornarsene, sì che, quantunque avesse formato il progetto di andare in America, nel giugno del 1838, lieta come non era stata mai fra gli applausi e gli onori, rivedeva l'Italia e riabbracciava la madre. Tornava stanchissima, sofferente ne la salute per le fatiche durate, sconsolata da nuove delusioni, che avevan ferito profondamente il suo cuore, annoiata dei viaggi e persino dei trionfi, e dopo aver cantato ancora a Pavia nel novembre del 1838 e a Vicenza, sentendo la necessità di pace e di riposo, prendeva in affitto un villino a Campiglio, poco lungi da Modena, e là, nel luogo amenissimo e tutto tranquillo, si sentiva rinascere, viveva tutta nei dolci pensieri e nei cari ricordi. La sera al chiaro di luna, assorta ne la dolcezza de' suoi sogni, se ne andava sola a diporto tra i boschetti, o lungo le sponde del Panaro, e tutta la vita passata le pareva un sogno, un sogno agitato e doloroso, di cui il ricordo le faceva, pel contrasto, parer più cara la pace di quei suoi giorni solitari e quieti. Di teatro non voleva sentir parlare, tanto più che il suo petto gracile non era in grado di venir ancora affaticato senza pericolo; più d'una volta le disgraziate condizioni de la famiglia la costrinsero a ripensarvi, ma non cantò che in un'accademia, datasi a Modena l'8 decembre 1839. Anche in quest'occasione la Brighenti ricevette non dubbie prove d'ammirazione; la sua voce, non più vigorosa, era però dolcissima e gradevole, atta ad eseguire con bravura i passi d'agilità.
Marianna, lasciato il teatro, passava parte de l'anno a Forlì col padre. Ne la primavera del 1840, quantunque infermiccia, quantunque afflitta da mille travagli, fra cui non ultimo una lite impresa da l'avvocato per rivendicare una parte del patrimonio paterno; quantunque agitata da le speranze, dai timori di una nuova passione, ella chiedeva notizie di quanto veniva scrivendosi intorno a Giacomo. L'avveduta Paolina l'avvertiva di non abbandonarsi al nuovo amore che un Forlivese aveva destato in lei, tenera e immaginosa, in lei che aveva sempre veduto negli uomini piuttosto le proprie qualità che i loro difetti. «Stai in guardia più che puoi, e Ninì ti consoli e ti consigli, essa che ha la mente fredda e il cuore pieno di amore per te. Oh! non fidarti degli uomini, Marianna mia, non è questo tempo per anime come le nostre. Divagati, fa ritratti (ma non già il suo), allontana il pensiero di lui quanto puoi, e parti presto da Forlì; io voglio saperti consolata e désillusionnée.» (Lettera.... aprile 1840.) Ed Anna, che, amata prima fra gli altri dal poeta Antonio Peretti, il quale le scriveva tenerissime lettere firmandosi Menestrello, abbandonata poi da lui, se ne consolava con un poeta migliore, il Petrarca, era la miglior confidente e la più allegra consigliera de la sorella, la quale però quei consigli ascoltava, sorridendo, senza saperli seguire. Ne la primavera del 1840 era malata a Forlì di debolezza ai bronchi e il medico le dichiarava impossibile il ritorno al teatro, risparmiandole così il tormento dei vecchi grandi artisti, che su le scene assistono a la lenta morte de la loro fama e vedono il pubblico, il quale prima li adorava, indifferente, poi schernitore. Nè la speranza di una non meschina eredità valeva a ridarle animo; nè il fidanzamento d'Anna con un tal Virgilio (1831), nè le amabilità de la principessa Aldegonda de la casa ducale di Modena, città dove i Brighenti si trovavano ne l'inverno del 1842, riuscivan a richiamare più che un malinconico sorriso su le sue labbra. Come appare da una lettera del Giordani (24 luglio 1841), Marianna aveva il progetto di dar lezione di canto, ma la sua non buona salute e i continui cambiamenti di dimora ne rendevano difficile l'esecuzione. Il suo maggior conforto consisteva ormai nel prestar teneramente le sue cure al padre, che una parte de l'anno la voleva seco a Forlì, e nel ricrearsi lo spirito in dotte e gentili compagnie, fra le quali carissima le era quella del Giordani, il quale nell'agosto del 1842 trovandosi a Forlì con un amico, le parlava lungamente di Giacomo Leopardi, de le ingiuste accuse mosse a la memoria di quel Grande e del culto sempre maggiore di cui questa memoria era oggetto pei sinceri ammiratori del genio e de la virtù.
Il 16 novembre 1843 moriva Maria, o Marina Galvani-Brighenti, l' adorata sposa de l'avvocato, l'angelo di bontà, di rassegnazione e di conforto della famiglia. Era nata in Modena il 3 gennaio 1773. «Ebbe da natura ingegno pronto e vivace con robustezza di mente e di corpo, che la resero superiore al suo sesso. Ebbe istruzione non comune, costanza nelle avversità; religione purissima, sviscerato amore de' suoi. Fu studiosa delle amene Lettere e della storia, sostenne con forte animo lunga e dolorosa infermità; incontrò l'ultimo fine con imperturbata e santa rassegnazione;»[35] così ne fu scritto da la famiglia.
Marianna, che aveva sempre teneramente amata la madre, riverendone le modeste e casalinghe virtù, ne scriveva col cuore commosso una breve biografia in una lettera a Paolina, la quale poi la ringraziava d'averle fatto così conoscere e meglio stimare quella buona. La povera Marianna era afflitta da sempre nuovi dolori, che aggravavano la tristezza derivante da la poca salute, da le cattive condizioni economiche e da la scarsissima speranza di miglioramento nell'una cosa e nell'altra. Tuttavia pensava sempre affettuosamente al grande amico de la sua giovinezza, Giacomo Leopardi, e presentava con una lettera a Paolina, facendone grandissimi elogi, Prospero Viani, diligente cultore degli studi leopardiani. Era già l'estate del 1845 e per la prima volta in una lettera a l'amica, lettera che disgraziatamente è perduta, Marianna confidava il puro e tenero amore che Giacomo aveva avuto per lei; confidenza accolta con piacere da Paolina, la quale rispondeva: «non è possibile che si accresca l'affezione mia per te; ma se lo potesse, certo accadrebbe dopo che mi hai detto che il nostro Giacomo ti prediligeva. E già io me ne avvedeva dalle sue parole e non ricordo, ma forse avrò fatta a lui anch'io la domanda sacrementelle: ne eri innamorato?» (Vedi Lettera XCII, 1º agosto 1845, nel volume citato di E. Costa.)
Pietro Brighenti, che nel 1846 era stato da Pio IX nominato giudice supplente a Forlì e aveva tenuto l'ufficio sette mesi in assenza del titolare, mentre sperava un impiego più sicuro, non accorgendosi quasi che la sua vita andava spegnendosi lentamente, spirò a Forlì, assistito da la figlia Anna, mentre Marianna era a Modena; ambedue le sorelle sentirono allora che niun più grave colpo avrebbe potuto ormai portar loro la sorte.
Nella sua biografia del padre che, come notammo, è ora conservata autografa nel Museo del Risorgimento in Modena, Marianna scrive: «Non puossi, nè debbesi tacere de l'amorosa assistenza che essa ( Anna ) gli fece nei tre mesi della sua malattia, non che della forza d'animo che dimostrò nel giorno 2 agosto, dodici ore avanti la di lui morte, in cui veggendolo afflitto per non ricevere lettere dalla figlia assente (erano allora pressocchè intercette le comunicazioni per la guerra tra Austriaci e Bolognesi), ritirossi un breve istante dalla camera e vi rientrò con una lettera in mano, che figurò scritta dalla sorella e con l'angoscia più disperante nell'animo, ma a ciglio asciutto e con voce ferma la lesse al letto del moribondo e con questo gli ultimi istanti ancora della vita gli consolò.» La biografia, dedicata a S. A. la Principessa Federica Hohenzollern Sigmaringen Marchesa Pepoli, è tutta inspirata da sensi di sincera venerazione e d'affetto.
Dopo un inutile tentativo, fatto non si sa bene a quale scopo presso la Corte modenese, dove ottenne buone parole, molte gentilezze e null'altro, Marianna stette qualche tempo in Bologna quale istitutrice in casa del conte Pepoli; uscitane, insieme a la sorella pensò di stabilirsi a Modena, dove ambidue dettero lezioni private e apersero un istituto femminile, che su le prime parve dare buon compenso morale e materiale a le loro non poche fatiche. Ambedue, e più Marianna, che aveva doti di mente e di cuore più adatte al grande ufficio di educatrice, si erano accinte a l'impresa con vivo amore e con sincero entusiasmo, ed alcuni saggi pubblici che fecero dare a le alunne ebbero l'approvazione di persone autorevoli; ma qui pure le aspettavano delusioni e dolori, così che nel 1865 la povera Marianna confessava a Paolina d'esser rimasta abbandonata da molte alunne, le quali non le avevano nè pure concesso il conforto de la loro riconoscenza e di quel rispetto che sarebbe stato così caro al suo cuore. In generale però i genitori e i parenti de le sue scolare si lodavano de l'opera sua, cosa che le dava una consolazione almeno, quella di provarle che la sua coscienza non l'ingannava, asserendole non aver ella mancato mai al suo dovere. Si occupava sempre con amore di studi e prediligeva la poesia: in una lettera, il cugino Francesco Galvani le parla dei romanzi di Walter Scott, di cui avevano conversato lungamente a voce; l'altro cugino G. Galvani pure in una lettera le parla di studi e le manda un Petrarca da lei richiestogli.
La pietosa venerazione inspirata da le virtù e da le sventure di Marianna Brighenti era tanta che, per non amareggiare troppo lei e sua sorella, si ricoperse di un velo indulgente quanto di men che bello si veniva scoprendo ne la vita del loro padre. Il marchese Gualterio nel suo libro su Gli ultimi rivolgimenti italiani (Firenze, Le Monnier, 1851), cercò di scusare il Brighenti che, da certi documenti venuti in luce, appariva delatore, immaginando che alcuno abusasse de la buona fede di lui, libraio ed editore, facendogli recapitare, a qualche secreto agente, come lettere, le proprie rivelazioni a la polizia austriaca.
Gli ultimi anni di Marianna passarono in una condizione meschinissima, da le angustie de la quale la sollevava talvolta il generoso soccorso de le anime buone, fra le quali va annoverata Paolina Leopardi.
Con umiltà, ma con dignità, le Brighenti invocavano aiuto: vidi una minuta di una loro supplica a una nobilissima signora, già loro amica, in cui tra il dolore de le strettezze e de l'abbandono in cui si trovavano, traspare la degna alterezza di non aver meritate le loro sventure e di sentirsi oneste.
Chi ne le due povere vecchie, miseramente vestite, dal viso pallido, ove le rughe denotavano una lunga istoria di patimenti e di dolori, avrebbe riconosciuto l'ammirata Imogene d'un tempo, splendida nel fastoso abbigliamento, ne lo scintillío dei gioielli e più di tutto ne la luce de la sua gioventù e de la sua bellezza? e la spiritosa Anna, gioia e tormento di tutti i damerini eleganti, e arcadico sospiro dei poeti? Anna morì l'11 aprile 1881 a settantacinque anni, e Marianna le sopravvisse sino al 31 gennaio 1883, tutta assorta ne le sue memorie. Quella vecchia, quasi ottuagenaria, nei suoi bei giorni aveva contato a migliaia gli ammiratori, a diecine gl'innamorati: Agostino Gagnoli e Antonio Peretti eran stati entusiasti di lei; il primo le aveva dedicato un tenero sonetto, ed in versi pure, fra i molti altri, l'aveva esaltata, come si disse, anche Prospero Viani (1835); ma nell'abbandono de la sua tarda età, ad uno ella pensava con maggior tenerezza, ad uno ch'ella non aveva amato d'amore, ma di cui un'unica lettera serbava con cura e rileggeva commossa, ella che di lettere, di versi, d'omaggi a lei rivolti aveva così gran numero; questi rimasero fra le sue carte, testimoni de l'ammirazione che ella aveva destata, ma quella lettera, invano chiesta e richiesta con istanza dal Viani, scomparve: Marianna, scendendo nella tomba, volle forse portar seco il secreto de le ardenti parole che Giacomo Leopardi aveva scritte un giorno per lei sola.
La meschina eredità di lei passò a una misera sua cugina, Luigia Montavoce di Gualtieri, che non seppe come fra quei poveri oggetti e quei cenci vi fossero carte preziose, autografi del Giordani, del Leopardi, del Pepoli, del Rosini, del Cagnoli, di Paolina Leopardi, di Carolina Ungher, del Mari, del Peretti, del Viani ec.
Stretta dal bisogno, la poveretta vendette quelle carte a un tabaccaio, che le distrusse quasi tutte; per caso furon salve, insieme ad alcune lettere del Giordani e di Monaldo Leopardi, e a tutte quelle di Paolina, le quali pubblicate da Emilio Costa valsero a sollevare il velo che nascondeva in gran parte agli occhi dei posteri le gentili figure de le Brighenti e de la Leopardi.
Povera Marianna! Ben più lacrime che sorrisi ebbe la vita per lei, a la sua corona di donna e d'artista poche rose furon intrecciate fra le spine pungenti; ma le sue sventure nobilmente sopportate accrescono la simpatia che le guadagna il suo cuore gentile, ed ella rimane una de le rare creature femminili per le quali, se pure non corrisposto, non ci appare vano l'amore di Giacomo Leopardi.
NOTE.
25. Vedi a pag. 61 de le Memorie de la R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Tomo VIII.26. Vedi P. Giordani, Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gussalli. Milano, Borroni e Scotti, 1856, vol. I, pagg. 192 e 193.27. Vedi l' Epistolario di P. Giordani, edizione citata. Lettera da Milano, 20 gennaio 1818.28. Opuscoli religiosi e morali, serie 4ª, t. XVII. Modena, Soc. Tip., 1885, a pag. 53.29. Fra le carte lasciate dal cav. prof. Silingardi al Municipio di Modena si trovano autografe alcune quartine di Marianna ad Anna, alcune altre al padre pel suo natalizio, un sonetto al medesimo scritto a Lisbona nel 1836, alcuni versi ad Anna de lo stesso anno, una lettera d'augurio a l'avvocato, giugno 1837, ec.30. Cfr. C. Lozzi, Intorno a le Canzoni dl G. L. «All'Italia e sul Monumento di Dante,» Osservazioni critiche inedite di letterati bolognesi contemporanei, nel nº 7 del Bibliofilo di Firenze, luglio 1882, pag. 99.31. Cfr. A. D'Ancona, Il Leopardi e la polizia austriaca, nel Fanfulla della Domenica, 29 novembre 1885. Cfr. anche lo studio di F. Mariotti, Una Canzone di Giacomo Leopardi commentata dalla polizia austriaca nel 1820, nella Nuova Antologia, 16 agosto 1897, da pag. 633 a pag. 636; e G. Piergili, Un confidente de l'alta polizia austriaca nel gabinetto di G. P. Vieusseux, nella Rivista Contemporanea, 1888, fasc. 4º, Firenze.32. Marianna confessò a Paolina Leopardi d'aver avuto prima di darsi al teatro un amore disgraziato. Questa passione era viva probabilmente nel tempo che Giacomo fu a Bologna, perchè Paolina compiangendo l'amica le scriveva più tardi, 15 giugno 1830: «Mi pare che Giacomo mi abbia nominato l'oggetto del vostro amore ed io l'ho dimenticato; nè crediate che io ora voglia saperlo.»33. Vedi Cronistoria del Teatri di Modena dal 1539 al 1871 del maestro Alessandro Gandini, arricchita d'interessanti notizie e continuata sino al presente da Luigi Francesco Valdrighi e Giorgio Ferrari Moreni. Parte II, pagg. 95, 96 e 97. Modena, Tipografia Sociale, 1873, in 12º, pag. 601.34. Vedi Corrispondenza da Arezzo nel nº 51, 26 giugno 1833, del Censore universale del Teatri, Milano. Da questo giornale son tolte molte altre de le notizie che riguardano la Brighenti cantante.35. Quest'epigrafe si legge ne l'interno de la chiesa dei Minori Osservanti di Forlì detta di Valverde. Il Brighenti scrisse alcuni cenni biografici de la moglie, i quali si trovano autografi fra le carte donate dal prof. Silingardi al Municipio di Modena.
Teresa Carniani Malvezzi
TERESA CARNIANI MALVEZZI.
A Bologna Giacomo Leopardi trovò così liete accoglienze, quando vi stette alcuni giorni mentr'era diretto a Milano, chiamatovi da lo Stella, che partendone aveva già deciso di ritornarvi per un lungo soggiorno. A pena ebbe combinati con l'editore milanese gli elementi de le due edizioni latina e latina italiana de le opere di Cicerone e compilatine i programmi ne le due lingue, il 26 settembre 1825 partiva da Milano e la mattina del giorno 29 era a Bologna, dove prese a pigione un appartamentino in casa di un'ottima e amorevolissima famiglia, gli Aliprandi, che abitavano presso il teatro del Corso in casa Badini. Essi pensavano anche al suo vitto ed al servizio, chè egli accettava di rado e poco volontieri i molti inviti a pranzo continuamente fattigli. Le premure de' suoi ospiti gli erano care in sè, e più care perch'egli capiva che la grande stima in cui lo si teneva era causa di questi riguardi. Troppo aveva sofferto nel borgo natio, vedendosi disprezzato perchè d'aspetto infantile, deforme, misero, perchè amante de la solitudine e tutto dato ai libri, dovendo a sua volta disprezzare quei coetanei e compaesani che non si curavano d'esser qualche cosa, si davano da sè il nome d'ignoranti e gli predicavano che con gli anni egli avrebbe messo giudizio e cioè abbandonati gli studi. Quel suo somigliare un grande ingegno (e certo pensava a sè) apprezzato in Recanati come la gemma nel letamaio ricorda l'orgoglio dantesco del
Faccian le bestie fiesolane strame
Di lor medesme, e non tocchin la pianta,
S'alcuna surge ancor dal lor letame,
In cui riviva la sementa santa
Di quei Roman, che vi rimaser, quando
Fu fatto il nido di malizia tanta.
Pure egli non era scettico ancora, sapeva che il mondo è bello, che tante cose belle ci han fatto gli uomini, che vi son tanti uomini buoni e grandi; e avrebbe voluto darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane; ma in un mondo che lo allettasse e gli sorridesse, che splendesse, sia pure di luce falsa; non ne la società di Recanati che lo faceva dar in dietro a prima giunta, gli sconvolgeva lo stomaco, gli muoveva la rabbia. A Bologna gli parve di rivivere: è vero che quei letterati temendo di trovarlo superbo e soverchiatore lo guardarono da prima con invidia e con sospetto, ma la sua modesta affabilità e quelle maniere semplici che son proprie di tutti i grandi uomini, pur essendo prese dai volgari per indizio di poco valore, com'egli stesso osservò, gli conciliarono presto le simpatie generali; e gli stessi dotti finirono per festeggiarlo, per fargli visite frequenti e per dichiarare che la sua presenza era un acquisto per Bologna. Tuttavia l'inverno passò triste per lui, che soffriva assai pel freddo, si sentiva senza appoggio e senza amore, e non godeva buona salute, specialmente al principio de la stagione cattiva. I primi giorni de la primavera gli apportarono forza e letizia e un compiacimento d'amor proprio per l'invito di recitare qualche cosa ne l'accademia dei Felsinei, ov'egli, in presenza del Legato e de la più alta nobiltà bolognese, lesse infatti l' Epistola al Pepoli, che gli diede ne la città fama ancor più diffusa e gli procurò nuove conoscenze. Tra queste va annoverata quella de la contessa Teresa Carniani Malvezzi, una de le donne più colte e più note de la Bologna di quel tempo.
* * *
Da Cipriano Carniani ed Elisabetta Fabbroni era nata a Firenze nel 1785 Teresa, che, bambina ancora, dimostrava, così bella intelligenza da invogliar ad istruirla il suo dotto zio Giovanni Fabbroni. Con lui, volonterosa, ella si diede ad approfondirsi ne la geometria, e con lui avrebbe compiuto più alti studi, se la madre, che voleva abituarla a le cure domestiche, lo avesse permesso. Meglio pel suo avvenire parve il darle solo qualche cognizione superficiale d'inglese e di francese, di musica e di disegno. Non aveva che sedici anni quando il conte Francesco Malvezzi de' Medici, bolognese, s'innamorò di lei, che senz'essere bellissima, era tuttavia graziosa e piacente co' suoi bei capelli biondi, la fronte alta e candida, la figura snella e soprattutto con la sua gentilezza di modi e la sua intelligenza. Lo sposo apparteneva ad un'antichissima famiglia, che aveva avuto feudi importanti ne l'Emilia, in Lombardia e nel Napoletano, famiglia ricordata anche dal Muratori fra le più nobili d'Italia.
Nel novembre del 1802 Teresa col Malvezzi andò a Bologna, dove visse quietamente e lietamente, frequentando la buona società, senza perdervi l'amor de la famiglia: ebbe tre figliuoli e le morirono, due a pena nati, la terza di sei anni; poi, il 10 settembre 1819 le nacque un altro maschio, Giovanni, che al suo cuore affettuoso diede tutte le sante gioie de la maternità. Poco occupata da le cure domestiche, la giovane contessa, trovandosi ad aver libera gran parte de la giornata, benchè volesse essere la prima e premurosissima maestra del suo bambino, pensò di impiegare utilmente e con diletto le ore d'ozio, ritornando a gli studi, che di mal grado aveva lasciati, allettata anche da la magnifica biblioteca, raccolta dal suocero suo, dottissimo bibliografo. Più di tutto l'attraeva la poesia, per la quale aveva avuto fin da bambina un grande trasporto e di cui le impressioni sentiva profonde ne l'anima, commovendosene spesso fino a le lagrime. Con l'amore de gli studi sorse in lei il desiderio di conoscere i letterati di cui sentiva far le lodi, e di molti ottenne ben presto l'amicizia: l'abate Giuseppe Biamonti, professore di eloquenza ne l'Università di Bologna, coltivò l'ingegno di lei, dandole lezioni di filosofia e facendole conoscere i principali classici greci; più che maestro, egli le fu amico affezionatissimo, e nei dotti colloqui gli piaceva di comunicarle le proprie osservazioni intorno a Platone e notare ne le risposte di lei il bell'ingegno e il vivo sentimento ch'ella dimostrava. Partito da Bologna, non solo non la dimenticò mai, ma si compiacque di scriverle lunghe lettere, di parlarle diffusamente de' suoi studi, di ricordare le belle ore passate a lei vicino, in città od in villa, di desiderare d'esserle presso per leggerle le sue cose e vedere nel suo volto quale impressione producessero nell'anima sua bella.[36] La consolava ne le sventure che l'afflissero (nel 1817 essa perdeva una sorella e ne rimaneva dolentissima), parlandole con quella pietà religiosa, che era fervente in ambidue; le inviava anche i propri lavori stampati e gradiva assai le lodi di lei. Come un amico stimato e caro, piuttosto che come una dama, la trattava anche Paolo Costa, che pure le chiedeva i suoi consigli e fidava ne la sua dottrina e nel suo gusto; a proposito de l'opuscolo Della sintesi e dell'analisi, inviandogliene il manoscritto prima di farlo mettere in buona copia, egli la pregava di leggerlo e notare i luoghi che non le fossero sembrati abbastanza chiari, e d'avvisarlo quando egli potesse andar ad ascoltar le sue osservazioni.[37]
La rimbombante armonia del Frugoni abbagliò da prima la donna studiosa, che nei suoi giovanili tentativi si lasciò andare a l'imitazione di quel poeta: imitazione da cui Paolo Costa la ritrasse, insegnandole l'analisi de le idee e facendole gustare i classici italiani. Intanto col Mezzofanti, allora semplice prete, aveva ripreso la lingua inglese, e con Olimpia De Bianchi, dotta signora, amica di Madame de Staël, lo studio de la lingua e de la letteratura francese; da sè stessa si occupava del latino, e col Garattoni si consigliava circa il modo di studiare più efficacemente Cicerone. Con questi letterati frequentarono pure in vari tempi la sua casa lo Strocchi, che le spiegò Orazio e Virgilio, il marchese Angelelli, l'Orioli, l'Azzoguidi, il Testa, Don Apponte, la Tambroni, il Prandi, il Pozzetti, il Butturini, il Perticari, i cardinali Lante e Spina. Amicissimo le fu il Monti, che ebbe per lei molta stima e vivo affetto e che ne le piacevoli conversazioni in casa Malvezzi cantò in un'ottava estemporanea le lodi de la contessa:
Bionda la chioma in vaghe trecce avvolta
Ed alta fronte ov'è l'ingegno espresso;
Vivace sguardo, che ha Modestia accolta.
Non in tutto nemica al viril sesso;
Bocca soave in che d'Arno s'ascolta
Lo bello stile, ond'ha fama il Permesso;
Agil persona, dolci modi e vezzi,
I pregi son della gentil Malvezzi.
Per lei componeva anche alcune sciarade e trascriveva di propria mano alcuni versi («Il mio Requiem Æternam all'anno '13»).
La gentile accoglienza che questi dotti ricevevano da la contessa, la sua grazia nobilmente affabile e dignitosa era da loro, anche lontani, ricordata a lungo: il Monti da Milano le scriveva due volte (10 novembre e 13 novembre 1813); molto la pregiava anche il Pindemonte, il quale a proposito di lei scrisse una volta ad Antonio Papadopoli: «La signora Malvezzi è per verità donna rara ed io sempre più imparo a stimarla.»
Queste dotte amicizie l'animavano ne gli studi, ch'ella coltivava sempre con più profondo interesse ne la sua vita piuttosto ritirata, ma non tanto che non le desse esperienza de gli uomini e de le cose: frutto di tali studi furono i volgarizzamenti de la Repubblica (Bologna, Marsigli, 1827, in 16º di pagg. VIII -164), de la Natura degli Dei (Bologna, Masi, 1828, in 16º di pagg. XII -170; Milano, Silvestri, 1836), de la Divinazione e del fato (Bologna, Dall'Olmo, 1830, in 16º di pagg. XVI -180), del Supremo de' beni e de' mali (Bologna, Sassi alla Volpe, 1835, in 16º di pagg. 240) e del Lucullo, ossia del secondo de' primi due libri accademici di Cicerone (Bologna, Volpe al Sasso, 1836, in 16º di pagg. 105).
Questi volgarizzamenti, fatti con molta diligenza e dettati in quello stile elegante e sostenuto che loro si conveniva, piacquero ai dotti e furono accolti benevolmente dal pubblico, che ammirò la severità de la coltura ne la nobile signora. Urbano Lampredi scriveva da Napoli a Teresa Malvezzi: «Mi dispiace molto che non se le si sia presentato l'occasione di farmi avere la sua versione della Repubblica di Cicerone. Ne parlammo nello scorso agosto a Sorrento col celebre scopritore mons. Mai; anzi fu egli stesso che me ne diede la notizia, commendando molto questo di Lei nobile lavoro.» E Giuseppe Mezzofanti giudicava così il volgarizzamento del Supremo dei beni e dei mali (lett. 4 dic. 1835):
«Più volte, insino da miei teneri anni, lessi nell'aureo sermone del Lazio i Libri, ne' quali Marco Tullio ricerca il Supremo dei beni e dei mali. Con diletto nuovo li rileggo ora, da Lei, Sig.ª Contessa, volgarizzati. Pare che Cicerone stesso, fatto toscano, in riva all'Arno disputi di filosofia, e con le grazie di nostra lingua adorni i suoi ragionari. Io seco Lei mi congratulo, e godo meco medesimo ripensando all'onore ch'Ella mi fece, allorchè volle un tempo che io Le fossi osservatore de' felici suoi progressi ne lo studio degl'idiomi.»
Da l'inglese la Malvezzi tradusse in versi sciolti il Riccio rapito del Pope (Bologna, Nobili, 1822) ed il Messia, egloga del Pope medesimo (Bologna, Nobili, 1827), e di questo volgarizzamento è notabile che fece una diffusa recensione Salvatore Betti nel Giornale Arcadico, settembre 1827. Fra i lavori de la contessa sono inoltre degni di considerazione i seguenti: Alla Maestà di Carlo IV Imperatore esortazione di Francesco Petrarca per la pace d'Italia, volgarizzata da T. C. M. (Firenze, per il Magheri, 1827); Firenze tornata al Granducal Governo l'anno 1815 (Bologna, Tipi Governativi alla Volpe, 1854), 31 ottave senza nome d'autore. L'esemplare che si trova ne l'Archivio Malvezzi de' Medici ha correzioni di mano de la contessa Teresa.
Molto si dilettò nel dettare poesie originali, pur riconoscendo modestamente ch'esse non erano gran cosa, tanto che di propria mano, sopra un fascicoletto in cui le aveva raccolte, scriveva: «Questo è il saggio de' miei primi e de' miei ultimi versi e dirò quasi tutti improvvisati. Il cielo mi perdoni.» Queste sue poesiole, se non hanno la vera e grande inspirazione poetica, il soffio divino che crea, l'ardore che infiamma le anime, rivelano insieme a una coltura non comune, specialmente in donna, un'indole dolce e malinconica, tenera ne gli affetti, profonda ne le impressioni de la natura e del bello. Spesso nei sonetti la Malvezzi imita il Petrarca ch'ella prediligeva fra i poeti nostri e di cui scrisse:
No, che alla mesta e dolce melodia,
Onde 'l Cigno di Sorga la beltate
Canta, e 'l valor di Lei, che in le beate
Sedi levò sua somma leggiadria,
Un cuor di tigre o d'orso non potria
Frenare il pianto, e non sentir pietate;
e ne l'ammirazione di lui sentiva un modesto scoramento a tentare la difficile via del sacro monte. Talvolta la sua mestizia giunge a la tristezza; al zeffiretto che le si aggira intorno mentr'ella è lontana da l'amato dice:
Tu testimon de' miei dogliosi accenti,
Digli come nel duol morta ho ragione,
Di quale acuto stral trafitto ho il core.
E digli come a' miei giorni dolenti
Speme nessuna mai limite pone,
Sin che propizio a me nol guida amore.
E poco diversamente, ma con malinconia molto più nera, cantava altra volta:
. . . . . . . . . . . . . io non saprei
Tant'eloquenza aver quanti ho martiri.
E ripetendo questi mesti accenti,
Deh non tacer che'l duol morta ha ragione,
E qual pungente stral m'ha fitto in core.
E poi di' come a' miei giorni dolenti
Speme nessuna mai termine pone,
Se non sia morte a por fine al dolore.
A le anime beate, che si levarono al soggiorno del cielo e che rifulgono al vero sole intorno, dove non può turbarle mai tenebra alcuna, chiede perchè la morte, alfine pietosa, non liberi la sua misera anima, sì ch'ella pure goda il cielo presso a loro, e sospira:
Posa quindi sperar forse l'oppresso
Mio cor potria, chè qui null'altra calma
Porta conforto a mia vita affannosa.
Al Monti, che le chiedeva quale fosse il fiore ch'ella desiderava dedicato a lei nel giardino de la Feroniade, rispondeva preferendo il giglio soletto ed umile tra le selve, vago tra le siepi incolte, immagine di quella virtù, che può tanto in un cuore gentile. Tra le sue liriche hanno pure pregio un'anacreontica al conte Prospero Ranuzzi suo zio, patrizio benefico e colto, e alcuni versi In morte di Vincenzo Monti.
La principale sua opera poetica è il poemetto La cacciata del tiranno Gualtieri accaduta in Firenze l'anno 1343: di cui i primi tre canti furono pubblicati a Firenze dal Magheri nel 1827 (in opuscolo in 16º di pagg. 73). Nel 1832 esso uscì compiuto a Bologna da la tipografia Nobili (in 16º di pagg. 175).
L'argomento è ricavato da la cronaca di Giovanni Villani e da la storia di Bologna del Ghirardacci; le descrizioni di luoghi e di paesaggi da la Montagna bolognese del Calindri. Nella prefazione la contessa scrive:
«Da lungo tempo bramosa di dare al meglio che per me si potesse un testimonio di filiale alletto alla dolce mia patria, considerai che la cacciata del tiranno Gualtieri, azione per sè medesima tanto meravigliosa e che apre largo campo a tutti e sì vari affetti, poteva, raccogliendosene tutti i particolari, essere materia a un poemetto.»
Capo de la congiura è immaginato un giovane di ventitrè anni, Averardo di Chiarissimo, avo di Cosimo de' Medici, e per intrecciare la favola l'A. trae partito de la nota amicizia fra Taddeo Pepoli, signore di Bologna, e il tiranno Gualtieri. La materia divisa in nove canti fu trattata in versi sciolti, in vero non sempre armoniosi, ma correttissimi ed eleganti.
Il meraviglioso è derivato dal Cristianesimo, e de le figure mitologiche bandite, tengon luogo le personificazioni di vizi, virtù e sentimenti, le apparizioni d'angeli, l'intervento celeste e quello infernale. Ne la protasi s'invoca la Virtù, che sublima agli eterni secreti le anime e che si sta in cielo veracemente diva. La poetessa narra poi de le crudeltà di Gualtieri, a la cupa figura del quale oppone quella celestialmente luminosa di Angelo degli Acciaioli, arcivescovo di Firenze, implorante da Dio pace su la città oppressa; al santo vecchio una visione scopre vicina, per opera di Averardo, la libertà sognata, fa intravedere i grandi che verranno da la stirpe medicea, e persuade il tentativo d'andar a rimproverare e consigliare il duca, che gli risponde superbamente e non trema punto a le profetiche minaccie di lui. Tornato al tempio, il sacerdote vi trova Averardo, che fuor di sè per lo sdegno e il dolore, lamenta l'uccisione di Naddo Oricellai e la tirannia di Gualtieri, del quale tante vittime invocano vendetta. L'Acciaioli manda l'ardente giovane da Taddeo Pepoli per esporgli l'infelice condizione di Firenze e commuoverlo così da toglierlo a l'amicizia del duca e ottenerne aiuto di armi e di uomini. Qui finisce il primo canto.
Satana, già roso dal dispetto pel preveduto trionfo de' Medici, s'infiamma di collera, quando giunge la Discordia ad annunciargli che in Toscana ogni gente si ribella a l'inferno e a Gualtieri, animata dal santo zelo che ha diffuso ne le anime un messaggero celeste. E qui segue un concilio infernale, imitato da la Gerusalemme del Tasso; vi grandeggia la figura di Satana colorita di tinte virgiliane, figura che, come il Mauro Atlante su gli altri monti, si estolle alteramente con le spalle e col capo su gli altri spiriti infernali: gli occhi ha torti e rossi come bragia, la lunga barba affumicata e mista di pel rosso come i capelli, che incolti e rabbuffati gl'ingombrano gote, spalle e petto.
Bélial vanta le glorie de l'inferno in terra, ma Satana non ne è pago, poichè teme de la filosofia divina, di cui la luce va diffondendosi nel mondo, dove è già nato in Amalfi Flavio Gioia, che inventerà la bussola, e sono non lungi la scoperta de l'America e l'invenzione de la stampa. Minacciando a l'Italia sorgono nel concilio infernale l' Ipocrisia, l' Invidia, il Tradimento e la Simulazione; e Satana impone che tutto il suo regno si adoperi in favore di Gualtieri. La maligna Fama s'abbatte a Firenze in Morozzo, amico del duca, e lo manda a rivelare la congiura al tiranno, il quale lieto e fidente, perchè Averardo volontariamente si allontana da la città,
Inganno e frode in quel parlar travede,
e fa uccidere il delatore, che, spirando, maledice a lui ed a la fedeltà serbatagli. Qui termina il secondo canto.
Averardo con l'amico Adimari e lo scudiero si è avviato verso Bologna: passa da Cafaggiolo, che doveva più tardi accogliere Leone X bambino; da Fiorenzuola, edificata da la repubblica fiorentina per frenare le ribellioni degli Ubaldini; da Campeggio, patria di Ugolino da Campeggio, famoso capitano di Pisa; da Loiano, dove un dì soggiornò la contessa Matilde:
. . . . quella scaltra indomita guerriera,
Che del German lo insuperbito impero
Ardita scosse, e fe' crollarne il trono.
Nella selva de' Burelli trova seduto sopra un margine verdeggiante e fiorito un uomo pensoso, che sta scrivendo:
Da Certaldo ad onorar Fiorenza
Scese già pargoletto e il gentil core
Accese allo splendor de' bei costumi
E della leggiadrissima vaghezza
Di valorose donne.
È il Boccaccio, che saputo lo scopo di Averardo, si accompagna a lui e lo conduce innanzi al Pepoli, cui il giovine messo narra le crudeltà di Gualtieri e il proposito dei Fiorentini di riacquistare a qualunque costo la libertà. Il signore di Bologna risponde gentilmente che amerebbe dare aiuto alla città amica, ma che prima vuol ponderare quale sia l'avviso migliore e, invitati intanto gli ospiti a le nozze di suo figlio, li conduce ne la sala dove stanno apparecchiate le mense. Sopravviene Francesco Petrarca insieme a Giotto:
. . . . . . . . . . dipintor sublime
Che a Cimabue tolse dell'arte il grido;
il primo reduce dal trionfo di Roma, trattenuto a Bologna dal Pepoli per rendere le nozze più regali e conte; il secondo, andato a dipingere il palazzo de gli sposi. Messer Francesco accompagna Averardo e il Boccaccio ad ammirare le pitture di Giotto, li seguono i principali patrizi bolognesi, fra cui Bittin de gli Angelelli:
. . . . . . . . . . e grave in vista,
Seco venia quel nobil de' Malvezzi,
Giulian, de l'arme e della patria onore.
E qui finisce il canto terzo.
Satana veduta venirne a l'inferno l'anima di Morozzo, monta in furore e minaccia tutti gli spiriti dannati: il Tradimento, prendendo aspetto di Francesco Brunelleschi, annuncia al Buondelmonte i tentativi di Averardo, e quegli, riuniti gli amici, corre con loro al palazzo ducale e rivela il pericolo a Gualtieri, che, sgomento, si ode consigliare da l'uno il richiamo in patria de le famiglie offese e la clemenza, da gli altri la crudeltà, l'uccisione del Medici, il tradimento. Il duca risolve di tentare a vicenda le arti e la violenza: a Guglielmo affida la vigilanza de la città; manda Buondelmonte a Bologna, Cerrettieri a levare armi ed armati; ritiene Baglioni presso di sè. Il Pepoli intanto festeggia solennemente le nozze del figlio, descritte da la Malvezzi con bella efficacia pittorica; a rallegrare tali nozze venne da Avignone la Corte d'amore, presieduta da Fannetta da Romanino: Amore è così invocato:
Salve stella d'Amor, salve o Fanciullo,
Salvete, o Grazie, cui sfavilla Amore!
Per voi riprende vita e prende forma,
Per voi risplende di letizia vera
Tutto che il mondo ingenera e governa.
Perdon le belve la natía ferocia,
L'uom gentilezza acquista e s'avvalora,
. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Almo fuoco d'Amor, per te bellezza
Sfavilla e irradia delle grazie il riso!
Qui giovani e donzelle ergete i canti,
Qui date a piene man ligustri e rose,
Che doni son d'Amor grazia e beltate.
Levate le mense, s'intuonano i canti, ed il Petrarca, sorgendo a un tratto dal suo scanno d'oro, prorompe ne la canzone:
Italia mia, benchè il parlar sia indarno.
Qui finisce il canto quarto.
Gualfredo Tedesco (il Guarnieri de la storia), sceso in Italia con molte milizie, riceve da Cerrettieri gli ordini del duca. Buondelmonte a Felsina si tien da prima celato e con dodici ribaldi assale di notte Averardo, che intrepido difendendosi li fuga. Fallito questo colpo, il traditore tenta la calunnia e incita contro il Medici due valorosi cavalieri, venuti da lungi per giostrare e sempre vinti da l'eroe toscano ch'essi corrono a sfidare su la piazza, dando origine a un tumulto, tosto sedato dal Pepoli. Averardo, che s'è innamorato di Fannetta da Romanino, sentendo ch'essa s'appresta a tornare in Francia, va a salutarla, le rivela il suo amore, ne ottiene dolci parole e incitamento a difender la patria. Cessate le feste, Buondelmonte s'annuncia al Pepoli come ambasciatore del duca, e quegli, benchè spaventato da un sogno infernale, non perde la calma, convoca il Consiglio, dinanzi al quale ode la richiesta che si uccida o si consegni Averardo; di che sdegnato, caccia l'ambasciatore, ma in segno del suo desiderio di pace decreta che il Medici debba partire del pari. Qui finisce il canto quinto; ma segretamente gli offre duecento cavalieri, che faran sembiante di seguirlo per proprio volere e che durante il viaggio sono atterriti da lo spettro di Adolfo de' Panici, annunziante orrende vendette. Buondelmonte rapidissimo va da Gualfredo, che ha ricevuto una forte somma dai Bolognesi per lasciarli in pace, e lo persuade a mandare un capitano con mille barbute contro Averardo e i suoi. Ne lo scontro una fiamma celeste, che lambe gli elmi ai seguaci de l'eroe e va a cadere sui masnadieri, anima il prode toscano, il quale, ucciso il condottiero nemico, ne pone le schiere in fuga; ma, mentre con le poche forze che gli restano vuol ridursi in salvo, sopraggiunge, avvertito de la disfatta dei suoi, Gualfredo, che con un colpo de la sua asta ferisce il cavallo del Medici, da la bestia inalberata precipitato in un fiume. A tal vista l'Adimari già ferito cade a terra privo di sensi e i Tedeschi si allontanano: Averardo semivivo è portato da un'onda su di un dirupo, e qui finisce il canto sesto.
Un miracoloso arco di luce gl'illumina la via e gli permette di trascinarsi fin poco lungi da un convento, dove è raccolto e curato. Buondelmonte, credendolo morto, ne reca la notizia a Firenze, causa al popolo di pianto, di gioia al tiranno, che si abbandona a le vendette e, sicuro ormai, licenzia le armi assoldate.
L'eroe convalescente ha una visione in cui Dante gli fa ammirare una fantastica allegoria del creato, gli predice la sua missione di liberar la patria, lo conduce dinanzi a una splendidissima apparizione de la Sapienza e qui finisce il canto settimo.
Partito da l'Eremo, Averardo, come gli fu predetto, trova nel bosco un'armatura d'oro, che fu di Cosimo il Pio, ed è salutato da una pastorella, che si muta in fulgente immagine de la Vittoria e dispare.
L'eroe vede in una capanna l'amico Betton de' Cini, stato orribilmente martoriato da Gualtieri e moribondo presso la figlia, che, fatto il triste racconto de le loro sventure, spira uccisa dal dolore; il Cini, porgendo un'asta, impone la vendetta a l'amico, il quale manda un pastorello con una sua ben nota armilla a l'arcivescovo, perchè a quel segno lo sappia vivo. Ma il messo è preso e posto anch'egli in fin di vita dai tormenti del tiranno, furibondo nel sapere il Medici a le porte. Un operaio ne l'accomodare l'orologio de la torre, ove il pastore è stato gittato agonizzante, ode il secreto del sopraggiungere di Averardo e ne sparge la novella ne la città, che si leva a tumulto, commossa soprattutto da la voce de l'Adimari, il quale poi, per stornare dal popolo l'ira del duca, si dà prigioniero a questo. E qui finisce il canto ottavo.
Mentre Satana, giunto in soccorso di Gualtieri, è ricacciato ne l'inferno da san Giovanni Battista, sopravviene il Medici; tutta Firenze è in armi, dovunque si combatte, ed il popolo trionfa, costringendo infine il duca, lungamente assediato nel suo palazzo, ad arrendersi e cacciandolo da la Toscana, tornata in libertà.
Una de le scene più belle e che ci danno più chiara idea de la dignità e de la dolcezza con cui la Malvezzi sentiva l'amore, è quella in cui Averardo va a salutare Fannetta; la trova, mentre sta ornandosi del velo il quale cade ondeggiando su l'aurea vesta trapunta e sparsa di fiori,
. . . . . . . . Allor che il vide
Con pudico elevar d'onesto ciglio
Sfolgoreggiò d'un candido sorriso.
L'ode dichiararle il suo amore e il proposito di seguirla:
La delicata bianca man gli porse,
E di pietà dipinta, in atto umile
Gli occhi in sè per vergogna raccogliendo,
Sospirò, poi rispose: Mai diviso,
Pur mai questo mio cor da te non fia;
Ma tempra la tua fiamma ora, e m'ascolta.
Più non rimembri 'l tuo fiorito nido,
Che fatto preda di spietate genti,
Sotto il tuo schermo securtà sol spera?
Più non ascolti il popolo infelice
Con qual doglioso e disperato pianto
T'infiamma all'armi? Deh! ragion ti vinca,
Nè faccia passïon troppo possente
Che mia fama si leda e il mio bel grido.
Ah poichè dentro al generoso core
La mia sembianza consacrar degnasti,
Amico porgi a mia virtù conforto,
E non tentar la femminil fralezza.
Dietro l'orme d'Amor segui la gloria,
Amor ti guidi, Amor ti porga aita,
Sicchè tua fama segni eterna stampa,
E, fatto di virtute a' prodi esempio,
Il ciel di Romanin meco t'attende.
Mentr'ella parla e Averardo le bacia la mano, un lume fulgente risplende ne' suoi occhi, una tremula fiammella le lambe la fronte e i biondi capelli:
. . . . . . . . a tanta meraviglia
Stupido quasi rimirolla fiso.
Ed ella il salutò divina in vista,
E con occhi di pianto e di pietate,
In atto d'amorosa grazia adorno,
Dal luogo ov'era, con real contegno
Rimossa, dipartissi.
Quest'episodio mi pare pregevolissimo per finezza poetica e per delicatezza d'affetti. Tutto il poemetto rivela una profonda venerazione pei grandi poeti, un sincero e non timido amor di patria; è bene architettato, condotto secondo l'imitazione dei modelli classici di cui vi si trovano numerosissime reminiscenze, ricco pure di belle trovate, come quelle che introducono a popolarne la scena le grandi figure storiche del Petrarca, del Boccaccio, di Giotto; soverchia parte vi si dà forse al soprannaturale di carattere biblico, che non bene si accorda con l'epoca storica; anche l'amore di Averardo, quantunque dia origine ad uno dei migliori episodi, non è forse conveniente a l'efficacia de l'insieme. Altro ancora si potrebbe osservare, ma bisognerebbe pur sempre convenire che il poemetto è opera d'ingegno e di cuore tutt'altro che volgare. A la studiosa contessa non si lesinarono lodi ed onori: nel 1822 le venne offerto il diploma de l'Accademia Felsinea, nel 1823 quello de l'Accademia degli Enteleti in San Miniato di Toscana; nel 1824 quello d'Arcadia, nel 1826 quello de l'Accademia Tiberina, nel 1827 quello de l'Accademia latina, nel 1828 quello de l'Accademia dei Filergiti di Forlì. Lo Stella nel 1829 le chiedeva il suo ritratto, l'elenco de' suoi scritti pubblicati e qualche cenno su quelli cui attendeva, per la collezione da lui intrapresa dei Ritratti delle donne europee viventi chiare nelle scienze, nelle lettere, nelle arti belle, collezione di cui la parte letteraria doveva venir affidata ad ottimi scrittori ed i ritratti essere eseguiti da Camilla Guiscardi. (Nell'archivio Malvezzi si conservano le tre lettere 20 marzo, 10 aprile, 9 maggio scritte a questo proposito da Luigi Stella a la contessa.) Questi onori lasciarono la Malvezzi semplice e modesta, e di essi ella diceva: «Gli onori piacciono, è vero, a tutti; ma a chi guarda un po' a dentro, piace più assai il meritarli che non l'ottenerli; come piace assai più l'essere che il parere.»[38]
La contessa Teresa amava vivamente il marito e il figliuolo; e quantunque coltivasse gli studi con molto piacere e trovasse un vivo compiacimento ne le dotte conversazioni, serbava la miglior parte di sè a la famiglia: sincera ne la fede religiosa, era di un'austera severità di costumi e, veramente donna ne la tenerezza e ne le abitudini, insieme ai libri amava i lavori femminili, orgogliosa di mostrarsi in quelli assai valente. La sua austerità non escludeva però quella femminile indulgenza, che è forse la miglior prova de la virtù sincera, scevra di ostentazione e d'orgoglio; tale invero doveva conoscerla Paolo Costa, suo intimo, se le scriveva: «..... La nostra Guiccioli ha saputo ieri la nuova funesta della morte del poeta Byron. Ella si duole di questa cosa, ma con dignità. Se Madonna Laura, che amò un canonico, trovò pietà ne' posteri, spero che questa, cui oggi non si perdona d'aver amato un luterano e filosofo, andrà almeno non vituperata, non derisa nel tempo avvenire. Noi certo non ci vergogneremo di compiangerla anche al dì d'oggi.»
* * *
La Malvezzi aveva circa trentanove anni quando conobbe il Leopardi, allora ventisettenne; se le mancava ormai la freschezza de la gioventù, era sempre bella per l'espressione intelligente de la fronte candida sotto i biondi capelli, per lo sguardo vivace ed aperto e soprattutto piacente, per la graziosa eleganza del portamento e dei modi, per lo spirito e le attrattive de la conversazione, ch'ella sapeva sostenere con amabilità femminile, anche sopra argomenti seri. Ne la sua maturità dignitosa, ella trovava quella calma dolcezza che non ha la gioventù; si teneva libera di ricercare le conversazioni più gradite, le più intime amicizie anche con uomini, e, naturalmente franca, aveva ne le parole e nel fare qualche cosa di sincero e di spigliato che la faceva riuscire amabile quant'altra mai. Avrebbe potuto dire, come argutamente Madame de Sévigné: «Jeunesse et printemps ce n'est que vert, et toujours vert; mais nous, les gens de l'automne, nous sommes de toutes les couleurs.» Nel suo salotto ella esercitava una specie di sovranità gentile; incoraggiato dal suo sorriso, tutto grazia, tutto anima, il Leopardi, riservatissimo, ritrovava un mite coraggio, una franca parola, e la conversazione diveniva profonda senza pedanteria nè ostentazione: egli vi portava la luce del suo intelletto, ella la dolcezza del suo cuore di donna; spesso in uno sguardo s'intendevano senza parlare. Ella doveva riuscir simpaticissima al Leopardi tanto sdegnoso e tanto annoiato de le Recanatesi, che avevano poco più, o piuttosto un poco meno di quel che portavano nascendo da la natura; e a proposito de le quali egli diceva che a Recanati le Grazie non erano state mai nè pure di sfuggita a l'osteria; doveva apparirgli cara e interessante la sua conversazione, specialmente a confronto di quella cui era abituato ne la società del suo paese, società che per buona lingua non intendeva che qualche brava lingua di porco, società di devoti amanti di libri da far stomaco, dov'era un letteratone quel tale che toscaneggiava solo con l' e', cui immancabilmente il mi pare faceva da lacchè, e che, sentendo qualificare il proprio stile di squisito, rispondeva con modestia che lo stile del cinquecento è un bello stile.
Quanto diversa la Malvezzi, che veniva giudicata ed era in realtà una de le più colte donne del suo tempo! Salvatore Betti (10 dicembre 1835) le scriveva così:
«Se alcuno mi chiedesse: Qual è la donna che nel secol presente rendesi più benemerita de' gravi studi dei classici? Io risponderei subito: La contessa Malvezzi. E veramente non vedo chi altra poterle paragonare: chè là dove nelle eleganze ci ritrae tutto l'oro che fece bello il trecento ed il cinquecento, nella profondità della dottrina ci fa rivivere quella divina Cassandra Fedele, che decus Italiæ fu salutata dal Poliziano. Di che pensi ella se mi congratuli con questa comune patria: la quale avendo più che mai bisogno di esempi splendidissimi di vero senno italiano, può mirabilmente specchiarsi in questo gran lume del gentil sesso. Ma venendo alla novella opera che ha voluto tradurre di Cicerone, a quella cioè De finibus, le dirò che la vo leggendo con infinito diletto..... Oh la degna, oh la saggia, oh la critica traduzione di che ella ha regalato le nostre lettere! Per non parlar qui della chiarezza ed eleganza dello stile, e della tulliana pienezza e dignità del periodo: perchè queste son doti che tutti trovano sempre ne' magistrali scritti della contessa Malvezzi.»
La contessa, che amava la compagnia de gli uomini d'ingegno, fu lieta di conoscere il giovane recanatese, di cui la fama, benchè non certo allora ancor adeguata al merito, narrava grandi cose: il fare dignitoso e modesto, l'aspetto malaticcio e sofferente, la malinconia di lui, dovettero commuoverla di una pietà quasi materna, resa più intensa da l'ammirazione per quel grande intelletto. Perciò ella lo accolse con un'affabilità affettuosa e reverente, con un'effusione che aperse a sincera gioia l'animo de l'infelice, avido d'affetto, cui ella apparve come una donna diversa da tutte le altre, come un'amica tenera ed alta, di cui la mano candida gli offrisse ne la stretta affettuosa un conforto ed un sostegno; diversa da tutte le altre, pure richiamante al suo pensiero le più dilette immagini femminili che avevano allietata la sua giovanezza: modesta e pura come Silvia e Nerina, graziosa ed arguta come la Cassi, gl'inspirava la reverente tenerezza che aveva provato per quelle e l'ammirazione ardente e devota che a lui, ragazzo ancora, sparuto, deforme, ammalato, aveva fatto apparir questa come una divinità. Di più, vicino a la Malvezzi non gli taceva ne l'animo, come presso a le altre, l'amore a la fama, nè i libri cessavano di attrarlo: anzi ella colta, capace d'intenderlo e così calda ammiratrice dei grandi, lo animava più che mai a gli studi e a la gloria. Quando la conobbe era il maggio odoroso, era la primavera che ogni anno risvegliava in lui la vita intima, spesso sopita in un doloroso letargo, la soave primavera che gli rammentava gli occhi ridenti e fuggitivi, il viso bianco e i neri capelli di un'altra Teresa, la Fattorini; se il canto ingenuo di questa lo aveva commosso, l'arguta parola de la Malvezzi lo inebbriava. L'abbandono con cui ella gli apriva il suo cuore, confidandogli i suoi secreti, l'affetto con cui voleva saper tutto di lui, l'aperta franchezza con cui lo rimproverava talora e la ingenua modestia con cui ne accettava rimproveri e consigli, gli parvero qualche cosa di veramente degno de l'anima sua e lo fecero vivere nei primi giorni che la conobbe in una specie di delirio e di febbre, chè gli parve d'aver trovata la donna che non si trova, quella cara beltà cercata invano, dove splende più vago il riso di natura e sognata nel secolo, che da l'oro ha nome, fra gli spiriti o ne l'avvenire; la donna capace di rendere beato il vivere anche fra l'immenso dolore de gli umani, capace d'incitare a la lode e a la virtù. Pieno d'entusiasmo, ridesto a le splendide illusioni de la sua prima giovanezza, egli scriveva allora al fratello Carlo: «... questa conoscenza forma e formerà un'epoca ben marcata della mia vita, perchè mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili, e che io sono ancor capace d'illusioni stabili, malgrado la cognizione e l'assuefazione contraria così radicata, ed ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno, anzi una morte completa, durata per tanti anni.»[39] Quasi un commento a queste parole appaiono quelle (benchè scritte parecchio prima e già pubblicate nel 1826) del dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, in cui il Leopardi, dopo aver notato come l'uso del mondo e i patimenti sopiscano in ciascuno di noi quel primo uomo ch'egli era, il quale però si ridesta talora, in ispecie nella gioventù, finisce col dire: «Infine io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza da rinnovarmi per così dire l'anima e farmi dimenticare tante calamità.»[40]
Con intima gioia egli sentiva di venir ricuperando quella sua potenza di amare, che gli aveva illuminato di così viva e ardente luce la prima giovanezza e ch'egli aveva sempre creduto il più prezioso di tutti i doni, sol che si trovasse nel mondo un oggetto che ne fosse degno; la compagnia de la contessa gli dava quei momenti di rapimento e d'emozione profonda, che per lui valevano ben più di tutte le gioie volgari: era un amore senza inquietudini, una felicità senza rimorsi. Come il suo cuore, quest'amicizia soddisfaceva il nobile orgoglio del suo grande spirito, che sdegnoso de le lodi volgari si sentiva felice de l'altissima stima di quella donna: «Le lodi degli altri non hanno per me nessuna sostanza: le sue mi si convertono tutte in sangue e mi restano tutte nell'anima.»[41] Ne' suoi pensieri egli notava come a lungo andare non rimanga piacevole se non la compagnia di quelle persone da cui ci importi o ci piaccia essere stimati sempre più, e come perciò le donne, volendosi rendere lungamente gradite, dovrebbero studiarsi d'esser tali che de la loro stima rimanesse lungamente vivo il desiderio.
La malinconia de la contessa, malinconia dolce e serena, gli pareva indizio di un'anima elevata, e consuonava col dolore di lui, pur ravvivando il suo spirito e dissipandone le tetre nebbie; così che a la sua tristezza ostinata, nera, orrenda, barbara, succedeva come un'alba soave; a l'orrore di una notte tempestosa, quella malinconia che partorisce le belle cose, più dolce de l'allegria; infinito sollievo gli dava il non doversi più serbare tutti i pensieri per sè; infinita dolcezza il vedere altamente apprezzato ancor più del suo ingegno poderoso, il suo cuore, del quale ardiva dire egli stesso, che poche cose eran degne; e benchè egli si mettesse col pensiero più in su de la gloria e de gli uomini e di tutto il mondo, l'approvazione de l'amica gli tornava così soave che certo per lei sola, come già pel Giordani, quand'anche non ci fosse stato altro spettatore, nè altro premio de la virtù, egli avrebbe voluto esser virtuoso. L'affetto di lei lo animava e lo riscaldava così ch'egli, tanto ritenuto per natura e per abitudine, tanto propenso a la taciturnità, lasciava sgorgare dal suo cuore tutti i sentimenti così a lungo compressi, e a poco a poco, smesse le forme de l'ossequio e le restrizioni de la timidezza, palesava intiera l'anima sua, scopriva quel tesoro di grandi idee, che aveva raccolto nei libri e ne l'osservazione. Il suo immenso desiderio di ritrovare un uomo di cuore, d'ingegno e di dottrina che si degnasse essergli amico, era stato soddisfatto dal Giordani; ma questa nuova amicizia con una donna intelligente, coltissima e gentile, tutta grazia e spirito, aveva un'attrattiva diversa e potentissima su di lui. La Malvezzi, intimamente onesta e abituata ad una pura intimità con altri letterati, probabilmente non pensò nè pure di poter risvegliare una passione nel cuore del poeta: tutto, del resto, doveva rassicurarla: l'età sua, molto maggiore di quella di lui, il contegno riservatissimo ch'egli soleva tenere, la purezza assoluta dei costumi di lui, la nobiltà de l'animo rivelantesi in tutte le sue parole ed i suoi scritti, e la propria intatta fama, che le procurava la riverente stima di tutti; sì ch'ella non nascose punto l'affetto ch'egli aveva risvegliato in lei, e di cui aveva coscienza di non dover arrossire; e, vedendo quanto conforto egli traesse da la sua compagnia, lo accolse con piena libertà ne la propria casa. Ogni sera a l'ave maria egli si recava da lei e vi rimaneva fin dopo la mezzanotte, conversando di lettere e di filosofia, leggendole i suoi versi, dandole probabilmente quegli stessi consigli che in quei giorni dava a la Caterina Franceschi Ferrucci per mezzo del Puccinotti: «Confortala caldamente, non dico a lasciare i versi, ma a coltivare assai la prosa e la filosofia. Questo è quello che io mi sforzo di predicare in questa benedetta Bologna.»[42] Probabilmente anche a la Malvezzi ripeteva non esser poetico il secolo e che un poeta, anche sommo, avrebbe levato pochissimo grido, e se pur fosse diventato famoso nella sua nazione, a gran pena sarebbe stato noto al resto dell'Europa, «perchè la perfetta poesia non è possibile a trasportarsi nelle lingue straniere e perchè l'Europa vuol cose più sode e più vere che la poesia.»
Anche a lei, notava, a lei che in parecchie poesie aveva espressi vivi sentimenti d'amor patrio, come andando dietro ai versi e a le frivolezze si facesse espresso servizio ai tiranni, riducendo a un giuoco o a un passatempo le lettere, sola speranza di rigenerazione che rimanesse a l'Italia. Tanto più appar probabile ch'egli le desse questi consigli, se si considera che ne le prose di lei egli ammirava la sobrietà, il buon giudizio, la purità de la lingua e de lo stile; mentre pei versi non ebbe che parole di compatimento; gli è ben vero che quelle lodi eran fatte nel periodo de la loro calda amicizia, mentre il giudizio sui versi, e precisamente sul poemetto, fu dato dopo avvenuta la rottura fra loro.
Il Leopardi leggeva spesso a Teresa i propri versi, ed ella ne era commossa così da piangere di cuore, senz'affettazione, e oh quanto quella commozione doveva piacere a lui, che così ben poteva comprenderla! Quando col fiorire de la sua giovanezza da le spoglie de l'erudito venne uscendo in lui il poeta, egli, leggendo Virgilio, senza avvedersene si lasciava andare a recitarlo ad alta voce, infiammandosene tutto e commuovendosene fino a le lagrime; e se a l'improvviso sentiva recitare da qualcuno un verso del mite Mantovano o di Dante austero, il suo cuore prendeva a palpitare e il suo spirito, quasi a forza, teneva dietro a quella poesia. Che cosa doveva provare, notando che i versi suoi producevano quelle stesse emozioni ne l'anima de la graziosissima Malvezzi? Il Mestica, credendo inverosimile che da la meravigliosa illusione di quest'amicizia, il Leopardi non traesse qualche nuova inspirazione, suppone che la contessa piangesse specialmente a la lettura del Consalvo, in cui crede di veder consacrato l'amore del poeta per lei, raffigurata ne la pietosa Elvira, che accorda un bacio a l'amante moribondo.[43]
Il Recanatese s'interessava ai lavori de la Malvezzi, lesse il manoscritto del poemetto La cacciata del tiranno Gualtieri, chiese a lo Stella (lettera, 3 settembre 1826) se fosse stata mandata a lui, che stava pubblicando un'edizione de le opere di Cicerone, la traduzione del Sogno di Scipione fatta da la dama bolognese, traduzione di cui il manoscritto le era stato rubato da un amico e mandato a stampare, non si sapeva dove. Giacomo le procurava inoltre dei libri e forse la consigliava ne le sue letture; infatti in una lettera che non porta data precisa, ma dovrebb'essere de gli ultimi giorni d'ottobre del 1826, il Leopardi, restituendo al conte Pepoli il secondo volume di una delle opere filosofiche del Buhle, gli dice che la Malvezzi non l'ha letto, perchè non le parve tempo di continuare una lettura così grave: non si dia quindi pensiero di procurar altri volumi.
D'amore non parlavano mai, se non per ischerzo, ma quell'intimità tenera doveva illudere ben presto il Grande, che a l'amore anelava con tutte le forze de l'anima: appassionatissimo, sotto il suo aspetto riservato fino a sembrar freddo, egli credette una simpatia incline a tenerezza quella ch'era soltanto un'affettuosissima amicizia; mentre la contessa non vedeva in lui che un fratello, un compagno spirituale, egli non tardò a desiderare, poi a cercare un'amante ne l'amica. Simile al Socrate de' suoi Detti memorabili, egli, d'anima gentilissima, infaustamente, per quanto sublimemente, disposto a l'amore, sciagurato ne le forme del corpo, benchè sapesse ormai di non poter essere amato che soltanto d'amicizia, considerava questa come poco atta a soddisfare un cuore delicato e fervido che senta spesso verso gli altri un affetto molto più dolce. Infine qualche cosa dei sentimenti di lui ella dovette indovinare, perchè mentre da prima gli aveva promesso di scrivergli assai di frequente quand'egli fosse a Recanati, dopo la sua partenza non gl'inviò che il volgarizzamento della Repubblica di Cicerone; il Leopardi si lagnava che le molte aspettate lettere, si fossero ridotte ad una soprascritta e, contando di tornar presto a Bologna, sperava poterle dir a voce tutto quel ch'ella avrebbe voluto sapere, e domandarle tutto quello che avrebbe voluto saper lui, conchiudendo con un'affettuosità velata di complimentosa cortesia: «Intanto amatemi, come fate certamente, e credetemi your most faithful friend, or servant, or both, or what you like.»
Che avvenne quand'egli fu ritornato a Bologna ne l'aprile del 1827? Recatosi da la contessa, commosso dal desiderio di rivederla, forse ne l'effusione di quel momento non seppe frenare la dichiarazione del suo amore, illudendosi che quella donna, la quale mostrava un così nobile apprezzamento del suo cuore e del suo ingegno, potesse compatire almeno anche la passione destata in lui. Ella, austera, ne fu offesa doppiamente, e perchè vedeva spezzata così quell'amicizia fraterna, che aveva sognato potesse durar sempre, e perchè quella rivelazione le parve irriverente.
Fu detto e ripetuto da molti che a le focose parole del poeta ella rispondesse, ordinando ad un servo un bicchier d'acqua per lui; il Ridella nega questo fatto, che del resto non appare conforme al carattere de la Malvezzi, dolce e severo insieme, e che avrebbe offeso troppo profondamente il Leopardi, perch'egli potesse desiderare di riveder più tardi la contessa. Certo ella allontanò da sè il Recanatese, che ne sofferse assai, ma finì col riconoscere il proprio torto e forse col rimpiangere quella cara amicizia perduta, se, orgoglioso ed altero com'egli era, le scrisse: «Contessa mia, l'ultima volta che ebbi il piacere di vedervi voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite. Non crediate ch'io mi chiami offeso; se volessi dolermi di qualche cosa, mi dorrei che i vostri atti e le vostre parole, benchè chiare abbastanza, non fossero anche più chiare ed aperte. Ora vorrei dopo tanto tempo venire a salutarvi, ma non ardisco farlo senza vostra licenza. Ve la domando istantemente, desiderando assai di ripetervi a voce che io sono, come ben sapete, vostro vero e cordiale amico.»[44]
Alcuni giudicano il contegno de la Malvezzi con severità, tanto da giungere a crederla l' Aspasia con cui ella non ebbe a comune nè la sovrana bellezza, nè la civetteria. Opportunamente il Cesareo notò a questo proposito che il Leopardi aveva conosciuto Teresa nel 1826, mentre l' Aspasia fu scritta dopo l'autunno del 1830, sì che una tale passione dopo cinque anni non ha nulla di verosimile. Ancora si potrebbe notare che la Malvezzi aveva un figlio soltanto, mentre nell'Aspasia si parla di bambini, e ognun sa come il Leopardi amasse anche nel verso attenersi ai particolari veri. Confutar più lungamente quest'errore dopo gli ultimi studi leopardiani sarebbe cosa inutile.
Nel salotto de la contessa e a canto a lei, il Leopardi passò alcuni fra i migliori momenti de la sua vita, non si può negarlo. Fu certo effetto di bontà d'animo la grande intimità ch'ella gli concesse, e di più effetto de le abitudini onestamente libere ch'ella aveva contratte ne le sue amicizie con molti uomini dotti; come il Leopardi ad esempio, anche il Biamonti soleva passar le serate con lei, trattenendosi fino alle 11 e più;[45] ma ad ogni modo quell'amicizia, che doveva essere un conforto per lui, finì col diventare un nuovo dolore.
Nel maggio del 1828, mentre era a Pisa, Giacomo Leopardi, riavutosi in quel dolcissimo clima, e rifiorente, ne l'anima almeno, al ritorno de la bella stagione, scriveva a la sorella Paolina d'aver fatto ne l'aprile, dopo due anni, dei versi, ma versi veramente all'antica e con quel suo cuore d'una volta; sono quelli del Risorgimento, in cui con armoniosa dolcezza canta le pene de l'animo suo nel periodo dal '19 al '28 e la gioia di sentir rivivere in sè gl' inganni aperti e noti, che natura gli diede proprii e che le sventure avevan sopito.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla,
Quel bianco petto in sè.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.
Il signor Sante Sottile Tomaselli nel suo studio sul Risorgimento di G. Leopardi immagina che il poeta, innamorato di qualche bella popolana di Pisa, si vedesse oggetto de gli sguardi schernevoli e dei sorrisi canzonatori de le altre donne, che potevano osservarlo, mentr'egli in qualche via fissava la fanciulla cara; ma questa non è che una supposizione, a la quale manca non pure ogni prova, ma ogni sostegno. Del resto a l'asserzione che il Risorgimento sia stato inspirato da una gentil Pisana, risponde il poeta stesso:
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Lo Straccali, acutissimo commentatore dei canti leopardiani, ed altri molti credono inspirati da la Malvezzi i versi che citammo, in cui si risente la piena de l'amarezza, rimasta in cuore al poeta dopo una crudele delusione: ma che questa fosse la perduta amicizia de la contessa, mi par dubbio per lo meno; veritiero e sincero ne la sua inspirazione, se avrebbe potuto affermare che quelle pupille tremule, quel raggio sovrumano, non brillavano d'amore per lui, avrebbe potuto con ugual verità dir che ne la contessa non v'era nessuna intima affezione, che quel bianco petto non chiudeva una favilla, egli che l'aveva conosciuta tenera, anzi tenerissima di cuore?
Mi par probabile che i versi citati si riferiscano piuttosto a Madama Padovani[46], al carattere de la quale appaiono convenientissimi; ne la Padovani il poeta ammirava a punto sopra tutto gli occhi fulgenti, e dopo averla avuta cara, egli la disprezzo veracemente.
Un'obbiezione rimarrebbe: per la Padovani il poeta provò solo una fuggevole, benchè viva simpatia, cui forse non si conviene il nome di celeste foco; ma può darsi ch'egli avesse in mente più che la durata di quell'amore, la purezza e l'entusiasmo che sempre accompagnavano l'amore in lui.
Com'è ingiusto accusare troppo severamente la contessa, che ne la sua austerità non poteva e non doveva sopportar il troppo audace linguaggio de l'appassionato poeta, il quale a tale linguaggio giunse, malgrado l'indole riservatissima, spinto dal fuoco de l'anima e da l'illusione di quel compatimento ch'egli pose ne l'animo de la sua Elvira per l'infelice Consalvo; così è ben poco ragionevole tacciare lui d'ingratitudine verso la Malvezzi, perchè nel febbraio del 1828, rispondendo probabilmente a una domanda rivoltagli, scriveva al Papadopoli: «Ho veduto il poema della Malvezzi. Povera donna! Avevo veduto già il manoscritto.» Questa parola di compatimento, in cui infine non vi ha nulla di amaro, non appare punto strana su la penna del grande Recanatese, così difficile ammiratore e così parco lodatore; egli aveva il diritto d'esser giudice severo fra tutti, e che severo fosse infatti bastano a provarlo i giudizi ch'egli diede sui migliori suoi contemporanei, quali il Manzoni, il Mamiani, il Costa, il Rosini.
L'amore passò rapido in lui; le sue passioni erano troppo ardenti e infelici perchè non dovessero consumarsi in breve nel proprio fuoco, lasciando solo una triste cenere: cosa morta in un cuore che appariva morto, solo per risorgere più fremente e più grande.
* * *
Gli ultimi anni de la contessa Teresa passarono ne le abitudini oneste, studiose e casalinghe ch'ella aveva sempre avute. Le maggiori gioie de la sua maturità serena e de la sua vecchiezza tranquilla, benchè per ben vent'anni tormentata da una malattia nervosa, le vennero dal figliuolo Giovanni, che, se è vero essere i figli le migliori virtù de la madre, fu per lei il più bel titolo di lode. È noto come Giovanni Malvezzi fosse generoso de l'opera sua e de le sue sostanze a la causa de la patria, come nel '49 assumesse il comando de la Guardia Civica; come dieci anni dopo facesse parte della Giunta provvisoria di governo e quindi deputato a l'assemblea de le Romagne, ne promovesse l'unione al regno d'Italia; commemorandolo nel Senato (24 novembre 1892), il presidente Domenico Farini diceva: «Profonde convinzioni, bontà soverchiata dalla modestia, virtù private pari alle pubbliche, furono doti spiccate di Giovanni Malvezzi.» La contessa Teresa ebbe carissime la prima sposa di suo figlio, Barbara Pio di Savoia, e la seconda, Augusta Tanari, soavissima donna che Bologna ricorda con affetto.[47]
Fra i libri e l'ago ne la dolcezza domestica, che le faceva sopportabili i tormentosi suoi mali, Teresa Carniani Malvezzi invecchiò tranquilla e rispettata. Inferma e avvertita dai medici che non le rimaneva speranza su la terra, posò la mano sul capo del figlio piangente vicino a lei, e, volgendo lo sguardo a l'alto, disse: «Dio, benedite mio figlio, la sua sposa e i suoi figli.» E in queste parole di benedizione spirò la notte del 9 gennaio 1859, pianta non da la sola famiglia e da gli amici, ma da l'intiera città. Il figliuolo e i nipoti Giuseppe e Nerio serbarono a la sua memoria un vero culto di venerazione e d'affetto.
Men nota che non meriti in realtà come scrittrice colta e gentile, ell'è notissima per la famosa lettera di Giacomo Leopardi al fratello; ma la sua severa e pur dolce figura smarrì nel tempo i puri contorni fino a diventar per taluni quella d'una civetta volgare e senza cuore. Tale non fu invero la dotta gentildonna a la quale il Leopardi dovette ripensar talvolta con amarezza sì, ma non senza rimpianto, ricordando fra le poche liete ore de la sua vita quelle trascorse a canto a lei, buona amica.
Un dottor Paoli scriveva da Firenze a la Malvezzi il 21 agosto 1827: «Ieri mi giunse il pacco contenente le trenta copie della sua Egloga e numero quattro della Repubblica di Cicerone. Leopardi mi mostrò desiderio di aver un esemplare de la prima, ed approfittandomi de l'autorità ch'Ella mi ha dato di diramarne alcune copie non esitai a compiacerlo.» Il poeta non aveva dunque scordato Teresa; e nè pur lei potè dimenticarlo, e forse gli accordò perdono, se è posteriore a la loro rottura la lettera scrittagli da lei e rimasta fra le carte del Ranieri.
NOTE.
36. Vedi a pag. 31 del volume Giuseppe Biamonti, di Stefano Grosso (Bologna, Romagnoli, 1880), la lettera 23 dicembre 1815.37. Questa lettera si trova inedita nell'Archivio Malvezzi de' Medici in Bologna ( Carteggio de' Malvezzi, capsula 113). — La lettera è priva di data; l'opuscolo fu ripubblicato nelle Opere edite ed inedite di Paolo Costa da lui accresciute e corrette, vol. II (Parma, Fiaccadori, 1835). Nello stesso Archivio Malvezzi si trovano le altre lettere inedite dirette a la contessa Teresa citate in questo studio; quelle cioè de lo stesso Costa, di A. Papadopoli, di Urbano Lampredi, di Giuseppe Mezzofanti, di Salvatore Betti, e d'altri.38. Vedi la Lettera autobiografica della contessa Carniani Malvezzi a monsignor C. E. Muzzarelli (Bologna, 18 dicembre 1829) a pag. 223 de le Biografie autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolo, pubblicate da D. Diamilla Müller. Torino, Cugini Pomba e comp., 1853.39. Vedi Lettera a suo fratello Carlo a Recanati, Bologna, 30 maggio 1826, a pag. 456, Epist. di G. L. Firenze, Le Monnier, 1864, vol. I.40. Vedi Le prose morali di G. Leopardi commentate da Ildebrando Della Giovanna (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, pag. 85 e 86).41. Vedi Epist. di G. L. Lettera citata, a pag. 456, vol. I.42. Vedi lettera 5 giugno 1826 a pag. 457-459 dell' Epist.43. Vedi G. Mestica, Gli amori di Giacomo Leopardi. Studio pubblicato nel Fanfulla della Domenica, 4 aprile 1880.44. Vedi a pag. 120 de l' Appendice a l'Epistolario di G. L. la lettera senza data di G. L. a T. C. M. a Bologna.45. Vedi lettera 5 aprile 1817 nel citato volume del Grosso.46. Vedi a proposito di Madama Padovani il mio articolo Il Leopardi e Madama Padovani, pubblicato nel Fanfulla della Domenica, 10 ottobre 1897, e l'ultimo studio del presente volume.47. A proposito de la famiglia Malvezzi, vedi la Necrologia del conte Giovanni, scritta da Carlo Malagola e pubblicata ne la Gazzetta de l'Emilia di Bologna, 5 ottobre 1892; vedi ancora la Commemorazione del senatore Malvezzi, letta da D. Farini presidente del Senato ne la seduta del 24 novembre 1892; a proposito del busto de lo stesso conte Giovanni, opera de lo scultore Federico Monti, donato al Municipio di Bologna col frutto di una sottoscrizione fra amici ed estimatori, vedi i giornali bolognesi del 23 e 24 gennaio 1895; e a proposito de la famiglia Malvezzi, vedi ancora Augusta Malvezzi, Ricord i (Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1887; opusc. in 8º di pagg. 30). L'archeologo Francesco Rocchi scrisse una necrologia biografica intorno a la contessa Teresa C. M. nella Gazzetta di Bologna del 9 febbraio 1859.
Antonietta Tommasini
ANTONIETTA TOMMASINI.
Una brigata di piccoli folletti fa il chiasso in una modesta stanzetta; le boccucce rosse si aprono a risate gioconde, a grida festose, gli occhietti scintillano fra i riccioli scomposti, i giuochi stanno per divenire sfrenati e sgarbati: ma una porta s'apre e una giovanetta compare, una giovanetta bella che nel viso rotondetto e ne la fronte serena ha ancora qualche cosa d'infantile anche lei, ma che pure ne la grazia seria de' suoi quindici anni è già donna compiutamente; al rimprovero che leggono ne' suoi occhi puri e profondi, al cenno de la sua mano alzata a una scherzosa minaccia, i frugoli si quietano, a braccia aperte le si gettano addosso, promettendo, prima ancor che richiesti, d'esser molto buoni, e la fanciulla, togliendosi in collo il più piccino, si dispone a dirigere ella stessa i giuochi e un pochino anche a prendervi parte.
Tale ci appare adolescente l'Antonietta Ferroni: simile a la bionda Carlotta del Werther ella fu sin da l'infanzia piuttosto una madre che una sorella pei fratellini, chè la famiglia Ferroni, civile, educatissima, ma non ricca, la madre vedova esigevano quest'aiuto e questa precoce saggezza. Ed Antonietta cedeva di buon grado al dovere punto ingrato per lei, nata ad essere la viva fiamma d'un focolare intimo e che aveva già quel cuore materno per cui il sacrificio è gioia.
Seconda di cinque figli, era nata nel 1780 a Parma: e, piccola massaia, a pena potè, fu la direttrice de la casa; le cure domestiche innanzi tutto, poi a tempo avanzato, quasi come una distrazione, lo studio, occupavano le sue liete giornate, e non era raro il caso di vedere il grazioso visetto chino su di un libro ai riflessi rossastri del focolare di cucina. Iacopo Sozzi, suo primo maestro, le aveva appreso a preferire, tra tutti, i grandi scrittori e a gustarne con intimo diletto le severe bellezze: l'alta e pura antichità l'attraeva come la patria dei grandi ideali ch'ella già vagheggiava, e a quella serenità semplice e sublime pareva accordarsi la schietta purezza del suo pensiero, non abituato a molli fantasticherie, ma pur avvinto dal fascino de l'arte. La vita tutta operosa, le aveva lasciato ben poco tempo pei pericolosi sogni giovanili; non la fantasia, ma il cuore e la ragione predominavano in lei, perciò ella predilesse quegli studi filosofici e morali che si propongono uno scopo di più vicina e pratica utilità.
Bella, graziosa, saggia, benchè vivesse ritiratissima, fu chiesta in isposa da molti; ne la scelta ch'ella fece, diciottenne a pena, rivelò il suo senno e l'altezza del suo spirito, poichè quegli ch'ella preferì era un giovine di condizione umile, ma di grandissimo ingegno, un futuro uomo celebre, ancora quasi perfettamente ignoto, un cuore generoso accoppiato a uno spirito severo, Giacomo Tommasini, che tutto assorto ne la scienza, non poteva prometterle allora altro che le dolcezze d'un affetto sincero; non agi, nè vita gaia. Egli aveva allora trent'anni; a ventuno si era laureato in medicina, ottenendo ben presto la cattedra di fisiologia e patologia ne l'Università di Parma, dove le sue ammirate Lezioni critiche cominciarono a dargli fama. Non meno che come medico fu presto stimato come uomo; quando nel 1802 il ducato di Parma venne in mano ai Francesi, il Tommasini fu membro del consiglio di Sanità Pubblica, poi ispettore de le carceri, indi uno dei dodici rappresentanti de la città e segretario nel Consiglio Generale del dipartimento del Taro. Malgrado questi uffici onorifici del marito, i primi anni che seguirono le nozze, compiute nel 1798, furon tristi per l'Antonietta: Luigi suo fratello, giovane robusto e coraggioso, tenente ne la milizia d'Italia, venne ferito a Mantova, e il dolore da lei provatone fu tale che ne perì il primo figliuolo già presso a nascerle; ebbe ammalata una sorella, più tardi in pericolo la sua figliuoletta Adelaide, vide infine morire sua madre. A tante pene, benchè fortemente sopportate, era necessario un sollievo che distraesse lo spirito; aggiungi che, quantunque il Tommasini l'amasse teneramente, a lei parve di dover curare ancora e assai la propria istruzione per divenir degna di lui non pel cuore soltanto, ma ancora per l'intelletto; e si sentì come rapita da lo studio, tanto che ne le occupazioni non lievi che le dava la nuova casa ricca d'affetto e d'ogni intima soavità, ma ancora economicamente povera, ella si rimproverava le ore passate in trastulli vani ne la sua prima età, e gli studi che non aveva fatti e i libri che non avea letti, parendole ne la sua modestia di non poter mai riparare al tempo che certo non aveva perduto, ma di cui non era stata abbastanza avara.
Quando ella divenne madre, questo desiderio d'apprendere si fece, se possibile, ancor più vivo, al pensiero che le cognizioni sue avrebbero potuto essere un tesoro pei figliuoli, i quali da le labbra materne ricevendo quelle prime idee che spesso son guida di tutta la vita, difficilmente dimenticano poi le impressioni de l'infanzia. A questo proposito ella ricordava il detto di quella Spartana, cui una donna ateniese aveva chiesto per qual ragione gli Spartani amassero tanto le loro mogli: «Perchè sappiamo dare utili cittadini alla patria.» L'Antonietta fu una madre vera: ai figliuoli diede più che il sangue, l'anima propria, e con quell'esclusivo affetto che, se si vuol chiamare materno egoismo, è tuttavia egoismo sublime e sentimento de' più alti che conosca l'umana natura, tutto da allora in poi vide con occhi di madre, traverso la tenerezza pe' suoi figliuoli, in tutto cercò per essi non già un bene meschinamente materiale, bensì quella felicità, che deriva da la virtù e che può accompagnarsi perfino a la sventura, se l'animo è così gagliardamente temprato da non vivere di sè e per sè, ma da far sue le gioie di tutti gli umani e da saper trovare nel sacrificio quella dolcezza santamente e serenamente mesta, che non ha pari.
Dal marito soprattutto era venuto a la Tommasini l'esempio de l'amor patrio, che si accese vivissimo in lei; e, studiando e leggendo senza punto trascurare la figliuoletta Adelaide, primo de' suoi pensieri, e la casa, che l'amore del marito le rendeva sacra come un tempio e dolce come un nido, ella ripensava che il valore de le donne è sicuro indizio di tempi virtuosi e che con l'educazione femminile va del pari la felicità de le nazioni; ripensava a le austere matrone romane, esempio d'immacolata virtù e spesso illustri ne le scienze e ne le arti; e se si doleva d'esser nata donna, gli era solo pei tempi infelici, in cui l'educazione femminile era poco o punto curata. Quando le capitava di poter leggere qualche opera insigne di una penna femminile, provava i più vivi affetti di ammirazione e di riconoscenza; sui libri di Madame de Stäel meditava lungamente, rallegrandosi, quasi d'un bene che fosse anche suo, de l'ingegno, de la filosofia, de la coltura di quell'illustre donna. Leggeva molto, ma senza accogliere servilmente le opinioni de gli autori, fossero pure famosissimi, e quando il suo giudizio era contrario al loro, chiedeva parere al marito, ne l'acume del quale avea gran fiducia. Così, allorchè nel Verri lesse il piacere non esser altro che la negazione del dolore, ricordandosi un consiglio del Tommasini, consiglio divenuto per lei una regola de la vita, quello cioè di osservare i fatti e non far deduzioni che da essi, le parve per propria esperienza di dover giudicare diversamente, e chiese per lettera l'avviso del marito. Preferiva la filosofia, come quella che maggiormente si addiceva al suo spirito sereno e calmo, assetato di verità e guidato sempre da la ragione; ma non restava indifferente a l'armonia dei versi e tanto più se un concetto profondo e un intendimento civile si accoppiavano a la finezza de l'arte.
La maravigliosa serenità omerica, quella forza eroica d'un popolo giovane, cantata da un poeta giovane ne l'anima come un'alba meravigliosa, rapivano la sua immaginazione, facevan battere il suo cuore, ne evocavan tutto quello che di bello e d'alto v'avevan posto la natura, l'esperienza, il pensiero. Ella non era una dotta, una Gaetana Agnesi, una Cassandra Fedele, era una semplice anima che, cercando i libri, trovava un refugio ne le più pure regioni de l'arte. Somigliava l'Iliade al sole raggiante a mezzo il cielo di tutta la maestà, e l'Odissea al raggio della luna che splende fra le piante di tacito boschetto in una bella sera d'estate. Tanto caro le era Dante che spesso luoghi, cose, persone, le ricordavano e le facevano ripetere qualche terzina de la Divina Commedia. Un rovescio d'acqua continuato, che pareva sommergere tutta la campagna intorno a la villa, ov'ella si trovava solitaria, le richiamava su le labbra i versi:
Io sono al terzo cerchio della piova
Eterna, maledetta, fredda e greve,
Regola e qualità mai non l'è nuova.
Il ripugnante spettacolo de l'indifferenza ne le cose pubbliche, le ricordava i dannati danteschi, che non hanno speranza di morte:
E la lor cieca vita è tanto bassa
Che invidiosi son d'ogni altra sorte.
Tra i poeti suoi contemporanei prediligeva il Parini, pel Giorno, che giudicava modello di utile poesia, tipo unico al mondo d'una satira illustre, la quale mentre loda fa sentire risibile l'orgogliosa prepotenza. Ed invero a quell'anima fiera ed onesta rispondeva bene l'anima di lei, che, come il buono e rigido Brianzuolo, sdegnava l'ozio e la mollezza, come lui sentiva profondo lo sdegno per l'effeminatezza, l'ignavia e la codardia, e desiderava a la patria una stirpe di forti, capaci di rivendicarne la libertà e la gloria. Anche l' Invito a Lesbia del Mascheroni e l' Arminio del Pindemonte, le parevano gran belle cose; il primo pel profondo contenuto ne l'artistica forma, il secondo per la potenza patetica e tragica. La sua mente aperta si piaceva in ogni genere di studi, e quelli astronomici, cui l'aveva iniziata il Tommasini, dandole un libro del Cagnoli, le facean dire che nel sollevarci a la contemplazione de gli astri noi ci sentiamo maggiori di noi medesimi, perchè il nostro intelletto non vi gode soltanto una dolce libertà, ma vi esercita una specie d'impero, quello de l'uomo, che incatenato a la dimora angusta de la terra, di fronte a l'infinito mistero del creato, si svincola da tutti i legami de la materia, lanciandosi ardito col pensiero traverso i mondi che rifulgono sul suo capo ne l'immensità de la notte, e schiavo de la sua zolla, è capace pure di dominarla e di sfuggirne. Sempre pensosa non di sè soltanto, ma di tutti, ella chiedeva perchè quel che il Cagnoli aveva fatto per l'astronomia, altri dotti non facessero per le altre scienze, aprendo i tesori de la natura e del sapere umano anche a coloro che non si danno di proposito a gli studi, anche a le donne, che potrebbero giovarsene ne l'educare i figliuoli: questo de l'educazione era sempre il suo grande pensiero e come i fiumi al mare, così tutte le sue considerazioni finivano ad esso.
Il sommo interesse suo era per la scienza che ha l'uomo per oggetto. Ve l'attraeva il suo amore di madre non meno che il suo amore di patria, e a questa scienza diede il meglio de l'ingegno, a questa s'inspirarono interamente od in parte tutti i suoi lavori, in questa ella portò la luce di sagacia ch'era ne l'anima sua e l'intuizione che solo l'affetto dà a l'intelligenza femminile. A le amiche di Bologna (fra le quali vi era la chiara scrittrice Caterina Franceschi) dov'ella dimorò parecchio, quando il marito vi era professore ne l'Università, volle offrire in dono il suo volumetto di Pensieri di argomento morale e letterario[48] che Michele Colombo giudicava un lavoro da riputarsi molto, utilissimo e dilettevole per la nitidezza, l'eleganza, la vivezza e la grazia, un lavoro pel quale a la colta e valente donna l'Italia tutta doveva saper grado. Nel periodico La donna e la famiglia il Bernardi pubblicava un articolo critico[49] in cui dice d'aver sott'occhio un esemplare de l'aureo libretto, portante questa dedica di mano de l'Antonietta: A' miei cari figli nel giorno del mio nome, esemplare appartenuto a la Maestri e che gli suggerisce alcune buone considerazioni, chiuse con l'augurio di una ristampa dei Pensieri, cui venisse aggiunto ciò che su gli stessi argomenti scrissero la figlia e la nipote de l'autrice.
A le amiche di Bologna l'Antonietta volle offrire il suo libro, quella città essendole cara perchè aveva onorato il Tommasini, perchè vi aveva avuto essa medesima molte prove di benevolenza e perchè vi aveva conosciuto molti uomini insigni, ammirati i capolavori de la scuola bolognese e goduto i piaceri più cari ad uno spirito, che ama d'istruirsi. In quei pensieri ella ambiva di lasciare ai figliuoli un ritratto de l'animo suo e d'insegnar loro, senza darsi alcun'aria d'importanza, con semplicità materna, come «in tempi avversi ai buoni studi ed all'esercizio delle civili virtù, si possano nutrire sentimenti degni dell'umana ragione e serbare amore a quella Terra, la quale non ha pure un angolo, che non sia sacro e non ricordi il nome di qualche eroe.» Ancora volle insegnar loro come sempre un po' di dolcezza, pari a la scintilla dentro la selce, si trovi in tutte le cose umane, e come chi sappia penetrarne l'intimo e vivere non soltanto de la vita materiale, ma ancora di quella del pensiero e del sentimento, possa goder piaceri che il volgo ignora. Questi Pensieri sono d'argomento svariatissimo ed hanno una profondità più reale che apparente, poichè per la forma schiettissima si direbbero (e taluni sono in realtà) brani di lettere o di conversazione, cara semplicità che guadagnava a la signora gentile tutte le simpatie, la faceva apparir donna, anche mentr'ella si rivelava filosofo, e restar amabile, come scrisse il Giordani, anche allorchè parve degna d'invidia. Al solito, in questo libro predominano gli argomenti educativi e le considerazioni pedagogiche, parecchie de le quali le furon suggerite da la lettura de l'opuscolo di Kant intorno a l'educazione. Confuta alcuni pensieri del grande filosofo o ne dà quell'interpretazione che a lei pare più logica: soprattutto le piace in lui il concetto non dover il fanciullo essere allevato per la corrotta società presente, ma per quella società migliore, che potrà esser frutto di una buona educazione nazionale, la quale dipende sovrattutto da l'iniziativa privata. Era dolcissimo a la donna gentile il pensare che il bene fatto ai figliuoli diveniva bene de la patria e de l'umanità e che in tal modo anche una umile donna può cooperare al bene universale e divenir il primo anello d'una catena di benevolenza, di virtù, di carità, stringente fra loro gli uomini. La Tommasini si duole de le crudeltà, cui si abituano i fanciulli coi popolari divertimenti emiliani de la mezza quaresima, spettacoli che le riescono sommamente incresciosi poichè ella sente che la vecchiezza, in quelli derisa, deve avere a gli occhi dei giovani qualche cosa di sacro; ricorda la venerazione de' Greci e de' Romani pei vecchi e vede con dolce compiacenza il figliuolo suo ancor bambino salutar ogni vecchio che gli avvenga d'incontrare. D'animo assai fervido, condanna, con gli antichi, l'indifferenza, ricordando a questo proposito le severe leggi di Solone e approvando che fosse infame, bandito e spogliato de' beni colui, che non volesse interessarsi a le cose pubbliche. Con isdegno ugualmente vivo condanna la calunnia che, come non rispetta i più onesti, neppur lei rispettò sempre; e, abituata a ritornare col pensiero nel mondo antico, a vivervi in ispirito con un diletto che non le davano i tempi suoi, rammenta con entusiasmo, come ne l'antica Sparta, quegli che era calunniato in assenza, trovava un difensore in ogni persona presente; si duole de la facilità con cui la calunnia vien creduta da taluni, perchè nei difetti altrui trovano una scusa ai propri, da altri pel compiacimento di sentirsi migliori dei calunniati.
La figura de la Tommasini non è bella soltanto quando la vediamo fra i libri che le son cari, ma è bellissima ancora quando ci appare nei teneri colloqui con la figliuola ch'era la più cara amica del suo cuore e cui diceva: «Tu sei così necessaria al mio essere, come l'aria che respiro.» Bella, quando accompagna con gli occhi fin che può la sua Adelaide, ne la verde campagna, o quando, seduta senza quasi rifiatare, guarda le rondinelle che fanno il nido a le finestre del suo salotto di campagna, quelle rondinelle ch'ella, accuratissima de la pulizia e de l'ordine, non avrebbe mai avuto il coraggio di cacciare. Con quanta dolcezza ella seguiva tutti i movimenti dei bruni uccelletti e pensava al nido suo e a quello dove un giorno la sua Adelaide sarebbe stata madre a sua volta! Bella quando, appena levata dal letto, aperta la finestra, rimane con un ingenuo diletto a riguardar la neve, che ha coperto tutto d'intorno, e osserva le piante, che si sono inclinate al suolo e quelle che si levano orgogliose, un suo caro salice ancor più malinconico del solito; in quella tristezza ella trova qualche cosa che le dà una sensazione piacevole, e giudica sia il pensiero del riposo, che prepara in secreto una nuova, florida vegetazione. Ci piace seguirla ne le sue passeggiate solitarie in riva al torrente, mentre carezza con le candide mani le fronde dei cespugli, che si avanzano sul suo sentiero, e guarda i colli, il cielo ridente, e ascolta il mormorio de l'acqua fra i sassi, il canto de l'usignuolo nascosto fra il verde, e poi siede a l'ombra di quelle piante ed apre la Divina Commedia, piangendo su le divine pagine del Canto d'Ugolino; o quando visita la cava del gesso nei colli bolognesi e sente svanire in sè tutta la gaiezza de la bella gita e si fa pallida e triste dinanzi ai miseri operai giallastri nel volto e rugosi innanzi tempo e ai loro figli da l'aspetto malaticcio che ne l'infanzia portan già i segni de la vecchiaia; ella non regge a la pietà che ne prova e dà loro tutto il danaro che ha con sè; ma non si sente confortata per questo, anzi prova, ella sempre così contenta del suo stato, il rincrescimento di non esser ricca, al pensiero di tutto il bene che potrebbe fare.
Intanto l'ingegno del Tommasini, meritamente riconosciuto, ed il suo sapere diedero a la famiglia un'onesta agiatezza. Nel 1815 il governo de le Legazioni pontificie chiamava il professore a sostituire il defunto illustre Antonio Testa ne la cattedra di clinica medica e di terapia speciale a l'Università di Bologna; ed il Tommasini nel suo nuovo ufficio s'ebbe ben presto chiara fama non solo in Italia, ma in tutta Europa; da ogni parte de la penisola i giovani accorrevano ad ascoltare le sue lezioni, profonde per dottrina e belle per forma.
L'Antonietta, tolta da le prime strettezze, prese con vivo diletto la direzione dei lavori per ornare di un giardino la sua villa. Ella non amava le troppo culte aiuole dove i fiori disposti a disegno non hanno più nulla de la loro naturale bellezza e paiono, stretti in folla, cercar avidamente coi calici aperti e i petali cadenti un po' d'aria, un libero raggio di sole; neppure amava le grotte artificiali, le artificiali rovine, i tempietti, le false alture, le forzate prospettive; preferiva la semplicità lontana da ogni studio e da ogni ricercata simmetria, un bel rosaio da le diffuse fronde fra cui fan capolino i bocciuoli fragranti e si aprono, con un riso di gaiezza, le ricche corolle de le rose, a canto a un melagrano in fiore; lieti, variopinti garofani ai piedi d'una vite; dovunque il verde, l'acqua, le gradite alternative d'ombra e di sole. Preparando tale il suo giardino, godeva, già in previsione, de le dolci ore che vi avrebbe passate ne l'oblio di ogni amarezza, elevando a l'alto il suo pensiero, conversando con lo spirito insieme ai cari defunti, di cui il ricordo le era sempre ne l'anima, non come un terrore e un tormento, ma quale conforto soave: sentendoli così vivi in sè e nel suo cuore da illudersi di non averli interamente perduti. Uno dei suoi più vivi affetti fu quello per la natura, ch'ella prediligeva non soltanto ne le sue selve verdeggianti, nei vaghi e taciti sentieri dove a l'anima pensosa parlano le siepi alte e fiorite, gli alati insetti, le svelte lucertole striscianti fra l'erba, l'ape ronzante e la farfalla leggiera; nei lontani profili dei monti, ne gli armenti dispersi a la pastura, ne le delizie de le odorose solitudini; ma ancora ne la semplicità d'animo dei contadini, che con ingenua affettuosità festeggiavano la buona padrona e più che mai un dì ch'ella, riavutasi dopo una grave malattia, tornava fra loro. Punto orgogliosa e convinta intimamente de la santità di quel vincolo che dovrebbe legar fra loro poveri e ricchi, ella era commossa e lieta, vedendo quei rozzi lavoratori affollarsi intorno a lei, ancor pallida e debole, giunger le mani ringraziando il cielo di averle ridata la salute, e narrarle con sincera enfasi il gran timore che avevan avuto di perderla. Non isdegnava fermarsi a ragionar con loro dei lavori campestri, lodare quel che le pareva ben fatto, e giungeva a desiderare col Beccaria una onorificenza speciale pel contadino benemerito de' suoi campi.
Le scene orride la dilettavano quanto le amene. Dal ponte de la Sesta sul torrente Parma contemplava il pittoresco orrore del paesaggio montuoso e si sentiva scossa dinanzi a la sublimità di quello spettacolo unico, che descriveva poi così al marito: «Fui costretta a fermarmi per contemplare tutto l'orrido di quel luogo: monti dirupati, selve di antiche piante, che non lasciano passaggio a la luce; massi di una immensa grossezza, che stanno per rovinare giù nel torrente, il quale rumoreggia da lungi, e ti passa sotto ai piedi bianco di spuma, e quasi irritato co' monti, che lo stringono e contrastano al suo rapido corso. Sai tu, mio consorte, che mi ha consolata il vedere questo torrente, che dà o riceve nome da la nostra città! Pensando che le sue acque bagnano le mura di Parma, dove tu sei, mi pareva di vedere in esse una via di comunicazione fra le nostre anime.»
Un temporale veduto da l'alto di un monte ne la sottoposta vallata, mentre in alto ride il sole, le fa provare un sentimento per cui le par d'essere più che mortale, ma ne la gioia di questo diletto le sopravvien tosto il pensiero dei danni che avranno a patire i contadini de la valle e la pietà la commuove quanto l'ammirazione. In tutto, com'ella ben diceva, il suo spirito sapeva trovare un riposto piacere: un salice diveniva una cosa viva per lei, chè al suo rezzo rileggeva gl'Idilli di Gessner, e ripeteva il voto che il cielo le serbasse sempre ne l'anima il gusto de le bellezze campestri e la tenerezza verso gl'infelici, le due fonti de le sue più care dolcezze: ne la natura ella trovava una pace pensosa, feconda d'alti pensieri e d'emozioni elevate; ne l'amore per gli sventurati, l'oblio dei dolori propri e un senso di carità soddisfatta che le rendeva sopportabile ogni mancato suo desiderio. Vivissima era in lei la religione dei sepolcri: una bigia pietra in mezzo ad un bosco di faggi bastava a commuoverla, anzi la commuoveva più d'ogni superbo monumento; questo, diceva, eccita la meraviglia, quella la pietà; dinanzi al primo l'arte ci occupa l'attenzione, dinanzi al secondo l'animo è compreso da una dolce malinconia.
A la patria la stringeva un affetto più vivo che non soglia essere ne le donne, e perchè la sua mente era più aperta ed il cuore più tenero (ma tenero solo secondo le leggi de la ragione) che non sieno nel comune de le signore, e perchè ella amava troppo il marito per non accoglierne tutti gli affetti. I loro più cari amici erano tutti liberali e ne le conversazioni di casa Tommasini, se non si congiurava, si augurava, certo spesso, la libertà de l'Italia.
L'Antonietta sdegnavasi de le accuse lanciate da gli stranieri contro gl'Italiani; e a quella d'indolenza e d'ignavia rispondeva vantando con nobile orgoglio le nostre industrie, i progressi de la medicina, quelli de le scienze economiche e morali, con Melchiorre Gioia e i nomi, che son di per sè stessi una gloria, del Romagnosi, del Galvani, del Volta, di Lagrange, del Taverna. Nel 1829 il professore si stabilì nuovamente a Parma, dove fu eletto protomedico de lo Stato e riassunse l'ufficio d'insegnante ne l'Università; la sua prolusione ebbe ad argomento l' Amor di patria. A Parma Antonietta vide la sua casa onorata dai più insigni uomini che quella città contasse allora: Pietro Giordani, che portò ai Tommasini un affetto pari a la stima, il famosissimo incisore Paolo Toschi, Giuseppe Serventi, il professor Michele Leoni, l'avvocato Ferdinando Maestri, che sposò l'Adelaide Tommasini. Con questo matrimonio, da cui nacquero due bimbi, Clelia ed Emilio, la buona Antonietta vide adempiuto il suo voto che la figlia trovasse un compagno a lei somigliante ne l'animo; fidando ne la virtù di quella sua cara, ripeteva con dolce compiacenza: «I suoi figli non piegheranno a la viltà di questi tempi,» e ricordava forse allora i generosi versi che un altro suo grande amico, Giacomo Leopardi, rivolgeva a la sorella fidanzata:
O miseri o codardi
Figliuoli avrai. . . . .
. . . . . Di fortuna amici
Non crescano i tuoi figli, e non di vile
Timor gioco o di speme: onde felici
Sarete detti nell'età futura.
* * *
Fra gli scritti di Antonietta Tommasini due in ispecial modo provano un bel cuore: Intorno alla educazione domestica — Considerazioni[50]; e I ricordi intorno a la vita di Giuseppe Serventi[51].
Il suo libretto Intorno a l'educazione domestica ebbe per proposito principale di far conoscere l'opera de l'insigne pedagogista Giovanni Locke. La Tommasini, che per la viva tenerezza inspiratale da' suoi figliuoli e pel desiderio de la pubblica utilità, dava il meglio del suo ingegno a gli studi pedagogici, i più insignificanti ed aridi fra tutti se vi si dà uno spirito dogmatico e pedantesco, i più elevati e i più degni, se coltivati da una mente aperta e da un cuore che aspiri al vero bene, trovò ammirabile quell'opera, contenente gran copia di buoni principii, facilmente applicabili, e volle farne l'estratto, che le riuscì bello di chiarezza, d'eleganza di stile, in ogni sua parte; di calore d'affetto in quanto di proprio ella vi mise. E di proprio vi mise moltissimo, ricavando precetti e considerazioni da la propria esperienza, commentando e talora anche combattendo con buone ragioni le idee del Locke in quel che avevano o di non buono o di non adatto ai tempi e ai luoghi pei quali la Tommasini scriveva. L'operetta è da lei dedicata ai figli, cui ella dice di renderla, come cosa loro, perchè essi furono il soggetto di quelle meditazioni e di quelle cure, che maturarono le sue idee pedagogiche. Essi vi dovevano trovare la storia de la propria educazione e quasi una prova de l'immenso affetto che aveva vigilato su di essi fin da la loro prima infanzia e, come una seconda Provvidenza, aveva inteso al loro meglio anche nei minimi particolari de la vita.
Quest'opuscolo de la Tommasini piacque assai; il Leopardi, severissimo giudice, lo lodava vivamente; il Giordani scriveva a l'autrice che, quantunque sentisse ripugnanza insuperabile a profferire così biasimo come lode, qui poteva francamente lodare, e innanzi tutto la scelta de l'argomento, poichè, se molto si era già scritto de l'educazione, questa rimaneva stolta e barbara, piena di vizi, lontana da ogni vero. «Giacchè della educazione pubblica (almeno per gran tempo) è disperato ogni bene, resta che ciascuno studi quanto gli è possibile a migliorare la privata senza la quale potrebbe poco riuscire a profitto la pubblica, benchè fosse men rea. Dio permetta che le vostre buone intenzioni, e il desiderio di chiunque è ragionevole, abbiano qualche effetto..... Nel vostro libretto mi è piaciuto molto un'altra cosa, tanto più che oggi è fatta rarissima; ed è una sanità di idee e nettezza di stile per la quale intendo quello che volete dire. Il che non poco importa quando si vogliano dire cose vere ed utili..... Desidero e amo sperare che alcun buon effetto non manchi di nascere dalla vostra fatica; ciò che è la più vera lode e il più caro premio d'ogni buon libro.»[52]
La Tommasini ne la sua operetta rivela la vigoria e la rettitudine de la sua ragione non meno che l'indole sua tutta affetto e dolcezza e si guadagna meritamente un posto fra le grandi educatrici italiane.
Studiare i bimbi con provvida sollecitudine e con quell'affetto che lungi da l'accecare, rende chiaroveggenti a conoscere i difetti e a correggerli, esperti ad aprire dolcemente a la vita le piccole anime, e le menti infantili a la verità; capaci di essere insieme genitori teneri ed educatori severi, di non perdere l'autorità, conservando in tutta la sua pura e feconda grandezza l'intimità familiare, consci del dovere di veder sempre nei nostri ragazzi dei figli ed insieme de gli uomini, che debbono essere, per quanto è possibile, fatti partecipi di tutte le gioie, i dolori, le vicende de la vita de la casa e di quella de la patria, fermi nel proposito di dar loro il meglio soltanto de l'anima nostra e de la nostra esistenza, perchè in essi si rispecchi la vita nostra, ma scevra quant'è possibile de gli errori e de le sventure che l'hanno turbata; persuasi di dover vedere in loro non, come gli antichi, una proprietà, ma de gli esseri che non sono noi, se non per l'amore che fonde ne la loro la nostra felicità, bensì sono altri, ciascuno una esistenza, una vita, un'anima, un atomo de l'umanità; questi che dovrebbero essere i criteri di tutti gli educatori, erano in sostanza quelli di Antonietta Tommasini. L'opera sua di madre è il più bel commento del suo sistema educativo. La figlia fu la sua più cara amica, l'intima confidente di tutti i suoi pensieri; in un tempo in cui ancora nei rapporti fra genitori e figli l'autorità prevaleva, e allontanava questi da quelli, ella si strinse vicini i suoi due cari ragazzi e volle serbarli obbedienti e rispettosi, non con un'autorità imposta, ma col mostrarsi a loro in ogni giorno, in ogni momento, in ogni occasione degna del loro rispetto. Per loro ella educava sè stessa innanzi tutto, come avrebbe voluto istruirsi in ogni scienza e come in molte cose s'istruì davvero. Ricercava avidamente i buoni libri che potevano aiutarla in questo compito, ma s'indispettiva, vedendo come nei volumi destinati a le donne e ai ragazzi non si trovi la scienza, ma piuttosto e solo qualche indizio di essa; e desiderava che uomini veramente grandi scrivessero pei bambini e pel popolo, persuasa che essi saprebbero bene dar la sostanza, non l'apparenza, il succo vitale, non le briciole pressochè inutili del sapere. Invero nulla di più falso de l'idea che tutto basti quale lettura ai giovani, a le donne, al popolo, i quali per essere educati avrebbero bisogno di cose, non di parole, o di quelle insieme a queste, e che queste fossero le grandi, nobili parole di cui germinano i grandi affetti e le generose azioni.
* * *
I Ricordi intorno a la vita di Giuseppe Serventi furono stampati prima a Milano ne la Strenna femminile italiana per l'anno 1838, poi in opuscolo a parte da Filippo Carmignani a Parma ne l'anno stesso. Il Serventi, uomo di talento e di rara filantropia, divenuto ricco e assai noto per la sua operosità, stimato ed amato per i molti benefizi fatti a gli amici ed ai concittadini, era morto in condizioni non liete, benchè, anche ne le sventure che a questo lo ridussero, sventure e non colpe, avesse serbata intatta l'onestà del suo nome e lasciato tanto da soddisfare ogni debito. L'onesto e generoso Serventi era quasi dimenticato, anche da quelli cui aveva fatto maggior bene, ma non lo dimenticò l'Antonietta Tommasini, che gli era stata amica vera e che, venerandone la memoria, si sentiva stretta a lui dal ricordo di un beneficio ch'ella si compiaceva di palesar apertamente. Quando il Tommasini, giovane ancora e quasi ignoto, scrisse la sua prima opera da cui attendeva il principio de la propria fama, egli era troppo povero per pubblicarla e troppo altero per chiedere aiuto a questo scopo. Giuseppe Serventi, saputa la cosa, spontaneamente e con somma delicatezza si offrì di stampar l'opera a proprie spese. «Nè questo fatto mi fu mai ripetuto, nè lo richiamo mai senza sincerissima commozione di cuore,» scriveva l'Antonietta Tommasini, che assai benefica anch'essa, aveva la rara virtù de la riconoscenza, certo più rara ed altrettanto pregevole di quella del beneficio. Ella volle generosamente ricordare le virtù del Serventi, virtù, quantunque preziose, presso ad esser volte in dimenticanza. In questo lavoro de la Tommasini, Michele Leoni ammira «il nobil coraggio ond'Ella sdegnando il timido silenzio d'ogni altro, si levò sola a svergognar la fortuna, de la miseria ne la quale si piacque abbassare quel generoso, quel probo, dopo aver lui meritamente recato sì alto nel credito e nell'ammirazione di tutti.» (Vedi Prose di Michele Leoni, Parma, 1843, pag. 379.) De l'amico e benefattore ella tesse la vita, ponendo bellamente in luce le cose più degne di lode, e il bene che da lui venne a la città sua; con rara delicatezza rileva fatti e abitudini, che potrebbero parer insignificanti a uno spirito volgare, ma che formano quasi le sfumature del bel ritratto e dànno luce a quegli ignorati misteri de l'anima in cui consiste gran parte de la personalità. Queste sfumature squisite non ci fanno conoscere soltanto Giuseppe Serventi, cuore mite e buono di filantropo, di padre e di cittadino, ma altresì la Tommasini, che sa trovare tali note delicate, come chi con una lucerna in mano c'illumina un ritratto posto ne l'ombra, resta a sua volta rischiarato da un raggio di quella lucerna; o come il ritrattista che ne la vigoria o ne la soavità de le sue tinte, ne la espressione profonda o ne la semplice e rigida riproduzione de le linee d'un viso ci dà qualche cosa di sè. Tali tratti sono ad esempio il notare la semplicità de la vita di quell'uomo altamente buono, il suo amore per le frutta dei campi, per le case antiche, per tutto quello che riavvicina l'uomo a la natura, la commozione con cui ne le belle notti di estate fissava il tranquillo chiarore de la luna, e la cura con la quale ne la sua villa aveva fatto costrurre sì acconcie porte, finestre e terrazze che il sole vi potesse penetrare a qualunque ora del dì. Sappiamo dal Leoni che de la Tommasini rimasero ancora la traduzione di parecchie lettere del Franklin, buon numero di lettere originali manoscritte, i particolari di Un viaggio a Roma, e le prime pagine di un romanzo storico, cui, se faceva difetto la schietta semplicità, non mancavano virtuosi ed utili intendimenti.
* * *
A Bologna Giacomo Leopardi conobbe Antonietta Tommasini e insieme a lei il professore, già famoso come clinico e come oratore e conosciuto pei sentimenti patriottici, la figlia ed il genero. Ne l'epistolario leopardiano troviamo per la prima volta il nome dei Tommasini ne la lettera 16 gennaio 1826 al conte Papadopoli: «Quanto a Tommasini fa quello che ti piace, ma tu sai da una parte che io spero poco nei medici; dall'altra che io non posso pagare le visite di un Tommasini.» Può darsi che il professore, sempre disinteressato, consentisse a dar, senza idea di lucro, i suoi consigli al Leopardi e che di qui avesse origine la loro conoscenza.
Non sappiamo a qual grado d'intimità questa giunse, certo intimità grande, se le Tommasini quasi convissero col poeta, come egli scrisse. Tornato a Recanati, Giacomo a l'Antonietta dichiarava vere purtroppo le considerazioni generali sopra la triste condizione de gli uomini, ch'ella aveva fatto in una sua lettera, si doleva d'aver perduto un piacere, perdendo il poter esser con lei e si consolava al pensiero che di lui ella conservasse non discara memoria e con la fiducia di posseder l'amicizia del suo celebre consorte.
La Tommasini, che sospirava di posseder una patria, doveva aver assai ammirato le prime Canzoni del Leopardi, così sinceramente inspirate dal patrio entusiasmo e così calde d'alte aspirazioni al risorgimento d'Italia; ella certo aveva sentito parlare a Bologna de l'ardore di cui quei versi infiammavano tutti i liberali, e letto fors'anche la poesia che monsignor Carlo Emanuele conte Muzzarelli indirizzava al Recanatese nel Caffè di Petronio (nº 51, 24 novembre 1825), celebrandolo per le sue prime Canzoni e soprattutto per quella All'Italia:
O tu, che la tua patria in suono ardito
Togliesti all'ozio indegno,
Di un'anima non vile odi l'invito,
Di Te, di Ausonia degno
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Ma dì verrà, ned io lontan lo scerno,
Che dell'Italia i prodi
Torneranno all'Italia il serto eterno,
E non compre le lodi.
L'Antonietta ne la primavera del 1827 vide nel Raccoglitore il discorso leopardiano «In proposito d'un'orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone»; ella, sentendo vivamente l'ammirazione per tutti i sacrifici e per tutte le virtù, che derivano da la carità del luogo natio, e in particolare ammirando l'antica grandezza e la moderna virtù greca, scriveva al Leopardi calde parole, cui egli, pur già lontano da gli entusiasmi de la sua giovanezza, rispondeva ch'egli pure riguardava i poveri Greci come fratelli e che se più avesse potuto dire in quell'articolo, più avrebbe detto in loro favore, ma che considerata l'impossibilità di parlar liberamente, gli pareva di averne detto abbastanza. Infatti egli ne aveva parlato con sincero calore, giudicando ammirabile la nazione greca «.... che per ispazio d'intorno a ventiquattro secoli, senza alcuno intervallo, fu nella civiltà e nelle lettere, il più del tempo, sovrana e senza pari al mondo, non mai superata: conquistando, propagò l'una e le altre nell'Asia e nell'Africa; conquistata, le comunicò agli altri popoli dell'Europa.» Con pari ammirazione ricorda come per tredici secoli la Grecia mantenne la civiltà e le lettere quasi incorrotte, per gli altri undici le conservò, e fu spettacolo nuovo nel tempo de le crociate a le genti civili, a le rozze, a le quasi selvatiche, e come a l'ultimo, vicina a cadere sotto un giogo barbaro e a perdere il nome e per dir così la vita, gittò a modo d'una fiamma che si spegne, maggior luce, e, caduta, fu coi suoi profughi un'altra volta maestra a l'Europa.
Tali sensi dovevano piacere a la Tommasini, quanto la schietta lode di lei piacque al Leopardi, il quale non sapeva meglio ringraziarnela che augurandole nel nipotino un futuro emulo di Emilio romano, se non ne le imprese militari, almeno ne l'amor di patria, ne la virtù e ne la volontà di giovare a questa. La corrispondenza continuava non assai frequente, ma certo assai affettuosa. Da Pisa il poeta dava a la famiglia amica (a l'Adelaide) nuove de la sua salute e del benessere che provava in quella gentile città, ricca di oggetti e spettacoli bellissimi di natura ed arte, e romantica, pel misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio; con l'Antonietta si scusava di non scrivere più spesso, asserendole che in lui la memoria di lei non era meno viva, anzi non languiva mai, e come, bench'egli non potesse fissar la mente in un pensiero serio per un solo minuto senza sentirsi male, pensasse a lei in dispetto de lo stomaco e dei nervi. Egli sentiva ancora in sè abbastanza calore per commuoversi ai nobili sentimenti ch'ella esprimeva ne le sue lettere e ne' suoi scritti: «Se tutte le donne pensassero e sentissero come voi — le diceva — e procedessero conforme al loro pensare e al loro sentire, la sorte dell'Italia già fin d'ora sarebbe diversa assai da quella che è. Non è da sperarsi che tutte vi sieno uguali, ma è da sperarsi che molte sieno indotte dal vostro esempio a rassomigliarvi.»[53] A nessuna donna il Leopardi scrisse mai parole di tale ammirazione, chè, se per altre egli si mostrò più ardente, fu però d'un sentimento diverso e meno nobile. Una tradizione vuole che il Leopardi amasse d'amore la Tommasini, ma non soltanto nulla lo conferma, bensì tutto pare negarlo: l'età di lei, che aveva diciott'anni più del poeta e quarantacinque quando lo conobbe, la sua serietà, e lo stesso affetto che il Leopardi le dimostra, affetto rispettosissimo d'amico devoto e riconoscente. «Il mondo a quelle cose che altrimenti gli converrebbe ammirare, ride,» scriveva il Recanatese; e questa nobile amicizia non da tutti saputa intendere, più che mai ci fa parer vero il giudizio, che ne la vita comune sia più necessario dissimulare la nobiltà de le opere che la viltà, perchè questa essendo comune è facilmente perdonata; quella, insolita, è presa per indizio di presunzione e desiderio di lode, lode che pochi amano dare sinceramente.
Questa volta il Leopardi seppe mantenere l'amicizia guadagnatasi, anzi stringerne i vincoli sempre più saldamente, affezionandosi a tutta la famiglia Tommasini, cui confidava le proprie materiali sofferenze e le pene morali, fino a sfogar con loro, egli d'ordinario riservatissimo, la disperazione che talvolta lo faceva quasi uscir di sè stesso. E quando a l'Adelaide egli confidava la gran voglia di terminare una volta i suoi mali e di rendersi immobile per sempre, egli che ormai non resisteva più senza gravissimi incomodi neanche ad un breve viaggio, benchè assicurasse poi che avrebbe avuto pazienza sino a la fine di quella sua maledetta vita,[54] l'Antonietta gli scriveva un'amorosissima lettera, la quale lo fece pentire del dispiacere datole e giurarle che l'amore infinito per gli amici e i parenti l'avrebbe ritenuto sempre al mondo finchè il destino l'avesse voluto. Poche pagine egli scrisse tanto affettuose come certi brani di lettera a la Tommasini, e si noti ch'egli scriveva ne gli anni maturi, quando il suo cuore era ben altrimenti freddo che ne la gioventù, quando in lui un io nuovo s'era sostituito a l' io antico, e così diverso da fargli formare fra i suoi castelli in aria, il progetto dei Colloqui di quello ch'io fui con quello ch'io sono; dell'uomo anteriore all'esperienza della vita e dell'uomo sperimentato (vedi la lettera a Pietro Colletta, Recanati, .... marzo 1829).
«Non vi posso esprimere, — scriveva Giacomo a l'Antonietta, — quanto mi commuova l'affetto che mi dimostrano le vostre care parole. Io non ho bisogno di stima, nè di gloria, nè d'altre cose simili; ma ho bisogno d'amore: potete immaginare quanto conto ne faccia, e in quanto gran pregio io lo tenga, trovandolo così vivo e sincero in voi, e nella vostra famiglia, i quali amerei di tutto cuore, quando anche non ne fossi amato, perchè così meriterebbero le vostre virtù da per sè sole.... Credetemi che io vi amo con tutta l'amicizia possibile e che del resto, siccome si possono amare ad un tempo due patrie come proprie, così io amo come proprie due famiglie in un tempo: la mia e la famiglia Tommasini; la quale da ora innanzi, se così vi piace, chiamerò parimente mia.[55] » Tanta premura dimostrava pel Leopardi l'Antonietta, benchè angosciata ne l'anima da una grave malattia de la figliuola, come se ad implorare dal cielo la guarigione di quella sua cara, ella sentisse il bisogno di spandere caritatevolmente la sua materna tenerezza anche sul grande infelice, che così pochi affetti aveva in terra, ella pietosa di tutte le materiali e morali miserie, ella, che stendeva la sua mano benefica a soccorrere gran numero di poveri e consolava con le parole amorevoli tanti afflitti. Poco a presso il Leopardi rivedeva la Tommasini a Firenze, dov'ella si era recata con l'Adelaide per passare alcuni giorni con lui, che non aveva potuto recarsi a Bologna a rivederle. In quei giorni esse insistettero perchè Giacomo con loro ritornasse ne l'Emilia, e ve lo avrebbero indotto finalmente, se non l'avesse vinto il suo timore di viaggiare ne la stagione calda. Egli era in un periodo di tristezza che gli faceva veder tutto nero: sciocchissime, ignorantissime e superbe gli parevano le donne fiorentine, tale da stomacare giudicava il disprezzo generalmente professato di ogni bello e di ogni letteratura; non frequentava altri che il Vieusseux e la sua compagnia; e quando questa, e non era di rado, veniva a mancargli, egli si trovava come in un deserto. La visita de la Tommasini gli diede un morale dolcissimo conforto, tanto ch'egli chiamava quelli, i giorni più lieti che avesse avuto in Firenze, e asseriva che non ne avrebbe mai perduto la memoria.
L'Antonietta era sempre turbata e travagliata dal pensiero de le pene di quel grande e sempre desiderava di averlo vicino per poter più efficacemente e con delicatezza venirgli in aiuto, ed anche perchè il professor Tommasini assicurava che di taluni mali sarebbe riuscito con le sue cure a liberarlo.
De la morte del fratello Luigi, Giacomo Leopardi, che soleva rinchiudere in sè stesso tutte le sue pene, non parlò quasi a nessuno, ma ne parlò a l'Antonietta, confessandole ch'egli si sarebbe vergognato di vivere, se in quella sventura altro che una perfetta ed estrema impossibilità, gli avesse impedito di andare a mescere le sue lagrime con quelle de' suoi cari; questa, diceva, era la sola consolazione che restasse a lui pure. Pareva che l'affetto dei Tommasini risvegliasse in lui quello per la propria famiglia e gli facesse risentir più forte la tenerezza pei suoi, che non fu mai spenta in lui; ma, tornato in Recanati, quel conforto che si era ripromesso si mutò ben presto in amarezza, anzi in disperazione, tale da fargli dire a l'Adelaide che da quel luogo sarebbe partito, scappato, fuggito subito che avesse potuto, e assicurarla che la sua intenzione non era di star lì dove non vedeva altri che i suoi di casa, e dove sarebbe morto di rabbia, di noia e di malinconia, se di questi mali si morisse. Chiedeva allora a que' buoni amici se a Parma si fosse potuto trovar per lui un impiego letterario onorevole e non di troppa fatica, tale da potersi accordare col suo stato di salute, e il professor Tommasini stesso gli rispondeva, interessandosi a la cosa con sì gran cordialità da meravigliare il poeta, che pure faceva assegnamento su l'amicizia di lui fin dal tempo in cui l'avea conosciuto a Bologna. Si dava allora la combinazione che lo scienziato famoso abbandonava Bologna e quell'università per trasferirsi a Parma, dov'era stato nominato protomedico; generosamente egli offriva al poeta d'andar a vivere con lui, e lo faceva con modi così affettuosi e delicati che quegli dichiarava di accettar l'offerta con la maggior gratitudine del mondo, a condizione però che l'impiego si fosse prima potuto trovare; gli confidava che la famiglia non era in grado di mantenerlo fuori di casa e che a lui l'esistenza in Recanati riusciva intollerabile; veramente gli sarebbe stato debitore de la vita, quando per mezzo suo avesse potuto uscir da quella prigione. Malgrado tutte le premure possibili, i Tommasini non riescivano a trovargli che una cattedra di storia naturale, poco adatta per lui, e mal retribuita (quattro luigi al mese), cattedra che tuttavia il Leopardi non rifiutava, tanto vivo era il suo desiderio di togliersi da Recanati; ma gl'indugi intervenuti fecero svanire il progetto, tanto più che intanto il Colletta veniva generosamente in soccorso del Leopardi. L'Antonietta era ammalata e d'ogni suo male quanto la famiglia soffrisse con lei si rileva dal suo breve scritto, La malattia, in cui descrive uno svenimento improvviso sopravvenutole dopo un lungo periodo d'infermità: «Mi trovava io in questo stato, quando la povera mia figlia entra per domandarmi se alcuna cosa mi bisogna, e prestarmi quegli uffizi, che le suggeriva il suo cuore. Ella mi chiama più volte, ed io non rispondo: mi piglia per mano, e mi trova fredda gelata. Prorompe nelle più alte strida, e ripete, correndo qua e là disperatamente: Oh la mia mamma! oh la mia mamma!..... Accorre il mio caro consorte, e cade semivivo sopra le mie ginocchia. I baci e le lagrime di questi due infelici mi facevano sentire ch'io non era morta del tutto.[56] »
A Recanati il Leopardi parlava co' suoi, e certo particolarmente con Paolina, di quei buoni amici; anzi, come già aveva posto in corrispondenza la sorella con Marianna Brighenti, così la volle far entrare in relazione con l'Antonietta, che le mandò un esemplare de' suoi Pensieri d'argomento morale e letterario e che parecchie volte le scrisse assai gentilmente, nè volle esser più trattata da la Leopardi col Lei cerimonioso; e più le avrebbe scritto, se, o la posta o la rigida sorveglianza de la contessa Adelaide, non avesse fatto smarrire parecchie lettere che restarono quindi senza risposta.
La contessina Leopardi ebbe una desiderata lettera del Giordani per mezzo de l'Antonietta Tommasini, che ammirava le modeste virtù de la giovane, benchè non la conoscesse di persona; e sentiva il suo amore accrescersi per quello di cui si vedeva oggetto e che le era in caro modo dimostrato. «Conservatevi a me sempre amica come fate; chè ne siete ricambiata con usura.»
Quando nel borgo natio dove, come in tutti i piccoli luoghi, regnavano ambizioni piccine e avarizia e poca benevolenza, Giacomo Leopardi vedeva tenute per favola, come i grandi vizi, le sincere e solide virtù; e creduta appartenente ai poemi ed a le storie, non a la vita, la vera amicizia; egli, così pessimista in tutto, con profonda convinzione rilevava l'erroneità di questo giudizio ed affermava che, se non Piladi o Piritoi, «buoni amici e cordiali, si trovano veramente nel mondo e non sono rari.»[57]
A le tristi lettere del Leopardi, che non vedeva modo di uscir di Recanati, poichè il padre non acconsentiva di mantenerlo fuori di casa, le Tommasini ed il Maestri rispondevano con generose e delicate offerte, ed egli ne li ringraziava col cuore e quasi con lacrime, promettendo che in caso di necessità avrebbe accettato e dichiarando di amarli quanto più poteva amare e d'esser loro grato quanto mai sapeva essere. Tutti poi gli cercavano associati per l'edizione del Piatti, chiedevano notizie di lui al Giordani, nè lo dimenticavano, venuto anche per loro il tempo de la sventura. I rivolgimenti politici, che richiamarono nel 1831 a Parma l'antico ordine di cose, furon causa di grandi dispiaceri al professor Tommasini, che non aveva mai nascosto i suoi sentimenti liberali e il suo caldo amore a la patria; anzi, corse voce a quel tempo che egli in conseguenza di tali dispiaceri fosse morto; fu invece gravemente ammalato, ma potè guarire perfettamente. L'Adelaide dava a Giacomo notizie de la carcerazione del Giordani in Parma; il professor Tommasini lo rivedeva a Roma e l'avvocato Maestri a Napoli. Benchè i mali del Leopardi aggravatisi con l'età gli facessero trascurare la corrispondenza anche con quegli amici carissimi, egli non smise mai interamente di scriver loro, e, un mese soltanto innanzi la sua morte, mandava un'affettuosa lettera a l'Antonietta accompagnandole un esemplare de la ristampa fatta a Napoli del bel libro di lei Sull'educazione domestica, insieme a certi quaderni de la storia di Ranieri, scrivendo in pari tempo a l'Adelaide dolente di saperla malata. A l'Antonietta che gli domandava, anche a nome del Giordani, qualche scritto da stampare, rispondeva ch'ella e il Giordani eran padroni di tutte le cose sue stampate e non stampate; chiedeva poi, nel caso che avesse dovuto scegliere egli medesimo, di qual genere fosse la collezione che si voleva pubblicare; e questa sua compiacenza al desiderio di lei ci dimostra in quale alta stima egli la tenesse e quanta riconoscenza dovesse sentir per lei; poichè ognun sa che de' suoi scritti egli era gelosissimo.
Così mentre tante altre svanirono, questa amicizia durava quanto la vita del poeta, meno ardente di quella pel Giordani, meno entusiastica di quella per la Malvezzi, ma ben più profonda e costante.
Quando potranno esser note le molte lettere de la Tommasini al Leopardi, lettere che egli conservava caramente e di cui quindici rimaste fra le carte legate dal Ranieri a la Biblioteca di Napoli appartengono ora a lo Stato, apparirà ancor più chiara la delicatezza e la profondità di questa amicizia.
Allorchè il Leopardi scriveva le sue più amare parole contro le donne, si riferiva al sesso femminile in generale, lasciando comprendere che ammetteva eccezioni e fra queste, in quel gruppo de le anime oneste e sensitive, solitarie in disparte fra i tumulti de la vita, come le nobili figure de gli antichi nel limbo dantesco, così vicine ai dannati e pure tanto lontane da essi, fra queste certo egli poneva l'Antonietta Tommasini.
* * *
Poco sopravvisse al Leopardi la donna gentile, e furon anni dolorosi per lei, che vide malatissima la figlia ed esaurì, curandola, le sue deboli forze. Caduta malata di uno scirro canceroso a la mammella, ne sopportò coraggiosamente l'estirpazione fatta dal chirurgo Rossi e parve risanata, ma non riacquistò la sua dolce serenità abituale; rimase rassegnatamente triste, quasi prevedendo prossimo il giorno in cui avrebbe dovuto abbandonare la famiglia dilettissima.
Clelia Maestri, la nipotina che le era tanto cara, e per lo stretto legame di sangue e perchè intelligente e buona, morì dopo una lenta penosissima malattia. Inconsolabile di quella perdita Antonietta ricadde ammalata de lo scirro rigermogliato in altra parte e causa d'inenarrabili sofferenze; e le cure affettuosissime di tutta la famiglia non valsero a salvarla; morì il 29 gennaio 1839 fra le braccia del suo Emilio, consolata dal marito, che vanamente aveva tentato tutto ciò che la scienza poteva consigliare per salvar quella sua diletta. In una necrologia di lei pubblicata ne la Gazzetta di Parma poi ristampata in un volume[58], Michele Leoni, rimpiangendo con sincero dolore la donna gentile, citava a proposito di essa i versi di Dante:
E le parole ch'uom di lei può dire
Hanno virtù di far pianger altrui.
Ne la chiesa ove le furono resi gli estremi onori, si leggevano queste epigrafi dettate dal Giordani, che le era stato amicissimo e che frequentando la sua casa per molti anni aveva avuto agio di conoscere intimamente questa nobile donna italiana:
DIO RICEVA NELLA SUA PACE IL LUNGO PATIRE E LA CONTINUA BENEFICENZA DI ANTONIETTA TOMMASINI
PIETOSISSIMA AGLI ALTRUI DOLORI PAZIENTISSIMA DE' SUOI
LE FU MASSIMO PIACERE E PRIMARIA VIRTÙ LA BENEFICENZA
RESTÒ AMABILE ANCHE ALLORA CHE PARVE DEGNA D'INVIDIA
NON VANITÀ MA UTIL COMUNE CERCÒ NEGLI STUDI.
Lo stesso Giordani, pubblicando nel 1845 il terzo volume de le opere di Giacomo Leopardi, quello che contiene gli Studi filologici de l'adolescenza, dedicava il suo proemio a Giacomo Tommasini e a Paolo Toschi, che entrambi avevano tanto amato il grande Recanatese.
* * *
Nel 1891 il Ministero dell'Istruzione dava il nome di Antonietta Tommasini a la Regia Scuola Normale Superiore Femminile di Parma e il professor Abele Ferreri, allora direttore di quella scuola, per onorare il nome de la chiara signora, dettava quest'epigrafe:
ANTONIETTA TOMMASINI FERRONI NATA IN PARMA NEL 1780 — MORTA IL 29 GENNAIO 1839 MOGLIE AL PROTOMEDICO GIACOMO DONNA D'ALTO ANIMO DI COLTO INGEGNO DI CUORE TEMPERATO AI PIÙ SANTI AFFETTI DI RELIGIONE DI PATRIO AMORE DI CARITÀ NE' MISERI SPOSA E MADRE ESEMPLARE SAGGIA SCRITTRICE MERITÒ L'AMMIRAZIONE DI CHIARISSIMI LETTERATI DE' SUOI TEMPI LA LODE E L'AMORE DEI CONCITTADINI.
Lo stesso Ferreri, chiudendo un discorso in cui esponeva brevemente le vicende dell'istituto da lui diretto, lodava in Antonietta Tommasini la chiara scrittrice, la donna ammirabilmente modesta e sollecita di essere più che di parere, costante nel lavoro, perseverante nei generosi propositi, amante de la patria e nobilmente premurosa nel cercare il bene di tutti. A questo discorso, pubblicato a Parma nel 1892, se ne trova unito un altro del professor Giuseppe Beduzzi, degno di esser ricordato soltanto perchè le notizie che contiene intorno a la chiara Parmigiana gli furon date dal professor Gustavo Tommasini, nipote di lei.
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I biografi di Giacomo Leopardi hanno troppo dimenticata Antonietta Tommasini, su la quale parmi avesse dovuto bastare il numero de le lettere che il grande poeta le scrisse (se ne hanno stampate diciannove), ad attirare l'attenzione di coloro i quali ne la vita e ne gli affetti di lui, ricercano l'immagine di quell'animo che dal dolore e da l'amore ebbe inspirazioni sublimi. Ne la storia de le sue amicizie, che furon molte, sincere e profonde, poichè egli era tale da guadagnarsi il cuore di ognuno, cui commuovessero l'ingegno unito a la modestia, gli altissimi affetti accoppiati ad altissime sventure, merita un posto notevole la figura di Antonietta Tommasini. Ne l'affetto di una donna per un grand'uomo — notò il Sainte-Beuve — vi ha quasi sempre una prova de la parentela morale che li avvince; lo scrittore fa risuonare armoniosamente una corda nascosta che forse, non tocca da lui, sarebbe rimasta muta ne l'animo de l'amica; egli dà una più alta vita spirituale, una più piena coscienza di sè a la donna che, ravvisando nel cuore di lui molto del proprio, gli si sente fraternamente unita; quest'alta affinità intima fu il legame tenace che avvinse Antonietta Tommasini a Giacomo Leopardi.
NOTE.
48. Bologna, 1829, Tipografia di Emidio Dall'Olmo, in 16º, di pagg. 95.49. La donna e la famiglia. — Scritti d'istruzione, educazione e ricreazione per le donne, vol. I. (Genova, Tipografia Sordomuti, 1862, pagg. 483-486.)50. Milano, presso Antonio Fortunato Stella e Figli, 1835, in 18º, di pagg. 119.51. Parma, Filippo Carmignani, 1838, in 16º, di pagg. 21.52. Vedi Scritti editi e postumi di Pietro Giordani, pubblicati da Antonio Gussalli. Milano, Sanvito, 1857, vol. V (XII de le Opere ), da pag. 94 a pag. 96.53. Vedi lettera 19 marzo 1828 ne l' Epistolario di G. L. Ediz. cit., pag. 75.54. Vedi lettera 24 giugno 1828 ne l' Epistolario di G. L. Ediz. cit., pagg. 91 e 92.55. Vedi lettera 5 luglio 1828 ne l' Epistolario di G. L. Ediz. cit., pagg. 94 e 96.56. Vedi Antonietta Tommasini, Pensieri di argomento morale e letterario, pag. 67.57. Vedi a pag. 355 del volume Le prose morali di G. L., commentate da I. Della Giovanna, il pensiero XCIV.58. Vedi Prose del Cav. Michele Leoni, professore di letteratura italiana e segretario della Ducale Accademia di Belle Arti in Parma. (Parma, Giacomo Ferrari, 1843, in 8º, di pagg. 447.)
Paolina Ranieri
PAOLINA RANIERI.
Un'ultima soave figura di donna ci appare amica e confortatrice presso Giacomo Leopardi ne gli estremi dolorosi anni de la vita di lui: Paolina Ranieri, sorella di Antonio, del quale l'amicizia pel poeta fu a lungo considerata come uno dei più belli ed eroici esempi di umano affetto. Il Ranieri vecchio fece torto a sè medesimo con quel disgraziato libro che fu il Sodalizio, libro di cui egli stesso, ne gli ultimi anni, parve sentire rincrescimento, perchè cercò di ritirare dai librai tutte le copie che potè trovarne.
A difendere il morto poeta molti sorsero, commossi da la pietà reverente pel grande infelice, e questa pietà portò forse a qualche esagerazione; certo però si può ormai affermare che in quel legame da cui i due amici furon stretti, non tutto il vantaggio era dal lato del Leopardi, non tutta la generosità da quello del Ranieri; e che il patriota napoletano ne l'età senile non godette una perfetta sanità di mente. La bella figura d'amico, comparabile a quelle classiche de l'antichità, rimase oscurata ne le ultime ricerche de gli studiosi[59] ed un'ombra parve offuscare anche la gentile immagine di Paolina Ranieri, che la storia letteraria ci mostra così strettamente congiunta a quella dei due amici: dico parve oscurare, poichè in realtà nessuno ebbe motivo di negare il disinteresse e la virtù di lei, nessuno anzi osò muoverne nè pure un dubbio; persino il Ribella, così severo verso Antonio, ha solo parole di lode per la sorella di lui, che dice d'animo mite, gentile, corrivo a la pietà, affettuoso per gl'infelici.
Se Antonio — chi non voglia in lui, dal giovane generoso, ardente, intelligente, dal patriota che per la causa di una patria adorata con sacro culto, seppe soffrire esilio, persecuzioni, carcere, distinguere in modo assoluto il vecchio accasciato da le sventure e dal male e miseramente mutato ne l'animo come nel corpo — se Antonio desta un senso di rammarico e quasi di pietà per non essersi saputo, o meglio potuto mostrare sempre, come ne gli anni giovanili, ugualmente degno de l'amicizia d'un Leopardi, Paolina non risveglia che ammirazione, anche quando le smisurate lodi del fratello per lei si vogliano considerar soltanto come esagerazioni di una mente turbata: Paolina è una di quelle purissime, candide creature dinanzi a le quali la povera umanità ha diritto di sentirsi un momento orgogliosa di sè e di levar la fronte verso le stelle.
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Francesco Ranieri e Luisa Conzo furono i genitori di Paolina, che nacque il 26 marzo 1817 a Napoli in un palazzo di via Piliero e fu battezzata in San Giacomo co' nomi di Paolina, Virginia, Nunzia, Tudegarme. La famiglia era numerosissima, poichè contava dieci figliuoli, di cui Antonio era il primo, dopo di lui eran nati tre maschi, il maggiore fra i quali, Giuseppe, fu il più affezionato al primogenito. Per quanto le cure del padre, de la madre, dei congiunti, possano essere intelligenti, assennate, vi ha un'educazione che difficilmente essi riescono a dare a un figliuolo rimasto unico: quella fraterna; quanto apprendono l'un da l'altro i ragazzi, che lezioni d'affettuosa pazienza, di compatimento gentile, di pietà, di sacrificio! Di queste lezioni, Paolina, naturalmente buona, profittò più che altri mai.
Francesco Ranieri, uomo operoso e di discreto ingegno, viveva agiatamente, perchè a lo stipendio che gli fruttava il suo ufficio altissimo ne le poste del Regno, veniva ad aggiungersi la rendita de la dote de la moglie e di qualche capitale ch'egli possedeva. Più in apparenza che in realtà era severo coi figliuoli, che amava di vero affetto; mentre tenerissima, senza cercar di nasconderlo, era di loro la madre, la quale ad un animo tutto affettuoso, univa l'operosità ne la cura continua e vigilante de la casa e dei figli. Abitavano a l'angolo de la piazza del Municipio, in via San Giacomo, e quivi i figliuoli crebbero in un'infanzia e in un'adolescenza tranquilla. Paolina però non venne risparmiata da la sventura: era ancora bimba, quando, colpita da un ascesso al fianco, dovette sopportare una dolorosa operazione, che il chirurgo Gaspare Pensa riuscì a compiere con buon esito, benchè non potesse ridare a la fanciulla la salute perfetta. Queste infantili sofferenze lasciarono un'impronta nel carattere di lei, che serena, ilare sempre, era tuttavia pietosissima d'ogni dolore; ogni dolore intendeva od intuiva, e di nulla piacevasi come del recar sollievo ai malati.
Antonio, giovane e di carattere ardente, non sapeva sopportare il durissimo giogo di Francesco I; aveva stretta amicizia con parecchi liberali ed era intimo di Carlo Troya; per tutto questo dava assai da pensare al padre, impiegato del governo napoletano e sinceramente devoto a questo, sì che ad evitare impicci e dispiaceri più che probabili, fu deciso in famiglia che il giovane andasse a studiare a Roma. Partì un giorno a l'improvviso, mentre a pena albeggiava, baciando, senza risvegliarla, la sorellina prediletta, che dormiva tranquilla, ignara di tutto, e doveva poi chiedere con doloroso stupore del suo Antonio. Di questa partenza la data più probabile è il 1826. Da Roma il giovane passò a Firenze, dove appreso d'una grave malattia di sua madre, chiese il passaporto, e stava per partire a la volta di Napoli, quando ebbe notizia del proprio esilio.
La madre era veramente ammalatissima, nè le forze de la sua età ancor florida opponevano sufficiente resistenza al male; sentendosi mancare, ella chiamava sempre ad alta voce, dolorosamente il figlio lontano, non consolata de la mancanza di lui, da le vigili amorose cure del marito e de gli altri figliuoli, tutti stretti intorno al suo letto, agitati da speranze vane e da timori sempre più gravi, sinchè la morte ridiede loro quella sconsolata calma, in cui l'anima trova il solo conforto di non averne nessuno. Il pensiero de la cara perduta rimase ne l'animo de la giovanetta come un sacro ricordo, chè la provvida natura, benchè talvolta crudelmente separi la madre da' suoi nati, permette almeno che la purissima memoria rimanga santamente vigile e feconda di affetti, di pensieri, di azioni buone nel cuore de gli orfani, i quali non sono tali interamente quando hanno il tesoro di quel ricordo.
Paolina fu istruita seriamente da maestri eccellenti, fra i quali Giovanni Smit livornese, non oscuro letterato, e quel Costantino Margaris, che per la Grecia natia aveva combattuto con valore e che, venuto in Italia, conservava vivissimo l'affetto a la sua nazione; di lui il Ranieri scrisse poi la vita. Il Puoti e il Troya, amici di casa Ranieri e di casa Ferrigni (ne la quale Paolina stette parecchio tempo, dopo la morte de la madre, presso la sorella Enrichetta), furono larghi di consigli a la giovine. Ella coltivava gli studi con piacere, pur preferendo ad essi le cure de la casa, cui la madre l'aveva abituata, e non isdegnando nè pur le più umili: era bella, di carattere amabile e, quantunque assai pietosa d'animo e riflessiva e seria per abitudine, serena e sorridente. La sua non fu nè allora, nè mai la bontà arcigna e pedantesca, che fa sentir a tutti il peso de la propria superiorità; nè la purezza sua di donna fu mai quella
Virtù da istrice,
che, stuzzicato,
si raggomitola
di punte armato,
come argutamente la caratterizzava il Giusti; la virtù che si chiude al contagio del mondo nel lazzeretto di sè stessa. Buona, rimase semplice, quasi col suo sorriso amabilissimo volesse farsi perdonale quella nobiltà di sentimento, che è l'aristocrazia de l'animo; onestissima, cercò le gioviali compagnie; rimase, pur non amando, sempre degna d'amore.
Nel 1831 Antonio era stato richiamato, e volontieri avrebbe fatto ritorno a Napoli, se non avesse temuto di non poterne più uscire; di che persuaso il padre stesso, che pur da prima desiderava vivamente di riabbracciarlo, finì col cedere a lasciarlo lontano; ritornò invece ai primi di ottobre del 1832 e rimase a Napoli fino a l'aprile del 1833.
Fra lui e il Leopardi si era già stretta a Firenze una viva amicizia; insieme erano stati parecchi mesi a Roma, fra il 1831 e il 1832; causa di questo viaggio l'amore del Ranieri per la Maddalena Pelzet Signorini, attrice fiorentina, si è detto, non so con quanta verità. Ritornato a Firenze, e ricaduto ne le reti di Aspasia, che doveva tanto farlo soffrire, il Leopardi si trovò privo anche de l'amico, che giunto a Napoli corse a la villa dov'era allora la sua famiglia e rimase piacevolmente meravigliato dinanzi a l'aspetto grazioso e serio di Paolina, ch'egli ricordava bimba, quando fermandosi a la porta del suo studio stava guardandolo, e, interrogata che facesse, rispondeva, quasi ancor balbettando: — Ti guardo studiare. Nel lieto pranzo che riunì tutti i suoi, Paolina, felice del ritorno di quel fratello tanto caro, rimaneva tuttavia preoccupata, vedendo in lui qualche cosa di mesto; chiestogli, a pena furon soli, che l'affliggesse, e saputo ch'egli avea lasciato a Firenze un grande poeta ammalato, cui solo intelligenti e amorose cure potevan prolungare la vita, ella, che di quel poeta aveva letto, non senza lacrime, le Canzoni ristampate a Napoli in una strenna da Carlo Mele, amico di casa Ranieri, gli propose di andar a riprendere l'amico e condurlo fra loro: «Ed io ti prometto di fargli da suora di carità»; così, secondo narra Antonio, disse la giovinetta; ma se pur la critica, che dubita di tante cose, esita a credere anche che queste precisamente fossero le parole de la fanciulla, del fatto non può dubitare; e certo il fatto non le smentisce, poichè Paolina fu veramente la suora di carità di Giacomo Leopardi.
L'epistolario leopardiano ci rivela come il grande Recanatese si decidesse ad andare a Napoli solo per l'amichevole insistenza del Ranieri e persuaso di non restar che poco in quella città; aveva bisogno di distrarsi, l'animo suo era oppresso più che mai: «Io non penso più alla salute, perchè di salute e di malattia non m'importa più nulla; del resto, specialmente quanto all'applicare, sto presso a poco al solito, cangiato molto nel morale, non nel fisico.»[60] Non si cura de la gloria che chiama un fumo e che gli fa nausea, e del guadagno ancora, di cui pure ha necessità per vivere, gl'importa poco. Una funebre stanchezza si rivela in tutta la lettera del 3 luglio 1832 al padre: chiede un assegno, ma con una malinconia profonda, una invincibile indifferenza verso di sè e un disperato desiderio di morire. A la sovrumana gioia che gli veniva dal pensiero amoroso, stato tutto per lui, unico pregio, unica ragione de l'esistenza e che gli aveva fatto apparire per un momento la vita più gentile de la morte, innalzandolo a lo stupendo incanto di una nuova immensità, di un paradiso ignorato, era succeduto, insieme a la triste stanchezza, che derivava dal languire de la speranza, mentre la terra gli pareva ormai inabitabile senza quella nova, sola, infinita felicità che gli figurava il suo pensiero, l'angoscioso timore de la grave procella presentita e che gli faceva invidiare con ardenti sospiri il sempiterno obblio de la gente morta. Poi giunto l'epilogo doloroso de la sua passione, tutti quei sentimenti s'eran perduti ne la tragica disperazione, in cui egli sentiva morto per sempre il suo cuore, spenta non che la speme, il desiderio di cari inganni; dettava allora i terribili versi in cui dice al proprio cuore:
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
Persuaso da l'amico ad allontanarsi da la donna che l'aveva fatto tanto soffrire, egli accettò di andare a Napoli (1º ottobre del 1833) e di vivere con lui, pur provvedendo co' suoi mezzi, per quanto scarsi, ai pochi bisogni de la sua modestissima vita. Non acconsentì il vecchio Ranieri di aver in casa sua ospite il figlio con l'amico, di cui egli aveva in abborrimento le opinioni irreligiose; e, benchè non ne resti prova alcuna, mi pare altresì che Giacomo, fiero e sdegnoso, anche nei suoi economici disagi e ne le misere condizioni del suo corpo malato, non avrebbe consentito ad esser di peso al padre d'Antonio. Perciò Costantino Margaris, amicissimo di tutta la famiglia, cercò e trovò pei due sodali, che vi scesero a pena giunti, un quartierino su la loggia di Berio, vicino a Toledo, di dove presto, perchè quell'aria era troppo bassa pel Leopardi, passarono in via Santa Maria Ogni Bene.
* * *
Paolina Ranieri quando conobbe il Leopardi aveva diciassette anni e riuscì simpatica a lui come a tutti quelli che la conoscevano. Ella premurosa provvide tosto con la sua sagacità di donnina precoce che l'appartamento nel palazzo Cammarota fosse in modo conveniente arredato con le masserizie dal vecchio Ranieri concesse al figlio; e punto sdegnosa de l'umile prosa che è la vita d'ogni giorno, badò di procacciare al fratello e a l'amico di lui tutte le piccole comodità che pur valgono tanto. Commovente è la storia de la lunga lotta ch'ella sostenne con se stessa e co' suoi prima di lasciare la casa del padre per stabilirsi con Antonio e col Leopardi. Il vecchio Ranieri trovava la cosa sconveniente, ma in fine la fermezza de la fanciulla trionfò. Da prima ella fu solo una cara compagna di qualche ora pel Leopardi, ma quand'egli col Ranieri andò il 4 maggio 1835 ad abitare in un quartierino al Vico Pero, nº 3, presso Capo di Monte e mercè di lei vi si fu in breve ben accomodato, Antonio ottenne dal padre il permesso di condurre seco le due sorelle Paolina e Teresa; quest'ultima però stette poco insieme a loro, perchè la casa paterna avea bisogno d'una donna, ed ella vi fu richiamata. Paolina invece si fissò coi due amici, dirigendo la domestica economia e procurando specialmente al poeta, sempre sofferente, quel sollievo che una modesta agiatezza ed un cuore di donna devota possono dare. E non parlo solo de le cure materiali, che pur hanno la loro importanza; intendo ancora del morale conforto. La giovanetta massaia non era solo una infermiera e una direttrice de la casa; era anche un'anima eletta, colta, abituata a guadagnarsi con la grazia e lo spirito l'amicizia de gli uomini notevoli per ingegno e dottrina, di cui la compagnia le era stata familiare sin da' suoi primi anni ne la casa paterna. Rade volte, — diceva il Recanatese, — ci si risolve ad amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorchè l'anima; ed è vero; altrettanto vero è ancora che la virtù riceve da la bellezza e da la grazia una luce che non le dà la fortuna, nè la gloria, un fascino, cui pochi resistono. Nè di tali pochi era il Leopardi che, fino ne l'accasciamento del suo doloroso scetticismo, serbò nel più alto segreto de l'anima il culto di ogni morale grandezza, e cui la bellezza pareva
. . . . . splendor vibrato
Da natura immortal su queste arene;
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi
Segno e sicura spene.
Il poeta paragonava Paolina a la propria sorella, di cui gli era caro ch'ella portasse il nome. Abituato a l'amicizia ed a l'ammirazione di molti uomini insigni (e fra quelli che lo frequentarono a Napoli si possono ricordare il filologo tedesco Enrico Guglielmo Schultz, il poeta Augusto Platen divenutogli assai intimo, il marchese Basilio Puoti, ne la scuola del quale egli andava non di rado, Carlo Troya, Giuseppe Ferrigni, Costantino Margaris, col quale assai di frequente discuteva di cose greche), ritrovava una dolcezza diversa e ben più cara ne l'affettuosissima e reverente intimità di Paolina. Come la tenera Desdemona di Shakespeare, la bellissima giovanetta, cui la vita e il mondo sorridevano, sentì più forte d'ogni attrattiva di mondani piaceri, l'incanto de la pietà per un'anima grande e sventurata, l'ardore del santo desiderio d'esserne la confortatrice; non meno triste e tragica era la storia di questo grande che non fossero le vicende ardue, le battaglie, i pericoli d'Otello; e come Desdemona, Paolina ora pendeva intenta al racconto, ora era condotta altrove da le cure casalinghe, ma sempre ritornava a bere con avido orecchio le parole che le riempivano l'animo di pietà e di commozione; e come il cupo eroe de la tragedia inglese, anche il poeta del dolore dovette sentirsi vinto da quel sorriso di femminile pietà e stringere con tutta l'anima la candida mano così nobilmente stesagli. Egli che prendeva ben poco piacere de le cose che alla maggior parte de gli uomini soglion esser care, più di ogni altro sentiva il bisogno, la sete d'affetto; benchè non procurasse e non affettasse di apparire diverso dalla moltitudine in cosa alcuna, era troppo veramente grande, perchè le persone non volgari potessero confonderlo con quella moltitudine; e non volgare era certo Paolina, che, sotto l'aspetto riposato e dolce, quanto modesto di lui, riconobbe e apprezzò la nobiltà del sentire e l'elevatezza de l'ingegno e si compiacque di essergli confidente compagna. «Nei discorsi sempre si esercitò colle persone giovani e belle più volontieri che cogli altri; quasi ingannando il desiderio e compiacendosi d'essere stimato da coloro da cui molto maggiormente avrebbe voluto essere amato,» scrisse il Leopardi di Socrate e certo pensò di sè, come quell'antico ripugnante d'aspetto, eccellente d'ingegno e ardentissimo di cuore. Egli sentiva che una donna di venticinque o trent'anni ha più d'attrattive ed è più atta a destare un amore ardente e appassionato, ma credeva ancora che niente possa uguagliare quel non so che, quasi divino, che ha nel volto, ne le movenze, ne le parole, una giovinetta dai sedici ai diciott'anni. «Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto, allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta, quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù; quella speranza vergine, incolume, che si legge sul viso e negli atti, e che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria d'innocenza e d'ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel fiore in somma, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardare quel viso; ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, io ripeto, senza innamorarci, senza muoverci desiderio di posseder quell'oggetto.»[61]
Parecchi hanno supposto che il Leopardi fosse innamorato di Paolina Ranieri, ma è una pura supposizione, di cui per prima parlò la chiara signora Caterina Pigorini-Beri, che nel suo studio su Giacomo Leopardi, premesso a le Poesie e prose scelte ed annotate per le giovanette (Firenze, Le Monnier, 1890, pag. 66 e segg.) afferma non esser possibile che il Recanatese non amasse la dolce giovane di cui la devozione intrepida, intelligente, quasi sublime gli confortò gli ultimi anni; ella crede che Paolina sia la donna del Consalvo e del Pensiero dominante e si duole che il Ranieri, il quale disse tante cose che sarebbe stato bello passare in silenzio, abbia taciuto di questo amore così puro e timido, il quale forse riconciliò con la vita il poeta del dolore. Io non credo che Paolina sia la donna del Consalvo e del Pensiero dominante; troppe ragioni in contrario sono state addotte e si potrebbero addurre: prima di tutte, la data del Canto, che, senza dubbio, benchè corretto posteriormente, è opera giovanile; certo però il sentimento che il Leopardi dovette provare per Paolina Ranieri fu di affetto altissimo, in cui si raccoglieva tutto il calore che le lunghe inenarrabili pene avevan lasciato ancora ne l'animo di lui; parmi fosse affetto piuttosto di venerazione che di passione terrena; se parlando di una donna giovanissima, bella e pura in generale, egli diceva che noi vi scorgiamo qualche cosa di celeste che ce la fa riguardare come di una sfera divina, superiore a la nostra e cui non possiamo aspirare; a ben maggior ragione dovea parergli sacra Paolina, che era per lui l'ospite generosa ben più che di doni materiali, di cure affettuosissime, di conforto morale, l'amica, che con tanta semplicità e con tanta modestia sacrificava i bellissimi fra i suoi anni per curare un malato estraneo a la famiglia e vigilar il focolare domestico de' due amici, il quale, malgrado il loro reciproco affetto, sarebbe stato probabilmente ben freddo e monotono senza di lei.
Paolina dovea sembrargli una creatura venuta dal lontano mondo de' suoi sogni per ridargli la visione di esso e la dolcezza, ricordo d'una patria ideale perduta, speranza e conforto insieme. Se ce la figuriamo diciassettenne a pena, quando lo conobbe, ventiduenne quand'egli morì, bella, colta, graziosa, con un affetto che la sua estrema gioventù non consente di chiamar materno, ma che pure de la materna tenerezza ha l'abnegazione e la soavità, e che la sua divina purezza non ci lascia chiamar d'amante, benchè forse solo l'amore possa spiegare certi eroismi sublimi, se ce la figuriamo sorridente e pensosa, seduta ne le lunghe serate, ne le giornate lunghissime, presso la poltrona del malato, ne la semioscurità che talora gli era necessaria, o ne la diffusa luce dei meriggi d'estate da cui talora egli voleva inondata la sua camera, parlargli con semplice grazia, leggergli, dissipare con un sorriso, con una stretta di mano, con un amichevole sguardo di rimprovero la sua cupa tristezza, la sua tormentosa inquietudine, ella ci apparirà la più vera donna che Giacomo Leopardi abbia conosciuta, la sorella di Silvia, la compagna di Nerina.
Pare che lo stesso dottor Mannella avesse parlato del pericolo che poteva correre la fanciulla in quei primi anni de la sua giovinezza, vivendo sempre vicina ad un uomo così gravemente infermo qual era il Leopardi, ma quel pericolo ella non curò punto, anzi esso non giunse mai a turbare un momento la serenità del suo spirito. E Giacomo sentì allora che pietosa al mondo dei terreni affanni non era la morte soltanto e che un altro virgineo seno poteva dargli conforto.
Quel potente e terribile pensiero che l'aveva avuto in sua balìa e gli aveva dati tanti tormenti, consorte terribile dei suoi lugubri giorni, diveniva un grande austero compagno, ora ch'egli poteva comunicarlo ad anime degne d'intenderlo; e a quegl'intimi colloqui, di cui tanto è da dolersi non abbia il Ranieri lasciato ricordo alcuno, doveva rivolgersi il poeta vogliosamente dal secco ed aspro mondano conversare, come il suo pellegrino, fra i nudi sassi de la via montuosa, volge bramoso gli occhi
A un campo verde che lontan sorrida.
Il professor Odoardo Valio, dopo aver parlato dei vari amori di Giacomo Leopardi per la Fattorini, la Basvecchi, la Belardinelli, la Malvezzi ed Aspasia soggiunge: «Nessuno di siffatti amori riescì ad appagarlo appieno, nessuno a trasfondergli un verace conforto, nessuno a conciliarlo un po' con la vita. Invece tutto ciò raggiunse la Ranieri, il fascino della quale addirittura lo soggiogava, perchè era un incontro di vergine amore e di vergine pietà insieme, di amore in lui per lei, e di pietà in lei per lui; ond'ella, a differenza di tutte le altre, ebbe il merito supremo di far risplendere, ancora una volta, un raggio di speranza in quello spirito desolato. E la bella figura muliebre nel carme mirabile del Consalvo è appunto quella di Paolina Ranieri.»[62] Ho già detto che se Paolina sia l'Elvira del Consalvo è cosa da lasciarsi per lo meno in dubbio, ma certo è che ella fu pel Leopardi la più dolce e generosa fra le amiche, quel che la donna gentile, la soave Mocenni, pel Foscolo, anzi assai più; e che se il grande Recanatese tanto fiero, altero e talvolta anche strano, visse di buon grado lunghi anni presso i Ranieri, oltre l'amicizia di Antonio, doveva attrarlo la delicata premura e il nobile affetto di Paolina, in cui gli pareva di ritrovare la sorella che aveva tanto amato ne la sua prima giovanezza e di cui il ricordo serbò carissimo per tutta la vita, benchè temesse ch'ella, al par di Carlo, non fosse rimasta sempre ugualmente tenera in quel loro fraterno legame.
Certo Antonio nel suo Sodalizio esagerò grandemente, o almeno pose sotto una falsa e antipatica luce i sacrifizi sostenuti da lui e da la sorella pel Leopardi, ma non v'ha dubbio che sacrifizi dovettero essere e gravi. Tutto avrebbe giustificato, in Paolina specialmente, desideri ed aspirazioni ben diverse da la vita ch'ella conduceva; ed accresce pregio al sacrifizio la spontaneità con cui fu compiuto, la grazia serena in cui il Leopardi non poteva mai scorgere un'ombra di rimprovero o solo di rimpianto. Non è però da tacersi che se da un lato il poeta per le sue infermità, talora per l'umor malinconico, che però abitualmente non si scorgeva in lui, se non come un atteggiamento pensoso e grave, non discaro, e per talune strane abitudini o voglie di malato, poteva riuscir gravoso a gli ospiti (quantunque Giuseppe Ranieri affermasse che egli era mite, buono, modestissimo ne' suoi desideri, di nessuna pretesa, affabilissimo poi quasi sempre, arguto nel conversare )[63] la sua amicizia e la sua conversazione dovevano essere un non lieve compenso per i Ranieri; e lo riconobbe Antonio stesso, anche mentre, con animo tutto mutato da l'antica amicizia, scriveva il Sodalizio. Le serate troppo a lungo prolungate nel cuore de la notte per leggere, studiare o ragionar con Giacomo riuscivano materialmente una fatica e una pena, ma intellettualmente erano ben altra cosa. Egli doveva tornar loro inoltre di morale conforto, come egli medesimo trovava sollievo e dolcezza ne la loro compagnia e nel loro affetto fra gl'inevitabili dispiaceri che spesso venivano ad aggiungersi al suo vecchio e terribile carico di dolori. Soverchia suscettibilità indusse molti anni dipoi il Ranieri a supporre sconoscente l'amico verso di lui, mentre tutto ci fa credere gli fosse teneramente grato; infatti di nessun contemporaneo disse quel che di lui e designandolo propriamente col suo nome: «Un mio amico, anzi compagno della mia vita, Antonio Ranieri, giovane che, se vive e se gli uomini non vengono a capo di rendere inutili i doni ch'egli ha dalla natura, presto sarà significato abbastanza dal solo suo nome...;»[64] e presentandolo al Visconti lo chiama: «giovane d'ingegno raro, di ottime lettere italiane, latine e greche e di cuore bellissimo e grande.» Invero se talvolta il Leopardi ne l'Epistolario ha parole pungenti per Napoli e i Napoletani, nulla fa credere ch'egli parli dei Ranieri, e Antonio stesso sapeva che l'ospite fu talvolta giustamente irato contro certi falsi amici, se egli medesimo, come notò il Piergili, racconta nel Sodalizio che Giacomo venutogli un giorno innanzi con un piccolo bastone gli disse: Io vado fuori a bastonare qualcuno.
Nulla scrisse il poeta che apertamente ricordi la Ranieri, ma forse a l'anima alta, gentile e pura, l'affetto per la nobile amica dettò l'ultimo canto, quel canto dolcissimo fra tutti, fra tutti sublime, che ogni poeta pensò, io credo, e nessuno scrisse, quel canto, cui la parola non limita, nè scolora, nè intiepidisce; che solo l'artista intende e solo sa e solo gode; ma se Paolina ne gli occhi stanchi, cui nè pur arrideva più la dolcezza del sogno, vide un raggio de l'intima luce ch'ella aveva avvivata, ella ebbe un compenso degno di lei. Il corpo era disfatto e lo spirito abbattuto, ma il cuore del poeta batteva ancora per gli affetti più gentili, e questo, gentilissimo, gli richiamava i puri, ardenti desideri d'un tempo, i generosi entusiasmi, le subite fiamme, fra le tristi negazioni e i sogghigni amari del suo scetticismo.
Presso i Ranieri, il poeta visse modestamente, tranquillamente; sempre affabile e semplice nei modi, sempre assorto ne l'intima vita del suo spirito, ma non punto disdegnoso con alcuno e caro a moltissimi che gli manifestavano con mille gentilezze la simpatia e l'ammirazione. Dal Ferrigni in particolare il Leopardi ricevette molte cortesie, spesso fu ospite nel palco di lui al teatro del Fondo e ne la villa di Torre del Greco.
«Mi ricordo,» narra il Dalbono in una lettera, «che una sera eravamo in casa Ferrigni dove avevano condotto il conte Leopardi. Il Leopardi a un divano e Carlo Troya vicino a lui su di una sedia. Parlavano di geografia antica. Sapete che Troya era chiamato dagli amici Carlone, perchè ci era Carlino, che era Carlo Mele. Io ero molto giovane e ordinai una di quelle che si chiamano quadriglie e feci ballare le ragazze che c'erano, e principalmente le figliuole del Ferrigni. Io facevo da direttore che non ho mai ballato! Mi ricordo che la più grandicella della Ferrigni era Argia, che poi diventò valente nel dipingere ad olio; e allora era piccolissima. Ci era Paolina (Ranieri) giovinetta, una simpatia di prima forza, e quella cara Donn'Enrichetta, già moglie del Ferrigni. Ricordo ancora che fui grandemente applaudito perchè il conte Leopardi si era divertito molto a vedere il ballo di queste fanciulle e a udire le grida del direttore, vostro servo, che si affannava a farle andar bene.... Quella sera in casa Ferrigni ci era il meglio di quel tempo.»
Il Ferrigni, marito de l'Enrichetta Ranieri, giovò ai due amici ottenendo dal vecchio Ranieri, che da prima non voleva saperne, un assegno ad Antonio perchè vivesse fuori de la casa paterna; curava anche gl'interessi del Leopardi, riscuotendo per lui i danari che gli mandava la famiglia. Giuseppe Ranieri accompagnava spesso il Leopardi ne le passeggiate ch'egli soleva fare quasi sempre verso il mezzodì, perchè temeva gli fosse nociva l'aria de la sera; di solito andavano dietro a Santa Teresa, poi nel largo de le Pigne e verso Foria. Fra gli amici che frequentavano il Ranieri e il Leopardi, v'era ancora Alessandro Poerio, ad essi molto affezionato.
Ne gli anni che passò a Napoli o ne la campagna napoletana il Leopardi ebbe momenti di bella inspirazione, benchè il calore de la sua giovanezza lo avesse abbandonato e i cari inganni, le immagini splendide, che già gli avevano sorriso, non fossero più che una soave, morente luce di tramonto su l'ultimo lembo d'un orizzonte già tutto tenebroso. A quegli anni appartengono fra i suoi Canti (per non dire del Pensiero dominante, di Amore e Morte, A sè stesso, Aspasia probabilmente limati soltanto a Napoli), Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, Sopra il ritratto di una bella donna, Palinodia al marchese Gino Capponi, Imitazione, Scherzo, il Tramonto della luna, la Ginestra; cui sono da aggiungersi I Paralipomeni della Batracomiomachia ed alcune prose. Nel Canto Sopra un bassorilievo antico e sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi, prevale lo sconsolato scetticismo, che vede misera la prole umana, checchè speri, a qualsiasi età de la vita si rivolga, qualunque cosa ricerchi per suo conforto; ma vi ha ancora, se non l'ardore giovanile, tutta l'affettuosità del poeta, che dinanzi a l'immagine de la bellissima fanciulla chiamata da la morte si commuove; non sa se debba chiamarla cara o sgradita al cielo, ma sospira fra sè stesso; freme a l'idea di colui che la morte sente de' cari suoi, e descrive con tenerezza desolata l'addio ad una diletta persona con cui si è passati insieme molti anni, addio senza speranza di ritorno e cui segue il triste abbandono.
Forse, descrivendo quest'addio de l'amico a l'amico, del fratello al fratello, de l'amante a l'amore, egli ripensava ad Antonio ed a Paolina con cui aveva speranza di passar molti anni insieme.
Anche il Canto Sopra il Ritratto d'una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima ha concetti elevatissimi. Ne la villetta fra Torre del Greco e Torre dell'Annunziata, dove il poeta passò la primavera e l'autunno del 1836, egli scrisse Il tramonto della luna, disperato rimpianto della giovanezza, che sola colorisce di una luce d'aurora la vita mortale.
La ginestra, scritta ne lo stesso anno e ne lo stesso luogo, è tragicamente terribile, pur apparendo calma e tranquilla nel ragionamento: il poeta vi dipinge i cespi di quei gialli fiorellini odorati su l'arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo; la ginestra contenta de' deserti, che cresce fra le rovine di Roma, come sui nudi pendii del Vesuvio
. . . . . . . . . . . . . di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna;
il fiore gentile che, quasi i danni altrui commiserando, manda al cielo un profumo dolcissimo, conforto al deserto, gli ricordava forse la pietà di Paolina Ranieri, anch'essa, come quel fiore, pietosa de le sventure, anch'essa amante dei reietti dal mondo, gentile nel consolarli; l'esempio de l'abnegazione di lei, di quel verace affetto di carità e di generosa amicizia che la faceva sorella de gli sventurati e particolarmente di lui, tanto infelice quanto grande, può aver contribuito ad inspirargli quei versi de la Ginestra che sono moralmente fra i più elevati ch'egli abbia scritti, in cui chiama nobile natura quella che si mostra grande e forte nel soffrire e non aggiunge al fardello de le proprie miserie il peso più grave di ogni altro, de gli odi e de le ire fraterne, e stima l'umanità congiunta e ordinata per combattere le nemiche forze de la natura:
Tutti fra sè confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune.
Nè forse Paolina era lontana dal suo pensiero, quando tra le amare derisioni dei Paralipomeni, egli ritrovava un raggio de l'antico entusiasmo per cantare la virtù:
Bella virtù, qualor di te s'avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
O nota e chiara, o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma immaginata ancor di te si scalda.
* * *
Ne gli ultimi mesi di sua vita pare che il Leopardi non prevedesse imminente la propria fine, almeno così afferma Antonio Ranieri, il quale asserisce ancora aver talvolta il poeta detto a lui ed a Paolina, che altri quarant'anni l'avrebbero avuto con loro. Pure vi hanno tratti de le lettere leopardiane in cui il presagio de la morte è chiaro e solenne; basti ricordare le gravi e meste parole de l'ultima lettera al padre, che tanto ricorda quella di Torquato Tasso moribondo; forse egli, come molti ammalati, passava alternativamente da le illusioni a la coscienza del vero, fors'anco la speranza, la fiducia ch'egli mostrava di giungere ad una tarda vecchiezza, era un delicato tratto d'affetto verso gli ospiti amorosi, ch'egli non voleva affliggere di soverchio; ciò spiegherebbe ancora come egli mostrasse di non intendere quanto i medici napoletani gli dicevano chiaramente, più chiaramente che il Ranieri non avesse voluto, e cioè di qual gravità fosse il suo male.
Era il tempo de l'epidemia colerica, e mentre la carrozza attendeva i due amici e Paolina che dovevano recarsi in villa, il Leopardi si sentì male e desiderò il medico; ma, vedendo un po' turbato Antonio, si alzò, sorrise e lo rassicurò, stringendogli la mano. Mentre il Ranieri andava per il professor Mannella, Giacomo rimase con Paolina, che l'assistette e volle fosse adagiato sul letto, da cui tre volte egli si levò per rimettersi a mensa, sperando sempre di vincere il male e forse di dar animo a la buona amica. Quando Antonio ritornò col medico, il Leopardi era su la sponda del letto, appoggiato ad alcuni guanciali ammonticchiati per sostenerlo; sorrise e parlò col Mannella del proprio male e del desiderio di levarsi per andar in villa; ma il dottore accortosi de la fine imminente, avvertì di mandar tosto per un prete. Paolina era sempre a canto al moribondo, gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore, e a lei, secondo narra il Viani d'aver sentito da un amico di casa Ranieri, furon rivolte le ultime parole di Giacomo: «Ci vedo più poco.... apri quella finestra, fammi vedere la luce»; dopo le quali spirò senza acute sofferenze, in questo desiderio de la luce ch'egli avea abborrita talora, come simbolo de la verità crudele e nefasta.[65]
Il Chiarini, dopo aver notato che l'affetto, quand'è disinteressato e puro, d'una donna per un poeta è una de le più nobili ricompense serbate al genio, la più dolce per l'uomo che ha cuore, il più lusinghiero diploma di poesia, come dice il Sainte Beuve, ricorda che tal diploma ebbero Giorgio Byron, non già da Lady Carolina Lamb o da la contessa Guiccioli, ma da la ignota giovanetta inglese, che vicina a morire di consunzione gli scrisse per ringraziarlo del piacere che le avevano procurato le sue poesie; Alfredo de Musset non da la Sand, ma da la gentile madrina; ed Enrico Heine da la dolce sua Mouche. Questa gloriosa e delicata corona ebbe anche Giacomo Leopardi, che più de gli altri la meritava, perchè più soave e più profonda fece risuonar ne' suoi versi la nota de la passione e del dolore, rimanendo scevro de la licenziosità de gli altri; e l'ebbe da le candide mani di Paolina Ranieri.
«Ogni nobile scrittore,» scrisse il Sainte Beuve, «raccatta su la sua strada e si porta dietro i suoi nemici, i suoi invidiosi occulti, esseri ignobili, accaniti contro di lui, che si attaccano a lui e vivono di lui; è giusto che ci sieno al mondo alcune anime generose che lo compensino di ciò: è giusto che egli abbia le sue gioie nascoste, certe dolcezze di felicità riserbate a lui solo.»
* * *
Morto il Leopardi, Antonio e Paolina tornarono ne la casa paterna, forse per cercarvi un conforto o ad ogni modo perchè non v'era più ragione che ne stessero lontani. Due anni a presso tutta la famiglia mutò dimora e andò ad abitare nel palazzo De Flavis, di fronte a quella casa Giura del vico Pero, che doveva ricordar ai fratelli il caro defunto. Paolina ed Antonio, che non volevano lasciare il rione di Santa Teresa, nel 1851 fecero di nuovo famiglia da sè, andando ad abitare nel palazzo Mantone, dove più tardi Antonio comperò l'appartamento nel quale dimorava.
Qual fosse l'animo di Paolina dopo la morte del Leopardi non sappiamo, ma possiamo facilmente immaginarlo, se ripensiamo a l'affetto ch'ella gli avea dimostrato. Antonio dice che fu lei ad avere il primo pensiero del monumento che Michele Ruggiero eseguì e che rimane ne la chiesetta di San Vitale, modesto sepolcro, ma tale da commuovere ogni animo gentile, come il Leopardi si era già commosso presso a l'umile tomba di Torquato Tasso in Sant'Onofrio.
«Là, — disse il Nencioni, — il suo cuore irrigidito si commosse — e il poeta di Nerina e d'Aspasia s'inginocchiò e pianse su le ceneri del poeta di Erminia e di Armida.»
.... tomba fregiar d'uom ch'ebbe regno
Vuolsi e por gemme ove disdice alloro:
Qui basta il nome di quel divo ingegno
( Alfieri.)
Il sepolcro del grande Recanatese è vicino a quello di Virgilio ed a quello del Sannazzaro; ma egli non deve lamentarsene come gli pareva che avesse avuto a pentirsi il Guidi d'aver desiderato d'esser sepolto poco lungi dal cantore de la Gerusalemme; non ha da lamentarsene, perchè quale che sia la gloria del divino Virgilio, non mancheranno a le ceneri di lui, non meno grande del grande Latino e tanto infelice, le lacrime di una reverente pietà e di una calda ammirazione.
Pur nella tomba che la tua soverchia
Declinò l'aurea stella
Ravvivatrice del figliuol d'Anchise.
Ti dorme accanto que' che un dì s'assise
Presso la riva, e fe' dall'onde fuori
Veramente apparir Ninfe e Pastori.
. . . . . . . . . . . . . . .
D'amor cantando in mille dolci guise.
Ahi sopra l'urne povere di fiori
Sol fa mesto lamento
Tra foglia e foglia il vento,
Nè paterno sospir vola ove giaci,
Nè sorella ti diè gli ultimi baci;
scrisse la Giuseppa Guacci Nobile, che cantò molto gentilmente del Leopardi ne l'anno stesso de la morte di lui.
Secondo il Ranieri, grande parte ebbe Paolina nel preparare ed ordinare l'edizione dei due volumi di Giacomo Leopardi, fatta da Felice Le Monnier a Firenze; e se si vuole che Antonio abbia esagerato ne l'attribuire a lei tutto in quella laboriosissima edizione, i pensieri manifestati ne la Vita, la correzione de le bozze, le dispute col revisore canonico Bini; non appare affatto repugnante a la verità ch'ella, vissuta in tanta intimità col poeta ed intelligentissima, potesse dare per quell'edizione qualche buon consiglio. Così certamente non sarà tutto vero quel che Antonio afferma riguardo a lei, e cioè di doverle il metodo d'intendere e di condurre la storia, i Quattro secoli, applicazione di tal metodo; La teorica del dolore e Frate Rocco e le Vite di alcuni grandi italiani e le Otto interpretazioni dantesche; e le Avvertenze circa il modo da tenere per rendere la Divina Commedia popolare e persino le Memorie giuridiche; ma si può senza troppa credulità affermar tuttavia che Paolina, indivisibile dal fratello, vivendo con lui e per lui soltanto, abbia potuto, anzi dovuto interessarsi ai suoi lavori e dar qualche inspirazione specialmente a quelli che son opera più d'affetto che di dottrina, come la Ginevra, che fu scritta quando Paolina era giovanissima, poco più che sedicenne, ma già abbastanza donna, perchè la causa dei poveri e de gli oppressi dovesse commuoverla, soprattutto perchè il suo cuore, in cui i sentimenti di una pietà materna erano innati, dovesse battere pei bimbi derelitti.
In causa de la Ginevra Antonio Ranieri fu messo in carcere e vi rimase due mesi. «L'angelo mio mi fu sempre allato,» scrive; «mi rappresentava ad ora ad ora la felicità del patire per quei poveri bimbi derelitti; e mi fece di quella prigionia la più cara memoria della mia vita.»[66] Narra ancora il Ranieri come il marchese Carlo Torrigiani gli avesse chieste firme per una medaglia a Gian Pietro Vieusseux; e, coniate poi le medaglie, gli chiedesse a chi doveva mandarne. La lettera, letta da la polizia napoletana, fece credere chi sa che, immaginare che si trattasse di medaglie a Mazzini o a Garibaldi, ed Antonio fu di nuovo incarcerato. Paolina, che in villa aveva visto arrestare il fratello, corse a Napoli e si raccomandò ad alcuni alti amici che ottennero subito la secreta venisse mutata ne la miglior sala de la questura, dove sorella e fratello rimasero fino al mattino seguente in cui vennero liberati.
Paolina amava ascoltare le parole dei liberali, animarli a l'opera, diffondere l'affetto patriottico e l'ardore di lotta, non sola in questa nobile impresa, cui tante altre insigni Napoletane parteciparono, ma non per questo men degna d'ammirazione. Il Ranieri non volle prender parte ai moti politici del '48, perchè, appartenendo come il suo amico Niccolini a la piccola schiera dei Ghibellini, non prestava fede ad un rivolgimento iniziato in nome del papa; il governo borbonico non potè quindi perseguitarlo e perciò la sua casa tra il '20 e il '60 fu un centro del movimento liberale napoletano, movimento cui Paolina prese parte con entusiasmo. Basilio Puoti, Carlo Pepoli, G. P. Vieusseux, Atto Vannucci, G. B. Niccolini, Giuseppe Giusti le furono amici, e le portò vivo affetto anche quella Lucia De Thomasis di cui il Ranieri scrisse l'elogio, dedicandolo a la propria sorella che l'amò tanto. In onore di Paolina, narra Antonio, il Giusti lesse a veglia per la prima volta Il Gingillino, e tra le carte del Ranieri si conserva l'autografo di questa poesia con una dedica affettuosissima del poeta a la donna gentile. Quando nel 1860 i liberali, combattendo contro i Borboni, cadevano eroicamente, Paolina non aveva altro pensiero che quello di lenire le sofferenze dei feriti e dei moribondi, cui preparava filaccie, fasciature, biancheria, mandava aranci e limoni; li volle anche assistere di persona, dopo la battaglia di Capua. Secondo narra lo stesso Antonio, un garibaldino disse a Paolina: «Non soccorra quell'altro, che è un soldato del Borbone,» ed ella, accorrendo pietosa a quel nemico, esclamò ad alta voce: «Qui non c'è che fratelli.» Ne l'ottobre del '60 una deputazione di Napoletani si recò da Vittorio Emanuele, che trovavasi con l'esercito ne le Marche perchè valicando i confini de l'ex regno entrasse in Napoli; di quella deputazione col Settembrini, il Dragonetti, il Bonghi ed altri insigni fece parte anche Paolina. Durante la guerra del 1866 ella mandava pure ai feriti tutti i soccorsi che poteva.
Vennero per lei giorni più tranquilli, quando ritornata in calma l'Italia e divenuto ricco il fratello, che dopo la morte del Leopardi si diede ad esercitare l'avvocatura e vi trovò fortuna, tutto pareva arriderle, ma forse, benchè con rara abnegazione ella si fosse dedicata tutta ad Antonio, rifiutando le invidiabili proposte di matrimonio che le erano state fatte da uomini preclari (fra i quali, mi fu detto, Giuseppe Giusti) talvolta, affettuosissima qual era, ella sentì il rincrescimento di non aver una famiglia propria. Amò i poveri con vivissimo affetto e trovò in essi, ne la loro riconoscenza ai suoi benefizi, un soave conforto. Sempre dolce e pazientissima, sopportava, senza quasi avvedersi del proprio sacrifizio, le stranezze divenute con l'età sempre più frequenti nel carattere d'Antonio; e de la casa di lui fece modestamente gli onori nei diciott'anni in cui egli fu deputato di Napoli; mai si allontanò dal fratello, nè pur quand'egli dovette frequentemente viaggiare per recarsi al Parlamento, benchè tali viaggi per lungo tempo senza ferrovie, riuscissero assai disagevoli. A Firenze, dove ella venne spesso con Antonio, seppe acquistarsi la stima e l'amicizia d'uomini insigni: basti fra questi aver ricordato G. B. Niccolini.
Singolare fra le sue virtù fu la modestia: narra Antonio che un dì a Firenze ella andava esponendogli certi suoi altissimi concetti su la storia dei popoli, quando presso la Santissima Annunziata incontrarono Gino Capponi, e benchè Antonio si studiasse senza affettazione di vincere la consueta ritrosia de la sorella, non gli fu possibile farle più uscire da le labbra una parola dei ragionamenti dianzi esposti con tanta limpidità. Ma se, come già dissi, non si voglia considerare autorità sufficiente la parola del Ranieri, oppresso dal dolore per la perdita di quella cara, non è possibile porre in dubbio l'alta virtù del suo cuore e mai, de le tante gentili manifestazioni di questa virtù, niuno seppe cosa alcuna da lei.
Il Ranieri, che adorava la sua Paolina, rimase colpito da terrore vedendola cader malata di uno scirro al petto, e invano tutto tentò per salvarla, da le cure più affettuose, ai consigli dei medici più illustri. Quand'egli la perdette (il 12 ottobre 1878) non fu dolore il suo, ma disperazione, e tale che le lacrime non la calmavano, gli amichevoli uffizi de le più care persone non riuscivano a dargli il minimo conforto; ad una signora egli scriveva: «Tutto mi rammenta, tutto mi commuove, tutto è per me lacrime, singhiozzi, convulsioni inenarrabili, incomprensibili. Io spero che Iddio mi salverà presto da un tale inaudito martirio.» E chiudendo il suo discorso su la morte de la sorella diceva: «Non seppi, fra gli spasimi e gli strazi che mi distruggono, trovare altro conforto, che deporre queste lacrime e queste rozze e tumultuarie parole, nel vostro seno fraterno. Troppe altre me ne resterebbe a dire: ma non ne avrò il tempo. Sopravvivere mi è impossibile: ed ho una viva speranza, anzi un profondo presentimento, che Iddio richiamandomi in breve ora a sè e ricongiungendomi all'angelo suo e mio, s'inclinerà a liberarmi da un dolore sterminatamente più grande di quel tanto che la natura mortale può sopportare.»
Antonio fece erigere a Paolina un sepolcro marmoreo nel campo santo ed un grande bellissimo monumento ne la chiesa di Santa Chiara, dove sono le tombe degli Angiò e dei Borboni. Il monumento, cui cooperò l'arte del Morelli, del Solari, del Ruggiero e del De Marco, rappresenta la Ranieri giacente, bella, ma con un'espressione di stanchezza e di sofferenza ne la snella persona e nel volto gentile, appoggiato a la mano; ha gli occhi socchiusi e tiene un libro ne la sinistra. Antonio visitava spesso, e mai senza lacrime, quel monumento, e volle ricordata la pia sorella anche ne la chiesetta popolare di Piedigrotta, vicina al luogo ov'ella nel 1860 aveva assistito i feriti garibaldini de la battaglia del Volturno; un medaglione di marmo vi rappresenta l'effigie di Paolina.[67] Il ricordo di lei rimase incancellabile ne l'anima del fratello e così doloroso da turbargli la salute ed in parte anche la ragione.
Per onorare la memoria de la perduta egli fece leggere, a l'Accademia di Archeologia, Belle Lettere ed Arti dal segretario Minervini, un discorso che la ricorda e che se pure esagerato in qualche parte, doveva aver gran fondamento di verità per poter venir letto in quel serio consesso, dove gli accademici, quasi tutti napoletani, non avrebbero potuto rimaner facilmente ingannati: essi, e se si vuole anche per pietà del collega e per procurargli un conforto, adottarono la fratellanza di Paolina, che considerarono degna di non perituro ricordo per le sue virtù e per quanto lega il suo nome a la storia de le lettere italiane ed a quella de la nostra politica unità.
L'Accademia de la Crusca, ringraziando il Ranieri che aveva fatto donare a ciascun accademico le parole da lui dettate in morte de la sorella, gli scriveva: «I dolori di Giacomo Leopardi non potranno mai essere ricordati disgiuntamente dalle consolazioni onde furono alleviati dalla sorella di Antonio Ranieri; e se in Giacomo ammiriamo la mente, nella Paolina amiamo il cuore.» Il Ranieri rispondendo, ricordava la devozione de la sorella per quel sacrario del Verbum italiano, e gli studi che su la lingua di Toscana aveva fatto la eletta donna. In un'altra Lezione tenuta ne la Società Reale il Ranieri dava notizie di una scoperta linguistica attribuendola a la sorella, vantando in lei un intuito fulmineo, una viva luce di singolare intelletto. Intitolandole i suoi Scritti vari, Antonio scrive: «No, angelo di Dio, fra te e me non v'è più Tempo. V'è solo l'eternità perchè sola ci ricongiunge... La tua vita è stata un raggio celeste, cui il Sommo Amore consentì che si fosse prolungato, alcun tempo, sulla Terra. Dov'è, su questa Terra la cosa santa sulla quale quel santo raggio non si sia ripercosso?»
Tutto il patrimonio (di 720,000 lire circa) lasciò il Ranieri al Monte della Misericordia di Napoli, perchè con esso venisse formata una Confidenza o Monte Paolina Ranieri, avente per iscopo la fondazione di un ospedale pei bimbi e le bimbe o per le sole fanciulle dai tre ai dodici anni, ospedale che dovrà intitolarsi pure al nome di Paolina.
* * *
Due anni dopo la morte de la sorella, Antonio Ranieri pubblicava i Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi; io credo che se la sua gentile Paolina fosse vissuta, i consigli di lei avrebbero potuto, quel che non poterono le parole del fratello Giuseppe, dissuader l'autore dal dare al pubblico il disgraziato libro, il quale non menoma punto l'ammirazione, accrescendo la pietà pel poeta di Silvia e di Nerina, ma offusca quel raro esempio d'amicizia che gl'Italiani erano ormai abituati a venerare. Forse Antonio non avrebbe nè pure scritto quel libro, mentre gli stava a fianco la pia, cui da la sovrana infelicità del Leopardi non era venuto alcun senso di repugnanza, di egoistica sofferenza propria, ma che sentì invece con l'ammirazione per quel grande spirito, il bisogno gentile di alleviarne gl'immensi mali, l'attrattiva che avvince la donna vera a chi soffre.
NOTE.
59. Vedi Dr. Franco Ridella, Una sventura postuma dl G. L. Studio di critica biografica. (Torino, Carlo Clausen, 1897, in 8º, di pagg. XII -512.) È noto come a l'apparire del Sodalizio trattarono de la questione Leopardi-Ranieri critici insigni quali A. D'Ancona, D. Gnoli, F. D'Ovidio, R. Schöner, ec.; ora, pubblicato il libro del Ridella, la questione fu ridesta, e se ne occuparono fra gli altri il De Gubernatis ne la Vita Italiana, il D'Ovidio ne la Nuova Antologia, L. A. Villari nel Fortunio di Napoli, il Barbiera ne l' Illustrazione Italiana e moltissimi altri.60. Vedi lettera a Paolina Leopardi 26 giugno 1832, a pag. 194, de l' Epistolario di G. L., vol. II, ediz. cit.61. Vedi a pag. 222 e 223 de l' Appendice a l'Epistolario e a gli scritti giovanili di G. L. il proemio a la canzone giovanile «Per una donna malata di malattia lunga e mortale.»62. Vedi O. Valio, La suora di carità di G. L. Evocazione, pagg. 18 e 19. (Acerra, Tipografia di Francesco Fiore, 1896, opusc. in 24º, di pagg. 20.)63. Vedi Dr. Franco Ridella, Una sventura postuma di G. L., pag. 503.64. Vedi a pag. 301 del volume Prose morali di G. L., commentate da Ildebrando Della Giovanna, il pensiero IV.65. Diversamente in certi particolari narrò la fine del Leopardi il Ranieri ne la sua lezione su Enrico Alvino, da pag. 251 a pag. 257 del volume Scritti varii di Antonio Ranieri, vol. I. (Napoli, Morano, 1879, in 16º, di pagg. 322.)66. Vedi Parole di A. Ranieri a l'Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti per la morte della sorella Paolina, recitate nella tornata dei 5 di novembre 1878, dal collega segretario Giulio Minervini, pag. 6. (Napoli, 1878.)67. Questo medaglione di Paolina Ranieri era già stato riprodotto pel presente volume, quando dal prof. A. De Gennaro Ferrigni ebbi notizia di una miniatura de la Ranieri, che doveva trovarsi in un prezioso album, già appartenente a la chiara gentildonna Lucia De Thomasis.
L'egregio signor cav. A. De Thomasis di Chieti con somma gentilezza acconsentì a far ricerca di questa miniatura, ch'era andata smarrita, e trovatala, me ne favorì una riproduzione, da la quale fu tolto il medaglione che precede questo studio.
Geltrude Cassi Lazzari
LA DONNA NELLA VITA E NELLE OPERE DI G. LEOPARDI.
La donna ha sempre un'azione importantissima su la vita de l'uomo; il cuore di lui nei generosi affetti come nei tristi, ne le azioni eroiche come ne le volgari, ne la gioia come nel dolore, risente l'efficacia del cuore femminile; e non soltanto ciò ch'egli ama, spesso ancora ciò che è, ciò che può, che sa e che fa è opera in buona parte d'una donna. Perciò non è certo senza interesse, nè senza importanza ne la storia di un grande ingegno il vedere quali donne egli ebbe care, quale influenza esse esercitarono su di lui, che cosa egli pensò di quelle donne in particolare e de la donna in generale. Se questo può dirsi di quasi tutti i grandi, a ben maggior ragione si può affermare di Giacomo Leopardi, di cui tutta la vita e tutta l'arte si compendiano in un'alta e vana aspirazione a la donna e a l'amore.
Ne la casa paterna la sua infanzia passò in una rigidezza quasi ascetica, ma anche l'aria stessa ch'egli respirava, per dir così, era di una purezza altamente educatrice: severissima, la madre non gl'inspirava tenerezza, ma certo gli appariva, più che degna di un timoroso rispetto, figura austera e dignitosa; affettuosissime le nonne e, più che mai, la sorella Paolina ch'egli prediligeva e che sempre ebbe cara. Nei giuochi infantili l'orgoglio prevaleva a l'affetto, ed il trionfo ne le finte battaglie romane, il primeggiare in tutto rendeva felice quel vivace Giacomo, cui il vestito nero da abatino non temperava lo spirito battagliero, nè la monotona severità de la casa spegneva il fuoco de la fantasia. Ne le ore de lo studio e de la conversazione egli era il fanciullo obbediente e forzatamente quieto, ne la libertà dei giuochi venivano svolgendosi in lui l'immaginazione vivacissima, creatrice di mondi tutti suoi, l'insaziabile desiderio di lode e lo scherno contro chi ardiva opporglisi. Ma e ne lo studio e nei trastulli la compagnia di Paolina metteva una nota di gentilezza e d'affetto che quei fieri ragazzi non avvertivano forse, ma che influiva grandemente su l'animo loro. Giacomo non era di continuo un fanciullo turbolento; ne le notti estive, solo ne la camera buia, di cui le persiane eran chiuse, egli ascoltava battere le ore a l'orologio di piazza, sentendosi rinfrancare da quel suono, e, vedendo dissipate le immagini paurose che gli si affollavano d'intorno ne l'oscurità, gli entrava in cuore uno strano sentimento di dolcezza, simile a quello che provava la sera, quando da le finestre de la sua stanza, che davano sul giardino paterno, egli contemplava le stelle, sentendo già un poetico commovimento, un'ineffabile soavità, dinanzi a l'infinito stellato. L'irrequieto, il prepotente Giacomo aveva allora dei momenti pensosi di tenerezza, nei quali, in potenza se non in realtà, egli era già poeta. Ne la severità de la famiglia questa tenerezza si volgeva specialmente a la pietà religiosa, di cui i suoi lavori fanciulleschi e d'adolescente attestano il fervore.
Quand'egli scriveva la tragedia Pompeo in Egitto, la donna per lui non era ancora, nè poteva essere, che madre o sorella; egli pone in scena uomini soli, non osando o sdegnando porvi una donna; tanto più che Cleopatra avrebbe dovuto esser dipinta ne' suoi amori con Cesare, e Cornelia veniva naturalmente esclusa dal disegno de la tragedia, che finisce con la morte di Pompeo, dopo la quale soltanto essa avrebbe acquistato importanza e interesse. Ma ne l'aspirazione a grandi cose, ne l'entusiasmo pel valore, per la virtù, nel fuoco di parecchi versi si sente già un cuore appassionato
. . . . . . . . . non vien meno
In questo cuore il marzial coraggio,
Il romano valore, io son Pompeo.
. . . . . . . . . . . . . Pompeo
Non sa che sia timor: se vinto ei cade,
Colpa del fato è sol, non di viltade.
Quest'ardore di Giacomo si calmava sui libri, che erano divenuti una vera passione per lui e che precocemente maturavano il suo spirito; ne le spoglie de l'erudito che legge, ricerca, annota, cita, freddo e accurato, veniva nascondendosi il poeta, ma non così che il fuoco de l'anima non scintillasse ancora qualche volta, anche nei lavori più gravi. Il bisogno di sognare e l'aspirazione a qualche cosa di grande, di lontano e di sommamente desiderabile, si compendiavano ne la sete di gloria: non aveva mai potuto soffrire alcun disprezzo, «sdegnavasi fortemente e piangeva se alcuno della famiglia cedeva in cose d'onore»,[68] e godeva infinitamente de' suoi primi trionfi negli studi, nè punto pareva repugnare al sacerdozio. Da un lato, fanciullo ancora, non provava l'ardente brama di vita e d'amore che si risvegliò poi in lui; da l'altro, la sua fede era così profonda, che Paolina molti anni più tardi non poteva persuadersi de la irreligiosità di lui ed esclamava: «E non avevamo da piccoli giuocato insieme a l'altarino? Ed esso era tanto religioso che era divenuto pieno di scrupoli!»[69] Questa fede, che si rivela negli studi da lui impresi per facilitare forse il principio de la sua carriera ecclesiastica, e soprattutto nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, era un trasporto d'affetto «verso quell'Essere, che non si può conoscere senza amare e non si può vivere senza conoscere»;[70] e nel suo cuore si accoppiava a sentimenti di dolcezza, di tenerezza, che, ne le meditazioni commosse, gli davan momenti d'estasi in cui egli si sentiva quasi innalzare verso l'amore infinito. Malgrado ciò, egli rimaneva pago abbastanza de' suoi studi eruditi e del mondo in cui viveva; non aveva provato bisogno o desiderio di conoscere la vita in una cerchia più estesa di quella de la sua famiglia e del suo paese; e, se pure qualche idea scettica o triste l'aveva preso, era rivolta più che a quanto lo attorniava, al mondo in generale. Ma ora egli si ridesta; da la sua biblioteca tende l'orecchio ai rumori del mondo, sente un grande ignoto fuor di quel suo refugio, e quell'ignoto lo attrae; il fanciullo comincia a divenir uomo. Primo inizio di questa trasformazione fu quella ch'egli stesso chiamò la sua conversione letteraria; come un ragazzo che incominci a considerarsi e a voler essere considerato un giovanotto, si vergogna d'esser stato trasandato ne le vesti e le cura, quasi con ricercatezza, così il Leopardi, che visse tutto ne la vita de lo spirito, non si accontenta più de l'erudizione, vuole altresì la bellezza e lo splendore de la forma e de l'arte; la fantasia e il sentimento, a lungo compressi, provano imperiosa la necessità di espandersi, ed egli comprende che solo una forma eminentemente artistica può esser degna veste del suo pensiero. Ora non ispende più lunghe fatiche sopra autori secondari, ma ricerca e vuole il bello ne le sue migliori manifestazioni; le sue letture prendono un nuovo indirizzo e più che a la caccia di notizie peregrine si rivolgono a la nobiltà dell'arte, al pensiero profondo, ai sensi degni. Torna con animo mutato a Virgilio, ad Omero, a Dante, che non ha finora compresi, e se ne commuove, e piange e freme con essi. Su l' Eneide egli «andava del continuo spasimando, e cercando di far sue, ove si potesse in alcuna guisa, quelle divine bellezze: nè mai trovò pace infinchè non ebbe patteggiato con se medesimo, e non si fu avventato al secondo libro del sommo poema, il quale più degli altri lo aveva tocco.»[71]
Non era più semplicemente un erudito, era già un vero poeta che, leggendo Virgilio, senza avvedersene, si lasciava andare a recitarlo ad alta voce, infiammandosene tutto e commovendosene talvolta fino a le lagrime. Il bello gli si è rivelato; dinanzi agli amenissimi paesaggi marchigiani, o quando una passione lo agita, l'anima sua ingigantisce; e se a l'improvviso sente da qualcuno recitare a caso qualche verso di autore classico, il suo cuore ridesto prende a palpitare; e il suo spirito, quasi a forza, tien dietro a quella poesia. Egli rifiuta tutte le sue cose passate; non è scoraggiamento il suo, bensì fiducia di poter fare assai più e meglio; a proposito di sè osa già nominare il Tasso, il Metastasio e l'Alfieri. La sua sensitività è resa più profonda dal suo stato di salute ormai tristissimo, da le sofferenze aggravate così da fargli presumere vicina la morte, che a lui non ancor deluso ne le sue più care speranze e soprattutto avido di gloria e quasi certo di conseguirla, purchè la vita e le forze non gli vengano meno, desta un senso di repugnanza e timore, e gli fa guardar con affanno disperato precipitar verso la tomba i suoi splendidi sogni. In questo periodo triste e quasi solenne l'immagine de la donna come amante gli appare per la prima volta fra quei beni de la giovanezza, che stanno per essergli strappati e cui egli tende le braccia desiderosamente; gli si palesa candida e soave ne la funerea luce che gli vela il mondo; amore e morte si rivelano insieme al poeta de l'amore e de la morte.
Nel suo Appressamento della morte, la visione d'Amore, che svolazza sopra un'immensa folla, sogghignando e avventando strali roventi, e i ricordi storici dei grandi amanti de l'antichità, non sono che reminiscenze classiche e ricordano i Trionfi del Petrarca e la Commedia di Dante: ma ne l'episodio di Ugo e Parisina v'è pur qualche accento vero e profondo:
I' fea contesa e forse ch'i' vincea,
Ma un dì fui sol con quella in muto loco,
E bramava ir lontano e non volea,
E palpitava, e 'l volto era di foco,
E al fine un punto fu che 'l cor non resse,
Tanto ch'i' dissi: t'amo. . . . . . . .
Ne l'animo del giovane solitario e amante de la solitudine, perchè già consciente de la propria grandezza e sdegnoso de le compagnie volgari, tumultuavano affetti e speranze nuove. La biblioteca e la sua camera erano il rifugio di quasi tutte le sue ore, una camera semplicissima al primo piano del palazzo Leopardi, con un lettuccio ricoperto da una coltre gialla, un cassettone, un armadietto e poche seggiole. Nei riposi che la debole salute gl'imponeva, ne le remote passeggiate, ne le lunghe sere in cui sdegnoso de la società di casa e malato d'occhi egli voleva e doveva rimaner quasi al buio in una grande stanza, solo, fuorchè nei momenti in cui Carlo e Paolina andavano a tenergli compagnia, egli si cullava ne' suoi sogni superbi e ardeva ne l'impazienza di fama e d'amore. Era l'estate del 1816 quand'egli, osando per la prima volta prendere per protagonista una donna, una donna bella e infelice, maturava l'idea di una tragedia: Maria Antonietta.
* * *
Nel dicembre del 1817 la contessa Geltrude Cassi-Lazzari andò a Recanati col marito[72] per mettervi nel convento de le Oblate la figlia primogenita settenne Vittoria, e fu ospite dei Leopardi suoi cugini: ella, sorella del traduttore de la Farsaglia di Lucano, nata nel 1791, aveva allora circa ventisei anni e fin dai suoi diciassette era andata sposa al conte Giovanni Giuseppe Lazzari; era bella, di figura maestosa, di portamento regale, di viso pallido, de la pâleur mate des Pésaraises,[73] d'occhi nerissimi, scintillanti, sibillini, come li chiamava Carlo; la soprannominavano Giunone: e a l'incanto de la florida venustà, che le aveva meritato questo nome, univa quelli di una buona coltura, di uno spirito vivo, di una conversazione briosa, di un'arte somma nell'amare e nel farsi amare.[74]
Forse mai Giacomo si era trovato dinanzi, e così lungamente (ella stette in casa di Monaldo una quindicina di giorni), ad una donna tanto piacente, sì che, quantunque l'età, la condizione sociale, la salute, il carattere di lui fossero in opposizione con quelli de la cugina, egli se ne innamorò con tutto il fuoco de la sua gioventù compressa e solitaria. Ella doveva apparire quasi una divinità a lui ragazzo ancora, sparuto e deforme, ammalato e triste, ma così sensitivo a le impressioni de la bellezza che, a quanto si narra, bambino di otto anni, trovandosi in casa Antici una sera in cui v'erano riunite parecchie persone brutte, rifugiatosi vicino a la zia, le disse malinconicamente: «Non si sa dove riposare lo sguardo.» Il Leopardi vide in quella donna una prima realtà de le tante sue splendide speranze, e, riservatissimo per natura, più riservato ancora per l'educazione quasi monastica ricevuta, non osò non pure parlarle, ma nè pur lasciar trapelare in alcun modo la sua passione, di cui narrò con finezza psicologica i ricordi in quelle Memorie sopra alcuni giorni della sua gioventù ch'egli lesse a Carlo e che a questi piacevan tanto da fargliene desiderare vivamente la pubblicazione. Carlo ne parlò più volte al Viani, ed al Tirinelli[75] narrava: «In quel tempo egli prese a scrivere giorno per giorno tutti i pensieri che gli nascevano alla vista di questa donna. Eran scritti, mi ricordo, in tanti foglietti di carta che Giacomo veniva a leggermi ogni giorno»; aggiungeva che quelle carte eran rimaste ne le mani del Ranieri e che avrebbero potuto rivelare un lato nuovo de l'ingegno di Giacomo, perchè contenevano un'analisi minuta di sentimenti. Risvegliatosi in Giacomo l'estro poetico, egli scriveva allora le due Elegie: il Primo Amore e Dove son? Dove fui? Che m'addolora? senza dire che secondo alcuni ne la Cantica vi ha un riflesso del primo amore del Leopardi, il quale, dicono, volle rappresentare sè stesso in quell'Ugo giovane, malinconico, amante ritroso e, quantunque colpevole, timido e quasi pudico. Il giovane passava le sere insegnando a la signora il giuoco de gli scacchi ch'ella aveva mostrato desiderio d'imparare.
L'amore ne l'animo di Giacomo, tanto disposto a la tristezza, produsse una mestizia nuova. Lungamente egli aveva desiderato e sospirato di sentirsi battere il cuore; pure, quando s'innamorò de la bella cugina, egli rimase stupito da la potenza di desiderio e di dolore che amareggiava il suo affetto; la più cara de le sue illusioni si scolorava già dinanzi a la realtà, chè nel possedere il bene del sentimento bramato, egli si trovava misero per il tesoro di speranze che gli veniva tolto. La donna, lieta e briosa, non s'accorgeva di quell'amore, e il giovanetto pallido, confuso, muto dinanzi a lei, vedendola così gaia e così bella ne la sua gaiezza, non sapeva che augurarle in cuor suo una tranquillità sempre uguale, pur piangendo amaramente al pensiero ch'ella non dovesse mai, nonchè amarlo, nè pur compiangerlo. Eran giorni per lui di tormento ineffabile e di sovrumana felicità; tutto chiuso in sè, godeva di pensare continuamente a la bella signora, di sognarla, desto o addormentato; instabili, confusi si volgevano i suoi pensieri; quanto prima gli piaceva, diveniva indifferente; mute quelle stesse voci de la natura che con tanta eloquenza avevano parlato a l'animo suo di poeta; muto l'amore de la gloria, indifferenti i libri. I suoi occhi, chini o pensosi, sfuggivano del pari le belle e le brutte parvenze, quasi che le une come le altre avessero potuto turbare l'immagine cara così vivamente impressa nel suo pensiero. Questo affetto ardente era tuttavia purissimo; un esaltamento de l'anima tenera ed entusiastica, de la fantasia vivacissima. La partenza de la Cassi, ch'egli descrive con poetica efficacia, lo gettò in una disperazione tale da trarlo quasi fuor di sè stesso, da farlo freneticamente battere il capo nel muro, come Carlo narrava; ma, per la sua stessa veemenza, tale dolore doveva esser breve. «Dei versi di lui, — scrive il Bonghi, — quelli che sono scritti in una più viva impressione di dolore, vivace, presente, reale, sono anche per tempo i primi, il Primo Amore. Se non che in questi, si badi, il dolore ha forma di sensazione fuggevole, non già d'idea perenne ed essenziale.» Il tempo calmò più presto che non si sarebbe pensato quella passione e finì con ispegnerla. Essa era stata timida, ma furiosa; la donna, che ne fu oggetto, era l'antitesi del poeta: il quale rimase soggiogato da la bellezza florida, la grazia civettuola, la superba noncuranza e la gaiezza di lei.
Quand'egli entrò nel suo ventesimo anno cessarono i suoi timori d'una morte assai vicina; egli capì che avendosi ogni riguardo, avrebbe potuto vivere fors'anco a lungo, per quanto stentatamente e sempre in pericolo; ma in quell'età e dopo la dura prova del primo amore, più che mai lo tormentava la coscienza del suo aspetto miserabile; egli capiva che la virtù senza alcun ornamento esteriore difficilmente conquista gli animi, e che per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, non si ha quasi coraggio d'amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorchè l'anima. La previsione di una vita infelice non lo sgomentava, egli guardava imperturbato i mali futuri ne la certezza di sostenerli senza viltà, ne la speranza di riuscir utile a qualche cosa; se aveva molto sofferto, comprendeva di dover soffrire ancor più: «E massimamente soffrirò — scriveva al Giordani il 15 febbraio 1818 — quando... mi succederà, come necessariamente mi deve succedere, una cosa più fiera di tutte della quale adesso non vi parlo.» Alludeva a la passione amorosa? È più che probabile.
Di fronte al palazzo Leopardi, di là d'un vasto piazzale, s'apre una strada di cui le due case a gli angoli, con la facciata sul piazzale stesso, appartennero a Monaldo, che d'una di esse si serviva per abitazione del cocchiere e per scuderia. Il cocchiere nel 1818 era Giuseppe Fattorini, che abitava quella casa insieme a la moglie Maddalena Santinelli e a due figliuole (le altre tre maggiori eran già maritate); l'ultima, Teresa, nata nel 1797 era una graziosa fanciulla di media statura e di figura slanciata, civile nei modi, accurata ne le vesti, per innata dignità o per ritrosia poco famigliare, da gli occhi ridenti e fuggitivi nel viso assai bianco, dai capelli neri. Giacomo da le finestre de la biblioteca vedeva la giovane e ne ascoltava il canto, e quando la primavera commosse il suo cuore e lo fece rifiorire di sogni e d'affetti, come sempre gli avveniva, egli nel maggio odoroso più spesso s'alzava dal tavolino per appoggiarsi al davanzale, guardare il cielo sereno, le vie dorate, gli orti, il mare lontano e lontanissimi i monti, e riportar lo sguardo su la figura de la fanciulla china sul telaio, ascoltandone, nel silenzio de le stanze tranquille e de la strada solitaria, la voce melodiosa. Giacomo amò la fanciulla popolana; ma in questo non prevalse, come nel primo affetto, un'ammirazione quasi paurosa, un ardore furibondo, benchè compresso. La Teresa, ch'egli sapeva gracilissima e ammalata e vedeva pensosa e malinconica, gli destava una soave tenerezza che, lungi da lo spegnersi come la subita fiamma del primo amore, durò per sempre in lui. Non era un'antitesi abbagliante, ma una fraternità di sventura e di dolore, di purezza e di virtù che lo attraeva in quella giovanetta tisica, ch'egli certo sapeva tale, quantunque ella cercasse di tener nascosta la sua malattia; ad ogni modo poi essa non potè celarla lungamente, poichè visse soltanto pochi mesi dopo quel maggio odoroso, e cioè fino al settembre del 1818. Carlo giudicò tale amore molto più romanzesco che vero; amore, se tale potesse dirsi, lontano e prigioniero. Certo e l'educazione ricevuta e la presenza e l'austerità de la famiglia Leopardi e mille ostacoli esteriori, anche senza parlare de l'indole vereconda e ritrosa di Giacomo, dovettero far sì che il suo affetto gli rimanesse chiuso nel cuore, o si rivelasse solo come una lieve simpatia nei cenni che da la finestra egli poteva rivolgere a la fanciulla; e questo tanto più, che la Teresa era fidanzata, o amata almeno da un altro:
. . . . . . . . . . i parenti tuoi
Son d'altro sangue e tu sei d'altro amore;
le diceva il poeta; e ancora
. . . . . . . . d'amarti il vanto altri si tiene;
a meno che, come altri suppose, questa non fosse una finzione di Giacomo a lo scopo di meglio nascondere ne' suoi versi la persona che li aveva inspirati. Il sapere la giovinetta gravemente ammalata gli fu cagione di nuove amarezze ed aggiunse a gli abituali suoi malinconici pensieri, altri pensieri più cupi che gli dettarono, nel 1818, la Canzone per una donna malata di malattia lunga e mortale, dove non vi hanno le fiamme e i fremiti de le due prime Elegie, ma una tenerezza che induce a dolorosa meditazione, l'accento d'una pietà intensa quanto l'amore; tali specialmente i versi in cui il poeta, quando ascolta taluno recar cattive nuove de l'ammalata, si studia di farsele apparire meno gravi; tali anche quelli in cui va dubitando ch'ella (al par di lui al tempo de l' Appressamento della morte ) tema di morire; e perduta poi ogni speranza di vederla salva, cerca vanamente intorno a sè un soccorso che la rattenga in vita.
Qualche sentenza («Nostra famiglia alla natura è giuoco») fa già presagire in lui il desolato poeta ch'egli dovrà divenire, ed è ancor vivo il presentimento de la sua propria morte, e il triste timore, ancor più doloroso di quel presentimento, che il tempo, l'esempio, il mondo possano a lui stesso togliere il suo più grande, anzi l'unico tesoro, l'anima sua.
Ella, che è tanto bianca, non verrà macchiata da la mota del mondo: muore bella e pura, muore innocente: nè se tale non fosse egli avrebbe saputo amarla, poichè fugge la stessa bellezza che gli è tanto cara, se ad essa non vien compagna la virtù.
Qui non vi ha nel poeta l'adorazione de la bellezza plastica, ma un soave, malinconico vagheggiamento di un'anima giovane, pura, di cui le sventure lo fanno ripensare con minor amarezza al dolore proprio e con fraterna simpatia a la sorte avvenire di lei. Egli si sente grande, ma nel suo pensiero vede lei così semplice, così vera figlia de la natura, che gli appare divina: vorrebbe tenderle le braccia e sorreggerla, ella apre le ali candide e s'innalza ne l'azzurro. È debole, malata, ne' begli occhi vi è una tristezza profonda, chi sa che cosa sente, che cosa sogna? Egli, bevendo quasi i pensieri che crede veder riflessi in quel puro sguardo, si eleva a le più alte regioni de l'anima. La stessa Fattorini è la gentile immagine del Sogno; rivedendola morta, il poeta le parla teneramente del suo affetto, vuol sapere da lo spirito quello che da la persona non seppe: s'ella ebbe pietà di lui, e gode di una malinconica gioia e si esalta, sentendo ch'ella gli fu compassionevole ed affettuosa. Ancorchè ella lo avesse amato, come nota il Mestica, la povera giovanetta doveva tremare a l'idea che il conte Monaldo potesse saperne qualche cosa.
Nel Sogno vediamo piuttosto l'abile imitatore del Petrarca che il vero artista. Non vi mancano versi originali e belli: tale è l'immagine de la donna, che con atto materno pone, sospirando, la mano sul capo del giovane; tale il ricordo di quel flore di gioventù, appassito nel pieno rigoglio. Ritornano vari pensieri de l' Appressamento della morte: così quello de lo sconforto che apporta la prossima fine ai giovani i quali hanno ancora intatte le loro speranze:
All'immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. . . . . . . .
E quel paragonare la sua giovanezza a la vecchiaia, da cui poco discorda, richiama parecchie frasi de l' Epistolario, e fra le altre quella con cui Giacomo afferma d'aver sempre condotto una vita quale non si richiederebbe da un cappuccino di settant'anni; il che è prova de la sincerità del suo affetto, anche in questo componimento d'imitazione.
Qualche tratto rivela lo scetticismo sempre maggiore, quantunque ne l'insieme questo e gli altri idilli abbian un'intonazione piuttosto triste che scettica. Ed un'ultima osservazione ricorre qui opportuna: se, come si può considerar sicuro, la donna del Sogno è la Fattorini, abbiamo qui la prova che il Leopardi ebbe per lei un vero, benchè calmo affetto, piuttosto che una fantastica simpatia, poichè la dolce apparizione dice al poeta:
. . . già ruppe il fato
La fe' che mi giurasti;
sia pure che questa fede fosse stata giurata solo ne l'intimo, essa denota un amore reale.
Un anno a presso, nel 1819, rievocando il ricordo de la soave fanciulla perduta, il poeta scriveva la canzonetta Per morte di donna amata, dove, quantunque il motivo sia petrarchesco, vi ha tanta grazia e tanta dolcezza di inspirazione e così squisita musicalità, e dove il poeta ritrova l'immagine de la candida fanciulla in una betulla candida, separata da le altre.
Le soavi strofette imitate da Carlo Pepoli diedero al Bellini l'inspirazione de la stupenda melodia dei Puritani:
Qui la voce sua soave,
melodia che doveva commuovere dolcemente il grande Recanatese, amante de la musica e soprattutto di quella appassionata del Bellini.
De la Cassi, non molti anni dopo averla amata, il poeta rivedendola a Pesaro, scriveva con un'indifferenza, non forse scevra d'ironia, d'averla trovata più grassa e florida che mai; ma il ricordo de la Fattorini doveva rimanergli invece come cosa sacra ne l'anima, affetto che il tempo ravvivava e ingentiliva, tanto più che l'immagine bella de la Teresa richiamava a lo spirito di lui la giovanezza e le care illusioni, sole vere gioie de la sua vita.
Nei Detti Memorabili di Filippo Ottonieri egli ripensava certo a la tessitrice, quando scriveva che il perdere una cara persona per via di qualche accidente repentino è meno doloroso che il vedersela distruggere a poco a poco da una lenta malattia da cui, prima ancora che spenta, sia mutata di corpo e d'anima; cosa senza fine amara, poichè violentemente ci cancella dal pensiero tutti gl'inganni de l'amore e fa perdere la diletta intieramente, chè l'immagine stessa di lei non arreca più conforto, bensì tristezza. E pure dieci anni ancora dopo la morte di Teresa, egli la vedeva nitida e fulgente nel suo pensiero, e ne fissò il profilo come in un quadro incantevole nei versi de la Canzone A Silvia, scritta a Pisa in un periodo di quiete tranquilla, feconda di sogni e di poetici ricordi. Silvia è sorella di certe dolci femminili figure virgiliane ed omeriche, ma è tutt'altro che una reminiscenza classica, è un ritratto di una realtà, d'un'evidenza meravigliosa. La giovanetta da gli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa, percorre con la mano veloce la tela e, immaginando un vago avvenire, riempie del suo canto le quiete stanze e le vie d'intorno, mentre, come la Laura petrarchesca sotto la pioggia di fiori cadente da l'albero, umile continua intenta l'opera femminile, sotto la diffusa luce del maggio, il riso del cielo sereno. Col rimpianto de la fanciulla perduta, il poeta risente più amaro lo sconforto dei soavi perduti pensieri, de le morte speranze; nel cantare Silvia egli risente in sè quel suo cuore d'una volta. Non dimenticò mai la bruna popolana, e, se il canto di una tessitrice solitaria sempre lo commosse, gli è certo che in ogni solinga laboriosa fanciulla, egli rivedeva col pensiero l'immagine adombrata de la candida Teresa.
* * *
Ne la prima gioventù esteriormente monotona e fredda, ma alta e quasi eroica nel pensiero e ne l'affetto, le prime immagini di donne reali che il Leopardi contemplò con amore, furon quelle che davano vita dinanzi a lui a le belle figure rimastegli fisse ne l'animo dopo le sue profonde e appassionate letture dei classici: la Cassi doveva parergli una dea de l'Olimpo greco, la Fattorini somigliava a la Circe di Virgilio, che canta e lavora. Quanto fu scritto intorno a la donna e a l'amore, e particolarmente da gli antichi, più consuoni a lui per semplicità e nobiltà di sentimento, lo attraeva, quasi gli permettesse uno sguardo almeno in quel mondo femminile ignorato, ch'era tutto il suo sogno. La Crestomazia da lui raccolta più tardi, quantunque intesa a dare specialmente ai giovani esempi letterari da imitarsi, rivela questa tendenza del suo spirito pel gran numero di componimenti amorosi che vi sono accolti.
Il Leopardi (1823) si compiacque di tradurre la satira di Simonide Sopra le donne; ed egli che tante donne aveva guardato con disdegno e disgusto, pur mantenendo intatta ne l'anima l'ideale imagine d'un'eletta, doveva consentire col Greco nel disprezzo de le sciocche e de le vane e ne l'alta ammirazione di quella che all'ape è somiglievole, ne l'invidia di quel beato, che l'ottiene e vede con lei prosperare la mortal vita. Ricordo ancora com'egli volgarizzasse, facendola precedere da un suo discorso originale, l'orazione di Gemisto Pletone in morte de l'imperatrice Elena Paleologina. La donna immaginata gli appariva sempre sotto forme maestose e belle; fosse la madre, conducente i figli, come ad un'ara, a le tombe de gli eroi, e accennante le belle orme del sangue versato per la patria; fosse la donna romanamente forte, che elegge i figli piuttosto miseri che codardi; fosse la giovanetta sposa greca, che cinge il fido brando al lato del suo caro o spande le nere chiome sul corpo esangue e ignudo di lui, riedente su lo scudo conservato; o Virginia bellissima e pura, che volentieri dà la vita per la patria.
Con tali immagini ne l'animo è naturale ch'egli sdegnasse le Recanatesi, le quali a la lor volta non lo curavano punto e forse lo schernivano; è naturale ch'egli le trovasse poco più, o un poco meno ricche di quel che la natura avea dato loro, e che la società del suo paese lo facesse dar indietro a prima giunta. Egli, come il suo passero solitario, non curava nè sollazzo, nè riso, nè amore; sfuggiva la gioventù riversantesi la festa ne le vie per mirare ed esser mirata, e godeva d'uscire ne la rimota campagna e contemplar mestamente il sole al tramonto. Amore era già lungi dal suo petto così caldo un giorno, anzi rovente; pure incontrando pei campi una vaga fanciulla, ascoltando ne la placida quiete di una notte estiva il canto d'una giovanetta intenta al lavoro ne le stanze romite, il suo cuore si muoveva a palpitare. Il ricordo di Teresa gli rendeva cara, come immagine vivente de la perduta, un'altra povera e gentile tessitrice, tisica anch'essa, anch'essa dimorante vicina a lui, che poteva vederla da le finestre di casa sua ed ascoltarne la voce, la Maria Belardinelli, una bionda, candida, soave e signorile nei modi essa pure, in cui altri volle riconoscere la Nerina de le Ricordanze.
L'episodio di Nerina che rivive nei ricordi del poeta molti anni più tardi, è un idillio gentile: gli risorge dinanzi la fanciulla da gli occhi giovanilmente soavi, appoggiata a la finestra in colloquio al giovanetto suo vicino, che impallidisce ancora, ricordando la voce di cui ogni lontano accento lo faceva tremare. L'immagine de la morta gli si ripresenta come figura principale d'ogni lieto quadro ch'egli vede, e divien per lui il simbolo de la giovinezza e de la speranza. Se pure Silvia e Nerina non sono la stessa persona (e la questione molto discussa non è forse ancora decisamente risolta), son fuse ne l'anima del poeta in una soavissima idea d'amore, di giovanezza e di sventura. Silvia e Nerina sono la donna ch'egli amò con l'anima senza alcun materiale desiderio, la donna che sola gli pareva degna di un fuoco intaminato e puro: giovane, onesta, bella, altera e dolce insieme, la donna che in elette forme accogliesse un'anima simile a quella ch'egli sentiva in sè, la donna ne la quale per lui si convergevano tutti i raggi de la bellezza e de la felicità umana: essa la primavera, essa la gioventù, essa la speranza, essa l'amore, essa la morte. Tutta la spiritualità del poeta si rivela in questi suoi versi d'amore: la graziosa giovanetta che gli ha sorriso un giorno, ha fatto battere il suo cuore d'un palpito che non si estinse più interamente, perchè la bella immagine femminile divenne per lui un alto ideale, l'amore stesso fatto persona, a lo sparire del quale tutto sparisce e si oscura; la tomba de la giovane racchiude tutto quel che di desiderabile ha il mondo, e il fantasma che di tratto in tratto risorge da quella tomba ha ancora tanta vita e tanta luce che nulla è degno di essergli paragonato. La bella stagione sempre rinnovava nel Leopardi col desiderio de la vita, dei diletti del cuore, de la contemplazione de la bellezza, l'immagine di Silvia e di Nerina, ed egli non ebbe mai un giorno lieto o solo tranquillo, in cui, col ricordo caro fra tutti de la giovinezza, non si ravvivasse quella memoria sacra per lui; ancora a Napoli, quando col Ranieri saliva a piedi a passeggiare su i colli e udiva il canto de le tessitrici intente al telaio, egli ristava ad ascoltare muto, commosso.
Dopo la tentata fuga, caduto in un periodo di torpore in cui nè pur le pene morali venivan più a consolarlo, condannato a l'ozio da i suoi mali, lacerato da la noia, come da un dolor gravissimo, gli pareva di non intender più nè pure i nomi d'amicizia e d'amore, e solo lo scuoteva la pietà di qualche cuore gentile. Era già formato in lui quel concetto che inspirò poi tutta l'opera sua: non havvi felicità su la terra, non havvi gioia, non consolazione reale, ma conforto unico rimastoci è la giovanile speranza, o meglio quell'illusione che nasce da l'inesperienza de l'uomo e che si personifica ne la giovinetta ingenua e sognante, destinata a una morte precoce. Una emanazione di questi sogni mi pare tutto il gruppo de gl'Idilli in cui domina una tristezza pura e serena, come di tacito plenilunio (salvo gli accenti disperati e cupi de La sera del dì di festa ): domina il sentimento de la natura e vi ha l'anima stessa del poeta ne l'anima de le cose, le quali, tuttochè di una realtà evidente, hanno un'alta idealità d'espressione; tale quel Passero solitario che su la vetta de la torre antica va cantando a la campagna, finchè non muore il giorno e l'armonia erra per la valle esultante ne la primavera, quel passero che, mentre gli altri augelli contenti fanno a gara insieme mille giri per il libero cielo, festeggiando la loro gioventù, pensoso e in disparte mira il tutto, nè gl'importa di spassi e d'allegria, canta, e passa così il più bel fiore de l'anno e de la sua vita, quantunque ricordi il
Passer mai solitario in alcun tetto
e il
Vago augelletto che cantando vai
del Petrarca, è immagine perfettamente reale. Invero il Mestica seppe da chi ancora se ne ricordava in Recanati, che un passero solitario stava spesso ai tempi di Giacomo ed anche di poi, su la croce in cima al cono del campanile di Sant'Agostino, il più antico del borgo. Ma questo passero, che il poeta cercò spesso con gli occhi ammalati in alto su la torre in mezzo al sole di primavera, che ascoltò con l'animo intenerito, diviene un amico e un fratello per lui, che passa, senza divertimenti, solitario, la sua giovinezza ricca unicamente d'un conforto e d'una gioia, quella del canto: sentimento, amore, vita per lui. E al cielo sereno, ove gli uccelli garrendo lietamente intrecciano i loro voli e dove s'alza la punta di quel campanile che ricetta il piccolo poeta alato ne la sua solitudine triste, fa riscontro la immagine, ammirabilmente nitida del borgo al tramonto, in cui risuonano le campane e le allegre scariche di fucile, mentre da le case si spande ne le vie la gioventù vestita a festa, lieta di vedere e d'essere veduta. Come il passero, anche il poeta se ne sta solitario ne la remota campagna, o percorre a lenti passi la sua passeggiata favorita sul monte Tabor. Ma il pensiero che non tormenta l'uccello, tormenta l'uomo e gli guasta quella malinconia così dolce, quantunque non scevra di desiderio e di rimpianto, con la visione di un avvenire non rallegrato più nè pur da la luce de gli affetti; d'un avvenire in cui si farà cocente il rammarico dei godimenti giovanili non gustati e perduti per sempre. La calda anima del poeta par che si sopisca ne l'altissima quiete del lago al meriggio, ne la pace infinita e nel silenzio.
Al Giordani, com'è noto, il Leopardi scriveva non parergli più d'esser capace di amicizia, nè d'amore; ma mentre nega l'amore e le giovanili illusioni, le sente più soavi che mai. Il mondo è un paradiso a lo sguardo dei giovani, cui il cuore balza di speranze e di desiderio, cui la vita appare come una danza o un giuoco: ah! troppo brevi furono questi dolci errori pel poeta; quand'egli s'accorse di amare, il viver suo fortuna avea già rotto, chè la sua salute era perduta, la deformità sopravvenutagli ne' suoi migliori anni, insieme a la precoce esperienza de la vita, l'avevan fatto misero per sempre. Il suo cuore è di sasso, tace e resta quasi sempre immerso in un ferreo sopore, estraneo ad ogni moto soave; nondimeno il volto d'una fanciulla basta a commuoverlo e a ridestargli un canto ne l'anima. Canta e ritorna continuamente a sè, persuaso «che le scritture e i luoghi più eloquenti sieno dov'altri parla di sè medesimo...... Perchè quegli che parla di sè medesimo non ha tempo, nè voglia di fare il sofista, e cercar luoghi comuni, chè allora ogni vena più scarsa mette acqua che basta, e lo scrittore cava tutto da sè, non lo deriva da lontano, sicchè riesce spontaneo ed accomodato al soggetto, e in oltre caldo e veemente; nè lo studio lo può raffreddare, ma conformare e abbellire.»[76] Questo provano i versi stessi co' quali il Canto si chiude mirabilmente nel proposito ch'egli fa a sè stesso o ne la certezza ch'egli esprime d'amare la solitudine dei boschi e de le verdi rive, nel desiderio non di felicità e nè pur di pace, ma di lena e cuore a sospirare.
Ne La sera del dì di festa, il poeta ricorre col pensiero ad una donna di cui pe' balconi rara traluce la notturna lampa, mentr'ella dorme ne le chete stanze non tormentata da cura nessuna, ignara de l'amore che ha acceso. Secondo il Mestica, in questa donna si dovrebbe riconoscere la marchesina Serafina Basvecchi di Recanati, sorellastra di Giacomo; e La sera del dì di festa, sarebbe l'ultimo fra gl'Idilli, perchè «è ragionevole supporre che questo amore che si confessa tanto forte, abbia avuto qualche giorno di vita, e che non siasi spento alla maniera di un fuoco fatuo, lasciando subito ghiaccio nel cuore del poeta.»[77] Appar probabile che Giacomo vagheggiasse la Basvecchi, tanto più che qualche tempo dopo Paolina, annunziandogli il fidanzamento di lei, la chiama la tua Serafina. Pure non riesce altrettanto chiaro che tale affetto fosse profondo e durevole: questa stessa poesia, che rivela un animo fortemente agitato, non si può dire tutta infiammata da una veemente passione; il poeta è sconvolto piuttosto da una tempesta di dolore che d'amore. L'antitesi fra la pace de la natura e la disperazione di lui è il motivo fondamentale e si palesa persino ne l'armonia del verso; l'idillio si alterna con la tragedia. La notte è dolce e chiara, la luna queta posa in mezzo a gli orti e il profilo nitido de le montagne si rivela nel sereno; la donna riposa ne la dimora tranquilla e i sogni le riportano a la mente grati ricordi, ma v'è un'anima lì presso che confronta, quasi inconsciamente, quella dolcezza e quella pace col suo dolore; v'è un uomo, di cui gli occhi non brillarono mai se non di pianto e che disperato si getta per terra e invoca la morte e grida e freme. Passa un artigiano, che ha vegliato divertendosi e ritorna a casa cantando. Il giorno festivo è finito e, com'esso, tutto finisce e scompare. Quel giovane disperato e fremente divien pensoso: la sua mente, dimentica del proprio dolore, considera l'umanità intiera, la fugacità d'ogni grandezza, d'ogni cosa, e dopo aver contemplato un momento l'immensa scena del grande impero di Roma,
. . . . . . . e l'armi e il fragorío
Che n'andò per la terra e l'Oceáno,
risente (ed esprime ne l'armonia del verso) la pace ed il silenzio in cui tutto posa il mondo, dove di quella rumorosa gloria non rimane più nè pur una debole eco. Il canto si perde, allontanandosi pe' sentieri, ed il Leopardi, con un rapido ritorno su sè stesso, rammenta come fanciullo ne le sere del dì festivo, vegliando dolorosamente nel suo letto, a tarda notte sentiva stringersi il cuore ne l'ascoltare una simile voce melodiosa perdersi lontano. Il poeta de gl'Idilli è già il poeta del dolore, ma di un dolore tutto giovanile, ora agitato da la veemenza de la passione, ora allietato da la dolcezza de la speranza, qua ruggente come in un grido di rivolta, là mite come in un sospiro. Solitario vive con la natura, di cui i paesaggi, le scene, le immagini, formano tutto il suo mondo reale: la natura è l'amica sua, la sua confidente. Vi ha in questo gruppo di canti qualche cosa di romantico, come notò il Finzi, e ne la rappresentazione de la natura e nel sentimento tenero e malinconico; certo, limati e condotti a vera finezza estetica e perfezione di stile più tardi, serbano tuttavia il profumo, la grazia e la freschezza giovanile. Il poeta ha ritrovato sè stesso e, ne la sincerità de la sua inspirazione, il dolore contenuto, gl'impeti de la giovanezza avida d'amore, ricca d'alte aspirazioni, di nobili sogni, ma sfiorente ne la malattia, ne la noia, ne la solitudine, la dolcezza dei ricordi d'infanzia e d'adolescenza così vicini e già così lontani, tutto diviene poesia.
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Per Giacomo Leopardi la donna era sempre, anche colpevole, un oggetto di reverente pietà, era il fiore, che, caduto dal suo cespo nel fango, fa rimpiangere la freschezza e la grazia che ha perduto, ma di cui gli resta un lieve profumo. Nel 1820 il poeta aveva già scritto quella Canzone Sullo strazio di una giovane di cui bastò il titolo a mandare in furia il conte Monaldo, che v'immaginava chi sa quali sozzure. Un fatto vero e accaduto ne le Marche aveva dato inspirazione al Canto: un seduttore per opera del chirurgo aveva fatto uccidere col figlio nascituro la fanciulla, che già aveva amata.
La Canzone rimane tuttora ignota, ma un pensiero incluso fra i ricordi giovanili del poeta, editi per la prima volta nel 1863 da la Rivista Italiana, ci dà qualche idea dei sentimenti che la inspirarono: l'autore si propone di scrivere una poesia di qualsivoglia sorta sul Primo delitto o la vergine guasta; pensa di prender qualche cosa da Orazio, od. 27, lib. III, dove con molta verità esprime sommariamente i concetti di una fanciulla in quello stato; gli par soprattutto degno d'osservazione il desiderio de la morte ed il coraggio proveniente dal rimorso, che fa bramare in quel momento anche a una timida fanciulla di essere stata piuttosto tagliata a pezzi. Se giudichiamo dal come il Leopardi teneva cara quella canzone, dobbiamo credere che essa fosse di un sentimento e di una delicatezza notevoli; infatti quando il Brighenti per accontentare Monaldo e dissuader Giacomo dal pubblicarla, mostrava di non vedervi gran pregio, il giovane gli rispondeva, evidentemente offeso: «Il mio povero giudizio e l'esperienze fatte di quella Canzone sopra donne e persone non letterate, seconda il mio costume, e riuscitemi assai più felicemente delle altre, mi avevano persuaso del contrario.» E alle rimostranze del Brighenti, Giacomo a sua volta si scusava, dichiarandosi deferentissimo al giudizio degli amici, ma aggiungendo che, per parlare schiettamente, aveva per quella Canzone Sullo strazio un certo particolare affetto, come cosa che gli era venuta dal cuore. Egli non poteva rimaner indifferente a le sventure d'una donna giovane, bella, amante, tale da parergli degna d'esser felice; e se con tanta commozione, sempre anche ne gli ultimi suoi anni, considerò la sorte de le giovani vite femminili troncate, o minacciate da la morte, con commozione assai maggiore doveva aver meditato su la tragica fine de la giovane marchigiana.
Ne la vita e ne la natura il poeta cerca soltanto un affetto, che risponda a l'ardore che sente in sè; a la vita e a la natura domanda soltanto un'anima che lo ami; ma poichè non la trova, ne la sua stanca desolazione si crede già stecchito, inaridito come una canna secca, e morto ad ogni passione, anche alla stessa potenza eterna e sovrana dell'amore; ben poco basta però perchè il suo cuore si risvegli; se non infrequente gli sorrideva la musa, era rievocata ben di spesso da un'immagine femminile. Tra il '21 e il '22 egli scrisse il Consalvo, la canzone Nelle nozze della sorella Paolina, l' Ultimo canto di Saffo e la canzone Alla sua donna.[78]
Il Consalvo, benchè pubblicato soltanto nel 1835, fu, secondo ogni probabilità, pensato ed abbozzato nel 1821. Lo inspirò l'ardentissimo desiderio de la pietà femminile; il Leopardi non vi parla in persona propria, ma pone su la scena un uomo amante e una donna pietosa, nel bacio de la quale quegli muore confortato; essenzialmente soggettivo per natura e per la lunga abitudine di vivere ripiegato su sè stesso, per la nessuna conoscenza del mondo, anche qui dipinge sè medesimo: più volte dovette nei suoi migliori momenti, quando la disperazione cedeva ad una dolce malinconia, immaginare il conforto supremo de la pietà di una donna, che illuminasse di luce soave i suoi ultimi momenti; quindi, a ragione nota lo Straccali che non par punto necessario andare a cercare il primo motivo di questo canto fuori de l'anima del poeta.
Si volle vederne le fonti[79] nei Pastorali di Longo Sofista, dove Dorcone morente palesa a Cloe il suo amore e le chiede un bacio; ne l'episodio boccaccesco de la morte di Arcita (Teseide), ne la nona novella de l'Heptaméron di Margherita regina di Navarra, e ne la leggenda di Jaufré Rudel. Il Carducci crede che la pietosa avventura del trovatore provenzale fosse nota al Leopardi e pei famosi versi del Petrarca,
Giuffré Rudel ch'usò la vela e il remo
A cercar la sua morte,
versi chiariti anche dai commentatori antichi, e per la storia de la volgar poesia del Crescimbeni. Assai severo si mostrò il Carducci per il Consalvo che a l'opposto è tenuto in gran pregio da lo Zumbini, il quale lo giudica una de le cose più perfette de la nostra poesia.[80]
Qualche cosa del Sogno rimane in questo Canto, dove le figure sono vaghe, sfumate come specchiati sembianti. La loquacità rimproverata al protagonista è una reazione al suo lungo silenzio, è il desiderio d'aprire, almeno una volta, a la donna quel cuore che fu sempre chiuso e che tra breve dovrà esser muto per sempre; Consalvo ha col Leopardi il desiderio de la morte, l'abbandono in cui è lasciato, l'esser schivo de la terra, l'amore cocente e timido, l'illusione di trovare ne l'amore una felicità quasi divina e l'abborrimento de la vecchiezza. Se l'immaginazione del poeta non fu sempre felice in questo Canto, vi hanno però immagini assai belle e sentimento sincero espresso con quella semplicità che è uno dei maggiori pregi leopardiani. Si è dubitato che sotto il nome di Elvira si nasconda una donna veramente amata dal poeta, e supposto da alcuni che questa donna sia la Basvecchi, da altri la donna stessa cantata poi col nome di Aspasia; la signora Caterina Pigorini-Beri ed il prof. Odoardo Valio vi supposero[81] adombrata Paolina Ranieri; queste ultime ipotesi cadono se, come appar logico, il Canto si attribuisce a la prima giovinezza del poeta. Solo riguardo a la Ranieri si potrebbe obbiettare che il Leopardi pensasse a lei nel ricorreggere e quasi rifare il Canto negli ultimi anni de la sua vita. Dopo quel momento di molle dolcezza che gli dettava il Consalvo, il poeta s'irrigidisce nel suo severo concetto di virtù eroica spartana e, pur pensando a la donna e a l'amore, l'anima sua resta assorta impassibilmente da la contemplazione di un classico ideale ne la canzone Per le nozze della sorella Paolina.
Vivissimo era l'affetto del poeta per la sorella, ma le consuetudini de la famiglia, la severa ritenutezza che toglieva ogni espansione e lo stato d'animo del giovane, il quale nel suo dolore profondo vedeva tutto triste nel presente, e solo ne l'antichità credeva di trovare il mondo ancor giovane e forte e virtuoso, tolgono al Canto ogni tenera effusione: non è inspirato da i domestici affetti, ma da l'amor patrio; e la donna, che vi si riflette è la figura classica de l'antica matrona. Qualche cosa di affettuoso vi ha solo ne l'introduzione; è però da notare che sarebbe stato crudele vantar le gioie de l'amore a Paolina, che stava per sposare un uomo non giovane, non piacente, certo non amato da lei: se questo si pensa, apparirà delicato e generoso quel mostrarle i doveri de la maternità e darle coraggio e forza per la dura battaglia de la vita. Tuttavia ne la Canzone vi ha l'alto concetto di ciò che la donna può su l'uomo; se ne la prima parte predomina il sentenziare breve ed austero, ne la seconda il cuore del poeta si scalda dinanzi a le antiche donne, non meno leggiadre che grandi; si commuove al loro dolore ed a la loro sventura; la fantasia ridesta dipinge il quadro de' suoi più vaghi colori.
Con l'immagine di Virginia finisce il Canto, lasciando nel lettore l'impressione grandiosa di quel popolo salvato da quella donna. Evitò un ritorno ai tempi suoi, al suo paese, ma par che il suo silenzio nasconda un augurio: quello che, come il romano, risorga anche il popolo italiano per la virtù femminile.
Il Bruto Minore segna pel poeta il confine fra l'età de l'immaginazione e il prevalere de la scienza e de l'esperienza del vero: con Bruto spira quella giovanezza del mondo, che è rimpianta nel Canto Alla Primavera. La bella stagione tenta ancora il cuore gelido del poeta, che nel fiore de gli anni esperimenta la vecchiezza, e desta in lui un nuovo palpito, che gli fa chiedere con trepidazione s'egli sia ancora capace d'illusioni, se la natura sia ancora viva; gli risorgono dinanzi le belle immagini de le antiche favole, le candide ninfe che con piedi immortali danzano su le rupi scoscese e ne le selve; Diana cacciatrice, scendente a tergere nel fiume da la polvere e dal sangue i fianchi nivei e le braccia virginee; la driade, che palpita ne la scorza d'una pianta; l'innocente naiade, la quale fa sgorgare l'acqua limpida da la sua urna; Eco solitaria che un doloroso amore cacciò da le sue giovani membra, e che per le grotte e pei nudi scogli ripete al cielo le ambascie e gli alti e rotti lamenti umani. In queste femminili immagini mitologiche il poeta mette una vita che ce lo fa parere un uomo antico, veramente pietoso, veramente amante di esse; tale si crede e, al risveglio, tale si duole di non essere. Ahimè, da che il Cielo è deserto de gli esseri amabili che un dì lo popolavano, egli esclama, il tuono cieco, errando per le nubi e le montagne, spaventa ugualmente innocenti e colpevoli; da che la patria educa le nostre anime malinconiche, restando estranea ad esse, inconscia di esse, tu, o natura, ascolta le nostre cure infelici, il nostro indegno destino e rendi al mio spirito il fuoco de' suoi primi affetti, se pure tu vivi, se havvi cosa alcuna in cielo, in terra o nel mare, non dico pietosa, ma spettatrice almeno de la nostra sorte.
Egli non chiede, non sospira più che l'ardore de' suoi primi affetti, l'illusione, almeno, di trovar un amore, una donna, che gli ridía le gioie de la speranza, se non de la realtà. Pochi sentirono come il Leopardi la potenza e il desiderio de l'amore e poche volte egli medesimo seppe dare a l'impeto de la passione un così delicato velo di tristezza come ne l' Ultimo Canto di Saffo. La Saffo del Leopardi non è la storica figura che la tradizione continua a considerare insieme poetessa eccelsa ed amante sventurata, benchè la critica abbia dimostrato due Saffo essere esistite, l'una contemporanea ed emula di Alceo, l'altra più vicina a noi, infelice innamorata di Faone. Il Leopardi non cura di riavvicinarsi nè a la leggenda, nè a la storia, nè ai versi de la poetessa che ci rimangono; egli intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane, intende di sfogare il suo proprio dolore e forse di porsi dinanzi, come un caro fantasma, non la figura, ma l'anima de la donna, che avrebbe potuto comprenderlo. Come a Saffo, eran state care e dilettose a lui la notte, la luna, la stella de l'alba; finchè il destino lo colpì, non d'un tremendo amore al par de la giovane greca, ma d'un insoddisfatto bisogno d'amore, più tremendo ancora. Come Saffo, ne la lotta de' suoi disperati affetti, egli sente un insolito gaudio quando per l'aria e pei campi trepidanti si aggirano i polverosi fiotti del vento e rugge il tuono e sfolgora il lampo, mentre le greggie sbigottite fuggono per le valli profonde; il suono e la trionfante collera de le acque su la riva del fiume gli dà un senso gradito, perchè conforme a lo stato de l'animo suo; e pure egli, come la Greca infelice, sente ancora la beltà del cielo divino, de la rorida terra; la sente, ma è una nuova ferita per lui, cui i numi e l'empia sorte non fecero parte alcuna di quell'infinita vaghezza. Ospite vile, dispregiato amante de la natura, anch'egli la guarda invano supplichevole, da che non gli sorridono più le aperte rive dei ruscelli, nè l'albore mattutino sul lembo estremo del cielo; da che non si sente più salutato dal canto dei variopinti uccelli, dal murmure dei faggi; da che il candido ruscello, dove dispiega le acque pure a l'ombra dei curvi salici, par sottrarsi con disdegno al piede di lui. Come Saffo egli prorompe ne le disperate domande: di qual fallo, anzi di quale eccesso nefando mi macchiai prima di venire al mondo, perchè il cielo e la fortuna mi debbano così disdegnare? Qual peccato commisi bambino, quando la vita è ignara del male, perchè poi la mia spregevole esistenza avesse scema la giovanezza e negata ogni gioia? Così prorompe nel dolore, ma tosto lo signoreggia: incaute parole furon le sue, poichè un'arcana volontà determina il destino, e tutto è misterioso fuor che il nostro dolore; progenie trascurata noi nascemmo al pianto, e solo gli Dei ne sanno la ragione. Benchè questo appaia in linguaggio del freddo criterio, che non vuol lasciarsi sopraffare da la passione, ne le frasi brevi e quasi spezzate si sente un affanno che soffoca la voce in un singhiozzo. Il Padre concesse di regnare nel mondo soltanto a la bellezza; imprese virili, sapienza, poesia, non valgono al virtuoso deforme. Tutto qui è amore e dolore, dolore tanto cocente che la catastrofe giunge prevista, quasi aspettata, e la decisione de la morte par esca da le labbra de la poetessa con un sospiro di sollievo: sparse a terra le membra non degne, l'animo ignudo rifuggirà ne gli eterni regni, emendando il fallo crudele del cieco destino. Fin qui Saffo non ha nè pur accennato al suo amore, ma ora, determinata di morire, lascia sfuggirsi il suo secreto ne l'ultimo addio, che rivolge a l'amato, addio altamente patetico in cui parlan solo i sentimenti, che hanno inspirato tutto il Canto e che determinano la morte: affetto e dolore, ma senz'odio, senz'ira.
La più cara fra le immagini che arrisero a la mente del poeta e che gli furon tormento e conforto, l'ideale vagheggiato ne la dolorosa solitudine, rivive nel Canto A la sua donna, in cui altri vide un'allegoria de la libertà, altri de la felicità. Il Giordani, nel 1826, fu il primo ad affermare che il poeta nascondesse sotto il nome di sua donna, gnarus temporum, la divina idea di libertà, e più tardi (1830) chiamava il Canto un «celestiale inno d'amore a la libertà, il sommo di bellezza che si possa sperare da la poesia;» ma il Borgognoni[82] suppone che il Giordani interpretasse così quel Canto per liberare l'amico da l'accusa che facilmente poteva colpirlo in quel tempo, di cantare ideali e fantasie platoniche. Il Leopardi però quando aveva voluto, malgrado i tempi poco propizi, aveva saputo manifestare apertamente i suoi sensi liberali; e ne fanno prova le Canzoni All'Italia, Sul monumento di Dante, Nelle nozze della sorella Paolina.[83] Maggior valore de l'autorità di P. Giordani ha la voce del poeta, che ne l'articolo critico non fa punto supporre d'aver voluto cantare altro che un ideale femminile; e che, se altro si volesse intendere, apparirebbe spesso strano ed oscuro nei versi de la Canzone. L'autore non sa se la sua donna, e così chiamandola mostra di non amare che questa, sia nata fin ora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, che noi non siamo suoi contemporanei, e la cerca fra le idee di Platone, ne la luna, nei pianeti del sistema solare, nei sistemi de le stelle.
Come si potrebbe interpretare, pensando a la libertà, il sogno e i campi in cui essa appare, la sua vita ne l'età de l'oro, la sua morte e il trasvolare de l'anima sua tra la gente? E chi sarebbe l'altra, che potrebbe trovarsi pari a lei al volto, a gli atti, a la favella, e che così conforme sarebbe tuttavia men bella assai? E certo apparirebbero anche troppo appassionatamente teneri i versi in cui il poeta chiama la vita rallegrata da quella donna simile a quella che nel cielo indìa. Come mai il senno eterno potrebbe sdegnare di vestir di sensibili forme quest'idea e farle provar fra caduche spoglie gli affanni di funerea vita? Sì che nè l'autorità del Giordani, nè quella del Ranieri, che disse ad un amico aver il poeta intitolato da prima A la libertà questo Canto, nè quella de lo Zerbini che anch'esso volle vedervi adombrata la libertà, valgono a sostenere tale supposizione, accettata tuttavia da molti. Nè pur interamente persuasiva mi par l'altra asserzione che la donna sia la felicità (v. G. Mestica), benchè infine pel poeta l'amore d'una vera donna e la felicità sieno tutt'una cosa. Una osservazione importante è quella fatta da lo Straccali e dal Cesareo, e cioè che la Canzone A la sua donna ne l'edizione del 1824 è posta dopo l' Inno ai Patriarchi, ne le edizioni seguenti e ne la definitiva napoletana venne separata dal gruppo de le poesie civili e posta fra quelle filosofiche e amorose.
L'idealità platonica inspira questa Canzone, la quale tuttavia lungi da l'essere una fredda reminiscenza, sorge dal più intimo del cuore di Giacomo. Questi fin da la sua adolescenza aveva sentito vivissimo ne l'animo il desiderio d'amore, e da l'amore aspettava quell'ineffabile felicità che, illuso, credeva possibile ai mortali, ma che gli sfuggiva dinanzi quando più gli pareva d'esserle presso: la Geltrude Cassi, cui può darsi ch'egli pensasse ne lo scrivere i versi:
. . . . . . . . . s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, a gli atti, a la favella
Saria così conforme assai men bella,
o non si era avveduta del suo affetto o non se n'era curata; la Fattorini era morta; ed altre forse ch'egli ammirava, come la Basvecchi, non lo credettero degno d'un loro sguardo. A lui, tenerissimo ed immaginoso, doveva più che ad altri mai arridere una fantastica sembianza di donna bellissima e virtuosissima, capace di render beata la vita a l'amante; questo fu il solo, vero, costante suo amore; non mentì più tardi, asserendo ad Aspasia di non aver amato lei, ma quella diva ch'ebbe vita soltanto nel suo cuore; di questa ricercava avidamente un'immagine reale ne le donne, che gli furon più care. Ne la Canzone A la sua donna egli ebbe in animo di esaltare quel femminile eterno che da Dante a Goethe arrise ai poeti; avverata, quella sua dilettissima immagine e pienamente conforme a la sua idea, sarebbe tuttavia men bella assai, per questo solo che sarebbe reale e che il suo incanto maggiore è la luce di sogno che l'avvolge, il suo fascino è la lontananza, il mistero, l'essere irraggiungibile, inafferrabile.
Il De Sanctis, lo Zumbini, lo Zanella, il Bonghi, il Sesler, il Borgognoni, il Colagrosso, il Bacci, lo Straccali, il Cesareo, il Della Giovanna, il Fornaciari, ec., interpretano tutti la Canzone A la sua donna come rivolta ad un ideale femminile.
* * *
La monotonia de la vita di Giacomo veniva rotta dal suo primo viaggio a Roma che non gli dava però alcuna di quelle soddisfazioni del cuore, cui egli aspirava. La zia Ferdinanda era morta, le donne ch'egli poteva frequentare gli parevano bestie femminine, eccessivamente frivole e dissipate, incapaci d'inspirare un interesse al mondo. Il teatro lo dilettava, concedendo al suo spirito l'illusione d'un mondo diverso dal reale,[84] e La donna del lago, data a l'Argentina ed eseguita da voci assai buone, gli parve una cosa stupenda: «Potrei piangere ancor io se il dono de le lacrime non mi fosse stato sospeso, giacchè mi avvedo pure di non averlo perduto affatto» — scriveva a Carlo a proposito di questo spettacolo (5 febbraio 1823). — Profonda impressione gli faceva il ballo, che gli sembrava comunicasse a le forme femminili un non so che di divino.
Al ritorno a Recanati la sua malinconia si fa più nera. E pure, in tanto sconforto, la grandezza del suo cuore trionfa ed egli ama ancora la virtù. «En vérité, mon cher ami, le monde ne connait point ses véritables intérêts. Je conviendrai, si l'on veut, que la vertu, comme tout ce qui est beau et tout ce qui est grand, ne soit qu'une illusion. Mais si cette illusion était commune, si tous les hommes croyaient et voulaient être vertueux, s'ils étaient compatissants, bienfaisants, généreux, magnanimes, pleins d'enthousiasme; en un mot, si tout le monde était sensible (car je ne fais aucune différence de la sensibilité à ce qu'on appelle vertu), n'en serait-on pas plus heureux?...»[85]
Poco profonda, benchè non discara, l'impressione che gli restava del viaggio di Milano. Ben altra cosa può dirsi de la dimora del poeta in Bologna: la tenera simpatia per Marianna Brighenti gli rendeva piacevolissime le ore e le serate ch'egli soleva passare in casa de l'avvocato modenese; questo fu il più dolce suo affetto in quella città, poichè a la dolcezza di esso non venne a fondersi alcun sentimento amaro. Poco fortunato egli fu nel suo affetto per Madama Padovani, affetto rimasto fino a poco tempo fa ignoto ai biografi e di cui diede cenno per primo Camillo Antona Traversi[86] ne l'articolo Gli amori bolognesi di G. Leopardi, pubblicato nel periodico Lettere ed Arti (Bologna, 15 novembre 1890); notizie maggiori ne diede il dottor Franco Ridella nel suo libro Una sventura postuma di G. Leopardi.
Esaminando accuratamente l'Epistolario leopardiano, il Ridella ne ricavò tutto quanto a questo proposito se ne poteva trarre, provando come fosse senza dubbio quella Madama Padovani la strega tanto bella, giovane e graziosa di cui parla il Leopardi ne la lettera 3 luglio 1827 al Papadopoli; ma non riuscì nè a saper chi fosse la Padovani, nè ad averne altrimenti contezza.
Ricercando notizie di questa signora a Modena, dove, secondo afferma il Leopardi stesso, viveva il marito di lei, da documenti e da testimonianze orali seppi ch'ella fu senza dubbio alcuno una Rosa Simonazzi, di Antonio e di Domenica Cavazzuti modenese. Rimasta in assai tenera età orfana di padre, fu educata da la madre insieme al fratello Natale, nato il 17 dicembre 1799. Di diciott'anni a pena, nel 1820, secondo i documenti che si trovano ne l'ufficio di Stato Civile a Modena, fu sposa ad un impiegato modenese, Luigi Padovani di Pellegrino e de la Paola Verzoni, ispettore de la civica illuminazione e discreto suonatore di chitarra, maggiore di lei d'undici anni, onesto, buono, di condizione modestissima, per quanto di poi la Rosa si facesse chiamare Madama. Nei primi tempi del matrimonio ella attese a la casa ed ebbe un figlio, Antonio; ma poi, bella, di un brio indiavolato, leggiera, avida di piaceri e di lusso, sentendo lodare la sua voce e la sua naturale disposizione a la musica, tolte a pretesto le condizioni economiche disagiate e la speranza di far fortuna, volle andarsene nel 1826 a Bologna per studiarvi il canto. Aggiungo che per motivi di gelosia fu divisa dal marito; non so precisamente in quale anno avvenisse la separazione, ma ho ragione di credere prima del 1826. A Bologna la Rosa si allogò, dopo aver dimorato qualche tempo in altra casa, presso quel Vincenzo Aliprandi, che era stato tenore al servizio di Napoleone I ed avea cantato molti anni prima anche a Modena ne l'opera semiseria La Griselda di Paer lasciando ottima memoria de l'arte sua e de la voce. In casa di lui (Casa Badini presso il teatro del Corso), già vecchio, ma povero malgrado i suoi trionfi e costretto a tener pensione per vivere, la Rosa si trovò con Giacomo Leopardi. La signora era molto amica de la famiglia Stella, scrivendo a la quale Giacomo spesso la nomina; può darsi anzi che per mezzo de gli Stella egli conoscesse la Padovani, poichè appar certo che la conobbe prima ancora ch'ella andasse ad abitare ne la sua stessa casa; infatti il 26 marzo del 1826 egli scrive ad A. F. Stella: «Debbo fare a Lei e a tutta la sua famiglia i complimenti di Madama Padovani, che abita ora qui ne la mia stessa casa e al mio stesso piano.»
La Padovani era una donna del tipo che inspirò le più ardenti passioni del Recanatese, di cui gli amori tutti ideali e quasi celesti furono rivolti a fanciulle belle, pure e infelici, ma gli amori reali, di natura terrena benchè onesti, ebbero per oggetto donne da le forme giunoniche, da l'aspetto florido, dal portamento regale, da gli occhi luminosi e arditi, superbe e liete come dee de la classica antichità. Tale era Madama Padovani: di statura alta e di forme scultorie, riusciva attraente soprattutto pei grandi occhi vivacissimi, scintillanti di brio, di spensierata allegrezza, di malizia birichina, di mordacità. Orgogliosa de la sua avvenenza, di nulla si compiaceva come d'essere ammirata e adorata, e probabilmente nè anche l'omaggio del giovane contino le riuscì discaro, per quanto ella non comprendesse affatto nè l'ingegno, nè l'animo di lui. Ma ella era troppo lontana moralmente da la donna ch'egli vagheggiava per potergli piacere a lungo: bella, non altro che bella, doveva colpirlo al primo momento, lasciarlo poi disgustato; quali altre cagioni di sdegno per lei ebbe il Leopardi (par certo che ne ebbe), rimane un mistero. Desideroso di farle cosa grata, egli chiese per lei un biglietto, probabilmente per qualche accademia o spettacolo, al conte Carlo Pepoli. Ma fra questa domanda e la risposta del Pepoli qualche cosa dovette accadere che cambiò affatto i sentimenti del Leopardi verso la Padovani; un atto di sprezzo o di dileggio di lei? Non è improbabile, perchè la sua educazione era tutt'altro che fine e perchè l'animo del Leopardi, così dolce e così costante, solo da un'offesa al delicatissimo suo amor proprio poteva così improvvisamente esser mutato.
Al Pepoli infatti scrive ne l'aprile 1826 che lo ringrazia del biglietto che gli ha mandato e de le cure che si è voluto prendere per l'altro biglietto richiestogli e lo prega di non darsi altro pensiero di questa cosa, chè egli non vorrebbe veramente far trasgredire al segretario le sante leggi per proprio piacere. Gli dà, su la Signora, dei ragguagli certamente dimandati da l'altro; e ne le sue parole si sente un accento di poca stima e di poca simpatia; non certo un affetto presente, ma piuttosto un affetto deluso, che ha lasciato soltanto de l'amarezza: «La mia signora è maritata, benchè non abbia qui il marito per la ragion sufficiente che il marito sta a Modena. È distinta per un paio d'occhi che a me paion belli e per una persona che a me e ad alcuni altri è paruta bella. Ma che abbia altre distinzioni non so e non credo. Perciò ti prego a non darti altro pensiero di questa cosa....»
Forse il Pepoli aveva detto che se si fosse trattato di una persona di grande distinzione si sarebbe potuto eccezionalmente ottenere il biglietto.
Ne la lettera a lo Stella del 17 maggio 1826 si fa cenno ancora di Madama Padovani, che è contenta di Bologna e fa progressi sufficienti ne la musica, ma è naturale che anche senza aver più per lei nessuna simpatia, il poeta la nomini a quegli amici di lei, da cui probabilmente gliene erano state chieste notizie. Così a Luigi Stella ne la lettera 25 luglio 1826 fa un cenno asciutto de la signora: «Madama Padovani è ancor qui, ed ho cagion di credere che vi stia contenta.» Ha cagion di credere, ma non ne sa più nulla di preciso. Più tardi, tornato a Bologna ne la primavera del 1827, ancor più asciuttamente rispondeva a lo Stella: «Madama Padovani è qui ancora. Essendo morto il suo e mio albergatore, ha mutato alloggio; ed io non l'ho veduta dopo il mio ritorno; ma so che sta bene.» Molto ragionevolmente il dottor Ridella crede che Giacomo alluda a la Padovani ne la lettera al Papadopoli 3 luglio 1827, in cui gli dice che non sa perchè voglia dubitare de la sua costanza nel tenersi lontano da quella donna; quasi si vergogna a narrare che ella, non vedendolo più andar da lei, mandò a domandargli sue nuove, ed egli non ci andò; che dopo alcuni giorni lo invitò a pranzo, ed egli non ci andò; che partì per Firenze senza vederla, che non la rivide più dopo la partenza del Papadopoli da Bologna; e si vergogna a raccontar questo, perchè par ch'egli voglia provar una cosa di cui l'altro gli fa torto a dubitare; aggiunge infine: «Certo che la gioventù, la bellezza, le grazie di quella strega sono tanto grandi che ci vuol molta forza a resistere.»
Poichè il Leopardi aveva una naturale e delicata ritrosia a confidare le offese fatte al suo amor proprio, non è probabile ch'egli avesse parlato al Papadopoli del fatto che era stato causa de la rottura fra lui e la Padovani; e non parrebbe inverosimile che di questo fatto quell'amico fosse testimonio, cosa che spiegherebbe sempre più la ferma durezza del Leopardi verso quella donna. Un ultimo cenno su la Padovani si trova in una lettera di Paolina, a la quale il poeta doveva aver parlato di quella sua conoscenza. Il 15 febbraio del 1828 la sorella di Giacomo, a proposito di cantanti, narravagli che la sua Madama Padovani[87] aveva fatto il primo teatro a Torino in quell'autunno e con buon esito, ed aggiungeva: «Ma a te che te ne importa? Io già lo so che non te ne importa niente, ma io sempre mi ricordo dei tuoi racconti, delle tue conoscenze.»
La Rosa datasi a l'arte parve riuscire discretamente, ma non lasciò alcuna fama di sè, il suo nome rimase sconosciuto anche ai più diligenti e minuziosi ricercatori di notizie teatrali. Solo ho potuto sapere ch'ella cantò a Milano nel 1829 (reduce da Torino) ne l'opera Zelmira, eseguendo la parte di Emma, confidente; ma con poco buon esito, tanto che non fu più scritturata. Pare inoltre da le notizie di quei tempi che anche a Torino fosse piaciuta poco. Per questo essa fu costretta di recarsi a l'estero e di cambiar nome; sì che rimanendo ignoto il pseudonimo da lei preso, manca ogni mezzo per ulteriori ricerche. Alcuni Modenesi già innanzi con gli anni ricordano d'aver sentito parlare di lei artista, rammentano ch'ella fu lungamente a l'estero, specie in Russia, a Mosca, di dove però fece ritorno tanto povera ch'ebbe bisogno di chieder più volte sussidi al comune. Morto Luigi Padovani il 24 maggio 1869, la Rosa il 2 giugno de lo stesso anno domandò una pensione al Municipio; la supplica, che si conserva ne l'archivio comunale di Modena, è corredata da una fede di nascita da cui resulta che la postulante fu battezzata ne la parrocchia di San Bartolomeo in San Barnaba nel 1795, mentre dagli atti matrimoniali appare nata nel 1802; non ho potuto chiarire questa sconcordanza, ma su l'identità de la persona non v'ha dubbio. La Rosa ottenne la pensione che fu di lire settecento venti annue e la godette solo per poco più di due anni, perchè il 18 settembre 1871 finì di vivere. Un vecchio professore, il quale la conobbe personalmente afferma che già carica d'anni e di malanni era tuttavia sempre bellissima e allegra, tanto da far immaginare quale splendida creatura avesse dovuto essere in gioventù; ed asserisce d'averla sentita ricordare Giacomo Leopardi e vantarsi d'averlo intimamente conosciuto, con tali parole da lasciar comprendere chiaramente che ella era stata amata dal poeta; e questo è pure narrato da una vecchia parente de la Padovani. A porre in dubbio l'amore del poeta per la cantante non vale il notare che fra la data de la lettera al Pepoli (aprile '26) e quella de la lettera al Papadopoli (3 luglio '27) corre il periodo de l'amore per la Malvezzi, perchè quando il poeta scriveva la prima, la sua fugace passione per la cantante era già svanita; nè è strano che ancora nel '27 il Papadopoli gli chieda de la Padovani, perchè, stato quasi sempre assente da Bologna, egli probabilmente nulla poteva sapere de l'amore che l'amico suo aveva provato per la Malvezzi. Nè più valore avrebbe l'obbiezione su l'età de la Padovani (la strega, dice il Leopardi, è giovanissima); ora è quasi certo che nel '27 la Padovani aveva venticinque anni; ma ne avesse pur avuto qualcuno di più, qual meraviglia che, bella come era, apparisse giovane assai al Leopardi che amò la Cassi ventiseienne, la Malvezzi già sui quaranta, la Targioni Tozzetti già oltre i trenta.
Più veemente ed altrettanto infelice fu l'amore del Recanatese per la Malvezzi, la colta dama, di cui lo spirito, la grazia e la pietosa affabilità affascinarono il poeta fino a illuderlo ch'ella potesse, se non corrispondere, compatire al suo amore.
* * *
Le Operette morali come i Canti, benchè con intento più satirico, ci danno l'immagine de l'animo del poeta, dipingendoci la sua visione del mondo; però assai più di rado vi si riaffacciano la donna e l'amore, a punto perchè più difficilmente il Leopardi osa ridere di essi che di ogni altra cosa. Anzi ne la Storia del genere umano, che è quasi un proemio a tutta l'opera, dopo aver tutto negato e deriso, chiude con l'innalzare un vero inno a l'amore celeste e con tanto sincero entusiasmo, che fa quasi pensare aver egli scritto tutta la prosa per giungere a questa chiusa, come si dice scrivesse la canzone All'Italia per rifare il Canto di Simonide; ma mentre quest'ultima canzone manca di euritmia fra le parti, La storia del genere umano è ammirabile così per la proporzione, per l'ordine, per la grazia e per la finezza de l'arte, come per l'alta poesia. «Quando viene in sulla terra ( l'amor celeste ), sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità ed empiendoli di affetti sì nobili e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.» La storia de l'infelicità umana, che è resa in questa prosa secondo il mito pagano, è narrata secondo il mito cristiano ne l' Inno ai Patriarchi; ne la prima il Leopardi si rifugia, come in un ignorato eliso, nel suo sogno d'amore; ne la seconda gli arride lontana l'età de l'oro, in cui l'umana stirpe visse ignara del suo destino: qui e là un sogno lo consola del vero. La Storia del genere umano, ampliata a significar le sorti de l'intera umanità, è la storia de l'uomo, o meglio la storia del Leopardi, felice ne la prima infanzia, quando la vita è solo vegetativa, men felice, ma bella ancora ne la prima adolescenza, quando l'immaginazione fingeva a lui di là dai monti del suo orizzonte, arcani mondi, arcana felicità. A quei viaggi de gli uomini antichi, i quali vanno visitando lontanissime contrade, corrispondono gli studi di Giacomo, i quali limitano intorno a lui l'universo che lo aveva affascinato con le apparenze de l'infinito e gli fanno, come a quegli antichi, crescere la mala contentezza sì che, non ancor uscito da la gioventù, egli è occupato da l' espresso fastidio dell'esser suo; e come quelli a questo fastidio cercavano un rimedio ne la morte, così egli siede presso la fontana del giardino paterno, pensoso di finire in quelle acque il suo dolore. Giove propaga i termini del creato e lo adorna; così gli studi accrescono l'orizzonte intellettuale del Recanatese, ma il rimedio è peggiore del male, poichè le vaghe immagini e il popolo dei sogni sfuggono dinanzi a lui; e come gli antichi cadono ne l'empietà, così egli perde la fede e se ne consola adorando i divini fantasmi de la virtù, de la gloria, de la patria, insieme ai quali lo alletta per la prima volta l'amore reale. Come quelli egli darebbe volentieri il sangue e la vita per tali fantasmi, ma la sapienza, o meglio, per lui, la meditazione filosofica, lo accende del desiderio de la verità, e questa gli toglie ogni gioia, ogni conforto, gli mostra la vanità di tutto, e solo altissimo sollievo gli rimane l'amore, non materiale come prima, ma ideale e purissimo. Questo sogno di un affetto quasi celestiale fa ripensare a quella specie di delirio e di febbre da cui fu preso, quando l'intima conoscenza de la Malvezzi gli fece sperare d'aver trovato un sublime ricambio d'affetto.
La Storia del genere umano al Bouché Leclercq rammentò quei quadri de la scuola bolognese in cui un'apparizione celeste aleggia sopra le figure principali e manda riflessi luminosi fin ne gli angoli più oscuri.[88]
Ma dopo l'inno, la satira; dopo l'entusiasmo del desiderio e il felice delirio del cuore e de la fantasia, il disinganno e un'amarezza, un disdegno che non son quasi che il rovescio di quell'amore e di quel delirio.
Ne l'argutissima Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi una freccia pungente è rivolta contro le donne, incapaci di fedeltà. Oh in quel sarcastico sorriso quanta mite malinconia! Come egli l'ha cercata dovunque quell'adorabile donna che non si trova; come l'ha vagheggiata persino ne le pagine del conte Baldassar Castiglione, ed ha invidiato dal profondo de l'animo appassionato e deluso Pigmalione antico che si potè fabbricare la sposa colle proprie mani; e come gli si stringe il cuore nel non trovar per essa un miglior paragone che l'araba fenice del Metastasio! La donna fedele e che può render felice l'uomo è ancora da inventare; cinquecento zecchini de la cassetta di Diogene (proverbialmente misero) a chi ne sarà l'autore.
Scrivendo questa prosa il Leopardi doveva essere in uno de' suoi momenti meno tristi, poichè un sincero umorismo lo inspira. Si sente, come dice il Bouché Leclercq, qu'il a des larmes dans la voix, si sente ch'egli ha sofferto per colpa dei motteggi e dei biasimi di amici falsi, ch'egli ha sofferto nel sentirsi solo in quella sua alta aspirazione a le opere virtuose e magnanime e sopra tutto ch'egli ha anelato con tutta l'anima a l'amor sincero di una donna, ma la serenità del suo spirito gli permette di scherzare sui suoi errori e su le sue delusioni.
Alcune prose del Leopardi e questa sua Proposta di premi, fra le altre, provano quale squisito umorista egli avrebbe potuto essere, se non fosse stato così sconfinatamente infelice; invero quanta felice arguzia in quell'enumerazione di macchine, che si spera saran trovate col tempo: parainvidia, paracalunnie, filo di salute, che scampi da l'egoismo, dal predominio de la mediocrità, da la prospera fortuna de gl'insensati, de' ribaldi e de' vili, da l'universale noncuranza e da la miseria de' saggi, de' costumati e de' magnanimi; e quanta ancora nei premi immaginati!
Nel soggettivismo schietto ritorna il Leopardi col dialogo de La Natura e di un'anima. Lo spirito, cui la natura dice: vivi e sii grande e infelice, è quello stesso del Leopardi, che desolato di riconoscere vano il suo immenso desiderio di felicità e di sentire ne la propria eccellenza, ne la finezza del suo intelletto, ne la vivacità de la sua immaginazione, altrettante cause d'ineffabile soffrire, sconfortato de la gloria stessa, che non si ottiene in vita e talora nè pure in morte, nè anche da gli eccelsi, maledice la sua grandezza e chiede d'esser conforme al più stupido, insensato spirito e di morire il più presto che si possa.
Non così avrebbe maledetto la vita e l'ingegno, se il sorriso di una Elvira gli avesse aperto il cuore a l'agognata felicità: il paradiso in cui egli avrebbe veduto cangiarsi la terra desolata, non sarebbe stato eterno; ma la visione e il ricordo di esso avrebbero salvato l'infelice da la disperazione.
A l'uomo, cui manchino la potenza di agire e gli affetti, qual rimedio rimane contro la noia, se non i sogni e le fantasticherie? Così il Leopardi nel dialogo Torquato Tasso e il suo gemo familiare (imitazione, ma piena d'originalità, del Messaggero de lo stesso Torquato); il Tasso del dialogo è sempre il Tasso del Canto ad Angelo Mai; mandandolo in terra il cielo preparava a gli uomini l'esempio d'una mente eccelsa, a lui dolore, non altro che dolore, nè pur dal dolcissimo canto confortato. E che è questo Tasso se non il Leopardi medesimo?
Nel dialogo, il Tasso tocca del suo amore per Leonora, e ne le parole di lui senti la voce stessa del Recanatese. Questo dialogo chiarisce la natura di quasi tutti gli amori leopardiani: l'amata gli pare da vicino una donna, da lontano una dea, e quel che più gli duole è che le donne stesse tolgano ogni splendore a l'immagine loro ch'egli si forma con la fantasia: ne l'amore, come in tutto, il vero doveva avvelenargli l'ideale. Quando egli sogna la sua donna, sfugge il giorno dopo di rivederla chè, se pur la rivedesse pari nel volto, ne gli atti, ne la favella a l'immagine sognata, non sarebbe più la stessa, avrebbe perduto gran parte del suo incanto.
Se l'utilità de i sogni e de le fantasticherie è solo quella di consumare la vita, questo è pure l'unico intento che ci si possa proporre. Lo spirito del Leopardi ne la dolorosa meditazione s'inasprisce: dal sogno, al dolore; dal dolore a l'amarezza; da l'amarezza, al sarcasmo; ecco la storia di quell'anima. Così qui il dialogo tutto ha un'intonazione malinconica e dolce, la chiusa è aspramente sarcastica. Dove sei solito abitare? — chiede Torquato al suo genio. — In qualche liquore generoso, — risponde questo; — da prima il Leopardi aveva scritto nel tuo bicchiere.
Ma il sarcasmo non dura, non può essere abituale in quell'animo altamente buono, che si ritrae in Filippo Ottonieri così originale e profondo ne' suoi giudizi sul mondo e su le umane sventure.
Chiarendo l'ironia di Socrate, il Leopardi spiega la sorte sua: nato con disposizione grandissima ad amare, ma per la sciagurata forma del corpo disperato di poter ottener altro che amicizia, e per la stessa ragione poco atto ai pubblici negozi, e pur dotato d'ingegno grandissimo, che accresceva fuor di modo la molestia di queste condizioni, come Socrate anche il Leopardi si pose per ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei costumi e delle qualità de' suoi cittadini: nel che gli venne usata una certa ironia; come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver parte, per dir così, nella vita. Ma anche in lui la mansuetudine e la magnanimità innata fecero che l'ironia non fosse sdegnosa ed acerba, ma piuttosto riposata e dolce. Le occupazioni, fossero negozi o trastulli, eran ugualmente passatempi per lui, che ai piaceri reali anteponeva d'assai quelli de le false immaginazioni; tutte infelici gli parevan le condizioni de la vita e tutte press'a poco ugualmente povere di beni e ricche di mali, nè rimedio a questi era per lui la filosofia. Come l'Ottonieri, l'autore è un ingegno singolare, che si compiace di scostarsi dal comune de gli uomini e che pur disprezzando nel suo pessimismo e l'umanità e la natura e l'universo, non sa odiare, anzi è naturalmente e quasi inconsciamente disposto a sentimenti affettuosi, i quali non lo compensano, ma lo consolano, alcun poco de gli affetti eroici ed ardenti per cui si sentirebbe nato, e che fortuna e natura gli negano. «Sono nato ad amare, ho amato e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benchè non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, ne forse anco tepida, non mi vergogno a dire che non amo nessuno fuorchè me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento agli altri.»
* * *
A Firenze il Leopardi provò l'ultima terribile passione de la sua vita, un amore ardente come il primo, ma di cui l'illusione durò ben più, e ben più tormentose furono le sofferenze che gliene vennero, quando quel caro inganno gli fu strappato a forza. Alcuni credettero che la donna amata a Firenze dal Leopardi fosse la Carlotta Lenzoni de' Medici, altri la Carlotta Buonaparte. Paolina Leopardi per prima immaginò che de la Buonaparte il poeta fosse innamorato; egli stesso lo nega in una lettera a Carlo.
La Lenzoni, gentildonna abbastanza colta e amantissima de gli studi, radunava in casa propria i più insigni letterati ed artisti di Firenze, fra i quali il Sismondi, il Tenerani che per lei scolpì la Psiche, il Niccolini, il Carena, il Leopardi; amico pure le fu il Giordani. Ella è nota specialmente perchè restaurò la casa di Giovanni Boccaccio, di cui aveva fatto acquisto. Su i rapporti di lei col Leopardi non molto ora si sa, forse le lettere di lei al poeta rimaste al Ranieri diranno di più; ad ogni modo ella fu certo ospitale e gentile verso il Recanatese; ma quel che fu detto e recentemente sostenuto dal professore A. De Gubernatis cioè che ella fosse l'Aspasia, non mi appar probabile. Il sapere che la marchesa Carlotta era amabile, colta, che aveva un albo di autografi preziosi, di cui qualche cosa deve rimanere ancora e in cui scrisse il Leopardi; il ricordo de le sale veramente ricche e profumate del palazzo di lei, la sua amicizia pel poeta, sono insufficienti a farnelo creder innamorato de la dama, mentre molte ragioni avvalorano l'opinione che Aspasia fosse la Fanny Targioni-Tozzetti, de la quale certo furono intimi durante la loro dimora a Firenze il Ranieri e il Leopardi. Conferma che non fosse la Lenzoni il difetto di lei che, essendo gobba, benchè del resto piacente, non avrebbe potuto esser chiamata dal Leopardi così verista beltade angelica, fonte d'ogni altra leggiadria, sola vera beltà, la più bella fra tutte le donne; debbo aggiunger qui però che altri vuole la gibbosità fosse un'amabile invenzione de le buone amiche de la dama, la quale soleva stare un po' curva. Ella quando conobbe il poeta era tra i 45 e i 47 anni. Riguardo a l'albo, l'uso ne le dame d'averne uno era comunissimo e l'aver il Leopardi scritto in quello di lei, poco prova dopo quanto si dirà de la Targioni.[89] Questa era vicina di casa del Leopardi, abitava in via Ghibellina; donna giovane ancora, poco più che trentenne quando lo conobbe, di rara bellezza, univa ad essa una grande amabilità e una perfetta arte di piacere. Antonio Targioni-Tozzetti suo marito, professore ne l'Arcispedale di Santa Maria Nuova e ne l'Accademia di Belle Arti, accademico de la Crusca e direttore del giardino botanico, godeva di gran fama e riuniva spesso in casa sua uomini insigni. Accolto con la gentilezza abituale nei Targioni, e anzi maggiore per il nome già illustre che possedeva, Giacomo vi si trovò assai bene e ammirò la leggiadria e la grazia de la Fanny e l'ingegno del professore. Quando poi la primavera, come sempre, gli avvivò le forze e lo spirito, la simpatia per quella donna divampò in amore. Tutto fa credere che fosse la Targioni la bellissima e amabilissima signora per la quale il poeta con tanta premura domandava e raccoglieva autografi; anzi a questo proposito è da notarsi che per accontentar lei il Leopardi si fece mandare da Paolina il protocollo de le lettere a lui scritte da vari letterati e che di queste lettere anteriori al marzo del 1830, se ne trovarono tre fra le carte di casa Targioni-Tozzetti, nessuna fra quelle dei Lenzoni. La passione risvegliatasi ardentissima nel Leopardi gli fu da prima causa di inenarrabili dolcezze, il suo animo sereno e lieto come non era stato mai, dava adito persino a un compatibile sentimento di vanità, o di cura almeno de la propria persona, poichè certo il poeta pensava a la donna cui avrebbe voluto piacere, quando scriveva a Paolina (21 agosto 1830) d'aver fatto ridurre a l'ultima moda il suo abito turchino, e si compiaceva che paresse nuovo e gli stesse molto bene.
Il Pensiero Dominante ci rivela lo stato d'animo di lui durante il primo periodo di questo suo affetto: il pensiero amoroso lo domina interamente, terribile ma caro dono del cielo; tutti gli altri si dileguano, tutte le opere, tutta la vita son divenute un nulla, una noia intollerabile in confronto a la gioia celeste che quello gli procura; le solite meditazioni, le solite compagnie divenute incresciose, il poeta non intende più come altri possa aver desideri, sospiri non somiglianti al suo. La morte che mai gl'increbbe, gli par ora un giuoco, e la sdegnosa delicatezza de l'animo suo che ha sempre disprezzato i cuori ingenerosi, abbietti, ora è mossa più che mai a subitaneo sdegno da ogni esempio di viltà. L'amore gli pare la sola discolpa al destino, che ci ha posto in terra a soffrire tanto senza frutto, e non indegno l'aver sostenuto tanti anni una così misera vita per giungere in fine a cogliere tali dolcezze; anzi esperto di tutti i mali umani ricomincerebbe il corso de l'esistenza, pur che conducesse a tal meta. In quel nuovo paradiso dimentica lo stato terreno ed è beato di sogni quali han forse gli esseri immortali. Ma il dolce stato d'animo poco dura e ben presto il poeta non sospira più l'amore soltanto, non crede più ch'esso basti a rendere ad ogni modo sopportabile la vita, bensì ripensando al verso di Menandro:
Muor giovane colui ch'al cielo è caro,
agogna due cose belle, amore e morte: l'uno il più grande dei beni, l'altra fine d'ogni male; ai fervidi, ai felici, a gli animosi ingegni, il poeta augura o l'uno o l'altro di questi dolci signori,
Al cui poter nessun poter somiglia;
per sè, con tenerezza ineffabile, invoca la morte pietosa, certo ch'essa lo troverà orgoglioso, renitente al fato, non benedire al poter che l'opprime, gittar da sè ogni speranza vana, ogni conforto stolto, aspettar solo serenamente l'ora in cui poter piegare addormentato il volto nel seno virgineo de la funebre dea.
Questa fu la più vera e terribile passione del Leopardi, e si ricollega a gl'impeti del primo amore, ai deliri per la Malvezzi; è una passione pura, ma tutta umana, che probabilmente il poeta, sempre riserbatissimo e timido, perchè conscio de la propria inferiorità materiale e dei doveri de l'ospitalità, non palesò mai a la donna cara, ma ch'ella dovette comprender benissimo, poichè il Leopardi stesso aveva certa coscienza di esser stato capito.
Le debolezze, cui per tale passione egli si lasciò andare, furon tali che non la donna soltanto, ma anche gli amici di lui compresero il suo secreto e si dolsero e del suo soffrire e del suo non saper resistere a quel disgraziato affetto. Obbligato a seguir l'amico Ranieri a Roma il 1º ottobre de l'anno 1831 e a restar là cinque mesi e mezzo, si duole di quel soggiorno come di un esilio acerbissimo. Malgrado le spiegazioni che ne furon date, mi pare che di questo viaggio non si sia ancora chiarita sufficientemente la ragione. Il romanzo di cui parla Giacomo al fratello Carlo (15 ottobre 1831) è certamente un romanzo suo, suo così il dolore e sue le lacrime; infatti come altrimenti avrebbe scritto: «Se un giorno ci rivedremo forse avrò forza di narrarti ogni cosa »; e noto pure che ne l'altra lettera de l'ultimo de l'anno 1831, scusandosi col fratello di tacere ancora su le cose che quegli gli aveva dimandate, e cioè, come appare dal contesto, su le cause del suo viaggio, gli dice: «Troppo lungamente dovrei scrivere per informarti del mio stato in maniera sufficiente.» Gli aveva chiesto la Fanny d'allontanarsi per qualche tempo? Non mi pare improbabile. Una volta sola, da Roma, egli le scriveva; ed è una lettera rispettosa, riservata, ma ne la quale chi abbia bene studiato il carattere di lui, intravede un profondo sentimento, specialmente se la confronta con le lettere ad altre donne che pure senza dubbio egli amò, per esempio con quella da Recanati a la Malvezzi: non scrisse prima per non darle noia, ma non vuole che il silenzio le paia dimenticanza, benchè ella forse sappia che il dimenticar lei non è facile. Le parla di sè e de le proprie idee con effusione e poi si duole di rattristar con esse lei che è bella e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita e trionfar del destino umano. S'ella si degnerà di comandargli sarà per lui una gioia e una gloria di servirla. Il 22 marzo era di nuovo a Firenze e passò alcuni giorni lieti; la sua stima per la Fanny non era forse profonda, ma l'amore diveniva intollerabilmente appassionato così ch'egli non viveva che per quella donna, dimenticando dinanzi a lei il proprio orgoglio, la propria fierezza e quasi la propria dignità. La Fanny, annoiata di quella passione, seccata forse da le ciarle che se ne facevano, non trattò più il Leopardi con la consueta gentilezza, ma non per questo riuscì ad intiepidirne l'affetto. Ne l'agosto del 1832, lontana la Targioni che era a Livorno pei bagni, lontano il Ranieri ch'era a Bologna per seguire la Pelzet; ammalato, mancante di mezzi di sussistenza al punto d'aver dovuto chiedere l'assegno a la famiglia, Giacomo si sentiva tuttavia rivivere, ricevendo un biglietto de la donna amata, cui rispondeva una lettera timida e rispettosa anch'essa, ma che rivela ancor più de l'altra il suo stato d'animo. Vi dice fra l'altro: «Ranieri è sempre a Bologna, e sempre occupato in quel suo amore, che lo fa per più lati infelice. E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo e le sole, solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono nè belle, nè degne dell'uomo... Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi a le bambine e credetemi sempre vostro.»
L'autunno e l'inverno passarono tristemente pel poeta sempre più malfermo in salute e sempre innamorato. Quale fosse l'epilogo di quest'amore non si sa. Nel maggio del 1832 il Leopardi era sempre accolto con gentilezza e premura dai Targioni; infatti parla certo di loro ne la lettera a Paolina (22 maggio 1832), annunziandole d'averle mandato il pus che Carlo desiderava, avuto da lui per mezzo di uno dei primi medici di Firenze. E la gentilezza più ancora che del Targioni era de la Fanny, la quale s'era provveduta di quel pus per mandarlo ad un suo fratello; poi per fare un piacere al Leopardi, glielo aveva ceduto, aspettando di averne più tardi de l'altro.
Certo la fine di quest'amore fu una delusione compiuta che portò ne l'animo del Leopardi un dolore disperato, e lo persuase a seguire il Ranieri a Napoli. Altri vuole che il Ranieri stesso, il quale era molto ne le grazie de la Fanny, dopo aver incoraggiato l'amore de l'amico e pregato la donna ad essergli compassionevole, finisse con lo svelare a l'infelice come ella, facendosi giuoco di lui, non ristesse dal canzonarlo coi conoscenti. Il poeta perdette allora persino la speranza ne la pietà de l'amata, persino la fede ne la gentilezza de l'animo di lei e scrisse i versi A sè stesso, i più tragicamente desolati che sieno usciti dal suo cuore e forse da cuore umano. Calmata quella tempesta, più tardi a Napoli, ne la primavera del 1834, ricordando, scriveva l' Aspasia e nascondeva sotto questo nome la donna amata, perchè bella, colta, ospitale. La immagine di lei gli riappare spesso, visione superba, e il profumo di una piaggia fiorita, di una via cittadina olezzante di fiori, gli risveglia sempre il ricordo dei vezzosi appartamenti tutti odorati di fiori primaverili in cui la vide con una veste violetta, adagiata sopra un divano ricoperto di pelli, circonfusa d'arcana voluttà, dotta allettatrice, scoccare baci sonanti su le labbra de' suoi bambini, stringerseli al petto e porgere a loro, ignari de le sue cagioni, il collo candidissimo.
Il ritratto che il Leopardi fa d'Aspasia è quello d'una donna ammirabilmente bella, civetta, di poco cuore e di non grande intelligenza. Che in questo ritratto vi sia alcunchè di soggettivo è certo; ma calmato il primo furore il poeta non parla più agitato da la passione, bensì ritorna con sufficiente calma ai giorni del suo amore e de le sue pene, una grande amarezza gli resta ne l'anima e un non celato disdegno di quella donna in particolare e de la donna in generale. Ne l' Aspasia, poesia sincera e originale se altra mai, v'è pur qualche cosa che rammenta L'amante rigettato del Baldovini (sec. XVIII), poesia che il Leopardi conosceva ed ammirava certamente, poichè l'accolse ne la sua Crestomazia poetica. Certo ben altro è il sentimento tragico del Recanatese, da lo scherzo dispettosetto e amaro del Baldovini; pur questo è, per dir così, la prima nota di quella gamma.
Pel Leopardi l'amante vagheggiava ne l'amata il proprio ideale inchinando ed amando questo in quella; conosciuto l'errore, s'adira ed incolpa a torto la donna:
. . . . . . . . Che se più molli
E più tenui le membra, essa la mente
Men capace e men forte anco riceve.
Aspasia non immaginò mai l'affetto e i pensieri da lei inspirati, nè mai potrà intenderli; quella ch'egli amò, è morta, e solo risorge talvolta per brevi momenti dal suo sepolcro, mentre l'Aspasia reale non soltanto è viva, ma tanto bella che a parer del poeta supera ogni altra donna. Ora mi sia permessa in fretta un'osservazione: che il poeta scrivesse questo Canto a Napoli ne la primavera del 1834 è certo, anche per quell'accenno al mare de l'ultimo verso; da le frasi bella non solo ancor, ma bella tanto al parer mio, che tutte l'altre avanzi, è chiaro che il poeta aveva riveduto e da poco la donna cara; come rivide la Targioni, se non uscì più di Napoli e, a quanto si sa, a Napoli ella non andò?
Il poeta, conosciute le arti e le frodi de l'amata da la dolce somiglianza di lei con l'ideale ch'egli s'era formato, fu indotto a tollerare un servaggio lungo ed aspro; ora ella si vanti d'aver posseduto il cuore di lui, d'averlo visto supplichevole, timido, tremante, privo di sè stesso, spiare sommessamente ogni voglia, ogni parola, ogni atto di lei, impallidire a' suoi superbi fastidi, brillare in volto ad un segno cortese, cambiare colore e sembiante ad ogni suo sguardo; l'incanto è caduto ed egli contento abbraccia senno con libertà, nè si duole d'aver amato poichè senza errori gentili la vita è una notte invernale senza stelle. Ma un infinito sdegnoso dolore senza conforto gl'inspira gli ultimi versi del Canto.
Il suo eccelso ideale de la donna rimane così oscurato da l'imagine di una donna reale, per la quale con l'amore venne meno in lui anche la stima, e quell'impressione dolorosa e cupa non può più cancellarsi da l'animo suo. Nei Pensieri (XXXIV) dirà che i giovani credono di rendersi amabili fingendosi malinconici e che la malinconia quando è finta può per breve spazio piacere, massime a le donne; ma che a lungo andare non piace che l'allegria, perchè il mondo ama non di piangere, ma di ridere; tacciando così, come nota il Castagnola, di crudeltà e di egoismo l'umanità, e, aggiungo, le donne in particolare, di cui ha soprattutto parlato. Altrove affermerà come le donne quasi tutte si cattivano e si conservano con la noncuranza e col disprezzo, col fingere di non curarle e non stimarle; e troverà la vita piena di genti che «mirate non mirano, che salutate non rispondono, che seguitate fuggono, che, voltando loro le spalle, o torcendo il viso, si volgono, e s'inchinano, e corrono dietro ad altrui.»[90] Dirà ancora che la donna è come una figura del mondo, del quale è propria generalmente la debolezza; che l'una come l'altro si acquista con ardire misto di dolcezza, con tollerare le ripulse, con perseverare fermamente senza vergogna;[91] e scriverà: «Colle donne e con gli uomini riesce sempre a nulla, o certo è malissimo fortunato, chi li ama d'amore non finto e non tepido, e chi antepone gli interessi loro ai propri. E il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta.»[92]
Forse ne gli ultimi anni la fedelissima amicizia de la Tommasini, le tenere e devote cure de la Ranieri e la vera calma succeduta ne l'animo suo, quando fu in tutto e veramente acquietata la passione per Aspasia, modificarono questo suo pessimismo verso la donna, come parrebbe attestarlo la Canzone Sopra un bassorilievo antico sepolcrale dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi, e in parte anche quella Sopra il ritratto d'una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Ne la prima forse il poeta ripensa a Silvia, a Nerina, morte anch'esse giovani e belle e, pur quasi convinto che la sepolta debba dirsi beata, sospira pensando al destino, chè ai più costanti un'alta pietà invade il petto nel veder perire una fanciulla, quando la regina bellezza si dispiega ne le sue membra e nel suo volto, il mondo le si inchina, la speranza le fiorisce ne l'anima. Ripensa al dolore de gli abbandonati che, perdendo la diletta persona, rimangono quasi scemi di sè stessi, e chiede a la natura come possa strappare l'amico a l'amico, il fratello al fratello, i figli al padre, a l'amante l'amore. Una dolorosa meraviglia e non già un egoistico compiacimento di veder distrutta una femminile bellezza, mentre la bellezza femminile l'aveva fatto tanto soffrire, è nel Canto Sopra il ritratto d'una bella donna; l'antitesi fra la figura de la vivente, dal dolce sguardo, dal labbro da cui par traboccare il piacere come da un'urna piena, da l'amorosa mano, dal seno che faceva impallidire la gente; e la morta ridotta a fango ed ossa, è terribile non meno pel poeta che pel lettore. In lui non è alcun misero e volgare sentimento di basso e vendicativo piacere; non è uno stecchettiano Canto de l'odio questo, è la meditazione austera e tragica del misterio eterno dell'esser nostro. Il disdegno è tutto rivolto a la natura e lo spirito è assorto ne l'eterno problema: se non siamo che polvere ed ombra come in noi così alti sentimenti? Se anche in parte v'è in noi qualche cosa di gentile, come i nostri moti e pensieri più degni son desti e spenti così facilmente da così basse cagioni?
* * *
Nessuna prova ci resta dei sentimenti che Giacomo Leopardi provò per Paolina Ranieri, confortatrice de gli ultimi suoi anni, solo sappiamo ch'egli la paragonava a la propria sorella e che faceva gran caso perfino del nome di lei: sì che non è troppo ardito il supporre che qualche luce di speranza e di tenerezza gli venisse da quella compagnia gentile e temperasse la desolazione de l'animo suo, il quale aveva visto svanire i più cari sogni nel nulla eterno e ne l'immensa vanità d'ogni cosa umana.
Tutta la sua vita passò in un inesaudito desiderio d'amore, e quasi mai egli potè avere nè pur l'illusione d'essere riamato: benchè tante altre cagioni di soffrire gli avessero dato la natura e la sorte, questa fu la più tremenda. Ardeva di trovar una donna che lo amasse e non credeva di poterla trovare; conscio con nobile orgoglio de la nobiltà de l'animo suo e de l'elevatezza del suo ingegno, conscio che questi sono i più alti doni che natura possa fare ad un uomo, non sapeva tuttavia persuadersi che bastassero a compensare a gli occhi di una donna la sua disavvenenza. E, desolatamente afflitto di questa, perchè la vedeva opporsi, come insuperabile ostacolo, fra l'anima sua e l'amore, sentiva la donna lontana, irraggiungibile, eterea. Così ad un periodo di entusiasmo e di ebbrezza, ne succedeva uno di stanca desolazione, in cui gli mancavano i dolci affanni e persino il dolore; ma, piangendo la vita fatta per lui esanime, sentiva ancora che il suo cuore era vivo. Poi anche quest'ultimo sentimento si spegneva; quasi insensato, attonito egli non domandava più conforto; le eloquenti voci de la natura eran mute per lui, lo sguardo d'una donna, la mano offertagli, candida ignuda mano, non lo scuotevano dal duro sopore: pure il suo cuore si risvegliava: quel Risorgimento, ch'egli cantò con tanta dolcezza, non fu l'unico de la sua vita: da la grave immemore quiete, somigliante a la morte, l'animo suo, riscosso d'improvviso, ritrovava tutte le sue illusioni, tutto il suo dolore; senza speranza e senza fede, conscio che l'idolo suo più caro non aveva amore ne le pupille tremule, nel raggio sovrumano de gli occhi, nel bianco petto, ritrovava tuttavia i cari inganni e l'ardore natio.
Egli sempre adorò, quasi misticamente, la bellezza, nè v'ha bisogno di commento a spiegare come e perchè tanto gli piacessero i versi di Lodovico Martelli In lode delle donne (secolo XVI), e questi specialmente ch'egli dovette ripetere ben amaramente fra sè:
Scevra da l'altre una virtù si prezza;
Ma chi piacque già mai senza bellezza?
Più ancora che entusiasta de la bellezza fu avido di tutti i grandi sentimenti e anelante ad ogni azione magnanima; giovane, si sentiva nato non per scrivere ma per operare, e sognava grandi cose, vedendo il suo avvenire come un magnifico campo di gioia e di gloria aperto a l'altera anima sua. L'azione gli fu contesa presto e per sempre, e non gli rimase che contemplare, silenzioso e triste, le stupende visioni de la sua mente; ma una speranza era radicata troppo profondamente nel suo intimo, perch'egli potesse sì tosto rinnegarla e, quantunque senza convinzione, egli pensava che una gioia, una gloria, una divina ebbrezza potesse ancora sorridergli, la pietosa affezione d'una donna. Fu questa l'ultima a dileguarsi fra le sue illusioni; ma, quando essa sparve, tutto gli sembrò menzogna e bassezza; in che cosa poteva egli più credere o sperare, se la donna ch'era stata per lui una religione, gli si rivelava un essere debole, fallace? Il suo fu il destino dei grandi infelici, vivere solo; e l'anima sempre giovane, fiera e pura, disperando di tutto, maledisse la vita e gettò a l'umanità il suo grido di dolore.
Malgrado il pessimismo, ne l'insieme de l'opera leopardiana la donna appare in nobiltà e purezza di linee, quale forse non fu da nessun altro poeta cantata. Per questo e per le sventure sue il Leopardi conquista, insieme a la simpatia dei giovani, quella de le donne. È noto con quanta venerazione parlò di lui la Caterina Franceschi Ferrucci[93], ch'egli teneva in grande stima. Bello è il Canto che nel giugno del 1838 dedicava al morto poeta la Maria Giuseppa Guacci Nobile[94], salutando in lui il fedele che ebbe a prua de la sua nave virtù candidissima, la quale lo scorse ove non sono confini; il fedele che ne l'ultima ora sua non fu flagellato da rimorsi, non vide la giustizia farsi velo a gli occhi divini, non balbettò una prece simulata con gli avidi pensieri chini in terra e di cui la parola estrema fu: amore.
Anche la gentil poetessa Giannina Milli, inspirandosi specialmente a l'affetto religioso, cantava degnamente del Leopardi:
. . . . Dio sì eccelsa e schiva alma ti diede,
Che non toccò della mortal sozzura;
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Uom che sugli altri al par di te s'ergea;
Sublimemente in Dio creder dovea![95]
E tu credevi — afferma la poetessa — ma la terra al tuo sguardo era muta e deserta, la gente ti pareva sconosciuta, lungi la vera patria, però da l'imo petto il verso ti uscì disperato.
Se non con grande finezza d'arte, certo con una sincerità e una soavità commovente d'affetto, si rivolgeva al Leopardi l'Erminia Fuà-Fusinato:
Nè mai donna t'amò di quel potente
Amor, di cui ti strusse invan la speme,
Di cui la sete ardente
Solo s'estinse alla tua vita insieme.
Così sempre deserto e mai compreso,
Chiedesti al verso una vendetta amara,
Di cui l'amaro peso
Sente ogni donna che il tuo verso impara.[96]
E in nome di tutte le donne chiedeva perdono al poeta. Non imprecava a' suoi affanni e ne l'angoscia stessa che gli pungeva il cuore al pensiero del nulla, vedeva un arcano desiderio, una promessa:
Che col nostro morir tutto non muore.
* * *
Giacomo Leopardi morì senz'aver veduto nè pure un'unica volta avverarsi il suo più caro voto; egli non fu amato. E niuno al par di lui sentì mai come una parola, una semplice parola di donna, può far bene a lo spirito, ridargli il coraggio, il nobile orgoglio di sè, riaprirgli l'avvenire. Si direbbe che parli di lui il Michelet quando scrive: «Je voyais un jour un enfant sombre et chétif, d'aspect timide, sournois, misérable. Pourtant il avait une flamme. Sa mère, qui était fort dure, me dit: On ne sait ce qu'il a. Et moi je le sais, madame. C'est qu'on ne l'a baisé jamais.»
Ma se non risvegliò in alcuna la passione che ardeva in lui, dal reale affetto di molte donne gentili e da la potenza de la sua fantasia gli vennero le più care gioie de l'amore. «Amare... non è ricevere, è dare,» scrisse il Pailleron con molta verità; tutte le buone fortune amorose di molti e molti non valgono un'ora del profondo sentimento che di Giacomo Leopardi fece un poeta; la sua opera appartiene a la ristretta cerchia di quelle che non invecchiano, non decadono per quanto volgano diversi i tempi, i costumi e le civiltà. Bella e degna d'ammirazione la sua parola di pensatore; ma immortale e degna di commuovere tutti i cuori finchè l'amore e il dolore li scuota quella del poeta; muti il mondo, l'anima umana non muterà, e nei canti di Giacomo Leopardi v'è un'anima, un'anima di Titano, di Prometeo, martire su la sua roccia, straziato ne le intime viscere e pur forte ancora, con la fronte orgogliosa rivolta a le stelle, con un inno d'amore su le pallide labbra, mentre dal petto aperto scorre il suo caldo sangue. Quel timido taciturno, già uomo a dieci anni, fanciullo ancora a trentanove, sentiva tragicamente la sua forza e la sua sventura; fra tanti uomini fortunati egli, infelice, aveva coscienza di essere il più vero uomo, e, pur vinto da la natura e da la sorte, trionfò col suo canto, che tramanda a le età venture qualche cosa de l'animo suo ed è una voce de l'armonia, vibrante in silenzio in tanti cuori, ma in cui tutti, ascoltandola, si sentono vivere e palpitare. La divina scintilla ch'egli rapì a gli eterni non si spense, nè pur quando su quegli azzurri occhi la morte stese il suo velo: il sacro fuoco è serbato a gli uomini ne le pagine rese sacre da l'arte, dal genio e da la sventura.