IL PROFESSORE ROMUALDO
ENRICO CASTELNUOVO
IL PROFESSORE ROMUALDO
6º Migliaio.
ROMA CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C. — 1884.
Proprietà Letteraria
Tip. della Camera dei Deputati — Stab. del Fibreno.
I.
Il dottor Romualdo Grolli, assistente alla cattedra di matematica in una Università del regno, e dilettante di chimica nel suo privato laboratorio, sedeva una mattina del maggio 1861 davanti alla sua scrivania, intento a copiare una Memoria da leggersi nell'Accademia scientifica e letteraria della città. Il tema, enunciato in un breve preambolo, era il seguente: Determinare il volume della porzione di cono circolare retto che resta compreso tra un segmento circolare, un segmento iperbolico avente comune col circolare la corda e la parte del manto conico che la chiude. Svolgendo il simpatico argomento, il dottor Romualdo era giunto a questo punto interessantissimo del suo lavoro:
dal triangolo A H G avremo H G = x sen y sen α
e si compiaceva assai dell'evidenza di questa dimostrazione, quando intese bussar leggermente all'uscio.
— Chi è? — egli gridò infastidito, tenendo sospesa in aria la penna.
— La posta — rispose una voce femminile alquanto fessa; e in pari tempo la signora Salsiccini, vedova di un impiegato alle ipoteche e padrona di casa del professore, entrò nella stanza e consegnò al suo pigionale una lettera appena giunta. Il dottore prese quella lettera distrattamente fra le dita e la posò sul tavolino, poi scrisse in continuazione della sua Memoria: Ne viene che l'area del segmento parabolico che si projetta in G H sarà 2 3 2 y x sen y sen α. Posto qui un punto fermo, egli si degnò di slanciare uno sguardo sull'epistola recatagli dalla sua padrona.
Intanto la signora Dorotea Salsiccini, che era una donnetta matura, corta, asciutta e linda della persona, era uscita senza far rumore, dopo aver abbassato le tendine di una finestra e aver spolverato la spalliera di una seggiola col rovescio del grembiale.
— Chi può scrivermi da Genova? — disse il professore (lo chiameremo spesso con questo titolo) quand'ebbe esaminato per dritto e per rovescio la sopraccarta. È inutile soggiungere che egli non manteneva una corrispondenza molto attiva. Ma la meraviglia e il turbamento dell'egregio uomo furono assai maggiori allorchè gli fu noto il contenuto del foglio. Eccolo:
«Genova, 12 maggio 1861.
«Stimatissimo Signore,
«Quantunque io non abbia l'onore di conoscerla, nè di essere da Lei conosciuto, La prego di voler recarsi immediatamente a Genova per ragioni di estrema importanza. Sarei venuto io stesso costì se mi fosse stato possibile di assentarmi per un paio di giorni, ma mi è forza attendere allo scarico del mio bastimento. D'altra parte, non credo opportuno di affidare alla posta le comunicazioni che debbo farle e le cose che debbo consegnarle. Io mi tratterrò in Genova per tutta la settimana; poi salperò per le Indie. A sua maggior guarentigia faccio autenticare la mia firma da questo Capitanato del porto.
«Appena giunto a Genova voglia cercar di me presso i signori Radice e Lupini, sensali di noleggio in piazza Banchi.
«Le ripeto che la faccenda per la quale Le dirigo questa lettera è tale da interessarla grandemente e da non poter essere confidata a terze persone.
«Mi creda
« Suo obbl. « Antonio Rodomiti
« Capitano di lungo corso, comandante la nave italiana a tre alberi, Lisa.»
Seguiva l'autenticazione indicata.
Il dottor Romualdo rimase di sasso. Chi era il capitano Rodomiti? Che poteva voler da lui? Un pensiero gli balenò alla mente, ma non vi si fermò più che tanto. Nondimeno tornò ad esaminare la lettera per vedere se vi fosse una parola che accennasse al luogo donde veniva la Lisa; ma non c'era nulla. Il capitano aveva stimato superfluo il dirlo o lo aveva taciuto ad arte. Telegrafare o scrivere per domandare schiarimenti era inutile. Su questo punto non c'era oscurità. Il signor Rodomiti diceva schietto che non avrebbe fatto le comunicazioni, nè consegnato le cose affidategli se non personalmente al professor Grolli. C'era un altro partito. Non darsi nemmeno per inteso del foglio ricevuto e continuare a svolgere l'elegante formula x sen y sen α.
No, no, quest'era impossibile. Il professor Grolli, quantunque avesse testa di matematico e abitudini di misantropo, non era poi un pezzo di marmo; egli sentiva che il capitano non gli aveva scritto senza una grave ragione, e che non era lecito di considerare la sua lettera come il capriccio del primo venuto. Che fare adunque? Prender la ferrovia, e quanto più presto tanto meglio. Il professore aperse un orario ch'egli aveva sul suo tavolino, e vide che a voler partire in giornata per Genova non ci era tempo da perdere. Pose sospirando un calcafogli sopra il manoscritto, buttò giù in fretta due righe pel rettore dell'Università, diede a traverso lo spiraglio dell'uscio un'occhiata al suo piccolo laboratorio per vedere se i fornelli erano spenti, poi aperse un tiretto del suo cassettone, ne tolse una camicia da notte che collocò in una sacchetta da viaggio, infilò un soprabito color pepe e sale, calcò sulla testa un berretto di panno nero con visiera di cuoio, prese sotto il braccio l'ombrello, e in questo elegantissimo arnese si presentò all'attonita signora Dorotea.
— Parte, professore? — disse la buona donna, ch'era occupata a lavorar di calze.
— Sì... Faccia il piacere di mandare qualcheduno all'Università con questo biglietto.
— E... tornerà presto?
— Domani, posdomani, di qui a due o tre giorni, non lo so di preciso.
— E... scusi — continuò la signora Salsiccini sempre più impensierita — ha preso con sè l'occorrente, calze, polsini, colletti?
— Sì, sì, ho preso tutto... basta.
A vero dire, il professore non aveva preso altro che una camicia da notte, ma rispose di sì per levarsi d'impiccio. Del resto, egli non aveva mai brillato per una cura eccessiva della persona.
— Un momento — soggiunse la signora Dorotea, vedendo che egli si avviava verso l'uscio. Si alzò dalla sedia, e staccata da un chiodo una spazzola, se ne servì per ripulirgli il soprabito. — Via, stia cheto un minuto... Come vuol andar così?... Non c'è altri al mondo per sciupar la roba in questa maniera...
Mentre la padrona di casa si affaccendava intorno al recalcitrante scienziato, i due gatti Mao e Meo, inseparabili compagni di lei, che dormivano rinvolti a spira ai due angoli di un canapè, si rizzarono sulle quattro zampe, arcuarono la schiena a foggia di cammelli, apersero la bocca ad un lungo sbadiglio, poi scesero dalla loro posizione eminente e vennero a fregarsi intorno al vestito della signora Dorotea.
Questo atto amorevole dei due quadrupedi fece perdere al professore la poca pazienza che gli era rimasta.
— Sempre le bestie fra i piedi — egli disse con un grugnito, e, svincolatosi dalla signora Salsiccini, lasciò la stanza e scese in fretta le scale.
La signora Dorotea, rimasta sola, guardò prima Mao e poi Meo, e dopo aver lisciato il pelo ad entrambi: — C'è del torbido — brontolò — c'è del torbido. — Mao e Meo non seppero contraddire alle sue previsioni e ripigliarono in silenzio il loro posto sul canapè.
Gli avvenimenti non tardarono a provare che la signora Dorotea si apponeva al vero.
Erano scorsi due giorni dalla partenza del dottor Grolli, e l'ottima signora, discesa al pianterreno nel camerino della portinaja, comunicava a costei le sue inquietudini circa al proprio pigionale. Ella aveva finito appena di tessere l'elogio del dottor Romualdo, il quale, astraendo dalla sua misantropia, era un modello di puntualità e di discretezza, quando un fattorino del telegrafo si presentò sulla soglia e chiese — In che piano abita la signora Dorotea Salsiccini?
La signora Dorotea, a sentir così inaspettatamente pronunciato il suo nome, divenne prima bianca e poi rossa, ed ebbe appena la forza di balbettare: — Sono io... ma...
— C'è un dispaccio per Lei. Favorisca farmi la ricevuta.
— Un dispaccio!... Ma io...
— Dorotea Salsiccini, casa Negrelli, è Lei, o non è Lei?
— Ih! un po' di pazienza — disse la portinaja, accorrendo in aiuto della pacifica pigionale del quarto piano. — Dacchè s'è fatta quella maledetta invenzione delle lettere che corrono lungo i fili di ferro, non c'è più pace per nessuno a questo mondo... e pei portinai meno che per gli altri... Di giorno, di notte, drlin, drlin, chi è?... Il telegrafo...
— Insomma, non ho tempo da perdere — interruppe il fattorino. — Se non vogliono il dispaccio, lo riporto in ufficio e me ne lavo le mani.
La signora Dorotea consultò con lo sguardo la signora Gertrude, e, incoraggiata da questa, prese il piego misterioso e consentì a fare col lapis, a piedi della ricevuta, uno sgorbio che doveva essere la sua firma.
Il fattorino corse via rapido come una saetta, e la signora Salsiccini col dispaccio chiuso in mano si abbandonò sopra una sedia, e pregò la portinaja di darle subito un bicchier d'acqua.
— Cara signora Gertrude... mi perdoni... ma non so proprio quello ch'io m'abbia... Sarà una sciocchezza, ma mi fa un certo senso... Io di questa roba non ne ho mai ricevuta.
— Si faccia animo, non sarà nulla...
— Domando io chi può telegrafare a me!... A me, che non m'impiccio degli affari degli altri, a me che non faccio male a nessuno?
E intanto la signora Dorotea girava e rigirava il dispaccio nelle mani senza osare di aprirlo.
La portinaja ebbe un'idea giudiziosa. — Se lo aprisse, vedrebbe...
— Dopo, quando sarò risalita... Non ho meco nemmeno gli occhiali...
— Per questo, cara signora Dorotea, non si confonda... Forse potrà accomodarsi coi miei... In ogni modo, se crede... io m'ingegno a leggere... e potrei... Dico così... non certo per curiosità... ma, in questi momenti... è forse meglio che ci sia una amica... Di me si fida, non è vero?
— Le pare?
— Sa ch'io non sono donna da far chiacchiere...
Quest'affermazione non era esattissima; tuttavia la signora Dorotea consentì di buon grado a lasciar aprire il dispaccio alla portinaja. Costei ruppe audacemente la sopraccarta, e guardando la firma lesse: Grolli.
— Il professore!
— Sicuro...
— Che gli sia accaduta una disgrazia?
— Or ora vedremo — continuò la signora Gertrude, e con qualche difficoltà decifrò l'intero tenore del telegramma:
«Dorotea Salsiccini, casa Negrelli. — Arrivo stasera corsa otto e mezzo. Pregola preparare minestrina in brodo e letto nel camerino attiguo alla mia stanza per bimba di quattro anni.»
— Bimba di quattro anni! — sclamò esterrefatta la signora Dorotea — Dice bimba?
— Già... bimba.
— Ah, signora Gertrude... io ritengo prossimo il finimondo...
Esposta questa opinione radicale, la signora Salsiccini volle esaminare il dispaccio coi propri occhi aiutati dagli occhiali della portinaja. Non c'era dubbio. Il professore arrivava con una fanciulla! Egli che aveva un sacro orrore delle donne e dei bambini! E chi era costei? E per quanto tempo veniva in casa?
— Il professore ha fratelli, sorelle? — domandò la signora Gertrude.
— Ma no, ma no... nessuno... ch'io sappia... In tanti anni dacchè è qui, non ho visto nelle sue camere che qualche studente... E poi... è vero che parla poco, ma pure, diamine, se avesse parenti stretti, una volta o l'altra li avrebbe nominati... Creda, signora Gertrude, sarebbe da dar la testa nei muri....
Se un così disperato proposito fosse stato espresso sul serio, il sospetto che la signora Gertrude era sul punto di manifestare non avrebbe potuto a meno di affrettarne l'adempimento.
— E se fosse una figlia tenuta finora nascosta?
La signora Dorotea scattò come una molla. — Sua figlia! Figlia del professore! Di un uomo che in fatto di femmine è un San Luigi...! Signora Gertrude, che cosa dice?
— Eh, cara signora Salsiccini — replicò la portinaja battendole sulla spalla — fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. In tempi nei quali in una sola estrazione del lotto si levano quattro numeri in fila, 66, 67, 68, 69, non c'è da stupirsi di nulla.
— Questo è vero — osservò la signora Dorotea, colpita da una così profonda riflessione. Però ella non poteva acconciarsi all'ipotesi della sua interlocutrice e riprese: — No, no... è impossibile... Quando? Come? Con chi?
La portinaja aveva in serbo un'altra considerazione non meno profonda della prima. — Signora Dorotea, non si può credere come presto facciano gli uomini ad avere una figlia.
Era evidente che la fede della signora Salsiccini era scossa. La signora Gertrude ne approfittò per continuare. — Non c'è timor di Dio, e anche il professore con le sue storte e i suoi fornelli è più del diavolo che di Cristo... Questa è la causa di tutto, cara signora Dorotea, non c'è religione... Libera nos, Domine, a morte aeterna — ella concluse, facendosi il segno della croce.
— Amen! — disse la signora Dorotea. Poi soggiunse: — Figlia o no, col signor professore ce la intenderemo... Io ho appigionato le stanze a lui, e non voglio marmocchi... Ci mancherebbe altro.
— Troppo giusto — assentì la portinaja.
— Dunque la cosa resta fra noi — ripetè la signora Dorotea, quando, un po' rinfrancata, s'indusse a risalire le scale.
— S'immagini... Io non parlo sicuro.
Se la signora Gertrude parlasse, non si sa; fatto si è che la notizia della fanciulla d'ignota provenienza, la quale doveva arrivare la sera stessa col professor Grolli, si diffuse prestissimo fra gli inquilini della casa.
II.
Quantunque non siasi finora accennato nemmeno di lontano all'età del dottor Romualdo, scommetterei che il lettore rimarrà di sasso sentendo che il nostro matematico e chimico non aveva, nel momento in cui comincia questa storia, che ventitrè anni. Eppure era tanto vero che egli aveva solo ventitrè anni, quanto era vero che ne mostrava poco meno di quaranta. Nulla di giovanile nel suo aspetto. Rughe precoci solcavano la sua fronte alta e spaziosa; l'incolta capigliatura e l'ispida barba erano già punteggiate di bianco; agli occhi profondi, ch'erano forse l'unica sua bellezza, mancava la fiamma; a ogni modo, essi erano quasi sempre mezzo nascosti dagli occhiali. Sorrideva di rado; di statura appena mezzana, camminava un po' curvo con le mani intrecciate dietro la schiena sotto le falde del soprabito; vestiva negletto, schivava la società e divideva la giornata fra la scuola, i suoi libri di matematica e il suo laboratorio chimico. Nessuno l'aveva mai visto a un teatro, a un pubblico ritrovo, a fianco d'una signora. Tenersi lontano dalle donne era norma immutabile della sua condotta; nè in ciò metteva affettazione, nè ostentava la sua ripugnanza come sogliono quelli che furono vittime di qualche gran disinganno. Se era proprio costretto a parlarne, diceva che, a parer suo, la donna era un imbarazzo nella vita dello studioso, e soggiungeva ingenuamente che quanto a lui non ne aveva mai sentito il bisogno. Forse era la consapevolezza della sua inferiorità fisica, della sua goffaggine, che lo rendeva così avverso al bel sesso. Noi non amiamo le cose nelle quali siamo convinti di non poter riuscire.
Del resto, al dottore Romualdo bastava la scienza. Nel 1859, quando tutta la gioventù era corsa alle armi, egli era rimasto nel suo gabinetto a studiare; il rimbombo del cannone non lo aveva commosso. Il giorno dell'ingresso delle truppe liberatrici, s'era mescolato alla folla, aveva istintivamente agitato il cappello e gridato viva anche lui; ma, al più presto possibile, s'era ridotto nelle sue stanze, e per esilararsi un poco aveva fatto alcune esperienze col gas idrogeno. L'alloggio da lui scelto si confaceva alla sua misantropia. Era una casa di quattro piani, fuori d'una porta della città, guardante da un lato la strada maestra, dagli altri tre lati la campagna. La chiamavano, dal nome del proprietario, casa Negrelli, ed era tutta abitata da gente tranquilla. Solo sul davanti c'era un po' di rumore per effetto della strada, della vicinanza della porta, e del negozio di granaglie e coloniali che occupava due locali terreni del fabbricato. Questo negozio, appartenente al signor Gedeone Albani, andava lieto di una numerosa clientela, così rustica come cittadina. Infatti parecchie buone massaje mandavano a comprar le derrate dal signor Gedeone, il quale, trovandosi col suo deposito fuori della cinta daziaria, poteva usare notevoli agevolezze nei prezzi. La prosperità degli affari del signor Albani si vedeva riflessa nella sua faccia piena e rubiconda e nel suo umore scherzevole. Le guardie del dazio consumo venivano spesso a bere un bicchierino da lui, e, grate alla sua cortesia, non badavano tanto pel sottile se la sera, nel rientrare in città dopo aver chiuso il negozio, egli portava seco qualche pane di zucchero o qualche pacco di candele steariche.
In quanto al nostro valentuomo, egli conosceva appena l'esistenza del signor Albani. Le finestre delle sue stanze davano sulla parte opposta alla strada; non gli giungeva all'orecchio altro suono che la voce dei bifolchi conducenti l'aratro, la canzone malinconica di qualche villana intenta alle cure dell'orto, il muggito dei bovi sparsi per la campagna; e, di notte, quand'egli vegliava sui libri, il gracidar delle rane e il latrar dei cani da pagliaio.
Il quartierino della signora Dorotea era composto di un andito, una cucina, quattro stanze grandi e tre gabinetti. L'andito rettangolare aveva un uscio di fronte alla porta d'ingresso, e altri due usci, uno per parte. A destra di chi entrava c'era la cucina, e dopo la cucina un bugigattolo per la donna di servizio; a sinistra una stanza detta pomposamente salotto da ricevere, e sulla stessa linea un camerino di sbarazzo. Tutti questi locali avevano le loro finestre sul ballatojo che girava intorno al cortile. L'andito solo riceveva luce dalla portiera a vetri del salotto da pranzo, il quale metteva, a destra, alla camera da letto della signora Dorotea, a sinistra, a quella del dottore Romualdo. Un gabinetto annesso a quest'ultima camera e comunicante, mercè una porticina, col luogo di sbarazzo, avrebbe dovuto servire di studio, ma in realtà il Grolli studiava nella camera da letto. Lo stanzino egli lo aveva ridotto a sue spese a uso di laboratorio chimico. Le camere della signora Dorotea e del professore, il salotto da pranzo e il laboratorio guardavano sulla campagna e avevano aria e luce in quantità.
Il professore Romualdo alloggiava in casa della vedova Salsiccini fin da quando aveva ottenuto il posto di assistente, vale a dire da circa tre anni. Nè vi alloggiava soltanto, ma aveva indotto la vedova ad assumersi anche la cura del suo mantenimento verso un modesto correspettivo. Un caffè e latte la mattina, un parco desinare al tocco, un pezzo di formaggio e un dito di vino la sera; il professore non esigeva di più. In tutto, fra alloggio e vitto, egli non ispendeva che centoventi lire al mese, una vera miseria. Così, a malgrado di quello ch'egli doveva aggiungere per vestirsi, per comperar qualche libro, per rifornir di storte e di lambicchi il suo laboratorio, gli riusciva ancora di far piccoli risparmi sul non lauto stipendio di assistente, e di avere un migliaio e mezzo di franchi raccolti presso una Banca del paese. Lo dicevano avaro, ma in realtà non era; la sua economia dipendeva dalla mancanza assoluta di bisogni. All'occorrenza sapeva fare perfino le sue spese di lusso, e non era altro che un lusso il suo laboratorio, poichè egli avrebbe potuto benissimo levarsi all'Università il capriccio delle esperienze chimiche.
Nonostante la sua misantropia, il Grolli non era mal visto dalla gioventù. In primo luogo si doveva stimarlo pel suo valore scientifico. Il professore di cui egli era assistente godeva una fama europea, ma, attempato e malaticcio come era, non veniva mai alla scuola. Ebbene; la riputazione della Facoltà matematica dell'Università non aveva punto sofferto dacchè il Grolli saliva ogni giorno la cattedra resa già illustre dal titolare. Altro pregio universalmente riconosciuto del dottor Romualdo era la sua scrupolosa equità; onde gli studenti dicevano: — Meglio la ruvidezza del professor Grolli che la melliflua condiscendenza di tanti altri. Almeno il professor Grolli non ha predilezioni.
Inoltre tutti sapevano che la sua adolescenza era stata piena di amarezze, che, rimasto a quindici anni orfano e senz'appoggio, aveva bastato a sè stesso dando ripetizione ai suoi condiscepoli, e che s'egli era riuscito a conseguir giovanissimo un posto onorevole nonostante la sua indole poco flessibile e la mancanza di tutte le doti esteriori, egli non lo dovea a nessun patrocinio illustre, ma soltanto al suo merito e alla sua perseveranza. Com'egli aveva studiato, come studiava sempre! Studiava al tavolino, studiava camminando, certo studiava anche dormendo. Le allegre brigate degli scolari lo incontravano talvolta sui bastioni, ed egli appena si accorgeva di loro, tanto era assorto nei suoi pensieri. — Zitto! — bisbigliava un bello spirito all'orecchio dei compagni — il professore Grolli è con la sua amante. — La sua amante! — esclamava un ingenuo matricolino, aprendo tanto d'orecchi. — Già, la sua amante, la matematica. — E tutti a ridere e a dirsi — In fatto d'amanti, valgon meglio le nostre. — No, no — ripigliava misteriosamente qualche cattivo soggetto. — La vera amante del professore la conosco io. — Un'amante in carne ed ossa? — Sicuro. Finirà collo sposarla. La sua padrona di casa. — E nuovi scrosci di risa sgangherate tenevano dietro alla insulsa facezia.
La signora Dorotea, come si vede, era conosciuta dalla scolaresca. Chi si recava dal professor Grolli la trovava spesso in salotto seduta davanti al tavolino con la calza in mano e gli occhiali sul naso, e doveva assoggettarsi da parte di lei ad un succoso interrogatorio, modellato sempre sul medesimo stampo.
— Di chi domanda?
— Del professor Grolli.
— È uno studente?
— Sissignore.
— Vada pure avanti.
Non passava poi giorno che la signora Salsiccini non comparisse a due o tre riprese nelle strade della città; la mattina per la spesa, il dopopranzo per le visite, senza contar le volte ch'ella andava a desinare da qualche famiglia amica. A malgrado de' suoi cinquantacinque anni, ella camminava svelta e spedita, dimenando alquanto i fianchi e rassettandosi di tratto in tratto la mantellina che le scivolava giù ora da una spalla, ora dall'altra. Portava per solito un vestito bigio di lana e un cappello di paglia scura con tese sporgenti, con due barbine di fioretti artificiali, e con un velo celeste sul davanti, sotto al quale la buona vedova passava frequentemente il fazzoletto per soffiarsi il naso con gran romore.
— Ecco la trombetta dei bersaglieri — esclamò una mattina uno studente di prim'anno, sentendo quel suono e vedendo quel passo marziale.
— Questi studenti — disse la signora Dorotea — si prendono libertà anche con le femmine più contegnose.
Del resto, la signora Salsiccini, quantunque fosse un po' pettegola, quantunque avesse la passione del lotto, era una eccellente pasta di donna. Pel professore aveva cure materne, ed ella lo avrebbe giudicato un uomo perfetto se fosse stato più espansivo con lei e le avesse concesso di metter lingua nelle sue faccende. Nondimeno ella lo aveva sempre difeso e aveva sempre levato a cielo l'illibatezza de' suoi costumi. Guai a lui s'egli le faceva far cattiva figura, guai a lui se tanto apparato di virtù veniva a risolversi in una figliuola clandestina!
III.
Era già tramontato il sole quando il treno che conduceva il dottor Romualdo giunse alla stazione di Genova. Il nostro amico, la cui inquietudine era andata crescendo di mano in mano ch'egli si avvicinava al termine del suo viaggio, salì nel primo omnibus che gli si parò dinnanzi, e si lasciò condurre ad un albergo di aspetto signorile, ove ebbe la soddisfazione di esser preso pel servitore di una famiglia inglese arrivata insieme con lui. Tolto l'equivoco, egli venne affidato alle cure di un cameriere d'infima categoria, il quale, dopo avere acceso una candela, lo accompagnò in una stanzuccia del quinto piano. Lo scarso bagaglio e il vestito dimesso del viaggiatore non meritavano maggiori riguardi. Era già molto ch'egli pagasse il conto. Il cameriere, tanto per iscarico di coscienza, gli chiese s'egli avesse bisogno di nulla, e senz'aspettar risposta, lasciò la stanza tirando sgarbatamente l'uscio dietro a sè. Ma il professore non se n'accorse nemmeno, assorto com'era in un solo pensiero: cercar subito del capitano Rodomiti.
Onde, risciacquatosi alquanto per liberarsi dal caldo e dalla polvere, scese le scale, e domandò subito la via per giungere in piazza Banchi. Non gli fu difficile arrivarci, ma dovette convincersi che per quella sera bisognava rinunciare all'abboccamento col capitano. Perchè l'ufficio dei signori Radice e Lupini, shipbrokers, era chiuso, e non si sarebbe riaperto fino alla mattina successiva. Il professore girò un poco a caso; poi, facendo di necessità virtù, ritornò all'albergo, ove si risovvenne che non aveva ancora desinato e mangiò un boccone in fretta e senza appetito. Quando si ridusse nella sua cameruccia al quinto piano, erano circa le dieci. Il dottor Romualdo spalancò la finestra e s'accorse che la sua soffitta aveva il pregio inestimabile di dominare il magnifico porto di Genova. Qua e là lungo la costa brillavano, mutando di tratto in tratto colore, i fanali dei fari lontani; più presso, la colossale lanterna disegnava sull'orizzonte la sua mole maestosa, come un bruno fantasma cinto il capo di luce spettrale; dalle oscure masse dei bruni navigli si levava al cielo una selva d'alberi; il silenzio dell'ora era rotto dal gemito del vento che investiva le sartie e dal suono dell'onda che veniva a frangersi sulle carene. Dai mari del tropico e dai mari del polo, ora cullati sulle acque tranquille, ora sbattuti dal flutto minaccioso, ora protetti dal più bel padiglione d'azzurro, ora avviluppati fra nuvole dense di pioggia e gravi di fulmini, attraverso bonacce, attraverso tempeste, lottando, soffrendo, quei mille e mille navigli erano convenuti allo stesso punto, e ora riposavano uno a fianco dell'altro dalle lunghe fatiche, salvo a dividersi presto per non incontrarsi forse mai più. Ma fra tanti legni quale era la Lisa? Gli occhi del professore cercavano invano d'indovinarlo, mentre il cuore con battito affrettato gli diceva che l'arrivo di quel bastimento, di cui ventiquattro ore prima egli ignorava perfino il nome, non doveva rimanere senza influenza sui suoi destini.
Il nostro Romualdo dormì poche ore di un sonno interrotto. Al primo albeggiare calò impaziente dal letto, e si appoggiò di nuovo al davanzale della finestra. Una nebbietta sottile si stendeva sul mare e cingeva d'un tenue velo i legni ancorati nel porto; sotto, nella via buia, principiavano a muoversi delle ombre, a levarsi dei suoni; la città più operosa d'Italia si svegliava rapidamente. A poco a poco cresceva il moto e lo strepito; il fischio acuto della locomotiva fendeva l'aria; sui ciottoli della via si sentiva il rumore sussultorio dei carri pesanti e lo scalpitar delle zampe ferrate dei cavalli e dei muli; i ragli e i nitriti si mescevano al vociar dei facchini. Indi il sole, alzandosi sull'orizzonte, pennelleggiava d'una bella tinta di arancio le nuvolette sparse pel cielo; s'indoravano al caldo raggio le punte delle antenne dei bastimenti, spiccavano i colori delle allegre bandiere sventolanti da poppa, l'onda palpitante di voluttà si colorava di sprazzi argentini; sgombre dal grigio vapore che le avvolgeva si disegnavano con netti contorni le cupole delle chiese e le guglie dei campanili, e le case, e le villette disseminate sui colli, finchè i fasci luminosi invadevano anche le strade più anguste portando dappertutto il movimento e la vita baldanzosa della giornata che comincia.
Prima delle sette, il professore era già fuori dell'albergo e passeggiava su e giù per la piazza Banchi aspettando che l'ufficio dei signori Radice e Lupini si aprisse. Lo aspettava con impazienza, e nondimeno, quando vide le imposte spalancate, e un signore dalla faccia rubiconda (certo il signor Radice o il signor Lupini) dondolantesi sulle punte dei piedi nel vano della porta, coi due pollici nelle tasche del panciotto, col sigaro in bocca e col cappello in testa, dovette fare altri tre o quattro giri prima di trovare il coraggio necessario per presentarsi. Intanto alcuni individui, che al vestito parevano gente di mare, vennero a scambiar poche parole col mediatore. Poi si lasciarono con una stretta di mano, e il signor Radice, o Lupini che fosse, gettò via il sigaro, aperse la bocca a un lungo sbadiglio, stirò le braccia ed entrò nel suo banco. Il dottore Romualdo, pensando che fra coloro i quali si allontanavano poteva esservi anche il capitano Rodomiti e che con la sua esitanza egli aveva forse perduto l'opportunità di veder subito il misterioso personaggio, ruppe finalmente gli indugi, e affacciatosi all'uscio con la mano al berretto: — Di grazia — chiese — c'è qui il capitano Antonio Rodomiti?
Il signor Radice (o Lupini), vista l'esotica figura del professore, ne fu esilarato, e, da quell'uomo faceto ch'egli era, prima di rispondere, guardò sotto alle sedie, sotto ai banchi e perfino dietro le imposte di un piccolo armadio infisso nella parete; poi disse con una risatina; — Non lo vedo.
Sconcertato un po' da questo strano accoglimento, il Grolli ripensò con desiderio alla sua cattedra, al suo laboratorio chimico e alla graziosa formola x sen y sen α; tuttavia rinnovò la domanda con altre parole: — Ma non viene qui il capitano Rodomiti?
— Sicuro che viene, ma adesso non c'è.
— E... scusi... a che ora posso...?
Il professor Grolli non aveva finito la frase quando il signor Radice (o Lupini) scoppiò in una risata sonora. Gli è che l'ottimo sensale di noleggi coglieva finalmente il frutto della sua facezia di pochi minuti prima. Poichè sulla soglia dell'ufficio, dietro la personcina esile e smilza del professore, era comparso un colosso alto quasi due metri e grosso in proporzione, e questo colosso era precisamente il capitano Rodomiti che il signor Radice (o Lupini) aveva fatto le viste di cercare perfino negli scaffali d'un armadio.
— Con permesso — disse il capitano, il quale a cagione della sua mole ciclopica non poteva entrare finchè il professore non gli cedesse il posto.
Costui sentì a trenta centimetri sopra il suo capo la voce tonante del nuovo arrivato, si voltò, guardò in su, e vide in mezzo a una nuvola di fumo che usciva dal caminetto di una pipa, una bella testa caratteristica con la carnagione abbronzita, la barba folta, gli occhi azzurri e profondi e una cicatrice a sinistra della bocca.
— Con permesso — ripetè il capitano, e il dottor Romualdo si tirò da parte più confuso che mai, mentre il signor Radice (o Lupini) rivoltosi al colosso gli disse: — Capitano, quel signore domanda di voi.
Il capitano Rodomiti squadrò d'alto in basso il signore piccino, si tolse la pipa di bocca, mandò fuori un buffo di fumo e chiese: — È lei il professore Romualdo Grolli?
— Appunto, sono io — rispose il professore, alzando gli occhi in su come se guardasse un campanile.
— Lietissimo di far la sua conoscenza... Se non Le dispiace, potremo andare in luogo tranquillo... a pochi passi di qui... A rivederci allora — continuò il capitano, salutando con la mano il sensale di noleggi senza pronunziarne il nome, e lasciando così sospesa la grave questione se il personaggio faceto fosse il signor Radice o il signor Lupini. — Eccomi con lei — egli riprese quindi, abbassando lo sguardo sul Grolli.
E i due uomini uscirono insieme sulla strada. Il professore, che durava non poca fatica a misurare il suo passo su quello del capitano, gli veniva a fianco senza parlare nella speranza che l'altro iniziasse il discorso. Dal canto suo il Rodomiti avrebbe preferito di essere interrogato; onde tacevano tutti e due, e tacendo si esaminavano a vicenda. Una grande disparità fisica non suol generare a prima vista una grande simpatia reciproca fra due individui. E fra il Rodomiti e il Grolli la disparità non poteva esser maggiore. Il primo, come si disse or ora, era veramente un bell'uomo, dalla fisonomia aperta e leale, ma il dottor Romualdo lo considerava dal punto di vista onde gli uomini troppo piccoli considerano gli uomini troppo grandi, e non poteva guardare senza una certa diffidenza quella figura torreggiante, quelle membra atletiche, il cui solo contatto pareva doverlo schiacciare. Ed egli velava questa diffidenza con la unzione, con la timidezza che sono proprie dei deboli quando si trovano al cospetto dei forti, e che spiacevano singolarmente al capitano Antonio, già poco favorevole al topo di libreria.
Il Rodomiti si determinò a romper pel primo il silenzio. E lo fece alla marinaresca, senza preamboli. — Io vengo da Montevideo, signore.
Quest'annunzio fu una rivelazione pel Grolli. Egli alzò gli occhi verso il suo interlocutore, poi li chinò a terra e un vivo rossore si stese su quella parte del suo volto che non era nascosta dalla barba o dai capelli.
— Da Montevideo — egli soggiunse, come facendo eco alle parole del capitano.
E cento memorie della fanciullezza si affacciarono alla sua mente, e un nome scancellato quasi dal suo cuore gli tornò sulle labbra. Pur sul punto di pronunziarlo si arrestò, come se pronunziandolo violasse un voto, fallisse a un dovere. E si contentò di fare una domanda indiretta:
— È partito da un pezzo di là?
— Da due mesi e mezzo.
— E la cosa per la quale mi ha chiamato a Genova ha relazione con questo suo viaggio?
— Senza dubbio — rispose il capitano, stanco di tutto questo armeggìo. — Ho un incarico della signora Elena Natali.
L'incanto era rotto. Il nome che da anni e anni il professor Grolli non sentiva più menzionare d'intorno a sè tornava a ferirgli l'orecchio, e la persona che portava quel nome stava forse per aver di nuovo una parte nella sua vita.
— Elena! — balbettò il professore, più commosso ch'egli non volesse parere. — Non le sarà già accaduta sventura?
— Povera signora! Se ella ebbe colpe verso la sua famiglia, le ha certo espiate.
— Sarebbe... morta?
— Quando partii da Montevideo, ella viveva, ma pur troppo era ridotta agli estremi... Basta, ora vedrà una sua lettera.
In quella, il capitano, invitando il dottor Romualdo a seguirlo, infilò un portone spalancato, salì un paio di scale, spinse una porticina ch'era solamente rabbattuta ed entrò insieme al suo compagno in un andito stretto e buio.
— Sei tu, Tonino? — disse una voce femminile. E in pari tempo una donna di mezza età aperse un uscio laterale dando un po' di luce all'andito tenebroso.
— Son io — rispose il capitano — È fatta la mia camera?
— Sì, Tonino... Bada al fuoco... Mi raccomando, con quella pipa.
Il capitano Antonio fece spallucce, e chiese: — La bimba?
— Dorme ancora... Devo svegliarla?... Poni il piede su quella favilla... Abbi riguardo, Tonino.
— Lasciala dormire — replicò il capitano, senza curarsi delle strane paure di sua sorella Teresa circa al fuoco. — Passi, passi.
Queste ultime parole erano rivolte al dottore Romualdo, che venne introdotto in una camera modesta ma pulita, e fatto sedere davanti a un tavolino.
Il Rodomiti offerse al suo ospite un sigaro che questi rifiutò, poi tolse dal cassetto un grosso piego suggellato.
— Ebbi queste carte dalla signora Elena — egli soggiunse. — Si compiaccia di leggerle. Io la lascio solo, ma tornerò di qui a mezz'ora... Intanto son di là con mia sorella. Se le occorre qualche cosa, tiri il campanello.
E uscì inchinandosi alquanto per non urtar col capo sull'architrave.
— Fumerà anche lui — brontolava la signora Teresa nell'andito — sicuro, fumano tutti adesso, fumano perfino le donne.
E il capitano replicava infastidito: — Sempre questa fissazione del fuoco.... Non fuma, non fuma.
Poi si fece silenzio, e il dottore Romualdo aperse con mano tremante il piego misterioso che gli stava davanti. Insieme con altre carte ch'egli si riserbò di esaminare più tardi, c'era una lunga lettera scritta di mano femminile.
IV.
«Fratello mio, — diceva quell'epistola — sono quasi dodici anni dacchè, figlia disobbediente e cattiva sorella, io lasciai il tetto domestico, ove avrei dovuto confortare la vecchiezza del babbo ed essere per te una seconda madre. Una passione infelice mi acciecò. Seguii oltre l'Oceano l'uomo che mi aveva ammaliata, e dopo essere rimasta senza risposta a due lettere scritte a nostro padre, non volli ritentare la prova; considerai che tutta la mia famiglia avesse cessato di esistere per me. Ero superba, Romualdo; mi pareva di esser trattata in modo indegno, e il mio cuore s'indurì nel dispetto e nell'ostinazione. Per altro, da un'amica mia io ricevevo di tratto in tratto nuove di casa, e da lei seppi della morte di nostro padre. Piansi, mi strappai i capelli, mi accusai di avere con la mia condotta abbreviato i giorni di quegli a cui dovevo la vita, e scrissi a te, fratello mio, a te che avevo cullato tante volte su' miei ginocchi, a te cui avevo insegnato a balbettare le prime parole. Ma certo tu mi credevi una triste donna, e la voce della tua sorella non ebbe un'eco nel tuo cuore. Aspettai per mesi e mesi una tua lettera intenerendomi all'idea di riceverla, sperando di poter iniziar teco attraverso l'Oceano uno scambio di assidue corrispondenze. Io dicevo: egli mi racconterà i suoi studi, mi racconterà i suoi primi successi; perchè io ti sapevo pieno d'ingegno, e non dubitavo che saresti riuscito; mi racconterà i suoi primi amori, e quando amerà anche lui, oh allora, ne son certa, mi perdonerà... Ma la tua risposta non venne, e l'orgoglio mi vinse di nuovo, e mi chiusi nel mio silenzio, che durò fino adesso. L'amica che mi teneva informata delle cose della mia famiglia, o è morta anch'essa, o si stancò di scrivermi. È proprio vero, sai, quel proverbio: lontan dagli occhi, lontan dal cuore. Per anni ed anni non seppi nulla di te. A malgrado che vi sia una continua emigrazione dall'Italia a queste contrade, dal nostro paese non è mai capitato nessuno. Finalmente arrivò qui, or son dieci mesi, certo Zirlo, della Spezia, che non ti conosceva di persona, ma che ti aveva sentito nominare perchè un suo nipote aveva studiato in codesta Università. Avevi dunque seguìto la tua vocazione, eri divenuto professore. Lo dicevano sempre in casa, a vederti immerso nei libri, alieno dai divertimenti, dai chiassi. Ma io volevo notizie più precise, e ottenni che il signor Zirlo scrivesse al nipote a questo scopo, raccomandandogli però (vedi come il mio orgoglio fa sempre capolino) di non farti saper nulla dell'incarico ch'egli aveva avuto. Il giovane rispose diffusamente, parlando della stima di cui godi, della certezza che hai di succedere in un termine non troppo lungo al professore titolare, dalle tue abitudini ritiratissime, della gravità del tuo carattere. Benedetto ragazzo! Sempre misantropo, fin da fanciullo! Dal giorno in cui ebbi queste informazioni fui più tranquilla. Non ti scrissi però; mi bastava saperti vivo, sano, onorato. Pensavo bensì che ti avrei scritto se si avverava un mio presentimento.
«Questo mio presentimento sta per avverarsi. Io avrò presto fornito il mio cammino nel mondo, o fratello, e oggi stesso il medico, ch'io supplicai di dirmi la verità, mi confessò che non ho più che otto o dieci giorni da vivere. Grazie al cielo, la mia energia non mi abbandona nemmeno in quest'ultima prova. Bensì mi abbandona il mio orgoglio, e ti mando un tenero addio e ti chiedo perdono di esserti stata una cattiva sorella come fui una cattiva figlia ai nostri genitori, e ti prego di cosa che confido non mi sarà negata da te.
«Ascoltami. Non t'intratterrò sulle vicende di quest'ultimi anni. Ho profuso tesori d'affetto su chi forse non n'era degno, ma che importa quando si ama? Saprai a ogni modo ch' egli mi aveva sposata pochi mesi dopo il nostro arrivo qui, nel momento in cui ci nacque il primo figliuolo. No, egli non era senza cuore; egli non voleva, dopo aver disonorata una donna, abbandonarla; ma le avversità esacerbarono il suo carattere naturalmente sospettoso, iracondo, e resero ben dura, ben difficile la vita al suo fianco. Peggio poi quando vennero a travagliarlo le sofferenze fisiche, e il suo corpo che pareva di granito andò via via dissolvendosi come la cera al fuoco. Rimasi vedova, povera, senz'appoggi, con tre bambini a cui provvedere. Non mi perdetti d'animo, lottai contro tutti gli ostacoli, non isdegnai nessuna onesta fatica, apersi un piccolo albergo ch'ebbe prospere sorti, e riuscii, io donna debole e già cagionevole di salute, a ricondurre un po' d'agiatezza nella mia casa. Ma la sventura aveva preso a perseguitarmi. La febbre gialla mi portò via due de' miei figli; non mi rimase che la mia Gilda, la mia ultima nata. Lo vedi, ha il nome di nostra madre. E intanto il male che mi rodeva da gran tempo le viscere fece progressi rapidi, spaventevoli; invecchiai in pochi mesi più che non avessi invecchiato in dieci anni. Vedendo nello specchio le mie guance smunte, il mio colorito terreo, i miei occhi appannati, io non mi feci illusioni sul mio stato; pur lavorai ugualmente, finchè potei reggermi in piedi. Da un mese non esco dalla mia camera, da due settimane non lascio il letto. Oggi, te lo dissi già, so che vivrò ancora pochi giorni. Oh non è triste morire, ma è triste non poter più rivedere i cari volti delle persone amate, è triste non poter risalutare una volta la patria. E, per una madre, è triste sovra ogni altra cosa il dover lasciare una bimba di non ancora quattr'anni, senza sapere chi veglierà sulla sua infanzia, chi formerà il suo cuore e la sua mente. Qui ci sono molti italiani, e non sarebbe impossibile di trovar fra essi qualche anima generosa, ma siamo in paesi ove gli uomini vengono e passano; dall'oggi al domani la fortuna può balzarli in qualche fattoria lontana centinaia e centinaia di miglia, sul margine d'una foresta vergine, a poche ore dagli accampamenti di popolazioni selvagge che anelano di vendicarsi di ciò che noi europei facciamo loro soffrire. Poi la sete del guadagno sciupa i migliori caratteri; non si parla d'altro, non si pensa ad altro. Sì, forse nelle tiepide sere, sotto l'imponente padiglione azzurro di questo cielo, stanchi dalle fatiche del giorno, si pensa talvolta al luogo che ci ha visti nascere, all'orizzonte che i nostri occhi hanno contemplato schiudendosi alla luce, alle voci che ci sono prime suonate all'orecchio. E queste memorie tristi e soavi sono ancora la maggior ricchezza morale che ci rimanga. Ma chi è nato qui di genitori europei è un esule che non può ricordarsi la patria. Poichè qui si è esuli sempre, anche quando ci si nasce... E tale sarebbe la condizione della mia Gilda, se ella restasse in America... O Romualdo, questo pensiero è più acerbo di tutti i miei dolori fisici! Aggiungi poi che il poco denaro ch'io posso lasciare a mia figlia, sufficiente per mantenerla alcuni anni in Europa, sarebbe qui esaurito in brevissimo tempo.
«Presi un partito decisivo, confortatavi anche dal consiglio e dalle offerte di un amico onesto e leale, il capitano Antonio Rodomiti, il quale, dacchè io mi trovo a Montevideo, fu qui più volte col suo legno, e nel suo penultimo viaggio tenne a battesimo la Gilda. Vistami ora in tante angustie e già spacciata dai medici, egli ebbe compassione di me. Ecco ciò che risolsi. Rimandare in Europa la fanciulla, approfittando della partenza per Genova del suo padrino, il quale se ne incarica come d'una sua creatura e non vuole un centesimo di compenso, vendere tutto il poco che ho e formare un peculio che accompagni la mia Gilda e le permetta di non essere a carico di nessuno durante il tempo della sua educazione; finalmente nominar te, fratello mio, tutore di questa orfanella, e raccomandartela, e scongiurarti, quando tu non possa (nè io certo lo pretendo) tenerla in casa tua, di metterla a pensione presso gente fidata, e di invigilare sopra di lei sino al giorno in cui ella sarà in grado di provvedere a sè stessa. No, tu non mi negherai questa grazia. La mia Gilda non deve turbare la quiete dei tuoi studi, ella non deve essere per te un peso o un ostacolo se tu hai già una famiglia, o se stai per averla. Ma io morrò più tranquilla pensando che uno di casa mia la sovverrà di consiglio ov'ella ne abbia bisogno, accorrerà al suo letto ov'ella sia malata... e le parlerà qualche volta di nostra madre. Oh sì, di me non importa che tu le parli, Romualdo; io non le lascio esempi da imitare, ma conviene ch'ella onori la memoria di nostra madre, di quell'angiolo che ci abbandonò mentre tu eri fanciullo ed io entravo appena nell'adolescenza, di quell'angelo, che, se fosse vissuto, mi avrebbe forse guarita delle mie pazzie...
«In questa lettera troverai alcuni documenti che potrebbero esserti necessari: il mio atto di matrimonio, l'atto di morte di mio marito, la fede di nascita della Gilda.
«Il capitano Rodomiti ha tutta la somma ch'io ricavai dalla vendita di ciò che possedevo. Egli ne sa la cifra precisa, ed ha l'incarico di convertirla in moneta italiana e di consegnartela. Credo si tratterà di una decina di mila lire. Puoi fidarti ciecamente del capitano. Per me ho serbato solo quel tanto che può bastare pei pochi giorni che mi restano da vivere. Lo stesso Rodomiti portò seco anche una cassa con alcuni vestiti per la Gilda e quanta più biancheria ho potuto radunare. Ti mando infine un medaglione d'oro, che la mamma, morendo, mi pose al collo e che non mi ha mai abbandonata. È inutile ch'io lo porti meco sotterra. Tienlo per memoria della tua sorella? Te ne ricordi della tua sorella? Di quando amavi arrampicarti sulle mie spalle, e gettandomi le braccia intorno al collo, insistevi perchè ti portassi in giro per le stanze? O di quando, più tardi, già in via di diventare un dottore, sebbene così piccino, mi sgridavi perchè con le mie chiacchiere disturbavo le tue lezioni?... Chi l'avrebbe detto allora che, poco tempo dopo, l'Oceano ci avrebbe divisi per sempre?... Capricci dei destino!... Ah se potessi, prima di chiudere gli occhi, vederti in mezzo ai tuoi scolari!... Ma è inutile far castelli in aria.
«Lascerò l'ordine che ti mandino una copia del mio atto di morte. Voglio che tu abbia tutte le carte in regola, che nessuno possa sollevare dubbi sulle tue facoltà di tutore.
«Basta ormai, fratello mio, sono stanca, e le poche forze che mi rimangono ho bisogno di serbarle pel momento terribile del mio distacco dalla Gilda. Pochi giorni prima o pochi giorni dopo, tanto e tanto io debbo presto lasciarla, e per lei è certo meglio separarsi dalla sua mamma oggi, che assistere a una dolorosa agonia; ma non si ragiona sempre, e allorchè saremo all'ultimo bacio, ho paura che il cuore mi scoppi. Povera Gilda! La vedrai. È bella come un angioletto; è un po' viva, ma giudiziosa, buona, e mi vuol tanto bene. Oh ne vorrà anche a te, ne sono sicura... Le dissi che deve andar via per qualche giorno col capitano Rodomiti, e quantunque ella adesso strepiti e pianga, spero che finirà col rassegnarsi perchè il capitano ha saputo trovar la strada del suo cuoricino. E poi ella si affeziona ben presto a quelli che sono gentili con lei.
«Addio, Romualdo. Sono in procinto di comparire davanti al Signore, e ho fede ch'egli mi perdonerà le mie colpe perchè ho molto sofferto. E tu pure mostra di perdonarmi accogliendo il tesoro che ti affido. Quando questo foglio giungerà nelle tue mani, io non sarò più tra i vivi, ma chi sa, forse in quell'istante la tua sorella ti sarà più vicina che non ti sia mai stata da undici anni a questa parte, forse, passandoti accanto, spirito leggero e fuggitivo, ella deporrà un bacio sulla tua fronte. Ancora una volta addio, Romualdo.
« La tua Elena.»
V.
Il dottore lesse questa lettera tutta d'un fiato. Quando l'ebbe finita, egli si trovò in una condizione d'animo nuova per lui. Avvezzo a disciplinare i suoi sentimenti sotto l'impero della ragione, egli s'accorse che oggi essi si ribellavano al solito freno. Egli aveva un bel dirsi, che i legami di parentela, per intimi che siano, valgono ben poco senza i legami dell'anima creati dalla convivenza, dagli affetti, dai gusti comuni, aveva un bel dirsi che questa donna, di cui egli appena rammentava la fisonomia e con la quale per undici lunghi anni non s'era scambiato una riga, era per esso meno assai dell'ultimo fra i suoi studenti. Aveva un bel dirsi che, dimenticando i suoi doveri, Elena aveva perduto i suoi diritti e ch'ella non poteva turbare la vita raccolta e studiosa di lui gettandogli sulle spalle un cumulo di pensieri e d'inquietudini... Nonostante tutte queste savie considerazioni, egli si sentiva commosso come non era stato da un pezzo, si sentiva men fermo nel convincimento in cui era cresciuto circa ai torti di sua sorella, e per la prima volta nella sua vita dubitava di quella virtù arcigna che consiste nel soffocar le passioni e che nulla perdona agli altri perchè nulla comprende. Certo l'idea della povera Elena era stata ben singolare. Senza nemmeno sapere quali fossero le abitudini di suo fratello, senz'avere alcun dato preciso sul suo carattere, ella affidava a lui, morendo, la sua figliuola. E spediva questa bambina oltre all'Oceano, esponendola ai rischi e ai disagi di un lungo viaggio di mare, non preoccupandosi di ciò che sarebbe avvenuto s'egli non avesse accettato l'ufficio onde a lei piaceva di incaricarlo... Eppure, nella dolorosa situazione in cui ella si trovava, che altro avrebbe potuto fare? A chi altri rivolgersi? Non era egli il suo più stretto congiunto?
Il professore Romualdo girava su e giù per la stanza, ora con le mani intrecciate dietro la schiena, ora gestendo, animatamente e cacciandosi su pel naso qualche presa abbondante di tabacco. Positivista come gran parte degli scienziati, egli non credeva ai viaggi fantastici d'oltre tomba; tuttavia le ultime parole della lettera gli ronzavano agli orecchi: Forse in quell'istante tua sorella ti sarà più vicina che non ti sia stata da undici anni a questa parte, forse passandoti accanto, spirito leggero e fuggitivo, ella deporrà un bacio sulla tua fronte.
— È permesso? — chiese dal di fuori una voce piena e sonora, ch'era impossibile prendere in isbaglio.
Il Grolli trasalì. — Chi è?
— Sono io, sono il capitano Rodomiti.
E la poderosa persona del marinaio si affacciò alla soglia. Egli aveva sempre la sua pipa in bocca e la sua testa era circonfusa da una nuvola di fumo.
— Se desidera ancora rimaner solo... se non ha letto tutte le carte che le ho lasciate — continuò il capitano, mostrandosi pronto a ritirarsi di nuovo.
— No, no — disse il Grolli, e, vincendo la sua innata timidezza, fece qualche passo verso il suo interlocutore; quindi soggiunse senz'alzare gli occhi: — Ho letto, e innanzi tutto mi lasci dirle che Lei è un cuor generoso.
— Basta — interruppe il colosso — non perdiamoci in complimenti. Noi uomini di mare, quando facciamo una cosa, crediamo di far ciò che c'impone il nostro dovere. La prego invece di accostarsi di nuovo al tavolino... Qui... s'accomodi.
Così dicendo, depose la pipa in un angolo della stanza e si tolse di tasca un piccolo astuccio.
La signora Teresa sospinse adagino l'uscio e cacciò la testa per lo spiraglio.
— Che c'è? — gridò il capitano.
— Niente... mi pareva di sentire odor di bruciato.
Il capitano Rodomiti non potè a meno di lasciarsi sfuggire una vivace esclamazione marinaresca che pose in fuga la signora Teresa; poi chiuse l'uscio per di dentro e tornò dal professore Romualdo.
— Questo — egli ripigliò, consegnandogli l'astuccio — è il medaglione che la signora Elena m'incaricò di portarle.
Vi fu un momento di silenzio. Il dottor Grolli aveva aperto l'astuccio e stava contemplando quel gingillo che aveva attraversato due volte l'Oceano e che gli ricordava sua madre.
— Ed ora — proseguì di lì a poco il capitano — non Le spiaccia esaminare questa nota. È scritta tutta di pugno della signora Natali, e contiene l'elenco delle monete da lei versate nelle mie mani il giorno della mia partenza. In tutto 2100 piastre d'argento, che io convertii qui in franchi 10,674 56, com'Ella vedrà su questo polizzino del cambiavalute. La somma è presso i signori Radice e Lupini, ove andremo a ritirarla più tardi. Lei è il tutore naturale e legittimo di sua nipote; dunque il danaro va pagato a Lei, ed Ella lo impiegherà nel modo che reputerà più sicuro e proficuo per la sua pupilla... Io non debbo e non voglio ingerirmene... Ma adesso, due parole schiette e leali fra noi... A giorni io parto per un lunghissimo viaggio... Vorrei lasciar Genova con la coscienza tranquilla circa all'avvenire della bambina... Anche noi lupi di mare siamo atti ad affezionarci a qualcheduno, e io ho preso a voler bene a questa figlioccia. Accampar diritti non posso: non ne ho; avevo degli obblighi e sto per esserne liberato... Ma con la franchezza del galantuomo che parla ad un altro galantuomo Le dico: l'ufficio che la signora Natali le assegna è grave, assai grave... Colto alla sprovveduta come fu, Ella non può averne ancora misurata tutta l'importanza... Se non si sentisse in grado d'incaricarsi della piccina, vedremmo insieme che cosa si potrà fare... Povera Gilda!... Ci pensi, ci pensi, signor professore.
Il capitano era visibilmente commosso; egli si chinò a raccogliere la sua pipa, l'accese e risollevò intorno a sè una nuvola di fumo.
— Capitano — esclamò il professore, che aveva ripreso i suoi giri per la stanza e che mal dissimulava la sua inquietudine, — prima di tutto, siamo ben sicuri che mia sorella sia morta?
— Non c'è dubbio, signore. Ella era già all'ultimo stadio della consunzione... Questione di giorni, di ore forse... Il corpo era sfatto, signor professore, ma l'anima era sempre d'acciaio... Ho visto pochi uomini andare incontro alla morte come ci andava lei... Ha sorriso persino nel separarsi dalla Gilda.
Il dottor Grolli abbassò il capo e stette muto alcuni secondi; poi disse: — Con la franchezza con cui mi ha interrogato, voglia pure rispondermi... Mia sorella manifestò mai il pensiero ch'io potessi sottrarmi al delicato incarico ch'ella mi affidava con la sua lettera?
— No — rispose il Rodomiti, dopo aver riflettuto un istante. — Una sola volta, io medesimo, lo confesso, le feci intravedere la possibilità d'un suo rifiuto. Ella, che giaceva supina sul suo letto, si alzò faticosamente a sedere, e mi guardò sbigottita, ma la sua fisonomia non tardò a riprendere la sua espressione naturale. Mi tese la mano scarna, con queste parole che non dimenticherò mai: — In ogni caso, capitano, io mi fido di voi... la mia Gilda non sarà gettata sulla strada. — Può fidarsene, signora Natali — io risposi. — Lo sapevo — ella bisbigliò con un sorriso. E tutta racconsolata lasciò ricadere il capo sul guanciale.
— Ebbene, capitano Rodomiti — proruppe il dottore, animandosi a un tratto — prima che su ogni altro, mia sorella aveva fatto assegnamento su me. Io non permetterò ch'ella vi abbia fatto assegnamento invano.
Il capitano si levò la pipa di bocca e la tenne fra le dita sospesa all'altezza della spalla, poi fissò i suoi occhi in quelli del professore, che esprimevano una volontà ferma e risoluta, e gli tese la sua mano bruna e incallita.
— Bravo, professore, Lei mi solleva da un gran pensiero... Mia sorella Teresa avrebbe tenuto volentieri la piccola Natali presso di sè, ma io non sarei stato appieno tranquillo. Teresa ha un cuor d'oro, ma è un po' corta, ha certe fissazioni strane e per troppa affezione si rende molesta... Bravo, professore... Io m'ero ingannato nel giudicarla... Sì, non glielo dissimulo, a prima vista io temevo che Lei avrebbe cercato ogni pretesto per isbarazzarsi di questa nipote che Le piomba addosso dall'America... Avevo sbagliato; tanto meglio... Oh per me, quando sbaglio, lo dico aperto... Venga di qua adesso, signor dottore.
E, aperto l'uscio, invitò il Grolli a passare avanti.
La signora Teresa, appena sentì lo scalpiccìo dei piedi nell'andito, uscì da una stanza e si avvicinò il fratello chiedendogli piano — Hai parlato?
— Ho parlato, ma non se ne fa nulla. Il signor professore vuole la bimba per sè... E noi — egli si affrettò a soggiungere, vedendo ch'ella si disponeva a replicare — non possiamo fare alcuna obbiezione, perchè egli è nel suo pieno diritto.
La donna, che aveva una gran soggezione del suo Tonino, com'ella chiamava il gigantesco fratello, non aperse bocca, e si limitò a congiunger le mani e a tentennare il capo con aria malcontenta. — È già vestita — ella disse poi, mettendo il piede sopra una favilla sprigionatasi dalla pipa del capitano e caduta sul pavimento.
Sotto questi auspizi il professor Grolli fu presentato alla Gilda col vezzeggiativo di zio Aldo. La fanciulla era bruna, ricciuta, aveva due occhi color nocciuola pieni di vita e d'intelligenza, membra snelle, giuste, aggraziate, statura piuttosto alta per l'età sua. È forza riconoscere ch'ella mostrò di gradir poco la presentazione. Infatti, quando lo zio Aldo tentò di prenderla in braccio, ella si scontorse e si mise a strillare in modo che gli convenne deporla subito in terra, e quando lo zio Aldo, che aveva disimparato i baci da un pezzo, si chinò a baciarla, ella tornò a piangere al contatto della sua ispida barba. Onde il professore si perdette d'animo, e la signora Teresa dichiarò al fratello che mai e poi mai la Gilda si sarebbe acconciata ad andarsene con quel porcospino. Il capitano Rodomiti, vista la difficoltà della situazione, volle rimaner solo con la bimba, che lo chiamava abusivamente zio Tonino e che nei due mesi e mezzo passati a bordo della Lisa non gli aveva disobbedito una sola volta; se la fece sedere sulle ginocchia, quindi se la portò sulla spalla destra tenendola ritta, tantochè ella potesse toccare il soffitto colle sue manine, la condusse in giro per la stanza in questa posizione eminente, le raccontò alcune storielle, e le promise di raccontargliene dell'altre la sera, purchè fosse buona e si lasciasse prendere in braccio e baciare dallo zio Aldo. Così quando la Gilda ricomparve insieme col capitano, ella era di umore assai più mansueto, e respinse meno violentemente le carezze abbastanza impacciate dello zio.
VI.
Il dì seguente, nelle prime ore del pomeriggio, fra i tanti fiacres che percorrevano le vie di Genova diretti alla stazione, ce n'era uno aggravato dal peso formidabile del capitano Rodomiti, e da quello assai più tenue del dottore Romualdo e della piccola Gilda. Il capitano dondolava la bimba sulle sue ginocchia cingendole con un braccio la personcina elegante, mentre con la mano che gli restava libera sosteneva la sua pipa di maiolica, da cui si alzava una colonna di fumo ancora più densa dell'ordinario. Quanto al professore, si sarebbe detto ch'egli studiava un problema di matematica. E invero, ciò ch'egli studiava in quel momento era per lui ben più difficile d'un problema di matematica. Si trattava di apprendere l'arte di addomesticare la Gilda Natali come il capitano era riuscito ad addomesticarla, e l'occhio del Grolli passava dal Rodomiti alla fanciulla e dalla fanciulla al Rodomiti, tentando di coglier la formula d'una situazione così delicata. Ahimè, nè la geometria superiore, nè l'algebra offrivano la soluzione dell'arduo quesito; e il libro dei logaritmi saputo a memoria giovava assai meno allo scopo di quello che non gioverebbe il libretto dell' Attila a far comprendere la questione d'Oriente. Onde il professore sudava freddo pensando che, una volta salito in ferrovia, egli si sarebbe trovato alle prese con difficoltà assai maggiori di quelle incontrate fino allora nella sua vita tutta studio e raccoglimento. Dal canto suo il capitano pareva molto più occupato della bambina che di colui il quale doveva succedergli nell'averne cura. Egli ravvolgeva le dita nei folti e ricciuti capelli di lei, le sfiorava carezzevolmente col dorso della mano la guancia, e la guardava con occhi inteneriti attraverso le nuvole di fumo svolgentisi intorno alla sua pipa. Dinnanzi a un confettiere, egli fece fermar la carrozza. Scese con la Gilda, entrò nel negozio e comprò alcuni frutti canditi, ne diede uno alla bimba e affidò gli altri al professore perchè li portasse seco in vagone e li distribuisse con parsimonia alla sua compagna nei momenti scabrosi. Alla stazione il capitano s'incaricò egli stesso di consegnare il bagaglio della fanciulla; poi scelse pei due viaggiatori una buona carrozza di seconda classe ancora vuota, ve li fece salire e, ritto dinnanzi allo sportello con un piede sul montatoio, formò un argine insuperabile a tutti quelli che avrebbero voluto entrare nel compartimento. Quando lo sportello fu chiuso dal conduttore, il Rodomiti mise sul montatoio anche l'altro piede e introducendo la testa nel vano del finestrino continuò a mantenersi in comunicazione col professore e con la Gilda, sulla cui fronte principiavano ad addensarsi certe grosse nubi foriere della tempesta. Infine, allorchè la parola pronti fu ripetuta da un capo all'altro del convoglio e la macchina mise il suo fischio, egli baciò di nuovo la bambina, strinse vigorosamente la mano del Grolli, e calatosi a terra, se ne stette immobile a veder sfilarsi davanti i vagoni. Quando avrebbe riabbracciato la sua figlioccia? S'era avvezzo ormai alla compagnia della gentile creatura, per quasi tre mesi l'aveva avuta ai fianchi a tutte le ore, l'aveva tenuta a dormire nella sua cabina, l'aveva addomesticata allo spettacolo del mare in tempesta, del cielo scuro e iracondo, s'era avvezzato a vestirla, a spogliarla, a metterla a letto, e adesso gli toccava lasciarla forse per sempre. — A rivederci tra qualche anno — egli aveva detto nell'accommiatarsi dal professore; ma chi sa che cosa sarebbe accaduto fra qualche anno? Intanto fra pochi giorni egli salpava per le Indie, e la Gilda avrebbe un bel chiamare lo zio Tonino!
Con questi pensieri lo zio Tonino si allontanava dalla stazione, e fosse il fumo della pipa o altro che gli dèsse molestia, fatto si è ch'egli dovette passarsi più volte la manica del vestito sugli occhi.
Mentre il capitano Rodomiti si affannava nelle angustie dell'avvenire, il professore Romualdo era in mezzo alle tribolazioni del presente. Fino all'ultimo momento la Gilda era fissa nell'idea che lo zio Tonino sarebbe partito con lei, e aveva creduto ch'egli scherzasse dicendole il contrario. Ma quando il convoglio si mise in moto, ed ella vide che il capitano restava davvero alla stazione, non ebbe ritegno alcuno nell'urlare e nel piangere. Il meschino professore non sapeva più a che santi votarsi, e girava intorno certi occhi smarriti come se dovesse capitargli un aiuto di sotto i sedili. Invano ricorreva alle preghiere, alle minacce, alle frutta candite lasciategli dal capitano; preghiere e minacce non valevano a nulla, e le frutta candite venivano dalla terribile Gilda tramutate in proiettili ch'ella slanciava a tutti gli angoli della carrozza. Ah se il nostro Romualdo avesse potuto dire al macchinista come si dice a un cocchiere — Torniamo indietro! — Se avesse potuto almeno riconsigliarsi col capitano Rodomiti, prender da lui una nuova lezione sul modus tenendi con questa indomabile nipote! Doveva proprio capitare a lui! A lui che non dimandava se non che di vivere tranquillo in mezzo alle equazioni di terzo grado e alle storte del suo laboratorio! Così si giunse alla prima stazione, ed il professore stava raccogliendo da terra gli avanzi della battaglia, quando lo sportello si spalancò e il conduttore introdusse nella carrozza una famiglia di sei persone, che vennero ad occupare tutti i posti disponibili. Il professore, colto di sorpresa, ebbe appena tempo di mettersi ritto e di tirar da una parte la recalcitrante fanciulla, ma non potè impedire ad una grossa e rispettabile matrona di sedersi sopra un mandarino, il quale scoppiò come una granata e abbellì di non previsti ornamenti il vestito della signora. Onde i richiami e le lagnanze dei compagni di viaggio vennero ad aggiungersi alle altre allegrezze dell'infelicissimo Grolli. In quanto alla Gilda, seppure di tratto in tratto ella si distraeva guardando fuori della finestra gli alberi e le case, questi lucidi intervalli duravano poco, e ogni pretesto bastava a rimetterla sul piede di guerra. Allora le si manifestavano tutti i bisogni fisici e morali del mondo. Pareva aver più sete dei Crociati sotto Gerusalemme, più fame dei figli del conte Ugolino, più necessità di locomozione di un condannato da dieci anni al carcere cellulare. Quando poi, nelle brevi fermate, il povero Romualdo chiamava il caffettiere della stazione per offrire alla bisbetica sua pupilla una limonata o una cialda, o quando egli le proponeva di condurla a far quattro passi sotto la tettoia, ella rispondeva con uno sdegnoso rifiuto, salvo a ridomandare, appena il convoglio era in movimento, ciò che ormai non poteva più ottenere. Intanto alle varie stazioni qualche viaggiatore scendeva, qualche altro saliva, e la compagnia andava mutandosi continuamente. Ma per quante mutazioni accadessero, il professore non vedeva intorno a sè che volti ostili, non sentiva che un mormorio poco lusinghiero per lui. La bimba destava affetti diversi a seconda dell'indole più o meno tollerante, più o meno amorevole dei passeggeri, ma l'esotico personaggio che la accompagnava non riusciva simpatico a nessuno. Chi lo trovava troppo severo e chi troppo indulgente; ma tutti convenivano nell'attribuire a lui solo l'inquietudine della piccina. E se il professore tentava di conciliarsi il gruppo delle anime pietose con qualche carezza alla Gilda, egli vedeva oscurarsi maggiormente i volti delle persone rigide e gravi, e, se in omaggio a queste accennava, a voler inaugurare un regime di repressione, i viaggiatori di pasta molle sembravano voler mangiarlo cogli occhi.
Persino un uomo serio, calvo, impettito, che per lungo tempo aveva conservato la più stretta neutralità, ad un certo punto, ritirando un lembo del suo soprabito su cui la fanciulla aveva creduto opportuno di mettere i piedi, sentenziò gravemente: — Quando non si sa tenere i bimbi, si lasciano a casa.
Già! Come se il professore si trovasse a sì mal partito per sua propria elezione.
Sull'imbrunire, la Gilda prese sonno, e vi fu un po' di tregua. Il riposo del corpo ridonò la serenità anche all'espressione del viso della fanciulla. Il demonio era cambiato in cherubino.
— Ma se è un angiolo... Basta guardarla — disse con voce commossa una signora sentimentale, rivolgendosi al marito.
— A rivederci quando si sveglia.
— Che?... Coi bimbi è questione di tatto... Me ne intendo, io...
— Quel signore deve intendersene pochino...
— Quello non è un uomo, è un orso... È bella davvero la bimba, sai... Che capelli! Con quei ricciolini intorno alla fronte.... E quella manina che le penzola da un lato... Cara... Se ci fosse uno scultore... Oh! Ma tira del vento... Signore, dico... signore!
Il Grolli stentò molto ad accorgersi che questo appello era indirizzato a lui.
Quando ne fu sicuro, volse gli occhi da quella parte, ripose in tasca frettolosamente un fazzoletto turchino col quale si era asciugato la fronte, e stette immobile ad attendere i responsi della nuova interlocutrice.
— Scusi, sa, non potrebbe chiuder la finestra? La bimba è tutta sudata... Si fa così presto a buscarsi un malanno!
E il professore, arrossendo di non averci pensato lui, si affrettò a seguire il consiglio della persona prudente.
Certo, se il professore fosse stato espansivo, se avesse spiegato la vera condizione delle cose, e come si trovasse lì in quel momento con quella bambina al fianco, egli avrebbe disarmato in parte i giudizi sfavorevoli sul conto suo. Ma il Grolli non era uomo da perdersi in chiacchiere, e aveva già fatto uno sforzo superiore ai suoi mezzi rispondendo con monosillabi alle domande che gli erano rivolte. Estenuato dalla fatica, egli non si curava punto di modificare l'opinione pubblica a suo riguardo; pensassero ciò che loro piaceva, in quanto a lui desiderava una cosa sola: che la sua tumultuosa nipote dormisse almeno ventiquattr'ore, tanto da permettergli di riprender fiato. In verità, pel momento, egli non sapeva se augurarsi o temere la fine del viaggio. Egli avrebbe ben volentieri portata di peso la Gilda sulle sue braccia dal vagone fino ad un fiacre, pur ch'ella non si fosse destata, ma era sperabile ch'ella avesse un sonno così profondo? E chi sa che strepito allo svegliarsi!... All'idea di attraversare la stazione in compagnia di una bimba strillante, gli venivano i brividi della febbre.
Prima che finisse il viaggio, la Gilda si risentì più volte mostrando chiaramente che il riposo poteva ristorare le sue membra, ma non acquetava punto i suoi umori ribelli. Al momento di scendere, per buona ventura ella dormiva. Il professore, con un impeto disperato, la prese in collo, saltò già dalla carrozza, e tenendo i biglietti della ferrovia fra i denti, l'ombrello nella posizione d'un fucila a spall'arm, e la sacchetta infilata all'ombrello in modo che venisse a battergli sulla schiena, si avviò di corsa verso l'uscita della stazione.
Pure il suo eroismo poco gli valse; chè la piccina aperse gli occhi mentre ch'egli era ancora sotto la tettoia, e si mise a strillare e ad agitare braccia e gambe come un'ossessa. E quasi lo facesse apposta, strillò e si dimenò più che mai davanti a due studenti dell'Università, i quali erano venuti lì ad aspettare qualcheduno, e senza questo strepito non si sarebbero forse nemmeno accorti del passaggio del dottor Romualdo.
— Guarda — gridarono i giovinetti ad una voce. — Il professor Grolli!
— Santo cielo! — soggiunse l'uno dei due. — Pare abbia rubato una bimba... Come corre!
— E l'altra, come strilla!
— Buona sera, signor professore — gridò il primo, ch'era anche il più birichino.
Il signor professore si lasciò scappare un grugnito e tirò innanzi nella sua via. Appena fuori della stazione, entrò in una carrozza ch'era già occupata e dovette scenderne; poi salì in un'altra, ne chiuse lo sportello, ne abbassò le cortine, e ordinò al cocchiere di condurlo quanto più presto potesse alla sua abitazione.
Il cocchiere frustò il cavallo; le grida della fanciulla si dileguarono in lontananza.
Gli studenti si guardarono in faccia e proruppero in un riso sgangherato.
— Il ratto di Proserpina — osservò uno d'essi. E declamò il famoso sonetto:
Diè un alto strido, gittò i fiori, e volta, ecc., ecc., ecc.
VII.
La mattina del memorabile telegramma, la signora Dorotea, dopo esser risalita al suo quarto piano, sentì il bisogno di ridiscenderne ancora e di visitare parecchie conoscenti, nel cui animo poter versare le sue pene. A ciascuna di queste dilettissime amiche ella narrò in segreto la cosa, e a ciascuna raccomandò di non far chiacchiere, come aveva raccomandato prima alla portinaia. In questo suo viaggio circolare ella raccolse i più disparati consigli, e tornò a casa che aveva il capo come un cestone. Chi le aveva detto bianco e chi nero, chi le aveva suggerito di aprir subito le ostilità, e chi di temporeggiare. I varii partiti battagliavano fieramente nel cuore della signora Dorotea, e nel suo turbamento ella lasciava scivolar più spesso del consueto la sua mantellina giù dalle spalle, e discorreva da sè sola con grande meraviglia di quanti la incontravano per via. — Sì, farò conto di non aver nemmeno ricevuto il dispaccio. — No, starò a vedere... — Che sconvenienza! — Se fosse sua figlia! — È impossibile. — Si tratterà di una notte...
Alla lunga, prevalsero le idee più miti. C'era poi ragione di prender le cose sulla punta della spada? Era giusto di non far trovare un brodo ed un letto pronto ad una creaturina di quattr'anni, che sarebbe mezza morta di fame e di stanchezza? La signora Dorotea ripensò a trent'anni addietro, quando per due settimane ella pure aveva sorriso a una piccola cuna rimasta vuota, ahi, troppo presto; ella ripensò all'amore che il suo defunto Agesilao portava ai fanciulli, onde, nei giorni di festa, amava recarsi a passeggiare ai giardini ed era lieto dell'allegria dei monelli, che, a sciami, gli volteggiavano intorno. Ottimo Agesilao! Quando non parlava alla moglie d'iscrizioni ipotecarie, le parlava di bimbi, e le diceva ch'ella era una buona a nulla perchè non gliene aveva riempito la casa. — Agesilao, Agesilao — ammoniva la savia femmina — hai quattro lire al giorno e si campa a fatica noi due; prega il cielo piuttosto che la famiglia rimanga lì. — Ma Agesilao non mutava opinione... Ah! ottimo funzionario, ottimo marito! Nessuno saprà tener come lui il protocollo di un ufficio d'ipoteche, nessuno colmerà il vuoto da lui lasciato nel cuore della signora Dorotea... E adesso, dopo più di tre lustri dacchè egli riposava nel cimitero, la sua onesta figura riusciva ancora a calmare gli sdegni della nervosa vedovella.
— Bah! — concluse la signora Dorotea — sarà per una notte.
Fatta questa consolante riflessione, la signora Salsiccini ordinò alla serva, che era una ragazza mezzo idiota del contado, di preparare su quattro seggiole accostate le une alle altre un letticciuolo per l'ospite sconosciuta, nel luogo di sbarazzo attiguo alla camera del dottor Romualdo; quindi estrasse dalla credenza un vasetto di conserva Liebig, si recò in cucina, e pose opera alla preparazione di un brodo sostanzioso, nel quale fece bollire un pugno di paste di Napoli. I gatti Mao e Meo, non usi a veder due volte in un giorno la pentola al fuoco, alzarono ripetutamente il muso in tono interrogativo, e vennero a fregarsi alle vesti della loro padrona, distraendola dal suo delicato ufficio con qualche discapito del brodo, che prese un leggiero odor di bruciato.
La signora Dorotea, poichè una debolezza ne tira dietro un'altra, considerò che anche il professore poteva aver bisogno di qualche cosa; e mandò in segretezza a prendere un quintino di vino bianco e un'oncia di formaggio stracchino che dispose acconciamente sopra la tavola apparecchiata. Dopo di ciò lasciò andar a letto la serva, la cui presenza era affatto inutile, e stette ad aspettar l'arrivo della corsa.
La prima impressione della signora Dorotea, allorchè le comparve davanti il suo pigionale con la Gilda in braccio, fu l'impressione medesima provata dai due studenti: che questa bimba egli l'avesse rubata. Certo l'idea stravagante non poteva aver presa in lei, come non l'aveva avuta nei due giovinotti; ma essa bastò ad esacerbarla di nuovo e a farle assumere un aspetto cupo e sospettoso.
E appena il professore ebbe deposto in terra il suo fardello, ella cominciò: — Mi spiegherà, poi...
— Non ho tempo, non ho tempo — rispose il nostro Romualdo, afferrando pel vestito la sua pupilla, che manifestava una gran voglia di rotolarsi sul pavimento.
Allora la signora Dorotea precedette in silenzio nel salottino i nuovi arrivati, depose la candela sulla tavola, ove c'era la minestra già scodellata, e si avviò verso l'uscio con dignità di regina.
— Il letto è fatto — ella disse senza voltarsi, quando fu sulla soglia. Indi si dileguò.
Ma innanzi che passassero cinque minuti, i suoi migliori istinti l'avevano ricondotta in salotto, ove il professore continuava a dibattersi in mezzo a smisurate difficoltà.
— Si può dar di peggio? — gridò entrando la signora Dorotea, che voleva dissimulare la sua condiscendenza con le apparenze della severità. — Si può dar di peggio? Non finirà mai questa musica?
— Ma se non c'è caso di farla mangiare — esclamò il professore desolato.
— Madonna mia! Come vuol che mangi se non le mette un paio di guanciali sulla sedia tantochè ella arrivi alla tavola?... Così... andiamo... Su, bimba, sta' composta... Già capisco.. il cucchiaio è troppo grande per la tua manina... Proviamo in questa maniera... Oh, va bene adesso... È buona la pappa, non è vero?... Come ti chiami?
— Gilda — rispose la fanciulla tra un boccone e l'altro.
Il dottore Romualdo guardò la sua padrona di casa con l'espressione della più grande maraviglia.
— Che ha, professore?... Gilda? Un bel nome, cara... Via, professore... non se ne stia lì impalato... Faccia qualche cosa... Annodi il tovagliolo intorno al collo della piccina... Oh, ma non sa far nemmen questo! E dicono che Lei è un brav'uomo... In questo modo si fa... E se è lecito — chiese la signora Dorotea, mentre dava l'ultima cucchiaiata alla Gilda — quando vengono a prenderla?
— A prender chi?
— La bimba...
— Nessuno deve venirla a prendere!
— Come!... Vuol tenerla seco?
— Per ora, almeno... È mia nipote.
— Uhm! — borbottò la signora Dorotea, deponendo il cucchiaio sul piatto e slacciando lentamente il tovagliolo della fanciulla. — In ogni caso cercherà un altro quartiere...
— Signora Dorotea, dopo tanti anni... Credevo che ci si potesse accomodare, beninteso facendo altri patti.
— Son vecchia, io, ho bisogno della mia quiete... Se avessi potuto immaginarmi che a Lei capitavano le nipoti dalle nuvole, si figuri se Le avrei appigionato le stanze... Basta, basta, l'aiuterò io stessa a trovarsi un appartamento che Le convenga... Lei è un dotto... per queste cose, si sa, non è fatto... Ma pensi intanto a coricar quella creatura. Non vede che non si regge più dal sonno?... Oh, se non c'ero io, la cadeva proprio dalla sedia... E vuol tenersi le nipoti in casa, Lei?... Qua, qua, piccina... Chiude già gli occhi... Orsù, per questa sera gliela metterò in letto io... Per questa sera, ben inteso... Ci preceda Lei, con la candela... Così...
La signora Dorotea portò la Gilda nella camera che le era destinata, e si accinse a svestirla. — E la non ha nemmeno uno straccio di suo? — ella domandò, guardandosi attorno.
A questa interrogazione il professore si picchiò la fronte, poi si frugò nel taschino del panciotto, e ne estrasse la ricevuta del bagaglio.
— Si è dimenticato di ritirare i bauli?... Era da immaginarselo... Che vuol fare, adesso?... Bisogna aspettare fino a domattina... Dia qui la ricevuta... Intanto le lasceremo la biancheria che ha in dosso... Come dorme!... Scommetto che tirerà innanzi così per dodici ore...
— Grazie, signora Dorotea — si arrischiò a dire il professore.
— Non mi ringrazi — saltò su la vedova. — Se non fosse stato che per Lei... Mi faceva compassione questa innocente... Sua nipote o no, ella non ne ha colpa...
— Ma, signora Dorotea, che cosa crede?
— Io?... Non credo nulla, io... Del resto, son ciarle inutili. Sulla sua scrivania troverà una lettera e un giornale arrivati durante la sua assenza... Buona notte.
Il dottor Romualdo rimase solo con la Gilda, che dormiva tranquilla nel suo letticciolo. Ella aveva passato un braccio bianco e tornito sotto la testa ricciuta; il suo piccolo petto si alzava e abbassava alternamente con un moto regolare; il suo lieve respiro si sentiva appena nella camera; le sue guance si erano tinte del più bel colore di rosa!
— Ma! — sospirò il professor Grolli, prendendo il lume e allontanandosi in punta di piedi. — Se fosse stata così in ferrovia!
Rientrato nella sua stanza, il professore trovò sotto un calcafogli il giornale e la lettera di cui gli aveva parlato la signora Dorotea. Mise da parte il giornale senza lacerarne nemmeno la fascia, e prese invece in mano la lettera, che portava una infinità di bolli postali e veniva da Montevideo. Romualdo sentì una trafittura al cuore. Aperse la busta, spiegò il foglio e guardò la firma che gli riuscì affatto nuova. Erano poche righe in italiano, concepite così:
« Egregio signore,
«In omaggio alle ultime volontà della signora Elena Natali di b. m., adempio al penoso ufficio di trasmettere a V. S. una copia dell'atto di decesso della detta signora. Quantunque la morte sia avvenuta da parecchi giorni, questa copia non potè aversi che oggi.
«Con stima, ecc., ecc.»
Il documento a cui questa lettera accennava era scritto in lingua spagnuola, e le firme delle autorità locali erano autenticate dal console italiano a Montevideo.
Per anni ed anni il dottor Romualdo, immerso nei suoi studi, non aveva mai rivolto il pensiero a questa sorella, che, mentr'egli era ancora fanciullo, era fuggita oltre l'Oceano. Essa era estinta per lui. Per la prima e per l'ultima volta durante questo lungo periodo egli ne aveva, tre giorni addietro, rivisto i caratteri. Ella gli scriveva che stava per morire, e morendo gli affidava sua figlia. La fredda lettera ch'era adesso aperta dinnanzi a lui, vergata da mano estrania, non poteva nè ferirlo in un affetto vivo, nè destargli alcuna sorpresa. Eppure, singolare a dirsi, il Grolli ne fu commosso più ancora che non fosse stato dalla lunga epistola di sua sorella. Ogni dubbio oramai era tolto; Elena non respirava più. C'era oramai tra loro due un abisso più profondo, uno spazio più vasto di tutto l'Atlantico. Sventurata Elena! Per quanto, rivolgendo indietro lo sguardo, egli cercasse di raffigurarsene la fisonomia, non gli riusciva di arrestarne l'immagine; sapeva solo ch'ella era stata assai bella e assai infelice.
Il professore tentò distrarsi, gettò gli occhi sulla Memoria che aveva interrotta al momento della sua partenza per Genova, e fece tutto il possibile per convincersi di nuovo che la formula x= sen y sen α era un amore di formula. Ma non vi riuscì. Fra una lettera e l'altra si cacciava l'insolita e mesta visione d'un cimitero di là dall'Oceano, ove sotto un'umile croce, non rallegrata da fiori, non consolata da pianto, dormiva una creatura del suo sangue.
Si accostò pian piano all'uscio che metteva al camerino della piccola Gilda, e tese l'orecchio. Silenzio profondo. Nulla turbava i sonni dell'orfanella, di cui egli doveva essere oramai la difesa e la guida.
VIII.
Se la nipote dormiva, lo zio invece andava rivoltandosi nelle coltri senza pigliar sonno. Da tutte le parti vedeva la via seminata di triboli e di difficoltà senza fine. Agli impicci gravissimi che gli avrebbe recati la fanciulla s'aggiungevano quelli del dover cercarsi un altro nido, e abbandonare il laboratorio ov'egli aveva con tanto amore fatti costruire i suoi fornelli e collocate le sue storte sui ruderi di una vecchia cucina caduta in disuso. Oh poveri i suoi studi, poveri i suoi esperimenti! Quando mai avrebbe trovata la calma così necessaria al pensiero? Quando avrebbe trovato la sicurezza di mano e la serenità di spirito indispensabili a misurare le dosi degli acidi e dei sali che dovevano combinarsi insieme sotto i suoi occhi? Ahimè! Ahimè! Romualdo Grolli, l'uomo di scienza, il futuro titolare della Cattedra di matematica d'una cospicua Università, era bell'e spacciato. Non restava più che un Romualdo Grolli tutore di una pupilla bisbetica, una specie di Belisario vagante per la città alla ricerca di camere ammobiliate.
Tormentato da questi pensieri che non gli lasciavano trovar requie, il dottor Romualdo si alzò per tempissimo, e appena infilati i calzoni entrò nel suo laboratorio, sospinse l'usciuolo della cameretta attigua e cacciò la testa attraverso lo spiraglio per veder se la Gilda dormiva ancora. E la Gilda dormiva infatti, e i primi raggi del sole, entrando nella stanza tra le stecche delle persiane, venivano a lambire un suo piedino di rosa che spuntava da un lembo della coperta.
Mentre il dottore contemplava questo spettacolo nuovo per lui, l'uscio che dal luogo di sbarazzo metteva al cosidetto salotto da ricevimento si aperse adagino e si richiuse in gran fretta. Non così però, che il dottor Romualdo non ravvisasse la persona che lo aveva aperto e richiuso. Quella persona non era nè più nè meno che la signora Dorotea. Sebbene il Grolli fosse quasi certo di ciò, volle togliersi ogni dubbio, attraversò lo stanzino e fu tosto nel salotto, ove colse la sua padrona di casa in piena ritirata.
La signora Dorotea aveva una veste sciolta, il viso cosparso di cipria, le rade ciocche dei capelli involte in ricciolini di carta. In questo abbigliamento affatto mattiniero, la signora Dorotea non aveva la più lontana rassomiglianza con la Venere dei Medici.
— Signora Dorotea! — esclamò il professore.
La buona donna sentì il bisogno di spiegare il suo apparente spionaggio, e stringendosi con la mano la veste sul petto, si voltò verso il suo inquilino.
— Ero venuta a vedere se la bimba dormiva ancora — ella disse.
Il dottor Romualdo, visto l'atto pudico della signora Dorotea, stimò opportuno di passare nell'occhiello il bottone della camicia; quindi rispose: — Sì, dorme ancora.
La signora Salsiccini tentennò il capo, e parve voler cominciare una frase che finisse con una interiezione. Si appigliò invece ad un punto interrogativo. — Dunque la fanciulla è sua nipote?
— Già... mia nipote — replicò il professore, dopo un momento di distrazione.
— Curiosa! Non sapevo che il professore avesse fratelli.
Le guance del nostro Romualdo si colorarono vivamente. — Avevo una sorella, che è morta — egli disse con uno sforzo.
— E il padre della bimba?
— Morto anche lui!
— Povera creatura! — esclamò la signora Dorotea, congiungendo le mani e abbandonando quindi l'atteggiamento verecondo che correggeva il disordine della sua toilette.
Il dottor Romualdo guardò pudicamente da un'altra parte e sospirò: — Ma!
— Creda pure — riprese la signora Dorotea, e non pareva più la medesima donna che il giorno prima s'era mostrata tanto inviperita col suo pigionale — creda pure, signor professore, se fossi più giovane, se avessi un quartiere meno ristretto, vorrei continuare ad alloggiarli io, vorrei attendere io alla bambina. Ma come si fa?... È impossibile... proprio impossibile.
Il professore chinò la testa con aria rassegnata.
— Intanto non si dia fretta — seguitò l'altra — c'è tempo... Penseremo insieme... vedremo... Ho qualche cosa in vista... E adesso non si affanni per la fanciulla... vada nel suo studio, Lei... starò attenta io stessa quando si sveglia... la vestirò io...
A questo punto la signora Dorotea si accorse che le conveniva principiare col vestir sè medesima, e scomparve prima che il professore potesse ringraziarla.
Il professore seguì il consiglio della sua padrona di casa, e tornò nella sua camera alquanto rinfrancato. E invero per pochi minuti egli riuscì ad immergersi nelle sue formule, e vide con soddisfazione gli a + b e i b + a sgorgare spontanei dalla sua penna; ma ad un punto la penna gli si arrestò, i pensieri algebrici gli si confusero ed egli dovette alzarsi dalla seggiola e dare un'occhiata nel gabinetto della sua pupilla.
— Son qua io — disse a mezza voce la signora Dorotea che lavorava di calze vicino al letto della Gilda, ancora addormentata. — Studii, studii... Ho mandato già pel bagaglio... Anzi, mi dia le chiavi.
Il professore obbedì; poi si rimise al lavoro e trovò, continuando nello svolgimento della sua tesi, che a h è uguale a z, ciocchè gli diede infinito conforto, come lo darà certamente ai lettori. Quindi, per distrarsi, egli passò nel suo laboratorio, i cui fornelli erano spenti da circa una settimana, rivide le sue storte che parevano invitarlo a metterle in opera, rivide chiusa in un vasetto di cristallo una sostanza organica di cui egli aveva dieci giorni addietro intrapreso l'analisi, e pensò di ricominciare la delicatissima operazione.
Allorchè egli uscì dal gabinetto, la Gilda, già pettinata e vestita, si trovava nel salotto da pranzo, guardando a bocca aperta una infinità di oggetti di sua conoscenza che la signora Dorotea tirava fuori da una cassa appena giunta. Ma la curiosità benevola della fanciulla si mutò in entusiasmo quand'ella vide emergere dalla cassa una piccola bambola ornata da capo a piedi con la più sfarzosa eleganza: cappellino di seta verde con nastri rossi; corpetto giallo; sottana azzurra; scarpine di raso bianco con una rosetta vermiglia nel mezzo. Ella le saltò addosso come a una vecchia amica, la prese di mano alla signora Dorotea, la baciò in fronte e la chiamò più volte col nome di Mimi. Questo nome le era stato imposto, quando, ancora ignuda e disadorna, giaceva lunghe ore sul letto della signora Elena, che, nei momenti in cui il suo male rimetteva alquanto della sua intensità, lavorava ella stessa ad acconciarla, promettendosi di farne un dì un regalo alla figlia. Poi la bambola era scomparsa, e avendone la Gilda chiesto conto alla madre, questa le aveva risposto: — Sta' tranquilla, che presto o tardi l'avrai.
Intanto la bimba era stata condotta via dal capitano Rodomiti, e per compagna di viaggio ella aveva avuto una pupattola assai più modesta, che s'era rotta prestissimo e aveva finito i suoi giorni nell'Oceano. Nè questa era la sola sorpresa riserbata alla Gilda, poichè si trovarono nella cassa anche due palle elastiche di guttaperca, alcune microscopiche stoviglie di stagno, e un agnello che, opportunamente caricato, apriva la bocca e belava.
Nè certo le previdenze della signora Natali si erano fermate ai balocchi di sua figlia. Era un corredo piccolo, ma compito, quello ch'ella aveva fatto riporre nella cassa e di cui ella aveva steso di proprio pugno l'inventario negli ultimi giorni che precedettero la partenza della fanciulla. A veder quel documento s'indovinavano le sofferenze del corpo e dell'anima della povera donna, tanto la scrittura ne era incerta e confusa. In un punto ella aveva interrotto il suo lavoro, perchè uno spasimo fitto l'aveva colta; in un altro le era stato forza di sospenderlo, perchè le lagrime le avevano fatto velo agli occhi.
La signora Dorotea, sciorinata ch'ebbe la roba sopra una tavola, inforcò le sue grosse lenti e prese in mano l'inventario, verificando ogni cosa. Tutto era in pieno ordine, e la signora Salsiccini, da buona massaia, non potè a meno di ripetere più volte: — La sorella del signor professore deve essere stata una gran brava donna; proprio una donna a modo.
Intanto la Gilda, che aveva già la sua dose di vanità, di tratto in tratto abbandonava la sua bambola dal cappello verde, il suo agnello belante, la sua cucina di stagno, e veniva a pavoneggiarsi davanti a quella biancheria e a quei vestitini che ella sapeva esser suoi. Naturalmente non era tutta roba nuova, ed ella riconosceva ora un nastro, ora una sottana, ora una cintura che aveva portato quand'era in casa. Talvolta le si destavano in mente altri ricordi. Quell'abito bigio coi fioretti celesti ella non lo aveva mai indossato, ma ne aveva visto uno dell'identica stoffa intorno a sua madre. E allora quella parola che i bambini pronunciano prima di tutte, e che solo una grande sventura può far loro disimparare — mamma — veniva sui suoi labbretti di corallo. — La mamma — ella diceva, alzando verso la signora Dorotea e verso lo zio Aldo i suoi occhi belli ed intelligenti e toccando l'abito bigio col suo piccolo dito. E poi si guardava intorno come se un uscio dovesse aprirsi e la sua mamma correrle incontro. No, povera Gilda, la tua mamma non la vedrai più.
Poco prima delle dieci il dottore Romualdo si accorse che si avvicinava l'ora della sua lezione. Egli uscì di casa frettoloso, e dopo esser passato in un negozio a farsi mettere il bruno al cappello, si avviò all'Università, tutto confuso in anticipazione pensando alle mille domande che gli sarebbero indirizzate e alle spiegazioni che dovrebbe dare.
E infatti egli non tardò ad avvedersi che l'incidente della notte scorsa aveva avuto un'eco nelle severe aule della scienza. Poichè, appena il suo arrivo fu notato dagli studenti sparsi nel cortile e sotto i portici in attesa del suono della campana, essi si affollarono sul suo passaggio con un bisbiglio simile al ronzìo d'uno sciame d'api. Ma la vista del cappello abbrunato del professore disarmò i loro sarcasmi. Anche il rettore, a cui il Grolli si presentò subito, pareva sulle prime esser disposto alla celia, ma anch'egli se ne astenne quando avvertì il segno di lutto e disse con accento di simpatia: — Vedo con dispiacere che Lei fu colpito da qualche sventura domestica.
Allora il dottor Romualdo, così taciturno, così riservato per indole, dovè raccontare ciò che gli era accaduto.
— Casi della vita — osservò gravemente il rettore, che non aveva scritto per nulla un libro di psicologia sperimentale. — Casi della vita — egli ripetè, offrendo una presa di tabacco al giovane scienziato.
La lezione procedette senza peripezie.
I giovani stettero quieti secondo l'usato, e il Grolli notò con singolare compiacenza che le inattese vicende dei giorni scorsi non avevano potuto ottenebrare in alcuna guisa la limpidezza del suo criterio matematico. Seppur nel più bello di una dimostrazione il visino della Gilda si affacciava al suo pensiero nel mezzo di un triangolo isoscele o scaleno, egli andava acquistando man mano la usata sicurezza, talchè gli studenti non se ne accorgevano e i rapporti degli angoli fra loro rimanevano inalterati.
Così egli uscì della scuola con animo più tranquillo, e volse le cure ad altro importantissimo ufficio, a quello cioè di collocare a frutto i danari della Gilda.
Egli era ormai deciso di non toccar quella somma in alcun modo, ma di lasciarla ingrossarsi cogli interessi a formar la dote della fanciulla. Per quanto egli vivesse fuori del mondo, gli era pur giunta all'orecchio questa grande verità, che le femmine senza dote stentano a maritarsi. All'educazione, al mantenimento della sua pupilla avrebbe provveduto egli stesso. Il suo stipendio di assistente era piccolo, ma egli lo arrotondava un po', collaborando in qualche Rivista scientifica e prestando l'opera sua per qualche analisi chimica. In tre anni dacchè aveva una posizione, s'era messo da parte millecinquecento lire: erano dunque cinquecento lire all'anno ch'egli poteva spender di più, e le avrebbe spese per la Gilda. Certo, con questa piccola somma non gli era dato far miracoli, ma possibile che non gli venisse presto la nomina a professore! Il dottore Romualdo avvertì per la prima volta nel suo animo un sentimento poco nobile e generoso, tanto è vero che spesso il male germoglia dal bene, come il bene dal male. Egli pensò che il titolare della Cattedra di matematica aveva quasi ottant'anni ed era paralitico, onde la sua morte non avrebbe nè sorpreso, nè addolorato soverchiamente nessuno.
Vergognandosi seco medesimo di questo calcolo indecoroso, il dottor Grolli eseguì quel giorno una duplice operazione presso la Banca locale. Egli prelevò una piccola somma sulla partita che teneva aperta colà, e nello stesso tempo, con immenso stupore del cassiere signor Bernardo Bernardini, versò a titolo di deposito vincolato lire 10,674 50 in nome della signora Gilda Natali minorenne, di cui egli si costituiva rappresentante.
Sollevato così da un grave pensiero, il nostro Romualdo ritornò a casa, fermo nel proposito di rinchiudersi nella sua stanza e di non uscirne fino al momento del desinare. Poichè, egli saviamente rifletteva, se la responsabilità, se gl'impegni mi si sono così d'improvviso accresciuti, è indispensabile ch'io lavori con maggior lena di prima, che rassodi ed estenda la mia fama, che mi faccia conoscere in Italia e fuori... Purchè la Gilda non mi disturbi co' suoi strilli!...
E invero la Gilda non strillava punto, ma questa tranquillità era stata acquistata ad un prezzo che al Grolli parve assai caro. Perchè la fanciulla aveva trovato che di tutte le stanze della casa quella del professore era la più allegra e ridente. E vincendo le deboli resistenze della signora Dorotea, ella vi si era trasportata coi suoi balocchi, aveva addossato a una parete la bambola, aveva deposto per terra l'agnello, aveva sciorinato sopra una sedia il suo servizio da cucina. E con molta serietà conduceva l'agnello a belare davanti alla pupattola, la quale s'inchinava in segno di gradimento; poi la pupattola era condotta alla sua volta davanti alla cucina, ove fingeva di rifocillarsi con grande appetito. Come pennellata finale, i due gatti Mao e Meo, che da anni ed anni non penetravano nella stanza del professore, attratti, per quanto sembra, dalle grazie della Gilda, avevano stimato opportuno di rompere la consegna e russavano l'uno vicino all'altro sulla poltrona ove aveva l'abitudine di sedere il dottor Romualdo.
— Signora Dorotea, signora Dorotea — egli gridò, abbracciando con un rapido sguardo il desolante spettacolo.
— Che vuol che ci faccia?... La bambina gridava come iersera e non ho potuto quietarla altrimenti che lasciandole fare il piacer suo.
— Ma io...
— Ma Lei, caro signor professore — interruppe la signora Dorotea in un accesso del suo umore bisbetico, del giorno innanzi, se vuol tenersi sua nipote a dovere, rimanga a casa a custodirla, o le pigli una governante... Capisco anch'io che così non può durare.
E ciò detto, afferrò la gruccia dell'uscio e abbandonò la stanza, seguìta dalla Gilda che le si era aggrappata alle falde del vestito e che lasciava armi e bagagli sul campo di battaglia.
— Signora Dorotea — gridò di nuovo il dottore Romualdo, scotendo forte la poltrona su cui si trovavano i gatti. Ma la signora Dorotea non sentì o non volle sentire; invece Mao e Meo, turbati nei loro riposi, spiccarono un salto, passarono sopra la scrivania del professore scompigliandone le carte, e calatisi giù dall'altra parte sgusciarono via per l'uscio socchiuso.
— E vero, così non può durare — esclamò il professore. E si lasciò cadere sfinito sulla poltrona.
IX.
— Così non può durare, — avevano detto con mirabile accordo la signora Dorotea e il professore Romualdo uno degli ultimi giorni del maggio 1861; ma si sa che le umane previsioni sbagliano spesso, e non parrà quindi troppo singolare che durasse così per alcuni anni. Invero, nei primi tempi, la signora Dorotea si era accinta molto coscienziosamente all'ufficio di cercare un quartierino che potesse convenire al professore, ma per quanti ella ne avesse visitati non gliene era andato a genio nessuno. E il professore aveva sempre accolto con la massima rassegnazione le risposte sconfortanti della sua padrona di casa. Finalmente, in via provvisoria e verso un moderato aumento di pigione, la signora Dorotea s'era determinata a cedere al dottor Grolli anche il salotto da ricevimento, affine di collocarvi la Gilda togliendola dal bugigattolo ov'era stata posta al suo arrivo. — È una cosa che non può tirare in lungo più di qualche settimana — dichiarò un giorno la vedova Salsiccini alla portinaja, che le rinfacciava sarcasticamente la sua debolezza. La signora Gertrude non si degnò di rispondere, ma le sue labbra si atteggiarono ad un sorriso di compassione.
E i fatti dimostrarono che la signora Gertrude aveva le sue buone ragioni di sorridere. Prima che passasse un mese, la combinazione provvisoria era diventata una combinazione stabile, il professore non pensava ad andarsene, la signora Dorotea non pensava a cacciarlo via, e la Gilda Natali mostrava le migliori disposizioni a menar per il naso così il dottissimo zio come la padrona di casa. — È una birichina — diceva la vedova, conducendo seco la bimba nelle sue peregrinazioni e presentandola alle infinite sue conoscenze — una birichina. Ma io la farò stare a dovere.
— Viene dall'America? — chiedeva qualcheduno.
— Sicuro. Non è vero, Gilda, che vieni dall'America?
— E parla italiano?
— Già, parlava italiano con la sua mamma. Sa anche l' americano però. Dice qualche volta delle parole da far ridere. Di' buon giorno, Gilda, di' buon giorno in americano.
— Buenos dias — rispondeva in spagnuolo la fanciulla sorridendo, e mostrando i suoi bei dentini bianchi come l'avorio.
— Eh, non deve poi mica esser tanto difficile l' americano. Somiglia alla nostra lingua... Ih che occhietti vispi!
— E sapete come si dice bambina in americano? — ripigliava la signora Dorotea, superba di poter dare una lezione di lingua straniera.
— Sentiamo, via.
— Si dice nigna.
— Oh nigna! nigna!
Ella pareva fatta d'argento vivo, la Gilda, e il dottor Grolli, con tutta la sua riputazione d'uomo rigido e austero, non riusciva a domarla. Avvezzo a esercitare la sua autorità su giovani maturi, egli si trovava sconcertato di fronte alle graziette e alle malizie infantili della sua pupilla, e non sapeva mai quando fosse il momento di allentare e quando quello di stringere il freno. Inoltre egli stesso era inetto a rendersi conto di ciò che provasse verso la Gilda. Talora lo vinceva un prepotente desiderio dell'antica quiete e lo infastidiva questa fanciulla ch'era venuta a turbarla, ma più spesso prevaleva nel suo animo un senso di compassione per l'orfanella che non aveva altri al mondo che lui.
Era pieno di queste contraddizioni. Usciva talvolta dalla sua camera a intimar silenzio alla bimba che disturbava i suoi studi, e poi, se stava una mezz'ora senza udir la sua voce, gli pareva che gli mancasse qualche cosa, e s'arrestava con la penna sospesa fra l'indice e il pollice, e tendeva l'orecchio, nè ripigliava il lavoro finchè il noto suono non tornasse a ferirlo. Del resto, quando la Gilda era in casa, i momenti di silenzio assoluto erano estremamente rari. Ella s'intratteneva ora coi due gatti Mao e Meo a cui aveva infuso una insolita vivacità, ora con due cardellini ch'ella aveva indotto lo zio a comprarle, ora con la sua pupattola Mimi, ora con la sua cucina di stagno. Nelle grandi occasioni si arrampicava sui mobili, provocando acutissime strida da parte della signora Dorotea, la quale non lasciava sfuggirsi il destro di dichiarare solennemente: — Ancora uno o due giorni, e poi la faccio finita io.
Ma sebbene la signora Dorotea non la facesse finita mai, e la Gilda continuasse a stringere il suo piccolo scettro, è facile immaginarsi che l'ambiente in cui la fanciulla cresceva non era il più propizio alla sua tempra e ai bisogni dell'età sua. Ella era la sola vita giovane che si agitava in quel ritiro, era una rosa sbocciata per un capriccio del caso sopra un dorso di monte che alimenta appena qualche abete solitario. Nessun canto rispondeva al suo canto, nessun visino allegro s'incontrava col suo sul pianerottolo o per la scala. Tutta la casa albergava gente seria e taciturna, ma il quarto piano poi aveva per inquilini tre vere mummie. Un colonnello in pensione, terrore dei giovani di restaurant a cui gli accadeva spesso di gettare i piatti nel viso; una vecchia galante, che disingannata del mondo passava la giornata a snocciolar rosari; un signore misantropo, che raccoglieva monete antiche senza permettere a nessuno di vederle: ecco i tre personaggi esotici nei quali la Gilda si imbatteva talvolta uscendo a prender aria sulla ringhiera. Le scorrerie della bimba parevano ai tre fossili una enormità; essi avrebbero fatto volentieri una protesta cumulativa al padrone di casa, se il farla non avesse reso necessario di riunirsi e d'intendersi prima. Ma poichè le riunioni non formavano parte del loro sistema di vita, s'eran contentati di rivolgere isolatamente le loro lagnanze alla portinaja, la quale aveva un po' in uggia la Gilda, dopo che un giorno, mentr'ella attraversava il cortile, una palla di guttaperca caduta dal quarto piano era venuta a piombarle sopra il chignon.
Per trovare un amico ed un alleato la Gilda doveva scendere tutte le scale, uscir dal portone e recarsi nel magazzino del signor Gedeone Albani. Ivi spadroneggiava per un paio d'ore al giorno il figlio del signor Gedeone, Mario, ragazzo che aveva cinque anni più della piccola Natali, e che, fin dal primo vederla, le aveva fatto a bruciapelo una dichiarazione di simpatia. — Sei proprio bella; mi piaci.
Mario passava due ore il giorno nel magazzino per volontà espressa del padre, il quale desiderava iniziarlo nel commercio e diceva che l'essenziale era d'imparar presto a conoscere i generi. A raggiunger l'intento, il fanciullo cacciava le mani nei campioni di zucchero e se ne riempiva la bocca, sbucciava le mandorle e pronunziava il suo autorevole giudizio sulla loro qualità, ma non si mostrava mai tanto appassionato per la conoscenza dei generi quanto all'arrivo delle cassette dei datteri di Tunisi. Pel caffè, pel grano, pel pepe egli aveva uno scarso trasporto; non isdegnava invece di assaggiar la gomma arabica e il sugo di liquirizia. Sempre allo scopo di far confidenza con le mercanzie, Mario ora sedeva, come sopra un trono, sopra una balla di baccalà, ora si metteva a cavallo di un bariletto di aringhe gridando hop, hop, come se si trattasse di un cavallo in carne ed ossa. Ma ove i suoi meriti brillavano di luce più viva si era nel mettere la marca G. A. sopra i colli che si facevano in magazzino. Qui egli sfoggiava realmente una rara sicurezza di mano e un senso squisito delle proporzioni, e il signor Gedeone rimaneva spesso estatico dinanzi all'opera di suo figlio.
La Gilda, quantunque non fosse destinata al commercio e non avesse alcun bisogno di acquistar la conoscenza dei generi, si divertiva moltissimo in mezzo al movimento del fondaco, e non ricusava di accettare qualche dattero da Mario, le cui birichinate la esilaravano fuor di misura. Ma ciò ch'ella ambiva sopra tutto si era di porgergli il pennello quand'egli si accingeva alla delicata operazione di far le marche. Le pareva in questo modo di diventare collaboratrice dell'amico suo. Gli uomini del magazzino, avvezzi ormai a trovarsela sempre fra i piedi, la chiamavano scherzosamente la Trottola, e il signor Gedeone non la vedeva neppur lui di mal occhio, e le permetteva di assistere alle sapienti manipolazioni delle sue mercanzie. Poichè il signor Albani aveva adottato a questo proposito un principio tecnologico assai profondo, che si riassumeva così: Ogni articolo nel suo stato naturale è difettoso, ma ogni articolo può rendersi perfetto mercè opportune mescolanze. Ligio a una massima tanto ragionevole, l'egregio negoziante temperava con qualche spruzzo di farina la dolcezza nauseante dello zucchero, e diminuiva l'aroma esagerato del tè coll'introdurre nelle cassette chinesi qualche po' di camomilla e di malva.
Le lunghe dimore della Gilda nel magazzino Albani non andavano punto a genio alla signora Dorotea, la quale si lagnava che i vestiti della bimba s'impregnassero di un acuto odore di baccalà e di sardelle salate, e scendeva talvolta dall'altezza del suo quarto piano a impadronirsi della piccola ribelle. Nè per solito la Gilda cedeva senza opposizione, che anzi Mario Albani l'aizzava e l'aiutava a resistere. Un giorno fra gli altri, giorno nefasto per la signora Dorotea, mentre la buona vedova era curva sulla Gilda che si rotolava sul pavimento, il terribile ragazzo afferrò il suo pennello e in un batter d'occhio le dipinse sulla schiena un magnifico G. A. che provocò le sonore risate di tutti i presenti. È facile immaginare lo scandalo che ne successe. La signora Dorotea chiese al signor Albani seniore una soddisfazione immediata dello sfregio fattole dall'Albani juniore; indi Mario s'ebbe tosto una tiratina d'orecchi, e alla Gilda fu vietato l'accesso nel magazzino. Però la proibizione non istette molto a diventar lettera morta, e i due fanciulli tornarono a vedersi quasi ogni giorno.
Del resto, pareva destino che la Gilda non dovesse avere che de' gusti bislacchi. In casa, quando suo zio voleva usarle una finezza, egli non aveva che da condurla nel suo laboratorio chimico. Ella rimaneva a bocca aperta dinnanzi ai suoi esperimenti, voleva saper tutto e capir tutto, e andava superba se il professore le ordinava di portargli una boccettina di sali, di chiudere una chiavetta, di soffiare in un fornello.
— Non ci mancava che questa... proprio — brontolava la signora Dorotea. — Son matti, zio e nipote, matti tutti e due... Guardate un po' se una ragazza deve stare in quei luoghi lì a insudiciarsi le mani e il vestito... Stia piuttosto in cucina, impari a metter la pentola al fuoco, e non s'immischi in quelle diavolerie... Oh i dotti!... Che piaga!... Non sono contenti di guastarsi da sè l'anima e il corpo... vogliono guastare anche gli altri...
La Gilda aveva sette anni allorchè il suo amico Mario fu mandato in un collegio della Svizzera. Le disposizioni commerciali del ragazzo sembravano assai mediocri. Egli continuava ad approfondirsi nella conoscenza dei generi, continuava a dipingere sui colli di mercanzie la marca G. A., ma aveva una negativa assoluta pei conti e ripeteva sempre che voleva fare il pittore o il soldato. Il signor Gedeone non dubitava, però, che alcuni anni di soggiorno in un convitto commerciale avrebbero corretto il figliuolo da queste ubbie.
Partito Mario, la Gilda non ebbe più motivo di scendere nel fondaco Albani, e le mancò in tal modo la principale fra le sue distrazioni. Le passeggiate con la signora Dorotea l'annojavano, il laboratorio chimico dello zio non bastava neppur esso a metterla di buon umore.
Il dottor Romualdo si sentì assalito da uno scrupolo di coscienza. Era possibile che questa fanciulla esuberante di vita crescesse sempre al fianco di lui e della buona ma uggiosa signora Dorotea? Nell'accettar la Gilda dalle mani del capitano Rodomiti non aveva egli implicitamente assunto l'obbligo di farne una ragazza a modo, atta a divenir col tempo una moglie saggia, una madre amorosa? E a raggiungere questo fine non era indispensabile di volger seriamente il pensiero alla sua educazione?
In forza di così savie considerazioni, una mattina del novembre 1864, il dottor Grolli accompagnava la sua pupilla nel miglior collegio femminile della città. La Gilda aveva allora sette anni e mezzo; era di viso bellissimo ed egregiamente proporzionata di membra. Chi la vedeva con quei suoi occhi scuri e vivaci, con quei suoi bruni capelli profusi, con quella sua aria di regina in miniatura, non poteva a meno di esclamare: — Che amore di bimba! — A ogni modo, inosservata ella non passava mai.
Quando le si annunziò che sarebbe andata in collegio, ella accolse la notizia con più curiosità che rammarico. Le dispiaceva separarsi dai suoi gatti, dai suoi cardellini, dalla sua bambola, e un po' anche dallo zio Aldo e dalla signora Dorotea, ma il fascino della novità soverchiava in lei gli altri sentimenti. In fin dei conti era ben giusto di uscire dal mondo piccino in cui era cresciuta fino allora, di veder visi diversi dai soliti, di contrarre amicizie con fanciulle della sua età. Onde, quand'ebbe varcata la soglia della sua nuova dimora e il professore si accomiatò da lei con un bacio, ella non tardò a rasciugarsi una lagrimetta, a fare il viso ilare e a seguir saltellando una giovane sotto-maestra che voleva presentarla alle sue condiscepole raccolte in giardino.
Egli invece, l'austero ed ispido uomo, poichè ebbe affidata la nipote alla direttrice del collegio, se ne tornò indietro oppresso da una malinconia di cui da gran tempo non provava l'uguale. Pensava alla solitudine della sua casa, alla noia di non veder davanti a sè altri che la signora Dorotea, di non sentir altre voci che quella di lei, così stridula e disarmonica. Negli ultimi tre anni aveva spesso invocato l'antica quiete; adesso l'antica quiete gli era restituita, ed egli non l'accoglieva senza sgomento. Le dita tenerelle della Gilda avevano fatto vibrare nell'anima sua una corda non per anco toccata, e la visione d'un mondo più ampio di quello dei libri, più ricco di colori e di forme, era apparsa fuggevolmente ai suoi occhi. Era la sua giovinezza che si svegliava, la sua giovinezza soffocata tra le formule algebriche e le analisi chimiche.
Ormai tutto era finito. Lo spiraglio da cui entrava come un soffio di primavera s'era chiuso, lo scienziato tornava a trovarsi a faccia a faccia con la sua scienza.
X.
Una domenica sì e una domenica no, dal tocco alle tre, i parenti erano ammessi a visitare le convittrici. Il dottor Grolli non mancava mai di venir a vedere in quel giorno la sua pupilla, quantunque questa spedizione gli dèsse da pensare per una settimana. Figuriamoci! Un uomo come lui, schivo d'ogni altro pubblico ritrovo che non fosse la sua Università, a trovarsi in mezzo a tanti babbi eleganti, a tante mamme splendide di gioventù e di bellezza, a tante ragazze vispe e leggiadre! Come ci stava a disagio, come tradiva il suo imbarazzo! Ed egli sorprendeva gli sguardi ironici che lo esaminavano di sottecchi, e coglieva a volo le risatine che gli scoppiettavano intorno, le parolette con le quali si canzonava il taglio del suo vestito, la goffaggine della sua persona, l'aspetto esotico del suo volto tutto barba e capelli. Nè avveniva di rado che alcuni sarcasmi slanciati contro di lui andassero a cader sulla Gilda.
Un giorno egli la vide movergli incontro peritosa, cogli occhi rossi.
— Che cos'hai, Gilda? — le chiese. — Hai pianto?
Ella non gli rispose, ma si voltò da un'altra parte e si coprì la faccia con le mani. Poco lungi sghignazzavano due convittrici, delle più grandi.
Il dottor Romualdo si sentì una trafittura al cuore. Condusse la fanciulla in un angolo appartato della sala e le domandò a mezza voce: — Ti burlano forse? — Ella si strinse un po' nelle spalle, ma continuò a tacere.
— Ti burlano per cagion mia?... Di' la verità.
E presele le manine ch'ella teneva davanti agli occhi, la costrinse a guardarlo in viso.
— Sì — ella bisbigliò con voce appena percettibile.
— Ebbene, Gilda, se vuoi, io non vengo più.
Era la prima volta ch'egli metteva alla prova l'affetto della nipote, era la prima volta ch'egli si accorgeva come quest'affetto fosse necessario alla sua vita. Perciò, in quel momento, tutto l'esser suo pendeva dalle labbra della Gilda. E quando egli sentì le morbide e rotondette braccia di lei con impeto subitaneo cingergli il collo, e quando fra i singhiozzi ella gli disse — No, zio Aldo, voglio che tu venga sempre — una dolcezza nuova, inusata gli corse le vene, provò una gioia quale non gli era stata data da nessuna formula algebrica. Egli prese la bimba sulle ginocchia, e carezzandole i capelli ripigliò il suo interrogatorio: — Dunque che ti dicono?
Ella diventò rossa, ma stette senza aprir bocca.
— Ti dicono forse che hai torto ad avere uno zio così brutto?
— Oh! — fec'ella con una garbata scrollatina di capo e ridendo in mezzo alle lagrime.
— Ebbene!
— Oh... dicono tante cose — replicò finalmente la Gilda.
— Ma... per esempio?
— Dicono... che non ti pettini...
Il professore sospirò. — E poi?
— Che continui a portare i calzoni che avevi da bimbo.
— Perchè?
— Non li vedi?... Son tanto corti!
Era vero. Il professore, che teneva una gamba accavallata sull'altra, dovette riconoscere con singolare mortificazione che dieci centimetri di stoffa di più non sarebbero stati soverchi.
— C'è altro?
— Sì — rispose la fanciulla, che aveva ormai sciolto lo scilinguagnolo. — Dicono che non sai farti il nodo della cravatta.
— Non è poi una gran disgrazia — osservò il dottor Romualdo, al quale questa accusa pareva men grave delle precedenti.
— Dicono...
— Ancora?
— Sì... Che hai il naso sporco di tabacco...
Con un moto istintivo il professore cacciò la mano in saccoccia per estrarre il fazzoletto. La Gilda gli fermò il braccio — No — ella disse — Hai un fazzoletto turchino?
— Già...
— Lascialo stare... Somiglia a quello di don Spiridione, il catechista.
Il dottor Romualdo non potè trattenersi dal sorridere. — È finito questo processo?
La Gilda fece un viso scuro scuro che voleva significare — Non è finito. — Ma non fu cosa facile il cavarle di bocca l'ultima rivelazione. Finalmente ella confessò singhiozzando che la chiamavano la nipote dell'orangutan. — E l'orangutan — ella soggiunse nella massima costernazione — è una bestia.
— E una brutta bestia — ammise il dottor Grolli con aria rassegnata. — Ebbene — egli ripigliò dopo una breve pausa — non c'è che un rimedio.... Lascia che dicano quel che vogliono e non ci badare... Io procurerò di essere meno orangutan che sia possibile, farò allungare i miei calzoni, mi ravvierò meglio i capelli e la barba, cesserò di servirmi del fazzoletto turchino...
Il viso della fanciulla si rischiarò.
— Tu intanto non vergognarti di traversar la sala a fianco dell'orangutan... Dobbiamo dire così?
— No, no, dello zio Aldo.
Il professore si alzò, e la bimba passò il suo braccetto sotto quello di lui. Andarono in questa guisa, zio e nipote, fino all'uscio, e la Gilda teneva la sua fronte così alta e girava intorno uno sguardo così sicuro, che nessuna tra le sue condiscepole osò prendere un'aria canzonatoria. Quando si fu in fondo alla sala, la fanciulla diede un bacio sonoro al professore, e disse forte — Buon dì, zio Aldo, a rivederci.
Ella tornò indietro contenta; aveva vinta una prima battaglia sopra sè stessa, aveva vinto la falsa vergogna. Anche il professore si sentiva un altro uomo. Ciò che lo aveva legato prima alla Gilda era la pietà, era l'idea del dovere; poi, con la consuetudine della vita, vi si era aggiunta un'affezione sincera, ma timida, inconsapevole quasi di sè, un'affezione che non osava chiedere, non osava sperare il ricambio. Ora, invece, di questo ricambio egli era sicuro; la Gilda gliene aveva tolto il dubbio con l'ingenua confessione delle sue piccole amarezze, col soave abbandono con cui gli si era gettata al collo, con la balda franchezza con cui aveva traversato la sala al suo fianco sfidando gli sguardi delle sue compagne. Senonchè quell'intima soddisfazione dell'anima non era senza mistura. Un punto della sua antica filosofia era scosso, era turbato il suo profondo convincimento della inutilità d'ogni dote esteriore. La bellezza, la grazia, non erano dunque vane parvenze? Erano forze reali e gagliarde, non create dalla fantasia dei poeti? Non era dunque la medesima cosa avere un aspetto increscioso o gradevole; la virtù, l'ingegno, non bastavano a coprir le imperfezioni del corpo? E, allora, che ci guadagnava a esser brutto? Non avrebbe potuto riuscire un buon matematico anche mostrando l'età che aveva e non più, anche essendo un bel giovane?
Queste savie riflessioni del dottor Romualdo si traducevano in una cura alquanto maggiore della persona. Egli usava con una certa frequenza la spazzola e il pettine, procurava che ciascun bottone del suo soprabito entrasse nell'occhiello che gli competeva, e non isdegnava di rimanere qualche secondo davanti allo specchio per allacciarsi il nodo della cravatta. Questo fatto memorabile accadeva specialmente nei giorni in cui il professore doveva recarsi dalla nipote. Prima di far la sua visita, egli si lavava col sapone d'odore, si ravviava i capelli, lasciava a casa la tabacchiera, e invece del fazzoletto turchino, prendeva seco un fazzoletto bianco di bucato. Egli non cessava già di esser brutto, ma cessava d'esser sucido, e le convittrici non lo chiamavano più l' orangutan. Avrebbero smesso, a ogni modo, di dargli questo appellativo sgarbato, per riguardo alla Gilda ch'era diventata in breve tempo un personaggio importante. Negli studi era la prima della sua classe, nei giuochi era delle più vispe e briose di tutto il collegio. Alcune tra le ragazze maggiori d'età avevano fatto per qualche tempo il viso dell'arme al novello astro che sorgeva sull'orizzonte, ma la bizza era durata poco; la grazia della Gilda, il suo aspetto attraente, la prontezza del suo ingegno, la spontaneità dei suoi modi avevano trionfato di ogni ritrosia. Onde ella non tardò ad appartenere al gruppo delle elette, a quella aristocrazia della scuola che nessun regolamento vale a sopprimere, come nessuna legge può distruggere le inuguaglianze nella vita reale. E a quella guisa che il professore Romualdo aveva in principio fatto cadere sulla nipote parte della sua impopolarità, la Gilda faceva riflettere oggi sullo zio parte della simpatia ch'ella aveva acquistata per sè.
V'era poi un'altra ragione assai importante per la quale il Grolli era ormai guardato, se non con vivo interesse, almeno con una curiosità benevola. Prima che compisse il secondo anno dacchè la Gilda era entrata in collegio, il dottor Romualdo aveva mutato la sua condizione di assistente in quella di titolare, e il titolare era già divenuto illustre, le sue opere erano lodate anche fuori d'Italia, la sua conoscenza era ambita da uomini preclari nel campo scientifico. A sua insaputa, il dottore Romualdo s'era messo su una delle due vie, per le quali, dato un certo merito, si consegue la fama. Poichè a questo proposito non c'è mezzo termine; la fama, o bisogna arrabattarsi molto a cercarla, o bisogna star molto cheti ad attenderla. O l'impudenza sfacciata del ciarlatano, o la ritrosia quasi infantile del cenobita. Col primo sistema si assorda il paese del proprio nome, si loda per esser lodati, si accarezza la critica, si entra audacemente in una chiesuola scientifica. Indi uno stuolo d'alleati, ma, di fronte, uno stuolo di nemici. Cento insidie, cento passioni poste in giuoco, il trionfo delle dottrine subordinato al trionfo della fazione, l'abilità spesso più potente dell'ingegno. Col secondo sistema si studia in silenzio, creduti timidi dal mondo a cui si getterà forse un giorno un'idea destinata a sconvolgerlo. Non una condiscendenza che ne chiami un'altra, non una parola che accenni a vaghezza di plauso; non alleati, ma non nemici; bensì, sparse per la terra, numerose simpatie di persone che non si conoscono e non si conosceranno giammai; simpatie un po' inerti, non bastevoli a dare la gloria, ma pronte ad alimentare il primo soffio di fortuna che ci spiri propizio. Ottenuta così, la fama è più sicura, più stabile di quella ottenuta per l'altra via. Ma siccome vi si giunge più difficilmente o più tardi, è appunto l'altra via quella che d'ordinario si sceglie.
È superfluo il dire a qual partito si fosse appigliato il professore Romualdo. La sua indole, i suoi gusti, l'ambiente in cui egli era sempre vissuto avevano reso in lui una seconda natura le abitudini del riserbo. Nè sapeva abbandonarle oggi, nè acconciarsi alle esigenze di una celebrità della quale era, più che lieto, maravigliato egli stesso. Era timido, impacciato, alieno da tutto ciò che potesse metterlo in mostra. Però, quando era in giuoco il decoro della sua Università, non ricusava mai l'opera sua; la modestia non era per lui, come è per molti, una maschera della pusillanimità. Un giorno ci fu un ammutinamento di studenti; il rettore aveva perduto la bussola, i professori, scrollando le spalle, s'erano dispersi da varie parti; il solo professor Grolli ebbe il coraggio di affrontare e di sedar la tempesta. Un'altra volta, all'apertura dell'anno scolastico, quand'era già annunciata la prolusione, il titolare a cui toccava di leggere accampò non so qual pretesto per sottrarsi all'impegno. Indi il rettore convocò per urgenza il corpo insegnante, facendo osservare come fosse antichissima consuetudine quella di inaugurar le lezioni con un discorso, e come l'ommettere questa formalità potesse riuscire a scapito dell'Istituto, insidiato da occulti e palesi nemici. Ma chi si scusò con la ristrettezza del tempo, chi con la molteplicità delle occupazioni, e non si veniva a nessuna conclusione. — E lei, professor Grolli? — chiese il rettore, dopo aver interrogato ad uno a uno tutti gli altri. — So che ha una grande ripugnanza per queste cose, e non osavo... — Se è proprio necessario... — rispose il professore, nel quale il sentimento del dovere andava al disopra di qualunque altra considerazione. E poichè la sua offerta venne accolta con entusiasmo, egli vegliò due notti affine di compiere il suo lavoro pel giorno prefisso.
Non può dirsi che, dal punto di vista accademico, il dotto e severo discorso avesse un successo clamoroso. Si notò anzi che parecchie signore si allontanarono dalla sala durante la tornata, che il commendatore prefetto appoggiò il gomito al ginocchio e il capo alla mano nel punto culminante dell'orazione e si assopì fingendo di meditare, e che i due bidelli, i quali, secondo il cerimoniale, stavano ritti in grande divisa ai due lati della piattaforma riservata alle autorità e al corpo insegnante, dovettero addossarsi alla parete e si addormentarono in piedi, cosa non seguìta mai nelle adunanze precedenti, nemmeno alle più erudite concioni. Ma quel discorso, riuscito noioso a tanta parte dell'uditorio, fu invece, per l'importanza e la novità delle cose dette, un vero avvenimento scientifico, che valse al Grolli la nomina a socio corrispondente dell'Istituto di Francia.
Punto inorgoglito delle mutate fortune, il nostro professore conservava le sue modeste abitudini, e le rendite cresciute gli servivano soltanto a ingrossare il fondo giacente presso la Banca in conto della nipote e ad abbellire la stanza in cui ella sarebbe tornata al suo uscir dal collegio.
XI.
Due anni prima che la Gilda compiesse la sua educazione, un'epidemia difterica venne a mietere più di una vittima fra le convittrici. Allora vi fu un fuggi fuggi; quasi tutti i genitori richiamarono a casa le figliuole, e il professor Romualdo s'affrettò egli pure a riprendere la sua pupilla. A epidemia finita, la Gilda avrebbe dovuto ridursi nuovamente in collegio, ma la sua migliore amica era morta, e l'idea di non trovarla più la contristava fuor di misura. — Preferiresti di restare con noi? — le domandò un giorno lo zio. — Oh sì — ella rispose con le lagrime agli occhi. E rimase.
Ella aveva allora quattordici anni, e si trovava in quel periodo critico della vita femminile nel quale un non so che d'incerto, d'indefinito si stende sull'espressione del volto e sulle linee della persona. È come se il fiore tornasse nel suo bocciuolo per aprirsi una seconda volta, nè si può prevedere in qual modo si riaprirà. Quante speranze dell'infanzia deluse! Quante paure svanite! Il mostricciuolo diventerà forse una Venere, Venere si cambierà in un mostricciuolo. Negli occhi delle madri si dipinge un'inquietudine ansiosa, nello sguardo degli estranei una curiosità indiscreta; la giovinetta intanto si sente osservata e si osserva; ella dimanda a sè stessa che cosa scomponga l'armonia delle sue membra, che cosa turbi la serenità del suo spirito, che fuoco arcano le riscaldi le vene. Ha baldanze che la fanno arrossire, ha ritrosie che non comprende; guarda dietro di sè, vede le bambine saltellanti, chiassose, e ne ha invidia e disprezzo ad un tempo; deve confessare che stava meglio quand'era come loro, eppure non vorrebbe tornar come loro; guarda davanti a sè, e vede le giovani spose, le matrone dalle forme opulente mal dissimulate dai veli, le vede imperare con un volger di ciglio e sente che sarà anche lei un giorno quali esse sono, e affretta col desiderio quel giorno. Eppure il desiderio non è senza una tristezza profonda. A che prezzo stringerà quello scettro?
Nell'ultimo tempo della sua dimora in collegio la Gilda era alquanto imbruttita. Era alta, magra, pallida, con un cerchio azzurro intorno alle palpebre. Le sottane corte lasciavano vedere un piede un po' troppo lungo e il principio d'una gamba un po' troppo sottile; anche le braccia erano lunghe e stecchite. Il suo sorriso aveva perduto dell'antica vivacità, la sua voce, già limpida e argentina, era spesso velata e talora feriva l'orecchio con certe note fesse e sgradevoli. Ma in questa eclissi della sua bellezza la Gilda conservava di magnifico gli occhi grandi, espressivi, i folti, bruni, crespi capelli, e i denti bianchi come l'avorio e uguali come le perle d'un monile. Era lecito pronosticare che il resto si sarebbe accomodato da sè.
Come la fisonomia e la persona, così si era un po' modificato il carattere. Ella non era più la bimba impetuosa, ma gioviale, espansiva, che aveva anni addietro portato la rivoluzione nella silenziosa casa Negrelli; i suoi uccelletti, i suoi fiori non le parlavano più l'usato linguaggio; qualche volta la sua allegria era forzata, qualche altra non sapeva frenarsi, e si rinchiudeva nella sua camera, malinconica e taciturna. Non di rado ripensava al chiasso ch'ella faceva con Mario nel magazzino del signor Gedeone; ahimè, dov'erano andati quei tempi? dov'era andato Mario?
Quando gli si domandava conto del suo figliuolo, il signor Gedeone tentennava gravemente il capo. Quel ragazzo gli dava pure di gran tribolazioni. Non era cattivo, ma voleva fare a suo modo, e il soggiorno in Isvizzera, che doveva mettergli giudizio, aveva invece finito di guastargli il cervello. Ormai bisognava rinunziare alla speranza ch'egli succedesse al padre nel commercio dei grani e dei coloniali. Con la stramba idea di diventar pittore, s'era legato in amicizia con un giovane artista svizzero, il quale lo aveva condotto seco per otto mesi a Roma ed ora lo teneva nel suo studio a Zurigo. Di là Mario scriveva al babbo lettere piene d'entusiasmo, chiedendo quattrini e promettendo di render celebre in meno di dieci anni il nome della famiglia.
— Eh, signorina — disse un dopo pranzo il signor Gedeone alla Gilda, ch'egli salutava sempre con deferenza come l'antica camerata di suo figlio — Mario terrà forse parola e mi renderà celebre, ma che me ne importa? Io avrei preferito ch'egli fosse qui ad attendere agli affari insieme con me... Allora sì che avrei lavorato di lena... Adesso invece...
Il signor Gedeone, ch'era seduto sur una panca di legno davanti al suo magazzino, si alzò in piedi, si passò il rovescio della mano sugli occhi; indi proseguì: — Ma!... Mi par ieri quando Mario e lei si rincorrevano fra le balle di caffè e i barili di aringhe... Se ne rammenta? Come passa il tempo!
Un garzone del fondaco s'avvicinò al principale. — Il brigadiere se n'è andato. Non ci sono che le guardie Munari e Albonzio.
— Avanti, allora — ordinò il signor Albani.
Un gran carro di fieno ch'era fermo sulla strada, col timone rivolto dalla parte della città, si mosse alzando una nuvola di polvere. I sonagli dei muli tintinnavano in cadenza, il sole morente lambiva coi suoi ultimi raggi la parte superiore del carico, lasciando in ombra il resto, il conduttore disteso sul fieno cantava:
Addio, mia bella, addio,
L'armata se ne va,
ecc., ecc.
Intanto il signor Gedeone ora seguiva con lo sguardo il barroccio, ora si voltava a discorrere con la Gilda.
— Non viene mai il signor Mario qui? — chiese questa timidamente.
— C'è stato un paio di volte — rispose il signor Gedeone — Lei era in collegio. Adesso dice che non vuol tornare finchè non abbia fatto un bel quadro... Il bel quadro lo farà... oh lo farà senza dubbio... ma non è questo ch'io volevo... Volevo averlo meco... volevo lasciargli i miei affari... ecco quel che volevo....
A questo punto il signor Gedeone diede un'occhiata dal lato della porta della città. Un suo commesso gli fece un cenno con la mano, come a significare: — Ormai è passato.
Il negoziante mostrò di aver capito; poi stringendo la destra alla Gilda: — La ringrazio della sua premura, signorina... Mi fa tanto piacere, sa, poter parlare di quel bricconcello di Mario.
E il signor Gedeone era altrettanto sincero nel suo affetto paterno, quanto nel suo desiderio d'introdurre in città senza dazio le derrate che egli nascondeva nei carri di fieno.
La Gilda risalì le scale, lieta in cuor suo che il suo vecchio amico avesse scelto la professione d'artista.
Nel ritirar dal collegio la sua pupilla, il dottor Romualdo s'era proposto di compiere egli stesso la sua educazione. Perciò la faceva studiare almeno due ore al giorno. Egli era in principio un po' impacciato, ma la Gilda gli additava ella stessa la via, ribellandosi ad ogni metodo rigoroso, eppure riuscendo ad afferrar di volo ogni cosa. Il professore aveva cominciato col trovar molto da ridire su questo modo di procedere a sbalzi, ma aveva finito col dar ragione alla discepola. Ella era così pronta d'ingegno, ella scriveva con tanto garbo! Quand'ella gli leggeva i suoi componimenti pieni di semplicità e di freschezza, era come se una musica nuova gli ricreasse l'orecchio. Le discipline scientifiche avevano intorpidito in lui il senso dell'arte; ora esso gli si risvegliava nell'anima, gli richiamava alla mente le vergini impressioni dell'infanzia, e gli faceva sentir tutto il pregio di studi che aveva negletti. Gli pareva d'essere, anzichè il maestro, l'allievo. Era ben altra cosa quand'egli introduceva la Gilda nel suo laboratorio. Là egli era come un re; tutto obbediva ai suoi cenni; sotto il suo occhio vigile, nelle sue storte, alla fiamma dei suoi fornelli i corpi mutavano forma, aspetto, colore, e la natura gelosa gli rivelava gli intimi suoi segreti. Ed egli si compiaceva a stuzzicar la curiosità della sua pupilla, certo com'era di non poter esser mai colto alla sprovvista dalle domande di lei. Forse era questa l'unica sua vanità.
La signora Dorotea, a cui il passare degli anni non aveva raddolcito il carattere, sparlava liberamente del sistema di educazione tenuto dal professore. — Vuol fare di sua nipote una dottoressa; si può dar di peggio?... Che maraviglia se ella è pallida, allampanata, con le pesche sotto gli occhi... Ne son morte di fanciulle a forza di leggere... Ne ho conosciute io...
V'erano dei giorni in cui l'umore della Gilda pareva dar ragione ai pronostici della vedova. Bastava un nonnulla a farla piangere, non voleva uscire, non c'era verso di cavarle una parola di bocca.
Una mattina che la ragazza era più smorta dell'ordinario, la signora Dorotea fece a bassa voce delle comunicazioni misteriose al professore, concludendo: — Se non crede a me, mandi per un medico.
Il medico venne, si mise a ridere, diede ragione alla signora Dorotea, e finì tra il serio e il faceto: — Via, caro professore, non affatichi troppo questa sua nipote. Non è uno studente d'Università, è una donna.
La signora Dorotea chinò il capo in segno di assenso.
— Ci vuole una vita più svariata — continuò il medico — la conduca spesso fuori di casa, le faccia conoscere qualcheduno... gioventù sopra tutto... i giovani devono stare coi giovani... Quando poi verrà l'autunno... adesso già ci vuol tempo, siamo appena in febbraio... in autunno insomma un viaggetto sarebbe eccellente... Alle corte, io stimerei opportuno di adottare un altro sistema di vita.
Qui l'approvazione della signora Dorotea fu meno esplicita. — Bisogna stare coi giovani! — ella borbottò fra i denti. — Come se io fossi una vecchia decrepita e rimbambita... Le belle cose che s'imparan dai giovani!
Il professore si ritirò pensoso nella sua camera. — È una donna — egli bisbigliava, ripetendo le parole del medico. E soggiungeva: — Una donna in casa! — A quel che sembra il professor Romualdo non s'era mai accorto che era una donna anche la signora Dorotea.
Comunque sia, l'avvenire gli si presentava buio, buio oltre misura. Il fatto più naturale del mondo gli pareva dover esser fecondo d'incalcolabili conseguenze; egli sentiva che il suo ufficio di tutore entrava in una nuova fase, e che adesso soltanto egli avrebbe cominciato a sperimentarne le difficoltà.
XII.
Bastarono poche settimane alla Gilda per riaversi affatto. Pareva anzi che quel passeggiero malessere avesse contribuito a far rifiorire la sua bellezza decaduta da qualche anno. I molli contorni della donna si disegnavano ormai sotto le vesti succinte della fanciulla; gli occhi già languidi e smorti brillavano d'una nuova luce più viva, più intensa di quella che li aveva illuminati nell'infanzia gioconda, e la persona leggiadra, pur mutando linee, si ricomponeva nell'antica armonia. Le inesplicabili tristezze, gli scoraggiamenti infiniti degli ultimi tempi l'assalivano di rado e non mai con tanta violenza; era tutt'al più una malinconia pensosa, non scevra d'ogni dolcezza.
Ma il dottor Romualdo assisteva con mal celato sgomento a questa trasformazione della sua pupilla. S'era avvezzato ad amar la fanciulla, e non sapeva acconciarsi all'idea che la fanciulla diventasse donna, poichè la donna era sempre ai suoi occhi un essere inferiore, malato, pieno di piccole arti e di avvolgimenti insidiosi. Allorchè la Gilda entrava nella sua stanza, egli pareva atteggiarsi a guisa di uomo che si mette in difesa; non le dava più un pizzicotto sulla guancia, nè un buffetto sotto il mento: e s'ella gli faceva una carezza, egli arrossiva confuso.
— Ti faccio paura! — ella esclamava canzonandolo — E sì ch'io son quella di una volta!
Quella di una volta? Oibò, oibò. O la Gilda parlava in mala fede, o ella ingannava sè stessa. Ma già ella parlava in mala fede sicuramente; era una femmina.
Quand'egli la conduceva a passeggio, ed ella gli dava il braccio, ci voleva poco ad accorgersi ch'ella non era quella di una volta. Noi lo sappiamo, l'avevano ammirata sempre, ma adesso era mutato il genere dell'ammirazione, e soprattutto era mutata la qualità degli ammiratori. Non erano più i babbi e le mamme quelli che si fermavano estatici a guardar la Gilda; erano i bellimbusti profumati, azzimati, erano i giovinetti di primo pelo, erano, orribile a dirsi, gli studenti dell'Università. Nè soltanto i rompicolli; quelli stessi, che, dalla cattedra, il professore mirava assorti nelle severe meditazioni scientifiche, quelli stessi che pendevano con più amore dalla sua parola, se vedevano la Gilda al suo braccio, le piantavano tanto d'occhi in viso, come se volessero divorarsela. Egli sentiva bisbigliar dietro a sè — Che stupenda ragazza diventa la nipote del professor Grolli! — Che bottoncino di rosa! — Ah! esser l'ape che succhierà quel fiore!
— Disgraziati! Disgraziati! — rifletteva in cuor suo il professore Romualdo. — Anche su loro che sono l'orgoglio della Università, la speranza della patria, la donna esercita la sua funesta influenza: ella distrae la loro mente dai forti pensieri, ella turba i loro sensi, ella popola la loro fantasia di immagini ingannatrici. Quanto cammino di più si farebbe nel mondo se non vi fosse la donna! Quanto più presto sarebbe stata scoperta la legge della gravitazione, da quanto tempo si sarebbe già trovata una soluzione alle equazioni di quarto grado! Che gloria immensa si acquisterebbe colui il quale riuscisse ad emancipare l'umanità dalla femmina ed assicurasse con un nuovo metodo la propagazione della specie!
Talora, mentre il dottor Grolli era infatuato dietro questo grave problema, la Gilda gli dava una scrollatina al braccio, e gli chiedeva sorridendo: — Sei fra le nuvole?
Del resto, il professor Romualdo, quantunque convinto che la soppressione della donna ci avvierebbe a uno stato di perfezione assoluta, non intendeva sottrarsi a nessuno degli obblighi suoi verso la nipote. Se, anni addietro, egli aveva commesso una debolezza acconsentendo a tenerla presso di sè, tanto peggio per lui; s'egli non aveva saputo prevedere che la bambina non sarebbe stata sempre bambina, era a lui e non ad altri che toccava scontare l'imprevidenza. Norma costante delle sue azioni, il sentimento del dovere lo reggeva anche in questa prova e gli dava il modo di vincere ostacoli che sulle prime gli parevano insuperabili.
Tra le novità introdotte nel sistema di vita del nostro matematico non fu certo l'ultima quella di recarsi un paio di sere la settimana insieme con la Gilda in casa del cavalier Diomede Lorati, che teneva allora l'ufficio di rettore dell'Università. Il professor Grolli in conversazione; era una cosa da far strabiliare! Ma il medico aveva giudicato opportuno che la Gilda conoscesse qualche persona dell'età sua, ed erano su per giù della stessa età le figlie del rettore. Il cavaliere Lorati era una buonissima pasta d'uomo, che da venti anni professava diritto civile e in tutto questo tempo non aveva mutato una virgola alle sue lezioni. Gli scolari sapevano come ogni lezione principiava e come finiva, e spesso il professore aveva la compiacenza di sentir correr lungo i banchi una frase ch'egli non aveva ancor detta. Del resto, il cavalier Lorati era tenuto in conto di persona sapiente; era segretario della locale Accademia di scienze e lettere, e in questo ufficio aveva avuto agio di svolgere le sue naturali disposizioni per le commemorazioni funebri. Infatti, quando moriva un socio, era a lui che toccava darne la triste novella, e la dava col cuore spezzato. Il buon professore non avrebbe ommessa questa frase per tutto l'oro del mondo. Ma non era soltanto in favore dei soci dell'Accademia che il cavalier Lorati versava il suo inchiostro e le sue lagrime. Chiunque passasse agli eterni riposi, per poco che fosse conosciuto da lui, aveva il conforto d'un suo cenno necrologico preceduto da un motto latino, o da uno dei soliti emistichi, come — Morte fura — Prima i migliori e lascia star i rei — oppure — Sol chi non lascia eredità d'affetti — Poca gioja ha dell'urna.
Un'altra bella qualità del cavaliere era la sua sommissione agli oracoli della signora Olimpia, sua moglie, donna notevole per molti rispetti, e particolarmente per quello di madre di famiglia. Ella aveva studiata a fondo la situazione matrimoniale delle sue figliuole e soleva cantar loro su tutti i toni: — Bimbe mie, vostro padre è un sapientissimo giureconsulto, ma voi non avete quello che si dice il becco d'un quattrino, e ai tempi nostri una lepre verrà a gettarsi in braccio del cacciatore prima che un uomo venga spontaneamente ad offrir la sua mano a una ragazza senza dote; perciò abbiate bene in mente che bisogna aiutarsi da sè, non aver romanticismi, non patir distrazioni, cercar molto e cercar sempre, e quando si crede di aver trovato, badare che non isfugga la preda. Io sono vostra madre e farò il dover mio. Ma farei ben poco se non mi secondaste.
Fedele alle sue savie massime, la signora Olimpia metteva in mostra la sua Ginevra e la sua Giulia quanto più poteva, e non mancava di condurle a passeggio, alle funzioni di chiesa, ai dibattimenti della Corte d'assise, dappertutto insomma dove vi fosse la speranza di veder comparire quella rara selvaggina che si chiama un marito. Inoltre ella riceveva due sere la settimana. Erano ricevimenti alla buona; alcuni professori con le mogli e le figliuole, alcuni parenti dei professori, e una mezza dozzina di studenti, nei quali la signora Olimpia aveva creduto di scoprire la stoffa matrimoniale.
Per i professori c'era un tavolino a parte, intorno al quale essi impegnavano discussioni rumorose sui regolamenti universitari, sui ministri che s'eran succeduti all'istruzione pubblica, sugli esami e sulle propine. Ma il grosso della compagnia sedeva a una gran tavola rettangolare, su cui la Ginevra e la Giulia stendevano con moltissima cura un tappeto di lana che ricadeva sin quasi sul pavimento. I maligni volevano far credere che all'ombra di quel tappeto si stabilissero fra gli studenti e le ragazze attivissime comunicazioni di mani e di piedi, assai più gustose dei giuochi di società che avevano luogo alla superfice.
Alle dieci la signora Olimpia distribuiva agli invitati una tazza di tè leggiero in modo da non alterare il sistema nervoso, e le padroncine giravano un piatto di sandwichs preparati dalle loro mani. Alle undici la compagnia si scioglieva, salvo i pochi casi in cui tra gl'invitati si trovasse una persona di buona volontà da suonar l'armonica e da permettere alla gioventù di far quattro salti in famiglia.
Un osservatore superficiale troverà senza dubbio che la signora Olimpia, sollecita com'era di procurar marito alle sue figliuole, commetteva una leggerezza invitando ai suoi convegni serali la Gilda, che dava scacco matto a tutte e due. Ma la signora Olimpia aveva vedute più larghe e profonde. Ella pensava che la bellissima giovinetta poteva servir d'uccello di richiamo e far venire in casa qualcheduno che non ci sarebbe venuto altrimenti. — E pur che ci vengano almeno in due — rifletteva l'accorta donna — io ci avrò sempre guadagnato. Quand'anche si appiccicassero entrambi alla nipote del Grolli, più d'uno ella non ne sposerebbe; l'altro resterebbe sempre amico di famiglia, e allora, chi sa?
Non si può creder quante feste si facessero dalla famiglia Lorati ai due nuovi ospiti. Le ragazze volevano sedere l'una a destra, l'altra a sinistra della Gilda, la colmavano di elogi sulla sua bellezza e sulla sua grazia, la iniziavano ai segreti dei dilettevoli giuochi di scopa e campana e martello. La signora Olimpia e il rettore prodigavano le più tenere cure al professor Romualdo, e anzi il rettore sentiva l'imperioso bisogno di fargli ogni momento il solletico sulle ginocchia e di ripetergli con infinita espansione: — Ma bravo il nostro Grolli, che si è risolto a uscir dal suo guscio!
E gli altri professori in coro: — Bravo Grolli! Bravissimo!
Nell'ora del tè poi era la signora Olimpia in persona che portava la tazza al dottor Romualdo e gli offriva i sandwichs. Faceva servire gli altri invitati dalle figlie, ma il dottor Romualdo voleva servirlo ella stessa.
I colleghi, con la insistenza uggiosa dei dotti quando pretendono di far gli uomini di spirito, celiavano costantemente su queste attenzioni speciali della signora Olimpia pel Grolli. — Ehi Grolli, state in guardia... la signora Lorati insidia la vostra innocenza... Badate che non si ripeta il caso della moglie di Putifarre.
Il professore si agitava sulla sedia e borbottava infastidito: — Che discorsi! — E si confermava sempre nell'idea ch'era meglio vivere a sè, tenersi lontani anche dai colleghi, e non aver con loro altre relazioni che quelle volute dagli studi. Ma oramai erano vani rimpianti e conveniva rassegnarsi all'inevitabile.
Gli omaggi di cui la Gilda era l'oggetto in casa del rettore non le facevano salire i fumi al cervello. Lasciava discorrere i damerini senz'accordar preferenze ad alcuno, e quando giungeva il momento desiderato dei quattro salti in famiglia, ella ballava indifferentemente con tutti, più entusiasta della danza che dei danzatori. Com'era bella allorchè il giro vorticoso del valzer le invermigliava le gote e le scompigliava i capelli, e il suo piede leggiero appena sfiorava il pavimento, e la sua persona agile, snella, succinta, si disegnava in mille pose sempre diverse e sempre leggiadre e composte!
— Che allegria, non è vero, in queste festine? — diceva il cavaliere Lorati, stropicciandosi le mani e andando dall'uno all'altro crocchio. — Benedetta la gioventù!... Ci s'ingrassa proprio a vederla divertirsi in tal modo... Voi, caro Grolli, vi siete fatto vecchio prima del tempo... Avete avuto torto, un gran torto... Quanti anni avete?
— Trentacinque fra poco.
— Guardate un po' se un uomo a trentacinque anni dovrebbe star lì impalato presso uno stipite invece di ballare con le ragazze... Fin che si tratta di me che non aspetto i sessanta...
Ballare! Egli, il professor Grolli! Che idee! Le coppie danzanti lo urtavano, lo investivano, ed egli rimaneva come trasognato. In quell'intrecciarsi delle braccia, in quel confondersi del respiro, in quel mover del piede in cadenza, in quell'abbandonarsi della persona all'onda dei suoni, c'era dunque, ci doveva essere un piacere ch'egli non aveva mai provato, ch'egli non sapeva comprendere, ma di cui gli era impossibile non ravvisare l'espressione schietta ed ingenua nelle facce giovanili ch'egli vedeva passarsi davanti. Era proprio vero. C'era un mondo di cui egli non aveva nemmeno toccato la soglia.
Negl'intervalli fra un ballo e l'altro la Gilda veniva a dargli un saluto e a chiedergli se si divertiva... Oh! tanto... Egli la seguiva mestamente con l'occhio mentre ella s'allontanava a braccio di un cavaliere qualunque. Egli pensava che la cara bambina la quale gli aveva insegnato a comprender la famiglia, non era più sua; le acri voluttà della vita si erano impadronite di lei: oggi era il ballo, era l'ingenua soddisfazione di sapersi ammirata; domani sarebbe stato l'amore, forse la passione violenta, irresistibile, fatale.
— Fra un paio d'anni bisognerà dar marito a quella ragazza — diceva il rettore battendo sulla spalla del dottor Romualdo. — Cospetto! Come è cresciuta bene!... Grande scoglio questo del matrimonio... E io ho da provvedere a due... Meno male che se ne incarica Olimpia.
Un discorso così naturale come quello del matrimonio della nipote recava al professore una molestia inesplicabile, ed egli sfogava il suo dispetto parlando con amarezza di tutti i giovani i quali frequentavano la famiglia Lorati.
Nel tornare a casa, una sera, la Gilda gli chiedeva il suo parere sopra certo Norio, ch'era una conoscenza recente e che pareva destinato a divenire il beniamino della società.
— È un giovine che non riuscirà a nulla — replicò vivamente il professore.
— O perchè dici così? — ella soggiunse.
— Perchè? A che vuoi che riesca un giovine che è venuto qui per istudiare e pochi giorni dopo il suo arrivo non sa impiegar meglio la sera che ballando e facendo giuochi di compagnia?
— Dio buono! Alla sua età non gli sarà lecito divertirsi?
— Alla sua età il divertimento per i giovani seri, per i giovani che vogliono diventar qualche cosa, è lo studio. Ne ho conosciuti io di questi giovani, che vegliavano fino a tarda ora sui libri, affaticandosi la mente, logorandosi gli occhi, che si alzavano poi la mattina prima del sole e ripigliavano il lavoro lasciato a mezzo, intenti a decifrare una formula, a risolvere un problema... Oh non erano eleganti, no... Non avevano la scriminatura perfetta, i baffetti arricciati, il colletto candidissimo, il nodo della cravatta d'una simmetria architettonica, non avevano i bottoncini d'oro sulla camicia... no, no... le loro vesti erano sgualcite, la loro biancheria era frusta, i loro capelli scomposti... Le donne non li guardavano con compiacenza...
— Ma, zio Aldo — interruppe Gilda — saranno stati indecenti.
— Non me ne intendo io... Erano poveri...
— Ebbene, che colpa ha il signor Norio se la sua famiglia è piuttosto agiata?
— Colpa? Non ne ha nessuna, ma gli manca la più grande maestra della vita, la povertà. Male alloggiati, mal nutriti, mal coperti, si trova che vi è una sola consolazione, il lavoro, lo studio... La vita del pensiero diventa la vita del corpo; non si sente la fame, non si sente il freddo... Per mesi e mesi si mangia un pane di meno al giorno, tanto da comperarsi un libro nuovo, e quel libro acquistato così faticosamente ha per noi maggior pregio che non abbia pei bellimbusti un abito da ballo, e per voi altre donne un vezzo d'oro e di perle... Voltarne e rivoltarne la coperta, tagliarne le carte, aspirare l'odore acre della stampa ancora umida e fresca, ecco tanti piaceri ignorati dal comune della gente... Che c'importa delle travi affumicate, che c'importa delle pareti sgretolate e crollanti?... I nostri occhi guardano più in là; essi abbracciano il mondo intero...
— E nessuna compagnia, nessuna distrazione? — chiese la Gilda, che non aveva mai trovato lo zio Aldo così eloquente.
— Distrazioni?... Qualche passeggiata all'aria aperta, nelle ore del sole l'inverno, nelle ore del fresco l'estate... Compagnia?... Fra i vivi, tre o quattro coetanei delle stesse condizioni e degli stessi gusti; fra i morti, tutti i migliori... Tutti quelli che hanno stampato un'orma nel campo degli studi; tutti quelli che hanno aggiunto una verità al patrimonio della scienza... e t'assicuro io che valgon meglio della folla volgare e piccina dalla quale siamo attorniati.
— Tu hai fatto questa vita, zio? — domandò la Gilda commossa.
— Ho parlato di me?
— Oh! T'ho inteso benissimo... Fosti tu pure uno di quelli che hanno lottato, che hanno patito.
— Ne conobbi tanti che patirono di più...
— Povero zio Aldo! — rispose la fanciulla alzando verso di lui gli occhi inteneriti. — Sei rimasto solo presto?
— Sì — egli rispose, scosso da quella voce soave, da quello sguardo penetrante. — Ma lasciamo questo discorso... Vedi che ormai la burrasca è passata.
La Gilda sapeva che suo zio non era mai stato ricco, ma ella ignorava ch'egli avesse avuto una giovinezza così travagliata, e strappandogliene per la prima volta la confessione non poteva a meno di ammirare in lui la forza dell'animo alieno da ogni vanteria.
— Hai ragione, zio Aldo — ella soggiunse dopo una breve pausa. — Quelli che tu hai descritti sono i giovani degni di essere amati.
Egli sentì corrersi un fremito per le vene; poi disse sospirando: — Amati da una donna! A che pro?... Allora non istudierebbero più.
— Oh zio Aldo — sclamò la Gilda — come sei cattivo con noi donne!
XIII.
Nel maggio di quel medesimo anno, il professore e la Gilda ricevettero una visita non meno cara che inaspettata, quella del capitano Rodomiti. Il capitano non si era mai dimenticato dei suoi amici, scriveva loro ogni tre o quattro mesi, mandava regali alla sua figlioccia, e le prometteva sempre che sarebbe venuto a salutarla. Ma, sinchè il suo bastimento si trovava nei mari dell'India e del Giappone, egli aveva un bel promettere, e la Gilda diceva ridendo: Lo zio Tonino discorre delle sue visite come s'egli fosse a Firenze o a Milano invece d'essere a Hongkong o a Singapore. — Adesso però egli si era diviso non senza rammarico dalla sua vecchia Lisa, e assumeva il comando di un legno di gran portata uscito appena dai cantieri di Sestri Ponente per conto d'uno dei principali armatori della riviera Ligure. Prima d'imbarcarsi e di star lontano dall'Italia chi sa quanti anni ancora, aveva chiesto una licenza di due settimane, e ne approfittava per venir a vedere coi propri occhi i cambiamenti successi in quasi dodici anni nella vispa bambina ch'egli aveva condotta da Montevideo a Genova. Come lo accogliessero non c'è bisogno di dirlo. Il lungo tempo trascorso dal primo ed unico incontro fra il professore e lui non aveva lasciato segno visibile sulla sua fisonomia e sulla sua persona. Una vita attiva sin dall'infanzia, esercitata alle fatiche, alle privazioni e ai pericoli, abbrevia forse il periodo della giovinezza, ma prolunga quello della virilità. L'uomo comincia più presto, ma finisce più tardi. Il Rodomiti toccava i sessanta, ma a vederlo lo avreste detto appena cinquantenne. Giusto di membra nelle sue proporzioni colossali, egli si conservava sempre ritto e imponente; l'occhio limpido e vivace esprimeva il connubio della forza e della bontà; non era facile trovare un pelo bianco nella sua barba e nei suoi capelli che incorniciavano l'ovale regolare della sua faccia abbronzita. In collera era terribile, terribile come l'Oceano di cui aveva affrontato così spesso le tempeste; ma le tempeste della sua anima erano molto meno frequenti di quelle del mare, e i suoi scoppi d'ira non erano mai cagionati da futili motivi. Solo i deboli, quando non sono pusillanimi, sono irascibili. Il capitano Antonio era d'ordinario pronto al sorriso e all'arguzia; la sua voce tonante sapeva piegarsi alle inflessioni più dolci, più carezzevoli, specialmente quand'egli si trovava in mezzo ai bambini. Oh i bambini egli li amava tanto! Non v'era porto toccato dalla sua nave ov'egli non ne conoscesse qualcheduno, e la sua cabina era piena di gingilli ch'egli portava da una parte all'altra del mondo per regalarne i suoi piccoli amici. E che feste essi gli facevano! Come gli si arrampicavano sulle spalle, come gli tiravano la barba! Era padrino di quasi tutti i figli de' suoi marinai, e la soddisfazione ch'egli vedeva dipingersi in tante famiglie al suo comparire lo dispensava dall'avere una famiglia propria. D'indole espansiva e gioviale, egli narrava volentieri i suoi viaggi, che gli avevano fatto conoscere uomini e paesi diversi, e veniva sempre alla sua conclusione favorita: — Ciò che v'è di meglio dappertutto sono i fanciulli.
— Meglio delle donne? — chiedeva qualcheduno maliziosamente.
— Eh! mille volte meglio.
Il capitolo delle sue avventure galanti sarebbe stato lungo e curioso; ma egli non voleva parlarne mai, e, se altri tentava di tirarlo in lingua, egli rispondeva con monosillabi e guardava i globi di fumo svolgentisi dalla sua pipa.
Con immenso terrore della signora Dorotea, il professor Romualdo avrebbe voluto dare ospitalità al capitano; ma questi preferì aver la sua libertà e scendere all'albergo. Egli veniva però ogni mattina a prender la Gilda, che si appendeva al suo braccio, e sebbene dovesse alzar molto gli occhi per fissarlo in viso e stentasse alquanto a mettere i suoi passi al pari con quelli di lui, era superba di un così maestoso cavaliere. Si sentiva più di una esclamazione intorno a loro, si vedeva più d'un curioso far sosta un momento e voltarsi indietro, colpito dalle dimensioni colossali del capitano.
— Ho questa statura da quarant'anni e non ci si sono ancora avvezzati — osservava sorridendo il Rodomiti, mentre si avvicinava con cautela alla vetrina di qualche negozio e abbassava il capo per non urtar nei lampioni.
Il capitano e la Gilda avevano una infinità di cose da dirsi. Egli rinverdiva nella mente di lei le immagini illanguidite dei primi anni, le discorreva di sua madre; ella, dal canto suo, gli parlava dello zio Aldo, della sua bontà, del suo amore allo studio, della sua timidezza.
— Un brav'uomo, un brav'uomo — soggiungeva con un accento convinto il capitano. — È un uomo di cuore... Non mi dimenticherò mai del nostro primo incontro. Egli pareva sbigottito della mia statura; io, a vederlo così piccino, così impacciato, non n'ebbi la migliore impressione... È più basso di te, non è vero?
— Oh, di qualche centimetro...
— A ogni modo, adesso è migliorato anche nell'aspetto... Adesso senza dubbio si rade, si pettina... è quasi bello al paragone... Ma allora era un vero istrice... Indossava poi un certo vestito da viaggio... Oh che tipo! Però non mi ci volle molto a riconoscere un fior di galantuomo... Non esitò un istante, accettò lealmente, francamente, il legato lasciatogli da sua sorella... Non tutti avrebbero fatto altrettanto.
— Lo credo io! — esclamava la Gilda. E raccontava le mille attenzioni che il suo tutore le prodigava, la cura ch'egli si prendeva della sua educazione, i sacrifizi d'ogni specie ch'egli faceva per lei. — Già — ella diceva — ne fa uno grandissimo a tenermi seco... Non può soffrire le donne... Alle fanciulle fa grazia, ma con le donne è inesorabile... Quando mi son cambiata di pettinatura (in collegio tenevamo i capelli raccolti in due lunghe trecce che ci cadevano giù per le spalle) egli durò fatica ad avvezzarvisi. A ogni passo che faccio per uniformare la mia toilette a quella delle mie coetanee, vedo lo zio annuvolarsi in viso... E non è già per la spesa... no certo, gli è che lo zio mi avrebbe voluto sempre bambina.
E la Gilda guardava istintivamente le sue sottane ancora un po' corte.
Una mattina il Rodomiti chiese ed ottenne licenza di condur seco per qualche giorno la ragazza a Milano. Questo viaggetto finì con un gran colpo di scena. Poichè, nella sera in cui il capitano e la Gilda furono di ritorno, la signora Dorotea mise un grido, e per poco non lasciò cadere di mano il lume con cui ella era venuta ad aprire.
— Chi è? chi è?
— Zitta, sono io... Non mi conosce? — disse la Gilda, avviandosi frettolosa verso la camera dello zio. Il capitano Rodomiti la seguiva più lentamente, e con la sua presenza metteva in soggezione la vedova e la forzava a starsene muta.
Il professor Romualdo era seduto davanti alla scrivania con le mani sprofondate nei capelli, cogli occhi fissi sull'ultimo numero del Journal des mathématiques, con le spalle rivolte all'uscio. Una candela con cappello di cartoncino verde raccoglieva la poca luce sullo scrittoio e lasciava in ombra il resto della stanza.
La Gilda entrò in punta di piedi, s'avvicinò adagio adagio alla sedia, e appoggiandosi alla spalliera, disse: — Zio Aldo.
Egli diede un sobbalzo. — Sei tu Gilda? — Poi guardò dietro a sè, e il suo volto, che s'era composto a un sorriso, si atteggiò a un immenso stupore. — Chi è?...
In fondo, presso all'uscio, s'intese lo scoppio d'una risata.
— Non conoscete più vostra nipote? — chiese il capitano.
— Ma...
Il professore, riavendosi a poco a poco dalla sorpresa, si alzò da sedere, sollevò la candela fino all'altezza del viso della Gilda, e ripetè più volte — È possibile?
— Possibilissimo — rispose il capitano Antonio. — Il rubino è quello di prima; è cambiata soltanto la legatura... La Gilda esitava, ella mi ripeteva che lo zio ha dichiarato guerra a morte alle donne, e che ella non poteva sperare di vedersi trattata da lui con la solita intimità se non conservando le apparenze della fanciulla... Baie, io le risposi; faremo accettare al signor zio il fatto compiuto... O vuoi restare perpetuamente cogli abiti corti? Persuasa a mezzo, me la son condotta a Milano, e la ho fatta vestire a modo mio... Fu proprio a modo mio?
— No, per dire la verità... Tu sceglievi certe stoffe, certi colori...
— Non avrò buon gusto; già, quello lì, a bordo non si acquista... Io volevo un po' più di lusso... Ma questa signorina fu così modesta, così discreta... diverrà una valente massaja... Insomma, la guardi, signor orso, e vada superbo d'una così bella nipote (tùrati le orecchie, Gilda), e confessi che le donne non sono poi la più brutta parte della creazione... Santo Dio! Che bujo c'è qui dentro! — continuò il capitano, fregandosi un fiammifero sui calzoni e accendendo con quello una candela che era sul canterale. — Oh! così! Sono soddisfatto davvero... Brava madama... Come si chiama la fata?
— Madama Chaillon!
— Brava Madama Chaillon!
Il capitano sedette sul canapè, si stropicciò le mani, e stirò sul pavimento le sue lunghissime gambe.
L'ammirazione del capitano Rodomiti non era affatto irragionevole, perchè la Gilda non era mai stata così bella come quella sera. Il suo vestito non le faceva una grinza; ed ella lo portava con la disinvoltura d'una gran dama.
— Via, via, caro Grolli — continuò il capitano, ch'era in vena di chiacchierare — perdonate alla vostra pupilla il delitto di aver passati i sedici anni e di avere un paio d'occhi che faranno girare il capo a molti.
— Capitano! — interruppe il dottor Romualdo.
— So che queste cose non si dovrebbero dire in presenza della ragazza, ma la Gilda ha giudizio e non c'è pericolo che gli elogi la guastino... E poi, lasciatemi discorrere ancora stasera, chè domani parto, e me ne vado alla Plata... Dunque, non le tenete il broncio?
— Ma che broncio? Io non vi capisco — proruppe il dottor Romualdo, alquanto confuso. — È un pezzo che mia nipote non è più una bambina, eppure io non le ho scemato l'antico affetto.
— Oh, no — proruppe la Gilda.
— Non basta, non basta — riprese il capitano, spingendo fuori della bocca una grande nuvola di fumo — bisogna che la Gilda possa avere per voi tutta la confidenza ch'ella avrebbe pei suoi genitori... Si avvicina il momento dei segreti scabrosi; guai se una ragazza non sa a chi rivelarli! Me ne intendo, io, di queste cose; quando le mie cento figliocce sparse nelle cinque parti del mondo mi veggono arrivare, esse sanno ch'io leggo sul loro fronte le novità che sono accadute nel loro cuoricino... E vi assicuro, professore mio, che queste novità si rassomiglian tutte, tanto alla Nuova Zelanda quanto in Italia, tanto nella Polinesia quanto al Messico, tanto al Capo di Buona Speranza quanto al Giappone... È così, e la vita convien prenderla com'è...
Il capitano, alzatosi in piedi, camminava lentamente per la stanza, e la sua ombra gigantesca si disegnava sulla parete; il professore, inquieto, guardava ora lui, ora la Gilda, ch'era immobile con un gomito appoggiato alla spalliera d'una seggiola, cogli occhi chini al suolo.
— Qui non c'è scritto ancora nulla — soggiunse il Rodomiti, avvicinandosi alla giovinetta, ponendole una mano sotto il mento e sforzandola a guardare in su — qui non c'è scritto ancora nulla — e a queste parole il dottor Romualdo si sentì liberato come da un incubo. — Ma — continuò il loquace capitano — un dì o l'altro qualche cosa ci sarà scritto sicuramente, e allora, siccome io mi troverò sull'Oceano, e il professore queste formule non sa decifrarle da sè, sarà necessario che madamigella si faccia coraggio, e dica nell'orecchio allo zio ciò che la turba... E il signor zio deve promettermi che non si scandalizzerà punto, ma farà bene anche allora la sua parte di babbo. Siamo intesi, Gilda?
— Sì — ella rispose, arrossendo.
— E voi, Grolli?
— Ma sì, è naturale... Che uomo siete!... Che discorsi avete tirato in campo stasera! — disse il professore che smaniava sulla seggiola.
— Oh in quanto a me non ho mai capito che sugo ci sia a non voler guardar le questioni in faccia e a trattar le ragazze come se vivessero in un altro mondo... Adesso però puoi lasciarci, Gilda. Avrei da dire una parola a tu per tu al professore.
— A me?
— Sì, a voi... Oh una cosa da nulla... A rivederci domattina, Gilda; verrai ad accompagnarmi alla stazione?
— Sicuro, e anche lo zio ci verrà.
La giovinetta prese una candela e si ritirò nella sua camera, ov'ebbe una gran tentazione di dare un bacio alla propria immagine nello specchio. Ella sapeva da un pezzo che non era brutta, ma quella sera soltanto ella acquistava la persuasione di esser veramente bella.
— Dunque? — disse il professore, quando fu solo col capitano Antonio.
— Non vi sgomentate... Pare impossibile... Siete un brav'uomo, ma troppo apprensivo... Permettete.
Il Rodomiti si mise a sedere sul canapè, che scricchiolò sotto l'immane peso; accavallò una gamba sull'altra e, gonfiando e sgonfiando successivamente le guance, mandò tre gran boccate di fumo.
— Dunque quello che volevo dirvi è questo. Non è lontano il tempo in cui vostra nipote prenderà marito...
— E di nuovo quest'argomento! Non avete dichiarato or ora che non c'è nulla?
— Sicuro; a tutt'oggi non c'è nulla... Ma bisogna intenderci... Non c'è nulla di personale... La Gilda si trova nello stadio dell'amore anonimo.
— Non v'intendo.
— È tanto facile — replicò il capitano. — Benedetti dotti!... Ogni ragazza, professore mio, prima d'innamorarsi di qualcheduno, attraversa un periodo nel quale prova vagamente, indeterminatamente l'amore... I poeti ve la spiegherebbero in lungo e in largo; io sono tagliato alla buona e parlo come so... Del resto, se non foste un originale, mi avreste indovinato per aria, giacchè quella condizione dell'animo non è una particolarità delle sole donne... Insomma, per venire a bomba, quando una ragazza è entrata nella fase dell'amore anonimo, ella non tarda molto a dar forma alle sue fantasie, non tarda molto a passar nella fase dell'amore personale... Mi sono spiegato chiaro, spero...
— Sì, sì... Insomma troverà qualcheduno che le piacerà, e vorrà sposarselo... Tutti i gusti son gusti.
— Credete pure che quello lì è un gusto che durerà per un pezzo... Ma la morale del mio discorso è questa: nulla è più difficile che maritare una ragazza senza un soldo di dote.
— È quello che dice anche il professor Lorati.
— Ora, scusate la mia franchezza... Voi non siete ricco...
— No, certo.
— Dei quattrini che la Gilda ha portati con sè da Montevideo non ne resterà ormai quasi più...
— Come?
— Sfido io! Dopo tanti anni, per poco che la ragazza vi sia costata...
Il dottor Romualdo alzò la ribalta della scrivania, e ne tolse un libretto, dicendo: — Mia nipote non poteva star presso di me come in un convitto — Indi soggiunse: — Venite qui; avvicinatevi al lume. Ecco il conto della mia pupilla, regolato di semestre in semestre alla Banca. L'ultimo saldo è del 31 dicembre.
— Ventottomilanovecentosessantasette lire! — esclamò il capitano osservando la pagina che gli era indicata. — È possibile?
— Oh! È merito in gran parte degli interessi.
— Tutti gli interessi accumulati! Vi par poco? — continuò il Rodomiti, mentre sfogliava il libretto. — Nessuna prelevazione dal 1861 in qua?
— Non m'è occorso di farne — disse semplicemente il professore.
— Invece una serie di versamenti — riprese l'altro con enfasi.
— Quello che ho potuto. Ho pochi bisogni, non ho una famiglia mia, non mi ammoglierò mai; che dovevo farne de' miei risparmi?
— Ah caro Grolli — proruppe il capitano — è destino che ogni volta che vi vedo io debba rimanere sbalordito.
— Avete torto. Ciò ch'io feci lo avreste fatto anche voi. E adesso, terminate pure il vostro discorso.
— Ma adesso voi non accetterete forse la mia offerta...
— Quale offerta?
— Non ho famiglia neppur io, resterò celibe... come voi; mia sorella non ha figli ed è ben provveduta; in tanti anni di lavoro ho messo qualche cosa da parte... Alle corte, volevo far una piccola dote alla Gilda.
— Grazie, grazie, capitano... Lo vedete, voi siete migliore di me, voi pensate a quelli che non vi appartengono... Io, in fin dei conti, non faccio che il mio ufficio di zio... Del resto, la Gilda vi è già debitrice di molto; la dote che volevate regalarle serbatela a qualcheduna delle vostre figliocce che sia in maggiori strettezze... Intanto il capitale di mia nipote crescerà da sè con gli interessi... e un altro poco lo farò crescere anch'io... Pel momento del matrimonio insomma, che non sarà forse così vicino... la Gilda ha sedici anni e qualche mese... pel momento del matrimonio saranno raggiunte, io spero, le trentaquattro o trentacinque mila lire... Non sarà molto, ma, via, non sarà nemmeno pochissimo.
— Siete un brav'uomo, caro Grolli, e siete un cuor d'oro... Mi fareste quasi riconciliare coi dotti... Vi avverto, ad ogni modo, che voglio pensar io al corredo... Ho un amico a Milano, al quale darò l'incarico e che farà certo le cose per bene... Se poi potessi esser da queste parti all'epoca delle nozze, s'intende che farei da padrino... Dev'essere un bel giorno!
— Lo credete? — chiese il professore, ch'era sempre seduto davanti alla scrivania, e che segnava macchinalmente col lapis delle figure geometriche sopra un pezzo di carta.
— Sì, sì; perchè dovrebb'essere altrimenti? La donna è fatta per avere una famiglia.
Vi furono alcuni secondi di silenzio. Alla fine il dottor Grolli alzò il viso dalla carta, si levò gli occhiali, si passò la mano sulla fronte, e disse: — Capitano, se foste qui in quel bel giorno, consentireste a prendermi a bordo del vostro legno per qualche mese?
— Voi?... In mezzo alle balle di cotone e ai sacchi d'indaco?
— Sì — soggiunse il professore con quanto maggior disinvoltura gli fu possibile. — Allora le mie cure di tutore saranno finite, avrò la mia piena libertà, e ne approfitterò per vedere un po' di mondo. Che c'è di strano?
— Nulla... Anzi... figuratevi se vi prenderei a bordo volentieri... Ma chi sa dov'io sarò in quel tempo?
— Se sarete lontano, pazienza.
— Curiosa idea la vostra... E non vi fa male il mare?
— Non lo so, non ho mai provato... Speriamo di no.
— Siamo intesi dunque... Oh dev'esser tardi... Me ne vado... A domattina.
— Verrò a prendervi all'albergo con la Gilda, e andremo insieme alla stazione.
— Sì, addio, Grolli... Lasciate che vi stringa la mano... Sono superbo della vostra amicizia. Non vi dico altro.
E i due uomini così diversi d'aspetto e d'indole, ma così conformi nella rettitudine dell'animo, si separarono vivamente commossi.
XIV.
L'estate fu più soffocante del solito, e il professore Romualdo si recò con la Gilda a passar parte delle vacanze in un albergo fra le Alpi, lasciando che i Lorati andassero in un sito di bagni, ove ci era più gente, più chique, e ove la signora Olimpia sperava di maritare almeno una delle figliuole. Il professore, senza essere alpinista, era un camminatore infaticabile; la Gilda, snella, leggera, intrepida, sarebbe stata in grado, a detta delle guide, di affrontare anche il ghiacciaio; però ella non osava di chieder tanto allo zio, e si contentava di percorrere insieme con lui la parte meno scabrosa di quei monti. Uscivano talvolta soli, talvolta accompagnati da un ragazzo che portava gli scialli e le provvigioni, giravano a caso per quattro o cinque ore, e si rifocillavano sdraiati sull'erba; mentre a pochi passi scrosciava il torrente e gli abeti mormoravano sul loro capo, e si udiva il muggito dei buoi e il tintinnìo delle capre sparse pei pascoli. La Gilda era ammirata delle Alpi. Durante le sue gite ella parlava poco, ma la commozione dell'animo le era scritta sul viso; di tratto in tratto le sfuggiva un grido dal labbro, ed ella rimaneva estatica dinanzi all'orrido pittoresco d'una gola profonda, o alle fosforescenze di un ghiacciaio, o all'ampiezza d'una valle illuminata dal sole. Talora, staccandosi d'improvviso dal fianco del suo compagno, ella saliva su qualche punto elevato da cui lo sguardo spaziava in più largo orizzonte. Il vento respingeva le falde della sua veste succinta e le ciocche de' suoi capelli ricciuti, e la sua bella persona immobile, con le braccia conserte, si disegnava come una figura fantastica sullo sfondo azzurro del cielo. Intanto il professore andava erborando per via e raccoglieva diligentemente entro una scatola le varie specie di licheni, di genziane, di felci, di dafni e d'altre piante della flora alpina, oppure frangeva qua e là con un piccolo martello la roccia, e riempiva di pietruzze una borsa ch'egli portava a tracolla. Poi la sera, in albergo, parlava di botanica e di geologia alla nipote, la quale, a forza di fargli da assistente nel suo laboratorio, aveva finito col prendere una leggera tintura scientifica, e lo ascoltava con attenzione benevola.
L'albergo ove alloggiavano i nostri amici era uno dei soliti che si trovano fra le Alpi, tozzo, massiccio, rettangolare, col tetto acuminato, sporgente per un metro e mezzo oltre la linea dei muri, con una ringhiera di legno che girava intorno al primo piano. Sul frontone della porta d'ingresso era appesa un'insegna con dipintovi a colori vivaci un quadrupede che dalla spiegazione scrittavi sotto a caratteri cubitali doveva essere un camoscio. Nell'interno le pareti foderate di legno, l'andito ingombro di scialli, di alpenstocks e di funi. In cucina un ampio focolare, protetto, covato quasi, da un'enorme cappa intorno a cui luccicavano i rami. Poco distante dal focolare una stufa monumentale, che aveva l'aspetto di un mausoleo. Nel salotto da pranzo una tavola oblunga, modestamente ma pulitamente apparecchiata, con sedie di paglia tutto all'ingiro. Anche qui la sua stufa; poi una credenza, e di fronte a questa una mensola con due o tre scaffali di libri, e specialmente di Guide delle Alpi e di romanzi inglesi dell'edizione di Tauchnitz. Appesi alle pareti un barometro, un termometro, una carta geografica della regione, alcune litografie senza valore e alcuni avvisi d'alberghi italiani, svizzeri, francesi; sopra un canterale un calamaio e l' album dei viaggiatori fitto di nomi, di osservazioni e anche di versi in più lingue.
Lo scorrere le pagine di quel libro era per la Gilda un gradevole passatempo, ed ella sorrideva una mattina leggendo le note di una signora di Londra, la quale nello stesso periodo manifestava il suo entusiasmo pel pesce del lago e il suo dolore per non avere trovato in quei siti un ministro anglicano, quando una riga più sotto ella vide un nome che le strappò un'esclamazione di stupore.
— Che c'è? — domandò il professore Romualdo, che tagliava le carte all'ultimo fascicolo d'una rivista scientifica, venuta a cercarlo lassù.
— Leggi qui — ella disse, porgendogli il libro. Egli lesse — Mario Albani, pittore.
— Mario, sai — proseguì la Gilda — il figlio del signor Gedeone, il mio antico compagno di giuochi; non può essere che lui. Quanti anni sono che non lo vedo!... Scommetto che non lo riconoscerei più...
— Probabilmente sarà già partito — interpose il professore, a cui questo nuovo personaggio destava una vaga inquietudine.
— No, no... guarda... dev'esser giunto oggi prima che noi scendessimo. C'è la data: 5 agosto.
— Ebbene, se ci sarà lo vedremo... Non è poi conveniente di affannarsi tanto per una persona che non ci riconoscerebbe nemmeno... Del resto, un ragazzo balzano che ha piantato la famiglia per fare il suo capriccio.
— Volevano che vendesse pepe e cannella, ed egli era artista nell'anima... Si capisce...
— Oh!... Artista!... Il solito passaporto dei cervelli malati... Basta — conchiuse il professore, che si accorgeva di essersi riscaldato troppo — ciò non ci riguarda.
Proprio in quel punto, un passo d'uomo si fece sentire nell'andito, e una voce maschia e melodiosa diede alcuni ordini in cucina. Indi entrò nel salotto un bel giovane alto, spigliato, con l'aquila del Club Alpino sul cappello. Aveva le chiome un po' lunghe, la barba nascente, la carnagione abbronzita. I suoi occhi espressivi s'incontrarono subito con quelli della Gilda ch'erano fissi sopra di lui. Anche il professore lo guardava con singolare attenzione.
Egli stette un momento sospeso, le sue guance si dipinsero di un vivo rossore, poi balbettò: — Ma?... Non m'inganno?... Il signor professor Grolli?... E la Gil... la signora Gilda?
— Oh signor Mario! — esclamò la giovinetta, con un sorriso che le illuminava tutta la fisonomia. — Mi ha ravvisata?
— No, veramente. Ho ravvisato il signor professore. E lei mi aveva riconosciuto?
— Nemmeno; ma sapevo ch'era qui... dal libro dei viaggiatori.
Il professor Romualdo, il quale, essendo il solo che non avesse punto cambiato aspetto da una diecina d'anni, aveva servito d'anello a questo riconoscimento, dovette far di necessità virtù, e stringere, quanto più cordialmente gli fu possibile, la mano del pittore.
I due giovani intanto non finivano di evocare i ricordi del passato.
— Si rammenta, signora Gilda, delle nostre scalate ai sacchi di caffè?
— Sì; e le sue cavalcate sui barili d'aringhe?
— E lo studio comparativo dei vari campioni?
— E quel famoso G A ch'ella dipinse sulla schiena della signora Dorotea?
— È viva la signora Dorotea?
— Oh sì... Un po' brontolona...
— Era tale anche allora... E quei suoi due gatti Mao e Meo?
— Quelli son morti.
— Ma! Chi direbbe che son corsi tanti anni da quel tempo?
— Se si potesse tornare indietro!
— No, signora Gilda, non lo pensi nemmeno.
— Oh, perchè?
— È troppo bella così.
Questo complimento a bruciapelo fece salire le fiamme al viso della giovinetta, che abbassò gli occhi e cercò di mutar discorso.
— Si trattiene qui un pezzo?
L'Albani rispose che aveva in animo di intraprendere l'ascensione d'una tra le cime meno conosciute della catena, ma che gli era forza aspettare il ritorno d'una guida impegnata per un paio di giorni con altri forastieri. Intanto si poteva fare insieme qualche gita agevole anche ai non alpinisti.
La Gilda applaudì di gran cuore alla proposta, il dottore Romualdo l'accolse invece con assai mediocre entusiasmo, ma la nipote non durò gran fatica a ribattere le sue obbiezioni. E invero, a che scopo eran venuti lì se non a quello di girare fra i monti? E che altro avevano fatto sino allora? Mario chiamò l'albergatore, e un po' consultandosi con lui, un po' esaminando la carta geografica, stabilì la via da percorrere il domani; poi, simile a un generale che determina in anticipazione il suo campo di battaglia, segnò col lapis rosso il luogo ove si sarebbe fatto sosta per desinare; infine ordinò egli stesso in cucina di approntare un buon pezzo d'arrosto da mettere nel carniere. L'oste lo ascoltava con la deferenza dovuta a un alpinista che era salito due volte sul Cervino.
Per quel giorno l'Albani non lasciò quasi mai il professore e la Gilda. Era cordiale, espansivo come chi fece un incontro inatteso e gradito, e parlava volentieri dei suoi disegni per l'avvenire, delle sue speranze, delle sue ambizioni. Si sentiva giovine, si sentiva forte, aveva l'anima piena di poesia, d'ideale, vedeva turbinarsi davanti agli occhi mille immagini che un dì o l'altro egli confidava di riprodur sulla tela. No, egli non aveva sortito l'indole dell'uomo d'affari, il suo ingegno non si era mai saputo acconciare alle discipline delle cifre; che avrebbe fatto nello scrittoio di suo padre? Da fanciullo in su aveva avuto un culto, un amore ardente, irresistibile; il culto, l'amore del bello. La bellezza gli faceva piegar le ginocchia, come cosa di cielo; e l'aveva cercata e la cercava per tutto, negli splendori dell'alba e del tramonto, nella nota d'una musica appassionata, nel fascino della poesia, nelle forme armoniose e nel sorriso della donna. La religione del bello era tutto per lui; beati i tempi in cui essa era l'ispiratrice dei popoli! Insomma egli era, egli voleva essere artista: lo lasciassero seguir la sua via; forse egli avrebbe presto o tardi toccato una meta non ingloriosa. Di quadri finora non ne aveva fatto che uno, venduto a Zurigo e accolto con benevolenza dai critici più severi. Ma si portava dietro un'infinità di studi, di schizzi, gettati giù alla buona sul primo pezzo di carta che gli cadeva sotto le mani. Erano tipi che egli aveva accarezzati nella fantasia, o che aveva incontrati realmente nel suo cammino; ricordi della vita, o ricordi del pensiero, ch'egli raccomandava alla carta, con un segno, con una data ch'era per lui un filo d'Arianna onde raccapezzarsi in quel labirinto. Nei libri che leggeva, e ne leggeva molti (poesie e romanzi per lo più), cercava soggetti di quadri; traduceva in linee i personaggi e le scene che l'autore aveva descritto a parole. In questi suoi disegni appena abbozzati era il germe delle sue opere venture; era il materiale greggio da cui egli sperava di sprigionare il metallo prezioso.
Tutte queste cose Mario Albani diceva al professore e alla Gilda, sciorinando davanti a loro quelli ch'egli chiamava i suoi scarabocchi e spiegando donde ne avesse tratto l'ispirazione. La sua parola era colorita, nervosa, e rivelava un giovane d'ingegno, un po' entusiastico forse, un po' troppo fiducioso di sè, ma nel quale c'era a ogni modo la stoffa d'un uomo non volgare.
Bisognava mettersi in moto la mattina all'alba, e quindi quella sera i nostri touristes si separarono presto, dopo aver preso un eccellente punch preparato da Mario, il quale, da buon alpinista, portava nel suo piccolo bagaglio una mezza dozzina di limoni e una bottiglia di cognac.
Quando il pittore fu nella stanza, egli si accorse ch'era muro a muro con la Gilda. Egli picchiò sulla parete e disse: — Signora Gilda, la sveglierò io domattina. — E diede altri due colpetti: — Mi sente? — Sì, sì.
La Gilda poteva soggiungere ch'ella non aveva punto sonno, e che probabilmente non avrebbe dormito in tutta la notte. E invero ella si ravvoltolava nelle coltri senza chiuder occhio, pensando a quel bizzarro incontro col suo antico compagno d'infanzia, là tra le solitudini alpine, a mille duecento metri sul livello del mare. Com'era mutato Mario! Ed era mutata anche lei, ed egli glielo aveva fatto intendere con tanta galanteria, quand'ella aveva espresso il desiderio di tornar bambina. — È troppo bella così — Queste parole le ronzavano gradevolmente all'orecchio. Ella sorrideva a fior di labbro; poi, per una rapida associazione d'idee, paragonava fra loro i tre uomini che le pareva di conoscer meglio nel mondo, lo zio Aldo, il capitano e Mario. Era possibile immaginarsi tre nature più diverse? Per l'uno la vita si chiudeva tutta nell'austerità degli studi, per l'altro essa significava il movimento, la lotta, il pericolo; pel terzo essa non aveva che uno scopo: la ricerca appassionata del bello. Chi dei tre aveva ragione? La Gilda non sapeva dirlo, ma l'istinto femminile l'avvertiva ch'ella esercitava un impero su quelle tre anime.
Nella camera attigua, ch'era quella del professore, si vedeva lume attraverso il buco della serratura.
— Sei desto ancora, zio Aldo? — chiese la Gilda.
Il chiamato balzò in sussulto. — Sì... Come lo sai?... Ho fatto romore?
— No, vedo chiaro.
— Leggevo... Ma tu perchè non dormi? Non ti senti bene forse?
C'era tanta tenerezza, c'era tanta ansietà nella voce del dottor Romualdo, che la giovinetta ne fu commossa. — Che idee! — ella rispose — sto benissimo... Oh! perchè spegni la candela?
— Perchè tu possa dormire.
— Povero zio Aldo! — pensò la Gilda — Come mi vuol bene!
Il professore aveva detto una piccola bugia. Egli non leggeva. Egli riandava nella mente le cose della giornata, e cercava d'indovinar l'avvenire. Che influenza avrebbe avuto sull'avvenire l'improvviso incontro della Gilda e di Mario? Nessun giovine aveva mai parlato alla Gilda con la confidenza di questo giovine; verso nessuno ella si era mostrata tanto espansiva. Che fosse giunto anche per lei il momento in cui l' amore anonimo prende forma e contorni? Che questo pittore entusiasta fosse l'uomo prescelto? Saprebbe egli amarla? Saprebbe renderla felice?
Mentre il professore Grolli si agitava in questi pensieri, le tempie gli martellavano e il cuore gli batteva con palpiti affrettati.
XV.
La Gilda era in piedi all'alba. Quando Mario picchiò sulla parete per isvegliarla, ella gli disse, canzonandolo: — Scommetterei che è ancora in letto.
— Già, mi alzo adesso.
— Bravissimo. E io sono bella e vestita.
— Bella sì, ma vestita no.
— O scusi, come può dirlo?
— Alle donne manca sempre qualche cosa.
Il pittore aveva ragione. Ella aveva ancora da dar l'ultima mano alla sua toilette.
— A ogni modo — ella rispose — vedremo chi farà più presto ad uscir di camera.
— Vedremo... Chiami il professore intanto.
— Oh! Quanto a lui, è pronto, e ci aspetta. Esce appunto adesso dalla sua stanza.
Di lì a un paio di minuti, due usci si apersero allo stesso momento sull'andito, e i due giovani si diedero il buon giorno con una risata.
— Sono stata prima io... di un secondo — disse la Gilda.
— Perdoni... Io ero già fuori con la testa, mentre lei... E poi, badi, ha violato i patti.
— Come?
— Sì... Ella non finito la sua toilette.
— Oh! Che dice mai? — esclamò la fanciulla, tastandosi da tutte le parti.
— Le manca d'agganciare un bottone.
— Dove?
— Là — egli rispose, segnando un punto del vestito.
— Questi sono cavilli. Insomma ho vinto io... Non è così, zio Aldo? — ella esclamò, correndo verso il professore che camminava nell'andito col capo chino e con le mani intrecciate dietro la schiena. E soggiunse scherzosamente: — Bisogna far lega, noi due, contro questo signorino.
— Davvero? — replicò il professor Romualdo, sforzandosi a sorridere.
— Badino, badino — riprese l'Albani, e mentre parlava fece un mezzo giro sui talloni. — Non vedono quello che ho dietro alle spalle.
— Sì... Ha lo zaino... Oh bella, vorrebbe farci paura con lo zaino? Se dicesse l' alpenstock, meno male... Quello lì potrebbe passare per una lancia...
— Oibò, oibò. La mia forza risiede oggi nello zaino. Sa che cosa c'è qui dentro?... Ci sono le provvigioni, c'è l'arrosto, il salame, il pane, il vino... Sta in me di affamare il nemico. E il nemico affamato si arrende.
— O muore — soggiunse in tono eroicomico la giovinetta.
— Pazzerella che sei! — disse il professore.
Ed ella:
— Noi prenderemo d'assalto il deposito delle vettovaglie, non è vero, zio Aldo?
— Pazzerella, pazzerella! — replicò questi. E invidiava la facile allegria della gioventù, egli che non s'era sentito giovine mai.
Si discese in salotto, ove l'ostessa aveva approntato il caffè e latte; poi si partì con la scorta di un ragazzo ch'era pratico della strada e che portava gli scialli e i mantelli.
Era una splendida mattina; le cime dei monti illuminate dai primi raggi del sole si disegnavano nitidissime nel cielo azzurro, un'aria frizzante ed elastica, che infondeva lena alle membra, s'insinuava fra i rami degli abeti e accarezzava mollemente l'erba rugiadosa. Si saliva a grado a grado, ora traversando ampie praterie, ora addentrandosi nelle macchie dei pini, ora costeggiando a ritroso qualche torrente incassato nella montagna. La scena, come avviene tra le Alpi, mutava ad ogni istante, a vicenda orrida e amena, angusta e spaziosa. Qua una gola asserragliata fra due rocce a picco e ove l'acqua si precipitava con un fracasso d'inferno, travolgendo nel suo corso i sassi ciclopici, là una distesa di valli inondate di luce, avvolte in una quiete solenne.
La flora ricchissima e la curiosa struttura geologica dei terreni distraevano singolarmente il professore, al quale nessuna delle gite passate aveva offerto sì largo campo di osservazioni. E l'Albani prestava un aiuto insperato al suo dotto compagno, arrischiandosi volentieri col suo piede sicuro nei posti meno accessibili a coglier per esso le felci, le dafni, le sassifraghe, i ciclamini e i licheni. Ma più spesso il pittore stava a fianco della Gilda, il cui volto brillava d'uno schietto entusiasmo. I due giovani si comunicavano le loro impressioni e provavano una dolce maraviglia a vedere quanta conformità vi fosse nei loro gusti. La Gilda s'accorgeva per la prima volta d'avere anch'essa istinti un po' avventurosi (era forse l'inquietudine de' suoi genitori che le scorreva nel sangue), sentiva che le tranquille abitudini casalinghe, in cui tante donne trovano pure una compiuta felicità, avrebbero alla lunga finito col venirle in uggia. Oh poter correre il mondo, poter affinare lo spirito nella lotta, poter conoscer la vita! E il suo pensiero volava alla sua mamma, il cui animo virile in mezzo alle più terribili prove le era stato vantato tante volte dal capitano Rodomiti. Ma qui non poteva a mano di sovvenirle un altro ricordo. La sua mamma era stata ingrata verso i suoi parenti; ne imiterebbe ella l'esempio, sarebbe ingrata anch'ella verso chi aveva fatto tanto per lei?
A millesettecento metri sul livello del mare, sopra un bell'altipiano onde si godeva una veduta magnifica, l'Albani, che era il vero capo della piccola brigata, ordinò di far sosta. Indi, deposto lo zaino, ne sciorinò sul prato il prezioso contenuto. I viaggiatori si adagiarono sull'erba e fecero onore al pasto frugale con l'appetito che si trova sempre sulle Alpi dopo un'ascensione di alcune ore. Dato fondo alle provvigioni, salvo una bottiglia di vino e alcune fette di salame tenute in serbo per le circostanze imprevedute, Mario consultò l'orologio e disse: — Ancora venticinque minuti, e poi ci rimetteremo in cammino. — C'erano da fare altri cento metri di salita piuttosto ardua, prima di giungere al punto che si era prefisso quale ultima meta alla gita della giornata.
La Gilda pretendeva di non essere punto stanca, ma nel fatto ella se ne stava molto volentieri distesa sull'erba, col plaid sotto il capo per guanciale, con l'occhio intento a seguire uno stuolo di nuvolette bianche e leggiere che parevano rincorrersi verso occidente. Il professore, seduto vicino a lei, aveva aperto la sua scatola da erborista e passava in rassegna il ricco bottino della giornata, enumerando le varie specie coi loro nomi latini e tentando di richiamar l'attenzione della sua pupilla sopra una rarissima gentiana nivalis, e sopra un diantus atrorubens ch'era una maraviglia. Intanto Mario, addossato al tronco di un larice sul ciglio dell'altipiano, ora contemplava la scena circostante, ora si voltava a guardare la leggiadra testina arrovesciata della fanciulla, e la gentile persona di lei, che si mostrava in tutta l'armonia squisita delle sue linee.
A un tratto un buffo di vento scosse con estrema violenza i rami e le foglie del larice, investì fieramente il pittore, e trasportò a parecchi metri di distanza il cappello della Gilda e la scatola del professore Romualdo, disperdendone i tesori botanici. Quando Mario ebbe ricuperato il suo equilibrio, la ragazza il suo cappellino, e il dottor Grolli la sua scatola vuota, i nostri tre viaggiatori si guardarono sbalorditi. Sul loro capo il sole brillava in tutta la sua magnificenza, e nulla offuscava l'azzurro di quella parte di cielo che si offriva al loro sguardo; erano sparite perfino le candide nuvolette di cui la Gilda accompagnava pur dianzi con l'occhio la rapida fuga. Ma sul dorso della montagna ululavano le selve delle conifere, e, tendendo l'orecchio, si sentivano giù nella valle latrati di cani e voci che si chiamavano e si rispondevano di lontano, e muggiti d'armenti che si affrettavano alle stalle facendo tintinnare i campanoni appesi al collo. Nello stesso tempo, il ragazzo che serviva di guida e che s'era dilungato alquanto in traccia di bacche selvatiche, tornò indietro gridando: L'uragano! l'uragano! Infatti, salendo sopra un rialto di terra donde si dominava il lato opposto della valle, si vedevano in fondo, nell'interstizio di due monti, grossi nuvoloni addossarsi, accavallarsi gli uni sugli altri, e a poco a poco formare una sola massa bruna, serrata, minacciosa. Indi quella bruna massa, foggiandosi a cuneo come a romper le file di un esercito nemico, usciva dai suoi accampamenti e si avanzava preceduta dal cupo rombo del tuono, resa più terribile dallo spesseggiare dei lampi. La natura pareva oppressa da un incubo, l'erba si piegava impaurita, dagli abeti scroscianti cadevano le pine che il vento palleggiava come trastulli, dalla roccia sgretolata precipitavano i rottami giù per la china; l'aquila sola, roteando nell'aria, salutava col rauco suo strido la bufera imminente.
Si tenne un breve consulto. Procedere innanzi era impossibile; tant'era mettersi addirittura sulla via del ritorno, e, se il temporale scoppiava, cercar ricovero sotto qualche sporgenza del monte.
Mario si ravvolse nel suo plaid e aiutò i compagni a fare altrettanto, indi si cominciò la disastrosa ritirata. Il sole brillava sempre e la sua viva luce contrastava singolarmente coi neri e densi vapori che andavano via via diffondendosi tutto all'intorno. Secondo la violenza e la direzione del vento, le ombre degli alberi si allungavano, si accorciavano, si scontorcevano sul terreno, e intanto il vento incalzava, e il tuono più romoroso, più insistente, faceva tremar le montagne.
— Bisogna fermarsi qui, lontano dagli alberi — disse il professore, additando il cavo d'una rupe.
Intanto le tenebre si stendevano dappertutto, coprendo ogni lembo di cielo, nascondendo ogni vetta, invadendo la valle. Ma la tetra notte era squarciata da incessanti baleni, alla cui luce rossastra gli oggetti prendevano forme strane e paurose. Con un fracasso che superava lo strepito di cento battaglie, il fulmine correva da nube a nube e si precipitava dalle nubi alla terra, segnando di un solco mortale il tronco dei pini più elevati, sprofondandosi nella roccia. Cominciarono a cader di grossi goccioloni; quindi si rovesciò un torrente di pioggia fitta, gelata, impetuosa. La natura era terribile, la sua voce tonante copriva la voce dell'uomo. I nostri touristes si erano avvicinati istintivamente gli uni agli altri; ma non potevano scambiarsi una parola. Bensì, all'assiduo barbaglio dei lampi, la Gilda vedeva gli occhi di Mario e dello zio che la fissavano con pari sollecitudine; que' due uomini non erano inquieti per sè, ma per lei. Ella sorrideva ad entrambi per tranquillarli, e abbandonava la sua mano nella mano vigorosa del pittore. Talora, con un cenno del capo, ella additava il piccolo montanaro ch'era il meno intrepido della comitiva, e che le si era accovacciato ai piedi turandosi le orecchie coi due pollici.
Le cose durarono in tale stato per un quarto d'ora; poi il nembo principiò a rimettere della sua intensità.
— Oh! — disse la Gilda fra un tuono e l'altro. — Valeva la spesa di ricoverarsi sotto una rupe! Ho l'acqua fino alle midolle.
— Con un tempo simile si è più sicuri bagnati che asciutti — osservò gravemente il professore. — Franklin fece una preziosa esperienza. Con l'elettricità artificiale accumulata egli potè uccidere un topo asciutto, ma non riuscì a ucciderne uno ch'era bagnato. Quello che è certo si è che la temperatura dev'essere abbassata di parecchi gradi. Se non vien presto il sole, si gela.
— Un buon alpinista — ripigliò il pittore — deve aver sempre il farmaco indispensabile in queste occasioni.
Detto ciò, egli tolse di sotto alle vesti una fiaschetta impagliata che gli pendeva al fianco, e consigliò il Grolli a bevere un sorso del liquore che vi era contenuto.
— Che roba è? — chiese la Gilda.
— È cognac. Ne beverà anche lei.
— Sì, sì.
— Non più d'una goccia, sai! — ammonì il dottor Romualdo.
Ella si mise a ridere, e mandò giù una gran boccata di liquore. — Bah! Si sente appena — ella disse, restituendo la fiaschetta all'Albani.
Si riprese la faticosa marcia con tutta la celerità ch'era conceduta dalle vesti molli e dalle membra irrigidite. Aveva smesso di piovere, il vento agitava soltanto gli strati superiori dell'atmosfera, le nubi, spinte da opposte correnti, si ghermivano, si confondevano, si lasciavano come se giocassero a mosca cieca, il sole faceva fuggevoli apparizioni negli squarci azzurri del cielo, le cime delle montagne andavano a grado a grado snebbiandosi, e le vette più eccelse si mostravano chiazzate di neve recente, ciò che spiegava il freddo improvviso.
La bufera aveva molto peggiorate le condizioni della strada; qua e là grosse frane ingombravano il sentiero, e si trovavano rami schiantati, e pozze, e rigagnoli serpeggianti in tutte le sinuosità del terreno. Più d'una volta Mario dovette aiutar la Gilda in un passo difficile, più d'una volta egli sentì il dolce peso di quel corpo delicato e flessuoso. Sul limitare d'uno spazzo verde che scendeva con un pendìo alquanto ripido, la ragazza confessò al pittore che il capo le girava un pochino, e che il suo piede non era ben sicuro. Egli le diede il braccio con trasporto, e i due giovani scivolarono insieme giù per la china, a immagine di pattinatori, con la svelta persona arrovesciata all'indietro, con le guance invermigliate dalla sferza della rigida brezza, cogli occhi pieni di fuoco, coi capelli svolazzanti. Passavano rapidi, ora in luce, ora in ombra, secondo che il sole sbucava dalle nuvole o si rimpiattava, e nella corsa precipitosa ridevano forte, e il loro riso melodioso, sonoro, rallegrava quelle solitudini alpine.
Sì, senza dubbio, doveva dipendere dal cognac. La Gilda aveva un bisogno infinito di parlare, di ridere, di appoggiarsi a qualcheduno. E poichè lo zio aveva già da far molto a sostener sè medesimo, era naturale ch'ella si appoggiasse a Mario. Bensì voltandosi di tratto in tratto: — Bada — gridava — bada, zio Aldo, di non sdrucciolare.
A malgrado di tanta sollecitudine, ella non si avvide che il professore incespicò un paio di volte, e nei suoi sforzi per conservar l'equilibrio riportò una storta ad un piede e una contusione a un ginocchio. Pure il nostro scienziato non mosse un lamento, non disse una parola per rallentar la foga della giovine coppia, la cui allegria rumorosa non aveva più freno. Mario e la Gilda eran tornati bambini, e accadeva a loro come ai bambini, che quando si son messi in galloria, finiscono col ridere senza nemmeno saper di che ridono.
Allorchè i viaggiatori giunsero all'albergo, vi trovarono una gran confusione. Non si aveva notizia di due comitive d'inglesi partiti la mattina per una salita sul ghiacciaio, alla quale certo dovevano aver rinunziato in causa dell'uragano. Erano accompagnati da guide eccellenti; pur si stentava a capire perchè non fossero ancora di ritorno. Oltracciò si considerava ornai sciupata la stagione d'estate. La neve caduta aveva già reso impossibili alcune ascensioni, e chi sa se non sarebbe successo peggio nella notte. C'erano sempre due monti che fumavano, secondo la espressione dell'oste, e que' due monti, chiamati i due gemelli, valevano meglio di qualunque barometro, perchè la loro cima avvolta di nubi significava un seguito di piogge e di burrasche. Per poco che si abbassasse ancora la temperatura, non sarebbe più venuto un solo forestiero, e sarebbero andati via tutti quelli che ci erano.
L'ostessa intanto si recava ogni momento sulla strada a spiare il ritorno degli inglesi. Ella si ricordava di una catastrofe avvenuta anni addietro, quando, di cinque touristes che avevano lasciato l'albergo la mattina, due soli erano tornati la sera. E fra le vittime c'era un giovine bello, ricco, pieno di buonumore, un alpinista famoso ch'era stato uno tra i primi a superare il Cervino, e che in mezzo alla sua audacia aveva tutta la grazia e l'ingenuità d'un fanciullo. Giocava volentieri coi bimbi, scherzava onestamente con le ragazze, amava discorrere di sua madre. E sua madre, poveretta, era corsa da Londra per avere almeno il cadavere del figlio. Ahimè! Il ghiacciaio non rende che tardi i suoi morti.
Per buona ventura questa volta non accaddero disgrazie, e gli inglesi aspettati arrivarono sani e salvi, benchè pieni di freddo, di fame, con le vesti fradice e con l'ossa peste, e decisi a levar le tende il dì appresso. La mattina infatti, poichè il cielo era sempre coperto e il barometro continuava a segnar pioggia e vento, fu un salvi chi può generale. A mezzogiorno non restavano all'albergo del Camoscio che il professore Grolli, sua nipote e Mario Albani.
XVI.
Al professore s'era nella notte gonfiato il piede in conseguenza della storta riportata il giorno innanzi, ed egli aveva potuto a fatica trascinarsi dal letto fino ad una poltrona che si trovava accanto alla finestra. Non era nulla, ma bisognava stare almeno una settimana in riposo.
Il riposo del professore significava la prigionia della Gilda, la quale si sarebbe annoiata non poco della sua clausura, se Mario Albani non avesse voluto dare a lei e a suo zio una prova di vera amicizia col partecipare alla loro sorte. Com'era buono il signor Mario, com'era gentile!
La mattina per tempo egli veniva a chiedere le notizie del professore Romualdo, salutava attraverso la parete la Gilda che era ancora mezzo svestita nella sua camera, e poi se ne andava a girar pei monti con un libro, col suo album e la sua scatola di colori. Nell'uscir dall'albergo egli guardava la finestra della giovinetta, e i suoi occhi s'incontravano sovente in quelli di lei, ch'era presso al davanzale ravvolta nel suo accappatoio. Ella lo salutava con la mano e gli gridava: — A rivederci a mezzodì.
E a mezzodì in punto il pittore sedeva alla mensa dei due prigionieri. Sulla tavola, ch'era apparecchiata accanto alla poltrona dello scienziato, egli deponeva tutti i giorni alcuni fiori colti nella sua passeggiata mattutina, poscia, durante il pranzo, discorreva con la sua consueta vivacità d'arte, di letteratura, di viaggi, riuscendo qualche volta a richiamare un sorriso financo sulle labbra dell'austero professore.
Dopo il desinare, egli prendeva i suoi pennelli, piantava il suo cavalletto, e faceva seder la Gilda sopra una seggiola in mezzo alla camera tentando di ritrarne le sembianze sulla tela. Non aveva mai lavorato con maggior passione, con maggior impegno, con più ardente febbre d'artista. Pure i suoi entusiasmi erano interrotti da scoraggiamenti profondi, e in quegli istanti la sua pittura gli sembrava misera, fredda, e avrebbe voluto distruggerla. La Gilda gli leggeva negli occhi quei moti subitanei dell'anima e sorgeva con energia straordinaria a difendere un'opera ch'ella amava d'un amore singolare, quasi materno. Talora il professore era chiamato arbitro nella questione; egli doveva decidere se il ritratto prometteva di somigliare all'originale, o era invece uno sgorbio, una profanazione, come diceva Mario nei suoi accessi di pessimismo. E il professore, che in fatto d'arte se ne intendeva pochino, dava ragione alla nipote, ma con certi argomenti che non sarebbero stati i più acconci a persuadere l'artista, s'egli non fosse tornato da sè a più miti consigli.
Quelle sedute duravano circa tre ore. Per solito, alle quattro, Mario usciva di nuovo per tornar verso le sette. Durante la sua assenza, la Gilda adempiva coscienziosamente all'ufficio di segretario dello zio, scriveva per lui qualche lettera sotto dettatura, o gli ricopiava con la sua nitida calligrafia qualche articolo da mandare all'una o all'altra Rivista scientifica. Negli intervalli, ella trovava sempre la maniera di far cadere il discorso sull'Albani e sulla buona stella che lo aveva messo sul loro cammino. Oppure si fermava davanti al ritratto, che, nonostante le ubbie del pittore, procedeva rapidamente, e, diceva lei, avrebbe finito col dare scacco all'originale. Sì, ella voleva un gran bene a quella mezza figura di giovinetta ch'ella aveva visto emerger dal nulla, e pallida, scialba, disegnarsi appena sulla tela quasi fantasma fuggitivo sulla parete, e d'ora in ora, di minuto in minuto, acquistare il rilievo, il colore, la vita, il sorriso, come se avesse sangue, e muscoli, e nervi.
— Sono una vanerella — ella osservava talvolta. — Innamorarmi della mia immagine, come Narciso!
Ma era ella ben certa di non accusarsi a torto? Ammirando il proprio ritratto, ammirava forse sè stessa?
Tanto per spigrire le membra, ella scendeva ogni giorno a far quattro passi davanti all'albergo, non dilungandosene mai in modo che il professore non potesse dalla finestra vederla e parlarle. Fulmine, il vecchio cane di casa, che in quell'ora dormiva per solito attraverso la soglia, le si metteva a fianco con molta galanteria nelle sue passeggiate microscopiche, e sembrava disposto ad accompagnarla molto più in là, ovunque ella avesse voluto. Ordinariamente la Gilda restava fuori fino al ritorno di Mario. All'arrivo del pittore, i due giovani facevano un paio di giri insieme, poi salivano entrambi dal professor Romualdo.
L'ostessa serviva per le otto una cena frugale, il cui piatto più importante era una trota pescata in un laghetto a poche ore di cammino. Dopo cena si chiacchierava, si leggeva. Mario aveva trovato in salotto, fra gli altri libri, il primo volume delle poesie di Longfellow, e sapendo discretamente l'inglese, traduceva ad alta voce l' Evangelina; indi sbozzava col lapis alcune tra le scene di quel pietoso racconto. Qualche sera l'oste chiedeva licenza di prender parte alla conversazione, e insieme con lui veniva anche Fulmine, scodinzolando e fregandosi carezzevolmente intorno a Mario e alla Gilda. In queste solenni occasioni il signor Emanuele (che era l'oste) si permetteva di far sturare in onore dei suoi ospiti una bottiglia, di cui, pure in loro onore, egli beveva almeno i due terzi. Il vino però non lo rendeva espansivo; anzi condensava la sua eloquenza in certi ma! sonori che egli emetteva dal labbro a intervalli regolari di due o tre minuti. Poi lasciava cader la testa sul petto, chiudeva gli occhi, apriva la bocca e dormicchiava fino alle dieci, ora nella quale il professore voleva andare a letto, e Mario e la Gilda si ritiravano ciascuno nelle proprie stanze.
Questa distribuzione della giornata subiva lievi modificazioni quando il tempo, che non s'era mai rimesso al bello, era tale da non permettere a Mario d'uscire. Allora egli supplicava umilmente che gli si accordasse una più lunga ospitalità, e la Gilda, col piglio d'una castellana del medio evo, gli concedeva di rimanere. Nè certo il professore poteva mettere il suo veto alla onesta domanda.
Il ritratto volgeva al suo termine. All'ottava seduta, nell'ora in cui Mario soleva deporre i pennelli, egli disse alla Gilda: — Non vado via, sa, oggi... Ho una buona giornata e voglio finire... Rimanga al suo posto.... Pieghi un po' la testa verso sinistra... Così... sorrida...
— Dio mio!... Non faccio altro da una settimana.
— È vero, ma oggi soltanto mi par di cogliere la giusta espressione di quel suo sorriso... Ah sì, sì... ecco.
E il pittore, tiratosi due passi indietro, mirava con compiacenza l'opera sua. Il professore Romualdo, ch'era in via di guarigione e camminava senza difficoltà per la stanza, venne a collocarsi dietro a Mario e non potè a meno di esclamare: — Bravo! È parlante.
L'Albani si rimise tosto al lavoro. Il suo occhio scintillava, un fremito gli correva tutte le membra, la punta del suo piede batteva impaziente sul pavimento, mentre il suo pennello sicuro ora sfiorava, ora mordeva la tela, creando sul suo passaggio nuovi effetti d'ombra e di luce, spirando un soffio potente in quella bella testa di vergine.
Ancora un tocco, un altro, e poi Mario depose la sua tavolozza, si ravviò con la mano i capelli e disse: — Si alzi, signora Gilda; è finito.
Un grido d'ammirazione proruppe dal labbro della giovinetta quand'ella vide il ritratto compiuto. Ella ne aveva seguìto i progressi con fede incrollabile, ma la riuscita superava ogni sua aspettativa.
— Oh signor Mario, ha fatto miracoli oggi — ella soggiunse commossa. — E dire che se non ero io, avrebbe lacerato questa tela una mezza dozzina di volte...
— È stata la mia collaboratrice — egli rispose — Ha mantenuto il mio coraggio. Dovrò tutto a lei.
Ella chinò il volto confusa e sentì spuntarsi una lagrimetta sul ciglio. Scosse leggiadramente il capo, si rivolse al professore e continuò accennando al quadro: — Lo faremo mettere in una elegante cornice, in una cornice dorata, e poi lo collocheremo nella tua camera... al disopra della tua scrivania...; così lei, signor disprezzatore delle donne, non potrà alzare gli occhi dai suoi dottissimi libri senza vedere una donna, che, via, non è tanto brutta... Chi sa le belle ispirazioni che ti scenderanno da quella immagine!...
A questi discorsi il professore sentiva un peso, un'oppressione al cuore, di cui non sapeva rendersi conto. E intanto, per non rimaner muto affatto, egli rinnovava a Mario le sue congratulazioni. Erano del resto congratulazioni sincere, perchè i pregi singolari di quella mezza figura non potevano sfuggire nemmeno a lui, ed egli paragonava sospirando gli effetti rapidi, fulminei, ottenuti dall'arte, coi successi lenti, modesti, spesso ignorati, della scienza. In altri tempi questo confronto gli avrebbe fatto parer tanto più cari gli studi scientifici quanto minore è lo strepito che essi levano intorno a sè e il compenso ch'essi danno ai loro cultori. Oggi la sua fede vacillava; egli era tentato di chiedersi: — Perchè non nacqui artista anch'io?
— Ah! — riprese la giovinetta, mutando discorso con la solita infantile volubilità — Ho le membra intorpidite... Son rimasta seduta cinqu'ore.
— Dica pur sei — osservò l'Albani. — Si è cominciato al tocco, e sono quasi le sette.
— Ebbene — soggiunse la Gilda, rivoltasi allo zio — scendo a fare i miei quattro passi d'ogni giorno... Mi farà da cavaliere, non è vero, signor Mario? Le nostre colonne d'Ercole saranno quei soliti abeti laggiù... E tu, zio Aldo, potrai vigilare sopra di noi, come l'angelo custode... dall'alto.
Dopo l'uragano, era quello il primo giorno in cui il cielo si mostrava quasi interamente sereno. Spirava un'aria mite, annunziatrice di una rivincita dell'estate sull'autunno precoce; l'oste spianava la fronte corrugata e riapriva l'animo alla speranza vedendo che i due gemelli non fumavano più.
— Bel tempo! — disse il signor Emanuele a Mario e alla Gilda. — Bel tempo! — E si fregò le mani per la contentezza.
Il signor Emanuele se ne stava ritto davanti alla soglia dell'albergo. Vicino a lui c'erano due guide, un cacciatore di camosci, e una guardia daziaria. Fulmine, che scherzava un po' più lontano col cane del cacciatore, corse festosamente verso i due giovani. Il crocchio si divise per lasciarli passare.
— Sono fidanzati? — chiese la guardia daziaria.
— Ma! — rispose il laconico oste.
E una delle guide soggiunse: — Paion fatti l'uno per l'altra.
Il professore era alla finestra coi gomiti appoggiati al davanzale. La Gilda guardò in alto, sorrise allo zio, e lo salutò colla mano.
— Voglio raccontarle la storia di Van Dyck e di Miss Dolly Ruthwen — cominciò Mario.
— Oh bravo, racconti, racconti.
E la bellissima coppia si diresse verso la macchia d'abeti, ora preceduta, ora seguìta da Fulmine, che carolava sull'erba e prendeva fra i denti le pine cadute dagli alberi. Il professor Romualdo li accompagnava con lo sguardo.
Giunti al termine stabilito, Mario e la Gilda si avvicinarono di nuovo all'albergo.
— Sicuro — disse Mario, continuando la sua narrazione, — se Miss Dolly Ruthwen non avesse posato per lui, Van Dyck non avrebbe mai fatto uno dei suoi capolavori.
— E che avvenne poi? — domandò la ragazza.
— Fa bujo — gridò dalla finestra il professore.
— Un altro giro, un altro giro, e siamo con te.
Il sole era fuggito dalle cime dei monti, il breve crepuscolo cedeva il posto alla sera, e già le stelle cominciavano a tremolare nel firmamento. Il cappuccio di lana rossa della Gilda spiccò ancora per qualche istante tra il grigio uniforme di tutte le cose; poi il professor Romualdo non vide più che due ombre. E intanto Mario narrava alla Gilda come Miss Dolly Ruthwen fosse divenuta moglie dell'artista ch'ella aveva ispirato col suo bel viso. Il cane Fulmine, quasi a significare la sua approvazione al felice connubio, abbajò rumorosamente destando l'eco della valle, e i due giovani si misero anch'essi a gridare per celia: Gilda! Mario! L'eco rimandava confusi insieme i due nomi Mario! Gilda!
Lo scienziato non sapeva staccarsi dalla finestra. Egli seguiva con l'occhio il moversi di quelle ombre, egli tendeva l'orecchio a quei suoni. E indovinava l'amore. L'amore, che fino allora egli non aveva nè provato in sè, nè compreso negli altri, adesso gli passava rasente come un soffio infocato, gli turbava i sensi e lo spirito. Oh perchè aveva egli tanti anni addietro accolto il grave legato di una sorella con la quale non lo vincolava obbligo alcuno? E quando pure avesse voluto conservare ed accrescere il piccolo patrimonio della nipote; quando pure avesse voluto colmarla di benefizi, perchè tenerla sotto il suo tetto? Per sentirsi dire un giorno: — la tua parte è finita. Tutto l'affetto prodigato a questa creatura nel lungo periodo dell'infanzia e dell'adolescenza val meno del primo sorriso d'un ignoto che la rapirà alla sua casa? E a te che le hai fatto da padre, non resta altro che mettere il tuo visto sotto il passaporto che le servirà a varcar la tua soglia per non ricalcarla forse mai più? Senonchè, altri pensieri succedevano a questi nell'animo del professore. Egli non poteva a meno di confessare che se la Gilda gli aveva costato dei sacrifizi, egli ne aveva pure avuto un ricambio. Ella era stata docile, buona, le sue grazie schiette ed ingenue, la sua intelligenza vivace, il suo desiderio di apprendere avevano fruttato a lui soddisfazioni care e ineffabili. Non aveva ella aperto nuovi orizzonti alla sua mente, non aveva contribuito ad ingentilirgli il costume, a renderlo insomma migliore di quello ch'egli era una volta? E ora, di che cosa poteva incolparla? Di amare. Chi non ama nel mondo? Dacchè egli aveva spinto lo sguardo oltre le sue formule e le sue storte, di chi poteva dire: — Costui non ama, costui non ha mai amato? — Di sè... forse... No; la Gilda non aveva nulla da rimproverarsi. Egli piuttosto, egli che ne era il tutore, il secondo padre, aveva adempiuto alla parte sua? Che aveva fatto mentre il sottile veleno dell'amore s'infiltrava nelle vene della giovinetta? Egli non aveva nè provocato dal suo labbro una confidenza, nè chiesto a Mario Albani una spiegazione; aveva assistito con le braccia incrociate al crescere di una simpatia che forse non era più che un capriccio pel giovine artista, ma che certo aveva messo salde radici nell'anima della Gilda, e, delusa, le avrebbe turbata tutta la vita. Oh improvvido e inetto! Ed egli andava orgoglioso della sua scienza, egli che non aveva saputo fare ciò che sa ogni più umile persona del volgo a cui siano affidate le sorti d'una fanciulla!
Lo prese un'inquietudine affannosa, e gridò: — Gilda! Gilda! È tardi...
— Eccoci, eccoci — rispose la Gilda. E Fulmine, abbaiando, precedette all'albergo la coppia felice.
Quella sera Mario Albani si ritirò più presto del solito nella sua camera. Il professore, fattosi animo, trattenne la Gilda, e con voce che la commozione rendeva tremula: — Gilda — le disse — non mi nascondi nulla?
Ella abbassò gli occhi e arrossì.
— Ti ricordi — continuò il professore Romualdo — dei discorsi tenuti dal capitano Antonio l'ultima sera che egli passò con noi?... Guardami in viso... Quel momento che il capitano presagiva vicino, è venuto?
Ella abbandonò la sua testina sulla spalla dello zio, e bisbigliò tra un sorriso e una lagrima: — Mi pare di sì.
— La tua quiete è in pericolo, la mia fanciulla! — egli riprese, carezzandole con mano nervosa i capelli. — Oh il malaugurato accidente che c'imprigionò qui per tanti giorni!
— Sì, la cagione del nostro soggiorno fu invero molto spiacevole... Ma la prigionia non è stata una gran disgrazia.
— Gilda, Gilda, tu scherzi col fuoco... Perchè il signor Mario affine di passare il tempo ti fece il ritratto, perchè egli ti disse qualche galanteria...
— Quanto a questo — ella interruppe con vezzo infantile — prima di giudicare, aspetta un certo discorso che ti verrà fatto domattina...
— Dal signor Mario?
— Sicuro, da Mario, il quale si presenterà dal mio signor zio e tutore a chiedergli... insomma a fargli un discorso serio...
— Ma, Gilda, questo giovine si può dire che tu lo conosci appena.
— Oh zio Aldo, lo conosco fin da ragazzo.
— Sì, come un ragazzo sventato... E vorrebbe farsi una famiglia?
— Proprio vorrebbe questo....
— Senza uno stato?
— Aspetteremo che l'abbia.
— E suo padre?
— Oh! Egli non vede che per gli occhi di Mario.
— E fu ben compensato della sua cieca affezione! Poveri padri!
— No, no. Nè poveri padri, nè poveri zii — ella ripigliò con grazia... — Si vuol loro tanto bene... E poi noi conosciamo il fondo del loro pensiero meglio che non lo conoscano essi medesimi... Dio! Dio! Come leggo chiaro qui... qui, nel tuo cuore.
— Smetti, bimba — egli interruppe tra fastidito e turbato.
— Leggo in grandi caratteri — soggiunse ella senza badargli — queste parole esplicite e solenni: Desidero soltanto una cosa, che la Gilda sia felice... Non è vero, che so legger bene?
Un amaro sorriso sfiorò il labbro del professore, ma egli si ricompose subito. — Lasciami solo adesso, Gilda... te ne prego... ho bisogno di rimanere solo.
E appoggiando uno dei gomiti al bracciale della poltrona, nascose il volto nella palma della mano.
Ella accese lentamente la candela, s'avvicinò in punta di piedi allo zio e gli diede un bacio in fronte. Poi sguisciò via.
— È inutile che tu faccia il cattivo, zio Aldo.... Non ti credo.
E la giovinetta rientrò nella sua camera, e sciolse il volo alle sue gioconde fantasie d'innamorata.
Il professor Romualdo, appoggiato al suo bastone, si mise a passeggiar per la stanza. Giunto davanti al cavalletto dove era il ritratto della Gilda, egli sollevò il lino bianco che copriva quelle care sembianze, e stette a lungo immobile a contemplarle. Era quella la Gilda che sarebbe rimasta sempre con lui, che gli avrebbe sempre sorriso... L'altra... oh l'altra egli l'aveva perduta!
XVII.
Prima dell'inverno, Mario e la Gilda erano fidanzati. Il giovine Albani era venuto in persona a rinnovare la sua domanda, e il professor Romualdo aveva finito coll'accordare, spontaneamente o no, il suo consenso. In quanto al signor Gedeone, padre di Mario, egli accolse con molto favore il pensiero di questo matrimonio, cosa che può parer singolare in un uomo positivo come lui. Ma il signor Gedeone era da qualche tempo sotto la cura d'un medico omeopatico, che gli aveva insegnato le sue teorie. — Similia cum similibus — diceva l'egregio negoziante. — I savi si governano con le idee savie, i matti con le idee matte. Chi sa che il matrimonio non faccia venir giudizio a mio figlio! — Inoltre si trattava di una ragazza per bene, di una ragazza che il signor Gedeone si era vista crescere sotto gli occhi e di cui tutti lodavano le maniere e i costumi. Aggiungasi infine l'onore di stringer parentela con un uomo sapiente come il professore Grolli. Gl'ignoranti, e tale era il signor Gedeone, affettano disprezzo per la scienza, ma nel fondo sentono solleticata la loro vanità dal poter dire che hanno domestichezza con qualche dotto.
Anche dal lato dell'interesse l'affare era meno cattivo di quanto si sarebbe creduto. Certo, se Mario fosse rimasto in negozio, s'egli avesse voluto essere un continuatore della casa Gedeone Albani, non gli sarebbe mancata l'offerta di qualche ragazza con centomila lire e più; ma un artista in principio della sua carriera non poteva aspirare a tanto, ed era già molto ch'egli trovasse una dote. La Gilda aveva quasi trentacinque mila lire; il signor Gedeone aveva supposto ch'ella non possedesse un centesimo. A lui, Gedeone Albani, negoziante di granaglie e coloniali, toccava di far onore al suo nome, creando al figliuolo una condizione indipendente e decorosa. E invero egli non aveva altri che Mario al mondo; le sue operazioni commerciali meno delicate, i suoi ingegnosi contrabbandi avevano sempre avuto uno scopo che li giustificava, quello cioè di accrescere il patrimonio di quest'unico figlio. Ora poi ch'egli doveva far delle spese maggiori per conto di lui, il signor Gedeone s'era risolto di assumere la fornitura di alcuni Istituti pii.
Le nozze vennero fissate per quando la Gilda compirebbe i diciotto anni; Mario ne avrebbe allora ventitrè e qualche mese. Gli sposi si stabilirebbero in Milano, o in Firenze, o in altra città dove vi fosse una vita artistica. All'allestimento della casa provvederebbe il signor Gedeone, il quale si obbligava inoltre a passare un congruo assegno annuo a Mario.
Com'è naturale, in tutti questi accordi i due fidanzati non avevano la menoma parte; i concerti erano presi tra il signor Gedeone e il professor Grolli per iniziativa del primo e col sussidio di un uomo di legge. I patti chiari fanno i buoni amici, diceva il signor Albani seniore, e al professor Romualdo, che insisteva sulla superfluità di metter penna in carta quando potevano intendersi a voce, egli replicava sentenziosamente: Verba volant.
Sopra un altro punto il signor Gedeone fu irremovibile; egli volle cioè dare una grande solennità agli sponsali. La ditta Gedeone Albani non aveva mai fatto taccagnerie e non voleva farne in questa occasione. Si trattava nientemeno che della promessa di matrimonio del figlio di quella rispettabile ditta, di colui al quale per un certo tempo il signor Gedeone aveva sperato di legare i suoi affari di grani e di coloniali e i segreti delle sue contravvenzioni a danno del fisco. Speranze pur troppo fallite; ma non importa; il figlio era sempre figlio, e il signor Gedeone doveva mostrarsi uguale a sè stesso.
Vi fu in casa Albani un invito numerosissimo; parenti del signor Gedeone, parenti della sua defunta moglie, membri della Camera di commercio; poi, in onore del Grolli, parecchi professori dell'Università, e in onore della Gilda la madre e le ragazze Lorati, le quali dicevano che la Gilda non poteva a meno di essere una gran civetta se aveva trovato così presto marito, mentre esse invece non ne venivano mai a capo. In complesso una società un po' mista, mirabilmente concorde però nel far buon viso agli abbondanti rinfreschi preparati dal signor Gedeone.
Intanto il professore Grolli e la Gilda avevano partecipato l'importantissimo avvenimento al capitano Rodomiti, il quale si trovava a Cadice, prossimo a partire per la Nuova Guinea. E il marinaio, deplorando di non poter essere in Italia per l'epoca delle nozze, inviava le sue più vive congratulazioni al professore e agli sposi, e annunziava di aver già dato a un amico di Milano gli ordini opportuni pel corredo della figlioccia.
Così tutto pareva sorridere a questa unione: la gioventù, la bellezza, le prospettive di una vita comoda e agiata, le brillanti promesse della gloria. Se la Gilda rifletteva a ciò che sarebbe accaduto di lei ove fosse rimasta orfana e sola a Montevideo, ella aveva ben ragione di lodarsi della fortuna e degli uomini che avevano cospirato con amorosa sollecitudine a sparger fiori sul suo cammino. Dal giorno in cui sua madre morente l'aveva affidata al capitano Rodomiti perchè la conducesse in Europa, quante cure soavi l'avevano cinta, di quanti pensieri gentili era stata l'oggetto! Senza genitori, ella era stata amata più di molte fanciulle che crescono all'ombra del tetto domestico; povera, il frutto della previdenza altrui la rendeva quasi ricca a diciassette anni. Uno zio che non le doveva nulla le faceva da padre; un estraneo, il capitano Rodomiti, gareggiava con lo zio in tenerezza per lei. Avrebbe potuto essere una selvaggia, ed era stata allevata in un ambiente di studi; aveva il culto dell'arte, e l'uomo a cui doveva unir la sua vita era un artista.
Pure, la sua contentezza non era scevra d'angustie. Come in qualche giornata estiva si diffondono pel cielo sereno lievi vapori che, senza prender forma visibile, offuscano nondimeno lo splendore del sole, così una vaga malinconia s'impossessava talvolta della sua anima, e le faceva considerar la sua felicità come un castello di carte destinato a crollare ad un soffio. Mario l'amerebbe sempre? L'affetto che egli le portava era di quelli che durano alla prova del tempo, che resistono al tedio, ai capricci della mobile fantasia? Oggi ella era per lui il tipo di quella bellezza ch'egli idoleggiava; a sentirlo, ella doveva figurare in tutti i suoi quadri, passare all'immortalità per opera del suo pennello. Ma domani? Se un altro tipo femminile gli sembrasse più vicino all'ideale che gli sorrideva nella mente?
Un giorno ella non aveva potuto a meno di dirgli: — Tu non comprendi la donna che bella!
— È vero — egli aveva risposto — ma che t'importa, poichè tu sei bellissima?
Tra gli sponsali e le nozze doveva correre un periodo di un anno, nè l'irrequietissimo Mario sapeva acconciarsi a rimaner tanto tempo fermo in un luogo. Egli era ora di qua, ora di là; ora a Zurigo, ove aveva vecchi amici e lavori lasciati incompiuti, ora in questa o in quella città d'Italia. Lontano, non aveva l'abitudine di scriver troppo di sovente alla sua sposa; se ne tornava però sempre più innamorato di prima.
Durante le assenze di Mario, il pensiero della giovinetta si ripiegava con maggior tenerezza dell'usato su quelli ch'ella stava per abbandonare: sul professore Romualdo, sulla signora Dorotea, che, pur brontolando continuamente, aveva mostrato tanto affetto per lei. La signora Dorotea non era più la matura ma vispa donnetta di dieci anni addietro, che divideva la giornata tra le cure domestiche e le visite ai conoscenti; era curva, sdentata, e passava le lunghe ore in un seggiolone cogli occhiali inforcati sul naso, con la calza in mano.
Negli ultimi tempi anche la sua condizione economica s'era molto peggiorata. La manìa del giuoco del lotto, cresciuta in lei coll'avanzare dell'età, l'aveva caricata di debiti, e una mattina il professor Romualdo aveva visto giungere gli uscieri del tribunale per l'oppignoramento dei mobili. Il professore aveva posto riparo al disastro rimborsando il danaro dovuto dalla vedova e comprandole i mobili a prezzo vantaggiosissimo per lei. Così a poco a poco le parti s'erano invertite fra loro; egli era divenuto il padrone di casa, ella era l'inquilina. Il professore pagava la pigione; ella, piuttosto per salvare il decoro che per altro, pagava a lui un piccolo assegno mensile pel proprio mantenimento. Non aveva rinunziato alla sopraintendenza alle cose domestiche, ma le sue funzioni attive si riducevano a nulla. L'ufficio che ella aveva abbandonato con maggior riluttanza era quello di scriver la polizza del bucato; grave occupazione, nella quale soleva impiegare tre ore ogni venerdì, dopo aver fatto acquistare la sera innanzi una penna d'oca temperata e aver versato una goccia d'aceto nel calamaio affine di render scorrevole l'inchiostro. Alla lunga però anche un tale incarico era stato assunto dalla Gilda, che mostrava tutte le qualità di una buona massaia, e la signora Dorotea aveva sempre più agio di brontolare e di studiare la cabala del lotto. La prima di queste inclinazioni aveva trovato un nuovo alimento nella promessa di matrimonio della Gilda. Quel matrimonio ella non sapeva mandarlo giù, sia che avesse altri disegni relativamente alla bambina, com'ella soleva spesso chiamare la Gilda, sia che tenesse ancora il broncio a Mario per la marca di negozio ch'egli le aveva dipinto sulla schiena quand'era fanciullo. Ordinariamente ella si limitava a sfogare il suo malcontento in lunghi soliloqui; non lasciava però sfuggirsi l'opportunità di dirne una parola anche al professore, e di biasimarlo della sua troppo facile condiscendenza. Nè con la Gilda faceva mistero dell'antipatia che le inspirava il suo fidanzato. Del resto, si era troppo avvezzi alle querimonie della signora Dorotea per dar loro gran peso; tuttavia la Gilda sentiva spuntarsi qualche volta una lagrimuccia di dispetto, e diceva: — In fin dei conti, che ha con Mario? — Eh, nulla, nulla — rispondeva la vecchia — ma quello lì non era il marito per te... E credi tu che il professore veda di buon occhio queste nozze?... Non parla, ma soffre... Oh! Il professore io l'ho conosciuto prima che tu avessi lume di ragione.
L'idea che lo zio Aldo soffrisse amareggiava profondamente la Gilda e la rendeva più sollecita, più affettuosa verso di lui ch'ella non fosse mai stata. Ella voleva a ogni costo prestargli l'opera sua, voleva copiare i suoi manoscritti, voleva aiutarlo nel suo laboratorio. E s'egli si schermiva, ella, che non aveva la virtù dissimulatrice di lui, mostrava tanta afflizione da vincere ogni sua resistenza. No, piuttosto di darle un dolore, egli ne avrebbe dati cento a sè stesso. Nel momento in cui era stato fissato il matrimonio della Gilda, egli aveva fermo in cuor suo due cose: consacrarsi con lena raddoppiata agli studi, avvezzarsi a veder la nipote meno che fosse possibile. Di questi due proponimenti il primo soltanto gli era riuscito; s'era immerso nel lavoro, s'era impegnato con un editore a fornirgli entro pochi mesi la materia di un paio di pubblicazioni: un trattato di geometria superiore, e un libro di minor mole, che avrebbe dovuto essere come la sintesi del suo pensiero scientifico. A quest'ultimo soprattutto egli indirizzava le forze dell'intelletto; voleva ch'esso fosse stampato prima delle nozze della Gilda, voleva ch'esso levasse romore intorno al suo nome; per la prima volta nella sua vita, al culto disinteressato del vero si mesceva nell'animo suo il desiderio della gloria.
Era geloso della celebrità bambina di Mario; ambiva mostrare che la scienza può dare alla fama una base più sicura e più salda dell'arte. Il suo stile, ordinariamente arido e disadorno, si risentiva dell'inspirazione robusta che gli aveva suggerito quest'opera, e acquistava una vigorìa e un colore inusato. La Gilda, nel ricopiarne alcune pagine, non aveva potuto a meno di esclamare: — Zio Aldo, diventi anche poeta? — E aveva soggiunto, additando il suo ritratto appeso al disopra della scrivania: — Ero stata buona profetessa. Quel quadro doveva far miracoli.
La Gilda diceva il vero? Era dunque da lei, era dalla sua immagine che spirava un soffio di poesia in quell'anima austera di scienziato? Anch'egli dunque cedeva a quella influenza della donna a cui aveva saputo sottrarre la sua giovinezza? Così finivano i suoi superbi dispregi?
Ahimè! A questa domanda egli non avrebbe potuto rispondere senza grave imbarazzo. Tutti i suoi criteri erano scompigliati. Aveva perduto la calma, eppure sentiva il suo ingegno ringagliardito; aveva perduto l'antica padronanza di sè, eppure aveva lampi d'energia per lo addietro non sospettati nemmeno. Ma un dolore sordo, assiduo lo martoriava; egli invocava ormai come un modo di uscir di pena il matrimonio della Gilda e la possibilità d'intraprendere un lungo viaggio nel quale forse egli avrebbe finito col ritrovare sè stesso.
XVIII.
S'eran già fatte le pubblicazioni di legge, e per fissare il giorno delle nozze non si aspettava che il ritorno di Mario, il quale dopo molte esitazioni s'era determinato a stabilire la sua futura residenza in Firenze, e si trovava da qualche giorno in quella città insieme col signor Gedeone affine di cercarvi un appartamento.
Intanto il corredo ordinato a Milano dal capitano Rodomiti era giunto, e formava l'ammirazione degli intelligenti, e soprattutto delle intelligenti. Le Lorati si rodevano dall'invidia; anzi la signora Olimpia mormorava con le sue amiche che questa grande tenerezza del capitano Rodomiti aveva certo le sue buone ragioni, e che senza dubbio c'era stato qualche cosa tra lui e la madre della ragazza... Ma! Se anche lei fosse stata di manica larga in gioventù, non le mancherebbero adesso i protettori per la Ginevra e la Giulia.
Nonostante queste caritatevoli insinuazioni, la signora Olimpia e le sue figliuole attendevano assiduamente a ricamare un tappeto da tavola da regalarsi alla Gilda. Era un lavoro di polso, specialmente in virtù d'un quadro centrale che doveva raffigurare la favola del cigno e di Leda. Soggetto arrischiatissimo, ma trattato con molta innocenza, perchè il cigno pareva una pacifica oca aliena da pensieri galanti, e il bel corpo di Leda dava l'idea d'una stufa di pietra cotta. Non era facile intendere come da quella stufa potesse uscire la famosa Elena destinata a mettere a soqquadro la Grecia; ma tolta questa piccola menda, l'opera collettiva delle signore Lorati era veramente pregevole. La signora Olimpia, da mamma esemplare, ne dava tutto il merito alle ragazze, e specialmente alla Ginevra, ch'era la maggiore e che andava maturandosi a colpo d'occhio.
Nè il cavalier Diomede se ne stava con le mani alla cintola. Egli era in grandi faccende per approntare un volume di circa duecentocinquanta pagine, contenente un'edizione riveduta e corretta dei discorsi letti da lui stesso nell'Accademia di cui era segretario. Erano diciotto discorsi e potevano corrispondere a diciotto grosse dosi di cloralio da prendersi in caso d'insonnia.
In quanto al professore Romualdo, egli si proponeva di dedicare alla nipote l'opera scientifica alla quale attendeva da alcuni mesi e in cui aveva versato tanta parte del suo pensiero. Avrebbe potuto con molto maggior ragione dedicare il libro a qualche uomo illustre nel campo degli studi, ma lo allettava l'idea di associare al nome della sua pupilla il frutto delle sue lunghe meditazioni e delle sue veglie. Certo, la Gilda non avrebbe potuto a meno di sentirne un po' d'orgoglio e di gratitudine, e avrebbe detto: Povero zio Aldo! Ha anche lui i suoi meriti.
E il Grolli aveva già riveduto tutte le stampe del suo lavoro, ad eccezione dell'ultimo capitolo. Qui s'era urtato contro uno scoglio. Egli correva dietro a una formula che non poteva essergli data che da una esperienza chimica alla quale s'era accinto con ardore mal ricompensato dalla fortuna. Quell'esperienza non gli riusciva secondo i suoi desiderii, per quante volte egli ritentasse la prova. Rinunciarvi non voleva, giacchè gli sarebbe parso rinunciare alla parte più brillante del suo lavoro; e poi la scienza ha anch'essa il suo punto d'onore, e s'ostina di più dove trova maggiori gli ostacoli. Ma intanto il tempo passava ed era abbastanza difficile che l'opera potesse uscire dai torchi prima delle nozze.
Ciò contribuiva a metter di cattivo umore il professore Romualdo, e il cattivo umore dello scienziato faceva brontolar più del solito la signora Dorotea e stendeva un'ombra sulla felicità della Gilda.
Fu appunto in uno di questi giorni critici che Mario annunziò alla sposa il suo imminente ritorno. Ormai tutto era pronto, non c'era che da diventar marito e moglie.
Siccome però ci voleva il tempo di ammobiliare il quartierino preso a pigione (un amore di quartierino a piedi del colle di Bellosguardo), i due primi mesi del matrimonio si sarebbero consumati in viaggio. Mario si riprometteva miracoli da una peregrinazione artistica con la Gilda in Sicilia. — Quel cielo limpido, quella natura lussureggiante — egli le scriveva entusiasta — faranno degna corona alla tua bellezza, e chi sa che a me non ispirino un capolavoro! — Per onor del vero, dopo il ritratto così egregiamente riuscitogli, egli non aveva prodotto nulla di notevole. Ammetteva egli stesso che la condizione di fidanzato gli si attagliava pochino. Una volta marito, sarebbe stata ben altra cosa. Sentiva già dentro di sè cinque o sei quadri, in ciascuno dei quali era serbato un posto d'onore alla sua sposa. V'erano momenti in cui la Gilda non poteva a meno di domandare a sè medesima: — Mi prende dunque come una modella? — Ma più sovente la sua vanità era lusingata dalla idea che la sua immagine, riprodotta in diverse guise, passasse ai posteri come quella della moglie d'un gran pittore.
La Gilda, poichè ebbe la lettera di Mario, corse in camera dello zio tenendo in mano il foglio spiegato, e gridando: — Mario sarà qui domani.
Sia che il professore pensasse all'impossibilità di pubblicare il suo libro per l'epoca voluta, sia che, dopo aver affrettato col desiderio questo matrimonio, sentisse ch'esso avrebbe lasciato un vuoto troppo grande nella sua vita, fatto si è che la nipote non ebbe punto a lodarsi della sua accoglienza.
— Venga, vada, che me ne importa? — egli disse in tono sgarbato.
— Oh, zio — cominciò la Gilda, a cui questi modi inurbani facevano male.
Ma egli la interruppe: — Lo so che hai fretta d'andartene... Vuoi fissare le nozze per posdomani, per domani sera?...
— Zio Aldo, zio Aldo — ella esclamò in mezzo alle lagrime — mi volevi tanto bene una volta! Che ti ho fatto perchè da qualche tempo tu debba odiarmi?
— Odiarti?... Io?... — gridò il professore fuori di sè in veder quel bel viso molle di pianto... — Odiarti?... Ma io invece...
Avrebbe avuto mille cose da soggiungere, ma si arrestò a un tratto. Come colui che guardando alla casa del vicino vede il riflesso delle fiamme che investono la casa propria, così il professore, nel turbamento che si dipinse in viso alla Gilda, lesse il segreto che gli era sepolto nell'anima e che non aveva voluto fino allora rivelare a sè stesso. Sentì il precipizio sotto i suoi piedi e disse balbettando: — Perdonami... Ho bisogno d'aria...
Prese il cappello, e uscì senza dar ascolto alla signora Dorotea, che seduta nel suo seggiolone in salotto chiedeva: — Che cosa c'è! Che è accaduto?
— Che c'è! Che è accaduto? — tornò a domandare la signora Dorotea quando vide comparirsi davanti la Gilda pallida e stravolta.
La Gilda appoggiò i gomiti al tavolino, si nascose il viso tra le palme e ruppe in singhiozzi.
— Ma insomma? — ripetè la vedova, avvicinandosi.
— Oh, signora Dorotea — proruppe la giovinetta, per la quale la buona femmina era divenuta in questo momento una difesa e un rifugio — non conosco più lo zio Aldo.
— Spiegati dunque...
Quando la ragazza ebbe narrato l'accaduto, la signora Dorotea tentennò il capo e congiunse le mani. — Il cuore me lo diceva... Odiarti? Lo zio Aldo?... Sciocchina che sei... Ah, se tu avessi avuto giudizio!... Ma pur troppo la gioventù di oggi si appiglia al peggio.
— O signora Dorotea, che dice mai? — riprese la Gilda, diventando scarlatta di pallida ch'era.
— Lo so, non c'è rimedio... Hai dato la parola a quell'altro... e la parola, capisco, bisogna tenerla... Ma povero professore!... Questo matrimonio gli costerà la vita... E adesso dove sarà andato, dove sarà andato? — ella proseguì, colta da un subito spavento. — Voglia il cielo ch'egli non faccia qualche sproposito.
— No, per carità, non lo pensi nemmeno — gridò sbigottita la Gilda, che aveva trovato nuove inquietudini dove era venuta a cercare un conforto. — Dio mio; sono pure infelice!
Il professore era corso via senza saper dove andava, senz'altro desiderio che quello di trovarsi all'aperto.
Uscì dalla città e prese a caso la prima strada che gli si parò davanti.
Era dunque possibile? Il suo affetto di zio, di tutore, di padre, s'era cambiato in un sentimento di tutt'altra natura?... Innamorato?... Lui?... Alla sua età, con le sue abitudini austere, con la sua ripugnanza verso quanto sapeva di galanteria?... E s'era tradito?... Oh s'era tradito senza dubbio... Lo sgomento della Gilda parlava chiaro... Imbecille, imbecille!... Egli aveva sciupato in un secondo il frutto di tanti anni di sacrifizio e di abnegazione. La Gilda non si ricorderebbe più di lui come di un tutore sollecito, come di uno zio tenero e affettuoso, ma come d'uno spasimante ridicolo che s'era offeso perchè ella gli aveva preferito un uomo giovine e bello... E se la Gilda parlasse?... Se rivelasse tutto a Mario, come ne aveva il diritto?... Se Mario venisse a provocarlo?... Oh, Mario ne avrebbe riso, ne avrebbe riso insieme con la sua sposa! Questa paura del ridicolo lo perseguitava nel suo cammino; avrebbe voluto nascondersi sotto terra, tanto gli pareva che anche le cose inanimate dovessero acquistar la favella per dargli la baja. Eppure, mentre si vergognava di sè stesso, gli sarebbe stato di grande sollievo il poter versare le sue pene in un cuore amico. Ma dove trovarlo? La sua vita era stata dissimile da quella degli altri giovani, la cui intrinsichezza si aumenta con le confidenze reciproche; coi suoi coetanei egli aveva discorso di matematica; confidenze intime non ne aveva mai chieste, non ne aveva mai fatte. E comincerebbe a trentasette anni? Un uomo forse l'avrebbe sorretto di virili consigli, ma quell'uomo era lontano, e a che pro scrivergli? Che avrebbe potuto far per lui il capitano Rodomiti finchè stava col suo legno nei mari dell'India o dell'Africa?
Dopo più d'un'ora di cammino, egli si accinse al ritorno, sempre molestato dagli stessi pensieri, sempre agitato dall'idea di doversi ripresentare alla Gilda... Procurerebbe di rientrare in casa inosservato, si chiuderebbe nella sua camera, nel suo laboratorio, per non mostrarsi che all'ora di desinare. Nel suo laboratorio?... I bei risultati ch'egli vi aveva ottenuti! Anche le storte gli eran diventate ribelli!... Ebbene; bisognava ritentare per la centesima, per la millesima volta... Già il suo mondo era lì, era tra le sue formole, tra le sue esperienze... Meglio le severe ripulse della scienza che lo scherno della donna!
A poca distanza dalla città il professore s'imbattè in una frotta di studenti che si levarono il cappello al suo passaggio e lo fissarono con curiosità.
Come mai erano a zonzo così presto? Il professore Romualdo ne interrogò uno. — Hanno vacanza?
Il giovine diede un'occhiata ai suoi condiscepoli, e poi rispose sorridendo: — Scusi... era la sua ora.
— La mia ora?... Il giovedì!
— Ma oggi è venerdì, signor professore.
— Venerdì — esclamò esterrefatto il Grolli, osservando distrattamente l'orologio, come se potesse trovarvi l'indicazione della giornata.
— Appunto...
— Sicchè... io non ho fatto la mia lezione?
— Eh pare... Anzi temevamo che non istèsse bene.
Il professore si allontanò tutto confuso. In diciotto anni d'insegnamento non gli era accaduta una cosa simile.
XIX.
Le esagerate apprensioni delle due donne si dissiparono a veder tornare il professore sano e salvo a casa. Egli però non lasciò loro il tempo di far commenti; entrò difilato nella sua camera e vi si chiuse a chiave. A desinare non disse una parola; teneva gli occhi sprofondati nel piatto e mangiava macchinalmente. Più volte la Gilda avrebbe voluto rompere il ghiaccio, ma gliene era sempre mancato il coraggio. Era così nuova, era così impreveduta la sua situazione di fronte allo zio! Anche la signora Dorotea si sentiva incapace di aprir bocca, ed è tutto dire. Dopo pranzo, il professore Romualdo tornò a chiudersi nella sua stanza, e la Gilda e la signora Dorotea, inquiete di nuovo, rimasero a vigilare in salotto. A un certo punto la signora Dorotea, avvicinatasi all'uscio che metteva nella camera del professore, si chinò a guardare attraverso il buco della serratura.
— Non c'è nessuno — ella disse.
— Sarà in laboratorio — osservò la ragazza, e passando nel luogo di sbarazzo, ch'era contiguo al laboratorio, appoggiò l'orecchio alla parete.
Si sentiva un tintinnìo di vetri e un suono di passi. Non c'era dubbio; il professore attendeva a uno dei suoi esperimenti.
— Solite diavolerie! — borbottò la signora Dorotea, non tranquillata che a mezzo — Una volta o l'altra va in aria la casa.
— Le sue analisi chimiche, le sue dimostrazioni geometriche, ecco ciò che gli preme soprattutto — pensò la Gilda, e si persuase che le sue inquietudini non avevano alcun fondamento. Però è così capriccioso questo cuore umano, che una tale persuasione le diede più noja che altro.
Sul tardi vennero le Lorati a prenderla, ed ella non rientrò che tardi. Nell'intervallo il professore era uscito e rientrato anche lui, e dopo aver chiesto conto della nipote, s'era ritirato in camera lasciando ordine che non lo disturbassero fino alla mattina dopo. La signora Dorotea si era messa per intavolare un discorso, ma egli le aveva dato sulla voce e l'aveva piantata in asso. — Benedetto uomo! — disse la vedova Salsiccini alla Gilda. — È di un umore bestiale. Scatta per nulla come una molla.
A malgrado di questo avvertimento, la Gilda, sul punto di coricarsi, non potè a meno di gridare in modo da esser sentita nella stanza attigua: — Buona notte, zio Aldo.
Al suono di quella voce così cara al suo orecchio, il professore, che era seduto davanti alla scrivania, trasalì e rispose: — Buona notte, Gilda... Fa di dormire, adesso.
— Non ho sonno...
— A ogni modo — ripigliò il professore — non è ora da far conversazione... Parleremo domani. — E soggiunse con uno sforzo: — Parleremo anche delle tue nozze... Buona notte, buona notte.
— Abbiamo preso senza dubbio un equivoco — riflettè la Gilda. — Egli era preoccupato del suo esperimento... Me lo aveva pur detto giorni fa, che c'era un'esperienza che lo faceva impazzire...
La Gilda non vide due grosse lagrime calar lentamente giù per le guance del professore, che forse da quand'era bambino non aveva mai pianto, e cader sopra le pagine d'un libro. In quel libro era trascritta la partita aperta da quindici anni presso la Banca dei prestiti e degli sconti al nome Gilda Natali, e il professore vi aveva in quel momento conteggiati in margine gli interessi ed esposta la somma totale. Le lire 10,674 50 versate nel maggio 1861 erano diventate circa lire 34,800, e il dottor Romualdo poteva esser contento della dote raggranellata per la nipote. Quel cervellino di Mario avrebbe saputo amministrar così bene la sostanza della moglie?
Fosse l'idea delle prossime nozze, o fosse altra ragione, la Gilda non fece in tutta notte che voltarsi e rivoltarsi nelle coltri. Assopitasi verso l'alba, la svegliò quasi subito l'allegro canto dei suoi cardellini, che scioglievano un inno alla luce nascente, un inno all'amore. E quell'inno destava un'eco nella sua anima. Anche per lei sorgeva uno splendido giorno, e l'amore tutto malizie e sorrisi le susurrava all'orecchio misteriose parole. Ella diventava rossa alle confidenze del suo invisibile interlocutore, e istintivamente raccoglieva le coperte intorno alla sua persona.
Nella camera attigua si moveva qualcheduno. La Gilda si fece pensosa. Povero zio Aldo! Era possibile ch'egli l'amasse in modo diverso da quello in cui gli zii e i tutori sogliono amare? Povero zio Aldo! Egli le aveva sacrificato tutto, ed ella, in compenso, lo rendeva infelice... Poteva ella lasciarlo nel dubbio ch'ella non avesse più verso di lui la fede di un tempo? No certo; era pur necessario ch'ella gli facesse comprendere come nulla era cambiato fra loro, era necessario ch'ella gli dicesse una parola affettuosa prima delle nozze, subito anzi, prima che la venuta di Mario la costringesse a non attendere ad altri che al suo fidanzato. Scese con cautela dal letto, aprì adagio le imposte, si vestì senza far romore, e poi stette alcuni minuti in silenziosa aspettazione. Quando il cigolare d'un uscio la ebbe fatta sicura che il professore era entrato nel suo santuario chimico, ella passò dalla sua camera in salotto e dal salotto alla camera dello zio; traversata questa in punta di piedi, sospinse l'usciolo del laboratorio, e si fermò sulla soglia. Il professore concentrava la sua attenzione sopra un apparecchio attraverso il quale si svolgevano alcuni gas.
— Chi è? — egli chiese, dando un balzo.
— Sono io, zio Aldo.
— Non voglio nessuno, non voglio nessuno — gridò il professore, tutto assorto nella sua esperienza.
Ella non gli diede retta, e si accostò trattenendo il fiato. Quand'ella fu vicina ai fornelli: — Sei tu? — disse il professore Romualdo, mutando tono. — Resta adesso.
Le afferrò il braccio, e con volto trasfigurato le mostrò una sostanza che si precipitava in fondo a una storta. Egli era quasi bello nel suo entusiasmo.
— Ebbene? — chiese la Gilda, fissandolo in viso.
— L'esperienza a cui tenevo tanto, e alla quale stavo per rinunciare, è finalmente riuscita a modo mio — egli esclamò con enfasi. — Possedo finalmente la mia formula. Anche la scienza ha i suoi trionfi.
— Una volta ero la tua assistente — osservò con accento malinconico la giovinetta.
Egli ripetè sospirando: — Una volta.
— Mi spiegherai almeno di che si tratta.
— Or ora — egli rispose. — Aspettiamo che sia finito.
Un colpo di vento aprì d'improvviso la finestra, e fece sbattere con violenza l'uscio del laboratorio che la Gilda, entrando, aveva soltanto accostato.
— Ih che aria! Bisogna chiuder quella finestra — disse il professore, allontanandosi dai fornelli e salendo sopra una sedia per rimuovere una tendina che s'era impigliata nello spigolo d'un'imposta.
— E io chiuderò l'uscio — soggiunse la Gilda. Ma nel punto d'avviarsi urtò inavvertitamente col gomito l'apparecchio, una storta si ruppe, uno scoppio terribile fece rintronar la volta dello stanzino, e in un attimo la povera fanciulla si trovò circondata dalle fiamme, mentre dei pezzi di vetro slanciati in aria dall'esplosione le si conficcavano nelle carni. Mise un urlo straziante, e si precipitò fuori del laboratorio, ma appena giunta in camera dello zio, le gambe non la sorressero più, e stramazzò sul pavimento.
Per buona fortuna il professore Romualdo, sebbene ferito anche lui da una scheggia, non si smarrì interamente d'animo, ma, strappati dal letto i guanciali e le coperte, li gettò addosso alla Gilda, indi, senza badare al pericolo, le si abbandonò sopra di peso e a prezzo di non lievi scottature riuscì a spegnere il fuoco che le investiva la persona. Lo strepito aveva intanto chiamata la signora Dorotea e la fantesca, le quali, al miserevole spettacolo, furono a un punto di cadere in deliquio e a stento si trascinarono sino alla scala mettendo la casa a rumore. Salirono i vicini spaventati, salirono i commessi del fondaco Albani, salirono perfino dalla strada alcuni passanti, e il loro soccorso non fu inutile ad arrestare un principio d'incendio nel laboratorio, ove le vampe correvano lungo i fornelli.
— L'ho sempre detto io che doveva finire con una disgrazia! — borbottava con voce mezzo spenta la signora Dorotea.
Ma nessuno badava a lei. Tutti gli sguardi erano conversi sulla infelice giovinetta, pochi istanti prima così florida e bella, e adesso così malconcia. I suoi occhi erano chiusi, ahi forse per sempre, una larga ferita le deturpava la bocca, la sua fronte era tutta una piaga, e sparse di luride piaghe erano le membra gentili, che palpitavano sotto le vesti a brandelli. Un rantolo affannoso le usciva dal petto, e spesso quel rantolo si mutava in un grido di spasimo da parer quello di una creatura che muore. E invero, avrebbe ella sopravvissuto a tanto strazio? Quando, fra atroci convulsioni, fu trasportata sul suo letto, e il medico l'ebbe esaminata a parte a parte, egli non seppe dissimulare le sue inquietudini. La cosa era grave in sè, gravissima per le complicazioni che potevano derivarne; nella migliore ipotesi, bisognava che passassero parecchi giorni prima di poter fare un pronostico più tranquillante.
Anche il professor Romualdo avrebbe avuto bisogno di riposo, ma egli non volle che gliene discorressero, e appena consentì a lasciarsi medicare le scottature che aveva riportate alle mani e alle braccia. Poi sedette al capezzale della nipote, e nella sua fisonomia si dipingeva una sofferenza poco minore di quella di lei. A sentirlo, era lui la colpa di tutto; maledetti i suoi esperimenti chimici, maledetta la scienza, maledetta la sua stolida vanità che gli aveva messo in corpo la smania delle scoperte!
Del resto, il Grolli s'accusava a torto. La disgrazia non era da attribuirsi che a una sbadataggine della Gilda; era invece merito di lui se le conseguenze non ne erano assolutamente irreparabili.
Ma egli non ragionava più. Era questo il primo gran dolore della sua vita. Fino a quel giorno gli studi lo avevano confortato in ogni sua prova; di fronte al mondo del pensiero, il mondo reale con le sue passioni, coi suoi affetti, gli era sempre parso insignificante e piccino; adesso la sua filosofia s'era dileguata: egli soffriva come la femminetta il cui sguardo non abbraccia più largo orizzonte di quello della sua casa e della sua famiglia. Ogni gemito della Gilda gli faceva scorrere un brivido nell'ossa; ogni volta che il chirurgo tormentava le piaghe di lei, era come se una lama aguzza cercasse la via del suo cuore.
XX.
Le prime parole articolate dalla Gilda, appena il suo stato glielo concesse, furono queste: — Non voglio che Mario entri in camera. Non voglio che egli mi veda così.
E Mario, arrivato sotto sì tristi auspizi, non osò per qualche giorno infrangere il divieto della sua sposa. Egli non sapeva rassegnarsi all'idea di vedere sformata colei, che, nella sua fantasia, era rimasta fulgida e bella come un raggio di sole. Veniva ogni momento nella camera del professor Grolli, origliava all'uscio, interrogava con lo sguardo i medici, le infermiere, e poi s'abbandonava accasciato sul canapè. Di tanto in tanto la sua pupilla s'arrestava sull'effigie che pendeva dalla parete e ch'era senza dubbio l'opera migliore uscita dalle sue mani. Erano quelli gli occhi che lo avevano acceso, era quello il sorriso che lo aveva inebbriato, quella fanciulla divina doveva essere l'ispiratrice dei suoi quadri venturi. Oh perchè non poteva, nuovo Pigmalione, infondere la vita nella sua fattura e strapparla alla tela, e persuadersi che la Gilda vera era questa, e fuggire con lei lontano lontano, e non rammentarsi dei casi dell'altra che come d'un cattivo sogno?
Alla lunga però la vergogna lo vinse: egli sentì che aveva obbligo sacro d'infrangere la proibizione e di assistere colei che doveva esser sua sposa. Ciò ch'egli soffrisse nel mirarla tutta coperta di bende e d'empiastri non è difficile immaginare; ella non lo vide, chè aveva fasciati gli occhi e la fronte, ma sentì la sua voce e gli disse con un gemito: — Mario, perchè venire? La Gilda che tu amavi è morta.
L'idea di contribuire a salvarla, la speranza che ov'ella guarisse rifiorirebbe anche la sua bellezza, dava al giovine la forza ch'egli stesso non avrebbe creduto di avere. Egli non aveva il coraggio di chiedersi: — L'amerai s'ella rimarrà deformata? — ma intanto sentiva che bisognava lottare per farla vivere.
Era una lotta seria. La Gilda ebbe febbri terribili, ebbe spossatezze che facevano tremare i medici, i quali temettero più d'una volta una irreparabile infezione del sangue. A due riprese si credette tutto perduto, e il cavaliere Lorati, secondo la sua pietosa consuetudine, aveva già abbozzato in mente il cenno necrologico della giovinetta. Ella non desiderava guarire. — Credi, è meglio per tutti che io muoia — ella disse un giorno allo zio.
— Oh Gilda! — esclamò con un gemito il professore.
— Forse per te no — ella rispose — Tu mi vorresti bene in ogni caso... Sei tanto buono, zio Aldo...
Egli la guardò intenerito, e queste parole fecero vibrare in lui le più riposte corde dell'anima.
Se Mario passava parecchie ore presso la malata, il professor Romualdo non se ne staccava nè giorno nè notte. Soverchiato dalla stanchezza, egli abbassava le palpebre, lasciava cader la testa sul petto, ma non si moveva dal suo posto, e il suo sonno era tanto leggero che la Gilda non lo chiamava mai inutilmente. Egli preveniva, indovinava tutti i suoi desiderii, le porgeva da bere, aiutava l'infermiera a mutarla di posizione, invigilava perch'ella prendesse i medicamenti all'ore prescritte. Non sapeva far altro, non sapeva pensar ad altro; sarebbe stato inetto a risolvere il più semplice teorema di geometria; si ricordava appena della sua Università, egli ch'era stato fino a quel tempo il più assiduo tra i professori. Invano gli si raccomandava la calma, gli si presagiva, che, tirando innanzi a quel modo, avrebbe finito coll'ammalarsi anche lui; egli non porgeva ascolto a nessuno. Vegliando, soffrendo al capezzale della Gilda, gli pareva d'espiare verso di lei, verso Mario, il gran delitto di aver invidiato la loro felicità.
Nè la signora Dorotea era avara dell'opera sua. Le supreme necessità del momento le avevano ridonato una parte dell'antico vigore; era sempre in moto, aveva sempre un gran da fare a preparar i brodi succulenti per la malata, e, negli intervalli di riposo, brontolava contro il professor Romualdo che non le cedeva mai il posto al letto della nipote. La miglior prova delle preoccupazioni del suo animo era il suo oblìo quasi assoluto del gioco del lotto. E sì che gli straordinari accidenti successi in casa erano tali da suggerirle dei bellissimi terni! Si buccinava anzi che uno ne avesse guadagnato la portinaja, interpretando con acume il grave fatto dell'esplosione.
Intanto la Gilda migliorava. Sul finire della terza settimana il medico dichiarò rimosso il pericolo ch'ella perdesse la vista, quantunque fosse più che probabile che le sarebbe rimasto leggermente offeso l'occhio sinistro. Di lì ad altri dieci giorni si dileguarono le ultime apprensioni circa allo stato generale dell'inferma. Cominciava il periodo della convalescenza, una convalescenza che sarebbe stata lunga, dicevano i medici, e che doveva esser piena di riguardi e di cure. Ma che importava tutto ciò, se c'era da gridar al miracolo pei risultamenti ottenuti?
Per quanto sia una bella cosa lo star bene di salute, il guarire sarebbe una cosa ancora più bella, se non ci fosse il grave inconveniente che per guarire è necessario essere stati malati. Ciocchè mi richiama alla mente un romanzo francese, nel quale una signora, più arguta che costumata, dice a una amica: — Credimi, la miglior condizione per una donna è quella di vedova. — E l'amica, femmina della stessa risma, rincarando la dose con un frizzo ancora peggiore, risponde: — Sì, se per esser vedova non bisognasse prima esser maritata. — Discorsi immorali, che saranno meritamente riprovati dalle virtuose lettrici.
Ma venendo a noi, quale pur sia il posto che le dolcezze della guarigione occupano tra le gioie, non troppo numerose, della vita, è certo che questo posto è molto elevato. Guarire è un rinascere con conoscenza di causa, e nello stesso tempo con la disposizione a rammentare tutto ciò che la vita ha di giocondo, a dimenticare tutto ciò ch'essa ha di triste. Ci pare che l'universo si adorni per farci festa; che gli uccelli cantin per noi; che per noi olezzino i fiori, e il sole c'inviti a bearci ne' suoi raggi. Noi ci affacciamo alla finestra e la rondine ci dice: ben tornati; usciamo all'aperto, e lo stormir delle foglie, e il mormorio del ruscello, e le mille voci della natura si fondono ai nostri orecchi in un saluto cortese. Anche gli uomini son buoni, ci sorridono, ci stendon la mano, ci parlano di cose allegre, di cose leggiere; non è tempo questo da malinconie e da grattacapi. Sotto ai nostri piedi è un tappeto di rose, sulla nostra testa è una danza d'astri lucenti. E nel nostro cuore? Tutto il meglio ch'è in noi s'agita, ribolle, scintilla; si svegliano i pensieri gentili, le fedi ardenti, le speranze baldanzose, e quella inesausta sete d'amore ch'è tormento e dolcezza dell'esistenza. Il mondo è nostro un'altra volta: avanti!
Però, questa voluttà della vita che torna non brillava negli occhi della Gilda, quando col lento rimettersi delle forze si sgombravano le nebbie del suo spirito. Ella sentiva che un abisso la divideva dal passato; un istante aveva distrutto la sua beltà e la sua giovinezza. L'avvenire che l'aspettava non poteva esser più quello ch'ella aveva sognato nell'estasi de' suoi giorni felici; la figura di Mario, ch'ella mirava talvolta vicino al suo capezzale, le faceva l'effetto d'una visione d'altri tempi evocata dalla sua fantasia, la voce di lui le pareva l'ultima risonanza d'una musica che si perde lontano.
Era strano, ma le sembrava d'esser più libera allorchè Mario non era presente, allorch'ella rimaneva sola con lo zio Aldo. L'affezione fida, discreta, inalterabile, al cui tepido soffio ella era cresciuta, non era stata scossa dalla tempesta che aveva sfrondato tante gioie e tante speranze della sua vita. Ella la trovava accanto a sè, sollecita, operosa come per lo addietro, più forse che per lo addietro, come se avesse attinto nuovo vigore dalle prove della sventura. Di quando in quando, simile a un'ombra, le si affacciava alla mente il ricordo d'un giorno in cui le parole e gli sguardi dello zio l'avevano sgomentata; ma oggi quel ricordo non valeva a turbarla, ad offenderla, a scrollar la sua fede. I suoi occhi non isfuggivano gli occhi del professore che sovente si volgevano in lei con una tenerezza piena d'ansietà, la sua mano tremula e scarna cercava volentieri la mano dello scienziato. E provava un senso di calma, di pace, che, in quella sua stanchezza dell'animo e della persona, era il miglior bene a cui potesse aspirare. Ma se arrivava Mario in uno di questi momenti d'abbandono, la Gilda arrossiva, il professore si tirava in disparte; l'incanto era rotto, le incertezze dell'avvenire penetravano nella camera insieme col giovine artista. Egli faceva del suo meglio per esser gentile, officioso; però, il tedio non tardava a dipingerglisi in viso, e la Gilda, con la chiaroveggenza dei malati, se ne accorgeva anche troppo. Allorchè ella sorprendeva il suo sguardo fisso su lei, le pareva ch'egli contasse le sue cicatrici a una a una, le pareva ch'egli dovesse domandarle in tono di rimprovero — Perchè non sei più bella?
— Oh — ella disse una mattina al professore Romualdo, che accampava mille pretesti per non darle uno specchio — il mio vero specchio è Mario. Ho visto da gran tempo nei suoi occhi che son diventata bruttissima... Non sarà una novità, te lo assicuro, il vederlo in un pezzo di vetro... Già, presto o tardi, a questo bisogna venirci... Via, dammi lo specchio.
Alla fine, un giorno in cui Mario era assente, bisognò appagare il suo desiderio. Prima però ella acconsentì a fare un po' di toilette e anche a lasciarsi tagliare i capelli che le cadevano in gran copia, come foglie secche dall'albero. — Torneranno a crescere — le si diceva per confortarla, mentr'ella con moto nervoso ravvolgeva le dita lunghe e sottili in quei bruni ricci ch'erano stati il suo orgoglio. Ella non rispondeva nulla.
Poi che le forbici ebbero compìta l'opera loro, le si acconciò in capo un cuffietta bianca, le si fece infilare un corsetto di bucato, e la signora Dorotea, di sua propria mano, le annodò intorno al collo un fisciù di seta azzurra.
La Gilda ruppe il silenzio. — Qua lo specchio, e ch'io faccia la mia personale conoscenza — ella disse con un'allegria forzata. Indi si voltò dalla parte dell'uscio. — È ben chiuso?
Le aveano portato uno specchietto ovale molto leggero che soleva stare appiccato a un chiodo infisso in uno dei regoli della finestra della camera del professore, il quale se ne serviva nel ravviarsi i capelli e la barba.
La convalescente lo prese due volte in mano, e due volte lo depose sulle coperte prima d'avere il coraggio d'alzarlo al livello del viso. Ella tentò di volgere in celia le sue stesse esitazioni. — È come quando dovevo prender l'olio da bambina... Se si potesse far come allora... Chiuder gli occhi, aprir la bocca, e giù... Adesso invece son proprio gli occhi che bisogna aprire... Coraggio... uno... due... tre...
Nel bene la previsione va spesso oltre il vero, nel male avviene sovente il contrario. Gli è che non v'è triste previsione, la quale non sia temperata da una segreta speranza che il nostro spirito s'inganni, che le nostre paure siano esagerate. E talvolta anzi noi esageriamo a studio; fingiamo di prevedere un disastro ove secondo ogni probabilità non istà per succedere che un incidente sgradevole. Ma quando l'incidente sgradevole accade, non tardiamo ad accorgerci ch'esso ha superato, non la nostra aspettazione immaginaria, ma la nostra aspettazione reale.
— Devo essere orrenda, mostruosa — aveva detto mille volte la Gilda, e, quantunque non fosse più bella, non era nè mostruosa, nè orrenda. Nondimeno il vedersi nello specchio fu per lei un colpo di fulmine. Era lei, era lei veramente quella donna pallida, tutta cicatrici e lividure, che la mirava tra attonita e costernata? Stette un momento muta ed immobile, soffocando gl'impeti tumultuosi dell'anima; poi si guardò intorno smarrita, quasi a persuadersi ch'era ben desta, lasciò cader di mano lo specchio, abbandonò il capo sui guanciali e si coperse il viso con le lenzuola. La sentivano piangere sommessamente.
— Hai avuto troppa fretta — le ripetevano a gara il professore e la signora Dorotea. — Di qui a un paio di settimane sarà tutt'altra cosa.
Ella, rannicchiata sotto le coltri, si stringeva nelle spalle e diceva: — Lasciatemi sola... Per carità, lasciatemi sola... Mi calmerò da me.
Infatti, di lì a un'ora, ella era appieno ricomposta. Alla sera s'intrattenne a lungo col medico, e con aria disinvolta lo pregò di dirle quali tra i segni che le deturpavano la fisonomia il tempo farebbe sparire e quali le resterebbero sempre. L'interrogato si provò a dipinger tutto in rosa, ma la Gilda, che gli teneva inchiodati gli occhi addosso e gli leggeva le bugie in viso, lo riprese amorevolmente. — Non la trattasse come una bimba, se anche quella mattina ella aveva fatto un capriccetto; ormai ella aveva messo giudizio e aveva diritto di conoscere la verità tutta intiera.
Il medico si schermì quanto più potè, ma alla fine espose sinceramente il parer suo, soggiungendo però, che la natura sbugiarda spesso i pronostici della scienza e che in gioventù soprattutto si vedono dei miracoli.
— Grazie — ella replicò, stringendo la mano al dottore. E il suo volto aveva l'espressione seria e tranquilla di chi, uscendo da molte incertezze, ha preso un partito decisivo.
XXI.
Da qualche giorno la Gilda aveva cominciato ad alzarsi, e, appoggiata al braccio dello zio, passava lentamente dalla sua camera in salotto, ove sedeva in una poltrona accanto alla finestra. Le Lorati non mancavano mai di venirle a tener compagnia un paio d'ore e le mostravano un'amicizia tanto più calda quanto maggiore era in loro la soddisfazione di veder avvilita quella famosa bellezza. Nell'andarsene esse facevano un'infinità di commenti.
— L'occhio sinistro è sciupato affatto.
— E il labbro inferiore?
— E quella cicatrice sulla fronte?
— E l'altra alla guancia?
— Povera Gilda, è proprio brutta.
— Bruttissima.
— Orribile.
— Vedete, ragazze — osservava la savia genitrice — come i pregi fisici possano svanire da un giorno all'altro.
— Se non trovava lo sposo prima di questa disgrazia....
— Uhm! Il matrimonio non è ancora successo. Ci credo poco.
— Ella non ne parla mai...
— In ogni caso c'è tempo. Va così adagio a rimettersi... Il medico ha detto che prima di pensare alle nozze ci vorranno dei mesi.
— E Mario intanto è assente da oltre una settimana.
— Ma torna presto.
— Pover'uomo! Se cerca qualche svago, bisogna perdonargli. È toccata grossa anche a lui.
— Se la prende, non può essere che per rispetto alla sua parola....
— Un po' per questo e un po' per compassione.
— Essere sposata per compassione... Io non mi degnerei certamente — sentenziò la maestosa Ginevra.
— Povera Gilda!
— Ma! Chi avrebbe potuto immaginarselo? Lei che si credeva una Venere...
Per Mario, reduce dal suo viaggetto, non fu piccola meraviglia trovar alzata la Gilda. Quando egli la vide adagiata nella poltrona, smunta in viso, col suo corpicino sottile perduto nell'ampia veste da camera, pensò alla stupenda e florida giovinetta che aveva incontrato sulle Alpi, e durò fatica a frenare una lagrima.
Ella s'accorse del suo turbamento, abbassò gli occhi, e si passò rapidamente la mano sulla fronte.
— Devo parlarti — disse poi — fatti più vicino... No... anzi, prima chiudi quei due usci... quello che dà nell'andito, e quello che mette nella camera della signora Dorotea. Dall'altra parte non può venir nessuno... Mio zio è all'Università.
Questi preparativi lo sgomentarono alquanto. Che rivolgeva ella nell'animo?
— Sii franco come sarò io — ella principiò. — Il dissimulare non giova... Nulla può mutare omai la mia risoluzione.
— La tua risoluzione?... Quale?
— Io non sarò più tua moglie.
— Che dici? Perchè?
— Oh! Non me lo domandare... Guardami. Egli comprese il significato delle sue parole, ed esclamò: — È per questo? È per questo?
— Sì... Ci pensai fin dal primo giorno in cui mi colse la mia sciagura... Adesso ho deciso... inesorabilmente deciso.
— Ma tu credi dunque che io...
Ella non lo lasciò finire. — No, Mario, non credo quello che tu supponi... Tu mi sposeresti, ma saresti infelice.
— Oh Gilda...
— Sii sincero... Cento volte tu mi dicesti che non sai concepire la donna che non sia bella... Io ne tremavo allora, e tu per rassicurarmi mi protestavi ch'ero bellissima... Cento volte tu mi lasciasti intendere che, artista anzitutto, tu cercavi nella donna il tipo eterno della bellezza... e io ne tremavo e tu mi ripetevi che per te io ero quel tipo... Ero io che col mio sguardo, col mio sorriso, dovevo sprigionar dal tuo petto la sacra scintilla con cui si creano i capolavori... lo dicevi tu... e mi venivano le vertigini a sentirmi levata sì alto... Io mi chiedevo: — Potrò reggermi dove egli mi ha posta? Potrò sempre dargli il segreto della linea e del colore? Sarò sempre giovine, sarò sempre bella? Oh Mario, quando mi angustiavano questi dubbi ero ancora vagheggiata, ammirata; adesso tu vedi ciò ch'è divenuta la Dea che avevi cinta d'un nimbo... Fissami bene, Mario; che ispirazioni potrai tu cercare su questo volto contraffatto?
Mentr'ella parlava, la sua voce, sulle prime leggermente commossa, si faceva a grado a grado più limpida e sicura, e una espressione dolce ma risoluta si dipingeva sulla sua fisonomia. Mario l'ascoltava attonito, colpito dalla stoica fortezza di quella fanciulla di diciott'anni che rinunziava senza esitazioni e senza lamenti alle sue più care speranze. Com'egli si sentiva umile e piccino in confronto a lei! Come avrebbe voluto nasconderle il suo cuore, di cui ella metteva a nudo i segreti! Come si ribellava all'idea ch'ella dicesse il vero!
E accumulava frasi su frasi, e tentava ingannar lei, e tentava ingannar sè medesimo, e chiamava stupida aberrazione il suo culto esclusivo della bellezza fisica, e giurava alla Gilda che standole vicino egli aveva imparato a pregiare in lei altre qualità e ad amarla per quelle. Ma per quanto facesse, non gli usciva dal labbro uno di quei gridi dell'anima che scendono all'anima e vincono ogni resistenza.
Ella lo lasciò dire; poi riprese con un sospiro: — Sì, Mario, tu devi parlar come fai, io tener fermo il mio punto... La mia schiettezza può parer dura oggi, ma verrà giorno in cui dirai: — la Gilda aveva ragione. — E sarà quel giorno nel quale, se ti dèssi retta, mi rinfacceresti il sacrifizio della tua libertà.
— Oh Gilda, Gilda, mi reputi dunque ben vile — interruppe Mario, torcendosi le mani, tanto più turbato, tanto più confuso quanto più la fanciulla, discorrendo, coglieva nel segno.
— Non me lo rinfacceresti a parole, lo so — ella riprese con soavità — ma lo capirei a ogni modo... e allora... adesso soffro forse... ma allora sento che ne morrei di dolore... Bada a me, Mario, non insistere... eri sincero quando mi rivelavi le tue debolezze d'artista; in quel tempo non avevi ragione d'infingerti..., oggi sì... oggi hai pietà di me, e io devo difenderti contro te stesso.... Va, Mario, non è colpa tua; tu hai bisogno di moto, d'aria, di luce, hai bisogno di fare un viaggio; qui il tuo ingegno si sfibra; l'ozio, lo scoraggiamento ti uccidono.
— Ma sei tu che ti crei questi fantasmi...
— Non mentire, Mario... Io t'ho conosciuto nei tempi in cui la fiamma dell'arte ti splendeva negli occhi e movevi incontro all'avvenire con fronte alta e sicura... Allora la tua mente era piena di immagini, il tuo album era pieno di disegni... da più mesi tu non fai nulla... oh è inutile che tu accenni di sì col capo... Puoi mostrarmi, non dico un tuo quadro, ma un tuo schizzo, ma una linea segnata dalla tua matita?... Lo puoi?
— Tu eri malata, Gilda...
— Oh, le inquietudini sul conto mio sono cessate da oltre un mese. Che hai fatto in questo mese?... Lo vedi, tu taci...
— Sei un giudice inesorabile — egli disse, quasi piangendo di dispetto e di rabbia.
— Sono un giudice clemente. Tu ti dibatti in una lotta tremenda fra ciò che stimi il tuo dovere e il desiderio immenso di libertà che ti affanna. Va, Mario; dal tuo dovere, s'è tale, io ti sciolgo; la tua libertà, io te la rendo... Va... io ti apro la gabbia, povero prigioniero.
Mario si trovava in una condizione d'animo ben singolare. La libertà che gli era offerta egli la sospirava come l'assetato sospira una goccia d'acqua, eppure all'idea di accettarla gli salivano al viso i rossori della vergogna; egli doveva riconoscere che la Gilda aveva ragione, che l'amore ch'egli le aveva portato non era sopravvissuto allo strazio della sua bellezza, eppure sentiva che mai come adesso ella era stata degna di essere amata.
E intanto lo sguardo della giovinetta non si staccava da lui e sembrava dovergli legger nell'anima i più riposti segreti.
— Ascolta — egli le disse infine — oggi, per quanto io facessi, le mie parole non ti persuaderebbero... Ma domani?
— Domani? — ella ripetè distratta.
— Sì, consentimi di ritentar la prova...
— S'egli mi amasse davvero! — pensò la Gilda. Ma seppe frenar la sua commozione, e rivoltasi a Mario con apparente tranquillità, lo licenziò con queste parole: — Allora ci diremo addio domani.
Per quel giorno ella non lasciò trapelar nulla del colloquio avuto col suo fidanzato, e deluse la curiosità della signora Dorotea, che voleva sapere il perchè di quella sconvenienza del chiudere gli usci per di dentro.
Il giovine pittore partì di là che aveva la febbre addosso. Che fare?... Poteva esserci un dubbio su ciò che doveva fare?... Doveva dire alla Gilda: — la sventura ha stretto di più il vincolo che ci unisce; ora più che mai voglio farti mia sposa... — Ma se non l'amava, se non era in poter suo di amarla?... Se aveva questa fatalità di non saper amare che un bel viso? Se col suo eroismo non fosse riuscito che a sacrificar sè e a rendere infelice lei?... Era già dubbio se il matrimonio si conciliasse col suo spirito mobilissimo, anche quando si trattava di sposare una giovine avvenente, florida, vispa... ma il matrimonio con una malata?... Perchè la Gilda ormai era una malata e sarebbe stata tale per un pezzo... Invece di averla compagna nelle sue peregrinazioni artistiche, avrebbe dovuto vegliarla, assisterla... e queste qualità d'infermiere egli non le possedeva... In mezzo alle cure del nuovo suo stato si sarebbe spenta del tutto la sua ispirazione già illanguidita, e allora... che avvenire per lui, che avvenire per la Gilda!
Quando noi rifuggiamo da un grave sacrifizio, ci piace assai spesso ripararci dietro l'idea che quel sacrifizio non gioverebbe neppure a quelli per cui dovremmo farlo, e così Mario concludeva volentieri i suoi ragionamenti col dirsi che la Gilda sarebbe stata infelice sposandolo.
Pure una fiera lotta si agitò nel suo spirito, e ne portava le tracce il foglio pieno di pentimenti e di scancellature che la Gilda ricevette il dì appresso: — «Crudele, crudele, perchè suscitar la tempesta nella mia anima? Io seguivo la via che mi pareva la sola buona, la sola onorevole; tu con amara schiettezza hai voluto mostrarmene le insidie e i pericoli, tu mi hai detto che non potrei percorrerla senza uccidere, qual ch'esso sia, questo mio ingegno d'artista. È un'idea che mi toglie la pace. Tutti devono essere qualche cosa nel mondo; io, che sarei se non sono un pittore?... Non auguro al mio peggior nemico la notte che ho passato... Ripensavo alle tue parole, e, a vicenda, ti adoravo, ti ammiravo, ti colmavo di vitupèri... Sì, la tua generosità è spietata... tu puoi darmi licenza d'essere un vile, non puoi impedirmi di credermi tale... Vedi in qual bivio m'hai messo. O restare, con l'incubo di non esser più atto a far nulla; o partire vergognandomi della mia condotta... Ebbene, parto, cerco il moto, l'aria, la luce, di cui, come dici, ho tanto bisogno, cerco la lena perduta. Se farò un capolavoro, lo dovrò a te. A ogni modo, non ripatrierò prima di aver assodata la mia riputazione d'artista. E tu, Gilda?... Non oso venire a stringerti la mano; sarò già in viaggio quando riceverai questo foglio... Tu meriti un uomo migliore di me, tu lo troverai senza dubbio... Ma, se tu fossi libera al mio ritorno, potrei sperare di non esser respinto?... Se ti riesce, non disprezzarmi, e fa che non mi disprezzi il tuo ottimo zio... È troppa audacia chiedere una tua lettera, almeno una, a Zurigo, ferma in posta? Addio, addio.»
In conformità a quanto egli scriveva, Mario era partito con la prima corsa, diretto sulla linea di Modane. Giunto a Torino, vi si trattenne per poche ore affine di salutarvi suo padre, il quale si trovava colà per ragioni del suo commercio. L'ottimo signor Gedeone fu molto addolorato, non tanto delle nozze sfumate quanto della nuova partenza di Mario, ch'egli amava sinceramente. Nondimeno egli riempì di napoleoni d'oro la borsa del figliuol prodigo e s'impegnò a non fargli mancar danaro finchè non fosse in grado di mantenersi co' propri guadagni. — Quattrini, e poi quattrini, e sempre quattrini — borbottò tristamente il signor Gedeone. — Senza contare la pigione del casino di Firenze e la spesa dell'ammobiliamento... È inutile, son fatto così; per questo figliuolo darei il sangue... con quel sugo... per averlo sempre lontano.
E il signor Gedeone cercò un sollievo alle sue amarezze domestiche nell'acquisto di una partita di farina avariata che poteva servir benissimo per la sua fornitura agli Istituti Pii.
XXII.
Il professore Romualdo stava quella mattina rivedendo i suoi manoscritti che giacevano abbandonati da tanto tempo, e come succede a chi non è in vena di lavorare sul serio e pur vorrebbe poter dire a sè stesso che non è rimasto in ozio, collocava a posto le virgole dimenticate, arrotondava l'occhiello degli e e metteva i punti sugli i. Si può tuttavia giurare che la sua mente era assorta in altri pensieri ai quali non era certo estranea una persona la cui apparizione repentina ed inaspettata lo fece scattar dalla sedia.
— Tu, Gilda?... Alzata?... A quest'ora?... Che direbbe il medico?
— Oh! — ella rispose — bisogna ormai emanciparsi dal medico... Sto bene... Vedi come mi reggo da me...
— Stai bene e sei così pallida? — esclamò il professore con inquietudine. — Che hai?
— Nulla....
— Non dirlo... Hai gli occhi gonfi, Gilda, sei agitata... Questa tua visita mattutina non è certo senza una grave ragione.
— Voglio riprender le mie antiche abitudini — ella replicò, avvicinando una seggiola al tavolino — voglio esser la tua assistente, il tuo segretario come una volta... La pecorella smarrita ritorna all'ovile... ecco tutto.
Com'ella s'accorse che lo zio Aldo stentava a raccapezzare il senso delle sue parole, estrasse di tasca un foglio e glielo porse spiegato — Leggi.
Appuntò il gomito al ginocchio, fece con la mano sostegno al mento, e stette lì a capo chino senz'aprir bocca e senza batter palpebra. Pareva una figura scolpita nel marmo.
Il professore intanto aveva divorato l'arruffatissima lettera di Mario.
— Parte? Ti lascia? — egli gridò, appena l'ebbe finita. E balzò in piedi con impeto, schizzando fiamme dagli occhi.
Ella si scosse, sollevò la testa, e rivolgendo allo zio uno sguardo soave e amorevole: — Sono stata io — gli disse — egli non fece che ubbidirmi.
— Ubbidirti? — egli proruppe passando di sorpresa in sorpresa. — Gli hai imposto tu di partire?
Ella gli riferì il colloquio avuto con Mario il giorno innanzi. Il professore durò fatica a non interromperla cento volte.
— Non difenderlo, non iscusarlo — egli esclamò finalmente, misurando a lunghi passi la stanza. — Che amore era il suo?... Ha potuto sentirti parlare come gli parlavi, e non è caduto a' tuoi piedi, e non si pentì delle sue esitazioni e non rinnovò i suoi giuramenti? T'ha abbandonata, è fuggito perchè le tue guance sono men floride, perchè i tuoi occhi sono meno scintillanti d'un tempo? E tu gli perdoni, e gli perdoneranno tutti, e la sua vigliaccheria resterà impunita? Oh come intendo in questo momento il piacere della vendetta!... Come disprezzo questa scienza vantata che sfibra le virtù del braccio e dell'animo!... Come volentieri la darei tutta quanta per essere un forte, per colpire inesorabilmente colui che ti rende infelice!
— Mio cavaliere — rispose la giovinetta, atteggiando il labbro a un malinconico sorriso — non voglio che tu mi vendichi... Non c'è offesa da vendicare... Mario era pronto a sposarmi, fui io che gli resi la sua parola... S'egli mi avesse resistito, sarebbe stato un eroe, e non si può pretender dagli uomini che siano eroi... Forse è stato meglio così.
— Ma pur tu lo amavi?
— Oh sì... Quando credevo di poter essere una valida alleata del suo ingegno, uno strumento della sua gloria. Appena cominciai a dubitare che gli sarei stata d'impaccio, cominciai anche ad amarlo meno... Sono orgogliosa...
— Gilda!... E l'avvenire?
— Starò qui come sono stata finora; mi rimetterò a studiare... le donne brutte studiano... copierò i tuoi manoscritti, ti aiuterò nei tuoi esperimenti...
Egli le diede sulla voce. — Non parlarmi dei miei esperimenti... Il mio laboratorio io l'abborro... Voglio distruggerlo... O almeno voglio chiuderne l'uscio per sempre...
— Lo riapriremo insieme, zio Aldo — rispose la Gilda. — Rammento ancora le mattine che vi ho passate, a bocca aperta, tempestandoti d'interrogazioni, ammirando la vastità del tuo sapere, e la infinita pazienza che avevi con me... Povera cameretta! Da due anni la trascuravo e ne fui punita... Oh se si potesse tornare indietro di due anni!... Proviamo, zio Aldo.
— Se si potesse — egli ripetè, tentennando il capo con aria desolata. E soggiunse a mezza voce: — È un nodo che non si scioglie. — Indi si abbandonò sopra una sedia e si coprì il viso con le mani.
— Zio Aldo, tu mi nascondi qualche cosa — proruppe inquieta la Gilda. — I nostri guai non sono finiti?
— La fatalità ci perseguita, o fanciulla... Io vorrei pure che queste pareti ridivenissero per te il nido calmo e tranquillo della tua infanzia, vorrei poter dirti come una volta: Addormèntati fidente sulle mie ginocchia, appoggiati al mio braccio leale, lasciami esser tua guida nel campo della scienza... Ma no; un destino iniquo non lo permette; io sono un pazzo, io sono un malato.
— Se sei un malato, ti curerò — interruppe con dolcezza la giovinetta. — Non mi curasti tu per due mesi? Dovrei abbandonarti, se soffri?
— Eppure sarà necessario — egli esclamò, agitandosi sulla seggiola. E proseguì: — Non ho rimorsi... ho lottato... ho lottato tanto... Tutti gli argomenti che la ragione può suggerire io me li son detti... tutta l'energia d'un carattere avvezzo a vincer gli ostacoli, io l'ho spesa... e non è valso a nulla...
— Ma insomma, a che mirano le tue parole? Che vuoi fare di me?
— Pensiamo insieme, studiamo un modo...
— Non posso più viver sotto questo tetto come la tua pupilla, come la tua nipote, come la figlia dell'anima tua?
— Compiangimi, Gilda, non lo puoi.
— Come la tua sorella?... Vedi, i patimenti hanno in me affrettata l'età... Io posso esser la tua sorella.
— Non lo puoi, non lo puoi — replicò il professore con l'accento della disperazione.
Vi fu un istante di silenzio. Il dottor Romualdo teneva le mani intrecciate sulle ginocchia, lo sguardo immobile a terra. La Gilda, levatasi da sedere, gli si avvicinò lentamente. Un lieve rossore le tingeva le gote.
— Alza gli occhi — ella disse — fissami in viso. In questa casa dove non posso esser più nè pupilla, nè nipote, nè sorella, potrei almeno esser la compagna della tua vita, la tua sposa?
— Tu, Gilda? — esclamò lo scienziato con un grido che veniva dal cuore. — La mia sposa; L'hai detto? L'hai proprio detto, tu? L'hai detto sul serio? Non ti sei presa giuoco di me? Oh no! Il tuo volto onesto porta l'impronta della sincerità... Tu non vuoi uccidermi!
Egli le afferrò tutt'e due le mani e le tenne strette nelle sue.
— Zio Aldo — ella mormorò affettuosamente.
— Non chiamarmi più così... Chiamami Aldo... O piuttosto, no, sciocco ch'io sono... chiamami ancora zio Aldo... c'è tanta dolcezza in queste due parole pronunziate dalle tue labbra... Sentivo sempre dirmi professore, professore... e non ero che un professore arido, dotto, noioso...; tu mi dicesti zio e sono divenuto un uomo... Oh se la mia vita fosse cominciata da quando batte il mio cuore, io sarei ben giovine, o Gilda...
Egli s'interruppe un momento; poscia riprese con un sospiro: — Invece hai riflettuto che son vecchio, che ho diciannove anni più di te? Guarda la mia barba e i miei capelli segnati di bianco, guarda le rughe della mia fronte... La tua giovinezza è appassita per poco; essa risorgerà senza dubbio; ma la mia, oh la mia non torna mai più.
La Gilda scrollò il capo. — Tu mi porti un cuore che non ha amato altra donna che me...
— Nessun'altra, nessun'altra — egli esclamò con enfasi.
— Lo vedi — ella rispose. — Il tuo cuore almeno è più giovine del mio — Abbassò gli occhi e soggiunse arrossendo: — E da quando... da quanto tempo mi ami?
— Lo so io forse? Fu nel giorno in cui lessi sulla tua fronte ch'era finita per te l'infanzia gioconda; fu prima, fu dopo? Lo ignoro. Sentivo il mio affetto trasformarsi a grado a grado, ma non sarei riuscito a dire a me stesso che cosa provavo... Non avevo mai amato... Ti cercavo e ti sfuggivo... Avevo un immenso desiderio e una paura immensa delle tue carezze... Nelle mie notti insonni la tua immagine mi appariva fra le tenebre... Nel giorno il fruscìo della tua veste, il suono della tua voce turbava le mie meditazioni. Mi sembrava qualche volta che non avrei avuto pace finchè tu non avessi abbandonato la mia casa, e talora mi sembrava invece che senza di te non avrei potuto vivere... Eppure era amore?... Non lo so, non lo so... Ma quando tu amasti un altro, oh allora sì m'accorsi che veramente t'amavo...
— Poveretto! Che strazio deve essere stato il tuo! E hai sofferto in silenzio?
— E potevo parlare? Eri bella come un angiolo, tutte le grazie della gioventù ti fiorivano in viso; eri innamorata di un uomo bello e giovine anche esso... parevate nati uno per l'altro... La vostra passione era così ragionevole, la mia così strana, così assurda! Parlare?... Darti un dolore, insidiare la tua felicità, io che t'adoravo?... Un giorno solo fui per tradirmi... oh quel giorno avrei voluto morire...
— Che rivelazione fu per me quella! — esclamò la Gilda.
— Te n'eri accorta?
— Sì... Ero venuta ad annunziarti il prossimo arrivo di Mario... Si dovevano prendere i concerti per le nozze...
— Che pensasti di me, Gilda?
— Piansi tanto...; che non avrei fatto per consolarti? Tu ti sei chiuso nella tua camera, nel tuo laboratorio... La mattina dopo...
— Taci — egli interruppe — a pensarci mi corre un gelo per l'ossa... Più tardi io vegliavo al tuo letto... Avevi gli occhi bendati, eri tutta una piaga... Il tuo respiro era un rantolo, la tua voce era un gemito... I medici ti davano quasi per ispacciata; io volevo salvarti a ogni costo...
— E mi salvasti.
— Sì, ma la mia ferita si faceva più larga e profonda. Dal tuo alito infocato, dal tocco delle tue mani ardenti per la febbre, io aspiravo l'amore... E non avevo speranze, e non avevo altro desiderio che quello d'espiare un minuto d'oblìo... Non era per me ch'io ti conservavo in vita, era per l'uomo a cui tu avevi giurato la tua fede. Spesso mi pareva ch'egli non t'amasse abbastanza e me ne sdegnavo; ma pure (lo crederesti?) sentivo una specie d'orgoglio all'idea che il mio amore ignorato fosse più forte del suo... Accarezzavo col pensiero la mia infinita miseria. Quando non s'ha più che il dolore, si vuole almeno che il dolore sia grande... Intanto m'abbandonavo a occhi chiusi alla corrente, aspettando da un momento all'altro che tu mi fossi tolta per sempre... Ma no; tu non mi sei tolta, tu rimani; e io mi domando ancora se tutto ciò non è un sogno, mi domando se sono ben desto... Gilda, Gilda, sei tu sicura di non ubbidire a un impeto subitaneo, di non cedere a un movimento di pietà verso di me, di dispetto verso un altro?... Se ti pentissi domani! Se Mario tornasse!
— Uomo di poca fede!... Non è un capriccio il mio, non è un desiderio di vendetta... Quante volte, in mezzo ai patimenti di questi ultimi mesi, io confrontavo in silenzio l'amor tuo con quello dell'uomo che avrebbe dovuto sposarmi!... Quante volte, se eravate entrambi accanto al mio letto, io studiavo l'espressione diversa dei vostri volti; nel tuo una tenerezza infinita, in quello di Mario un tedio profondo! E dicevo: Mario amava la mia bellezza che è svanita; lo zio Aldo mi ama qual sono, mi ama forse di più dacchè cessai di esser bella...
— E vero, è vero...
— Dicevo: Mario non è un triste, non è un vile; egli terrà la sua parola, ma io avrò il rimorso di aver fatto una vittima... E così il mio cuore s'allontanava a mano a mano da lui e s'avvicinava a te... a te ch'eri stato la mia provvidenza, a te cui speravo di poter dar qualche gioia. Oh Mario non tornerà; egli è troppo lieto della libertà che gli è resa; egli insegue il suo ideale d'artista, va dove lo chiama la sua anima appassionata del bello... Se tornasse...
— Ebbene? Che faresti?
— Ebbene? Farei... così — ella gridò gettandoglisi fra le braccia — e ti direi: Son la tua sposa difendimi... Mi crederesti allora?
— Ti credo, ti credo — proruppe il dottor Romualdo, stringendo al seno con impeto quel capo diletto. E mentre la copriva di baci, mormorava:
— Oh Gilda!... Amor mio!
— Non ci odii dunque più, noi povere donne? — ella chiese con malizia.
— Adoro te — egli rispose — ecco quello ch'io so.
XXIII.
Pochi mesi dopo, una bella mattina di settembre, il professor Romualdo era affacciato alla finestra d'un albergo di Genova guardante il mare. Era l'albergo medesimo in cui, circa quindici anni addietro, egli aveva passato tante ore d'incertezza attendendo il suo misterioso abboccamento col capitano Rodomiti. Fra quelle pareti era cominciata per lui una nuova esistenza, eran cominciate le cure, i pensieri che dovevano far sbocciare la sua gioventù appassita prima di nascere, ed egli tornava oggi ai memori luoghi, allo stesso modo che l'egro risanato torna pellegrino alla fonte ond'ebbe il primo ristoro. Come quindici anni addietro, gli si stendeva davanti agli occhi lo splendido golfo riscintillante ai raggi del sole, e una selva d'antenne si levava al cielo, e mille barchette guizzavano sulle acque leggermente increspate, e s'alzava dai pensili giardini il profumo dei fiori, e dalle vie popolose l'allegro strepito del lavoro.
Ma questa volta il dottor Romualdo non era solo. S'aprì l'uscio della camera attigua, e una giovine dalla persona snella e spigliata s'avvicinò con passo rapido alla finestra, e toccò lievemente la spalla del professore.
— Sei tu, Gilda? — egli disse, voltandosi estendendole ambe le mani.
— Va bene così? — ella chiese, mostrando la sua toilette d'una elegante semplicità. E soggiunse: — Son curiosa di vedere che impressione gli faccio.
— Sei bella, Gilda — riprese il professore. — Sei troppo bella per me.
— Zitto — ella interruppe, portando al labbro l'indice della mano destra — Zitto, non voglio sentir coteste sciocchezze.
La Gilda era sempre un po' magra, un po' pallida, ma il tempo andava via via scolorando le sue cicatrici e ricolmava lentamente le sue guance sparute, e faceva rinascere i suoi capelli, i cui ricciolini bruni spuntavano dagli orli della sua cuffia. In quanto al segno che l'era rimasto nell'occhio sinistro, esso non era percettibile a prima vista. Certo ella non era più, ella non sarebbe più ridiventata la splendida giovinetta che sollevava un mormorio di ammirazione sul suo passaggio, ma era chiaro che le conseguenze dell'accidente ond'ella era stata vittima avrebbero finito coll'essere assai minori di quanto s'era supposto.
Ella s'accostò in punta di piedi all'uscio che metteva sul corridoio.
— Vien gente? — domandò il professore.
— No... Del resto, siamo intesi... Prima ch'egli entri scappo di là...
— Cattiva! Vuoi lasciar me nell'imbarazzo...
— Voglio veder come ti levi d'impaccio...
Non occorre una grande sagacità a capire che il professore e la Gilda aspettavano qualcheduno. Questo qualcheduno era il capitano Rodomiti, il quale aveva scritto a' suoi amici annunziando loro che sperava d'essere a Genova col suo legno entro il settembre, e che giunto colà avrebbe chiesto una licenza di alcuni mesi, e sarebbe intanto volato subito a far loro una visita. Il capitano sapeva della malattia e della guarigione della Gilda; non sapeva il resto, perchè le notizie posteriori non avrebbero potuto pervenirgli durante il viaggio. Non doveva esser piccola sorpresa per lui l'apprendere il matrimonio del professore Romualdo con la figlioccia, e questa sorpresa i novelli sposi avevano voluto anticiparla col venirgli incontro essi stessi. Invero essi sentivano un po' di rimorso a non averlo consultato prima delle nozze, ma si capisce d'altra parte che la condizione di due fidanzati i quali abitano sotto il medesimo tetto è troppo ambigua perchè essi non abbiano da affrettarsi a diventar marito e moglie. Comunque sia, il professore e la Gilda, che s'erano sposati appena ottenuto il decreto reale che toglieva l'impedimento della parentela, si trovavano a Genova da un paio di settimane, e il nostro matematico andava ogni mattina nel banco di noleggi del signor Egisto Giorgi successore dei signori Radice e Lupini, per informarsi del capitano. Alla fine, la vigilia del giorno di cui parliamo, il dottor Romualdo era tornato all'albergo con una importante notizia. Il legno comandato dal Rodomiti era in vista e sarebbe entrato in porto verso notte. Allora il professore, d'accordo con la Gilda, era ripassato nel banco del signor Giorgi a lasciarvi un bigliettino pel capitano così concepito: «Sono qui all' Hôtel de la Grande Bretagne, nº 36. Ho molte cose da dirvi. Vi aspetterò domani all'albergo fino a mezzogiorno.» Il signor Giorgi, ch'era un uomo assai più officioso dei suoi predecessori Radice e Lupini, non solo si incaricò della trasmissione del biglietto, ma fece aver la mattina seguente al professor Grolli la risposta del capitano: «Sarò da voi prima dell'ora indicata — scriveva il Rodomiti; — ma che diamine v'impediva di venirmi a trovare a bordo? E la Gilda?»
Erano le undici quando un cameriere picchiò all'uscio del nº 36, e con un certo timore reverenziale introdusse il gigantesco marinaio.
— Oh Grolli — disse costui, stringendo cordialmente la mano del professore. — E la Gilda?
— Ormai sta bene.
— S'è sposata col suo Mario?
— No...
— Come?
— Or ora vi dirò. Accomodatevi.
Il capitano prese una sedia. — Non è la vostra camera da letto? — egli domandò, girando intorno gli occhi.
— No... è un salottino... dormo di là — rispose il Grolli in fretta, come se le parole gli scottassero la lingua.
— Cospetto! Siete in lusso ora — esclamò il Rodomiti. E soggiunse: — Su via, raccontatemi... Questo matrimonio?
Quando il professore ebbe narrato che la Gilda aveva reso a Mario la sua libertà e che Mario aveva accettata l'offerta, il capitano si lasciò scappare una serqua di vigorose esclamazioni, le quali finirono con una domanda ad hominem: — E voi?
— Io? Che cosa?
— E voi non avete data una buona lezione a quel bellimbusto che pianta la sposa perchè le è toccata una disgrazia?.. Oh lo so quel che volete dire... È stata lei... Grazie tanto... Ella non poteva fare altrimenti; ma un uomo che avesse avuto un filo d'onore non l'avrebbe presa in parola... Ah caro Grolli, se ero nei vostri panni, non l'andava a finire così... Gran che! Voi altri dotti non avete sangue nelle vene!
A questo punto il capitano con un brusco movimento ruppe la spalliera della seggiola e si alzò di scatto facendo tremare i vetri della camera sotto i suoi passi pesanti e poderosi.
— È dunque diventata un mostro questa Gilda? — egli ripigliò, dopo una breve pausa.
— Un mostro! — esclamò il professore scandalizzato — Che idee?
— Oh adesso vi riscaldate! Con me? Era meglio riscaldarsi con quell'altro... Via, scusate — continuò il Rodomiti, mutando tono. — Son certo che avete fatto tutto ciò ch'era possibile... Se la Gilda è sempre piacente, non dureremo fatica a darle un marito che valga più di quel vostro famoso pittore... Bisognerà pensarci insieme... Ma spiegatemi un po', perchè non l'avete condotta con voi a Genova?
Il professor Romualdo, più confuso che mai, guardò istintivamente verso l'uscio della camera attigua.
Questo imbarazzo non isfuggì al capitano, il quale chiese con una certa impazienza: — Siete in compagnia? C'è qualcheduno di là?... Avete un'aria di mistero!...
— Benedette donne! — pensò il Grolli. — Hanno dei capricci!... Per secondar la Gilda mi convien fare questa commedia. — Insomma — egli disse a voce alta — ho da raccontarvi una novità...
— Ed è?
— Ho preso moglie...
Questo annunzio produsse al marinaio l'effetto dello scoppio d'una mina. — Moglie?... Voi?... Scherzate?
— Niente affattissimo — rispose il professore punto da queste esclamazioni — Parlo sul serio...
— E il vostro odio per le femmine?
— È sfumato...
— Non c'è che dire — osservò il marinaio, calmandosi a poco a poco — voi siete il miglior giudice delle vostre azioni, e in quanto alla donna che vi sposò, ella può vantarsi d'avere sposato un gran galantuomo...
— Non credete quindi che questa donna abbia commesso uno sproposito imperdonabile? — domandò il dottor Romualdo, alquanto rinfrancato.
— Tutt'altro... tutt'altro... Anzi vi chieggo perdono... Del resto, è vero... siete ringiovanito, e mi congratulo con voi. Ma che volete?... Penso alla mia figlioccia... Converrete meco che adesso è più urgente che mai di accasarla... Povera Gilda!... È necessario ch'io la veda... Abita sempre con voi?
— Sicuro...
— Non v'invidio... Due donne sotto il medesimo tetto...
— Ma mia moglie...
— Non intendo dir male di vostra moglie... Dio guardi... Ma in ogni modo...
— Volete conoscerla? — insinuò il professore, che non vedeva l'ora di gettar giù la maschera.
— No, grazie... o almeno finchè non sia necessario. Non prendete in cattivo senso il mio rifiuto... Sapete che io sono un uomo alla buona, un uomo che si trova a disagio in mezzo alle nuove conoscenze... specialmente poi quando si tratta di signore...
— E se fosse una signora che si conoscesse da un pezzo? — disse una vocina nota e melodiosa. In pari tempo la Gilda si precipitò nella stanza e si appese (qui la frase va a pennello) al collo del capitano.
— Come? Che?... la Gilda...? — balbettò il Rodomiti nel colmo dello sbalordimento.
— Sì, signore, la Gilda... Sono un po' mutata, ma insomma...
Il capitano guardava alternativamente la sua figlioccia e il professore, le cui guance s'erano fatte del color della porpora — Sua moglie? — egli disse infine.
— Sua moglie, sua moglie — ripetè la giovine.
— Non è lo sposo ch'ella si meritava — osservò Romualdo in tono rimesso, ma senza affettazione di umiltà.
— Zio Tonino — disse la Gilda — fallo tu finire una buona volta... Egli ha paura che tu disapprovi il nostro matrimonio...
— In verità, figliuoli miei — esclamò il capitano, scotendo forte la mano ad entrambi — in verità ch'io sarei una gran bestia se lo disapprovassi... Ma vi confesso che mi avete fatto cascar dalle nuvole... Ah professore, professore, siete più birichino di quello che credevo, voi... Basta... Intanto, Gilda, torno a dirti ciò che dicevo poco fa a lui... La donna che prese per marito questo signore ha sposato un fior di galantuomo...
— Grazie, amico mio — interruppe il dottor Romualdo, raggiante di contentezza.
— Un fior di galantuomo — continuò il capitano — a cui bisogna voler bene sempre.
— Perdonandogli la sua età matura, il suo brutto visaccio, e i suoi capelli che imbiancano — soggiunse il professore, compiendo la frase.
— Allora — saltò a dire la Gilda — io porterò in campo le mie cicatrici e il mio occhio sinistro...
— Zitti tutti e due — gridò il capitano Antonio col suo vocione — amatevi e fatemi presto diventare padrino d'un bel maschiotto... Questo è l'essenziale.
— Oh! — bisbigliò la Gilda, arrossendo.
E il professore, tanto per mutar discorso: — E voi — disse — non penserete mai a farvi una famiglia?
— Io? A sessantadue anni?... Eh via, a trentotto, ne avete trentotto, non è vero?
— Sì.
— A trentotto la cosa va co' suoi piedi, ma a sessantadue poi... ho proprio paura ch'essa andrebbe coi piedi degli altri.
La storia è finita. Che se qualcheduno volesse sapere che cosa pensi di queste nozze la signora Dorotea, dirò soltanto ch'ella ne è felicissima, che sostiene d'avervi contribuito per gran parte, ma che non sa persuadersi come un così bel matrimonio non debba fruttarle una vincita al lotto. E sì ch'ella va giocando a ogni estrazione i numeri che le sono suggeriti dalla cabala e da persone sperimentate e autorevoli.
Del resto, dopo il primo momento di stupore, tutti si sono persuasi che il dotto professor Romualdo Grolli, sebbene non sia un Adone, può essere un eccellente marito rimanendo un insigne matematico; solo la signora Olimpia Lorati gli tiene il broncio perchè, volendo pure sposarsi, non ha sposato una delle sue figliuole.