NELLA LOTTA
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NELLA LOTTA
ROMANZO
DI
ENRICO CASTELNUOVO
SECONDA EDIZIONE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1884.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Tip. Fratelli Treves.
NELLA LOTTA
I.
—A rivederci, signora Giulia, a rivederci, Lucilluccia mia—disse il giovine ingegnere Roberto Arconti, stendendo la mano alle due signore Dal Bono, madre e figliuola, ch'entravano in un negozio di mode nella Galleria Vittorio Emanuele a Milano.
La signora Giulia fece una piccola smorfia sentendo il tono di confidenza con cui Roberto salutava la sua ragazza; pure quella smorfia finì in un sorriso, ed ella rispose—Addio, capo scarico,—mentre Lucilla non diceva nulla e si contentava di avvolgere il giovinotto in uno di quegli sguardi, che, a ventidue anni sopratutto, come ne aveva l'Arconti, penetrano fino alle midolle.
Era pur bella, Lucilla. Svelta della persona, con due grandi occhi neri, una bocca e un nasino da statua greca, e dei capelli d'ebano, lucidi, folti, un po' indocili, che facevano risaltare il candore d'una fronte squisitamente modellata.
Era pur bella e sapeva d'esser tale, e molti glielo avevano detto. Ma nessuno era andato più in là. Era opinione comune ch'ella avrebbe finito collo sposar Roberto Arconti, il quale, del resto, era un partito convenientissimo.
Ufficialmente i due giovani non erano ancora fidanzati. Lucilla aveva appena compiuto i sedici anni; Roberto, come sappiamo, ne aveva soltanto ventidue. Egli s'era laureato da pochi mesi al Politecnico e suo padre aveva deciso di mandarlo a fare un viaggio d'istruzione in Francia, in Belgio e in Inghilterra prima di cercargli una posizione. Dopo questo viaggio, sarebbe avvenuta per parte degli Arconti la domanda formale di matrimonio. Intanto Roberto e Lucilla avevano una certa libertà di vedersi e di chiacchierare anche da soli. A quattr'occhi usavano del tu confidenziale; in presenza dei terzi si davano del lei, ma quel caro e simpatico tu faceva di tratto in tratto capolino nella conversazione, salvo a rintanarsi timidamente a uno sguardo severo dei rispettivi babbi. In quanto alle mamme, esse lasciavano correre.
Roberto, lieto d'aver incontrata l'amata fanciulla, tornava a casa col viso giocondo e col passo elastico di chi trova bella la vita. Sì davvero; per lui la vita era sparsa di fiori. Nulla gli era mancato, nulla, tranne la prova della sventura. Quanti baci, quanti sorrisi, quante cure avevano rallegrato, avevano protetto la sua puerizia e la sua infanzia! Adolescente, egli era stato fornito di tutti i mezzi necessari ad acquistare una solida e varia istruzione; nè lo studio gli era riuscito difficile. Immaginoso, pronto d'ingegno, dotato di singolare memoria, era stato sempre fra i primi della scuola e aveva mostrato uguale attitudine per le lettere e per le scienze. Tutti facevano i più lieti pronostici pel suo avvenire; chi conosceva la famiglia diceva: Non sarà da meno di suo padre che ha saputo conquistarsi la stima universale. Nè la natura era stata avara con Roberto di quelle doti esteriori che solo gli spiriti molto ingenui possono spregiare in buona fede. Egli era bello di una virile bellezza; aveva la fisonomia aperta, intelligente, vivace, vestiva con naturale eleganza, ed era peritissimo negli esercizi che si associano volentieri all'eleganza e alla gioventù, come la ginnastica, l'equitazione, la scherma. A coronar questa giovinezza felice era venuto l'amore, l'amore di una tra le fanciulle più leggiadre di Milano, una fanciulla, soggiungevano gli spiriti positivi, che aveva circa duecentomila lire di dote.
Giunto a casa, in via Monte Napoleone, Roberto si fermò un minuto a scherzare col bimbo della portinaia, e quindi fece in quattro salti le scale.
Il servo, che venne ad aprirgli l'uscio, gli disse:—Il padrone la prega di passar subito nel suo studio.
—È già in casa il babbo?—chiese Roberto, facendo una di quelle domande inutili che sono uno dei tanti modi di esprimere la propria sorpresa.
—Sì, signore, da circa mezz'ora.
Il giovine entrò un momento nella sua camera a mutarsi vestito; poi si avviò allo studio di suo padre.
Il cavaliere Mariano Arconti era un uomo sulla cinquantina, i cui lineamenti ricordavano molto quelli del figlio. Appena qualche pelo bianco spuntava nella sua barba e ne' suoi folti capelli castani, tantochè egli avrebbe potuto parer più giovine che non era, se non lo avesse tradito una certa aria di stanchezza diffusa nella fisonomia. E siffatta stanchezza fu avvertita forse per la prima volta da Roberto nel momento in cui, aprendo l'uscio dello studio paterno,—disse—Babbo, mi hai fatto chiamare?
—Sì—rispose il cavaliere Mariano sforzandosi di nascondere la sua agitazione—debbo parlarti di cosa seria.
—Di cosa seria?—esclamò il giovine che cominciava a turbarsi.—C'è qualche disgrazia?
—Roberto—soggiunse il signor Mariano—finora la vita fu tutta rose per te; io speravo che tale sarebbe stata ancora per un pezzo…. ma la Provvidenza dispose altrimenti…. Non impallidire, figliuol mio…. Forse è meglio così…. Guai a chi non si addestra per tempo alla lotta.
—Babbo, io sono forte, ma il tuo esordio mi fa paura…. Vuoi ch'io ti ascolti imperterrito, e tu stesso sei imbarazzato a dirmi precisamente di che si tratta….
—Hai ragione…. Leggi questa lettera…. Or ora ti spiegherò.
E gli porse un foglio aperto il quale conteneva due sole righe. «Egregio signor cavaliere. Siamo dispiacentissimi di non poter accettare la nota operazione. Con la massima stima
/# «per la Compagnia Reale Italiana «di Assicurazioni sulla vita dell'uomo
«IL SEGRETARIO, ecc. ecc.» #/
—Ebbene.—chiese Roberto che non capiva nulla.
—L'operazione che si rifiuta—rispose il signor Mariano—è una sicurtà di 60 mila lire a tuo benefizio, pagabile alla mia morte.
—Oh babbo!—esclamò Roberto, che amava sinceramente suo padre.—Che idee son queste? La tua morte!… Ma non voglio nemmeno sentirne a parlare…. Ho piacere anzi che non si sia accettata la sicurtà….
—Povero ragazzo,—disse il cavaliere sorridendo tristamente.—L'affetto toglie al tuo spirito l'ordinaria lucidezza…. Si può non voler parlar della morte, ma si muore. E quando questo fatto inevitabile non si presenta più come una cosa remota, allora, se ne parli o non se ne parli, bisogna pensarci e preoccuparsi di quelli che resteranno dopo di noi…. allora vengono i rimorsi della negligenza passata, allora si vuol riparare alla propria leggerezza, alle proprie colpe…. e spesso è troppo tardi….
—Ma di che colpe puoi accusarti, tu il migliore dei mariti, il migliore dei padri?…
Il cavalier Mariano tentennò il capo.
—È duro doversi accusare davanti ai figli, ma è quello che mi tocca far oggi. Sì, io ho amato tua madre, ho amato svisceratamente te, ma mi è mancata una tra le qualità essenziali del capo di famiglia, la previdenza…. Mi dicono un uomo d'ingegno….
—Lo sei.
—Forse…. È vero, ho fatto da me la mia educazione, la mia carriera. A quattordici anni, i miei genitori, ch'eran poveri, dovettero ritirarmi dalla scuola e mettermi in un banco di cambia valute. Non mi scoraggiai per questo; continuai a studiare da me, e seppi uscire dalla mia umile posizione; fui un po' giornalista, un po' letterato, un po' uomo d'affari, e finalmente consigliere d'amministrazione e direttore di questa Unione, che è tra i più cospicui istituti di credito del paese. M'han fatto cavaliere, hanno agitato la mia candidatura al Parlamento….
—E saresti stato un ottimo deputato….
—Sì, sì, ma intanto ho sempre vissuto giorno per giorno, pieno d'una fiducia baldanzosa in me, senza curarmi dell'indomani. Bada ch'io non approvo quelli che sagrificano il presente all'avvenire; l'avvenire è dubbio, il presente è certo, ed è una sciocca speculazione quella di viver male oggi per l'idea di viver bene domani; ma chi ha famiglia e non ha una sostanza propria non può a meno di mettere in serbo qualche cosa. Noi si vive da gran signori, tu lo sai; la tua mamma possiede forse ancora meno di me l'istinto del risparmio; si vive da gran signori, ma non s'avanza nulla, e se io morissi oggi, vuoi sentire cosa resterebbe a voi altri poveretti? La roba di casa, la dote di mia moglie (ventimila lire), poche azioni della Compagnia, insomma meno di quanto siamo avvezzi a spendere in un anno…. E volesse il cielo che non restasse anche qualche debituccio!…
—Ma perchè torni a parlar di morire, padre mio?—ripetè Roberto che cominciava a sentire nell'anima un vago sgomento.—Tu sei ancora nel fior dell'età, sei vigoroso; hai ancora tanti e tanti anni da vivere con noi…. e prima che avvenga…. oh non voglio nemmeno pensarci…. prima che avvenga una disgrazia, insomma, mi sarò fatto una bella posizione anch'io…. Non sono poi uno sciocco…. via, babbo, scaccia da te queste ubbie; diverremo vecchi insieme, conteremo insieme i nostri capelli bianchi…. T'ho detto che quella biricchina di Lucilla sostiene che ce ne sia già uno…. qui…. in mezzo a questa folta e ammiratissima capigliatura?… Ma già non dev'esser vero….
—Ottimo figliuolo!—proruppe intenerito il signor Mariano.—Quanto mi costa il dover amareggiare il tuo cuore! Eppure non posso, non posso farne a meno…. Sai tu perchè volevo far quella sicurtà, sai tu perchè me l'hanno ricusata?
—Perchè te l'abbiano ricusata, no; ma in quanto alla ragione per cui volevi farla, l'hai detta prima….
—Sì, ma ignori sempre il primo movente…. Sono parecchi mesi, Roberto mio, che non ho più la salute di una volta.
—Hai qualche incomodo di tratto in tratto—osservò Roberto impallidendo—ma son cose da nulla… lo dicevi tu stesso…. Infatti non hai mai voluto il medico….
—Non l'ho mai voluto perchè temevo che le sue parole fossero una rivelazione dolorosa. E quella rivelazione mi avrebbe impedito d'effettuare il mio piano…. Anche noi uomini onesti facciamo i nostri compromessi gesuitici con la nostra coscienza.
—A che compromessi alludi?… Non ti intendo.
—Se io avessi saputo positivamente che la mia salute era rovinata, non avrei potuto proporre a nessuna Compagnia una sicurtà sulla mia vita…. Ma finchè non avevo che un dubbio, la faccenda era diversa…. Ora, fin dal primo giorno in cui m'accorsi d'essere un altr'uomo da quel ch'ero un tempo, mi si affacciò il pensiero della morte vicina, e dello stato non lieto in cui avrei lasciato la mia famiglia…. Ma se io potevo garantire ai miei eredi una sessantina di mila lire, tutto mutava aspetto…. Tra queste sessanta mila lire e la dote di tua madre, c'era abbastanza per affrontare e vincere le prime difficoltà. Tu avresti potuto perfezionare la tua educazione e non correre il rischio di rovinare il tuo avvenire accettando il primo impiego che ti fosse capitato…. Io sarei stato contento e (chi sa?) sarei forse vissuto di più. Il rifiuto della Compagnia rovescia il mio bell'edifizio….
—Ma tu esageri la tua indisposizione, tu vuoi assolutamente veder tutto in nero, oggi.
—Non son io, Roberto, che mi creo dei fantasmi. In primo luogo la Compagnia assicuratrice non volle concluder l'affare appunto in vista della mia salute.
—Ne sei sicuro?
—Che altro motivo potrebbe esserci?… Dovetti sottopormi a una visita medica, non superficiale come d'ordinario, ma minuziosa, lunghissima…. Il medico non disse nulla; era però facile accorgersi che egli non era soddisfatto… La visita ebbe luogo ieri; questa mattina ricevetti la lettera.
—Ciò non basta ancora a provare….
—Non basta; ma io passai due ore fa da Rebaldi….
—Il nostro dottore?
—Sì; gli feci la storia de' miei incomodi e lo pregai di esaminarmi accuratamente. Egli lo fece con quello scrupolo che è una delle sue caratteristiche principali, e io leggevo sul suo volto ordinariamente impassibile le impressioni non buone che egli andava via via ricevendo…. Quando ebbe finito e prima ancora ch'egli aprisse la bocca, io lo scongiurai in nome della nostra vecchia amicizia, in nome dei nostri ricordi di giovinezza, in nome delle ore passate insieme nel 48 sotto la medesima tenda, di spiattellarmi tutta la verità, tutta quanta, per amara che potesse essermi. Rebaldi esitò un momento, ma poi mi disse queste precise parole: «Ti conosco da un pezzo; sei un uomo, e con un uomo si può parlar chiaro. Tu hai una malattia di cuore.»
Roberto represse un gemito.
—«Una malattia di cuore abbastanza avanzata. Sono malattie insidiose di cui pur troppo non ci si accorge che quando sono al punto da lasciar un campo ben angusto, all'arte medica.» Ma si muore presto? io chiesi, «Come vai dritto per la tua strada!» egli soggiunse. «Nelle tue condizioni si può viver qualche anno, si può morire in pochi mesi, quando meno si crede.»
—Ma, padre mio—proruppe Roberto nel massimo turbamento.—Rebaldi non deve saper quello che si dice…. Non è possibile ch'egli abbia ragione…. Tu così sano, così vigoroso fino a poco tempo fa…. Bisogna consultare qualche altro medico…. Vedrai che non sarà vero niente…. Se fosse vero, sarebbe necessario che tu ti sottoponessi a una cura, che ti mettessi in riposo….
—La cura me l'ha suggerita Rebaldi. Non consulterò altri. In quanto al mettermi in riposo, ci penserò di qui ad alcuni mesi…. se sarò ancora al mondo…. Adesso è impossibile.
—Perchè?
—Perchè son direttore di una Società ch'io stesso feci entrare in alcune speculazioni piuttosto avviluppate, e non m'è lecito di rallentar l'opera mia finchè queste difficoltà non sian tolte. Ce ne va del mio onore e quindi dell'onor tuo…. Io ho fatto grande e rispettata l' Unione, io devo restar sulla breccia finchè la veggo al sicuro dalle tempeste…. È inutile che tu insista. Ritirarmi oggi sarebbe anche peggio per la mia salute…. L'inquietudine morale mi sarebbe ben più funesta dell'attività fisica…. Non più di ciò, adunque. È un'altra cosa ch'io voglio dirti. In primo luogo, di quanto ti rivelai, non una parola, per ora almeno, ad anima viva; e meno di tutti a tua madre. Tu la conosci; ella è buona, ma il suo spirito si smarrisce facilmente…. Non troveremmo in lei un aiuto, ma un ostacolo…. O non vorrebbe credere, o cadrebbe nel parossismo della disperazione…. E ora più che mai ho bisogno di calma. Siamo intesi su ciò?
Roberto chinò il capo. Pur troppo suo padre diceva il vero.
—Adesso parliamo di te—riprese il cavaliere Mariano.—Nelle condizioni nuove della famiglia è forza che tu rinunci al viaggio d'istruzione che avevi stabilito di fare.
—O babbo, e potrei partire sapendoti malato?
—No, non potresti partire se non nel caso che tu avessi una posizione.
—Una posizione lontana da te?
—Speriamo che non sia necessario. Quello ch'è necessario si è che tu ti ponga presto in grado di guadagnare…. Lo vedi, non abbiamo più tempo da perdere…. Non bisogna lasciarsi cogliere alla sprovveduta dalla sventura…. Oh lo so, lo so, Roberto, non era questo l'avvenire che tu avevi il diritto di aspettarti…. Il lavoro sì, perchè senza il lavoro cos'è la vita?… Ma il lavoro alla fine de' tuoi studi, il lavoro cercato come un coronamento indispensabile dell'esistenza, non come il mezzo di sottrarsi alla miseria…. Con un po' meno di spensieratezza da parte mia questo scopo si sarebbe raggiunto, ma ormai al fatto non c'è rimedio…. Tu mi perdonerai, non è vero?
—Perdonarti? O padre mio, consigliami, guidami tu…. Io sono giovane, inesperto, ho bisogno di te….
—E io sono ancora al tuo fianco—rispose il cavaliere Mariano.—Noi cercheremo insieme ciò che può convenirti…. Intanto sai che mi fa un gran bene il vederti così ragionevole, così disposto a compiere il tuo dovere…. È un destino…. Tocca a te quello ch'è toccato a tuo padre… Coraggio, Roberto… Ci si fa uomini a questo modo…. Coraggio e silenzio con tutti. Riprenderemo il colloquio in altro momento….
Roberto non si decideva ad andarsene.
—Hai da chiedermi qualche cosa?
—E a Lucilla—disse il giovine con peritanza—a Lucilla posso dir nulla?
La fronte del signor Mariano si annuvolò.
—Lucilla—proseguì Roberto—è la fanciulla che amo, è quella che dovrebbe essere un giorno mia sposa. Non ha diritto a tutte le mie confidenze?
—Sei tu ben sicuro di attingere da lei la forza che ti occorre?—domandò il cavaliere Arconti.—Sei tu ben sicuro ch'ella ti reggerà nei virili propositi?
—O padre mio—proruppe Roberto—oggi dunque crolla tutto l'edifizio della mia felicità? Dovrei dubitare anche di Lucilla?
—No, povero ragazzo, non dubitarne. Colei che ti amò nei giorni lieti, ti amerà pure, io ne ho fede, ne' giorni tristi e procellosi, ma Lucilla è assai giovane, è allevata nel cotone; non si può esiger troppo da lei…. Bada a me, non precipitare…. Aspetta a parlare più tardi, quando sarai rimesso un poco dal tuo turbamento…. Aspetta.
Il signor Mariano capiva benissimo che i suoi argomenti valevano poco, che in massima suo figlio aveva ragione, ma ciò che lo faceva parlar così era il timore che Roberto dovesse esporsi a un nuovo e più amaro disinganno. Egli non aveva mai visto di molto buon occhio l'amore di Roberto per Lucilla, che gli pareva una ragazza non cattiva, ma frivola. E nessuno meglio di lui poteva sapere quanto grave fosse il non aver a compagna una donna di tempra salda e vigorosa.
Egli si alzò in piedi sforzandosi di sorridere, e disse a Roberto che non s'era ancora mosso:—Su, su, va nella tua camera, mettiti a far qualche cosa….
Roberto esitò un momento; poi scattando dalla seggiola, si gettò fra le braccia di suo padre e ruppe in singhiozzi.
Il cavaliere Mariano, ch'era riuscito a mantenersi quasi impassibile fino a quel momento, strinse al petto il figliuolo, ch'era il suo amore e il suo orgoglio, e confuse le sue lagrime con quelle di lui. Poi ripetè con tenerezza:—Va, Roberto, rasciugati gli occhi, che tua madre quando torna a casa ti trovi composto e sereno.
Roberto si lasciò accompagnar per mano fino all'uscio, poi si avviò macchinalmente alla sua camera.—Mettiti a far qualche cosa—gli aveva detto suo padre. Oh sì davvero! Egli sentiva proprio l'animo disposto a far qualche cosa! Che poteva fare se non tornare col pensiero alla terribile rivelazione che gli aveva poc'anzi straziato il cuore? Come tutto l'avvenire, come tutta la vita aveva mutato aspetto per lui! Gli oggetti, gli uomini, gli parevano diversi affatto da prima, come accade a chi, dopo aver visto un panorama attraverso un vetro nitido, lo rivede attraverso un vetro affumicato. E non poteva versare la sua angoscia nè in sua madre, nè in Lucilla! Roberto divideva, suo malgrado, l'opinione paterna; egli sentiva che nè da sua madre, nè da Lucilla avrebbe potuto sperare efficace conforto.
II.
Siccome non c'è male a cui non si mesca qualche cosa di bene, così anche l'aver a che fare coi caratteri leggeri ha, di fronte ai gravissimi inconvenienti, qualche piccolo vantaggio. E uno di tali vantaggi è la facilità di dissimular con loro lo stato del proprio animo. Eravate lieti alla mattina e siete mesti la sera; essi se ne accorgeranno al primo momento, ve ne domanderanno conto forse, ma poi s'appagheranno di qualsiasi risposta, e, purchè non li turbiate nelle loro abitudini, vi lasceranno in pace. La tempra del loro spirito li dispone a interpretar tutto nel modo più tranquillante; c'è così poca serietà nella loro vita; perchè devono supporre che ce ne sia nella vita altrui? Roberto era cambiato, profondamente cambiato. Ma nè la signora Federica, nè Lucilla attribuivano questo mutamento a ragioni gravi.—Roberto ebbe anche nella sua infanzia di questi periodi di spleen. Ma passano—diceva la signora Federica. In quanto a Lucilla, ella trovava che Roberto voleva far l'uomo d'importanza. Dacchè aveva ricevuto elogi speciali dai professori del Politecnico, non era più quello d'una volta. Roberto soffriva di questa spensieratezza della fanciulla amata; egli avrebbe voluto ch'ella si mostrasse sollecita di saper le ragioni vere della sua mestizia, che gli strappasse di bocca quelle confidenze ch'egli non poteva farle spontaneamente; ma poi cercava di giustificarla, cercava di persuadersi ch'è un egoismo l'affliggere gli altri con la scusa che siamo afflitti noi. Del resto era inevitabile tra non molto una spiegazione. S'avvicinava il tempo in cui Roberto avrebbe dovuto partire pel suo viaggio, e poichè egli non partiva più, sarebbe ben convenuto dirne il motivo.
Lo stato del signor Mariano non peggiorava visibilmente. Egli era sotto una cura, ma il dottor Rebaldi aveva accondisceso al desiderio dell'infermo, e non s'era lasciato sfuggire una parola con la signora Federica circa alla gravità della malattia. Dal canto suo, la signora Federica era irritatissima contro il medico, il quale secondava le ubbie di suo marito.—A badare a tutto—ella diceva—si sta freschi. Anch'io, se dèssi retta a' miei nervi, dovrei prendere medicine tre volte alla settimana. Ci vuol altro! Mariano ha sempre avuto il vizio di ascoltarsi troppo.
Era un'abitudine della signora Federica di trovar un precedente a tutto ciò che avveniva. Spesso questo precedente ella lo inventava di pianta, ma esso le serviva a ogni modo per concludere:—Ciò che è passato una volta passerà ancora.
La signora Federica era stata bellissima in gioventù, ed era sempre piacente, quantunque avesse una certa tendenza alla pinguetudine. Già non aveva che quarantadue anni e conservava le sue pretese di donna galante. Bisogna dir per altro, a onor del vero, che la sua era stata sempre una galanteria innocente. Vestir bene, andare a teatro, in società, lasciarsi fare un po' la corte, tutto finiva lì. Le sue amiche non avevano mai potuto accusarla di nessun intrigo serio, e quando non lo potevano le sue amiche! Anzi esse dicevano che la sua vera salvaguardia era la sua frivolezza.—La Arconti—continuavano—non è capace d'innamorarsi. Noi, più giusti, diremo, che, in fondo, a modo suo, ella amava suo marito, e siccome non le mancava nulla, le tentazioni grosse non venivano ad assalirla.
L'assalivano le piccine. Aveva la mania delle toilettes, delle acconciature, dei gingilli d'ogni specie, e, quand'ella passava per la galleria Vittorio Emanuele, tutti i bottegai sentivano allargarsi il cuore. A casa piovevano i conti, e il signor Mariano aveva sempre pagato con rassegnazione. Adesso però gli pareva che fosse tempo di por argine a questa prodigalità, e si lasciava sfuggir qualche parola in proposito. Egli non era più giovine, non aveva più la lena d'un tempo; gli affari dell' Unione non eran più brillanti come per lo passato; c'era la crisi commerciale; tutte le cose costavano il doppio; bisognava moderarsi nei desideri, non gettar via le proprie entrate fino all'ultimo centesimo; e avanti di questo tono. Ma la signora Federica si stringeva nelle spalle.—Quante volte ho sentito questi discorsi! Sempre la crisi, sempre gli affari che non van bene, e poi tutti gli anni hai dovuto finire per confessarmi che tra le tue competenze e la tua parte di profitto guadagnavi tra le quaranta e le cinquanta mila lire. O che si deve logorarsi la vita per un po' di danaro?—La signora Federica, come si vede, era superiore alla question d'argent, o, a meglio dire, l'aveva risolta a suo modo: ci fossero quattrini o no, a lei bastava spendere. Nondimeno, ella aveva la degnazione di concludere che aveva capito e che farebbe volentieri qualche sacrifizio, pur di non turbare la pace domestica. E infatti per una settimana ella si metteva in economia; poi l'acqua tornava a correr giù per la sua china. Roberto s'infastidiva, avrebbe voluto dir la sua opinione anche lui, ma la signora Federica non lo lasciava parlare.—Quel Roberto diventa intollerabile—ella brontolava.—Un ragazzo moralista! Si può dar di peggio?—C'erano momenti in cui il giovane si sentiva salire alle labbra la rivelazione della catastrofe ch'era sospesa sul capo della famiglia, ma ne lo tratteneva la promessa fatta a suo padre. E il signor Mariano, egli pure, aveva strane indulgenze verso sua moglie. In fin dei conti—egli osservava talvolta al figliuolo—ella avrà abbastanza privazioni da imporsi dopo; lasciamo che adesso faccia a suo talento. Il cavaliere Arconti era uno di quegli uomini, e son tanti, che, dotati di una singolare energia di carattere, spiegano tutta questa energia nella loro vita esteriore, e non ne esercitano affatto entro le pareti domestiche.
Questa sua rilassatezza appariva anche nel modo in cui egli cercava impiego a suo figlio. Aveva parlato, aveva scritto, ma in complesso non ci si era posto con quell'impegno che forse sarebbe stato necessario per raggiunger lo scopo. I momenti eran difficili, Roberto era conosciuto per un ottimo studente e nulla più; e così non si riusciva che a ottener buone parole. Tutti dicevano all'Arconti: Fortunato voi che non avete premura! Vostro figlio non ha bisogno di guadagnarsi un pane da un giorno all'altro. E ce ne son tanti che questo bisogno l'hanno! Avrebbe convenuto sradicar questa fallace opinione, ma come farlo senza spiattellar intera la verità?
Passò così qualche mese, e nulla era mutato nell'andamento della famiglia Arconti. Roberto era infinitamente più serio d'una volta, il cavalier Mariano era sempre più giù di cera, e non mancava di prender una mezza dozzina di pillole al giorno, ma le abitudini della casa erano sempre le stesse.
La signora Federica continuava a veder tutto in rosa. Quando suo marito le disse che aveva dimesso il pensiero di far viaggiare Roberto, ella principiò col meravigliarsene assai, ma finì coll'osservare esser già stata sempre la sua opinione che questo viaggio non fosse punto indispensabile a suo figlio, e che Milano fosse una città ove c'era quanto occorreva sì per istudiare che per divertirsi. E quando Mariano le soggiunse che si proponeva di far entrare addirittura Roberto nella vita pratica, la signora Federica tentennò il capo e volle atteggiarsi a donna positiva. Sicuro, Roberto non aveva nessuna urgenza, ma se poteva trovare un'occupazione decorosa, in quanto a lei non ci si sarebbe opposta. È bene che la gioventù cominci presto a lavorare. Anzi ella aveva avuto un'idea. Perchè suo marito non prendeva Roberto con sè? All' Unione c'erano impiegati che avevano grossi stipendi e non valevano la metà di quel che valeva Roberto. Era impossibile che non ci fosse un posto anche per lui. E se non c'era, lo si poteva sempre creare. A una Società come l' Unione alcune migliaia di lire sarebbero state una vera bazzecola, e il Consiglio d'amministrazione aveva troppi obblighi verso l'Arconti da potersi opporre a un sì onesto desiderio.
Il fatto si è che l' idea della signora Federica era la meno effettuabile di tutte quante e la più lontana dalla mente del cavalier Mariano. In primo luogo, bisogna dirlo a sua lode, egli era stato sempre alieno dall'esercitare la sua influenza sulla Società per procacciar sinecure agli amici e ai parenti: in ogni caso poi, questa influenza era oggi grandemente scemata. Il Consiglio d'amministrazione e gli azionisti riconoscevano i meriti dell'Arconti; erano disposti ad ammettere che col suo ingegno e con la sua iniziativa egli aveva dato un vigoroso impulso alla gestione, ma soggiungevano ch'egli era troppo poeta, che s'era slanciato in affari non conformi allo Statuto, che non aveva saputo fermarsi a tempo, e che era per buona parte colpa sua se le azioni, dopo esser salite al doppio del pari, non trovavano più compratori nemmeno al valor nominale. L'Arconti, si continuava, vuol far sempre a modo suo; è un piccolo despota; gli avvertimenti dei suoi colleghi del Consiglio e dei censori, gli ordini del giorno dell'Assemblea vanno a frangersi contro la sua resistenza passiva. In tutte queste accuse c'era pure un lato di vero, ed era verissimo poi che l'Arconti, come di ordinario gli uomini i quali sanno d'aver reso eminenti servigi ad un'amministrazione, teneva in poco o nessun conto le opinioni degli altri. Questa corrente ostile che s'era formata tra gli azionisti era secondata da alcuni tra i membri del Consiglio e da parecchi impiegati della Società, creature sue in massima parte, da lui beneficate a più riprese, e che gli si erano voltate contro per basse invidie, e forse in ragione degli stessi benefici ricevuti. È una tra le nostre maggiori infermità morali quella di non saper sopportare il peso della gratitudine. Pro gratia odium redditur; lo disse anche Tacito, il grande psicologo di Roma imperiale.
Con queste disposizioni degli animi non era nemmeno da pensare a impiegar Roberto presso l' Unione. Aggiungasi che a lui, ingegnere, sarebbe convenuto molto più un ufficio tecnico amministrativo. La signora Federica dovette quindi intascare la sua idea brontolando, e dicendo che a lei non si badava mai, quantunque ella vedesse più in là di molti che la pretendono a gente di garbo. A ogni modo, secondo il suo solito, di lì a quarantott'ore non se ne diede più per intesa.
Presso l' Unione si preparava una giornata tumultuosa, quella cioè dell'assemblea generale, in cui avrebbe dovuto approvarsi il bilancio e si sarebbe rinnovato un terzo del Consiglio d'amministrazione. Si sapeva che il bilancio non era brillante, e nell'opinione di molti azionisti e anche d'una minoranza del Consiglio, ci sarebbero state ulteriori riduzioni da fare pel deprezzamento di parecchi titoli valutati al disopra del reale e per parecchi crediti dubbi. Non era un mistero per nessuno che un grosso partito avrebbe presentato un ordine del giorno per la nomina di una Commissione speciale incaricata della revisione di questo bilancio. Se un tale ordine del giorno era accettato, evidentemente tutto il Consiglio doveva dimettersi, e prima di tutti l'Arconti, che era in pari tempo membro del Consiglio stesso e direttore della Società. Alla rielezione sarebbero stati nominati di nuovo coloro che oggi rappresentavano la minoranza; agli altri si sarebbero sostituite persone d'idee conformi a quelle prevalse nell'assemblea. Nell'ipotesi migliore, quella cioè della rielezione parziale, l'Arconti non sarebbe stato tra gli uscenti di carica, ma era certo che sarebbero entrati trionfalmente in Consiglio alcuni tra gli azionisti più ostili a lui. La sua posizione di consigliere sarebbe diventata difficilissima: e più difficile forse la sua posizione di Direttore, quantunque non necessariamente connessa all'altra. Le benemerenze che in tanti anni egli si era acquistate presso la Società avrebbero senza dubbio costretto a speciali riguardi i suoi avversari; non si sarebbero volute spingere le cose all'estremo; pur vincolando la sua libertà d'azione, non si avrebbe forse voluto rovesciarlo d'ufficio; sarebbe rimasto Direttore, ma Direttore di nome. E per un uomo della sua tempra, questo sarebbe stato il peggiore supplizio.
Invero, non era la prima volta che si erano manifestati degli umori tempestosi in grembo alla Società, e ch'era occorso tutto l'ingegno e tutta l'influenza del cavaliere Mariano per dominarli. Però egli sentiva che ora la corrente era troppo forte e ch'era ben piccola la speranza di opporvisi con buon successo. I colloqui ch'egli aveva avuto coi principali azionisti, con quelli intorno a cui faceva capo l'opposizione, lo avevano scoraggiato. Mentr'egli parlava, sembravano convinti delle sue ragioni; ma quand'egli aveva finito, tornavano a ripetere le cose dette prima, senza entrare a discutere i suoi argomenti. Ed è questo il sintomo più grave per chi voglia tirar dalla sua un contradditore. All'assemblea generale il signor Mariano avrebbe parlato eloquentemente secondo il suo solito, ma egli era troppo esperto di siffatte cose da poter credere che i bei discorsi abbiano la virtù di modificare i voti degli azionisti di una Società anonima. Ognuno va alla seduta col suo voto preparato, ognuno ha impegnato la sua parola, e a discussione chiusa, l'urna dà il medesimo responso che avrebbe dato se la si fosse consultata prima che la discussione fosse aperta.
Queste angustie non potevano a meno d'influire sinistramente sulla salute del signor Mariano. Ormai non c'era che la signora Federica la quale non volesse accorgersi del suo deperimento e insistesse a dire che le erano fisime belle e buone, e che la malattia vera sarebbe venuta più tardi per causa dei rimedi. Il dottor Rebaldi poteva farle a sua posta il viso serio e tentar di preparar l'animo di lei alla realtà delle cose; ella usciva dai gangheri e lo strapazzava senza misericordia.
Sappiamo già che impressione profonda avesse ricevuto Roberto dalle confidenze di suo padre; pur l'animo umano, e l'animo dei giovani soprattutto, è così disposto a lasciarsi ingannare, che vedendo per alcuni mesi la salute del cavaliere Mariano rimaner quasi stazionaria, egli aveva cominciato a riaprire il cuore alla speranza, a credere almeno che il male non fosse avanzato come si temeva. Ma in poche settimane il peggioramento era stato così manifesto che le ultime illusioni avevano dovuto inesorabilmente svanire. Roberto capiva che la catastrofe si avvicinava a gran passi, e pensava con orrore al giorno in cui gli sarebbe mancato l'appoggio più caro e più necessario. Le difficoltà economiche che lo aspettavano sparivano davanti alla gravità morale della sventura; egli non si curava nemmeno più del suo impiego, tant'era assorbito da un'unica preoccupazione.
Tra Roberto e suo padre c'era stata sempre una gran conformità d'idee. Egli ne aveva le qualità, ne aveva in parte i difetti. Sin da piccino egli si faceva una festa ogni volta che poteva star col babbo, uscir col babbo, avere una carezza dal babbo. Il babbo aveva veduto tante cose, sapeva tante cose, e la sua conversazione alimentava l'intelligente curiosità del fanciullo. Con la mamma invece i temi di discorso eran presto esauriti; le passeggiate avevano un unico scopo, quello di far spese. E che aiuto aveva prestato il cavalier Mariano a Roberto durante i suoi studi! Il cavaliere, che non aveva fatto nessun corso regolare, che ancor giovine aveva dovuto entrar nella vita pratica, era un uomo coltissimo e fino all'età matura aveva consacrato i suoi ritagli di tempo a istruirsi. Egli si rimproverava d'imprevidenza, nè forse il rimprovero era infondato; ma almeno egli aveva il conforto che questa imprevidenza non gli aveva diminuito l'affetto di suo figlio; in questo campo dell'affetto egli aveva seminato a larga mano, e la raccolta corrispondeva alle più balde speranze.
III.
Il signor Benedetto Dal Bono era di pessimo umore, e sfogava il suo spleen dando molestia alla diletta consorte.
—Finalmente la ho saputa giusta sulla salute d'Arconti. La signora Federica diceva che non è nulla, tu come un pappagallo ripetevi le sue parole, e Lucilla, anche lei, faceva un terzetto con voi altre due. Oh nulla! Una malattia di cuore! Piccole bazzecole!… Già, con un deperimento di quella fatta, sfido io che non ci fosse sotto qualche cosa di serio…. Si è aperta la finestra…. quella lì…. chiudi…. Sono mezzo sudato, e un malanno si fa così presto a buscarlo…. Sono più giorni che non istò bene…. Chiudi anche l'uscio.
—Ma, babbo, si soffoca—esclamò la Lucilla, ch'era in un angolo del salotto con la sua cagnetta Gipsy.
—Se soffochi, va in un'altra stanza.
Lucilla non se lo fece dire due volte, e sgattaiolò via seguita da Gipsy. La signora Giulia avrebbe fatto lo stesso assai volentieri, ma suo marito la trattenne.
—Ho certe punture qui…. e qui…. non vorrei che ci fosse qualche ingorgo nella circolazione…. Il medico dice di no….
—Ma se non hai nulla….
—Bravissima, nulla!… È la solita parola…. Bell'aiuto che si ha da voi donne…. Intanto Mariano Arconti se ne va col treno direttissimo all'altro mondo…. E in quanto all'età, c'è così poca differenza tra noi…. Siamo nati nello stesso anno, egli in gennaio, io in dicembre; coetanei non ci si può dire, io sono più giovine, ma di undici mesi soltanto…. È vero—continuò il signor Benedetto con piglio più soddisfatto—è vero ch'io mi sono strapazzato meno…. Non feci il volontario, io, nel 48…. Non mutai mestiere tre o quattro volte…. Non ebbi mai i capricci della galanteria, mentre lui…. basta…. aggiusti i conti con la signora Federica, chè per noi non ci si deve entrare…. Dopo tutto, la sua malattia di cuore se l'è voluta…. Me ne dispiace, ma chi è causa del suo mal pianga sè stesso …. Però son cose che fanno sempre un gran senso…. Impossibile non pensare che quello che accade agli altri può accadere anche a noi…. Povero Mariano! Lo conosco da tanto tempo….
Il signor Benedetto si soffiò il naso in attestato di simpatia pel suo vecchio amico; poi prese una pastiglia da una scatola che teneva in tasca.
—Che disgrazia per quella famiglia!—esclamò la signora Giulia.
—Disgrazia!… Una rovina addirittura. Ma! spendevano e spandevano come se fossero principi…. Non si è pensato mai all'avvenire…. Solo adesso Mariano voleva fare sulla sua vita una sicurtà, che naturalmente gli fu rifiutata…. Una gran lezione, una gran lezione! Specchiati in questo esempio, tu, che avresti ogni momento qualche nuova spesa da suggerire….
—Io?—proruppe la signora Giulia nella massima maraviglia.
—Già….. non più tardi di ieri sera t'era venuto il ghiribizzo delle tendine nuove in salotto.
—Son tutte sdruscite.
—Si rattoppano.
—Si son già rattoppate due volte….
—E si rattoppano anche la terza….
—Se fossimo poveri, direi….
—E che ne sai tu se siam poveri o no?… La casa in via Principe Umberto spigionata; ad Abbiategrasso una grandine che ha distrutto il frumento; belle allegrie davvero!… Poveri! E chi lo sa se non si diventa tali anche noi?… Gli Arconti intanto….
—Ma gli Arconti erano imprevidenti, lo hai detto tu stesso….
—Una ragione di più per non imitarli.
Si sentì il suono di un pianoforte nella stanza vicina. Era Lucilla che scorreva colle dita sui tasti.
—Mi dispiace anche per quei ragazzi—disse la signora Giulia guardando verso l'uscio.
—Che? Che?—borbottò il signor Benedetto.—Riscaldi di gioventù….. Impegni non ce ne sono…. Grazie a Dio, la promessa formale non ha ancora avuto luogo…. In ogni modo, quando cambiano le circostanze….
—Ma si amano come due colombi….
—Colombi o tortore, chi non ha quattrini non prende moglie…. E sarebbe ora di farla finita con quelle sdolcinature di promessi sposi….
—Si riguardan come tali da parecchi anni….
—Male, malissimo; colpa tua…. Non bisognava permettere….
—S'era tutti d'accordo….
—D'accordo nella massima, forse…. Ma potevano accader tante cose, e infatti sono accadute. E bisogna far intender ragione agli Arconti….
—In questo momento?… Io non ho certo il coraggio…. Parla tu, se credi….
—Io? Io?—proruppe il signor Benedetto mettendo in mostra un'altra faccia del suo carattere, ch'era la vigliaccheria.—Non l'ho mica arruffata io la matassa…. Parlare? Sicuro che parlerò…. a suo tempo…. Quei due Arconti, padre e figlio, son certa gente furiosa…. Piglian fuoco per un nonnulla…. E già m'immagino che Roberto capiterà qui anche stasera….
—È probabile…. Povero giovine! Che si deve fare! Ha tanto bisogno d'un po' di sollievo….
—Bei discorsi questi! Intanto, invece di allentare il nodo, lo si stringe di più…. Oh parlerò, giacchè chi dovrebbe parlare si rifiuta, parlerò io….
—Ma non adesso, Benedetto, te ne prego—soggiunse in tono supplichevole la signora Giulia.—Sarebbe un colpo mortale per quel disgraziato….
—E chi dice adesso?—rispose il Dal Bono, che non vedeva senza apprensione questo colloquio.—Dico che parlerò…. Intanto passerò nella mia camera…. Ahi!… Sempre queste punture…. Se Bruni s'ostina a non voler ordinar nulla, bisognerà chiamare un altro medico.
Mentre il signor Benedetto si alzava dalla poltrona, entrò il servo portando due lettere appena giunte.
Erano due circolari che si riferivano al medesimo argomento. L'una, firmata dalla Presidenza dell' Unione, sollecitava i soci a intervenire o a farsi rappresentare nell'Assemblea generale che avrebbe avuto luogo la prima domenica di maggio; l'altra, sottoscritta da Alcuni azionisti, invitava a una seduta preparatoria per discutere la linea di condotta da tenersi appunto nell'Assemblea generale nell'interesse della Società.
—Non andrò nè all'Assemblea generale, nè alla seduta preparatoria degli oppositori—disse con magnanimità il signor Dal Bono, gettando via dispettosamente le due lettere.
—È l'Assemblea dell' Unione?—chiese la signora Giulia.
—Già, di quella famosissima Unione che, a sentir Arconti, doveva diventar quasi una seconda Banca Nazionale, che adesso invece ha le azioni al disotto del pari…. Grazie al cielo, di queste azioni io ne ho poche…. A dar retta a Mariano, avrei dovuto comperarne qualche centinaio….
La signora Giulia domandò timidamente.—Non andrai davvero all'Assemblea?
—Non andrò, non andrò; che c'è?
—Oh…. nulla…. ma Federica sperava che avresti votato per la Presidenza….
—Io non voterò nè pro, nè contro…. Io non andrò in persona, nè darò procura a nessuno; ecco quello che farò…. Mi si vorrebbe mettere in impicci, ma non ci si riuscirà…. Non intendo perder la mia quiete…. Non intendo guadagnarmi una malattia di cuore, io…. Oh su questo punto non transigo…. Già non avrei che due voti…. E due voti di più o di meno non fanno nè caldo, nè freddo…. Io me ne lavo le mani, me ne lavo le mani affatto.
Dopo aver espresso questa idea conforme ai più rigidi precetti della pulizia, il signor Dal Bono prese un'altra pastiglia e uscì dalla stanza, lasciando ordine che non lo si disturbasse per nessuna ragione.
Lucilla non tardò a ricomparire nel salotto. Gipsy le era alle calcagna, secondo il solito.
—Adesso che non c'è' più il babbo, si potrà riaprire…. Sta quieta, Gipsy…. Non salir sulle sedie.
—Senti, Lucilla—cominciò la signora Giulia, che avrebbe pur voluto preparar l'animo della figliuola agli ostacoli che stavano per sorgere sul suo cammino. Ma in quel punto si spalancò l'uscio ed entrò Roberto.
—Dunque, come va?—chiesero le due donne ad una voce.
Roberto tentennò il capo.
—Poco bene sempre.
—Però tu esageri—osservò la ragazza.
—Oh fosse pur vero ch'io esagero—esclamò il giovane tristamente.—Ma non è così, non è così.
Roberto s'era seduto; la cagnetta Gipsy, posandogli le due zampe anteriori sulle ginocchia, tentava di attrarre la sua attenzione.
—Non le hai portato lo zucchero, oggi?—domandò Lucilla.
—Oh! come posso ricordarmi dello zucchero in questi giorni?
—Venga qua, madamigella Gipsy —riprese la fanciulla;—il signorino non vuol più saperne di lei.
Roberto alzò la testa e fissò gli occhi malinconici in viso a Lucilla, che non potè a meno di arrossire.
—Ho detto per ischerzo, sai—ella soggiunse in tono carezzevole.
Egli si mise a camminare per la stanza, poi si avvicinò all'adorata giovinetta, e posandole la mano sulla spalla:—Sento che la disgrazia è irreparabile, è vicina—egli disse—e nello stesso tempo non oso fermarvi la mente. O Lucilla, perduto mio padre, che mi rimane? La mamma è buona, mi vuol bene, io ne voglio a lei; ma ella considera le cose sotto un punto di vista tanto diverso dal mio! O Lucilla, mi resti tu…. Mi amerai sempre?
—Sicuro che ti amerò…. Che discorsi!
—Mi amerai molto?
—Molto, s'intende…. Che aria solenne hai!
—Via, ragazzi, smettete—disse un po' imbarazzata la signora Giulia.—Se mio marito fosse qui….
—Il signor Benedetto ha ragione—ripigliò Roberto con qualche amarezza.—Ormai è necessario di trattarsi con sussiego…. non sono più quello d'una volta…. Domani forse sarò povero….
—Un'altra esagerazione!—esclamò Lucilla.
—Oh no…. In casa abbiamo avuto le mani bucate…. Quando non ci sia più mio padre, il cui stipendio ci permette di passarcela da gran signori, bisognerà pur campare con l'interesse della dote della mamma e con quello che guadagnerò io, che ancora non guadagno nulla.
—Ebbene tu mi sposerai, io son ricca.
—Lucilla!—interruppe la signora Giulia, ch'era sempre più sulle spine.
—Non abbia paura; signora Giulia. Non consentirei io stesso a questo matrimonio prima d'avere una posizione.
—Soliti eroismi—osservò Lucilla indispettita.
—Non sono eroismi; è una legge d'onore… Un marito che voglia essere rispettato non deve vivere a spese della moglie…. Io non consentirei a sposarti finchè non fossi in grado di mantener la mia famiglia; ma tu aspetterai fino a quel momento, non è vero? Anche se sarò costretto ad andar lontano di qui, mi aspetterai?… Oh questo, signora Giulia, non può sembrarle indiscreto…. La Lucilla ed io ci si ama fin da fanciulli.
—Figliuoli miei—rispose la signora Dal Bono cedendo suo malgrado all'intima commozione dell'animo—lo sapete se ho visto di buon occhio quest'affetto che è cresciuto con voi. Può dirlo la tua mamma, Roberto, quante volte s'è discorso di farvi marito e moglie…. Io spero che tutto andrà secondo i nostri desideri; ma adesso ci vuol pazienza, ci vuol prudenza…. Mio marito ha le sue idee; non conviene prenderlo di fronte…. Già siete tanto giovani tutti e due…. E tu, Roberto, hai ingegno, hai buon volere; vedrai che il diavolo non sarà così brutto come pare.
—Grazie, signora Giulia—proruppe l'Arconti, stringendo la mano della buona donna.—Avrò dunque una difesa in lei?
—Sì…. ma se cominciassi col chiederti qualche sacrifizio?
—Che sacrifizio?
—Per esempio…. di rallentare un po' le tue visita a Lucilla….
—Oh mamma!—disse la ragazza in tono di rimprovero.
—Adesso dovrei rallentare le mie visite?—esclamò Roberto con l'accento della più viva commozione.—E non ho altro conforto che questo! E ho tanto bisogno di veder chi mi vuol bene!
La signora Giulia chinò il capo in silenzio. Ella sentiva che Roberto aveva ragione.
Il giovine le prese la mano di nuovo:
—Fra poco, forse, io andrò peregrinando pel mondo in cerca di fortuna; allora nessuno potrà lagnarsi della frequenza delle mie visite. Finchè son qui, non m'invidii l'unica gioia che mi rimane….
—E avrai proprio questa necessità di andartene in giro pel mondo?—interruppe Lucilla.
—Credi che lo farò apposta?… Ma prevedo che sarà inevitabile…. E nel mio esiglio mi consolerà un'immagine, la tua, mi sosterrà una fede, la fede del tuo amore…. Nelle ore più tristi penserò a te, e tu forse nel momento stesso tornerai con la fantasia a questo povero diavolo sbalestrato dalla fortuna.
—Sì sì—saltò a dire Lucilla battendo i suoi piedini con un movimento d'impazienza.—Farò la Penelope.
—Non ischerzare, Lucilla, te ne scongiuro. La vita è seria….
—Eh me ne accorgo. Vuoi vedermi triste, ingrugnata….
—No, Lucilla, voglio veder sempre il tuo bel sorriso, ma non il folle sorriso di chi non cura il domani, bensì il sorriso pensoso di chi si apparecchia a combattere e non trema perchè è a fianco della persona da cui è amato e che ama…. Me ne vado adesso…. Il babbo mi aspetta.
Si avvicinò al tavolino su cui aveva deposto il cappello, e l'occhio gli cadde sulle due circolari che il signor Benedetto aveva lasciate lì aperte.
—Il signor Benedetto non farà mica causa comune coi nostri avversari,—disse Roberto.
—Oh no—rispose vivamente la signora Giulia.
—Voterà con noi?
A questo punto la signora Dal Bono non potè dissimulare il suo imbarazzo.
—Ma…. credo…. spero…. sai…. mio marito è timido…. nel primo momento dichiarò che voleva restar neutrale.
—Ah!… neutrale—ripetè Roberto con un amaro sorriso.—Pazienza…. Buon giorno, signora Giulia…. Addio, Lucilla.
La ragazza lo accompagnò sino all'uscio della scala, quantunque sua madre la chiamasse ripetutamente—Lucilla, Lucilla!
—Se tu non avessi quegli slanci da Don Chisciotte—ella susurrò all'orecchio del giovine—le cose prenderebbero una piega molto migliore…. Io m'impegnerei di far fare a modo mio il babbo e la mamma, e ricco o spiantato, tu mi sposeresti entro l'anno….
—No, Lucilla, è impossibile….
—Vedi, sei tu che non vuoi…. Sei tu a cui non importa niente di me.
—Non m'importa di te?… Oh come sei ingiusta!
Roberto cinse col braccio lo svelto corpicino della fanciulla. Ella arrovesciò la testa con un dolce abbandono, fissò negli occhi di lui i suoi occhi neri, grandi, pieni di fuoco, e mostrò due labbretti di rosa che parevano dire—baciatemi.
Sono inviti a cui non si risponde di no, e Roberto non mancò di fare il debito suo. Gipsy, che aveva raggiunto la sua padroncina, scosse in aria d'approvazione i sonagli che le pendevano al collo.
—Lucilla! Lucilla!—chiamò di nuovo la signora Giulia, avanzandosi nell'andito.
I due giovani si separarono in fretta.
IV.
Il giorno solenne dell'assemblea generale non tardò ad arrivare. Quella mattina la signora Federica si alzò piena di fiducia. Suo marito avrebbe senza dubbio sgominato gli avversari come tante altre volte, e tutta questa burrasca si sarebbe risolta in nulla. Le cose avrebbero ben presto ripreso il loro andamento normale, e la salute di Mariano, un po' scossa dalle agitazioni degli ultimi tempi, si sarebbe rimessa con due o tre mesi di riposo in un luogo di cura sui laghi. Era ben giusto che Mariano chiedesse due o tre mesi di riposo, era ben naturale che la Società glieli accordasse.
L'ottimismo della signora Federica non era diviso nè dal cavaliere Mariano, nè da Roberto, i quali sapevano come stessero le faccende, e come fossero falliti i tentativi di accomodamento tra il Consiglio di amministrazione e i gruppi ostili. Ci sarebbe stata battaglia, e la sconfitta era certa. Roberto tremava per suo padre. Il medico non gli aveva dissimulato che la tensione d'animo in cui si trovava il cavalier Mariano gli era fatale e poteva precipitare la crisi. Ma come rimediarvi? Il cavaliere era uno di quegli uomini pronti a morire piuttosto di ritirarsi il giorno della battaglia.
Un paio d'ore prima dell'adunanza, uno tra i membri del Consiglio d'amministrazione, ch'era anche amico personale suo, si recò da lui per sottoporgli un'ultima proposta dei dissidenti. I suoi colleghi, egli soggiunse, non volevano esercitare alcuna pressione sul suo animo, nè sciogliersi dalla solidarietà che avevano con lui; pesasse il pro e il contro del partito che gli era offerto, e ch'era il seguente. Gli avversari parevano disposti a recedere da ogni voto di biasimo, purchè l'Arconti domandasse addirittura un congedo di un anno per motivi di salute, e consentisse quindi a non ingerirsi per un anno negli affari della Società. In questo periodo di tempo si sarebbe veduto di combinar le cose in modo di comune soddisfazione.
Roberto, ch'era presente al colloquio, e teneva gli occhi fissi su suo padre, il cui volto andava avvampando di collera, disse in tono supplichevole:
—Non agitarti, babbo, riflettici con calma; ti si offre un anno di riposo, e quest'anno di riposo può conservarti alla tua famiglia, può arrestare, può vincere la tua malattia….
Il signor Mariano scattò come una molla.—Un anno di riposo! Oh prima che finisca l'anno, il riposo, e un ben più lungo riposo, sarà venuto da sè.
—Babbo, non dirlo—interruppe Roberto.
—Si vuol la mia dimissione. Si vuole ch'io ceda il campo senza battaglia. Ebbene, no, assolutamente no. Se si vuole la mia dimissione forzata, si venga a intimarmela, se si spera d'avere la mia dimissione spontanea, la si avrà, ma non oggi…. Quando avrò messo a nudo queste cabale, questi intrighi, queste coalizioni indecenti, quando avrò difeso la mia opera di quindici anni, allora mi dimetterò…. Vergognati, Roberto, del tuo falso amor filiale. Chi ama davvero, rispetta, e tu devi rispettare e voler rispettata la dignità di tuo padre. Ma non intendi che si direbbe: Arconti ha capito che bisognava metter tutto in tacere, non far pubblicità, accomodarsi alla meglio? E allora s'inventerebbero le favole più assurde, le calunnie più odiose….
—No, Arconti, no,—interruppe il consigliere ch'era venuto a far la proposta—io vi garantisco che l'assemblea voterebbe oggi stesso un ordine del giorno tale da porre la vostra fama al coperto….
—Sogni, apparenze. Gli ordini del giorno dell'assemblea non potrebbero toglier l'impressione che farebbe il veder che io non difendo la mia amministrazione accusata, e che lascio il mio posto nel giorno del pericolo. È inutile insistere. Fossi moribondo, fossi agonizzante, oggi mi farei portare all'adunanza e brucerei la mia ultima cartuccia.
Il colloquio fu troncato così. Il cavalier Mariano, rimasto solo con suo figlio, misurò per qualche tempo in lungo e in largo il suo studio a passi concitati; poi guardò l'orologio e disse a Roberto:—Andiamo, mi accompagnerai alla seduta. Animo, giovinotto, alla tua età dovrebbe piacere l'odor della polvere…. A proposito, la Direzione delle Meridionali mi scrive offrendomi un posto per te sulla linea Taranto-Reggio…. È molto lontano…. Ne parleremo dopo desinare.
—Andar via adesso?… Lasciarti! Oh no….
—Forse hai ragione—soggiunse il signor Mariano, tentennando tristamente il capo.—Mi dorrebbe troppo che tu non ci fossi quando…. Basta…. Passiamo a salutare tua madre….
La faccia seria di suo marito e di suo figlio non bastarono a scuoter la fede della signora Arconti. Per lei quella era una giornata di pieno trionfo, ed ella rimproverava gravemente Roberto della sua pusillanimità!
—Povera donna!—sospirò il cavalier Mariano, allontanandosi a braccio del giovine.—Lasciamole le sue illusioni…. È il suo carattere…. È vero che in tanti anni dacchè siamo marito e moglie non ha mai dovuto misurarsi con le avversità.
Da molto tempo la sala delle adunanze generali dell' Unione non s'era vista così affollata. Come avviene sempre in simili casi, molti fra i presenti non erano azionisti di fatto, ma rappresentavano un certo numero d'azioni inscritte in loro favore per la circostanza. E questi signori non sapevano nemmeno di che si trattasse; sapevano soltanto ch'erano lì per votare in un dato modo.
Due giovinotti di primo pelo, adocchiatisi da due lati della sala, si mossero incontro e si strinsero cordialmente la mano.
—Anche tu qui?—disse uno d'essi che portava l'occhialino inforcato al naso.
—Anch'io. Rappresento dieci azioni della casa Baggelli,—rispose l'altro, che aveva un soprabito color cannella.
—E io rappresento Larice. Ma non sono il solo. Quello lì ha tante azioni che, se non le ripartisce fra parecchie persone nei giorni dell'assemblea generale, non può mai esercitare l'influenza che gli spetta.
—Dunque siamo dell'opposizione tutti e due. Tutti e due cospiratori, come nell' Ernani. Ad Augusta.
— Per Augusta.
—Abbasso la camorra! Abbasso il Consiglio!
—Abbasso il Direttore sopratutto!
—Conti di prender la parola?
—Io? Mi meraviglio. Son qui per votare l'ordine del giorno dell'opposizione. E tu?
—Tal quale. Zitto come un pesce. Le chiacchiere son chiacchiere; i voti son quelli che valgono. C'era stato qualche tentativo di accordo, ma andò fallito.
—Battaglia all'ultimo sangue, allora.
—All'ultimo sangue.
Quand'entrò il Consiglio d'amministrazione, i capannelli ch'erano sparsi nella sala si sciolsero e tutti gli occhi si fissarono sul Direttore, al quale si sapeva che il Consiglio aveva deferito l'incarico di sostenere la lotta.
Nell'aspetto egli era molto diverso dagli anni precedenti. La sua maestosa persona si era alquanto incurvata, le sue guancie erano pallide e floscie. Solo gli occhi conservavano l'antico splendore, l'antica energia.
Il Presidente scosse il campanello, dichiarò aperta la seduta, e diede la parola al Direttore per la lettura della sua relazione.
Le relazioni che l'Arconti soleva presentare ogni anno all'assemblea generale dell' Unione erano modelli di perspicuità e di efficacia. Lo stile degli affari che gl'Italiani conoscono così poco vi era maneggiato maestrevolmente. Questa volta però il cavalier Mariano aveva superato sè stesso. Non era soltanto una lucida illustrazione delle cifre del bilancio, una classificazione ordinata e precisa delle varie operazioni della Società; era anche una difesa anticipata degli appunti che si facevano al Consiglio. Le cause dei poco brillanti risultati dell'anno erano scrutate con rara diligenza e finezza, ed erano poi egregiamente lumeggiate le speranze dell'avvenire, di quell'avvenire, diceva la relazione, che non appartiene ai pusillanimi, ma ai perseveranti e agli audaci. Onde nulla di più improvvido, si concludeva, che cedere allo scoraggiamento e alimentare i dubbi degli altri cominciando a dubitar di sè stessi.
La lettura di questo importante documento venne accolta con favore da un terzo dell'assemblea, e con un silenzio glaciale dagli altri due terzi.
L'opposizione cominciò a far capolino timidamente nella relazione dei censori. In mezzo a molti elogi c'era pure qualche osservazione critica, c'era il sommesso desiderio di un indirizzo più cauto da darsi agli affari.
Le idee dei censori servirono d'addentellato agli avversari dell'amministrazione per ismascherare le loro batterie. Le osservazioni critiche divennero biasimi aperti, i desideri sommessi presero un tono insistente, imperioso. I dubbi, non sulla realtà materiale delle cifre del bilancio, ma sulla esattezza di alcuni apprezzamenti, vennero formulati nel modo più esplicito, e si svolse l'ordine del giorno già prenunciato circa la nomina di un'apposita commissione avente lo scopo di riveder questo bilancio.
Il Presidente del Consiglio d'amministrazione combattè del suo meglio una siffatta proposta, che aveva il carattere di un voto di sfiducia, e dichiarò che, ov'essa fosse stata accolta dall'assemblea, nè egli, nè alcuno de' suoi colleghi avrebbe potuto rimanere al suo posto. Altri consiglieri parlarono nello stesso senso, e anche dal grembo degli azionisti sorsero voci più o meno autorevoli contro un ordine del giorno che avrebbe portato una crisi. Finalmente si levò l'oratore più formidabile del Consiglio.
Molti fra i più eloquenti uomini politici avrebbero invidiato la facondia, la lucidezza, l'efficacia del suo linguaggio. Le cose ch'egli aveva già esposto mirabilmente nella sua relazione, scolpite ora con una parola plastica e viva, acquistavano l'aria di verità indiscutibili. E la sua voce e il suo gesto s'animavano di mano in mano ch'egli procedeva nel suo discorso, e a sentirlo e a vederlo in quel momento non si avrebbe detto che una malattia terribile gli logorava le viscere e gli scavava il terreno sotto i piedi. Quand'egli sedette, scoppiò un applauso fragoroso, a cui presero parte anche alcuni fra i suoi più accaniti oppositori.
—Bravo!—esclamò il giovinotto dall'occhialino— Voilà ce qui s'appelle parler.
Il suo amico dal soprabito color cannella, che gli era seduto vicino, lo tirò per la falda del vestito.—Applaudi?
—Sicuro. Io sono un uomo indipendente.
—E il voto?
—Ah! il voto è un'altra faccenda. Voto per conto di Baggelli, ma applaudo per conto mio.
Il cavaliere Arconti aveva fatto il suo ultimo sforzo. Ormai il suo corpo era esausto ed egli non sarebbe stato in grado di replicare se alcuno avesse ripreso la parola. Per buona ventura gli avversari avevano ancora minor desiderio di misurarsi con lui. Il primo firmato sotto l'ordine del giorno che formava il perno della battaglia si limitò a dire che le ragioni svolte con tanta eloquenza dal Direttore non erano bastate a smuovere dal proposito di un'inchiesta sul bilancio nè lui, nè i suoi amici; che però una simile inchiesta non doveva esser presa per ciò che non era. Non si dubitava menomamente della lealtà dei preposti all' Unione, ma si trattava di mettersi d'accordo sulla valutazione di alcuni enti, valutazione che influiva sui risultati finali del bilancio.
Il cavalier Fionda, un azionista che aveva l'abitudine di parlare in ogni assemblea e che gli altri avevano l'abitudine di non ascoltar mai, fece anche questa volta il suo discorsetto, fra segni generali d'impazienza. E sì ch'egli era convinto che le sue idee avrebbero conciliato tutto e tutti!
—Ai voti! Ai voti!—si cominciò a gridar da più parti.
Si venne ai voti, e l'opposizione trionfò con una notevole maggioranza.
Allora il Presidente annunziò che tutto il Consiglio dava la sua dimissione, ed espresse il parere che convenisse rimettere a una prossima seduta la nomina del Consiglio nuovo e la discussione degli altri oggetti che figuravano all'ordine del giorno. I dimissionari consentivano a rimaner in carica sino a questa nuova seduta.
Dopo una grande battaglia, una tregua è accettata volentieri da ogni parte, e la mozione del Presidente fu accolta con plauso universale. I vincitori sentivano anch'essi il bisogno di concertarsi prima di andare avanti. D'accordo nell'idea di modificare l'indirizzo della Società e di correggere qualche partita del bilancio, non erano parimente d'accordo sulla via da tenersi poi. Alcuni avrebbero voluto andar sino al fondo e cambiare dal primo all'ultimo i membri del Consiglio d'Amministrazione; altri invece si sarebbero contentati di molto meno, sia per riguardi personali, sia pel timore che un rivolgimento troppo radicale potesse nuocere, anzichè giovare al credito dell' Unione.
Sciolta l'adunanza, durò ancora per qualche tempo una straordinaria agitazione nella sala, nei corridoi, per le scale. Chi si rallegrava e chi si doleva dell'esito della giornata, chi si limitava a esprimere i propri dubbi, chi si riscaldava anche con quelli che dividevano il suo parere, e chi dava ragione successivamente a tutti gl'interlocutori. Il signor Mariano s'era ritirato nella stanza della Presidenza ed era cinto da un gruppo di consiglieri e d'azionisti che s'erano trattenuti per conferir con lui sulla linea di condotta da seguirsi, ma ora parevano più che altro turbati dal suo aspetto sofferente e accasciato. La lotta gli aveva fatto trovare per un istante il vigore della salute; adesso la malattia aveva ripreso il disopra. Si sforzava di mostrarsi calmo, ma era pallidissimo, respirava a fatica, e non poteva discorrere che interrottamente. Roberto, che gli era vicino, andava rasciugandogli il sudore dalla fronte, lo aiutava a slacciarsi il nodo della cravatta e sbottonarsi il panciotto, e gli sussurrava all'orecchio.—Vuoi far venire un medico?—Ma il cavalier Mariano rispondeva di no, e di lì a un quarto d'ora si mosse appoggiato al braccio del figlio. Le gambe lo reggevano appena, e gli occorsero alcuni minuti per discendere sino nel cortile ove c'era il legno ad aspettarlo.—È un uomo morto—si bisbigliava sommessamente intorno a lui. Il portinajo, che gli voleva un gran bene, ajutandolo a salire in carrozza, stentava a trattener le lagrime. E quando il legno fu uscito dal portone, egli si ritirò nel suo stanzino e si mise a piangere ripetendo alla sua famiglia:—Il cuore me lo dice. Il cavalier Mariano non passerà più questa soglia.
Intanto l'infermo, si può ben chiamarlo così, era giunto a casa, ove la signora Federica ne attendeva il ritorno trionfale. A vederlo invece in quello stato, ella comprese che la faccenda non era andata secondo la sua aspettazione, e cominciò a tempestare di domande il figliuolo e a inveire contro gli azionisti.
—Non parliamo adesso degli azionisti—le disse Roberto.—Il peggio si è che il babbo sta male davvero.
—Male! Male!—replicò la signora Federica.—Sarà una cosa passeggera…. effetto della commozione….
—Oh pur troppo, mamma, è inutile illuderci. La condizione di mio padre è gravissima.
Mentre la signora Federica voleva a ogni costo ingannar sè medesima, il cavalier Mariano s'era fatto condur nella sua camera e s'era sdraiato su una poltrona.
Il dottor Rebaldi, che non tardò ad arrivare, fu vittima anche lui d'una sfuriata della signora Federica. Perchè le aveva taciuta la verità? Perchè non aveva impedito a Mariano di andare a una seduta tumultuosa, ov'era naturale ch'egli si sarebbe agitato fuor di misura! Ella avrebbe ben saputo impedirglielo, se ne fosse stata avvertita in tempo. Ma a lei, ch'era la sola persona che avesse influenza sopra Mariano, s'era voluto tener segreta ogni cosa. Benissimo! E s'era invece parlato con Roberto, un ragazzo impressionabile, nervoso, che dava sempre ragione a suo padre.
Ci sono al mondo persone così pienamente irresponsabili di quello che dicono che il discuter con loro è tempo perduto. E il dottor Rebaldi agì da uomo savio, non curandosi di ribattere le contumelie della signora Federica, nè di ricordarle che altra volta ella lo aveva fieramente investito perchè egli s'era permesso di alludere alla malattia del cavaliere. Allora ella non voleva ammettere che una malattia grave ci fosse; adesso accusava gli altri di non averle detto che c'era.
Il buon medico rispose alla signora Federica che forse ella aveva ragione, ma che bisognava preoccuparsi del presente e non del passato, che adesso l'essenziale pel signor Mariano era la calma e ch'era quindi necessario di evitare tutto ciò che potesse turbarlo.
E la signora Federica, che non era punto cattiva, si lasciò persuadere; ma ell'era di quelle donne che non istanno ferme sopra un pensiero quindici minuti di seguito. Povere creature senza equilibrio, proprio come navi senza zavorra! Finchè battono le loro ali di farfalla, tanto e tanto possono passare. Ma se si provano a chetarsi, è inutile, non ci riescono. Così la signora Federica oscillava dai parossismi della disperazione ai sogni dorati dell'ottimismo. La mattina si strappava i capelli, e la sera faceva piani per l'avvenire, come se il signor Mariano fosse già in convalescenza. La mattina diceva che Roberto era freddo, perchè non dava la testa nelle pareti; la sera diceva ch'era esaltato perchè non sapeva divider le sue rosee speranze. E come parlava con suo figlio, così parlava con suo marito. Ora gli si gettava ai piedi protestando che non potrebbe vivere senza di lui, scongiurandolo di perdonarle le sue frivolezze, ora, a ogni sosta insignificante della malattia, sedeva vicino alla sua poltrona e, dopo avergli annunziato con aria trionfante che ormai non c'era più nulla da temere, gli discorreva in tono carezzevole d'una nuova toilette.
Il cavalier Mariano aveva una singolare indulgenza per le puerilità di sua moglie. Era lui che calmava le impazienze di Roberto, e al medico, il quale voleva allontanar di camera la signora Federica, come quella che non riusciva che a far confusione, ripeteva sempre:—Lasciala stare. Poveretta! È il suo carattere. Non c'è rimedio.
Pure, in mezzo a queste continue prove d'affetto e di tolleranza, gli sfuggiva di tratto in tratto qualche parola che mostrava com'egli comprendesse che donne simili alla signora Federica non sono le migliori compagne della vita.—La moglie—gli scappava detto qualche volta con suo figlio—dovrebb'esser la confidente di tutti i nostri pensieri, dovrebbe saper divider tutte le nostre angustie, saperci dar coraggio in tutte le nostre incertezze. Non bisognerebbe mai amare una donna soltanto perchè è bella e non è cattiva.
Il signor Mariano aveva realmente amato la signora Federica perch'era bella, ed egli moriva adesso col presentimento che Roberto commetterebbe il medesimo errore con Lucilla.
V.
Era una giornata d'ottobre. Il cielo era bigio, scendeva un'acqueruggiola fina fina, e i pochi passanti (chè metà della popolazione di Milano si trovava in campagna) avevano un'aria scura ed uggita.
In casa Arconti la costernazione si dipingeva su tutti i volti. Il cavalier Mariano era proprio agli estremi. Il dottor Rebaldi gli teneva tra le dita il polso che s'indeboliva sempre più. Roberto, curvo sulla sponda opposta del letto, copriva di baci e di lagrime l'altra mano che penzolava fuor dalle coltri, fredda e già molle del sudor della morte. La signora Federica, in preda a convulsioni nervose, aveva dovuto esser trasportata nell'angolo opposto dell'appartamento, ed era assistita dalla Giulia Dal Bono e da altre pietose conoscenti. Nella stanza attigua a quella del moribondo si trovavano raccolti alcuni vecchi amici, ora guardando in silenzio le goccie di pioggia che colavano lungo le vetrate, ora porgendo l'orecchio ai menomi rumori che venivano dalla camera vicina.
—Non parlerà più? Non si sveglierà più?—disse Roberto.
—Forse sì—rispose il Rebaldi, che teneva gli occhi fissi nell'infermo.
Infatti, sul mezzogiorno, il cavalier Mariano si scosse, sollevò faticosamente le palpebre, e riconobbe le due persone che erano chine sopra di lui.—Addio, Rebaldi—egli balbettò con voce fioca—grazie delle tue cure…. Addio, Roberto, figliuolo mio…. E la mamma?
—Vuoi che la faccia venire?
—No, Roberto…. Mi par confusamente di ricordarmi che l'abbian portata di là, e han fatto bene…. soffriva troppo…. Abbi pazienza con lei, Roberto. Ella è buona e ti ama…. e fu una buona compagna per me…. oh sì…. si adatterà anche alle nuove condizioni della famiglia…. Roberto, frugherai ne' miei cassetti per veder se ci siano altre carte che appartengono all' Unione …. Se ce ne sono, le porterai all'ufficio…. Ah! soffoco…. Passami il tuo braccio qui sotto la testa…. così…. Dunque sii forte, Roberto…. non lasciarti spezzare dalla sventura…. Ora che non hai più da assistermi, potrai cercarti sul serio un impiego. Riscrivi a quelli che ci furon larghi delle loro promesse…. facile generosità…. E non farti una famiglia finchè tu non sia in grado di mantenerla…. Non è bello viver sulla dote della moglie.
—Oh! E puoi credermi capace di una tale bassezza?
Vi furono alcuni istanti di silenzio.
Il dottor Rebaldi, che s'era tirato un poco in disparte, si avvicinò.
—Non ancora—disse il signor Mariano. E soggiunse rivoltosi di nuovo a suo figlio:—Povero Roberto! S'io fossi vissuto alcuni anni di più, o se fossi stato meno imprevidente, che avvenire poteva essere il tuo!… Con tanto ingegno, con tanta cultura!… Le lotte della politica, i trionfi del Parlamento, chi sa che cosa ti avrebbe aspettato!… E l'ambizione più santa dei padri è che i loro figliuoli salgano ov'essi non hanno potuto salire, ottengano ciò ch'essi non hanno potuto ottenere…. E invece….
—Oh babbo—interruppe il giovane—tu non sai che male mi faccia a sentirti a parlare così…. tu mi lasci ciò che vale più della fortuna di un Rothchild; mi lasci l'esempio della tua vita, della tua energia, della tua probità…. Fin ch'io respiri, ti benedirò sempre, tu il migliore, tu l'ottimo dei padri….
—Grazie—bisbigliò il signor Mariano—grazie, figliuol mio.
E lasciò cader la testa sui guanciali. A un cenno di Roberto, il medico si chinò sul moribondo.
—La lucerna si spegne—disse con un filo di voce l'Arconti, riconoscendo il dottore.
La sua pupilla si dilatò straordinariamente come se volesse arrestare le ultime immagini della vita; un fremito gli corse tutte le membra; la mano che Roberto teneva stretta nella sua si contrasse ed irrigidì. Successe una breve agonia, e poi la morte.
Non si durò poca fatica a trascinar via Roberto, che s'era gettato bocconi sul letto del defunto e non voleva staccarsene. Alla fine egli si lasciò condur da sua madre, la quale capì che cosa significava quella venuta e si abbandonò senza freno alla sua disperazione. Ma, come accade nei caratteri deboli e malati, il suo dolore prendeva le forme più stravaganti ed assurde, e a' suoi lamenti ella mesceva ingiuste accuse contro gli altri. L'infermità di suo marito era stata trascurata perchè non s'era voluto dir niente a lei. Se la si fosse avvertita in tempo, ella avrebbe ben saputo evitar la catastrofe. Un po' di svago, un po' di riposo avrebbe vinto appieno la malattia. Invece Mariano s'era ammazzato a forza di lavoro, e la seduta pubblica del maggio gli aveva dato l'ultimo crollo. Bisognava tener responsabile l' Unione della disgrazia…. Già a questo proposito ella aveva le sue idee, da cui non si doveva sperar di rimoverla.
Poi, s'interrompeva per battere i piedi, per prendersi la testa fra le mani e strapparsi i capelli, e gridava ch'ella era la più disgraziata delle donne, che in casa nessuno aveva tenuto conto di lei, nemmeno Mariano, che il meglio ch'ella poteva fare era di morire, e via di questo tono.
Quando Roberto s'avvide che nè le sue parole, nè le sue carezze potevano calmare sua madre, egli cedette al bisogno irresistibile che provava di rimaner solo, e andò a chiudersi nella sua camera da studio. Avrebbe veduto volontieri, oh quanto! una persona, ma quella persona non c'era. La signora Dal Bono non aveva stimato opportuno di condur Lucilla ad assistere ad una così dolorosa tragedia, nè si poteva darle torto.
Seduto su una poltrona, coi gomiti appuntati sulle ginocchia, con la faccia nascosta tra le mani, il giovine rimase a lungo come trasognato. Le lagrime gli si erano rasciugate sul ciglio, non piangeva più, non pensava nemmeno; vedeva passarsi confusamente davanti agli occhi le terribili immagini degli ultimi giorni, vedeva il suo babbo adorato steso senza moto sul letto, ma credeva ancora di vaneggiare, credeva che non fosse il suo babbo. Da mesi e mesi la catastrofe era prevista, era ritenuta inevitabile, eppure, in quel dormiveglia dello spirito, Roberto non sapeva ancora capacitarsi ch'essa avesse colpito la sua casa. Curioso stato dell'animo, nel quale si ha la coscenza dei fatti avvenuti, ma si presume ch'essi siano avvenuti ad altri che a noi.
Alla lunga Roberto si risentì dal suo torpore, si guardò intorno, e si alzò da sedere. Che brividi aveva per l'ossa! Si avvicinò alla finestra. La pioggia batteva sui vetri; non uno squarcio azzurro nel cielo; per quanto la pupilla si protendeva lontano era una sola nuvola, grigia, uniforme, ampia come la volta del firmamento. Roberto si mosse di nuovo e diè un'occhiata alle sue biblioteche. I suoi libri, i suoi cari amici, la cui schiera era cresciuta con lui, essi che avevano alimentato il suo pensiero, che avevano svegliato la sua immaginazione, erano lì raccolti in bell'ordine, legati quasi tutti in marocchino col titolo in oro sul dorso, a ricordargli un tempo finito per sempre, il tempo dei cari studi, degli ozi fecondi, dell'agiatezza. Molti tra quei libri glieli aveva regalati suo padre, o nel giorno della sua festa, o al capo d'anno, o dopo gli esami, o in altra ricorrenza qualsiasi, chè già al signor Mariano non mancavano mai pretesti per far regali, E con che gusto eran scelti! C'era il meglio di cinque letterature, la latina, l'italiana, la francese, la tedesca, l'inglese. Poi c'erano i volumi comprati da lui, spendendo buona parte della mesata che suo padre aveva cominciato a passargli quando aveva compiuto i dodici anni e che gli aveva a grado a grado aumentata col passar del tempo. Egli non aveva da pensare che a' suoi minuti piaceri e a provvedersi i suoi testi di scuola. S'era quindi formato una buona biblioteca scientifica, che poteva essergli preziosa anche in avvenire.
Ah, la sua camera da studio! Quante ore liete vi aveva passate! Come in essa tutto gli rammentava la sua infanzia gioconda, la sua adolescenza felice e cinta d'affetto! Quando i suoi condiscepoli venivano a visitarlo—oh!—essi dicevano—il tuo non è uno studio, è una reggia.—Quei mobili così di buon gusto, quel parafuoco che la sua mamma gli aveva ricamato, quel tagliacarte d'avorio, dono di Lucilla, quei gingilli sparpagliati sulla consolle, quelle stampe appese alle pareti, quel ricco album di fotografie, tutto insomma rivelava un'esistenza confortata dagli agi e dalla tenerezza domestica. Poi i cassetti della sua scrivania chiudevano altri tesori. In uno v'erano i suoi versi, poichè il suo ingegno aveva pari disposizione per le lettere e per le scienze, e i suoi versi, senz'essere capolavori, erano spontanei, affettuosi; in un altro c'era una cartella co' suoi disegni; progetti di fabbriche con le relative piante, cogli spaccati e coi vari dettagli decorativi; più basso si trovavano i suoi quaderni, i suoi calcoli algebrici, le sue formule, tutti i ricordi insomma della scuola.
Ah, la sua camera da studio! Com'ella si rallegrava quando Lucilla vi faceva una rapida apparizione col pretesto di veder una nuova litografia, di prender un libro, oppure, senza tanti preamboli, per salutarvi il suo amico. Vi restava per tutta la giornata come un torpore di sole, come un profumo di fiori. Ma non era soltanto la venuta di Lucilla che vi era cara e desiderata. Spesso il signor Mariano entrava nel santuario di suo figlio, e vi si tratteneva per un paio d'ore a fumare e a discorrer di mille cose. Pareva impossibile come in mezzo a tante faccende il signor Mariano conservasse una freschezza di fantasia da disgradarne un giovine che si affaccia alla soglia dell'esistenza, come sapesse tenersi a giorno di tutte le novità scientifiche e letterarie, come in tutti gli argomenti riuscisse a essere un colto e amabile parlatore. I condiscepoli di Roberto non s'infastidivano della sua presenza, non ammutolivano davanti a lui, ma rimanevano stupefatti di tante cognizioni e di tanta festività.
Ma ormai questa camera da studio non aveva più pregio pel nostro giovine. Essa apparteneva al passato, apparteneva al periodo felice della sua vita, a quel periodo che la morte di suo padre chiudeva per sempre.
E in ogni modo, fino a quando avrebbe potuto rimanervi? Gli era pur forza romper gl'indugi, rinunciare agli agi, gettarsi a capo fitto nella lotta. Forse suo padre s'apponeva al vero rimproverandosi di averlo avvezzato troppo bene. Oh! d'ora in poi non avrebbe camminato sui soffici tappeti, non avrebbe potuto adagiarsi nelle poltrone a molle e fumare il sigaro contemplando gli stucchi del soffitto. Chi sa quale sarebbe stata la sua prima tappa nel viaggio faticoso? Anche rimanendo in Milano (ed egli contava di andarsene per sottrarsi alla tentazione di continuar nelle vecchie abitudini), anche rimanendo in Milano gli sarebbe stato indispensabile cambiar casa, e questo era anzi uno dei primi provvedimenti a cui egli doveva persuadere sua madre.
Roberto non si dissimulava le infinite difficoltà che lo aspettavano al varco, ma egli non era accasciato sotto il peso di queste; sentiva in sè una fibra virile più atta a spezzar gli ostacoli che disposta a lasciarsi spezzare. Ciò che l'opprimeva era il peso del suo dolore. Oh il suo povero babbo! Il suo povero babbo!
I tristi uffici che la morte impone nelle case da lei visitate non consentirono a Roberto di perdersi in troppo lunghe meditazioni. Alcuni amici suoi e amici del defunto si erano offerti di alleggerirlo di molte cure strazianti: egli li ringraziò, ma volle far quasi tutto da sè. Scrisse di suo pugno gli avvisi mortuari, diede egli stesso tutte le istruzioni pei funerali. Sua madre, in un momento di calma, l'aveva fatto chiamare, aveva voluto veder l'avviso che le era parso troppo semplice, e con la frivolezza vanitosa ch'era una delle sue caratteristiche, gli aveva detto:—Bada di far le cose per bene. I funerali del tuo povero padre devono esser splendidi…. Bisogna che tutta Milano si accorga dell'uomo che ha perduto…. E che vi siano necrologie su tutti i giornali.
A questo punto s'era messa a piangere…. Poi aveva imposto a Roberto di spedir gli inviti a parecchie famiglie dell'aristocrazia con cui ella era in qualche relazione.—Non siamo da meno di loro…. E voglio saper esattamente chi sarà venuto e chi no…. per regolarmi in avvenire.
La signora Federica parlava sempre dell'avvenire come s'esso avesse potuto esser uguale al passato, come se non ci fosse per lei la necessità di cambiar radicalmente il suo sistema di vita.
Comunque sia, il desiderio della signora Federica circa allo splendore del servizio funebre fu pienamente esaudito, non tanto pel lusso della cerimonia, quanto pel concorso delle pubbliche rappresentanze e dei cittadini. Il cavaliere Arconti poteva aver avuto i suoi difetti, poteva aver abusato alquanto della sua influenza nell' Unione per trascinare la Società a qualche impresa un po' arrischiata e non conforme appieno all'indole dello Statuto, ma le sue qualità eminenti d'ingegno e di cuore, ma i sacrifizi da lui fatti in ogni tempo per la sua patria gli avevano creato numerose simpatie e avevano reso generale il compianto per la sua fine immatura. Vecchi commilitoni del 48, antichi conoscenti perduti di vista da un pezzo, Associazioni operaie che noveravano il cavaliere Mariano fra i membri onorari, avevano voluto far atto di presenza intorno alla sua bara, insieme agli amici più intimi, alle rappresentanze del Municipio e della Camera di Commercio, ai consiglieri, agli impiegati e a molti azionisti dell' Unione, accorsi, malgrado le recenti vicende, a rendere un estremo omaggio al già onnipossente direttore della società. Nè erano mancate le carrozze dell'aristocrazia, il cui intervento stava tanto a cuore alla signora Federica. E in mezzo al dolore sincero ch'ella provava, quand'ella ebbe la relazione del funerale, quando seppe che il carro mortuario era stato seguito dall'equipaggio di casa X e di casa Y, quando lesse le numerose necrologie comparse nei principali fogli della città, non potè a meno di prender un'aria di trionfo e di esclamare:—Oh gli Arconti sono qualche cosa in Milano!—indi la signora Federica ebbe un' idea, una delle sue solite idee. Bisognava ordinare al Vela la statua di Mariano. Non era possibile che Mariano non avesse un monumento, mentre lo avevano tanti asini e tanti farabutti.
VI.
Erano giorni ben tristi per Roberto. Tutte le difficoltà della sua nuova situazione gli si affollavano addosso imperiose e gli toglievano quasi il respiro. In primo luogo, non era piccola noia per lui il dover combattere le idee strampalate che nascevano come funghi nel cervello balzano della signora Federica. Sappiamo che le era venuto il ghiribizzo del monumento; poi s'era fitta in capo che si avesse da far causa all' Unione; finalmente una mattina era entrata per tempissimo in camera di suo figlio a suggerirgli un'operazione sui fondi turchi. Un amico d'una sua amica aveva guadagnato una bella sommetta in una speculazione simile, ed ella non capiva perchè Roberto non dovesse tentar la fortuna. Chi non risica non rosica,—ella soggiungeva sentenziosamente. Il giovane cercava alla meglio di persuader sua madre a lasciarlo cheto, ma non vi riusciva che a mezzo. Poichè, sebbene la signora Federica non rimanesse a lungo sopra un pensiero, appena le era passata una fantasia gliene veniva un'altra, e la sua mente era un'instancabile officina di fuochi artificiali.
Comunque sia, questa non era che una delle tante brighe di Roberto. Quantunque egli avesse consentito a farsi aiutare da qualche amico in alcuni uffici di minor conto, come scambio di biglietti, ringraziamenti ai giornalisti, ecc. ecc., c'erano lettere a cui doveva rispondere egli stesso, c'erano visite ch'egli non poteva ommettere, nè poteva delegare ad altri. E ciò gli lasciava pochissimo agio di occuparsi delle cose più serie, vale a dire di cercar l'impiego che gli era tanto necessario. Aveva scritto alla direzione delle Ferrovie meridionali per sentire se fosse ancora disponibile il posto che gli era stato offerto mesi addietro in Calabria, ma quel posto non c'era più; era stato dato da tre mesi a uno dei sessant'otto postulanti che s'erano presentati. E da ogni parte gli si rispondeva che bisognava aver pazienza, che il paese attraversava un periodo di crisi, che tutte le aziende pubbliche e private rigurgitavano di personale, che in ogni modo si sarebbe veduto, si sarebbe cercato; era giovine tanto, l'avvenire era per lui. Parole, sempre parole, nulla più che parole—egli osservava malinconicamente.
Una mattina, reduce da alcune faccende, egli trovò nel suo studio uno de' più servizievoli amici suoi, il giovane ingegnere Giorgio Leoni, il quale stava scrivendo gli indirizzi su alcune buste che contenevano delle carte da visita. Oh—disse Roberto—guardando uno di quegli indirizzi.—Selmi aveva mandato il biglietto?
—Sì, eccolo qua.
Roberto lesse: Odoardo Selmi, miniera di Valduria in Romagna. Indi soggiunse, rivolgendosi al suo amico.
—Lo sapevi che egli aveva quest'impiego?
—Io no. Da quando ha finito il Politecnico, e lo ha finito un anno prima di noi, io non ne avevo più saputo novella.
—A ogni modo, fu una cortesia il ricordarsi di me in questa circostanza. Gli si era mandata la partecipazione?
—No….
—Avrà letto qualche necrologia sui giornali.
—Povero Selmi—soggiunse Leoni—era un ottimo diavolaccio, leale, affettuoso, ma non era un'aquila, nè aveva una grande istruzione.
—Era paziente, attivo…. Non so se avesse famiglia….
—I genitori eran morti…. Deve aver avuto una sorella minore. Forse si sarà maritata…. La nominava spesso.
—Ebbene, intanto egli ha un impiego.
—Sì, in una miniera. Bel gusto! C'è da morire di malinconia.
—Chi sa?
Roberto si allontanò dall'amico e andò verso la sua scrivania, ove s'immerse nell'esame di alcune carte. Ormai egli possedeva tutti gli elementi necessari per farsi un'idea esatta della situazione economica della famiglia. I conti non s'eran fatti aspettare; appena morto il cavalier Mariano, i vari creditori s'erano affrettati a mandar le loro polizze; dal canto loro, i nuovi preposti all' Unione, non avevano perduto troppo tempo. Avevano trasmesso a Roberto una copia della partita del defunto Direttore, partita che, per i prelevamenti fatti nell'anno, si saldava con un piccolo deficit, anche accettando il bilancio quale era stato presentato all'Assemblea generale e tenendo conto del dividendo sulle dieci azioni del cav. Mariano. Tuttavia la Società dichiarava non solo di rinunciare al ricupero del suo credito, ma altresì di assegnare alla vedova del benemerito Direttore per una volta tanto la somma di dieci mila lire. Quantunque fosse una soluzione men disastrosa di quello che si poteva attendere con gli umori che spiravano nella Società, la signora Federica montò sulle furie, disse che diecimila lire erano un insulto, che dovevano essere almeno quarantamila, e che bisognava assolutamente far lite, nè si lasciò convincere del contrario dalle ragioni di Roberto. Bensì le venne in soccorso anche questa volta la sua insanabile leggerezza, che di lì a brevissimo tempo le fece volger ad altro il pensiero.
—Insomma—ella chiese un giorno a suo figlio—si può saper positivamente quello che ci resta, pagati tutti i debiti?
Roberto l'aveva detto altre volte, ma non ebbe nessuna difficoltà di ripeterlo.
—Le diecimila lire dell'indennità—egli rispose—possiamo ritenerle assorbite dalle vecchie passività e dalle spese straordinarie di questi mesi; ci restano ancora le tue ventimila lire di dote investite in rendita, le dieci azioni dell' Unione che appartenevano al babbo, cioè altre diecimila lire, le cinque azioni mie, le cinque tue, diecimila lire anche queste. Sono quarantamila lire da potersi realizzare a nostro piacere. Poi c'è l'impianto della casa, poi ci sono le tue gioie, che importeranno anch'esse qualche migliaio di lire….
—Non curiamoci delle gioie—interruppe la signora Federica.—Hai detto che c'è una quarantina di mila lire realizzabili quando si voglia?
—Sì. Ebbene?
—Ebbene—continuò la signora Federica—quarantamila lire sono un discreto capitale.
Roberto, che sapeva come in casa sua si fossero spese fino alla morte di suo padre circa trentamila lire all'anno, non potè a meno di sorridere.—Ti pare?—egli disse.
—Sicuro, non già per viverci sopra senza far nulla….
—In nome del cielo!—esclamò il giovine, cui non pareva vero di sentir dalla bocca di sua madre una cosa ragionevole.
—Un discreto capitale—proseguì la signora Federica—per farlo girare, per metterlo in commercio.
—In commercio? E chi dovrebbe metterlo in commercio?
—Oh bella! Tu stesso!… Vedi, Roberto, tu hai poca fede nel tuo ingegno…. E sì che l'ingegno non ti manca…. Ti manca l'iniziativa…. Capisco le tue obbiezioni alla proposta di far affari di Borsa…. Quelli lì han rovinato molta gente…. Ma il commercio è tutt'altra cosa…. E adesso anche i giornali dicono che ci sarà da guadagnare un bel gruzzolo di moneta nei grani…. Guarda piuttosto, guarda co' tuoi occhi.
Si tolse di tasca un numero d'un giornale, e segnò a suo figlio un articolo che cominciava con queste parole: «Tutto sorride quest'anno ai negozianti di cereali. La corrente dell'aumento è pronunziatissima, e non si fermerà così presto.»
—Cara mammina—disse Roberto, restituendo il giornale piegato alla signora Federica—quando ti persuaderai che di queste faccende me n'intendo un pochino più di te…. e che nemmeno i tuoi grani fanno al caso nostro?
—Il presuntuoso? Se ne intende?… Con quella pratica di mondo che ha! Non sa che criticar tutto, e non suggerisce nulla, e così si lascerà venir l'acqua alla gola.
Era uno strano modo d'invertire le parti, e Roberto si lasciò scappare un punto ammirativo, che la signora Federica rilevò alquanto stizzita.
—Già; e tu, che ridi sempre delle mie idee, potresti farmi sapere un po' quali sono le tue?
—Oh mi spiccio in due parole. Col primo del mese si cambia casa, si smette la carrozza, si licenzia la servitù, ad eccezione d'una persona….
—Questo vuoi fare?—proruppe scandalizzata la signora Federica.
—Sì, cara mamma—egli soggiunse, prendendole le mani nelle sue—e tu mi aiuterai, perchè sei buona, e non puoi volere che il tuo Roberto finisca coll'andare in prigione per debiti….
Ma la signora Federica non volle sentir altro. Si svincolò da suo figlio, e uscì dalla stanza gridando ch'era vittima della peggiore di tutte le tirannie.
Nondimeno, la sua resistenza si spuntava contro la volontà calma, ma inflessibile, di Roberto. Prima che si compisse il termine stabilito, egli aveva già posto ad effetto la massima parte dei suo programma. Lo splendido appartamento in via Monte Napoleone era stato mutato in un quartierino modestissimo in una delle nuove strade della città, la servitù s'era ridotta ad una persona, la carrozza era scomparsa, quantunque la signora Federica avesse dichiarato eroicamente che, piuttosto d'uscire a piedi, ella sarebbe rimasta in casa tutta la vita. Inoltre Roberto aveva provveduto in modo che sua madre non potesse disporre senza il suo consentimento della modesta sostanza che l'era rimasta. Ch'ella vivesse con la sola rendita non era possibile; però il capitale non doveva essere toccato che a poco per volta. Presto o tardi, Roberto sarebbe stato in grado di colmare il disavanzo co' suoi guadagni.
Del matrimonio non si parlava più che come di cosa remota. Il giovine Arconti sapeva che, prima d'acquistar il diritto di favellarne, egli doveva vincere ben altre battaglie che quelle combattute sinora. Ma egli vedeva spesso Lucilla, perchè le Dal Bono venivano sovente dalla signora Federica, e perch'egli si recava qualche volta a casa loro. Queste visite infastidivano il signor Benedetto, che ne rimproverava le sue donne; ma non osava proibirle direttamente a Roberto. Il temperamento focoso degli Arconti sbigottiva il valorosissimo uomo, il quale, durante la malattia del signor Mariano, s'era fitto in capo di avere anche lui un'affezione al cuore, e temeva che tutto potesse esacerbarla.
La signora Federica andava pazza per Lucilla, che le dava ragione in molte delle sue lagnanze contro il suo figliuolo, e specialmente in quella relativa alla carrozza.
—Roberto è un esagerato—diceva la ragazza con la sua frase preferita.—La carrozza non è una cosa di lusso. Chi c'è in Milano che stia senza carrozza?—Indi rivolgendosi a Gipsy, che l'accompagnava quasi sempre, soggiungeva sentenziosamente:—Ah Gipsy, questi uomini son proprio tutti d'uno stampo…. Su, bella, ritta, sulle due zampe di dietro…. così…. Brava, Gipsy, brava!
E la spensierata fanciulla batteva le mani alle prodezze ammirabili della sua cagnetta.
Roberto vedeva tutto con gli occhi di innamorato, e si sforzava di persuadersi che il tempo avrebbe dato a Lucilla la serietà che le mancava. Ch'ella gli volesse bene era certo, ed egli gliene voleva tanto!
Qualche volta egli riusciva ad aver un colloquio a quattr'occhi con lei, e usava della sua eloquenza, che non era poca, per convincerla ch'egli non poteva agir diversamente da quello che agiva.—Credilo—egli le diceva—è anche nell'interesse del nostro matrimonio che tengo questa via. Vedendomi assestato, economo, previdente, tuo padre avrà minor difficoltà a consentire alle nostre nozze, quando, ottenuta una buona posizione, io gli farò la domanda formale della tua mano.
—Sì, sì—rispondeva Lucilla, tentennando il capo—sarà verissimo che tutte le strade conducono a Roma, ma quella che hai scelta è la più lunga…. Con un po' di audacia….
—Oh! le ubbie della mamma….
—Ubbie fin che vuoi, ma intanto la famosa posizione che stai sempre aspettando non si vede….
—Si vedrà.
—Ci sposeremo a ottant'anni. Nella cronaca dei giornali cittadini del secolo venturo si leggerà: Oggi si è celebrato davanti al Sindaco il matrimonio di due venerabili….
—Zitto—interruppe Roberto, e le mise la mano sulla bocca.—Dimmi piuttosto, se in questo frattempo….
—In quale frattempo? Da oggi al 1920? Al 1930 forse?
—Bambina! Se nei tre o quattro anni ch'io impiegherò a conquistare il mio posto nel mondo, ti si presenterà qualche gran signore…
—E mi chiederà in moglie?
—Sì.
—Risponderò: signore, scusi tanto, ma sono impegnata. Come a una festa quando vi domandano una polka che si deve ballare con un altro.
—Non far queste similitudini….
—Oh l'uomo grave! Non permette scherzi….
—Se verrà qualche marchese, qualche conte con le sue nove palle sul biglietto da visita?…
—Lo manderò pei fatti suoi….
—Non ti lusinga dunque una gran ricchezza, un bello stemma di nobiltà?…
—E torni sempre a battere lo stesso chiodo. T'ho detto di no…. Mi basta esser madama ….
—Perchè madama?
—Via, signora, la signora Arconti. Va bene?
—Oh va tanto bene.
E il colloquio finiva con un bacio scoccato da Roberto sulle floride guancie della sua fanciulla.
Pure l'Arconti aveva i suoi momenti di scoraggiamento. Promesse d'impieghi futuri ne aveva in gran quantità, ma le promesse non si cambiavano in fatti, ed egli, assestate ormai alla meglio le cose domestiche, sentiva di non poter restare in ozio. Avrebbe avuto i suoi libri, i suoi studi; ma era inutile. Guai a lui se cedeva alle lusinghe d'una vita puramente intellettuale!
Un giorno, mentre rovistava alcune carte, il suo sguardo tornò a cadere sopra un biglietto da visita che aveva già attirato la sua attenzione— Odoardo Selmi, miniera di Valduria, in Romagna. —Aveva scritto a tanta gente; perchè non poteva scrivere anche a questo vecchio condiscepolo che s'era ricordato di lui? Se ci fosse un'occupazione alla miniera?
Non potè a meno di riflettere che sarebbe stata un'occupazione poco allegra, per lui sopratutto, avvezzo alla vita di Milano, ma scacciò subito da sè questa pensiero. O che aveva il diritto di cercare un'occupazione allegra? Qualunque fosse, pur che onesta, doveva esser la benvenuta. Non esitò più e scrisse la nuova lettera. Il suo amico Leoni era insieme a lui quand'egli la gettò in una cassetta postale.—Sai che numero ha questa lettera, a contar dalla prima che ho spedita per raccomandarmi?
—Che numero?
—Centoventitrè. E sai a chi è diretta?
—Come vuoi che lo sappia?
—A Odoardo Selmi.
—Oh diavolo?…. E speri ch'egli possa….
—Trovare un posto per me nella sua miniera…. Sia un posto d'ingegnere, sia un posto nell'amministrazione, fa lo stesso….
—Andresti a seppellirti a Valduria?
—Perchè no?
—E tua madre?
—Resterà qui. Ella non lascerebbe certo Milano….
—Ma dev'essere una gran vita di privazioni la vita di miniera….
—Ho meno bisogni che tu non creda.
Leoni non seppe trattenersi dal guardarlo con una certa maraviglia.
—Oh!—disse Roberto—tu non puoi capacitarti…. Guardi alla mia toilette accurata, alla mia aria da zerbinotto…. È vero, nei primi giorni del mio dolore non pensai a mutar sarto pel mio abbigliamento di lutto; è vero, ho ancora l'apparenza elegante…. Non si può cambiar natura in ventiquattr'ore…. Aspetta un poco, e vedrai…. Intanto non ti sei accorto che non fumo più d'un sigaro al giorno?
—Pazzie!
—Non sono pazzie…. Ne fumavo sei o sette…. È un risparmio da non disprezzarsi…. Se poi fossi nelle miniere, capisci che, per amore o per forza, bisognerebbe romperla con le vecchie abitudini…. È per questo, vedi, che quasi quasi m'innamoro d'un impiego che mi strappi per qualche anno alla vita cittadina.
Leoni chinò il capo in silenzio.
—Del resto—soggiunse Roberto—val proprio la spesa di discorrere della mia partenza per la miniera…. Vedrai che è un'altra lettera sprecata…. C'è una iettatura per me.
VII.
Questa volta Roberto s'ingannava. Prima che passasse la settimana, egli riceveva una lunga lettera da Odoardo Selmi. Era uno scritto in cui si rilevava l'uomo un po' rozzo, ma franco, buono, modesto. Egli cominciava col chiedere scusa al suo condiscepolo di non avergli mandato una riga in occasione della morte del padre, e col lagnarsi che Roberto avesse aspettato tanto a ricorrere a lui. Poi narrava la sua vita da un anno a quella parte. Una fortunata combinazione l'aveva fatto divenire ingegnere capo della miniera di zolfo di Valduria, ed egli viveva abbastanza contento di quell'eremitaggio insieme con sua sorella Maria, ch'era la sola persona di famiglia che gli rimanesse. C'era da lavorar molto, e, in confidenza, egli si sentiva inferiore all'ufficio. Adesso la Direzione che risiedeva in Londra (poichè la miniera apparteneva alla Sulphur Society residente nella metropoli inglese) gli aveva concesso di prendersi un aiutante per le funzioni amministrative. Però a questo nuovo impiegato non gli si permetteva di assegnare che 200 lire al mese. Poteva convenirgli questa posizione? In caso affermativo, era sua. Avrebbe avuto alloggio nel locale stesso abitato dal Selmi e spettante alla miniera. Badasse bene però che il luogo era inospite e non presentava altra attrattiva che quella di qualche punto di vista e d'un'aria eccellente. Società, come poteva credere, non ce n'era affatto. Il meglio che restasse da fare, finito il lavoro, era di bere un buon bicchier di vino e di andarsene a letto. La festa si poteva giocare alle boccie e passeggiar pei monti. Nella miniera la vita era dura e faticosa; nell'amministrazione ci sarebbe stata minor fatica ma più noia, appunto in ragione del maggior numero d'ore di libertà. Per chi era avvezzo alle mille distrazioni cittadine l'abituarsi a questa nuova esistenza era un affar serio. Anche a lui, che pure era stato sempre un uomo selvatico ed era nato da quelle parti, anche a lui i primi mesi di soggiorno lassù eran parsi un supplizio. Pensava agli anni del Politecnico, alle allegre brigate, alle belle donnine di Milano, e aveva giorni d'uno spleen terribile. Ma a poco a poco s'era assuefatto e ora non si lagnava più. Insomma Roberto pesasse il pro e il contro, e gli rispondesse quanto prima gli era possibile. Non aveva bisogno di dirgli che lo avrebbe accolto a braccia aperte.
Roberto non esitò un momento, non consultò nessuno, e rispose accettando con infinita riconoscenza l'offerta, e annunciando che sarebbe partito per Valduria anche subito, se la sua presenza era necessaria. In caso diverso fissava il giorno del suo arrivo al primo di maggio. S'era allora verso la metà di aprile.
Egli era dunque riuscito finalmente. Lo aveva questo impiego tanto desiderato. A ventitrè anni, dopo esser vissuto sino a quel tempo nella persuasione d'esser ricco, egli aveva saputo adattarsi al suo stato e mettersi in grado di non dipender da nessuno. Duemila quattrocento lire all'anno erano pochine assai, specialmente per chi dovesse anche aiutar la madre, ma in ogni modo si trattava di cominciare. L'alloggio, tenendo conto dell'offerta di Odoardo, non gli sarebbe costato nulla; pel vestito se la sarebbe cavata a buon mercato, chè egli non doveva già far la corte alle belle di Valduria; tutto si riduceva quindi a mangiare, e quelli non eran paesi ove si rischiasse di rovinarsi per le delicatezze dei banchetti luculliani.
La prontezza con cui Odoardo Selmi era venuto in suo soccorso lo commoveva. Tanti amici di suo padre, tanti amici intimi suoi non avevano saputo far nulla per lui, e questo condiscepolo dimenticato accoglieva la sua domanda con una sollecitudine piena di fiducia e d'affetto. Ebbene, egli avrebbe saputo mostrarsi degno di questo affetto e di questa fiducia. Avrebbe messo al servizio di Odoardo tutto il suo ingegno, tutte le sue cognizioni. Non sarebbe, no, alla lunga rimasto a far lo scribacchino, avrebbe anch'egli affrontato coraggiosamente i pericoli della vita sotterranea, e avrebbe spiegato tanto coraggio, tanta energia che la sua opera non avrebbe potuto essere inavvertita. E in capo a un paio d'anni, con una posizione certo migliorata, si sarebbe presentato ai Dal Bono, dicendo:—Ormai sono un uomo, eccomi a sposar Lucilla…. Lucilla! Qui c'era un punto nero. Era possibile che Lucilla si adattasse a vivere accanto a una miniera? E se vi si fosse adattata lei, era sperabile avere il consenso della famiglia? A questo pensiero, gli entusiasmi di Roberto si raffreddavano notevolmente, e gli era forza ammettere che l'impiego da lui conseguito non poteva esser che provvisorio, e che se voleva sul serio sposar Lucilla, bisognava che in un termine non troppo lungo egli se ne trovasse un altro. Era la prima volta che il suo matrimonio gli si affacciava sotto forma dubitativa.
Egli non s'era punto illuso sull'effetto che la sua risoluzione produrrebbe su sua madre e sulla ragazza da lui amata. Agli occhi loro non c'era scusa per lui, o, a meglio dire, ce n'era una sola, era divenuto pazzo addirittura. Chi avesse un grano di sale in zucca non consentirebbe mai a principiar la sua carriera sotto sì tristi auspici. C'era proprio sugo ad aver studiato tanti anni, a esser stato fra i primi della scuola per finir poi a tener i conti d'una miniera, o, peggio ancora, a scendere in fondo ai pozzi cogli operai a rovinarsi la salute e a rischiar la pelle! Come se gli mancasse il pane da mettersi alla bocca, come se non potesse aspettare fintantochè offrivano anche a lui la direzione d'una Banca, o una cattedra d'Università. Professore d'Università, transeat; ma scribacchino di miniera!
La requisitoria della signora Federica era la più severa e stringente. Per poco ella non si persuadeva che suo figlio era un mostro di perversità. Intanto dalle strettezze a cui l'aveva condannata si capiva benissimo ch'egli aveva il brutto difetto d'essere avaro. Però un avaro pieno di contraddizioni. Perchè aveva sdegnato d'insistere presso la Società L'Unione, per un componimento più vantaggioso? Perchè non cercava di propiziarsi il signor Dal Bono e non tentava di farlo aderir subito a un matrimonio che avrebbe rimesso a galla la barca sdrucita? Le signore Arconti e Dal Bono avevano in sociale una idea. Con un contegno più modesto, più umile, Roberto avrebbe potuto indurre il signor Benedetto a tenerlo presso di sè per la contabilità dell'amministrazione, per la riscossione degli affitti, ecc., ecc. E allora tutto il rimanente sarebbe venuto da sè. Ma solo a parlarne di lontano a Roberto, la signora Federica aveva provocato una tempesta sul suo capo. Evidentemente, Roberto, oltre che avaro, era orgoglioso. Senonchè qui pure c'era la sua contraddizione. Era orgoglioso e accettava il posto offertogli da quell'insignificantissimo Selmi che la signora Federica si rammentava d'aver visto una sola volta e che l'aveva colpita per la sua goffaggine e la sua ineleganza! Sì, Roberto era un orgoglioso incoerente; pur troppo non aveva logica. Ma c'era di peggio. Egli era un egoista. Fittosi in capo una cosa, la faceva senza preoccuparsi del dispiacere recato agli altri. Lasciava sua madre, lasciava Lucilla, non voleva pensare che a sè. Un egoista, un vero egoista. Roberto non amava nessuno. Prometteva di mandar a casa ogni mese quasi tutto il suo stipendio, ma col danaro non si curano le piaghe morali. Roberto non aveva delicatezza di sentimenti. Gli pareva di essersi sdebitato di tutto dicendo a sua madre: Provvederò io a parte del tuo mantenimento. Roberto era cattivo, era cattivo pur troppo, e che pensiero è più triste di questo per un cuore materno? Quand'era giunta a siffatta conclusione, la signora Federica pigliava l'atteggiamento di Niobe. S'avvicinava il primo di maggio, e Roberto, non lieto ma risoluto, faceva i suoi preparativi per la partenza. Dalla raccolta de' suoi libri, che nella nuova casa stavano a disagio, egli trasceglieva i più cari, i più necessari al suo spirito e li collocava in una piccola cassa che avrebbe portato seco. Erano, per un terzo, volumi scientifici, pegli altri due terzi opere di letteratura, di poesia sopratutto. Oh la poesia egli l'amava tanto! Trovava in essa tanti conforti! E come ne avrebbe avuto bisogno nelle solitudini di Valduria, lì senza una persona con cui discorrer mai d'arte, d'ideale, chè Odoardo Selmi era un cuor d'oro, ma non aveva forse letto due versi in vita sua!
Un altro oggetto prezioso il giovine Arconti aveva messo insieme a' suoi libri prediletti. Era il suo album di fotografie, quell'album ove c'erano i ritratti de' suoi genitori, de' suoi amici, e ove c'era il ritratto di Lucilla, Lucilla nel fiore de' suoi sedici anni, con la testina leggermente piegata da un lato, cogli occhi scintillanti, con un sorriso malizioso sul labbro.
Oh il giorno in cui egli s'accomiatò da lei, essa non lo aveva più il sorriso sul labbro! Era combattuta fra il dolore e il dispetto! Pareva anche a lei che Roberto fosse reo di una colpa ben grave.—Non dovrei nemmeno volerti bene, non dovrei nemmeno salutarti—ella gli disse.—Anzi, non ti voglio bene….
—Oh Lucilla, è una bugia—interruppe Roberto seguendo con lo sguardo una lagrimetta che le colava giù per la guancia.
—Cosa c'è'?… Non è vero, non piango—ella rispose.—Anzi, sì, piango, ma di rabbia…. Va via, sei cattivo.
E intanto altre lagrime più grosse le rigavano il viso.
—Oh Gipsy è molto più buona—continuava la ragazza, carezzando la cagnetta che le scodinzolava vicino e si stropicciava il muso sul suo vestito.
—Guarda—riprese Roberto afferrando la mano di Lucilla.—Tu mi dai un dolore che non ha nome. Credi tu che non significhi nulla per me lo staccarmi da tante cose care? Eppure tu potresti con una parola rinfrancare il mio spirito, farmi lieto quasi….
Lucilla si strinse nelle spalle.
Egli proseguì.—Se tu mi dicessi: «Capisco che quello che fai lo fai per il meglio, capisco che lo fai anche un poco per me, capisco che non puoi agire diversamente,» se tu mi dicessi questo, oh sentirei nel mio animo raddoppiarsi la lena, mi sentirei sicuro di vincere ogni ostacolo.
—Non lo dirò, non lo dirò—proruppe Lucilla battendo i piedi con dispetto infantile.
La signora Giulia, che assisteva al colloquio, interpose una buona parola.—Andiamo, ragazzi, non bisticciatevi adesso. Siete ostinati tutti e due, e già non vi persuadereste…. Per me, non so chi abbia torto e chi abbia ragione…. Speriamo nell'avvenire.
L'ottima signora Dal Bono era una natura un po' inerte, che avrebbe sempre voluto contentar tutti. In fondo, ella subiva il fascino di sua figlia; con suo marito non si metteva mai in contraddizione aperta, ma gli opponeva quella resistenza passiva ch'è l'arma più efficace dei deboli. Per Roberto ell'era, in complesso, una fida alleata; aveva sempre vagheggiato il matrimonio di lui con Lucilla, nè le mutate fortune degli Arconti le avevano fatto cambiar opinione. Desiderava sinceramente la felicità di sua figlia, e le pareva che questa felicità potesse dargliela meglio Roberto che qualche sposo sconosciuto di gran censo e di gran lignaggio. Però la lotta non era il fatto suo. Chiudeva volentieri gli occhi, e, come aveva detto poc'anzi, sperava nell'avvenire.
Nel giorno stesso in cui Roberto disse addio a Lucilla e alla signora Giulia, egli volle prender commiato anche dal signor Benedetto, che avrebbe fatto molto volentieri a meno di questa visita. Il signor Benedetto era nel suo studio, ritto dietro a un banco, cogli occhi sprofondati nelle pagine d'un grosso e polveroso registro. Aveva in testa un berretto di velluto nero col fiocco di seta, indossava una lunga vesta da camera di lana grigia alquanto sgualcita, teneva aperta sul banco alla sua destra la tabacchiera da cui fiutava prese abbondanti che ricadevano in parte sulla pagina 114 del suo libro mastro, e precisamente sulla partita relativa alla casa via Maravigli N. 37. Quantunque facesse abbastanza caldo, tutte le finestre della casa erano ermeticamente chiuse, e pareva d'entrare in una serra.
Convinto che la troppa commozione fa male alla salute, il signor Dal Bono accolse Roberto con un riserbo pieno di decoro.—Sicuro—egli disse—benissimo fatto ad accettare un impiego fuori di Milano…. Speriamo buona fortuna.
Il signor Benedetto evitava i pronomi, perchè non voleva incoraggiar troppo le confidenze di Roberto dandogli del tu come il solito e non sapeva d'altra parte come fare a dargli del lei.
Roberto faceva il possibile per essere espansivo, per tirare il discorso sull'avvenire.—Oh lavorerò senza tregua; nessuna fatica mi parrà troppo penosa, nessun pericolo troppo grave.
—Ventisette e sette trentaquattro e porto tre—disse il signor Dal Bono continuando una somma. Poi alzò lentamente il capo.—Già…. anzi….
Temette di esser troppo laconico, e proseguì.
—Per fortuna la mamma non è sprovvista affatto…. e un giovine solo fa presto ad accomodarsi.
Il circospetto signor Dal Bono aveva senza volerlo offerto all'Arconti l'addentellato per mettere in campo un argomento scabroso.
—Oh ma io non intendo di esser sempre un giovine solo…. Intendo farmi una famiglia.
—Male—rispose il signor Benedetto dopo qualche esitazione.—Che le donne si maritino, sta bene, ma che gli uomini prendano moglie….
E si fermò qui, forse perchè stentava anch'egli a capire questa singolare condizione di cose, in cui le donne prenderebbero marito senza che gli uomini prendessero moglie.
Ma Roberto ormai era bene avviato.—Quando si ama ardentemente una fanciulla onesta, signor Benedetto, ciò che si desidera sopra tutte le cose al mondo è di sposarla.
—Amare, amare!—disse il Dal Bono, cacciandosi su pel naso una presa di tabacco.—Sono riscaldi di fantasia, sono fuochi di paglia.
—Oh non creda—proruppe il giovine, che non sapeva più contenersi.—E poi a che servono tutte queste circonlocuzioni? Lei sa benissimo chi amo, chi ho sempre amato, chi amerò sempre…. Amo sua figlia….
Il signor Benedetto, che s'era immerso più che mai nella contemplazione della pagina 114 del suo libro mastro non potè far a meno di scuotersi.—Oh! Ah!… Via, ragazzate…. Son cose da dirsi, son cose da pensarsi in questi momenti, con tanto bisogno di attendere al serio?…
—L'amo—continuò l'Arconti, curandosi poco dell'interruzione—l'amo, ma di quell'amore che può aspettare degli anni perchè è sicuro di sè…. E quando mi ripresenterò a lei e le tornerò a esporre la mia ferma intenzione di sposar Lucilla….
—Ma…. adagio….
—Allora, signor Benedetto, dovrà dire: se l'è meritata…. Stia sano, signor Benedetto, e a rivederci.
—Servitor suo…. Però…. mi pare….
Ma Roberto, che si sentiva scoppiare davanti a quell'uomo subdolo e pauroso, aveva già lasciato la stanza. Dal canto suo, il signor Dal Bono si rassegnò molto facilmente a inghiottire il discorsetto che egli voleva fare al bandanzoso giovinotto. Già quegli Arconti gli avevano suo malgrado inspirato sempre una gran soggezione. Erano nature energiche, trattenute a vero dire nei loro impeti, ma in cui si capiva ad ogni modo che c'era una polveriera disposta ad esplodere.
—Intanto se ne va via—riflettè il signor Benedetto—e questo è l'essenziale…. Il tempo…. la lontananza…. le distrazioni faranno guarir Lucilla…. Il meglio sarebbe maritarla addirittura ad un altro, ma prima di tutto ella non acconsentirebbe, e poi che fretta c'è di tirar fuori la dote?
VIII.
Un vetturale con una timonella a un cavallo attendeva Roberto alla stazione più vicina a Valduria. Odoardo Selmi sarebbe venuto in persona a incontrarlo, ma le sue occupazioni glielo avevano impedito, e se ne scusava con una riga gettata giù in fretta.
Con una miglior disposizione d'animo il giovine Arconti avrebbe potuto ridere dei fianchi prominenti del quadrupede, del naso fenomenale del cocchiere e della costruzione primitiva della carrozza. Invece, con la malinconia ch'egli aveva intorno, quella vista non fece che contristarlo di più. Nè mancarono altre ragioni a crescere la sua noia. Il baule ch'egli aveva portato seco non potè esser collocato a posto che con immensa fatica, e in mezzo alle imprecazioni del cocchiere Andrea, il quale non intendeva come un ingegnere non avesse misurato da Milano la capacità della vettura con cui doveva far l'ultima parte del suo viaggio. In quanto alla cassa di libri bisognava assolutamente lasciarla alla stazione; la si sarebbe ritirata il dì appresso.
La carrozza procedette per tre quarti d'ora lungo la strada postale, sollevando con le ruote nembi di polvere. Indi essa prese una stradicciuola angusta, sassosa, che saliva con leggero pendìo verso il monte. Il cavallo correva un tratto, poi abbassando la testa, andava innanzi al passo, con le redini allentate sul collo. Andrea fumava, e la punta del suo naso monumentale compariva e scompariva a vicenda tra i globi di fumo come la cima d'una montagna circonfusa di nuvole. Ogni momento la vettura, ch'era priva di molle, urtando contro una pietra più grossa, dava un sobbalzo e palleggiava Roberto da una parte all'altra del sedile. Per solito Andrea non s'accorgeva nemmeno di questi scossoni; solo quand'essi prendevano proporzioni eccessive egli metteva una sonora bestemmia. Malgrado l'umore poco mansueto del cocchiere, a Roberto non sarebbe stato difficile di attaccare conversazione se la tristezza profonda ond'era compreso non gli avesse reso impossibile di pronunciare una parola. Pensava al diverso avvenire che aveva sognato, pensava agli altri viaggi che avrebbe dovuto fare. Senza la sventura che lo aveva colpito, egli avrebbe percorso la Francia, l'Inghilterra ed il Belgio affine di compiervi la sua istruzione; poi, reduce a Milano, avrebbe fissato l'epoca del suo matrimonio con Lucilla. Riscaldato dal tepido soffio dell'amore, protetto dalla riputazione e dall'influenza paterna, sarebbe giunto alla meta per un sentiero agevole e piano. E adesso invece che cosa l'aspettava? Se sua madre, se Lucilla, se i suoi amici avessero avuto ragione, se veramente egli avesse obbedito a un impeto irriflessivo, se non avesse potuto durar nemmeno un paio di mesi in una carriera che domandava gusti speciali e speciali attitudini?
La strada si faceva sempre più cattiva e più ardua. Il sole, già volto al tramonto, lambiva le creste dell'Apennino, un venticello leggero accarezzava le foglie dei mandorli e faceva ondeggiar le cime dei pioppi, una fila di nuvolette rosee si svolgeva al lembo dell'orizzonte, allegri gruppi di rondini fendevano l'azzurro del cielo. Felici creature! Volavano a stormi, ora avvicinandosi alla terra, ora perdendosi nelle profondità del firmamento, volavano cantando, e il loro canto era un inno d'amore. Felici creature! Egli era solo, oppresso dai ricordi, angustiato dai timori e dalle incertezze. Chi sa dov'era Lucilla in quel momento? Chi sa a che cosa pensava? Forse pensava a lui; forse era sul terrazzo della sua casa e guardava la strada sottoposta, la strada per la quale egli soleva venire e ch'egli non avrebbe percorso più per un anno, per due anni, chi sa per quanto tempo; forse una lagrima le scendeva dal ciglio. Si portò la mano agli occhi; piangeva anche lui. E, attraverso il velo che si calava sulle sue pupille rivedeva le guglie del Duomo nuotanti negli ultimi raggi del sole, rivedeva i suoi cari, rivedeva tutto il suo passato così gaio, così promettente. Per la strada non s'incontrava quasi nessuno; solo a lunghi intervalli si scorgeva qualche casolare nella campagna, si sentiva qualche voce di contadino reduce dal lavoro. Qua e là, sul dorso delle colline lontane, una bianca villetta andava sfumando via nella luce fuggente del crepuscolo. Di tratto in tratto veniva per l'aria un acre odore di zolfo.
L'Arconti ruppe il silenzio, e chiese al vetturale.—Ci vuol molto ad arrivare?
—Un quarto d'ora—-fu la risposta.
—Tanto fa scendere—soggiunse Roberto. E balzò a terra senz'aver bisogno di far arrestar la carrozza, la quale andava a passo di lumaca.
Aveva lo spirito accasciato, le membra intormentite. Sperava che un po' di moto gli facesse bene.
Cominciò col correre innanzi un tratto; poi, giunto a un bivio, si addossò al tronco d'un albero e lasciò di nuovo passar la vettura.
Scendeva la sera, qualche lucciola brillava lungo i margini della via, la carrozza, il cavallo, il cocchiere formavano una massa nera che si staccava confusamente dal fondo grigio. Andrea si stropicciò sui calzoni un fiammifero e accese la pipa che s'era spenta.
Finalmente s'intesero delle voci. Erano minatori, che tornavano dal lavoro. Sfilarono davanti a Roberto, davanti alla carrozza, scambiando qualche parola con Andrea, accorgendosi appena del giovine con cui sino dal giorno successivo avrebbero dovuto far conoscenza. Apparsi come ombre, come ombre si dileguarono. Tornò a regnare il silenzio, e intanto le tenebre divenivano più fitte. Tremolavano le stelle nel firmamento, cantavano i grilli, gracchiavano le cicale sugli alberi. Era notte fatta. Roberto non ne poteva più. Non era la stanchezza del viaggio, era la solitudine, era un senso penoso d'isolamento che l'opprimeva. Se in quell'istante gli avessero detto: Rinuncia alla tua idea di essere un impiegato di miniera, e sarai in un attimo a Milano nella tua casa, vicino a Lucilla, vicino ai tuoi amici, forse egli non avrebbe saputo resistere alla tentazione di accettar la proposta.
Un lumicino brillò nell'oscurità a un centinaio di metri. Fissando gli occhi da quella parte, si vedeva sorgere un fabbricato.
—Ci siamo?—tornò a domandare Roberto.
—Io ci sono—rispose Andrea—perchè qui c'è l'osteria e qui si lascia il cavallo. Ella deve fare ancora una salita di dieci minuti.
—Qualcheduno mi accompagnerà—soggiunse con piglio infastidito l'Arconti—perchè io non ho l'obbligo di saper la strada. E il bagaglio non lo posso già prender in ispalla.
—Adesso vedremo—disse il cocchiere di malavoglia.—Ci sarà il figlio dell'oste.
Andrea scese dalla vettura e prese il cavallo pel morso. A quel punto, un uomo d'alta statura uscì dall'osteria e gridò—Arconti, sei qui?
Era la voce di Odoardo Selmi.
—Sei tu, Odoardo?—chiese Roberto brancolando nel buio, e tutto consolato di trovar finalmente una persona amica.
Si sentì cinto da due braccia poderose, e ricambiò di gran cuore due baci scoccatigli sulle guancie dal suo condiscepolo.
—Bravo Roberto! Scusa se non ho potuto venire incontro. Esco da mezz'ora appena dalla miniera…. Quanto piacere m'hai fatto ad accettare la mia offerta! Ci vorrà in te una bell'abnegazione ad acconciarti a questa vita, ma insomma alla lunga ci si avvezza a tutto e vedremo di stare alla meno peggio….
—Grazie, Selmi, grazie di queste buone parole…. Avrò proprio bisogno della tua affezione e della tua indulgenza…. Ma per bacco! Sei cresciuto di volume da quand'eri a Milano…. Che spalle hai fatto, e che torace!
—Eh, me la passo…. Son sempre quella materia greggia ch'ero al Politecnico. A fronte di voi azzimati, eleganti, spiritosi, che figura ci facevo!…. Povero Roberto! Che disgrazia doveva toccarti! E perchè non iscrivermi prima?… Ma adesso non è tempo da chiacchiere…. Avrai fame…. Ancora pochi minuti e ci siamo…. Qui, per questa scorciatoia…. A casa troveremo pronta la cena…. Il mio maggiordomo fa le cose benino.
—Il tuo maggiordomo?—disse ridendo Roberto, mentre a braccio dell'amico saliva per un sentiero erto e sassoso.
—Sì, mia sorella Maria…. Te la presenterò….
—Ah, tua sorella… Mi ricordo che me ne parlavi qualche volta.
—Sì, allora era una fanciulla…. Adesso è una ragazza fatta. Ma così esile e mingherlina da non mostrar che quindici anni. E ne ha venti compiti…. All'aspetto non par certo mia sorella…. E nemmeno all'intelligenza…. Oh, quantunque non sia stata al Politecnico, val tanto più di me…. Siamo rimasti soli, e me la son condotta meco…. Del resto, guai se non l'avessi…. E non è un angelo per me solo…. ma per tutti i nostri minatori, per la nostra valle…. È semplice, modesta…. vedrai…. Ah, guardi quel coso nero laggiù?… È un caminone…. E quelle baracche lì in fondo?… Sono magazzini…. E a destra ci sono i forni per le fusioni. E più a basso le due caldaie a vapore…. Nella miniera poi s'entra di là…
E accennò a sinistra. Indi soggiunse.—Ma, con questo buio, sfido a vederci….. Domani, domani.
Chiacchierando così, si arrivò ben presto a una casa isolata in cima alla collina. La porta d'ingresso era aperta, e lasciava veder una tavola apparecchiata e rischiarata da un lume a petrolio. Nel vano della porta si disegnava una figura di donna.
—Ecco mia sorella, ecco il nostro ospite Roberto Arconti—disse Odoardo, facendo la duplice presentazione.—Roberto sarà il compagno della nostra vita per un pezzo, spero…. Bisogna trattarlo come uno di casa.
—Come un altro fratello—rispose senza enfasi, ma spontaneamente Maria, mentre stringeva la mano al nuovo arrivato. E proseguì, non lasciandogli tempo di ringraziare.—Vuol esser condotto nella sua camera, o vuol cenar prima?
Roberto preferì di cenare. Non gli pareva vero di trattenersi ancora un poco in quell'ambiente schietto, sereno, affettuoso.
Maria non era bella. Era magra, pallida, con fattezze piuttosto irregolari; ma aveva due grandi occhi cilestri pieni di dolcezza e di pensiero, e una bocca facile a sorridere e guarnita di bianchissimi denti. Due anni addietro una malattia le aveva fatto cadere i capelli. Aveva dovuto tagliarseli corti corti, e adesso le crescevano lentamente, ciò che contribuiva a darle un'aria quasi infantile. La sua vocina era melodiosa, insinuante, di quelle che fanno spiccare ogni parola.
—Maria esercita la sua alta direzione anche sulla cucina—disse Odoardo.
—Davvero? Mi congratulo con lei della sua abilità,—osservò l'ingegnere Arconti, che trovava saporitissime le vivande.
Durante la cena, un ragazzo portò il baule, ch'era rimasto all'osteria.
—Aspetta lì—disse la giovinetta—or ora bisognerà metterlo nella camera dell'ingegnere.—Intanto bevi un bicchier di vino.
—Ci sarà poi anche una cassa—soggiunse Roberto.—La vettura non la conteneva, e bisognò lasciarla alla stazione. Mi assicurarono che ci sarà modo di averla qui domani.
—Senza dubbio—rispose il Selmi.—Dovevo immaginarmelo che in quella timonella tutto non ci sarebbe stato….
—Se avessi badato a me—insinuò Maria.
—Avrei fatto meglio—assentì Odoardo. Indi rivolgendosi all'amico:—Sarà una cassa di biancheria.
—Veramente—disse Roberto con qualche esitanza—è una cassa di libri.
Odoardo non seppe trattenere un'esclamazione di sorpresa.
—Libri? Che cosa vuoi farne? Qui? Quando avrai lavorato tutto il giorno, avrai ben altra voglia che di leggere.
Maria slanciò a suo fratello un'occhiata di rimprovero.—Hai torto. Un'ora per aprire un libro la si può trovar sempre, e il signor Roberto ha fatto bene a portar con sè qualcheduno de' suoi vecchi amici.
L'Arconti guardò con riconoscenza la giovinetta che prendeva le difese della lettura.
—Sì, sì—ripigliò Odoardo vuotando un bicchiere di vino.—Capisco ch'io non sono buon giudice…. Non ho mai vegliato sulle dotte pagine, io…. ma rispetto i gusti degli altri. Del resto, quando avrai i tuoi libri Maria ti aiuterà a metterli a posto…. È una ragazza che trova tempo a far tutto…. anche a dar da mangiare ai cani.
Infatti la fanciulla distribuiva i rilievi della mensa fra due cani da caccia, che erano entrati silenziosamente nella stanza.
Di lì a poco, ella si alzò, accese una candela e disse:—Vado a vedere se tutto è in ordine nella camera del signor Roberto.
I due giovinotti rimasero soli col bicchiere di vino davanti e col sigaro in bocca. Ricorsero gli anni della scuola e si raccontarono le vicende successe dacchè non si erano visti. Odoardo, modesto per sua natura, attribuiva a una combinazione fortunata l'aver potuto trovar così presto un ufficio onorevole e lucroso. Qualche volta gli pareva che la responsabilità fosse superiore alle sue forze, ed era tentato di rinunciarvi. Nel complesso però non si trovava male; la vita attiva, faticosa si confaceva al suo fisico robusto; alcune delle qualità richieste per la miniera sentiva di averle. Non mancava di coraggio, di sangue freddo, di perseveranza.—Ma son sempre stato corto di cervello, questo è il guaio—egli soggiungeva picchiandosi il fronte.
E poichè Roberto rideva.—No, no, parlo sul serio—continuava il Selmi, mentre vuotava allegramente uno dopo l'altro i bicchieri di vino;—capisco che sono un buon generale di divisione, ma non sono un buon generale in capo. E c'è stato dell'egoismo nel consigliarti di venir qui; sentivo che tu avresti supplito alle mie deficienze.
—Io?
—Sì, sì, vedrai…. Oh me lo ricordo bene ch'eri il primo della tua classe.
—Questo vuol dir molto!…. Si è portenti in iscuola e asini fuori…. e viceversa…. Eh, caro Selmi, la voglia di far bene la ho, ma volere non è sempre potere…. E sa Iddio se riuscirò anche negli uffici che mi destini, e che, tra parentesi, ignoro ancora quali siano precisamente.
—Domani intanto faremo un giro per la miniera, che tu devi conoscere in ogni sua parte…. Vedrai i lavori compiuti, i lavori progettati, e ti formerai un'idea delle difficoltà vinte e di quelle che restano da superarsi. Ti presenterò ai minatori; c'è della scoria, ma c'è anche della brava gente…. A proposito, hai un revolver?
—No…. Perchè?
—Perchè in questi luoghi il revolver bisogna sempre averlo. Te ne darò uno io.
—Siamo dunque sul piede di guerra?
—Tutt'altro. Ma è opportuno di far sapere che non si sarà mai colti alla sprovvista.
— Si vis pacem, para bellum —esclamò Roberto con una risatina.
—Appunto. Col latino non ho confidenza, ma questo motto lo conosco. Del resto, tu per ora sei addetto all'amministrazione, ma se ci troverai gusto, credo che finirai a poter occuparti della miniera. Bisogna prima che tu metta un po' d'ordine alla contabilità. Tuo padre era un bravo uomo d'affari, e qualche cosa avrai imparato da lui.
—Molto poco; pure mi ci proverò, ma ti confesso che, nella mia qualità d'ingegnere, preferirei occuparmi di cose tecniche.
—Te ne occuperai a suo tempo: sta sicuro; ho intenzione di farti il mio capo di stato maggiore…. Ma ecco di nuovo mia sorella.
—Forse il signor Roberto è stanco—disse la giovinetta entrando.—Se vuole che lo accompagni nella sua camera.
—Stanco no—egli rispose—ma non so le abitudini della miniera.
—Abitudini da montanari—osservò il Selmi.—Coricarsi presto e alzarsi presto…. Alle sei sono già nel sotterraneo. A ogni modo, per te che sei nell'amministrazione non ci sarà adesso un orario così faticoso…. Domani verrò a prenderti alle otto e mezzo, dopo la mia prima ispezione.
—E adesso che ore sono?
—Le nove passate.
—Chiacchierando s'è fatto tardi…. Vado dunque…. Se la signorina Maria m'indica la strada.
—Verrò io stessa,—disse la ragazza.
Riprese la candela, che non aveva ancora spenta, e si avviò. Roberto la seguì dopo aver stretto cordialmente la mano all'amico.
Maria salì una piccola scala, infilò un corridoio e si fermò davanti a un uscio.—Eccoci—ella disse—non s'immagini di trovare una bella camera…. Però, domattina, aprendo le imposte, godrà di una magnifica vista. È tutto quello che ci può esser qui.
Dopo questo preambolo, la giovinetta entrò nella stanza, ch'era piccina, modesta, a muri bianchi, ma pulita assai.
—Se le manca qualche cosa, non ha che da suonare il campanello—ella soggiunse.—Dall'altra parte del corridoio dorme la Caterina, la nostra donna di servizio. Vede quell'uscio?—e additò un usciolino laterale.—Lì c'è una camera ove di giorno lavoro, stiro, inamido la biancheria; ma potrà servirsene anche lei; già io non ci sto mica da mattina a sera… e in ogni modo non disturbo…. Faccia conto che sia un salotto… Qui su questo tavolino ha il necessario per iscrivere… non so se le penne le accomoderanno; son quelle che adopero io…. per la nota del bucato…. Ecco l'armadio, ove riporrà la roba del baule, che è la, nell'angolo…. O piuttosto, non ne levi adesso che quello che le è indispensabile; pel resto l'aiuterò io domani… Buona notte….
Maria accese una candela che si trovava sul tavolino, diede ancora un'occhiata in giro per veder se tutto era in ordine; quindi strinse la mano a Roberto, e lo lasciò solo.
L'ingegnere Arconti non ebbe agio per quella sera di fermarsi a considerare la rustica semplicità della stanza che gli era assegnata dai suoi ospiti; un prepotente bisogno di riposo lo vinse e si coricò all'ora stessa in cui, a Milano, soleva uscir di casa per recarsi alla Scala o al Club.
IX.
Roberto dormì tutto d'un fiato sinchè la luce del giorno, penetrando nella camera attraverso gli spiragli delle imposte mal commesse, venne a svegliarlo ad un tratto. Balzò dal letto, si vestì a mezzo, e corse a spalancar la finestra. Maria aveva avuto ragione. La prospettiva era bellissima, e una leggera nebbietta che velava i piani più bassi del quadro non faceva che dar risalto maggiore all'insieme. Non era lo spettacolo imponente che Roberto aveva goduto in qualche punto dell'Alta Italia, ove le Alpi cinte di nevi fanno cornice ai boschi d'abeti e ai torrenti impetuosi; era una natura calma e serena, che attraeva e riposava lo sguardo. La casa sorgeva sopra una collina abbastanza elevata; a destra e a sinistra si vedevano altre collinette, dietro a cui spuntava qualche cima più ardua, più nuda, che lasciava indovinare i prossimi Apennini. Di fronte, verso levante, si stendeva a perdita d'occhio una pianura ubertosa, seminata a cereali ed a canape e frastagliata di mandorli, di viti, d'ulivi. Nè mancavano altri alberi, che con l'abbondante fioritura davano larga promessa di frutti. A capo di lunghi filari di pioppi o in mezzo a brune macchie di cipressi biancheggiava qualche casinetto di campagna illuminato dai primi raggi del sole. Qua e là, sulle pendici o nel piano, un campanile intorno al quale si stringevano poche case. Un fiumicello mezzo asciutto portava con tardo passo le sue scarse acque verso l'Adriatico di cui, a cielo perfettamente sereno, si sarebbe potuta distinguere la striscia azzurra al lembo estremo dell'orizzonte.
Il nostro giovinotto rimase per alcuni minuti appoggiato al davanzale della finestra. Egli non vedeva di là nè l'apertura del sotterraneo, nè il capannone sotto al quale eran collocati i forni delle fusioni, nè alcuna delle principali officine addette alla miniera, e per un momento avrebbe potuto credersi in villa presso un amico, se non lo avesse richiamato alla realtà delle cose l'odore di zolfo che si spandeva per l'aria, e il via vai delle squadre dei minatori che si davano il cambio. Roberto guardò l'orologio. Non erano che le sei. Ci volevano due ore e mezzo prima che Odoardo venisse a prenderlo, e l'Arconti arrossiva di starsene lì in muta contemplazione mentre l'opera del giorno era principiata pegli altri. Anch'egli doveva lavorare, anch'egli doveva lottare.
Lasciò la finestra e si accinse a terminare la sua toilette. Pure, a questo punto, lo prese una tristezza invincibile. Girò gli occhi intorno, e avvertì più viva che mai tutta la differenza tra l'ieri e l'oggi. Quell'asciugamano pulito, ma ruvido, appeso a un chiodo infisso nel muro, quel piccolo specchio malamente inquadrato in una cornice di carta pesta, quella brocca e quel catino di terraglia ordinaria, quelle pareti nude senz'altro fregio che un filo celeste alla base, il complesso insomma di quella camera, che la sera innanzi aveva appena osservata, lo ammoniva che la sua esistenza di giovinotto elegante era finita per sempre, ed era finita non solo in teoria, ma in pratica. Ed è appunto nella pratica che si manifestano le difficoltà maggiori. Poichè l'essere in massima disposti a tutti i sacrifici non toglie che il peso dei sacrifici si senta quando si comincia a compierli.
E ora pell'Arconti il Rubicone era passato davvero, ora s'inaugurava la vita nuova, una vita che imponeva il rifiuto di ogni raffinatezza, di ogni superfluità. Non era senza un certo imbarazzo che egli guardava la sua camicia diligentemente insaldata, e faceva il nodo alla sua cravatta di seta, e passava nell'occhiello i bottoni di pietra dura de' suoi polsini; e mentre si ravviava i capelli davanti allo specchio, era combattuto fra la vecchia abitudine di spartirli col pettine e il timore di rendersi ridicolo con una acconciatura troppo ricercata. Per quanto semplice fosse il suo abbigliamento, egli sentiva che agli occhi di quella popolazione di minatori egli doveva parere come un animale esotico, o peggio ancora, come un gingillo di porcellana che non si può toccar senza romperlo. D'altra parte, le ulteriori trasformazioni che gli sarebbe convenuto subire per acquistare il color locale, per diventar simile, per esempio, a Odoardo Selmi, lo empivano d'un segreto sgomento. Che avrebbe detto Lucilla a vederlo cambiato in tal modo?
E Lucilla intanto gli sorrideva dall'album ch'egli teneva aperto sul tavolino, ed era così bella, così bella! Roberto non ebbe il coraggio di disgustarla, e finì di vestirsi come se avesse dovuto passare da lei. Indi si affacciò alla finestra.
Proprio sotto la finestra c'era in quel momento Maria, chinata a dar da mangiare ai pulcini.
—Buon giorno, signora Maria—disse Roberto.
Ella alzò la testa, e rispose sorridendo:—Buon giorno, signor Arconti. Bella occupazione, non è vero, la mia? Ma credevo che dormisse ancora….
—Le strane idee ch'ella ha di noi cittadini…
—Ebbene, giacchè è alzato, vuol scendere?
—Sicuro.
—Scenda allora, le darò il caffè e latte… E poi la condurrò un poco in giro.
Roberto fu in due salti nel salotto ove aveva cenato la sera innanzi e ove la Caterina stava spolverando i mobili. Anche di quel salotto gli era sfuggita la sera prima la rustica semplicità. Nel mezzo una tavola rotonda dal piano non levigato e dalle gambe tentennanti, a una parete una credenza di legno comune, la cui cornice non correva parallela al soffitto, ma, prolungata, avrebbe fatto con esso un angolo acuto, in giro alcune sedie di paglia, sui muri quattro litografie a colori rappresentanti le quattro stagioni.
Maria s'era dileguata, ma comparve di lì a pochi secondi con un vassoio sul quale c'era una tazza di caffè e latte e alcune fette di pane.
—Troverà il latte piuttosto cattivo—osservò la giovinetta.—Odoardo ricorda sempre quello di Milano… Qui bisogna avvezzarsi a una vita di privazioni.
—Però—rispose Roberto—quest'aria libera, questi ampi orizzonti hanno anch'essi il loro prezzo.
—Ah sì. Mi pare che fra muri non ci potrei vivere…
—A Milano non c'è mai stata?
—Che? Quando c'era Odoardo si viveva coi miei genitori nel nostro paesuccio. Città grandi non ne ho nemmeno vedute… E forse non ne vedrò mai.
—O che dice? È tanto giovine.
—Del resto, che importa?—ella soggiunse stringendosi nelle spalle.—Si sta bene così.
—Ha ragione—replicò Roberto con accento convinto, mentre deponeva la tazza del caffè e latte.
—Dunque vuol uscire?
—Eccomi.
—Non ci si può dilungar troppo perchè alle otto e mezzo deve trovarsi con mio fratello. Dalla parte della miniera andrà con lui. Noi scenderemo al villaggio per una scorciatoia. Passi.
Quando furono all'aperto, la giovinetta si avviò per un sentiero scosceso saltando da un sasso all'altro con l'agilità d'un capriuolo. Roberto, per non esser da meno di lei, faceva prodigi d'equilibrio. A un tratto Maria ebbe uno scrupolo.—Vo troppo presto?
—Oh scusi—rispose l'ingegnere in tono semiserio—sono alpinista anch'io.
—Davvero?
Egli le spiegò ch'era ascritto al Club alpino, che aveva la sua brava aquila da poter appuntare al cappello, ma che in fondo non aveva bazzicato molto con le montagne.
—Io, che non sono di nessun Club e che non ho nessun'aquila, sono più alpinista di lei—osservò Maria, sorridendo.
Si sentì il mormorio dell'acqua corrente.
—Eccoci al nostro gran fiume—disse la ragazza.—Ora va umile e dimesso, ma nell'inverno è ben altra cosa. Qualche volta fa il cattivo, minaccia la strada e spianta gli alberi.
Giunti sulla via carrozzabile, incontrarono due barocci tirati da muli e carichi di pani di zolfo.
—È zolfo della miniera?—chiese Roberto.
—Non della nostra; d'un'altra più addentro nei monti. E qui abbiamo una raffineria.
Era un fabbricato a un sol piano, dal tetto ingiallito che destò nell'Arconti una vaga reminiscenza dei risotti milanesi.
Due operai ritti sulla soglia salutarono Maria e guardarono con una certa curiosità il bel giovinotto ch'era con lei. Un cane le si avvicinò agitando festosamente la coda. Ella si chinò un momento a lisciargli il pelo.
—La conoscono tutti qui, uomini e bestie—osservò Roberto.
—Sicuro; siamo buoni amici anche noi, non è vero, Leone?… Che cosa c'è?
Questa domanda un po' in forma di rimprovero era rivolta al cane, che s'era permesso di digrignare i denti all'indirizzo dell'Arconti.
Le parole della ragazza disarmarono subito i sospetti di Leone, che si accostò all'ingegnere, lo fiutò, e poi strofinò il muso sulle sue gambe lasciandovi una traccia di zolfo.
Maria si mise a ridere.—Bisogna pur che ci si avvezzi—ella disse a Roberto, il quale si spolverava i calzoni col fazzoletto bianco.—Chi va al mulino s'infarina, e qui lo zolfo non si schiva mai…. Veda il povero Leone come ha la coda e le orecchie gialle.
L'Arconti osservava i suoi vestiti eleganti con lo stesso imbarazzo che avrebbe provato trovandosi in arnese contadinesco a una festa di ballo tra le signore scollate e gli uomini in coda di rondine.
—E questa è Valduria—ripigliò la giovinetta.
Saranno state un venti case distribuite ai due lati della via, alcune assai miserabili, altre d'aspetto abbastanza civile e di costruzione recente. C'era un Ufficio postale, una stazione di carabinieri, un botteghino di caffè e liguori, un paio di bettole, teatro di magnifiche sbornie, un banco di macellaio ove la domenica si vendeva per carne di manzo della carne di vacca, una farmacia nella quale all'imbrunire i magnati del luogo discorrevano di politica. La chiesa sorgeva isolata sopra un piccolo rialto di terra.
Il villaggio si trovava sulla sponda sinistra del fiume; subito dopo le ultime abitazioni c'era un ponte di pietra che metteva alla riva opposta, e che per quella mattina segnò il punto estremo della passeggiata.
Maria non ricondusse però l'ingegnere Arconti per la medesima strada, ma prese una viottola che saliva a zig-zag sul dorso della collina.
—Mi lascia fare una visita, non è vero?—ella domandò al suo compagno.
—Si figuri.
—Oh una visita di due minuti dalla madre d'uno de' soprastanti ch'è infermiccia…. Ma c'è Giorgetto qui—ella soggiunse vedendo un bimbo che si teneva le mani sugli occhi.—Piangi, Giorgetto? Cos'hai?
E corse verso il fanciullo, che poteva avere sei anni e che apparteneva anche lui a una famiglia di minatori.
Giorgetto spiegò con molte lagrime la immensa sventura che gli era toccata. Paolino, il pessimo Paolino, il figlio del direttore della raffineria laggiù, gli aveva tolto a forza un bel bastoncello che il suo babbo aveva tagliato per lui da un albero il giorno prima… Oh lo direbbe al babbo e Paolino starebbe fresco…. Adesso era andato da quella parte.—E segnò col dito alla sua destra.—Se Maria potesse raggiungerlo e dargli uno scapaccione.
—Che spirito vendicativo!—osservò sorridendo la giovinetta.—Non sarebbe meglio far così?
Ella si alzò in punta di piedi, e sfrappò un ramo da un arbusto che cresceva lungo il sentiero. Poi levato di tasca un grosso temperino che aveva una lama adunca a foggia di roncola, spogliò in un momento quel ramo delle sue foglie, ne spianò i nodi e ne fece un bastone simile a quello di cui Giorgetto piangeva la perdita. Il bimbo, nel ricevere il prezioso regalo, spiccò un salto per la consolazione.
—Che armi ha!—esclamò Roberto con piglio scherzoso.
—Non è vero? Sono formidabile.
Salirono in silenzio fino a una casa bianca d'aspetto modesto, ma pulito.
—Se non vuol entrare, mi aspetti qui—disse Maria.—Mi spiccio subito…. Veda, può seder su questo muricciuolo.
—Ebbene, Gertrude, come va stamattina? Già alzata?—cominciò la ragazza avvicinandosi carezzevole a una vecchia che lavorava di calze davanti alla tavola d'una cucina a pian terreno.
—Eh, figliuola mia—rispose la vecchia tossendo.—A poltrire fra le lenzuola non ci si guadagna nulla…. Tanto e tanto questa tosse dovrò portarmela meco finchè vivo.
Maria si frugò nella saccoccia del vestito e ne trasse una scatola di Liebig, che posò in silenzio sulla credenza.
—Oh bimba, bimba, non la finirai più con quei tuoi regali? E io che posso fare per te?
—Volermi un po' di bene, ecco tutto.
—Oh di bene te ne voglio tanto…. E non son sola a volertene.
S'interruppe guardando fuori della porta.
—C'è qualcheduno con te?
—Sì, un amico di mio fratello, che s'è impiegato nella miniera.
—Uno che viene a star qui?
—Già.
—E perchè l'hai lasciato fuori? Fallo entrare.
Maria si affacciò alla soglia e chiamò Roberto, che non s'era seduto sul muricciuolo, ma girava lì presso.
Quando il giovine fu entrato, Maria ne disse il nome e il cognome, e spiegò all'Arconti come Gertrude fosse madre d'uno tra i migliori e più coraggiosi lavoranti della miniera.
—Lo conoscerò forse oggi stesso e spero che diventeremo amici,—rispose Roberto.
La donna non parve provare una gran simpatia per questo nuovo ospite di Valduria.
—Eh desidero anch'io che diventino amici—ella disse squadrando il giovinotto d'alto in basso;—ma mio figlio è un povero minatore, ella è un signorino della città, e mi sembra difficile che possa aver le nostre idee e adattarsi alla nostra vita.
—Le idee si modificano—osservò Roberto—e quando si vuole sul serio, ci si adatta a tutto.
—Sarà—soggiunse Gertrude con aria scettica. Poi, indirizzandosi a Maria.—E non li prendi oggi i tuoi fiorellini? Cipriano li ha lasciati lì apposta per te.
Maria si fece rossa e prese in silenzio alcune margherite che si trovavano sulla tavola.—Ogni giorno, poi—ella balbettò alquanto confusa.—Addio Gertrude, a rivederci.
—Via, te li devi metter nei capelli, quei fiori.
—Oh Gertrude—esclamò Maria in tono di rimprovero.—A rivederci.
Era chiaro che Gertrude aveva insistito sulla faccenda dei fiori perchè c'era un estraneo, e non era men chiaro che Maria s'era mostrata infastidita per la stessa ragione.
—C'è un romanzetto in aria—pensò Roberto, guardando di sottecchi la fanciulla che aveva perduto la sua primitiva vivacità.—E quella vecchia mi sbirciava con un certo piglio sospettoso come se credesse ch'io potessi essere un rivale del suo figliuolo. Che idee!… Chi sarà poi questo Cipriano?
Maria s'era messo un po' dispettosamente il mazzolino di margherite nei capelli e affrettava il passo verso casa.
Si era già in vicinanza della miniera, quando comparve Odoardo.
—Ebbene—egli disse,—avete fatto un giro lungo?
Maria si rasserenò alla vista di suo fratello, e gli descrisse in poche parole la passeggiata che aveva fatto fare al suo ospite.
—Non sei mica stanco?—ripigliò Odoardo prendendo per un braccio l'Arconti.
—Stanco? Figurati.
—Ebbene, adesso verrai con me fino all'ora del desinare…. Ma vestito così? ah nemmeno per sogno!
L'ingegnere Arconti dovette di buona o di mala voglia ricorrere al guardaroba dell'amico Selmi. Indossò un vestito unto e bisunto, calzò un paio di stivaloni inzaccherati di fango, e si acconciò in testa un cappellaccio che aveva perduta la forma e il colore primitivo. Inoltre Roberto, quantunque non fosse nè piccolo, nè esile di persona, non poteva gareggiare col Selmi nella magnitudine delle forme, onde la giubba gli era troppo ampia, i calzoni troppo lunghi, gli stivali e il cappello troppo larghi. Avrebbe riso del suo aspetto grottesco se il suo sucido abbigliamento non avesse offeso ad un tempo le suscettività del suo odorato e quelle dei suo senso artistico.
—Hai l'aria d'un ragazzo che ha preso l'olio—gli disse Odoardo, che si divertiva fuor di misura alle smorfie del suo antico condiscepolo.—Se tu vedessi come arricci il naso e che sberleffi fai con le labbra.
—In verità—rispose Roberto—se non ho preso l'olio per bocca, lo prendo per infiltrazione…. A spremer questa roba….
—Bazzecole…. Qualche goccia colata dal lume con cui si scende in miniera, un po' di grasso proveniente dall'essere stato troppo vicino a una macchina…. ma il più è fango, sai…. Coraggio, coraggio; anderemo prima sotterra, poi visiteremo i forni fusori e le altre officine…. Avevo ordinato a Cipriano di esser qui…. Ah eccolo….
S'avanzò un giovinotto di statura alta, di carnagione e di capelli bruni, con due occhi pieni d'intelligenza e di fierezza. Poteva avere venticinque anni, era in abito da minatore, ma la lunga consuetudine gli faceva portare il suo vestito con una disinvoltura non priva di eleganza.
—Cipriano Regoli—disse Odoardo presentandolo a Roberto—il migliore dei nostri soprastanti.—E finì la presentazione.—L'ingegnere Arconti, che ormai viene a stare con noi.
—Ho già sentito il vostro nome—rispose Roberto porgendo la mano all'operaio, che ne guardò con una singolare espressione di fisonomia le dita bianche, affilate, aristocratiche.—Ho parlato di voi stamattina con vostra madre….
—Ha visto mia madre?—domandò l'operaio con qualche sorpresa.
—Sì, or ora, nel tornare da una breve passeggiata colla signora Maria.
Una nuvola passò sul fronte di Cipriano, che disse solamente—Ah!
—Il romanzo c'è—pensò in cuor suo Roberto.
Si avviarono verso l'apertura del sotterraneo.
—T'avverto che ci son centoquindici scalini da fare—osservò Odoardo battendo sulla spalla dell'amico.
Cipriano staccò da uno dei pilastrini dell'arco in pietra cotta, che costituiva la imboccatura della discenderia, tre di quei lumi dal lungo manico uncinato onde sogliono servirsi i minatori di tutti i paesi. Li accese in silenzio, ne consegnò uno al direttore, l'altro all'Arconti, e tenne il terzo per sè.
—Vieni dietro a noi—riprese il Selmi, rivolgendosi di nuovo a Roberto.—Andremo adagio…. Tu puoi con la sinistra tenerti alla maniglia di legno che c'è per buona parte della scala.
La discenderia poteva avere un metro e mezzo di larghezza. Di questo metro e mezzo la metà era occupata dagli scalini, l'altra metà dai tubi delle pompe a vapore destinate a cacciar fuori l'acqua dalla miniera. Indi un continuo stillicidio, che aveva finito col far una pozzanghera del piano d'ogni scalino. Le pareti erano anch'esse umide, lubriche, viscose, rivestite in parte da travi massiccie. Grosse travi sostenevano pure la vôlta alta forse due metri. Su quest'armatura delle pareti e della vôlta, sui tubi delle pompe, sulla poltiglia degli scalini, le lampade a mano proiettavano entro un breve spazio una luce rossastra, fantastica; al di là di quello spazio era una tenebra fitta; solo, voltandosi indietro, verso lo sbocco della miniera, si vedeva un chiarore vago, scialbo, come di crepuscolo mattutino. Cipriano camminava in capofila: dopo di lui veniva Odoardo, e ultimo Roberto, in riguardo al quale i primi due rallentavano il passo. Il Selmi era loquace e scherzoso; gli altri tacevano.
Quanto più si scendeva tanto più l'aria si faceva densa, tanto più distinto si sentiva lo strepito delle pompe.
—Siamo a tre quarti di viaggio—disse a un certo punto Odoardo.
Di lì a poco si vide nel fondo agitarsi qualche fiammella, moversi qualche ombra. Un romore cupo simile a tuono si mesceva di tratto in tratto alla voce assordante delle pompe. Era lo scoppio delle mine.
La scala riusciva a una specie di pianerottolo rettangolare, chiuso all'ingiro da un assito di legno. A destra un uscio aperto nel tavolato metteva al serbatoio dove andavano a versarsi le acque della miniera; per un altro uscio a sinistra si entrava nel locale delle pompe; di fronte c'era l'ingresso a una delle principali gallerie.
Quel pianerottolo, ogni sei ore, era il punto più animato del sotterraneo; tutti i minatori dovevano passarvi, sia nel recarsi al lavoro, sia nell'andarsene, e nell'ora in cui si mutavano le squadre, la scala veduta di laggiù offriva uno spettacolo singolare. Questi salivano e quelli scendevano, cercando di occupar quanto meno spazio fosse possibile per non urtarsi allorchè s'incontravano, talvolta scambiandosi un saluto o una facezia, più spesso taciti e seri, di quella serietà ch'è propria della vita sotterranea. Si sentiva lo scalpitio dei piedi sprofondantisi nella melma, e alla fiamma delle lanterne si vedevano strane faccie illuminarsi di sotto in su, strane ombre allungarsi e accorciarsi sulle pareti e sul piano ripidamente inclinato della scala.
Roberto fu condotto prima nella camera delle pompe dove regnava una temperatura di serra calda e dove il vapore che usciva dalle valvole impregnava l'atmosfera. In mezzo a quella nuvola, che rendeva ancor più incerta la luce di due lampade appese alle pareti, si aggiravano i pompisti, mezzo svestiti, con le maniche della camicia rimboccate fin sopra il gomito, col viso annerito dal carbone e dal fumo, con la fronte stillante sudore. Il movimento si arrestò per qualche minuto affinchè l'Arconti potesse esaminar da vicino i congegni. Una delle pompe non funzionava bene; Roberto la fece lavorare sotto i suoi occhi e credette scoprire il motivo di quell'imperfezione. Era precisamente ciò che aveva sempre detto il pompista anziano, il quale acquistò subito molta stima pel nuovo ingegnere.
Nelle gallerie la temperatura ribassava repentinamente a pochi gradi sopra zero. Erano corridoi alti abbastanza perchè un uomo aitante della persona potesse starci ritto, e d'una larghezza sufficiente perchè il passaggio dei carretti di minerale sopra un binario di ferro non impedisse ai minatori di moversi ai lati. A ogni dieci metri si trovava a destra e a sinistra, un'apertura simile a quella d'un enorme forno che saliva per un buon tratto nelle viscere del monte in direzione perpendicolare al piano della galleria, poi si piegava a gomito, tantochè dal basso non si vedeva ove andasse a finire. Era lì che si procedeva all'estrazione del minerale.
Odoardo s'era accinto a spiegare il sistema d'estrazione, ma Roberto disse:—Vediamo.
Penetrarono così in uno di quei filoni, all'estremità del quale un manipolo di minatori praticava dei buchi nella roccia col mezzo d'un lungo bastone di ferro appuntito, detto palo a mine. Alla venuta del direttore i minatori voltarono un momento la testa, ma il Selmi ordinò che continuassero il lavoro. Ed essi continuarono infatti, animandosi con la voce, picchiando in cadenza col martello sul capo del palo a mine, mentre la punta si apriva faticosamente la strada nel sasso, e ne sprigionava di tratto in tratto qualche favilla.
—Allorchè i fori hanno raggiunta la profondità voluta—osservò Odoardo Selmi facendo da cicerone all'amico—li si riempie di polvere a cui si dà fuoco mediante una miccia. Naturalmente i lavoranti s'affrettano a mettersi al sicuro finchè la mina sia scoppiata. Qualche volta lo scoppio ritarda, e allora c'è un pericolo serio per i minatori, i quali vanno a verificare se la miccia si sia spenta prima del tempo. In più d'un caso l'esplosione è successa proprio nel punto in cui s'andava a esaminare il perchè dell'indugio…. Un brutto accidente davvero…. Vi ricordate, Cipriano, del povero Matteo, l'autunno scorso?
Cipriano si strinse nelle spalle.—Poichè bisogna morire, meglio così che sopra un saccone di paglia.
Si continuò il giro della miniera.—E per di qua si manda sopra terra il minerale—disse Odoardo fermandosi davanti a una discenderia, che differiva dall'altra per esservi, invece che scalini, un doppio binario.—I carretti pieni son tirati su pel binario a sinistra e ritornan vuoti per quello a destra.
Un più minuto esame fu consacrato agli ultimi lavori. S'erano incontrate difficoltà non previste. Minaccie d'avvallamenti, pericoli d'inondazione e di scoppi di gaz, quanto bastava insomma per far venir la voglia di smettere. A questo punto Cipriano, il quale fin allora non aveva pronunciato che pochi monosillabi, entrò con vivacità nella conversazione. Aveva la parola netta, incisiva, era pieno di fede nell'avvenire della miniera; non lo diceva, ma lasciava intendere che per lui Odoardo aveva la colpa d'essere timido. Roberto ascoltava con vivo interesse e di tanto in tanto faceva qualche osservazione col piglio d'uomo che non presume di saperne più degli altri, ma che si limita a manifestar le sue impressioni. In complesso, egli mostrava di propendere più per le idee ardite di Cipriano che per la circospezione eccessiva del Selmi, e il giovine soprastante pareva contento di trovare un ausiliario nel nuovo impiegato.
La visita alla parte esterna della miniera non occupò meno tempo di quella all'interno. C'erano i forni che ardevano dì e notte e dai quali si ricavava lo zolfo mediante la fusione; c'eran le caldaie a vapore; c'era una enorme grù, che, mossa da una manovella, serviva a far salire il minerale dal sotterraneo; c'erano le varie officine inerenti all'opificio, officine di fabbri, di falegnami, ecc., ecc., c'era infine il deposito del combustibile, delle pietre cotte, del legname. L'ingegnere Arconti osservava tutto. Molto di ciò ch'egli vedeva era nuovo per lui, ma la naturale prontezza dell'ingegno e il largo corredo di studi gli permettevano di colmar le lacune del suo spirito e di esprimer su ogni cosa idee giuste e precise.
—È un uomo che la sa lunga—dicevano gli operai.—Non gli manca che la pratica.
Odoardo Selmi era soddisfattissimo della buona impressione prodotta dal suo amico sul personale della miniera, e sussurrava nell'orecchio a Roberto fregandosi le mani.—Ti vedo già ingegnere in capo di qualche grande Società mineraria.
—Canzonatore!
—No, no, parlo sul serio. Ingegnere in capo con quindici mila lire di stipendio…. E allora sai, si può passar lietamente metà della giornata sotto terra….
—Ah ti confesso che preferisco star sopra terra…
—Baje! Alla lunga ci s'innamora anche del sotterraneo. Anch'esso ha il suo fascino, la sua poesia… e tu sei poeta… Ma, capisco, non riesci a persuaderti che la poesia possa trovarsi a suo agio in una miniera di zolfo.
—T'inganni. La poesia c'è dappertutto. Ma non la s'incontra mai alla superficie…. È come un minerale prezioso….. Per trovarla bisogna scavare.
Chiacchierando così, i due amici ritornavano lentamente verso casa. Cipriano s'era accommiatato.
—Dev'essere un bravo giovinotto, colui—osservò Roberto.
—Ha molta intelligenza…. è un po' violento di carattere, è un po' poeta nelle sue idee…
—A proposito del discorso che si teneva or ora…. Ebbene, la violenza è certo un difetto, ma minore della freddezza, dell'apatia…. E in quanto all'avere un granellino di poeta, tanto meglio….
Odoardo Selmi tentennò il capo.—Meglio fino a un certo punto…. Non quando ci fa correr dietro alle chimere…. Basta, non vorrei che quel ragazzo lì avesse una certa inclinazione per Maria….
—Lo credi?—disse Roberto, che se n'era già accorto.
—Sì…. Io non me ne impiccio…. Maria ha più giudizio di me, e saprà regolarsi benissimo. Non mi opporrei a un suo desiderio, sopratutto in un argomento così delicato, ma non mi sembra partito per lei.
—Eh sì…. A rifletterci bene, in confronto di tua sorella, Cipriano non è poi che…..
—Mi fraintendi,—interruppe Odoardo.—Tu giudichi un po' con le idee cittadinesche…. Non è che Cipriano sia di bassa estrazione per Maria…. Siamo di origine popolana anche noi, e fumi non se n'è mai avuti in casa. Cipriano ha intelligenza e istruzione quanto basta per mia sorella che, poveretta, non ha mai potuto coltivarsi come avrebbe voluto. In famiglia tutti i sacrifizi si son fatti per me; di lei si è detto che ce n'era d'avanzo quando avesse saputo essere una buona massaia. E vedi, se si fosse fatto tutto l'inverso, se si fosse pensato a lei invece che a me, si sarebbe seminato in un terreno molto più propizio…. Quello che voglio dire si è che Cipriano, forse buonissimo di fondo, ha certe intemperanze, certi impeti che non mi piacciono, e temo che quell'angiolo di mia sorella si pentirebbe amaramente di avergli dato retta…. Ma eccoci giunti…. Avrai fame….
Mancavano venti minuti al tocco, ch'era l'ora del desinare.—Salgo a cambiarmi,—disse Roberto, a cui pareva mill'anni di deporre quei vestiti non suoi e d'immergere la faccia in un catino d'acqua. Perciò egli fu piuttosto sconcertato quando vide che c'era qualcheduno in camera sua.
Era Maria, la quale, dopo aver, con l'aiuto di Caterina, rifatto il letto dell'ingegnere, stava in muta contemplazione davanti all' album di fotografie ch'egli aveva lasciato aperto sul tavolino alla pagina ove si trovava il ritratto di Lucilla.
Côlta alla sprovveduta, la giovinetta si voltò in sussulto, divenne rossa e balbettò:—Oh signor ingegnere…. Scusi…. l'album era aperto.
—Scusarla? E di che?
—Che bel ritratto!—soggiunse Maria.—E che bella ragazza!
—Le piace?
—Oh tanto!… È una sua parente?
Ma si pentì subito della sua domanda, e tornò a dire in fretta:—Oh scusi…. Sono un'indiscreta.
E si mosse per andarsene.
Malgrado la sua fretta di rimaner solo, Roberto la trattenne.—Ma no, ma no, signora Maria, non se ne vada così…. La ringrazio anzi della sua domanda…. Così avrò agio di parlar qualche volta con lei di Lucilla.
—Si chiama Lucilla?
—Sì.
—Sarebbe la sua fidanzata?—ripigliò la ragazza con qualche esitazione.
—Quasi.—E spiegò la sua condizione di fronte a Lucilla.—Se Lucilla aspetta,—egli concluse,—-sarà mia sposa.
—Vuole che non aspetti?—disse Maria, come offesa dal dubbio, e quasi volesse prender le parti della giovine assente.
— Lontan dagli occhi lontan dal core —sussurrò Roberto.
—Oh ell'ama la sua Lucilla?
—Se l'amo?…. Quanto si può amare una donna.
—E non la stima?
Roberto comprese il significato di queste parole e disse:—Ha ragione.
Maria cambiò discorso.—La lascio… Or ora si va a pranzo…. A proposito…. ha la nota della sua biancheria?
—Io? no….
—No? E la roba l'ha riposta tutta nel cassettone?
—No davvero. Ce n'è ancora molta nel baule.
—Tanto meglio. La metterò a posto io e farò l'inventario… A rivederci; appena è pronto scenda…. Troverà già in tavola.
X.
—Signor ingegnere, è arrivata la sua cassa di libri.
Maria pronunziò queste parole entrando vivamente nella camera che suo fratello aveva battezzata col pomposo nome di studio e nella quale egli aveva insediato l'Arconti. Costui era immerso nell'esame di alcuni quaderni, in cui cercava il bandolo dell'arruffatissima contabilità della miniera. Non pretendeva d'essere un gran ragioniere, ma ne sapeva abbastanza da capire che il sistema seguito fino allora era fatto apposta per ingenerar confusione e che bisognava cambiarlo da cima a fondo.
All'annunzio recatogli da Maria, egli si scosse, guardò l'orologio, e parve combattuto fra il desiderio di rivedere i suoi vecchi amici e quello di continuare il lavoro a cui s'era accinto.
—Venga, venga,—disse la giovinetta, che indovinò il suo pensiero,—ha lavorato anche troppo. Son già le sei. Venga finch'è giorno a dare un'occhiata alla sua cassa. Ho fatto restar di là l'uomo che l'ha portata, e che si offerse d'aprirla davanti a lei.
—Allora eccomi qui,—esclamò Roberto. E il piacere che provava in quel momento gli colorava d'un vivo incarnato le guancie.
La cassa era nella camera dell'ingegnere, accanto al baule. Appena fu aperta, l'identica domanda venne sul labbro all'Arconti e a Maria:—Dove si metteranno tutti questi libri?
Quantunque fossero cento volumi al più, in Valduria non s'era mai visto una biblioteca simile; solo il brigadiere dei carabinieri possedeva una ventina di romanzi à sensation, la cui lettura manteneva in istato di umidità permanente gli occhi della maestra comunale. L'ingegnere Selmi si contentava di tre o quattro opere tecniche, e Maria, ch'era la letterata della famiglia, aveva di sua esclusiva proprietà i Promessi Sposi, il Marco Visconti, i Bozzetti militari del De Amicis, e il primo volume della Gerusalemme liberata. Il secondo mancava.
I libri del giovane Arconti erano tutti legati con gran cura e alcuni anche con lusso. C'erano perfino due o tre edizioni illustrate splendidamente. Ricordi d'altri tempi, ahimè, ormai tanto lontani. Roberto stesso riconosceva che que' libri, a Valduria, fuori del loro nido elegante, fuori della loro bella biblioteca di noce, facevano un effetto singolare. Eppure non sapeva pentirsi di averli portati seco. Se lo prendeva la nostalgia, se lo assaliva una subitanea e profonda tristezza, a chi avrebbe potuto ricorrere se non a quei fidi compagni del suo pensiero?
—Diavolo!—esclamò Maria, rispondendo alla domanda ch'ella stessa s'era rivolta un momento prima.—Il posto è presto trovato. Qui no, ma nella stanza attigua, dove, come le dissi jersera, passo parte della giornata a lavorare… Ma potrò fare anche a meno di starci, io…. La lascerò tutta per lei…
—A questo patto no…. Non accetto….
—Bene, bene… Ne riparleremo…. In quanto ai libri, sfido io, se non li mette là, dove vuol metterli? lasci fare a me, ordinerò al falegname gli scaffali… Oh, Bastiano fa le cose a modo….
Si rammentò che l'ingegnere veniva da una grande città, che aveva abitudini raffinate e non poteva esser di così facile contentatura com'era lei. Onde soggiunse un po' confusa:—Bisognerà, per altro che abbia una grande indulgenza… Poveri libri! Alloggiavano molto meglio una volta.
La giovinetta non seppe resistere alla tentazione di chinarsi sopra la cassa e di prendere in mano qualcheduno di quei volumi. Poi li riponeva con infinita delicatezza, e alzava gli occhi verso Roberto come a chiedergli scusa della libertà che s'era presa.
Ma egli l'incoraggiava con lo sguardo e con la parola.—Faccia, faccia; quando vedo festeggiare i miei libri, mi par d'essere una mamma che si rallegra delle cortesie usate ai suoi bimbi.
Pur c'era una cosa che turbava Maria. Molti tra questi libri non erano italiani, e la ragazza, dopo averne guardato il frontispizio, si affrettava a ricollocarli a posto con una certa aria di mortificazione.
—Che peccato,—ella disse finalmente,—di non poter sapere nessuna lingua straniera, nemmeno il francese.
—Non sa proprio nulla di francese?—domandò Roberto con interesse.
—Odoardo aveva cominciato a insegnarmene i principii, ma poi ha smesso…. Ha tanto poco tempo, ed io ero una scolara di testa così dura!
Se Odoardo fosse stato presente, egli, con la ordinaria franchezza, si sarebbe affrettato a smentire la sua troppo modesta sorella, e a confessare che quelle lezioni erano state interrotte soltanto per colpa del maestro, il quale doveva convincersi della sua insufficienza.
—Vorrebbe ritentare la prova con me?—chiese l'ingegnere Arconti.
—Con lei!—esclamò Maria, quasi non credendo a sè stessa.—Si prenderebbe questo disturbo?
—Si, davvero. Sarebbe uno svago.
—Oh com'è buono! Com'è gentile!—replicò la fanciulla, che per poco non si metteva a saltare dalla contentezza.—E quando….
S'interruppe arrossendo… Egli sorrise e disse:—Quando che cosa?… Oh via, non si confonda…. Vuol che la finisca io la frase…. Quando si comincia?…. Ebbene, si comincerà domani sera…. Stasera voglio scrivere a casa.
E infatti, subito dopo cena, Roberto si ritirò nella sua camera e scrisse a sua madre. Gli era convenuto rinunciare, per qualche tempo almeno, a una corrispondenza diretta con Lucilla, giacchè la signora Giulia aveva subordinato a questa condizione la sua promessa di patrocinar la causa de' due amanti. Del resto, la lettera di Roberto alla signora Federica era, per tre quarti, consacrata a Lucilla. Il nome della giovinetta ricorreva una quindicina di volte nelle sei facciate dell'ingegnere. Se Lucilla avesse veduto lui, l'antico frequentatore dei teatri e dei balli, camuffato da minatore! E poi Roberto descriveva a sua madre (e a Lucilla) la famigliuola che lo aveva accolto con tant'effusione: Odoardo un po' grossolano di gusti, ma tutto cuore, tutto ospitalità, e Maria così buona, così intelligente, così desiderosa d'apprendere. Egli s'era impegnato a insegnarle un po' di francese. Non era però bella, Maria, e quantunque fosse piuttosto alta di statura, aveva ancora l'aspetto d'una fanciulla. Che confronto con Lucilla! Pure c'era qualcheduno a cui questa Maria piaceva moltissimo. E qui Roberto discorreva di Cipriano e della vecchia Gertrude, la quale pareva in sospetto di tutti gli uomini che avvicinavano la ragazza. L'aveva vista anche lui, ed ella gli aveva fatto il viso dell'arme, la buona femmina, come a un possibile rivale di suo figlio. Che ne pensava Lucilla? Sarebbe gelosa? Lucilla, sempre Lucilla, tanto è vero che, se alla lunga la lontananza raffredda gli affetti, in principio li riscalda e li avviva.
In complesso Roberto non si mostrava troppo scontento della sua sorte. Se non fosse stata la separazione dalle persone care, a tutto il resto si poteva adattarsi. A proposito, egli stimava suo dovere di annunziare un gran cambiamento che stava compiendosi nel suo aspetto esteriore. Si lasciava crescer la barba. Non aveva pazienza di radersi da sè, e gli mancava il coraggio di affidarsi all'opera del barbiere e veterinario di Valduria. Il periodo di transizione era scabroso, ma, in meno d'un mese, egli sperava di esser di nuovo un bel giovine, anzi più bello di prima.
Roberto chiudeva la sua lettera col pregar sua madre di scrivergli diffusamente, e col prometterle l'invio d'un vaglia postale alla fine del mese, appena avesse incassato il suo stipendio.
Quel giorno stesso, Cipriano tornò a casa cupo e taciturno.
—Cos'hai?—gli chiese sua madre.
—Nulla—egli rispose seccamente.
Ma Gertrude non era donna da smettere così presto.
—Lo so quello che hai—ella soggiunse. Egli si strinse nelle spalle.
—È odioso anche a te lo zerbinotto venuto iersera da Milano a mangiare il pane della miniera. Dev'essere uno sciocco.
Cipriano fece un gesto d'impazienza:—Non è uno sciocco. Ecco il peggio. Quell'uomo lì diventerà il vero direttore della miniera.
Gertrude inarcò le ciglia.—E l'ingegnere l'avrebbe fatto venir qui per questo?…. Oh quel signor Odoardo non ha senso comune…. Se lo tiene in casa, anche, con sua sorella.
La vecchia aveva proprio messo il dito sulla piaga.
A Cipriano salirono le fiamme al viso.—Cosa penseresti, mamma?
—Nulla, nulla, ma sono imprudenze che una persona di giudizio non commette.
—Che l'ingegnere vagheggiasse un matrimonio di sua sorella con questo signore?
—Potrebbe anche darsi, ma s'ingannerebbe a partito. Figurati se quel bellimbusto lì è uomo da sposare una ragazza come Maria…. Sposarla, no….
—E allora?
—Allora? Metti un giovinotto senza scrupoli vicino a una fanciulla senza esperienza….
Cipriano balzò come un leone ferito, tantochè la vecchia Gertrude si pentì delle sue reticenze maligne. Le accadeva spesso con le sue parole imprudenti di andar oltre il segno.
—No, no,—ella riprese—non dar retta a me…. Ho avuto torto…. Maria è una ragazza troppo seria da lasciarsi accalappiare dalle lusinghe d'un damerino…. E poi, anche l'altro, anche quell'ingegnere l'ho accusato a caso….
E Gertrude esortava il figliuolo a mangiare la minestra ch'ella gli aveva scodellata sulla tavola.
—Oh s'egli si provasse a toccar Maria—esclamò Cipriano stringendo il manico d'un coltellaccio che portava sempre con sè.
—Per amor del cielo, Cipriano, non tiriamoci addosso i guai…. Via, la minestra si raffredda.
Cipriano diede una spinta alla zuppiera rovesciandone mezzo il contenuto, e soggiunse:—Anche stamattina era con lei….
—Sì, l'ho visto appunto allora.
—Ed ella prese ugualmente i fiori che le avevo lasciati?….
—Si è schermita un momento….
—Ah…. vedi….
—Ma li ha presi, li ha presi…. e se li è messi nei capelli….
—La mia disgrazia la so ben io qual è—proruppe Cipriano abbandonandosi sulla sedia e prendendosi la testa fra le mani—la mia disgrazia è d'essere un povero minatore.
—Oh…. come s'ella fosse una contessa….
—No, ma è più di me, è sempre una signorina in confronto…. La mia disgrazia è d'essere un ignorante. E sì che qui dentro ci sarebbe qualche cosa….
E si picchiò la fronte con le nocche delle dita.
—Perchè non mandarmi a una buona scuola in qualche grande città?—egli continuò.—Perchè non farmi istruire?
—Oh Cipriano—disse Gertrude, colpita nel cuore da questo rimprovero—come si doveva fare? Siamo sempre stati povera gente…. Tuo padre era un semplice minatore ed è morto a trent'anni; io non avevo nulla di mio…. Si è sempre campato a fatica…. Cipriano, Cipriano, non essere ingiusto.
E la vecchia, così spesso acre e maligna nel giudicare gli altri, trovava nella sua voce una nota profondamente commossa.
Ma egli l'ascoltava appena.—E adesso la differenza tra noi due si fa maggiore, adesso che c'è l' altro, il cittadino, con la sua eleganza, con la sua facondia, co' suoi libri. Seppur ella non lo ama, seppur egli non si cura di lei, lo sento, costui è un nuovo ostacolo alla mia felicità…. Come se non ce ne fossero già abbastanza! Ma io perchè l'amo, questa fanciulla?… Quante, più belle di Maria, sarebbero orgogliose s'io rivolgessi loro uno sguardo, un sorriso!
—Oh sì,—esclamò Gertrude, enumerando con materna compiacenza una dozzina di ragazze, che, a sentirla, ambivano la mano del suo figliuolo. E ce n'erano di ricche, di quelle che avevano dei campi al sole, mentre Maria non possedeva un soldo di dote. Fisicamente poi valevano tutte assai meglio di questa creatura esile, dai capelli corti, dalla tinta sbiadita…. Però si capiva che nemmeno Gertrude era persuasa appieno di quanto diceva. Che le ragazze da lei nominate languissero per Cipriano, quest'era naturalissimo; ma esse erano, qual più qual meno, contadine zotiche e rozze, e Cipriano si sarebbe abbassato a curarsi di loro…. Maria invece, a malgrado della sua semplicità, pareva cresciuta in un altro ambiente; volere o non volere, si doveva riconoscere in lei un essere superiore, e perciò appunto Gertrude, ch'era ambiziosa, trovava ch'ella era la sola degna dell'affetto di suo figlio.
Ond'egli non fece che interpretare il pensiero di lei quando rispose:—Che mi importa di loro? Nè io le intendo, nè esse intendono me. Esse vivono contente del loro stato, contente del mondo in cui nacquero; io no…. Ma, le poche volte che io posso avvicinarmi a Maria, mi par di respirare un'altr'aria, l'aria fatta pei miei polmoni…. Ma ella non mi ama…. oh non mi ama!
—Abbi pazienza, e ti amerà—disse Gertrude, ansiosa di calmar la tempesta ch'ella stessa aveva provocata.—Ella conosce il bene che tu le vuoi, e non lo respinge….
—Non lo respinge per compassione—ruggì Cipriano.—Perchè è dolce, perchè è soave, perchè non vorrebbe veder soffrire nessuno…. Oh da questo lato non mi somiglia…. Soffrano pure quelli che non amo…. Soffro tanto anch'io….
E mentre parlava così, nelle contrazioni del volto e di tutta la persona, gli si leggeva un dolore che ignora lo sfogo delle lagrime.
Gertrude, persuasa che, pel momento, a discorrere farebbe peggio, s'era rassegnata a tacere, e non era piccolo sacrifizio per lei. Ella rimetteva a posto in silenzio la zuppiera, e riempiva di vino il bicchiere di Cipriano.
A un tratto fu colta da un eccesso di tosse e dovette sedersi.
Nella fisonomia del giovane si dipinse una cura diversa da quella che l'aveva oscurata fino allora. Egli si alzò e si avvicinò dolcemente alla vecchia che, nello sforzo, s'era tinta la faccia di pavonazzo e dal cui petto usciva un suono cupo e profondo.
—Sempre quella tosse, mamma?
—Non è niente…. Passerà—ella rispose fra un colpo e l'altro.—Ma tu, mettiti a mangiare…. fallo per me.
Cipriano sedette di mala voglia e prese alcune cucchiaiate di minestra. Non aveva fame; pensava al suo povero amore, pensava alla sua povera mamma, e al deserto che gli si sarebbe fatto d'intorno quand'ella fosse morta. Ma nel suo animo altero e iracondo s'agitavano anche altri pensieri. Era invidia, era odio verso quelli che a lui parevano i privilegiati della fortuna e che egli avrebbe voluto schiacciare sotto ai suoi piedi.
XI.
Una lettera da Milano! Una lettera listata di nero, con un acuto odore di patchouli e con la soprascritta in bella calligrafia: All'egregio signor ingegnere Roberto Arconti.—Miniera di Valduria, in Romagna.
Il procaccino la consegnò a Roberto una sera mentr'egli insegnava a Maria Selmi a coniugare in francese i verbi ausiliari. La lezione aveva luogo nel salottino terreno alla presenza di Odoardo, il quale se ne stava sibariticamente fumando la sua pipa, ch'egli di tratto in tratto levava di bocca per sorseggiare un bicchiere di vino. E quando deponeva il bicchiere e ripigliava la pipa, non mancava mai di dire:—Ci vuol proprio una vocazione speciale per mettersi a studiare dopo cena!
La vocazione speciale Maria l'aveva. E il suo maestro stava congratulandosi con lei del modo in cui ell'aveva ripetuto il soggiuntivo presente del verbo essere allorchè l'arrivo della posta interruppe la lezione.
«Caro Roberto»—scriveva la signora Federica a suo figlio—«Sai che la tua lettera è extrémément bourgeoise? Si direbbe che tu vada in solluchero per codesti luoghi pieni di miseria e di sudiciume! Un giovinotto come te, avvezzo a tutto il chic di Milano, avvezzo a vivere con la fine fleur della società, come mai può adattarsi a un ambiente simile a quello di Valduria? Ci sei voluto andare, non hai voluto attendere un impiego migliore che con un po' di pazienza avresti sicuramente trovato, e capisco che fino a un certo punto oggi tu faccia bonne mine à mauvais jeu. Ma via, non bisogna prendere il Purgatorio per il Paradiso, nè dimenticare che costì ci devi rimanere meno che sia possibile. La Giulia Dal Bono, che è la platitude in persona, si sbracciava ieri a provarmi che in fin dei conti è meglio che tu ti trovi bene che male. Niente affatto—saltò a dire Lucilla:—Se si trova bene, finisce col non moversi più.—E Lucilla aveva ragione.
«Santo Iddio! Quando mi figuro mio figlio in mezzo allo zolfo, al carbone, all'unto, al grasso e a tutte le altre porcherie della miniera, domando a me stessa s'è un cattivo sogno quello che faccio. Anche il mio povero Mariano ne sarebbe scandalizzato. E sì che quello lì ha lavorato pei suoi giorni. Ma alla cura della sua persona egli non ci rinunciava per tutto l'oro del mondo, e non mi ricordo d'averlo mai visto con una macchia sul vestito o con la cravatta a sghimbescio.
«E anche la gente con cui ti tocca a vivere, povero Roberto, lasciamelo dire, che supplizio dev'essere! Saranno buone creature, lo ammetto, e non ti nego che questa sia una qualità da tenersi in gran conto. Ma l'educazione, mio caro, l'educazione! Quell'Odoardo Selmi m'è bastato di vederlo una volta anni addietro per capire che zotico egli sia, e sua sorella, di cui vanti l'intelligenza, farà una bella figura in virtù del noto proverbio: Beati i monocoli in terra di ciechi! Ma, in nome del cielo, cosa può essere una ragazza la quale, ai tempi che corrono, non sa una parola di francese?
«S'è riso con Lucilla dell'idea saugrenue che t'è venuta di dirozzare questa mezza selvaggia, e ti auguriamo buona fortuna. Ma vedrai che sarà un pestar l'acqua nel mortaio. Bada piuttosto che il ciclope sentimentale il quale spasima per mademoiselle non ti mangi vivo, e che la sospettosa madre di lui non ti graffi gli occhi…. In quanto a Lucilla, credi pure ch'ella non è gelosa. Ella non fa questo onore alla tua scolara.
«Ma parliamo d'altro. Lucilla la vedo quasi ogni giorno, e sta bene. Ieri la ho accompagnata da Madame Chaillon a ordinarsi un vestito. È il primo ch'ella si fa dalla Chaillon, e non c'è voluto poco a persuadere il signor Benedetto che una ragazza come Lucilla ha diritto d'avere almeno un abito all'anno fatto da una brava sarta. Scelsi io la stoffa ed il taglio sull'ultimo figurino di Parigi…. Immaginati un piquet …. oh ma c'è proprio sugo a discorrer con te di questa roba!… La Chaillon mi diceva: E lei, madama Arconti, non comanda nulla? Mi son sentita una stretta al cuore a pensar che una volta commettevo due o tre toilettes ogni stagione e che adesso invece mi tocca prolungare il lutto intero per non aver quattrini da farmi un vestito da mezzo lutto. Caro Roberto, ciò che ti proponi di mandarmi ogni mese è molto se si considera il tuo stipendio, ma come si può tirare avanti così? È necessario, è indispensabile che tu cerchi una posizione migliore. E intanto non far troppo il puritano, e lasciami mangiar la mia dote a porzioni meno omeopatiche. Il faut bien vivre.
«T'assicuro che anche il tenere una sola persona di servizio alla lunga non va, non va assolutamente. Ho dovuto licenziar la Teresa, che cucinava abbastanza bene, ma non sapeva introdurre con un po' di garbo le visite in salotto. Quella che ho preso ora, invece, il garbo l'ha, ma non riesce a portarmi in tavola un piatto che non sappia di fumo. È una disperazione. A ogni modo capisco che la terrò in virtù de sa bonne mine.
«Delle mie relazioni non posso lagnarmi. Anche venerdì ebbi quasi una dozzina di signore, e fra queste la marchesa Trivelli e la contessa Lippi. E tutte queste visite dovrò restituirle a piedi, o in un fiacre, che è ancora peggio. È dura, assai dura. Una dama che si rispetta non è possibile che stia in Milano senza carrozza propria. Per me è una mortificazione che mi accorcia la vita… Ma finirà. Mi dirai visionaria, ma ho il presentimento che finirà presto. Al primo del mese venturo c'è l'estrazione della gran lotteria, e scommetterei che sortirà uno dei nostri biglietti. Qualcheduno deve pur vincere; e perchè non possiamo noi esser quelli che vinceranno?
«L'altro ieri fui al cimitero a deporre una ghirlanda di semprevivi sulla tomba del tuo povero babbo. Credimi, Roberto, l'epitaffio che hai fatto incidere sopra la lapide è troppo semplice. Mariano Arconti meritava di meglio. E tu dirai ch'è vanità, ma già io non so rassegnarmi all'idea che non si sia eretto un piccolo monumento all'uomo che abbiamo perduto. Se non si voleva ricorrere al Vela, c'era il Barzaghi, che ha finito testè il busto di Giovanni Romilli commessogli dalla vedova. E quel busto di marmo di Carrara, lo collocheranno a giorni sopra un cippo di bardiglio a poca distanza dalla tomba di Mariano. Giovanni Romilli che guarda d'alto in basso Mariano Arconti! Son cose da far strabiliare.
«Del resto, mi assicurano che all' Unione ci sia dégringolade completa. Ne ho piacere per quella petulante della nuova direttoressa, che appena si degna di salutarmi quando m'incontra.
«Milano è un mortorio. Fa già un gran caldo, e non c'è uno spettacolo tollerabile. Parlo par oui dire, perchè, come puoi credere, io non andrei a teatro nemmeno se ci fosse la Patti. Per solito, sto la sera a casa, e t'assicuro io che m'annoio. Brigola continua a spedirmi i nuovi romanzi francesi, che rimando tali e quali. È molto se ogni mese ne trattengo uno. Sfido io a prendermi il lusso dei libri con quegli avanzi che ho.
«Per due giorni ebbi la compagnia di un bel pappagallo che m'era stato ceduto a buon prezzo da un signore che va a stabilirsi a Firenze. Son così sola che quella bestia mi sarebbe stata carissima, ma ho dovuto sbarazzarmene rivendendola a metà del costo. Figurati! Aveva imparato a dir tante parolaccie da far arrossire un soldato di cavalleria.
«Oh, ma è tempo di por termine a questa lettera décousue. Mille saluti di Lucilla e di sua madre. Mi dimenticavo dirti che una sera alla settimana gioco alle carte col signor Benedetto. È una seccatura messa a frutto…. Sono una buona madre, io…. Gipsy ha imparato a starsene ritta sulle due zampe di dietro, e in compenso di questa sua bravura io le ricamerò un collarino nuovo.
«Addio, addio. Leoni t'ha scritto? A me non venne ancora a far visita! Non si degna forse? Addio.
« La tua affez. mamma. »
« P.S. A proposito, scordavo il meglio. Lucilla ed io disapproviamo assolutamente la tua risoluzione di lasciarti crescer la barba. Ma già codesto soggiorno ti fa diventare un uomo selvaggio».
Allorchè Roberto s'era accinto a leggere la lettera di sua madre, Maria aveva chinato lo sguardo sul suo libro di temi. Però, mentr'egli scorreva rapidamente i foglietti vergati dalla signora Federica, gli occhi della giovinetta s'erano alzati più di una volta dal quaderno e avevano cercato di indovinare nella fisonomia dell'ingegnere l'impressione prodotta in lui da quella lettura. Una lettera della mamma? Pareva a Maria che dovesse di là sprigionarsi tanta dolcezza quanta può venirne da cosa alcuna nel mondo. Una lettera della mamma! Oh se anche a lei fosse dato riceverne! Con che festa l'accoglierebbe! Con che delizia pascerebbe lo sguardo nei rozzi e disadorni caratteri di quella sua diletta!… Ma pur troppo la sua mamma non le avrebbe scritto mai, pur troppo la sua mamma era morta. Invece Roberto, lui felice, aveva la sua mamma viva, ed ella gli scriveva in foglietti profumati di patchouli, e la sua calligrafia era elegante come la sua persona, ed ella aveva lasciato correr la penna sulla carta e gli aveva senza dubbio parlato di mille cose interessanti e di quella che lo interessava più di tutte, di Lucilla. O perchè il viso di lui, invece di atteggiarsi alla gioia, si atteggiava allo sconforto, perchè talvolta sulla sua fronte passava una nuvola, come un segno d'impazienza e di dispetto?
—Non ha mica ricevuto qualche cattiva notizia?—chiese Maria appena egli ebbe ripiegata e posta in tasca le lettera.
—No, grazie,—egli rispose.—Tutt'altro.
E compose il labbro a un sorriso, ma era un sorriso così languido, così forzato che metteva in maggior risalto l'espressione di mestizia diffusa in tutto il suo volto. Nello stesso modo il raggio di sole che sbuca furtivo e timido dalle nuvole fa spiccar di più la tristezza d'una giornata d'inverno.
Maria non aveva diritto di chiedere altre confidenze; anche in questa occasione forse ella era stata troppo indiscreta. Era un difetto che non s'era accorta di avere prima della venuta dell'ingegnere Arconti.
Arrossì, e sfogliò con mano distratta il libro che teneva davanti a sè.
Roberto si alzò dalla sedia, e porgendo la mano alla giovinetta,—Non mi tenga il broncio,—le disse,—se oggi interrompo la lezione più presto del solito. Ci rifaremo domani sera… Voglio lavorare ancora un poco… Buona notte… Addio, Odoardo.
—Oh,—borbottò il Selmi che aveva chiuso gli occhi e stava per prendere sonno con la sua pipa in bocca.—Buona notte, Roberto…. È già ora di andare a letto?
—Forse no, ma vado a finire la relazione da spedirsi a Londra.
—Ih! Che furia….
—Cosa fatta capo ha.
Odoardo stirò le braccia, mise un lungo sbadiglio e soggiunse:—Tutti i gusti son gusti.
L'ingegnere Arconti accese una candela ed uscì.
Giunto che fu nello studio, tirò fuori macchinalmente da un cassetto un mucchio di carte e sedette davanti alla scrivania. Per qualche tempo non gli venne fatto di raccapezzare un'idea. Era lì immobile, coi gomiti appoggiati al piano della tavola, col viso nascosto fra le palme. I bei conforti che gli venivano da Milano! I belli incoraggiamenti a proseguir la sua via! Ma non doveva aspettarselo? Sua madre non era stata sempre così? Ebbene, è vero, doveva aspettarselo; tuttavia egli non aveva rinunciato alla speranza che a poco a poco ella fosse andata formandosi un più giusto concetto della situazione, ch'ella avesse finito col render giustizia a suo figlio. Follie! Come se una donna potesse cambiar indole a più di quarant'anni! Ma Lucilla almeno avrebbe dovuto considerar le cose da un altro punto di vista, e invece, pur troppo, era evidente che Lucilla si trovava all'unissono con la signora Federica. Roberto ebbe un momento d'abbandono, di sfiducia tetra e desolata; ma ben presto lo sovvenne la sua consueta energia. No, no, egli non aveva il diritto d'esitare, non aveva il diritto di dubitare di sè, della rettitudine della sua condotta e de' suoi propositi. Quand'anche gli mancasse ogni altro appoggio, quand'anche si sentisse come un naufrago nell'Oceano, la sua tavola di salvamento egli l'aveva. Era il lavoro. S'immerse nelle sue carte, concentrò tutte le forze della mente nella relazione che s'era prefisso di compiere in quella notte; non volle pensar ad altro, e riuscì a non pensar ad altro. Le idee che si eran fatte tanto aspettare accorsero in folla, e la forma si piegò docile ad esprimer le idee. Egli scrisse per più ore di seguito, e, quand'ebbe finito, rimase sorpreso egli stesso dell'opera sua. Gli pareva davvero impossibile d'esser lui l'autore di una memoria, che nel nitido stile acconcio agli affari riassumeva tutti i dati principali della gestione della miniera e dava una guida sicura per non ismarrirsi in un labirinto di cifre. Questa virtù della perspicuità egli l'aveva ereditata dal padre suo, e nel rileggere il suo manoscritto un'intima voce gli diceva che suo padre non avrebbe rifiutato di apporvi la propria firma. Oh, come gli sarebbe stata dolce in quell'istante una parola di suo padre, un sorriso, una lode! Tuttavia la coscienza che se il cavalier Mariano fosse vissuto, quella lode non gli sarebbe mancata, il convincimento ch'egli aveva di meritarla, gli riempiva l'anima d'un'ineffabile dolcezza. Sua madre e Lucilla calunniavano la sua vita dipingendola come gretta e prosaica; agli occhi di lui essa era illuminata dalla forte poesia del dovere, e tutti gli scherni del mondo non potevano bastare a fargliela tenere a vile.
XII.
Un giorno Cipriano ebbe un'ispirazione ardita. Vincendo la sua antipatia pell'Arconti, gli rivelò il suo amore per la sorella di Odoardo Selmi e i dubbi e i sospetti che gli laceravano l'anima. Roberto accolse con orecchio benevolo quelle confidenze, che non gli apprendevano nulla di nuovo, e dissipò le ombre che offuscavano la mente del giovane minatore. Egli stimava assai le virtù di Maria, ma non aveva per lei se non l'affetto che si può avere per una buona amica. Il suo cuore apparteneva ad un'altra. C'era nelle parole dell'ingegnere Arconti un tale accento di schiettezza che Cipriano ne rimase convinto e fece un passo di più; egli chiese a Roberto di usare in suo vantaggio il grande ascendente ch'egli aveva sull'animo della fanciulla. A ciò Roberto non assentì; egli non aveva nessun titolo per esercitare un'ingerenza di questa specie. Toccava a lui, a Cipriano, farsi amar da Maria; toccava a lui rivolgersi alla sola persona che avesse un'autorità legittima sulla giovinetta, a Odoardo. Cipriano si mostrò più mansueto di quello che il suo carattere violento non lasciasse supporre, e parve arrendersi alle ragioni dell'ingegnere. Se però egli avesse potuto aiutarlo in una cosa! Si sentiva superiore alla sua umile condizione; si sentiva agitato dalle inquietudini del sapere, e non aveva mai agio di scambiare un'idea, non aveva un libro che gli desse modo di colmar le lacune del suo spirito. Oh, non pretendeva di diventare un letterato! Si rassegnava a fare spropositi d'ortografia tutta la vita; la sua curiosità era d'un'indole esclusivamente scientifica; egli aspirava soltanto a coordinare, mercè qualche studio, le varie nozioni che aveva acquistato nella lunga esperienza delle miniere. Così egli avrebbe anche reso a grado a grado minore la distanza che lo separava da Maria, ora sopratutto che Maria aveva trovato chi si occupava della sua educazione. C'era un fondo d'amarezza in queste ultime parole di Cipriano, ma l'Arconti fece le viste di non accorgersene, e mise a disposizione del suo interlocutore le opere tecniche che formavan parte della sua piccola biblioteca.
Da quel momento, tra l'ingegnere Arconti e Cipriano si stabilì una certa intimità. In primo luogo si trovavano sempre in miniera, ove ormai l'ingegnere passava una buona parte della giornata, visto che le sue funzioni amministrative non gli occupavano che poche ore. Inoltre Cipriano, con la scusa dei libri, veniva spesso a casa dell'Arconti, e vi si tratteneva qualche tempo a esporre i suoi dubbi e a sollecitar spiegazioni. Era un fatto che la prontissima intelligenza sopperiva in lui alla mancanza di studi, e gli permetteva di apprendere con una singolare rapidità. Nè Roberto avrebbe voluto assumere verso il giovane soprastante l'ufficio di maestro; nè Cipriano si sarebbe acconciato alla parte umile di discepolo; nondimeno, in quei colloqui, che, se non potevan dirsi lezioni, avevano però un carattere scientifico, Roberto si prestava con vivo interesse a dirozzar la mente del minatore.
Verso Maria, Cipriano aveva mutato tattica affatto. Gentile sempre e ufficioso, non s'atteggiava più in modo così aperto ad innamorato; la vedeva anche più spesso d'una volta, la invigilava, ma sapeva nascondere la sua preoccupazione discorrendole di soggetti indifferenti. Era ormai deciso ad aspettare. E Maria lo trattava meglio quanto meno egli aveva l'aria di un pretendente; era lieta di poter manifestargli la tranquilla, fraterna affezione che ella gli aveva sempre portato. Forse non era persuasa nemmen lei ch'egli avesse dimesso tutte le sue vecchie idee; a ogni modo, godeva il presente e non le pareva vero della buona armonia stabilitasi contro ogni aspettazione fra due uomini ch'ella stimava ambidue…. quantunque in diversa guisa e in diversa misura.
Odoardo Selmi diceva:—L'Arconti fa miracoli. È persino riuscito ad ammansar Cipriano.
In quanto a lui, era contentissimo della crescente influenza che il suo amico andava acquistando nella miniera. La sua attività era tutta fisica; intellettualmente era inerte. Non avrebbe saputo rinunziare alle fatiche del corpo; rinunziava ben volentieri a quelle dello spirito. Era una gran dolcezza per lui, alla fine d'una giornata operosa, poter starsene cheto con la sua pipa in bocca, col suo fiasco di vino davanti senza bisogno di pensare a innovazioni e a miglioramenti. Ci pensava Roberto, e il Selmi gli lasciava libertà piena per le piccole cose, e per quelle di maggior rilievo gli consentiva di scrivere alla Direzione di Londra. Dal canto suo, si limitava a firmare le lettere.
A Londra s'erano accorti che una mano più vigorosa, una mente più ricca d'iniziativa aveva impresso un maggior movimento dell'usato a Valduria, e nelle lettere particolari che spedivano all'ingegnere Selmi si congratulavano con lui del nuovo impiegato. Una lode speciale era toccata all'Arconti in seguito alla relazione trasmessa a Londra; ove le sue proposte tecniche (e dico sue perchè realmente appartenevano a lui e perchè Odoardo non ne dissimulava punto l'origine), sebbene non accettate tutte, avevano fatto crescer la stima ch'egli aveva saputo inspirare. Per due cose principali egli era riuscito ad ottener l'adesione della Società; per l'apertura d'una nuova galleria e per gli studi e per gli esperimenti necessari all'applicazione di un sistema da lui immaginato affine di risparmiar combustibile nel riscaldamento dei forni. Egli vi si era accinto col fervore proprio della sua tempra e della sua età, e non lo turbava punto lo scetticismo che gli spirava intorno. Si risovveniva d'un detto di suo padre: Guai a chi nei momenti critici della vita non crede in sè stesso. Sarà come un fuscello palleggiato dal vento.
Del resto, solo affatto non era. Cipriano divideva tutte le sue idee, Maria divideva la sua fede nel buon esito de' suoi tentativi. Quando Odoardo Selmi tentennava il capo e borbottava fra i denti:—Ho paura che si finirà col gettar danaro per nulla—sua sorella gli dava sulla voce:—Lascialo fare. La sa più lunga di te.—E l'ottimo Selmi assentiva:—Questo è vero.—Tutt'al più soggiungeva un però, come principio d'una nuova proposizione che stimava meglio di non continuare.
In pochi mesi Roberto aveva preso il color locale al di là di ogni ragionevole aspettazione. Gli restava sempre una cert'aria cittadinesca, una certa nativa eleganza, ma l'antico dandy era scomparso. Indossava con disinvoltura il rozzo sajo del minatore, aveva il volto abbronzito, le mani callose, e la folta barba lo faceva parer men giovine di alcuni anni. Cosa singolare, egli non rimpiangeva mai la sua vita d'un tempo, nè tradiva un soverchio disdegno verso la società di Valduria che nella domenica e nelle altre feste di precetto sfoggiava le sue grazie all'ora di messa e veniva a far visita alla sorella del signor ingegnere in capo. Il sindaco, signor Ludovici, possidentuccio sulla cinquantina, uomo timido e vano, lodava nell'ingegnere Arconti la pratica delle cose amministrative, e diceva che un giorno o l'altro lo si sarebbe potuto nominar consigliere del Comune e poi assessore. La maestra comunale, ch'era la lionne del luogo, lo trovava proprio un cavaliere a modo, e consacrava a lui in segreto quella parte del suo cuore ch'era lasciata disponibile dal grosso brigadiere dei carabinieri. Piccola, magra, giallognola, la signora Stella non aveva in sè nulla di luminoso, ma gli scarsi suoi pregi fisici non impedivano al brigadiere, ch'era un leone in armi e un coniglio in amore, di farle delle dichiarazioni sotto forma di sciarade. Questo esercizio erotico-letterario, a cui egli si dedicava sopratutto nella domenica, gli aveva fruttato una riputazione di poeta, della quale egli si pavoneggiava assai, quantunque dicesse modestamente di non meritarla. Era celebre a Valduria fra gli altri suoi componimenti quello sulla parola galanteria:
Non osservando in ver Le leggi dell' intier, Seconda io ti dirò Se non dai retta a me Che son primier con te.
Sciarada, come ognun vede, stupenda, ma un po' contraria alla realtà delle cose, perchè la signora Stella dava retta benissimo all'ottimo brigadiere; solo avrebbe preferito che le sue dichiarazioni invece di essere in versi enigmatici fossero in prosa paesana, e si traducessero in una semplice domanda di matrimonio. Questa però non era l'opinione del brigadiere, ostinatamente deciso a rimaner celibe.
Un personaggio che compariva immancabilmente la domenica a casa Selmi, e vi si tratteneva spesso a desinare, era il signor Max Rundberg, bavarese, ma domiciliato da più di trenta anni in Romagna, ove dirigeva un'altra miniera di zolfo, appartenente essa pure a una Società inglese e situata a Rignano, villaggio a sette chilometri da Valduria. Il signor Max non era uno scienziato, ma un uomo pratico sul taglio di Odoardo, rotto alla fatica e impavido davanti ai pericoli. Godeva la riputazione di gran bevitore, e quand'egli onorava la mensa dei Selmi, Maria doveva triplicare la razione di vino. Si calcolava che la quantità di liquido da lui giudicata necessaria per inaffiare il pranzo non fosse inferiore ai quattro litri. Per buona ventura, tutto questo vino trangugiato non alterava la serenità del suo animo; contribuiva soltanto a sciogliergli lo scilinguagnolo. E allora egli narrava certe storie arrischiate delle Bierhalle di Monaco e vantava gli occhi, i capelli e i vari pregi palesi ed occulti delle Kellnerinnen de' suoi tempi, intercalando il racconto di vivaci esclamazioni in lingua tedesca. A poco a poco il tedesco prendeva un deciso sopravvento, e il signor Max finiva col parlare interamente nel suo idioma nativo. Prima dell'arrivo di Roberto, non lo intendeva nessuno; adesso l'ingegnere Arconti era in grado di gustare quegli squarci d'eloquenza, che però non credeva opportuno di tradurre in lingua volgare. Il signor Max chiudeva le sue arringhe col vantare le dolcezze dello stato di vedovanza, nel quale per sua fortuna, glücklicherweise, egli vivea da quattro lustri. Dopo di ciò, egli lasciava cader la testa sul petto, intrecciava le mani sul ventre e si addormentava, russando con lo strepito d'una stufa appena accesa. Desto a capo d'un'ora circa, calcava in testa il suo gibus (poich'era per lui un uso impreteribile di adoperar la domenica un vecchio gibus sgangherato) e s'avviava a piedi alla sua miniera.
Queste macchiette offrivano a Roberto il modo d'infiorar di schizzi gustosi le lettere ch'egli scriveva a Milano, e con le quali si proponeva di divertir sua madre e Lucilla, Lucilla sopratutto. Nella più candida affezione che l'uomo porta a una donna c'è sempre una dose di vanità; noi non vogliamo soltanto persuadere quella donna che l'amiamo, vogliamo persuaderla altresì che siamo persone di spirito e d'ingegno. In questo caso però le compiacenze d'autore erano, pel nostro Roberto, assai scarse. La signora Federica, che rispondeva per sè e per Lucilla (soltanto un pajo di volte Lucilla aveva aggiunto una riga di suo pugno), mostrava di pregiar mediocremente le descrizioni che le faceva suo figlio; o non le rilevava nemmeno, e riempiva tutti i suoi fogli di piagnistei, o, rilevandole, ne esagerava la portata, e metteva in ridicolo anche le persone che a lui non parevan punto ridicole, come per esempio Odoardo e Maria. Come va il francese di Mademoiselle? gli si chiedeva. Ha ella imparato a dire: Oui, Monsieur? Spesso la signora Federica, dopo aver canzonato la società di Valduria, si diffondeva a discorrere della vita di Milano di cui pur troppo ella non poteva approfittare, e perchè era ancora in lutto, e perchè, a ogni modo, non avrebbe avuto quattrini da far toilette. Le Dal Bono, invece, erano andate in tre o quattro famiglie, e Lucilla aveva sempre riportato la palma su tutte le altre ragazze. Era così bella, così graziosa, ballava così bene!
I trionfi della fanciulla ch'egli voleva far sua lusingavano da un lato l'amor proprio di Roberto, ma non potevano a meno di destargli qualche apprensione. Chi lo assicurava che Lucilla, se si metteva davvero a frequentare le conversazioni ed i balli, non finisse coll'appassionarsi troppo per una vita ch'egli non avrebbe potuto offrirle mai? Chi lo assicurava che di tante galanterie che le sarebbero suonate all'orecchio, nessuna avrebbe trovato la via del suo cuore? Ed egli non era lì per difendersi, egli non poteva nemmeno scriverle direttamente! Chi sa come sua madre riferiva a Lucilla le parole di lui, e a lui le parole di Lucilla? Pure da questo medesimo pensiero, che soleva essere un gran dolore per lui, gli veniva talvolta un raggio di conforto. Era certo la signora Federica che faceva apparir Lucilla un po' frivola; se avesse scritto ella stessa, sarebbe stato ben altra cosa.
In ogni modo, quando la mente del nostro giovinotto correva a Milano, essa ne tornava indietro piena di gravi preoccupazioni. La buona e savia Maria se ne accorgeva, e s'accorgeva sopratutto che le lettere che gli venivano da casa non lo colmavano di allegrezza. Avrebbe voluto esser la sua confidente, si ricordava ch'egli le aveva detto un giorno che avrebbero parlato insieme di Lucilla, ma non osava intavolare il discorso. Dal canto suo, egli sfuggiva quest'argomento; c'è un pudore naturale che ci fa riluttanti a esprimere i nostri dubbi sulle persone che amiamo.
Non sarebbe stato difficile all'ingegnere Arconti di ottenere un congedo d'una diecina di giorni e approfittarne per fare una corsa a Milano; ma egli sentiva che non gli era lecito abbandonar Valduria finchè rimanevano sospesi gli esperimenti da lui iniziati. Da essi dipendeva l'avvenire della miniera, ed essi non potevano riuscire che per opera sua, perchè, fuori di lui, di Cipriano e di Maria, nessuno credeva che sarebbero riusciti. Ora, non si vince quando non si crede nella vittoria. D'altra parte, lasciare, fosse pur per poco, la sopraintendenza dei lavori a Cipriano non era nè conveniente nè opportuno. Cipriano era dotato di molto ingegno, ma gli mancavano parecchie cognizioni indispensabili; inoltre, malgrado la deferenza che da qualche tempo egli mostrava verso Roberto, c'era nel suo carattere qualche cosa che impediva di fidarsene appieno.
XIII.
La battaglia in cui Roberto s'era impegnato non era di quelle che durano un giorno. Essa era cominciata già da più mesi, e l'Arconti aveva bisogno di tutta la sua energia per non abbandonar la partita. A ogni piè sospinto, sorgevano nuove difficoltà che esigevano nuovi studi, nuovi espedienti, e… nuovi quattrini. Pei quattrini era forza ricorrere a Londra, e la Sulphur Society, assai ben disposta sulle prime, andava a poco a poco mostrandosi più restia. Non era lontano il momento in cui alla domanda d'ulteriori rimesse si sarebbe risposto con un bel no, e quel momento non poteva non coincidere con una crisi dolorosa, per lo meno col licenziamento degli operai che s'erano arruolati in virtù dei cresciuti lavori. C'era già una vaga inquietudine nel personale. Gli ultimi venuti presentivano la loro sorte, gli altri si turbavano al pensiero d'una possibile diminuzione di guadagni in seguito alla concorrenza, che sarebbe stata fatta loro dai licenziati. Si sparlava di Roberto che, senza nessuna esperienza, aveva voluto metter sossopra la miniera, si biasimava Cipriano che, pur non potendolo soffrire, s'era lasciato prender all'amo dalle sue parolone, e finalmente si dava del babbeo al direttore, il quale si contentava d'esser capo soltanto di nome.
Nella visita ch'ella faceva a parecchie famiglie di minatori, Maria era messa a parte di queste lagnanze e di queste apprensioni e s'adoperava del suo meglio a calmarle.—Vedrete, si riuscirà; l'Arconti è un bravo giovine e non agisce alla leggera.
Una tra le più arrabbiate oppositrici era la vecchia Gertrude, la quale detestava Roberto e non perdonava a suo figlio d'avergli dato retta.—Quello lì—ella diceva a Maria—ci rovinerà tutti. Quello li è il cattivo genio di Valduria…. Va là, Mariuccia, che anche tuo fratello ha un gran rimorso sulla coscienza. Le cose non andavan bene quando il vero e solo direttore era lui? E se gli occorreva proprio un aiutante, non lo aveva pronto? Non c'era Cipriano? Il Cipriano d'una volta, veh! non quello d'adesso…. Dacchè si sciupa gli occhi e la testa coi libri, dacchè crede alle fanfaluche di quel bellimbusto, è diventato un altr'uomo…. Oh se un anno fa avessero chiamato lui, avresti visto se Cipriano si sarebbe fatto onore…. E allora anche la tua superbietta…. oh basta…. so quel che mi voglio dire.
La fede di Maria in Roberto non diminuiva, ma la sua anima era amareggiata da questi discorsi e glielo si leggeva sul viso.
—Comincia anch'ella, Maria, a non creder più in me?—le domandava tristamente l'Arconti.
Ed ella gli rispondeva pronta:—No, mai, mai, glielo assicuro…. Ma che posso far io, povera fanciulla?….
—Oh può far tanto!…. Se non altro può tener vivo il mio coraggio.
Ella arrossiva, ma queste parole le versavano in cuore una dolcezza infinita.
Chi non ha qualche volta dubitato di sè? Allorchè la meta sperata s'allontana inopinatamente, allorchè tutti ci gridano: Avete sbagliato strada; chi non prova un gran turbamento nell'animo, chi non prova il bisogno di ripiegarsi su sè medesimo e di chiedersi: Ho ragione io, oppure hanno ragione gli altri? Ebbene; quando l'impresa a cui ci siamo accinti è frutto d'una convinzione profonda e matura, noi trionferemo delle nostre incertezze, noi proseguiremo a ogni modo la nostra via, ma come più facile ci sarà la vittoria se un sorriso, se una parola verrà a rinfrancare il nostro spirito avvilito dallo scherno e dal biasimo della folla, se fra tanti spettatori lieti di vederci presso al naufragio uno almeno ci tenderà la mano dal lido! E che gratitudine serberemo a quest'uno!
L'animo nobile ed elevato di Roberto apprezzava Maria più ch'egli non lo dicesse a lei, più che non lo confessasse a sè stesso. I due giovani non avevano agio di far lunghe conversazioni; le lezioni di francese erano divenute assai rare, perchè i lavori della miniera assorbivano quasi tutto il tempo dell'Arconti e lo costringevano sovente anche a passar la notte fuori di casa; nondimeno, a qualunque ora egli tornasse per prendere un po' di riposo, trovava Maria che gli veniva incontro, e più con lo sguardo che con la voce gli domandava che cosa vi fosse di nuovo. E se un barlume di speranza gli balenava negli occhi, anche il viso di lei si rischiarava d'una subita luce, e se la sua fisonomia era abbattuta, ella seria, ma composta e tranquilla, gli diceva.—Coraggio, sarà per domani.—Oh perchè Lucilla non gli faceva dire altrettanto? perchè da Milano non sapevano presagirgli che disinganni e amarezze, non sapevano ripetergli che la solita antifona:—Vieni via da quella bolgia. Cercati un mestiere più da galantuomo?
Un giorno in cui Roberto prima di scendere nel sotterraneo accompagnava Maria sulla strada di Valduria ov'ella si recava per alcune spesuccie, apparve loro da lungi Cipriano.
—Non mi lasci ora—disse Maria all'ingegnere.—Mi conduca a casa. Andrò a Valduria più tardi.
E così dicendo, si fece rossa rossa.
—Come desidera,—rispose Roberto. E i due giovani ritornarono sui loro passi in silenzio.
Cipriano non li seguì, ma, prendendo una scorciatoia, giunse in due minuti alle falde della collina che Maria doveva risalire per tornare alla propria abitazione. Senza dubbio egli credeva di trovarla sola. Allorchè vide che l'Arconti era sempre con lei, aggrottò le ciglia, fece un segno d'impazienza e si dileguò di nuovo rapidamente.
Roberto, che aveva taciuto fino allora, toccò per la prima volta un soggetto delicatissimo. Si ricordava delle parole dettegli da Cipriano, si ricordava della preghiera che questi gli aveva fatto di perorar la sua causa. Egli se n'era schermito, ma se l'occasione favorevole si presentava, perchè lasciarla sfuggire? Non aveva simpatia per Cipriano, ma non poteva dissimularsene il valore, non poteva negar lode al suo contegno negli ultimi tempi.
—È cattiva con Cipriano—egli disse alla ragazza.
Ella, ch'era già rossa, divenne scarlatta e balbettò.—Io?… Perchè?
—Egli la cerca ed ella lo sfugge….
Maria non rispose.
—Eppure vi fu un tempo in cui credevo….—ripigliò Roberto.
—Che cosa credeva?—interruppe vivamente Maria.
—Scusi, sa, non dovrei entrarci….
—Ma parli, parli.
—Credevo che ci fosse un po' di simpatia fra di loro….
—Oh, signor ingegnere, perchè mi tormenta?….
—Smettiamo, se le dispiace….
—Adesso che ha incominciato!… Io sono per Cipriano quella d'una volta…. È colpa sua se lo sfuggo…. Perchè non si contenta che gli voglia bene come una sorella?
—Perchè le vuol bene più che come un fratello, ecco la ragione,—rispose Roberto.
—E allora non c'intenderemo mai—replicò la ragazza, mentre i suoi occhi s'inumidivano di pianto.—Sconsigliato Cipriano! Perchè ha voluto guastar la nostra amicizia? Non era bella? Non era santa? Non era piena di confidenza e d'abbandono?
—Eppure, cara Maria,—riprese l'Arconti—è nell'ordine naturale delle cose che un uomo desideri di sposar la donna che ama, e che la donna, anche lei, miri ad avere una famiglia sua, ad avere dei figli.
—Ma io non intendo sposarmi.
—E perchè? Sarebbe una così buona moglie, una così buona mamma….
—No, no, non mi sposerò.
—Cose che si dicono.
—Vedrà.
—O che vuol farsi monaca?
—Monaca io? mi farebbe ridere senza voglia…. Chiudermi fra quattro muri, io che amo tanto l'aria, la luce, il moto, la libertà dei campi?… Che idea!… Come se ci fosse bisogno di farsi monache quando non ci si marita…. Una famiglia propria, dice…. O non l'ho una famiglia? Non ho Odoardo, che ha tanto affetto per me e a cui devo tanto?… Per ora non si sposa nemmen lui…. Se si sposerà, sarò una buona cognata, una buona zia…. Mi parla di bambini? Si figuri se non li amo…. Ce ne son tanti in questa valle che mi fanno una festa…. Se li vedesse quando entro nelle loro case, come mi si aggrappano alle sottane, come mi si arrampicano fin sulle spalle!… E se son malati, mi vogliono al loro letto…. Me ne ricordo uno, poverino, ch'è morto, e fino all'ultimo momento voleva che gli tenessi la mano sulla fronte….
—Ha le lagrime agli occhi per quel bimbo che non le apparteneva, e dice che non vuole esser madre….
—No, no….
—Via, senta ancora una parola—proseguì Roberto infervorandosi nella sua parte d'avvocato.—Non sa che il giovine ch'ella respinge anela a una migliore posizione per amor suo, studia per essere degno di lei….?
—Oh, degno di me!—interruppe Maria.—È anzi degno di molto meglio…. Ci son tante belle ragazze nelle vicinanze…. E saran superbe d'esser corteggiate da Cipriano…. Ma mi lasci stare…. Non si ostini a una cosa impossibile….
—Nientemeno!—esclamò l'Arconti.
—Non insista, signor Roberto,—disse la giovinetta, e le lagrime, non più rattenute, le colavan giù per le guancie.—Che male le ho fatto perchè mi esponga a questa tortura?
—Male, povera Maria? del bene mi ha fatto, e tanto bene…. Ed io non posso desiderare che la sua felicità.
—Grazie di queste parole—rispose Maria con voce commossa.—Quand'è così, se ne avessi bisogno, mi difenderebbe, non è vero?
—Oh sì, con tutta l'anima.
Il colloquio, che abbiamo riferito, lasciò una singolare impressione in Roberto.—Strana creatura quella Maria!—egli riflettè fra sè, incamminandosi soletto verso la miniera.—Non ama Cipriano…. Non vuole sposarsi…. Amerebbe qualchedun altro?… E chi?… Adesso poi la nostra amicizia con Cipriano è finita sicuramente…. Gli torneranno le stolide ubbie d'una volta, e nessuno potrà levargliele dal capo…. Del resto, perchè m'accalorava tanto in suo favore?… Che m'importa che Maria lo sposi?… Buona Maria! Ella non deve essere sacrificata, ella non lo merita, e se suo fratello non basterà a difenderla, ci sarò anch'io…. La vecchia Gertrude aveva ragione. Cipriano ed io eravamo destinati a farci la guerra…. Sarebbe però un gran male che le ostilità scoppiassero in questo momento…. Con tanto bisogno d'accordo che c'è pei lavori della miniera!
Le apprensioni di Roberto erano infondate. Cipriano era più torvo, più chiuso del consueto, ma non fece all'ingegnere Arconti nessun discorso relativo a Maria. Sentiva che, prima d'iniziare altre battaglie, bisognava decider quella terribile che si era impegnata con le forze della natura…. O si vinceva, e la vittoria avrebbe fatto anche di lui un altr'uomo, e gli avrebbe dato il diritto di parlare alto; o s'era sconfitti, e chi sa allora che cosa sarebbe avvenuto? In quest'ultima ipotesi un conforto restava a Cipriano. L'ingegnere Arconti non avrebbe potuto rimaner più oltre a Valduria, perchè sul suo capo sarebbe ricaduta la responsabilità maggiore dell'insuccesso. Così lo scorno dell'uomo che in fondo del cuore egli odiava, avrebbe risarcito in parte Cipriano dell'infausto esito d'un'impresa a cui egli stesso consacrava tutte le forze dell'ingegno e del braccio.
Intanto egli non mancava a nessuno de' suoi doveri, non si ritraeva nè davanti alla fatica, nè davanti ai pericoli. Era pur doloroso per Roberto di presentire un nemico in un così valido e intelligente alleato.
E la fortuna, che si lascia spesso domare dalla perseveranza, cedette infine all'energia e all'attività dei due uomini che non s'erano sgomentati alle sue ripulse. Dopo mesi e mesi di prove, nello spazio di una settimana, si potè dir d'avere trionfato su tutta la linea. I difficili esperimenti pel risparmio di combustibile, intorno ai quali l'ingegnere Arconti s'era torturato così a lungo il cervello, e da cui era lecito aspettarsi un risparmio del trenta per cento sul costo di produzione, riuscirono nel modo più luminoso; la resa del minerale nella nuova galleria divenne ad un tratto abbondante oltre ogni aspettazione, dopo d'essere stata povera e scarsa in maniera da permettere appena agli operai che lavoravano a cottimo di guadagnarsi da vivere.
Fu una gioia immensa in tutta la valle. La miniera di Valduria, che dava sostentamento a tante famiglie e che pe' suoi meschini profitti era stata più volte sul punto di esser abbandonata, aveva ormai un avvenire brillante dinanzi a sè. Quelli che avevano maggiormente gridato contro le tentate innovazioni erano adesso i più pronti all'entusiasmo. I nomi di Roberto Arconti e di Cipriano Regoli erano su tutte le bocche, e nessuno li lodava con maggiore spontaneità del buono e leale Odoardo Selmi, quantunque il trionfo de' suoi due giovani aiutanti non potesse che contribuire a mettere nell'ombra chi avrebbe dovuto essere il vero direttore della miniera. Ma nell'animo schietto del Selmi non allignava l'invidia bassa e volgare; a chi voleva dare anche a lui una parte di merito, egli rispondeva.—Non ne ho affatto, o forse ho soltanto quello di aver chiamato a Valduria l'ingegnere Arconti. Senza di lui, non saremmo oggi a questo punto. Cipriano è un bravo caporale, ma non può essere che uno stromento subalterno. La mente direttiva è Roberto; quello lì ha cervello per tutti.
Odoardo Selmi era veramente orgoglioso del suo Roberto; di Cipriano ammetteva il valore, ma non lo amava; a Roberto invece egli voleva un bene dell'anima. Oh se Roberto non avesse ancora conservato i gusti cittadineschi, se non avesse avuto la fanciulla del suo cuore a Milano, che bei progetti si sarebbero potuti fare!
E Maria? Come dipingere la contentezza di Maria? Ella aveva diviso tutti i palpiti di questa lotta, ella aveva conosciuto meglio di ogni altra persona le angustie di Roberto, aveva dovuto difenderlo contro chi lo attaccava, aveva dovuto difenderlo contro sè stesso, aveva sentito che, s'egli non riusciva, gli sarebbe stato forza di lasciare Valduria, e questa idea l'aveva empita di una così profonda tristezza! Ella non era nulla per Roberto, non poteva esser nulla, ma Roberto era per lei un amico sì dolce! Oh sì, un amico, soltanto un amico. Il pensiero della giovinetta non osava andare più in là. Non bella, non elegante, non istruita, era già molto s'ella non credeva baldanza soverchia il dire che nutriva per Roberto quel sentimento d'amicizia il quale suppone una certa parità di condizioni…. Pur troppo, neppur questo bene le sarebbe durato a lungo. L'ingegnere Arconti, o presto o tardi, avrebbe finito coll'andarsene, e allora a lei non sarebbe rimasto altro conforto che quello di ricordarsi, e di ricordarsi da sola, perchè, in quanto a lui, avrebbe tutto dimenticato sicuramente. Ma intanto era per l'Arconti un impegno d'onore il non abbandonare Valduria finchè le innovazioni introdotte non fossero entrate nelle abitudini della miniera. Ciò significava per lo meno un periodo di alcuni mesi, ed è appunto nella giovinezza, quando l'avvenire è più lungo davanti a noi, che noi siamo più disposti ad appagarci del presente.
Per sentire una nota stridula in mezzo alla soddisfazione universale, bisognava recarsi dalla vecchia Gertrude, la quale non usciva mai di casa, e sfogava le sue bizze con suo figlio e coi pochi che andavano a visitarla. Profetessa eterna di disastri, ella vedeva un subisso di guai che dovevano precipitar nella miseria Valduria. Erano tutti sogni, erano tutte imposture di quell'intrigante ch'era cascato giù dalle nuvole per la rovina di quei poveri paesi. E anche Cipriano si lasciava abbindolare da lui, anche Cipriano lo aiutava a farsi un piedestallo. Questo era il gran dolore, questa era la gran mortificazione della inferocita femmina, che abborriva Roberto senza saper precisamente perchè.
Cipriano aveva troppa intelligenza da porgere ascolto alle filippiche di sua madre. Egli aveva saputo domare il suo carattere impetuoso e violento; e vincendo la sua naturale avversione per l'Arconti, aveva saputo apprezzarne la dottrina e l'ingegno, e trarne profitto per colmare in parte le innumerevoli lacune del suo spirito. S'era fatto suo alleato in tentativi accolti con diffidenza da tutti, era riuscito insieme a lui, e non intendeva certo di scemar il valore d'una vittoria ottenuta con sì gran fatica. Egli attendeva ora un miglioramento radicale nella sua posizione. Conseguìto questo scopo, avrebbe chiesto formalmente a Odoardo Selmi la mano di Maria. Non gli si sarebbe più potuto rinfacciare ch'era un operaio volgare, che aveva un salario meschino; e con quale altra ragione si avrebbe osato di respinger la sua domanda? Maria lo amava? Oh s'ella non lo amava, voleva dire che amava un altro, e quest'altro non poteva essere che Roberto. In tal caso, guai, guai a lui! L'ingegnere Arconti aveva visto ciò che Cipriano valeva come ausiliario; egli avrebbe imparato a sue spese ciò che significava averlo nemico.
XIV.
Le liete notizie di Valduria giunsero a Londra quando la direzione della Sulphur Society, un po' infastidita delle continue richieste di danaro per esperimenti che non venivano mai a un risultato pratico, aveva deciso di spedir sul luogo un apposito funzionario per veder davvicino come andassero realmente le faccende della miniera. Giacchè M.^r Black era sulle mosse per partire, si stimò opportuno di lasciar correre il suo viaggio, malgrado della mutata condizione delle cose. La differenza era questa, ch'egli partiva con diverse disposizioni d'animo e con istruzioni diverse. Prima gli si dava facoltà di sospendere gran parte dei lavori, adesso gli si consentiva, ove i fatti rispondessero alle relazioni trasmesse da Valduria, di prendere gli accordi necessari per ordinare su più larghe basi l'amministrazione. Ed egli aveva pure l'incarico di visitare qualche altra miniera di zolfo posta nelle vicinanze e di riferirne a Londra, affinchè la Società potesse in caso di convenienza trattarne l'acquisto dagli attuali proprietari.
M.^r Black era un tecnico di molto valore, che aveva traversato due volte l'Oceano per recarsi negli Stati Uniti, ma non aveva mai passato la Manica, nè posto piede in terre dove non si parlasse l'inglese. Il primo suo viaggio sul continente europeo era destinato a procurargli un'amara disillusione. Egli credeva di conoscere a fondo le lingue straniere, ma giunto in Francia, s'accorse che non sapeva il francese; toccato il suolo germanico, dovette convincersi che non c'era anima viva che capisse il suo tedesco; al di qua delle Alpi, fu costretto a riconoscere che nessuno intendeva lui e ch'egli non intendeva nessuno. Ciò lo metteva in qualche imbarazzo circa alla sua missione a Valduria. Come si sarebbe spiegato?
Il cuore gli si aperse quando nel povero villaggio in cui s'aspettava di dover lottare con difficoltà infinite per esprimere il suo pensiero, trovò una persona misericordiosa che lo tolse d'impiccio parlandogli la sua lingua. Questa persona era l'ingegnere Arconti, il quale, senza essere un professore d'inglese, ne sapeva abbastanza da mandare avanti alla meglio una conversazione, sopratutto con l'aiuto d'un prezioso dizionarietto tecnico che formava parte della sua piccola biblioteca.
Sentir l'idioma natale in paese straniero è dolcezza sì grande che predispone l'animo a trovar belle e giuste le cose che ci si dicono e a trovar simpatico chi ce le dice; figuriamoci poi quando le cose dette son belle e giuste davvero, e quando chi le dice ha in sè tutto ciò che occorre per farsi amare.
M.^r Black non era uomo di facili entusiasmi, ma egli provò subito una singolare ammirazione per Roberto Arconti. Gli piaceva quell'aria modesta a un tempo e sicura, quella volontà risoluta, quel coraggio senza spavalderia, quel senso pratico nudrito da sì largo corredo di studi. Egli capiva, per quanto l'altro si schermisse, che ormai il direttore vero della miniera era l'Arconti e che a lui dovevasi attribuire la maggior parte di merito in ciò che si era fatto da un anno a Valduria. Agli occhi di M.^r Black l'ingegnere Arconti non aveva che un solo difetto, quello di non essere inglese.
—Peccato—egli soleva ripetere—dovevate appartenere alla nostra razza. L'energia, la perseveranza sono qualità nostre; voi ce le avete rubate.
Infaticabile malgrado dei suoi cinquanta anni, l'inviato della Sulphur Society era in moto dall'alba al tramonto, ora nel sotterraneo, ora nelle officine, prendendo conoscenza d'ogni più minuto particolare, esaminando con occhio attento ed intelligente i processi d'estrazione e di fusione del minerale. Lo accompagnavano il Selmi e l'Arconti; qualche volta a loro s'aggiungeva Cipriano, ma chi doveva far da interprete era sempre Roberto, ed era a lui solo che M.^r Black dirigeva le sue osservazioni. È facile immaginarsi se Cipriano se ne rodesse nel fondo dell'anima.
Per una settimana e più M.^r Black rimase a Valduria alloggiato alla buona nella stessa casa in cui viveva Odoardo Selmi con sua sorella e in cui era ospitato l'Arconti. Maria adempiva con la usata sollecitudine agli uffici di massaia, e anche a proposito di lei M.^r Black osservava che ella avrebbe dovuto nascere al di là della Manica. In prova della sua stima, egli le insegnava a preparare il thè, che, da buon inglese, aveva portato seco nel suo bagaglio insieme a una macchinetta per farlo bollire. E siccome la ragazza riusciva egregiamente nella non difficile operazione, M.^r Black le promise di spedirle in dono da Londra una scatola della pianta preziosa insieme a un servizio di porcellana. Egli non capiva come si potesse vivere senza questa bibita ristoratrice. Odoardo Selmi invece lo capiva benissimo, e protestava che non avrebbe mai sostituito quell'insulso decotto al fiasco di Chianti che rallegrava le sue serate. M.^r Black, più equanime, non disprezzava il Chianti, ma sosteneva la tesi che il vino dovesse beversi tra uomini, e che quando si voleva far entrar la donna nel crocchio, bisognava prendere il thè mesciuto da lei. E in questa idea conveniva pure Roberto. Una volta partecipò all'interessante discussione anche il signor Max Rundberg, denigratore acerrimo del thè, estimatore del vino, ma entusiasta d'una sola cosa al mondo, della birra tedesca. Pur troppo, alla sua venuta in Italia, gli erano toccate due grandi disgrazie. Non aveva trovato più birra buona, e aveva trovato invece un basilisco di moglie. Glücklicherweise, dopo cinque anni, la moglie era volata fra gli angioli, e le dolcezze dello stato vedovile lo avevano confortato della mancanza della birra buona. Ormai si contentava del vino. Sperava però di potersene tornar presto in Germania e di ritrovar la sua birra.
Gli ultimi due giorni della dimora di M.^r Black a Valduria furono consacrati alla visita d'un paio di miniere poco discoste, fra cui c'era appunto quella di Rignano, la più antica e in altri tempi la più importante della regione. Esercitata fiaccamente da parecchi anni, aveva perduta la sua supremazia, e la sua produzione era ormai inferiore a quella di Valduria. Ma una volontà energica avrebbe potuto restituirle il passato splendore, ed era a questo appunto che pensava M.^r Black, mentre Roberto Arconti andava enumerando con foga giovanile i lavori che sarebbero occorsi.
I due uomini scendevano a piedi lentamente dall'altura su cui è posto il villaggio di Rignano. Era l'ora del crepuscolo. Una tinta vermiglia colorava il lembo occidentale del cielo; a levante, dalla parte dell'Adriatico, tremolava sopra un fondo opalino il disco della luna illuminato dai rosei riflessi del tramonto. Anche l'anima poco poetica di M.^r Black si sentì commossa da quell'armonia ineffabile che pareva fondere insieme tutte le cose; egli salì sopra un rialzo di terra da cui l'occhio spaziava in un largo orizzonte, e dal suo labbro fuggì un beautiful! che veniva proprio dall'anima. Indi sedette sopra un sasso su cui c'era posto per due, e disse a Roberto di metterglisi accanto. Roberto pensava a Lucilla.
In quanto a M.^r Black, egli non era uomo da rimaner lungo tempo in estasi.
—Ebbene, giovinotto—egli ripigliò dopo una breve pausa—se la nostra Società comperasse la miniera di Rignano, vorreste voi esserne il direttore?
—La Società comprerebbe Rignano?—esclamò Roberto ancora mezzo assorto nelle sue fantasie.
—Badate, è un segreto e dovete conservarlo gelosamente, tanto più che per adesso non c'è nulla di positivo. Io non venni qui solo per esaminare i lavori di Valduria, ma anche per vedere se fra le miniere vicine ce ne fosse qualcheduna che meritasse di essere comperata. Rignano ha un avvenire, lo avete detto voi stesso.
—È vero.
—Orsù, da quel che mi consta, la Compagnia inglese che ne è proprietaria non sarebbe aliena in massima dal disfarsene, e alla Sulphur Society potrebbe convenire di prenderne il posto. I negoziati devono però esser condotti con molta prudenza per non suscitar concorrenti. Ne parlerò al Consiglio appena giunto a Londra. Ma nulla si potrebbe concludere senza essersi prima assicurati della persona a cui affidarne la Direzione. In queste imprese, giovinotto mio, l'uomo è tutto. E voi sareste il nostro uomo….
—Il vostro ottimismo potrebbe ingannarvi—rispose l'Arconti;—io non faccio questo mestiere che da tredici mesi, e non ho l'esperienza necessaria….
—I lavori compiuti a Valduria—interruppe M.^r Black—sono la miglior confutazione delle vostre parole.
—Oh! A Valduria, io non ero solo…. v'era l'ingegnere Selmi, c'era Cipriano Regoli….
—Via, via, non fate il modesto…. Siano pur soli tredici mesi dacchè siete entrato in questa carriera, voi avete tutte le qualità che occorrono per riuscirvi…. E vi ripeto che abbiamo bisogno di voi. Se ci dite di no, è da scommetter cento contro uno che il nostro bel progetto va in fumo.
—Questo poi….
—Del resto—continuò M.^r Black senza badargli—quando pur comperassimo la miniera, difficilmente l'avremmo in poter nostro subito…. Voi avreste agio d'impratichirvi ancora per qualche tempo a Valduria….
—Ma perchè non dovrei restare dove, a parer vostro, ho fatto qualche cosa di buono e dove la mia presenza può ancora esser utile?
—Lo chiedete? La ragione è semplice. Quando la Società avesse due miniere, il vostro posto sarebbe ove le difficoltà sono ancora da superare, non dove sono già superate. A Valduria resterebbe l'ingegnere Selmi, che, a cose avviate, è un buon direttore….
—Senza dubbio….
—Ma a Rignano ci vorrebbe ben altro…. ci vorreste voi, insomma…. Sarebbe una bella posizione. Comincereste per lo meno con uno stipendio di diecimila lire, aumentabili più tardi…. Impegno reciproco dalle due parti per cinque o sei anni….
—Cinque o sei anni da restar qui?
—Naturale…. Avete scelto una professione, ci fate un'eccellente figura, e vorreste cambiarla?… E continuando la vita di miniera, meglio qui che altrove…. Qui c'è' un buon clima, un'aria balsamica…. Sul serio, provate la nostalgia della città?….
Invero, questa nostalgia l'Arconti l'aveva provata i primi mesi, ma non la provava più. Gli pareva anzi che non avrebbe saputo acconciarsi a occupazioni sedentarie e che un impiego tranquillo avrebbe finito presto col riuscirgli intollerabile. Ma lo crucciava il pensiero di Lucilla. Come offrirle di venir ad abitare fra quei monti, come sperare ch'ella accettasse l'offerta?
—A Rignano—riprese M.^r Black—la situazione è anche molto più pittoresca che a Valduria. Ci sono, in prossimità della miniera, due o tre casette che farebbero venir la voglia d'andarci a stare, pur d'introdurvi prima il comfort inglese…. E conosco io una persona che quel comfort saprebbe introdurlo egregiamente…..
—Che persona? Non vi capisco…..
—Quella stessa che ha imparato a far così bene il thè.
—Maria!…. v'ingannate, M.^r Black. Fra la signorina Maria e me non c'è e non ci sarà mai altra relazione che quella di due buoni amici.
M.^r Black chinò la testa e rimase taciturno per alcuni secondi.—Questo non significa nulla—egli soggiunse poi.—Il mio progetto cammina lo stesso…. Se non volete decidervi su due piedi, prendete tempo un mese, due mesi. Mi scriverete a Londra.
—Intanto chiederò a Selmi un congedo di quindici giorni—disse Roberto.—Non vedo mia madre da oltre un anno.
—Desiderate consultarla? È giusto…. Però non le parlate che vagamente del nostro piano. Fatele capire soltanto che restando qui, il vostro avvenire è assicurato. E s'ella vi ama davvero, vedrete che non esiterà un momento a consigliarvi di rimanere…. Una madre inglese, almeno, farebbe così.
Roberto sapeva perfettamente che sua madre avrebbe agito in modo affatto diverso; pur non era l'opposizione di lei quella che lo turbava.
—Dunque mi scriverete?—ripigliò M.^r Black.
—Sì, vi scriverò…. Ma è tempo d'incamminarci.
Infatti era già tardi, e c'erano tre quarti d'ora di strada per arrivare a Valduria.
L'ingegnere Arconti e M.^r Black s'avviarono in silenzio. Faceva notte, le lucciole brillavano sugli orli dei fossi, le cicale cantavano sugli alberi.
—Siete pure un giovine strano—disse alfine l'inglese al suo compagno.—Dopo un anno di lotte trovate la fortuna davanti a voi…. Non avete da far che un passo per impadronirvene, e voi, non solo esitate, ma prendete un'aria contrita come se vi fosse capitata addosso chi sa quale calamità.
—È giusto—rispose Roberto—io debbo parervi non solo strano, ma incivile.
—Incivile! Perchè?
—Perchè non vi ho ancora ringraziato della fiducia che mi dimostrate, dell'interesse che avete per me. Credetemi, M.^r Black, la mia riconoscenza è grandissima, e tale che non saprei esprimervela a parole…. Nella vostra offerta c'è per me più che una prospettiva di benessere materiale, c'è una soddisfazione d'amor proprio che io non avevo diritto di attendermi…. Dovrei esser felice, eppure, è vero, sono frastornato da cento pensieri tristi…. Se sapeste?… Ma, no, adesso è inutile…. Prima che passino due mesi vi scriverò a Londra….
—Eccoli, eccoli!—gridò una voce femminile. E due persone vennero rapidamente incontro a M.^r Black e a Roberto. Erano Maria Selmi e suo fratello.
—Finalmente!—esclamò Odoardo.—Maria s'era fitta in capo che vi fosse toccata qualche disgrazia.
—Esagerazioni!—disse la giovinetta arrossendo.—Era dal mio punto di vista di cuoca…. Non capivo più a che ora si dovesse andar a cena. Adesso corro avanti.
E si dileguò leggera come una piuma e cantando come un usignolo.
Quella sera medesima però un'ombra si stese sulla fronte serena della giovinetta, quando Roberto chiese ed ottenne da Odoardo Selmi una licenza di due settimane. Nulla di più naturale ch'egli desiderasse rivedere sua madre e la fanciulla che amava, nulla di più naturale ch'egli volesse tornar fra loro per qualche giorno a ricever le loro congratulazioni pei successi ottenuti nella carriera in cui s'era avviato. Maria gli dava ragione, Maria gli augurava un accoglimento festoso, entusiastico, eppure stentava a trattenere le lagrime.
—Partiremo insieme—disse M.^r Black a Roberto—io non aspetto che una lettera da Londra, la quale non può indugiar troppo.
Infatti la lettera giunse il dì appresso. Essa conteneva adesione del Consiglio alle proposte fatte da M.^r Black circa all'aumento degli stipendi al personale amministrativo di Valduria. L'ingegnere Arconti era il più favorito, ma anche il Selmi aveva un'aggiunta di millecinquecento lire alla sua paga, e a Cipriano Regoli era fatta una posizione bella e decorosa. Non tale però da rispondere alle aspettative dell'ambiziosissimo giovine, il quale si credette sagrificato, e giurò di vendicarsene. Nè avrebbe tardato a protestar fieramente, se le condizioni sempre peggiori della salute di sua madre, ch'egli amava davvero, non lo avessero pel momento occupato sopra ogni altra cosa, e se la speranza di ottener la mano di Maria non fosse venuta a calmar le agitazioni del suo spirito indomito.
XVI.
La mattina della partenza Odoardo e Maria accompagnarono fino alla carrozza i due viaggiatori.
—Siamo intesi—disse Roberto al suo amico Selmi.—Io sarò qui domani quindici; ma, se accadesse cosa alcuna da render necessario più presto il mio ritorno, non hai che a scrivermi o a telegrafarmi.
—Non accadrà nulla sicuramente.
—Lo credo anch'io. A ogni modo, hai capito…. Buon giorno, Maria—continuò l'Arconti rivolgendosi alla giovinetta e stringendole forte la mano.—Stia bene, e a rivederci presto.
—A rivederci—ripetè Maria con voce commossa.
Anche M.^r Black rinnovò i suoi saluti; poi il cocchiere fece schioccare la frusta, la carrozza diede tre o quattro scossoni e si mosse lentamente giù pel pendio.
L'ingegnere Selmi e sua sorella rimasero immobili finchè la vettura non fu scomparsa dietro una macchia d'alberi. All'ultimo momento, Maria agitò il fazzoletto e fece un segno con la testa a Roberto, che s'era voltato anche lui. Poscia si passò rapidamente quel medesimo fazzoletto sugli occhi.
M.^r Black aveva deciso di soffermarsi un giorno a Bologna insieme all'Arconti, che egli voleva presentare a un ingegnere inglese suo amico domiciliato colà. Per conseguenza, Roberto, prima di partire da Valduria il lunedì, aveva scritto a sua madre che sarebbe arrivato a Milano il martedì sera, tenendo conto appunto della sosta in Bologna. Senonchè, per accidente, M.^r Black venne a sapere durante il viaggio che la persona in questione era a Napoli, ond'egli deliberò di proseguire difilato per l'Inghilterra. E Roberto, il quale non aveva nulla da fare in Bologna, fu ben lieto di poter giungere a casa sua ventiquattr'ore più presto. Ebbe un momento la tentazione di mandare un dispaccio a Milano, ma poi pensò che non ne valeva la pena, e ch'era meglio procurarsi il gusto d'arrivare all'improvviso.
Separatosi a Piacenza dal suo compagno, che prese la linea Alessandria-Torino, egli si rincantucciò in un angolo del vagone e procurò di abbandonarsi senz'altro alla gioia del ritorno, alla gioia di riveder fra poco la sua città natale, sua madre, la sua Lucilla. Ma invano. Alle immagini gioconde si mescevano, suo malgrado, tetre preoccupazioni. Sentiva che non solo da sua madre, ma anche da Lucilla egli avrebbe dovuto attendersi un'opposizione feroce a' suoi piani. Qualche volta gli si affacciava alla mente questo terribile dilemma: o rinunciare alla vaga fanciulla che aveva prima fatto battere il suo cuore, o abbandonare la via su cui aveva in pochi mesi fatto passi insperati. Se pensava che Lucilla era stata per tanto tempo la pupilla degli occhi suoi, non riusciva nemmeno ad intendere come, posto al bivio, avrebbe potuto esitare un istante; se poi rifletteva al tesoro d'energia e di attività che aveva speso in un anno, non sapeva reggere all'idea di averlo speso per nulla, di dover ricominciare da capo. Ora si rimproverava d'amar poco Lucilla, ora rimproverava a Lucilla d'amar poco lui. Ora diceva a sè stesso che il cuore della giovinetta gli sfuggiva, ora si domandava con una vaga inquietudine se non era invece il suo proprio cuore che non palpitava più come una volta. Oh! ma perchè crucciarsi così? Forse di lì a poco uno sguardo, una parola avrebbe dissipate tutte queste incertezze.
Un guasto sulla linea Piacenza-Milano ritardò di due ore l'arrivo del treno.
L'ingegnere Arconti non giunse a casa di sua madre che dopo le otto pomeridiane. Una donna di servizio, ch'egli non conosceva e da cui non era conosciuto, gli disse che la signora Federica era dai Dal Bono, ove si sarebbe trattenuta tutta la sera.
Nell'idea fissa che il signor ingegnere doveva arrivar solo il dì appresso, la prudente femmina rimase alquanto in forse prima d'accoglier la dichiarazione di Roberto ch'egli era appunto il signor ingegnere aspettato, e ch'era venuto un giorno prima perchè tale era stato il piacer suo.
—Non doveva arrivar che domani—ella continuava a brontolare, conducendo con qualche riluttanza il viaggiatore nella camera che gli era destinata. E mentr'egli faceva un po' di toilette, la sentiva ancor borbottare fra i denti.—Non doveva arrivar che domani. Se non fosse il signor ingegnere?
Roberto non aveva preso nulla dal mezzogiorno in poi. Ma in casa non c'era nè un pane, nè una tazza di brodo. La signora Federica era stata a desinare dai Dal Bono, non s'era acceso il fuoco dopo l'ora di colazione, la dispensa era vuota. Come prevedere che il signor ingegnere avrebbe anticipato di un giorno il suo arrivo?
Così il signor ingegnere fu costretto a recarsi a un restaurant, ove mangiò frettolosamente un boccone, dolendosi seco medesimo del cattivo esito della sua improvvisata. Sarebbe stato meglio, assai meglio, ch'egli avesse quella mattina spedito un telegramma.
Prese un fiacre per recarsi dai Dal Bono. Mal disposto com'era, non voleva essere veduto da nessuno de' suoi amici.
In casa Dal Bono trovò finalmente un servitore che lo conosceva. Domandò della signora, della signorina, domandò di sua madre. La signora e la signorina stavano vestendosi; sua madre era con loro, ma la si sarebbe chiamata.
Rimase ad attendere nel salotto da pranzo, sulla cui tavola ardeva una candela. Tutti questi contrattempi gli sembravano di pessimo augurio; capiva che non ne aveva colpa nessuno, che nessuno prevedeva il suo arrivo per quella sera…. Eppure, malgrado di tutto, si sentiva l'anima oppressa dalla malinconia. Perchè le signore Dal Bono facevano toilette a quell'ora? Dove andavano? Non le avrebbe dunque viste che un momento?
Queste riflessioni durarono pochi secondi perchè la signora Federica non tardò a comparire, corse incontro a suo figlio e lo abbracciò e baciò con molta tenerezza.
—Mamma, cara mamma—disse Roberto, che le voleva un gran bene malgrado dei suoi difetti e che in quel momento aveva un immenso bisogno di espansione.—Tu sei sempre più giovane, sempre più bella!… e Lucilla?
—Lucilla verrà fra poco…. Ma lascia ch'io ti guardi.
La signora Federica osservò attentamente suo figlio, poi tentennò il capo in aria di persona non soddisfatta.
—No, proprio no—ella soggiunse.—Questa barba non può restare…. T'imbruttisce.
—Che sogni!
—T'imbruttisce davvero…. Te la raderai adesso….
—No, no, mammina mia…. Non c'è prezzo dell'opera a tagliarla qui per lasciarla crescere di nuovo a Valduria.
—Ma che Valduria? Tu non ci devi tornare laggiù.
—Vorresti che piantassi il mio impiego? che lasciassi a mezzo tante cose che ho incominciate?
—Ci tornerai per qualche settimana, capisco…. Ma quello non è impiego per te…. Ho io una idea.
—Eccola la mamma colle sue idee—disse Roberto accarezzandole i capelli ancora folti e bruni.
—Oh signor canzonatore, le mie idee, le mie idee! Sono forse migliori delle sue, e se avesse dato retta a me…. Ma mi darà retta questa volta, ne son sicura.
Il giovine atteggiò le labbra a un sorriso d'incredulità, e poi soggiunse:—Ne riparleremo…. Ma questa Lucilla?
—Verrà, verrà a momenti.
—Parlamene almeno. Sta bene? Pensa spesso a me? Dove va stassera!
—Ih! Che gragnuola di domande! Sta benone, si ricorda perfettamente del signorino, e stassera va a una festicciuola in casa d'amici. Dovevo andarci anch'io, ma adesso che sei qui tu, ci rinuncio.
—Una festicciuola di questa stagione?
—Che vuoi? Sono gli Osnaldi che si son fitti in capo di far divertire una cugina ch'è loro ospite per qualche settimana…. Lucilla è l'ornamento della festa…. Vedrai come….
—Ah! Eccola—gridò Roberto che aveva sentito il suo passo e il tintinnio dei sonagli di Gipsy. E s'avviò verso l'uscio.
Lucilla entrò tenendo in mano una candela, la cui fiamma illuminava il suo viso bellissimo. Aveva sulle spalle un lungo accappatojo bianco che le scendeva giù fino quasi ai piedi e che faceva risaltare il vago incarnato delle sue guancie e la tinta bruna de' suoi lucidi e abbondanti capelli raccolti con arte dietro la nuca.
—Oh Roberto—ella disse posando il lume sopra la tavola e tendendo la destra al giovinotto.
—Lucilla, Lucilla mia—egli esclamò. E chinatosi sopra di lei, le diede un bacio in fronte.
—Adagio, signorino—gridò la giovinetta indietreggiando un passo.—Prima di tutto mi sciupi l'acconciatura, e poi, ti pare?… Se fossero qui il babbo e la mamma, cosa direbbero?… Ma non saluti nemmeno Gipsy, che ti fa tanta festa?
Infatti Gipsy, dopo qualche esitazione, aveva riconosciuto Roberto e gli saltellava attorno alle gambe abbaiando sommessamente.
—Cattiva Lucilla!—disse l'Arconti un po' sconcertato.—Dopo tredici lunghi mesi che non ci si vede, vuoi farmi carezzar la cagnetta…. Seccantissima bestia!
E Roberto infastidito diede a Gipsy un piccolo calcio, che la fece rotolar sul pavimento.
—Sei pure sgarbato!—proruppe Lucilla, mentre raccoglieva in grembo la cagnetta come fosse un bambino.
—Via, ragazzi, non bisticciatevi—interruppe la signora Federica.
—Povera Gipsy!—soggiunse Lucilla in tuono lamentevole.—Trattarla così!… Quel Roberto a star fra i monti è divenuto un selvaggio…. Già, basta guardarlo…. Con quella barba!…
—Lucilla, Lucilla, vien qui, facciamo la pace…. Vuoi che domandi scusa a Gipsy?
—Meriteresti che te lo imponessi per penitenza.
L'arrivo della signora Giulia pose termine al grave contrasto.
La signora Giulia salutò Roberto con molta cordialità e parve lieta di rivederlo. Anche Benedetto, ella soggiunse, l'avrebbe visto con piacere, ma faceva il suo chilo ed era meglio lasciarlo stare. Roberto, dal canto suo, non provava nessuna impazienza di abbracciare quell'insigne personaggio.
Si stette così a chiacchierare per una mezz'ora, finchè la signora Giulia, dopo aver guardato l'orologio, osservò ch'ella aveva ancora da cominciare a vestirsi e che anche Lucilla doveva compiere la sua toilette. Indi, rivoltasi alla Arconti, le disse—E tu che fai? Vieni dagli Osnaldi, o no?
—Rimango con Roberto—ella rispose.—Sarei venuta volentieri, ma non posso lasciar solo mio figlio….
—Oh, se desideri andare—disse Roberto.
—No, no—replicò la signora Federica.—Andremo un'altra volta insieme.
—Sicuro—saltò su Lucilla—la sera dei quadri viventi.
—Che quadri viventi?—domandò l'ingegnere.
—Oh bella! Quadri viventi. Non sai che cosa siano? Figuriamoci! A vivere in mezzo allo zolfo si dimentica tutto…. Vedrai che Margherita coi fiocchi io sarò.
—Farai tu da Margherita?
—Io stessa…. Avrò una parrucca bionda….
—E ci sarà…. anche Fausto?
—Naturale…. Il marchesino Moschi…. Un Fausto compitissimo…. Oh ma è tardi…. Aspetta qui…. Ci aiuterai a salire in carrozza…. Aspetta anche lei, non è vero, signora Federica?
—Sì, andate pure.
—Vieni, mamma…. Su, Gipsy, ps, ps.
—Cos'hai?—disse la signora Federica, quando fu rimasta sola col figlio che s'era messo a passeggiar concitato per la stanza.
—Non ho nulla…. Però dovrai convenire che non potevo arrivare in un momento peggiore.
—Non ti si aspettava. Le Dal Bono s'erano impegnate con gli Osnaldi….
—E a Lucilla non è neppur venuta in capo l'idea di restare in casa.
—Come si fa?… Che scusa trovare?… Se tu fossi ufficialmente il fidanzato!
—Non lo sono, e capisco che non lo sarò mai…. Era meglio che restassi a Valduria, che non mi mettessi fra Margherita e Fausto.
—Saresti geloso del marchesino Moschi?… Non lo conoscevi?
—No.
—È vero. Egli non è qui che da poco tempo. Viveva a Firenze con sua madre, che è vedova…. Un giovine di garbo, gentilissimo anche con me…. Svolazza un po' intorno a Lucilla….
—Ah, sì?
—Oh! puerilità…. Ella non gli dà retta, sai. È sempre a te che vuol bene.
—Lo vedremo alla prova….
—Anche per te ci sarà la prova. Ho la mia idea.
Roberto si strinse nelle spalle.
—Bisogna che tu ti persuada—continuò la signora Federica—che, a star laggiù, ti riempi la mente di stravaganze tantochè finiscon col parerti enormità le cose più naturali del mondo….
—Dio buono—esclamò Roberto, che principiava a perder la pazienza—avete voi altri da offrirmi una posizione che valga quella che ho in miniera, che soddisfaccia il mio amor proprio, che mi dia la speranza di un bell'avvenire?
—Eh! Chi sa?—disse la signora Federica con aria di mistero.
Roberto fissò sua madre con curiosità.—E sarebbe?
—Oh! Questo non è il momento…. Domani… oppure più tardi.
Il giovine non rispose.
Di lì a poco tornarono la signora Giulia e Lucilla vestite per il ballo. Lucilla indossava un abito di velo bianco un po' scollato e con le maniche corte; nei capelli s'era messa una camelia rossa; dal suo sguardo, da tutta la sua persona, spirava un fascino irresistibile. E vinto da questo fascino, Roberto non voleva porgere ascolto a una voce interna che gli ripeteva: Bada, la giovinetta a cui un uomo come te può dare il suo cuore dev'essere più modesta, più vereconda, e soprattutto deve saper amare di più.
—Dunque addio, Roberto—ella disse con grazia, tirando fuori della mantellina il suo braccio nudo fin sopra il gomito e tendendogli la sua bella mano chiusa in un guanto gris-perle.—Addio, e a domani.
Egli pensò che fra poco quello svelto corpicino sarebbe stato trascinato da altri nel turbine delle danze, che altri avrebbero stretto quella mano, sentito il contatto di quel braccio morbido, aspirato voluttuosamente il profumo di quei capelli ondeggianti, pensò che altri avrebbero passeggiato con la stupenda fanciulla per le sale piene di luce, si sarebbero affacciati con lei alla finestra a inebbriarsi nell'aria tepida d'una notte estiva, le avrebbero forse susurrato all'orecchio parole d'amore, e provò nell'anima tutti gli spasimi della gelosia.
Non più padrone di sè,—Lucilla—egli disse con accento appassionato—non puoi sacrificarmi questa festa da ballo?
Ella gli diede col ventaglio un colpettino sulla mano,—Bisogna venir dalle miniere per aver queste idee…. Come vorresti fare?… A quest'ora, dopo che mi son vestita, dopo che mi aspettano…. Nemmen per sogno….
—E in tal caso—egli balbettò—perchè non verrei anch'io dagli Osnaldi?… La mamma doveva pure andarci…. E poi, li conoscevo una volta…. In ogni modo, non è vero, signora Giulia, che mi presenterebbe?
—Ti presenterò sicuramente un'altra sera, ma oggi, ragazzo mio, è impossibile…. Non vedi in che toilette sei?
L'osservazione era giusta, e Roberto guardò mortificato il suo vestito da viaggio tutto sudicio e polveroso. Pur non si diede per vinto.—Potrei cambiarmi….
—Oh sì—interruppe Lucilla—è già tardi, e aspetteremo finchè tu vada a casa a mutarti da capo a piedi?…
Quindi la giovinetta continuò con un tono di protezione:—Sei caparbio come un fanciullo viziato…. Non sei più riconoscibile dopo il tuo soggiorno a Valduria…. Buona sera, signor minatore, si rifaccia cittadino, e poi la condurremo in società…. Andiamo…. No, Gipsy, non si viene…. Leonilda, prendila in braccio.
Affidata l'interessantissima bestia alle cure della cameriera, Lucilla uscì dalla stanza insieme a sua madre. Roberto e la signora Federica scesero anch'essi le scale e videro a partir la carrozza. Poscia s'avviarono a casa a piedi.
Roberto soffriva fuor di misura, ma avrebbe preferito tacere, perchè pur troppo sapeva che sua madre con la miglior volontà del mondo non avrebbe potuto che inacerbir la sua piaga. Ella invece era loquacissima e catechizzava assai gravemente suo figlio. Era un fenomeno curioso quello a cui l'ingegnere Arconti doveva assistere. A Valduria tutti riconoscevano la sua superiorità; a Milano finora parevano trattarlo tutti dall'alto al basso; per poco non lo aveva trattato così anche la serva di casa.
—Eh caro amico—sentenziava la signora Federica—il tuo capriccio d'andare a Valduria fu uno sproposito sotto tutti i punti di vista. Per quanto riguarda me, ti farò toccar con mano la mia situazione. Tu mi spedisci quello che puoi, e mi spedirai ancora di più…. Ma ci vuol altro perchè io possa vivere decentemente, come deve vivere una Arconti, come mi aveva avvezzato il mio Mariano…. Sono umiliazioni continue…. Le mie conoscenti ne arrossiscono per me…. Ogni momento sento chiedermi: Perchè non cerchi casa in una via centrale? Perchè non ti fai un cappellino all'ultima moda? Perchè non ti abbuoni a teatro?… Senza parlare poi della carrozza…. Quella lì, credilo, è una privazione superiore alle mie forze….
—Senti, mamma—rispose l'ingegnere—se si realizza un certo progetto, io potrò tra non molto fissarti un assegno che ti consenta di tener carrozza.
—Un progetto che ti farebbe restare a Valduria?
—A Valduria, o lì presso.
—Ma sei matto? Quelli non son luoghi per te. Mi fisseresti un assegno che mi consentirebbe di tener carrozza?… Me n'importa molto!… Per me tanto è lo stesso…. Mi lagno forse?
Roberto non si curò di rilevare questa strana domanda, e la signora Federica proseguì:—È nel tuo interesse che parlo…. Ma credi tu che lo startene lontano giovi al tuo amore per Lucilla?…
—Se Lucilla è tanto frivola da non sapermi conservare il suo affetto—replicò Roberto con amarezza—ebbene, sarà un gran dolore, ma io rinunzierò a lei.
—No, no, povero grullo, c'è la tua mamma che vigila per te, la tua mamma che tu stimi poco, oh lo so, ma che non ha perduto il suo tempo durante la tua assenza…. E la tua mamma ti dice che quella Lucilla, a cui vorresti rinunziare, non hai forse da far che un passo per averla….
—Oh, sempre castelli in aria.
—Non sono castelli in aria…. È una realtà bell'e buona.
—In nome di Dio, spiegati. Dimmela questa tua famosissima idea.
—Sappi dunque che tra la Giulia Dal Bono e io siamo quasi riuscite a persuadere il signor Benedetto che il miglior modo in cui egli possa sposar Lucilla è quello di cercarsi un genero che venga a stargli in casa, che assuma l'amministrazione de' suoi beni e che, invece di costringerlo a tirar fuori dal suo scrigno la dote, si contenti di riscuoterne ogni anno l'interesse, più un congruo stipendio….
—E questo genero di buona pasta dovrei esser io?—chiese Roberto, non lasciando nemmeno che sua madre terminasse il discorso.—Io dovrei essere a un tempo lo sposo di Lucilla, e l'amministratore, il commesso, l'ospite del signor Benedetto?
—Che c'è! Mi pare che sarà una posizione più decorosa che quella di starsene tra i fornelli di zolfo.
—E Lucilla acconsentirebbe?
—Naturalmente. Poichè ti ama.
—Ah poichè mi ama vorrebbe che io…. Non discorriamone più per questa sera, non ho la calma necessaria…. Non turbiamo con una disputa i primi momenti in cui ci rivediamo dopo tredici mesi…. Lascia piuttosto ch'io confidi nell'esito d'un colloquio a quattr'occhi con Lucilla, lascia ch'io m'illuda nella speranza di farle preferire il mio piano a quello che avete combinato fra voi altre.
—Roberto, Roberto—esclamò la signora Federica—tronchiamo pure il discorso, dacchè ti piace così; ma permettimi di dirti che tu sarai certo un buono e valente giovine, ma che hai un carattere molto bisbetico e irragionevole.
Pronunziate queste parole, la signora Federica, convinta più che mai della sua grandezza morale e intellettuale, si chiuse in un maestoso silenzio.
XVI.
Il signor Benedetto Dal Bono era divenuto negli ultimi tempi più apprensivo e fastidioso che mai. Vedeva la sua salute in rovina, la sua fortuna in dissoluzione. Ogni momento gli saltava il ghiribizzo d'esser malato, e si cacciava in letto, o per lo meno rimaneva chiuso in camera, costringendo sua moglie a tenergli compagnia e ad ascoltar le sue paternali. E la signora Giulia, donna di bontà passiva, stava rassegnata a sentirlo, e gli rispondeva con monosillabi. Pel signor Benedetto era prossima una rivoluzione. E il gran problema era quello di mettere al coperto i propri averi pel momento del cataclisma. La maggior parte della sostanza Dal Bono era investita in case, ma il signor Benedetto era convinto che le case de' ricchi sarebbero state abbruciate, e voleva quindi trovare un diverso impiego al suo danaro. Voleva, così per modo di dire, giacchè non sapeva mai risolversi a nulla. Le terre gli sembravano destinate alla devastazione, i fondi pubblici alla riduzione dell'interesse, le azioni industriali al fallimento. Pronosticava in tuono lamentevole che avrebbe finito col dover morire sulla paglia, e lo spaventava l'idea di dover esborsar la dote per Lucilla, una dote che l'opinione pubblica s'ostinava a ritenere di duecentomila lire. Invero Lucilla era la sola persona ch'egli amasse, per quanto l'amare fosse conciliabile col suo temperamento egoista. Ella aveva a ogni modo un'influenza reale sull'animo suo; forse la bellezza di lei lusingava la sua vanità. E la lasciava vestire con una certa eleganza, la lasciava andare a qualche festa da ballo accompagnata da sua madre, il cui abbigliamento era sempre più dimesso e che finiva coll'aver l'aria d'una cameriera. Quest'orgoglio paterno del signor Benedetto gli avrebbe certo fatto desiderare per sua figlia un matrimonio cospicuo; un matrimonio che le avesse dato una corona di contessa, se non fosse stato l'affar della dote. Il signor Dal Bono non era uomo da credere che i conti sposino le borghesi non coperte d'oro. Inoltre egli era un po' scettico rispetto alle condizioni economiche dell'aristocrazia, e non intendeva di sostenere co' suoi scudi qualche impalcatura cadente. Aggiungasi a tutto ciò la disposizione sincera a secondare i gusti di Lucilla in quanto la cosa potesse farsi anche a vantaggio dei propri interessi. Trovare uno sposo che si contentasse di vivere in casa ricevendo un assegno annuo invece del capitale, era un'idea che aveva il suo lato buono, e per questo la signora Federica non aveva tutto il torto di dire che il signor Benedetto porgeva benevolo ascolto ai piani di sua moglie e di lei. Di sua iniziativa, il signor Dal Bono non avrebbe scelto sicuramente per genero Roberto Arconti, ch'era a' suoi occhi un sognatore, un poeta, ma se Lucilla persisteva nella sua preferenza per lui, e s'egli dal canto suo si piegava alle condizioni volute, chi sa? il signor Benedetto avrebbe forse avuto la magnanimità di adattarsi a rispondere di sì. Per arrivare a questo punto la signora Federica aveva dovuto usare un'arte infinita, poichè, a sentirla, la signora Giulia, da sola, non sarebbe venuta a capo di nulla. Ella invece, con le sue moine, aveva a poco a poco mansuefatto quell'orso. Approvava le sue idee politiche e sociali, mostrava di dividere le sue paure d'un cataclisma, faceva eco alle sue censure ai ricchi per il loro sfarzo e ai poveri…. perchè erano poveri; giocava spesso alle carte con lui e perdeva quasi tutte le partite lodando la sua rara abilità. Riparava insomma verso il signor Benedetto Dal Bono i torti del suo Mariano. Poichè Mariano aveva mostrato troppo chiaro di non tener nel menomo conto il signor Dal Bono, e queste sono arroganze da non permettersi mai con persone milionarie…. Già Mariano, malgrado dei suoi meriti, certe cose non le capiva. E non aveva capito nemmeno sua moglie, che per lui era una donna di poco cervello, mentre invece ella spiegava una furberia degna di Bismark. È vero che la signora Federica attribuiva all'amor materno lo svolgimento ammirabile delle sue facoltà. In passato era stata un po' visionaria, aveva avuto una certa esuberanza d'idee; adesso era molto più positiva. Infatti le sue idee s'erano condensate in un'idea sola. Sposar Roberto con Lucilla, far anche lei la mezza padrona in casa Dal Bono e aspettar pazientemente che il signor Benedetto, il quale era cagionevole di salute, passasse a miglior vita e lasciasse la figlia ed il genero eredi di tutto il suo pingue patrimonio. Allora Roberto sarebbe diventato ricco davvero, lo avrebbero fatto deputato, senatore, ministro, ed ella avrebbe potuto scialar da gran signora, tener circolo, esser segnata a dito per le strade!… Possibile che Roberto rifiutasse per sè e per sua madre un avvenire simile? Malgrado della dichiarazione esplicita di suo figlio, la signora Federica non sapeva persuadersene. Doveva essere un impeto del momento, bisognava lasciargli tempo di riflettere, bisognava ch'egli vedesse co' propri occhi che non c'era altro modo di possedere Lucilla, di assicurarsi la felicità. Aveva un progetto anche lui? Un progetto bislacco senza dubbio; nè la signora Federica si curava di conoscerlo. Già le ragioni di lei non lo avrebbero convinto. Ne parlasse pure con Lucilla; ella sì avrebbe sfatato i suoi entusiasmi, ella lo avrebbe ricondotto a più umani consigli. Una sola cosa temeva la savia genitrice; ella temeva, cioè, che Roberto non serbasse col signor Benedetto un contegno tale da affidarlo appieno. Ella lo aveva dipinto al Dal Bono come una specie di convertito. A sentirla, le dure prove della miniera avevano fatto di lui uno spirito positivo, tranquillo. A Valduria egli aveva mostrato ch'era un giovine di grande abilità, e i suoi superiori erano pronti a certificarlo, ma nello stesso tempo s'era persuaso che la soverchia baldanza era un difetto, che non conveniva disprezzar l'appoggio degli uomini d'esperienza, e che, al momento della morte del padre, egli aveva fatto male a non gettarsi addirittura nelle braccia di una persona affezionata alla famiglia, quale era il signor Benedetto. E il signor Benedetto, che non avrebbe fatto nulla per l'Arconti, se questi avesse commesso la corbelleria di rivolgersi a lui, si compiaceva di veder riconosciuta l'autorità del suo giudizio e l'efficacia del suo patrocinio. Adesso poi lo lusingava l'idea di trattare con una tal qual aria di protezione il figlio di quell'orgogliosissimo Mariano, che lo aveva sempre tenuto per un dappoco. E se finalmente si fosse risolto a fare di Roberto suo genero, come avrebbe voluto calcargli i piedi sul collo!
Però, fin dal primo incontro che il signor Dal Bono ebbe con l'ingegnere Arconti, gli fu forza persuadersi che l'impresa non era sì facile come egli credeva, ciò che gli fece tentennare il capo e dire fra sè.—Eh, Lucilla, mia moglie e la signora Federica possono discorrere a loro talento. Se il signorino non cangia tuono, di questo matrimonio non ne faremo nulla.
Non era che il signorino fosse sgarbato; tutt'altro. Egli non voleva mancar di riguardi col padre di Lucilla, ma voleva avere le sue opinioni, e le sue opinioni non erano quelle del signor Benedetto. Non imprecava al progresso, non vedeva imminente un cataclisma sociale, non trovava giusto di non far nulla per la paura di tutto. Magnificava le virtù della lotta in cui lo spirito s'affina e il corpo si ritempra, pareva innamorato della sua miniera, parlava con trasporto dei successi che vi aveva ottenuti, e di quelli che contava ottenervi nell'avvenire; nulla accennava in lui al proposito di mutar carriera.
—Vostro figlio—disse il signor Dal Bono alla signora Federica—è sempre un cervello esaltato. Ed ha poi tanta voglia di venir via da Valduria quanta ne ho io d'andarci.
—Lasciate fare a Lucilla—rispose la signora Federica, ch'era sempre piena di fede.
La signora Giulia non divideva queste rosee speranze, ma non contrastava con la sua amica, tanto più ciarliera e procacciante di lei.
Roberto non potè discorrer di proposito con Lucilla che due giorni dopo il suo arrivo. Egli era stato invitato a desinare dai Dal Bono insieme a sua madre, e, durante il pranzo, aveva avuto il piacere di sentir le dissertazioni del suo ospite sul rincaro dei viveri e sulla necessità di restringer le spese della tavola. Appena preso il caffè il signor Benedetto si ritirò brontolando, le due donne si ammiccarono con l'occhio, e con un pretesto si allontanarono anch'esse.
—Finalmente siam soli—disse Roberto—e spero sentirai tu pure il bisogno che ci parliamo col cuore in mano…. Fammi la grazia di metterti a sedere e di badare a me e non a Gipsy.
—Ih! Che solennità!… Via, mi sederò…. Su, Gipsy.
—Ma lasciala andare.
—No, no, quand'è in grembo mio, Gipsy sta tranquilla…. Non è vero, Gipsy, che non fiaterai nemmeno?….
La cagna saltò sulle ginocchia della giovinetta e si fece in gomitolo, proponendosi di schiacciare un sonnellino.
Roberto frenò un gesto d'impazienza e prese una mano di Lucilla nelle sue. Poi, guardandola, negli occhi bellissimi, le domandò:—Mi vuoi sempre bene?
—Ma sì. Non lo sai?
—È così dolce sentirselo ripetere…. Il tempo, la lontananza non ti hanno mutata?
—E perchè dovrebbero avermi mutata?
—Tanto meglio allora. Tu m'intenderai più facilmente.
—Ma scusa…. A che scopo tutto questo preambolo?…. Tua madre non ti ha comunicato un progetto?….
—Prima ch'io ti risponda su quel progetto, devi ascoltare il mio….
—Saran castelli in aria—interruppe la ragazza stringendosi nelle spalle.
—Non giudicare senza saper di che si tratti…
—Oh!… M'immagino già….
—Senti, Lucilla. Io non ho forse da dire che una parola perchè la mia posizione attuale si cambi radicalmente….
—Nella tua bella Valduria?…
—Non a Valduria, ma lì vicino….
—Sempre in una miniera di zolfo?
—Si, potrei diventar io il direttore di una miniera di zolfo.
—E vorresti condur me in quei paesi?
—Lucilla, Lucilla, lasciami parlare…. Ti condurrei, è vero, in paesi poveri e rozzi, ma dappertutto, credilo, due cuori che s'amano possono trovare la pace e la felicità…. Stammi a sentire…. Non ritirar la tua mano…. Non far quei moti d'impazienza…. Oh fanciulla mia, questo mondo in cui tu vivi non è tutto il mondo…. Ci sono altre gioie oltre a quelle che la tua mente vagheggia…. ci sono anche per la donna altre soddisfazioni oltre a quelle d'andar in carrozza sul Corso, o di far spese in Galleria Vittorio Emanuele, o di assistere da un palchetto di seconda fila alla prima rappresentazione d'un'opera nuova alla Scala …. Prendere interesse ai lavori dell'uomo a cui vuol bene, godere dei suoi trionfi, aiutarlo nelle sue difficoltà, esser la confidente de' suoi pensieri, la regina del suo cuore e della sua casa…. E tu saresti la mia regina, Lucilla, ed io ti cingerei di tanto amore che un giorno tu dovresti chiedermi perdono di aver esitato un momento a esser mia a questi patti.
Roberto era riuscito a incatenar l'attenzione di Lucilla, che sulle prime pareva volerlo interrompere ad ogni istante. Il suo accento sincero, caloroso, commosso, non poteva a meno di far vibrar qualche corda nell'anima d'una giovinetta diciottenne, per quanto ella fosse aliena dagli entusiasmi. Il volto di lei s'era atteggiato ad una espressione pensosa che ne cresceva la bellezza, già una lagrimetta le spuntava sul ciglio, era vinta forse, quando le si affacciò alla mente la immagine di Roberto in costume da minatore, annerito dal fumo, puzzolente di zolfo, cinto da una turba di operai sudici come lui, vide con la fantasia una casa nuda, disadorna, impregnata di vapori molesti, sentì in anticipazione il tedio delle lunghe giornate solinghe e delle lunghe sere monotone, e si meravigliò, si ribellò all'idea che un tale avvenire potesse essere offerto a lei, cresciuta in tutte le raffinatezze della vita cittadina.
Ebbe un impeto subitaneo, si svincolò da Roberto, che le teneva sempre la mano, e, senza badar nemmeno a Gipsy, si alzò in piedi, lasciando che la cagnetta, sorpresa di modi così fuor del comune, andasse ruzzoloni sul pavimento.
—Caro mio—ella disse—siamo pazzi tutti e due; tu a farmi queste proposizioni, io a star lì a darti retta.
—Oh Lucilla!
—Sì, te lo ripeto, la tua è una vera pazzia. Se tu hai la fissazione di sagrificare la tua gioventù in un paese barbaro e in un mestiere bestiale, io non posso certo secondarti…. Vuol dire che tu metti i tuoi capricci al disopra del tuo amore.
—Le tue parole sono ben crudeli, Lucilla. Anche tu parli de' miei capricci come la mamma. Fu dunque per un capriccio ch'io andai a relegarmi in una miniera di zolfo?… Rimasto povero e orfano, i miei amici, gli amici della mia famiglia, gli amici tuoi non seppero darmi che vane parole…. Solo da Valduria mi venne un aiuto, solo di là mi fu offerto un modo di provvedere dignitosamente a me stesso. Dovevo respingere la mano che m'era tesa? E una volta accettato l'ufficio offertomi con tanta generosità, non dovevo portarci tutto il mio ardor giovanile, tutto il mio ingegno, tutta la mia perseveranza? Mi fai una colpa se sono riuscito, e se, come gli altri uomini, non so odiare, non so disprezzare le cose in cui sono riuscito? Oggi vedo la possibilità di conseguire, in quei paesi che tu chiami barbari e in quel mestiere che tu chiami bestiale, un posto onorifico, largamente rimunerato, tale da assicurarmi, più che l'indipendenza, l'agiatezza, e tu ti sdegni perchè non lo rigetto, e ti chiami offesa perchè ti dico: Vieni con me, sii la mia compagnia, sii la mia sposa… Basterò io a mantenerti… Che m'importa della tua dote?
—Oh insomma, no, no…. Non mi persuaderò mai…. Perchè rifiuti ciò che ti si offre qui?
—Ma lo sai proprio ciò che mi si offre?…. Invece dell'indipendenza, mi si offre la schiavitù; invece della lotta che rinvigorisce le membra e lo spirito, mi si offre un lavoro umiliante: invece d'un'agiatezza dovuta a me stesso, mi si offre un salario dovuto alla mia qualità di marito tuo, di genero di tuo padre…. Ma non senti salirti al viso i rossori per me?… Ma non capisci che l'obbligo più sacro di chi ama, è di voler salva la dignità della persona amata?
—Insomma—replicò infastidita Lucilla—io non capisco niente, io non conosco i miei obblighi. Sono una sciocca…. Le ragazze di garbo si trovano a Valduria.
—Oh Lucilla, quanto sei ingiusta!…
—Ma sì, sono ingiusta, son tutto quello che piace al signorino—proseguì con petulanza la fanciulla.—Bisogna venir di laggiù per aver la sapienza infusa…. Le ragazze di Valduria, quelle sopratutto che studiano il francese….
—Le ragazze di Valduria—interruppe Roberto—studino o non istudino il francese, possono valere di più di certi marchesini azzimati che sento lodar molto da qualche ragazza di Milano….
—Dunque, figliuoli, vi siete intesi!—domandò la signora Federica, entrando all'improvviso nella stanza per informarsi dell'esito del colloquio.
—Oh perfettamente!—esclamarono i due giovani con un tòno che scosse un pochino anche la saldissima fede della signora Arconti.
XVII.
A malgrado di tutto, le due madri cui stava a cuore il trionfo del loro piano, non si diedero per vinte. La pazzia di Roberto, poich'eran concordi nel giudicarla tale, non sarebbe durata a lungo; piuttosto di perder Lucilla, egli si sarebbe assoggettato alla gran disgrazia di diventar ricco. La signora Federica sopratutto si stimava sicura del fatto suo; nè con ciò ella credeva menomamente di metter sotto i piedi ogni sentimento di dignità, per sè e per suo figlio. La dignità, secondo lei, era salva appieno. Se i Dal Bono avevano più quattrini, gli Arconti, mercè il defunto Mariano, avevano goduto d'una posizione più elevata in società, e quindi i conti eran pari. Queste belle cose la signora Federica non si stancava di ripeterle a Roberto, ed ella era così facile ad illudersi che ogni leggero sintomo di resipiscenza da parte di lui bastava a farle credere imminente la vittoria. E invero, benchè egli fosse convinto d'aver ragione, benchè fosse deliberato a tirar diritto sul suo cammino, non si può dire che qualche dubbio non lo assalisse talora.
Avrebbe voluto scacciar dal suo cuore l'immagine di Lucilla, e non gli riusciva. La trovava frivola e calcolatrice ad un tempo, priva di quella sacra fiamma di poesia senza della quale par fredda ogni virtù femminile; ma la trovava anche più bella e più seducente di quando l'aveva lasciata. Le sue parole lo disgustavano spesso, ma a un suo sguardo, a un suo sorriso, al tocco della sua mano, egli sentiva il sangue affluirgli al cervello e turbargli i sensi e lo spirito. Non era così che l'aveva amata una volta, non era così che avrebbe voluto amarla; eppure l'amava così. Vissuto come un anacoreta nella solitudine di Valduria, si risvegliavano adesso nel suo corpo giovine e gagliardo i desiderî tempestosi dell'età sua. La Musa ispiratrice de' suoi primi versi era scomparsa, l'angioletto che la sua fantasia aveva vestito d'ali e cinto d'un nimbo era disceso a terra e s'era mutato in un demone tentatore al cui fascino egli non sapeva sottrarsi. Non amare una donna soltanto per la sua bellezza, gli aveva detto suo padre poco tempo avanti di morire; e quelle parole gli sonavano all'orecchio come una verità sacrosanta. Tuttavia egli sentiva, arrossendo, d'amare una donna soltanto perchè era bella.
Ed era geloso. Un giorno, a casa Dal Bono, s'era incontrato col marchesino Moschi, ch'era venuto a fare una visita, e quell'incontro lo aveva stranamente agitato. I due giovani, presentati l'uno all'altro, non s'erano nascosta l'antipatia reciproca che s'inspiravano. Roberto capì che aveva nel Moschi un rivale, e che Lucilla non isdegnava di civettare con lui. S'informò del marchesino e gli dissero ch'era un giovine di assai scarse fortune senz'altro merito che un po' di vernice di società e una bella presenza. Su quest'ultimo punto Roberto aveva un'opinione affatto diversa; egli lo giudicava bruttissimo. Bello o brutto, il marchesino non era secondo a nessuno nel dirigere una quadriglia o un cotillon, e ciò lo rendeva gradito alle ragazze. Andava a caccia d'una dote, e quella di Lucilla gli sarebbe venuta molto a proposito, ma il vecchio Dal Bono, guardingo come era, non gliel'avrebbe sborsata sicuramente. Era però da scommettere che il Moschi, ad onta della sua albagia aristocratica, si sarebbe adattato a ricevere solo gl'interessi, e forse per far la sua formale domanda egli non aspettava che una parola favorevole di Lucilla. Ora, Lucilla questa parola non voleva dirla finchè aveva la speranza di vincere le ritrosie di Roberto, che senza dubbio ella preferiva ad ogni altro. Se poi Roberto persisteva ne' suoi orgogliosi propositi, la faccenda poteva bene mutar d'aspetto!
Queste considerazioni, che chiudevano in sè molto di vero, avrebbero dovuto, a fil di logica, piuttosto raffreddare che accendere il cuore di Roberto. Ma la logica, si sa, entra pochissimo nell'amore, e, se c'entra troppo, si può giurare che l'amore non è di quel buono. Avvezzo sin dall'adolescenza a riguardar Lucilla quasi come cosa sua, l'ingegnere Arconti fremeva pensando che un altro potesse esserle accetto, che ella potesse diventar la donna d'un altro. Cedere il campo al marchesino Moschi, ecco un'idea che lo metteva su tutte le furie, ecco lo spauracchio che la signora Federica agitava sovente davanti a lui.
Nè fra' suoi amici mancavano alcuni che gli consigliavano di rimeditare pacatamente la proposta che gli era fatta.—In fin dei conti—essi dicevano—la tua suscettività è eccessiva. Un uomo del tuo merito non sarà mai il servitore di chicchessia. Quando pure tu consentissi a vivere in casa Dal Bono, ad aiutare il signor Benedetto nell'amministrazione delle sue sostanze, in breve tempo il vero padrone non sarebbe lui, saresti tu. E poi, una volta sposata la tua Lucilla, chi potrebbe impedirti di cercare un'occupazione più conforme a' tuoi gusti, ma tale nello stesso tempo da non costringer tua moglie a una vita che non può a meno di ripugnarle? Coll'ingegno e cogli studi che hai, devi tu stesso esercitare la tua attività in un campo più vasto che non sia una miniera di zolfo. Se resti qui, qual'è la cosa a cui tu non possa aspirare? Un giorno disporrai a tuo talento d'una pingue fortuna, e il bene ch'essa ti permetterà di fare, ti compenserà largamente delle piccole noje che avrai dovuto soffrire per ottenerla.
Ragioni fiacche che non persuadevano Roberto, ma contribuivano ad infastidirlo, a crescere le angustie del suo spirito. Era convinto che non gli restasse ormai che un solo partito degno di lui: dire addio per sempre ad una fanciulla che non sapeva comprenderlo, dire addio a sua madre bamboleggiante in vane illusioni, tornar fra la gente semplice e schietta che l'aveva circondato di benevolenza e di stima, scrivere a M.^r Black dichiarandosi pronto ad accettare la direzione della nuova miniera, ripigliare i suoi lavori, seguir la sua stella. Era convinto di ciò, eppure la passione, il puntiglio, la gelosia gl'impedivano di prendere una risoluzione definitiva. Egli, così pronto fino allora a scegliere la sua via, avrebbe avuto bisogno di un consiglio virile che dissipasse i suoi ultimi dubbi. Ma nessuno voleva mettersi ne' suoi panni; i suoi intimi amici, o erano mutati da quelli d'una volta, o non erano più in Milano. Ed egli si pentiva d'una gita che gli procacciava tante disillusioni, che faceva di lui uno spostato nella sua patria e nella sua casa.
Del resto, si può dire in tesi generale che il rivedere il proprio paese dopo una lunga assenza è cosa che reca infinite dolcezze, ma che non è scevra mai di dolori. Se, partendo, si credeva di lasciar in molte anime un vuoto che avrebbe stentato ad essere riempiuto, non si tarda ad accorgersi che nella maggior parte almeno di queste anime il vuoto fu colmato interamente. Lo hanno colmato nuove abitudini e nuove simpatie, e chi ritorna s'avvede che, ripigliando l'antico posto nei crocchi fidati d'un tempo, egli deve disturbar qualcheduno. Gli si lascierà forse la sedia ch'egli soleva occupare prima della sua partenza, ma chi si alza per cedergliela non presta sempre di buon grado questo servizio, e non sempre quelli che gli seggono ai lati sono lieti del cambiamento. Certo, anche chi è lontano e oggi ritorna ha in questo frattempo vissuto in mezzo ad altra gente e ha patito di nostalgia meno di quanto avesse temuto prima; ma per lui l'idea della patria si associa a tutto ciò ch'egli aveva di caro all'istante di lasciarla. Capisce l'esiglio, non capisce la patria diversa da quella ch'egli ha abbandonata. È la ragione per la quale molti che cominciarono ad essere esuli forzati finiscono coll'esser esuli volontari.
Il colloquio tra l'ingegnere Arconti e Lucilla non aveva condotto i due giovani a un'aperta rottura. Non la volevano essi medesimi; l'avrebbe a ogni modo evitata l'interposizione delle rispettive genitrici. Roberto e Lucilla si vedevano ogni giorno, ora discorrendo confidenzialmente, ora punzecchiandosi a vicenda, ma schivando l'argomento capitale che doveva decidere della loro sorte.—Oh farà giudizio—diceva fra sè la giovinetta. E aspettava sempre di veder l'amante a' suoi piedi. Roberto invece non aveva che una debole speranza nel cambiamento di Lucilla. Le visite ch'egli le faceva lo lasciavano triste: a casa sua sentiva le prediche di sua madre che lo accusava d'essere un figlio snaturato, perchè non sapeva sacrificarle il suo orgoglio e le sue ubbie di delicatezza: al passeggio, ai caffè, ai teatri s'annoiava, tanto i suoi gusti s'eran trasformati nel periodo di tredici mesi. Anche in mezzo ai suoi libri (e la maggior parte della sua biblioteca era rimasta a Milano), anche in mezzo ai suoi libri provava un senso di tedio. Essi non bastavano più a riempiere il suo pensiero: la vita contemplativa non era più fatta per lui; aveva bisogno d'azione. Tutto contribuiva a fargli ridesiderare Valduria! oh perchè, perchè Lucilla non voleva seguirlo?
Lucilla aveva ben altro pel capo. La prossima rappresentazione dei quadri viventi a cui doveva prender parte l'assorbiva tutta, ed ella passava almeno un paio d'ore al giorno davanti allo specchio a studiar l'atteggiamento nel quale si sarebbe mostrata al colto pubblico la sera dello spettacolo. A ciò s'aggiungevano le prove in casa Osnaldi, prove fatte naturalmente in compagnia del marchesino Moschi e dei personaggi destinati a figurare negli altri quadri. Ella vi si recava in compagnia di sua madre, e talvolta anche della signora Federica, cui non pareva vero di cacciarsi dappertutto, querelandosi sempre delle sciagure che l'avevano colpita e che le impedivano di divertirsi in alcun luogo.
La partecipazione di Lucilla a questi quadri viventi era per Roberto uno spino nell'occhio, ma le preghiere ch'egli aveva rivolte alla ragazza affinch'ella si dispensasse dal comparire come Margherita insieme al marchesino Moschi erano cadute a vuoto. Prima di tutto, si trattava d'un impegno preso da un pezzo e a cui non era lecito di mancare; poi le obbiezioni di Roberto non avevano senso comune; e finalmente con che diritto Roberto domandava sacrifici agli altri, egli che agli altri non voleva sacrificar nulla?—Eh carino—gli diceva sua madre—per aver voce in capitolo bisognerebbe essere ufficialmente il promesso sposo di Lucilla. Avresti torto a ogni modo, perchè un uomo non deve mai fare il tiranno, ma almeno potresti parlare. Invece il tuo contegno ti chiude la bocca, e puoi anzi ringraziare Lucilla e i suoi genitori se ti permettono ancora di bazzicar in casa loro.
La vigilia della rappresentazione, la signora Federica, reduce dall'ultima prova, fece a suo figlio uno sproloquio più lungo.—Gli Osnaldi ti aspettano senza fallo domani sera, e io mi sono impegnata formalmente per te. Mancando, useresti uno sfregio a loro e a Lucilla…. Vedrai, vedrai come Lucilla sta bene abbigliata da Margherita …. E anche il marchesino Moschi è un bel Faust …. Non nego però ch'è un poco svenevole…. Non ha quel chic …. so io ciò che voglio dire…. quel chic che avevi tu una volta, prima di andarti a seppellire, povero grullo che sei, fra quei montanari di Valduria… Gli altri quadri sono mediocri…. Bisogna confessare che le belle persone son rare. La cugina degli Osnaldi, per esempio, che fa da Giuditta nel momento in cui ammazza Oloferne, ha due occhi che non son brutti, ma è tozza e le si legge in viso la provinciale a un miglio di distanza…. È di Vimercate, come gli Osnaldi, che si stabilirono qui dal 1860 e non hanno mai acquistato l'aria cittadina. Adesso poi, dopo una nuova eredità che han fatta, paiono ancora più parvenus d'una volta…. Spendono e spandono per farsi metter nelle gazzette…. tutta vanità…. Leggeremo i panegirici della festa e dell'appartamento, e sì che ci sarebbe molto da ridire…. Ma a noi poco monta…. Se diverremo ricchi, sapremo far le cose con assai miglior garbo….
—Cara mamma, noi non diverremo mai ricchi, e di queste cose non ne faremo nè bene nè male—interruppe Roberto.
—Aspetta a parlare domani sera—ripigliò la signora Federica in tuono solenne.—Quando avrai visto Lucilla sotto le spoglie di Margherita capirai che il vero Faust di quella Margherita devi esser tu…. Intanto preparati a ballare, che già come tutti i salmi finiscono in gloria, così tutte le feste dove c'è gioventù finiscon col ballo…. Io dovrò raffazzonare alla meglio una vecchia toilette …. Pur troppo son ridotta a tal punto…. io che mi facevo ogni mese un vestito nuovo!
XVIII.
La sera della rappresentazione, l'ampio salotto di casa Osnaldi era pieno di gente.
Dalla parte delle finestre s'era improvvisato un piccolo palco scenico; il resto della stanza era occupato dal pubblico; le signore sedute sul davanti, gli uomini ritti e pigiati dietro le sedie. Quelle si facevano fresco col ventaglio, questi col cappello, quando però riuscivano a mover le braccia. In generale, si diceva che non eran trattenimenti da darsi in giugno. Ma lo si diceva a bassa voce, perchè la signora Osnaldi, sottile, instancabile, era onnipresente come domeneddio. Ora si cacciava nell'interstizio di due sedie, ora fendeva l'angusta corsia che divideva le sedie dalle pareti e lungo la quale s'eran disposti dei panchettini pei bimbi, ora faceva capolino dietro il sipario del palcoscenico, ora compariva nell'anticamera, ora riusciva a insinuarsi nella folla degli uomini scambiando sorrisi, complimenti e strette di mano. La signora Osnaldi non era nè bella nè giovine, ma la sua bassa statura, la sua magrezza, la rapidità de' suoi movimenti le davano una certa aria infantile, sopratutto se la si paragonava al marito, ch'era grande e grosso come una balena ed era altrettanto tenero della quiete quant'ella era appassionata del moto. Infatti il signor Amilcare Osnaldi, con la scusa d'essere il primo a ricevere gl'invitati, aveva quella sera preso domicilio nell'anticamera e si dondolava in un seggiolone di canna d'India. Ogni momento sua moglie, la signora Elvira, sbucando fuori d'improvviso da destra o da sinistra, gli si avvicinava, e gli susurrava qualche parola all'orecchio.
Fu in uno di questi momenti che l'ingegnere Arconti giunse insieme a sua madre, e potè così presentar i suoi omaggi contemporaneamente ai due padroni di casa.
—Entri, entri in salotto—disse la signora Elvira—e veda di trovarsi un buon posto…. C'è folla, proprio folla…. Davvero non avrei creduto…. E lei, signora Federica, venga con me. Già m'immagino che vorrà assistere alla toilette della nostra Margherita … Cara ragazza! Non s'è fatta aspettare. È qui con sua madre dalle otto… Venga, venga, signora Arconti…. Ah scusi, son subito con lei….
E la minuscola signora andò incontro con molta effusione ad un giovinetto di primo pelo che s'avanzava con incesso maestoso.—Bravo, signor Dalla Noce, ha tenuta la sua parola…. Osnaldi, saluta il signor Dalla Noce…. Ci sarà un posticino apposta per lei, un posticino da cui potrà veder tutto e prendersi i suoi appunti…. Adesso la condurrò io…. Sappiamo che per lor signori giornalisti ci vogliono speciali riguardi.
Il signor Dalla Noce si levò l'occhialino che aveva inforcato al naso e s'inchinò con molta gravità.
Allora la padrona di casa si ricordò che doveva prima condurre la signora Federica nella camera ove c'erano le signore Dal Bono, e chiese un istante di sofferenza al sacerdote della libera stampa. Ma la Arconti, che non era donna da confondersi pei troppi riguardi e conosceva benissimo la disposizione della casa Osnaldi, se n'era già andata senza bisogno di guida, onde la signora Elvira potè insediar subito il grave pubblicista nel posto distinto ch'ella gli aveva serbato. Colà giunto, il signor Dalla Noce si rimise l'occhialino e girò uno sguardo dominatore sull'adunanza. Indi si levò i guanti, li voltò e piegò con grandissima cura e li ripose in tasca del soprabito. Quei guanti, che gli avevano già servito in un pajo di solennità, dovevano servirgli ancora per assistere ad un banchetto che stava preparandosi in onore d'un celebre uomo politico straniero, di passaggio per Milano, banchetto a cui la stampa cittadina si sarebbe fatta rappresentare da' suoi direttori o da' suoi cronisti. E il signor Dalla Noce era appunto un cronista, com'era facile indovinare da quella sua aria di uomo che ha bisogno di persuadersi della propria importanza per giustificare a sè stesso il suo intervento gratuito dappertutto.
Intanto l'ingegnere Arconti era penetrato nella sala e s'era confuso cogli altri invitati. Perchè era venuto dagli Osnaldi? Non lo sapeva nemmen lui; sapeva soltanto che soffriva immensamente a trovarsi colà, e che avrebbe sofferto anche di più a veder Lucilla esposta agli sguardi d'un pubblico indiscreto e curioso, insieme ad un uomo ch'egli abborriva e sprezzava. Pure una forza maggiore di lui lo teneva inchiodato al suo posto.
—Arconti,—gli disse un antico conoscente che gli era vicino—non saluti nemmeno gli amici?
—Oh—rispose Roberto,—scusa, non ti avevo visto.
—Resti ancora a Milano un pezzo?
—Oh no…. pochissimo.
—E torni laggiù alla tua miniera?
—Sì….
Questo breve dialogo ricordò all'ingegnere Arconti che il suo congedo di quindici giorni non era lontano dal termine e che egli non aveva ancor preso un partito definitivo. I Dal Bono e sua madre non dubitavano di finire coll'indurlo a fare a modo loro, e il suo silenzio contribuiva a mantenerli nella loro illusione. No, non era possibile di durar più a lungo così. Domani, quella sera stessa forse, egli avrebbe fatto un ultimo tentativo con Lucilla, e se anche questo gli fosse fallito, ebbene, a costo di morire poi di dolore, egli avrebbe, senz'altri inutili indugi, ripreso la via di Valduria, e spezzato un vincolo che gli imponeva il sacrifizio della sua dignità.
Nella sala s'era fatto quel profondo silenzio che precorre i grandi avvenimenti. La padrona di casa, allontanandosi dal signor Dalla Noce a cui aveva dato alcune spiegazioni da lui richieste pel suo entrefilet di cronaca, salì sopra uno sgabello, per rendersi visibile ai servi, e battè le mani palma a palma. Le fiamme della lumiera a gas, che rischiarava la stanza, si abbassarono d'improvviso in mezzo a un oh sommesso e prolungato degli spettatori adulti e a un uh clamoroso e festante dei bimbi. In pari tempo si alzò la tenda, e nel palcoscenico, illuminato dalla luce elettrica, apparve Caino in atto di uccidere Abele. La luce elettrica in questo primo quadro ne fece delle sue, brillò a sprazzi, ora fulgida come un sole, ora tremula e fioca come un lumicino da notte. Poi, sul più bello, l'apparato si mosse, e il fascio di raggi invece di cadere su Caino ed Abele, li lasciò perfettamente al bujo, e venne ad abbagliare gli spettatori, obbligandoli a ripararsi gli occhi con le mani, o coi fazzoletti, o coi ventagli o coi cappelli. Il successo di questo primo quadro fu mediocre. Il secondo ci trasportava in Egitto ai tempi della grandezza romana. Era la morte di Cleopatra. La superba regina, sdrajata sopra un letto, stendeva la mano verso un canestro di frutta, che le era presentato da una schiava, e nel quale si trovava l'aspide che doveva por fine ai suoi giorni. Il personaggio di Cleopatra era rappresentato da una signora assai grassa e matura, e più di qualcheduno osservava sommessamente che Antonio aveva avuto un gran torto ad innamorarsene. Nondimeno, al calar del sipario, gli applausi scoppiarono unanimi, e la signora Osnaldi colse l'occasione favorevole per insinuarsi tra le sedie e venir a raccogliere le congratulazioni del pubblico.—Pare la biscia di Cleopatra—disse un bell'umore al suo vicino.
Per la terza volta la sala rimase nell'ombra, e il sipario, alzandosi, scoprì il triste caso di Oloferne. L'esito di questo quadro fu compromesso da un'inezia. L'Oloferne di quella sera era un pacifico cittadino ammogliato con prole, e i teneri figlioletti si trovavano appunto fra gli spettatori. Vedendo Giuditta che stringeva in una mano i capelli del genitore, e con l'altra gli teneva sospesa una spada sulla testa, essi si misero a battere i piedi e gridare.—No, ferma, ferma!—Dal canto suo, Oloferne, nell'udir le grida strazianti delle sue creaturine, non potè a meno di sollevare il capo, e di chiedere a Giuditta che cosa fosse accaduto. La tela calò in fretta, per nascondere un incidente non rammentato dai libri sacri.
La signora Elvira, un po' turbata dall'inatteso contrattempo, affrettò la riscossa, facendo anticipare il quadro su cui ella contava di più; il primo incontro di Fausto con Margherita. Margherita, con gli occhi chini al suolo, con le treccie bionde che le scendevano giù per le spalle, col suo libriccino di preghiere in mano, era in atto di schermirsi da Fausto che le offriva il braccio per accompagnarla. Un pianoforte invisibile intuonava sommessamente il famoso Permetteresti a me, ecc., dell'opera di Gounod. Un applauso immenso e spontaneo scoppiò nella stanza, e si chiese e si ottenne il bis una prima e una seconda volta. Fu davvero un grande successo. Margherita non poteva esser più bella, la sua parrucca bionda dava maggior risalto allo splendore delle sue pupille nere, le linee scultorie della sua persona si disegnavano mirabilmente sotto il semplice e succinto vestito azzurro ch'ella indossava. Anche Fausto faceva una discreta figura, ma, come si può immaginarsi, non era su lui che s'appuntavano tutti gli sguardi.—Chi non darebbe l'anima al diavolo per quella Margherita?—susurravano gli uomini fra di loro.
E Roberto non l'aveva ammirata meno degli altri, ma la sua ammirazione era mista di tanto dolore! Gli faceva male vederla lì sopra una specie di palcoscenico insieme ad un damerino sciocco e ridicolo, al quale egli avrebbe voluto somministrare una buona lezione. Egli capiva benissimo che, dato il carattere di Lucilla, gli applausi ond'ell'era l'oggetto non potevano a meno d'inebbriarla, di alienarla maggiormente dall'ideale casalingo e modesto a cui le era dato aspirare unendosi a lui.
Seguirono ancora alcuni quadri, ma non ebbero che un successo di stima, e, a spettacolo terminato, il nome della seducentissima Margherita continuava ad essere su tutte le labbra. I personaggi della rappresentazione si mescolarono al pubblico nei loro rispettivi abbigliamenti. Abele riconciliato con Caino, Oloferne scampato al ferro di Giuditta, Giuditta dimentica de' suoi feroci propositi, e Cleopatra guarita dalla puntura dell'aspide, passeggiavano per la sala, ricevendo congratulazioni e strette di mano dai parenti e dagli amici. La padrona di casa conduceva in giro l'astro più fulgido della serata, Lucilla, al fianco della quale ella faceva una ben meschina figura. E Lucilla sentiva d'esser la regina della festa; ella passava sotto quel fuoco di sguardi infiammati, in mezzo a quel bisbiglio lusinghiero che non giunge mai impunemente all'orecchio d'una donna. Tutti volevano esserle presentati, tutti le dirigevano parole piene di sincero entusiasmo. La signora Elvira stimò suo dovere di farle conoscere anche il signor Dalla Noce, il grave cronista, il quale, con un sorrisetto a fior di labbro, le lasciò intendere che l'indomani la stampa si sarebbe occupata di lei. E Lucilla, orgogliosetta con gli altri, fu affabilissima con l'insigne scrittore. Ella stava già leggendo con la fantasia la prosa fiorita del signor Dalla Noce quando le si avvicinò Roberto.
—Oh!—diss'ella.—Finalmente si fa vedere, signor Arconti.—Poi soggiunse, rivolta alla signora Elvira.—Questo è l'uomo selvaggio, l'orso bianco della Norvegia. Vive gran parte dell'anno sotto terra, fugge la luce e il consorzio civile.
Il giovine ingegnere rimase alquanto sconcertato dal tuono burlesco della fanciulla, e specialmente dal Lei cerimonioso ch'ella, del resto con ragione, aveva usato parlandogli. Tuttavia egli riprese:—La bella Margherita consentirebbe a fare un giro con me?
—Volentieri—rispose Lucilla—se la signora Elvira lo permette.
La signora Elvira lo permise.—Vado—ella disse—a dar le disposizioni perchè sbarazzino questa sala. Intanto passeremo tutti di là.
L'appartamento degli Osnaldi era vasto e la folla si disperse nelle altre stanze.
—Come sei bella!—susurrò l'Arconti all'orecchio di Lucilla, mentre premeva sotto il suo braccio il braccio di lei.
Ella si finse sorpresa di sentir questo complimento da Roberto, e osservò con l'aria scherzosa di prima:—Anche l'uomo selvaggio si occupa di queste cose?
—L'uomo selvaggio, Lucilla, tu lo sai benissimo, non ha mai trovato bella altra donna che te. Ed egli vorrebbe dar tutta la sua vita per questa donna, vorrebbe che questa donna fosse sua, unicamente sua.
—Sulla cima d'una montagna?
—Tu ridi sempre!
—Parla adagio, non farti sentire a darmi del tu.
I due giovani entrarono in un gabinetto ove in quel momento non c'erano altre persone, e si appoggiarono al davanzale d'una finestra aperta, respiciente un giardino, da cui esalava un soave odore di caprifoglio.
—Ti ricordi—disse Roberto abbassando la voce—del tempo in cui, fanciulli, giocavamo insieme? Noi si stava allora verso Porta Venezia, avevamo un bel giardino più grande di questo, e tu ti divertivi tanto a correre pe' suoi sentieri tortuosi. Mi par di sentire la ghiaja scricchiolare sotto i tuoi piedini…. Io t'inseguivo, ti raggiungevo, ti tenevo prigioniera…. E allora ci giuravamo di restar sempre uniti, fino alla morte. Te ne ricordi?…. Adesso io sto per ripartire…. sì, la mia licenza finisce lunedì, e se ci separeremo così sarà lo stesso ch'esserci detto addio per sempre.
—Di chi la colpa?
—Lascia ch'io ti parli ancora una volta, Lucilla….
—Non in questo momento…. Bisogna tornar nella sala….
—Non in questo momento; ma stasera stessa… più tardi. Abbandona presto la festa…. Persuadi tua madre a ritornar a piedi…. Io vi accompagnerò…. È una notte d'incanto….
—Abbandonar presto la festa? Ma è impossibile….
—Chi te lo vieta?
—Sono impegnata per quasi tutti i balli….
—Trova una scusa…. Di' che non ti senti bene….
—No, no, non mi crederebbero, farei una cattiva figura…. Ah, che cosa suonano adesso?
—Non so, una polka, un valzer, che mi importa?
—È una polka. Il marchesino Moschi mi cercherà.
—È il tuo cavaliere?
—Sì, per la prima polka e per il cotillon.
—Lucilla, balla pure la polka, ma se mi vuoi ancora un po' di bene, sciogli l'impegno pel cotillon.
—Perchè? Per darti il gusto di farmi un nuovo sermone questa notte istessa?…. Non puoi venire domani a casa? Già se non hai mutato idea, mi dispiace, sprecherai il fiato.
—Lucilla—ripetè il giovine con passione.—Ha ben ragione chi dice che l'amore è cieco. Non dovrei amarti, e t'amo tanto.
—È una sgarberia, o è un complimento?
—È la verità, crudele che sei…. Non lo vedi che fai di tutto per tormentarmi?
—Insomma, adesso non posso più darti retta…. Riconducimi in sala, o ci vado da me.
E si mosse dalla finestra.
—Ti riconduco subito—disse Roberto trattenendola.—Ma promettimi di lasciar la festa prima del cotillon.
—La lascerei volentieri se non fossi impegnata.
—È appunto per questo che ti supplico di lasciarla:
—Per questo?
—Sì, perchè quel tuo Moschi m'è antipatico, m'è odioso, e non voglio che tu balli con lui.
—Non vuoi? Con che diritto?
—Col diritto di un uomo che t'ha amata fin da bambino….
—Sì, e che rifiuta l'unico mezzo possibile per farmi sua moglie.
—Non l'unico, non l'unico….
—L'unico possibile, ripeto….
—Ascoltami, Lucilla….
—Riparleremo domani…. Andiamo adesso….
—Un'ultima parola…. Se, dopo questa polka, tu balli ancora col marchesino, ti giuro ch'io provoco quello stupido bellimbusto.
—Uno scandalo?
—E sia pure.
—Fa quello che ti piace…. Io non ricevo intimazioni….
Il tuono freddo con cui furono proferite queste parole fece impallidire Roberto. Lucilla parve un momento pentirsene, e col piglio carezzevole ch'era una tra le sue maggiori seduzioni, soggiunse:—Sei un fanciullo.
Egli non le rispose, ma le porse il braccio in silenzio, e l'accompagnò nella sala, ove la padrona di casa l'accolse con un oh prolungato, e ove il marchesino Moschi s'affrettò a venire a reclamare il suo giro di polka.
La giovinetta ebbe un istante di esitazione, guardò Roberto, ch'era serio, impassibile; poi si lasciò condur via dal suo ballerino.
—Ecco Fausto e Margherita—dicevano gli spettatori ammirando la elegantissima coppia.
Lucilla fu più volte sul punto di annunziare al suo cavaliere che non avrebbe potuto ballare con lui il cotillon perchè si sarebbe assentata prima da casa Osnaldi. Ma le si affacciavano difficoltà insuperabili; le avrebbero chiesto il motivo di questa sua partenza, la signora Elvira avrebbe giudicato in lei una scortesia il privar la festa del suo più bell'ornamento, sua madre stessa, quantunque sempre disposta a far a modo suo, non si sarebbe mossa senza infastidirla con una infinità di domande. La verità si era che i trionfi di quella sera l'inebbriavano, e ch'ella non aveva voglia di rinunciarvi così presto.
Inoltre, perchè non doveva avere anche ella la sua dignità, come Roberto, che ne discorreva a ogni piè sospinto? Che figura avrebbe fatto cedendo? Ma s'egli avesse avuto davvero l'intenzione di provocare il marchesino? Lucilla si sforzava di persuadersi che gli umori di Roberto sarebbero sbolliti naturalmente, che sarebbero stati lampi senza tuoni. E poi, chi può dire che nel suo cervellino leggero ella non si sentisse lusingata dall'idea di far nascere un duello per cagion sua? Già ella vedeva dalle cronache dei giornali che i duelli si risolvono in graffiature.
XIX.
Ad onta della stagione poco propizia, il ballo di casa Osnaldi continuava abbastanza animato. Lucilla era quasi sempre in movimento. Ne' suoi brevi riposi ella veniva a sedere vicino a sua madre, o alla signora Federica, o alla signora Elvira, seguita da un nugolo di ammiratori. La signora Federica non riusciva ad intendere il contegno di suo figlio, che stava ritto in fondo alla sala, addossato allo stipite di un uscio, vicino a tre o quattro uomini seri, con cui probabilmente discorreva della sua miniera. Ella lo aveva visto prima insieme a Lucilla, ma non sapeva ciò che i due giovani s'erano detto, e non aveva potuto chiederlo nè a lui, nè alla ragazza. Intanto ella pativa nel suo amor proprio di madre. Perchè Roberto si teneva in disparte? Perchè non ballava? È vero, egli non era mai stato un ballerino appassionato, nemmeno a' suoi tempi brillanti; ma chi non sa ballare una quadriglia o una polka? Perchè non aveva mai invitato Lucilla a fare un giro con lui? E se era geloso, perchè non suscitava alla sua volta la gelosia della fanciulla corteggiando qualche altra donna? Aveva dunque disimparato i primi rudimenti del viver sociale, egli che prometteva d'essere uno fra i giovani più vivaci, più eleganti, più graditi d'una città come Milano? Un anno in mezzo allo zolfo l'aveva ridotto a tal punto? E pensare che s'era incaponito di tornar laggiù, anzi di fissarvi stabile dimora, e di condurvi Lucilla, se ella avesse avuto l'ingenuità di andarci! La signora Federica non poteva a meno di osservare, in seguito a tutte queste riflessioni, come siano avventati i giudizi del mondo. Roberto era reputato generalmente un uomo d'ingegno; ella invece godeva d'una mediocrissima considerazione; eppure a lei non pareva dubbio di avere il cervello a segno assai più di suo figlio.
L'ingegnere Arconti continuava a discorrere di soggetti scientifici, senza mai perder di vista Lucilla. Ella se n'era accorta, ed evitava di rivolgere l'occhio dalla sua parte, ma sentiva ugualmente sopra di sè quello sguardo indagatore, e non sapeva sottrarsi a una vaga inquietudine. C'era qualche cosa di sforzato, di eccessivo nel suo brio, nella sua gajezza; parlava per istordirsi, non badando più che tanto a ciò che le veniva sul labbro. Però lo spirito d'una donna giovane e bellissima passa sempre per spirito di buona lega; l'editore fa accettar l'edizione.
Erano quasi le due dopo mezzanotte, e il momento critico si avvicinava, perchè gli Osnaldi non desideravano che la loro festicciuola durasse fino a un'ora troppo avanzata del mattino.
Non si tardò a dare il segnale del cotillon, e i giovinotti di maggiore iniziativa si affrettarono a disporre convenientemente le sedie intorno alla sala.
Il crocchio degli uomini seri, che discorrevano con Roberto, s'era sciolto appena la parola cotillon aveva risuonato nell'aria; il giovine ingegnere era invece rimasto immobile al suo posto insieme con un suo vecchio amico, di alcuni anni maggiore di lui, già ufficiale d'artiglieria e ora direttore tecnico in un'officina.
Però alla prima battuta della musica anche costui fu preso dalla voglia di andarsene pe' fatti suoi, e porse la mano all'Arconti per congedarsi.
—Se ti pregassi di restare?—disse Roberto.
—Perchè? Io non ballo e non ho voglia di stare alzato tutta la notte. Inoltre mi pare che la nostra conversazione muoja per mancanza di alimento. Tu sei occupatissimo a guardar laggiù.
—È vero. Potrei aver bisogno di te.
L'altro si fece serio.—Allora la cosa è diversa. Ma che c'è mai? Un duello in aria?
—Forse.
I cavalieri andavano alla ricerca delle loro dame: alcune coppie passeggiavano a braccetto su e giù per la sala. Il marchesino Moschi si avvicinò a Lucilla, che si alzò in piedi, consegnò a sua madre il ventaglio, e prese il braccio che le era offerto.
L'ingegnere Arconti divenne pallidissimo, si arricciò i baffi con un movimento convulso, e respingendo una sedia che gli impediva il passo, si diresse verso la parte onde venivano Fausto e Margherita.
Ma s'era mosso appena quando sentì dietro di sè una voce che chiamava—Signor Arconti, signor Arconti.
Era la signora Osnaldi in persona, la quale lo avvertiva esserci in vestibolo un fattorino del telegrafo che chiedeva di lui. Roberto dovette subito andar a vedere di che si trattasse. C'era infatti un telegrafista, che, non avendolo trovato a casa, gli portava presso gli Osnaldi un dispaccio.
Il nostro giovine ne ruppe la busta con viva curiosità, e corse tosto con l'occhio alla firma. Non c'era che un nome: Selmi.
Quel telegramma veniva da Valduria e diceva così:
Ammutinamento e sciopero di minatori. Tua presenza indispensabile. Scongiuroti affrettare ritorno.
Roberto rientrò nella sala da ballo. L'amico ch'egli aveva poc'anzi pregato di rimanere a sua disposizione era sulla soglia ad aspettarlo e lo interrogava con lo sguardo.
—Senti—gli disse l'Arconti—credi che ci voglia più coraggio a battersi in duello o ad affrontare una massa d'operai ammutinati?
—Ad affrontare gli operai, non c'è dubbio.
—E quale delle due imprese stimi più utile, più degna d'un uomo?
—E puoi chiederlo? La seconda…. Badiamo però…. La sfida non è ancora successa?
—No, vi rinuncio e parto per la mia miniera, ove mi chiamano per telegrafo. Qual'è la prima corsa per la via di Piacenza e Bologna?
—Ma…. quella delle 6.10, credo.
—Ebbene, prenderò quella.
A Lucilla non era sfuggito alcuno dei movimenti di Roberto. Allorchè l'aveva visto in atto di dirigersi dalla sua parte, tutta la sua baldanzosa spensieratezza non aveva potuto difenderla da un certo sgomento; ella aveva, suo malgrado, dovuto confessare a sè stessa che non era senza responsabilità in ciò che stava per accadere. Quando invece Roberto era uscito dalla sala, la giovinetta, ignorandone la ragione, s'era stretta nelle spalle e aveva detto in cor suo:—Lo sapevo ch'erano fuochi di paglia.—E nella tranquillità succeduta alla sua inquietudine entrava forse una piccola dose di dispetto.
Comunque sia, al ricomparire dell'Arconti, Lucilla, già in figura col suo cavaliere, provò per un istante le apprensioni di prima. Però, con sua immensa sorpresa e con una mortificazione pari allo stupore, Roberto questa volta si curò appena di lei. Cogliendo il momento propizio, egli traversò la sala, e andò difilato da sua madre, la quale s'era fatta un piccolo uditorio di signore mature, e le intratteneva col racconto delle sue passate grandezze.
Ella parve sbalordita di ciò che Roberto le sussurrò in un orecchio, e, dopo aver detto alle sue vicine:—Scusino, torno subito—si ritrasse con suo figlio in un angolo della sala.
—Ma è una pazzia—ella disse.—Partire questa mattina stessa, senz'aver nulla concluso….
—Non ho più nulla da concludere—rispose Roberto—e non posso mancare al mio dovere.
—Che dovere? La tua licenza finisce soltanto di qui a tre giorni.
—Non importa, hanno bisogno di me, e io non ho il diritto d'esitare un minuto.
Roberto guardò l'orologio e soggiunse:
—Sono le due passate. È meglio andar via subito, alla sordina, senz'accommiatarsi dai padroni di casa.
—No, no, è impossibile…. sarebbe una increanza…. E poi voglio prevenire la Giulia Dal Bono…. Dio mio. Dio mio, che uomo sei! Non puoi aspettare almeno fino a posdomani, fino a domani sera, fino a una corsa più tardi?
—Non lo posso, mamma. È meglio che tu non insista.
Roberto aveva un piglio così risoluto che la signora Federica s'era a poco a poco andata persuadendo ch'era inutile cozzar con lui.
Pur fece un ultimo tentativo.—E puoi lasciar Lucilla in questo modo? Senza una parola? Senza un saluto?
—Le scriverò una riga prima di partire—rispose il giovine.—È meglio ch'io non le parli. Ella è occupatissima…. Non disturbiamola.
Oramai la signora Federica avvertiva tutta la gravità della situazione. Il matrimonio sul quale ella fondava lo splendido edifizio delle sue speranze si rendeva sempre più improbabile; Roberto pareva deciso a condannar sè, a condannar lei a un'ignobile mediocrità.
—Mio figlio ebbe una chiamata per telegrafo dalla sua miniera, e vuol partire con la prima corsa per Piacenza—ella disse alla signora Osnaldi, scusandosi di lasciar la festa. Indi, facendo segno alla Giulia Dal Bono di avvicinarsi, la ragguagliò in due parole dell'accaduto, e le soggiunse a bassa voce:—Se tu potessi trattenerlo….
Ma la flemmatica signora Giulia non era donna da esercitare un'influenza su Roberto Arconti.
—La ringrazio, signora Giulia, della bontà ch'ella ha sempre avuto per me—le rispose Roberto, stringendole affettuosamente la mano.—La ringrazio dei piani che aveva concepiti e favoriti per l'avvenire mio e d'una persona a lei carissima. Se quei piani non son destinati a compiersi, io le conserverò sempre la mia gratitudine…. Sia felice e possa veder felice sua figlia.
Questo dialogo aveva luogo nella stanza ove gli invitati avevano deposto la loro roba, mentre la signora Federica, ajutata da un cameriere, si metteva la mantiglia e il cappuccio.
Intanto Lucilla, che aveva visto allontanarsi sua madre insieme alla signora Federica e a Roberto, fu punta da una grande curiosità, e approfittando di quella indipendenza di movimenti che è consentita dal cotillon, si affacciò all'uscio che dalla sala metteva alla guardaroba.
Quando la signora Giulia si accorse della sua presenza, ella lasciò Roberto e si avvicinò a lei.
—Che cosa c'è?—chiese Lucilla.
—Roberto fu richiamato per telegrafo a Valduria e parte tra poche ore—rispose la signora Giulia.
—Parte?—esclamò la giovinetta colpita da questa notizia.
L'Arconti vide che non era più possibile esimersi da una spiegazione, e domandò licenza alla signora Dal Bono di dire una parola a sua figlia.
—Non ti trattengo che due minuti—egli cominciò appena ebbe condotta Lucilla in disparte.—Potrai tornar subito al tuo cotillon. Ho dimesso l'idea di provocare il tuo stupido marchesino. C'è qualche cosa di meglio da fare a questo mondo, e me n'è capitata in buon punto l'occasione.
Ella lo guardava con aria un po' scettica.
—Leggi—e' gli disse, estraendo di tasca il telegramma. E soggiunse, mentr'ella ne scorreva con l'occhio le poche frasi.—Il pericolo che affronto è maggiore di quello che fuggo. Qui non avrei davanti a me che un floscio bellimbusto, laggiù mi troverò faccia a faccia con uomini avvezzi a sfidare ogni giorno la morte…. E, vedi, ringrazio il destino che mi ha fatto giunger questo dispaccio in tempo. S'esso arrivava un momento più tardi, sarei adesso impicciato in una cosidetta questione d'onore, perchè quando la signora Osnaldi mi avvertì che un fattorino del telegrafo chiedeva di me, io ero in procinto di venir a dire una grossa impertinenza al tuo bel cavaliere. È meglio, è mille volte meglio così.
Lucilla cercò di nascondere il suo turbamento sotto un'affettata ironia.
—Ci sarà anche da difendere una donna in quella famosa Valduria. La signorina che studia il francese…. Maria, se non isbaglio.
—Maria—replicò l'Arconti—è una ragazza seria, esercitata sin dall'infanzia alla rigida disciplina del dovere. Non è bella, è appena mezzanamente istruita, ma ha il sentimento di tutto ciò che è nobile e generoso, e l'uomo che ella amasse sarebbe degno d'invidia…. Io non l'amo, io non devo esser nulla per lei; ella non ignora per altro che può contar su me ogni volta che la minacci un pericolo.
La vispa e petulante Lucilla s'era ammutolita.
Roberto le ritolse di mano il dispaccio; poi riprese con voce commossa.—Addio, Lucilla, io non so se tu meriti più di essere amata, ma so che il cuore non muta in un giorno, che in un giorno non si scancella tutto il passato. Verrà un tempo forse in cui la tua immagine non empirà più la mia mente; oggi io non posso fingere un'indifferenza che non ho. Sento che ti amo ancora, sento che sarei ancora il più felice degli uomini se tu volessi dividere con me le aspre battaglie della vita. Ma ora te lo dico più fermamente che mai; non ti farei mia ad altro patto. Addio, Lucilla, torna nella sala dove ti aspettano. Domani, quando i fumi della festa si saranno dissipati, il tuo pensiero si volgerà al compagno della tua infanzia…. Tu sai dove puoi fargli giungere una tua parola…. Addio, addio.
Sentendosi soverchiare dalla commozione, Roberto afferrò il braccio di sua madre e uscì con lei nel vestibolo prima che Lucilla potesse rispondergli.
Intanto nella sala da ballo il direttore del cotillon, col piglio risoluto d'un generale che riordina sul campo di battaglia il suo esercito côlto dal panico, gridava a piena gola— A vos dames et à vos places. Grande ronde.
Lucilla approfittò della momentanea confusione per riprendere il suo posto. Ma aveva perduto la sua ilarità, nè le svenevolezze del marchesino Moschi valevano a ridonargliela.
Mentre si compiva tristamente per lei una festa principiata sotto auspici così brillanti, Roberto doveva rinunziare all'impresa di calmare gli spiriti esacerbati di sua madre. Poichè tutti i suoi argomenti non riuscivano che a convincerla sempre più della dissennatezza e della perversità del figliuolo, egli s'era rassegnato a lasciar libero corso alle sue querimonie e a terminare in silenzio i preparativi per la partenza.
—Vedi—gli disse la signora Federica nel momento in cui egli s'accommiatava—io non ti guarderei nemmeno in viso se non avessi la sicurezza che, appena giunto in quella tua maledetta Valduria, mi scriverai una lettera di scusa e mi supplicherai di riannodar le pratiche coi Dal Bono.
Roberto non volle toglierle questa illusione.
XX.
Riconduciamoci adesso col pensiero a Valduria, nel giorno in cui Roberto ne era partito insieme a M.^r Black per recarsi a Milano. Maria, la quale, come sappiamo, aveva accompagnato fino alla carrozza i due viaggiatori, nel tornare a casa trovò un contadino tutto trafelato che veniva a chiamarla per parte di Gertrude Regoli. La vecchia, inferma da un pezzo, s'era aggravata improvvisamente nella notte ed era ormai in fin di vita.
Solita a correr senz'indugio dove c'era bisogno di lei, Maria non si fece attendere nemmeno questa volta. Allorchè ella giunse, Gertrude aveva già perduta la parola. Ma negli occhi le si leggeva ancora la piena coscienza di sè, e alla vista di Maria quegli occhi brillarono d'una luce più viva. Ella accennò alla ragazza d'avvicinarsi. Maria s'inginocchiò fra Cipriano, che stava ritto al capezzale in atteggiamento di cupo dolore, e il curato che sedeva a piedi del letto, recitando le orazioni degli agonizzanti.
Gertrude fece un altro segno a Cipriano, che pendeva da ogni suo movimento. Il giovine la sollevò a sedere e con infinita cura le acconciò il guanciale sotto la testa. Quindi cadde egli pure in ginocchio accanto al letto. La moribonda con uno sforzo supremo alzò ambe le braccia e impose le mani sul capo dei due giovani, come accomunandoli in un'ultima benedizione. Le sue pupille dilatate si fissarono prima sul volto fieramente contratto di Cipriano, poi sulla faccia pallida e mesta della dolce Maria, e parvero voler esprimere un voto, una preghiera che il labbro non era più capace d'articolare. Un tremito convulso le agitò tutta la persona, un gemito lungo le uscì dal petto, e la sua testa canuta si piegò sulle spalle del rude minatore, che la stringeva fra le braccia chiamando—Mamma, mamma!
—È morta!—disse il prete avvicinandosi.
Cipriano mise un ruggito—Non è vero!—
E seguitava a chiamare—Mamma, mamma!
—Coraggio, Cipriano!—susurrò Maria con accento pieno di soavità.
Al suono della nota voce, le guancie illividite del giovine si tinsero d'un lieve rossore; un'espressione più calma si diffuse sulla sua fisonomia. Egli si lasciò persuadere a deporre sul capezzale il peso inerte che gli si era abbandonato sull'ómero; e mentre Maria con atto pietoso chiudeva gli occhi dell'estinta, egli, ritto ed immobile, con le braccia ciondoloni, con le mani intrecciate, ricorreva nel pensiero i giorni della sua infanzia, quando sua madre lavorava con indomita energia per fargli men dura la vita; e, aspra con gli altri e con sè, prodigava solo per lui tesori d'affetto e di tenerezza. Anch'egli per molto tempo aveva amato lei sola; poscia insieme a lei, un'altra persona. E il suo avvenire dipendeva tutto da quella persona. Ella poteva farlo felice o sventurato senza fine, poteva farlo buono o malvagio. Ma bench'ella gli fosse vicina, in quell'ora, in quella stanza, bench'ella si associasse al suo lutto, come sua madre l'aveva associata a lui nella sua benedizione suprema, egli se ne sentiva più lontano che mai; il suo bel sogno gli pareva più che mai destinato a rimanere un sogno. Nè sapeva rassegnarvisi, e il suo sangue ribolliva, e le sue vene si gonfiavano all'idea che un altr'uomo potesse essere amato da Maria.
—Coraggio!—ripetè la fanciulla nel prender commiato.
Egli le afferrò con forza la mano e la portò alle labbra ardenti.
Maria uscì di là con una profonda tristezza nell'anima. S'era affezionata alla vecchia Gertrude, che l'aveva assistita un pajo d'anni addietro nella sua malattia e che la trattava sempre quasi come una figliuola. Però, assai più che l'estinta, le faceva compassione Cipriano, pel quale ella teneva in serbo un così gran dolore. Poichè non le era dato ignorare ch'egli l'amava, che voleva farla sua sposa, ella invece era decisa di non appartenergli mai, nè vedeva senza sgomento approssimarsi l'istante in cui le sarebbe convenuto dissipar le ultime illusioni del giovine. Talora ella ricordava il passato, e chiedeva a sè medesima se ella avesse sempre pensato ad un modo, se il suo contegno non fosse mai stato tale da alimentare le speranze di Cipriano. Le pareva di no; tuttavia non poteva dissimularsi che un cambiamento era successo in lei, che la sua risoluzione di restar fanciulla era adesso più salda, più irremovibile d'un tempo. Sì, di restar fanciulla; il secreto del suo cuore non aveva preso ancora altra forma.
Nel pomeriggio del dì seguente ebbe luogo il funerale di Gertrude. La vecchia non era amata in paese. I suoi modi acri, la sua incapacità a veder altro di bello al mondo fuor che suo figlio, le avevano alienato gli animi. Così, pochi accompagnarono il suo feretro al camposanto.
Tra i pochi c'era Maria, che quando la bara fu calata nella fossa e coperta di terra, sparse sul tumulo alcuni fiori, poi s'avviò a casa meditabonda e soletta. Non aveva fornito ancora metà del cammino quando si sentì chiamare per nome.
Era Cipriano, che aveva seguito di lontano i suoi passi e ora la raggiungeva per una scorciatoia.
Ella non avrebbe voluto incontrarlo in quel momento; pur gli tese la destra in atto amichevole, e gli domandò con dolcezza:—Come state, Cipriano?
Il giovine le si pose a fianco. Era pallido, più negletto del solito nel vestire; aveva la barba e i capelli rabbuffati.
—Grazie di quello che ha fatto per la mia povera mamma—egli disse.—Oh, la mamma le voleva tanto bene!
—Lo so, Cipriano….
—Le ultime parole ch'ella potè pronunziare jeri mattina furono queste: E Maria non verrà?
—Io sono accorsa appena fui avvertita….
—Oh sì, ma pur troppo mia madre aveva ormai perduto la favella…. Però la sua mente era limpida, e le leggevo negli occhi tutti i pensieri…. E quand'ella ci benedisse entrambi, lo ha compreso, Maria, ciò ch'ella voleva dire?
Maria sentì ove mirava il discorso di Cipriano, e chiamò a raccolta tutta la sua energia.
—Voleva dire—ella rispose chinandosi sul margine della strada a raccogliere un fiorellino di campo— Siate sempre buoni amici. E lo saremo, non è vero, Cipriano?
—No, no, non voleva dir questo solo—soggiunse il minatore con enfasi.—Voleva dire più che buoni amici …
—Cipriano, ve ne prego, smettete…. Parliamo di vostra madre, che fu sepolta pochi minuti or sono….
—È giusto, signora Maria, questo non sarebbe il momento, ma ho il cuore che mi trabocca…. Son due anni, sa, son due anni che combatto, che peno, che non ho il coraggio di aprirle tutto l'animo mio…. Oh ma non è un segreto per lei, ella non può dirmi che sia un segreto.
Maria tacque. Ella non voleva mentire.
—Ad ogni modo—proseguì Cipriano—nell'immensità del mio dolore trovo oggi la forza che non ho trovato mai…. L'amo, Maria, l'amo come un pazzo….
La fanciulla voleva interromperlo; egli continuò:—E non mi son dissimulato gli ostacoli. Mi son detto tante volte: Cosa sei tu di fronte a Maria? Ella è una signorina, e tu sei un rozzo operajo; ella è un angelo di bontà e tu sei cattivo…. Oh, sì, la natura mi ha dato istinti perversi; sento che ho la capacità di fare il male…. sento che guai a me se si scatena il demonio che tengo chiuso qui dentro…. Vede, io non mi faccio la corte…. ipocrita, no, non lo sono…. Insomma mi son detto, mi son ripetuto che non avevo il diritto d'amarla, e l'ho amata lo stesso…. E quando mi sono accorto che non potevo fare altrimenti, ho cambiato tattica; mi son prefisso di rendermi degno di lei…. Ho studiato quel poco che potevo studiare, ho messo in opera tutta la mia forza di volontà per sollevarmi dalla mia posizione subalterna, e ci son riuscito, e non son più il meschino minatore d'una volta, e ho anch'io un avvenire, e quantunque non esca dall'Università, dai Politecnici, posso sperare anch'io d'essere un giorno a capo di una miniera come tanti altri. Ma non è la sola cosa che abbia fatto. Ho represso i miei impeti, le mie collere, i miei odî, ho cercato di domare il mio carattere…. tutto per lei, per lei sola…. Oh s'ella mi manca, Maria, l'uomo di prima ritorna….
—Non lo dite, Cipriano. Noi non dobbiamo far dipender da un'altra persona le nostre virtù e i nostri vizi.
—Avrà ragione, ella ha sempre ragione…. ma io non diventerei virtuoso per amore della virtù, lo diventerei per amor suo…. Maria, mi dica una parola, mi dia una speranza…. o, piuttosto, no…. se non ha vinto le sue incertezze, si prenda tempo a rispondermi…. Aspetterò…. Ho aspettato tanto.
Maria comprese che al punto in cui eran le cose bisognava rimover per sempre ogni equivoco. Sentiva ch'era in procinto di fare un gran male a Cipriano, ella che, in vita sua, non aveva fatto male a nessuno, e gliene doleva nell'anima, ma non c'era rimedio. No, il sacrificio del suo cuore nessuno aveva il diritto di chiederglielo. Alzò verso Cipriano i suoi occhi dolci e profondi, e con un tremito nella voce cominciò:—Cipriano, lo sa Iddio, lo sa vostra madre che adesso forse vede i pensieri miei più riposti, se il cuore mi si spezzi all'idea d'amareggiarvi di più in questo giorno…. Io non lo volevo….
—L'ho voluto io, l'ho voluto io. Parli—esclamò Cipriano la cui fisonomia s'era penosamente contratta a quest'esordio di cattivo augurio.
—Ebbene—ripigliò Maria—non domandatemi più di quello che posso darvi. Siate ragionevole; io vi stimo, io ho per voi tutto l'affetto d'una buona amica….
—Ma non mi ama, ma non mi ha amato mai—interruppe il giovine con impeto—ecco la conclusione.
—Come intendete voi, no, non vi ho amato.
In viso a Cipriano era evidente lo sforzo ch'egli faceva per non prorompere.
—Eppur no, non è vero, non fu sempre così—egli disse.
—Spiegatevi…. Non vi capisco.
—Perchè accettava i miei fiori? Perchè se ne adornava i capelli? Perchè? Perchè? Era meglio che li calpestasse allora come calpesta adesso tutte le mie speranze.
—Ebbene—rispose Maria—se la paura di recarvi offesa con un rifiuto, se la simpatia che realmente avevo per voi mi fece commettere una leggerezza, io ve ne chiedo perdono…. Sarei tanto lieta di poter espiare la mia colpa…. E lo potrei se lo voleste… Lasciatemi essere la vostra confidente, la vostra amica…. O Cipriano, che minaccia c'è nei vostri sguardi?
—C'è…. c'è questo…. Qualcheduno s'è posto fra lei e me, qualcheduno è venuto dal di fuori a impedirle d'amarmi…. Oh, è un pezzo che lo so….
—Le vostre parole non hanno senso—disse la fanciulla.—La persona a cui alludete è oggi presso la sua fidanzata.
—Che importa? Quell'uomo amerà forse un'altra donna, ma egli mi ha tolto il suo cuore, Maria, ed io l'odio.
—Vergognatevi, Cipriano. Parlar d'odio in un giorno come questo!
—Oh, anche mia madre odiava colui …. E mia madre aveva l'istinto sicuro…. Se gli facessi del male, ella ne esulterebbe sotterra.
—Voi bestemmiate….
—Lasci pur ch'io bestemmi, poichè non m'ama…. Chi si cura più di me?… Mia madre è morta…. ed ella, Maria, è la sua ultima parola quella che ha detto?
—Calmatevi, Cipriano….
—No, no, è la sua ultima parola? Non vuol esser mia moglie?
—Vostra moglie, no—disse Maria con accento risoluto.
I suoi occhi s'incontrarono con quelli di Cipriano che mandavano lampi sinistri. Egli voltò la testa quasi temendo l'influenza pacificatrice di quello sguardo dolce a un tempo e sicuro, di quello sguardo che pareva ansioso di medicare le ferite recate dal labbro. Ella non lo amava, ed egli non voleva ad altro patto sacrificarle la ferocia ingenita del suo carattere.
—Addio—egli balbettò con voce soffocata dalla collera.—Qualcheduno dovrà pentirsi….
—Quanto vi compiango, Cipriano!
—Oh! Il compianto!…
—Sì, vi compiango, perchè capisco che avevate ragione… Non siete buono.
—Ella poteva farmi buono e non ha voluto… Ma basta… A lei non torcerò mai un capello… Non abbia paura….
—Paura?—esclamò Maria con alterezza.—Non ne ho mai avuta.
—Tutta la soavità della donna e tutto il vigore dell'uomo—pensò Cipriano.—E non deve esser mia?
Le si riavvicinò come se volesse riattaccare il discorso, ma ella, allungando il passo e prendendo una scorciatoja, gli disse—Addio—e gli fece segno di non seguirla.
Egli non ebbe il coraggio di disubbidire, e si diresse da un'altra parte.
XXI.
Tutta la forza d'animo di Maria non bastò a farle dissimulare il turbamento prodotto in lei da questa scena. Nel vedersela comparir davanti pallida e stravolta, Odoardo comprese che doveva esserle accaduto qualche cosa di grave e la incalzò di domande. Ella voleva schermirsi, attribuendo la sua commozione all'aver assistito ai funerali di Gertrude, ma non potè trarre in inganno il fratello, avvezzo a trovarla calma e serena anche in mezzo alle cure più fastidiose. Messa alle strette, narrò del suo colloquio con Cipriano, smorzandone le tinte quanto più le fosse possibile e supplicando Odoardo a non darsene pensiero. Ormai tutto doveva ritenersi finito.
Il Selmi però non era di questo parere, e si pentiva anzi della sua passata indulgenza.
—Sono una bestia—egli disse.—Mi ero accorto da un pezzo delle intenzioni di colui, e avrei dovuto immischiarmene. In casi ordinari forse il meglio era affidarmi al tuo buon criterio. Tu hai più giudizio di me e sai regolarti senza bisogno de' miei consigli….. Io non potrei che accogliere a braccia aperte l'uomo a cui tu dessi la preferenza, e non direi parola a favore di quello che tu respingessi… Ma nel caso presente, col carattere violento di Cipriano, dovevo impedire che le cose arrivassero a questo punto.
Maria, addoloratissima delle confidenze che si era lasciata sfuggire, fece quant'era in lei per indurre Odoardo a conservar la neutralità, ma egli non volle prometterle cosa alcuna. E infatti, quella sera stessa, intimò molto recisamente a Cipriano di non turbar più la pace di sua sorella. Contro l'aspettazione di Odoardo, il fiero giovine non accolse le sue parole nè con uno scoppio di collera, nè con un silenzio minaccioso. Per un istante egli riuscì a domare la sua fierezza, il suo orgoglio, e le sue labbra si piegarono alla preghiera.—Non lo si respingesse così…. Amava tanto Maria che l'avrebbe fatta felice. Per lei sola si sarebbe corretto dei suoi difetti, ella sola poteva essere il suo angiolo salvatore. Lo si mettesse alla prova, un anno, due anni, quanto tempo si voleva…. Egli avrebbe taciuto, avrebbe seppellito dentro di sè il suo segreto…. Ma non gli si togliesse ogni speranza.
Odoardo gli parlò con molta benevolenza; gli disse che apprezzava le sue eccellenti qualità, che non considerava certo una colpa in lui il suo amore per Maria, ma poichè questo amore non poteva condurre a nessun risultato, era assolutamente necessario di soffocarlo.
Le lagrime che inumidivano gli occhi di Cipriano si rasciugarono, la sua fisonomia prese una espressione cupa e dura; egli si morse il labbro inferiore, e si ritirò senza soggiunger nulla.
Per qualche giorno non si avvertì in lui alcun mutamento che il dolore della madre perduta non bastasse a giustificare. Ma egli era in preda a una fiera tempesta. Tutte le malvagie passioni che un affetto nobile e puro aveva sopite nella sua anima si svegliavano più violente e imperiose, come ridomandando il posto ch'era stato loro conteso. Esse gli dicevano con amaro sarcasmo: Che ti valse disciplinar la tua tempra indomita, aprire il tuo cuore agli affetti gentili, armarti di pazienza e di mansuetudine? Quello che varrebbe alla vipera lo spogliarsi del suo veleno. Cessando d'esser temuta, non sarebbe amata. La natura t'aveva dato le qualità onde l'uomo divien formidabile; torna come la natura ti fece. Se non puoi aver le voluttà dell'amore, procurati quelle dell'odio; se non puoi esser tra i felici del mondo, vendicati di loro, fa soffrire quelli che ti fanno soffrire.
Queste voci gli suonavano insistenti all'orecchio nelle profondità della miniera, nelle passeggiate solitarie fra i monti, nel deserto della sua casa, ove nessuno domandava più le sue cure e gli prodigava le proprie, ove nessuna mano gli si posava più sulla fronte, ove nessun saluto amichevole lo accoglieva all'arrivo e lo accompagnava alla partenza.
Pure egli si forzava di resistere ai perfidi impulsi che lo spingevano al male. Chi ha visto zampillare la sorgente cristallina torna riluttante a dissetarsi all'acqua limacciosa, chi porta negli occhi i riflessi d'un cielo azzurro stenta ad avvezzarsi alle tenebre.
E anch'egli aveva, come in un sogno, pregustato le gioie sane della vita. Anch'egli, nella sua fantasia, aveva evocato l'immagine geniale di una cameretta modesta che una donna semplice e vereconda riempiva con le grazie ineffabili del suo sorriso. Da lei egli attingeva il coraggio nell'ore dello sconforto, sul suo seno egli trovava il riposo nell'ore della stanchezza, al suo sguardo limpido e soave egli chiedeva il segreto dell'indulgenza e della bontà.
Questa visione fuggente aveva lasciato dietro a sè come un solco di luce che illuminava l'abisso in cui egli era sul punto di precipitarsi seguendo le suggestioni dell'odio e della vendetta. Se avesse potuto resistervi! Se avesse potuto soffrir con calma serena le ingiustizie della fortuna e degli uomini! Se con la condotta laboriosa, paziente, tranquilla, avesse potuto vincere l'inesorabile fanciulla che lo respingeva da sè!
No, no; eran vane illusioni; erano esitanze codarde. Qualcheduno dovrà pentirsi—egli aveva detto a Maria, e la sua minaccia si sarebbe compiuta. Come? Su chi? Non lo sapeva ancora; sentiva soltanto un prepotente bisogno di nuocere.
E cercava di persuadersi delle mille ragioni che aveva per abborrire il Selmi, per abborrire l'Arconti, per agognar la rovina della miniera. Non lo si era stimato mai al suo vero valore; per più anni egli era rimasto confuso nella folla degli operai; se l'ingegnere Arconti l'aveva distinto dagli altri, era stato per servirsi di lui; se la Società gli aveva reso una tarda giustizia, essa non aveva fatto in suo pro la metà di quello che egli meritava. Lo si condannava sempre ad essere un esecutore degli ordini altrui, ed egli non ammetteva la superiorità intellettuale dei suoi capi. Non teneva in nessun conto il Selmi e non si reputava da meno dell'Arconti, quantunque l'ingegno e la dottrina di quest'ultimo lo avessero colpito in passato. Ma egli aveva particolari ragioni per detestarlo; era lui, era lui sicuramente che gli rapiva il cuor di Maria; era su lui più che su tutti ch'egli doveva sfogare il suo livore. Gli avrebbe aizzato contro il personale della miniera, avrebbe intralciato la riuscita de' suoi lavori, avrebbe fatto il possibile per distruggere la sua riputazione.
Non mancavano a Valduria gli elementi torbidi. Odoardo Selmi aveva fin dal principio additato a Roberto alcuni minatori su cui pesava un delitto di sangue. Erano nature fiere, iraconde, uomini pronti a metter mano al coltello, spregiatori della vita altrui e della propria.—Sono belve addomesticate—diceva Odoardo.—Quando meno si crede, possono digrignare i denti e spiegare gli artigli.—E all'amico che gli domandava se fosse davvero indispensabile di tener nella miniera gente siffatta, egli rispondeva che, in fin dei conti, ormai avevano espiato la loro condanna, che non era giusto metterli al bando della società, che, respinti da tutti, avrebbero finito coi gettarsi alla campagna, mentre invece, posti a lavorare e assicurati d'un pane, potevano forse correggersi. L'essenziale era di mostrar sempre che non si aveva paura di loro.
Invero essi non avevano dato nemmeno a Roberto argomento a serie lagnanze. Avevano preso a rispettarlo subito, e poichè egli era fermo senza esser aspro, lo vedevano di buon occhio.
Cipriano non s'era mai sentito attratto verso costoro. Non vedeva in essi che l'energia brutale, ed egli apprezzava soltanto la forza congiunta all'intelligenza. Nè finchè aveva potuto sperar di conseguire i suoi scopi per le vie regolari, s'era curato di farsene dei docili stromenti. Essi sarebbero stati i primi sui quali egli avrebbe aggravato la sua mano, sui quali avrebbe sfogato la sua libidine di dominio. E neppur essi lo amavano. Per loro, come del resto per tutti gli operai della miniera, egli aveva il gran torto di essersi fatto strada da sè. Uscito dalle file degl'infimi, si era creato a poco a poco, dicevano, una posizione brillante, e l'alterigia gli era cresciuta con lo stipendio. Dalle riforme introdotte a Valduria essi non avevano tratto il menomo vantaggio; egli sì; avevano lavorato, avevano faticato per lui. Così pei livellatori era anche lui un'altezza da spianare, era un naturale nemico.
Ad onta di ciò, allorchè Cipriano fu invaso dal demone della vendetta, egli comprese che doveva rimestare in questi bassi fondi. Uscì dal suo riserbo sdegnoso, e con la scusa che dopo la morte della madre la casa gli era divenuta intollerabile, si cacciò nei crocchi più turbolenti, tentando di scandagliare gli animi. Accolto sulle prime con diffidenza, potè notar tuttavia che il momento era abbastanza propizio per suscitare un'agitazione. Che importava agli operai che la miniera fosse serbata a grandi destini se la retribuzione del loro lavoro rimaneva la stessa? La Direzione aveva pensato ai capi, ma in quanto a loro, s'era limitata a dir belle parole, a far vaghe promesse per l'avvenire. C'erano bensì le sue brave prediche, i soliti eccitamenti al risparmio, a inscriversi alla Società di mutuo soccorso, tutti consigli ipocriti e interessati per metter meglio i piedi sul collo ai poveri proletari.
Le idee e le frasi del socialismo, come si vede, principiavano a infiltrarsi a Valduria, fra quella gente rozza, inquieta, settaria per indole e per tradizioni. Lo spirito positivo di Cipriano non si era mai lasciato abbagliare da dottrine fantastiche, e in massima le disuguaglianze del mondo non gli spiacevano, pur di poter essere fra coloro che stavano in alto. E adesso ci stava infatti, sebbene non ci stesse in proporzione al concetto smisurato che aveva di sè medesimo. Comunque sia, se Cipriano soffiava nel fuoco, non era già perchè si fosse convertito al verbo socialista, ma perchè voleva servirsi di quella materia infiammabile. La passione gli aveva posto una benda agli occhi. Non vedeva che mediante la rovina altrui consumava la propria. O piuttosto lo vedeva, e si gettava spontaneamente nel baratro. Il danno ch'egli sperava di fare lo compensava di quello ch'egli temeva di subire.
—Tu sei fra i gaudenti—gli dicevano.—Parli contro il tuo interesse e non puoi essere in buona fede. Avrai i tuoi secondi fini.
Egli si sbracciava a dimostrare che non era vero; che un salario eguale al suo avrebbero potuto averlo tutti gli altri minatori, quando si fosse risparmiato il danaro che si gettava in tante cose inutili, e quando gli azionisti si fossero contentati di men lauti dividendi. C'erano due direttori de' quali ormai si poteva fare a meno….
—Senza l'ingegnere Arconti però la miniera sarebbe forse liquidata—osservava qualcheduno.
Nè Cipriano lo negava; soltanto sosteneva che adesso non c'era più bisogno di lui, nè di Selmi.
—Vorresti essere il direttore tu;—mormoravano i più maligni.
—No, no—gridavano altri—nessun direttore fisso. I soprastanti, uno dopo l'altro, per turno….
—Che diamine?—urlavano i radicali.—I soprastanti soli? Bel gusto aver tanti padroni! Tutti devono poter dirigere, uno per settimana.
—E la miniera dev'esser nostra—soggiungevano ingrossando ancora più la voce gli arrabbiati della montagna.—Siamo noi che ci rischiamo la nostra pelle, siamo noi che ci mettiamo le nostre fatiche. Perchè il frutto del nostro sudore e del nostro sangue deve impinguare quei signori di Londra, i quali non hanno da fare altro che raccogliersi una volta per settimana in un salotto ben riscaldato a dir quattro chiacchiere?….
—E le ore di lavoro devono essere diminuite—interrompeva uno che badava ai risultati positivi e palpabili.
—E la misura del compenso aumentata—diceva un altro.
—Non ci devono esser più nè salari fissi, nè compensi a cottimo.
—Come?
—Naturalmente…. Ci saranno i dividendi.
—Ma se non ci sono?
—Devono esserci…. I capitalisti si son tutti arricchiti coi dividendi. Vuol dir che i dividendi ci sono.
Cipriano s'impensieriva di questo crescendo di bestialità, e prevedeva quanto gli sarebbe stato difficile di dominar l'incendio ch'egli voleva far divampare. Egli cercava nondimeno di calmare gli spiriti. Non era possibile, ripeteva, di ottener tutto in una volta. A mettersi in lotta aperta con la Direzione, si rischiava di tornarsene indietro malconci. Bisognava proceder con cautela e veder intanto di ottenere un aumento nella misura dei compensi. Quanto meglio l'operajo è pagato, tanto meno esso è alla mercede de' suoi padroni, tanto più è in grado di far economie e di dettar legge in avvenire.
Questo suggerimento pareva più pratico degli altri e raccoglieva perciò i maggiori suffragi. Cipriano diceva che a lui non ispettava alcuna iniziativa verso l'ingegnere, che la sua interposizione poteva anzi compromettere il buon successo; che a ogni modo, se fosse stato chiamato a dir la sua opinione, avrebbe appoggiato senza dubbio i suoi compagni. Ove poi non si riuscisse a nulla, egli discuterebbe volentieri con loro i provvedimenti da prendersi.
—Ci lascia in ballo—borbottavano alcuni.
—Vuol stare al coperto.
—Non bisogna fidarsene.
Però il seme gettato fruttava, e l'idea di domandare un aumento di paghe si faceva strada non solo tra gli operai riottosi, ma anche tra i buoni. A loro pure sembrava che la venuta dell'ispettore della Direzione non avrebbe dovuto esser utile soltanto ai capi. Non pensavano che pochi mesi addietro s'era discorso sul serio di sospendere o almeno di ridur considerevolmente i lavori, e quindi il numero delle braccia occupate nella miniera; pensavano soltanto alla disillusione presente. È proprio del cuore umano il dimenticare i mali evitati per ricordarsi soltanto dei beni che non si sono potuti conseguire. I migliori avrebbero voluto attendere il ritorno dell'ingegnere Arconti, ch'era un uomo equo e avrebbe sostenuto validamente la loro causa. Ma le impazienze dei pochi soverchiavano la calma dei molti; anche in questa occasione, come in tante altre, i meno tiravano i più.
Cipriano aveva tutto l'interesse a far sì che la cosa venisse a maturità prima dell'arrivo dell'Arconti, di cui egli sapeva l'influenza sull'animo degli operai. Perciò tenendosi apparentemente in disparte, faceva del suo meglio per organizzare al più presto un movimento ch'egli sperava dovesse rispondere alle sue mire, quale pure ne fosse il risultato. Poichè, o si faceva ragione ai reclami dei minatori, e il suo potere sopra di essi ne sarebbe cresciuto; o le loro domande erano respinte, ed egli avrebbe tratto partito dal malcontento inevitabile che ne sarebbe stato l'effetto.
XXII.
Quella naturale indolenza di spirito che, come sappiamo, faceva riscontro in Odoardo Selmi alla vigoria delle membra e al coraggio nei momenti del pericolo, gl'impedì di sorprendere le machinazioni dei minatori. Non gli sfuggì forse la premura che alcuni d'essi mettevano ad evitarlo, nè gli passarono inosservati i capannelli che si scioglievano al suo avvicinarsi; pure non vi diede importanza. Solo un giorno chiese ridendo ad uno dei lavoranti, che aveva visto più accalorato in un crocchio, se c'era in aria una congiura; ma l'altro ebbe pronta una spiegazione qualunque, e Odoardo non approfondì le sue indagini. Continuava la solita vita; in miniera quel tanto che occorreva, poi a casa davanti al suo fiasco di vino e con la sua pipa in bocca, oppure nella valle dietro a qualche amorazzo.
Invece Maria era piena di ansietà. Non avrebbe voluto pensar male di Cipriano, pure il cuore le diceva che le minacce di lui non erano ciance vane. Spesso domandava timidamente a suo fratello—Cipriano l'hai visto?
—Sicuro che l'ho visto.
—E com'era d'umore?
—Non ci ho badato. Che t'importa? Si direbbe ch'egli ti preme molto, e che sei pentita di non averlo accettato in isposo.
Ella non soggiungeva nulla, ripugnandole il destar sospetti a carico d'una persona già troppo infelice per cagion sua; pur non era tranquilla, e si turbava sopratutto pensando a ciò che poteva accadere al ritorno dell'ingegnere Arconti, così ferocemente odiato da Cipriano. Questo ritorno, da una parte, ella lo avrebbe desiderato con tutte le forze dell'animo; Roberto era una compagnia, una difesa, la casa era tanto vuota senza di lui! Ma se poi lo aspettava un pericolo, se Valduria doveva essergli fatale, s'egli doveva espiare il delitto d'averle ispirato una simpatia di cui forse non s'era nemmeno accorto, alla quale in ogni modo non avrebbe conceduto altro ricambio che una sterile compassione? Del resto, che fare? Dirgli che ritardasse la sua venuta? Dirgli che facesse ciò che non avrebbe fatto sicuramente, ciò che Maria non avrebbe voluto vedergli fare, una viltà?
La ragazza non osava confidar le sue angustie al fratello. Egli avrebbe indovinato il suo segreto, ed ella non voleva scoprirlo a nessuno.
Mentr'era in queste incertezze, la bomba scoppiò.
Una mattina Odoardo tornò dalla sua prima visita alla miniera con aspetto sì frastornato che sua sorella, tutta sgomenta, gliene chiese la cagione. Egli le raccontò subito come una deputazione d'operai gli avesse presentato con gran solennità un memorandum, nel quale si chiedeva in primo luogo un aumento nella misura delle retribuzioni, poi la soppressione di alcune discipline di non lieve importanza.
—La faccenda non è liscia—soggiunse il Selmi.—C'è qualche mestatore. Ma se credono di farmi paura, la sbagliano.
—Povera gente!—interpose Maria, che aveva l'animo inclinato alla pietà.—Se vogliono migliorar la loro condizione, bisogna scusarli…. Non ci sarebbe modo di secondare i loro desideri, almeno in parte?
—Ecco le donne!—esclamò Odoardo infastidito.—Anche le più intelligenti, di certe cose non ne capiscono nulla. Gli operai di Valduria sono i meglio pagati di tutta la regione, e per uno di loro che se ne vada, ne capitan cento ad offrirsi.
—Ed hai già risposto di no?
—Per quello che riguarda il regolamento, ho risposto un no chiaro e tondo; pel resto ho telegrafato a Londra.
—E intanto?
—Intanto c'è tregua, e i lavori continuano al solito.
—Chi sa che a Londra non facciano qualche concessione….
—Non ne faranno nessuna, e non devono farne… Quello che preme è che si decida subito perchè non v'è nulla di peggio che lasciar marcire la piaga…. Non perdonerò mai a me stesso d'essermi fatto cogliere alla sprovveduta…. Bisogna sfrattare i caporioni; l'essenziale è di conoscerli… Ad ogni modo scommetterei che c'è la zampa di Cipriano in questo brutto garbuglio…. Si guardi, però.
Maria n'era persuasa anche troppo, e la riprovevole condotta del giovine la giustificava a' suoi propri occhi del non aver dato ascolto alle sue parole d'amore; nondimeno, era una grande afflizione per lei il pensare ch'ella era la prima cagione d'un avvenimento dal quale potevano derivar tanti guai. Fino allora s'era compiaciuta nell'idea che la sua presenza a Valduria potesse essere utile a qualcheduno; adesso ella si disperava pensando che tutto il bene che aveva fatto non equivaleva certo al male che stava per accadere.
Fu una giornata assai triste per lei. Nè contribuì a fargliela finir lietamente la risposta recisa, categorica che giunse da Londra verso sera al telegramma di Odoardo, e ch'egli si affrettò a comunicare a sua sorella.
Respingete in modo assoluto domande operai. Procedete con energia, informandoci giorno per giorno.
—Almeno questi non tentennano—esclamò il Selmi soddisfatto.
—Bella bravura!—disse Maria.—Son lontani, loro.
—Bah!… Pur di mostrare i denti, la faremo finita presto. Domani una parlatina in regola, e se ci saran riottosi, tanto peggio per loro. Non entreranno più in miniera… Certo che se fosse qui Roberto sarebbe meglio. Egli ha la lingua più spedita di me, e farebbe intender ragione più presto a costoro…. Ma non importa, saprò ben levarmi d'impiccio anch'io.
La mattina seguente, però, egli dovette accorgersi che l'impresa non era così agevole come aveva creduto, giacchè dopo ch'egli ebbe chiamato a sè la deputazione del giorno prima e partecipatole il dispaccio di Londra, corse una parola d'ordine fra gli operai, e pel mezzodì i lavori furono sospesi tanto nell'interno quanto nell'esterno della miniera. Evidentemente il rifiuto era previsto e al rifiuto s'era deliberato di opporre lo sciopero. La solita deputazione venne con grande solennità a darne l'avviso all'ingegnere, soggiungendo in nome proprio e dei propri mandanti che questo sciopero sarebbe durato finchè non fossero state accolte le comuni rimostranze.
Odoardo mise sott'occhio ai delegati le conseguenze d'un passo sì grave, e li prevenne che come oggi non si lasciava intimidire dalle minacce, così più tardi non si sarebbe lasciato commovere dalle preghiere, e avrebbe inesorabilmente ricusato di riammettere nella miniera gl'istigatori di questo movimento. Ci pensassero finch'erano in tempo. Egli accordava loro ventiquattr'ore per venire a resipiscenza.
Poi tentò prendere a parte qualcheduno degli operai ch'egli conosceva per pratica come più alieni da tumulti e da chiassi. Ma essi, o procuravano d'evitarlo, o cercavano di cavarsela con monosillabi. Era chiaro che parecchi non erano entrati spontaneamente in quel brutto impiccio; senonchè, una volta entratici, non sapevano come uscirne. Chi si sentiva vincolato da una specie d'impegno d'onore verso i compagni, chi aveva paura di tirarsi addosso qualche peggior malanno facendo causa da sè.
Cipriano, com'è naturale, non aveva partecipato allo sciopero. Egli era tra i gaudenti, come dicevano i minatori, e non poteva chieder nulla per conto suo. Ma reso cieco dalle sue passioni, spingeva gli altri in una via a capo della quale c'era un abisso che avrebbe ingoiato anche lui.
S'era vantato con Maria di non essere ipocrita, e fino allora non era parso mai tale; ma la sua condotta in quest'occasione smentiva le sue parole e i suoi precedenti. Quand'era coll'ingegnere biasimava gli scioperanti, o tutt'al più suggeriva qualche piccola concessione che, secondo lui, avrebbe calmato gli animi; appena poteva recarsi nei ritrovi dei collegati, li confortava a resistere assicurandoli che la notizia dello sciopero avrebbe indotto la Direzione di Londra ad aprir subito le trattative per un componimento amichevole. Odoardo, sebbene non fosse un fino osservatore, non era però tratto in inganno dall'ambiguo contegno del giovine, e si riservava di colpirlo al momento propizio.
Le ventiquattr'ore accordate dal Selmi trascorsero senza che i minatori dessero alcun segno di voler venire a patti. Tuttavia non accadevano ancora disordini. È il solito di queste faccende; il primo stadio è più ch'altro d'allegria e di spensieratezza. Quell'audace sfida contro la fortuna ha in sè qualche cosa d'inebbriante, quel trovarsi raccolti in grandi masse, fermi (almeno si crede) in un solo proposito, dà un concetto esagerato della propria forza; la stessa interruzione dei lavori contribuisce ad eccitar favorevolmente gli spiriti. Non è ancora l'ozio; è una tregua da fatiche incresciose.
Gli operai s'erano agglomerati nelle due osterie di Valduria, ove non s'era spacciato mai tanto vino in un giorno. Gli osti però si rallegravano poco di questa cuccagna, giacchè bisognava vendere a credito con limitate speranze di rimborso, sopratutto se lo sciopero durava un pezzo. D'altra parte, come rifiutarsi di servire questi rispettabili avventori che si presentavano a dozzine e avevano l'aria di essere pronti a spillar le botti da sè?
Mentre in paese c'era tanto chiasso, nel recinto della miniera regnava il silenzio e l'immobilità della morte. I forni che solevano arder sempre s'erano spenti per mancanza di braccia che li alimentassero di nuovo combustibile; la grù e le caldaje a vapore erano inoperose, i carretti pieni di minerale non giravano lungo i binarii, non si vedeva più il fumo del caminone, non si sentiva lo strepito delle pompe e il cupo rimbombo delle mine, segnale della vita sotterranea. Solo nelle officine dei fabbri e dei falegnami, ove la coalizione non aveva trovato proseliti, si attendeva per forza d'inerzia a qualche lavoro già iniziato nei giorni precedenti; ma vi si attendeva con quella malavoglia che deriva dall'incertezza del domani.
In risposta al secondo dispaccio di Odoardo Selmi che annunziava lo sciopero, la Direzione di Londra aveva telegrafato:
Nessuna concessione. Se gli operai non capitolano, chiamatene altri.
Era ciò appunto che si disponeva a fare il Selmi, ma prevedendo che la cosa non sarebbe passata senza tumulti, ne aveva avvertito la Prefettura da cui dipendeva Valduria, affinchè desse in tempo le disposizioni per la tutela dell'ordine. Un delegato di questura, un brigadiere e pochi carabinieri non potevano certo tenere in freno più centinaia d'operai.
Ma sia che Odoardo non sapesse presentare al vivo lo stato delle cose, sia che la Prefettura non ne intendesse tutta la gravità, fatto si è che i rinforzi spediti furono assolutamente insufficienti, tali da esacerbare gli animi, non da impedire ogni violenza. Cosicchè, quando al terzo giorno dello sciopero, comparve a Valduria la prima squadra di lavoranti (una trentina circa) che il Selmi era riuscito con molta fatica a raccozzare nelle vicinanze, lo sciopero si mutò in vero ammutinamento, e i collegati, messi già sull'avviso, assunsero un contegno tanto minaccioso verso i nuovi venuti, che questi, temendo di rimetterci la pelle, abbandonarono subito la partita. Le poche guardie che s'erano provate a far qualche arresto tra i più turbolenti furono anch'esse costrette a rinunciare all'impresa, e dovettero limitarsi a difender la miniera dai colpi di mano dei sediziosi. Correvano già sinistri propositi; s'eran sentite grida di morte: si diceva che qualcheduno avesse in animo di far saltare il deposito della polvere; che altri volessero dar fuoco alla casa dell'ingegnere e rubare il denaro che doveva esserci in cassa, altri distruggere i forni, e così via, Era, come si dice, un darsi la zappa sui piedi, perchè, se gli operai mandavano in rovina la miniera, di che avrebbero poscia vissuto? Ma chi non sa che, nello scoppio delle selvaggie passioni, le moltitudini smarriscono affatto il criterio del loro utile e il male diventa scopo a sè stesso?
Se l'ingegnere Selmi aveva mancato di previdenza, non si poteva certo accusarlo di mancar di coraggio. Egli si mostrava dovunque c'era un pericolo, e raccogliendo intorno a sè i pochi addetti alla miniera che non avevano partecipato al movimento, si preparava, se fosse stato necessario, a far pagar cara la propria vita. I carabinieri si lasciavan dirigere da lui, come da persona che conosceva i siti ed era in grado di disporre opportunamente le difese.
La situazione di Cipriano diventava intanto sempre più delicata. Odoardo non gli nascondeva la sua diffidenza, e deciso di non trovarsi un nemico in casa, l'aveva allontanato con un pretesto.
Gli operai lo accusavano di doppiezza, e gl'intimavano di gettar giù la maschera e di fare apertamente causa comune con loro. I più tranquilli, quelli che s'eran lasciati rimorchiare dagli altri, non gli perdonavano di averli cullati nell'illusione che quest'impiccio si sarebbe risolto in modo conforme ai loro desideri. Invece dove si andava a finire? Con che mezzi si sarebbe prolungata la resistenza?
Cipriano era ormai in grado di misurare l'enormità dello sproposito commesso. Egli aveva procurato, è vero, delle molestie agli altri, ma quanti maggiori guai tirava addosso a sè medesimo! Non era un aumento di credito ch'egli avrebbe trovato alla fine del conto, era la perdita di una posizione che aveva conquistato a palmo a palmo a forza di lavoro e d'ingegno, era il disprezzo, era l'odio di quelli ch'egli aveva ingannati, era l'odio, il disprezzo di Maria…. E quest'ultimo pensiero gli era il più penoso di tutti…. Maria egli l'amava sempre…. Talora nell'animo esacerbato egli si raffigurava la voluttà di una suprema vendetta. Portar la devastazione e la morte nella miniera, sottraendo al disastro la sola Maria. Presentarsi a lei come un salvatore e come un padrone: difenderla contro tutti, ma volerla per sè.
Follie! L'intelligenza di Cipriano non era tanto offuscata da non capire ciò che vi fosse di assurdo in questi propositi di mente inferma. Quand'anche il resto gli fosse riuscito, Maria non avrebbe mai accondisceso a esser sua. Bensì promovendo, secondando gl'istinti brutali che si manifestavano nella schiuma dei collegati, egli avrebbe potuto far di lei una creatura derelitta ed infelicissima. Combattuto così da affetti diversi, spesso tentava di moderare quelli che aveva aizzati, e sentiva l'aura della popolarità ritirarsi rapidamente da lui e il terreno vacillare sotto i suoi piedi.
Comunque sia, il contegno risoluto di Odoardo Selmi impose rispetto ai minatori, e nella notte successiva all'ammutinamento nessun colpo di mano fu tentato contro la miniera. I peggiori soggetti (una quarantina circa) costrinsero gli osti a tener aperte le bettole e a dar loro vino senza risparmio. Pagherebbe, dicevano, la Direzione di Londra.
Col sorger del giorno finì la baldoria. Le notizie dei nuovi disordini avevano commosso le autorità del capoluogo, e alla mattina i pacifici abitanti di Valduria furono rinfrancati dall'arrivo di uno squadrone di cavalleria. Più tardi giunsero il Procuratore del Re e il giudice istruttore, e procedettero ad alcuni arresti dopo aver sentito l'ingegnere Selmi e il segretario comunale. Il sindaco Ludovici non c'era. Non volendo uscire da una savia neutralità, egli s'era recato altrove fin dal primo manifestarsi dello sciopero.—A trovarsi in mezzo a queste cose non ci si guadagna mai—egli osservava prudentemente. Fu detto da un bell'umore che il conte Ugolino mangiasse i figli per conservar loro un padre; così il signor Ludovici lasciava nelle male peste i suoi amministrati per conservar loro un Sindaco.
Se la neutralità era sì cara al signor Ludovici, lo star con le mani alla cintola durante questo scompiglio riusciva invece intollerabile a Maria. Odoardo aveva dovuto usare poco men che la forza per indurla a rimanersene in casa mentr'egli s'esponeva al pericolo. Nella notte ella non aveva mai chiuso occhio, pronta sempre ad accorrere ove avesse visto o sentito un segno d'allarme. Alla mattina poi, quando l'arrivo della truppa l'ebbe assicurata che suo fratello non correva pel momento alcun rischio, il suo cuore gentile fu commosso dall'idea d'altri dolori. Pensò alle povere famiglie che questa crisi avrebbe piombate nella miseria, alle donne e ai bambini che avrebbero pagato il fio delle colpe dei mariti e dei padri. Che squallore in quelle capanne ov'ella, visitatrice pietosa, aveva portato tante volte il conforto d'un sorriso e d'una parola di simpatia!
Ubbidì agl'impulsi dell'animo, e senza dir nulla a Odoardo intraprese un pellegrinaggio per la valle. Chi sa ch'ella non avesse potuto esercitare un apostolato di pace e di carità! A lei forse avrebbero dato retta. Avrebbero capito ch'ella non parlava che per desiderio del bene.
E infatti quasi dappertutto ella fu accolta con affetto e con deferenza. In qualche famiglia la si aspettava, s'era avvezzi a vederla nei giorni del dolore. Nella maggior parte delle abitazioni non c'erano soltanto le donne, i vecchi, i fanciulli; c'era anche l'elemento vigoroso della casa, l'uomo che per solito lavorava, guadagnava, sostentava gli altri. Torvo o accasciato, con le braccia ciondoloni e con la testa china sul petto, egli non aveva più la baldanza dei primi giorni di battaglia; soffriva delle sofferenze dei suoi cari, o imprecava al destino che l'aveva condannato a servire. Maria cercava di persuadere uomini e donne a non ostinarsi in una contesa inutile; quei signori di Londra erano ricchi e potevano attendere; invece, loro, poveri operai, che avrebbero fatto se fossero stati licenziati definitivamente? La sua voce non si perdeva nel deserto; quand'anche non le si dava ragione, quand'anche si voleva sostenere il diritto dei minatori a un maggior salario, si riconosceva d'aver agito con precipitazione, di essersi lasciati abbindolare da quelli che pescan nel torbido. In quanto a capitolare, alcuni ci sarebbero stati disposti, ma come si faceva? C'era un vincolo coi compagni: bisognava che fosse una cosa fatta d'accordo fra tutti.
Maria usciva da queste visite con uno stringimento al cuore. Dopo aver visto quelle cucine senza pentola al fuoco, quegli uomini sparuti, quelle donne avvizzite, quei bimbi macilenti, che pur si sforzavan di sorriderle in mezzo alle lagrime, ella avrebbe voluto arrivar d'un balzo a Londra, penetrare nei palazzi degli azionisti della miniera e dir loro: Siate generosi, siate misericordiosi, sacrificate una parte del vostro lusso per dare un pane di più alla povera gente. Maria non s'era mai curata di far la diagnosi delle società anonime; ella credeva in buona fede che gli azionisti fossero gli esseri più felici del mondo, e non si preoccupava punto del rapporto tra i salari e il costo di produzione.
Un nome aveva suonato spesso all'orecchio della giovinetta nel suo pellegrinaggio, un nome pronunciato per lo più con accento d'ira e di sprezzo: quello di Cipriano. Dov'era costui? Perchè, dopo aver sobillato gli altri, si nascondeva? Tra gli arrestati ce n'erano di meno colpevoli. A loro non si sarebbe badato; si sapeva che erano cervelli malati e spiriti guasti; ma quando si sparse la voce che un uomo come Cipriano prometteva il suo appoggio e assicurava il buon successo, allora fu cosa diversa…. Invece Cipriano li aveva abbandonati, li aveva traditi…. oh ma ne pagherebbe il fio!
Non c'era più dubbio! Era veramente da Cipriano ch'era partita la prima scintilla destinata a far divampar tanto incendio. Nè Maria poteva ignorare le cagioni che avevano travolto in tal guisa la sua intelligenza. Così allo sdegno ch'ella provava si mesceva un senso d'infinita pietà. Com'egli doveva essere infelice!
Una forza maggiore di lei la indusse, nel ritorno, ad avviarsi dalla parte ove abitava il giovine soprastante. Era forse desiderio d'incontrarlo? E che gli avrebbe detto? E s'egli, ormai alla disperazione, le avesse fatto ingiuria?
Ella non si dissimulava il suo sgomento, eppure non si ritraeva dal suo cammino. Già nell'ombra del crepuscolo biancheggiava la casa ov'ella era andata tante volte a visitare la vecchia Gertrude; il pioppo alto e sottile che cresceva lì vicino dondolava gravemente il capo con un lieve stormire di fronde. Maria si avvicinò trattenendo il respiro. L'uscio dell'abitazione era chiuso, eran chiuse le imposte. Maria chiamò timidamente—Cipriano!—Nessuno rispose. Non c'era nessuno.
XXIII.
In quel giorno medesimo, Odoardo Selmi spediva all'ingegnere Arconti il dispaccio che i lettori conoscono. Non lo aveva chiamato nel momento del maggiore pericolo, ma adesso sentiva di non poter far a meno del suo aiuto e del suo consiglio. La presenza dello squadrone di cavalleria a Valduria sino a cose finite era una guarentigia contro il ripetersi dei disordini; non bastava però a far cessare lo sciopero. Gli operai non potevano esser ricondotti per forza nella miniera. Bisognava rappacificare gli animi, e inoltre c'erano parecchie quistioni da risolvere. Chi si doveva riammettere, chi escludere; come si dovevano colmare i vuoti? Certo l'Arconti era molto più adatto del Selmi a sciogliere tutte queste difficoltà, e Odoardo operava saviamente invitandolo ad affrettare la sua venuta.
Roberto, noi lo sappiamo, non aveva esitato un istante. Egli era partito da Milano poche ore dopo ricevuto il dispaccio, e nel partire ne aveva dato avviso telegrafico all'amico.
Quando Maria seppe che Roberto era in viaggio per Valduria, il suo primo movimento fu di gioia schietta e vivissima. Ma alla gioia successe il terrore. Cipriano odiava Roberto com'egli sapeva odiare, e non aveva certo dimesso l'idea di rifarsi sopra di lui dei mali che aveva attirati sul proprio capo. Scomparso momentaneamente perchè si sentiva inviso a tutti e non era ben sicuro di non esser tratto in arresto se si mostrava, egli avrebbe ben trovato il modo d'uscire dal suo nascondiglio per compiere o per tentare una vendetta.
Maria rivelò le sue angustie al fratello, che ne rimase alquanto impensierito, ma alla fine si strinse nelle spalle e disse:—Che vuoi farci? Staremo in guardia. Ad ogni modo, un uomo ne vale un altro, e Arconti non ha paura di nessuno.
Con queste inquietudini nell'anima, la giovinetta s'accinse a preparar la camera dell'ingegnere. Non aveva però soltanto queste inquietudini. Altri pensieri non lieti le passavano pel capo.
—Egli torna—ella diceva fra sè.—Per dividere i nostri pericoli lascia più presto la sua splendida Milano, lascia sua madre, la sua fidanzata. Ma per quanto tempo starà con noi? Adesso che ha riveduta la sua città natale, adesso che ha riveduta la sua Lucilla, gli parrà mille volte più squallido e triste questo soggiorno…. Aver negli occhi una cara immagine, aver l'anima piena di sogni d'amore, e venir qui in questo tugurio, in mezzo alle malinconie d'uno sciopero…. Che prepotente bisogno sentirà d'andarsene!
—Si sposeranno presto—continuava Maria.—Roberto troverà una bella posizione in qualche città… dev'essergli tanto facile di ottener ciò che vuole….. E se invece persuadesse la sua sposa a venir qui?… Lei, avvezza a tutti gli agi, a tutte l'eleganze di una capitale? Come potrebbe adattarvisi?… A ogni modo, se ci venisse?
Questa idea faceva spuntar le lagrime agli occhi di Maria. Si vedeva mortificata, avvilita da quell'altera bellezza cittadinesca che le avrebbe tolto persino l'amicizia di Roberto. Apriva istintivamente l'album di fotografie ch'era sul tavolino dell'ingegnere, e contemplava il ritratto di Lucilla. Oh sì, ell'era bella, assai bella, e Roberto aveva ragione d'amarla…. Però quest'amore lo rendeva felice davvero? Perchè, dopo essersi ripromesso di parlarne sovente con lei, non gliene aveva parlato più? Perchè aveva pronunziato così di rado il nome di Lucilla? Aveva forse indovinato, aveva forse compreso?…
Un vivo rossore copriva le guancie di Maria. No: egli non poteva aver nulla indovinato, nulla compreso. Che concetto si sarebbe fatto di lei se avesse compreso, se avesse indovinato? Come l'avrebbe trovata temeraria, come l'avrebbe trovata ridicola!… No, s'egli non parlava di Lucilla, era soltanto perchè non poteva dirne tutto il bene che avrebbe voluto…. Forse Lucilla non lo amava abbastanza, non lo amava com'egli meritava… Ed egli meritava tanto amore, ed egli meritava tanta felicità…
Mentre Maria seguiva il corso di questi pensieri, Roberto Arconti viaggiava verso Valduria nello stato d'animo che ci è facile immaginare. Ormai non lo legava che un ben tenue filo al passato; la speranza, ahi debole tanto, che Lucilla si pentisse del contegno serbato con lui a Milano e ne facesse ampia ammenda per lettera. Oh se ell'avesse trovato quelle frasi appassionate che vengon dal cuore, egli le avrebbe perdonato tutto! S'ella gli avesse parlato quel linguaggio che non lascia dubbio sulla sincerità dell'affetto, le avrebbe perdonato anche di non voler venire a Valduria! Non avrebbe accettato certo la posizione subalterna che gli si offriva in casa Dal Bono; avrebbe detto: aspettiamo ancora; e fiducioso nell'avvenire si sarebbe posto in traccia di un altro impiego. Più assai che il rifiuto di Lucilla di abitare nelle solitudini inospitali d'una miniera, lo aveva afflitto, lo aveva offeso la sua frivolezza. E pur troppo questa frivolezza gli faceva presentire che il male era senza rimedio. Si correggono le opinioni, non si mutano i sentimenti e gli istinti.
Ma la persuasione che una rottura con Lucilla era inevitabile non era fatta per consolar Roberto. Quando per tanti anni s'è vissuti in un pensiero, quando non s'è compresa la vita che confusa nella vita d'un'altra persona, il bel gusto a dover dire: m'ero sbagliato; quella persona non è adatta per me!
In questo triste ritorno a Valduria la prospettiva più lieta per l'ingegnere Arconti era quella delle difficoltà che l'aspettavano. La febbre della lotta e del pericolo poteva solo fargli dimenticare le mille angustie che gli travagliavano lo spirito.
Così, quando alla stazione più vicina a Valduria, gli dissero che i tumulti erano già cessati, egli n'ebbe più noia che soddisfazione. Nondimeno, giunto alla miniera, gli si allargò il cuore all'accoglienza di Odoardo e di Maria. Maria era profondamente commossa, la sua mano tremava nello stringere la mano di Roberto, un vivo incarnato s'era diffuso sulle sue guancie pallide, e in tutto il suo aspetto splendeva quella bellezza che la natura concede anche ai volti meno regolari nei momenti in cui l'anima s'affaccia agli occhi. Del resto, Maria s'era cambiata in modo notevole da quando l'ingegnere Arconti l'aveva vista la prima volta. I suoi capelli corti eran cresciuti, e ricadendole a ricciolini sulle tempie incorniciavano leggiadramente la sua fronte candida; le sue spalle esili, le sue braccia sottili s'erano un po' arrotondate; all'aria di bontà e d'intelligenza, che l'aveva sempre resa simpatica, s'era aggiunta un'espressione di dolce malinconia, che le dava un'attrattiva tanto maggiore quanto meno in quella malinconia si poteva sospettare l'artifizio.
—Ci perdonerai d'aver troncato prima del termine stabilito le tue beate vacanze di Milano?—disse Odoardo all'amico.
—Non parliamo di ciò—rispose Roberto, rannuvolandosi e mostrando una fretta di sfuggire questo argomento, che non passò inosservata a Maria.—Raccontami piuttosto per filo e per segno tutto ciò ch'è successo.
Il Selmi espose i fatti che già conosciamo, soffermandosi particolarmente sopra la condotta di Cipriano, la cui disparizione era, del resto, la miglior conferma delle accuse che gli si movevano.
—Oh si guardi, si guardi—disse in tono supplichevole Maria all'Arconti.—Cipriano odia lei più di tutti gli altri, ed è capace di tutto.
—E perchè mi odia tanto?
Maria arrossì e non rispose.
—T'odia—rispose Odoardo—perchè s'è sognato di veder in te un ostacolo al suo matrimonio con mia sorella…. Sciocchezze! Se Maria l'ha respinto, non fu pei suggerimenti d'alcuno, ma perchè ha capito che Cipriano non era sposo per lei…. E aveva ragioni da vendere.
Roberto avrebbe potuto soggiungere che, per un momento, egli aveva piuttosto patrocinato che osteggiato presso Maria la causa del giovine minatore, ma non voleva aver l'aria di persona che cerca d'attenuare la sua responsabilità.
—Checchè egli pensi sul conto mio—disse fieramente l'ingegnere Arconti—e checchè egli mediti a mio danno, io non ho paura di lui.
—Oh per carità, per carità—esclamò Maria, giungendo le mani—non faccia imprudenze. Se le accadesse una disgrazia non me lo perdonerei più per tutta la vita.
—Buona Maria—rispose Roberto—non si accori così. Vedrà che non succede nulla…. Se tutte le minaccie avessero effetto! pensiamo piuttosto al resto.
Entro la giornata si concertarono tra i due amici i provvedimenti da prendersi.
E infatti nella mattina successiva venne affisso a Valduria un manifesto, in cui si annunciava che sarebbero riammessi nella miniera alle condizioni di prima quelli fra gli operai che si presentassero nel termine di ventiquattr'ore, trascorso il quale non si farebbe più grazia a nessuno.
Da questa specie d'amnistia erano esclusi però dodici fra i più noti caporioni del movimento, e i loro nomi figuravano appiedi del manifesto.
Di Cipriano non era fatta menzione. Selmi e Arconti avevano deciso di licenziar lui pure, ma non credevano di poterlo fare senza preavvisarne la Direzione di Londra, dalla quale recentemente il Regoli era stato encomiato e promosso. Si stabilì quindi di trasmettere a Londra la formale proposta del congedo in base al contegno ambiguo di Cipriano nei primi giorni dello sciopero, alla voce pubblica che lo chiamava colpevole, e alla sua misteriosa disparizione.
La baldanza dei collegati era svanita da un pezzo. Nessuno sciopero era mai stato iniziato così all'impazzata, senza un fondo di riserva, senza una probabilità al mondo di trovar lavoro nei paesi vicini. S'era calcolato d'intimorire la Direzione, non riflettendo che la violenza ben di rado assicura agli operai la vittoria nella questione dei salari. Per vincere bisogna essere in grado di opporre a lungo la resistenza passiva dell'inazione, e per oppor questa resistenza bisogna aver quattrini da parte, o trovar chi ne somministri. Ora, ai minatori di Valduria mancava l'una e l'altra cosa.
È facile argomentare da ciò che, quando comparve il manifesto, moltissimi avevano già una gran voglia di cedere; di maniera che, prima che spirassero le ventiquattr'ore, tre quarti e più degli scioperanti s'erano ripresentati a far atto di sommissione. Le lacune furono colmate scegliendo i migliori fra i molti ch'erano venuti od offrir l'opera loro, guarentiti ormai contro ogni molestia dalla presenza d'uno squadrone di cavalleria.
Alla mattina del quarto giorno dopo l'arrivo di Roberto, le cose erano pienamente assestate. Prima però che ricominciassero i lavori, l'ingegnere Arconti raccolse tutti i minatori sulla spianata davanti all'apertura del sotterraneo, e tenne loro un discorso pieno di belle parole e di savi pensieri. «C'è corso un equivoco fra noi—egli concluse;—dimentichiamolo. Riprendiamo d'accordo il nostro combattimento d'ogni giorno e d'ogni ora contro le forze della natura, e nel bene della miniera cerchiamo il bene di tutti noi altri quanti siamo, grandi e piccini, a cominciare dal più ricco fra gli azionisti per andar fino all'infimo degli operai. Se l'azionista, questo avaro azionista che sinora ha perduto sempre, principierà a guadagnar qualche cosa, sarà sperabile anche al lavorante di migliorare la sua sorte. In caso diverso, la miniera sarà piantata e non so che utile ne avrà chi ci vive sopra. Eh, cari amici, la buona armonia fra il capitale e il lavoro sarà spesso un sogno e non basterà a dare il segreto della felicità; ma si può esser certi che tutte l'altre teorie che si predicano con tanto fracasso e che si risolvono nell'aizzare il lavoro contro il capitale, sono assai più sbagliate e creano molte più miserie intorno a sè.
Che la bontà di questi argomenti apparisse con uguale evidenza a tutti gli ascoltatori, non oseremo affermarlo, quantunque l'Arconti credesse aver letto nella fisonomia degli adunati un esplicito assenso alle sue idee. Ma si sa che la prima persuasione di ogni oratore è quella di aver persuaso il suo uditorio.
Mischiandosi nella folla, l'Arconti avrebbe sentito qualcheduno borbottare a mezza voce:—Tutti i salmi finiscono in gloria: State cheti, state buoni; non avete ragione di lagnarvi.—Oppure:—Il sugo del discorso è questo: Voi siete deboli e avete torto.—O finalmente:—Non la deve mica andar sempre così…. Basta, s'è pagato il maestro, e la lezione non sarà perduta.
Il fatto si è che queste osservazioni parziali non esprimevano che il pensiero di una piccolissima minoranza. I più applaudivano senza riserva il simpatico ingegnere, e parecchi dicevano:—Se ci fosse stato lui nei giorni passati, non sarebbe accaduto nulla di quel ch'è accaduto.
XXIV.
La miniera di Valduria aveva ripreso il solito aspetto. La campana annunziava regolarmente il principio e la fine del lavoro e il cambio delle squadre, i forni ardevano senza interruzione, le caldaie a vapore mettevano in movimento le pompe e la grù, un denso fumo usciva dai caminoni e si svolgeva in spire capricciose nell'aria, i carretti carichi di minerale correvano lungo i binari, lo scoppio delle mine rimbombava nel sotterraneo; e su e giù per la discenderia, e lungo le gallerie, era un andirivieni continuo d'operai e un agitarsi di fiammelle fantastiche.
Insomma tutto s'era rimesso al suo posto, ma non era tornato Cipriano, sia che gli fossero giunte all'orecchio le minacce dei lavoranti, i quali si credevano traditi da lui, sia che meditasse un nuovo colpo, come temeva Maria. Si sapeva che, lasciata la miniera uno dei primi giorni dopo lo sciopero, era andato a casa, vi si era trattenuto pochissimo e n'era uscito per non rientrarvi più. Qualcheduno lo aveva visto nei dintorni, ma egli aveva schivato ogni incontro e non aveva discorso con anima viva. Intanto, coll'assenso della Direzione di Londra, era stato pubblicato un avviso che lo sfrattava dalla miniera.
Maria era piena di tristi presentimenti.—Si guardi, si guardi—ella ripeteva a Roberto ogni volta ch'egli usciva di casa. Ed era travagliata da affannose inquietudini nelle assenze di lui, e quando lo vedeva riapparir di lontano provava una consolazione così forte da durar fatica a nasconderla. Poi Roberto partiva, ed ella ripiombava nelle ansietà di prima. Il cuore è buon profeta, e il cuore di Maria non s'ingannava ne' suoi presagi.
L'ingegnere Arconti tornava un giorno dall'aver visitato una fornace ove si stavano fabbricando delle pietre cotte da servire ad alcune opere di muratura occorrenti a Valduria. Era solo, malinconico, assorto ne' suoi pensieri. La calma che egli aveva contribuito a ristabilire nella miniera non era penetrata nel suo spirito, anzi, dileguate le gravi cure che avevan richiesto l'esercizio di tutte le sue facoltà, gli si addensava nella mente una folla d'idee dolorose. Simile a chi s'aggira tra le rovine della sua patria, egli errava con la fantasia tra le rovine del suo povero amore, che avrebbe voluto, e non poteva, divellere dalle radici. Ogni tanto estraeva di tasca una lettera, l'apriva, vi scorreva su con l'occhio e pareva ritrarne un sentimento indicibile d'uggia e di pena. Era una lettera profumata, con monogramma, una lettera la cui fisonomia aristocratica faceva uno strano effetto in quei luoghi e nelle mani di Roberto che aveva dimessa ogni eleganza cittadinesca e aveva ripreso l'abito e l'aspetto di minatore. Quel foglietto conteneva uno sproloquio della signora Federica, vano e sconclusionato, secondo il solito. Ma la leggerezza di sua madre non era cosa nuova per l'Arconti; ciò che però l'accorava era il vedere ch'esisteva una uniformità assoluta d'idee e di carattere tra lei e Lucilla. Se, diventando suocera e nuora, si fossero mantenute così, sarebbero state da citare a modello. In questa lettera la signora Federica mostrava di aspettarsi dal figliuolo un atto di contrizione; per lei era chiaro come la luce del giorno ch'egli aveva torto marcio, e solo la sua caparbietà naturale gl'impediva di riconoscerlo. Appena se ne fosse persuaso, si sarebbero potuti riappiccare i negoziati; già Lucilla, a condizioni pari, gli dava la preferenza; la signora Giulia non aveva mutato opinione. L'osso più duro sarebbe stato il signor Benedetto, ch'era sdegnatissimo della condotta di Roberto; ma siccome per lui l'essenziale era di non esborsare la dote, non sarebbe stato impossibile di strappargli un nuovo consenso. Tutti questi sragionamenti erano diluiti in un mare d'inezie e di volgarità, sulle chiacchiere della gente, sulle toilettes di Lucilla, sulle bravure di Gipsy, ecc., ecc. I pericoli a cui Roberto era andato incontro a Valduria non parevano nemmeno ricordati da quelle creature frivole, e alla miniera appena si alludeva con ironia sprezzante per chieder conto della damigella d'alto affare che vi dimorava.
—Povere donne!—pensava Roberto.—Quanto più cuore e quanto più ingegno di voi ha la damigella d'alto affare di cui discorrete con quest'aria di superiorità!
Per abbreviare il cammino, egli aveva preso una viottola che s'insinuava serpeggiando tra fitte macchie d'arbusti. L'ora ed il luogo erano pieni di solitudine e di silenzio. Non si sentiva che il ronzio degl'insetti e il mormorio lievissimo delle fronde accarezzate dalla brezza vespertina. Ma ad un tratto parve a Roberto di udir rumore come di una persona che s'avanzasse cautamente da un lato della strada… Tese l'orecchio; non sentì più nulla; aguzzò l'occhio e non riuscì a veder nulla. Pur non era tranquillo: si risovvenne delle ammonizioni di Maria; rammentò il carattere violento di Cipriano, le sue minaccie, la sua scomparsa, e temette un'insidia. Non era uomo da cercar salvezza nella fuga, nè, a ogni modo, sarebbe stato più in tempo di fuggire. L'aggressore, se non era tutta un'allucinazione dei sensi, doveva trovarsi ormai a pochi passi. Deliberò di affrontarlo risolutamente, armò il revolver che portava sempre con sè, e si diresse dalla parte ond'era venuto il rumore, procurando quanto più fosse possibile, di coprirsi colle fronde e coi rami. Non aveva fatto due passi quando la doppia canna d'una pistola luccicò tra le foglie, due colpi echeggiarono uno dopo l'altro, due palle gli fischiarono rasente alla testa e andarono a configgersi nell'esile tronco d'un arbusto dietro di lui. Nello stesso punto s'intese un grido di dolore e di rabbia, e un uomo livido in viso, con gli occhi injettati di sangue, con la barba incolta, coi capelli arruffati, sbucò dalla macchia. Era Cipriano, o piuttosto la larva di Cipriano. Le veglie, il digiuno, i patimenti d'ogni sorta, i malvagi pensieri avevano fatto di lui un altr'uomo. Restava appena una traccia della sua maschia bellezza; la sua fisonomia aveva l'espressione dei momenti peggiori; qualche cosa di sinistro, di selvaggio, di feroce. Parve sulle prime ch'egli volesse scagliarsi sull'Arconti, ma, quando vide che questi teneva il revolver appuntato contro di lui, comprese che era inutile ogni attacco, gettò lungi da sè la pistola scarica, e preferì di aspettare impavido la morte.—Perchè non fa fuoco?—egli chiese a Roberto, arrestandosi e incrociando le braccia.
Roberto abbassò lentamente l'arma e senza rispondere alla domanda disse:—Non vi credevo un assassino.
—Volevo ucciderla. Se l'avessi sfidato a duello, mi avrebbe riso in faccia, non si sarebbe degnato di battersi meco…. Non avevo altro modo che questo…. Se fossi riuscito, direbbero che sono un furfante; ho sbagliato il colpo, e diranno che sono anche un imbecille……. La finisca lei; faccia fuoco; meglio così che sulla forca.
—Disgraziato, e perchè volevate uccidermi?
—Non lo sa? Perchè vedo in lei la sorgente di tutti i miei mali… Non ne avrà colpa forse, ma che importa? Il fatto non muta per questo… E poi non è un mistero per nessuno…. Io sono cattivo…. C'era un'unica persona che poteva trasformarmi, e non ha voluto…. Per causa di chi? Per causa di lei…. Oh sicuro, lei non se n'è immischiato; la sua amante, la sua fidanzata è a Milano; lei a questa non pensa, ma che vuol dir ciò? Se non fosse mai venuto qui, Maria avrebbe finito coll'amarmi, Maria sarebbe oggi mia sposa…. Invece m'ha rifiutato, e lo vede, il suo rifiuto m'ha travolto il cervello…. Avevo conquistato una brillante posizione nella miniera, e ho perduto tutto; se mi mostrassi, i miei capi mi chiuderebbero la porta in viso e i miei subalterni mi lapiderebbero…. Non vivevo più che per questa vendetta, e m'è fallita anch'essa, e porto ugualmente in fronte un marchio d'infamia… È vero, ho commesso un delitto, ho commesso una viltà…. Bisogna espiarla. Faccia fuoco…. Sarà un'opera di misericordia.
Roberto si guardò intorno. Poi disse con piglio solenne:—Avete ragione; la vostra vita è in mano mia; posso togliervela, e di me nessuno dubiterà ch'io sia un assassino; posso denunziarvi alla giustizia, e nessuno dubiterà ch'io sia un calunniatore… Ma se non volessi fare nè una cosa, nè l'altra?
—E che vorrebbe fare?
—Voglio dirvi: nessuno ci ha visto: quello che è avvenuto può rimanere un secreto fra noi, purchè partiate subito da questi paesi, purchè andiate lontano, purchè non turbiate più la pace d'una persona ch'io giuro di difendere contro le vostre insidie….. Che decidete?
—Mi uccida o mi denunzi. Rimango.
—Sciagurato! Quanti anni avete?
—Ventisei. Che le importa saperlo?
—E a ventisei anni la vita non ha per voi altri allettamenti che l'odio e il pensiero della vendetta? E piuttosto di rinunziare ai vostri feroci propositi, vi rassegnate a chiudere i vostri giorni tra i quattro muri d'una carcere confuso coi delinquenti volgari…. voi che forse eravate nato a qualcosa di meglio?
Cipriano ebbe un istante di esitazione. L'ingegnere Arconti se ne avvide, e continuò con più calore.—Siete giovine, Cipriano, voi potete ancora diventare un altr'uomo, potete spendere la vostra energia, il vostro ingegno in opere sane e feconde, potete conquistare la stima dei buoni, potete amare ed essere amato. Vedete, io credo in voi più che non ci crediate voi stesso; vi credo un traviato più che un malvagio. Badate a me, giacchè v'è aperta una via di scampo, approfittatene prima che sia troppo tardi… Perchè, ve lo giuro, oggi io sono disposto ad agevolare la vostra fuga, a procurarvene anche i mezzi, se non li avete, a tacere, a obliare il triste fatto che mette in mia balìa il vostro nome, la vostra esistenza; ma domani…. oh domani sarò inesorabile…. Valduria non deve essere infestata dagli aggressori di strada.
Mentre l'ingegnere Arconti parlava, cento pensieri diversi attraversavano lo spirito di Cipriano e si dipingevano sulla sua fisonomia mobile ed espressiva. All'ammirazione pel nemico generoso che voleva salvarlo succedeva un odio tanto più fiero ed intenso quanto più egli pativa d'essere umiliato da questa generosità; al sentimento della vita che gli si ridestava nell'anima succedeva la persuasione che tutto era finito, che non c'era più avvenire per lui. La vergogna del delitto tentato contrastava col dolore della vendetta rimasta incompiuta, il nobile impulso di chiedere perdono all'uomo che aveva voluto uccidere era soffocato in Cipriano dall'orgoglio nativo ribelle ad ogni atto di resipiscenza.
E l'orgoglio prevalse. Rilevando solo l'ultima parte del discorso di Roberto, egli rispose con voce cupa e velata dalla collera.—Domani….. Ha detto domani…. Prima di domani saprà mie notizie.
Si chinò rapidamente, raccolse la pistola che aveva gettato a terra, e si dileguò in un baleno.
L'Arconti stette un momento in forse se doveva inseguirlo e strappargli il segreto delle sue parole; poi riflettè ch'era miglior consiglio il lasciarlo meditare da solo sull'insidia codarda che aveva teso, sulla proposta di salvezza che gli era fatta; possibile che qualche cosa di buono, che qualche cosa di sano non gli si svegliasse nell'anima? Ma se invece tentasse un nuovo delitto? Contro di chi? Contro di lui per la seconda volta? Ebbene, si difenderebbe. Contro di Maria? Quest'idea turbò singolarmente Roberto, che giurò a sè stesso di vigilar sulla giovinetta fino all'indomani. L'indomani, poi, se Cipriano non dava serie guarentigie di allontanarsi per sempre da Valduria, la giustizia sarebbe stata informata di tutto. Non aveva diritto di tacere; non si trattava soltanto di lui; era Maria, era Odoardo che conveniva tutelare contro gli eccessi d'un forsennato. Giunto a casa, non fece parola dell'accaduto, nè lo sguardo scrutatore di Maria avvertì alcuna alterazione nel suo volto. Ma per quel giorno non volle più scendere in miniera, disse che aveva da rivedere alcuni conti, e si ritirò nello studio per non uscirne che a ora di cena. La sera rimase col Selmi e con sua sorella. Odoardo in maniche di camicia, col colletto sbottonato, fumava, beveva, sonnecchiava, stirando ogni tanto le braccia e mettendo degli sbadigli rumorosi. Maria aveva preso silenziosamente da un cassetto un libro francese e pareva voler dire a Roberto: Quand'è che ripiglieremo le nostre lezioni? Egli indovinò il suo pensiero, e le chiese:—Dunque ha studiato da sola? Ormai capisce quello che legge?
—Mi par di sì.
—Via, mi faccia sentire.
Avvicinò la sedia a quella di lei, e si mise in ascolto.
Ella incominciò a leggere. La sua voce tremava.
—Ha il timor panico?—disse sorridendo Roberto.—Le faccio tanto soggezione?
Ella divenne rossa rossa.
Proprio in quel punto si picchiò forte all'uscio e comparve un giovine lavorante che venia spesso in casa per piccoli servigi e che Maria trattava con molta confidenza.
—Cosa c'è, Luigi?—ella chiese amichevolmente.
—Nulla, signorina—rispose il giovine, che aveva una cera da spiritato.—Volevo….
E fece segno ai due uomini di uscire un momento.
—Dio mio, qualche disgrazia in miniera!—esclamò Maria impallidendo.
Odoardo e Roberto erano balzati tutti e due dalla seggiola.
—Resta qui tu con tua sorella—disse l'Arconti al Selmi.—Sentirò io di che si tratta. Torno subito….
E uscì nell'andito insieme a Luigi.
Il lavorante raccontò molto confusamente che sul far della sera, passando davanti all'abitazione di Cipriano ch'era chiusa da un pezzo, ne aveva visto con sorpresa l'uscio e le imposte spalancate. In una camera, quella in cui era morta la vecchia Gertrude, si vedeva chiaro. La sua prima impressione fu una gran paura, onde se la diede a gambe; ma mentre fuggiva, incontrò il figlio dell'oste, un pezzo di giovinotto alto quasi due metri, che non avrebbe avuto scrupolo a misurarsi col diavolo e che volle a forza andar a verificare coi suoi occhi se la vecchia Gertrude fosse risuscitata.—Meno male se ci fosse andato lui solo—soggiunse Luigi—ma mi prese per un braccio e mi costrinse a seguirlo. Non avevo più sangue nelle vene.
—Spicciati, via.
—Arrivati sul luogo, entrammo. Io tremavo come una foglia…
—Finiscila. Cos'hai trovato? La vecchia Gertrude?
—No, no, la vecchia Gertrude dorme sempre in camposanto, e domani suo figlio le terrà compagnia.
—Cipriano è morto?
—Sì….. In che stato l'abbiamo visto! Era lungo disteso per terra in un lago di sangue….. Stringeva ancora in pugno una pistola. Sulla tavola ardeva un lume, e c'erano queste due lettere….
—Per me?
—Una è per lei—disse Luigi consegnandogliele tutte e due.—L'altra per la signorina.
Odoardo e Maria s'erano affacciati sulla soglia inquietissimi.
—Dunque!… Un'esplosione?…
—No—rispose Roberto—la miniera non c'entra….
—E allora?
L'Arconti rientrò nella stanza, riluttante a parlar davanti a Maria. Ma ella lo costrinse a uscir dal suo riserbo.—Dica la verità, c'è qualche bricconeria di Cipriano?
—Non una bricconeria; un atto di disperazione. Insomma, quell'infelice s'è ucciso….
—Ucciso!—gridarono a una voce Maria ed Odoardo.
—Sì…. E ha lasciato una lettera per me e una per lei, signora Maria.
—Me la dia qui—ella disse.—E appena l'ebbe, ne ruppe il suggello con mano convulsa. In pari tempo Roberto leggeva il foglio diretto a lui.
Non c'erano che queste poche parole: «Non accetto benefizi da chi detesto. Oggi non ha voluto uccidermi. M'uccido io stesso. È il solo partito che mi rimane da prendere. Ha fatto la mia rovina, procuri di non far anche quella d' un'altra persona.»
La lettera per Maria era più lunga, e conteneva una rivelazione, che gelò il sangue della giovinetta.
«Alcune ore fa—scriveva Cipriano—ho tirato due colpi di pistola contro l'ingegnere Arconti, che, colpevole o no, è la prima origine delle mie sciagure. L'occhio e il braccio m'hanno tradito. La mia vita apparteneva al mio nemico, che non volle prendersela e mi promise di non denunziarmi purchè io acconsentissi ad andarmene per sempre da questi paesi. Non gliene sono riconoscente. Accettar la sua offerta sarebbe stato un subire la peggiore delle umiliazioni. Ciò che egli non ha voluto fare lo faccio io. Allorchè riceverà questa lettera, Cipriano avrà cessato di vivere. C'era un ostacolo alla sua felicità, signora Maria; quest'ostacolo è tolto…. Si ricordi di me con benevolenza. Del giudizio degli altri non m'importa; del suo, sì. Pensi che l'ho amata molto, che non ho amato al mondo che mia madre e lei.»
—Oh Dio, è possibile?—gridò Maria nel leggere le prime righe di questa lettera. E quando l'ebbe finita, ridomandò con voce affannosa e tenendosi alla spalliera d'una seggiola:—Ma è vero dunque, ma perchè non m'ha detto nulla?
—Si calmi, cara Maria—rispose Roberto.—Lo vede, aveva promesso di tacere pel momento, e, se quel disgraziato di Cipriano mi avesse dato ascolto, avrei taciuto sempre…. Ma ora si calmi; per me non c'è più pericolo, e per lui pur troppo non c'è più rimedio…. Povero giovine!
—Che povero giovine d'Egitto!—scappò fuori Odoardo, che aveva raccolto il foglio caduto di mano a Maria.—Era un pazzo e un furfante, e il meglio che poteva fare era di levarci l'incomodo….
—Odoardo!—interruppero in tono di rimprovero Roberto e Maria.
—Sì, sì, io non ho i vostri sentimentalismi ridicoli. Non ci sarebbe stata pace a Valduria finchè colui fosse vissuto…. La sua morte è una vera liberazione, e per lui non meno che per gli altri. Con quei caratteri lì non si vive mai bene nel mondo.
—Forse è vero, ma ciò non toglie che Cipriano sia più da compiangere che da condannare. Aveva la stoffa d'un uomo superiore; e se fosse nato in condizioni diverse, chi sa che cosa avrebbe potuto divenire…. Basta tanto poco a determinare il destino degli uomini!
Odoardo tentennò la testa in segno d'incredulità. Maria invece guardò l'Arconti in un modo che voleva dire:—Come parla bene, come sono d'accordo con lei!
XXV.
Con la morte di Cipriano cessò l'ultimo soggetto d'inquietudine rimasto a Valduria dopo lo sciopero. L'ingegnere Arconti e Maria, le due persone per le quali Cipriano era stato più direttamente una minaccia e un pericolo, furono forse le sole che provarono un dolore sincero della sua tragica fine. Non si accetta mai volentieri l'idea di aver cagionato la morte di qualcheduno, e i due giovani, per quanto rassicurati dalla loro coscienza, non potevano negare di aver avuto una parte in questa catastrofe. N'era derivato poi un imbarazzo molto naturale nelle loro relazioni. Ciò che aveva sconvolto la mente di Cipriano era il pensiero fisso che l'Arconti gli avesse rapito il cuor di Maria, e Maria sapeva e l'Arconti indovinava che questo pensiero non era falso del tutto. Ella era ormai convinta di amar Roberto e Roberto era convinto di essere amato, ma ella non avrebbe osato confessare il suo amore, ed egli non sentiva ancora di poter ricambiarlo. L'imagine di Lucilla non gli usciva dall'anima; riconosceva ch'ella era indegna di lui, era forse vicino a non amarla più, ma diceva a sè stesso: Se non amerò lei, non amerò più nessuna.—Proponimenti che si fanno…. e non si mantengono.
Sia quel ch'esser si voglia, questa situazione era penosa per tutt'e due, ed era intollerabile in particolar modo a Roberto, che ne comprendeva meglio i pericoli. Che la lettera di Cipriano avesse pronosticato il vero? Che realmente egli fosse destinato a far la rovina d'un'altra persona, e proprio di quella che meritava su tutte di esser felice, e pel cui bene egli avrebbe con entusiasmo sparso il suo sangue? Era dunque una fatalità che pesava su lui? Dover nuocere quando voleva giovare; trovar l'indifferenza dove cercava l'amore; trovar l'amore dove si sarebbe contentato dell'amicizia? Adesso invece, dell'amicizia gli eran negati, se non i sentimenti, i conforti, perchè come discorrere a Maria di ciò che più gli stava a cuore? Come dire a lei (che lo amava) ch'egli non sapeva decidersi a non amare un'altra? Come svelare i disinganni che per colpa dell'altra aveva provato? Come chiederle consiglio prima di tagliar l'ultimo filo che lo univa all'affezione di tutta la sua giovinezza?
Mentre s'agitava in questi contrasti, gli capitò molto opportuna una lettera di M.^r Black, il quale lo sollecitava a decidersi circa alla proposizione che gli aveva fatta poco più d'un mese addietro a Valduria. Le trattative per l'acquisto della miniera di Rignano erano tanto avanzate da potersi dire conchiuse, semprechè egli accettasse il posto di direttore. Un buon direttore era indispensabile, e nessuno poteva esser migliore di lui. Nè si pretendeva più di tener segreto l'affare. Oltre che all'Arconti, M.^r Black scriveva anche a Odoardo Selmi, pregandolo d'interporsi presso l'amico affinchè troncasse gl'indugi e desse senz'altro una risposta favorevole. Per la miniera di Valduria, si diceva, non c'era ormai bisogno d'un secondo ingegnere della levatura dell'Arconti; le cose erano bene avviate, e bastava un buon impiegato che assistesse il Selmi negli uffici amministrativi. Invece a Rignano c'era da rifar tutto di pianta, e ci voleva precisamente un uomo ricco d'idee e di iniziativa. Del resto, la Direzione di Londra non intendeva di togliere all'Arconti ogni ingerenza nell'andamento della miniera di Valduria; essa desiderava anzi ch'egli vi facesse un paio d'ispezioni all'anno e che lo si consultasse in ogni difficoltà. A Roberto in particolare M.^r Black dimostrava poi una maraviglia alquanto stizzosa che gli occorressero sì lunghe meditazioni per afferrar la fortuna. Non ostante tutti i suoi meriti, si vedeva che egli non era inglese. Non sapeva se sua madre gli avesse messo degli scrupoli in testa: a ogni modo, egli soggiungeva, per degne di rispetto che siano le opinioni e i desideri di sua madre, un uomo non può sagrificare ad essi tutta la propria carriera.
M.^r Black faceva un inutile spreco di eloquenza. Egli predicava ad un convertito. La miniera di Rignano s'affacciava ora a Roberto come una tavola di salvamento che non gli era lecito di respinger da sè. Un sì detto a M.^r Black gli precludeva la strada a ogni debolezza verso Lucilla e lo allontanava da Valduria, ove la sua presenza non riusciva che a insidiar la pace della buona Maria. E poi egli avrebbe avuto nuovi ostacoli da vincere, nuovi rischi da affrontare, e solo in una attività raddoppiata egli poteva sperare di dimenticar le sue pene. Pareva un destino che la sua esistenza dovesse essere una perpetua battaglia. Nè se ne rammaricava; s'era avvezzo a non sentir la pienezza della gioventù e della vita che nell'ansie affannose della lotta.
Tuttavia non si sarebbe risolto ad accettar l'ufficio onorifico che gli era offerto se avesse creduto, accettandolo, di recar dispiacere a Odoardo Selmi, alla cui schietta amicizia, alla cui fraterna ospitalità andava debitore di tanto. Ma il Selmi, spensierato, indolente, mediocre d'intelligenza, aveva un cuor d'oro, ed era incapace di considerazioni piccine. Trovava la cosa più naturale del mondo che il suo amico, del quale riconosceva la superiorità, salisse più in alto di lui, e com'era stato il primo a metterlo in vista, così era il primo ad applaudire ai suoi lieti successi. Egli accolse quindi con vera letizia l'annunzio datogli da M.^r Black ed eccitò calorosamente Roberto a far pervenir subito a Londra la sua adesione.
—Non sei fatto per una posizione subalterna—diceva l'ottimo Selmi—e nemmeno per dividere il comando con altri. Tu devi essere il padrone assoluto. Se ci lasci, abbiamo il conforto che non vai che a pochi chilometri di qui. Inoltre, non ci abbandoni del tutto; sei il nostro ispettore, e sarai il nostro consulente nei casi dubbi…. Non l'avevo predetto che saresti in breve tempo direttore d'una miniera?
E Maria? Maria soffriva assai, ma faceva del suo meglio per non mostrarlo e per rassegnarsi. Non poteva succedere altrimenti; non era lecito supporre che l'ingegnere Arconti rimanesse sempre a Valduria. E sarebbe forse stato desiderabile che vi rimanesse? Già le confidenze d'un tempo non erano più possibili; Roberto aveva indovinato almeno una parte del vero, e ciò li costringeva tutti e due a un inusato riserbo. Ebbene, meglio così; meglio ch'egli se ne andasse via. Ella sarebbe tornata quella ch'era prima di conoscerlo; avrebbe fatto la pace, vivendo soltanto per suo fratello, soccorrendo i malati, amando e facendosi amare dai bambini della valle. Era decisa più che mai a restar zitella, a non pensare mai, mai ad un altr'uomo. Alzar gli occhi fino a lui era stata una pazzia; lo sapeva e non aveva diritto di lagnarsi di nessuno. Di quando in quando lo avrebbe rivisto, e quest'idea la consolava. Forse anch'egli avrebbe sentito qualche volta il desiderio della sua compagnia. Era vissuto fino allora come in famiglia; invece a Rignano si sarebbe trovato solo…. Solo? E Lucilla? No, Lucilla non sarebbe venuta. Maria n'era sicura. E su questa sicurezza ricostruiva timidamente, involontariamente, il suo bel castello di carte. Ma era così debole, così fragile da non durar che un istante.
Eccitato da tutte le parti a far una cosa di cui era già persuaso, l'ingegnere Arconti non esitò più. E in pochi giorni gli venne da Londra la notizia che la miniera di Rignano era stata comperata dalla Sulphur Society, e ch'egli n'era nominato ingegnere capo per cinque anni con uno stipendio di diecimila lire, aumentabili fino a dodicimila se i risultati del primo biennio fossero favorevoli. La consegna doveva succedere entro il mese con l'intervento di due rappresentanti delle due Società contraenti. Era in facoltà dell'ingegnere Arconti di tenere il personale esistente, o di cambiarlo. In quanto al vecchio direttore, il signor Max Rundberg, non c'era nessun provvedimento da prendere perchè egli si era inteso coi primi proprietari e si ritirava in Baviera. Per tutti i nuovi lavori da farsi, per tutte le riforme da introdursi, l'ingegnere Arconti avrebbe a suo tempo presentato delle proposte concrete alla Direzione Centrale.
L'annunzio della vendita fu accolto con gran favore dagli operai di Rignano, i quali erano convinti da un pezzo che le cose non potevano andare innanzi a quel modo, e che la miniera doveva passare in altre mani, o essere abbandonata. L'ingegnere Arconti vi avrebbe certo infuso una nuova vita come l'aveva infusa a Valduria, e la Sulphur Society come mostrava di saper scegliere i suoi uomini, così aveva mostrato di non lesinare all'occasione i suoi capitali, onde c'era da aspettare in breve la resurrezione di Rignano, già la prima delle zolfatare di quella provincia.
Roberto aveva bruciato i suoi vascelli. Per cinque anni almeno egli non poteva pensare più a tornare in patria o a stabilirsi in altra città. Nè s'illudeva sulle conseguenze di questa risoluzione. Lucilla non sarebbe venuta ad abitare con lui. Lucilla non l'avrebbe aspettato. L'amore ch'ella gli portava non era nè forte abbastanza da farle tollerare il soggiorno d'una miniera, nè abbastanza tenace da resistere alla prova del tempo.
Ma mentr'egli stava per comunicare a sua madre la gran novità, gli giunse da lei un dispaccio che lo fece strabiliare. Ella aveva bisogno urgente di vederlo e di parlargli; veniva quindi in persona, non a Valduria, ma alla città più vicina sulla linea ferroviaria. Sarebbe arrivata con la tal corsa per fermarsi poche ore. Fosse ad aspettarla alla stazione.
Che mai poteva aver indotto una donna così sedentaria e amante dei propri comodi ad alzarsi all'alba e intraprendere questo viaggio precipitoso? Roberto non sapeva proprio che cosa pensare. Che la signora Federica avesse fatto dei debiti? Ma perchè non gliene avrebbe discorso quando s'erano veduti poche settimane prima? E, a ogni modo, perchè non gliene avrebbe scritto? Possibile ch'ella avesse gli uscieri alla porta di casa? O che si trattasse invece del matrimonio?
Pieno di curiosità e d'inquietudine l'ingegnere Arconti si recò alla stazione di… all'ora indicata. Maria s'era offerta di accompagnarlo pel caso che la signora Federica potesse aver bisogno de' suoi servigi, ma Roberto non aveva voluto esporre la buona giovinetta ai superbi disdegni di sua madre. Ed ella non aveva insistito; s'era contentata di mettere a disposizione della signora Arconti la propria camera, se mai ella si fosse risolta a passar qualche giorno a Valduria.
—Mamma, come mai qui?—domandò Roberto con ansietà, aprendo lo sportello d'una carrozza di prima classe, e aiutando la signora Federica a scendere.
—Un momento—ella rispose con solennità, ravviando le pieghe del suo elegante vestito da viaggio e asciugando il sudore con un fazzoletto di batista profumato di muschio.—Capisci che, se son venuta sin qui col caldo che fa, avrò avuto le mie buone ragioni.
—Sicuro. E son queste ragioni che desidero di sapere…. Ci sono disgrazie? Lucilla?
—Lucilla è un fiore.
Roberto respirò.—Vuoi venire a Valduria? C'è una discreta camera per te.
—A Valduria?—esclamò inorridita la signora Federica.—Dio me ne guardi… Qui ci sarà un albergo, m'immagino…
—Diamine. Adesso ci andremo.
E fece salir sua madre in una vettura.
—Bella carrozza, non faccio per dire…. Non c'è di meglio in questi disgraziati paesi?… Figuriamoci poi Valduria.
—Bisogna adattarsi—soggiunse Roberto sorridendo.—E dunque… queste ragioni?
—Son venuta apposta per dirtele, ma lasciami pigliar fiato…
Tentennò la testa in aria patetica e continuò:—In che arnese sei! Pensare che il mio figliuolo potrebbe essere uno dei lions di Milano!… Sarà un'idea mia, ma giurerei che tu puzzi di zolfo.
—Possibile. Però credi pure che non faccio economia d'acqua.
La signora Federica tirò fuori da un nécessaire di bulgaro una boccetta d'acqua di Colonia e l'avvicinò al naso.
L'aspetto del principale albergo del paese produsse nella signora Arconti un effetto analogo a quello prodottole dalla vettura.
—È il migliore?—ella chiese a suo figlio, facendo una smorfia come il fanciullo che deve prendere una medicina.
—Appunto.
Ella trasse un profondo sospiro, ed entrò, inchinata con grande ossequio dal padrone dell'albergo, che non era avvezzo a ricevere viaggiatori così eleganti. Anche il cuoco, in giacchetta e berretto bianco, si affacciò alla soglia della cucina per veder passare la maestosissima forestiera; poi tornò a' suoi fornelli pensando ch'era venuto il momento di farsi valere.
La signora Federica girò tutte le stanze dell'albergo senza trovarne una che le convenisse; finalmente dovette accomodarsi alla meno peggio.
—In mezz'ora sono con te—ella disse al figlio.—Ordina intanto il desinare.
Si chiuse nella camera, ma siccome le mancava ora questa cosa, ora quella, suonò il campanello almeno una dozzina di volte e mise in iscompiglio tutta la servitù. Non ci sono rose senza spine, e il padrone del Grand Hôtel Royal di…. scontò con qualche piccola noja l'insigne onore di alloggiare la signora Arconti.
Ella non comparve nella salle à manger che dopo un'ora e più di toilette. Roberto, sui carboni accesi, l'aspettava seduto a tavola, sbocconcellando il pane per ingannar il tempo. Il desinare aveva sofferto dell'indugio ed era freddo; la signora Federica lo trovò pessimo, come pure trovò shocking l'ambiente, indecorose le stoviglie, sudicia la biancheria, orribili le posate. E pensare che tutto doveva esser peggio a Valduria! La signora Federica, dopo aver fatto le sue critiche in lingua francese per darsi più tono e per non esser capita dai camerieri, concluse con un'osservazione filosofica:—Gli uomini sono come le bestie; finiscono a vivere in mezzo alla sporcizia senza accorgersene.
Roberto la lasciò sfogarsi, ma quando gli parve ch'ella avesse vuotato il sacco delle sue querimonie,—Mamma—le disse giungendo le mani in atto supplichevole—toglimi di pena; spiegati…
—Il motivo del mio viaggio?… Eccomi qua…
Basta che tu non m'interrompa…. Hai sempre quel brutto vizio…
—Non t'interromperò… Parla.
—Devi dunque sapere… Ma fa prima portare un lume, perchè è quasi notte.
XXVI.
—Devi dunque sapere—ripigliò la signora Federica dopo che il cameriere ebbe posato sulla tavola un lume a petrolio—che da un paio di settimane il marchesino Moschi stringe un po' i panni addosso a Lucilla.
Roberto si lasciò scappare un—Imbecille!—che veniva dal cuore.
—No—soggiunse la signora Federica con gravità—il marchesino Moschi non è un imbecille. È un giovine per bene, pieno di riguardi anche per me, quantunque non possa ignorare ch'io invigilo tutti i suoi passi e combatto le sue mire…. Ma questo non importa…. Il fatto sì è che, dopo la sera dei quadri viventi, il marchesino s'è messo a frequentar la casa Dal Bono molto più assiduamente di prima e, a quel che mi consta, è entrato abbastanza nelle grazie di quell'orso che è il signor Benedetto.
—E di quella colomba ch'è Lucilla—osservò Roberto con ironia.
—Tu sai—continuò la signora Federica—se quella cara ragazza abbia confidenza in me. Si può dire anzi che se la intende più con me che con sua madre. Anche questa volta mi ha parlato col cuore in mano. Il marchesino Moschi, ella mi disse, è un buon giovine, è un bravo giovine, è nobile e ben veduto in società, è insomma un eccellente partito; ma io non ho alcun entusiasmo per lui, e preferirei sempre Roberto, malgrado della sua stravaganza… (Scusa, ha detto proprio così). C'è però da considerare una cosa, continuò Lucilla (pare impossibile come quella ragazza abbia le idee nette), c'è da considerare che Moschi fa proprio sul serio, e ha già lasciato intendere che verrebbe ad abitare in casa, e per la dote si accomoderebbe alle disposizioni del babbo… Roberto invece ha le sue idee matte, ha la sua superbia, non si degna, e sì che quando si degna un marchese… A questo punto puoi credere che m'è salita un po' la mosca al naso, e ho detto che gli Arconti non la cedono a nessuno, che se non hanno titoli, è perchè non hanno voluto rovistare negli archivi….
—Questo hai detto?
—Già, ho detto questo. E non ho parlato a caso, perchè un professore che pratica dai Dal Bono mi assicurò un giorno che c'erano degli Arconti ai tempi degli Sforza, e ch'erano una gran famiglia… Mariano, senz'alcun dubbio, discendeva da quelli….
—Tira via.
—Tu pur troppo non capisci più nulla delle cose del mondo.
—Sarà, ma veniamo alla conclusione.
—La conclusione è questa. Lucilla mi dichiarò che non può essere la serva umilissima de' tuoi capricci, nè può restar zitella indefinitamente, e che quindi sposerà il marchesino Moschi se tu non ti decidi ad agire da uomo ragionevole…
—Cioè a lasciar questi luoghi e a supplicare il signor Benedetto Dal Bono che mi dia un posticino in casa sua, e mi faccia l'onore di prendermi per genero e per commesso.
—L'onore lo fai tu a lui…..
—Va benissimo—disse Roberto con calma forzata.—E tu cos'hai risposto?
—Ho pensato che non era più tempo da ciarle ma da fatti. Ho detto a me stessa. Per vincere la cocciutaggine di mio figlio non c'è che un modo, andar in persona a parlargli.
—Povera mamma!
—Fu una decisione presa lì per lì, in ventiquattr'ore…. Non avevo nemmeno una toilette da viaggio. Figurati, non m'ero più mossa da Milano dopo la morte del mio povero marito…. Ma la Chaillon ha fatto miracoli…. Dalla mattina alla sera mi ha approntato questo vestito, ch'è un bijou …. È inutile, le altre sarte non hanno quel chic che ha lei… Basta; questa mattina mi son levata all'alba, ti ho spedito un telegramma, e mi son messa in viaggio…. Guai se noi altre mamme non si sapesse, nei casi estremi, prendere di queste risoluzioni disperate.
—Povera mamma!—ripetè Roberto commosso all'idea di dover togliere l'ultime illusioni a lei, che credeva in buona fede di avergli reso un servigio inestimabile.
—Adesso tocca a te a parlare—disse la signora Federica.—Vuoi che usciamo all'aperto?… Questa sala mi fa oppressione di respiro.
—Usciremo or ora—osservò l'ingegnere.—Se non ti dispiace, la mia risposta la darei a Lucilla con due righe in iscritto….
—Come? Io non saprò nulla?
—Mi son spiegato male….. Le due righe le scriverò qui sotto i tuoi occhi e le consegnerò a te.
—Ma…
—Credi, mamma, è meglio così.
Roberto scosse il campanello, e ordinò al cameriere qualche foglietto di carta da lettere e qualche sopraccoperta.
Quand'ebbe l'occorrente, egli scrisse l'intestazione: «Cara Lucilla.» La mano gli tremava; si alzò, e fece un pajo di giri per la sala, sperando di calmare un poco l'agitazione de' suoi nervi.
La signora Federica aveva un vago presentimento che le cose non sarebbero andate a seconda de' suoi desideri. Pure la sua insanabile leggerezza le fece fare un'osservazione stupida:—Dev'essere impossibile scrivere su quella carta.
—Il marchesino Moschi ne avrà certo di migliore—rispose Roberto, rimettendosi a sedere. La signora Federica avrebbe voluto soggiungere qualche cosa, ma suo figlio la supplicò di lasciarlo tranquillo mentre scriveva. E scrisse infatti poche righe, interrompendosi ogni momento, come se avesse bisogno di riprender lena.
Alla fine porse in silenzio il foglio a sua madre. La signora Federica lesse:
«Cara Lucilla. L'offerta ch'io t'avevo fatta era una prova di amore e di rispetto, perchè alla donna rispettata ed amata l'uomo non può offrir nulla di più onorevole che di divider con lui la posizione ch'egli ha saputo conquistarsi col suo lavoro. L'offerta che tu mi rinnovi col mezzo di mia madre mi avvilisce e mi umilia. Pur troppo noi intendiamo in modo diverso i sentimenti e i doveri su cui si fonda un'unione destinata a durar tutta la vita. Cresciuti insieme sin dalla prima età, nutriti nella speranza di non dividerci mai, noi ci troviamo invece costretti a una separazione penosa. Addio, Lucilla. Che tu possa esser felice. Io non sarò più tale sulla terra. Da quando è morto mio padre, non ho sofferto mai come oggi. Addio, saluta i tuoi genitori, e specialmente la buona signora Giulia.
«ROBERTO ARCONTI.»
La lettura di questa lettera strappò alla signora Federica una serie di esclamazioni che esprimevano la sorpresa, lo sdegno, il dolore. Giunta alla fine, non seppe più tenersi, e, rossa in viso dalla collera, lacerò il foglio, protestando che non avrebbe certo acconsentito a portare un simil messaggio.
Roberto, spiegando una sovrumana energia per non prorompere, raccolse i frammenti della lettera e disse.—Quand'è così ricopierò il mio scritto e mi servirò della posta.
Ma una tale tranquillità non riusciva che a irritare maggiormente la signora Federica.
—È un'infamia—ella disse.—Tu non hai nè testa, nè cuore. Rovini il tuo avvenire, pianti Lucilla, e getti nella miseria tua madre.
—Povera mamma! Tu fai i conti in una certa maniera…. Credi sul serio che saremmo più ricchi di adesso il giorno in cui fossi in casa Dal Bono a godermi i frutti della dote di Lucilla e il piccolo stipendio che forse mi darebbe il signor Benedetto come suo agente?
—Oh il signor Benedetto non vive molti anni, e allora….
—Via, non facciamo questi calcoli vergognosi…. Sappi invece che, quando mi capitò il tuo dispaccio, io stavo per iscriverti che ero nominato direttore della miniera di Rignano a pochi chilometri da Valduria, e che la mia posizione è mutata in modo da permettermi di portare il tuo assegnamento mensile a cinquecento lire. Aggiungi a questo il frutto della tua dote, e l'altre piccole entrate che ti rimangono…. È la miseria?
In altri tempi questa notizia avrebbe prodotto un gran piacere alla signora Federica, ma infatuata com'era nell'idea del matrimonio, ella si strinse nelle spalle e disse:—L'interesse? Mi curo forse dell'interesse? È il decoro che mi preme…. Un Arconti minatore, mentre potrebbe essere accolto a braccia aperte nella miglior società di Milano come marito d'una ricca ereditiera…. Oh, questo colpo non me l'aspettavo….
—Eppure, cara mamma, ho parlato sempre ad un modo.
—Non lo nego, ma chi poteva immaginarsi un'ostinazione simile? Anche Mariano era ostinato, ma non così, non così…. Già per me è finita…. È come se non avessi più figlio.
—Vuoi venirci a stare con questo figliolo snaturato?
—Io in questi luoghi? Io ridurmi una contadina?
—È vero, qui tu staresti a disagio, e io non insisto. Ma sappi che le braccia e la casa di tuo figlio ti son sempre aperte. Un giorno gli darai forse ragione.
—Mai, mai—rispose la signora Federica. E soggiunse:—Adesso voglio partire al più presto; anche questa notte, se c'è una corsa.
—Non puoi partire che domattina…. Avrai bisogno di riposo…. Va nella tua camera…. Dormirò anch'io in questo albergo, e ti accompagnerò domani alla stazione…. E, a proposito, hai tutto il denaro occorrente pel viaggio?
La signora Federica guardò nella borsa e si accorse di non aver che poche lire. Sulle prime ne fu maravigliata perchè le pareva d'esser uscita di casa col portamonete ben fornito, ma poi si ricordò che alla stazione di Milano aveva avuto la debolezza di comperare un piccolissimo pappagallo offertole per quaranta lire, una miseria. L'aveva consegnato alla cameriera perchè lo mettesse nel salottino; sarebbe stata una compagnia; era così sola! Sperava poi che questo pappagallo non farebbe la riuscita dell'altro che ella aveva avuto in passato; questo era giovine, se lo sarebbe educato lei.
Roberto, malgrado della tristezza che l'opprimeva, non potè a meno di sorridere.
—Ecco, i pappagalli non si possono proprio ritenere una spesa necessaria…. Pazienza…. Domattina comprerò io il biglietto…. E questo vestito da viaggio quanto ti costa?
—Non lo so, non ho fissato il prezzo.
—Quando ricevi il conto, mandalo a me…. T'avrò fatto un piccolo regalo.
—Se speri di ammansarmi con queste moine, t'inganni—rispose la signora Federica, che aveva però rimesso alquanto della sua baldanza dopo la confessione dell'acquisto del pappagallo.
Fatto si è che la mattina seguente ella si alzò molto più calma. Non che si fosse persuasa delle ragioni di suo figlio; tutt'altro. Persisteva sempre a volerlo sposare con Lucilla, ma aveva una nuova idea. Avrebbe parlato con un tale, persona molto influente in paese, raccomandandogli di trovar subito a Milano un posto per Roberto che gli rendesse quanto la direzione della miniera. Allora, per Bacco, non ci sarebbero più obiezioni.
—Ce ne sarebbero due sole—osservò Roberto—la prima ch'io sono impegnato con la Sulphur Society per cinque anni, la seconda che il matrimonio tra Lucilla e me ormai è impossibile. Tu non vuoi portare a Lucilla la mia lettera, e sia pure. Questa lettera la imposterò alla stazione io medesimo.
—Sei un caparbio—disse la signora Federica, arrabbiandosi di nuovo.—Ma io farò che Lucilla non dia retta a quello che tu scrivi, io ti salverò tuo malgrado.
—Povera mamma!—esclamò Roberto, ripetendo ancora una volta una frase che gli era venuta sulle labbra così spesso nello spazio di poche ore.
Prima di salire in vagone, la signora Federica sussurrò all'orecchio di suo figlio:
—E le cinquecento lire cominci a spedirmele il mese venturo?
—Sì, mamma. Bada però di non comperare altri pappagalli.
Il treno si mosse portando seco la signora Arconti, che non poteva certo lodarsi dell'esito del suo viaggio, ma si consolava nella fiducia di esser presa per una gran dama da due inglesi i quali si trovavano nello stesso scompartimento.
Roberto seguì con l'occhio il convoglio che si dileguava, poi s'avviò tristamente in cerca d'una vettura che lo riconducesse a Valduria. Era dunque finito tutto? Con la lettera scritta a Lucilla egli aveva dunque messa la pietra sepolcrale sul suo passato? Addio sogni lungamente accarezzati con la fantasia, addio speranze di chiuder la vita accanto alla donna che, prima, gli aveva svegliato nel petto i palpiti dell'amore! A voltarsi indietro col pensiero, Roberto vedeva sempre Lucilla. La vedeva bambina, vispa, snella, ricciuta, dai labbri di corallo e dai grand'occhi neri, ch'erano un incanto; poi fanciulla capricciosetta e bellissima, più bella di quant'erano le fanciulle della sua età, poi si ricordava d'un periodo assai breve, quattro o cinque mesi forse, in cui quella bellezza s'era alquanto offuscata per rifiorire dopo più splendida, più superba di prima. E si ricordava d'aver protetto la bambina, d'aver diviso i giochi della fanciulla, d'aver detto alla giovinetta tante dolci parole, d'averne tante sentite da lei. Si credevan da un pezzo due promessi sposi; e si prendevan le confidenze di due promessi sposi. Quante volte le loro labbra s'eran toccate, quante volte il braccio di Roberto aveva cinto la svelta e flessuosa persona di Lucilla! Ed egli le aveva aperto tutto il suo cuore; l'aveva messa a parte di tutto ciò che c'era in lui di più geloso e di più segreto…. e adesso, adesso ella era in procinto di diventar moglie d'un altro, e quelle confidenze, ch'egli aveva deposte nella sua anima come in un santuario, stavano per essere profanate da un'intimità nuova. Quest'idea era intollerabile a Roberto, e lo faceva dubitare di ciò che poc'anzi gli appariva limpido e chiaro come la luce del sole. Perchè aveva gettato Lucilla nelle braccia del marchesino Moschi? Perchè le aveva scritto una lettera secca, recisa, che toglieva l'adito a ogni riconciliazione? Perchè non aveva studiato un mezzo termine? E infine, a Milano, perchè non s'era almeno preso il gusto di dare una sciabolata al temerario che aveva osato insidiare il suo bene? Santo Iddio! Queste domande non se le era già fatte un milione di volte? Non vi aveva risposto in modo soddisfacente? Non aveva acquistato la convinzione d'aver seguito l'unica via che un uomo d'onore potesse seguire? E come mai ricadeva ora nelle antiche incertezze?
Egli arrivò così a Valduria col proponimento di scendere nelle gallerie sotterranee appena si fosse cambiato vestito. Odoardo era in giro per la miniera; Maria invece era in casa occupata a rimendare un abito di suo fratello.
Come spesso le accadeva, ella era tranquilla d'aspetto, agitatissima di spirito. La venuta della signora Arconti era parsa anche a lei un fatto così singolare da non poter trovare la sua spiegazione che in qualche avvenimento straordinario. Aveva perciò atteso con impazienza febbrile il ritorno di Roberto; ora che egli era tornato, la paura d'esser indiscreta l'ammutoliva. Pur si fece coraggio, e sentendolo passare nell'andito gli disse:—Signor Roberto, non viene nemmeno a salutarmi? Non ha bisogno di nulla?
—Venivo anche da me, sa—rispose l'ingegnere, sforzandosi di assumere un fare scherzoso, ed entrò nella stanza con la mano tesa verso Maria,—Venivo anche da me, e non perchè avessi bisogno di qualche cosa.
Quand'ella lo vide, il doppio istinto della donna, e della donna che ama, le rivelò subito che, se egli aveva il sorriso sul labbro, aveva la morte nell'anima.—Dio mio—ella esclamò—soffre?
In viso alla giovinetta era dipinta una simpatia così vera, così viva, così profonda che Roberto ne fu scosso in tutte le fibre. Il bisogno di espansione, di confidenza, prevalse in lui ad ogni altro riguardo; si abbandonò sopra una seggiola e disse:—Sì, soffro.
—Una disgrazia?
—Quando giunsi a Valduria—replicò Roberto—le raccontai il principio d'una storia d'amore. Poi tacqui. Quella storia d'amore mi costava tante pene!… Vuol saperne la fine?
Allora Roberto espose in tutti i loro particolari i fatti che già conosciamo. Alla fine estrasse di tasca i frammenti della lettera a Lucilla che sua madre aveva lacerato in un impeto di collera, e li ricompose sotto gli occhi di Maria, dicendole:—legga e poi giudichi.
—Giudicare io?…. No, no—supplicò Maria turbata, commossa, frenando a stento le lagrime. E intanto divorava con gli occhi le poche righe contenute in quel foglio.
—Giudichi lei—ripetè Roberto—lei che ha il cuore così buono e il criterio così giusto. Potevo subire le umiliazioni che mi si offrivano? Potevo continuar ad amare una fanciulla che non voleva fare per me nessun sacrificio e mi imponeva quello della mia dignità?
—Ma, signor Roberto, perchè vuol che pronunzi un giudizio? Sono anch'io una povera donna…. direi uno sproposito….
—Ciò significa che non vuol condannare un'altra donna…. Condanna piuttosto me….
—Ah no!—ella proruppe con un grido sublime d'impeto e di verità.
—Grazie, buona Maria, di questa parola—esclamò l'ingegnere afferrandole la mano.
Ella era trasfigurata da una folla di sentimenti e d'impressioni che non avrebbe saputo definire. Era immensamente felice, e arrossiva, si vergognava pensando che ciò che l'aveva fatta felice era l'annunzio d'una sventura che aveva colpito l'amico suo. Nella confusione in cui si trovava non seppe dire altro che:—Coraggio! l'avvenire la compenserà di quello che soffre oggi…. Merita tanto d'essere amato..
Capì d'aver detto troppo, e si fece del color della porpora.
Ma Roberto non raccolse quest'ultima frase. Lasciò la mano di Maria, e tentennando tristamente la testa, disse a mezza voce:—Oh! l'avvenire….
Poi si affacciò alla finestra, e stendendo il braccio verso un punto lontano nella campagna riprese:—Si ricorda di quel pioppo laggiù, colpito dal fulmine l'estate scorsa, poche settimane dopo il mio arrivo? si regge ancora, vivo forse, ma senza foglie. La primavera non ne ha fatto una sola sui suoi rami intristiti. Così sarà di me… Anch'io fui colpito dal fulmine… M'hanno schiantato il cuore… A lei, Maria, serberò gratitudine eterna.
La commozione gli troncò la voce; si passò rapidamente la mano sulla fronte e uscì dalla stanza. Nè vide che gli occhi di Maria si erano nuovamente riempiuti di lagrime. Era troppo occupato del suo dolore da accorgersi del dolore altrui.
XXVII.
Da oltre quindici giorni la zolfatara di Rignano era stata consegnata alla Sulphur Society. Il signor Max Rundberg era partito per Monaco, sperando di trovarvi la buona birra e le floride Kellnerinnen che avevano rallegrato la sua prima gioventù; e l'ingegnere Roberto Arconti aveva assunto la direzione d'una miniera nella quale le cose erano da anni e anni trasandate a un punto da non potersi credere. Si lavorava appena in un pajo di gallerie, la fusione del minerale era fatta coi metodi più antiquati, le pompe vecchie e logore adempivano malissimo al loro ufficio, onde l'acqua invadeva ogni tanto il sotterraneo, recando gravi danni e cagionando grandi pericoli. Il signor Tranquilli, mugnajo e sindaco del paese, nel salutare il nuovo ingegnere a nome dell'intera cittadinanza, gli aveva rivolto un discorso assai involuto, concludendo col dire che la miniera di Rignano, esercitata fin dai tempi mitologici, doveva, per merito suo, tornar ad esser la prima di tutto l' orbe terraqueo.
Roberto non aveva mire così ambiziose, ma egli non era uomo da mettersi a mezzo in un'impresa ed era anche in tali disposizioni d'animo da non trovar pace che in un lavoro assiduo e febbrile. La sua attività, sempre maravigliosa, pareva essersi raddoppiata; delle ventiquattr'ore del giorno si può dire che non ne consacrasse cinque al riposo. Aveva pel momento preso alloggio in un paio di stanze già occupate dal suo predecessore, ma non ci stava che per dormire…. La solitudine gli era intollerabile, e finchè la stagione glielo permetteva amava meglio di attendere alla parte amministrativa del suo ufficio sotto una tettoia fradicia e scompaginata che serviva come luogo di deposito provvisorio del minerale e ove c'era un viavai di gente. Aveva bisogno che nulla lo distraesse dalle cure della miniera; ogni sosta, ogni interruzione era una breccia aperta ai tristi pensieri che lo assediavano. Nè questi pensieri si riferivano soltanto ai suoi disinganni amorosi; egli confrontava anche il vecchio col nuovo soggiorno, e ridesiderava Valduria, ove nella casa del suo amico Selmi aveva trovato una seconda famiglia. Rammentava con commozione le sere passate nel salottino mentre Odoardo fumava la sua pipa e sorseggiava il suo bicchiere, e Maria lavorava d'ago o studiava il francese. Povera Maria! S'egli non fosse andato a Valduria con l'immagine di Lucilla nel cuore, se non avesse poi per un anno continuato a idoleggiar questa fanciulla ad onta delle prove più patenti d'indifferenza, se oggi la grandezza medesima della sua disillusione non lo avesse reso incapace di aprir l'anima ad un nuovo affetto, Maria avrebbe potuto esser sua sposa e farlo felice. E sarebbe stata felice anche ella, perchè lo amava, e per amor suo aveva soffocata forse un'altra simpatia nascente, e aveva spinto alla disperazione quello sciaguratissimo uomo di Cipriano. Povera Maria! Gli era pur forza convenire che la mancanza di lei era un vuoto nella sua vita. Gli pareva vederla, bella di quella bellezza che dà la bontà accoppiata all'intelligenza, girar tranquillamente operosa nella casa attendendo alle faccende domestiche, o accingersi semplice e modesta a uno di que' suoi pellegrinaggi nella valle di cui ell'era l'angelo tutelare e ove ella, senza saperlo, ingentiliva i modi e i costumi. Che cos'era al paragone Lucilla, malgrado della sua splendida avvenenza, e delle sue eleganze cittadine, e del suo cinguettare in più lingue, e della sua cultura di frontispizi? Ah, Lucilla stava per anteporgli un nobiluccio floscio e linfatico? Ed egli perchè non le aveva risposto mostrandole che sapeva farsi amare da donne migliori di lei? No; nè egli poteva così ad un tratto cambiar l'oggetto del suo culto, nè Maria meritava l'offesa d'essere amata per far dispetto ad un'altra. E poi egli le aveva detto il vero. Egli era simile al pioppo di Valduria colpito dal fulmine: la sua esistenza era distrutta, il suo cuore era morto.
E pareva realmente che ormai egli amasse ben poco la vita. Il suo coraggio naturale era spinto fino all'audacia, fino alla temerità, e destava maraviglia ne' più intrepidi fra i minatori. Pure a vederlo uscire incolume dai maggiori pericoli, quella gente rozza andava via via formandosi l'opinione che egli fosse invulnerabile. E qualche fatto singolare aveva dato credito a quest'opinione. Un giorno, per esempio, in cui una mina tardava molto a scoppiare, l'ingegnere Arconti insieme a un pajo d'uomini s'avvicinò per vedere se la miccia era spenta. Accortisi subito ch'essa ardeva ancora ed era quasi consumata per intero, si ritirarono a precipizio, e riuscirono ad imboccare in tempo una galleria laterale, tantochè, quando successe l'esplosione, i rottami non vennero a colpirli. Non poterono però evitare d'essere avviluppati dai vapori di zolfo e di prendersi ciò che nelle miniere di Romagna chiamano una fumata. Ma mentre i due che avevano seguito l'ingegnere furono a un pelo di rimanerne asfissiati e non poterono lavorare per una settimana, egli se la cavò con una leggera raucedine. In un'altra occasione una scala a piuoli per la quale si discendeva in una delle gallerie più profonde s'era rotta appena egli aveva messo il piede a terra. Un secondo prima lo avrebbe travolto nel precipizio. Ora, quello che crea la riputazione d'invulnerabilità non è già che i pericoli, anche affrontati, non si presentino, ma che presentatisi, si scampino.
Finchè la zolfatara di Rignano era esercitata dalla vecchia Società non la si poteva dire più malsicura dell'altre. Ma la sicurezza si era acquistata a prezzo dell'inerzia abbandonando tutti i punti ove sarebbe stato necessario un maggiore impiego di forza o una maggior ricchezza d'espedienti. Adesso invece si trattava di rimettere in opera anche quella parte della miniera ch'era trascurata da lungo tempo e per la quale non s'eran voluti fare nemmeno i lavori indispensabili per la conservazione dello statu quo. Così i rischi presenti erano frutto della negligenza passata.
Il render praticabili le vecchie gallerie era una delle prime cose a cui si doveva pensare, e non era certo nè la più facile nè la meno costosa. Le armature di legname che le rivestivano, infracidite per l'umidità e non racconciate mai, avevano ceduto in parecchi luoghi e minacciavano di cedere dappertutto sotto il peso che sostenevano. Bisognava rinnovarle di pianta, ma anche in ciò era necessaria una grande circospezione, perchè, solo a porvi la mano, succedevano parziali avvallamenti che potevano finire in un vero disastro. L'ingegnere Arconti, molto più cauto pegli altri che per sè, dirigeva i lavori con somma prudenza, nè permetteva agli operai di avanzarsi oltre quei punti ch'erano già muniti di valide difese. Se c'erano ricognizioni ardite da fare, preferiva farle egli stesso.
Una mattina, volendo vedere co' propri occhi lo stato d'una di queste gallerie, nella quale erano appena principiate le riparazioni, egli s'era spinto avanti da solo, ordinando a tre o quattro minatori, che l'avevano seguito fino all'imboccatura, di fermarsi ad attenderlo. La galleria era stretta e bassa per modo da non potervi star ritti; le due file di travi che sostenevano le pareti, premute dai due lati, mostravano una tendenza irresistibile a gettarsi l'una sull'altra e già, invece di formar due linee parallele, formavano due linee convergenti. Sulla loro superficie poi l'umidità aveva fatto spuntare certe strane escrescenze, alcune della natura dei funghi, tenacemente abbarbicate al legno, altre somiglianti a bioccoli di lana, che, a toccarle, restavano attaccate alle dita. Il piede si sprofondava nel terreno inuguale e melmoso, e giù dalla vôlta e lungo le pareti l'acqua gocciava con un rumore assiduo, monotono, come dalle gronde dopo una giornata di pioggia.
L'Arconti, tenendo in mano la lampada, aveva percorso tutto quest'angusto corridojo lungo forse una trentina di metri ed era giunto a una specie di stanza a vôlta (se si può chiamarla così), che portava ancora nei fianchi i segni delle mine con cui era stata scavata. Ci si stava comodamente in piedi, e ad arrivarci dopo aver dovuto camminar quasi carponi, si provava un senso di sollievo come di chi è alleggerito di un incubo. Senza dubbio, in altri tempi, di là doveva esser estratto il minerale in gran copia, e il giovine ingegnere s'era messo ad esaminare ansiosamente la natura della roccia, picchiando in vari punti con un piccolo martello che aveva portato seco.
Ma nel passar davanti all'apertura della galleria in fondo alla quale brillavano, come stelle nelle tenebre, i lumi dei minatori che attendevano il suo ritorno, lo assalì d'improvviso un pensiero orribile. Non ci era altra uscita che quella; se per un accidente essa si fosse otturata, sarebbe stato sepolto vivo! Intrepido com'era, quest'idea gli gelò il sangue nelle vene; afferrò la lampada che aveva confitta nella roccia, e chinando la persona entrò nella galleria. Ma appena vi aveva posto il piede, fu costretto a retrocedere spaventato. Pochi passi avanti a lui l'armatura della vôlta e delle pareti crollava con uno scroscio; per un momento attraverso uno spiraglio rimasto si videro i lumi lontani avvicinarsi, s'intesero delle voci angosciate che gridavano—Si salvi, si salvi;—poi si sentì un nuovo scroscio, anche quello spiraglio si chiuse, i lumi disparvero, le voci umane s'ammutolirono.
Come ci sono dei sogni che pajono realtà, così ci sono delle realtà che pajono sogni. Nel suo sbalordimento, Roberto si stropicciò gli occhi in atto di persona che vuol destarsi, chiamò a raccolta i suoi pensieri, riandò in un baleno tutto ciò che aveva fatto nell'ultima mezz'ora, e dovette convincersi che non era, no, in preda a una allucinazione dei sensi, ch'era veramente prigioniero là dentro senza modo di scampo, che forse ogni tentativo di salvarlo sarebbe fallito, che forse egli sarebbe morto di fame. Inorridì, i capelli gli si drizzarono sulla testa, e dal petto gli usci un urlo di disperazione e di rabbia, che echeggiò lugubremente nella sua tomba. Aveva sfidato con animo risoluto i multiformi pericoli della miniera, lo scoppio delle mine, l'esplosione dei gaz, le cadute giù per le scale lubriche ed erte; aveva affrontato senza impallidire le collere della natura e le vendette degli uomini, ma questo supplizio, ma questa fine probabile oltrepassava le sue previsioni. O a meglio dire, l'aveva prevista, ma troppo tardi, quando non aveva più tempo di sfuggire alla catastrofe che s'era dipinta con la fantasia. La sua stoica fortezza l'abbandonava; egli maledisse l'istinto codardo che gli aveva fatto preferire una morte lenta e terribile a una morte immediata. Perchè, quando vide rovinar la galleria da tutte le parti, non si precipitò avanti invece di chiudersi volontario nella sua carcere? Non era meglio restar seppellito all'istante sotto le macerie che penar lunghe ore in una dolorosa agonia? E forse i minatori lo credevano bell'e spacciato, e in questa persuasione non si curavano nemmeno di accorrere in suo ajuto.
Chiamò, e nessuno gli rispose; ascoltò attentamente e gli giunse all'orecchio uno strepito sinistro, come d'una rotta di fiume; certo di là dalla frana, l'acqua aveva invaso la galleria. Crescevano così le difficoltà di salvarlo. E a ogni modo, chi si sarebbe messo a capo dell'impresa? Chi avrebbe conservato il sangue freddo necessario per adottare gli espedienti opportuni, la perseveranza indispensabile per non iscoraggiarsi ai primi insuccessi? Ah! se uno de' suoi operai si fosse trovato nel caso suo, ed egli fosse stato fuori a dirigere l'opera di salvamento, aveva fede che sarebbe riuscito, aveva la coscienza che nessun ostacolo sarebbe bastato ad intimidirlo. Egli era simile al medico che giace infermo, e crede di conoscere il farmaco richiesto dalla sua malattia, ma non può nè parlare nè scrivere, e intanto ha ragione di ritenere che i dottori i quali circondano il suo letto sbaglieranno la cura.
Era istupidito, inchiodato al suo posto, facendo dondolare macchinalmente la lampada che teneva in mano. Un sudor freddo gli colava dalla fronte e dalle gote, le sue membra tremavano tutte. A un tratto si tastò in una saccoccia del soprabito, e un lampo fuggitivo di gioia brillò sul suo viso livido. Egli aveva con sè il suo revolver, e quell'arma, in quel momento, gli apparve come un'amica, come una benefattrice. A lei, quando avesse perduto ogni altra speranza, quando i suoi patimenti fossero intollerabili, egli poteva sempre chiedere la liberazione suprema. Questo pensiero gli rese un po' di calma; egli infisse nuovamente il lume nella parete, raccolse da terra l'orologio che gli era caduto nel primo sforzo fatto per islanciarsi fuori della sua prigione, e sedendo su una sporgenza del masso, incrociò le braccia e stette ad attendere. Aveva ancora negli occhi il sole veduto un'ora prima, e il verde dei prati, e l'azzurro immacolato del cielo; le gioconde immagini della vita gli danzavano innanzi, e non sapeva persuadersi di dover morire….
XXVIII.
Nel partir da Valduria, Roberto aveva detto a Maria Selmi:—Lascio qui per ora i miei libri; prevedo che non avrò tempo di leggere, e poi non saprei dove metterli. Quando avrò un quartierino decente, verrò a prenderli. Intanto li affido a lei; dia loro talvolta un'occhiata e procuri che non sian guasti dalle tignuole. Beninteso che deve servirsene come di cose sue.
—Farà qualche visita a questi suoi amici?—gli aveva chiesto Maria.
—Che intende per questi?
—I suoi libri.
—Oh, ne ho qui di molto più cari, e cercherò di vederli quanto più spesso potrò—aveva risposto l'ingegnere Arconti stringendo la mano della giovinetta.
Non ostante la sua promessa, Roberto non aveva trovato il momento di far una corsa a Valduria. Erano giunte bensì parecchie imbasciate sue coi suoi saluti e con le sue scuse. Diceva d'essere affranto dal lavoro e di dover restar quasi senza interruzione, dì e notte, in miniera.
—Non potrebbe darci retta nemmeno se andassimo noi a cercarlo—osservò un giorno Odoardo, dopo aver preso in esame l'idea d'una gita a Rignano.
La mancanza di Roberto pesava immensamente anche a Odoardo, il quale, non solo s'era avvezzato a pender dal suo labbro in tutto ciò che si riferiva alla miniera, ma lo considerava come uno di famiglia. Così avesse voluto entrare nella famiglia davvero!
Maria soffriva molto più di suo fratello, ma faceva il possibile per nasconderglielo, per andargli incontro col viso sereno e ridente. Però non ci riusciva che a mezzo, e Odoardo si lasciava scappar qualche volta un sospiro e un'esclamazione:—Povera sorellina mia!
Ella non gli permetteva di continuare, e mettendosi un dito sulla bocca, diceva in tono di comando;—Zitto. Non voglio questi compianti.
Quando non aveva testimoni, quand'era sola, le accadeva spesso di sentirsi le guancie inondate di lagrime.
Un'occupazione estremamente geniale per lei era quella di tener in ordine i libri del suo amico lontano. Li tirava fuori dagli scaffali a uno a uno, li spolverava con diligenza, e poi li riponeva delicatamente al loro posto. Allorchè le capitava sott'occhio un volume che aveva visto più spesso in mano di Roberto o del quale aveva letto qualche squarcio con lui, ci fermava l'occhio più a lungo, evocando i bei giorni fuggiti.
A quest'occupazione ell'aveva atteso appunto nella mattina in cui successe a Rignano il tragico fatto che già conosciamo. Poi s'era avvicinata alla finestra, e tenendo sollevato un lembo della cortina guardava la campagna ubertosa, e la poca acqua del fiume che si svolgeva nella valle come un nastro d'argento, e le cime dei monti velati da tenui vapori. In mezzo a quei monti c'era Rignano, e il pensiero di Maria volava a Roberto. Dov'era in quel momento? Che faceva? si ricordava di lei? Era la stagione in cui l'estate muor nell'autunno, e l'uva s'indora sui tralci, e i campi s'allegrano delle biade mature. L'anno scorso, proprio in quel tempo, i due giovani imprendevano delle lunghe passeggiate insieme, e l'ingegnere Arconti, non ancora invaghito della vita di miniera, aveva detto una volta alla sua compagna—Gli uomini sono pur curiosi! La terra è così bella alla superficie, ed essi vanno a tormentarla a parecchie centinaia di metri di profondità; è così bella la luce, ed essi cercano le tenebre; possono inebbriarsi nel profumo delle rose, e si divertono a empir l'aria di odori antipatici, come per esempio quest'odore di zolfo che fa venir la tosse….
Oh! A poco a poco egli s'era ben avvezzato all'odore di zolfo.
E Maria pensava a tante altre cose successe in un anno! La vecchia Gertrude era morta benedicendola e augurandosi ch'ella fosse la sposa, la confortatrice del figlio suo. Ella invece aveva sdegnosamente respinto quel suo innamorato, ed egli, reso quasi pazzo dal dolore, era divenuto assassino e suicida, e riposava ora presso alla madre nel camposanto. Riposava? Chi sa se i morti riposano? Se non maturano nel silenzio della tomba, se non compiono per mezzo di strumenti invisibili le vendette che meditarono in vita? Maria provò un senso di freddo e di paura. Le parve che Cipriano sorgesse dal suo sepolcro a minacciar Roberto. Lasciò cader la tendina, e si ritrasse dalla finestra.
Erano le dieci, e bisognava apparecchiare il desinare per quando Odoardo tornava dalla miniera. Maria discese in cucina, e infilò nello spiedo un pezzo di montone che il carrettiere aveva portato poco prima dalla città e ch'era una delle vivande favorite di suo fratello, il quale le diceva sempre che nessuna cuoca la pareggiava nell'arte di rosolare un arrosto. E anche l'ingegnere Arconti s'era ripetutamente congratulato con lei di questa sua abilità.
La donna di servizio, lagnandosi che quel giovinastro di Luigi non si fosse fatto ancora vedere nella giornata, era andata a prendere un paio di secchi d'acqua, e Maria era sola davanti al focolare quando sentì i passi affrettati di Odoardo.
—Non sarai mica venuto per desinare—ella gli gridò dalla cucina.—Non sono che le dieci.
—Ah Maria, sei qui—egli rispose con voce alterata.
—Sì, cos'hai?
Ciò ch'egli aveva non avrebbe voluto dirlo, ma il segreto era impossibile.
—Nulla—egli replicò entrando in cucina.—Cioè…
—Dio mio!—proruppe Maria, correndogli incontro.—Sei pallido come un morto… Un'altra disgrazia, sicuro. Che vita! Che vita!
—No, calmati… A Valduria non c'è niente di nuovo.
—Dove dunque?—Per carità, Odoardo, non tenermi in queste angustie. Una disgrazia c'è; basta guardarti in viso per accorgersene. E se non è successa qui, dov'è successa?
—Senti, Mariuccia—riprese con dolcezza Odoardo accarezzando i capelli della giovinetta—è accaduto qualche cosa a Rignano, e Roberto….
—Roberto?
—Mi scrive pregandomi di mandargli subito dei soccorsi….
—Mandargli? Andrai tu….
—Appunto… Vado io, con alcuni fra i nostri migliori lavoranti.
—Sì, va subito… Ma di che si tratta precisamente? Lasciami vedere il biglietto che t'ha scritto Roberto….
—Il biglietto?… Ah non so dove sia, l'avrò smarrito….
Si frugò nelle tasche come per cercarlo, ma si capiva che non era avvezzo a far la commedia.
Maria gli teneva inchiodati gli occhi addosso.
—Odoardo—ella esclamò ad un tratto, prendendogli tutte e due le mani—Odoardo, tu mi inganni, tu mi nascondi il vero. Se le cose fossero come tu dici, non saresti così turbato… Ci dev'esser di peggio, di peggio assai… No, Roberto non t'ha scritto, Roberto non t'ha mandato nessun'ambasciata; la disgrazia della quale tu parli ha colpito lui, lui solo forse…
Odoardo esitava. Ella gli gettò le braccia al collo, e con voce strozzata dal terrore, soggiunse:—Dimmi tutta la verità. È morto?
—No, Maria, no…. almeno lo spero… anzi può darsi ch'egli sia rimasto illeso….
—Come? Illeso?… Ma allora?… Chi è che ha mandato a chiamarti? Cosa t'han detto?
Odoardo le riferì confusamente quello che sapeva, nè certo il racconto era tale da acquetare le apprensioni di sua sorella. Ella sentiva venirsi meno, e vi fu un istante in cui credette di non poter più reggersi in piedi. Ma la forza della volontà vinse in lei la debolezza fisica.—Non c'è un minuto da perdere—ella disse.—Andiamo.
—Tu, Maria?—esclamò Odoardo, stupito della risoluzione annunciata in questa parola.—Che vuoi far tu?
—Aiutarti a salvarlo—ella rispose con impeto. E soggiunse con accento supplichevole:—Non puoi lasciarmi morire d'inquietudine qui…. Andiamo.
E s'avviava.
—Aspetta. Già non si parte finchè non abbian preparata una pompa da portare a Rignano… Cosa dirà la gente a veder te, una ragazza?…
—Dirà che c'era una creatura umana da sottrarre alla morte, e che non ho voluto restar inoperosa neppur io.
—Maria, Maria, come lo ami!
—Ebbene, è vero, lo amo—singhiozzò la fanciulla abbandonando la testa sull'òmero di Odoardo.—Ma anche se non lo amassi, vorrei oggi seguirti.
Quantunque vinto a mezzo, il Selmi tentò un'altra obbiezione.
—Riflettici ancora, Maria…—Io spero che riusciremo…. Ma se non riuscissimo… se dovessimo arrivare troppo tardi… saresti abbastanza forte da resistere a questa scossa?
—Sì, sì, Odoardo…. Lo sai che sono forte… Sono preparata a tutto, fuori che ad aspettare qui.
Visto ch'ell'era irremovibile nel suo proponimento, egli la baciò in fronte e disse—Poichè lo vuoi proprio, andiamo.
Di lì a poco, Odoardo e Maria lasciarono Valduria insieme a una dozzina d'uomini scelti fra i più robusti, fra i più intelligenti, fra i più agguerriti contro i pericoli della vita sotterranea. Del resto, tutti i lavoranti della miniera avrebbero voluto dividere i rischi e gli onori della spedizione, giacchè l'ingegnere Arconti era amato e stimato da tutti, e la notizia giunta da Rignano aveva singolarmente commosso tutti gli animi.
Nel partire. Maria sentì cento voci intorno a lei che dicevano:—Lo salvino, Lo salvino—e vide dipinta su cento faccie un'ansietà schietta e profonda. E nessuno mostrava maraviglia ch'ella accompagnasse il fratello, e nessuno dubitava che la sua presenza sul luogo del disastro potesse essere un imbarazzo. Si sapeva già che cuor d'eroina battesse in quel corpo esile. E si sapeva anche ch'ella amava Roberto, perchè i segreti del cuore sono i più difficili a custodirsi. Corinna osservava con ragione che les âmes passionnées se trahissent de mille manières et ce que l'on contient toujours est bien faible.
La strada da Valduria a Rignano era ripida e imbrecciata di ghiaia grossa, e non la si percorreva ordinariamente in vettura. Bensì, per trasportare lo zolfo della miniera, si soleva far uso di carri massicci tirati da buoi o da muli. Su due muli erano appunto montati l'ingegnere Selmi e sua sorella; gli altri venivano dietro, parte a piedi, parte in un baroccio, sul quale era caricata una pompa.
Si andava avanti in silenzio con la maggior celerità concessa dal terreno inuguale e dall'erto pendio che bisognava salire. Le poche case sparse qua e là lungo la strada erano quasi tutte abitate da famiglie di minatori, nelle quali il triste fatto di Rignano destava una simpatia dolorosa, come un avvertimento di ciò che poteva accadere un giorno ai loro cari. Ritte sulla soglia, o affacciate alla finestra, o appoggiate alla ringhiera della rustica scala di legno, le donne accompagnavano la comitiva coi loro voti e con le loro benedizioni, mentre i bambini guardavano attoniti Maria, che scuoteva impaziente le briglie sul collo della sua cavalcatura e non trovava per essi l'usato sorriso. Giù nella valle intanto, fuori del raggio della miniera, nulla turbava l'andamento ordinario della vita. E l'eco portava in alto le allegre canzoni dei mietitori e le voci dei mandriani che richiamavano la gregge dispersa, e il tintinnio dei sonagli appesi al collo degli armenti.
La strada saliva, saliva, bianca, luminosa, nuotante nel sole. Maria ne aveva gli occhi abbarbagliati. Ella affogava in un mare di luce…. E Roberto?
XXIX.
La calma ch'era subentrata nell'animo di Roberto al primo scoppio di dolore e di rabbia non durò che pochi istanti. Egli si levò da sedere, e si mise a girare a passi concitati per la sua cella combattuto di nuovo fra il sentimento della realtà e la speranza d'essere vittima di un'allucinazione. Si avvicinò al lume, e guardò l'orologio. Era fermo. L'urto della caduta ne aveva sconquassato la macchina, e la lancetta s'era arrestata alle 7 e 35, cioè all'ora precisa in cui era successa la catastrofe. Roberto n'ebbe un triste presagio, come se qualcheduno gli avesse detto: Alle 7 e 35 il tempo ha cessato di scorrer per te, ed è cominciata l'eternità. Era orribile, era orribile.
Per quanto egli tendesse l'orecchio, nessun rumore gli veniva dal di fuori, nemmeno quello dell'acqua, che forse aveva ormai riempito senza contrasto tutta la galleria e che principiava già a penetrare in sottilissimi rigagnoli nella sua carcere.
Misurati solo dall'angoscia, i minuti gli parevano eterni; c'erano momenti in cui avrebbe creduto d'esser chiuso lì dentro da più giorni, se il veder che la lampada ardeva ancora non lo avesse persuaso del contrario. Essa ardeva ancora, e gli consentiva di mirar la sua ombra profilarsi sulle tetre pareti del suo sepolcro, e di contar le venature del sasso, e di penetrar con lo sguardo nei solchi profondi che il martello dei minatori vi aveva scavato in altri tempi. Ma a poco a poco la fiamma cominciò ad oscillare; s'illanguidì gradatamente, ora più debole si rianimò a un tratto, e si spense. Per qualche secondo lo stoppino continuò a mandare una luce rossastra, ora più intensa, simile a quella d'un carbone acceso che si avvivi col fiato; poi anche quella luce finì in uno scoppiettìo di scintille, e le tenebre avvolsero il povero prigioniero. Gli venne un dubbio; era proprio il lume che s'era spento, o erano i suoi occhi che non vedevano più? Aveva in tasca una scatola di fiammiferi; tentò di accenderne uno, poi un altro, poi un terzo, ma non vi riuscì in causa dell'umidità che s'era infiltrata ne' suoi vestiti. Però, a ognuno di quei tentativi, il fosforo lasciava sul dorso della scatola una striscia azzurrognola, che rompeva l'oscurità.
Roberto ristette dalle inutili prove. E invero, che gl'importava persuadersi che i suoi occhi ci vedevano ancora, se il sole non doveva venir più a visitarli? Gli astri brillano invano pel cieco, ma per chi è circondato d'ombre profonde non vale l'esser veggente.
Si accosciò in un angolo cercando di non pensare, di assopirsi, di uccidere in sè, prima che la vita, il sentimento della vita. Gravi sofferenze fisiche non ne aveva; aveva un peso alla testa, aveva un languore allo stomaco, ma nulla d'acuto, nulla d'intollerabile; segno che non si trovava da un pezzo laggiù. Oh se avesse potuto dormire, se avesse potuto passar da un sonno ad un altro!
Dicono che agli orientali non sia difficile conseguire questa immobilità rassegnata, questo annichilamento dell'essere. Ma gli sforzi che Roberto faceva per sopprimere le sue facoltà parevano invece aguzzarle. Non distratto ormai da nessun oggetto esteriore, si ripiegava con una sensibilità più squisita su sè medesimo, numerava le pulsazioni del suo cuore, scendeva nella sua anima. Gli alti e solenni pensieri della morte gli si affacciavano alla mente. Il to be or not to be di Amleto gli risonava all'orecchio. Era giunto dunque a quel limitare tremendo che nessuno ha mai varcato due volte? Stava per trovare l'incognita di quel problema che affatica gl'intelletti più poderosi e che, col chiudersi della vita, si risolve da sè anche al povero ilota? Poche ore ancora, e tutto sarebbe finito… o tutto ricomincierebbe da capo.
Roberto Arconti era figlio del suo secolo e del suo paese. La questione religiosa non aveva mai assorbito il suo spirito; però la sua anima era troppo elevata da appagarsi d'un indifferentismo volgare. Aveva avuto nella sua giovinezza i suoi periodi di lotte, d'ansietà cupe e profonde; se non s'era acquetato nella fede, era perchè non aveva potuto credere. Gli pareva che le varie teologie avessero rimpicciolito il concetto grandioso della potenza regolatrice dell'universo; non sapeva piegar le ginocchia davanti a questo Dio che gli uomini hanno creato a immagine loro, prestandogli i loro odi e le loro passioni, facendone lo strumento delle loro vendette e della loro libidine di dominio. Alle affermazioni dogmatiche di tutte le chiese gli piaceva contrapporre il procedimento cauto ed onesto della scienza che muove alla ricerca del vero, non d'altro, sollecita che d'accrescere il patrimonio dello spirito umano. Eppure…. eppure la scienza stessa lasciava in lui un vuoto, che non poteva colmarsi; essa non gli spiegava ogni cosa. Era costretto a riconoscere ch'essa non bastava nè sempre, nè a tutti; che pei deboli, che pegli umili essa non chiudeva in sè la virtù redentrice d'una speranza immortale, che per nessuno essa offriva sufficiente compenso alle ingiustizie del mondo. Ciò non lo aveva indotto ad accettare dottrine che gli ripugnavano, ma lo aveva reso nemico d'ogni specie d'intolleranza, e aveva fatto del suo scetticismo pensoso una cosa ben dissimile dalla negazione provocante e sguajata. Nè adesso, all'avvicinarsi dell'ora suprema, mutava tenore. Era stato sincero e non voleva per viltà mentire a sè medesimo. Se un tribunale incomprensibile, misterioso, aspetta al varco gli estinti, egli poteva affrontarlo impavido, certo della rettitudine de' suoi atti e delle sue intenzioni. Il male, gli era lecito dirlo senza jattanza, egli non lo aveva fatto mai, forse aveva fatto del bene, aveva ubbidito a quella legge di simpatia che ci affratella con gli altri uomini e ch'è certo la prima fra tutte le religioni, la più vera e divina. Così da queste escursioni oltretomba il suo spirito si ritraeva piuttosto rinfrancato che sbigottito. Sentiva che non avrebbe temuto la morte se non avesse amato la vita.
Sì; aveva creduto d'odiare la vita, ma s'era ingannato. L'amava perch'era giovine, perchè il sangue gli correva rapido nelle vene, perchè aveva intatte le forze del corpo e dell'intelletto, perchè malgrado dei recenti disinganni, il futuro aveva pur sempre qualche attrattiva per lui.
Ebbe un altro accesso di disperazione. Gridò ancora, tese ancora l'orecchio. Nulla, nulla.
Non aveva più nozione del tempo; sapeva che la lampada poteva aver durato due o tre ore: ma quante n'eran passate dopo ch'essa era spenta? Possibile che nessuno si curasse di lui, che non si tentasse nemmeno di soccorrerlo? Oh se ci fosse stato Odoardo Selmi! Ma Odoardo Selmi non c'era; egli si trovava in mezzo a gente poco meno ch'estranea.
Pensò a quelli che gli erano più cari; pensò a sua madre, a cui la natural leggerezza dell'indole non avrebbe in questo caso bastato a temperare un'angoscia mortale; a sua madre, ch'egli lasciava, non povera affatto, ma priva di quegli agi che erano per lei una necessità, e, ciò ch'era peggio, priva di quei consigli che le erano indispensabili per regolarsi nella vita. Sventuratissima donna! Poche settimane addietro, egli l'aveva vista ancora giovine, ancora vigorosa, ancora piena d'illusioni. Che crollo darebbero adesso le sue illusioni, la sua gioventù, il suo vigore!
E Lucilla? Egli non era più il suo amante, il suo promesso sposo, ma si poteva per questo distruggere il passato? Nel sentirsi dire: Roberto è morto! quante memorie dovevano svegliarsi nell'anima della leggiadra fanciulla!… Oh! Ella aveva appena diciotto anni; era bella e felice, era corteggiata, avrebbe presto dimenticato!
Un'altra immagine si presentava allo spirito di Roberto, e gli empiva l'animo di commozione e gli occhi di lagrime. Nella dolce sembianza di donna evocata dalla sua fantasia era dipinto un dolore diverso, ma non meno profondo di quello ch'egli si raffigurava in sua madre, uno di quei dolori che non cercano e non ammettono conforti, ma inaridiscono le fonti stesse dell'esistenza. Nessuno, nessuno lo aveva amato come Maria! E dover morire senza lasciarle un addio, senza stringerle la mano, senza dirle che se non l'aveva ricambiata di pari amore, le aveva pur voluto tanto bene, tanto bene da non saper più in che differisse dall'amore una tenerezza sì grande!… Oh se fosse uscito di là!
Si alzò ancora una volta, e si mise a brancolare nel buio. Ma camminava con fatica, sia perchè l'acqua infiltratasi da varie parti aveva reso il terreno fradicio e molle, sia perchè le gambe stentavano a reggerlo. Aveva un gelo nell'ossa; solo la testa gli ardeva come se fosse tra le vampe d'una fornace. Era già tormentato dalla fame, ma più che la fame, lo divorava la sete. Nè poteva estinguerla, nè poteva raccogliere nessuna delle goccie che, a lunghi intervalli, cadevano dalla vôlta e andavano a mescolarsi alla densa e ributtante poltiglia che gli stava ai piedi. Ormai ogni minuto gli aggiungeva uno spasimo nuovo; erano contrazioni violente, erano impeti subitanei che gli mettevano addosso un bisogno irresistibile di franger qualcosa coi denti. Nel maciullare il fazzoletto, si morse per inavvertenza la mano, e la ritrasse inorridito, parendogli, che, se ne fosse spillata una sola goccia di sangue, una selvaggia voluttà d'antropofago si sarebbe impadronita di lui. Ormai anche nel suo cervello c'era una confusione orribile; la sua ragione si smarriva; urli disperati gli prorompevano dal petto, simili piuttosto a ruggito di belva che a voce umana. Ma in quel caos della mente, in quel naufragio della coscienza sornuotava un pensiero, il pensiero cioè ch'egli poteva, volendo, accorciare i suoi patimenti… Ebbene? Non aveva già sofferto abbastanza?
Afferrò il revolver e lo avvicinò alle tempie. Il freddo dell'acciaio brunito gli recò un leggero sollievo, ed egli appoggiò per qualche secondo la fronte sulla canna a cui stava per chiedere un riposo più lungo.
Era però sul punto di troncare gl'indugi e premere il grilletto, quando gli ferì l'orecchio un mormorio vago, lontano. Forse era un'illusione dei sensi, una delle tante allucinazioni che precedono l'agonia. Forse era una nuova frana, forse era il romore dell'acqua che s'era aperta un'altra strada. Si mise in ascolto cercando di calmarsi, di raccoglier le poche forze che gli rimanevano, di raccapezzar le sue idee. E quel romore continuava, nè Roberto sapeva spiegarsi che fosse; pur non pareva strepito d'acqua che irrompe o di terra che si scoscende; era, per dir così, un romore fatto di romori diversi. Il povero sepolto vivo, che ormai non poteva più reggersi in piedi, si trascinò carponi dalla parte ond'esso veniva, e, appoggiato l'orecchio al suolo, stette lì immobile, trattenendo il respiro, comprimendo con una mano il cuore che minacciava di scoppiargli nel petto. In questa posizione, le onde sonore gli arrivavano più distinte, avvicinandosi e allontanandosi con alterna vicenda, facendo con le loro vibrazioni traballare il terreno. Non riusciva ancora ad afferrare bene quei suoni, non avrebbe ancora saputo dar loro un nome; aveva acquistato però la certezza che qualche cosa si moveva al di là della sua prigione, e gli era lecito indurne che non era abbandonato, dimenticato del tutto. Col rinascere della speranza riebbe un po' di vigore, si rizzò con mezza la persona puntellandosi ai gomiti, e con quanto fiato gli restava invocò ripetutamente soccorso. Poi ricadde esausto. Vi furono alcuni istanti di silenzio profondo, spaventoso, durante i quali Roberto credette di aver sognato; ma il silenzio non tardò ad esser rotto da un romore nuovo, che somigliava a quello di più voci confuse in una voce sola. Si era dunque sentito il suo grido, si era dunque risposto al suo appello? Si sapeva dunque non di andar alla ricerca d'un cadavere, ma alla liberazione d'un vivo? Vivo? Non c'era una amara ironia in questa parola e in questo pensiero? Era ben sicuro di esser vivo al giungere de' suoi salvatori? Era sicuro che la morte non li avrebbe preceduti?
Alla gioia della prima impressione succedette in lui un accasciamento profondo. Che giova al naufrago di veder la spiaggia se non ha lena per arrivarvi? Lo sforzo fatto in un momento di esaltazione l'aveva lasciato sfinito. Le sue pene, per poco sospese, s'erano rinnovate con maggiore intensità, la sua intelligenza, rischiarata da un raggio improvviso, era di nuovo ravvolta d'ombre. Egli giaceva inerte al suolo con la testa e col corpo nel fango, inzuppato d'una melma infetta e nauseabonda. Non riusciva più a connettere due idee; le cose anche più vicine gli facevano l'effetto di pallide reminiscenze. Il suo stato era un sopore doloroso, in cui egli smarriva a tratti ogni consapevolezza di sè. C'era lì una persona che soffriva fuor di misura, ma egli non avrebbe potuto dire chi fosse quella persona; un respiro affannoso e grave gli suonava all'orecchio, ma egli non capiva di chi fosse quel respiro. Si ricordava d'aver assistito a un tremendo disastro. Una galleria era crollata e qualcheduno era rimasto dietro, le rovine…. Un lume aveva illuminato per breve tempo l'oscura prigione, e s'era spento; qualcheduno aveva patito la fame…. Si ricordava d'un'arma ch'era stata afferrata, poi gettata in un canto, si ricordava di rumori esterni, di voci lontane che avevano rotto il silenzio di quella tomba, che vi avevano portato il conforto d'una speranza ineffabile… Dopo d'allora, che cos'era avvenuto? Perchè quella speranza non mandava più la sua luce? Eppure quei rumori non erano svaniti, anzi lo scuotevano di quando in quando dal suo dormiveglia, gli eccheggiavano nel capo com'entro le pareti di una camera vuota, ma il significato gliene sfuggiva. Solo una voce interna gli ripeteva: troppo tardi! troppo tardi!
I lavori di salvamento continuavano da due giorni con un'attività febbrile. Principiati un po' alla cieca prima dell'arrivo di Odoardo Selmi, erano stati ripresi con maggior vigore dacchè egli ne aveva assunto la direzione. L'idea di sottrarre il suo amico a una morte crudele s'egli viveva ancora, o di render gli estremi uffici al suo corpo s'egli era già stato sepolto sotto le macerie, affinava il suo ingegno, centuplicava le sue forze e il suo coraggio. Maria non aveva voluto staccarsi da lui. Confusa coi minatori, con le sottane rimboccate, immersa nell'acqua fin sopra il ginocchio, dimentica di tutto fuor che del suo amore e di ciò ch'ella giudicava il suo dovere, l'esile fanciulla partecipava alle fatiche e ai pericoli dell'impresa. Ella sentiva che non sarebbe sopravvissuta ad un insuccesso. Ma non si lamentava, ma non spendeva vane parole a stimolar l'energia degli altri. La sua presenza colà ed il suo esempio valevano più d'ogni eccitamento. Chi si sarebbe stancato finchè non si stancava lei, chi avrebbe disperato finch'ella non disperava? Del resto era in tutti un ardore uguale. Bisogna dirlo ad onore di questa povera natura umana; ci sono momenti nei quali in ogni anima, anche nella più pigra, si sprigiona la scintilla del bene, scatta la molla del sacrifizio e dell'abnegazione.
Le difficoltà da superare erano di due specie. Conveniva prima liberar la galleria dall'acqua che l'aveva resa impraticabile affatto; conveniva poscia aprirsi un passaggio attraverso una frana dello spessore di parecchi metri. A più riprese parve d'esser giunti a buon porto, a più riprese tutto fu rimesso in questione. L'acqua scacciata da una parte tornava dall'altra parte, e quando alla fine essa fu ridotta a un livello abbastanza basso da permetter d'avanzarsi e di cominciare ad adoperar le vanghe, si corse per ben due volte il pericolo di rimaner sepolti sotto un nuovo avvallamento di terra. Onde la necessità di batter ritirata e di rimettersi all'opera.
Allorchè la voce di Roberto riuscì a farsi sentire al di là della barriera che lo separava dai vivi, nell'animo dei più era, non già scemata la risoluzione di combattere, ma scossa la fede di vincere. Quel grido, a cui si rispose con un urrà strepitoso, trionfò d'ogni stanchezza e d'ogni dubbio.—Lo sapevo che lo avremmo salvato—disse Maria, padroneggiando a fatica la violenta emozione che le toglieva il respiro.
Si guadagnava terreno a oncia a oncia lavorando con lena raddoppiata, in quegli atteggiamenti disagiati ch'erano concessi dall'angustia dello spazio, in mezzo a un'aria densa, che rendeva debole e incerta la luce delle lampade.
Ma già la meta era vicina. Potevano restar da scavarsi due o tre metri al più, e Odoardo Selmi moderava l'ardore dei minatori per non mettere a repentaglio con una soverchia precipitazione i risultati ottenuti. Quella galleria improvvisata gli pareva un miracolo; gli pareva che un nonnulla dovesse farla crollare. A ogni modo, non era da illudersi; essa non avrebbe durato che pochi giorni, poche ore forse. Non importa; pur che durasse finchè Roberto era salvo.
Una nuova preoccupazione s'era impadronita degli animi ed era dipinta sui volti. Perchè Roberto non aveva ripetuto il suo grido di soccorso? Perchè, chiamato a nome, non aveva risposto?… Se quel grido fosse stato il suo ultimo grido?
Maria leggeva negli occhi di tutti quel sentimento di terrore che le labbra non osavano esprimere. Ma non voleva dubitare della Provvidenza. Diceva fra sè:—Sarà forse spossato, come sono spossata io.
Infatti la stanchezza la soverchiava. Già due volte, seduta sopra una motta di terra, aveva suo malgrado abbassate le palpebre e lasciata cader la testa sul petto.
Ora però era ben desta. Il momento decisivo era giunto; ancora pochi colpi di zappa, e poi ogni dubbio sarebbe stato rimosso. L'ansietà rallentava i palpiti di tutti i cuori.
Odoardo tentò di allontanar sua sorella. Ma ella gli si strinse addosso e gli susurrò:—Se mi movessi di qui, sento che non soppravviverei un minuto.
La sua voce era un soffio. Lo notò ella stessa, soggiungendo:—Anche la voce di lui sarà così… È per questo che non risponde.
Aveva le pupille fisse ad un punto; tremava da capo a piedi.
—Ecco—gridarono i due minatori che smovevano la terra, mentre gli altri erano occupati a puntellare la vôlta.
S'era aperto un breve spiraglio, non tale però che una persona potesse passarvi.
L'ingegnere Selmi si cacciò avanti chiamando—Roberto, Roberto!
Nessuna risposta, nessun gemito, nessun movimento.
Si ricominciò a lavorare in silenzio con l'animo pieno di tristi presentimenti.
Quando il foro fu abbastanza largo, Odoardo vi avvicinò la lampada e tentò di perlustrar con lo sguardo la buja caverna. Ma non se ne vedeva che una piccolissima parte, ed egli non riuscì a discerner nulla.
La breccia fu ampliata di nuovo e il Selmi entrò seguìto da alcuni minatori.
Roberto giaceva supino, bruttato di fango, con le guancie livide e smunte, coi capelli arruffati, più simile a un cadavere che ad un corpo in cui s'agiti ancora la vita.
Inginocchiato accanto all'amico, Odoardo Selmi cercava invano di sorprendergli in viso un moto, una contrazione.
Una mano gli si posò lieve lieve sulla spalla. Era Maria, penetrata lì dentro senza che alcuno osasse di opporsele.
—Lascia che provi io—ella disse con dolcezza.
Si chinò su Roberto, e gli accostò l'orecchio al cuore. I minatori le si stringevano intorno; le loro lampade illuminavano in modo fantastico la scena pietosa.
Qualcheduno bisbigliò:—È morto!
Ella alzò fieramente la testa—Non è morto; il suo cuore batte; lo salveremo.
XXX.
Poche ore dopo, Roberto Arconti era già fuori di pericolo, ajutato dalla sua tempra vigorosa e da quella segreta virtù rinnovatrice che c'è nella giovinezza. Maria, seduta accanto al suo letto, il pallido viso raggiante d'una gioia ineffabile, gli misurava con savia parsimonia il cibo e la bevanda, temendo a ragione che ogni abuso potesse nuocere al suo stomaco indebolito da un digiuno di quasi tre giorni. E come il cibo e la bevanda, così ella misurava al suo convalescente la luce, la quale non entrava nella cameretta che da uno spiraglio dell'imposte socchiuse.
Per un certo tempo lo spirito di Roberto non seguì che lentamente il ridestarsi delle forze fisiche. Quando si rivolgeva indietro col pensiero, c'era un punto in cui si smarriva. Ricordava benissimo l'orrore provato vedendosi chiuso in una specie di sepoltura, ricordava la prima parte del suo supplizio, i primi patimenti sofferti; poi non aveva più che la reminiscenza confusa d'un infinito malessere. Come fosse stato salvato, chi lo avesse collocato in quel letto egli non lo sapeva, nè sapeva perchè Maria fosse lì al suo fianco, perchè Odoardo Selmi facesse ogni tanto una fuggevole apparizione sulla soglia. Maria non aveva voluto rispondere alle sue domande; s'era accontentata di dirgli che non c'era fretta, che avrebbe appagato più tardi la sua curiosità, che pel momento era necessario ch'egli stesse in riposo senza parlare e senza far parlare gli altri.
A poco a poco però gli accadeva quel che accade a chi, dal piano, vede sorger il sole sulla cima d'un monte avvolto di nebbia. Prima c'era un fitto velo che non lasciava discerner nulla, che non lasciava nemmeno sospettare la presenza della montagna, poi quel velo si squarcia in un punto, poi in un altro; qua appare una macchia d'alberi, là una casetta bianca, più in su una striscia di neve, finchè alla lunga la nebbia si dissolve tutta, e i contorni del monte si disegnano netti sull'azzurro del cielo.
Così quel che c'era di sconnesso, d'oscuro nelle idee di Roberto andava via via riordinandosi e prendendo forma e colore per effetto della memoria che si risvegliava, o per le induzioni d'un facile raziocinio. Egli capiva ormai perchè Odoardo e Maria gli fossero vicini, e il cuore gli diceva ch'era debitore a loro della sua salvezza.
Quando questo concetto fu ben chiaro nella sua mente, egli afferrò con impeto la mano di Maria, e la portò alle labbra. E poich'ella, agitata, sorpresa, voleva ritirarla:—Ebbene—egli le disse con un filo di voce—se non mi lascia la mano, trasgredirò i suoi ordini e parlerò.
Ella non opponeva più resistenza. In quella stretta c'era tanta dolcezza da compensarla di ciò ch'ell'aveva sofferto in passato, di ciò ch'ella avrebbe sofferto in avvenire. Non per lui solo; anche per lei era meglio che Roberto tacesse. Le sue parole, per quanto piene d'affetto, non potevano che richiamarla alla realtà delle cose. Invece ella sognava e voleva continuar a sognare.
Pur se le fosse stato concesso di vedere ciò che si passava in quel momento nell'animo di Roberto, la realtà non l'avrebbe atterrita, ma le sarebbe anzi parsa più bella dei sogni. Non era, no, una sterile pietà, non era una volgare riconoscenza; era un'ammirazione profonda per la donna che univa a modi così semplici e schietti tanta copia di virtù e d'eroismo, era un acuto rimorso di non averle reso giustizia, era una brama impaziente di riparare ai torti che le aveva fatti. Non sapeva intendere come avesse potuto preferirle Lucilla, come a questa frivola giovinetta avesse potuto dare un impero tale sopra di lui che, anche dopo averle scritta la lettera di congedo, non gli riusciva di evocarne l'immagine senza un turbamento indescrivibile. Cessando di regnare, ella aveva però conservato abbastanza potere da impedir che altri regnasse in sua vece. Ma ora l'idolo era infranto, ora la sua catena era finalmente spezzata. La stessa avvenenza di Lucilla gli pareva fredda e scolorita: era una bellezza di statua, e la statua non aveva più un'anima dacchè egli non le prestava la propria. Noi non sapremo mai per quanta parte l'aspetto delle cose vedute dipenda dagli occhi con cui le vediamo.
Roberto Arconti si riaffacciava libero alla vita, e la libertà gli era tanto più cara quanto migliore era l'uso che poteva farne. A chi offrirla se non alla vereconda fanciulla, il cui amore intenso e discreto aveva vegliato su lui sin dal primo giorno ch'egli era giunto a Valduria? Ed egli aveva creduto di non amarla perchè il suo affetto per essa non era una fiamma divoratrice, non era una febbre dei sensi come la passione che l'aveva acceso per Lucilla? Ma s'ingannava. L'amore veste forme diverse, e il più violento non è sempre il più vero. Così i mari più tempestosi non sono i più profondi.
E l'amore in ciò che ha di più gentile e soave si rivelava a Roberto mentr'egli teneva stretta la mano di Maria e figgeva lo sguardo nel viso di lei, che non osava alzar gli occhi per tema di veder fuggire la sua felicità.
Un raggio di sole entrò nella stanza e andò a posarsi, tremolando, sul soffitto. Maria si scosse e fece atto d'alzarsi.
—Dove va?—chiese Roberto.
—Vado a chiuder meglio le imposte, ella rispose.
—No—ripigliò il giovine, sollevandosi alquanto sui gomiti—non ce n'è bisogno…. Ormai non sono più tanto debole… Posso guardare il sole… e, se ne persuada, posso anche parlare. Rimanga qui. Devo dirle una cosa.
—Una cosa a me?—susurrò Maria con voce strozzata dalla commozione.
In quel punto si aperse l'uscio. Era Odoardo.
—Oh bravo!—egli esclamò, vedendo Roberto a sedere sul letto.—Così mi piace.
E soggiunse ridendo:—Il medico te l'ha permesso?
Maria gli diede sulla voce.—Zitto! Che strepito fai!
—Eccola, la dottoressa. In questi paesi dove i dottori veri non si possono avere quando si vuole, le donne fanno il mestiere di contrabbando. Mia sorella poi…
—Odoardo—disse l'Arconti, troncandogli a mezzo la frase—tua sorella non mi ha ancora spiegato come siate qui voialtri e che parte abbiate preso alla mia salvezza. Ma già me l'immagino senza che nessuno me lo spieghi… Fàtti più vicino, Odoardo, ch'io ti dia un bacio….. Così… Questo bacio val più di tutti i ringraziamenti… E adesso—egli continuò—dobbiamo discorrere d'un'altra faccenda.
—Un momento—replicò Odoardo.—Il procaccino ha portato or ora due lettere per te.
Roberto le prese, e ne guardò la soprascritta. La prima che gli cadde sott'occhio era di sua madre.
—Povera mamma!—egli disse.—Credo che domani sarò in grado di scriverle. Speriamo ch'ella non abbia saputo nulla… A spedirle un telegramma si farebbe peggio…
Mise da parte quella lettera e fermò la sua attenzione sull'altra. Ma appena n'ebbe vista la calligrafia, gli sfuggì un piccolo grido.
—Cosa c'è?—gridarono spaventati Odoardo e Maria.
—Nulla—disse Roberto ricomponendosi subito.—O piuttosto è passato.—Indi ripigliò coi tono serio che s'addice ad un argomento grave:—Prima ch'io apra quella lettera, Odoardo e Maria, amici miei, rispondete a una mia domanda. Tu, Odoardo, mi accordi la mano di tua sorella, e lei, Maria, consente ad esser mia moglie?
—Se ti accordo la mano di mia sorella?—proruppe Odoardo fuor di sè dalla gioja.—E puoi chiederlo? E puoi chiedere a Maria se consente ad esser tua moglie? Ma non sai come ti ama?
—Io so unicamente—osservò con tristezza Roberto—ch'ella non ha ancora risposto alla mia interrogazione.
Infatti Maria si nascondeva con le mani la faccia e piangeva in silenzio.
—Maria, Maria—esclamò Odoardo stupito.
—Perchè taci? Lo amavi tanto! Non lo ami più?
—Se lo amo?—ella disse giungendo le palme e scoprendo il viso inondato di lagrime.—Se lo amo? Chi può amarlo al pari di me? Esser sua sposa sarebbe più che la felicità, sarebbe un paradiso in terra.
—E quand'è così?—interruppe Roberto che pendeva dal labbro della giovinetta.
—Ma egli non mi prenderebbe che per compassione—proseguì Maria rivolgendosi a suo fratello.—Egli ha un'altra donna nel cuore.
—Come puoi dir questo?—gridò Roberto.—Tu sai pure, Maria (vedi, ti do già del tu ), tu sai che fra me e l' altra donna è finita ogni cosa.
Maria si alzò e gettò le braccia al collo di Odoardo.—Sì, egli le ha scritto restituendole la sua libertà e riprendendo la propria, ma una lettera di lei può cambiar tutto. E quella lettera è là, è arrivata or ora, ed egli vuol essersi impegnato prima di aprirla, perchè dopo potrebbe non sentirsi più la forza di disporre di sè.
—È questa la cagione della tua esitanza?—esclamò Roberto afferrando la lettera, mentre Odoardo doveva confessare a sè stesso che il discorso di Maria gli riusciva piuttosto oscuro, e brontolava fra sè:—Questo è voler tormentarsi apposta. Ma come mai mia sorella ha capito di chi sia quella lettera?
—È vero—continuò l'Arconti.—Questo foglio viene da Lucilla…. Ed è la prima volta ch'essa mi scrive dacchè son qui… Tutt'al più s'era contentata di mandarmi finora qualche riga sotto le lettere di mia madre. Io non so ciò ch'essa mi dirà, e, facendo la mia proposta prima di saperlo, io non credevo che tu interpretassi così male il mio pensiero, o Maria. Non era, no, per tagliarmi la ritirata, per mettermi al coperto da ogni possibile debolezza; era anzi per dimostrarti che la mia risoluzione non dipende da altri che da me, ch'io non agisco sotto l'influenza d'un dispetto, ch'io non ti domando di esser mia moglie unicamente perchè quella che amavo un tempo non può esserlo più… Tu supponi che Lucilla mi scriva per fare ammenda della sua leggerezza. Vedrai che si tratterà invece di ben altra cosa… Ma qualunque sia il contenuto di questa lettera, esso non può mutare l'animo mio. Ormai amo te, amo te sola, e di te sola voglio far la mia donna, la compagna della mia vita… Non ti basta ancora?
—Oh fratello mio, s'egli m'ingannasse, s'egli dovesse pentirsi, io ne morrei—balbettò Maria senza sollevar la testa dalla spalla d'Odoardo.
—In verità—disse questi—non riesco ad intenderti. Roberto non può parlar più chiaro di così… Perchè vuoi che t'inganni? Perchè vuoi che si penta? Non deve parergli vero d'essersi liberato da quella civetta.
—Odoardo!—esclamò Maria in tono di rimprovero.
—Oh lascia un po' che spifferi la mia opinione anch'io. Quella signorina Lucilla è una civetta e chi la sposerà starà fresco.
—Non auguriamo disgrazie a nessuno—gridò Roberto, che in questo intervallo aveva aperto e scorso rapidamente la lettera.—Dopo aver gettato sopra di me la responsabilità della nostra rottura, Lucilla mi annunzia ch'è fidanzata al marchesino Moschi.
Chi fosse disceso in quel momento nel cuore dell'ingegnere Arconti avrebbe forse potuto trovarvi un po' d'amarezza, perchè noi siamo fatti in maniera che una certa dose di vanità non ci lascia mai, e anche quando vogliamo troncar ogni relazione con una persona, ci dispiace che questa persona ci si rassegni troppo facilmente.
Comunque sia, quest'annunzio troncò gli ultimi dubbi di Maria. Scioltasi dall'amplesso di suo fratello, ella si lasciò cadere a' piedi del letto di Roberto, e fissando nel giovine i suoi occhi pieni di tanta luce di pensiero e di tanta fiamma d'affetto, gli disse con accento ineffabile:—Adesso sono contenta. Adesso son proprio tua.
Egli si chinò sopra di lei, e le cinse il collo con ambe le braccia.
—O mia salvatrice, o mio angelo, quanto bene ti voglio!
—Sia ringraziato il cielo!—esclamò Odoardo.—Se c'è un matrimonio che debba esser felice, è il vostro. Perchè, dà retta a me, Roberto, una ragazza simile a Maria non la trovi a girar mezzo mondo.
—Lo so, lo so.
—Che sciocchezze dici, Odoardo!
—Adesso ne dico una più grossa ancora. Il mio maggior dispiacere è quello d'esser tuo fratello.
—Oh questo poi…..
—Sì, perchè altrimenti t'avrei sposata io.
—Pazzo che sei!
—Ora che siamo intesi—ripigliò Roberto—mi racconterete un po' come vi sia giunta la notizia della mia disgrazia, e come siate arrivati a salvar questo povero sepolto vivo.
—Mi vien freddo al solo pensarci—rispose Maria.—Parla tu, Odoardo.
Il Selmi cominciò allora un racconto che, in parte, non sarebbe per noi che una ripetizione di cose già dette, in parte, non diletterebbe punto i lettori.
XXXI.
Prima che passassero due mesi, si celebrarono in Valduria le nozze fra Roberto e Maria.
La signora Federica non vi assisteva. Quando suo figlio, rispondendo alla lettera in cui ella gli partecipava con l'animo straziato il matrimonio di Lucilla col marchesino Moschi, le annunziò alla sua volta che aveva deciso di sposar Maria Selmi, la buona donna montò su tutte le furie. Nè valse a calmarla il racconto fattole da Roberto del pericolo corso e della parte che Maria aveva avuto nella sua salvezza. Senza dubbio, pensava la signora Federica, quell'artificiosa ragazza lo fece cadere in una trappola per aver poi il merito di tirarnelo fuori. Sotto quest'impressione la signora Federica scrisse un'epistola di sei facciate, ch'era un miracolo di logica. Ella gli diceva che questo avvenimento era inaudito ed imprevedibile, quantunque pur troppo ell'avrebbe scommesso che l'andava a finir così, visto che Roberto discorreva molto di dignità, ma non ne aveva punto. Una mésalliance simile! Un Arconti, che avrebbe potuto aspirare a una nobile, sposare una contadina! Un Arconti, che avrebbe potuto sedere sullo scanno dei ministri, seppellirsi in una zolfatara! E prendere una risoluzione di questa fatta senza consultare la madre! E sì ch'ella aveva un' idea, e contava di potergli offrire di giorno in giorno una splendida posizione in Milano, e più tardi forse, chi sa? anche il matrimonio con una ricca ereditiera. A questo punto, la signora Federica passava, con un rapido movimento oratorio, a lamentarsi delle sue miserie, che ormai sarebbero state tali da muovere a compassione le pietre. Se suo figlio, ch'era uno spiantato, si ammogliava con una spiantata, senza dubbio egli le avrebbe soppressa o diminuita la pensione. E in questo caso che le restava? La sua piccolissima dote col cui interesse ella non poteva certo vivere, e del cui capitale ella non poteva disporre a suo talento. Le si lasciasse almeno consumar questa; già ella non aveva da campar molti anni; e poi, alla peggio, non le sarebbe mancato un posto al Pio Luogo Trivulzio, in qualche altro Istituto di Carità, ov'ella sarebbe apparsa a tutti come accusatrice d'un figlio snaturato. Dopo un sì bello squarcio d'eloquenza la signora Federica dava alcuni particolari sulle prodezze del suo pappagallo.
Roberto non mostrò questa lettera a Maria, che ne avrebbe avuto molto dolore; ma si affrettò a calmare le inquietudini di sua madre circa all' indigenza che la minacciava. Egli l'assicurò che pel momento tanto egli quanto Maria avrebbero vissuto benissimo senza diminuire d'un soldo ciò che la signora Federica riceveva ogni mese; che se in futuro fossero cresciute le gravezze, era sperabile che crescessero anche i profitti; che, in ogni modo, la sua mamma poteva venir sempre ad abitar con loro, e poteva esser certa di trovar la più affettuosa, la più cordiale accoglienza. E Maria aveva insistito perchè quest'offerta fosse fatta alla signora Federica anche in nome di lei. In quanto a Roberto, egli era sicuro che sua madre non sarebbe venuta a viver in quei luoghi per tutto l'oro del mondo, e in cuor suo non desiderava che ci venisse, certo com'era che ci si sarebbe trovata male e avrebbe fatto star male anche gli altri.
Comunque sia, nel corso di questa corrispondenza gli spiriti bollenti della signora Federica si calmarono alquanto, ed ella spinse la sua magnanimità fino al punto di manifestare a suo figlio una nuova luminosissima idea. Egli doveva, appena sposato, abbandonare il suo impiego, e trasportarsi con la moglie a Milano, alla ricerca d'un'occupazione degna d'un Arconti. Ella intanto si sarebbe incaricata di dirozzare la nuora, e in tre mesi prometteva di ridurla una signora di garbo, simile a lei.
E poichè Roberto rispose con uno dei suoi soliti rifiuti, la signora Federica si lagnò molto della sua incorreggibile caparbietà, e dichiarò che alle nozze non ci verrebbe assolutamente, tanto più che quelli non eran paesi dove una persona civile potesse passar la notte. Nondimeno volle mandare il suo regalo a Maria, e le spedì infatti alcuni gingilli di qualche valore che non potevano servirle a nulla.
Il banchetto nuziale fu dato all'osteria di Valduria sotto la direzione di Odoardo Selmi, e con l'intervento di tutti i notabili del luogo e di tutti i soprastanti delle due miniere di Valduria e Rignano. All'ora dei brindisi e dopo che l'eloquenza degli altri si fu sfogata appieno, Roberto Arconti si levò anch'egli a ringraziare degli augurî che gli erano rivolti, e pronunziò un bel discorsetto, concludendo all'incirca così:—Qualcheduno di voi mi fece un merito speciale perchè, nato fra gli agi, seppi adattarmi a un'esistenza di fatiche e di privazioni. È vero, pochi anni fa io non m'aspettavo sicuramente di dover finire in una miniera. Ero ricco, ero elegante, amavo tutti i piaceri della società. Però in fondo del cuore, mi risuonava sempre una frase di mio padre, una frase ch'egli, sorto da modeste origini, illustrò con l'esempio: La vita non ha pregio che nella lotta. Prima o poi, in una forma o nell'altra, in questa lotta ci sarei entrato. La fortuna, volgendomisi contro, mi costrinse a spiegare più presto il mio spirito battagliero. Non mi dolgo nè della cosa, nè del modo. Affrontar le forze della natura, governarle, raffermar sovr'esse il dominio dell'uomo non esige minore ardimento che slanciarsi nei vortici della speculazione o nelle gare della politica. E l'anima si conserva più incorrotta, e la vittoria non ha rimorsi, e la sconfitta non ha vergogna. Io son dunque lieto d'esser con voi a combattere queste battaglie, a sfidar questi pericoli d'ogni giorno. Nè mi curo della gloria, ch'è facile premio a tante altre specie d'operosità. La mia unica ambizione si è che in queste valli, su questi monti, di cui noi ricerchiamo l'intime viscere, si possa dire un tempo, ricordando il mio nome: Fu coraggioso, fu attivo, fu onesto, e insegnò, praticandola, la religione del lavoro e del dovere.—
Entusiastici applausi accolsero le parole dell'ingegnere. Solo Maria, quand'egli sedette, gli susurrò all'orecchio:—Cattivo, la vita non ha dunque altro di bello che la lotta?
Egli sorrise,—No, Maria, ha di bello anche l'amore… Vuoi che lo dica ad alta voce?
—Oh no, mi basta che tu lo pensi.
Nè ormai Maria può dubitar più che Roberto lo pensi davvero. I due giovani vivono felici in una piccola e linda casetta posta sulla cima d'un colle che domina altri poggi minori e consente di abbracciar con lo sguardo un'ampia distesa di valli. Al di là dei poggi, al di là della pianura, quando l'aria è limpida, l'occhio si spinge fino all'Adriatico e, ajutato dal cannocchiale, discerne le candide vele dei bastimenti e la striscia di fumo che i piroscafi lasciano dietro di sè. Dalla parte opposta, verso Occidente, sorgono erti e severi i monti dell'Appennino.
La miniera ha sempre i suoi rischi e le sue tribolazioni. La natura è spesso ribelle, gli uomini son rozzi e violenti, pronti alle minaccie, pronti alle offese. Ma l'ingegnere Arconti continua a esercitar sulle cose e sugli uomini quell'impero che un forte ingegno, una volontà risoluta, e un rigido senso della giustizia sogliono dare a chi li possiede. Maria è a Rignano quel ch'era a Valduria, l'angiolo tutelare dei deboli e degli afflitti. Quante collere ella riesce a disarmare con la sua parola, su quante piaghe ella sparge un balsamo col suo sorriso!
Quand'è sola, ella ha le sue ore angosciose, in cui la mente le si popola di tristi memorie e di tristi presagi. Però l'arrivo di Roberto basta a dissipare le nuvole che le si sono addensate sulla fronte, e, allorchè nella sera, spicciate l'ultime faccende, egli viene a sedersi vicino a lei nella cameretta ov'ella lavora, ella sente che non cambierebbe il suo stato con una regina.
Di quella cameretta i due sposi hanno fatto un nido tranquillo, ove non giungono le cure della giornata. Prima d'entrarvi, Roberto lascia i suoi vestiti da minatore; se i lavoranti vengono a cercarlo mentr'egli è là, essi devono fermarsi sulla soglia. Tutto il resto della casa tradisce le occupazioni del padrone; quello stanzino potrebbe far credere di trovarsi, in una città, presso qualche famiglia borghese. Maria vi ha collocato le migliori suppellettili, i libri di Roberto, l'album di fotografie, l'elegante servizio da thè che M.^r Black ha spedito da Londra, i gingilli che la signora Federica ha mandato in dono da Milano.
E quasi ogni sera Maria prepara il thè con le sue mani, e Roberto si mette a sfogliare uno dei volumi che gli ricordano la sua prima giovinezza, e legge ad alta voce qualche poesia d'uno o d'altro autore favorito. Passandogli un braccio intorno al collo, Maria sta intenta ad ascoltarlo, e le sue guancie s'imporporano, e i suoi occhi s'illuminano, e l'espressione del suo viso mostra chiaramente che non le sfugge nulla di ciò ch'è bello, di ciò ch'è nobile, di ciò ch'è gentile.
—Come volan via presto queste ore!—ella esclama talvolta. E soggiunge maliziosamente:—Eppure non son ore di lotta!
—No, son ore di pace, rese più care dalle ore tempestose che le han precedute. Credi forse che le gusteremmo così senza le fatiche e le inquietudini della giornata?
—Già, tu vuoi aver sempre ragione—dice Maria, sorridendo. Indi a voce più bassa:—E di lui ci sarà proprio bisogno di farne un minatore?
Chi è lui? Lui è un personaggio misterioso, del quale si discorre da qualche tempo con grande interesse come d'un viaggiatore che deve arrivare e che prenderà il nome di Mariano. È vero che lui potrebbe benissimo esser lei, e lasciar tutti con un palmo di naso, ma i conti fatti servirebbero per un'altra volta. Quod differtur non aufertur.
—Non sarà necessario di farne un minatore—risponde con gravità Roberto—ma sarà necessario, a ogni modo, di farne un uomo che affronti coraggiosamente le difficoltà della vita.
—Anche lui nella lotta, dunque?
—Anche lui.