CAPITOLO PRIMO
In un compartimento di prima classe, sulla linea Torino-Venezia, viaggiavano un giorno dell'autunno 1874 tre uomini soli. Fra due di essi vi era una singolare rassomiglianza, temperata dalla differenza di età, che nell'uno poteva essere di quarantacinque anni al più, nell'altro di 21 a 22. Erano evidentemente padre e figlio, bellissime persone entrambi, vestite con semplicità signorile ed elegante. A studiare il carattere delle loro fisonomie, pur così somiglianti, si sarebbe venuti alla singolar conclusione che il padre aveva un tipo italiano con qualche mistura d'inglese, il figlio un tipo inglese con qualche mistura d'italiano. E quest'ultimo infatti rispondeva talvolta in inglese alle interrogazioni che gli venivano fatte, o, se rispondeva in italiano, il suo linguaggio era correttissimo ma non spedito.
A ogni modo, il dialogo fra essi non era molto animato. Il giovane teneva per lo più la testa fuori del finestrino ricevendo in faccia con visibile compiacenza il vento che agitava la sua abbondante capigliatura. Quando ritirava il capo entro la carrozza, egli sfogliava un album di disegni a lapis, oppure un romanzo della collezione di Tauchnitz, e lasciava che suo padre discorresse a suo agio col terzo viaggiatore.
Di questo non vale la spesa che noi ci occupiamo a lungo, giacchè non avremo da star con lui che pochi minuti. Era un ometto di mezza età, assai rubizzo, assai lindo, assai officioso, che trovava un gusto matto a rispondere alle domande del suo interlocutore, a prevenirle anche, a mostrarsi persona molto bene informata e molto bene accetta io società.
—Sicuro, sicuro—egli disse a un certo momento, ripigliando dopo una breve pausa un discorso già avviato da un pezzo—Eugenio Nottoli è morto da due anni, e la signora Amalia vive con la figliuola.
—I vecchi Martelli devono esser morti anche loro?
—Oh sì, da lungo tempo.
—Lasciando una fortuna?
—Non mica molto. Il più è il palazzo a San Giovanni e Paolo.
—Eh lo conosco benissimo....... Fui ospite colà per dieci mesi... la signora Amalia lo abita?
—Lo ha ereditato insieme al fratello, e abita il primo piano.
—Il fratello l'ho visto a Londra nel 1866. Ha preso moglie?
—Non signore;... del resto egli vive per lo più a Firenze o a Roma.
—E lei visita queste signore quando va a Venezia?
—Chi? La signora Nottoli e sua figlia?..... Ecco,—rispose l'interrogato, combattuto fra la voglia di farsi credere conoscente di tutto il mondo e il naturale impulso a dir la verità.—Frequentarle proprio, no... Ebbi occasione di vederle presso famiglie amiche... Ottime e distinte signore.
—E se la passano bene? La signora Amalia sopporta rassegnata la sua vedovanza?
—Le dirò, il Nottoli aveva fama di essere molto bisbetico...
—E così la sua morte non fu una disgrazia...
—Sa, disgrazia e non disgrazia... Si comincia col piangere ma poi ci si adatta, eh, eh... Una posizione indipendente, età ancora fresca...
—Eh—osservò l'altro facendo un conto mentale—devono essere quarantadue o quarantatre anni.
—Saranno, ma li porta bene... È sempre una bella donna. E lei, scusi, non la vede da...?
—Dal 49. Non son più tornato a Venezia... Allora, come le narrai, ero ospite nella casa paterna della signora Amalia.
—Loro volontarî devono essere stati trattati da principi in quel tempo.
—Eh, signor mio, certo i cittadini andavano a gara per mostrarci ogni sollecitudine, ma le palle piovevano e a Marghera si ebbe per qualche giorno una pioggia di fuoco da disgradarne Sodoma e Gomorra. E poi le febbri palustri e il coléra... Le assicuro io che non c'era da scherzare.
—Oh lo so, me lo immagino, si figuri... Anche noi qui a Vicenza il 10 giugno 1848 fummo a un pelo di essere bombardati... Ecco lì la Madonna di Monte, in quella sera c'erano gli Austriaci coi loro bravi cannoni... Se ne rammenterà?
—Senza dubbio..... Del resto bei tempi.... E prima di tutto venticinque anni di meno..... Mal gioventù, entusiasmi, illusioni, tutto sfuma!
—Pur troppo, pur troppo..... Oh, eccoci a Vicenza, e io debbo scendere, privarmi del bene della sua compagnia.—E con queste parole il viaggiatore si alzò in piedi e tolse dalla reticella un ombrello e una sacchetta da viaggio.
Indi ripigliò:—Conta di trattenersi un pezzo in Venezia?
—Non ho ancora deciso... Vorrei stabilirmi in Italia, ma son dubbio sulla scelta.
—Speriamo che resti a Venezia. Una città che ha un avvenire... oh senza dubbio... E in questo caso confido che ci rivedremo... Eccole intanto la mia carta di visita.
—Ed eccole la mia.
Il convoglio si fermò sotto la tettoia della Stazione. Si scambiò una stretta di mano fra chi restava e chi scendeva, e il conduttore tornò a chiudere lo sportello lasciando soli padre e figlio.
Ciò però non li rese molto loquaci. Il giovine volle vedere il nome del signore che se n'era andato e disse poi in inglese:—Un gran chiacchierone.—Indi lodò la bellezza delle colline tra Verona e Vicenza e si rimise a guardar fuori del finestrino. Poi, calando la sera, egli si rannicchiò nel suo cantuccio e andò via via sonnecchiando.
Non dormiva invece suo padre; con la testa appoggiata ai guanciali del sedile contemplava i globi di fumo mandati dal suo sigaro e correva col pensiero agli anni fuggiti.
Dopo Mestre toccò a lui a guardar fuori della finestra. E al lume della luna, che di tratto in tratto si faceva strada fra i nuvoli, vide Marghera, l'eroica, la memoranda Marghera. E ricordò la grandine di palle rovesciatasi sovr'essa nel maggio 1849 e gli amici mortigli a fianco e lo spirito di sacrifizio e di fratellanza che animava capi e soldati. Ricordò la malinconica sera, quando, reso impossibile ormai il resistere, il sottile manipolo dei difensori con le scarpe rotte, cogli abiti sdrusciti, col viso annerito dalla polvere e dal fumo, diede un ultimo addio a quegli spalti squarciati, a quelle casematte arse, a quei quartieri distrutti, e, non visto dal nemico, sfilò silenzioso pel ponte riportando a Venezia il saluto di quelli ch'erano caduti. E nella città, che angoscie quella sera, che pianti, che baci di sorelle, di fidanzate, di spose, di madri! E anch'egli aveva visto illuminarsi al suo comparire un pallido e bellissimo volto, e aveva sentito una mano bianca e gentile tremar nella sua mano incallita. Ahimè! da venticinque anni egli non rivedeva più quel bel viso, egli non toccava più quella mano! E in venticinque anni ci aveva pensato talvolta, ma, confessiamolo, ci aveva pensato assai poco... Ora invece... ora invece, lettore cortese, abbi pazienza perchè siamo arrivati a Venezia e il signor Michele Arsandi e suo figlio Arturo devono ritirare i loro bagagli.
CAPITOLO SECONDO
Il mattino seguente il signor Michele Arsandi e suo figlio Arturo (chè così si chiamano i nostri due viaggiatori) dopo aver fatto una lunga passeggiata sulla piazza, sul molo, sulla Riva degli Schiavoni, dopo esser entrati nella Chiesa di San Marco e nel cortile del Palazzo Ducale, si erano ridotti all'albergo a farvi colazione. Ma il giovane Arturo era così entusiasmato delle cose vedute, così impaziente di ripigliare il suo pellegrinaggio per la fantastica città, che non istava fermo sulla sedia e appena tastava le vivande. Egli, poco loquace per abitudine, usciva ogni momento in esclamazioni di Bello! Bellissimo! Stupendo! e assediava suo padre di domande circa alle origini di Venezia, alla sua storia politica e artistica, ai suoi uomini illustri, ecc., ecc. Il signor Michele aveva da giovane adoperato un po' la matita e il pennello, ma non aveva mai goduto riputazione di erudito e trovava qualche imbarazzo a soddisfare la curiosità del figliuolo. Quando furono alla frutta, questi si alzò senz'altro, e disse:—Mi pare che ne abbiamo abbastanza e che si possa uscire.
—Ah—rispose il signor Michele stirando le braccia—esci quando ti piace, ma io voglio starmene un pochino in albergo. Del resto Venezia è bellissima, ma venticinque anni fa io l'ho girata per tutti i versi e posso dire che la conosco a memoria... Di me non hai punto bisogno. Pigliati la tua brava guida sotto il braccio e va intanto al Palazzo Ducale. Avrai da impiegarci tre ore buone.—Tirò fuori l'orologio e soggiunse:—Adesso sono le undici, fra le due e le tre troviamoci sotto le Procuratie.
Al giovinotto non parve vero di andarsene.
Il signor Michele risalì nella sua stanza e cominciò a disfare i bauli.—Già capisco—egli diceva fra sè—: che Arturo s'è innamorato di Venezia e non si potrà andarsene così presto.
Dopo aver riposte con molta diligenza alcune camicie nel cassetto dell'armadio, posò sul tavolino una mezza dozzina di libri.—Oh, per miracolo—egli esclamò osservando uno di questi libri legato in marocchino nero—la Kate ci ha cacciato la inevitabile Bibbia. Anche quella benedetta vecchia ha la manìa che aveva la mia consorte buon'anima, di voler convertirmi al protestantesimo... Quando poi sentirà che torno a stabilirmi in Italia, nel paese della popery! Mi par di vederla colle mani nei capelli o piuttosto nella parrucca!.... E questa qui che roba è?... Oh diamine.... il mio vecchio album.... quello che giaceva dimenticato in uno degli scaffali del mio studio. Scommetto che la Kate, dal colore, dalla legatura e dai fermagli d'ottone, lo ha preso per un altro libro d'orazioni... Basta, la Kate è a Londra e non può rispondere, nè merita la spesa di rompersi il capo per così poco.
Pure egli non potè resistere alla curiosità di ridare un'occhiata al suo album. E lo aperse dicendo:—Vediamo un po' questi scarabocchi di gioventù... Quando penso che oggi saprei appena tenere il lapis in mano!
Quelli che il sig. Michele chiamava i suoi scarabocchi erano stati fatti in Venezia negli anni 1848-49. Avevano per lo più il cosidetto color locale; in una pagina un gruppo d'artiglieri caricanti un cannone, in un'altra una veduta della laguna con le sue isolette lontane, poi una barchetta di pescatori chioggiotti, o una delle pittoresche casupole dei nostri quartieri più poveri, tutto buttato giù alla buona con quattro segni. Ma v'era una pagina ove si vedeva che il giovane artista aveva posto ogni suo studio, ove egli aveva cercato di superare sè stesso. Era una mezza figura di fanciulla fra i sedici ed i diecisette anni, bella sì, ma piuttosto bizzarramente che artisticamente bella. I grandi occhi bruni erano pieni di vita, le labbra tumidette si atteggiavano a un sorriso malizioso, e il nasetto rivolto alquanto all'insù aggiungeva alla fisionomia una tal quale espressione di canzonatura. Folte le ciglia e le chiome, quelle un po' lunghe, queste piuttosto ribelli al pettine e con qualche ricciolino, che, facendo parte da se stesso, veniva a ricader sulla fronte. Nè un nastro nè un pizzo sulla veste succinta e accollata che lasciava indovinare una certa ricchezza di forme consapevole di sè. La fanciulla pareva puntellarsi con un gomito al davanzale d'una finestra e stringendo il mento fra l'indice e il pollice reggeva la vaga testina. Non era uno dei soliti tipi e ci voleva poco ad intendere che quella leggiadra figurina era copiata dal vero.
—Per bacco!—proruppe il signor Michele dopo aver contemplato per qualche minuto il suo lavoro giovanile—la era pur bella in quel tempo l'Amalia Martelli. E non è da meravigliarsi se n'ero cotto... Nè lei mi vedeva di mal occhio... Ma i fuochi di vent'anni sono fuochi di paglia... Tre anni dopo io avevo preso moglie, ella aveva preso marito, e di tutto quell'incendio si stentava a trovare la cenere... E adesso siamo vedovi tutti e due... Oh andrò a trovarla sicuramente, son curioso di vedere s'ella si rammenta della sua prima fiamma... Tenermi il broncio non può... A rigore dovrei essere in collera io... In ogni caso il rischio è piccolo; mi farò annunziare e mi manderà a dire che non vuol ricevermi... pazienza.
E di lì ad un momento il signor Michele si trovò ritto davanti allo specchio ravviandosi i capelli e la barba con un pettinino tascabile di tartaruga.—Se le donne non hanno che gli anni che mostrano—pensava il nostro viaggiatore—che sarà degli uomini? Che sarà di me che non ho nemmeno un pelo bianco? Chi mi darebbe quarantacinque anni? Io ho tutto il diritto di sostenere che ne ho trentacinque o trentotto al massimo...—Si rifece il nodo della cravatta, infilò un altro soprabito, prese il suo bastoncino di canna d'India, e solfeggiando la marcia del Profeta, fece le scale dell'albergo in quattro salti e si avviò verso il quartiere ove un tempo dimoravano i Martelli. Egli aveva deciso di far la sua visita subito.
Non v'erano mutazioni importanti nelle strade ch'egli doveva percorrere. Qualche allargamento qua e là, qualche ponte nuovo, qualche fabbrica rifatta, in complesso piccole bagattelle da permettergli di trovare il suo cammino domandando appena un paio di volte. Egli si sforzava di sorridere e di canterellare; pur, scendendo nell'intimo del suo cuore, si sarebbe visto ch'egli era singolarmente agitato. Cosa curiosissima, ventiquattr'ore prima egli si ricordava appena che avesse esistito un'Amalia Martelli, la credeva sempre maritata e probabilmente non avrebbe neppur cercato di lei; adesso invece, dopo le notizie avute dal suo compagno di viaggio, egli aveva una gran voglia di rivederla, e sentiva un gran batticuore avvicinandosi alla casa di lei. Gli è che certe memorie possono dormire a lungo, ma quando si svegliano durano molta fatica a riaddormentarsi; gli è che il primo amore può non essere una passione intensa, ma è il primo, il più gentile, il più casto, e non v'è soffio di disinganni che lo spogli interamente del suo profumo.
Ecco il ponte dal quale il giovane artigliere soleva venticinque anni addietro veder la sua bella alla finestra nell'atteggiamento in cui l'aveva poscia ritratta a memoria nell'album, ed ecco le finestre le cui imposte verdi in questo momento eran chiuse. Ecco il terrazzo, ove, nei pochi giorni in cui non era sui forti, egli aveva conversato con lei al chiaro della luna, o, il dopopranzo, l'aveva aiutata ad annaffiare i suoi vasi di fiori. Tutto chiuso... forse a cagione del sole... Ecco la porta.
Il signor Michele suonò il campanello.—Non ci sono mica, sa—disse una fruttaiuola che aveva una bottega di fronte alla casa e ch'era loquace e officiosa come sogliono essere le nostre popolane.
—Domando della signora Nottoli.
—La signora Amalia... la vedova, capisco benissimo. La conosco da tanti anni... Non c'è...
—È fuori?
—Fuori di città... è in campagna da tre settimane... Sì, saranno tre settimane domani... Ma forse ci sarà in casa qualcheduno della servitù... Provi a suonare di nuovo.
Il signor Michele non sapeva che farsi della servitù; nondimeno tornò a suonare.
Alla lunga si affacciò alla finestra un cameriere sonnacchioso, e confermò l'annunzio dato dalla fruttaiuola circa all'assenza della padrona.
—E dove va a villeggiare la signora Amalia?—chiese il signor Michele.
—A due miglia da Conegliano... Se vuol lasciare il biglietto...
—No, no, non importa.—E il signor Michele tornò dalla parte ond'era venuto. Indi prese una stradicciuola di fianco e si trovò sulle Fondamenta Nuove. Percorrendo quella malinconica via che gli svegliava nell'animo tanti ricordi del 1848, egli fermò il proposito di fare una improvvisata alla signora Amalia in campagna. Era una faccenda di poche ore. E, del resto, che affari d'urgenza lo trattenevano in Venezia? Arturo non aveva bisogno di lui, infatuato com'era delle maraviglie artistiche della città; la contemplazione dell'Assunta e del Palazzo Ducale poteva tener luogo per lui della più cara e piacevole compagnia. Così il signor Michele deliberava di partire il dì appresso alle 10 per tornarsene la sera con l'ultima corsa; l'orario ch'egli aveva in tasca gli mostrava la possibilità di questa rapida gita.
Intanto l'orologio dei Ss. Giovanni e Paolo battè le quattro. Il nostro romantico amico si rammentò dell'appuntamento dato a suo figlio fra le due e le tre, e si avviò frettoloso verso la piazza S. Marco. Ma Arturo non c'era più; stanco di attendere, egli era tornato in albergo, e suo padre lo trovò che stava esaminando l'album da lui lasciato aperto sul tavolino.
—Sapevo ch'eri un po' artista—disse Arturo—ma non avevo mai visto questa raccolta di disegni tuoi. Perchè sono tuoi, non è vero?
—Sì, sì, roba vecchia, roba di venticinque anni addietro....
—È peccato che tu abbia smesso... Del resto è alquanto singolare che questo libro rimanesse gelosamente nascosto...
—T'inganni—rispose il signor Michele—non mi son mai curato di metterlo in mostra, ma del resto, non era nascosto punto. Era in uno degli scaffali del mio studio.
—Davvero? Ma levami una curiosità. Questa mezza figura qui è un ritratto, o è una testa di fantasia?
Il signor Michele rimase un istante perplesso. Che male ci sarebbe stato a dire intera la verità? Eppur non la disse, e con un tuono mezzo infastidito replicò:—Più di fantasia che d'altro: c'è qualche reminiscenza, ma nulla più.
—Pare impossibile..... C'è tanta vita qui dentro.... E che tipo originale, caratteristico!... Se mai faccio un quadro, devi permettermi che io mi serva di questa testina.
—Figurati! Quando vuoi... Oh ma lasciamo l'album, e andiamo a pranzo. Narrami intanto che cosa hai visto di bello.
Il signor Michele sapeva di aver toccato la corde sensible di suo figlio. Questi infatti cominciò a magnificare le cose vedute e non si arrestò per un pezzo.
CAPITOLO TERZO
La mattina dopo, con la corsa delle 9 55, il signor Michele si metteva in viaggio per Conegliano. Era solo, e aveva portato seco soltanto per precauzione una piccola sacchetta, mentre egli contava di tornare la sera. Nondimeno egli aveva detto a suo figlio che non istesse in pena seppur non lo vedeva arrivare. Le combinazioni sono tante!
In Conegliano il signor Arsandi ebbe ben presto l'indirizzo preciso della villa Nottoli. Era a tre quarti d'ora dalla città recandovisi a piedi; in carrozza ci si andava in circa venti minuti. Ma quantunque si fosse ormai ai primi d'ottobre, faceva un caldo d'estate; non pioveva da un pezzo e le strade erano aride e polverose, onde il nostro pellegrino decise di porsi in via un poco più tardi, quando il sole piegasse verso il tramonto. Inoltre una visita di quella specie non doveva farsi a ora di pranzo; sarebbe stato un mettere in imbarazzo la padrona di casa e un costringerla quasi a far porre un coperto sulla tavola per un ospite forse increscioso. Queste considerazioni indussero il signor Michele a modificare una parte del suo disegno, e lo fecero decidere a passar la notte in Conegliano.
Nei piccoli paesi non c'è mai il dubbio di saper meno di quello che si vuole intorno a un dato argomento; c'è anzi la certezza di saper più. Così le poche domande del signor Arsandi circa alla signora Amalia Martelli, vedova Nottoli, furono onorate d'una quantità infinita di risposte. La signora Nottoli viveva in campagna, nel casino lasciatole da suo marito, un mese di primavera e due mesi d'autunno; veniva poco in città, trattava pochissima gente, quantunque bisognasse riconoscere ch'ella era di modi affabili anzichenò. Conveniva dire ch'ella non avesse molte relazioni nemmeno in Venezia, perchè erano ben rare le visite ch'ella riceveva nella sua villa. In questo momento non c'era che un parente lontano del defunto signor Nottoli, certo professore Benvoglio, dottissima e pedantissima persona. Costui era molto assiduo presso la vedova, tanto da far credere ch'egli la corteggiasse, se non fosse ridicolo il pensare, ch'ella, donna di spirito, desse retta a quel fossile. In complesso, non si capiva come questa signora, avendo una bella figliuola ormai da marito, volesse tenersi appartata dalla società. E sì che in Conegliano, senza vanterìe, si poteva dire che c'era una società da non lasciar nulla a desiderare. Anche il teatro in autunno, meritava qualche riguardo... Ma i caratteri e i gusti son vari, e bisogna rispettare tutte le opinioni. Grazie al cielo si era in un paese nè pettegolo, nè curioso.—Ed egli, il signor forestiero, contava di trattenervisi un pezzo?... E forse avrebbe alloggiato in casa Nottoli?... Era una stagione deliziosa, meritava proprio di passare una quindicina di giorni in campagna... Aria balsamica, vedute magnifiche, buon vino e buona compagnia...
Il signor Michele non potè in altro modo porre argine a questo fiume di parole che accusando un po' di stanchezza e rinchiudendosi per qualche ora nella sua camera. Verso le sei essendosi velato il sole, egli si mosse per far la sua gita a piedi, non senza aver durato fatica a sbarazzarsi dei vetturali che gli offrivano i loro servigi. Ma gli sorrideva l'idea d'una passeggiata di tre quarti d'ora. E lasciò che i curiosi almanaccassero a loro posta sulle ragioni che lo spingevano a visitare la signora Martelli vedova Nottoli.
La campagna era bella e ridente. In alcuni luoghi il cinquantino, già mietuto, era raccolto in covoni, in altri esso era ancora sul gambo e un venticello leggiero faceva ondeggiar le pannocchie. Le viti a festoni sfoggiavano la ricca promessa dei grappoli arrubinati, e il fieno appena falciato e disposto a mucchi sulle praterie, spandeva intorno un grato odor d'erba. Dondolavano, agitate dalla brezza, le cime dei pioppi fiancheggianti la strada, e di tratto in tratto un buffo di vento più forte sollevava dal suolo un nembo di polvere, e, strappate le prime foglie agli alberi, le moveva in giro vorticosamente, Il sole, apertosi un varco tra un gruppo di nuvole del più bel colore d'arancio, mandava, prima di nascondersi dietro i monti, il suo ultimo saluto ai campi ubertosi e ai casolari fumanti, e gli allegri e improvvidi uccelletti rispondevano per tutti al saluto del sole. E intanto nell'anima del signor Michele scendeva una mesta poesia, si svegliava un dolce ricordo dei giorni perduti, un desiderio infinito delle prime illusioni. Tanti anni vissuti fra le nebbie di Londra, tra le cure affannose dei traffici, non avevano soffocato interamente i suoi giovanili entusiasmi d'artista. E la natura, amica discreta che co' suoi mille suoni non assorda, che coi suoi mille splendori non abbaglia, che co' suoi mille spettacoli non turba mai, ma feconda il raccoglimento entro cui si forma il pensiero, evocava oggi io lui l'uomo antico, il soldato, il pittore d'un quarto di secolo addietro.
Ed egli procedeva in silenzio, battendo col suo bastoncello di canna d'India i monti di ghiaia che incontrava lungo la via, quando temette di essere andato un po' troppo innanzi. Passava in quell'istante un gran carro di fieno tirato da due bovi. Il conduttore, sdraiato sul fieno, lasciava andare le bestie a lor posta contentandosi di animarle di tratto in tratto colla voce. A costui si rivolse il signor Michele per domandargli della villa Nottoli.
E l'altro, accennando col dito, rispose ch'egli non aveva se non da prendere una strada laterale, che avrebbe trovata dopo il terzo paracarro a sinistra. A un tiro di schioppo c'era una palazzina bianca, nascosta in quel momento da una macchia di pini. Era quella la villa ch'egli cercava.
Il signor Michele si avviò per la strada indicatagli, e giunse presto ad un cancello aperto. Su uno dei pilastri erano scolpite le parole Villa Nottoli. Non c'era sbaglio possibile; il volontario del 1848 era giunto alla sua meta.
Egli entrò colla speranza d'incontrare un servo, un giardiniere, un contadino a cui chiedere della padrona. Ma non c'era nessuno. Vide spalancato il portone d'un fabbricato laterale che doveva servire da rimessa e da scuderia. Non c'era nessuno neppure lì, ad eccezione di tre cavalli che voltarono il muso per guardarlo con aria di diffidenza. Il signor Michele si fece coraggio, e, ascesa la gradinata che metteva alla casa, entrò per una porta a vetri colorati in un salotto addobbato senza ricercatezza, ma con buon gusto. C'era in una poltrona un signore attempatello che russava profondamente. Il signor Michele ridiscese, incerto se dovesse tornare fino al cancello e suonare, o andarsene via a dirittura. E, invero, perchè aveva egli avuto tanta fretta? Perchè non era ricorso al mezzo assai comodo e semplice di una lettera? Perchè voler fare una sorpresa a ogni costo? Ma del resto doveva pensarci prima; ormai era una vigliaccheria il retrocedere. Il signor Michele fece ancora qualche passo in giardino; era così strano quell'entrar furtivo in una casa che quasi istintivamente egli tratteneva il fiato e camminava in punta di piedi. Questa volta le sue ricerche non furono infruttuose. Com'ebbe girato attorno a un boschetto di lauri, vide poco lontano, china sopra un'aiuola di fiori, una donna che, nel portamento signorile, nelle giuste proporzioni delle membra, gli evocava dinanzi, meglio che non avesse potuto fino allora ogni sforzo della fantasia, l'immagine di colei che venticinque anni prima gli era parsa sì bella. Egli non poteva vederne la fisonomia, e per la posizione nella quale ella si trovava, e per la incerta luce del crepuscolo, ma non v'era dubbio; era dessa, invecchiata certo nel volto, ma ancora giovanilmente fresca nella persona. Non glielo avevano detto ch'ella si conservava sempre una bella donna?
Il signor Michele non esitò più, ed avvicinandosi disse:—signora Amalia!
La chiamata si alzò rapidamente, si voltò e guardò in faccia l'incognito ed elegante signore che le stava ritto dinanzi. La sua fisonomia esprimeva una sorpresa mista di curiosità; il signor Michele, appena l'ebbe veduta, parve singolarmente imbarazzato. Poteva mai esser quella la donna ch'egli cercava? La rassomiglianza era invero parlante; gli stessi capelli, gli stessi occhi, la statura medesima; ma era possibile che ella paresse ancor più giovane di venticinque anni addietro?
—Scusi, la signora Amalia Nottoli?—tornò a dire il signor Michele.
—È la mamma—rispose la ragazza sorridendo.
L'Arsandi comprese il goffo equivoco che aveva preso, e, contro la sua abitudine, restò un momento confuso.
—La mamma—ripigliò la simpatica giovanetta—è uscita in carrozza mezz'ora fa.....
—Allora—disse il signor Michele—se ella ha la bontà di ricevere un biglietto di visita....
—Ma, prego, se non le spiace attendere, la mamma non può tardare....
—Non vorrei disturbarla....
—No, no, tutt'altro, si accomodi.—E gli additò un sedile di ferro, mentr'ella ne avvicinava un altro e vi prendeva posto.—Dunque è un pezzo ch'ella non vede la mamma?
—La bagattella di venticinque anni.
La Matilde (era il nome della fanciulla) guardò con qualche attenzione lo sconosciuto, e pensò che venticinque anni addietro egli doveva essere ben giovane.
—È italiano?—ella chiese.
—Italianissimo.... Ma sono vissuto all'estero dal 49 in poi.... Nel 49 io ero volontario alla difesa di Venezia, e fui ospite presso i signori Martelli, i genitori della signora Amalia.
—Ah!—esclamò la Matilde come persona che si raccapezza.
—In quel tempo, signorina, le mancavano degli anni a nascere, ma forse nella sua vita avrà inteso qualche volta pronunziare il nome di Michele Arsandi.....
—Oh sicuro che l'ho inteso a pronunziare... Moltissime volte, dallo zio sopratutto che deve averla riveduta a Londra.
—Nel 1866, dopo la guerra. Ma tornando un momento indietro, lei non può credere come somigli alla sua signora madre..... Quando la ho veduta poco fa, mi parve di veder tal quale la signora Amalia, mi sentivo trasportato a venticinque anni or sono.
—Me lo hanno detto parecchi—osservò la vispa fanciulla—che io sono precisamente quello che era la mamma alla mia età.
—Ah!—pensò il signor Arsandi—ciò significa che la signora Amalia adesso è tutt'altra cosa.—Ma questa considerazione egli la tenne per sè, e invece riprese a voce alta con molta galanteria:—È anche farle il miglior elogio possibile, perchè sua madre passava di gran lunga in bellezza e in leggiadria tutte te sue coetanee.
La Matilde divenne, rossa e non rispose. Poi, per mutare argomento:—E nell'entrare in giardino, lei non ha trovato nessuno?
—No davvero. Il cancello era aperto....
—Solita trascuranza—osservò la giovinetta.—Il cocchiere è fuori con la mamma, il giardiniere è andato a Ceneda; e circa agli altri, vattelapesca.
—Le dirò anzi ch'io avevo salito la gradinata del palazzino e avevo sospinto un momento l'uscio del salotto per vedere se ci fosse qualche servo a cui rivolgermi. Ma non c'era che un signore di mezza età, il quale dormiva saporitamente.
—Ah!—sclamò ridendo la Matilde.—Il professore Benvoglio... Dopo pranzo egli dormirebbe anche ritto....
—Il professore Benvoglio.... Quel membro dell'Istituto?
—Lo conosce?
—Io no... L'ho sentito a nominare.
—A Londra?
—No davvero. A Conegliano... È una brava persona?
—Ma!—sospirò la Matilde.—Dicono... Del resto è perfettamente innocuo, quando non si leggono i suoi scritti.
—Come! I suoi scritti sono immorali?
—Tutt'altro. Sono noiosi—rispose la ragazza con la massima serietà.
Il signor Michele scoppiò in una risata sonora, e notò fra sè che, oltre alla fisonomia e al portamento, la sua leggiadra interlocutrice aveva anche il piglio ironico della signora Amalia. Egli si trovava a meraviglia in sua compagnia, ma ormai faceva buio e non gli era dato trattenersi più a lungo senza abusare della gentilezza della signorina Matilde. Inoltre, l'aria era un po' umida e la conversazione all'aperto non poteva durare, nè forse la Matilde, in assenza della sua genitrice, stimava opportuno entrare in casa con un uomo ch'ella vedeva per la prima volta. È vero che ci correva un bel numero d'anni fra loro, è vero ch'egli avrebbe potuto esserle padre... Ma questa paternità non sorrideva punto al signor Michele.—Che padre! Che padre!—egli pensava in cuor suo.—Vorrei vedere quanti zerbinotti di primo pelo hanno l'aspetto giovanile che io ho.
—Ebbene, signorina—egli disse alzandosi in piedi—faccia i miei complimenti alla sua mamma, e abbia la cortesia di annunziarle la mia visita per domani.—Il signor Michele s'era ormai risolto a prolungare d'un giorno la sua assenza da Venezia.
Però, mentre egli stava accomiatandosi, si udì il rumore di una carrozza che entrava in giardino.
—Ecco la mamma—disse la Matilde—adesso non se ne andrà.
E si mosse accennando al signor Michele di seguirla.
Si udì la voce della padrona di casa.
—Qui non c'è anima viva. Dovevano pur sapere in cucina che il giardiniere è a Vittorio. Teodoro! Giovanna!... O chi sa dove sono?... Ebbene, Carlo—ella soggiunse rivoltasi al cocchiere—chiuderete voi il cancello, chè a quest'ora è una vera imprudenza il lasciarlo aperto. Può entrare chi vuole.
—E infatti, mamma—gridò la Matilde, che accorreva saltellando—e infatti in tua assenza è entrato un nemico... Dio mio, con questa oscurità come si fa a presentare la gente?...
—Chi è? Che cosa vai dicendo, mia cara?—domandò la signora Amalia, che non capiva troppo i discorsi della figliuola.—C'è qualcheduno teco?
—Ma sì, ma sì... Un tuo conoscente che m'aveva presa in iscambio per te.
La signora Amalia si mise a ridere.—Dev'essere ben miope questo signore. Che si faccia avanti... Ma no, anzi, entriamo in casa, perchè qui non ci si vede quasi più... In salotto hanno acceso il lume... pare che si siano svegliati.
Infine un cameriere si presentò sulla scalinata: Bravissimo, Teodoro. Eravate scomparso.—E la signora Amalia salì la gradinata dicendo scherzosamente a sua figlia:—Vienmi dietro coll'invasore.
—Signora Amalia—cominciò la persona qualificata con questo aggettivo—io non so s'ella mi perdonerà l'ardire ch'io ebbi di venir da lei così alla sprovvista dopo un intervallo di venticinque anni... Ahi! È troppo grassa—soggiunse fra sè il signor Michele vedendo disegnarsi i contorni della sua antica fiamma alla luce che veniva dall'interno della sala.
—Venticinqu'anni!—disse la signora Amalia voltandosi con vivacità.—Ma allora non può essere, non è anzi che....
—Michele Arsandi per servirla,... l'artigliere del 1849.
—Oh signor Michele—sclamò la signora Nottoli, stendendogli ambe le mani con una cordialità schietta ed affettuosa.—Avanti.... Ma, quando se ne levi la barba, lei non ha punto cambiato dal 49.
E poichè questi primi saluti furono scambiati sulla soglia, la signora Amalia, il signor Michele e la Matilde entrarono nel salotto, ch'era rischiarato da un lume a petrolio posto su un tavolino laterale vicino al sofà. Nel mezzo c'era un altro tavolino da giuoco con due candele spente. Una parte della stanza era in ombra, e colà, adagiato sulla sua poltrona, dormiva tranquillo, russando talvolta, il professore Benvoglio.
—Badi che adesso è nostro prigioniero—ripigliò la signora Amalia, mentre una cameriera, venuta in quel punto, le toglieva di dosso lo sciallo ed il velo.
—Io la ringrazio infinitamente—rispose il signor Michele—ma devo ritornare questa sera medesima a Conegliano per ripartire domani con la prima corsa.
—Che? Che? Nemmeno per idea. Dov'è alloggiato a Conegliano?
—All' Europa, ma non ho che l'occorrente per una notte.
—Scriverà a Venezia perchè le spediscano quanto può abbisognarle per due settimane..... Oh non c'è da dire di no.... Matilde, ordina a Carlo che attacchi la timonella e... aspetta un momento... scusi, signor Arsandi, avrà con sè un biglietto di visita... Me lo favorisca.
—Eccolo... ma...
—Egregiamente. Dirai dunque a Carlo che vada subito a Conegliano all'albergo dell' Europa, e con questo biglietto si faccia consegnare la roba del signor Michele Arsandi e la porti qui...
—Signora Amalia, lei mi confonde..... Permetta almeno che vada io stesso a Conegliano... Debbo anche pagare il conto.
—Oh! A Conegliano si passerà domani insieme... Carlo dirà all'albergatore che verremo domattina pel conto... Senti, Matilde.
E disse alla figliuola un'altra parolina in disparte, indi la lasciò andare. La Matilde volò via come una farfalla.
—Adesso, signor prigioniero, si rimetta del suo sbalordimento, e riprenda l'uso della parola.
La signora Amalia si sprofondò in una poltrona a molle, e, additandone un'altra al suo ospite, soggiunse con un sorriso malizioso—Ah! Come si sta bene sdraiati, quando s'invecchia.
CAPITOLO QUARTO
—In verità—ripigliò la disinvolta vedova—caro signor Michele, per un vecchio artigliere e per un presente milionario, lei mi pare un po' troppo confuso.....
Il signor Michele si persuase anch'egli di esser molto più imbarazzato di quello ch'egli non avesse supposto, e questa persuasione lo imbarazzava ancora di più. Inoltre egli si trovava in uno stato d'animo curioso. Quella signora che gli stava dinanzi era senza dubbio l'antica Amalia, ma era un'Amalia un po' ingrassata, un po' floscia. Quanto più rassomigliava all'antica colei ch'egli aveva vista prima, la giovinetta Matilde!
E involontariamente, mentre cercava le parole, rivolse lo sguardo verso la porta.
La signora Amalia credette ch'egli fosse preoccupato della presenza del professor Benvoglio.
—A proposito—ella disse—faccio una mezza presentazione. Farò l'altra mezza più tardi. Il professore Benvoglio, membro dell'Istituto, lontano parente del mio defunto marito....Dorme infallantemente dalle 6 alle 8 precise.
—E le altre ore?
—Fa dormire..... Eh, bisogna adattarsi..... Farfalloni intorno a mia figlia non ne voglio, e per me chi vuol che ci venga ormai?...
—Oh, signora Amalia, che dice?...
—Via, via, caro signor Michele, non faccia l'adulatore... Mi narri piuttosto....
A questo punto la signora Nottoli scoppiò in una risata e sclamò:—Eppure chi lo avrebbe detto che ci si sarebbe rivisti dopo venticinque anni... e con questa calma?
—Andiamo, signora Amalia, non ischerzi.
—Vuol ch'io vada in patetico?... Alla mia... alla nostra età?...
Il signor Michele si agitò inquieto sulla sedia.
—Orsù—riprese la signora Nottoli stendendogli di nuovo la mano—mi racconti un po' la sua storia da venticinque anni a questa parte... io ne so appena i fasti principali.
—Fasti?
—Dico così per dire.... Partito di qui alla fine di agosto del 1849....
—Tornai a Bologna presso i miei genitori...
—I quali....
—Mi dissero che bisognava ch'io mi mettessi al sodo.....
—E che non potevano assolutamente secondare i suoi capricci giovanili... Questo me lo ha scritto.... Del resto, le precise parole le avevano dette i miei genitori a me.... Lei, memore delle sue gesta militari, mi soggiungeva che avrebbe trovato un campo di battaglia ove farsi ammazzare.... Per disgrazia vi furono parecchi anni di pace... quando se ne levino forse le piccole avvisaglie tra l'Austria e la Prussia, ove credo non sia morto che un cavallo bianco.... Come vede, non valeva la spesa di prender le armi.
—Ella è inesorabile, signora Amalia.... Ma se io le dicessi che nella sua risposta c'era un giuramento....
—Quale?
—Quello di prendere il velo.
—Aspettavo che lei si fosse fatto ammazzare.
—È davvero crudele...
—Tiri via... A Bologna ci si è trattenuto poco.
—Pochissimo... Nell'arte non riuscivo che una mediocrità. Inoltre la polizia mi dava noia... Ebbi qualche raccomandazione e mi recai a Londra...
—Ove le si manifestò un genio commerciale straordinario.
—Entrai come apprendista nella casa Bertheen Harris e C.
—Forti negozianti di spazzole e frutta secche...
—Pel commercio, signora, come per la scienza non c'è nulla di ignobile.
—Si figuri... E poi le frutta secche le avranno rammentato la patria... Quelle prugne, quelle uve, quei fichi...
—Il principale ha preso a volermi bene...
—Anche la principalina... Questo si vide col fatto...
—È vero... Sono divenuto genero del signor Bertheen.
—Lei era innamorato morto della signorina...
—Mentirei se dicessi questo... Io non avevo ancora dimenticato un'altra donna che proprio in quell'epoca andava a marito...
—Ella vorrebbe dire con ciò che i conti sono pareggiati. Ci sarebbe molto e molto da discutere a questo riguardo, ma a che pro? Alla nostra età possiamo guardare con calma il passato.... Continui invece il suo racconto che m'interessa... La sua felicità coniugale...?
—Fu mediocre... Mia moglie spiegò dopo il matrimonio un carattere bisbetico.
—Pur troppo queste cose si spiegano sempre dopo il matrimonio.
—Ella voleva a tutti i costi convertirmi al protestantesimo.
—Oh diamine. E lei ha ricusato?
—Ho ricusato. Non sono un credente, ma mi ripugna il cambiar di religione come di vestito. Anzi opino che per convertirsi ci voglia la fede.
—A ogni modo, sua moglie, poveretta, morì presto....
—Sì, e me ne afflissi vivamente.... Non sorrida, signora Amalia, è proprio vero quel ch'io le dico. Io non potevo a meno di ricordarmi che quella donna aveva scelto a suo sposo me straniero, me povero, respingendo altri brillanti partiti che le erano offerti e resistendo a tutte le obbiezioni di suo padre, il quale, malgrado la sua benevolenza per me, avrebbe voluto maritare in ben altro modo la sua unica figliuola. E quando la vidi sul suo letto di morte, mi pentii di aver dato troppa importanza a semplici bizzarrie di carattere.
La signora Amalia non rispose nulla, ma i suoi occhi guardavano l'anello nuziale ch'ella portava in dito.
Dopo una breve pausa, ella ricominciò con tuono più serio.
—Lei ha un figliuolo.
—Sì, un ragazzo....
Questa risposta fece svanire la serietà della signora Amalia. Ed ella ripigliò con una compunzione ironica.—Dunque ella ha perduto il suo primogenito?
—Che primogenito, se non ne ho che uno?
—Scusi. Nel 1866 quando mio fratello fu a Londra egli conobbe un suo figliuolo che aveva 14 anni; ora siamo nel 1874, dunque sono passati 8 anni; 14 e 8 fanno 22. Il ragazzo ha messo i denti.
—Sì, sì, saranno ventidue.
—Ventidue denti?
—Ha un gran buon umore. Ventidue anni.
—In nome del cielo! E perchè non ha condotto seco questo figliuolo?
—Sì che l'ho condotto.
—Dove?
—A Venezia.
—Ma perchè non venne qui in sua compagnia?
—Oh! È la cosa più naturale del mondo, io calcolavo di fare una visitina di poche ore.
—Dunque scriviamogli adesso che venga.
—No, no, è meglio lasciarlo stare. Mio figlio è d'indole piuttosto selvatica e i suoi compagni più graditi sono i monumenti, i quadri.
—Che cos'è? Antiquario, o artista?
—È artista, almeno d'inclinazioni. E questa è la ragione per la quale finirò collo stabilirmi in Italia.
—Patatrac! E non mi aveva detto nulla. Lei viene a stabilirsi in Italia?
—Non sono ancora deciso, ma credo che mi deciderò. Voglio mettermi in quiete.
—E poi mi neghi i suoi milioni!
—Nego i milioni, non nego d'aver messo da parte una certa sostanza.
—E s'è annoiato delle spazzole e delle frutta secche?
—Veda, sarei rimasto negli affari se mio figlio avesse avuto amore pel commercio, ma non c'è caso, non vuol saperne. Per chi dovrei dunque lavorare? Finchè viveva mio suocero era un'altra cosa. Non avrei potuto certo abbandonarlo.
—E suo suocero è morto da un pezzo?
—Da quattro anni, lasciando tutto il suo avere diviso per giusta metà tra mio figlio e me.
—Insomma lei si prepara una vecchiezza da papa.
—Come ci tiene a rinfacciarmi questa vecchiezza!... Dopo tutto non mi pare...
—D'esser vecchio... Non è tale veramente; le lasci dire a una povera donna queste cose...
—Oh—sclamò con galanteria il signor Michele—Lei è fresca come una rosa.—E soggiunse fra sè:—Spampanata!
—Lasciamo i complimenti. Che le pare di Matilde?
—Un angelo, un amore, un portento.
—Ih! Ih! Come va in epico!
—E non dovrei andarci se quella ragazza somiglia a sua madre?... Basta, la dev'essere una gran consolazione per lei.
—È la mia unica compagna dacchè son rimasta vedova, vale a dire da due anni, e non penso senza sgomento alla necessità di separarmene...
—La signora Matilde è già fidanzata?—chiese con premura il signor Michele.
—No—rispose la—vedova guardando il suo interlocutore—ma presto o tardi bisognerà pur venirci.
In quella l'orologio ch'era appeso alla parete suonò le otto.
Contemporaneamente si udì un piccolo movimento nella poltrona ove dormiva il professore Benvoglio.
—Ecco il professore che si sveglia con la sua ordinaria puntualità—osservò la signora Amalia.
Il signor Michele rivolse la sua attenzione alla poltrona e vide il singolar personaggio agitare prima le braccia come lottando contro nemici invisibili, e poi emergere tutto d'un pezzo della sedia.
—Venga qui, venga qui, professore—disse, sorridendo, la signora Amalia.
—Avrei forse dormito?—rispose macchinalmente l'accademico che non era ben desto.
—Oh un pochino.... Via, si faccia animo.
Il professore Benvoglio si avvicinò al tavolino presso il quale c'era la padrona di casa, non senza guardare con una curiosità sospettosa l'estranio che le sedeva di fronte.
—Mi permette di baciare la sua bella mano?—chiese con voce nasale il professore inchinandosi.
Era costui un uomo d'una cinquantina d'anni, di statura media, magro, giallastro, senza barba, coi capelli picchiettati di bianco, vestito di nero, ma con un taglio d'abito molto antiquato; una toilette tra l'erudito e il sacrestano.
—Auff!—rispose la signora lasciandosi di mala voglia prender la destra—quando smetterete queste anticaglie?
—Il culto del bello non sarà mai un'anticaglia, almeno per noi uomini del vecchio stampo... Focione ateniese...
—Volete finirla?... Vi presento un mio antichissimo amico, il signor Michele Arsandi di Bologna, che torna in Italia, dopo venticinque anni vissuti in Londra. Il professore Ettore Benvoglio, membro dell'Istituto.
I due scambiarono un inchino, mal dissimulando però la noia scambievole che si recavano. La signora Amalia sorrideva a fior di labbro.
Il professore ruppe pel primo il silenzio.—Non amo l'Inghilterra—egli disse—il paese del carbon fossile e del cotone, il paese della nebbia e dello spleen, senza grazia e senza colore.
E pronunciate queste sentenze il degno uomo si atteggiò a guisa di persona illuminata dal più vivo raggio della greca bellezza.
—Ma scusi—replicò il signor Arsandi—c'è stato in Inghilterra?
—Io... no...
—E allora, mi perdoni, come ne giudica?
—O non si sa forse che l'Inghilterra è il paese del carbon fossile?
—E per questo?
L'arrivo della vispa Matilde interruppe questo divertente colloquio.
CAPITOLO QUINTO
—Carlo è tornato con la roba del signor Arsandi, che ho fatto portare nella camera azzurra—disse la ragazza. E soggiunse.—Egli trovò poi il fattorino che gli consegnò questa lettera. È lo scritto dello zio...
—Oh, vediamo... Con permesso.
E la signora Amalia si avvicinò al lume e ruppe la busta.
—Oh che bella combinazione!—ella esclamò dopo aver scorso cogli occhi la lettera di suo fratello.—Gustavo mi scrive da Firenze che sarà qui domattina... Ella vede, signor Arsandi, che tutto cospira a farla rimanere con noi... Mio fratello, che non è molto complimentoso, dice sempre che si annoia quando viene a visitarci in campagna. Sarà per lui una sorpresa molto gradevole l'aver modo questa volta di scambiar quattro chiacchiere... Un'altra faccenda per te, Matilde. Farai preparare a tuo zio la sua solita camera. Che avete mai, caro professore?—continuò la signora Nottoli rivolgendosi al Benvoglio, e durando fatica a non ridere.
—Io? balbettò l'interrogato.—Ma io non ho nulla...
Fatto si è che l'arrivo di questi ospiti noiava grandemente l'esimio professore. Se non gli riusciva mai di farsi prendere sul serio dalla signora Amalia quand'era solo con lei, figuriamoci poi quando c'erano degli altri in villa... E il signor Gustavo gli era tanto antipatico. Aveva un tuono così canzonatore, così beffardo.
—Ebbene signor Michele—ripigliò la padrona di casa—se vuol prender possesso della sua camera, chiamo subito il servo affinchè l'accompagni. Ivi ella troverà anche carta, penna e calamaio per iscrivere a Venezia che le mandino l'occorrente per un lungo soggiorno nella mia villa.
Il signor Michele si diffuse in ringraziamenti e in proteste circa alla sua impossibilità di trattenersi molto in campagna. Quanto al salire nella sua stanza egli non ne aveva punto bisogno in quel momento. A Venezia avrebbe scritto più tardi.
Si aperse la porta a vetri che dava sulla gradinata ed entrarono due nuovi personaggi.
—Il dottor Gerolami, il signor Nerini, giudice del Tribunale—disse la signora Amalia a modo di presentazione.—Il mio vecchio amico, signor Michele Arsandi. Scusi, titoli non ne ha nessuno?
—Oh—rispose ridendo l'Arsandi—il Governo italiano mi ha fatto cavaliere... Uno dei tanti.
—Presento dunque il signor cavaliere Arsandi.
Il giudice Nerini che non era ancora uno dei tanti guardò con aria d'invidia questo signore dall'aspetto di forestiero che era già insignito di un ordine cavalleresco italiano.
—Il cavaliere Arsandi fu uno dei difensori di Venezia nel 1848-49—soggiunse la signora Nottoli.
—Oh!—fecero il dottore ed il giudice chinandosi. Indi salutarono come una vecchia conoscenza il professore Benvoglio che rivolse loro un sorriso benevolo e scrollò il capo in modo espressivo.
—Signor Michele—ripigliò la padrona di casa—sa giuocare a tresette?
—No, punto; non conosco nemmeno le carte.
—Me ne dispiace. L'avrei fatto giuocare con questi signori. Invece toccherà giuocare a me... E se si trattasse d'una partita a scacchi con la Matilde?
—Ben volentieri—rispose con premura il signor Arsandi—gli scacchi furono sempre la mia passione.
—Oh allora—sclamò con viva soddisfazione la giovinetta—lei mi spiegherà un problema che c'è nell'ultimo numero dell' Illustrazione inglese.
—Come? È abbuonata all' Illustrazione inglese?
—Sì, la mamma mi ci ha abbuonata questo anno.
—Dunque sa la lingua?
—Un poco, ma non ho mai occasione di fare esercizio.
—Ebbene, parli adesso con me.
—Oh Dio buono, sentirà quanti spropositi.
—Non importa: tanto bisogna farsi coraggio.
—Or ora vado a prendere lo scacchiere e il giornale e torno.
E la vispa ragazza uscì di corsa dal salotto.
Gli altri quattro personaggi si erano messi intanto al tavolino da giuoco.
—Sentite caro professore—diceva la signora Amalia al Benvoglio—vi raccomando di non pigliar le cose troppo in epico, perchè io non intendo mettermi a giuocare a tresette col raccoglimento con cui mi accingerei a studiare un problema di matematica... se sperassi di capirne qualche cosa. Vi do per compagno il dottore. Io giuocherò col signor Nerini. Mi prenda come sono e non si scandolezzi delle mie distrazioni.
—Debbo esserle avversario?—mormorò in tuono compassionevole il professore.
—Già, spero che non morrete per così poco.
—Ecco—disse la Matilde che tornava in salotto facendo portare dietro di sè un altro tavolino con suvvi lo scacchiere e un numero dell' Illustrazione.—Qui, mettete due sedie e accendete due candele—ella soggiunse, rivolgendosi al servo. Indi spiegò il giornale.—Guardi un po' signor Arsandi, il nero dà scacco in cinque mosse. Lei prenda il bianco, perchè voglio dar scacco matto io, ma prima mi sono provata da me e non ci ho capito nulla.
—Adesso vedremo—rispose il signor Michele—ma a patto che mi parli in inglese.
La Matilde cominciò con qualche stento ma non senza grazia a cinguettare nella lingua di Byron, e il signor Arsandi le spiegò in poche parole il problema dell' Illustrazione, aggiungendo poi un'infinità di cose gentili all'indirizzo della giovinetta con una varietà di frasi e una disinvoltura che mostravano la sua molta perizia nell'idioma della sua seconda patria. A chi vinca la prima ritrosia non c'è quanto il parlare in una lingua straniera per dire o lasciar dire certe cose che nella lingua propria non si direbbero o non si vorrebbe fossero dette. È un modo di fare esercizio.
E così la Matilde imparò le molte maniere con cui si può dire in inglese ad una fanciulla che la si trova eminentemente garbata e simpatica, imparò le voci più appropriate ad esprimere la tinta e la curva particolare de' suoi capelli, imparò, assai meglio che dalla grammatica, la esatta differenza tra le parole pretty, handsome, beautiful, raggranellò infine una buona somma di cognizioni filologiche, senza contare la descrizione fattale dal suo interlocutore dei costumi delle strade e dei monumenti di Londra. Ella interponeva qua e là alcune frasi, rideva di cuore quand'era avvertita di un grosso sproposito e quando il signor Michele, sempre allo scopo di addestrarla nelle difficoltà della lingua, le spiattellava un complimento troppo sonoro.
—Mi congratulo de' tuoi progressi—disse dopo un certo tempo la signora Amalia alla figliuola—ma mi pare che ormai potreste ripigliare il vostro dialogo in italiano... anche per non offendere l'orecchio greco del professore Benvoglio.
— Napoletana di spade! —gridò il professore spiegando le sue carte a ventaglio. Indi prese tabacco e soggiunse con la sua gravità consueta:—Confesso che quegli accenti gutturali mi urtano i nervi.
—Carino!—mormorò la Matilde che invece trovava l'inglese un idioma armoniosissimo. Con la fissazione che aveva sua madre di vivere in un guscio, ella non aveva mai provato la compiacenza di sentirsi far la corte nella sua lingua. Perchè non doveva lasciarsela fare in inglese?
Il signor Michele e la giovinetta ripresero di malavoglia il loro dialogo in italiano, ma non era più la stessa cosa. Non più quello scoppiettìo di domande e risposte, non più da parte della Matilde quei graziosissimi errori di pronunzia e di sintassi, e da parte del signor Arsandi quelle correzioni piene di garbo e di benevolenza, non più le frasi lusinghiere, non più le allegre risate. Si mieteva nel campo neutro della stagione, del clima, dei passatempi della villeggiatura, della malattia del baco da seta e della crittogama. Di tratto in tratto la conversazione languiva e c'era qualche secondo di silenzio.
—Pare che non abbiate spirito altro che in inglese—osservò la signora Amalia che pure attendendo alla sua partita non perdeva d'occhio la figlia.
Questa osservazione venne a cadere in un momento nel quale la Matilde e il signor Arsandi si occupavano in silenzio di una operazione di calcolo mentale.
—Quanti anni avrà questa ragazza?—almanaccava fra sè il signor Michele.—Forse non più di diciassette o diciotto, ma forse potrebbero essere anche venti.
La giovane intanto speculava così:—Venticinque anni fa il signor Arsandi era in Venezia come volontario. Quanti anni avrà egli avuto in quel tempo? Pochi assai, perchè ho sentito dire che la maggior parte dei volontarî del 48 erano adolescenti... A ogni modo non meno di sedici... Potrebbero essere stati anche diciotto, diciannove, ma non è credibile; saranno stati sedici... Venticinque e sedici fanno....
Sembra che la somma non persuadesse molto la Matilde, perchè co' suoi bei dentini ella si morsicò il labbro di sotto.
—È verissimo!—disse il signor Michele rispondendo pel primo alle parole della padrona di casa—e se la signora Amalia lo desidera, io torno ad aver spirito in inglese...
—Quando si dice le combinazioni!—replicò vivamente la signora Amalia—è una lingua di cui non capisco una parola... Via, via, adesso usciremo un poco in giardino a veder la luna, e chi sa che la casta diva non la inspiri anche in italiano.
I giuocatori regolarono i loro conti. Il giudice Nerini guadagnava 50 centesimi, ciocchè per un magistrato del Regno d'Italia non è cosa indifferente. Il professore Benvoglio che perdeva altrettanto sborsò il grosso peculio brontolando e attribuendo la sua cattiva fortuna di quella sera allo stupido cicaleccio del forestiero. Egli sentiva di non poterlo soffrire, ma era troppo prudente per attaccar lite con lui. Anzi, avvicinatoglisi con piglio piuttosto amichevole un momento in cui le due donne erano passate nella stanza attigua per prender qualche cosa onde coprirsi il capo, gli bisbigliò sotto voce:—La signora Amalia ha l'idea fissa di questa passeggiata notturna. Ella crede che la sua villeggiatura sia un paradiso, ma io so invece che la è un'aria da febbri, sopratutto per chi non ci sia abituato...Ma guai a dirlo alla signora Nottoli; ella va in tutte le furie...Perciò mi raccomando, non mi comprometta.
Il buon professore sperava in questo modo d'indurre l'anglo-sassone, com'egli lo chiamava in tuono dispregiativo, ad abbreviare il suo soggiorno in casa Nottoli.
La signora Amalia e la Matilde tornarono ben presto ravvolte in due mantelli bianchi col cappuccio guernito di rosso. Erano entrambe assai belle e attraenti, tantochè il professore Benvoglio si sarebbe gettato volentieri ai piedi della madre e il cavaliere Arsandi a quelli della figliuola. Per buona ventura essi frenarono i loro impeti cavallereschi.
—Coraggio, signori,—disse la padrona di casa,—mettano i loro soprabiti e i loro cappelli.
—Non prima ch'io mi sia assicurato del suo braccio—sclamò il professore slanciandosi verso di lei.
—Scusate—ella rispose—questo privilegio tocca oggi all'amico che non vedevo da venticinque anni... anche se per avventura egli non se ne mostra troppo sollecito.
Le ultime parole erano indirizzate all'Arsandi, il quale calcolava invece di offrire il braccio alla Matilde ed accolse quindi con mediocre entusiasmo il cortese invito della sua antica fiamma.
La signora Amalia si mise a ridere.—Chi lo avrebbe detto, sempre in quei nostri tempi preistorici, che venticinque anni dopo ella si sarebbe fatto pregare ad esser mio cavaliere?
—Ma che pensa mai?...
—E allora—ella continuò senza dargli retta—io la conducevo con la punta del dito mignolo... Ma! Come mutano i saggi!
—Creda pure, signora Amalia, che io...
—Che lei non ha mutato... Sarebbe curiosa. È vedovo; ha un figliuolo di ventidue anni, e vorrebbe non aver mutato? Badi, signor Michele, con la corteccia bisogna mutare anche il midollo.
—Come? Non le sembra che il cuore possa rimaner giovane?
—Oh! Giovane sì, ma non di quella giovinezza spensierata che si cura soltanto dell'oggi; bensì di quella giovinezza virile che si rende conto delle proprie azioni, e che non ischerza coi sentimenti altrui....
—Mi spieghi meglio....
—Zitto, zitto... Bisogna confortare il professore Benvoglio... Andiamo, professore, non istia così ingrugnato... Venga qui... E la Matilde ov'è andata?
—Ci ha preceduti in giardino.
Infatti la ragazza era corsa avanti per paura che il professore Benvoglio avesse il ghiribizzo di mettersele al fianco.
L'aria era mite, la notte bellissima, i rosignoli gorgheggiavano fra gli alberi, e i gelsomini e le tuberose spandevano intorno soavi fragranze; ma tutti gli incanti della natura non bastavano a dissipare la musoneria che si era stesa sulla comitiva. Nessuno pareva trovarsi a suo agio. Il dialogo tra la signora Amalia e l'Arsandi cadeva ad ogni momento; il professore, mortificato della ripulsa della sua dama, tentava invano di riappiccare il discorso recitando a mezza voce l'anacreontica del Vittorelli Guarda che bianca luna —il giudice e il medico parlavano, brontolando, della tassa di ricchezza mobile e del caro dei viveri. La Matilde, sola, sulla cima d'una collinetta artificiale, contemplava la luna specchiantesi nelle acque limpide di un piccolo lago.
La padrona di casa chiamò a raccolta sperando che la cena facesse ritrovar una parte del buon umore smarrito. Ed ella non s'apponeva a torto, perchè la vista d'una tavola bene apparecchiata rinfrancò gli spiriti, e l'arrivo della geniale polenta coi beccafichi riuscì perfino a spianare la fronte corrugata del professore Benvoglio. Quanto all'Arsandi rimane dubbio s'egli si rasserenasse per l'arrivo dell'appetitosa vivanda, o per quello quasi contemporaneo della bella Matilde. Fatto si è ch'egli tornò espansivo, loquace, pieno di premure per la signora Amalia che gli sedeva a fianco e per la figliuola di lei che gli stava di fronte, pieno di tolleranza anche pegli aneddoti e per le citazioni latine del professore Benvoglio.
—Ah signor Michele! Un'ammirazione così entusiastica pe' miei arrosti e appena qualche parola di elogio pel mio giardino!—sclamò a mezza voce la vedova mentre il suo ospite andava in estasi pei beccafichi.—Capisco, che gli entusiasmi gastronomici sono propri dell'età più matura.....
—Donna implacabile! Io le assicuro che il suo giardino mi è piaciuto infinitamente...
—Che! Non ci ha nemmeno badato... Oh se ci fosse stato qui il suo figliuolo, che è artista.....
—Come?—interruppe la Matilde, la quale aveva côlto queste ultime parole.—Il signor Michele è ammogliato?....
—Son vedovo—rispose costui facendo, come direbbero i Francesi, bonne mine à mauvais jeu.
—Vedovo con prole—soggiunse la signora Amalia.
—Sì, ho un figlio...
—Un ragazzo di ventidue anni.
La Matilde avvallò gli occhi nel piatto.
CAPITOLO SESTO
—Bellissimo uomo quel forestiero!—disse la cameriera della signora Amalia, mentre aiutava la sua padrona a spogliarsi.
—Sì—rispose con piglio indifferente la vedova—è ben conservato.
—Ma, scusi, quanti anni può avere? Trentasei o trentasette al più.
—Con la coda... Ne ha quarantacinque....
—Mi canzona? Quarantacinque.... Oh allora poi....
—Ebbene?
—Nulla... Una mia fantasia... Nulla, nulla.
E si mise a ridere.
—Sentiamo questa fantasia—insistè la signora un po' infastidita.
—Oh una sciocchezza... Cose che non si sa nemmeno come vengano in capo... Quasi quasi supponevo che potesse essere un partito per la signorina..
—Per la Matilde! Siete matta?.... Quarantacinque anni.... vedovo....
—Anche vedovo?
—Sicuro! E con un bambino di ventidue anni.....
—Madonna santa! Quand'è così....
—Ma vorrei un po' sapere che razza d'idee vi frullino nel cervello.... E su che basi?
—Mi perdoni... Ha ragione Lei... Che vuol che le dica? M'era venuto quel ghiribizzo vedendo che il signore forestiero e la padroncina stavano volentieri in compagnia.
—Furba davvero! Se non avete migliori indizi di questo... Basta, basta; andatevene a letto e tenete la lingua a casa.
Chi si corruccia ha torto, dice il proverbio, e la signora Amalia s'era corrucciata, tanto più che mentre la cameriera le acconciava i capelli da notte, ella aveva visto nello specchio certi riflessi argentini, che piacciono assai più nelle acque di un ruscello che nella chioma di una donna. Ma era dunque possibile? Ma il dubbio che le si era già affacciato allo spirito, aveva dunque un fondamento di verità? E ciò che le pareva assurdo era giudicato naturale dagli altri? E il signor Michele, che era stato in procinto di diventare suo sposo, ardiva adesso, rivedendola dopo venticinque anni, fare il vagheggino a sua figlia? E la Matilde gli dava retta? Oh per poco! Avrebbe ben ella, sua madre, impedito che la fanciulla sciupasse le primizie del suo cuore con un libertino sfrontato! Meno male ch'ella aveva già tirato un colpo a fondo pubblicando ai quattro venti, al cospetto della Matilde, l'età del figliuolo del signor Michele!
Mentre faceva queste riflessioni, la signora Amalia passeggiava su e giù per la camera in pieno déshabillé.
Come si stenta, nel mondo fisico, a trovar corpi semplici, così si stenta a trovar sentimenti semplici nel mondo morale. E direi quasi che ogni nostro sentimento, per diventar forza attiva, ha bisogno di una piccola infusione di sentimenti contrari. Ciò vale soprattutto nei sentimenti più nobili, i quali sono come i metalli preziosi che non resterebbero in circolazione senza una lega di metalli più bassi.
La collera della signora Amalia derivava da una serie di cause. Certo vi aveva il suo posto anche la naturale ansietà della madre. Lo sposo ch'ella vagheggiava per la sua Matilde non viveva finora che nella sua fantasia. Doveva esser giovane, bello, generoso d'animo e gagliardo d'ingegno, e nessuno fra quelli che avevano chiesto o fatto chiedere la mano della ragazza aveva corrisposto al suo tipo. Figuriamoci se poteva corrispondervi il cavaliere Arsandi! Oh! s'egli avesse avuto venticinque anni meno! Ma quando egli li aveva questi venticinque anni meno, la Matilde non esisteva neppure e c'era invece un'altra fanciulla che s'era lasciata affascinare dall'incanto della voce e degli occhi del signor Michele, e aveva sognato con lui il suo primo sogno d'amore. Quella fanciulla era lei, lei medesima, quell'Amalia Nottoli, oggi vedova e madre, com'era padre e vedovo anch'egli. E così, a poco a poco, quasi senza ch'ella se ne accorgesse, la sua persona faceva capolino, e l'orgoglio offeso si metteva a paro con la sollecitudine materna a ordir la tela dei suoi ragionamenti.
Il più difficile era giungere a una conclusione sulla via da tenersi. C'era un partito eroico, quello di prendere a quattr'occhi il signor Michele, fargli intendere la sconvenienza della sua condotta, e dargli pulitamente il benservito. Ma in verità non bisognava nemmeno pensarci. Come licenziare un ospite pella sola colpa di essersi mostrato gentile verso la padroncina di casa? Chi non avrebbe detto che c'era di mezzo un dispettuccio della signora Amalia, punta di non essere corteggiata abbastanza? Mettere in guardia la Matilde dimostrandole sul serio che il signor Michele non era fatto per lei? Sarebbe stata un'imprudenza: da Eva in poi le donne amano il fratto proibito e il cervellino della Matilde non era più sano di quello della sua progenitrice. Restava la cosidetta politica d'osservazione: seguire cioè i passi del nemico senza dar fuoco alle miccie, ma lasciandogli scorgere ch'egli è invigilato. Posto così sull'avviso, probabilmente il signor Michele avrebbe fatto senno e suonato a raccolta.
Queste ultime considerazioni la signora Nottoli le faceva dopo aver già spento il lume, acconciata la testa sul capezzale, e tirate su le coltri in modo da non lasciar fuori che la punta della sua cuffia da notte. E secondo le idee che le frullavano in capo quella punta oscillava con maggiore o minore vivacità. A poco a poco però i movimenti divennero sempre più tardi, come di un battaglio che non arriva a toccare le pareti della campana, sinchè finirono affatto. La signora Amalia aveva preso sonno e russava decorosamente come una donna di quarantadue anni ha il diritto di fare.
Ed ella sognò. Sognò di esser tornata ragazza e di avere a' suoi piedi un bell'artigliere nell'uniforme dei Bandiera e Moro, e di sentirsi bisbigliar da lui le più dolci promesse d'amore, a cui ella rispondeva con le lagrime agli occhi e il sorriso sul labbro. Ed egli copriva di baci la sua mano, quando ad un punto lo sguardo di lui si rivolgeva da un'altra parte, si fissava sopra un'altra immagine. Una giovinetta tanto simile a lei da potersi pigliare in iscambio appariva d'improvviso sulla scena, e con un cenno giunonico del capo chiamava a sè l'artigliere, che non esitava un istante a obbedirle. Non c'era dubbio; quella giovinetta, al gesto, all'aspetto era la Matilde, quell'artigliere era Michele Arsandi. E prima ch'ella potesse lagnarsi del subito ed incivile abbandono le si affacciava un terzo e assai noto personaggio, nientemeno che il signor Nottoli buon'anima. Nè egli si presentava sotto le forme paurose di fantasma, ma con la sua florida apparenza di ecclesiastico investito d'una grassa prebenda; nè alzava il dito e la voce ad ammonire, come si afferma esser costume dei defunti, ma chiedeva assai rimessamente alla moglie che gli saldasse un bottone del soprabito.
In mezzo a questa confusione di date e di individui, di serio e di comico, la signora Amalia si svegliò che già il sole tremolava sul soffitto della sua camera. Ella non aveva ancora finito di stropicciarsi le palpebre quando udì il rumore di una carrozza che entrava in giardino e la voce dello stalliere che diceva: È qui il signor Gustavo.
La signora Amalia, che non s'aspettava l'arrivo di suo fratello così presto, pensò di confidare a lui le sue dubbiezze. Perciò, scese di balzo dal letto, corse alla finestra, aperse lo spiraglio di un'imposta e gridò:—Gustavo! Gustavo!
Il chiamato alzò il capo e veduta la sorella la salutò con la mano soggiungendo—Addio, addio, ci vedremo più tardi. Ho patito la notte e voglio dormire un paio d'ore.
—No—replicò la signora Amalia—dormirai dopo. Mi preme di parlarti. Vieni su un momento, nel mio gabinetto da lavoro. Passo una vesta da camera e sono subito con te.
—Che diamine può aver mia sorella?... pensò il signor Gustavo mentre saliva la scala dopo aver consegnato al cameriere la sua valigia, il plaid e gli ombrelli. Il signor Gustavo era di quattro anni più giovane della signora Amalia, aveva come lei una certa tendenza alla pinguedine, era di statura media con baffi castani e capelli idem, che però cominciavano a cadergli lasciandogli a poco a poco una fronte da pensatore. Ed era cosa a cui egli non teneva punto. Ingegno pronto, vivace, cultura non iscarsa, ma superficiale, era piuttosto un uomo di spirito che un uomo di studio. Avrebbe potuto riuscir deputato, ma preferiva starsene in disparte criticando destra e sinistra. Del resto era un buon diavolaccio e nella sua maldicenza raramente maligno.
La signora Amalia, fedele alla sua parola, non aveva fatto che infilare una vesta da camera.
—Dio buono!—esclamò il signor Michele appena la vide—perchè una signora elegante si presenti in quello stato ad un uomo, sia pur suo fratello, bisogna che ci sia qualche cosa di molto grave...
—Andiamo, Gustavo, sii serio. Debbo chiederti un consiglio. Sai chi c'è qui?
—Quell'amabile creatura del professore Benvoglio, m'immagino. L'ospite inevitabile della tua villeggiatura..... Ah mi viene un'idea, ti saresti decisa di sposarlo?
—Che sciocchezze! Chi parla del professore Benvoglio?
—Ma non è lui che è qui?
—Sicuro, ma ce n'è un altro.
—O chi dunque?
—Indovinalo in mille.
—È inutile, non ci arrivo.
—Michele Arsandi.
—Michele Arsandi!
—Egli in persona.
—È venuto da Londra?
—Già, a meno che non siamo noi a Londra credendo d'essere a Conegliano.
—Hai ragione, sono uno stordito..... Ma adesso capisco tutto..... Egli viene a ridomandare la sposa dopo venticinque anni... Amalia, Amalia, ricordati i versi di Dante:
Questa è colei che s'ancise amorosa E ruppe fede al cener di Sicheo.....
—Questa mattina tu non capisci proprio nulla...
—Spiegati allora.
—Io sono fuori di questione affatto. Nè il signor Arsandi ha la matta idea di chiedere la mia mano, nè io ho quella più matta ancora di accordargliela.
—Quand'è così, non mi raccapezzo più.
—La mia paura si è—continuò la signora Amalia—che egli voglia prender nelle sue reti la Matilde.
—Mia nipote? Ah tu scherzi! S'egli può esser suo padre.
—Senza dubbio, ma se tu vedessi che aspetto fresco egli conserva.
—Eh me lo immagino. Nel 1866 pareva ancora un giovinotto. È vero che son passati otto anni.....
—Per lui non passano—disse la signora Amalia con un tuono che teneva il mezzo fra l'ammirazione e il dispetto.
Suo fratello le fissò in viso uno sguardo penetrante e leggermente ironico; indi continuò:—Vorrei sapere su che appoggi i tuoi sospetti. Da quanto tempo è qui l'Arsandi?
—Da ieri alle sei.
—Della mattina?
—No, del dopo pranzo.
—E così presto?..... Ah perdonami, voglio ammettere che i veterani della galanteria siano formidabili, ma che in una sera soltanto un nomo possa mettere in pericolo il cuore d'una ragazza, con la quale probabilmente avrà parlato sempre in presenza della madre.....
—Sì certo, ma ha parlato un'ora in inglese...
—Eh via... in ogni modo—rispose il signor Gustavo ridendo—le tue paure non hanno senso comune. Sai una cosa? Tu fai la donna forte, ma non puoi dimenticare l'artigliere del 1849, e i tuoi scrupoli nascono da un tantino di gelosia... Non andare in collera... Son casi che nascono... La madre rivale della figlia, commedia!
—E tu sei sempre un ragazzaccio—ripigliò la signora Nottoli.—Io ti ripeto che non ci entro, che non so che farne del signor Arsandi, ma che non voglio niente affatto ch'egli si metta in capo di corteggiare la Matilde... E che egli abbia questa intenzione si capisce subito...
—Ma come?
—Dio mio! In tutti i modi. È venuto qui ch'io non c'ero. L'ha vista in giardino, ha cominciato, Dio sa con quanta buona fede, a prenderla in iscambio per me...
—Era un complimento anche questo?
—Fratello amabilissimo! Sì, voleva essere un complimento. Poi l'Arsandi fu tutta la sera con la Matilde, giuocarono a scacchi, parlarono in inglese, e anche la mia cameriera ha notato che stavano molto volentieri in compagnia.
—Ma scusa, il signor Arsandi ha intenzione di trattenersi in villa per un pezzo?
—Sono io che l'ho impegnato a rimanervi almeno per una settimana. Non avevo ancora questo spino...
—E a proposito, che ce n'è del suo pargoletto?
—Del figlio del signor Michele?
—Sì, di quello che ho conosciuto a Londra nel 1866. Era già grande e grosso quasi come suo padre.
—È a Venezia.
—È a Venezia con lui e non lo ha condotto qui?
—No. Del resto ciò si capisce. Egli voleva fare una visitina di poche ore... Perchè sorridi? Che ghiribizzo ti frulla in capo?... Forse una nuova impertinenza...
—Tutt'altro... È una mia idea che ti comunicherò più tardi. Intanto lasciami ripetere che tu hai fatto d'un topo una montagna e che non meritava, per questa gran ragione, d'insidiare due ore di sonno a un povero diavolo... Esaminerò io stesso la posizione. Ma bada che se c'è un pericolo per la Matilde, ne hai colpa tu.
—Io?
—Sicuro, col non volere che nessun giovinotto frequenti la tua casa, col rallegrare la tua villeggiatura soltanto della presenza del professore Benvoglio, fai sì che ogni uomo tollerabile paia alla Matilde un portento di bellezza e di amabilità... Basta, non voglio salire in cattedra... Vado invece nella mia camera... E tu pure, sorellina cara, fa un po' di toilette e presentati nella tua ordinaria maestà... Diamine! Il faut frapper l'imagination des peuples, come dice Calcante nella Belle Hélène...
CAPITOLO SETTIMO
Dopo avere impartito tutte queste ammonizioni tra il serio ed il faceto, Gustavo si incamminò rapidamente verso la camera ch'egli soleva abitare in casa di sua sorella. Ma era destinato che quella mattina egli non potesse fare il piacer suo, perchè mentre saliva una scala s'imbattè nel signor Michele che ne scendeva canterellando, lindo, fresco e sorridente come uno zerbinotto.
—Dove andate?—chiese questi dopo scambiati i primi saluti.—In camera vostra? Oibò! Dormirete stanotte. Sono ormai le sette passate, e c'è un sole di paradiso. Facciamo un giro in giardino.—E senz'aspettare risposta il cavaliere Arsandi passò il suo braccio sotto a quello del signor Gustavo, lo costrinse a fare un mezzo giro e lo condusse seco.
—Il mio caro Martelli—ripigliò il signor Michele appena l'altro ebbe cessato da ogni resistenza—come sono lieto di rivedervi dopo otto anni... E come vi trovo bene!
—Eh! Bene fino ad un certo punto... s'impingua... Voi piuttosto avete il segreto della giovinezza eterna... Nemmeno un capello bianco?
—Nemmen uno. E voi?
—Io finirò presto col non aver capelli di nessun colore—rispose il Martelli scoprendosi il capo.—E sì che ho consultato le quarte pagine di tutti i giornali... Ma voi pure, per mantener quella tinta, avrete ricorso a qualche specifico di quelli che figurano sotto l'intestazione Canuti! Canuti! Canuti!
—Siete matto? Insomma che età mi date?
—Via, non mi negherete che io ero un ragazzo...
—Quand'io ero un ragazzo più grande... Nel 49 avevo vent'anni...
—E io tredici.
—Sett'anni di differenza in tutto...
—Eh sì, ma il guaio sì è che pare che voi li abbiate di meno e io di più.
—Oh questo no... Ma è un fatto ch'io mi sento giovane, caro Martelli, giovane di cuore e di membra...
—Si direbbe che la vedovanza conservi meglio del celibato. Ma narratemi un po' come vi venne il pensiero di far questa visita a mia sorella?
—Vi dirò, volli vedere s'ella mi serbava rancore dopo tanto tempo.
—E trovaste?
—L'accoglienza più affettuosa, più schietta, più spontanea ch'io potessi immaginarmi... Ero venuto per poche ore, e scrivo oggi a mio figlio a Venezia che mi tratterrò una settimana.
—Arturo è dunque con voi?
—Sì, ma sarebbe una crudeltà farlo muovere da Venezia; egli è artista, ogni monumento lo rapisce, ogni bel quadro lo esalta, ed egli non sa più avvicinarsi alla finestra della nostra camera da Danieli senza mettere un grido di ammirazione... Ma, passando ad altro, permettenti ch'io mi congratuli con voi di vostra nipote.
—Ci siamo—pensò Gustavo. Quindi con una risatina—Vi piace davvero?
—Ha tutta la bellezza, tutta la grazia di sua madre, più il fascino della gioventù.
—Sì, è simpatica, buona anche, intelligente, un cervellino bizzarro forse... non so che riuscita farà.
—Oh scettico incorreggibile... Farà una riuscita ottima, semprechè trovi un uomo a modo.
—Gli uomini a modo son così rari... E poi la famiglia va diventando a poco a poco una istituzione impossibile.
—Spiegatevi.
—È facile. Le idee sono cresciute in maniera che non vi sono più entrate che bastino. Ogni ragazza, per modesta e discreta che sia, porta seco l'indivisibile compagno del Regno d'Italia, il deficit.
—Esagerazioni. C'è di vero una cosa sola, che la situazione della piccola borghesia è ogni giorno più difficile... Ma vostra nipote può mirare ben più in alto...
—All'aristocrazia forse? Peggio. Fumo senza arrosto. Alla banca? Peggio ancora. Non mi fido dei dividendi.
—A sentirvi, vostra nipote dovrebbe finire coll'andar monaca.
—Dio guardi. Il Parlamento italiano non ha fatto altro di buono che sopprimere le corporazioni religiose. È vero che con la sua logica ordinaria dopo averle soppresse le ha lasciate sussistere. In ogni caso, monaca no.
—E allora?
—Il Signore provvederà. Del resto io c'entro poco. È una faccenda della Matilde e di sua madre. Io non sono che un membro del consiglio di famiglia. Mia sorella ha idee bizzarre. Vuole l'araba fenice. Un bel giovane, ricco, ben educato, intelligente, un poco ambizioso, ecc. Se avete un partito da offrirle, eccola che viene, anzi eccole, perchè c'è pure la Matilde.
—Dove?
—Là, dall'altra parte del giardino—rispose Gustavo segnando col dito.—Non ci vedono perchè sono infatuate a discorrer fra loro. Adesso sono nascoste dietro una macchia di lauri. Ricompaiono un istante... Spariscono di nuovo perchè scendono la collinetta... Fanno certo il giro del lago e quindi non le incontreremo che di qui a tre o quattro minuti... Avete tempo di prepararvi.
La signora Amalia stava scandagliando il cuore di sua figlia. Il dialogo era naturalmente caduto sul nuovo ospite, che la Matilde trovava compito, amabilissimo, un vero gentiluomo, e di un aspetto così giovanile da non potersi comprendere come egli avesse un figliuolo di ventidue anni.
—Eppure è così—replicò la signora Amalia—e non c'è nulla di strano, perchè il cavaliere Arsandi ha i suoi quarantacinque anni sonati.
—Sarà, ma non li mostra. Bisogna dire che l'aria d'Inghilterra mantenga gli uomini così. Guarda lo zio Gustavo, ch'è certo più giovane del signor Arsandi, se non pare invece più vecchio di lui. E il conte Onaldi che sposò la Lina Carenti? Ha ventisei anni ed è tutto cascante e sfiaccolato. E il figlio del dottor Menici che è promesso alla Leonora Raboni? Pare un baco da seta.
—Verissimo, ma non bisogna prendere per buona moneta la freschezza degli uomini maturi. Gran pomate, mia cara, gran tinture, e se occorre anche il busto per tenersi ritti.
—Il busto!—esclamò ridendo la ragazza.—O che ci hanno da fare gli uomini del busto? E che anche il signor Arsandi?...
La cosa sembrava così comica alla Matilde, ch'ella non riusciva a frenare la sua ilarità. Evidentemente sua madre aveva toccato il tasto giusto e il signor Michele era perduto nell'opinione della ragazza se non era in grado di scagionarsi delle accuse fattegli dalla sua antica amante. Ma come scagionarsene se non le conosceva?
Svoltato un sentieruccio tortuoso e coperto, le due signore erano entrate in un viale di tigli lungo il quale si avanzavano il signor Michele ed il signor Gustavo.
—C'è anche lo zio?—disse la Matilde a sua madre.—Non s'era ritirato nella sua camera?
Quindi senz'attendere risposta gli corse incontro, gli porse ambe le mani e si lasciò baciare sulle due guancie.
—Beati gli zii!—pensò il signor Michele. Poi fece anch'egli i suoi saluti, e vide o credette vedere nella Matilde una certa aria sospettosa che lo turbò alquanto.—La mia paternità mi ha rovinato—egli disse fra sè.
Intanto era sopraggiunta la signora Amalia. Indossava un elegantissimo abito di alpagà grigio a sgonfietti con guarnizioni d'una tinta più oscura; in testa s'era acconciata con artistica negligenza un fisciù di lana rossa che faceva spiccare il bruno colore de' suoi capelli. La Matilde invece aveva un vestito di percalle a fondo bianco con righe celesti e un nastro pure celeste alla cintola; portava un cappellino rotondo di Firenze con fiori di campo. Nessun altro ornamento alla sua persona che si disegnava così in tutta la giusta proporzione delle membra.
—Per bacco! Siete due figurini—disse il Martelli rivolgendosi alle due donne.—Anche l'amico Arsandi è azzimato come un lion. Non ci sono che io in una toelette indecorosa. Vi saluto e vado in camera a provvedere alla mia riputazione.
Con queste parole si accomiatò dalla brigata. La signora Amalia lo seguì per alcuni passi e gli chiese—Hai capito nulla?
—Mi pare che tu non abbia tutti i torti—egli rispose—ma vedremo più tardi.
Entrato in casa, trovò nel salotto terreno il professor Benvoglio steso su una poltrona con un libro in mano.
—Oh signor professore, come va?—disse Gustavo.—Sempre fresco già, sempre galante. E perchè non scende in giardino con questo bel tempo?
—Scenderò or ora. Ho l'abitudine di non uscir mai senza essermi prima ristorato con una buona lettura.
—Eccellente abitudine. E che libro legge?
—Oh non son libri per loro signori che vanno in cerca di novità... Vecchiumi, roba da rigattieri.
—Via, mi lasci vedere.—E con gentile violenza prese di mano il volumetto al titubante professor Benvoglio.—Oh che bel titolo! E che lungo! Quasi più lungo del libro. Di alcuni modernuzzi e tisicuzzi scrittorelli di cianciafruscole all'uso francioso, per Antonluigi Ceccherillini, accademico della Crusca, ecc. ecc.
—Io sono innamorato sopratutto—soggiunse il Benvoglio ripigliando il suo libro—della perizia con cui l'autore maneggia il participio. Datemi il participio, e vi darò lo scrittore, diceva...
In quella entrò nel salotto un cameriere con un servizio di caffè e latte, burro e panini abbrustoliti, e il professore Benvoglio, interrompendo il suo dotto discorso, si affrettò verso la tavola ov'era stata deposta tutta questa grazia di Dio.
—Oh professore, la lascio a ristorarsi con la sua lettura—disse con aria ironica il signor Gustavo. E uscì dalla stanza.
—Motteggiatore insopportabile!—brontolò il Benvoglio!—Non c'è proprio più gusto a stare in questa villa. Non c'è proprio più gusto—egli ripetè, immollando nel caffè e latte il primo crostino.
CAPITOLO OTTAVO
Sullo scorcio di quel giorno il signor Michele si trovava nella condizione di un generale, che senz'aver vinto la battaglia crede però di essersi assicurate le posizioni che gli renderanno più facile la vittoria il domani. Egli aveva fatto prodigi. Convinto che gli nuoceva presso la Matilde il saperlo padre d'un figliuolo grande e grosso, egli voleva mostrarle che conservava tutto il vigore, tutta l'elasticità di un giovinotto. La mattina, accompagnando a piedi la signora Amalia e la Matilde in una gita sull'asino sopra un colle vicino alquanto ripido e sassoso, egli aveva maravigliato l'asinaio per la celerità del suo passo sicuro e la spigliatezza de' suoi movimenti, e aveva sorpreso più volte la Matilde intenta a guardarlo con una certa compiacenza.
Più tardi il Martelli gli procurò contro voglia un maggiore trionfo.
—Come va l'equitazione?—chiese lo zio alla nipote.
—Male—risposero ad una voce la ragazza e sua madre. E quest'ultima continuò:—Bisognerà vendere Lilì perchè non c'è caso di montarla. Ha rovesciato lo stalliere e Matilde, e io non voglio che nessuno ritenti la prova.
—Oh—disse il Martelli, che passava per un discreto cavallerizzo.—Volete vedere ch'io domo questo bucefalo?
—No, no—sclamarono le due donne—andrai certo con le gambe all'aria.
Questa soluzione tutt'altro che eroica solleticava pochino la vanità dello zio di Matilde, che avrebbe battuto ritirata assai di buon grado, ma venne l'Arsandi a rianimare il suo coraggio.
—Orsù, Gustavo, se non ci riuscite voi, mi ci sperimenterò io...
—Ah mio caro—replicò questi ferito nel suo amor proprio—se non ci riesco io, credo che nemmen voi farete miracoli.
Le signore si opposero fiaccamente. Esse avevano ormai una certa curiosità di vedere come sarebbe andata a finire questa specie dì sfida.
Ma concordi in ciò, non erano punto all'unissono nei loro voti. La signora Amalia aveva il maligno desiderio di contemplare il petulante suo ospite lungo disteso sull'erba del prato, la Matilde invece gli augurava un pieno trionfo.
Quando lo stalliere ebbe l'ordine di sellare la riluttante Lilì, egli scrollò il capo con un risolino sardonico.
—Vorranno almeno cascar sul molle?—egli disse.
—Sì, sì, sul prato—rispose la Matilde che aveva dato gli ordini.
—Ma si sciupa l'erba—osservò il giardiniere ch'era lì per caso.
—Meglio l'erba che il collo—soggiunse sentenziosamente Marco, un giovinetto che serviva di sostituto al cocchiere.—Non è vero, padroncina?
La Lilì era una bella bestiuola di pelo bigio picchiettato di bianco. Non si sarebbe creduto a primo aspetto ch'ella fosse così indomita; si lasciava avvicinare, lisciare, palpare senza dare il minimo segno d'impazienza. Tollerava anche la sella, ma non tollerava il cavaliere.
—È questo l'animale feroce?—chiese il Martelli tostochè vide la Lilì.—E dove la conducono?
—Qui davanti, sull'erba—rispose la signora—È condizione sine qua non.
—Bah! Che paure ridicole!
—Gustavo, non fidarti.
—Ma se pare un agnellino?
— Latet anguis in herba... Non va bene, professore?—soggiunse la vedova indirizzandosi al Benvoglio che si avvicinava per godere anch'egli dello spettacolo. Il professore teneva l'occhialino sul naso e componeva le labbra a un sorriso di approvazione.
—Va benissimo, signora Amalia, va benissimo. Lei potrebbe imparar tutto... Ma bravo, signor Martelli, domi lei questo quadrupede. Sono esercizi pegli uomini e non per le signorine:
Pera chi osò primiero Discortese commettere A infedele corsiero L'agil fianco femmineo,
come cantò il nostro Foscolo.
Intanto il signor Gustavo si era avvicinato alla bestia. Lo stalliere rideva sotto i baffi, il signor Michele osservava tutto in silenzio affine di poter trar partito dell'esperienza del suo competitore se per avventura questi faceva un capitombolo. La Matilde, che mostrava una certa inquietudine, si avanzò uno o due passi sul prato, sollevando i lembi del vestito e lasciando in questa maniera veder due piedini d'angiolo, supposto che vi siano angioli e che gli angioli abbiano piedi.
—Ah eccomi!—gridò il Martelli in aria di trionfo appena fu in sella. Ma non aveva ancora finito l'esclamazione che la Lilì, alzando con un salto poderoso le zampe posteriori, ritirando le orecchie e abbassando il capo in modo da formare un ripidissimo piano inclinato, lo aveva già fatto scivolare sull'erba con la maggior grazia che si possa immaginare.
—Ti sei fatto male, Gustavo? Ti sei fatto male, zio?—chiesero la signora Amalia e la Matilde frenando a stento la gran voglia che avevano di ridere. Quanto allo stalliere e al professore Benvoglio, essi ridevano davvero. Il solo Arsandi era impassibile.
—Male no—rispose il Martelli che si era anche alzato e si palpava qua e là—male no, ma in nome di Dio, perchè non avvertire che il cavallo aveva questo vizio?
—Scusi—osservò lo stalliere a cui pareva diretto questo rimprovero.—Ella era così sicuro del fatto suo.
—E poi—soggiunse la Matilde—non bisogna mica credere che la Lilì usi sempre lo stesso metodo. A me, per esempio, mi ha rovesciata dalla parte opposta.
—Bisogna ch'io muti vestito—rispose Gustavo guardandosi i calzoni.—Sono verde come una lucertola.
—Fino al polsini—notò la Matilde.
—Già, ho dovuto pur ripararmi mettendo le mani avanti.
—Oh povero zio, povero zio!
—Non mi canzoni, bricconcella. Adesso ne vedrà un altro con le gambe all'aria. Amico Arsandi, volete rinunziare alla partita?
—Nemmen per idea.
—Badi, badi—disse la ragazza combattuta tra la paura ch'egli finisse col farsi male e il desiderio di vederlo uscir vittorioso dalla prova.
—Eh! il cavaliere Arsandi è un uomo troppo valoroso da ritirarsi dinanzi a un pericolo—osservò il professor Benvoglio che sperava di veder per terra anche l'antipaticissimo signor Michele.
—Non mi ritirerei se non in un caso—replicò questi—che il professore volesse montare in vece mia.
—Discorsi senza sugo—brontolò il Benvoglio facendo due passi indietro.
La Lilì s'era intanto ricomposta alla solita calma. Ella era in mezzo al prato, ritta sui garretti, con la testa immobile e con l'aria mite e benevola della più docile bestia del mondo.
—Ah gesuitessa!—mormorò lo stalliere passandole la mano sulle orecchie.
In un batter d'occhio il signor Michele inforcò il malfido animale. La Lilì rinnovò immediatamente la manovra che le era così ben riuscita col suo primo cavaliere; poi, vistasi fallire il colpo, cambiò tattica e s'impennò sulle zampe posteriori, tantochè il signor Michele, per non perdere l'equilibrio, dovette piegarsele vivamente sul collo. Superata la seconda crisi non fu però vinta la lotta, chè il cavallo ricorse a tutte le insidie e a tutte le sorprese le quali valessero a liberarlo dall'incomodo fardello.
Gli spettatori seguivano con attenzione intenta le vicende di questo duello, la signora Amalia un po' inquieta, la Matilde un po' pallida, il Martelli, il Benvoglio e lo stalliere animati dall'umano desiderio che il signor Michele pagasse il fio della sua tracotanza.
Il professore continuava ad evocare le sue ricordanze classiche:
Ardon gli sguardi, fuma La bocca, agita l'ardua Testa, vola la spuma...
Dopo un paio di minuti la battaglia fu decisa. La Lilì s'accorse che aveva trovato una mano capace di domarla, e ansante, molle di sudore, ristette da ogni ulterior resistenza. Il signor Michele la condusse fuori dello strato erboso sopra uno dei sentieri di ghiaja, e tenendo le briglie con una sola mano si levò con l'altra il cappello a modo dei cavallerizzi, e salutò cortesemente il suo pubblico, quindi mise al trotto il quadrupede.
—Bravo! bravo!—esclamarono tutti con un entusiasmo più o meno sincero. E la Matilde, che di pallida s'era fatta rossa, si avvicinò alla signora Amalia senza perder d'occhio il bel cavaliere e le disse:—Ah mamma, non mi darai mica ad intendere che il signor Michele abbia il busto!
Il primo momento che il Martelli e sua sorella furono soli, sicuri che la piacevole compagnia del professore Benvoglio impediva al cavaliere Arsandi e alla Matilde un pericoloso tête-à-tête, si guardarono in viso con aria contrita.
Gustavo ruppe per primo il silenzio.
— Nous sommes enfoncés, sorella mia gentilissima. Il nemico guadagna terreno continuamente.
—Pur troppo—rispose la vedova.
—Sei disposta a diventar suocera del cavaliere Arsandi?
—Nemmen per idea.
—Allora licenzialo. In fin dei conti sei in casa tua.
—È presto detto. Come si fa?
—Ci vuol tanto? Lo chiami a te e gli ricordi tre cose. Primo, che venticinque anni addietro egli spasimava per i tuoi begli occhi; secondo, che egli potrebbe esser padre, per l'età, della Matilde; terzo, che egli è vedovo e ha un figliuolo grande e grosso; tre eccellenti ragioni, mi pare, per levargli il ghiribizzo di far la corte sul serio a mia nipote. Che se poi vuol soltanto amoreggiarla per passatempo, egli può rivolgersi altrove... In ambo i casi, credo, tu sei nel pieno diritto di mandarlo pei fatti suoi...
—Già voi altri uomini vi fate tutto facile—replicò infastidita la signora Amalia.
—E allora rassegnati. Il cavaliere Arsandi è un bell'uomo, è ricchissimo, è pieno di spirito, cavalca a maraviglia, si arrampica pei monti con l'agilità di un camoscio; egli renderà felice tua figlia.
—No, no, mille volte no... Gli è che non vorrei pigliar questa faccenda in epico,... non vorrei venire a troppe spiegazioni con la Matilde,... mi piacerebbe invece che quel petulante subisse uno smacco.... Ma non avevi un'idea?
—Eh se potesse riuscir quella, sicuro che il messere sarebbe menato pel naso come si deve... Ma chi sa se riesce, e poi chi sa se tu l'approvi?
—Via, fammela conoscere.
—Ecco—principiò il Martelli, ma siccome mentr'egli parlava comparve la Matilde, i due interlocutori si ritirarono fuori degli occhi di tutti, perfino dell'autore, il quale può dirvi soltanto che al termine del colloquio la signora Amalia era molto gioviale.
A pranzo Gustavo annunziò che doveva partire quella sera stessa e che sarebbe tornato il posdomani. Andava, egli disse, a Treviso per una faccenda.
—Siamo d'accordo—gli bisbigliò all'orecchio sua sorella mentr'egli saliva in carrozza.—Il telegramma vuol dire che non verrai solo.
—E c'incontreremo?
—Nel luogo inteso... Ma tu bada alla giornata di domani...
—Non dubitare.
CAPITOLO NONO
La sera passò assai meno piacevolmente di quello che il nostro Arsandi si fosse aspettato. Sull'imbrunire la signora Amalia annunziò che sentiva l'avvicinarsi di una delle sue emicranie, di quelle emicranie che non le duravano mai meno di ventiquattr'ore e la rendevano esigente e fastidiosa.
—Ma non eri guarita?—chiese la Matilde alquanto sgomentata da questa notizia improvvisa.
—Credevo d'esser guarita—rispose dispettosamente la signora Amalia—ma non ci ho mica colpa se ho una ricaduta.
Il cavalleresco professor Benvoglio colse l'occasione per offrire alla sua dama crudele di andar egli in persona, se occorreva, a chiamare il medico e a prendere le medicine, a meno che ella non preferisse di appoggiarsi al suo braccio e di tentare l'esperimento di una passeggiata all'aria aperta. Facesse insomma di lui quello che voleva, lo mettesse alla prova, non lo lasciasse inoperoso mentr'ella soffriva.
Ma la vedova inesorabile, in tuono molto asciutto, lo pregò che non le desse noja; ch'ella non si era mai sognata di chiamare il medico per l'emicrania e che non era così pazza da uscire a quell'ora col mal di capo; onde stesse quieto, si accomodasse sulla sua poltrona a farvi il solito chilo, e al suo svegliarsi giuocasse una partita a scacchi col cavaliere Arsandi.
Questi, che nella speranza di un po' di maggior libertà con la Matilde non aveva saputo affliggersi troppo della indisposizione della signora Amalia, fu ora gravemente turbato dalla proposta che gli veniva fatta. Avrebbe voluto schermirsi, ma la sua ospite non gliene lasciò il tempo, e tendendogli la mano dal seggiolone dove si era sdrajata:—Povero signor Michele—gli disse—mi dispiace davvero quanto accade. È una fatalità che la emicrania debba essermi capitata proprio oggi. Oh ma passerà. Intanto per poche ore mi tolleri come la più uggiosa creatura che dar si possa. Non istò ritta e non voglio andare in letto, non istò sola e non voglio sentir romore, e tengo inchiodata vicino a me questa povera ragazza—e accennò a sua figlia—con l'ufficio di farmi dei bagni freddi sulle tempie. Abbia pazienza, signor Michele, fumi un sigaro in giardino oppure ordini cocchiere che attacchi e faccia una trottata, poi, sulle otto, sia qui e giuochi agli scacchi. Siamo vecchi amici, non è vero? E coi vecchi amici non si fanno complimenti.
Queste parole, pronunziate con voce languida ed insinuante, sarebbero scese come un balsamo sul cuore del professore Benvoglio; il signor Michele invece, pur chinandosi ai voleri della capricciosa castellana, non potè a meno di trovar ch'ella aveva piena ragione nel dire che il mal di capo la rendeva uggiosa. O che sugo c'era di voler rimanere tra gente obbligando le persone a tacere, d'imporre alla figliuola un uffizio che avrebbe potuto esser meglio adempito dalla cameriera, e di costringere un ospite a giuocare a scacchi con un compagno insulso e antipatico?
E il cavaliere Arsandi, mentre camminava su e giù pel giardino e gettava via arrabbiato i sigari uno dopo l'altro, cominciava a dubitare che ci fosse almeno un po' d'esagerazione nell'emicrania della signora Nottoli e ch'ella fosse gelosa della Matilde. Ciò lo condusse a domandare a se stesso s'egli fosse veramente innamorato di questa ragazza e se avesse veramente intenzione di aspirare alla sua mano. Appena si fermò un istante su questo pensiero, egli provò una impressione simile a quella che devono provare gli aereostati quando, un minuto dopo staccati da terra, guardano in giù. Come? Si è già percorso tanto cammino?... E anche all'Arsandi pareva di aver fatto un'ascensione aerea. Un paio di giorni prima egli viaggiava tranquillamente sulle ferrovie dell'Alta Italia portando seco la sua vedovanza da lungo tempo racconsolata e cullando l'idea di farsi una nicchia da celibatario in qualche città tranquilla della penisola, in Venezia per esempio. Avrebbe vissuto da gran signore con le sue quarantamila lire d'entrata, avrebbe fatto di suo figlio un artista e sarebbe diventato egli stesso un mecenate delle arti. Alla galanteria avrebbe atteso solo quel tanto che basta ad un uomo di quarantacinque anni, fresco, ben conservato, il quale non voglia mettersi al disarmo. Dell'antica Amalia si ricordava pochino e la credeva sempre fra le braccia del suo virtuoso marito; quanto alla figlia di lei, sapeva appena ch'ella esistesse. E adesso era proprio di questa figliuola ch'egli si era invaghito, e fra le cose possibili c'era quella ch'egli diventasse genero della sua amante di un tempo! Il signor Michele pesava il pro e il contro di questa soluzione; i vantaggi di avere al fianco una sposina giovane e bella e gli inconvenienti di un innegabile sbilancio di età; la simpatia dimostratagli dalla ragazza e gli ostacoli che gli avrebbe sollevati contro la madre... E concludeva... per esser sinceri non concludeva nulla, perchè del resto se gli uomini concludessero sempre ci sarebbero molti fatti e poche parole, mentre ci sono molte parole e pochi fatti... O forse egli concludeva unicamente che la situazione era imbrogliata, ma che la Matilde gli piaceva, che le rabbie mal celate della signora Amalia lo divertivano, e che non c'era niente di male s'egli poteva passare in modo gradevole qualche giorno senza impegnarsi e senza compromettere la virtù di nessuno. A una decisione eroica, se occorreva, ci sarebbe venuto prima di partire.
Consumato l'ultimo sigaro, l'Arsandi rientrò in salotto ove trovò le due donne nella posizione di prima e il professore Benvoglio che girava intorno a loro come una farfalla intorno alla fiamma. La stanza era nelle tenebre; solo in un angolo, sopra un tavolino, ardeva un lume a petrolio la cui campana era coperta da una ventola verde. Su quel tavolino stava lo scacchiere già bello e preparato coi due eserciti in ordine di battaglia.
—Sia ringraziato il cielo—disse la signora Amalia quando vide comparire l'Arsandi.—Così il professore starà un poco tranquillo.
Con la scusa del mal di capo la signora Amalia si ritirò prima delle dieci, conducendo seco la Matilde. Rimasero a cena l'Arsandi, il professor Benvoglio e il dottor Gerolami, il quale era venuto a far la sua solita visita della sera e non sapeva capacitarsi della ricaduta della signora Nottoli, ch'egli affermava di aver guarita da più d'un anno con certe pillole di sua composizione.
La mattina seguente la signora Amalia stava un po' meglio ma non benissimo. Scese in salotto per far gli onori di casa, ma non uscì in giardino, e tenne presso di sè la Matilde a leggerle i giornali. La ragazza aveva un'aria molto annoiata; ella trovava che l'indisposizione della madre, seppur esisteva in fatto, non bastava a giustificare la schiavitù che era imposta a lei, e capiva che si voleva impedirle di stare col signor Michele, Dio sa perchè... forse perchè la mamma anch'ella... ah non conviene che una fanciulla faccia cattive supposizioni... Comunque sia, la Matilde aveva un po' lo scetticismo di famiglia e non poteva a meno di fermarsi su queste idee. Così, se per una lontana ipotesi, l'emicrania della signora Amalia formava parte del piano di campagna da lei combinato con suo fratello, è forza riconoscere che in questa prima parte almeno il successo non corrispondeva al desiderio degli strategici.
Più tardi la signora Nottoli, appoggiata al braccio di sua figlia, consentì a fare una passeggiata. Era inquieta, impaziente, onde la Matilde pensava in cuor suo che seppure la sua mamma non aveva dolor di capo, certo ella soffriva di nervi. Non parlava molto, ma ne' suoi discorsi era più caustica del consueto e perseguitava de' suoi frizzi il disgraziato professore Benvoglio. Costui cercava di riderne e di persuadersi che quella pioggia di epigrammi era una manifestazione speciale di confidenza. Verso il cavaliere Arsandi la vedova era più riservata, più contegnosa, e gli diceva di tratto in tratto;—Non creda ch'io sia sempre così bisbetica, aspetti per giudicarmi che mi sia passata questa fastidiosa emicrania. Già non mi dura mai più di ventiquattr'ore.
Malgrado questo lieto pronostico, il termine indicato trascorse senza che l'umore della signora Amalia si rasserenasse. Accadeva anzi il contrario.
—Le si fa più intenso il male di capo?—chiese l'officioso Benvoglio.
—Sì, lasciatemi stare.
—Forse—osservò con qualche peritanza il professore—le converrebbe ripigliare i suoi bagni freddi alle tempie.
—Non mi seccate coi bagni, che sono già troppo fradicia—proruppe la signora alzandosi in piedi.
In quella entrò un servo portando il lume e introducendo un nuovo personaggio, il fattorino del telegrafo.
La signora Amalia afferrò ed aperse il dispaccio con grande ansietà, lo lesse con visibile compiacenza, indi accortasi che il suo contegno poteva parere alquanto strano, si ricompose in calma, licenziò il fattorino e disse agli altri che la guardavano:—Non è che un dispaccio di Gustavo, il quale mi prega di mandargli la carrozza domattina alla stazione di Ponte di Piave.
Da quel momento la guarigione della signora Amalia non fu più dubbia. Una famiglia che villeggiava lì presso e che, saputala indisposta, era venuta a informarsi della sua salute, fu pregata di trattenersi la sera; si suonò il pianoforte, si giuocò, si chiacchierò fino ad ora tarda.
—Ma, signora Amalia—disse una delle visitatrici—Ella avrà bisogno di coricarsi...
—Oh no davvero—rispos'ella—i miei mali sono fatti così. Vengono a un tratto e spariscono a un tratto.
—Sopratutto quando le giungono certi telegrammi—non potè a meno di susurrarle all'orecchio il cav. Arsandi. Poi capì d'aver commesso una indiscrezione e stette ad aspettarsi una ramanzina.
Ma la signora Amalia era diventata un agnello.—Uomo di poca fede—ella esclamò—Lei crede persino ch'io mi sia inventate le parole del telegramma? Guardi.—Tirò fuori di tasca il dispaccio e glielo spiegò sotto gli occhi.
V'era scritto precisamente così: Manda la carrozza a Ponte di Piave per la seconda corsa di domani. Gustavo.
—Oh scherzavo. Anzi mi perdoni—disse il signor Michele.
—Farò di più per mostrarle la mia clemenza. La condurrò domani in un sito amenissimo e caratteristico. Gustavo si fa mandare la carrozza a Ponte di Piave per recarsi più presto al Castello Collalto ove ha alcune faccende da regolare. Noi andremo nello stesso luogo partendo di qua. Così faremo un'improvvisata a Gustavo, ed ella vedrà un castello del medio evo assai ben conservato, coi suoi merli, le sue armerie, le sue torri, e le sue brave leggende di fantasmi.
Il cavaliere Arsandi mostrò di accogliere con piacere la proposta della signora Amalia, ma in cuor suo egli non era pienamente tranquillo. Sentiva intono a sè come un'aria di battaglia, ma non capiva ancora da che parte dovesse venirgli l'assalto. S'egli avesse avuto quei famosi venticinque anni di meno, egli sarebbe certo corso incontro al pericolo con una vigorosa offensiva, ma l'età s'impone anche ai più audaci, e il signor Michele preferì la tattica di Fabio Massimo a quella di Annibale. Ciò sconcertava alquanto il romanzo della Matilde, la quale si era aspettata nè più nè meno di una dichiarazione in tutte le regole. Ella avrebbe pensato poi alla via da tenere, avrebbe pensato se doveva corrucciarsi o no, ma circa alla dichiarazione, le pareva di averne proprio diritto. A ogni modo le era forza di riconoscere che la nojosa emicrania di sua madre non poteva a meno di aver impacciato il signor Michele nei suoi movimenti.
—Vedremo che cosa nascerà domani—ella disse fra sè quella sera nel coricarsi. E tra le altre idee singolari che le si affacciarono alla mente prima di chiuder gli occhi vi fu quella di diventar matrigna di un ragazzaccio grande e grosso come doveva essere il figlio del signor Michele.
Tutto ciò, dirà qualche lettore, non prova certo una forte passione. Verissimo, ma le forti passioni non hanno posto in questo racconto. Nè, del resto, esse sono le più comuni nella vita.
CAPITOLO DECIMO
Sulle dieci del dì appresso un legno leggero tirato da due cavalli e guidato dal ragazzo Marco che si pavoneggiava nella sua livrea, partiva dalla villa Nottoli per Ponte di Piave. Poco dopo la signora Amalia ordinava di attaccare il landau che doveva condur lei, la Matilde, il cavaliere Arsandi e il professor Benvoglio al castello Collalto. Il professore avrebbe fatto senza di questa gita assai volentieri; egli trovava che le gite guastano la villeggiatura e che a goder le gioie della campagna bisogna saper passare le lunghe ore all'ombra di un'acacia o di un platano leggendo un buon libro e conversando piacevolmente con la dama del cuore. Ma egli non sapeva opporsi ai desiderii della signora Amalia, nè gli bastava l'animo di restarsene a casa mentr'ella andavasene altrove.
Al momento di salire in carrozza giunse la posta. C'era anche una lettera pel cavaliere Arsandi. Un osservatore molto attento avrebbe sorpreso nel volto della signora Amalia i segni di un dubbio angustioso di cui non sarebbe stato facile intendere la ragione; ma fu un lampo ed ella disse con affettata indifferenza:—È una lettera di suo figlio, m'immagino?
—Appunto—rispose il signor Michele.
—E che cosa le scrive di bello quel giovinotto?
—È affascinato da Venezia.
—È naturale. Un artista.
—Egli aggiunge poi che contava di fare oggi una gita a Chioggia.
—Oggi?
—Sì, dice domani, e la lettera ha la data di ieri.
La signora Amalia lasciò cadere il discorso, e un sorriso leggermente ironico sfiorò le sue labbra. Ma non era un sorriso nuovo in lei e l'Arsandi non vi badò più che tanto.
Il professore Benvoglio sfoggiò durante il tragitto una straordinaria erudizione. Discorse a lungo dei Collalto, dei loro castelli, della leggenda della murata viva che compare di tratto in tratto vestita di bianco fra i verdi del parco, dell'amore infelice di Gaspara Stampa pel conte Collaltino, del suo canzoniere di cui citò alcuni brani, e del libro che sulla poetessa gentile publicò Luigi Carrer. Anzi, su questo proposito, egli affermò di aver dato utili consigli al celebre scrittore veneziano, grande amico suo, come tutti i morti illustri sogliono essere dei vivi pedanti.
Ma gli altri gli badavano poco o punto, e parevano preoccupati.
—La salita si può fare a piedi—disse la signora Amalia quando furono in vista le torri del castello di San Salvatore.—La carrozza ci verrà dietro.
Alle falde del colle il cocchiere si fermò e la signora Amalia appena scesa dal legno si impadronì del braccio del cavaliere Arsandi, con noia gravissima della Matilde e del professor Benvoglio, i quali non sentendosi proprio fatti per andarsi a genio, camminavano a fianco l'uno dell'altro senza dirsi una parola. La Matilde sfogava il suo dispetto abbattendo con la punta dell'ombrellino le testo dei fiori di campo che crescevano lungo il margine della via e cacciando lontano da sè col piede irrequieto i ciottoli che le facevano intoppo. Non c'era omai più dubbio; sua madre si era invaghita sul serio del signor Michele e lo voleva per sè. Ma che roba! Una donna che aveva tutt'altro pel capo! Dopo due anni soli di vedovanza! E quell'asino del professore Benvoglio che si sdilinquiva e poi all'occasione non era buono di farsi valere!... La fanciulla lanciò una occhiata di superbo disprezzo al professore che camminava con la testa bassa e con le mani dietro la schiena. Quanto al Benvoglio, poveretto, non è da credersi ch'egli non fosse roso dal verme della gelosia; aveva cercato anzi di sollevarsi alla dignità tragica del furore di Orosmane e di Otello, aveva assaporato, in teoria, la feroce compiacenza di ridurre in minutissimi pezzi il suo rivale e di sfolgorare la dama che sprezzava i suoi omaggi, ma un sentimento molto umano, la paura, calmava in lui gl'impeti del sangue. Egli sentiva che il cavaliere Arsandi, il quale lo passava di tutta la testa, avrebbe potuto farlo girare intorno a se stesso col dito mignolo e sentiva pure che una risata sonora della signora Amalia sarebbe bastata a sviare miseramente il fiume maestoso della sua eloquenza. E il tapinello, convinto della sua debolezza, quasi piangeva dal dispetto.
—Iersera così ilare e oggi così turbata—disse l'Arsandi alla signora Nottoli, quando avevano già fornito quasi tutta l'ascesa, discorrendo pochissimo.
—Turbata? Oh no—ella rispose con un sorriso che lasciò vedere la doppia fila de' suoi bellissimi denti.
—Via, mi confessi che ha qualche cosa per il capo.
—Oh non creda, ma è vero che in questi giorni sono d'umore variabile... Ci fu l'emicrania.
—Singolare emicrania. Venuta e scomparsa in quella maniera!...
—Sta a vedere che dubiterebbe... Oh eccoci giunti.
Infatti erano sulla spianata del castello. Gli occhi della signora Amalia non tardarono a scoprire in un angolo il legno ch'era andato a prendere Gustavo. Ella si staccò dal braccio del suo cavaliere e mosse verso il ragazzo che le veniva incontro col berretto in mano.
—Mio fratello è solo?... ella chiese.
—Non signora, c'è con lui un altro, un bel giovane...
Intanto si avvicinò la moglie del custode, e salutata la signora Amalia che già conosceva, le disse:—Quei signori stanno ad aspettare in sala d'armi.
—Egregiamente. Andremo subito a raggiungerli. Ci accompagnate voi?
—Sì, signora.
Il resto della comitiva aveva côlto in questo dialogo solo quel che bastava per intendere che col Martelli c'era un'altra persona; non si capiva poi chi fosse questa persona, e la Matilde ne domandò conto a sua madre.
—Lo ignoro,—replicò questa—vedremo.
—Sempre nuovi seccatori!—borbottò il Benvoglio.
Il Martelli e il suo compagno che stavano a un finestrone della sala d'armi guardando la pittoresca valle della Piave, si voltarono rapidamente appena intesero un suono di passi.
—Ecco—disse Gustavo avanzandosi con la sua cera più gioviale—presento alla brigata il signor Arturo Arsandi che ha consentito a lasciar per un giorno la cosidetta regina dell'Adria per salutare queste dame e fare un'improvvisata a suo padre. La signora Amalia Nottoli, mia sorella, mia nipote Matilde, il professore Benvoglio, membro dell'Istituto di scienze, lettere ed arti, e finalmente il cavaliere Michele Arsandi... Ma questo lo conoscete, non è vero, Arturo?
—Ma bravo, signor Arturo—esclamò la signora Amalia porgendo cordialmente la mano al simpatico giovinotto—venga un po' a smentire suo padre che le aveva fatto una riputazione di uomo selvatico... Mio figlio, egli diceva, non lascerebbe le chiese, i palazzi, le gallerie di Venezia per tutto l'oro del mondo. È per questo ch'io non l'ho condotto meco, è per questo che sarebbe fatica gettata l'invitarlo... No, non si scusi, signor Arturo, lei ha risposto nel miglior modo a queste calunnie col venire... Che gliene pare, signor Michele?—ella soggiunse rivolgendosi all'Arsandi—Mi sarà grato di questa sorpresa che le procuro...
—Ma sì, davvero, gratissimo—rispose il signor Michele che non sapeva ancora raccapezzarsi.
Il giovane Arturo, il quale aveva salutato affettuosamente suo padre, si sarebbe forse accorto dell'imbarazzo di lui se la sua attenzione non fosse stata assorbita dalla Matilde. Ella gli pareva bellissima, e poi, cosa singolare, ella gli ricordava in modo strano la mezza figura di donna che lo aveva tanto colpito nell' album paterno. Così la curiosità mescevasi in lui all'ammirazione.
—Non era mai stato in Italia?—gli chiese la signora Nottoli.
—Mai—egli rispose—ma ora che ci sono, credo che non ne partirò più. Mi piace tutto in Italia, la natura, l'arte, la lingua...
—Ma sa che per uno vissuto fin dalla nascita in Inghilterra, Ella parla l'italiano egregiamente?
—Oh non mi aduli... Si discorreva sempre in italiano col babbo... del resto ho l'accento straniero... E ogni tanto avrei bisogno del dizionario... perchè mi manca un vocabolo e allora divento addirittura... ecco, per esempio,... babbo, come si dice in italiano dumb?
Il signor Michele era distratto e non gli diede retta; venne invece in suo soccorso la Matilde: —Muto—ella insinuò con la sua cara vocina.
—Ecco un dizionario impreveduto—sclamò ridendo la signora Amalia.
Arturo si voltò verso la bella ragazza che egli aveva fino a quel momento ammirata in silenzio, e le fece la solita domanda:—Sa l'inglese?
—Vorrei saperlo com'ella sa l'italiano—replicò la giovinetta.
Il ghiaccio era rotto e i due giovani si misero a conversare insieme. Non in inglese però; Arturo aveva un gusto diverso da quello di suo padre; egli amava bearsi nella musica della favella italiana che gli pareva cento volte più dolce sulle labbra della Matilde, e avrebbe creduto un sacrilegio il costringer quella parola viva e scorrevole al giogo di un idioma straniero; preferiva di gran lunga sembrar impacciato egli stesso, e farsi correggere dalla sua interlocutrice. Nè il dialogo aveva alcuna somiglianza con quello che s'era tenuto un paio di sere addietro tra la Matilde e il signor Michele. Non era una lotta di galanteria; era una conversazione animata, spontanea che aveva in sè il calore e la buona fede della gioventù. Arturo non rifiniva di parlar di Venezia, e, come sovente accade, egli, forestiero, rivelava alla Matilde, veneziana, cento bellezze da lei o ignorate, o non curate, o dimenticate, della sua città. Che non aveva egli veduto, che non aveva egli notato nella sua breve dimora in Venezia? Ed era in procinto di fare un giro nelle isole quando il signor Gustavo venne in traccia di lui e volle condurlo seco.
—Se ne pente?—chiese la Matilde.
—Oh no!—rispose Arturo guardandola fisso.
La fanciulla abbassò gli occhi, arrossì un poco e si aggiustò le pieghe del vestito.
—Scusi una mia curiosità—riprese il giovane, côlto da un pensiero—Aveva ella conosciuto mio padre prima d'adesso?... Era stata a Londra negli ultimi anni?
—Io!—fece la ragazza maravigliata—Non fui mai fuori d'Italia.
—E il babbo mancava dall'Italia da quasi venticinque anni... Dunque...
—Dunque è impossibile quel ch'ella dice. Ma perchè questa domanda?
—È strano... In un vecchio album del babbo c'è una mezza figura a lapis che le somiglia tanto...
—Somiglia a me? Ma il signor Arsandi è pittore?
—Disegnava una volta; ora non più.
—Vede bene, una volta io non potevo esser quella che sono adesso...
—È giusto e m'avveggo di aver detto una grossa corbelleria.
A esser sinceri, la Matilde credeva d'aver risolto l'enigma; quella mezza figura disegnata dal signor Michele una volta doveva rappresentare sua madre; ma ella non trovava il verso di dirlo, appunto perchè cominciava a capire che qualche cosa doveva esserci stato fra sua madre e il cavaliere Arsandi.
—Dev'essere una gran compiacenza per lei l'avere un figliuolo simile—osservò la signora Amalia al signor Michele.
—Oh... s'immagini...
—Via, Arsandi, siate galante—soggiunse il Martelli—Confessate che anche mia sorella può essere orgogliosa di sua figlia... Guardate che bella coppia!
—Bellissima... veramente...
La signora Amalia scoppiò in una delle sue risate sonore.
—Ma, signor Michele, e ha coraggio di dire a me che sono d'umore variabile?... Si giurerebbe ch'ella ha incontrato per queste sale la donna bianca.
—Io vorrei che parlassimo un pochino sul serio.
—Adesso? Qui?... Oibò!... Le darò udienza, a casa, stassera.
—Il signor Michele è un uomo di spirito, ma suo figlio è molto più simpatico—disse la Matilde a sua madre giunti che furono alla villa.
La signora Amalia si stropicciò le mani in silenzio.
[116][117]
CAPITOLO UNDECIMO
Il sole volgeva al tramonto. Nel giardino Nottoli sulla collinetta respiciente il lago stavano seduti chiacchierando la signora Amalia, la Matilde, i due Arsandi e il Martelli, tutti insomma gli ospiti della villa, ad eccezione del professore Benvoglio che dormiva in salotto da pranzo. A un tratto la padrona di casa fece col dito un cenno da regina al signor Michele e si alzò in piedi. Egli si affrettò a lasciare il suo posto e ad avvicinarsele.
—Torniamo subito—disse la signora Amalia al resto della brigata mentre s'allontanava coll'Arsandi. E rivoltasi a lui:—No, non ispenga il sigaro, è inutile. Ormai anche le donne han preso la bell'abitudine di fumare... Ella ha diritto ad una spiegazione. Gliel'avevo promessa per questa sera; gliela do prima del crepuscolo; non si lagnerà di me. Però badi, se lei non avesse nulla, proprio nulla sulla coscienza, nè lei avrebbe da domandarmi, nè io avrei da offrirle questa spiegazione... Ella mi ringrazierebbe dell'improvvisata che le ho fatto mandando Gustavo a prendere il suo Arturo, e ce la passeremmo tutti allegramente per alcuni giorni...
—Come! Nella sua improvvisata non ci sarebbe malizia?
—No, no, non creda questo... ma se c'è malizia non è colpa nostra... E dico nostra perchè metto nel conto anche mio fratello... Oh via, non faccia l'indiano e giuochiamo a carte scoperte... Ella mi capita qui dopo venticinque anni che non ci eravamo veduti, capita, debbo ritenere, per salutarmi, per mostrarmi che un uomo e una donna possono restare amici anche se da ragazzi si erano promessi di sposarsi o di morire e poi nè si sono sposati, nè sono morti... Io la accolgo con vero piacere, non ho dispetti, non ho rancori; venticinque anni fa eravamo bimbi tutti e due... e del resto, il tempo è un gran medico... esso disarma la collera o tutt'al più muta in innocenti epigrammi le sfuriate dell'amor proprio offeso... Ma a lei, caro signor Michele, il tempo fa dei brutti tiri. Ella a vicenda si accorge e non si accorge degli anni che passano, e crede a cinque lustri di distanza di potere ripigliare con la figliuola la partita lasciata a mezzo con la madre...
—Ma, signora Amalia...
—Mi neghi un po' che appena arrivato s'è sentito in obbligo di far la corte a mia figlia?
—Non mi pare che il mio contegno avesse nulla di sconvenevole.
—Ella è troppo ben educato da potersi meritare un tale rimprovero—rispose la signora—ma i fatti hanno la loro logica a cui non si scappa. Lo ha detto l'imperatore Napoleone.
—Che fatti?
—Dio mio! I fatti della galanteria come gli altri.... Per noi donne maritate la cosa cammina più liscia; la società per noi ha un milione di indulgenze; la civetteria, oh è un affar da nulla; la passione, ci ha colpa il marito che non seppe comprenderci.... Ma le fanciulle, la loro riputazione è come un vetro; un soffio l'appanna...
—Ma dunque il rendere omaggio alla bellezza, alla grazia di una fanciulla è una colpa?
—Quando l'omaggio è troppo entusiastico e quando chi lo rende non può sposar la fanciulla è per lo meno una leggerezza, la quale non approda ad altro che a gettare il ridicolo sul corteggiatore o a compromettere la ragazza... E io sono una buona madre.
—Locchè significa ch'Ella vorrebbe farmi ridicolo?
—Non dico questo... Sono anche una buona amica...
—Obbligatissimo...
—Ma sono sincera. E l'altro ieri per esempio non mi sarebbe dispiaciuto di vederla...
—Fare un capitombolo dal cavallo?
—Si figuri... come mio fratello.... senza farsi male... sul tappeto erboso.
—Ma mi perdoni—riprese il signor Michele facendosi serio—supponga un momento ch'io le avessi domandato la mano di sua figlia?
—Io l'avrei ringraziata moltissimo e le avrei risposto con un bel discorsetto diviso in tre punti. Le avrei detto, come donna, ch'io non sono una di quelle creature romantiche, le quali dopo avere amato un uomo, giudicano opportuno di gettargli in braccio la figlia; le avrei soggiunto, come madre, ch'io desidero che lo sposo della Matilde abbia qualche anno, ma non già ventisei o ventisette anni più di lei; come amica finalmente avrei concluso: caro signor Michele, non faccia questa corbelleria, non prenda una moglie più giovane del suo figliuolo. Grazie al cielo, Ella ha troppo giudizio, non mi ha fatto la domanda e io non dovevo farle alcuna risposta. C'era solo il pericolo, che so io? che la Matilde potesse pigliar sul serio le sue galanterie.... Le ragazze sono capricciose, pensano poco all'avvenire.... sono capaci di preferire al sole che nasce il sol che tramonta, senza rammentarsi che subito dopo il tramonto viene la sera....
—Con altre parole, Ella mi paragona al sol che tramonta.
—E se ne offende quasi! Le par poco il sole?... E un bel tramonto, in fede mia, uno di quei tramonti cinti di nubi rosate, di vapori trasparenti e sottili che coronano un magnifico giorno che muore, e preparano un magnifico domani....
—Motteggiatrice perpetua!
—Non creda. Ci fu un istante in cui temei di dover prender le cose sul serio.
—Quando?
—Quando ho dovuto rinunziare alla speranza di far passare il suo brio giovanile per opera di galvanismo, e la maestà del suo portamento per effetto delle stecche di un busto...
—Un busto! Mi attribuiva un busto?—sclamò il signor Michele scandolezzato.
—Eh! Ho avuto torto.... E allora, temendo che le sue prove cavalleresche le dessero battaglia vinta, fui sul punto di corrucciarmi, e di licenziarla su due piedi.....
—Nientemeno?
—Sì, ma prevalsero in me idee più mansuete. Non volevo darle la soddisfazione di vedermi in collera, volevo punirla della sua audacia, e ridere....
—Bella mansuetudine!
—Mi consultai con mio fratello, che, quantunque non paia, è un savio. Egli mi disse: Ho un'idea. L'amico ha anch'egli il suo tallone d'Achille, ed è quel figliuolo ch'egli ha lasciato a Venezia e che non vuole chiamar qui perchè non lo faccia sfigurare.
—Oh signora Amalia, crede ch'io sia così vano?
—Non è nè più nè meno dì tante signore eleganti che non conducono fuori di casa le loro ragazze quando son grandi. Ebbene, questo suo figliuolo io non lo conoscevo, ma Gustavo lo aveva visto anni sono, e mi assicurava che s'egli aveva tenuto le sue promesse doveva esser diventato uno dei più belli e simpatici giovinotti che si possano immaginare.—Andrò a prenderlo io—disse Gustavo—vincerò le sue resistenze, e ove mi riesca di portarlo qui non dubito che egli darà scacco matto al suo signor padre. Figuriamoci se la Matilde non dovrebbe trovare estremamente comica la idea di esser la matrigna di questo Arturo... Eh caro signor Michele, fu un giuoco e potevo perdere.... il suo Arturo poteva rifiutarsi di venire, poteva essere un giovinastro sgarbato e dar così maggior rilievo ai pregi dei suo compitissimo genitore, e allora i nostri imbarazzi sarebbero cresciuti... Ciò le dà la chiave delle mie inquietudini...
—E anche della sua emicrania?
—Non ne parli. Fu uno stratagemma per evitare le spiegazioni e per tener lontana da lei la Matilde... Oh! Ella mi deve pagare quei bagni freddi....
—Io!... A lei?—sclamò l'Arsandi maravigliato che si scambiassero le parti.
—No, no—riprese la sonora Amalia in tuono conciliativo.—Chi vince può essere generoso. E io ho vinto. Sa che cosa mi disse la Matilde?
—Che cosa?
—Il signor Michele è un uomo di spirito, ma suo figlio è molto più simpatico. Era tutto quello che io domandavo... Non si mortifichi, signor Michele.... Per vincere un Arsandi si è dovuto ricorrere a un altro Arsandi.... Pensi che gloria per la famiglia!
—Penso.... penso che la signora Matilde aveva torto....
—Torto in che?
—Nel giudicarmi un uomo di spirito.
—Ah non si umilii... Del resto, la metterò subito alla prova... Ella avrà certo capito che cosa vi sia da fare in questo momento.
—Io?—rispose il signor Michele grattandosi leggermente la nuca—in verità.... a meno che ella non intenda maritare questi due figliuoli.
—Ah signor Michele, ho proprio paura ch'ella avesse ragione...
—In che senso?
—Scusi sa, ma nel dire che non è un uomo di spirito... Oh via, caro amico, lei tratta questa faccenda come avrà trattato gli affari di frutta secche e di spazzole della ditta Bertheen Harris e C.... Ma le pare?.... Quei due ragazzi si conoscono da poche ore; non si saranno antipatici, lo ammetto, ma è una buona ragione perchè si sposino?... Sa Ella se i loro caratteri siano fatti per istare insieme, se i loro gusti siano conformi, sa Ella finalmente se suo figlio abbia la più lontana idea di prender moglie?... E quando pure egli l'avesse, crede che io gli darei mia figlia senza domandar più in là?... Per che razza di madre mi prende?
—Perdoni, ma Arturo non è un partito disprezzabile...
—Tutt'altro... È anzi troppo per la mia figliuola... Egli è straricco.
—Non esageri. Avrà ventimila sterline.
—Che sono in franchi?
—Cinquecentomila.
—E mia figlia non ha che centomila lire di dote.
—Ce n'è d'avanzo.
—La Matilde non ha ancora 18 anni.
—Arturo ne ha già 22.
—Troppo pochi. Son due fanciulli. E poi suo figlio è artista, ha bisogno di libertà, di movimento...
—Mio figlio è più sodo e più assestato di me.
—Non ci vuol molto—pensò la signora Amalia. E soggiunse—La Matilde è cattolica.
—E Arturo è protestante. Le fa caso?
—Oh questo no... E a lei?
—A me? È tutt'uno.
—Cose utilissime a sapersi, ma non se ne fa nulla... I matrimoni si combinano in questa maniera nelle commedie e nei romanzi, non nella vita reale e fra persone di giudizio...
La signora Amalia aveva ragione in un modo così evidente, che l'Arsandi non seppe più che rispondere. Egli balbettò soltanto un dunque interrogativo.
—Dunque mi dispiace davvero, ma non ci vedo che un'uscita... Mi preme di non parere una madre che accalappii i generi nelle sue reti.... E così, non se n'abbia a male, io non vorrei trattenere suo figlio qui che.... fino a domani sera per esempio.
—Ah lo getta da parte come un limone spremuto!
—Che similitudine triviale! Veda, non c'è caso.... Bisogna proprio che domani sera Ella lo conduca via.
—Che io lo conduca? È pur venuto senza di me.
—Che vuole? Se resta qui lei, ho paura di dover tornar a chiamare il suo Arturo.
—Insomma ci chiude la porta in faccia.
—Dio guardi!..... Lascino trascorrere un paio di settimane, tanto che passi il pericolo di sorprese e di riscaldamenti fuori di proposito, e poi ci facciano una nuova visita, chè saranno i beni accetti.... O perchè se ne sta imbronciato?.... Se dovrebbe anzi ringraziarmi.....
—Questo poi stento a capirlo.
—Ha una cattiva giornata... Impedisco a lei di fare delle sciocchezze, voglio allontanare fino il sospetto ch'io abbia teso un laccio a suo figlio, ed Ella non mi ringrazia?... Mi ringrazierà almeno di questo consiglio che le do. Se le è tanto grave il peso della vedovanza, cerchi una donna savia, stagionata, che di qui a dieci o quindici anni possa curare con mano esperta e con animo indulgente i suoi reumatismi... Vuol che gliela trovi io?... C'è una sorella nubile del professore Benvoglio...
—Non mi parli di quell'animale,—proruppe il sig. Michele che aveva un gran bisogno di sfogarsi con qualcheduno.
—Signor Michele, moderi i termini... Povero professore! Un tipo di cavaliere da medio evo, un uomo che andrebbe nel fuoco per me e che sospira ai miei piedi senza speranze....
—Anche per questo mi è odioso... Come mai una donna del suo spirito può sopportare gli omaggi di quello scimunito?—replicò corrucciato l'Arsandi gettando via il sigaro.
—Insomma non mi maltratti quel povero uomo che ha una sorella nubile....
—Signora Amalia, la supplico, non mi spinga agli estremi....
—Oh! oh! Andiamo proprio in tragico—rispos'ella fermandosi a un tratto e guardando il suo interlocutore con una certa curiosità. Erano in quel momento dietro una macchia d'abeti e i raggi orizzontali del sole che tramontava, penetrando tra i frastagli delle fronde e dei rami, venivano ad illuminare in bizzarra guisa il volto di lei.
In un lampo l'Arsandi le prese e baciò la mano.
—Che cos'ha adesso?—gridò ella facendo un passo indietro.
—Potrà ella perdonarmi la mia aberrazione?—egli chiese con accento commosso.
Quantunque imbarazzata dalla nuova e singolar piega che prendevano le cose, ella trovò ancora il modo di scherzare e gli rispose—Quale? Ne ha avute tante!
—Quella di non essermi accorto subito che la sola donna ch'io potrei ancora amare sarebbe.....
—Si fermi—interruppe la donna con piglio disinvolto, quantunque con voce un po' tremula e velata.—Ella è sul punto di dire una corbelleria.
—Signora Amalia, signora Amalia, non rida sempre; mi ascolti per carità...
—No, non è possibile—diss'ella movendosi per andarsene.—Ma non si vergogna? Lei passa dalle madri alle figlie e dalle figlie alle madri con la più candida e ingenua aria del mondo.... C'è davvero qualche lacuna nel suo senso morale.
—Non mi rigetti così, non mi tolga ogni speranza....
—Venga piuttosto, chè gli altri ci aspettano..
—Capisco che sono stato un fanciullo e che non mi acquistai oggi nuovi titoli alla sua stima, ma se le memorie della nostra prima giovinezza non sono ancora scancellate dall'anima sua, se esse si ridestarono in lei come in me... perchè le giuro, ciò che mi affascinò un istante nella sua Matilde fu l'immagine di sua madre, fu l'immagine della gentile creatura con cui venticinque anni fa ci siamo scambiati una dolce promessa.....
Il lettore si sarà accorto che il cavaliere Arsandi s'era impigliato in uno di quei periodi nei quali manca assolutamente il filo della sintassi, periodi arrischiati, che non ammettendo una conclusione grammaticale, sforzano sovente la mano e trascinano a qualche atto di audacia. Ed io ho ragione di credere che il signor Michele fosse sul punto di gettarsi ai piedi della mordace vedovella, quando s'intesero i passi e la voce di persona che si avvicinava.
—Amalia! Arsandi! Dove diamine si sono cacciati?—Era Gustavo.—Oh siete qui—- egli soggiunse scorgendoli.—Vi cerco per tutto il giardino... Mi pareva di seccare quei giovinotti....
A questo punto il Martelli guardò la sorella e l'amico.—Ehi, ci sarebbe il dubbio che seccassi anche voi?
—Sciocco!—disse la signora Amalia arrossendo. E dopo questo complimento gli prese il braccio.—Andiamo. Venga, signor Michele.
Costui, pieno di stizza, le si mise a fianco e le bisbigliò all'orecchio:—Ci riparleremo.
Ella non rispose.
—Ha proprio la cera scura—pensò Gustavo.—Che fosse innamorato davvero di mia nipote? O che si siano intesi di nuovo con la Amalia? O che non ci possa perdonare la burla fattagli?—Erano tutte cose sulle quali egli non poteva chiarirsi finchè non fosse a quattro occhi con sua sorella.
Non tardarono a giungere dov'erano la Matilde ed Arturo.
—A proposito—disse il Martelli quando furono tutti vicini—bisogna, Arsandi mio, che spieghiate a vostro figlio da che originale abbiate tolto una mezza figura ch'egli ha visto nel vostro album, e che, a sentirlo, rassomiglia tanto a mia nipote.
Il signor Michele stette in forse un momento e poi disse:—Non c'è nessuna ragione di far misteri. L'originale è qui, la signora Amalia, venticinque anni fa, quand'io ero ospite de' suoi genitori.
Questa rivelazione non fece sorpresa ad alcuno dei presenti, tranne ad Arturo che non sapeva rendersi conto del come non vi avesse pensato. Ma la signora Amalia lo tolse d'imbarazzo.—Vede che cosa significa un periodo di venticinque anni. Per trovare una rassomiglianza bisogna passare alla seconda generazione.
La signora Amalia fu incrollabile nei suoi propositi. Ella non accordò più alcun colloquio particolare al cavaliere Arsandi, e volle ch'egli ed Arturo partissero nella giornata del domani. È però notissimo a tutti i conoscenti della famiglia e a tutti i curiosi del paese, che, dopo quindici giorni e dopo uno scambio assai vivo di lettere, tanto il padre che il figlio tornarono alla villa, ove Arturo e Matilde si trattano come due fidanzati. Molti indiscreti vogliono dare per cosa già stabilita anche il matrimonio fra il cavaliere Arsandi e la vedova Nottoli, ma la signora Amalia a chi gliene parla dice sempre che non v'è in ciò ombra di vero. È certo nondimeno che il professore Benvoglio lasciò la villeggiatura nel massimo furore e discorre delle signore Nottoli, di Gustavo Martelli e dei due Arsandi con acrimonia di letterato. Egli odia più che mai l'Inghilterra e vagheggia con passione sempre più viva l'ideale dell'antica Grecia. Si crede che egli stia per isposare la serva.
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LO SPECCHIO ROTTO
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CAPITOLO PRIMO
Patatrac.
Patatin.
Questi due suoni si fecero sentire quasi contemporaneamente una mezz'ora prima del tempo di desinare in casa del signor Pacifico Rosettini, dottore in legge e possidente, e loro tenne dietro un rumoroso pianto infantile. La signora Virginia, seconda moglie del signor Pacifico, la quale sedeva nel salotto da lavoro curva sopra un ricamo; il signor Pacifico stesso che stava preparando una conclusionale; la cameriera Adelaide che apparecchiava la tavola, e due ragazzini fra gli otto e i dieci anni tornati in quel momento dalla scuola e ronzanti intorno alle casseruole della cucina, convennero da vari punti sul luogo dond'era venuto il rumore, e accolsero con differenti esclamazioni e domande un fanciullo che poteva avere poco più di un lustro d'età e che scendeva una breve e agevole scaletta con una guancia più rossa dell'altra, un gran furore negli occhi lagrimosi e i due piccoli pugni stretti in atto di collera e di minaccia.
—Che c'è, Gino?
—Che cosa è stato?
—Hai fatto una delle tue solite?
—Ti sei fatto male?
—Che bambino senza giudizio!
—Via, strapazzatelo per soprammercato.
—Ih! Che strepito!.....
In mezzo a questo fuoco incrociato di punti interrogativi ed ammirativi, la signora Virginia s'era chinata sul bimbo, e presolo per disotto le ascelle lo esaminava e palpava da tutte le parti.
—Via, via, non ha nulla—disse il signor Pacifico.
Intanto il fanciullo singhiozzava—Cattiva nonna..... cattiva.....
—Ah! È stata la nonna. Che cosa ti ha fatto?
Gino segnò la guancia sinistra e piangendo con assai più rabbia che dolore, disse:—Mi ha picchiato qui.....
—Ti ha dato uno schiaffo?..... Ma sarai stato cattivo..... Le avrai messo sossopra la camera.
—Niente.... niente.... È caduto... solo... lo... specchio.
La cameriera, nell'intento lodevolissimo d'esaminare de visu la posizione, aveva salito i pochi gradini della scala che metteva all'appartamento della padrona vecchia e stava già per entrar nella camera ov'era successo il contrasto fra nonna e nipote, quando sentì chiuder l'uscio con molta violenza e dare il chiavistello per di dentro.
—Che basilisco!—ella mormorò fra i denti battendo la ritirata.
—Benedetta donna!—soggiunse la signora Virginia.
—Già, già, bisogna lasciarla sbollire da sè—disse il signor Pacifico.—Ma badiamo bene che anche Gino va castigato.
—Lo castigo io—rispose con una certa ansietà la signora Virginia mentre faceva riparo al colpevole con la sua persona.
—Siamo intesi—replicò gravemente il marito.—Ehi, signorini, che c'è da ridere? Subito in camera fin che suoni il campanello del pranzo. Hanno capito? Ha capito, Giorgio? Ha capito, Roberto?
Queste parole erano indirizzate ai due ragazzi poc'anzi accennati, figli del primo letto del signor Pacifico. Essi si avviarono lentamente alla loro stanza canterellando—Torototela torototà.
—Mal educati!—brontolò il signor Pacifico, senza badare che questo rimprovero veniva a ricadere sopra di lui—Mal educati! E rientrò nel suo studio.
Gino fu condotto via da sua madre che gli asciugò le lagrime—Cattivello che sei, perchè sei andato a disturbare la nonna?..... Adesso venga qui ad aspettare il castigo.
Il bimbo guardò la genitrice con aria d'incredulità, e in prova del suo ravvedimento appena giunto nel salotto da lavoro rovesciò il paniere ove la signora Virginia teneva le sue lane da ricamo.
—Gino, Gino—gridò la mamma—vuoi proprio un altro schiaffetto?—E lo minacciò con la mano.
Ma Gino aveva cacciato le gambe entro il paniere e si rotolava sul pavimento con tanta grazia e rideva con sì schietta allegria, che la signora Virginia ebbe una voglia matta di dargli un bacio anzichè uno schiaffo.
Il furbacchiotto capì benissimo le disposizioni materne; quindi non si spaventò punto nel veder la signora genitrice alzarsi dalla seggiola, ma anzi con raddoppiata ilarità levò in aria le gambe con suvvi il paniere tanto da farlo parere una cornucopia rovesciata.
—Domando io—disse la signora Virginia raccogliendo da terra il suo Gino e pigliandoselo in braccia—domando io come si fa a schiaffeggiare un visino simile.
E continuava, rivolgendosi a un interlocutore immaginario—Guardate mo; non vi pare che si vedano ancora i segni di quelle cinque brutte dita lunghe ed ossute?..... Che orrore!.... Picchiarmi il mio Gino.....
Nè paga di guardarselo e di baciarlo da tutte le parti, lo portò davanti allo specchio, e contemplandone con infinita compiacenza l'immagine, tornò a dire—Un bambino simile!
Gino, incoraggiato così, ripetè la frase—Brutta nonna.
La madre gli mise una mano sulla bocca.—Non si dicono queste parole... Mi racconti piuttosto che cos'ha fatto... Ha rotto lo specchio grande della nonna?
—No... il piccolo.
—Quello fatto come un o?
—Sì, sì—rispose Gino—come un o grande.
—Ma che bravo bambino!—esclamò la signora Virginia.—Conosce già le vocali.—Indi ripigliando un tuono che voleva esser serio:—Ah lei ha rotto lo specchio che somiglia ad un o; così ha fatto gridare la nonna... la nonna è stata troppo buona, non le ha dato che uno schiaffo solo, io gliene darò due.
Dette queste parole, amministrò al delinquente due schiaffetti piccoli e gentili che arrivando su quelle guancie pienotte diedero un suono grasso e simpatico; indi lo depose in terra e continuò:—Adesso poi bisogna prepararsi a domandar perdono alla nonna. Stia attento e ripeta quello ch'io dico: Signora nonna... Andiamo, via, Gino... Signora nonna.
— Signora nonna....
—Bravo. Così va bene. Avanti: Le domando scusa....
— Le domando scusa.....
— Di quello che ho fatto...
— Di quello che ho fatto...
— E le prometto... Serio, Gino, non bisogna ridere. E le prometto...
— E le prometto...
— Che non lo farò mai più. Ha capito?... Che non lo farò mai più.
— Che non lo farò mai più.
—Bravissimo. Faccia conto ch'io sia la nonna, si metta lì in fondo, venga verso di me e torni a dir tutto quello che ha detto.
Il bambino con aria grave e marziale si condusse fino alla parte opposta, là si girò tutto di un pezzo e fisò i suoi occhi biricchini in viso alla signora madre. La signora madre guardò lui nella stessa maniera, e ambedue scoppiarono in una sonora risata. La quale risata nel piccolo Gino si prolungava in maniera da impedirgli di fare un passo e da incutere un legittimo timore di serie conseguenze; onde la signora Virginia si alzò e corse alla riscossa del suo rampollo, prendendoselo nuovamente in braccio e dichiarando ad alta voce che un demonietto uguale non vi era stato e non vi sarebbe mai e poi mai.
Questa eccellente lezione di belle creanze fu interrotta dall'annunzio che la minestra era in tavola.
—Dunque, Gino, siamo intesi—disse la signora Virginia dando la mano al bimbo e avviandosi con esso verso il salotto da pranzo.
Ivi si trovavano Giorgio e Roberto, il primo dei quali aveva già versato un poco di vino sulla tovaglia, e ivi giungeva, contemporaneamente alla moglie e all'indomabile Gino, il signor Pacifico asciugandosi col fazzoletto i sudori e dichiarando che non era possibile immaginarsi la quantità di persone venute al suo studio nel corso della giornata.
—Come se non bastassero i clienti—osservava l'egregio signor Pacifico—ci sono le faccende pubbliche. E non c'è mica caso di lavarsene le mani... Oh sì!... Vi dicono che bisogna prestarsi pel paese, che bisogna fare, lavorare, ecc. E ora c'è Consiglio provinciale, e ora Consiglio comunale, e poi la relazione sul gaz..... Giorgio sta quieto..... e poi le ferrovie, e il bilancio..... Roberto, va a vedere che cosa fa la nonna che non viene a pranzo. Insomma, basta avere un grano di cervello in zucca che in questo benedetto paese tocca far tutti i mestieri.....
E il signor Pacifico spiegò il tovagliuolo, tornò a passarsi il fazzoletto sulla fronte e si atteggiò a vittima dell'amor di patria. Poscia il suo occhio olimpico degnò abbassarsi al piccolo Gino.
—Lo hai castigato?—egli chiese alla moglie corrugando la fronte.
—Sicuro.
—Così va bene.—E soggiunse:—Si fa pel tuo meglio, caro. Se diventerai un uomo pubblico.....
—Scotta—gridò Gino con voce piagnucolosa, occupandosi più della minestra che degli augurî paterni.
—Soffia, bambino, soffia—suggerì la signora Virginia—Così... O vuoi che passiamo nell'altro piatto?
—La nonna non vuol venire a pranzo—disse Roberto che rientrava in quel momento in salotto.
—Non vuol venire? Te lo ha detto lei?
—Sicuro. È chiusa in camera. Ho picchiato. Prima non ho inteso che un brontolio... Poi ho picchiato di nuovo; e lei s'è alzata di dov'era a sedere, perchè ho sentito mover la scranna, e gridò brusca: Chi è là? Le dissi che ero io e che venivo a ricordarle che il pranzo era in tavola e che l'aspettavamo.—O credete forse ch'io sia sorda e che non abbia inteso il campanello?—ella rispose. A pranzo non vengo perchè non mi accomoda di venire e non mi seccate.
Dopo questo sproloquio Roberto sedette al suo posto e immerse con grande enfasi il cucchiaio nella zuppiera di riso.
Il signor Pacifico fece un viso disgustato, e si rivolse alla moglie:—Prova tu.
La signora Virginia, che in mezzo a' suoi difettucci non aveva fiele di sorta, rinnovò infruttuosamente il tentativo di Roberto; il signor Pacifico ottenne lo stesso risultato, cosa che offese il suo amor proprio, e convenne quindi rassegnarsi a desinare quel giorno senza la nonna.
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CAPITOLO SECONDO
La signora Paola, chè così si chiamava la nonna, aveva settant'anni sonati; ma era ancora assai vigorosa. Il suo passo era franco e sicuro, l'occhio vivo, il volto solcato da pochissime rughe. I suoi capelli erano quasi tutti bianchi, non radi però, chè anzi di poco ne era scemato cogli anni il volume. E docili ancora si bipartivano con bella regolarità sulle tempie dando una maestà severa alla sua fisonomia. Ella era anche buona e caritatevole, la signora Paola, nè in famiglia si mostrava punto esigente come usano talvolta le persone dell'età sua. Anzi se qualcheduno aveva davvero bisogno di lei, se v'erano malati in casa, ella diveniva un miracolo di attività e di abnegazione. Fuori che in queste occasioni si notava in tutto il suo contegno un certo riserbo, un desiderio frequente di solitudine e di silenzio. Non era espansiva nè col figlio, nè con la nuora, nè coi nipoti. Verso questi ultimi era affettuosa, ma senza gli spasimi che le nonne sogliono avere. Il solo Gino, che cacciava il naso dappertutto e non aveva soggezione d'anima viva, penetrava volentieri nel santuario della sua camera e forzava le carezze della rigida matrona. Appunto una di queste visite era finita colla catastrofe dello schiaffo. Che cosa facesse Gino lo sappiamo; non ci siamo però ancora reso ragione dell'impeto subitaneo della signora Paola.
A capacitarcene è forza conoscere qualche fatterello assai semplice.
Alla signora Paola era accaduto ciò che accade a moltissime donne. Come suo figlio aveva avuto successivamente due mogli, così ella aveva avuto due mariti. Era stata fedele all'uno ed all'altro, ma l'amor suo, l'amore della sua anima ardente ella non lo aveva dato che al primo... O perchè adunque s'era rimaritata? chiederanno i pedanti. Bella domanda. Si fa presto a dire: la vedova che amava sul serio lo sposo non deve rimaritarsi, non deve profanare il santuario delle sue memorie, ecc. ecc. Son frasi. Figuratevi una povera giovinetta che a poco più di vent'anni resta priva del compagno ch'ella si era scelto per tutta la vita. È bella; viver sola non può senza esporsi a cento insidie, a cento pericoli; tornare nella famiglia, s'ella ha ancora famiglia, lo può certamente, ci torna anzi; ma ci starà sempre, ma la sua casa sarà quella ch'essa era prima? La cameretta ov'ella dormì i suoi sonni di vergine avrà mutato aspetto; nei volti dei suoi genitori non sarà certo scolpito un amore men vivo, sarà forse una tenerezza maggiore, e tuttavia anche l'espressione di quei volti sarà cambiata. Pei fratelli, pelle sorelle ella sarà sempre carissima, ma cara in un altro modo; non glielo si dirà certamente, ma si sentirà che ella porta nella sua vecchia dimora un fardello di tristi memorie... Non è più la spensierata fanciulla di qualche anno addietro; bisogna usarle speciali riguardi; ella ha ormai un passato di cui non conviene evocare fuor di luogo le ricordanze; in faccia a lei certe allegrezze troppo rumorose non istanno bene... E poi mettiamo che un'altra sorella abbia un giovane che la corteggi; la vedova non è più la natural confidente di questi amori come quand'era ragazza; adesso la è una seconda edizione della mamma, severa come lei senz'averne l'autorità. E mamma e babbo e fratelli d'ambo i sessi sono d'accordo a dire ch'è stata una grande disgrazia per tutti che la povera Elisa, o Matilde, o Lucia, comunque si chiami, abbia dovuto rimanere così a quell'età!... E la povera Elisa, o Matilde, o Lucia, che indovina i loro pensieri e non può asfissiarsi col carbone, o perchè i suoi sentimenti religiosi glielo proibiscono o perchè ha paura della morte, dopo aver detto di no tre o quattro volte, si decide finalmente ad accogliere una nuova proposizione di matrimonio, e domandando perdono all'ombra del suo indimenticabile Arturo, o Luigi, o Aristodemo, passa a tentar la fortuna del secondo talamo.
La signora Paola era vissuta due anni col suo primo marito, due anni di cielo, come si dice in linguaggio poetico. No, non è possibile esser tanto felici. Quando s'era sposata ella aveva sedici anni ed egli ne aveva ventuno e agli occhi di lei era bello come un Adone, buono come un angelo, e pieno d'ingegno, di brio, di coraggio. Si chiamava Ettore. Non è ben certo ch'egli avesse tutte le qualità attribuitegli da sua moglie; spaventato forse dalla tema di dover col tempo scendere dal piedestallo di gloria su cui ella lo aveva collocato, egli pensò bene di pigliarsi una perniciosa e di morire. Morì lasciandole un bambino di 13 mesi di nome Paride. Benedetta guerra di Troia! Non ce la siamo ancora dimenticata.
Vedova nell'età in cui le altre donne sogliono essere ancora ragazze, la signora Paolina, immersa nella più vera e profonda desolazione, giurò di consacrarsi intera alla memoria del suo Ettore e all'educazione di quel pegno diletto che gliene era rimasto... Era tutto lui. Negli occhi, nel naso, nei capelli ricciuti!... Guai a chi le parlasse di matrimonio, guai!...
Ma la sventurata Paolina non era per anco rinvenuta dallo sbalordimento di quel primo colpo, quando gliene toccò un altro non meno terribile. Il suo Paride, il suo bimbo, il suo tesoro, la sola sua ambizione, il solo scopo della sua vita, morì anch'egli che non aveva due anni. La morte falcia volentieri le testine bionde. È inutile descrivere lo spasimo della madre. Si temette ch'ella ne perdesse la vita o almeno la ragione. Risentitasi dopo alcuni mesi, si trovò come smarrita nel mondo. Sarebbe andata monaca se il suo Ettore non le avesse lasciato in retaggio un orrore invincibile pei chiostri. Fece adunque quello che fanno le altre donne nella sua condizione; si ridusse presso la sua famiglia, traendovi una vita vegetativa. Ma era di mezzi di fortuna molto ristretti. Il suo Ettore sarebbe diventato sicuramente un grand'uomo, ma gliene era mancato il tempo, e intanto, appunto per estendere la sua conoscenza degli uomini e delle cose, aveva assottigliato la non cospicua dote della moglie.
—Che non mi si venga a discorrere d'interesse—aveva detto la vedova—perchè non voglio saperne. Vergogna!
Così la signora Paola, senz'accorgersene, finì coll'essere a carico della famiglia. Ma queste cose non possono rimaner sempre occulte, e anche la poveretta, per quanto i suoi glielo dissimulassero, alla lunga venne a saperlo. Allora pianti, e sospiri, e disperazioni, e fra lei e suo padre uno di que' dialoghi che sogliono tenersi in simili circostanze.
—Bisogna ch'io veda di rendermi utile, che io faccia qualche cosa.
—Nemmen per sogno, io non te lo permetterò mai.
—In fin dei conti son libera.
—Finchè son vivo io, mia figlia non si abbasserà a lavorar per guadagno.
—Pregiudizii. È necessario che le donne comincino a procurarsi da sè i mezzi della loro esistenza.
—Idee nuove che io non accetto.
—Idee vecchie sono piuttosto le vostre...
—Oh bravissima. Si metta a censurar suo padre. È di moda....
—No, babbo.... io non volevo... Ah me infelice! Il mio Ettore! Il mio Ettore!
E giù in un pianto dirotto.
Questa scena rinnovata più volte con piccole variazioni finì col produrre singolari cambiamenti nel modo di vedere della signora Paolina, e in capo a quattr'anni di vedovanza, ella, senza nemmeno saper rendersi conto del come, si trovò fidanzata una seconda volta.
Il suo nuovo marito si chiamava Mansueto e l'unico figlio ch'ella n'ebbe si volle a tutti i costi battezzar per Pacifico. Dal nome in giù era una completa antitesi fra il suo primo e il suo secondo consorte, il suo primo e il suo secondo figliuolo. Il suo Ettore era bello, vivace, aitante della persona, il signor Mansueto era di fisonomia insulsa, piccolo, goffo. Paride prometteva di far onore al suo nome, era nelle fasce un vero angioletto; a due anni, quando soccombette a una malattia di poche ore, camminava già solo, parlava, aveva messo più denti; questo Pacifico invece non cresceva mai, non riusciva mai a reggersi sulle gambe, non imparava nemmeno a dir mamma e papà, e benchè in complesso fosse sano, era sempre triste e piagnucoloso. Quindi la signora Paola era tratta irresistibilmente ai confronti, e quantunque facesse il possibile per amare il suo rispettabile consorte, e amasse con sincero affetto l'unico frutto di questo suo connubio, il suo pensiero correva al passato. E il passato diventava tanto più bello agli occhi di lei, quanto più larga tratta di tempo ne la divideva, e a poco a poco con le virtù della immaginazione ella se ne era fatta una specie di paradiso terrestre. Ma di questo paradiso, di questa età dell'oro della sua vita non le restavano altre reliquie che due ciocche di capelli ed un piccolo specchio. Due ciocche di capelli recise dalla testa del suo Ettore e di Paride suo nel giorno in cui erano morti, e lo specchio medesimo rotto tanti anni dopo dall'insolentissimo Gino.
La storia di quello specchio si chiude in poche parole.
Esso era una suppellettile di casa della Paolina e stava nella sua camera da letto. Se ne era fatta una festa quando glielo avevano regalato ed era veramente nella sua piccolezza leggiadro e nitidissimo. Ma i pregi esteriori svaniti col tempo non eran quelli che glielo rendessero caro. Era piuttosto l'averlo avuto compagno per tanta parte della vita, l'esservisi vista riflessa in sì diverse condizioni ed età; era poi qualche episodio insignificante in sè, ma prezioso per lei. No certo, ella non dimenticherà mai quel giorno, il giorno delle prime sue nozze, in cui, seduta davanti al suo specchio favorito, ancora in vesta da mattina e mezzo discinta, coll'accappatoio sulle spalle, essa si lasciava acconciare i capelli dalla cameriera, mentre la madre e una vecchia zia la contemplavano estatiche da tutte le parti. Pallida, tremante, ma piena in cuore di una ebbrezza ineffabile e nuova, ella guardava nel suo cristallo come attraverso le lenti di un panorama. E vi vedeva prima di tutto se stessa, in verità un bel visino, proprio una rosa bianca sbocciata appena e stillante rugiada dai petali; poi, curve sopra di lei in vari atteggiamenti e la cameriera, e la mamma, e la zia; quindi, in un piano posteriore, le suppellettili della sua camera in un certo disordine, il letto sfatto, il suo letto di fanciulla ove ella credeva di aver dormito per l'ultima volta, e le sedie, e l'armadio, e il sofà sul quale era distesa la sua candida vesta di sposa e la sua ghirlanda di fiori di cedro: finalmente, nel fondo, l'altro specchio men limpido ma assai più grande ch'era infisso alla parete e nella cui luce ella si sarebbe di lì a poco mirata tutta intera e in tutto lo splendore del suo abbigliamento nuziale. Ed ecco l'uscio dietro di lei socchiudersi pian piano, e dallo spiraglio far capolino prima un riccio di capelli, poi un naso, un occhio e la punta d'un baffo.
—Che cos'hai?—chiese la madre, la quale non aveva avvertito altro che il rossore improvviso diffusosi sul volto alla Paolina.
Ma la cameriera aveva visto ogni cosa nello specchio e sorrideva senza scomporsi.
La vecchia zia allora si voltò bruscamente e si accorse che qualcheduno aveva cacciato la testa attraverso l'uscio e che quel qualcheduno era nientemeno che il signor Ettore, il promesso sposo.
—Ah signor impertinente!—disse la venerabile matrona con una voce che somigliava al suono di una pentola fessa.—Non sa che non si può entrare?
Troppo tardi! Il nemico aveva sorpreso la posizione. Messosi al posto della cameriera, il signor Ettore s'era curvato sulla sua Paolina, e a lei che, stringendosi quanto più poteva lo accappatoio alle spalle seminude e mettendo un piccolo grido, s'era arrovesciata sulla spalliera della seggiola, aveva stampato un sonoro bacio sulla bocca.
Scossa allo spettacolo e forse rammentando chi sa che cosa, la vecchia zia aveva fiutato in gran furia due prese di tabacco, la cameriera sorrideva in un angolo, e la buona madre, mentre tentava di allontanare lo sposo e di raccomandargli la calma, non poteva trattenere le lagrime. Era un bel quadretto che lo specchio riproduceva con la sua scrupolosa fedeltà e di cui la Paolina non aveva certo agio, in quella voluttà e concitazione dell'animo, di coglier tutti i particolari, ma del quale ella aveva visto, come attraverso una nuvola d'oro, l'insieme.
E così quello specchio le divenne tanto caro ch'ella volle portarselo seco nella sua nuova dimora. E lo collocò come un fedele e discreto amico nel suo gabinetto di toilette in mezzo ad altri mobili più belli ed eleganti ma meno simpatici al suo cuore. Dinanzi ad esso ella continuò a pettinarsi, in esso vide riflessa la gioia serena de' suoi tempi felici, in esso vide la ingenua sorpresa del suo bambino quando gli si affacciava di là un'altra immagine infantile, ed egli sporgeva le labbra a baciarla. Mutati i tempi, vide nello specchio le nubi che oscurarono la sua fronte, e le lagrime che colarono dalle sue ciglia, e le rughe che solcarono le sue guancie. Tutta la sua vita era passata, ombra fuggitiva, di là. Dalla casa maritale tornò alla casa paterna, da questa entrò sotto il tetto di un nuovo marito, e lo specchio la seguitò sempre come un quadro di famiglia. Ed era un quadro veramente, era tutta la sua galleria domestica, senonchè le figure v'erano evocate da uno sforzo d'immaginazione. Vive sempre nella sua fantasia, esse non pigliavano mai così esatti contorni come nella luce di quel breve e fragil cristallo.
Non maravigliamoci adunque se la signora Paola sta in atteggiamento di profondo dolore dinanzi ai frantumi di quella sua cara reliquia; pensiamo piuttosto quante volte al giorno, più colpevoli assai dell'imprudente bambino, o con una parola acerba, o con un gesto villano, o con un ghigno beffardo, noi turbiamo caste e sante memorie, noi interrompiamo l'opera laboriosa con la quale altri ritesse la tela del suo passato.
IL PARASSITA INDIPENDENTE
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Avete conosciuto il conte Mario Rinalducci?
No! Peccato. Era un carattere originale.
Adesso non lo conoscerete più perchè è morto.
Il conte Mario apparteneva a una famiglia nobile decaduta. Fino a vent'anni crebbe in mezzo agli agi ed alle mollezze, cullato nella falsa opinione d'essere un gran signore, nudrito di una educazione tutta d'apparato, la quale servì piuttosto ad assopire che a svolgere le attitudini naturali del suo spirito. Infatti egli non era uno sciocco; aveva anzi quella versatilità d'ingegno, quella facilità d'imparare, che quando non sono ben dirette, corrono il pericolo di convertirsi in vere disgrazie per chi le possede. Il fanciullo vedendo di poter afferrare con poca fatica quanto gli s'insegna, non istudia; la madre grida al miracolo e porta in processione di casa in casa il suo illustre rampollo, affine di far dispetto alle altre madri sue amiche, le quali non sono beatificate di prole sì cospicua e magnanima.
Il nostro contino imparò superficialmente una gran quantità di cose; a tredici anni faceva versi, nientemeno che versi, strimpellava il pianoforte, biascicava il francese, disegnava un po' di figura, tirava di scherma, ballava, e cominciava persino a corteggiar le signore.
Sedicenne, con la prima lanugine sulle guancie, bello della persona, era il beniamino delle società eleganti; non c'era festa a cui non lo si invitasse, non allegra brigata di giovani onde egli non facesse parte.
Quanto al progresso negli studi, c'era forse un po' di sosta; a tredici anni Mario prometteva di più; nondimeno egli continuava a mandar di pari passo la poesia, la musica, il disegno e gli esercizi ginnastici. In poesia mostrava soverchia indipendenza dalle regole grammaticali, in musica dicevano che qualche volta stuonasse, in disegno offendeva frequentemente la prospettiva, nella scherma era mediocre; perfetto era soltanto nel ballo.
Del resto sua madre ripeteva sempre:—Importa molto che Mario studi! Pur che ci si metta in un giorno egli fa più strada che gli altri non facciano in un mese.
E suo padre, buon uomo, obeso e torpido, ma non mancante di boria, soggiungeva con una logica tutta sua:—Gli studi regolari convengono a chi non può o non vuole mantenersi indipendente. Mario, grazie al cielo, non avrà mai bisogno di lavorar per guadagno.
Mario aveva vent'anni quando padre e madre gli morirono coll'intervallo di pochi mesi, e il giovinetto venne a scoprire che la sua fortuna, la quale non era stata mai colossale, era sfumata quasi per intero.
Ma non c'era punto da sgomentarsi, pur di avere un po' di criterio e un po' d'energia. Bisognava uscire da una società frivola e spensierata, mettersi a studiare sul serio una cosa o l'altra e poi cercarsi una professione. A venti anni un uomo senza obblighi di famiglia e non privo di abilità non ha bisogno di quattrini per farsi strada nel mondo.
Però il Rinalducci tenne un diverso cammino. E la colpa ne fu in parte sua, in parte degli amici. Egli aveva una ripulsione istintiva ad accettare una posizione dipendente, a seppellirsi in un ufficio pubblico o privato, a disciplinare la propria attività. A ogni modo, se avesse sentito suonarsi all'orecchio un suggerimento virile, forse si sarebbe risolto a lottare con sè stesso, e quando v'è lotta v'è almeno la speranza della vittoria... Ma fra coloro che lo circondavano non ve n'era nessuno capace di questo suggerimento virile.
Era tutta gente imbevuta di pregiudizi e la cui affezione per esso era d'indole soltanto egoistica. Un giovane che aveva un bel nome non poteva mettersi a livello d'un impiegatuccio qualunque, figlio del primo mascalzone venuto. E poi, e poi lasciar che Mario uscisse da una società di cui egli era uno fra i principali ornamenti! Chi poteva stargli a petto nel dirigere una quadriglia? Chi sapeva come lui suonare una polka in una di quelle festine improvvisate che divertono tanto? Chi lo uguagliava nel dar le disposizioni per una cena, per una partita di piacere? No, non conveniva assolutamente perderlo. E tutti a fargli ressa d'intorno e a rispondere alle sue lamentazioni, alle sue proteste di voler mutare ambiente, mutar città forse:—Ma via, ti pare?... Nemmen per idea... in primo luogo povero affatto non sei (gli era rimasto qualche migliaio di lire) non sei in condizioni da doverti cercare un pane da oggi a dimani... Puoi aspettare, puoi vedere... Aggiungi che hai anima di gentiluomo e d'artista; vorresti spendere il tuo tempo a registrare atti a protocollo o a scrivere lettere commerciali?... Con tanti amici che hai, col tuo ingegno!... Vergognati! Invece senza fretta tu farai un quadro, scriverai un'opera e allora avrai le ricchezze e la gloria...
Nessun consiglio ci viene tanto accetto quanto quello che risponda alle nostre idee, e perciò il contino Rinalducci accolse le espressioni dei suoi amici con trasporti di vero entusiasmo. Egli era commosso fino alle lagrime della bontà che gli mostravano le prime famiglie del paese, della cura con cui esse volevano tutelare il suo decoro. Era impossibile ch'egli agisse contro la loro opinione, ch'egli si mostrasse meno tenero del proprio nome di quel che se ne mostrassero personaggi così cospicui quali erano la marchesa C..., la contessa M..., la principessa L..., i conti R..., il contino A..., per non parlare di uno sciame di ragazze tutte deliberate a trattarlo come un disertore s'egli abbandonava la buona società.
A ricambiare tanta benevolenza, egli, passati i primi tre mesi di lutto, continuò a dirigere le quadriglie, a dar le disposizioni per le gite di piacere, ad accompagnare alla passeggiata le signore di sua confidenza... Diede fondo in brevissimo tempo al poco che gli rimaneva, senza che i suoi studi avessero fatto un passo decisivo. Egli cominciò a scoprire che aveva il genio, ma che il suo spirito si ribellava alla tecnica dell'arte, si ribellava al giogo delle regole. Se si fosse potuto fare un quadro senza disegno nè colore, egli avrebbe fatto la Trasfigurazione di Raffaello, se si fosse potuto scrivere un'opera senza le pedanterie del contrappunto, egli avrebbe scritto gli Ugonotti. Malgrado di ciò egli continuava ad esser favorito, festeggiato, carezzato. E quando fu proprio al verde di quattrini, si accorse che non era difficile il far debiti, nè impossibile il trovare nei momenti supremi chi li pagasse. Più di qualche volta l'uno o l'altro de' suoi intimi aveva consentito ad anticipargli alcune migliaia di lire, tanto ch'egli potesse mantenersi in quella posizione indipendente di cui aveva bisogno... Se Mario non era ben vestito, non lo si poteva ricevere in società, e come fare a meno di lui in società se nessuno possedeva le sue svariate attitudini?...
Il Rinalducci era in relazione troppo stretta con quelli che lo sovvenivano per sentirsi umiliato dalla loro condiscendenza.—Son cose che si fanno tra amici—egli diceva, e dispostissimo a fare anch'egli altrettanto, si sentiva esonerato dagli obblighi della gratitudine e da quelli del rimborso.
Certo qualche volta gl'imbarazzi eran seri, ma il contino non si perdeva d'animo. A un vilissimo padrone di casa che si era permesso di dargli lo sfratto, perchè egli non aveva pagato per tutto un anno la pigione, il nostro eroe rispose per le rime meravigliandosi della sua petulanza e dichiarando ch'egli non era solito a ricevere intimazioni. L'altro non si diede per vinto e replicò con frasi di non dubbio significato. Punto nel vivo, il pigionale ricalcitrante mandò dal proprietario tiranno due giovanotti, intimi suoi, il conte C... e il barone V..., coll'incarico di ottenere una ritrattazione o di fissare le condizioni di una partita d'onore. Ma lo sfidato, quantunque fosse uomo di fresca età e di membra vigorose, ricusò di accomodar la faccenda in questa maniera e rise in faccia ai padrini, i quali, con molta solennità, stesero immediatamente un processo verbale, che diedero alla luce, lasciando giudice dell'accaduto il solito pubblico. E il pubblico, della buona società, sentenziò che il conte Rinalducci e i suoi padrini si erano condotti cavallerescamente, e che il proprietario era un bifolco senza principii di educazione. Ciò non tolse che il nostro zerbinotto dovesse cercarsi un altro alloggio. E lo trovò per qualche tempo in due stanze d'un palazzo disabitato appartenente a un amico, al quale egli si guardò bene dal pagare alcun fitto, dolendosi soltanto della nessuna comodità del quartiere assegnatogli, quartiere, com'egli diceva, più da servitori che da gentiluomini.—Come pretendere, egli soggiungeva, che io dipinga o scriva musica se ho uno studio privo d'aria e di luce? Vergogna! Che cosa sarebbe costato all'amico X il darmi una stanza migliore?
Nondimeno il Rinalducci volle rispondere con magnanimità a tanta grettezza, e dipinse a memoria il ritratto del suo ospite, per fargliene una sorpresa nel suo dì natalizio. Il ritratto somigliava all'amico X quanto può somigliare la signora..... (quasi mi scappava il nome) alla più bella delle mie lettrici, ma esso parve all'autore un'opera d'arte così perfetta da non potersi pagare nè con l'abbuono di cento pigioni, nè con l'invito a diecimila pranzi. Volle sceglierne egli medesimo la cornice e collocarlo di sua mano nel posto d'onore sulla parete del salotto da ricevimento. Più di qualcheduno, non iniziato nei misteri del pittore, domandò chi fosse quel brutto ceffo che aveva la bocca storta e guardava losco. E allora il felice proprietario rispondeva in fretta con qualche imbarazzo:—Una testa di fantasia! Una testa di fantasia!
Col passar degli anni le strettezze del conte Mario aumentavano anzichè diminuire. I suoi creditori, nefanda genìa, diventavano più fastidiosi e i sovventori si mostravano invece meno liberali. E poi, a poco a poco, l'ambiente in mezzo al quale egli era cresciuto, si andava spostando e trasformando. I vecchi protettori, amici del babbo e della mamma, morivano, i compagni della sua gioventù prendevano moglie, le ragazze che egli aveva trattate confidenzialmente si maritavano, e non sempre le nuove famiglie erano così benevole a suo riguardo come le antiche. Egli sorprendeva di tratto in tratto qualche gesto impaziente, egli udiva qualche parola amara, egli, il favorito di pochi anni addietro, sentiva, in più d'una occasione, d'esser di troppo. Ma egli aveva acquistato ormai una faccia tosta invidiabile. Anche non invitato si cacciava dappertutto, era riuscito a desinare alla mensa altrui cinque volte per settimana, era riuscito a passare in varie villeggiature due mesi di primavera e due mesi d'autunno. Sempre indipendente, non isdegnava di ricambiare i favori de' suoi ospiti col corteggiarne le mogli, e metteva dalla sua parte le cameriere corteggiando anche loro. Era un bell'uomo, era elegante, e le donne chiudevano volontieri un occhio alle sue debolezze. Suoi implacabili nemici erano i camerieri maschi, perchè non aveva la bassa e servile abitudine di dar mancie e aveva esigenze da principe. Narra la cronaca ch'egli fosse una volta gravemente compromesso dalle rivelazioni di uno staffiere, il quale l'aveva sorpreso nell'atto di consegnare un bigliettino alla sua padrona.
Il conte Mario fu licenziato su due piedi dalla villa ond'egli godeva le delizie, ed ebbe l'intimazione di non presentarsi mai più. Egli si fece un grande onore in questa faccenda sfidando a duello e storpiando lo screanzato ed insofferente marito, ma dovette stringere una nuova relazione per supplire al vuoto prodotto dal disgustoso incidente nel numero de' suoi inviti a pranzo e in quello dei giorni ch'egli passava in villeggiatura.
Si domanderà perchè il conte Mario non ricorresse ad un sistema molto in voga fra i pari suoi: vale a dire ad un ricco matrimonio con una ragazza avariata del suo ceto, o con qualche gobba o sbilenca della borghesia che fosse disposta a scambiare un mezzo milioncino con un po' di blasone.
Quelli che seguirono con qualche attenzione le vicende dell'esimio Rinalducci serbano memoria di quattro proposte di matrimonio che gli furono fatte, cioè:
La contessina A....., 200 mila lire di dote, 35 anni, aspetto mediocre. Fuggita a venti anni con un ufficiale di cavalleria, trattenutasi con lui soli otto giorni;
La marchesina B....., 150 mila lire, 28 anni, non brutta, rea d'un unico atto di distrazione che sventuratamente produsse una piccola conseguenza;
La signorina L....., figlia di un negoziante di chiodi, 300 mila lire. Naso da pappagallo, e un'escrescenza assai pronunziata sulla schiena;
La signorina N....., figlia d'un pizzicagnolo ritirato dagli affari, 350 mila lire, 27 anni, fianchi posticci, statura eccezionalmente bassa, un neo a forma di cespuglio sulla guancia, eruzioni cutanee assai abbondanti ogni primavera.
Come si vede, l'uno o l'altro di questi partiti avrebbe offerto al conte Mario l'occasione di rimpannucciarsi. I biografi non sono d'accordo sulle ragioni che fecero andare a vuoto i vari progetti; i più benevoli affermano che nel momento di stringere i conti egli cedesse ad una invincibile ripugnanza pell'ignobile contratto; altri citano cause diverse. In un caso, essi dicono, furono i genitori della sposa che ruppero i negoziati, appena il conte Mario domandò un acconto di 10 mila lire sulla dote; in un altro caso una vedova alla quale egli andava debitore di molto, venuta a cognizione di ciò che stava macchinandosi dal suo protetto, riuscì a comperare alcune cambiali sottoscritte dal Rinalducci, e più sollecita della vendetta che del proprio decoro, lo minacciò d'una procedura sommaria ov'egli non si sciogliesse senza indugio da qualunque impegno matrimoniale.
Il conte Mario sentì sbollirsi i suoi ardori per la sposina e tornò a sacrificare all'ara della vedova, ottenendo da lei l'annullamento delle tratte fatali.
Il conte Mario giunse adunque alla matura virilità senza prender moglie e senza diventare nè uno scrittore, nè un pittore, nè un maestro di musica. Era un dilettante mediocre, buono da far madrigali, da disegnar macchiette, da sonare un walzer o una polka in caso di bisogno. Ma tutte queste cose non fruttano quattrini, e alla lunga, seppure egli avesse voluto, gli sarebbe stato ben difficile mettersi al sodo. A quarant'anni tutti ci chiedono:—O che avete fatto fino al presente? Come avviene che vi poniate in cammino nel momento, in cui gli altri arrivano?—E poi—faceva osservare il conte Mario quando sollecitava uno dei soliti prestiti da uno dei soliti amici—e poi, capisci bene, col mio nome, nella mia posizione, non posso accettare il primo impiego che capita. Non dico, se si trattasse di esser direttore d'una banca, d'una compagnia d'assicurazioni, potrei anche pensarci, ma è tutta una camorra, è una indegnità. Gli uffici sono riserbati a Caio perchè è parente d'uno dei consiglieri, a Tizio perchè ha le raccomandazioni di un ricco azionista, del quale sposerà la sorella, a Sempronio perchè ha l'amicizia della moglie del Presidente. Camorra! Camorra! Oh un giorno o l'altro li concierò io per le feste questi aristocratici della Borsa con una satira alfieriana!
Ma la satira alfieriana rimase nella penna al nostro Mario, il quale volse le forze dell'intelletto a trovar mille ingegnose applicazioni alla sua teoria che un amico fosse una giovenca da mungere a proprio piacere. Lo svolgimento pratico di questa profonda dottrina gli arrecò per altro non pochi disinganni, che lo convinsero della tristizia degli uomini.—Quale egoismo!—egli sclamava dopo aver subìto un rifiuto.—Quale mancanza di cuore! Dirmi di no!....
Poichè alcune delle vecchie relazioni gli andavano via via mancando, egli cominciò ad esser meno esclusivo nella scelta de' suoi conoscenti e ad introdursi anche in alcune famiglie borghesi. Però, nemmeno le nuove conoscenze duravano tutte a lungo, ed egli se ne vendicava diventando più esigente verso quelle che gli rimanevano fedeli o per sincera affezione, o per consuetudine, o per timidezza. Giacchè col crescer degli anni gli era cresciuta in singolar guisa la maldicenza, e molti temevano d'esser fatti segno a' suoi strali.
Lo stanzino del caffè ov'egli teneva cattedra aveva acquistato ormai un certo grado di celebrità, e non mancavano gli sciocchi e gli sfaccendati che dicevano—Andiamo un po' a sentire il conte Mario. Ha la lingua un po' lunga, ma le dice con garbo, e non risparmia nè grandi nè piccini. Dopo tutto egli non è uomo di partito, è un carattere indipendente.
Un carattere indipendente! Ecco quello che il conte Rinalducci voleva che gli altri lo giudicassero, ecco quello ch'egli credeva sul serio di essere. Povera indipendenza! Che ludibrio hanno fatto del tuo nome! Tu e la tua sorella libertà siete certo fra le parole più martoriate del dizionario. E tu per lo appunto, o indipendenza, quante volte non mascheri a tua insaputa l'abbietto cinismo, l'egoismo gelato e impudente! Quanti non sono che si vantano indipendenti, perchè non si lasciano vincere da nessun entusiasmo e da nessuno sdegno, perchè in mezzo al turbine delle ambizioni e degli affetti ond'è travolta l'umanità, possono non ambir nulla e non amar nulla, e si contentano di appiattarsi in un angolo per iscagliare il dardo avvelenato dei loro sarcasmi su tutti quelli che operano, e pensano, e credono, e amano! Non curare il proprio paese? È indipendenza dalle grettezze della nazionalità. Non tenersi legati dai benefizi? È indipendenza dalla gratitudine. Non rispettare la virtù? È indipendenza dalle pedanterie della morale.
Chiedo perdono della digressione. Il conte Rinalducci, io dicevo, conservava alcuni amici, e questi dovevano supplire anche a quelli che gli erano andati mancando. Non solo egli era il loro assiduo commensale, ma voleva altresì esercitare una influenza sui loro sistemi culinari. Come avviene frequentemente degli oziosi, egli era diventato gastronomo, ed era delicatissimo nei cibi e nei vini. Rivedeva le buccie ai cuochi e ai cantinieri, e toglieva la sua stima ad un padrone di casa che lasciasse portare in tavola un manicaretto non accomodato a dovere o un vino di qualità inferiore. Chi non capiva la virtù del gorgonzola grasso era uno zotico, chi non pregiava la polenta coi beccafichi era un barbaro. Tenne il broncio per due settimane ad una famiglia, che, dopo averlo invitato una mattina a mangiare le beccaccie, sciupò questa vivanda prelibata con una salsa sgradevole, salsa da Ostrogoti, com'egli diceva, salsa che era per se stessa una rivelazione di gusti grossolani e plebei.
Se un buon pranzo era la cosa principale che il conte Mario domandava a' suoi amici, egli non intendeva con ciò esonerarli dall'obbligo di farlo partecipare anche ai loro divertimenti. E non solo egli reputava essere ormai convenuto che ove andavano i suoi conoscenti dovesse, a spese loro, andarsene anch'egli, ma suggeriva egli stesso le gite da farsi, gli spettacoli a cui assistere, e non lasciava pace agli amici finchè non li aveva indotti ad accogliere i suoi progetti.
E in questi suoi suggerimenti non era già ossequioso, mellifluo, ma usava modi conformi a quella indipendenza di carattere ch'era il maggiore suo vanto.
Egli s'era, per esempio, fitto in capo di andare a teatro col signor X. Ebbene, senza tanti preamboli, egli chiedeva:— Si è preso palco per stasera?
E se il signor X rispondeva, o che non ci aveva pensato, o che aveva voglia di restarsene a casa, egli replicava infastidito:—Come! Non si va a teatro? C'è uno spettacolo di cartello, e si ha il coraggio di non andare a teatro! Vergognatevi di farvi sentire a dire un'eresia simile....
Ma qualche volta il signor X non si vergognava e teneva fermo al suo punto; allora il conte Mario prima di seccare una terza persona scaraventava addosso all'amico ricalcitrante una serie di contumelie accusandolo di mancare di gusto e di gentilezza, e d'essere immeritevole dei favori della fortuna.
Pur non era implacabile e il dì appresso si ripresentava, perdonando, alla tavola di chi aveva vituperato la sera.
Del resto, il conte Mario aveva un modo di ricambiare i favori ricevuti. Non era egli un grande artista in potenza? Ebbene egli faceva il ritratto dei figli de' suoi anfitrioni. I fanciulli erano stati sempre il suo forte in pittura, ed egli rammentava con orgoglio le lodi che avevano accolto una testa d'angelo, lavoro della sua adolescenza. Adesso i bambini evocati dal suo pennello somigliavano più ai feti conservati nell'acquavite che agli angioletti dell' Assunta; nondimeno quand'egli aveva condotto a termine una di queste tele preziose, egli si fregava le mani con compiacenza e diceva fra sè:—Adesso il creditore son io.
Se questo convincimento di non dover mai nulla a nessuno fosse sincero o affettato; se quest'aberrazione del suo spirito fosse rotta da qualche lucido intervallo in cui egli si rendesse conto esatto della sua posizione, è difficile a dirsi. Forse nella desolata solitudine della sua casa egli avrà avvertito l'abisso in cui era caduto, ma era troppo tardi. Ormai, la coscienza del vero non poteva infiammarlo a virili propositi, l'energia che gli era mancata nella giovinezza non poteva venirgli nel tramonto della vita. Nè egli si apriva con nessuno. Mormorava degli uomini e delle cose, si lagnava dell'ingiustizia del mondo, inveiva, egli rimasto fra gli ultimi, contro tutti quelli che erano arrivati a una meta, ma confidar le segrete battaglie dell'animo, ma versare i proprii dolori nel cuor d'un amico non era affar suo. Alla società nella quale egli era vissuto egli aveva chiesto il piacere, non lo scambio soave degli affetti e dei pensieri, ed essa non gli aveva dato più di quanto egli s'era atteso da lei.
Ora ella gli forniva i mezzi di sussistenza come si assegna una pensione ad un povero invalido; quanto ai conforti dello spirito, nè ella glieli offriva, nè egli sarebbe stato più capace d'intenderli.
Il tugurio che lo albergava la notte era inaccessibile a tutti, fuorchè a una donnicciuola, al servizio d'altri inquilini della stessa abitazione, la quale per pochi soldi al mese consentiva a fargli la stanza. Ma quella donna doveva accudire a' suoi uffici mentr'egli era in casa; per tutto l'oro del mondo egli non le avrebbe lasciato la chiave della sua camera, temendo ch'ella potesse, lui assente, condurre qualcheduno fra quelle pareti, testimonio della sua miseria.
Usciva per tempissimo, dopo essersi fatta la barba dinanzi a un frammento di specchio, dopo aver spazzolato in tutti i sensi l'unico vestito decente che gli restava; usciva senza uno scopo, senza una meta fissa, cacciato più ch'altro dall'insonnia e dal bisogno di quelle illusioni che gli erano negate dal triste spettacolo del suo covile. Percorreva lento, distratto le vie della città, sostando dinanzi alle mostre delle botteghe, soffermandosi al passar delle belle donnine e seguendole con un lungo sguardo di desiderio forzatamente platonico. Com'erano lontani i tempi in cui le belle donnine, accortesi ch'egli le guardava, si voltavano furtive e sorridevano dietro il ventaglio od il velo! Le belle donnine di quei tempi erano ormai venerande matrone, avevano perduto le rose del volto e la svelta leggiadria delle membra, ma avevano una casa, una famiglia, ma nel sorriso dei loro figliuoli rivivevano ai lieti dì della giovinezza; egli invece aveva finto di credere la giovinezza eterna, aveva sperato che i piaceri dei venti anni potessero scaldare un cuor di sessanta, e si trascinava solo, povero, infermiccio..... Misero chi non prepara gli alloggi alla vecchiezza che giunge! Esso è simile a chi s'affida di mantener perenne l'estate non vestendo i panni invernali.
Dopo aver passato alcune ore alla bottega di caffè in mezzo agli eleganti ed ai ricchi tanto per credersi ricco ed elegante al pari di loro, il conte Mario andava a pranzo da questo o da quello, saziandosi con un pane e un pezzo di formaggio nei giorni vuoti. La sera rincasava assai tardi, ma non voleva che si discorresse mai del suo domicilio, del quale egli amava dimenticarsi sotto ogni riguardo, compreso quello della pigione.
Il conte Rinalducci, come dissi fin dal principio, è morto, e l'onore di ricevere le sue ultime disposizioni toccò al signor Giovanni Battista Smerigli, ricco possidente, ex-consigliere comunale, che conosceva già da vent'anni il nostro eroe e che aveva la soddisfazione di dargli da desinare la domenica, il mercoledì e il venerdì.
Ora, un mercoledì, alle sei in punto, il signor Giovanni Battista Smerigli, trovandosi nel gabinetto da lavoro di sua moglie, guardò prima l'orologio, poi la signora Valentina (era il nome della consorte) e disse:—Per solito Rinalducci a quest'ora è venuto.
—Sicuro—rispose la signora Valentina senz'alzar gli occhi dal suo telaio da ricamo.
—È stranissimo—soggiunse il signor Giovanni Battista.
Indi marito e moglie si tacquero e lasciarono scorrere in silenzio altri cinque minuti.
—Non capisco—riprese la signora Valentina dopo questo intervallo.
—Se facessimo intanto portare in tavola?—insinuò timidamente il marito.
—Ti pare?—replicò madama.—Rinalducci andrebbe su tutte le furie. Egli ha dichiarato tante volte che non vuole la minestra fredda....
—E a lasciarla al fuoco la troverà lunga.
—È vero, ma egli ha pur detto che preferisce la minestra lunga alla fredda.
—Gli è che invece io preferisco la minestra fredda.....
—Zitto, vergognati. Un commensale di tanti anni!
—Già.... anche troppo commensale—sospirò il signor Giovanni Battista, e avrebbe continuato se in quel momento non avesse sentito bussare all'uscio.
Entrò un servo portando un biglietto. Il signor Smerigli lo prese e disse subito:—È la scrittura del conte Mario. Ma è singolare... In lapis, e tutta di traverso... Pare che gli tremasse la mano.... Ah! aspettate, soggiunse il signor Battista rivolgendosi al servo, c'è scritto anche: Condannata 50 centesimi. Eccoli....
Il cameriere uscì.
Il signor Smerigli aperse con curiosità il biglietto. La signora Valentina s'era alzata ella pure dalla sedia e leggeva, dietro le spalle del marito. Tutto il messaggio consisteva in due righe:
Sto male, fatevi subito accompagnare a casa mia dal latore.
Mario.
—Diavolo! diavolo!—disse il signor Smerigli.—A quest'ora! come si fa? Senza aver pranzato?.....
—Non puoi ricusarti,—osservò la signora Valentina.
—È presto detto, ma io non so nemmeno l'indirizzo preciso di Mario.
—Non c'è il portatore della lettera che deve accompagnarti?
—Sì, sta a vedere se non se n'è già andato....
La signora Valentina scosse il campanello.—La persona che ha portato questa lettera?—ella chiese al servo che si presentò.
—È giù che attende.
—Vedi bene—riprese la signora Valentina indirizzandosi al consorte.
Il signor Smerigli capì che non c'era rimedio, bevette in piedi una tazza di brodo e uscì brontolando.
Quand'egli fu introdotto nella cameruccia del suo amico, lo trovò disteso sopra un letto senza lenzuola, mezzo vestito, e aggravato per modo che non poteva ormai pronunziar più una parola. Lo assisteva pietosamente una donna attempata, quella stessa che si prendeva cura delle poche sue robe e della sua miserabile stanza.
—Questa mattina—ella disse—il conte s'era alzato come il solito e m'aveva chiamato a fargli la camera. Poi si pentì e mi ordinò che lo lasciassi solo. A mezzogiorno, non vedendolo uscire, gli chiesi se si sentisse male e se volesse nulla. Mi rispose che stava bene, che non abbisognava di niente e che non lo seccassi.... Finalmente un'ora fa, contro l'usanza, suonò il campanello. Lo trovai ansante e che stentava a parlare. Mi diede un biglietto per lei incaricandomi di farglielo aver subito. Io nello stesso tempo feci chiamare un medico che fu qui pochi minuti or sono, scrollò il capo, fece un salasso e disse che tornerà entro mezz'ora..... Santo Iddio!..... Chi si sarebbe figurata una cosa simile?..... Ancora un uomo fresco....
E la buona vecchia si rasciugò gli occhi col dorso della mano.
Il conte Mario, sebbene non potesse parlare, riconobbe lo Smerigli e gli fece cenno d'avvicinarsi. Indi con grande sforzo tolse di sotto il capezzale una specie di lettera suggellata e gliela consegnò.
—Devo aprire? chiese il signor Smerigli.
Il moribondo fece un gesto con la mano, come a dire: aspettate.
Tornò il medico e dichiarò che non c'era più speranza. Infatti il pover'uomo morì di lì a poco.
Il mattino successivo, alla presenza di testimoni e nella camera stessa del defunto, il signor Smerigli aperse il piego che aveva ricevuto. In cima alla pagina era scritta in bel carattere rotondo la parola testamento.
Che razza di testamento poteva mai fare uno spiantato come il conte Rinalducci?
Il signor Smerigli lesse ad alta voce:
Lascio al mio amico Giovanni Battista Smerigli l'incarico di farmi seppellire. Desidero funerali decorosi ma senza pompa. Lo stesso amico Smerigli è pure incaricato di far mettere sulla mia tomba una lapide colla seguente semplicissima iscrizione:
Mario conte Rinalducci d'anni..... mesi..... Visse e morì indipendente.
—Accetta l'eredità?—chiese il giudice con una certa aria di canzonatura.
—Sì, sì, che vuol farci?—rispose il signor Smerigli, scrollando le spalle.—Ma, Dio l'abbia in gloria, un gran bel seccatore!
Il Maestro di Calligrafia
[184][185]
In un istituto scolastico di una città del mondo gli studenti dell'ultimo corso erano occupati nella prova scritta dell'esame di letteratura. La cosidetta sorveglianza era affidata al signor Antonino Bottaro, vecchio professore di calligrafia, che stava per abbandonare la scuola ed andare in pensione. Sorveglianza alla prova scritta vuol dir questo. Un professore, che non è quello della materia su cui si fa l'esame, rimane nella stanza, ove gli esaminandi lavorano, e invigila affinchè essi non si copino i temi a vicenda, non consultino libri, non si passino carte, ecc. ecc. Naturalmente, finchè non si adotti per l'esame il sistema cellulare, tutta questa roba si fa lo stesso in barba al signor professore. Figuriamoci che cosa avviene, quando il sorvegliante è il professore Bottaro, vittima della scolaresca a due titoli; primo, perchè è il professore di calligrafia, secondo, perchè è un pan di zucchero. Nei trent'anni dacchè egli insegnava le leggi della scrittura posata, corsiva, rotonda e gotica con ispeciali applicazioni alla burocrazia ed al commercio, gliene erano toccate d'ogni maniera. Non passava giorno senza che un monello di scolare gli appiccicasse un codino di carta al bavero del vestito, o segnasse col gesso la sua caricatura sulla tavola nera. Una volta gli si erano messe due ova in cappello tanto da far nascere una frittata al suo coprirsi nell'uscir dalla scuola; un altro giorno si era spalmato di pece il cuscino della poltrona, ov'egli andava a sedersi per correggere gli elaborati. Non parliamo dei suoni infinitamente varii che rallegravano la sua lezione. Mentr'egli si chinava sul quaderno d'uno studente, dall'estremo opposto della panca sorgeva come un miagolio di gatta in amore; egli volgeva lo sguardo da quella parte, ed ecco venir dal fondo come un tubar di colomba o come un trillo acuto di gallo mattiniero: Chichirichì. Il professore rosso come un gambero correva allora verso la cattedra gridando: Or ora faccio una nota a tutti —ed ecco un silenzio sepolcrale seguito da un rumore che simulava il vento e che cominciava lieve lieve per diventar poi gagliardo e impetuoso e perdersi via via in un gemito impercettibile, come la marcia turca di Beethoven.
Il signor Antonino faceva la nota a tutti, ma prima del termine della lezione la scancellava dopo essersi fatto promettere dai ragazzi che la lezione successiva sarebbero stati buoni come agnellini.
Nè da' suoi colleghi il signor Antonino riceveva segni di particolare deferenza. Sgarbi non gliene facevano sicuramente, ma in fin dei conti, al professor di calligrafia chi ci bada? Nelle conferenze, il Preside, il professore di matematica, il professore di belle lettere, il professore di fisica discorrevano tutti con grande prosopopea; anche il cancelliere voleva dire la sua opinione, ma il professore Antonino o poteva egli avere un'opinione? E quando si trattava di dar le classificazioni finali, se il signor Antonino si lagnava di qualche studente (ed era assai raro che se ne lagnasse) se diceva che il tale non aveva mai scritto una riga durante l'anno, gli altri scrollavano le spalle con impazienza, come a dire: seccatore! smetta! Terminato l'anno scolastico molti professori ricevevano visite dagli alunni, complimenti dai genitori, elogi dai preposti all'Istituto; e ora a questo, ora a quello pioveva dall'alto una croce, ma quanto a lui, al calligrafo, chi lo prendeva sul serio? Non era forse celebre la sua soprascritta a una lettera, che cominciava: All' pregiatissimo? Appena due o tre giovinetti di cuor più tenero degli altri, rammentandosi del grave travaglio che gli avevan dato durante l'anno, gli movevano incontro con viso tra compunto e faceto e dicevano:—Scusi, sa, signor professore, se non fummo sempre tranquilli come avremmo dovuto essere. Egli s'inteneriva subito e diceva:—Ohibò... ohibò!... Loro... voi altri siete stati buoni..., lo so io quelli che erano i cattivi soggetti... basta... basta... adesso si va in vacanza... a far provvista di giudizio, non è vero... eh?
E dava loro un pizzicotto alla guancia.
L'anno nuovo poi ricominciava la medesima storia.
Eppure, malgrado tutto, il professore Antonino non sapeva viver lontano dalla sua scuola. Le vacanze erano per lui una penitenza. Tutta la sua famiglia si riduceva a una sorella nubile più vecchia di lui, sorda e bisbetica, che lo tormentava senza posa affinchè egli domandasse la sua pensione.—Ma—soggiungeva la signora Bettina, che non era un'aquila—ma devi volere la pensione intiera secondo il sistema vecchio, non la pensione di cinque sesti come dànno adesso. Tu sei entrato col sistema vecchio e hai diritto di esser trattato con quello. Capisci, babbuino?
Che sua sorella gli desse del babbuino non era alla fin dei conti una cosa che facesse un gran senso al povero professore; tanto e tanto un po' babbuino egli sentiva di essere. Quello che non sapeva perdonare alla rispettabile donzella si era ch'ella tirasse giù a campane doppie contro la scolaresca. E questo livore non era nemmeno cagionato dagli sgarbi che usavano a suo fratello, ma perchè un giorno, essendo passata vicino al portone della scuola in un momento che gli studenti ne uscivano, la ragazzaglia, com'ella la chiamava, s'era messa a gridare dietro a squarciagola: bella! bella! bella!
La signora Bettina non aveva mai perdonato alla scolaresca questo affronto, nè a suo fratello l'indifferenza con la quale egli ne aveva accolto l'annunzio. Ella che avrebbe voluto un'espulsione in massa! Ella che sarebbe andata in persona dal Preside, se non fosse stata la paura di scontrarsi nuovamente con quei cattivi soggetti!
—Già—brontolava la bisbetica donna—quando si ha la disgrazia di non aver uomini in casa ma pecore (ho detto pecore) non si può nemmeno arrischiarsi di uscire. C'è da far le maraviglie davvero se sono rimasta zitella? Chi viene da te? Ove mi conduci? Almeno se tu lascierai quella maledetta scuola, beninteso con la tua pensione intiera, potrai pensare un poco a tua sorella...
Il professore Antonino ci pativa a sentir questi discorsi, e l'idea di condurre a passeggio sua sorella gli metteva i brividi addosso. Egli non era elegante. Il suo cilindro con un dito di unto, il suo soprabito spelato rispondevano appieno alla sua posizione sociale di pubblico insegnante, ma in fin dei conti egli non aveva un cappello cremisi con piume verdi, nè due ricciolini neri fatti a forma di punto interrogativo ornavano le sue tempie. Dimodochè, anche nelle vacanze, egli trovava mille occupazioni immaginarie per esimersi quanto più spesso gli fosse possibile dall'ufficio di cavaliere servente di madamigella Bettina. Piuttosto, dando fondo a tutti i suoi risparmi, egli si rassegnava a mandarla a sue spese dal 15 settembre al 15 ottobre d'ogni anno presso una famiglia di conoscenti che villeggiava a breve distanza dalla città. Ella ci andava un po' a malincuore, quasi facendo un atto di degnazione, perchè si trattava di gente inferiore a lei per educazione; figuratevi, eran le nipoti di un salumaio arricchito; a ogni modo ci andava in vista dell'aria che serviva a calmare i suoi nervi. Poveretta! Era stata sempre così sensitiva.
Intanto il professore passava la giornata a desiderare la riapertura della scuola. Quando aveva dato da mangiare al canarino, quando aveva temperato la penna d'oca con cui teneva dietro assiduamente a tutti i progressi della scrittura gotica e rotonda (pel corsivo aveva accettato la penna di ferro), egli non trovava miglior partito di quello d'andare all'Istituto e di spender due ore nella stanzuccia del signor Bartolommeo, il vecchio bidello. Il signor Bartolommeo era anch'egli un po' brontolone come la signora Bettina, si lagnava del Governo, del Consiglio provinciale, del Municipio, del Preside, dei professori, del cancelliere, degli scolari. Ma sopratutto si lagnava della signora Elena, la moglie del Preside, ch'egli aveva visto nascere di povera gente e andar per le strade quasi quasi a raccattar carta, e che ora aveva messo boria e non si degnava nemmeno di salutarlo. Il professore Antonino non sapeva dar tutti i torti al buon Bartolommeo; anch'egli soffriva parte delle umiliazioni che toccavano al bidello, anch'egli aveva notato l'albagia della signora Elena che pareva fargli una grazia a ricambiar con un cenno del capo i suoi umilissimi inchini, ma d'altra parte si adoperava a gettar acqua nel fuoco, a raccomandare al signor Bartolommeo la calma, la pazienza; col ripetere l'antico adagio—Chi ha più giudizio lo adoperi... Anch'io se volessi badare a tutto... non solo qui a scuola... ma anche con quella benedetta donna di mia sorella... buonissima creatura del resto... ah insomma tutti abbiamo le nostre.
E chiudeva la sua perorazione coll'offrire al signor Bartolommeo una presa di tabacco.
Poi faceva i conti sui giorni che mancavano a riaprire la scuola. E pensava ai suoi colleghi, che non avevano mai l'abitudine di tornare dalla campagna fino a dieci o dodici giorni più tardi del necessario, e pensava a' suoi scolari, furfanti, ma buoni diavoli.
Figuriamoci se nel giorno di cui parliamo egli non abbia mille cose che lo molestino. Quella mattina stessa, cedendo alle istanze della sorella, egli aveva consegnato al Preside la sua domanda pel collocamento a riposo, pregandolo che la facesse pervenire al Governo. Nè la pensione poteva essergli negata, perchè egli aveva tutti i titoli per ottenerla, s'intende nella misura fissata dalla legge, non già in quella pretesa dalla signora Bettina; onde questo era l'ultimo anno che egli esercitava le sue funzioni di professore, e la sorveglianza della quale oggi egli veniva pregato era uno degli ultimi incarichi del suo ufficio.
Il Preside, esternando il suo rammarico per la risoluzione del professore Antonino, gli aveva detto con una gentilezza insolita:—Senza complimenti, professore, se egli non ha voglia di stare in classe tutt'oggi, incarico un altro. Lei ha lavorato pe' suoi giorni abbastanza.
—Oh, cavaliere, le pare?... Anzi... se si tratta di servirla, di essere utile alla scuola... anche dopo... oh per me già ho sempre voluto un gran bene a quest'Istituto.
—Lo so, lo so, professore.
—Troppo buono, cavaliere... E se ho mancato... non fu per cattiva volontà.
—Mancato?... Oh mi meraviglio, professore. Così fossero tutti.
E il cavaliere Preside gli aveva stretto la mano.
Il professore di calligrafia aveva il cuore gonfio dalla commozione.
—Ho mal giudicato anche il Preside—egli diceva fra sè—degnissima persona... Ma! E mi tocca lasciar tutta questa gente che mi vuol bene!
Con che fatica il nostro Antonino tratteneva le lagrime!
E con queste disposizioni d'animo egli era sceso in classe, ove si raccoglievano i suoi persecutori ordinari, umili quel giorno e contriti per l'idea dell'esame, con queste disposizioni aveva inteso dal Preside dettare il tema della prova in iscritto, un tema così difficile, così difficile. Poveri ragazzi! O se avesse potuto far lui l'elaborato per tutti? Ma sì! Non ne capiva nemmeno il titolo. Gran disgrazia essere asini!
Intanto quelle fronti giovanili si corrugavano, quegli occhi per solito così gai sì mettevano a guardare in alto, come chiedendo l'ispirazione alle ragnatele del soffitto, quelle labbra vermiglie ordinariamente disposte al sorriso si contraevano con uno sforzo penoso, e le mani avvezze a tante piccole furfanterie andavano ravvolgendosi nei capelli.
A poco a poco, prima l'uno e poi l'altro, i ragazzi uscirono dallo stato contemplativo, tirarono fuori i libri che non dovevano avere, consultarono i quaderni che dovevano aver lasciati a casa, e finalmente si accinsero a scrivere. Di lì a una mezz'ora si udiva il suono uniforme delle penne di ferro che correvano sulla carta.
—Sia ringraziato il cielo—disse fra sè il buon calligrafo come sollevato da un gran peso.—Sia ringraziato il cielo! Adesso hanno preso l'aire tutti quanti. Già, bisogna confessarlo, son bravi ragazzi.
Al signor Antonino pareva che, se gli studenti cominciavano a scrivere, l'esito dell'esame fosse assicurato. Scrivessero poi bene o male, poco importava.
Sentendosi un po' le gambe intorpidite egli scese dalla cattedra e si mise a passeggiar su e giù per la classe.
Delle varie file di panche non ne erano occupate che due, cosa del resto naturalissima, inquantochè quella era l'aula destinata al secondo corso e gli esaminandi appartenevano all'ultimo, sempre meno numeroso.
Il professore Antonino dopo aver passeggiato alcun tempo a capo basso e con le mani intrecciate dietro la schiena lungo la corsia che movendo dalla cattedra percorreva longitudinalmente la classe, si fermò prima davanti a una finestra, poi stette alcun poco in contemplazione delle mosche che gironzavano intorno ai vetri, poi cominciò a gettar l'occhio sulle panche vuote e a passar, quasi senz'accorgersene, da una panca all'altra contemplandovi i rabeschi e le iscrizioni che le adornavano.
Le panche della scuola! Chi di noi non se ne rammenta? Chi su quei disadorni sedili non si è, alla fin dei conti, trovato meglio che nelle poltrone a molle ove sdraiammo più tardi la svigorita persona? Senza dubbio le nostre tribolazioni le abbiamo avute anche lì. Quando, interrogati dal professore, non abbiamo saputo rispondere verbo, ed egli, con un sorriso glaciale, ci accennò di sedere e intanto con voluttà crudele disegnò una bella croce nella colonna delle classificazioni di fronte al nostro nome e cognome; o quando, colti in fallo nel meglio di qualche furfanteria, ci sentimmo dire dallo stesso signor professore— Benissimo, scriverò alla famiglia —oh allora il nostro povero corpicino ci stette pure a disagio sulle panche della scuola! E ci siamo messi a piangere, e ci siamo augurati la morte, e abbiamo fatto ridere i nostri condiscepoli da cui non potevamo restar divisi e che pure erano tanto crudeli. Ma erano bufere d'estate. Il più delle volte dopo essere andati a scuola a malincuore, vi ci trovavamo così bene. Se avevamo un professore simpatico, che possedesse una bella voce, un accento caloroso, noi lì tutt'orecchi a sentirlo, si credeva di esser sollevati insieme alla panca chi sa a quali altezze, e i nostri cuori battevano per un palpito nuovo. Era forse sete di gloria, era bisogno indistinto d'amore, chi lo sa? E dove mettiamo gli accurati lavori col temperino che abbiam fatto sulla nostra panca? La scultura in legno deve sicuramente essere stata inventata sulle panche della scuola. Là iniziali che si confondono, geroglifici che s'intrecciano, tentativi di profili impossibili, saggi d'ornato bizzarri, studi di storia naturale audacissimi, solchi che in parte seguono le venature del legno, in parte tengono una direzione opposta e formano una linea tremula come corda di lira pizzicata, cavità profonde e paurose, come se lo studente avesse voluto fare un piccolo pozzo artesiano, un guazzabuglio insomma quale può uscire da cento testoline bizzarre e da cento mani l'una più inquieta dell'altra.
Che se poi uno abbia avuto lunga dimestichezza con la scolaresca, come gli sarà facile animare, vivificare la scena! Ivi stettero a fianco ignari dell'avvenire i più disparati ingegni e i più diversi caratteri, il futuro commesso e il futuro ministro, quegli il cui nome si perderà nella folla e quegli che raccomanderà ai secoli la sua fama. E furono, qual più qual meno, amici tutti, alla peggio le inimicizie loro durarono poco; chi sa invece che saranno nel mondo? Forse non s'incontreranno mai più, forse s'incontreranno soltanto per osteggiarsi, forse uno finirà col calcare il piede sul collo dell'altro.
Il signor Antonino non aveva mai brillato per una fantasia vivace, e anche nei più belli anni della sua giovinezza, egli poteva dire di non aver provato le schiette gioie dell'immaginazione.
Ma adesso, fissando quelle panche, al cospetto di quegli intagli bizzarri, egli vedeva una quantità di figure disegnarglisi davanti, e moversi, e prendere atteggiamenti diversi, e cento volti dimenticati ripigliar forma e colore. Era la scolaresca di trent'anni confusa insieme.
Ecco un nome. Chi era costui? Il professore Antonino chiudeva gli occhi un momento e poi lo vedeva tal quale lo aveva visto forse dieci o quindici anni prima. È un giovinetto bruno, dai capelli ricciuti, dagli occhi pieni di fuoco, alto, smilzo; sì, sì, è proprio lui. Anch'egli indisciplinato all'estremo. E ora dove è andato mai? Vicino a lui c'era... chi c'era? Vediamo di raccapezzarci... Ah sì!... Da una parte un ragazzino timido che pareva un bimbetto, che non fiatava mai, altro che, pur troppo, nell'ora della calligrafia. Non c'era quanto lui per imitare il miagolio del gatto. Adesso è impiegato alle ipoteche. A sinistra poi,... no, lo scolare di sinistra il professore Antonino non poteva farselo tornare a mente. Ma di dietro invece, nella panca successiva, era tutta una fila di ragazzi che gli pareva aver davanti gli occhi. Che panca terribile era quella! Che demonî! Bisogna però eccettuarne uno il quale sedeva nell'angolo vicino alla parete. C'erano ancora le sue iniziali A. E. Sicuro, si chiamava Angelo Emanuelli, poverino! Era pallido, tossicoloso; d'inverno aveva sempre freddo, d'estate pativa il caldo in modo straordinario. I suoi condiscepoli lo chiamavano agnello e gli amministravano una dose straordinaria di scappellotti. Egli non si lagnava, non serbava rancore ad alcuno, e diligente com'era faceva le lezioni di tutti. Povero figliuolo! È morto. Il signor Antonino si ricordava che alcuni anni addietro, nelle vacanze d'autunno, l'Emanuelli era venuto a fargli visita insieme a sua madre, una donna abbrunata, dalla cera pallida e dall'aria stanca come suo figlio.
Una visita in casa del signor Antonino era un avvenimento.
Il professore Antonino era solo; sua sorella, grazie a Dio, si trovava in campagna. Egli corse ad aprire la porta e disse confuso—Caro Angelo... stimatissima signora... prego, si accomodino...—Poi, senza nemmeno terminare la frase, volò nella sua camera da letto, e indossato un abito un po' più pulito, si ripresentò rosso come una fanciulla a cui si parli la prima volta d'amore.
—Che onori!... In che cosa posso?... Mi dispiace che trovano tutto in disordine... Non c'è mia sorella... (Ci mancherebbe altro che ella ci fosse—egli soggiunse in cuor suo).
—Per carità, professore, non si dia pena per noi—disse la signora.—Lei è così buono, che siamo venuti a chiederle un favore... Angelo fu malato alcuni giorni... Ora sta meglio, ma non si è ancora liberato dalla tosse...
E Angelo, come per dar ragione a sua madre, tossì un paio di volte.
—Ecco, capisco che la scuola è fatica soverchia per lui—continuò la signora con un tremito nella voce.—Non voglio sforzarlo... Siamo stati tanto disgraziati. Veda, vesto ancora il bruno per una figliuola... E prima di lei ne ho perduti altri due... e mio marito anche lui... sempre dello stesso male... Ma questo qui bisogna che mi resti—continuò la madre asciugandosi le lagrime e cingendo con un braccio il collo del suo Angelo come se volesse difenderlo.
—Si calmi, signora, si calmi—rispose il buon professore—posso offrirle un bicchier d'acqua? Ha ragione, ha ragione, non lo mandi più a scuola. Poveri ragazzi! Li ammazzano con questi nuovi sistemi.
—Ecco ciò che volevo chiederle—ripigliò la signora poichè si fu ricomposta alquanto—scusi sa, perchè in mezzo a tanti dispiaceri ho quasi perduta la testa... Il mio figliuolo potrebbe andare intanto due ore al giorno nel banco d'un amico di mio marito buon'anima... Due ore sole per adesso... fin che Angelo sia divenuto più forte... gli darebbero quindici lire al mese... pochine, ma tanto per cominciare... Senonchè, c'è un guaio; vorrebbero che il ragazzo sapesse scrivere in rotondo, e Angelo dice che non sa, che non lo ha studiato... Pretesti, forse.
—No, no—si affrettò a interrompere il professore Antonino—il rotondo non l'ho insegnato nella sua classe.
—Ebbene allora vorrei ch'Ella avesse la bontà di dargliene qualche lezione, così per metterlo sulla strada. Il resto lo farà egli da sè...
—Ma sì, ma sì—sclamò il Bottaro, beato di fare un piacere.
—Noi compenseremo secondo le nostre forze...
—Nemmen per idea... non voglio neanche sentirne a discorrere... No, signora Emanuelli, se parla di compensi si rivolga ad altri... Angelo verrà da me per una, per due settimane, anche tutte le mattine se può, e vedrà che bel rotondo egli imparerà a scrivere in cinque o sei lezioni... Siamo intesi, non è vero?
La signora Emanuelli stette alquanto perplessa, tornò a tirar fuori la questione del compenso, ma finì col cedere all'insistenza del professore e disse commossa:—Giacchè il professore è tanto gentile non so come rispondere con un rifiuto. Angelo, che dici al professore?
—Grazie—bisbigliò il ragazzo.
—Nulla, nulla, caro—replicò il signor Antonino—Vuoi cominciar domattina?
Angelo guardò sua madre, poi disse:—Sì, professore.
—Allora siamo intesi.
E il signor Antonino accompagnò fino giù delle scale il suo scolaro e la madre di lui che si profondeva in ringraziamenti.
Angelo Emanuelli prese otto lezioni, poi entrò nel suo nuovo officio, poi venne a fare una visita al professore, poi non lo si vide più.
Il presentimento della povera madre si era avverato. Il ragazzo era morto della malattia dei suoi fratelli e del suo babbo, era morto a sedici anni.
E il professore Antonino lo aveva dimenticato, quando le due iniziali scolpite sulla panca lo richiamarono alla sua memoria. Egli rivide ancora quella fisonomia languida, sparuta, egli intese ancora sonarsi all'orecchio quella tosse secca, insistente, e la voce di quella povera madre, adesso morta anche lei, che diceva—Ma questo qui bisogna che mi resti.
• • • • • • • • • • • • • • • •
Chi sa fino a quando il professore Antonino sarebbe rimasto immerso in siffatti pensieri, se uno scolaro non gli avesse picchiato leggermente sulla spalla!
—Che c'è?—proruppe il Bottaro in tuono meno rimesso del consueto.
—Signor professore, le consegno il mio elaborato—rispose il ragazzo guardandolo in aria di mezza canzonatura.
—Oh!... Ha ragione... hai ragione, caro... Dunque hai finito? Va, va, che andrà tutto benissimo.
Al primo studente ne successe un secondo, al secondo un terzo, al terzo un quarto e così via via fino all'ultimo.
—Ma bravi, ragazzi, come avete fatto presto quest'oggi!
Il signor Antonino non s'era accorto del tempo ch'era passato mentr'egli stava fantasticando, e non aveva avvertito affatto un'altra cosa, quella cioè che i giovanetti, non disturbati punto dalla sua sorveglianza, s'erano a loro agio consultati, copiati, corretti a vicenda, onde i varii còmpiti si somigliavano fra loro come tanti gemelli.
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Uscito l'ultimo studente, il professore Bottaro, col piego degli elaborati sotto il braccio, salì la scala che conduceva in Direzione e consegnò nelle mani del Preside il suo prezioso deposito.
—Grazie, professore—disse questi con amabilità—grazie. La pregherò poi d'intervenire alla conferenza per le classificazioni... Ma che cos'ha che mi pare turbato?
—Scusi, cavaliere—balbettò il calligrafo—non so nemmen io che cos'abbia... Ha già inoltrato la mia istanza?
—No—rispose il Preside togliendo da un mucchio di carte il documento che gli era stato consegnato nella mattina dal professore—No, è ancora qui.
—Potrebbe darmela un momento?
—Eccola.
—Se me la lasciasse fino a domani—continuò timidamente il nostro Antonino.—Vorrei pensarci su.
—Davvero?—disse il Preside, componendo le labbra ad un sorriso un tantino ironico.
—E posto il caso ch'io sospendessi la domanda della pensione fino all'anno venturo, ne avrebbe dispiacere?
—Oh si figuri—rispose coi denti alquanto stretti l'interrogato.—È dal suo punto di vista... Mi pare che, poichè la legge le dà il diritto al riposo... Ah se fossi nel caso suo!—sospirò il Preside, guardando macchinalmente il calendario ch'era sul tavolino, come se potesse leggere colà gli anni che gli mancavano a terminare il suo servizio.
—Ah, per lei è un'altra cosa—ripigliò il professore di calligrafia, che a poco a poco trovava il coraggio e quasi l'eloquenza.—Lei è una brava persona, e quando avesse il riposo, si consacrerebbe a' suoi studi, starebbe in mezzo a' suoi manoscritti, alle sue biblioteche...
Il Preside, scrollò le spalle quasi a significare—Povero grullo! come t'inganni!
—Ma io—seguì a dire il nostro Antonino senza badare ai gesti del suo interlocutore—io che devo fare? Occuparmi in esercizi di calligrafia per mio conto?
—Potrebbe ad ogni modo dar qualche lezione privata...
—E allora è meglio che rimanga qui. Tanto e tanto mi tocca lavorar lo stesso, e qui almeno ho preso affezione all'ufficio.
—Perchè—incalzò il Preside—mi pare che questi benedetti ragazzi non si contengano con lei come dovrebbero.
—Si esagera, sa—ripigliò un po' confuso il signor Antonino—- fanno qualche volta del chiasso, ma è piuttosto colpa mia che di loro. Del resto, vede, nella calligrafia non occorre tutto quel raccoglimento che è necessario nelle altre materie... Ma, in ogni maniera, quest'anno non c'è stato male. E mi pare ormai che ogni anno andrebbe meglio.
Il Preside non potè a meno di sorridere. Indi soggiunse a modo di conclusione:—Che vuol che le dica? Ci pensi.
Il professore Antonino ci ha pensato. Egli deliberò di rimettere la sua dimissione all'anno successivo. Scorso il termine fu di nuovo in grandi incertezze, e poi decise di aspettare.
Così egli insegna ancora calligrafia nell'Istituto di ***. Gli studenti continuano a prendersi con lui le solite libertà; i colleghi non lo tengono in nessun conto; la signora Bettina lo strapazza senza misericordia, perchè non lascia la scuola e la scolaresca; anche il bidello, suo abituale confidente, lo consiglia a mettersi in quiete, ma il signor Antonino è ormai convinto, che il giorno in cui egli abbandonerà definitivamente il suo ufficio, si potrà preparargli la necrologia.
L'OROLOGIO FERMO
[208][209]
Non vedevo Federico Vivaldi da più di quindici anni.
Eravamo stati a scuola insieme; poi come il solito, ciascuno era andato per la sua strada e ci si era perduti d'occhio. Nel 1866 avevo letto il suo nome tra i feriti della fazione di Monte Suello; più tardi seppi ch'egli esercitava l'avvocatura nella sua città natale, una piccola città di provincia. Pareva che non s'ingerisse nelle lotte politiche, poichè non m'era accaduto di sentirlo mai menzionare tra i candidati al Parlamento, o tra i consiglieri provinciali, tra i pubblicisti, o tra gli oratori dei meetings. Chi sa? Forse, non era nemmeno cavaliere. Come le apparenze ingannano! A scuola gli si sarebbe presagito un luminoso avvenire. Imparava ogni cosa prestissimo, scriveva con buon gusto, parlava con facilità, e teneva, se non il primo, uno dei primi posti.
Un affare mi conduceva adesso nella città e nella casa di Federico.
Lo trovai alquanto mutato, ma non era da meravigliarsene; in quindici anni ero ben mutato anch'io. Egli aveva la cera pallida, l'aria trista e patita, la barba e i capelli brizzolati di bianco.
Il nostro incontro fu cordiale ma senza straordinaria espansione. Due uomini che si rivedono dopo un lungo intervallo hanno un bel corrersi incontro con entusiasmo; essi sentono subito che le amicizie non si ripigliano dove si sono lasciate.
Federico pareva anche più riguardoso di me.
—Sei stato sempre bene?—gli chiesi.
—Sì—replicò brevemente.
—E la tua ferita?
—Oh! Una cosa da nulla.
Dall'indole delle sue risposte, e dalla fretta con cui egli entrò a discorrere dell'affare che doveva formar soggetto del nostro colloquio, argomentai ch'egli fosse diventato uno spirito positivo, incapace di far altro da mattina a sera che di compulsar codici e di trattar cause. Anzi, Dio mel perdoni, giunsi fino ad accusarlo di calcolar tempo perduto tutto quello che non si può far figurare nelle specifiche.
Egli parlò per più di un'ora esaminando da tutti i lati con molto acume e molta lucidezza la questione che mi aveva chiamato da lui.
Ci mettemmo pienamente d'accordo; dopodichè egli mi chiese licenza di rovistare alcune buste per cercarvi un documento che gli occorreva.—Or ora, se vorrai, usciremo insieme—egli soggiunse. Lo disse in tuono così freddo che avrei avuto una gran voglia dì piantarlo lì, ma in quel paese non conoscevo nessuno; che dovevo fare? Mi alzai da sedere, diedi un'occhiata a una piccola biblioteca che non conteneva nulla di peregrino; quindi mi affacciai alla finestra.
—Che bella vista!—dissi, tanto per non restare in silenzio.
—È più bella dall'altra stanza—osservò Federico che aveva trovato il documento e mi si era avvicinato.—Passa pure.
E, tenendo aperto un uscio, mi introdusse in una camera molto semplice ma molto pulita, dalle cui finestre lo sguardo abbracciava un'ampia distesa di colline e di ville.
—Tu dormi qui?—gli chiesi.
—Sì. È la mia camera da letto.
—Come dev'esser piacevole aprir gli occhi la mattina e vedersi davanti questo immenso orizzonte!
—Voi a Venezia non ci siete avvezzi. Però adesso c'è troppo sole—egli continuò—e bisogna abbassar le tendine.
Mentre Federico eseguiva questa operazione, i miei occhi si fissarono a caso sopra un orologio a dondolo ch'era collocato su un canterale e che segnava le sei e quindici minuti.
—Oh—diss'io—quell'orologio è matto.
—È fermo—egli rispose in furia come se le parole gli bruciassero la lingua.
Era un orologio di forma antica il cui disco cilindrico poggiava su due colonnine d'alabastro coi piedestalli e i capitelli di bronzo. Sulla mostra di maiolica erano incisi il nome della fabbrica e l'anno di fabbricazione—1822.
—È un oggetto da museo—ripresi ridendo, e mi chinai per vederne più da presso il meccanismo. Non so se facessi atto di prendere fra le dita il capo di un cordoncino che pendeva fra le colonne. So che Federico mi afferrò il braccio e mi gridò:—Non lo toccare!—con tale un accento ch'io mi voltai in sussulto, temendo quasi di aver dato fuoco a una miccia.
—In nome del cielo, che cosa c'è?—sclamai sbigottito.
—Perdonami—rispose il Vivaldi con voce più calma e tentando di comporre le labbra a un sorriso.—Avevo paura che tu movessi le lancette di quell'orologio.
E mentr'egli pronunziava queste parole, i suoi occhi s'innondarono di lagrime.
Lo guardai commosso ma senza osare d'interrogarlo, giacchè egli non mi sembrava disposto alle confidenze.
Ci fu un buon minuto di silenzio, e mi parve un secolo.
Alla fine Federico incrociò le braccia e sì appoggiò alla spalliera di una seggiola volgendosi verso di me.
—Ti ricordi—egli mi disse—di venti anni fa quando passammo la domenica e il lunedì della Pentecoste in villa di Fausto Rioni, presso Sacile?
—Sicuro che me ne ricordo—replicai, non intendendo bene ove egli volesse mirare.—Fausto Rioni che adesso è deputato... Ho perso di vista anche lui.
—E quella nostra salita sul ciliegio, te ne rammenti?
—Aspetta che mi raccapezzi... ah sì... sì.
—Era il dopopranzo della domenica. Noi due ci si era arrampicati lì in alto e intanto una mezza dozzina di fanciulle stavano a' piedi dell'albero, e gridavano—Coraggio dunque! Fate le cose a modo.—E noi spiccavamo le ciliegie fin dove ci si poteva arrivare con le mani, e poi scrollavamo i rami con quanto fiato ci restava in corpo. Era una pioggia di frutti, che le bimbe raccoglievano o nelle falde del vestito o nel grembialino spiegato... Di quelle bimbe tre erano le sorelle di Fausto, tre erano loro amiche... La maggiore poteva contare dieci anni... Era una fanciulla alta, bionda, con due lunghe treccie che le cadevano giù per le spalle... con due grandi occhi azzurri, pieni di dolcezza e d'ingenuità...
—Oh adesso che ci penso—esclamai—L'ho presente anch'io... Lascia ch'io compia la tua descrizione... Le sue treccie bionde erano annodate da due fettuccie di seta blù...
—È vero...
—Vestiva un abitino di percallo bianco con fioretti rossi...
—Sì, sì.
—La chiamavano... Oh! qui la memoria mi tradisce...
—La chiamavano Virginia.
—Sicuro, Virginia. Ebbene?
—Ebbene, parecchi anni dopo quella fanciulla divenne mia moglie.
Mi guardai intorno. La camera da letto di Federico non era una camera nuziale. Indovinai un lutto domestico:
—È morta... forse?—chiesi con esitazione.
Il Vivaldi chinò il capo con un cenno affermativo, e si portò la mano sugli occhi.
—E da poco tempo?—continuai.
—Oh... no—egli rispose—dal marzo del 1866.
—Povero amico!—diss'io commiserandolo sinceramente e rispettando un dolore che si manteneva così vivo dopo più di nove anni.
—Ma che c'entra in tutto ciò l'orologio, tu mi chiederai?—egli ripigliò dopo una brevissima pausa.
Federico aveva côlto il mio pensiero. Io stavo infatti tormentandomi il cervello per iscoprire la relazione fra la morte della Virginia e l'incidente che aveva commosso in modo sì strano l'amico mio.
—Quando la Virginia infermò—egli disse—erano sei mesi ch'io l'avevo sposata... sei mesi di una felicità senza nube... Da che male ella fosse presa, non lo so; non lo seppero i medici, non lo seppe nessuno... Ella non soffriva... moriva a oncia a oncia. Ma non lo credevamo nè lei, nè io, e facevamo piani per l'avvenire... Appena ella fosse guarita, avremmo piantato nuove aiuole di fiori nel nostro giardinetto, avremmo rimesso a nuovo, secondo le nostre modeste fortune, una parte della casa.—Per esempio—ella osservò un giorno ridendo e additando quello che tu chiamavi giustamente un oggetto da museo—per esempio sarebbe assai bene poter cambiare quell'orologio antidiluviano.—Io le promisi che avremmo fatto apposta una gita insieme a Venezia per comperare una cosa di suo gusto. Ne fu tanto contenta, la poveretta.
Eravamo noi due soli. I suoi genitori eran morti, ero orfano anch'io. Del resto, io non volevo cedere a nessuno il privilegio di vegliare mia moglie. Quante notti sedetti, senza chiuder occhio, al suo letto! Ella si assopiva, poi si destava, mi diceva una parola affettuosa e tornava a cedere al sonno. Per ore ed ore non si sentiva nella camera che il suo respiro e il tic-tac dell'orologio. Quanto a me, se non fosse assurdo, direi che non respiravo neppure, tanto la mia vita era confusa con quella dell'amata creatura che mi languiva davanti.
Una notte che la vedevo più inquieta del solito, le domandai:—Ti reca disturbo il battito dell'orologio?
—Oh no—rispos'ella—tutt'altro.
Era un orologio che si caricava ogni otto giorni. Finchè la Virginia era sana, ci pensava lei; durante la sua malattia ero succeduto io nell'ufficio. Ma i patimenti del corpo e le angustie dell'animo mi avevano tolto il giusto concetto del tempo e avevano scompigliato la mia memoria; una settimana caricai l'orologio per due giorni di fila, un'altra me ne scordai affatto. Il 29 marzo del 66 era il giovedì santo. Mi dimenticherò di tutto, non mi dimenticherò mai di quel giorno. Nella mattina la Virginia aveva discorso della Pasqua precedente quando noi ci preparavamo alle nozze, così lieti da non dover invidiare i più gran re della terra.—Saremo felici anche l'anno venturo, non è vero?—ella soggiunse, e per la prima volta mi parve di avvertire nella sua voce un leggero accento dubitativo che mi mise i brividi. Il medico, dopo la sua visita, scrollò il capo, ma non accennò a nessun pericolo imminente. Sulle quattro del pomeriggio la Virginia mi pregò che le sciogliessi i capelli; i legacci le davano molestia. Obbedii, e le sue belle treccie bionde le scesero giù per le spalle.—E pensare che bisognerà tagliarle se guarirò.—Ella vide l'espressione desolata del mio volto e corresse la frase— quando guarirò.—Indi mi disse:—Apri un momento la finestra. È ormai la primavera.—Io mi movevo come un automa senza profferire una parola.—Oh come è bello!—ella sclamò contemplando dal suo letto parte di quell'orizzonte che tu ammiravi poco fa.—Basta, adesso... Puoi chiudere.—Ella abbassò le palpebre e cadde in un sopore. Le sedetti vicino prendendole una mano che penzolava fuor delle coltri. Il suo alito era lieve lieve; nel suo volto c'era una pace di paradiso. Avrei voluto chiamar qualcheduno, ma mi sentivo come inchiodato sopra la sedia. Andava facendosi buio; la luce che penetrava nella camera attraverso le stecche delle persiane diveniva sempre più debole. L'orologio misurava gli eterni minuti col suo uniforme tic-tac, tic-tac.
Ad un tratto il tic-tac cessò.
—L'orologio s'è fermato—disse la Virginia con voce quasi impercettibile.
Nello stesso tempo ella mise un sospiro, e la sua mano, prima si agitò con un tremito, poi si irrigidì nella mia...
Accorse gente, si accesero i lumi. Virginia era morta. L'orologio, fermo, segnava le 6.15... Tu piangi, amico mio?... Oh lo so che tu avevi sempre buon cuore.
Federico mi baciò più volte singhiozzando. Quand'egli si fu alquanto calmato—Non so come le sopravvissi—egli soggiunse.—Per buona fortuna non tardò a scoppiare la guerra. Corsi subito ad arruolarmi con Garibaldi, invocando una palla che mi togliesse di pena. Sa Iddio se l'ho cercata, ma non trovai che una palla spuria... la quale mi ferì ad un braccio... Quando potei lasciare l'ambulanza era già sottoscritto l'armistizio... Tornai a casa ove secondo i miei ordini nessuno aveva toccato l'orologio..... Mi rassegnai a vivere ma non c'è più gioia per me... orsù, vuoi uscire?
Mi offrì un sigaro e mi prese per il braccio.
Allorchè fui sulla soglia non potei a meno di voltarmi indietro. L'orologio, fermo, segnava le 6.15.
[220][221]
LA LETTERA DI MARGHERITA
[222][223]
È una sera di dicembre. Il signor Massimiliano Nebioli, uomo sui sessanta, che porta parrucca ed occhiali, è seduto, con tanto di muso, dinnanzi alla tavola del salotto da pranzo, e legge la Gazzetta di Venezia, lagnandosi di tratto in tratto perchè il lume a petrolio non fa abbastanza chiaro, o fuma, o scoppietta. La signora Gertrude sua moglie è sprofondata in una poltrona vicina alla stufa e sonnecchia, o fa le viste di sonnecchiare.
Di fuori è un tempo d'inferno. Piove, nevica e soffia un vento di tramontana da intirizzire. È una di quelle notti nelle quali i felici del mondo, ravvolgendosi fra le coltri, mettono filantropiche esclamazioni:—Poveretti quelli che non hanno fuoco da scaldarsi, nè panni da coprirsi, nè un buon bicchiere di vino da rifocillarsi il sangue! Poveretti i poveretti, insomma!—Poi uno sbadiglio, una stiratina di braccia e tutto è finito.
Qualche volta il vento è così forte che ne tremano anche le doppie impannate del salotto e le tendine di lana si agitano con una leggera ondulazione. La fiamma del lume approfitta di questi momenti critici per dare un piccolo guizzo e il signor Massimiliano brontola più forte e protesta contro la servitù che non sa chiuder bene le finestre.
—Bisogna metter dell'altra legna nella stufa—egli dice a un certo punto rivolgendosi a sua moglie. Ella, che obbedisce a suo marito come un cagnolino, si alza dalla poltrona, tira il campanello, poi torna al suo posto. Un osservatore attento noterebbe due cose: primo, che la signora Gertrude ha gli occhi rossi; secondo, che nel tragitto dalla poltrona al sofà ov'è il cordone del campanello, ella cammina in modo che il suo consorte non possa vederla in viso. Guai a lei s'egli s'accorgesse ch'ella ha pianto!
All'appello della padrona è accorsa la Marina, la vecchia cameriera di casa, col naso rosso dal freddo, con le mani conserte sotto il grembiale e con la testa sprofondata fra le spalle, come lumaca che ha ritirate le corna. La Marina non ha neppur ella un viso allegro, effetto forse della stagione.
—Fate dell'altro fuoco—ordina la signora Gertrude.
—E chiudete meglio le imposte—soggiunge il signor Massimiliano.
—Ma se son chiuse benissimo—dice la cameriera.
—Niente affatto; venite qui e sentirete che arietta.
—Sfido io, col vento che c'è fuori. Vorrei che passasse un po' in sala... Che Siberia!
—È una Siberia anche qui... Non sapete nè accendere la stufa nè chiudere le finestre.
La Marina, che ha la lingua lunga, sta per replicare, ma è trattenuta da uno sguardo supplichevole della padrona. Così ella ringhiotte le sue osservazioni, e inginocchiata davanti la portella della stufa caccia della nuova legna tra le bragie, e con le molle, col soffietto e un poco anche col fiato, raccende il fuoco, che divampa allegro e rumoroso e illumina la parete.
—Avete aperto il registro, per Dio?—grida in tuono burbero il signor Massimiliano.
—Eh mi pare che se non lo avessi aperto, a quest'ora ci sarebbe già la stanza piena di fumo.
—So che non fate mai nulla a modo—continua il signor Nebioli per giustificare la sua diffidenza.
Questa volta la Marina non può reprimere un lunghissimo auff, che però, a uno sguardo della signora Gertrude, ella fa terminare in uno starnuto.
Appena ella è uscita il signor Massimiliano brontola:—Petulante!
Poi torna a immergersi nella lettura della Gazzetta, commentando da sè le notizie:—Arnim fu condannato a tre mesi di carcere. Ci ho gusto. Non c'è modo di governare se non c'è rispetto per l'autorità. Ormai ciascuno vuol fare il suo talento. I popoli non vogliono obbedire ai governi come i figliuoli non vogliono obbedire ai genitori. Bel mondo!
La signora Gertrude trasse un sospiro dal petto.
—Che cosa c'è?—ripigliò il signor Massimiliano.—Hai perduto la parola? Adesso in casa non si discorre che per sospiri.
—C'è proprio da stare allegri—insinuò timidamente la signora Gertrude.
—Cominciamo coi soliti piagnistei—disse l'ameno signor Nebioli, sbattendo con forza la Gazzetta sulla tavola.
—Vedi se non è meglio ch'io mi taccia?
—Meglio niente affattissimo... Si discorre tranquillamente, quietamente come fanno gli altri... come faccio io... Ed eccoci da capo a piagnucolare... Vorrei sapere che cosa ci sia di speciale stassera...
—Nulla, nulla...
—Nulla un cavolo... sentiamo, via.
—C'è, c'è... che penso alle belle feste che ci si preparano.
—Oh corpo di un cannone! E ne ho colpa io se passeremo le feste male?
—Chi dice questo?
—Sono io che ho detto alla nostra figliuola di scapparci di casa? Sono io che l'ho gettata in braccio ad uno spiantato, ad un brigante, ad un ladro?...
—Massimiliano, per carità, quanto all'essere uno spiantato non c'è dubbio, ma un ladro poi, un brigante...—osservò la signora Gertrude con un coraggio di cui ella stessa non si sarebbe creduta capace.
Infatti suo marito andò su tutte le furie:—Già lo so che tu lo difendi, già lo so che tu trovi degnissima di lode la condotta di quei due signori...
—Ma no, Massimiliano, no...
—Ah non è un ladro, non è un brigante... Sì che è un ladro, è un ladro di fanciulle; sì che è un brigante, perchè assassina una famiglia... E poi ci sono questi conforti! Quando si mette in campo un tale argomento, quando si ragiona, madama prende le parti dell'avventuriere e della figlia insubordinata... Avrei voluto vedere io se lei avrebbe consentito a farsi sposare in quella maniera, avrei voluto vedere se il suo signor padre mi avrebbe passato buono un tiro simile a quello di colui! Mi si è pesato e ripesato su non so quante bilancie, e ci mancò poco che non mi si rimandasse pei fatti miei perchè non avevo blasone. La signora era contessa, e ci teneva...
—Oh Massimiliano, come puoi dir questo?
—Ci teneva tanto che il suo più bel sogno era quello di far contessa sua figlia, di darla ad un nobile... Va là, cara, che l'hai trovato il genero nobile.
—Senti, Massimiliano, hai ragione, sono stati crudeli, sono stati infumi, se vuoi, ma quel lasciarli patire... ricchi come siamo.
Il signor Nebioli tornò a scoppiare come una bomba:
—Nemmeno un centesimo non voglio dar loro finchè vivo, no, nemmeno un centesimo... Quando sarò morto s'ingrasseranno a loro agio... Già lo so che molti desiderano la mia morte... Ma io voglio farli aspettare un pezzo, perchè al mondo mi ci trovo benissimo... Se non fossero questi piagnistei che ho in casa.
E alzatosi dalla seggiola si mise a passeggiare su e giù per la stanza.
La signora Gertrude si alzò ella pure. Ella era combattuta fra la soggezione straordinaria che le aveva sempre inspirato suo marito, e il convincimento che la severità di lui era eccessiva e ch'ella non faceva opera di buona madre obbedendogli in tutto. Le si spezzava il cuore a pensar che sua figlia, a tanti chilometri di lontananza, non aveva forse modo di render meno squallido il suo desco per le feste del Natale. Ella avrebbe potuto mandarle qualche cosa di soppiatto, ma non sapeva nasconder nulla a Massimiliano, e Massimiliano non voleva neppure ch'ella scrivesse alla ingrata, alla perfida Margherita. E sì ch'egli l'aveva amata tanto questa figliuola, l'aveva fatta regina del suo cuore e della sua casa; burbero con tutti, era stato con lei dolce, compiacente, le aveva prodigato mille doni e mille carezze! E l'amava ancora, ed era soltanto la sua indole puntigliosa e caparbia che gl'impediva di perdonarle. Ma aveva i suoi momenti di debolezza ed erano appunto quelli in cui egli prorompeva con maggiore violenza. Sentendo che il fuoco andava languendo, lo attizzava egli stesso, si scagliava senza misura contro i colpevoli e quando li aveva colmati di vituperii tornava a persuadersi che il loro delitto era stato ben grave. Una donna più avveduta della signora Gertrude, anzichè atterrirsi di queste sfuriate, avrebbe dato loro il vero significato, le avrebbe accolte come sintomi di resipiscenza, e sarebbe tornata vigorosamente alla carica. Ma ella si ritirava subito impaurita e si limitava a piangere in silenzio e di nascosto. Il suo unico conforto era quello di non opporsi a suo marito, di seguire in tutto i suoi desiderii. I deboli non si accorgono mai che anche i despoti hanno qualche volta il desiderio di esser contraddetti, e che se non lo manifestano gli è perchè temono di perdere la riputazione di fermezza a cui devono la loro forza.
A ogni modo quella sera la signora Gertrude era un po' meno timida del consueto. Ed ella si spinse fino a dire con un fil di voce:—Non si potrebbe almeno per queste feste?...
—No, no, tre volte no—proruppe il signor Massimiliano dando un gran pugno sopra il pianoforte. Era un pianoforte a coda, di molto prezzo, ch'era stato comperato parecchi anni addietro per la Margherita. Ma dacchè la Margherita se n'era andata, nessuno l'aveva più aperto, nessuno aveva sentito più la sua voce armoniosa. Ora soltanto, al colpo che ne scuoteva tutta la compagine, le sue corde mandarono un gemito lungo lungo, che parve come un richiamo ai tempi fuggiti ed evocò nella malinconica stanza l'immagine della gentile fanciulla.
Le ultime vibrazioni di quel suono si perdevano nell'aria quando si udì una grande scampanellata.
—Chi viene questa sera?—sclamò il signor Massimiliano, fermandosi in mezzo al salotto con l'atteggiamento d'un cane di guardia che sente il calpestio di passi sconosciuti.
Anche la signora Gertrude tese l'orecchio:—Chiudono la porta.
—Quella stupida servitù avrà certo aperto senza veder prima chi sia—osservò il Nebioli pronto sempre ad interpretare ogni cosa nel modo meno benevolo.
Intanto dal di fuori s'intese una voce:—Non c'è bisogno che mi annunziate. Mi presento, da me.
—È la voce del dottor Beverani—disse la signora Gertrude, pallida ed inquietissima.
—Il dottor Beverani! Che cosa può volere?—masticò fra i denti il signor Massimiliano corrugando la fronte.
Si spalancò l'uscio ed entrò un uomo alto e grosso, col bavero tirato su fino agli occhi, col cappello in testa e con le mani sprofondate nelle tasche della pelliccia. E sulla pelliccia e sulle falde del cappello si andavano liquefacendo larghi fiocchi di neve.
—Buona sera! Buona sera!—disse il nuovo arrivato.—Domando scusa se entro così, ma fa un tal freddo che non ebbi il coraggio di levarmi il soprabito nell'andito.
Il signor Nebioli avrebbe avuto una gran voglia di mandare a spasso l'incivile che veniva a colare come una grondaia nel suo salotto da pranzo, ma il dottor Beverani era una persona di riguardo, medico di casa da un pezzo, socio di più accademie, cavaliere di più ordini, e non conveniva usargli scortesia. Inoltre la sua visita non era certo senza grave motivo e destava una legittima curiosità anche nel signor Massimiliano.
Il dottore spiegò tranquillamente sopra una sedia la sua pelliccia, depose sopra un'altra il suo cappello e poi si appoggiò con la schiena alla stufa.
—Ah qui si respira un'altra aria—egli esclamò soddisfatto.—Dunque, con più calma, buona sera, signora Gertrude, buona sera, Massimiliano.
La signora Gertrude rispose un timido— buona sera —e suo marito emise alcuni suoni inarticolati.
Però il dottor Beverani non parve curarsi di questo gelido saluto, ed egli continua:—Beati quelli che possono far salire a forza di legna il termometro a dodici gradi! Fuori siamo a tre o quattro gradi sotto zero..... Fui or ora in una casa di poveri ove c'erano dei bambini che tremavano di freddo da far compassione. Un locale terreno, senza vetri alle finestre, un focolare spento, e lungo una parete due pagliericci senz'altre coperte che di miseri cenci. Su una sedia, ravvolta in uno scialle sdrucito, una vecchia con la febbre addosso. Ha una bronchite di cui potrebbe anche guarire se andasse all'ospedale...
—E perchè non ci va?—chiese il Nebioli infastidito.
—Perchè la mamma dei bimbi è morta l'anno passato, e durante il giorno quando il padre lavora, o chi guarderebbe quelle creaturine? Eh! A chi sta sdraiato nel suo seggiolone vicino al caminetto, la filosofia è facile e con un paio di sentenze si accomoda tutto... Ma quando le cose si vedono dappresso, allora è un altro paio di maniche... I comunisti han torto, ma nondimeno, una volta all'anno, in inverno, divento comunista anch'io....
—Tanto fa petroliere—saltò su il signor Massimiliano—ma, scusate, non siete venuto a farci visita che per narrar queste malinconie?
—No davvero, per quanto piacere abbia di veder voi e la signora Gertrude, non mi sarei spinto fin qui senza una ragione seria, in mezzo al vento e alla neve.
—Vergine Santa!—sclamò la signora Gertrude—ho in cuore il presentimento di una disgrazia.
—E che disgrazie volete che ci siano?—urlò suo marito per dissimulare, secondo il solito, con le grida, l'inquietudine che si era impadronita anche di lui. E avrebbe continuato nei medesimo tuono, se il dottor Beverani non avesse preso subito la parola.
—No, no, buona signora—egli disse avvicinandosele e prendendole ambe le mani—non ci saranno disgrazie. Ho una lettera da consegnare...
—Una lettera? Per me dunque?—interruppe il signor Massimiliano.
—Per voi e per vostra moglie... La persona che scrive vuol essere sicura che la lettera sia giunta nelle vostre mani... Ha scritto ancora, e...
—E non voglio veder nulla—gridò il Nebioli voltandosi da un'altra parte.—Ho capito chi è la persona che scrive; ella è morta per me.
La signora Gertrude avrebbe dato dieci anni della sua vita per trovare un lampo di energia in quel momento, per farsi consegnar quella lettera, per aprirla, per baciarne i caratteri; ma era inutile, ella ormai non sapeva che piangere. E si nascose il volto fra le palme e soffocò i suoi singhiozzi.
Il dottore non ismarrì punto la sua calma alle brusche risposte del vecchio bisbetico, ma estrasse di tasca la lettera e ripigliò:—Voi leggerete questo foglio, Massimiliano.
—Vi dico di no—rispose costui, dando però un'occhiata di sbieco alla sopracoperta che il medico aveva avvicinato al lume.
—O lo lascierete leggere a vostra moglie.
—Nemmen per idea.
—Allora lo leggerò io... La Margherita me ne dà facoltà... Fatemi portare una candela perchè alla luce del petrolio io non leggo...
—Vi ripeto—cominciava il signor Massimiliano, quando il dottore lo interruppe senza riscaldarsi, ma con una certa aria di autorità:
—Io spero che il medico di casa avrà il diritto di farsi portare una candela e di leggere una carta. Signora Gertrude, abbia ella la bontà di suonare il campanello.
—Non ce n'è alcun bisogno—disse il vecchio dispettosamente. E rivoltosi a Gertrude:—Se vuole una candela, accendigliela; sulla credenza ce ne sono due... che fai lì come una statua? Santa pazienza!
Il dottore teneva sempre la lettera fra le dita; il signor Massimiliano gliela strappò con un impeto subitaneo.
—Sapete dove meriterebbe di andar questa lettera? Nella stufa.
Quantunque il Beverani fosse certo che una tale minaccia non avrebbe avuto effetto, egli ficcò gli occhi addosso al suo cliente, che pareva magnetizzato da quello sguardo e passava la lettera da una mano all'altra dopo averla tirata fuori dalla sopracoperta ch'egli stracciò in minutissimi pezzi.
Intanto la signora Gertrude faceva inutili sforzi per accendere il lume. Le sue mani tremavano ed ella non riusciva a tener fermi i fiammiferi vicino al lucignolo.
—Lasci fare a me, buona signora—disse il dottore accostandosele con bontà.—Torni a sedere e si rinfranchi.
—Quella fraschetta ha tempo da perdere—osservò signor Massimiliano che aveva spiegato la lettera e l'aveva scorsa rapidamente con l'occhio.
—Dodici facciate fitte! E che scrittura! Figlia pessima in tutto, anche nella calligrafia!
E gettò con aria sprezzante i foglietti sopra la tavola.
—Son qua io—prese a dire il dottore che si avvicinava tenendo in una mano la candela, e trascinando con l'altra una sedia.—Non m'ero già offerto di farvi io la lettura?
—Se volete leggere, fate il vostro comodo. Nè io, nè mia moglie non aspettiamo lettere, non vogliamo saperne... Per me riprendo la Gazzetta —replicò il Nebioli, quantunque con tuono alquanto più rimesso. E sedette fingendo d'immergersi nuovamente nel giornale.
—Va benissimo—disse il dottore senza scomporsi. Spinse verso la tavola la poltrona della signora Gertrude, le accennò di prendervi posto, estrasse dal taschino del panciotto un paio di lenti, le inforcò al naso dopo averle forbite col fazzoletto e poi cominciò:
« Caro babbo, cara mamma,
«Dopo tanti mesi torno a scrivervi. So che non mi risponderete e non oso chiedervi che mi rispondiate, ma in ogni modo seppure ho rinunciato alla speranza di ricevere una vostra lettera e forse di vedervi più mai, non voglio lasciarvi credere ch'io mi sia dimenticata di voi, ch'io non vi ami più.
—Si può dare un esordio più pretenzioso?—brontolò il Signor Massimiliano alzando gli occhi dalla Gazzetta.—Ancora ha ragione lei.
—Attendete alla vostra politica—disse il medico.—No, signora Gertrude, non pianga così!
E ripigliò la lettura.
«Son così piena di brighe che Dio sa quando finirò questa lettera che comincio oggi; dunque non ci metto nemmeno la data. A ogni modo voglio ch'ella vi arrivi prima del Natale, prima di quel Natale che mi desta in cuore una folla di pensieri e di ricordanze. Come volano gli anni! Mi par ieri quand'ero bambina e la povera nonna, facendo capolino col suo gran cuffione bianco dall'uscio della sua camera, mi chiamava misteriosamente con un cenno del capo e tirava fuori dal cassetto una bambola nuova. Mi par ieri quando si preparava l' albero con la mamma, e i cugini e le cugine venivano a passar la serata in casa nostra. Anche il babbo si metteva di buon umore, e io dicevo a tutti: non è vero che il babbo sia burbero; vedete? egli ride. E ho negli orecchi lo scampanio delle chiese che mi faceva sognare un mondo nuovo e mi empiva lo spirito di visioni dolci e solenni, onde stentavo tanto a dormire, ed ero così beata della mia veglia! Ahimè! La nonna è morta, i cugini e le cugine si sono dispersi, io ho cessato da un pezzo d'essere una bimba e non sono più con voi altri.
Il signor Massimiliano si raschiò in gola e poi starnutì.
—Felicità!—disse il dottore.
«... Non sono più con voi altri. Ebbene, babbo e mamma, se non sono più con voi altri, abbiatevi almeno i miei augurii per le feste che si avvicinano e per l'anno che sta per nascere... Ch'esso vi porti tutte le gioie, ch'esso vi faccia dimenticare tutti i dolori...
—Parole, parole... Roba che si trova nelle antologie—sclamò il Nebioli.
«Di questi dolori, lo so, io ve ne ho recato uno grandissimo, ho disposto del mio cuore contro i vostri desiderii e quando vi trovai inflessibili, vi ho disobbedito. Era il mio primo atto di ribellione, ma, lo confesso, era un atto ben grave. O genitori miei, se io vi dicessi che per risparmiare le vostre lagrime avrei dato il mio sangue, voi non mi credereste...
—No sicuro.
«... Eppure io direi il vero. Ma ciò che non potevo darvi era la mia fede, perchè non si riprende la fede giurata, perchè io amavo Ugo con tutto il trasporto dell'anima mia, come l'amo ancora, come spero di amarlo fino all'ultimo giorno della mia vita. Iddio vorrà concedermi questa grazia, di farmi morire appena o l'amor mio si raffreddi, o si raffreddi l'amor d'Ugo per me.
—Declamazioni da romanzo! Ecco che cosa si guadagna a lasciar leggere cattivi libri alle ragazze. Ma mia moglie...
Gli occhi del signor Massimiliano s'incontrarono con quelli della povera donna i quali nuotavano nelle lagrime ed esprimevano una desolazione così profonda ch'egli troncò a mezzo la frase e prese in mano la Gazzetta, sottraendo in tal guisa la faccia agli sguardi indiscreti. Solo si stentava a comprendere com'egli potesse continuare a leggere un foglio, che, tenuto a quel modo, pareva dovesse servirgli da paralume.
Il dottor Beverani fece le viste di non accorgersi di tutte queste manovre e proseguì:
«Del resto, qual sia la mia colpa, per mesi e mesi dopo fatto il gran passo, io sperai nel vostro perdono, sperai che mi avreste riaperte le braccia, attesi una parola vostra. «attesi almeno nuove rampogne... Ohi! Il silenzio è peggiore assai dei rimproveri.... Basta!... Io non vi accuserò di durezza...
—Già, si scambian le parti, è creditrice lei—disse il Nebioli senza mutar posizione.
«No, voi siete sempre il mio buon babbo e la mia buona mamma, e io mi figuro di chiacchierar con voi, come facevo una volta, quando tu, babbo, mi conducevi alla domenica in piazza, e quando con te, mamma, si facevano le nostre lunghe passeggiate fino ai Giardini... Te le ricordi? Con chi esci adesso, la mia povera mamma? Conduci teco la Marina, forse?... Oh, nell'inverno, come si ritornava contente a casa! Oh i bei tramonti dietro la cupola della Salute!... Qui in questo romitorio a cui non si arriva che dopo due ore di mulo, si va sui cosidetti bastioni, e non c'è altro... Due filari di platani, quattro panche di legno, e intorno montagne da tutte le parti, e giù nella valle campi poveri di vegetazione e un fiumicello che pare un fosso. Il sole ha fretta di andarsene; c'è un monte alto, sassoso, sgarbato che ci affretta la sera almeno di due ore. E quando il sole è sparito, che aria fredda, sottile! Brr!
«Però a passeggiare io ci vado poco. Ugo è così stanco quando viene a casa, e io pure, sapete, sono stanca. Lavoro dall'alba fino a sera... C'è stata una interruzione, ma ne parleremo dopo.
«Smetto un momento, indovinate perchè? Perchè sento la pentola che bolle e voglio ritirarla dal fuoco... Vi scrivo dalla cucina... Altro che il mio studio con le sedie imbottite! Tutto il nostro quartiere consiste in questa cucina e in una cameruccia.
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«Fra la riga precedente e questa c'è corso un intervallo di due giorni. Non ebbi un minuto di libertà. Ugo fu in letto con un po' di febbre. Egli sapeva ch'io avevo sul telaio una lettera per voi altri e mi sollecitava a finirla, ma io ero così apprensiva che non sapevo tener la penna in mano. Grazie a Dio, tutto è terminato.
«Ah, volevo dire alla mamma che non c'è di meglio per diventar brave massaie che il dover farsi tutto da sè... Serva io non ne ho, potete immaginarvelo; la fantesca della mia padrona di casa viene la mattina per un paio d'ore; poi rimango io sola. Ho imparato a spazzare, a stirare, a cucinare.... In quest'ultima funzione riesco a meraviglia. Ugo mi dice sempre: se ci fosse la materia prima, che buoni piattini uscirebbero dalle tue mani! Ma quella che egli chiama la materia prima non c'è... Qualche volta, in confidenza, sui venticinque o ventisei del mese, c'è alla mattina una preoccupazione nuova, curiosa, vale a dire se ci sarà da pranzo. Vi confesso che questo dubbio produce un effetto strano...
—Povera Margherita!—esclamò con voce flebile e con un gemito la signora Gertrude.
Il dottore, sospendendo un momento la sua lettura, rivolse gli occhi dalla parte ove si trovava il signor Massimiliano. Ma egli continuava ad essere nascosto dietro la Gazzetta.
«A ogni modo si arriva al giorno dello stipendio. Un bello stipendio in verità! Con quella gioia della trattenuta ci restano 75 lire e 45 centesimi al mese.....
—Peggio per lei!—gridò il Nebioli facendo la voce grossa.—Perchè ha lasciato la sua casa? Perchè ha lasciato i suoi genitori?
«E con 75 lire e 45 centesimi al mese un pover'uomo deve insegnare a sessanta bimbi, asini e cocciuti, provvisti di babbi più asini e più cocciuti di loro. Il segretario comunale ha levato il saluto a mio marito perchè non giudicò degno del premio suo figlio che in un anno non aveva ancora imparato a scrivere caro senza l' h. E il sagrestano lo guarda in cagnesco perchè egli osò mettere in burla il suo illustre rampollo, il quale un giorno in iscuola disse che il Tevere è la capitale d'Italia. C'è finalmente il barbiere, che attribuisce la caduta del suo primogenito all'esame a mene consortesche! Ho proprio paura che abbia ragione il brigadiere dei carabinieri, un lombardo, che quando mi vede mi dice sempre: Che la mi creda, signora, l'è minga un paes per lee.
«Ho dovuto, volere o non volere, far la conoscenza delle signore del luogo. Ne conosco una ventina; dieci di esse non sanno leggere affatto; dieci leggono soltanto lo stampato, quattro anche il manoscritto. Che sappiano scrivere non ce ne sono che tre. Al mio arrivo s'è fatto un gran mormorare perchè ero troppo elegante, e un giorno in chiesa, mentre il curato predicava contro il lusso, tutti gli sguardi si sono rivolti su me. Avevo ancora l'abito di piquet violetto che mi hai fatto fare nel settembre dell'anno passato..... Adesso, sta tranquilla, mamma, che non pecco per eccesso di vanità. Ho venduto a un merciaiuolo ambulante il vestito violetto, il mio spillone a mosaico, i miei coralli..... ah i miei coralli m'è costato a venderli; me li avevi regalati tu quando compivo diciott'anni; ma come si fa?... C'erano spese indispensabili, urgenti..... Insomma sono ormai come le altre, quantunque mi facciano l'onore di dirmi che ho qualchecosa che non hanno le altre. Ho il chic, sentenziò la moglie del pretore che sa due parole di francese.
«A proposito di francese, il babbo non mi rimprovererebbe più di aver sempre libri francesi per le mani. Qui non vi sono libri in nessuna lingua, quando se ne levi qualche libro di devozione, e la cabala del lotto. Al caffè ci sono due giornali, ma un terzo ne riceviamo noi altri (è l'unico nostro lusso) e indovinate che giornale è? Il Rinnovamento, a cui Ugo s'è fatto associare da un suo amico di costì per compiacermi. Quando quel foglio arriva a questo romitorio dopo due giorni di viaggio, mi par che capiti un amico a darmi novelle della mia Venezia, de' miei parenti, e benedico a chi ha inventato i giornali. Guardo lo Stato civile, i matrimoni, le morti, guardo i pettegolezzi, le feste da ballo, le baruffe, le serenate sul canal Grande, e vivo ancora nella mia piazza, nelle mie calli, nei miei campi, negli sfondi misteriosi de' miei rii. E sento venirmi le lagrime agli occhi, ma le asciugo presto, perchè i poveri, e ormai sono povera anch'io, non hanno tempo da piangere, non hanno tempo da cullarsi in fantasie malinconiche. Adesso poi.....
«Ah sì, avevo il capriccio di darvela soltanto per poscritto la grande novella, ma non posso indugiare di più e quasi quasi la penna scrive da sè.....»
Il dottore Beverani fece una piccola pausa; la signora Gertrude lo guardò con trepida ansietà e il signor Massimiliano tese gli orecchi.
«La grande novella è questa, che al 15 del passato mese di novembre, alle 9 precise di sera, ho dato alla luce un bambino....»
Il Nebioli lasciò cader di mano la Gazzetta, sua moglie si alzò in piedi e appoggiandosi alla spalliera della sedia del medico cercò di leggere nel foglietto ch'egli teneva spiegato davanti; ma i suoi occhi indeboliti e velati dal pianto non vedevano che una gran confusione nella fitta e scapigliata calligrafia della figliuola.
—Un bambino!—esclamò il signor Massimiliano—come mai?
—Probabilmente come le altre donne—rispose ironicamente il dottore.—Ma forse dirà ella stessa qualche cosa di più.
E riprese la frase interrotta.
«.....Un bambino il quale sebbene nato in sette mesi.....»
—Quando s'è maritata la Margherita?—chiese il vecchio brontolone in tuono aspro a sua moglie.
—Non lo sai? In maggio—disse la signora Gertrude.
—Già, il mese..... ah stavo per dirla grossa. Maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre..... Per fare i sette mesi bisogna metterci della gran buona volontà.....
—Via, mettetecela—disse il dottore. E continuò:
«Il quale sebbene nato in sette mesi è vispo e robusto e a cui ho dato il nome di Massimiliano.»
Il signor Nebioli fece spalluccie in segno di indifferenza, ma nello stesso tempo si soffiò due volte il naso rumorosamente, e alzatosi dalla sedia si mise a passeggiare per la stanza.
—Massimiliano—disse con accento commosso la signora Gertrude,—la senti? Gli ha dato il tuo nome.
—Commedie! commedie!
—Dottore, interponga lei una buona parola—soggiunse a mezza voce la povera donna. Ma egli le accennò ch'era meglio finir la lettura.
«Voi non vi aspettavate di diventar nonni così presto, e giudicherete strano che nelle altre due lettere scrittevi io non vi annunziassi quello che si preparava. È giusto, ma non so perchè, io m'ero fitta in capo di farvi un'improvvisata a cose compiute. Speravo davvero che questa creaturina sarebbe stata un maschio (noi donne siamo tanto sfortunate) e pensavo che forse anche babbo, se avessi potuto dirgli: ti è nato un nipotino, avrebbe spianato la sua fronte severa. Per amore di lui, babbo, se non per amor mio, perocchè egli, poveretto, colpe non ne ha. Le sue manine sono pure, i suoi occhi sono innocenti come quelli degli altri bimbi; o perchè dunque troverà egli, al suo entrare nel mondo, meno affetto, meno sorrisi, meno baci ad accoglierlo? Se il vostro cuore dev'essermi chiuso per sempre, oh non sia chiuso almeno per esso. Io gli insegnerò ad amarvi, le prime preghiere che i suoi labbri di rosa alzeranno al Signore saranno per voi; fate che io possa dirgli che voi pure gli volete bene, che voi pure qualche volta, tra le pareti della casa ov'io nacqui, pronunciate con dolcezza il suo nome e gli inviate un saluto col mezzo degli augelli che volano, delle nubi che passano, e lo raccomandate al buon Dio che protegge i bambini.
—Oh dottore, dottore, non ne posso più—esclamò la signora Gertrude rompendo in un pianto dirotto.
—Già le donne non sanno altro che piangere,—urlò il Nebioli che voleva mostrarsi impassibile.—Lancialo finire per Dio... Avanti, avanti, Beverani..... La mia signora figliuola ha la penna spedita come la lingua.
E continuò a misurare in lungo ed in largo il salotto, guardando di tratto in tratto la sua ombra sulla parete e dando segni frequenti di essere molto infreddato.
Il dottore indirizzò una parola affettuosa alla signora Gertrude, indi proseguì:
«Assicurano ch'egli mi somiglia; io non lo, so che mi par tanto bello. Potete immaginarvi che lo allatto io stessa; a trovare una balia si dovrebbe girar mezza provincia, e poi dove ci sarebbero i quattrini da pagarla? Già in questi paesi è sempre necessario di applicare il proverbio: Chi si aiuta, Dio l'aiuta. Se la mamma fosse qui, gliene racconterei di curiose circa al gran momento in cui il signorino è nato. Figuratevi che di levatrici non ce ne sono, ma c'è almeno una dozzina di femmine le quali in questi casi offrono i loro servigi e assordano con le loro grida e coi loro consigli. E siccome non vanno d'accordo fra loro, finiscono quasi sempre coll'attaccar briga e col tirarsi per i capelli. Ugo ha dovuto usar la violenza per cacciarle di camera; egli ha dovuto fare una carica a fondo, come quand'era soldato di Savoia cavalleria. Quando fummo rimasti soli noi due, egli era pallido, aveva la febbre addosso, e mi chiese:—Margherita, come si fa? Quasi quasi richiamerei qualcheduna di quelle megere.—No, per carità, gli risposi—spicciamoci fra noi altri.—E stringevo la sua mano nella mia mano, e lo guardavo, ed egli guardava me con occhi pieni di lagrime, e diceva con un filo di voce:—Margherita! Margherita!—Di fuori intanto origliavano all'uscio due o tre delle più ostinate comari e gridavano ad Ugo: Signore, faccia così—No, faccia in quest'altra maniera.—Insomma, com'egli facesse lo ignoro, so che di lì a poco ho provato una calma di paradiso e ho inteso un vagito che mi disse: sei madre.
«Da quel momento (e passarono omai venticinque giorni) sono come un'altra persona e capisco che tutto quel che si dice dell'amor materno è al disotto del vero, o piuttosto non si può dirne nulla finchè non si è madri. Faccio mille castelli in aria, mi sento più ricca e non desidero ormai che due cose: di ricevere il vostro perdono e di vedere Ugo meno sfiduciato. Egli ha perduto una gran parte del buon umore che gli rendeva tollerabile la sua posizione, si affanna per l'avvenire mio, per l'avvenire del nostro Massimiliano e rimane qualche volta col bimbo in braccio senza profferir parola. Ah! odo i suoi passi. Credevo di finir questa lettera oggi, ma la finirò domani.
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«Ripiglio la penna ancora tutta sbalordita da una risoluzione che abbiamo presa con Ugo... È una risoluzione assai grave, ma Ugo dice: a mali estremi, estremi rimedi.
«Ieri egli era più mesto del consueto. Andò alla cuna del bimbo che dormiva e si chinò a baciarlo, poi mi fissò gli occhi in viso due, tre volte, come se volesse parlare e gliene mancasse il coraggio.—Ugo, gli diss'io in tuono di rimprovero, avresti segreti per me?—Ascoltami, egli rispose, e mi passò il braccio intorno al collo: qui non ci posso più vivere, mi ci logoro la salute e l'ingegno, e del resto m'è insidiato anche lo scarso pane che guadano. Il segretario comunale e alcuni consiglieri sono miei nemici e cospirano per togliermi il posto e mettere in vece mia una loro creatura che non avrà il torto massimo di essere forestiero. La mia dignità mi costringe a dar le mie dimissioni.—E tu dalle—io proruppi. Egli sorrise tristamente.—E poi?—E poi, replicai, si cerca un altro nido.—Senti amor mio, egli ripigliò, se per qualche mese, se per qualche tempo, io dovessi girare il mondo in traccia di fortuna, credi tu che i tuoi genitori darebbero asilo a te e a nostro figlio?»
—Sì, sì—esclamò la signora Gertrude fra i singhiozzi.
—Che ne sai tu?—interruppe suo marito con la usata ruvidezza.—Sono io che devo decidere... Vuoi scommettere intanto che quel Lucifero della nostra figliuola non si degnerebbe d'entrare in casa senza il suo illustre consorte?... Oh! ma del resto è successo ciò ch'io prevedevo... è successo appuntino... doveva finire così... Quando si sposa un disperato, un.....
—Volete lasciarmi continuare?—disse il dottore. Siamo ormai alle ultime pagine.
«Io debbo essere diventata assai pallida perchè Ugo si affrettò a farmi sedere e mi a supplicò che mi calmassi. Ma io m'ero aggrappata alla sua persona e gli gridavo con voce, affannosa che non avrei consentito a staccarmi da lui nè per un giorno, nè per un'ora, nè per un minuto, che dovunque egli andasse sarei andata anch'io, che il godere gli agi della casa paterna mi sarebbe parso un delitto, lui lontano, povero, ramingo, che perfino la gioia del vostro perdono mi sarebbe stata tolta non avendolo al fianco.
—Ero sicuro che avrebbe risposto così—disse il signor Massimiliano.—È nel suo carattere.
—Un bel carattere, confessatelo—soggiunse il dottore senza staccar gli occhi dalla lettera.
—Ma dunque, per carità, che cosa è succeduto?—chiese ansiosamente la signora Gertrude..
—Or ora vedremo—replicò il medico.
«La sua fisonomia—così proseguiva la Margherita—si fece raggiante, sparirono le nubi dalla sua fronte, sparirono dalle sue guancie i solchi che le assidue cure vi avevano scavato, egli tornò splendido di bellezza e di gioventù come nel primo giorno in cui gli diedi il mio cuore.—Me lo aspettavo, egli disse baciandomi. Tu dunque, fuor che dell'esser divisa da me, non ti sgomenteresti di nulla?—Di nulla.—Mi seguiresti anche fuori d'Italia?—In capo al mondo.—Hai paura del mare?—No.—Egli trasse allora di tasca una lettera scrittagli da un suo buon amico di Genova al quale egli si era raccomandato per un impiego. Vuoi andare a Buenos Ayres? gli chiedeva l'amico, c'è un posto presso una casa italiana. Diecimila franchi di stipendio e alloggio e vitto per te e per la tua famigliuola. Se accetti, preparati a partire col vapore che salpa da qui il 28 di questo mese.
—Vanno a Buenos Ayres! Vanno in America?—gridò disperatamente la signora Gertrude.—Massimiliano, ciò non è possibile... Massimiliano, rispondi per carità.
Il signor Massimiliano aveva smesso di passeggiare e s'era avvicinato al dottore.—Taci un momento, Gertrude—egli disse a sua moglie—sentiamo il resto.
L'inflessione della sua voce era diversa dal solito, egli che non parlava mai che per imporre, pareva quasi voler pregare. Sua moglie afferrò una delle sue mani, e coprendola di baci e di lagrime tornò alla carica:—Massimiliano, per carità, dimmi che non lascierai che la tua unica figlia vada in quei paesi remoti...
Il naturale violento del Nebioli riprese il disopra.—Vuoi tacere, per Dio? Vuoi lasciar finire questa disgraziata lettera?
La signora Gertrude aveva tanto l'abitudine di obbedire che non seppe ribellarsi nemmen questa volta; ella fece silenzio, ma continuò a tener stretta nelle sue la mano di suo marito.
«Ho pensato subito a voi—lesse il dottore con accento commosso—e dissi ad Ugo:—E i miei genitori?—Non ti hanno essi chiusa la porta della loro casa? egli replicò.—È vero.—Non hanno lasciato senza risposta tutte le tue lettere?—È vero, pur troppo, è vero. Stetti in forse ancora un istante; poi mi decisi.—Accetta e occupiamoci dei preparativi della partenza.—Egli mi gettò le braccia al collo e.....
—Ed egli è uno scellerato—scoppiò come un fulmine il signor Massimiliano svincolandosi da sua moglie e gettando in terra con gran fracasso tutto ciò che gli capitava davanti.—Non gli basta di averci rubato la figlia, vuol portarcela anche al di là dei mari, vuol farla morire di fatiche, di stenti..... Un mese dopo il parto, con un bambino da latte, le fa imprendere un viaggio a cui non reggono talvolta nemmeno i più vigorosi..... E non c'è galera per questi delitti, e non c'è forca..... Ma voi, Beverani, voi lo compatirete, voi lo difenderete, non è vero? Non si può saperla la vostra opinione?
—La mia opinione—rispose il medico—è di leggere la mezza paginetta che manca a compiere la lettera; poi vi dirò quel che farei nel caso vostro.
—Oh ci saranno le frasi d'uso..... Quelle tenerezze ridicole a cui corrisponde sì bene l'effetto..... Morale moderna!
«Egli mi gettò le braccia al collo—riprese il Beverani rileggendo la frase già letta—e mi susurrò in un bacio: tu sei un angelo.—No, diss'io, sono una donna che ti ama. Una cosa però è forza che tu mi conceda. Anticipiamo di ventiquattr'ore la nostra partenza e passiamo un giorno a Venezia. Prima di abbandonar l'Europa per non tornarvi forse mai più è necessario che io tenti almeno di vedere un'ultima volta i miei genitori. Egli mi ribaciò e accondiscese al mio desiderio. Abbiamo fatto tutti i nostri conti. Oggi è il 19, sabato. Noi partiremo di qui lunedì e saremo a Venezia mercoledì alle cinque pomeridiane.
—Posdomani!—sclamarono a una voce il signor Massimiliano e la signora Gertrude.
—Mercoledì abbraccierò la mia padroncina—gridò, battendo festosamente le mani, la cameriera che s'era introdotta pian piano nel salotto.
Il signor Massimiliano si voltò per sgridarla, ma non seppe aprir bocca.
—Non ci sono ormai che due sole righe—osservò il dottore. E lesse:
«Ci faremo condurre a un albergo, poi verremo da voi, e io non suppongo neppure che non vogliate riceverci, e vi mando in anticipazione mille baci. Ah! la mia lettera è un gran pasticcio, ma non ho più tempo di rifarla perchè ho da attendere ai miei bauli. Addio, addio, anche da parte di Ugo... Il mio bimbo si sveglia e mi chiama con un vagito... Forse vuol mandarvi a salutare anch'egli.
« Margherita.»
—Dunque Margherita sarà qui posdomani... farà il Natale con noi—disse la signora Gertrude che di tutta la lettera non ricordava ormai che questa notizia e quasi non credeva a se stessa.
—E viene anche lui? E bisognerà accogliere anche lui?—- soggiunse come parlando fra sè il signor Massimiliano.—Quel cane che vuol portarla a Buenos Ayres!...
—Che Buenos Ayres?—interruppe il dottore alzandosi in piedi.—Sapete che vi ho da dire?... Che l'alloggio di vostra figlia e di vostro genero dev'essere la vostra casa e non un albergo, che quando essi sian qui non dovete più lasciarli andar via, che la parte del tiranno l'avete fatta anche troppo a lungo, e che la vostra Margherita l'avete castigata anche troppo.....
—Dovevo anzi premiarla?
—La si è maritata a suo modo, e ha fatto male, non c'è dubbio, ma in fin dei conti le ragazze si sposan per loro e non per uso dei genitori e la Margherita trovò almeno un galantuomo...
—Non mi fate dire spropositi, Beverani. Un galantuomo che seduce una fanciulla...
—E la sposa.
—Sì, contando sul perdono del padre babbeo.
—Ci contava tanto poco che stava per andare in America.
—Baie! Non credo più al viaggio in America.
—Non ci credete? Allora vi dirò che vostra figlia mi scrive supplicandomi di prestare a suo marito 1000 lire che gli mancano a pagare i posti sul vapore.
—E voi le presterete?
—Sicuro, a meno che voi non vi decidiate a farla finita, dando a vostra figlia la dote che le avevate destinata e lasciandola vivere agiatamente con lo sposo ch'ella si è scelto....
—Oh corpo..... come avviene che tutto questo zelo vi capita da un momento all'altro?
—Mio Dio, perchè trovavo giusto in passato che la condotta di Margherita avesse la sua punizione, e trovo adesso che quella giovane ha espiato largamente i suoi falli.
—Già, voi avete la sapienza di Salomone—brontolò il signor Massimiliano.
La signora Gertrude era esterrefatta. Ella non aveva mai inteso alcuno a parlare con tanta libertà a suo marito e non sapeva intendere com'egli, malgrado tutto il rispetto pel dottore Beverani, non prorompesse in una di quelle sfuriate che le facevano venir la pelle d'oca.
Ma la cameriera Marina la confortava dicendole—Vedrà che cede..... Il padrone è così... A esser conigli non ci si guadagna con lui... E poi, la padroncina è stata sempre il suo occhio destro.
Il signor Massimiliano fece ancora quattro giri per la stanza torcendo fra le mani il fazzoletto; indi si piantò ritto ed immobile davanti a sua moglie—Invece di mandar acqua da tutte le parti come una fontana, mi sembra che potreste almeno pensare a far allestire le camere.....
—Oh Massimiliano—sclamò la povera signora, tu dunque acconsenti?...
—Io! Io! E lei, madama? In tutto il tempo dacchè nostra figlia è partita s'è mai potuto sentir da lei un'opinione franca?... Lamenti, piagnistei, sospiri e niente più di così...
—Ma mi lasciavi forse parlare?
—Via, via, non vi bisticciate, chè s'ha da stare allegri. Beninteso che voglio guadagnarci qualche cosa anch'io. Per la vigilia di Natale verrò a pranzo con voi altri—disse il Beverani.
—Oh dottore, sia benedetto, venga, venga. Le si deve tutto—replicò la signora Gertrude prendendogli la mano.
—Come volontieri le darei un bacio!—soggiunse in un trasporto d'entusiasmo la cameriera che adorava la sua padroncina.
—Troppo tardi, Marina—rispose ridendo il dottore.—Bisognava risolversi vent'anni fa quando ve l'ho domandato.....
—Che cosa va a tirar fuori!—replicò la donna facendosi rossa.
—Non c'è punto da arrossire, perchè mi avete detto di no... Ma voi Massimiliano, non mi offrite niente?
—Scusate, ma non so raccapezzarmi..... Darei la testa nei muri..... Quella lettera, quelle vostre parole..... insomma penso alla bella figura che faccio io dopo tante proteste, dopo tante dichiarazioni di fermezza..... Sia pure..... ci vuol pazienza... Marina?
—Comandi.
—Va a pigliare una bottiglia di Cipro stravecchio.
—Oh questa è una risoluzione che mi piace. Non c'è quanto un bicchierino di Cipro per far passare le ubbie. Posdomani poi a quest'ora ne beveremo un altro con la Margherita...
—Margherita, Margherita, quanto mi hai fatto soffrire e quanto bene ti voglio ancora!—disse il Nebioli. E si coprì il viso colle palme, e scoppiò in un pianto dirotto, irrefrenabile. Non ci voleva di più per far piangere nuovamente anche la signora Gertrude.
—Sta a vedere che finisco coi fare il terzo—osservò il Beverani passandosi la mano sugli occhi.
Per buona ventura entrò intanto la cameriera col Cipro. Aveva ella pure una gran voglia di commuoversi, ma il Beverani la sollecitò a non far bambinate e a sturare la bottiglia senza romperla. Quando il liquore fu mesciuto, il medico vuotò il primo bicchierino gridando:—Alla salute degli sposi e del bimbo!
Il signor Massimiliano si rasciugò in fretta le lagrime e bevette. Dopo di lui la signora Gertrude e la Marina.
—Sia ringraziato il cielo! La pace è fatta!—concluse il dottore.
Era per andarsene quando sentì la mano del Nebioli nella sua.
—Sarà per la povera famiglia di cui ci avete discorso prima—disse il ruvido vecchio lasciando scivolar fra le dita del medico un biglietto di banca di cinquanta lire.—E fate che preghino.....
—Per i vostri peccati?—chiese il Beverani ch'era un po' scettico.....
—No, ma perchè il Signore mi dia la forza di accogliere bene colui..... mi capite..... Vi assicuro... non so ancora persuadermi.....
—Oh si persuaderà, si persuaderà, ripetè il dottore scendendo le scale.
INDICE
Dopo venticinque anni Pag. 3
Lo Specchio rotto » 133
Il Parassita indipendente » 157
Il Maestro di calligrafia » 183
L'Orologio fermo » 207
La Lettera di Margherita » 221