I.
Dinanzi all'osteria di Muzio Scevola, in Trastevere, sventolavano un sabato sera le bandiere tricolori e quelle gialle a rosse del Comune di Roma, e dalle finestre delle casupole vicine pendevano tralci di lauro, ai quali erano appesi i lampioncini di più colori, pronti per la illuminazione. Sopra la porta dell'osteria vi era il ritratto di Garibaldi, circondato pure di lauro, e intorno a quello erano disposte le candele infilate nelle punte di ferro.
Sulla piazzetta davanti all'osteria stavano molti uomini aggruppati a capannelli e discutevano vivamente; alcuni appartenevano alla classe dei bottegai e portavano le catene d'oro pesanti attaccate ai primi bottoni della sottoveste, il corno di corallo penzoloni e le cravatte vistose; altri invece appartenevano al ceto dei cittadini, e la maggior parte al popolo minuto.
I cittadini, che erano in minor numero, andavano da un gruppo all'altro e posavano familiarmente la mano sulle spalle dei popolani.
A un tratto, nel veder scendere da una botte un giovinotto sbarbato e vestito correttamente di saia turchina, tutte le conversazioni cessarono, i capannelli si scomposero e la folla si spinse verso di lui.
Il giovinotto distribuiva strette di mano a tutti, salutando ciascuno per nome.
—Signor Rosati!—dicevano le persone aggruppate intorno a lui rispondendo al saluto.
—Come va? Che mi dite di nuovo?—domandava Fabio Rosati, rivolgendo uno sguardo d'intesa a tre o quattro cui la folla popolana pareva ubbidire.
—In Borgo si può contare su cinquecento voti, non più,—disse il Simonetti, un omaccione grasso, che aveva bottega d'orzarolo vicino a piazza Rusticucci e godeva di molta popolarità fra i liberali di quel rione.
—E dalle parti vostre come si sta?—domandava Fabio Rosati a Scortichino, il ricco oste di San Francesco a Ripa.
—Benone, sor Fabio mio. Ieri sera avevo l'osteria piena di gente e dopo che ebbi parlato, come so parlar io, non fo per vantarmi, sa, e ebbi detto che bevessero pure senza pensare al conto, tutti convennero che era meglio votare per Sua Eccellenza, che almeno aveva dato prova d'essere liberale in Campidoglio, piuttosto che per quel clericalone del de Petriis, che non ha mai fatto altro che portare la mantellina dei fratelloni dell'Angelo Custode, impiastricciare i cocci, e imbrogliare i forestieri.
—Bravo Scortichino!—disse il Rosati con fare di protezione battendo sulla spalla al ricco oste.—E qui che notizie ci sono?—domandò a un uomo alto con una lunga barba e due occhi mansueti come quelli di un agnello.
—Qui, trattandosi di un principe ci pensano due volte,—disse il sor Domenico, uomo popolarissimo, che vantava ancora l'amicizia di Garibaldi, si ricordava del Vascello e parlava dell'eroe con le lagrime agli occhi.—Qui ci vorrebbe qualcosa per ismuover questa gente, qualche colpo che rendesse popolare il principe della Marsiliana.
—E quale, per esempio?—domandò il Rosati infilando il braccio in quello del sor Domenico e guidandolo in disparte.
—Qui, sor Fabio mio, il principe ha dei nemici. Dicono che non può essere liberale schietto con quella moglie.
—E che fa la principessa?—chiese il Rosati fermandosi e guardando in faccia il sor Domenico.
—Bazzica troppo dalle monache di Santa Rufina. Capirà, la carrozza tutti ce la vedono ogni giorno ferma per delle ore davanti al convento, tutti sanno che non aiuta altro che i baciapile e poi ha anche la riputazione di esser superba come tutti in casa Grimaldi.
—E che cosa sapreste suggerirmi, sor Domenico, per riconquistare alla principessa le simpatie del Trastevere?
—Una cosa sola: bisognerebbe che la principessa venisse stasera a cena all'osteria insieme col principe e domenica l'elezione di lui è assicurata.
—Siete pazzo!—esclamò il Rosati mostrando con un gesto di ribrezzo quanto ripugnavagli di vedere la principessa della Marsiliana in quel luogo.
—Eppure è l'unico mezzo,—diceva l'oste senza alterarsi, scrollando la bella testa mansueta.—È l'unico mezzo!
—Ma ora è tardi.
—No; lei corra a casa dal principe, gli riferisca questo suggerimento mio, e gli dica che se non viene la principessa è inutile che venga neppur lui.
Fabio Rosati stette un momento pensoso, con gli occhi fissi per terra, poi stendendo la mano al sor Domenico gli disse:
—Credo che abbiate ragione;—e senza salutare nessuno risalì in botte e si fece condurre al palazzo del principe della Marsiliana. Nel passare sotto la porta carrozzabile per entrare nel cortile, Fabio domandava al guardaportone alto, solenne e tutto tronfio di portare la livrea della antica casa principesca, se Sua Eccellenza era tornata.
Il guardaportone, senza aprir bocca, brandi la mazza con gesto da re di corona e accennò al Rosati il phaéton attaccato che aspettava il principe, e quindi riposò in terra la mazza e riprese a guardare con occhio sprezzante la gente che passava a piedi.
Fabio salì di corsa le scale. Giunto nell'anticamera nella quale il trono, formato di arazzi portanti lo stemma della famiglia nel centro e le imprese del celebre cardinal Urbani, sulla parte laterale, occupava tutta una parete, si fermò e disse al servitore di guardia di annunziarlo, e senza aver la pazienza di attendere la risposta, si mise alle calcagna di lui per l'ampia galleria, nella quale tutto un passato di deità olimpiche e d'imperatori romani parevano schierati per far gli onori a chi passava.
Fabio non volse neppure uno sguardo su quei marmi preziosi; il suo occhio grande e dolce pareva che non provasse il bisogno di guardare nulla di ciò che lo circondava, che non ubbidisse a nessuna curiosità. Eppure era la prima volta che entrava in casa Urbani, o almeno in quella parte del palazzo riservata alla famiglia, poichè il principe aveva al pianterreno due stanze che guardavano sul Corso e nelle quali riceveva la mattina tutte le persone che non erano presentate alla principessa. Fabio Rosati, segretario di una quantità di comitati, nei quali figurava il nome del principe della Marsiliana, e anche del Circolo dei Cittadini di cui don Pio era presidente, aveva frequentissime occasioni di avvicinarlo. Svelto, intelligente, benchè privo affatto di cultura, rispettoso senza cortigianeria, e sopratutto buono e abile, Fabio era riuscito a conquistare l'animo di molti patrizii romani, e specialmente di don Pio, il quale ora aveva rimesso nelle mani di lui l'esito della sua elezione a deputato.
Il servo si fermò in fondo alla galleria, dinanzi a una porta grigia tutta coperta di dorature, e bussò leggermente. Il cameriere di fiducia del principe, un francese sbarbato, con gli occhiali che davano alla sua fisonomia l'aspetto di prete, comparve sull'uscio, e vedendo Fabio, che conosceva, lo pregò di entrare in un salottino precedente la camera del principe.
Don Pio, appena udita la voce di Fabio, gli andò incontro e gli strinse cordialmente la mano.
—Grazie di essermi venuto a prendere,—disse al Rosati.—Mi annoiava di giunger solo in mezzo a tutta quella gente.
—Non vengo per questo,—rispose Fabio guardando in terra e non sapendo come riferire al principe le parole del sor Domenico. Dacchè era entrato nel palazzo sentiva maggiormente tutta la stranezza della proposta che doveva fare, e non aveva il coraggio di esprimerla.
—Occorrono altre somme per le spese elettorali?—domandò il principe.—Me lo dica francamente; so quanto bevono gli elettori romani, e nulla mi stupisce.
—No, no; ho ancora qualche migliaio di lire,—disse il Rosati sorridendo.—Si tratta di una cosa molto più difficile a dirsi.
—Me la dica subito,—insistè il principe senza turbarsi;—sono preparato a tutto.
—Senta, il sor Domenico, l'oste di Muzio Scevola, dice che se stasera non viene la principessa insieme con lei, i voti del Trastevere le saranno per la massima parte negati.
Il principe sorrise mettendosi il monocolo all'occhio sinistro, e guardò fisso il Rosati dicendo:
—È una condizione curiosa e non so se donna Camilla l'accetterà; tenterò. Ma l'ora è passata già,—aggiunse il principe guardando una piccola pendola di smalto posata sopra la scrivania;—lei vada a far pazientare chi mi aspetta, io cercherò d'indurre la principessa a venir meco.—E accompagnando il Rosati nella galleria, don Pio penetrò nel salottino di sua moglie, e appena passata la soglia di quella stanza sparì dal volto di lui tutta l'espressione di dolce bonarietà, che aveva durante la conversazione col Rosati.
La principessa nel vedere il marito si alzò e fece cenno a due monache di Santa Rufina, che erano sedute in faccia a lei, di lasciarla.
—Che cosa vuoi?—domandò la piccola signora al marito con voce leggermente nasale, andando verso lui dopo aver accompagnato all'uscio le suore.
—Sai che io voglio in ogni modo esser deputato e che sarebbe un'onta per me se col mio nome, col mio passato, con le mie aderenze e i miei mezzi non riuscissi a essere eletto!
—Non le capisco certe vanità,—diss'ella alzando gli occhi al cielo.—Quando uno si chiama Urbani non ha bisogno di tenere a un titolo che il popolo può conferirgli, e può anche ritorgli.
—I tempi sono cambiati, bisogna camminare con essi se non si vuol restare schiacciati e soffocati appunto da questo pondo grandissimo che il passato ci ha posto sulle spalle; bisogna far qualcosa noi pure per esser degni degli avi.
Il principe pronunziava queste parole con voce monotona, senza nessun sentimento, come una lezioncina imparata a mente. E infatti da quindici giorni la ripeteva di continuo a sè stesso per dirla in ogni occasione.
La principessa lo ascoltava a testa bassa, come se riprovasse quelle massime.
—Dunque che cosa vuoi?—gli domandò parlando sempre con voce nasale e a denti stretti, come chi ha la consuetudine di servirsi della lingua inglese.
—Voglio che tu mi accompagni stasera all'adunanza elettorale.—Quel nome di osteria faceva ribrezzo anche a don Pio e non poteva pronunziarlo.
—E dove?—domandò la principessa, alzando in volto al marito due occhi piccoli e fieri.
—Da Muzio Scevola.
—E che luogo è?
—Una locanda, dove mi danno una cena elettorale.
—Non ci vengo.
—Ma, Camilla, pensa a quello che fai; mi tacciano di clericale per colpa tua; per colpa tua non sarò eletto; io voglio riuscire deputato, e tu, tu devi venire.
—Non vengo,—rispose la piccola signora sedendosi.—Tu sei padrone di derogare al tuo nome, alla tua nascita, ma non puoi imporre a me di avvilirmi. Io, oltre a esser custode del nome tuo, sono anche custode di quello di mio padre; sono una Grimaldi, lo sai.
E fieramente alzò la piccola testa dal volto pallido, sul quale non si leggeva altro che una grande espressione di fierezza.
—Camilla, tu sei la mia rovina,—disse il principe, uscendo senza stenderle la mano.
Nella galleria lo attendeva il suo cameriere per infilargli il soprabito e presentargli i guanti, il bastone e il cappello.
Don Pio, calmo in apparenza, dette alcuni ordini, scese le scale inchinato dai servitori, e dopo essersi seduto nel phaéton prese in mano le redini dei cavalli e uscì dal palazzo.
Era quasi notte quando il phaéton si fermò sulla piazzetta dinanzi all'osteria, già illuminata dai lampioncini colorati, e il principe, sceso prontamente, si trovò a fianco Fabio Rosati e il sor Domenico, il quale si tolse il cappello a cencio e gli disse a bruciapelo:
—Non mi ha voluto dar retta e le cose si imbrogliano. Faremo un buco nell'acqua se non viene la principessa.
Don Pio infilò il braccio familiarmente in quello del sor Domenico e tirandolo in disparte gli disse:
—Che volete, la principessa non c'entra per nulla nella mia elezione; le signore hanno idee che noi dobbiamo rispettare, ma che non dividiamo.
—Lo capisco,—diceva il sor Domenico spartendosi con le dita la lunga barba, come soleva fare quand'era soprappensieri,—lo capisco, ma lei sa, Eccellenza, che abbiamo da far con certa gente cocciuta e siamo in certi tempi...! Basta, vedremo; bisognerebbe che per amicarsi i trasteverini lei avesse qualche buona promessa in riserva e la manifestasse stasera.
—Vedremo,—disse il principe ritornando verso Fabio Rosati, che era circondato da un gruppo di persone ben vestite e parlava a bassa voce con loro.
Appena a quel gruppo si avvicinò don Pio tutti si tolsero il cappello e si fecero addietro alcuni passi. Il principe stese la mano all'ingegnere Marini e al professore Arnaldi. Fabio Rosati gli presentò subito quelli che non conosceva.
—Il signor Massa, giornalista,—disse accennando un giovinotto pallido, con le scarpine lucide e l'aria spavalda,—il signor Caruso, giornalista pure—aggiunse accennando un omaccione grasso, dallo spiccato tipo meridionale con le lenti sul naso e una barbetta rada sulle guance butterate dal vaiuolo.
Il principe della Marsiliana fece un passo verso i due rappresentanti della stampa e stese loro la mano.
In quel momento la sora Lalla, grassa, rossa, tutta catene e pendenti d'oro, comparve in cima alla scaletta dell'osteria, e, con le mani sui fianchi esuberanti, si mise a gridare:
—Ma insomma, volete proprio che tutto vada ai cani! Venite o non venite?
Il sor Domenico, che aveva per la sua vecchia compagna un affetto grandissimo, un affetto in cui entravano i ricordi giovanili, la gratitudine per il coraggio mostrato da lei quando egli era in carcere a San Michele, da dove lo aveva fatto scappare, e la stima per la sua proverbiale onestà, sorrise e disse volgendosi al principe:
—Credo che Lalla abbia ragione; è tempo di andare a cena se si vuol mangiare.
Il principe, col fare disinvolto del gran signore che sa subito adattarsi al luogo dov'è e alle persone che lo circondano, salì in fretta la scala; il Rosati lo seguiva da vicino e il Massa saliva a due a due gli scalini per non rimanere a distanza. Giù sulla piazzetta il sor Domenico invitava tutti a salire e a un tratto la scala fu guernita di persone di ogni ceto che parevano impazienti di mettersi a tavola, e sulla piazza non rimasero altro che alcune donne, due coppie di guardie di pubblica sicurezza addossate al muro e due carabinieri, che camminavano pesantemente in su e in giù senza scambiar parola fra di loro.
Appena il principe della Marsiliana comparve nella sala bassa dell'osteria ornata sulla parete principale di un affresco raffigurante Muzio Scevola con la mano sull'ara, e su quella di fondo, di un teatrino, la sora Lalla alzò la mano, il capo della banda collocata sul palcoscenico dei burattini brandì il bastone del comando, e le trombe intonarono la rumorosa marcia dell' Aida.
Don Pio guardò il Rosati e atteggiò le labbra a un lieve sorriso di scherno vedendo quel tugurio basso, tutto pieno di tavole, i quartaroli del vino posati sulle panche e vedendo sopratutto quei pezzi d'uomini di bandisti aggruppati sopra il palcoscenico, con le quinte più basse di loro e le teste che rimanevano celate dal palco; ma fu un sorriso impercettibile, e messosi l'occhialino all'occhio sinistro si accostò alla sora Lalla e le stese la mano.
—S'è affaticata tanto per me,—le disse sorridendo.
—Ci siamo avvezzi al lavoro, Eccellenza,—disse la sora Lalla togliendosi la mano destra di sul fianco per darla al principe.
Al sor Domenico, che giungeva in quel momento, spuntarono le lagrime agli occhi vedendo la mano della moglie in quella del principe della Marsiliana, e volgendosi addietro gridò, come per dare l'intonazione alla folla che lo seguiva:
—Evviva il nostro candidato!
—Evviva!—rispose la folla. E il capo banda a un tratto troncò la marcia dell' Aida per incominciare l'inno di Garibaldi.
Una grande confusione regnava nella sala, aumentata dalla musica e dalla troppa gente che, volendo passare per recarsi nella terrazza coperta dalla pergola, lavorava di gomiti e spingeva quelli che le facevano resistenza verso la tavola principale, che era quella d'onore. Il sor Domenico, accorgendosi che il principe della Marsiliana era pigiato verso le sedie o doveva presentare le spalle per resistere all'urto, alzò la testa, la quale dominava la folla, e gridò:
—Ragazzi, fate largo!
Tanto quelli che erano assuefatti ad ascoltarlo, quanto gli altri che, forse per la prima volta, il caso poneva accanto a lui, ubbidirono a quella voce dolce, che aveva nel comando una intonazione di convincente preghiera, e intorno al principe si formò un vuoto.
Don Pio, volgendosi all'oste, gli disse sorridendo:
—Se così vi ascoltano, la mia elezione è assicurata.
—Non credo,—rispose l'oste con la sua solita franchezza.—Vostra Eccellenza ha molti avversari fra i popolani. Se la principessa fosse venuta qui, domani a otto, tutti votavano per lei, ma così, ci vuole un colpo, un colpo da maestro, se ne rammenti.
Il principe, guardando la folla, si arricciava il baffo sinistro senza rispondere, e intanto si avviava al posto d'onore indicatogli dall'oste e già stava per sedersi, quando Caruso gli si accostò e chinandosi all'orecchio di don Pio, gli disse a bassa voce:
—Prometta di adoprarsi per fare approvare la stazione in Trastevere e tutti i voti sono suoi.
Don Pio, che da un quarto d'ora cercava inutilmente la promessa che doveva assicurargli i voti dei popolani di quel rione, udendo quel suggerimento si voltò di scatto a veder chi glielo dava, e non seppe nascondere quanto facevagli piacere.
—Grazie,—disse a Caruso, stringendogli con effusione la mano.
—Niente,—rispose l'altro abbassando la testa.
Accanto al principe si era seduto a destra il sor Domenico e a sinistra il posto restava vuoto; don Pio avrebbe voluto che quella seggiola fosse occupata dal Caruso per parlare con lui, ma non ebbe il coraggio di chiamarlo. Lo conosceva appena, già era debitore a quell'uomo di una idea che non gli sarebbe mai nata e non voleva che vincoli maggiori di gratitudine si stabilissero fra lui e quello sconosciuto. In quel momento penetrava a stento fra la folla l'onorevole Serminelli, deputato di un collegio d'Abruzzo, e don Pio Urbani fecegli cenno di andare accanto a lui.
Erano già state servite le fettuccine nei vassoi ricolmi, e tutti si erano empiti il piatto tirandone giù un mucchio e lasciandone cadere sulle tovaglie, che erano in più punti imbrattate di sugo. Soltanto nella vicinanza del principe la gente mangiava poco e la tovaglia era ancora bianca. Il sor Domenico stesso, messo in soggezione, non aveva il suo bell'appetito di tutti i giorni, e la sora Lalla, che non perdeva d'occhio nessuno e dirigeva il servizio, si accostava ogni tanto al principe, al marito o a Fabio Rosati, col quale aveva maggior confidenza, e invitava or l'uno or l'altro a mangiare e sopratutto a bere.
Di questo invito non avevano bisogno alle due tavole laterali, poste lungo le pareti. Una di quelle era presieduta da Scortichino, l'oste di San Francesco a Ripa, che mangiava per tre dando il buon esempio a tutti, e mesceva a destra e a sinistra da bere asciugandosi la fronte col tovagliolo; e l'altra dal Simonetti, l'orzarolo di Borgo, che faceva sparire nello stomaco, a forma d'otre, i vassoi delle fettuccine. Quasi nessuno parlava in quel primo quarto d'ora, ma quando dopo le fettuccine ebbero mangiato il fritto e comparvero i tradizionali carciofi alla giudìa, quando i camerieri ebbero incominciato a portar via le bottiglie e sostituirle con altre piene, allora, negli intervalli della musica, incominciò un vocìo assordante, incominciarono le grasse risate echeggianti sulla terrazza attigua coperta dal pergolato, e dove si era riunita tutta la gente di minor conto, tutta la plebe.
Il principe parlava poco e ascoltava il sor Domenico e l'on. Serminelli, tutti e due pratici di elezioni, che gli davano dei consigli. Caruso non potendo stare accanto al principe si era messo alle costole a Fabio Rosati e sottovoce ripetevagli che se il principe sapeva svolgere l'idea suggeritagli da lui, era deputato del certo.
Don Pio, nella cui mente era infatti penetrato il suggerimento del Caruso, ascoltava con orecchio distratto i discorsi delle persone che aveva a fianco e teneva l'occhio intento sul Rosati e su quel tipo strano di uomo grasso e senza energia, che pareva avesse concentrata nell'occhio tutta l'attività della mente, e avrebbe voluto, senza chiedergli nulla, avere da lui altri suggerimenti. Egli sentiva avvicinarsi il momento di parlare e la sola idea che sapeva di dover manifestare era infatti quella della stazione in Trastevere, ma era una idea isolata, che non sapeva su che basare, nè come svolgere.
La sua non era una elezione preparata da lunga mano, come egli non era preparato alla vita politica. Lo scioglimento della Camera in seguito alla caduta del ministero, avvenuto in primavera, aveva rese necessarie in maggio le elezioni generali, e un gruppo di elettori, ascoltando il suggerimento del Rosati, si era fatto propugnatore del nome di don Pio Urbani, principe della Marsiliana, non perchè fosse noto come uomo intelligente, nè come buon amministratore, ma solo per contrapporlo a un ricco mercante di campagna, il de Petriis, che, per la impopolarità acquistatasi nel consiglio comunale, si voleva escluso dal Parlamento come rappresentante di un collegio di Roma.
Del resto, don Pio non aveva altri precedenti che questi. Figlio unico e erede di un grande nome e di un grande patrimonio rovinato, era rimasto orfano di padre nei primi anni dell'infanzia. Sua madre, mercè l'aiuto di un buon amministratore, che si diceva fosse vice-principe di nome e di fatto, aveva estinto gran parte delle ipoteche e preparato al figlio, che faceva educare nel collegio dei gesuiti a Mondragone, un avvenire ricco e senza fastidi. Don Pio, appena uscito di collegio, aveva corso la cavallina, e col pretesto di viaggiare, per dar l'ultima mano alla sua educazione, aveva girato il mondo in compagnia di una donna più anziana di lui, celebre a Nizza e a Parigi per la sua eleganza e per la disinvoltura con cui rovinava la gente. Da quei viaggi don Pio era tornato sfiaccolato, senza aver imparato null'altro che a vestirsi e a spendere. Cresciuto senza nessun ideale, senza nessun attaccamento nè all'antica causa dei papi, nè alla nuova causa dell'Italia, tornava a Roma dal suo viaggio quando la più grande rivoluzione del nostro secolo si era già compiuta. Quel grande fatto, che aveva afflitto così profondamente tutti i partigiani del papato e che aveva fatto esultare tutti gli italiani, lo aveva lasciato indifferente. Sua madre, rimasta fedele alle antiche idee, sua madre lo aveva inutilmente spinto a schierarsi fra i sostenitori del Vaticano, fra quelli cui lo legavano vincoli di parentela e di consuetudini di famiglia; egli sorrideva, si metteva il monocolo all'occhio sinistro e non rispondeva. Del resto la duchessa Teresa Urbani si limitava a esortare il figlio, e si sarebbe guardata bene dall'imporgli la sua volontà. Giunta a quarant'anni senza avere eredi, ella provava per questo figlio, tanto invocato e tanto vivamente bramato, una di quelle passioni cieche che le donne sentono per quelle creature che le hanno salvate dal marchio della sterilità, passione più forte di ogni altra della loro esistenza. Agli occhi di donna Teresa nessuno era più bello, più intelligente e più spiritoso del suo Pio, benchè egli non avesse nè una bella figura signorile, nè una bella intelligenza, e di spirito ne possedesse quel tanto necessario a fare buona figura in un salotto. La vera qualità del principe della Marsiliana era piuttosto la scaltrezza, che egli sapeva nascondere sotto un aspetto di grande bonarietà. Egli aveva inoltre una specie di fiuto che lo poneva sulla traccia delle persone da sfruttare, e che ora gli faceva indovinare nel Caruso l'uomo opportuno, l'uomo che avrebbe potuto cavarlo d'impaccio.
Si discuteva a Roma da molto tempo il nuovo piano regolatore della città, e durante queste discussioni la capitale si trasformava a vista d'occhio, ponendo, come tanti ostacoli al nuovo piano, i lavori che già erano compiuti.
La questione di trasportare altrove la stazione ferroviaria era all'ordine del giorno. Nelle adunanze della Società degli architetti si era messa avanti l'idea di trasportarla ai Prati di Castello, fuori della porta San Giovanni, lasciando quella vecchia riserbata soltanto per la piccola velocità.
Già si erano fatti studî e disegni, si erano pubblicati opuscoli per sostenere l'una o l'altra idea, ma il pensiero di fare la stazione nel Trastevere non era balenato a nessuno, e quel pensiero, di cui il principe riconosceva l'opportunità, per assicurare la sua elezione, ora lo tormentava non sapendo egli come esprimerlo, e, mentre con la punta del coltello egli cercava di scalcare una quaglia, pensava, pensava che avrebbe dovuto fra poco parlare, e quel pensiero gli faceva aggrottare le ciglia.
La banda sul palcoscenico continuava a suonare, tutti parlavano a un tempo, quando il sor Domenico si alzò e fece cenno ai sonatori e ai convitati di tacere. La sora Lalla andò sulla terrazza a dare un ordine eguale, e a un tratto per tutta l'osteria, un momento prima così piena di rumore, regnò un silenzio solenne; nessuno osava neppur portarsi la forchetta alla bocca per non far rumore. Il sor Domenico si alzò e con quella voce dolce e vellutata, che scendeva al cuore, e nella quale era riposto in parte il segreto della sua popolarità, disse, imitando Garibaldi che era il suo idolo:
"Ragazzi! Voi sapete se io sono sempre con voi. Da anni e anni non mi considero più un uomo isolato; mi pare di essere il vostro padre, il capo di tutte le famiglie del Trastevere, perchè quando qualcuno soffre io soffro insieme con lui, come quando qualcuno gode io mi associo alla sua gioia. Sapete pure che il mio amore non è limitato a questo generoso rione dove si mantenne sempre viva l'ammirazione per le virtù passate di questa Roma, il cui nome solamente è simbolo di grandezza o di gloria, ma si estende invece a tutta la città e all'Italia, che ha dovuto cinger qui la sua corona regale! Voi sapete pure che io non ho mai parlato a voi altro che il linguaggio della verità, che non vi ho mai dato un consiglio che non fosse onesto e ispirato da quell'amore di patria che ci anima tutti. Ora che siamo alla vigilia delle elezioni, io prendo la parola e dico, con quella sincerità che tutti conoscete, di porre il nome del principe della Marsiliana accanto a quello degli uomini liberali cui deste il suffragio nelle passate legislature. Questo nome non è portato da nessuna combriccola, non rappresenta interessi parziali, e sopratutto non è legato a nessun passato. Per noi ci vuole un uomo nuovo, che capisca i nuovi tempi, un uomo al disopra di qualsiasi sospetto; e tale è il principe della Marsiliana; io, ragazzi, lo raccomando al vostro suffragio, io credo che nessuno possa meglio rappresentare questo collegio di Roma che lui!"
Grida diverse partirono dalla folla, che ingombrava prima la terrazza e che ora si era spinta fino nella sala e occupava tutto lo spazio dinanzi all'affresco di Muzio Scevola; alcune di approvazione e altre di disapprovazione. Scortichino, il Simonetti e il sor Domenico sopratutto accennarono a quegli strilloni di far silenzio e il capobanda fece intonare l'inno di Garibaldi per porre fine al tumulto, che minacciava farsi serio. Appena ristabilita la calma, don Pio posò il tovagliolo ed alzatosi, senza guardar nessuno in faccia e a voce bassa, incominciò a parlare, dicendo:
"Porto un gran nome, è vero, ma le mie simpatie sono per il popolo, poichè io stimo e rispetto chi lavora, e ho viva ammirazione per quelli che sostengono, giorno per giorno, ora per ora, la lotta per l'esistenza. Se voi, che siete qui adunati, volete concentrare sul mio nome i vostri voti, assicuratevi che avrò a cuore i vostri interessi più dei miei. Nulla mi lega al passato: nè simpatia, nè vincoli di famiglia; tutto invece mi spinge verso l'avvenire, che è rappresentato, specialmente qui a Roma, dalla forte, onesta e patriottica popolazione del Trastevere. L'avvantaggiare gl'interessi materiali e morali di questo rione, sarà per me una nobile ambizione. Io credo che uno dei mezzi per concentrare qui una parte della vita rigogliosa della Roma nuova, della Roma degli italiani, sia quello di far costruire in questo luogo la nuova stazione ferroviaria. Per l'attuazione di questo disegno io spenderò tutte le forze mie e se vi riuscirò sarò più altero di aver legato a quest'opera il mio nome, di quello che non sia della gloria passata dei miei antenati."
Grida di viva approvazione partirono dalla folla; il sor Domenico aveva le lagrime agli occhi e cercava la mano del principe per istringerla. Fabio Rosati gli s'era accostato e pareva che chiedesse i suoi ordini, quando Caruso lentamente si alzò e volgendo intorno uno sguardo dubbioso di sopra alle lenti, chinò la testa in atto di saluto incontrando gli occhi di don Pio, e quando la folla, per ordine dei soliti capi, fu ricondotta al silenzio, egli prese a dire:
"Il principe della Marsiliana ha con brevi parole svolto tutto un programma di cui l'idea fondamentale consiste nel trasportare nel Trastevere un centro di attività e di lavoro.
"Questa idea non è una idea nuova, sorta nel momento delle elezioni, suggerita dal bisogno di procacciarsi dei voti, no, quest'idea è stata lungamente studiata ed elaborata dal nostro candidato."
Il principe meravigliato da quelle parole, e credendo di sognare, non osava alzar gli occhi per non incontrare quelli dell'oratore nè quelli del Rosati, il quale con la testa dava lievi segni di approvazione e ammirava la furberia e la sfacciataggine di Caruso.
"Io, che seguii quel lavorìo paziente ed accurato, degno di una mente vasta e educata a tutte le più nobili discipline dell'economia moderna, io che ebbi l'onore di essere il confidente del principe durante lo svolgimento della nobile idea, io posso esporvi il vasto piano concepito da don Pio Urbani. Egli vorrebbe vedere Roma circondata da una cintura di ferrovia che avesse la stazione principale qui nel Trastevere, quella di smistamento a San Giovanni e quella di piccola velocità ai Prati di Castello. Inutile dirvi che l'attuazione di questo disegno farebbe salire enormemente il prezzo dei terreni nelle tre località indicate e darebbe un grande sviluppo alle costruzioni, portando qui, dove specialmente siamo, molta gente, molte forze e molto denaro."
Don Pio, benchè assuefatto a non meravigliarsi di nulla, era assolutamente annichilito da tanta sfacciataggine, e continuava a tenere gli occhi nel piatto. Da principio, udendo Caruso, aveva provato la voglia di fare una risatina sarcastica, ora s'era fatto serio perchè capiva che quell'uomo s'imponeva a lui in forza del servizio resogli e creava fra di loro una specie di complicità. Un resto di onestà, un sentimento di pudore lo spingevano a protestare, ma il pensiero del fine cui mirava, troncavagli le parole in bocca e lo induceva a lasciare che le cose andassero per la china su cui avevale avviate Caruso, purchè riuscisse eletto.
I popolani del Trastevere, abbacinati da quel miraggio d'interessi e di guadagni, erano tutti concordi nel vedere in don Pio l'unico candidato, il solo candidato serio, e non pensavano più alle simpatie della principessa della Marsiliana per i clericali, non osavano più rimproverare al principe l'inerzia di cui aveva dato prova per il passato. Appena Caruso ebbe cessato di parlare, un evviva frenetico, accompagnato dall'inno di Garibaldi, echeggiò per la sala bassa, tutte le mani si protesero per cozzare i bicchieri ricolmi, e don Pio, turbato, dovette partecipare al brindisi.
—In bocca al lupo,—gli disse Caruso avvicinando il proprio bicchiere a quello di don Pio.
—Grazie,—disse il principe, guardandolo senza sorridere.
Fabio Rosati s'era alzato e andava da una tavola all'altra distribuendo strette di mano, raccogliendo le parole lusinghiere per il principe con l'intenzione di ripetergliele poi.
—Ve lo dicevo che non c'era altri che lui, che il voto era ben dato?—ripeteva egli a quanti gli parlavano della stazione in Trastevere.—Bella mente, idee larghe, idee nuove e un cuore d'oro.
In quel tempo don Pio era assalito dalle domande dell'on. Serminelli, il quale voleva gli svolgesse meglio l'idea cui aveva accennato. Don Pio, non sapendo che cosa rispondere, guardava Caruso, ma questi aveva attaccato discorso con un popolano, che aveva accanto, e fingeva di non badare a lui.
—Ma è una sorpresa che ci avete fatta,—diceva l'onorevole il quale aveva nel principe uno dei più validi elettori, poichè don Pio era un grande proprietario di terreni sul Fucino.
Don Pio esitò a rispondere, ma finalmente, accettando la situazione tal quale avevala creata Caruso, disse:
—Ci voleva la bomba, ci voleva, non vi pare?
Caruso intanto, con le orecchie tese, non perdeva una parola di quanto diceva il principe della Marsiliana e gongolava lasciando pendere il labbro inferiore, e ponendosi i pollici nei taschini della sottoveste con un fare di grasso beato.
Tutti erano contenti, tutti, anche il sor Domenico, il quale andava ripetendo fra i suoni stanchi della musica che l'elezione era assicurata, tutti, meno Fabio Rosati, il quale provava pel Caruso un senso di repulsione e nella sua onestà si meravigliava che il principe tacesse, che il principe tollerasse quello che a lui pareva un insulto.
Ma come avviene spesso, invece di togliere a don Pio la grande stima che gli tributava da lungo tempo, da quando si era mostrato verso di lui affabile e cortese e lo aveva trattato molto diversamente da quel che non sogliano i signori del patriziato romano con i cittadini, nei quali credono di veder sempre dei clienti, Fabio se la prendeva con Caruso e sentiva accrescere immensamente la repulsione che quell'uomo già inspiravagli. Con un colpo d'occhio capiva l'influenza che quell'intruso dall'aspetto volgare avrebbe presa sul principe e gli doleva che per essere eletto dovesse sottoporsi a quel giogo.
Le voci avvinazzate formavano un frastuono tremendo nella sala bassa e sotto il pergolato; un odore nauseabondo di vino versato, di pietanze, di cattivi sigari, di gente sudicia, riempiva l'aria, e don Pio incominciava a sentirsi a disagio in quel luogo ed era stanco e nauseato. Per questo, fatto un cenno al Rosati, si alzò e, accompagnato dal sor Domenico, dalla sora Lalla e dall'onor. Serminelli, dal Caruso e dal Massa, traversò la sala dove echeggiarono della grida stanche e rauche di "Evviva il nostro candidato" e accommiatatosi da tutti salì in phaéton, prese le briglie di mano al cocchiere e, invitato il Rosati a sedersi accanto a lui, toccò con la punta della frusta i cavalli, che partirono al trotto.
Durante il breve tragitto, Fabio fu più volte sul punto di dire al principe quanto lo affliggeva di vederlo nelle mani di un volgare imbroglione, di narrargli che Caruso aveva servito un po' tutti i partiti con la penna, una penna che non sapeva intingere altro che nella bile, e che ora non avendo più nessuno si attaccava a lui come alla tavola di salvezza. Voleva narrargli che era diffamato come uomo per avere abbandonato a Milano la moglie e un figlio senza pane; che era diffamato come giuocatore, per essere stato scoperto con le carte segnate in mano, era diffamato come giornalista per non essersi mai addimostrato fedele a nessuno, servendo meglio chi meglio lo pagava. Ma tutte queste rivelazioni, che salivano a Fabio dal cuore alla bocca, egli non aveva coraggio di farle a una persona che incutevagli tanto rispetto quanto il principe della Marsiliana. Fabio Rosati era troppo romanamente educato per trovare in sè tanta audacia, poichè quelle rivelazioni naturalmente contenevano un biasimo per don Pio, il quale, invece di rinnegare qualsiasi connivenza col Caruso, aveva permesso che mentisse sfacciatamente.
Don Pio pure, nonostante l'impassibilità della fisonomia, si sentiva a disagio rispetto al Rosati, e dispiacevagli di aver perduta la sua stima in un momento in cui aveva bisogno della fede illimitata del giovane per riuscire nell'intento. Per non abbordare l'argomento spiacevole, don Pio non disse parola durante il tragitto, e soltanto giungendo al palazzo invitò a mezza bocca il Rosati a salire.
—Grazie, è tardi e ho da fare,—rispose l'altro, che in condizioni diverse sarebbe stato lietissimo di quell'invito.
Essi si separarono freddamente, e Fabio, triste come chi non ha veri ideali e vede crollare la fede che ha riposta in un individuo, più per la sua posizione che per il valore personale, si diede a percorrere lentamente il Corso, deserto in quell'ora tarda. Egli aveva sognato di adoprarsi tanto e poi tanto per la elezione del principe di Marsiliana da meritare la gratitudine di lui, da diventare per l'avvenire l' ad latus del principe, la persona indispensabile, e quando si vedeva dischiusa già la casa Urbani, ecco che un altro, un intruso, entrava con un salto nella posizione da lui faticosamente conquistata, e la faceva sua.
II.
Fabio Rosati era un giovane intelligente, il quale sentiva che il bagaglio di cognizioni di cui si era munito negli anni in cui un uomo deve prepararsi alla vita, era troppo leggiero, troppo meschino per permettergli di andar oltre nel mondo. Dotato, come quasi tutti i romani, di quella preziosa qualità che si chiama il senso pratico, egli sperava di farsi strada lo stesso mercè la protezione, l'aiuto di persone altolocate, e, non sentendosi forza sufficiente per vivere di vita propria, voleva porsi nell'orbita di qualche pianeta per fare in quella la parte di satellite.
A don Pio, carattere chiuso e piuttosto diffidente, egli aveva sentito d'ispirare una certa simpatia, che aveva coltivato con ogni mezzo. Valendosi delle conoscenze che aveva nelle redazioni dei giornali egli afferrava ogni occasione per far citare il principe della Marsiliana; ora per vantare l'eleganza di un attacco alle corse delle Capannelle; ora per descrivere un ballo al quale non era invitato; ora per annunziare la partenza per un viaggio, e spesso egli stesso spingeva don Pio a fare un dono a un asilo, a compiere un atto benefico qualsiasi per avere mezzo di lodarne l'animo generoso. Lentamente egli aveva assuefatti, prima i giornalisti e poi il pubblico a quel nome che ora figurava spessissimo nelle cronache e così aveva preparato il campo alla elezione politica di don Pio, dopo aver cooperato a quella di presidente del Circolo dei Cittadini e di consigliere comunale.
Giunto al caffè Aragno, Fabio cercò subito con l'occhio i conoscenti con i quali soleva passare la serata, per narrar loro la cena elettorale da "Muzio Scevola". Scorse in mezzo ad essi Caruso, che con il solito aspetto di satiro sonnecchiante, parlava senza scomporsi e facevasi ascoltare. Fabio non seppe allora reprimere un moto di dispetto e stava per uscire senza accostarsi a nessuno, quando il Peronelli, redattore del Fieramosca, e il Sorani, corrispondente della Gazzetta Milanese, due giornalisti con i quali stava di consueto, gli fecero cenno di rimanere.
—Dunque è andato tutto bene?—domandava il Sorani a Fabio.—Ti aspettavo per telegrafare; completa tu i particolari che mi ha dato Caruso; è bene che di questa elezione si parli in provincia: l'idea del principe della Marsiliana è splendida.
—Io conto di fare nel Fieramosca un capo cronaca dell'avvenimento di stasera,—diceva il Peronelli, fumando lentamente la sigaretta e sorbendo il cognac a centellini.—Hai visto, Rosati, se c'erano giornalisti alla cena? Vorrei essere il primo a descrivere questo curioso fatto, perchè, a dirla fra noi, è troppo bello che un principe del Sacro Romano Impero, un grande di Spagna, vada da Muzio Scevola!
—Sarebbe stata più buffa se ci veniva anche la principessa, come voleva il sor Domenico,—osservò Caruso col suo sorriso sarcastico.—Del resto, di giornalisti non ho visto altro che il Massa della Ragione, che ci dormirà sopra ventiquattro ore, poi avrà bisogno di altre ventiquattro per pensarci, e dopo una settimana finalmente scriverà il resoconto.
—E tu dove ti metti?—disse Fabio.
—Io non faccio più parte della grande famiglia,—rispose Caruso lasciandosi cadere le lenti dal naso con un fare stanco e noiato.—Io la ripudio, non perchè disprezzi quella certa influenza che il giornalismo conferisce, ma perchè l'esercizio del mestiere è troppo poco rimunerativo, e io ho bisogno almeno almeno di campar bene; è un mestiere da signori, che don Pio potrebbe fare, ma non io.
—Ma chi avrebbe mai supposto,—esclamò il Sorani, che era un ometto magro, tutto nervi, che non sapeva star fermo un istante,—chi avrebbe mai supposto che il principe della Marsiliana, così muto, avesse nel cervello delle idee come quella della stazione in Trastevere! Pareva occupato soltanto di sè, dei suoi cavalli, e stufo anche delle donne.
Fabio involontariamente guardò Caruso, ma questi pareva occupato a tagliare col temperino la punta di un sigaro d'Avana, e nulla rivelava in lui l'uomo che volesse rivendicare la paternità di quella idea, e molto meno vantarsi di averla suggerita. Maggiore del dispetto che provava in quel momento il Rosati per l'intruso, era la premura per il principe della Marsiliana e il desiderio di vederlo eletto; per questo, invece di allontanarsi senza parlare al Caruso, si chinò all'orecchio di lui e gli disse:
—Hai pensato a comunicare il risultato della cena di stasera ai giornali della mattina e all'Associazione costituzionale-progressista?
—No,—rispose l'altro alzando lentamente gli occhi e rimettendosi le lenti sul naso.—Credevo che questo fosse affar tuo; capirai bene, io non sono nulla, non ho nessuna veste....
—Mi pareva che tu avessi dimostrato tanta devozione alla causa del principe.
—Non mi pare,—rispose Caruso accendendo il sigaro dopo averlo considerato da ogni parte,—ma se tu lo dici, sarà. Credevo di nuocere solamente al De Petriis che mi è più antipatico come impiastricciatore di cocci, che come clericale, e pare che io abbia giovato al principe della Marsiliana. Assicurati per altro che quel tuo principe non m'ispira nessun entusiasmo, perchè lo credo una vera nullità.
Queste parole sprezzanti e il tono con cui erano pronunziate, offesero profondamente Fabio, il quale per non lasciarsi trascinare da un impeto di collera, prese a bracetto il Sorani, dicendogli:
—Vieni al telegrafo; ti detterò io quel che devi telegrafare alla Gazzetta,—e salutando appena gli altri, uscì.
—Mio caro Peronelli,—disse Caruso, appena rimase solo col redattore del Fieramosca,—a te voglio fare una confidenza. Tu sei di opinioni liberali ed è bene tu sappia la verità; il principe della Marsiliana non ha basi solide nel Trastevere, l'entusiasmo di stasera si deve a quella idea buttata là della stazione, idea che non credo sia sua e che egli certo non saprebbe svolgere e molto meno attuare. Appena svanito questo bollore, i Trasteverini rammenteranno bene che don Pio non ha fatto nulla, nulla nè prima nè dopo il settanta, che è legato a una moglie di sentimenti e tendenze ultra-clericali, che è educato da una madre nera come la cappa del camino, e che per il popolo non ha davvero simpatie; non è molto che ne ha dato prova quando travolse sotto alla sua carrozza quella vecchia e poi lesinava le poche lire per venirle in aiuto; fu il Fieramosca allora che narrò il fatto.
—È vero,—disse il Peronelli riflettendo.—Noi, del resto, non abbiamo accettata la lista concordata dalla Unione costituzionale-progressista e possiamo combatterlo e portare invece del suo nome quello del professore Ghirani, che è un patriotta, un amico. Ora vado a divertirmi,—soggiunse il Peronelli alzandosi e chiamando il cameriere per pagare.
Caruso si alzò pure sorridendo malignamente ma sulla porta del caffè salutò il Peronelli e si diresse a casa lasciando che l'altro andasse a sfogare contro il principe della Marsiliana il vecchio risentimento dello spostato per il signore, e, sorridendo per aver lavorato efficacemente per il suo avvenire, Ubaldo Caruso entrò nella casa, che abitava sull'angolo delle Convertite, e spogliatosi si addormentò tranquillamente.
Lo stesso non accadde a don Pio; una volta solo nel suo salotto egli si dette a riflettere agli avvenimenti della sera, e lo assalì lo sgomento di esser divenuto schiavo di un uomo che gli ispirava un senso involontario di repulsione. Nello stringere quella mano grassa, madida e fredda stesagli dal Caruso, nel momento di separarsi, aveva provato quella stessa impressione che si prova nel toccare qualcosa di ributtante; sensazione apparentemente fisica, ma che ha le sue basi nel morale.
Egli dette al suo cameriere Giorgio il permesso di coricarsi, ma prima fece preparare il tè sopra un tavolinetto di legno, rivestito di stoffa antica, e, mentre la fiamma azzurrognola crepitava sotto il ramino di argento, don Pio accese la sigaretta e gettatosi sopra una poltrona si dette a meditare, a meditare sulla vita passata, così vuota, così sterile, e sulla vita avvenire che egli voleva ad ogni costo circondata, rivestita di gloria. Sulla parete di fronte a lui v'era appeso un grande ritratto del cardinale Urbani, vestito della porpora, col lungo strascico coperto di merletto di Venezia, la croce di brillanti sul petto, i capelli scendenti sulle spalle in copiosi ricci, e lo sguardo imperioso e ardito.
Illuminato da un lume basso, quel ritratto in piedi si allungava tanto da prendere proporzioni gigantesche, e mentre don Pio lo fissava, parevagli che la bocca si atteggiasse a un sorriso di scherno, e che tutta la fisonomia del fiero prelato prendesse una espressione di disprezzo, che affliggeva e umiliava l'ultimo discendente degli Urbani. Com'era piccino, infatti, fisicamente e moralmente, rispetto al cardinale, e come sentiva la sua piccolezza! Gli pareva di vedere il fiero signore a cavallo, col petto rivestito di ferro muovere da quello stesso palazzo per andare a difendere il Castello della Marsiliana, minacciato dai Colonna; gli pareva di vederlo attaccare violentemente nel Concilio di Trento le dottrine di Lutero, gli pareva di vederlo circondato di artisti insigni e di dotti discutere argomenti di arte e di letteratura in mezzo a quella corte geniale che aveva saputo formarsi d'intorno, e alla quale aveva commesso le opere d'arte che ornavano il palazzo, e la ricerca delle preziose antichità e dei libri rari che facevano non solo di quel palazzo, ma anche delle ville sontuose di casa Urbani altrettanti asili della bellezza artistica e della sapienza umana.
Quel sentimento della sua piccolezza si traduceva in una sensazione fisica, e don Pio si rannicchiava sulla poltrona, palpava le esili braccia, senza distoglier l'occhio dal quadro, e stabiliva involontariamente un confronto fra le membra muscolose e potenti di quel porporato, e sè stesso. Allora lo vinceva un senso di doloroso sgomento. Quel nome che portava parevagli un pondo troppo immane per le sue deboli spalle, e si pentiva di aver fatto un primo passo nella via pubblica, appunto perchè sentiva di non poter su quella lasciare nessuna orma profonda, riconoscendosi incapace di grandezza, sia nel bene, sia nel male.
Un sorriso stupido gli correva in quel momento sulle labbra carnose, e i grandi occhi neri, mansueti come quelli del bove, si distoglievano dal ritratto dei cardinale per vagare vuoti di un pensiero energico, per la stanza. Senza quella cena della sera egli avrebbe la mattina dopo disposto tutto per la partenza e se ne sarebbe andato a Parigi a dimenticare le noie procurategli già da quella elezione; ma ora era compromesso, aveva invocato l'aiuto della parte più energica del popolo di Roma, aveva affacciata una idea e doveva necessariamente sostenerla e svilupparla; ma come fare?
Mentre più che mai sentiva l'insufficienza delle sue forze, mentre più che mai capiva che, senza un aiuto, egli non sarebbe riuscito a cavarsi da quel ginepraio, sentì bussare alla porta che dava sulla galleria, e prima che avesse fatto in tempo a girar la maniglia, vide entrare nella stanza la madre col capo coperto da una cuffia di merletto e il corpo grasso e floscio avvolto in un accappatoio di lana bianca.
Donna Teresa posò la candela sopra una mensola, e presa tra le mani la testa del figlio, lo baciò sugli occhi e sulla fronte. Più alta di lui e così grossa com'era con le ampie maniche bianche della veste, ella pareva in quel momento la statua della Protezione. Don Pio si lasciò baciare e stringere fra le braccia della duchessa come un bambino. Aveva bisogno di quelle carezze, e sentiva che se vi era al mondo una persona, che potesse guidarlo e sorreggerlo, quella persona era certo sua madre.
La vista di lei lo sollevò alquanto e alzando la testa la fissò con uno sguardo così affettuoso come nessuna donna, all'infuori di lei, aveva mai veduto balenargli negli occhi e attrattala accanto a sè sopra un sofà basso, le disse:
—Se tu sapessi come aveva bisogno di te, ma supponevo tu fossi alla Marsiliana.
—Sono giunta stasera,—rispose la duchessa appoggiando la mano breve e carnosa sulla spalla del figlio.
La duchessa continuò:
—Non potevo star lontana mentre tu qui lottavi. Il mio appoggio non ti è mai mancato, e perchè volevi ti mancasse adesso?
—Non credevo che una donna, e una signora sopratutto, potesse essermi utile in una occasione come questa, e non ti ho scritto di questa mia manifestazione di vanità, perchè, se vuoi che ti dica il vero, non credevo tu l'approvassi.
—Ma tu sai, Pio, che io approvo tutto quello che serve a metterti in evidenza, a porti al disopra dei tuoi simili!
—Credevo che i tuoi sentimenti di devozione al papa t'impedissero....
—Il primo, il più forte dei sentimenti, anzi l'unico, è l'amore per te. Tu sai che ti amo al punto da esser gelosa delle donne che tu preferisci, e di non esser tranquilla altro che ora perchè ti vedo a fianco quella povera Camilla....
—Che, tu sai, io non amo,—disse il principe alzando le spalle e sorridendo cinicamente.
—È proprio così; ma mettimi al corrente di quello che è accaduto; so che stasera c'è stata una cena in Trastevere.
—Sì, una cena molto buffa,—disse il principe offrendo alla madre una tazza di tè.—Io non so come ho fatto a resistere, a star serio tutto quel tempo. Pare che fossi investito a segno della mia parte da far breccia su quei vassalloni.
—Se ti sentissero!—osservò la duchessa.
—Se hanno due dita di cervello, debbono capire che tutta questa tenerezza democratica non può esser sincera; che è una commedia, e che è già una grande degnazione che uso loro se mi sottopongo a rappresentarla.
—Bella degnazione!—ribattè la duchessa ridendo mentre stringeva gli occhi, fatti piccoli dalla molta carne delle guance.—Sono essi che si degnano dare a te il loro voto, piuttosto che ad un altro, e affidarti i loro interessi morali e materiali.
—Ed è appunto toccando la molla dell'interesse che li ho guadagnati alla mia causa. Altrimenti con quella Camilla e la sua smodata devozione, non avrei potuto davvero contare sull'appoggio del Trastevere. Ho promesso nientemeno che di far trasportare la stazione ferroviaria in quel rione!
—E come ti è venuta quella idea?—domandò la duchessa fissando il figlio con aria incredula.
—Non so; è stata una specie di ispirazione; ma non ti pare una idea bella?
—Eccellente per facilitare la tua elezione,—rispose ella,—ma non so se riescirai ad attuarla.
—Questo non m'importa, basta che sia eletto; al poi ho tempo di pensarci.
—Ma perchè vuoi essere deputato ad ogni costo?
—Perchè molti principi romani sono già al Parlamento, e per quel ciondolo di medaglia che portano alla catena, si danno una importanza!... Io non voglio esser da meno di nessuno.
—Se ci tieni tanto, sarai eletto, te lo prometto io,—disse la duchessa prendendogli una mano.—Quello che tu vuoi, io lo voglio; quello che ti fa piacere, io sento il bisogno di procurartelo, fosse pure l'amore di una donna.
—E se ti prendessi in parola?—disse il principe ridendo.
—Mi troveresti sempre pronta a mantenerla.
Dopo poco la madre si alzò per andarsene, ma prima che ella richiudesse l'uscio del salottino del principe, si volse al figlio e gli domandò sorridendo:
—Chi è il tuo grande elettore?
—Il sor Domenico Stoppani.
—E il tuo agente?
—Fabio Rosati.
—Dormi tranquillo, figlio mio, tu sarai deputato di Roma,—disse la duchessa battendo sulla spalla di Pio, e guardandolo con una espressione d'ineffabile tenerezza, che rivelava tutto l'amore che ella aveva per lui nell'animo.
Il principe prima di andare a letto scrisse con una certa esitazione un biglietto al Caruso, pregandolo di recarsi da lui la mattina seguente. Lo scaltro uomo, parlando col principe, gli aveva detto incidentalmente che stava di casa in via delle Convertite, e don Pio rammentava benissimo quell'indirizzo e il numero dell'abitazione. Egli mise quella lettera sopra una tavola nella galleria, al posto dove soleva mettere le lettere, che dovevano essere recapitate presto.
Spogliato che fu, egli si coricò nel letto ampio, sormontato dalla corona ducale, da cui scendevano fino in terra le cortine di damasco azzurro, con lo stemma degli Urbani intessuto di oro, e non tardò a cedere al sonno.
III.
Don Pio destandosi a giorno chiaro vide la testa di Giorgio affacciata alla portiera dell'uscio e credè che egli venisse ad annunziargli Caruso.
—Pregalo di attendermi un minuto,—disse il principe riacquistando a un tratto la memoria degli avvenimenti della sera precedente, e saltando in fretta dal letto con gli occhi ancora assonnati, andò nello spogliatoio e dopo aver tuffato la faccia in una catinella di acqua fresca, ed avere indossato un vestito di flanella bianca, entrò nel salottino e vedendo Fabio Rosati, invece del Caruso, non seppe reprimere una smorfia di dispetto, nè potè trattenersi dal dire:
—Ah, è lei!
Fabio capì che non era nè atteso, nè desiderato e il sorriso gli morì sulle labbra, ma dominando la pena che gli cagionava quella accoglienza, tolse da un fascio di giornali il Fieramosca, e pose sotto gli occhi del principe l'articoletto sulla cena della sera precedente.
Don Pio lo lesse e poi, restituendolo al Rosati, disse tranquillamente:
—Quando si entra nella vita pubblica, dobbiamo attenderci agli attacchi. Questa asserzione che io non sia capace di svolgere l'idea della stazione in Trastevere, è una asserzione stupida, un mezzo per gettare la sfiducia fra i miei elettori; ma glielo farò veder io se sono capace; glielo farò vedere a questo stupido scribacchino del Fieramosca,—continuava don Pio, cercando in altri giornali se si parlava della sua candidatura.
Fabio non aveva parole; a momenti pensava che Caruso si fosse vantato affermando la paternità di quella idea; ma poi, ripensando a tanti particolari della sera prima, il dubbio svanivagli dalla mente e vi penetrava la sconfortante supposizione che il principe mentisse, mentisse anche davanti a lui, e questa supposizione gli agghiacciava il sangue nelle vene.
Quella benevolenza dimostratagli da don Pio in tante occasioni lo aveva legato a lui con vincoli saldissimi, gli aveva fatto nascere nell'animo una specie di culto per quel patrizio così diverso dagli altri nel modo di trattarlo, e ora che lo vedeva precipitare dall'altare su cui avevalo posto, provava un vero dolore. La serenità non svaniva dal volto di Fabio, ma le sue labbra carnose, non ombreggiate dai baffi, si scoloravano a vista d'occhio.
Don Pio continuava a guardare i giornali e a fare brevi e dispettose osservazioni.
—Questo giornale sostiene la mia candidatura perchè sono caratista; questo perchè il direttore mi deve cinquemila lire; quest'altro perchè sono consigliere della Banca Romana; tutto interesse, nient'altro che interesse!—continuava a dire sorridendo amaramente.—Se non fosse così, tutti mi lapiderebbero, tutti. Ma sarò eletto?—domandò dopo una breve pausa a Fabio, che, ritto dinanzi a una mensola, osservava i ninnoli che vi erano posati sopra.
—Lo spero,—rispose Fabio.
—Ma nulla di positivo mi può dire?
—Io ho ragione di sperarlo,—disse Fabio sorridendo.—Io ho preparato il terreno, a lei sta il lavorarlo.
Il principe fece una mossa d'impazienza; egli era assuefatto dalla madre e da quanti lo circondavano a non conoscere l'impossibile, a credere che con i denari e con un grande nome si giunga a tutto, e il linguaggio che tenevagli Fabio non era fatto per il suo orecchio. Per altro, piegato fino dall'infanzia a non mostrare quello che provava, sorrideva al Rosati e gli diceva di spender pure, di non lesinare sulla pubblicità, di promettere mari e monti, pur di ottener voti; ma mentre parlava, involontariamente lo spingeva verso la porta, come se volesse liberarsi di lui. Fabio, a un certo punto, si accorse del desiderio del principe e si congedò. In quel momento acquistò la certezza che don Pio attendeva Caruso. Egli percorreva a testa bassa la galleria, quando un servitore si staccò da un sedile addossato al muro e fattosi avanti gli disse che la duchessa madre desiderava parlargli.
Fabio si scusò, rispose che non era in abito da visita, che sarebbe andato più tardi, ma il domestico rispose che la signora duchessa voleva parlargli subito, e non potendo resistere a quelle vive preghiere, egli salì le scale che conducevano al secondo piano, pensando sempre con sconforto alla delusione provata.
La duchessa era già vestita, col cappello in testa e il libro da messa in mano, pronta per uscire. Ella, che sapeva sempre quello che voleva, e andava diritta allo scopo, stese affabilmente la mano a Fabio e senza tanti preamboli gli disse, dopo averlo fatto sedere accanto a sè:
—Io voglio che mio figlio sia eletto; che cosa bisogna fare?
Fabio riflettè un momento, ma spronato da quel fare risoluto, vinse la naturale pigrizia del pensiero, e rispose lealmente:
—Oramai il principe si è impegnato troppo formalmente per la stazione in Trastevere, bisogna fare di quell'idea la base della sua elezione e svolgerla, predicarla, affermarla.
—E con quali mezzi?
—Con la stampa.
—Ma io non credo che i giornali, così senza nessun interesse diretto, prenderebbero a cuore la candidatura di mio figlio.
—È vero, ma la stampa non è in floride condizioni a Roma e io farei così per amicarla al principe: C'è un giornale morente, un giornale parlamentare, che era sostenuto da un gruppo di deputati piemontesi e liguri, i quali si sono stancati di non ottenere neppure un posto di segretario generale con tutti i sacrifizi fatti per mantenerlo. Quel giornale, che è La Stampa, tira gli ultimi aneliti, ma non è screditato. Bisognerebbe comprarlo e reclutare fra i redattori dei giornali romani tutta la redazione promettendo loro stipendi che non hanno mai sognati. Bisogna intendersi bene; la scelta è difficile perchè molti di quei redattori, per amore del giornale dove sono, per devozione al direttore, sarebbero capaci di rifiutare, ma fra sei disinteressati c'è sempre l'avido. Ora questo avido con la speranza di migliorare la sua situazione appena La Stampa sarà nelle mani del principe, saprà sostenerne la candidatura, saprà combattere per lui, e l'avere un alleato, un amico in tutti i campi, o almeno una persona che avrà interesse a paralizzare gli attacchi, mi pare un immenso vantaggio.
La duchessa stette un momento soprappensieri, poi disse:
—Quanto ci vuole a comprare La Stampa e ad accaparrarsi la redazione?
—Il giornale m'impegno a farglielo avere con 50,000 lire; per accaparrarsi i redattori bastano 20,000.
—E a far vivere poi il giornale?
—Questo dipende dallo sviluppo che il principe vorrà dargli; ma certo la casa Urbani può permettersi questo lusso.
La contessa fissò per un dato tempo la copertina del libro da messa e pareva che seguisse con l'occhio le cifre che vi tracciava mentalmente, e poi disse:
—Tratti pure e informi me dei risultati delle trattative; a mio figlio parlerò io stessa;—e stendendo la mano a Fabio si alzò per congedarlo con un cortese sorriso.
Fabio scese le scale tutto lieto di quell'incombenza. La sua più viva ambizione era sempre stata quella di essere redattore di un giornale, e di un giornale influente. A forza di portare la notizietta, il resoconto di un ballo, la descrizione di un matrimonio, era riuscito a farsi strada in alcuni giornali, e aveva degli amici fra i redattori, ma non aveva mai potuto mettere il nome di un giornale sulla sua carta di visita, non era mai potuto entrare a un teatro gridando alla maschera il nome di un giornale, non era mai stato delegato a rappresentare un giornale in un banchetto politico, in una commemorazione, in qualche solenne cerimonia. Ora tutte queste aspirazioni stavano per realizzarsi; ora la parte di cronista, come romano, gli spettava quasi per diritto. Eppoi in quel contratto di vendita egli avrebbe guadagnato qualcosa e Fabio aveva sempre e poi sempre in mira l'interesse in ogni atto della vita. Non potendo avere ideali sognava il benessere materiale, l'appagamento di ogni desiderio; egli era nato con l'istinto della mediocrità e quest'istinto si sviluppava in lui sempre maggiore con gli anni.
Sul portone del palazzo e mentre ruminava il pensiero di ottenere il giornale con una somma inferiore a quella detta alla duchessa, s'imbattè nel Caruso, e seppe reprimere il moto di dispetto che gli cagionava quell'incontro.
Capiva che ormai bisognava contare con quell'uomo se voleva che il principe fosse eletto, se voleva che acquistasse il giornale, se aveva a cuore davvero l'esito di quella impresa.
Fabio lo salutò dunque cordialmente, e gli stese la mano.
—Che noia!—disse il Caruso, dopo avergli reso il saluto con il suo fare stanco e spingendo in avanti il labbro inferiore e socchiudendo gli occhi.—Il principe iersera mi ha subito scritto, vuoi vedermi ad ogni costo. Questi gran signori non hanno un soldo di sale in zucca, e si danno sempre il lusso di pensare col cervello degli altri.
Fabio si sentì offeso dalla mancanza di rispetto per tutta una classe, che era assuefatto a venerare, e per don Pio specialmente, ma non rispose altro che con un sorriso, e disse:
—Credo infatti che tu sia aspettato da un pezzo.
—Lo so, ma io non mi scomodo per nessuno e prima delle dieci in camera mia non fa giorno. Addio, Rosati,—e passò davanti al portinaio strascicando il passo, e soltanto sul primo gradino dell'imponente scalone gettò via il sigaro d'Avana, che aveva in bocca.
Per altro, in presenza di don Pio cambiò subito atteggiamento, e seppe incurvare la schiena, seppe farsi umile.
—Scuserà se mi sono fatto attendere, ma affari urgenti da sbrigare mi hanno tenuto occupato sin ora: quando siamo nel giornalismo c'è sempre un ministro o un segretario generale, che hanno bisogno di vederci e ci tempestano di lettere e di ambasciate,—e così svogliatamente cavò di tasca due lettere con il bollo del Ministero degli Esteri e di quello dell'Interno. Però si guardò bene dal leggerne il contenuto al principe. Erano lettere vecchie di due impiegati subalterni, ai quali in altri tempi si era rivolto per domandare notizie.
—Capisco,—disse il principe,—e mi duole di averlo disturbato, ma se non lo avessi fatto col mio biglietto di ieri sera, avrei dovuto farlo stamani. Ha veduto gli attacchi del Fieramosca?
—Sì,—rispose il Caruso,—ma lei deve rallegrarsene. Se il suo nome non intimorisse gli avversari, se non credessero la sua una candidatura seria, non la combatterebbero. La lotta è vita per gli uomini che vogliono conquistare un posto nella politica; senza lotta nessuno si è mai fatto strada.
—Ma come sostenerla con mezzi così disuguali? Essi mi fulminano dal pergamo del giornale, e io non posso battermi con anni eguali.
—Scusi, ma quando non mancano i mezzi materiali, le armi si cercano, si comprano.
—Non ci avevo pensato,—disse il principe.—Del resto queste armi non si creano in un giorno.
In quel momento fu bussato leggermente, e, senza attendere risposta, la porta fu socchiusa e comparve la duchessa Teresa.
—Pio, ho bisogno di parlarti,—disse ella al figlio, senza curarsi della presenza di un terzo.
—Ci vedremo dopo colazione,—rispose il principe, cui premeva di continuare il discorso col Caruso.
—Avrei bisogno di sbrigare subito subito quest'affare,—rispose la duchessa, dando un tono leggermente imperioso alla voce.
Il Caruso, senza aspettare di essere congedato, prese il cappello, s'inchinò alla duchessa, e stendendo la mano al principe si diresse verso la porta.
—Potrebbe tornare qui oggi?—gli domandò.
—Come desidera,—rispose il Caruso col suo fare svogliato, e fatto un nuovo saluto e lasciando il principe nella incertezza sull'ora, uscì.
—Chi è quell'individuo?—domandò la duchessa a don Pio.
—Non lo so,—rispose egli con fare noiato,—nè mi curo di saperlo. È un individuo che mi aiuta a farmi eleggere deputato.
—Tu devi avere un giornale,—disse la duchessa,—e con quel mezzo potrai fare a meno di chiedere aiuto ad alcuno.
—Ma il giornale non lo posso scrivere io e non si fa da solo. Ci vogliono dei giornalisti, e quell'individuo, che è uscito ora, è appunto tale.
—Come mi è antipatico!—disse la madre.
—Anche a me moltissimo,—rispose il principe,—ma quando si ha bisogno della gente non si va a guardare se vi è simpatica o no; si accetta quale è, e si adopra finchè ci serve; poi si getta via come uno straccio vecchio.
—Che cinismo!—esclamò la duchessa, guardando fissamente il figlio negli occhi.
—Vorreste che io mi cucissi a fianco quell'uomo per la vita?
—No, vorrei che tu sapessi farne a meno ora per non doverlo un giorno rinnegare.
—Ora non so farne a meno: in questo momento nelle mani sue sta la mia elezione e io penso all'oggi, soprattutto all'oggi, perchè voglio essere deputato.
—Ma tu sarai eletto non per conto di quell'uomo, ma per opera mia; e non te l'ho forse promesso? Perchè manchi di fiducia in me?
La duchessa cinse il collo del figlio col braccio destro e attirò a sè la testa per baciargliela.
—L'ho promesso a me stessa tante volte che tutto il bene che avrai ti dovrà venire da me, e vorresti che in questa occasione mancassi alla mia parola? Vedi, Pio, io voglio che, quando sarò sparita, tu pensi a me con tenerezza, tu riconosca, per la forza dei fatti, che tua madre non solo ti ha fatto ricco, ma non ti ha negato mai un balocco nell'infanzia, nell'adolescenza, nell'età matura. Per me questa elezione non ha più valore di un balocco; tu lo vuoi ed io te lo voglio procurare. E per procurartelo metterò nelle tue mani un giornale, e col giornale acquisterai importanza come deputato e potrai salire dove tu vorrai, purchè tu sappia scegliere la gente che deve aiutarti.
—Quest'allusione so a chi è diretta, ma ti ripeto, mamma, che quell'uomo, che tu hai veduto uscire di qui, mi s'impone per la forza delle circostanze.
—E tu imponiti a lui con altri mezzi, che non ti possano nuocere; deve essere avido e bisognoso; un uomo ricco ha sempre modo di obbligare uno che non è, e che vuol esserlo. Ora andiamo nella sala da pranzo, perchè la colazione deve esser pronta,—disse la duchessa,—ma non far parola a Camilla di tutto questo tramestio, che ella non può capire, e di cui il suo animo timoroso potrebbe sbigottirsi.
—Camilla è un grande ostacolo, mamma; ella non capisce la vita sotto nessun aspetto.
—Beati i poveri di spirito! Lasciala battere la sua via,—disse la duchessa prendendo il braccio del figlio e guidandolo fuori del suo quartiere.
La principessa, immersa nella lettura di un giornale illustrato, Le figlie di Maria, era ritta dinanzi a una delle finestre della sala, o quando vide entrare il marito e la suocera andò loro incontro, e dopo aver baciato a questa la mano, presentò la fronte al bacio del marito che gliela sfiorò leggermente, e appena sedutosi a tavola continuò con la madre l'interrotta conversazione, non curandosi della presenza di lei, come non si curava dei servitori, che giravano le pietanze e cambiavano piatti e posate.
Quella grande sala con le pareti coperte d'arazzi e i mobili del tempo dell'Impero, dalle forme rigide e dalle dorature sbiadite, era tristissima e fredda.
Pareva che la primavera non potesse farvi penetrare i suoi effluvi profumati, che il sole non osasse spingervi i suoi raggi.
La principessa Camilla mangiava poco e lentamente. Ella non prendeva parte alla conversazione, e soltanto quando udì parlare dell'acquisto del giornale, posò la forchetta e domandò con la voce che diveniva molto nasale quando ella voleva criticare:
—Che cosa te ne farai, Pio, del giornale? Pensi forse a scriverlo da te?
—Se sapessi, sarei ben lieto di prender la penna, ma non so,—rispose il principe in tono allegro.
—Non ti vergogneresti di farti giornalista?
—No, anzi sarei fiero di saper fare qualcosa, mentre così devo sempre ricorrere ad altri, ed è cosa che mi umilia.
—Come sei cambiato, Pio!—esclamò donna Camilla.
—Cammino con i tempi, che vuoi? Se mi ostinassi a tener le mani alla cintola, per fare come fecero alcuni dei miei antenati, tutti mi passerebbero avanti, e io sono della tempra dei cavalli da corsa; non solo non tollero che alcuno mi lasci addietro di una testa, ma neppure tollero di sentirmi galoppare alle calcagna. Ci trovi qualcosa da ridire, Camilla?
—La mia parte non è quella di biasimare; io amo l'ombra, la quiete, e nella quiete medito e prego.
Il principe sorrise ironicamente e guardò la madre. Era ebro, non già per il vino bevuto, ma per le idee che gli mulinavano per il capo, per quella vita nuova nella quale s'ingolfava, e in cui sperava di spendere quella malsana irrequietezza, che lo aveva spinto per il passato a viaggiare di continuo, a gettarsi ora nei piaceri della vita di Parigi e di Cannes, ora in quelli della vita inglese; a cambiare capricciosamente sistema di coltivazione nei suoi possessi, a riformare, senza attendere il risultalo di una prima riforma, l'allevamento delle razze equine e bovine, a disfare per riedificare. A trentacinque anni don Pio era, come carattere, un ragazzo male educato, e la deputazione, la vita politica, si presentava a lui con tutte le attrattive di un nuovo trastullo. Prendevano il caffè quando alla duchessa fu recata una carta sulla quale don Pio gettò gli occhi.
—Pregate quel signore di attendermi un momento.—diss'ella continuando a bere il moka.
—Non sapevo che tu conoscessi il Rosati,—osservò don Pio.
—L'ho conosciuto per giovarti e credo che di quel ragazzo si possa fare un utile cooperatore.
—Ha poche idee,—disse il principe.
—Ma ha molta fede in te, ti è molto affezionato,—disse la duchessa alzandosi.
—Posso assistere al vostro colloquio?—domandò il principe infilando il braccio in quello della madre.
—Sì, amor mio, vieni, vieni pure.
Essi uscirono senza dire una parola a donna Camilla. La piccola signora li guardò mentre uscivano e poi esclamò con accento di dolore:
—Tutto mi allontana da Pio, tutto! Dio mio, datemi forza di sopportare questa orribile solitudine, mandatemi dei figli, dei figli!
IV.
Nella settimana precedente le elezioni generali, ai manifesti di ogni colore che tappezzavano i palazzi, le case, i monumenti di Roma e formavano come una grande cintura intorno all'obelisco di Montecitorio, erano frammisti molti cartelli che ammiravano la trasformazione del giornale La Stampa. Quei cartelli informavano il pubblico che il giornale ingrandiva il formato, portava il prezzo da due a un soldo, avrebbe contenuto articoli d'insigni scrittori, corrispondenze telegrafiche da tutte le parti del mondo, romanzi novissimi; quei cartelli facevano molte altre promesse, che avrebbero lasciato il pubblico indifferente, se fra tutta quella farragine di innovazioni non avesse letto che il giornale trasferiva i suoi uffici al pian terreno del palazzo Urbani. Quella notizia era molto commentata e naturalmente si diceva che il giornale passava nelle mani del principe della Marsiliana, che il principe aveva intenzione di spendere l'osso del collo pur di farsi eleggere e poi divenire ministro.
Nelle redazioni dei giornali i commenti erano più vivi ancora. Tutti i redattori accaparrati dal Rosati per La Stampa, col patto di rimanere per il momento al loro posto e stare zitti, parlavano del giornale e del principe con molta simpatia; gli altri, che speravano di trovare lavoro, di veder migliorate le loro condizioni, di essere accaparrati, chi come cronista drammatico, chi come cronista musicale, o che avevano un romanzo da vendere, approvavano l'impresa di don Pio, e Fabio approfittava di quelle buone tendenze dei giornalisti, invitava a colazione o a pranzo ora questo ora quello, e intanto parlava della elezione del principe, insinuava che l'appoggiassero, paralizzava gli attacchi ed era beato per quell'aureola d'influenza acquistata a un tratto e per le diecimila lire guadagnate sul contratto di vendita della Stampa, di cui un migliaio aveva imprestato ai nuovi colleghi con molto accorgimento.
In mezzo a tutta questa gioia per una mèta raggiunta, Fabio non aveva altro che una amarezza: Ubaldo Caruso. Quell'uomo che stava sempre al fianco del principe, che già aveva presa la direzione del giornale, e faceva la polemica accanita per sostenere l'elezione di don Pio e enumerava ogni giorno i vantaggi che sarebbero nati per il Trastevere dall'aver la stazione, quell'uomo era la bestia nera di Fabio. Con le sue maniere striscianti, parlando poco, promettendo poco e lasciando sperare molto, Ubaldo si era assicurato la collaborazione di un ex-ministro di agricoltura, dei Carrani, uomo fegatoso, inviso al presidente del Consiglio, ma venerato come capo da una numerosa schiera di malcontenti di cui aveva sposato i risentimenti e i rancori.
L'onorevole Carrani aveva capito qual partito politico trarre da un giornale ricco, che gli avrebbe creato popolarità fuori del Parlamento e influenza a Montecitorio, che gli avrebbe permesso di combattere a oltranza il Governo e di profittare di una crisi per rientrare nel Gabinetto, non più a rappresentare una parte secondaria, che non avevagli servito altro che a stuzzicare la sua smodata ambizione e la sua sete di dominio, ma a rappresentarvi una parte principale, come ministro dell'interno e forse più. Considerando tutti questi vantaggi il Carrani aveva dato ascolto alle parole di Ubaldo e aveva subito preso a scrivere articoli pieni di fiele nella Stampa, scoprendo le mene elettorali del governo in favore del candidato opposto a don Pio, che era il ricco mercante di campagna de Petriis. Quel povero Petriis era attaccato in ogni modo: nella sua vita economica come uomo d'affari, che dava capitali a interesse un tantino illegale; come uomo privato per le sue simpatie per una notissima donnina, che si offriva un tempo alla borsa della galanteria per poche lire; come consigliere comunale per la sua opposizione ad ogni spesa che avesse in mira l'erezione di monumenti ai patrioti; come ex-deputato per il suo mutismo durante due legislazioni. E siccome il de Petriis era uno di quei romani, che non si commuovono per nulla, che hanno nel sangue l'indifferenza propria dei popoli che hanno tutto udito, tutto veduto e che sono convinti che tutto sia possibile in un mondo che varia, come il cielo alle falde del Vesuvio, lasciava dire, e il Carrani non cessava gli attacchi. E mentre da un lato Ubaldo faceva propaganda per don Pio sostenendo l'idea della stazione in Trastevere, mentre Fabio tratteneva gli attacchi della stampa di ogni partito interessando i redattori dei giornali, il Carrani demoliva l'avversario del principe con ogni mezzo, onesto o disonesto che fosse.
Don Pio non faceva nulla in tutto quel tramestio; egli pagava soltanto, pagava lautamente. In una settimana aveva speso più di centomila lire, ma siccome la duchessa, che per una antica consuetudine aveva continuato ad amministrare il patrimonio, non gli faceva osservazioni, egli non si curava di quella somma inghiottita in così poco tempo dalla compra del giornale, dalle spese per manifesti, per acquisto di voti; e baloccandosi col giornale, di cui con occhio inesperto e curioso studiava l'ordinamento, ordinava mobili per la redazione, faceva trasportare nelle sale a quelle destinate tutta la ricca biblioteca di casa, e si lasciava persuadere da Ubaldo, col pretesto che non era prudente per un giornale d'opposizione di servirsi di una tipografia che non fosse propria, a ordinare motori, macchine, caratteri e tutto ciò che è necessario per montare una grande stamperia, che doveva esser collocata in un cortile interno del palazzo, che già coprivasi a cristalli.
Il palazzo Urbani non aveva, da cinque secoli che era piantato sulle sue fondamenta, veduto mai un via vai continuo come in quei giorni che precedevano la elezione del principe, e sopratutto non aveva mai veduto uno dei suoi proprietarii scender nelle cantine, conferire con gli architetti, confabulare con gli accollatarii, e incitare gli artigiani al lavoro come se fosse un assistente.
Stanco, egli giungeva in ritardo a colazione e a pranzo, e in presenza della moglie parlava di continuo con la duchessa di quello che aveva fatto e di quel che restavagli a fare per preparare al giornale un comodo alloggio; e intanto esaminava gli articoli comparsi nella Stampa, parlava degli attacchi degli altri giornali, attacchi come di schermitori che tirassero in sala. Ogni tanto, per un affare urgente, il Rosati e l'Ubaldo mandavano un biglietto al principe, ed egli li faceva entrare, offriva loro un bicchiere di Bordeaux o una tazza di caffè, e si parlava di giornalismo, di elezioni, di probabilità di riuscita, e don Pio e la Duchessa prendevano il gergo delle tipografie e delle redazioni, e donna Camilla muta, afflitta, rimaneva estranea a tutti quei discorsi, a quella vita artificiale che ferveva in casa Urbani, dimenticata da tutti, non destando simpatie in alcuno, meno che in Fabio. Egli capiva la solitudine glaciale che circondava la signora, e ogni tanto, nel fervore di un discorso, si volgeva a lei dandole una spiegazione, cercando di associarla a quella vita senza riuscirvi.
Donna Camilla continuava a tenere gli occhi bassi, a mangiare lentamente, e appena riuscivale di schivarsi, se ne andava senza far rumore. Così procederono le cose fino alla domenica, fino al giorno delle elezioni.
V.
La domenica fissata per le elezioni don Pio non ragionava più e il palazzo Urbani pareva diventato il quartier generale di un esercito di popolani. Ogni momento entrava rumorosamente nel cortile una botte e scendeva da quella o il sor Domenico, l'oste di "Muzio Scevola", o Scortichino, l'oste del San Francesco a Ripa, o un altro popolano elettore del principe, e il principe riceveva tutti senza far fare anticamera a nessuno, era prodigo di strette di mano, di sorrisi, di incoraggiamenti, che inorgoglivano quei plebei ai cui occhi il principe ingigantiva, perchè provavano il bisogno di inalzarsi essi pure per opera di lui.
Tutti gli portavano le notizie delle elezioni. Dal seggio non si moveva Fabio; egli sorvegliava la votazione, contava i votanti, sapeva, aiutato dagli amici, chi votava per il candidato governativo e chi per don Pio, per modo che poteva a un di presso fargli il bollettino dei voti ora per ora. Se vedeva che qualcuno su cui contava, tardava a giungere, se un gruppo dal quale aveva avuto promesse di appoggio, non si presentava, spediva uno dei suoi aiutanti di campo in cerca dell'individuo o del gruppo, e l'aiutante di campo girava le osterie finchè non lo aveva trovato e poi tornava al seggio trionfante.
Per quel servizio, Fabio Rosati aveva fissato dieci botti, aveva pagato venti individui, e, calmo in apparenza, non dimenticava nulla, e, sopratutto, pensava al principe e mezz'ora per mezz'ora gli spediva qualcuno. Naturalmente la lotta era viva e in qualche momento la bilancia pendeva in favore del de Petriis, qualche altro in favore del principe. Il Governo aveva fatto consigliare ai suoi di votare per il de Petriis, e quel battaglione ubbidiva alla consegna, mentre i partigiani di don Pio, dispersi nelle osterie, dimostravano, al momento dell'elezione, più simpatia per il vino, che pagavano con i denari del principe, che per il principe stesso. Quelle dieci botti non si fermavano un momento, e Fabio, con quei bollettini vari che si succedevano a breve distanza, manteneva il principe in uno stato di continua ansietà e lo faceva passare dalla speranza al timore.
Alle sette, all'ora del pranzo, il principe fu avvertito che la minestra era in tavola, ma egli aspettava ancora il resultato definitivo dello spoglio, e non pensava neppure a uscire dalla redazione della Stampa, dove l'Ubaldo gli dava speranza, dove continuavano affluire i suoi elettori per portargli le notizie. Verso le otto la duchessa impaziente era scesa dal figlio, e quando Fabio entrò di corsa nella stanza con le braccia alzate e gridando: "abbiamo vinto!" la duchessa prese la testa di don Pio fra le mani e la baciò con effusione, quindi stese la destra ad Ubaldo e la sinistra a Fabio, dicendo loro:
—Se mio figlio è deputato, lo devo a voi due!
Il principe si contentò di sorridere; quella confessione non voleva farla; l'orgoglio di razza si manifestava in lui potente appena gli arrideva il successo, anche se sentiva che quel successo non era opera sua.
—Perchè non andiamo a pranzo?—diss'egli alla madre.—È tardi, e Rosati e Ubaldo debbono aver fame quanto me. Via, signori, salite!
—Grazie,—rispose umilmente Ubaldo.—Mia moglie è giunta ieri da Milano e non sarebbe contenta se io mancassi oggi subito a desinare.
Dacchè era riuscito a farsi dare il posto di redattore-capo della Stampa, l'Ubaldo aveva voluto cancellare tutto il passato che ognuno avrebbe potuto rinfacciargli ogni momento, aveva voluto cancellare almeno quello che si cancella, e aveva chiamato a Roma la moglie e il figlio, e prendendo in affitto una casa di dipendenza del palazzo Urbani, aveva preparato loro un quartiere semplice, ma comodo e da persone per bene.
—La signora Caruso lo scuserà; si tratta di una giornata eccezionale; la faccia avvertire da un usciere,—disse don Pio.
—L'ora del desinare è già passata da un pezzo e Maria starà in pena,—rispose l'Ubaldo, che era ben lusingato di sentirsi pregare.
Fabio Rosati nascose un sorriso, fingendo di arricciarsi i baffi, che non aveva, e quel sorriso non sfuggì a Ubaldo, il quale peraltro fu subito distratto da quel pensiero vedendo entrare sua moglie, che, accorgendosi della presenza di tanta gente, rimase inchiodata sulla porta, senza sapere se doveva avanzarsi o retrocedere.
—Vieni, Maria,—dissele il marito, facendo con molta premura alcuni passi verso di lei.—Mi scuserai del ritardo: capisco, il pranzetto che mi avevi preparato è già guasto; è una giornata eccezionale, una giornata di elezioni.
—Puoi venire adesso?—gli domandò la moglie con premura arrossendo pel sentire tutti gli occhi fissi su di lei.
—Non credo, sono invitato; abbi pazienza per una sera.
Ella abbassò gli occhi mestamente come chi vede svanire una dolce speranza lungamente accarezzata, e non disse parola.
Il principe vedendola, così afflitta andò a lei e le disse:
—Ero io che avevo pregato suo marito di passare con noi questa sera di festa, questa sera della mia elezione alla quale ha tanto validamente cooperato, ma se questo deve far dispiacere a lei, rinunzio al piacere di pranzare con suo marito.
Maria alzò i suoi occhioni verdastri e cangianti come l'onda marina, e arrossì di nuovo nel pensare a rispondere. Era una donnina modesta, semplice e d'imponente non aveva altro che la maestosa persona dritta ed elegante. Di cuore e di mente era una bambina ancora, una bambina ingenua e fresca come una rosa, che la miseria, le privazioni e l'abbandono del marito non avevano ancora sfiduciata.
Nata a Venezia nella povera casa di un pittore, che aveva l'ingegno superiore alla capacità, nata in mezzo a una quantità di fratelli e sorelle, ella si era assuefatta fino dall'infanzia a non temere le privazioni e i disagi, a ritenerli quasi compagni costanti della vita di un artista. Nella povera casa l'allegria e la serenità erano le sole cose che non facessero difetto, e il padre sapeva tener viva nella famiglia la fede in sè, la fede che un giorno o l'altro il suo ingegno avrebbe trionfato, che un giorno o l'altro sarebbe venuto un inglese, un russo o un principe tedesco, e avrebbe pagato a peso d'oro i quadretti che ora vendeva quasi per nulla ai mercanti di oggetti d'arte. Questa speranza e un culto per l'arte in tutte le sue manifestazioni, salvavano i figli dall'abbattimento e mantenevano il loro pensiero in una sfera che non era volgare. Benchè poco còlti, essi avevano un gusto naturale per tutto ciò che era bello; la vista di un bel quadro, l'udizione di un'opera, una visita in una chiesa o in un palazzo sollevavano l'anima loro come una consolazione che a tutti non è dato provare. In mezzo a quella bella e lieta famiglia, Maria rifulgeva come una statua greca del secolo di Pericle in mezzo a un gruppo di statue moderne, e la sua bellezza istessa, unita a una grande dolcezza di carattere, la facevano l'idolo di tutti.
Ubaldo, nonostante che fosse di Pisa, paese dove non mancano i mezzi d'istruzione, era stato mandato alla Scuola Commerciale di Venezia per vedere se là riuscivano a fargli imparare qualcosa, come si mandano i malati di petto da un clima in un altro con la speranza di salvar loro la vita. Ma anche alla Scuola Commerciale studiò quanto aveva studiato in patria, e, uscito da quell'Istituto, non volendo darsi al commercio come il padre, rimase a Venezia facendo il dilettante giornalista e imponendo alla famiglia gravi privazioni per mantenerlo in quella vita di ozio costoso.
Bazzicando nella redazione di un giornale, frequentando il palcoscenico dei teatri, andando ora qua ora là per fare il pezzetto di cronaca, aveva preso una infarinatura di giornalista, aveva annodate molte relazioni, e con questo fardello molto scarso si lusingava di entrare davvero nel giornalismo, magari per la porta umile del cronista, ma di entrarvi, e tanto fece che riuscì in quest'intento. La pertinacia era l'unica virtù che egli veramente possedesse; del resto, gli mancavano e il sentimento della famiglia, l'operosità, il desiderio d'imparare, l'economia decorosa, qualità tutte che sono la forza di chi discende da una schiatta di mercanti. I suoi venivano da Gaeta; da un secolo circa erano andati ad esercitare il commercio a Livorno e il padre di Ubaldo da quella città era passato a Pisa, dove aveva sposata la figlia del proprietario di una fabbrica di tessuti. Prima era divenuto direttore di quella fabbrica e poi proprietario alla morte del suocero.
Il pittore Rossetti era spesso nelle redazioni dei giornali per invitare i redattori a visitare i suoi quadri: il povero artista sperava, facendo parlare di sè, di attirare nel suo studio quei ricchi forestieri, dai quali attendeva la fortuna. Ubaldo Caruso ricevè un giorno il Rossetti e lo assicurò che presto lo avrebbe visto allo studio. Il Caruso era da poco nel giornalismo e non trascurava occasione per farai conoscere, per obbligare quanti si rivolgevano a lui; per questo si affrettò a mantenere la promessa e un dopopranzo, terminata la cronaca, andò dal Rossetti.
Lo studio del vecchio artista era messo con un certo gusto; non vi erano oggetti di valore, ma le stoffe antiche un po' sbrandellate coprivano i muri, le porcellane di Venezia erano posate sui mobili tarlati; e sui divani erano gettati dei tappeti turchi molto vecchi.
Tutte quelle tinte miti si fondevano in un tutto armonioso, che accarezzava dolcemente l'occhio e faceva da cornice a una stupenda figura di giovinetta che, seduta davanti all'artista, sopra un ripiano di legno, servivagli di modella per una Desdemona.
Ella arrossì lievemente vedendo entrare un estraneo e sollevò il capo dai guanciali che le facevano da sostegno.
—Il signor Caruso, redattore del Tempo,—disse il vecchio stringendo la mano con effusione al giornalista.—Mia figlia minore, la mia Maria.
Ubaldo gettò uno sguardo sul quadro, che rappresentava Desdemona in atto di ascoltare il racconto delle battaglie di Otello, lo lodò immensamente e disse che se quel quadro era riuscito così, era merito non solo dell'autore di esso, ma anche della bellezza della signorina.
Il vecchio artista, lieto di quelle lodi prodigate all'opera sua e alla figlia prediletta, non permetteva più che l'Ubaldo se ne andasse. Con quella parlantina tutta propria dei veneziani, ei gli manifestava le sue speranze, speranze che i disinganni non erano riuscite a scemare, gli parlava con fede dell'arte, delle consolazioni che dà a chi l'ama e la coltiva, e ripetevagli sempre:
—Che peccato che il signore non sia artista!
Il Caruso pareva che prestasse molta attenzione alle parole del Rossetti, ma invece guardava molto la bella Maria, la quale lo accompagnava nella visita allo studio strascinando sul pavimento un vecchio vestito di antica stoffa gialla, che aggiungeva maestà alla imponente figura di lei e ne faceva meglio risaltare i nerissimi capelli chiusi nella reticella d'oro. Ella, al contrario del padre, parlava pochissimo, ma la sua voce era così dolce, così carezzevole, che chi l'udiva credeva sempre di sentire susurrare all'orecchio parole affettuose, che scendevano dritte al cuore, e la parola ella accompagnava con un abbassare così lento delle pesanti palpebre da far credere a chi la guardava, che ella capisse il fascino che esercitava, e quasi ne fosse vergognosa.
Ubaldo Caruso s'invaghì subito di Maria, e non potendo dirle quello che gli ispirava perchè la ragazza non si scostava mai dal padre e ogni tanto posavagli in atto carezzevole la testa sulla spalla, la guardava di continuo e le faceva salire a vampe il rossore fino alla fronte e alle orecchie.
Naturalmente l'Ubaldo scrisse il giorno dopo sul Tempo un articolo molto laudativo per il Rossetti e trovò modo di vantare la splendida bellezza della figlia, che aveva servito di modella al quadro di Desdemona. In redazione si burlarono molto di lui per l'ammirazione tributata a un artista invecchiato nell'oscurità, ma i colleghi dell'Ubaldo andarono allo studio del Rossetti e tutti rimasero incantati della figlia. Intanto il pittore dedicò a colui che gli aveva procurato tutte quelle visite di giornalisti una grande riconoscenza. Non si sentiva più ignorato e questo lo doveva ad Ubaldo, e glielo diceva e glielo dimostrava ammettendolo in casa sua, in mezzo a quella numerosa e geniale figliolanza, dove la miseria non era riuscita a offuscare la serenità e l'allegria.
Era d'autunno e a Venezia affluivano molti forestieri del Nord, diretti a Nizza, a Cannes, a Roma e a Napoli. Mercè le preghiere dell'Ubaldo, due altri cronisti parlarono del Rossetti e del suo ultimo quadro, che fu venduto davvero a una signora russa, e l'artista ottenne commissioni da altri forestieri.
La gioia del vecchio non ebbe limiti, come non ebbe limiti il suo affetto per Ubaldo. Lo trattava come un figlio, come il suo figlio prediletto, e non faceva altro che parlare di lui, mentre il giovane approfittava della ospitalità accordatagli in casa Rossetti, per dimostrare il suo amore a Maria, la quale accoglieva quegli omaggi senza entusiasmo.
Non era amore, amore nel senso alto e nobile della parola, quello che ella ispirava ad Ubaldo; era un capriccio, una passione sensuale che, appunto per la impossibilità di esser soddisfatta, si faceva irritante e prendeva del vero amore tutte le apparenze. In quella famiglia onesta, dove le ragazze erano sempre circondate dai genitori e dai fratelli, era impossibile pensare a una seduzione, e Maria, modesta e onestissima, non avrebbe commesso mai un fallo, anche se fosse stata dominata dall'amore, e amore non ne provava per Ubaldo, come non ne aveva mai provato per nessuno. Era stata assuefatta a pensare che una ragazza non deve amare altri che l'uomo che i genitori le presentano come sposo; aveva veduto le sorelle inoltrarsi negli anni, senza mai far parlare di se, senza mai soggiacere a una passione, serbando sempre il cuore al marito, che un giorno speravano le avrebbe tolte di casa per far di loro buone e oneste madri di famiglia, e Maria voleva fare come le altre. Così quando Ubaldo le diceva alla sfuggita qualche parola d'amore, ella abbassava le pesanti palpebre e arrossiva, non già perchè il cuore fosse turbato da quelle parole, ma perchè le parevano un insulto al suo pudore di donna. Ella non osava rispondergli duramente, perchè divideva la gratitudine che il padre aveva per lui, e capiva che quel benessere relativo di cui godevano era opera di Ubaldo, capiva che se le speranze del vecchio e di tutta la famiglia erano state una volta appagate, lo dovevano a lui, ma non lo incoraggiava punto e si manteneva modesta e pudica come era stata sempre.
Quel contegno e il vederla sempre irritavano la passione di Ubaldo per Maria. Egli, dopo un anno di tentativi inutili per farsene una innamorata, avevala chiesta al vecchio pittore il quale avevagli detto:
—Ma prendila, prendila subito, è la più bella cosa che possiedo e sono lieto di dartela.
Il Rossetti nel dir questo non aveva pensato alla famiglia di Ubaldo la quale avrebbe dovuto farsi viva e mandare il consenso, e neppure alla possibilità che Maria rifiutasse l'offerta.
Dalla parte di casa Caruso l'ostacolo fu appianato con una gita a Pisa del figlio, il quale come tutti i figli unici ottenne il consenso quando disse che se non poteva sposare Maria si sarebbe ucciso.
Dalla parte di Maria la resistenza fu più lunga e più seria. Una lotta tremenda si combatteva in lei fra il desiderio di contentare il padre, che tanto desiderava quel matrimonio, e la voce della fede che le diceva di commettere una specie di sacrilegio sposando un uomo che si burlava della religione e al quale sarebbe stata unita soltanto dal vincolo di un contratto civile. Ubaldo si accorse che Maria con lui si sarebbe mantenuta sempre sulla negativa, perchè non lo amava e non si sarebbe mai lasciata intenerire dalle sue preghiere. Allora cessò d'importunarla con suppliche e con lettere, e si mise alle costole al padre, e tanto e così bene seppe raggirarlo, che un giorno il Rossetti con le lagrime agli occhi supplicò la figlia di sposare Ubaldo. Maria non seppe resistere e lo sposò, facendosi per altro giurare che le avrebbe lasciato piena libertà di praticare la religione cattolica e che i figli che sarebbero nati dalla loro unione avrebbero tutti avuto il battesimo e sarebbero stati educati religiosamente.
Ubaldo promise tutto quello che Maria voleva, e Maria lo amò appena sposatolo perchè ella era di quella pasta di donne che non sanno voler bene che al marito. Per due anni quell'unione fu felice, ma poi, morto il padre del Caruso e trovatosi Ubaldo possessore di alcune decine di mila lire, lasciò il posto modesto occupato fino a quel giorno nella redazione del giornale Il Tempo, e volle andare a Milano con la speranza di trovar lavoro più lucrativo in quel campo più vasto del giornalismo italiano.
Quella risoluzione del marito cagionò a Maria un vivo dolore. Ella non era mai uscita da Venezia, non aveva mai lasciato passare un giorno senza andare a casa dei suoi, e ora doveva abbandonare la città, che era il suo mondo, la famiglia che adorava. Nonostante, non importunò Ubaldo con i suoi rammarichi e le sue lagrime. Ella ubbidì senza lamentarsi, poichè l'ubbidienza era la sua virtù, e poichè credeva che la moglie non dovesse avere altra volontà che quella del marito.
A Milano, Ubaldo prese un bel quartiere in via Brera, lo ammobiliò con eleganza, volle che la moglie si vestisse bene, e per i primi tempi non fece altro che le corrispondenze per Il Tempo di Venezia. Questa sua qualità di corrispondente lo mise in rapporto con molti giornalisti; si seppe presto che aveva un piccolo patrimonio e una bellissima moglie, e la sua casa divenne un punto di ritrovo. Tutti gli facevano delle cortesie, era invitato, aveva continuamente palchi per i teatri ed ebbe anche l'offerta di entrare nella redazione della Gazzetta di Lombardia, giornale pettegolo che basava la sua diffusione sullo scandalo, ma che non viveva floridamente e cercava sempre il mezzo per tirare avanti un altro trimestre. Ubaldo Caruso accettò l'offerta e fu ben lieto di poter scrivere di politica e di non sentirsi più chiamare cronista. Però ebbe a pagare a caro prezzo quella soddisfazione. Nei giorni di bisogno il direttore della Gazzetta ricorreva a lui, gli faceva credere che presto gli avrebbe potuto restituire la somma che gli chiedeva, portando a termine questa o quella combinazione finanziaria, e Ubaldo dava senza lesinare, cullandosi nella speranza che alla fine il giornale gli sarebbe rimasto. E su quella speranza basava tutti i calcoli per l'avvenire, si vedeva diventato di punto in bianco un uomo influente, un uomo che i ministri dovevano trattare da pari a pari, che dirigeva l'opinione pubblica, aveva influenza sulle elezioni e poteva aspirare a tutto.
Un giorno la Gazzetta di Lombardia, gli rimase infatti, perchè il direttore non sapeva come tirare più avanti e non poteva rendere al Caruso le somme prese in prestito da lui.
Quel giorno per Ubaldo fu un giorno di gioia, seguito da molti di grande amarezza. Egli tenne gli antichi redattori per avere il piacere di farla da direttore e proprietario con quelli che erano stati suoi colleghi, e dette al giornale un carattere di opposizione al governo, al municipio, alle autorità, sperando di farsi ascoltare, e, sonando sempre a vituperio, di reclutare lettori in tutta la grande falange dei malcontenti.
Ma questo calcolo, che è giusto quando un giornale si appoggia a un partito, e ha molti mezzi per parare i colpi che gli vengono dal governo e dal suoi sostenitori, è sbagliato quando un giornale non ha base politica, non è sostenuto da nessuno, è povero e chi lo dirige non conosce l'arte del ricatto che sfugge all'azione del Codice penale.
Le poche migliaia di lire che restavano ad Ubaldo furono inghiottite in breve tempo dalle spese quotidiane, dai processi per diffamazione, da tutto quel patrimonio di passività che il vecchio direttore aveva lasciato come sola eredità al nuovo.
Ubaldo, non sapendo come rimediare, si dette a giocare alla Borsa; ebbe da principio la disgrazia di vincere, giocò allora con più ardore, perdè, perdè sempre, perdè tanto che a una liquidazione a fine mese non potè pagare le differenze e fu affisso alla Borsa. Senza credito, senza mezzi, senza il giornale, non sapendo a qual partito appigliarsi, fece le valigie e andò in Svizzera lasciando a Milano la moglie e il bambino, che eragli nato da poco più di un anno.
La dolce creatura, che aveva sopportato così serenamente la miseria nella casa paterna, non ebbe una parola di rimprovero nè un pensiero di biasimo per il marito che l'abbandonava. Lasciò che i creditori prendessero tutto ciò che vi era in casa, e si ridusse a vivere in una modesta cameruccia, benedicendo l'uomo che per cinque anni le aveva procurato una esistenza comoda e avevale fatto conoscere i piaceri della vita.
Prima di dar fondo alle poche centinaia di lire che ella economizzando aveva messe da parte, cercò una occupazione. Sapeva dipingere i fiori ed ebbe lavoro da una fabbrica di terraglie. Ma una bella donna come Maria, che per qualche tempo tutti avevano veduta alle prime rappresentazioni ai teatri, alle inaugurazioni e a ogni festa ove il giornalismo è invitato, non sparisce senza che qualcuno non s'informi di lei, non sparisce senza essere rimpianta. Molti amici del marito la cercarono, seppero dove stava, che vita sacrificata ella faceva e vollero aiutarla e consolarla, ma ella onesta com'era, respinse sdegnosamente tutte le offerte, cercò di sottrarsi a ogni persecuzione e lavorò sperando in giorni migliori.
Ubaldo, dopo aver passato alcuni mesi molto travagliati in Isvizzera, ottenne da certi parenti ricchi, che aveva a Livorno, i mezzi per andare a Parigi sperando di divenire colà il corrispondente di qualche giornale italiano, e dopo lungo attendere vi riuscì mercè la sua pertinacia. Ma appena ottenuta quella occupazione egli si lasciò trascinare a far vita dispendiosa, giocò, si indebitò di nuovo fino agli occhi e dovette lasciare Parigi, come aveva lasciato Milano, e venne diritto a Roma, dove capita tutta la gente che non sa che cosa fare altrove; venne a Roma senza mezzi, ma ricco di esperienza acquistata, e ricominciò la vita del corrispondente.
Non era un bello scrittore, ma l'amarezza, il fiele che lo rodevano, lo spingevano a raccogliere tutte le voci che potevano recar disdoro a qualche personalità spiccata, a macchiare qualunque individuo o istituzione. Egli fu presto conosciuto nei ritrovi serali dei corrispondenti al telegrafo; le sue corrispondenze furono lette, ebbe dei duelli con esito favorevole per lui, e fu temuto e guardato dai compagni come un flagello, del quale sarebbe stato opportuno di liberarsi, senza saper come.
I modesti guadagni che faceva non bastavano ad appagare le sue abitudini costose e così cercò di mischiarsi in qualche affare, fece acquistare dei terreni, ma ancora non era pago e cercava, cercava sempre il mezzo di far fortuna, quando credè di averlo trovato la sera della cena elettorale di don Pio. Capì che nel principe l'ingegno era molto inferiore all'ambizione, e che le forze non gli sarebbero bastate per farsi eleggere e poi per sostenere da solo il mandato, e sognò di rendersi indispensabile a lui, di essere la sua mente, l'anima di quell'uomo, che parevagli soltanto un fantoccio animato dalla vanità. Fabio lo aiutò mirabilmente proponendo l'acquisto del giornale.
In quei due anni Ubaldo si era poco rammentato della moglie. Egli sapeva che la povera donna lo avrebbe amato sempre e che la sua onestà l'avrebbe protetta da qualsiasi pericolo. Qualche volta a Parigi uscendo la mattina da una casa di giuoco dopo aver guadagnato alcuni rotoli di monete d'oro, era andato al telegrafo e aveva mandato alla moglie qualche centinaio di lire. In quell'ora triste gli pareva di vedere la sua bella Maria intenta a dipingere terraglie, stanca, assonnata, e quella visione non gli dava tregua finchè il telegramma non era partito; poi non pensava più a lei, afferrato di nuovo nell'ingranaggio delle preoccupazioni incessanti.
Ora l'aveva ritrovata sempre bella e serena, senza che dalla bocca di lei fosse uscita una parola di rammarico per quei due anni di abbandono. E appunto quella dolcezza di cui ella dava prova aveva intenerito il cuore cinico del marito, che, rivedendola, se ne era incapricciato come prima di sposarla. Ma ora ella non ispiravagli soltanto un rinnovamento di desiderio; gl'incuteva anche rispetto, rispetto per la sua onestà e per il suo dolce animo femminile, ed egli la circondava di un culto, credeva in lei come si crede in una idea incarnata in una persona.
Egli non volle in quel momento di confusione prolungare l'impaccio di Maria e prese il cappello per uscire insieme con lei, quando donna Teresa, che aveva osservato a distanza la bella creatura, le si avvicinò e dissele:
—Io non ho il bene di conoscerla, ma dopo i discorsi che ho inteso fare non posso ignorare che ella è la moglie del signor Caruso; perchè invece di toglierci suo marito, non accetta ella pure il nostro invito?
Merla arrossì e alzò i suoi occhioni in faccia al marito.
—Dal momento che la signora duchessa è così cortese di pregarti, accetta pure,—le disse Ubaldo.
In quel momento entrò correndo l'onorevole Carrani, gettò il cappello sopra una sedia e stendendo la mano al principe, esclamò:
—Dunque la posso chiamare collega, dunque abbiamo vinto, vinto, stravinto! Sa che il presidente del Consiglio è su tutte le furie, che ha chiamato il Prefetto e il Questore e li ha rimproverati del loro poco zelo? Ora La Stampa diverrà il primo giornale d'Italia, e l'avvenire è nelle nostre mani.
L'onorevole Carrani parlava con impeto, aveva le movenze pronte e il corpo singolarmente agile e smilzo. Negli occhi gli brillava l'intelligenza e sulla bocca aveva sempre un sorriso sardonico e iroso. Ora l'idea di aver procurato una pena al presidente del Consiglio, che odiava perchè lo aveva voluto escluso dal rimpasto ministeriale, qualificandolo come elemento di disordine, lo consolava di molte amarezze ingoiate con rabbia, e la speranza di combatterlo con piena libertà nel giornale di cui era l'anima, la speranza di abbatterlo un giorno e di esser presidente in sua vece, lo ubriacava quasi.
—L'onorevole Carrani,—disse il principe presentando l'uomo politico alla madre e alla signora Caruso, che erano rimaste a parlare insieme.
—Spero che ella pure vorrà pranzare con noi; stasera è un pranzo giornalistico e tutti quelli che hanno contribuito all'elezione di Pio debbono bevere lo champagne: via, signore, andiamo a metterci a tavola.
La duchessa Urbani infilò il braccio in quello dell'onorevole Carrani, mentre don Pio offriva il suo a Maria e s'incamminava prima attraverso il cortile e poi su per le scale.
Donna Camilla, leggendo un libro di preghiere, aspettava nell'ampia sala da pranzo. Nel sentire aprire la porta si alzò e fece alcuni passi, ma alla vista di tutta quella gente rimase perplessa, e alzò in faccia al marito uno sguardo freddo e interrogativo.
—La signora Caruso,—disse don Pio per tutta risposta.—Sono eletto e ho invitato tutti coloro che mi hanno aiutato in questo lavoro d'Ercole.
—Io non ho fatto nulla,—disse Maria inchinandosi dinanzi alla principessa, che la salutò freddamente.
La duchessa presentò alla nuora l'onorevole Carrani, ed ella appena chinò la testa dinanzi a lui.
Intanto i servitori, diretti dal maestro di casa, avevano apparecchiato per i quattro invitati e dopo cinque minuti don Pio conduceva a tavola Maria, faceva sedere il Carrani fra la madre e donna Camilla, e indicava al Rosati il posto in mezzo alla moglie e alla signora Caruso, ponendosi a fianco Ubaldo, che rimaneva collocato così fra lui e la duchessa.
A don Pio se mancava la cultura seria, non mancava però la perfetta educazione e la scienza di saper ricevere e di fare con garbo squisito gli onori di casa. Nessuno si sentì a disagio quella sera a pranzo a casa Urbani, neppure Maria, che metteva per la prima volta il piede in una casa aristocratica e conosceva allora tutta quella famiglia. La duchessa pure sapeva ricondurre la conversazione sugli argomenti che potevano interessare il Carrani e il Caruso, e avendo sentito dall'accento che Maria era veneziana, le parlava con entusiasmo di Venezia lodando la grazia e la cortesia delle donne di quella città. L'intelligenza della duchessa, il suo talento d'assimilazione, che è un dono di razza e che quasi tutti i gran signori possedono, le teneva luogo di coltura, e, ragionando di politica, d'arte, di affari, ella non si trovava mai a corto di parole e d'idee; quella sera, in cui voleva fare effetto su tante persone nuove, seppe far valere tutte le sue qualità e destò un vero entusiasmo nel Carrani, nel Caruso e in Fabio Rosati, col quale aveva avuto frequenti abboccamenti nei giorni antecedenti.
Don Pio non badava alla madre; egli era sotto il fascino della bellezza di Maria, della sua freschezza d'impressioni, di quella maniera ingenua e schietta di esprimerle, di quella grazia che fa delle veneziane le donne più attraenti d'Italia. Tutti erano lieti a quella tavola, tutti lo dimostravano. Lieti dell'avvenimento della giornata, lieti di quella improvvisata, lieti dei discorsi scambiati, meno che donna Camilla. Pareva che ella non capisse ciò che dicevano, non le importasse di nulla, che biasimasse l'allegria, e l'occhio freddo di lei si staccava a stento dal piatto. Rispondeva con monosillabi se interrogata, e pareva che col suo contegno freddo e compassato dicesse ai convitati: "Stasera vi tollero perchè mi siete imposti, ma non siete miei pari e non ho nulla di comune con voi." La freddezza della principessa della Marsiliana non alterava per altro la generale allegria. Si beveva e si parlava senza badare a lei, e la banda, accorsa nel cortile del palazzo, suonava un pezzo dopo l'altro sperando di avere un bel regalo dal principe, mentre Ubaldo esponeva la necessità di dare un grande sviluppo alla Stampa, di farne un giornale pieno di notizie telegrafiche dalle capitali estere e dalle città italiane, un giornale che non avesse rivali per informazioni. Con molta chiarezza egli esponeva il suo piano. La Stampa doveva accogliere tutte le lagnanze, tutte le accuse contro le amministrazioni pubbliche. Anche se poi fosse costretta a smentirle, pure la sfiducia restava negli animi e bisognava sopratutto sfiduciare il paese, assuefarlo a dubitare del governo e degli uomini che erano al potere, se si voleva rovesciarli e portare al timone un partito più spinto di cui il rappresentante non poteva essere altri che l'onorevole Carrani.
Il deputato progressista approvava naturalmente le parole di Ubaldo ed egli continuava nella sua esposizione.
La Stampa, egli diceva, doveva penetrare in tutti i paesi di provincia, e questo si poteva ottenere interessandosi a tutte le questioni locali, questioni di elezioni comunali, questioni di abusi di funzionari pubblici, pettegolezzi. Doveva inoltre e sempre sostenere tutti i membri dei partito progressista e radicale...
—Radicale!—esclamò la duchessa.
—Sì,—rispose Ubaldo inchinandosi,—perchè oggi siamo progressisti, poichè questo partito, fra quelli ammessi, è il più avanzato; ma domani possiamo essere radicali, se il partito radicale acquista terreno, distrugge la sfiducia che hanno in esso tutte le persone d'ordine...
—Come me,—osservò scherzando la duchessa.
E l'Ubaldo ridendo a denti stretti, rispose:
—Precisamente.
—Sfiducia che io non divido,—osservò l'onorevole Carrani, che era accusato appunto dalle persone d'ordine, di far l'occhiolino a quel partito.
—In fatto di religione,—continuò Ubaldo accomodandosi la lente e senza badare alle occhiatacce che gli lanciava Fabio,—bisogna combattere il Papato con le stesse armi con cui si combatte il governo; far morire la fede screditando chi la predica.
La principessa della Marsiliana, cui nessuno fino a quel momento aveva badato, si era alzata, e, inchinando leggermente la testa, pallida in volto come una morta, si avviava per uscire.
—Camilla!—disse il principe con voce di rimprovero.
Fabio Rosati era balzato in piedi e accompagnava la principessa, senza che ella neppur lo guardasse. Un servo corse a spalancare la porta e la richiuse dietro a lei.
—Mio Dio, che cosa ho mai detto?—domandò Ubaldo guardando in faccia tutti i commensali.
—Niente, niente di male,—rispose il principe ridendo col suo riso cinico.—Lei ha dato argomento alla principessa per dieci confessioni e per altrettanti esercizi spirituali.
—Continui a esporre il suo programma,—disse la duchessa che ascoltava attentamente.
Maria, turbata dalla scena muta di donna Camilla, da quell'atto di scortesia fatto agli invitati, era impallidita e aveva guardato il principe in atto supplichevole.
—Scusi,—le disse don Pio sottovoce stringendole la mano,—tutti abbiamo una afflizione da portare, io ho quella,—e volgeva l'occhio alla porta dalla quale donna Camilla era uscita.
—Poveretto!—disse Maria, non sapendo bene se il principe con quella confessione voleva alludere allo stato mentale della principessa, o alle esagerate opinioni clericali di lei. Ma il dubbio le entrò nell'animo che donna Camilla fosse pazza.
—Inoltre,—continuò Ubaldo,—noi dobbiamo accaparrarci gran numero di lettori solleticando anche le passioni.
—Come sarebbe a dire?—domandò la duchessa che non perdeva una parola.
—Le passioni letterarie,—soggiunse Ubaldo,—e questo si potrà ottenere accaparrando lo scrittore più in voga, che pagheremo lautamente e che scriverà quello che gli parrà. Presentato dal principe egli potrà entrare in tutti i salotti romani. Potrà vedere quello che nessun giornalista vede: svelare Roma aristocratica, Roma vera a tutti gli italiani, e quella cronaca avrà per il borghesuccio, per l'impiegato, per il provinciale una singolare attrattiva. In quanto a romanzi, si debbono pubblicare soltanto quelli di Zola.
—Saranno molto istruttivi per le ragazze e i ragazzi specialmente!—disse la duchessa ridendo.
—Non fa nulla, la nuova generazione è assuefatta a saper tutto, a non scandalizzarsi di nulla. Ora è una ipocrisia quella di far credere che i ragazzi e sopratutto le ragazze non sanno; esse sono più istruite di noi; la Stampa deve distruggere tutte le ipocrisie.
—Il mio amico Ubaldo ha perfettamente ragione ed ha capito la missione di un giornale d'opposizione come nessuno l'ha capita fin qui,—disse l'onorevole Carrani.
Era la prima volta che Ubaldo ai sentiva chiamare amico dall'ex-ministro e gongolò dentro di sè, mentre col capo ringraziava dell'approvazione.
—Ma questo giornale costerà sette o ottocento mila lire l'anno!—disse la duchessa che aveva una speciale disposizione per il calcolo e una grande pratica di affari.
—Se costasse anche un milione,—rispose Ubaldo,—questa somma non sarebbe gettata. La Stampa fra un anno tirerà centomila copie, incasserà duecentomila lire dalla quarta pagina, permetterà al suo proprietario di partecipare a tutte le grandi combinazioni finanziarie e sarà sostenuta dal partito.
—Il nostro è povero,—osservò l'onorevole Carrani.
—È povero ora, ma non sarà più tale fra sei mesi. Noi ci varremo delle vacanze parlamentari per acquistar diffusione, avremo un redattore in ogni luogo di bagni, in ogni stazione climatica, e, mentre ci accaparreremo i lettori fra il pubblico ricco e ozioso, troveremo mezzo di scovare una questione, o più questioni, che destino una eco fra gli italiani di tutte le province; per esempio, chiederemo l'abolizione della tassa sul sale, commoveremo il pubblico col quadro della miseria dei poveri pescatori dell'Adriatico e del Tirreno, costretti a fare il contrabbando di quell'alimento necessario pur non mangiare i fagioli senza sale; faremo il quadro dei miseri abitanti del Veneto, obbligati a mangiare la polenta sciocca, cotta nell'acqua; parleremo della pellagra, della scrofola, di tutti i mali che nascono da quella privazione, e tanto faremo, tanto tempesteremo che al riaprirsi della Camera dovrà farsi una crisi, e se il vecchio canuto, che ora la fa da dittatore, dovrà conservare la presidenza del Consiglio, dovrà accogliere nel seno del gabinetto degli uomini, che noi gl'imporremo, e allora il partito non sarà più povero, allora La Stampa avrà appoggi materiali.
—Ma lei è un Talleyrand!—esclamò la duchessa che non aveva perduta una parola di quel discorso.
—No, signora duchessa, sono un ambizioso, senza mezzi e senza capacità. Appartengo a una famiglia che si è arrabattata in ogni tempo e in ogni luogo, non per conquistare beni ideali, ma per assicurarsi l'agiatezza, e, come se la disdetta che pesa su questa famiglia volesse esercitare su di me la sua legge di continuità, io sono stato sempre schiacciato dalla mancanza di mezzi, dalla mancanza di coltura, dalla mancanza di energia. Per questo io espongo a loro il mio programma perchè se ne impossessino, perchè lo svolgano, e lo applichino salvandolo dalle mie mani incapaci a tanto lavoro.
Ubaldo continuò:
—Lei, principe, ha i mezzi, ha l'intelligenza e ha l'energia,—disse ninnando la testa con fare cortigianesco dinanzi a don Pio,—lei, onorevole Carrani, ha la forza, la coltura, l'influenza. Io non sono, e non voglio essere altro che lo sbozzatore di una colossale statua moderna, loro sieno gli artefici che danno alla statua l'impronta dell'arte, l'impronta del genio!
Alzò la coppa ricolma di champagne e stese il braccio verso il principe e verso l'onorevole Carrani. Tutt'e due cozzarono il bicchiere e la duchessa accostò pure il suo a quello del signor Caruso e degli altri. Maria, con gli occhi luccicanti dalla gioia esultava vedendo il marito dar prova d'intelligenza, vedendolo ascoltato e apprezzato da gente altolocata. Fabio solo taceva umiliato e il sentimento della sua inferiorità gli metteva nell'animo una grande tristezza. Aveva sognato di essere lo scalino del quale il principe si sarebbe servito per salire, e invece vedeva un altro, più intelligente, più esperto, più abile di lui, chinare la schiena volonterosa e offrire a don Pio il mezzo d'inalzarsi.
Le lodi per il discorso di Ubaldo, per la chiarezza con cui vedeva il lavoro da farsi e il premio da conseguire, non finivano più. Il principe, l'ex-ministro, la duchessa bevvero alla salute di lui, poi alla salute della bella signora Caruso, e rimasero lungamente a parlare dopo aver preso il caffè. Don Pio, ora che la principessa aveva abbandonato il campo, raddoppiava le attenzioni per Maria. Scelse le più belle fra le rose che ornavano la tavola e gliene formò un mazzo, e quando ella disse al marito che era ora di andare a casa, don Pio ordinò che fosse attaccato il coupé, l'accompagnò fino in fondo alle scale, e baciandole la mano con molta galanteria, le domandò il permesso di andarla a visitare.
—Mia cara,—disse Ubaldo a Maria quando furono entrambi seduti nel coupé del principe della Marsiliana,—se non faccio fortuna è perchè sono nato sotto una cattiva stella, o c'è qualche iettatore che mi ha preso di mira.
—Come ti voglio bene!—gli disse la buona donna posandogli la testa sulla spalla e pensando solo al trionfo del marito e non al suo.
Donna Camilla, che vegliava nella sua camera solitaria, che non si coricava mai prima di aver sentito uscire Giorgio dalla stanza di don Pio, attese anche quella sera inutilmente il marito, e divorando senza piangere la rabbia che provava per tutti quei cambiamenti sopravvenuti in casa Urbani negli ultimi giorni, per tutti quegli intrusi che erano entrati nel palazzo, e soprattutto per quella bella creatura che attirava tutta l'attenzione di don Pio e nella quale intuiva una rivale, non potè dormire neppure quando fu sicura che tutti si erano addormentati, e non potè pregare. Ella rimase tutta la notte alzata a pensare all'avvenire che l'attendeva, un avvenire molto più triste del passato, un avvenire di completa solitudine e di tremendo abbandono; e spaventata dal quadro che la sua fantasia le poneva dinanzi agli occhi, ripeteva a sè stessa stringendo i denti:
—Sono una Grimaldi, devo lottare, e per il nome che porto e per la razza che rappresento, e non devo abbandonare il mio posto.
VI.
Sul di dietro del palazzo Urbani, e dove un tempo sorgeva un gruppo di case destinato ai famigliari della antica casa, ora inalzavasi un edifizio, nel quale il ferro e il cristallo rappresentavano una parte importantissima. Le colonne, che servivano di ornamento fra una finestra e l'altra, i terrazzi, i pilastri, tutto era in metallo, mentre le immense superfici di cristallo, collocate una accanto all'altra facevano somigliare quella casa a un acquario.
Una sera, sette mesi dopo che don Pio della Marsiliana era stato eletto deputato, quella casa, che nel centro della facciata portava scritto a caratteri dorati La Stampa, scintillava di luce. Sul cornicione correva un filo di fiammelle di gaz e quell'ornamento luminoso si ripeteva lungo tutti i terrazzi, giro giro alle tre porte grandiose, una delle quali metteva alla redazione, una all'amministrazione e la terza alla tipografia, che occupava tutto il sottosuolo e dalla quale si sentivano partire i boati delle macchine in azione. Quella sera, ogni momento giungevano carrozze che deponevano invitati e signore sotto l'ampia tettoia di cristallo, e molti uomini in cravatta bianca salivano continuamente lo scalone coperto di tappeti e ornato di piante.
In tutta la città erano stati diramati inviti per l'inaugurazione della prima casa che un giornale possedesse a Roma, ma quegl'inviti più specialmente erano stati accettati dai deputati, dagli artisti e dai giornalisti.
Gli onori di casa erano fatti da Ubaldo Caruso e da Fabio Rosati, i quali pareva fossero fra loro pane e cacio, benchè, gelosi com'erano uno dell'altro, si disputassero continuamente alla sordina il dominio sull'animo di don Pio.
Il redattore-capo e il cronista, tutti e due in giubba e cravatta bianca, stavano in cima alle scale, in un salottino che metteva nella grande biblioteca, e lì salutavano quelli che giungevano, si presentavano scambievolmente le persone che non conoscevano; e se arrivava una signora, erano pronti a offrirle il braccio per condurla in sala, dove Maria, seduta sopra una ottomana fra la moglie dell'onorevole Carrani e donna Teresa Sorani moglie di un ex-presidente del Consiglio, accoglieva col suo fare schietto e disinvolto le signore che le venivano presentate, e sapeva farsi ammirare da loro, come si faceva ammirare dagli uomini. Ella indossava un vestito di merletto nero, non aveva altro che due perle agli orecchi, e in testa un grande cappello Rembrandt, dalla tesa spiovente, coperto di lunghe penne di struzzo. Con una mossa di persona freddolosa, che le dava tanta grazia, ella si riportava ogni tanto sulle spalle la pelliccia di velluto amaranto guarnita di martora, e quella mossa la faceva somigliare a una donna impaurita, che cercasse rifugio in qualcuno, in qualcosa.
In fondo all'ampia sala, la cui pareti erano rivestito di scaffali, dove don Pio aveva fatto collocare la biblioteca di casa Urbani, era preparato un pianoforte a coda per gli artisti dell'Apollo e del Costanzi, che dovevano cantare dopo il ballo. Don Pio, dritto in un angolo, parlava con due principi, onorevoli come lui, e con altri tre o quattro deputati meridionali appartenenti al patriziato. Appena il principe era in mezzo a giornalisti, voleva far loro capire che non li considerava suoi pari, e se poteva circondavasi di antichi conoscenti. Anche quando era negli uffici di redazione, gli piaceva di far da principe, di far sentir la distanza che correva fra lui e i plebei, e Fabio Rosati, che aveva capito quella debolezza, si era affrettato a trattarlo d'"Eccellenza" e i nuovi redattori venuti da altri giornali avevano fatto altrettanto. Soltanto Ubaldo aveva continuato a chiamarlo "Principe", e non perchè gli costasse fatica a pronunziare quella parola di cui si abusa nel mezzogiorno d'Italia, ma perchè gli pareva a sua volta di stabilire una distanza fra sè e gli altri redattori della Stampa, trattando il principe della Marsiliana con maggior familiarità.
In quei sette mesi Ubaldo aveva scossa la naturale inerzia, e si era dato ad applicare il programma di don Pio, e nell'applicazione di quel programma aveva dato prova di una grande pertinacia. La Stampa non era giunta a tirare centomila copie, ma già da tre era salita a quarantamila, cifra altissima rispetto agli altri giornali della capitale. Nei teatri, nei caffè La Stampa era nelle mani di tutti, e il pubblico si interessava alle polemiche violente che vi si facevano anche per le quistioni più insignificanti. Messi sulla via dell'opposizione a oltranza, tutti i redattori pareva che avessero acquistato nuova energia in quella battaglia continua in cui l'on. Carrani e Ubaldo si sostenevano, il primo trattando le quistioni di politica interna, e soprattutto le quistioni di economia nelle quali era competentissimo; il secondo attaccando la politica incerta del Governo rispetto all'estero, e le quistioni municipali. Il principe discuteva, approvava, era soddisfatto della influenza che gli dava il suo giornale, e pagava, soprattutto pagava. L'edifizio per la redazione della Stampa gli era costato ottocentomila lire, e il giornale in sette mesi ne aveva ingoiato altre trecentomila, ma ora aveva una tipografia bellissima, quattro macchine rotative, aveva abbonati, lettori e credito in tutte le parti d'Italia.
Le notizie che a caro prezzo La Stampa si procurava nei Ministeri, qualche volta avevano l'onore di una smentita ufficiale, o di una rettifica e allora don Pio gongolava, e il signor Caruso più di lui. Egli voleva che il giornale incutesse timore ai governanti, voleva che non movessero foglia senza pensare alla censura accanita della Stampa, e a questo in parte era riuscito. Come era riuscito a farsi, che un'antica lite fra il Municipio e la famiglia Urbani per la sistemazione di una strada laterale al palazzo, fosse composta all'amichevole, e che il Municipio pagasse per l'espropriazione di una striscia di terreno due milioni sonanti, che avevano coperto le spese di costruzione, e le spese vive del giornale, senza che il patrimonio Urbani ne risentisse nulla.
Incoraggiato da quel primo successo, don Pio non sognava altro che speculazioni. Ubaldo gli aveva fatto intendere che Roma doveva prendere maggiore sviluppo edilizio, gli aveva fatto intravedere che a Roma sarebbero accorsi abitanti da tutte le parti d'Italia, e che conveniva preparare abitazioni per questa nuova popolazione. Don Pio non aveva fatto il sordo; aveva comprato ovunque, e specialmente fuori di Porta Portese, dove nel progetto che sostenevano col giornale, avrebbe dovuto sorgere la nuova stazione ferroviaria. E non solo aveva comprato terreni, ma aveva messo mano a costruire diversi villini, dentro un parco cinto di mura, villini che guardavano il Tevere da un lato e avevano allo spalle il Gianicolo. In questo disegno di acquisto di terreni, di costruzione di grandi case operaie, e nello stesso tempo di case signorili, don Pio era sostenuto da Fabio, il quale aveva un fratello ingegnere, giovane senza clienti; egli sperava di poterlo occupare presso il principe.
La duchessa, donna accorta, aveva messo in guardia don Pio contro la febbre di acquisti e di costruzioni che lo aveva invaso, ma il principe era ormai su quella via sulla quale non si ragiona più, dove gli ostacoli non sono visibili per l'occhio che è fisso sull'avvenire, ed è abbagliato dal guadagno che la speranza gli promette. Il patrimonio ereditato dal padre, tutto in vaste tenute nella pianura, in ricchi possessi in Sabina, in Maremma e nell'Umbria, in Abruzzo, in palazzi, in case, non pareva a don Pio che costituisse la ricchezza. Era un patrimonio che non si poteva alienare dall'oggi al domani, di cui godeva soltanto le rendite, ma non era la ricchezza, non i titoli di rendita, i fogli di Banca, i conti correnti negl'istituti di credito, tutto quello che permette a chi ne è possessore di levarsi tutti i capricci, d'ingolfarsi in tutte le speculazioni, di giocare non con l'avversario davanti, ma di giocare sul tappeto verde mondiale della Borsa, dove le poste sono spaventose e le differenze a fine mese possono mettere in mezzo di strada, anche un principe della Marsiliana. Quella era la ricchezza che sognava don Pio, e Ubaldo promettevagli che l'avrebbe acquistata con La Stampa e con la speculazioni edilizie. E l'on. Carrani si guardava bene dal contraddire il giornalista, poichè egli aveva bisogno di un giornale sostenuto da un uomo ricco per ritornare al governo, e voleva tornarci a ogni costo.
I redattori della Stampa, che si consideravano fortunati di aver raddoppiato lo stipendio e di stare in un giornale dove non si sentiva mai parlare di miserie, dove l'amministrazione pareva un piccolo ministero delle finanze, dove nessuno era povero, dal proprietario agli uscieri, e questi avevano modi rispettosi come i domestici delle grandi famiglie, non sarebbero mai andati da don Pio a dirgli che faceva male a spendere, a profonder quattrini nel giornale e nelle speculazioni.
Per Roma si diceva da tutti che don Pio si rovinava se continuava di quel passo, si facevano i conti addosso a lui e al giornale; tutta la città parlava della sua pazzia, ma nessuno osava biasimarlo in faccia e molto meno dargli consigli; questo ardire non lo aveva altro che donna Camilla.
Ella, ogni sera, aspettava il marito alzata, e don Pio se la vedeva comparire in camera quando Giorgio era uscito. Si metteva sulla poltrona accanto al letto di lui e ogni sera facevagli lo stesso fervorino:
—Ti rovini e ti danni con quel giornale. Le mie preghiere non basteranno a salvarti. Pensa al nome che porti, pensa all'anima tua!
Qualche volta don Pio era di buon umore e allora si voltava verso la moglie e la pregava d'imparare a mente un'altra esortazione, ma di cambiare, per carità, di cambiare. Donna Camilla non rispondeva agli scherzi, ma neppure abbandonava la camera prima di aver recitato tutte le preghiere serali per la salvezza dell'anima del marito e avergli toccato la fronte e le labbra con una reliquia della Croce.
In altre sere, quando don Pio era assonnato, stanco o noiato di quella insistenza, rispondeva sgarbatamente alla moglie:
—Al patrimonio mio e alla mia anima voglio pensar da me; lasciami in pace.
Allora donna Camilla, quasi si fosse imposta di tormentarlo, si sedeva, al solito, accanto al letto e pregava più lungamente e più insistentemente; ella esortavalo a separarsi da quegli scomunicati, che combattevano, dileggiavano la religione e il rappresentante di Dio in terra. Allora donna Camilla si faceva eloquente nel difendere la causa della religione, e riassumeva tutti gli argomenti che aveva sentito addurre contro La Stampa nelle case clericali, che avevano continui rapporti col Vaticano, e nelle quali ella andava. Nè cessava dal parlare o dal recitar preci altro che quando vedeva don Pio addormentato e capiva che le sue esortazioni erano sprecate.
Quella creatura, che non aveva mai amata d'amore e alla quale non lo univa neppure il vincolo dei figli, gli era divenuta così antipatica come donna e come essere pensante, che si sarebbe ribellato se ella gli avesse chiesto una carezza, come si ribellava ai consigli che gli dava. Non capiva come aveva fatto a sposarla e trattarla come una compagna.
La sera prima del ricevimento inaugurale, donna Camilla entrò in camera del marito dicendogli, con quella voce aspra che si faceva nasale quando ella era in collera:
—Mi hanno detto oggi in casa Bernielli che tu ricevi domani sera alla Stampa; spero che non sia vero.
—È verissimo,—rispose don Pio tirandosi le coperte sulla testa e facendo atto di voler dormire.
—Ma Pio, Pio!—diss'ella senza sedersi e posando su di lui uno sguardo di rimprovero.—Non capisci che deroghi al tuo nome, che tu t'infanghi mescolandoti col fango della strada?
—E qual'è, sentiamo, questo fango col quale mi piace insozzarmi?
—Il Caruso. È un uomo screditato anche fra i giornalisti; è un uomo pericoloso e ti porterà alla rovina.
—È un uomo abile, intelligente e io ho bisogno di lui,—disse don Pio. Poi, mettendosi a un tratto a sedere sul letto, aggiunse con tono secco e imperioso:
—Io non ti domando, Camilla, quali sono i tuoi consiglieri, i dispensatori delle tue carità; non mi occupo mai degli affari tuoi e tu non occuparti dei miei; questo desidero, questo voglio. La sera fammi il piacere di non venirmi più a turbare, ti dispenso da questa visita che non fa altro che irritarci maggiormente. Conosco la tua ostinazione e per mettere un ostacolo materiale alla tua venuta, mi chiuderò dentro.
Donna Camilla si conficcò i denti nelle labbra, e rispose senza lasciare il suo posto:
—Pio, tu mi hai molto trascurata dacchè mi hai sposata; per mesi e mesi ti sei dimenticato di me e io ho taciuto e pregato; pregato Iddio che riconducesse il tuo pensiero sviato a tua moglie. Ma anche in quel tempo in cui la tua mente correva dietro a altre donne, tu non eri mai scortese con me, rammentavi sempre di essere un signore di fronte a una signora. Ora tu lo dimentichi, ed è perchè pratichi male e perchè non hai più un capriccio che svia il tuo pensiero, ma una passione colpevole, che ti occupa tutto e ti trascina al male. Prega Iddio che io non abbia in mano la prova di questo tuo amore, altrimenti faccio uno scandalo, e di noi s'ha da parlare per un pezzo: rammentalo.
Don Pio la fissava meravigliato mentre ella usciva dalla camera con passo celere senza guardarlo, ed ebbe allora la convinzione subitanea che sua moglie era gelosa, gelosa della bella Maria, che, davvero, occupava tutto il suo cuore ispirandogli un amore timido, uno di quegli amori che tolgono tutto l'ardire, tutta la sfrontatezza a un uomo, benchè assuefatto alle avventure galanti, e fanno di lui un bambino supplichevole, un essere senza volontà e senza energia. Ma quell'amore, che la bellezza di Maria e soprattutto quel suo fare schietto e franco, gli avevano ispirato, era tutt'altro che una passione colpevole. Maria non era una di quelle donne che cedono, che subiscono il fascino della colpa; ella amava il marito, e nel suo cuore non c'era posto per altro affetto. Così ella aveva dapprima figurato di non accorgersi delle attenzioni, delle premure di don Pio; ma quando egli incominciò a parlarle del suo amore apertamente, non se ne era adombrata, ma ne aveva riso, riso schiettamente come di cosa impossibile e nello stesso tempo aveva evitato di trovarsi sola col principe, e di quell'amore aveva avuto la delicatezza di non far sospettare nulla al marito, per non creargli una falsa situazione.
VII.
Don Pio in quell'estate non aveva fatto altro che brevi assenze da Roma per accompagnare la principessa a Sorrento e poi a Saint-Moritz, ma col pretesto delle costruzioni era rimasto alla capitale e ogni settimana quasi aveva condotto Maria Caruso e Fabio Rosati a far delle gite col suo break nei dintorni della città. Nel mondo giornalistico e in quello aristocratico l'assiduità del principe presso la bella donna, che tutti ammiravano, aveva dato da ciarlare, e quelle ciarle erano state ripetute da Alberto Grimaldi alla sorella. Don Pio si faceva pure vedere al teatro nel palco della signora Caruso e non trascurava occasione di stare con lei.
Se donna Camilla non avesse conosciuto Maria non avrebbe dato peso alle ciarle; ma la conosceva, aveva avuto campo di ammirarne la stupenda bellezza, la grazia infinita e capiva che se don Pio era innamorato di lei non poteva trattarsi di un amoretto, perchè Maria lasciava una impressione così profonda in quanti la vedevano che, una volta subitone il fascino, bisognava amarla, amarla sempre. E la durata di quell'affetto la sgomentava appunto. Don Pio non sarebbe più tornato a lei, mai: tanto se Maria gli resisteva, quanto se cedeva. Ma la resistenza donna Camilla non l'ammetteva di fronte al marito. Le pareva addirittura irresistibile perchè a lei sfuggiva sempre ed ella non sapeva resistergli dal momento che doveva implorare una attenzione e una carezza; per lei era un idolo e che cosa si nega agli idoli quando avviene che scendano dal loro piedestallo per farsi nostri eguali?
Non capiva donna Camilla che con Maria era il caso inverso; Maria era l'idolo, e il principe il devoto, il supplicante, l'entusiasta, l'innamorato.
Dopo la risposta sprezzante del marito, la povera donna, sgomenta di aver lasciato scoprire la gelosia che la struggeva, si era rinchiusa in camera sua e aveva lungamente almanaccato per mandare a monte quella serata alla Stampa, che autorizzava la sua rivale a far gli onori di casa per un ricevimento che dava don Pio, per un ricevimento dove avrebbe figurato l'argenteria, la livrea di casa Urbani, e dal quale ella era esclusa e per le sue idee e per la posizione ostile, che aveva presa la sera della elezione del marito.
Non potendo impedire quella festa, voleva conoscerne l'esito nei suoi minimi particolari e per questo pensò a Fabio Rosati, che le ora parso più modesto e più rispettoso di tutti gli intrusi, com'ella li chiamava. In quel giorno appunto la principessa era stata pregata di fare ammettere all'Orfanotrofio di Termini, dov'era impiegato il padre del Rosati, un bambino di un antico servitore di casa Grimaldi, e ella aveva pensato d'incaricare don Pio di quella faccenda. Invece, dopo la scena avvenuta nella camera del principe, donna Camilla stabilì di scrivere al Rosati e di pregarlo di passare da lei il giorno successivo, servendosi del pretesto dell'Orfanotrofio per amicarselo e avere da lui tutte le notizie che desiderava sul giornale e su Maria. Nel piccolo cervello della duchessa l'amore del principe per la bella veneziana era diventato un'idea fissa, dolorosa e martellante. Prima di coricarsi infatti, non volendo scriver lettere, tracciò sopra un biglietto di visita poche righe d'invito e chiuso il biglietto in una busta andò da sè a portarlo sulla tavola dove mettevano le lettere.
Il biglietto fu recapitato e alle due Fabio si faceva annunziare alla principessa, la quale, per fargli dimenticare lo sgarbo della sera del pranzo e per confessarlo a suo agio, fu con lui cortesissima. Fabio promise l'appoggio del padre per il protetto della signora e con quella servilità che i romani della borghesia hanno nel sangue per tradizione, e che li fa parere sempre clienti quando sono in faccia ai principi, soddisfece pienamente la curiosità di donna Camilla.
—Venga dopo il ricevimento,—gli disse nel congedarlo e stringendogli la mano,—e si rammenti che voglio saper tutto; chi c'era, di che cosa si è parlato, com'erano vestite le signore; io sono curiosa e mio marito e così parco di parole ora che ha tanti affari per il capo.
Fabio capì benissimo che la curiosità della principessa della Marsiliana nascondeva una grande gelosia, e non potendo essere quello che voleva per il principe, ora che Ubaldo rappresentava presso di lui la prima parte, si propose di mantenere desta quella curiosità, di dirle quel tanto che poteva renderlo indispensabile a donna Camilla, senza tradir mai un segreto, senza mai compromettersi.
Egli aveva giudicato sinistramente Maria fino dal primo giorno; l'aveva creduta complice del marito nei raggiri e nelle astuzie, e riteneva che quella sincerità di cui ella faceva vanto non fosse altro che un mezzo per meglio accalappiare la gente. Non sapeva nulla del passato di lei, dei suoi sacrifizi, della sua grande virtù, ed era convinto che ora ella si valesse della sua bellezza per rendere il marito onnipotente presso don Pio. Fabio non aveva l'intelletto del cuore; gli mancava la finezza del sentimento e la fede nella onestà assoluta. Tutto era relativo per lui, e pur essendo persuaso che Maria non accordava nulla al principe, riteneva che ella fosse onesta con lui soltanto per meglio dominarlo.
Egli spiava di continuo la bella donna perchè voleva impossessarsi di un segreto, credendo che il possesso di un segreto sia sempre un capitale che un giorno o l'altro si può rendere fruttifero, e quella sera della festa, appena potè abbandonare il suo posto di ricevimento, non la perdè un momento di vista, ora col pretesto di aiutarla nel dare il thè, ora per mantenersi vicino alle signore che le facevano corona.
Don Pio, dopo il concerto al quale presero parte i due massimi maestri di Roma e le prime donne in voga, nonchè Maurel, Maurel che entusiasmava nell' Amleto, si accostò a Maria e le presentò i suoi colleghi della Camera, con i quali era rimasto a parlare tutta la sera.
—Che cosa divina è mai la musica!—esclamò la bella creatura parlando al principe Buontalenti e al duca di Sermano,—io capisco quale attrattiva abbia per il popolo. Tutte le altre arti vivono rinchiuse negli studi, nei musei, nelle biblioteche, non sorridono altro che a quelli che le amano, ma la musica si espande, si fa popolare e consola tutti. Chissà quanti poveri non sono ora aggruppati qui sotto, attirati dalle note soavi; chissà come essi tollerano meglio la loro miseria stanotte e come domani essi vedono la vita meno triste!
Ella parlava presto presto, quasi le parole le volassero dalle labbra per andarsi ad annidare nel cuore di chi l'ascoltava.
Don Pio era tutto occhi e tutt'orecchi.
—A Roma, a Milano la musica è un godimento dei ricchi, ma da noi a Venezia, e, come mi dicono, anche a Napoli, è un godimento per tutti; si canta nelle strade, si canta in gondola, si fanno serenate sotto gli alberghi; i ricchi pagano, ma il popolo gode.
—Che ne direbbe,—domandò don Pio fissandola,—se uno di questi ricchi avesse in animo di costruire un teatro popolare, dove si dessero la opere italiane specialmente e dove un grande lubbione permettesse al popolo di udirle pagando venti o trenta centesimi?
—Direi,—rispose Maria.—che quel ricco è un benefattore, un uomo che capisce la carità meglio di tanti filantropi.
—Ed io voglio essere quel banefattore,—rispose don Pio,—Fra un anno, qui accanto, dove ora non sono altro che macerie, sorgerà un teatro popolare e lei avrà il vanto di avermi suggerito quest'opera di carità.
Tutti approvarono il disegno del principe, tutti fecero plauso alla sua idea, e un momento dopo nelle sale della Stampa non si parlava d'altro che del principe della Marsiliana e del nuovo teatro.
—Come si deve chiamare?—domandò il principe a Maria quando gli elogi furono cessati.
—Come vuole; il nome non fa nulla.
—Lo chiameremo "La Fenice" in memoria della sua Venezia,—rispose il principe.
Fabio ebbe cura che i servi portassero subito lo champagne e si bevve al nuovo teatro, al principe ed alla bella madrina.
—Io spero,—le disse il principe a bassa voce,—che ella accetterà un palco in quel teatro e che io potrò farglielo addobbare in modo che ella si creda lì nel suo salotto e possa ricevervi i suoi amici.
—Sarà il palco della Stampa,—rispose Maria, che aveva sempre l'abilità di schivare le attenzioni troppo premurose del principe, e sapeva tenerlo a distanza, senza offenderlo.
In quel momento venne a far circolo alla bella signora una folla d'invitati che erano nelle altre stanze, e una piccola francese, molto vivace e molto intelligente, che cercava dopo la morte del marito di conservare la posizione che egli avevale fatto, dandosi per protettrice delle arti e del giornalismo, prese le mani di Maria e le disse:
—Mia cara, mi hanno detto che a lei si deve se il principe si è impegnato formalmente a costruire un teatro; non poteva essere altri che la figlia di quel caro Rossetti, una creatura che ha imparato ad amar l'arte nascendo, che si faceva protettrice delle arti.
—Lei conosce mio padre?—domandò Maria con premura.
—Lo conosco, e col povero Filippo—(Filippo Mariani era il defunto marito che la signora Adriana nominava venti volte al giorno)—e col povero Filippo abbiamo spesso visitato il suo studio. Suo padre è un artista del vecchio stampo, un vero artista italiano nel senso più bello della parola, e io sono lieta di veder qui a Roma la figlia di lui.
Tutto questo era detto a voce alta, e a un tratto il povero Rossetti, che era un Carneade per tutti i conoscenti di Mario, divenne, mercè le lodi della vedova del grande conoscitore d'arte, un artista di prim'ordine. La signora Adriana Mariani sapeva, come tutti, dell'amore che Maria aveva ispirato al principe, e lodando lei voleva adulare chi la amava.
Maria, bella e cortese com'era, non fu da quel momento conosciuta soltanto come la moglie del signor Caruso; ebbe anche lei il suo patriziato artistico, non fu più una ignota sbalzata a Roma dalla incerta posizione del marito, fu la figlia di un artista di merito.
VIII.
La mattina dopo tutti i giornali avevano un lungo resoconto del ricevimento alla Stampa, che doveva inaugurare i sabati invernali, e tutti parlavano della promessa del principe della Marsiliana rispetto al teatro, e della bellezza e della grazia con cui la signora Maria Caruso aveva fatto gli onori di casa.
Il dovere d'ospitalità aveva fatto tacere tutti i risentimenti partigiani, aveva ucciso tutte le polemiche. La Stampa, con l'inaugurare il grandioso edifico in cui si era insediata, era divenuta ipso facto il primo giornale di Roma.
—Eccellenza,—diceva il Rosati umilmente entrando il giorno di poi nel salotto di donna Camilla,—il suo protetto è accettato all'Orfanotrofio di Termini. Mi farà un favore se vorrà ricordarsi di me ogni volta che le occorre qualcosa e associarmi alle sue opere di carità.
—Grazie, mille grazie,—rispondeva la principessa stringendogli l'indice e il medio della mano, come faceva con tutti, quasi le ripugnasse ogni contatto,—ma si accomodi, la prego, e mi racconti come andò ieri sera.
—Benissimo. Fu un trionfo continuato per il principe e una approvazione generale per la sua splendida promessa.
—Che promessa?—domandò donna Camilla.
—Non lo sa? avremo un teatro mercè sua e si chiamerà "La Fenice".
—Perchè quel nome?—domandò sollecitamente la principessa.
Fabio, accorgendosi di aver commessa una imprudenza, dovette narrare com'era sorta l'idea del teatro e il perchè del nome. La principessa si morse le labbra, ma non tradì il dispetto che provava altro che dando alla voce una intonazione più aspra e più nasale del consueto, e, dopo aver domandato al signor Rosati quali erano gli artisti che avevano cantato, quali signore v'erano, stette qualche momento pensosa, con gli occhi volti a terra e poi gli disse:
—Io presiedo l'Opera per le Povere Madri Lattanti, e di quella associazione fanno parte quasi tutte le signore romane e molti signori, ma mentre essi mi danno molto appoggio per riunire offerte, mi abbandonano tutto il lavoro più duro, che è quello di visitare a casa le povere donne, per assicurarsi se sono veramente miserabili, e di domandare informazioni sul conto loro nel vicinato. Io non posso accudire a tutto; vuole aiutarmi in questa opera di carità? Bisogna lavorare anche per l'anima.
Fabio accettò con riconoscenza e la principessa lo pregò di tornar da lei il martedì venturo.
Mentre Fabio, tutto lieto di entrare in una associazione aristocratica e di poter andare in casa Urbani come non ci andavano i suoi colleghi della Stampa e neppure Ubaldo, che diventavagli antipatico ogni giorno più, scendeva le scale del palazzo patrizio, la principessa, a denti stretti, esclamava:
—Voglio anch'io gettar fango su questa odiosa famiglia che mi disprezza, voglio anch'io imitare mio marito, voglio anch'io che tutta Roma parli di me e ne parli male, purchè del male io non ne faccia, purchè davanti alla mia coscienza io non abbia da rimproverarmi altro peccato che la vendetta!
Donna Camilla appoggiò la fronte ai cristalli e guardò Fabio, che traversava la strada; poi, come se la sua esaltazione cessasse a un tratto per dar luogo a un grande sfogo di dolore, disse, nascondendo il viso fra le mani:
—Ma che cosa ho mai fatto per non ispirare affetto in nessuno? Non ho conosciuto mia madre; sono stata trattata con freddezza da mio padre e dai miei fratelli; Pio mi ha sposata senza amarmi, non si cura di dimostrarmi la sua antipatia; non ho figli, non ho nessuno e dovrò vivere sempre così sola, così abbandonata, così dimenticata da tutti?
—A questa domanda il suo cuore rispose con un singhiozzo tremendo, che le squarciava il petto, come certi fulmini che squarciano il cielo e non sono accompagnati dalla pioggia. Gli occhi di donna Camilla rimasero asciutti, poichè ella non sapeva piangere, ma il suo dolore era più straziante che se avesse avuto per lenimento le lagrime.
A pranzo ella era fredda e compassata come al solito e salutò il marito, che non aveva veduto prima in quel giorno, come se non fosse mai corsa fra loro una parola aspra.
La duchessa aveva portato in sala, dal suo quartiere, tutti i giornali che parlavano del ricevimento, e disse al figlio con grande espansione:
—Mi pare, Pio, che ormai il tuo giornale abbia il primo posto qui a Roma e che tu faccia di tutto per conservarglielo: il progetto di creare un teatro è una idea stupenda e credo che quest'impresa ti frutterà anche dei denari.
—So che è stata accolta con molto entusiasmo,—disse donna Camilla.
—Chi te lo ha detto?—domandò don Pio.
—Il signor Rosati stamane.
—Non sapevo che tu degnassi parlare con uno dei miei intrusi.
—Il Rosati è romano, di buona famiglia; è un bravo giovine, mentre gli altri....
Don Pio non rispose per non fare un battibecco in presenza della servitù, e per non sentir vilipesa Maria; ma da quel momento nutrì sospetti contro Fabio e promise a sè stesso di sorvegliarlo supponendolo ligio alla moglie e capace di riferirle quello che non voleva ella sapesse.
Con la riapertura della Camera La Stampa era entrata in un periodo di ostilità continue. L'onorevole Carrani, don Pio della Marsiliana e il gruppo di deputati che tutto speravano dal ritorno dell'ex-ministro dell'Agricoltura e Commercio al potere, tempestarono il Governo d'interpellanze. Ogni piccolo avvenimento dava loro occasione d'impegnare una zuffa; la guerra la serbavano alla discussione dei bilanci. Oggi servivano loro di pretesto a una interpellanza i mali trattamenti usati dalle autorità austriache a una barca da pesca chioggiotta, domani le prevaricazioni di un ricevitore del registro, e poi la morte di un soldato in seguito a una marcia, un disastro ferroviario, un maestro comunale rimosso.
E quella scaramuccia, che i deputati amici della Stampa incominciavano alla Camera dei deputati, era continuata nelle colonne del giornale con una violenza di cui non si serbava memoria nel giornalismo italiano. La tattica della Stampa era quella di sollevare le quistioni dal basso, agitare, agitare finchè esse non giungevano a molestare i ministri, e sopratutto il presidente del Consiglio, punto di mira di tutte le polemiche, bersaglio di tutti gli attacchi. I giornali che sostenevano il Governo avevano un bel ribattere le accuse; La Stampa aveva più diffusione da sola che essi tutti riuniti, ed era per questo più ascoltata, come quella che meglio poteva farsi udire da maggior numero di persone. C'erano poi tutti i politicanti, che hanno bisogno dell'imbeccata del giornale per formarsi una idea delle questioni, e quei politicanti lo leggevano, come lo leggevano gli avversari per combatterlo o biasimarlo.
Don Pio della Marsiliana non era certo considerato alla Camera come uomo di valore, perchè anche là come in tutti i consessi la forte mente e i forti caratteri s'impongono, e anche se un deputato non è oratore, anche se non prende mai la parola, i compagni sanno apprezzarlo, a qualunque partito esso appartenga, per i lavori degli uffici, per le discussioni in seno delle commissioni, per i mille mezzi che anche dentro al Parlamento sono offerti all'attività intellettiva di un uomo per estrinsecarsi. Ma anche non essendo considerato un valore, egli godeva di una situazione speciale formulatagli dal gruppo, che rappresentava il giornale, e dal giornale stesso.
Da principio quel gruppo non aveva altro nucleo che l'onorevole Carrani, ma in breve, quando gli altri quattro capi dei diversi gruppi del partito progressista incominciarono a vedere che quel gruppo diveniva preponderante, si riunirono ad esso, calcolando che potevano, mercè la generosità di don Pio della Marsiliana, risparmiare tutti i danari che sarebbe costata loro la guerra al governo, dal momento che c'era un principe che faceva tutte le spese all'organo battagliero. Fu un calcolo economico che ebbe un risultato politico. Si sapeva che quei cinque uomini non simpatizzavano tra loro, si sapeva che tutti miravano a farsi accettare nel gabinetto che combattevano, ma questi screzi, che non erano un mistero per gli uomini politici e per i giornalisti, non eran noti al pubblico, il quale vedeva un forte partito capitanato da cinque duci, armati da capo a piedi per combattere il governo, e sperava da quegli uomini, che mostravano spiriti così battaglieri, una guerra in tutte le regole. Il pubblico non si accorgeva che tutti e cinque erano pronti a passare separatamente nel campo nemico, purchè il premio della divisione fosse un portafoglio importante.
Quella parte di Giove pagante che il principe della Marsiliana sosteneva di fronte agli uomini dell'avvenire, unita alla naturale albagia, lo aveva reso così orgoglioso di sè e del suo potere da far credere che egli avesse adottato per la sua persona il dogma dell'infallibilità. Non ascoltava più consigli da nessuno rispetto ai suoi affari, neppure dalla madre, che con tanta accortezza aveva amministrato per diversi anni il suo patrimonio. Egli non faceva altro che comprare terreni ovunque ne trovasse. I primi avevali pagati un prezzo mite, ma in seguito quando non fu più il solo a comprare, e la compra divenne una vasta speculazione, allora dovette pagarli prezzi altissimi, e per far fronte a quelle spese esorbitanti, chiedeva milioni alle Banche, dando ipoteca sul suo vasto patrimonio. E in quei terreni fabbricava senza tregua, e per fabbricare occorrevano altri capitali, che novamente chiedeva al credito, dando una seconda e una terza ipoteca sui suoi possessi. Intanto più ingegneri lavoravano al progetto della stazione in Trastevere, fra i quali il fratello di Fabio Rosati; intanto a Roma non si parlava d'altro che delle vaste speculazioni di don Pio. Il popolo, i borghesi lo consideravano come un portentoso esempio di attività, come l'ideale dei principi secondo le idee moderne; nel patriziato lo consideravano invece come un reprobo, un pazzo, e erano convinti che un giorno o l'altro si sarebbe pentito di aver derogato alle tradizioni della sua casta.
Ma La Stampa andava a vele gonfie, aumentava diffusione e tiratura tutti i giorni; ma anche costava sempre più denari a don Pio, il quale cullato dalle promesse di Ubaldo, dai discorsi dell'onorevole Carrani e più di tutto dal grande fatto di aver riunito all'ombra del labaro del giornale tutte le forze del partito progressista, sognava già di essere un giorno ambasciatore a Berlino o a Parigi, o anche ministro degli esteri, e per questo pagava senza contare. Il giornale, amministrato bene, sarebbe stato una fonte di guadagno, ma amministrato con i criterî e con le tradizioni delle case principesche romane, era invece un pozzo senza fondo che inghiottiva nella sua immensa bocca capitali su capitali. Un amministratore generale, tre sotto-amministratori della tipografia, della pubblicità e del giornale, prendevano laute paghe e avevano ai loro ordini uno stuolo d'impiegati. La redazione pure costava un occhio. Ubaldo non aveva meno di dodici redattori e una ventina di corrispondenti stipendiati; poi c'era la parte letteraria che si pagava salata, poi gli avvenimenti straordinari che chiamavano da un capo all'altro d'Italia e talvolta d'Europa il Rosati, il quale sapeva farsi rimunerare, c'erano i regali agli abbonati che costavano più del prezzo complessivo annuo del giornale e così gli associati lo avevano per niente; c'erano i romanzi d'appendice, c'era tutta una rete di calcoli sbagliati a bella posta e che empivano le tasche di tutti, mentre vuotavano quelle del proprietario, che non sapeva neppur trarre dal giornale quel partito che avrebbe potuto.
In tutte le grandi operazioni finanziarie che si compirono nel primo anno che ebbe vita La Stampa don Pio non ebbe alcuna parte; era troppo gran signore per andare nelle anticamere dei ministri e nei gabinetti dei capi di grandi stabilimenti di credito a far valere l'appoggio del suo giornale o mercanteggiare almeno il silenzio di esso. Ubaldo invece, del quale era stato dimenticato il passato con quella facilità con che a Roma si dimentica tutto, aveva saputo guadagnare in molti affari e ora non era più l'uomo che non possiede nulla, che non sa come vivrà domani. Egli aveva titoli di rendita e calcolando abilmente si permetteva il lusso di speculare alla Borsa, valendosi delle notizie che aveva prima di molti altri, e siccome ritirava i titoli invece di pagare le differenze, oppure col credito che aveva acquistato li depositava alle Banche, così non perdeva mai, e sempre aumentava il suo capitale. Inoltre speculava anch'egli in terreni, ma comprando per rivendere subito, perchè l'istinto commerciale dicevagli che qui, come prima a Vienna e poi a Berlino, il giorno del krach doveva venire, e che era impossibile che su tutti i terreni che si levavano all'agricoltura per farne terreni fabbricativi, sorgessero case, e quelle case dessero un guadagno.
L'attitudine alla speculazione che può non rivelarsi in gioventù nei figli e nipoti di mercanti, si manifesta sempre in essi con l'andar degli anni, speculazione meschina se le condizioni dell'esistenza assegnano loro un campo ristretto, speculazione vasta se il campo che possono esplorare ha grandiose proporzioni.
Ora che Ubaldo aveva sentito tutti gli strazi della miseria, tutte le punture continue e dolorose dei sacrifizi, si era fatto accorto, non sprecava più, non sacrificava nulla alle apparenze. Maria viveva comodamente, ma viveva come il giorno che da Milano era venuta a Roma, quasi le sole risorse della famiglia consistessero nella paga di Ubaldo. Per questo nessuno, nè quelli che erano addentro alle cose della Stampa, nè i curiosi che facevano parte degli altri giornali e di tutto quel mondo della politica, dell'arte, della Borsa che forma attorno ai giornali una vasta rete, poteva dire che il principe della Marsiliana era l'amante di Maria e le faceva doni costosi. Quello che ella spendeva per la sua toilette era compatibile con i guadagni palesi del marito; gli occulti erano ignorati dal pubblico e dagli amici di Ubaldo.
Maria non aveva neppure un coupé per fare le visite o per andare a Villa Borghese e soleva accettare l'offerta che le faceva ogni tanto la signora Adriana Mariani di condurla seco. Questo modesto contegno di Maria, che il mondo sapeva adorata dal principe, le aveva accaparrato le simpatie e la stima generale, perchè il mondo, che è composto d'individui che ogni giorno per conto proprio si burlano della morale, la vuole rispettata e grida e sbraita quando qualcuno la offende.
La principessa della Marsiliana, ròsa dalla gelosia, dimenticata dal marito, non credeva alla onestà della sua rivale. Quel teatro, che ella vedeva ogni giorno inalzarsi maggiormente, le diceva che Maria non avrebbe accettato dal principe un paio di orecchini di brillanti, nè un paio di cavalli, ma che aveva tanto potere su di lui da ottenere, con una parola sola, che egli facesse spese che neppure un re si permette. Questa convinzione di avere nella bella Veneziana non una rivale avida, una rivale che non si contenta con l'oro, la rendeva pazza dalla disperazione. Finchè ella non aveva veduto don Pio correr dietro altro che a donne che s'incontrano oggi per abbandonarle domani, senza rincrescimento, e che non considerano l'uomo altro che come mezzo per appagare le loro brame di lusso, non era stata gelosa e aveva dato prova di quella tolleranza che sanno avere tutte le signore di nascita illustre per i peccatucci degli uomini.
Ma appena aveva capito che don Pio era innamorato seriamente di Maria, e che quello non era un amore che svanisse tanto presto, si era attaccata al marito con quella insistenza propria di chi vede sfuggirsi un bene al quale ha diritto, e aveva provato tutti gli strazi, tutte le angustie della gelosia. L'orgoglio di razza rendeva anche più acuti quei tormenti; ella vedevasi preferita una plebea, e conscia della propria inferiorità dinanzi alla rivale, inferiorità che non era soltanto fisica, ma anche intellettuale, non vedeva nessuno scampo e non sperava altro sfogo che nella vendetta.
Quando la mattina ella usciva per andare ai conventi o alle associazioni di beneficenza, dove la chiamava l'abitudine, e vedeva gli operai lavorare al teatro: quando verso sera tornava dalla passeggiata o dalle visite e vedeva che neppure la notte il lavoro cessava in quell'edifizio inalzato da suo marito per appagare il desiderio di Maria, provava una rabbia sorda, e stringeva nelle piccole mani nervose i nastri del cappellino, si metteva fra i denti il fazzoletto di batista, strappava le rose che ornavano il davanti del coupé e fremeva come una fiera rinchiusa in una gabbia. Col viso sconvolto, con le ciglia aggrottate ella si presentava a colazione e a pranzo, e, se don Pio si faceva aspettare, se invece di pranzare in famiglia passava già vestito dalla sala da pranzo per dire che era invitato, ella non mangiava nulla, trangugiava grandi bicchieri di acqua fredda e non rispondeva neppure con monosillabi ai discorsi della suocera, la quale non sapeva rassegnarsi al silenzio, e la lasciava appena terminato il pranzo per salire nel suo quartiere, dove sempre era visitata dalle amiche e dai conoscenti di gioventù, e dove trovava modo di dare sfogo alla sua loquacità, raddoppiata ora che il figlio faceva cose così insolite per un patrizio, e che davano agli amici della duchessa argomento a frequenti domande e ad osservazioni.
E mentre don Pio passava le serate alla Camera, dava una capatina nei teatri o nei ritrovi eleganti, e fluiva per andare alla Stampa, dove si vegliava molto tardi e dove era sicuro d'incontrare Maria, la signora Carrani e Adriana Mariani, e ogni sera più s'invaghiva della bella donna, la principessa della Marsiliana stava sola nel suo salotto a rodersi dalla gelosia. Ogni tanto, desolata, si gettava bocconi davanti a un grande Cristo d'argento, dono di suo padre, e gli parlava con voce interrotta dai singhiozzi dolorosi, gli domandava perchè le aveva dato un gran nome, le aveva dato le ricchezze e le aveva negato tutte le attrattive della donna, non l'aveva fatta nè bella di volto, nè bella di corpo, non le aveva dato i vizii, che pure hanno il loro fascino, nulla, nulla; e, senza accorgersene, ella passava dalla preghiera al rimprovero. E quando donna Camilla rientrava per un momento in sè stessa, era pentita di quello che aveva detto, e umilmente con la faccia appoggiata ai piedi inchiodati del Cristo, la schiena curva, supplicava la santa immagine di perdonarla, di aver pietà del suo dolore.
Poi, dopo quegli sfoghi ai rialzava da terra, ricomponeva il volto, ricomponeva le vesti e sedeva dinanzi al tavolino coperto di lavori incominciati e destinati ai poveri, con le piccole mani scarne si dava a lavorare frettolosamente, mentre il cervello anch'esso lavorava, lavorava a cercare un mezzo per vendicarsi doppiamente del marito, coprendolo di vergogna; e staccandolo per sempre da Maria.
Dopo ognuna di quelle serate angosciose, donna Camilla trovava un pretesto per scrivere a Fabio, per invitarlo a andare da lei la mattina seguente. Ora il pretesto glielo forniva l'invito a una adunanza da spedire alle patronesse dell'opera pia delle Madri Lattanti, ora un'informazione da assumere, ora un sussidio da elargire. E quando Fabio la mattina dopo era da lei, ella lo interrogava su quello che facevano alla Stampa, sui lavori del teatro e per ultimo su Maria. Fabio Rosati era troppo accorto per far vedere alla principessa che capiva la sua gelosia e i suoi strazii, e fingeva sempre di credere che quella premura di lei per sapere notizie della signora Caruso fosse frutto della curiosità pura e semplice, e le parlava dei trionfi che riportava in ogni festa al Circolo dei Cittadini e al Circolo degli Artisti la bella Veneziana, e come d'intorno a lei si formasse una cerchia di ammiratori, che ogni sera popolavano le sale della Stampa per il solo piacere di vederla e di sentirla parlare.
Come tutte le donne gelose, la principessa desiderava di veder Fabio per udir parlare di Maria, e dopo che lo aveva veduto era più che mai straniata dai tormenti che impone quella malattia del cuore, più che mai era desiderosa di sapere.
Intanto in anticamera, negli ozii della guardia, i servitori parlavano molto delle attenzioni che don Pio usava alla famiglia Caruso col mandare la caccia che giungeva dai possessi di Maremma, le piante e i fiori delle serre della villa a porta Salaria, i latticini che arrivavano dalla Sabina e i vini dell'Umbria, ma non parlavano meno dei biglietti che la principessa scriveva a Fabio Rosati, e ogni volta che lo vedevano salir le scale del palazzo, mentre uno dei servi lo accompagnava alle stanze della signora, gli altri, rimasti in anticamera, ridevano e dicevano nel loro linguaggio triviale:
—Il principe e la principessa fanno il comodo loro.
Due o tre volte don Pio aveva incontrato Fabio nella galleria, mentre si avviava al quartiere della principessa, e sempre lo aveva salutato con molta freddezza, con una freddezza che faceva morire al Rosati il bonario sorriso sulle labbra, e dopo, quando lo rivedeva in redazione, fingeva di non accorgersi di lui, e non c'era caso che gli rivolgesse per un pezzo la parola.
Il principe non aveva nessun sospetto ingiurioso per la principessa, ma credeva Fabio il cronista particolare di lei, alla quale, non riconosceva attrattiva di sorta, e la relegava nel numero di quelle donne che, quando non destano repulsione, lasciano freddi e indifferenti quanti le avvicinano.
La freddezza del principe per Fabio non influiva sulla posizione di lui alla Stampa, poichè don Pio non s'ingeriva mai dei particolari e lasciava piena indipendenza ad Ubaldo, il quale, sapendo che in certe occasioni il Rosati era un eccellente corrispondente e un cronista prezioso, gli dava spesso degli incarichi, che Fabio accettava volentieri, perchè gli procuravano conoscenze, e guadagni superiori a quelli ordinari.
Don Pio si sarebbe consolato facilmente della vita triste che menava in famiglia, del risentimento di cui dava prova la principessa ogni volta che gli dirigeva la parola, delle preoccupazioni economiche che non gli accordavano tregua, dopo che aveva seppellito tanti milioni nell'acquisto di terreni che non riusciva a rivendere e per i quali sborsava un forte interesse agli istituti di credito, che gli avevano prestati quei milioni; si sarebbe anche consolato nel vedere che La Stampa non gli dava i lauti guadagni che aveva sperato, purchè Maria lo amasse, purchè Maria fosse sua. Ma di fronte a lei, egli, così ardito, non aveva volontà, non aveva ardimento di sorta. Il vederla sempre in mezzo a gente, il non poter sfogare mai con lei la tenerezza che gl'ispirava, faceva del suo amore un tormento continuo, un supplizio da dannato. Le attenzioni, le premure più delicate, che sono un lusso dei ricchi, egli le aveva tutte per Maria. Non c'era sera in cui ella non trovasse nel cantuccio del salone della Stampa dove soleva sedersi, una quantità di fiori e i dolci che ella preferiva. Maria lo ringraziava con effusione, era cortesissima con lui, ma nulla più, e le stesse parole le usava con tutti quelli che ad imitazione del principe, offrivano a lei i loro omaggi.
Una seconda estate era trascorsa e la principessa non si era mossa da Roma per assistere il proprio fratello, che, cadendo da cavallo, si era piuttosto gravemente ferito, e in quella estate ella si era fatta vedere così spesso fuori col Rosati, lo aveva così spesso ricevuto, che la ciarla che ella lo amasse dal palazzo Urbani era giunta nella redazione della Stampa e anche alle orecchie di Maria, la quale aveva risposto al Suardi, che la informava di quel fatto:
—Io non ci credo; la principessa è una santa donna!
—Se è una santa lei, Fabio non è un santo, e quando la santità manca da un lato c'è sempre pericolo che la parte peccaminosa guasti l'altra. Voi non sapete che il peccato, secondo la scienza moderna, è di natura infettiva e ha il suo bacillo?
—Con la vostra strana maniera d'argomentare avete in certo modo ragione,—disse Maria.—Quando un uomo si mette a far la corte a una donna fa sempre con lei la parte del corruttore, ed ella si lascia corrompere se non ha il sentimento del dovere, che è il più potente antisettico, per esprimermi come voi fate, che si conosca.
—Ben detto!—esclamò il Suardi ridendo.—M'indicate dove si vende quell'antisettico, del quale pare che voi possediate tanta copia?
—In nessun luogo disgraziatamente—rispose Maria cui non era sfuggita l'allusione.—Alcuni sono tanto fortunati da averne scoperta una sorgente e finchè quella non si esaurisce, sono al coperto dalla infezione; se la sorgente diviene sterile si ammalano subito.
—E voi siete sicura che la vostra non si esaurirà mai?
—Sì—rispose ella arditamente.—Sì, perchè la mia sgorga in un terreno che, date certe circostanze speciali, l'alimenta sempre.
—Come si chiama di grazia questo terreno?
—Il giardino della riconoscenza.
—Mia bella signora, voi parlate come una pastorella di Arcadia.
—E voi come un pastore, che navighi di continuo sul fiume del Tenero.
—Se ci sentissero, riderebbero per bene alle nostre spalle,—osservò il Suardi che passava per lo sguaiato e il cinico della redazione, ed era in fondo il più ingenuo e il più illuso fra i suoi colleghi.
La principessa voleva che parlassero male di lei, voleva compromettersi, voleva incanagliarsi, come diceva a sè stessa nelle sere di spasimo, affinchè il marito lo sapesse, affinchè al marito parlassero di quel fatto, ma in quest'intento non riusciva. La duchessa madre, che poteva essere la sola che riferisse quelle voci a don Pio, era assente da Roma, e gli altri non avevano col principe della Marsiliana tanta confidenza per permettersi uno scherzo; essi attaccavano piuttosto Fabio, ridevano con lui dell'amore che aveva ispirato, ma al principe non dicevano nulla, e il principe pensava il meno possibile alla moglie.
IX.
Durante l'estate, per non trovarsi solo di fronte alla principessa a pranzo e a colazione, don Pio aveva invitato un vecchio professore, molto noto come bibliofilo, a riordinare l'archivio di famiglia, e lo tratteneva sempre ai pasti e con lui impegnava lunghe discussioni sugli antenati e sui fatti storici cui essi avevano partecipato. Così la principessa non aveva modo di far quasi mai sentire la sua voce, e appena preso il caffè fuggiva indispettita lasciando il marito a discutere con l'Onorati.
In quell'estate il teatro "La Fenice" fu condotto a termine e don Pio non solo si occupava di farlo addobbare all'interno con tutta l'eleganza possibile, ma pensava pure a procurargli per le tre stagioni invernali, tre compagnie di canto, che assicurassero alla Fenice la sua reputazione.
—Prima costruttore, poi giornalista, ora impresario! Quante trasformazioni vedremo ancora?—dicevano i vecchi e i giovani patrizi, che non perdevano d'occhio il principe.
Alcuni di essi avevano tanta fiducia nella malleabilità del carattere di don Pio, che speravano ancora, dopo aver fatto il mangiatore di preti e l'irriverente verso la dinastia, di vederlo di nuovo al Vaticano, nelle anticamere papali o forse con l'uniforme degli esenti della guardia nobile addosso.
Verso i primi di novembre, quando la gente era in parte ritornata a Roma, don Pio volle inaugurare il teatro con un ricevimento ai giornalisti, al mondo politico e agli amici.
Gl'inviti furono diramati dal principe istesso, e siccome il teatro conteneva circa quattromila persone, così furono dispensati un po' in tutte le classi sociali e l'aristocrazia ne ebbe la sua parte.
Donna Camilla, informata da Fabio di quel fatto, stabilì di assistere alla festa, ma non disse nulla al marito di questo divisamento, e neppure alle parenti e alle amiche, che la tempestavano di domande.
—Non mi occupo degli affari di mio marito,—rispondeva ella sdegnosamente a quante le parlavano della Fenice —"Cela ne me regarde pas."
E pareva infatti che ella non si curasse per nulla di ciò che faceva don Pio, tanto la mossa con cui accompagnava quell'asserzione era sdegnosa, e il tono della voce, sprezzante.
Invece appena era sicura che don Pio era fuori di casa e che Giorgio, il fido cameriere, era a pranzo o non poteva andare nelle stanze del marito, ella vi penetrava furtivamente, rovistava fra le carte, nelle tasche degli abiti, cercava, cercava quella prova della colpabilità di Maria, quella prova che doveva facilitarle la vendetta.
Un giorno ella trovò sulla scrivania di don Pio un paio di lunghissimi guanti da donna e sorrise a denti stretti, come se quello fosse un indizio che una volta o l'altra il marito avrebbe dimenticato una lettera, una prova, come aveva dimenticato quei guanti, e li guardò, li odorò lungamente e poi si diede a fissare la scrivania supponendo che in essa stesse rinchiusa tutta la corrispondenza di Maria. Se la forza le fosse bastata, con un colpo avrebbe volentieri fatto saltare quel cassetto, che credeva le nascondesse uno scambio di sentimenti, una ardente passione, che la defraudava di tutto, anche delle rare e misere gioie concessele dal suo matrimonio.
Ella fu sul punto di portar via quei guanti, ma poi ebbe paura della collera di don Pio, e li ripose dove li aveva trovati; ma quel giorno stesso scrisse al Rosati pregandolo di passar da lei in serata.
La sera, prima donna Teresa era tornata in città dopo un lungo soggiorno a Perugia, e la nuora prima del pranzo andò nel quartiere della duchessa per consegnarle le gioie che aveva tenute in custodia durante la sua assenza. Mentre le due signore parlavano, la madre esaltando l'attività di don Pio, che aveva in così breve termine condotto a fine il teatro, la moglie biasimando le azioni del marito: entrò il principe con i guanti in mano.
—Credo,—diss'egli dandoli alla madre,—che ieri sera tu li abbia dimenticati in carrozza quando venni a prenderti alla ferrovia.
—Sono appunto un paio di guanti che stamane ho fatto tanto cercare alla cameriera,—disse la duchessa gittandoli in una coppa di Sassonia.
Donna Camilla fissava con rammarico quei guanti. Dunque Pio non dimenticava nulla di Maria, non avrebbe mai dimenticato nulla, non si sarebbe mai tradito?
La presenza della madre rendeva don Pio espansivo durante il pranzo, e quella sera, quando furono seduti a tavola, non rifiniva più di parlare. Pareva che a lei sentisse il bisogno di narrar tutto, e donna Camilla soffriva essendo certa che con lei non provava un bisogno uguale. Alla madre narrò che per sè nel nuovo teatro aveva riserbato la barcaccia di destra al parterre, e che per la Stampa aveva fatto preparare quella di fronte. Disse che tutti e due quei palchi avevano un salottino dietro per fumare, e che il teatro era riuscito elegante e carino quanto mai.
—Tu avvezzi male i tuoi redattori,—disse ridendo la duchessa,—li tratti da principe.
—E tratta le loro mogli meglio della principesse,—disse donna Camilla senza alzare gli occhi dal piatto.
Don Pio non rispose per non lasciarsi sfuggire di bocca l'offesa, e finse di non aver capita la maligna allusione.
Prendevano ancora il caffè, quando alla principessa fu recato in un vassoio d'argento il biglietto di Fabio.
—Fate entrare il signor Rosati nel mio salotto e ditegli che vengo subito,—ordinò la principessa.
—Tu ricevi i plebei come i principi,—disse don Pio sorridendo nel vederla alzarsi prontamente, senza neppur terminare il caffè.
—Ricevo chi mi pare e come mi pare,—rispose ella sgarbatamente, e fatto un cenno di testa alla suocera uscì.
—Come è nervosa Camilla; benedetti quei nervi!—disse la duchessa che aveva sempre preso la vita dal lato pratico e non sapeva che cosa fossero i tormenti dell'anima.
Il principe dette un'occhiata in giro alla sala e vedendo che i servi erano usciti, disse sottovoce alla madre:
—Non sai che vorrebbe farmi ingelosire del Rosati?
—Camilla è pazza; la gelosia, la rabbia la divorano. Ma ha forse ragione di esser gelosa?—domandò la duchessa al figlio con fare insinuante.
—Non ha purtroppo nessuna ragione. Maria è di una onestà rara, di una onestà antica e io non ottengo nulla da lei.
—È un miracolo,—sentenziò la duchessa.—Ma ancorchè Camilla non abbia ragione di esser gelosa, guardati da lei; ora che la rivedo dopo una lunga assenza noto che la sua fisonomia ha preso una espressione sinistra.
—Dunque ti pare anche imbruttita?—domandò il principe ridendo.
—Sì, prima era soltanto brutta, ora ha qualcosa di cattivo; guardati da lei.
Mentre madre e figlio così parlavano nella sala da pranzo, la principessa aveva messo sotto gli occhi di Fabio certi conti dell'Opera delle Madri Lattanti, ma non sapeva come fare a dirgli che sperava egli l'accompagnasse alla inaugurazione della "Fenice". In quel momento in cui stava per chiedere un favore a un uomo, che non considerava suo eguale, che per il passato aveva sempre tenuto a distanza, tutto l'orgoglio di casta combatteva in lei una lotta tremenda e le parole le spiravano sulle labbra.
Fabio ebbe presto esaminati i conti e alzatosi dalla piccola scrivania della principessa, s'inchinò e le chiese se aveva altro da comandargli.
—Dica, Rosati,—domandò la principessa evitando di rispondere,—si fanno grandi preparativi per l'inaugurazione della "Fenice?"
—Immensi. A Roma tutti i fiori sono incettati per quella sera, e non si parla d'altro.
—Sarà contenta la signora Caruso di vedere la sua idea tradotta in opera con una prontezza favolosa?
—Non si può credere quanto la signora Maria sia felice. Ella assicura che il principe non poteva meglio spendere le sue ricchezze che facendo la carità di una consolazione artistica ai poveri.
—La signora Caruso deve aver conosciuta la miseria?—domandò la principessa.
—Pare che la miseria e la casa Rossetti fossero come i due fratelli Siamesi, e che soltanto la comparsa del Caruso in quella casa cacciasse la brutta ospite,—rispose Fabio.
—E allora la signora dovrebbe avere molta gratitudine per il marito?
—E l'ha infatti. Ella è una moglie modello e la sua volontà è sempre sottoposta a quella di Ubaldo.
La principessa fece udire un piccolo riso stridente e acuto.
—Io metto in dubbio tutta quella gratitudine e tutta quella sommissione.
C'è negli uomini un sentimento innato di cavalleria, che li spinge a difendere le donne quando le sentono accusare dalle rivali e a difendere specialmente le belle, quelle che danno per gli occhi un godimento al cuore e che tutti guardano con un segreto desiderio di possederle.
Quel sentimento spinse il Rosati a farsi il paladino di Maria.
—Ne è forse innamorato anche lei?—domandò la principessa con dispetto.
—No,—rispose egli sinceramente,—ma la giustizia mi fa parlare in favore della bella donna.
—Ci siamo troppo occupati di lei e non menta il conto di perdere il tempo,—disse la principessa accennando al Rosati una poltrona,—mi parli piuttosto del teatro e me lo descriva.
Il Rosati, che aveva in tasca un piano della "Fenice" per farlo riprodurre in zincotipia e poi pubblicarlo nel giornale, lo mostrò alla principessa, e si trattenne a lungo a spiegarle com'era decorata la sala, com'erano i palchi, il foyer, i camerini degli artisti e le sale da fumo.
—E il loro palco com'è?—gli domandò la principessa.
—Non lo so; il principe ha dato ordine severo che nessuno vi sia ammesso prima della sera inaugurale, e io come gli altri sono ròso dalla curiosità.
—Lei assisterà alla festa?
—Anche se non volessi assistervi, non potrei. A me spetta di fare il resoconto della serata; io debbo essere al mio posto.
Donna Camilla stette un momento silenziosa guardando la pelle d'orso bianco su cui poggiava i piedi, e pareva che la domanda che si sentiva prima tant'ardimento di fare al Rosati non potesse pronunziarla.
—Se non ha niente da comandarmi,—disse Fabio,—io vado via perchè in famiglia mi aspettano; mio padre è ammalato.
—Senta,—gli disse la principessa alzandosi pure e fissandolo imperterrita negli occhi,—mi vuole accompagnare alla inaugurazione della "Fenice?"
La domanda era così strana che Fabio non seppe rispondere altro che un:
—Sono sempre ai suoi ordini.
—Allora venga a prendermi, passeremo dalla comunicazione interna, che c'è fra il palazzo e il teatro. Venga alle dieci.
Tutto questo fu detto in tono imperioso di comando, quasi ella volesse far capire al Rosati che si serviva di lui come ci si serve di un inferiore, di una persona che ha l'obbligo di ubbidire senza chiedere il perchè.
—Alle dieci verrò a prenderla,—rispose il Rosati sbalordito, inchinandosi.
—Buona sera,—dissegli la principessa e mentre sempre gli stendeva la mano, quella sera incrociò le braccia e chinò soltanto la testa per congedarlo.
—La principessa mi vuol far perdere il posto,—pensava Fabio turbato scendendo le scale.
Si trattava di cosa tanto delicata che egli non sapeva con chi sfogarsi, con chi consigliarsi. Capiva benissimo che egli in tutta quella faccenda non era che un istrumento di vendetta, ma se la principessa voleva compromettersi, perchè non sceglieva a complice uno dei suoi nobili parenti, un giovane del patriziato, perchè gettava gli occhi su di lui?
Gli venne il desiderio di darsi per malato, di scrivere scusandosi, ma come faceva a disertare il suo posto quella sera appunto in cui doveva tutto vedere, tutto osservare per iscrivere uno di quei racconti brillanti nei quali mancavano soltanto l'ortografia e la sintassi, che il Suardi aveva cura di aggiungervi prima di mandarli in tipografia?
Fabio era mezzo sbalordito da quel pensiero e tutti se ne accorsero quella sera alla Stampa. Il Suardi specialmente, che tanto volentieri non gli dava requie, lo burlava, assicurandolo che non aveva mai scritto con più spropositi. Il principe, giungendo, udì i motteggi cui era fatto segno Fabio, e squadrandolo gli disse in tono sarcastico:
—Caro Rosati, lei fa troppi mestieri a questo mondo; si contenti di fare il cronista della Stampa, e avrà la testa più a segno.
Quell'allusione che conteneva una tremenda offesa, annichilì Fabio. Egli non ebbe il coraggio di fiatare e uscì dalla stanza di redazione per andarsi a rifugiare nella sala, non ancora popolata come dopo l'uscita dai teatri.
Il Rosati si gettò sopra una poltrona e rimase lungamente con gli occhi chiusi a pensare a quel fulmine, che gli cadeva sul capo, senza veder mezzo di schivarlo, e mentre era così sgomento e perplesso, sentì battersi sulla spalla e udì la dolce voce di Maria, che gli domandava con premura:
—È ammalato, signor Rosati, vuole che faccia qualche cosa per lei?
In quel momento Maria gli apparì come l'angiolo salvatore, come la sola persona che potesse consigliarlo.
—Non sono malato, non ho bisogno di nessuno, mi occorre soltanto di confidarmi con lei, di dirle quello che mi accade.
—Io sono pronta ad ascoltarlo,—diss'ella facendoselo sedere accanto,—e le prometto che farò quanto starà in me per darle un consiglio saggio.
Quelle parole pronunziate con schietto accento di simpatia consolarono Fabio, il quale narrò a Maria i pretesti addotti dalla principessa per indurlo a andare da lei, le domande che gli rivolgeva per sapere quello che facevano alla Stampa, le narrò tutto, senza allontanarsi mai dal vero, perchè infatti egli non aveva nulla da rimproverarsi. Non le disse però che quelle risposte evasive non erano state dettate da un sentimento di ritegno e di delicatezza, ma soltanto dal bisogno di condursi abilmente tenendo i piedi in due staffe, e per ultimo le narrò quello che esigeva donna Camilla da lui, e l'offesa lanciatagli poco prima dal principe.
—Che cosa debbo fare? mi consigli lei, mi consigli come consiglierebbe in un caso simile un fratello, un amico.
Maria, che leggeva chiaramente nella condotta della principessa, che capiva quanto fosse gelosa e quanto fosse sospettosa di lei, rimase un pezzo prima di rispondere. Non aveva fatto mai soffrire nessuno a questo mondo e le doleva, le doleva immensamente di avere, senza colpa, inconsciamente, esposto una donna alla torture della gelosia.
Dopo una lunga pausa, ella disse con voce strozzata dalla commozione:
—Il principe lo sospetta non di essere innamorato della principessa, nè di cedere a un sentimento, ma di commettere un'azione bassa. Me la lasci dire la brutta parola; lo sospetta di spionaggio. L'unico mezzo per riabilitarsi agli occhi di lui è di chiedergli un abboccamento stasera subito, e di dirgli francamente quello che vuole da lei la principessa; l'avrà questo coraggio?—domandò Maria volgendo su Fabio uno sguardo fermo e scrutatore.
—L'avrò,—egli rispose senza esitare.
In quel momento don Pio precedendo un gruppo di deputati amici entrava, discutendo, nella sala; nel veder Fabio seduto accanto a Maria e impegnato con lei in una conversazione seria, affrettò il passo per mettere una certa distanza fra sè e quelli che lo seguivano, e accostandosi a Maria le disse con tono sarcastico:
—Se vuol accettare un mio consiglio, non ascolti quello che le dice il Rosati; io credo che egli muova troppo la lingua.
Fabio impallidì, ma seppe dominarsi e sentendo fisso su di sè lo sguardo di Maria, ebbe la forza di dire:
—Eccellenza, ho bisogno di parlarle e se potesse ascoltarmi subito, mi farebbe un piacere.
—Credo che potremo rimettere anche a domani questo colloquio,—risposo freddamente don Pio.
—In la prego di ascoltarmi subito.
—Vadano in quel fumoir,—disse Maria per secondare il desiderio di Fabio,—e io starò seduta vicino alla porta e impedirò che sieno disturbati.
—Quando lei ordina.—disse il principe inchinandosi davanti a lei,—non si può far altro che ubbidire,—e si avviò per il primo, entrò nel fumoir e cambiando subito tono, disse, con fare di sprezzo, al Rosati:
—Sentiamo questa seccatura che ha da dirmi;—e accesa una sigaretta si mise a cavalcioni di una poltroncina guardando il Rosati, che non osò neppure sedersi.
—Eccellenza,—disse Fabio con voce tremante,—io vengo a compiere di fronte a lei una missione delicata. La principessa è gelosa, gelosissima e mi ha invitato ad accompagnarla alla inaugurazione del teatro.
—Spero che lei si sarà mostrato cortese e non avrà rifiutato l'onore che la principessa le faceva, sciogliendolo a suo cavaliere?
—Non scherzi, Eccellenza,—disse Fabio in tono supplichevole,—io temo che la principessa sia trascinata dalla gelosia, non ragioni più e voglia commettere uno scandalo, che farebbe parlare tutta Roma. Pensi quanto ne soffrirebbe la signora Caruso....
Fabio, nel pronunziare quel nome capì come erano arrischiate le sue parole e non osò aggiungere altro.
Il principe riflettè per un momento, e poi alzandosi si mise a camminare in su e in giù per la stanza; pareva che non sapesse egli stesso quel che risolvere. A un certo momento si fermò in faccia a Fabio, e dissegli:
—La ringrazio di avermi avvertito; ma esaminando la sua coscienza, non si sente punto colpevole di aver fomentato la gelosia della principessa?
—No,—rispose francamente Fabio.—Io non sono mai andato dalla principessa se non invitato da lei; ho evitato molte domande suggestive, e quando ho parlato, mi sono sempre guardato dall'attizzare la gelosia da cui mi accorgevo che era ròsa. Se non crede a me la interroghi.
Don Pio riprese a passeggiare nella stanza, e fermandosi poi a un tratto dinanzi a Fabio, gli disse:
—Saprò fare in modo che la principessa sia accompagnata alla inaugurazione da altri che da lei; non le dica nulla di questo nostro abboccamento, e sia sincero con me, assolutamente sincero, se tiene a risparmiarmi delle noie.
Quando essi uscirono dal fumoir, trovarono Maria, come una sentinella, sulla porta. Era pallida e guardava ora Fabio ora il principe per leggere sui loro volti il risultato dell'abboccamento. Fabio le rivolse uno sguardo riconoscente e si affrettò a tornare in redazione, dove erano i suoi colleghi, e il principe rimase muto di fronte a Maria.
—Il Rosati le ha detto tutto?—le domandò con voce appena intelligibile.
—Sì.
Una lunga e penosissima pausa tenne dietro a questa risposta; Maria era profondamente turbata; il principe tremante, agitato, più che mai desideroso di lei, non sapeva come rompere il silenzio.
—Non voglio che alcuno soffra per me—diss'ella guardando il principe mestamente,—e non posso permettere che mi si giudichi colpevole. La prego dunque di non occuparsi più punto di me, di dimenticarmi, e io, senza precipitazione, senza dar nell'occhio, saprò far cessare tutti i tormenti e tutti i sospetti.
Ella parlava lentamente, pesando le parole prima di pronunziarle, con una serietà, che rivelava la persona assuefatta alle persecuzioni della sorte, assuefatta a non sgomentarsi delle sventure, sentendosi sorretta dall'illibatezza della sua coscienza e del suo pensiero.
—Maria,—le disse il principe con voce concitata,—non parli di allontanarsi, non ammetta neppure che io possa dimenticarla, non sacrifichi me per soddisfare il capriccio geloso di una donna, che non mi ama, che non mi ha mai amato, e che fin qui ha tollerato senza affliggersene la mia indifferenza e la mia trascuratezza; non mi tolga tutte le gioie che provo a vederla. Non mi tolga la speranza che un giorno si lascierà intenerire dal mio amore e mi amerà. Tutte le donne mi sono divenute indifferenti, mi pare che lei sola sia la donna capace di rendermi felice. Lei è il movente di tutte le mie azioni, lo scopo di tutti i miei pensieri, la mia ambizione, la mia consolazione: non mi lasci, non mi abbandoni!
Maria non ebbe campo di togliere a don Pio ogni speranza. L'on. Carrani si avanzava verso di lei sorridente. Egli era tornato quel giorno stesso dopo un viaggio in Romagna e recava liete novelle. Il paese era scontento del Governo e non aveva nessuna fiducia negli uomini che erano al potere. I deputati delle regioni visitate dall'on. Carrani, erano pronti a mettere, alla prima discussione, il Presidente del Consiglio nella necessità di chiedere alla Camera un voto di fiducia. La Camera, dai calcoli fatti, o negava il voto o lo dava a scarsissima maggioranza; una crisi era inevitabile e il vecchio Presidente del Consiglio non poteva negare dei portafogli agli uomini del loro partito. Ormai si trattava di giorni, e quei giorni dovevano essere abilmente sfruttati dalla Stampa con attacchi abili contro il ministro di Grazia e Giustizia e contro quello della Marina, gli uomini più moderati del Gabinetto e per questo più invisi ai progressisti. Il primo doveva essere attaccato per la tolleranza illegale di cui dava prova lasciando che gli ordini religiosi acquistassero sempre maggiori affigliati, lasciando che, nonostante la legge che proibisce i conventi, questi si popolassero di continuo ai nuovi frati e di nuove monache; quello della Marina doveva essere attaccato nel sistema di costruzioni navali che aveva adottato; bisognava dimostrare che le grandi navi già varate e quelle che erano sui cantieri assorbivano somme enormi e che erano insufficienti a difendere le coste italiane.
—Intendetevi con Ubaldo;—disse il principe che non seguiva per nulla il Carrani nella sua esposizione,—egli è di là che scrive e lo troverete subito.
L'on. Carrani non capì che il principe lo voleva allontanare e si diede a insistere sulla necessità di trovare un tecnico per attaccare il ministro della Marina.
—Ne conosco uno, un ex-ufficiale, eccovi un biglietto per lui, fatelo cercare,—e scritto in fretta due parole col lapis su una carta da visita, la consegnò al Carrani.
Maria si era allontanata dal principe e presa la Nouvelle Revue, che era posata su un tavolino, si era messa a leggerla attentamente.
—Che cosa mi risponde, che speranze mi dà?—le domandò il principe appoggiandosi alla spalliera della poltrona su cui ella era seduta, e sfiorandole quasi con la bocca i capelli.
—Non ho altro che una preghiera da rivolgerle,—disse Maria senza togliere gli occhi dal libro.—La prego di dimenticarmi e di riportare sulla donna che soffre, sulla donna che ha diritto di essere consolata, il suo pensiero e il suo affetto.
—Questa non è una risposta,—disse il principe,—io domando di essere consolato ed ella aggrava la mia afflizione rammentandomi dei doveri incresciosi.
—Allora,—disse Maria alzandosi,—io non le parlerò più dei doveri suoi; le parlerò di me, della mia tranquillità, del rispetto cui ho diritto, e che ho saputo meritarmi a prezzo di grandi sacrifizi. Allora le dirò che voglio non si occupi più di me.
—È impossibile,—disse il principe.
—Quello che pare a lei impossibile, lo renderò possibile io, allontanandomi.
—E suo marito?
—Mio marito ignorerà tutto; io saprò trovare dei pretesti per lasciar Roma, senza turbare la sua pace, che mi è cara, senza porre ostacoli alla sua operosità.
—Maria, la supplico in ginocchio di non mandare ad effetto la sua minaccia; Maria, rimanga; Maria, non mi privi della consolazione che mi viene da lei!
—Come vuole che io rimanga, che non abbandoni il posto, perseguitata dall'amore suo come sono, e dalla gelosia di una donna?
Il Carrani tornava insieme col Caruso, combinando l'attacco contro il ministro di Grazia e Giustizia.
—Bisogna fare una specie di statistica, domani subito, dei conventi che son sorti qui a Roma dopo che è stata applicata la legge della soppressione delle corporazioni religiose,—diceva avvicinandosi sempre più al principe,—e poi continuare quella statistica a Firenze, a Napoli, a Milano, e su quella incominciare l'attacco. Avete un redattore che possa prendere qui informazioni precise?
—Sì, il Rosati,—rispose Caruso, e premendo il bottone di un campanello ordinò a un usciere di chiamare Fabio.
Don Pio era rimasto in faccia a Maria, senza parlare, e la guardava fisso sperando sempre che ella pronunziasse una parola che lo autorizzasse a sperare.
Intanto che aspettavano il Rosati, il quale era sceso in tipografia a fare alcune correzioni, don Pio disse al Caruso:
—Dicevo appunto alla sua signora che mi pareva stanca e sofferente e le proponevo di accompagnarla a casa.
—Sì, Maria ha un aspetto insolito stasera. Va a riposarti e se il principe è così amabile di accompagnarti, approfitta della sua offerta; io non posso muovermi ancora.
Maria non seppe che rispondere e poi desiderava un'ultima spiegazione col principe, sperava d'indurlo a rinunciare a lei.
—Sono pronta,—disse dopo aver data la buona sera all'on. Carrani e al marito. Ella scese sollecita le scale della redazione per evitare di appoggiarsi al braccio di don Pio, che la seguiva.
Neppure per la strada si appoggiò a lui e quando furono a una certa distanza dalla Stampa, ella si fermò risolutamente e gli disse:
—Prima di risolvermi a lasciare Roma, ad abbandonare la casa dove ho vissuto felice, ad abbandonare mio marito in preda a sè stesso, a rinunziare a questa esistenza agiata e tranquilla che mi è parsa il paradiso in terra, dopo tanti tormenti che ella ignora, io la supplico, se è vero che ha un poco d'affetto per me, di rinunciare a delle speranze che, io viva, io consciente, non appagherò mai. Si sente la forza di fare questa promessa?
—Purchè rimanga, purchè io la veda, prometto tutto, avrò tutti gli eroismi.
—Badi, conto sulla sua parola più che su quella di un altro, perchè ella, per la sua nascita, ha maggior obbligo di mantenerla scrupolosamente.
Don Pio non parlava più. Abbattuto, con l'andatura stanca egli camminava accanto a Maria. Senza scambiare una parola giunsero al portone di casa, che Maria aprì con la chiave.
—Vuole che l'accompagni fin su?—domandò don Pio.
—Grazie,—risposo ella che non aveva piena fiducia nella promessa del principe,—ho i cerini.
Si strinsero la mano in silenzio e don Pio portò alle labbra le dita di Maria e gliele baciò ripetutamente. Ella si tirò indietro e chiuse il portone senza permettere a don Pio di entrare nell'ingresso buio, e salì le scale turbata, ansante, e solo quando fu nella quiete della sua camera e vide il suo bambino, che dormiva tranquillo, si sentì al sicuro.
—Ora che credevo fosse terminata la vita precaria, angustiata, miserabile, ora dovremo ricominciare i pellegrinaggi, gli stenti, i sacrifizi! Così non può durare,—diceva Maria a sè stessa ripensando alla sua situazione.—Ubaldo dovrà lasciare il posto, saremo poveri ancora,—e un sospiro angoscioso le sollevava il petto.
Mentre ella fantasticava pensando al mezzo di uscire da quella difficile situazione con minor danno possibile per il marito, don Pio, sotto il grande baldacchino di stoffa stemmata provava il pentimento per la promessa fatta e calmava la sua coscienza, poco scrupolosa, ripetendo a sè stesso che i giuramenti d'amore hanno un valore relativo, e che nessuno è obbligato a tenerli. Questo ei diceva alla sua fantasia infiammata per non privarla di una speranza, questo ei diceva ai suoi sensi eccitati, questo diceva a tutto l'esser suo che non aveva altro desiderio se non quello di possedere Maria. Non potendo dormire, don Pio si alzò verso le quattro e si pose a fumare per la camera cercando di stancarsi, affinchè gli riuscisse più facile di prender sonno; ma gli occhi restarono smisuratamente aperti, il corpo pareva non volesse il riposo e davanti a sè vedeva sempre Maria, che lo guardava affascinandolo con i suoi grandi occhi chiari, col suo sorriso fresco di bambina, con quel profumo soave di onestà che emanava da tutta la bella persona.
—Io l'avrò, l'avrò quella donna!—esclamò don Pio,—e voglio che sia mia in quel teatro che ho costruito per ubbidire a un capriccio di lei.
Calmato da questa promessa, che faceva a sè stesso, si diede a pensare al modo di mantenerla, e trovatolo si coricò di nuovo e dormì fino a ora tarda, di quel sonno tranquillo che è falso dire sia riserbato soltanto ai giusti, mentre Maria non riuscì a prender sonno, Maria che aveva la coscienza pura e non voleva altro che il bene.
X.
Prima cura di don Pio nel destarsi fu quella di scrivere a suo cognato di pranzare quella sera con loro dovendogli parlare, e dopo essersi vestito andò al teatro per vedere se aveano terminato di mettere gli apparecchi per la luce elettrica. La "Fenice" era il primo edifizio di Roma che fosse illuminato con quel sistema, e per quella novità era occorso un ingegnere venuto da Berlino, e spese, spese da non dirsi.
Mancava ancora molto, prima che tutto fosse terminato, ma il principe disse che quella sera stessa voleva si facesse la prova della luce elettrica, e per appagare quel capriccio di lui si raddoppiarono gli operai, si raddoppiarono le forze, e gli fu formalmente promesso che alle dieci avrebbe veduto il teatro illuminato.
Il principe dette ancora degli ordini, girò per i palchi, dove i tappezzieri lavoravano ancora, e si fece consegnare la chiave della barcaccia destinata alla Stampa e che aveva a fianco il salottino per Maria. Quel salottino aveva una finestra sulla strada e anche di giorno era un modello di eleganza.
Piccolo, col soffitto a stucco lievemente filettato d'oro e di azzurro, aveva le pareti ricoperte di una stoffa celeste a piccoli fiori di un bianco perlaceo. Sul pavimento di marmo era gettato un grande tappeto persiano di una tinta mite, e gli angoli erano occupati da quattro cantoniere a cristalli di legno verniciato di bianco, oro e azzurro, che insieme con il canapè, le sedie, la consolle, le porte guarnite di cristalli e le appliques dovevano aver servito ad addobbare il salotto di una signora del diciottesimo secolo. Nelle cantoniere, sui mobili era tutta una profusione di gruppi di biscuit di Capodimonte, di porcellane di Delft e di Sèvres, di bronzi, di miniature, di ninnoli rari e preziosi, mentre dalle pareti pendevano due Greuze autentici, due quadretti che non avevano prezzo.
La sola cosa moderna che si vedesse in quel salottino, così fedele a un'epoca sparita per sempre, era un largo divano su cui era gettata una pelle d'orso bianco, una pelle di un candore e di una morbidezza tali da ricondurre la mente alle regioni polari, alle nevi immacolate.
Don Pio osservò tutto minutamente, ebbe cura di guardare se nella parte inferiore delle cantoniere erano collocati i servizi da thè e da liquori, se vi era il ramino d'argento, se quei mobili erano forniti di quanto può occorrere a una signora per improvvisare un piccolo ricevimento a pochi amici, e poi sedutosi sulla pelle di un bianco immacolato, sognò voluttà tali che lo facevano fremere e davano le vertigini a lui, per il quale la vita del piacere non aveva misteri.
Snervato da quello sforzo della immaginazione, don Pio uscì mettendosi in tasca la chiave di quel salottino, e andò girellando da un punto a un altro della città senza scopo, e finì per ridursi nel suo salotto ad aspettare il pranzo, a pensare a quella sera in cui la febbre che lo divorava doveva alfine essere calmata dal bacio della bella creatura. Tutto sperava da quella sera: sperava che Maria, dopo una così lunga resistenza, dopo un fatto compiuto, incancellabile, si sarebbe affezionata a lui con quell'abbandono che provano molte donne quando la loro resistenza è stata vinta violentemente, sperava una continuità di godimenti, un rinnovellamento non interrotto di profonde sensazioni, sperava che anche Maria sarebbe stata felice e prometteva di fare quanto gli permettevano la sua posizione e le sue ricchezze per mantenere quel legame in una sfera scevra di volgarità.
Alla donna gelosa, che avrebbe con mille insidie, con mille astuzie cercato di amareggiare la felicità che chiedeva a un'altra che a lei, e neppure alla donna contaminata, perseguitato da quella frenesia non pensava. Pensava a sè, a sè soltanto, ai suoi godimenti, alla sua soddisfazione, perchè al mondo egli era assuefatto a non vedere che sè.
L'arrivo del cognato, annunziatogli da Giorgio, lo trasse dai suoi pensieri e gli rammentò che era tempo di vestirsi per il pranzo. Fatto entrare don Alberto Grimaldi nel suo spogliatoio, gli disse in brevi parole quello che voleva da lui.
—Io sarò molto occupato la sera della inaugurazione del teatro, dovrò ricevere, mi dovresti fare il piacere di accompagnare Camilla?
Don Alberto non si mostrò gran che entusiasta di far da cavaliere alla sorella, ma accettò, e i due cognati entrarono insieme nella sala da pranzo dove la duchessa discuteva con l'Onorati rispetto al luogo di nascita del famoso cardinale Urbani, e donna Camilla leggeva l' Osservatore Romano.
—Como mai sei qui?—diss'ella al fratello.
—Ho pensato che tu desideri di venire all'inaugurazione della Fenice e ho invitato Alberto a pranzare con noi per pregarlo di accompagnarti.
Donna Camilla, sempre sospettosa, non seppe rallegrarsi di quella insolita attenzione del marito, e rivolse su di lui uno sguardo interrogativo, ma non riuscì a leggergli nulla sul volto impassibile; peraltro dubitò che il Rosati avesse parlato e disse:
—Mi ero già scelto un cavaliere, ma naturalmente, se tu mi accompagni, Alberto, io ti preferisco a qualunque altro.
—Non credevo che tu avessi dei cavalieri serventi?—osservò don Pio.
—Dal momento che tu preferisci farlo a tutte le signore, meno che a me, io mi rassegno, e scelgo chi gode volentieri della mia compagnia.
—"Tout est pour le mieux dans le meilleur des mondes!"—sentenziò il principe ridendo.
Quella sera egli non sapeva altro che ridere, voleva esser di buon umore, voleva esilararsi. Don Pio ciarlò molto più del consueto, discusse con l'Onorati, narrò aneddoti, scenette e rese loquace anche don Alberto, che aveva lo stesso carattere freddo e noioso della sorella. E intanto che parlava beveva molti bicchierini di Tokay, il solo vino che meritasse il titolo nobiliare di nettare, come egli diceva scherzando.
Appena terminato il pranzo propose alla madre e alla moglie di andare al Costanzi dove si dava l' Excelsior, e fatto attaccare il landau trascinò seco Alberto al grande teatro della Roma nuova. Dopo esser rimasto un poco nel palco, prese il cappello e disse di andare a far delle visite, e poi sul palcoscenico per parlare con l'impresario, e uscì. Si fece vedere infatti per un momento nel palco della moglie di un segretario dell'ambasciata inglese, e poi l'occhio indagatore di donna Camilla non riuscì a scorgerlo più nella vasta sala del teatro.
Infatti, don Pio era andato via, e salito in botte si era fatto condurre alla Stampa. Nel salone c'era Maria, che parlava con Adriana Mariani.
Maria pallida, ma calma, composta e sorridente come al solito, quando vide il principe sussultò lievemente e gli stese la mano con la usata cordialità.—
—Siete divenuto il Prince charmant,—disse Adriana col suo torte accento francese, strisciando le esse e pronunziando l'erre in gola.—Non a Roma soltanto, ma anche a Parigi si parla delle meraviglie che create. Guardate che cosa dice il Gil-Blas del vostro teatro!
Ella porse al principe il giornale del Boulevard. Don Pio lesse, e man mano che andava avanti sorrideva di compiacenza. Quando ebbe terminato l' entrefilet, che conteneva una lode grandissima per la "Fenice" e per la sua munificenza, disse, rivolto alle due signore:
—Per far sempre la parte che mi si attribuisce, vi propongo di venir subito a vedere il teatro, così giudicherete se gli elogi che se ne fanno anche a Parigi, sono esagerati.
—Andiamo, andiamo,—disse la piccola francese, sempre lieta quando le si offriva qualcosa d'inatteso e di nuovo.
—Un momento,—rispose il principe, ed allontanatosi tornò in compagnia del Rosati, del Suardi e di due altri redattori della Stampa.
—Ora sono agli ordini delle signore.
Maria e Adriana Mariani s'incamminarono lentamente conversando fra loro; il principe e gli altri le seguivano pure parlando, e, traversato un corridoio, che dall'ingresso del giornale metteva direttamente nel buffet della "Fenice," si fermarono vedendo che tutto era all'oscuro. Il principe accese i cerini e offrì il braccio a Maria; il Suardi prese famigliarmente per la mano Adriana e gli altri si davano molto da fare per rischiarare il sentiero alle due coppie.
Quando furono giunti alla porta che dai corridoi laterali metteva nel centro della platea, il principe pregò di aspettarlo un momento, e lasciata Maria si avviò solo giù per una scala, che metteva alla stanza dov'era collocato il generatore della elettricità, e dove aveva dato ordine all'ingegnere e agli operai di attenderlo.
—È tutto pronto?—domandò.
—Tutto,—gli fu risposto.
—Allora fra cinque minuti che il teatro sia tutto illuminato,—e senza informarsi d'altro, senza aggiungere altro risalì per raggiungere il resto della comitiva.
—Si può fare a mosca cieca per ammazzare il tempo,—diceva il Suardi.
—Pazienza!—gridò il principe da lontano.—L'oracolo mi ha detto che fra meno di cinque minuti il miracolo si compirà e quando si pronunzieranno le solenni parole: Fiat lux, la luce si farà.
—Speriamolo,—rispose il Suardi.—Per ora è buio pesto, e in questo stato di cose non mi accorgo della differenza che passa fra il volto della signora Maria e quello del mio amico Sbarbati.
Era quello il soprannome affibbiato dal Suardi al Rosati e col quale gli rammentava continuamente che i baffi non volevano spuntargli.
—Qui potrei passare anche per barbuto come te,—rispose bonariamente Fabio.
— Fiat lux,—disse il principe vedendo il filo delle piccole lampade elettriche, che incominciava a farsi incandescente.
Un istante dopo un'onda di luce siderea, di luce fredda illuminava da cima a fondo la sala del teatro mettendo in rilievo le dorature, gli stucchi, gli affreschi della vòlta, le stoffe delle drapperie, il ricco telone, tutta quella profusione di ornamenti, tutta quella ricchezza che dava alla sala l'aspetto di un luogo incantato.
—Evviva il Prince charmant!—gridò Adriana battendo le mani.
—Evviva l'autore del teatro!—gridò il Suardi.
Gli evviva non finivano più. Soltanto Maria rimaneva muta, pareva abbagliata da tutta quella luce, da tutta quella ricchezza; rimaneva muta perchè il cuore le diceva che un uomo che fa tutto quello per appagare il desiderio di una donna, non si rassegna a rinunziare a lei, non può rassegnarsi a non cercare con ogni mezzo di conseguire il premio che ha sperato.
—Non le piace?—domandò don Pio a Maria, sentendosi offeso da quella freddezza.
—Sono sbalordita,—rispose ella chinando a terra lo sguardo per trovare un punto meno splendente ove posarlo.
Intanto l'ingegnere era salito per domandare al principe se era contento della illuminazione.
—Contentissimo,—rispose egli.
Adriana, che era molto curiosa di capir subito tutti i nuovi ritrovati per poi parlarne ai non iniziati e sbalordirli con la sua erudizione, incominciò a rivolgere molto domande all'ingegnere sul come si generava e si trasmetteva la luce, sulla diversità delle lampade, e l'ingegnere le rispondeva con molta precisione, nel suo cattivo francese; intanto il principe guidava gli altri nella visita del teatro e salivano e scendevano a caso.
Il Rosati, che sapeva benissimo il desiderio del principe di rimanere a parlare con Maria, fece in modo da condurre i compagni sul palcoscenico; Adriana si fermò a guardare l'addobbo dei palchi mettendo il naso per tutto senza cessare di rivolgere interrogazioni al suo compagno, e il principe, accorgendosi di non esser seguito, condusse Maria nel suo palco della Stampa. Ella era così stanca, così abbagliata da tutta quella ricchezza che la schiacciava, da quel tributo grandioso resole da don Pio, che non aveva più forza, e si lasciò cadere spossata sopra un divano non supponendo che alcun pericolo la minacciasse, e convinta che Adriana, che vedeva in un palco poco distante, l'avrebbe presto raggiunta.
—Come è abbattuta, come è malata, povera Maria,—le disse don Pio,—mi permette che le prepari una tazza di thè?
—Faccia quello che vuole,—rispose Maria senza moversi e senza neppur seguire con lo sguardo il principe, che apriva la porta del salottino, e tolto il bricco d'argento da una cantoniera vi accendeva sotto lo spirito.
Il principe tornò subito presso Maria e le disse:
—Quel salottino era destinato a lei; con ogni cura glielo avevo preparato. Nessuna regina ne ha uno simile in un teatro del mondo; non vuol neppur degnarsi di guardarlo?
Il tono con cui don Pio parlavale era così umile, egli pareva così rassegnato a rinunziare ad amarla, così afflitto, che ella non seppe negargli quel favore domandato tanto supplichevolmente, e alzatasi mise il piede nel santuario che era stato creato per lei. Appena l'occhio di Maria si volse in giro fu dolcemente impressionato dalla perfetta armonia di stile e di tinte che regnava nel salottino, e il suo istinto d'artista si destò, l'occhio perdè l'abbattimento che dava a tutta la fisonomia un'espressione di languore, ed ella prese a guardare, ad ammirare le stoffe, i quadri, i mobili e le porcellane. Mentre ella aveva voltato le spalle alla porta, don Pio sfilò la chiave dalla parte esterna, chiuse dal lato interno e si mise prontamente la chiave in tasca.
Nel voltarsi per domandargli che cosa rappresentava un gruppo di Capodimonte, Maria si accorse che dal viso di don Pio era scomparsa l'espressione umile e supplichevole, che gli occhi gli brillavano di cupidigia, e sulle labbra aveva un sorriso cinico.
Allora capì tutto, capì il tranello, capì che era prigioniera, che bisognava lottare, e, correndo alla porta, la scosse per aprirla, ma la porta resistè.
Fiera e sdegnosa si piantò allora in faccia a don Pio e squadrandolo gli disse:
—Se è un uomo d'onore, si rammenti della promessa che mi ha fatto.
—Non so quello che sono in questo momento; so che qui siamo soli e che ti amo come un pazzo e che sarai mia.
—Viva mai!—rispose Maria senza levar gli occhi da quelli del principe.
—Vedremo,—rispose egli, e afferratala per un braccio cercò di gettarla distesa sul lettuccio coperto dalla nivea pelle d'orso. Ma ella, con una forza raddoppiata dalla disperazione, si svincolò dalla stretta di lui e incominciò a correre per la stanza, rovesciando mobili affinchè le servissero di barriera, schivando le mani avide che si stendevano di continuo per abbrancarla, respingendo quella bocca protesa per cogliere un bacio sul suo volto. In quella lotta il ramino si rovesciò, lo spirito corse come un rivo di fuoco sul tappeto e la fiamma, appiccatasi a un tratto alla cortina di seta che copriva la porta, salì in un lampo fino alla vòlta.
Don Pio si fermò spaventato, e Maria profittando della confusione, spalancò la finestra, e senza pensare al pericolo cui andava incontro, senza pensare ad altro che quella finestra la salvava dall'onta, la salvava dalla macchia che le faceva più orrore della morte, spiccò un salto e cadde come morta sul selciato della strada.
Due persone, che passavano in quel momento dal lato opposto del marciapiede videro volare quel corpo, udirono il tonfo e accorsero a sollevarla, ma prima che avessero tempo di far commenti sul fatto, videro un gran chiarore e delle lingue di fuoco che s'erano aperto un varco attraverso la finestra spalancata, e crederono che Maria si fosse gettata di sotto per non morire bruciata. Altri passanti sopraggiunsero, e fra quelli un tipografo della Stampa, che riconobbe Maria, e corse al giornale ad avvertire che il teatro era in fiamme e che la signora Caruso, sgomenta, si era gettata dalla finestra.
Don Pio, scottandosi le mani, bruciandosi i capelli e il volto era riuscito a toglier la chiave di tasca, ad aprire la porta e a fuggire per il teatro chiedendo aiuto, gridando come un pazzo. Ma le fiamme, le fiamme alimentate dal vento, che penetrava dalla finestra spalancata, correvano anch'esse con marcia trionfale dal palco della Stampa su verso i palchi superiori, sul palco scenico, e prima che il Rosati, il Suardi e Adriana se ne fossero accorti, avevano già avvinto nelle loro immense spire infuocate tutta la sala del teatro.
Nel veder fuggire don Pio solo, don Pio che pareva una bestia inseguita, tutti si diedero a rincorrerlo, domandandogli con alte grida:
—E Maria? Dov'è Maria?
Ma egli non si fermava; correva sempre, correva precipitosamente finchè non cadde nell'ingresso del giornale, dove in quel momento trasportavano Maria priva di sensi.
Fra tutta quella gente, che si affollava a prestar cure alla signora Caruso e al principe della Marsiliana, e che si faceva sempre più numerosa per il sopraggiungere degli operai della tipografia e dei passanti, che entravano liberamente nell'androne della Stampa, non vi fu nessuno che in sulle prime pensasse ad avvertire i pompieri. Tutte le teste si protendevano per vedere la bella donna stesa esanime sopra un materassino, tolto alla camera del portinaio, e per veder don Pio con gli occhi chiusi, i baffi e i capelli bruciati, seduto sopra una sedia, senza dar segno di vita. Fabio Rosati fu il primo che riacquistasse il sangue freddo, e dopo aver domandato se i vigili erano giunti, si staccò dal fianco del principe per andare al telefono ad avvertire tutte le stazioni dei pompieri. La sua voce echeggiava sinistramente in quel silenzio sepolcrale, e quelle parole di "aiuto, soccorso" che egli ripeteva continuamente facevano rabbrividire quanti le udivano, perchè quelle due vittime, che giacevano lì inanimate, erano le prime, ma non le ultime, che poteva fare l'incendio.
Un medico trovandosi a passare per caso, entrò e, fattosi largo fra la folla si avvicinò a Maria, le mise l'orecchio sul cuore e ordinò che fosse adagiata in una carrozza e condotta a casa. Ubaldo, che le era stato fino a quel momento inginocchiato accanto, la prese fra le braccia e passò in mezzo alla gente raccogliendo le parole di commiserazione che la vista di quella bella creatura strappava a tutti.
—Poverina! Pare morta!—diceva la gente cercando di farsi strada fra la folla per accompagnarla.
Il medico voleva seguire Maria, ma il Rosati lo trattenne e lo condusse accanto al principe, che era tuttavia privo di sensi e pareva mummificato.
—Trovami un chirurgo, subito, per carità,—aveva detto Ubaldo al Suardi il quale avevalo aiutato a adagiare Maria nella carrozza. E il Suardi era andato correndo in due o tre farmacie e poco dopo giungeva a casa di Ubaldo insieme con un chirurgo, il quale spogliata la ferita trovò che aveva una gamba rotta e non nascose che il caso era complicato da una forte commozione cerebrale.
Il bambino di Maria, il piccolo Mario, s'era destato all'improvviso udendo delle voci in camera, e seduto sul letto piangeva chiamando la mamma e irritandosi perchè non otteneva risposta da lei. Una folla di gente composta della portinaia, dei pigionali, di curiosi, empiva la stanza, e il bel corpo abbandonato era profanato dagli sguardi di tutti.
Senza che Maria riacquistasse i sensi le fu fatta la fasciatura della gamba. I begli occhi restavano chiusi, tumefatti, circondati di nero, e dalle labbra coperte di bava usciva un lamento continuo straziante.
Il chirurgo aveva pensato a spogliare Maria per assicurarsi che non vi erano altre fratture, le aveva tolto di testa il cappello, ma nessuno aveva pensato a levarle i lunghi guanti, che le giungevano fino al gomito, nè la sciarpa che le avvolgeva il collo.
Adriana, accorse anche lei a casa dell'amica e vedendola così sconciamente esposta agli sguardi di tutti, fece uscire di camera gli estranei, le tolse i guanti, la sciarpa, la coprì, raccolse le vesti e si dette a vegliarla.
Ubaldo non capiva nulla, pareva pazzo; non vedova nulla altro che quella povera donna che credeva dovesse spirare a un tratto.
Egli non aveva mai pensato che Maria potesse morire, nè l'aveva mai veduta ammalata, e ora che ella giaceva inerte, quasi morta, sentiva come quella dolce creatura con la sua bontà, la sua sommissione, la sua dolcezza, le fosse divenuta cara, indispensabile; e rimpiangeva gli anni trascorsi lontano da lei in una abbietta dimenticanza, come i più tristi della sua esistenza.
—Maria! Maria mia!—egli diceva di continuo fissandola, toccandola, scotendola.
Tutta la notte Adriana, il medico e Ubaldo vegliarono Maria e ogni momento giungevano il Suardi o Fabio Rosati a domandar notizie di lei, e portavano ragguagli desolanti sui progressi dell'incendio. I pompieri lavorando faticosamente, aiutati dai soldati, non potevano tentar altro che d'isolare il palazzo Urbani e la casa della Stampa dal teatro in fiamme; tutto era perduto, perduto irremissibilmente, e il principe, che aveva ripresi i sensi, si aggirava come un pazzo pel cortile, nelle vie che circondavano il palazzo e il teatro, asserragliate dai cordoni di militari, e guardava istupidito quelle braccia operose, che cercavano di salvare almeno i tesori artistici della sua famiglia, e la sede del suo giornale.
Quando il Rosati gli aveva detto che Maria, per isfuggire un pericolo ne aveva affrontato un altro, e che ora era quasi morente, egli lo aveva guardato senza dar segno di commozione, senza rivolgergli nessuna domanda.
A giorno, quando la luce pallida di una piovosa giornata di novembre aveva illuminate le rovine del teatro, da cui si sprigionavano ancora buffi di fumo nerastro, e che don Pio aveva veduto invece dell'elegante edifizio, che il giorno prima era il suo orgoglio, un ammasso di travature rose dal fuoco, di materiali anneriti dal fumo, di statue mutilate e insozzate dal fango, s'era messo le mani agli occhi ed era corso a rifugiarsi in camera sua, dove Giorgio, che lo aspettava, avevalo messo a letto.
La duchessa e donna Camilla, che avevano passato la notte trepidanti, appena saputo che il principe era tornato, si affrettarono ad andare da lui, ma don Pio teneva gli occhi chiusi, non rispondeva, e pareva volesse isolarsi da ogni persona, da ogni pensiero che non fosse quello della sventura che colpivalo.
Anch'egli fu curato, ma il medico assicurava che le scottature non erano gravi, e attribuiva specialmente a una violenta commozione dell'animo lo stato di abbattimento in cui trovavasi il principe.
—Ma come si è sviluppato l'incendio?—domandava la principessa con insistenza al Rosati e al Suardi, che andavano ogni momento fino nel salotto di don Pio a chieder notizie.
Nessuno lo sapeva, nessuno poteva spiegarglielo ed ella supponeva che le nascondessero un mistero, perchè il ragionamento dicevale che una prova di luce elettrica non può mettere in fiamme un teatro.
Quando le dissero che la signora Caruso era ferita, gravemente ferita per essersi gettata da una finestra, un sospetto le balenò nella mente e più che mai fiutò un mistero in quell'appiccarsi improvviso del fuoco, e promise a se stessa di non allontanarsi un momento dalla camera di suo marito, finchè quel mistero non fosse nelle sue mani, finchè ella non si fosse vendicata.
Non sapeva bene contro chi avrebbe tratta quella vendetta; il marito era annientato, Maria era morente, ma nonostante, il suo cuore arido si rallegrava al pensiero della vendetta.
XI.
Mentre la principessa non trovava nel suo cuore, neppure in quel momento doloroso, una piccola dose d'indulgenza, nè di tenerezza, e vegliava il marito con l'impassibilità di un carceriere cui è stato affidato un colpevole, Maria, nel riaprir gli occhi, alcuni giorni dopo la tremenda scossa, stendeva le braccia amorose a Ubaldo e sorrideva pensando che aveva saputo serbarsi pura e onesta. I dolori che soffriva le rammentavano la lotta sostenuta, ma le rammentavano pure che aveva vinto, che aveva vittoriosamente trionfato di tutte le insidie tesele, e il pensiero di aver fatto il suo dovere le dava la forza di tollerarli, come avviene ai soldati feriti nella difesa della bandiera, che è un bene ideale, come l'onore e la virtù.
—Paurosa!—le diceva il marito alludendo al salto disperato, ed ella sorrideva e diceva che aveva perduto la testa, che il fuoco mette lo sgomento addosso, ma non diceva altro perchè ora, meno che mai, voleva porre suo marito nel caso di battersi col principe, di perdere la sua posizione. Appena rimessa, voleva andare a Venezia dai suoi, sparire per un certo tempo e farsi dimenticare.
Il medico le aveva proibito di parlare ed ella sorrideva, non potendo ringraziare Adriana, il marito, e quanti la curavano; sorrideva dolcemente e la sua bell'anima serena non era sgomenta neppure dal tragico fatto che inchiodavala a letto. La sua onestà aveva trionfato ed ella non osava lamentarsi, non osava disperare nell'avvenire.
Quando le dipingevano lo stato del principe, il suo pertinace mutismo, lo abbattimento a cui era in preda, diceva:
—Poveretto!—e non aggiungeva altro.
Dopo i primi giorni, nei quali tutta Roma e l'Italia non facevano altro che parlare dell'incendio del teatro e del principe della Marsiliana, e i telegrammi piovevano al palazzo Urbani, e le carrozze patrizie facevano fila davanti al portone per aver notizie di don Pio tutto ritornò nella calma. Roma, distratta da un tremendo omicidio commesso in una delle vie più frequentate, non si occupò più del disastro della "Fenice", nè dei feriti, e i giornali cessarono dal darne le notizie.
Ma intanto che il principe si rendeva invisibile agli occhi di tutti, intanto che nessuno dei suoi ingegneri, dei suoi accollatari temeva di vederlo giungere da un momento all'altro alla Marsiliana per visitare a che punto erano i lavori di un canale emissario, che egli faceva scavare attraverso i suoi possessi e che doveva portare al mare le acque che rendevano l'aria mefitica stagnando, e che nessuno temeva di vederlo comparire su quella vasta distesa di terreno che aveva acquistato a Porta Portese, si commettevano, a danno suo, le truffe più ardite e più sfrontate. Alla Marsiliana si facevano lavorare gli operai mezza giornata soltanto, a Porta Portese appena un'ora la mattina e un'ora la sera. I muratori andavano all'appello, poi dagli accollatari, dagli ingegneri stessi erano mandati a lavorare in altri punti della città, a far progredire altre fabbriche che essi dirigevano, mentre quelle di don Pio si alzavano lentamente dal suolo, e don Pio pagava, e don Pio si dissanguava per supplire a quelle immani spese. E così era per tutto: i suoi eccellenti foraggi, i suoi grani, i suoi vini, i suoi latticini si vendevano, al dire degli intendenti, a un prezzo bassissimo, il suo bestiame, i suoi cavalli, allevati con cura, costavano somme enormi e non davano che uno scarso provento; tutto quello che per altri è sorgente di ricchezze, per lui, per lui solo era un mezzo per precipitare alla rovina. Pareva che tutti si fossero dati l'intesa per tagliargli a brandelli quel vistoso patrimonio che la duchessa Teresa aveva con tanta cura e con tanta pertinacia mondato dalle passività, dalle ipoteche e dagli oneri, pareva che egli fosse caduto nelle mani di una associazione di malfattori, che si fossero data la parola d'ordine per ridurlo sulle cinghie. Invece ognuno ubbidiva a un movente personale, e nessuno aveva rimorso di quel che faceva, poichè il principe della Marsiliana era considerato generalmente come un uomo destinato a essere spogliato, a essere ingannato. Rubare sfacciatamente a lui, era come coglier dell'uva in un campo aperto, esposto ai viandanti, non sorvegliato, non difeso da nessuno. Era questione di tempo; chi prima arrivava, prima prendeva, ma il campo era cosa di tutti, aperto a quanti avevano la fortuna di sfruttarlo. E così era nella Stampa. Il direttore della tipografia comprava, con i denari del principe, caratteri di lusso, inchiostro, torchi, motori, carta e portava tutto in altro locale dove lavorava per conto proprio; gli uscieri vendevano i libri da dare in premio agli associati, le cromolitografie, i giornali; gli abbonamenti che non venivano per mezzo della posta erano il provento degli impiegati subalterni di amministrazione, che li registravano sopra un bullettario speciale e non li passavano mai al cassiere, mentre gli abbonati ricevevano il giornale; i redattori stessi si appropriavano i libri della biblioteca Urbani, si facevano portare a casa opere intiere senza farsene scrupolo. Ora poi che don Pio si sottraeva agli sguardi di tutti, il piglia piglia era divenuto generale; pareva che tutti avessero la convinzione che il principe non dovesse più risorgere, più mostrarsi, che già il suo corpo mandasse un puzzo di cadavere, e quella caterva di uccelli di rapina, resi più che mai famelici, lo divoravano vivo, sciupavano, disperdevano ciò che valeva più di lui, lo privavano di quel prestigio, di quella forza che dà agli esseri nulli la ricchezza. E don Pio della Marsiliana sonnecchiava apparentemente, senza curarsi di niente altro che di Maria. Non ne sapeva nulla da quella notte tremenda e a momenti si figurava che Maria fosse morta, morta per colpa sua. Allora un rimorso tremendo lo assaliva, allora pentivasi acerbamente di averla sacrificata e col cuore le parlava, implorando dall'anima di lei il perdono.
Dopo una ventina di giorni di abbattimento il principe si riebbe un poco e incominciò ad alzarsi per esser liberato dalla sorveglianza continua della moglie. Di Maria non domandava a Giorgio, alla madre, a nessuno. Aveva paura che i suoi dubbi ottenessero una conferma, che qualcuno gli dicesse che era morta, morta davvero, e non sentivasi la forza di sopportare la dolorosa conferma, che gli avrebbe inflitto un eterno rimorso. Egli era orribilmente sfigurato per la mancanza dei capelli e dei baffi e per quelle scottature alle labbra e alla fronte, che lo facevano parere un lebbroso; inoltre la fisonomia aveva acquistato un'espressione sinistra, e gli occhi erano sbarrati e sgomenti.
Don Pio si alzava, ma non voleva veder nessuno, non parlava mai e appena udiva un cameriere trasmettere a Giorgio il nome di un visitatore, faceva un cenno di noia con la mano, e il visitatore era rimandato.
La malattia del principe, la sua indifferenza per tutto quello che tanto occupavalo per il passato, quell'abbandono in cui aveva lasciato la Stampa non erano risentiti dal giornale, poichè l'Ubaldo, appena vide la moglie riavuta, ritornò imperterrito al lavoro e diresse la lotta contro i due ministri della Marina e di Grazia e Giustizia con quell'accanimento e con quell'acrimonia, che erano la forza del giornale d'opposizione. Un foglio ufficioso del presidente del Consiglio rispose a quel fuoco di fila con un solo articolo pieno di attacchi mal celati ad arte contro il principe della Marsiliana. Ubaldo Caruso, non sapendo se ribattere o no quegli attacchi, andò al palazzo Urbani e come al solito penetrò fino nella galleria attigua al salotto di don Pio, e chiese di essere introdotto. Il principe, che aveva udito la voce di Ubaldo, ordinò che passasse subito, e quella preferenza non sfuggì a donna Camilla, che non si era mossa dalla poltrona alla quale pareva attaccata come un'ostrica a uno scoglio: ella si convinse che don Pio, in mezzo a quella rinunzia a ogni attività della mente e del corpo, era sempre innamorato di Maria, e il pensiero di quella donna era l'unico che gli rimanesse.
Ubaldo aveva saputo dai domestici in quale stato di abbattimento fosse il principe, ma non credeva mai che la distruzione fosse così grande. Non per questo si sgomentò come sgomentavansi i suoi colleghi per la malattia di don Pio. Egli capiva che anche se il principe fosse venuto a mancare, la Stampa aveva da campare floridamente di vita propria, poichè i capitali che vi aveva profusi, le assicuravano l'avvenire, se peraltro chi la dirigeva, aveva la pertinacia necessaria per rimanere sulla breccia, per combattere sempre, ed egli sentiva di possedere quella virtù. Questa sicurezza nelle proprie forze, queste vedute più larghe di quelle della comune dei suoi colleghi, gli davano la calma nel lavoro e gli permettevano di guardare quel povero principe della Marsiliana senza turbarsi.
Naturalmente Ubaldo parlò molto della moglie, esaltò il fascino della rassegnazione, della serenità di lei nella sventura, ne lodò le grandi virtù e disse che si stimava fortunato di averla per compagna; anche se tutto gli venisse a mancare e gli restasse solo la sua cara Maria, si crederebbe preferito dalla sorte.
Il principe lo ascoltava senza batter palpebra e in cuor suo diceva che Ubaldo aveva ragione. Anche lui si sarebbe stimato l'uomo più fortunato della terra se avesse avuta Maria per compagna, o anche per amica. Ora, in quella grande prostrazione i desideri tacevano e l'amore del principe per Maria si era trasformato, si era purificato.
Egli non sarebbe stato più capace di chiuderla in una stanza, di costringerla con la forza a subire un amore, che ella non divideva; ora egli non sarebbe stato capace di altro che di inginocchiarsi davanti a lei, e baciandole il lembo della veste implorare un perdono che sentiva di non meritare.
Il rimorso dell'offesa fattale, del pericolo cui avevala esposta per difendere il suo onore, lo torturava, e soltanto una buona e dolce parola di lei, sentiva, gli avrebbe reso la vita.
E mentre il marito lodava le virtù della sua buona e cara compagna, e la principessa fremeva di rabbia inghiottendo gl'insulti che le salivano dal cuore alla gola per quell'uomo, che credeva consapevole dell'amore di don Pio, la speranza di esser perdonato s'infiltrava nell'anima del principe.
—Dunque,—concluse Ubaldo alzandosi per uscire,—debbo rispondere agli attacchi?
—Lasci correre,—rispose don Pio,—io non chiedo altro che la pace, nulla mi punge più.
—Ma il tacere equivale al sancire col silenzio gli attacchi; vede? alludono allo stato della sua mente, alla rovina del suo patrimonio e sono voci che non si possono lasciar correre impunemente.
—Quando non importa a me....—disse don Pio atteggiando la bocca a un sorriso cinico.
Ubaldo non rispose; chinò il capo e incurvò la persona dinanzi a donna Camilla, che gli rispose con un cenno appena visibile della testa accompagnandolo con uno sguardo di sprezzo, e salutato il principe uscì.
XII.
Appena don Pio fu rimasto solo lo assalì il desiderio prepotente di ottenere il perdono di Maria, ma come chiederlo? Non poteva uscire e non sarebbe potuto uscire per un pezzo perchè era deforme; non poteva far chiedere a Maria quel perdono da altri; bisognava che scrivesse. Il pensiero di affidare una lettera, che doveva passare per più mani prima di giungere a destinazione, il segreto del suo cuore, l'onore di quella donna, che ora aveva per lui il prestigio delle sante figure muliebri cui la virtù pone una aureola di raggi luminosi intorno al capo, lo sgomentavano, ma tanto per isfogare il suo dolore, il suo pentimento, prese la penna e si mise a scrivere a Maria, gettando poi nel caminetto tutte le lettere umili, pentite, appassionate, nelle quali aveva versato l'amore che lo consumava.
Mentre stava guardando la fiamma che divorava alcuni pezzi di carta e con le molle spingeva quelli rimasti illesi sui carboni, donna Camilla entrò nella camera del marito, e con l'occhio indagatore, l'occhio geloso, che indovina prima di capire, seppe che il marito aveva scritto a Maria, e se avesse potuto, se egli non fosse stato presente, si sarebbe inginocchiata dinanzi al caminetto e con le sue mani, che avevano orrore della polvere, che si chiudevano come le foglie della sensitiva, appena qualche cosa di sudicio le sfiorava, avrebbe disputato al fuoco quei pezzetti di carta, che contenevano la confessione di suo marito, il suo grido di dolore, l'appello che faceva alla generosità di un cuore di donna.
Ella finse di non accorgersi di nulla e sedutasi su una poltroncina, a fianco del caminetto, spiegò la rozza coperta di lana, stendardo di beneficenza, dietro alla quale nascondeva la perfidia del suo carattere, e, come una assistente cui il dovere impone di non muoversi dalla camera di un malato, rimase a spiare l'impazienza del marito, il suo abbattimento, il suo amore.
Don Pio sentiva quello spionaggio e provava una specie di compiacimento pensando alle sofferente di sua moglie, alla tortura che le imponeva. Quando una persona è d'ostacolo all'appagamento di un desiderio, essa diviene, per chi da quel desiderio appagato spera un conforto, un nemico che volentieri si stritolerebbe, si annienterebbe. E don Pio in quel momento stringeva le mani, si conficcava le unghie nel palmo, come le avrebbe conficcate nelle carni di donna Camilla, se le sue consuetudini signorili non gli avessero impedito di offendere materialmente sua moglie.
Quando Giorgio, sull'imbrunire, portò i lumi, don Pio era affondato in una poltrona fingendo di dormire; lei, con l'occhio fisso sulle ceneri del caminetto, chiedeva loro il segreto che le avevano sottratto.
La duchessa prima di pranzo scese dal figlio, come faceva ogni sera, e allora soltanto don Pio finse di destarsi, di ritornare alla vita. Seppellito in una coperta di pelliccia, con un berrettino di panno scozzese in testa, nell'aprire gli occhi egli vide la sua ridicola figura riflessa in uno specchio, e rise dentro di sè della gelosia della moglie. A chi poteva piacere, chi poteva commovere, brutto com'era?
—Dio, che orrore!—esclamò buttando in terra la pelliccia e andando vicino al grande specchio per meglio esaminarsi.—Potrei servire di spauracchio ai passerotti in un campo di grano.
La duchessa rise di cuore vedendo una espressione gaia sulla faccia del figlio; la moglie sentenziò:
—La bellezza del corpo è la perdizione dell'anima.
—Preferirei esser dannato, piuttosto che brutto come sono ora,—rispose il principe.—Il popolo considera la bellezza come una benedizione del cielo, e io divido l'opinione del popolo. La vista di un bel volto, di un bel corpo mi mette nell'anima la serenità. Credo che anche la coscienza della propria bellezza renda migliori; i brutti sono in genere anche dispettosi.
La principessa sentì l'offesa, che le era diretta, ma continuò impassibile a lavorare alla rozza coperta di lana. Don Pio, che voleva provocare in lei un moto di dispetto e sperava di farla uscire, di liberarsi di quella incresciosa vigilanza, capì che la principessa non avrebbe lasciato quella camera neppure se egli le avesse detto in faccia apertamente:—Vattene!
E si rassegnò sperando che la notte almeno sarebbe stato solo, che la notte avrebbe potuto mettere in carta tutte le idee che gli si affollavano alla mente, scrivere tutte le frasi umili, di pentimento e di adorazione, che in quel momento gli venivano dal cuore alle labbra.
Pazientò prima di pranzo, pazientò durante il pranzo mentre Giorgio assistito da un altro cameriere lo serviva, pazientò dopo, quando la duchessa, donna Camilla e l'Onorati andarono a prendere il caffè intorno al caminetto della sua camera.
In quei giorni l'Onorati, scartabellando le carte d'archivio, aveva scoperto la corrispondenza fra una improvvisatrice napoletana del 1700, nota in Arcadia sotto il nome di Fille Arimantea, con un principe della Marsiliana. Il bibliofilo, leggendo le lettere, quasi tutte in versi, della poetessa e le risposte del principe, aveva ricostruito il ritratto di lei, così al fisico come al morale e giurava e spergiurava che quella donna, nonostante fosse conscia del grande affetto che aveva ispirato all'illustre patrizio, e dell'ascendente che aveva sull'animo di lui, si era serbata onesta.
—Io non credo all'onestà di certe donne che, trovandosi in condizione inferiore, speculano sull'amore che sanno di aver destato in un uomo a esse superiore per nascita e per censo,—disse la principessa.
Don Pio, che capiva il pensiero della principessa ed era ferito dal tono di sprezzo con cui essa parlava, fremeva, pur stando zitto, ma l'Onorati aveva preso ad amare l'eroina di quel romanzetto, prima perchè gli pareva di averla scoperta e in secondo luogo perchè l'intelligenza e la grazia che rivelavano le lettere della Fille Arimantea avevano parlato alla sua immaginazione di poeta-letterato. Egli la difese dunque a spada tratta, e sostenne che la principessa sentenziava in quel modo perchè alla sua età siamo poco indulgenti, e perchè le signore nate in una condizione elevata non sono al caso di apprezzare i nobili sacrifizi, gli eroismi delle donne povere, delle donne che lavorano.
—Non faccio altro che trovarmi a contatto con la miseria,—rispose la principessa,—e queste grandi virtù non le vedo.
—Perchè ella confonde miseria con povertà, perchè la miseria avvilisce e fa cercare avidamente l'aiuto sotto qualsiasi forma si presenta, mentre la povertà è altera, la povertà tollera il presente, perchè la sostiene la speranza di ricompense più alte. Vuole un paragone? la miseria potrebbe essere raffigurata dallo schiavo romano, che presenta la schiena alla frusta del padrone e con la bocca cerca di afferrare i rimasugli che egli lascia cadere dalla mensa sontuosa; la povertà dal cristiano, che ha scosse le catene, e benchè lo dilanii la lame, respinge col piede il dono del ricco e guarda in alto, dove vede brillare la ricompensa, che spetta a quelli che sanno pazientemente soffrire.
—Quanta poesia!—esclamò la principessa in tono aspro.—Caro Onorati, lei ha un bel vestirmi da eroine le sue plebee, tanto non riuscirà mai a convincermi che esse non speculino sull'amore dei signori. Non fanno le oneste altro che quando vogliono ottener molto, o credono si tratti di una speculazione fallita.
Don Pio aveva chiuso gli occhi per non vedere la moglie; vedendola egli non sarebbe potuto rimaner fermo sulla poltrona mentre lei, con la sua voce aspra e nasale, gettava fango a manate sulla pura e onesta donna che aveva fatto vibrare nel principe la corda del sentimento, gli aveva imposto, a lui cinico, a lui miscredente, il rispetto per la virtù, la fede nella onestà femminile.
—Come ti riscaldi, Camilla,—disse la duchessa svegliandosi da un pisolino e sentendo la voce antipatica della nuora, che passava nell'aria producendo il suono di un frustino agitato con mano irata.
La principessa tacque e allora nel silenzio della stanza si udì il tic-tac affrettato, concitato dei ferri, che non era meno increscioso della voce della lavoratrice e ne rivelava lo stato irritante dell'anima.
L'Onorati taceva per non provocare un'altra discussione; il principe taceva fingendo stanchezza e sperando che lo avrebbero lasciato solo; e la duchessa, ora che non udiva più la voce della nuora, dormiva di nuovo placidamente.
Così rimasero un pezzo a far compagnia al fuoco che lentamente si spegneva, finchè l'Onorati capì che era tempo di andarsene, e la duchessa e la principessa, augurata la buona notte a don Pio lo lasciarono solo.
Allora egli, come se avesse rotto l'incantesimo che lo teneva prostrato, si alzò e di scatto buttando in terra la pelliccia e avvicinatosi alla scrivania prese a scrivere, tracciando febbrilmente sulla carta tutti i pensieri, tutte le frasi supplichevoli di oblio e di perdono, che gli si erano affollate alla mente in quelle ore d'inerzia. Ma spesso venivagli fatto di giungere in fondo a un foglio, di aver riempito quattro facciate e, rileggendo ciò che aveva scritto, di non esser contento di una espressione o di una parola, e di gettare il foglio sulla scrivania e ricominciare da capo.
La principessa, che vigilava, che la gelosia teneva desta, stette lungamente in quella notte con l'occhio al buco della serratura e sempre vide il marito intento a scrivere, sempre udì lo scricchiolio della penna sulla carta. Ella era sicura che don Pio scriveva a Maria, e vegliava come un cerbero perchè quella lettera non le sfuggisse dalle mani.
Verso le quattro ella sentì il marito che, uscendo di camera, andò nel salottino, poi aprì l'uscio che dava nella galleria e subito dopo lo richiuse e si coricò, ed ella, sempre con l'occhio e l'orecchio alla porta, spiò il momento in cui don Pio si era addormentato, e, scalza, per non fare alcun rumore, andò ella pure nella galleria al buio, tastò sulla tavola dove il principe soleva mettere le lettere, che Giorgio recapitava in mattinata, ne trovò una sola, l'afferrò e rientrò in camera sua tremante, come se avesse commesso un delitto di sangue.
La lettera che donna Camilla guardava con gli occhi sbarrati era proprio diretta a Maria Caruso, e don Pio, supponendo che la moglie dormisse, e dopo lunghe esitazioni, aveva creduto di destar minor sospetto ponendola, come tutte le altre lettere, al posto consueto, che consegnandola a un domestico il quale poteva essere spiato dalla principessa e indotto a parlare. Egli sapeva che Ubaldo coricandosi molto tardi dormiva fino alle undici e che egli rispettava le lettere dirette alla moglie, perchè voleva che le sue pure fossero rispettate, così era sicuro che Maria l'avrebbe ricevuta mentre Ubaldo dormiva; anche se le fosse giunta mentre egli era desto, la lettera sarebbe giunta chiusa nelle mani di lei.
Donna Camilla aveva messa la lettera dinanzi a sè sul tavolino e su quella busta piovevano direttamente i raggi del lume, che stava posato a poca distanza; ma ella non aveva il coraggio di strappare quella busta, di leggere quello che conteneva. Ora che quel segreto era in suo potere, che non c'era altro ostacolo da rimuovere se non quello di un foglio di carta, il coraggio le mancava, tanto il rispetto per gli ostacoli morali è profondamente inveterato nella coscienza di ogni individuo.
Mentre ella stava a guardare la busta, senza trovare in sè il coraggio di strapparla e di leggere la lettera, un pensiero perfido le traversò la mente.
—Perchè non mando questa lettera al marito?—domandò a sè stessa.—Che m'importa di aver la conferma che don Pio ama perdutamente quella donna? Mi basta che il marito lo sappia, che non possa più ignorare questo legame, e dopo aver saputo tutto sia costretto a andarsene, e la porti via, lontano di qui, quella maledetta creatura che mi toglie tutto!
E con la stessa prontezza con cui quel pensiero sinistro le era balenato nella mente, lo mandò ad effetto. Ella prese una busta stemmata, simile a quella di cui erasi servito don Pio, e dopo avervi scritto sopra l'indirizzo di Ubaldo Caruso, contraffacendo il carattere del marito, chiuse la lettera dentro alla propria busta e andò furtivamente a posarla sulla tavola della galleria. Quando sentì il passo di Giorgio, che andava ogni mattina a prender le lettere, allora soltanto si coricò per non far capire alla sua cameriera che aveva passata la notte vegliando.
Ma quella lunga notte invernale rimase impressa nella monte di donna Camilla come la notte più angosciosa, più tremenda della sua vita. Ella non credeva di poter tanto soffrire; non supponeva neppure che l'affetto disprezzato, la gelosia, il sentimento della inferiorità dinanzi a una rivale, cui la sua mala azione prestava l'attrattiva della vittima e la circondava con l'aureola del martirio, fossero capaci di sottoporre il suo cuore freddo a tanti strazi. E in quel tumulto di passioni le tempie non le martellavano, il cuore non affrettava i suoi palpiti; ella sentivasi invece la testa cinta da un cerchio gelato e il cuore, facendosi immobile, le impediva di respirare. Anche coricata parevale di sprofondare, di essere inghiottita dalla lettiera e allora alzava le mani scarne, afferravasi alle colonne tornite del letto o alle cortine di broccato, e apriva la bocca per gridare, ma nessun suono le usciva dalla gola serrata.
Ingiusta, come tutte le donne gelose, ella non accusava il marito, accusava Maria, e col cuore invocava sul capo di lei tutte le maledizioni più atroci, più spaventose; e come aveva fede di essere ascoltata da Dio, dalla Madonna, dai Santi quando pregava; così nutriva fiducia di essere ascoltata ora che imprecava e malediva.
E avendo coscienza di non poter lottare contro Maria, che, per suo maggior tormento, apparivale bella e adorna di una grazia incantevole, desiderava di vederla scomparire, sparire per sempre dal mondo.
—Fatela morire!—pregava con gli occhi rivolti al cielo, senza che essi s'inumidissero neppure di una lagrima di rabbia.
In quella tremenda notte donna Camilla non provava neppur più rimorso per quel che aveva fatto; non era sgomenta di ciò che poteva accadere se Ubaldo leggeva la lettera di don Pio; tutto le pareva nulla in confronto delle sue sofferenze, e quando il dubbio la invadeva che neppure la morte avrebbe potuto cancellare dal cuore di don Pio l'immagine della bella creatura, allora agitava la testa sui guanciali, cessava d'imprecare, di maledire, di pregare, e provava tutto l'orrore, lo sgomento dalla propria impotenza.
XIII.
—Avete consegnata quella lettera a casa Caruso?—domandò il principe a Giorgio appena desto.
—Sì, Eccellenza, l'ho consegnata alla cameriera.
Dopo quella risposta il principe passò la giornata più tranquillo, mentre donna Camilla non trovava pace. Ora, ròsa dal rimorso, calcolando l'enormità di quello che aveva fatto, temeva ogni momento di veder giungere Ubaldo, di veder giungere i padrini, e sentiva addensare sul capo di suo marito la burrasca provocata da lei.
Ubaldo, destandosi, aveva ricevuto la lettera del principe e stracciata la prima busta ne aveva veduta una seconda all'indirizzo della moglie. Allora, ossequente al principio di non leggere mai le lettere di Maria, si era infilato le pantofole e la veste da camera, e andava a informarsi con premura dello stato di lei e intanto le recava la lettera, Maria impallidì riconoscendo lo stemma sulla parte posteriore della busta e pregò il marito di posare la lettera sulla rovescia del lenzuolo, aggiungendo che l'avrebbe letta dopo, quando si fosse dileguato quel malessere che provava dopo una notte poco tranquilla.
Ubaldo giudicava cosa naturalissima che il principe, ora che stava un po' meglio, scrivesse a Maria per domandarle notizie e per esprimerle il suo rincrescimento per la gravissima disgrazia occorsale, e non si meravigliava punto che Maria non avesse fretta di leggere quella lettera. Ma siccome era convinto che il principe non avesse più la testa a segno dopo l'incendio del teatro e questa convinzione non l'aveva espressa altro che alla moglie, vedendo ora la doppia busta, attribuì quel fatto alla smemoratezza di don Pio e lo comunicò a Maria, dicendole:
—Vedi, avevo ragione!
—Mostrami quella busta,—disse la malata celando sotto un sorriso il sospetto che le era balenato nell'animo. Quando ebbe la busta sott'occhio e s'accorse che l'indirizzo non era della stessa mano, il sospetto si cambiò in certezza, ma invece di aprire l'animo suo al marito, disse:
—È vero, quel povero principe non è punto rimesso dalla scossa avuta; la testa non gli regge,—e sbadatamente aprì la lettera e la lesse, come si leggono le lettere cui non si annette nessuna importanza, intanto che Ubaldo aveva preso in collo il suo Mario e lasciava che il bambino gli tirasse il cordoncino degli occhiali, come se fosse un campanello.
Quando Ubaldo fu uscito per andarsi a vestire, ella, non potendosi muovere, giunse le mani e ringraziò Iddio di non aver permesso che suo marito leggesse quella lettera ardente da cui risultava con evidenza l'insulto fattole dal principe, da cui si capiva come e egli fosse pentito, ma innamorato sempre, più che mai innamorato. Ella pregò con tutto il fervore di cui era capace, affinchè Iddio continuasse a proteggerla contro le persecuzioni della donna cattiva e gelosa, che aveva giurato a lei guerra continua, guerra micidiale.
Dopo quella preghiera si sentì più sollevata, e nascosta nel mobile vicino al letto la lettera di don Pio, che in ogni caso doveva servirle di giustificazione contro qualsiasi sospetto, si dette a pensare con sollievo al momento in cui col pretesto di ristabilirsi in salute sarebbe tornata nella povera casa di Venezia, fra i fratelli e le sorelle, abbandonando Roma dove era stata tanto felice per un certo periodo di tempo, e poi tanto disgraziata.
Durante i giorni che ancora le rimanevano da passare a letto, prima che la gamba fosse guarita, ella assuefaceva il marito e gli amici all'idea di vederla partire per Venezia, parlando continuamente di quel cambiamento d'aria e di vita dal quale sperava la guarigione completa, e mentre ella era sostenuta dalla speranza di sfuggire al pericolo costante che la minacciava, don Pio passava i giorni nell'aspettativa più crudele, e la principessa si angustiava convincendosi che la sua vendetta, quella vendetta che le era costata tanti palpiti e tanto rimorso, era andata fallita o per la vigliaccheria di Ubaldo o per l'accortezza di Maria.
E più il tempo passava e più fermavasi in questo pensiero, perchè si compiaceva di credere la sua rivale complice di don Pio, di credere che ella avesse dalla sua le persone di servizio, e venuta in possesso della lettera non l'avesse consegnata al marito.
Lo stato d'animo, le angustie, i timori del principe e della principessa della Marsiliana erano storia intima, storia di famiglia cui nessuno badava; invece avvenimenti ben più importanti attiravano l'attenzione della città e del paese. Le cose si erano avverate a puntino secondo i calcoli dell'onorevole Carrani. Due dei cinque uomini politici che capitanavano i diversi gruppi del partito d'opposizione, erano andati al potere in una crisi ministeriale, ma proprio il Carrani era rimasto fuori, ed egli separatosi dai due antichi colleghi, ora ministri, li tacciava di fedifraghi e li combatteva nella Stampa con una violenza inaudita. Gli altri due, perduta ogni speranza, avevano rinunciato alla lotta. Così il giornale non era più l'organo di un partito forte e compatto, ma di un uomo bilioso, di un uomo che aveva dei rancori, dei risentimenti da sfogare, e li sfogava specialmente contro i suoi due amici saliti al potere, di cui conosceva tutte le debolezze, tutte le meschinità.
Se il principe si fosse come prima occupato del giornale, avrebbe trattenuto i furori del Carrani, avrebbe portato una nota di moderazione in tutta quella violenza; ma il principe non aveva più interesse a nulla, non leggeva neppur più la Stampa, e a Montecitorio non andava da due mesi.
Ogni volta che la madre lo spingeva a scotere l'inerzia, a uscire, egli rispondeva:
—Sono tanto brutto,—e si tirava la coperta sulle gambe, il berrettino sugli occhi e si affondava nella poltrona.
Quando il cosidetto viceprincipe andava ad avvertirlo che scadevano delle forti cambiali alle Banche e che non c'era come far fronte agli interessi, il principe rispondeva:
—Creiamo altre cambiali,—e firmava, firmava strisce di carta bollata, come avrebbe firmato una lettera di nessun valore.
Pareva che dopo quella sera dell'incendio una molla si fosse spezzata in lui e ora era una cosa inerte, senza volontà e senza energia.
Il Rosati, Ubaldo, il Suardi, i suoi amici stessi evitavano di andarlo a visitare, perchè pareva che fosse noiato di vederli, e quell'uomo che per il passato non poteva stare un momento in casa, che in una giornata stancava due pariglie di cavalli, faceva cento cose diverse o si vedeva per tutto, ora non si moveva più di camera, e nelle lunghe serate invernali non aveva altra compagnia che quella della madre dormente, di donna Camilla, che lavorava in silenzio alle rozze coperte per i poveri, e dell'Onorati, che parlava per isfogare la sua loquacità, ma non perchè don Pio lo incoraggiasse, prestandogli attenzione o rivolgendogli domande.
Il palazzo Urbani era divenuto muto; nessuna carrozza entrava più rumorosamente nel cortile, la duchessa non riceveva più la sera, donna Camilla aveva sospesi i suoi giovedì, i servitori stanchi dell'inerzia dormivano tutto il giorno nell'anticamera. Don Pio era più stanco, più noiato di tutti per quella inerzia del corpo e della mente, ma non osava scoterla, tanto ogni movimento gli riusciva increscioso, tanto ogni desiderio, ogni speranza gli era morta nel cuore dopo che Maria non gli aveva inviato quel perdono che egli le aveva chiesto con un ardore, con una umiltà di cui non si credeva capace. Ora che gli rimaneva più dopo che quella consolazione gli era stata negata?
Noiato di una vita male spesa, disprezzando quel nome, quella posizione e quelle ricchezze che non gli avevano saputo cattivare un cuore di donna, don Pio provava il distacco da tutto, e se vi era una speranza che gli desse la calma momentanea, la pazienza per trascinare quel martirio, era lo stato della sua salute, consunta da un male di cui il professor Bonelli, il medico più celebre di Roma, non poteva dirgli in che consistesse, come si potesse sollevare. Don Pio sentiva ogni giorno più scemare le forze e guardava con compiacenza le mani scarne, che avevano preso il colore dagli antichi avori, guardava il suo volto emaciato, gli occhi infossati, i capelli incanutiti, e quella rovina di tutto l'essere suo gli diceva che la fine non poteva esser lontana, quella fine che gli prometteva, a lui cinico, a lui che non aveva mai guardato al di là dell'esistenza terrena, non una vita di beatitudine, ma un riposo eterno, l'oblio di tutto, il silenzio, l'annientamento. Quest'unica speranza, che sorgeva, fiore solitario e rigoglioso sopra un campo sacrato alla morte, lo attraeva irresistibilmente, gli faceva provare una specie di voluttà nel vedere spezzate tutte le gomene, rimossi tutti i puntelli che lo tenevano inchiodato alla vita. Non vedeva il momento che l'ultima gomena fosse infranta, che l'ultimo puntello cadesse, affinchè la nave della sua esistenza scendesse nel mare profondo del nulla e prontamente vi si sommergesse. Per questo non si turbò, non alzò neppur la testa quando un giorno l'intendente gli disse che mancavano i capitali per continuare le costruzioni a Porta Portese.
—Vendete dei terreni,—disse il principe.
—Non si trovano compratori.
—Allora lasciate gli edifizi a mezzo.
—Ma che cosa si dirà di lei, Eccellenza?—rispose l'intendente sgomento da quella apatia.
Don Pio alzò le spalle e fece con la bocca una smorfia d'indifferenza.
—Si dica quello che si vuole, che me ne importa?
Ma l'intendente, che non s'era ancora arricchito quanto sperava con il patrimonio Urbani e non voleva si dicesse, per non nuocere al credito, che non v'erano denari per continuare le case, creò ipoteche su quelle quattro mura appena alte pochi metri dal suolo e tornò dal principe a consigliarlo di diminuire le spese della Stampa. Egli tremava dando quel consiglio, poichè sapeva quanto don Pio teneva al giornale. Per questo fu molto meravigliato nel sentirsi rispondere:
—Prendete una misura più radicale; ammazzatela.
—E i capitali che è costata?
—Non li piango io, perchè dovete piangerli voi?
—E gli abbonati?—domandò l'intendente sgomento.
—Si rimborsano. Non avete capito che non m'importa nulla del giornale, che non m'importa di nulla?
L'intendente non fiato più, non interrogò più don Pio su nulla. Faceva o disfaceva di propria iniziativa, e soltanto allorchè doveva far fronte a impegni, diminuire cambiali, pagare interessi e non poteva farlo da sè, presentava nuove cambiali al principe, il quale firmava senza leggere, senza dir parola.
La duchessa, vedendo il figlio ingolfarsi nei debiti, vedendolo camminare a occhi chiusi verso la rovina, gli dava dei consigli, lo esortava a partire per un lungo viaggio e a lasciare a lei la cura di strigare quella intricatissima matassa. Lo assicurava che ella ne avrebbe trovato il bandolo e che sarebbe stata tranquilla, purchè si fosse riavuto di spirito.
—Nel vederti così abbattuto, io non ho più forza, più energia; sento tutto il peso degli anni.—dicevagli la madre con quella tenerezza, che non aveva nel cuore altro che per lui.
—Sono finito,—rispondeva egli scrollando mestamente il capo.
—Ma non rifletti, Pio, che questa rovina ti espone allo scherno della moltitudine, che in questa rovina tu coinvolgi tutta la gente che ci sta d'intorno, che questa rovina sarà per tanti e tanti una catastrofe?
—Sono finito,—rispondeva il principe socchiudendo gli occhi per non essere noiato da consigli e da esortazioni che non voleva ascoltare.
In mezzo a quell'abbandono completo di tutto, in quel distacco totale dalla vita, una cosa ancora restava nel cuore di don Pio: il ricordo della donna buona, della donna bella, della donna onesta che egli aveva offesa col suo amore. Ella sola avrebbe potuto rianimare quel corpo affranto, quello spirito anelante l'eterno, il completo riposo, ma Maria non voleva; Maria desiderava di dimenticare l'offesa, e per giungere a quest'oblio non poteva rivedere il principe, altro che dopo mesi, anni, quando appunto la mano del tempo avesse con la sua azione lenta, ma continua, attenuata l'amarezza dell'offesa.
Appena rimessa in salute ella partì per Venezia con l'intenzione di rimanere alcuni mesi in quella città silenziosa, sperando di ritrovarvi la pace e la salute. Ubaldo, che l'aveva accompagnata in famiglia, tornò a Roma ed ebbe dal redattore di un altro giornale la proposta d'inviarlo in Africa dove il governo iniziava delle operazioni militari. Era una occasione per sorvegliare ogni mossa del comandante militare di Massaua, e per combattere violentemente il governo sopra un terreno favorevole, perchè il paese vedeva di mal occhio le spese che si facevano per quelle conquiste, che non offrivano altro che lontane e incerte speranze di guadagno.
L'invio del corrispondente in Africa era una risoluzione troppo importante perchè Ubaldo potesse prenderla, senza prima domandare il parere al principe, e per questo andò a trovarlo.
Ubaldo nel parlare dello scopo della sua visita, disse incidentalmente che sua moglie era partita, era andata a Venezia. Questa notizia bastò a scotere don Pio, a fargli battere il cuore, a mettere un lampo di vita negli occhi spenti. Egli approvò l'invio in Africa del corrispondente e riprese a parlare, mostrò interesse per il giornale, per indurre Ubaldo a trattenersi sperando che riportasse il discorso sull'assente. E ottenne quello che voleva: Ubaldo gli narrò tutte le fasi della malattia di Maria, e sciolse anche questa volta un inno di lode alla sua dolce, alla sua buona e affettuosa compagna. In quel carattere basso l'ammirazione si estrinsecava in una maniera poco elevata; Ubaldo poneva nell'esaltare Maria la vanità del possessore, del proprietario di un oggetto raro, di un cavallo di prezzo, ma don Pio non ne era offeso; bastava che sentisse parlare di lei, che ne udisse pronunziare il nome per provare l'unica consolazione di cui fosse avido il suo cuore.
Quando Ubaldo fu uscito, il pensiero di quella donna, che egli poteva, che voleva rivedere, operò in lui un miracolo. Don Pio non voleva apparir vinto agli occhi di lei, non voleva la compassione di Maria. Egli sentì a un tratto tutto il peso delle sventure che lo avevano lasciato indifferente per il passato, sentì tutte le amarezze di chi volontariamente si lascia abbattere e ebbe uno scatto di ribellione La rovina, la morte lo spaventarono. E mentre donna Camilla, seduta accanto a lui, lavorava in silenzio, egli teneva ancora gli occhi chiusi, ma con la mente esaminava la sua situazione, vedeva che tutti prosperavano, tutti si avvantaggiavano, tutti arricchivano accanto a lui: uomini politici, giornalisti, ingegneri, amministratori, artisti, operai, domestici; tutti prendevano l'aspetto sereno e tranquillo di grassi possidenti. Egli invece si lasciava stupidamente dissanguare, lasciava che il turbine della rovina lo spazzasse dal piedistallo d'oro su cui era stato deposto, nascendo, dalla sorte, si lasciava finire, si lasciava morire. Ma, doveva e voleva resistere per Maria; l'amore poteva scusare l'offesa che le aveva fatto, ma nulla poteva scusare la sua distruzione, la rovina che si lasciava scendere addosso senza difendersi. Per resistere sentiva il bisogno di rivederla, di supplicarla con la voce, con lo sguardo, con quel volto stesso consunto e invecchiato innanzi tempo dai patimenti, di pronunziare la dolce, la generosa parola del perdono. Con quel talismano nel cuore egli avrebbe riacquistato l'antica energia e impavido avrebbe sopportato gli urti dell'avversità.
XIV.
Quella sera, per la prima volta dopo l'incendio del teatro, don Pio ordinò che fosse apparecchiato anche per lui nella sala da pranzo, si vestì e desinò in famiglia. La principessa lo guardava sospettosamente e non sapeva spiegarsi quel cambiamento improvviso; alla povera donna Teresa le lagrime facevano gruppo alla gola, e il cuore di lei riaprivasi alla speranza.
Don Pio parlò poco e mangiò meno ancora, ma la duchessa non lo vedeva più affondato, inerte nella poltrona, avvolto freddolosamente nella coperta, e questo le bastava per il momento, questo la consolava.
La mattina dopo egli fece attaccare il coupé, e quando stava per scendere trovò nella galleria la principessa vestita che lo aspettava.
—Ti accompagno,—gli disse,—sei troppo debole per uscir solo.
Egli fece un moto di dispetto. Come gli appariva meschina quella donna, che non sapeva altro che annoiarlo, vegliarlo come un aguzzino, senza sperar neppure di giungere a farsi amare!
—Non voglio che tu mi accompagni. Vado alla Banca Romana e alla Camera.
—Ti aspetterò in carrozza.
—Non voglio,—ribatto egli stizzito e facendo uno sforzo scese prontamente le scale, salì nel coupé e ordinò al cocchiere di andare per la via Appia.
Da quando Ubaldo avevagli annunziato che Maria era a Venezia, don Pio non aveva altro desiderio che quello di raggiungerla, di rivederla, ma l'attuazione di questo desiderio era intralciata dalla vigilante gelosia di donna Camilla. Era bastato che avesse scossa l'apatia, che avesse voluto uscire perchè ella si fosse fatta trovar pronta per accompagnarlo; come avrebbe fatto a partir solo?
A questo egli pensava mentre la carrozza percorreva l'antica via, quella via che don Pio aveva fatta tante volte a cavallo, per giungere a un convegno di caccia alla volpe, indossando l'abito rosso, in compagnia dei suoi amici, e delle signore più belle e più eleganti di Roma. Ma quei ricordi si perdevano in un lontano passato. Egli rammentava soltanto di avervi condotta Maria quando, nella prima estate che ella era a Roma, le faceva visitare i dintorni della città; riudiva le parole di schietta ammirazione che le linee solenni della campagna, indorate dal tramonto, strappavano alla sua anima d'artista, vedeva lei, sempre lei e le parlava, come se potesse udirlo, e ne pronunziava il nome a voce alta, con gli occhi umidi di pianto.
Quella passeggiata gli fece bene e tornò a casa più calmo credendo di aver trovato un mezzo per eludere la sorveglianza della principessa, e raggiungere Maria al più presto.
Quella sera non uscì di casa, ma assicurando di sentirsi molto meglio, annunziò l'intenzione di ricominciare l'antica vita. Disse che la mattina dopo sarebbe andato a visitare le costruzioni di Porta Portese e che occorreva passasse alcuni giorni alla Marsiliana, ma era annoiato di andarvi solo.
—Perchè non andiamo tutti?—domandò rivolgendosi alla madre e alla moglie.
—Sai che faccio il massaggio,—rispose la duchessa,—e non posso interromperlo.
—Alla Marsiliana non mi porteranno altro che morta,—rispose donna Camilla, che alla Marsiliana, durante la pallida luna di miele, aveva presa una perniciosa, della quale risentiva ancora le conseguenze. Ella nutriva per quella villa una insormontabile antipatia; don Pio le aveva rivolto la domanda essendo sicuro della risposta.
—Allora mi lasciate andar solo, e se mi ammalo?—domandava, alle due signore fingendo rincrescimento di non essere accompagnato.
—Se ti ammali, io verrò.—disse la duchessa.
—E io verrò pure, ma soltanto in un caso estremo,—disse donna Camilla la quale ignorava la partenza di Maria, ma era insospettita da quel ridestarsi improvviso di energia nel marito.
Per scoprir terreno ella scrisse quella sera stessa al Rosati, che da molto tempo vedeva poco, occupata com'era incessantemente nel sorvegliare don Pio da vicino, e attese Fabio tutto il giorno seguente. Verso sera, non vedendolo, mandò a cercarlo alla Stampa, e il servitore, cui aveva affidata quella commissione, le riferì che il Rosati da alcuni giorni era in Liguria, dov'erano avvenuti gravissimi disastri cagionati dal terremoto.
Intanto don Pio aveva fatto preparare le valigie ed era ritornato cupo e silenzioso. Al momento di mettersi in viaggio, l'abbattimento, la sfiducia lo assalivano di nuovo; come avrebbe fatto a presentarsi a Maria, a parlarle, a supplicarla di perdono?
La mattina della partenza donna Camilla e la madre lo accompagnarono infatti alla stazione e raccomandarono a Giorgio di telegrafare caso mai il principe non stesse bene. Don Pio prese la via di Civitavecchia, ma con l'intenzione di non fermarsi a Montalto per andare alla Marsiliana, ma invece di proseguire per Pisa. Era libero, era solo e di quei primi momenti di libertà voleva approfittar subito, non sapendo se il domani i sospetti di donna Camilla non si fossero ridestati, se la gelosia non le avesse fatto sormontare l'avversione per il soggiorno della villa.
A Montalto era l'intendente con la carrozza ad attenderlo, e i guardiani a cavallo, con le divise verdi e la placca stemmata sul braccio, per scortare la carrozza.
Don Pio si affacciò al finestrino, e mentre il treno faceva una breve sosta disse all'intendente, che cercava di aprire lo sportello:
—Aspettatemi fra qualche giorno, vi telegraferò; un affare urgente mi chiama a Firenze; non mandate nessuno a Roma. Se giungono telegrammi da casa, apriteli e rispondete a nome mio che sto bene.
—Non dubiti, Eccellenza,—rispose l'intendente seguendo il treno che già si era rimesso in movimento.
Don Pio aveva pensato a tutto e credeva di essersi assicurato alcuni giorni di libertà, ma nonostante non era tranquillo; gli pareva che il treno impiegasse un'eternità a percorrere quella landa deserta della maremma toscana e provava ogni tanto a chiuder gli occhi cercando di prender sonno, ma l'agitazione, l'ansia lo tenevano desto. Nella sua vita facile, spensierata di gran signore, non aveva mai trepidato come in quel giorno, non aveva mai avuto bisogno di sotterfugi per giungere là dove il capriccio lo trascinava. Ora non solo voleva giungere a Venezia, ma voleva giungervi senza esser visto da nessuno. Sarebbe stato per lui un gran dolore se un conoscente vedendolo alla stazione di Orbetello o di Pisa gli avesse domandato con un risolino dove andava; se donna Camilla scoprendo che non era alla Marsiliana avesse osato sospettare che Maria lo chiamava, lo invitava a raggiungerla a Venezia. Su Maria non dovevano cadere sospetti; Maria non doveva essere offesa neppure nel pensiero, e don Pio, che non aveva rispettato nulla, che non aveva mai creduto in nulla, ora circondava Maria di un religioso rispetto e sperava dal perdono di lei la redenzione, come i veri fedeli l'attendono dal confessore quando sentono la loro anima tormentata dal rimorso di un peccato, il principe giunto a Pisa cambiò treno sollecitamente e non chiese un posto nelle carrozze Pulmann per non imbattersi con qualcuno di conoscenza; egli proseguì il viaggio fino a Bologna e Venezia, celandosi come meglio poteva, prendendo quel po' d'alimento, che Giorgio aveva cura di prontargli alle stazioni principali. In quelle lunghe ore della notte, quando il treno correva nella campagna buia, don Pio non lasciavasi sgomentare dal pensiero della rovina che lo minacciava da ogni lato, cercava conforto invece evocando la figura di Maria, richiamando alla mente le parole buone che aveva udito dalle labbra di lei. E univa quelle parole fra loro, ne formava un tutto, e con quell'insieme armonioso di bontà ricostruiva il cuore di lei compassionevole, generoso, proclive al perdono.
—Maria, Maria, il suo perdono, la sua amicizia!—esclamava confortato.
Neppure parlando a sè stesso osava darle del tu, tanto la vedeva in alto, sul piedestallo che avevale eretto con la sua ammirazione.
Dopo quel lungo viaggio don Pio giunse a Venezia spossato; la forza morale lo aveva sostenuto, ma quella fisica era distrutta dall'inerzia, dallo scoraggiamento di quegli ultimi mesi di dolore. Scendendo dal treno dovette appoggiarsi al braccio di Giorgio e farsi aiutare da lui per imbarcarsi in una gondola. All'albergo fu assalito da vertigini; gli pareva di morire; i mobili, le pareti della stanza giravano vorticosamente dinanzi ai suoi occhi come se un turbine spaventoso li sospingesse. Il desiderio di uscire, di cercar subito Maria e l'impossibilità in cui era di moversi, gli rendevano cento volte più angoscioso il suo stato. Pensava alla probabilità di ammalarsi, di non poterla rivedere, e se una malattia l'avesse inchiodato a letto, tutti avrebbero saputo dov'era, donna Camilla lo avrebbe raggiunto, avrebbe coperto d'infamia la dolce creatura....
—Sentite, Giorgio,—disse a un tratto il principe al suo cameriere,—se caso mai io mi ammalassi qui, dovete mettermi, in treno anche moribondo, portarmi alla Marsiliana e far sì che nessuno sappia dove sono stato, dove mi sono ammalato.
—Sarà ubbidito, Eccellenza, ma non sarebbe meglio avvertire un medico?
—Non voglio nessuno; andate a prendermi un eccitante; del wisky, del cognac, quello che credete; ho bisogno di rimettermi in gambe per oggi e domani, poi non m'importa più nulla.
Giorgio cercò nell'astuccio da viaggio del principe una boccetta di wisky e lo versò in un bicchiere d'argento. Don Pio lo bevve e per un momento si sentì rianimato. Si vestì in fretta e prima d'uscire ne trangugiò di nuovo alcuni sorsi. Capiva che era una vita fittizia quella che circolavagli nelle vene, ma non gl'importava; la vita vera gliela doveva infondere Maria con la sua dolce parola.
Egli uscì in gondola, percorse diversi canali e giunse a San Girolamo all'Orto, allo studio del Rossetti, di cui rammentava benissimo l'indirizzo.
Il vecchio dipingeva ancora benchè fosse quasi notte. Vedendo entrare un visitatore, in cui fiutò un signore da quei mille segni esterni che dà l'abitudine della vita elegante, egli si alzò, gettò via il berretto di velluto e con la tavolozza infilata nel pollice, si avanzò tutto ossequiente verso don Pio, e con la sua parlantina veneziana gli disse mille cose in un istante.
—Capita in un brutto momento, lo studio è vuoto; il mio quadro ultimo "Le scimmie" preso dalla commedia del nostro Goldoni, lo sa, quando son tutte radunate quelle pettegole, è andato ieri all'esposizione, gli altri sono venduti; abbiamo molti forestieri quest'anno e io non posso lamentarmi, nello studio non m'invecchia mai nulla.
Don Pio, che non voleva dire che non era l'arte che lo conduceva nello studio, ma un movente ben diverso, girava per la stanza, e vedendo un ritratto di Maria, fatto prima che ella si maritasse, quando sul volto aveva tutta la freschezza dell'adolescenza, si fermò a guardarlo, e mettendosi la lente all'occhio disse:
—Questa è la signora Caruso?
—La conosce la mia Maria? Che brava figliuola, che cara creatura, che la sia benedetta! E dove l'ha conosciuta, se non è troppo ardire?
—A Roma, alla Stampa.
—Già, già. Che peccato, Maria è partita ieri per Rovigno, l'è andata a rimettersi da una sua sorella nell'Istria. Se sapesse che piacere mi ha fatto venendo dal suo vecchio! E m'ha condotto anche il piccinino, tutto lei quel "putelo!"
—S'è rimessa bene?—domandò il principe turbato da quella notizia, e vedendo che le pareti, i quadri incominciavano a ballargli davanti agli occhi la loro ridda tormentosa, e il ritratto di Maria gli appariva ora capovolto, ora allontanato, annebbiato.
—Benone! l'è una rosa, un fiore, per lei è sempre primavera!
—È tanto bella!—disse il principe con passione.
—Quando penso che quella cara creatura è stata lì lì per morire, mi vengono i brividi e non posso far a meno di piangere,—disse il vecchio commosso asciugandosi una lagrima.
Don Pio credeva che un terremoto imprimesse ora un moto sussultorio, ora ondulatorio a tutto lo studio; si sentiva morire e il pensiero di morire in quel luogo accresceva le sue sofferenze. Il vecchio Rossetti non si accorgeva di nulla e seguitava a discorrere dell'incendio del teatro, della paura di Maria e del danno che per quell'incendio doveva aver risentito il principe della Marsiliana, quel bravo signore tanto cortese, di cui Maria avevagli così spesso parlato.
—Davvero, sua figlia le ha parlato di me?—disse involontariamente don Pio, consolato, fatto beato da quelle parole.
—Lei è quel bravo signore, quella perla di gentiluomo!—esclamò il vecchio tremante dal piacere.—Che sia benedetto; peccato che Maria non sia qui; le avrebbe fatto gli onori di casa, sa, una casa d'artista dove manca tutto meno che il buon cuore.
—Rimarrà molto la signora Caruso a Rovigo?—domandò don Pio con voce che si sforzava di rendere calma.
—Tutta la primavera; poi torna qui per i bagni.
—E se le facessimo una improvvisata andando a trovarla?
—L'ha avuto una idea stupenda, signor principe! Io sono sempre a sua disposizione quando vuol andare.
—Quanto s'impiega in ferrovia?
—Otto o nove ore,—rispose il vecchio.
—E se noleggiassimo un vaporino?—domandò don Pio che in quella gita specialmente voleva evitare ogni incontro. Com'era felice e come sentiva che i nervi si calmavano sotto l'influenza benefica di quella gioia.
—Ben pensato, ma sa, i padroni di vaporini hanno pretese alte, il viaggio peraltro è molto più breve e piacevole che in ferrovia.
—Del prezzo non m'importa. Rimane stabilito che noi andremo. Mi farà il favore di fissare il vaporino per domattina alle nove e di venirmi a prendere all'albergo, va bene?
—Benissimo,—rispose il vecchio.
Don Pio si fermò ancora dinanzi ad alcuni studi e aggiunse:
—Adesso non c'è luce, ma al nostro ritorno verrò a farle un'altra visita e sceglierò un ricordo di Venezia, me lo permette?
Era un modo cortese per compensarlo del tempo che gli rubava con quella gita, ma il vecchio, trattandosi della sua Maria, non si rammentava neppur più che il suo visitatore era un principe romano, e gli avrebbe regalato lo studio, se avesse voluto.
—Se mi permette l'accompagno,—disse il vecchio, e senza neppure aspettare la risposta di don Pio, a testa scoperta gli spalancò la porta e lo precedè sulle scale fino alla gondola.
—A domattina,—disse don Pio stringendogli la mano.
—A domattina e non dubiti, sarò esatto: non mi accade spesso, ma domani farò un'eccezione.
Il principe tornò all'albergo senza che nessun dolore fisico lo tormentasse più. Non sentiva altro che l'immensa gioia di rivedere Maria, e di rivederla lontana da Roma, nella tranquillità di un piccolo paese, libera forse dai ricordi dolorosi che Roma avrebbe ridestato in lei. Era così felice, si sentiva così forte che aveva perduto anche la memoria delle sofferenze di due ore prima. Sulla porta dell'albergo Giorgio lo aspettava ansioso.
—Eccellenza, credevo le fosse venuto male e stavo in gran pena,—gli disse il cameriere.
—No, sto benissimo, e non mi sono mai sentito tanto bene da molto tempo. Fatemi apparecchiare il pranzo nel salotto.
Il cameriere andò a trasmettere gli ordini, e il principe, salito nel salotto, spalancò la finestra per respirare liberamente, per lasciare che i polmoni si allargassero come il cuore. Non aveva mai desiderato così intensamente nulla nella vita come di rivedere Maria, e ora stava per raggiungerla, per presentarlesi non come chi cerca di sedurla, di prenderla alla sprovvista, ma onestamente, sotto l'egida del padre di lei, come un amico che chiede all'amica una parola affettuosa, una stretta di mano e l'oblio di una aberrazione, di una colpa di cui sente la vergogna e il pentimento.
I camerieri dell'albergo entrarono portando i grandi vassoi con le argenterie, le bottiglie e i piatti, e don Pio si sedè a tavola tranquillo e lieto come uno che sente il ritorno della vita, che sente la primavera dell'anima vivificarlo col soffio caldo della speranza.
Durante il pranzo, che era servito dal cameriere dell'albergo, Giorgio entrò recando un quadro di piccole dimensioni avvolto nella carta e un biglietto. Il principe indovinando chi era che gli scriveva, stracciò la busta, si mise la lente all'occhio, e lesse:
"Al principe della Marsiliana, a un amico di Maria,—scriveva il Rossetti,—non saprei offrire un ricordo più dolce della mia Venezia, che il ritratto della mia bella e buona creatura, dipinto da me quand'ella era uno dei fiori più belli della Laguna. Io spero che il principe vorrà gradirlo perchè è offerto col cuore. Non è l'opera di un artista; è il lavoro di un padre, che ha un culto per la figlia e benedice tutti coloro che le vogliono bene."
Quelle parole, quel dono intenerirono don Pio. Egli seppe dominarsi e non fece togliere il quadro dal suo involucro finchè il desinare non fu terminato, ma appena solo strappò lo spago che teneva ferma la carta e si diede a contemplare quel volto dolce e sereno di donna, che pareva lo fissasse con i grandi occhi modesti e luminosi. Quella estasi di don Pio durò fino a notte inoltrata; non pensava a nulla, non vedeva nulla altro che il volto soave di Maria e quello sguardo, che il giorno seguente avrebbe colto negli occhi di lei.
Aveva dato libertà a Giorgio, e sicuro ormai di non esser disturbato, portò il ritratto di Maria in camera, lo collocò sopra un cassettone a destra del letto e da un lato di esso accese due candele per poterlo contemplare anche quando fosse coricato, e sul davanti sfogliò tutte le rose che erano nei vasi del salotto. E quel ritratto di fanciulla pudica, vestita di bianco, con quei lumi, quelle rose sparse davanti, acquistava un carattere sacro, pareva l'immagine di una vergine, che si fosse meritata la gloria dei buoni con le sue celesti virtù.
Il principe, spossato dal viaggio, da tutte le commozioni di quella giornata, si era coricato con lo sguardo fisso nel volto della sua santa ed era passato, senza accorrersene, dall'estasi al sogno. E la vedeva non più lì, in quella stanza, a pochi passi dal suo letto; ma campeggiante in alto, circonfusa di luce, con l'occhio benignamente rivolto su di lui, che la contemplava affascinato e non aveva altra aspirazione che quella di adorarla.
XV.
Mentre don Pio della Marsiliana si beava in quel dolce sogno, che consolavalo di tante angosce, donna Camilla aveva la febbre addosso, quella febbre che non si manifesta accelerando il moto del sangue attraverso le vene, ma congelandolo.
Quando aveva salutato il marito alla stazione di Roma, ella non sapeva della partenza di Maria, ma quel ridestarsi improvviso dell'energia del principe, quello scatto di vita, quel viaggio, dettero al suo cuore geloso, alla sua mente indagatrice nuovi sospetti. Ella tornò al palazzo insieme con la suocera, ma invece di salire nel suo quartiere, uscì a piedi come soleva fare spesso, quando andava a visitare i poveri. La gelosia, che guida irresistibilmente ogni donna, che sa di avere una rivale, nei luoghi dove spera d'incontrarla per provare l'immenso strazio del cuore, dal quale ha fede di veder sorgere, pianta venefica, ma vitale, la vendetta, guidò donna Camilla davanti alla casa dei Caruso, la quale era di pertinenza del patrimonio Urbani. La portinaia era sulla soglia e s'inchinò alla principessa augurandole una buona passeggiata. Donna Camilla, contro il solito, le rispose affabilmente, e le domandò con premura come stava la signora Maria.
—È partita, poverina, è andata a Venezia a rimettersi; non può credere, Eccellenza, quanto abbia sofferto, ma ora sta meglio e Dio voglia che torni guarita completamente. Se lo merita; è tanto una brava signora!
—Grazie! grazie!—disse la principessa allontanandosi frettolosamente.
Ella non poteva tollerarle, quelle lodi; non poteva sentirsi ripetere ciò che ella sapeva già; non poteva sentirsi confermare che Maria era una creatura eletta, che esercitava un fascino sugli uomini come sulle donne, perchè era bella ed era buona.
—Dunque Pio è andato a raggiungerla; dunque s'intendono, si sottraggono alla mia vigilanza!—pensava donna Camilla tornando a casa pallida e fremente. In tutto quel giorno ella rimase sola, in camera, combattuta fra il desiderio di partire e il timore di dover aprire l'animo suo alla suocera per la quale sentiva una profonda antipatia, sentimento che la duchessa Teresa nutriva a sua volta per lei.
Quelle due signore, che vivevano insieme da cinque anni, che due volte al giorno sedevano alla stessa tavola, non si potevano soffrire. Donna Teresa, specialmente dopo la malattia di don Pio, accusava la nuora di annoiarlo, di non saperlo distrarre dall'abbattimento in cui era caduto, di essere una nullità, di non aver saputo dare a casa Urbani neppure dei figli, che avrebbero portato una nota di vita in quel palazzo così triste; la principessa invece era gelosa della madre, la quale capiva le tendenze del figlio, che aveva saputo rimanere un'amica e aveva sull'animo di lui un grande ascendente. Benchè poco intelligente, ella sentiva tutta la superiorità di donna Teresa, e, riconoscendosi inferiore, era umiliata come donna, era offesa come moglie. Anche quel grande, illimitato amore della duchessa per don Pio, era una nuova umiliazione per lei. Ella sapeva bene che la duchessa avrebbe osteggiato la sua partenza, le avrebbe impedito di mettersi in viaggio se avesse indovinato che il figlio desiderava esser libero e lontano dalla sorveglianza della moglie, e che quella lontananza poteva procurare al suo Pio un sollievo, qualche ora di felicità.
A pranzo le due signore si trovarono sole, poichè l'Onorati da qualche tempo era ammalato e doveva desinare in camera. Donna Camilla, che aveva pensato al modo di partire senza destar sospetti nella duchessa, disse di aver ricevuto una lettera da suo fratello Alberto, che era nella sua tenuta di Montemagno, a poca distanza da Poggio Mirteto, e esternò il desiderio di andargli a fare una improvvisata.
—Va pure,—disse la duchessa, lieta di liberarsi da quella compagnia poco gradita.
—Allora partirò domattina,—rispose la principessa senza alzare gli occhi dal piatto, per non dare a conoscere la gioia perversa che provava.
E la mattina dopo a colazione ella comparve vestita di panno grigio, col cappello di feltro in testa, e la sua voce nasale echeggiava quasi gaia nell'ampia sala da pranzo. Mangiò in fretta per non perdere la corsa dell'una e trenta e poi stese la mano alla suocera e partì accompagnata dalla cameriera soltanto, ma invece di prendere il biglietto per la piccola stazione a breve distanza da Roma, lo prese addirittura per Venezia. Era sicura che l'istinto non la ingannava, che don Pio era là, e il pensiero di amareggiarlo, d'impedirgli di esser felice, di tormentarlo con la sua presenza, le dava una soddisfazione intima e le impediva di sentire la noia e il disagio del lungo viaggio. In tutte quelle ore non mangiò nulla, non bevve un sorso d'acqua, non chiuse mai gli occhi e non guardò i paesi che traversava. Ella non voleva disturbi; voleva assaporare tutta la gioia malvagia del dolore che avrebbe procurato a don Pio. Egli negavale un po' di felicità, e lei non aveva altra brama che di distruggere quella di lui; viva lei, non sarebbe mai stato un'ora felice, mai!
Giunta a Venezia andò diretta all'albergo Danieli, dove sapeva che don Pio soleva dimorare, e dato il suo nome si fece accompagnare al quartiere di lui.
Don Pio dormiva ancora, e si destò all'improvviso udendo entrare qualcuno in camera. Le candele, quasi interamente consumate, mandavano, prima di spengersi, degli sprazzi di luce viva sul ritratto, ed egli, nell'aprir gli occhi, con la mente ancora volta a Maria, che aveva sognata tutta la notte, fece un balzo sul letto e fra il sogno pronunziò con amore il dolce nome, che le labbra anelanti invocavano di continuo: Maria!
—T'inganni, Pio; sono io, Camilla,—disse la principessa in tono aspro e nasale fissando il ritratto sul quale la luce oscillante delle candele passava rapida come un'ardente e furtiva carezza.
—Perchè sei venuta?—gli domandò il principe meravigliato e turbato nel vederla.
—Perchè l'istinto mi diceva che il mio posto era qui accanto a te.
E accennando il ritratto aggiunse:
—Vedi che non avevo torto.
—Tu sei il mio tormento,—le disse don Pio mestamente, scrollando il capo, per significare che tutto era perduto, che l'arrivo della principessa distruggeva la sua unica speranza.
—Io sono tua moglie, non voglio nè posso permettere che tu commetta pazzie.
—Non fare scene, non fare scandali, non renderti ridicola, se no...—disse don Pio in tono di minaccia.
—Che cosa mi faresti?—domandò la principessa facendo alcuni passi per avvicinarsi al letto.
—A te nulla; non ti torcerò mai un capello; ma farei sostenere la legge del divorzio e ti ripudierei come si ripudia tutto quello che ci è antipatico, insopportabile, odioso.
—Quella legge non sarà mai accettata dalla gente onesta,—disse al principessa.
—Meglio! La canaglia la sosterrà compatta e la canaglia impera.
—E allora chi sei tu, chi sono i tuoi?—domandò donna Camilla.
—Canaglia,—rispose il principe.—Io, tu, tutti quelli che, come noi, non hanno sentimenti, non credono all'onestà, ridono della virtù, insidiano la pace delle persone tranquille e laboriose, che sostengono principî che non sentono, che propugnano idee che non sono frutto delle loro convinzioni, che aizzano gli uni contro gli altri, che demoliscono idoli, distruggono credenze, che mirano sempre al guadagno senza tener conto del danno delle masse, non sono altro che canaglia, canaglia, canaglia!
Don Pio, seduto sul letto, parlava agitando le scarne braccia, che le maniche sbottonate della camicia da notte lasciavano scoperte, e con quei capelli arruffati, che gli erano tornati canuti, e la barba grigia, pareva un vecchio profeta in un accesso di religioso furore.
—E l'opera della Stampa sostenuta, pagata da te, quale è stata mai?
—Quella di fare di Roma, dell'Italia un paese vile, basso, senza ideali, senza fede nei beni morali; un paese che non ha forza di tollerare i rovesci, che si sgomenta della sventura; un paese che trema all'annunzio del colera, che non ha lagrime bastanti per piangere un soldato morto pugnando; un paese dove l'opera è nulla, dove la ricompensa è tutto; un paese dove l'onore, il dovere, il sacrifizio sono lettera morta, un paese che meriterebbe di esser coperto dal diluvio!
—Purchè Iddio ti affidasse la costruzione dell'arca!—osservò ironicamente la principessa.
—No, io preferirei perire insieme con gli altri, se nell'arca dovessi aver te, sempre te per compagna.
—Mi odii dunque molto?
—No; sono un vile e non so odiare; ci vuole ben altra fibra della mia per nutrire un sentimento potente come quello; ma non ti posso soffrire,—e la guardò, accompagnando con un riso cinico quelle parole.
—Sai amare però,—diss'ella accennando al ritratto, ora debolmente illuminato dalla luce, che penetrava dalla finestra.
—Neppure. Se sapessi amare, imporrei il mio amore e tu non avresti trovato qui un ritratto. Non so odiare, non so amare, non so volere!—disse il principe lasciando ricadere con una mossa di scoraggiamento la testa sui guanciali, e chiudendo gli occhi per non vedere la sua tormentatrice.
La principessa rimase un momento a guardarlo e poi uscì per andare nella camera in cui si era fatta preparare il bagno, nella piccola tinozza di guttaperca, che viaggiava sempre insieme con lei, e dopo essersi tuffata nell'acqua e vestita in fretta, prese la rozza coperta per i poveri e si mise di guardia nel salotto di don Pio, come faceva a Roma.
Don Pio sentiva il tic-tac rabbioso dei ferri, che gli martellava insistentemente nel cervello e non aveva neppure la forza di dire alla moglie che cessasse. Era ritornato nell'abbattimento, nell'inerzia, non voleva più nulla, non pensava più a nulla altro che al suo dolore.
Il viaggio a Rovigno, la consolazione che ne sperava, tutto era svanito dalla sua mente; era stato un dolce sogno che si confondeva con i sogni della notte. Nel riaprir gli occhi aveva veduto Camilla, e ora ella era là che lavorava, che vegliava implacabilmente su di lui!
Mentre don Pio inerte, senza volontà, stava abbandonato sul letto, e Giorgio preparava quetamente nella stanza la biancheria e gli abiti del principe, fu bussato alla porta del salotto, e donna Camilla, cessando un momento il lavoro, diceva "avanti".
Il Rossetti, tutto umile, col cappello in mano, entrava, e vedendo una signora la salutava fino in terra.
—Scusi,—disse con la sua parlantina,—ero venuto a dire al principe della Marsiliana che sono le nove e il vaporino è pronto.
—Ah, sì! Il principe è ancora in letto e per ora non credo si alzi,—disse donna Camilla.
—Peccato! Mi facevo una festa di condurlo a Rovigno dalla mia Maria!
—Lei dunque è il padre della signora Caruso?—domandò la principessa squadrandolo con uno sguardo freddo.
—Appunto, e il principe voleva andare oggi a trovarla; tutto era fissato e il vaporino aspetta.
—Il principe non verrà; ritorna a Roma stasera,—disse donna Camilla con un sorriso sprezzante.
—Ma il vaporino! Io l'ho fissato; si tratta di un viaggio, non di una gita sulla laguna; mi sono impegnato....
—Non si sgomenti per questo; mandi il padrone a farsi pagare qui all'albergo,—disse in tono offensivo la principessa.
Il vecchio Rossetti, tutto umiliato, uscì dal salotto e per le scale pensava:
—Basta che sieno signori per esser tutti matti, tutti!—e con questa riflessione si consolava dello sgarbo ricevuto.
Don Pio aveva sentito il battibecco fra la moglie e il pittore, e non s'era mosso; egli lasciava che gli avvenimenti si compissero senza far nulla per trattenerli o impedirli. Era una fatalità e dinanzi a quella dea inventata dagli spiriti inerti, egli chinava la testa.
Verso il mezzogiorno si alzò e andando in salotto trovò la colazione pronta. Donna Camilla posò la coperta e prese posto di fronte a lui senza parlare. Quando i camerieri si furono ritirati, la principessa, sorseggiando il caffè, narrava al marito, in tono sarcastico, il colloquio col Rossetti.
—Era molto impensierito per il vaporino, quel poveruomo; si vede che l'interesse è il movente della sua vita. E come favoriva volentieri la tua riunione con la figliuola, come cercava di compiacerti! Chissà mai quali ricompense sperava!—aggiungeva ella con un sorriso perfido sulle labbra scolorate.
—Che anima bassa!—esclamò don Pio guardando fisso la principessa e strisciando le parole, quasi si compiacesse a sferzarla più lungamente con quell'insulto. Poi accese un sigaro e non disse altro.
Egli lasciò che la principessa ordinasse a Giorgio di fare i bauli senza opporsi e che stabilisse la partenza per la sera stessa.
—Occorrerà ordinare una cassetta per trasportare il quadro?—domandò Giorgio approfittando di un momento in cui il principe era solo.
—Non importa, lo riporterete a chi lo ha mandato,—e tracciò poche righe per il Rossetti sopra una carta da visita nelle quali diceva che non voleva privarlo di un ricordo di famiglia, e per questo glielo rimandava ringraziandolo.
—Che cosa hai scritto a quel tenero padre?—domandò la principessa entrando in salotto e vedendo che Giorgio portava via il quadro e una lettera.
—Che tormento che sei, Camilla!—disse il principe fissandola ancora per farle leggere nell'occhio la conferma di quelle parole.
Ormai il principe e la principessa non si usavano più riguardi di sorta; appena aprivano bocca la parola amara correva loro alle labbra, e la lasciavano uscire senza ritegno.
La sera essi ripartivano per Roma, e Giorgio e la cameriera, che li seguivano in un compartimento di prima classe, ridevano delle continue liti dei loro padroni. Carolina, che era una grassa romana dalla bocca sempre atteggiata al sorriso, e canzonava volentieri la sua padrona, compiangeva i viaggiatori, che erano accanto a quella tenera coppia nella carrozza Pulmann.
—Scommetterei che non possono dormire; la signora ha il diavolo addosso!
—E al principe dà di volta il cervello,—rispondeva il cameriere.
Donna Camilla peraltro durante il viaggio non potè sfogare la sua bile con parole, perchè don Pio dormì fino a Firenze. Prima di partire aveva preso una forte dose di cloralio, che gli aveva procurato un sonno pesante e angoscioso. A Firenze era sceso per far colazione, e al Buffet aveva incontrato il principe don Tommasino Lavriani, amico e collega alla Camera, che tornava a Roma da un viaggio a Londra. Don Pio considerò quell'incontro una vera fortuna e invitò il Lavriani a salire nella stessa carrozza che egli occupava.
Parlarono di cavalli, di corse, di politica, e donna Camilla ascoltava senza prender parte al discorso. Ella non aveva altro che un pensiero, e in quel pensiero cercava conforto.
—Non l'ha veduta e torna a Roma!—ripeteva a sè stessa di continuo.
La duchessa Teresa fece le meraviglie vedendo la nuora e il figlio tornare insieme, mentre erano partiti per diversa destinazione.
—Sono andata a raggiungerlo; temeva che stesse male,—disse donna Camilla alla suocera.
Ma la duchessa non tardò a sapere dalla sua cameriera, cui lo avevano raccontato Giorgio e la cameriera della principessa, la gita a Venezia, l'inseguimento e il ritorno precipitoso, e quel fatto le rese anche più antipatica la nuora.
—Perchè, perchè non lo lascia in pace!—diceva ai suoi amici fidati con i quali si confidava.—Lo tormenta tanto che lo riduce vecchio e nullo.
E queste parole le uscivano dalla bocca con una intonazione di dolore vero e profondo. Come era pentita di aver proposto lei quel matrimonio, come si propone un affare; come rimproveravasi di non aver indovinato che quella donnina piccola, esile, dal volto pallido di morta aveva una tenacità di volere, un egoismo così grande che avrebbero distrutto il suo Pio!
Ora non c'era rimedio, bisognava sopportarla come una sventura. La duchessa era molto invecchiata negli ultimi tempi per quei dolori che inutilmente curava col massaggio e con tutti quei rimedi che i medici dei ricchi suggeriscono loro; ella non aveva più la bella energia che aveva conservata fino a tarda età, non aveva più la forza di paralizzare l'opera letale di donna Camilla; ma sentiva tanta avversione per lei che riusciva a manifestargliela in ogni modo: ora ridendo delle sue idee, ora rilevando le stupidaggini che ogni momento si lasciava sfuggire di bocca, ora vantando in presenza del figlio tutte le donne belle, serene, eleganti, le madri circondate da una forte e numerosa figliuolanza.
La principessa, educata al rispetto per la vecchiaia, taceva, ma una volta in camera sua, dove il marito non aveva posto piede da due anni, ella piangeva, pestava i piedi e imprecava ogni sorta di mali, terreni e eterni, sulla testa di quella suocera odiata.
XVI.
La Camera dei deputati era stata sciolta, mentre don Pio era in viaggio, dopo aver votata la nuova legge elettorale per lo scrutinio di lista, e ora erano indette le nuove elezioni per i primi di giugno.
—Che linea di condotta dobbiamo tenere?—domandò Ubaldo al principe quando lo rivide dopo il ritorno.
—Quella che le pare.
—Si porta candidato?
—Faccia lei.
Ubaldo cadeva dalle nuvole e assicurava a tutti che il principe non era guarito, tutt'altro che guarito, e che il suo cervello dava gravi apprensioni.
Ora non stava più rinchiuso in camera di continuo, perchè il desiderio di sfuggire donna Camilla era il più forte che egli provasse, ma portava la sua indifferenza, la sua apatia, alla Camera, al Club della Caccia, negli uffici della Stampa ovunque lo conduceva l'abitudine, e la sua faccia emaciata, tutta la sua persona infloscita, cadente, erano guardate con la stessa cinica compassione con cui si guardava quell'ammasso di macerie annerite che occupavano il posto dove l'elegante teatro sorgeva un tempo: e della prossima fine del principe della Marsiliana si parlava da tutti, come si parlava della imminente, irreparabile rovina del patrimonio Urbani.
Ubaldo e il Rosati prepararono d'accordo il campo per l'elezione di don Pio, e senza che egli avesse nessun fastidio si vide eletto a grande maggioranza. Essi avevano rimesso avanti l'idea della ferrovia in Trastevere, e nonostante che le costruzioni rimaste a mezzo, l'abbandono desolante in cui erano lasciate le vaste estensioni di terreno fuori di Porta Portese, dicessero che quell'idea era abortita, pure gl'illusi, quelli che hanno sempre bisogno di una divinità da adorare, e che, abbandonata la religione, non possono più accendere il lume alla Madonna e mettono sull'altare del patriottismo un candidato da strapazzo, quella schiatta di adoratori cantarono con voce altissima le laudi dell'operoso principe della Marsiliana. Essi lo dipinsero ai loro amici come un modello di signore democratico, amico del popolo, intelligente a segno tale da capire i bisogni degli operai, buono tanto da desiderare di migliorarne le sorti. Così in virtù della campagna che La Stampa faceva contro il candidato dal Governo, competitore del principe, e molto in virtù del sor Domenico e degli amici di lui, che avevano tanto predicato in favore di quel loro apostolo della redenzione del popolo, don Pio ebbe una grande quantità di voti.
Ma non vi furono feste nè pranzi al palazzo Urbani per quel fatto; non volarono, come la prima volta, i tappi delle bottiglie di champagne.
—Perchè questa musica?—domandò la principessa udendo a un tratto durante il pranzo, sonare l'inno di Garibaldi nel cortile del palazzo.
—Mi hanno rieletto,—disse don Pio continuando sbadatamente a mangiare.
—Ma tu rinunzi, non è vero?—chiese donna Camilla.
—Non credo: che noia mi dà l'esser deputato?
—Rompi ogni legame con la tua vita di questi ultimi tempi, ritorna a fare il signore; rinuncia a quel recente passato, fallo dimenticare. Le tradizioni di casta e di famiglia s'impongono; rispettale.
—Lascialo in pace, Camilla,—disse la duchessa afferrando l'occasione per contraddirla.—Egli sa meglio di te quello che deve fare. Del suo nome egli solo è custode.
La musica continuava a sonare nel cortile e la voce nasale di donna Camilla echeggiava monotona nella sala.
—Se fosse geloso del suo nome avrebbe conservato il patrimonio, non si sarebbe messo a fare il giornalista e il mestiere dello speculatore, avrebbe avuto vergogna di farsi amico di certa gente, che un tempo non poteva neppur sognare di avere una stretta di mano da un Urbani....
La duchessa tagliava le parole in bocca alla nuora e difendeva il figlio a spada tratta, senza convinzione, per il solo piacere di farle dispetto.
Don Pio non fiatava; raggomitolato su sè stesso, pareva non udisse nulla, neppure la disputa fra le due signore.
A un tratto si alzò, posò un bacio sulla fronte della madre, e andò di là ordinando ai servitori di regalare del denaro ai musicanti affinchè cessassero di sonare.
Pochi minuti dopo, col sigaro spento fra le labbra, era nella stanza di Ubaldo alla Stampa. Vi era entrato nell'assenza di lui, per guardare una grande fotografia di Maria che era appesa sopra la scrivania, e la fissava desolato pensando alle speranze che aveva fondate sul viaggio a Venezia, sulla gita a Rovigno, distrutte tutte dalla gelosia di donna Camilla.
—Che maledizione, che seccatura è mai quella donna!—pensava fra sè atteggiando le labbra a un sorriso amaro.
Nell'udire dei passi nella stanza vicina gettò gli occhi su un giornale, che era spiegato sulla scrivania, e finse di leggere.
Il Rosati e Ubaldo, avendo saputo che il principe era in redazione, erano venuti a cercarlo per parlargli dell'onorevole Carrani.
—Creda,—diceva l'Ubaldo,—l'onorevole Carrani trascina il giornale sopra una via pericolosa, gli fa sposare troppo apertamente i suoi risentimenti personali, lo rende antipatico ai lettori; non può non essersene accorto anche lei.
Il principe fece col capo un lieve cenno che poteva significare tanto sì quanto no.
—Fabio ed io che leggiamo i giornali, che vediamo molta gente, ce ne siamo accorti da un pezzo. Piovono alla direzione le lettere degli assidui, che si lagnano dello sfogo delle ire di quell'uomo fegatoso. Non potrebbe, lei, fargli intendere la ragione? Io glielo ho detto, ma il Carrani si crede infallibile e non mi ascolta. Lei, principe, con la sua autorità potrebbe ottenere quello che non ho ottenuto io.
Don Pio guardava Ubaldo senza rispondere.
—Dunque?—domandò Ubaldo.
—Faccia quello che vuole,—disse con aria irata il principe cercando il cappello per andarsene da quel luogo dove volevano costringerlo a operare, dove volevano imporgli delle seccature.
Fabio e Ubaldo scrollarono la testa e capirono che dal principe non potevano ottenere nessun appoggio morale, e volendo ad ogni costo proteggere la Stampa dalla influenza perniciosa del Carrani, perchè sul giornale fondavano le loro speranze d'avvenire, chiamarono il proto e gli dettero ordine che non accettasse più gli articoli dell'ex-ministro, senza farli passare per la redazione.
Quest'ordine, di cui il Carrani non tardò a accorgersi, produsse un uragano. Prima andò al giornale e fece una scena al Caruso e battè i pugni sulla scrivania e lo coprì di villanie. Ubaldo, che aveva il sangue gelato e sapeva sopportare ogni specie d'insulti quando aveva in mira un utile quasi certo, non rispose; affettò anzi una profonda indifferenza. Egli si contentava di dire di tanto in tanto:
—Si rivolga al principe; si lagni con lui.
Il Carrani se ne andò urlando, e dalla Camera scrisse subito una lettera di fuoco a don Pio, nella quale gl'ingiungeva di richiamare al dovere il redattore-capo e, nel caso non volesse chiedergli scusa, di licenziarlo.
Il principe ricevè la lettera, vide che era del Carrani, che era lunga, non la lesse e non vi rispose. Il giorno seguente altra lettera di fuoco, che ebbe la sorte della prima. Il Carrani scoppiava, non ne poteva più e cercava il principe ovunque per dirgli la sua.
Don Pio incontrandolo sulla gradinata di Montecitorio, gli andò incontro e gli disse:
—Ora mi rammento, mi avete scritto.
—Ve ne rammentate un po' tardi.
—Ho tante seccature, scusate.
—E che mi dite?—domandò il Carrani.
—Di che?—replico don Pio meravigliato.
—Ma, delle lagnanze che vi facevo nelle mie due lettere?
—Ora che mi rammento, non le ho lette quelle lettere, no, non le ho lette,—e fissava il Carrani con uno sguardo ebete.
Il Carrani a sua volta dopo aver guardato in faccia lungamente il principe; dopo aver veduto quello sguardo vuoto di pensiero, disse:
—Avete ragione, non c'è nulla da farci, lo stupido sono io,—e salì alla Camera a dire a chi non voleva saperlo, che don Pio della Marsiliana era rimbecillito, che doveva avere una paralisi progressiva del cervello, perchè non ragionava più.
Ed era così infatti. Il suo cervello, poco solidamente organizzato, non era fatto per resistere a tanti urti, a tanti pensieri incresciosi, e specialmente non era fatto per resistere alla persecuzione incessante, noiosa, meschina della principessa. Ora ella aveva scoperto in parte il vero, rispetto allo stato finanziario del marito, e alla persecuzione gelosa aggiungeva quella dell'interesse.
—Per quella donna ti sei rovinato e ci hai rovinati; meritava davvero il conto. Comincia dall'abbandonare il giornale e pentiti delle empietà commesse con quel mezzo.
Don Pio, invece di rispondere, fingeva di dormire. La Stampa non c'era bisogno che l'abbandonasse; l'aveva già abbandonata, e Ubaldo e il Rosati, incoraggiati da quel primo fatto del Carrani, non solo avevano cessato l'opposizione contro i due nuovi ministri reclutati nel loro partito, ma in certe questioni erano più benevoli col Gabinetto intiero e sognavano, sognavano tutti e due, alla caduta del vecchio Presidente del Consiglio affranto dagli anni e dai malanni, di far della Stampa l'organo ufficioso del nuovo presidente; ambizione quella comune a molti giornalisti illusi, i quali non sanno che il sussidio che ricevono per cantare sempre osanna non li compensa neppure della decima parte dei lettori che perdono. E così nell'amministrazione come nella direzione politica i due utilitari si erano ingeriti. Essi avevano licenziati diversi inutili corrispondenti, e lo scrittore letterario; avevano ristrette giudiziosamente le spese di telegrammi e non inserivano più nulla in cronaca senza esigere un alto compenso. Il giornale tirava 80,000 copie e poteva essere esigente.
Queste riforme che il principe sanciva con la sua indifferenza e il suo silenzio destarono il malcontento fra gl'impiegati d'amministrazione; alcuni se ne andarono, altri furono licenziati, e anche l'amministrazione, che Fabio prese sotto la sua speciale sorveglianza, non fu più così numerosa e così disordinata, e La Stampa potè farsi da sè largamente le spese e farle ai suoi vice-proprietari.
Per altro ogni volta che c'era da far fronte a una scadenza, l'intendente del principe vuotava la cassa del giornale, e quel giorno Fabio e Ubaldo erano di pessimo umore, poichè non sapevano come fare a dividere le due amministrazioni. Essi non tenevano conto dei capitali inghiottiti dal giornale e si credevano defraudati quando casa Urbani ricorreva alla Stampa, per riparare momentaneamente allo sfacelo cui andava incontro inesorabilmente.
Un giorno, verso la metà di luglio, una notizia molto grave giunse dalla Marsiliana al palazzo Urbani e la portò un buttero trafelato.
Quattrocento lavoranti del canale emissario si erano ammutinati chiedendo la paga, che si negava loro da più settimane, e armati di pale e di vanghe marciavano su Roma, per venir da sè a domandare al principe la loro mercede.
La duchessa, tornando di fuori, aveva veduto il buttero scender da cavallo e parlare concitato col portinaio, mentre scoteva il cappello bagnato di sudore. Ella lo interrogò e seppe che il buttero era inviato dall'intendente e chiedeva di essere ammesso dal principe. Con poche parole, senza eccitamento, quel villano le fece un quadro spaventoso della situazione.
—Aspettate, riferirò io,—diss'ella, e salì.
Il principe era nel suo salottino e sfogliava La Vie Parisienne; donna Camilla lavorava alla rozza coperta per i poveri.
La duchessa ansante narrò il fatto e fissando il figlio gli domandò:
—Ma dimmi, non lo sapevi che i tuoi operai non erano pagati; dimmi, siamo a questo?
Egli non rispose e prendendo sul tavolinetto basso, che aveva accanto, un mucchio di carte le mise sotto gli occhi trecentomila lire in cambiali, che erano state respinte allo sconto dalla Banca Nazionale, e due avvisi di cambiali per una somma complessiva di dugentomila lire che scadevano il giorno dopo.
—Come farai?—gli domandò la madre.
—E che so io?
—E stai così inerte a guardare le figurine della Vie Parisienne e lasci che il tuo, il nostro nome sia schernito da tutti, e lasci che a Roma si veda la banda armata dei lavoranti, che viene a chiederti il pane: il pane, capisci, di cui ha bisogno per saziare la fame?—disse la duchessa.
—Ma che cosa devo fare?
-Non c'è nulla in cassa?—domandò donna Teresa al figlio.
—C'erano alcune migliaia di lire, ma avevo perduto iersera al Circolo della Caccia e ho pagato.
—E gl'istituti di credito?
—Negano; li ho tutti sfruttati come principe della Marsiliana e come proprietario di giornale.
—E gli amici? Perchè non scrivi a don Tommasino Lavriani; ha dieci milioni a conto corrente da Rothschild, se vuole ti può aiutare. Un principe romano, quando ha commesso delle pazzie, ha l'obbligo di rimediarvi e se gli piace di buttarsi nelle imprese non può fallire come mio speculatore, che non ha nulla da perdere, nulla. Pio, scotiti, opera.
E vedendo che il principe continuava a sfogliare il giornale illustrato, la duchessa gli mise una mano sulla spalla e gli disse:
—Pio, pensa.
Nel parlare al figlio, nel contemplare quella rovina, la duchessa, aveva una intonazione di rimprovero nella voce, ma nel cuore ella era piena d'indulgenza, per quel figlio idolatrato e sperava con quel mezzo di scoterlo. Ella peraltro s'illudeva sullo stato mentale del principe e gli chiedeva l'impossibile. Un solo nome, una sola persona avrebbero avuto la potenza di rendergli la vita, e se la duchessa, invece di spronarlo a rimediare allo sfacelo del suo patrimonio, avesse invocato quel nome, avesse detto a don Pio: "Va', parti, cerca la donna che ami perdutamente", egli avrebbe capito, sarebbe partito e avrebbe trovato Maria; ma costringere la sua mente a pensare, il suo cervello a cercare il mezzo per uscire da quel labirinto intricatissimo di affari in cui era entrato sventatamente, come un bambino, senza riflettere alla possibilità di un giorno di sventura, era cosa che don Pio non poteva fare. Per mostrarsi compiacente verso la duchessa, don Pio scrisse peraltro a don Tommasino Lavriani, suo amico d'infanzia, pregandolo a prestargli mezzo milione.
Don Tommasino, conosciuto nel patriziato per la sordida avarizia, era uomo che scriveva malvolentieri, e gli affari preferiva sbrigarli a voce, poichè il dir di no non gli costava nulla. Egli andò da sè a portar la risposta.
—Volentieri, Pio, ma sai, ho figli e mezzo milione è una somma; che ipoteca mi dai?
—Nessuna; tutto è ipotecato più volte.
—E allora, abbi pazienza; questo non è un affare, è un favore.
Don Pio lo guardò meravigliato, sgranando gli occhi, e si disse a denti stretti:
—E se ti chiedessi un favore?
Don Tommasino arricciò il naso ponendo in mostra i denti bianchissimi. Era quella la sua smorfia abituale, che non voleva significar nulla e che lo faceva somigliare a un leone istupidito e immelensito dal freddo, al quale rimangono le zanne in bocca per solo ornamento.
—Sai che favori non ne ho mai fatti a nessuno.
Ti do in cambio della somma che m'impresti, La Stampa,—aggiunse don Pio sempre a denti stretti.
—E che me ne faccio di un giornale? Non ho voglia di rovinarmi.
—Ti do la galleria.
—La galleria non rappresenta nulla dal momento che il Governo impedisce che si vendano gli oggetti d'arte.
—E allora rifiuti?—domandò don Pio
—Si capisce che rifiuto.
Quella risposta rese muto il principe e tolse alla duchessa Teresa tutta la bella energia senile, che a momenti le dava un aspetto di gioventù.
La povera signora vedeva distrutta tutta l'opera paziente di ricostituzione del patrimonio, iniziata e condotta a termine da lei per amore del figlio; ella vedeva minacciato di giudizii, tediato, rovinato quel Pio, che era stato il pensiero unico, l'unica speranza, l'orgoglio della sua vita. In quel momento la duchessa lo guardava con compassione, senza che la sua bocca pronunziasse una parola di rimprovero, senza che dall'occhio umido di lagrime partisse uno sguardo meno affettuoso dello sguardo consueto. Ma soffriva per lui, soffriva vedendo cadere tutti i suoi sogni d'avvenire, e se il dolore non le avesse fiaccate le gambe, sarebbe andata lei, così altera, a raccomandarsi agli uomini danarosi di Roma affinchè le salvassero il figlio.
—Ma l'amministratore che fa? dov'è? Chiamatelo!—ordinò la duchessa a Giorgio entrato in quel momento recando una lettera al principe.
Don Pio lesse la lettera e la passò alla madre, dicendo con la solita intonazione di voce:
—È inutile di farlo chiamare.
—Fuggito!—gridò la duchessa sgualcendo la lettera.—Ma la sventura ci perseguita, ci opprime!
—Giocava alla Borsa e ha perduto,—disse il principe,—è una cosa tanto naturale; ora non potendo pagare va all'estero.
—Dunque la rovina colpisce noi, colpisce tutti quelli che stanno intorno a noi?—diceva la duchessa piangendo a calde lagrime.
Donna Camilla, che non aveva fiatato in tutto quel tempo, prese la parola, e la sua voce stridula echeggiò sinistramente nella stanza.
—La rovina colpisce tutti, perchè tutti hanno ceduto alla sete dell'oro, perchè tutti hanno ambito pronti e forti guadagni, che assicurassero loro godimenti materiali.
—Risparmiaci le tue sentenze, Camilla,—disse il principe.
Ma la principessa in quel momento non udiva neppure le sprezzanti parole del marito. Ella teneva la testa alta e negli occhi chiari le brillava un lampo di pensiero pertinace.
—Tu non devi finire come un uomo qualunque,—ella disse.—Il nostro nome non deve essere vituperato, i nostri beni non voglio che passino nelle mani di un villano arricchito. Mi hai sempre disprezzata, ma io ti salverò.
Donna Camilla parlava tanto seriamente e con una convinzione così profonda da imporre rispetto al marito. In quel momento egli non avrebbe trovato una parola di scherno per lei.
—Esco e spero tornando di poterti dire che sei salvo, Pio,—ella aggiunse stendendogli la mano.
Il principe la fissava sbalordito, non la riconosceva quasi. La duchessa, sempre piangente, l'abbracciò e la baciò in fronte dicendole supplichevolmente:
—Camilla, salvalo!
Appena la principessa fu uscita dalla stanza, don Pio alzò le spalle con una mossa d'incredulità. Non era possibile che la moglie lo salvasse; e come doveva fare, lei così inetta, così incapace di pensare?
—Camilla vuol prolungare la mia agonia, Camilla è il mio tormento anche ora,—egli disse.—Sono perduto, rovinato!
Più del disonore che sarebbe ridondato su di lui se il giorno seguente non avesse potuto far onore alla sua firma, più di tutte quelle torture morali, che sogliono atterrire gli uomini minacciati dalla rovina, don Pio era intimorito dal fatto di quella banda di lavoranti, che veniva fino a Roma, fino al suo palazzo, a chiedergli il pane. La sua immaginazione gli rappresentava quei lavoranti stracciati, macilenti, gialli per la febbre, trascinantisi a fatica sulle lunghe vie della campagna, e gli pareva che si avvicinassero, che già fossero giunti e a ogni rumore egli sussultava e sentiva stringersi il cuore da una mano gelata, quasi le vanghe di cui erano armati i lavoranti venissero percosse contro l'uscio di camera sua.
Madre e figlio passarono un'ora tremenda, una di quelle ore cui si ripensa con orrore nei momenti di pace serena, e delle quali il ricordo solo basta a ridestare le angosciose sensazioni; e in quell'ora essi non scambiarono una parola, non fecero un movimento; pareva che si raccogliessero penetrati della tetra solennità della imminente sventura.
—Pio,—disse la duchessa dopo quel lungo silenzio,—non hai nessuna idea, nessuna speranza?
—Nessuna.
—Almeno avverti il questore che ti protegga contro questa gente, che viene dalla Marsiliana a minacciarti!
Don Pio prese macchinalmente la carta e vi tracciò sopra alcune righe, ma prima di terminare la lettera stracciò il foglio in due parti, poi in quattro e in otto e posò i pezzettini dinanzi a sè, formandone un mucchio.
—No, la confessione che dovrei fare è troppo umiliante! È troppo duro il dire che io, don Pio della Marsiliana, non ho da sfamare gli operai che impiego, e che ho paura di quegli affamati;—e gettò la testa indietro e rimase inerte sulla poltrona.
Dopo un'altra interminabile ora di attesa giunse donna Camilla più pallida dell'usato, ma con un sorriso trionfante sulle sottili labbra d'anemica, e pose un foglio aperto sotto gli occhi del marito.
—Se accetti queste condizioni, avrai oggi mezzo milione e somme maggiori in seguito per rimediare a tutto.
—Non posso leggere,—disse don Pio mettendosi una mano sugli occhi ardenti per l'angoscia,—dimmele tu queste condizioni.
—Abbandonare La Stampa.
—La prenda chi vuole, non me ne importa nulla.
—Deporre il mandato di deputato.
—Non ci tengo punto e non ho fatto nulla per esser rieletto.
—Partire per un lungo viaggio, farti dimenticare, e tornando, andare al Vaticano a far atto d'ossequio al Santo Padre.
Un lieve sorriso comparve sulle labbra di don Pio.
—Quanto si divertiranno alle mie spalle i giornali!
—E quanto ti vilipenderanno se non paghi i tuoi impegni,—rispose donna Camilla.
—E l'aiuto di dove viene?—domandò il principe.
—Di dove può venire se non da chi ha premura che i grandi nomi delle più illustri famiglie romane non sieno trascinati nel fango, da dove, se non da chi ha a cuore che tutto quello che rappresenta il passato e può rappresentare l'avvenire non perisca, non precipiti?
Don Pio non chiese altro, ma rimase esitante e pensoso fissando la madre come se attendesse da lei un consiglio, un suggerimento.
In quel momento di sotto al palazzo Urbani passava una compagnia di soldati, che recavasi al Quirinale a cambiar la guardia; passava silenziosa senza che la musica l'annunciasse. Quello scalpiccio di un centinaio d'uomini fece trasalire il principe, egli credè che i lavoranti stracciati, affamati, lividi dalla febbre fossero giunti dinanzi al palazzo chiedendo pane.
—Oh Dio!—egli esclamò mettendosi le mani sugli orecchi.
Il suono delle trombe dileguò subito quella impressione di sgomento e di paura nell'anima del principe. Ma se non erano giunti, potevano giungere da un momento all'altro e allora!...
Don Pio tremò a quel pensiero e alzandosi di scatto si fermò in faccia alla moglie, alla quale disse, ponendo le mani sulle spalle.
—Camilla, va, Camilla, prometti tutto quello che credi a nome mio, ma torna presto, torna con i quattrini, per carità!
Era la prima volta che il principe supplicava donna Camilla di un favore, e la supplica era accompagnata da uno sguardo pieno di tenerezza.
—No, scrivi,—diss'ella cavando dall'apertura del guanto la minuta delle condizioni che don Pio doveva impegnarsi a rispettare.
Egli scrisse tremando e dalle tempie gli scendeva a gocce il sudore gelato di chi sente svanire la vita. Sotto alla firma appose con la ceralacca il sigillo di casa Urbani e consegnò il foglio alla moglie, dicendole di nuovo:
—Per carità torna presto; torna con i quattrini!
La principessa aveva appena chiusa la porta dietro a sè che don Pio era già con la fronte appoggiata ai vetri per veder uscire la carrozza dal palazzo. Donna Camilla lo scòrse dallo sportello del coupé, ma non gli fece nessun cenno con la mano per infondergli animo. Anche ora che ella lo salvava, serbavasi fredda e pareva ubbidire a un dovere, invece che cedere a uno slancio del cuore.
Il principe, come tutti quelli che sono incapaci di prendere una risoluzione, ma una volta presala, per iniziativa altrui, vogliono attuarla per sentirsi legati e evitare il pericolo di cedere alla propria inerzia, provò l'impazienza di compire subito almeno una delle promesse stese in carta un momento prima. Infatti fece chiamare Ubaldo e senza tanti preamboli gli domandò:
—Lo vuole il giornale!
—Ma che cosa intende dire?
—Intendo proporle di prendersi la proprietà della Stampa, purchè trasporti subito gli uffici in altro locale,—disse il principe.
Il Caruso riflettè un momento lisciandosi la barba e poi rispose:
—È un giornale che costa molto, molto, e non so se da solo io possa arrischiarmi a fargli le spese, specialmente dovendo trovare un altro locale e adattarlo a uso di tipografia e di amministrazione. Se invece mi lasciasse la casa, potrei trovare chi mi prestasse qualche capitale per pagarlo, e agevolandomi lei sul prezzo, forse ci si potrebbe accomodare.
Egli mercanteggiava sapendo in quali acque navigava il principe, e sperava di avere anche la casa con poco.
—Mi faccia una proposta,—chiese don Pio.
—Che vuole! lo stabile è grande, ma non rende nulla e non può servire altro che per giornale, e anche per giornale è incomodo; fu costruito in fretta, e se non si vuole che rovini, bisogna spenderci.
Mercanteggiava sempre, parlando con voce monotona, a fior di labbra come chi è indifferente e si lascia spingere svogliatamente a concludere un affare. Il principe s'impazientava e disse:
—Ma mi offra una cifra.
—Che so, un centinaio di mila lire, ma sono molte, perchè il giornale costa, il giornale divora i capitali e potrei rovinarmi.
—Vada per centomila lire,—disse il principe per farla finita,—ma il contratto si deve far subito e quella somma deve essere sborsata all'atto del contratto. Io parto e domani farò stendere l'atto di vendita.
I due contraenti si salutarono senza aggiungere Una parola, senza che il principe pensasse neppure di domandare all'altro notizie di Maria. In quel momento tutto taceva in lui; la paura solo della rovina e della miseria lo dominava.
E quando donna Camilla tornò al palazzo, recando in tanti chèques il mezzo milione, don Pio le buttò le braccia al collo e la duchessa pianse con la testa appoggiata sulla spalla della nuora, ripetendole:
—Grazie, figlia mia, grazie.
Un impiegato di casa Urbani fu spedito quella sera stessa sulla via della Marsiliana accompagnato dai carabinieri, a pagare e far retrocedere la banda minacciosa, e il giorno dopo furono ritirate le cambiali in scadenza e si firmò il contratto della cessione del giornale e della vendita dello stabile.
Ubaldo non stava in sè dalla gioia e già sognava di farsi eleggere consigliere comunale e poi deputato. Senza indugiare telegrafò alla moglie per parteciparle l'accaduto e per invitarla a tornar subito a Roma a fine di festeggiare il lieto avvenimento.
A quel telegramma Maria non potè rispondere con un rifiuto. Era tornata a Venezia e in fretta fece i bauli e partì per Roma, mentre il principe e la principessa della Marsiliana si ponevano in viaggio per la Germania dove era stabilito si sarebbero trattenuti fino all'autunno inoltrato. In quel tempo una persona di fiducia di chi generosamente aiutava don Pio, doveva sistemare gli affari, toglier di mezzo le cambiali, vender i terreni anche con molto scapito a liberarlo di quelle case nuove, grandi, che in mano di lui non rendevano nulla.
Nel caffè della stazione di Pisa, Maria e il principe s'incontrarono un momento per caso, ed ella stentò a riconoscerlo quando se lo vide davanti così cambiato e così vecchio.
—Mi perdona?—le domandò egli con voce quasi spenta.—Sono un povero malato di corpo e di spirito, che imploro da lei una dolce parola.
Maria gli stese la mano ed egli se la portò con riverenza alle labbra.
—Sono tanto consolato,—egli disse ritenendole la mano fra le sue.—Perchè non ho avuto una dolce compagna come lei nella vita? E dei bambini, dei bei bambini,—aggiunse accarezzando il figlio della signora Caruso.
Così il principe della Marsiliana intraprese il breve esilio e Maria tornò a Roma.
Alla stazione attendevala tutta la redazione della Stampa, come un tempo andava a attendere don Pio reduce dai suoi viaggi.
Ubaldo, molto abilmente aveva fatto accettare dalla redazione quel cambiamento di proprietario. L'osso duro era stato il Rosati, che già la faceva da padrone prima, ma Ubaldo si era accomodato anche con lui, dandogli per una tenue somma un carato di proprietà e ora lieto e trionfante conduceva la moglie nel quartiere che le aveva fatto preparare in fretta al secondo piano dell'edifizio eretto da don Pio. Quell'uomo utilitario prometteva a sè stesso di far fruttare gl'immensi capitali che il principe aveva profusi nel giornale, e la possibilità della ricchezza e della possanza gli dava quell'aspetto calmo e trionfante, che hanno quasi tutti quelli che non sognano nel mondo altri beni.
XVII.
Era la mattina di una nebbiosa e tepida domenica d'inverno e la grande città usciva appena dalla quiete notturna che già un insolito movimento si vedeva per le vie che conducono a San Pietro. Le carrozze si succedevano alle carrozze; alcune recanti cardinali, vescovi europei o orientali con le lunghe barbe, diplomatici in uniforme, gentiluomini della corte papaie, signore velate e signori in giubba col petto coperto di catene e decorazioni pontificie o straniere. I carabinieri a due a due stavano impalati a riparo dei portoni e pareva facessero ala al pomposo corteggio che, giunto in piazza San Pietro, si divideva, poichè le carrozze dei diplomatici e dei dignitari della corte pontificia penetravano nel cortile di San Damaso e quelle degli invitati si fermavano davanti al portone di bronzo, dietro al quale stavano schierati gli svizzeri.
Il campanone di San Pietro empiva l'aria di note cupe e sonava annunciando a Roma la grande cerimonia religiosa dell'anniversario della elezione di Leone XIII al pontificato, e su per le molte scale del Vaticano, guardate dai gendarmi maestosi col capo coperto dal pesante morione, era un salire affrettato di dame, un fruscìo di seta e di velluto.
La sala Ducale e la sala Regia erano affollate di gente di minor conto; monache, educande borghesi, frati, cui non era concesso altro che lo spettacolo di veder passare o ripassare la corte papale, e coloro che erano ammessi alla cappella Sistina, il luogo sacrato dalla grande mente del Buonarroti.
Su in alto figure di Sibille, di Profeti, di Apostoli, severe, grandiose, più scolpite che dipinte dal pennello michelangiolesco: sulla parete di fondo il tetro Giudizio universale, una protesta dell'austero fiorentino contro il fasto, i vizii, le corruzioni dei grandi, e più basso questi grandi in carne e ossa, noncuranti di quella condanna.
Sulle pareti laterali invece tanti affreschi del Perugino e dei maestri toscani del suo tempo, ispirati a una fede meno ragionata e meno filosofica di quella del Buonarroti, ma più ingenua, più illimitata e per questo più efficace.
In faccia alla parete del Giudizio si ergevano le tribune delle signore, affollate da una turba elegante e ciarliera, che portava in quel luogo sacro gli strascichi dei pettegolezzi della città e il profumo di gardenia e di violetta. Sotto alla prima tribuna di sinistra un piccolo palco, sul quale il gran maestro dell'ordine di Malta col petto fregiato della croce e lo spadone appoggiato al muro, stava ritto, impettito mostrando a tutti la sua alta figura bonaria e pareva pago del suo dominio di un giorno. Accanto a quel palco, in una tribuna più bassa, i rappresentanti delle grandi e delle piccole potenze, dal generale in uniforme rossa inviato dalla regina d'Inghilterra e imperatrice delle Indie al mellifluo rappresentante del principato di Monaco; a destra la tribuna delle dame del corpo diplomatico e delle patrizie che contano papi e cardinali nella famiglia, alcune col petto fregiato di decorazioni.
Davanti a queste tribune la balaustra marmorea, e sotto, gentiluomini che portavano i più bei nomi di Roma.
A sinistra il trono papale con un arazzo disegnato da Raffaello sul fondo e drappeggiamenti di velluto e oro; a destra la tribuna su cui stavano i cantori della Cappella Papale in rocchetto bianco. Sotto a questa, su scanni bassi, i vescovi in abiti monastici o sacerdotali, dall'altro lato i cardinali tutti con la cappa magna rossa, scendente sul tappeto verde e, accoccolati quasi per terra dinanzi a loro, i caudatarj in veste violetta.
Entra il papa in sedia gestatoria, tutto vestito di bianco, con la tiara aurea tempestata di gemme, preceduto dagli esenti della Guardia Nobile, dagli svizzeri e dai flabelli, e un gran silenzio si fa nella Cappella.
Scende il vecchio venerando e sale sul trono. Egli ha a fianco il principe assistente al Sacro Soglio e un cardinale, e la messa incomincia sull'altare che è addossato alla parete del Giudizio Universale, e la Cappella Papale, composta soltanto di voci, empie la magnifica sala di sublimi melodie.
I cardinali si alzano, fanno genuflessioni, si aggruppano, si smembrano, e quei ricchi strascichi di seta e di merletto mettono una nota stridente di rosso nello spazio.
Il papa ogni tanto si alza; il più giovane dei vescovi legge le antifone e il canto accompagna la messa detta in onore del canuto e tremulo vecchio che più volte si fa spogliare di un paramento sacro per indossarne un altro.
Le dame, dalle tribune, parlano fra loro, accennano ai cardinali che conoscono, cinguettano, si mettono dinanzi agli occhi i cannocchiali per non perdere nessuno dei movimenti di quella imponente corte pontificia, studiati prima come in una rappresentazione coreografica.
La piccola signora Mariani che non perdeva una prima al Costanzi o al Valle, che assisteva a tutte le vendite celebri, a tutte le conferenze, trovava modo, per le sue attinenze con l'Ambasciata di Francia, di non perdere neppure nessuna festa vaticana, e quel giorno, mescolata alla turba elegante, seguiva con molta attenzione tutte le fasi di quello spettacolo sacro, e con la lente dinanzi agli occhi, cercava fra i dignitari della Corte Papale, e fra i cardinali e i prelati, le sue conoscenze, e le indicava a Maria, che s'era trascinata dietro e che, artista com'era, provava un grande godimento nel seguire i movimenti studiati dei porporati e dei vescovi, movimenti che parevano ideati dal genio di un sublime pittore.
—Guarda!—dissele a un tratto quando, dopo terminata la cerimonia, il papa era risalito nella sedia gestatoria su cui scendeva lo strascico bianco della veste serica, e il corteo si avviava per uscire.
E coll'indice la piccola signora Mariani accennava all'amica, mescolato fra i dignitari della Corte Papale, un signore con i calzoni di pelle di dante, il vestito verde gallonato d'oro e il cappello a punta sotto il braccio.
—Non vedi? è don Pio,—disse la piccola signora.—Don Pio mastro delle poste che non sussistono più!
Maria seguì il principe della Marsiliana con l'occhio finchè non lo vide sparire sotto l'arco della porta.
L'altra continuava a ridere dicendo:
—Che commedia! Don Pio, il "prince Charmant", trasformato in un ranocchietto verde e giallo, don Pio Mastro delle poste che non ci sono, che commedia!
Maria rimase muta e non potè ridere; il suo cuore, buono e compassionevole, aveva sempre una lacrima per i vinti.
FINE.
PREZZO DEL PRESENTE VOLUME: Lire Tre
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4 — Barrili (A.G.). Scudi e corone
3 50 Bisi-Albini (Sofia). Una nidiata. Scene di famiglia
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3 50 Cordelia. Forza irresistibile
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