IL VINO

UNDICI CONFERENZE FATTE NELL'INVERNO DELL'ANNO 1880

DA

ARTURO GRAF GIOVANNI ARCANGELI

ALFONSO COSSA ANGELO MOSSO

CORRADO CORRADINO GIUSEPPE GIACOSA

MICHELE LESSONA GIULIO BIZZOZERO

S. COGNETTI DE MARTIIS CESARE LOMBROSO

EDMONDO DE AMICIS

CON MOLTE INCISIONI NEL TESTO E 3 TAVOLE LITOGRAFICHE

TORINO E ROMA

ERMANNO LOESCHER

1880.

Proprietà letteraria. Torino — V. Bona, Tip. di S. M. e dei RR. Principi.

AI LETTORI

Il libro che io qui presento al pubblico può a buon diritto chiamarsi una singolarità bibliografica. Mettersi insieme parecchi cultori di studii disparatissimi, scegliere fra tutti un sol tema, e trattarlo, in una serie di pubbliche conferenze, secondo la particolare competenza scientifica di ciascuno, fu idea felicemente nuova, la cui novità, come conseguì da prima il plauso degli uditori, così conseguirà ora quello dei lettori.

Questo volume non è, nè vuole essere, un trattato sul vino; anzi l'indole sua è talmente rimota da ciò, che le varie conferenze vi si succedono in quell'ordine medesimo, o vuoi, in quel medesimo disordine, in cui, per deliberato proposito, furono dette pubblicamente. Nè si offre esso piuttosto ad una che ad altra classe di persone, mentre potrà tornar gradito agli uomini tecnici di trovarvi discorso del vino altrimenti che sotto il rispetto tecnologico, e cioè in relazione con lo spirito e con la vita; e potrà riuscir utile agli altri il trovarvi copia di notizie tecniche più propriamente, le quali non è senza profitto conoscere. Esso vuol essere, ed è, libro di piacevole ed istruttiva lettura.

E di ciò si persuaderanno di leggieri quanti vorranno dare uno sguardo ai nomi degli autori che si leggono sul frontispizio.

L'Editore.

Torino, il 3 giugno 1880.

INDICE

A. Graf. — La leggenda del vino Pag. 1

A. Cossa. — La chimica del vino » 39

Corrado Corradino. — Il vino nei costumi dei popoli » 69

M. Lessona. — I nemici del vino » 105

S. Cognetti de Martiis. — Il commercio del vino » 167

G. Arcangeli. — La botanica del vino » 205

A. Mosso. — Gli effetti fisiologici del vino » 249

G. Giacosa. — I poeti del vino » 283

G. Bizzozero. — Il vino e la salute » 329

C. Lombroso. — Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia » 371

Edmondo de Amicis. — Gli effetti psicologici del vino » 443

A. GRAF — LA LEGGENDA DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 12 gennaio 1880).

Signori,

Voi sapete che la Terra, negli anni della più fiorente sua giovinezza, fu coperta, la massima parte, da immense foreste impenetrabili, più vaste assai e più selvagge che quelle non sieno, le quali ingombrano tuttavia il bacino del Rio delle Amazzoni nell'America meridionale, o del Congo in Africa. In simile modo i primi stadii della storia della umanità appaiono coperti, lasciatemi dir così, da una folta boscaglia intellettuale, vivace e lussureggiante vegetazione di miti, sogni giovanili della mente umana, figurazioni iridescenti, splendenti di colore e di luce.

Sotto a questa varia e prestigiosa vegetazione si occultano tutti i nostri principii, le nostre antichissime origini: prime religioni, primi costumi, primi dolori coevi all'esser nostro, primi passi faticosi mutati sull'ardue vie dell'incivilimento. Nè solo il mondo umano, ma la natura ancora vi si occultò: tutta la natura un tempo fu assunta nel mito.

Se ebbe il suo mito la folgore che squarcia la nube, l'onda del torrente che fugge; se dalle stesse rupi sbocciarono mitici fiori, tutti olezzanti di silvestre poesia, come non avrebbe avuto la sua mitica fioritura la vite, la vite, da cui tanto bene e tanto male deriva nel mondo, la vite che tanta parte ebbe nelle religioni, nei costumi, nella poesia, ch'ebbe, ed ha tuttavia tanta parte, o signori, nella stessa politica? Più della quercia sacra a Giove, più dell'alloro sacro ad Apollo, la vite doveva avere le sue leggende e i suoi miti.

Ma quale farraggine qui ci troviamo dinnanzi! che viluppo, che miscuglio d'immaginazioni e di cose! Come mai potè mettere tante propaggini questo legno fatale? Non un vigneto, ma un bosco gli è questo, pieno d'alberi strani; da che parte entrarvi, come traversarlo, come uscirne? Cerchiamo la via più breve, e, se tanto ci sarà conceduto, più dilettevole.

Di mezzo al fitto intreccio dei miti, di tra le dipinte fantasie che a vicenda si suscitano e si richiamano, fuor dal fermento di una poesia che bulica e brilla come il licore di che si genera, sorge e spicca un pensiero: il vino ebbe origini soprannaturali e divine.

Ma forse taluno qui potrebbe riprendermi e dire: Come divine? non pertutto, non sempre. Noè non fu egli un uomo?

Signori; una scienza nata appena nel mondo, ma già divenuta assai frammettente e pettegola, dico la mitologia comparata, crede d'aver tanto in mano da dimostrare che nei tempi dei tempi Noè fu un semidio, come tale adorato in alcuna religione dell'Asia, e ridotto alla condizione di semplice adamita il giorno in cui fu attratto nell'orbita delle tradizioni mosaiche, dove per i semidei non c'era più posto. Ma poniam pure che la mitologia comparata abbia torto, e concediamo che il vecchio Noè non fu mai altro che un uomo; ad ogni modo bisognerà confessare che fu un uomo singolarissimo. Egli vive 950 anni, età che, a dispetto della ginnastica e dell'igiene, da un pezzo in qua più non si riscontra sui registri dello stato civile[I-1]; egli è il solo che, insieme con la sua poca famiglia, sia sembrato degno di sopravvivere alla universale distruzione del genere umano. Poi, se non mentono le storie autentiche ch'io avrò a ricordare fra breve, egli fu di statura di giganti. Finalmente, per tagliar corto a questo ragionare, se nella fabbricazione del vino, di cui egli fu glorioso inventore, non ebbe parte diretta nessun iddio, v'ebbe parte direttissima il diavolo, come con irrefragabili prove dimostrerò fra poco. Comunque si prenda a considerare la cosa, nelle origini del vino ci si scopre sempre alcun che di soprannaturale e d'arcano.

Volgiamoci all'Asia, alla gran madre dei miti e dei popoli. Che cosa troviam noi negli antichissimi libri dell'India che possa soddisfare alla curiosità nostra? Noi troviamo un licore inebbriante, amrita, soma[I-2], dotato di maravigliose virtù, dispensatore di vita e d'immortalità, oggetto di venerazione fra gli uomini, cagion di contesa e d'invidia tra' numi. La poesia dei Vedi n'è tutta madida e profumata. Delle sue origini celesti e terrestri si dicono maraviglie, che van crescendo come il tema glorioso migra dai libri sacri alle vaste epopee. Nel Râmâyana udite che cosa si narra.

I figliuoli di Diti e di Aditi desideravano l'immortalità: che fare per conseguire l'intento? Consigliatisi insieme essi risolvono di frullar l'oceano; l'acque frullate daranno l'amrita. Si pongono all'opera: traboccan nell'onde il monte Mandara, ci ravvolgono attorno il serpente Vasuki a guisa di corda, e cominciano a tirar dall'un capo con quanta n'han nelle braccia. Si svolge la fune viva, il monte ruota sopra se stesso come una trottola e diguazza l'oceano a quel modo che si fa del latte nella zangola per levarne il burro. Dopo mill'anni il serpente, venutogli a noia il giuoco, si mette a sputare un veleno che consuma il mondo; il dio Siva soccorre trangugiando le pestifere bave. Dopo mille altri anni escon dall'onde portenti precursori dell'agognato trasmutamento: il medico Dhanvantari, le ninfe Apsarase, Surâ o Varuni, la dea del vino e dell'ebbrezza[I-3], il cavallo Uccaihçravas, la gemma Kaustubha, il dio Soma, la dea Çrî. Dopo un terzo frullamento l'acque coagulate danno l'amrita; i figliuoli di Diti e di Aditi, cioè i demoni Asuri e gli dei combattono pel suo possesso. Da ultimo gli dei trionfan dei demoni[I-4].

Al soma e all'amrita degl'indiani corrispondono l'haoma degl'Irani e l'ambrosia dei Greci sino nel nome, e corrisponde per molti caratteri l'ôdhörir della mitologia germanica; ma se il tempo ci concedesse di allargar tale esame noi potremmo trovare nelle memorie religiose di molti popoli questa mitica immaginazione di una bevanda inebbriante che fa trionfare della morte e del tempo, sino a quella famosa fontana di giovinezza di cui tutto il medio evo sognò, e che al Prete Gianni fortunato suo possessore, prolungava senza misura la vita[I-5].

Dall'India alle coste occidentali d'Europa corrono da circa cento gradi in longitudine, e pure su tutta questa vasta parte di mondo si stese un tempo il culto di Dioniso, o Bacco che dir lo vogliate. Io non vi rinarrerò la storia del più giocondo e amabile Dio dell'Olimpo greco. Chi non sa ch'egli è figliuolo di Giove e di Semele, che uscito anzi tempo dall'alvo materno il padre lo custodì entro la propria coscia tutto il tempo che ancora mancava alla gestazione perfetta, che sottratto all'odio della gelosa Giunone crebbe in bellezza e fortezza, che sposo d'Arianna generò figliuoli e per l'indole e per il nome degni di lui? Naturalmente benevolo alla razza degli uomini egli volentieri disertava per la terra l'Olimpo, ed erano sue compagne le Muse e le Grazie. Chi vi potrebbe ridir tutti i nomi onde lo chiamarono e lo celebrarono i mortali da lui beneficati? Udite come un nostro poeta ne pone insieme parecchi:

Un Dio, non mica un Dio

Della plebe selvaggia degli Dei,

Ma fra i più furibondi il più indomabile.

Il più fiero e formidabile:

Vidi il nume Bassareo,

Euchioneo, Dirceo, Melleo,

Semeleo, Cadmeo, Briseo,

Nittileo,

Agenoreo,

Il feroce, l'indomito Lieo[I-6].

Il più bello dei suoi nomi è Lieo, cioè Liberatore.

Molto si favoleggiò delle sue origini, più delle peregrinazioni. A dir di alcuni egli aveva passato la fanciullezza in un'isola incantata, degno principio di vita così gloriosa[I-7]. Varii paesi si disputarono il vanto d'avere proprio da lui appresa l'arte di spremere il vino dall'uve, e in Tiro si celebrava ogni anno una festa in memoria solenne del benefizio. Che venisse in Italia sarebbe da credere senza bisogno di prove, quando non si trovasse detto e confermato da scrittori gravissimi, tra gli altri da Sofocle[I-8]. Del resto egli corse da conquistatore presso che tutta la terra allora conosciuta, imponendo senza fatica ai popoli la grata sua signoria ed il culto giocondo. In ciò egli si rassomiglia all'egizio Osiride, il quale anch'esso inventò il vino e corse la terra. Nè la somiglianza si ferma a tanto, ma si stende a molt'altre operazioni, a molti caratteri. Così Dioniso, come Osiride, si vantano della invenzion dell'aratro, dell'agricoltura, di molte industrie profittevoli all'uomo; essi sono gl'iniziatori della civiltà[I-9]. Considerate il senso profondo di tuttociò: le divinità inventrici del vino istituiscono il genere umano; la storia civile è una propaggine della vite. Potrei confortare quest'asserzione d'innumerevoli esempii e di convincentissime prove; mi contenterò di ricordare che l'iranico Scemscid, l'epico eroe di Firdusi, è a un tempo medesimo l'institutore della civiltà e l'inventore del vino, secondochè dallo storico persiano Mircondi, con critica inappuntabile, si afferma, si documenta e si prova.

Ma il vino d'onde uscì, d'onde uscì la vite? Nelle origini di queste cose è egli possibile che non vi sia alcunchè di stravagante e di recondito? Non debbono cose di tanta eccellenza trascendere i poteri della natura? Arduo problema che suscitò molte disparate opinioni.

Che l'amrita stillasse dalle nuvole raffigurate nel mito quali vacche celesti, o si formasse dell'acqua del mare sbattuta da braccia divine, io non ci ho nulla in contrario; ma nessuno potrà farmi credere mai che altrettanto accadesse del vino. Nè varrebbe citarmi i luoghi di poeti dove si afferma che dall'Oceano profondo uscirono tutte quante le cose create; nè varrebbe allegarmi l'opinione di quel linfatico filosofo Talete che sosteneva l'acqua esser l'ottima delle cose e principio primo di tutte; opinione da cui forse recedette alquanto un giorno che, per guardar troppo al cielo, e non abbastanza ai suoi piedi, capitombolò in un pozzo. Principio di tutte le cose, si può concedere; del vino, si nega.

Tra il vino e l'acqua fu sin dalle origini una sorda rivalità, che, con l'andar degli anni si mutò in nimicizia acerba e rabbiosa. Per tutto dove si affrontano, la contraddizione prorompe. Noè inventa il vino dopo il diluvio, e Diodoro e Nonno affermano lo stesso di Bacco; così che si può dire ch'esso viene al mondo per ragion di reazione, quando gli uomini stanchi e fastiditi di quella insipida e soperchiante umidità, ne bramano un'altra più gradita e più rara. Nel medio evo i due rivali vengono a guerra aperta, e non v'è contumelia, non calunnia, non ischerno di cui non si servano per discreditarsi a vicenda, per farsi segno l'un l'altro all'abominazione dei popoli. La poesia è tutta piena dei loro clamori; non v'è letteratura in Europa che non possegga nelle dispute, nei contrasti e nelle contenzioni, i documenti autentici di quell'epica nimistà. In un contrasto latino del secolo XIII, il vino afferma d'essere dio:

Ego Deus, et testatur

illud Naso, per me datur cunctis sapientia;

e vitupera l'acqua chiamandola feccia e sentina delle cose:

Tu faex rerum et sentina[I-10].

Indarno la caritatevole premura degli osti cercò in tutti i tempi di comporre queste antiche discordie; la coscienza umana protestò contro la violenza che da essi per fin di bene si volle fare alla natura. Tutta l'umana famiglia, tolta la sola specie o varietà degli osti, favorì la separazione, e parteggiò per il vino, lasciandosi andare a immaginar qualche volta la totale disfatta dell'acqua e l'allargamento della potestà del vino sopra gli antichi dominii di lei. D'onde quel desiderio vagamente qua e là espresso nella poesia col tono di chi quasi si sgomenta della sublimità delle proprie immaginazioni: Oh, se le fontane versassero vino, e fossero vino i fiumi e vino il mare! D'onde il mito delle Enotropre, figlie di Anio, che avevano la virtù di mutar l'acqua in vino.

Ma torniamo alle mirabili origini. Credettero alcuni che la vite fosse nata da una goccia di sangue divino caduta sopra la terra. Altri pensarono poi ch'essa fosse in origine un giovinetto amasio di Bacco trasformato in pianta. Secondo un altro mito greco, che si riscontra con un mito egizio, il vino sarebbe venuto dal sangue dei giganti. Il meth, bevanda inebbriante delle saghe settentrionali, si fa a dirittura derivare dal sangue di Quasir il più savio di tutti gli dei. L'acqua, ingelosita di così gloriose origini, non volle stare al disotto, e un mito egizio fa derivar l'oceano dal sangue di un gigante, e lo stesso fa un mito germanico.

Non la finirei più se dovessi entrare a discorrere, come richiederebbe il soggetto, del culto di Bacco e delle feste e dei riti che a quello andavano congiunti. Ricorderò solamente che dalla liturgia dionisiaca venne fuori la tragedia greca, come dalla liturgia cristiana appo noi venne fuori il mistero. Ricorderò ancora che di quante feste si celebravano un tempo in Grecia ed in Roma in onor degli dei quelle consacrate a Bacco erano le più popolari e gradite. In Grecia le principali feste dionisiache formavano un ciclo, e si succedevano a non lunghi intervalli dal decembre sin oltre l'aprile. Ci si distinguevano le dionisiache campestri, le lenaje, le antesterie, le grandi dionisiache cittadine. Che il vino ci dovesse entrare per molto s'intende di leggieri. Nelle antesterie si bandiva una gara tra bevitori, ed era premiato chi votava con più disinvolta prontezza la giara colma di vino novello. Le grandi dionisiache duravan sei giorni e richiamavano in Atene, da tutta la Grecia, un popolo sterminato. Una legge d'Evagora, della quale Demostene ci ha conservato il testo, ordinava che, durante quei giorni sacri alla giocondità, non si accogliessero dai giudici reclami per debiti, non si eseguissero sentenze, non si privasse nessuno della libertà. In Roma Bacco era festeggiato nelle liberalia.

Taccio del culto secreto, dei misteri, a cui la fanatica stravaganza e l'indecenza di certi riti procacciarono una infame celebrità. In Roma i baccanali diedero luogo a tali eccessi, che il senato dovette promulgare contr'essi, nell'anno 186 avanti Cristo, una severissima legge.

Fra i riti e le pratiche del paganesimo che un pezzo ancora dopo l'epoca di Costantino più pertinacemente resistono al cristianesimo trionfante, quelli che si riferiscono al culto di Bacco tengono molto probabilmente il primo luogo. Nel VI secolo le feste di Bacco tuttavia si celebrano in Gallia, e certo non in Gallia soltanto[I-11]. Ora, nella vecchia religione pagana il cristianesimo non detestava tutto con lo stesso fervore, nè tutto combatteva con lo stesso zelo. C'erano in essa alcune parti che meno apertamente contraddicevano al suo spirito austero, e dalle quali non poteva venire gran danno. C'erano divinità, come Apollo e Minerva, che potevano predisporre gli animi alla virtù, e ad una intuizione severa della vita, quale il cristianesimo desiderava naturalmente; e c'erano divinità come Venere e Bacco, che traevano alla licenza, e favorivano la corruzione del costume, offendendo nel più vivo quella religione novella, che appunto con la universale riforma del costume si annunciava nel mondo. Così non ci parrà soverchio il rigore di quel Teodoto, vescovo di Laodicea, che scomunicò senza altro un presbitero e un lettore della chiesa soggetta alla sua giurisdizione per aver assistito alla recitazione di un inno a Bacco fatta dal sofista Epifanio.

Il cristianesimo traeva alcune figure dal mondo delle finzioni pagane e le allogava tra i simboli suoi. In due pitture delle catacombe di San Callisto in Roma, e sopra altri monumenti dell'arte cristiana più antica si vede Cristo raffigurato sotto le sembianze di Orfeo. Ora Orfeo poteva servir di tipo a Cristo, ma certo non poteva accadere altrettanto di Bacco.

Assai scarse per conseguenza sono nell'arte simbolica cristiana le figurazioni desunte dal culto di questa divinità. S'incontrano alcuna volta sopra i sarcofaghi, ma per eccezione e certo fu esempio poco imitato. Fra le eccezioni è curioso trovare l'urna funerale di Costanza, figlia di Costantino, urna che mostra scolpiti nel porfido bacchici emblemi, e si conserva a Roma nel museo Pio-Clementino. Per ragione di quegli emblemi l'urna, ancora nella seconda metà del secolo XVII, si credeva da molti fosse stata la propria tomba di Bacco[I-12].

Tuttavia si vuol ricordare che la vite fu ricevuta fra i simboli del cristianesimo, e vi tenne anzi luogo molto onorevole. Nella Sacra Scrittura la sapienza è, con molta sapienza, paragonata alla vite, e Cristo dice per bocca di San Giovanni: lo sono la vera vite, e mio padre è il vignajuolo; io sono la vite, e voi siete i grappoli. Nei mosaici di cui risplendon gli amboni delle chiese antiche spesso si vede questa simbolica vite spargere intorno i tralci carichi di frutta maravigliose. E non ricevette forse tutta la chiesa dei fedeli l'allegorico nome di vigna del Signore? Non parlo dell'ufficio riserbato al vino nei riti più angusti. La Chiesa non condannò nè la vite nè il vino; condannò Bacco e il suo culto.

E pure, a dispetto di quella condanna, quante memorie ne rimasero per secoli tra gli uomini, quante tuttavia ne rimangono! Non è da credere com'è duro svezzar i popoli da certe usanze, distorne la mente da certe immaginazioni. Molti riti pagani si mescolarono, senza quasi che altri se ne avvedesse, ai riti cristiani, di molte feste pagane si fecero feste cristiane. La Chiesa più d'una volta ricorse a quest'utile espediente d'incorporarsi ciò che non valeva a distruggere. Così un avanzo dei baccanali romani sopravvive nelle feste della Madonna dell'Arco che ogni anno si celebrano in Napoli. Il ceppo di Natale, le strenne di capo d'anno, il carnovale, traggon l'origine da usi pagani. Spesso accadde ancora che d'un dio pagano si fece un santo cristiano, contro la regolar consuetudine, ch'era di farne un diavolo. Così della dea Pelina si fece San Pelino, della Felicità pubblica si fece Santa Felicita, e il mito d'Esculapio diede origine alla leggenda di San Rocco[I-13]. Qual maraviglia se noi troviamo nel calendario cristiano anche un Sant'Apollo, un San Mercurio, un San Bacco?[I-14] Le divinità pagane perseguitate senza pietà, si cacciarono qualche volta nel santuario, e mutatesi alquanto nell'aspetto, e un tantino nell'indole, vi rimasero in pace. Così accadde spesse volte nel medio evo che un solenne ribaldo, riparatosi in un convento dalle persecuzioni della giustizia, vi prendesse, tutelato dal diritto d'asilo, la tonaca, e morisse poi in odore di santità. E non mancano nemmeno esempii di santi genuini ed autentici, i quali avendo consumato la vita a combattere il paganesimo, si videro dopo morte, contro ogni aspettazione loro, rivestiti di alcune, o poche o molte, qualità di questo o quel nume più aspramente da loro combattuto. Valga per molti esempii quello, che più si confà al caso nostro, di San Martino, che presso il popolo, in Francia e in Germania, dovette, di buona o di mala voglia, far le veci di Bacco[I-15].

Nei costumi nostri potrei mostrar molte vestigia di costumi antichi attinenti al culto di Bacco, o aventi in qualche modo relazione col vino. La corona o il fascio d'edera, o d'altro frondame, che per tutta Europa serve d'insegna alle osterie, ricorda la corona trionfale di cui Bacco s'ornava, e l'edera a lui sacra[I-16]. Quest'uso noi l'abbiam dai Romani, e il nostro proverbio: Il buon vino non ha bisogno di frasca, e il francese in tutto simile: A bon vin il ne faut point de bouchon, risponde di tutto punto il latino: Vino vendibili suspensa hedera non opus est. L'usanza di aromatizzare i vini con erbe o con resine, come si fa qui da noi pel Vermouth, e per molti vini in Grecia, risale ad antichità assai remota. Non parlo della presenza di Bacco nel linguaggio parlato: noi diciamo ogni momento: Per Bacco! Sangue di Bacco! Corpo di Bacco!

Altre memorie più singolari ci presenta la poesia del medio evo. Del secolo XIII è una messa dei beoni che comincia: Introibo ad altare Bacchi, ad eum qui laetificat cor hominis. Il Confiteor vi si trasforma, come il bisogno richiede: Confiteor reo Baccho omnipotenti; vi si trasforma il Pater noster, ed è naturale: Pater noster qui es in scyphis[I-17]. San Paolo aveva detto: Ebriosi non possidebunt regnum Dei; ma tale non è l'opinione di chi si finge nel XII secolo faccia la strana professione di fede contenuta in quei versi famosi:

Meum est propositum in taberna mori.

Vinum sit appositum morientis ori,

Ut dicant cum venerint angelorum chori

Deus sit propitius huic potatori[I-18].

Nel secolo seguente un cantico alla Vergine si trasforma in un cantico al vino[I-19]. Dei Goliardi, autori spesso di così fatte parodie, fu chi disse:

Magia credunt Juvenali

Quam doctrinae prophetali,

Vel Christi scientiae.

Deum dicunt esse Bacchum,

Et pro Marco legunt Flaccum,

Pro Paulo Virgilium.

Questa letteratura vinolenta darebbe da dire assai a chi volesse tenerle dietro. Ricorderò ancora i Miracles de saint Tortu, sotto il qual nome cabalistico s'intende appunto significato il vino[I-20]; il Martyre de saint Bacchus[I-21]; il Sermon fort joyeux de saint Raisin[I-22], questo del XVI secolo. Nel Martyre de saint Bacchus, il santo di cui si celebrano le gesta è figliuolo di una figliuola di Noè per nome Vigna. Nessun santo, vi si dice, ha in paradiso gloria pari alla sua; poi si narrano i miracoli operati da lui, e la passione, paragonata con quella di Cristo. In un luogo son questi versi:

Seigniez-vous et recommandez

A Dieu, et grâce demandez

A sains Bacchus si qu'il la face.

In un Dis de la Vigne di Giovanni da Douai, si paragonan le cure che si debbono alla vite con il culto dovuto a Dio.

A questa singolare letteratura potrebber servir di motto i due versi in che Margutte compendia la sua professione di fede:

Or queste son le mie virtù morale,

La gola e 'l bere, e 'l dado ch'io t'ho detto[I-23].

Così onorato nel medio evo, Bacco non decadde certo dall'antica sua gloria quando il Rinascimento ebbe ristorato nella fantasia, se non nella fede, il paganesimo. Quanti poeti non inneggiarono allora, come Maffeo Vegio, al più amato degli dei:

Bacche, pater vatum, suavissime Bacche Deorum![I-24].

Ma di ciò io non voglio parlare più a lungo; bensì vo' ricordare come nelle feste carnovalesche e nei Trionfi, che già solevano sfoggiare nelle nostre città, Bacco fece sempre gloriosa mostra di sè. Gli esempii soperchiano, e mi basta di citarne un pajo. Tutti conoscono il Trionfo di Bacco e d'Arianna composto da Lorenzo de' Medici: nel Carnovale del 1710 si fece con grande pompa in Ferrara una mascherata rappresentante il trionfo di Bacco. Quando nel 1498, per istigazione di Gerolamo Savonarola, si fece un solenne bruciamento delle vanità del carnevale, usci fuori una canzone, dove si finge che un cittadino dica a Carnovale che si fugge:

Dove è Giove Iuno e Marte,

Vener bella tanto adorna,

Bacco stolto con le corna,

Che solea cotanto aitarte?[I-25]

Terminerò di parlare di Bacco, della sua leggenda, e della lunga memoria che n'han serbato gli uomini, ricordando, come a lui, che aveva peregrinato già gloriosamente per tutta la terra conosciuta, si volle attribuire ancora la scoperta di paesi incogniti. Il felicissimo paese di Cuccagna fu da lui ritrovato, e un poeta, Quirico Rossi, celebrò co' versi il memorabile avvenimento[I-26]. Di ritorno dall'India, Bacco muove in traccia della fortunata regione, dove giunge coi suoi seguaci dopo aver lungamente errato pei mari. Permettete ch'io vi dia un'idea delle delizie di quella terra incomparabile riferendo tre ottave che sono degne veramente del loro soggetto:

Fiumi di burro a tutte le stagioni

Scorrendo vanno e dilagando i prati,

Dove nascon per erba i maccheroni,

E per ghiaia ravioli maritati;

Ed anitre e pollastri, oche e capponi

Di frittelle pasciuti e saginati,

Che penne avendo di lasagne intorno

Volano al quietissimo soggiorno.

Sorge un colle nomato ivi Bengodi

Dove di latte una fontana spiccia;

Ombra vi fan le viti in varii modi,

Altre erranti, altre avvinte di salsiccia,

Che mettono un salame a tutti i nodi

Ed in luogo di foglie han trippa riccia:

A concimar la vigna e il colle tutto

Quivi il lardo s'adopera e lo strutto.

Le quercie che del sol frangono il raggio,

Hanno per ghiande ritondetti gnochi,

I quali giù tornando nel formaggio

(Ch'altra sabbia non usasi in que' lochi),

invitano ciascuno a farne il saggio,

Nè v'ha mestier di guatteri e di cuochi,

Perchè d'un ventolino al caldo fiato

Tutto cotto ivi nasce e stagionato.

Ma lasciamo in disparte oramai Bacco e la sua interminabile leggenda, e volgiamoci, ch'è tempo, a Noè. Il patriarca contende al nume la gloria di avere inventato il vino; per questa invenzion capitale accade quello che per molt'altre invenzioni di minor conto, dove si veggono più pretendenti concorrere ad appropriarsene il vanto. Per non dar torto a nessuno diciamo che Bacco e Noè hanno tutt'a due inventato il vino senza sapere l'uno dell'altro.

Notiamo anzi tutto la somiglianza grandissima ch'è tra il Noè biblico e il babilonese Sisutro, ultimo dei dieci patriarchi antediluviani, secondo che riferisce Beroso. Altri dimostri, se può, che Sisutro fu il tipo su cui venne esemplato Noè; io mi contenterò di dire che al pari di Noè Sisutro costruisce un'arca e si salva in quella dalle acque del diluvio. Se non che qui ci troviamo in un mondo di finzioni smisuratamente aggrandite, se pure non è più giusto di dire che quelle della Bibbia furono, con deliberato proposito, ridotte a più piccole proporzioni. Certo si è che rimpicciolimenti così fatti s'avevano necessariamente a compiere sotto la preponderanza e l'oppression di Jeova. L'arca costruita da Sisustro è lunga cinque stadii e larga due, diciamo 945 per 370 metri. Se Noè campa 950 anni, Sisustro ne campa 64000[I-27]. Non ho bisogno di dire che figure simili a queste, di patriarchi o di semidei che si salvano da un diluvio in cui tutto il rimanente genere umano perisce, si trovano in molte mitologie[I-28].

Ho detto poc'anzi che nell'invenzione del vino il patriarca Noè ebbe coadiutore il diavolo: ecco che io mi faccio a provarlo recitandovi per intero una bella leggenda rabbinica quale si trova tradotta in un libro del prof. Levi[I-29].

«Curvo sul ferro, tutto di sudore grondante, il patriarca Noè stava intento a rompere le dure zolle. A un tratto Satana gli appare, e dice:

««Qual nuovo lavoro intraprendi? qual nuovo frutto speri tu di trarre dalle lavorate zolle?»»

««Pianto la vite»», risponde il patriarca.

««La vite? superba pianta! stupendo frutto! gioia e delizia degli uomini! Il tuo lavoro è grande: vuoi tu che aggiunga l'opera mia? il tuo lavoro diverrà perfetto»».

Il patriarca accetta.

Satana corre, afferra una mansueta pecora, la trascina, la sgozza, ne inaffia col dolce sangue le rotte zolle.

— Da questo avviene che colui il quale liba leggermente il licore della vite, è, come la pecora, d'animo mansueto, di pensieri benevoli e dolci. —

Noè guarda e sospira: Satana prosegue l'opera sua; afferra un leone, lo squarcia e dalle squarciate vene il sangue zampilla e scorre, e inonda le rotte zolle.

— Da questo avviene che colui il quale beve alquanto oltre l'usato, come leone si sente pieno di vigoria, e il sangue ribolle spumoso nelle vene, e gli spiriti s'inorgogliscono, e l'uomo grida: Chi è pari a me? —

Noè guarda e sbigottisce: Satana prosegue l'opera sua; colle impure mani ghermisce un porco, l'ammazza e insozza coll'impuro sangue le rotte zolle.

— Da questo avviene che colui il quale tracanna smoderatamente il sugo dell'uva, si ravvoltola in mezzo alle sozzure come porco in brago. —»

Questa leggenda immaginosa e significativa, di cui non sarebbe agevole rintracciare l'origine prima, ebbe più varianti. Secondo una versione arabica il primo a piantar la vite fu, non già Noè, ma Adamo, e il diavolo l'inaffiò col sangue di una scimmia, di un leone e di un porco[I-30]. A questo proposito non è fuor di luogo il dire che dai rabbini fu congetturato l'albero proibito fosse appunto la vite[I-31]. Una leggenda molto simile alla talmudica che avete udita testè riferisce il poeta arabico Damiri[I-32]. Finalmente in un vecchio libro francese, il Violier des histoires romaines, quella strana concimazione si attribuisce allo stesso Noè, che per suo mezzo cangia la vite selvaggia, o lambrusca, in vite domestica. Qui gli animali son quattro, cioè il leone, il porco, l'agnello, la scimmia[I-33]. È da credere che della leggenda talmudica sapessero qualche cosa quei cioncatori del Fausto del Goethe, i quali, là, nell'osteria di Auerbach, a Lipsia, cantano a squarciagola:

Provo il contento,

Provo il solazzo

Di cinquecento

Porci nel guazzo.

Ma piacciavi di considerare il progresso dei tempi. La sapienza dei rabbini paragonava l'uomo vinto dal vino ad un porco; ognuno di quei bravi compagni si paragona a dirittura a cinquecento porci.

Non deve far meraviglia che il diavolo, avendo avuto parte nella fabbricazione del vino, siasi servito poi del suo trovato per condur gli uomini alla perdizione. E quante storie terrifiche potrei ricordare a questo proposito! Se è vero, come in parecchi antichi prontuarii d'esempii ad uso dei predicatori si trova narrato, che una povera monaca, una volta, rimase ossessa per aver mangiato d'un cesto d'indivia in cui s'era appiattato il diavolo, quanto più frequente non dovette essere il caso di bevitori ostinati, che votando il bicchiere, si misero in corpo, senza saperlo, un infuso di Satanasso! Lutero racconta la storia di un asciugafiaschi, il quale per una sbornia vendette l'anima al diavolo, da cui fu poi debitamente strangolato[I-34]. Ma per non allungarla di troppo citerò un esempio solenne e conclusivo. In un fabliau francese si racconta che il diavolo, dopo aver lungamente tentato un romito senza poterne vincere la virtù, gli promise di volerlo oramai lasciare in pace, a patto che gli desse questa soddisfazione di commettere una sola volta un peccato, scegliendo tra il vino, la lussuria, l'omicidio. Il romito per liberarsi accetta, e sceglie il più picciol peccato del bere, pensando di poterne poi con poco far penitenza. Va a pranzo da un mugnajo suo vicino, e s'ubbriaca; rimasto solo con la moglie di costui, casca nel secondo peccato e finisce per uccidere il mugnaio da cui è sorpreso. Vero è che il diavolo non ottiene il suo scopo. Il romito si pente, va a Roma, si fa assolvere dal papa, e dopo asprissima penitenza, muore in concetto di santo[I-35].

Parlando del vino e delle sue origini noi ci siamo inaspettatamente trovato fra' piedi quel setoloso quadrupede, di cui è quasi vergogna pronunziare il nome, e che nulladimeno, forzatovi dall'argomento, io ho dovuto nominare più volte. Che direste voi se a questo proposito io vi svelassi un mistero zoologico di cui lo stesso Darwin, indagatore acutissimo delle origini delle specie, non ebbe nemmeno un sospetto? E in pari tempo vi sarebbe dimostrato ciò che io asseriva cominciando, cioè a dire che Noè fu di statura di giganti. Il mirabil caso è narrato dal cronista arabo Tabari[I-36].

Quando, essendosi già ritratte l'acque del diluvio, le coppie degli animali uscirono dall'arca per ripopolare la terra, due nuovi bruti si videro comparire tra quelle, il porco ed il gatto. Essi eran nati nell'arca, per opera di Noè. Ecco le cause e il modo della creazione. L'arca, ripiena di tanto gregge quanto il buon patriarca n'aveva raccolto, fu in breve ridotta a tale stato da disgradare al paragone le famose stalle di Augia. La famiglia del patriarca, non potendo più reggere allo schifo ed al lezzo, ricorse a lui perchè provvedesse in qualche maniera. Noè allora s'accostò all'elefante, e senza punto scomporsi gli passò la mano sul fil della schiena. Com'è, come non è, l'elefante mette al mondo il porco, il quale in men che non si dice prende la sua prima satolla spazzando l'arca d'ogni sozzura. Qualche tempo dopo si trova che l'arca è infestata da topi voraci che sciupano ogni cosa. La famiglia ricorre novamente a Noè, e Noè, fattosi presso al leone, gli passa una mano sul fil della schiena, e il leone starnuta, e caccia dal naso un gattino ghiribizzoso che in poco d'ora fa giustizia degli invasori.

Voi vedete che gli uomini debbono essere grati a Noè per molte ragioni. Senza di lui la mortadella di Bologna e lo zampone di Modena non sarebbero mai venuti al mondo, e il pasticcio di lepre sarebbe stato una cosa assai rara. Ma in particolar modo gli debbon esser grati gl'italiani, giacchè è più che certo che Noè, al paro di Bacco, venne in Italia, e vi diede principio a quell'antichissima italica civiltà d'onde poi venne fuori la gloria di Roma. E questo non lo dico già io, ma l'afferma nientemeno che Pierfrancesco Giambullari, il quale nel suo libro intitolato Origine della lingua fiorentina racconta tutta la storia per filo e per segno, che non c'è da aggiungere, nè da levare un ette[I-37]. Dovete dunque sapere che la lingua italiana deriva, per mezzo dell'etrusca, dall'aramea. Centott'anni dopo il diluvio, Noè, lasciati i monti dell'Armenia, dov'era approdato con l'arca, venne in Italia. E in fatti, uno degli antichissimi nomi dell'Italia è appunto Enotria, come dire paese del vino, e il Pelizzari, nel suo poemetto intitolato La Vigna, lo conferma dicendo:

Alla pianta gentil sacra a Lieo

Onor d'Italia, a cui d'Oenotria un tempo

Il nome aggiunse, ora il mio stile io volgo.

Noè, che parlava l'arameo, va ad abitare sul monte Gianicolo, e prende il nome di Giano, il quale si figura con due facce, per far intendere che Noè appartenne a due età, quella che precede e quella che segue il diluvio. Più tardi viene in Italia anche Saturno, e allora principia l'età dell'oro.

Ma qui cominciano le difficoltà, giacche molti pretendono che l'età dell'oro sia stata prima del diluvio, e che fin che durò, in fatto di bevande, gli uomini non conobbero che l'acqua fresca. Tanto è vero che Romolo Bertini, autorità di prim'ordine, dice in una sua poesia In biasimo del secol d'oro:

Se di mangiare e bere

Quel popolo beato avea desio,

Con estremo piacere

Scotea le querce e s'inchinava al rio;

O che bella bevanda, o che dolc'esca

È mangiar ghiande, e ber dell'acqua fresca.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . Quando i dolci liquori

Della vite la lingua ebbe assaggiati,

E con alti stupori

Fûr le starne e i capponi assaporati,

Si passò da' ruscelli alle cantine,

Da scuoter querci a far fumar cucine.

Ma checchè sia di ciò, non crediate che le cose, di cui si fa narratore, messer Pierfrancesco Giambullari se le sia inventate. In un vecchio libro latino che risale al secolo XIII, la Graphia urbis Romae, si racconta sulla fede di un Hescodius irreperibile, che Noè venne in Italia, e fondò presso a Roma una città cui diede il suo nome. Giano, suo figliuolo, costruì sul Palatino una città chiamata Gianicolo. Più tardi Nembrotte, ch'è tutt'uno con Saturno, venne ancor esso in Italia. La stessa storia si trova riferita da Martino Polono, cronista di quel medesimo secolo.

Lascio da banda il dio Frô della mitologia germanica ed altre divinità di genti diverse che potrebbero aver relazione col mio argomento, e mi affretto a dire alcune poche cose ancora che più direttamente concernono il vino.

Di sbornie leggendarie, singolari e memorabili se ne ricordan parecchie nella storia. Quella che mosse i Lapiti e i Centauri a sonarsi di santa ragione è nota a tutti. Una leggenda, che fu ritenuta storia da molti, narra di un certame tra bevitori bandito da Alessandro Magno. Il vincitore si cacciò in corpo tredici litri di non so che vino, e ci rimise la vita[I-38].

Molto ci sarebbe da dire circa la parte che il vino e la vite ebbero nei miracoli. Già Pausania ricorda che in un tempio di Bacco presso Elide ogni anno tre fiaschi d'acqua miracolosamente si mutavano in vino[I-39]. Nei leggendarii accade spesso di leggere di fonti che in ricorrenza di feste solenni versavano vino, e di santi uomini che, andati ad attingere al pozzo, con grata maraviglia tirarono su il secchio pieno di vino squisito. Nella relazione dei viaggi dell'Infante Don Pedro di Portogallo si racconta questo miracolo. In una città dell'India si conserva e si venera il corpo di San Tommaso apostolo. Il santo, tuttochè morto, sta ritto sopra un altare, e tiene in mano un sermento di vite disseccato. Quando si celebra a quell'altare la messa il sermento rinverdisce, si veste di foglie, si carica di grappoli, e al momento opportuno fornisce il vino necessario al sacrificio incruento[I-40].

Qualche cosa ancora mi resta a dire delle virtù miracolose attribuite al vino. È noto a tutti il detto latino In vino veritas; gli arabi hanno un proverbio che esprime presso a poco lo stesso concetto: il vino fa palese ciò che si nasconde nel cuore degli uomini[I-41]. Ma qui si tratta di una virtù puramente naturale: il vino toglie all'uomo la triste facoltà di simulare e l'obbliga a mostrarsi qual è. Ne questo è il solo benefico effetto ch'esso produca naturalmente: Orazio afferma che per far buoni versi bisogna bere del vino[I-42], e che la stessa virtù si rigenera nel vino, come l'esempio di Catone dimostra[I-43]. Lo Scarron dice nel Virgile travesti:

J'entends les Poëtes divins

Alors qu'ils sont entre deux vins.

Ma non ci mettiamo per questo mare che non si potrebbe tornar così presto alla riva. Io dico che al vino si attribuirono ancora certe qualità arcane e recondite per cui divenne in certi casi un paragone di verità e di giustizia. In più e più leggende si parla di una coppa maravigliosa, la quale, essendo piena di vino, nessuno vi può bere che non sia scevro di colpa. Una coppa sì fatta ebbe in dono dal nano Auberon Huon di Bordeaux, che poi se ne servi per scoprire certi brutti peccatacci di Carlo Magno[I-44]. E chi non ricorda la tazza incantata che faceva scoprire ai mariti la infedeltà delle mogli, della quale si parla nei canti XLII e XLIII dell' Orlando Furioso? Nè si dica che qui la virtù spetta al nappo e non al vino; per fare la prova si richiede e l'uno e l'altro, ma chi dà la dimostrazione è propriamente il vino. Coloro che nulla hanno a temere lo bevono; coloro che si trovano in altra condizione se lo versano addosso. Ricorderò finalmente ciò che il Rabelais racconta del giovine Panurge; il quale, fittosi in capo di prender moglie, e dubbioso e pauroso di quello che gli possa succedere, ricorre per consiglio ad avvocati, a filosofi, a preti, e finalmente si risolve d'andare a consultare l'oracle de la dive bouteille, il più veridico fra quanti danno responsi[I-45]. Su questo capitolo ci sarebbe da discorrere un pezzo[I-46].

Signori, io sono giunto al termine della mia diceria, ma non crediate sia chiusa la leggenda del vino. Non vorrei funestare con tristi pronostici gli animi vostri, ma forse è già cominciata, forse sta per cominciare la leggenda della morte di questo eroe, e non so se i molti seguaci ed amici ch'egli ha per il mondo varranno a salvarlo. Egli ha contro di sè congiurati terribili avversarii. Da una parte l'oidio e la tremenda filossera assaltan la vite; dall'altra una chimica iniqua crea nel mistero di nefandi connubii, di corpi solidi, liquidi ed areiformi, vini acherontei, satanici, apocalittici, che sotto la menzogna del nome usurpato nascondono l'abominazione della desolazione. Ma di queste insidie della natura e dell'arte altri vi parlerà con tutta l'autorità della scienza: io debbo contentarmi d'esprimere un voto: possa per lungo tempo ancora il vino, il vero vino, l'autentico e legittimo figliuol della vite, esilarare, secondo il detto della Scrittura, il cuore afflitto degli uomini.

NOTE

[I-1] Di questa portentosa longevità dei patriarchi pare abbia conosciuto e divulgato il secreto, ma senza beneficio notabile, un Giovanni Bracesco, autore di un raro libro intitolato: Il legno della vita, nel quale si dichiara qual fosse la medicina per la quale i primi padri vivevano novecento anni. Si stampò in Roma nel 1542. La longevità di Noè e divenuta in particolar modo proverbiale fra gli Arabi. V. Goldziher, Der Mythos bei den Hebräern, p. 279.[I-2] Il Kuhn ha dimostrato l'identità dell'amrita e del soma nella sua monografia intitolata Die Herabkunft des Feuers und des Göttertranks, p. 145.[I-3] Sebbene la vite fosse coltivata in alcune parti dell'India non pare tuttavia che gli Indiani ne abbian mai tratto il vino. Usavano bensì vino di palma secondo si trova riferito da Plinio, Hist. nat., VI, 32, 8; XIV, 19, 3. Conobbero anche il vino di vite, che, a dispetto d'ogni proibizione, vi si portava assai di lontano. V. Lassen, Indische Alterthumskunde, v. I, p. 264–265, n. 3.[I-4] Râmâyana, versione di G. Gorresio, edizione di Milano, v. I, c. XLVI. Il Mahâbhârata ha un racconto molto più lungo, ma non diverso per la sostanza. Se ne trova la versione fra le note al Bhagavadghita tradotto dal Wilkins. Altre versioni, con varietà di poco rilievo, si trovano nei Purani. Cf. Wilson, The Vishnu-Purana, p. 75–78.[I-5] V. la lettera che si suppone scritta dal Prete Gianni all'imperatore di Roma e al re di Francia nel Monde enchanté del Denis, p. 185–205.[I-6] Baruffaldi, Baccanali, Bacco in Giovecca.[I-7] Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, III, 68.[I-8] Antigone, 1105.[I-9] Osiride e Bacco sono divinità solari. Fra essi v'è identità mitica. Cf. Braun, Naturgeschichte der Sage, v. II, p. 116.[I-10] Du Méril, Poésies inédites du moyen âge, p. 306–308.[I-11] Beugnot, Histoire de la destruction du paganisme en Occident, v. II, p. 324.[I-12] Piper, Mytologie der christlichen Kunst, v. I, p. 211.[I-13] Maury, L'astrologie et la magie dans l'antiquité et au moyen âge, IV a ed., p. 155.[I-14] La commemorazion di San Bacco cade il 7 di ottobre. Dice in proposito il Middleton nella Letter from Rome: «In another place I have taken notice of an altar erected to St. Baccho; and in their histories of their saints, I have observed the names of Quirinus, Romula and Redempta, Concordia, Nympha, Mercurius, which, though they may have been the genuine names of Christian martyrs, cannot but give occasion to suspect, that some of them at least have been formed out of a corruption of old names». Io non so persuadermi che genitori cristiani volessero imporre ai loro figliuoli nomi così esecrati quali si erano quelli delle antiche divinità, e quanto ai neofiti credo che prima lor cura, ricevendo il battesimo, sarebbe stata di sostituirli con altri, quando pure si debba supporre che li portassero innanzi.[I-15] Tommaso Cantipratense ricorda una specie di canto fescennino composto in onor di quel santo: cantus turpissimus de beato Martino, plenus luxuriosis plausibus, per diversas terras: Galliae et Teutoniae promulgatus. Bonum universale de apibus, ed. Colvenerii, Duaci, 1627, p. 456–457. Cf. Du Méril, Poésies populaires latines du moyen âge, p. 198.[I-16] Blavignac, Histoire des enseignes d'hotelleries, d'auberges et de cabarets, p. 55.[I-17] Missa de potatoribus, Wright and Halliwel, Reliquiae antiquae, II, 208–210.[I-18] Nella Confessio Goliae attribuita a Gualtiero Mapes. Wright, Latin poems attributed to Walter Mapes, p. 70–75.[I-19] Histoire littéraire de la France, v. XXII, p. 141.[I-20] Id., v. XXIII, p. 495.[I-21] Jubinal, Nouveau recueil de Contes, Dits, Fabliaux et autres pièces inédites des XIII, XIV et XV siècles, v. I, p. 250 e segg.[I-22] Joyeusetez, Facecies, ecc., v. IX.[I-23] Morgante Maggiore, c. XVIII, st. 132. Qui possono essere ricordati anche questi pochi versi tedeschi: Der Deutsche hat zum Symbolum

Das Wort der Passion

«Mich durstet» ausersehen,

Und hält nach eigenen Proben

Das Vers für unterschoben

«Lass diesen Kelch vorübergehen.»

[I-24] Conquestus in Bacchum et Cererem.[I-25] Canzona d'un Piagnone pel bruciamento delle vanità nel carnevale del 1898, pubblicata da Isidoro del Lungo. Si può confrontare con Il Transito del tanto lascivo e desiato Carnovale col tollerabile e osservabile Testamento lasciato all'ardita e sfrenata Gioventute. Firenze, 1569.[I-26] Veggasi il poema intitolato La Cuccagna.[I-27] Veggansi i Fragments cosmogoniques de Bérose pubblicati dal Lenormant. Giorgio Smith fece conoscere un racconto più esteso che non sia quello di Beroso, contenuto nelle tavolette trovate a Ninive dal Layard. Questo racconto è indubitabilmente anteriore a Mosè. Cf. Lenormant, Les premières civilisations, v. II, p. 19.[I-28] Per ciò che concerne il Noè americano si può riscontrare J. G. Müller, Geschichte der amerikanischen Urreligionen, p. 423.[I-29] Parabole, leggende e pensieri raccolti dai libri talmudici dei primi cinque secoli dell'E. V., p. 341–342.[I-30] Plancy, Légendes de l'ancien Testament, p. 121–122.[I-31] Leviticus rabbâ, sect. 12.[I-32] Arnold, Arabische Chrestomathie, v. I, p. 53.[I-33] C. XXX. Josephus, au livre des causes des choses naturelles, racompte que Noè trouva la vigne silvestre, c'est assavoir les lambrusces; et, pour ce que le piet en estoit amer et foïble, le bon patriarche print du sang de quatre bestes, du lyon, du pourceau, de l'aignel et de la singesse, pour en destremper le fient, tellement que après cela le vin fut fait meilleur et plus fort.[I-34] Tischreden, Ed. di Lipsia, 1700, p. 172.[I-35] Méon, Nouveau Recueil, De l'hermite qui s'enivra.[I-36] Riferisco questo racconto sulla fede del Plancy, op. cit., p. 111–112. Non ho agio di riscontrare le Istorie di Tabari.[I-37] Ed. di Firenze, 1549, p. 33–39.[I-38] Ateneo, X, 49; Eliano, Variarum historiarum, II, 41.[I-39] Eliac., II, c. XXVI, 1.[I-40] Historia del Infante D. Pedro de Portugal en la que se refiere lo que le sucediò en el viaje que hizo cuando anduvo las siete partes del mundo, compuesto por Gomez de Santistevan.[I-41] Freytag, Arabum proverbia, v. II, parte 1 a, p. 140.[I-42] Epist., III, 19.[I-43] Carmin., III, 21.[I-44] Huon de Bordeaux, edito dal Guessard e dal Grandmaison.[I-45] La Vie de Gargantua et de Pantagruel, l. III, c. XLVII.[I-46] Qui mi pare venga in acconcio la seguente storiella narrata dal Domenichi, nel l. III della Historia varia.

Arrigo conte di Goritia hebbe due figliuoli d'una sua moglie Vngara donna nobile et prudente, i quali prima ch'uscissero di fanciullezza, tenne appresso di se nella camera sua; et spesse volte, mentre ch'essi dormiuano, era usato chiamargli da meza notte, et domandargli, se haueuano sete. I quali non rispondendo nulla, perch'essi dormiuano sodo, esso si leuaua, et daua loro bere. Ma non volendo essi bere, et rigettando fuori il vino, volto alla moglie le diceua: ah p....., tu ti facesti ingrauidare a un altro: costoro non son miei figliuoli, che dormono tutta la notte intera, senza hauer mai sete.

A. COSSA — LA CHIMICA DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 16 gennaio 1880).

La composizione del sugo dell'uva, i cambiamenti che esso subisce per la fermentazione e le principali e più dannose sofisticazioni del vino sono gli argomenti che io dovrei sviluppare nella conferenza di questa sera. — Ho detto sviluppare, ma questa parola non è propria perchè il limite di tempo concessomi non è sufficiente alla trattazione completa degli argomenti annunciati. Pertanto dovrò limitarmi ad una esposizione compendiosa ed elementare, e per quanto è in me chiara ed ordinata, dei fatti più salienti della chimica del vino. — Le cose che esporrò non sono nuove, ma se la qualità dell'uditorio e la scarsa mia abilità didattica mi impediscono di pronunciare l' indocti discant, non rinuncio all'invocazione che voi vorrete accogliere benignamente: ament meminisse periti.

Esaminando gli acini dell'uva nei differenti periodi del loro sviluppo, si osserva che l'aumento graduale di peso e di volume ed il cangiamento del loro colore sono accompagnati da una modificazione pure progressiva della qualità del sugo che essi contengono. Questa modificazione consiste principalmente nella diminuzione della sua acidità e nell'aumento dello zucchero, come potete rilevare dalla tabella che vi presento, dove sono registrate le determinazioni fatte da me nel 1874 sopra una qualità d'uva detta Aramont, raccolta in diverse fasi della sua maturazione:

EPOCA DELLA RACCOLTA ACIDITÀ ZUCCHERO DENSITÀ del sugo a + 15°

in un litro di sugo

26 luglio 1874 36,00 5,50 1,0182

4 agosto » 31,87 6,94 1,0204

13 » » 30,00 15,60 1,0218

22 » » 29,92 28,70 1,0323

1 settembre 20,10 57,50 1,0333

10 » » 17,77 96,20 1,0477

30 » » 9,82 119,00 1,0583

Le materie che rendono acido il sugo dell'uva sono di varia natura, e si è convenuto di indicare l'acidità complessiva di queste materie riferendola unicamente all'acido tartarico, perchè questo è l'acido predominante. Così, per esempio, quando si asserisce che l'acidità di un mosto è di 9 per mille, si intende di dire che in mille centimetri cubici, cioè in un litro, di questo mosto si trovano tante materie acide da corrispondere a 9 grammi di acido tartarico.

L'aumento progressivo dello zucchero nel sugo dell'uva s'arresta quando esso ha raggiunto un certo limite oltre il quale l'uva, come succede di tutte le sostanze organizzate, infracidisce; cioè i suoi componenti, e tra questi lo zucchero, si cambiano in altre sostanze che diventano gradatamente meno complesse, finchè si risolvono in acqua, acido carbonico ed ammoniaca.

Non succede dell'uva quanto si verifica in altri frutti saccarini nei quali aumenta lo zucchero, cioè possono maturare, anche dopo che furono spiccati dall'albero. È cosa conosciutissima che per ottenere dei vini liquorosi si usa di far appassire su graticci l'uva, la quale dopo un certo tempo acquista un sapore più zuccherino. Questo fatto sembra provare il contrario di quanto ho asserito; ma la contraddizione è solamente apparente, perchè nell'appassimento dell'uva non cresce la quantità assoluta dello zucchero, e se essa riesce più dolce è perchè concentrandosi il sugo per l'evaporazione la quantità di zucchero va sempre più accumulandosi in una minore quantità di liquido. Anzi durante l'appassimento, come venne sperimentalmente dimostrato dal prof. E. Rotondi, la quantità assoluta di zucchero contenuta nell'uva diminuisce. Nell'uva lo zucchero è segregato dalle cellule del parenchima degli acini; invece nelle mele, e nel frutto proverbiale che matura col tempo e colla paglia, lo zucchero continua a formarsi per l'azione degli acidi sull'amido di cui questi frutti sono riccamente forniti.

L'epoca in cui nell'uva trovasi raccolta la massima quantità di zucchero varia nelle diverse qualità di vitigni, ed in uno stesso vitigno a seconda della natura del terreno, del clima, delle vicende atmosferiche e dei metodi di coltivazione. Siccome dei componenti dell'uva lo zucchero è quello che essenzialmente prende parte alla metamorfosi del mosto in vino, è logico il ritenere che l'epoca più conveniente per la vendemmia dovrebbe essere quella della perfetta maturazione dell'uva, epoca che coincide appunto colla sua massima ricchezza in zucchero. Ma, come in altre industrie, così anche in quella della fabbricazione del vino non si seguono sempre pratiche razionali. In alcuni luoghi per soddisfare al gusto depravato di bevitori che si compiacciono d'un vino aspro, si raccoglie l'uva ancora acerba. Altrove l'epoca della vendemmia è stabilita dall'autorità comunale con danno di coloro ai quali converrebbe di anticiparla o di ritardarla per le qualità o per l'ubicazione dei loro vigneti. A ciò si aggiunga un altro guaio; quando in una regione un proprietario ha iniziato la vendemmia, accade ben spesso che gli altri sono costretti loro malgrado a seguirne l'esempio per non esporsi al pericolo di vedere decimato il raccolto da animali, dei quali forse non parlerà il collega prof. Lessona nella futura sua conferenza sui nemici della vite, quantunque siano qualche volta terribilmente devastatori.

Riconosciuta la convenienza di raccogliere l'uva quando essa è perfettamente matura, ci si presenta spontanea la domanda di un metodo facile e pronto per determinare la quantità di zucchero contenuta nel sugo dell'uva. Questo metodo ci viene suggerito dall'esame delle cifre poste nella tabella che vi ho indicato poc'anzi dove trovansi eziandio indicate le densità del mosto nei diversi periodi dello sviluppo dell'uva. Come voi vedete questa densità va aumentando di pari passo collo zucchero, in modo che invece di dosare separatamente lo zucchero, operazione relativamente difficile, se ne può determinare con sufficiente esattezza la quantità in relazione della densità del liquido che lo contiene disciolto. Si eseguisce prontamente la determinazione della densità di un liquido mediante degli aereometri a galleggiante la cui costruzione ed uso sono basate sul noto principio di Archimede.

Per rendere questa determinazione ancora più pronta, si costruiscono dei pesa-liquori speciali, detti gleucometri, di cui vi presento un campione, nei quali invece delle densità sono indicate le quantità di zucchero corrispondenti sciolte in un litro di mosto[II-1]. Immergo il pesa-liquore in questa soluzione di zucchero d'uva, di cui voglio conoscere il grado di concentrazione; vedo che l'istrumento discende nel liquido fino al punto che corrisponde al grado 36,5 della scala di cui è munito; e da questa lettura imparo che ogni litro del mio liquido tiene in soluzione grammi 36,5 di zucchero d'uva.

Con questa semplicissima operazione non solo si può riconoscere quando l'uva ha raggiunto il culmine della sua ricchezza zuccherina, ma pei motivi che saranno più avanti ricordati, si può eziandio prevedere la forza alcoolica che avrà il vino fatto col mosto dell'uva esaminata. Pertanto non si esagera dicendo che il gleucometro può arrecare all'industria enologica servigi congeneri a quelli che arrecano alla bachicoltura il termometro ed il microscopio.

I più importanti componenti del sugo dell'uva matura (mosto) sono: acqua, zucchero, alcuni acidi, materie albuminoidi, sostanze grasse, tannino, materie coloranti, sostanze minerali.

L'acqua è il componente predominante del mosto giacchè la sua quantità varia tra 70 ed 80 per cento.

Lo zucchero contenuto nell'uva si chiama glucosio; esso è simile ma non identico allo zucchero che si ricava dalla canna indica e dalle barbabietole (saccarosio) dal quale differisce per una minore solubilità e per alcune proprietà ottiche. Si può preparare artificialmente il glucosio trattando l'amido contenuto nelle farine dei cereali o la fecola di patate con l'acido solforico. Il bel campione di glucosio che vi presento proviene da una fabbrica di Germania dove lo si prepara in quantità considerevole per uso di coloro che fabbricano il vino coi metodi Pétiot e di Gall. — Il mosto contiene ordinariamente dal 15 al 20 per cento di glucosio.

Le principali sostanze che impartiscono l'acidità al vino sono gli acidi malico e tartarico. Il primo di questi predomina nel sugo dell'uva acerba e di mano in mano che questa va maturandosi diminuisce in quantità e si cambia in acido tartarico. Il chimico nel suo laboratorio può con particolari processi di ossidazione cambiare l'acido malico in acido tartarico e da ciò si arguisce che molto probabilmente i fenomeni della maturazione dell'uva consistano in un lavorìo di ossidazione. L'acido tartarico poi si trova nel mosto in due stati, cioè libero e combinato alla potassa nel cremore di tartaro (bitartrato potassico). — L'acidità complessiva del mosto riferita all'acido tartarico oscilla tra 0,8 e 0,9 per cento.

Le sostanze albuminoidi, così chiamate perchè hanno una composizione simile a quella dell'albumina contenuta nelle uova e nel siero del sangue, contengono dell'azoto e servono alla nutrizione del fermento che è causa della trasformazione dello zucchero in alcool durante la fermentazione.

Nelle buccie dell'uva, nei graspi, ma più specialmente nei semi (vinaccioli), si trova del tannino, cioè una materia simile a quella che si estrae dalle galle della quercia e dal sommacco e che serve, come è noto, nell'industria della conciatura delle pelli. Nei vinacciuoli il tannino è associato ad una materia grassa oleosa che in molti luoghi viene estratta colla torchiatura per trarne profitto come olio da bruciare.

La materia colorante contenuta nelle buccie dell'uva ricevette il nome di enocianina. Questo pigmento trovasi in quantità relativamente abbondante in quelle varietà di uva contraddistinte appunto per questo motivo coi nomi di uva colore, tintorino, raisin tinturier, ecc. L'egregio professore A. Carpené di Conegliano ha recentemente suggerito un metodo per estrarre industrialmente l'enocianina dall'uva, la quale potrà essere razionalmente adoperata nella colorazione artificiale dei vini invece di ricorrere, come si fa generalmente per ottenere l'istesso scopo, ad altre materie coloranti estranee all'uva, delle quali alcune possono riuscire dannose alla salute.

Se si riscalda fortemente in contatto dell'aria il residuo dell'evaporazione del mosto, esso abbrucia, si carbonizza e finalmente rimane una quantità (circa 0,6 per cento) di cenere che rappresenta le materie minerali del mosto, delle quali le più importanti sono la potassa e l'acido fosforico. — Lo zucchero, il tannino, le materie coloranti ed albuminoidi, l'acido tartarico sono combinazioni di carbonio, idrogeno, ossigeno ed azoto che la vite può assimilare dall'aria; ma le materie minerali che pur sono non meno delle altre indispensabili allo sviluppo di questa pianta derivano esclusivamente dal suolo. Perciò quanto più un terreno sarà ricco di queste materie minerali sotto forma facilmente assimilabile tanto più esso si presterà alla coltivazione della vite. La grande feracità dei vigneti di alcune plaghe vesuviane dipende anche da ciò che in quei luoghi il terreno deriva dalla decomposizione di una lava leucitica molto ricca di potassa.

Voi comprenderete facilmente che colle continuate vendemmie si impoverisce il terreno delle sostanze minerali contenute nell'uva e che perciò è assolutamente necessario di restituire alla terra le materie sottratte se si vuole che la vite continui a crescervi rigogliosa. Le nostre raccolte sono ora decimate da malattie che si palesano colla comparsa di piccole piante o di animali parassiti; ma è opinione molto accreditata quella che ritiene che lo svilupparsi di muffe o di insetti nocivi non sia altro che la conseguenza di uno stato di marasmo delle piante prodotto dall'esaurimento a cui con sistemi poco razionali di coltivazione si condanna il terreno, pretendendo ch'esso contenga in quantità indefinita i materiali nutritivi necessarii alle diverse colture. E qui riesce opportuno l'osservare che per concimare razionalmente un vigneto non basta gettare nel terreno qualunque siasi rifiuto di materie organiche, quasichè ogni sostanza che non può servire ad alcun altro uso debba necessariamente avere la prerogativa d' ingrassare le piante. La qualità delle materie che si adoperano come ingrassi deve essere scelta in relazione alla qualità del terreno ed alla natura dei principii minerali che predominano nelle piante che si coltivano. Applicando queste considerazioni generali alla vite, si riconosce come i concimi ad essa più convenienti saranno i sali potassici ed i fosfati, perchè, come abbiamo già accennato, la potassa e l'acido fosforico sono le materie minerali che predominano nelle ceneri del mosto.

Esaminiamo ora brevemente i principali fenomeni che si manifestano durante la fermentazione del mosto.

Il mosto dell'uva lasciato in contatto dell'aria ad una temperatura che sia compresa tra i 5 ed i 30 gradi del termometro centigrado a poco a poco e spontaneamente si intorbida; si svolgono da tutta la sua massa delle bollicine di un gaz irrespirabile (acido carbonico); la sua temperatura si innalza al disopra di quella dell'ambiente; diventa gradatamente meno zuccherino ed acquista invece un sapore spiritoso. Dopo un certo tempo lo sviluppo di gaz va gradatamente diminuendo finchè cessa affatto; le materie sospese si depongono sul fondo del recipiente, il liquido riacquista la primitiva sua limpidezza; la fermentazione è terminata ed il mosto trovasi cangiato in vino.

Osservando col microscopio una goccia di mosto in fermentazione si vede che la materia che lo rende torbido è costituita da un ammasso di esseri organizzati formati da cellule ovoidali, aventi un massimo diametro di poco superiore ad un centesimo di millimetro. Questi organismi sono vegetali crittogami e furono detti saccaromiceti, cioè funghi dello zucchero. I saccaromiceti si moltiplicano in modo prodigioso e si nutrono delle sostanze albuminoidi; uno degli atti della loro energia vitale consiste nella decomposizione dello zucchero in alcool ed acido carbonico. Secondo le accurate ricerche del Pasteur da cento parti in peso di zucchero d'uva, per l'azione del fermento del vino, derivano i prodotti seguenti:

Acido carbonico 46,7

Alcool 48,5

Glicerina 3,2

Acido succinico 0,6

Cellulosa 1,0

L'acido carbonico si svolge allo stato di gaz ed è ad esso che devonsi attribuire la malsania delle tinaie durante la fermentazione, e l'effervescenza di alcune qualità di vini.

L'alcool (alcool comune, alcool etilico, alcool del vino) si accumula nel vino dal quale può essere facilmente separato per distillazione, avendo esso un punto d'ebollizione inferiore a quello dell'acqua. È appunto su questa proprietà che è basato l'uso del piccolo alambicco di Salleron che voi vedete funzionare avanti i vostri occhi e che serve per determinare la ricchezza alcoolica del vino.

La glicerina è una materia liquida, incolora, più densa dell'acqua, di un sapore dolciastro, e forma uno dei componenti di tutte le sostanze grasse vegetali ed animali. È la glicerina contenuta nel vino che gli imparte quella qualità difficilmente definibile e che i pratici designano col nome di corpo o sostanza del vino.

L'acido succinico è una materia che si può ottenere artificialmente ossidando l'ambra, e non sappiamo quale influenza esso eserciti sulle qualità del vino. — La cellulosi ha la stessa composizione del cotone e del legno; essa compone le pareti membranose delle cellule del fermento.

Oltre alle sostanze indicate si producono durante la fermentazione piccolissime quantità di alcool speciali diversi dall'alcool comune (alcool butilico, propilico, ecc.) i quali combinandosi con gli acidi del vino formano degli eteri odorosi che sono la causa dell'aroma particolare del vino. Al complesso di queste sostanze eteree si dà impropriamente il nome di etere enantico, quantunque noi non ne conosciamo finora la vera natura. Si trovano in commercio dei preparati con questo nome o coll'altro di bouquet del vino, ma sono miscele di etere prodotti artificialmente e di cui non conviene usare nella conciatura dei vini.

Appena terminata la scomposizione dello zucchero, i saccaromiceti cessano di moltiplicarsi, muoiono e le loro spoglie si depongono a poco a poco insieme alla maggior parte del cremortartaro, il quale perde della sua solubilità di mano in mano che va accumulandosi l'alcool nel mosto.

Confrontando il peso di volumi eguali di mosto prima e dopo la fermentazione, si osserva che il liquido fermentato riesce molto meno denso. Questa diminuzione della densità dipende dalla scomparsa dello zucchero e dalla formazione dell'alcool che è specificamente più leggiero dell'acqua. Perciò è evidente che determinando varie volte con il gleucometro la densità del mosto durante la sua fermentazione, si potrà sorvegliare e regolare a seconda dei casi il processo di vinificazione. Quando è cessata definitivamente la diminuzione della densità si potrà sempre collo stesso gleucometro riconoscere se tutto lo zucchero che era contenuto nel mosto si è convertito in alcool, sapendo noi che a cento parti in peso di zucchero d'uva corrispondono 48,5 di alcool. — Non sempre però avviene che tutto lo zucchero del mosto si cangi in alcool. Quando il mosto difetta di materie albuminoidi, i saccaromiceti non si possono sviluppare nella quantità necessaria per la completa metamorfosi dello zucchero. Se invece abbonda lo zucchero, anche in presenza di una quantità sufficiente di sostanze albuminoidi, esso non può produrre la dose di alcool che sarebbe indicata dalla teoria, e che, come abbiamo or ora ripetuto, corrisponde a poco meno della metà del proprio peso. In questo caso l'incompleta trasformazione dello zucchero dipende da ciò che i corpuscoli del fermento non possono vivere in un liquido che contenga più del 15 per cento di alcool. Questo fatto ci spiega il perchè con uve appassite si ottengono vini che sono nello stesso tempo dolci e spiritosi. — In una delle fattorie di vino in Marsala si fabbrica una qualità di vino liquoroso detto Brown Siracusa traendo partito della proprietà dell'alcool di arrestare la fermentazione; cioè si aggiunge al mosto, quando non è terminata la fermentazione, dell'alcool, il quale uccidendo i saccaromiceti, permette che sia conservata quella quantità di zucchero che corrisponde al tipo di vino che si vuol produrre.

Il mosto, anche quando è ottenuto da una stessa qualità di uva, non ha sempre una composizione costante, ma è soggetto a variare specialmente per le diverse vicende atmosferiche che influiscono grandemente sulle proporzioni dei principali componenti dell'uva. Variando la composizione del mosto si hanno necessariamente dei cambiamenti nella qualità del vino. Si è cercato di ovviare a questo inconveniente con metodi empirici, mescolando opportunamente tra di loro diverse qualità di vino. Ma la chimica sola ci può essere di guida sicura nel correggere il mosto in modo di potere da esso ottenere, ad onta delle sue possibili variazioni, un vino che abbia costantemente gli stessi caratteri, o come si è soliti a dire un vino tipo.

I metodi più apprezzati per modificare la composizione del mosto e per aumentare la produzione del vino nelle annate di scarso raccolto sono quelli suggeriti da Chaptal, Gall e Pétiot.

Quando si ha un mosto soverchiamente acido e che darebbe senz'altro un vino aspro e dannoso alla salute, Chaptal suggerisce di aggiungervi della polvere di marmo in una dose corrispondente alla quantità eccessiva di acido che si vuole eliminare. L'esperimento che faccio ora vi farà comprendere come il marmo agisce sui vini troppo acidi. In questo bicchiere contenente una soluzione di acido tartarico, che è lo stesso acido che predomina nel mosto, getto della polvere di marmo (carbonato calcico); come vedete avviene una forte effervescenza prodotta da ciò che l'acido carbonico del marmo si mette in libertà e si svolge allo stato di gaz, mentrechè la calce si unisce all'acido tartarico, lo neutralizza e forma una materia bianca (tartrato di calcio), che essendo insolubile a poco a poco si raccoglie sul fondo del recipiente. Lo stesso succede nel mosto nel quale il tartrato calcico insolubile si depone insieme alla feccia. Comprenderete la necessità della determinazione quantitativa dell'acidità del mosto quando si vuole adottare il metodo di Chaptal, riflettendo che se si eccedesse nella quantità di marmo, si renderebbe difettosa in un senso opposto la composizione del mosto, nel quale è assolutamente necessaria una certa quantità di acidi liberi.

Col metodo di Gall si corregge la troppa acidità del mosto senza ricorrere alla neutralizzazione della polvere di marmo. Gall ammette ragionevolmente che il mosto destinato a produrre una data qualità di vino deve contenere sempre le stesse quantità di zucchero e di acidi, che per alcuni vini del Reno, secondo lo stesso autore, devono corrispondere rispettivamente a 24 ed a 0,6 per cento. Se per caso il mosto contiene una quantità di acidi superiore a quella indicata, si aggiunge tant'acqua quanta è necessaria per avere il voluto grado di acidità. Con questa diluzione però se si corregge l'eccesso degli acidi, si diminuisce lo zucchero, e perciò è necessario di aggiungere al mosto dello zucchero in modo che esso ritorni alla proporzione normale del 24 per cento.

Col metodo del Gall non solo si corregge la cattiva composizione di un mosto, ma se ne aumenta eziandio la quantità. Questo aumento riesce molto più considerevole adottando il metodo Pétiot, col quale si può persino quadruplicare il volume di vino fornito da una data quantità di uva. Ritenendo che il mosto ottenuto direttamente dall'uva abbia una composizione normale, si getta sulle vinacce un eguale volume di acqua in cui sia stata disciolta la stessa dose di zucchero contenuta naturalmente nel mosto. Il fermento aderente ancora alle vinacce produce la scomposizione dello zucchero in alcool ed in acido carbonico; e così si ottiene un secondo vino, al quale se ne possono far succedere un terzo ed un quarto ripetendo successivamente le aggiunte di acqua zuccherata alle vinacce. Devesi però avvertire che è necessario di aggiungere all'acqua oltrechè lo zucchero anche dell'acido tartarico in una quantità che corrisponda al voluto grado di acidità. — Quando si eseguiscono le operazioni indicate con la massima cura si ottengono coi metodi di Gall e Pétiot dei vini di buona qualità e che è assai difficile, per non dire impossibile, il distinguere dai vini prodotti colla pura e semplice fermentazione del mosto.

Vi sono alcuni che ritengono i procedimenti che vi ho brevemente descritto come altrettante sofisticazioni e gridano contro qualunque siasi manipolazione chimica nell'arte del fare il vino, volendo esclusivamente limitata l'opera del chimico all'analisi dei vini per riconoscerne la forza alcoolica o per svelarne le possibili adulterazioni. Ma quando si adoperano in giusta misura lo zucchero e l'acido tartarico non si commette una sofisticazione, perchè queste sostanze sono identiche a quelle contenute naturalmente nel mosto. Se si deplora continuamente e con ragione che in gran parte d'Italia non si sanno produrre vini tipi, bisogna essere coerenti ed ammettere la legittimità di quei mezzi razionali additati dalla chimica che soli possono ovviare al difetto lamentato, che nuoce moltissimo al credito dei vini italiani all'estero. Si cita spesso a nostro rimprovero la costanza nella qualità dei vini del Bordolese e della Borgogna; ma i vigneti di questi paesi non sono più fortunati dei nostri; anche là le stagioni non si succedono sempre propizie alle vendemmie, e se ad onta di ciò i vini francesi ci si presentano sempre eguali, si deve attribuirne la cagione all'uso comune da nessuno condannato di correggere opportunamente a seconda delle circostanze le qualità del mosto. Le correzioni relative alla quantità dei principii componenti il vino non solo sono permesse, ma dovrebbero essere imposte dalla scienza. Se vi ha qualcuno così ingenuo da credere che il vino di Champagne sia fatto collo schietto sugo dell'uva, costui dovrebbe spingere la sua fede più in là e credere alle sincerità di tutti i brindisi che lo Champagne inspira.

Per essere giusti bisogna ammettere che la ripugnanza che incontra tra noi l'adozione dei metodi razionali di correggere il mosto e specialmente la fabbricazione del vino Pétiot, è fino ad un certo punto giustificata dal malo modo con cui questi metodi sono generalmente applicati. Per ignoranza si adoperano lo zucchero e l'acido tartarico in quantità non corrispondenti alle esigenze del mosto che si vuol correggere, oppure per una male intesa ed illecita economia invece di zucchero di ottima qualità si fa uso della peggiore melassa. Sonvi alcuni i quali guidati da un falso ragionamento credono di potere sostituire l'alcool allo zucchero: «Si aggiunge lo zucchero al mosto, pensano costoro, perchè esso si trasforma fermentando in alcool, ebbene tanto vale aggiungervi immediatamente la quantità di alcool corrispondente; ci si guadagna in tempo e denaro». Ma bisogna ricordarsi che quando lo zucchero fermenta, oltre all'alcool comune produce della glicerina, dell'acido succinico e piccole quantità di altri alcool, sostanze tutte necessarie perchè il vino abbia una composizione normale.

Mentre è giustamente biasimata per le ragioni che vi ho accennato, la sostituzione dell'alcool allo zucchero nella preparazione del vino Pétiot, si tollera l'aggiunta di piccole quantità di alcool ai vini liquorosi destinati per l'esportazione, come è specialmente il caso dei vini di Sicilia. Non è possibile di distinguere l'alcool formatosi naturalmente nel vino da quello aggiuntovi ad arte. Perciò il nostro Governo volendo avere una norma per la restituzione della tassa pagata sull'alcool adoperato nella confezione dei vini che si esportano, stabilisce, in base a molte ricerche, quale sia la ricchezza alcoolica massima naturale del vino di una data regione, ed abbuona al produttore quella quota di tassa che corrisponde alla differenza tra la forza alcoolica ammessa come naturale e quella riscontrata nel vino che viene presentato al dazio di confine per l'esportazione. Così, per esempio, essendosi stabilito che la ricchezza alcoolica massima dei vini di Sicilia è eguale al 15 per cento, per un vino di Marsala che ne contenesse il 19, verrà restituito l'ammontare della tassa che corrisponde alla quantità di alcool necessario per elevare da 15 a 19 il grado alcoolico del vino.

L'abuso però dell'alcoolizzazione dei vini non liquorosi costituisce una delle tante sofisticazioni del vino, di alcune delle quali è ormai tempo che noi ci occupiamo.

L'innacquamento del vino è senza dubbio l'adulterazione la più antica, la più facile e la più comune. Il chimico non possiede alcun mezzo di scoprire questa frode, che del resto non produce alcun danno alla salute. Si afferma, è vero, che è facile cosa lo scoprire l'aggiunta dell'acqua al vino versandone alcune goccie sopra un pannolino, o sopra la mollica di pane, ritenendo che la maggiore o minore diffusione della materia colorante nella macchia che si produce possa servire di criterio nel giudicare della schiettezza del vino; ma queste ed altre pratiche empiriche non hanno alcun valore e non meritano nemmeno di essere confutate. Se l'analisi chimica non vale a distinguere in un campione di vino l'acqua che vi esiste naturalmente da quella che per avventura vi fu aggiunta ad arte, si può però dosare con precisione la quantità totale di acqua. Pertanto chi teme che gli si adacqui il proprio vino, dovrà custodire un campione del vino acquistato, e presentarlo insieme all'altro del vino sospetto al chimico, il quale potrà dai risultati delle determinazioni analitiche eseguite sui due campioni, stabilire con certezza se realmente ad uno di essi fu aggiunta dell'acqua.

In alcune regioni del mezzodì della Francia, e tra noi nella Sicilia è invalso l'uso di gessare i vini, cioè di gettare del gesso polverizzato sull'uva durante la pigiatura, allo scopo di ravvivare il colore del vino e di renderlo più facilmente conservabile. L'aggiunta del gesso dà origine nel vino a del solfato potassico, il quale, quando sorpassa un dato limite, riesce nocivo alla salute, avendo proprietà purgative che non sono sempre nel desiderio dei bevitori. Il Governo francese già da molti anni non tollera i vini gessati, quando la quantità di solfati contenuti in un litro di vino sorpassa quella corrispondente a quattro grammi di solfato potassico; recentemente poi ha ridotto il limite di tolleranza a due grammi. Tra noi non vi è alcuna legge che limiti la gessatura dei vini; però alcuni Municipii, e tra questi quello di Torino, non permettono lo spaccio del vino gessato oltre la misura dei quattro grammi di solfato potassico per litro.

Per correggere i vini affetti da una malattia speciale detta grassume, in alcuni luoghi si usa l'acido solforico (olio di vetriolo); ma spesse volte il rimedio è peggiore del male, e si mettono in commercio, più frequentemente di quello che si crede, dei vini veramente nocivi. Si può svelare la presenza anche di piccole quantità di acido solforico libero nel vino con un mezzo semplicissimo che ora vi spiego. Si immergono nel vino sospetto delle listarelle di carta bianca senza colla (carta bibula, carta da filtro) e quando queste si sono imbevute di liquido, si fanno asciugare ad una temperatura non superiore a 100 gradi. Nel caso in cui il vino contenesse dell'acido solforico libero, le listarelle di carta dopo asciugate divengono, come quelle che vi presento, di color nero e friabilissime.

Il vino può qualche volta per frode o per incuria contenere delle combinazioni di rame e di piombo, le quali, anche quando vi si trovano in quantità piccolissima, lo rendono estremamente nocivo alla salute.

È cosa notissima che il vino fatto con l'uva solforata ha un odore ed un sapore disgustoso di ova putride dovuti alla presenza di gaz acido solfidrico. Per togliere al vino questo difetto, la scienza ha consigliato di travasare il vino, dopo che ha cessato completamente di fermentare, in botti in cui si è bruciato poco prima dello zolfo. Lo zolfo abbruciando produce del gaz acido solforoso, il quale reagendo sopra l'acido solfidrico dà origine a poca acqua ed a zolfo che si depone allo stato solido, ed è affatto insolubile nel vino; perciò rimane completamente decomposto il gaz che era cagione del cattivo odore. L'esperimento che ora faccio vi chiarirà quanto vi ho detto. In una campanella ho raccolto del gaz acido solforoso che ha l'odore soffocante dello zolfo che abbrucia; in un'altra campanella che ha un volume doppio della prima evvi del gaz acido solfidrico. Metto in comunicazione le due campanelle, e voi vedete che le loro pareti si tapezzano di una materia polverulenta di color giallo e che è zolfo puro; e dopo qualche istante posso lasciare in contatto dell'aria i due recipienti senza che voi siate incomodati dall'odore del vapore di zolfo e da quello di uova putride; il che prova che i due gaz venuti tra loro a contatto si sono reciprocamente scomposti. — Alcuni produttori e negozianti di vino invece di togliere l'odore di zolfo col metodo che vi ho indicato, gettano nella botte dei frastagli di rame o di piombo, i quali scompongono l'acido solfidrico, è vero, ma l'eccesso di questi metalli in contatto degli acidi che esistono nel vino dà origine a combinazioni solubili che sono eminentemente velenose. Per la grande facilità colla quale gli acidi organici intaccano il rame ed il piombo, si deve guardarsi bene dal conservare il vino in recipienti fatti con questi due metalli, oppure in quelle stoviglie grossolane la di cui vernice essendo fatta con un eccesso di litargirio o di alquifoux, che sono due composti contenenti piombo, riescono assai facilmente corrose dagli acidi. — Per lo stesso motivo, a mio parere, sarebbe da proscriversi assolutamente l'usanza che è diffusa nell'economia domestica di ripolire le bottiglie sciacquandole con acqua e pallini da caccia. Basta un granellino di piombo lasciato per inavvertenza nella bottiglia per rendere il vino suscettibile di produrre gravi malori.

Per colorire artificialmente i vini e specialmente quelli fatti col metodo Pétiot invece di usare l'enocianina, la quale, come già ebbi occasione di dire, è la materia colorante naturale dell'uva, si ricorre non solo a diverse materie coloranti vegetali, ma specialmente alla fucsina che è uno dei molti colori che si preparano col catrame del carbon fossile. La fucsina è dotata di una facoltà tintoria molto grande come potrete convincervene osservando i tre recipienti che sono avanti a voi, nei quali vi è dell'acqua alcoolizzata contenente rispettivamente un millesimo, un decimillesimo ed un centimillesimo del suo peso di fucsina. Ad onta che basti pochissima quantità di questa sostanza per tingere un gran volume di vino, tuttavia se ne deve assolutamente proscrivere l'uso, perchè nella sua preparazione si adoperano dei composti che riescono velenosissimi anche in piccole dosi. La sofisticazione dei vini colla fucsina e più comune di quello che generalmente si crede, ed io ebbi più volte occasione di analizzare dei vini che erano artificialmente colorati con questa sostanza. Anzi mi si presentò l'opportunità di far conoscenza con un commesso viaggiatore, il quale vendeva una soluzione concentrata di fucsina con due nomi differenti, cioè colore pei vini, e inchiostro violetto. Infatti è la fucsina che forma l'ingrediente principale di quell'inchiostro violaceo ora di moda, ma che formerà la disperazione dei paleografi dell'avvenire.

Porrò termine alla mia conferenza coll'accennarvi un'alterazione a cui possono andar soggetti i vini per la cattiva qualità del vetro delle bottiglie. Per ottenere un vetro più facilmente fusibile e pertanto per risparmiare del combustibile, alcuni fabbricatori di bottiglie aggiungono una eccessiva quantità di soda nella pasta del vetro. Si ha così un vetro che si altera assai facilmente quando rimane per un certo tempo in contatto con un liquido acido, quale è appunto il vino. L'acido decompone il silicato sodico mettendo in libertà della silice gelatinosa che rimane sospesa nel vino impartendogli una vischiosità simile a quella che si nota nei così detti vini filanti. In questo recipiente, che contiene una soluzione diluita di silicato sodico, io verso una soluzione pur diluita di acido tartarico, e, come voi vedete, si depone subito una materia gelatinosa che e appunto la silice. Questo esperimento vi dimostra ciò che lentamente avviene conservando per molto tempo del vino in bottiglie di cattiva qualità.

Giunto al termine della mia conferenza devo ripetervi che la ristrettezza del tempo mi ha solo permesso di esporvi alcuni dei fatti più salienti della chimica del vino. Coloro che desiderassero di approfondirsi in questo ramo della chimica applicata potranno trovare più diffusamente e con maggior chiarezza svolti gli argomenti che io ho appena enunciato, nei trattati di enologia e specialmente nel trattato sull'arte di fare il vino dei professori Cauda e Botteri, negli scritti del valentissimo enologo professore Carpenè e nelle lezioni sulla chimica del vino di Neubauer, di cui il prof. Sestini fece una ottima traduzione italiana. — Io mi riterrò soddisfatto se vi avrò dato occasione a studj importantissimi, e fortunato se non avrò parlato tanto male sul vino da richiamare alla memoria di qualcuno dei miei uditori il principio dell'ode pindarica a Jerone di Siracusa: Ottima è l'acqua.

[II-1] La densità di un mosto non dipende unicamente dal glucosio; ma eziandio in piccola parte da altre sostanze che vi sono disciolte. Di questo fatto si tiene conto nella graduazione dei gleucometri.

CORRADO CORRADINO — IL VINO NEI COSTUMI DEI POPOLI

(Conferenza tenuta la sera del 26 gennaio 1880).

Se il vino non dovesse considerarsi altrimenti che come una bevanda allegra capace di annebbiare la limpidezza talora troppo importuna dell'umano cervello, oppure come il tristo lusinghiero veleno che conduce con inviti da sirena all'ultimo abbrutimento, io non avrei davvero il coraggio, parlando del vino nei costumi, di far assistere il mio gentile uditorio a una lunga sfilata di popoli tutti malfermi sulle proprie gambe. Ma per fortuna, anche trascurando le quistioni economiche e commerciali in cui il vino ha tanta parte, esso ha nei costumi dei popoli una ben altra importanza. E non sarà difficile, per esempio, che noi vediamo brillare un vivo raggio di civiltà nelle sale dei triclinii ove scoppiettano le arguzie umide di falerno dei banchettanti coronati il capo di bianche rose convivali, mentre invece distingueremo chiaramente l'urlo selvaggio della barbarie presso quei popoli che invece di vino bevono strani liquori nelle tazze formate molte volte dal cranio dei nemici vinti in battaglia. Con ciò non voglio già dire — Dio scampi! — che l'uso del vino sia potente criterio a giudicare della civiltà di un popolo; voglio soltanto rilevare un fatto, che cioè presso tutte le nazioni civili l'allegro culto di Bacco par che vada a mano a mano acquistando in raffinatezza e in estensione, tanto che ne risentono l'influenza tutti i costumi e pubblici e privati, tanto che il vario uso del vino giunge persino ad avere non so qual carattere di allegoria, di simbolo, quasi fosse un vero e proprio elemento di civiltà.

Osservatelo questo ilare Iddio, questo ultimo venuto ad assidersi al banchetto dei Numi: Bacco non ci appare soltanto quale ce lo rappresentano alcune statue antiche, col capo coronato di edera e leggermente arrovesciato all'indietro, cogli occhi velati dai vapori di un'ebbrezza voluttuosa; ben presto le sue membra ingigantiscono quasi, si spiegano tutte le forze recondite della sua attività e gli uomini salutano in lui il simbolo della giocondità e della vita. E notate che prima ancora che egli esistesse, era un Dio il vino stesso, Θέοινος, il vino puro era un Dio, Ἄκρατος.

Ma come suole sempre avvenire che dal fatto concreto e sensibile le menti umane tosto assorgono alla astrazione del medesimo, così dai caldi vapori del mosto emerse ben presto netta e spiccata la personalità del Nume, e il giovine Bacco ebbe sagrifici ed altari. La gratitudine umana lo salutò coi nomi più belli: egli e il Dio Toro, sinonimo di forza, e a questo proposito giova ricordare quanto scrive Plutarco nella vita di Licurgo, dell'abitudine che avevano le donne spartane di lavare i propri bambini nel vino per isperimentare la loro forza[III-1] essendo opinione che mentre questi bagni indebolivano vieppiù gli infermicci, afforzassero invece i ben costituiti. Bacco è il Dio salvatore, σωτὴρ, il Dio Mago, Γόης, il Dio medico Ιατρομάντις; e il medesimo Plutarco nella vita di Cesare fa menzione di una malattia da cui era afflitto l'esercito di Cesare, malattia che il grande capitano guarì permettendo ai suoi soldati una solenne ubbriacatura. Da quel giorno, soggiunge il grave storico di Cheronea, i soldati mutarono la complessione dei loro corpi.

Bacco ha ancora sul fronte l'ornamento di due corna potenti, come colui che primo accoppiò i buoi all'aratro; egli e compagno alla Dea delle biade, alla Dea della bellezza e dei piaceri, e non muove quasi passo senza che gli tengan dietro tutte e nove le Muse.

Ora quale altro liquore può vantarsi di aver ottenuto dagli umani onori così solenni?

Che il bisogno di pozioni alcooliche sia stato sentito di buonissima ora, e specialmente presso alcuni popoli, lo prova ad esuberanza la storia: e che strane miscele furono inventate, e a che non si ebbe ricorso per appagare questa necessità di sentirsi, per così dire, aumentata nei polsi la vita mediante bevande spiritose! Taccio della birra che pure può vantare origini così antiche e più forse dello stesso vino: ma ad essa non osò nessuno tributare onori come al liquor della vite, e noi leggiamo ad esempio nell'Edda che se è concesso agli eroi morti in battaglia di tracannare nel Valhalla enormi calici di birra, al solo Odino è dato di esilararsi col vino mesciutogli dalle mani delle belle Valkiri.

È noto a tutti il vino che si traeva antichissimamente e si trae ancora oggidì presso alcuni popoli dall'albero della palma. I Circassi formano un liquore inebriante mescolando il miele con un alcool tratto dai semi di canapa. I Cinesi ne ricavano dal riso; i Tartari dalle carni di castrato e di agnello, e altri popoli da una infinità d'altri ingredienti. Che più? Gli stessi Americani prima che conoscessero il vino, preparavano, al dire degli storici, bevande alcooliche colla mollica di pane masticata, coi semi di grano e con altri prodotti vegetali, e avevano tanto in onore queste bevande che fissavano certe feste speciali a scopo di ubbriacarsi, feste dalle quali escludevano come non abbastanza degne, le donne.

Ma appena conobbero il vino vi si abbandonarono con vera frenesia vendendo per averne tutto quanto possedevano; nel che non facevano che imitare gli antichi Galli i quali, secondo che racconta Ateneo, davano per un bicchiere di vino i loro schiavi e le loro case, e talora vendevano persino la propria libertà.

Un solo liquore può fino ad un certo punto competere col vino, ma per brevissimo tempo: ed è il soma, il liquore che traevano gli antichissimi Arii dal sugo dell' Asclepiadea acida o sarcostemma viminalis e di cui si servivano quei nostri padri remoti ad uso di libazioni. Ma nel suo passaggio a traverso l'Asia Minore e la Grecia il soma dovette cedere innanzi ai trionfi del vino, tanto che non soltanto la fama, ma se ne perdette quasi perfino il nome.

Ed ecco dunque questo vino trionfatore fare la sua apparizione solenne nel mondo: il leggendario Noè pianta dopo il diluvio la vigna, dando con ciò prova di altissimo senno: perchè in seguito a una così indiscreta risciacquata era naturale che il mondo dovesse sentire il bisogno di un bagno diverso.

L'umanità infatti si tuffò voluttuosamente nel vino: e quando vide attraverso il folto fogliame pampineo brillare al sole i grappoli dorati; quando dai grappoli premuti vide sgorgare in copia il rosso liquore, e bevutolo sentì salire dolcemente al cervello i vapori di un'ebbrezza deliziosa e si trovò spontanee sul labbro le canzoni piene di ilarità e di gioia, allora si inchinò plaudente innanzi a Bacco salutando in lui il Dio della vita.

Egli è veramente allora quale ce lo descrive Euripide nel Coro delle Baccanti:

«È il Dio dei piaceri; egli regna in mezzo ai banchetti tra le corone di fiori; anima le danze allegre al suono della cornamusa, fa nascere le folli risa e dissipa gli affanni; il suo nettare giocondando la tavola degli Dei ne aumenta la felicità e i mortali bevono nella sua tazza il sonno e l'oblio dei mali».

Tale dunque è il Dio: e inneggiando a lui si inneggia al rappresentante delle forti e spensierate gioie della vita. E quando, per uno strano rivolgimento avvenuto nella coscienza, la vita parrà un fardello pesante all'uomo, pensieroso soltanto di conseguire per virtù di sagrifici la patria celeste, non sarà forse contro a Bacco e contro a Venere che si scaglieranno sopratutto gli anatemi dell'ascetismo medioevale?

Ma con tutto ciò, Bacco non è soltanto il conviva sollazzevole che anima la gioia e il tripudio dei banchetti: egli si avvolge, anche, talora nel grave manto sacerdotale, talora veste la maglia del guerriero, talora persino la toga severa del moralista. Non si può tuttavia negare che il più delle volte ha un'altra abitudine: quella di gettar lungi da sè tutte quante le vesti. Ma in questo caso noi imitando il pietoso esempio di Sem, stenderemo un velo sulle sue nudità vergognose.

Mi affretto però a soggiungere che per quanto riguarda Bacco nei templi non conviene pigliar la cosa troppo in sul serio e c'è anzi sempre da temere ch'egli non stia per farne qualcuna delle sue; quando, ad esempio, vuotatosi il sacro recinto della folla accorsa e rimasti i soli sacerdoti, fumavano sull'ara le dapi innaffiate di vino sacrificale, oh quante volte dovette fregarsi le mani malignamente sorridendo l'astuto Nume, nel vedere quei gravi personaggi barcollare e tentennare nel far la riverenza a qualche suo confratello d'Olimpo!

E c'è forse ancora modo di meravigliarsi che i responsi famosi dei sacerdoti e delle sibille fossero così oscuri e ingarbugliati, quando sappiamo che venivano dettati non soltanto da Febo Apollo, ma anche dal buon padre Lieo?

Non Dindymene, non adytis quatit

Mentem sacerdotum incola Pythius,

Non Liber aeque, non acuta

Sic geminant Corybantes aera

Tristes ut irae.

Orazio, Odi, I, 16[III-2].

Del resto questo vino ch'io chiamerò sacro entrò di buonissima ora nei templi e fu anzi parte principalissima delle cerimonie religiose le quali s'iniziavano sempre con le cosidette libazioni. L'antichità remotissima di quest'uso ci è attestata dallo stesso Omero il quale lo descrive minutamente in più luoghi dei suoi poemi. Consistevano le libazioni nel versare in un calice del vino, nello spanderne successivamente qualche goccia sovra l'ara o sul fuoco o anche per terra e quindi nel bere il rimanente. In origine però le libazioni non si facevano col vino, come si rileva da questo passo di Porfirio nel trattato De Abstinentia: «Le libazioni presso gli antichi erano per la massima parte sobrie: sobrie si chiamano quelle che si fanno coll'acqua. Poi si fecero col miele... al quale tenne dietro l'olio, e finalmente il vino».

In Grecia e in Roma furono in grandissimo uso e precisamente in quella maniera che viene descritta da Omero: ma troviamo di più che era costume in Roma di libare anche tra le corna della vittima ripetendo ogni volta la nota formula: «Sii tu accresciuto per mezzo di questo vino nuovo».

Ed esempi di libazioni troviamo ancora presso molti altri popoli: nei due sagrifici quotidiani nel tempio di Gerusalemme gli Ebrei libavano vino, e pretendono anzi i Rabbini che di qui nascesse l'uso del vino nella messa cattolica.

Gli Indiani, al dire di Strabone, non bevevan vino che nei sagrifici, e se crediamo ad Erodoto il quale però sembra che in altri luoghi si contraddica, gli Egiziani, presso cui erano in grande onore le libazioni prima di immolare la vittima, non permettevano il vino che ai sacerdoti[III-3].

Libavano vino gli Etruschi nei sagrifici, i Galli nella famosa solennità che aveva luogo al tempo della raccolta del vischio, e per citare un popolo di barbari costumi, anche gli Sciti, i quali libavano vino sul capo dello schiavo prima di immolarlo a Marte.

Nè posso passare sotto silenzio i suntuosi banchetti che tanto in Grecia quanto a Roma si offerivano in certi giorni agli Dei, e nei quali il vino sacrificale ebbe sempre larghissima parte.

Che se poi — mi perdonino gli scapoli e le zitellone — mi è concesso di distinguere in tre i punti più solenni e importanti della vita, nella nascita cioè, nelle nozze e nella morte, non è difficile lo scorgere come in ognun d'essi il liquor della vite abbia sempre avuto un'importanza speciale; e non voglio mica accennare soltanto ai veri rigagnoli di vino che fecero ciarliere in ogni tempo le gole degli invitati a un banchetto per un neonato o per una fanciulla che va a marito. Parlo di cerimonie speciali e consacrate dai diversi culti, di cerimonie in cui il vino assume un vero carattere di simbolo religioso.

Così anche oggi un uso particolarissimo vige presso il popolo ebreo: quando il sacerdote ha compiuta sul neonato quella tale operazione che corrisponde al nostro battesimo cristiano, ed ha per tal modo impresso in lui — indelebilmente — il carattere di israelita, accosta alle labbra un vaso ricolmo di vino, ne beve una goccia e quindi ne umetta pure le labbra del bambino. Il rito cristiano ha sostituito al vino un grumello di sale; gran peccato davvero che a questa età la Natura non abbia concesso l'uso della parola! Chè non sarebbe certo senza interesse il sapere da questi omuncoli pur mo' nati, se essi non preferiscano per avventura sulle labbra il dolce bacio del vino, simbolo delle forti gioie della vita, a quello acre e mordente del sale della sapienza!

Presso gli stessi Ebrei si consacrano ancora oggi gli sponsali col benedire il vino di cui bevono poi gli sposi nel bicchiere medesimo: uso di cui trovo un esempio appo i Galli antichi, sebbene con qualche divario, perchè presso a costoro gli sposi bevevano due diverse specie di vino versato in uno stesso calice da due diversi bicchieri.

Cerimonie assai simili a queste si attribuiscono in identiche circostanze da molti viaggiatori ad alcune popolazioni specialmente di razza slava.

Per quel che riguarda i riti funebri nessuno ignora quanta parte avesse nei medesimi il vino presso i Greci ed i Romani: col vino, secondo che ci descrive lo stesso Omero, si estingueva il rogo su cui ardeva il corpo del defunto, col vino e coll'olio se ne lavavano le ceneri prima di raccoglierle nell'urna; e in Roma col vino e col latte come si ricava da Tibullo. E ho appena bisogno di ricordare quell'inamabile usanza di terminare le funebri cerimonie con un banchetto, dove troppo spesso svaniva indecentemente ogni dolore fra i tripudii a cui davan luogo le frequenti libazioni di vino generoso.

Molto di sacro hanno naturalmente i trattati di alleanza e i giuramenti: e anche qui trovo che presso alcuni popoli concorreva il vino a renderli più solenni. Ad esempio gli Sciti si ferivano alla fronte lasciando gocciare qualche stilla di sangue in un calice contenente del vino; immersavi quindi la punta di un dardo bevevano di quella miscela. E i Valacchi invece pongono in un vaso del pane, del sale e una croce: giurano, e poi in quel vaso le parti contraenti bevono vino.

Neanche il cristianesimo, il quale pure si dimostrò così acerrimo nemico d'ogni forma del culto pagano, potè bandire del tutto il vino dalle sue cerimonie: ed è caratteristico quello che ci racconta il Peysonel nella sua relazione d'un viaggio nell'Asia Minore. Trovandosi egli a Smirne nel 1768, potè assistere a una cerimonia del rito greco in cui ravvisò un vero e proprio avanzo delle antiche libazioni; dovendosi lanciare in acqua un battello, il costruttore, prima che le altre cerimonie d'uso si compissero, si fe' portare una coppa di vino, e dopo averne spruzzata la poppa del naviglio, bevette il rimanente e ne fece bere agli astanti.

E nel medesimo rito greco la libazione di vino interviene pure nella cerimonia degli sponsali e nei banchetti funebri; e quel che è più singolare il vino ha pure la sua parte nel sacramento dell'estrema unzione. Perchè questa vien somministrata coll'olio puro ai moribondi; ma quando la si dà a qualche reo di peccato mortale, si mescola coll'olio una leggiera quantità di vino.

D'altra parte il vino nel rito cristiano fu innalzato all'onore supremo di rappresentante del sangue stesso del Cristo, onde per questo lato esso non ha certo ragione di rimpiangere gli antichi secoli quando aveva tributo di laudi divine. E fu un tempo in cui non soltanto il sacerdote, ma tutti i fedeli avevano il diritto di dissetarsi a questa allegorica fonte e di bevere alla sacra mensa il sangue del loro Dio sotto la forma di vino; nel secondo secolo, ad esempio, era del tutto in uso la comunione sotto le due specie. Venne poi di mano in mano proibita ai laici la comunione col vino, ciò che diede origine a controversie e ad eresie senza numero: e ancora nel 1413 il Concilio di Costanza minaccia pene severissime al prete che comunichi i fedeli altrimenti che col pane consecrato. Ciò non dimeno in Russia anche al dì d'oggi tutti i cristiani comunicano sotto le due specie.

Che se noi vogliamo farci più persuasi di questo simbolismo del vino quale si usa nelle cerimonie religiose, non abbiamo che a por mente alla predilezione con cui i predicatori del secolo XVI si occupano del medesimo nei loro sermoni. E troveremo ad esempio fra molti altri passi caratteristici quello in cui Robert Messier paragona Gesù Cristo a un taverniere che distribuisce agli apostoli il suo vino: S. Giovanni si sentì inebriato dal solo odore, e Giuda poi trovò il liquore così delizioso che deliberò di venderlo per trenta denari. Nè è meno singolare Michele Lenoir che apprestando nel 1521 ai suoi fedeli ascoltatori un allegorico pranzo di vigilia, così parla del vino nel suo Quadragesimale spiritual e: «Puis après le pain blanc et le vin ne se doivent en oubli mettre. Pour le pain et le vin nous pouvons entendre les joyes du paradis.... Le vin est de deux couleurs, blanc et rouge: le blanc nous donne l'éspérance d'aller en paradis, car il fait bon courage. Et le rouge fait le bon sens réduisant en mémoire le précieux sang de Jésus Christ»[III-4].

Poche cose dirò del vino che starei per chiamare marziale, siccome quello che conforta gli animosi alle pugne e cui gli antichi popoli (imitati in ciò dai moderni) tracannavano copiosamente per incitarsi al valore e allo sprezzo della morte.

Già Platone osservava che frequente è l'ubbriachezza nelle nazioni bellicose; ma è da considerarsi che in alcuni popoli, massimi bevitori, la forza belligera non è che brutalità barbara e selvaggia, aumentata ancora dall'immoderato abuso delle bevande alcooliche, come si legge degli Unni e specialmente del famoso loro capitano Attila; mentre altri popoli, pure deditissimi al bere, si possono dire dotati di quella forza maschia e intelligente che non dipende soltanto dal nerbo del braccio ma dalla virtù dell'animo generoso.

E fra i primi vanno annoverati certamente quegli Sciti che si facevano coppe da bere col cranio dei vinti nemici. Era uso presso di loro che ogni anno il governatore di una provincia dovesse invitare ad un festino tutti coloro che avevano ucciso qualche loro avversario: quivi il vino era largheggiato in copia meravigliosa e mentre gli invitati sotto l'impero dell'ebbrezza si abbandonavano ad ogni eccesso, da lungi contemplavano l'orgia con occhio invidioso quelli che non potevano vantarsi ancora d'aver trucidato un nemico. Nè meno ubbriaconi o meno barbari erano quei Britanni, di cui scrive Strabone ἀντροπόφαγοι τε ὄντες καὶ πολύφαγοι, che erano cioè antropofaghi e mangiatori solenni.

Ma altra era la forza di quei tenaci Anglo-Sassoni, destinati a tante conquiste contro il suolo ribelle e nel regno del pensiero, e sui quali Gregorio Magno, dopo di aver deplorato la loro smoderatezza specialmente nel bere, fa questo singolare lamento: «Oh qual danno che il principe delle tenebre debba aversi così bei sudditi! Angelica è veramente la loro sembianza e degni sono di essere compagni agli angeli nel cielo».

E se crediamo a quel che ci narra Plutarco nella vita di Camillo, bastò che Arunte Etrusco portasse ai Galli un saggio del vino italico perchè costoro s'infiammassero del desiderio di passare le Alpi e si sentissero più coraggiosi e più forti a sopportare le fatiche e i rischi della conquista. Nè dei Germani (anche di quelli lontani dalle rive del Reno) è ben certo che non bevessero vino o che ne bevessero solo scarsatamente. E sebbene Cesare scriva degli Svevi che non permettevano fra loro l'introduzione del vino, perchè effeminatore, pure sappiamo che ben presto dai vigneti renani esso si diffuse per ogni parte della Germania, e Tacito ci presenta quelle fortissime genti assise a desco dinanzi ai boccali di birra e di vino assai più tempo che a uomini temperanti non si convenga.

Che se presso alcuni popoli, come avveniva per esempio dei Cartaginesi, troviamo leggi che fanno divieto ai soldati di bere vino durante la campagna, non è men vero che fu considerato in ogni tempo ottimo consiglio quello di rincorare i combattenti che fiutano prossima la mischia con qualche sorso abbondante di vin generoso o di altro liquore potente, il quale aiuti i morituri ad incontrare serenamente il loro fato — e a menare con più furia le mani.

E come prima il vino è l'incitatore alla battaglia, così è in seguito il premio della vittoria: e ci siano di esempio per tutti, quei guerrieri omerici dal colossale torace che dopo ogni fatto d'arme stendono eroicamente la tovaglia e inaffiano le enormi pietanze con veri torrenti di elettissimo vino.

E che portenti d'uomini eran quelli!

Quando leggiam che l'inclite ventraie

Degli Atridi e del figlio di Peleo

Ingoiavan di buoi terghi arrostiti,

Oh l'antica rozzezza! esclamiam tosto.

Saporiti bocchini, e stomacuzzi

Di molli cenci e di non nata carta!

Ma perchè ammiriam poi che il seno opponga

Dello Scamandro burrascoso ai flutti

L'instancabile Achille, e portin aste

Sì smisurate i capitani greci?

Non consumava ancor muscoli e nervi

Uso di morbidezza: erano in pregio

Non membroline di zerbini inerti,

Ma petto immenso, muscoloso e saldo

Pesce di braccio, e formidabil lombo.

A' gran mariti s'offerian le nozze

Non di locuste ognor cresciute a stento

In guaíne d'imbusti; era bel corpo

L'intero corpo, ed Imeneo guidava

Ai forti sposi non balene o stringhe,

Ma sostanze di vita.

Gozzi, Sermoni.

Ora immaginiamo noi, avvezzi a centellinare nei calicini microscopici, di che badiali circonferenze di pátere abbisognassero quegli eroi, per accompagnare di tali bocconcini.

Ma ecco che l'argomento mi conduce a far parola del sollazzevole Bacco, spensierato re dei conviti e provocatore dei tripudi chiassosi ove troppo sovente la ragione si annega spontanea nei bicchieri ricolmi. Qui davvero il mio tema minaccia di diventare inesauribile: e non sarebbe certo cosa priva d'interesse lo studiare i costumi variissimi dei popoli per rispetto alla maniera del bere e alle cerimonie usate in così fatte circostanze, e anche agli utensili diversamente adoperati all'uopo; nè gli scrittori ci sono avari di notizie a questo riguardo. Ma oltre che un siffatto studio mi condurrebbe troppo in lungo, io credo che sia in ogni modo sufficiente all'illustrazione del mio soggetto l'accennare con qualche minutezza agli usi speciali che vigevano presso i Greci e i Romani, appo i quali il lusso della tavola vide ciò che è ultimo nello sfarzo, nella raffinatezza e anche nella corruzione.

Ma non voglio tacere anzitutto delle feste in onore di Bacco, le quali in breve andar di tempo si moltiplicarono per modo da poterne appena ricordare i diversi nomi; ed è naturale che discorrendo di banchetti si citino queste solennità le quali si terminavano quasi sempre con un'agape pubblica o privata della quale non avevano certo mai a dolersi gli spacciatori di vino. Nei tempi più antichi di Grecia non erano in troppo grande uso le feste; e Aristotile scrive nell'Etica che non ve n'erano forse altre in allora che quei banchetti soliti ad apprestarsi in segno di gaudio universale dopo la raccolta delle messi e la vendemmia. Ma ben presto, come ho detto, per ragioni di varia natura e specialmente politica, in ogni città greca si istituirono pubblici spettacoli; e fu appunto da quel tempo che anche le feste di Bacco andarono via via moltiplicandosi, e per guisa che il padre Lieo ebbe, io credo, più giorni e solennità a sè dedicate che qualsiasi altro nume d'Olimpo.

E di vero tra le feste di Bacco si annoverano le antiche, le nuove, le grandi, le piccole, le diurne, le notturne, le campestri, le urbane, le autunnali, le primaverili e via dicendo, a cui sono da aggiungersi i troppo famosi Baccanali che acquistarono in Roma al tempo del console Postumio una così trista rinomanza.

Perciò che riguarda la tavola vuolsi da alcuno (e la cosa mi pare ben lontana dall'esser provata) che ogni uso di mollezza derivasse ai Greci dalla Magna Grecia ossia dall'Italia meridionale; mentre da prima erano la sobrietà e la parsimonia le doti comuni a tutti gli Elleni. Il fatto è che quanto più si risale ai tempi remoti tanto più noi ritroviamo, come è ben naturale, sbandita dalla tavola o piuttosto ignorata da tutti i popoli la raffinatezza dei pasti quotidiani: i quali si vanno invece arricchendo di morbide delicatezze a misura che penetrano nelle città la ricchezza, la coltura e le costumanze gentili.

Da principio il pranzo greco consisteva tutto nel così detto deipnon, in cui nè la quantità, nè la ricercatezza dei cibi erano grandi: ma mutarono affatto le cose allorchè si aggiunse al deipnon la geniale appendice del simposio, che acquistando sempre col tempo maggiore importanza divenne infine la parte principale e più desiderata del banchetto.

Una libazione, la quale si faceva invocando il buon Genio o Igea, l'Iddia della salute, poneva termine al deipnon e subito un'altra simile libazione dava passaggio al simposio. A questo venivano invitate anche persone che non avevano pigliato parte al pranzo, giacchè, come indica il nome stesso, nel simposio non doveva trattarsi d'altro che di bere, e perciò appunto venivano recati in tavola cibi eccitanti la sete. Quanto alla maniera e alla misura del bere, questa veniva per consuetudine regolata da un simposiarca o re del convito, che veniva eletto a questa temporaria dignità mediante il sorteggio dei dadi.

E quantunque fosse costume di chiamare barbaro in Grecia chi beveva vino schietto, quantunque si usasse di mescolare l'acqua al vino nella proporzione di 3 : 1, tuttavia è da credersi che in sul finire del simposio nè l'orrore della barbarie, nè la venerazione delle vecchie costumanze potessero molto su quei Greci eleganti e delicatissimi, perchè la sala del triclinio non tardava a convertirsi nel teatro di orgie solenni. Dai piccoli bicchieri il simposiarca ordinava a mano a mano si passasse ai più grandi, si incrociavano in ogni direzione i brindisi, si invocavano i nomi delle etére e delle innamorate, e siccome durante il simposio si rappresentavano azioni sceniche e si succedevano le danze, ben tosto gli stessi convitati si facevano di spettatori attori e nella sala tutto era canto e tripudio.

Talora il simposiarca incominciava un brindisi: tutti allora portavano il calice alle labbra e quindi con un moto uniforme, compassato, al tempo medesimo, deponevano sulle mense con un colpo sonoro, le tazze. Altri già ravvisò un avanzo di quest'uso nei moderni commersen degli studenti tedeschi, e si potrebbe raffrontarlo ancora colla challenge degli antichi Inglesi, la quale non altro era che una disfida al bere fatta press'a poco nella medesima maniera di quella testè citata.

Ma appunto perchè gli inni allegri, le arguzie e la innocua allegria del simposio trasmodavano troppe volte in orgie pazze e immodeste, esso fu vietato da parecchie leggi in alcune città greche e particolarmente bandito, com'era naturale, dalla rigida Sparta e anche da Creta.

Ma se alcune città lo cacciarono con ignominia, siccome corruttore dei costumi e ammollitore delle fibre, trovò il simposio ospitalità veramente regale nella massima fra le città che ebbero fama immensa nel mondo, in Roma.

Quivi dovette mutare il suo nome, che venne tradotto alla latina in quest'altro di comissatio o compotatio: ma i suoi costumi rimasero i medesimi se non divennero forse più corrotti e più corruttori. Già sul finire della repubblica i discendenti di Quirino avevano posto nel più perfetto oblio le rape famose del Dittatore Cincinnato e la sobrietà meravigliosa di lui; che anzi si cominciavano ad ornare splendidamente i triclinii e a render liete le mense di cibi peregrini.

I buoni Romani che poc'anzi avevano trovato prodigiosa la splendidezza di Cesare il quale aveva lor servito quattro differenti sorta di vino, arricchivano ora con grave dispendio le cantine da cui ricavavano poi le anfore del vino opimiano di cent'anni per le orgie della comissatio.

E siccome su 80 località produttrici di vino famoso presso gli antichi, circa due terzi erano Italiane, così venivano prodigati sulle mense romane il Sorrentino, il Falerno, l'Albano, il Setino, il Cecubo, il Massico, il Capuano, il Tarentino, ed altri molti.

Ben presto in Roma la sfrenatezza dell'orgia e l'incredibile fasto dei prandii non conobbe più limite e basta per esserne convinti leggere quella fina satira che però dipinge così al vivo il corrotto costume, cioè il Convito di Trimalcione; basta leggere quel che scrive Cicerone in una delle sue Verrine, in cui paragona la sala del convito dopo la comissatio a un campo di soldati dopo la battaglia.

Ma io non farò che accennare come non differisse quasi nella forma la comissatio latina dal greco simposio. Anche nei triclinii romani i convitati vestivano una tunica speciale, cingevansi il capo e talora anche i piedi di rose convivali, eleggevano coi dadi il Rex convivii.

« Bene tibi, vivas! » — gridava un banchettante volgendo il capo al suo vicino, e questi accoglieva e ripeteva il brindisi, mentre lo schiavo coppiere stava intento dietro di lui a riempirgli la tazza vuotata. E altre volte, come abbiamo da Marziale, i convitati si figgevano in capo di tracannare tanti bicchieri quante lettere aveva il nome della propria innamorata, e fortunato allora — o disgraziato — chi ardeva per un' Amarillide o per una Domitilla!

Nel vino, secondo che si ricava da Ateneo e da molti altri scrittori, usavano mescolare sostanze aromatiche, e mastice, e assenzio e fiori e persin della pece onde il così detto vinum picatum, il quale però non era gran fatto apprezzato; e bevevano anche vino di oltre due secoli, che per l'estrema vecchiezza si era convertito in una specie di glutine aderente alle anfore, che veniva sciolto per mezzo dell'acqua bollente.

Non mancavano nella comissatio le rappresentazioni sceniche, ma non pare che i Romani imitassero i Greci nel pigliarvi parte; o più gravi o più avvinati o forse meno artisti, si contentavano di farla da spettatori, finchè l'orgia invereconda non confondesse insieme schiave danzatrici e liberi cittadini, mime seminude e senatori od equiti romani.

Dopo un certo tempo, per quanto si sentisse infiammata dal desiderio ognor crescente col crescere dell'orgia, non poteva più la gola, come è facile intendere, dilatarsi compiacente a ricevere nuove ondate torrenziali di vino: lo stomaco troppo pieno si ribellava con irresistibile energia. Non perciò si sgomentavano gli eroici figli di Romolo; coloro che avevano domato il mondo intero vollero domare anche l'indocilità del proprio stomaco.

E trovarono la titillatio.

Si appartavano in una stanza prossima al triclinio: quivi li aspettava uno schiavo colla mano armata di una lunga penna dalle barbe rosse. Ed allora quei conquistatori dell'orbe intero spalancavano innanzi a lui le loro fauci: lo schiavo vi introduceva con molto garbo la sua penna, la spingeva con molto garbo fin dentro la gola e leggermente e delicatamente titillabat, titillava... Ad un tratto...

Dio mio, come dire? Ad un tratto il cittadino Romano, felice d'essersi liberato da una grave angustia che gli gravava lo stomaco, traversava la stanza a passi molto larghi e tirando in su il lembo estremo della tunica, e ritornava nel triclinio. Allora poteva bere di nuovo. E quest'usanza doveva essere assai diffusa, perchè lo stesso Cicerone ne parla nell'orazione Pro Rege Deiotaro come di cosa affatto naturale.

Nè ciò bastava: ma per accrescere e render perenne la sete ricorrevano ad altri mezzi ancora. Plinio ne ricorda parecchi: v'era chi mesceva nel vino della pietra pomice, chi vi aggiungeva (scrive il celebre naturalista in tono indignato) cose turpi anche a dirsi; alcuni afferravano a due mani un'anfora e la bevevano d'un fiato per poter rigettare e quindi bevere ancora, altri si avvoltolavano nel fango come porci nel brago, altri arrovesciavano con fatica il capo all'indietro per dilatare il petto e renderlo più capace.

Qual meraviglia che una tal gente disfatta dalle gozzoviglie non sentisse più nei polsi forza bastante per divincolarsi dalle strette erculee dei barbari? fra le altre cose, l'Impero d'Occidente era ubbriaco fradicio: lo urtarono, e precipitò a terra russando.

Allora cominciò veramente un'età nuova: e quanto più s'erano dapprima gli uomini aggrappati alla vita per succhiarne, per esaurirne tutte le possibili delizie, tanto più ora la spregiavano come cosa vile e provocatrice al peccato. Nè certo il vino poteva esser ultimo a provare gli effetti di questa maledizione scagliata con acre voluttà di sagrificio contro ogni gioia terrena.

E mi basti citare a questo riguardo quello che fin dal secolo IV scriveva S. Geronimo ad Eustachio: «Se alcuna cosa in me può essere di buono consiglio, se all'esperto si crede, questo prima ti ammonisco, che la sposa di Cristo il vino fugga come veleno».

In quei lunghi secoli di denso ascetismo, in cui però la coscienza umana si ritempra apprestandosi a gloriose battaglie, ci fa quasi meraviglia l'udire una voce di allegra e talvolta cinica protesta: e l'inno dei Goliardi ci giunge come il grido della ribellione alle smodate esigenze dello spirito, come il primo sintomo d'un risveglio della ragione umana che ritorna dai nebulosi spazi dell'infinito in sulla terra e ne riconosce le serene bellezze. E i Goliardi a chi inneggiano principalmente nei loro canti ove risorge il sentimento della realtà e della natura? Inneggiano sopratutto al vino di cui noverano le lodi con entusiasmo troppo caldo e sincero per non essere bello.

Intanto col successivo svilupparsi, specialmente dopo il secolo decimo, di questo sano elemento per cui gli uomini sono tratti di bel nuovo verso la terra, altri fenomeni si fanno manifesti nei quali rivive una traccia del paganesimo che pareva spento e non era. Ed ecco venire in uso molte feste che ci ricordano press'a poco i Baccanali e i Saturnali antichi benchè svisati in maschera cristiana per l'introduzione di elementi parecchi di cui l'origine prima non è ben nota. E tra queste feste piacemi ricordare la famosa dei Pazzi e degli Innocenti, vera parodia dell'ufficio divino.

Le monde est plein de fous, et qui n'en veut point voir

Doit demeurer tout seul, et casser son miroir.

E quella non meno celebre dell'Asino innanzi al quale, vestito dei sacri paramenti, si celebrava una Messa per ingenua empietà singolarissima. In quest'asino altri ha creduto di riconoscere quello che dopo aver servito al Cristo nella sua entrata in Gerusalemme, passò, secondo la leggenda, a Cipro, a Rodi, in Malta e in Sicilia, quindi traversando a zampe asciutte il mare, a Venezia: nel qual luogo non trovandosi bene pel clima, venne finalmente a Verona dove morì. Ma c'è pure chi non vede in lui che l'asinello il quale avendo servito a Bacco nella sua fuga, fu per ricompensa posto dal Nume a brillare fra le costellazioni nel cielo: dove, sia detto a conforto dei suoi simili, non pare che splendesse meno di qualsiasi altra.

Queste feste non mancavano d'essere accompagnate da orgie scandalose che avevano per teatro le stesse chiese: e benchè i concilii più volte le condannassero, durarono tuttavia molti secoli ancora.

Del resto, i bagordi nell'interno dei templi erano di vecchia data: e già nel 364 il concilio di Laodicea proibisce le agapi che aveano introdotto nelle chiese l'uso dei letti convivali. Seguirono tuttavia, specialmente nelle feste citate; e noi leggiamo ad esempio nel Rituale della Chiesa di Santa Maria Maddalena in Besançon, questa regola espressa da seguirsi al giorno di Pasqua: «Dopo la predica avranno luogo delle danze nel mezzo della nave del tempio: e finite queste vi si farà una colazione con vino rosso».

Quanto al lusso delle mense ecclesiastiche qualche cosa già ne indoviniamo dalle implacabili satire goliardiche: ma assai espressivo in ogni caso è quanto scriveva circa il 1070 San Pier Damiano dei preti del suo tempo: «Bramano di arricchire perchè nei bicchieri cristallini biondeggino mille vini artefatti».

E nel 1149, per citare ancora un esempio, i Canonici di S. Ambrogio di Milano pretendevano in certi giorni dal proprio Abate una succolenta refezione con tre portate distinte: « In prima appositione pullos frigidos, gambas de vino, et carnem porcinam frigidam. In secunda pullos plenos, carnem vaccinam et turtellam de clavezolo. In tertia pullos rostidos et porcellos plenos ».

E se così dimenticavano presso di noi gli ecclesiastici la virtù dell'astinenza e della mortificazione dei sensi tanto cara ai monaci del primo medio evo, non è a credere che i laici fosser da meno di loro.

Nel panegirico di un anonimo a Re Berengario, del secolo X, così viene introdotto un soldato Gallo ad apostrofare gli Italiani: «A che vi corazzate con le dure armi i petti inerti, o Itali? A voi stanno piuttosto a cuore le tazze ricolme di vino».

E poichè ho accennato ai convivii per dispendio e per lusso quasi favolosi dei tempi dell'Impero, mi sia lecito di contrapporre a quel quadro questa descrizione, che un contemporaneo fa del pranzo dato nel 1395 da Gian Galeazzo in Milano, quando ebbe il titolo di Duca:

«Fu dato ai convitati acqua a le mani stillata con preziosi odori e poi seguitarono le imbandigioni tutte accompagnate con trombe et altri diversi suoni, la prima delle quali fu: marzapani e pignocate dorate con arme del serenissimo Imperatore e nuovo Duca in tazze d'oro con vino bianco. Deinde pollastrelli con sapore pavonazzo cioè uno per scotella e pane dorato. Poi porci dui grandi dorati e dui vitelli parimenti dorati. Inde vi furono portati grandissimi piattelli d'argento et per caduno pecti dui de vitello. Pezi quatro de castrato. Capretti dui interi, pollastri quattro, caponi quattro, somata una, salsicci dui e vino greco. Doppo furono portati altri piattelli di simile grandeza con pezi quatro de vitello rosto. Capretti dui interi. Lepore due intere. Piccioni grassi sei. Poi pavoni quattro cotti et vestiti. Orsi due dorati con sapore citrino. Doppo furono portati altri grandissimi piattelli d'argento con fasani quattro per caduno vestiti. Conche grandi di argento con un cervo intero dorato. Daino uno dorato e caprioli due con gallatina. Poi piattelli come di sopra con non poco numero di quaglie e pernici con sapore verde: poi torte di carne dorate con pere cotte. Dopo fu data acqua a le mani facta con delicati odori a li quali seguitava pignocate in forma di pesci inargentate. Poi pani inargentati. Limoni siropati inargentati in taze. Pesce arrostito con sapore rosso. Pastelli de anguille. Poi piattelli grandi de argento furono portati con lamprede e gallatina. Trute grande con sapore nero. Indi torte grande verdi inargentate, mandorle fresche, vino legiero, malvasia, persiche e diversi confetti a varie foggie»[III-5].

Dopo non fu più portato nulla.

E sul vino e sui diversi usi in cui esso ha parte larghissima, molto mi resterebbe a dire se non temessi di abusare dell'attenzione del mio uditorio. Accennerei volentieri a quelle famose storiche proibizioni che sempre furono e in ogni luogo deluse, ad onta delle minaccie e anche delle pene più crudeli. Per cautela igienica Maometto l'aveva vietato ai suoi Musulmani, ma nello stesso tempo descriveva loro il seducente paradiso delle Uri dove i beati potranno dissetarsi ai torrenti di vino che scorrono per i boschetti di eterna primavera. I Musulmani però vollero pregustare quelle delizie anche sulla terra; a nulla valsero le frustate, a nulla il piombo liquefatto versato nella gola del bevitore, a nulla la stessa morte: tuttavia si bevette. I sultani fecero abbattere ogni spaccio di vino, ne distrussero dalle fondamenta i depositi, fecero gittare in mare i carichi d'uva, ma tutto fu vano: si bevette sempre.

Volentieri vi parlerei dell'uso che avevano i Germani di deliberare sedendo a tavola tra i bicchieri, e della specialissima benedizione che gli Ebrei danno al pane e al vino coprendo sulla mensa ogni altra vivanda, e dell'allegrezza di cui è segno il vino versato in sulla tovaglia e di altri usi parecchi. Ma mi contenterò, poichè ho parlato da principio anche di un vino moralista, di discorrerne per bocca della stessa Sapienza:

«Date il vino a quelli che sono in amaritudine d'animo, acciocchè beano e dimentichino la loro miseria».

Proverbi XXI.

«Allegrezza d'animo e di cuore è il vino ammodatamente bevuto: sanità d'animo e di corpo il vino temperatamente bevuto».

Ecclesiastico.

E udite finalmente il Salmo 75:

«Un nappo è nelle mani del Signore e il vino è rosseggiante: è colmo che ne trabocca e si diffonde. Ma tutti i malvagi della terra non ne succieranno che le feccie».

Possiate voi dunque, o signori — è il moralissimo augurio col quale vi ringrazio dell'attenzione benigna — ignorare mai sempre il gusto della feccia e non bere per tutta l'eternità che dello schiettissimo vino.

[III-1] Apprendo che quest'uso vige ancora presentemente nelle Marche: e si crede che i bambini così lavati si fortifichino specialmente nelle ginocchia.[III-2] Del tempio nella parte più romita

Dei ministri le menti di sè piene

Non così Febo incita,

Non il padre Lieo, non Dindimene,

Nè i crotali sonanti

Batton con tanta furia i Coribanti,

Con quanta le sdegnose anime invade

L'ira.

Traduzione di D. Perrero.[III-3] Vedi Erodoto, libro II, passim.[III-4] Cfr. A. Méray, La Vie au temps des libres prêcheurs.[III-5] B. Corio, Storia di Milano. Anno 1395.

M. LESSONA — I NEMICI DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 2 febbraio 1880).

I nemici più pericolosi sono i nemici piccoli. Il leone è scomparso da molte plaghe della terra cui prima infestava, i coccodrilli e gli ippopotami, col moltiplicarsi dei piroscafi lungo il Nilo in Egitto, si sono ritirati al disopra delle cateratte: da lunga pezza il lupo è scomparso dalle Isole Britanniche, come è quasi scomparso oggi dal Piemonte dove abbondava ancora sul principio del corrente secolo: sono scomparsi dal Piemonte i cignali, sono scomparsi gli orsi, i quali, quattro o cinque secoli or sono, erano in così gran numero che la loro carne aveva sul mercato di Lanzo il suo prezzo corrente come quella di capra.

L'uomo, che fa scomparire dalla terra le bestie feroci, non è riuscito a liberarsi dai topi: in certe annate i topi campagnuoli si moltiplicano così straordinariamente che distruggono le messi: in Germania lo Hamster, talvolta venuto così strabocchevolmente a moltiplicarsi, fa egli stesso il raccolto del frumento, e al povero mietitore non rimane altro che andare a ricercare nelle tane del formidabile rosicante il frumento che questo vi ha nascosto.

Or sono pochi anni un naturalista tedesco, il quale aveva tutta la sua vita studiato i mezzi più efficaci per distruggere gl'insetti nocevoli, e sovratutto quegli insetti che riescono più nocevoli in istato di bruco, andava ad un congresso in una grande città ove dovevano convenire dai punti principali della Germania altri naturalisti e agronomi segnalatissimi per proseguire tutti concordemente nell'opera della distruzione degli insetti nocevoli. Il naturalista dormicchiava in una carrozza di prima classe, meditando un discorso che doveva improvvisare, quando il convoglio prese a rallentare la sua corsa e finalmente si fermò: era causa della fermata uno stuolo di brucolini innumerevoli come le arene del mare e le stelle del firmamento, che per passare da un tratto di terreno coltivato, donde avevano fatto scomparire fino all'ultimo filo d'erba, ad un altro tratto al di là della ferrovia, avevano dovuto attraversare questa, e il convoglio era arrivato loro sopra appunto mentre facevano la traversata. L'immenso untume sotto le ruote dei bruchi schiacciati impediva lo andare del convoglio. Il naturalista arrivò in ritardo al congresso, ma in tempo tuttavia per leggere una dotta memoria approvata unanimamente dai membri presenti, intorno ai modi più efficaci di distruggere i bruchi nocevoli alle piante coltivate.

Questi danni spaventosi avvengono appunto in Germania, dove le pubblicazioni dirette ad ammaestrare i coltivatori intorno ai modi di liberarsi da questi loro nemici sono più numerose, dove il Governo se ne preoccupa costantemente, e gli studi zoologici sono meglio in fiore, e (me lo ha detto anche un dotto tedesco) i professori sono più segnalati ed eccellenti che non in qualsiasi altra parte del mondo.

I nemici dell'agricoltura sono i più dannosi all'uomo, perchè, in sostanza, l'agricoltura è la grande base d'ogni umana associazione. Io devo qui parlare dei nemici della vite, pianta che nell'agricoltura tiene un così grande posto, e intendo parlare dei nemici che hanno il loro posto nel regno animale, regno del quale io mi devo professare suddito di buon volere. Anche per la vite, come sempre, i nemici piccoli sono i più pericolosi, e i grossi quelli che in sostanza finiscono per recare minor danno.

Il mio collega professore Cossa nella sua lettura intorno alla chimica del vino domandò a se stesso se fra i nemici della vite io avrei compreso anche l'uomo. Ho veduto molte volte l'uomo nemico delle viti, sovratutto delle viti del sindaco nei villaggi: nei villaggi, non in Torino, dove prosperano sulla collina le viti del nostro sindaco diletto: ma la domanda si risolve in quest'altra: L'uomo è un animale e deve prender posto nei trattati di zoologia? Linneo collocava l'uomo primo fra i primati, in capo al regno animale, e distingueva due sorta d'uomini, l'uomo sapiente e l'uomo selvatico; ma fra i primati collocava anche le scimmie, e fin qui la cosa, se fa pena a molti, non fa poi tanta meraviglia; ma vi collocava anche i pipistrelli, ciò che è più inaspettato: l'uomo, le scimmie e i pipistrelli son collocati da Linneo in sedie chiuse e il resto degli animali in platea: nel corrente secolo si volle portare l'uomo in un palco di primo ordine a guardare col cannocchiale ora in platea, ora sul palco scenico, e fu proposto di costituire il regno umano al disopra del regno animale, separato e spettatore di esso. In un trattatello tedesco intitolato Zoologia comica, a raffigurare la principale differenza tra l'uomo e gli animali, il primo, Homo sapiens, è rappresentato con un chop di birra in mano. Io posso oggi lasciar fuori questa quistione, per quello che riguarda i nemici della vite, e tacermi intorno all'uomo e dire soltanto degli animali, essendo compito mio lo studio degli animali e non quello degli uomini: compito meno grave, perchè assai più che non quello degli animali è difficile lo studio dell'uomo e sovratutto della donna.

La volpe ama l'uva, e una popolarissima favola ne fa testimonianza: il cacciatore a mezzo della notte impugna sovente lo schioppo e va pei vigneti attratto dallo squittire della volpe sotto i filari; ma la volpe preferisce tuttavia le galline, e l'uva prende per frutta. Qualche altro mammifero carnivoro vien segnalato dai contadini siccome non avverso ai grappoli, ma è cosa di pochissimo conto.

Gli uccelli beccano i grappoli maturi: il mio maestro di quinta mi raccontava di un pittore greco che aveva dipinto un grappolo d'uva con tanta naturalezza che gli uccelli ingannati andavano a beccarlo, ciò che certo non riescirebbe a far oggi il pittore più ardente della scuola realista. Forse gli antichi pittori greci avevano la cosa senza la parola; ma è anche possibile che gli uccelli greci antichi fossero meno degli uccelli moderni conoscitori in fatto d'arte. Sostanzialmente tuttavia non si può togliere agli uccelli il merito di giovare alle viti distruggendo insetti e bruchi nocevoli. Sopra questo fatto vero i naturalisti da tavolino e gli agronomi da accademia hanno ricamato una serie sterminata di periodi in favore degli uccelli e considerando la cosa per un solo verso finirono per cadere nello esagerato e nel falso, sebbene il punto di partenza sia vero: ma altre verità stanno accanto a questa, le quali trascurate conducono all'errore.

Nella schiera dei rettili, le innocenti lucertole, i ramarri e gli orbettini sono da considerare come amici della vite, perchè distruggono i nemici di essa, insetti, limacce e chiocciolette: è ciò che non toglie che questi abbondino a malgrado dell'abbondare dei primi, perchè dove sono più i divoratori è anche maggiore il numero dei divorati, e tutti a vicenda si divorano per mantenere quel famoso equilibrio che consiste in una grande e continua distruzione, tanto ammirato dall'uomo che divora sempre ed è raramente divorato.

Il professore Arturo Graf ci ha parlato di un gran serpente grosso e lungo al di là di ogni immaginazione, che, avvolto intorno ad una montagna in gran parte sommersa e preso da uno degli estremi del suo corpo, fu adoperato a frullare il mare per convertirlo in vino: ma ebbe cura egli stesso di dirci che quel serpente non era registrato nei libri di zoologia. Le serpi nostre non hanno quasi che fare colla vite: ingoiano sovente uccelli e rane, animali distruggitori d'insetti, e nuociono così alla vite cui tali insetti riescono dannosi; talora divorano gl'insetti medesimi e le limaccine e riescono utili; ma il servizio e il danno son così piccoli che non franca la spesa tenerne conto.

Nemici più piccoli e più dannosi sono i molluschi: le chiocciolette e le limaccine strisciando dal suolo su pei tronchi vanno a divorare le gemme e le foglie: tuttavia il danno che questi molluschi arrecano alle viti non è mai quale è quello che recano agli ortaggi, ai cavoli, alle insalate: negli orti talora si viluppano le limaccine abbondantissimamente in certe annate, e fanno grandissime devastazioni: ciò non avviene per le viti, sulle quali il loro numero non aumenta considerevolmente da un anno all'altro, e non è mai tale da recare danni veramente gravi.

Nemico più piccolo e più numeroso è un acaro: questi animalucci, che vivono sulle foglie della vite, sono stretti parenti e hanno in tale qualità una grande somiglianza con quegli animaletti dello stesso nome che vivono sulla pelle dell'uomo, vi si scavano entro canaletti, passano facilmente da un individuo all'altro, e costituiscono la malattia della rogna. L'acaro della vite ( Acarus vitis ) sta sulla pagina inferiore delle foglie di questa pianta, vi fa sopra una finissima tela e le intacca per modo che appaiono poi chiazzate di giallo sulla pagina superiore: questo danno è poco tuttavia, sovratutto perchè si produce tardi nell'estate, quando è già l'uva matura. Questo acaro del resto ha vicino a sè il suo nemico che lo tiene in freno rispetto al soverchio moltiplicarsi, e questo nemico è pure un parente, un membro della famiglia. Sistematicamente l'acaro che divora quello della vite appartiene ai trombidii e vien chiamato dai naturalisti Trombidium holosericeum. Questo si mostra in aspetto d'un punto di un bel rosso vivo, che i contadini conoscono, che trovano sovente sulle pietre al piede della vite, e l'alpinista scorge sulle rocce in montagna, e nella campagna di Torino è fra i primi a mostrarsi in primavera e fra gli ultimi a scomparire in autunno: anche in inverno, smovendo la terra al piede di un albero o di un muro, è facile trovare questo bel punticino rosso vivente. Del resto, se la vite ha un acaro nemico, ne conta molti amici, perchè son parassiti d'insetti che le recan danno: la stessa filossera, la terribile filossera, ha un acaro che la divora.

Fra tutti gli animali, i nemici più pericolosi della vite, più terribili ed in maggior numero sono gl'insetti, come sono di tutte le altre piante coltivate dall'uomo. Gl'insetti sono naturalmente in sommo grado fecondi ed è grandissimo il numero delle uova e delle larve che vengono da una sola femmina, grandissimo sempre, ma in certe specie poi veramente sterminato. Un numero grande di cause ed azioni molteplici concorre a far sì che moltissime fra le uova deposte non si schiudano, e più ancora che un numero assai maggiore di larve non arrivi all'ultima trasformazione: anche qui, anzi qui più che mai, son molti i chiamati e pochi gli eletti. Queste cause distruggitrici operano variamente: in qualche annata avviene che l'azione di queste cause contrarie si fa meno sentire ed opera invece inconsuetamente una qualche causa od un complesso di cause favorevoli rispetto allo sviluppo d'una data specie: tutto ciò senza che l'uomo nulla sappia, nè possa prevedere. Allora questa specie si sviluppa così strabocchevolmente che invade e devasta per un gran tratto di paese quelle piante che predilige, e quando non ha più nulla da rodere sopra queste piomba su altre che prima sempre aveva lasciato in disparte, e queste pure devasta e divora. Ciò fa che la lista degl'insetti nemici di una data pianta quale noi la facciamo oggi, può non essere più esatta domani: una specie d'insetti che non ha mai intaccato la vite, ma sempre s'è attenuta ad un'altra pianta, quando quest'ultima le venga a mancare, può invadere la prima e recarle gravi danni. Gl'insetti oggi innocui alla vite possono riuscirle dannosissimi domani.

Qualche anno fa, l'anno 1874[IV-1], gli olmi del contorno di Torino erano brulli e senza foglie: i viali non avevano più ombra, i rami nudi come a mezzo dell'inverno; nè solo nel contorno di Torino, ma per tutto il Piemonte: era una specie di coleottero ( Galleruca calmariensis ) che c'è tutti gli anni, ma in moderate proporzioni per modo da passare inavvertito, che quell'anno s'era sviluppato così sproporzionatamente. — Un fatto analogo si osservò pure poco tempo fa in Torino stessa. Una specie d'insetto, appartenente ai Rincoti ( Arocatus melanocephalus ), nella primavera del 1877 si sviluppò in così grande numero sugli olmi di una regione della città da invadere le case vicine, con grave incomodo e molestia degli abitatori delle case stesse[IV-2].

La medesima cosa avviene in ogni parte, ora di questa ora di quella specie, per cui l'uomo non è mai sicuro: l'agricoltore coltivando una data specie di piante, o poche specie e non più, per una grande distesa di terreno e togliendo via ogni altra vegetazione sviluppa necessariamente, fatalmente, quegli insetti che si nutrono delle piante ch'egli coltiva; porgendo ampio pascolo al suo piccolo nemico, l'uomo ne favorisce inesorabilmente la propagazione. L'uomo, che fa questo fatalmente ed inconsapevolmente, cerca la causa del male, invece che in se sesso, al difuori, e accusa lo scarseggiare degli uccelli del soverchio moltiplicarsi degli insetti. Da una ventina d'anni a questa parte, nelle scuole di agronomia e di storia naturale, nelle accademie di agricoltura, nei libri, pei giornali, si ripete la stessa querimonia dello scarseggiare degli uccelli e dello straboccare degli insetti; ma i naturalisti entomologi cominciano a parlare in modo diverso, e due valentissimi italiani, tutti e due morti da poco, il Rondani e il Ghiliani, furono i primi a dimostrare la vanità di questo asserto: la loro voce fu dapprima inascoltata, ma oggi, anche presso le altre nazioni, gli uomini che conoscono l'argomento tengono lo stesso linguaggio, sebbene molti membri delle accademie di agricoltura seguano a tenere il linguaggio antico.

Sia adunque per la loro fecondità normale, sia per l'effetto di cause che fanno sì che arrivino fino alla loro trasformazione in certe annate in numero maggiore del consueto gl'individui d'una data specie, sia perchè una specie, mancandole l'alimento che predilige, imprende a pascersi di una specie vegetale che prima lasciava illesa, sia per le migrazioni che trasportano talora sopra una contrada da lontanissime plaghe stormi innumerevoli d'insetti affamati, l'agricoltore non è mai tranquillo, e non è mai tranquillo il viticoltore.

Io riferisco qui l'elenco degli ordini in cui si divide la classe degli insetti, seguendo le classificazioni del Claus, autore oggi preferito generalmente e giustamente nelle scuole superiori:

INSETTI NOCIVI ALLA VITE.

Ortotteri. — Locusta viridissima — Decticus albifrons — Calloptenus italicus — Ædipoda fasciata — Acridium peregrinum — Acheta italica — Varie specie di Ephippigera.

Neurotteri.

Rincoti. — Aphis vitis — Phylloxera vastatrix — Lecanium vitis.

Ditteri. — Drosophila uvarum.

Lepidotteri. — Cochylis ambiguella — Eucarphia vinetella — Eudemia botrana — Grays olbellus — Tinea albertinella — Aciptilia pentadactylus — Antispila rivillella — Albinia wochiana — Albinia casazzae — Pyralis vitis — Tortrix heparana — Bombyx neustria — Deilephila celerio.

Coleotteri. — Melolontha vulgaris — Anomala vitis — Oxythyrea stictica — Epicometis hirtella — Agrilus viridis — Synoxylon muricatum — Apoderus coryli — Rhynchites betuleti — Rhynchites baccus — Brachyrrhinus vitis — Eumolpus vitis — Haltica ampelophaga — Cryptocephalus vitis.

Imenotteri. — Vespa crabro — Vespa vulgaris — Polystes gallica

Questa tavola indica a colpo d'occhio quali siano quegli ordini da cui la vite ha più da temere. Io verrò passando in rassegna questi ordini dicendo brevemente di ciascuno, e fermandomi, naturalmente, più a lungo su quelli che porgono materiali maggiore al mio discorso.

Ortotteri. Quest'ordine, in cui sono note e comuni forme le cavallette e i grilli, non ha specie particolarmente nocevoli alla vite, sebbene molti ortotteri vivano sulla vite medesima: nei nostri vigneti, venuta la sera, fra i varî rumori della notte predomina, eccheggia per sterminate distese un continuo e non disaggradevole trillo, che si deve ad una specie di grilletto cui fu dato il nome di Acheta italica[IV-3] ( Acanthus pellucens ): immensamente diffusa è questa specie, ma non in un numero d'individui abbastanza grande per recare qualche rilevante danno alla vite su cui vive. Vivono pure sulle vite varie cavallette verdi, come quella dei prati, cui si da il nome di Ephippigera e talora certe specie migratrici. Il genere Acridium comprende le cavallette migratrici per eccellenza, quelle di cui già si occupavano i più antichi legislatori cinesi, e di cui la storia antica, il medio evo, i tempi nostri riferiscono le tremende devastazioni.

Nei piani sterminati dell'Asia e dell'Africa sgusciano le piccole cavallette dalle uova che la madre ha affondato nella terra a poca profondità; siccome è noto, in questi insetti le metamorfosi sono incompiute: le cavallette non hanno al nascere la forma di verme, ma hanno già la forma dei progenitori, da cui solo differiscono per non essere ancora provvedute di ali: saltellano sul suolo e ne divorano fino all'ultimo filo d'erba: quando son giunte a questo periodo e ove fossero per rimaner più a lungo nello stesso luogo non avrebbero più di che pascersi, generalmente sono loro spuntate le ali: dico generalmente perchè non va sempre così, e allora faticosamente imprendono un viaggio a piedi (dico a piedi per contrapposto all'andare a volo) in cerca d'altra verdura, e nel viaggio sovente muoiono di fame.

Quando le cose vanno regolarmente, e, consumate le provvigioni della terra dove son nate, possono levarsi a volo, le cavallette si spingono a grandi viaggi per l'aria in cerca di nuove terre: sovente questi loro viaggi sono in balìa delle correnti aeree che le portano dove non vorrebbero andare, e le precipitano talora nel mare, rigettandole poi le onde sulla spiaggia con grande infezione tutto all'intorno, tanto il loro numero è sterminato. Quando scendono sopra una terra verdeggiante, in breve la fanno brulla, non lasciando più traccia di sostanze vegetali alimentari per l'uomo. In Europa non sappiamo adoperare lo spediente cui ricorrono in Africa i neri: questi mangiano le cavallette. Io mi trovai una volta in Egitto ad uscir sollecitamente fuori di casa, per vedere quale fosse la inaspettata causa per cui in quel cielo sempre splendidissimo veniva ad un tratto ad offuscarsi il sole: erano nuvole viventi di cavallette; passavano a volo, molte cadevano, per cui dalla nuvola veniva giù come una gragnuola sul terreno: alcuni neri dei due sessi che si trovavano là dove seguiva quella scena per me tanto inaspettata si precipitavano sulle cavallette cadute, le masticavano esprimendo colla faccia il piacere che loro dava quel cibo, e quando incominciarono ad essere satolli, prendendone taluna in mano, me ne vennero ad ofrire invitandomi a mangiarne, ed assicurandomi essere quello ottimo cibo. Ebbi la debolezza di ricusare.

Del resto, le cavallette non prediligono le viti, ma bensì le erbe tenerelle dei prati, ed il frumento verde: intaccano le viti quando hanno distrutto già ogni altra vegetazione.

Neurotteri. I moderni naturalisti restringono in una cerchia più angusta che non si facesse prima l'ordine dei neurotteri, e allogano nell'ordine precedente degli ortotteri molti insetti che prima erano compresi in quest'ultimo. Comunque si voglia intendere l'ordine dei neurotteri, sia nel senso più largo precedente, o in quello più ristretto attuale, le specie in esso comprese non appaiono dannose alla vite, ma piuttosto utili per la distruzione che fanno d'altri insetti che possono riuscire dannosi. Ai neurotteri, nel senso ristretto moderno, spetta e vuol esser menzionato siccome il più noto il Formicaleone, che in istato di larva ricorre ad un tanto conosciuto quanto singolare spediente per procacciarsi il pasto.

Spettavano una volta ai neurotteri e ora son rilegate fra gli ortotteri le graziosissime libellule che volano lungo i margini dei ruscelli e ci ricordano le felici ore della fanciullezza, quando correvamo dietro al loro volo: i francesi danno a questo vago insetto il nome di demoiselle; gl'inglesi lo chiamano ladybird, i tedeschi wasserjungfrau: noi a somiglianza dei francesi nel nostro dialetto lo chiamiamo pure sgnoura, ma più comunemente ancora preivi, e non ne so invero il perchè. Le libellule nel primo stadio della loro vita vivono nell'acqua, poi volano a far preda di insettucci, moscerini ed altri, di cui taluni son dannosi alla vite, ma altri pure sono utili in modo indiretto, siccome dirò più tardi: cosicchè avviene per le libellule come per tanti altri viventi e cose e persone che fanno un po' di bene e un po' di male, ma qui nel caso nostro tanto l'uno quanto l'altro in piccolissimo grado.

Quell'ordine d'insetti che si chiamò fino ad oggi degli Emitteri, e che oggi ha mutato il nome in quello di Rincoti, era conosciuto dai viticoltori siccome comprendente qualche specie nociva alla vite, ma di una nocevolezza non tanto funesta quanto quella che arrecano altri ordini, e sovratutto quello dei Lepidotteri, che, in ordine a nocevolezza rispetto alla vite, teneva il primato. Oggi questo primato è stato tolto ai Lepidotteri dai Rincoti. La fillossera, la terribile fillossera, appartiene a quest'ordine: ma vi appartengono pure altre specie nocevoli, sebbene assai meno, e di queste dirò prima qualche parola.

Nella famiglia dei Coccidi, quella famiglia cui è ascritto il famoso insettuccio che fornisce la cocciniglia, qualche specie reca danno alla vite. Tale è fra noi il Lecanus vitis. Nei Coccidi è notevole il modo in cui, diremmo così, si sacrifica la madre allo sviluppo delle uova: rimangono le uova sotto al corpo della madre, questa sta loro sopra e le ricopre e muore e la spoglia dorsale del suo corpo, quella più salda e dura che più tardi si decompone, rimane come un coperchietto sulle uova sino al loro sviluppo: troviamo questi corpicciuoli a preferenza sulle viti male andate e malaticcie, onde non è grave il loro danno.

All'ordine dei Rincoti spettano gli Afidi, insettucci molto comuni e diffusi, che vivono nelle foglie e sui rami di varie sorta di piante, e per molti rispetti sono curiosi e degni di studio. I nostri giardinieri chiamano pidocchi delle rose, e nella nostra lingua si chiamano Gorgoglioni, certi insetti che si trovano sovente in gran numero non solo sulle foglie e sui rami delle rose nei giardini, ma anche su quelle rose ed altre sorta di piante che si tengono in città, nei vasi da fiori, in estate sulle finestre, in inverno nelle stanze. Questi Gorgoglioni delle rose sono verdi come le foglie su cui stanno, si mostrano consuetamente senz'ali, e hanno sulla parte superiore e posteriore del corpo una piccola sporgenza dalla quale sgocciola un umore dolcigno, cui, come da un capezzolo, vanno a suggere le formiche. A mezzo dello scorso secolo il Réaumur, di cui il nome diventò popolare col suo termometro, fece intorno a questi insetti curiosissime osservazioni che dapprima furono accolte con grande diffidenza, ma poi, verificate, si mostrarono esattissime. In sul finire dell'estate i gorgoglioni delle rose appaiono distinti nei due sessi, i maschi con ali, le femmine senza. Le femmine depongono uova che rimangono senza svilupparsi tutto l'inverno: da queste uova sgusciano in primavera tante femmine sprovvedute d'ali che, senza nissuna opera di maschi, generano, non uova, ma subito altrettante femmine, le quali alla loro volta ne producono altre, e così successivamente finchè in autunno insieme colle femmine appaiono i maschi alati, e le femmine allora prima di morire depongono uova destinate a svernare e a dar origine a femmine nella seguente primavera. Questo fatto di una serie di generazioni di femmine da femmine senza opera di maschi destò allora somma maraviglia: ma poi fu scorto in molti altri casi, e s'ebbe il nome di Partenogenesi.

Nella famiglia degli Afidi una specie è riconosciuta dannosa alla vite, e si ebbe il nome di Aphis vitis: il danno che fa non è grande tuttavia, ed appare minimo quando lo si paragona a quello spaventoso che fa una specie sua affine, oggi proclamata l'insetto più terribilmente dannoso alla vite, la fillossera, che riempie del suo nome l'Europa, e preoccupa i governi e promuove congressi e fa andare in giro gli agronomi e i naturalisti e fa diluviare libri e fascicoli, descrizioni e disegni e articoli di giornali. Questo parlare senza fine che si fa oggi appunto della fillossera mi dispensa dallo spendere qui intorno ad essa molte parole, e mi concede di raccogliere in breve le cose principali che le si riferiscono. — Si dice che la fillossera sia originaria del continente americano e la cosa è molto probabile, ma non assolutamente certa: certo è che fu fino al tempo nostro ignota agli entomologi del continente antico. Il genere Phylloxera fu istituito nel 1834 da un naturalista francese di Aix, il signor Boyer de Fonscolombe: allora questo genere non aveva importanza nè nella pratica agricola nè altrimenti: il mondo non ci badò; quei pochi che ne ebbero contezza forse pensarono alla soddisfazione del naturalista che aveva dato questo battesimo.

In America la fillossera di cui parliamo incominciò ad essere conosciuta nel 1856, e il signor Asa Fitsch la descrisse e la nomò Pemphigus vitifoliae.

Pare che sia stata scoperta in Inghilterra pure la fillossera, e ciò nel 1863; ma siccome in quella contrada la vite non prospera all'aperto, e la si coltiva solamente nelle serre, in tal condizione appunto si trovò la fillossera ad Hammerswith, e il Westwood la descrisse e la denominò Peritymbia visitana.

Radice di vite sana

Radice di vite sana. Le radichette sono tutte senza rigonfiamenti. d radichette morte ed abbrunite.

Il professore Planchon riconobbe nell'insetto il genere Phylloxera, già prima costituito, siccome abbiamo detto, e gli diede il nome specifico di vastatrix, descrivendola diligentemente; aveva già allora conquistato una certa importanza, non era più quistione solo di un fatto entomologico, ma bensì di un fatto in rapporto colla prosperità nazionale. Allora s'incominciò uno studio accuratissimo di tutti gli atti della vita di questo insetto che minacciava e compiva devastazioni e sterminio nei vigneti preziosissimi del contorno di Bordeaux, e fu scoperto che la vita della fillossera è per varî rispetti molto singolare, e varie le forme che assume la specie. Non si può dire con questo, e a malgrado degli studî diligentissimi fatti da valenti naturalisti intorno alla fillossera, che ogni dubbiezza sia dileguata e tutto proceda appunto come dai più si asserisce: qualche incertezza v'è ancora. Secondo quello che venne osservato e si osserva da entomologi competentissimi, la vita varia della fillossera si può in breve riassumere nel modo seguente: parecchie sono le forme nella specie, non due sole come avviene consuetamente (questa cosa, del resto, si riscontra anche in altri insetti, come le api e le formiche, ed altri). Si possono distinguere le forme della fillossera in una forma alata e parecchie forme senz'ali: si può anche dividere la vita di questa specie secondochè si passa sotto terra o all'aria aperta. La forma alata è la più perfetta, ed appunto perchè ha le ali può recarsi lontano sia col sussidio delle ali verso una meta determinata, sia passivamente trasportata dal vento, percorrendo allora talvolta grandissime distanze; ciò dimostra come non possano dare sicurezza tutti i mezzi d'isolamento da paese a paese, la proibizione dei trasporti e della introduzione in un luogo immune da un luogo infetto dei tralci e dei vitigni: questa proibizione, sia detto ciò di passata, non è efficace più di quello che non siano le altre barriere doganali; ma quando anche assolutamente fosse, mentre si tien lontano il nemico senz'ali rigorosamente alla frontiera, può avvenire che la forma alata porti con sè i germi delle future generazioni, e perciò, e per le attitudini al migrare, questi individui alati furono detti colonizzatori. L'individuo alato colonizzatore fa due bozzoletti, ciascuno dei quali contiene un individuo, e i due individui di sesso differente: questo è il solo punto della carriera vitale della fillossera in cui si vedano i maschi: tutte le generazioni seguenti sono di femmine e si riproducono partenogeneticamente. Questa femmina, che è nata a paro col maschio, e che è al pari di esso sprovveduta d'ali, ma più grossa di corpo, fa un uovo, un solo uovo, cui si da il nome d' uovo d'inverno, destinato veramente a svernare attaccato ai nudi tralci: da quest'uovo in primavera si sviluppano altre forme senz'ali, le quali si producono per uova senza opera di maschi, e talora, ma da quanto pare non sempre, le uova di questa generazione si trovano entro a galle sulle foglie della vite: le forme derivanti da queste uova scendono e s'affondano nel terreno, e quivi depongono altre uova che s'attaccano alle radici e da cui nascono individui che succiano gli umori delle radici e spengono la vita della pianta. Le ultime generazioni di queste forme sotterranee hanno un principio di metamorfosi incompiuta, la quale consiste nello spuntare di un rudimento d'ali: a questo punto sono a fior di terra, e finiscono per uscirne; alla luce del sole le ali si sviluppano, e la forma alata, la forma riproduttrice, la forma più perfetta piglia il volo per andar lungi a fondare colonie novelle.

Radice di vite colpita dalla fillossera

Radice di vite colpita dalla fillossera.

s Radichette sane; s' radichette sane nate sopra rigonfiamenti; r rigonfiamenti prodotti dalla fillossera; r' rigonfiamenti prodotti dalla fillossera sviluppatisi sopra altri rigonfiamenti; r″ rigonfiamenti appassiti, divenuti neri e già in istato di decomposizione.

Fillossera alata

Fillossera alata.

o occhi composti formati da moltissimi cristallini; o′ occhi sferici formati da tre cristallini; corrispondente agli occhi delle fillossere attere; o″ occhi semplici laterali; o‴ occhio semplice frontale; a prime ali o ali superiori; a′ seconde ali o inferiori.

Madre attera

Madre attera partenogenica delle radici, vista per di sotto.

g guaina del succiatoio; s succiatoio.

Larva di fillossera

Larva di fillossera subito dopo la prima muta.

a antenne; b, c, d zampe; o′ occhi formati da tre macchie di pigmento rosso.

Fillossera femmina

Fillossera femmina senza succiatoio, vista per di sotto. Per trasparenza vedesi l'uovo d'inverno entro il suo turgido addome. b bocca rudimentale senza succiatoio; u uovo; visto per trasparenza.

Fillossera maschio

Fillossera maschio, senza succiatoio, visto per di sotto; b bocca rudimentale senza succiatoio.

Come si vede da tutto questo complicato circolo di vita, i danni della fillossera sono principalmente nella sua vita sotterranea. Il nostro Cossa, autore di una pubblicazione fatta nel 1875 intorno a questo insetto devastatore, e nella lezione sul vino che fece qui ora è poco tempo, fa questa domanda: se per avventura non avvenga che i danni della fillossera siano in rapporto con uno stato malaticcio della vite, frutto della lunga opera ignorante od avara del coltivatore. Questo dubbio è avvalorato da molti e gravi argomenti.

I fatti che abbiamo esposto dimostrano senz'altre parole la difficoltà per l'uomo di distruggere questo insetto o ridurne il numero in più discrete proporzioni, perchè poco assai può fare l'uomo contro un nemico così piccolo e nocente sotterra. I rimedî proposti son molti, e questo è cattivo segno, perchè quando c'è un rimedio buono tutti si appigliano a quello. Si parlò di allagamento, impossibile fra noi, dove son quasi tutte le viti in collina, si parlò di sradicare interamente i vigneti, rimedio radicale, ma di cui non è d'uopo dire gli effetti una volta che fosse spinto alle sue ultime conseguenze. Venne consigliato il solfuro di carbonio, la coltivazione di certe piante tra i filari, aglio, canapa, euforbia, stramonio ed altre, ed il loro sovesciamento; si parlò ancora di far assorbire sostanze tossiche dalle viti, sublimato corrosivo, preparati arsenicali, per avvelenar la fillossera; non parlo di altri rimedî fantastici e numerosi di gente che per lo più non ha mai bazzicato colle viti.

Vi fu anche chi lanciò quest'atroce calunnia, che taluni naturalisti trasportassero dall'una all'altra contrada la fillossera, per aver poi la gloria di scoprirla in quella nella quale l'avevano trasportata. Calunnia che si smentisce, senza cercar altro, pel solo fatto che quando la fillossera si scopre in un paese, ciò avviene dopo molti anni da che vi ha posto dimora; e un uomo tanto smanioso di nome da commettere un simile delitto non ha pazienza di aspettar degli anni.

La vita in grande parte sotterranea della fillossera, ciò giova ripetere, fa sì che quando se ne riconosce la presenza in una data regione essa già vi è venuta da molti anni e vi si è grandemente propagata; mentre in una località della contrada invasa abbonda tanto che riesce agevole lo scorgerla, non può a meno di trovarsi ancora in piccolo numero, così piccolo da sfuggire all'attenzione dell'uomo, in altre località più o meno discoste. Supponiamo che la fillossera venisse ad invadere i bei colli pampinosi del contorno d'Asti, e che vi si propagasse in tal modo da riuscire al tutto palese; supponiamo che si fosse trovato un rimedio veramente efficace, ciò che per sventura oggi non è affatto, e che con esso si venisse a distruggere l'insetto in quel luogo; tutto porta a credere che quando era numerosa la fillossera nell'astigiano, qualche individuo non avrebbe potuto a meno di venire, sollevato sulle ali e trasportato dai venti, sulla collina di Torino, per incominciare a propagarsi, e dopo parecchi anni rivelare la sua presenza devastatrice; l'uomo allora si darebbe attorno per distruggerla sulla collina di Torino; ma essa avrebbe incominciato ad allignare nel Canavese.

La nazione più danneggiata dalla fillossera è la Francia, tanto dalla parte del nord quanto nella parte meridionale; si poteva aspettare, ed era ragionevole temere, che ove fosse venuta in Italia avrebbe dovuto entrare, portata dal vento, per la via della Liguria, lungo il littorale per cui confinano i due paesi; invece apparve l'anno scorso a Valmadrera, in Lombardia, venuta probabilmente dalla Svizzera, ma da parecchi anni.

L'uomo dunque, che non ha rimedio contro la fillossera, quand'anche l'avesse non potrebbe adoprarlo che sopra un dato spazio, mentre già in altri luoghi vicini l'insetto incomincierebbe a propagarsi per apparire numeroso più tardi.

Non solo in Francia ed in Svizzera si trova oggidì la fillossera, ma anche in Ispagna ed in varie parti dell'Europa centrale ed orientale e al di là del limite entro il quale la vite cresce e fruttifica in piena terra si trova nelle serre.

I governi di tutta Europa fanno congressi internazionali, ed in ogni nazione i naturalisti sono invitati a studiare la quistione; in questi giorni sono radunati a Roma in commissione naturalisti ed agronomi a cercare i rimedî. Io parlava un giorno ad un naturalista zelante della inutilità dei rimedî tentati, ed egli mi rispose: — Bisogna fare qualche cosa, ad ogni costo far qualche cosa: meglio sradicare i vigneti che non far nulla. —

La fillossera ha parecchi nemici naturali: ne distruggono le libellule, alcuni coleotteri, come le coccinelle, gli uccelletti; più infesti alla fillossera sono gli acari, e fra questi uno è riconosciuto suo grande distruggitore, diligentemente studiato e descritto, e denominato Tyrogliphus phylloxerae; ma, come sempre, il distruggitore cresce e si moltiplica in ragione dell'ospite cui divora, e sempre questo è più numeroso.

La complicatezza della carriera vitale della fillossera, ciò ripetiamo ancora una volta, la sua vita in gran parte sotterranea, la grande prolificità, proteggono la moltiplicazione della fillossera, ed un solo individuo alato sfuggito ai suoi nemici può andare in lontane contrade a spargere a migliaia di milioni innumerevoli le schiere infeste devastatrici.

Lo aver solo un paio d'ali valse a far denominare Ditteri certi noti insetti; il nome che hanno fu loro dato da Aristotile oltre a due mila anni or sono. Le mosche e le zanzare sono i più noti rappresentanti di quest'ordine d'insetti. Il nostro Rondani, naturalista molto meritevole, più meritevole assai che non conosciuto ed apprezzato, morto recentemente, il quale si consacrò con speciale amore e dedicò gran parte della sua vita allo studio dei ditteri, parlò maestrevolmente dei danni che arreca il moscerino dell'uva, di cui descrisse i costumi, e che denominò Drosophila uvarum. Questo moscerino, il quale si trova in quantità grandissime nelle cantine, quando segue la fermentazione del vino depone le uova negli acini già intaccati da altri insetti e con un principio di fermentazione; nei vigneti piantati in luoghi umidi, in fondo alle vallate, questo insetto è più abbondante e reca maggior danno col far marcire gli acini; nei vigneti ben soleggiati, sui colli aprici è in minor numero e arreca minor danno, perchè gli acini tendono meno al marcire e piuttosto allo appassire. In ogni caso non è mai molto nocevole questo moscerino che non riesce da sè a forare gli acini ed ha bisogno che altri gli apra la strada. Molti ditteri sono utili alla vite facendo morire bruchi di farfalle o larve di coleotteri nocevoli, e in singolarissimo modo, come più estesamente fanno certi imenotteri, per la qual cosa mi riservo a parlare di ciò quando sarò a dire di questi ultimi insetti.

Lepidotteri. Con questo nome vengono chiamati scientificamente quei leggiadri insetti che son noti a tutti col nome di farfalle, e che sfoggiano nello stato adulto aleggiando per l'aria le maraviglie dei loro variopinti colori: in questi insetti le metamorfosi sono veramente compiute: sguscia dall'uovo una forma che il volgo chiama addirittura verme, e che di verme ha veramente sembianza: questo ad un certo periodo della vita s'isola dal mondo esterno incrisalidandosi, ed esce finalmente pel suo ultimo stadio più elevato e perfetto. La vita della farfalla in quest'ultimo stadio è tutto una vita di volo e di allegrezza, e l'opera della riproduzione la occupa tutta: è breve e lieta. La vita in istato di bruco è tutta una vita di nutrizione; la vita in istato di crisalide è tutta rivolta all'opera della trasformazione. La vita di bruco è tutta una vita di nutrizione: l'animaletto non fa altro che pascersi: tutta la sua organizzazione non è, si può dire, fatta d'altro che di organi digerenti: i sensi lavorano pochissimo, è al tutto scarsa la locomozione, tutte le forze dell'essere sono volte a mangiare, e giorno e notte non fa altro accumulando una immensa copia di grasso sotto alla pelle lucida e tesa, che di tratto in tratto si screpola e vuol essere mutata. Quando milioni e milioni di questi bruchi sono sopra alla vite, s'intende come ogni verde ne deva scomparire: le gemme, i fiori, le foglie, i grappoli, tutto divorano questi terribili bruchi delle farfalle, numerosi d'individui come di specie. Alcuni anni or sono i Lepidotteri in istato di bruco venivan proclamati i più terribili nemici della vite fra tutti gl'insetti: oggi non è più così, perchè la fillossera, più formidabile, è venuta a dare all'ordine dei Rincoti tale funesta prerogativa. Ma i danni recati dai bruchi delle farfalle non sono per questo scemati. Si conoscono una buona ventina di specie veramente dannosissime, ed un numero maggiore d'altre che recano un minor danno, ma pur grave, e che da un giorno all'altro, date le circostanze, possono diventare dannosissime pur esse. Ne menzionerò qui specialmente qualcuna.

Nota comunemente è la Piralide della vite, Pyralis vitis dei naturalisti, chiamata anche più modernamente Tortrix pilleriana. Non solo oggi è conosciuta comunemente questa specie, ma anche in passato, e fino da tempo antichissimo fu fatto menzione di certe annate, nelle quali apparve in numero sterminatissimo e fu causa di sommi danni. Frequentemente i bruchi della Piralide devastarono i vigneti nel medio evo. In Francia, ad Argenteuil, nel 1562, questi bruchi, che negli scritti del tempo son chiamati.... Lysetes, Becardos, ma più comunemente Diablotinos, desolarono talmente il paese che l'Arcivescovo di Parigi si credette in dovere di scomunicarli.

La scomunica era il mezzo più adoperato allora contro i bruchi e gli animali nocivi in generale. In Torino fino alla fine del secolo scorso fu quest'uso: il Municipio comprava ogni anno da Roma una maledittione che pagava il più possibile per averla più forte: pel prezzo trattava all'amichevole il diplomatico del nostro Principe presso la Corte di Roma. Venuta la maledittione, l'arcivescovo in pompa magna, circondato dallo stato maggiore de' suoi canonici, cui faceva ala un esercitino di chierichetti, il Sindaco e i signori di città vestiti alla spagnuola, insomma tutte le autorità ecclesiastiche, militari, civili, municipali, si raccoglievano in Piazza Castello presso il portone del Palazzo Madama in faccia a Doragrossa: l'Arcivescovo saliva sopra un palco coperto di velluto, posto appunto dove ora è il piedestallo dell'alfiere di marmo donato dai Milanesi all'esercito sardo, e si veniva così a trovare in vista al disopra delle teste degli altri com'è ora la statua dell'alfiere; allora con voce tonante scagliava la maledittione e i chierichetti proseguivano colle giovanili loro voci un canto in coro.

La scomunica era il mezzo principale adoperato contro i bruchi, ma non era il solo: c'erano anche i processi davanti ai tribunali susseguiti dalle condanne, ma dopo che erano state fatte da valenti avvocati le accuse e le difese. A Vercelli ci fu una grande discussione se certi bruchi dovessero essere giudicati dai tribunali civili oppure dagli ecclesiastici, perchè avevano saziato il loro appetito sulle terre di una parrocchia.

I danni della Piralide della vite furono in Italia frequenti e gravi in parecchi luoghi; ora questa specie non fa più parlare di sè, dappertutto si è fatta piuttosto rara e da qualche località pare al tutto scomparsa. Ben inteso, ciò non ci assicura per l'avvenire.

I nemici della Piralide della vite sono numerosi e ne minacciano la vita sovratutto in istato di bruco: sono principalmente piccoli imenotteri delle famiglie degli icneumonidi e dei calcididi[IV-4], e anche piccoli ditteri, che operano a suo danno, come a danno di tanti altri bruchi, in un modo che, per quanto l'abbiamo quotidianamente sott'occhio, non tralascia dall'essere sorprendente, e di cui mi riservo a dire fra breve parlando specialmente degl'imenotteri. Forse anche qualche acaro divora i bruchi della Piralide: questi bruchi sgusciano in sul finire d'agosto dalle uova deposte dalle femmine sui giovani pampini più elevati della vite.

Nei primordi del loro sviluppo i brucolini della Piralide non riescono guari dannosi, perchè allora l'uva è giunta a un dipresso a maturazione: al sopravvenire dei primi freddi, i brucolini si appiattano sotto la scorza dei tralci e fra i fessi dei pali che sostengono le viti, e al sopravvenire della primavera, più o meno presto secondo i paesi e le annate, escono affamati, e allora incomincia il danno: il bruco lega con una finissima seta di sua secrezione gl'invogli della gemma, s'addentra in questa, poi incomincia a rodere intorno e così tutto distrugge e toglie lo svilupparsi dei tralci: presso al compimento di questa opera di distruzione si trasforma in crisalide e nel luglio diventa farfalla e subito dà opera alla riproduzione: la femmina depone sui giovani pampini le uova della seguente generazione.

Dannosissima pure alla vite, e oggi più della precedente, è un'altra farfalla, la Procride, Procris ampelophaga, che talora distrugge oltre alla metà delle uve; ciò avvenne più d'una volta sui colli del Piemonte ed altrove in Italia. Qui segue diversamente dalla Piralide. La femmina della Procride depone le uova in estate sotto la scorza delle viti e fra i fessi dei pali, e queste uova svernano e non si schiudono che nella seguente primavera: i brucolini nascono in marzo e subito van sulle gemme, le forano, vi si addentrano, le rodono. Basta uno di questi brucolini ad impedire lo sviluppo di una gemma. Dopo la prima muta della pelle, esce dalla gemma il bruco e va sui nuovi pampini e sui nuovi germogli sviluppati dalle gemme rimaste immuni e li divora, doppiamente dannoso; poi si trasforma e, fatto farfalla, depone le uova. Questa specie ha, come la precedente, parecchi parassiti che vivono alle sue spese.

Minutissima farfallina, lunga appena due millimetri, è la Antispila rivillella[IV-5] che in istato di bruco vive entro a certe gallerie che si scava nel parenchima delle foglie, di queste pascendosi: queste gallerie si scorgono dal difuori per certe macchie bianche e gialle che si vedono sulle foglie; quando il bruco è giunto al suo pieno sviluppo, colla epidermide della foglia si fa un astuccio e si trasforma. Questa specie venne scoperta primieramente nell'Isola di Malta dal signor Godeken de Riville, e passò un lunghissimo tratto di tempo dopo che ne fu fatta la scoperta, tantochè questa fu messa in dubbio: il Rondani la ritrovò al tempo nostro nel contorno di Parma; non ha fino ad oggi recati danni gravi, non essendosi mai straordinariamente moltiplicata. Si conoscono ad essa tre specie di piccoli imenotteri parassiti[IV-6].

Dal Direttore della Stazione chimico agraria sperimentale di Roma, il signor Briosi[IV-7], venne scoperta una specie di farfalla che recò danni notevoli ai vigneti della Sicilia, e che egli denominò Albinia wochiana; è somigliante alla Piralide ed alla Procride sia nei colori, sia nelle dimensioni; intacca principalmente i grappoli; per la qual cosa, quando in sul finire dell'estate o in sul principiare dell'autunno si entra in un vigneto preso da tale malattia, i tralci delle viti si mostrano perfettamente sani, ma l'uva è, per la maggior parte, in uno stato di vera disorganizzazione: i grappoli portano in varie proporzioni acini sani ed intatti ed altri putridi e passoli; la buccia di questi ultimi è più o meno rammollita e livida, ed il granello non contiene che poca polpa raggrinzata che sa di muffa ed è di un dolce scipito al palato: causa di ciò si è il bruco della farfalletta sopra menzionata (Briosi). I costumi di questa specie non sono ancora ben noti. Altre specie affini a queste, e sovratutto alle due prime menzionate, vivono sulla vite, ora innocue pel non troppo grande numero, ora qua o colà dannose quando vengono a svilupparsi maggiormente.

L'ordine dei Coleotteri, che dopo quello dei Lepidotteri è il più conosciuto, e che comprende quelle specie d'insetti che ci stanno più consuetamente d'intorno e talora pure si attirano il nostro sguardo per la bellezza dei colori delle loro elitre, ed attraggono la nostra attenzione pei fatti varî della loro vita, reca pure danno ai vigneti, e son parecchie le specie dannose.

Notissimo ai nostri contadini è il Rhinchytes betuleti, che in dialetto piemontese chiamano taglietto o tajet, e nella lingua Sigarajo o Tortiglione, ed anche Punteruolo. Quest'ultimo nome esprime un carattere assai vistoso che distingue la famiglia di Coleotteri cui spetta questo, detta dei Rinchiti, ed è che il loro apparato boccale si allunga e si fa acuto a mo' di becco. Il nome di sigaraio gli viene da ciò che, siccome ora dirò meglio, egli avvoltola le foglie della vite, facendo loro prendere una forma somigliante a quella di sigaro. È quest'insetto dannosissimo alla vite: in sul principio di maggio comincia per questi insetti l'opera della riproduzione: i maschi e le femmine vanno insieme sul picciuolo della foglia e lo rodono per modo che la foglia cade giù penzoloni: allora la femmina incomincia a deporre qualche uovo alla base della foglia e poi prende ad accartocciarla, poi depone altre uova e l'accartoccia ancora, e così via la riduce alla forma di sigaro che gli fece dare i nomi sopradetti. I romani antichi la chiamavano Involvulus, e Plauto a questo insetto che si avvoltola nella foglia paragonava una persona imbrogliata nel suo parlare e che s'andava avvoltolando nel discorso:

Involvulorum quæ in pampini folio implicat se

Itidem haec exorditur sibi intortam orationem.

La foglia avvoltolata perde a poco a poco il suo verde ed ingiallisce per mancanza di umori, tagliate quasi al tutto le comunicazioni col ramo.

Dopo una diecina di giorni, poco più poco meno, sgusciano dalle uova le larve che rodono le foglie, e a un dipresso in un mese hanno il loro pieno sviluppo: passano allora allo stato di ninfa, e al principio di luglio son diventati insetti perfetti. Non raramente i Rinchiti, specialmente quando sono in grande numero, fanno cadere anche i grappoli col rodere loro in massima parte il picciuolo.

Il riparo migliore contro questi insetti sta nel raccogliere i pampini avvoltolati e bruciarli: dico bruciarli, non affidarli al terreno, ove le larve troverebbero e trovano naturalmente scampo.

Probabilmente altre specie di rinchiti molto affini a questi: R. bacchus, R. populi, ecc., che consuetamente devastano altre piante, danneggiano pure qua e colà la vite, per cui non sono d'accordo i naturalisti intorno alla identità della specie.

È pure un Rincoforo, il Brachyrrhinus ( Otiorhyncus ) che rode le gemme, i teneri germogli di parecchi alberi ed anche quelli della vite: secondo il Genè questo insetto nel 1808 danneggiò grandemente i vigneti dell'Italia superiore: oggi non si vede più tanto numeroso.

Vuole pure qui essere menzionato lo Apoderus coryli, che spetta alla stessa famiglia, intacca molte piante ed anche le viti, ed ha costumi affini a quelli dei rinchiti.

Venne dato il nome di Anobiidi ad una famiglia d'insetti che intacca il legno, tanto degli alberi vivi, quanto anche il legno secco e già foggiato dall'uomo per suo proprio uso in mobili di varie sorta. Gl'insetti di questa famiglia sono molto somiglianti a quelli della famiglia degli Ptinidi di cui tutti conoscono i Ptini, che entro al legno degli armadî e dei cassetti nelle case vanno scavandosi le loro piccole gallerie e producono quel piccolo rumore secco e continuato che nel silenzio della notte entro alla stanza di un malato spaventa chi veglia e si ebbe il funereo nome di Oriuolo della morte. Agli Anobiidi e precisamente alla sottofamiglia degli Apatini appartiene il Synoxylon muricatum, che ha una forma singolare: capo piccolissimo e quasi nascosto nel protorace, e troncato il corpo dalla parte posteriore. Questo coleottero in istato di larva vive nei tralci, entro ai quali in varia direzione si scava gallerie pascendosi delle materie degli strati legnosi che viene disaggregando: a mano a mano che si spinge avanti la parte scavata si riempie dei suoi escrementi e della polvere rosa del legno; passa dopo un periodo variabile di tempo in istato di ninfa nella stessa sua galleria, poi verso la fine del luglio compie la sua ultima trasformazione, trafora il legno ed esce. S'intende come il danno che reca sia grave con questo suo traforare il legno, e gravissimo quando si moltiplica straordinariamente; convien dire tuttavia che, come quasi tutti gl'insetti suoi affini che intaccano il legno, predilige i tralci malaticci o in via di deperimento. È uno degl'insetti più malagevoli da distruggersi, vivendo esso inosservato entro al legno[IV-8].

La famiglia dei Crisomelini comprende insettucci che danno nell'occhio pel vivo colore dei riflessi metallici delle loro elitre; vivono varî generi di questa famiglia su varie piante: sugli alni, sui cavoli, e vengono chiamati dai nostri ortolani, pel loro saltellare, pulci dei cavoli. Ad una specie di questa famiglia, lo Eumolpus vitis, venne dato il nome di Scrivano, perchè intacca il parenchima delle foglie per modo da produrvi sopra qualche cosa che rammenta una scrittura, come fu dato il nome di tipografi ad altri insetti pure del gruppo dei Coleotteri, ma non più Crisomelini, i quali intaccano analogamente il legno. Lo scrivano distrugge la sostanza delle foglie, e talora intacca anche i grappoli, riuscendo così doppiamente nocevole; nello stesso modo opera l' Altica ampelophaga, il Cryptocephalus vitis ed altre specie affini; sebbene si trovino nei vigneti, prediligono i fiori d'altre piante, e fino ad oggi non hanno recato alle viti che poco danno.

Venne dato il nome di Lamellicorni a certi Coleotteri, i quali han tutti questo carattere comune che le loro antenne terminano con tante lamelle, le une accosto alle altre, come i fogli di un libro; alcuni di questi coleotteri sono abbastanza grossi, come i maggiolini, altri, oltrechè grossi, anche singolari, come il cervo volante. Taluni di questi coleotteri lamellicorni vivono sulle viti, e sono più o meno dannosi: la Oxythyrea stictica e la Epicometis hirtella abbondano nei giardini sulle rose e in campagna sulle margherite, sui terrasaci, nei ranuncoli e somiglianti fiori: finora non si son trovati che raramente sulle viti, ma se un giorno le venissero a prediligere, riuscirebbero dannosissimi. È oggi talora dannosissima la Anomala vitis segnatamente in Piemonte: nel 1870 la anomala della vite devastò i vigneti dell'Astigiano. È questo tuttavia uno degli insetti che meno difficilmente l'uomo può distruggere: è grosso, sta sulle foglie, nelle ore mattutine è intormentito e facile da far cadere e raccogliere: i proprietarî che domandano i rimedî alla scienza potrebbero mettere questo in opera, semplicissimo ed elementare. La riproduzione dell'anomala segue come quella del maggiolino.

Due specie affinissime e viventi promiscuamente rappresentano fra noi il Maggiolino, il Givo dei piemontesi, Carruga dei lombardi, Melolontha vulgaris dei naturalisti la specie più grossa e più comune, e Melolontha hippocastani all'altra somigliantissima. Non sono i maggiolini nemici speciali della vite, ma di essa con altre piante, pioppi e salici; anzi preferiscono assai questi, ed aggrediscono la vite solo quando, essendo in numero straordinario, sugli alberi loro prediletti non c'è più pasto per tutti. Son dannosi agli alberi nel primo e nell'ultimo periodo della loro vita. In istato di larva vivono due o tre anni sotto terra e intaccano le radici delle piante; in istato perfetto son pur voracissimi e divorano le gemme e sovratutto le foglie. In certe annate si moltiplicano così straordinariamente che tutto il verde scompare dagli alberi: la loro moltiplicazione fu talora così grande da fermare i carri e le vetture sulle pubbliche strade, togliendo la vista agli uomini ed ai cavalli, e facendo diventare per qualche tratto di tempo un ostacolo insuperabile la vivente parete costituita dai loro innumerevoli stormi.

I coleotteri hanno alla loro volta parecchi nemici: se ne pascono i piccoli mammiferi insettivori, toporagni, ricci; se ne pascono e ne fanno grande distruzione gli uccelli, i rettili e sovratutto gli anfibî. Qualche imenottero predatore s'impadronisce di alcuni coleotteri, li ferisce in modo da non ucciderli, ma paralizzarli per modo che non possan più muovere nè zampe nè ali, e li pone presso le uova affinchè possano trovare cibo vivo le larve allo sgusciare; parecchi acari vivono parassiti fuori, e talora si vedono gremiti alle giunture del torace o dell'addome; i ditteri e gli imenotteri vivono entro di loro in istato di larva, come dirò fra breve, e passa nel corpo dei giovani coleotteri parassiticamente il primo stadio di vita il gordio, verme che poi vive libero nelle acquicelle ferme o di lento corso, e che, dallo attorcigliarsi di ogni individuo e di molti individui insieme aggrovigliati, si ebbe appunto, dal nodo Gordiano, il nome di gordio, come fu dato pure a tutto il viluppo il nome collettivo di capelli di Venere.

I naturalisti moderni collocano a capo della classe degli insetti, considerandoli come superiori a tutti gli altri, gli Imenotteri, mentre prima vi si collocavano i coleotteri: prima si teneva maggior conto della mole e della forza, oggi della intelligenza, perchè in verità non si può chiamare con altro nome il complesso degli atti che costituiscono la vita di questi mirabili insetti. Due estremi nel loro modo di vivere ci presentano da una parte le farfalle e dall'altra gli imenotteri: nelle prime spensieratezza, trastullo, volo alla ventura, amoreggiamenti, senza ombra di cura dei nati: nei secondi lavoro, fatiche, sagrifizî, predominio dell'azione collettiva sull'azione individuale, associazioni in cui tutti gli individui, più che non pel proprio, lavorano pel bene comune: una schiera d'individui che sagrifica tutto, e sovratutto, massimo dei sagrifizî, l'amore, per la cura della prole, e il buon essere delle generazioni future. — Non si può dire che gli imenotteri rechino qualche danno alle uve, ma si può pure affermare, con assoluta certezza, che recano sommo vantaggio colla distruzione che fanno dei principali nemici della vite. I calabroni ronzano intorno all'uva e abboccano gli acini maturi, sovratutto quelli che hanno più tenera e più facilmente intaccabile la buccia; così fa pure la vespa, così la cartonaia, ed anche l'ape: ma chi vorrebbe rimproverare all'ape il suo bottino mentre ci dà il miele? I servizî che rendono gl'imenotteri alla vite sono immensi, se è un servizio il far scemare il numero di quegli insetti che rodono le gemme e le foglie.

I nemici più fieri della vite fra gli insetti, fatta solo eccezione della fillossera che è il più terribile di tutti, sono, siccome abbiamo veduto, le farfalle in istato di bruco: ora parecchi imenotteri, e sovrattutto quelli della famiglia degli icneumonidi, fanno morire ogni anno una quantità immensa di questi bruchi, e il modo è veramente singolare. Le femmine degli imenotteri di cui parlo hanno il corpo terminato da una punta aguzza e lunga detta ovopositore (ciò si vede pure in altri insetti) che serve a preparare all'uovo il suo nido: il nido dell'uovo di questi imenotteri è il grasso che si accumula in gran copia sotto la pelle dei bruchi: la femmina dell'imenottero passa a volo presso la foglia su cui lentamente striscia il bruco avidamente pascendosi, colla velocità del lampo gli piomba sopra, gli fora coll'ovopositore la pelle tesa e sottile e depone sotto questa nel grasso un uovo e ripiglia il volo; un'altra femmina passa poco dopo e piomba anch'essa sul bruco e ripete la medesima operazione, e così altre ed altre. Il bruco, tutto intento al pasto e pochissimo sensitivo, non avverte queste madri che hanno a lui affidato la cura della loro prole e hanno con ciò segnato la sua sentenza di morte. Dalle uova poste in tal modo sotto la pelle del bruco sgusciano le larve dell'imenottero che cominciano a pascersi del grasso nel quale son nate; il bruco non se ne da per inteso e seguita a mangiare allegramente e produce sempre una nuova quantità di grasso, tanto copiosa da bastare largamente ai bisogni attuali suoi e dei suoi parassiti; ma oltre ai bisogni attuali egli ha quelli dell'avvenire: deve in istato di crisalide compire una trasformazione per la quale non ha più in sè i materiali all'uopo, impoverito siccome è stato da tutto quello che gli hanno tolto. Al punto di incrisalidirsi non ci riesce o se riesce non giunge a compiere l'ultima metamorfosi in insetto perfetto. Al momento per lo più di passare dallo stato di larva a quello di crisalide si ferma, e dalla sua pelle crivellata escono da ogni parte trasformati gli insetti che crebbero alle sue spese.

Io mi trovava alcuni anni or sono in un villaggio alpino molto elevato, in una casupola parte in legno e parte in muratura, che aveva un orticello davanti: dall'orticello venivano in grande numero i bruchi della cavolaia, vicini al termine della loro vita larvale, e prendevano a salire lungo la parete sotto il tetto o per la finestra, ai travicelli del soffitto per incrisalidarsi. Un giovane e valente pittore ch'era con me venne meravigliatissimo a dirmi che la maggior parte di questi bruchi generava dalla pelle gran copia d'altri e ben differenti insetti; eravamo in tre lassù, oltre al pittore, un botanico versato pure nell'entomologia; prima di vedere la cosa dicemmo subito al pittore come andasse per l'appunto, e per tre giorni fummo ridotti in casa: era quello che ci voleva per renderci attenti e vogliosi di tener dietro alla osservazione iniziata: i bruchi venivano a centinaia dall'orto su per la muraglia, ma si fermavano quasi tutti a metà del camino, sovente prima, raramente più in su, e lasciavano uscire i parassiti allevati, perdendo essi la vita. Dalle osservazioni fatte allora potemmo scorgere con nostra meraviglia che di dieci bruchi otto a un dipresso avevano dentro i parassiti micidiali, ed erano condannati a morire senza avere vagheggiato la luce dell'alba novella, l'alba del giorno finale, quello della festa degli amori.

Non so qual conto si debba tenere di quella proporzione che venne in quel luogo indubbiamente per me verificata: certo è che infinitamente maggiore è il numero dei bruchi in quel modo distrutto di quello degli immuni, e non son soli gli imenotteri a compiere questa distruzione, ma anche i ditteri, come già ho accennato testè parlando di questi ultimi insetti.

Questi imenotteri e ditteri distruggitori dei bruchi operano più e meglio assai degli uccelli: prima perchè gli uccelli distruggono molto meno bruchi che non questi parassiti, in secondo luogo perchè gli uccelli distruggono anche gli insetti che son causa di morte a quelli nocevoli, e in questo modo, mentre fanno bene da una parte, nuociono dall'altra, per cui non è facile dire quale dei due fra il male e il bene prevalga.

L'uomo colla distruzione diretta può assai poco. Quando si tratti di uno spazio ristretto non è molto difficile raccogliere le chiocciolette e le limaccine nocive alla vite; gl'intelligenti e pratici raccomandano pure lo sbrucolamento: ma se è possibile (giova ripetere la stessa cosa) diminuire, raccogliendoli e chiamando molta gente a raccoglierli, in un breve tratto di tempo, i bruchi (sovratutto quelli un po' grossi) in una vigna ristretta dove il pregio delle uve meriti una tale fatica e una tale spesa, la cosa riesce poi impossibile al tutto quando si tratti di grandi distese, d'intere provincie infestate. I nemici naturali, gli acari, le varie sorta di parassiti fanno di più; il naturalista cattedratico od accademico raccomanda al coltivatore di adoperarsi a moltiplicare il numero dei parassiti infesti agli animali nocevoli, ma non dice appunto in qual modo egli possa adoperarsi a produrre questa moltiplicazione.

Il dottore Lorenzo Camerano ha presentato testè all'Accademia delle Scienze di Torino[IV-9] un suo lavoro intorno all'equilibrio dei viventi mercè la reciproca distruzione, nel quale con rigore matematico dimostra in qual modo questo equilibrio si regga pigliando le mosse dalla vegetazione e proseguendo cogli animali che vivono alle spese di questa e poi cogli altri, sia predatori sia parassiti, che distruggono gli uni e gli altri; questo lavoro esprime meglio che non sia stato fatto prima il complesso dei rapporti e dei legami mercè cui campano i viventi gli uni alle spese degli altri; argomento complicatissimo, di cui maestrevolmente il giovane naturalista ha segnato le prime linee, ma di cui fra breve farà più distinto il contorno e segnerà l'ombreggiatura.

L'annessa tavola mostra riuniti in un quadro solo i principali gruppi di animali nocevoli alla vite e nello stesso tempo anche i nemici predatori o parassiti dei primi.

Affinchè la cosa riesca chiara consideriamo un gruppo qualunque, per esempio quello dei Rincoti.

I Rincoti che si nutrono a spese della vite possono divenire preda di varî Ortotteri, Anfibî, Rettili, Uccelli, ecc. o di varî animali parassiti, Acaridi, Endoparassiti, ecc. Ciascuno dei gruppi di animali ora menzionati è a sua volta preda di altri animali predatori più grossi o preda di altri parassiti. Gli Anfibî, per esempio, sono preda di alcuni Rettili, Uccelli, Mammiferi e di varî parassiti, Ditteri, Endoparassiti, ecc. I Ditteri parassiti degli Anfibî sono preda alla loro volta di altri Anfibî, Rettili, Mammiferi, uccelli, ecc. e di altri parassiti, Acarini, Imenotteri, Endoparassiti, ecc. Questi Imenotteri sono essi pure preda di altri Imenotteri, di Anfibî, di Rettili, di Uccelli, di Mammiferi, ecc. e di Acarini, e di Endoparassiti e altri via discorrendo. Ragionando in questo modo si giunge ad una serie di animali i quali mentre predano altri animali non sono più alla loro volta preda di altri animali predatori; ma soltanto di animali parassiti interni, di endoparassiti.

Per maggior chiarezza nella tavola qui unita non sono stati segnati sempre per ciascun gruppo tutti gli animali che sono predatori o parassiti del gruppo stesso. Ciò è stato fatto una volta sola per ciascuno dei varî gruppi i quali per ciò sono stati segnati di un numero. Esaminando, per esempio, il gruppo degli Ortotteri nocevoli alla vite (2) si vede che sono parassiti di questo gruppo i Ditteri (4), gli Imenotteri (7), ecc. I numeri (4) e (7) indicano che si devono aggiungere qui i parassiti ed i predatori segnati per gli Imenotteri (7) e pei Ditteri (4) nocevoli alla vite ecc.

Da quanto si è detto fin qui risulta che gli animali che hanno rapporti mediati o immediati colla vite si possono dividere nelle seguenti categorie, in animali cioè:

fitofagi che si nutrono direttamente a spese della vite;

predatori che si nutrono a spese degli animali fitofagi o di altri animali predatori;

parassiti che vivono alle spese degli animali fitofagi o degli animali predatori o di altri animali parassiti.

I parassiti poi alla lor volta possono dividersi in esoparassiti e in endoparassiti.

Animali Nocevoli alla Vite

Lorenzo Camerano dis. Lit. Salussolia

E. Loescher Editore, Torino, Roma.

Ciò premesso, e partendo dal principio che il numero degli animali è direttamente proporzionale alla quantità di nutrimento che è a loro disposizione, si vede che una rigogliosa vegetazione della vite produce in generale un aumento degli animali fitofagi; l'aumento degli animali fitofagi produce l'aumento dei predatori; l'aumento di questi ultimi fa aumentare gli endoparassiti. L'aumento degli endoparassiti fa diminuire il numero degli animali predatori; la diminuzione dei predatori lascia aumentare il numero dei fitofagi: l'aumento di questi ultimi fa naturalmente diminuire la sorgente del loro nutrimento, la vite.

Si vede da ciò, supponendo che le cose vadano regolarmente come si è detto e che non intervenga nessuna causa perturbatrice, che una rigogliosa vegetazione è per dir così la causa prima della diminuzione della vegetazione stessa. Ora la diminuzione della vegetazione, ragionando analogamente a quanto si è fatto ora, è causa di un nuovo aumento della vegetazione stessa. Nella piccola tavola A si può vedere chiaramente l'andamento del fenomeno. È ben inteso che in questo ordine di fatti non si tiene conto del tempo. Gli aumenti e le diminuzioni sopradette possono compiersi in breve tempo od impiegare invece un tempo lunghissimo.

Tutti i giorni, siccome ognun sa, piovono opuscoli, volumetti e volumi, articoli di giornali, discorsi di accademie, lezioni più o meno popolari sui mezzi più efficaci di distruggere i nemici della vite, e si asseriscono certi questi rimedi; ma la cosa è ben lungi dall'esser tale. In verità, bisogna fare questa confessione, i rimedi proposti ora non hanno più efficacia degli scongiuri e delle condanne del medio evo: la scienza, la vera scienza sincera ad ogni costo non può fare oggi altra conclusione.

I nemici di cui sono venuto parlando finora sono nemici di tal fatta che l'uomo non ha guari azione contro di essi.

Ma tutti questi animaletti che sono certamente nemici della vite, sono poi veramente nemici dell'uomo? Questa domanda vale quanto quest'altra: il vino è un bene o un male? Io mi ricordo una apostrofe di Amleto, sulla quale non mi fermo a parlare, per non invadere il campo del mio amico Giacosa che deve fra poco parlarvi qui del vino nei poeti e riferirvi il bene e il male che i più segnalati ne hanno detto in ogni tempo e presso ogni nazione. Corrado Corradino ha pur fatto qui il bilancio del bene e del male del vino. Molti popoli non bevono vino, ma trovano altri sussidi per togliersi di senno: l'oppio, lo hacscis, il betel: in ogni tempo ed in ogni luogo, secondo quello che dice Teofilo Gauthier, l'uomo s'è ingegnato di bere la spensieratezza, fumare l'oblio, masticare l'ilarità. Più recentemente il Baudelaire dice del vino che esso è come l'uomo: non si arriva a definire fino a qual punto possa riuscire stimabile, e fino a qual punto possa riuscire disprezzabile.

Giacomo Leopardi diceva che nell'antichità si erano addotti molti argomenti in favore della schiavitù dei negri, al tempo nostro contro, e che la schiavitù fu sempre tanto nell'antichità quanto al tempo nostro; del vino si disse e si dice molto bene e molto male e si beve sempre. È questo un capitolo di quell'immenso volume che nissuno scrive e tutti facciamo, intitolato « Le contraddizioni umane ».

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Credo utile di aggiungere qui un catalogo delle opere più importanti intorno agli animali utili e nocevoli all'agricoltura e specialmente alla vite, le quali opere il lettore potrà consultare per aver maggiori ragguagli intorno alle questioni superiormente menzionate.

Ratzeburg. — Die Forstinsecten, oder Abbildung und Beschreibung der in Waeldern Preussens etc. Berlin.

Boiduval. — Essai d'entomologie horticole. Paris, 1869.

V. Ghiliani. — Alcuni cenni sugli uccelli insettivori e sugli insetti parassiti. Annali della R. Accad. d'Agricolt. di Torino, 1871.

Gené. — Saggio sugl'insetti più dannosi all'agricoltura. Biblioteca agraria, Milano, 1827.

— Istruzione sugl'insetti più dannosi all'agricoltura nei Regii Stati, Torino, 1840.

— Sugl'insetti nocivi all'agricoltura ecc., Milano, 1835.

Achille Costa. — Degl'insetti che attaccano l'albero ed il frutto dell'olivo, del ciliegio, del pero, del melo, della castagna e della vite, ecc., Napoli, 1857.

L. Camerano. — Gl'insetti. Introduzione allo studio dell'entomologia, Torino, Loescher, 1879.

G. Sabbioni. — Gli uccelli e gl'insetti in rapporto coll'agricoltura. Giornale d'Agric. del Regno d'Italia, Anno VII, 1870, vol. XIV.

Targioni-Tozzetti. — Relazione intorno ai lavori della stazione di entomologia agraria di Firenze per l'anno 1875. Annali del Ministero d'Agric. Ind. e Com., vol. 84, 1876.

— Relazione ecc. per l'anno 1876. Annali del Ministero dell'Interno, vol. I, 1878.

Apelle Dei. — Gl'insetti dannosi alle viti in Italia. Annali di viticoltura ed enologia italiana, Milano, 1873.

Goureau. — Les insectes nuisibles aux plantes potagères, 1862.

Alfonso Cossa. — Sopra alcuni mezzi proposti per distruggere la fillossera della vite. Riassunto d'una lezione fatta nel R. Museo industriale di Torino, 1875.

I. Lichtenstein. — Notes pour servir à l'histoire des insectes du genre Phylloxera. Annales Agronomiques, vol. II, Parigi, 1876.

— Notes pour servir à l'histoire des insectes du genre Phylloxera. Annales de la Société entomologique Belge, volume XIX, 1877.

— Notes etc. Annales Agronomiques, vol. III, 1878.

D. V. Fatio. — Etat de la question phylloxérique en Europe en 1877, Genève, 1878.

— Le Phylloxéra. Instructions sommaires à l'usage des experts cantonaux et fédéraux en Suisse, Genève, 1879.

I. Demole-Ador. — Le congrès phylloxérique international de Lausanne, 1877. Berne.

V. Fatio et Demole-Ador. — Le phylloxéra dans le canton de Genève. Genève, 1875.

— Idem, 1876.

A. F. Negri. — Phylloxera vastatrix. Conferenza tenuta al comizio agrario di Casale Monferrato. Boll. del Comizio Agrario stesso, anno I, 1879.

Actes du congrès phylloxérique international réuni a Lausanne, Lausanne, 1877.

Andrea Vincenza. — Monografia della vite e del pomodoro, Piacenza, 1879.

Boiteau. — Sur la présence, dans les couches superficielles du sol, d'œufs d'hiver du Phylloxéra fécondés. Comptes rendus de l'Ac. de Sciences de Paris, vol. 87, n. 19.

M. Girard. — Rapport sur les ennemis naturels du Phylloxéra de la vigne. Société des Agricolteurs de France, 1879.

— Mémoire sur quelques insectes qui nuisent à la vigne dans le canton de Vaud. Nouveaux mémoires de la société helvétique des sciences naturelles, Neuchâtel, 1841.

Giovanni Malfatti. — Sulla Cochylis ambiguella. Atti della Società Italiana di Scienze Naturali, Milano, 1879, volume XXII.

Targioni-Tozzetti. — Del pidocchio o della fillossera della vite, ecc. Bollett. della Soc. Entom. Italiana, Anno VII, 1875.

[IV-1] Michele Lessona, Intorno alla Galleruca calmariensis. Annali della R. Accademia d'Agricoltura di Torino, vol. XVIII, 1875.[IV-2] Michele Lessona, Dello Arocatus melanocephalus in Torino. Annali della R. Accademia d'Agricoltura di Torino, vol. XX, 1877.[IV-3] I costumi di questa specie non sono ancora in tutto noti. Riferisco a questo proposito ciò che si legge nel prospetto dei generi e delle specie degli acridoidei, secondo la fauna italica del Targioni Tozzetti, Annali d'agricoltura, vol. I, 1878, p. 101: «La locusta grillaiola del Salvi ( Acanthus pellucens ) talvolta colla sua femmina danneggia delle piante selvatiche, come i cardi, le centauree, o coltivate, come la canapa, le carote, e anco la vite, quando, per deporre le uova, pratica delle gallerie nell'interno[*].[*] Salvi, Memoria intorno alle locuste grillaiole. Verona 1750. — Da altri poi lo si crede divoratore d'insetti, come il Meconema varium (Locustoidei).[IV-4] Le principali specie d'Icneumoni e di Calcidi parassiti della Pyralis vitis sono le seguenti:

Famiglia Icneumonidi — Ichneumon melenogonus , Grav.

» » Pimpla instigator , Grav.

» » » alternans , Grav.

» » Anomalon flaveolatum , Grav.

» » Campoplex majalis , Grav.

Famiglia Calcididi — Chalcis minuta , Nes. ab. Es.

» » Diplolepis cuprea , Spin.

» » » obsoleta , Spin.

» » Pteromalus comunis , Nes. ab. Es.

» » » cuprens , Nes. ab. Es.

» » » ovatus , Nes. ab. Es.

» » » larvarum , Nes. ab. Es.

» » » deplanatus , N. ab. Es.

» » Eulophus pyralidum , ?

» » Bethylus formicarius , Lat.

All'azione di queste specie parassite si attribuisce la scomparsa, almeno temporaria, della Pyralis vitis dalla Francia.

[IV-5] A. Rondani, La tignuola minatrice delle foglie della vite. Giornale d'Agric. indust. e comm. del regno d'Italia, 1876, vol. II.

Antispila rivillella et ejusdem parassita. Bullet. entomologico italiano, anno IX.

[IV-6] Entodon viticola. E. Antispilae. E. Rivillellae.[IV-7] Il marciume o il bruco dell'uva. Atti della R. Accad. dei Lincei, sez. 3 a, vol. I, 1877.[IV-8] Il Synoxylon muricatum si è, a quanto pare, molto sviluppato quest'anno in Piemonte, e precisamente in questi giorni (13 aprile 1880) mi vengono mandati molti esemplari di questa specie e molti tralci intaccati da essa da varie località piemontesi.[IV-9] Dell'equilibrio dei viventi mercè la reciproca distruzione. Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, volume XV, 1880.

S. COGNETTI DE MARTIIS — IL COMMERCIO DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 16 Febbraio 1880).

Signore, Signori,

Due egregi colleghi che mi precedettero nella serie di queste conferenze, propostisi il quesito se il vino sia un bene, esitarono a risolverlo, e se si pensi alla loro grande valentia ed autorità, bisogna ammettere che devono essere stati ritenuti da gravi motivi a non dare una qualsiasi soluzione a cotesto problema. Più fortunata è la condizione nella quale io mi trovo, nè già per merito mio, ma per merito della scienza che professo, dacchè per ogni economista tutte le cose utili sono beni, tutte le cose che hanno valore sono beni, e della somma di cotali beni si compone la pubblica e privata ricchezza. Ora, siccome niun dubbio è ammissibile sulla utilità del vino ed è di generale notorietà com'esso abbia valore, così l'economista può, con sicura coscienza, affermare che il vino è un bene e, perchè tale, è scopo alla produzione ed entra, merce desiderata e ricercata, nell'intreccio degli scambi. E qual bene e di quanta importanza esso è nell'economia nazionale!

Quando il Messico apparteneva alla Spagna, il governo di Madrid, regolandosi co' criteri storti di una falsa politica coloniale, aveva proibito che si piantassero viti nel territorio messicano, pur così adatto alla viticoltura. Non altro vino che quello della madre-patria dovevano bere i Messicani. Ma gli allettamenti della natura poterono più dei divieti governativi. Il curato d'una piccola città dell'intendenza di Guanaxuato, don Michele Hidalgo, coprì di vigneti i declivi suburbani. Venne dalla capitale l'ordine di sterparli e distruggerli e si pose mano all'esecuzione. Se non che il prete indegnato si ribellò, anzi levò addirittura il grido dell'insurrezione e la difesa delle vigne iniziò la guerra accanita che riescì all'indipendenza del Messico. E qui in Italia la guerra nazionale del 1848 poco mancò non iscoppiasse due anni prima, a cagione degli impedimenti daziari che l'Austria opponeva all'entrata dei vini piemontesi nelle provincie lombarde. In quella circostanza il magnanimo Carlo Alberto fece aperta e nobile resistenza alla Cancelleria viennese, dando manifesto pegno della sua fede nei destini della patria.

La produzione del vino determinò la prima sollevazione dei Messicani contro la Spagna, il commercio del vino condusse il Piemonte al primo urto con l'Austria.

Ed ora vediamo in qual guisa s'iniziò e procedette questo commercio e con quali vicende.

I.

I principii furono davvero splendidi; il vino fece stupendamente la sua comparsa nel commercio mondiale. I Fenici, o signori, quelli stessi che diedero l'alfabeto al mondo, propagarono tra le genti isolane e ripuarie del Mediterraneo la coltivazione della vite e l'uso del vino, che fu principalissimo articolo nel traffico di quel popolo di navigatori illustri e audacissimi. La Fenicia produceva ottimo vino, specialmente nei territori di Tiro e Sarepta e sulle più basse pendici del Libano. Ne traeva poi dalla Palestina, dalla Siria e dagli altri paesi ove via via la viticoltura s'andava estendendo. Tutti avete letto nella Storia Sacra la narrazione degli esploratori mandati da Mosè nella Terra promessa e tornati con un enorme grappolo d'uva, che fu certo per gli ebrei tra i più forti eccitamenti alla conquista d'un così fertile suolo. E dalla Palestina andavano al mercato di Tiro i vini di Engaddi, Sorek, Elealeh, Eshbon. Però i più squisiti e reputati a quei tempi si facevano nella Siria, che forniva al commercio il vino di Haleb (la moderna Aleppo) pregiatissimo, l'unico che si mescesse alla tavola degli Scià di Persia e diede più tardi il vino di Damasco. La maggiore esportazione si dirigeva verso l'Egitto, nella cui regione superiore il prodotto della vite era scarso e cattivo e nelle altre due, la centrale e l'inferiore, non si coltivavano vigne. Due volte l'anno le carovane trasportavano da Tiro a Menfi grossi carichi di vino, percorrendo la via littorale di Gaza e il margine esterno del delta del Nilo. I buongustai egiziani bevevano a preferenza il vino di Tiro e quello di Laodicea. La Babilonia, non contenta del vino che traeva dall'alta Mesopotamia; l'Assiria, ove si beveva molto; l'Arabia, la Persia e la lontana India erano nel continente asiatico paesi di ricerca più o meno attiva e larga. Coll'andar del tempo una notevole esportazione si avviò anche verso i paesi occidentali d'Europa e d'Africa ove approdarono navi fenicie e furono stabilite fattorie.

I guadagni in cotesto ramo del traffico fenicio dovevano essere enormi, se si pensi alla facilità dell'acquisto nei centri di produzione e alle favorevoli condizioni di spaccio nei paesi di consumo, dagli Stati finitimi ai più remoti scali del Mediterraneo, del Mar Nero, dell'Atlantico e sin dello stretto di Jenikalé e del Mare d'Azoff, sulle cui rive i barbari Cimmerii ricevevano tra' primi doni della civiltà otri ricolmi di vino e assaporavano la gradita bevanda con l'avidità stessa che a' giorni nostri spinge gl'Indiani d'America e i Maori d'Australia all'uso immoderato dell'acquavite. Intendiamoci però; parlando di guadagno non si pensi a danaro. A quei tempi non v'era moneta coniata, si trafficava per baratto; il consumo del vino nei luoghi di maggior produzione non era grandissimo, ne rimanevano grosse quantità disponibili che i mercatanti sidonii e tirii mandavano nei paesi stranieri, ricevendo in cambio merci che avevano alto pregio nell'industria, nell'arte decorativa, nel lusso.

Queste tradizioni seguì Cartagine, che ereditò la fortuna e il genio commerciale della madre-patria. È menzionato specialmente come assai lucroso il commercio ch'essa faceva con la Cirenaica (Barkah, parte dell'attuale reggenza di Tripoli) importando vino ed esportando il silfio reputatissimo nella farmacopea antica e noto nella moderna col nome meno bello di assafetida.

II.

La Grecia, al suolo della quale s'adattarono benissimo così le viti fenicie di Tiro e Sarepta, come le sire di Laodicea e Biblo (Latakié e Gebail), diede molte cure alle vigne, sicchè ben presto divenne un paese di grande esportazione. Troviamo menzionati in Omero due vini, i primi venuti in fama tra gli elleni, il Pramnio (Iliade XI, Odissea X) assai generoso, che si faceva nel territorio di Smirne e il vino rosso e dolce del monte Ismaro (Odiss. IX) nelle campagne tracie (Romelia), ove scorre il fiume chiamato dagli antichi Ebro e adesso Maritza. Cotesto vino fu detto poi Maronèo da una piccola città sorta a piè dell'Ismaro e con tal nome è ricordato da Plinio.

Con questi due s'inizia l'elenco dei vini greci, che andò via via allungandosi, sicchè sarebbe malagevole e non senza noia esporlo qui. Mi limiterò a mentovare quelli che ottennero più riputazione in commercio. Ed erano, tra' vini di terraferma, oltre il Pramnio, il cui credito si manteneva ancora nel primo secolo dell'êra volgare, il vino di Sicione, e quelli di Mende e Schione, provenienti il primo dalle campagne della riva destra del golfo di Corinto e gli altri due dalla penisola di Cassandra, l'antica Pallene; tra' vini poi delle isole — e quasi tutte ne producevano — il Chio, rosso, accreditatissimo (isola di Scio) e quelli di Taso, Lesbo, Lemno, Cipro, Rodi, Creta (Candia), Icaria (Nicaria) e Cos. Le colonie della Sicilia e della Magna Grecia diedero anch'esse in seguito un largo contingente al commercio vinifero.

I prezzi naturalmente variavano secondo la qualità, ma in generale erano piuttosto bassi. Per esempio, nel V o secolo innanzi l'êra volgare i concittadini di Socrate pagavano lire 2,36 al litro il vino di Chio, che era il più costoso di tutti; nel IV o secolo un litro del vino di Mende valeva lire 1,86 e Polibio assicura che a' suoi tempi (I secolo av. G. C.) il vino comune greco s'aveva nella Lusitania (Portogallo) per centesimi 2 ⅓ al litro.

Nell'industria enologica i greci divennero eccellenti; niun palato pareggiava l'ellenico nell' enogeustica, vale a dire nella degustazione. Vero è che, a temperare probabilmente la forza alcoolica de' loro vini, ci mettevano acqua, e quel che è strano, acqua marina, anzi Atene aveva istituiti alcuni ispettori (Enopti) con l'incarico di multare chi nei banchetti mescesse vino puro. Non sembra però che, in pratica, l'istituzione abbia fatto buona prova e non è difficile intendere il perchè.

Ad ogni modo il commercio greco del vino era considerevolissimo. Negozianti all'ingrosso ( enempori ) attendevano all'esportazione e venditori al minuto ( enocápeli ) allo spaccio locale. Il trasporto per mare si faceva con navi adatte specialmente a cotesto traffico ( oinagogòn plion ), per lo più in otri di pelle caprina e talvolta in anfore impegolate. Solo per le spedizioni in Egitto si adoperavano brocche e questa particolarità depone, mi sembra, a favore del buon gusto egiziano.

E poichè m'accade di menzionare un'altra volta l'Egitto, dirò che al tempo dei Lagidi avevano acquistata qualche riputazione il vino bianco di Mareotide, detto così dall'antico nome del lago Mariut presso Alessandria ed il vino di Tamia, l'attuale Damietta.

III.

Dalla Grecia all'Italia il passaggio è naturale. Il mio dotto amico Graf vi rammentò il nome di Enotria dato in antichissima età alla patria nostra. In origine esso fu attribuito soltanto alla Basilicata o provincia di Potenza, ed esteso prima alle tre provincie calabresi che formavano l'antico Bruzio, e poi anche talora a tutta l'Italia[V-1]. Del resto i greci posero a parecchie terre nomi enologici. L'isola d'Egina si chiamò prima Enonia o Enopia, le Enotridi erano due piccole isolette poco lungi dalla breve costa lucana sul Tirreno; l'isola di Sichino fu dapprima Enoie; c'era un'Enantia ov'è adesso Kertch e un'altra nella Sarmazia asiatica.

Il commercio del vino nell'Italia antica presenta due diversi periodi: uno anteriore, l'altro posteriore all'anno di Roma 633 (121 av. G. C.), nel quale furono consoli Lucio Opimio Nepote e Q. Fabio Massimo. In quell'anno fu così abbondante e squisita la vendemmia, che finalmente, come dice Plinio, l'Italia conobbe il suo bene[V-2].

Nel primo dei due periodi i vini greci erano i preferiti; Plauto nel terz'atto del Povero Cartaginese nomina i vini vecchi di Leucade, Lesbo, Taso e Chio. Il vino nazionale era poco stimato. La coltivazione della vite cominciò tra noi dopo quella del frumento e Roma nei primi tempi non bevve molto. Nel vecchio Lazio però se ne faceva e se ne mandava anche nella finitima Etruria[V-3]. Ma adagio adagio i vini italiani cominciarono a farsi credito sul mercato interno. L' ammineo della Campania, il lucano della Basilicata e il murgentino di Sicilia[V-4] sono lodati da Catone (234–149 a. G. C.) segnatamente il primo che fu il predecessore del Falerno e del quale si distinguevano due qualità, la superiore ( ammin. maius ) e l'inferiore ( ammin. minusculum ). Questi tre erano i vini nazionali migliori. Se ne bevevano anche di minor pregio o infimi affatto, come questi altri che Catone descrive: l' elveolo una specie di gustoso chiaretto, l' apicio analogo al nostro moscato; il preliganeo, vinello che si dava a bere ai vendemmiatori e la posca — un nome rimasto nel dialetto piemontese — ossia il vino degli schiavi e della bassa gente.

Circolavano poi vini fatturati che si spacciavano per greci e Catone dà ricette per la fabbricazione del vino greco e in ispecie di quel di Coo.

La legge protesse la viticoltura, diede norme e sanzione speciali alla vendita del vino e prescrisse le regole per la consegna, la degustazione, la misuratura.

Il secondo periodo del commercio del vino nell'antica Italia si suddivide in due epoche, delle quali l'una va dal 633 di Roma al 700 (54 av. G. C.), l'altra da cotesto anno alla caduta dell'impero.

La data che separa le due epoche m'è fornita da Plinio, il quale asserisce che verso il 700 di Roma principio ad estendersi la riputazione e il consumo de' vini nazionali e questi accennarono a vincere la concorrenza dei vini stranieri, malgrado che lo sviluppo dell'importazione non s'allentasse. Nei settantacinque anni precedenti si erano già fatti conoscere il Cecubo e il Falerno. Di questo parlerò or ora. Il Cecubo si faceva nel territorio di Amicla, sul golfo di Gaeta, ma durò poco. Nella seconda metà del primo secolo dell'êra nostra era già venuto meno, per negligenza dei coltivatori, per l'angustia del sito e pel canale che Nerone fece aprire dal lago d'Averno ad Ostia, traverso quelle campagne. Il predominio dei vini greci durava ancora sul mercato italiano, non bastando la produzione nostrana al consumo ed anche per l'abitudine del palato a' vini dell'arcipelago, sicchè la loro artificiale imitazione non si smetteva. Tra' nazionali primeggiavano i campani e i siciliani; da queste provincie subalpine usciva il vino allobrogo, che sapeva di pece; nelle meridionali era piuttosto diffusa la fabbricazione del vin cotto, poco gradito fuori di là.

Dei vini medicinali fatturati con mosto d'uva amminea e succhi d'erbe non fo parola, perchè estranei al mio soggetto.

Un notevole indizio del credito che avevano acquistato i vini del paese lo si ha nelle distribuzioni che fece Giulio Cesare nelle feste del suo trionfo per le vittorie riportate in Gallia e in quelle fatte come settemviro Epulone, quando fu console la terza volta. Diede prima Chio e Falerno; poi fece meravigliare il popolo romano dando in tavola quattro qualità di vino, due greci: Chio e Lesbio e due nazionali: Falerno e Mamertino.

Ed eccoci al periodo più notevole. Plinio in una sua classificazione dei vini italiani distinse quattro categorie, disponendo secondo il loro merito i vini delle varie regioni.

Nella prima classe pose il Pùcino che si faceva nelle vicinanze d'Adria, il Setino del territorio di Terracina e il Retico di Val d'Adige. Il primo era piaciuto assai a Livia moglie d'Augusto, la quale dava merito a quel vino d'esser giunta a 82 anni sempre in buona salute. Ma il marito preferiva gli altri due, e Plinio, si vede, non volle far torto a nessuno.

Nella seconda categoria pliniana troviamo il classico Falerno, prodotto della felice Campania, di tre qualità: il faustiano, che si spremeva dalle uve d'un territorio a sei miglia da Sessa, il gaurano, alquanto brusco e il falerno tenue, ossia sottile.

La terza classe del naturalista comasco annovera i vini del Lazio, cioè quelli dolcissimi dei colli albani, più il Privernate e il Signino e i tipi inferiori della Campania: il Massico, il Caleno, lo Statano, il leggiero Sorrentino, il Fondano, il Veliterno.

Appartengono alla quarta i vini di Sicilia; il Mamertino (Messina), la cui qualità migliore era conosciuta sotto il nome di potalino e il Tauromitano (Taormina), che in commercio era dato spesso per mamertino.

Altri vini italiani di qualche pregio erano il pretuziano, l'anconitano, il palmense e il cesenatico, tutti del Piceno; l'adriano dei Veneti; il graviscano, lo statoniense e sopratutti il rosso Lunense toscani; il tarantino, il serviziano e il cosentino calabresi; il turino e il lagarino lucani.

Vengono ultimi i vini che Plinio chiama plebei, tra' quali i più divulgati erano il trifoglino, il caulino, il trebulano e il pompeiano, che tutti e specialmente l'ultimo, invecchiando si guastavano.

Passiamo ora all'estero. La Gallia transalpina produceva due tipi: uno molto denso che serviva per quella operazione che da' francesi è chiamata vinage e da noi taglio, ed era il marsigliese; l'altro detto beterrano fu, per dir così, l'avolo del Frontignan, sia per somiglianza ne' caratteri estrinseci ed intrinseci, sia perchè si faceva nel medesimo territorio donde ci viene il delizioso Muscat de Frontignan. E nella Gallia furono inventate e adoperate prima le botti di legno cerchiate. La Spagna forniva al commercio tre qualità di vini che si facevano nella Catalogna: il laletano, abbondante, ma poco buono; il tarraconense reputatissimo e da Marziale posposto solo ai vini campani e il lauronense. Possiamo mettere insieme con questi il balearico, ossia vino delle isole Baleari.

Attivissimo durava il commercio dei vini dell'arcipelago, quantunque piantagioni di viti greche si fossero praticate anche in altri paesi e la industria contraffacesse con sconce miscele i delicati succhi delle vendemmie elleniche. «Il paese non l'uva fa la differenza de' vini» diceva il vecchio Plinio e diceva bene. Pure il sapore d'acqua marina, comune a quasi tutti i vini di Grecia, e più spiccato in quelli di Lesbo, si cominciava ad avere in uggia ed il clazomenio piaceva appunto perchè sapeva meno di salsedine. Era quest'ultimo uno de' migliori vini dell'Asia Minore, che dalle sue regioni ubertosissime, la Fenicia, la Frigia, il Ponto, la Caria e la Lidia, mandava dieci eccellenti specie di vino. Altrettante ne annovera Plinio della Grecia propria e celebra il peparetio dell'isola omonima, tanto migliore quanto più vecchio. L'Egitto dava il sebennitico delle vigne del Bahari e l'Arabia il petrictum.

Insomma, a detta dell'insigne naturalista latino, tra italiani e stranieri, non meno di 195 generi di vino erano forniti al consumo, de' quali 80 fini e due terzi di questi ottanta erano vini d'Italia. La concorrenza straniera era dunque vinta.

Il traffico enologico prese grande sviluppo e v'attendevano i Mercatores vinarii, de' quali è menzionata una speciale società che incettava i vini delle coste adriatiche ( Negotiantes vini supernates ). Roma aveva uno scalo apposito ( portus vinarius ) e un mercato ( forum vinarium ) pel vino.

La ragione de' prezzi, mite a principio, s'andò elevando come s'allargava il consumo. Nell'anno 565 di Roma, cioè dire al cominciare del secondo secolo anteriore all'Era Volgare, i censori ordinarono non si vendessero il vino greco e l'ammineo più di otto denari per anfora, che tornano circa 45 centesimi al litro. A' tempi di Caligola (40 dell'E. V.) il vino Opimiano, quello cioè famoso della pingue vendemmia del 633 e quindi vecchio di cenquarant'anni, costava lire 7,71 al litro. Non par poco, ma si consideri la qualità e l'età del vino, e si pensi che ora il Johannisberg del 1862 (cera azzurro-dorata) vale lire 44 la bottiglia. Nel terzo secolo dell'Era volgare l'imperatore Diocleziano promulgò una tariffa de' prezzi dei generi di consumo, mano d'opera, ecc., conosciuta ora dagli archeologi sotto il nome d'iscrizione di Stratonicea. In questo curioso documento il prezzo del Falerno di qualità superiore è fissato a lire 1,50 al litro, quello del vino vecchio di prima qualità a lire 1,20 e per il vino comune a 40 centesimi.

Si vede che il prezzo del vino andava crescendo e se ne intende il perchè. Le sorti dell'agricoltura volgevano tristi, le irruzioni de' barbari turbavano i lavori campestri e mantenevano una continua trepidazione nelle plebi rurali. L'attività economica illanguidiva, immiserendosene le fonti, ed i traffici disturbati, sviati, interrotti, male s'intrecciavano in giorni come quelli, agitatissimi e di gran travaglio pe' popoli. I barbari rumoreggiavano ai confini spesso violati dell'impero, e male resistevano agli allettamenti della bella penisola italica dal cielo ridente e dalle pingui terre. Tentò qualche imperatore vietare a' temuti nemici l'acquisto de' prodotti nostrani e specialmente del vino, la cui esportazione ne' paesi de' barbari fu proibita prima da Valentiniano I, poi da Graziano. Ma senza pro. Se il vino non potè andare in que' paesi, vennero i barbari a beverlo nelle nostre terre e ne vollero del migliore. Cassiodoro, ministro di Teodorico, scriveva al Canonicario di Venezia che la cantina del re aveva bisogno d'essere fornita come il decoro della regia mensa esigeva. Acquistasse dunque acinatico rosso e bianco (l'antenato del Val Policella) da' proprietari del Veronese e ne mandasse alle cantine del re che ne difettavano. E aggiungeva che al principe piacevano più i vini italiani de' greci, manipolati con aromi ed acqua marina.

IV.

Ad ogni modo i vini greci ed i latini serbarono la loro fama anche nell'età di mezzo e costituirono i due tipi commerciali del prodotto. I centri greci più accreditati di produzione erano la Romelia, Creta e Cipro, e la qualità preferita, la Malvagia; i migliori centri latini erano i marchigiani e i calabresi (Tropea e Cotrone) e stimavasi assai la Vernaccia, tanto cara a papa Martino IV, che v'affogava dentro «le anguille di Bolsena». I prezzi tornarono miti. Un barile di vino greco nel secolo XIV s'aveva su per giù per una lira fiorentina. E sì che c'erano i dazi, la cui commisurazione era determinata secondo criteri differenziali non solo di qualità, ma anche di nazione, essendo i Veneziani ed i Genovesi meglio trattati, negli scali di Levante, de' negozianti di qualsiasi altra nazionalità. Però erano dazi lievi. Generalmente l'entrata e l'uscita del vino erano colpite con una tassa dal 2 al 5 per cento ad valorem, ed i diritti più elevati cadevano sulla Vernaccia. In qualche scalo cotesta misura era superata d'assai; ad Alessandria d'Egitto, per esempio, il dazio sul vino era del dieci per cento e a Tunisi dell'undici. Ma erano eccezioni.

Più del commercio internazionale era in verità impacciato lo smercio interno, ove fiorivano le Corporazioni. In Francia, come tutti sapete, l'ordinamento delle Maestranze ebbe norme rigide dettate da' canoni d'una pessima politica economica, secondo la quale l'esercizio di qualunque mestiere, arte o professione era un privilegio regale conceduto a questo o quel cittadino dalla benevolenza del sovrano. Verso la fine del secolo XIII Parigi aveva 51 mercanti di vino ( bufetiers ), 3 sensali da vino e 4 gridatori, tutti patentati e privilegiati. Il gridatore aveva il diritto esclusivo di girare per le piazze e bandire il vino dell'osteria tale o tal'altra. Gli osti, o tavernai che fossero, non potevano ricorrere per cotesto servigio ad altri e dovevano, a richiesta del crieur, dargli un campione ed indicargli il prezzo.

Il costume de' banditori del vino esisteva anche in Italia ed in certi paesi ha durato un gran pezzo. Tra' ricordi della mia fanciullezza c'è il gridatore del vino che vedevo a Bari la domenica. Lo chiamavano Calandriedd' e si metteva sulle piazze e crocicchi, celebrando con una monotona cantilena il vino della bettola del tale o tal'altro oste, mostrando e facendo assaggiare il campione. Come il regime corporativo si andò perfezionando, così crebbero i vincoli. In Francia si vendevano uffici di ispettori delle taverne, rotolatori di botti, sensali, commissionari, esercenti, saggiatori, negozianti di vino. Vi fu un tempo in cui la tassa di entrata nella Corporazione de' Vinai era di 800 lire tornesi, delle quali due terzi circa andavano all'erario pubblico, rimanendo il resto alla cassa sociale.

Ma un guaio ancora più grosso sopravvenne quando, sotto l'influenza del sistema Mercantile, s'aggravarono i dazi doganali. Io credo che l'egregio prof. Lessona mi permetterà di applicare a cotesti dazi l'arguta denominazione con la quale egli annunciò il tema della sua splendida conferenza, perchè in verità i dazi, o signori, sono veri e propri nemici del vino.

I fatti che sto per narrarvi lo provano evidentemente.

Nella prima metà del secolo XVI i vini francesi presero ad affluire in gran copia in tutto il nordovest d'Europa, specialmente in Olanda ed in Inghilterra, nel qual ultimo paese i vini di Bordeaux erano cominciati ad entrare sin dal secolo XII. Ebbene nel 1659 la Francia mette un tonnellaggio di cinquanta soldi sulle navi estere. L'Olanda se ne risente e minaccia di scemare la tariffa daziaria sui vini del Reno, determinando così una importazione di questi a detrimento della Francia, che nello spaccio del vino aveva per clienti non spregevoli i Paesi Bassi. Dopo lunghe trattative si venne nel 1662 ad un accordo. Più tardi, al cadere del secolo XVII, la Francia colpisce con grave dazio le lane inglesi e l'Inghilterra si vendica aggravando la mano sui vini francesi e volgendo la propria richiesta alla Spagna e specialmente al Portogallo, donde trasse più di dugento carichi di vino all'anno. I Delegati de' centri vinicoli al Consiglio generale del Commercio di Francia sporsero vivissimi reclami contro il sistema daziario che produceva così tristi effetti. Il delegato di Baiona affermava essere rovinate affatto la Guienna, la Borgogna, la Turenna e la regione angioina, e sul posto valer quasi più il fusto che il vino. «Bisogna abbandonare, scriveva il delegato di Lione, la massima di Colbert, il quale pretendeva che la Francia potesse fare a meno di tutto il mondo. Ciò era un andare contro la natura e contro la Provvidenza che ha distribuito i suoi doni ad ogni popolo, onde costringerli tutti a mantenersi in commercio reciproco». Parole nobilissime rimaste inascoltate e che non è fuor di luogo ricordare ne' giorni che corrono di tendenze reazionarie nella politica commerciale. L'importazione de' vini francesi in Inghilterra riceveva così un colpo micidiale e fu poi annientata addirittura dal Trattato di Methuen, stipulato tra la Granbrettagna ed il Portogallo nel 1703. In quella famosa convenzione il governo Portoghese s'impegnò a facilitare assai lo smercio de' tessuti inglesi di lana ne' propri dominii ed il britannico a ridurre il dazio d'entrata su' vini portoghesi, in guisa da renderlo inferiore di due terzi al dazio sulla immissione dei vini francesi.

Quali conseguenze ebbe una così fallace politica economica?

Nel 1669, quando il dazio su' vini che entravano in Inghilterra era di quattro pence (cent. 20) per gallone (lit. 4.543), ventimila tonnellate di vino francese e 25,000 di vini portoghesi, spagnuoli e renani costituivano l'annua importazione. In quel tempo il vino non era, nella Granbrettagna, un lusso del ricco. Lo divenne dopo l'aggravio de' dazi ed il popolo si volse a bevande artefatte e spiritose. Nè è tutto. Data da quella mutazione del regime daziario de' vini l'adulterazione del Porto e del Xeres, diventata poi sistematica ed entrata nelle abitudini dei consumatori, il cui gusto si acconciò al Porto artificiale, tanto da preferirlo al legittimo, ed i bevitori di Xeres si cangiarono in bevitori di Sherry. In tal guisa l'aggravio della tariffa riusciva pregiudizievole così alla Francia, paese di grande produzione, che vedeva restringersi lo spaccio ed il lucro, come all'Inghilterra, paese di consumo, ove i prodotti delle distillerie prendevano il posto de' vini mancati. Il Trattato di Methuen, sotto pretesto di aprire un sicuro mercato a' tessuti di lana inglesi, privò l'Inghilterra di un rilevante e naturale traffico con un popolo vicino e la costrinse a prendere il prodotto, inferiore e più caro, di un paese che non era in grado di provvedere in larga misura il mercato britannico. Similmente Napoli aggravò il dazio d'uscita sul vino e perdette il mercato di Genova. Ed ecco, o signori, come il comparativo uso o disuso del vino nei paesi che non ne producono, sia curioso e notevole indizio dell'influenza che le legislazioni fiscali esercitano sulle abitudini popolari.

V.

Fortunatamente i criteri della politica Colbertiana andarono poco a poco indebolendosi, ed il commercio del vino potè svolgersi in modo meno irregolare e più conforme alle esigenze determinate dal vario talento de' popoli, dalla diversa posizione de' paesi, dalla moltiforme attitudine dei produttori a somministrare gli elementi della ricchezza sociale. La produzione del vino ha una propria regione segnata dalla natura nella zona della vite. Ed in cotesta zona va notato un fenomeno curioso ed è che ne' paesi nordici abbonda il vino bianco e ne' meridionali il vino rosso, proprio come ne' primi — il riscontro m'è stato suggerito dal mio egregio collega il prof. Lombroso — prevalgono i capelli biondi e ne' secondi le chiome nere. Un'altra circostanza: i vini del mezzodì sono più alcoolici de' vini del nord. Di tale maniera vediamo posti da natura i fondamenti del traffico del vino.

In quali condizioni esso si trova ai giorni nostri?

Tra' paesi produttori della zona viticola europea predomina la Francia, la cui produzione nel decennio anteriore al 1859 segnò una media annuale di 30 milioni d'ettolitri ed è salita nel decennio posteriore alla media di 56 milioni, malgrado l'oidium e la fillossera, cause di accidentali diminuzioni riparate dall'industria col vinage. L'esportazione crebbe anch'essa sensibilmente da 2 milioni e mezzo d'ettolitri che era nel 1859, sino a 4 milioni nel 1873. Nel decennio successivo il raccolto medio annuale diede 54.636.000 ettolitri, e s'ebbe una esportazione di 3.469.000 ettolitri all'anno in media. Il valore della produzione annua si può calcolare in commercio a circa due miliardi di franchi; quello dell'esportazione tocca i 300 milioni. Al moto ascendente dell'esportazione hanno contribuito in maniera speciale la Germania — gli Alsaziani ed i Lorenesi serbano fede a' vini di Francia, — la Svizzera, l'Inghilterra ed il Belgio in Europa e Rio de la Plata nel continente americano (Tav. I).

ITALIA — ESPORTAZIONE del VINO

S. Cognetti de Martiis dis

FRANCIA e SPAGNA ESPORTAZIONE del VINO

CONSUMO di VINI FRANCESI in INGHILTERRA

E. Loescher Editore, Torino—Roma

I vini francesi vanno divisi in tre grandi categorie, cioè: Vini ordinari della Gironda, Vini ordinari degli altri vigneti e Vini-liquori. La prima categoria soffrì una diminuzione irregolare, ma costante, nell'uscita, dal 1866 al 1871, poi s'ebbe un lieve miglioramento. La media dell'esportazione, proporzionale alla totale quantità di vini che la Francia ha mandato all'estero dal 1859 al 1875, risulta, pe' vini girondini, del 58.1 %; fu superata fino al 1866 sempre; non mai più (eccetto nel 1872) da quell'anno in poi. I vini di cotesta classe vanno a preferenza in Inghilterra e nelle colonie inglesi, al Rio de la Plata, agli Stati Uniti, all'Uruguai, in Olanda, al Perù, al Messico, in Danimarca ed al Chilì. L'esportazione della seconda categoria, quella dei vini ordinari des autres crus, aumentò costantemente sino al 1870, declinò poi sino al 1873, ma si riebbe ben presto sino ad oltrepassare la media che è 37.7 % e fu superata dal 1867 al 1872 e nel 1875. L'Algeria, il Brasile, l'Italia, l'Egitto, la Turchia, la Svezia, la Norvegia preferiscono i vini di questa classe. Ne' vini-liquori — quelli cioè la cui potenza alcoolica è maggiore di 15 gradi — si ebbe tendenza all'aumento d'uscita sino al 1863, depressione nel successivo triennio, nuovo aumento sino al 1872 e poi alti e bassi più o meno sensibili. La media 4.2 % fu sorpassata solo ne' tre anni 1863, 1872 e 1874. L'esportazione più notevole di cotesti vini si fa verso l'Inghilterra ed il Belgio.

Cosa si raccoglie da questi dati? La notevolissima differenza tra le cifre della produzione e quelle dell'esportazione mostra che, pur facendo larga parte, al consumo interno, la Francia ha bisogno di sbocchi ed accenna a procurarseli ne' paesi dell'America Meridionale. Si scorge anche come al commercio vinifero francese abbia giovato la riforma economica del 1860 e quanto male avvisi la Società parigina d'agricoltura chiedendo un dazio di 20 franchi per ettolitro su' vini che entrano in Francia. L'eccellenza di questo paese nell'industria enologica e conseguentemente il suo primato nel commercio del vino non fu conseguita con la protezione di tariffe, bensì con la perfezione del prodotto, la unione de' produttori per ottenere la costanza de' tipi e l'abbondanza de' capitali applicati alla viticoltura.

La Spagna e l'Italia sono, dopo la Francia, le due regioni che esportano la maggiore quantità di vino. Ma che distanza tra esse e la consorella latina! La produzione del vino nella penisola iberica è aiutata e stimolata da capitali inglesi, specialmente nelle provincie meridionali, ed i prodotti si distinguono per gusto generoso e nutritivo. L'esportazione (Tav. I) va sviluppandosi discretamente e più si svolgerebbe, in ispecie verso il nordovest d'Europa, se la tariffa doganale inglese fosse alquanto più mite co' vini. Vero è che se la Spagna ha qualche ragione di lagnarsi dell'Inghilterra, ha più ragione ancora la Francia di dolersi della sua vicina d'oltre i Pirenei, massime se si consideri che da questa è fornita la maggior parte de' vini che entrano in Francia. Commercialmente però i vini spagnuoli non hanno grande importanza; i più noti sono adulterati e quelli non manipolati, tutt'altro che perfetti, hanno un difetto grave: l'incostanza nel profumo, nel corpo e nel colore. Prima di passare dalla penisola iberica alla nostra, è bene dare un'occhiata al Portogallo. Il più noto dei vini portoghesi è il Porto, ma ho già accennato come, con la sofisticazione, gli speculatori anglo-sassoni abbiano traviato il sapore di questo vino generoso, sicchè il genuino Douro non piace a chi è avvezzo al Portwine. Lo Stato al quale affluisce la maggiore esportazione lusitana è il Brasile, ove però comincia a coltivarsi l'industria enologica e s'è costituito un tipo nazionale, il Pao, che, se i produttori v'attendono e gl'industriali non lo sciupano, potrà acquistare un buon posto in commercio.

Ed eccomi all'Italia. La nostra esportazione è in aumento, in ispecie quella del vino in bottiglie (Tav. II) e ci siamo emancipati dalla Francia, dalla quale prendemmo 661,000 ettolitri di vino nel 1859, gradatamente discesi a 45,000 nel 1875. Anzi nel 1872 potemmo fornirne alla nostra vicina 300,000 ettolitri. Ma, o signori, non facciamoci illusioni. La massima parte del nostro vino s'esporta pel taglio e a ciò furono adoperati in Francia i 300 mila ettolitri or ora menzionati; servirono a rinforzare i fiacchi vini della Linguadoca. Il vino italiano che solo, si può dire, è conosciuto nel gran commercio, è il Marsala, un vino-liquore. E poi cos'è la nostra esportazione in confronto della francese? E dire che per ragione di clima la produzione italiana dovrebbe superare quella della Francia, ove la vite alligna bene in un terzo della superficie ed in un altro vi stenta, e l'industria enologica dovrebbe figurare tra le fonti principalissime della nostra esportazione accanto alle industrie della seta e dell'olio. C'è dippiù; noi come produttori di vino non possiamo competere nemmeno con la Spagna. La produzione annua spagnuola raggiunge, in media, la cifra di 25 milioni di ettolitri, circa la metà della produzione francese. La media nostra è di 16 milioni di ettolitri. Si è asserito che non possiamo esportare a causa dei gravi dazi che figurano nelle tariffe straniere nell'importazione de' vini; si sono invocate altre attenuanti per spiegare la figura alquanto meschina che noi si fa in questo ramo di commercio. Parole vane. La verità è stata detta chiara ed aperta da due valentuomini che da diversi punti di vista si sono occupati con amore de' vini italiani: il Luzzatti ed il Sambuy. La principal condizione per poter vendere, dice il Luzzatti, è produrre bene. Qualunque vantaggio daziario è effimero e vano, se la enologia italiana non cerca in se stessa i mezzi della propria rigenerazione. «A differenza di abilità, di competenza commerciale, qualunque diminuzione di dazio nelle tariffe estere profitterà segnatamente agli Stati più sapienti nell'arte dell'enologia e più avveduti nel commercio del vino»[V-5]. E il Sambuy esclama: «Facciamo meglio i nostri vini... Non si tratta di far comunque dei vini cattivi destinati alle bettole ove il misero artigiano, attirato dal buon prezzo, perde i suoi preziosi risparmi e la più preziosa sua salute, si tratta di fare dei vini-tipi, che passino i monti ed i mari con utile nostro e decoro d'Italia»[V-6].

Il nostro gran guaio è appunto la mancanza di vini-tipi. La nomenclatura dei vini italiani è lunghissima e svariatissima, e questo nuoce assai al nostro commercio enologico. I produttori vogliono fare sfoggio di qualità diverse e il prodotto risulta scarso per ogni qualità e per giunta incostante.

Aggiungete la mala pratica dell'adulterazione, che pur troppo è vizio vecchio e fece nel secolo scorso perdere all'Italia i mercati della Germania e dell'Inghilterra[V-7]. A questi difetti intrinseci della nostra enologia, se ne accoppiano altri che chiamerò estrinseci. Uno riguarda l'imbottigliamento. In molti paesi d'Italia s'imbottigliano i vini nella primavera susseguente al raccolto. Cosa accade? Il vino, dopo un certo tempo, prende un sapore disgustoso comunicato dalle feccie. Bisogna poi anche badare più che non s'usi ai tappi di sughero. All'esposizione di Filadelfia una partita di Valpolicella d'ottima qualità fu esposta in bottiglie malissimo turate, e non fu avuto in quel conto che forse meritava. All'esposizione di Vienna si dovettero cambiare i tappi a molte bottiglie di espositori italiani. Non è tutto. Noi non curiamo l'apparenza della bottiglia così come si dovrebbe per allettare i consumatori. Non diamo importanza o ne diamo ben poca alle etichette, e salvo poche eccezioni, le nostre bottiglie hanno aspetto grossolano e non reggono al confronto di quelle del Reno, di Francia, di Spagna, degli Stati Uniti e del Portogallo.

Così, signori, la fama antica de' vini latini è mantenuta non dalla terra veramente latina, non dalla vecchia Enotria, ma dalla Francia.

La Germania anch'essa ci sta innanzi nel commercio enologico. I vini del Reno si distinguono non solo per la loro eccellenza, ma eziandio per la costanza del tipo, nella quale si riflette l'indole pertinace della robusta e perseverante stirpe alemanna. I Tedeschi poi si acquistarono una grande reputazione come cantinieri. Niuno li supera nella preparazione e nella conservazione de' vini che curano con mezzi perfetti. Il signor Secchi de Casali, giurato per l'Italia alla sezione agricola della Mostra di Filadelfia, scrive nella sua Relazione che i cantinieri tedeschi sono i più accetti agli Stati Uniti, e l'imbottigliamento de' liquidi v'è, si può dire, monipolizzato da essi, abili al punto d'allestire ciascuno diciotto dozzine di bottiglie, dovendo lavarne i vetri, riempirle, turarle, mettervi le capsule e le etichette, avvilupparle nella carta e nella paglia e finalmente incassarle, stampandovi le debite iscrizioni, e tutto ciò in nove ore di lavoro.

Tra' paesi che forniscono al commercio tipi buoni e accreditati, merita una speciale menzione l'Ungheria, patria del Tokay, pregevolissimo per finezza e profumo. In quanto alla Grecia e alla Turchia, la cattiva fabbricazione nuoce allo spaccio de' vini dell'arcipelago e dell'Asia Minore, che, come abbiamo visto, tennero in altri tempi il primissimo posto nel commercio enologico.

Negli Stati Uniti d'America si dànno molte cure e si applicano vistosi capitali alla produzione del vino. Vi s'è costituito un tipo nazionale, la Catawba, il più stimato tra' vini americani. Ma la Repubblica federale transatlantica non è pel vino un paese d'esportazione, come lo è, e considerevolissimo, pel frumento e per il bestiame. Un sensibile movimento d'esportazione s'accenna invece nella lontana Australia, e specialmente nella Victoria e nell'Australia Meridionale, ove grossi capitali s'investono nella viticoltura, si piantano nella vallata del Murray viti spagnuole, si riproducono con buon esito nelle regioni nordiche i tipi spagnuoli e portoghesi e in quelle poste al sud i francesi e tedeschi. Anche lì s'è costituito un tipo dominante, il Verdeilho, e gli arditi coloni del mondo nuovissimo affrettano co' voti e con l'opera il giorno in cui la loro terra competerà co' più reputati paesi viniferi europei.

Intanto il consumo del vino si va estendendo e si allarga così il mercato di questo prodotto, il cui prezzo, sul posto, s'è più che raddoppiato in dieci anni, mentre il prezzo medio di vendita, in commercio, che, in Francia, verso la metà del secolo scorso, s'allontanava poco dai 35 franchi, è salito a non più di 50 franchi, grazie al progresso dei mezzi di trasporto.

Ma lo sviluppo progressivo del commercio enologico ha tre nemici: l'imperizia, la frode e il dazio.

Abbiamo veduto come l'imperfezione dell'elemento tecnico nella viticoltura e nell'arte di fare il vino nuocia ai paesi che per ragione di clima sono pure i più adatti alla produzione. Il buon vino s'apre da sè la via sul mercato mondiale. In questo, come in ogni altro ramo dell'attività umana, chi più sa, più può.

In quanto alla frode, tutti conosciamo in quali proporzioni sia praticata e sotto quante e svariate forme. Tutti i tipi più accreditati, tutte le qualità più gradite, tutte le specie più note e diffuse sono prese di mira. Un arguto scienziato tedesco dimostrò che l'uva non c'entrava per nulla nello Château Margaux vecchio che una Corte di Germania riceveva dal suo fornitore brevettato, il quale le dava a bere una miscela composta con acqua pura, acquavite di frumento, estratti diversi, acido, sale, glicerina e materie coloranti. Io non voglio invadere il campo riservato a chi tratterà dal punto di vista igienico il tema comune, ma m'importa dichiarare che l'economista non meno del medico riprova e condanna le adulterazioni e contraffazioni, dalle quali è profondamente viziata l'industria enologica, con danno grave della salute dei consumatori, di quelli specialmente che appartengono alle classi lavoratrici. In Germania fu preparata l'anno scorso una legge per prevenire e reprimere lo spaccio di generi alimentari malsani. Le misure preventive consistono nella facoltà attribuita ai funzionari amministrativi di sorvegliare la vendita delle cose più nocive alla salute, esaminarle per verificarne le condizioni, indicare i procedimenti, le pratiche e anche le materie o derrate insalubri e mettervi il proprio divieto. Delle misure repressive menzionerò solo quella che minaccia sei mesi di carcere e una multa estensibile fino a 1500 marchi contro chiunque alteri e vizii i generi di consumo, senza renderli malsani, e l'altra che punisce con la prigione, e in certi casi anche con la perdita de' diritti civili e politici coloro che fabbrichino o spaccino sostanze alimentari e bevande insalubri.

Una parola sui dazi e ho finito. Voi avete sotto gli occhi, disposti in ordine, questi nemici del vino (Tav. III). Varia è la loro misura, varii i criterii che servono di base alla tassazione. Si dazia secondo la capacità del recipiente, secondo il peso del recipiente pieno, secondo la forza alcoolica o il valore del liquido. Due soli paesi lasciano entrare liberamente il vino: la Cina e l'Olanda.

DAZI SULL'IMPORTAZIONE DEL VINO

Per 1 Ettolitro.

AUSTRALIA spumanti L. 153,30

» ordinari » 102,20

BAHAMA » 51,10

BELGIO in fusti » — 50

» in bottiglie » 1,50

CANADÀ spumanti in fusti » 135 —

» id. in bottiglie (1 dozzina) » 15 —

» non spumanti in fusti » 66 —

» id. in bottiglie (1 dozzina) » 7,50

» qualità inferiore » 33 —

CEYLAN in fusti » 25,55

» in bottiglie » 64,32

COLONIA DEL CAPO » 111,01

FIDGI spumanti » 153,30

» non spumanti » 102,20

» clarets australiani » 52,64

FILIPPINE spumanti » 50 —

» non spumanti » 25 —

FRANCIA ordinari » — 30

» vini liquori (+15°) » — 30

GIAMAICA » 64,32

GIAVA in fusti » 18,90

» in bottiglie » 22,05

» spumanti (100 bottiglie) » 44,10

GRECIA in fusti » 28,12

» in bottiglie » 70,31

GUIANA INGL. in fusti » 91,41

» in bottiglie » 76 —

INDIA BRIT. spumanti » 65,20

» ordinari » 52,64

INGHILTERRA (+14°,9) » 68,76

» (-14°,9) » 27,51

ITALIA in fusti » 15 —

» per 100 bottiglie » 30 —

MALTA (più di L. 78,71 l'ett.) » 32,37

» (meno id. ) » 6,74

NATALE » 102,20

PORTOGALLO » 31,20

SPAGNA spumanti » 108 —

» ordinari » 54 —

Per 100 Chilogrammi.

AUSTRIA-UNGHERIA in fusti L. 53,50

» in bottiglie » 67,75

DANIMARCA in fusti » 19 —

» in bottiglie » 48,40

GERMANIA in fusti » 29,52

» in bottiglie » 59,04

RUSSIA in fusti » 56,16

» spumanti in bottiglie (1 bottiglia) » 4 —

» ordinari in bottiglie (1 bottiglia) » 1,32

STATI UNITI in fusti » 54,74

» spumanti ogni bottiglia » 2,60

» ordinari » — 70

SVEZIA in fusti » 23 —

» in bottiglie » 29 —

SVIZZERA in fusti » 3 —

» in bottiglie » 7 —

Per 100 Lire.

ARGENTINA L. 100 —

ANTIGUA » 25 —

BARBADE » 15 —

BRASILE in fusti » 30 —

» in bottiglie » 80 —

CHILÌ » 100 —

GIAPPONE » 5 —

PERÙ » 100 —

Esenzione da Dazio.

CINA — OLANDA

Il dazio troppo elevato alimenta la frode, che è peggiore del contrabbando. La storia del consumo del vino in Inghilterra è forse la migliore illustrazione dell'influenza che esercita in proposito la misura de' dazi. Sotto il regime de' dazi alti, il consumo de' vini francesi in Inghilterra ebbe un aumento medio annuo di 80 tonnellate; sotto il regime d'una tariffa più moderata, l'aumento annuo è salito ad una media di 1800 tonnellate (Tav. IV). Io non dico che il vino non sia una buona materia tassabile nel sistema doganale, ma non conviene aggravar troppo la mano. Dazi moderati giovano alla finanza senza nuocere alla produzione e al consumo. È molto meglio, o signori, lasciar passare il vino schietto e sano che veder diffondersi nelle popolazioni e specialmente nelle classi operaie l'uso funesto dell'acquavite e degli altri liquori che gli anglo-sassoni con energica ma appropriata denominazione chiamano bevande attossicatrici.

[V-1] Οἴνωτρος dicevasi il palo con cui si sorregge la vite. Lo Stefano nel Thes. spiega: palus, pedamentum vitis, vallis qua vitis ceu adminiculo fulcitur. Il nome Enotria accennerebbe forse alla costumanza di sostenere le viti con paletti, che è antichissima e dura tuttavia nella Basilicata?[V-2] Nat. hist., libro XIV. Jam intelligente suum bonum Italia.[V-3] A ciò sembra alludere la tradizione dell'alleanza di Mezenzio coi Latini contro i Rutuli, vini mercede, menzionata da Varrone, Plinio e Ovidio.[V-4] Prima che finisse la seconda guerra Punica, Roma prese possesso degli antichi Stati di Jerone, posti nella regione orientale della Sicilia; lì, poco lungi da Lentini, c'era Morgantia.[V-5] Luzzatti, L'inchiesta industriale e i trattati di commercio, Roma, 1878, pag. 129.[V-6] Sambuy, Conferenza tenuta in Chieri, ecc., 1876.[V-7] Vedi nella Raccolta del Custodi, Opere di G. R. Carli, T. II, p. 356.

G. ARCANGELI — LA BOTANICA DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 23 febbraio 1880).

Quantunque la Botanica non manchi di argomenti che possano formare soggetto per una lettura piacevole ed istruttiva, mi sembra che quello di cui debbo trattare questa sera, la Botanica del vino, non sia a nessun altro secondo. Voi comprenderete infatti che sotto questo titolo potendosi riunire tutte quelle cognizioni botaniche che si riferiscono alla vite ed al vino, il nostro argomento interessa una delle più importanti nostre colture, la coltura della vite, e l'industria che ad essa si collega, la fabbricazione del vino.

La brevità del tempo e la pochezza delle mie forze non permettendomi di trattare per esteso siffatto argomento, di sua natura vastissimo, nient'altro farò che toccarne le parti principali.

Voi ben sapete che la vite è un arboscello che nel suo portamento somiglia le liane dei paesi caldi. Il suo fusto non potendo di per sè sostenersi verticalmente sul terreno, prende appoggio sui fusti di altre piante. I suoi rami nodosi sono forniti di foglie alterne assai grandi, palmato-quinquelobe irregolarmente dentate e di appendici filiformi, dette viticci, per mezzo delle quali si attaccano ai fusti di altre piante. I suoi fiori sono piccoli, di color verdastro, di ben poca apparenza e raccolti in pannocchie che si producono in opposizione alle foglie. Il frutto n'è una bacca.

La vite ha servito di tipo ad un gruppo speciale, cui dai botanici è stato dato il nome di ordine delle Ampelidee, dal nome greco della vite stessa, gruppo che attualmente si ritiene prossimo a quelli delle Celastrinee e delle Ramnacee, con i quali si riunisce in un'unica classe. In quest'ordine s'includono attualmente tre generi: il genere Vitis, il genere Pterisanthes ed il genere Leea, che fra tutti abbracciano un numero di specie non superiore a 250, delle quali 230 spettano al solo genere Vitis, compreso pure il genere Cissus, che una volta si teneva separato da quello.

La maggior parte di queste specie vegeta nei climi tropicali; se ne conoscono dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Australia. Poche però sono quelle che furono esperimentate nell'agricoltura. Oltre la Vitis vinifera, Linn., propria del vecchio mondo asiatico-europeo, il cui tipo sarebbe la nostra vite selvatica, detta comunemente Abrostine, furono prese di mira dai coltivatori, la V. Labrusca L., la V. rotundifolia Michx., la V. aestivalis Michx. e la V. cordifolia Torrey et Gray, che appartengono al nuovo e più specialmente agli Stati Uniti.

Le varietà cui ha dato origine la vite sono molto numerose e si può ritenere che il loro numero andò progressivamente aumentando dagli antichi tempi ai nostri giorni. Fra gli antichi, Plinio ci riferisce che ai suoi tempi si riteneva fossero innumerevoli e ce ne descrive 85. Secondo il Villafranchi, verso la fine del secolo decorso, in Toscana si conoscevano 87 varietà di viti, e 94 in Francia. Nel catalogo della Società di orticultura di Londra, nel 1842, erano registrate 99 varietà. Se si deve prestar fede all'Odart, in tutto il mondo esisterebbero da 700 ad 800 varietà, e forse fino a 1000, se pur non si vuol seguire l'opinione di coloro che porterebbero questo numero fino a 1300. Si può ritenere per la vite quanto si dice di molte altre specie utili all'uomo, cioè che nelle sue mani essa ha prodotto un grandissimo numero di forme, modellandosi quasi a suo piacere e piegandosi a soddisfare tutti i suoi desiderii. Per convincersi poi del come questo numero vada progressivamente aumentando, basti l'osservare che nelle stufe dei nostri orticultori quasi ogni anno si produce qualche nuova forma, che merita d'essere dalle altre distinta. Le sementi fatte su vaste proporzioni offrono uno dei migliori mezzi per ottenere queste nuove forme, con le quali via via si accresce il ricco patrimonio delle nostre collezioni.

La classificazione di tutte queste varietà ha molto imbarazzato gli enologi, e ciò non tanto per la grandezza del loro numero, ma principalmente a cagione della nomenclatura che n'è estesissima e sommamente intricata. Voi sapete che si possono distinguere le varietà che dànno uva da mensa da quelle che dànno uva da vino. Fra le prime vi citerò l'uva Salamanna, la Regina, la Paradisa di Bologna, la Galletta, la Maddalena nera, il Cari nero, il Moscato reale, la Barbarossa, l' Astigiano, la Lugliatica, l' Uva di Corinto. Fra le uve da vino, nei paesi più meridionali, troviamo la Malvasia con cui si prepara il Moscato di Candia ed il Madera, il Pedro Ximenes della Spagna che produce i vini di Malaga e di Xeres, la Passerina nera del Vesuvio che produce il Lacrima nero del Vesuvio. In Toscana abbiamo il Canajolo che, associato al Sangioveto ed alla Malvasia od al Trebbiano, fornisce il vino fiorentino e del Chianti. In Piemonte troviamo la Fresia e la Bonarda delle colline di Torino, la Pelaverga di Saluzzo, il Grignolino, il Dolcetto ed il Barbera dello Astigiano, ed il Nebiolo di Barolo che fornisce il re dei vini del Piemonte, il Barolo, tutte varietà da vino nero; e l' Erba-luce di Caluso da vino bianco. In Francia voi trovate il Pinot grigio, principale vitigno della Borgogna, il Carbenet Sauvignon del distretto di Bordeaux, l' Aramon, principale varietà dell'Herault, il Morillon blanc chablis da cui si ottiene lo Champagne, ed il Moscato di Riversaltes, nel Roussillon (Pirenei orientali) da cui si ottiene uno dei vini più squisiti che si conoscano. In Germania, il Resling bianco detto dai francesi Gentil aromatique è la varietà che produce il celebre Joannisberg e gli altri vini del Reno; ed in Ungheria il Tokai produce il vino dello stesso nome. Ma io però non intendo d'internarmi in siffatto argomento, onde qui mi arresto, rinviando coloro che volessero più estese notizie ai trattati speciali[VI-1], fra i quali merita di essere specialmente ricordato il saggio di Ampelografia testè pubblicato dal signor Conte di Rovasenda, ch'è da considerarsi come uno dei migliori lavori sopra questo soggetto.

Sulla origine della vite non si hanno notizie più positive ed attendibili di quelle che ci vengono trasmesse dai miti e dalle leggende.

Taluni vorrebbero che Osiride, il Bacco dei Greci, scoprisse la vite nei dintorni di Nisa, città dell'Arabia Felice, e di là la trasportasse nell'India. Altri attribuiscono a Noè la scoperta della coltivazione della vite e della fabbricazione del vino, facendo di questo Patriarca il Bacco dei Greci ed il Giano dei Latini. Molti ritengono che la vite sia originaria della Persia, fondandosi sul fatto che il Michoux trovò questa pianta selvatica in Persia, e l'Olivier la riscontrò in simile condizione nelle montagne del Kurdistan, e che da quella contrada poi sia stata introdotta in Grecia, in Italia, nelle Gallie ed in Ispagna. Altri invece, secondo l'Endlicher, ripongono la patria della vite nella Georgia e nella Mingrelia, fra le montagne del Caucaso, dell'Ararat e del Tauro, ed altri col De Candolle la credono nativa della regione inferiore del Caucaso, principalmente al mezzodì della catena e al mezzodì del Caspio.

Nessuna però di tutte queste opinioni può essere accolta come conforme alla verità.

Prima di tutto, giova osservare che i nomi sanscritti, di Draksha, Amritaphalà, Amritarasà[VI-2], con cui s'indicava la vite, e quelli di Rasa e Rasala, con cui se ne designava il frutto, dimostrano che la sua cultura nell'India rimonta ad un'antichità molto remota, e probabilmente anteriore a quella di Osiride e di Bacco. Questa cultura si limitava alle sole regioni più settentrionali dell'India, cioè al Kambaya, al Pangiab ed al Kaçmir, e si praticava, a quanto pare, al solo scopo di coglierne il frutto.

Noi troviamo inoltre che antichi autori, come Virgilio, Plinio e Columella, parlano di viti selvatiche nelle foreste, i cui grossi tronchi attestavano un'esistenza antichissima; e gli antichi autori greci e romani, che sì spesso parlano della vite, mostrano sempre di considerare questa pianta come propria del paese in cui si coltivava.

Se poi ricorriamo alla paleontologia, troviamo che il genere Vitis era comparso nella nostra Europa sino dal periodo miocenico, al momento in cui i Cissus, che già vi prosperavano fino dal cretaceo, incominciavano a declinare. Fra le undici specie fossili del genere, enumerate dagli autori, se ne citano della Germania, della Francia, dell'Inghilterra, dell'Italia e persino della remota Islanda. La Vitis teutonica, tanto frequente nelle ligniti di Wettarau in Germania, molto somiglia alla nostra Vitis vinifera. Lo stesso Schimper[VI-3] asserisce che la vite quaternaria potrebbe ben essere l'avola della nostra vite; e relativamente alla Vitis Ausoniae scoperta nei travertini di S. Vivaldo in Toscana, i signori Gaudin e Saporta ritengono ch'essa potrebbe esser riunita alla Vitis vinifera. Non può dunque recar meraviglia che la Vitis vinifera abbia esistito in Europa prima della comparsa dell'uomo; che anzi sorprende non poco che si sia negata tale esistenza. In ogni caso, quand'anche si volesse ammettere che l'Asia sia stata la patria della vite, non si comprende perchè precisamente l'uomo debba pel primo averla trasportata in Europa, e non gli animali carpofagi che lo hanno preceduto, e che debbono avere efficacemente contribuito a diffondere una pianta dotata di frutti così dolci e gustosi, trasportandone i semi a grandi distanze.

Tutto considerato adunque, mi sembra che si abbiano buone ragioni per ammettere che la vite esistesse in Europa in epoche anteriori a quelle in cui se ne incominciò la coltura, e che se pure si hanno argomenti per sostenere che la sua cultura abbia avuto principio in Asia, nessuno ve n'ha certamente per dimostrare ch'essa pianta abbia avuto la sua origine in quella regione, potendo esser comparsa per la prima volta tanto nella Georgia e nella Mingrelia, come in Italia, in Spagna od in qualche altro paese dell'Europa temperata.

Relativamente alla cultura della vite, argomento troppo vasto perch'io non possa convenientemente trattarne in poche parole, preferisco rinviarvi a quanto ne scrissero coloro che ne trattarono particolarmente, come i Ridolfi, i Cuppari, i Guyot ed altri distinti agronomi e viticultori. Non posso però tralasciare di richiamare alla vostra mente come in Italia, ove sopra una superficie di 296,322 chil. quadrati si hanno 1,870,109 ettari coltivati a viti, cioè circa 1/16 del totale, possa tuttora estendersi con vantaggio questa cultura ch'è certamente una delle più rimuneratrici, e come interessi fra di noi di promuoverne con tutti i più efficaci mezzi il miglioramento.

La vite ha bisogno di una certa quantità di calore per compiere le varie fasi della sua vegetazione. Essa incomincia a svolgere le sue gemme quando la temperatura media dell'aria tocca i 10° od 11°, e fiorisce quando quella temperatura giunge ai 18° e 19°. Nel tempo che decorre dallo svolgimento delle gemme alla fioritura, essa riceve una somma di 1800° a 2000° di calore. Affinchè però possa portare il suo frutto a piena maturità le abbisognano altri 2600°, che deve ricevere prima che la temperatura media discenda sotto i 12°. È quindi necessario, perchè essa possa ricevere una tale quantità di calore, che nei 4 mesi successivi alla fioritura (maggio, giugno, luglio, agosto), la temperatura media non sia inferiore a 19°. Si comprende da ciò che se la cultura della vite riesce proficua nei paesi della zona temperata, ove appunto si verificano le condizioni di temperatura sopraindicate, essa non può però oltrepassare certi limiti di latitudine.

Vediamo adesso quale sia l'estensione geografica della cultura economica della vite e quali ne siano i limiti[VI-4].

Quantunque si abbiano vini eccellenti nel Portogallo, la vite manca nelle provincie umide della Spagna volte a maestro, cioè nella Gallizia e nelle Asturie. Possiamo poi stabilire un limite al settentrione dei paesi dell'Europa centrale. Questo limite si parte dalle foci della Loira a 47° 20′ di lat., dal qual punto procede verso oriente, passando per Andelys, Compiègne e Laon, in modo da tagliare al di fuori una zona comprendente varii dipartimenti della Francia, ove la cultura della vite manca, cioè Finistère, Côtes du Nord, Manche, Orne, Calvados, Seine inférieure, Pas-de-Calais e Nord. Nel Belgio esso limite passa per Argenteau sulla Mosa fra Liegi e Maestricht, cioè a 50° 45′ di lat. In Germania lo troviamo lungo il Reno presso Dusseldorf, da dove poi si spinge fino a Postdam a 52° 27′, ed a Berlino 52° 31′, località cui corrisponde il punto più elevato della linea, il punto cioè della maggiore latitudine. In tutto il tratto descritto si può ritenere che il nostro limite abbia subìto un notevole regresso in tempi da noi non molto lontani: imperocchè si hanno prove ch'esistevano una volta estesi vigneti al di là di esso. In Normandia esiste la tradizione che numerosi vigneti fossero devastati nel secolo XIV dagli Inglesi, all'oggetto di favorire la loro cultura alla Giammaica, e molte carte del IX e XIII secolo fanno menzione di vigneti nella Brettagna e nella Piccardia. Nell'Inghilterra anticamente non esistevano vigneti, come ne fa fede Tacito[VI-5]; ma in tempi meno remoti da noi la vite si coltivava in proporzioni assai vaste nel mezzodì di quel paese. La provincia di Glocester era non solo famosa pei suoi vigneti, ma produceva le uve le più squisite di tutta l'isola. La cronaca di Stow parla di vino che si faceva nel parco di Windsor, e si citano pure carte riguardanti le spese che si facevano per le piantate di viti all'epoca di Riccardo II. Però attualmente pochissimi vigneti si osservano in Inghilterra, e per quanto le uve che in questi si colgono non sieno sempre sgradevoli al gusto, ed il vino che se ne ottiene non sia sempre spregevole, sembra che i paesi vinicoli del continente non si sieno gran fatto allarmati per tale concorrenza. Da Postdam il limite di cui parliamo si continua per breve tratto conservandosi presso a poco alla medesima latitudine, e quindi gradatamente discende lungo le pendici meridionali dei Carpazi, includendo la Boemia e la Moravia che posseggono estesissimi vigneti; passa poi questi monti al 48° circa di latitudine per penetrare in Buchowina che attraversa, tocca Mohilew lungo il Dniester, sempre ai 48°, e risale un poco a Krementshug sul Dnieper ai 49°. Sembrerebbe poi che il nostro limite passasse fra Zarizyn e Serapta presso il Volga, se pure non riuscirono a buon fine le coltivazioni osservate dal Pallas più a settentrione di questa città, per prolungarsi attraverso la parte superiore del Caspio, verso lo interno dell'Asia.

Pel centro dell'Asia la scarsità delle notizie ci vieta di stabilire dei limiti abbastanza precisi. Solo sappiamo che vi si osservano dei vigneti sparsi qua e là, ove si sono formati dei centri di popolazione, come a Kamil a 43° di lat. e 92° di long. da Parigi, e quelle di H' lassa nel Thibet chinese a 29° 41′ di lat. Sappiamo poi, per quanto ne riferisce il Bunge, che la vite si coltiva presso Pechino su vaste proporzioni ed al mezzodì fino al Gouan-gou.

Scendendo verso l'equatore, troviamo pure che la cultura della vite incontra altro limite. Così troviamo vigneti alle Canarie e pure lungo la costa settentrionale dell'Affrica, però di rado al disotto dei 30° di lat. Nella Persia settentrionale e nella Bucharia si osservano estesi vigneti. Manca però la vite nelle parti meridionali della Persia ed in gran parte dell'India, ed in generale in tutte le regioni equatoriali, nelle quali la rigogliosa vegetazione, provocata dall'eccessivo calore e dall'umidità, di rado le consentono di fiorire, ed ove ordinariamente produce dei frutti ben poco succosi ed inutili.

Nell'America Settentrionale si può dire che la cultura della nostra vite ha completamente fallito in tutta la regione situata al di qua delle Montagne rocciose. Tutte le piantagioni fatte con viti francesi, spagnuole, portoghesi, maderesi, renane sono andate gradatamente deperendo ed in tempo più o meno breve distrutte[VI-6], onde convenne ricorrere alla varietà delle specie indigene, cioè al Catawba, all'Herbermond, allo Scuppernong ed al Concord. L'imperizia, il clima, la qualità del terreno, la natura della vite nostra si credettero da principio le cause di tali disastri; molti però attualmente ritengono che la Phylloxera, che appunto sarebbe a noi stata recata dall'America, debba considerarsi come la causa principale di questo fatto. Al di là delle Montagne rocciose la vite prospera nel Nuovo Messico e nella California.

Nell'America meridionale la cultura della vite ha dato buoni risultati lungo la pendice orientale delle Ande a Mendoza, a Saint-Jouan e a Roja, ove si preparano dei vini eccellenti. Si citano pure dei vigneti alla Concezione, circa al 37° di latitudine australe.

Si coltiva poi con ottimi resultati la vite al Capo di Buona Speranza, ove si ottengono dei vini molto pregiati, i cosidetti vini di Costanza, e pure nella Nuova Olanda, ove la cultura si effettua principalmente nella Nuova Galles del Sud.

Similmente a quanto si verifica per molte altre piante dei climi temperati, la cultura della vite tanto più si estende in altezza sui fianchi delle montagne quanto è minore la latitudine. Ben si intende però che su ciò non poco influiscono le condizioni topografiche locali, la qualità dei vitigni ed altre circostanze, per cui ad egual latitudine si possono riscontrare altezze assai differenti e viceversa. Nelle colline del mezzodì dei Carpazi essa si eleva fino ai 290 metri. In Francia si trovano vigneti all'altezza di 509 m in Alvernia, e si citano come limite estremo le colture di Valai ad 800 m, per quanto se ne osservino nelle Alte Alpi a 1200 m d'elevazione. Nelle buone esposizioni del cantone di Neuchâtel sulle pendici del Giura, la vite si eleva fino a 450 ed anche ai 550 m. Nel cantone dei Grigioni essa giunge fino ai 740 m circa, ed in generale si può ritenere che per la Svizzera il limite medio dell'elevazione è dai 480 ai 550 m. Nelle pendici meridionali delle Alpi troviamo coltivazioni ordinariamente fino ai 600 m d'elevazione, e talora pure ad un'altezza assai maggiore, come in Val d'Aosta, ove raggiungono gli 890 ed anche i 1180 m, presso Chiavenna, ove si trovano viti sino a 948 metri, e presso il lago di Como, ove se ne osservano fino a 970 m. Negli Appennini centrali il limite supera sovente gli 800 m, e nell'Etna, secondo quanto asserisce il Gemmellaro, i vigneti salgono fino a 1299 m dal lato di mezzodì e di levante. Secondo il Ramond, nell'Andalusia la cultura della vite giungerebbe fino a 1364 m d'elevazione. Fuori d'Europa questi limiti sono poco conosciuti; si dice però che nell'Imalaia la vite possa coltivarsi fino a 2500 m d'elevazione.

Fra i vegetali che vivono parassiticamente sopra alcune specie del genere Vitis, meriterebbero di esser qui ricordate le famose Rafflesie, quelle piante stranissime, il cui apparecchio di vegetazione serpeggia nelle radici di varie specie dei tropici, e che quindi si rende manifesto con la produzione di magnifici fiori, che sbocciano sulle radici stesse, raggiungendo il diametro di 3 piedi inglesi: ma io non intendo di trattenervi su tali piante che non si sviluppano sulla nostra vite, ma bensì sovr'altre che presso di noi talora gravemente la danneggiano.

L'elenco dei vegetali che vivono sopra gli organi della vite si è considerevolmente accresciuto in questi ultimi tempi. Nel 1854 infatti il Westendorp ne citava 22 per la vite ed 1 per la Vitis rotundifolia: nel 1876 il Thümen ne citava 31 per la Vitis vinifera, 2 per la Vitis labrusca ed 1 per la Vitis vulpina: mentre il Pirotta nel 1877 ne enumerava circa 120[VI-7] sopra le varie specie coltivate, ed il Thümen fa ultimamente ascendere questo numero fino a più di 150[VI-8]. Nè è a ritenersi che qui s'arresti il numero di tali vegetali, essendochè vi è tutta la probabilità che gli studi ulteriori ne facciano conoscere ancora dei nuovi. Fortunatamente però, di tutti quelli che vivono sulla nostra vite, pochi sono quelli che possono gravemente danneggiarla; poichè la maggior parte di essi si contenta di vivere sugli organi della pianta già morti od in via di deperimento, mentre pochi son quelli che si sviluppano sugli organi viventi e che si meritano il nome di parassiti.

Ho creduto opportuno di riportare nel quadro qui unito i nomi delle diverse specie che si sviluppano sugli organi della Vitis vinifera, contrassegnando con carattere corsivo i nomi di quelli che riuscirono dannosi o che possono esserlo. Io mi limiterò a dirvi poche parole di alcuni di questi.

Peronosporei.

Peronospora viticola, De Bary.

Murcorinei.

Mucor stolonifer, Hhrbg.

Ifomiceti.

Acrostalagmus cinnabarinus, Cda. — Arthrobotryum atrum, Berk. et Br. — Aspergillus glaucus, Lk. — Botrytis acinorum, Pers. — Botrytis cinerea, Pers. — Chaetostroma pedicellatum, Preuss. — Chalara fusidioides Cda. — Cicinnobolus Cesatii, De Bary. — Circinnotrichum maculaeforme, N. a E. — Cladosporium ampelinum, Pass. — Cl. fasciculatum, Cda. — Cl. Fumago, Lk. — Cl. herbarum, Lk. — Cl. Roesleri Pirotta Dendryphium Passerinianum, Thüm. — Gonytrichum caesium, N. a E. — Gyrocerus Ammonis, Cda. — Haplotrichum epiphyllum, Rabh. — Helminthosporium decacuminatum, Thüm. et Pass. — Macrosporium uvarum, Thüm. — Oidium Tuckeri, Berk. — Phymatostroma fusarioides, Cda. — Pyrenotrichum Vitis, Schulzer — Septocylindrium dissiliens, Sacc. — Spt. virens, Sacc. — Septosporium Fuckelii, Thüm. — Spicularia Icterus, Fuch. — Sporodum conopleoides, Cda. — Sporotrichum ampelinum, Th. et Pass. — Sp. aureum, Fr. — Trichothecium candidum, Wallr. — Tr. roseum, Lk.

Gimnomiceti.

Coryneum microstictum, Berk. et Br. — Epicoccum neglectum, Desm. — Exosporium Badhamii, Awd. — Fusarium Cesatii, Thüm. — F. pampini, Th. et Pass. — F. Roeslerianum, Th. — F. tortuosum, Th. — F. viticolum, Th. — Fusisporium Biasolettianum, Sacc. — F. Zavianum, Sacc. — Fusoma vitis, Schulzer. — Glocosporium ampelophagum, Sacc. — Gl. sarmentitium, Montg. — Graphium cinerellum, Speg. — Periconia chlorocephala, Fres. — Tubercularia ampelophila, Sacc. — T. sarmentorum, Fr.

Uredinei.

Uredo Vitis, Thüm.

Imenomiceti.

Agaricus hyemalis, Osb. — Ag. melleus, Vahl. — Ag. proteus, Kalchb. — Auricularia mesenterica, Pers. — Corticium lactescens, Berk. — Cyphella albo-violascens, Karst. — Cy. villosa, Karst. — Lenzites atropurpurea, Sacc. — Marasmius calopus, Fr. — M. candidus, Fr. — M. epiphyllus, Fr. var. sarmentorum, Thüm.

Discomiceti.

Cenangium viticolum, Fuck. — Helotium hyalopes, Fuck. — H. sarmentorum, De Not. — H. vitigenum, De Not. — Hysterographium viticolum, Rehm. — Lachnella macrochaeta, Speg. — Peziza tumida, Pers. — P. viticola, Pers. — Pyrenopeziza Vitis, Rehm. — Roesleria hypogaea, Thüm. et Pass. — Sclerotinia Fuckeliana, Fuck. — Stictis Saccardoi, Rehm. — St. uberrima, Montg.

Pirenomiceti.

Amphisphaeria sylvana, Sacc. et Spag. — Anthostomella limitata, Sacc. — Bertia Vitis, Schlzr. — Botryospheria cyanogena, Niessl. — Calosphaeria minima, Tul. — Ceratostoma Schulzeri, Pirotta. — C. Vitis, Fuck. — Cryptovalsa ampelina, Fuck. — C. Rabenhorstii, Sacc. — Cucurbitaria Vitis, Schulzer. Diaporthe viticola, Nke. — Didymosphaeria bacchans, Pass. — Dothidea myriococca, Mntg. — Eurotium herbariorum, Lk. — Eutypa ludibunda, Thüm. — Gibbera Vitis, Schulzer. — Leptosphaeria appendiculata, Pirotta. — L. Cookei, Pirotta. — L. Gibelliana, Pir. — L. vinealis, Pass. — L. Vitis, Pir. — Lophiostoma angustatum, Fuck. — L. Hederae, Fuck. — L. Thümenianum, Speg. — Nectria cinnabarina, Fr. — N. viticola, Berk. et Curtis. — Pleospora coronata, Niessel. — P. phaeocomes, Ces. et De Not. — Rebentischia appendiculosa, Sacc. — Rhaphidospora sarmenti, Pass. — Rosellinia horrida, Haszl. — Spherella fumaginia, Catt. — Sph. pampini, Thüm. — Sph. sarmentorum. Pir. — Sph. Vitis, Fuck. — Teichospora Mesascium, Sacc. — Valsa vitigena, Cooke — V. Vitis, Berk et Curtis — Valsaria insitiva, Ces. et De Not.

Pirenomiceti spurii.

Cheilaria Vitis, Schulzer — Cryptosporium ampelinum, Thüm. — Cryptostictis hysterioides, Fuck. — Cytispora chrysosperma, Fr. — C. incerta, Thüm. — C. Vitis, Montg. — Discosia Vitis, Schulzer — Diplodia Bacchii, Pass. et Th. — D. fabaeformis, Pass. et Thüm. — D. interrogativa, Thüm. et Pass. — D. viticola, Desm. — Hendersonia sarmentorum, Westd. — Hormococous olivaceus, Sacc. — Leptothyrium longisporum, Thüm. et Pass. — L. Passerini, Thüm. — L. perpusillum, Pass. et Thüm. — Myrothecium Vitis, Bon. — Pestalozzia pezizoides, De Not. — P. Thümenii. Speg. — P. uvicola, Speg. — Phoma amplinum, Berk. et Curt. — Ph. baccae, Catt. — Ph. Cookei, Pirotta — Ph. Negrianum, Thüm. — Ph. Vitis, Bon. — Polynema Vitis, Schulzer — Septoria Müggenbergii, Pirotta — S. Vitis, Lév. — Sphaceloma amplinum, De Bary. — Vermicularia compacta, Cooke et Ellis.

Micelii Sterili.

Ozonium auricomum, Lk. — Sclerotium echinatum, Fuck. — Sc. sarmenticolum, Thüm. — S. Semen, Tode. — S. uvae, Desm. — Sc. Vitis, Peyl.

Un funghetto, che reca dei gravi danni alla coltura della vite nell'America settentrionale, è quello che produce la malattia conosciuta sotto il nome di mildew (nebbia). Questo fungo che si sviluppa ordinariamente sulle varietà delle specie americane, quali la Vitis labrusca, la Vitis aestivalis Mich., la Vitis cordifolia Mich., e Vitis vulpina L., forma sulla pagina inferiore delle foglie dei cespuglietti di color bianco sporco, assai numerosi, di forma tondeggiante da prima, ma quindi irregolare, fondendosi gli uni negli altri. Tali cespuglietti sono formati da sottili filamenti che escono in fascio dall'apertura degli stomi, ciascuno dei quali si ramifica biforcandosi o triforcandosi, producendo una spora sull'estremità di ogni ramificazione. Secondo quanto ne dice il Planchon[VI-9], questo fungo sarebbe assai comune in settembre ed agosto, e talora associandosi ad altra malattia detta Rot, cui dà origine altro funghetto ( Phoma uvicola Berk et Curt. ) determina dei guasti anche maggiori. Egli riferisce altresì che alcuni coltivatori pretendono che la decadenza del prezioso vino bianco spumante detto sparkling catawba, che suole avvenire dopo 20 anni di coltivazione, si debba all'azione di questo funghetto. Fino a questi ultimi tempi ritenevasi che questa malattia fosse propria esclusivamente all'America, però non può più restare alcun dubbio sulla sua apparizione in Europa; poichè, quand'anche non si volesse tener conto di quanto asserisce il Frank[VI-10] riguardo alla sua comparsa in Ungheria presso Wershetz, il Planchon ci riferisce com'essa si sia ultimamente presentata in varie località della Francia[VI-11], ed il Pirotta[VI-12] ne annunzia la comparsa nella nostra Italia a Santa Giulietta presso Casteggio. Giova sperare però che trattandosi di un parassita che si sviluppa in epoca in cui la vegetazione della vite è già molto inoltrata, esso sia raramente causa di gravi danni per le nostre culture.

Nel gruppo degli Ifomiceti troviamo varie specie che possono riuscire dannose alla vite, cioè: il Cladosporium ampelinum Pass., che infesta sovente le viti del Reno; il Cladosporium Roeslerii, osservato per la prima volta dal Rössler sulle viti di Klosterneuburg presso Vienna, che dee ascriversi a quelli che recano guasti maggiori alle coltivazioni, come ne fanno fede i danni che sovente arreca nei vigneti dell'Austria e quelli pure cui soggiacquero fra noi le colture di Rocca dei Giorgi; il Septocylindrium dissiliens, che devastò le vigne dei dintorni del lago di Ginevra e della Valle Lemana nel 1834; la Spicularia icterus, che cagiona la malattia conosciuta col nome d'Itterizia, e che tanto danno recò nel 1869 alle viti della sponda sinistra del Reno, fra Magonza e Guntersblum, così denominata pel color giallo che prendono le viti che ne restano colpite. Ma fra tutti questi funesti parassiti, quello che principalmente merita la nostra attenzione è il terribile Oidio, che è appunto quel funghetto che cagionò la malattia ben conosciuta presso di noi sotto i nomi di Bianco delle viti o Crittogama.

L'Oidio fece la sua prima comparsa nelle stufe di Margate in Inghilterra, ove fu osservato per la prima volta dal signor Tucker, giardiniere, e successivamente studiato dal Berkeley, che in onore del suo scopritore lo chiamò Oidium Tuckeri. Dall'Inghilterra questa malattia si diffuse sollecitamente in Francia, ove fu osservata nel 1848, e quindi passò in Svizzera ed in Italia, ove comparve nel 1851. La malattia suole ordinariamente presentarsi poco dopo la fioritura della vite, cioè nei mesi di maggio e giugno, secondo le località. Incominciano a svilupparsi sulle foglie e sui rami delle produzioni filamentose che grado grado si estendono. Successivamente appariscono delle macchie bruniccie sui rami, sulle foglie e sugli acini, che a grado a grado si dilatano e si confondono, mentre si rivestono d'una polvere bianchiccia. I rami, più o meno alterati nei loro tessuti superficiali e profondi, spesso si mortificano e cadono; le foglie si raggrinzano e si disseccano, gli acini rimangono atrofizzati e deformati, la buccia loro si screpola, e ben presto si disseccano o marciscono. Tutti questi danni debbonsi appunto all'Oidio che cagiona le macchie sopra descritte e che si presenta formato da filuzzi esilissimi, i quali strisciano sulla superficie dei vari organi della vite, aderendo a questi per mezzo di corte ramificazioni dette succiatoi, cui è affidato l'incarico di succiare il nutrimento dal substrato. Sopra questi filamenti, che costituiscono la fronda del fungo, si producono dei rametti che sorgono verticalmente, i quali nell'estremità loro superiore si segmentano in articolazioni, che sollecitamente prendono forma ellissoidea e si distaccano per costituire le spore. Siccome poi la estremità di rametti siffatti continua a segmentarsi ed a produrre spore per tutta la vita della pianta, e queste facilmente trasportate dal vento, a cagione della loro eccessiva tenuità e leggerezza, germogliano e riproducono la pianta, tostochè si trovino in condizioni favorevoli; agevolmente si comprende quanto facilmente il funesto parassita possa diffondersi e trasportarsi, non solo da un organo all'altro della medesima pianta, ma pure da una pianta all'altra ed a considerevole distanza, e così in breve tempo infestare delle regioni estesissime. Gli studi istituiti sull'Oidio starebbero a dimostrare non essere esso un vegetale che in sè stesso chiuda il ciclo della sua vegetazione, ma una forma particolare di altro organismo di struttura più complicata, che sarebbe un Erysiphe, di cui rappresenterebbe la forma più semplice, quella che suol presentarsi nelle prime fasi di sviluppo del fungo e che per gli organi speciali di riproduzione che produce, si suole appellare conidifera. Havvi però, chi vorrebbe considerare l'Oidio come forma conidifera di altro funghetto, anzichè di un Erysiphe, cioè della Spherotheca Castagnei. Nè sola è la nostra vite ad accogliere un ospite tanto malefico, poichè esso è stato pure osservato sopra alcune specie americane, cioè la Vitis aestivalis, la Vitis riparia e la Vitis condicans.

L'Oidio va sovente accompagnato da un'altra specie, che per qualche tempo fu ritenuta quale pertinenza dell'Oidio stesso, cioè l' Ampelomyces quisqualis Ces., denominato poi Cicinnobolus Cesatii dal de Bary. Il micelio di questo funghetto cresce frammisto a quello dell'Oidio, e penetra con i suoi filuzzi persino entro a quelli dell'Oidio, sul quale vive parassiticamente. Dai filamenti del micelio si producono dei rametti che sorgono verticalmente e terminano in una cellula claviforme od ellissoidea, che produce nel suo interno numerose sporuline ellissoidee o quasi cilindriche. Sembra che questo funghetto debba ritenersi benefico per la vite, anzichè malefico, giacchè è dimostrato che col suo parassitismo, non solo disturba lo sviluppo dell'Oidio, ma gl'impedisce di fruttificare e lo distrugge. Facilmente si comprende però che tale azione benefica giunge ordinariamente troppo tardi, perchè essa possa far sentire la sua efficacia, ond'essa può ben classificarsi fra quei rimedi che si dicono non recati a tempo. Certamente se noi ci fossimo attaccati all'azione benefica del Cicinnobolus, le nostre raccolte sarebbero andate tutte perdute. Il vero rimedio però che ci ha messo in grado di combattere questo terribile nemico, e liberare i nostri vigneti da sì grave flagello, è stato lo zolfo in polvere, rimedio che fu per la prima volta proposto da un distinto botanico francese, il prof. Duchartre di Parigi.

Nel gruppo dei Gimnomiceti troviamo il Fusi sporium Zavianum Sacc., che può riuscire nocivo alla coltura delle viti ed il Gloeosporium ampelophagum Sacc., che di recente ha recato danni abbastanza gravi ai nostri vigneti, e che merita perciò alcune parole.

È questo il funghetto che cagiona quella malattia denominata presso di noi Bolla, Picchiola, Vaiuolo, Nebbia, e che infestò varie provincie della nostra Italia in questi ultimi anni. Incomincia questa malattia ad apparire in primavera sui rami e sui pampini, in forma di macchie di color bruno rossastro, quasi tonde o bislunghe[VI-13], con margine di color più scuro e depresse nel centro. Queste macchie si producono pure sopra gli acini in via di maturazione, riducendone la buccia cariacea, onde il loro accrescimento non può che effettuarsi molto imperfettamente, e la loro polpa ne resta più o meno deteriorata ed esausta. Esaminando al microscopio i tessuti occupati da tali macchie, si osservano dei filimenti esilissimi che serpeggiano fra le cellule del tessuto, provocando un ingrossamento nelle loro pareti ed alterandone il contenuto. Nella parte poi più prossima alla superficie, si formano delle piccole sporgenze composte di sottili filamenti disposti in ciuffo od in palizzata, che aprendosi la strada attraverso alla cuticola, si portano in contatto dell'aria e producono nelle loro estremità delle minutissime spore. Si tratta adunque di un funghetto endofito, che cioè si sviluppa nell'interno dei tessuti della pianta che lo ospita. Si ritiene poi che questo malanno non sia cosa nuova, giacchè il Marés dà la traduzione di un passo di Teofrasto, ove non si può fare a meno di riconoscerlo. Il suo infierire in questi ultimi anni fu in relazione con speciali condizioni meteorologiche che si verificarono nei mesi di aprile, giugno e luglio, per le pioggie molto frequenti che si alternarono sovente con giornate nebbiose e calde, onde si ebbero dei rapidi cambiamenti di temperatura, che associati alla umidità in abbondanza, sembrano aver molto favorito lo sviluppo di un tal parassita. Sembra pure che non tutte le varietà sieno egualmente attaccate: quelle dei paesi caldi ed a vegetazione più rigogliosa lo sarebbero più facilmente di quelle dei paesi più temperati. In Toscana ho potuto osservare tale malattia sulle uve Salamanna, Galletta, Regina, Colombano, Sangioveto, Montanino, Macaja bianca, Colore aspro, Colore dolce, Moscatello, Malvagia, Aleatico, Greco, Agrifone; il Trebbiano ed il Canajolo bianco e nero parrebbero più difficilmente attaccabili. Varii furono i rimedi proposti contro questa malattia. Si propose di recidere i tralci attaccati per promuovere una nuova vegetazione, e di far uso di larghe concimazioni potassiche, si fece uso di zolfo in polvere, di polvere di calce, di solfuro di calcio, di solfato di ferro: ma io tralascio di diffondermi in questi dettagli, invitando coloro che desiderassero notizie più estese a consultare i lavori pubblicati sopra quest'argomento.

Dalla malattia precedentemente descritta va distinta l' Antrocnosi, che con quella è stata sovente confusa. L'Antrocnosi è malattia che si sviluppa sulle viti americane alle quali riesce gravemente dannosa. Essa è conosciuta pure coi nomi di Rot, Small pox e si produce sugli acini in forma di pustole che somigliano alquanto a quelle del Gloeosporium ampelophagum Sacc. Il funghetto che si considera come causa di tale malattia è quello stesso di cui abbiam parlato di sopra, cioè il Phoma uvicola Berk. et Curt.

Altri malanni, che sogliono pure manifestarsi sulle nostre viti, sono quelli conosciuti sotto i nomi di Malattia del bianco e Malattia del nero. La prima di queste si presenta sotto forma di micelii bianchi che invadono il tessuto legnoso fino al punto di uccidere la pianta. Questi micelii sembra che si debbano riferire ad alcune specie di funghi imenomiceti. L'altra malattia si manifesta con un'alterazione del tessuto dei fusti e dei rami lungo i vasi porosi, per la quale i vasi porosi e le cellule legnose circostanti prendono una colorazione scura.

Ma qui non finisce l'enumerazione dei vegetali che hanno relazione col vino, che anzi nel vino stesso abbiamo un'intera Flora, ricca di forme numerose e svariate, il cui studio è ben lungi dal potersi dire completo.

Voi sapete che il mosto dell'uva non si trasforma in vino se non subisce la fermentazione. In conseguenza della fermentazione il mosto s'intorbida, in esso si sviluppa una sostanza gazosa che facilmente si riconosce per acido carbonico, ed il suo sapore di dolce si riduce più o meno piccante. Un fenomeno simile si produce pure nel liquido con cui si prepara la birra. I chimici ci dicono che per effetto della fermentazione lo zucchero contenuto nel mosto si scinde in alcool ed in acido carbonico, con produzione altresì di piccola quantità di glicerina e di acido succinico. Ma come avviene questa trasformazione? Quali sono le cause che la determinano? Al giorno d'oggi si ritiene che il fermento del mosto, il principio cioè che determina la fermentazione, sia rappresentato da una pianticella microscopica che vive nel mosto e che nutrendosi determina la decomposizione dello zucchero in alcool ed in acido carbonico. Ognuna di queste pianticelle, come vedete in questa figura (Fig. 1), consta di alcune cellule riunite in piccola famiglia, spesso a forma di catenella ramosa, la quale è capace di accrescersi per gemmazione e di dividersi in varie altre in modo che da una d'esse molte in breve tempo se ne producono. Entro a queste cellule poi in circostanze speciali si producono pure da 2 a 4 minutissime spore.

fermento del mosto

Fig. 1.

Il nostro Fabbroni, nel cadere del secolo scorso, fu il primo a dimostrare che, affinchè la fermentazione del mosto si effettui, si richiede la presenza di certe sostanze che egli chiamava vegeto-animali, e che adesso diconsi sostanze albuminoidi. Il Gay Lussac dimostrò che non basta la presenza delle sostanze albuminoidi, ma occorre pure la presenza dell'aria affinchè la fermentazione abbia luogo. L'Erxleben nel 1818 osservò pel primo il fermento della birra e riconobbe in esso i caratteri di vegetale. Desmazières, poco appresso, lo ritenne da prima come un infusorio, ma poi lo classificò come un fungo. Il Persoon lo ascrisse pure alla classe dei funghi, formandone il genere Mycoderma, e la stessa opinione seguì pure il Meyen, costituendone il genere Saccharomyces, mentre il Kützing lo giudicava un'alga e lo poneva nei Crypticoccus. Cagnard Latour, avendo osservato la gemmazione delle cellule del fermento, ritenne, come Erxleben, ch'esso fosse la causa della fermentazione, ciò che venne poi confermato dall'esperienze di Schwann, che dimostrò inoltre l'aria essere capace a provocare la fermentazione non di per sè, ma per i germi di organismi ch'essa contiene. Berzelius e Mischerlich spiegarono la fermentazione con la celebre forza catalitica. Sorse poi il Liebig con la sua teoria meccanica della fermentazione, nella quale considerava la fermentazione come un fenomeno chimico, causato dalla decomposizione delle sostanze albuminoidi contenute nel liquido fermentabile. Finalmente il Pasteur in seguito a studii continuati per vari anni, ha rimesso in vigore le idee di Erxleben e di Schwann, dimostrando che i Saccharomyces, che si sviluppano nei liquidi zuccherini, sono da considerarsi come la causa principale della fermentazione. Secondo il Pasteur questi Saccharomyces, che costituiscono il fermento, respirerebbero come gli altri vegetali assorbendo ossigeno allorquando trovansi in contatto dell'aria; ma allorchè sono immersi in liquido fermentabile, non potendo altrimenti appropriarsi l'ossigeno dell'aria, prenderebbero questo elemento dallo zucchero contenuto nel liquido decomponendolo in alcool ed in acido carbonico. In questi ultimi tempi fu fatta un'opposizione molto viva a questa teoria per parte di varii scienziati, fra i quali Brefeld, Treube, Berthelot e Trecul, per adesso però sempre trionfa la teoria del Pasteur.

(Fig. 2). (Fig. 3). (Fig. 4). (Fig. 5). (Fig. 6). (Fig. 7). (Fig. 8).

Gli studi fatti dal Rees hanno dimostrato potersi distinguere varie specie di questi Saccharomyces. Il Saccharomyces ellipsoideus Ress. è quello che costituisce il fermento del vino (Fig. 1). Saccharomyces Cerevisiae (Fig. 2) è stato chiamato quello che si sviluppa nel liquido preparato col malto, e che ne determina la fermentazione e la trasformazione in birra. I Saccharomyces exiguus (Fig. 3), S. apiculatus (Fig. 4), S. pastorianus (Fig. 5), S. conglomeratus (Fig. 6), S. Reesii (Fig. 7), si producono pure nel mosto dell'uva. Altre specie sono il S. albicans, il S. glutinis ed il S. mycoderma (Fig. 8). Quest'ultimo è particolarmente interessante, inquanto è desso che costituisce quella pruina biancastra che si produce alla superficie del vino, che conservasi in vasi mal chiusi e che chiamasi fiore del vino. Questo gode di una singolare proprietà: poichè mentre i suoi congeneri si compiacciono di vivere in un mare di dolcezza, nutrendosi dello zucchero contenuto nei liquidi fermentabili, egli preferisce i liquidi alcoolici dei quali consuma l'alcool che trasforma in acqua ed acido carbonico, contenendosi come un gran bevitore.

A tutti questi poi si debbono aggiungere tutti quei microfiti che si sviluppano nel vino allorquando esso si altera più o meno, e che secondo il Pasteur debbono considerarsi come cause delle alterazioni medesime. Le differenti malattie cui va soggetto il vino, che si denominano Spunto, Vino cercone, Vino girato, Vino grasso o filante, Amarezza, ecc., derivano pure da crittogame speciali, che facilmente si possono riconoscere per mezzo del microscopio, come il Pasteur ha dimostrato nella pregiatissima opera pubblicata sotto il titolo di Études sur le vin. Io vi dirò poche parole di quello fra questi organismi che è meglio conosciuto, e che si considera come causa dello spunto od acescenza.

Fig. 9.

Il microfito che si suole ritenere come la causa della acescenza del vino, è quello che è conosciuto volgarmente col nome di Madre dell'aceto. Scientificamente fu detto, fino a questi ultimi tempi, Mycoderma aceti, essendosi creduto che esso fosse affine ai Saccharomyces, che pure si includevano nello stesso genere; però recentemente si è riconosciuto che esso non solo deve essere separato dai Saccharomyces per essere incluso nel genere Bacterium, ma merita appena di essere distinto dal Bacterium Termo, che si considera come la causa delle putrefazioni. Esso consta di cellule minutissime, quasi globose, riunite due a due, oppure in serie a formare come delle coroncine (Fig. 9): cellule che si mantengono alla superficie del liquido formandovi un sottilissimo strato, che successivamente s'ingrossa in una massa mucilagginosa paragonabile ad una cotenna. Il Pasteur che ha molto studiato sopra questa produzione, ha sostenuto ch'essa debba riguardarsi come la causa della malattia dell'acescenza e della produzione dell'aceto, facendo osservare come sia affatto impossibile la trasformazione dell'alcool in aceto per quanto si tenga in contatto dell'aria, senza la presenza del Bacterium aceti. In tutti i casi infatti in cui vi ha trasformazione di alcool in aceto, egli dimostra verificarsi la presenza di siffatto microfito. Recentemente però il prof. Herzen ha pubblicato delle osservazioni che sembrano stare in opposizione con una tale teoria. Il prof. Herzen avendo dimostrato che una piccola quantità di acido borico che si aggiunga al vino, toglie ad esso la facoltà di trasformarsi in aceto, per quanto si prolunghi il suo contatto con l'aria in presenza del Bacterium aceti, concluderebbe che la trasformazione del vino in aceto dovesse considerarsi come un semplice fenomeno di ossidazione, anzichè come un fatto dipendente dalla nutrizione del Bacterium aceti.

Altre piante pure, oltre la vite e le congeneri di cui vi ho parlato, possono fornire bevande spiritose simili al vino.

Colle mele ed anche colle pere si prepara un vino di frutta che si chiama Sidro e che si fabbrica in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Germania, in Russia, in alcune regioni dell'Affrica ed anche in America. S'ignora l'origine di tale bevanda, ma si crede che sieno stati gli Egizii e gli Ebrei i primi a farne uso.

Dalle ciliegie si ottiene pure un liquore spiritoso detto Kirchwasser, di cui si fa uso principalmente in Svizzera ed Alemagna. La Foresta nera ne fornisce la qualità più pregiata.

In Inghilterra si adoperano i frutti del Ribes grossularia, la comune Uva Spina, per farne un liquore spiritoso.

In America si prepara una specie di vino coi frutti delle piante del genere Guazuma (Büttneriacee) e con i baccelli di varie specie del genere Prosopis (Mimosee) si prepara una specie di birra detta Aloja. Allo stesso uso servono nella Senegambia i frutti della Spondias birrea (Anacardiacee).

In generale tutti i frutti dolci possono essere impiegati al medesimo scopo.

Nè solo il succo dei frutti, ma quello pure che si contiene in altri organi delle piante può essere trasformato in bevanda più o meno simile al vino.

Il succo dolce che s'ottiene dall' Acer saccharinum nell'America settentrionale si trasforma in liquore spiritoso per la fermentazione. Il succo delle giovani messe delle Mammee e quello persino delle gemme di alcune specie di abete, si prestano allo stesso uso. Col succo contenuto negli stocchi del gran turco in Bolivia si prepara una birra che chiamasi Chicha de palo de meiz. Il melazzo, che si ottiene come residuo della preparazione dello zucchero, dalla canna di zucchero, fornisce il Rhum.

Nel Messico si ottiene una bevanda spiritosa detta Vebli o Pulque dall' Agave americana, che adesso cresce pure spontanea nelle parti meridionali della nostra Penisola. Allorquando l'infiorazione è per svilupparsi si recide alla base e dalla ferita si raccoglie l'umore che poi si fa fermentare. Origine consimile hanno pure i vini di palma, chiamati Toddy, Leymi, Arrach, che si preparano facendo fermentare il succo che sgorga dalle ferite fatte nelle infiorazioni di varie specie, quali la Coripha umbraculifera, il Borassus flabelliformis, il Cocos nucifera, il Sagus Rumphii, la Mauritia vinifera, ecc.

Oltre agli organi contenenti zucchero, possono ottenersi bevande spiritose pure da quelle parti che contengono principii capaci di trasformarsi in zucchero. In questa categoria figurano principalmente i semi feculacei. La più conosciuta fra le bevande che si ottengono dai semi è la birra; bevanda che, come il vino ed il sidro, risale ad un'antichità molto remota, attribuendosene la scoperta ad Osiride, da alcuni, da altri a Cerere, d'onde i nomi di Cerevitia, Cerevisia, Ceria, Cervogia, coi quali è stata appellata. La birra si prepara coi semi dell'orzo, che si fanno germogliare affinchè la fecola in essi contenuta si trasformi in zucchero, e quindi si seccano per ottenerne il malto, col quale poi si prepara il liquido che mediante la fermentazione si trasforma in bevanda.

Altra bevanda analoga alla birra è quella che si prepara nel Chilì coi semi del Granturco, detta dai nativi Chicha. La Busa dei Tcerkessi, il Tuack dei Dayack, il Sacki dei Giapponesi, il Sampsu dei Chinesi, la Meriesa ed il Bisbil del Soudan, sono pure bibite spiritose preparate con semi di cereali.

Ma uno dei più singolari emuli di Bacco lo troviamo fra i vegetali di struttura più semplice, nella classe dei funghi. L' Agaricus muscarius Fr., specie venefica comunissima nei nostri boschi, nella penisola del Kamchatka presso l'estremo più orientale dell'Asia, viene adoperato in sostituzione al prezioso liquore di Bacco per procurarsi uno stato di ebbrezza piacevole. Un fungo di ordinarie dimensioni o due piccoli bastano per produrre l'effetto, a condizione però che siano trangugiati senza far loro subire la masticazione. Si racconta che gli effetti di tale ebbrezza sono veramente singolari, per lo straordinario stato d'esaltazione che l'accompagna, che dà luogo alle più piacevoli emozioni della mente ed ai movimenti i più disordinati e bizzarri. Si asserisce poi che il veleno passa inalterato nella escrezione renale, onde le orine stesse sono capaci di riprodurre questo stato di ebbrezza, come lo stesso agarico e per più volte di seguito; nè quella rozza gente ha schifo il ricorrere ad una tale bevanda in difetto del desiderato fungo. Io ritengo però che voi non vorrete ripetere un così sozzo esperimento, lasciandone ben volentieri le gioie a quei lontani nostri men che fratelli, e che anzi vorrete sempre anteporre il prezioso liquore di Bacco agli altri tutti che l'arte più raffinata in sì svariati modi ci apparecchia, rammentandovi sempre però quel precetto del nostro poeta Est modus in rebus, ecc., e che se il vino può dirsi opera divina, l'ubriachezza è certamente opera del diavolo[VI-14].

[VI-1] Vedi pure Acerbi G., Delle viti italiane — Mendola A., Elenco di uve, Favara tip. Parrini e Carini, 1868 — Goethe Herm., Catalogo ampelografico Ampelografia italiana compilata per cura del comitato centrale ampelografico (in corso di pubblicazione).[VI-2] De Gubernatis, Piccola enciclopedia indiana, 1877, pagine 87 e 388.[VI-3] Schimper Ch., Traité de Paléontologie végétale, vol. III, pag. 48.[VI-4] Endlicher St., Enchiridion botanicum exhibens classes et ordines plantarum, ecc., p. 395. — De Condolle, Geogr. Bot., I, 338.[VI-5] Solum praeter oleam vitemque ceteraque calidioribus terris oriri sueta patiens frugum fecundum, etc.[VI-6] Planchon, Le Phylloxéra en Europe et en Amérique. Revue des deux Mondes, 1874. Vignes américaines, p. 74, 85, 86 e seg. — Targioni Tozzetti A., Della malattia del pidocchio nella vite, Roma, 1875, p. 76.[VI-7] Pirotta R., I funghi parassiti dei vitigni, Milano, 1877.[VI-8] Thümen, Die Pilze des Weinstockes, Wien, 1878.[VI-9] Planchon, F. E., Les vignes américaines, Paris, 1875.[VI-10] Synopsis der Pflanzenkunde, Hannover, 1877, p. 1853.[VI-11] Comptes rendus, 1879, p. 600.[VI-12] Pirotta R., Sulla comparsa del Mildew o falso oidio degli americani nei vigneti italiani, Milano, 1879.[VI-13] Passerini G., La nebbia del Moscatello ed una nuova crittogama delle viti, 1876. — Saccardo P. A., Rivista di viticultura ed enologia italiana. — Arcangeli G., Sopra una nuova malattia della vite. Nuovo giornale bot. ital., vol. IX, p. 74, 1877. — Ridolfi N., Bullettino della R. Società toscana d'orticultura, anno IV, p. 370. — Galimberti A. e Ravizza F., Sull'anatracuosi della vite. Studi ed esperienze, Milano, 1879.[VI-14] Vinus opus Dei: ebrietas opus diabuli est.

S. Grisostomo.

A. MOSSO — GLI EFFETTI FISIOLOGICI DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 1 o marzo 1880).

Il vino è una bevanda così prelibata, che produce degli effetti fisiologici, anche prima di averlo bevuto.

Per dimostrare questo fatto con una esperienza, mi basta di rammentare ad alcuni amici, che sono qui presenti, certe bottiglie di barolo stravecchio che abbiamo bevuto insieme allegramente. Perchè l'esperienza riesca con quella pienezza, che è degna di questa circostanza, dirò loro che alle 9 e mezzo li aspetto per berne qualche altra bottiglia alla salute della mia serata.

Per discrezione non domando ad alcuno di pronunciarsi sull'esito dell'esperimento, ma sono certo che la maggior parte di coloro cui erano dirette le mie parole, sentirono inumidirsi man mano il palato, come se si sciogliesse qualche cosa sulla lingua. Il fatto che un vino squisito ci fa venire l' acquolina in bocca al solo pensarci, è un fenomeno che dipende da una secrezione più abbondante della saliva, la quale sgorga più copiosa senza alcuna partecipazione della volontà ed in modo affatto automatico.

Nel 1822 un soldato del Canadà, per nome San Martin, ricevette un colpo di fucile a bruciapelo che gli aperse l'addome e gli perforò lo stomaco: in pochi mesi, mercè le cure del dottor Beaumont, guarì completamente, conservando una apertura nelle pareti addominali, a traverso cui potevasi vedere comodamente, come da un finestrino, ciò che succedeva nello stomaco. Per questo soldato fu un vero guadagno, perchè i medici lo pagavano lautamente per vedere come si compiesse la digestione nel suo stomaco. San Martin quando ebbe fatto un bel gruzzolo di danaro, li piantò tutti e se ne ritornò al suo villaggio, dove prese moglie e divenne padre di numerosa prole.

Negli annali della chirurgia vennero dopo registrati parecchi casi analoghi di fistole stomacali, ossia di aperture accidentali dello stomaco, in persone che del resto stavano benissimo.

Simili deformità hanno perduto molto del loro interesse dopo che i medici ricorsero al metodo di fare artificialmente delle fistole stomacali nel cane. Fu questo un trovato della più grande importanza, perchè ora nelle indagini sulla digestione non siamo più costretti ad aspettare che il caso ci metta nelle mani una persona come San Martin: ciò che avrebbe reso troppo lenti i progressi della scienza.

Per mezzo delle fistole stomacali si osservò tanto nell'uomo, quanto nel cane, che la vista di una bevanda, o di un cibo appetitoso, desta un'abbondante secrezione anche nelle ghiandole a pepsina che stanno alla superficie interna dello stomaco. Cosicchè appena si mostra un pezzo di carne ad un cane, immediatamente il succo gastrico scola a gocciole dall'apertura della fistola stomacale.

L'acquolina che compare improvvisamente nella bocca e la secrezione più abbondante del succo gastrico non sono un capriccio della natura. No. Essi sono fenomeni che hanno un profondo valore per l'organismo; e da questa semplice esperienza traspare evidente la meravigliosa perfezione della nostra macchina, dove appena nasce l'idea, o il desiderio, di una vivanda appetitosa immediatamente e senza alcuna partecipazione della volontà e della coscienza si preparano i mezzi per digerirla.

La ragione non può trattenere questi ciechi slanci dello stomaco. Il ventricolo dei miei amici non sa che deve aspettare fino alle 9 ½; ma, appena ebbe sentore dell'invito, incominciò subito a prepararsi e a struggersi in segreto in attesa di un lavoro gradito.

Il vino si può dividere in due parti: nell'alcool che è per noi la più importante: e nell'acqua, nei sali inorganici, e nelle sostanze organiche, che formano un liquido il quale per la sua composizione rassomiglia al brodo di carne.

Il prof. Cossa che trattò già della composizione chimica del vino, spero mi perdonerà questo paragone grossolano di cui mi servo solo per comodità di linguaggio. Voi tutti sapevate del resto, come un bicchiere di vino possa venire sostituito da una tazza di brodo pei suoi effetti ristorativi. Ranke, che credo sia stato il primo a fare questo paragone fra la composizione chimica del vino senza alcool e del brodo, andò tanto oltre da asserire: che senza dubbio noi abbiamo nella birra uno dei migliori sostitutivi dell'estratto di carne[VII-1].

Il vino penetrato nello stomaco viene assorbito, ossia trapela e si infiltra a traverso le pareti dello stomaco e scompare passando dentro a certi canaletti sottili che sono le vene dello stomaco, le quali conducono i liquidi che beviamo nel sangue. Voi tutti sapete che un bicchiere di vino generoso produce degli effetti assai più sensibili bevendolo a digiuno, che non quando lo si annacqua per bene, o lo si beve a pranzo. La ragione di questa differenza sta nella rapidità più o meno grande con cui l'alcool passa nel sangue.

A digiuno l'assorbimento è più rapido, perchè lo stomaco essendo vuoto il liquido alcoolico può bagnarne tutte le pareti e attraversarle prontamente; quando invece l'alcool si mescola coi cibi, lo stomaco non può impadronirsene con eguale prontezza, perchè solamente a misura che si digerisce tutta la massa delle sostanze alimentari, l'alcool passa gradatamente nel sangue.

Qualcuno potrebbe domandarmi come si fa a sapere che l'alcool scompare dallo stomaco per passare nel sangue? L'esperienza è facile. Prendemmo un grosso cane, e gli amministrammo nello spazio di circa mezz'ora una quantità di alcool allungato con acqua che corrispondeva a circa un litro di vino Marsala. Dopo due ore, quando l'animale era completamente ubbriaco ed insensibile, gli facemmo un salasso così profondo che senza accorgersene morì dissanguato in pochi minuti. Immediatamente dopo gli estirpammo lo stomaco ed il suo contenuto venne messo in questo vaso per essere distillato nel solito modo che serve a cercare la presenza dell'alcool. Con questa manipolazione semplicissima potemmo convincerci che solo una parte affatto trascurabile dell'alcool ingerito era rimasta nello stomaco. Per riconoscere dove fosse passata l'altra parte dell'alcool, abbiamo lasciato coagulare il sangue, e quindi raccolto lo siero limpido e trasparente che stava alla superficie del coagulo rosso, lo distillammo lentamente ed a bagno maria in un apparecchio che è alquanto più complicato del primo. Perchè lo siero del sangue si coagula facilmente al calore e forma una massa densa e bianca come albumina di uova sode, si dovette stillare nel vuoto, o sotto una pressione di molto inferiore all'atmosferica, come si ottiene per mezzo di una pompa di Bunsen.

Prendiamo le prime goccie di liquido simili all'acqua che si condensano in questa sfera di vetro annessa al matraccio ed esaminiamole col metodo del prof. Lieben. Questo metodo per riconoscere le più piccole quantità di alcool consiste nell'aggiungere al liquido da esaminarsi qualche particella di iodo e potassa fino a decoloramento. Si riscalda tanto da renderlo tiepido, ed ecco che già si sente un odore caratteristico di zafferano, e si ottiene un deposito giallognolo di iodoformio che, osservato al microscopio, si trova essere formato di lamelle madreperlacee esagonali.

Un'altra reazione per conoscere la presenza dell'alcool in questo liquido si fa coll'aggiungervi un po' di soluzione di bicromato potassico ed acido solforico. Riscaldando il liquido, come vedete, si colora in verde e sviluppa l'odore caratteristico di aldeide.

Dopo questi esperimenti noi dobbiamo dunque conchiudere che in questo liquido vi è dell'alcool, e siccome prima non ce n'era nel sangue, dobbiamo ancora conchiudere che l'alcool bevuto passa nel sangue, donde viene portato in giro per tutto il corpo. Questo fatto che ho voluto dimostrare sotto i vostri occhi mi permette di enunciarvi una legge generale nello studio dei farmaci: che cioè, tutte le sostanze le quali agiscono sul sistema nervoso devono essere assorbite e passare nel sangue prima di poter far sentire i loro effetti. Un'altra legge pure fondamentale nello studio dei medicamenti è questa: che tutte le sostanze le quali agiscono eccitando le funzioni dei nervi e dei centri nervosi, in un primo periodo e per piccole dosi, producono dopo un effetto deprimente e narcotico per dosi maggiori. L'oppio, la morfina, il cloralio, l'atropina e molte altre sostanze agiscono precisamente come il vino.

L'alcool nel momento che penetra nella cellula e nei filamenti nervosi ne ravviva le loro funzioni, li eccita e li stuzzica: ma passato questo primo periodo di esaltamento, se continua ad aggiungersi nuovo alcool alle cellule ed ai nervi, ne succede un periodo di stanchezza. La presenza di questo corpo straniero all'organismo che imbratta il sangue e diffonde i suoi vapori nella sostanza del cervello, modifica i processi chimici, aumenta le resistenze ai movimenti nervosi e genera quella forma particolare di avvelenamento conosciuta col nome di ubbriachezza.

Gli effetti psicologici del vino verranno trattati nelle seguenti conferenze dal più simpatico e dal più popolare degli scrittori italiani, ed io mi guarderò bene dal toccare questo argomento; però siccome fra i fisiologi credo di essere quello che ho fatto il maggior numero di esperienze sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, così mi permetterò di accennarvi qualcuna delle mie osservazioni all'influenza del vino.

Vi esporrò il caso di una persona che aveva un'apertura nel mezzo della fronte a traverso cui potevasi vedere nel cranio la superficie del cervello. È un caso interessantissimo che studiai insieme al dottor De Paoli, cui sono grato di avermi offerto un'occasione favorevole quanto mai per completare certi studi sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, di cui mi occupo da tempo con predilezione.

Circa 3 anni fa un operaio, per nome Bertino, mentre stava sotto il campanile del suo villaggio fu colpito alla testa da un mattone sfuggito dalle mani di un muratore che lavorava presso il tetto all'altezza di 14 metri. Bertino cadde al suolo come fulminato: ma fortunatamente dopo circa un'ora riprese i sensi; e siccome era uomo molto robusto, guarì rapidamente di questo colpo terribile. Infatti dopo circa un mese partì da Fiano e venne a piedi fino a Torino per farsi curare. Quando lo visitai col dottor De Paoli nell'ospedale di S. Giovanni aveva un'apertura larga quanto un soldo nel mezzo della fronte sotto cui vedevasi pulsare il cervello scoperto.

Tralascio di farvi conoscere minutamente gli apparecchi che costrussi per studiare la circolazione del sangue nel cervello e nell'antibraccio[VII-2], perchè non è questo il momento di poter fermarsi sui dettagli di un meccanismo. Vi presento solo questa piastrella di guttaperca che venne applicata sul foro del cranio di Bertino per chiuderlo ermeticamente. Il piccolo tubo di vetro che attraversa la medesima faceva comunicare l'aria che stava in contatto col cervello con un timpano a leva. Ogni dilatazione del cervello, comprimendo leggermente l'aria chiusa nell'apparecchio, solleva la membrana elastica del timpano registratore su cui poggia la leva; e questa scrive le pulsazioni del cervello sopra un cilindro affumicato, che gira con moto uniforme.

Il giorno 27 novembre 1877 stabilisco col dottor De Paoli di fare una esperienza per vedere quale azione esercitasse il vino sulla circolazione del sangue nel cervello. Gli applichiamo l'idrosfigmografo sull'antibraccio destro, sulla fronte l'apparecchio registratore dei movimenti del cervello, e scriviamo contemporaneamente il polso di queste due parti del corpo.

Nella figura 1 la linea A rappresenta il polso dell'antibraccio. Ad ogni battito del cuore la linea si solleva e subito dopo si abbassa, formando nella discesa una seconda elevazione meno pronunciata. Le singole pulsazioni non si dispongono su di una linea orizzontale.

In Bertino, come in tutti noi, durante la respirazione naturale e tranquilla succede una diminuzione di volume delle mani e dell'antibraccio, ed è precisamente nel principio dell'inspirazione che la linea del polso si abbassa, come vedesi nei punti segnati colle lettere i i. A queste sinuosità ho dato il nome di oscillazioni respiratorie.

La linea sottostante C venne scritta dal cervello. La forma del polso è diversa, e vi diedi il nome di polso tricuspidale, perchè sulla sommità di ciascuna pulsazione si osservano tre elevazioni più piccole.

Fig. 1. La linea A rappresenta il polso dell'antibraccio scritto contemporaneamente al polso del cervello. Le lettere i segnano il principio dell'inspirazione. Dove c'è il segno ↓α dico che si presenti un bicchiere di vino di Marsala a Bertino.

L'influenza del respiro è meno evidente che nell'antibraccio. Mentre Bertino rimane tranquillo e le due penne scrivono contemporaneamente il tracciato A, C, dico in ↓α al dott. De Paoli di presentare un bicchiere di Marsala a Bertino. Ed ecco che immediatamente le pulsazioni diventano più grandi e si aumenta il volume del cervello. Noi vediamo da questo esempio quanto i fenomeni del pensiero siano strettamente collegati coi cambiamenti materiali dell'organismo. In un lavoro dove trattai più estesamente questo soggetto[VII-3], ho dimostrato che le funzioni più nobili del sistema nervoso sono quelle che sono più schiave dei mutamenti che succedono nel ricambio della materia.

Bertino era tranquillo, egli sapeva che si trattava di un vino squisito; l'aveva prima gustato con noi e lo aspettava con desiderio. Nell'istante in cui si allaccia alla sua mente l'idea del bere, ecco che subito aumenta la circolazione del sangue nel cervello e si rinforza il polso di questo organo. Per un fatto psichico che passò senza destare alcuna emozione interna, che non si rivelò in alcun modo nell'aspetto esterno di Bertino, noi vediamo prodursi un cambiamento notevole della circolazione sanguigna negli emisferi cerebrali.

Bertino bevette in due volte circa 400 centim. cubici di vino Marsala. Vi fu una prima modificazione del polso che osservasi sempre in tutte le persone che bevono qualunque liquido: ma fu un fenomeno passeggero che durò pochi secondi. Il polso del cervello ritornò per circa 10 minuti normale e quindi incominciò lentamente a modificarsi. Dopo 15 minuti di registrazione continua vedo che è assai più forte di prima. Il tracciato che prima svolgevasi regolare ed uniforme, presenta di quando in quando delle grandi ondulazioni, come si vede nella figura 2. Domandai a Bertino come stava ed egli mi rispose che sentivasi caldo alla testa. Vedendo che Bertino era divenuto irrequieto e che il tracciato del polso bracchiale veniva spesso deformato dai movimenti del corpo, o delle dita nel cilindro, levo il braccio dall'idrosfigmografo. Bertino ne fu contentissimo e non finiva dal ringraziarmi malgrado che io lo pregassi ripetutamente di star zitto per non guastare l'esperienza.

Fig. 2. Azione del vino sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo. Ondulazioni del tracciato cerebrale osservate 25 minuti dopo che Bertino aveva bevuto circa 400 centimetri cubici di Marsala e diceva di sentirsi venir caldo alla testa.

Più tardi avvertì un leggiero capogiro, poi mi domandò se aveva le orecchie rosse, perchè diceva di sentire una vampa stendersi sul volto. La circolazione del sangue nel cervello era profondamente modificata. Le ondulazioni frequenti e profonde accennavano ad una grande irrequietezza del sistema vasale. Le pulsazioni erano tre o quattro volte più grandi di prima. Quest'altezza straordinaria del polso cerebrale era dovuta in parte ad un rilassamento dei vasi sanguigni di quest'organo ed in parte all'impulso più forte del cuore.

Diciotto mesi dopo che io avevo fatto queste osservazioni su Bertino, gli scrissi pregandolo di venire da me perchè desideravo vederlo. Egli partì immediatamente, fece più di 25 chilometri a piedi e nel mattino del giorno successivo era già nel mio laboratorio. Bertino era guarito benissimo. L'apertura del cranio presentavasi coperta da una cicatrice così salda che solo nelle forti espirazioni vedevasi coll'occhio un leggiero movimento nel fondo della breccia. Riusciti inutili i tentativi per scrivere il polso del cervello, presi un tracciato del polso nell'antibraccio e subito dopo gli diedi 5 lire e lo mandai alla trattoria qui dirimpetto pregandolo di mangiar bene e di bere meglio.

Il tracciato del polso preso coll'idrosfigmografo sull'antibraccio mi aveva dimostrato chiaramente che Bertino era spossato dalla fatica, che i suoi vasi sanguigni erano rilassati e molto deboli le contrazioni del cuore. Egli aveva bisogno di rifocillarsi. È questo un grande vantaggio dell'idrosfigmografo di rivelare tali particolarità nella forma del polso che indipendentemente dal ritmo dei battiti cardiaci si può distinguere facilmente solo guardando il tracciato del polso, se una persona ha mangiato poco prima, o se pure è digiuna, e se digiuna, se ha bevuto del caffè, oppure dell'alcool[VII-4].

Alle 2 pomeridiane Bertino ritornò nel laboratorio. — Ricominciate le osservazioni trovai che il polso nell'antibraccio aveva la stessa forma di prima. Meravigliato che non si avverasse quanto avevo sempre osservato sopra di me e sopra dei miei amici dopo la colazione od il pranzo, mi venne il dubbio che egli avesse risparmiato le cinque lire. Assicuratomi prima che l'idrosfigmografo e l'apparecchio per il polso del cervello fossero bene in ordine, chiamai Bertino per nome e quindi gli dissi con tono piuttosto risentito che non aveva mangiato. Egli dovette essere stordito dalla sicurezza con cui gli feci quest'accusa: divenne pallido in volto e mi disse che non aveva mangiato, perchè sperava di ritornare a cena colla sua famiglia: quindi abbassò gli occhi al suolo e mi accorsi poco dopo che aveva le orecchie vivamente arrossate. Durante questa profonda emozione l'afflusso del sangue al cervello divenne così forte che comparve improvvisamente un movimento pulsatorio nel tracciato scritto col timpano registratore: e questo movimento sincrono alle contrazioni del cuore si conservò per circa 30 secondi nella cicatrice che ricopriva il cervello.

Fig. 3. Polso dell'antibraccio a digiuno.

Le figure 3 e 4 ci danno un esempio dell'influenza che il vino ed il cibo esercitano sulla circolazione del sangue. A mezzogiorno ero ancora digiuno quando scrivo il tracciato del polso nell'antibraccio coll'idrosfigmografo (Fig. 3).

Fig. 4. Polso dell'antibraccio nella medesima persona dopo che mangiò due uova con un po' di pane e bevette due bicchieri di Marsala.

Quindi mangio due uova con un po' di pane e bevo circa 220 centimetri cubici di Marsala. All'una e mezzo scrivo nuovamente il polso ed ottengo un tracciato così diverso dal primo che non ho bisogno di insistere con parole per rilevarne la differenza (Fig. 4). Il polso che prima era tricuspidale è divenuto catacrotico.

Il problema più importante riguardo all'azione fisiologica del vino è di sapere se l'alcool sia un alimento; se il vino, cioè, può aggiungere forza all'operaio che lavora, o se non sia altro che un veleno il quale esalta, inebria ed abbrutisce l'uomo, gettando delle intere famiglie nella disperazione, o nello squallore della miseria.

Ridotta ai minimi termini la questione sta tutta nel vedere, dove va, e come si trasformi l'alcool che noi beviamo.

Per rispondere al primo quesito ho preparato qui un'esperienza. Ad un coniglio iniettai dell'alcool etilico sotto la pelle, ossia dell'alcool stillato dal vino, ed a quest'altro dell'alcool amilico che è stillato dalle patate; quale si trova nell'acquavite di peggior qualità e li ho messi ciascuno sotto un apparecchio che serve a raccogliere l'aria respirata da questi animali.

Come vedete vi è qui un aspiratore che serve a rinnovare l'aria dentro la campana di vetro sotto cui trovasi il coniglio. L'aria che servì alla respirazione dell'animale attraversa un tubo curvo ad U pieno d'acqua, e cede a questo liquido tutto l'alcool esalato dai polmoni.

Ho detto poco prima che l'alcool venne iniettato sotto la pelle: fu questa una precauzione indispensabile per esser sicuri che l'alcool trovato nell'aria espirata proveniva realmente dai polmoni. Se l'avessimo amministrato nello stomaco non si avrebbe avuto questa certezza. Voi sapete già che i medici preferiscono sempre di iniettare sotto la pelle le sostanze che devono agire prontamente. Ora con questo metodo noi abbiamo risparmiato ai conigli il gusto per loro dispiacevole dell'alcool; ed aumentando la dose possiamo non solo ubbriacarli, ma anche ucciderli, senza che abbiano mai bevuto.

L'acqua contenuta nel tubo ad U, traverso cui passò e si lavò l'aria espirata dal coniglio cui si amministrò l'alcool amilico, tramanda l'odore irritante proprio di quest'alcool, mentrechè l'acqua nel tubo ad U del coniglio avvelenato con alcool etilico non ha alcun odore caratteristico.

L'analisi chimica dimostra in quest'acqua appena qualche traccia di alcool etilico; laddove l'alcool amilico venne eliminato in tanta copia dai polmoni, che non fa mestieri di ricorrere ai reagenti per scoprirlo. L'alcool iniettato sotto la pelle venne dunque assorbito: passò nel sangue e giunto ai polmoni venne eliminato coll'aria espirata.

Queste esperienze si ripeterono con eguale successo anche nell'uomo[VII-5], e venne così dimostrato che se noi beviamo dell'alcool puro stillato dal vino il nostro fiato non tramanda alcuna esalazione di alcool: mentre se beviamo del vino comune e particolarmente vino del Reno, di Bordeaux, del rhum, dell'acquavite scadente, o peggio dell'alcool di patate, l'alito tramanda un odore caratteristico e spiacevole: perchè tutti questi liquidi contengono eteri ed alcoli difficili a bruciarsi che passano nel sangue e si eliminano inalterati per la via dei polmoni.

Notate che questo coniglio il quale esalò una maggior quantità di alcool per la via dei polmoni è quello che viceversa poi ne ricevette una quantità minore. Nè si poteva fare altrimenti, perchè se io gli davo 2 grammi di alcool amilico, come diedi 2 grammi di alcool etilico a quest'altro, l'avrei ucciso: perchè l'alcool amilico è circa 5 volte più velenoso dell'etilico.

Crederei di fare un torto a voi tutti che dimostrate tanto interesse per la scienza, se cercassi con inutili circonlocuzioni di tacere qualche parola per semplice formalità, facendomi comprendere nella sostanza. No. Dirò senza alcuna ricercatezza e col linguaggio severo della scuola che per mezzo dell'orina si elimina una certa quantità dell'alcool bevuto. Il prof. Lieben in questa stessa scuola che egli illustrò col suo nome potè dimostrare per la prima volta che l'alcool passa nelle orine. Ecco come abbiamo fatto l'esperimento seguendo il suo metodo. Uno di noi bevette in poche ore due bottiglie di vino eccellente, di cui un amico volle provvedere lautamente il mio laboratorio per gli studi e i preparativi che si richiedevano per questa conferenza sul vino. Raccolti circa due litri di orina, venne distillata ripetutamente a bagno maria in modo da raccogliere solo le prime porzioni del liquido evaporato. Il prodotto della prima distillazione venne stillato una seconda volta e così si ottenne il liquido trasparente e simile all'acqua che sta chiuso in questa boccetta, dove colla reazione del Lieben si dimostra facilmente la presenza dell'alcool.

Però la quantità di alcool che si elimina per la via dei reni e dei polmoni, è così piccola, che noi dobbiamo necessariamente domandarci a cosa serva e come si trasformi la rimanente parte che resta nell'organismo.

Il nostro corpo rassomiglia in alcuni riguardi ad una macchina a vapore, che per lavorare consuma combustibile ed acqua, e che per funzionare e muoversi logora eziandio le parti di cui è costituita. Nei muscoli ad ogni contrazione, nei nostri nervi e nel cervello ad ogni sensazione e ad ogni lavoro intellettuale, succede egualmente una combustione di materiali ed un logoramento degli organi che funzionano.

Il sangue scorrendo continuamente in tutte le parti del corpo per alimentare la fiamma della vita, spazza nello stesso mentre i più remoti ripostigli del nostro organismo dalle fuliggini della combustione e raccatta da per tutto i detriti del disfacimento per trasportarli ai reni, dove li filtra e li rigetta all'esterno coll'orina.

Se noi raccogliamo il liquido emesso nelle 24 ore e lo trattiamo convenientemente, si ricavano in media 24 grammi di questa sostanza bianca e bene cristallizzata che ha ricevuto il nome di urea. Come vedete dalla dose giornaliera di urea contenuta in questo vaso si tratta qui di una quantità cospicua di materie solide che vengono emesse nelle 24 ore. E si noti che questi 20 grammi di urea ci rappresentano solo l'azoto delle sostanze albuminose che vennero distrutte in un giorno nei tessuti del nostro organismo.

Nel gennaio dell'anno scorso il dottor Munk fece a Berlino le seguenti esperienze. Prese parecchi cani ed amministrò loro per alcuni giorni una quantità di cibo tale che rimanesse costante la quantità di urea emessa: quindi mescolò col cibo dell'alcool, adoperando alcune cautele gastronomiche perchè gli animali non se ne accorgessero e determinava ancora la quantità di urea emessa. Egli trovò che dosi moderate di alcool, quelle che hanno solo un'azione eccitante senza ubbriacare, diminuiscono la produzione di urea dal 6 al 7 %. Ciò vuol dire che l'alcool adoperato con sobrietà può considerarsi come una sostanza nutritiva perchè diminuisce e rallenta il consumo del nostro organismo.

Quando Munk amministrava dosi tali di alcool da produrre l'ubbriachezza, od anche solo uno stato di depressione e di sonno, aumentava pel contrario la produzione dell'urea ed in alcuni casi del 10 p. % sopra la dose normale.

Citai subito le recenti esperienze di Munk, quantunque fosse già stato preceduto da altri, per tralasciare tutta una lunga serie di controversie di cui sono pieni i libri di chimica fisiologica su cui non ho tempo di trattenervi. Sarei però ingiusto se non ricordassi le ricerche del Liebig che rimarranno immortali nella storia del vino. Ecco come egli si esprime in proposito nelle sue lettere sulla chimica.

«Quando un uomo che lavora e non si guadagna colle sue fatiche quanto gli è necessario di alimenti, per cui possa intieramente restaurare le sue forze ed attitudine al lavoro, una ostinata, inesorabile necessità di natura lo spinge a ricorrere all'uso del brantwein; gli tocca di lavorare, ma a lui, per l'insufficiente nutrimento, viene ogni giorno mancando una certa quantità di forza per sostenere la fatica; il brantwein, per l'azione sua sopra i nervi, gli permette di fare, a spese del proprio corpo, riparo alla deficiente forza, per ispenderne così oggi quella quantità che si sarebbe dovuta porre in risparmio pel giorno successivo. È come una lettera di cambio sulla salute; una lettera di cambio, che bisogna prolungare sempre, perchè mancano i mezzi di saldarla; il lavoratore consuma il capitale invece degli interessi, quindi segue in ultimo l'inevitabile fallimento del suo corpo»[VII-6].

Le osservazioni fatte nell'armata prussiana hanno dimostrato che gli affigliati alle società di temperanza quando sono chiamati sotto le armi resistono assai meno alle marcie ed alle fatiche del campo. Come pure è ammesso da tutti gli igienisti che se nella guerra del 1870 e 71 la salute dell'esercito tedesco fu eccellente, questo si deve a ciò che l'esercito invadente conquistava un paese vinifero.

Si è molto disputato intorno ai vantaggi e ai danni che può arrecar l'alcool. Dopo che lo storico Macaulay rivolse la sua attenzione all'influenza che potè esercitare sulla politica dell'Inghilterra il caffè nel secolo XVII; molti domandano ai fisiologi se il vino, la birra, l'acquavite agiscano sul carattere e sullo sviluppo intellettuale delle varie nazioni.

Credo sia molto difficile per non dire impossibile di rispondere con sicurezza ad una tale domanda; però, giacchè un mio amico accennò in queste conferenze l'opinione del prof. Lombroso intorno alla distribuzione geografica delle bionde e delle brune, dirò che ora nell'Europa in generale sono cattolici i paesi del vino, sono protestanti quelli della birra, e finalmente quelli che bevono l'acquavite sono petrolieri o nihilisti.

Le osservazioni del fisiologo sull'azione del vino non possono arrestarsi all'uso moderato di tale bevanda. Vi sono dei fenomeni più gravi e non meno interessanti pel medico; vi è per disgrazia tutta una serie di fatti che degradano la dignità dell'uomo, e da cui avrei desiderato tener lontana la vostra attenzione, se non fossi obbligato di parlarvene. Per vincere la naturale ripugnanza che ho nel trattare questo argomento devo pensare alla compassione che desta in noi la vista di tanti sventurati che si avvelenano coll'alcool. e al desiderio che nasce spontaneo di sapere quali soccorsi si possano prestare nei casi più gravi di avvelenamento per alcool.

La parola avvelenamento corrisponde qui alla designazione volgare di ubbriachezza, in cui si distinguono due periodi; quello dell'eccitamento in cui si è brilli, e quello successivo della prostrazione e della narcosi.

L'espressione animata ed allegra del volto scompare poco a poco; il viso diventa meno vivace, poi melanconico e quindi inebetito. Alla mobilità grande nei lineamenti della fisionomia, succede un rilassamento completo nei muscoli della faccia. Gli angoli della bocca si abbassano come nel volto di un paralitico. La fronte prima maestosa e serena si corruga, si nasconde sotto i capelli arruffati, si ricopre di un sudore viscido e freddo.

Nel primo periodo l'occhio è lustro, perchè è più copiosa la secrezione delle lacrime che lo inumidiscono. Nel secondo periodo lo sguardo è meno espressivo e meno sicuro. Le palpebre si socchiudono, sono pesanti, perchè il muscolo che le solleva è stanco. Gli oggetti sembrano doppi; perchè i muscoli che muovono il globo oculare non si corrispondono più nelle loro contrazioni. Compare una nebbia a traverso cui si discernono confusamente le cose.

È celebre nella storia dell'Inghilterra un grande uomo di stato, che dopo aver bevuto lautamente fino a sera insieme ad un altro deputato, volle egualmente prendere parte alla seduta del Parlamento. Giunti alla Camera dei Comuni presero entrambi posto nei loro stalli e dopo alcuni istanti di attenzione l'uno esclamò: come va che non vedo il presidente? Ora capisco, disse l'altro, perchè io ne vedo due.

Nell'ultimo periodo l'occhio è immobile, come di vetro, fisso e smarrito nel vuoto.

La voce prima vibrata e piena, è ora fessa, incerta, stonata. La lingua paralizzata, balbuziente, incapace di vibrare e di fremere quando si pronuncia la r.

L'ubbriaco parla forte e risponde a sproposito, perchè non sente bene, nè la sua voce, nè quella degli altri. Nelle orecchie ha un susurro, un tintinnio, un bisbiglio che lo insegue dovunque.

Nell'ubbriachezza livida si digrignano i denti, con uno scricchiolio che abbrividisce. Le labbra annerite si atteggiano talora convulsivamente ad un riso sardonico. L'esalazione del fiato diffonde intorno un odore alcoolico grave, ributtante. Respirando lungamente colla bocca aperta, le fauci diventano asciutte, la lingua rasposa, ricoperta di una patina biancastra. La sete è ardente, inestinguibile. La respirazione tranquilla, superficiale; spesso l'espirazione diventa più rapida dell'inspirazione; si fa rumorosa; l'ubbriaco sbuffa.

Mentre si sprofonda nel sopore può mandare gemiti e lamenti interrotti come un uomo che piange. Talora dei sogni morbosi si rivelano con parole dimezzate e confuse che muoiono sulle labbra.

La respirazione nei casi più gravi può divenire intermittente, irregolare; con arresti periodici che prolungandosi diventano la causa precipua della morte.

Nei bambini i sintomi dell'ubbriachezza alcoolica rassomigliano a quelli dell'avvelenamento con sostanze corrosive che siano penetrate nello stomaco.

Il cuore è di tutti gli organi quello che risente meno l'azione dell'alcool. Il polso delle arterie prima forte, frequente, duro: dopo è debole, lento, cedevole. L'abbassamento della temperatura può raggiungere 2° o 3° centigradi.

Quanto ai movimenti dirò che chi è brillo prova la sensazione piacevole di essere più leggiero: il suo gesto è concitato: balla e salta volentieri.

Il primo disordine nella coordinazione dei movimenti compare nelle parti più lontane dal cervello, nelle gambe, che cedono sotto il peso del corpo, vacillano e si incrociano.

L'ubbriaco cammina a stento, non può seguire una direzione costante, ma dondola, serpeggia, barcolla: è incapace di voltarsi con movimento improvviso senza perdere l'equilibrio: si trascina lungo i muri ed è specialmente nella discesa dove più facilmente inciampa e stramazza al suolo.

In un libro tedesco ho trovato una giaculatoria scritta nel 1450 con cui si benediva il vino. Questa preghiera della sbornia finiva presso a poco colle seguenti parole:

«Difendimi, o Dio, anche dal cattivo incontro dei cespugli spinosi quando dovrò scendere giù nella valle. Reggimi sulle mie gambe; fa che io ritorni allegro a casa dalla mia donna, ed io sappia tutto ciò che essa vorrà domandarmi: ed ora salvami, o Dio, da una sconfitta»[VII-7].

L'effetto paralizzante del vino si diffonde poco per volta alle braccia. Le mani tremano, l'ubbriaco è meno destro nel mescere. Ne vidi uno che per accendere un mozzicone sciupò un'intera scatola di solfanelli, scottandosi il naso e le labbra ed abbruciandosi i baffi, senza che la fiamma potesse arrestarsi un momento sotto la punta del sigaro.

Ma più degradante è lo stato di un uomo affogato nel fumo di una taverna che non sa più dove abbia la bocca e porta incerto il bicchiere sotto il mento per versarsi il vino sul petto. La testa ciondola da tutte le parti, perchè i muscoli del collo non la reggono più sulla colonna vertebrale. Basta tagliare i muscoli dell'occipite ad un cane perchè esso prenda immediatamente l'aspetto e l'incesso di un cane ubbriaco.

Nelle persone molto eccitabili compaiono degli accessi maniaci come di pazzia convulsiva. Oppure si manifesta improvvisamente una depressione profonda cui succede un collasso inquietante. È così che alcune persone cadono al suolo e sono per lungo tempo incapaci di muoversi. Nell'inverno questi ubbriachi abbandonati a loro stessi muoiono pel freddo. Alcuni altri nella stagione meno rigida essendo rimasti per oltre 24 ore nella medesima posizione tenendo un braccio schiacciato sotto il peso del proprio corpo, perdettero dopo la mano per cancrena ed ebbero tutto il braccio edematoso.

L'ubbriaco si addormenta con facilità, il suo sonno è grave, russante: chiamandolo per nome, scuotendolo non si desta, spruzzandogli con acqua il viso apre gli occhi istupiditi e rimpiomba nel suo intontimento.

Spesso si trovano questi ubbriachi distesi al suolo, insozzati negli avanzi dell'orgia, col pallore della morte sul volto. Sollevati cadono colle braccia e le gambe penzoloni come un cencio bagnato. La sensibilità della pelle è scomparsa. Il naso, le mani, i piedi sono freddi. La respirazione sempre più debole non basta più ad alimentare la fiamma della vita.

L'acido carbonico che si accumula nel sangue, perchè non può venire eliminato, dà alla pelle delle mani e del volto un colore paonazzo, ed aggrava precipitosamente lo stato della narcosi alcoolica. Si produce così un secondo avvelenamento che può riescire fatale.

Noi siamo giunti agli estremi aneliti di chi si ammazza coll'alcool; a quell'ultimo confine della vita dove la mano abile di un medico può ancora salvare l'ubbriaco dalla morte per mezzo della respirazione artificiale. Ma se tarda il soccorso incomincia l'agonia e si spegne lentamente la vita per asfissia, o per paralisi del cuore.

Per fortuna questi casi sono rari e l'ubbriachezza fa minor strage in Italia che altrove. Noi siamo per testimonianza degli stranieri il popolo più sobrio e frugale fra le nazioni civili. Ed è quindi con vera soddisfazione che dopo aver sentito terminare parecchie delle precedenti conferenze col dire che noi dobbiamo imitare i francesi nella fabbricazione del vino, che dobbiamo imitare i popoli d'oltre Alpi nel commercio del vino, che dobbiamo imitare gli stranieri nella coltura della vite, posso ora conchiudere che non dobbiamo imitare le nazioni più civili nell'abuso del vino, ma perseverare in quella sobrietà ed in quella frugalità che sono doti meritamente apprezzate in molta parte del popolo italiano.

[VII-1] J. Ranke, Grundzüge der Physiologie des Menschen, 1872, pag. 177.[VII-2] A. Mosso, Sulle variazioni locali del polso nell'antibraccio dell'uomo. R. Accademia delle Scienze di Torino, novembre 1877.

— Sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo. Atti della R. Accademia dei Lincei, 1880.

[VII-3] Opera citata, Sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo.[VII-4] A. Mosso, Sulle variazioni locali del polso, pag. 33.[VII-5] Binz, Die Ausscheidung des Weingeistes durch Nieren und Lungen. Archiv f. exp. Path. u. Pharmakologie, VI. B., pag. 287.[VII-6] Lettere prime e seconde di Liebig tradotte da F. Selmi. Torino, 1853, pag. 313.[VII-7] Und beschirm' mich auch vor dem Strauchen,

Wenn ich die Stieg' hinab muss tauchen,

Dass ich auf meinen Füssen bleib'

Und fröhlich heim geh' zu meinem Weib,

Und alles das wisse, was sie mich frag,

Nun behüt' mich Gott vor Niederlag.

Weinsegen, Hans Rosenblüth.

G. GIACOSA — I POETI DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera delli 8 marzo 1880).

Signore e Signori,

Il titolo della mia conferenza non combina esattamente coll'argomento di essa nè coll'ordine che intendo seguire. Meglio che: I poeti del vino, l'avrei chiamata: Il Vino nei Poeti, se questo secondo titolo non implicasse una certa idea di capacità e di recipienza e se per esso i poeti non fossero convertiti in altrettanti orcioli o botti, a grande scapito della propria dignità e del rispetto dovuto alle muse. Vi sono certamente dei Poeti, i quali si sommettono volontariamente a questa Capitis Diminutio, ed affogano nel vino le vere o le vantate amarezze credendo forse che a vederci doppio ci si vegga meglio; ma, diciamolo subito, questi non fanno il numero maggiore. Molti hanno cantato il vino e non si conosce di loro che ne bevessero; di taluni anzi, come del Redi, fu scritto che erano astemii; dei più felici descrittori di ubriacature (e parlo dei moderni, ai quali sarebbe quasi impossibile sottrarsi alla vigilanza biografica dei giornali) non ho mai inteso dire che descrivessero per esperienza propria, e invece, cosa ben più rimarchevole, parecchi di quelli che passarono ai posteri per incorreggibili beoni e morirono arsi dall'alcool, non fecero mai nei loro scritti il menomo cenno del vino. Ciò dimostra che la sincerità poetica, non va assomigliata a quella di un testimone chiamato ad asseverare davanti il giudice la verità o la falsità di un fatto determinato quale gli risulta di certa scienza. Guai se i poeti dovessero veramente aver vissute tutte le poesie che hanno scritto, e se l'ispirazione non dovesse essere altro che il frutto della certa esperienza dei sensi. La sincerità del poeta è tutta oggettiva e suo ufficio è di mostrare e non di aver provato o veduto.

Dopo questo che ho detto, viene ovvio, che si dividano i poeti del vino in due classi diverse: 1 a quelli che lo hanno cantato, 2 a quelli che lo hanno bevuto. La prima comprende i poeti dei quali per udire menzionato il vino, bisogna cercare le opere; la seconda quelli, che gli fecero una larga e trista parte nella storia della propria vita. La prima è compagnia, non sempre allegra, nè serena (il vino fu invocato più spesso consolatore e lenitore d'affanni, che non datore di gioia), ma non lascia mai nell'animo quel senso di pietà e di sgomento che vi è generato dalla seconda. La prima appartiene alla storia del pensiero umano, la seconda a quella delle umane miserie, e dico miserie, e non brutture, perchè mi propongo di mostrarvi in seguito, che nella vita dei poeti, il vizio del bere, non fu sempre così vergognoso come all'apparenza potrebbe sembrare.

Vediamo dunque di seguire il vino via per le menti dei poeti, e cerchiamo che pensieri vi accenda, di che immagini si vesta, come parli, con quali nomi si chiami, come sia invocato o vituperato, e che luogo tenga nelle opere loro. Qui la domanda se il vino sia un bene od un male non occorre. Tutto ciò che è capace di commuovere fortemente l'anima umana, e di farne scattare quella fiamma o irradiare quella continua luce che si chiama poesia, al giudizio di chi studia i poeti deve apparire come un bene, se non in se stesso, almeno in rapporto colla mente del poeta. Chi di noi oserebbe rimpiangere che vi sia stata la guerra di Troja, quando senza di essa non sarebbero i due più grandi poemi del mondo? L'esempio è solenne, ma di tanto più eloquente. I vizi e le viltà umane ci hanno dato la divina commedia; il più grave peccato d'orgoglio che siasi commesso sotto le stelle, anzi fra le stelle, ha ispirato al Milton il suo caldo poema; si può quasi asserire, che la storia dell'arte è la storia delle maggiori colpe o per lo meno dei maggiori errori dell'uomo. Il vino, come l'amore, deve dunque, al punto di vista dell'arte, esser tenuto per un bene; che se non sale all'altezza dell'amore, ciò forse deriva da che fu meno nocevole di lui e ad ogni modo da che sono in maggior numero ed in età più cara alle muse gli amanti che non i bevitori.

Amante e bevitore sincero, Anacreonte, non disgiunge mai Venere da Bacco, e li chiama belli tutti e due nell'istessa ode, anzi nello stesso verso:

E Amor, dai capei d'oro,

Quando letizia fa' giocondo al vecchio

Il finir delle cene,

Con Vener bella e il bel Lieo sen viene.

Anacreonte è dei pochissimi che non hanno fatto il vino nemico all'amore; li invoca insieme, se ne ispira ad un tempo, Bacco lo fa seguace d'amore, amore lo fa ardere di sete; svergognato vecchio e squisitissimo poeta, colla grazia impudente che ingentilisce persino le più abiette codardie, egli invoca ed esalta le orgie e non va mendicando loro la facile e di poi solita scusa delle angoscie sofferte e della cercata dimenticanza:

Ed io voglio de' balsami

Tra le soavi e care

Fragranze e i colmi nappi e l'allegria

Voglio di Bacco e dell'amica mia,

Piena la mente e il petto infurïare.

Infuria spesso Anacreonte, e sfrontato e pazzo com'è, racconta di altri che infuriarono prima di lui, ma per ben diverse cagioni. Infuriarono Alcmeone ed Oreste, poichè le loro madri uccisero, io infurio bevendo. Infuriossi Alcide fra gli archi e le freccie, io infurio bevendo. Infuriò Aiace roteando la spada,

Io questo nappo abbranco

E le chiome inghirlando.

Arco non stringo e non ho spada al fianco,

Onde più che non soglio

Infurïare io voglio.

Un'altra volta prega Vulcano, che gli faccia una tazza d'oro, quanto sa profonda, e che su quella gli figuri un suolo fiorito, e tralci ombrosi, e Amore in un tino, intento a pigiare l'uva matura, e Bacco e Batillo con loro. Un'altra volta scrive:

O fanciulle, porgete da bere

Ch'io vo' ber finchè bastami il fiato.

Ho bevuto, ma voglio ribere,

Che tutto ardo anelante, assetato.

Quando gli viene la malinconia dei pensieri gravi, ogni più lugubre riflessione lo rimena al suo tema favorito; non c'è verso che nominando la morte, quel vecchio che l'ha così vicina, si rattristi durevolmente, anzi dall'idea della tomba imminente ricava nuovo stimolo ad amare ed a bere.

Venga a suo tempo Morte. Io vo' scherzare,

Vo' rider, vo' saltare

Insino all'ultim'ore

Con Bacco, e con Amore.

Ai giovani che danzano e tracannano vino, come l'età spensierata lo comporta, egli lancia spesso, non so se le più superbe o grottesche disfide.

Del ber con voi garzoni io vengo a prova.

E fin qui passi, e li avrà forse anche superati, ma aggiunge:

E se danzar vi giova,

Invece dello scettro un otre abbranco,

Nè duopo ho della canna

Che mi puntelli il fianco.

Dio sa che ruzzoloni sui prati fioriti e sotto i pampani ombrosi!

Il breve tempo che mi è concesso e più l'onesta compagnia mi trattengono da nuove citazioni, dalle quali apparirebbe pur sempre meglio la meravigliosa pieghevolezza di quell'ingegno sottile e raffinato e l'arte squisitissima che gli fa ingentilire le più repugnanti laidezze. Il vizio non ebbe e non avrà forse mai più un così elegante apologista. Anzi, anche noi nati e cresciuti in un mondo così diverso dal suo, ed avvezzi a tante maggiori ipocrisie, per chiamarlo vizioso, dobbiamo allontanarci dall'opera sua, come si fa di certi quadri per poterne abbracciare l'insieme. Fino a che la musica dei suoi versi ci carezza e la limpida eleganza delle sue immagini ci seduce, non siamo coscienti del fondo melmoso in cui egli diguazza: il poeta ci afferra, si impadronisce del nostro senso artistico a scapito del morale, ci costringe ad un'ammirazione calda, spensierata, ci eccita e ci sfibra, ci infonde la deliziosa mollezza dei suoi costumi e del suo cielo, e tutto ciò semplicemente e quasi candidamente. Egli è che il suo vizio non è mai volgare, ed i godimenti che egli invoca e sublima si completano attingendo a mille sorgenti di vera poesia. Ad un verso bacchico, segue spesso un verso pieno del più intimo sentimento della natura, un vero quadro di paesaggio in piccolissime dimensioni. Il sole è gran parte delle sue gioie, la freschezza dei luoghi ombrosi è espressa con immagini evidentissime, egli si ubriaca ed ama a suon di cetra in mezzo a danze ed a cori.

Mi sono dilungato a parlarvi di Anacreonte perchè si può ben dire che egli fu il vero ed anzi il solo poeta del vino. Dopo di lui, passeranno molti e molti anni, seguiranno i più gravi fatti che la storia comprenda, e converrà che la civiltà che lo produsse si sfasci, che se ne prepari una nuova e che questa nel suo inizio ecceda in manifestazioni ascetiche, perchè appariscano come una rivolta del sentimento e del diritto umano i canti bacchici dei Goliardi, dei quali vi parlerò in appresso.

I Latini cantarono tutti il vino, ma questo non tenne nelle opere loro nè il primo nè il secondo posto. Virgilio si può dire che lo nomini appena: il Bacco che egli invoca al principio del secondo libro delle Georgiche, più che il Dio del vino, è il Dio della vendemmia, un nume agreste, anzi agricolo, adorato in misura delle ricchezze che largisce:

Huc pater o Lenaee (tuis hic omnia plena

Muneribus; tibi pampineo gravidus autumno

Floret ager, spumat plenis vindemia labris).

I poeti lirici naturalmente ne discorrono di più ed in modo più soggettivo, e vediamo Orazio menzionarlo parecchie volte con parole che ci fanno sentire chiaro in qual conto lo tenga, tanto che lo mette fra i grandi beni della vita e ce lo nomina ogni qual volta parla dell'abbandono che per morte si farà di essi. Però la ingenua semplicità di Anacreonte è già svanita e molte volte l'inno bacchico assume un carattere solenne e religioso che ci allontana dall'idea pratica del vino. Anche la schiettezza si perde. Orazio, nell'ode ad Apollo, dice che bastano ai suoi festini le olive, la cicoria e la malva, piatti magri come vedete; ma la sua cantina è più ghiotta di lui e gli fornisce tali vini che stonerebbero troppo con quei modesti alimenti. Vediamo già qualche poeta diventare sentimentale e parlare del vino in tono di amarezza. Le orgie non sono più così spontaneamente gioconde, così spensierate come quelle di Anacreonte. Sono anzi molte volte volute, cercate, con uno scopo determinato, estraneo ad esse. L'ubriachezza non è più un fine, ma un mezzo, il mezzo per giungere ad un fine ben più triste e grave: l'oblio.

Sentiamo Tibullo. Egli comincia un'elegia invocando Bacco perchè lo assista nel dolore poichè:

Saepe tuo cecidit munere victus Amor

Spesso per opra tua fu vinto Amore,

e la finisce dicendo:

Venit post multos una serena dies

Viene alfin dopo molti un dì sereno,

e quel giorno sereno vedrà il poeta briaco fradicio.

Ecco qui il vino nemico d'amore, anzi antidoto d'amore, ed è questa una parte che d'ora in poi gli toccherà fare di sovente, e come tale sarà invocato da quasi tutti i poeti soggettivi, locchè prova che i poeti tengono l'amore in conto di peggiore flagello che non sia l'ubriachezza.

Ci sono però le eccezioni. Ovidio insegna il modo di farlo complice d'amore; e parlo altrettanto delle complicità fisiologiche a cui alludevano le vittorie e le sconfitte accennate dal mio amico il prof. Mosso, quanto di vere e proprie complicità, che danno aiuto di circostanze, di fatti visibili, estrinseci, maliziosi, comici, usati in tutti i tempi e credo presso tutti i popoli civili.

Qui vi domando larga licenza di citazioni che toglierò dall'Arte amatoria.

Dopo aver detto dei festini che dànno facile occasione di colloquii amorosi, Ovidio segue a questo modo:

«Là spesso l'amore, imporporato stringe fra le tenere braccia le anfore di Bacco. Appena le sue ali sono imbevute di vino, Cupido, insonnito, rimane fisso al suo posto, ma poi scuote velocemente le umide penne, ed è pure nocivo avere il petto così spruzzato d'amore. Il vino dispone gli animi, e li fa accensibili, e diluisce le cure. Allora sovente le fanciulle rapirono il cuore dei giovani. Venere col vino, è fiamma con fiamma. Allora, non dar troppa fede alla fallace lucerna, al giudizio della bellezza la notte ed il vino non conferiscono».

E basti per la fisiologia. Ma più sotto, sono veri ammaestramenti che egli ricava dal vino.

«Quando dunque godrai dei doni di Bacco e una donna sederà accanto a te, sullo stesso triclinio, scongiura dal padre Nittileo e dai notturni sacrifizî, che non comandino al vino di salirti al capo. Là potrai con velate parole aver licenza di dir molte cose, che ella intenderà esserle dirette. Una goccia di vino ti basterà per segnare sulla tavola emblemi dove essa leggerà la prova del tuo amore. Rapiscile primo, la coppa che fu toccata dalle sue labbra, e da quella parte dove essa bevette, bevi.

«Ed ora apprendi la giusta misura che devi tenere bevendo, ed è che la mente ed i piedi facciano ciascuno il suo ufficio. La tavola ed il vino generino allegrezza; se hai voce, canta, se sei snello, salta, e per quali doti tu piaccia, vedi di piacere. Come la vera ebrietà nuoce, così giova la simulata. Fa che la tua subdola lingua mandi incerta suoni scilinguati, cosicchè a quanto dirai e farai di un po' lesto, si attribuisca per sola causa, il soverchio vino. Ed augura alla tua donna ogni bene, ed ogni bene augura al di lei marito, ma, in tuo cuore, al marito prega ogni malanno».

Sono versi scritti circa duemila anni fa, in piena civiltà pagana, ed in questi due mila anni, non abbiamo imparate di gran malizie, che Ovidio già non sapesse adoperare e suggerire. Ci guardiamo forse dallo spandere vino sulla tavola, ma se ci capita beviamo volentieri alla coppa dove bevette la donna del nostro cuore, e di quella vecchia gherminella, andiamo così superbi come se l'avessimo inventata noi. E il brindisi al marito, se un disgraziato autore drammatico lo incastonasse in una commedia, che orrore! e quanto si griderebbe alla novità scandalosa. Novità di duemila anni a volerle derivare dal poeta degli Amori; ma non ne avrà contati altrettanti al tempo di Ovidio?

Volevo tacere dei poeti Greci e dei Latini, un po' per scrupolo di coscienza, un po' perchè nello spazio di un'ora è impossibile darne a chi non li conosca neanche la più elementare idea. E chi li conosce me ne insegna. Li ho nominati, perchè dopo di loro, se togliamo i canti dei Goliardi, il vino poeticamente decade. Essi avevano avuto l'accortezza di personificarlo in un Dio, di dargli una vera corte di minori Dei e Semidei, e di farlo centro ad una grande e poetica leggenda. Bevendo e cantando di lui, i poeti pagani pontificavano, locchè non può seguire dei Cristiani. Bacco, Lieo, Bromio, è spodestato, il suo nome non si scrive più coll'iniziale maiuscola, e discende al grado di nome comune: il vino; i suoi misteri diventano misteri di taverna, i pontefici, briaconi, i riti hanno nei nostri vocabolari delle voci triviali: cotte, sbornie, bertuccie, o che so io; e quando tornano di moda le rifritture classiche i poeti, che vogliono risuscitare gli Dei morti da secoli, riescono pesanti e pedanti e ci fanno dormire.

Questa degradazione subita produce più effetti che a prima vista non paia. Osservate che i poeti pagani, tutti dal più al meno, hanno inni od invocazioni a Bacco, anche i maggiori, anche nella più solenne forma di poesia, nell'epica. Cercate invece in Dante, voi non trovate accennato il vino se non per incidente:

Guarda il calor del sol che si fa vino,

Giunto all'umor che dalla vite cola;

e la parola ebbrezza, trovate innalzata ad esprimere sensazioni lontane le mille miglia del vino:

Ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso

Dell'universo, perchè mia ebbrezza

Entrava per l'udire e per lo viso,

oppure:

La molta gente e le diverse piaghe

Avea le luci mie sì inebriate,

Che dello stare a piangere eran vaghe.

E così nel Petrarca.

Una sola volta nell'era Cristiana troviamo dei poeti che veramente si possono chiamare Bacchici, e questi sono i Goliardi.

Gli eruditi disputano intorno all'etimologia della parola Goliardi. Alcuni la derivano da Gula, Gulosus, altri da Golia. Basti sapere che così si chiamavano verso il dodicesimo secolo gli scolari che peregrinavano per le città d'Europa, avidi nello stesso tempo di scienza e di piaceri. Il professore Bartoli ha scritto un prezioso libro intitolato: I precursori del rinascimento, nel quale è maestrevolmente ritratta la fisonomia di questi scapigliati e liberissimi poeti erranti. I loro canti non hanno nome d'autore, singolare caratteristica delle opere di tali confraternite, ad una delle quali dobbiamo meravigliosi monumenti architettonici, lavoro di artisti anonimi ancor essi. Chissà se gli ultimi Goliardi non s'imbatterono, via per le taverne o per le scuole d'Europa, colle prime comitive di questi costruttori di cattedrali, e chissà se non appresero loro i proprii canti d'amore o di baldoria. A giudicare dalle intime somiglianze che si rilevano nelle opere diverse, l'ipotesi non può dirsi arrischiata. Su per le guglie ed i frastagli delle cattedrali, risuonarono forse in cadenze monotone le lodi del vino e dell'amore, ed accompagnarono l'opera degli scalpelli che eternavano nella pietra le pazze bizzarrie di quei cervelli libertini. Le scolture e gli intagli raffiguranti scimmie mitrate o sconcie e ridicole pose di monache e frati, tutte le grosse e larghe satire sgorgate d'un getto continuo da quelle menti e da quelle mani, si ispirarono forse alle strofe largamente gaudenti, alle ghiotte e robuste invocazioni dei canti Goliardici.

Io ne ho tradotti alcuni in versi italiani, studiandomi di rimaner fedele al metro di sacrestia in cui sono scritti e dal quale ricavano tanta originalità.

Eccone uno, intitolato: Ave vinum.

Vino buono, vin soave,

Lieve ai buoni, ai tristi grave,

Di dolcezza sapor, ave

Mondana letizia.

Ave eletta creatura

Che sgorgò di vite pura,

Ogni mensa fia sicura

Nella tua potenza.

Ave raggio del vin chiaro,

Ave gusto senza paro,

Non voler mostrarti avaro

Di virtù che inebria.

Ave amabil per colore,

Ave aulente per odore,

Ave fonte di sapore

Della lingua vincolo.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Lieto il ventre dove entravi,

Lieta lingua che rigavi,

Lieta bocca che tu lavi

E beate labbra.

Deh, preghiam, vino, qui abbonda,

Per te il desco si feconda,

Noi con voce alta e gioconda

Canterem di giubilo.

Il metro di quest'inno ci fa supporre lo si cantasse sul ritmo degli inni della chiesa, locchè serviva a stimolare col furore della profanazione la grossa allegria delle parole. Bisogna rappresentarsi colla fantasia la vita che menavano quei poeti erranti per comprendere e gustare l'intima essenza delle loro canzoni. La ragione si acconcia difficilmente ad accettare per vero e storico il loro vagabondaggio. Che disagi, che traversie, che pericoli, che fatiche non dovevano incontrare peregrinando attraverso l'Europa. Le distanze erano immense, e non è a dire che percorressero un solo stato: da Parigi a Bologna, da Bologna a Tolosa o a Salamanca e di là a Salerno. L'Europa era allora verdissima per foreste senza fine, fitte, propizie agli agguati, popolate di belve feroci e di uomini più feroci delle belve. Le strade poche e disagevoli, ad ogni nuova castellania, era dovuto un diritto di transito, ogni ponte, ogni guado era gravato di pedaggi, e che strane taglie! Si doveva in alcuni luoghi pagare un danaio per ogni deformità del corpo, o magagna che il pedaggiere scoprisse nel passeggiero. Certamente dalle tasche degli scolari, non si mungevano troppi quattrini, ma allora la taglia si risolveva in opere. Gli istrioni, i giullari e menestrelli dovevano far giuochi e galanterie, il pellegrino cantava una romanza, il moro gittava in aria il turbante, il giudeo doveva porsi i calzoni in capo e recitare un pater nel dialetto del paese, le donne di mala vita erano abbandonate alla discrezione del guardiano dei cani. Convien riflettere che quegli infaticabili pellegrini della scienza erano giovani, dotti, la mente sveglia per l'esercizio continuo e vario di una dialettica sottilissima, curiosi, coll'occhio volto a tutte le cose, risoluti a cogliere della vita quanti più frutti potessero. Che tesori di satira non dovevano accumularsi nella loro fantasia. Entrando dapertutto, conoscevano a prova la poca fede dei cavalieri, l'incontinenza delle castellane. Sapevano che molti paladini, fiore di cortesia e di cavalleria, vivevano a spese della propria amanza e quindi del di lei marito, che molte castellane si concedevano talvolta, non richiesto dono, a qual si fosse venturiero, che battesse per ricovero alla porta del castello. Tutto il corpo feudale appariva bacato ai loro occhi, ed essi si avezzavano a ragionare non solo delle alte scienze, materia al Trivium ed al Quadrivium, ma delle cose quotidiane, delle condizioni si può dire politiche e sociali d'Europa.

Quando il male esiste, ragionare di esso, significa accorgersi che è male, ed ecco quindi il fatto della odiosa dominazione spogliato di ogni apparenza di diritto, e divenuto perciò doppiamente odioso. Meno svegli, essi avrebbero cercato rifugio nella chiesa, ma anche qui il baco aveva corroso ogni più sano frutto. Leggete gli antichi novellieri, ed i poeti e le raccolte dei Fabliaux, minutissimi documenti della vita d'allora e vedrete quanto poco esemplari fossero gli ordini religiosi. Allora, un lavoro corroditore, rapido, violento, sbarazza le loro menti e le loro coscienze di ogni rispetto e di ogni credenza. Abbastanza accorti per vedere la corruzione dei ministri della chiesa, il loro ingegno non era abbastanza elevato per separare l'essenza della religione dall'esercizio di essa, e tanto meno per crearsi razionalmente un Dio, giusto e buono, secondo il Vangelo. Di qui l'assoluta miscredenza delle opere loro. Gli Dei cominciano allora a morire, e questi che pur si chiamarono Chierici furono i primi atei della nuova storia. La piena fioritura di quelle menti si espande in disordine e si getta là dove trova più sicuro pascolo, nei godimenti materiali. Qualche volta morde e flagella con satire acutissime, ma queste non ci riguardano. A noi importava spiegare come si originasse in tempi di tanta schiavitù, e di tanto ascetismo, una poesia così libera e gaudente. La taverna era il solo rifugio aperto a quelle menti ribelli. La tavola abbondante ed il vino a botti, li compensavano di tutte le gioie che erano loro negate ed a cui avevano diritto. Sentiteli come esaltano il bere:

Bee madonna, bee messere,

Beve il chierco, bee l'arciere,

Beve questo, beve quella,

Beve il servo coll'ancella,

Beve il lesto, beve il greve,

Beve il bianco, il negro beve.

Beve il fisso, beve il vago,

Beve il rude, beve il mago.

Beve il povero e il malato,

L'esulante e l'ignorato,

Bee chi nasce, bee chi muore,

Beve il parroco e il seniore,

Bee il fratello e la sorella,

Bee la nonna vecchierella,

Bevon borghi, bevon ville,

Bevon cento, bevon mille.

E come lo gustano il vino, e come l'hanno studiato, nelle sue differenze essenziali e negli effetti che produce:

Il vin dolce e glorïoso

Rende l'uom pingue e carnoso

E allarga lo stomaco.

Di sapor, maturo, è pieno,

Ed assai ci torna ameno,

Perchè i sensi stimola.

Il vin forte, il vino puro

Fa che l'uom viva sicuro,

Scaccia il verno rigido.

Quando è acerbo in bocca morsica,

Le interiora tutte inzacchera,

E il corpo scompagina.

E qui una strofa che è meglio riferire in latino:

Vinum vero quod est glaucum

Potatorem facit raucum

Et frequenter mingere.

Il vin torbo e fraudolento

Rende l'uomo pigro e lento

E la faccia illumina.

Quanto al vin rosso e sottile

Non convien tenerlo a vile,

Chè i colori ingenera.

L'aureo, simile al citrino,

È propizio all'intestino

E i vapori soffoca.

Un altro canto comincia:

Meum est propositum

In taberna mori.

È mio proposito,

Morir dall'oste.

Alcuni canti fingono la disputa fra il vino e l'acqua, e naturalmente conchiudono per il vino. Altri invocano e lodano Bacco, ma non più il Bacco che presiede alla vendemmia e che imporpora l'autunno; la gaia serenità campestre non fa per loro; essi della vite non vedono e non curano che il prodotto nella sua ultima forma, e sbottato e versato nelle capaci ciotole del taverniere. Questi sono i poeti del vino. Lo stesso Anacreonte, va in seconda riga al paragone. Che Venere, che Bacco! Essi non sanno di tali connubii; quando sono per bere, bevono; all'amore o già provvidero o provvederanno di poi. I loro canti d'amore non sono meno spontanei e schietti dei canti bacchici, ma stanno da se come questi.

I poeti del medio evo fanno qualche volta del vino un'arma al Demonio. Il gran tentatore prende naturalmente di mira i cuori semplici e puri. Si aggira intorno le muraglie dei conventi agitando il sonno alle novizie, va presso la cella dell'eremita che cercò in fondo ai boschi l'oblio del mondo e delle gioie mondane. Assume tutte le forme, uomo, fuoco fatuo, monaco, cavaliere, scote colle sue metamorfosi terribili e sorridenti la fantasia di chi vuol perdere. Un giorno, capita da un pio solitario, e gli apparisce, orso, leopardo e leone. Il sant'uomo, domanda grazia, e l'ottiene a patto di commettere a volontà uno di questi tre peccati. O di ubriachezza o di lussuria o d'omicidio.

Je dis que tu t'enyvreras

Ou fornication feras

Ou homicide, ce sont trois

Or en peux un prendre à ton chois.

Costretto alla scelta, l'eremita elegge fra i tre quello che gli pare minor peccato, l'ubriachezza, e va a desinare in casa d'un mugnaio dei dintorni. Il diavolo ci mette la coda, s'intende, e fornisce la cantina del mugnaio di molti vini e inebbrianti. Beve il mugnaio, beve la moglie e beve l'eremita, il quale in fin di tavola, come quello che dalle lunghe astinenze è fatto più accensibile, è così brillo da non si reggere. Come tornarsene a casa? La mugnaia, buona donna, presa da compassione, gli offre d'accompagnarlo, ed eccoli in istrada ed a braccetto per forza. E via per campi e prati: la capanna dell'eremita è lontana, ed il peccato ci sta sempre alle spalle. Fatto sta che tra il vino, la vicinanza, l'occasione ed il demonio, chi più ci rimette è il mugnaio. I due restano addormentati uno accanto all'altro sul margine della via. Il mugnaio che vede, o meglio, che non vede tornare la moglie, snebbiato dalla gelosia, s'arma d'un'ascia e corre per raggiungerli. Trova i due dormienti e infuriato sta per colpire l'eremita, quando questi svegliatosi gli abbranca l'ascia e glie ne assesta un tal colpo sul capo che lo fredda. Ed ecco che l'eremita s'è ubriacato, ha fornicato ed ha ucciso. Il diavolo la sapeva lunga e la storiella potrebbe suggerire questa morale. Che di tre peccati che s'abbiano da commettere non bisogna mai scegliere il minore.

Nel poema le Roman de la Rose di Jean de Meung, il poeta ci fornisce interessantissimi ragguagli intorno al modo con cui le castellane solevano comportarsi a tavola. Sono consigli dati alle donne.

Et gart que ja henap ne touche

Tant cum ele ait morcel en bouche.

E badi che mai non tocchi il nappo

Fino a che ha il boccone in bocca.

La parola henap, nappo indica chiaramente non trattarsi di donne dappoco, ma di gran dame, poichè l' henap era una coppa d'onore per lo più fatta in metallo prezioso, privilegio delle grandi tavole. Seguitiamo i consigli:

Si doit si bien la bouche terdre

Qu'el n'i lest nule gresse ærdre.

E deve così forbirsi la bocca

Che non vi rimanga attaccato l'unto.

Au moins en le levre desseure:

Almeno al labbro superiore.

Car quant gresse en cele demeure

Ou vin en perent les maillettes

Qui ne sunt ne beles ne netes;

Perchè quando l'unto su quello rimane,

Ne vanno pel vino le bollicine,

Che non sono belle nè pulite.

Et boive petit à petit

Combien qu'ele ait grant apetit;

Ne boive pas à une alaine,

Ne henap plein, ne cope plaine

Ains boive petit et souvent.

E beva poco a poco,

Sebbene abbia gran voglia,

Nè beva d'un fiato

Nappo colmo o coppa colma,

Ma a sorsi e spesso.

Le bort du henap trop n'engoule

Si comme font maintes norrices

Qui sont si gloutes et si nices

Qu'el versent vin en gorge creuse,

Tout ainsinc cum en une huese

Et tant a grans gars en entonnent

Qu'el s'en confundent et estonnent.

E non imbocchi gli orli del nappo

Come fanno tante balie

Che sono così ghiotte e sciocche

Che precipitano il vino nel cavo stomaco

Come in uno stivale

E in così gran misura ne imbottano

Che si smarriscono e intontiscono.

Non pare di leggere nella nomina del Capelan del Porta il predicozzo che il maggiordomo della marchesa Travasa rivolge ai reverendi concorrenti? Ho voluto citare questi pochi versi, perchè a mio avviso essi contribuiscono a darci ragione del maggiore sviluppo che ebbe in Francia la poesia bacchica. Le nostre dame, anche nei più tenebrosi e turbolenti periodi del medio evo, non abbisognavano di tali consigli. Non voglio già vantare la loro continenza, il merito tocca al clima e non a loro, ma sta di fatto che tracannatrici così ingorde di vino non erano nè furono mai. La cenetta squisita e stimolante, se vogliamo, fiorisce molto presso di noi; ma il vino non è di essa nè la maggiore attrattiva nè il maggior peccato. Nei nostri novellieri il vino non fa mai da protagonista, lo si nomina di passata come una cosa di ogni giorno, che non valga il conto di una speciale menzione. Nel Decamerone vediamo Bruno e Buffalmacco ubriacare quello scempio di un Calandrino a fine di rubargli un porco salato; il Bandello ci racconta di un malo scherzo che i mugnai di Parigi (di Parigi notate) ubriachi, fecero a due frati minori e della vendetta che ne trasse il priore del convento; ma l'interesse del racconto non nasce dal vino, nè si può dire che senza di esso il racconto non sarebbe stato. Osservate ancora, che gli ubriachi, presso i nostri novellieri, quelle poche volte che vengono in scena, fanno sempre la peggiore figura: sono scornati, derisi, le toccano d'ogni parte e d'ogni conio. La cosa segue ben diversa in Francia. Là dove, diciamolo, abbondano i migliori vini del mondo, la poesia Bacchica seguita a fiorire e le parole: verre, bouteille, pot, cave, tonneaux, tonne abbondano nel linguaggio di ogni poeta.

Che possiamo noi contrapporre alle omeriche bevute che s'incontrano nel Rabelais? Là corrono veri fiumi di vino; il libro intero manda come un alito vinoso e ne spumano via le grosse e grasse facezie dei bevitori. Qui citare è impossibile. Ogni venti parole converrebbe scartarne dieci, e le dieci rimaste dirle a bassa voce.

Del resto, mille ragioni d'indole artistica, e mille affatto estranee all'arte combinano per impedire in Italia lo sviluppo rigoglioso della poesia Bacchica.

La nostra vita politica e sociale nei tempi di mezzo, più libera e varia, più alla portata di tutti, faceva rivolgere l'attenzione delle menti poetiche a ben altri soggetti che non fosse il vino. Osservate quanti dei poeti italiani furono segretari di principi ed ambasciatori. Ed anche nei sollazzi presso di noi il vino teneva l'ultimo posto; baldorie e festini quanti volete, e scarmigliati e liberissimi, ma il loro sapiente ed artistico ordinamento accumulava in essi ogni sorta di piaceri, di modo che tutti i sensi ne erano solleticati. Era nel sangue italiano una raffinatezza, un supremo bisogno di modi eleganti, di forme nobili, di esercizi sottilissimi dell'ingegno. Dove trovavano nutrimento e godimento, l'occhio, nei colori, negli addobbi, nelle pitture, nella principesca magnificenza delle tavole, nei lavori artistici di oreficeria e di ceramica; l'orecchio nelle musiche, la mente nelle dispute, nelle declamazioni di versi, nelle letture fatte ad alta voce delle maggiori opere poetiche dell'antichità, ed il cuore negli arrendevoli costumi, che volete dicesse il povero vino, fosse pure Falerno, Siracusa o Lacrima Cristi? A chi veniva in mente di cantarlo? Chi ne avrebbe ascoltate le lodi? Aggiungiamo che il Piemonte e la Lombardia, le due provincie d'Italia che hanno maggior numero di bevitori, diedero in quei tempi pochissimi poeti e che l'Italia di mezzo e più la meridionale, sono parche nel bere. E quando vennero i bei giorni di gloria letteraria per le nostre provincie, i tempi imponevano altri più alti e gravi soggetti all'ispirazione dei poeti. D'altronde, in Francia, dopo il Rabelais, il vino torna ad accompagnarsi coll'amore, come seguiva nelle odi di Anacreonte, e ciò dura fino ai giorni nostri. In Italia l'amore lasciatelo fare, che basta da sè senza nessuna sorta di aiuto.

Versi bacchici però ne avemmo anche noi, e precisamente un ditirambo intitolato da Bacco, ma io non oserei chiamare il Redi poeta del vino; non già perchè manchi Bacco alla sua poesia, ma perchè a mio avviso manca di poesia il suo Bacco. A scuola di rettorica ci mescevano il ditirambo a centellini, stimolandoci la sete con chiose storiche e filologiche, al cui paragone, se i versi non ci parvero la quinta essenza della poesia, bisogna dire che siano freddi e muti davvero.

Immagini stupende ce ne sono, per esempio, questa:

Si bel sangue è un raggio acceso

Di quel sol che in ciel vedete,

E rimase avvinto e preso

Di più grappoli alla rete,

ma Dante aveva detto la stessa cosa, e meglio. Manca al Redi l'infuriare che tanto piace al vecchio Anacreonte, manca l'impeto lirico. Il disordine della sua metrica è ordinato con studio finissimo e compassato e lambiccato; quei versi a scalini che salgono e scendono, non vi menano mai nè in cantina nè su per l'aria a volo colla fantasia. Leggendoli non vi assale mai la voglia matta di uscir dalla regola, di peccare e di far peccare, di accendervi fino alla dimenticanza d'ogni ritegno, di mettere a nudo l'anima vostra e di mostrarne tutte le infermità e le bollenti tenerezze. Il Redi pare a me un buono assaggiatore di vini, membro di un qualche giurì ad un'esposizione enologica, esperto a far confronti, erudito a raccontare la storia d'ogni diverso prodotto, uomo di spirito certo, ma del tutto estraneo a quello che dice. Il vino agisce su di lui come l'amore sui poeti arcadici del secolo passato, non fa nè caldo nè freddo.

Fra i moderni, il maggior poeta del vino è il Beranger. Nelle sue vere canzoni, quelle cioè che corrono di più per le bocche dei francesi, il vino ha, se non la massima, una grandissima parte. E come scintilla nelle immagini, come lo si sente vigoroso nell'onda crescente del verso, come scatta in motti nuovi e inaspettati, come s'attrista senza piagnucolare e ride senza sguaiataggine! È veramente un vino buono e nobile il suo, un corroborante che giova al corpo e rischiara la mente. Sia pieno di Champagne, o di Borgogna, o di vinettini da pasto di famiglia, il bicchiere non gli scivola quasi mai di mano, nè gli trema in modo da imbevere la tovaglia. Getta bensì qualche volta son bonnet par dessus les moulins, e con lui lo gettano o Lisette, o Adele, o Margot, ma le scappate sono così gaie, ma il cuore parla con tanta spontanea sincerità, ma ride tanta giovinezza nei ritornelli delle sue canzoni, ed il bonnet sarà così presto surrogato da un altro, e di là dal molino ce n'è già tanti, che anche il più costumato e pudibondo censore gli perdona volontieri. D'altronde, egli riassume il carattere del popolo francese. Schietto, gaio, accensibile, un po' gradasso ma con grazia, un po' mordente ma senza fiele, ed ospitale più che nessun altro. Riassume anzi il tipo dei vini francesi, vini che fanno discorrere e ridere, che inteneriscono qualche volta, che ci armano di garbate punture, vini di buona società e non traditori. Il Beranger non ha artifizii, è nato alla poesia, e non potrebbe in nessun modo tacersi.

Chanter, ou je m'abuse,

Est ma tache ici-bas.

Tous ceux qu'ainsi j'amuse,

Ne m'aimeront-ils pas?

Quand un cercle m'enchante,

Quand le vin divertit,

Le bon Dieu me dit: Chante,

Chante, pauvre petit.

E a quali altezze non sale il vino nella sua poesia! Io conosco poche espressioni di nobile e grande patriottismo così potenti come questa che s'incontra nella Sainte alliance des peuples:

Pour l'étranger coulez bons vine de France,

De sa frontière il reprend le chemin.

Quanto amore della propria terra, quanta coscienza delle sue ricchezze, che contentezza d'esserci nato e che generosa prodigalità, che cuore aperto e gioviale nel primo verso, e quanta nobiltà e quante minaccie nel secondo!

Pour l'étranger coulez bons vins de France,

De sa frontière il reprend le chemin.

È un patriottismo che non cerca conquiste, e quindi non offende, a differenza di quello che ispirò al Musset, un'immagine tolta anch'essa dal vino, nella canzone Le Rhin Allemand:

Nous l'avons eu, votre Rhin allemand,

Il a tenu dans notre verre.

vanteria ingiusta e crudele che ha una sola scusa nel giungere seconda, anzi nel rispondere ad una provocante canzone tedesca del Becker. E poichè ho nominato il Musset, tratteniamoci un momento di lui, che è il maggiore poeta lirico della Francia, poichè a mio vedere Victor Hugo ha un ingegno più epico che lirico. Anche il Musset ha cantato del vino, ma dovette essere una trista pianta e una terra ingrata ed una vendemmia senza canti quella che produsse il vino che s'incontra nei suoi versi. Dove sono andate la gaia spensieratezza e la superba incuranza di ogni avversità che i bevitori ed i poeti di una volta cercavano e trovavano in fondo al bicchiere? Il vino del Musset, come quello del Byron è ragionatore e cattivo ragionatore, malinconico, cupo, senza speranze, nemico della vita e dell'amore. Vinaccio da bettola di mala fama, tracannato in male compagnie che genera disgusti e stimola alle più ciniche dissolutezze. O meglio ancora, diciamolo, quel vino è innocente e le morbose ebbrezze di quella poesia non derivano da lui. Esse erano prima che lo si bevesse e perdurano suo malgrado.

Ah! malheur à celui qui laisse la débauche

Planter le premier clou sous sa mamelle gauche!

Le cœur d'un homme vierge est un vase profond:

Lorsque la première eau qu'on y verse est impure

La mer y passerait sans laver la souillure

Car l'abîme est immense, et la tâche est au fond.

Non era la crapula che doveva dire il poeta, ma lo sconforto, il dubbio e l'amaro disprezzo degli uomini e della vita. Quella è la prima acqua impura della quale il mare istesso non potrebbe lavare la macchia. E allora a che serve correre le taverne, ubriacarsi cantando canzoni oscene ed uccidere il solo ausiliare che potrebbe giovarci, la ragione?

Le mépris, Dieu puissant, voilà donc la science!

E contro una tal scienza non c'è vino che basti.

Povero vino, hanno studiato di te ogni cosa, hanno imparato qual terra più ti si convenga e che modo deve tenersi con tua madre la vite, sono discesi col microscopio fino all'ultime fibrille del tuo corpo, hanno fatta la diagnosi delle tue malattie, le hanno curate, hanno scritto delle leggi contro i tuoi nemici, hanno parlato di te ministri e parlamenti, ma una volta il tuo apparire era segno di certa gioia, e non v'era angoscia che tu non giungessi a sollevare. Ora non fai che aggravarle, non addolcisci ma amareggi, ed i canti che ispiri hanno dei ritornelli disperati.

Nominare tutti i poeti che hanno cantato il vino od anche solo tutti i migliori, sarebbe impossibile nello spazio di tempo che mi è concesso. Solo dei poeti drammatici ce ne sarebbe per un volume. Volevo riferire alcune descrizioni di ubriacature, ma anche qui il tempo manca. Non tutti i poeti sono discreti ed efficaci come Lucrezio il quale in cinque versi raccoglie tutti gli effetti morbosi del vino.

Hominem cum vini vis penetravit

Acris, et in venas discessit diditus ardor,

Consequitur gravitas membrorum, præpediuntur

Crura vacillanti, tardescit lingua, madet mens,

Nant oculi, clamor, singultus, jurgia gliscunt,

che il Rapisardi traduce dilungando:

Quando la forza

Del vino penetrò l'uomo e le vene

Tutte gli corse il penetrante ardore,

Tosto le membra s'aggravan, trampellano

Le gambe, grossa imbrogliasi la lingua,

La mente ebbra vacilla, imbambolati

Nuotano gli occhi e clamori e contese

E singhiozzi prorompono ad un tratto.

Delle altre descrizioni ce n'è a piacimento, di quelle che durano una mezza pagina di stampa o un capitolo od un volume intero.

Sarebbe uno studio curiosissimo quello di raccogliere tutte le stramberie ed i vaniloquii che i poeti drammatici hanno messo in bocca ai loro ubriachi. La messe sarebbe più ricca che non si crede e ne uscirebbero molte altissime e profonde sentenze, perchè nella storia del teatro, dopo i Romani fino a noi, gli ubriachi ed i becchini sono i maggiori filosofi. Tanto pare arduo e pericoloso il proclamare la verità, che i poeti quasi per ottenerne perdono, la fanno dire ad uomini fuori di senno, o a gente incolta, e protetta dal tranquillante spettacolo della morte.

Anche dei giudizi proferiti intorno al vino, sarebbe curiosa la raccolta. Veramente si può dire che il vino lo lodano tutti, il biasimo non riguarda che l'abuso.

Platone proibisce l'uso del vino ai giovani non ancora diciottenni, proibisce d'ubriacarsi a chi non raggiunse i quarant'anni, comanda ai vecchi di bere e li perdona se si ubriacano.

San Paolo asserisce che nel vino sta la lussuria ed in questo avviso pare convenisse il demonio che ho nominato poc'anzi.

In un libro di Apuleio Madaurense, intitolato Scelta dei Fiori e citato dal Petrarca, è scritto che il primo bicchiere giova alla sete, il secondo al buon umore, il terzo al piacere, al quarto tien dietro l'ubriachezza, al quinto l'ira, al sesto le liti, al settimo il furore, il sonno all'ottavo e al nono la malattia.

Il Petrarca scrive queste parole: «Non v'ha memoria, non lingua che all'ampiezza della materia non venga meno se a noverare si accinga i tristi effetti del vino, e in una parola stringendola finalmente, io conchiudo infiniti essere i mali onde all'uman genere quello è cagione». E per venire ad una tale conclusione, ne ha noverati parecchi dei mali e d'omicidi e tradimenti e rovine di stati e battaglie perdute in causa del vino. Lo stesso Petrarca però chiude una lettera a un Pietro di Bologna con queste parole. «Manda la letterina che a questa compiego al mio prete Don Giovanni, e colla lettera mandagli la fiasca, o per dir meglio il fiaschetto tuo per averne un poco anzi un pocolino di quel vino o vinetto che è antidoto alla lussuria e conforto alla temperanza».

Il Bandello, frate Domenicano, scrive del vino: «E secondo che è preso sì come richiede il bisogno della temperatura dei corpi nostri, conferisce molto al nodrimento del corpo, genera ottimo sangue, si convertisce prestamente a nodrire, accresce la digestione per tutte le membra e parti corporali, fa buon animo, rasserena l'intelletto, rallegra il cuore, vivifica gli spiriti, aumenta il calore naturale, ingrassa i convalescenti, eccita l'appetito, rischiara il sangue, apre le oppilazioni, distribuisce il cibo nodritivo alle parti convenevoli, fa buono e bello colore e caccia fuori tutte le superfluità».

Dopo di aver detto il bene dice il male, ma il male non tocca il vino, ma l'abuso di esso che è difetto degli uomini e non suo. Silvio, famoso medico di Parigi, al tempo di Montaigne, soleva dire, che per conservare forza allo stomaco è necessario una volta il mese eccedere nel vino e stimolarlo così perchè non impigrisca.

Montaigne chiama l'ubriachezza un vizio grossolano e brutale. «V'hanno dei vizi che hanno un non so che di generoso, ve ne hanno dove la scienza ha parte e che comportano la diligenza, il coraggio, la prudenza, l'accortezza e la finezza. Questo è tutto corporeo e terrestre». Ma poi aggiunge: «Benchè mi paia un vizio vile e stupido, pure esso è meno malefico e dannoso, che non siano gli altri, i quali offendono quasi tutti e direttamente la pubblica società. E se non possiamo aver piacere che non ci costi, io penso che tal vizio costi alla nostra coscienza assai meno che non molti altri».

Ed il Rousseau: «Ogni genere d'intemperanza è vizioso e sovratutto quella che ci impedisce la più nobile delle nostre facoltà. L'eccesso del vino degrada l'uomo, ma al postutto l'amore del vino non è un delitto e ne fa raramente commettere, il vino rende l'uomo scemo e non cattivo. Provoca alle volte dispute passeggiere, ma stringe cento durevoli amicizie. Per lo più i bevitori sono cordiali, schietti, buoni, integri, giusti, fedeli, coraggiosi e galantuomini, salvo i difetti. Si può forse dire lo stesso degli altri vizî? Quante apparenti virtù nascondono vizî reali! Il saggio è sobrio per temperanza, il furbo per malizia. Nei paesi di mali costumi, d'intrighi, di tradimenti, è temuto lo stato indiscreto dell'animo, per cui il cuore si mostra aperto senza che ce n'avvediamo. Quelli che più abborriscono l'ubriachezza sono quelli che hanno più interesse a guardarsene».

E per finire questa prima parte, ho tradotto come ho potuto una poesia tedesca intitolata La Circolazione del Vino.

Dal grappolo nel tino,

Dal tino entro il barile,

Poi nel fiasco sottile,

Indi nel bicchierino.

Da questo al labbro viene

E giù dal labbro in gola

Va sangue nelle vene,

Torna in bocca parola.

Dalla parola, al santo

Estro febeo seconda,

Tramutasi del canto

Nell'armonia gioconda.

Va canto per la rada

Aria in plaghe infinite

E ricasca rugiada

Ad innaffiar la vite.

Dalla vite nel grappo,

Dove rinasce vino,

Poi di nuovo nel tino,

Poi di nuovo nel nappo.

Ho detto da principio che i poeti del vino si possono dividere in due classi diverse: quelli che lo hanno cantato, e quelli che lo hanno bevuto.

Questa seconda parte della mia conferenza dovrebbe essere una serie di biografie, tristo còmpito, perchè tutte finiscono male. Chi non conosce il nome di parecchi fra i poeti moderni e dei maggiori, dei quali si racconta per lo più con parole di amaro rimprovero che morirono avvelenati dal bere? Di quanti non si negano l'ingegno e l'ispirazione, attribuendone tutto il merito all'impeto bacchico? Ed i più miti e benevoli fra quelli che si arrogano il diritto di profferire un giudizio di condanna, conchiudono: Se il loro ingegno, smorzato e soffocato dal vino, ha dato i frutti che conosciamo, che non avrebbero dato se l'uomo non avesse col lento suicidio ucciso il poeta? Ed accusano quei disgraziati di averci frodati del nostro avere, come se ci dovessero sino all'ultima goccia il loro sangue e la loro vita.

Quest'ultima maniera di critica non regge. Giudichiamo d'ogni poeta ciò che egli ci dà, e non cerchiamo se avrebbe potuto far più e meglio. Quanto non è nè fu mai, non può essere materia al nostro giudizio, e se vi è cosa che sfugga alle illazioni dei solisti, questa è la poesia.

Ma anche nell'affermare queste ebrietà continue e mortali si procede per lo più con una riprovevole leggerezza.

Molti poeti sono accusati di morte alcoolica ingiustamente, tra gli altri il Musset. Théophile Gautier nega questo fatto anche del Baudelaire, il quale morì, scrive Théophile Gautier, di poesia e di lavoro. Ai nostri giorni, e colle idee pratiche dominanti, pare strano, per non dire assurdo, che si scriva di qualcheduno che morì di poesia. Eppure, quella esaltazione, quel raffinamento squisito e doloroso di sentire che fa delle liriche del Baudelaire un così sottile ed inebbriante veleno, potevano anche, al giudizio dei fisiologi, bastare a dissolvere il più robusto organismo.

Del Poe, un recente biografo dimostrò che non morì come fu scritto del delirium tremens. Morì ucciso dal bere, l'Hoffmann; ne morirono, e non è molto, dei nostri italiani.

Io non intendo difendere quei disgraziati: il vizio è brutto in tutti, e sempre, ma non ammetto che pel solo fatto ch'essi beneficarono più che altri l'umanità, gli uomini debbano credersi lecito di gridar loro con voce più alta il crucifige. Che abbiano cercato nel vino ispirazione e calore poetico, e che perciò siansi abbandonati ad abusarne, come affermano taluni, per scusarne gli eccessi, non lo credo neppure. Ma dal fatto di darsi al vizio del bere a quello di morirne, ci corre. Colpevoli sul principio, alcuni di essi furono martiri alla fine. Chi ha cominciato a mordere al dolce pomo della poesia, chi ha goduto la suprema voluttà di sentire i proprii pensieri risonare al proprio orecchio in cadenze melodiose, chi è rimasto delle notti intere al tavolo senza fatica, senza coscienza del tempo e delle cose ed al nascere del giorno si è trovato fra mani una pagina di versi limpidi, chiaro specchio dell'anima, ed ha sentito che la grande consolatrice è la poesia, ed ha sognato di riverberare un po' di luce sul suo tempo e sulle menti degli uomini, non sa acconciarsi all'abbandono di tanto bene. Ora il vino, prima di diventare mortifero, fiacca la mente ed impigrisce la fantasia. Si può ancora guarire e ristorarsi di tali guasti, ma la cura è lunga e difficile, l'uso libero della mente non torna che in fine. Invece un sorso del solito veleno ravviva per un momento la vita mentale e riconduce l'attività perduta. Questa è la causa degli eccessi mortali.

Quelle menti agitate non sanno pazientare; privarsi per un tempo anche breve del supremo conforto della mente, non possono, non vogliono. Hanno fermamente deciso di emendarsi, dovessero affrontare i più duri patimenti; l'astinenza costerà loro uno sforzo continuo ed eroico, ma sentono in sè di esserne capaci, purchè non sia ritardata la facoltà del pensiero, purchè possano sognare e tradurre in versi i loro sogni. Nella riduzione in forma di dramma dell' Assommoir dello Zola, c'è una scena dove Coupeau, uscito dall'ospedale, è fermamente risoluto di non più ubriacarsi. I medici gli hanno detto che una goccia d'acquavite gli sarebbe irrimediabilmente mortale, e gli hanno concesso l'uso temperato del vino. Per maligni rancori una mala donna gli porta in camera una bottiglia d'acquavite e glie la annunzia per vino. Coupeau, come rimane solo, accosta la bottiglia alle labbra ed appena sente l'acquavite la rimette atterrito sul tavolo e si allontana tremando. Ma la sirena l'ha agguantato. Si ferma, guarda la bottiglia, lo sa, glie lo ha detto il medico, che là dentro c'è la morte, una morte spaventosa ed atroce e sente che il medico non ha mentito, che un altro sorso di quel maledetto liquore lo ucciderà, ed ha paura di morire; ma la bottiglia e là piena, aperta, a portata della mano, e manda via per la camera il suo acre odore inebbriante, e Coupeau non resiste, e beve, e ne muore.

Io ho conosciuto un poeta, al quale questa terribile scena seguiva ogni giorno. Già intorbidato dal bere, la sua mente non operava se non sotto le frustate dell'alcool, ed egli sapeva che ogni nuovo sorso lo avvicinava alla morte, ad una morte vergognosa e vituperevole, e formava in cuor suo cento propositi di resistenza; ma aveva perduti quasi tutti gli amici, le persone timorate lo fuggivano e gli pareva che il solo rifugio, la sola nobiltà che gli durasse fosse la poesia; e consumava cosciente e inorridito il continuo suicidio, pure di ricavare qualche povera scintilla da quel grande focolare di forme e di idee che era stato il suo cervello. Non scorderò mai una sera che mi condusse a casa sua per leggermi dei versi. Era in quello stato di smemoratezza sonnolenta che precede immediatamente l'ultima crisi.

Non aveva bevuto, e aveva gli occhi spenti e la parola tarda e grassa. Quando fummo seduti al suo tavolo, dove una sola candela ci rischiarava, egli cominciò a spaginare un gran scartafaccio, e sfogliò per un pezzo prima di trovare il principio della poesia. Poi lesse; leggeva a bassa voce con monotonia, si sentiva ancora in lui l'uomo memore dei ritmi sonori di una volta; di tratto in tratto si fermava a cercare per le pagine del libro una strofa scritta là come veniva, una sera, arrivando briaco a casa, sulla prima pagina del libro trovato aperto, anche a rovescio. Ad intervalli, chiudeva in fretta e ripetutamente le palpebre, come per scacciare il sonno che piombava, e appena risvegliato da questo esercizio, rialzava la voce, intonava più vivamente il suo verso, poi riallentava di nuovo, e la voce si abbassava sempre più, così da dovere io fare dei grandi sforzi per sentirla. E i versi erano bellissimi. Quel poeta è morto, quella fu l'ultima sua poesia, e forse la dose d'alcool che lo riaccese per quei versi, fu quella che gli diede il tracollo e che segnò irrevocabilmente la sua condanna.

Se le mie parole avranno servito a temperare la rigidità di qualche giudizio, a guadagnare qualche simpatia a questi disgraziatissimi fra i poeti del vino, se qualcheduno di voi, tornato a casa e rileggendone le opere e commovendosene, penserà di essi che morirono forse per darci un momento di dolcezza o di conforto, io crederò che la mia lettura non sarà stata del tutto inutile e sarò contento e superbo dell'opera mia.

G. BIZZOZERO — IL VINO E LA SALUTE

(Conferenza tenuta la sera del 15 marzo 1880).

Signori!

Il concetto, che l'uomo della scienza ha della parola veleno, è alquanto diverso da quello che se ne è formato il profano. Mentre questi l'adopera per indicare un certo gruppo di sostanze altamente nocive, anche in piccola dose, al corpo animale, quegli ascrive ai veleni ogni sostanza, che, introdotta nell'organismo, ne perturba, per la sua costituzione chimica, più o meno profondamente ed estesamente le funzioni. L'essenza del veleno, quindi, non sta precisamente nella sostanza in sè, ma sì nell'azione ch'essa esercita su di noi; sicchè diventano veleni delle sostanze del resto innocue, od, anzi, necessarie alla nostra vita, quand'esse ci danneggino o per la copia in cui noi le introduciamo, o per condizioni speciali del nostro corpo.

Un esempio chiarirà meglio questo concetto, e basterà a dimostrarvi come le sostanze alimentari, anche in piccolissima dose, possano agire da veri veleni. — V'ha una malattia, che spesso termina colla morte, e che vien detta diabete zuccherino per questo, che l'ammalato emette gran copia di orine ricche di zucchero. Questa produzione abnorme di zucchero è accompagnata da un'attivissima distruzione dei materiali che costituiscono il nostro corpo, sicchè l'individuo, che non arriva coll'alimentazione a compensare le enormi perdite, si strugge ad un dipresso come un pezzo di ghiaccio sotto i raggi del sole. Il diminuire la produzione e l'eliminazione dello zucchero equivale al ritardare il progresso fatale della malattia. È a questo scopo che si mira dal medico, ed il miglior modo che finora s'ha in mano per ottenerlo, si è di sottrarre dall'alimentazione del malato tutto quanto è zuccherino o farinaceo. Zuccherini e farinacei sono per tali individui veri veleni. Quando s'è giunti ad ottenere un'orina priva di zucchero, basta che il malato trasgredisca una volta sola le prescrizioni, perchè lo zucchero ricompaia nelle orine, e la distruzione dei materiali organici si riacceleri. Non si può immaginare quanto sensibile sia, a questo riguardo, l'organismo. Il professore Cantani, cui dobbiamo profondi studi su questo argomento, ci racconta nel suo libro sul Ricambio materiale, come un malato in sua cura, che pur seguiva alla lettera ogni suo consiglio, non fosse giunto mai ad ottenere orine prive di zucchero. Solo dopo ripetute indagini egli riescì a scoprire la causa del fatto. Nel suo decreto di proscrizione assoluta dei farinacei egli aveva dimenticato, che il suo malato era prete, e che ogni mattina nel celebrare la messa inghiottiva un'ostia. — Proibita l'ostia, lo zucchero scomparve!

Partendo da questi principii, il vino può ascriversi ai veleni; è, anzi, il veleno più terribile per la società. Nè i fulmini di Giove, nè la spada di Marte, nè i baci di Venere hanno fatto tante vittime quanto Bacco co' calici spumanti.

Le conseguenze dell'alcoolismo, che ognuno di noi ha avuto occasione di osservare, non sono che una minima parte di quelle che realmente si hanno. La parte maggiore ci sfugge, e per diverse ragioni. Infatti, l'alcoolismo sevisce specialmente nelle basse classi sociali, che noi conosciamo poco; l'individuo ci vive in una cerchia ristretta, ed, inghiottito dagli spedali, abbandona il mondo piuttosto ignorato che obliato. Nelle classi più alte le famiglie cercano di celare quanto possono una malattia che, meritamente o no, considerano come loro vergogna; ed in ciò sono aiutate dalla morte morale, che nell'alcoolista sì spesso precede di tanto la morte fisica, e contribuisce a rendere inavvertita la sua scomparsa. Per ultimo, siccome l'alcool è causa di svariate malattie, delle quali molte possono essere prodotte da cause tutt'affatto diverse, così spesso non si riconosce o non si vuol riconoscere che il danno venne propriamente cagionato dall'alcool. Il primo ad emettere, e il più tenace a sostenere questi erronei giudizii è sempre colui che, per l'appunto, avrebbe tutto l'interesse a fare l'opposto, cioè il bevitore; il quale non vuole ammettere di essere lui stesso la causa del proprio male, sia perchè ciò suonerebbe rampogna ad un animale ragionevole, quale egli crede di essere, sia perchè ciò gl'imporrebbe l'obbligo morale di astenersi dal suo favorito veleno.

I danni prodotti dall'alcoolismo acuto, di cui vi ha parlato il prof. Mosso, sono ben piccola cosa di fronte a quelli che provengono dall'uso prolungato ed esagerato dell'alcool. L'azione di questo si ripete continuamente, e si estende alla più parte degli organi del corpo; e a questo modo induce in essi delle alterazioni durevoli, che permangono più o meno completamente anche quando si cessi dal veleno, e che interessano in alto grado le funzioni più importanti della macchina animale. Si comprenderà con ciò facilmente, che se è fatto raro il morire per alcoolismo acuto, è invece assai frequente per l'alcoolismo cronico, anche quando l'individuo, pentito de' suoi eccessi, sia entrato nella via del ravvedimento.

Le ricerche scientifiche hanno potuto finora penetrar ben poco nello studio dell'azione dell'alcool sull'organismo. Si conoscono in parte le conseguenze ultime sui diversi organi, ma si sa assai poco intorno alla maniera in cui l'alcool le produce. Pel modo di agire pare che questo abbia una certa parentela con parecchie sostanze che lo superano d'assai in facoltà venefica, e che manifestano la loro azione alterando profondamente quel continuo ricambio chimico, mediante cui si mantiene in vita l'organismo animale; voglio dire col fosforo, coll'arsenico, coll'antimonio, coll'acido solforico, ecc. — Ma innanzi di trattar di ciò è mestieri che io vi indichi sommariamente qual sia la minuta struttura dei nostri organi, chè senza questa specie di iniziazione microscopica difficilmente potreste comprendere il loro modificarsi sotto l'influenza dell'alcool. — Gli organi sono costituiti da due parti principali: da corpicciuoli minutissimi, variamente disposti, che sono le cellule proprie dell'organo, e da una sostanza, da un tessuto particolare che li tiene assieme, e che, perciò, porta il nome di tessuto connettivo interstiziale. Le cellule proprie sono quelle a cui è affidata in modo speciale la funzione dell'organo, e, com'è ben naturale, variano di forma, di costituzione e di disposizione da un organo all'altro. Dalla parte che entrano a costituire esse ebbero il nome, epperò nel fegato abbiamo le cellule epatiche, nei reni le renali, nel cervello le cerebrali, e via dicendo. Il tessuto connettivo, invece, è, salvo irrilevanti modificazioni, lo stesso dappertutto, ed oltre al proteggere e connettere le cellule proprie, sostiene anche quei vasellini sanguigni e linfatici, e quei filuzzi nervosi che di queste ultime provvedono al nutrimento e regolano l'azione. Poichè è da sapere, che in qualunque parte, anche la più riposta, del nostro corpo, ferve fra gli elementi dei tessuti ed il sangue un continuo scambio di materiali, ch'è regolato, a seconda dei bisogni, dall'influenza nervosa.

L'alcool viene a contatto degli organi in due modi. Nell'esofago e nello stomaco arriva direttamente dal di fuori. Giunto nello stomaco, esso viene assorbito specialmente dalle vene, e, col sangue di queste, trasportato dapprima al fegato, poi, passato il fegato, a tutti gli altri organi del corpo. — Ora egli sembra, che negli organi esso agisca tanto sulle cellule proprie, quanto sul loro connettivo di sostegno; e, più precisamente, in un primo periodo su quelle, in un secondo su questo. Per alcuni organi, anzi, ciò venne già constatato. Le cellule proprie s'alterano variamente, ma, in ultima analisi, finiscono col modificarsi nella loro composizione chimica (col degenerare ) o coll'impicciolire ( atrofizzarsi ), ed alfine distruggersi. Nel connettivo, invece, osserviamo lo stato opposto; esso aumenta di volume, diventa iperplastico, e per questa via contribuisce non poco a danneggiare, schiacciandole, quelle cellule proprie, cui dovrebbe servire di sostegno e di difesa.

Le annesse figure vi rappresentano il decorrere di questi processi nel fegato. Come appare dalla Fig. 1, le cellule proprie del fegato non vi stanno disposte uniformemente, ma sono riunite in ammassi poliedrici, a cui si dà il nome di acini; ogni acino è sostenuto nel suo interno, e limitato alla sua superficie verso gli acini vicini da esili strati di connettivo interstiziale. — Questa figura vi rappresenta le alterazioni del primo periodo dell'alcoolismo. Ci vedete le cellule epatiche, a cominciare da quelle che stanno alla periferia dell'acino, riempite di gocciole di una sostanza liquida, lucente, che non è altro che grasso; il connettivo si conserva ancora sano.

Fig. 1. Due acini del fegato di un bevitore, fortemente ingranditi col microscopio. Le cellule che stanno alla periferia dell'acino sono piene di gocciole di grasso. Al dintorno degli acini scorrono i troncolini della vena porta ( pp ), che per mezzo di vasellini capillari trasportano il sangue fino al centro dell'acino nelle vene epatiche VV.

Non è ben noto il significato di questa infiltrazione grassa. Forse deriva da un processo molto semplice; il sangue degli alcoolisti ricco di grasso (che talvolta vi è in tanta copia che le sue goccioline rendono lattiginoso il siero), nel passare pel fegato ve ne lascia un abbondante deposito. È questo un fatto frequente ad osservarsi in altri stati morbosi, ed anche in alcune condizioni dell'individuo sano, e che noi possiamo produrre a nostra voglia negli animali, dando loro copioso nutrimento e concedendo loro poco moto. Ognuno di voi conosce, per propria esperienza, benchè da un punto di vista assai diverso da quello sotto cui la riguardo io ora, questa infiltrazione adiposa del fegato; è, infatti, ad essa che si debbono quei pezzi patologici che sono così rinomati in gastronomia sotto il nome di pasticci di Strasburgo. Essa, nei bevitori, andrebbe d'accordo con quell'ingrassamento generale del corpo che si suole osservare sul principio dell'alcoolismo.

Ma, secondo altri, quest'alterazione del fegato avrebbe un'origine più profonda e più grave[IX-1]. Essa proverrebbe, per lo meno in parte, da un serio sconcerto di nutrizione delle cellule epatiche, le quali, sotto l'influenza dell'alcool, non sarebbero più capaci, come nello stato normale, di produrre alte combinazioni organiche, e darebbero origine a combinazioni d'ordine inferiore, quali i grassi. L'alcool assomiglia anche per questa sua azione ai veleni potenti, testè citati, ad es. al fosforo, dei quali, appunto, una delle prime conseguenze è l'estesa degenerazione grassa del fegato.

In un periodo più avanzato dell'alcoolismo sono le alterazioni del connettivo interstiziale che pigliano il sopravvento. Come vedete dalla Fig. 2, questo connettivo aumenta di volume; e, come i suoi strati abbracciano tutt'attorno l'acino, così essi, ingrossandosi e coartandosi, comprimono quest'ultimo, lo impiccioliscono; mentre gli tolgono il nutrimento comprimendo e restringendo i vasi che gli portano il sangue. Ne segue un'atrofia, una distruzione delle cellule proprie, con quale radicale alterazione delle funzioni del fegato è facile immaginare. Questa malattia, che vien detta cirrosi del fegato, è una delle più gravi a cui l'organo possa soggiacere, e, come vedremo, è causa frequente della morte dell'alcoolista.

Fegato di bevitore

Fig. 2. Fegato di bevitore in degenerazione avanzata ( cirrosi ). Gli acini epatici ( bb ) pieni di grasso, sono separati l'uno dall'altro e schiacciati da copioso connettivo interstiziale ( aa ) di nuova formazione.

Nello stomaco vennero constatati fatti simili a quelli presentati dal fegato in conseguenza dell'abuso di alcool. In un primo periodo, tumefazione e degenerazione delle cellule delle ghiandole gastriche[IX-2], di quelle ghiandole, cioè, che fabbricano i succhi digerenti; in un secondo, aumento di volume, iperplasia del connettivo interstiziale; il tutto accompagnato da dilatazione dei vasi sanguigni, da iperemia, che dappertutto suol essere la conseguenza più diretta e più pronta dell'azione del veleno.

Forse con questa doppia azione dell'alcool sulle cellule proprie e sul connettivo interstiziale si potranno spiegare le alterazioni che gli anatomopatologi trovarono in tanti altri organi del beone: le atrofie del cervello e del midollo spinale, e le infiammazioni croniche delle membrane che li ravvolgono: la degenerazione grassa e la cirrosi dei reni; la degenerazione grassa del cuore; la degenerazione ghiandolare e la iperplasia connettiva dell'intestino, e via dicendo. Ma, per ora, su ciò non possiamo dare giudizio sicuro, giacchè dobbiamo pur confessare, che lo studio anatomico dell'alcoolismo non è tanto progredito, quanto la frequenza e la gravità del male richiederebbero.

Vediamo ora quali segni dia di sè, nel vivente, l'alcoolismo. — Con tanta varietà di alterazioni anatomiche è facile prevedere quanto siano svariate anche le forme della malattia. A seconda della quantità e della qualità della bevanda alcoolica usata, della costituzione e dello stato dell'individuo, del clima, di molte circostanze, insomma, interne ed esterne, le sofferenze dei singoli alcoolisti diversificano all'infinito. Ciò non toglie, però, che in un certo numero di casi i fenomeni non sieno press'a poco gli stessi, e si seguano in un determinato ordine, sicchè se ne possa trarre un quadro clinico che può valere come caratteristico dell'avvelenamento da alcool.

Per un certo periodo, la cui durata può variare da mesi ad anni, il beone non prova disturbi degni di nota; apparentemente, anzi, egli si fa più florido. L'ingrassamento difficilmente si può ripetere da una maggior entrata di grasso nell'organismo, poichè gli individui di solito mangiano meno dell'ordinario. Più probabile è che dipenda da un diminuito consumo del grasso già esistente nel corpo, in conseguenza dell'azione dell'alcool, la quale si spiegherebbe appunto, come molte esperienze hanno dimostrato, col limitare la combustione dei materiali ch'entrano a costituire l'organismo.

Ad un certo punto il malato comincia a perdere l'appetito; fa pasti irregolari, e dopo di essi prova allo stomaco un senso di tensione, di peso, di dolore. Alla mattina, senza altra causa, ha spesso vomito di masse di muco. Io voglio insistere su questo fatto, così raro nella vita comune, del vomito mattutino; poichè, siccome esso non è che il primo di una lunga iliade di guai, così dev'essere dal bevitore considerato come il primo araldo della natura medicatrice, che lo avverte del pericolo che corre, e gli dirige un minaccioso nec plus ultra. E talvolta la natura rinforza il suo avvertimento in un modo più visibile, regalando al beone un naso grosso, tuberoso, rosso vivo, percorso da eleganti vene circonvolute, ed umettato da grasso e da sudore.

Ma il più delle volte il peccatore non si corregge, ed allora i sintomi si fanno più gravi. La digestione diviene sempre più difficile, l'infermo non fa che accompagnare di pochi bocconi la sua bevanda prediletta. Comincia un affievolimento e un tremore a piccole scosse ritmiche alle mani ( tremor potatorum ), che poi si estende alle braccia, alle gambe, alle labbra, alla lingua, a tutta la persona: quindi incerta e debole è la presa, vacillante il passo, confusa o quasi inintelligibile la parola. La voce è rauca pel frequente catarro cronico della laringe. Questi fatti sono più spiccati alla mattina a digiuno; bevendo, il tremore diminuisce, ma per poco. Vista intorbidata; veglia ostinata o sonno inquieto, preceduto da formicolìo o stiramento alle gambe, e poi anche alle braccia. Vertigini, confusione nelle idee, affievolimento della memoria e dell'intelligenza.

Ai disordini di motilità, che di raro progrediscono fino alla vera paralisi, si associano ben presto disordini di sensibilità. Talora questa, specialmente alle gambe, è di tal modo aumentata, che anche il toccar leggermente la pelle o il comprimere i muscoli cagiona vivo dolore, senza contare dolori spontanei pungenti, laceranti, frizzanti che tormentano l'infermo, massime di notte, e gli rubano il già scarso sonno. Più di frequente, invece, la sensibilità diminuisce, incominciando dalle dita e venendo all'insù. L'apatia intellettuale è interrotta da allucinazioni di più in più frequenti, vivaci, spesso paurose. Le alterazioni gravi degli organi più importanti hanno per effetto una profonda denutrizione dell'individuo; questo, dapprima florido e grasso, deperisce rapidamente; la pelle si fa inelastica, si accolla ai muscoli ed alle ossa sottoposte, diventa di colore sporco, giallo-verdastro.

Insorgono convulsioni, e queste non di rado fanno passaggio a veri accessi epilettiformi. La vista e l'udito si ottundono ognor più. La debolezza intellettuale cresce a demenza, interrotta ancora tratto tratto da accessi di delirio. E così, o nel più alto grado di marasmo, o in uno stato di collasso, o in un accesso epilettiforme, o per malattie intercorrenti la vita dell'infermo si spegne.

In questo succedersi dei fenomeni dell'alcoolismo i sintomi offerti dal sistema nervoso sono i predominanti; e, considerati nel loro complesso, sono così caratteristici, che non possono di leggieri essere confusi con quelli di malattie nervose cagionate da altro che dall'alcoolismo. Ad essi si aggiungono non di rado dei perturbamenti speciali dell'intelligenza e degli accessi di delirium tremens, di cui avrà occasione di intrattenervi prossimamente il prof. Lombroso.

Andrebbe, però, di molto errato colui, che non riconoscesse i venefici effetti dell'alcool che in questo modo di manifestarsi della malattia. In un numero di casi di gran lunga maggiore l'alcool danneggia poco o nulla il sistema nervoso, e concentra la sua azione sull'uno o sull'altro dei più importanti organi del corpo; sicchè la malattia, a seconda dell'organo colpito, assume diverse forme ed uccide per diversa via.

Talvolta, ad es., appaiono in prima linea le alterazioni del fegato. La cirrosi, di cui v'ho già parlato come di conseguenza frequente dell'avvelenamento alcoolico, è, sotto il punto della guaribilità, una forma morbosa assai più grave di quella testè descritta. Nella forma nervosa, anche quando i fenomeni sono già relativamente avanzati, con un'adatta cura si può avere speranza di guarigione; lo stato dell'intelligenza migliora, i muscoli riprendono, almeno in parte, le loro forze, le funzioni dello stomaco si riordinano, la nutrizione dell'individuo ripiglia vigore. Nella cirrosi del fegato, invece, l'aver constatata la malattia ci permette già di prevedere la inevitabile morte del paziente. Quel connettivo che si forma tra acino ed acino della ghiandola, e che, qualunque cosa si faccia, continua a crescere, a coartarsi e a raggrinzarsi, non solo rovina le cellule proprie della ghiandola, ma, comprimendo i troncolini della vena porta, e rendendovi difficile il passaggio del sangue, dà luogo a gravissimi disturbi circolatori nelle vene, da cui la porta trae origine, cioè nelle vene dello stomaco, dell'intestino, della milza e del peritoneo; ed è in conseguenza di questi disturbi che, di solito, la morte sopravviene.

Altre volte sono i reni che vengono a preferenza colpiti. A questo riguardo è da notare il fatto curioso, che mentre in Inghilterra è frequente l'infiammazione dei reni quale effetto dell'alcoolismo, in Germania ciò sembra molto raro; la qual differenza si vorrebbe spiegare con questo, che in Inghilterra l'alcool vien bevuto sotto quella forma concentratissima ch'è il gin[IX-3]. Sì nella cirrosi epatica, che nell'infiammazione renale gli infermi muoiono di solito fortemente idropici; il che ha dato origine al lugubre detto: qui vivunt in spiritu, in aquis moriuntur.

Una grande importanza nel quadro dell'alcoolismo è da accordare alle alterazioni dei vasi sanguigni, così dei grossi come dei più piccoli. In essi l'alcoolismo è frequentemente causa di una speciale malattia, detta ateroma, per la quale alcune delle tonache del vaso diventano tratto tratto tumide, scabre, meno resistenti, sicchè più facilmente cedono e si rompono sotto la pressione del sangue contenuto nel vaso. Fra le conseguenze di quest'alterazione citerò le due più comunemente note, cioè la formazione e poi la rottura di aneurismi, e l'apoplessia cerebrale; sì quelle che questa, se interessano vasi grossi, danno luogo in non rari casi a morti improvvise, fulminee; quando, a cagion d'esempio, l'individuo, bevendo ad un tratto una forte dose d'alcool, ecciti a contrazioni repentinamente energiche il suo cuore.

Io non posso lasciare quest'argomento senza toccare della profonda denutrizione, cui l'alcoolismo dà luogo. Abbiamo veduto come lo stomaco sia l'organo che, primo, soffre; il beone va sempre assottigliando la quantità dei cibi, e neppur quei pochi ch'egli introduce possono convenientemente venir elaborati ed assorbiti dallo stomaco e dall'intestino, poichè queste parti si trovano in uno stato morboso, cui, anzi, l'irritazione prodotta dalla presenza dei cibi aumenta vieppiù. Lasciamo da parte le conseguenze locali di ciò, cioè i catarri cronici dell'organo, che possono diventar minacciosi per sè soli (dando luogo a formazione di ulceri ed a pericolose emorragie) e che meritano tutta la nostra attenzione per la loro frequenza; poichè insorgono anche pel solo abuso non grande ma abituale del vino. Quante difficoltà di digestione, quanti dolori di stomaco, che si curano inutilmente colle polveri, colle pillole, colle tinture, riconoscono la loro origine in qualche bicchiere di più bevuto nella serata! — Quello che più mi preme di far notare si è l'effetto ultimo di questo stato degli organi digerenti. La scarsità del materiale nutrizio che l'organismo riceve da essi fa sì, che tutte le parti che lo compongono immiseriscano; e questo loro deteriorare è reso più rapido e profondo dall'azione pervertitrice che, come già dissi, l'alcool ha già esercitato sugli elementi microscopici che concorrono a costituirle. Da ciò deve ripetersi specialmente il marasmo che si stabilisce negli alcoolisti, e il loro aspetto miserando. A questo s'aggiunga, che i più piccoli vasi sanguigni, quelli che direttamente distribuiscono l'alimento ai gruppi di elementi, sono del pari probabilmente alterati dall'alcool; in molti di essi si può constatare una degenerazione grassa delle pareti, e forse questo non è che uno stadio avanzato di un processo, che ne' suoi primi periodi è sfuggito sinora alle nostre indagini. Ora, tale alterazione non può che alterare il rapporto fra sangue ed elementi; rendere più scarsa ed irregolare la quantità di nutrimento che questi ricevono. Nè ciò basta. Il cuore negli alcoolisti subisce di frequente la degenerazione grassa, s'indebolisce, e spinge fiaccamente il sangue nei vasi; quindi, rallentamento di circolazione e nuova causa di insufficiente nutrizione degli elementi. Ove si consideri questo complesso di condizioni, e la straordinaria debolezza organica che ne deriva, si comprenderà facilmente come negli alcoolisti valgano a produrre malattie serie delle cause morbigene che avrebbero poca o nessuna influenza su individui robusti; e come in essi ogni processo morboso anche accidentale, come una infiammazione od una ferita, abbia decorso più grave, più facilmente si complichi, e più frequentemente termini in modo funesto. Mi valga ad esempio la pneumonite. Essa insorge di frequente nei bevitori, e vi si complica di solito a delirio ed a suppurazione e gangrena polmonare; cosicchè la mortalità dei malati alcoolisti è del doppio o del triplo più grande di quella dei malati comuni. Fismer in Basilea ebbe persino il 55 per cento di morti[IX-4].

La conclusione di quanto ho esposto finora sui danni fisici prodotti dall'alcool si è evidentemente questa, che quel tipo morboso che è conosciuto sotto il nome di alcoolismo in senso stretto non è che uno dei modi in cui questi danni possono manifestarsi, e che di gran lunga più numerosi sono quei casi di malattia, che non hanno apparentemente nulla di caratteristico, e che, nullameno, in via diretta od indiretta provengono dall'abuso di vino o di liquori. E contuttociò noi non abbiamo studiato la funesta influenza di questo abuso che sotto un solo punto di vista. Non abbiamo toccato delle malattie e dello stato di debolezza che gli ubbriaconi trasmettono ai loro figli, e ancora non abbiamo fatto cenno delle morti dovute sia a disgrazie imputabili allo stato di ubbriachezza, sia al suicidio, che spesso è la via che il beone sceglie per liberarsi dall'indigenza o dalla falsa posizione sociale che il suo vizio gli procura. Allorchè, adunque, si dice, ad es., che in Inghilterra in 28 anni (dal 1847 al 1874) sono morte 22723 persone di alcoolismo, e che in Francia in 13 anni (dal 1853 al 1865) ne sono morte 3554[IX-5] non si dà che una ben pallida idea degli effetti di questo veleno; infatti, non vi vennero calcolati che quegli individui, che durante la vita diedero manifestazioni corrispondenti alla descrizione classica della malattia.

Risultati approssimativamente esatti non si possono avere che calcolando la mortalità e la vita media dei beoni. Il che venne fatto da alcuni scrittori. Così Neison[IX-6] trovò che sopra 6111 bevitori ne erano morti 357, mentre sullo stesso numero di altre persone i morti non erano stati che 110, il che dà nei primi una mortalità 3,25 volte maggiore che nei secondi. Comparando poi la mortalità dei temperanti con quella dei bevitori nei diversi periodi della vita, gli apparve che, mentre la differenza raggiunge il suo massimo fra i 20 ed i 30 anni, giacchè in questo periodo alla morte di un temperante corrisponde quella di più che 5 bevitori, più tardi la differenza gradatamente diminuisce, finchè dopo gli 80 anni scompare; come vien dimostrato dalla seguente tabella:

ETÀ DEGLI INDIVIDUI Anni Rapporto della mortalità dei temperanti con quella dei bevitori

16–20 1 : 1,8

20–30 1 : 5,1

30–40 1 : 4,2

40–50 1 : 4,1

50–60 1 : 2,9

60–70 1 : 1,9

70–80 1 : 2,0

80–90 1 : 1,0

Di conseguenza, le probabilità di durata della vita nei bevitori sono assai inferiori a quelle dei temperanti, e ciò in misura tanto maggiore quanto più l'individuo è giovane, come appare dal seguente specchietto, dato dallo stesso autore e calcolato sempre su popolazione inglese:

Età raggiunta dall'individuo Vita probabile

nei temperanti nei bevitori

Anni Anni

20 anni 44,21 15,56

30 » 36,48 13,80

40 » 28,79 11,63

50 » 21,25 10,86

60 » 14,28 8,95

Da uno studio comparativo sulla mortalità degli alcoolisti fatto dagli agenti del Medical, Invalid and General Life Office di Londra, si ha un'importante conferma dei risultati antecedenti.

Morirono nell'età di

Bevitori Temperanti

21–40 anni 10 % 1 %

41–60 anni 12 % 3 %

60 in su 26 % 13 %

La mortalità nel periodo dai 21 ai 40 anni è adunque nei bevitori 10 volte più grande che nei temperanti!

Evidentemente questi risultati non si possono generalizzare, poichè nei diversi paesi devono variare gli effetti dell'alcool sia secondo il clima, la costituzione della popolazione, ecc., sia secondo la qualità della bevanda alcoolica più usata. Ed oltracciò da questi studi avremmo dei risultati soltanto relativi ad un determinato numero di bevitori. Per averne di assoluti, si dovrebbe, innanzi tutto, conoscere il numero dei bevitori di un paese; al che finora non si riesce che per mezzo di calcoli di assai lontana probabilità.

Ad ogni modo, che questo numero sia grandissimo, nessuno può porre in dubbio. L'alcoolismo conta infiniti proseliti in tutte le classi della popolazione, è diventato un terribile flagello sociale. Nelle basse classi esso esercita una più malefica influenza perchè l'alcool vien bevuto generalmente sotto forma di liquori, e perchè alle malattie, ch'esso direttamente produce, si sommano quelle dovute alla miseria, conseguenza così frequente di una vita di stravizi. Istruttivo, a questo riguardo, è il fatto della grande mortalità dei venditori d'acquavite. E, per vero, da statistiche inglesi si rileva[IX-7] che nell'età di 44–45 anni muoiono in un anno

Sopra 1000 campagnuoli 12 persone

» » calzolai e tessitori 15 »

» » droghieri 16 »

» » fabbri 17 »

» » minatori 20 »

» » fornai 21 »

» » macellai 23 »

» » acquavitai 28 »

I venditori d'acquavite muoiono il doppio dei campagnuoli. È proprio il caso di dire colla scrittura: qui gladio ferit, gladio perit!

Ma anche nelle classi più alte e più colte infuria il demonio dell'alcool. Non parlo di quella classe posta a capo degli ordini sociali, in cui libito è sinonimo di licito, in cui sfrenatezza di potere eccita sfrenatezza di desideri. Quante volte le pieghe d'un manto imperiale nascosero pietosamente agli occhi profani il corpo smunto, avvizzito di un alcoolista! — Ma tenendoci in una sfera più modesta, chi di noi non ha personalmente conosciuto molte vittime del bere? Io ricordo sempre un mio compagno d'università, giovane ricco, accuratamente educato, che, al primo trovarsi libero, cominciò a frequentare le bettole, e ben presto passò dal vino all'acquavite ed al rhum. Accasciato di corpo e di mente, i parenti suoi non trovarono miglior partito che di mettergli a fianco una moglie, una giovine bella e gentile, che nella calma gioia della famiglia gli facesse dimenticare gli osceni tripudi della taverna. Ma invano! A nulla valsero le preghiere, le lagrime, i rimproveri. Sorvegliato di continuo in famiglia, egli giunse (ch'il crederebbe?) a corrompere la suocera, comunicandole la sua passione per l'alcool; sicchè, quando la moglie, fidente nella buona guardia della madre, usciva di casa, i due strani alleati si concedevano libero sfogo, e furono veduti talora, dimentichi d'ogni riguardo sociale, cioncare allegramente in una bettola vicina, tra facchini e carrettieri, cui essi servivano, ad un tempo, di pessimo esempio e di ludibrio.

Del resto, questo sprezzo delle convenienze sociali è abbastanza comune nei bevitori. Essi non nascondono il loro vizio. Conobbi un professore, il cui cavallo, ammaestrato dalla quotidiana abitudine, e prevenendo i desideri del padrone, si arrestava, senza bisogno di redini, dinanzi agli spacci di liquori più frequentati della città!

In molte occasioni lo sprezzo delle convenienze è indizio di animo forte. In questa, di cui ragioniamo, parmi invece, segno di quella debolezza morale di cui il beone è preda. L'alcool come gli ha fiaccato l'intelligenza, gli ha tolto ogni forza di volontà. L'infelice può ancora vedere il precipizio in cui cade, ed in cui forse trascina la sua famiglia; ma non può ritrarsene, perchè a ciò abbisognerebbe più somma di energia ch'egli non abbia. La forza morale, anzi, gli si annienta non di rado prima di quella dell'intelligenza; è un naufrago che si vede trascinato dalle onde a schiacciarsi inevitabilmente contro gli scogli. —

Che si può dire dell'alcoolismo nella donna? Meglio nascosta nell'intimo della famiglia, più accorta e più sollecita nel nascondere i propri difetti essa può, meglio di noi, sfuggire alle investigazioni dell'igienista. Si citano dagli autori dei casi di signore in cui l'abuso nella toilette d'acqua di Colonia produsse tutte le manifestazioni dell'alcoolismo. Nel giudicare del fatto stranissimo io non voglio essere tacciato di malignità. Come tutto ciò che proviene dal cielo, le signore hanno il loro sancta sanctorum in cui non è lecito penetrare a sguardo profano. Ma in un'epoca di libero esame come la nostra non sarà permesso qualche dubbio? I medici sono scettici per dovere. Or sono pochi mesi io visitai una gentile sposina diciottenne, la quale alle mie insistenti domande per rintracciare le cause di certi suoi disturbi, mi confessò, arrossendo, ch'essa usava bere ogni giorno più spesso tre che due litri di vino. E vi prego di credere che, ove bisognasse, potrei moltiplicare gli esempi.

Nelle basse classi l'ubbriachezza nelle donne è abbastanza comune e palese. Così, ad esempio, nei paesi della Granbretagna si ebbe il seguente rapporto fra uomini e donne che per ubbriachezza dovettero venir ritirati dalla polizia[IX-8]:

ANNI INGHILTERRA IRLANDA SCOZIA

uomini donne uomini donne uomini donne

1847 40,822 23,520 19,559 9,587 14,164 7,627

1849 41,961 23,936 23,827 12,102 13,481 6,625

1851 44,500 25,597 25,729 11,903 16,623 8,227

In complesso, adunque, nei tre anni si ebbero ubbriachi 240,866 uomini, e 129,124 donne; queste furono più della metà di quelli. È chiaro che questa proporzione debba variare nei diversi paesi, e come, a cagion d'esempio, le donne siano assai più temperanti nel nostro. Se noi, però, quali bevitori superiamo le donne per numero, ne siamo a nostra volta superati per quella dote, che esse dicono di possedere in grado assai più alto di noi, voglio dire per la costanza. Considerando anche soltanto i casi di alcoolismo acuto, noi vediamo che nella donna la recidiva è frequentissima. Il Verga nella sua bella monografia sull'ubbriachezza in Milano[IX-9] ci racconta, che nell'Ospedale Maggiore di quella città alcune donne vennero ricoverate per 4, 6, 8, fino 13 volte in un anno solo, mentre pochissimi uomini vi vennero accolti per più di due volte.

L'alcoolismo, come già altri ebbe occasione di dirvi, è variamente diffuso nei diversi paesi, e ciò dipende meno dal clima e dalla costituzione, che dalla quantità e dalla qualità di alcool che vi si beve.

È noto che le numerose bevande alcooliche differiscono grandemente fra loro per la quantità di alcool contenutovi.

Le birre[IX-10] ne sono le più povere. Dalla birra di Berlino che contiene 3,77 volumi per cento di alcool, non saliamo al di là della Porter e della Ale che ne contengono poco più del 7 ed 8 per cento.

Molto al disopra delle birre stanno generalmente i vini, di alcuni dei quali trascrivo qui il contenuto alcoolico secondo Parkes.

Vol. per cento

Champagne 5,8 — 13

Mosella 8 — 13

Reno (Johannisb. Hochheim., Rüdesheim.) 6,7 — 16

Ungheresi 9,1 — 15

Borgogna bianco (Chablis, Maçon) 8,9 — 12

Borgogna rosso 7,3 — 14,5

Bordeaux rosso (Chât. Lafitte, Margaux, Larose) 6,8 — 13

Bordeaux bianco (Sauterne, Borsac) 11 — 18,7

Porto 16,3 — 23,2

Sherry 16 — 25

Falerno 19 — 20

Lacryma Crysti 19,70

Marsala 18,20 — 26,3

Madera 14 — 24,4

Malaga 17,2 — 28,9

Finalmente per i liquori abbiamo il seguente contenuto procentuale di alcool:

Acquavite 30 — 50

Whisky 30 — 60

Cognac 55

Taffia 62

Gin 49 — 60

Brandy 50 — 60

Rhum 60 — 70

I liquori sono, adunque, assai più ricchi di alcool del vino e della birra; ma se si considera che di queste ultime bevande si usa in misura assai più larga che dei liquori, si comprenderà come anche in esse si possa avere una feconda sorgente di malattie. Un litro di buon vino, o due litri di forte birra equivalgono nel contenuto alcoolico ad un quintino di rhum o di cognac. Lo meditino i bevitori!—

Non meno della quantità debb'essere considerata la qualità dell'alcool che introduciamo. Di ciò venne già parlato da altri miei colleghi; ma io credo necessario di tornarvi sopra, poichè è un argomento della massima importanza nella questione dell'alcoolismo. È ben vero che anche il vino più pretto, in cui è specialmente rappresentato l'alcool etilico, basta a procurarci la malattia con tutte le conseguenze più funeste; come vien dimostrato da questo solo, che l'alcoolismo infieriva anche nell'antichità, quando dell'alcool non si conosceva nè manco il nome; Seneca nelle sue epistole ce ne dà una descrizione esattissima. Ma non è meno vero che le bevande alcooliche, che si ottengono ora da altro che dalla vite, contengono degli alcool diversi dall'etilico, e che sono assai più dannosi di questo. Richardson[IX-11] ne' suoi esperimenti trovò che specialmente l'azione deprimente sul cervello aumenta coll'aumentare del carbonio e dell'idrogeno nella composizione chimica dell'alcool; quindi in ragione crescente dall'alcool propilico, al butilico, all'amilico ed al caprilico. Ora, molti liquori contengono parecchi di questi alcool, e l'acquavite di patate (ed in minor misura quella di grano) si distingue per la quantità d'alcool amilico che contiene. Tali bevande riescono, quindi, assai nocive anche quando non sono bevute in larga misura; anche quando la quantità dell'acquavite quotidiana stia molto, ma molto al disotto del litro e mezzo, che è il massimo a cui, al dire di Magnus Huss, arrivano i forti bevitori di Stoccolma.

È questo un pericolo dal quale devono guardarsi anche i bevitori di vino. Da pochi decenni la fabbricazione dei cattivi alcool va aumentando, ed i suoi prodotti, pel poco lor costo, s'adoperano a larga mano per rinforzare il vino. In recenti ricerche fatte a Parigi[IX-12] s'è constatato, che molti operai vennero colti dall'alcoolismo ad onta che non usassero bere più di due litri di vino al giorno. Questa misura, se si fosse trattato di vino schietto, non avrebbe potuto dare conseguenze; in essi, invece, ne produsse, e di gravi, per la pessima qualità degli alcool che si mescolano al vino nelle bettole parigine. — È un fatto che merita tutta la nostra attenzione, sia perchè questa adulterazione dei vini è facile e frequente, sia perchè la polizia sanitaria può agevolmente portarvi rimedio.

Dopo tutto ciò, c'è forse da stupire quando da fonte ufficiale ci si annuncia[IX-13] che negli Stati Uniti d'America nel decennio 1860–70 l'alcool ha ucciso 300 mila uomini, ne ha spinto almeno 150 mila nelle prigioni e negli ergastoli, ed ha mandato 100 mila ragazzi nelle case di lavoro?

Io ho riassunto, così, il meglio che ho potuto i danni prodotti dall'alcool. Crederei, però, di mancare non meno al mio còmpito che alla giustizia se, prima di finire, io non toccassi anche il lato opposto della questione. Già altri vi ha parlato degli effetti sull'individuo sano di questo prezioso liquore, che allieta tante ore della nostra vita, e che sì spesso anima di espansiva gaiezza i nostri convegni. — A me spetta di parlarvi in breve di quanto l'alcool può nell'organismo del malato.

Esso, in dose appropriata, è un leggiero eccitante, specialmente dello stomaco, del cuore, dei reni e del sistema nervoso. Ho detto in dose appropriata, poichè errerebbe colui che, ad es., credesse di potere digerire tanto meglio quanto più di alcool beve; al di là di un certo limite questo, anzi, rallenta ed arresta ogni processo di digestione. — Questa facoltà eccitante dell'alcool, benchè ci torni preziosa tanto in molte malattie croniche, quanto nella convalescenza delle malattie acute, epperò venga posta assai spesso a profitto, non rappresenta che uno, e non il maggiore, dei vantaggi che esso può dare.

Comunemente si crede che l'alcool riscaldi, appoggiandosi al senso di grato calore che si prova dopo di averne bevuto una certa quantità; e, fondandosi su questo fatto, si è stabilito il pregiudizio che gli alcoolici debbano nuocere in ogni sorta di malattie infiammatorie.

Il collega prof. Mosso, trattando dell'azione fisiologica, espose come numerose ed accurate ricerche abbiano dimostrato, che l'alcool agisce diminuendo l'eliminazione dell'acido carbonico e dell'urea, val quanto dire diminuendo il consumo dei materiali del nostro organismo. L'alcool, in ultima analisi, non riscalda, ma raffredda. Questa proprietà riesce di alta importanza pel medico, il quale se ne giova nella cura delle malattie febbrili. Nello stato di febbre l'organismo consuma assai più che nelle condizioni ordinarie; l'ossigeno, che introduce coll'aria inspirata nei polmoni, gli brucia in maggior copia le sostanze chimiche che entrano nella sua costituzione, e come manifestazione di questa cresciuta combustione noi abbiamo quell'aumento di temperatura interna ed esterna, quello scottore della pelle che tutti conoscono. — Or bene, in molti casi l'alcool riesce a frenare questo esagerato consumo; il che ci viene tosto indicato dall'abbassamento della temperatura segnata dal termometro. Non sappiamo bene per qual via ciò si ottenga; se per ciò che l'ossigeno viene più strettamente legato alla sostanza colorante del sangue, e, così, impedito di combinarsi in soverchia quantità coi materiali dei nostri tessuti, ovvero perciò che questi diventano più resistenti contro l'azione distruttiva di esso. Ciò che importa si è, che l'effetto si ottenga. In gran numero di malattie febbrili la morte trova la sua causa soltanto nella distruzione organica causata dalla febbre; sicchè il frenare quest'ultima equivale al salvare il malato.

Nè a ciò solo si limita l'azione dell'alcool. Anche in quei casi in cui esso è impotente contro la febbre, e può essere sostituito da sostanze più attive, tuttavia si amministra e giova col diminuire in altro modo il consumo. Come già venne loro esposto, l'alcool, introdotto nell'organismo, si combina, almeno in parte, coll'ossigeno della respirazione, e, trasformandosi in combinazioni sempre più semplici, viene alla fine eliminato specialmente sotto forma di acido carbonico ed acqua. In queste sue successive modificazioni esso sviluppa calore, e lega a sè quell'ossigeno, che, ove non fosse l'alcool, avrebbe trasformato e consumato una corrispondente quantità di elementi integranti del corpo. Se non abbassa la febbre, quindi, ne allevia le conseguenze.

Nè ho finito. In molte malattie, accompagnate o no da febbre, non è raro che inaspettatamente insorga quello stato che si designa col nome di collasso. Il cuore d'improvviso si indebolisce, la circolazione si rallenta, l'intelligenza s'annebbia, le estremità si fanno fredde, la respirazione diventa irregolare, affannosa; la morte minaccia da vicino. In questi casi, in cui un ritardo di minuti può essere fatale, l'alcool è un eccitante potente, e ch'è sempre alla mano. Esso risveglia rapidamente l'attività intorpidita delle funzioni, e, salvando al momento, dà tempo di pensare ad aiuti di più durevole azione.

Con siffatti risultati, non è bisogno di dire se e quanto l'alcool venga usato in medicina. Una trentina d'anni fa un distinto medico tedesco ebbe seriamente minacciata la sua posizione sociale e danneggiata la sua clientela per aver ordinato vino in un tifo che poi terminò colla morte. Attualmente, invece, l'alcool trova quasi sempre il suo posto fra i rimedi e gli alimenti del malato. Il più delle volte lo si amministra sotto forma di vino, prescegliendo a seconda dei casi dei vini ricchi di acido carbonico come il Champagne, o dei vini forti, come il Barolo, il Bordeaux, e più ancora il Marsala; ma non sono troppo rari i casi in cui bisogna passare addirittura ai liquori: alla buona acquavite, al rhum ed al cognac. È incredibile quanto i malati ad alta febbre li sopportino. Una dose, che renderebbe ubbriaco un sano, rende in essi il polso più pieno e più regolare, la respirazione più libera, l'intelligenza più aperta, ed aggiunge a tutto ciò un senso di generale benessere. Ed è incredibile quanto facilmente si abituino al bere. Io ho vedute non poche signorine malate di ileotifo, che non avevano mai fatto uso di vino, e che torcevano la bocca allorchè, nei primi giorni d'alta febbre, loro se ne porgeva qualche cucchiaio, bere, dopo che ne avevano sperimentato il giovamento, quasi mezza bottiglia di Marsala al giorno, e non dimostrare, con tutto ciò, di esserne sazie.

Per ultimo, se l'alcool serve spesso a combattere la malattia e ad affrettare la guarigione, quanto non giova esso mai nel triste periodo dell'agonia, quando l'organismo, vinto e sfinito, combatte l'ultima ed inutile lotta! Anche in questi estremi momenti, in cui il cuore si spossa in sforzi convulsi, in cui il respiro è rantolo, ogni sensazione uno spasimo, il pensiero uno strazio, l'alcool scende consolatore fedele, ed, annebbiando la mente ed i sensi, rende meno cruccioso il presente, meno spaventoso il dubbio avvenire.

Signori!

Senza passione e senza velo vi ho esposto di quanto bene e di quanto male noi andiamo debitori all'alcool; di quale infinita misura i danni superino i vantaggi. L'alcoolismo è una calamità pubblica, che s'aggrava ogni dì più, e contro cui i Governi illuminati hanno già incominciato la difesa. — Del resto, chi non ne ricorda l'influenza sulla Comune a Parigi? Chi non ne riconosce l'influenza su quel malessere profondo, che tormenta le basse classi sociali?

Altri vi parlerà dei provvedimenti da prendersi. Il più radicale sarebbe quello di bandir l'alcool dall'uso quotidiano, e a ciò mirano molte Società di temperanza. Ma diciamolo subito: tendere a ciò sarebbe tendere verso un'utopia.

Gli uomini, in qualunque tempo, paese, grado di civiltà ebbero sempre bisogno di quelle sostanze che il mio illustre maestro, il prof. Mantegazza, chiamò alimenti nervosi, e che essi seppero procurarsi in mille modi diversi[IX-14]. Orbene, pigliatemi la coca od il mate, il caffè od il betel, l'haschisch o l'oppio o il thè od il tabacco, e ditemi quale di essi, pel prezzo, per la facilità di averlo, e, più che tutto, per gli effetti possa competere vittoriosamente coll'alcool?

Certo, se l'uomo non fosse stato cacciato dal paradiso terrestre, e vivesse ancora in un'atmosfera di pace e d'amore, egli potrebbe passarsi d'ogni alimento nervoso. — Ma in questa nostra società, dove non si può progredire che sul corpo dei caduti, dove quasi ogni giorno che passa ci appresta un disinganno od uno sconforto, dove l'ideale divino è impallidito di tanto, e l'umano non ci convince o riscalda quanto bisognerebbe, in questa nostra società chi oserà lanciare l'anatema contro questo nettare che infonde la calma, e tempra l'animo ed aguzza la mente ad una lotta sempre nuova?

Ma una cosa possiamo e dobbiamo fare con speranza di successo. Combattere l'invasione crescente dei liquori coll'opporle del vino buono ed a buon mercato; sostituire all'alcool dei liquori, così concentrato, e così certamente venefico, l'alcool del vino, più gradito al palato, e di cui più facilmente si può frenare l'abuso. — E se altri può dubitare della riuscita, non lo dobbiamo noi, nati in una terra a cui la vite ha prodigato i suoi tesori, fra un popolo ch'ebbe sempre la moderazione a virtù prediletta.

Anch'io, dunque, coll'amico Cognetti, faccio voti perchè in Italia s'aumenti e si migliori la produzione del vino; ma non già, com'egli vorrebbe, per venderlo agli stranieri, sì bene per tenerlo e berlo fra noi.

[IX-1] Klebs, Handbuch der path. Anatomie, Berlin, 1868.[IX-2] Ebstein, Virch. Arch., vol. 55.[IX-3] Bartels, Ziemssen's Hand., vol. IX, p. 373.[IX-4] Iuergensen, Ziemssen's Hand., vol. V, p. 119.[IX-5] Baer, Alcoholismus, pag. 283.[IX-6] L. c., p. 310.[IX-7] Baer, l. c., p. 314.[IX-8] Baer, l. c., p. 191.[IX-9] Memorie del R. Istituto Lombardo, 1873.[IX-10] Baer, l. c., p. 129.[IX-11] Med. Times and Gazette, 1869.[IX-12] L'Économiste français, 1879, n o 23 e 26.[IX-13] Baer, l. c., pag. 10.[IX-14] Vedasi a proposito del vino e degli alimenti nervosi la bell'opera di Mantegazza, dal titolo Feste ed ebbrezze, Milano.

C. LOMBROSO — IL VINO NEL DELITTO, NEL SUICIDIO E NELLA PAZZIA

(Conferenza tenuta la sera delli 22 marzo 1880).

Pomo d'Eva. — Chi compari la più antica leggenda Semita, quella di Eva, coll'altre che corsero sulla Saoma nell'India, e sul Med nel nord d'Europa, vi trova una spiegazione assai più semplice che non sia quella della cognizione sessuale, immaginata dai mitologisti moderni con così poca verosimiglianza (De Gubernatis); intravvede che si trattava di quel frutto, il pomo forse, tanto indiziato dalla tradizione popolare, donde escì il primo liquore fermentato, il sidro, mentre col biblico albero della vita, che gli stava vicino, si voleva probabilmente alludere a quell'altro la vigna, detto in Accadico ges-tin, legno della vita, donde si trasse l'alcool o l'acqua della vita, così omologo nel significato all' amrita — immortale degli Indiani, ed all' abrotos dei Greci.

Coloro che, in grazie alle condizioni economiche o di clima o di casta, fecero solo un parco uso delle sostanze fermentate o dei loro sostitutivi, oppio, coca, ecc., non ne videro se non la strana e benefica efficacia, l'eccitamento meraviglioso dell'intelligenza e della memoria, e delle più nobili passioni, dell'amore sopratutto e della benevolenza. Al succo dell'asclepias, alla saoma, quindi attribuirono facoltà meravigliose, e non solo la ispirazione poetica, ma il coraggio degli eroi, e perfino la virtù di rendere immortali (amrita). «Noi abbiam bevuto la soma (Rig. Veda VIII. p. 48); noi divenimmo immortali, entrammo nella luce, ecc. Il Soma che genera gli inni ed il talento del poeta ( idem, IX, 25)».

Nel Yacna di Zoroastro, il succo dell'Haoma, che è tutt'uno del Soma «allontana la morte».

Il sacerdote era sinonimo di bevitor di soma, e poi finalmente il Soma stesso divenne, per quei rivolgimenti facili nelle creazioni popolari, un Dio, un Dio così potente da rivaleggiare col fuoco (Rig. Ved. IX, 96): «Soma, tu che fai i Richis, che dài il bene, padrone di un migliaio di canti, ecc., tu immortale, dài l'immortalità agli Dei e agli uomini».

La Saoma non era permessa che ai Bramini: così come nel Perù la coca era solo concessa ai discendenti dell'Incas e fra i Chibcha ai preti, che se ne servivano come di un agente di ispirazione.

Anche il Med, la bevanda dell'Edda, di miele e sangue, faceva divenire poeti e saggi gli uomini ( Kuhn, Die Herabkunst der Feuers, 1859). E qui ricordo come il grande Idhunna dell'Edda fu sedotto da Loki a carpir i pomi dell'immortalità, e tosto la sua Bragi gli fu rapita dai giganti.

E, qui, notisi che la Saoma, la quale è già spesso confusa coll' amrita (Veda XIV ) è detta qualche volta in sanscrito Madhu, che nello Zendo ha significato di vino; il che mostra evidente parentela col Med Nordico e col Madus Lituano, e per mezzo del Mad sanscrito col nostro matto; e che Bacco, nato Dio, è versato in onore degli Dei, e il delirio bacchico è una virtù profetica, è la possessione del Dio; ed Esculapio era figlio di Bacco.

Gli Assiri ebbero, come i Sabei, sempre un albero sacro che dapprima fu la stessa asclepia degli Indiani, e poi la palma, donde ancora si cava un liquore, e si noti che il nome pre-semita di Babilonia, è tin-tir-ki — luogo dell'albero della vita ( Lenormant, De l'orig. de l'Hist., 1879).

L'albero sacro agli Egizi era il ficus religiosa, donde traevano un liquore fermentato: e nei riti funerarii le anime porgono la mano a berne il succo che le deve rendere immortali. Curioso è poi che questo del Ficus era nell'India il liquore profano che i Bramini porgevano alle plebi quando ne eran richiesti, invece della sacra Soma ( Katyalyana, X, 9).

Ma i Semiti che, come ci apprendono già le leggende di Noè, e più tardi le imprecazioni di Maometto, poterono forse, grazie al clima, più degli altri, avvertire come gli effetti benefici delle bevande alcooliche erano sorpassati, troppo spesso, dai tristi, conformandosi alle abitudini dei popoli primitivi che ideificano e plasmano i fenomeni così buoni che tristi della natura, ce lo formularono e scolpirono in quella singolare leggenda dell'albero della scienza del bene e del male, che collo stesso nome compare fra i prodotti singolari scaturiti durante la fabbrica dell'Amrita, come già vi ha toccato il Graf, ed è accennata nella leggenda prearia di Yma (Harley, Avesta, 89), ed è scolpita in quel bassorilievo di Ninive, in cui un serpe offre al primo uomo il frutto di una palma ( Layard, Mem. of Niniveh, p. 70. — Lenormant, op. cit.).

Ed ecco forse spiegato perchè in Zendha la parola Madhu valga per vino e dolore, e Kan chinese per albero e peccato, e più sicuramente spiega perchè la palma fosse adorata dagli Assiri, e dagli Arabi antichi — e fosse albero sacro per gli Ebrei, sotto cui profetava Deborah — e come i Sabei adorassero insieme al Setarvan (la vigna profumata), il Sam Gafno, sopra cui aleggia la vita suprema e gli Indi il Kalkavir Keha, l'albero dei desideri.

Per chi rifuggisse dall'ammettere tutto ciò, sarebbe facile la risposta, esponendo[X-1] come primo fece il Mantegazza nelle sue Feste ed ebbrezze, in una tabella grafica, i vantaggi ed i danni dell'alcool, che riescirebbero assai facilmente a riprodurvi una specie d'albero fatale, in cui i frutti benefici vanno pur troppo sopraccaricati e velati da quelli del male, i quali, pur troppo, solo, io mi son preso la briga di esporvi, anche a pericolo di tormi addosso l'odio di tutti i cultori ed adoratori del vino.

Danni del vino. — Io non vi mostrerò come l'alcool sia tutt'altro che un alimento di risparmio e calorifico, come esso lungi dal rendere più tollerabile il freddo, aumenti i danni così dei grandi freddi, come dei grandi caldi, cosicchè si videro, nelle regioni polari e nelle Russie, e nelle Indie, aggravati quei soldati e marinai, che credendo meglio sopportare, così, le fatiche, ne usavano più volte nel giorno, e forse è questa la ragione che i latini nella campagna di Russia soffersero meno dei nordici.

E non toccherò del fatto constatato, nelle epidemie coleriche, che i beoni, anzi, anche solo, i bevitori, erano più colpiti dal morbo che non gli astemî[X-2]; e come gli aborti sieno in maggior numero fra le bevitrici, perfino nelle mogli dei beoni, le quali offersero d'altronde[X-3] una fecondità da due a quattro volte minore delle coppie temperanti; cosicchè questo fatale liquore ben può stimolare le passioni “carnali” sino alla violenza ed al delitto, ma senza pur crescere la fecondità.

L'alcool è causa precipua delle riforme per debolezza e per gracilità nelle truppe di Svezia, che si videro salire fin al 32 p. % nel 1867 e calare al 28 nel 1868, dopo le buone leggi sull'alcool; nei dipartimenti francesi, che, per scarsezza di vino, abusan più di alcool, come Finistere, la gracilità dei coscritti da 32 sale a 155 ( Lunier ).

L'alcool agisce sulla statura. I grandi Wotjak, dopo l'uso dell'acquavita, son calati al disotto della media. E sotto i nostri occhi le bellissime valligiane di Viù perdettero dell'avvenenza e dell'imponente statura dopochè contrassero l'abitudine dell'acquavite.

Dopo ciò, non è meraviglia se esso abbia avuto un'influenza sulla vita media; sicchè a vece d'esser l'acqua della vita, possa ben dirsi l'acqua della morte. I calcoli di Neison dimostrano che i bevitori hanno una mortalità almeno 3,25 maggiore che negli astemî[X-4].

Pauperismo. — Tutto questo ci spiega, già in parte, come uno degli effetti più evidenti e fatali dell'alcool sia il pauperismo. Noi ne vedremo un'altra dimostrazione in quelle tabelle, e in quelle storie dell'eredità morbosa, in cui da un padre alcoolista si dirama una progenie cieca, paralitica, zoppa, impotente, e che di necessità, se ricca, finiva ad impoverire, e, se povera, trovava inaccessibile e chiusa ogni fonte del lavoro. Peggio accade a coloro cui, direttamente, l'alcool rende paralitici, cirrotici, ciechi (V. s. Bizzozero).

Ma anche senza giungere tant'oltre, l'alcool può favorire il pauperismo. Vero è che negli accrescimenti di salario (quando nel Lancashire crebbe il salario dei minatori da 5 a 8 a 11, le morti per ubbriachezza da 495 salivano a 1304 e 2605; ed i delitti da 1335 a 2878, e 4402) crescono a dismisura gli ubbriachi, e quindi le loro male opere. Ma in genere peggio accade quando cala il salario. Il povero si dà all'alcool per sopperire alla mancanza di vestiario e di cibo, per cacciare la sete, la fame ed il freddo; e l'alcool a sua volta rende sempre più impotente e più povero colui che lo usa e insieme sempre più avvinto al suo carro fatale (Mantegazza, op. cit.).

Nelle carestie del 60 e 61 in Londra si osservò che non uno dei 7900 membri della Società di temperanza aveva chiesto un sussidio[X-5]. Huisch osservò che ogni 100 sterline d'elemosina 30 passavano in acquavite; e Bertrand e Lee: che i comuni più decaduti erano quelli in cui crebbe smisuratamente l'uso dell'alcool, e in cui si aumentarono le osterie; una prova ne è pure la Slesia superiore, dove la miseria giunse fino alla morte per fame; e dove l'ubbriachezza imperversava fino a trascinare vacillanti gli sposi innanzi l'altare, ed i parenti dei neonati innanzi al battesimo, così da comprometterne fra i lazzi la vita. Dove, scriveva un predicatore della Slesia, dove è intemperanza, segue, come l'ombra il corpo, la miseria, e quando si può sradicare l'ubbriachezza, più della metà della fiera miseria vien sollevata.

Delitto. — E con la miseria, e dietro a lei, fosco s'avanza anche il delitto, sicchè assai più giustamente il proverbio che vuol in ogni crimine misterioso «cercar per causa la femmina», si potrebbe completare e forse correggere, aggiungendo «o la bottiglia». — Già era stato notato come una delle cause delle divisioni coniugali, e dei divorzî in Germania sia l'ubbriachezza, che per lo meno vi conta nelle proporzioni di 2 a 6 per 100; ed è notorio come i figli dei divorziati e di secondo letto diano forte contingente al delitto ed alla prostituzione ( Lombroso, Uomo delinquente, 2 a ed., p. 269).

Un'altra prova dello stretto nesso tra l'alcool e il crimine ci offrono, pure, quelle statistiche che ci mostrano un continuo incremento di questo nei paesi civili, incremento che la istruzione maggiore, il crescere delle popolazioni ponno spiegare soltanto per una quota del 13 al 16 p. %, e che invece è troppo bene esplicato dallo aumentato abuso degli alcoolici, che salì, appunto, in proporzioni analoghe a quelle del delitto.

In Inghilterra si consumavano:

nel 1790 galloni d'alcool 5,526,890

» 1866 » » 12,200,000.

Gli ubbriachi arrestativi:

nel 1857 erano 75,859

» 1875 » 203,989.

A Milano le osterie

da 1120 nel 1865

salirono a 2140 » 1875 (Verga)

» 2272 » 1878 (Sighele).

Ma una prova decisiva in proposito l'offre uno studio che eseguì ora il prof. Enrico Ferri sulla criminalità in Francia per omicidî e ferite in confronto col vino e coll'alcool consumato, per 18 anni, e che cortesemente mi riassunse in forma grafica (vedi Tab. 1, Fig. 1).

È evidente come tra la linea del vino e del delitto corra un completo parallelismo, in quanto almeno concerne le grandi salienze (1850–58–65–69–75) e decrescenze (1851–53–54–66–67–73), salvo, come è naturale, il 1870, anno eccezionale di guerra, e in cui tacciono gli atti giudiziarî non militari, e salve parziali discordanze del 1876, che non saprei spiegare, non avendo ora le statistiche successive, e nel 1860–61, in cui per altro l'effetto del raccolto vinicolo sembra soltanto spostato di un anno.

Il parallelismo riesce tanto più curioso e singolare, poichè gli autori francesi ed inglesi pretendevano addossare questa influenza fatale solo all'alcool, e non al vino, tanto che, come vedremo, si propose di facilitare la diffusione maggiore del vino nei paesi resi da quello più proclivi al delitto. Ora dalla nostra tavola grafica e dalle statistiche si deduce che il rapporto dell'alcool consumato cogli omicidi e ferite non è così evidente come quello del vino, se non negli anni 1855 al 1858 e 1873 al 1876. E ciò ben si comprende, perchè le risse nascono più facili nelle osterie che dagli acquavitai, dove la dimora è troppo breve per dar luogo a litigi. — Un'altra prova di ciò ci offre l'osservazione del giorno e del mese in cui più spesseggiano i delitti, e son quelli in cui più si abusa di vino. Così Schroeter ( Jahrb. der Westph. Gefong. Gefels, 1871) ci rivela come in Germania:

Su 2178 delitti, il 58 p. % avveniva il sabbato sera, la domenica 3, e il lunedì 1 p. %; prevaleva in quei giorni, nella proporzione dell'82 p. % i rei contro il buon costume, ribellione e incendi; e in quelli del 50 p. % i rei di destrezza.

Anche in Italia, nel solo anno 1870, in cui se ne tenne nota, si riscontra altrettanto[X-6].

FRANCIA-1849-1876, Affari giudicati
FRANCIA-1827-1869, crimini contro le persone

FRANCIA-1850-1876, Suicidii

E quel che è più curioso, in Francia, il Ferri trovò che mentre i reati in genere contro le persone dal 1827 al 1869 (vedi Tav. e Fig. II a ) calano rapidamente dopo l'agosto fino al dicembre, le ferite e percosse gravi, invece, mostrano una recrudescenza ben marcata nel novembre, epoca vicina alle vendemmie e alla confezione del vino nuovo, e notisi che si tratta delle sole ferite gravi giudicate nell'Assise e non di quei ferimenti che si giudicano dai tribunali, e sono i più frequenti risultati delle risse d'osteria.

Lo Sclopis dichiarò in Parlamento, che nove decimi dei delitti che si commettono in Italia, hanno origine nelle osterie. Veramente se si stesse alle nostre statistiche, il vino avrebbe ben poco rapporto col delitto, sarebbe anzi l'ultimo fra i suoi coefficienti; infatti sopra 16,034 condanne in genere nel 1872–74, e sopra 3287 omicidî e ferite si notarono in media su mille:

CONDANNATI IN GENERE 495 commessi per cupidigia 178 OMICIDI E FERITE

227 » vendetta 527

33 » miseria

17 » amori illeciti 83

10 » ubbriachezza 13

10 » socialismo

5 » amori leciti 5

4 » affari politici

3 » religione

3 » dissensi domestici

0 » ozio e giuoco 7

Ma l'erroneità di queste conclusioni emerge subito quando si paragonano a quelle della Francia, come nel seguente quadro che tolgo dal Guerry:

Quadro dei motivi degli attentati alla vita (veneficio, assassinio, omicidio) in 32 anni (1826–1857) in Francia.

237 su 1000 sono causati da risse in osterie.

214 » » cupidità ed interesse.

147 » » rapporti dei sessi { 21 unioni legittime.

126 commerci illeciti.

124 » » rapporti di famiglia.

98 » » opposizione all'esecuzione delle leggi.

51 » » difesa personale — duelli.

30 » » rivalità di comuni e di mestieri.

26 » » odio tra famiglie (Corsica).

13 » » politica e sommosse.

12 » » aiuto prestato all'esecuzioni delle leggi.

10 » » avarizia, crudeltà, contro fanciulli e vecchi.

10 » » ignoranza e perdita della ragione.

10 » » errori ed imprudenze — disperazione.

10 » » motivi ignoti.

6 » » rapporti tra padroni e servi.

2 » » vendetta e malizia.

È impossibile che in un paese che ha tanta affinità col nostro la differenza salga tant'oltre, che noi siamo cioè vendicativi 264 volte più dei Francesi, mentre saremmo bevoni 18 volte meno. Gli è che le nostre statistiche lasciate, fin a pochi anni or sono, in mano ai cancellieri, se non forse agli uscieri, grazie alla nessuna importanza che siamo avvezzi a dare, nelle bisogne giuridiche, ai dati di fatto, hanno confuso sotto la fiera categoria della vendetta, quelle risse che si notano in Francia a parte, come, e perchè nate nelle osterie e in causa delle bevande. Difatti riaggruppandole a questo modo, le proporzioni delle varie categorie ritornano affatto somiglianti fra loro e ritorna a galla la conclusione del Quetelet, che un terzo degli omicidî proviene dall'uso delle bevande.

Nelle carceri Prussiane il 23 per cento, nelle Bavaresi il 34 per cento dei detenuti ha parenti bevoni (Baer, op. cit.).

Secondo l'ispettore delle case penali di Boston sette decimi dei condannati lo erano in seguito all'intemperanza; salirebbero anzi a nove decimi, secondo il giudice di Albany[X-7].

Nel Belgio si calcolava l'alcoolismo provocare il delitto nel rapporto del 25 al 27 per cento.

A New-York, su 49,423 accusati, 30,509 erano ubbriachi di professione[X-7].

In Olanda si attribuiscono al vino 4/5 delle cause dei crimini e precisamente 7/8 delle risse e contravvenzioni, 3/4 degli attentati contro le persone, 1/4 di quelli contro le proprietà (Bertrand, Essai sur l'intemp., Paris, 1871).

Dixon trovò un solo paese in America che da anni va esente da crimini, S. Johnsbury malgrado popolatissimo di operai; ma questo paese adottò per legge la proibizione assoluta delle sostanze fermentate, birra, vino, che vengono somministrate come i veleni dal farmacista, per domanda, per iscritto, del consumatore e con assenso del sindaco, che però appende il nome del reprobo in un pubblico albo.

Tre quarti dei delitti di Svezia si attribuiscono all'alcoolismo e propriamente gli assassinii ed altri delitti di sangue all'abuso dell'alcool; i furti e le truffe all'eredità dai parenti alcoolisti. Sopra 29,752 condannati in Inghilterra alle Assisie, 10,000 erano venuti a tal passo per la troppa frequenza dell'osteria, e 50000 sopra i 90903 condannati sommariamente ( Baer, op. c., p. 343).

In Francia il Guillemin calcola al 50 per cento i rei in seguito all'abuso dell'alcool, e in Germania, il Baer al 41 per cento, fra cui 19 bevoni abituali ( Id., pag. 263).

E ciò è naturale, perchè tutte le sostanze che hanno virtù d'eccitarci in modo anomalo il cervello, ci spingono più facilmente al delitto ed al suicidio come alla pazzia con cui assai spesso si confondono in un inestricabile intreccio; e ciò perchè dapprima irritano i centri nervosi, sicchè quando non accade l'acuta aracnoidite o l'iperemia congestiva, ecc., si formano lente degenerazioni, grassose, sclerotiche, pigmentarie, con atrofia delle cellule nervose, che menano irrevocabilmente alla perdita della funzione (edema, paralisi) ed al suo pervertimento; e ciò quasi indipendentemente dalla natura chimica della sostanza ingesta.

Lo Stanley, or ora, in Africa trovò una specie di banditi detti Ruga-Ruga, i soli indigeni che si abbandonavano all'uso della canapa; nelle tradizioni di Uganda il delitto apparve nei figli di Kinto dopo che introdussero la birra.

Si è notato, persino, questa tendenza nei Medgjidub e Aissaoui, i quali non avendo narcotici si procuravano l'ubbriachezza col continuato movimento del capo. Sono uomini, dice il Berbrugger (Algerie, 1860), pericolosi, feroci e con tendenze al furto. — Anche i fumatori d'oppio sono presi spesso da furore omicida; sotto l'uso dell' haschisch Moreau si sentì attratto al furto.

E peggio fa il vino; e ancor peggio l'alcool, che si può dire vino concentrato, quanto alla attività venefica, e peggio ancora quei liquori d'assenzio, di vermouth, che oltre all'alcool puro contengono droghe intossicanti i centri nervosi.

L'ubbriachezza acuta, isolata, dà luogo, per se sola, al delitto perchè arma il braccio, accende le passioni, annebbia la mente e la coscienza e disarma il pudore.

Gall narra di un Petri, che appena beveva, sentiva nascersi in petto la tendenza omicida; e Locatelli di un operaio trentenne che sotto il furore del vino rompeva quanto gli cadeva tra mano e coltellava compagni e parenti che volessero impedirglielo; Ladelci e Cormignani di un muratore più volte arrestato per risse, che rispondeva a chi nel rimproverava: Non posso farne a meno: quando ho bevuto bisogna che io meni ( Op. c., p. 36).

Qualche volta, dice Briere de Boismont, l'ubbriachezza produce una vera monomania del furto: e narra di un uomo onestissimo che appena aveva ecceduto nel bere si metteva a rubare quanto gli capitava tra mano; passato l'accesso, se ne doleva e restituiva il mal tolto, ma la vergogna di ciò lo trasse ad uccidersi ( Du Suicide, 2 a ed., 1860).

Io stesso conobbi un ufficiale che sotto l'ebbrezza tentò due volte trafiggere persone a lui ignote od amiche, persino la sua sentinella.

V'hanno alcuni bevoni che sono il terrore delle loro famiglie, poichè sotto l'effetto del vino, del vino triste, come lo chiamano i francesi, non parlano che di ferire, sgozzare le persone che poco prima erano loro carissime e queste fuggono inorridite e non a torto.

Quello che negli altri, infatti, è una pensata bizzarra e fugace, sicchè sfuma appena sorta, si muta in costoro rapidamente in azione inconscia, è vero, ma non meno fatale. Un di costoro, per es., tornando una sera verso casa vide un povero contadino, che portava a capezza il suo asino; eccitato dal vino, grida: «Giacchè oggi non ho avuto brighe col prossimo mio, voglio sfogarmi su questo»; e tratto il pugnale fora più volte il ventre di quella povera bestia (Ladelci, Il vino, Roma, 1868, tip. Sinimberghi).

Fu interrogato un minatore bevone perchè avesse colla scure ucciso un povero onesto fabbro, zoppo, che appena conosceva e non gli aveva fatto mai alcun dispetto: Perchè, rispose, non mi piaceva la camminatura. Pensiero da ebbro, ma opera da manigoldo.

Il dott. Cicone che lo racconta, vide nelle miniere delle Boratelle ( L'operaio delle miniere sulfuree, Roma, 1879) entrare i poveri operai, lindi ed onesti e poi in grazia del bettolino messovi in opera ed empiamente monopolizzatovi dai padroni, mutarsi, in meno di un anno, in feroci assassini, che uccidono il primo che trovano, castrano per celia, per es. un povero ebete, che si chiamava Centesimo, perchè non domandava e non voleva d'elemosina che un centesimo; un altro di costoro recide un'arteria ad una donna, il polmone ad un giovinetto, il ventre a due altri, e la scapola a un quinto e non potendo far altro, dopo aver accoltellate le mura, ferisce se stesso; un altro bevone sorprende un poveretto che dorme, lo attorciglia con una corda che unge di petrolio e vi dà fuoco ( Op. c., pag. 9).

Peggio di questi sanguinari minatori sono i contadini di Genzano, dipintici dal Ladelci, che in grazia alla grande abbondanza del vino si trovano in uno stato di continuo eccitamento, e menan ad ogni lieve causa le mani, e perciò escon sempre armati fuor di casa, e persino i fanciulli, ad imitazione dei padri, aguzzano sui sassi dei chiodi per avere delle armi; appena commesso un ferimento, costoro sono vie più trascinati ai furti e grassazioni pel bisogno di vivere e perchè costretti dal vino alla prepotenza e all'uso dell'armi ( Op. c., 9).

L'alcool, infatti, dopo aver eccitato, indirizzato nella via del delitto la sciagurata sua vittima con atti istantanei od automatici, ve la mantiene, ed inchioda, per sempre, quando rendendola un bevitore abituale, ne paralizza, narcotizza i sentimenti più nobili e trasforma in morbosa anche la compage cerebrale più sana; dando una dimostrazione, pur troppo sicura, sperimentale, dell'assioma che il delitto è un effetto di una speciale, morbosa condizione del nostro organismo; tale è, in questi infelici, quella sclerosi, di cui sì bene vi discorse il Bizzozero, che colpisce il cervello, il midollo ed i gangli, come ed insieme a quella che colpisce il rene ed il fegato, ed in essi si esplica col delitto, come negli altri, colla demenza o coll'uremia o coll'ictero, e ciò secondo che colpisce più un organo che l'altro, o più una parte che l'altra dell'organo stesso. E qui le prove mi sovrabbondano. Or ora rinvenni alle carceri un singolarissimo ladro, P..., che si vanta con tutti di esserlo, ed anzi, non sa più parlare se non nel gergo dei ladri, suoi degni maestri, eppure nè l'educazione, nè la forma cranica ci dava alcun indizio della causa che ve lo spinse; ma noi presto ne fummo in chiaro, quando ci narrò che egli ed il padre suo erano bevoni. «Vedano: io fin da giovinetto mi innamorai dell'acquavite ed ora ne bevo 40 o 80 cichetti, e l'ebbrezza di questa mi passa bevendo due o tre bottiglie di vino»; come si vede nella storia che ne pubblicò nel mio Archivio il bravo Collino ( Arch. di Psichiatria e scienze penali, 1880, Fasc. II, Torino).

Or son pochi mesi, pur qui in Torino, un onesto ufficiale di 70 anni, che godè fin alla tarda sua età di fama illibata, datosi nella vecchiaia all'alcool si fece in poco tempo sì triste da strozzare la povera moglie che ne lo rimproverava e fingere che si fosse appiccata. Ma l'astinenza del carcere in breve faceva in lui ripullulare l'antica onoratezza, sicchè confessò tutto, e ai giurati, che il condannavano a 15 anni di reclusione: È alla morte, disse, che dovevate condannarmi, alla morte.

Un carattere, dice Tardieu, manca quasi mai nei bevoni che han commesso un delitto; è la strana apatia e indifferenza, la nessuna preoccupazione del proprio stato che è veramente comune ai delinquenti veri, ma che in essi è ancora più spiccata. Stanno in prigione come in casa propria, quasi meglio, nè si preoccupano del loro processo, nè di ciò che han fatto; appena è se si ridestano un momento davanti al giudice.

Un uomo di 30 anni, già bene educato, che aveva fatto il medico e il farmacista, lo scrivano, l'impiegato e sempre era stato rimandato per abuso di liquori, trova sulla strada una guardia e la uccide credendo volesse arrestarlo; la prima cosa che scrive a sua madre dopo entrato in prigione, è che gli mandi della pomata; al giudice rispondeva che l'interrogatorio era inutile «che egli già aveva scelto un nuovo mestiere, di fare il fotografo». Solo dopo lunghi mesi di astinenza nel carcere cominciò a rientrare in sè e comprendere la gravità della sua situazione ( Tardieu, De la folie, 1870).

Un fiero esempio di questo strano effetto dell'alcool ce lo pose sott'occhio il troppo famigerato Fusil. Nasceva egli da padre alcoolista e tanto scialaquatore, che pur poverissimo, in un pranzo spese 134 lire, e dopo aver ridotto ad uccidersi la povera moglie, s'annegava egli stesso, pare volontariamente. Fusil, il degno figliuolo, mentre si mostrava spietato coi parenti che lasciava basire di fame, era benevolo, generoso, coi compagni d'osterie; strappato un migliaio di lire al fratello se le mangiò in pochi giorni coi suoi compagni di bettola. A 18 anni colpì di falcetto i suoi zii. A 22 feriva un compagno d'osteria; a 24 uccideva il Gambro che l'ospitava pietosamente, con 11 ferite, dormendo poi due giorni vicino al cadavere, e la sera gozzovigliando ancora cogli amici e in pochi giorni consumando in Svizzera quanto aveva con tanta tristizia usurpato, e quanto eragli urgente conservare se voleva sottrarsi alle ricerche; dopo arrestato parlava del suo delitto come di uno scherzo, eternavalo anzi infine in un monumento singolarissimo (V. sotto,pag. 399 ).

È il vino bevuto da lui e da suo padre che modificava così profondamente la psiche da fargli venir meno ogni previdenza ed ogni senso di moralità; e altrettanto avvenne a molti delinquenti.

Mabille, p. es., un dì porta gli amici all'osteria; s'accorge che non ha denaro; tosto esce, uccide il primo che trova e poi torna a pagare lo scotto.

Non è molto, da noi, certo Calmano Antonio, ex impiegato, esplose sul proprio figliuoletto di 4 anni una pistola e indi si avventò ferocemente sulla figlia maggiore che tentava salvare il fratello e credendoli morti, feriva quindi se stesso; egli, precisamente come un altro suo collega Valessina, da buono e vecchio impiegato s'era a furia di vino trasformato in vizioso e fu licenziato; nè rimasto senza lavoro, perdette la brutta abitudine; rivendette un mobile dopo l'altro per convertirli in vino, finendo col letto stesso su cui dormivano i poveri figli; col provento del quale si comprò l'arma fatale.

Prunier, stalliere, da 5 anni si dava all'alcool, che lo spingea ad eccessi; una mattina si leva dicendo: Oggi devo fare un gran colpo, devo battermi; percorre tutte le osterie e ritorna ai suoi cavalli la sera: cerca attaccare una donzella, ma essa gli sfugge; assalta allora una vecchia massaia, la viola, l'uccide, la getta nel fiume; pochi minuti dopo la ripesca, rinnova gli oltraggi; ritornato a casa si mette a dormire; svegliato, tutto confessa. Evrard alla sezione constata un'antica pachi-meningite, evidente effetto dell'alcool (Desmaze, Hist. de Méd. Légale en France, 1880).

L'alcool è oltre ciò causa di delitti perchè il bevitore dà luogo a figli delinquenti; perchè molti delinquono per poter ubbriacarsi; perchè molti son tratti dall'ubbriachezza al delitto, oppure nell'inebbriamento si procurano, prima, i vigliacchi, il coraggio necessario alle nefande imprese e poi l'amminicolo ad una futura giustificazione, e colle precoci ebbrezze seduconsi i giovinetti al crimine; ma più di tutto perchè l'osteria è il punto di ritrovo dei complici, il sito dove non solo si medita, ma si usufrutta il delitto e per molti questa è abitazione e banco pur troppo fedele. In Londra nel 1860 si contavano 4938 osterie ove entravano solo ladri e prostitute.

Finalmente l'alcool ha una connessione inversa col crimine o meglio col carcere; nel senso che dopo le prime prigionie il reo liberato ha perduto ogni vincolo di famiglia, ogni punto d'onore e trova nell'alcool di che dimenticarli e supplirli; perciò tanto spesso l'alcoolismo si offerse nei recidivi; e perciò si comprende come Mayhew trovasse quasi tutti i ladri di Londra ubbriachi dopo mezzodì, così da morirne tra i 30–40 anni per alcoolismo, e come fra i deportati della Numea, che bevono, oltre che per la vecchia abitudine, anche per dimenticare il disonore, la lontananza della famiglia, della patria, le torture degli aguzzini e dei compagni e forse i rimorsi, il vino diventasse una vera moneta; sicchè una camicia valeva un litro, un abito due litri, un pantalone due litri, e perfino il bacio della donna si saldava con litri ( Simon Meyer, Souvenirs d'un déporté, pag. 376, Paris, 1880).

Suicidio. — Già da queste storie abbiam potuto travedere come uno fra i frutti fatali dell'alcool sia il suicidio. Vidimo quanto esso sia frequente nei figli degli alcoolisti e come si mescoli ed intrecci sì spesso ai tentativi omicidi dei bevoni; gli è che quella stessa indifferenza che a poco a poco l'alcool induce nel reo verso i dolori altrui, esso finisce per ispirare pure pei proprii, e l'uomo scherza coll'idea della morte, e ne calcola i giorni ed analizza i primi fenomeni, con una strana, satanica calma.

L'esempio più eloquente ce lo porse quello stesso Fusil, che fin dal momento dell'entrata nel carcere, aveva fatto il proposito di uccidersi dopo passato il centesimo giorno; e nell'intervallo scolpiva un vaso in cui dopo aver infamato a suo modo la sua povera vittima ed essersi ritratto appeso ad un'inferriata, preparatosi, collo sfilacciare un lenzuolo, un cappio opportuno, si appiccava davvero dopo aver ben ben riempito di cibo lo stomaco e di tabacco la bocca (V. Uomo delinquente di C. Lombroso, 2 o e p. 516).

Chi non vede, qui, un cinismo e una perdita di sensibilità che esce dalla cerchia normale? e chi non è lieto di trovare nel cervello di questo un'infiammazione della meninge, cronica, che era certo effetto dell'alcool; che non era stata mai avvertita nella vita e che mentre ci spiega i suoi atroci malfatti, spiega pure la triste fine con cui quasi inconscio ei li espiava?

In altri suicidi alcoolisti assai più spiccata è l'inconscia irresistibilità, l'automatismo dell'atto. Pochi giorni fa curai un ubbriacone, che passeggiando dopo un'ultima bevuta, presso il Po, tutto ad un tratto si spogliava, si gettava nell'acqua; e salvato dichiarommi non avere avuto mai alcuna intenzione di suicidarsi.

In molti, il suicidio se non è effetto di insensibilità od automatismo, lo è di capriccio sì strano, subitaneo e sanguinario che assai tiene dell'uno e dell'altro. Mayer ci dipinge nel carnefice di Numea un bevone così appassionato del suo mestiere, che un giorno, essendosi commutata la pena ad uno che egli doveva ghigliottinare, fu preso da un accesso di furore, ed andato nella cella del condannato quasi lo finì a colpi di pugno; ma il più curioso era la tenerezza veramente alcoolistica che lo legava al suo fatale strumento. «Guardatela come taglia bene, è la figlia di papà. Noi siamo vecchi amici, ella mi paga le mie sborgne a 10 franchi a testa». Avendo poi sentito essersi fatta la proposta di cangiargli l'istrumento con un più raffinato, impallidì, protestò che non gli si cambierebbe la sua cara figliola; e quando essendo ubbriaco sentì forse per celia buccinare che un bastimento era giunto col nuovo modello ( Souvenirs d'un déporté, 1880, pag. 292), entrò in un furore terribile, minacciò d'accoppare chi portò quella nuova, e senza badare a chi cercava calmarlo, andò a rivedere un'ultima volta il suo caro strumento e lì, presso a quello, s'appiccava.

In alcuni, come sopra notammo, questa tendenza si mesce o meglio segue all'omicida, e ne è la crisi o l'espiazione. «Voglio uccidermi, diceva un tale ubbriacone, ma prima voglio finire anche mia moglie», e compito il misfatto s'uccideva davvero per sfuggire alla pena ed ai rimorsi. Un altro mentre era quieto a tavola tira improvvisamente il coltello contro i suoi vicini, li scanna, poi va in camera e si spara un colpo nel cranio.

Certo B. (narra il Locatelli, Sorvegliati, pagina 150, Meh. 1876), venditore di commestibili, in istato di esaltazione alcoolica, provava una smania indicibile di scialarla da gran signore; ma trovando il mobiglio di casa poco conveniente ad un milionario suo pari, si mise a gettarlo dalla finestra, con pericolo di ammazzare i passanti; e siccome sua moglie cercava trattenerlo, si armò di un lungo coltello e la inseguì furibondo; la povera donna potè appiattarsi sotto il letto; ma egli credendo di averla uccisa, spinto da subitanea disperazione, si gettò a capo fitto dalla finestra. In pochi mesi guarì e pote riabbracciare la pretesa sua vittima.

Alcuni (secondo Briere ammonterebbero a 20 ogni 100 suicidi) si uccidono perchè sentono di non poter resistere alla smania del bere, alla vergogna e al delitto cui questa mena, come quel padre onesto, cui sopra toccammo, cui il vino rendeva cleptomaniaco; altri perchè fatti impotenti e poltroni dal vino si sentono incapaci al lavoro e preferiscono una morte immediata alle torture della fame; moltissimi, poi, affatto inconsci, trascinativi dalle allucinazioni sorte improvvisamente in grazia dell'alcool; uno p. es., fantastica vedere un soldato suo nemico, lo insegue e cade nell'acqua; un altro si getta dall'alto per sfuggire immaginarie minaccie, ecc.

Tutto ciò spiega il perchè vi sia una quota sì forte di suicidi per alcoolismo che va crescendo ogni anno; così secondo Lunier in Francia:

salivano a 7 % i suicidi per alcool nel 1849

» 14,6 » » 1859

» 17,0 » » 1875

ed in Sassonia al 10 per cento, in Russia al 38 per cento, in Danimarca al 17 per cento ed in Prussia all'8,50 per cento[X-8], in Berlino assai più, al 25; ciò ci spiega come i suicidii, tutti, si vedano mano a mano crescere da noi in linea esattamente parallela a quella dell'uso degli alcool; e come una carta grafica del suicidio in Europa ci dimostri un curioso parallelismo con quanto si intravvede sul consumo dell'alcool, superato e non sempre da due soli fattori; quello del clima non esageratamente freddo ed accompagnato da una diffusa coltura. Egli è perciò che noi vediamo spiccare la Danimarca, 267 su 1 milione[X-9], e la Sassonia, 300; e appunto come nel consumo degli alcooli prevale sulla Scozia e l'Irlanda, l'Inghilterra pei suicidi ( Morselli, Sul Suicidio, Dumolard, 1880):

Inghilterra galloni alc. 0,24 al 1859 per testa — 0,51 nel 1869 — suicidi 62 su 1 milione abitanti.

Scozia galloni alc. 0,22 al 1859 — 0,30 nel 1869 — suicidi 35 su 1 milione abitanti.

Irlanda galloni alc. 0,11 al 1859 — 0,25 al 1869 — suicidi 14 su 1 milione abitanti.

Volendo addentrarci più ancora di quello che sulle prime ci mostrino le cifre, troveremo che anche l'azione della coltura si somma in gran parte coll'azione dell'alcool; e infatti quanto più va innanzi la civiltà, più si aumentano i grandi agglomeri e quindi i bisogni degli eccitamenti dei sensi, le due concause prepotenti degli abusi alcoolici; se fosse il freddo per sè che aumenta i suicidi, noi dovremmo averne una maggior quantità nelle stagioni fredde, ma essi invece abbondano specialmente nelle calde; essi dunque non preponderano nei paesi più nordici in confronto ai più meridionali, se non per un'azione estranea al freddo, benchè poi sia con questo in stretto rapporto; tale è l'alcool cui si abbandona di più l'abitante dei paesi più nordici anche per l'erronea idea che esso giovi a tutelarlo dal freddo.

Tuttociò ci spiegherà perchè in questa carta grafica (Tav. I, fig. III) che dà il consumo dell'alcool, ed il numero dei suicidii in Francia dal 1850 al 1876, vediamo in parecchi anni a salienze meno recise (1850–52=1854–56=1858–60=1872–73–74) un certo parallelismo fra i due fenomeni, che ancor meglio spicca se si confronta agli anni a maggiori suicidii negli anni consecutivi a quelli delle maggiori oscillazioni di alcool, e viceversa; per es., la diminuzione dei suicidii del 1858 segue a quella dell'alcool nel 54 — l'aumento del 62 che corrisponde a quello del 1858 — quello del 68 a quello del 66 — la diminuzione del 75 a quella del 72, e l'aumento del 1876 a quello del 75. Il che ben si comprende perchè le tendenze suicide sono quasi sempre espressioni dell'alcoolismo cronico, che naturalmente non si manifesta se non alcuni anni dopo l'abuso.

Delirium tremens, alcoolismo cronico, ecc. — E omicidio e suicidio spesso non sono che una ultima manifestazione di quella più grave fra le conseguenze dell'alcool, che è la pazzia.

Sulle prime gli ostinati bevitori di vino e più di acquavite (l'uno finisce per mutarsi quasi sempre nell'altro col perdurare del vizio) — soffrono dolori nelle ossa e fugaci nevralgie, come frizzi elettrici, od un senso profondo di debolezza che sembra lenirsi col vino; la vista, più tardi, si fa loro torbida: travedono mosche, scintille; il color verde appar lor bianco, il violetto rosso, il bleu grigio, il rosso giallognolo, e ciò specialmente da un lato; mancano i fosfeni; negli arti inferiori accusano, non di raro, una esagerata sensibilità, onde un piccolo tocco è causa di enormi dolori (Huss, 356); e si sentono rosi da vermi imaginari, bruciati da zolfanelli: nè l'udito va immune da queste iperestesie, chè odono campane, susurri, voci alle volte indistinte, alle volte più spiccate, e anche qui più specialmente da un lato.

La memoria spesso è intaccata, e i sonni brevi e turbati da sogni spaventevoli: il carattere morale va cangiando, e il bevone, gaio fra gli amici, diventa taciturno e fino feroce in famiglia, e non acquista letizia che sotto nuove bevande.

Le facoltà digestive, che dapprima si ravvivavano, coll'alimento, ora vanno sempre più mancando. Oltre alla nausea d'ogni cibo solido, ai crampi gastrici, li tormenta spesso al mattino un vero vomito, non di raro, seguìto da diarrea.

Più tardi cominciano a manifestarsi, e più al mattino, dei tremori alle mani che s'estendono alle braccia, alla lingua, al tronco, e delle contratture specialmente ai muscoli flessori del piede, ai polpacci; e più o meno presto, secondo che vi sono specialmente predisposti ( Emminghaus, Pathol. der Irrenkr., 1879) da paralisi progressiva incipiente, da tifo pregresso, da traumi al corpo, e dall'abuso di absinzio, cominciano a spuntare le allucinazioni e le illusioni, di raro gaie, spesso terribili, sempre svariate e mobilissime, e che attingono quasi tutte, come nei sogni, alle ultime o più gravi impressioni[X-10]: ai tempi del 1859 erano i Tedeschi, ora sono i carabinieri, le spie, gli accoltellatori politici; il merciaio ambulante vede le sue merci per tutto e cammina a salti per non sciuparle — il pastore vede le sue pecore e le chiama per nome. Il loro carattere prevalente è la mobilità e terribilità; tutto vi sfugge e si cangia rapido come nei fantasmi dei sogni, ma si cangia sempre in male, e le poche volte che uno trasogna, nel delirio, foreste di frutta odorose e di fiori lucenti, finisce col vedersele mano mano trasformate in un deserto popolato da iene feroci; un R...., p. es., che si credeva milionario, possessore di immense foreste, vede, poi, sorgere da terra improvvisamente centinaia di ladri che lo deruban di tutto.

La stranezza e tristezza della fantasia è in essi effetto delle strane condizioni patologiche prodotte dall'alcool: così l'anestesia cutanea, l'anafrodisia alcoolica fa lor credere d'aver perduti gli organi sessuali, il naso, una gamba; la dispepsia, la stanchezza, la paresi fa lor sospettare d'esser avvelenati, perseguitati. Il De Amicis ci rivelò un'altra fra le cause di questa morbosa tristezza che predomina in tutte le fasi della patologia dei bevoni: il contrasto che lor si fa palese tra la vita prosaica, reale, e quella colorata dai vapori del vino; e noi aggiungeremo la reazione che segue agli stimoli troppo forti o troppo prolungati. Un passo più in là, ed essi, in preda ad un'acuta lipemania, o meglio panofobia furiosa si credono accusati di delitti immaginari e carichi di catene, fra un monte di cadaveri, e domandano misericordia o tentano uccidersi per sottrarsi alla malaugurata vergogna, o restano stupidi, immobili, come chi è colto da un immenso terrore. Non di raro, grazie alla fede sincera, che (a differenza di molti altri pazzi) prestan alle proprie allucinazioni, sono dal raptus melanconico trascinati in una follìa d'azione spesso omicida e suicida; e credendosi lottare con ladri o bestie feroci, si slanciano dalle finestre, corrono, nudi, le vie, od uccidono il primo mal capitato. Uno, p. es., che io guarii, ed era stato sin allora buonissimo figlio e buono sposo, fantastica di essere avvelenato dalla sua propria madre, e tenta di ucciderla. — Siccome un precipuo punto di partenza alle allucinazioni è la modificazione degli organi indotta dall'alcool, specialmente degli organi sessuali (iperemia e poi adiposi negli epiteli dei canali seminali donde la impotenza preceduta da brevi ma intensi eccitamenti), e siccome la loro tristezza si acuisce, come vedemmo, nelle pareti domestiche, così spesso volgono la mano omicida contro la moglie o l'amante che essi han, nella loro immaginazione, creduto vedere dar loro prove materiali d'infedeltà.

Krafft-Ebbing e Marcel ne riscontrarono 23 di tali casi negli uomini, e 3 nelle donne. Io pure ne ebbi sott'occhi due, che in modo atroce uccisero le loro mogli onestissime che in nessun modo avrebbero potuto dar luogo a gelosia.

Mi ricordo in ispecie un Gaz... di Bergamo, atletico, ma con un cocuzzolo microcefalico, ed enorme gozzo, figlio di apoplettico e che da anni beveva per la sua minima quota non meno di 7 litri di vino; cominciò a provare allucinazioni paurose di carabinieri, ladri, soldati; poi ad istizzirsi colla moglie vecchia e brutta, per immaginarie gelosie; un giorno fugge di casa facendo delle croci nere sui muri, vi ritorna la notte e fantasticando che la moglie gli confermasse, essa stessa, le immaginarie infedeltà, dopo poche ore e dopo bevuto un buon litro di vino, la squartò con una falce. Un altro, invece, che fu pessimo marito, rivoleva per forza ed a colpi di scure la moglie ch'era morta, in parte in grazia sua, all'ospedale e pretendeva farla rivivere.

In alcuni il delirio d'azione scoppia improvviso come un accesso epilettico colla stessa brevità, precipitazione, ferocia; sicchè qualche volta sembrano vere bestie feroci, e coi capelli irti, digrignando i denti, mordono, strappano le zolle, gli abiti, si precipitano dall'alto. Questi sintomi sono preceduti da vertigine, cefalea, rossore della faccia; e accadono più di spesso nei predisposti, per traumi del capo, tifi, eredità, o dopo grandi patemi o digiuni e spesso non sono in rapporto colla quantità, alle volte scarsa, di vino bevuto, nè collo stato fisico, potendo offrire appena un leggero tremore, spesso anzi apparendo aumentata l'energia muscolare; tuttociò scompare qualche volta in poche ore senza lasciare la minima ricordanza ( Krafft-Ebbing, 182).

È insomma una specie di epilessia larvata, il che tanto meglio può dirsi, inquantochè delle vere epilessie alcooliche notansi in molti bevoni, ma più specialmente in quelli d'assenzio, nei quali ultimi, secondo Motet ( Considérat. sur l'alcoolisme, 1879), scoppierebbero, tutto a un tratto, senza essere precedute da tremori, nè da allucinazioni. Non è molto che Drouet contava a 54 gli epilettici su 529 pazzi alcoolisti; e fra questi si noti bene, uno che non aveva usato, nè abusato di alcool, ma solo esclusivamente di vino e birra. — Qualche volta l'epilessia compare quando ogni altro sintomo d'alcoolismo è svanito; in genere però essa si nota sui 40 ai 60 anni, quando l'asse cerebrospinale può opporre minor resistenza agli assalti dell'alcool ( An. Med. Psich., 1875).

Ma v'ha una forma, più grave ancora, di delirio tremens, quello detto acutissimo, o meglio ancora febbrile, che ha due caratteri speciali: moti fibrillari sotto-cutanei, veri fremiti muscolari, che non cessano nemmeno nel sonno, accompagnati o da coree parziali ma continue, specialmente della faccia o degli occhi o da paralisi che è peggio; — ed il calore febbrile che sale fino a 40° a 43°, dopo essere stato per qualche tempo a 38°, 39; — meno grave se salendo sulle prime a 40 cala in secondo giorno o terzo a 38°,3 (Magnan).

Il Magnan osservò che le allucinazioni e i deliri, per quanto acuti e numerosi, non danno mai a temere tanto come i rialzi di temperatura, specie quando associati ai fenomeni di morbosa motilità, che siano o troppo estesi o troppo persistenti, men fatali essendo, ad ogni modo, gli intensi, ma isolati e di poca durata.

Nè è a credere, poi, che uno e anche parecchi accessi di delirium tremens bastino per guastare del tutto l'intelligenza e trasformare un vizioso in un demente. Tutt'altro; v'hanno casi, invece, in cui l'abuso dell'alcool può andare di pari passo con quello dell'intelligenza, e quasi quasi, fin favorirlo; sicuramente fra i grandi uomini che abusarono dell'alcool, va annoverato Alessandro Magno, che vuolsi, morisse dopo aver vuotato 10 volte la tazza d'Ercole, e che certo, già prima, in un accesso alcoolico, seguendo nudo la infame Taide, aveva ucciso il suo più caro amico. Nè pare fossero molto astemii Socrate, Seneca ed Alcibiade, Augusto e Cesare, spesso portato a casa sulle spalle dai soldati, e Tiberio, che era detto Biberio, ed Eliogabalo, così innamorato del vino da farne un piccolo canale navigabile, e nemmeno Catone, se ben dice Orazio: Narratur et prisci Catonis Sæpe mœro caluisse virtus — e peggio ancora, Settimio Severo e il suo collega Jovanio, ed Odeberto d'Inghilterra e Mahmud II, che tutti morirono ebbri o di delirium tremens; e tenaci bevitori erano il Contestabile di Borbone, e Avicenna, di cui si disse che passò la seconda metà della vita a dimostrare come fossero inutili gli studi fatti nella prima; e molti pittori, per es. Caracci, Steen, Barbatelli detto perciò il Pocetta, e moltissimi poeti, come Murger, Gerard de Nerval, Musset, Kleist, Mailath, con a capo di tutti Tasso, che in una sua lettera scriveva: «comechè non nego d'essere folle, mi giova credere che la mia follia sia cagionata da ubbriachezza o d'amore, perchè so bene io che soverchiamente bevo»: altrettanto dicasi di Poe, di Swift che fu detto ai suoi tempi il più assiduo frequentatore delle taverne di Londra, di Lenau, di Hoffmann, di Rovani, di Praga. Tuttavia in molti fra questi la triste sorgente dell'ispirazione si travede negli scritti improntati da un erotismo artifiziato, malsano, che sente più che la carne, la droga, e da un'ineguaglianza di stile, da una originalità più bizzarra che bella, grazie alla troppo sbrigliata fantasia, alle frequenti imprecazioni, ai passaggi bruschi dalla più cupa melanconia alla più oscena gaiezza e ad una tendenza a dipingere la pazzia e l'alcoolismo, e le scene più tetre della morte.

Vi son giorni che il mio cor vien meno

E il fango mi conquista

cantava il povero Praga cui l'alcool uccise.

E lodando il vino, bestemmiava:

Venga l'obbrobrio — Dell'uomo sobrio

Venga il disprezzo — Del gener umano

Venga l'inferno — Del Padre Eterno

Vi scenderò col mio bicchiere in mano.

Poe dipinge troppo bene il delirium tremens per non averlo veduto assai da vicino — e frammischia cadaveri risuscitati alle fantasie più gioconde: e v'ha dello ubbriaco fradicio nelle strambe proposte di Swift[X-11], e nelle caleidoscopiche fantasie di Hoffmann, i cui disegni finiscono in caricature, i racconti in istravaganze, la musica in accozzaglia di suoni; ed egli già molti anni prima della morte scriveva nel suo giornale: «Perocchè nella veglia e nel sonno, i miei pensieri corrono sempre, mio malgrado, al triste tema della demenza; pare che le idee disordinate sgorghino dalla mente mia, come il sangue dalle vene spezzate».

Tutto ciò si spiega coll'essere egli stato soggetto ad una vera lipemania alcoolica, che gli faceva convertir in realtà le sue strane fantasie.

Alfredo Musset vede le senore di Madrid scendere les scalons bleus, e con strano gusto, ci mostra prediligervi,

Sous un col de cigne,

Un sein vierge, et doré comme la jeune vigne.

Mardoche.

Murger adora le donne dalle labbra verdi, e dalle guancie gialle. — Son errori estetici provenienti dal daltonismo alcoolico; così il mio egregio amico Prof. Raymond curò un pittore, celebre, che divenuto alcoolista abbondava nelle tinte gialle in luogo delle rosse e verdi; ed un altro, cui l'alcool avendo scancellato completamente il senso dei colori rese maravigliosamente abile nelle tinte bianche, sicchè riescì tra una e l'altra ubbriacatura il più grande pittore di nevi di tutta la Francia.

Pazzie. — Anche i sintomi del comune delirio scompaiono in brevissimo tempo; 8 giorni al più e senza gravi conseguenze, allo stesso modo come vi possono essere accessi di delirio in individui che bevvero molto ma senza ubbriacarsi[X-12]. Il Canstatt narra di uno che ne patì 10 accessi in un anno solo, eppure guarì perfettamente. Io mi ricordo un povero pretore, che pativa perfino di accessi epilettiformi, e nello stesso tempo, paralitici con completa demenza, e poi si riaveva completamente; si noti qui come l'appressarsi del tristo accesso gli si rivelava nella scrittura che da chiara e ferma si faceva tremolante, confusa e con la curiosa dimenticanza delle consonanti, p. es., roccapetrosa in roa peroa, evidentemente per riflesso della paresi dell'ipoglosso; ed un altro che minacciava di uccidere tutti i suoi immaginari avvelenatori, tornò dopo due giorni, in famiglia, tenero ed affettuoso assai più di prima.

Benchè tutti i sintomi siano scomparsi, tuttavia un buon osservatore può ancora trovarne qualche traccia nella loquela alquanto incerta e tremolante, nei moti fibrillari della faccia, nei tremori che riproduconsi specie al mattino o sopravvengono dopo una forte emozione; nella pupilla ineguale, nella vista annebbiata, o in qualche preoccupazione ipocondriaca; in qualche illusione che passa però rapidamente ed in un certo suo errore di pronuncia, per cui se è in mezzo agli amici (al contrario dei balbuzienti), sopprime o qualche sillaba o frase alla fine del periodo e financo un intero periodo (battarismo), più spesso in un cotal sorriso stereotipato specie quando si parla del vino e in una gaiezza smoderata e che s'alterna con ostinata tristizia e taciturnità od in una vera atassia incipiente, sicchè mentre può reggere ad un centinaio di chilometri, non riesce ad occhi chiusi a procedere innanzi di un passo.

In alcuni poi resta latente o esplicita una traccia del delirio, e si ha una vera mania, o monomania alcoolica[X-13]. Un Rev... che nel delirio si immaginava tradito dalla sua donna, guarito seguitava a guardarla in cagnesco e parlava a tutti della sua sventura. Un Belm...... che attribuiva a persecuzioni magnetiche o spiritiche di un suo parente, i fenomeni morbosi prodottigli dall'alcool, pur conservando negl'intervalli la sua intelligenza e scrivendo dei bellissimi versi, accusava continuamente il suo preteso magnetizzatore. — Il suo collega di sventura, Gonsing..., un filologo ingegnosissimo, che, nel raptus alcoolico-lipemania, fuggiva per le vie, furioso, tremante, seminudo, innanzi alle immaginarie vendette di Ad..., pur racquistando, dopo sei giorni, l'intelligenza, per modo da poter fare esatte traduzioni dal tedesco, seguita a darci la prova, con alcuni suoi scritti e geroglifici curiosissimi, delle persecuzioni magnetiche del suo fantastico nemico Ad..., come ho mostrato nel 1 o numero del mio Archivio di psichiatria e scienze penali, Torino, 1880, pag. 11, e tav. 1 e 2.

Anche in coloro, in cui ogni segno di delirio scomparve, esso può ritornare come colpo di fulmine, tutto a un tratto e anche senza la precedenza d'abusi, quando sopravvenga una forte emozione, un trauma, una grave malattia, specie se dei polmoni.

Alcoolismo cronico. — In quasi tutti, ad ogni modo, il carattere è cangiato e col continuarsi dell'abuso si va formando o una semplice demenza quando il processo alcoolistico tende alla steatosi ed agli ateromi, o la paralisi generale, se, invece, tende alla sclerosi cerebrale.

Il corpo dapprima ingrassa (per la maggior proporzione di adipe nel sangue) ma poi dimagra; la pelle untuosa, umida, per l'iperemia delle glandule sebacee e sudorifere, sicchè invernicia così sudiciamente gli indumenti dei bevitori, si fa arida, qualche volta exematosa, poi giallognola, le mucose violacee, scabre, secche, e scarsi i capelli.

La memoria va sempre più infievolendo, e la parola facendosi incerta e scorretta, rallentate le associazioni d'idee, ottusa la sensibilità, confusa la percezione, il giudizio erroneo, onde impossibilità di lavoro continuato, insonni le notti. Le antiche allucinazioni ricompaiono, ma meno vive, smussate e a grandi intervalli, e mutandosi continuamente come nel campo di un caleidoscopio; mentre il comune alienato da monomania di persecuzione, vede sempre il gendarme, la spia, che prima lo spaventavano nel suo delirio; — il bevone che prima tremava davanti ai tedeschi, poi trema del giudice, e poco dopo del cane.

In una cosa solo non muta — nel bere. — L'infelice, tutto preda ai suoi istinti e capricci, non pensa che a questi; e beve e ribeve, sia perchè si sente debole, ipocondriaco e trova nell'alcool, per un momento, un rimedio ai suoi mali, rimedio però che a sua volta poi ne raddoppia e moltiplica i danni, o perchè ogni altro lato della sensibilità gli si va spegnendo. Una signora (racconta Briere) si ubbriacava, già fin da 16 anni, di nascosto nel convento; maritatasi, vi si abbandonò tanto che il marito ne morì di dolore; consumava il patrimonio in vino, e a chi ne l'ammoniva, rispondeva: «Voi avete ragione, ma è più forte di me»; ridotta in cenci, vendeva le vesti che le erano regalate per cambiarle in acquavite. — Innanzi alla bramosia degli alcoolici vien meno in costoro ogni volontà, ogni riguardo agli amici più cari, ai doveri di famiglia, all'onore. — Anche al di fuori di questa causa, si inizia nel bevone una vera degenerazione progressiva del sentimento, che va di pari passo coll'intellettuale; ei si è fatto irritabile, brutale, fuori e più in casa, morositas ebriosa. Una pigrizia progressiva lo invade, sicchè va sempre più tenendo in non cale l'onore della famiglia, i doveri di onest'uomo; lascia al caso l'andamento degli affari, vede senza commoversi la miseria dei suoi, è immerso in un'ebetudine continua; ed immobile, per ore intere, straniero a ciò che gli s'agita intorno, sta, collo sguardo atono, spento, quasi in cerca della vita che gli vien meno; e non esce dal torpore che per dare in smanie brutali e non di rado in tentativi di omicidio, suicidio, di stupro; — e notisi, quanto più in basso discende, tanto più al di fuori di casa è gaio e contento: sopratutto quando gli si mostri la prediletta bevanda.

Ed i mali fisici tengono dietro agli psichici: cefalea, insonnia, vertigini, susurro agli orecchi, crampi negli arti, od improvvisa sonnolenza, a cui seguono paralisi, convulsioni parziali delle membra, dei muscoli della faccia, e qualche volta perfino accessi epilettici.

Le allucinazioni non ricompaiono più che a grandi intervalli; ma i sensi si fan ottusi del tutto e gli odori più acuti riescono inavvertiti, e perfino le mucose più non reagiscon, anche se irritate. — Sembrerebbero automi se non fosse quello strano sorriso, quando loro si mostri la fatale bevanda; e parlano di sè in terza persona: Carlo ha mangiato, ha bevuto, ha fame: oppure, afasici, non riescono a formular la parola, ma una volta afferrata, la ripetono o ne ripetono l'ultima sillaba per ore intere, con disperante insistenza. — Da ultimo anche il polso si trasforma: si osserva una linea ascendente brusca e l'apice appiattito a cui si attacca una brusca linea discendente (Magnan).

In non pochi, come ben nota Magnan, la paralisi si limita ad un lato, quasi sempre il sinistro, e il senso tattile divaria enormemente da un arto all'altro che si mostra otto o nove volte più ottuso del normale, soprattutto quando le punte sono poste nel senso dell'asse del membro.

La temperatura, dal lato paralizzato, è inferiore di due e perfino tre gradi; mentre dal lato sano possono percepire fino a mezzo millimetro, dal malato può cessare la vista, e mancare i fosfeni o percepirsi uno o due millimetri; anche l'udito è da un lato più ottuso di cinque a dieci volte dell'altro e nemmeno la corrente indotta vi provoca sensazione di suono.

Il dipsomane si confonde coll'alcoolista da alcuni; eppure se l'uno mena all'altro, e viceversa, pure se ne differenzia e di molto: chè l'uno beve vino, quando ne trova, sempre; l'altro quando vi è spinto dal male.

Qui più che non effetto del vizio, o di prave abitudini la è una vera e propria malattia che può venire anche nei più temperanti, e che si esplica con uno strano bisogno di bere per il tempo che dura l'accesso sempre intermittente, ogni 15 dì, ogni 6 mesi, sovente, secondo Brühl-Kramer, nei noviluni (v. Lombroso, Pensiero e meteore, p. 81), e che comincia appunto, come in molti accessi maniaci, con ansia precordiale, melancolìa, cefalea; gli infelici sentono venir l'accesso — chiedono essi qualche volta di essere impediti dal bere, e se nol siano, vi si abbandonano senza misura per 7 a 8 giorni, e poi dopo un sonno grave, prolungato, tornan sobrii come prima. Magnan ne conobbe una che giungeva a mescolare delle feci nel vino sperando averne ribrezzo sufficiente per poter astenersene, ma invano, e «Bevi, la si sentiva gridare, bevi villanaccia, dimentica i tuoi primi doveri e l'onore della famiglia», e... poi ribeveva.

Alcune malattie o condizioni fisiologiche pare che predispongano a questo morbo stranissimo. Un tale, racconta Briere da Bismont (p. 112, Du suicide ) dopo un trauma alla coronaria, curato colla trapanazione, da astemio divenne sfrenato bevitore; nessun avviso più lo tratteneva, e all'ultimo bevve per tre giorni di seguito finchè ne morì.

Qualche volta provocano tali eccessi l'anemia, l'isterismo, l'amenorrea, il parto, l'epoca critica; e ciò spiega la loro relativa maggiore frequenza nella donna, che è pur sì poco incline agli alcoolici; negli uomini più spesso li favorisce l'epilessia, la paralisi generale incipiente (Morel in 200 alienati lo notò 35 volte, sui quali 35 ben 10 l'eran di paralisi), l'affezion di cuore, l'ipocondria, la tubercolosi, ma più di tutto l'eredità: sicchè si notò da Gall in un ragazzo di 5 anni, nipote ad un ubbriacone.

Nè in questo modo soltanto fa l'alcool sentire il suo influsso ereditario.

Eredità. — Esso infatti non colpisce solo coloro che ne usano, ma, come molti altri veleni, come il mercurio, il maiz guasto[X-14], influisce ancora sui poveri innocenti a cui i primi diedero vita.

La storia degli Jucke (V. Uomo delinquente, pag. 269, 275) ha dimostrata l'enorme influenza dell'alcool sulle malattie, sui delitti, sul pauperismo dei figli di bevitori, comechè da un solo capostipite ubbriacone, Max Jucke, discesero, in 75 anni, 200 ladri e assassini, 280 poveri ammalati di cecità, idiozia, tisi, e 90 prostitute, e 300 bimbi morti precocemente; che costarono in tutto, per danni e spese, allo stato, più di un milione di dollari.

Nè questa storia è pur troppo isolata; dappertutto, nelle opere recenti è facile trovarne delle analoghe, se non più curiose.

I Dufay (scrive Targuet, Dell'eredità dell'alcoolismo, 1877) sono quattro fratelli disgraziati, e dati al vino. Il più anziano si gettò nell'acqua e vi morì — il secondo si appiccò — il terzo si tagliò la gola — ed il quarto si gettò da un terzo piano.

Nella famiglia R... un ubbriacone (segue Targuet) ebbe da una moglie sana i seguenti figli:

m. ubbriacone f. ubbriacona f. delirante omicida f. sana f. adultera

f. lussuriosa f. dissoluta Imbecille epilettico ed ebbro 1 2 3 4 5 Ladro ubbriacone

Sani

m. sano idrocefalo

P. S. che moriva di rammollimento cerebrale da alcoolismo e la moglie morta d'ascite, forse per alcoolismo, diedero vita a

Figlio sano Figlia sana maritata a sano

Idiota Vizioso Vizioso Cieco nato e sciocco Cieco nato Sano

Un ubbriacone (Targuet) accoppiato con R..., donna libidinosa, corrotta (Zann), diede vita a

Un figlio strano e bizzarro morto d'alcoolismo

Un figlio paurosissimo che fuggiva a sol vedere cesoie e che poi divenne pazzo, e questo ad

1 morto giovine Sano Idrocefalo

Queste storie ci mostrano il facile atavismo degli alcoolisti, il salto dall'avo ai nipoti, lasciando apparentemente integri i figli. Un altro esempio:

L. Bertone, bevitore, morto apopletico, ebbe un solo figlio bevitore e questi tre figli

L. bevitore e giuocatore L. B. sano

e L. R. sonnambola allucinata maritata a G. sano,

G. P. idiota A. R. isterica R. R. sonnambola

P. R. allucinata

e Rachitica

4 morti precocemente

Morel parla di un bevitore che aveva 7 ragazzi: uno divenne pazzo al 22 mo anno, un altro idiota. 2 morirono precocemente, il 5 o bizzarro e misantropo, la 6 a isterica, il settimo un buon operaio ma con neurosismo. — Di 16 figli di un altro suo cliente bevitore, 15 morirono precocemente, un solo sopravvisse, ma epilettico.

Or ora un giudice tedesco (Morce) uccideva con un colpo di revolver la propria moglie da lungo tempo ammalata e dichiarava averlo fatto per amor suo, onde risparmiarle la tortura dei mali e non credere aver commesso alcuna mala azione. Egli aveva tentato altrettanto colla madre quando questa era stata ammalata. A lungo dubitarono i periti se si trattava o no di una follia morale, quando si venne a sapere che il nonno ed il padre eran stati bevoni (Centralblatt für Psychiatrie, 1880).

V'ha qualche cosa di peggio... Flemming e Demeaux dimostrarono come non solo i bevoni trasmettono ai loro figli la disposizione ad impazzire o a commettere delitti, ma per sino i genitori sobri, che diedero luogo ad un concepimento durante una breve momentanea ubbriachezza, ne conseguirono figli, o epilettici, o paralitici, o pazzi, o idioti e specialmente microcefali o con[X-15] una debolezza mentale straordinaria che alla prima occasione si trasforma in pazzia; per cui un solo bacio, concesso in un momento di ebbrezza, può divenir fatale ad un'intera generazione.

Sui popoli. — E come se tutto ciò non bastasse, l'alcool uccide i popoli e li infama. Già le indagini recenti di Svezia e di Slesia hanno dimostrato come l'impoverimento di alcune di quelle popolazioni (p. es. Gothemburg), e la loro decadenza eran causate dai progressi spaventevoli dell'alcool, dall'oste interessato ad ubbriacare la plebe; ma a pochi forse è noto, come a questo rimonti la colpa di una buona parte dell'infamie comunarde. «Durante l'assedio (dice Maxime Du Camp, Revue de Deux Mondes, 1871), gli operai bevevano assai più che non si battessero. Durante la comune, si diede loro ancor più da bere onde si battessero davvero; ed in nove mesi, Parigi ha bevuto cinque volte più che solitamente in un anno; e così si venne a un vero delirio tremens epidemico, ad una vera petroliomania alcoolica; chè molti dei petrolieri avevano già fatto conoscenza coi manicomii».

I primi indigeni d'Australia e d'America furon distrutti più dal gin che dal ferro europeo, tanto che essi l'adducono a scusa delle loro feroci rappresaglie.

I Maori, che erano nel 1849 ben 120 mila, nel 1858 grazie all'alcool calavano a 56 mila (Baer, op. c., 1871) e nel 1874 eran 47,001. L'alcool fu la loro ruina, come la temperanza era la base della lor felicità. Brunet non può spiegare l'indole perniciosa osservatasi nei morbi nelle razze Polinesie, qualche anno dopo la venuta degli europei, se non coll'abuso degli alcool. Il negro, che vive 80 anni se sobrio, se usa rhum muore nel fior della vita.

Rimedi. — Ed ora veniamo ai rimedi.

Lasciamo da parte la pura terapia, impotente sempre negli ultimi stadi, maravigliosa, invece, nei principii e più come preventiva, p. es., quando rompe tutto ad un tratto le abitudini alcooliche e quando istituisce gli ospedali pei bevoni, che nella sola Wasington ne ricoverarono in 16 anni non meno di 4200. Limitiamoci alle misure politiche e sociali, poste in opera per combattere l'alcoolismo. — E sono, in vero, straordinari, e fino anche bizzarri, gli sforzi fatti in proposito in ispecie dalle razze Anglo-Sassoni. Le società di temperanza istituite in Inghilterra e in America, non si ridussero ad un circolo di Arcadi, riuniti per far pompeggiare i propri discorsi in armonica cadenza; ma sono così numerose, così attive e dispongono di così formidabili capitali da riescire una vera potenza; esse, in Inghilterra, nel 1867, salivano, già, a 3 milioni di membri, con tre giornali settimanali e tre mensili. A Glasgow spendevano 2000 sterline per erigere caffè là dove gli operai si agglomeravano di più nelle bettole; a Londra aprivano sale da The e da spettacoli, nei giorni di festa, capaci di più di 4500 persone. A Baltimora in America, i soli membri rappresentati al congresso superavano i 350,000, nel 1835 essi avevano già superato i 2 milioni ed in 5 anni si vantavano di aver fatto chiudere 4 mila distillerie e soppresse 8 mila osterie. — Nella Svezia la società di Bolag radunò un tal capitale da poter acquistare tutte le osterie di un distretto, e obbligare gli osti, diventati suoi garzoni, a cavare il guadagno dal the e dal caffè e dai cibi e non dal vino, escludendone quelli che si volevano sottrarre a quest'obbligo; ed essa trovò degni imitatori in ben 147 città di Svezia.

In America, perfino la donna divenne un potente alleato a questi fieri nemici degli alcoolici; esse avendo alle spalle i fratelli e i mariti, colle preghiere prima, coi sermoni, ripetuti al caso fino a inebitirlo, costringevano l'aquavitaio a chiudere bottega. Qualcheduno resistette e minacciò marchiarle col ferro, o le inondò colle pompe o ricorse ai tribunali, e mandò contro loro coppie di orsi, ma esse erano protette dalla loro stessa debolezza, dalla loro tenacia e dalla santità della loro causa, e quand'anche condannate dal giurì, trovavano giudici che non facevano eseguire il verdetto; quando anche messe in fuga, un giorno, ritornavano da capo il giorno appresso, sicchè a molti fu giocoforza di cedere.

Tanti sforzi riuniti delle società giunsero a modificare in proposito profondamente le leggi. Si cominciò in America del Nord fin dal 1832 a ordinare un supplemento di paga ad ogni marinaio che rinunciasse alla sua razione di Grog; nelle truppe di terra si tolsero i liquori forti alla razione (proibendo anche persino di venderne alle vivandiere), compensandoli in caffè e zucchero, misura imitatasi, poi, dalle grandi società industriali.

Nel 1845 lo stato di New-York si dichiarò contrario alla vendita dell'alcool; altrettanto si fece nel Mayne; ma siccome nei magazzini si rivendeva egualmente in segreto, si passò dopo molte lotte alla famosa legge del Mayne, che proibiva assolutamente la fabbrica e persino la vendita di liquori spiritosi, tranne per l'uso igienico, e pur ne difficoltava ed assai il trasporto; proibiva di tenerne nelle proprie case più di un gallone, autorizzava perfino le perquisizioni domiciliari per scoprirne i depositi nelle case private[X-16]. Questa legge fu adottata anche dagli Stati vicini di Michigan, Connecticut, Indiana, Delaware, ecc.: ma fu in gran parte neutralizzata dagli stranieri e dalla facoltà che aveva il potere centrale di dare concessioni di osterie.

In tutti poi gli Stati Uniti, con leggi parlamentari 1841 e 1875, si proibì all'oste di dar da bere agli scolari, ai minorenni, agli alienati ed ai selvaggi (legge imitata poi dalla Prussia e dalla Svizzera); si rese responsale l'oste dei danni o lesioni che potesse recare l'ubbriaco, per il che nell'Illinese deve fare un deposito da 4 a 5000 dollari; anzi in alcuni stati esso deve rispondere anche pei danni che reca alla famiglia stessa del beone abituale coll'ozio e colle malattie procurate dalle sue bevande. Anche le concessioni vennero limitate e gli osti assoggettati a forti tasse annue, da 200 fino a 1000 dollari.

In Inghilterra fin dal 1656 si proibì la vendita di spiritosi alle feste, più tardi con legge 1854 e 1872 se ne limitarono a poche ore gli spacci.

In Iscozia, anzi, dopo la legge Forbes Mackenzie, si chiusero del tutto nelle feste le osterie, e d'allora in poi gli arrestati per ubbriachezza decrebbero da 6367 a 1317 e quelli in domenica da 729 a 164; meglio a Glasgow da 23,785 a 16,466.

Una misura più pratica e più semplice in proposito è la multa inflitta dalla legge inglese (Vict. VIII) e dalla scozzese (1862), da 40 scellini a 7, o ad un giorno di carcere per chiunque sia trovato pubblicamente in istato di ubbriachezza.

Nel 1871, auspice Gladstone (che ne restò vittima), si limitò con legge apposita il numero dell'osterie cioè:

Nelle città 1 ogni 1500 nelle campagne 1 p. 900 abit.

2 » 3000 » 1200 »

3 » 4000 » 1800 »

salvo quelle modificazioni che volessero indicare i singoli municipi; si istituirono ispettori speciali per controllare le osterie clandestine e le sofisticazioni dei vini, che furono punite con multe progressive seguite dalla chiusura dell'esercizio.

Colla legge 1873 si ordinò di non concedere licenza di osterie finchè non fossero morti i titolari dell'esistenti; dal fondo delle licenze si prelevarono somme per acquistare le vecchie osterie e chiuderle.

A tutto ciò s'aggiunsero le prediche de' pastori, per es., del padre Mathiew che, nel 1838–40, influiva colla sola sua eloquenza, in Irlanda, a scemare, della metà, il consumo degli alcoolici e di un quarto le cifre dei delitti (da 6400 a 4100), e sopratutto la tassa sulle bevande i cui proventi sommano a circa 1/3 di tutte le imposte; altrettanto dicasi negli Stati Uniti dove essa ammonta a 110 dollari per ettolitro; in Francia dà quella tassa allo stato più di 500 milioni (e si tratta di accrescerla), nel Belgio più di 13,000,000 di lire.

In Olanda crebbervi le tasse da 57 fiorini per ettolitro, senza contare le imposte sugli osti cresciute della metà da quelle d'una volta; tuttavia la diminuzione del consumo fu assai lieve, da 290,222 ettolitri nel 1863 a 281,693 nel 1871 (Fazio).

Nella Svezia dove l'alcoolismo s'era trasformato in malattia endemica, si accrebbero nel 1855–56–64, con leggi successive, da 2 a 27 a 32 lire, per ettolitro, le tasse sulla distillazione dell'acquavite, si proibì l'applicazione del vapore alle distillerie; si limitò a non più di 2610 litri al giorno la distillazione, e a due mesi soli dell'anno il tempo di questa; più tardi, si estese a sette, ma solo per le grandi distillerie, onde soffocare le piccole, riconosciute più dannose al popolo minuto, che infatti da 35,100 calarono a 4,091; la produzione dell'alcool diminuì di due terzi in 10 anni, e il prezzo accrebbe da 0,50 a 1,30 al litro.

Ivi già fin dal 1813 vige una legge che commina una multa di 3 dollari a chi sia stato trovato ubbriaco la 1 a volta; al doppio se una 2 a, e così via via; per la 3 a e 4 a con perdita del diritto di voto e di nomina a rappresentante; alla 5 a, carceri o case di correzione fino a 6 mesi di lavori forzati, e alla 6 a per 1 anno.

Si proibì (almeno in Norvegia) di vendere alcool di festa e nella sera della vigilia festiva e nelle ore mattutine prima delle 8 ( Ann. di Stat., 1880).

Ora è notevole che i crimini gravi vi scemavano dal 1851 al 1857 del 40 per 100, e del 30 per 100 le condanne piccole, e che questa diminuzione procede sempre: erano 40,621 nel 1865, calarono a 25,277 nel 1868 (Bertrand, Essai sur l'intempérance, 1875).

E nello stesso tempo la statura media, la vita media, si rialzò (Baer); e calò il numero dei suicidi alcoolici da 46 nel 1861 a 11 nel 1869 e benchè di poco e saltuariamente, quello degli ubbriachi: a Gothemburg, per esempio

del 1851 si calcolava 1 ubbriaco su 19 abit.

1855 » 9

1860 » 12

1865 » 22

1866 » 33

1870 » 38

1872 » 35

1873 » 31

1874 » 28

In Svizzera, in certi cantoni, il nome del beone abituale è affisso dalla questura in tutte le osterie che hanno proibizione di accettarlo (Tissot, op. c., 571).

In Francia oltre le enormi tasse sui vini e gli alcoolici, una legge proposta dal mio amico Roussel ed adottata nel 1871, commina all'ubbriaco: multa da 5 a 15 fr. per la 1 a volta; 16 a 25 per la 2 a; la prigione da 6 a 12 giorni per la 3 a, e l'interdizione per l'alcoolista cronico, e multa all'oste che non impedì o favorì l'ebbrezza ( V. Lombroso, Sull'incremento del delitto, 2 a ed., Torino, 1879).

Quale di tutti questi rimedi ha prodotto il miglior frutto? Certamente che molte delle misure più energiche, specie delle repressive, non riescirono all'intento desiderato. Noi non ne vidimo un esito chiaro che in Svezia in cui pure non è dimostrato che sia scemato di molto l'uso delle bevande alcooliche; così in America e in Francia, malgrado la legge del Mayne e di Roussel, è certo che sono cresciuti gli alcoolisti, anzi da alcuni si afferma essere stata quella del Mayne più un'arma politica che una misura d'igiene e che il contrabbando degli alcoolici, di cui si fanno rei spesso persino gli stessi legislatori, che la comminarono, vi raddoppi, con una nuova vergogna, quella dell'ubbriachezza.

Nella stessa Gothemburg il nostro collega Brusa si incontrò in due ubbriaconi lo stesso giorno che vi entrò, e in cui per preghiere che facesse non potè ottenere una goccia di vino; e noi vedemmo quanto saltuaria e poi concludente fossevi la statistica degli ubbriachi di questi ultimi anni.

Gli è che, come ben vi notava Bizzozero, nessuna legge repressiva può riuscire completamente, quando vada contro alla corrente dei nostri istinti fra cui tanto primeggia l'eccitamento psichico, che attingesi dal vino.

A Glasgow quando i poveri minatori non hanno denari sufficienti a comperare acquavita, comperano laudano, e così i poveri di Londra quando han fame[X-17], e nell'Irlanda quando le prediche del padre Mathieu dissuasero i popoli dagli alcoolici, essi si diedero improvvisamente all'abuso dell'etere, a cui il buon padre non aveva pensato. «Questo, dicevano, non è vino, questo non è gin, questo non ci fu proibito dal padre Mathieu e ci mette in allegria con pochi centesimi, dunque di questo possiamo usarne; e ne usavano ed abusavano sino all'ebbrezza»[X-18]. Si calcola che la quantità che ingoiavano in media era dai 7 ai 14 grammi, ma ve n'erano degli ostinati che si spingevano fino a 90. Dopo le prime dosi la faccia si colorava, il cuore batteva più forte, si esaltava la psiche, e quindi si osservava un chiacchierio interrotto da risa smodate, isteriche e non di rado anche da tendenze alla rissa, ma il tutto svaniva con una straordinaria rapidità, lasciando posto ad una calma beata, cosicchè uno poteva ubbriacarsi 6 volte in 24 ore, e ricominciare il dì dopo colla stessa facilità, il tutto per 3 pence. Ma notisi che qualche volta la cosa non andava così liscia e dalla calma dell'etere si passava all'insensibilità e fino alla morte apparente prima, reale poi, se non si ricorreva al respiro artificiale; in altri casi il vapor d'etere prese foco mentre il bevitore voleva accendere la pipa ( Revue Britann., 1871).

Tuttavia se non pensiamo che tutte queste misure abbiano approdato, esse giovarono almeno ad una cosa: ad arrestare il maggiore incremento dell'ubbriachezza, che, senza quelle, chi sa a qual grado sarebbe salito. Ed appunto per ciò alcune di queste, specialmente le preventive, si devono cercare d'introdurre da noi. Così ottimo è il consiglio della commissione di Gothemburg di impedire che i vini e gli alcoolici sieno venduti a credito e di dichiarare non validi i contratti eseguiti in cantina e di aumentare e non scemare la penalità nell'alcoolismo specialmente se abituale. Sopratutto bella è la misura di pagare il salario in mano alla famiglia dell'operaio ed al mattino in luogo della sera, e mai nel giorno di festa o in quello che lo precede[X-19].

Siccome l'ozio e le feste sono, come ci mostrò la statistica (v. s.), i grandi fautori dei delitti alcoolistici, così fu giusto consiglio di scemare le feste e in quelle che restano, istituire palestre ginnastiche, rappresentazioni di poca spesa, come si pratica in Inghilterra. Noi udimmo, precisamente a Torino, in una radunanza popolare contro l'ubbriachezza sorgere un operaio a chiedere che nei giorni festivi venissero i teatri aperti anche nelle ore diurne, se si voleva che gli operai non accorressero alle osterie; e ci parve la sola proposta giusta che si emettesse in quella veneranda assemblea.

Forni ci racconta come in un paesello del Sud l'oste fece bastonare un capo-comico perchè dopo la sua venuta (i suoi spettacoli erano a 3 soldi), spacciava appena la metà del vino di prima ( Lombroso, Incremento al delitto, p. 81).

Fornire un eccitamento intellettuale al povero popolo che ne abbisogna, ma fornirlo di tal guisa che non gli guasti la mente ed il corpo, ecco il vero ideale di un previdente legislatore, filantropo; e perciò quindi trovo giusto lo scemare quanto sia possibile le tasse sul caffè e sul thè, in confronto del vino e sopratutto degli alcooli, facendo un'eccezione a favore del primo, solo alla peggio, nei paesi dove di questi ultimi si tenda ad abusare.

Non già che anche il vino non avveleni, a sua volta, ma assai meno rapidamente e meno facilmente dei liquori e specie, di quelli più fatali che contengono, oltre il veleno alcoolico più concentrato, anche altre droghe altrettanto venefiche; come l'absinth, il vermout, ecc., ben inteso che certi vini tristi ( bleu ) artifiziati con tinture, alcool e droghe, vanno contati come pessimi liquori, e devono essere, più ancora di questi, presi di mira, appunto pel maggiore spaccio che segue al buon prezzo.

Sopratutto conviene colpire, inesorabilmente, con restrizioni dell'ore notturne, dei giorni festivi e di licenze, e coll'obbligo di vendere anche caffè ed alimenti, gli spacciatori al minuto di alcoolici, specialmente in vicinanza alle fabbriche e peggio se dentro di esse e delle miniere, e se, come ci rivelò il Ciccone, il padrone stesso vi fosse interessato, potendo contribuire così coll'autorità propria, anzi, colla stessa paga, a corrompere e ad avvelenare anche il più sobrio operaio.

Quanto a conoscere quale fra i tanti rimedi l'uno più grave dell'altro sia preferibile da noi, spetterà non al medico ma allo statista il decidere; ma certo qualche cosa si deve fare e presto se non si vuole che mano mano che cresciamo in industria e in civiltà sorga da noi, o piuttosto s'ingigantisca (perchè pur troppo è già sorta) la lurida piaga dell'alcoolismo, che è nemica non solo della libertà, ma anche della sicurezza sociale; e che unendosi ad altre piaghe pur troppo nostre e pur troppo trascurate anch'esse e inciprignite, come quelle della malaria, e della pellagra, ci renderanno col tempo gli iloti d'Europa. — E non si venga fuori colla solita, avvocatesca, gherminella della libertà, sotto cui a poco a poco ci vediamo stringere i polsi e atrofizzare il cervello peggio che un tempo sotto le panie dei frati di S. Ignazio. — Quando vedo il più puro, il più democratico fra il purissimo sangue anglo-sassone, come lo stato del Mayne, limitare perfino la quantità d'alcool che un cittadino può tenere in sua casa e rendere responsale l'oste dei danni di ciascun suo cliente ubbriaco e limitate in certi giorni le ore dell'apertura e dapertutto nei paesi civili d'Europa limitato il numero degli esercizi e istituiti in alcuni, per ciò, appositi ispettori di controllo, e quando vedo farsi di tali misure promotore, apostolo, ed anzi, quasi martire, Gladstone, mentre da noi si vocia a tutta gola come a despoti o socialisti dottrinari contro coloro che, come Minghetti, Luzzatti e A. Mario, invocano l'intervento dello stato a tutela dell'igiene, e quando vedo anzi semprepiù allargate e libere le licenze, ed aumentate le ore d'apertura dell'osterie, e quando vedo non una voce sorgere perchè si sostituisca alle fatali tasse sul sale e sui grani, quelle dell'alcool od almeno sugli esercizi degli acquavitai, che sarebbero tanto più moralizzanti, io mi domando se codesta libertà, di cui facciamo tanta pompa, non copra, invece, col suo splendido nome, una merce avariata, e quel che è peggio, non ci dissimuli, sotto un fragile orpello, un vicino e grave pericolo.

[X-1]

Vino e liquori fermentati, effetti in

MALE BENE

Pauperismo Conforto ai dolori

Statura abbassata Spinta all'erotismo

Mortalità aumentata » alla benevolenza

Predisposizione alle epidemie » all'associazione

Maggiore vulnerabilità al freddo Eccita la fantasia e la memoria

Fecondità imprevidente prima Aumenta momentaneamente la digestione

» diminuita poi

Facili aborti Aumenta il lavoro muscolare

Sterilità » il senso genitivo

Impotenza Previene i miasmi

Suicidi Risparmia l'organismo

Perdita del senso d'onore Rende facile la loquela

» dell'amor di famiglia Aumenta l'allegria

Apatia completa Risparmio provvisorio degli albuminoidi del corpo

Pazzia, epilessia, demenza

Tremori, ambliopia, paralisi Abbassa la temperatura nella malattia

Infiammazioni cerebrali, intestinali, gastriche

Tristezza abituale

Pazzia, microcefalia, demenza nei figli

Ribellioni

Omicidio

Attentati al pudore

Delitti senza causa

[X-2]

Il colèra nei temperanti diede mortalità del 19,9 p. %.

» » bevitori » » 91 p. %.

[X-3]

Matrimoni dei bevitori diedero, in media, 1,3 figliuoli.

»     » astemi » » 4,1 »

( A. Baer, Der Alkoholismus, Berlin, 1878).

[X-4] Un uomo di 20 anni bevitore ha la vita media probabile di 15, l'astemio di 44.

I bevitori di birra hanno una vita media di anni 21,7.

Quelli di alcool » » » 16,7.

Quelli di alcool e birra » » 16,1.

Su 97 bambini nati ad ubbriachi, 14 soli eran sani (Baer).

[X-5] Dal 1823 al 1826 gli ospizi di Filadelfia accettarono da 4 a 5000 poveri per anno ridotti a tale dall'ubbriachezza. Su 3000 del Massachussett ben 2900 erano nella stessa condizione. Baer, op. c., p. 582.[X-6] Nelle statistiche uffiziali 1870, calcolando in media 1 giorno festivo sopra 5 non festivi, si avrebbe questa proporzione per % di reati commessi nei giorni festivi:

Assise Tribunali ordinari

Ribellione, resistenza all'autorità pubblica 68,1 78,5

Stupro violento 65,4 67,4

Parricidio, uxoricidio, infanticidio 56,9 —

Omicidio volontario 72,8 74,8

Omicidio in rissa 78 76

Giuochi proibiti — 83,8

Ferite con morte 71,3 —

Ferite e percosse volontarie 69,6 82

Minaccie e vagabondaggio — 72,4

Grassazioni e furti 61,5 —

Furti 61,2 66,8

Esposizione e supposizione d'infanti — 34,8

Ricettazione e compra di cose furtive 63,9 —

Sottrazione di depositi pubblici — 39,3

Truffe e appropriazioni indebite 33,9 62,4

Falsi diversi 47,8 49,4

Calunnie e false testimonianze 12 —

Grassazioni e furti con omicidio 31,2 —

Bancherotte 26,4 48,2

Danni di fondi — —

Tutti cioè i delitti d'impeto e contro le persone prevalgono nei giorni festivi su quelli di calcolo e di destrezza.

[X-7] Vedi Ubbriachezza in Italia del D. Fazio, Napoli, 1875, 2 a edizione.[X-8] In Danimarca il direttore della statistica crede che il 17 sia la cifra assai inferiore alla reale. In Berlino il Casper calcola almeno il 25 per cento (Baer, op. c.).[X-9] Trovo nel bel lavoro di Fazio, Ubbriachezza e sue forme, 1875, che si calcola il consumo dell'acquavite a

7 litri per abitante nei Paesi Bassi

7 » » Belgio

28 » » Parigi

15 » » Annover

16 » » Danimarca

I dati del Baer sono arruffatissimi; calcola egli 16 litri per abitanti in Svezia, 4 galloni in Danimarca, 45 in Olanda; in Francia 21 litri vino, 19 birra, 2 alcool. Per poter venire ad una comparazione più sicura bisognerà che uno statista si prenda la briga di ridurre ad alcool, e ad alcool di un dato grado, il vino e la birra che complicano il conto nei vari paesi; dappoi sommato il tutto si otterrà una media comparabile con più sicurezza.

[X-10] Rose classifica queste allucinazioni in 5 categorie: 1 o piccoli oggetti schifosi; 2 o animali grandi ad innumerosa schiera; 3 o da cadaveri, santi, da fonte religiosa; 4 o birri, soldati e spie; 5 o gli oggetti più comuni del proprio mestiere, ma bisogna aggiungere una 6 a, le allucinazioni tattili prodotte dall'iperestesia cutanea, zolfanelli sotto la cute, morsi di serpe e tutte quelle provocate dallo stato di emianestesi, paresi, nevralgie. Davvero tutte queste categorie son così vaste che male posson capire dentro gli strettoi delle pedantesche classificazioni.[X-11] V. Lombroso, Genio e follia, 3 edizione, 1877, pag. 113. V'ha della demenza, scrive Addison, in quel suo matematico che fa inghiottire i problemi al discepolo; ed in quella proposta filantropica di far macellare i bambini a pro del popolo, ecc.[X-12] Un capitano tedesco per molti anni bevve da 7 a 10 bottiglie di birra e 15 a 30 caraffe di vino al giorno senza ubbriacarsi; un dì fu visto bere una dopo l'altra 2 bottiglie di rhum e 15 caraffe di vino, poi lavarsi il capo con liquido composto a parte eguale di alcool e sale. A 74 anni solo sofferse di idrope e poi apoplessia e solo dopo questa comparvegli delirio che svanì lasciando smemoratezza, esagerata benevolenza alternata con idee di persecuzione, ecc. ( Briere, De B., Op. c., p. 202).[X-13] Secondo alcuni psichiatri, Schuele, Kraft-Ebbing, la melanconia negli alcoolisti assume la forma di stupore, la monomania o quella della pazzia ragionante o della congestione cerebrale e tutte s'associano alle emicranie, alle insonnie, al tremore dell'alcoolismo. Sono voci di minaccie di morte di condanna o visioni di animali e di fantasmi. Nella manìa si avrebbero cambiamenti di carattere, tendenza a vagabondare, un'esagerazione delle idee di se stesso, erotismo, miosi, tremore, allucinazioni strane; epilessia quasi sempre incompleta.[X-14] Lombroso, Studi clinici sulla pellagra, 2 a ed., 1872.[X-15] Acad. des Sciences, 1861. Egli potè constatare originati in tal modo 5 casi di epilessia, 2 di pazzia, 2 di paralisi generale, 1 di idiozia e molti microcefali. La microcefalia, che si vede sì spesso apparire fra le conseguenze ereditarie dell'alcool, ben si comprende ricordando le atrofie, sclerosi cerebrali (vere microcefalie istologiche) che si ripetono con tanta costanza nel bevone stesso.[X-16] Legge del Mayne:

1 o La fabbricazione, la vendita e la fornitura dei liquori inebbrianti sono proibiti, se ne eccettui il caso richiesto dal medico o per scopo religioso o scientifico.

2 o I liquori alcoolici richiesti in questi casi speciali non possono essere venduti che da un solo agente in ciascuna città, il quale non dee aver casa di pubblico solazzo. L'agente che riceverà un salario fisso dee essere nominato dall'autorità municipale e versare una cauzione di 600 dollari (2210 L.).

3 o Ogni vendita illegale di bevande inebbrianti è punita con ammenda di 10 dollari e con prigione fino alla soddisfazione dell'ammenda. La 2 a infrazione è punita con ammenda di 10 dollari, la 3 a e le seguenti con 20 dollari con prigionia da 3 a 6 mesi.

4 o La fabbricazione dei liquori spiritosi è punita con ammenda di 100 dollari o prigione di 2 mesi. Per la 2 a infrazione un'ammenda di 200 dollari o la prigione di 4 mesi, per la terza volta e le seguenti 200 dollari e la prigione di 4 mesi.

5 o L'autorità può perquisire i luoghi ove suppone che esistano depositi di liquori, ogni quantità di bevanda di cui non si potrà procurare la prova d'importazione senza che vi sia stata contravvenzione legale, sarà presa e sarà distrutta.

6 o Tutte le promesse di vendite di bevande illecite sono nulle.

7 o Gli individui in istato di ubbriachezza devono essere arrestati e detenuti fino a che abbiano fatto conoscere l'indirizzo dell'osteria ove si sono ubbriacati ecc.

[X-17] Colkins calcola che nel 1867 si consumavano 78,000 libbre d'oppio agli Stati Uniti per ubbriacarsi ( Opium and opium aether, 1871, Filadelfia). Nel Kentuky, la legislatura ordinò con editti che chiunque, per abuso d'oppio o d'arsenico o droghe eccitanti sarà ridotto inabile a dirigersi, sarà posto sotto tutela o rinchiuso in un asilo, come i bevoni abituali ( Fazio, Dell'Ubbriachezza, 1875, p. 370). A Londra si introdussero nel 1857 ben 118,915 libbre d'oppio — nel 1852 a 280,750; specie nei centri industriali nel Lancashire (Fazio, op. c.).[X-18] Era un miscuglio di etere etilico e metilico.[X-19] V. nell' Archivio di Psichiatria e scienze penali di C. Lombroso e Garofolo, fasc. I e II, 1880, sui sostitutivi penali dell'avv. Ferri, p. 224.

EDMONDO DE AMICIS — GLI EFFETTI PSICOLOGICI DEL VINO

(Conferenza tenuta la sera del 5 aprile 1880).

Studiato il vino nella vite, considerato nella leggenda, nella poesia e nei costumi, visto come si compone e come si traffica, in che maniera opera sull'organismo, e per che via conduce al delitto, alla pazzia e alla morte, non resta che a trattare dei suoi effetti psicologici: dire, cioè, come agisca sull'intelligenza, sull'immaginazione e sul sentimento, fin che si rimanga, bevendo, molto di qua da quel limite funesto, varcato il quale il bevitore cade nelle mani del professore Lombroso.

Riguardo agli effetti generali e ordinari del vino non potrò dir nulla che la maggior parte degli uditori non abbia osservato e non sia in grado di esprimere. A ciascuno, almeno una volta in vita sua, dopo un banchetto geniale d'amici, nel quale si sia troppo spesso affacciato, come disse un poeta, al finestrino rotondo del calice, sarà occorso di riandare tra sè, il giorno seguente, i diversi periodi d'alterazione per cui passò la sua mente, il suo cuore e il suo linguaggio; di fare uno sforzo per rendersi conto della progressione dell'ebbrezza, di studiare quell'io fittizio ch'egli è stato per qualche ora, — curiosamente, come avrebbe fatto di uno sconosciuto. E l'argomento è degno di studio, in fatti, almeno quanto una qualunque delle così dette malattie mentali, poichè se l'ebbrezza non è che una malattia di poche ore, e di guarigione sicura, è però importantissima, perchè ci occorre ogni momento di vivere e di trattare con essa, di frenarla e di persuaderla, di vederla dovendo mostrare di non riconoscerla, e di circondarla di riguardi, per non inasprirla, e qualche volta di servircene. E lasciando pure da parte le sue conseguenze, quella alterazione crescente di sentimenti e d'idee, quella successione continua di stati diversi della coscienza, per cui si arriva dalla serenità tranquilla che segue i primi sorsi all'esaltazione ardente e tumultuosa degli ultimi brindisi, è per se stessa un avvenimento psicologico così strano e così fecondo per lo studio della natura umana, che non sarà mai meditato abbastanza nè dal filosofo, nè dall'artista.

Vediamo di seguitarlo a passo a passo, sedendo al convito.

Ciascuno ha ancora nella mente tutte le cure della vita: difficoltà non risolte, presentimenti di difficoltà che sorgeranno, ricordi di dispiaceri recenti, qualche bella speranza che brilla e s'oscura secondo i momenti, dei timori, qualche astio, quel leggiero sentimento di stanchezza morale, che succede al lavoro affrettato della mente; ciascuno è ancora in uno stato d'animo, in cui ci troviamo tutti, quasi sempre, di aspettazione pensierosa ed inquieta. A un tratto ci spunta nella mente un'idea o un'immagine ridente. Tutti, in simili occasioni, abbiamo potuto cogliere a volo questa prima farfalla annunziatrice dell'ebbrezza, che si spicca quasi all'improvviso dalla mente, e che ci fa dire, dopo il primo bicchiere: Oh! per questa sera, cacciamo via le noie e i pensieri. Spuntata quell'idea, entriamo nel primo periodo, al quale ci dovremmo sempre arrestare. La mente è nel pieno possesso di se stessa; ma con un senso nuovo di freschezza, come dopo un riposo; le cose le si presentano ancora colle loro proporzioni e coi loro colori reali, ma contornate d'un sottilissimo orlo luminoso. Nel campo che il nostro pensiero percorre più frequentemente, che è quello del giorno presente e del giorno venturo, l'ostacolo che poco prima ci pareva insormontabile, ci pare ora che, in qualche modo, si potrebbe girare; certe difficoltà intricate, nasce una speranza lontana di scioglierle; certi dissensi gravi di pareri e di sentimenti, s'intravede vagamente la maniera di conciliarli; confidiamo un po' di più nella fortuna e in noi stessi, ci pare che ricomincieremo la vita meglio disposti e più forti, dopo quello svagamento dello spirito, di cui sentiamo in quel momento che avevamo proprio bisogno. Che c'è, infatti, di più onestamente lecito e di più salutare di quel piccolo sfogo — moderato — di giovialità e di spensieratezza, in mezzo agli amici, dopo molti giorni di lavoro e di cure? Se qualche scoraggiamento ci aveva presi in quel giorno medesimo, se abbiamo diffidato, anche per poco, delle nostre facoltà intellettuali e delle nostre forze fisiche, ora ne sorridiamo. La nostra percezione è così lucida, la parola così facile, la voce così ricca, sentiamo una traspirazione così gradevole, il complesso di tutte le nostre forze così dolcemente fuso, la vita così piena ad un tempo e così leggera! E la conversazione procede mirabilmente. Gli argomenti si succedono, ma ciascun argomento rimane per qualche tempo sul tappeto, discusso con vivacità, ma con ordine. E nessun soggetto di discorso c'è indifferente. Anche nelle questioni più estranee al giro delle nostre cognizioni e dei nostri interessi, ci sentiamo come forzati a intrometterci, e su tutto ci riesce di dire qualche cosa d'ingegnoso, o almeno di sensato e di accettabile. I giudizii contrarii vengono facilmente ad un accomodamento; chi non è persuaso mostra d'esserlo; a ciascuno si consente qualche piccolo trionfo d'amor proprio; e così ciascuno è soddisfatto di sè e degli altri, e quella soddisfazione si traduce in mille piccoli servigi e piccole cortesie premurose ed insolite, che ci usiamo a vicenda. Cominciamo a pensare che, veramente, la compagnia non poteva esser meglio combinata; che non si potevano mettere assieme dei caratteri più armonici. E in quella soddisfazione crescente di tutti, ogni volta che uno si raccoglie un momento in sè, vede tutte le cose sue di mano in mano ordinarsi, chiarirsi, pigliare di più in più il colore dei suoi desiderii: le speranze, ch'erano nel fondo del quadro, vengono innanzi a poco a poco, i dispiaceri retrocedono nell'ombra, tutto ciò che c'è di difficile o di triste nella vita si presenta come di scorcio; tutto gira, si sposta lentamente, si dispone in maniera da offrire un prospetto gradevole, come in uno spettacolo teatrale. E noi ci crediamo pienamente. Una voce intima ha un bel dirci: — È illusione. — Noi rispondiamo: — È realtà. Illusione era il quadro poco consolante che vedevamo poc'anzi, avendo l'animo affaticato o contristato dalla lotta della vita; non quello che vediamo ora, stando quasi fuori della vita, in una regione più alta e più serena. Ora facciamo il proponimento di rimetterci all'opera, il giorno dopo, con più risoluzione e con più coraggio, e ci rappresentiamo già nella mente una nuova vita vigorosa, senza intervalli d'inerzia, piena di emozioni feconde e di disegni arditi, concitata e calda come l'allegrezza che ci ferve d'intorno; e con un sorso del liquore prediletto rinforziamo il nostro proponimento, e lo suggelliamo con un colpo secco del bicchiere sopra la mensa. Improvvisamente — o prima o poi segue sempre — l'effetto del vino pare che cessi d'un colpo. Il vetro rosato a traverso al quale vedevamo il mondo, scompare; tutte le cose ripigliano per un momento il loro aspetto reale, tutti i pensieri molesti ritornano in folla, e ci sentiamo quasi sopraffatti da un senso di sgomento. È questo il punto in cui si vede un commensale, fino allora allegrissimo, chinare la testa e tener l'occhio fisso per qualche tempo sopra il bicchiere, facendolo girare lentamente fra le dita. Ma sono brevi momenti. La nuvola dorata che ci ravvolge, appena squarciata, si richiude; e si squarcierà ancora altre volte, ma saranno squarci sempre più sottili e sempre più prontamente richiusi. Intanto l'ebbrezza monta e si allarga. Qualche punta di pensiero uggioso sornuota ancora qua e là; ma non tarda ad essere sommersa. Le facoltà intellettuali hanno raggiunto la loro massima potenza e sono ancora tutte nel pugno della volontà. Il lavoro della mente si compie con una tale rapidità, che non ne abbiamo quasi coscienza, e ne rimaniamo meravigliati noi stessi. In pochi secondi tentiamo da cento parti un'idea, per trovarne — e la troviamo — quell'unica faccetta che si presta al ridicolo. La botta dell'amico non ci ha ancora toccati, che la risposta ha già colto nel segno. Il pensiero prorompe dalla mente in formole nette e scintillanti, le arguzie felici s'incalzano, l'aneddoto vien via facile e snello, pieno di aggiunte improvvise e di spedienti inaspettati; tutto accompagnato, seguito, musicato, si può dire, da quell'intimo riso giovanile e profondo che ride di sè e del riso altrui, ed è per se stesso una forza comica grande. Nulla ci può più arrestare in quel corso impetuoso d'idee e di parole. L'orizzonte del pensiero si allarga rapidamente, e da tutte le parti ci accorrono nuvoli d'idee e d'immagini; da tutti i ripostigli della mente escono ricordi d'avvenimenti, visi di persone, motti, versi, date, impressioni di letture, radicali dimenticate di lingue straniere, gruppi di reminiscenze lontane che si credevano già morte, lampi che rischiarano vaste regioni del passato. In pochi minuti di silenzio, ci si forma una gran piena nella mente, che trabocca poi per il primo varco aperto in cascate rumorose di periodi, che intronano gli uditori. La mente non sa più se dà o se riceve. Siamo trasportati da un soffio d'ispirazione. Ci pare di non parlar noi, ma di ripetere le parole d'una persona più arguta, più dotta, più faconda di noi, che ci suggerisca precipitosamente nell'orecchio quello che abbiamo da dire. L'ebbrezza cresce a ondate. All'ondata delle celie e degli aneddoti succede l'ondata delle discussioni, un vero pugilato di ragionamento, una manìa di polemica insaziabile: argomentazioni interminabili sull'età dubbia d'un'attrice illustre o sulla sinonimia di due parole; controversie filosofiche sottili, riprese daccapo dieci volte, con una costanza di ferro, nelle quali ciascuno dei controversisti vorrebbe schiattare piuttosto di smetterla il primo; disputazioni sopra soggetti diversi, che s'intersecano da una parte all'altra della tavola, e che si prolungano ancora, quando non è più possibile intendersi a parole, in affermazioni e in negazioni ostinate del capo e della mano; e poi, improvvisamente, una corrente d'ilarità che scompiglia ogni cosa, soffoca tutti i dispetti sul nascere, e mette tutti d'accordo. E allora si solleva e si avanza lentamente la grande ondata dell'amor del prossimo. Chi è contento è benevolo. Siamo diventati ricchi in poche ore, diventiamo prodighi. La bontà che vien su in noi, insieme ai vapori del vino, s'accresce ancora dal riflesso di quella che vediamo brillare sul viso degli altri. Dei presenti non ricordiamo più che le buone qualità, e le dimostrazioni di simpatia e di amicizia che ci diedero altre volte. Degli assenti, non ci si presentano alla mente che le figure simpatiche. Nel nostro cuore si accumulano tesori d'indulgenza. La cortesia s'innalza gradatamente fino alla lode. Cominciamo col fare l'apologia di qualche assente, a cui tutti acconsentono, anche senza conoscerlo. Poi l'affetto insistendo ancora, vinciamo il pudore, e lodiamo i presenti, con parole moderate, ma calde, per debito di giustizia, e c'irritiamo della modestia che si schermisce. Ma questo non basta. Ricorriamo la storia delle nostre amicizie, esageriamo dei servigi che ci sono stati resi, o ne inventiamo, tanto per poter esprimere la nostra gratitudine; disseppelliamo degli antichi torti nostri, da lungo tempo perdonati, tanto per confessarcene di nuovo, per farceli riperdonare una altra volta, per metterci sopra una pietra di più. Pensiamo agli amici lontani, che avevamo scordati da molto tempo, e ci proponiamo di scrivere loro la mattina seguente una lettera affettuosissima, di cui ci suona già nella mente il primo periodo. Pensiamo alle persone con cui abbiamo della ruggine, e decidiamo di andarci a riconciliare il giorno dopo. Non vogliamo che rimanga un'ombra sul bel cielo rosato della nostra vita. L'immaginazione ci presenta il mondo come dovrebb'essere, tutto tolleranza, buon accordo, bontà. Non è così certamente: la ragione ce lo dice ancora. Ma delle virtù ce ne sono, delle sante vite oscure, dei nobili entusiasmi, degli esempi sublimi di generosità e di grandezza. Noi non vediamo tutto. Ma ci sentiamo il cuore abbastanza vasto da contenere mille affetti di più, un tesoro cento volte maggiore d'ammirazioni e d'entusiasmi. E proviamo il bisogno di espandere la nostra benevolenza al di sopra di quei che abbiamo intorno, lontano, sull'umanità sconosciuta, come si prova il bisogno di empire della propria voce una valle vasta e sonora. E a questo punto, nella mente sovreccitata scocca la scintilla della creazione. Al poeta drammatico balenano le somme linee d'un dramma potente, al banchiere l'idea confusa d'una impresa temeraria, all'architetto i contorni grandiosi d'una mole che vincerà i secoli. Ma la conversazione clamorosa rompe il corso delle grandi idee solitarie. I soggetti ordinari non bastano più. Si solleva il discorso ai grandi uomini, ai grandi spettacoli della natura, ai grandi problemi sociali, alla fratellanza dei popoli, all'immensità dello spazio, all'immortalità dello spirito, si misura l'universo a sguardi d'aquila, parlando a frasi di proclama, con gesti imperatorii e accenti di tribuno; non trovando parole abbastanza vaste di senso, epiteti abbastanza iperbolici, inflessioni di voce abbastanza potenti da rispondere alle esigenze impetuose del sentimento che trabocca. Quel cerchio di amici, tra quelle quattro pareti, ci riesce meschino e soffocante. Si avrebbe bisogno di slanciarsi a un terrazzo e di rovesciare un torrente di parole infocate sopra una moltitudine attonita, o di sconvolgere una platea dal palcoscenico con un monologo sublime. E allora ciascuno si sfoga come può: recitando una strofa fulminea d'un grande poeta, imitando il grido d'un artista famoso, sprigionando l'anima in un tentativo di do di petto. Intorno a noi e dentro di noi tutto è mutato, ci corre per le vene un fremito di gioventù, ci vediamo davanti un avvenire sconfinato, ci sentiamo ancora in tempo per l'amore, per la gloria e per la ricchezza, e quando s'urtano tutti i bicchieri, in quell'incrociamento di evviva e di saluti, tutto come ravvolto in un polverìo caldo e luminoso, dove non si vedono che occhi scintillanti e bocche che sorridono — ah! — par che cominci un'êra nuova per il genere umano.

Questi sono gli effetti generali. Ma il vino produce un'ebbrezza diversa, non solo secondo i temperamenti e i caratteri; ma secondo la disposizione d'animo particolare, in cui ci troviamo nel riceverlo. È inutile quindi il citare tutte quelle classificazioni generali dell'ebbrezza, che fecero gli psicologi e gli scrittori faceti. Volendo dare un'idea della varietà degli effetti del vino, bisogna ristringersi a tratteggiare alcuni ritratti, scelti fra quelli di cui s'incontrano più sovente gli originali.

Il tipo più frequente è quello che ha dato origine al detto in vino veritas. La manifestazione, involontaria quasi, dei pensieri più nascosti sotto l'influsso del vino, non deriva che da ciò: che le sensazioni non essendo più in perfetta relazione cogli oggetti esterni, nè le idee colle sensazioni, svanisce la prudenza che nasce dal sentimento di quelle relazioni, e non si obbedisce più nel parlare che la passione predominante del momento. Quasi tutti, nell'ebbrezza, si lasciano sfuggire qualche segreto. Ma è incredibile fino a che punto giungano alcuni, d'indole viva ed aperta, sulla via delle confessioni. Costoro sono presi da un vero furore di sincerità, da un bisogno irresistibile di pubblicare tutte le loro colpe e tutte le loro debolezze. Dotti, si accusano d'ignoranze vergognose; uomini d'affari, confessano atti disonesti, colpe d'intenzione, pensieri vili che hanno avuto in date occasioni, difetti ridicoli, dissensi domestici, intimità coniugali, e persino azioni riprovevoli, che sono in via di commettere, insistendo e accalorandosi per persuadere gli increduli, provocando e riconoscendo meritati i rimproveri, ritornando anzi sulle cose già dette per aggiungervi dei particolari, che le rendon più gravi, — dolendosi in cuor proprio quando pare a loro che la meraviglia dei presenti non corrisponda alla gravità delle loro rivelazioni; — e quando han detto tutto, e si son rovesciati come un guanto, si senton soddisfatti, come se avessero pagato un debito, come contenti d'aver ridato indietro alla gente quella parte di stima che le scroccavano —, e quasi lavati d'ogni colpa dalla loro confessione, in una specie di stato di grazia,

Puri e disposti a salire alle stelle.

A questi fanno contrapposto altri, per lo più d'indole chiusa e circospetta, in cui pare che il vino abbia per principale effetto di innalzare e di fortificare il sentimento della dignità individuale. Costoro hanno il pudore del vino. Diventano diffidenti di sè. Pesano ogni parola, e parlano quanto meno è possibile. La loro ebbrezza è una specie di ruminazione taciturna dei propri pensieri. Se aprono la bocca, è per dire qualchecosa di così rigorosamente, di così solidamente sensato, che il più cavilloso dei critici non ci potrebbe trovar sillaba a ridire. In loro l'effetto del vino non trasparisce che dagli occhi lustri e dal movimento difficile delle labbra. Via via che bevono, il loro gesto si fa sempre più corretto, il loro sguardo sempre più raccolto, la loro parola sempre più dogmatica. Arrivano fino ad assumere l'espressione della più alta gravità a cui si possa atteggiare il viso d'un uomo occupato da un pensiero solenne. E si vedono camminare per le vie con una rigidezza automatica, a passi misurati e lenti da tiranni di teatro, portando la propria dignità come porterebbero una tazza colma d'un'essenza miracolosa, tremando di spanderne una goccia; senonchè, di tratto in tratto, una leggerissima oscillazione della loro persona, o un largo e maestoso giro da tiro a quattro che fanno intorno ad un piccolissimo ostacolo, rivelano che quell'essenza miracolosa è Barolo.

In altri il vino eccita particolarmente il sentimento cavalleresco. Ragionevoli e contegnosi per ogni altro verso, non rivelano l'ebbrezza che in un insolito ardore bellicoso, che li spingerebbe, come don Chisciotte, ad affrontare un esercito. Acquistano una delicatezza d'amor proprio ombrosissima. Scattano per nulla, e qualunque questione si presenti, non riconoscono altro scioglimento che il duello. Come Macbeth il manico del pugnale, essi vedono da tutte le parti l'elsa d'una sciabola o l'impugnatura d'una pistola. S'intromettono nelle contese per pigliar le parti del più debole, assumono le difese d'un assente, a loro indifferentissimo, con parole provocanti, si arrestano bruscamente in mezzo alla strada a fissare lo sconosciuto che li ha sogguardati passando... Li abbiamo visti tutti, cento volte, in una sedia chiusa o in un palchetto d'un teatro, voltare la faccia superba verso la folla che gli ha imposto silenzio, e cercare da per tutto con due occhi guerrieri uno spettatore che assuma la responsabilità del vasto oltraggio anonimo della platea. Chi non sa, immagina che siano anime fiere e imperterrite, preparate a tutto, piene d'un sublime disprezzo della vita. Niente affatto. Son buoni diavoli che hanno vuotato una bottiglia; duellisti di concetto, D'Artagnan d'una sera, che domani all'alba si meraviglieranno altamente delle loro audacie notturne.

Un'altra forma curiosa d'ebbrezza è quella che si riscontra specialmente in certe nature sobrie e discrete, le quali serbano la giusta misura in tutte le cose, e son poco accessibili alle passioni turbolente. Costoro, arrivati a un certo grado d'ebbrezza, non si trovan più bene in compagnia, si separano dagli amici, rifuggono dal chiasso, hanno bisogno di portare a spasso la loro beatitudine in luoghi solitarii, al lume della luna, e là meditano sui propri affari, o filosofeggiano serenamente sulla vita umana, fermandosi a contemplare bellezze di paesaggio non prima vedute, errando a caso, espandendo l'anima in una muta riconoscenza davanti all'immensità della natura. Costoro si potrebbero chiamare gli «Arcadi dell'ebbrezza». Il vino pare che si tramuti in latte nelle loro vene, e che addolcisca ancora la loro indole già mite e tranquilla. E si riconoscono a primo aspetto. S'incontrano spesso per i viali esterni della città, a notte innoltrata. Un solfeggio soave annunzia il loro avvicinarsi; poi si vede uscire dall'ombra il loro viso placido — ci danno uno sguardo benigno — e scompaiono. Vanno a riposare col cuore contento e s'addormentano con un sorriso.

Questa specie d'ebbrezza riposata ha il suo perfetto rovescio in quella a cui vanno soggetti certi uomini d'indole ardente e inquieta, che eccedono in ogni cosa. Costoro, una volta in preda all'ebbrezza, entrati in quel godimento febbrile della vita, ci si afferrano con una avidità rabbiosa; non possono saziarsene; vorrebbero che durasse eternamente. Il pensiero che la serata avrà una fine, che la compagnia si sbanderà, e che nella solitudine in cui rimarranno andrà disperso quel tesoro di felicità passeggiera che si son procurati col vino, li contrista e li affanna. Quando tutto par finito, colmano ancora i bicchieri, trattengono gli amici con preghiere, riconducono indietro chi vuol andarsene, si lamentano e si sdegnano. Poi, come l'uomo delle folle di Edgardo Poe, che ha il terrore della solitudine, perduta la prima compagnia, vanno a cercarne una nuova, corrono d'un luogo in un altro, fino a notte tardissima, fin dove resta ancora una scintilla di vita, nella quale soffiano affannosamente per farne divampare la fiamma, e quando finalmente rimangono soli, svaporata tutt'a un tratto l'ebbrezza, ritornano a casa irritati con sè stessi e con tutti, maledicendo il mondo ipocrita o stupido che congiura contro i loro piaceri.

Altri, e sono forse i più ameni, hanno il vino amoroso. Per loro l'ebbrezza si riduce a una visione del paradiso islamitico. Possono essere costretti a mutar discorso cento volte, ma ritornano ostinatamente su quel dolce argomento. Ricordi d'avventure giovanili, frammenti di poesie erotiche, nomignoli di antiche amanti, rimasugli già carbonizzati di vecchie passioncelle di contrabbando, tutto si ravviva in loro e rimonta a galla per effetto di qualche bicchiere di vino. E non ci rimonta altro. Nei loro brevi silenzi non fantasticano che disegni arditi di dichiarazione d'amore e di sorprese notturne. Il fruscìo di una veste li scuote come una musica. Il loro occhio nuota nella dolcezza, la loro bocca piglia degli atteggiamenti vezzosi da putti d'oleografia e il loro linguaggio è tutto intonazioni languide, reticenze vanitose e piccoli motti a doppio senso, di cui sorridono strizzando gli occhi con una compiacenza profonda. Non c'è nulla di più comico che il veder spuntare a poco a poco, per effetto del vino, qualche volta sotto l'apparenza d'un uomo abitualmente austero, questa piccola effigie nascosta di Don Giovanni ringalluzzito, che s'era lontanissimi dal sospettare.

Ci sono altri in cui il vino eccita particolarmente le facoltà intellettuali. È un effetto comune; ma in costoro giunge ad un grado meraviglioso. Non è solamente un'esaltazione, è una trasformazione. Persone incolte, di mediocre intelligenza, di parola rozza, senza nessuna qualità seducente — acquistano tutto. Rivelano improvvisamente delle cognizioni che non si credeva che avessero, parlano spigliatamente una lingua che non gli s'è mai intesa parlare, si cacciano in discussioni in cui non hanno mai osato aprir bocca, e confondono avversari superiori a loro con lampi inaspettati d'ingegno. S'entusiasmano poi del loro trionfo, e così aggiungono ebbrezza ad ebbrezza. Si colorano, diventan belli, nobili di atteggiamenti e di mosse, e lasciano un alto concetto di sè in chi li vede allora per la prima volta. E la mattina dopo — tutto è svanito. Chi li ha conosciuti la sera, non li riconosce più. Sono di nuovo incolti, rozzi, mezzo intontiti, e disamabili. Non rimane più che lo scheletro nero d'un fuoco d'artifizio bruciato.

Altri, di fibra delicata e eccitabile, di carattere gaio, e abitualmente sobrii, hanno un'ebbrezza quasi istantanea, che si manifesta in una forma stranissima. Bevuti i primi bicchieri, son perduti; tutte le loro idee si scompigliano come per un accesso di delirio; uomini d'ingegno, si lasciano sfuggire dalla bocca le più strampalate sciocchezze e i più massicci spropositi; ridono come bambini, parlano colla voce in falsetto, si sbracciano in gesti scomposti di Pulcinella; e si fa di loro quel che si vuole: si prestano alle più grosse celie, creduli, arrendevoli, grandi fanciulloni senza giudizio, pieni di capricci matti, che bisogna poi accompagnare a casa a braccetto, perchè non facciano qualche gran buffonata per le strade da tirarsi dietro la ragazzaglia.

Un'altra varietà frequentissima dell'ebbrezza è quella della malinconia. Ci son molti, in cui il vino non eccita che il sentimento delle cose tristi, o piuttosto della poesia delle cose tristi, poichè in quelle manifestazioni ch'essi fanno della propria tristezza, c'è in fondo una compiacenza che esclude la tristezza vera. La loro ebbrezza è una giovialità vestita a bruno. Mentre la comitiva degli amici, dopo il banchetto, riempie la sala di risa e d'allegria, essi stanno in un angolo, dove hanno imprigionato un amico condiscendente, al quale raccontano con lunghi particolari tristi la storia della malattia d'un parente, una disgrazia toccata a un amico, una visita a un camposanto; senza ombra d'ostentazione, con un accento sincero, con parole commoventi, con una voce dolcemente monotona, con una delicatezza squisita di sentimenti e di espressioni, che non hanno mai mostrata a digiuno, e che li fa giudicare assai più sensitivi e più poetici di quello che sono. E smaltiscono qualche volta il vino bevuto in una rugiada di lagrime mute, che fanno un effetto singolare sul loro bel faccione imporporato dal Barbera.

C'è un altro tipo curioso d'ubbriaco, per citarne ancor uno, che non si ritrova che nel basso popolo; un bevitore nel quale pare che il vino susciti principalmente il sentimento dell'ammirazione e della devozione per tutto quello che è in alto sulla scala sociale. Sono per lo più buonissime nature, nelle quali è vivo e profondo il sentimento dell'ordine, dell'ossequenza ai superiori, del rispetto alla legge, accresciuto anche da una certa timidità e da un certo concetto quasi fantastico che hanno di tutto ciò che è al disopra di loro. Son quegli ubbriachi che si vedono qualche volta per le strade, cercare, col cappello in mano, di intavolare dei discorsi accademici cogli agenti della forza pubblica; recitare ad alta voce, da soli, il panegirico d'un padrone, di qualche grande uomo ignoto, che li ha beneficati, e per cui si dichiarano pronti a dare la vita; protestare col primo venuto, picchiandosi il petto, d'esser buoni cittadini, devoti al re, ossequenti a tutte le autorità costituite; e desolarsi pel timore di non esser creduti; giurare qualche volta colla voce rotta dai singhiozzi e col viso rigato di lacrime, che mai non mancherà il loro sostegno alle istituzioni nazionali e che la dinastia regnante può contare sulla loro fede.

Tutti costoro appartengono alla categoria di quei che hanno, come dicono i francesi, le vin bon enfant. Rimane il così detto «vino cattivo», di cui son pochi, senza dubbio, quelli che non abbian fatto esperienza. La sentenza: ha il vino tristo chi ha il cor tristo, non è giusta. Il vino produce delle ebbrezze tristissime anche nelle migliori nature. Chi è ricorso qualche volta al vino per consolarsi o per dimenticare, trovandosi irritato da contrarietà, o tormentato da qualche sentimento d'odio o di rancore, si ricorderà di un effetto singolare che ne ha risentito, opposto affatto ai suoi desiderii: la sua mente s'è eccitata, ma senza riuscire a svincolarsi dai pensieri che la possedevano; le sue idee si sono colorite, ma solamente quelle idee, come se affollate, strette sulle porte della mente, assorbissero esse sole tutti i vapori inebbrianti, e impedissero loro di penetrare più addentro, fino a quel piccolo mondo d'idee e d'immagini ridenti che mettevano in ribollimento altre volte. La piena dell'ebbrezza s'è gettata tutta nel sentimento che ha trovato predominante nell'atto di prorompere, e ha preso la natura e il corso di quel sentimento. E allora è inutile qualunque sforzo si tenti per ricondurla alle sorgenti dell'allegrezza. I pensieri e i ricordi tristi e irritanti si chiamano, si concatenano, ingigantiscono, colla stessa rapidità, colla medesima progressione, che seguono nell'ebbrezza allegra i pensieri e i ricordi di natura opposta. Dispiaceri antichi, offese patite in altri tempi, sospetti che s'erano già dissipati, previsioni di danni ch'erano già svanite, visi odiosi di nemici, intenzioni malevole indovinate o supposte, tutto ritorna alla mente, s'illumina, per così dire, e acquista un'evidenza straordinaria: a poco a poco ci pare che il mondo intero stia contro di noi; sospettiamo un significato ostile in ogni parola; e un sentimento sordo d'ira e di rivolta si impadronisce del nostro cuore. Ed è impossibile nasconderlo: le labbra si contraggono, ma non sorridono, lo scherzo esce ghiacciato, la guardatura è falsa e la voce rotta e tagliente. Ed è inutile cercar di liberarsi da quello stato, intorbidando la mente; i bicchieri succedono ai bicchieri, e la mente conserva una lucidità ostinata e sinistra. Il vino non fa che accrescere l'irritazione, la quale irritazione accresce le forze per resistere al vino. Ed è singolare come si conserva la coscienza netta del proprio stato, durante questa specie d'ebbrezza livida, che esalta unicamente la parte peggiore di noi; come si segue distintamente in tutti i suoi contrasti la lotta dei buoni sentimenti che voglion riprender l'impero, coi sentimenti tristi che li tengon sotto, schiacciati. Si vedono dei disgraziati, imbestialiti da quest'ebbrezza, in mezzo ai parenti e agli amici ch'essi contristano o spaventano, accusarsi d'esser bruti, scellerati, indegni del nome d'uomini, qualche volta percuotersi colle proprie mani e non riuscire a domarsi. Si vedono alle volte, in una contesa furiosa, quetarsi tutt'a un tratto, mostrare di esser sul punto di dire una buona parola che accomoderebbe ogni cosa, averla sull'orlo delle labbra, fare uno sforzo per pronunciarla... — e no — vomitare invece una bestemmia o un insulto, come se un demonio, a cui avessero venduta l'anima, glie la strappasse dalla gola. A costoro spetta veramente il nome che dànno all'ubbriaco gl'Indiani: ramyan, che significa arrabbiato. Nessun tormento si può immaginare peggiore di questa perversità, da cui l'uomo si sente dominato e travolto, che non è sua, che gli strozza la volontà, gli snatura il cuore e gli avvelena il sangue; in nessun stato più opportuno si potrebbe mettere lo psicologo, per rendersi ragione di certi atti di scelleratezza insensata, che ci paiono inesplicabili, per comprendere, cioè, come si formino quegli accozzamenti mostruosi di sospetti infondati, da cui nascono le certezze tremende, che immolano alla vendetta degli innocenti; che cosa siano quelle sataniche torture dell'ira e dell'odio, per liberarsi dalle quali pare così poca cosa commettere un delitto e sacrificare la libertà di tutta la vita; come nascano e prorompano certe furie feroci, delle quali l'uomo è nello stesso tempo reo, vittima e ludibrio, e in cui la nostra mente, quando cerca la misura della colpabilità, si confonde e si perde. L'uomo più buono di noi, che sia stato una volta sotto l'influsso di questo vino, si ricorderà d'aver avuto dei momenti in cui si è sentito capace delle più inique azioni; e chi ha fatto quest'esperimento una volta, dopo la prima parola d'esecrazione che gli strapperanno certi delitti, lascierà sempre un angolo del cuore aperto alla pietà.

Il vino produce ancora degli effetti assai diversi, non solo secondo la passeggiera disposizione d'animo del bevitore, ma secondo le età. Nella prima gioventù gli effetti sono massimi. Il Goethe ha definito la gioventù «un'ebbrezza senza vino». Aggiungendovi il vino, l'ebbrezza diventa quello che l'ha definita Seneca: una volontaria pazzia. Le speranze e le illusioni proprie dell'età, già così vive nello stato abituale, non han bisogno che di un leggerissimo eccitamento per acquistare colore e potenza di cose reali; quell'embrione di grande uomo, che ognuno sente dentro di sè a vent'anni, diventa grand'uomo di slancio, e si afferma con tutta l'alterezza e tutta l'audacia che dà la coscienza della grandezza; un sentimento smisurato delle nostre forze ci spinge alla ribellione contro tutte le leggi e tutte le discipline; vorremmo aprirci la strada nel mondo calpestando e rovesciando tutti gli ostacoli; e non potendo far altro spezziamo quanto ci cade nelle mani; ci sentiamo quello che un fisiologo definì benissimo il tatto pazzo dello scomporre, un furore di distruzione e di disordine, che tende particolarmente all'infrazione dei regolamenti di polizia urbana, e vorrebbe la città intera a spettatrice. Verso i quarant'anni, l'edifizio delle nostre idee e dei nostri sentimenti ragionevoli, più solidamente costrutto, resiste meglio alla scossa dell'ebbrezza; abbiamo un'ebbrezza più raccolta; fra le sue belle illusioni non ci lasciamo più ingannare che dalle più modeste; amiamo ancora il chiasso, ma a patto che non si senta dalla strada; ci piace ancora la conversazione sbrigliata, ma fra amici intimi; non si prova più gioia, ma solamente contentezza, un certo sentimento consolante dei vantaggi della propria età e del proprio stato, una certa disposizione amorevole, che si rivela in intonazioni vocali da padre nobile, amante della pace e dell'onesta allegria, e dopo ogni sorsata di vino, ci sentiamo dare un colpo sulla spalla dalla mano pesante della Prudenza. Nei vecchi, in cui la vivacità dei sensi è quasi tutta ridotta nel gusto, l'ebbrezza è un piacere più fisico. D'altra parte, essa non può più in loro abbellire l'avvenire: non abbellisce più che il passato: è come un'ebbrezza della memoria, una visione rosea della gioventù e dell'età matura, accompagnata da una certa acquiescenza serena alla dura legge della natura, contro cui si ribellano ordinariamente; uno stato d'animo così bene rappresentato in quei vecchi ubbriachi del Teniers e del Van d'Ostade, seduti accanto a una tavola, col bicchiere fra le mani, un po' ingobbiti, cogli occhi semichiusi, in cui luccica una scintilla di malizia e lampeggiano mille ricordi ameni di bricconate giovanili, con un guizzo di sorriso sulle labbra, che esprime una sensazione di tepore voluttuoso, con un mento rosso e sporgente, una bazzettina piena di filosofia, che pare che dica: Ci è più poco da godere; ebbene?... ingegniamoci di goder questo poco.

Ma gli effetti più potenti e più strani del vino non possiamo vederli fra noi, perchè in noi sono scemati dall'abitudine ed anche frenati nelle loro manifestazioni dal sentimento della dignità e delle convenienze sociali. Per vederli in tutta la loro potenza dovremmo andarli a cercare fra quei selvaggi ancora incorrotti, discendenti di generazioni vergini d'alcool, a cui i viaggiatori europei porgono i primi bicchieri. Quasi tutti gli esploratori dell'Africa ci resero conto di qualcuna di queste esperienze. Noi non abbiamo idea di quegli accessi d'ilarità mostruosi, di quelle furie indomabili, che li spingono ad affrontare per gioco pericoli mortali, di quegli impeti di gioia, in cui si rotolano per terra come frenetici, di quelle risa, come riferisce lo Stanley, che somigliano a ululati e a ruggiti di belve. A quelli si può veramente applicare il detto del Montaigne, secondo il quale il vino non solo altera, ma rovescia la ragione. E l'ebbrezza si produce con una rapidità che spaventa. Ricorderò sempre l'esempio che ne vidi in una città africana, in un povero giovane arabo, venuto là per la prima volta dai confini del Sahara, grave e pensieroso come un anacoreta. S'era in un giardino; egli stava seduto sull'erba: gli mettemmo davanti un grande bicchiere colmo di vecchio vino di Xeres. Egli non aveva del vino che quel meraviglioso e misterioso concetto, che glie n'avevan dato le maledizioni degli sceicchi e dei sacerdoti islamitici; concetto che glie ne aveva fatto nascere un desiderio ardente, pieno di curiosità e di paura. Nel giardino non c'erano musulmani; poteva bere non visto; la tentazione era grande. Girò gli occhi intorno, e poi li fissò — dilatati — sopra il bicchiere. Stette così immobile per qualche minuto; era agitato; gli si vedevano passare sul viso, come lampi, mille pensieri. L'aveva dunque davanti finalmente quel liquore favoloso, di cui basta bere una goccia, come dice il Corano, per tirarsi sul capo le maledizioni di tutti gli angeli del cielo e della terra. Pareva che lo sentisse già in sè tutto quel mondo fantastico in cui l'avrebbe trasportato quel vino: sogni di potenza e di ricchezza, risa argentine di belle donne, promesse di voluttà, ire superbe, visioni del cielo. E assorbiva il bicchiere cogli occhi. Ma non osava afferrarlo. Fra lui e quel bicchiere c'era una formidabile barriera: il suo Dio. Allungava il braccio e lo ritirava, guardava noi, strappava i fili d'erba d'intorno colla mano convulsa, si vedeva che soffriva. Finalmente afferrò il bicchiere, lo avvicinò alla bocca; ristette di nuovo incerto.... poi il diavolo vinse: vuotò il bicchiere d'un fiato. Subito dopo, si coperse il viso colle mani, e rimase qualche tempo così, come in atto di aspettare. Poi allargò le mani e ci guardò. Non c'è parola che possa esprimere il cambiamento di quel viso: era il viso d'un altr'uomo; v'era dipinta una tale confusione di gioia, di meraviglia, di terrore, uno sconvolgimento così profondo di tutto il sangue e di tutta l'anima, che fummo quasi pentiti del nostro atto, come se gli avessimo dato uno di quei filtri malefici delle Mille e una notte, che tolgon la pace per sempre.

Ma continuiamo a studiar gli effetti dell'ebbrezza sull'intelligenza, cominciando dal punto in cui li abbiamo lasciati. Oltrepassato il grado massimo dell'esaltazione intellettuale, tutte le facoltà conservano bensì un'attività vivissima, ma non vanno più bene che per la via diritta; come nel camminare l'ubbriaco si tradisce alla svoltata, così la sua mente manca a se stessa ogni volta che deve fare un'operazione improvvisa. Ed è singolare come, arrivati a questo punto, ci rimane quasi sempre una percezione lucida e per così dire antiveggente di certe difficoltà del discorso, in modo che, parlando, le scansiamo da lontano, come quei che hanno un difetto di pronunzia, scansano le parole in cui si trova la consonante restìa. Nulla è più curioso del lavoro intimo che fa l'ubbriaco per nascondere la debolezza della propria mente. Prepara in segreto le operazioni del pensiero, le quali capisce che non sarà in grado di fare nel calore del discorso; finge di disprezzare o di deridere una ragione del suo avversario, quando non riesce più ad afferrarla; evita con larghe circonlocuzioni pedantesche tutte le frasi che richiedono un giro intricato di sintassi; fa un voltafaccia improvviso e sgarbato davanti a un ostacolo inaspettato, che si presenti nel ragionamento, e gli dà il colore d'un capriccio grazioso di cambiar discorso; s'ingegna con una quantità di piccole astuzie e di piccole ipocrisie, per le quali non solo par che non abbia perduto nulla della lucidità della sua mente, ma che ne abbia acquistata. E più cresce la sua inettitudine, più diventa attiva e gelosa la sua cura di nasconderla. Prova un sentimento di viva soddisfazione ogni volta che riesce a formulare un pensiero senza incertezze; per mostrar che parla facilmente, si serve qualche volta di periodi già fatti, presi nei fondi del magazzino, di quei certi gruppi di idee famigliari che abbiamo tutti, già cento volte espresse, alle quali non c'è più bisogno di cercar la parola; butta fuori precipitosamente la frase che gli balena, per paura che, ritardando un minuto, gli sfugga, e nasconde il vero perchè di quella precipitazione fingendo un impeto di passione, che non sente. Senonchè, cessando per un solo secondo quello sforzo, subito un grossolano scambio di parole, un vocabolo usualissimo che non ricorda, una ripetizione d'una superfluità puerile, rivela che le sue facoltà mentali sono inceppate. Ed è curioso questo, che si potrebbe chiamare il supplizio del bevitore, che in mezzo a tanti altri obblii, quello della dignità della propria ragione sia l'ultimo a coglierlo, in modo che nulla l'offende così amaramente come il sentirsi dire che non è più in sè, ed egli si condanna qualche volta, per prevenir questa offesa, a una lotta col proprio pensiero, che lo lascia spossato dalla fatica, colla fronte grondante di sudore. Ma viene il momento in cui la lotta è superiore alle sue forze, ed egli comincia a perder terreno. Rimarrebbe umiliato, credo, qualunque bevitore, se il giorno dopo l'orgia potesse seguire a passo a passo, nei propri discorsi stenografati, il suo progressivo istupidimento della sera innanzi. Il suo periodo, d'una larghezza ciceroniana da principio, pieno d'incisi e di aggiunti, si va a poco a poco sfrondando e spezzando finchè si riduce allo stile trinciato degli oratori asmatici. Quel sentimento di decoro del discorso che gli faceva mettere almeno un'apparenza di attaccatura fra soggetto e soggetto, svanisce a poco a poco: egli caccia brutalmente nella conversazione quello che gli viene sulle labbra, senza curarsi che cada o non cada a proposito. Poi, gradatamente, l'aneddoto s'appesantisce e s'allunga, lo scherzo piglia il verso d'un ritornello, il pensiero non esce più che in sentenze maestosamente insignificanti, in proposizioni semplici, composte di soggetto, verbo e attributo, messi l'un dopo l'altro con gran riguardo, previo un atto di riflessione, come si collocano gli oggetti fragili; ed infine non è più che una dispersione di mezze idee che vengon su come a caso, e si spengono appena accese, come le lucciole; pensieri che si perdono a mezza strada della frase, bolle e fuochi fatui della mente, che svaniscono a mezz'aria, senza incontrar la parola. E allora sì il bevitore è orgogliosamente geloso della sua ragione: un leggiero sorriso che egli colga a volo sulle labbra d'un commensale, una toccatina di gomito che sorprenda fra due vicini, gli è una pugnalata nel cuore.

Di qui non c'è più che un passo per entrare nell'ultimo periodo, nel quale se l'ubbriaco potesse aver coscienza netta di quello che accade nella sua mente, ne rimarrebbe sgomentato. A un certo punto succede come un risveglio improvviso nelle sue facoltà, che gli fa credere d'essere ancora molto lontano dall'ultimo grado dell'ubbriachezza; ma è un risveglio disordinato e tumultuoso, che dura pochissimo. Le idee gli ballano nella mente come le ombre in una stanza rischiarata da un lumicino mosso dal vento, o vi girano dentro con una rapidità vertiginosa, come palle agitate in una sfera cava, senza ch'egli possa raggiungerle. Quando riesce a raggiungerne una, ci si afferra con tutte le forze che gli rimangono, come a un filo di salvamento in un labirinto, sentendo che, perduta quella, ritornerà a brancolare nelle tenebre. Quindi quelle insistenze interminabili in un ragionamento semplicissimo, quelle frasi cento volte ripetute, pestate nella testa di chi ascolta, con una ostinazione implacabile. Poi si succedono spettacoli, atti, discorsi, che rimarranno tagliati netti dalla sua memoria, lasciandovi un vuoto oscuro e profondo, nel quale s'affaticherà inutilmente il giorno dopo a rintracciare il solo barlume d'una reminiscenza. Poi ancora dei brevi ritorni in se stesso, durante i quali pare che gli s'accenda nel capo un'ultima fiammella, non per altro che per rivelargli il disordine miserabile della sua mente; momenti in cui egli fa un ultimo sforzo per riafferrare la sua ragione, e si sente oppresso da un grande rammarico, si rivolge confusamente dei rimproveri amari, giura a se stesso di non ridursi mai più in quell'ignobile stato. Poi tenebre fitte daccapo, a cui succedono capricci insensati di ritornar nei luoghi dov'ha bevuto, in mezzo alla gente, ai lumi e allo strepito, come se sperasse di ritrovare in quei luoghi la ragione che v'ha lasciata; e quindi rabbie improvvise di non aver le forze corrispondenti alla volontà, di sentirsi così, impotente, come un bambino o un decrepito, a discrezione del primo venuto; rabbie soffocate tutt'a un tratto dall'immagine d'una persona cara o d'una sventura domestica, che gli gonfia il cuore di tristezza e gli solleva un'onda di pianto; da cui ricade un momento dopo in un riso senza cagione, sciocco e inestinguibile, che gli fa nodo alla strozza. E finalmente l'insensatezza: smarrito affatto il sentimento del tempo; turbata, come nei sogni, l'idea dello spazio; uno stupore profondo di ritrovarsi in luoghi dove non si ricorda d'aver voluto venire, di sorprendersi a parlare con gente con cui non sa nè come nè quando si sia accompagnato; il soliloquio ad alta voce, l'apostrofe diretta all'assente, un turbinìo vorticoso di pensieri oscuri e di parole monche che si cercano e si urtano senza potersi congiungere, la vista doppia, le vie danzanti, l'universo sconvolto, una stanchezza infinita della mente e del corpo, che pare un presentimento della morte, — e poi l'ultimo obbrobrio — la caduta; — lo spettacolo più miserabile e più triste che possa dar l'uomo di sè, dopo il delitto; ma che fa pensare a qualche cosa di ancora più triste: alla famiglia povera e desolata che aspetta.

Merita osservazione, pure, lo stato di mente e d'animo in cui si trova il bevitore dopo svanita l'ebbrezza. Certi pensieri profondi e tristi sulla caducità delle cose umane non si presentano mai con tanta intensità come la mattina dopo l'orgia, a traverso alla nebbia leggiera che succede ai fumi densi del vino, nel momento in cui si spalanca la finestra, e si vede, con un sentimento di stupore, che il mondo va del suo solito passo, che nulla vi è di cambiato, che tutto quello che abbiamo visto, sentito, sperato la sera innanzi, non è stato altro che un sogno. Quei pochi fantasmi che ci rimangono dell'ebbrezza, si disperdono a quel primo soffio dell'aria mattutina, come maschere allo spuntare dell'alba del mercoledì delle ceneri. Ci vergogniamo allora di aver dato fede, come bambini, a tutte le false promesse del vino. Ricorriamo con inquietudine gli avvenimenti della sera innanzi, ci ricordiamo delle parole imprudenti, delle espansioni puerili del cuore, di mille sciocchezze e di mille sconvenienze, e ne restiamo umiliati e irritati. L'aver scoperto segreti e debolezze altrui non ci compensa affatto dello sproposito di aver messo a nudo le nostre. Ci vorremmo nascondere per qualche tempo agli occhi del mondo. Ci sentiamo svogliati d'ogni cosa, inetti al lavoro, colla testa e col cuore vuoti, senz'altro sentimento che quello d'un'uggia e d'un avversione inesprimibile per le persone e per i luoghi dove abbiamo commesso i disordini. Ma questo stato produce quasi sempre qualche effetto salutare: una reazione di sobrietà, un ravvivamento passeggero di affetto per la casa, come un bisogno di rifarci, col lavoro e col raccoglimento, di quella dispersione scioperata che abbiamo fatto di noi stessi. Tanto è vera quella sentenza d'un moralista: che un uomo onesto non è mai tanto sinceramente e risolutamente «morale» come dopo un'orgia. E poi, sofisticando, ci consoliamo benissimo delle nostre imprudenze; pensiamo che è stata giustizia l'esserci rivelati per quello che valiamo; che certe debolezze hanno ricevuto il loro meritato castigo mettendosi spontaneamente alla berlina; e che, infine, senza questi disordini, gli uomini si conoscerebbero assai meno tra di loro, ridotti, come sarebbero, a quelle conversazioni ordinarie, che sono come un gioco continuo d'astuzia, con cui ciascuno cerca di scoprire quanto più è possibile l'animo altrui e di nascondere il proprio. L'ebbrezza, ci diciamo, costituisce per gli uomini, nella società irreligiosa, una specie di confessione civile; della quale, cessati gli effetti del vino, l'orgoglio può rimanere offeso — e questa è la penitenza — ma la coscienza finisce per sentirsi alleggerita; ciò che equivale all'assoluzione.

C'è ancor da dire degli effetti del vino sul lavoro intellettuale, e s'intende dei lavori d'immaginazione, perchè sono i soli, è da credersi, riguardo ai quali possa nascer quistione se giovi o non giovi l'ebbrezza. Il vino è stato chiamato il cavallo del poeta. E non si può negare, certamente, che in groppa a questo cavallo, il poeta, se non va sano, va lontano. Le prime volte che si scrive in uno stato di leggera ebbrezza, se n'esce entusiasmati. Sotto quell'ondate di sangue ardente che vanno al cervello, non è più la così detta danza delle cellule, quella che si produce, è la ridda; non è più il soffio, è l'uragano dell'ispirazione. Quell'esclamazione intima di stupore e di piacere, che accompagna, come disse benissimo il Desanctis, ogni lampo di vera ispirazione, ci suona dentro con una frequenza consolante. È anzi uno dei caratteri distintivi del lavoro che facciamo sotto l'influsso del vino, questa soddisfazione grande di noi stessi, che si manifesta di tratto in tratto in veri scatti di gioia e in voci di applauso; sia perchè la nostra mente sovreccitata, ribelle al lavoro freddo dell'analisi, accetta tutto quello che le si presenta; sia perchè l'animo si trova in uno stato di mobilità, vigore e calore tale, che basta la più imperfetta espressione di un'idea o d'un sentimento poco più che volgare, a scuoterlo profondamente. Il lavoro perciò è gradevolissimo. Non si prova più, nell'atto della creazione, quel tormento così bene espresso dal Musset, che diceva di durar fatica a trattener delle grida di spasimo quando si sgravava d'un'idea. Il parto si fa senza dolori. Non ci si presentano più gruppi, ma fughe d'idee, di cui le ultime svaniscono mentre gettiamo le prime sulla carta; la penna non può più seguire la dettatura del pensiero; abbrevia, accenna soltanto, ricorre ai segni algebrici, nota un'idea con un girigogolo, serpeggia qualche volta sul foglio senza nulla segnare. E quando il lavoro è finito, si getta un grido di trionfo, certissimi d'aver fatto un capolavoro. — Ma è un lavoro incompleto. Il giorno dopo, rileggendo a mente fredda, si prova quasi sempre un gran disinganno. È un'impressione curiosissima. S'era creduto di fare un tessuto fitto, e s'è fatto invece una stoffa a trafori. Ci accorgiamo che ognuna di quelle belle idee è come solitaria fra le altre; le catene d'idee intermedie, da cui ci parevano collegate, nell'atto del lavoro, le idee principali, si sono spezzate; alcune idee si sono completamente scolorite; di altre non riconosciamo più la proprietà, e ne restiamo sorpresi, come se fossero roba altrui; scopriamo cento piccoli errori di gusto, di opportunità, di misura; di quei difetti di giustezza, appunto, che trovava il Goethe negli ultimi scritti dello Schiller, quando lo Schiller, per rinvigorirsi, beveva; — riconosciamo, infine, che si son mosse con una forza straordinaria le grandi ruote, per dir così, della macchina del pensiero; ma che tutte quelle minutissime rotine intime e secrete che compiono il lavoro più delicato, son rimaste ferme. Non c'è il menomo dubbio. Il prosatore potrà, sotto l'azione del vino, spandere il suo pensiero in larghe ondate di prosa facile e sonora, ma non farà certamente un solo di quei periodi potenti, pieni di costrutti ingegnosi e di artifizi sottili di collocamento, in cui ogni parola ha la sua efficacia massima; che sono come un nodo serrato di fili d'oro, ed ogni filo è un pensiero; e fanno esclamare, leggendo: — Ecco un maestro. — Il poeta potrà trovare nell'ebbrezza le idee e i versi più splendidi della sua lirica; ma non riuscirà certamente nell'orditura faticosa della strofa; e si potrebbe affermare che non n'è uscito dal vino neppur uno di quegli inimitabili gioielli di sonetti e d'ottave, d'una perfezione disperata, su cui si stanca da secoli l'ammirazione umana. Oltrechè la durata utile di quest'esaltazione artifiziale della fantasia è brevissima, e le succede uno stato di stanchezza affannosa, durante il quale la mente insiste ancora con violenza nel lavoro, ma non lavora più. Nè la soddisfazione che dà quel lavoro facile e tumultuoso dell'ebbrezza, vale quella che prova la mente tutta presente a sè, quando nell'atto stesso che produce, critica e difende l'opera propria, ne esce, vi rientra, tenta e ritenta le difficoltà da cento parti, e si fortifica nei suoi sforzi, e studia sè stessa nelle sue fatiche. E d'altra parte, è quasi il sentimento della dignità umana che ci fa desiderare che non si possano scrivere grandi cose sotto l'influsso del vino. Noi ammireremmo meno, senza dubbio, i grandi poeti, di cui sappiamo che domandarono spesso le ispirazioni all'ebbrezza, se, leggendo le loro opere, potessimo riconoscere ad una ad una, come pretendeva un fisiologo spagnuolo, riguardo al poeta Espronceda, tutte le idee che sono spuntate nel loro cervello nell'atto che rimettevano il bicchiere vuoto sul tavolino. Ci parrebbe che quelle idee le avessero prese, in certo modo, fuori di loro, con un artifizio indecoroso, che le avessero, direi quasi, scroccate, o che almeno dell'ammirazione che ci destano, una parte fosse dovuta al fabbricante del vino che hanno bevuto per ispirarsi. Sentimento benissimo espresso da un poeta italiano, il quale mise a confronto dei poeti antichi, che, presi dall'ispirazione, cantavano all'aria aperta, accompagnando il verso colla cetra, col viso radiante e colle vesti discinte, e la poesia prorompeva spontanea, a torrenti, dalla loro anima commossa, — il poeta moderno, — il quale, chiuso nel suo gabinetto, si gratta il capo, scrivendo, come prescrivono gl'igienisti, piglia un sorso di caffè quando l'idea si fa aspettare, beve una goccia di Madera quando la rima non viene, si mette un pannolino bagnato sulla fronte, perchè non svaporino gli ardori, quando l'ispirazione si raffredda, accende una sigaretta per darsi l'impulso a far l'ultima strofa, e così caccia avanti lo ingegno a furia di spunzonate e di pizzicotti, come un giumento restìo. Certo, di tutte le facoltà della mente, l'ultima a risentir gli effetti dannosi dell'abuso del vino è la facoltà immaginativa, perchè le sue funzioni sono analoghe, si confondono quasi cogli effetti del vino medesimo; ed è questa la ragione per cui tanti poeti e tanti artisti andarono avanti spensieratamente sulla strada del vizio, non accorgendosi, per molto tempo, di nessuna diminuzione nella loro potenza artistica. Le loro prime idee erano sempre grandi, le linee principali delle opere che concepivano erano sempre bellissime, perchè erano il risultato di operazioni istantanee e quasi involontarie del loro ingegno. Quello che scemava in loro era la memoria, la facoltà dell'attenzione e della riflessione, la forza di resistenza alle fatiche del pensiero. Ma all'indebolimento di queste facoltà, che rendeva loro sempre più difficile l'incarnazione dei propri concetti, riparavano, senza accorgersene, consacrando all'opera un tempo maggiore, facendo con una serie di sforzi successivi ciò che avrebbero fatto una volta di primo getto; e ingannavano sè stessi attribuendo a una maggiore profondità di pensiero, a una più difficile contentabilità dell'opera propria, la lentezza che derivava, in realtà, dalla scemata potenza intellettuale. E decrescendo sempre più questa potenza si ridussero a poco a poco nello stato di quegli artisti beoni, la cui vita non è più che una successione di grandi disegni e di grandi propositi, sempre più grandi, quanto più manca la forza d'attuarli; di quegli artisti che muoiono non lasciando per eredità che un tritume di frammenti — grandi quadri dispersi in schizzi — romanzi sbriciolati in scenette — programmi e titoli pomposi di opere di lunga lena, di cui parlarono per anni e non ne scrissero una riga. C'è persino l'esempio d'un poeta olandese, bevitore incorreggibile, il quale avendo concepito e cominciato a scrivere a quarant'anni un grande poema sulla conquista delle Indie, morì a cinquant'anni, non lasciando altro che una sciarada sullo stesso soggetto che fu pubblicata in un giornale illustrato di Leida.

Veduti gli effetti psicologici passeggieri del vino, vediamo i suoi effetti lenti e durevoli: l'azione che esercita sul carattere e sulla vita dei bevitori.

E prima di tutto, arrestiamoci un momento a quella che si suol chiamare «la grande famiglia dei bevitori», grande veramente, innumerevole, svariatissima, stranissima, nella quale si ritrovano i caratteri più opposti, la gente di condizione più disparata, l'uomo di genio e lo scimunito, l'opulenza e la miseria, la bontà più amorevole e l'iniquità più feroce; e nel vizio stesso una varietà infinita di origini, di svolgimenti e di scopi. C'è chi beve per procurarsi un godimento fisico, quasi animalesco, senza cercare l'alterazione della mente, e chi beve per ingannare la noia di una vita oziosa e solitaria. Alcuni ricorrono al vino per ringagliardire un organismo logorato da lunghe privazioni, altri per guarirsi o preservarsi da malanni immaginari, altri per consolarsi di un amore tradito o d'un rovescio di fortuna. C'è chi è diventato bevitore in forza d'una tendenza ereditaria, frutto di malattie, e chi è caduto nel vizio, senz'avvedersene, fin dalla primissima età, corrotto dall'esempio. Alcuni bevono per ostentazione di scapestrataggine, altri per dispetto, altri, di natura affettuosa, per riempire la vita vuota d'affetti. Ci son degli uomini d'un organismo potente che eccedono nel bere, come in tutte le cose, per una certa brutalità di bisogni giganteschi, che li costringe a riparare con acquisti enormi a perdite enormi, a gettare il vino a ondate nel loro corpo come si getta l'acqua a secchie in un cannone infocato. Molti bevono per effetto d'uno scoraggiamento che li prende verso l'età matura, vedendo deluse le ambizioni della gioventù; per sopire il rammarico di non essere riusciti a trovare una via, una forma d'estrinsecazione al loro ingegno; per lenire i dolori d'una malattia particolare dello spirito, che si potrebbe chiamare «della potenza trattenuta». Ci sono altri infine, specialmente fra gli artisti, nature elette, dotati di grande intelligenza e di cuore delicatissimo, ma di tempra fiacca, i quali bevono per attenuare la violenza dei proprii sentimenti, per addormentare la fantasia inquieta che li tormenta, per frenare l'attività eccessiva del loro cervello, che li affatica, anche durante i loro riposi, e li logora. Bevono, come disse dei fumatori il Balzac, perchè hanno delle energie da domare. Ed è questa la cagione principale della intemperanza famosa di tanti poeti: non è vero che bevessero, come suol credersi, per prodursi un eccitamento artificiale, a fine di scrivere; bevevano per acquietare il loro eccitamento naturale, dopo che avevano scritto. E l'ha detto per tutti il tanto citato Alfredo Musset, — il quale un giorno, a un tale che gli domandava perchè cercasse la poesia nel vino, rispose dispettosamente: — Non vi cerco la poesia, vi cerco la pace.

Tutti questi bevitori vanno avanti sulla stessa via fino a un certo punto, e poi si dividono. Gli uni s'arrestano, e diventano i golosi; gli altri tiran via, e diventano gl'ingordi del vino.

Nei primi alla passione si viene ad innestare il capriccio, quasi un sentimento della poesia del vizio, che lo frena, unito ad un raffinamento di gusti che lo ingentilisce; e fra costoro, quelli che hanno borsa pari alla gola, diventano una specie di bibliomani della bottiglia — raccoglitori e assaggiatori, piuttosto che bevitori — dotti nella loro materia — che mettono nella cantina l'amore, gli studi, l'alterezza che uno studioso mette nella biblioteca; e ci hanno anch'essi, infatti, i loro classici polverosi, le edizioni d'antica data, le celebrità straniere, i prosatori un po' grevi, ma sostanziosi del nord, la letteratura passante e leggiera che rallegra senza nutrire, la poesia tutta foco del mezzogiorno, che infiamma ed esalta; che fanno del vino un argomento continuo di ricerche e di discussioni, un'arte, insomma, e una scienza, che provvede nello stesso tempo ai bisogni del loro stomaco e del loro intelletto. E costoro sono quelli che godono veramente il vino. Uno psicologo artista ci avrebbe da fare uno studio curiosissimo. Per loro il bere è una moltiplicazione continua di voluttà squisite, non meno dell'immaginazione che dei sensi. Sentono già in sè, al solo apparire del recipiente, tutta la forza e tutta la gaiezza che v'è imprigionata. Si beano in quella varietà di forme delle bottiglie, snelle, pienotte, maestose, come in altrettanti profili incompiuti di belle donne; provano un senso diverso di piacere alla vista del turbantino verde e del caschetto d'argento; godono a palpare le rotondità eleganti dei calici; nel suono della bottiglia percossa dal cavatappi, sentono una nota d'Adelina Patti; prima di alzare il bicchiere rimangono qualche momento in ammirazione di quei bei rubini o di quell'oro sciolto; poi ne aspirano la fragranza, e tutte le loro glandule salivari versano a onde e a spruzzi i loro succhi. Infine mettono il vetro fra le labbra, ma quasi con rammarico, come Panurge del Rabelais, di non avere il collo lungo tre cubiti per poter gustare meglio qual nèttare; poi — bevono cogli occhi chiusi, e dividono in due operazioni rigorosamente distinte l'assaggiamento e la deglutizione; sentono il primo sapore — il secondo sapore — il terzo sapore; rivoltano il vino colla lingua, lo fanno scorrere lungo le gote, lo gettano verso le fosse nasali per sentirne meglio il profumo, e non si decidono che a stento a lasciarlo colare nella gola, dopo di che stanno ancora raccolti un momento per assaporare la voluttà dell'ultimo effluvio. Risentono in tutte le vene e in tutte le fibre, e lasciano trasparire dal viso, una tale piena di dolcezze e di delizie, che si rimane incerti, vedendoli, fra due sentimenti: non si sa se dobbiamo sdegnarci che l'uomo, capace di tante soddisfazioni altissime della mente e del cuore, metta nel godimento di simili piaceri tutta l'anima sua, o ammirare piuttosto la prodigiosa delicatezza della macchina umana, che consente quei piaceri.

Questi bevitori, dunque, s'arrestano sulla via del vizio; gli altri procedono e passano dalla classe dei bevitori in quella dei briaconi. Costoro, invece del collo di Panurge, vorrebbero avere lo stomaco dell'imperatore Massimino, il quale non faceva punto, si dice, che al quattordicesimo fiasco. In che modo essi s'immergano a grado a grado e si affoghino nel vino, per che periodi passi la gran lotta della volontà che resiste coll'abitudine che trascina, è una storia lunga e triste, che molti psicologi insigni, specialmente fra i romanzieri inglesi, fecero in un modo ammirabile, ed Emilio Zola insuperabilmente. Il vino entra a poco a poco nella loro vita sotto tutti i pretesti: ieri bevevano per resistere al lavoro, oggi bevono per render più dolce il riposo; prima per scacciar la malinconia, dopo per mantener viva l'allegrezza; una volta per invocare l'oblio, ora per eccitare la memoria; da principio per conciliarsi il sonno, poi per sostenere la veglia. Il nemico s'infiltra e cresce a goccia a goccia, a sorso a sorso, a bicchiere a bicchiere, un po' tutti i giorni, lentamente e sordamente, come l'acqua del mare per la crepa sottile d'una nave. Quando l'uomo s'avvede del pericolo, è quasi sempre troppo tardi: la stiva è già piena. Egli fa ogni giorno il proponimento d'arrestarsi ai primi bicchieri; ma, vuotati i primi, sente in sè un'energia, un vigore di volontà, il quale lo fa tanto sicuro di riuscir ad attuare il suo proponimento un'altra volta — quando che sia — che ne rimanda l'attuazione al giorno seguente, nel quale, per la stessa ragione, accorderà a sè stesso la dilazione medesima; e così va innanzi per anni, incoraggiato sempre all'abuso, prima da una sicurezza fermissima, poi da una speranza vaga che verrà un giorno in cui smetterà irremissibilmente. Grande prova di quella gran verità: che è più facile negar tutto ai sensi, che rifiutar loro qualche cosa. Ma la lotta non è mica così semplice. È un dramma intimo intricatissimo, pieno di terrori e di dolori, di risurrezioni e di ricadute, tanto più lungo, più vario e più doloroso, quanto è più forte il carattere e più alta l'intelligenza del lottatore. È prodigioso fino a che punto, con che ostinazione di volontà, con che sottile e faticoso artifizio di ragioni e di sforzi illusorii, di battaglie vere e simulate, di scambietti dati alla propria coscienza il bevitore cerca di riacquistar l'impero su se stesso, e di liberarsi dai rimorsi. Adduce alla ricaduta di ogni giorno, ogni giorno una nuova giustificazione, qualche volta ingegnosissima, e cercata per lungo tempo, come il reo cerca una discolpa da addurre davanti al suo giudice. Cerca avidamente, per soddisfare la sua passione, tutte le occasioni in cui l'abbandonarvisi può parere a lui e ad altri un eccesso consentito dalle circostanze. Riesce realmente a vincersi per qualche tempo, con un grande sforzo, animato, senz'avvedersene, non dal desiderio sincero di guarire, ma dalla gioia che pregode di poter poi — dopo quell'astinenza — ricader senza rimorsi nel vizio per un altro periodo di tempo. Ripiglia animo a bere ad ogni piccola prova ch'egli dia a sè stesso che le sue facoltà intellettuali non sono ancora scemate; beve per ira quando l'animo stanco si rivolta alla fine contro la tirannia della volontà che lo tortura; ritorna a bere ad ogni esempio che gli si presenti, di altri più avanti di lui sulla strada del vizio, eppure ancora sani in apparenza, e nel fiore delle loro forze; confida persino in una malattia possibile, in un primo avvertimento della natura, dopo il quale, l'idea del pericolo corso gli darà finalmente la forza di vincersi; arriva fino al punto di fabbricarsi una filosofia speciale, contraria affatto alla sua indole e a tutta la sua vita, per poter incastrare il suo vizio in quella filosofia, come in una cornice che lo abbellisca, e lo renda passabile ai suoi occhi. Poi vengono degli sgomenti profondi all'accorgersi improvvisamente che le sue facoltà mentali sono scemate, e quindi una sorveglianza diffidente e dolorosa sulla propria intelligenza; — e risoluzioni impetuose che durano un'ora nelle quali s'esaurisce tutta la sua energia; — e lunghi scoraggiamenti cupi, che finiscono nel vino, da cui rinasce un barlume di speranza, seguìto il giorno dopo da un disinganno più sconsolato. E intanto il nemico corrode tutto: corpo, mente e cuore. Il famoso elogio del Rousseau, secondo il quale i bevitori son buoni, fedeli, brave e oneste persone, non si può sostenere, certamente, fuorchè considerando i bevitori sotto l'influsso immediato del vino. Il vero è che quando escono da quel mondo facile e ridente in cui l'ebbrezza li ha sollevati, si trovano a disagio fra gli aspetti scoloriti del mondo reale, e s'irritano più facilmente di ogni altro delle asprezze della vita che avevano dimenticate. Abituati a quella vena ricca di benevolenza e di generosità che apre in loro l'ebbrezza, non ritrovano più se stessi, quando devono cavar quei sentimenti dal cuore tranquillo. Dopo quella viva eccitazione d'ogni sera, la loro sensitività ha come bisogno di riposo, e si rifiuta alla fatica delle emozioni a digiuno. In mezzo alle compagnie in cui ferve quell'allegrezza spontanea, che deriva tutta dalla disposizione naturale dell'animo, si sentono spostati, provano quasi un'invidia segreta, che li rende dispettosi e tristi, sono umiliati, scontenti di sè, come gente decaduta, e desiderano qualche volta con un'impazienza acre e collerica quell'ora, quel luogo, in cui potranno, con un mezzo così speditivo, ritornar sereni, generosi, eloquenti. Senonchè questo ringiovanimento, questa specie di risurrezione di tutti i giorni, si va facendo gradatamente sempre più incompleta. Dopo un certo tempo il bevitore non prova più quell'ebbrezza, per così dir ricca, piena di sentimenti e d'idee, in cui il cuore e la mente tendevano continuamente ad espandersi e ad abbracciar l'universo. Il primo indizio del decadimento è lo scemare di quella mania della disputa che lo trasportava a traverso a tutto lo scibile umano: la sua mente pigra comincia a lasciarsi andar giù per la china della celia facile, evitando tutti gli appigli alla discussione, che la obbligherebbe al lavoro; il giro dei suoi pensieri si va sempre più restringendo; tutto ciò che viene a sviarlo da quell'andamento ordinario di idee e di discorsi, gli riesce molesto; l'esaltazione non è più continua, ma a intermittenze, a sfuriate successive, separate da lunghi intervalli, dopo ciascuna delle quali, sente il bisogno di riposare; l'allegrezza degenera a poco a poco in un sentimento di grossa soddisfazione, nella quale egli si adagia e si culla, come in una poltrona a bilico, mentre il suo pensiero tremola su mille oggetti, senza fermarsi in alcuno, o si fissa in uno, e vi riman dentro impigliato ed inerte. E allora vengon le lunghe sere monotone, in cui il bevitore cova il suo vino in silenzio, in uno stato intermedio fra la sonnolenza e lo stupore, e tutto il mondo brillante che vedeva altre volte nell'ebbrezza, si trova ridotto fra i quattro lati della tavola, sulla quale egli comincia ad appoggiare i gomiti — e l'anno dopo appoggia il mento — e negli ultimi anni la fronte. Certo molti di costoro conservano quella bonarietà, di cui il Rousseau fece l'elogio; ma è bonarietà che deriva, più che da altro, da pigrizia del cuore. La marea montante del vino ha seppellito rancori, odi, superbie, tristizie — naturalmente — senza merito loro. Sentono ancora gli affetti di famiglia e qualche vecchia amicizia; ma non è più quell'affetto vivo, pieno di previdenze e di sacrifizi spontanei, che pensa e gode se stesso, e vibra tutto ad ogni parola in cui s'esprima, e ad ogni manifestazione che gli corrisponda. Tanto è vero che è rarissimo che contraggano affetti nuovi. Arrivato a questo punto, il bevitore non è più che uno spettatore indifferente del mondo; vivacchia, con un sol occhio aperto, non cammina, ciondola sulla via della vita, fin che venga la morte a spezzargli il bicchiere nel pugno.

Se poi dall'esame degli effetti individuali del vino, veniamo a considerare i suoi effetti nella società, restringendoci sempre nel campo psicologico, rimarremo meravigliati, sgomentati quasi, non tanto di ciò che vediamo, quanto di ciò che abbiamo ragione di sospettare. Poichè il vino è principalmente una potenza occulta. La maggior importanza dei suoi effetti non è già negli eccessi visibili a cui s'abbandonano i pochi; è nella diffusione grandissima di una intemperanza corretta, di una ubbriachezza nascosta, costante, regolare, che ci gira intorno continuamente, e che continuamente incontriamo faccia a faccia, senza riconoscerla. Noi abbiamo a che fare con un gran numero di persone, che trovandosi sotto un continuo influsso latente del vino, paiono quello che non sono, son specie di maschere di sè stessi, che c'ingannano. Ci troviamo intorno delle generosità, delle eloquenze, delle bontà, dei caratteri ameni, che sono fittizii, che esistono solamente a ore, ma che esistendo per quelle tante ore ogni giorno, producono in chi le incontra un'illusione stabile. Se potessimo conoscere tutte le abitudini intime, quante strane scoperte si farebbero! Quante belle azioni generose scopriremmo che sono state fatte a malincuore, forzatamente, per mantenere una promessa sfuggita nell'esaltazione del vino! Quanti trionfi oratorii troveremmo che sono dovuti all'ebbrezza, e mostre di coraggio inaspettate nei duelli, e slanci commoventi di attori drammatici! Troveremmo forse anche dovute al vino delle riconciliazioni clamorose d'uomini politici, che ebbero conseguenze memorabili; forse delle risoluzioni temerarie di generali che resero il loro nome glorioso, forse anche delle morti eroiche, che tutti abbiamo ammirato ed ammiriamo ancora. Oltre a ciò mille persone si trasmutano continuamente intorno a noi. Dopo qualche anno ritroviamo dei caratteri, già dolci, ora stranamente inaspriti, senza una ragione apparente; ritroviamo altri, una volta focosi e intrattabili, ora concilianti, trascuranti, in uno stato d'ottimismo cronico, che non ci sappiamo spiegare, e che ci consente di stringere con loro un'amicizia che prima era impossibile; altri che hanno mutato abitudini, e che dal gran mondo in cui brillavano, si sono ridotti ad una vita solitaria ed oscura, senza che ci riesca d'indovinarne la causa. Vediamo degli uomini di ingegno arrivare rapidamente, nel fiore della gioventù, a grandi altezze nella società e nell'arte, e poi arrestarsi tutt'a un tratto, e come smarrire sè stessi, e presentare al mondo un esempio inesplicabile d'inerzia e d'impotenza. A tutti questi cambiamenti noi cerchiamo delle ragioni; crediamo qualche volta d'averle trovate in avvenimenti, in segreti domestici, in crisi misteriose della mente e del cuore. E non è nulla di tutto questo. La sola cagione è il vino. Ed è naturale che non si scopra, poichè l'uomo confessa francamente l'orgia di una notte, ma nasconde con cura gelosa, tra le pareti della sua casa, l'abuso di tutti i giorni, a cui non trova giustificazione nè scusa. Ora è un effetto che sfugge all'osservazione ma che è enorme, senza dubbio, quello che produce nella vita sociale questo gran torrente purpureo che passa ogni giorno a traverso alla popolazione d'una grande città, nelle ore della sera e della notte. Una grande azione la deve esercitare sull'andamento generale delle cose, questa vasta alterazione giornaliera di sentimenti, di pensieri, di discorsi. Noi ce ne accorgeremmo forse dagli effetti contrarii, se da un dì all'altro, improvvisamente, non esistesse più vino, nè alcuna bevanda eccitante. Vedremmo delle nature, sino a ieri larvate, mostrarsi nel loro vero aspetto; gente espansiva, chiudersi in sè; gente allegra, rattristarsi; intelligenze offuscate, tornarsi a chiarire; ingegni che nascondevano il loro decadimento nell'esaltazione forzata d'ogni sera, rivelarsi finiti; scemare la facilità delle nuove amicizie, disfarsi sotto il peso della noia delle società di persone che non avevano altro legame che il vino; ritornare a Venere molti che l'avevano dimenticata per Bacco, una recrudescenza di malumori da principio, un accrescimento di operosità più tardi, una diminuzione generale di spropositi fatti detti e stampati, scemate le contese, ma più rare anche le riconciliazioni, maggiore prudenza, minor sincerità, più forza, meno entusiasmi: un misto di beni e di mali.

Più beni o più mali?

A me non tocca rispondere; e d'altra parte non vorrei chiudere la serie di queste conferenze sul vino con una parola amara contro il nostro argomento. C'è il modo d'uscirne con una distinzione; la quale non si potrebbe far meglio che mettendo a riscontro due dei più grandi pittori di quella ammirabile scuola olandese, che attinse nel vino una così gran parte delle sue ispirazioni. Nei quadri dello Steen è rappresentata l'orgia ignobile, che sostituisce all'allegrezza quieta della famiglia il baccano della taverna: visi istupiditi, atteggiamenti osceni, braccia cascanti che il giorno dopo non lavoreranno, e case disordinate che rivelano un disprezzo abituale di ogni dignità e di ogni gentilezza. Nei quadri del Van der Helst sono rappresentati dei banchetti gioviali, dove cittadini di tutti gli ordini dello Stato si fanno dei brindisi e conversano fraternamente; e son belle figure oneste ed aperte, su cui si legge la sicurezza della coscienza e la nobiltà della vita consacrata alla patria; eccitati, ma composti, con un sorriso negli occhi che fa indovinare gli aneddoti ameni e le parole cortesi, e ispira nello stesso tempo l'allegrezza e il rispetto. Ecco le due potenze opposte del vino, o per meglio dire: i due vini. C'è il vino dello Steen e c'è il vino del Van der Helst. L'uno è il veleno che trascina all'ozio, all'istupidimento, alla prigione, alla tomba; e questo vino fuggiamolo, combattiamolo, vituperiamolo. L'altro è il vino che fa alzare nello stesso tempo il calice, la fronte e il pensiero; il vino che mette all'operaio la forza nel braccio e il canto sulle labbra; l'allegria della nostra mensa d'ogni giorno, il festeggiatore delle riconciliazioni e dei ritorni, il liquore benefico che riscalda le vene dei nostri vecchi, che rinvigorisce le convalescenze sospirate dei nostri bambini, che aggiunge un sorriso all'amicizia e una scintilla all'amore: il secondo sangue della razza umana. E questo onoriamolo e festeggiamolo, benedicendo le due grandi forze benefiche a cui ne andiamo debitori: la fecondità della terra e il lavoro dell'uomo.

Fiat Lux GUTENBERG

Altre pubblicazioni dello stesso Editore

ARTURO GRAF

LA LEGGENDA DEL PARADISO TERRESTRE

LETTURA

fatta nella R. Università di Torino addì 11 novembre 1878

Prezzo L. 2.

Dello stesso

MEDUSA

Un vol. in-16 o di pag. 103 — Prezzo L. 2.

Il sentimento che inspira le liriche raccolte in questo volume è espresso dal titolo e dall'epigrafe:

Horror ubique animos simul ipsa silentia terrent.

È poesia che sta da sè, e non si lega a nessuna delle scuole che più ora in Italia si contendono il favore del pubblico. Annunziata da parecchi giornali alquanto prima che uscisse dai torchi, La Medusa, al suo primo apparire, fu salutata quale libro di alta originalità poetica, giudizio che non potrà non essere confermato da chi ne svolga solamente alcune pagine.

Dello stesso

PROMETEO

NELLA POESIA

Un vol. di pag. XII–194 — Prezzo L. 3.

In esso il valoroso critico passa a rassegna, da Esiodo e da Eschilo in poi, tutte le maggiori opere poetiche a cui l'antico mito ellenico servì di argomento, parlando del Calderon, del Voltaire, del Goethe, del Monti, di G. Schlegel, dell'Herder, del Quinet, del Lipiner, del Longfellow, dello Schuré, dell' Inno a Satana del Carducci, e del Lucifero del Rapisardi, ricercando nelle condizioni varie della coltura le cause della diversificazione del tema.

TORINO — ERMANNO LOESCHER, Editore — ROMA