DA FIRENZE A DIGIONE

IMPRESSIONI DI UN REDUCE GARIDALDINO

PER

ETTORE SOCCI

Poche parole per capirci alla prima.

Questo libro non è per gli strategici e molto meno pei letterati; un cruscante, leggendolo, avrebbe di che arricciare il naso moltissime volte; un soldato di quelli che vanno per la maggiore, giurerebbe che lo scrivente sa di arte di guerra, quanto sa d'ortografia un'analfabeta; nè io dicerto vorrei sfegatarmi per far cambiar loro opinione; io non l'ho mai pretesa a linguista ed ho una vecchia ruggine con chi si arrovella, per studiare il sistema di ammazzare più gente che può.

I miei non sono che appunti; appunti presi al chiaro di luna, nel silenzio degli avamposti o nel cicaleggio giocondo e spigliato della caserma; tra il fischiar delle palle e le canzoni entusiastiche, tra una bestemmia e una lacrima, in mezzo alla baldoria e ai cadaveri, ai generosi proponimenti e alle continue disillusioni, nasce spontanea in chiunque abbia del cuore, una filosofia che l'arcigno e pettoruto pedante non crederebbe possibile in una vita scapigliata, chiassona, piena d'emozioni, ma sempre senza pensieri, quale è la vita del campo. E di tali riflessioni, ispirate dai fatti ora tristi, ora gloriosi, di cui fummo gran parte, può essere che qua e là se ne trovino anche in questi appunti, che raffazzonati alla meglio, ora ardisco di offrire ai miei buoni lettori, persuaso che, se non avranno altro merito, avranno certamente quello di essere dettati dalla verità, mai da rancore o da invidia.

Se arrivato all'ultima pagina, qualcuno che avrà avuto l'eroismo di seguirmi fin là, volgerà un pensiero pietoso ai poveri martiri, che ignorati si giacciono nell'estese pianure sotto Fontaine e Talant e resterà persuaso che i pochi, i quali per la causa più santa che si sia dibattuta in questi ultimi tempi lasciarono interessi e famiglia, quantunque disconosciuti e non aiutati da chi aveva il dovere di aiutarli, hanno fatto tutto quello che umanamente era loro possibile per far trionfare la idea, battendosi da prodi, e non mostrandosi indegni di quella camicia rossa, che da gente abietta e codarda si voleva condannare al Bargello, io sarò più che contento, io potrò dire che il mio povero libro ha raggiunto il suo scopo.

CAPITOLO I.

—Bada bene che domani ti aspettiamo a Livorno.

—Non ne dubitate… Brucio anche io dal desiderio di lasciar queste lastre.

—Allora siamo intesi?

—Intesisissimi.

—A domani dunque!…

E tutti, e tre ci stringemmo vicendevolmente la mano, e si stava per congedarci, quando tutto a un tratto un prolungato mormorio ci giunge all'orecchio: è un accorrere di gente, uno spalancarsi improvviso di finestre e di usciali di botteghe vicine, un domandare e un rispondere, un incomposto gridìo di ragazzi, un esclamare di donne, continuo e in tuono di spavento.

—Che ci sia la rivoluzione?—Domandò un mio compagno che da circa quindici giorni non sognava che sangue e trambusti.

Senza rispondere alla strana supposizione, mossi dalla curiosità escimmo tutti dalla bottega di caffè, nella quale eravamo seduti. Qual magnifico spettacolo non ci si offerse alla vista!

Era terminato di piovere ed il cielo era tutto rosso, infuocato, quasichè fosse avolto in un lenzuolo d'amianto; i popolani, tutti a bocca spalancata tenevano la testa all'insù, e distornavano gli sguardi dall'alto, solamente por occhieggiarsi tra loro, lambiccando il cervello e arrapinandosi, per spiegare il fenomeno, che per la prima volta vedevano, e di cui non erano mai giunti a farsi un'idea. I lettori si rammenteranno dell'Aurora boreale che apparve ai venticinque dell'ottobre decorso; la sera appunto del venticinque d'ottobre era l'ultima che, a nostro giudizio, dovevamo passare in Firenze.

—Anche il cielo si tinge di rosso—Gridò il solito compagno, provocando un'occhiataccia dal padron di bottega, il quale dacché aveva raggruzzolato la miseria di un mezzo milione si era buttato, anima e corpo, nella categoria dei ben pensanti—Allegri ragazzi—Continuò collo stesso tuono di voce lo scapato—Gli augurii, non potrebbero essere migliori… Evviva il rosso!

—Evviva!—Rispondemmo noi tutti, contenti come pasque per la nuova distrazione che ci dava quel caso inopinato e maraviglioso che faceva inorridire dallo spavento il superstizioso fellak e la donnicciola dei nostri camaldoli; due selvaggi in questo secolo in cui non si fa che ragionare di civiltà.

Dopo pochi minuti, lasciai i miei compagni, e prima di ridurmi a casa, ebbi vaghezza di vedere, forse per l'ultima volta, il lungarno. Era deserto! Non sto a ripetere tutti i pensieri che, ispirati dalla solitudine, si accavallavano e si cozzavano nel mio cervello in ebollizione: finalmente si poteva partire, e partire per la Repubblica… finalmente era venuto il momento di far vedere ai nostri nemici che non si era buoni soltanto a declamare per i caffè e per le bettole, finalmente si realizzava quel sogno che da tanto tempo vagheggiavamo nel più segreto dei nostri pensieri. E dire che i pezzi grossi della democrazia, tutti, come un sol uomo ci avevano sconsigliato. Ma che vogliono dunque—ripeteva tra me—questi vecchi che coi loro scritti, colle loro opere sono stati i primi a farci amar la repubblica?—Lasciar solo là, tra un popolo straniero, Garibaldi e farci sfuggire una sì bella occasione…. Ma che vogliono dunque costoro?…. Alla fine soccorrendo la Francia, noi non adempiamo che al nostro dovere; si soccorre la nostra sorella maggiore, la patria delle grandi iniziative, quella che ci ha istruito colle sue opere, che ci ha dato sollazzo coi suoi romanzi, che ha fatto le spese dei nostri teatri, che dal campo sereno e grandioso della scienza a quello frivolo della moda ci ha dato ogni cosa; se ci è di mezzo quel maledetto affare di Montana, che colpa ce ne ha la Francia, che colpa ce ne hanno i discendenti di Voltaire e di Danton, i figli di quella Nazione che ha proclamato per prima in faccia all'attonito mondo i diritti dell'uomo?…. Oh! la sarebbe bella, se i nostri soldati fossero mandati in China o in qualunque parte del mondo, a puntellare un monarca imbecille e codardo, oh! la sarebbe bella, che se ne avesse a fare un carico a noi!… Eppoi andare contro un re per la grazia di Dio, noi che non crediamo in Dio e non abbiamo i re nelle nostre simpatie; aiutare un governo che ha i palloni volanti per posta e per soldato chiunque è buono di portare un fucile; utilizzare a prò di causa santissima una vita noiosa e disutile, traversare il Mediterraneo, veder città e paesi che tante volte abbiamo sentito nominare nei libri, e che tante volte abbiamo desiderato vedere, riabbracciare i vecchi compagni con cui in altro tempo si è diviso i pericoli e l'emozioni delle battaglie; inebriarsi di nuovo tra la polvere, il fumo e l'assordante rumore dei combatimenti; e udire le grida dei prodi, che si lanciano, come un sol'uomo, alla carica e unirsi a loro e vederli… vederli da vicino i terribili soldati che fan tremare l'Europa, misurarsi con essi, picchiarsi, vincere, morire forse anche pel nostro ideale…. Oh! le care fantasie che mi carezzavano l'immaginazione, sotto quel Cielo di fiamme, sul quale proprio davanti ai miei occhi staccava superbamente modesto, il tempio monumentale di san Miniato—Anche là sono morti dei repubblicani—Io dissi con compiacenza a me stesso—anche là fu combattuta l'aspra tenzone che da tanto tempo agita l'umanità… Essi son morti, ma vivono eterni nella memoria del popolo. Oh! toccasse a noi la lor sorte!

Insomma d'idea in idea, di fantasticaggine in fantasticaggine, chi sa dove sarei andato a cascare, se, più macchinalmente che altro, non mi fossi ritrovato sulla piazzetta, dove era la mia abitazione—Eccolo—Gridò una voce ben nota, appena spuntai dall'angolo della via.

—Eccolo!—Ripresero altre voci;

I miei due amici, a cui se ne erano aggiunti altri due, avevan fatto un capannello davanti al mio uscio e mi avvidi alla prima che mi aspettavano.

—Abbiamo creduto bene di venir tutti da te; così domani saremo sicuri di svegliarci e non recheremo disturbo ai nostri padroni di casa…

—Lo recherete al mio—Interruppi….

—Non importa; già ora siamo liberi; abbasso i padroni…

—Specialmente quelli di casa, che se si tarda a pagarli, diventano peggio di jene.

—Su.. su; gridarono tutti.

—Su!—Gridai anche io, facendo di necessità virtù; che oramai o girellare tutta la notte, o portare in casa mia quell'indiavolati.

S'immagini il lettore, che cosa divenisse in pochi minuti quella camera; tutti fumavano come cammini, ed io in un cantuccio davo fuoco a certi appunti, coi quali sera per sera confidavo alla carta le impressioni provate durante il corso della giornata. Il mio letto era piccolo per uno solo e in lunghezza non avea niente da invidiare al celebre di Procuste; cotesta sera ci entrarono in quattro, e non potendo dormire, come è più che naturale, cominciarono a tirarsi spinte e pedate tra loro, facendo un baccano da mettere in sussulto il vicinato: ora uno stivale colpiva negli stinchi qualcuno, provocando certi moccoli da fare arrossire un vetturino; ora si sentiva un'urlaccio, che traeva l'origine da un gentil pizzicotto; ora un guanciale cadeva, a mo' di bomba, sul tavolino, rovesciando il calamaio sul tappeto, che, se non era Turco, non era meno diletto al padrone di casa che ci passava davanti intiere mezz'ore in ammirazione; ed ad accrescere il diavoleto, risate omeriche, grida incomposte, esclamazioni più o meno frizzanti, ma non certamente autorizzate dal Galateo di Monsignor della Casa.

Il più rivoluzionario dei miei amici si avvolse dignitosamente nel lenzuolo, quasichè fosse un peplo; le forme del futuro difensore della Repubblica Francese non erano greche di certo; i suoi stinchi potevano benissimo scambiarsi per fusi, e tutto l'insieme ti dava un'idea esattissima di un Cristo del Cimabue.

—Cantiamo la Marsigliese—Gridò

E tutti, con certe voci da birboni, che non le può immaginare all'infuori di chi l'abbia sentite, cominciarono il celebre inno di Rouget de l'Isle: Allons, enfants de la patrie, con quel che segue.

—Signori per carità—Urlava con voce più delle nostre stuonata, la padrona di casa dall'uscio vicino.

—Questa è una vera porcheria—Di rimando aggiungeva l'inquilino della stanza di contro—Quando si ha la sbornia, la si va a digerire in campagna.

—A chi la dice briaco?—Protestava, offeso nella sua dignità, il Romano dal letto.

—Misuri i termini. Vociavano gli altri.

—Per chi la ci ha preso?

—Bellino lui!… Fa il feroce, perché è dietro la porta.

—Giù la porta.

—Alle barricate!…

—Alle barricate!…

Descrivervi la pioggia di proiettili d'ogni genere che fu scaraventata su quell'uscio, sarebbe cosa impossibile; era un turbine di stivaletti, di libri, di guanciali, di spazzole; il malcapitato se ne andò battendo a più riprese la porta e protestando che andava a far rapporto alla delegazione vicina.

—E ora, saranno soddisfatti!—Esclamò la padrona, sempre dietro le scene.

Per nostra buona fortuna il chiarore bianchiccio dell'alba, si fece vedere tra gli spiragli delle nostre finestre, ed i miei compagni partirono allegri e contenti, dopo averci scambiato la promessa di vedersi tra otto ore in via Grande a Livorno, chè le mie occupazioni esigevano che io mi dovessi trattenere tutta la mattina a Firenze.

Andai per dormire, ma avevo fatto i conti senza l'oste, e questa volta la parte dell'oste doveva esser sostenuta dalla mia vecchia padrona di casa, la quale mi caricò di rimprocci, mi torturò coi suoi omei, mi seccò colle sue geremiate—Noi si cercava di rovinarla, il nostro non era agire da persone educate.—Io presi pretesto da tutte queste lamentazioni, per restituire la chiave, uscii, senza ascoltare scusa veruna, disbrigate in fretta e furia le mie faccenduole mi avviai, diritto come un fuso, alla stazione, ed aspettando il magico fischio che doveva annunziarmi la partenza dalla moribonda capitale del felicissimo regno degli analfabeti, mi rincantucciai in un vagone.

—Era tempo!—Esclamerà il lettore e non avrà tutti i torti.

Ci moviamo: qual felicità! Eppure credevo di dover provare un po' più d'allegrezza: il Cielo era d'un colore plumbeo e, per quanto tu aguzzassi lo sguardo, non giungevi a vedere un solo strappo che ti facesse sperare il sereno: eppoi, non lo so, partendo non si può fare a meno di risentire una certa malinconia…. son troppe le reminiscenze che vengono a assalirti, tutte di un colpo; il minimo nonnulla prende le proporzioni delle cose più grandi; ci si rammenta i più inconcludenti discorsi, si ripensa alle passeggiate gradite, ai geniali convegni, alle conversazioni che eravamo soliti di frequentare; gli stessi dispiaceri che abbiamo provato ci sembrano meno crudeli; e nelle nostre fantasie si affollano invece le gentili esibizioni degli amici, gli affettuosi conforti delle nostre belle, i favori che ti fu dato ricevere, frequentando la società; le vie per le quali eri solito passeggiare le ti sfilano davanti, coi suoi negozi, colle sue gentili passeggiatrici che ti sono divenute familiari, quantunque tu non le abbia mai avvicinate: e davanti ai tuoi occhi che distrattamente si affissano sugli alberi, i quali sembra che friggano indietro impauriti a veder passare la macchina, sfilano ad uno ad uno, quasiché fossero figure di lanterna magica, i volti di tutti coloro che ti conoscono, che tu conosci, o che hai veduto anche soltanto una volta: le occupazioni che poco fa riguardavi come un martirio, ora ti sembrano, care… E quando tornerò?… E se non tornassi più?…. Quante cose saranno cambiate, nel primo caso…. chi mi compiangerà nel secondo?!.. Oh! In questi momenti si comprende l'eroismo di chi per una idea può lasciare una madre!

—Livorno—Grida la guardia.

—Già…. a Livorno—Pensai tra me e me—Ed io che credeva di essermi mosso da pochi minuti! Chi avevo avuto per compagni di viaggio? io non me lo ricordo; probabilmente mi devono aver preso per matto.

Scendo e vado di corsa in via Grande, ove avevo l'appuntamento a Livorno; il Consolato Francese doveva darci modo di pervenire sicuramente a Marsiglia; chè la questura Livornese, diretta dal celebre Bolis stava con tanto d'occhi sgranati, affinchè nessuno salisse sui vapori francesi, importunando e viaggiatori, e marinari, e facchini di porto, fino a tanto che questi non avessero dati schiarimenti più che lampanti sull'esser loro, o sulle faccende che li facevano stare sul mare; anche muniti di biglietto, si correva rischio di esser mandati e con cattivo garbo, di dove si era venuti, e i passaporti non si volevano più concedere ad alcuno.

Sicuro che gli amici avessero fatto le pratiche, che ci era stato consigliato di fare, io sentii sollevarmi un gran peso dal cuore, appenachè potei muovere un passo nella città; rincontrai quasi subito gli altri, ma, ahimè qual delusione!…. Le loro ridenti fisonomie erano diventate oscure; nessuno di loro osava indirizzare una parola al compagno, e tutti mi accolsero con quella musoneria con cui i popoli accolgono un re, dopo un manifesto del sindaco, che invita a rimettere anche un tanto di tasca per le spese del ricevimento.

—Che ci è di nuovo?—Domandai con ansia, a quelli che mi avevano fatto un cerchio all'intorno.

—Che ci è di nuovo?—Proferì con rabbia, il più secco e più bisbetico—Perdio!…. Vieni al Consolato e vedrai…. E avrebbe a andar benino, davvero!

—Andrà come doveva andare—Soggiunse un'altro—Quando alla testa ci si vuol metter certa gente…. Quando si vuol proceder sempre con certa maniera…. Già lo dicevo io… tutte le volte che ci siam fidati dei Francesi si è fatto proprio un bel bollo.

—Ma insomma cosa ci è?… si parte?….

—Sì…. per Firenze, o per dir meglio per le Murate!

—Ma…. come?

—Vieni…. vieni con noi e ti si ripete, vedrai.

Non intendendo alcuna cosa, ma volendomi per lo meno sincerare su una sventura, che non conoscevo e che ci minacciava, seguii colla coda tra le gambe, i bravi ragazzi.

Arrivammo in due salti alla sede del Consolato; in faccia alla porta una folla innumerevole di popolani chiassava, si agitava, gestiva; qualcuno, senza far tanti discorsi, si era già messa la camicia rossa sotto la giacchetta; un andare o venire, un rimescolarsi continuo, un'accalcarsi intorno a qualche povera vittima che esciva dal portone, un vociar di ragazzi che a capanelli osservavano la scena, e gridavano incessantamente: Viva Garibaldi…. Per una spedizione fatta in tutta segretezza il principio non poteva esser migliore!

—Ma che vi è dunque?—Domandai a un mio compagno.

—Il console non si fa vedere, il cancelliere, nuovo Pilato, dice che se ne lava le mani, e tutta questa gente è rimasta come la celebre statua di Tenete.

—E che abbiamo da fare?

—Va tu, che sai alla meglio bestemmiare un po' di francese, scongiura quella gente a prendere una decisione; lo vedi meglio di me, qui, se non si schizza tutti in domo Petri è un vero miracolo.

Con quale animo andassi, se lo può di leggieri immaginare il lettore; chi ben comincia è alla metà dell'opera, dicevano i nostri nonni che non era baggei, e cominciare peggio di noi, credo, sarebbe stata cosa impossibile.

Mi feci annunziare al cancelliere, e poco dopo venivo introdotto.

Il cancelliere era un bel giovinetto; aveva una fisonomia distinta ed aristocratica e mi accolse con tutta l'educazione possibile; pure sin da bel principio mi avvidi, che la mia presenza gli riusciva incresciosa più di quella di un creditore, e rimasi convinto che la camicia rossa non era di certo una delle simpatie più sentite di quell'impiegato. Difatti il nuovo governo della Repubblica Francese aveva lasciato al suo posto tutti i vecchi funzionari, i quali in quel bailamme non sapendo a qual Santo votarsi cercavano di restare in bilico, come meglio sapevano, fermi però nella idea di non compromettersi; mettetete anche un po' d'affezzione alla dinastia che aveva loro dato quel posto…. eppoi ditemi se questa trascuraggine del governo repubblicano non ha dicerto influito a che fosse sì scarso il numero degli Italiani, che mossi da un'idea generosa, hanno pugnato e gloriosamente pugnato sui campi di Francia.

—Capisco digià, perché viene.—Mi disse pel primo e facendomi segno di sedere, il cancelliere—Con mio gran rincrescimento: però, sono obbligato di dirle che non possiamo far niente per loro.

—Ma se a Firenze ci hanno inviato qui!….

—A Firenze hanno perduto certamente il cervello…. Le pare, che noi vogliamo suscitare una questione di diritto internazionale….

—Ma anche noi, le ripeto siamo stati spediti direttamente e a colpo, sicuro: di più sappiamo che l'altra sera partirono altri volontarii, mandati da loro, e si ha diritto d'andare anche noi.

—Per me si figuri le manderei subito—Aggiunse l'altro con un sorriso ed io credendo immediatamente a quest'ultimo desiderio di lui che parlava, ma non volendo darmi per vinto, esclamai: Ma è così, che l'Ambasciata Francese di Firenze mantiene le proprie promesse?

—Noi non abbiamo ricevuto ordini dall'Ambasciata…

—Ma pure l'altra sera partirono…

—Non glielo nego, ma sapesse le rimostranze della questura…

—Ebbene: su noi può fidare, noi non la comprometteremo… ci dia l'imbarco… lei vede lo scopo pel quale partiamo…

—Si provvedano dei loro passaporti…

—Se non gli vogliono dare.

—Prenda un mio consiglio… lei mi pare un giovane a modo, torni a casa… Metz, se non ha capitolato, poco può stare a farlo… accetti un mio consiglio, glielo ripeto, torni a Firenze.

—A Firenze poi no!..

—È la meglio!

—Mi meraviglio che un Francese..

—Allora faccia lei—secco, secco ed alzandosi, per farmi veder che l'uggivo, mi proferì il cancelliere.

Disanimato, e non volendo attaccare una briga che poteva mandare a voto tutti i nostri disegni, salutai appena il mio consigliere, e gabellandolo per imperialista e anche, peggio, scesi di corsa la scala, e preso a braccetto un mio amico, partii con gli altri dalla piazzetta del Consolato.

Andare bisognava andare; a dispetto del mondo e delle circostanze; una nuova poesia si aggiungeva a quella immensa che ci aveva sostenuto fino a quel punto; sfuggire i questurini, farla in barba alle autorità costituite, sfidare un nuovo pericolo, raggiungere il nostro scopo, giusto appunto, quando i pusilli, scoraggiati sarebbero tornati indietro,… era troppo bella, troppo attraente la prospettiva, per poter stare un sol'attimo dubbiosi su ciò che dovevamo intraprendere.

Io esposi queste idee agli amici, e, godo dire, che queste idee furono accolte con entusiasmo: ma a che parte rivolgersi per ottenere l'intento? Quali passi potevamo tentare con sicurezza? Quale speranze ci sorridevano? Quali probabilità di successo? Noi non lo sapevamo, il romanticismo di una avventura, che offriva in se stessa tanti pericoli, ci sorrideva certamente e noi eravamo contenti: contenti come il povero diavolo, abbandonato da tutti che incerto dell'indomani, si addormenta tranquillamente sull'erba di un viottolo, sotto un cielo sereno e popolato di stelle, sognando pace, agiatezza, fortuna… Oh! l'idea dì un dovere che si compie, malgrado gli ostacoli che frappongono gli uomini e la sorte, fa piovere in seno una consolazione che intender non la può chi non l'abbia provata.

Andammo all'Agenzia dei vapori della compagnia Valery, e per quanto scongiurassimo l'agente, ci fu impossibile ottener da lui, anche pagandolo il doppio, un biglietto di imbarco. Gli ordini della questura erano precisi.

—Noi glielo daremmo anche gratis, ci ripetevano quegli impiegati, ma…

Quel ma era tanto eloquente, che noi non aggiungemmo parola.

Con un po' di sconforto nell'anima, dopo aver girellato a casaccio un'altra mezz'ora afiaccolati e cascanti ci butammo sulle panche di un caffè di Via Grande; un tavoleggiante, giovinetto che avrà avuto appena appena quindici anni, dopo averci ben bene sbirciato, venne da me e chiamommi dapparte.

—Lei vuole imbarcarsi per la Francia? Mi sussurrò a bassissima voce.

—Sì—risposi io francamente, chè non potevo credere in sì giovine età nequizia veruna.

—Ebbene… le dò il mezzo d'imbarco.

—Non scherzi?

—Sulla mia parola d'onore.. Aspetti un momentino e le porto l'uomo per la quale!…..

—Bravo, e se farai bene ti prometto una buona mancia.

Il giovinetto se ne andò saltellante e fece poco dopo ritornò, accompagnato da un barcaiolo, un pezzo di diavolone, tarchiato e traverso; che era un piacere a vederlo; intanto io aveva messo i compagni a parte della peregrina scoperta e, quando questi ultimi videro avvicinarsi quel colosso in giacchetta, gli si fecero incontro con una grazia e con certe fisonomie così gentilmente ridenti, che si poteva credere che non un omaccio, ma la più vaga figlia di Eva fosse entrata in quel mentre nel nostro caffè.

—Dunque loro vogliono, andare? Dandomi una seconda, stretta di mano, cominciò a dirmi il barcaiolo.

—Sicuro!—Rispondemmo noi tutti—Ma vediamo tante difficoltà.

—Si fidino di me, che non fo per dire, ma lo può domandare a tutta la piazza sono uno di quei buoni.. si figurino, ho fatte tutte le campagne e anche Aspromonte e Mentana e se non fosse perchè; perchè… e questo non è nulla: quello che ho fatto per salvare i compromessi politici!… Le son cose che forse non le crederebbero… Hanno fatto bene a rivolgersi a me, perchè ci è di gran canaglia tra i barchettaioli e.. e….

—E insomma t'impegni di farci entrare in un bastimento, deludendo la vigilanza delle guardie?…

—Se me ne impegno…. Faccian conto di esserci sopra…

—Tu potrai contare sulla nostra riconoscenza.

—Oh! io per il partito darei un bicchier del mio sangue.

—Dopo ti daremo qualche cosa….

—Oh! mi contento di un trentino per uno:

—Così poco!—Esclamammo noi, credendo che ragionasse di centesimi:

—Sicuro,… vedono che mi adatto: per lor signori cosa son trenta franchi?

Ammirammo tutti insieme lo spìrito patriottico che ci faceva pagare 150 lire, quello che nella stagione dei bagni si ottiene a dir molto con ottanta centesimi; pure, strìngemmo la mano al generoso, dicendogli che ci saremmo riveduti più tardi; poichè eravamo decisi, con nostro gran sacrifizio, ad appigliarci a quest'ultimo partito, se gli altri ci fossero falliti.

—Ci movemmo dal caffè, e vedemmo un insolito brulichìo in quella contrada, sempre brulicante di popolo: che è, che non è?… Hanno arrestato un maggiore Garibaldino: la questura si era avveduta, e non ci voleva una gran fatica, che molti giovanotti volevano partire per la Francia e cominciava a allungar le sue grinfe. Lo sconforto cominciava a impossessarsi anche di noi.

—Ettore—Sento gridarmi vicino. Mi voltai e vidi il Colonnello Perelli.

—Dunque si parte? Gli domandai immediatamente.

—Parli a bassa voce… chè io son tenuto d'occhio, guardi, ecco subito due musi proibiti che ci osservano…

—Ma dunque?

—Dunque venga stasera, alla Locanda della Luna.

—Ma ci è speranza?

—Credo che ci sia sicurezza… A rivederci

—A rivederci a stasera..

—Allegri amici, dissi subito appena ebbi lasciato il mio interlocutore—Allegri amici, le speranze non che diminuire, prendono tutte le probalità di un vicino successo.. Andiamo a mangiare all'Ardenza.

Senza rispondere alle mille domande colle quali mi oppressero gli altri, che tutti di certo conoscevano il colonnello, accesi un sigaro, e strascinai i reluttanti all'Ardenza.

CAPITOLO II

Il sole, avvolgendosi in un lenzuolo di porpora, si era coricato dietro le ultime linee del tranquillissimo mare; non la più piccola nube nel cielo, non il più leggiero maroso in quella superficie azzurra, e dolcemente increspata dal venticello della sera che ci carezzava la faccia: l'isola della Gorgona appariva modestamente su quel sereno Orizzonte, nel quale cominciava qua e là a apparir qualche stella, tutto ispirava una calma e una pace divina; il creato ti sembrava quasi un'arpa sterminata, da cui si elevasse un canto grandioso: il canto dell'accordo e dell'armonia delle sfere. Era insomma l'ora che la giovinetta, la quale non ha ancora fatto all'amore, prova desiderio di piangere, senza farsene una ragione e contempla malinconicamente il fiorellino che sboccia e la foglia che cade, e risponde con meno affetto agli amplessi materni, chè il cuore in quel momento vuole qualchecosa di più di quello che ha avuto fin qui; era l'ora in cui il perduto, l'irreconciliabile, quello che non ha niente da perdere, rianda tutte le opere buone che ha fatto, si sente superbo di trovare nella sua vita più pagine onorevoli che tristi, ripensa a coloro che languono, non invidia quelli che godono, e affissando gli sguardi alla nuvoletta diafana che va sfumandosi nell'azzurro padiglione dei cieli, finisce col dire a se stesso: sien pur gli uomini dappoco e malvagii, io ho in me un patrimonio d'affetto che mi rende contento; il borghese a quest'ora sorbisce sibariticamente una buona tazza di Moka per digerire il pranzo.

Esatto più di un'impiegato il giorno della riscossione della paga, lasciai la trattoria e mi avviai, pian pianino, in via Grande esaminando distrattamente il bello spettacolo che mi si offriva davanti e le nuvolette grigiastre che mi uscivano di bocca a causa del sigaro.

Arrivai alla Locanda della Luna, e dopo essermi fatto annunziare dal cameriere, passai in un salotto, dove, intorno ad un tavolino nel quale erano varie bottiglie stappate se ne stavano a chiacchiera tre o quattro individui che formavano una specie di stato Maggiore del Colonnello Perelli. Con mia gran meraviglia vidi tra loro una giovine donna.

Il Colonnello era più brusco del solito e, appena mi vide, si affrettò a parlarmi in tal modo: Anche lei vorrà sapere qualche cosa.. me lo immagino.. ma per ora, purtroppo, siamo sempre alle solite: vede, qui siamo in un piccolo consiglio di famiglia e cerchiamo….

—Se fossi un uomo io!.. Saltò a dire la giovine donna, la quale era la moglie di quel Gagliano, arrestato poco tempo avanti ed ora nascosto in casa, perché tenuto d'occhio dalla questura e deciso a partire, con noi.

—Se foste un uomo voi!—Borbottò il Colonnello,—quando non ci son mezzi…

—Garibaldi, quando ha voluto, è riuscito.

—Se si andasse avanti colle chiacchiere!….

—Eppoi tutti questi giovani che sono qua?

—Li ho fatti partire io… forse?

—Non dico questo: ma è un fatto che non hanno avuto che cinque lire: quattro e novantacinque ne hanno spese pel viaggio e cominciano a far chiasso, perché non si sono anche sdigiunati e qua non conoscon nessuno…

Quello che sentivo era Vangelo!… se certi comitati avessero agito un poco più sul serio, non si avrebbe avuto a deplorare tanti scangei, certa gente non avrebbe gongolato e nell'armata dei Vosgi avremmo avuto più soldati e più buoni.

—E dunque, cosa facciamo?—Ripeterono tutti guardandosi.

A tale interrogazione mi cascaron le braccia; anche qui dunque non si sapeva a qual gancio attaccarsi, anche qui si passava il tempo, cullandosi tra le illusioni e le ipotesi, come nel nostro modesto cerchio di amici.

Dopo essere stati un poco in silenzio, entrò quasi di corsa, nella stanza un tale che già si era accomodato a fare da ordinanza al Colonnello; proferì sommessamente alcune parole al padrone: questi ci parve soddisfatto ed infatti poco dopo con tuono brioso ci disse: Signori, domani arriva il Var, chi è buono di salirci, va in Francia.. Confido nella vostra accortezza e nel vostro coraggio… Io tento di salire pel primo… A domani!

Non dormimmo in tutta la notte e appena fu giorno, andammo al porto e prendemmo una barca. Un forte libeccio aveva cominciato a soffiare; il mare era agitatissimo ed i cavalloni sbalzavano di qua di là, di sotto di sopra la nostra barchetta, spruzzandoci più o meno impetuosamente il volto, e procurandoci quel malessere interno che è il primo principio del mal di mare..

—Oggi me li guadagno—Ci diceva il barcaiolo.—E vogliono girar molto tempo!

—Fino a che non arriva il vapore!

—E un casca un cencio… Se arriverà a mezzogiorno… O che anche loro vogliono andare in Francia?… A me lo possono dire.

—Ebbene.. sì.. vogliamo andare in Francia.

—Me l'avevano a dire!…. Guardino, due barche piene di guardie.

—È vero… e ora cosa si fa?

—Non si sgomentino… Figureranno di pescare… Prendano le lenze!

Noi prendemmo questi ordigni e, tramutati lì per lì in pescatori, cominciammo, con una serietà unica, un'operazione che dentro di noi ci faceva scompisciar dalle risa. Io credo che i pesci fossero i primi a canzonarci; e' si vedevano guizzare a fior d'acqua, proprio vicini ali'esca fatale, poi, facevan cilecca e ci lasciavano con un palmo di naso.

Non so quanto durasse questo divertimento; mi rammento però che ci venne un'appetito diabolico; il nostro Caronte, da uomo saggio, capì per aria l'antifona e ci condusse a dei vicini barconi, dove per lo più mangiano i marinari e i facchini del porto. Uno stoccafisso, rifatto colle cipolle, ci sembrò più gustoso di un manicaretto, apprestato da Tomson; ci bevemmo due fiaschi di vino, e ci sentimmo raddoppiati in coraggio e in costanza. Intanto il libeccio seguitava a infuriare; il mare era divenuto addirittura cattivo; si troncavano gli alberi delle piccole navi vicine, si vedeva volare dei cappelli, che appartenevano agli imprudenti che troppo si erano accostati all'infido elemento… la cosa cominciava ad essere non troppo graziosa; in quell'aspettativa i minuti ci sembravano ore; non avevamo alcuna notizia dei moltissimi nostri compagni e non il più piccolo indizio ci faceva sperare che si avvicinasse il tanto desiderato bastimento.

Ecco una striscia di fumo!… Un oggetto nero, che ingrandisce a vista d'occhi si approssima.. è il Var, si grida tutti con un urlo di contentezza che si sprigiona dalle più intime viscere, è il Var, il momento supremo è venuto, coraggio!

Il battello si accosta ad un brigantino, che ha bandiera Greca; in un fiat è circondato dalle guardie. Cominciano le difficoltà, noi siamo decisi a superarle.

—Se non li metto sù, che Santa Lucia benedetta mi faccia perder la vista degli occhi!—Grida il barcaiolo, diventato entusiasta dopo l'ultimo fiasco.

Si traversò arditamente la fila dei bastimenti, e, allorché, fummo vicini alle guardie, ci sdraiammo nel fondo del nostro piccolo schifo, l'uno sull'altro, proprio alla maniera dei fichi secchi; poi, scongiurato il pericolo, si girò dietro ad una tartana che combaciava perfettamente col brigantino: i questurini che non sono mai stati ritenuti per aquile d'intelligenza, non avevan posto attenzione alla manovra e si poteva cominciare a credere che la nostra intrapresa cominciasse ad avere molte probabilità di sicuro successo.

—Ed ora, come si sale?—Domandai io, molto imbarazzato nel non vedere alcuna fune.

—Si va per la catena dell'ancora—Aggiunse immediatamente e con tuono esaltato lo Stefani, il compagno più secco e più susurrone tra tutti coloro che erano venuti con noi da Firenze.

La proposizione fu accettata di subito ed io che non ho mai brillato per la mia sveltezza e molto meno per le mie movenze ginnastiche, mi aggrappai alla catena di ferro e a forza di urti e di spinte arrivai ad andar ruzzoloni e facendo un gran tonfo sul cassero della tartana: riavuto appena dal colpo mi avvidi che ero molto al disotto del livello dei miei amici, saliti dietro di me; infatti caduto sopra un monte d'avena, per quanti sforzi facessi, non giungevo a capo di trarmi d'impaccio, chè ogni sforzo ad altro non era valevole che a farmi affondare di più. Dopo essere stato ripescato alla meglio dagli altri, saltammo tutti insieme sul brigantino. Pochi passi di più ed i nostri voti erano esauditi: un maledetto cagnaccio comincia a abbaiare e finisce coll'attaccarsi alle polpe di mio fratello.

Si tenta l'ultimo colpo: il mio fratello lascia al famelico cane un straccio dei suoi pantaloni… E dire che sperava con questi di far tanta figura, quando sarebbe sceso a Marsiglia!

Il salto riesce, siamo a bordo del Var: i marinari ci accolgono tra le loro braccia, la gioia ci rende frenetici e tutti insieme confondiamo le nostre aspirazioni, le nostre speranze, i nostri voti più cari, al magico grido di viva la repubblica.

—Giù, giù—Ci gridarono quei bravi figli del mare, appena che fu terminato quello slancio di esultanza, e ci buttarono a viva forza nella carbonia.

S'immagini un po' il lettore la nostra situazione, in quell'atmosfera soffocante, e a quella polvere, che ci ridusse in pochi momenti in uno stato veramente deplorevole; di più si aggiunga lo spettacolo non troppo gradito che ci si presentava alla vista dall'unico finestrino, pel quale prendeva aria questa stamberga; un andare e venire di barche su cui facevano bella mostra di loro tutte le faccie più proibite della Cristianità, e pennacchi di carabinieri e monture di guardie di pubblica sicurezza… Fortuna che siamo protetti dalla bandiera francese—si diceva tra noi—e qui il Reale Governo Italiano non conta un bel corno.

Ogni poco veniva a noi qualcheduno dell'equipaggio e ci esortava a soffrire con pazienza. L'equipaggio, composto quasi tutto da originarii della Linguadoca, naturalmente parlava francese; di qui grande imbroglio nei nostri, i quali per farsi capire francesizzavano l'italiano, creando una lingua ibrida, bastarda, che ci faceva crepar dalle risa: lingua che si perfezionò in Francia e che ha fatto dire, bene a ragione, ultimamente al Bizzoni, che, se fosse continuata la campagna il mondo avrebbe annoverato un idioma di più; quello dei volontarii.

Da un paio d'ore si era in quei triboli, quando si vide arrivare il Perelli; che nell'ascensione aveva perduto il suo cappello a cilindro…

—Cosa fanno qui loro?—Ci disse.

—Lo vede: siamo nascosti.

—Vengano su nelle cabine… ci siamo tutti noi…

Contenti, come uno che abbia beccato un terno, salimmo. Quale non fu la nostra sorpresa, quando vedemmo quasi tutti i nostri amici!—O tutte le guardie cosa facevano lì intorno?… La. questura ci dava l'idea di quei mariti baggei che stanno in fazione, difaccia all'uscio di casa, mentre il cicisbeo della moglie passa dalla finestra.

Una gran risata echeggia da un capo all'altro del ponte… Che è, che non è?… È comparso un individuo: in perfetto costume di Adamo: per risparmiare la spesa del barchettaiolo, oppure per non esporsi al pericolo di perder qualche cosa, come noi tutti, aveva preferito buttarsi a noto nel mare; Era un bel giovinotto e ci riuscì subito simpatico per lo strano modo con cui a noi si presentava. Povero diavolo!… Io lo dovea rivedere, ma col cranio fracassato da una palla prussiana, sulla gran via di Parigi, sotto Talant, e mi rincresce di non sapere il suo nome, perché rammentandolo, forse a lui darebbe un pensiero pietoso qualche anima buona! Mi conforta però, la persuasione che chiunque lo abbia veduto in quel giorno, non potrà così facilmente obliarlo, e, leggendo queste modeste mie righe, capirà alla prima di chi voglio parlare.

—Signori mi rincresce—Venne adirci il capitano—ma per stasera è impossibile la partenza—Il libeccio è tremendo ed io non ho intenzione di mettermi in sicuro pericolo.

—Ma noi… saremo sicuri?—Domandò uno.

—Sulla mia parola d'uomo onesto, nessuno potrà farsi bello di avere insultato la bandiera francese, qui dove sono io… se non viene il console a bordo, e se egli pel primo non mi ordina di assistere ad una flagrante violazione del diritto delle genti, i questurini prima di toccare uno solo di loro, dovranno passare sul mio cadavere.

—Grazie, capitano—Gridammo noi tutti—Voi siete un vero Francese.

—E a che ora si mangia?—Chiese sbadigliando uno dei nostri, a cui le idee non facevano dimenticare di essere uomo.

—Alle cinque…. ci è il pranzo dei viaggiatori….

—Noi veniamo tutti a quello… non è vero compagni?

—Sì—Risposero gli altri all'unisono.

Io mi azzardai allora di salire: e rincattucciato dietro il parapetto del bastimento, diedi un'occhiata alla riva vicina: qualche facchino passeggiava distrattamente in su e in giu, nessuno osservava il nostro battello; tutto a un tratto uno scialle rosso e uno nero, compariscono sulla via; due donnine dalla taglia svelta e slanciata si appoggiano all'impalancato che circonda il porto ed affissano i loro occhi sul Var. Chi sieno queste due creature?—Pensai tra me e me e cominciai a figurarmele bellissime, e mi parvero gli angeli del buon'augurio che fossero venute li a darci il buon viaggio; ma poi un altro pensiero mi sopraggiunse: Povere donne!.. Devono essere di certo parenti, amiche di qualcuno che è insieme con noi, e sfidano questo vento e questa indiavolata stagione, purché loro sia dato vederlo, fosse anche per l'ultima volta: povere donne!… Per noi uomini la gloria, le improvvise e belle emozioni, lo stordimento che ci procurano e i nuovi piaceri e le nuove occupazioni, le gioie dell'orgoglio soddisfatto, per esse la solitudine, la lontananza delle care persone, la continua ansia di saperle in pericolo.

Tornai giù e dopo poco ci movemmo tutti per il pranzo: nel ripassare io vidi i due fantastici scialli.

Il trovarci tutti insieme a mangiare sul Var, dopo le belle cose che ci erano accadute, non poteva fare a meno di darci un brio, una parlantina, un ebbrezza, che, chiunque ha in zucca un pò di mitidio, comprenderà perfettamente alla prima. I nostri appetiti erano qualche cosa di classico ed il cameriere di bordo ci guardava con certi occhi stralunati, pensando certamente che, su ogni giorno gli fossero capitati di tali avventori, prudenza avrebbe voluto, che l'ordinario fosse a dir poco, raddoppiato.

Cominciarono i brindisi; i ricordi più cari s'intrecciavano coi più generosi propositi: ora uno parlava degli occhi celesti della graziosa biondina che aveva lasciato a Firenze, ora un altro giurava di non aver comprato un revolver perché era sicuro di prenderlo al primo ufficiale prussiano, che gli si fosse presentato davanti e che avrebbe ucciso dicerto.

—Evviva, Evviva.

Che c'è?

Entra nella stanza Gagliano! Un altro fiasco che hanno fatto le guardie!

—Ieri passò da Firenze Ricciotti; là—dice—troveremo lassù anche lui!

—Evviva Ricciotti—Gridano tutti.

—E Menotti, e Garibaldi e tutti i bravi Italiani che ci han preceduto!.

Dopo poco entra Tito Strocchi, giornalista repubblicano e valoroso soldato, che tanto onore si è fatto dappoi.

—Ma dunque ci siamo tutti!

—Tutti—Urlano entrando alla lor volta il Rossi e il Piccini.

—Anche tu!—Dicemmo a quest'ultimo—E come hai fatto stronco, come sei, ad arrampicarti?

—Eh! Le guardie di finanza son dalla nostra e ci hanno insegnato la strada: Figuratevi che noi siamo passati per la scaletta, proprio, come se si fosse viaggiatori!

—Ma le guardie ci son sempre?

—Se ci sono!.. E bisogna vederli quei poveri diavoli a questo brezzone… infilan le pispole, come se si fosse in pieno gennaio!

—Anche voi però…

—Non ve lo neghiamo, il freddo ci è entrato nell'ossa.

—Del cognac del cognac!…

—E il cameriere ci portò una bottiglia polverosa dì vecchio cognac, che avrebbe messo energia anche a un deputato del terzo partito. E qui bevi; bevi in un modo incredibile; in un momento il tavolo fu pieno di bottiglie e quando andai per distendermi nella mia cabina vedevo tre o quattro colonnelli, una ventina di lumi, e un centinaio di persone, tra le quali apparivano circondati da un'aureola i due scialli che mi avevano fatta tanta impressione, pochi momenti innanzi.

Tale era il mio sonno e, diciamolo pure, l'alterazione in me prodotta dal vino che quando mi destai, il sole era già alto. Salii a poppa della nave dove trovai il povero Rossi che contemplava astrattamente l'immensa superficie del mare, divenuto di nuovo tranquillissimo; tutto era celeste e l'onde venivano a baciare colla loro spuma bianchiccia, la carena del nostro battello: si sarebbe di momento in momento aspettato che qualche Nereide sbucasse a fior d'acqua per rammentare ai mortali le dolcezze del buon tempo antico.

Il colonello Perelli, da vero vecchio militare, sapendo quanto il tempo è prezioso non se ne stava con le mani in mano ma dava prova di una instancabile attività; già aveva costituito le squadre, nominandone i capi, già aveva pensato al modo di provvedere il vitto per tutta quella gente (chè nella nottata il numero dei volontarii era asceso fino a cento) ed aveva in serbo per tutti buone speranze e conforti. La salle à manger era stata trasformata in ufficio di stato maggiore ed io fui incaricato a compilare il primo ordine del giorno.

Cominciavo a scrivere, quando scesero nella stanza l'agente della compagnia accompagnato dal capitano; mi domandarono dove si trovasse il Colonnello ed io mi mossi per andarlo a chiamare.

Salii immediatamente e trovai il Perelli a tu per tu con una vecchietta, tutta pepe e tutta piangente.

—Queste sono infamie e il governo dovrebbe mandarli in galera…. non si strappano così i figliuoli alle povere mamme che hanno fatto tanti sacrifizii per mantenerli.

—L'ho forse chiamato io il suo figliuolo? borbottava l'altro stizzito.

—Non lo so, ma lo voglio!

—Ebbene, se lo trova, che se lo riprenda!

—Loro me l'hanno nascosto, ho girato per tutto e non mi è stato possibile di trovarlo,

—E allora?

—E allora?! allora me l'hanno a rendere, e mi meraviglio di lei che non è più dell'erba d'oggi e che dovrebbe avere un po' di cuore e un po' di cervello.

—Ma, se il nome del suo figliolo non comparisce nel ruolo!….

—Quel birbone ne avrà dato uno falso…

—Colonnello, interruppi io, c'è il capitano e l'agente che lo desiderano.

—Vado…. mi sbrighi lei questa donna.

Cercai di persuadere e di consolare alla meglio quella povera madre che mi rispondeva con impertinenze da levare il pelo: feci guardare nei buchi più ascosi della nave, ma non potei rintracciare suo figlio. Allora la donnicciola impallidì e non potendo resistere alla pena e allo stringimento di cuore mi cadde fra le braccia svenuta. Un vecchio che l'aveva accompagnata in barchetta e che seppi dopo esser marito di lei, saltò infuriato sul ponte facendo un baccano indiavolato, minacciando tutti e bestemmiando peggio di un turco. La mia posizione, se era interessante era anche molto noiosa. I volontarii si erano affollati intorno all'energumeno e di momento in momento stava per nascere una pubblicità spaventevole. Riavutomi un pochino dalle stupore, fui preso da rabbia indicibile e mi venne voglia perfino di scaraventare in mare l'incomodo fardello che mi gravava le braccia.

—Oh! andremo in questura!…—Proferì il vecchio strascinandosi dietro la moglie che s'era riavuta e che urlava a squarciagola: birbanti, ladri, assassini, il giusto Dio verrà anche per voi!

Appena rimessi da quella brutta impressione, vedemmo capitare altre due donne. Capimmo, pur troppo, per aria quello che volevano anche loro. Io cominciai a credere di assistere ad una processione di streghe e mi persuasi che il nostro orizzonte cominciava a oscurarsi davvero.

Una dell'ultime venute vide il suo figliolo e noi glielo restituimmo. Ecco un'altro scandalo! Il figliolo non voleva andare a nessun costo e si mise a correre come uno spiritato offrendo un gradito spettacolo alle guardie che ci circondavano e che si erano tutte rizzate per goder meglio la scena, urlando ad ogni poco: piglialo piglialo.

Non si creda calunnia il contegno che io attribuisco alle guardie: chiunque è stato sul Var può fare ampia testimonianza che esse fino dal bel principio della mattina erano completamente ubriache.

A viva forza spingemmo il recalcitrante figliuolo, giù dal battello; appena però egli si assise nella barchetta che aveva accompagnato sua madre, fu circondato dai carabinieri i quali non curando i pianti, i lamenti, le disperazioni delle disgraziatissima donna, lo condussero verso le carceri.

—Si nascondano si nascondano per carità, l'ha raccomandato anche il signor Colonnello.—Venne a gridarci con voce angosciosa il cameriere di bordo.

—Che c'è dunque?

—C'è che la polizia vuole acchiapparli…

—È una storiella!…

—È la verità, se lo assicurino.

—Ma il Colonnello?

—È nascosto.

—E tutti gli altri?

—Hanno seguito l'esempio del Capo… si nascondano anche loro… o che vorrebbero comprometterci tutti col rimanere in così pochi sul ponte?

Ci guardammo difatti e con nostra sorpresa il brulichìo che ci eravamo abituati a vedere, era scomparso e tutti i nostri compagni, come per incanto, si erano dileguati.

Anche noi ci buttammo gattoni verso la carbonaia e poco dopo i miei amici vi erano già scesi: ero per seguitarli, quando sentii bussare dietro la porta della vicina cabina e la voce del Colonnello mi disse: Noi siamo qui, venga anche lei. La porta si schiuse ed io entrai.

Eravamo in sette in una stanzuccia dove a mala pena ci si poteva rigirare in tre! la grotta di Monsummanno era al paragone una cantina in tempo d'estate! mai bagno a vapore ha ottenuto l'efficacia diretta che produceva in noi quell'ambiente! i nostri abiti e le nostre camice sembravano inzuppate nell'acqua: se le autorità costituite avessero saputo i nostri tormenti, benevole come sono verso noi scavezzacolli, scommetto che invece di arrestarci ci avrebbero lasciato diverse ore in quel bagno; se non altro per avere il gusto di aprire la porta a trovarci in uno stato di liquefazione completa.

—Ma cos'è accaduto, di nuovo? Domandai a bassa voce.

—È accaduto che la questura lasciava liberamente partire noi sette o otto, purché prima le avessimo, consegnato tutti questi bravi ragazzi…. Io ho sdegnosamente rifiutato questa proposta.

—Bravissimo!—E ora?

—Ora credo che sieno andati a riportare la mia risposta al questore.

—O guardiamo, se Bolis è tanto birro da violare anche la bandiera francese.

—Prima di farlo vorrà pensarci due volte.

—E perché?.. I ciuchi hanno sempre dato pedate ai leoni morenti… ma per qual causa stiamo nascosti?

—Il capitano è sceso a terra; se gli rilasciano le patenti, in meno di un'ora si prenderà il largo.

—Speriamolo… perché qui non siamo di certo in un letto di rose.

Passa mezz'ora, un'ora e nessuna notizia: si comincia a udir qualche rumore; poi di sotto la fortezza ci giunge all'orecchio un sussurro inusitato; poniamo, l'occhio al finestrino della cabina: il mare è popolato di barche, e le barche, son popolate d'angioli custodi in lucerna; affollatìssima è tutta la spiaggia: sul cassero un calpestìo concitato e in senso diverso, poi reclamazioni a cui si risponde dalla parte del popolo con fischiate non interrotte; un battere di sciabole, uno sbatacchiare di porte…. pur troppo non vi era più dubbio alcuno, il grande atto si era consumato, e gli eroici campioni del Regio Governo Italiano potevano annoverate una gloria di più tra tutte le altre che li ha resi famosi.

Sprangammo la porta; ci rannicchiammo nelle cucciette e, rattenendo il respiro, facendoci piccini piccini coll'ansia e la trepidazione nell'anima, collo sconforto nel cuore, incerti di ciò che ci sarebbe accaduto tra pochi minuti, ma decisi a giocare di tutto, attendevamo di momento in momento di veder saltare la porta.

Trascorre un altra mezz'ora; si ascolta il rumore dei disgraziati che sono stati avvinghiati pei primi dai falchi del Bolis: si compiangono, ma quale fortuna, se noi potessimo uscir loro dalle unghie!.. Il vapore è in movimento… Che si parta davvero? Non si osa credere a noi stessi, ma alle fine ci si persuade che si va… Si va, ripetiamo tutti tra noi, e sentiamo tra ciglio e ciglio l'umor di una lacrima—Ci si ferma di nuovo!…—Esclama un nostro compagno, e pur troppo, ci si convinse di subito della triste verità. Una testa comparisce al nostro finestrino; era la testa di un questurino, che da abile esploratore, si era arrampicato al difuori del bastimento, ed aveva scoperto il nostro nascondiglio.

—Signori, non resistano—Ci disse con voce rauca. —Nessuno rispose; egli se ne andò… Oh! avessimo avuto un revolver!

—Lei deve aprirci la porta—Ripeteva intanto sul cassero una vocina melliflua, a cui rispondeva l'accento ben cognito del capitano: Mi rincresce, ma fu perduta la chiave… l'assicuro però che quello è il mio spogliatoio…

—Io ho l'ordine di perquisire ogni cosa.. si mandi pel magnano del porto. Intanto una tempesta di colpi si sprigionava su quel povero uscio.

—È impossibile trovare il magnano—Diceva poco dopo un'altra voce.

—Signori—Gridava allora al buco della nostra serratura quello che poco fa parlava col capitano.—Signori, io li prego a non commettere imprudenze, si arrendano colle buone; partire è impossibile, non facciano perdere un tempo prezioso al capitano.

Che fare? Qualunque resistenza sarebbe stata inutile e non ci poteva riuscir che dannosa; ci guardammo in faccia (che facce! il condannato che vien trascinato al patibolo ne può dare un'idea!) e con mano tremante il più vicino alla porta tirò la stanghetta.

Un'ooh prolungato e di soddisfazione ci accolse, appena che comparimmo.

Dalla scena che si presentò allora ai nostri occhi, un pittore avrebbe potuto prendere argomento per un bellissimo quadro ed un letterato per una magnifica descrizione. Una lunga fila di carabinieri e di questurini occupava tutto il lato del bastimento che era dicontro alla nostra cabina; più avanti il giudice d'istruzione colla ciarpa turchina, Bolis raggiante di contentezza, e un nuvolo di delegati e d'applicati di Pubblica Sicurezza che si davano un moto, un daffare indicibile, e si pavoneggiavano, esponendo al rispettabile pubblico ed all'inclita guarnigione le fasce tricolori che avevano a tracolla, come segno indiscutibile della loro autorità. Il capitano serio serio rivolgeva delle parole concitatissime al console, che appoggiato ad un tavolino, con una fisonomia di tramontana guardava distrattamente il cancelliere che redigeva il processo verbale. Tra le squarciate nuvole si era fatta strada la luna; e, pareva, che ci mandasse un compassionevole sguardo; sulla spiaggia uno scintillio di baionette, sulle quali si ripercoteva il malinconico raggio della poetica face dei cuori sensibili e degli innamorati, ci abbarbagliava la vista e ci rendeva sicuri che molta truppa era sotto l'armi è che la questura di Livorno non aveva trascurato verun provvedimento perché i pesciolini non le scappassero di rete. Una lunga processione di barche solcava le onde tranquille del mare sulla cui superfice una miriade di atomi luminosi, frequenti più delle stelle del cielo, avrebbe fatto nascer la voglia di intonare un bel canto alla natura, se natura ed uomini non si fossero mostrati, così accanitamente contrarii ad una impresa che tanto avevamo sospirato e che, purtroppo, così miseramente finiva. Le trombe che suonavano la ritirata sui bastioni della vicina fortezza ci suonavano in cuore meste, come il pensiero che manda in queill'ora il coscritto alla madre, alla casetta paterna, alle occupazioni di un tempo: meste come quella luna, come quei visi lunghi dei nostri compagni che ci passavano davanti colla respettiva accompagnatura, come i popolani che vedendo la loro impotenza a salvarci ci guardavano da riva con occhi stralunati e pregni di lacrime.

—Ma Gagliano… Gagliano dove è?… Noi credevamo che fosse tra loro?… Esclamò Bolis, dopo averci ben bene sbirciati;

—E perché han fatto resistenza? Ci domandò con un sorrisetto volpino il giudice d'Istruzione.

—Perché!…—Rispondemmo noi tutti a una voce e in tuono di meraviglia..

—Sì… quando sapranno tutto, chi sa, che non sieno i primi a ringraziarci…

—Ringraziarlo di averci arrestati?

—Sissignori… Oggi è venuta la notizia della capitolazione di Metz.

Quest'ultima sassata che, così benignamente ci si scagliava nel nostro infortunio, ci fece nascere lì per lì una tal rabbia contro quegli arnesacci di una bottega fallita, che loro volgemmo disdegnosamente le spalle. Già… è egli possibile che le idee di sacrifizio, di abnegazione, di generosità, possano esser comprese anche alla lontana, da un birro?

—L'ho, l'ho preso!..—Saltando come un burattino, e fregandosi le mani, strillò con la sua vocina da pettegola il Fassio, avvicinandosi a noi. Questo Fassio e uno dei più famigerati ispettori di Pubblica Sicurezza che si abbia in Italia; Garibaldino nel 1860, come succede di tutti gli apostati, ora è diventato la più gran colonna della sbirraglia italiana.

—Che qualcuno di noi avesse in tasca una mitragliatrice?—Pensai tra me e me—O che tra i nostri compagni si sia mescolato sotto mentite spoglie qualche gran malfattore?! Difatti l'aria del Fassio me lo faceva sperare; Cristoforo Colombo che dal ponte del suo bastimento vede baluginare qualche cosa, che ha sembianza di terra; Moltke a Sadowa che riceve l'annunzio dell'arrivo del corpo d'armata del bon Fritz, ci possono dare a malapena un'immagine della beatitudine che provava in quel momento il rinnegato democratico.

Dietro di lui si vide arrivare lemme lemme il Gagliano in uno stato tale, che, se ne avessimo avuta la voglia ci avrebbe fatto crepar dalle risa. Nero, per lo meno come uno spazzacamino, stizzito come un giocator di Mako che fa l'ultima cista, senza azzardarsi nemmeno di farci un saluto, il povero uomo passò a capo basso davanti alle autorità e fu fatto immediatamente scendere in una barchetta, dietro la quale in un'altra fummo messi io, mio fratello, il Colonello ed un giovinetto, che ancora non conoscevo.

—Viva la libertà d'Italia!—Si gridava tutti come pazzi per via, ed i carabinieri non ardivano di dirci una sillaba; anzi dalle loro fisonomie si vedeva chiaramente che avrebbero lasciato quell'incarico alle guardie di questura, che, tutte impettite, boriose si tenevano dell'arresto di giovani inermi nello stesso modo che avrebbero fatto, se avessero vinto la battaglia, più aspra che si sia combattuta, dacché mondo è mondo.

Giunti vicini alla Sanità, dove vedevamo sbarcare tutti gli altri, un carabiniere mi toccò dolcemente nel braccio e mi accennò un vaporino, la cui camminiera faceva fumo.

—Vede quello là?—Mi disse—Era preparato per loro, qualora avessero preso il largo.

Guardai e quello spauracchio mi fece sorridere; il grande edifizio navale non aveva che due cannoni, uno per parte e di un calibro così modesto, che sembravano, piuttosto giocattoli da bimbi che utensili da guerra. Oh!… se si fosse usciti dal posto, se si avesse cominciato a filare … se erano buoni a acchiapparci con quel trabiccolo, sarei stato contento di perder la testa!..

La barca si fermò: noi scendemmo. Diedi un'ultimo sguardo al porto, vidi il cammino del Var che fumava, e il battello che era in movimento! Oh come in quell'istante il mio pensiero ricorse alle cabine, dove ci eravamo sdraiati la sera avanti alla medesima ora: oh! come desiderai che il tempo ritornasse indietro di poche ore soltanto per non essere sicuro della barbara realtà, che ci opprimeva in quel mentre.

Moltissima gente si era affollata a due lati della porta che conduceva all'uffizio della delegazione del porto. Tra questa gente io vidi di nuovo i due scialli… Ma dunque, non ci abbonderanno più queste donne?

I volontari erano stati ammassati, pigiati in una stanzuccia; una guardia, con un coraggio da eroe, distribuiva ogni tanto qualche pedata a chi più susurrone e più curioso degli altri si azzardava a rivolgere qualche interrogazione. È un fatto: la polizia degli antichi sovranucci, che i monarchici d'oggi gabellano per tiranni e per despoti, non hanno mai usato dei modi schifosi che usano i questurini del nostro beatissimo regno: quando uno capita per caso tra le loro mani, può attaccare un voto, se per lo meno non ci lascia una costola, chè questa gente è molto feroce… quando l'individuo è in ceppi e puzza un tantino di repubblicano!… Chiuder gli occhi sui gallinai, fare il manutengolo ai ladri è permesso, ma lasciare in santa pace un soggetto pericoloso, un uomo che sbraita sempre perchè vuole esser riconosciuto per uomo… oh! questo è troppo! E il paterno governo, simile al giusto Dio che fa cader la grandine e i fulmini sul campo dei peccatori, deve aggravar la mano su coloro che hanno le sfacciataggine di urlare quando tutti dormono: i galantuomini non devono essere svegliati… lo impedisce anche il regolamento di Pulizia! Coroniamoci adunque di elleboro, sorbiamo il papavero che giorno per giorno ci ammanniscono i giornali governativi e, dacchè non abbiamo il coraggio di fare, abbiamo almeno il buon senso di darci ad un sonno profondo.

Un vecchietto, con li occhiali d'oro più giù che a metà del naso, rincantucciato in uno sgabbiolo di legno che faceva le veci di scrittoio, via via che si passava ci chiedeva il nostro nome, quello dei nostri parenti, il nostro domicilio e la nostra, professione.

—Possono partire—Gridò poco dopo con voce tonante il Bolis, Giove Tonante di quell'Olimpo di birracchioli e di guardie di tutte le qualità e di tutte le dimensioni.

Un applauso prolungato fece eco a queste parole; i giovinotti credavano di essere liberi… Poveri grulli!… Quale storia ci ha mai fatto sapere che il gatto si lasci scappare il sorcio dalle unghie?

—Avanti!…—Urlarono con mala grazia a loro volta le guardie…

—O dove si va?—Cercò qualcheduno.

—Loro non lo devono sapere.

A noi, come presi insieme col colonnello, fu fatto il favore di farci passare nella caserma dei carabinieri; ci si disse, in attesa di ordini superiori…

Intanto gli altri traversavano via Grande, tutta gremita di popolo che li accompagnava con applausi frenetici; ci volle del buono e del bello per sconsigliare i popolani a non far qualche pazzia, ed essi allora non potendo fare altro, si mostrarono generosissimi con quei poveri diavoli che venivano trasferiti alle carceri; e fu una pioggia continua di sigari, di pezzi di pane, d'involti di companatico, e persino di foglietti da mezzo franco e da un franco. Oh!… il popolo è generoso, il popolo ha la magnanimità per istinto, e, se si lascia abbindolare dai farabutti, al momento buono, quasi per miracolo, sente spingersi avanti dalla voce del dovere, del progresso, della libertà; rinnegando le massime false, che gli son volute inoculare nelle scuole governative e nei così detti giornali popolari che vivono sulle spese segrete del ministero, egli al primo indizio di lotta vicina, come un uomo solo corre al suo posto. Oggi protesta con gli urli alle guardie e colle picchiate di mano ai prigionieri, domani muore, santificando il principio democratico, sulle barricate. Perdendo lo vedrete marcire nelle, carceri, e soffrire per le vie, vincendo voi lo vedrete al lavoro!

I carabinieri ci accolsero con tutta la gentilezza immaginabile, ci domandarono, se si aveva bisogno di qualche cosa, e noi che, come uomini, dopo tante ore dì disagio si aveva diritto ad avere appetito, ordinammo del salame, del prosciutto e due fiaschi di vino. Incontrammo in quella stanza lo Strocchi; anche egli aveva ricevuto lo strano favore di essere trattato un pò meglio del rimanente della spedizione.

Chi era stato la causa diretta dell'invasione del Var? Io non lo saprei dire. Hanno qualche carattere di verità le accuse che si son palleggiati l'uno con l'altro a vicenda diversi individui che facevano parte della nostra mandata! Io credo di no: credo soltanto che il governo Italiano, il quale ha sempre in serbo un granello d'incenso per chi trionfa ed è forte, siccome, è uso di tutti i codardi, sìa sempre disposto a tirar sassate da orbi a tutti quelli che per propria disgrazia si trovano a terra; e così, mentre or non sono pochi anni, per non violare la bandiera Imperiale di Francia si lasciavano tranquillamente a bordo dell' Authion i fratelli La Gala: in pieno 1870 si aveva il coraggio di buttar giù porte, scassinar serrature e strappare a viva forza dei giovani generosi, che dovevano essere sacri, perché protetti dallo stendardo di una nazione amica, di un governo che si era riconosciuto, ma che versava in pericoli immensi

—E dove ci mandano?—Domandammo al brigadiere dei carabinieri, dopo che avemmo veduto un soldato, latore di un piego, che fu letto attentamente dal capoposto.

—Io devo trasmetterli ai Domenicani.

—Sicché proprio in prigione?

—Pur troppo!

Un lungo silenzio tenne dietro a queste parole. Creder di andare in Francia e sgusciare diritti come fusi in prigione, era una cosa che non ci si aspettava di certo, e, per quanto tutti, chi più chi meno ci si piccasse di esser filosofi, per quanto dopo l'arresto questa soluzione fosse l'unica prevedibile, una tal notizia dettaci lì a bruciapelo, mentre il ritardo ci aveva fatto rinascere in cuore un po' di speranza, ci mise a tutti un diavolo por capello.

—Si facciano coraggio—Ci diceva il brigadiere—Prendano le cose con calma… tutt'al più sarà il male di qualche settimana!

Qualche settimana!—E gli pareva di dir poco al buon'uomo!… Rinunziare alla vita, alle nostre speranze, non goder più di quella libertà, che è prima attributo di ogni essere, ma sia pur per un'ora, per chi sente qualcosa, è sempre un supplizio.

—Entri, entri, ma mi raccomando non faccia scene—Così diceva, introducendo nella stanza la moglie di Gagliano, un carabiniere.

—Veramente!…—Borbottò alzandosi il brigadiere…

—Lasci correre—Ci affrettammo a proferire noi tutti—nessuno parlerà di questo colloquio.

—Ti hanno messo le manette, questi vili, eh?—E tu non hai avuto cuore di bucar loro la pancia?—Gettandosi al collo del marito, e frammischiando al suo dire qualche singhiozzo, esclamava l'arditissima donna.

Perdemmo un cinque minuti a persuaderla che non eranvi state manette, ed allora lei, facendoci dei segni, ci fece capire che, se avevamo qualche cosa di compromettente, le si consegnasse: ed in fatti, colto il momento che i carabinieri non ci guardavano, demmo a lei certe lettere, che, se ci fossero state trovate addosso, non ci avrebbero certamente servito di raccomandazione presso quella gente, che si doveva bazzicare fra poco tempo.

La presenza di una donna in quell'ora tristissima, in mezzo ai carabinieri, dopo tutte le emozioni che si era subito durante il corso di quella giornata memorabile ci procurò un sollievo, e uno stringimento di cuore, che non mi provo nemmeno a descrivere; e quando la ci stese la mano e con voce resa tremula dalla voglia di piangere, ci disse: coraggio, io mi sentii inumidite le ciglia e provai l'inenarrabile voluttà di una lacrima.

—Le carrozze son pronte!

—Partiamo!

—Meno male che marciamo en grands seigneurs.

—Di' piuttosto, come i malfattori che vanno alla Corte d'Assise…

—Eh!… loro ed i principi sono i soli che hanno diritto di avere una scorta! Gli estremi si toccano…

—E si rassomigliano!

Si montò nelle carrozze e dopo un breve tratto di via ci fermammo: si sentì cigolare una porta…

Eravamo giunti ai Domenicani.

CAPITOLO III.

La prigione!… È mai vissuta creatura umana, dirò con Guerrazzi, che sollevando le pupille verso il soffitto di una di quelle stamberghe, in cui, per ravvederlo, s'incretinisce il colpevole, non abbia esclamato esser questa l'invenzione più barbara, che mai sia mulinata nel cervello dell'uomo? Quattordici passi di lunghezza; sei di larghezza: una finestra alta cinque piedi da terra, e dalla cui ferriata a quadrelli vedi sempre quel medesimo strappo di Cielo, quella medesima tettoia dell'edifizio difaccia, quella medesima stella che sera per sera, qual malinconica amica, par che venga a darti un saluto, un conforto ed una speranza; un pagliericcio per sdraiarsi: una brocca d'acqua per bere; in quanto a mangiare… ci sono le mani che paiono fatte apposta per questo!… Il rumore del mondo, in mezzo al quale ti trovi ma che, almeno per ora è morto per te, viene a colpirti gli orecchi nella tua solitudine ed ora qualche allegra canzone ti rammenta i bei tempi che unito agli amici andavi a far la serenata sotto i balconi della tua bella: ora i concerti di una musica militare t'inebriano, ti rapiscono in pensieri l'uno più dell'altro impetuosi: ora il frastuono della via, le urla dei venditori, il continuo passare delle carrozze ti riportano i momenti in cui tu pur passeggiavi, in cui tu pure davi alla sfuggita un occhiata alle belle signore che come Dee ti passavano innanzi agli occhi, trasportate da' loro cocchi: insomma un cumulo di reminiscenze che ti straziano l'anima: è un martirio che fa deperire e qualche volta impazzire l'uomo d'ingegno e di cuore, e che indurisce viepiù chi è incallito nel vizio. Aggiungete a tutto questo l'obbligo di restare lì chiuso, mentre, alla semplice idea di esser costretto a fare una cosa, fosse pure la più gradita, si prova una certa repugnanza che ci fa entrar le paturnie.

Perchè invece di una severità che non dà alcun resultato, non si cerca di ricondurre sulla buona via quello, che ne è lontano, a forza di cure amorevoli? Quando si è messo il colpevole nell'impossibilità di nuocere alla società, a che prò aggravare la mano sopra di lui, e incessantemente torturarlo?… Io fò una scommessa; se domani un domatore di fiere uccidesse così per ghiribizzo un leone che ha in gabbia, o si divertisse a martoriarlo a colpi di spillo, i filantropi non la farebbero più finita colle loro proteste: i giornali partoribbero articoli sopra articoli e se ne farebbe quasi quasi una questione di Stato. Qui invece abbiamo degli uomini che sentono, amano, che hanno peccato per inesperienza, per fatalità, ma che per ora non possono tornare a peccare: una delle due… o questi uomini si credono capaci di ravvedimento, o no: in questo ultimo caso uccideteli: nel primo cercate d'istruirli, fate loro conoscere quanto sia migliore la strada della virtù da quella del vizio, educateli col lavoro, metteteli in un'isola incolta e provvedete che quest'isola affidata alle loro mani, addivenga ridente, ubertosa… fate loro conoscere l'agiatezza, la calma, la soddisfazione del buono operaio, eppoi restituiteli alla società, che potrà a ben diritto vantarsi di avere acquistato dei buoni cittadini in quelli che fin ora non eran che rei!… Anche per legge fisica quanta più è la repressione, tanta maggiore è la reazione.

Chiedo scusa ai lettori di aver loro fatto ingozzare questa tirata, che a qualcuno farà l'effetto del cavolo in una merenda; d'altronde qui si parla di una carcere, qual migliore occasione per spifferare le riflessioni che si son covate in quella solitudine e in contatto di quei disgraziati?

In quanto a noi, grazie all'amabilità del capo guardiano dello stabilimento, fu cercato di renderci meno dura che fosse possibile la prigionia. Ci misero in sei in una stanza; lasciarono che si fumasse a nostro bell'agio: ci si passavano i giornali, dove tra le altre cose apprendemmo l'infame tradimento del generale cortigiano Bazaine: non ci era fatta alcuna restrizione nel mangiare e nel bere: ci si trattava insomma coi guanti, e inservienti e guardiani, lungi dal far pompa di quelle mosse scortesi di cui sì spesso e sì volentieri fanno pompa coi carcerati di bassa estrazione, si perdevano in scappellature ed inchini e venivano due tre volte per ora a domandarci, se si abbisognava di qualche cosa. Era compassione questa, o, piuttosto come succede in qualunque circostanza nel mondo anche là si venerava l'abito, anche là avendoci veduti insieme col Colonnello e per questo scambiandoci forse per uno stato Maggiore, si cercava entrare nelle nostre buone grazie, perchè si aveva la ferma credenza che eravamo pezzi grossi?… Io credo che quest'ultima sia la ragione più giusta e più esatta delle preferenze che si avevano per noi. Quell'ingegno ferace, che tanto predominava sugli altri per lo spirito d'osservazione e che così presto doveva esser rapito all'Italia, intendo parlare di Carlo Bini, nelle sue riflessioni sui prigionieri ha dettato delle pagine maravigliose per la verità sulle distinzioni sociali, che con scrupolo sono venerate ancora nelle carceri.

Povero!… t'hanno condotto qui, tu devi aver peccato di certo; va' giù nel buglione, là troverai degli amici e dei degni compagni… e spesso per spingerlo più presto gli si amministra gentilmente una pedata che il meschinello riceve, grattandosi il capo! Sarà innocente… E che importa?… Lo si manda giù tra la feccia, tra i borsaioli, tra i ladri d'ogni qualità e d'ogni risma; gli si fanno degli sgarbi premeditati, gli si ride sul muso quando protesta della propria innocenza; si tiene a stecchetto di pane, si fa mangiare mezz'ora dopo quella prescritta dai regolamenti, si cerca infine di rendere più triste, più penosa la di lui posizione: mai una parola d'affetto per lui, sempre un ghigno, sempre una maledizione… E se fosse innocente!… Per un signore poi è un altro paio di maniche: inchini, conforti, agevolezze: il caffè e latte la mattina, la bottiglia per pranzo, e qualche volta anche il the per la sera… oh, come è rispettata l'eguaglianza a questi lumi di luna!

Dunque, come ho detto, eravamo in cinque in una prigione. Gagliano, il Colonnello, mio fratello, io ed un giovinetto Perugino, che per la prima volta si moveva da casa, e che era innamorato come un ciuco di una ballerina cui aveva promesso per quanto prima l'anello nuziale.

Il primo giorno, non vedendo alcuna probabilità di un interrogatorio, non facemmo che scrivere. Scrivemmo al console, a una dozzina di deputati, a una mezza dozzina dì giornalisti, e perfino al Lanza: in tutti i nostri scritti si protestava contro la patente ingiustizia, di cui eravamo stati le vittime, e si scongiurava, affinchè fosse troncato quello stato penoso, che, temevamo, si prolungasse ancora per un lasso di tempo, non indifferente.

Uno dei nostri, che era stato diverse volte in prigione sempre per affari politici, ci iniziò nei misteri della vita non troppo geniale del carcere, e c'insegnò tra le altre cose un mezzo sicuro, per comunicare con gli altri infelici, quantunque fossero in stanze dalla nostra lontane: il nome tecnico di questo nuovo sistema di comunicazione è il cavallo; si attacca ad un sasso o a un pezzo di legno una cartolina, in cui si scrive, quello che vogliamo; si avvolge poi tutto ad un filo e dalla finestra si lancia, dove si ha intenzione di farlo recapitare; i prigionieri, nella solitudine aguzzano tanto l'ingegno, addiventano così maestri nella precauzione, che se si ingannano una volta sola, in questo nuovo bersaglio, si può assicurare che è una fatalità. Inutile il dire, che noi ci servimmo di questo mezzo spessissimo, e sul principio facemmo delle matte risate, alle spalle di qualcheduno il quale più che si piccava ad essere gran tiratore, più ne mandava di fuori.

"Come son lunghe, eterne L'ore del prigionier!"

Canta il tenore nel secondo atto del Pipelet, e se noi non cantavamo queste parole, se ne comprendeva però in quei momenti tutta la desolante verità. Addormentarsi colle galline, essere in piedi ai primi chiaror dell'alba; appena desti, eccoti ad assalirci la spaventevole idea di quattordici o quindici ore d'inerzia forzata; oh, almeno oggi tuonasse, infuriasse una gran tempesta… sarebbe una distrazione!.. Oh! se si avesse nel cuore la mansuetudine pecoresca del Pellico, chè potremmo passare ore intiere, facendo asceticamente delle contemplazioni sulle tele di ragno, che in sì gran numero e, a mò di tendoni, adornano la volta della nostra abitazione! Oh! venisse un nuovo carceriere gobbo, sbilenco, rachitico, o per lo meno tartaglione si potrebbe ridere qualche tempo per conto suo… Ma no signori, sempre i medesimi volti, sempre il medesimo cielo nè sereno, nè brusco, sempre qualche pezzetto di ragnatelo che ci dà fastidio, cadendo ed appiccicandosi sui nasi respettivi.

Si fece delle palle colla midolla di pane e ci si mise a giocare alle boccie… Ci si annoiava mortalmente; si tentava attaccare una discussione filosofica o letteraria… sul più bello un prolungato sbadiglio faceva uscir di carreggiata l'oratore e lo squarcio di poesia e di eloquenza finiva con una solita imprecazione, dove non si risparmiava nessuno. L'unico che vivesse estraneo a tutto quello che si svolgeva dinanzi a noi, era il giovinetto che tesseva omelie, ripensando alla sua bella ed ai dolci momenti che era solito passare con lei. A questi sproloqui, noi assumendo la dignità di uomini stagionati, e che hanno corso per tutti i versi la cavallina, facevamo tener dietro delle dissertazioni serio-facete, e dei consigli che le più volte facevano diventar rossa come una ciliegia la faccia del pudibondo giovinetto il quale terminava ogni suo dire, sacrando per tutti gli Dei, che la gentile fanciulla, malgrado tutti gli ostacoli, avrebbe finito per diventare sua moglie. E infatti, oggi tornato di Francia, ho saputo la grata novella del felice connubio che amore sparga sempre di rose il beato talamo in cui piange la ragione e la democrazia: che quel giovine infondo aveva cuore, e si entusiasmava per le idee generose.

Gagliano pareva poi, che avesse in corpo un'organino; cominciava a ciabare la mattina a bruzzico e durava a sfringuellare fino all'undici e anche a mezzanotte; se noi si dormiva lui non si perdeva d'animo e con una costanza degna di miglior causa, discorreva solo, trinciando l'aria con gesti agitati, e ripetendo ordini del giorno e proclami di là da venire: ei s'era fitto in capo di costituire una compagnia che si doveva chiamare dei cacciatori del Varo, egli l'avrebbe costituita, appena che ci si fossero schiuse le porte. La questura che seppe forse il progetto, e che, da abile maestra, sa quanto va maturato un disegno perchè possa riuscire, mentre dava la via, pochi giorni dopo, a tutti noi, riteneva in chiusa per altri tre mesi il povero capitano di quella compagnia, la quale, come direbbero le nostre donnicciole, restò sempre nella mente di Dio.

Ci si faceva prendere aria due volte per giorno: la prima volta lungo i corridoi circondati da terrazzini, da cui è intersecato lo stabilimento: la seconda su, in un piccolo belvedere dal quale si godeva di un colpo d'occhio incantevole. Sui muri dei corridoii, come su quelli della terrazza non si vedevano che scritti in lapis: erano ricordi, conforti scambievoli dei prigionieri: geroglifici indecifrabili, ma che forse contenevano rivelazioni per chi era d'intesa: accidenti alle spie e morte ai birri erano quasi sempre il ritornello obbligato di questi sfoghi.

Su in terrazza trovammo anche dei versi: quantunque si sia detto, e ridetto fino a sazietà che la solitudine fa crescere il bernoccolo poetico, anche a coloro che da mamma natura non hanno avuto un tal dono, l'apparizione di queste strofe fu salutata da noi con un hourrà clamoroso, che fece venire in fretta e furia i guardiani a domandar cosa fosse avvenuto. I versi eramo mediocri, ma giudicando dal modo col quale erano scritti, si poteva giurare che quello che li aveva vergati aveva fatto anche troppo e che aveva un'anima molto più sensibile di tutte le altre che si trovavano in quelle catapecchie. I versi son questi; ve li riscrivo tali e quali, chiedendo scusa all'anonimo autore dell'indiscrezione, e ai miei lettori qualora non andassero loro a fagiuolo.

Campanella che rammenti Al dolente prigioniero I dolori ed i tormenti Di una vita, che finì… Deh! Riporta al mio pensiero Le speranze d'altri dì.

Di quei dì, che una tranquilla Gioia al Cielo mi rapia: Fissa in Lei la mia pupilla Comprendevo la beltà, Comprendevo la poesia Sentia in cuor la libertà

Or son morto, o campanella Suona, suona a funerale Più non veggo la mia bella Più non palpita il mio onor Sul mio letto sepolcrale Suona i tocchi del dolor

E qui il poeta finiva e la parola dolor con cui avea terminato tu la vedevi ripetuta ai quattro angoli dell'ode!… Sia stato un malfattore colui che vergò questi versi?… Se anche lo fu, è certo che fu più infelice di quello che fosse colpevole!

Passammo altri due giorni in questa completa atonia; già tre giorni che eravamo separati da tutti, già tre giorni col timore che i nostri compagni avessero bruciato delle cartuccie contro i Prussiani!… Finalmente venne l'interrogatorio: un interrogatorio pro forma, dove ognuno rispondeva a casaccio tutto quello che gli veniva alla bocca, dove s'inventavano scuse così magre e storie così bambinesche, che sarebbero cadute al primo soffio di un accusatore, fosse anche il più dozzinale. Entrammo dal giudice colla speranza: si credeva che finito l'interrogatorio ci avrebbero rimandato: invece quale non fu la nostra sorpresa, quando ci vedemmo di nuovo rinchiudere nell'aborrita stamberga, che ci aveva accolto fino a quel giorno?

—Non ci mandano via che a guerra finita—Borbottò stizzosamente uno di noi.

Chinammo tutti la testa, che tale cominciava a diventare l'universale credenza.

E passò un altro giorno, eppoi un altro: era il tre di novembre; la vigilia eravamo stati di un umor perfidissimo; senza provare alcuno dei sentimenti dettati dalla religione, quelle campane che invitavano a andare a commemorare i defunti, ci facevano pensare ai nostri poveri morti, a quelli che caddero per le nostre idee, a quelli che cadevano in quel mentre per far scudo coi loro corpi a una pericolante repubblica, per opporre un'argine all'irrompente valanga dei venduti soldati della monarchia degli Hokenzöllern… Noi eravamo mesti, e si passava intere mezz'ore difaccia alle quadrelle dell'inferriata, tanto per vedere quel miserabile lembo di Cielo: orizzonte rimpiccolito come quello dell'idee che ci bollivano in testa e che non si potevano espandere.

Il tre novembre fu un gran movimento pei corridoi, un via vai continuato e un accorrere di guardiani. Qual nuova avventura era giunta a disturbare la quiete monotona di quel sepolcro di vivi?… Il caso era nuovo.

Rossi, Piccini, Stefani ed altri Fiorentini avevano avuto l'idea bizzarra di commemorare i caduti a Montana; ne correva l'anniversario, e loro, come avanzi degli Chassepots di De Failly, non ultima celebrità di Sédan, vollero degnamente onorarlo; coi pagliericci improvvisarono un catafalco, ci posero sopra una camicia di flanella rossa, lo circondarono con venticinque candele steariche, comprate la sera avanti, eppoi attaccarono un cartello nel quale a parole cubitali era scritto:

Ai Martiri di Mentana I superstiti Repubblicani

S'immagini un pò il buon lettore, quando i guardiani entrarono nella prigione, per portare il becchime a quegli uccelli ingabbiati. Vedere tutti quei lumi, poi quel catafalco… e' era da fare andare in bestia il secondino più mansueto che abbia mai esercitato questa nobile professione! Subito un reclamo dal direttore, il quale seguito dal capo guardiano, dallo stato maggiore e da un nuvolo di carcerieri si presenta maestosamente sulle soglie delle profanata stanzaccia.

—Questo è troppo!… Io sono buono, ma non lo sono tre volte… Impongo loro di tor via quel cartello rivoluzionario…

—Ma noi non diamo noia a nessuno, e poi qui chi lo vede?

—Non importa… Lascino pure il catafalco, ma levino il cartello!

—Ma se nessuno può leggerlo!…

—Io ho usato troppe gentilezze con loro—questo scandalo non lo subisco…

—Ma, se non v'è scandalo!

Insomma per il buon della pace, fa necessario tor via quel disgraziato cartello.—È un fatto, chiaro, lampante e arci che provatissimo: i governi che pericolano hanno paura dei morti, eguali in tutto e per tutto all'infermo incurabile che fa il viso serio solamente a sentir parlare di morte.

In premio di non aver preso parte alle dimostrazioni sovvertitrici dei nostri amici, quel giorno noi fummo mandati a prender aria un'ora più presto.

Una dolce sorpresa ci attendeva sulla terrazza: arrampicandoci sull'inferriata, e spenzolandoci come meglio si poteva, si vide sedute sulla spalletta di un fosso che attraversava la via, le due fate dai magici scialli, che tanto mi avevano dato a riflettere sul Var: esse guardavano in su; era certo che qualche prigioniero, aveva portato con se molta parte di cuore di quelle creature che credevamo vezzosissime e che le ci apparivano come una visione, nei momenti più climaterici di quella intrapresa.

Ci si perdeva, come di solito, in congetture su quelle apparizioni, quando venne un custode e con ilare fisonomia, ci disse: Giù, giù nella stanza del capo guardiano.

—Ci son novità?

—Eccome!—Loro son liberi.

—Liberi!—Urlammo noi e ci stringemmo l'un l'altro la mano. O libertà!… Prima tra tutti gli affetti e le aspirazioni dell'uomo, senza te è impossibile vivere, e solamente si giunge a comprendere tutta la tua dolcezza ineffabile, allorquando per disgrazia ti si è perduta; ridotti allo stato di cose, costretti a reprimere i battiti del cuore, le concezioni del cervello, gli slanci che suol produrre l'intelligenza, a te si ripensa come lo stanco e affaticato peregrino, in una montagna o in mezzo al deserto ripensa all'agiatezza della sua casa, ai dolci riguardi dei parenti lontani. Tanta è la gioia che si sente nel ricuperarti, che si tornerebbe a soffrire gli istanti penosi, che abbiamo sofferti, pur di provare l'inenarrabile felicità, che si prova in quell'istante divino.

Scendemmo a rotta di collo le scale, entrammo nel corridoio, dove di subito fummo circondati dai nostri compagni, che ci abbracciavano, ci baciavano, ci opprimevano di mille domande; chi troverebbe parole per descrivere l'emozione di quel momento solenne? Non era il tornare a vivere che ci sorridesse soltanto: era l'idea che prima o poi si avrebbe raggiunto nostro padre, che tale deve considerarsi da un giovane l'eroe leggendario della libertà e del progresso, che tale deve essere riguardato da tutti coloro che soffrono, il prode general Garibaldi.

Fassio, incaricato dalla questura ad assistere alla nostra liberazione, volle farci sospirare, più che fosse possibile, un tanto agognato momento! Eravamo una lunghissima fila, ognuno che usciva dalla stanza provocava in tutti un sospirone che si poteva tradurre in queste parole: Lui felice… ed io pure, che mi avvicino alla liberazione!

Venne la mia volta. Entrai: Il commissario mi abbordò subito con queste parole: Lei è di Firenze?

—Sissignore!

—Vuoi fare il viaggio a spesa sue, o a conto della questura?

—Ma io voglio restare in Livorno

—È impossibile!

—Se ci ho i miei interessi!

—Non importa: lei è di Firenze e deve tornare a Firenze!

—Ma questa è bella!

—O bella, o brutta… tali son gli ordini.

Strana logica invero questa della polizia! se nel mio interrogatorio avessi detto di essere del Missisipì chi sa che la questura non mi avesse spedito gratis fino a quelle lontane regioni!… Ah! averlo pensato!!

A tutti gli altri fu fatta la medesima proposizione: tutti accettammo di andare a spese nostre, decisi di tentare ogni via per sfuggire ai questurini.

—Domani si presenteranno al questore in Firenze—Disse allora il Fassio con tuono burbanzoso e poi volgendosi al Piccini aggiunse: lei mi par più serio degli altri, farà da capo squadra… Alla stazione gli accompagneranno le guardie, nè li lascieranno fino a che non avranno preso il biglietto.

Un'altra speranza che si dileguava! Bisognerà tornare per forza donde eravamo partiti con tutta allegrezza.

—Possono andare… e si sbrighino perchè il vapore parte a momenti..

Dei picchi ripetuti all'uscio della nostra antica carcere, richiamano l'universale attenzione verso quel posto. È Gagliano che protesta all'ingiustizia e all'infamia: è il povero Gagliano che solo vien rilasciato ai Domenicani per conto della questura—Scrivete sui giornali—Egli vociava—Fate nota la nuova ingiustizia, dite che mi si vuoi rovinare da questa canaglia.—Nessuno porgeva ascolto, alle di lui querele, qualcuno rideva: l'uomo che esce da un pericolo diventa egoista.

—Via, via—ci disse il nostro accompagnatore, una specie di Don Checco, scalcinato come un poeta, e zoppicante, come un verso sciolto di qualche genio incompreso.

Demmo un'ultimo sguardo alla stanzaccia che ci aveva racchiusi quei giorni, e, cosa strana, provammo un certo dispiacere ad abbandonarla. Quanti pensieri, quanti generosi proponimenti, quanti ricordi, quante speranze non ci avevano agitato là entro!

Quando io esco di prigione, e lo so benissimo grazie al benigno nostro governo, io provo il medesimo effetto di quando esco di un bastimento. Mi gira la testa e le gambe mi reggono appena…. quella sera mi pareva di essere addirittura ubriaco. Ed anche senza parere ubriaca, io credo che la nostra comitiva avesse in se tanto di umoristico da farsi guardare da chiunque passava.

Figuratevi: prima Don Checco con una mazza gigantesca, su cui si appoggiava, ma che non era valevole a farlo passar per meno zoppo di quello che era: poi il Colonnello in cappello a cilindro coi due tubi di latta, in cui erano le carte geografiche, ma che di notte gli davano un'idea di Sesto Caio Baccelli, con gli annessi canochiali; dietro a loro il giovinetto innamorato con due valigione, che erano vote, ma che egli aveva portato con se per dar polvere negli occhi alla pulizia; in coda noi altri urlando, chiassando, facendo le fiche a quel povero diavolo, che tentava attaccar discorso con tutti, senza che nessuno gli rispondesse: in poche parole egli sembrava un precettore che conduce a passeggiare una mandata di birichini, e scommetto che in quell'ora, avvedutosi della parte redicola che sosteneva, avrebbe mandato in quel paese Bolis, la Francia, il Ministero e gli eroi della libertà.

Arrivati alla ferrovia, le guardie ci fecero ala, nè si allontanarono, fino a che non avemmo presi i biglietti.

—Dunque a rivederli, signori—Traendo un sospiro di contentezza ci disse il delegato.

—Dica addio!—Riprendemmo, noi tutti.

—Grazie dell'accompagnatura!—Proferiva uno in tuon di burla.

—La ci saluti Bolis…

—Al piacere di non riverirla mai più..

E via di seguito con espressioni più o meno frizzanti, tutte all'indirizo di quel'infelice che impappinato come un pulcino nella stoppa, voltandosi ad ora ad ora per darci una sbirciata più o meno benevola, se ne andò quatto quatto e colla coda tra le gambe.

Entrammo nella stazione: quelli che viaggiavano a conto della questura erano stati ficcati in due vagoni di terza classe, e cantavano: cantavano dalla rabbia o dal piacere? Non saprei dirlo davvero, ma è un fatto che un uomo che si trova in una situazione eccezionale, prova un refrigerio, stuonando un'arietta; i ragazzi che hanno paura a andar soli in una stanza canticchiano, i poveri coscritti cercano alle canzoni montagnole, e ai patriottici inni quel coraggio che invano cercherebbero al cuore.

Ecco i due scialli!.. Ecco le due donne che ci hanno fatto tanto almanaccare colla testa sul Var e in prigione!—Oh! finalmente ci è dato avvicinarle! Sono la madre e la sorella dì un'arrestato, mi sussurra uno, che ho accanto. Mi approssimo a loro. Qual delusione! La madre è sbilenca, le mancano due denti davanti ed ha una bazza, come quella del barone Ricasoli. E la figlia? Mi risparmino i lettori l'orrore di descriverla!.. Un viso da leticare il giallo alle carote, un personale impossibile, due mani che certamente non sarebbero state sproporzionate per il Biancone di piazza. Mi fecero mille complimenti, mi volevano presentare il figliuolo e il fratello: io con una scusa qualunque voltai loro gentilmente le spalle, che amavo credere il nostro compagno di sventura, gobbo, sciancato, ridicolo, per potere almeno avere il vanto di aver conosciuta la famiglia più brutta, che in questi tempi Borgiani, passeggi sotto la cappa del Cielo!

Pochi minuti dopo, si entra tutti nel convoglio: Piccini che doveva essere, il capo squadra ci sfugge: il treno è in movimento e noi ci si trova, spinte e sponte, trasportati a Firenze.

CAPITOLO IV.

Essere in Firenze, e ricominciare a studiare le strade per tornare in Francia fu tutt'una. Il male si era, che le nostre piccole risorse avevano avuto un colpo tremendo, e che la questura aguzzava, come Argo cento occhi per spiare i nostri movimenti più piccoli, le nostre più segrete conventincole. Non si credano esagerate le mie parole: per il malaugurato affare di Livorno si era cominciato un processo, e si adopravano nelle sfere governative a tutt'uomo per mandarlo avanti o di riffe o di raffe: si voleva infatti far vedere alla Prussia come in Italia fossero ligi al principio di neutralità e come il governo non dividesse per nulla le idee piazzaiole di quello scomunicato di Garibaldi.

Noi dal canto nostro non stavamo con le mani in mano, e, tra le altre cose (vedete, come eravamo poeti) si cercò di organizzare in Firenze una compagnia tutta Toscana, che si sarebbe chiamata dei carabinieri dell'Arno. Un tal disegno ci portò per le lunghe: e tra proposte, decisioni, consigli si perse un tempo prezioso.

Mentre nell'Atene dell'Arno, quantunque muniti delle più belle intenzioni, non si dava nè in tinche, nè in ceci, il coraggioso e bravo Ricciotti compieva la romanzesca impresa di Chantillon. La democrazia e tutti coloro che sentono amore per l'Italia, applaudivano calorosamente il giovane condottiero, che con un pugno di uomini, sorprendeva, notte tempo, ottocento Prussiani, ne faceva più che quattrocento prigionieri, e toglieva loro buon numero di cavalli e di armi.

Garibaldi, dopo aver costituito il suo microscopico esercito a Dôle, si era portato ad Autun, e dopo avere ottenuto splendidi resultati a Lantenay, si era spinto fin sotto Dijon, ed avrebbe certamente occupato questa città, se l'imperizia e la codardia della guardia mobile non lo avesse obbligato a ritirarsi fino nella città, da dove si era partito con tanta speranza nel cuore. I Prussiani avevano cercato di sorprenderlo, capitando all'impensata in Autun, ma grazie all'esattezza dei tiri delle batterie da montagna che l'illustre generale aveva sotto i suoi ordini ed al valore dei giovani volontarii, i tremendi soldati che facevano paura a tutta l'Europa, dopo averne buscate come ciuchi, si erano refugati a rotto di collo dentro Dijon, dove il generale Werder aveva piantato il suo quartier generale.

Queste notizie che leggevamo sui giornali erano tante stilettate per noi; già varii dei nostri compagni erano partiti alla spicciolata per la Francia. Io mi rammento che in quei giorni mi vergognavo ad uscir soltanto di casa: mi pareva che tutta quella gente che era conscia della mia prima partenza mi ridesse sul muso, e che dentro di se mi rimproverasse quell'inerzia, che d'altronde era la conseguenza logica della mia situazione.

Finalmente un giorno capitò da me, che in quel momento avevo già dismesso il pensiero di poter prender parte alla campagna di Francia, il Bocconi, e, senza che io proferissi nemmeno una parola mi disse: Sei sempre deciso di venire in Francia?

—Sicuro!—Gli risposi.

—Allora domani l'altro partiamo.

—Non burli?

—Ti parlo del miglior senno possibile… ci stai sempre.?

—Se ci stò!…

—Allora siamo in cinque,

—Ma, ai fondi?

—Ci è chi provvederà…

—Tanto meglio!

E fissammo di vederci due sere dopo al Caffè Ferruccio; chè l'ora della nostra partenza era alle quattro del mattino, ed era deciso che saremmo andati a Genova per via di terra, non essendo cosa ben fatta il tentar di ripassar da Livorno, dove il questore Bolis comandava tutt'ora a bacchetta.

La sera che dovevamo partire me ne andai solo solo all'Arena Merini… pardon al teatro Principe Umberto; chiacchierai cogli amici, mi mostrai più di buon'umore di quello che ero realmente, dissi male degli Italiani che erano andati in Francia, e protestai di riconoscer di avere io fatto malissimo a partire la prima volta. Che volete? I casi che mi erano accaduti antecedentemente mi rendevano sempre più convinto, che a voler che un'impresa vada per il suo verso, è necessaria un pò di gesuiteria, e che una persona che crede di andare avanti colla buona fede, e collo spifferare tutto quello che ha sullo stomaco, in generale finisce coll'avere il male, il malanno e l'uscio addosso.

Salutai gli amici e verso mezzanotte mi ridussi al caffè Ferruccio. I miei quattro compagni, non avevano mancato all'appello e cominciavano a susurrare della mia tardanza; alcune nostre conoscenze fiorentine, colle quali potevamo fidarsi a chiusi occhi, si erano assise al nostro tavolino, e sotto voce ci davano qualche conforto, o si lamentavano di non poterci seguire.

Il caffè si chiuse alle due, ed i nostri amici partirono. Qui cominciarono le dolenti note. Sembra una cosa incredibile, ma in Firenze capitale d'Italia, fu impossibile di trovare un locale che fosse aperto in quell'ora. Un nevischio impertinente ci filtrava nell'ossa, e ci batteva sulla faccia, procurandoci dei brividi che erano salutati da veementissime apostrofi. Come furono lunghe quelle due ore!… E con qual gioia non si salutò, l'aprirsi dei cancelli delle stazione. Gli Ebrei che giunsero finalmente a mettere il piede nella terra promessa, dovevano forse aver provato la medesima gioia… maggiore è impossibile.

—Prudenza, ragazzi—Ci dice a bassissima voce il Materassi, uno dei nostri.

—Che ci è? Proferimmo tutti spaventati.

—Guardate!—E ci accennò colla mano una delle più celebri guardie di sicurezza Fiorentine, che prendeva il biglietto.

Soprapensieri, come eravamo noi tutti, cominciammo a temere!…

Ci si buttò in un vagone, e dopo un'ora eravamo a Pistoia. Altro intoppo!… Viene una guardia e ci annunzia che dovremo restar lì fermi, a dir poco due ore. La neve impediva che il treno procedesse, fino a che una macchina non fosse andata ad esplorare la ferrovia. Difatti per quanto tu stendessi lo sguardo, non ti era dato di vedere che un bianco lenzuolo: bianchi erano i monti lontani; bianche le collinette vicine! gli alberi più alti sembravano pianticelle di giardino, ed invece di essere in quella località così ricca di vegetazione tu avresti, a buon diritto, creduto di essere ai piedi delle Alpi. Per digerire il male umore, e per farci passare il freddo dalle ossa, bevemmo un par di bicchieri di Cognak, che era proprio un castigo di cielo, ma che fu bevuto da noi con quella filosofia con cui si trangugia una medicina.

Le due ore sì tramutarono in più di tre, finalmente venne le famosa locomotiva: rimontammo nel nostro vagone, e insieme con noi rimontò la guardia di pubblica sicurezza. Che si avesse a fare la seconda di cambio?—si pensava tutti tra noi, ma nessuno ardiva dirlo a un compagno.

Maggiore il nostro desiderio di sbrigarsi, minore la velocità eon la quale si andava: la neve infatti più che ci si avvicinava all'Appennino prendeva delle proporzioni imponenti; a tutte le stazioni intermedie bisognava fermarsi una buona ora: ad ogni fermata si trangugiava un bicchierino d'acqua vite.

Aqua vitae, la chiamavan gli antichi—Declamava il Materassi, vecchio soldato—per mettere anima in corpo par fatta apposta.

Si cominciò a traversare gallerie e a percorrer viadotti!.. Quali considerazioni non vengono in mente al maestoso spettacolo, che scienza ed arte offrono innanzi ai nostri occhi!.. E pensare che un secolo fa, sarebbe stato trattato da pazzo, chiunque avesse predetto la magica impresa, e pensare che il primo Napoleone, il genio della tirannide, rise sulla faccia a colui che gli proponeva il sublime ritrovato dell'umana potenza!.. Ma così è; disgraziato chi trionfa alla prima: l'umanità è codarda coi grandi, e ne attua solamente i grandiosi disegni allorquando essi non sono che polvere! Giovanni Uss, Galileo, i Parigini della Comune, ce ne possono e ce ne potranno dare un'esempio. Corri adunque, o macchina apportatrice di civiltà e di grandezza: corri, che tu ci rappresenti il progresso che non cura gli intoppi o che li debella; gli ostacoli cadono a te davanti: tu ti fai strada tra le impraticabili montagne, in mezzo alle più folte boscaglie; superi fiumi, traversi estese pianure, riunisci e fai conoscer tra loro popoli diversi di costumanze, di tradizioni, e generalizzi l'idee generose, a dispetto del prete che ti stigmatizzò, quando nascesti; a dispetto del retrogrado che in te vide l'annunzio di sua prossima morte.

A Pracchia ci dovemmo trattenere altre due ore; anche a questa fermata della nostra via Crucis ripetemmo la parola sacramentale, che proferì anche Cristo dopo essere stato inchiodato, la parola: Sitio, Malgrado però questa nostra manìa di confortarsi le intirizzite viscere a forza di liquore non potemmo fare a meno di ammirare l'inponente panorama che ci si stendeva davanti. Dalla finestra del bugigattolo in cui ci eravamo refugiati si godeva un immenso spettacolo. Le punte accuminate dei monti, gli scoscesi burroni erano tutti bianchi, come l'immensa volta del cielo: gli sconfinati orizzonti che ci si stendevano innanzi a noi ci rendevano piccini, piccini; i castelli, i villaggi, lo chiese che così di frequente si trovano in quelle catene di monti, si alzavano forse un metro dal suolo e ti apparivano quasi informi ammassi di neve. Manfredi, che s'ispira all'orridezza della natura, ci appariva, ombra incresciosa e vagabonda su quel candido strato, e ci faceva volgere tutti i nostri pensieri alla fantasia più che umana di Byron!

L'aspettativa era lunga; è un fatto che in certi momenti si prova la voluttà di bamboleggiare: gli uomini più grandi hanno in comune coi collegiali moltissimi divertimenti…

«Deh., fa che io possa ritornar bambino A te daccanto!

scriveva un mio amico che non credeva più a nulla; e noi che non eravamo guariti e che ancora si credeva a qualche cosa, incominciammo una guerra a palle di neve: guerra che se non ebbe le conseguenze terribili che ebbero le altre di cui facemmo parte, ci riusciva più fastidiosa, quando qualche proiettile veniva a spiaccicarsi sulle nostre faccie.

I macchinisti col muso nero, i lavoranti colla faccia tutta unta (rimedio per scongiurare la forza del freddo) stavano a guardare con maraviglia, e s'interessavano alle peripezie del combattimento. Nel più bello della lotta mi si avvicina una donna e tendendomi la mano mi chiede un'elemosina. Abituato all'accattonaggio delle grandi città, io rifiutai la richiesta.

—Se sapesse…. Io ho il genero e la nuora malata e sei nipotini che moiono di fame e di freddo.

—Solite storie—Interruppe uno dei nostri alzando le spalle.

—Storie!—Borbottò piangendo la povera vecchia—Storie! vengano a vedere e saranno persuasi.

Seguimmo la povera; in una capannuccia tutta coperta di neve, sopra un monte di strame, vedemmo una donna ancora giovine, forse anche bella, circondata da quattro bambini assiderati dal freddo. Uu fetore immenso, una miseria che metteva spavento: tutto insieme uno spettacolo che faceva venir voglia di piangere. Poveri disgraziati, mentre il ricco annoiato profonde le migliaia di lire ai piedi di una ballerina, o per avere una bella pariglia, e finimenti magnifici alle passeggiate ed ai corsi, essi morivano di fame, non si sdigiunavano nemmeno tutti i giorni, perché il marito dell'afflitta giacente, dopo aver lavorato come un ciuco, era caduto da varii mesi ammalato e i di lui padroni gli avevano sospeso il salario.

Noi avevamo pochi quattrini, questi pochi ci servivano appena per fare il viaggio e purnonostante non potemmo fare a meno di dare il nostro piccolo obolo, per questa miseria che ci faceva piangere il cuore. Oh! se tutti andando a prendere un punch, o fumando un sigaro (vedete che prendo le più piccole spese) pensassero che con quei pochi soldi si potrebbe procurare un tozzo di pane a tanta gente che è degna di aiuto e che langue nella più tremenda miseria, oh! scommetto che allora i vizi scomparirebbero, che nessuno avrebbe cuore di abusar del superfluo, mentre tanti fratelli mancano del necessario:

Il fischio della macchina che arrivava ci annunziò che l'ora della partenza era giunta; lasciammo la casa del dolore e non potendo esser più allegri, chiotti, chiotti rientrammo nel treno, che dopo due o tre ore ci lasciava a Bologna.

A Bologna fu mestieri fermarsi fino al giorno dipoi; s'immagini chiunque ha fior di senno, con qual malumore: malumore che ci cresceva a mille doppi, vedendo come la celebra guardia di sicurezza seguisse come un cagnolino tutte le nostre pedate.

La mattina all'alba partimmo; mi sembra inutile descrivere ai miei buoni lettori il lungo viaggio che avemmo a fare da Bologna a Genova; le famose avventure in ferrovia, che sono così spesso tirate in ballo dai romanzieri, per me sono favole belle e buone; noi fummo trasportati, nell'identico modo con cui son trasportati i bauli. Avemmo a compagni dei mercanti, dei contadini e dei soldati in congedo; ci fermammo per far colazione, come tutti gli altri a Piacenza; mangiammo di nuovo a Tortona; bevemmo una buona bottiglia di vino a Novi, non potemmo fare a meno di ammirare la magnifica vallata di Serravalle, schiudemmo i cuori alle più liete speranze, osservando l'infinito numero di fabbriche di San Pier' d'Arena, e scendemmo a Genova nelle prime ore della notte. La luna illuminava il bel monumento di Cristoforo Colombo che è sulla piazza della stazione. Noi volgemmo un saluto a quel grande, che in ricompensa di un nuovo mondo si ebbe le catene da un re, e ci persuademmo, che per volger di secoli e per variare di avvenimenti l'umanità non è punto cambiata.

Nostro primo pensiero fu di recarci da un certo individuo, che ci doveva dare il mezzo sicuro, perché si potesse muovere senza disturbi alla volta di Francia. Ci aveva dato una lettera di raccomandazione per questo genio benefico, Andrea Pieri, uno dei nostri buoni amici Fiorentini, giovane egregio e provato patriotta, di cui la democrazia piange a lacrime amare la perdita. Trovammo quasi subito la tanto desiderata persona, e secolui ci riducemmo in una bettoluccìa non molto distante dal teatro Carlo Felice, bettoluccia frequentata soltanto dai marinari, e da qualche facchino di porto.

—Noi si vuolpartir subito—Fu il primo discorso che facemmo.

—Non dubitate… domani sera voi partirete… Domattina… uno di voi verrà con me e combineremo ogni cosa.

—Va bene!

—Ma saremo disturbati qua in Genova?… Dimandai io che avevo sempre fisse in mente le persecuzioni con cui ci onorava il Bolis a Livorno.

—Loro possono andare tranquillamente… Si figurino in quest'ultimo mese ne ho già imbarcati più di duecentocinquanta…

Mi rincresce non poter nominare questo giovine che con tanta abnegazione si prestava, per procurare dei difensori alla Francese repubblica; egli in oggi è uno dei miei amici più cari, ma, se lo nominassi, domani forse non avrebbe più pane e quello che è peggio, non l'avrebbe nemmeno la sua numerosa famiglia. Quanti, oh! quanti sono obbligati a nascondere le idee generose che loro bollono in cuore, per la miseria e per il bisogno! Non vi disperate però, o povere vittime, che ce lo ha lasciato detto anche Giusti:

«Tra i salmi dell'uffizio C'è anche il Dies irae O che non ha a venire Il giorno del giudizio?!

Si dormì in un Albergo, a cui c'indirizzò il nostro amico; il proprietario, i camerieri la pensavano come noi e terminammo la serata, cullandoci tra le più belle illusioni e facendo i più attraenti progetti per l'avvenire.

Al mattino Materassi andò a fissare per la partenza; noi andammo a vedere i magnifici giardini dell'Acquasola ed ammirammo tutta la poesia di una magnifica giornata; il mare, la terra, il cielo erano ridenti, ridenti come il nostro pensiero, che spaziava in quell'Oceano di luce, in quel verde sterminato delle miriadi di piante che ci circondava, e che traeva da tanta magnificenza di natura nuova forza per tentare l'impresa, e certa speranza di sicura riuscita.

—Stasera alle otto si parte!—Ci disse a pranzo il Materassi.

—Ma come?

—Andremo ad uno ad uno al battello… Io vo per il primo: voi mi seguirete.

Sull'imbrunire ci avviammo al porto; il porto di Genova è senza dubbio il primo d'Italia: il continuo movimento, l'affaccendarsi di migliaia di persone, lo sterminato numero di navi che vi sono ancorate, lo sterminato numero di vapori che s'incrociano arrivando e partendo, disegnando sull'Orizzonte una lunga striscia di fumo, ti rendono certo di essere in uno degli emporii commerciali tra i più accreditati in Europa. A terra hai il lavoro, in mare hai il vapore: le due leve che rialzeranno l'umanità fino all'altezza dei suoi gloriosi destini; l'attività individuale e la scienza!

Se i barcaioli di Livorno ci si erano mostrati usurai e sordidi, quelli di Genova ci sorpresero per il loro galantomismo.

—Lei va in Francia?—Mi domandò quello che guidava la mia barca.

—Sì—Gli risposi.

E lui, zitto come un muro.

—Quanto devi avere?—Gli domandai quando fui giunto alla scala del bastimento.

—Mi, darà mezzo franco.

—Soltanto!—Esclamai io con sorpresa.

—È il mio avere.

Io gli diedi due franchi, egli mi pose in mano il resto e si offese quando gli dissi che del resto io intendeva fargli un regalo.

A bordo, mi buttarono giù tra le cabine dei marinari. Dove erano gli altri? Sul bastimento di certo, e se non li vedevo quella sera, li avrei veduti quando l'aria fosse più libera!

Noi eravamo nientemeno che sul Conte Cavour, vapore italianissimo e appartenente alla compagnia Aquarone. Mi sdraiai alla meglio in una cabina, quando entrò nella stanza un tale, che mi fu presentato con queste parole da un marinaro: anche lui, viene in Francia.

—E di dove viene?—Io gli richiesi.

—Vengo da Milano, ed ho fatto a piedi fin qui tutta la strada…

—E come mai?

—Io ero nei cavalleggeri Monferrato e son disertore!

Io lo guardai e sentii compassione di lui; io non ho mai creduto che l'impresa di Francia potesse riuscire, e, se andavo, era solamente perché reputavo un delitto per un republicano il non accorrere là dove si pugnava e si moriva eroicamente intorno al glorioso vessillo dell'umana emancipazione. Morire è nulla per chi ha un poco dì cuore: ma andando alla guerra ci son più probabilità di restare che di andare tra i più, e se quel povero diavolo l'avesse scampata, che avrebbe fatto? In Italia non poteva tornare dicerto, in Francia non sapendo una parola di lingua francese sarebbe morto di fame… Oh! quanti eroi vivono e moiono ignorati, in questo secolo falso in cui si inneggia all'effetto scenico dei bugiardi eroismi.

Questa volta ci si muoveva davvero; allorché io ne fui proprio sicuro mi addormentai profondamente.

Quando al mattino mi destai noi eravamo fermi.

—Venga pur su dai suoi compagni, mi disse un mozzo.

—Ma perché ci siamo fermati?

—Siamo a Savona: ci fermiamo fino a stasera.

—E avremo altre soste avanti di arrivare a Marsiglia?

—Oh!… sissignore! Per lo meno si sta dieci ore a san Maurizio.

I miei compagni, secondo il solito, più fortunati di me, erano stati messi nelle cabine di prima classe. Io li trovai nel così detto salone, nel quale ci si rigirava appena, tanto era piccolo!… ma pure lo avevan battezzato come salone.

Prendemmo un caffè, e si assise con noi un Pollacco, che bisticciava alla peggio un po' di francese: egli ci disse che veniva in Francia, e che era già stato ufficiale di cavalleria nell'esercito Austriaco e Prussiano, e per convalidare ciò che diceva, ci mostrò una fotografia, che aveva in tasca, dove era rappresentato in alta montura di ussero. Alla nostra domanda se pur egli avesse intenzione di arruolarsi con Garibaldi, fece una smorfia. e portestandoci di amare i volontari, ma di trovarsi al mo posto soltanto tra truppe disciplinate, ci fece noto il suo divisamente di entrare nell'esercito di Bourbaki, allora in formazione, io credo, a Châlons.

Era intanto sceso giù da noi il macchinista, un bel tipo di Francese meridionale: un repubblicano a prova di bomba, che faceva parte del Comitato di Marsiglia e che anzi s'incaricava di condurre più gente che gli fosse possibile in quest'ultima città. La testa di quest'uomo era molto espressiva; fronte spaziosa e barba foltissima; con un berretto Frigio sul capo ti rassomigliava perfettamente uno di quei celebri convenzionali che tanto impaurirono ed entusiasmarono la Francia sullo scorcio del secolo decimottavo. Franco e leale egli cantava le cose come le sentiva, per cui alle parole del Polacco, che aveva terminato il discorso con mille elogi dell'eserciti permanenti, sola speranza di una nazione in pericolo (sic) alzava furiosamente le spalle, e finì borbottando: Noi non andiamo d'accordo.

—E come è vestita la cavalleria in Francia? Gli domandò il discendente di Sobieskj, che persino in viaggio era di un'eleganza ineccezionabile.

—Da soldato!—Rispose l'altro bruscamente e volgendosi a noi ci disse a bassa voce e in genovese—Dev'essere un imbecille, un soldato di ventura.

Tale opinione ci fu poco dopo convalidata; il nostro compagno di viaggio cominciò a parlarci delle sue conquiste, dei cavalli che aveva lasciato a Vienna e degli illustri parenti che aveva lasciato a Berlino, e terminò mostrandoci il ritratto della sua maitresse, una bella bionda che non in fotografia, ma in carne ed ossa avremmo desiderato avere davanti. Durante tutta la campagna non vidi più questo Pollacco; probabilmente come tanti altri avventurieri avendo veduta la malaparata sarà andato in cerca di fortuna migliore: chè la campagna di Francia ebbe questo di buono: pochi volontarii, ma i pochi ispirati e che dicevano e facevano davvero… ne diano prova luminosa le migliaia dei cadaveri che abbiamo lasciato lassù.

A mezzogiorno preciso il vapore si mosse; tutti salimmo in coverta. La giornata era superba, il panorama incantevole. Il nostro battello, che si poteva chiamare un guscio, tanto era piccolo, costeggiava la bella riviera che è una delle prime bellezze della bellissima Italia; noi non ci scostammo mai più di cinquanta passi da riva; si passava adunque vicinissimi a quei seni, a quei golfi che s'intersecano nelle montagne, ora ridenti per il verde delle piante, ora tristi per il cenerognolo dei molti uliveti, ora orride per il colore rossiccio delle pietre e per la mancanza di abitazioni; i cento villaggi, i pittoreschi castelli che si vedevano spuntare qua e là, e dominare superbi sulle vette delle colline e dei monti; le capannuccie dei pescatori a cui ad ora ad ora si scorgeva legata qualche barchetta, le onde leggermente increspate dal venticello che rapiva i profumi dalle piante del lido, e li offriva a noi ricreandoci, gli alcioni che apparivano a fior d'acqua, che si tuffavano e riapparivano scuotendo le ali immense, e il cielo tutto sereno, celeste come l'estesa superficie del mare ci facevano credere di essere in primavera, e ci facevano mandare un saluto dal profondo dell'anima alla terra dell'amore e della poesia, a quell'Italia che si biasimava, si vituperava vivendoci, ma che ora si sentiva di amare più di noi stessi. E a farlo apposta sembrava che l'Italia, quasi amante che si voglia tradire, si facesse bella di tutti i suoi vezzi per renderci più amara la dipartita.

Ci fermammo di nuovo a san Maurizio, e fu forza il pernottarci. Mi condonino i lettori la noia di tutti questi ragguagli: ne soffrimmo tanta noi della noia… che possono pazientare, anche loro, poiché poco più ora manca alla fine di questa escursione marittima.

Il mare si fece cattivo: un colpo di vento portò via tutte le panche che erano a poppa e dove ci eravamo seduti il dì innanzi: il nostro stato era deplorevole: lascio dapparte certe descrizioni che urterebbero il delicato sentire dei miei lettori e delle mie buone lettrici; lo stesso Capitano non sapeva più che pesci si prendere: l'equipaggio giurava per tutti i Santi del Calendario Cattolico di non essersi mai ritrovato in acque sì brutte. A Tolone si sobbalzava tanto nelle nostre cabine che si arrivava a picchiare capate terribili nelle asse del soffitto; è per sopramercato si era anche nel colmo della notte. È impossibile descrivere l'irritazione di cui eravamo in preda: lo sconforto si era impossessato di noi, e ci si aspettava di momento in momento di trovar la tomba, ora che si era arrivati in Francia.

Il tempo si calmò; altre cinque ore di viaggio, eppoi il Capitano ci chiamò sul ponte. Corremmo tutti. Un bosco d'antenne occupava tutto il porto: una magnifica città ci si stendeva davanti in mezzo a due picchi, sul primo dei quali si vedeva il campanile di una chiesuola.

—Quella è la Madonna della Guardia—ci disse il Capitano.—Loro sono a Marsiglia.

Finalmente ci si era!

CAPITOLO V.

Andammo subito al Comitato; non ci era nessuno: se ne domandò la ragione, ci risposero che era domenica; si cominciava benino!

Facendo di necessità virtù, deliberammo di tornarci il giorno dopo, e intanto andammo a passeggiare per la città: Non posso negare che più che mi inoltravo in quelle magnifiche strade, più osservavo il chiasso, il movimento, il lusso, il fare spigliato di quella popolazione, più mi sentivo in preda d'impressioni bruttissime. Non che essere in una Nazione, tanto bistrattata, tanto avvilita, tanto depressa come era allora la Francia, tu avresti creduto trovarti in un paese dove tutte le cose vadano a meraviglia, dove non si sia nemmeno alla lontana sentito parlare di guerra. Molti giovanotti avevano il berretto da guardia nazionale, ma molti ancora se la passeggiavano tranquilli e contenti, a braccio di signore di virtù più o meno problematica, e occupavano cianciando, chiassando e ridendo i tavolini che sono al difuori dei molti caffè, che si trovano nella magnifica strada della Canobiere.

Ai cafès chantants, si cantava la Marsigliese, le chant du depart tutte canzoni patriotiche… ma pur si cantava; alla Maison doré si ballava sempre patriotticamente il cancan: tutte le cocottes di Parigi, allontanate da quella citta a causa dell'assedio, erano piovute là a Marsiglia, dove abbassando le loro pretese, avevano trovato ammiratori a iosa; erano aperti tre teatri; sui boulevards tutte le sere suonava la banda; unico indizio di vita belligera noi lo trovammo in certi cartelli che erano attaccati a tutte le cantonate; cartelli ove era scritto a lettere cubitali: Parigi non si arrenderà mai; del resto, come ho detto, un'indifferenza da fare schifo, una corruzione che non ci faceva mai presupporre che un Trochu avesse la sfacciataggine di qualificarla all'Assemblea per Italiana. Se si fa un paragone tra qualunque delle nostre città nel 1866 e Marsiglia nel 1871, bisogna in coscienza affermare che noi, quantunque corrotti, siamo molto, ma molto superiori, se non altro nell'amore di patria, alla città più spinta del mezzogiorno della Francia.

Né solamente le classi agiate se la spassavano, bastava andare sul porto per potere esser certi se quel popolo lì, aveva intenzione di concorrere alla guerra! Le infinite baracche dei saltimbanchi, i giuochi improvvisati lungo la strada, la gente che si affollava intorno ad un vaporino che conduceva intorno il porto, i cantastorie ambulanti ci offrivano un bel colpo d'occhio, ma ci raffermavano sempre più nella nostra opinione. È vero che tra gli altri sollazzi vedemmo anche un tiro al bersaglio e in questo servivano di mira due Prussiani più grandi del naturale; ma a che prò sciupare la polvere contro i Prussiani di carta, quando si fuggiva a rotta di collo davanti a quelli di ciccia?

La molta gente che interrogammo, ci rispose facendo voti, per la pace; il commercio incagliato, i guadagni diminuiti parlavano nel cuore di tutti quegli uomini, più della voce della patria tradita. Noi pensammo che era ben difficile che la Francia potesse pigliare una rivincita.

In mezzo alla folla vedemmo qua e là confusi ed incerti alcuni Turcos ed alcuni Zuavi, zoppicanti e con volti emaciati. Erano feriti; erano avanzi gloriosi di Wissembourg, di Woërt, di Gravelotte. Abituati a vedere questi fieri soldati, allorché nel cinquantanove baldanzosi e trionfanti traversarono l'Italia, noi provammo un senso di dolore nel vederli ridotti in tale stato. I ragazzacci del popolo non di rado li accompagnavano colle loro fischiate, o facevano loro degli scherzi da far rivoltare lo stomaco agli uomini più abboccati del mondo: la sventura dovrebbe esser sacra. La popolazione di Marsiglia l'aveva maledettamente con l'armata: mentre uomini, donne, fanciulli si affollavano lungo le vie e guardavano con ammirazione la guardia Nazionale, che faceva crepar dalle risa, tutti avevano sempre pronto un frizzo, un insulto per quei poveri diavoli del 60° reggimento, che allora si ricostituiva in quella città: li chiamavano i soldati di Napoleone, e tutti erano all'unisono per dichiarare quest'ultimo come un traditore, come l'unica causa di tutti i disastri che avevano ridotto al lumicino la patria degli eroi del novantadue e degli espugnatori di Malakoff.

Un po' sconfortati continuammo a girellare, ma è un fatto che quella varietà, quel movimento ci stordiva in modo, che queste cose le quali, or ripensando mi danno fastidio, terminarono col non farmi nè caldo nè freddo e col darmi gusto. Rintoppammo sul porto il nostro compagno di viaggio, disertore dall'esercito Italiano.

—Vadano al Comitato—Ci disse—perché fra poco si parte..

—Dici davvero?

—Sul mio onore.

E noi ci avviammo al celebre Comitato che aveva la sua sede sulla piazza della prefettura.

Un gruppo di giovani dal portamento spigliato, era sulla cantonata e faceva pervenire ai nostri orecchi il dolce suono della gentile favella del sì. Saranno stati all'incirca una cinquanta ed erano tutti Italiani, qualcuno aveva il berretto rosso: tutti vestivano ancora con abiti cittadineschi. Fummo accolti da loro come fratelli: in quei momenti s'improvvisano le amicizie, e il tu alla quacquera di primo acchito, soave reminiscenza dell'Università, predomina su tutta la linea: nè si creda che queste amicizie che si concludono in un quarto d'ora, sfumino come tutte le amicizie del mondo, poiché sono le più inalterabili, perché dopo molti anni quando l'uomo vive nel passato e chiede un conforto e una lacrima al sacro patrimonio d'affetto che ha raccolto qua in terra, ripensa a questi amici di gloria e di sventura come l'esule, o il prigioniero ripensano alla casetta paterna.

Tutti erano allegri… si andava incontro a un nemico formidabile, si era certi della difficoltà di vincere, si sapeva che probabilmente metà di noi avrebbe pagato col sangue le idee che ci bollivano in testa, ma che c'importava? Anche il sacrificio ha le sue voluttà e sono più inebrianti di quelle della gioia.

—Stasera non possono partire.—Venne a dirci un coso sbilenco, che doveva essere addetto al Comitato.

—Daccapo—Urlarono i giovani e proruppero in fischi.

—Domani sera partiranno di sicuro—Proferì a malapena quel corvo del malaugurio e se la svignò alla chetichella.

—Pazienza ragazzi… bisogna assuefarsi alle disillusioni; venite con me alla vicina taverna e là faremmo passare la malinconia, trangugiando un buon bicchier di vino caldo.

Quello che parlava era un bel tipo di militare; era già vestito da Garibaldino e camminava un po' zoppo.

—Evviva il Mago!—Gridarono tutti.

—Venite con me sempre, o ragazzi, e vedrete che anche al fuoco non vi farò scomparire.

—Eh! lo sappiamo che tu sei un eroe…

—Che eri all'attacco di Dijon…

—E che ci fosti ferito.

—Evviva i prodi soldati!

—Evviva.

E cantando patriottiche cantiche ce ne andammo tutti alla vicina taverna, dove due fior di ragazze dispensavano bibite e sorrisi agli avventori, che ne andavano in solluchero a questo connubio cotanto attraente.

A Marsiglia, il vin caldo e il Cognak costano la miserabile somma di 10 centesimi, e si noti bene che le bibite non si amministrano omeopaticamente come da noi.

—Se ci fossero certi amici!—Esclamò il Materassi, quando giunse a cognizione di questa consolante notizia.

—Mago, su… giacché non sappiamo come passare il tempo, raccontaci i fatti gloriosi di cui è già stato eroe Garibaldi… Noi ci istruiremo e le ore ci trascorreranno, come se fossero minuti.

—Che volete… che dica…

—Di quello che sai: raccontaci come si portano i nostri, quale è la nostra organizzazione, e se infine i soldati Prussiani sono poi quella gente famosa da far tremare tutto il mondo…

—In quanto a questi vi assicuro che non fanno di noccioli e che tirano diritto, e che son duri come montagne, ma, poiché volete saper proprio ogni cosa, vi spiffero tutto dall' a alla z pregandovi a scusarmi se non parlo in punta di forchetta.

Tutti fecero silenzio e il sergente (il Mago era sergente), incominciò: Figuratevi che si era in Autun. Il clima di Francia è pazzo come gli abitanti. A Dôle non aveva fatto che piovere, a Autun era un freddo che ci pareva di essere in Siberia. Noi stemmo sei giorni all'avamposti e vi assicuro di aver provato certi brezzoni, che al solo ricordarli mi sento gelato. Riunita tutta la legione, si partì col nostro Vecchio per Arnay le Duc.

—O in che legione eri?—Interruppe uno.

—Io ero con Tanara; un bravo uomo, ragazzi, un uomo, del genere del quale ce ne vorrebbe dimolti nella democrazia, uno di quei pochi insomma che si seguono volentieri, quando cominciano a fischiare le palle!.. Tornando a bomba: vi dirò che da Arnay le Duc, girammo come l'Ebreo Errante, per tutti quei paesuoli, sempre in cerca dei Prussiani che non si vedevano mai… Che marcie, figliuoli!.. Non dubitate, che chi potrà raccontare questa campagna, potrà esserne altero e potrà dire di esser sfuggito alle unghie del diavolo. Il giorno ventiquattro entrammo in Malin, abbandonato poco prima dai Prussiani; pernottammo alla stazione, e Garibaldi, il bravo uomo, era là.. in mezzo a noi, a farci coraggio, a prometterci che ci saremmo fatti onore. Il freddo era intenso, acutssimo e il nostro Vecchio era sorridente, sereno, come se fosse stato nella stanza più bella e più riscaldata del suo quartier generale. Gli abitanti cercavano di renderci meno dure le privazioni colle loro gentilezze: e si affannavano a portarci da mangiare, e da bere; le donne, anche delle classi non basse, ci portavano il pane ed il vino e ci stringevano la mano. L'era una cosa da far piangere i sassi… ve l'assicuro. All'alba partimmo e ci frastagliammo compagnie per compagnie nei borghi diversi, adiacenti a Malin. Così passammo l'intera giornata: sul far della sera venne ordine immediato di partenza, e difatti tutti insieme si andò a Lantenay. Qui trovammo un infinità di guardie mobili, qualche pezzo di artiglieria, un mezzo squadrone di Chasseurs d'Afrique e varii corpi di volontari. Garibaldi alloggiò al castello; noi ci fermammo proprio sotto di lui e per riscaldarci facemmo degli immensi falò. I Prussiani erano al di là di una foresta che si stende sull'alture del Nord Ovest del Castello; in linea retta tra noi e loro non ci correva nemmanco un chilometro. La mattina del ventisei oltre la paga ci diedero dei pezzi di capretto che erano stati requisiti; ma sul più bello, allorché si cominciava ad assaporare questa vivanda così patriarcale, suonò l'assemblea, e in un minuto bisognò correre ai ranghi, lasciando sul terreno e nelle case più di metà di quel cibo, che con tanta veemenza veniva reclamato dai nostri stomachi vuoti. Appena arrivati al castello, vedemmo Garibaldi a cavallo: era seguito da Menotti, da Bordone, da Canzio. Il Vecchio diede qualche ordine, poi seguito dai suoi e da alcune guide ci precedette, inoltrandosi al trotto verso l'estremità della foresta; dopo brevi istanti noi ci avanzammo. Pigliammo una viuzza e in poco tempo raggiungemmo lo stato maggiore. Allora si ordinò a due compagnie del primo battaglione, tra le quali alla mia, di occupare l'altipiano e di stenderci in catena. Nell'eseguire quest'ordine voltai i miei occhi a destra e vidi in terra sdraiato il prode Garibaldi. Egli si riposava: lì a cento passi da noi.. Io non sono un poeta, sono un ignorante, un soldataccio cresciuto tra bestemmie della caserma, ma che volete, non ve lo nascondo, veder quel vecchio, malato, quell'uomo della cui fama è pieno il mondo e che si è già conquistata l'immortalità, vederlo, dico lì sdraiato come uno di noi, con quella faccia di santo, a pochi passi dalla morte, io sentii inumidirmi le ciglia e piansi come una donnicciuola, o come un abatino.

Due batterie, una da campagna e l'altra da montagna, presero posizione accanto a noi. Poco distante tuonava il cannone; erano le truppe di Bossak e di Ricciotti, almeno lo credo, che disturbavano le mosse del nemico. Che magnifico spettacolo ci si presentò agli occhi, quando principiammo a guardare! Una vallata ubertosissima di vegetazione si stendeva sotto di noi; i battaglioni Bavaresi e Prussiani formavano un'estesa e ben compatta colonna; gli ulani correvan da un estremo all'altro di quella linea, che sembrava di ferro, tanto era nera: ma colle nostre complessioni e coi nostri comandanti si ammacca anche il ferro!.. Venne l'ordine infatti di avanzarsi.

Il terreno che dovevamo percorrere era pieno d'intoppi: era un avvicendarsi di piccoli scaglioni che qualche volta ci facevano andare a gambe levate. I Francs Tireurs si erano internati nella foresta e appoggiavano i nostri movimenti. Dopo poco trovammo dietro uno dei tanti rialzi gli Chasseurs d'Afrique che erano in esplorazione. Una scarica a bruciapelo eseguita dai Prussiani, li fece retrocedere; allora occupammo noi la sommità abbandonata dalla nostra cavalleria. Il rombo del cannone si fece sentire da tutte e due le parti, i Prussiani rispondevano ai nostri con accanimento: le palle, le bombe ci smaniavano di sopra, di sotto, intorno al capo, alle gambe: ogni poco i superiori ci ordinavano di sdraiarci per terra, Una rachetta portò via la coscia del bravo luogotenente Dell'Isola aiutante di Menotti. Il nostro capitano Morelli era sempre alla testa della compagnia e diè prova di un sangue freddo, che, come vecchio soldato, io vi dichiaro rarissimo. Pigliammo d'assalto un paesetto, lo traversammo a baionetta calata, in mezzo agli applausi di quei buoni abitanti. I Prussiani si ritiravano colle loro artiglierie: apriamo il cuore alla gioia, guardiamo e si vede in capo alla strada il Generale; ma dunque quest'uomo è per tutto, quest'uomo è miracoloso, quest'uomo è invulnerabile!.. Gridano i volontari, e poi, tutti prorompono in acclamazioni all'illustre condottiero. Garibaldi ci salutava col suo solito sorriso, poi, chiamata una tromba, si fece dare un poco da bere, e bevve l'acqua di una vicina pozzanghera. Intanto il cielo aveva aperto le sue cateratte, ed una pioggia diabolica c'inzuppava maledettamente i vestiti, e ci rendeva assai malagevole il camminare a causa del fango che produceva.

Facemmo alto in un luogo disabitato e scoperto; quivi sfilò innanzi ai nostri occhi tutto il piccolo esercito che aveva sotto di se Garibaldi. Passato che fu, venne anche per noi l'ordine di avanzarci senza sapere ove si andasse e senza nemmeno curarsene: che il buon soldato non deve mai discutere, nè sofisticare su quanto ordinano i superiori. Dopo aver camminato un poco, noi del battaglione, comandato da Ciotti, arrivammo in un piccolo villaggio situato al Nord di Lantenay, e qui dalla bocca stessa dei villici sapemmo che i Prussiani, prima di partire, avevan fatto man salva di tutto il bestiame.

Di cibo non ci era da parlarne, e noi si aveva un appetito numero uno; una sola botteguccia era aperta, ma anche in questa non si trovavano che pochi pezzucci di pane; li dividemmo da buoni fratelli, ma appena si cominciavano a divorare, eccoti di nuovo l'ordine d'immediata partenza. Ragazzi miei, non è il fuoco che costituisce lo amaro di una campagna, chè anzi ne è la pagina bella; sono le privazióni e gli stenti, a cui però di buon grado deve assoggettarsi il soldato dell'idea. Noi eravamo stanchi, le gambe non ci reggevano più, i respiri si elevavano a mala pena dal petto, ma il nostro lavoro non era terminato, bisognava finirlo, come volea Garibaldi, e o male o bene noi lo facemmo ed ecco come andò.

Il Generale voleva sorprendere Digione, ed era sicuro d'impadronirsene con uno dei suoi colpi di mano e vi garantisco che sarebbe riuscito…. Oh! mille valorosi di più o duemila vigliacchi di meno, e avreste veduto! Noi ci inoltrammo silenziosi lungo la strada; avevamo avuto il comando di non scaricare il fucile; quatti quatti senza respirare nemmeno, col cuore che ci batteva forte forte, procedevamo in mezzo a quel buio d'inferno; nessun rumore si sentiva all'intorno: un acquazzone tremendo ci percoteva da tutti i lati. Noi marciavamo per primi insieme ad una compagnia di Francs tireurs, dietro a noi venivano diversi battaglioni di guardie mobili e l'artiglieria. Così giungemmo fino a un kilometro dalla città; pareva che i Prussiani non si fossero anche accorti di noi; un subitaneo schioppettìo di fucilate ci rese sicuri che la nostra avanguardia era alle prese cogli avamposti dell'inimico.

I nostri superiori ci diedero l'ordine che ad ogni scarica, ci buttassimo nei fossi che fiancheggiavano la strada; questi erano pieni d'acqua, e allorché il lampo annunziatore delle palle vicine si faceva vedere in quel buio, noi prendevamo dei bagni, nè troppo comodi in quella stagione, nè troppo puliti. Però di tratto in tratto ci si avanzava, tra quel diavoleto: le nostre trombe suonavano avanti; avanti, gridavano gli ufficiali; avanti si gridava noi tutti, e come un sol uomo, ci spingevamo, ci accalcavamo, per quella strada che poco dopo doveva essere ingombra da mucchi di deformati cadaveri. Già qualche ferito emetteva grida strazianti, già l'aria s'impregnava di quel simpatico odore di polvere che suole accompagnare i combattimenti, già il lontano rullo del tamburo, il subito guizzo che pari a lingua di fuoco si ripercuoteva per tutta quella estensione, e il fischio non interrotto mai delle micidialissime palle nemiche, ci rendeva sicuri che assistevamo ad un'imponente battaglia.

Le scariche dei Prussiani di minuto in minuto crescevano d'intensità, eppure noi fedeli ai nostri ordini non ci azzardavamo a far uso delle nostre armi, quando quei vili delle guardie mobili cominciarono a scappare e a tirar fucilate all'indietro, fucilate che colpivano noi, non i Prussiani. L'impresa a quel momento si poteva chiamare fallita; un uomo prudente, uno che va col successo si sarebbe ritirato, ma Garibaldi era lì in prima fila, ma noi si vedeva fuggire i Francesi e volevamo far vedere quanto più di loro valessero i calunniati Italiani, epperciò con l'entusiasmo di chi sa di sacrificarsi per una idea generosa si stava fermi, al nostro posto. E lì morì il povero tenente, Anzillotti; lì morì il bravo Del Pino uno dei ragazzì più buoni e più coraggiosi che io m'abbia conosciuto, e certo uno dei migliori della mia compagnia. Non vi sto a dire il numero dei feriti, i Carabinieri Genovesi furono decimati… gli Italiani si battevano e si battevano da eroi.

Fu giuocoforza il ritirarsi; mai ritirata poteva cominciare con tanto disordine; si correva all'impazzata pei campi, ogni poco, si cadeva per terra, ogni poco ci si trovava a mezza gamba nell'acqua, e tutto questo sotto un fuoco continuo di mitragliatrici, di cannoni, di moschetterìa. Giunto a capo di una viuzza, fui scaraventato per terra: tentai di rialzarmi, mi fu impossibile poco dopo io era fuori dei sensi; non so quanto durò, il mio sbalordimento; quando mi riebbi mi trovai sopra un barroccio che mi portò all'ambulanza d'Autun, da dove fui trasferito a Lione. Un'impertinentissima scheggia di mitraglia mi aveva forato la coscia. Ottenuto un permesso di convalescenza, ho fatto un mesetto di villeggiatura a Nizza, e ora me ne torno lassù, che, grazie al Cielo, della forza per battermi coi Prussiani ne ho sempre, perché, sappiatelo ragazzi, una battaglia è uno di quei divertimenti che non capitano ad ogni canto di gallo; si può morire, ma dove volete trovarmi una cosa più bella di morire, in mezzo al fumo, al rumore, alle trombe e alla gloria… eh! via dunque, venite con me, e vi farete onore, il vecchio Mago ha veduto troppe volte da vicino la morte, perché vi possa far fare una figuraccia indecente.

—Evviva il Mago!—Gridarono tutti e tutti picchiarono il bicchiere tra loro.

Dopo aver discorso un'altra buona mezz'ora, dopo aver domandato tutto il domandabile al brav'uomo che aveva già veduto i Prussiani, ci congedammo da quell'allegra compagnia e ci avviammo all'albergo.

—Ma se ci mandassero con Frapolli!—Esclamò uno di noi per la strada.

—Che… Parleremo ben chiaro al Comitato, noi intendiamo di batterci e non di fare il framassone a cento miglia dal teatro della guerra.

—E però va specificato—ci disse uno che per buona fortuna era venuto dalla taverna con noi—Perché quei signori che spediscono sono tutti una zuppa e un pan molle con quelli arfasatti e se voi state zitti, vi trovate di certo mistificati.

Noi ringraziammo il gentile consigliero e ci addormentammo decisi di raggiungere tra poche ore il generale, e l'Armata dei Vosgi.

CAPITOLO VI.

Il giorno seguente, appena fu un'ora da persone educate, andammo dal Comitato. Dopo molta anticamera, chè anche nella democrazia quando si comincia a salire si assume tutte le belle e gentili maniere le quali distinguono l'aristocrazia, fummo introdotti in quel sinedrio di senno e di patriottismo, e ci trovammo davanti al presidente Panni, un omaccino tarchiato colla barba lunga, nato a Firenze ma domiciliato da vario tempo a causa di affari a Marsiglia. Tanto lui come il segretario Lalli, si davano tutto il tuono di persone importanti, ci squadravano dall'alto in basso con una prosopopea da commissarii di polizia, e parlavano della guerra colla medesima autorità, che avrebbero adoperato se fossero stati generali d'armata o per lo meno, capi di stato maggiore…..

Adempiute le formalità, di quella specie di arruolamento che si firmava presso di loro, noi facemmo noto a quella gente, il nostro proposito di andare diretti al quartier generale dì Garibaldi.

—Loro possono andare anche con Frapolli—Ci disse il segretario—Tutte le vertenze sono accomodate e i due generali, glielo assicuro io, camminano verso la medesima mêta.

—Sono belle assicurazioni, ma noi abbiamo deciso di raggiungere Garibaldi e vogliamo andare a Digione.

—Facciano come vogliono; stasera partono una cinquantina di volontarii… potranno andare anche loro—Borbottò il presidente, non nascondendo un senso di malumore e di contrarietà: poi, rivoltosi ad Omero Piccini, fratello di quello che era sul Var e in prigione con noi, gli proferì in tuono brusco: Lei non può andare.

—E perché?

—Non lo vede… è un ragazzo.

Difatti il nostro compagno aveva 17 anni.

—Eppure, interrompemmo noi, è già stato a Mentana.

—Allora faccia lei… Stasera alle dieci sieno qui… se vogliono partire.

Cosa dovevamo fare per giungere alle dieci?.. Entrammo nella taverna della sera avanti… Ah! così ci fosse venuto un granchio alle gambe!.. Rivedemmo le simpatiche Ebi che con tanta grazia porgevano il nettare agli avventori, entusiasti delle loro bellezze, le rivedemmo, e ci attaccammo discorso; si parlò della guerra, della Francia, delle donne Italiane, che esse dicevano bellissime, delle prossime emozioni del campo, della moda, dei vestiti corti, del ciuco ammaestrato che facevano vedere sul porto, della guardia mobile, dell'esercito di Bourbaki e dei pasticcini di Strasburgo che non arrivavano più. Erano discorsi le più volte senza senso comune, ma che servivano ammirabilmente per farci ammazzare alla meno peggio qualche ora. Il male si fu, che le parole erano accompagnate dalle libazioni: le libazioni c'indussero a fare il dejuner, questo tirò dietro da se lo Champagne … Avevamo cominciato a sdrucciolare su una sgamba viuzza e ormai bisognava ruzzolare a rotta di collo per tutta la china. Il piacere di esser giunti finalmente in quella Francia, che da tanto tempo agognavamo, il trovarsi accanto a quelle vaghe ragazze, la generosità dei vini che avevamo trincato, la gioventù che ci bolliva nel cuore, ci avevano sprigionato tale un'allegrezza dalle più intime fibre, che, non sapendo più quello che si faceva, ridevamo senza alcuna ragione, folleggiavamo come se fossimo tornati bambini, si faceva le più strane proposte e tutte venivano approvate.

—Andiamo tutti in barca sul porto.

—Sì… sì… sul porto.

E prese a braccetto le due silfidi, ci avviammo versò il mare, traversammo la popolosa città e poco dopo eravamo in barchetta.

Io ero divenuto il cavaliere servente o per dir meglio il consigliere intimo della più giovine delle due vezzose sorelle. Essa chiamavasi Aissa, e nella sua vita disordinata, aveva veduto l'Affrica, la Spagna, l'Italia sempre con nuovi amanti, e cercando soltanto la voluttà vertiginosa dell'orgia; senza curarsi nè punto nè poco del mondo, delle convenienze sociali e di quel buon nome che si acquista soltanto col rispetto dell'apparenze, la capricciosissima figlia d'Eva, siccome farfalla, dì fiore in fiore aveva libato in tutte le sue forme svariate l'emozioni e i piaceri ed ora annoiata di tutto e di tutti continuava la sregolata sua vita, per far fronte alle spese pazze che sono la logica conseguenza degli sbalordimenti procacciati a bella posta per obliare il presente e per non pensare all'avvenire. La taverna non era che un pretesto; la vecchia padrona teneva quelle ragazze per accalappiare i merlotti, e mentre ritraeva da loro dei lucri non indifferenti, mentre non lesinava il denaro per vestirle con tutto il lusso immaginabile, mai era larga con esse dell'oro che così indegnamente guadagnava.

Aissa del resto era simpaticissima; aveva in sé qualche cosa di Orientale; i suoi occhi nerissimi ed umidi sempre indicavano chiaramente la di lei voluttà: due labbra tumide che reclamavano un bacìo; due mani da principessa; un piedino da vera Andalusa; insomma un boccone da fare escire dai gangheri un anacoreta!

Il mare era tranquillo: la campana della Madonna della Guardia sonava lentamente; ora l'ora poetica delle ricordanze; cento barchette in qua e là solcavano le onde. Noi ci sentivamo commossi; su' di un piccolo schifo, un sonatore girovago, uno di quei Napoletani che strascinano per i caffè il biblico strumento degli antichi profeti, fece echeggiare per l'aere una canzonetta patetica, molle, meridionale e noi rammentammo l'Italia, le sue belle costiere profumate d'aranci, il movimento delle nostre città, le amate fisonomie dei nostri amici, e dei nostri congiunti… la commozione era al colmo e il bello si è che al pari di noi erano intenerite le nostre compagne… E perché ciò ha da essere strano?.. Le reminiscenze sono il patrimonio degli sventurati, e pari alla rugiada del cielo vivificano i cuori… quelle povere donne erano certamente sventurate, e più oneste di tante che scroccano il nome d'oneste nel mondo, sentivano la santa voluttà di una lacrima, e trovavano una scusa ai loro trascorsi, immerse nell'imponente, nel sublime spettacolo della calma natura.

La nostra, escursione si prolungò per più di due ore; il momento; della partenza si avvicinava a gran passi; era mestieri dirci addio.

Riaccompagnammo a casa le donne.

—Vi prometto di raggiungervi—Mi disse Aissa, stringendomi forte forte la mano.

Io la guardai e sorrisi: non credevo punto al coraggio di quell'eroina… Col tempo però come vedranno i lettori, fui completamente disingannato; e solo per tal causa ho riportato questo episodio della nostra breve dimora a Marsiglia: episodio che sarebbe stato proprio un di più, se non fosse collegato con altri che si svolgeranno a Digione…

—Bisogna pagare il conto—Disse un di noi.

Oh! la crudele parola!.. Oh! la bruttissima prosa dopo tante ore di non interrotta poesia!.. Ci guardammo in faccia l'uno l'altro! Che una donna gravida non vegga mai, per l'amore dei suoi futuri nati, delle fisonomie come avevano in quel momento, i miei compagni… Le nostre risorse erano tanto limitate, che se noi ne fossimo usciti puliti, ci era di che attaccare un voto.

Il conto era di 102 franchi: tra tutti ne avevamo 104: se ci fossimo trattenuti un'ora di più si restava in pegno a Marsiglia! E la bella prospettiva che avevamo davanti: intraprendere un viaggio di due giorni con due franchi in saccoccia… o negatemi che in Francia il divertirsi non costi salato!

Baci, saluti strette di mano, e poi di galoppo al Comitato.

—E se non si partisse… che facciamo senza quattrini?

—Ma!—Preferì filosoficamente il Materassi, e noi a nostra volta ripetemmo la filosofica esclamazione…

Per buona fortuna quella sera pareva che si dovesse partire certamente: erano già stati distribuiti i berretti rossi ed i Garibaldini, schierati in due file lungo la strada attendevano il luogotenente che doveva accompagnarli fino a Digione.

I volontari erano allegri, cantavano a squarciagola, e negli intermezzi cianciavano, politicavano, facevano infine un brusio indiavolato; un Milanese ponendosi ambe le mani alla bocca imitava perfettamente il fischio del vapore, un altro faceva da cane, abbaiando e guaendo con tanta naturalezza da chiamar per la strada tutti i cani che giravano per quei dintorni. Era insomma una scena deliziosissima e il tenente non si vedeva.

Ognuno che abbia frequentato per poco i volontari, sa quanto sia susurrone e incontentabile questo elemento, quando è lontano dal fuoco; quindi facilissimo e immaginarsi quali recriminazioni, quale sussurro provocasse questa inopinata tardanza. Prima furono proteste, poi fischi acutissimi: finalmente calci e pugni alla porta.

—Noi non si vuol fare il comodo dì nessuno!

—Si comincia male!

Tali erano a un dipresso le espressioni di quella gente stizzita, e a rinforzare la dose il Mago dava degli schiarimenti sul comitato e sulle spilorcerie ed angherie da questo commesse per il passato. Figuratevi, diceva, che a me diede a portare venti uomini a Dôle, e mi diedero una lira per uomo… Di qui bisognava andare a Mouchard, ventiquattro ore di strada, lì bisognava dormire e poi partire il giorno dopo per la destinazione… vi raccomando quello che dovevo fare… E lo stesso che a me è succeduto a tutti i capi squadra… Oh! hanno un gran talento quei signori di sù!…

—Abbasso… Abbasso questi grulli—Urlavano tutti—Son Frapollini… Giù i traditori!

Chi sa dove avremmo finito, se fortunatamente non avessimo udito degli altri rumori e più intensi dei nostri sulla piazza vicina. Cosa era succeduto?.. Noi non vedevamo che delle guardie mobili, che venivano via a rotta di collo. Rompemmo le righe ed andammo a vedere cosa era. Un battaglione delle guardie mobilizzate delle Bouches du Rhôn aveva rifiutato partire, ed aveva lasciato soli sulla piazza, il maggiore e tre o quattro altri ufficiali di buona volontà; uno di questi si mordeva le mani e piangeva… Oh! ne avea ben ragione: A vedere quel branco di vili che fuggivano piuttosto di andare a difender la patria, ci era da esecrare l'umanità, di vergognarsi di esser uomini per non avere a compagni quella canaglia.

Vedendo l'inutilità della nostra presenza, tornammo indietro, e dopo pochi minuti fummo consolati dalla venuta del tenente. Il nostro accompagnatore era grasso e rubizzo, e avrebbe fatto più figura vestito da canonico che da garibaldino. Lo accompagnava una bella ed elegantissima signora, che sapemmo, essere la di lui indivisibile compagna; non si creda che quella donna fosse un'eroina, giacchè quel tenente in tutta la campagna avrà forse veduto il fumo del camminetto: quello dei combattimenti no certo; tutti i suoi incarichi si limitavano ad accompagnare i volontari da Marsiglia al quartier generale; non nego con questo che certi impieghi sono indispensabili, ma io vorrei vederci dei vecchi e non dei giovani tarchiati e robusti, come giusto appunto era il nostro duce provvisorio.

Si fece l'appello, eppoi a quattro a quattro ci movemmo per andare alla stazione. Che l'Italia sia la terra del canto, non può esser dicerto impugnato da chiunque ha fatto anche una sola campagna; il soldato Italiano appena si muove canta, canta andando all'attacco, come quando è in ritirata, canta nei malinconici stanzoni della caserma, come in mezzo alle strade, quando sa di partire; parta per una guarnigione, parta per andare alla guerra.

»Non pianger, mio tesoro »Forse ritornerò

Cantavamo in coro noi tutti; e le finestre si spalancavano, si illuminavano, ci offrivano dei leggiadri visetti, degli occhi superbi che ci lanciavano occhiate tanto benigne da farci commuovere; il nostro contegno non poteva non esser paragonato a quello dei mobili delle Bouches du Rhôn, e chiunque ha un po' di mitidio può di leggieri comprendere quanto un tal paragone resultasse per noi favorevole.

Il lunghissimo tratto di via che è tra la prefettura e la stazione ci passò in un baleno; in una carrozza sul piazzale della ferrovia vedemmo la simpatica Aissa che ci buttò un bacio sulla punta delle dita. Se quel bacio non era precisamente il castissimo bacio degli angeli, è innegabile che per noi era assai caro. Salutammo gentilmente quella donna; il sapere che qualcuno serba dolce ricordanza di noi, ci fa piovere in cuore un sentimento di gratitudine, e in quei momenti che, volere o non volere, non sono così facili a ripetersi nella vita di un uomo, magnifichiamo certe cose alle quali in certi altri non daremmo alcuna entità.

—Avanti, march —Gridò con voce stentorea il lilliputtiano segretario del comitato… e tutti noi gli si tenne dietro nella stazione….

Vedendo otto vagoni a nostra disposizione fummo colpiti da una dolce meraviglia. Fin allora avevamo veduto i soldati ammonticchiati l'uno sull'altro nei vagoni di terza classe: noi tutt'al più eravamo quattro per scompartimento; ci era posto da sdraiarsi e di attaccare anche un sonnellino. Ah!.. quanto sono fallaci le speranze del mondo!.. Ah!.. la speranza meretrice della vita, dirò con Francesco Domenico!… La nostra gioia, il nostro benessere doveva protrarsi fino alla prima stazione, e questa è appena a venti minuti di distanza, da Marsiglia.

Vienna, Avignone, Remoully dovevano vomitare sul nostro disgraziatissimo treno una congerie di mobilizzati. L'educazione pare che non entrasse nella teoria che s'insegnava a questi campagnuoli del mezzogiorno dell'antica terra dei Druidi. Infatti entravano in frotta e senza garbo nè grazia in quei vagoni che avevamo avuto l'illusione di credere nostra proprietà; entravano pestandoci i piedi, sedendosi sulle nostre ginocchia con l'indifierenza di una donna del mondo galante, non però colla di lei grazia, nè colla di lei leggerezza. Fra tutte le sventure che possono capitare a un viaggiatore, io credo, non esserne alcuna che possa stare a confronto colla compagnia di un mobilizzato della campagna. Se lo immaginino un poco i lettori: questi eroi avevano sulle spalle un magazzino, una vera montagna d'involti, di fagotti e di fagottini; erano muniti di due o tre paia di scarpe; pretendevano di stare a baionetta in canna anche tra noi, anche in quelli sgabuzzini; avevano chi il cane, chi un uccello in gabbia, tutti poi indispensabilmente delle pagnotte stragrandi; si piantavano a sedere, e per quante gomitate, per quanti urtoni loro si amministrassero, non ci era verso di farli muovere un solo centimetro; i più attaccavano sonno e russavano come contrabbassi; quei pochi che erano desti non ci rispondevano, e si lamentavano tra loro del governo che li strappava alle ordinarie occupazioni.

I nostri compagni di viaggio erano vestiti in mille maniere; ve ne erano col cappello alla spagnola, col gasco e col berretto; ve ne erano dei bigi, dei neri, dei verdi, dei turchini; avevano tutti il fucile all'antica ed in pessimo stato. Siamo giusti!.. Se le guardie mobili hanno fatto nella campagna del 1871 una figura non invidiabile, non ne sono del tutto colpevoli. Comandate dal nipote del sindaco, dallo speziale del luogo, dal Beniamino della moglie del sottoprefetto, insomma da tutti ufficiali creati per dato e fatto dell'impero, e che non ne sapevano un acca: armate con certi fucili che avevano più apparenza di schizzettoni che di armi micidiali: disilluse di tutto, persuase di esser tradite e condotte al macello (persuasione che io credo loro avessero inoculata i preti) dolenti di avere a trascurare i loro interessi per una patria, che finora non conoscevano, esse non potevano fare eroismi: l'eroismo richiede la convinzione: l'eroismo nasce dalla virtù cittadina.

Appena cominciò a farsi giorno cominciammo a vedere le colline circostanti a Lione; colline che nelle belle stagioni devono essere amenissime; ubertose per viti dell'altezza di un palmo, così fitte tra loro da farti sembrare quei campi un'estesa brughiera, bagnate da un'infinità di ruscelletti che scorrono placidamente alle loro falde, per perdersi poi nella Loira o nel Rodano. A tutte le stazioni eravi un movimento indicibile: un andare e venire di soldati e di guardie nazionali: uno stringersi di mano, un baciarsi tra loro nei vari gruppi che facevano ressa intorno a quei che partivano.

Finalmente si cominciò a vedere un'infinità di cammini di fabbriche; poi una miriade di case e di palazzi; finalmente si trascorse in mezzo ad immensi magazzini. Eravamo arrivati a Lione.

Sotto la magnifica stazione ci si mise in rango e il tenente ci fece un'arringa che non aveva certo nessuna parentela, neppure alla più lontana, con quello di Demostene o di Napoleone primo. Fece l'eroe, magnificò le gesta dei Garibaldini nostri predecessori, sfoggiò di tutti i luoghi comuni che si sono inventati dal quarantotto a questa parte, e tutto questo per dirci che bisognava rimanere fino alla sera a Lione, e che coloro i quali non sarebbero partiti, sarebbero restati!

Questa peregrina scoperta del nostro duce ci fece acquistare una grande opinione sul di lui talento; lo salutammo perciò con rispetto, e contenti di vedere anche questa nuova città, e di paragonarla con quella che avevamo lasciato da così poco tempo, scendemmo la gradinata che è davanti all'edifizio e ci trovammo nella magnifica piazza con due fontane, che gli sta dicontro.

CAPITOLO VII.

Lione era seria; non il brio di Marsiglia per le sue vie sempre affollate di popolo, non il più piccolo movimento d'allegria negli eleganti caffè: moltissimi negozi chiusi, poche le donne abbigliate con galanteria ed anche queste non curate; un affacendarsi continuo vicino alla prefettura ed alla Mairie per sapere i dispacci, per strappare la notizia più piccola agli uscieri, ai galoppini, a qualche soldato. Quasi tutti coloro che si incontrava, avevano il berretto da guardia nazionale, alcuno non abbandonava mai il fucile; tutti poi erano muniti di sciabole o di pistole; vedemmo diversi a braccetto delle loro mogli, armati fino a denti, agitarsi a mo' degli ubriachi e vociare a squarciagola: Ah,., si viennent les Prussiens!,… Era proprio così; nessuno si sarebbe mosso per andare a incontrare il nemico, ma guai a lui se avesse osato di presentarsi fiu sotto le mura!

Le fortificazioni si rinforzavano; sulle piazze si vedevano parchi d'artiglieria, e capannoni di legno che servivano di rimesse ai cavalli; fanteria, lancieri, pollacchi, mobilizzati, compagnie addette alle mitragliatrici…; un esercito insomma; uniformi per tutti i gusti; una idea tale di resistenza da mettere anima in corpo all'uomo più vigliacco del mondo—Ma come mai ne hanno buscate—Si diceva tra noi—con tutti questi soldati che abbiamo veduto in due giorni?

Spuntava in qua e là, ma raramente, per le vie anche qualche berretto da Garibaldino.

—E come mai siete qua?—Domandammo ad uno di quelli che ci avevano colpito con tale sorpresa.

—Siam qua con Frapolli—Ci rispose questi ingenuamente.

—O perché non raggiungete il generale?

—Lo raggiungeremo quanto prima.

—E chi ve lo ha detto?..

—Il nostro capo!

—Ed è qui in Lione il vostro capo?

—Sì.. oggi anzi è a un banchetto Massonico.

—Questo ci fa piacere!.. I Francesi a quel che pare, trattano bene gli Italiani..

—Oh! In quanto a cotesto non ci è da fare eccezioni… Si figurino: in quattro mesi sarà il centesimo banchetto a a cui assiste il nostro generale… e quando ci ha menato anche noi, le abbiamo fatte noi pure le belle strippate e le belle bevute!

—Empitevi tutti!—Esclamai io un poco irritato—Empitevi e così serbando la pancia ai fichi, mentre i vostri fratelli arrischieranno la vita per battere i Prussiani, voi batterete i pasticciai e il Bordeaux risparmiando dell'esistenze così utili all'umanità pericolante.

Il nostro interlocutore non mi rispose, ci disse addio e se ne andò: noi pure ce ne andammo verso una trattoria, dove mangiammo in fretta e furia per poter dare un'occhiata alle bellezze principali della città. Per tutto dove andavamo si trovava una piccola cassetta, su cui in grossi caratteri era scritto: Sécours aux blessées; per tutto dove andavamo per lo spaccio delle manifatture non vedevamo che donne: ciò non ci recò alcuna sorpresa, perché anche nella scioperata Marsiglia, avevamo veduto adottato lo stesso sistema. In Francia non si vedono come da noi degli uomini incaricati di dar sigari agli avventori, di misurare le tele, le stoffe, di contare i punti del biliardo, di fare insomma tutte quelle piccole cose che possono esser fatte benissimo da donne e che troppo impugnano al posto che l'uomo deve avere in società a causa della di lui forza, e delle di lui attività. Gli uomini lavorano nelle fabbriche, passano le loro giornate nelle officine, accudiscono ai loro interessi, ma non tolgono certi lavori da nulla alle femmine, ma si vergognerebbero ad esser impiegati in certe funzioni, che si compiono oziando.

La sera si avvicinava; noi prendemmo direzione verso la ferrovia: passando sul quai sul Rodano (passeggiata che ci rammentava Firenze e i nostri lungarni) facemmo una breve sosta ad una taverna per bere un bicchiere di vin caldo.

Qui vedo il lettore alzare le spalle, farmi il viso dell'arme e susurrare stizzosamente: «Ma dunque non facevate che bere?… E invece di vergognacene ora ve ne fate bello, come se ciò costituisse una delle più predilette occupazioni della vostra esistenza». Non vi nego quest'ultima verità: per me il generoso umore della vite è il solo amico dell'uomo; per lui si dimenticano gli affanni, le codardie, le ignominie di questa società di buffoni, per lui i tradimenti amorosi finiscono col non farci nè caldo, nè freddo: per lui germogliano a mille e mille nel cuore le magnanime idee, e nel cervello le ardite concezioni. Chi sa dirmi quante idee ci sono in un fiasco di vino?… Esclamava il compianto Ugo Tarchetti, uno di quei perduti che cadono avvizziti per esuberanza di cuore; noi lasciamo al buon Evio le ispirazioni delle quali era così prodigo a Orazio e a Plutarco, noi gli chiediamo solamente l'oblio.

Nella stanza di aspetto della ferrovia, dove ci riducemmo quasi subito, al nostro arrivo si aggirava una folla stragrande: quel movimento c'inebriava: in un canto del salone noi vedemmo un gran cartello dove a caratteri cubitali era scritto: Qui si dà da mangiare e da bere ai soldati di passaggio. Credo inutile il dire che quell'appello non trovava dei sordi; intorno a quella porta era un'accalcarsi, specialmente di mobilizzati da far rabbia: a onor del vero anche qualche Garibaldino non fece il restìo: l'amico disertore, da volpe vecchia, rinnovò un par di volte, e ci magnificò poco dopo la squisitezza dei cibi, il gentile contegno ed i modi aggraziati delle belle ragazzine che li distribuivano, la succulenza dei consommés e delle gelatine, apprestate per i feriti, ma che egli aveva assaggiato, facendo lo zoppo. L'esempio dì lui venne tosto imitato da moltissimi dei nostri commilitoni: una valanga di storpi e di zoppi si rovesciò sul desco, dove le vivande erano apprestate; una tal cosa mi fece provare una forte repugnanza, e mi fece disperare di quei soldati che mentivano per una zuppa. Fortuna che al fuoco si portarono dappoi tanto eroicamente da farmi attribuire a semplice giovanile vaghezza, quello che in quel mentre mi aveva prodotta un'impressione tanto spiacevole! Se da un lato avevamo questo brutto spettacolo, dall'altro lato però ci consolava la vista ed il cuore un esempio di carità cittadina, che vorrei potere eternare. Questo esempio ci veniva dato da donne; già la più bella metà del genere umano fu, è, e sarà sempre in prima linea laddove trionfa sovrana la santa religione dall'affetto.

Cinque, o sei signore, tutte vestite di nero, tutte colla fascia al braccio, distintivo dell'ambulanze, giravano per ogni verso, si affaticavano a far complimenti onde raccogliere offerte per i feriti. Il portamento distinto, il loro modo gentile di chiedere, la squisita educazione che trapelava dai loro discorsi più inconcludenti ci resero certi che quelle donne appartenevano ad elevatissimo rango: stuzzicare la sensibilità, mettere in opera anche un po'* dì civetteria per fare più quattrini per i poveri diavoli che scontavano la pena di aver troppo amato la patria e l'umanità… ecco quale era lo scopo di queste generose, e si sforzavano di raggiungerlo con la abnegazione dell'apostolo, colla poesia che suole essere ispirata dall'idea di fate un'opera buona.

Bisognava vedere con che grazia le vi levavano di tasca il denaro!… se un ministro delle finanze avesse di tali esattori il nostro impareggiabile pareggio sarebbe pareggiato!…. bisognava vederle queste care donnine, abituate all'atmosfera profumata dei saloni, al linguaggio adulatore dei felici del mondo, bisognava vederle, ripeto, discorrere confidenzialmente coll'operaio dalla giubba sdrucita, colla popolana i cui vestituccì emanavano degli effluvi tutt'altro che aristocratici, ringraziarli con amabile sorriso, infonder loro speranza, promettere di occuparsi dei loro cari che erano al campo, stringer loro cordialmente la destra.

Spiccava sopra tutte le altre per autorità una vecchia matrona: una di quelle matrone dell'antico stampo, che fedeli alle tradizioni cingevano la spada ai loro figliuoli, quando si trattava di difendere il re e la patria; la di lei fisonomia avrebbe ispirato rispetto all'uomo più screanzato del mondo. Passò vicino a me, io le feci cenno dì avvicinarmisi e nello stesso tempo mi avvicinai verso di lei.

—Cosa bramate?—Mi domandò per la prima.

—Vorrei fare la mia piccola offerta—Apro una parentesi; la mia borsa sì era rafforzata di poche lire, datemi da mio fratello che fortunatamente non aveva preso parte alle nostre poetiche smancerie di Marsiglia.

—Ma voi siete soldato?—Mi disse con meraviglia la signora—voi pure potrete esser ferito….

—Speriamo di no!

—Ve lo auguro… Ma perché espropriarvi di una somma che può farvi comodo?

Provai un leggero imbarazzo; la mia scappata poteva costarmi salata: la mia dignità m'imponeva un ultimo sacrifizio; si parlava di una somma… ed era precisamente quello che avrei desiderato in quel momento; posi mano alla borsa e diedi due lire che mi escivano dagli occhi; ma pure tentai di richiamare un sorriso sul labbro e dissi: È l'offerta della vedova…

—La più gradita al Signore;

—Ma non probabilmente ai feriti.

La mia interlocutrice fe' una boccaccia, e poi riprese di subito: Voi siete Italiano?

—Sì… signora.

—Me ne ero accorto al vostro disprezzo per le cose sacre.

Rimasi di sasso; che avessi avuto anche a subirmi una romanzina in tutte le regole? la signora difatti con voce calma, accento di madre, cominciò a dirmi: Voi siete giovane, e son sicura che diventerete un bravo soldato, ma anche voi pur troppo siete affetto dalla malattia che condurrà a perdizione il vostro bel paese. Ma che vi ha fatto quel povero vecchio di Pio IX per entrargli nella sua città a forza di cannonate, per tenerlo prigioniero nel Vaticano?—E perché prender Roma? Non è dessa la città di san Pietro, del Cattolicismo, di tutti coloro che si son dedicati a questa sublime religione che ha per precetto di dimenticare le offese, di amare tutti come noi stessi, di sollevare quelli che soffrono?

Un amico un pochino più scettico di me, presente al colloquio, mi susurrò negli orecchi: Questa non è una donna, è un priore di campagna.

Io invece che non credo a nulla, compresi quello che passava nel cuore della vecchia signora, e piuttosto che attaccare una disputa con una che aveva tutta la poesia della fede, che mi simpatizzava per il modo con cui ne faceva propaganda, mi contentai di dirle che non si andava daccordo.

—Io torno alle mie elemosine—Allora la mi replicò—spero però che resteremo amici!

—Sarò onorato di una tale fortuna.

—Se restate in Lione…

—Io parto stasera!… Ed ecco ci è là il nostro tenente che ci fa cenno di seguirlo.

—A rivederci… A rivedervi colla commenda… e vestito da capitano!

—Potevate dire addirittura da generale!

—E perché no?… Il soldato francese ha in tasca il bastone da maresciallo!

Io mi rammentai che ci avevo pochi soldi soltanto e mi passò la poesia. La signora sorridendomi si era allontanata.

—Dove si va tenente?

—Non so, se a Autun o a Digione.

—Come… lei non lo sa?… O per che direzione si parte?

—Ma!…

—O chi ce lo deve dire?

—Il quartier generale doveva trasferirsi a Digione, non so se abbia avuto ancora luogo un tal trasferimento. Lo dimanderemo al capo stazione.

—Al capo stazione!…—Si ripetè tutti meravigliati—Per vedere di queste cose bisognava venir proprio in Francia! E in Italia che dicevamo nel 1867 di aver raggiunto l'apice della confusione! Un innocentissimo capo stazione ridotto lì per lì a capo di stato maggiore per provvedere al movimento dei corpi che son di passaggio, ci riesciva proprio nuova di zecca!

E qui al solito tutti i discorsi di convenzione che si ripetono in tutte le campagne.

—E se il capo stazione ci tradisse?

—E se fosse una spia dei Prussiani?

—O anche che non ne sappia nulla sarà un bel lavoro!

—Ma chi è quest'imbecille di tenente che non prende nemmeno ordini?

—Ve lo diceva che era anche lui della cricca!

—Già… e ora cerca tutti i mezzi per farci restar con Frapolli.

—Abbasso Frapolli!

—Abbasso il tenente!

E qualcuno gridò anche: Abbasso il capo stazione!… Povero uomo!… come ci apparve impappinato quando si vide fatto segno di quel fuoco di fila d'interrogazioni, alla maggior parte delle quali non sapeva cosa rispondere!

—Li assicuro che Garibaldi è a Digione—Badava a protestare.

—Allora a Digione!—Gridammo tutti.

—A Digione—Ripetè, come eco, il duce nostro!

—Ma non so—Riprese il capo stazione—no so, se ci potranno arrivare, se le linee saranno libere… tante volte i Prussiani… sono così accidentati quei soldatacci di Bismark!

—Eh! non importa… noi si va.

—Faccian loro!

—Arrivederlo e stia bene!—E tutti via di corsa in un treno che era lì pronto.

—Ma dove vanno, dove vanno signori?—Gridava con tuono di raccomandazione quella povera vittima dell'ignoranza del tenente e dei nostri capricci—Quel treno lì va a Marsiglia: montino in quell'altro!

—Sanno, cosa è—Proferì stizzosamente allora il nostro accompagnatore—io con loro non ci voglio star più, e me ne lavo le mani fino da questa momento: ecco la loro paga.

Nessuno protestò; nessuno scongiurò il tenente a ritirare quello che aveva detto; ma egli, dopo averci dato un franco a testa, montò per il primo in un vagone di prima classe, mentre noi fummo di nuovo pigiati in una di quelle gabbie che a vederle sembrano molto più atte a ricettar delle bestie che dei Cristiani… o degli Ebrei.

Il benefico Morfeo, ausiliato potentemente dalla fatica e dallo strapazzo che ci avevano martoriati in quei giorni, scosse i suoi papaveri intorno a noi, che ci addormentammo saporitamente. Con qual voluttà si dormiva! non il più piccolo sogno, nè piacevole nè triste, veniva a turbare la nostra quiete di morte: come si deve esser felici, quando siam morti! Non sentire, non vedere più nulla, esser nulla… ecco quello che devono anelare le anime generose, trambasciate, sbattute in quest'orrenda burrasca del mondo, dove giungono a salvamento solamente gli ipocriti e i vili.

Un urtone rompe l'incanto di quella calma. Che è? Siamo giunti a Tournus: sono le nove e bisogna trattenersi fino alle due. Meno male che troveremo qualche caffè, qualche bettola, pensammo tra noi e forse potremo anche riposare su coltri più o meno sprimacciate quattro ore.

»Chi mi darà la voce e la parola,

Per stimmatizzare degnamente questo iniquo paesucolo, in cui ci faceva capitare la nostra malvagia fortuna. Io consacro Tournus all'esecrazione di tutta la gente per bene; io auguro ai di lei cittadini che il naso ghiacci loro, come ci si era ghiacciato a noi quella sera.

La camera dei deputati quando parla Michelini è il luogo più popolato del mondo appetto a Tournus: noi non ponemmo vedere un abitante; picchiammo a due o tre osterie, non ci vollero rispondere: tirammo pedate da orbi alle porte, vennero i gendarmi a pregarci gentilmente che si smettesse; non un caffè aperto, non una finestra illuminata, non il minimo indizio di vita. Persino l'orologio del campanile della chiesa. maggiore era fermo e segnava le sette.

Nel mentre che noi avevamo dormito in vagone, la neve era cominciata a cadere ed ora ricopriva col suo bianco lenzuolo tutte le circostanti pianure; il freddo, il malessere in cui uno si trova quando viene svegliato di soprassalto, il desio intenso di bere che ci accompagnava, come l'angelo custode accompagna un cattolicone di quelli coi fiocchi, ci avevano procreato un'arsione, come se si fosse attraversato il deserto; e anelavamo un centellino di vino, come in circostanze normali si anelerebbe un milione.

I cittadini di Tournus non dovevano aver molto in pratica l'Evangelo; battete e vi sarà aperto, diceva il divino maestro, e noi battemmo colle mani, coi piedi, colle mazze: battemmo ovunque eravi un'insegna d'albergo e di trattoria, nessuno ci rispose: in qualche casa si sentiva metter la spranga. Tornammo tutti sconsolati alla stazione: la trovammo piena di gente sdraiata, che cantava in coro una litania d'invettive all'indirizzo di questo sconsacrato paese.

—Ma non vi è un Restaurant? —Domandammo a una guardia.

—Una volta ci era…

—Ed ora!

—Lo chiusero al principiar della guerra!

—E per bere come si potrebbe fare?

—Uhm!… Guardino là ci è una vivandiera.

Guardammo verso il punto che ci accennava quell'uomo e vedemmo difatti un pezzo di ciccia del peso di un centinaio di chilogrammi: quest'informe ammasso di carne in sottanina e cappello con piume, ci sembrò bella come un angelo, come l'Angelo che insegnò alla povera Agar la benefica polla che doveva rinfrancare di spirito e di vita l'assetato Ismaele. Le chiedemmo da bere…

—Non ce ne ho che pochi bicchierini… ma sono per quelli della mia compagnia.

—Va benissimo!… Borbottammo noi, emettendo un sospiro, che non poteva sembrare enigmatico a chicchessia!

—Meno male che poco ci abbiamo da attendere!—Esclamò uno di noi.

Aveva appena terminato di dirlo, quando venne una guardia e coll'accento più naturale del mondo ebbe il coraggio di dirci: Il treno di Lione è in ritardo, bisognerà che aspettino altre due ore.

Noi eravamo prostrati… Andammo alla pompa che è lì a pochi passi per rinfrescare la macchina: uno si mise a tirare come un facchino e gli altri bevettero, bevettero con rabbia, quasi per protestare che, se la fortuna ci era avara di vino e di liquori, essi se la ridevano di lei e gliela facevano in barba. Poi si andò nel magazzino, ci sdraiammo alla meglio su certi cassoni che vi erano e sonnacchiammo malamente quelle maledettissime due ore.

Il fischio della locomitiva ci richiamò a noi stessi e dopo pochi minuti eravamo tutti al nostro posto. Già da vario tempo avevo cominciato a inebriarmi delle mille fantasmagorie che sogliono produrre i beati momenti del dormiveglia, quando il treno si fermò; e vidi baluginare dentro il nostro vagone, all'incerto chiarore del lumicino, due fisonomie eteree, due di quelle fisonomie che ti strappano di bocca un grido di ammirazione, tanto le ti sembrano sovrumane: senza trarre il respiro, io le contemplava estatico e pensavo che seguitasse una di quelle belle visioni che tanto mi avevano entusiasmata la testa, pochi momenti innanzi: ma quale non fu la mia meraviglia, allorché io sentii posarmi sulle spalle una manina gentile, allorché un alito profumato mi carezzò dolcemente la faccia?—Ma è egli vero quello che si svolge davanti a me?—Riflettevo, quando una vocina simpatica, che mi s'insinuava proprio nel cuore, mi rivolse queste parole:

—Tenete… Voi dovete averne bisogno.

E del pane, del salame e una bottiglia di vino generoso furono lasciate a nostra disposizione da quelle simpatiche fate.

Eravamo arrivati a Macon, e le signore addette all'uffizio del soccorso ai feriti, portavano, come d'ordinario, qualchecosa per ristorare i soldati di passaggio.

Erano le sei della mattina: faceva un freddo tremendo, persino i vecchi soldati, imbacuccati fino alla punta del naso, sbraitavano contro una stagione sì perfida, e quelle donne, e quelle signorine erano là da tutta la notte, portavano quell'immensi canestri con una disinvoltura e con una grazia che forse si vede adoprare da chi porta un mazzo di fiori: gelavano dal freddo, ma pure sorridevano: morivano dal sonno, ma pure avevano una parola di conforto, una di speranza per noi.

Ah! La donna!.. I miei lettori avranno osservato che io non l'ho punto risparmiata ai Francesi, che io ho detto di loro tutto quello che sentivo, che ho esposto alla libera le mie impressioni sul loro contegno, e che l'ho chiamati degeneri, corrotti, indegni della fama che si erano scroccati in Europa, ma in quanto alle donne bisogna convenire, che avevano tutta l'abnegazione, tutti i riguardi, tutte le doti, tutte le delicatezze di una madre, e tutto il coraggio delle donne spartane: coraggio che le ha spinte a curare in prima fila i feriti, e che poi ha fatto loro incontrare la morte sulle barricate, quando Thiers ha iniquamente schiacciato e soffocato nel sangue la generosa Parigi.

Ah! non si chiamino utopie gli sforzi generosi di certi publicisti che vogliono collocare la donna nel posto che le si spetta: le donne hanno già fatto abbastanza per mostrarsene degne, che anzi alla prova io le ho vedute riuscir sempre a mille doppi dell'uomo.

Questo avvenimento, così inopinato, mi riconciliò lì per lì colla Francia, con me, con la sorte: ringraziai alla peggio quelle vezzose signore e mi misi a mangiare con un'appetito da cointeressato. Ci si mosse quasi subito: i volontari salutarono con applausi fregorosi quella città che si era mostrata tanto ospitale con noi.

Intanto albeggiava; la giornata almeno per quello che se ne poteva preconizzare doveva essere uggiosissima: il cielo pareva di piombo, la terra era coperta di neve, grossi stormi di corvi alleggiavano per quei dintorni.

Sulla spianata di Baune io vidi un corazziere in alta tenuta, ritto, stecchito al piede di un albero. Gli enormi cipressi, tutti nevicati fuori che in punta, dove tuttora mostravansi verdi cupi, mi sembravano tanti scheletri giganteschi col morione delle vecchie guardie i quali ghignando sbirciassero quello omuncolo coperto di ferro e che in faccia a loro stava nella medesima proporzione di un granello di rena a una piramide dei Faraoni.

Dopo un'ora ci si fermava e questa volta ci si fermava definitivamente. Per somma ventura di quei dieci o dodici lettori che hanno avuto la più che cristiana pazienza di seguirmi fin qui, noi eravamo giunti a Digione, a quella Digione che poco dopo doveva illustrare il sangue di tanti prodi Italiani e che allora ci appariva in mezzo alla nebbia coi suoi gotici campanili, colla sua semplice guglia di San Benigno, come apparisce un'Oasi a chi si è sperso nell'ampio deserto, come apparisce la meta allo stanco auriga che già comincia a disperar del trionfo.

La stazione era ingombra di cannoni, di casse, dell'ambulanza, di bagagli di tutte le dimensioni che appartenevano alle truppe ed ai battaglioni che di poco ci avevano preceduto. Due o tre sentinelle di guardie mobili passeggiavano per lungo sull'ambulatorio, facendo sfoggio di una prosopopea, che te li avrebbe fatti gabellare per eroi; d'altronde eravamo in prima linea, e quando il nemico non attacca, ci si può prendere la scesa di testa di farla da gente feroce e terribile,

—In rango—Gridò il nostro ufficiale con una voce da baritono molto sfogata, e sfoderando per la prima volta la Durlindana.

Questo movimento in altre circostanze ci avrebbe fatti scompisciare dalle risa: in quel momento eravamo troppo felici per aver raggiunto lo scopo delle nostre fatiche, e dei nostri dolori, per poter nemmeno prestare attenzione a questa spacconata.

Per quattro fianco destro, avanti marchs!

E mettendoci alla peggio per quattro, escimmo dalla stazione dietro all'ardente condottiero, infilammo il viale dei Platani che vi conduce, e passando di sotto all'Arco che fu inalzato ad onore dello strenuisissimo Principe di Condè, entrammo nel capoluogo delle Côte d'Or.

CAPITOLO VIII.

Traversammo la città e nella nostra traversata non ci fu dato vedere alcuno amico, nè tampoco alcuno che rivestisse la divisa di Garibaldino; in quell'ora così mattinale, i componenti dell'Armata dei Vosgi, o erano occupati in recognizioni ed esercizi, oppure se la dormivano saporitamente. Felici questi ultimi… noi cascavamo dal sonno! ci portarono al quartier generale che era proprio in fondo della città al lato opposto della ferrovia; il generale Garibaldi abitava il palazzo della prefettura, dove erano stati anche impiantati gli uffizi dello stato maggiore. Vedemmo alla porta in fazione un carabiniere genovese ed una guardia nazionale.

Il rivedere la simpatica camicia rossa, ci fece nascere in cuore un'emozione dolcissima; i nostri timori di non arrivare in tempo eransi dileguati: entrammo nel cortile ilari, e svelti, proprio come se uscissimo allora da un morbido letto.

Il tenente andò a prendere ordini; poco dopo tornò e ci disse: Loro possono andare per la città: per ora non è stata data alcuna disposizione per loro; a mezzogiorno sulla piazza delle Mairie io farò le paghe:

Dopo queste poche parole, se ne andarono tutti, e si stava per andarsene anche noi dell'esigua combriccola, che si era mossa da Firenze, quando ci sentimmo chiamare su di verso il terrazzo e avemmo appena tempo di voltarci che si era abbracciati e baciati…

—Ne eravamo sicuri!

—Credevamo dì trovarvi quassù.

Guardammo e vedemmo il Piccini e lo Stefani già vestiti da Garibaldini, che ci salutavano così affettuosamente.

—O Rossi?… Domandammo noi altri.

—Rossi è a lavorare… Riatta tutti i fucili della compagnia… Lo vedremo più tardi!

—O come mai siete arrivati a raggiunger Garibaldi?

—È una cosa lunga!

—Allora ne riparleremo stasera, perché noi si ha un'appetito birbone, e si ha una voglia di dormire grandissima.

—Per dormire non ci è bisogno d'andare all'albergo.

—Davvero?

—Sicuro!.. Venite con noi dal mair ed avrete un biglietto d'alloggio… qui in Francia, in tempo di guerra, i militari hanno questo diritto.

—Evviva la Francia!.. Gridammo noi, sedotti ed entusiasmati dall'idea di non spendere quei pochi piccioli che ci erano rimasti, onde procurarci una stanza.

—Venite dunque con me—Disse il Piccini e tutti noi lo seguimmo verso la piazza maggiore della città.

Durante il nostro tragitto cominciammo a farci un idea del corpo d'armata che era stato affidato all'eroe dei due mondi; vedemmo i Franchi tiratori, i Mobilitati, gli Spagnoli, la Croce di Nizza, le Guide: i costumi, gli abbigliamenti di questi giovani soldati della libertà, formavano un contrasto così bizzarramente artistico, che ti faceva credere di essere in un mondo nuovo, in un mondo variato; ad ogni cantonata tu vedevi un nuovo vestiario: pareva quasi di avere in faccia agli occhi un caleidiscopio continuo; chi aveva in cuore un po' di sentimento di artista, lo si poteva facilmente conoscere dal modo con cui portava le piume al cappello e la svelta casacca; una collezione di penne di tutte le qualità; dall'aristocraticissima penna di pavone, alla plebea di gallina, che forse rammentava un allungamento di mano non permesso dal Codice, tu vedevi brillare sui cappelli di questi amabili matti, ogni specie di questi arnesi indispensabili agli animali che s'elevano dal suolo.

I Franchi Tiratori ci offrivano l'esattissima riproduzione dei volontari Italiani del 1860 e del 1866; tra loro spiccavano delle distintissime fisonomie: tra loro figurava in mezzo ai figli della montagna l'artista, in mezzo all'uomo del lavoro abbronzato dal fumo dell'officine, il generoso milionaro abbronzato dal sole: tutti erano rappresentati in quelle file, che lo spirito potente dell'amore di libertà affratella nel momento supremo, in cui questa libertà versa in pericolo, coloro che sentono rispondere generosamente il loro cuore all'appello dei santi principii, che saranno il Vangelo dell'Umanità.

Una tal vista rallegrò i nostri spiriti: il sonno si era dileguato, si era dileguato lo strapazzo, si era dileguata la fame. O divini entusiasmi di colui che affronta la morte per un'idea generosa, perché siete svaniti, e così presto svaniti?.. Siamo forse diventati vecchi in due mesi?.. Le nostre fibre non si commuovono forse tuttora alla corrente magnetica, che infonde le voce del dovere, della patria, della società conculcata? Chi sa…. L'atonia in cui viviamo ci ripiomba in uno scetticismo che voglio credere temporaneo… Tornino i giorni felici, torni il santo momento di una rivoluzione, e scettici o no, ci troveremo al nostro posto! Utilizzare la vita a prò di chi langue: ecco quale deve essere in tanta tristezza di tempi, il programma per chi ha cuore e coscienza.

Andammo alla Mairie e volendo render meno dura che fosse possibile la situazione, che ci si preparava, approfittandoci dei nosti abiti cittadineschi, demmo a bere all'impiegato che eravamo ufficiali, e ci fu sul tamburo steso un biglietto d'alloggio per uno dei primari palazzi di Digione, nientemeno che il palazzo de Beverant.

Qui fummo accolti gentilissimamente da una vecchia signora, che ci condusse in un magnifico appartamento e c'insegnò uno stanzino tutto pieno di legna, dicendoci che con quel freddo ci avrebbero fatto assai comodo! Eppoi la simpatica vecchia si intrattenne con noi in amichevole conversazione; la ci disse le cose le più gentili, ci salutò come gli angioli salvatori di quel disgraziato paese… E i nostri buoni governanti d'Italia che ci riguardavano come diavoli, ed i malvoni che ci tenevano a rispettosa. distanza, che ci gabellavano per scavezzacolli, per beceri, per intrattabili?.. Proprio il caso da dire nemo propheta in patria, e se i benigni nostri avversarii avessero udito le gentili proteste a nostro riguardo indirizzateci da quella donna, appartenente alla più pura aristocrazia della Francia, scommetto la testa che alla lor volta sarebbero divenuti frementi.

L'ospite nostra ci ragguagliò su certe prodezze che avevano commesso i soldati di re Guglielmo nella prima occupazione della città; il comando generale gliene aveva messi in palazzo cinquantasei: e tutti spadroneggiavano peggio che se fossero in una caserma; accendevano il fuoco e facevano da cucina nelle magnifiche camere; avevan ridotto il giardino a maneggio per i cavalli: pretendevano le legna, e qualche giorno persino il vino e la carne. L'amor nazionale avrà forse fatto esagerare un poco quella signora, ma è un fatto che molti tra i soldati della grazia di Dio ne fecero di quelle di pelle di becco, a detta di tutti; tutti però concordavano nell'affermare, che questa gente, la quale dicerto non era stata restia nel far pompa di prepotenza verso il popolo inerme, era rispettosissima, educatissima verso il sesso gentile.

Sapemmo anche per mezzo della nostra interlocutrice, quanto fu lo spavento da cui fu colto il generale Werder, quando Garibaldi tentò di sorprenderlo la sera del 26 novembre: tutti i cariaggi erano stati preparati, tutte le disposizioni per una ritirata erano state ordinate in men che si dice; i soldati avevan fatto fagotto: i battaglioni di riserva erano adunati nelle piazze, e di momento in momento altro non si attendeva che l'ordine della partenza.

La signora ci rese informati di un episodio, che poi ci fu dato raccogliere anche da tutti gli altri cittadini che avvicinammo; episodio ben meschino a paragone di quelli che si svolsero in quel maraviglioso periodo di storia che farà stupire i nostri posteri, ma che ci si dava come ragione principale dello sgombro della città da parte dei soldati Germanici. Io credo però che quello che ci si raccontava, come verità indiscutibile, non fosse altro che una di quelle storielle, che nascono non si sa come, che si propagano con facilità straordinaria in un momento in cui una nazione ha perso la bussola, ma che cadon di subito di faccia alle riflessioni che può ispirare il più volgare buon senso.

Secondo questi discorsi il buon Werder, che è un cattolicone coi fiocchi, uno di quei cattolici per cui il regno dei cieli è spalancato come per tutti i poveri di spirito, dopo un lungo colloquio che aveva avuto col vescovo di Djon, degno servo dì Dio, avrebbe preso le sue carabattole e cheto come un olio, spaventato dalle minaccie dei fulmini dell'ira divina aveva trasferito le sue tende ben lontano da quella città, dove sarebbe piovuto acqua bollente se egli si fosse piccato di continuare un occupazione in odio alle tremende divinità che reggono il mondo.

Le frequenti visite che il generale Badese con un unzione veramente apostolica faceva al vescovo, l'intimità più che fraterna che esisteva tra questi due personaggi, il patriottismo ben noto del pastore che aveva sotto la sua tutela i buoni abitanti delle Côte d'Or furono dicerto la ragione precipua per cui nacquero e presero voga queste chiacchiere di nessuna entità. Io non posso credere che un capo di stato maggiore, reputatissimo come è il signor Moltk, possa ritenere ai suoi ordini un sagrestano che si lascia imbecherare dalle fandonie impossibili di un porporato qualunque.

Dopo aver bevuto dell'eccellente Wermuth, lasciammo il palazzo, che cominciavamo a riguardar come nostro, e rientrammo in quelle strade, dove un continuo viavai di soldati, di cavalieri, di carri, d'artiglierie produceva un chiasso, una confusione che c'inebriava, mentre avrebbe fatto venire un'emicrania solenne al pacifico e ben pasciuto gaudente, che per caso si fosse trovato lassù.

Arrivati appena nella rue Condé, via principale della città, degli applausi entusiastici ci colpiron gli orecchi; poi un correre concitato di ragazzi e di donne; uno spalancarsi di finestre; un'affollarsi repente lungo i marciapiedi, ed un gridìo unanime, pieno, che ci produsse immediatamente una commozione indicibile. Vive Galibardi (!) Vìve le premier defenseur de la France. Il primo soldato della libertà dei popoli passava per quella strada, ed il popolo che in tutto il mondo fa sempre sentire la generosa sua voce in favore dei generosi che alla libertà dedicano la loro intiera esistenza, accoglieva come si conveniva, ben differente dai grandi del mondo che dispregiano sempre, chi è grande davvero.

Garibaldi!… Chi può rammentare questo nome, chi le gesta famose dell'eroe divenuto già leggendario, senza sentirsi dì subito rapito in una commozione divina?… Eccolo là, questo vecchio figlio della rivoluzione, sempre giovine quando si tratta di rispondere ai di lei magnanimi appelli! Eccolo là quell'uomo, che nel suo splendido passato dall'ultima Montevideo alla vicina Mentana è stato sempre in prima fila per la causa divina dell'Umanità!… A che mi si rammentano i grandi, a che mi si rammentano gli eroi? Pari al sole che quando sorge col suo Oceano di luce fa oscurare le stelle, quest'uomo ha fatto oscurare la fama di tutti quelli che lo precessero. I posteri lo crederanno un mito: perché la fortuna ha dato a questi tempi un Garibaldi, quando non ci ha dato un Plutarco per rammentarne degnamente le gesta? Ma i buoni popolani son pronti a rammentarlo degnamente ai lor figli, ad insegnar loro a venerarlo come quelli da cui dipende la felicità, l'avvenire di quelli che soffrono! Io per me, le poche volte che mi è stato dato incontrarlo mi son sentito le lacrime agli occhi ed egli mi è trasvolato davanti come un eroe dei tempi sublimi, in cui i Cincinnati e i Fabbrizi lasciavano la spada dopo aver salvato la patria, per tornare alle glebe natie, O alle officine rese sacre dal sudore di quelli operai, che veramente erano grandi per il lavoro e per la virtù cittadina. Benedetto da tutti quelli che amano; implorato, come una speme da tutti quegli che soffrono; terribile ai tiranni; sempre presente agli schiavi; invano tenteranno d'abbatterlo i Giuda politici, che si inspirano ai fondi segreti del ministero, mai alle azioni generose.

Il Generale era in carrozza con l'indivisibile Basso; ambedue erano vestiti in borghese: Garibaldi aveva un cappello alla calabrese bigio ed il punch che sempre lo ho accompagnato in tutte le campagne; dietro alla carrozza venivano a cavallo il maggiore Fontana dello stato maggiore, e il capitano Galeazzi delle Guide, aiutante di campo. Il Generale sorrideva a quei popolani che l'applaudivano con tanto entusiasmo, e li salutava gentilmente con le mani. Il popolo di Digione accompagnava sempre con dimostrazioni d'affetto il Generale, e quello che si vedeva, si doveva d'ora in là ripetere ogni giorno davanti ai nostri occhi.

Poco dopo che noi ci eravamo commossi ad un tale spettacolo, dovevamo esser sorpresi da un'incontro non meno gradito di quello del nostro Generale. Trovammo Rossi, nostro compagno sul Var, uno di quei pochi Fiorentini, che sempre fedeli al principio Repubblicano, avevano subito gli oltraggi dei giornali dello sbruffo, e l'ire delle questura, e che ora, coerenti al proprio principio, dopo mille peripezie, che più tardi racconterò ai miei lettori, era pervenuto a raggiungere gli stendardi della, libertà e della emancipazione sociale. Il Rossi era ingrassato in una tal maniera, che noi durammo fatica a riconoscerlo: sembrava più un Domenicano che un Garibaldino; gli si leggeva in volto la contentezza dell'uomo che dopo tante fatiche, ha potuto raggiungere uno scopo per tanto tempo da lui vagheggiato.

Andammo tutti insieme a pranzo: lì sapemmo a un'incirca tutto l'andamento preciso dell'Armata dei Vosgi: questo mucchio di uomini, abbastanza omeopatico, a cui superbamente si regalava il titolo d'armata, era allora diviso in quattro brigate: la prima sotto il comando del generale Bossak, aveva il suo quartier generale a Fontaine, paesetto, a circa due kilometri di distanza da Digione: la seconda, anticamente comandata da Delpeche, ed ora comandata dal Lobbia, si era avviata verso Langres, e non si sapevano notizie precise sul di lei conto: la terza, generale Menotti, era a Talant, e ne formavano parte le due legioni italiane sotto gli ordini di Tanara e Ravelli: Ricciotti con la quarta brigata era dalle parte di Poully, lato Nord Est della città.

Le traversie che ebbero a subire Rossi e Piccini, Squaglia e Baldassini per giungere in Francia, ci furono raccontate a quel desinare e meritano, credo, l'attenzione dei lettori, se non altro perché questo serva ad assicurarli del come, quando si nutrono certe idee, si affronta qualunque pericolo da quel partito che i troculenti avversarii, hanno osato qualificare per gente che non ha nulla da perdere e che si pasce solamente di trambusti perché in questi ci è da pescare nel torbido,

Rossi e gli altri, dopo il nostro arresto restarono in Livorno e giungendo ad eludere quell'oculatissima pulizia, poterono giungere al momento bramato di imbarcarsi su una piccola barca, colla quale si accingevano a intraprendere una traversata che mette in pensiero l'indolente e pacifico borghese che deve farla in piroscafo. Perseguitati dalla polizia che non si ristava un momento da pedinarli, con un tempo indiavolato essi poterono imbarcarsi verso mezzanotte, due miglia lontani da Livorno. Il mare metteva spavento: ognuno potrà facilmente rammemorarsi di quanto furono sconsocrate le giornate che nell'anno passato annunciarono l'inverno; perfido il clima, continue le pioggie, mai interrotte le burrasche; ora mi si mettano otto o dieci persone sopra uno schifo, atto solamente a fare delle passeggiate, eppoi se ne tragga l'unica conseguenza possibile, e la non può esser che questa: i bravi giovani erano decisi a giocare di tutto per raggiungere il loro scopo, e possedevano tempra, da reputarsi più che miracolosa in questi tempi di unversali debolezze e di codardia inesprimibile. Certo che chiunque avesse veduto quel piccolo legno, sbattuto in mezzo agli spaventevoli cavalloni, sempre a un pelo per far cuffia, sempre frisando gli scogli, sempre a pochi passi dalla morte, non poteva fare a meno di esser colpito da tanta sublimità, da tanta abnegazione, da tanto coraggio… Oh! non mi si dica, che ai dì d'oggi l'antica virtù è un mito nel mondo… oh! no… la virtù esiste: sarà a bella posta obliata; si tenterà di farla passare per pazzia, ma a dispetto di chi non lo vuole, essa trova sempre dei seguaci, dei seguaci che vivono e muoiono ignorati, ma che sono anche troppo superbi per ottenere tale oblio, nel secolo in cui i ciarlatani di professione, i codardi e colpevoli servitori delle corti e del vizio sono portati in palma di mano da una folla più di loro codarda e colpevole! La virtù la vìve, ma per volerla rintracciare, bisogna andare tra quella gente che è posta in quarantina dalla società degli uomini serii, bisogna rintracciarla nei bassi fondi sociali, tra la gente che soffre, lavora e muore di fame; simile in tutto alle perle che non si trovano che tra la melma.

Il vento impetuosissimo, i marosi che in conseguenza di questo avevano raggiunto tutto ciò che può esservi di più orribile per il marinaro, l'albero maestro troncato costrinsero i nostri giovani amici a fermarsi a Vada, piccolo paese della Maremma, distante a dir molto mezza giornata di cammino da Livorno.

Attorniati immediatamente dai carabinieri, essi dovettero ai sentimenti generosi dei buoni popolani di lassù, il potersi ridurre in salvo: si rifugiarono diffatti in un'abbaino, alle cui finestre non erano imposte, nè vetri, e che aveva tanto basso il soffitto da costringere chiunque v'entrasse, ad andarvi carponi. Vi doverono star sette giorni: senza un pagliericcio, senza un brodo che loro ravvivasse le forze già esauste; costretti a dormire, l'uno l'altro abbracciati, per scongiurare la veemenza del freddo Siberico, confortandosi e prendendo animo all'idea del santissimo sacrificio che per santissimo intento essi in quel mentre facevano, passarono in quella dolorosissima situazione degli istanti divini.

Riattato il piccolo navicello, essi a notte inoltrata poteron ripartire: a bordo vi erano viveri, ma essendo durato il viaggio per altri sedici giorni, i futuri difensori della repubblica, soffrirono anche la fame ed arrivarono sfiniti, cascanti, dopo cento altre peripezie a Bastia.

Nella capitale della Corsica, Rossi, Piccini, e i compagni, trovarono una perfidissima accoglienza: tutti ci dichiararono umanimemente che quegli abitanti, devoti alla causa Napoleonica, appena che ebbero odorato, che i giovinetti, sbarcati dal quel navicello, stracciati, ed in cattivissimo, stato, erano dei Garibaldini, non fecero che guardarli in cagnesco, non risparmiando loro certi atti villani, che sarebbero stati degnamente rintuzzati, se in quei momenti ragioni potentissime non avessero consigliato sangue freddo e prudenza.

Ricevuti come cani alla prefettura, trattati, quasi come pazzi al comando di piazza, guardati con diffidenza dal Mair, essi non si perdettero di coraggio e fiduciosi nel proverbio che l'importuno vince l'avaro, tanto almanaccarono, tanto scombussolarono, usando ora buone maniere, ora sgarbi, pregando e protestando, che alla fine furono imbarcati sopra un piroscafo, e inviati a Marsiglia, dove si erano già costituiti i due celebri comitati Garibaldini.

Credendo dì aver toccato il cielo con un dito, i bravi nostri amici salutarono Marsiglia, come il fanciullo che si è perduto nel bosco, saluta il cammino della casa paterna. E furono accolti a braccia aperte dal Comitato, ed i membri di questo furono loro cortesi d'incoraggiamenti e di belle parole; nè quando accamparono il loro desiderio di partir prontamente, fu fatta l'obiezione più piccola… Meno male che la fortuna qualche volta corona felicemente gli sforzi di chi ha sofferto—Pensavano i nostri, entusiasmati..—Oh sì, che la pensavano bene! Essi non erano giunti che alla prima stazione del Calvario che doveva menare, qualcuno di loro alla morte, e credevano invece di aver preso possesso della terra Promessa.

Frapolli aveva in quell'epoca il suo quartier generale a Chambery, e già stava instituendo un primo battaglione di fanteria a Montmèlian nell'estrema Savoia. Là furono diretti i nostri amici, i quali, non sapendo ancora, quanto fosse discorde il celebre grande Oriente della Massoneria dai disegni del Generale, andarono alla loro destinazione, allegri e contenti, con la ferma convinzione di raggiungere tra pochi giorni, l'invitto capo dell'armata dei Vosgi.

Arrivati alle loro destinazione essi trovarono tra i componenti del battaglione lo Stefani, venuto via pochi giorni avanti di Firenze. Quattrocento giovinetti erano già adunati, ma nessuno di loro aveva arme, nessuno di loro aveva il più piccolo distintivo che potesse contrassegnarli, come soldati. I superiori, si sfogavano, a rammentare ogni giorno, che presto anche loro sarebbero andati in prima linea, e intanto esortavano i dipendenti a fare delle esercitazioni, le quali tutte, si compendiavano in gite di 15, 16 e persino 20 chilometri, su quei monti, dove la neve si alzava sette o otto metri dal suolo. I continui strapazzi, tutti infruttuosi, il rigido clima di quelle alpine ragioni influirono maledettamente sulla salute di quei poveri diavoli di cui molti ne andarono allo spedale, mentre gli ufficiali passavano allegre serate, ravvivati da cene Lucullesche, che il loro capo scroccava ai buoni Massoni di quelle montagne; ragione questa per cui ogni ufficiale che dipendeva dal buon Frapolli si faceva di subito iniziare ai misteri della Massoneria!

Fu dato il comando del battaglione al Perla, a quest'eroe che ora è una delle più belle figure nel Panteon dei martiri della libertà: Perla, valoroso soldato delle nostre guerre dell'Indipendenza, patriotta di romana virtù, comandando una frazione del microscopico esercito del Frapolli, non si rese certamente complice dei bassi intrighi del suo superiore, e lo mostrò chiaramente quando tra i primi, raggiunse la legione del Garibaldi tra cui doveva incontrare così gloriosamente la morte.

Rossi, Piccini, Stefani, in ricompensa di aver servito altre volte, furono fatti sergenti, ma il tempo passava (erano già scorse due settimane) e ancora non si veniva a capo di nulla; unica cosa fatta, fu l'abbigliamento per i volontari: i giovani cominciavano a mormorare: le notizie degli scontri che aveva sostenuto Garibaldi erano giunte fin là, e troppo repugnava a giovine gente restare in un deposito, mentre i fratelli si misuravano coll'inimico e spargevano di nobile sangue gli ubertosi vigneti della Borgogna.

Tutte le sere in caserma succedevano concitatissime conversazioni; si proferivano gridi che non erano certo d'ammirazione per i comandanti; si fischiavano gli accaniti difensori degli ufficiali, era insomma una confusione da metter pensiero a chi era incaricato di condurre tutta quell'accolta di gente: una di queste sere, proprio all'impensata, capitò a Montmelian Frapolli ed ordinò una rivista per il giorno dipoi.

Dopo aver squadrato, così per pretesto, ad uno ad uno i suoi dipendenti, il Frapolli fece formare il quadrato, e piantandosi in mezzo alle file, sciorinò tutto d'un fiato un lungo discorso, dove chi capì un acca potè chiamarsi ben fortunato. Parlò di trame e di cospirazioni, protestò di esser calunniato, di andar d'accordo con Garibaldi, ma che però non bisognava sposarsi a quest'ultimo, poiché dei guerrieri bravi ce ne erano anche più di lui, poiché era succeduta la rivoluzione anche nell'armi e nella strategia e che perciò ci voleva gente nuova.

Un lungo mormorio ed anche qualche fischio accolsero le strampalate parole del generale, che alzando, bruscamente le spalle e borbottando, non so quali inpertinenze, si ritirò seguito dal suo stato maggiore.

Giunto il battaglione alla caserma, Piccini, incoraggiato e sostenuto da Rossi e Stefani, scrisse addirittura una lettera a Garibaldi, lettera nella, quale si metteva chiaramente a nudo la situazione e si chiedevano consigli su ciò che era da operarsi: qualora non forse pervenuta alcuna risposta i tre amici avevano deciso di disertare.

Come furono lunghi i cinque giorni d'aspettativa! quante polemiche, quante questioni anche serie non accaddero in quel breve lasso di tempo! i soldati cominciavano a perder la fiducia nel loro capo, dacché subodoravano che tra lui e il grande Italiano non ci era più quell'accordo, che solo può produrre buoni resultati; finalmente venne il colpo dì grazia, e questo colpo fu giusto appunto la lettera con cui Canzio a nome del Generale rispondeva a Piccini.

Frapolli vi tradisce, Frapolli è un'inviato del Governo Italiano, che tenta di seminare la zizzania nel campo degli eroi delle libertà—Tale era a un dipresso il sunto dello scritto di Canzio. Un fulmine e questa lettera potevano produrre il medesimo effetto. I volontarii si ragunarono tumultuosamente: siamo traditi: abbasso i traditori: viva Garibaldi vogliamo partire… ecco le grida che sorgevano da tutti quei petti, ecco le convinzioni che tutti quei giovani esprimevano proprio all'unisono: invano gli ufficiali con preghiere, con moine, con minaccie pretendono di far rientrare in caserma i sottoposti e di ridurli a dovere; invano si rammenta loro la causa che sostengono e che può esser compromessa con moti intempestivi e con deliberazioni inprovvise: oramai tutti son rimasti troppo scottati dalle buone parole, oramai tutti son stanchi di lasciarsi abbindolare di più; gli ufficiali sono obbligati ad andarsene scorbacchiati e confusi; nè potevano quei bravi avanzi delle guerre della libertà disapprovare in cuor loro l'impazienza generosa di quei bravi ragazzi: difatti la maggior parte degli ufficiali raggiunse poco dopo l'armata, e si portò eroicamente: rimasero solamente quegli eroi che fanno la guerra per diventare ricconi, che fuggono al fuoco, ma che sono i primi ad attaccarsi i ciondoli del valor militare sul petto.

Dalla rivoluzionaria assemblea, fu conchiuso d'inviare una sommissione al Generale e fargli noto, come idea decisa di tutti, fosse il raggiungere i fratelli che si trovavano in faccia al nemico. Eletti a far parte di questa commissione furono appunto i tre nostri amici Rossi, Piccini, Stefani. Essi portaronsi immediatamente a Chambery, dove si abboccarono col colonnello Pais, una delle onestissime persone e dei repubblicani distinti che era rimasto acchiappato dalle reti del Frapolli. Pais cominciò col fare qualche appunto al quartier generale, deplorò le parole del Canzio, esortò i nostri giovani a non volere attizzare quel fuoco, che divampando avrebbe distrutto la reputazione di patriotti distinti e forse anche l'esito della intrapresa repubblicana. I tre furono irremovibili: vedendo allora il Colonnello come qualunque parola sarebbe stata vana a trattenerli, permise loro di allontanarsi dal battaglione, anzi li pregò a presentarsi al quartiere generale, allora in Autun, e a scongiurare coloro che comandavano l'armata dei Vosgi a prendere una definitiva risoluzione affinchè cessasse quel fatale dualismo che poteva condurre a così triste, a così deplorevoli consequenze.

Accompagnati alla stazione dagli applausi di tutti i compagni, ed imbarcatisi, dopo un viaggio lungo, anzichenò a causa dell'interruzioni ferroviarie, i nostri amici arrivarono al capoluogo del Giura, alla città che fu culla del noto Mac Mahon, e senza por tempo di mezzo, si recarono alla sede del quartier generale.

Lobbia e Canzio accolsero i nuovi venuti più che se fossero amici, proprio come se fossero stati fratelli. Tutti erano indignati per il contegno tenuto dal Frapolli: difatti nessuno poteva farsi una ragione del come quest'uomo daccordo coi Comitati accaparasse per se tutta la miglior gioventù che veniva d'Italia, e la forzasse all'inazione, alla vita coruttrice della caserma e della guarnigione, mentre il generale Garibaldi non faceva che raccomandarsi a tutte le parti, perché gli inviassero dell'uomini. No! Non erano induzioni fallaci, non erano calunnie, quelle che si formulavano sopra quest'uomo. La ragione ridicola che accamparono alcuni miei amici, svanisce davanti al primo soffio del più volgare buon senso. Frapolli, dicevano questi, vuol risparmiare il sangue di tanti generosi: ha preso il grado di generale per impedire degli inutili combattimenti; Frapolli a tale scopo è stato inviato dalle Massonerie. Io non voglio credere che un'associazione che ha per base l'amore del vero e dell'umanità, abbia non che autorizzato, permesso, che uno dei suoi più influenti fratelli la facesse o da Don Basilio o da Arlecchino in momenti in cui il sangue correva a ruscelli e in cui si poteva finalmente risolvere il gran problema dell'emancipazione dei popoli. Io credo coi più, che Frapolli non fosse che un'ambizioso di bassissima lega; un innocuo coniglio che per poco tempo si era provato a indossare una veste da leone, che aveva riconosciuto troppo pesante per lui; un ciarlatano qualunque, uso in Italia a recitare due parti in commedia, deputato e tribuno, scenziato e generale, capace di tutto fuori che di far tacere la sua sperticata superbia, ed a combattere sotto gli ordini di chi ne sapeva più di lui, di chi più di lui ne aveva il diritto.

Canzio in special modo era irritatissimo: disse ai nostri amici che a giorni sarebbe partito, come infatti partì, per condurre via tutti gli uomini che erano adunati a Chambery e a Montmelian.

Rossi, Piccini, e Stefani non vollero tornare donde erano venuti, quantunque loro si facessero conoscere delle prospettive di avanzamenti sicuri; troppo contenti di aver finalmente raggiunto Garibaldi, di aver potuto riabbracciare i vecchi compagni d'arme e di trovarsi con loro, essi si strapparono i galloni di sergente ed entrarono semplici soldati nella compagnia dei Carabinieri Genovesi, compagnia che si costituiva allora sotto gli ordini del distinto capitano Razzeto.

Dopo due o tre giorni il quartier generale erasi trasferito a Digione ed i tre nostri amici, insieme al prode comandante dell'armata dei Vosgi (chè la compagnia dei Carabinieri Genovesi mai si staccava da lui) erano venuti in questa città.

Tale a un dipresso fu la narrazione che a pezzi e bocconi strappammo durante il desinare ai nostri compagni, che si mostravano di un buon'umore e di una gaiezza invidiabile. Entrarono nella trattoria e si unirono con noi Mecheri e Ghino Polese, appartenenti ambedue alle Guide, e già in Francia ambedue fino dai primi principii della campagna. E qui furono lunghi discorsi, domande spesse, ripetute, alla maggior parte delle quali era impossibile dare una risposta, tanto rapidamente le si succedevano; era una conversazione briosa, scapigliata, attraente; e a renderla più allegra e più rumorosa influiva non poco lo squisito nettare, che producono i vigneti della Côte d'Or, incantevole soggiorno per chi adora il dio Bacco.

Prometto che sarà l'ultima volta che mi perdo nel cantare le glorie del vino; hanno ragione, purtroppo coloro, che dicono che noi abbiamo troppo presenti le libazioni che abbiamo fatto nell'ospitale Borgogna, e che ad ogni poco io apparisco più un ubriaco che uno scrittore: ma mi crederei uno scrittore macchiato della più nera ingratitudine, se io non ti rammentassi o liquore color d'ambra, che c'ispirasti tante magnanime idee, che ci mantenesti in tanta salute per la modica somma di cinquanta centesimi per bottiglia, mentre qua adulterato, bisogna pagarti tre o quattro franchi..

Noi secondo l'abitudinaccia nostra si diceva male di tutto e di tutti, si stroncava per passatempo qualche reputazione, si prendevano in burletta certe cose che, convengo pel primo, sarebbe stato assai meglio pigliare sul serio. Le nostre lingue sono un po' lunghe… d'altronde è un difetto organico, che si sviluppa frequentando la società!… Il Rossi soltanto non prendeva parte alcuna alle nostre maldicenze; anzi con fare affettuoso e paterno ci faceva delle reprimende che per lo più terminavano in lirismi ed in voti di esagerate speranze per l'avvenire. Il Rossi aveva la fede e l'energia di un apostolo, la fermezza di un cospiratore, il fanatismo del martire. Sempre eguale a se stesso: nella sua officina a Firenze, nelle prigioni che spesse volte aveva assaggiato per non voler troppo bene al presente ordine di cose, nei combattimenti dove aveva a incontrare poco dopo tanto gloriosamente la morte, egli avrebbe creduto di peccare smentendo se stesso, anche così per far chiasso in una conversazione d'amici. A sentir lui era certo il trionfo della repubblica, non solamente in Francia ma in un'altro paese dove egli era sicuro che Garibaldi ci avrebbe portato appena distrigati gli ultimi conti coi fedeli alleati della Grazia di Dio. Figuratevi in quella combriccola di scapestrati, quale effetto facessero le parole calme, dolci di questo giovine la cui perdita ha lasciato tanto voto nelle file dell'esiguo partito democratico della mìa bella Firenze.

È inutile: il Rossi parlava come un santo, ma quella sera doveva essere baccano: si festeggiava il nostro arrivo e non poteva essere a meno!… Squaglia, Baldassini, una caterva di Livornesi ci raggiunsero, e tutti insieme rammentandoci le vaghe colline della nostra Toscana, il nostro bel cielo, il volto delle nostre ragazze, idealizzato dalla lontananza, le chiassose baldorie e le ribotte di un tempo, incominciammo a intronare quegli stornelli, che si sentono tante volte sulle labbra gentili delle nostre donne del popolo: stornelli d'amore, malinconici come il ricordo di una svanita illusione, modesti e simpatici come i fiorellini dei campi che l'hanno ispirati, poeticamente rozzi, come coloro che senza alcuna istruzione l'hanno composti.

Dagli stornelli passammo alle ardenti canzoni ed agli inni: la Rondinella di Mentana, l'inno di Garibaldi, la Marsigliese… Era la voce dell'Umanità e della Patria, che sorgeva gigante ad oscurare quella della città e della famiglia, e che in mezzo alla orgia ci faceva ricordar di essere uomini.

Escimmo cantando: quella sera ci si sentiva felici: i popolani si accalcavano al nostro passaggio e ci accompagnavano coi loro applausi: noi italiani in Francia abbiamo molta fama musicale, molta più di quella che ci si merita: qualcuno di noi per esempio stuonava più di un secondo tenore del teatro Nazionale, eppure sentimmo ripetere che mai coro più accordato del nostro erasi sentito in Digione… Chi si contenta gode!

L'orologio battè mezzanotte: l'ora era più che canonica: bisognava ritirarsi: Rossi che voleva sapere l'andamento generale delle cose d'Italia, e i progressi, che vi aveva fatto l'idea, e come le masse accogliessero le notizie di Francia, volle in tutti i modi accompagnarci a casa.

Povero Rossi!… Venne con noi, cominciò a domandare… ma noi con poco rispetto attaccammo un sonno da paragonarsi solamente a quello di un lettore delle Perseveranza, ed egli continuò a gestire, e scalmanarsi per una buona mezz'ora, in mezzo alle note più o meno sfogate delle nostre trachee cambiate lì per lì in contrabbassi.

CAPITOLO IX.

L'aver ritrovato i nostri amici, la contentezza di poter passare qualche ora con loro ci aveva fatto dimenticare il ritrovo, a cui eravamo stati invitati il dì innanzi dal nostro ufficiale. Un vecchio soldato arriccerà il naso a questa notizia, e dirà, come di solito, che primo ed essenziale requisito di coloro che bramano farsi onore e debellare il nemico è la disciplina: ma noi che abbiamo a noia il veder l'uomo ridotto allo stato di macchina, noi che siamo persuasi che l'affezione a un'idea può benissimo generare l'eroe, che non hanno mai generato le ridicole e assurde pedanterie, noi credemmo di non aver dicerto peccato, se in quel primo giorno eravamo stati sordi all'invito, decisi di raggiungere al domani la compagnia, o il battaglione a cui eravamo stati aggregati.

Perciò appena albeggiò, escimmo di casa e ci avviammo verso il centro della città per sapere le notizie che ci riguardavano. La piazza della Mairie, era una delle più belle piazze di Digione: notevole per un gran numero di baracche e di banchi dove alcune donne, tutte brutte, ad eccezione di una sola, facevano spaccio, di sigari, di caffè e di liquori. I volontarii si affollavano intorno a loro, e non avevano torto: lì con dieci centesimi, avevano quello che nelle botteghe costava quaranta e anche cinquanta centesimi.

Ad uno di questi banchi trovammo il nostro tenente: meno male!.. questo incontro ci rispiarmava il fastidio di dover interrogare altra gente e di dovere impazzare per rinvenire la caserma.

—Scusi tanto…—Noi principiammo, avvicinandolo, ma egli tagliò ogni discorso dicendoci:

—Ieri non si fece nulla….. Vengano oggi a mezzogiorno…è l'ora delle paga: credo che nessuno mancherà.

—Duuque a Mezzogiorno?

—Sì.

—E dove è il nostro quartiere?

—Vadano alla Madaleine e là troveranno i loro ufficiali… Loro non dipendono più da me… Io appena che ho accompagnato le spedizioni, me ne lavo le mani,

—A rivederlo!

—A rivederci!

Andammo allora al quartier generale; per quella mattina, non pareva che alcuna cosa alla più lontana indicasse qualche probabilità di un attacco da parte del nemico. I Prussiani difatti avevano sgombrato Digione, per concentrarsi; si aspettava, che dopo tanti giorni di quiete una gran massa di Tedeschi, col solito sistema che ha sempre guidato i movimenti di Moltk, piombasse sulla città principale delle Côte d'Or. Dicevasi anche che a ciò fosse stato pescelto il corpo d'armata del principe Federigo Carlo, perché a Versailles si voleva finirla una volta con questa riunione accogliticcia di giovanastri che rompevano anche troppo le scatole alle truppe più agguerrite e più disciplinate del mondo; ad ogni modo, e lasciando da parte qualunque interpetrazione a cui dava luogo questa continua inazione dei nostri nemici, quello che si può accertare si è che questi si erano allontanati parecchi kilometri da Digione; le nostre scorrerie, le recognizioni che senza posa facevano le truppe di linea, mai si erano scontrate con loro, e tutti insieme concordavano nell'affermare che di Prussiani non ci era il minimo segno in tutti i dintorni.

Garibaldi non si lasciava sfuggire questa bella occasione che gli fornivano i propri avversarii: tutti gli uomini che dipendevano dai suoi ordini a poco a poco si riunivano nella città dove egli aveva posto il quartier generale; come abbiamo veduto, il brigadiere Lobbia era stato da lui inviato verso la direzione di Langres dal lato di Parigi; Canzio era partito per definire la questione con Frapolli e portare all'Armata dei Vosgi, tutti quei volontari che fino allora si erano tenuti lontani dal teatro della guerra. Le circostanti colline formavano oggetto di studii speciali e si fortificavano alla meglio, come lo consentivano gli scarsissimi mezzi di cui il governo era largo con l'armata guidata dall'invitto Eroe dei due mondi.

Tutte le mattine alle quattro il generale esplorava la linea dei nostri avamposti. Esso percorreva l'immensa estensione in carrozza e sempre accompagnato da Basso: poi si riduceva al quartier generale da cui era ben raro che si muovesse durante la giornata. Il povero vecchio era torturato dai dolori attritici: ben di rado egli abbandonava le grucce, ma pure si vedeva sempre sorridere, sempre incoraggiare i soldati, beato di potere offrire anche una volta il suo braccio in difesa dei santi principii, di cui è sempre stato il più infaticabile apostolo e il più temuto sostegno. Ah!.. quanto ben differenti da lui erano certi arfasatti che si erano ficcati nello stato maggiore e pei quali chiunque è amico della verità, deve avere delle parole assai dure e dei rimproveri che nessuno può tacciare d'esagerati, perché naturali in chiunque abbia potuto conoscere vita, morte e miracoli di quella gente che si muove solamente da casa per speculare e per farsi ricca nel mentre che una nazione illaguidisce od è per subire le più grande delle sventure che la possa colpire, voglio dire le schiavitù. Gli appartenenti allo stato maggior generale, in buon numero erano francesi; io non intendo minimamente attaccare gli stati maggiori delle brigate, dove un Castellazzo, un Bizzoni, un Sant'Ambrogio, un Vichard, un Canessa, e tanti altri, di cui noi non potemmo sapere il nome, si coprirono di gloria e si mostrarono pari alle generosissime idee che sempre gli hanno guidati. Io parlo soltanto di quei famosi strategici, che dipendevano direttamente dal generale Bordone.

Qui devo dire alcune parole di questo generale da alcuni troppo abbattuto, da altri troppo esaltato. Io non voglio riandare la vita passata del nostro capo di stato maggiore; mio compito è il riveder le buccie a coloro che giraron nel manico durante il periodo che noi fummo in Francia e non quello di nototmizzare le faccende trascorse che a noi non riguardano, e delle quali noi non abbiamo a curarsi: noi pensiamo che chi ha intenzione di far bene, e traduce in atto questa intenzione, certamente si riabilita da ogni peccato che possa aver contaminato la di lui fama antecedente.

Bordone era zelantissimo per il bene dei suoi sottoposti: Bordone aguzzava di minuto in minuto il suo ingegno, si arrovellava, non dormiva pur di fare all'esercito Garibaldino tutte quelle agevolezze che da lui dipendevano. Infaticabile sempre, importuno col governo di Tours egli era giunto ad ottenere armi, denaro, concessioni. Di più, se si pensa, che rimanendo lui nel suo posto, toglieva all'ambizioso Frapolli ogni speranza di poter comandare a bacchetta, bisogna convenire che la cosa migliore per noi era che rimanesse quello che ci era, invece che venisse fuori uno nuovo che probabilmente avrebbe mandato in perdizione le nostre povere cose. Lobbia avendo lasciato lo stato maggiore per assumere il comando della seconda brigata aveva condotto con se il Castellazzo, nome a cui qualunque elogio sarebbe superfluo; caro a chi ama la letteratura, come a chi ama la guerra; eroe in tutte le battaglie che si son combattute, autore del Tito Vezio negli ozi della pace, in quegli ozi dove tanta gente che fa professione di far le campagne si butta sull'imbraca e fa rivoltare lo stomaco alle persone perbene.

Partiti questi, lo stato maggiore rimase molto, ma molto barbino. Mi rincresce dover dir male di nostri compagni, me ne piange il cuore, ma il culto della verità deve esser sacro per chi scrive e le segrete tendenze dell'anima devono essergli sacrificate.

La più completa assenza di nozioni strategiche si poteva chiaramente osservare in quelle sale dove si dormiva di giorno e dove molte volte si giocava di notte: cosa quest'ultima che fece esclamare ad uno dei nostri amici assai noto per le freddure, che stato maggiore più solerte del nostro era inpossibile ritrovare, avendo i suoi membri ad ogni ora in mano le carte. Una caterva di giovanotti raggruzzolati non si sa come, certa gente di cui è bene non dir cosa alcuna, poiché stando alle dicerie generali, i di lei fatti insudicerebbero troppo le pagine di qualsivoglia libro… ecco a un dipresso, fatte poche eccezioni, quale era il corteggio di Bordone. Oh! se non fosse stata la mente del Generale, il valore e l'intelligenza dei quattro che comandavano le brigate, l'innegabile slancio dei volontari, per il nostro stato maggiore se ne poteva passar delle belle, e i Prussiani potevano agevolmente circondarci in Digione, come avevano circondato a Metz il famigerato Bazaine.

La maggior parte degli ufficiali, che dovevano provvedere alle sorti della armata, e che dovrebbero avere avuto l'attribuzione di fare i piani di guerra, oltre l'esser digiuni di qualunque nozione d'arte militare, lo erano anche del minimo odore di polvere: tra gli altri per esempio il figlio di Bordone finì la campagna come capitano: era un giovanotto che poteva aver tutt'al più ventitre anni e che per la prima volta si spingeva davanti al fuoco…. delle stufe del quartiere generale!

Del resto di questi ufficiali improvvisati ve ne era un sacco e una sporta. Conobbi un volontario che di motuproprio si mise il berretto di luogotenente e poco dopo ottenne quel grado; non vi è esagerazione a dire che quando arrivammo a Digione, trovammo più ufficiali che soldati: i sarti e i cappellai di lassù, che avevano buon naso, riempivano lo vetrine di monture e di berretti più o meno gallonati. Fin qui non ci sarebbe statò gran male; ma il male appariva manifestamente ad ogni persona, quando si pensava che molti e molti che a forza di fatiche e di sangue erano giunti a conquistarsi un grado nelle altre campagne, non si erano voluti riconoscere o si erano portati tanto pel naso che essi troppo disdegnando di sembrare accattoni e in cerca di una posizione, preferivano servire da semplici soldati. Il nostro Generale era del tutto estraneo a queste brutture, le quali possono sembrare a qualcuno inverosimili, ma che sono vere come la luce del sole. Materassi, Pacini (per non citare molti altri) capitani nelle altre campagne, non ebbero alcun grado, furono appagati però con molte promesse, con molte proteste di buone intenzioni, ma, come dicevano i nostri antichi, di buone intenzioni è lastricato anche l'Inferno.

Io non sono estraneo all'idea di accogliere gente nuova nelle file di quei che comandano; il principio di rispettare l'anzianità per me deve cedere a quello di rispettare il merito: si facciano pure dei nuovi ufficiali, si cerchi pure di ringiovanire i ranghi della democrazia militante, ma per attuare questo nobile proposito si possono scegliere tanti e tanti avanzi della mitraglia, tanti e tanti che tuttora soffrenti per antiche ferite son corsi di nuovo in faccia al nemico, e non coloro che non fanno altro che salire e scendere le scale degli astri maggiori dell'Orizzonte Garibaldino, lisciando tutti, strofinandosi a tutti, menando buona ogui sciocchezza, ogni spavalderia, purché venga dall'alto….

Dopo aver confabulato con varii amici nel cortile del quartier generale, vedendo che l'orologio segnava le undici e mezzo, ci movemmo verso la Madaleine, ansiosi di sapere in qual maniera ci avessero cucinati. Impazzamo una buona mezza ora per rintracciare questa caserma, che non era caserma ma un antica prigione, e che era situata al lato opposto della città. Tra una caserma e una prigione io non so trovare differenza alcuna e perciò trovai più che coerente colui che aveva fatta la scelta.

Una scala, mezza rovinata, per la quale era necessario andar di sghimbescio, portava ad una specie di torrione, il cui interno era costituito da una stanza, più larga che lunga; il pavimento era tutto coperto di paglia, sulla quale si vedevano sdraiati una cinquantina di volontarii che aspettavano a braccia aperte l'arrivo dell'ufficiale pagatore. Tra questi volontarii alcuni parlavano francese: sarà una ridicolezza, ma io la voglio confessare tale e quale ai lettori; d'altronde, dirò con Terenzio:

Ego homo sum et nihil humanum a me alienum puto;

Io provai un pò di rabbia a veder vestiti colla camicia rossa individui che non appartenevano all'Italia; saranno stati fior di soldati, eccellenti ragazzi, patriotti e repubblicani a prova di bomba, ma abituato a diffidare degli altri, m'annoiava un pensiero: Chi sa, se noi avessimo vinto che tutto il vanto della vittoria non fosse attribuito a quei Francesi che erano nelle nostre file, e che invece tutte le invettive non si fossero volte al nostro indirizzo, qualora le sorti dell'armi non ci fossero state propizie?! Eppoi chi si sacrifica per un'idea buona, non può fare a meno di nutrire una certa ambizione, ed io sentiva quella di far parte di un corpo esclusivamente composto d'Italiani, se non altro per mostrare che pochi o molti, anche nella nostra patria vi sono dei giovani sempre pronti a versare il lor sangue per la repubblica. Tale idea, rafforzata, anche dell'altra che forse ci avrebbero tenuto in quel deposito per chi sa quanto tempo, mi fece prendere il proponimento deciso di girar largo e cercare un'altro corpo, dove vi fosse la certezza di prender parte al primo combattimento che sarebbe succeduto.

Il tenente Zauli venne poco dopo: fece la chiama, diè la paga e poi annunziò che in quel giorno avremmo goduto della libertà più assoluta.

Eravamo tuttora lungo la scala, allorché comunicai ai miei amici le mie impressioni, e tutti accolsero i miei progetti; appena fummo esciti, ci capitò proprio la palla al balzo! Mecheri, Polese, ci dissero, senza che noi loro facessimo interrogazione alcuna, di entrar nelle guide, di cui si stava formando il quarto squadrone, e noi senza frapporre tempo di mezzo andammo alla foreria, dove c'inscrivemmo nei ruoli. Possedere un cavallo e seguitare sempre il Generale, per uno che è abituato a andare a piedi e a venerare più d'ogni altro uomo nel mondo Garibaldi non ci poteva esser prospettiva più attraente. In seguito si vedrà, come anche questa bella visione non fosse per noi che una Fata Morgana.

CAPITOLO X.

Le guide si erano costituite a Dôle sotto gli auspicii del capitano Farlatti: da bel principio non furono che uno squadrone, poi due; poi tre: ed ora il quarto, come abbiamo detto pocanzi, era in via di gestazione; così Farlatti da capitano era divenuto maggiore; per terminare la campagna come tenente colonnello: nel momento in cui noi si arrivava, i primi tre squadroni facevano parte della Brigata Lobbia, ed erano con questo partiti alla volta di Langres. Come ben si vede, le guide facevano il servizio di cavalleria, e non erano incaricate minimamente delle missioni a loro speciali: per le esplorazioni erano sempre in giù e in su gli Chasseurs d'Afrique e gli Ussari; e ciò da un lato era più che naturale: pochissimi nelle nostre file sapevano parlare il francese e anche tra questi alcuni ne basticciavano solamente qualche parola a casaccio… ora era egli possibile che per questo mezzo si potessero sapere informazioni sicure, notizie esatte, ricevute dai paesetti dove trasitavano nelle loro escursioni? Le guide non dovevano essere un reggimento, ma tutt'al più uno squadrone, come era nel 1866, uno squadrone costituito dall'eletta dell'armata… pochi ma intelligenti.

Nel nostro squadrone poi era un vero bailamme: cinquantaquattro uomini con diciassette cavalli, di cui undici tanto malati da non potersi muovere dalle scuderie; nessun vestiario; tanto cavalli che vestiarii si aspettavano di momento in momento, i primi da Chambery dove Canzio e Tironi erano andati per levarli a Frapolli, i secondi d'Autun. Figuratevi dunque una cavalleria di persone in cilindro, in papalina e col cappello alla Pouff, eppoi ditemi che noi non avevamo qualche rassomiglianza, se non altro nella tenuta, con i celebri eroi del novantadue.

A capo di quest'accozzaglia di gente poco cavalleresca, almeno all'aspetto, era il tenente Ricci, buon patriotta di Forlì, ferito ad Aspromonte, e reputato assai dal Generale. Il Ricci però, se era tra i primi quando si trattava di condurre al fuoco i soldati, non si vedeva mai alla caserma e lasciava andare le cose, o male o bene, per il loro verso. Spadroneggiava per tale ragione al nostro comando, il sottotenente Miquelf, francese corto di vista ma pieno d'ambizioncine da femminuccia: sulla sua carta da visita si qualificava per ingegnere, per sottotenente e per ***… questa cuspide, mi rammento fece nascer discussioni tra noi più che ne abbia fatte nascere quella famosa che si vuole o non si vuole appiccicare alla facciata del Duomo. Miquelf era sempre in foreria a romper le scatole agli scribaccini e a dettare ordini del giorno. Un prestigiatore, congedandosi dalla società che lo ha onorato, suole fare apparir mazzi di fiori dalle maniche, dalle punte degli stivali, dai capelli, dal naso… il nostro sottotenente, senza essere prestigiatore, aveva un ordine del giorno nel berrettino, uno in tutte le tasche, uno sotto il panciotto, insomma un ammasso, una farragine di disposizioni, di preghiere, di comandi gli scaturivano da tutte le parti, e sciorinava paragrafi e pagine intiere di scritto, mezzo francese, mezzo italiano, e faceva sgelare, ogni pochino il foriere, facendoglieli leggere a noi. Tre appelli ogni giorno, la passeggiata ai cavalli, la fienata, il passamano, la guardia alla scuderia; a dar retta a lui ci sarebbe rimasto appena appena un poco di tempo per mangiare un boccone e invece… invece nella nostra caserma c'era gente come a una lezione popolare; le trombe che, secondo la sacra scrittura, fecero muovere le mura di Gerico non erano buone a far muovere verso il quartiere una sola Guida, e, se tu avessi voluto trovare qualcuno che apparteneva a questo rispettabile corpo, tu lo dovevi andare a cercare in qualche biliardo o in qualche caffè, o sulla piazza principale, dove delle gentili venditrici per spacciare Cognach e acquavite avevano innalzato delle baracche proprio in faccie al magnifico palazzo dei vecchi duchi della Borgogna. Tutti i servizi erano disinpegnati da tre o quattro zelanti di… farsi pagare dai commilitoni più o meno indolenti!

Nessuna notizia si aveva intanto sulle mosse del nemico; continuava e pigliava piede la voce che i Prussiani si riconcentrassero sotto gli ordini del principe Federigo Carlo per marciare poi separatamente verso il mezzogiorno della Francia, tagliar fuori il Bourbaki, e sbaragliare le nostre file e terminare così la campagna contemporaneamente alla resa di Parigi. Garibaldi continuava ad approfittarsi di questa tregua per concentrare a sua volta la piccola armata dei Vosgi. La brigata Menotti e Bossak erano in Digione: si temeva in quei giorni per Ricciotti, del quale non si sapevano sicure novelle, quantunque si bucinasse di scontri e di prigionieri fatti da lui: Lobbia erasi troppo inoltrato ed oramai era inutile lo sperare di congiungersi a lui. Canzio, coi soldati che avrebbe portato da Chambery e da Lione doveva costituire la quinta brigata; eransi anche radunate ventimila guardie nazionali mobili capitanate da Pelissier… ma di queste sarebbe meglio il non farne menzione: mai caricaturista può avere ideato dei tipi più grotteschi di loro; gli stessi popolani non potevano fare a meno di ridere in vederli passare: certe fisonomie di paura, certe arie d'imbecillità da non farteli dimenticare, neppure avendo la fortuna di campar quanto Matusalemme: Loro non vedevano che Tedeschi, non sognavano che agguati: gli Ulani si presentavano difaccìa alle loro immaginazioni alterate come le versiere e le streghe ai ragazzi; se passava un di noi ci affollavano con mille domande, alla quali noi rispondevamo sempre col dipingere la situazione con colori molto più foschi di quello che era realmente; e allora si vedevano picchiarsi il capo e poi andar via sconsolati e quasi piangenti: e quel che è peggio arrestavano a casaccio per spie persone onorabilissime e militari d'ogni corpo: un giorno ci volle del buono e del bello a salvare delle loro unghie tre delle nostre Guide, che essendo Pollacche, parlavano in modo da essere scambiate per Tedesche.

Sei piccole mitragliatrici (che non furono mai adoperate) erano state pure aggiunte all'armata dei Vosgi; il Colonnello Olivier, comandante dell'Artiglieria, ed il maggiore Sartorio del Genio avevano fatto qualche lavoro di fortificazione passeggiera sulle due colline di Fontain e dì Talant, e queste due formidabili posizioni, secondo tutte le probabilità, avrebbero dato molto daffare ai nostri avversarii, qualora ne avessero tentato l'attacco.

La fiducia insomma dei Digionesi in quel momento era giunta al massimo grado: difatti alla sottoprefettura ogni giorno veniva affisso un bullettino in cui Bourbaki annunciava una vittoria: Gambetta aveva fatto sapere a tutta l'Europa che l'uomo della situazione era venuto e che quest'uomo era Chanzy: le notizie di Parigi erano rassicuranti: Trochu giurava di tornare cadavere piuttosto che vinto: Faidherbe non si ritirava… il buon popolo che, malgrado disillusioni su disillusioni, ha sempre bevuto grosso, aveva tutte le buone ragioni di cullarsi in liete speranze. Eppoi tutti i giorni, il bravo colonnello Lhoste coi suoi Francs tireurs faceva qualche prigioniero e questi attraversavano Digione, e il popolino, sempre pronto a credere e ad esagerare, chi sa quali idee rimuginava di sicura vendetta e di più che sicuro trionfo!

La vita di quei primi giorni per noi non fu di certo una vita color di rose: il freddo era a trentadue gradi, tre sentinelle gelarono agli avamposti; molti volontarii erano negli ospedali assiderati in qualche parte del corpo e di più ogni giorno noi eravamo sconcertati dal tristo spettacolo di una infinità di bare e di casse da morto; il vaiolo ed il tifo infierivano, e, come se fosse poco la guerra, diradavano le file dei generosi campioni della libertà.—Se si torna è un miracolo—ripetevamo tra noi—qui ci è il tifo, il vaiolo e i Prussiani. Era tanto spaventevole l'idea di morire di malattia, che tra i flagelli che ci minacciavano si ponevano in ultima linea i Prussiani: la sorte voleva ben esperimentare la tempra dei giovani soldati e questi hanno resistito alla prova.

Basti il dire che si era tutti infreddati… Oh! la prosa desolante di una ostinata infreddatura! In certi momenti invece di essere tra seguaci di Marte, si poteva creder benissimo di essere in un ospedale di tisici al terzo stadio. Ma non cessavano per questo le burlette, ed era un ridere continuato alle spalle di qualcuno che se la prendeva, un avvicendarsi di prognostici di cattivissimo augurio che terminavano con una bevuta alla salute di tutti noi altri… anche questi erano mezzi per cacciare la noia di quei giorni monotoni! Eppoi Digione offriva delle distrazioni anche in tempo di guerra e coi nemici alle porte. Nel palazzo ducale eravi un museo, nel quale non facevano difetto artistici capolavori; l'arte italiana vi era degnamente rappresentata da alcuni quadri di Guido Beni, da una Sacra famiglia di Andrea del Sarto, e da piccole pitture dei Caracci e del Francia; una bellisima collezzione di litografie all'acqua forte, delle statue moderne di qualche valore, diversi busti di uomini celebri, tra cui quello di Piron, celui qui ne fut riên, pas même academicien, i superbi mausolei dei duchi della Borgogna offrivano a chi desiderava di ammazzare il tempo un divertimento geniale e istruttivo. Un bellissimo quadro di una battaglia era sfondato… ci dissero che autori di tale barbarie erano stati i Badesi nella prima occupazione; i soldati delle monarchie, quando vincono, diventano Vandali.

Una biblioteca, assai fornita di libri, dava un'altro passatempo a chi voleva far l'uomo grave: per gli scapati ci era il Caffè di Parigi, dove si beveva e si giocava: lì era il convegno del fior fiore dell'armata: lì vedevi l'elegante ufficiale di stato maggiore, lo svelto Franc tireur, mobilizzato sornione, lo scapigliato volontario, tutti affratellati davanti, a un banco di lansquenet, o in una partita al Carambolo.

Le prime ore della sera noi le passavamo al Restaurant, cianciando tra noi e mangiando e bevendo. Dopo si andava in una bottega di tabaccaio, vicina al nostro palazzo, cioè al palazzo della nostra ospite: bottega dove avevamo rinvenuto una gentile donnina, che ci incantava per il suo spirito e per la sua educazione.

Questa graziosa ragazza che la nostra buona fortuna ci aveva fatto incontrare, era figlia di un colonnello che era stato fatto prigioniero a Sedan; suo zio generale, era pur egli prigioniero e ferito gravemente a una coscia; ora la stava in casa della tabaccaia che l'aveva veduta bambina e che l'amava come una mamma. Parlava di piani di guerra con la medesima facilità che la quale un'altra donna parlerebbe di crochet, d'orli, o di ricami; non aveva alcuna fiducia del Bourbaki, disperava delle sorti di Francia e attendeva un combattimento per poter recar soccorso ai feriti, tra l'imperversare della mitraglia. Un tipo curioso, ma piena d'ardimento. Una volta diede in presenza nostra uno schiaffo ad un mobilizzato della Provenza, perché le aveva detto che era amica dei Prussiani; correva tutto il giorno per gli ospedali, spendeva le sue piccole risorse in quelle ghiottonerie che son tanto gradite ai convalescenti e si sdegnava se qualcuno le proponeva di accompagnarla in queste pietose escursioni: presto divenimmo di lei amici.. era tanto carina, che non avremmo meritato scusa veruna a trascurarla.

Dopo cinque o sei giorni, dacché eravamo arrivati, fummo rallegrati dai concenti più o meno armoniosi di trombe che suonavano marcie Italiane: era la legione Tanara, che veniva per fermarsi qualche giorno in città. I volontari marciavano come vecchi soldati e avevano un piglio guerresco da farteli cari; il primo battaglione era comandato da Ciotti; il secondo dal simpatico Erba; questo aveva una bandiera tutta rossa sulla quale in lettere d'oro stava scritto: Patatrac. I cittadini ogni poco ci fermavano per domandarci che significava quella arcana parola, e noi rispondevamo loro che significava ciò che era tanto bramato da noi, ciò che ora il procuratore del re non mi permette di far sapere ai lettori.

La maggior parte dei componenti delle legioni appartenevano alle provincie settentrionali d'Italia; tra gli ufficiali erano molti dei compromessi negli affari di Pavia, commilitoni e fratelli d'idea del martire Barsanti. Dietro pochi passi da loro io vidi l'Imbriani… Povero Giorgio!… Come io ti vidi contento, per aver raggiunto finalmente le schiere dei generosi difensori di quel principio che avevi sempre adorato!.. Con quale affetto tu non mi stringesti la mano, vedendo che io pure non avevo mancato all'appello? Eri giovane, forte: l'avvenire ti si dipingeva davanti con i colori più rosei, eppure un presentimento vago, indefinito ad ora ad ora ti sorgeva nella anima «chi sa per quanti di noi sarà tomba questa città» tu mi dicesti; e lo doveva essere anche per te; ed in mezzo al combattimento mi doveva giungere la novella della tua fine; che, ardimentoso come eri, tu dovevi morire tra i primi, ed io non era a te vicino per poterti dare l'ultimo bacio dell'amicizia, per poter raccogliere il tuo estremo sospiro!

Erano due anni che non ci si vedeva: ci avevamo lasciati ad un banchetto, dove si era inneggiato alla Repubblica e alle barricate, ora ci si doveva ritrovare per essere eternamente divisi. Eternamente!.. Oh! la dura parola per chi ti ha conosciuto! Ora giaci nell'Italia tua, vicino al tuo mare, sotto la volta del tuo splendido cielo, là dove la poesia di una natura sempre maestosa aveva fatto germogliare nel tuo cuore la fede per la quale ora giaci cadavere… Tanto meglio… non contamineranno l'urna del martire le codarde calunnie e le turpi accuse dei vili, pei quali noi affrontavamo la morte e che erano ben lontani da ogni pericolo.

Addio, giovane di tempra romana, addio figlio prediletto della democrazia… possa l'esempio delle tue virtù procacciarti degli emulatori ed il fiore della speranza sorga sul tuo sepolcro, o fiore più bello, troppo presto staccato dalla ghirlanda delle nostre speranze!

CAPITOLO XI.

Ricciotti arrivava in questo frattempo a Digione, dopo aver sostenuto diversi piccoli scontri con recognizioni nemiche, scontri in cui aveva sempre ottenuto indiscutibili vantaggi; il di lui arrivo fu per noi una vera festa: il giovine ed ardito condottiero che già erasi acquistata tanta gloria in questa campagna, troppo ci aveva fatto temere per il suo troppo coraggio ed era di troppa utilità al nostro esercito, perchè non ne valutassimo l'arrivo come un lieto avvenimento. Dipiù nella sua brigata noi avevamo amici carissimi: lo Strocchi, l'Orlandi, Cardini erano nei Francs chavaliers de Chatillon, squadrone di cavalleria che il prode e simpatico figlio di Garibaldi aveva organizzato dopo la memorabile impresa che aggiunse non poco lustro alle armi italiane.

Quasi nel medesimo tempo arrivava da Chambery il simpatico Canzio, portando seco circa duecento uomini, che uniti a quelli del deposito, a cui eravamo stati ascritti in principio, formarono un battaglione sotto gli ordini del maggiore Perla, battaglione che fu denominato dei Cacciatori di Marsala. Cavallotti, Rossi di Lodi e tanti altri generosi si trovavano in quelle file: essi avevano lasciato il Frapolli per essere in prima linea.

La gioia di questi arrivi fu per noi un po' amareggiata dalla notizia che i famosi cavalli che dovevano arrivare con Canzio, sarebbero arrivati due o tre giorni dopo… se ci avessero detto che non dovevano arrivare mai, saremmo usciti addirittura dai gangheri e chi sa quale determinazione avremmo preso!

Ai nuovi volontarii furono distribuite delle carabine Weincester, bellissime armi ma che forse esigevano un po' troppo perizia in chi le adoperava; avevano esse diciotto colpi di riserva, erano elegantissime e quando se ne vedeva una in mano di qualche Garibaldino, ci si affollava intorno a lui, e con noi si affollavano a bocca spalancata i buoni popolani della città; difatti nelle piazze, nelle vie principali tu non avresti veduto che gruppetti di gente, e in mezzo a questi un volontario che dava tutte le spiegazioni possibili e immaginabili in mezzo allo stupore e alla soddisfazione generale.

Bisogna esser giusti: nell'ultimo periodo della campagna i volontarii non erano armati malaccio: i Carabinieri Genovesi avevano per esempio delle buone carabine Spencer, con sette colpi di riserva nel calcio: unico danno come diceva, poco anzi, era la difficoltà con cui potevano adoperarsi da mani inesperte; per cui avrei reputato cosa molto migliore il dispensare fino dal bel principio quei Remingtons che furono dispensati, come sempre succede, quando non ce ne era più alcun bisogno.

Ai nostri soldati non si distribuiva alcun rancio: si dava loro un franco il giorno, se erano di fanteria; uno e venticinque centesimi, se di cavalleria: questo provvedimento, se era molto noioso per quando le truppe si trovavano in marcia o nei passetti, era assai comodo per quando le si trovavano in Digione. I cittadini non si potevano infatti mostrare nè più ospitali, nè più generosi: accoglievano a braccia aperte nelle loro case i giovani loro difensori e li trattavano cavalierescamente. Gran bella città Digione—mi diceva un mio amico—anche con pochi soldi ci è da farsi un peculio!… È un fatto che gli abitanti delle Côte d'Or ci volevano un ben dell'anima; bastava che le trombe del Tanara suonassero la ritirata perché s'improvvisasse una dimostrazione con grandi evviva a Garibaldi e all'Italia; allorchè fu data onorata sepoltura nel cimitero alla salma del bravo tenente Anzillotti, tutta la popolazione prese parte alla cerimonia pietosa, ed assistè religiosamente ai discorsi del Tanara e di Canzio, quantunque fossero proferiti in lingua italiana: si erano troppo assaggiati i soldati della grazia di Dio per non fare buon viso ai soldati della Libertà.

La concentrazione di truppe continuava: giungeva pure in Digione l'altra legione italiana comandata dal Bavelli: questa era costituita di tre battaglioni, della forza di circa quattrocento uomini per ciascheduno; se il nome del comandante giungeva a tutti nuovissimo, vi erano sotto di lui bravi soldati e bene esperimentati patriotti. I maggiori Pastoris, Ravá, i capitani Becherucci, Romanelli, Sartori, il tenente Ademollo e tanti altri che non cito, perchè ciò troppo mi trarrebbe fuori dal seminato. La legione era organizzata militarmente più di ogni altra; aveva anche una piccola fanfara, nè eccellente, nè perfida, ma lassù applauditissima.

Il trovarsi tutti riuniti produsse un brio generale: mai le strade della capitale della vecchia Borgogna hanno assistito a un movimento, a un brusio simile a quello di queste belle serate: ogni poco si riconosceva qualcuno: ogni poco uno schioppettio di baci ti solleticava dolcemente l'orecchio; e conforti reciproci, e augurii di future vittorie, e strette di mano e ricordi del passato s'incrociavano, si avvicendevano tra i varii individui. Oh!… Chi ci rende quei momenti felici in cui non si pon mente al domani, in cui, tanto vicini alla morte, si ritrova la calma e l'allegria del fanciullo, in cui lasciata ogni maschera di convenienze sociali, si parla col cuore sulla bocca, e si dà l'ultimo soldo all'amico, persuasi di non fare nemmeno una gentilezza, ma di adempire a un dovere!.. E ancora qui dal tavolino della mia camera, raffazzonando questi appunti, io vi veggo sfilare a me davanti, o simpatici volti dei miei compagni d'arme, e mi par d'esser tornato in mezzo alle vie rallegrate dal vostro chiasso e dalle vostre canzoni: molti di voi non sono più, ma se soltanto chi lascia eredità d'affetto ha gioia dall'urna, voi vivrete eternamente nella memoria del popolo, come vi giuro, che eternamente vivrete nella mia.

All'oscuro, come eravamo, sui movimenti del nemico, tutti noi eravamo convinti che Garibaldi avesse intenzione di tentare un gran colpo. È pur la brutta cosa esser soldato!… Non saper mai nulla su quello che hanno intenzione di fare i superiori ed avere in capo una curiosità, come avevo io!

La nostra perplessità non poteva durare molto a lungo: la domenica, 15 gennaio, una guida che doveva portare un dispaccio al Maggiore Farlatti, tornò quasi subito, annunciandoci che a poco più di tre chilometri dalla città vi erano i Prussiani. In questa stessa domenica, passeggiando lungo il viale del Parco, bellissima passeggiata con un getto d'acqua assai da ammirarsi, mi sentii toccar leggermente sulle spalle. Mi voltai immediatamente, e non potei fare a meno di proferire un grido di stupore.

Quella mano che mi aveva così gentilmente toccato, era la mano d'Aissa. La gentile ragazza indossava un bellissimo costume da vivandiera, tutto in velluto nero; il suo piedino aristocratico faceva mostra di tutta la sua eleganza, a causa della corta sottana; un piccolo rewolver le stava alla cintola… era insomma un bel tipo.

—Voi qui?—Le dissi.

—Mi credevate incapace di mantenere una promessa.

—No… ma… e con chi siete?

—Sono con i mobilizzati dell'Isere… non vedete, son vivandiera!

—Mi rallegro con voi… E ci potremo vedere?

—Chi sa… ora vi lascio!

—Restate un pochino…

—È impossibile… son là col mio… col mio… non so come chiamarlo… è geloso come una jena… A rivederci.

Le strinsi la mano, e guardai questo… non so come chiamarlo… e vidi un capitano della guardia mobile, brutto come un brigadiere delle guardie di sicurezza o poco meno; piccolo e grasso come una botte. Capii la di lui gelosia… e lo compiansi: egli non era che un pas per tout per la avvenente fanciulla, che aveva trovato modo di distrarsi e di essere utile a quella società, dalla quale aveva ricevuto tanti sgarbi e alla quale aveva fino allora arrecati tanti danni.

Avevo appena veduta questa vecchia conoscenza (dico vecchia perché una conoscenza di un mese in quegli eccezionali momenti si può dichiarare per antichissima) quando cominciò a cadere a larghi fiocchi la neve, e questa persistè ostinatamente fino alla sera: ci alzammo al mattino dipoi e continuava la poco aggradevole sinfonia: il neigait, il neigait, il neigait, proprio come nella ritirata di Russia, così ammirabilmente dipinta da Victor Hugo nei suoi Chatiments. Figuratevi, quale allegria non fosse per noi, il vedere tutti quei tetti acuminati, candidi come l'anima di una verginella; il passeggiare quelle vie, quelle piazze dove si affondava fino a mezza gamba, l'ammirare i nasi dei nostri compagni di sventura rossi come peperoni, seccati chi sa da quanti anni!.. Ed il cielo ci fece questa burletta fino a notte avanzata; decisamente il cielo sapendoci nemici del trono come dell'altare, ci voleva amministrare una di quelle lezioncine paterne, che ci facevano ricordare la dottrina Cristiana del cardinal Bellarmino.

Quella sera noi non potevamo godere: poiché ci ricorrevano al pensiero quei disgraziati nostri fratelli che si trovavano accampati o agli avamposti. Poveri diavoli—si susurrava, scaldandoci davanti a un bel fuoco—Poveri diavoli, quanti di loro hanno con gioia abbandonate tutte le dolcezze di una vita beata, e forse ci sarà chi oserà mettere in dubbio la purezza delle loro intenzioni, la lealtà dei loro propositi, la fede che li ha sostenuti in mezzo a quest'avvicendarsi perpetuo di peripezie, che a malapena si credono nell'udirle narrare?! Meno male, che la bestemmia dei tristi giunge più cara agli orecchi di chi fa il proprio dovere, della lode dei buoni. Declami pure, rida pure la gente che non si muove da casa se non quando vi è la prospettiva di un grande interesse… l'armata dei Vosgi ha troppo la coscienza di quello che ha fatto per poter dare ascolto ai ragli e agli impotenti grugniti dei pravi.

CAPITOLO XII.

Così giungemmo al dì 17 gennaio dell'anno di Grazia milleottocentosettanta.

Il cielo si era un po' rischiarato: ci destammo un poco più tardi del solito, poiché in dormiveglia ci sentivamo solleticare gli orecchi dal monotono tic tac dell'acqua che sgocciolava dai tetti, su cui si sfaceva la neve.

Andammo al quartiere, nulla di nuovo; allora lasciati i compagni, me ne tornai a casa a tener compagnia al Materassi che avendo mandato ad allargare uno stivale, si trovava nella dura situazione o di marciare a pie' nudo, o di aspettare il comodo del cittadino calzolaio; sdraiato in poltrona, ed in faccia ad un camminetto le cui fiammate eloquentemente addimostravano le prodigalità… dei nostri padroni di casa. Materassi aveva prescelto quest'ultimo partito, e con una posa tra il Pachà e il cuor contento aspirava voluttuosamente le boccate di fumo, di una pipa da dieci soldi, che riteneva come un ricordo di Lione.

Io era sdraiato su di un'altra poltrona davanti a lui: si discorse per due ore buone: si discorse delle nostre padroncine di casa che tutti ci elogiavano e che noi non avevamo per anche vedute: si fecero un centinaio di progetti per giungere ad ammirare queste famose beltà: si parlò di una nuova mitragliatrice che avrebbe ottenuto portentossimi effetti: questo nuovo ordigno di guerra, invece di mitraglia, doveva vomitar dei marenghi, e le truppe dell'inimico sarebbero state sbaragliate più presto… ma sul più bello della discussione, sentimmo un gran rumore per le scale: l'uscio s'aprì improvvisamente, la nostra padrona, con una fisonomia da metter paura in corpo all'uomo più sconclusionato del mondo, si buttò ai nostri piedi, gridando a squarciagola: Les Prussiens, Les Prussiens!

Les Prussiens?!—Grida il Materassi—Che siano giù per le scale?!

—Ma dove.. ma come.. ma quando?

—Per carità partite.

—Oh! non abbiamo bisogno delle vostre preghiere! Prendo le scale e vado..

—Va'.. prima a pigliarmi lo stivale.. eppoi partiremo insieme.

—Ma ora..

—Permetteresti che io non venissi con voi?

—Hai ragione: in due salti, vado e torno

Scendo in strada: un movimento da dar la vertigine: un correre da tutte le parti: un ritirarsi continuo dei cittadini dentro le porte: a tutte le cantonate squilli di tromba che chiamavano a raccolta; e un chiudersi di botteghe, un vocìo di donne che dalle finestre si raccomandavano.. insomma una desolazione, uno spavento tale da non farsene idea; spavento e desolazione che non hanno altro riscontro all'infuori di quello prodotto da false notizie nella serata del ventitre.

Via via che mi inoltravo verso la piazza, vedevo battaglioni di guardia mobile che s'indirizzavano verso le porte della città; il contegno di queste genti non era bellicoso di certo e sembravano più montoni condotti al macello, che difensori di un sacrosanto principio. Difaccia alla Mairie incontrai la legione Tanara: i Garibaldini cantavano. Addio mia bella addio e interrompevano l'inni, soltanto per prorompere in acclamazioni entusiastiche alla Repubblica e a Garibaldi. Eppoi mi trasvolarono difaccia agli occhi due batterie con i cavalli a trotto serrato; quindi venne la volta della brigata Ricciotti; il simpatico giovane era alla testa, ed i suoi Francs tireurs, col volto raggiante di gioia, colla testa alta, col passo accelerato, quasiché loro tardasse il trovarsi a fronte col'oppressor della Francia, avevano intuonato il magnifico inno dello Chenier:

C'est la republique, qui nous apelle . . . . . . . . . . . . . Un Francais doit vivre pour elle Et pour elle un Français doit mourir.

—Dunque ci siamo per davvero?—Dicevo tra me e me, esaltato anche io dalla febbre generale, trascinato dal potentissimo fascino dell'entusiasmo—A rivederci a fra poco, o giovani soldati della libertà, o eroica falange dei pochi che tra l'ignavia dei più vogliono essere gli apostoli, i rivendicatori dell'umanità conculcata!… molti di voi stasera non risponderanno all'appello, le vostre file diraderà la mitraglia: siete giovani, ardenti, pieni di salute tra poco sarete mutilati…. e che importa?.. Il vostro nome resterà eterno sulle labbra dei reietti e dei diseredati, unica gente che ha cuore, essi insegneranno ad adorarvi, siccome martiri, ai figli, e voi non morirete del tutto…

"……. Ai generosi," "Giusta di gloria dispensiera è morte."

Arrivai dal ciabattino; lo stivale era nell'identico stato di quando era entrato in bottega; lo agguantai non senza stiacciar qualche moccolo e a passi di corsa ripresi la via.

Io sono molto nervoso, e la fantasia in me è proprio un cavallo che non sente alcun freno: quel movimento, quelle grida, quell'entusiasmo mi avevano dato il capogiro ed io saltava come un pazzo, agitando lo stivale, in mezzo alla folla. O.. sentite un po' cosa mi va a capitare per dato e fatto di quei baggei di mobilizzati, allucinati, secondo il solito, da una paura birbona!….

Il vedere un'individuo, vestito metà da cittadino e metà da soldato, vederlo andare di corsa ed esaminando la di lui fisonomia che certo non era francese, fece nascere in quei cervelli balzani l'idea che l'individuo in questione non fosse che una spia dei Prussiani. Immaginatevi dunque che bella improvvista mi si preparava: giacché colui che veniva preso di mira non era altri che il signor Mestesso. Chi sa da quanto tempo io era pedinato da coloro che invece di correre in faccia al nemico preferivano restare in città, ad arrestare chi voleva andarci; io non mi era minimamente avveduto di nulla. Allo svolto di Rue Piron, mi rattiene nella disordinata mia fuga, un braccio che mi avvinghia alle spalle: mi volto per rispondere per le rime, al villano che si azzardava fermarmi e mi veggo in men che si dice, circondato da una folla di gente, che mi squadrava in cagnesco, e che emetteva grida tutt'altro che rassicuranti.

—Cosa volete?—Proferii io maravigliato.

C'est un espion… c'est un Prussien!

—Ma no… io sono un Garibaldino!—Risposi in francese.

—Non è vero.. non è vero!—Urlava più che mai indemoniata la folla..

—Me vi dico di sì… ve lo garantisco.

—Alla Mairie, alla Mairie

—Dalli alla spia!…

—Abbasso i Prussiani!

Caput a Bismarck!

Non ci è che dire io doveva esser proprio una spia; garantisco che in tre campagne, e tra le mille peripezie che hanno agitato la mia esistenza, garantisco di non aver mai passato un momento più brutto di quello. La folla si aumentava a vista d'occhio e di momento in momento diventava più minacciosa: mi aspettavo di udir gridare: à la lanterne e di sentirmi appiccare ad uno dei prossimi lampioni.

Per buona fortuna passò il nostro tenente, che attirato dal chiasso, si avvicinò per curiosità al gruppo tumultuante; non sto a descrivere lo stupore dal quale fu preso, vedendomi in mezzo a quei disperati; il tenente era in alta montura e tutti gli fecero largo.

—Che c'è?—Mi domandò

—Si figuri, che mi hanno preso per una spia!

—Baie!

—Sul mio onore.

Il tenente che ne avea pochi degli spiccioli fece allora una paternale numero uno, a quei mobilizzati che pretendevano di fare il sopracciò a tre chilometri dal campo di battaglia: questi accettarono la reprimenda a viso basso e confuso e ci lasciarono passare.

Appena scongiurato il pericolo, io mi rivolsi al mio salvatore e gli domandai: Ma dunque ci si batte sul serio?

—Sembra di sì… Anzi venga con me al quartier generale, che presto partiremo anche noi!

—A piedi?

—Ben'inteso: quando non ci sono cavalli!

—Vado ad avvertire Materassi e vengo subito.

—Gli raccomando sbrigarsi!

—Non dubiti: vado e torno!

Materassi mi accolse con un diluvio d'imprecazioni, a causa del ritardo: l'imprecazioni arrivarono poi al grado superlativo, quando io gli mostrai lo stivale, preciso come l'aveva dato al mattino. Che fare? Tempo da perdere non ce ne era dicerto: bisognò prendere un'eroico proponimento, e con un rasoio spaccarlo sopra la fiocca… Se Materassi avesse saputo che doveva terminare la campagna con quello spacco, non troppo elegante, chi sa, se avrebbe avuto il braccio tanto fermo!

In due salti si arriva al quartier generale, i nostri compagni erano già partiti: si domanda alle sentinelle per dove hanno preso ed esse c'indicano la vicina strada della stazione; allunghiamo il passo e tentiamo raggiungerli: per la strada non s'incontra nessuno: tutto è calma all'intorno ed un combattimento non può essere ancora incominciato: meno male, pensiamo tra noi, sentiremo il primo saluto, ma più ci si avvicina, maggiore è il silenzio,

Fatto appena un chilometro, sempre per una strada, fiancheggiata da campi che ci sembrano incolti, e da estese pianure, su cui si alzavano a poca distanza da noi i due promontorii di Fontain e Talant, cominciammo a vedere dei Franchi tiratori, delle Guardie mobili, dei Garibaldini tra cui qualche Guida. Domandiamo il perché se ne tornano, ed essi ci rispondono che tra poco tutte le truppe rientreranno in Digione: che i Prussiani che erano alla viste, nonché avanzare, si son ritirati, e che gli Chasseurs han preso due cavalli ai cavalieri nemici. Queste informazioni erano più che veridiche: pochi momenti dopo, passava il Generale e lo stato maggiore; noi rientrammo in città, insieme alla legione Tanara, le cui trombe suonavano gioiosamente. Non si era trattato che di un falso allarme: un falso allarme equivale ad un appuntamento al quale manchi la bella dei nostri pensieri: io preferisco cinque battaglie, ad una sola delle ore penose dell'aspettativa.

Quella sera la città fu ravvivata da un chiasso dei più clamorosi: o male o bene si era veduto che dei Prussiani ce ne era dintorno a noi, e così avevamo acquistato la certezza di potersi levare il pizzicore dalle mani; non mi provo nemmeno a raccontare tutte le strampalerie che furono proferite: tutti volevan dir la sua su quella sorpresa dell'inimico: chi diceva che era un corpo sbandato, chi che avevano avuto paura, chi che credevano pigliarci all'impensata: in tutti però era certezza, che poco poteva tardare una battaglia.

La mattina dipoi, mentre eravamo a chiacchierare sul più sul meno sulla piazza delle Mairie, vedemmo il colonnello Bossi con due guide, e dietro a loro una diecina di prigionieri Prussiani. Appartenevano tutti al 61 Reggimento, e procedevano stupidi e mogi in mezzo a due file di popolo che non risparmiava di tanto ia tanto qualche espressione poco gentile al loro indirizzo. Cercammo avvicinarli: le maggior parte di loro bisticciava alla peggio il francese: ci parlarono delle loro famiglie, come ne parlerebbe un ragazzo lontano: ci chiesero con infantile curiosità dove li avrebbero mandati, e ci domandarono se era loro permesso di accender la pipa e fumare. Io ho osservato che nessuna altra categoria di persone è disposta a bamboleggiare, come i soldati: il pifferaro Scozzese tra l'imperversare della mitraglia a Waterloo ripeteva le canzonette delle montagne native; il coscritto bacia i ragazzi che incontra e gli porta in braccio con quella delicatezza con cui non son use a portarli le serve: il prigioniero, tra le schiere nemiche, spesso tra i fischi del popolo, si perde in che sa quali vaneggiamenti, e fuma imperturbabile. Così è: i regolamenti militari o sviluppano la malinconia in modo da render gli uomini stupidi, o gli rendono feroci più delle belve. Quanto saremo civili, quando avremo abolite le caserme, questo ricettacolo di gente che divora la parte più grossa del ben essere di tutti, a beneficio di quello di un solo!

Questo piccolo incidente ci rallegrò un pochetto, ma la nostra allegria crebbe a mille doppi per una buona notizia che ci fu comunicata ai quartier generale. In un piccolo villaggio poco distante da Fontain una recognizione Prussiana si era impadronita di centoventi capi di bestiame, è poi se ne era andata zitta zitta e quasi di corsa. Il coraggiosissimo colonnello Lhoste dei Franchi Tiratori da alcuni paesani era stato informato del furto che avevano commesso i campioni della Grazia di Dio e della legittimità. Appiattatosi con molti suoi uomini in una boscaglia attese al varco i predoni, e mentre questi se ne andavano sicuri e canticchiando a bassa voce certe canzoni che se erano tedesche, non avevano niente che fare colle ispirate melodie che si sentono sulle rive del Danubio e del Reno, una scarica a bruciapelo originò una confusione universale. Chi cadde nei fossati vicini, chi urlò come uno spiritato, qualcuno rimase ferito, e morti furono pochissimi… chiunque era in grado di farlo, se l'era battuta senza rifiatare nemmeno. Così fu ripreso tutto il bestiame, e il bravo Lhoste coi bravissimi suoi volontari tornò nel villaggio in mezzo alle benedizioni e agli applausi di quei paesani. Non ci era che dire: i Franchi Tiratori non potevano fare a meno di addiventare gli enfants cheríes delle popolazioni: già si sapeva come essi nel novembre avevano ritolto ai Prussiani, piombando loro addosso all'impensata, un centinaio di Garibaldini che traducevano prigionieri: già si sapeva con quanto ardimento essi disseminavansi nelle boscaglie e dietro le siepi, da dove con un fuoco alla spicciolata scombuiavano i nemici, più che, se si fossero trovati in aperta battaglia: già a tutti era noto come i Prussiani ripetessero sempre, che non avrebbero dato quartiere a questi bravi figli di Francia ed ai Garibaldini, mentre trattavano da buoni figlioli gli appartenenti alla Guardia mobile; insomma il nome di Franc tireur ispirava in tutti rispetto, e tutti si fermavano a veder passare questa eletta della gioventù francese che per guerreggiare poteva dare dei punti alla truppa più agguerrita d'Europa. Erano così svelti, così simpatici, così pieni di vita che c'era da andarne matti per l'entusiasmo!

Il battaglione condotto da Canzio a cui dei nostri erano rimasti soltanto mio fratello ed Omero Piccini, fu battezzato col glorioso nome di cacciatori di Marsala, e il comando ne fu dato allo strenuissimo Perla. I Cacciatori di Marsala, i Carabinieri Genovesi e alcuni battaglioni dei mobilizzati dell'Isere formarono la quinta brigata, al cui stato maggiore Canzio chiamò tra gli altri il Canessa.

Questi erano graditissimi avvenimenti per noi; ma il dolce ci doveva essere amareggiato e non poco.

« Ahi sventura, sventura, sventura

Quei celebri cavalli che si attendevano a braccia aperte, che dovevano esser per noi la realizzazione di tanti e sì prolungati desiderii, i celebri cavalli sfumarono come i 140 milioni dell'Onorevole Mezzanotte. Tironi era rimasto a Remoully, dove organizzava uno squadrone di cavalleria per la nugva brigata e noi rimanevamo a piedi… A piedi!.. Oh la desolante parola! Dunque saremo d'ora in là un corpo ibrido, di nuovo genere? Squadrone, speroni, grandi stivali e niente altro. Fortuna che per chi lo vuoi trovare un fucile ci è sempre, e noi fin d'allora proponemmo d'attenerci a questo partito, che fu dipoi attuato a puntino.

CAPITOLO XIII

Il 19 gennaio, sul far del giorno tutte le truppe che erano in Digione presero la campagna: i Carabinieri Genovesi furono mandati d'avanposto, a circa tre chilometri dalla porta Sant'Apollinare, poco distante da una piccola borgata. Essi piazzarono le loro vedette dietro un muricciolo, e poi si buttarono distesi nel campo, come loro era stato ordinato; I Cacciatori di Marsala presero posizione sulla loro destra sempre dietro quel piccolo muro che cingeva quelle coltivazioni: In faccia dietro le case eravi una fitta boscaglia. Il Generale si era portato tra i primi lassù… tutto in fine annunciava per quel giorno un combattimento; ma anche per questa volta la speranza degli animosi doveva esser delusa.

Noi fummo, consegnati al quartier generale e passammo tre o quattro ore di noia, di pena, di continua ansietà; interrompeva solamente la monotonia di quell'angosciosa situazione, l'ordine di portare qualche dispaccio al comando d'artiglieria, alla Marie, a qualche caserma. Non si può immaginare, non che descrivere quale voglia ci prendesse tante volte, di dissigillare quei dispacci, e di giunger così a capir qualche cosa anche noi… in quel momento si sentiva rifluire nelle nostre vene il pretto sangue di quell'Eva che per vera curiosità si giuocò il Paradiso Terrestre. Lo stare inattivi, mentre si presume che i nostri amici agiscano come si conviene, per chi ha un poco di cuore è un vero supplizio di Tantalo: per cui nel cortile dove eravamo, cominciò a farsi un susurro: questo susurro prese delle proporzioni imponenti, in tal modo imponenti che, lasciati due o tre pel servizio, il Ricci ci disse di seguirlo, e tutti contenti prendemmo con lui, il primo viottolo che è fuor della porta, sicuri con ciò di accorciare la via.

Arrivammo difatti in poco più di mezz'ora alle prime linee dei nostri; vedemmo il Generale e Canzio che, ritto in mezzo alla via, osservava tranquillamente col suo canocchiale le mosse del nemico: si distinguevano infatti in lontananza sopra una piccola spianata diversi cavalieri prussiani, (certo uno stato maggiore) e al principiare della foresta ogni tanto abbarbagliava la vista il luccichio di qualche fucile o baionetta: la fanteria prussiana doveva esser ricovrata là entro.

Ci dissero di buttarci, come tutti gli altri, per terra: la cosa era un po' incomoda a causa del fango prodotto dalla neve che si sgelava, ma à la guerre comme à la guerre: quella non era l'ora certo di pretenderla a damerini. Cominciammo poco dopo a sentir fischiar delle palle, i nostri avamposti risposero… poi tutto finì e fu un silenzio lungo, ostinato fino sull'imbrunire: quella gente a cavallo che ci aveva colpito le vista, appena che eravamo arrivati, si era dileguata. Una guida di Ricciotti, il quale con tutta la sua brigata era alla nostra sinistra, si avanzò arditamente per esplorare, e venne ricevuta da una potentissima scarica: la credevamo morta, quando la vedemmo apparire trionfante, avendo perduto soltanto il cappello.

Garibaldi tornò verso la città e noi lo seguimmo: i Genovesi rimasero d'avamposto fino al mattino dipoi.

Quando rientrammo in Digione eravamo in uno stato compassionevole: impiastricciati di fango dalla punta dei capelli a quella degli stivali… eppure le belle donnine ci salutavano e ci sorridevano con grazia: la vezzosa fata che passava le sue giornate dalla tabaccaia ci volle offrire per forza dei sigari scelti, e ci mostrò con fierezza romana, una cappa d'incerato alla manica della quale faceva uno stacco molto sentito la fascia bianca colla croce rossa del soccorso ai feriti. Giunti a casa trovammo sul camminetto una bottiglia di vecchio Borgogna che in quel momento ci apparve più cara di tutte le moine. Oh! non erano sconoscenti i buoni abitanti della Còte d'Or! Le gentilezze di cui ci erano prodighi infondevano nuovo ardore nei nostri petti, e tutti noi anelevamo un combattimento per mostrare che non eravamo indegni della fiducia che in noi riponeasi.

E il combattimento poco poteva tardare: la era questione non di giorni, ma d'ore: se per due volte di seguito avevamo tenuto la difensiva, alla fine attaccheremo noi—si pensava. Garibaldi non è uomo da lasciarsi posar mosche sul naso!—Erano istanti di febbrile ansietà: specialmente la notte; ad ogni rumore ci si alzava dal letto, si correva alla finestra, si tendeva l'orecchio: poi quasi dubitando delle nostre facoltà auricolari, ci s'infilava alla peggio la giubba, si scendeva in strada, si correva alla piazza… tutto silenzio…. tutti dormivano… e allora a rifare i nostri passi, ed a darsi del bambino, del grullo, dell'uomo che s'impressiona per niente, e a giurare di non muoversi più sino a che non venissero le trombe a suonare sotto le finestre di case… sì… bei proponimenti, superbi disegni! Batte una porta, una folata di vento agita gli alberi del giardino, i cavalli della vicina scuderia urtano nella mangiatoia colla testa, o scalpitano sulle pietre del pavimento.. ed eccoci di nuovo in balìa delle nostre fisime..—E se ritornassi fuori?.. Lasciare il calduccino delle lenzuola per andare a scivolare sul diaccio e a battere i denti, mentre vi sono tutte le probabilità che non ci sia nulla di serio!.. Già i Prussiani dì notte non hanno mai attaccato… ma se questa volta attaccassero, se si facesse sul serio?.. Permetterò che i miei compagni si ammazzino, compiano il loro dovere, ed io starò qui, poltrone, a sciogliere un'inno alla beatitudine del dolce far niente?… Oh! no, sarebbe troppo egoismo, confessiamolo pure, troppa vigliaccheria… se non dormo stanotte, dormirò domani, non son mica venuto quassù per stare in panciolle! Bisogna andare…—E via un'altra volta giù in strada e via a correre come un matto, ad arrapinarsi, a ficcare per tutto il naso, che era divenuto un vero pezzo gelato… e allora addio di nuovo belle volontà, addio proponimenti di passar l'intera nottata ad aspettare quelli che non venivano, e dì nuovo nel letto coll'idea fissa di non addormentarsi e invece appisolarsi di subito, destandosi però ad ogni momento, e tendendo l'orecchio, come le esterrefatte madri descritte dal Foscolo.

La nottata passò, e nulla di nuovo ci annunziò il giorno seguente; i Carabinieri Genovesi tornarono dagli avamposti, le legioni italiane non si mossero neppure; per ora tutto annunziava riposo. Che giornata triste, uggiosa, pesante! il cielo era oscuro, la neve caduta nei giorni decorsi era ghiacciata, da un lato all'altro delle vie si poteva patinare e furono fatti sdruccioloni tremendi. Ci dissero di star pronti per il domani; noi trascorremmo cinque o sei ore a chiacchera davanti il camminetto fumando, ragionando di Firenze, che ci appariva come un sogno lontano e delle feste da ballo in cui saranno stati immersi i nostri amici, allora nel pieno sviluppo del Carnovale. Non si sperava che ci rammentassero: un giro di wals, una stretta di mano, un'occhiata procace per la gioventù d'oggi ha molto più attrazione della lotta tra l'Umanità e i suoi carnefici.

Andammo a desinare e trovammo la trattoria, più piena del solito; si assisero al mio tavolino Rossi, Squaglia, Piccini e Stefani: eravamo tutti uggiosi: pareva quasi si divinasse che erano l'ultime ore che si ragionava con qualcuno di quelli che erano tra noi.

Venne a noi vicino il Maggiore Pastoris, accompagnato da un'elegantissima signora: Pastoris ci disse che, quantunque in permesso, egli non aveva potuto resistere all'idea che di ora in ora potea nascere qualche attacco e che non poteva star più lontano da noi.

Bevemmo allegramente tutti: eravamo sul più bello degli anni, tutti ci si sentiva bollire nel sangue l'energia e l'attività.. non dovevano passare venti ore, e Pastoris, Rossi, Squaglia, dovevano esser cadaveri!

Ci ritirammo più di buon'ora del solito, nè, quella sera ci demmo alle baldorie, a noi consuete. Io non credo ai presentimenti. Napoleone a Waterloo preconizzava un secondo Austerlitz, ma o fosse il tempo, o la noia, o qualunque altra ragione, il fatto è che quella sera eravamo di pessimo umore.

CAPITOLO XIV.

Ed eccoci all'Epopea. O giorni sublimi, che resterete onorati fino a che il cuore dei generosi palpiterà alla memoria delle azioni magnanime e dei leggendarii eroismi, al rammemorarvi qual fremito nuovo non m'infondete in tutte le fibre!.. La penna trema nelle mie mani: troppo sono inferiore all'alto subietto!.. Eschilo solo, il possente cantor di Prometeo, potrebbe degnamente parlare di voi, giovani, cui rodeva il cuore, più tenace del favoloso avvoltoio l'inestinguibile desio di redimere l'Umanità: ma ad Eschilo sorridevano intorno le Grazie, abitatrici perenni degli incantati recessi della poetica Grecia, ma ad Eschilo ritornato dal combattimento non faceva difetto l'applauso ed il conforto dei suoi cittadini entusiasti, mentre noi, privi della scintilla creatrice del Genio, scriviamo tra gente che non comprende virtù, che ha pronti per noi i dardi avvelenati del sarcasmo e della maldicenza, che, sempre presta a giudicare una intrapresa dall'esito, corona di lauro e porta in trionfo i fortunosi al Campidoglio, ed accenna ai disgraziati la vicina rupe Tarpea.

Oh!.. questa umanità che dava in premio a Socrate la cicuta, a Dante l'esilio, a Galileo la tortura, la prigione a Camoens, il rogo a Huss e a Savanarola, e la forca a Jon Brownh, questa umanità può e deve serbare un assoluto silenzio sulle eroiche vittime della Borgogna: meglio così; il piagnisteo di plebi codarde, sarebbe un insulto a quei prodi, e dalle loro ossa sorgerebbe una rampogna all'ingnavia dei contemporanei; quando i vivi son morti, parlano un'eloquente linguaggio gli estinti; qualche volta un cimitero ha demolito una reggia. Giunto a questo punto supremo dei miei meschini ricordi, quanto mi grava il non aver sortito dal caso una di quelle intelligenze, che, come aquile, si elevano al disopra dello stupido gregge degli umani! Qui cade ogni scetticismo, qui ogni dubbio non che follìa sarebbe delitto. Esiste, esiste la fede, l'abnegazione, la virtù anche in questo secolo nel quale ci s'inchina ai subiti guadagni, alle problematiche fortune, all'oro, nel quale si calcolano i benefizi di una battaglia da quanto rialza la borsa.

Io ti ho veduta, o sacra primavera d'Italia: io ti ho veduta affrontar sorridendo la morte, correre incontro ai cannoni con la stessa vaghezza con cui una fanciullina corre a cogliere un fiore, accompagnare con guerresche canzoni il fischio delle palle, perdere l'ultima stilla di sangue, col volto ispirato, coll'occhio raggiante, come chi sa di riabilitare, morendo, l'umanità che lo spregia: io ti ho veduta e d'ora in avanti in mezzo alle delusioni continue, alle ambizioni codarde, ai vaneggiamenti ridicoli di questa società trista ed ipocrita, il tuo glorioso ricordo infonderà nuova lena al mio spirito, mi raffermerà sempre più in quei santi principii che mi sono di guida, mi farà affrontare, se pur ne è duopo, a mia volta la morte… La morte?.. Oh! ben felice chi la può incontrare col vostro eroismo!

Calate, o corvi dall'alte montagne e dalle folte foreste vicine… i re della terra vi apprestano per oggi un sontuoso banchetto: i re della terra son vostri degni fratelli, e non si mostreranno oggi dammeno della fama di splendidi, per cui l'inalzano a' sette cieli i cortigiani ed i giornalisti venduti. Da una parte è l'avvenire, la gioventù! dall'altra il passato, il calcolo freddo, impassibile come il destino.

In oggi chi troverà il sistema di distruggere reggimenti intieri in un colpo avrà lauri, corone, commende ed archi trionfali… i medici condotti, questi poveri figli della scienza che sfidano l'inclemenza delle stagioni, i disagi delle montagne, stentano la vita e maledicano la fecondità delle loro compagne di sventura e di triboli… oh, è pur giusta la giustizia dei re, ma qualche volta può anche sbagliare i suoi calcoli!

Il progresso infrange l'edifizio granitico inalzato dall'oscurantismo e sorretto dalla violenza: il progresso debella ogni ostacolo, apparisca pur formidabile. Quando si fora il Moncenisio e si taglia l'istmo di Suez, potrà l'umanità soffermarsi difaccia alla barriera di un privilegio, più d'ogni altro schifoso, perché tenuto su da baionette tuttora rosseggianti di sangue? Che si coronino adunque d'elleboro, che danzino, come pazzi, sull'orlo della voragine, che si inebrino ai baci comprati delle loro Odalische, che votino allegramente quei calici dove il rosso licore dovrebbe rammentar loro il sangue di popolo, da loro indegnamente versato… il Dies irae ha da giunger per tutti, la scienza ha già segnato nell'aule dei re il Mane, Tekel, Fares, ed incapaci di rinvenire nell'estremo momento il coraggio di Sardanapalo, noi li vedremo ricchi accattoni girellare nel mondo, sfuggiti da tutti come belve feroci, impotenti e rabbiosi!..

Brillava ancora qua e là per il cielo qualche stella, che man mano sbiancandosi andava a svanire nell'infinito come un generoso proposito di una anima debole, e noi eravamo al quartier generale. Passammo lì molte ore senza alcuna novella, quando ci fu detto che anche per quel giorno non eravi alcuna cosa di nuovo; ma che però, stessimo pronti per il domani che nel domani avremmo avuto una grande, una decisiva battaglia. Rossi, Piccini, gli altri nostri amici della Compagnia Genovese, ci confermarono l'esattezza di ciò che si sentiva e tutt'insieme giurammo di pigliare la sera una sbornia solenne, per rassomigliare almeno in qualche cosa a Leonida e ai suoi trecento spartani che, come ognuno sa, banchettarono allegramente prima di farsi incontro alle tremende falangi di Serse, dandosi appuntamento pel dì dopo all'inferno… e nessuno di loro mancò alla propria parola… Beati quei tempi!

Sul mezzogiorno però a tutti i canti della città suonarono le trombe; i soldati furono in fretta e in furia mandati fuori della città… il cannone tuonava: questa volta ci si era davvero.

Tutti si corse come un sol uomo, al palazzo della prefettura: là trovammo il nostro tenente Ricci—Si vuole andare—Gridammo a coro pieno—Andremo, rispose lui, anche senza arme, e poco dopo tutti ci movemmo, senza curarsi nemmeno di avere un fucile.

Passammo dalla Porta sant'Apollinare dove trovammo Bordone con tutti i suoi ufficiali: prendemmo a passo di corsa un viottolo, desiosi di anticipare il momento, che anelavamo da sì gran tempo. Ad ogni minuto il rimbombo dell'artiglieria, rassembrava una voce potente che ci accusasse di essere lontani dal pericolo: i circostanti campi erano ghiacciati: ghiacciati i fossi che fiancheggiavano la via, eppure si sudava, eppure il cuore ci batteva forte forte nel petto e noi avevamo la lingua fuori. Ad ogni colpo un sol grido elevavasi da tutti noi, un sol grido che chiaramente mostrava la nostra animazione, la nostra bramosia, il grido di: Avanti!

A mezzo chilometro dalla città, incominciammo a trovare delle guardie mobili, o appiattate, o che si ritiravano: noi non facemmo loro alcun rimprovero, ma invece con la più buona maniera del mondo, si richiedevano del loro fucile. Molti lo diedero assai volentieri; molti altri, inorridisco a dirlo, ce la venderono: pochi, messi su dall'esempio, ci seguitarono. E intanto pochi passi ci mancavano ancora per arrivare a Fontain; una salita, molto erta, e ci si era; facemmo quella salita di corsa.

Al limitare del paese, due palle attraversarono la via; i più giovani abbassarono istintivamente la testa, noi godemmo per aver raggiunto finalmente la meta. Fontain era desolato: chiuse tutte le case, non un abitante per le due o tre vie che costituiscono questa borgata.

Prendemmo la prima strada che ci si parò innanzi alla vista, ed arrivammo ad una piazzetta, che è proprio sotto alla piccola collina, sulla quale è situata la chiesa. La mitraglia imperversava, al nostro arrivo: i piccoli muri che custodivano i vicini giardini, erano battuti, scalcinati, rovinati addirittura da quest'uragano di nuovo genere: andare in mezzo alla spianata sarebbe stato impossibile; meno male che fu l'affare di pochi secondi!… Addossati a una cancellata di un giardino, lì trovammo Kane, Niklatz è le altre due guide che erano state attaccate al seguito del generale Bossak..

Kane mi trasse dapparte, e mi sussurrò negli orecchi: Si crede morto Bassak: è da stamani che noi non l'abbiamo veduto….

Montammo su alla chiesa, una sezione d'artiglieria stava ai due lati della modesta parrocchia; il colonnello Olivier, assisteva alle operazioni dei suoi cannonieri: e a pochi passi da lui, con un sangue freddo invidiabile, col suo breviario sotto il braccio se ne stava il prior di Fontain. Il fuoco degli assalitori era diminuito; di tanto in tanto qualche nuvoletta di fumo appariva improvvisamente sul Orizzonte, e qualche scaglia veniva a cadere ai nostri piedi.

—Datemi un po' il canocchiale—Domandai a un'artigliere, un bellissimo giovane.

—Tenete mi disse e non fu capace di darmelo che una palla gli faceva schizzare il cervello… Fu l'unica palla di fucile che sentimmo ronzare in Fontain,

Intanto un vivissimo fuoco di moschetteria cominciò a sentirsi dalla parte della vicina Talant. Talant e Fontain son due collinette isolate, che si elevano in una estesa pianura, frastagliata qua e là da piccoli rialzi, e nel cui fondo è il piccolo paese di Daix, che era stato sgombrato al mattino da due battaglioni di guardia mobile che l'aveano in custodia. I Prussiani si erano spinti verso Fontain, poi ritirandosi con una mossa improvvisa, si erano ricostituiti dietro il villaggio di Daix, per piombare in grandi masse sopra Talant: per conseguenza il fuoco di fronte a noi potea dirsi quasi cessato; mentre cominciava, e senza posa, sulla nostra sinistra.

—Che facciamo?—Domandammo al Ricci.

—Andiamo laggiù…

E tutti scendemmo la strada e per far più presto entrammo nei campi: lì cominciò la bella sinfonia delle palle… Addio Italia, pensammo tra noi, addio occupazioni della nostra vita scapata… un grido ci tolse alle reflessioni… il povero Gaido, colpito in mezzo del cuore, cadeva a pochi passi da noi.

Si procede… riscontriamo un ferito che vien trasportato a braccia alla vicina ambulanza… Ciao ragazzi, ci dice, viva la Repubblica e noi si procede ancora e vediamo il prode capitano Vichard, capo di stato maggiore del Bossak, dilaniato da cinque ferite.

—Portalo all'ambulanza—Mi grida il tenente.

—Ma…

—Poi ci raggiungerai… tu sai dove siamo!

E io e il Bocconi, preso a braccetto il Vichard, rifacemmo quella via sempre in mezzo all'imperversar delle palle, almanaccammo una buona mezz'ora per trovare questa benedetta ambulanza, e quando ci fummo arrivati, fummo dolorosamente sorpresi nell'osservare, che punto più esposto di quello alle palle era impossibile il ritrovare; lì ci era addirittura una grandine e molti feriti, credo, vi ricevessero il colpo di grazia.

Dopo poco raggiungemmo i compagni….

Ed ora spingiamoci sotto Talant, dove aveva da essere la sublime ecatombe, dove Garibaldi in persona, a cavallo, in prima linea capitanava il combattimento. Nei campi sulla destra del paese avevano preso posizione, e si accingevano a rintuzzare l'assalto dei Prussiani, la Compagnia Genovese (capitano Razzeto) i Cacciatori Spagnoli, del cui capitano sono rincrescevole di non sapere il nome, e gli Egiziani, comandati da Zauli. I cacciatori di Marsala erano in sostegno di queste compagnie. La legione Tanara era dall'altro lato della via, mentre Ravelli coi suoi era in riserva nel paese. Tutta la terza e quinta brigata erano insomma lassù.

Dai vigneti, dalle ville poco distanti i Prussiani cominciarono un fuoco d'inferno: gli alberi erano scheggiati ad ogni minuto; le siepi si stroncavano, producendo un fracasso indescrivibile: ogni poco si spengeva per sempre una generosissima vita; ogni poco erano gemiti, strida, imprecazioni; gli strazianti lamenti degli uomini avevano riscontro in que' dei cavalli… povere bestie innocenti, che ad ogni poco cadevano stramazzoni per terra in quella grandinata di proiettili, che di minuto in minuto raddoppiava d'intensità.

I nostri erano imperterriti come vecchi soldati: gli Spagnoli ammirabili; nelle legioni Italiane non mancavano spiritosaggini, nè arguzie..

—Guarda, se con quegli elmi non paiono civiconi del quarantotto!—Diceva uno.

—Mirali bene… che vadano a godere della sua grazia di Dio!

—Coraggio amici, si gioca l'ultima carta… o si sballa o saremo eroi.

Conforti reciproci, incoraggiamenti non mancavano certo in quelle file che decimava la morte. I Prussiani avevano fatto delle feritoie in un muro difaccia e con tutta la sicurezza possibile miravano come se fossero al bersaglio.

Nella prima mezz'ora, Squaglia ebbe una palla in bocca che poco dopo lo rese cadavere. Povero Squaglia!… Quasichè presentisse la morte aveva dato a tutti i compagni la sua carta di visita con l'indirizzo preciso della propria famiglia.

Canzio, come sempre elegantissimo, se ne stava in capo alla via, puntando i nemici col canocchiale, indifferente come se puntasse una bella donna al teatro. Canessa era a pochi passi da lui. Menotti, Bizzoni, Tanara, Erba trapassavano recando ordini, incoraggiando col loro contegno i più timidi in mezzo a quel turbine di palle di ogni qualità, che ci aveva ridotti, alla lettera, sordi. Garibaldi esposto come tutti gli altri, più di tutti gli altri alle micidialissimo scariche del nemico, era sorridente, tranquillo e faceva nascere nel cuore d'ognuno un sentimento tale di dignità e di rispetto che credo, sarebbe stato per chiunque impossibile il mancare al proprio dovere.

I nostri si mandarono a dare due cariche alla baionetta, cariche che furono ricevute accanitamente dal nemico… Quante nobili vite non furono spente!.. Il terreno era chiazzato di sangue, ad ogni passo impediva l'andare un cadavere, via via che si procedeva i morti erano ammonticchiati l'uno sull'altro.

E intanto si avvicinava la sera; e un'acqua fine fine ci filtrava nell'essa; fu allora che vidi Mis Wite Mario passeggiare intrepidamente lì proprio in prima fila con un sangue freddo da fare invidia a un vecchio soldato; chiunque ha preso parte alle tremende giornate di Digione, deve serbare eterna memoria di questa eroina, che abbiamo veduta trasvolarci davanti, come un'esempio vivente di quanto può fare una donna animata da generosi propositi; lei hanno ammirata al proprio fianco i combattenti, lei hanno salutata come affettuosa sorella i feriti; lei hanno riverito gli stessi nemici, in mezzo ai quali passava dalle nostre file, per poter recare un sollievo a chi era in angustie, per potere avere informazioni sicure su certe cose che rimanevano al buio.

Mai la morte ha mietute tante vite magnanime in pochi momenti, come quella sera a Talant. Gli Spagnoli si erano ridotti ad un piccolo nucleo ed avevano perduto i loro ufficiali, lo stesso era degl'Egiziani il cui prode tenente Zauli giaceva ferito; morto il bravo tenente Gniecco dei Genovesi, ed esanimi al suolo giacevano già Salomoni, Imbriani, Settignani, e Pastoris.

L'ecatombe stava per compiersi: a quelli in prima linea mancavano le munizioni, e l'ostinatezza dei Prussiani raddoppiava: mentre difatti essi avevano sgombrato quasi tutto l'esteso terreno che ci stava dicontro, si agglomeravano in faccia a Talant, a Talant i di cui difensori oramai potevansi calcolare a poche centinaie. Avevano i nostri avversarii occupata una cascina al disotto del paese, e si avanzavano a pelettoni serrati, e tirando su noi con una continuità straordinaria.

Vien dato al battaglione dei Cacciatori di Marsala l'ordine di avanzarsi e di caricare il nemico. Lo strenuissimo Perla col volto raggiante, con piglio da infonder coraggio ad un morto si pone alla testa. Genovesi, Egiziani, Spagnoli, quelli delle altre legioni, tutti si raggranellano dietro di lui, tutti sono ansiosi di morire da forti o di veder rinculare il nemico. Molti non hanno più cariche molti sono sfiniti dalla stanchezza, molti non resistono più in mezzo a quella desolazione e vanno incontro a una palla tanto per finirla una volta con questo mondo codardo; avanti, gridano gli ufficiali, avanti ripetono i più animosi, avanti grida nel cuore l'amore dell'umanità e della repubblica, avanti la voce del dovere e tutti, come un sol'uomo, si accingono alla titanica impresa. Cinquecento cori battevano in quell'istante all'unisono!…

Viva la Repubblica, viva Garibaldi … giù la baionetta ed a passo di corsa contro i soldati di re Guglielmo. Il fumo impedisce la vista: in quella penombra, prodotta anche dall'ora divenuta tarda, ad ogni secondo si vedono guizzare immense strisce di fuoco; si procede pestando i cadaveri e seminando a ogni poco di nuovi cadaveri il suolo; i Prussiani essi pure si avanzano, ma lentamente; il cozzarsi è divenuto inevitabile e sarà un cozzo tremendo.

Lo slancio dei nostri è impetuoso… troppo impetuoso: Perla, il veterano di tutte le campagne dell'indipendenza stramazza per terra mortalmente ferito: Cavallotti è morto; moribondo il tenente Rossi di Lodi: i soli cacciatori di Marsala hanno 17 ufficiali fuori di combattimento. I Prussiani si asserragliano in due casette; vien dato anche ai nostri l'ordine di ritirarsi; rimanendo la sola legione Ravelli a guardia di Talant…

—Vieni via—Grida il Piccini al Rossi, quando tutti si erano ritirati.

—Fammi utilizzare anche le ultime due cariche che mi sono restate—Questi rispose… e si avanzò verso il nemico. Un vivissimo fuoco di moschetteria, l'ultimo che si eseguisse in quel punto, uccise il nostro amico diletto, il nostro compagno di tante sventure e di tante peripezie. Nessuno più lo rivide: il giorno dipoi sapemmo da una guida che egli era morto in conseguenza di tre ferite: due nel petto ed una nella faccia.

Ci ritirammo; il cielo era ingombrato qua e là da densi nuvoloni; gli alberi sembravano giganteschi; al fragore prolungato di poco fa era succeduto un silenzio cupo, lugubre, interotto solamente a lunghi intervalli da qualche colpo; rientrammo nella gran strada e qui un viavai di carri, d'ambulanze, sopra uno dei quali vidi la simpatica donnina che avevamo veduto dalla tabaccaia, e trasporti di feriti, e imprecazioni di morenti, e un chiamarsi ad alta voce tra i carri e un domandarsi informazione, accolte ora da sospiri, ora da bestemmie, ora da un «meno male» proferito in senso stizzoso e soddisfatto; nei campi adiacenti si vedevano a quell'incerto chiarore molti cadaveri; la luna si mostrava timidamente in mezzo alle nubi. Mi venne in mente la leggenda popolare che sostiene Caino esser stato relegato nella luna; le macchie di questo pianeta mi sembravano in quella sera proprio gli occhi di questo primo fratricida, che ora allegravasi a quella strage fraterna.

Su un carrettone vedemmo insieme a tanti altri lo Stefani che era stato ferito in un braccio; noi c'inoltravamo serii serii in mezzo a quelle confusione; nessuno avrebbe potuto scherzare: un giovinetto si azzardò di intuonar sottovoce una cantilena fu acremente ripreso: erano troppi i morti che avevamo veduti a quell'ora, eran troppe le perdite che ci facevano sanguinare l'anima a tutti e, ce lo perdonino gli spiriti forti, noi si sentiva voglia di piangere. Io comprendo in certi momenti l'indispensabilità di una guerra, comprendo che nel fervore delle pugne ci s'inebrii più che se prendessimo parte a una scena d'amore e di ardentissimo amore, ma, quando tutto ritorna nella solita calma; quando girando gli occhi non vedi che informi ammassi di carne che saran putrefatti tra poco, e che poco tempo fa sentivano, amavano, speravano; quando ripensi al dolore, alla disperazione di migliaia di madri e di vedove, se non detesti questa macelleria d'innocenti, questa violazione delle più care affezioni e dei legami più sacri, bisogna dire che la natura ti ha dotato di un cuore di pietra!.. I Chinesi, che noi abbiamo avuto il coraggio di chiamar barbari sino a questi ultimi tempi, fino dall'età più lontane, come ci dice Laotsu, imponevano ai loro generali di mettersi in lutto, appenachè avevano vinto una battaglia: noi che ci si becca il titolo di umanissimi e di civilizzati inalziamo sulle nostre piazze monumenti ai generali, anche quando hanno perduto, purché abbiano tirato a far ciccia. Evviva la civiltà!

Entrati in Digione, con grandissima nostra sorpresa, trovammo aperte tutte le botteghe; andammo alla solita trattoria… era quasi deserta; quanti di quelli che erano soliti a frequentarci non avevano lasciato la vita, nel breve volgere di otto o dieci ore!…

Ogni persona che entrava, erano domande, grida di sorpresa, strette di mano: e solamente allora si cominciava a forza di racconti a sapere gli episodi gloriosi del combattimento, le perdite che avevamo subito, l'andamento preciso della battaglia.—Il tale…? domandava qualcuno; è morto, gli si rispondeva; e il tale altro?… Morto anche lui… e tutti a sforzarci a sorridere per far gli uomini forti, ma il sorriso moriva sul labbro e ci si sentiva invece un groppo alla gola che ci faceva discorrere stentatamente, e avremmo pianto così volentieri, se il pianto non fosse qualificato per una debolezza da donnicciole.

Le guide del generale Bossak ci annunziarono la morte di questo eroico figlio della Polonia; come erano commosse via via che procedevano nel loro racconto! Non era un superiore quello che avevano perduto, era un fratello: Bossak aveva voluto dar loro di sua tasca ogni giorno il doppio della paga che le ricevevano dal corpo; ogni giorno le voleva a mensa con lui; il primo dell'anno fe' loro presente di qualche marengo: una volta che la brigata mancava di viveri provvide, sempre a sue spese, affinchè nessuno soffrisse la fame. La democrazia faceva una perdita irreparabile con la morte di lui; figlio di una delle più illustri famiglie Pollacche, si era posto a capo della rivoluzione nel 1864, ed esule in Svizzera confezionava le cartoline da spagnolette, tanto per tirare avanti onoratamente la sua famigliola. Appenachè seppe esser la Francia divenuta repubblica, si mise a di lei servizio, e nella mattina di questo giorno glorioso, spintosi alla testa di una ventina di guardie mobili, più arditamente di quello che sogliono fare tutti i generali, aveva incontrato la morte, suggellando col sangue la sua vita esemplare.

Verso le dieci io volli ridurmi a casa: la stanchezza mia è indescrivibile; appena in strada incontrai i Carabinieri Genovesi: saranno stati una trentina; gli Spagnoli che li seguiano erano tutt'al più venticinque: quante vittime in quella giornata: quante nazioni non affratellava quel sangue generoso sparso in prò di una repubblica!

Arrivato a casa, mi scinsi la sciabola: non guardai nemmeno una vecchia bottiglia che ci aveva apprestato la padrona di casa, meditai molto, riandai tutti i più piccoli episodii della strage a cui avevo assistito, poi cominciai ad appisolarmi e un benefico sonno mi tolse alle ansie, alle dolorose. ricordanze, alle considerazioni più o meno filosofiche.

» La gioia dei profani » È un fumo passeggier.

Mi desto di soprassalto è sento di nuovo suonar delle trombe; credo sul principio che ciò non sia che un giuoco della mia alterata immaginazione: aguzzo l'orecchio, vò alla fine-* stra, la schiudo… Non ci è che dire… sono trombe che ci chiamano un'altra volta a raccolta—Ci siamo, dico tra me e non senza imprecazioni, mi ricingo la durlindana e scendo in mezzo alla via. Doveva esser suonata di poco la mezzanotte. I soldati si avviano verso la stazione; io tenni lor dietro.

—Che ci è?

—I Prussiani si avanzano… hanno avuto rinforzi.

—O non si erano ritirati?

—Sì… ma ora ritornano.

—E noi?

—Si batte in ritirata.

—È impossibile… Garibaldi si farà ammazzare ma non vorrà dar loro questa soddisfazione.

—Eppure vedrete… vi dico che si va a Lione.

—Smettete, pazzo!

—Non è vero!

—Se hai paura, và a letto.

—È impossibile!…

Insomma a forza di queste discussioni, si era giunti al cimitero che è quasi difaccia alla ferrovia. Lì trovammo Garibaldi in carrozza, tutto lo stato maggiore e alcuni battaglioni schierati. Degli scorridori prendevano la via onde attinger notizie, o recar dei dispacci. Il freddo era tremendo; tutti si batteva i denti, ci si strisciava le mani, si passava infine un quarto d'ora più climaterico di quello di Rabelais.

Fortunamente, dopo informazioni ricevute, il Generale ci rimandò tutti a dormire: non era stato che un'equivoco, di cui noi avevamo pagato le spese. Mezz' ora dopo, a dir molto, si dormiva di nuovo tranquillamente.

CAPITOLO XV.

Quattro ore di sonno, e poi via di corsa in quartiere: quelli erano giorni che si poteva affermare di essere esempii viventi della teoria di là da venire, del moto perpetuo. La nostra scuderia aveva due nuovi ospiti; due cavalli che Mecheri e Ghino Polese avevano preso sul campo: questi due giovani, il giorno innanzi, distaccandosi con tre o quattro altri da noi, erano corsi in prima fila, ed avevano ottenuto dai presenti gli elogii più ampi per il loro sangue freddo e il loro coraggio: Ghino, da quel capo ameno che era, tra una scarica e l'altra, nel turbinio dello palle faceva un minuetto, destando unanimi sorrisi d'ammirazione… non dico di più, perché non si abbia a dire che l'amicizia ha potere di convertir noialtri scapati in società di mutua ammirazione; chi li ha veduti non potrà dire che come me: con loro fu ferito assai gravemente il nostro caporal furiere Pianigiani, giovinetto Livornese quasi bambino, ma che per fermezza poteva dar dei punti a un vecchio militare; il Mattei, guida pur egli, fu ferito a una coscia da un colpo di mitragliatrice, mentre si disponeva ad andare all'attacco.

Raggranello altri ragguagli del giorno innanzi: delle quindici guide che si erano mosse a piedi col tenente Ricci, due erano morte e sette ferite: il nostro deposito avea dato il suo contingente alla carneficina.

Nella nottata due nostri caporali, Luperi e Aribaud avevan fatto prigioniero il nipote del generale Werder, che si era addormentato in una casetta.

Mi si parla di un Romagnolo, Salvadore Caimi, che, giacente in letto all'ospedale, e dato per spacciato da medici, essendo afflitto da perfidissimo vaiolo, all'udire il cannone saltò giù, si rinpannucciò alla meglio, e corse in prima fila, ove morì, ma non colpito da palla: tutti hanno da raccontare qualche eroismo che hanno veduto, qualche atto di valore di cui furono parte: manco male, non avranno più il coraggio di dire che gli Italiani non si battono! I preti, strano a dirsi erano stati pel contegno loro ammirabili; alcuni signori dei paesi a noi vicini si erano mescolati ai soldati, ed alcuni erano caduti vittime del loro amore di patria. Se la perdita di molti nostri compagni ci faceva essere di malumore, ci era anche di che rifarsi la bocca!

Ci pongono in libertà, raccomandandoci di non scostarsi tanto dal quartier generale: approfitto di questo intermezzo per recarmi a far visita al ferito Stefani; la ferita era leggerissima, e lo avevano di nuovo portato nella sua casa, che serviva anche d'ambulanza. Ci trovai mio fratello, diversi della compagnia Genovese; tutti seduti intorno al fuoco facevano piani di guerra, discutevano i comandi del giorno avanti, rammentavano i morti, godevano ed erano sorpresi di averla scapolata e giuravano che fuoco indiavolato, come quello sotto Talant era più che impossibile, avesse di nuovo a farsi sentire. Vollero di riffa che io facessi una corrispondenza per un giornale di Firenze e tutti ci vollero mettere lo zampino…. immaginatevi che brodo lungo la venne a riuscire, e come mostrasse eloquentemente che chi la scriveva non era un Montecuccoli, nè un Napoleone…. pure ci sembrò un capolavoro di descrizione, una vera pagina di dottrina strategica… ci si contentava di tanto poco, dopo una batosta così indiavolata!

A interrompere la nostra ammirazione, capita in mezzo a noi, come una bomba, il Piccini; aveva l'amico un viso di tramontana da metterci i brividi addosso e non aveva torto; partito a bruzzico insieme al Baldassini per rinvenire il cadavere del suo già indivisibile Rossi, per quanto avesse frugato, gli era stato impossibile effettuare questo disegno; nelle sue investigazioni il giovine Garibaldino erasi spinto tanto in avanti, che si era in una strada incontrato con una squadra di Prussiani, che gli aveva fatto una scarica addosso, scarica alla quale con favoloso coraggio aveva risposto con due o tre colpi, rimanendo illeso proprio per uno di quei miracoli del caso che non si sanno spiegare. A quel che ci diceva, anche in quel giorno avremmo avuto battaglia sicura; confermò questa idea anche l'amico Mecheri, che andato a Fontain a restituire quel cavallo che si era appropriato il dì innanzi, aveva udito un rumore vivissimo di fucileria agli estremi avamposti. Bisogna confessare che queste notizie non furono accolte con molto entusiasmo da noi; quel giorno avremmo bramato di riposare;.. si riposò anche Dio, secondo i cattolici: ma pure se ci fosse l'ordine, se Garibaldi si fosse battuto, senza essere onnipotenti come il Dio dei Cattolici, noi eravamo tomi da cacciar la stanchezza e di fare quello che dovevamo fare. Andammo però alla prefettura.

Il cortile di questa dava l'esattissima idea del vestibolo del l'Inferno di Dante; non mancavano le diverse lingue, le favelle orribili, le voci alte e fioche di chi dava schiarimenti, di chi chiedeva informazioni, di chi narrava i fatti del giorno innanzi, nè mancò il suon di mani, quando comparve la nobile figura di Garibaldi sorridente più dell'ordinario. Montò in carrozza svelto, come ai suoi bei tempi e montò insieme con lui, secondo il solito, Basso. Ci salutò affettuosamente; poi ci disse: Oggi avremo vittoria. Parlò Spagnuolo con due o tre figli d'Iberia che erano poco distanti dal nostro gruppo, e si rallegrò con loro per lo splendido contegno che essi avevano tenuto il dì innanzi: poi i cavalli si misero al trotto, il generale si tolse il cappello in mezzo alle acclamazioni, e, partì seguito da alcuni ufficiali di stato maggiore. Aveva appena oltrepassata la porta che un colpo dì cannone ci annunziò che anche per quel giorno ci si era.

I Prussiani, mentre potevano attaccare Digione al Nord Ovest, la dalla Ferme de Poully, pianura senza la minima ombra di fortificazione, commettendo un'errore che non si sa comprendere nei vincitori di Sadowa e di Sedan, si ostinarono a tornare all'attacco di Talant, precisamente come il ventuno. La brigata Menotti avveva a sostenere adunque l'attacco e il degno figlio dell'eroe dei due mondi ebbe tutti gli onori di quella giornata; diverse compagnie di Franchi Tiratori e qualche pezzo d'artiglieria avevano durante la notte rinforzate le file che dipendevano da lui.

Le legioni Italiane rimasero in seconda fila; ma varii se la svignarono alla chetichella dai ranghi, e corsero tra il fischiar delle palle e l'imperversare della mitraglia, presentendo quasi che la vittoria annunziata da Garibaldi doveva avere la più ampia realizzazione.

I colpi dell'artiglierie si succedevano senza tregua: i cittadini non se ne addavano; quel giorno tutti avevan fiducia. Materassi e Polese erano al seguito del generale, io, Mecheri, Bocconi pigliammo a piedi la via e ci incamminammo verso Talant. Al principiar della strada incontra***MO il maggior Sartorio che provvedeva a che fossero presto recate a compimento molte barricate che s'inalzavano da operai, requisiti a tale scopo. Era una vera giornata di primavera: il sole era splendido, senza una nuvola il cielo: i due paesetti di Fontain e Talant, con le due vaghe colline, staccavano sul fondo azzurro del cielo e invitavano più a godere di quell'aria purissima, e ad inebriarsi in quell'oceano di luce che ad andare a scannarsi. Splendi pure, con tutta la potenza degli animatori tuoi raggi, o ministro maggiore della madre natura, oggi almeno rischiarerai il trionfo della Libertà!

A poco più di mezzo chilometro dalla città, vedemmo cinque o sei cavalli morti; da uno di questi si partiva una striscia di sangue, che, come la mistica colonna che guidò nel deserto gli Isrealiti, doveva guidare i nostri passi fino a Talant. A piè della scala di una casuccia, vedemmo steso morto un giovine Garibaldino; un campagnolo ci mostrò una lettera che aveva trovato nelle di lui tasche… era una lettera della sua mamma; la povera donna sperava di riabbracciare suo figlio nelle feste di Ceppo: la data di quella lettera era di novembre ed il giovine l'aveva tenuta sul cuore tutto quel tempo!

Arrivammo alle nostre batterie; il fumo impediva di poter scorgere ciò che avveniva nel versante a noi sottoposto; un ronzio impertinente di palle ci rendeva avvertiti che i nemici non erano molto lontani. Garibaldi, Menotti, Bizzoni, Sant'Ambrogio in quel momento eran là. Troviamo lo Strocchi che ci avevano dato per ferito, lo abbracciamo e si aggiunge con noi. Il Generale era sceso di carrozza, esaminava i tiri dell'artiglieria e dava consigli agli artiglieri. Uno di marina, che faceva il servizio ai pezzi, puntò due volte il cannone e fece due tiri ammirevoli: le nostre perdite erano fin allora pochissime e i nostri nemici, non che avanzare, perdevano di momento in momento terreno; allora fu comandata la carica alla baionetta.

I Franchi tiratori si lanciarono, come leoni, all'attacco: due zuavi li procedevano di qualche passo, agitando, a mò di bandiera, i guidoni delle compagnie a cui erano stati ascritti. Il momento era sublime! Il fumo si era dileguato ed il sole ripercotendo i suoi raggi sugli elmi dei nostri avversari, faceva apparire qua e là dei subiti guizzi di luce, da farteli scambiare per lampi. Un gridìo continuo, entusiastico, un prorompere di fucilate… eppoi i soldati di re Guglielmo, pestati, inseguiti colla baionetta alle reni, abbandonavano a rotta di collo il campo di battaglia, seminando il terreno di fucili, d'elmi, di feriti e di morti, e ritirandosi per tre chilometri buoni: tra gli altri trofei furono presi sette furgoni d'ambulanza del valore di circa novantamila franchi.

Il bravo colonnello Lhoste però, caricando arditamente alla testa dei suoi audaci Franchi Tiratori veniva mortalmente ferito. La battaglia era compiuta, la vittoria aveva sorriso all'indomito coraggio, allo slancio più che umano dei volontari della repubblica.

Tornammo subito indietro per annunziare la grata novella; quale non fu la nostra maraviglia, quando, fatti pochi passi dal campo, incontrammo delle signore che si erano spinte arditamente fino lassù; signore che infangavano nelle pozzanghere i loro stivaletti aristocratici e che ci salutavano sventolando i fazzoletti, sorridendoci con un'angelica grazia.

Non era gioia, non era entusiasmo quello da cui era presa Digione la sera del ventidue… era ebbrezza, delirio: a mezzo chilometro dalla città era già affollata la via; donne vecchi, ragazzi ci saltavano al collo, ci prendevano tra le mani la testa ci sollevavano dal peso delle anni, ci insegnavano l'un l'altro, gridando a squarciagola: Vive les Galibardiens, vive Galibardi, vive l'Italie. Ci portavano quasi in collo dal mezzo di strada nelle trattorie, e lì ci offrivano da bere, nè ci era versi di rifiutarlo; da ogni parte strette di mano, da ogni parte baci: «come sono giovani» si sentiva ripeter da una parte; son dei bravi soldati, si ripeteva dall'altra… oh! divini momenti, oh! dolci soddisfazioni di chi compie un dovere, capaci di riabilitare la persona più turpe, capaci di fare un eroe del più pusillanime.

Ma echeggia un grido potente, non interrotto, che fa rintronare da un capo all'altro la strada; le finestre si spalancano con forza; le vecchie, rimaste uniche in casa, si affacciano, si spenzolano, agitano le loro pezzole; un fremito nuovo di gioventù rianima quelle fibre affralite dagli anni: non è il vincitore d'ingiuste battaglie quello che passa, è l'apostolo delle cause giuste, è il propugnatore dell'umanità, è l'eroe leggendario, l'uomo incorrotto che con un pugno di ragazzacci fa retrocedere i soldati che han fatto tremare l'Europa… è Garibaldi.

—Viva Garibaldi—Gridano tutti, e popolani, soldati si buttano verso di lui, vanno quasi sotto i cavalli e le rote della carrozza: tutti vorrebbero stringergli la mano, tutti vorrebbero divorarlo dai baci!

—Gridate: viva la repubblica—Grida il buon vecchio—e non sa riparare a salutare, e sorridere.

I soldati che tornano hanno tutti un'elmo, un fucile preso ai Prussiani; un giovinetto ha un piffero e fischia un'arietta in mezzo agli applausi di tutti. Passano dei prigionieri; tutti gli guardano, ma nessuno alza un grido… il popolo sente la generosità per istinto! Per tutte le piazze è baldoria: per tutto si canta, si grida, si applaude: sulla piazza del teatro si da fuoco persino a dei mortaletti: la fiducia generale è rinata; gli elmi dei Prussiani coll'annesso parafulmine fanno le spese di tutta la sera; contento dell'oggi, nessuno cura il domani e tutti dimenticano l'ieri.

Si va a portare il fausto annunzio allo Stefani; sul principio credeva che si scherzasse: gli avevano nientemeno dato a bere che si trattava di fare una capitolazione e che i Prussiani si avanzavano verso Digione a marcia forzata.

Io era stanco morto: tutte quelle emozioni, tutte quelle fatiche mi avevano prostrato: mi pareva che la vita mi sfuggisse ed in camera del mio amico ferito ebbi un trabocco di sangue.

—O guardiamo, se dopo che ti han risparmiato la palle, vieni qui a far la morte della signora delle Camelie? Mi disse il Materassi, che non si reggeva più dalla fatica, essendo stato in giro tutta la notte, e a cavallo tutto il giorno.

—Non gli risposi, perché quest'ultimo incidente mi faceva uscir proprio dai gangheri. Cheto, cheto me ne andai e neppur mezz'ora dopo mi sdraiavo sul letto.

CAPITOLO XVI.

Per quanto facessi, mi fu impossibile in quella nottata il provare un poco di sonno. La testa mi ardeva, la febbre in certi momenti mi procurava la celeste voluttà del delirio; ora mi pareva di essere in mezzo alla mischia, di vedere i nostri giovani battaglioni avanzarsi, sgominare le schiere nemiche, ed annusavo a piene narici il simpatico odor della polvere, e m'inebriavo ai mille episodii di un combattimento e di una vittoria; ora mi pareva di essere tornato in mezzo ai miei cari, e li vedevo a me d'intorno, raccolti, pendere ansiosi dai miei labbri, interessarsi alle vicende delle battaglie, alle storie che raccontavo e vedevo brillar delle lacrime, spuntar dei sorrisi….. Finalmente venne il mattino, e parve che la luce, come fugava le tenebre, fugasse da me i vaneggiamenti della immaginazione malata. Mi alzai ed uscii; quelli non mi sembravano giorni da poltrir sulle piume.

A tutte le cantonate della città era affisso un'ordine del giorno di Garibaldi; ordine del giorno nel quale l'illustre comandante dei volontarii, nonché inorgoglirsi ai fumi delle vittorie e proclamare i suoi soldati per eroi, raccomandava a loro di moderare la foga dei dì passati, di non attaccare in massa il nemico, ma sì in pochi, alla spicciolata, e spronava in special modo gli ufficiali ad adempiere un poco di più il proprio dovere.

Alla porta del quartiere delle Guide, vidi il Materassi che scendeva da cavallo; mi accolse a braccia aperta e mi mostrò delle bottiglie di vino generoso, urlando: Ecco lo specifico per la tua malattia!

Quel vino era stato trovato nelle ambulanze Prussiane e doveva far le spese di un mattiniero banchetto che imbandimmo lì sul tamburo. Era mezzogiorno e, malgrado tutte le dicerio, si cominciava a credere che per quel giorno gli oppressori della Francia non ci avrebbero molestato. Finito il pasto, ce ne andammo tutti a trovare lo Stefani; dopo poco che eravamo entrati nella di lui camera, mi si cominciò ad abbagliare la vista, sentii al palato un sapore di sangue, tossii a più riprese e caddi sfinito sopra il divano. Non so quanto stessi in quello stato in cui più non sentivo la vita: quando cominciai a comprender qualchecosa tuonava il cannone, e lo Stefani, mezzo vestito, stava per alzarsi da letto.

—Si son riattaccati?.. Domandai

—Altro che riattaccati!.. Affacciati alla finestra e guarda, Guardai… confesso di non aver mai assistito a un così sconfortante spettacolo!.. La gente scappava a rotta di collo per tutte le vie; le porte si chiudevano ermeticamente; le finestre erano pure ermeticamente tappate; ogni poco qualche guardia nazionale, o senza fucile, o senza cappello, traversava a passo accelerato davanti a noi, battendosi il capo, proferendo gridi di lamento o d'imprecazione; donne piangenti che si portavano dietro i bambini, carri che si caricavano, ufficiali d'intendenza che a gran passi si avviavano in direzione del quartier generale….—Ma dunque siamo in completa disfatta?—Dissi tra me, e inpaziente, colla più dolorosa angoscia nell'anima, col dubbio che mi torturava il cervello, presi la mia sciabola, ed andai anche io per strada, deciso di correre alla prefettura, e di là portarmi sul campo. Sulla piazza del teatro, vidi quattro batterie di cannoni guardate da due o tre guardie mobili.. Erano nuove artiglierie arrivate allora allora dalle fabbriche di Lione e del Creusot… osservandole bene, lo si sarebbe agevolmente compreso, ma in quel momento, in quell'esitazione le credei anche io, come il popolo, un indizio di ritirata.

Ma donde venivano queste paure? I nostri avevan forse perduto?.. No; come vedremo tra poco: ma alcuni battaglioni di guardia nazionale presi dal panico a quel terzo assalto dei nostri nemici, atterriti anche dal numero con cui questa volta si erano presentati, non ascoltando più alcun comando, avevano retrocesso, e, siccome, valanga erano piombati per le vie della città, travolgendo coloro che volevano impedire questa ignobile fuga e facendo nascere l'allarme e lo spavento per ogni dove.

I Prussiani, avvedendosi del grave errore che avevano commesso nei giorni antecedenti, e pensando forse che le nostre truppe fossero, almeno per le maggior parte, agglomerate in Fontain e Talant (posizioni contro le quali essi si erano rotte le corna) si concentrarono in grandi masse e prendendo la strada di Langres si spinsero infino al castello di Poully. Garibaldi aveva ordinato alla brigata Canzio, di avanzarsi verso la direzione, da cui venne difatti il nemico, il quale, fugati ben facilmente i mobilizzati, che sparsero poi tanta desolazione in città, erano giunti persino ad accerchiare in una prossima masseria l'ardito Ricciotti, che coi suoi bravi Franchi Tiratori, faceva una resistenza eroica, seminando la morte tra quelle schiere che non si azzardavano ad assalirlo e tenute a rispettosa distanza dal ben nutrito fuoco di fila, che a loro opponevano dalle finestre, dalle feritoie, dalle siepi questi giovani soldati della libertà. I figli di Garibaldi si mostrarono degni del loro genitore, e la Francia ha da serbar eterna memoria del loro coraggio, delle loro abnegazione, dalla loro bravura.

Le bombe solcavano l'aria, già impregnata di fumo: il sibilo delle palle non avea tregua alcuna; i carabinieri Genovesi, i cacciatori di Marsala, (tutta la quinta brigata) sdraiati pei campi o nelle vicine praterie non facevano uso alcuno delle armi. Canzio osservava impassibilmente le masse nemiche, ed ogni tanto andava da Garibaldi, con cui confabulava. Tutto ad un tratto guizza, come un lampo dall'uno all'altro dei militi, una notizia; un fremito generale si comunica di fila in fila, come, se tutti quegli uomini subissero l'influenza di una pila Galvanica: Canzio concitato, col viso raggiante, si alza, grida a tutti i suoi uomini: Ricciotti è circondato, salviamolo, e, come l'ultimo dei suoi subalterni, si lancia eroicamente alla carica.

La cavalleria Prussiana si schiera in ordine di battaglia difaccia ai nostri; due tiri di cannone bene aggiustati bastano a metterla in fuga, prima ancora che si ponga al trotto contro di noi; altri colpi a mitraglia sbaragliano i battaglioni nemici che si ammassano, si urtano, si infrangano contro la masseria, le cui mura sembrano di fuoco; i Genovesi, i cacciatori di Marsala, gli Egiziani, gli Spagnuoli e persino due battaglioni di mobilizzati di Saone Loire animati dal nobile esempio dei volontari, si spingono dietro il prode Canzio alla baionetta, gridando viva la repubblica, viva la Francia, viva Garibaldi e intonando la Marsigliese e l'inno d'Italia. Che spettacolo imponente… al solo pensarci si provano le vertigini, e quasi si crede di avere assistito a una fantasmagoria.

La brigata Ricciotti si spinge eroicamente fuori della masseria e arditamente dà di cozzo nelle file Prussiane: da tutte le parti è una carneficina terribile; i cadaveri si addensano sopra i cadaveri; là affusti di cannoni stroncati, qua siepi distrutte, alberi sbarbicati dal terreno; per terra frantumi di bombe, pozze di sangue, ossa scheggiate, rimasugli schifosi di corpi umani; i Prussiani non possono più reggere; è troppo formidabile l'urto dei nostri soldati e non che compatte colonne di uomini, sfonderebbe le muraglie d'acciaio. Le file a noi dicontro, piegano, indietreggiano, si sparpagliano eppoi si danno a disperatissima fuga.

Tito Strocchi e il capitano Rostain di Grenoble, raccolgono allora in mezzo ai cadaveri di un picchetto che avevano sbaragliato, terminando tutte le cariche dei loro Spencers, sempre tra l'infuriare delle palle nemiche, lo stendardo del 61 Reggimento Guglielmo; reggimento che in quel giorno fu quasi disfatto.

Io era arrivato poco prima dell'ultima carica; uscito appena di Digione cominciai a imbattermi in mobilizzati senza il più piccolo vestigio d'armi, che se la ritornavano tranquillamente in città: fatti pochi passi vidi la strada tutta seminata di sacchi, buttati là da questi prodi onde correr meglio e scappare: poi il consueto corteggio di feriti e di vetture d'ambulanze: e il capitano Galeazzi e l'Orlandi con la sciabola in pugno, e con due o tre guide che piattonavano i fuggitivi e che si sforzavano dì rimandarli al lor posto: finalmente i nostri compagni che si battevano accanitamente e che si disponevano all'attacco.

Garibaldi corse subito sul luogo dove era stata definita la tremenda tenzone, e dove era accaduto l'orrendo macello; tutti gli furono intorno; tutti vollero dire qualchecosa… pochi e ben pochi furono capaci di articolare un monosillabo; la gioia di quel momento è inesprimile; nessuno sentiva più la fatica; eravamo tra mucchi immensi di morti, si sentiva qualche fucilata lontana, indizio che i soldati della grazia di Dio erano molto ma molto distanti da noi e che se la battevano disperatamente: avevamo preso una bandiera: più bella vittoria noi non la potevamo sperare, ed ora se ne aspirava a pieni polmoni tutta la voluttà. Perché non poterono dividere le nostre letizie tanti generosi che ora giacevano cadaveri, perché non le doveva dividere il buon Ferraris il medico del generale, che dopo aver recato un ordine, pochi momenti avanti era morto?

Mentre Garibaldi, dopo aver risposto ai più vicini, stava per congedarsi da noi e tornare in Digione, una scarica quasi a bruciapelo c'involse tutti in un turbine di proiettili che fortunatamente non colpirono alcuno. Fu fatto voltare la carrozza e il Generale fu fatto immediatamente ritirare. Da chi ci veniva fatta quella sorpresa?.. Io non lo so; certo che gli autori ne ebbero poco gusto; i volontarii si gettarono con rabbia verso la parte da cui così stranamente eravamo stati salutati, e probabilmente altri cadaveri si aggiungevano ai molti che ingombravano il circostante terreno.

I Genovesi e i cacciatori di Marsala, dovevano pernottare nelle loro posizioni: salutai caramente i miei amici, ed appoggiato al braccio di uno dei Francs chevaliers de Chautillon piano piano me ne tornai verso la città, persuaso di assistere, se pur era possibile, ed una dimostrazione e ad un entusiasmo maggiore di quelli precedenti.

Avevo sbagliato i miei calcoli!.. Si aveva un bel dire ai cittadini che avevamo conquistato una bandiera, che la nostra era stata una completa vittoria, che i Prussiani erano lontani chi sa quante miglia, oramai lo spavento si era loro infiltrato nel cuore, oramai vedevano le cose dietro il prisma della paura: poche botteghe si riaprirono; pochissime donne si azzardarono a far capolino dalle finestre; difaccia alla Prefettura e alle Mairie vi erano i soliti capannelli susurroni, insistenti: fu insomma necessario che il Mair facesse battere i tamburi a tutte le cantonate, ed ivi dal banditore annunziare ai Digionesi che potevano andare a letto, e prender sonno tranquilli, poiché i Prussiani erano stati respinti su tutta la linea.—Dietro questa confortante pubblicazione, ricominciammo a veder del movimento per le strade; si riaprirono i caffè e la città riprese il suo aspetto normale.

CAPITOLO XVII.

Alla mattina del ventiquattro la bandiera Prussiana fu mostrata a tutte le truppe e suscitò ovunque l'entusiasmo più vivo; quella bandiera era nuovissima, tutta in seta, magnifica. La popolazione Digionese, accortasi dell'errore meschino in cui l'avevano fatta cadere la sera precedente alcuni vigliacchi, non si restava dal magnificare il nostro coraggio ed aumentava verso di noi di dimostrazioni affettuose e gentili; sapemmo che causa principale dello sgomento e dell'allarme era stato il colonnello dei mobilizzati dell'Alta Savoja, che al primo rumore del combattimento, era corso con diversi suoi uomini alla ferrovia, e lì aveva preteso che di riffe o di raffe si mettesse in pronto un convoglio, onde partire alla volta di Lione.

Tutto ci faceva sicuri che i Prussiani non avrebbero riattaccato; i nostri amici erano all'avamposti; pensammo bene di far loro una visita e intanto dare un'occhiata al terreno, dove poche ore avanti erasi combattuta la sanguinosa battaglia, alla quale eravamo stati presenti. Qual tremando spettacolo non ci offersero quei campi! Se io avessi la potenza descrittiva di poterli ritrarre al vero, farei inorridire i lettori… fortuna che non l'ho, e così risparmio loro un'emozione ben cruda! Il più sfegatato paladino della guerra, ammenoché non fosse un mostro, non avrebbe potuto fare a meno di fremere davanti a quella carneficina autorizzata dalle così dette gente civili. In qualche punto i cadaveri erano a strati; pochi i nostri, moltissimi quelli Prussiani; i Tedeschi si erano battuti come eroi; nel posto dove fu rinvenuta la bandiera si contavano uno accanto all'altro più di novanta cadaveri, tra i quali quello di un maggiore; la prateria, la strada, i viottoli erano ingombri di elmi, di fucili, di sacchi; ogni passo che noi si faceva eravamo sicuri d'inciampare in un morto… Quanta gioventù, quanta vita dileguata in un soffio!… Erano imberbi adolescenti, uomini tarchiati; tutti avranno lasciato nelle proprie case una sposa, una moglie, una madre: queste povere donne ogni giorno saranno accorse al giungere della posta, avranno divorato coi baci le righe, che tra le fastidiose occupazioni del campo, scrivevano i loro cari: le avranno aspettate anche il domani quelle benedette righe, che loro facevano spuntare tra ciglio e ciglio una lacrima e l'avranno aspettate invano, e invano anche domani, e così via di seguito per chi sa quanto tempo, eppoi finiranno col vestirsi a bruno, col piangere, col pregare, coll'imprecare a chi ordinò, a chi volle, a chi fece la guerra: ma re Guglielmo sarà salutato imperator di Germania, ma Napoleone goderà in santa pace nei beati ozi di Londra i milioni carpiti alla disgraziatissima Francia!

Oh! avessi avuto la virtù d'Ezzecchiello! Oh avessi potuto trasfondere la vita in quegli esanimi corpi!… Sorgete, avrei voluto gridare con voce tuonante, sorgete ed imprecate alle arpie coronate, ai potenti del mondo; tornate nelle vostre città, nei vostri villaggi, nelle vostre famiglie, predicate che si ha da esser tutti fratelli, che non si deve sprecar più tanto coraggio per soddisfare l'ambizione di quelli che ci opprimono, che si deve abolire il macello di creature innocenti, fatte apposta per amarsi tra loro, l'une all'altre simpatiche, perché legate dal santo vincolo della sventura… Se Traupmann con otto omicidii fece rabbrividire tutto il mondo civile, perché si devono dar ghirlande d'alloro a chi, a sangue freddo, ne fa sgozzar centomila?

E mi pareva difatti che quei morti si levassero giganti, e colle braccie poderose scaraventassero nel vano i tarlati troni delle tirannidi umane.

Garibaldi traversò la via in carrozza con Canzio; i due illustri e prodi soldati, arrivati che furono al punto di cui parlo, furono pur essi commossi: no… non era soddisfazione, come dicevano alcuni, quella che brillava sui loro volto, io credo che fosse disgusto. Il guerriero è inesorabile, quando fischiano le palle, ma è commosso al vedere le prove di un valore, che il caso non ha compensato, ma che è innegabile.

Poco distante lì avevan passata tutta la notte i Carabinieri Genovesi. Piccini ci accolse ridendo… Oh! la bella istoria che ho da contarvi!—

—Raccontacela.

—In poche parole vi sbrigo… vedete quella casetta?… Terminata la mia guardia sono andato lì per riposarmi… ci erano tre Prussiani morti ed io mi sdraiai in mezzo a loro; appena steso per terra, è inutile che vi dica, che attaccai un sonno birbone: mi ero addormentato di poco, quando mi parve sentirmi girellare d'intorno, non mi volli scomodare a aprir gli occhi, e il calpestio, non che cessare, accresceva: una mano poco delicatamente si posò sul mio petto, mentre un'altra si avvicinava con gran celerità alla mia tasca; mi alzo allora, come di soprassalto e do un grand'urlo: Chi è?… Non sono mica morto io, perché mi abbiate a frugare!… Un grido disperato e una fuga generale tenne dietro alle mie parole: seguii i fuggitivi e trovai due della mia compagnia che esercitavano questo mestiere proficuo sì, ma schifoso…

—E domandaste loro, se avevano trovato molta roba?

—Sì… mi risposero anzi che tutti quelli che avevano frugato avevano in tasca la bibbia, e moltissimi la carta geografica.

Era verità: nessun bass'uffiziale era sprovveduto della carta di Francia: è così che si vincono le battaglie, e non come si fece nel beatissimo regno d'Italia nella vergognosissima guerra del 66, ove le carte non erano conosciute nemmeno di vista dai colonnelli di stato maggiore..

Dopo avere scambiato qualche altra parola partimmo dalle linee dei Genovesi e andammo per tornare a Digione: avevamo fatti appena pochi passi, che sentimmo dei gemiti poco distanti da noi: questi gemiti venivano da una specie di casaccia che era al principiar di una viottola: quella casaccia non doveva servire di abitazione ad alcuno, nemmeno in tempo di pace; era bassa, piccola, e non aveva finestre. Il desiderio di giovare a qualcuno, l'idea che forse si poteva trovare lì qualche amico, ci fecero entrare risolutamente in quella catapecchia.

Sopra una barca di concio vedemmo all'incerta luce che veniva dalla piccola porta, un'involucro di carne; da questo partivano i lamenti e, cosa strana, questi lamenti non ci parvero d'uomo; ma che lì dentro ci fosse una donna?—accesi con mano tremante un fiammifero, mi appressai… un urlo mi partì dalla strozza, il lume mi cadde di mano, chè io non poteva credere a ciò che mi si parava davanti; era, purtroppo, una povera donna colei che si lamentava in tal guisa e in quella povera donna io riconobbi Aissa.

—Aissa, Aissa—Le dissi e fui incapace di proferire altre parole.

La moribonda mi guardò attentamente, direi quasi con ostinazione; si pose una mano sul cuore, come per reprimerne i palpiti, stiè un poco senza articolare parole, poi faticosamente, senza riconoscermi, sussurrò a bassissima voce: portatemi fuori!

Interrogai con un'occhiata i compagni; vedendo com'essi erano propensi ad esaudire quest'ultimo voto di quella bella creatura, la presi amorevolmente pel capo, mentre gli altri adagino adagino la sollevarono pei piedi, e la deponemmo su di un praticello, dove l'erbetta era tutta ingemmata dalle stille della mattiniera rugiada, e dove rimpercotevasi un vagabondo raggio di sole, che si era fatto strada tra le nuvole che tutto ingombravano il cielo.

Aissa era rimasta prostrata; gli occhi le si erano chiusi; come era bella!… Soffusa di un pallore che faceva apparire le di lei carni di cera; coi magnifici capelli neri disciolti lungo le spalle, tu l'avreste creduta l'angelo della grazia e della bellezza, morto esso pure in tanto turbinio di barbarie! Poco più sotto del cuore, uno straccio nell'abito, delle goccie di sangue rappreso indicavano dove l'avesse colpita il piombo nemico! In quell'istante la si sarebbe detta già morta, se un'anelito frequente muovendo ad ogni poco il busto di lei non avesse ispirato la certezza, che ancora non si era dileguato il soffio animatore di quella materia.

La discinsi; feci portare da uno dei nostri dell'acqua: con questa le bagnai ambe le tempia, e poi colla faccia proprio sopra la sua, mi misi a spiare il momento, in cui ella sarebbe tornata ad essere in se.

—Chiamino un medico!… Sentii esclamare una voce.

—Bravo—Gridai io in tuono d'assentimento, ma senza muovermi… e uno in fretta e furia andò per il medico.

L'aria fresca rianimò la bella dolente; Aissa aprì le sue luci; girò lo sguardo per le circostanti campagne e addiventò pensierosa: in quel momento forse le tornarono in mente i molti fatti del lugubre dramma, a cui ella aveva assistito negli ultimi giorni, mi osservò lungamente, un sorriso sfiorò le di lei labbra sbiancate… ella mi aveva riconosciuto.

—Vedete se ho bene adempiuto alla promessa che io vi feci a Marsiglia.

—Ma dove siete stata ferita?

—Qui…—La rispose accennandomi, dove avevo veduto il sangue rappreso.

—Ed è grave?

—Io credo che sia mortale… lo spero

Restai annichilito; sperar nella morte in quell'età, con quella bellezza, con quel carattere ardente e leggiero che tanto mi aveva sorpreso fino dal giorno che la conobbi!… Un fremito mi aveva invaso ogni fibra, volevo persuadermi di assistere ad una allucinazione mentale e avrei dato la mia vita, pur di non assistere a questo tristissimo episodio, che doveva avere lo scioglimento in faccia ai miei occhi.

—A che mi guardate così stranamente?—con voce sempre più tremula continuò la moribonda—Oh! lo so cosa pensate tra voi!… Me lo immagino… ma se sapeste, quanto mi sorride il lasciar questa vita, che mi opprime come la camicia di forza del galeotto…—Oh! quante volte ho proposto di farla finita per sempre e sul più bello mi è mancato il coraggio!

—Ma voi non morrete—Interruppi io—voi siete sul fiorire degli anni, siete robusta, la vostra ferita non è tanto grave…

—È mortale.. lo sento!… Non sprecate le vostre cure per me… sentite… là… come urla quel povero soldato ferito… vedete, scommetto che lui ha o una mamma, o una sposa… allora si soffre a lasciare la terra, ma io… io..

—Voi potrete trovar degli amici

—Degli amici?!.. Ma dove?.. Ma come?.. Ma chi?..

—Io per esempio!

—Voi traverserete il mare, tornerete in mezzo ai cari vostri, e presto, come tutti gli altri, vi dimenticherete di me… Noi donne galanti, alla moda non sappiamo, non c'immaginiamo neppure l'amicizia; l'amicizia richiede del cuore e a noi ce l'hanno strappato i signori di cui siamo i giocattoli. Chi ci ha mai inculcata la santa religione dell'affetto, delle fede? Chi ci ha mai rammentato di esser donne? ripensando al passato una nube qualche volta passava sulle nostre fronti… «Le vostre fronti son fatte per baci e per i diademi,» ci dicevano i felici del mondo, e a noi diamanti, abiti, ricchezze… qualche volta la miseria degli altri ci strappava dal ciglio una lacrima. «i vostri occhi non son fatti per piangere, son fatti per brillare di voluttà e di piacere,» ci ripetevano i nostri adoratori e a noi le inebrianti emozioni dell'orgia. L'artigiano che ci disprezza perché colla prostituzione si ha quello che egli non giungerà mai ad aver col lavoro, ci addita alle sue figlie, come vampiri, come mostri e queste ci salutano colle loro fischiate; i nostri protettori quando si son sbizzarriti con noi vanno a cercarne delle altre, noi ricorriamo a spese matte, a piaceri che abbruciano: i denari van via, e viene l'età: la prima grinza fa fuggire l'ultimo adoratore e… e… se non morissi qui, se continuassi a vivere, tra pochi anni, obliata da tutti, morirei nel fondo di uno spedale… eccolo l'avvenire di noi povere colpevoli coperte d'oro e di gemme! Fortuna che questa palla ha troncato tanta colpa e tanta miseria!.. Ve lo ripeto, ve ne scongiuro…. andate a soccorrere quel povero soldato…. forse potrete risparmiare un gran dolore ad una povera madre, pensate alla vostra che ora prega per voi in Italia… Oh se avanti di morire il Cielo volesse concedermi là santa voluttà di una lacrima!

Le mani d'Aissa cominciavano ad agghiacciarsi, e posandosi sulle mie, mi producevano la medesima impressione, come quando si tocca una serpe.—Oh!.. un tempo… io ve lo voglio dire… un tempo io non era cattiva!—La proseguì con tuono più flebile—Amai troppo, credei troppo… e ne ho scontato anche troppo la pena. Ah! avessi dato retta alla mamma… fatemi il piacere, levatemi dal seno, la crocellina che è attaccata a questo piccolo nastro., ce la conservo da tanto tempo e quando i miei amanti ci ridevano sopra, io correva a nascondermi e la baciavo, la baciavo colle lacrime agli occhi e col cuore che mi si stringeva dalla pena… vi raccomando di lasciarmela indosso anche quando sarò morta: è il più caro ricordo che io abbia… l'ebbi da lei, una sera, una bella sera di estate: eravamo sull'aja, e ci era stato il prete a benedire il ricolto; l'immagine della madonna era illuminata, un'andirivieni di lucciole faceva sembrare illuminate anche le siepi, i contadini cantavano le litanie, io accarezzavo il vecchio Bibi perché non abbaiasse; la mamma, finita la preghiera, mi venne vicina, mi baciò e mi attaccò al collo questa crocetta… da quella sera non lo ho più abbandonata e quando ero per darmi in braccio alla disperazione, quando dentro me meditavo qualche vendetta terribile, quando avevo commesso una colpa, guardavo quella crocetta e mi tornavano in mente l'aja, il prete, le litanie, il vecchio Bibi, i bei tempi insomma in cui ero giovine, in cui ero buona, e vendetta, disperazione, come per incanto, sparivano, e le colpe mi sembravano meno gravi, perché mi sembrava vedere la mamma che pregava per me, che sorridente additavami il cielo… quel cielo che si acquista soltanto coll'espiazione, e colle sofferenze.

Lo spirito che aveva animato quella donna a proferire il lungo discorso, via via che la parlava sembrava che l'abbandonasse; l'affievolita voce, il faticoso respiro che aveva preso tutte le parvenze del rantolo mi convinsero che ormai niente vi era da sperare, che oramai gli istanti di quella vaga creatura erano contati!

La squilla della vicina parrocchia di Fontain si fè modestamente sentire; i tocchi di quella campana mi scesero in cuore mesti, siccome la preghiera pei moribondi: traversò il viottolo a noi vicino una vecchia cenciosa che portava per mano un ragazzo…—Nonna—disse quest'ultimo—cosa fa tutta quella gente sdraiata?—Povero bimbo—rispose la vecchia—quelli che vedi son morti—E non si risveglieranno mai… mai più?… Mai più! Il bambino chinò gli occhi e poi si rimpiattò nel fossato… intanto uno stormo di corvi volteggiò intorno a noi!… la nonna si mise in ginocchio e pregò: il fanciullo urlava e piangeva!

Uu prete col brevario sotto il braccio si avvicinò, quasi pauroso, alla moribonda: io gli additai la crocellina che essa si era portata alle labbra, egli se ne andò, al soldato che era per morire poco distante da noi, ed intuonò ad alta voce le preci dei moribondi.

Cessa, o prete, dalla stolta cantilena; tu per il primo, dando un'occhiata all'intorno, devi convincerti di quanto le tue preci sono bugiarde! Se fossevi un Dio, potrebbe egli permettere un tanto massacro?… È vero che voi, sacerdoti l'avete chiamato Sabbaot, il Dio degli eserciti e delle battaglie; è vero che a lui in altri tempi avete offerte vittime umane; è vero che nel suo santo nome avete fatto sgozzare dai vostri sicari le donne e i fanciulli a Perugia, i giovani generosi a Mentana, i padri di famiglia nelle mura stesse di Roma; ma è vero puranche che i popoli hanno pieno diritto d'odiarlo e d'abbatterlo, schifati alla idea delle carneficine che voi avete perpetrato nel nome di lui, schifati all'idea del privilegio e della rapina che avete benedetto, e resi sacri sotto la protezione di questa divinità, che, onnipotente, avrebbe creato il male. O prete, se tu fossi convinto, agiresti in altra maniera: cessa adunque dall'ipocrita prece: noi, come te, non crediamo al tuo Dio!

Gli stormi dei corvi raddoppiavano; la nebbia sollevandosi a poco a poco dall'estreme linee di quell'estesa pianura aveva offuscato il sole e i grandi alberi della strada maestra in quell'incerto barlume sembravano giganti che osservassero con fiero cipiglio quella scena d'orrore: dei carrettoni traversavano innanzi a noi, come una triste visione di mente impaurita; questi carrettoni erano colmi di cadaveri e i carrettieri, sferzando i cavalli, fischiettavano le ariette dei villaggi natii; ogni tanto qualche lurida faccia, tale da farti ribrezzo solamente a pensarci, appariva in mezzo ai solchi, nei cespugli, tra le siepi, disopra al ciglione dei fossi, che non pochi erano quelli che giravano per frugare i cadaveri.

Aissa mi strinse forte forte la mano; parve che a furia di baci volesse divorare la crocellina: si sforzò di richiamare sulle labbra un sorriso e gli occhi invece le si empirono di lacrime, proferì mestamente: a rivederci, chinò il capo, sembrò addormentarsi, e si addormentò difatti per non destarsi mai più.

Il bambino si era fatto animo, era saltato dal fosso ed era venuto a vederla, la volle toccare con infantile curiosità; la sentì fredda come una pietra, e rimase impietrito; il prete e la vecchia continuavano a biascicare orazioni, e i corvi si erano tanto a noi avvicinati da sfiorarci il capo con le nerissime ali.

Nello stesso tempo esalava l'estremo respiro il soldato vicino, susurrando a fior di labbra il gentil nome di Greetchein. Greetchein!… Mi passò innanzi alla mente la poetica creazione di Göethe e vidi in un remoto abituro una bionda fanciulla che in quel momento fissando il cielo, pregava per l'amico lontano e che già pregustava le gioie inenarrabili di un sospirato ritorno, che l'affetto immenso di vergine suole ispirare fiducia; l'amico lontano muore invece esecrato da tutti; muore in terra straniera, in terra che egli calpestò vincitore e su cui battè prepotentemente la sciabola; muore proferendo il nome di lei, senza che alcuno possa portarle questa notizia, che le sarebbe non lieve conforto nelle future afflizioni. Vestiti a bruno, o bionda fanciulla, ed impara ad esecrare i tiranni: vestiti a bruno e grida insieme con me: Maledetta la guerra!

Come erano belli quei due cadaveri!… Tutti e due erano morti, ispirandosi a reminiscenze soavi… tutti e due assorti nell'ideale sorridendo eran morti!… Io correva dall'uno all'altro, mi chinavo su loro, li contemplavo, avrei voluto trasfondere nel suo corpo il mio spirito vitale onde di nuovo animare tanta gioventù, tanta forza, tanta bellezza… mi sembrava che il cervello avesse a darmi volta: i miei compagni mi trascinaron via a forza dal triste spettacolo: quando rinvenni dallo stupore aveva fatto più che mezza strada per arrivare a Digione. La febbre mi aveva occupato tutte le membra.

—Và a letto—Mi dissero.

—Sì—Risposi, deciso di dare ascolto a un tal consiglio e lasciai gli amici.

Arrivato appena in città trovai alla porta del quartier generale Materassi, Piccini e alcuni altri.

—Vieni con noi—Mi dissero.

—E dove?

—Si va a vedere i morti che hanno già portato in città… chi sa che non rinveniamo, il cadavere di qualche amico, di qualche conoscente.

Quantunque la scena a cui ci si preparava ad assistere offrisse una prospettiva tutt'altro che ridente in special modo per un'ammalato, come ero io, un po' per bruttissima curiosità (ripeto ai lettori che io non bramo di farmi meglio di quello che sono) un po' per non sembrare da meno degli altri, un po' per una vaga speranza di ritrovar forse una memoria da consegnare ai parenti lontani di qualche estinto, seguii la comitiva che si accingeva a questa visita lugubre.

Durante il tragitto, mi fu raccontata la storia luttuosissima del capitano dei Franchi Tiratori, rinvenuto cadavere e tutto bruciato nel castello di Poully. Garibaldi aveva ordinato un inchiesta su tale nuova barbarie: io qui non voglio discutere, nè avrei dati bastanti per farlo, se sieno o no vere le spiegazioni, che pretese dare il Governo Prussiano con una nota pubblicata su quasi tutti i giornali del mondo: quello che è certo si è che l'ufficiale aveva le mani legate, che covoni di paglia già incendiati erano a poca distanza da lui e che l'infelice, come ben si può osservare dalla fotografia, era tutto coperto d'ustioni, all'infuori del capo. Con ciò non intendo lanciare un'accusa generale a tutto il popolo Germanico; il soldato abbrutito nella caserma, a qualunque nazione appartenga, spesso e volentieri cessa di essere un uomo per addiventare la belva la più sanguinaria.

Passata di poco la porta Sant'Apollinare, avanti di giungere alla barriera vi è il convento dei Cappucini: ivi erano stati messi i cadaveri, forse perchè si potessero riconoscere a bell'agio dagli amici. Prima d'entrare la nostra vista fu dolorosamente colpita da due carrettoni, zeppi di morti Prussiani; quale di questi ciondolava una gamba, quale una mano; l'insieme ti offriva l'idea di una gran montagna di carne; il pavimento era tutto cosperso di sangue, che alcune ferite tuttora gocciavano.

Entrammo in una piccola stanza; sopra due tavoloni erano stesi una ventina di Garibaldini, tutti privi di vita; tra questi lo Squaglia, sorridente come vivesse tuttora; la maggior parte mancava di qualchecosa di vestiario: gli avvoltoi della gloria, avevano, come pocofà si è veduto, fatto man bassa sulle più piccole inezie, purché vi fosse da ricavar qualche soldo. Noi procedevamo in silenzio: solo il Piccini, incaponito di ritrovare il Rossi, esaminava ad uno ad uno i cadaveri, passava per far più presto disopra alle tavole, sempre con viso imperturabile, e con un sangue freddo da essere ammirato.

La seconda stanza era grandissima: avrà contenuto più di settanta morti, disposti non colla medesima precisione di quelli che giacevano nella prima; qui vi erano Guardie Mobili, Franchi Tiratori, Garibaldini ed anche qualche Prussiano: vedemmo tra gli altri il povero Pastoris col cranio tutto fracassato; il prode maggiore era stato spogliato fino della camicia; questa profanazione mi fece ribrezzo, e aggiunta al desolante spettacolo a cui fino dal primo mattino assistevo, ebbe potenza di farmi rinforzare la febbre, che credevo di aver fugata; frequenti brividi lungo le reni, mi rendevano omai più che certo di questa nuova peripezia che veniva a conturbarmi.

Ci fu impossibile ritrovare il Rossi; domandammo schiarimenti ai guardiani e questi ci risposero che forse la salma del nostro amico doveva essere nella stanza di quelli che erano morti di vaiolo.

Avanti di partire non potei fare a meno di rivolgere uno sguardo a tutta quella gioventù, che si era dileguata come una meteora nel cielo; un raggio di gloria, uno sprazzo di luce eppoi il nulla. Quante illusioni, quante speranze, quanti pensieri non si erano spenti, per sempre in quella clade sanguinosissima! Chi sa che tra quelli non vi fosse uno nato a creare qualche nuovo ordinamento sociale, e che invece finirà per procreare un cavolo, una pianta d'ortica? Felice lui! che, se grande fosse riuscito realmente, avrebbe imprecato alla vita, angariato dai ghigni e dalle calunnie dei contemporanei. Quante madri, quante sorelle abbrunate—pensavo dentro di me e continuando a guardare i cadaveri, sentivo commuovermi non tanto per loro, quanto per le care persone che avevano lasciato.

La democrazia Italiana, credo bene ripeterlo, ha lasciato un degno e glorioso contingente sui campi di Francia; la democrazia Italiana, come sempre, anche nel 1871 ha immolato al principio repubblicano, i cuori più giovani ed entusiasti, le immaginazioni più fervide, le intelligenze più belle. Una pleiade di generosi scompare ogni volta che la coscienza dell'umanità si risveglia, ogni volta che si traducono in atto le sante credenze, le così dette utopie dei pochi ispirati che ci han preceduto: solo col sangue rinvigoriscono le idee. E sangue di eroi onorò le strade ed i campi dell'ubertosa Borgogna, e una pleiade di magnanimi figli d'Italia scomparve, lasciando di se imperituro ricordo in chiunque abbia il core informato al gentil culto delle azioni generose. Perla, Pastoris, Settignani, Cavallotti, Ferraris, Gnecco, Imbriani, Zauli, Salomoni, Canovi, Zerbini, Anzillotti, Caimi, Ricci, Giordano, Valduta, Resegotti… dall'Alpi all'estrema Sicilia la calunniata Penisola ebbe un figlio, per ogni città, per ogni paese, da offrire in olocausto al sacrosanto principio. Firenze ebbe nove morti: Rossi, Squaglia, Viti, Aterini, Carli, Pini, Scali, Cortopassi e Signorini; la vicina Pistoia su sette volontarii ebbe a piangerne quattro: Biechi, Ferrarini, Bongi e Lanciotti. Se io avessi appunti precisi, vorrei citar tutti i martiri, e ben si avvedrebbero gli odierni politicanti di Francia, i generali famosi, allora rincatucciati per la paura, e in oggi spavaldi, ben si avvedrebbero, dico, che l'italiana democrazia non mancò al proprio dovere e che, superando ostacoli a lei frapposti dalla mancanza di mezzi e dalla vigilanza la più sospettosa del timido governo del re, corse volenterosa all'appello.

Ed i Digionesi con quel buon senso che suol distinguere i popoli, non tardarono a esserne più che convinti ed a dimostrarcelo con ripetuti segni di sincera affezione.

Nel ridurmi a casa difatti ebbi la prova più luminosa della fiducia generale che si nutriva in Garibaldi ed in noi; dappertutto non si faceva che domandar notìzie e porgere elogi all'eroico Ricciotti e alla sua valorosa brigata; i nomi di Menotti, di Canzio volavano accompagnati da lodi, per tutte le bocche; e le donne con quel sentimento gentile, che ci rende caramente diletto quel sesso che, sembra, esser stato messo quaggiù per asciugare le lacrime e per darci un pietoso conforto in mezzo alle disillusioni e all'affanni, accoppiavano a questi nomi, omai resi gloriosi, quello non meno caro, quantunque modesto, di Teresita.

È stato detto che la superstizione è la poesia dell'ignoranza: io, quando vidi in capo alla strada, dove abitavo, le donne affollarsi a pregare davanti a un'immagine, per Garibaldi, per noi, per la Francia, aspirai tutto il profumo di questa ingenua poesia, e rimasi a contemplare estatico quel gruppo, che avrebbe offerto a un pittore un'invidiabile quadretto di genere, e che a me offriva un certo tal qual refrigerio di cui non so farmi ragione.

Il male però progrediva spaventosamente: mi martellavano le tempie; avevo perduto la voce, le gambe mi reggevano appena. Passando dalla bottega della tabaccaia, vi entrai, e mi buttai rifinito su di una seggiola.

La graziosa fanciulla, affidata alle cure della bottegaia, si svestiva in quel mentre della sua cappa di appartenente all'ambulanza; aveva già visitato tutti gli ospedali della città, aveva già fatto amicizia con tutti i feriti Prussiani: mi disse tutto questo d'un fiato, senza che la potessi interrompere; quando io cominciai a parlare, la buona ragazza sentendo la mìa voce roca, esaminandomi fissamente nel volto, con tono affettuoso mi disse: Ma voi avete bisogno delle mie cure… voi siete malato.

—Che… non è nulla!

—Oh voi dovete curarvi… andare a letto!

—Vi pare… qui… in faccia al nemico…

—Il nemico ha di catti a rifarsi di forze, e credo che non avrà intenzione di riattaccare.

—Ammettiamolo pure: Ma che vorreste… che io passassi uno, due, forse tre giorni solo, come un cane?…

—Siete ingiusto… voi dimenticate gli amici…

—Son tutti occupati…

—E… le amiche? Ficcandomi gli occhi negli occhi proferì la ragazza.

—Le amiche!

—Sì andate ed ei vi prometto di venirvi a far visita, di passare la maggior parte della giornata da voi.

—Davvero?

—Sul mio onore… via, via andate… non fate il bambino… il vostro sarebbe un eroismo inutile…—E tanti altri bei discorsi, che uniti al male che mi sentivo in dosso, e alla voglia di aver dei colloqui intimi con quella gentile infermiera, di cui avevo imparato ad ammirare il carattere, mi persuasero a cacciarmi nel letto, deciso però di non badare a prescrizione veruna del medico, o di chicchessia, qualora avessi udito suonare a raccolta le trombe, o tuonare il cannone.

Dopo poco ero a letto; a letto, con una tazza di tisana a me vicina sul comodino, apprestatami dalla mia gentilissima ospite.

CAPITOLO XVIII.

Se il trovarsi ammalato lontano dai suoi, in terra dove siamo sconosciuti, nella solitudine, che, a detta di Pascal, fa giocare persino alle carte con se medesimi, in generale è una disgrazia, godo nel dire che io feci eccezione alla regola. La solitudine che io temeva, non l'ebbi a provare che in qualche momento, gentili premure, assistenza più che fraterna, riguardi inconcepibili non mi fecer difetto ed io serberò riconoscenza indelebile per le generose creature che, ispirandosi al santo amor della patria e dell'umanità, con le loro attenzioni resero meno tristi le travagliate ore di un povero malato. Se questi miei ricordi varcassero le Alpi, io l'avrei caro soltanto per mostrare ai miei pietosi assistenti che sotto la camicia Rossa del Garibaldino non batte il cuore di un ingrato, ma che, finché campa, egli serba una soave reminiscenza di chi gli fece del bene.

Appena da un'ora ero in letto, quando capitò la mia vaga vicina in perfetto abbigliamento da infermiera: andò al camminetto, attizzò il fuoco e mi preparò della nuova tisana; poi mi disse che più tardi avrebbe portato anche il medico, e cominciò a tirar fuori boccette d'essenze, scatole di pasticche e, quel che più m'importava dei libri… e che libri!… Le poesie di Alfredo di Musset e un paio di romanzi di Walter Scott; un libro è un grande amico nella solitudine ed io salutai quei libri con la medesima gioia con cui si salutano gli amici più cari.

Per quella sera però non potei leggere: le palpebre mi si erano appesantite: un sonno profondo, prodotto dalle febbre, mi rese inerte durante tutta la notte. Al mattino stavo un pò meglio; pregai Materassi e Bocconi che stavano di casa con me di tenermi informato a puntino di quanto sarebbe successo, e di non por tempo in mezzo per venire a avvisarmi, se vi fosse stata la probabilità di un nuovo attacco. Cosa d'altronde poco probabile, chè i Prussiani ne avevano buscate anche troppe!

Erano trascorse due ore buone e nessuna notizia erami per anco arrivata: io tentava, per passare il tempo di legger qualchecosa, ma, quantunque ciò che leggevo fosse bellissimo, il mio pensiero volava lontano lontano, nientemeno che fino a Firenze. I miei occhi percorrevano macchinalmente quelle linee stampate, le mie mani sempre macchinalmente sfogliavano quelle pagine, ma io non mi occupava per nulla di ciò che credevo leggere, che anzi leggevo di certo. Pensavo alla mia povera mamma già morta: chi le avesse detto, quando proibiva al bambino di correre, di pigliar fresco, di saltare, chi l'avesse detto che il bambino diventato uomo, si avesse a trovare nella situazione nella quale mi trovavo io in quel momento?… Povere mamme… povere le vostre cure!… sarà una stranezza la mia: ammiro la donna spartana, ma anco molto di più la povera vecchia che, da vera bacchettona, si strascina a malapena a un'altare, onde implorar dal Cielo che mai certe ideacce frullino nella mente di quel figliuolo, a cui vol tanto bene… Eppoi la solitudine mi spaventava.—O cosa fanno tutti i miei amici?.. Perche non vengono?… E se si battessero?… Oh così la non può durare… oh! molto meglio una palla e farla finita per sempre!…

Fu bussato dolcemente alla porta. Quale non fu la mia sorpresa, quando, dopo aver detto: entrate, io vidi comparire in compagnia della vecchia padrona, due graziose figurine, di donna degne proprio dell'elegante pennello dell'ispirato Wattau.

Le principesse invisibili si erano finalmente degnate di scendere dall'Olimpo per visitare un mortale… quelle due signorine erano le figlie del proprietario del nostro ricco palazzo: le medesime, per veder le quali avevamo tanto almanaccato nelle molte ore d'ozio che avevano preceduto le tre giornate di combattimento. La fama questa volta non era bugiarda; vi assicuro che erano proprio carine; modeste, educate, geniali… tanta fu la mia sorpresa che non sapevo cosa dire, e sul primo devo aver fatto la figura del collegiale più candido che sia mai scappato dall'unghie dei reverendissimi maestri.

Si trattennero una mezzora; dissero, secondo il solito, ira di Dio dei Prussiani, canzonarono i moblots inalzarono al cielo i Garibaldini; parlarono dell'Italia e del desiderio intensissimo che aveano di vederla, mi fecero con mille moine trangugiare altri due bicchieri di tisana, e protestando di non volere più oltre importunarmi, si accomiatarono, promettendomi di tornar la sera a farmi visita.

Ero tutt'ora sotto la dolce impressione di questa visita inaspettata, quando con strepito immenso entrò Materassi, seguito da uno sciame di Guide.

—Notizie?—Domandai subitamente.

—Nessuna.

—La cronaca del giorno?

—Ah… La Corte Marziale ha condannato a dodici anni di galera una guardia mobile che non ha voluto ricevere un'ordine dal suo tenente.

—Hai detto una guardia mobile?—Benissimo!… Meglio in galera che averli tra i piedi!

—Approvato—Urlarono tutti.

—Di più—Continuò il Materassi—Sembra che i Prussiani marcino su Dòle… tentando così di prenderci in mezzo…

—O di avere altre briscole!

—Speriamo che debba succeder così! Del resto per oggi puoi restar tranquillamente a letto; da tutti i lati della città per ben molte miglia è impossibile rintracciare un Tedesco, e noi siamo venuti qui per far l'ora di andare al trasporto di Ferraris… credi che per oggi non ci è timore di alcuna cosa!…

Dopo poco entrarono in camera mio fratello, i due Piccini e vari altri; si poteva creder benissimo di essere in una caserma; per ammazzare il tempo vari si posero a giocare alle carte: alcuni altri chiesero aiuto alle muse, e si misero a sciorinare ottave, sonetti, rispetti con una facilità più che Arcadica. Fra le altre birbonate, sentii un rispetto non molto bruttaccio, e lo regalo ai lettori, se non altro onde mostrare che a tu per tu colla morte, colla corte Marziale, e col linguaggio barbino dei superiori e dei regolamenti, qualcuno alla meglio o alla peggio trovava il momento di dedicarsi alle arti gentili. Il rispetto era dedicato ai Franchi Tiratori, a questi Beniamini della situazione. Eccolo:

*Son della patria un Franco tiratore E vo pei monti a caccia dei Prussiani: Amor mi spinge contro all'oppressore, Amor dei cari miei, che or son lontani: Tra il fragor dei fucili e del cannone, Siccome a nozze, corro alla tenzone: Venga l'Ulano dall'acuta lancia… Io non ritiro il piè… Viva la Francia! Vengan di Prussia i difensor più saldi… Io qui l'attendo… Evviva Garibaldi!*

Ogni tanto la padrona di casa, veniva a pigliar mie notizie, dava un'occhiata a quei gruppi e se ne andava proferendo con amabil sorriso: Oh les braves garcons!

L'ora di assistere alla cerimonia pietosa in onore del compianto Ferraris si avvicinava a gran passi, e i miei amici mi lasciaron solo di nuovo: questa partenza che lì per lì mi uggiva non poco, doveva procacciarmi un paio d'ore di felicità, se almeno la felicità si valuta dalla maggiore o minor prestezza con la quale volan gli istanti… quelle due ore mi sembrarono infatti appena un minuto, ed eccone la ragione.

Leggevo con più attenzione del solito una delle più bella poesie del Musset, poesia un po' materialista, se vogliamo, ma non per questo meno ispirata; il fino contorno di una gamba elegante, ed il piccolo piede di una figlia d'Eva, attraente come la colpa, erano ivi tratteggiate con una finezza indicibile dal poeta più simpatico della Francia moderna: il mio pensiero vagava per orizzonti tutt'altro che Platonici e la mia immaginazione esaltata riandava i bei piedini ed i fini contorni di certe gambe, che lo zeffiro compiacente come un ufficiale d'ordinanza di un re, tante volte aveva svelato al povero bohème che dalla porta di un caffè vede a trasvolarsi davanti, come una visione, le belle del mondo privilegiato.

Leggera quasi farfalla, senza che io la veda, si è avvicinata al mio letto la gentile infermiera, la pietosa visitatrice di tutte le ambulanze: Essa mi guarda in silenzio; alla mia volta io la guardo e sto zitto. Per cotesto, si principia benino!

Finalmente lei rompe il ghiaccio, e colla sua vocina simpatica la comincia: Non ho potuto portare il medico, come vi avevo promesso.

—Non importa…

—Vi sentite meglio?

—Tanto meglio che domani mattina esco di casa.

—Voi non commetterete questa pazzia! Ve lo proibisco in nome di vostra madre… pensate alla povera donna che forse vi aspetta…

—Mia madre è morta! Proferisco un po' commosso all'evocazione di tale ricordo..

—A vostro padre…—Continua più affettuosamente la cara fanciulla.

—È morto!—Replico in tuono brusco

—Dunque siete orfano?..

—Purtroppo!

—Avrete una bella però?… confessatelo?

—No.

—È impossibile!

—Ve lo garantisco.

Osservo che la mia interlocutrice arrossisce molto facilmente ed ha un nasino rétroussé graziosissimo.

Altri due minuti di silenzio.

—Ebbene vi farò da sorella. Come vi chiamate?

—Ettore.. e voi?

—Luisa!

—Ho appunto una sorella che si chiama come voi.

—Benissimo!.. Allora ci faremo confidenze reciproche.

—Va bene?

—A meraviglia! Cominciate voi, che mi avete fatto tante domande e rispondetemi a tuono… E voi…?

Non mi azzardo a continuare, ma l'altra capisce alla prima e volendo soddisfare a quel sentimento di vanità, prerogativa del sesso debole in generale e delle Francesi in particolare, si affretta a rispondermi: Ah!.. Io appena sarà finita la guerra ho da essere sposa..

—E chi è il fortunato?..

—È… Ve lo do a indovinare tra mille…

—Non saprei… qui non conosco nessuno.

—È nientemeno che un ufficiale Badese.

—Un vostro nemico?

—Io non ho alcun nemico.

—Ma… che so io… un oppressore.

—Che ci han che fare quei poveri diavoli!.. Oh! sentiste come la pensa anche lui!… scommetto, che se vi avvicinaste, in pochissimo tempo diventereste amici del cuore. È tanto buono, è così generoso!

—Sarà.. ma dove l'avete conosciuto?

—Qui all'epoca dell'occupazione: egli mi chiese in tutte le regole ed io acconsentii.

Cosa strana, egoistica, tutto quel che volete! Io non sentivo nulla per quella donna, ma provai dispetto ad udir quella confessione, che così ingenuamente venivami fatta: per cui non potei fare a meno di diventar brusco; Luisa se ne avvide e per placarmi si chinò su me e le di lei labbra sfioraron le mie; non l'avesse mai fatto!.. un fuoco di fila di baci, tutt'altro che fraterni, echeggiò sotto il padiglione nuziale che adornava il mio letto. Povero ufficiale Badese, io mi prevaleva un po' troppo dei diritti del vincitore, ma ora ti auguro un brevetto di colonnello, una croce dell'aquila nera, un'eredità di un mezzo milione, purché tu renda felice la mia assidua assistente!

Era tanto carina, quando partì, imbacuccata nel suo water-proof! Giunta alla porta tornò indietro, si levò di tasca una medaglina, me l'attaccò al collo… io la lasciai fare: era una medaglia della vergine madre… oh! religione!… Eppure non ho mai abbandonato quel microscopico pezzetto d'argento: non fremano i liberi pensatori: io tengo molto alla religione… dei gentili ricordi!

Partita lei, tornarono le padroncine e insieme alla vecchia vollero servire il mio desinare da ammalato: le più squisite galanterie, che l'arte e l'umana ghiottoneria hanno inventato pei convalescenti, mi si portarono davanti; a siffatta gentilezza, a vedere intorno a me le due creaturine che sembravano angeli, mi vennero le lacrime agli occhi. Gli spiriti forti hanno poco da ridere: Campanella, il quale non era certo un debole nè una donnicciola, rifugiatosi a Marsiglia per sfuggire alle persecuzioni ha confessato di aver sostenuto a ciglio asciutto prigionia e tortura e di aver pianto sperimentando l'opera benefica dell'illustre Pereiscius che l'ospitò: ed io che avevo non un Pereiscius, ma delle donne e molto belline, per ospiti e che ancora non ho provato torture, potevo piangere come il celebre perseguitato dalla Corte di Roma.

«Cosa bella e mortal passa e non dura». La campana dei vespri mi rapì la genial compagnia: in quella famiglia erano religiosissimi, come in quasi tutte le famiglie delle classi aristocratiche e borghesi di Francia. Mai ho maledetto San Paolino di Nola e la sua sconsacrata invenzione delle campane, come lo feci in quella sera.

E a rincarar la dose del mio malumore, capitarono gli amici. Avevano accompagnato la salma del Ferraris, ma, colla teorica degli antichi Romani, dopo i funerali erano andati alle mense, e ciò si vedeva chiaramente dalle accese loro fisonomie, dal lor modo di muovere i passi.

Il Piccini entrò traballando, e parlando un francese che non si capiva nè da Italiani nè da Francesi: ogni poco interrompeva il bisticcio per vociare: le saucisson de Lyon… en avant Garibaldiens … Cosa credeva di dire, non giungemmo mai a capirlo nemmeno da lui!… Il Dio Bacco l'aveva inalzato, a dir poco, alla ventesima potenza dell'ebrietà, e quando si mise a sedere attaccò un tal sonno, che per portarlo via ci vollero persino dei pugni.

Giunsi a comprendere in tanto baccano che il funebre trasporto era stato imponentissimo e che Canzio aveva proferito generose e ben degne parole sulla tomba del figlio prediletto della democrazia Torinese.

Dopo aver rimesso un polmone, o poco meno, per mandar via di camera tutti quegli indiavolati mi addormentai saporitamente… Con poche ore di riguardo e di calma il mio male era passato.

CAPITOLO XIX.

Non ascoltando i consigli degli amici, io me ne andai il giorno dipoi, secondo il solito, al quartiere, e secondo il solito, non vi rinvenni alcuno. Facendo necessità virtù, mi misi a girellar per la piazza, molto più deserta dell'ordinario. I volontarii erano stanchi e dopo essersi battuti, come leoni sul campo, avevano anche ragione, se voleano riposarsi: si sapeva che i nostri esploratori erano giunti fino a Messigny senza rintracciare il più piccolo vestigio dell'inimico, e il Garibaldino ha un'avversione pronuziatissima per far l'eroe per chiassata. Tutti coloro che han fegato sono scansafatiche per eccellenza: può sembrare alla prima un'assurdo, ma ho provato che è vero.

Dopo poco rintoppai il nostro tenente Ricci, che aveva domicilio e stanza d'ordini su quella piazza.

—Il generale è contentissimo di voi—Mi disse con la soddisfazione sul volto—Dovreste fare un ordin del giorno?

—Chi?… io?

—No… Miquelf…

—O non sei tu il comandante il deposito?

—Che deposito d'Egitto!—e qui una bestemmia in Romagnolo—io non ne voglio saper nulla… che faccia lui, che sa tutto—e qui una litania d'improperi alle spalle del sottotenente.

Era sempre così; una lotta continua, un ricambiarsi perpetuo d'impertinenze, che ci facevano godere amenissime scene: Miquelf non sapeva l'Italiano, il Ricci non conosceva neanche di vista il Francese, per cui noi si rideva e le cose del deposito andavano a vanvera.

Dopo essermi assicurato che nulla di nuovo eravi al quartier generale, lasciai il mio tenente, e presi la Rue Condè.

Vidi alle cantonate delle città una nuova sentenza della corte marziale; questo tribunale, istituito dal dittatore Gambetta, continuava a terrorizzare l'esercito, e solo, mercè l'influenza benigna di Garibaldi, ora si addimostrava assai più benevole di quando fu impiantato; sul principio non erano che sentenze di morte: per il nonnulla più piccolo non si esitava a decretare la fucilazione di un soldato: in Autun fu ucciso perfino un volontario, che, affamato, aveva rubato una gallina… A Digione per colpe così gravi, ci si contentava di mandar l'uomo in galera! Lo spirito bizzarro dei Garibaldini però aveva ridotto a materia di scherzo questo tribunale il cui nome faceva venir la pelle d'oca ai birbanti. Il gran giudice veniva chiamato Bertoldino: il codazzo dei sommi consulenti erano additati come le comparse della giustizia, o come le guardie di sicurezza della libertà. Guardia di sicurezza nel linguaggio di uno scavezzacollo significa, un animale irragionevole che ha del pagliaccio e delle birbante, del coniglio e dell'uccello da preda, sempre ridicolo e spregevole specialmente poi quando vuol fare l'eroe.

Leggevo la sentenza, quando mi sentii battere sulla spalla e vidi Tito Strocchi con un berrettino da sottotenente.

—Mi rallegro!—Esclamai, stringendogli la mano.

—Cosa vuoi?! Bisogna rassegnarsi: con questo alluvione di gradi non ci è ombrello che tenga.

—Ma tu te lo meriti—Interruppi io, volendo far rimarcare all'amico la sua troppa modestia—Ti hanno promosso per il tuo contegno del ventitrè?

—Sì… anzi volevano in tutti i modi portarmi da Garibaldi, ma io mi vergogno.

O anima eccezionale!… O vera mosca bianca in quel turbinio di ambiziosi sfacciati!… Il vero merito è modesto, ed è abbastanza soddisfatto dalle voce della coscienza. Battano pur la gran cassa i ciarlatani e gli eroi di professione, facciano pubblicare ai quattro venti le loro mirabili gesta, chi ha fatto realmente il proprio dovere non si cura se l'opinione pubblica fischi od applauda, troppo è convinto che quest'opinione ha avuto sempre un ghigno per il grande, una lode e un'applauso pel miserabile.

*Digione era allegra: un'insolito viavai di gente percorreva le strade: le donne venivano sull'uscio delle botteghe per vederci passare e tutte avevano un sorriso, un complimento per noi… per niente non avevamo debellato i più celebri soldati della Pomerania!… Oh! giorni!… O dolcezze perdute, o memorie!… Dirò con quel povero Renato così tradito dalla moglie e da Piave!

Vicino alle caserme osservai un'affaccendarsi e un movimento indicibile. Si temeva forse che i Prussiani ci riattaccassero? Nemmeno per sogno! Si trattava di armare tutti i soldati, a qualunque corpo appartenessero, colle carabine Remington e in quell'ora appunto si distribuivano quest'armi.

Questo provvedimento fu commendevolissimo: con tante specie di fucili, così differenti tra loro il provveder le cartucce per tutti, era una cosa assai malagevole: di più, mi pare averlo detto altra volta, le carabine Wincester esigevano una pratica d'armi, una avvedutezza in chi le possedeva, come non si può che raramente trovare in un corpo di giovinetti, la maggior parte dei quali è inesperta al maneggio delle armi; nè minori cure esigevano le Spencer, per cui si trovò nei combattimenti chi dopo tre o quattro colpi si ridusse all'impossibilità di tirare. Il Remington non offre difficoltà alcuna, nè alcun pericolo in chi lo maneggia. Il provvedimento adunque fu magnifico: peccato che fosse preso, quando, pur troppo, non aveva ad esservi alcun bisogno di armi. È una cosa buffa: Mi rammento che anche in Tirolo si cominciò a cambiare gli schioppettoni dei volontarii in buone carabine di precisione, quando era già segnato l'armistizio. Son le solite cose che toccano a quel povero uomo di Garibaldi.

Al quartier generale mi si notifica che dopo tre giorni è stato rinvenuto il cadavere del prode Bossak, e che gli si apprestano funerali solenni: non funerali preteschi, veli, che di tali sciocchezze all'armata dei Vosgi non se ne facevano di certo, ma invece un'accompagnatura con tutta la pompa che si conviene ad un generale morto in battaglia. Al quartier generale saluto affettuosamente il capitano Bacherucci, il cui battaglione della legione Barelli, si è coperto di gloria a Talant, sostenendo sulle prime ore della sera l'urto formidabile degli irrompenti battaglioni Prussiani e scaricando fino all'ultimo colpo: fa parte di quel battaglione anche il capitano Romanelli d'Arezzo, giovine veterano della guerra dell'Indipendenza, e patriotta di tempra Spartana; è l'uomo più piccolo dell'armata dei Vosgi, ma forse dei più grandi per coraggio: mi dicono che in faccia al fuoco ha voltato il cappotto dalla parte della fodera rossa ed in tal modo ha sostenuto per più di mezz'ora l'ostinato fuoco di fila delle compagnie nemiche.

Un altro capitano, Nizzardo credo, che è lì con gli amici, con una franchezza piuttosto brusca, senza conoscermi, mi stringe forte forte la mano e mi dice: finora credevo che le Guide non fossero buone che a farsi vedere per i caffè, o a far la corte a queste pettegole… ma l'altro giorno, vi ho vedute come noi col fucile, tra il fischiar delle palle, bravi figliuoli, vi rimetto la stima.

Ritrovai molto dopo questo capitano, ma, con mia grande meraviglia, lo riconobbi accanito più di prima nel suo odio contro le Guide. Le penne dei nostri cappelli erano il suo cauchemar. Bisogna sentire che cosa non ne diceva!… E se la bravura del nostro corpo si doveva argomentar dalle nostre penne, convengo che l'amico non avea tutti i torti. Mai collezione più originale può essere veduta nel mondo! Chi ne aveva una lunga lunga: chi così piccola che per vederla ci volevan le lenti d'ingrandimento: chi le aveva rossa, chi nera, chi verde ed uno perfino se l'era messa celeste: aggiungete il colore sfacciato dei molti cordoni che ornavano la nostra uniforme, eppoi ditemi, se capitando in pieno veglione a un teatro, non ci era proprio da scambiarci per una mascherata.

—Se fossi io nei piedi del Generale—Borbottò lasciandomi il vecchio ufficiale—vi pianterei tutti nel treno.

—Io mi augurai che quel vecchio non diventasse mai un pezzo grosso nella nostra piccola armata.

Ritorno a bomba per far sapere ai lettori che la legione Ravelli, che noi non incontrammo nel combattimento si era comportata strenuame. Ravelli era stato leggermente ferito, erano morti gli ufficiali Giomi, Mauroner, Falchiero, Leviski e molti altri di cui non so i nomi; stragrandi erano state le perdite della bassa forza.

Lasciai gli amici e il capitano e mi avviai verso casa. Per quel giorno la repubblica non era in pericolo. Mi fermai a dire due sciocchezze con la tabaccaia; la Luisa mi rimproverò perché io era uscito, io le accennai che ritornavo in casa; ci si bisticciò, si fece la pace, si rise eppoi andai in camera a scaldarmi.

Non sentendo più dentro me alcun'indizio di malattia, la sera me ne andai al solito Restaurant; vi entrai tristo: ripensavo che l'ultima volta ci ero entrato insieme con Rossi!

Appena aprii l'uscio, sentii un grand'urlo un urlo, come di chi prova paura. Mai erami successo in tutta la vita di venire accolto in quel modo nè sapea farmene ragione, per quanto mi scervellassi. L'urlo era stato proferito dalla proprietaria, che finora si era mostrata gentilissima ed educatissima a nostro riguardo.

—O non siete morto?—Mi disse finalmente di dietro il banco l'ostessa.

—Ma io credo di no!—Risposi immediatamente.

—È impossibile!—Questa replicò, turandosi gli occhi, quasiché si trovasse al cospetto di un'ombra.

Non starò a riportare tutte le spiegazioni; basti il sapere che gli amici mi avevano dato per morto, onde assister più tardi a questa burletta,

« On est toujours trâhi, què par les siens.

Come eran lunghe le serate a Digione! Cosa fare?… Gli altri ammazzavano il tempo col fare frequenti libazioni in onore del generoso paese che ci ospitava e del vino che produceva: io non era in stato di farlo: mi misi a chiacchiera colla padrona ed insieme combinammo che le avrei insegnato la lingua italiana.

Io non so chi abbia inventato l'accento; ma vi assicuro che, se gli arrivassero le maledizioni che dentro di me gli scagliai nel mio periodo magistrale, egli chiederebbe un permesso al Padre Eterno per fare una scappatina nel mondo di qua, onde sfidarmi a duello… fu una vera desolazione!… Dite lunedì—dicevo alla mia graziosa scolara; e lei: Lunedi: dite casa, e lei casà; in sette o otto lezioni insomma non arrivò che a proferire la sera che noi partimmo: Buonà serà. Povero fiato!… È vero che se ci si perdeva di fiato, ci si risparmiava di borsa, e quello che nelle prime sere io ed i miei compagni si pagava tre franchi, nelle ultime si pagava un franco e mezzo e anche meno.

A proposito di mangiare devo far notare ai gastronomi che avessero intenzione di andare a Digione due grandi inconvenienti: primo la eterna zuppa, che come in tutta la Francia, si mangia indispensabilmente, quasichè non vi fossero fabbricatori di paste: secondo l'ora regolare, indiscutibile del dejuner e del pranzo. Un povero disgraziato che capita in città dopo le undici, abbia pure le saccoccie rigurgitanti di maranghi, farà la fine del conte Ugolino.

Dopo aver provato all'albergatrice che almeno per ora non ero anche morto, ce ne andammo al café de la Paix, dove un subisso di mobili raccontavano mirabilia degli ultimi fatti. Tra questi predominava un capitano lungo come una pertica, elegante come un perfetto dandy.

—Guarda ha la croce di Mentana!—Mi dice all'orecchio il furiere Quaranta che in quella sera ci aveva accompagnato.

—Lascialo stare—Gli risposi io immediatamente, ma conoscendo l'umor delle bestie, fino da quel momento previdi dei guai.

Godo dire che i miei amici furono delicatissimi e che per parte nostra non sarebbe nato certamente diverbio di sorta. Si lasciaron cadere inosservate le solite fanfaronate francesi, si lasciò correre su certi eroismi di cui si facevano belli questi Don Chisciotte da dieci al centesimo; ma quando in mezzo all'attenzione generale, il gallonato cosaccio si lasciò scappare di bocca: Les Garibaldiens sont dès aventuriers, ci alzammo tutti contemporaneamente da sedere e ci avvicinammo a questi guerrieri da caffè.

Scommetto che il capitano non ci aveva veduti: me lo fa credere la sua fisonomia pallida e sconvolta, che fece, appena che ci vide vicini.

Rèpetez, Monsìeur, ce que vous aves dit? —Urlò come un indemoniato il Quaranta.

Je vous assùre…

Ah.. lache —E un potente manrovescio fe' capitombolare sotto il biliardo lo spilungone.

Ci si era: battaglia campale: volavano banchetti, tazze, piattini: fu rotto uno specchio e chi sa quanti bicchieri: le guardie mobili sul primo tennero fermo, poi, peste e malconcie, se la diedero a gambe. Al capitano fu perfino tolta la sciabola; gli fu levata dal petto la croce e gli fu battuta sul naso. Che gusto schiaffeggiare un'eroe di Mentana, sputare in faccia a un difensore del papa!.. E come se ne andò scorbacchiato e confuso!… Traballava come un briaco e non si azzardava ad alzar gli occhi. Noi eravamo rimasti padroni del campo: in cinque avevamo messo in fuga una ventina di moblots. Che bella vittoria! E dire che la padrona pretendeva che le si rifacesse le spese dei danni, che aveale recato il combattimento!… Da quando in qua il vincitore paga qualche cosa dopo una battaglia? Nella terra di Brenno, si dovrebbe conoscere il tradizionale: Veh victis!

CAPITOLO XX.

Il giorno ventisette gennaio si presentò colla solita mancanza di ogni e qualunque movimento strategico. Finivo di sorbire un'eccellente tazza di caffè, quando vidi entrare nella bottega il Perelli, sergente del nostro squadrone, un Meneghino puro sangue, impavido al fuoco, susurrone sempre.

Oui ti —Mi disse abbordandomi—Ti è passata la malattia?..

—Mi pare!

—Allora in servizio…

—Questo poi…

—Meno osservazioni…

—E che ho a fare!

—Devi portare questo plico a Fontaine, quando sei lassù, piglia pure una cotta… te lo concedo.

—Ma dimmi perché non ci vai tu?

—Ecco lascierò il tuono di superiore e te lo chiederò in piacere… sai quante volte ti ho risparmiato la guardia… se tu conoscessi le occupazioni che ho!… Figurati, bisogna che contenti tre o quattro ragazze…

—Scusate, se è poco!

—Eh!… non è niente! non fo che pigliare la rivincita di ciò che fecero i Francesi da noi nel cinquantanove… d'altronde i Garibaldini son troppo necessari all'Umanità e per conto mio, cerco tutte le strade per eternarne la razza…

—Va bene… dunque parto!

—Addio!

Il plico che avevo a portare era per un certo Meyssac o Meglac salvo errore, maggiore dei mobilizzati dell'Ain. Mi aggrego il tromba delle Guide, un Romagnolo che ha la pretesa di far dello spirito. Infatti, passando sotto la chiesa di Nôtre Dame, chiesa mezzo rovinata, la sbircia ben bene eppoi dice: I Francesi non credono alla verginità di Maria…

—E perchè?

—Perchè in tal caso la chiamerebbero nôtre demoiselle!

Chiedo scusa ai lettori per il disgraziatissimo tromba.

Passammo la barriera e rivedemmo quei luoghi tanto illustrati dai recenti combattimenti; non un cadavere si vedeva per l'immensa estensione: solo qualche albero stroncato, qualche muro disfatto, qualche casa scortecciata, crivellata dalle palle faceva supporre la tremenda tenzone che si era svolta in quei luoghi. Un sole bellissimo, come mai avevamo veduto dacché eravamo arrivati in Francia, ripercoteva i suoi raggi in quella campagna squallida e tetra, o che forse tale ci appariva al ricordo di tante generose esistenze che ivi erano state tolte alla patria, agli amici per saziare la indomabile sete di sangue che suole distinguere i re.

Giunti a Fontain andammo per informazioni alla scuola, che per la prima ci si parava davanti. Domandammo ad un uomo in blouse turchina che era sulla porta, dove si trovasse il maestro. Con nostra gran sorpresa ei ci rispose che il maestro era lui.

Tutte le attribuzioni che Sue nel Martino il Trovatello dà ai maestri campagnoli non sono che vere, come vero purtroppo è il meschino stipendio con cui vengono retribuiti nella grande Nation. Il maestro rimette l'orologio della parrocchia, suona le campane, pulisce il giardino, spazza le scale, fa tutto… tutto quello che troppo repugna al gran ministero dell'insegnamento. È una cosa desolante!… Nei più piccoli borghi è proibita la mendicità, e si fa languir quasi di fame questo pover'uomo che suda, che si affatica per provvedere il pane intellettuale ai poveri Paria della montagna.

Il maestro fu con noi gentilissimo, conosceva il posto a cui noi dovevamo arrivare, e c'insegnò una scorcitoia; questa scorcitoia doveva procurarci degli impicci gravissimi. Avevamo appena passato un viottolo, che una voce imponente, ci grida: Qui vive, e cinque o sei canne di fucili si abbassano in nostra direzione, procurandoci col loro barbaglio una sensazione non troppo piacevole.

France!—Gridammo io e il tromba, proprio all'unisono.

—Alto… o fò fuoco!

—Per Cristo!—Strilla il tromba—E' son capaci di farlo!.. questi mobili lontani dal fuoco sono capaci di tutto.

—Dove è il capoposto? Cominciai io avvicinandomi.

Present —Declamò con burbanza un ghiozzo, rinfagottato sotto un involto di panni… un vero sacco di panni sudici legato in mezzo: e dietro a lui altri cinque o sei che non aveano da invidiargli nulla in bellezza ed in eleganza si presentarono a noi con baionetta calata, e con quel piglio da eroe che suole assumere l'uomo che esponendosi a un pericolo è sicuro della vittoria.

—A noi—replicai io immediatamente—Ci ho qui un plico da consegnare al vostro capitano, conducetemi a lui, chè non ho tempo da perdere.

—Assicuratevi bene di loro—Comandò ai suoi uomini il capoposto, e poi rivoltosi a noi con fare sdegnoso, borbottò: seguiteci.

Il capitano era in una specie di bettola, ridotta lì per lì in stanza d'ordine; era un coso rimpresciuttito, che parea proprio dovesse regger l'anima coi denti: sdraiato su di una poltrona impagliata, teneva tra le labbra la pipa, di cui si divertiva ad esaminare con certa voluttà le nuvolette grigiastre di fumo, che man mano andavano a dileguarsi in quell'ambiente.

Consegnai il mio plico; Monsieur, così lo chiamavano con grande unzione i suoi sottoposti, prima mi sbirciò ben bene con tale ostinazione che mi ridestava il pizzicor nelle mani, poi cominciò a capolvogere, e spiegazzare quel povero foglio in tutti i versi, finalmente si decise a porvi gli occhi. Per maledetta disgrazia quell'ordine era stata fatto in lapis: di qui non sto a dire quanto aumentassero i sospetti in quella zuccaccia ignorante.

C'est un affair tres serieux —Proferì rivoltandosi al sergente Ces coquins de Prussiens ont trop d'espions… —poi di nuovo girando la faccia verso di me, mi domandò: Vous etes Polonais?

Non, monsieur, je suis Italien.

Attendes —E senza dire ai nè bai, ci lasciò in asso in mezzo a quei mammalucchi.

Si aspettò cinque minuti, se ne aspettò dieci, l'affare cominciava a diventar serio davvero: ogni poco venivano a frotte dei mobili e ci guardavano, come se fossimo bestie feroci: le donne di casa, una vecchia e una fanciullina avevano a nostro riguardo lo stesso contegno: sbaglio, la fanciullina ci faceva le boccacce.

—O bada… che le do uno scappellotto—Mi diceva il tromba digrignando i denti.

Io non gli rispondeva: se però fossero arrivati al Perelli, che ci aveva mandati lassù, tutti gli accidenti che gli augurai in quella mezz'ora, il povero diavolo chi sa mai quante volte avrebbe fatto il fatale viaggio che gli avevano risparmiato le palle prussiane.

Esaminando però tanto per ammazzare la noia e il malumore quei gruppi di mobilizzati che convenivano in quella stanza, sempre più mi convincevo della decadenza tanto fisica e morale della disgraziata nazione francese. Quella gente rachitica, mingherlina, paurosa non si poteva certamente chiamare la genia dei Cimbri e dei Galli, l'orgia e il deboscio han dato il colpo di grazia all'antica terra di Brenno e dei Druidi, l'orgia e il deboscio hanno ridotto una baracca dei burattini la così detta signora del mondo: qualche bel tipo raramente si trova nei campagnoli, ma la gioventù delle città muove a schifo. Per me la generazione è un diritto pubblico, non un diritto privato, e se ogni giorno si fanno, delle leggi per il miglioramento della razza equina e canina, perché non si hanno da istituire delle leggi che provvedano al miglioramento della razza umana? L'uomo è il re della natura, dicevano gli antichi: oh sì, che la dissero grossa… tra un leone ed un gobbo non può esser dubbio su chi ha aspetto più sovrano!

E il tempo passava e non il più piccolo indìzio che avesse a cessare la nostra prigionia.

—Si può mangiare? Domandai ad uno.

Questi alzò disdegnosamente le spalle e se ne andò—O guardiamo, se questi pezzi d'ira di Dio finiscono col farci far la morte del conte Ugolino?

Dopo un ora rientrò l'invitto duce, seguito da una scorta tutt'armata, che ci prese nel mezzo.

—E ora che ci fanno? Mi domandò con emozione il tromba.

—Scommetto che ci fucilano qui sulla piazza… raccomandati l'anima—Io gli risposi per ridere… Ma che brutta faccia non fece a tale annunzio il mio compagno di sventura!

—Per Cristo!… Esser fucilato dai Francesi non me l'aspettavo.

I mobili ci accompagnavano con fischi ed imprecazioni a cui facevano eco i borghigiani di tutto Fontain che si erano accalcati lungo la via.

Vidi che i nostri carnefici avevano intenzione di ricondurci in città: per nostra buona fortuna un capitano Nizzardo tutto vestito di rosso, ci vide, ci riconobbe (eravamo stati insieme il giorno ventuno) fece una partaccia al capoposto, ci tolse di mezzo ai soldati e ci condusse a bere con lui. Ci raggiunse il maestro di scuola e ci chiese un milione di scuse per averci cacciati in quel laberinto. Gli facemmo toccare il bicchiere con noi, e tutti insieme propinammo alla felicità della Francia, di quella Francia i cui figli ci trattavano con tanto riguardo.

In fretta e furia tornammo a Digione al nostro quartiere: là ci furono date due novità: la prima che erano stati incorporati nelle guide quei quattro Pollacchi, che erano di scorta al generale Bossak: questi disgraziati non sapevano un ette nè d'italiano, nè di francese e poco tardarono a diventare i buffoni dello squadrone: ci sembravano bravi ragazzi: ci guardavano attoniti, ci offrivano il loro tabacco, e divennero poi i cirenei del servizio: la seconda si fu che Miquelf con otto guide era partito insieme colla colonna dei Franchi Tiratori Alsaziani, comandata dal maggiore Bun, allo scopo di far saltare alcuni ponti che erano nelle vicinanze. Se la partenza di Miquelf ci fece tutti respirare dalla contentezza, il perdere anche per pochi giorni Materassi e altri amici lasciò un voto intorno a noi.

Una ben più dolorosa notizia doveva però poco dopo recarci turbamento: il generale Cremmer aveva abbandonato Dôle, lasciandoci così quasi accerchiati dai Prussiani, rimanendo libera, al caso di una ritirata, soltanto la via di Lyon. Il generale Cremmer pareva messo a bella posta a noi vicino per scombuiare i disegni del pro' Garibaldi: a Baune attaccando intepestivamente il fuoco e non volendo servirsi dell'aiuto del nostro piccolo esercito aveva dovuto ritirarsi, mettendo i nostri in falsa posizione: ora era la causa vera dell'ultimo disastro di Francia, poiché l'armata di Bourbaki nella disastrosissima sua ritirata avrebbe potuto appoggiarsi a questo paese, invece che di gettarsi in Svizzera.

Il governo della difesa nazionale cominciava a prendere in considerazione la fin qui disdegnata armata dei Vosgi, e si bucinava in quei giorni che la somma delle cose militari sarebbe rimessa nelle mani del general Garibaldi: ottimo provvedimento che, ne siamo certi, avrebbe salvata la Francia e che in allora reclamava ogni ceto di cittadini. Parigi non ancora arresa e coi suoi trecentomila uomini, gli eserciti dì Chanzy e di Faidherbe, lo spirito pubblico rialzato con le tre ultime vittorie, una direzione franca, ardita, incorruttibile non potevano non influire contro un esercito da otto mesi entrato in campagna, vittorioso sì ma omai stanco di guerreggiare in terra straniera, ma omai affralito dalle intemperie del cielo, dalle malattie, dalle morti; io credo infine che più fiducia in Garibaldi avrebbe servito per salvare la Francia; è una idea, come un'altra, e perché non l'han voluta attuare, io ho tutto il diritto di gabellarla per ottima.

Non vennero rinforzi di uomini, ma furono però a noi spedite, e giunsero in quel giorno in città, nuove batterie che, almeno a vederle, prometteano assai;

Quella sera dopo il pranzo ci saltò il ticchio di dar dietro a qualche figlia del piacere, di cui vi era in Digione un vero formicolaio. O sia che molte bocche vote di Parigi fossero piovute nella capitale della vecchia Borgogna, o che piuttosto tutta quanta la Francia sìa appestata da una corruzzione ributtante, è un fatto più che provato che il cinismo con cui ti abbordavano, che la franchezza con cui di caffè in caffè, di bottega in bottega queste disgraziate trascinavano le loro grazie e la loro prestituzione era tale, che non potevi fare a meno di sentir dentro di te un disgusto che non eri capace di mascherare: no, non è stata l'abilità degli strategi Germanici quella che ha debellato la Francia, lo torno a ripetere a rischio di passar per un predicatore noioso, è stata la corruzione aiutata e sorretta da un governo corrotto che voleva distrarre, divertendolo, il popolo dalle materie di stato.

In Italia non ci si può fare un'idea di cosa erano le strade di Digione sulle prime ore di sera; bisogna aver veduto quelle giovinette che col sorriso più provocante fermavano vecchi, giovani, soldati e ufficiali, che li prendevano a braccietto, che proferivano i più laidi discorsi con una indifferenza, con una leggerezza da darti la nausea, e tutto per scroccare una cena. Io non sono un puritano: quando si tratta di scherzare ci sto, ve lo provi il mio contegno di questa sera, ma se è permesso ad un soldato approfittarsi delle circostanze, in un pubblicista, se tale pur posso chiamarmi, sarebbe delitto il non alzare la voce su certi scandoli che deturpano l'umanità.

Tenemmo dietro a due giovinette e secoloro entrammo in una via che rimane sotto i bastioni della città. La porta della Maison du Plaisir era tutta crivellata da colpi di revolwer. Gli ufficiali prussiani, superbi e sguaiati, come tutti i conquistatóri, avevan provato diletto a rovinar tutti gli usci, e tutte le vetrate di quella strada dedicate al piacere. Aggiunsi anche questo a tutti gli altri soprusi che avevano commesso i soldati della grazia di Dio, e mi tornarono in mente le parole dell'inno di Handt:

Dove non radica straniero vezzo Dove ha l'onesto stima: e al disprezzo Il vil si danna… È sol sol'ella L'intiera ed una Germania è quella.

È deliberato che i poeti non abbino ad imbroccarne una sola. Lo stendardo Germanico, finchè è nelle mani di un re, rappresenterà l'oppressione come tutti gli altri stendardi monarchici.

Entrammo in una bella sala, circondata da divani in velluto, tutti occupati da moblots d'ogni grado, intenti a ber della birra e a far la corte alle damigelle: una ventina di bottiglie stappate erano disposte in batteria sul tavolino; sei erano le disgraziate, passabili ma avvizzite; in un canto ve ne era una ubriaca; quasi tutti fumavano cigarettes; predominava sulle altre un'Alsaziana, bella, ma stupida… una vera rosa del Bengala; bellezza senza profumo: la degnava solamente con gli ufficialetti, a cui ogni poco chiedeva da bere.

Il nostro ingresso non provocò certamente una dimostrazione: le donne rimasero indifferenti: i moblots facendoci il viso dell'arme ogni tanto ci occhiavano a squarciasacco: per far qualchecosa ordinammo da bere e uno dei nostri andò al pianoforte.

Gli illustri campioni di Francia si misero a ballare… ci pareva di assistere al ballo dell'orsi: come è ridicolo un'uomo che balla sul serio!.. I nostri cantavano: tutto andava benissimo, quando uno dei nostri, un po' allegro, ci disse: Scommettiamo che mi metto a far la corte a quel biondino difaccia.

Detto fatto, la proposta venne accolta: era deciso che i moblots fossero gli jocrisses del momento; di più il biondino in questione era un'individuo rubicondo e pasciuto, un traccagnotto che avrebbe fatto figura a vender castagne e polenta in mezzo ai buzzurri; le stesse donne mentre ne accettavano le gentilezze lo canzonavano dietro alle spalle.

Il nostro amico gli va risolutamente daccanto! tutti noi ci avviciniamo per goder la scenetta: lo guarda con un occhio di triglia da fare sdilinquere una pulzellona, e a fior di labbra, pigliando una posa da Paolo nella Francesca, gli dice: Combien tu es gentil!..

Que ce que vous dites? —Riprese l'altro di subito, e l'innamorato con più anima gli ripetè le frase.

Immaginatevi come rimanesse il povero grullo! Da bel principio non sapeva che pesci si prendere, guardò un paio di volte il soffitto, diventò rosso come una ciligia, eppoi si decise a far l'Indiano, ma l'altro gli posò gentilmente sulla spalla una mano.

Vous vous trompez —Borbottava allora— je vous assure.. je vous prie ne me fâcher d'avantage.

Quando ecco che uno dei nostri per compire il mazzo leva di sul tavolino il tappeto e lo butta sul lume.* quindi buio pesto, buio come in cantina: ed i nostri si misero ad abballottare donne e guardie mobili: e fu un'urtarsi, uno spingere un'inciampare, un ruzzolarsi per terra; strida, bestemmie, risate, un vero pandemonio. Ansioso di terminare la burla, giunsi a farmi strada in mezzo a quel diascoleto: a tentoni trovai il tavolino, tolsi via il tappeto e la luce fu fatta. I moblots accettarono la burla: bisogna convenire che non sangue, ma acqua di malva avevano nelle loro vene.

CAPITOLO XXI.

A causa della presa di Dôle fu necessario che le nostre truppe, eseguendo nuovi movimenti, occupassero le posizioni situate al Sud Est di Digione, posizioni fino allora sguernite. La brigata Menotti traversò la città, portandosi da Talant al suo nuovo destino. Nel comando dei Francs Tireurs réunis era succeduto al bravo Lhoste l'Italiano Baghino: qualche volontario da Marsiglia o da Lione era giunto a rafforzare le file delle nostre compagnie, già abbastanza stremate nell'ultimi fatti.

La mattina del ventotto il generale Garibaldi passò in rivista la brigata di Canzio: le truppe erano schierate in battaglia lungo il viale del Parco: il nostro generale più sorridente del solito traversò in carrozza sulla loro fronte; quindi assistè a vederle sfilare. I battaglioni dei mobili passandogli davanti lo acclamarono, plutone per plutone, con entusiasmo; i cacciatori di Marsala, i carabinieri Genovesi, questi giovani eroi, procederono come vecchi soldati e il prode vecchio si fè più sereno, guardando quei veterani sul fiorire degli anni.

Nel tempo che io pure guardava un così consolante spettacolo, mi sentii chiamare, e volgendomi vidi il fratello di Perelli che mi salutò caramente: egli aveva il braccio al collo: sapevo che era stato ferito e fui felice di vederlo così presto sulla via di guarigione.

Rammento ai lettori questo mio amico che di diciassette anni era là in mezzo a noi, lo rammento perché nel raccontarmi come buscò quella palla adoperò con me una verità da reputarsi impossibile.

—Alle prime palle ebbi una paura birbona—mi disse il buon ragazzino—pensai alla mia povera mamma, che mi proibiva di saltare, di pigliare il fresco, che stava in pensiero, quando tornavo tardi, e che ora non era più buona a proteggermi… mi addossai a im muro tutto rannicchiato, facendomi piccino, piccino e ci stetti qualche minuto: passarono gli Egiziani, uno di loro mi disse: sei un vile; mi saltò il rossore alla faccia, avrei ucciso quell'uomo, poi vidi che aveva ragione, ripensai anche allora alla mamma, alla mamma che piuttosto di vedermi infamato, piuttosto di piangere su me vivo avrebbe pianto sulla mia tomba, e mi accodai all'Egiziani, con loro mi stesi lungo i vigneti, con loro sostenni due ore di fuoco, con loro caricai alla baionetta, fino a che mi sentii percuotere questo braccio, come da una bastonata e caddi per terra… ero ferito!…

La rivista era terminata: allegri e contenti tornammo in città; l'eccellente spirito da cui erano animate indistintamente le truppe, la fisonomia sorridente di Garibaldi, il piglio ardito e simpatico di Canzio, la memoria dei generosi amici nostri che ci avevano dimostrato come si deve morire allorché siam guidati da magnanimi proponimenti, una certa tal quale ambizione di avere assistito ad uno dei drammi più splendidi dell'Epopea Garibaldesca, sempre più ci stimolava ad adempire scrupolosamente il nostro dovere, sempre più ci rendeva sicuri di brillanti, di memorabili trionfi: ma a che serve la fede, quando i traditori ed i mercanti di popolo paralizzano coll'alito gelato del calcolo le sublimi abnegazioni delle minoranze da loro dette fazioni? Mentre l'avvenire ci si dipingeva davanti con i colori più rosei, mentre germogliava viepiù gigante nel petto dei prodi l'inestinguibile desio di quella gloria che sola è da rispettarsi, perché nasce nel sacrificio e nel sacrifizio consolidasi, Favre coi suoi prestigiatori camuffati da repubblicani, segnava la vergogna della Francia: la patria di Danton diventava la cloaca dei Cesari; il berretto frigio che aveva sul capo le si tramutava, in meno che lo si dice, nell'ignobile berretto del galeotto; ed un tal berretto nelle ultime circostanze a me parve il più adatto, che i popoli che hanno sentimento vero di libertà e di giustizia sanno morire sotto le ruine delle loro città: informino Sagunto, Saragozza e Missolungi: i popoli invece, i quali sono corrotti, vigliaccamente si accasciano sotto le verghe dei Napoleonidi, o sotto alle bombe a petrolio dei manigoldi di un Thiers.

Chiami pur vandali i primi e civili i secondi la stampa venduta; tra il vandalismo di cruenta ma eroica protesta e il civismo di chi si appoggia alla prepotente codardia della forza, io m'inchinerò sempre, io sempre mi farò di cappello al primiero.

Ma a noi non doveva esser noto per anche il grande avvenimento che fece andare in solluchero i borsaioli (vedi negozianti di borsa che alla fine è tutta una zuppa e un pan mollo) e tutti gli Arlecchini quattrinai di questa valle di trappolerie.

Una nazione che cade fa arrichire un banchiere: il pianto delle vedove e degli orfanelli che reclaman vendetta e che son costretti a piegare il capo alla tremenda necessità della forza fa alzare il sessantacinque al settanta: vinca il nemico: se rialzano i fondi, ben vengano l'umiliazione, le rapine, gli incendii; s'impingui la borsa, e poi si balli il cancan colle baldracche più laide tra le rovine tuttora fumanti della nostra povera patria, tra i cadaveri dei nostri fratelli che avendo sortito dal caso un generoso carattere hanno preferito all'ignominia la morte… son storie vecchie quanto Noè, ne convengo, ma son vere come è vera la luce del sole… oh! benedetta l'aristocrazia dell'oro, del prezioso metallo che solamente qualche scalzacane ha potuto qualificare per vile: oh, benedetto il trionfo della classe borghese, di quella classe che ha per patria le mura del proprio negozio, o del palazzo carpito a forza di scrocchi e d'usure a un rampollo di magnanimi lombi, che si è giocato a bambara gli averi e la reputazione dei vetusti parenti!

I nobili dei tempi andati avevano, se non altro, delle tradizioni alle quali si mostravano ligissimi; spinti da queste (inutile sarebbe il negarlo) hanno regalato al mondo degli eroici tratti, che giocoforza è ammirare; noblesse oblige: tale era la loro divisa, e si facevano uccidere per quel re, a cui avevano giurato devozione illimitata; per un sorriso, per un'occhiata, per una sciarpa della bella dei loro pensieri col sorriso sul volto andavano incontro, al pauroso fantasma degli spiriti deboli, alla morte: loro cantava il trovatore nella mesta ballata, o nell'ispirato inno di guerra: loro salutavano come protettori gli artisti…. erano nel falso, dovevano cadere, chè la legge del progresso non ammette ostacolo alcuno, sia pure attraente; ma era un falso splendido, era un falso del quale, nostro malgrado, non potevamo non ammirare in qualche parte la cavalleria; esso ci rammentava la Tavola Rotonda, le crociate, le battaglie di Luigi XIV; e quando quest'aristrocrazia si vide impotente ad impedire la marcia del progresso ella cadde eroicamente, cospergendo di sangue glorioso i campi della Vendea: questo sangue segnó la morte del nobilume: in oggi i rampolli degli antenati magnanimi o funghiscono nella loro castella, o fanno da comparse nel Club.

Ma l'aristocrazia dell'oro? Nata nel lurido bugigattolo di uno strozzino, cresciuta nella stanza di affari di un ladro intendente, rinvigorita nello splendido palazzo di un commendatore banchiere che pur ieri vendeva i cenci o raccattava le cicche, vergognosa del proprio passato, piena di sospetti per l'avvenire, codardamente accanita alla sola idea di perdere o di scapitare su dei capitali accumulati a forza d'infamie, e di bassezze, è lei sola il vero sostegno delle tirannidi, è lei sola che fa cadere nel fango i popoli più gloriosi, è a lei sola che si devono attribuire i disastri del mondo: poiché, se l'antica aristocrazia a un'idea falsissima sacrificava e vita e agiatezza, la moderna all'agiatezza e alla vita sacrifica tutto. Io non ammetto nemmeno la così detta aristocrazia dell'intelligenza: il nascer savi è caso e non virtù, dirò parafrasando i celebri versi del Metastasio; ed allora? mi domanderà qualcheduno: allora, rispondo, io non ammetto che una sola aristocrazia, aristocrazia basata sull'eguaglianza, l'aristocrazia del lavoro!…

Mi scusino i lettori, se io vado di palo in frasca: mi scusino le lettrici che potranno ravvisare in me più un predicatore noioso, che un narratore giocondo; tra i miei appunti ho trovato anche queste linee e non sono stato buono di sacrificarle; non saprei dirne il motivo; ma per non fare brontolare nessuno rientro a gran carriera in carreggiata.

Mecheri, Materassi, Piccini, Bocconi ed io eravamo nella nostra camera, sognando tra una boccata e l'altra di fumo nuove battaglie, e per conseguenza nuovi trionfi. «Quando il vecchio passa in rassegna i soldati, si pensava tra noi, ci è sempre per aria qualche cosa di grosso». Per tranquillizzare gli amici e i parenti si scrivevano lettere nelle quali si magnificava il bel cielo che ci faceva credere di essere in primavera (come han sentito i lettori erano giornataccie piovose da metter l'uggia in corpo anche ad un'ombrellaio); si descriveva i nostri adipi che addivenivano d'ora in ora da canonici, si dava ad intendere che si apprestavano feste da ballo. Chi parlava di andare a Parigi, chi di riprendere Metz, chi di schizzare diritti diritti a Berlino…

… Oh degli eventi umani Antiveder bugiardo!

Spalancando la porta con una pedata, entra in camera Ghino Polese con un viso da far rizzare i bordoni all'uomo più apatista del mondo.

—Che è?—Gli si grida tutti a una voce.

—È…—e qui un moccolo da Livornese puro sangue—È… che si tratta nientemeno…

—Di assedio della città?

—Peggio… potremmo morire con le armi alla mano.

—I Prussiani son entrati?

—Ma peggio!

—Ma cosa dunque… per carità!

—Ci è l'armistizio!…

Un fulmine che fosse caduto in mezzo a noi poteva produrre il medesimo effetto. Prima un silenzio di morte, poi una salpa d'imprecazioni; tutte allo stesso indirizzo.

—Ma sei ben sicuro di quello che dici?

—Me lo ha assicurato un'ufficiale di stato maggiore…

—È impossibile! Parigi si difenderà fino all'ultima pietra.

—Parigi ha capitolato!…

Altro silenzio, poi tutti mossi dallo stesso pensiero giù a rotta di collo per la scala, onde portarci al quartier generale.

Sulla cantonata incontriamo la vaga Luisa… Dites donc … proferisce ed io secco secco la congedo con un «non ho tempo da perdere» e continuo la via… Dei gruppi concitati s'incontrano in qua e là… la parola vile errava dì bocca in bocca.

—E Favre che giurava che finchè esistesse una pietra di queste città l'invasore avrebbe trovato un baluardo.

—Ed è stato lui che ha segnato la capitolazione.

—E noi cosa faremo?—Gridava un disertore dall'esercito.

—Imparerete a servire la Francia—Di rimando rispondeva un Gallofobo.

E i popolani abbassavano il capo, quando noi si passava, che la maggioranza dei Digionesi era republicana: e lo svelto ed allegro Garibaldino era divenuto sornione e lo vedevi trascorrere colle mani in tasca, col berretto sugli occhi e mordendosi i labbri, e ad ogni poco sentivi ripetere, commiserandoli, i nomi dei prodi caduti… solo i volti dei moblots brillavano per insueta gaiezza… non ci era più dubbio.

Colle gambe che ci facevano cilecca arrivammo alla prefettura; una folla di gente si accalcava intorno alle due colonne che son di fianco alla porta, e su cui si attaccavano i dispacci e le comunicazioni officiali: tutti si alzavano in piedi, e, quando erano pervenuti a leggere, si ritiravano mandando imprecazioni e grattandosi il capo. Si sarebbe detto che le magiche parole del convito di Baldassare fossero là, scolpite su quei marmi e che tutti coloro che vi si avvicinavano ne risentissero i terribili effetti.

Due sole righe di scritto: due righe che contenevano però la più dolorosa notizia per chiunque preferisce la dignità al beato vivere—«Oggi è stato concluso un'armistizio di ventun giorno». E dire che mani francesi non avevan rifiutato di firmare un patto, che segnava lo stigma sulla fronte di quella nazione che fin'ora come il favoloso Dio dell'Olimpo bastava muovesse le ciglia per fare allibire il mondo tutto dalla paura; e dire che un Favre era stato tra i manipolatori di tale infamia! Oh, allora si vide chiaramente che il vecchio republicano aveva ciurlato nel manico, oh! fin d'allora la gente dal cervello sottile preconizzava nel difensore d'Orsini, nel montagnardo dell'Impero uno dei tanti carnefici che hanno straziato la Francia. Impotente contro i Prussiani, si macchiò nel sangue dei suoi cittadini: ora si è ritirato, ma non tanto lontano che a lui non pervenga l'eco dei pianti e dell'imprecazioni delle migliaia d'orfani e di vedove che per lui son ridotte a stendere la mano! Ma di maggiore infamia si doveva macchiare Favre contro Garibaldi e di ciò sapranno tra poco i lettori.

L'armistizio fu la testa di Medusa dell'entusiasmo nostro; io vidi qualcuno piangere: la maggior parte si sbizzariva lanciando improperii a Favre e alla Francia: quella sera non canti per le vie, non le allegre conversazioni dei giorni passati, ma una musoneria generale… non vi era più fede!

Un'ordine del giorno di Garibaldi nel quale ci si esortava ad addestrarsi nelle armi, ad attender preparati il momento della riscossa, fece credere a diversi che non sarebbe stata cosa impossibile il potersi di nuovo misurare col nemico e ciò fece rinascere un poco quella gaiezza di cui davano tanta prova ne' dì del pericolo i Garibaldini. Per conto mio non mi illudevo: armistizio non poteva significare che pace disonorante: la resa di Parigi lo diceva troppo chiaràmente, eppoi da quando in qua i seguaci di Garibaldi potranno ottenere un completo trionfo?.. Gli unitari d'oggi non lo relegarono nel 60 a Caprera, mentre volava alla conquista di Roma? Gli arfasatti che gli si caccian sempre davanti non gli han fatto sgombrare il Tirolo, quando palmo a palmo lo aveva conquistato, mentre a Lissa e Custoza veniva oltraggiata la bandiera italiana?.. Non fu il prode Generale ferito da piombo italiano a Aspromonte?.. Non fu lasciato dopo la vittoria di Monterotondo, solo a Mentana e si lasciarono scannare i suoi generosi, mentre trentamila uomini di truppa italiana erano sul confine? Non si è sempre cercato di sfruttare i suoi trionfi, facendolo poi passare quasi per un pazzo per un avventuriere? Non si è avuto il coraggio di stampare, che lo si aveva aiutato, mentre si era tentato ogni mezzo per avversarlo o per screditarlo?.. I repubblicani francesi erano presso a poco gli stessi pagliacci dei consorti italiani, ed era da prevedersi quello che era avvenuto, quello che avvenne dipoi. Ma muovan pur guerra le anime vili e i livreati pigmei a quest'uomo che da solo basterebbe a riabilitare la società, tentino pure di schiacciarlo e di avvilirlo, Garibaldi vincerà sempra in nome della libertà, vincerà anche perdendo perché il suo nome oramai rappresenta una idea e le idee non si vìncono.

CAPITOLO XXII.

Passammo il lunedì svogliatamente, senza conclusione alcuna: fino allora il pensiero dell'Italia di rado balenava nella nostra mente, ma dall'ora fatale in cui cominciò a tenzonarci nel capo il dubbio che non avremmo fatto più alcuna cosa, vennero ad assalirci tutte ad un tratto le care affezioni alle quali avevamo dato un'addio, ed un cocente desiderio di rivarcare le Alpi occupò le nostre anime.

—Noi abbiamo finito di combattere—Dicevo alla vaga Luisa che colla testolina chinata sempre osava appena guardarci.

—Oh! voi siete felice.. voi rivedrete la vostra bella io me la immagino… una charmante pétite Italienne.

—No, assicuratevelo, io non son punto felice!

—E perché?

—Voi… Francese… mi potete domandare il perchè?

—Io Francese vedo che siamo traditi.

—E… e..—gridai io dimenticandomi di parlare con una donna.

—Ed ho pianto—Sussurrò lei con le lacrime agli occhi.

—Vi ricorderete di me?

—Sempre… ci avete il vostro ritratto?

—No!

—Me lo manderete?

—Ve lo prometto!

—Grazie… io voglio tanto bene ai Garibaldini.

Questa parola fu un balsamo per l'esacerbato mio spirito; di cosa non è capace una donna?… Per niente gli antichi non immaginarono Ercole che fila ai piedi di Onfale.

E così venne il martedì, giornata che noi credevamo simile alle altre che ci aspettavano, per monotomia e che grazie alla lealtà dei governanti francesi doveva esser pregna per noi di avvenimenti di nuovissimo genere.

Usciti di casa riscontrammo la legione Ravelli, che colla musica in testa marciava verso la direzione della barriera del Parco.

—Dove andate?—Domandai al capitano Becherucci che si era staccato dalla sua compagnia per salutarmi.

—Ma… sento un presentimento che mi dice che ci si avvia verso l'Italia.

Il mio amico doveva esser profeta.

Erano appena le undici e Mecheri, Ghino ed io mangiavamo delle paste in una bottega di faccia al teatro. Digione era piena di pasticcerie, dove si mangiavano dei pasticcetti eccellenti.

Tutto ad un tratto, quando meno lo si aspettava, vedemmo formarsi dei capannelli di gente che discorreva con animazione: poi ci giunsero agli orecchi dei colpi d'artiglieria: credevamo sognare: si pagò il conto, si andò in strada e cercammo raccapezzare qualchecosa tra le mille versioni che si davano del fatto inopinato.

—I Prussiani si avanzano…

—O l'armistizio?

—Quei barbari non rispettano niente!

—No… è Menotti che di motuproproprio ha attaccato il fuoco.

—Ed ora espone la città a chi sa quale disastro!

—È impossibile—Urlammo noi—Menotti sa il suo dovere.

—È vero, è vero—Ripetevano allora i popolani e davano del grullo a chi aveva accampato un così sciocco discorso.

—Qui non si saprà nulla—Disse Mecheri—andiamo alla caserma che è a pochi passi.

*Era così giusto questo consiglio che non differimmo un'istante a metterlo in pratica.

Alla caserma il foriere aveva fatta caricare tutte le casse e i registri su di un carro a cui era già stata attaccata la rozza più arrembata della nostra scuderia.

—Partiamo?—Si domandò, appena giungemmo.

—Non lo so.

—E allora a cosa servono questi preparativi?

—Questi preparativi?… Gli ho fatti per precauzione… però ho mandato a prendere ordini al quartier generale…

—O il tenente?

—Non l'ho veduto

—E tutti gli altri?

—Nemmeno per sogno!

Frattanto le trombe della compagnia delle mitragliatrici, compagnia che aveva stanza poco distante da noi, suonavano a raccolta e poco dopo i soldati della medesima si muovevano in completa assetto di marcia. Poco dopo gli Usseri, nostri vicini di caserma, montavano a cavallo e partivano a mezzotrotto.

Decidemmo di prendere la stessa direzione, allorché vedemmo venire a noi il sottotenente Mussi e il caporale Luperi, che essendosi portati fuori della città per recare una lettera al colonnello Tanara, ci ragguagliarono, essere cominciato un fuoco abbastanza lento tra le due artiglierie. Ci dissero essere ottimo lo spirito dei volontari, ma che nessuno sapeva farsi ragione, del come i Prussiani, violando i trattati si avanzassero verso di noi con colonne strapotentissime. Tra gli altri Garibaldini in faccia al nemico si trovava quel giorno il bravo Pais, che deposto il berretto da colonnello e, messosene uno di pelo, marciava come un semplice soldato, munito di carabina. Dopo essere stato destituito da Frapolli, l'integro patriotta, l'onesto repubblicano era corso là dove aveva spedito tanti uomini che non si volevano far partire, esponendosi fino d'allora ad essere destituito e a subire un consiglio di guerra.

Si andò alla prefettura; v'incontrammo Ricci che ci ordinò di star pronti; domandammo ragione di quel diascoleto ed ei ce lo spiegò con poche parole.

Il governo della difesa Nazionale, non ultima disgrazia della disgraziatissima Francia, non aveva compreso nel patto proposto i dipartimenti della Côte d'Or, del Doubs e del Jura. Quindi sospensione d'ostilità per tutti gli eserciti fuori che per il nostro: si voleva avere il gusto di vedere sconfitti anche i pochi cialtroni che sapevano farsi ammazzare, perchè non avevano niente da perdere… a detta di loro!—Nessuno avviso era stato comunicato a Garibaldi su questa clausola dello iniquo contratto: così si ricompensava l'eroe generoso, che unico aveva vinto, che unico aveva strappato una bandiera ai Prussiani: così si ricompensava l'ardente figlio della libertà, che, pur di porre il suo braccio a disposizione della repubblica, aveva dimenticato le prodezze francesi del 1849, le maraviglie degli Chassepots che il vile de Failly aveva provato contro i petti dei generosi figli d'Italia a Mentana.

Sorpresi da imponenti colonne nemiche nelle loro posizioni, i nostri sarebbero caduti vittime dell'infame tranello e già i Prussiani triplicati di numero pregustavano le gioie di una facile vittoria, ma i traditori francesi e i generali nemici avevano fatto i conti senza Garibaldi: non mi si venga ad impugnare la valentia strategica dell'illustre Italiano, non mi si dica che solo alla fortuna e al coraggio si debbano i grandi trionfi che egli ha riportato: quel giorno si videro chiaramente le sue virtù militari, ed egli fu più grande nella precipitosa ritirata dalla Borgogna che nelle tre celebri giornate che tanta gloria aggiunsero alla nostra povera Italia.

I nemici furono tenuti a bada per tutto il giorno dai nostri cannoni: Menotti, i suoi ufficiali facevano da puntatori, e in questo tempo le truppe si avviavano verso Chagny.

—Ma sicché dobbiam proprio partire?—Domandammo al nostro tenente che ci dava tutti questi ragguagli.

—Purtroppo.

Andammo a casa: facemmo in pochi momenti il nostro modesto bagaglio e senza avere il coraggio dì salutare i nostri ospiti, scendemmo a rotta di collo le scale.

Ou allez vous?—Ci domandò allorché ci vide passare la Luisa, sorpresa in vederci in perfetta tenuta di marcia.

—Andiamo a batterci—Rispondemmo noi tutti.

Vraiment?

—Sulla nostra parola!

Sayes prudents —susurrò a mezza bocca e volle a ogni costo baciarmi alla presenza di tutti. Gli angioli del Signore, favoleggiati dai buoni credenti, non avrebbero avuto di che velarsi la faccia, e quel bacio doveva esser l'ultimo che io riceveva dalla vezzosa fanciulla.

Arriviamo al quartier generale, il partire dei carri aveva prodotto un'adunanza insolita di gente davanti alla porta: tra le molte persone scorgo le due gentili figliole della nostra padrona di casa: cerco sfuggirle: mi chiamano: non vi è dubbio, esse pure mi ripeteranno l'importuna e dolorosa richiesta.

—Dove andate?

—Partiamo.

—Sul serio?

—Così non fosse!

—Ma la ragione?…

—Chiedetela a Favre ed agli altri vigliacchi che volevano ricompensarci di quel poco che abbiamo fatto, mettendoci in trappola.

Le ragazze mi guardaron fisse negli occhi, poi chinarono i proprii e si tacquero; e in questo tempo mille altre domande sullo stesso tenore si rivolgevano a noi, e noi ci sfogavamo a dire tutto il male possibile degli eroi da commedia che per vigliaccheria rovinavano in quel momento la Francia, ed i Digionesi facevano eco alle nostre invettive.

Arriva il Piccini tutto sonnacchioso. Che ci è di nuovo?—Proferisce con uno sbadiglio.

—C'è di nuovo che noi si parte.

—E perché?

—Perché non siamo compresi nell'armistizio.

—O la mia compagnia?

—Sarà partita.

—Ed io?

—Vieni con noi!

—Vengo subito: vo a dire addio a due bambine e vi raggiungo.

E via a gran carriera.

—Le Guide alla Stazione—Grida poco dopo il Ricci—la tromba vada suonando per chiamar gli sbandati.

A quattro a quattro, con accompagnamento di tromba e di bestemmie, traversando la città le cui botteghe eransi chiuse ad un tratto, arrivammo al gran piazzale, dove si doveva attendere quei pochi che avevano un cavallo e che dovevano ricevere ordini sull'itinerario che avevasi da percorrere per recarsi a Chagny.

Sul piazzale vi era una confusione indicibile: cariaggi, cannoni, trasvolavano tra l'incerto chiarore (era sorta la notte) a noi davanti, provocando esclamazioni che io non riporto per non fare arrossire la mia leggitrice: tutti eravamo stizziti e non si cercava che un pretesto qualunque onde dar sfogo alla bile.

Un vivandiere della guardia mobile arrota col suo baroccio un di noi…

—Figlio di un cane!… Accidenti a te e alla Francia…

Strilla l'offeso e un concerto di fischiate si fa udire per quell'aure.

I moblots si erano addossati ai lati della piazza, mettendo in fasci i loro fucili e intuonando ad ora ad ora la Marsigliese… ci voleva il loro coraggio!… Questi canti che mai eransi da loro uditi, durante il pericolo, fecero saltare a qualcuno dei nostri più bizzoso, il pulcino, e quindi lotte con scambi di pugni, subito appacificate dai superiori: qualcuno altro per far la burletta si divertiva a vociare: Les Prussiens, les Prussiens e compagnie intere scappavano, poco curandosi dei loro armamenti: ma allorché potemmo ammirare una fuga dirotta, si fu, quando un cavallo del treno, lasciato in balìa di se stesso si diè a saltare a scavezzacollo in mezzo alla piazza. Un grido immenso, un'urtarsi, un rovesciarsi addosso ai fasci di armi, una Babilonia insomma da far perder la testa.

Ricciotti era vicino all'arco di trionfo, battendo i piedi e sbuffando: poco più in là un volontario consolava in Italiano un bel fior di ragazza che si struggeva in lacrime; a poca distanza una guida per smaltire il malumore si divertiva a pestare i calli, di alcuni mobilizzati che si erano sdraiati. Il cannone era cessato: la notte era fredda, ma tranquillissima; un bel chiaro di luna faceva spiccare sul fondo stellato, nel quale errava qua e là qualche vagabonda nuvoletta bianca e diafana, le purissime linee della guglia di San Benigno… Le case non apparivano che incerte masse nere ad ora ad ora intramezzate da un lumicino, o dall'argenteo riflesso dei raggi ripercossi sui vetri: un chiarore confuso s'inalzava sui tetti.

O Digione, o Digione come mi apparivi cara in quel tristo momento!… Come mi si strinse il cuore al pensiero di doverti lasciare! Il sangue generoso dei nostri compagni morti nelle fertili pianure che ti ricingono ti ha legata all'Italia!… Le gentilezze che tu facesti ai suoi cari, le cure assidue, più che fraterne che hanno da te ricevuto i nostri feriti hanno a te legato l'Italia—Oh! venga il nemico—Io pensava tra me nell'esaltazione del dispiacere—venga e mi uccida qui, proprio sotto quest'arco… Oh! che io possa morire piuttostochè di accingermi a questa dipartita fatale, che mi fa sprezzare l'umanità, che mi fa vergognare di essere uomo.

—Su… su… non ci è tempo da perdere—Mi grida il foriere—Alla stazione.

—Partiamo col treno?…

—Sì nello stesso convoglio del Generale.

Con uno sforzo sovrumano arriviamo a varcare i cancelli: un'infinità di mobilizzati ed anche qualche Italiano, o di riffe o di raffe, pretendevano forzare la consegna e risparmiarsi, assoggettandosi a degli urtoni o al pericolo di qualche partaccia, una trentina di kilometri da farsi colla cavalcatura di San Francesco.

Arriviamo sotto la stazione: lì troviamo qualche aiutante del Generale, diversi ufficiali di stato maggiore e un convoglio a cui era già stata attaccata la macchina.. quel convoglio però non era per noi, esso era stato serbato ai feriti.

Garibaldi non era anche giunto: il generoso eroe dei due mondi voleva partire soltanto, allorché sarebbe stato sicuro che nessuno dei suoi cari, sofferente, potesse cadere nelle mani dell'inimico.

Appena partito il treno, cominciano ad arrivare nuovi stroppi: si buttano sulle panche della stazione gemendo ed urlando; alcune donne prestano loro qualche soccorso o qualche conforto.

Si appresta un'altro convoglio—Speriamo sia il nostro dice qualcuno; si domanda al capo stazione, o a una guardia qualunque e ci risponde negativamente. Allora la solita storia delle mille chiacchiere inutili.

—O sta a vedere, che ci prendono come salami!

—Sentite ma certe ostinazioni non le si capiscono.

—E se andassimo in quel treno lì?

—Ma noi si ha l'ordine di star qui.

—Eppoi abbandonereste il nostro vecchio?

—E se fosse partito?

Un grido di disapprovazione copriva queste ultime parole, e il disgraziato che sbadatamente le aveva proferite, ebbe dicatti a rincantucciarsi e a non farsi più vivo durante tutto il viaggio.

Qualcuno più furbo di lui, ma con la stessa tremarella, mentre gli altri si perderono in chiacchiere, facendo lo zoppo od il monco, entrò in qualche vagone, gabbando le guardie e anticipando il momento di scappar di mano a quei Prussiani che l'esaltata immaginazione facea vedere a pochi passi.

La locomotiva dà un fischio, ed il triste convoglio dei feriti si dilegua ai nostri occhi.

La stazione resta un po' più libera!.. Si attacca la carrozza del Generale; è un vagone di prima, a cui fa seguito uno di seconda per lo stato maggiore: è preceduto da due carri per i bagagli.

Entrano il colonnello Bossi e il Capitano Galeazzi.

—Guide—Dice quest'ultimo—Che nessuno monti in questo convoglio.. ad eccezione di voi…

—E dove andremo?

—Su.. tra i bagagli.

Prendiamo d'assalto i due carri, dove ci accomodiamo alla meglio. Dopo pochi minuti subito una questione in capo del carro..

—Giù… sacramento!

Che c'è?

—Siamo Italiani come voi, Dio…..

—C'è l'ordine di non far salire che Guide.

—E noi siamo della legione Tanara.. della legione di ferro..

—O di ferro o di rame noi rispettiamo gli ordini.

—E noi siamo qui…

—Giù… giù.

E qui qualche colpo di mano e qualche pedata: quindi gran discussione di ufficiali, a cui finiamo col prender parte noi tutti.

—Dagli ragione—Mi dice un Livornese—Non vedi che fiasca di vino hanno a tracolla… per strada fa comodo.

Si urla, si strepita.. molti scendono, poi risalgono e i due non van via…

—Il Generale—Grida una voce.

Tutto tace e nessuno più pensa al meschino incidente.

All'udire che ci è Garibaldi, mi si prende uno stringimento di cuore, e mi spenzolo dal carro onde meglio vederlo. Povero eroe!.. Come ti han ricompensato i falsi repubblicani di Francia, ma tu sai deludere le inique lor mire, ma tu sai sventare i loro infami tranelli!

Garibaldi era serio, ma, come sempre, sereno, ma come sempre spirante dal volto una bontà che è impossibile descrivere: lo accompagnava il generale Bordone, che non partì con noi: a poca distanza da lui venivano il maggior Fontana e il tenente Grossi.

Tutti quelli, che erano sotto la stazione si levarono il cappello: il Generale, appoggiandosi su un bastoncello, stiè un pò fermo e girò uno sguardo malinconico all'intorno. Parlò a lungo con un signore, tutto vestito di nero, con barba, (credo il sindaco od il prefetto) poi si mosse per montar nel vagone.

Un vecchio venerando gl'impedisce l'andare per serrargli la mano. Il Generale lo guarda, poi ricambia affettuosamente la stretta. Non so perché, ma ho voglia di piangere.

Tutti ci sentiamo commossi: un guardatreno grida: Vive Galibardi … nessuno risponde: in quell'istante ogni evviva era superfluo: la vera grandezza disdegna le facili manifestazioni del volgo.

Il Generale è in carrozza: la locomitiva fischia: siamo in movimento.

Do un'ultima occhiata a Digione, appena mosso, nè mi sento capace di staccar più gli occhi da lei. Quanti ricordi, quanta parte di cuore noi non lasciamo là entro! Come mi tornarono in mente in quel brutto istante tutti gli sforzi che avevamo fatto per giungere in Francia, come mi apparvero caramente dilette le peripezie che ci avevano conturbato, come desideravo che il tempo avesse potenza di tornare indietro tre mesi per provare di nuovo le belle emozioni che tanto mi apparvero gradite in allora! Oh! come mi sembrarono giusti i versi del gentile poeta:

«Les chants, que on les entend le soir dans la campagne «Plus ils vont s'eloignant, plus leur charme nous gagne…. «Ainsi de souvenirs qui bercent nôtre coeur!

Erano dolci memorie quelle che cullavano il mio spirito affralito, e nella dolce serenità del ricordo lontano io giungevo a raccapezzare un po' di quella poesia che purtroppo erasi estinta!

Garibaldi, non è inutile il ripeterlo, si mostrò abilissimo generale nella precipitosa nostra ritirata: niente restò in mano a un nemico che ci capitò addosso, quando meno lo si aspettava: il primo febbraio la Côte d'Or era sgombra assolutamente dall'armata dei Vosgi.

CAPITOLO XXIII.

Batteva mezzanotte e noi ci fermavamo a Chagny: non una persona era nella stazione: Garibaldi e il suo seguito si ritirarono nella stanza di aspetto dei viaggiatori di seconda classe.

Una guardia mi battè sulle spalle e accennandomi il Generale che entrava in quella stanza, sorreggendosi al braccio del capitano Galeazzi, con voce commossa mi disse: Cinque uomini, come quello, e la Francia era salva! Per tutta risposta io gli strinsi calorosamente la mano.

Il breve viaggio che avevamo dovuto fare in ferrovia era stato più che sufficiente per aggrappirmi tutte le membra, poiché quel diabolico freddo che ci aveva perseguitato, durante tutta la campagna, non aveva la minima volontà di cessare; ci buttammo per questa potentissima ragione nel caffè dove fortunatamente vi era una stufa, e cercammo di riscaldarci alla meglio.

—E non potremo andare in città?—Azzardò qualcuno di domandare al Ricci.

—Noi dobbiamo stare a guardia del Generale.

—E sia—Rispondemmo in coro, ordinando una, o più bottiglie di vino.

Poco dopo vedemmo Garibaldi che ascendeva la piccola scala, che è in fondo al caffè della stazione di Chagny: l'uomo eroico ci volse uno sguardo, uno di quelli sguardi mestamente soavi, nei quali è compreso un poema: noi tutti lo capimmo alla prima e istintivamente ci levammo il cappello: era impossibile non venerare l'eroe che per un'idea aveva affrontato nella vecchiezza disagii, fatiche inesprimibili, era impossibile non venerare l'uomo che così infamemente ricompensato, collo sconforto nell'anima, aveva un'occhiata di conforto per noi: quella semplice occhiata ci rendeva più grandi, più generosi. Ah!.. non mi scappi fuori una scuola novellina a sostenere che i popoli si debbano solamente muovere per gl'interessi materiali: oh… non mi si dica che il correre dietro ai sogni e alle generose utopie addimostra un'ingenuità d'animo quasi primitiva!.. Io li capisco sogni siffatti, io li capisco tanto, che ne sono entusiasta. Oh, mi si lasci morire per una di queste generose utopie, mi si facciano provare tutte le asprezze della vita disagiata del campo, tutte le emozioni di colui che dice un addio per il vagheggiato ideale alle dolcezze della vita; in oggi che si fa guerra ad oltranza alla poesia, oh, si lasci questo piccolo scampo a chi vuole appartarsi da questa società di calunniati e di calunniatori, di strozzini e di morti di fame, oh! ci si permetta di utilizzare delle vite, forse disutili, per le nostre aspirazioni, che si potranno mettere in ridicolo, ma sulla cui santità nessuno onesto potrà nutrire sospetto veruno!

Erano passati pochi minuti, allorché un ufficiale ci notificò, che non ordine ma desiderio del nostro generale era quello che si andasse a riposare in città: tanto Garibaldi al contrario dei soliti generali pieni di boria ha carità, dei suoi sottoposti!

Non vi sto a dire come questo desiderio corrispondesse al nostro, pure tutti noi ad una voce dicemmo che nessuno avrebbe abbandonato quel luogo, tenendosi tutti troppo onorati di mostrare al grande uomo, quanto fosse la nostra riconoscenza e il nostro rispetto per lui.

—No, no—Ci ripetè l'ufficiale—Qui non vi è alcun pericolo: qui non vi è bisogno di guardie: Garibaldi si avrebbe molto per male, se voi non lo secondaste.

E allora?…. Via a rotta di collo in paese.

CAPITOLO XXIV.

Tutto era calmo: il rumore dei nostri squadroni e dei nostri sproni turbava soltanto il sepolcrale silenzio in cui erano avvolte le poche vie di Chagny: nella quiete quasi lugubre di quella serata a mille doppi sembrava più potente il rumore prodotto da noi, e ripercosso dall'eco: s'illuminò qualche finestra, ma per pochi minuti: il pacifico cittadino, rassicurato che non vi era nulla a temere, spengeva il lume e tornava di certo a gustare il calduccio delle coltri, quel calduccino che io cominciava a vagheggiare come un sogno irrealizzabile.

Con molta fatica si perviene a trovare la Mairie: meno male che le finestre sono illuminate. I nostri capi, riflettiamo fra noi, avranno telegrafato, e gli alloggi saranno già pronti. Le nostre induzioni erano, come d'ordinario, falsissime.

—Dove è il Maire?… Domandiamo a un villanzone che scaldandosi le mani alla stufa andava tanto in brodo di giuggiole da non avvedersi nemmeno che noi eravamo entrati.

—Son io—Ci risponde questo con certo sussiego. Cosa desiderano?

—Cosa desideriamo?…. Ci vuoi poco a capirlo!… Un biglietto d'alloggio.

Sapristi!,.. Vi pare ora conveniente?

—Siamo arrivati ora!…

—Ma ora dormono tutti:

—Poco importa!… Li sveglieremo.

—Ma… guardino!

—Pretenderebbe che sì dormisse in strada?..

—Dopo quello che si è fatto per voi?—Aggiunse un amico in pretto Livornese—Ah! Francesi, Francesi, se si fosse, mondo birbone, soldati del vostro schifoso imperatore o del papa…

Il Maire confuso, senza capire un'acca all'ultimo discorso, andò a un tavolino per stendere i famosi biglietti.

Un urtone spalanca la porta, ed un'altra mandata dei nostri si butta addosso al tavolino…. I nuovi venuti son la bellezza di diciassette, tra cui una vivandiera.

Sapristi —Ripete il sindaco con voce stizzita— C'est impossible loger tout ce mond là!…

Descrivere il bailamme che succede a tale esclamazione sarebbe cosa impossibile: tutti parlano a un tempo, tutti intendono snocciolare le loro brave ragioni, e quel pover'uomo, che rappresenta l'autorità, pare il sor Cecchino.

—Ecco come ci ricompensano—Continua a vociare il Livornese.

—Vogliamo giustizia—Interrompe un altro.

—Io voglio soltanto un alloggio….

Vous étes un cochon…

E giù di seguito sullo stesso tenore. Io e Bocconi arriviamo a strappare di mano il primo biglietto vergato e via di galoppo…

Rue Saint Antoin? —Domandiamo al primo che passa.

C'est là bas. —Questo ci risponde e va via a passi concitati.

Arriviamo alla destinazione: Numero 41 si picchia: silenzio glaciale: si ripicchia, la stessa accoglienza: allora pedate; è poco anche questo: son morti dunque in questa casa? Si sfoderano gli squadroni e si comincia una sinfonia infernale alla porta del mal capitato, che il municipio ci aveva destinato per ospite.

Mon Dieu —strilla una voce femminea— Il y a donc de Prussiens?

—Siamo Italiani… il cittadino Bicornet abita qui?

—Sì cittadini… ma è a letto!

—Si svegli!

—E cosa volete?

—Abbiamo il biglietto d'alloggio…

C'est impossible!.. Noi abbiamo di già uno zuavo…

—Solite storie!… Aprite o vi sfondiamo la porta!

Nom de Dieu! … veniamo, veniamo.

Non ho mai veduto in mia vita una fisonomia più ridicola di quella del cittadino Bicornet. Cogli occhi tuttora fra il sonno, con un berretto da notte dal quale scappavano fuori due orecchi che non avrebbero minimamente stuonato sulla testa di un coniglio, il povero diavolo, basso e traccagnotto come un fattore ti dava l'idea di Don Bartolo, quando rimane immobile coma una statua nel finale del primo atto del Barbiere di Siviglia.

—Cittadini… fratelli… amici… Italiani… sul mio onore è impossibile che vi possa albergare.

—E perché?

—Guardate… e, se siete giusti, giudicherete da voi stessi.

Guardammo: in quella miserabile stamberga difatti noi non scorgemmo che un meschino lettuccio, su cui era disteso un bel giovine dalla barba bruna, probabilmente lo zuavo, il quale aveva tuttora il braccio al collo; una vecchiarella sdraiata su di un pagliericcio alzò la testa al nostro arrivo e ci guardò con occhi stralunati.

—Signori—Ci disse il giovine—Il buon soldato deve aver sempre rispetto… Guardate se il mio ospite non vi diceva la verità…

—Non ve la rifate con noi, ma col Maire, perché c'invia qui, quando ci siete voi.

—Il Maire l'ha presa con noi—Borbottò il buon'uomo—Al principio della guerra ebbe il coraggio un giorno di mandarmene quindici!

—E noi che faremo?—Domandammo in tuono di compassione a Monsieur Bicornet.

—Aspettate—Disse questi dopo aver riflettuto—venite con me alla Mairie e vi fo fare un biglietto per un mio amico.

—Tentiamo anche questa.—Riflttemmo noi due e col buon'uomo rifacemmo i nostri passi.

Il Maire non oppose alcun osservazione al cambiamento dell'alloggio, e noi insieme con Bicornet, andammo in fondo al paese in una meschina casupola, alla cui porta il nostro accompagnatore bussò replicatamente. Quello che doveva albergarci era un macchinista della ferrovia; egli ci accolse con un sorriso gentile, e, appena passati, si mise a rifarci un lettuccio che era a un lato della stanza, mentre nel fondo della medesima dispiegava tutta la sua pompa un letto nunziale, dalle cui coltre vedemmo scappar fuori una testa di donna, giovine certo, bella non sì poteva propriare, poiché il lumicino che era stato acceso al nostro arrivo non aveva la potenza di rischiarare quella stanza, quantunque la fosse stretta e corta come una carcere.

Rifatto il letto, il macchinista con franchezza tutta popolana ci disse: Ora spogliatevi e dormite, che dovrete averne bisogno…. Buona sera!

Lo spogliarsi in faccia a una donna che ci vedeva per la prima volta, ci arrecava un certo fastidio: pure la necessità era troppo imperiosa, e dopo pochi minuti noi stiravamo le nostre membra intirizzite sotto le lenzuola.

Il sonno si ostinava a non venire, quasichè il caso volesse proprio farci assistere a un tormento di nuovo genere, al supplizio di Tantalo riveduto e corretto per conto nostro…. Prima delle dolci parole tra i coniugi, poi uno scoccar di baci….

Noiato dalla scena che rappresentavo, feci un solennissimo starnuto; ahi non bastò; degli interrotti sospiri….

Diedi nel braccio al Bocconi, egli era desto come me, e finimmo con un'omerico scoppio di risa.

D'allora in poi fu silenzio e noi attaccammo un sonno magnifico!

CAPITOLO XXV.

Chagny fu per noi una vera desolazione: fortuna che ci si trattenne soltanto due giorni. Immaginatevi un paesucolo più sudicio di quelli del Napoletano: degli abitanti a cui non pareva vero di esserci prodighi di sgarbi e d'impertinenze, e non avrete immaginato che una metà delle nostre noie. L'intiera armata dei Vosgi si riversò, come valanga, su queste prime case del dipartimento della Saône et Loire ed all'ora in cui noi ci alzammo da letto ci fu impossibile il rinvenire, neppure a peso d'oro, un tozzo di pane.

I soldati affaticati dalla lunghissima marcia si buttavano lungo le strade: i carriaggi si succedevano a ogni minuto: a ogni minuto vedevi un via vai di ufficiali di stato maggiore, di staffette, di batterie; alle botteghe di fornaio, ai caffè, ai restaurants una pigia di persone concitate che bestemmiavano e facevano ai pugni tra loro; noi eravamo affamati, ci avevano detto al quartier generale che per quel giorno saremmo rimasti in paese, e non si trovava un tozzo di pane per sfamarci…. Oh! la dolorosa situazione…. In campagna, alla guerra, ci si adatta l'idea del sacrificio, di un dovere da compiersi offre soddisfazioni più belle dì quelle di un bisogno naturale soddisfatto, ma sicuri di non scaricare più il fucile, testimoni di una pace disonorevolissima che veniva vigliaccamente subita da una nazione, fin'ora rispettabile, noi ci sfogavamo con imprecazioni, e forse saremmo stati anche capaci di qualche malestro, pur di fugare la minima sofferenza.

Finalmente, verso le due, mi riescì d'agguantare in un'osteria di sesto ordine una bella bistecca e la mangiai senza pane. La sera andai a dormire in una chiesa, poiché il biglietto d'alloggio era per un giorno soltanto. Verso le due erano arrivati i nostri compagni delle Guide che avevano cavallo.

Il giorno dipoi partenza di tutte le truppe: Garibaldi accompagnato dal suo stato maggiore partì per Chalons sur-Saone: noi avemmo l'ordine di rimanere. Nella giornata liti immense con i Francesi. Ghino dà dei pugni al caporale Aribaud, questi scappa e vuol protestare: subissato dai nostri discorsi tace. Il tenente Raffoni insolentisce un capitano delle guardie mobili ed uno dei carabinieri; lo traducono alla corte marziale: salta fuori un nuvolo di testimoni ed è assoluto.

Noi siamo chiamati di guardia al quartier generale; alcuni, essendo restati soli in paese, cominciano a mormorare ed a dire che i Prussiani sono a quattro passi e che ci faranno viaggiar gratis fino a Berlino; improvvisiamo una cenetta in corpo di guardia rallegrata da Ricci e Fabbri che pretendono parlare francese e che attaccano briga con un Ussero di piantone, che si permette di sedere con noi dopo essersi permesso di russare come un violoncello antecedentemente. L'ordinanza di Bordone ci porta una forma di cacio, e noi, andando nella stanza di ordini, rubiamo due bottiglie di vino generoso, riservato per gli ufficiali di stato maggiore. Gismondi, un Genovese rovinato nella faccia da una palla a Monterotondo, si aggiunge a noi e porta due altre bottiglie di vino… quindi baldoria generale. Nel più bello del chiasso, si schiude la porta con impeto e vediamo ritto, stecchito davanti a noi, truce come lo spettro di Banco il generale Bordone. Stupore generale, e relativi moccoli a fior di labbra.

Il generale ci da una sbirciata e invece di farci un rimprovero, si rivolge al nostro tenente e gli dice: Mandi un sergente e quattro uomini a rimetter l'ordine in casa di questo povero vecchio, dove sono entrati tre Franchi Tiratori, pretendendo farci di tutto un po'.

Mecheri, sergente, e tre o quattro di noi ci moviamo col vecchio che era rimasto a caso nell'ombra: eccoci ridotti anche carabinieri! Non nego, che un tale incarico mi andava poco a sangue: io non ho mai nutrito una decisa simpatia per gli agenti della legge, che d'altronde sono riveriti come angeli custodi da tanti che meriterebbero di andare in prigione assai più di quelli che ci vanno: eppoi… il vecchio che ci accompagnava, mi aveva una fisonomia proibita: qualche cosa di prete smesso o di mezzano amoroso.

Arriviamo alla casa: per le scale non ci è lume e nessuno ha fiammiferi…. si comincia benino!…

—Mi piglino per una falda e salgano.—Ci dice il vecchio.

Ci si attacca tutti alla falda…. maledizione!… la scala è a chiocciola e la falda a una voltata resta in mano a uno dei nostri.

Mon Dieu! —Grida la povera vittima di quelle tenebre.

—La ci tenga un lume!—si contenta di aggiungere con filosofia l'autore dell'eccidio.

La moglie del vecchio, avvisata forse dal chiasso improvviso, ci comparisce davanti con una lucernina. Quantunque la nuova venuta fosse in perfetto deshabillè non ci faceva peccare di gola. Credo che donna più brutta non sia stata mai messa al mondo per dar di bugiardi a coloro che asseriscono esser la donna l'ideale della creazione.

Tra moglie e marito avevano tutti i requisiti per farsi odiar cordialmente.

—Aiuto… carità… protezione—Urlava la megera.

Entrammo colle mani sull'elsa dei nostri squadroni: credevamo di trovare tre indemoniati: quale non fu la nostra meraviglia? Ci vennero incontro tre buoni figliuoli, che cominciarono col chiederci scusa di averci disturbati, narrandoci per filo e per segno tutti i particolari del disgustoso incidente. Provvisti di biglietto d'alloggio, essi si erano presentati al padrone di quella bicocca ed egli aveva negato con mal garbo di ricettarli; gli avevano detto che erano stanchi, che avrebbero anche pagato, ed egli duro come un Tedesco. Allora loro, esasperati, erano entrati per forza in camera ed avevano approfittato del divano ove si erano addormentati.

Il vecchio era uno sfegatato Napoleonista, e giurava che a' tempi della tirannide non si offendeva la pudicizia di una signora, svestendosi innanzi a lei. A tale protesta nessuno potè trattenere le risa: persuademmo i giovani a venir via, si diè due prese d'imbecille al tarpano, e tutti insieme si andò in una vicina casetta, dove bevemmo di nuovo.

Tra un bicchiere e l'altro, sapemmo che i Prussiani avevano fatto fuoco sull'ultimo convoglio di Garibaldini che era partito da Digione, convoglio nel quale tra gli altri si trovava il Piccini: nessuno fu offeso ad eccezione del Macchinista che restò morto sul colpo.

Il giorno dopo, noi partivamo da Chagny, diretti a Chalons sur-Saone, dove si trasferì il quartier generale. L'annunzio della partenza fu salutato da tutti, con gioia inesprimibile. Se io avessi un nemico accanito, lo manderei a domicilio coatto a Chagny, certo che dopo poche ore implorerebbe la pena di morte.

CAPITOLO XXVI.

Prima di terminare il racconto è necessario che io parli della seconda brigata, comandata dal Lobbia, di questa brigata che, quantunque lontana dalle altre e perciò non abbastanza rammentata nelle molte memorie che si son pubblicate sulla campagna di Francia, non si è meno coperta di gloria, nè ha meno faticato delle altre. I dati della relazione che io farò ai miei lettori, mi furono forniti a Chalons da un distintissimo ufficiale di stato maggiore che era al seguito del colonnello Lobbia, e il pubblico avanti di parlare del nostro soggiorno in quella città, poiché avendo fin'ora discorso di guerra e dovendo d'ora in là discorrere di pace, qui mi sembrano nel posto più adatto.

Sul finire del dicembre, erano in Soulieu il colonnello di cavalleria Bossi, il maggiore Farlatti con uno squadrone di Guide e una piccola compagnia di pionieri comandati da Kauffman: questa spedizione aveva per scopo di danneggiare le comunicazioni dei Prussiani, appunto sulle famose linee che dovevano servire all'esercito di Manteuffel per venire a combattere le truppe di Bourbaki.

Oltre ad altri ingegni di guerra, il capitano Kauffman avea con se due furgoni pieni di materia incendiaria e di dinamite, che dovevano servire a una importantissima operazione della quale si faceva un gran segreto; e che consisteva noi far saltare un tunnel della ferrovia di Strasburgo.

Pare che tra Kauffman e Bossi non s'intendessero molto e le operazioni non procedendo, come avrebbero dovuto, Garibaldi richiamò quest'ultimo al quartier generale e diede un tale incarico al colonnello di stato maggiore Lobbia, nominandolo brigadiere e destinandolo al comando della seconda brigata.

Questa era costituita nel modo seguente:

Stato Maggiore Uff. 7 Uom. 14 Genio » 3 » 20 Guide » 9 » 150 Francs tireurs de la Bigorde » 3 » 35 Égalitè » 12 » 175 Chasseurs d'Orient » 16 » 270 Marin » 4 » 55 Atlas » 4 » 60 Guerillas Marseilles » 18 » 280 — —— Uff. 75 Uom. 1059

Lobbia partì da Autun, conducendo con se per ufficiali di stato maggiore il capitano Pozzi ed i tenenti Scipione, Primerano e Bonomi: partì secoloro il signor Visitelli, corrispondente del Dayl Neuw. Il capo squadrone Castellazzo partiva per Chatau Chinon, Clamecy e Vermenton, incaricato di tenere relazione tra la brigata Ricciotti e Lobbia e sorvegliarne le operazioni, servendosi dei telegrafi e di tutti gli altri mezzi che le sottoprefetture e i sindaci dovevano mettere a di lui disposizione.

Da Autun la seconda brigata si portò a Soulieu per Lucenay, quindi a Precy e a Vitteau. La marcia è lunga e fu resa più disagevole dall'immensa quantità d'impedimenti che venivano dietro ai soldati e che occupavano a dir poco tre chilometri di spazio: carri con gli equipaggi dei soldati, barrocci, trabiccoli dei vivandieri… donne… insomma una vera marcia di barbari!

Le compagnie dei Francs tìreurs erano scarse: ve ne erano persino di dieci uomini, ma anche queste avevano tre o quattro ufficiali… già, se durava un altro pochino la campagna di Francia avremmo finito coll'avere diecimila generali e nemmeno una tromba!…

Mentre Lobbia marciava verso Vitteau, Ricciotti aveva che fare coi Prussiani di Montbard. Questo paese era difeso da 4000 uomini e 6 pezzi di cannone. L'ardimentoso figlio di Garibaldi tentò l'assalto, il giorno 6 di gennaio. Sul più bello dell'impresa egli però si vide accerchiato dai Prussiani che in forza di 2000 uomini avevano intanto marciato sopra a Semour. Ricciotti tenne fermo fino alla sera, e ritiratosi a Montfort per sentieri appena tracciati, potè sul mattino eludere la vigilanza dei nemici che lo volean prigioniero e si ritirò sano e salvo presso Les Lommes.

La seconda brigata, a cui Castellazzo aveva comunicato l'ordine del Generale di fare un movimento in avanti per distrigare Ricciotti, potè continuare la sua via e di concerto colla quarta brigata che pur si ritirava per la medesima strada verso Digione, potè manovrare così bene da schiudersi l'adito in mezzo alle colonne nemiche che già si avanzavano numerose per le vie di Chatillon, Aignay le Duc e Precy; era una marcia difficilissima, di fianco, che avrebbe potuto compromettere la sicurezza di quella brigata, se questa non avesse avuto la precauzione molto giusta di proteggersi sul suo lato sinistro per mezzo della cavalleria dì Farlatti che eseguì egregiamente questo difficilissimo compito.

Al villaggio di Marai-sur-Tille la brigata Ricciotti si divise da quella di Lobbia, essendo stata la prima richiamata a Digione e dovendo proseguire la seconda per il compito a lei designato. Qui raggiunse la colonna il capo squadrone Castellazzo. Egli veniva da Grancey le Chateau, dove poco corse che rimanesse prigioniero colla somma di 90,000 lire. Lobbia lo aveva infatti mandato a prender denari a Digione, e aveva fissato di attenderlo a Grancey. Castellazzo attendeva da parecchio tempo e nessuno arrivava: i Prussiani avendo saputo dalle chiacchiere dei borghigiani qualche cosa, mandano venticinque usseri nel paese; e, mentre il nostro amico aveva fatto attaccar la carrozza, i cinque uomini dell'avanguardia nemica annunciano al capoposto che non vi erano Garibaldini. Senza por tempo in mezzo, senza aspettare che gli usseri si ricredessero dal loro sbaglio, Castellazzo salta in carrozza, e prendendo un altra via gli riesce di raggiungere il corpo. Erano novantamila lire che egli salvava dagli artigli dei soldati di re Guglielmo: certo che se questi l'avessero potuto immaginare, per un uomo solo erano capaci di assediare il paese.

La seconda brigata da Maray-sur Tille si recò a Selongey diretta per Langres. Siccome però numerosi si avanzavano i nemici dalla parte di Grancey, minacciando di tagliare la strada di Prauthoy, Lobbia con ottimo intendimento fe' fare alla sua truppa il giro di Fontaine Francaise e di Champly recandosi a Chalindrey ed a Langres, dove arrivò il 15 di gennaio, sempre attorniato dai Prussiani, con una felicità veramente meravigliosa.

A Langres, dietro ordini del Generale, furono lasciati tutti i bagagli, compresi i due furgoni di dinamite e il capitano Kaupffeman. La brigata si pose a campo pei boschi di Bouchemin, di Marat e di Faverolle, minacciando le comunicazioni prussiane di Chaumont, Arc en Barroi, e Auberive sulle quali passavano le truppe dirette a Digione.

L'incertezza del generale francese Meyer, il quale negò ogni appoggio, diede meno importanza di quello che si meritava, al movimento: avendo perciò il brigadiere dovuto rinunciare all'idea di attaccare Chaumont, occupato da 6000 uomini, troppi al certo pel di lui piccolo effettivo, portavasi il 22 a Perrogney e Pierre Fontaine e, di lì passando per Auberive, muoveva alla testa della cavalleria sopra il villaggio di Germain per sorprendervi quel posto.

Tra i due paesi sono tre chilometri di scesa e tutto il terreno era una crosta di ghiaccio: ad onta di questo la distanza fu percorsa in una carica sola a carriera sfrenata: guai, se un cavallo fosse caduto!… Non poteva fare a meno di succedere un monte generale, una vera cuffia, come si direbbe in termine basso.

Il nemico che stava poco sulle intese, parve che non avesse nemmeno tempo di montare a cavallo: gli Usseri Rossi si erano ammucchiati nella scuderia; i meno, incerti se avessero a difendersi o a darsi prigionieri, i più, cercando nascondersi in tutti i buchi e perfino nel fieno.

Furono presi 12 uomini e 15 cavalli: gli uomini erano superbi: alti, benissimo vestiti e riccamente equipaggiati: quasi tutti del Posen; le loro pipe, pagate ben inteso a pronti contanti, furono i trofei più ricercati della vittoria.

Dopo questo brillante episodio, Lobbia tornò a Auberive, da cui si mosse dirigendosi verso Vaillant: a poca distanza da questo villaggio giunse la notizia che il sindaco del medesimo veniva trascinato a Prauthoy da una trentina di ulani: nuova carica sul ghiaccio: gli ulani lasciano la preda e via a carriera verso Esnoms, e siccome chi corre corre e chi fugge vola, quando i nostri arrivarono a quel paese, i nemici erano già a Prauthoy.

Gli oggetti requisiti ed il sindaco rimasero a noi, e quest'ultimo offrì in Vaillant un pranzo Lucullesco agli ufficiali di stato maggiore.

La notte fa passata a Pierre Fontaine; il 25, avvisato che una sessantina di Prussiani che facevano scorta a un centinaio di prigionieri francesi, dirigevansi da Prauthoy sopra Auberive, il colonnello Lobbia con cinque ufficiali del suo stato maggiore e con una compagnia di Francs Tireurs faceva un'imboscata nella foresta di Mont'Avoir per sorprendere il convoglio: verso sera però gli esploratori avvertirono che i nemici avevan presa altra strada, quella di Grancey.

Avanti di continuare, sento il dovere di esporre un fatto che torna a grandissimo onore del Lobbia. Allorchè nel giorno precedente imbandite le mense, altro non si aspettava all'infuori che il colonnello si assidesse nel posto d'onore, egli domandò se era stato pensato ai prigionieri, ed avendo ottenuta una risposta negativa, energicamente protestò, minacciando di non prender parte alla mensa, qualora non si trattassero con umanità quelle povere vittime della fortuna guerresca; nè qui si arrestò l'uomo generoso: a sua iniziativa fu fatta una colletta tra gli ufficiali, colletta che fruttò un sette franchi a testa pei prigionieri: e questi, vedendosi fatti segno di tal gentilezza, sentendosi sempre palpitare il cuore anche sotto la tunica di gregario, piansero, piansero come fanciulli e gridarono: Viva Garibaldi, Viva l'Italia. Povera gente!… Lontana da suoi, in un paese che del bene non gliene voleva dicerto, paurosa di tutto, al balsamo della consolazione sentiva stemprarsi quel gelo, che le si era voluto addensare sull'anima dagli stupidi ed infami regolamenti che vorrebbero fare degli uomini la macchina più iniqua, che torturi la povera umanità!

La notte Lobbia, Castellazzo, Pozzi e due ufficiali di stato maggiore s'incamminarono verso Vaillant: gli altri li seguitavano a un chilometro di distanza: giunti a due chilometri da Vaillant, quattro ombre, silenziose come quell'oscurità, si avanzano… si dà loro l' alto: Castellazzo si avanza arditamente, e domanda chi sono. Essi esitano a rispondere. Pozzi grida: sono Prussiani, abbassate le armi…. ed i quattro ubbidiscono senza far motto. Si disarmano e poi vengono consegnati ad una compagnia che si avanza a passo di corsa.

Passata quella notte a Vaillant, l'indomani la brigata si portò di nuovo a Pierre Fontaine e di qui passò ad Augeres, dove la sera del 27 arrivarono due compagnie di linea con parecchi ufficiali, inviati dal generale Meyer onde coadiuvare i garibaldini nell'attacco di Prauthoy: il rinforzo era comandato dal capitano Mas, vecchio soldato d'Affrica.

Fu tenuto consiglio di guerra nella stanza da letto del sindaco: vi assistevano Lobbia, Castellazzo, Pozzi e altri due di stato maggiore. Il Mas era un po' in bernecche, e invasato dai sacri furori che il Dio Bacco suole prodigare ai suoi fedeli seguaci, si riprometteva con le sue due compagnie di mangiare in un colpo tutti i Prussiani; domandava soltanto un po' di tempo per far prendere il caffè ai soldati.

Castellazzo osservò che era assai meglio che lo prendessero dopo aver mangiato i Prussiani, per aiutare la digestione..

Mas, con serietà imperturbabile, chiese allora che i suoi dipendenti fossero messi al posto d'onore (all'avanguardia).

Lobbia accettò e commosso da tanto eroismo, fè la consueta grimace, Castellazzo citò i versi del Miles gloriosus di Plauto:

…… virum Fortem, atque fortunatum et forma regia, tum bellator Mars Haud ausit dicere: neque aequiparare suas virtutes ad tuas.

Il vecchio soldato non sapendo che si rispondere a quel complimento in lingua a lui incognita; scambiando forse Mars per Mas fa' una gran riverenza e si avvolse in dignitoso silenzio.

Alle 11 di sera tutti erano a cavallo: per sentieri tutti incrostati di ghiaccio la brigata arrivò a Lucenay. Mentre sul viso dei coraggiosi si leggeva chiaramente l'ansia, il desio prepotente di misurarsi coll'inimico, i soldati di linea perdevano un tempo prezioso a prendere il caffè e a fare il chilo.

Dopo mille e mille sollecitazioni a partire, alla fine si avviarono: si avviarono, ma con tale un passo da tartarughe, che invece di arrivare, come era stato previsto, a Prauthoy alle quattro di notte, ebbero il fresco cuore d'arrivarci alle sei del mattino.

Aveva preso stanza in questo villaggio il 2° battaglione del 61 reggimento Guglielmo di Pomerania: battaglione che apparteneva giusto appunto, come rammenteranno i lettori, a quel reggimento che tanto era stato battuto il giorno 23 alla masseria di Poully e la di cui bandiera era già in nostra mano: 800 fanti, 50 cavalli e varii cariaggi: tale era l'effettivo di cui disponeva il nemico.

Le compagnie di linea francese aveano avuto l'ordine di penetrare nel villaggio, senza trar colpo; esse invece si fermarono a trecento passi dal medesimo e per avvisare il nemico si misero a sparare alle passere. Convenne allora far di necessità virtù: si spiegarono le colonne e ci si accinse a dare l'assalto.

I Prussiani avevano occupate le case, il cimitero, la chiesa e di là facevano un fuoco d'inferno.

Gli Chasseurs de Lyon e le guide (per la maggior parte italiane) si portarono eroicamente: qualche altra compagnia fe' il proprio dovere, qualcuna, purtroppo, scappò, sparando all'aria, o, quel che è peggio, addosso agli ufficiali di stato maggiore che cercavano arrestarle nella corsa disordinata. Ad onta però di tal confusione la costanza dei pochi prevalse e dopo quattro ore circa di fuoco, i Prussiani, perduto il loro comandante e dopo aver lasciato sul campo un centinaio tra morti e feriti si salvarono con dirottissima fuga pei campi. La giornata era vinta.

Noi avemmo 49 morti e 62 feriti: gli avversarii oltre i morti e i feriti, lasciarono nelle nostre mani 14 cavalli, 73 prigionieri, 14 cariaggi d'avena e di pane, una ingente quantità d'oggetti rubati tra cui orologi, bauli e argenteria, 200 fucili, la contabilità, la cassa con 1,500 talleri, un furgone da munizioni e diversi carri d'ambulanza.

Tutto insieme fu uno dei fatti più brillanti della campagna di Francia e se monsieur Mas, il miles gloriosus, avesse secondato a dovere il resto della brigata, sarebbe rimasta prigioniera l'intera colonna Prussiana.

Inutile il dire che Castellazzo in quel giorno si condusse da eroe: chiunque l'ha veduto in altre campagne, può e deve giustamente argomentarlo: Pozzi e Farlatti riscossero l'ammirazione di tutti, e non ultimo certo tra i valorosi si addimostrò il signor Visitelli, il corrispondente del Dayly News.

Per quel giorno e per la notte vegnente si trattennero gli stanchi soldati in Prauthoy; il domani si portarono a Langres, onde accompagnare i prigionieri, riportare la preda e apprestarsi a nuove avventure. Il 31 Lobbia si spinse e Neully l'Eveque a 12 chilometri da Langres: il nemico si era raccolto in forze a Montigny le Roi e la 2a nostra brigata si preparava per andargli a fare una delle solite visite, quando arrivarono anche lassù le prime notizie dell'armistizio.

Il generale Meyer, protestando di eseguire scrupolosamente i decreti del suo governo, non permise alcun movimento e così la brigata Lobbia restò isolata dal rimanente dell'armata dei Vosgi, nè si seppe più alcuna notizia di lei, fino a che il Castellazzo, travestitosi da contadino, dando prova di un favoloso coraggio, traversò imperterritamente le linee prussiane, e portandosi a Autun, venne di là a Chalons-sur Saône, latore di notizie e dispacci.

Terminato che fu l'armistizio e conclusa la pace, la brigata Lobbia con lascia passare Prussiano passò in mezzo alle schiere nemiche che le resero gli onori militari: da Langres venne a Chalons, dove furono tolti persino i mantelli alle Guide, che così bene avevano adempiuto il loro incarico, che tanto si erano coperte di gloria per difendere quella Repubblica Francese che ora in tal modo le ricompensava.

CAPITOLO XXVII.

Torniamo a noi: i giorni delle belle emozioni erano cessati: prolungare dettagliatamente questa mia storia, sarebbe un voler portare il cane per l'aia, e terminerei rendendomi assai più noioso di quello che son riuscito fin qui…. ed è tutto dire!.. Pure, qualche episodio della nostra guarnigione, qualche sbozzo alla peggio di certe scene, che, se non altro, possono illuminare qualcuno sullo spirito che dominava allora in Francia, non sembreranno superflui ai lettori e serviranno, quasi di cornice al quadro che male o bene ho tentato di tratteggiare sin qui: stacco perciò dal mio libriccino di appunti le pagine meno seccanti e ben volentieri le offro a quei Cirenei, che hanno subito il peso della mia croce per tanto tempo, dando prova in tal modo di più che cristiana pazienza.

Chalons ha da essere un soggiorno incantevole; ha strade e piazze pulite, eleganti e con sfarzosi negozii: il suo quai sur la Saône rammenta i nostri lungarni: il fiume è però più bello e più tranquillo dell'Arno: sul far della sera quando arriva Parisièn, il piccolo piroscafo che viene da Lione, disegnando una striscia di fumo sulle limpide plaghe del cielo sereno, si gode una incantevole poesia e troviamo artisticamente superbi i visi sin'allora simpatici semplicemente delle cittadine: Il desiderio di rivedere l'Italia si fa più vivo… a che ci tengono qua, se non ci è più da menare le mani?

Vien dato a me e a Gismondi un biglietto d'alloggio per un palazzo in Rue aux Fievres: il nome non è di buon'augurio: Troviamo un prete, un vecchio signore ed una ragazza nè bella, nè brutta: fanno mille difficoltà: Gismondi va in bestia, e piglia quest'occasione per dire: maledetta la Francia!…—Parlate Italiano?—ci dice subito la ragazza: l'amico rimane di sasso: e allora sappiamo che la ragazza ha studiato la nostra lingua tre anni; cosa che non impedisce di scambiarla, quando pronunzia, per un'Abissina. Dopo mille daddoli, ci accomodano nella camera delle cameriere. Meno male.

Oltre il quartier generale ha stanza in Chalons l'eroica brigata Ricciotti: ritroviamo lo Strocchi, l'Orlandi e altri amici. Si passano le giornate aux Vendange de Bourgogne, dove una ragazza robusta e impertinentemente carina serve da pranzo, e mesce gli asenzii e i cognak. Mademoiselle Marie, après la guerre je vous epouse si sente ripetere ad ogni minuto e con tutto questo ci si noia, come a un pezzo di musica dell'Avvenire. Meno male, che a giorni sono l'elezioni; l'agitazione politica ci stordirà, eppoi chi può predire di cosa sieno gravide l'urne.

Questa è carina! Viene da me il solito tromba Romagnolo: mi chiama in disparte eppoi mi dice con importanza.:

Chat in Francese non vuoi dire altro che gatto?

—Di certo.

—E pigeon piccione?

—È innegabile!

—Dovevo immaginarlo!… Esclamava allora in tuono tragico, battendosi il capo.

—Che ti è successo?!—Proruppi io stimolato dalla curiosità—Versa in seno dell'amicizia quello che ti grava nel cuore.

—Se tu sapessi…. io faceva la caccia a una bella bambina: ed ero, cioè credevo di esser corrisposto… stamani vo in casa, l'abbraccio, lei non si muove, ma nel più bello, nel calore dei discorsi, mi ha cominciato a dire: Mon chat, mon pigeon dunque vuole in tutti i modi battezzarmi per una bestia.. io era indeciso, ma ora…

—Son le gentilezze che usano le innamorate di qua..

—Forse perché riconoscono quelli che ronzan loro dintorno, ma io non sono del mazzo e protesto.

Un proclama di Gambetta, affisso alle cantonate, invita i cittadini ad accorrere unanimi alle urne, chiama sosta la sospensione dell'arme, non risparmiando certe spavalderie che non dovrebbero essere più di moda. Interrogo difatti varie persone e tutte mi rispondono, facendo voti per la pace, e arrivando perfino a confessare che preferiscono la caduta della repubblica a nuove guerre e a nuovi disastri. Ah!… Francia, Francia come sei caduta nel basso: perché non ritrovasti in tanto sterminio l'eroismo di Missolungi?… Io non ti posso stimare.

Il sottoprefetto di Chalons è una pasta di zucchero: Corso, è contrarissimo a Napoleone: sottoprefetto è un sansculot di prima forza! Oggi ero di guardia: si è trattenuto un poco con me sul terrazzo: mi ha parlato della Francia colle lacrime agli occhi ed ha finito con accenti di disperazione. Sul far della notte ha mandato una damigiana di vino e del salame ai soldati.

Garibaldi si è ritirato a un chilometro dalla città: noi non sappiamo che pesci si prendere: cominciano i bullettini dell'elezioni: si ritiene che uscirà eletto Garibaldi. Tornano Miquelf; Materassi e le altre Guide, che si credevano già putrefatte, o per lo meno nelle mani nemiche. Materassi ci racconta che hanno fatto saltare due ponti, che hanno visitato un visibilio di paesi, ricevuti sempre bene, ma sempre costretti ad udire discorsi in favor della pace. Non ci è caso: la Francia è sfiduciata, la Francia è come colui che, finita ogni risorsa, preferisce portar la livrea di coloro che l'hanno spogliato e non sa trovare il coraggio di uccidersi.

La corruzione di Chalons non la cede per nulla a quella di Digione. Il quai è un continuo viavai di donnette che ti lanciano occhiate assassine. Non vi è soldato che non abbia un'amante. O mariti Italiani che nel 1859 coronaste d'alloro i vincitori di Magenta e ne aveste in ricambio altre corone, gioite: i vostri compatriotti sanno ben vendicarvi!

Il maggiore di piazza è un militarista accanito: mi ha fermato nella grande rue perché non l'ho salutato. Ha minacciato di far sciogliere le guide, perché vanno di trotto al passeggio e perché non vanno alla piazza a prender l'ordine del giorno. Sì…. i nostri soldati non sono venuti per questi servizii vigliacchi—urla Ghino allorché riferisco la commissione—ci pare ora di tornare in Italia!.. E nessuno va al comando di piazza.

Giorno dell'elezioni: le sale ove sono le urne riboccano di gente: vedo due liste di candidati: in una figura Garibaldi nell'altra Mac Mahon: non riescono nè l'uno nè l'altro nel dipartimento di Saône et Loire. Garibaldi è eletto però in cinque dipartimenti ed ottiene in tutti gli altri splendidissime votazioni. La sera delle elezioni più animazione e più chiasso nelle trattorie e nei caffè. Chi la vuol lessa chi arrosto: tutti però si aspettano una Camera molto meno peggiore di quella che resulta realmente.

I coscritti della nuova classe, preceduti da un tamburone attraversano la città, gridando: Viva Garibaldi, Viva la guerra, Viva la Francia. A che tanto entusiasmo?.. Son tutti giovani di 18 e 19 anni, perché non hanno preso il fucile, quando la patria era in pericolo?.. Uno spilungone, vero pagliaccio, ha in testa un morione da guardia imperiale e agita una canna da capo tamburo… Ah, Francesi, quando sarete più serii?!.. A che conservare quella blague schifosa che vi rendeva spregevoli anche a dì del trionfo? Meditate sulle vostre sventure, e non fate gli eroi quando ne è passato il tempo, se non volete rassomigliare…

«Al nobile guitto «Che senza un quattrino «Ostenta il diritto «Di andare al casino

Giunge il maggior Tironi a fare uomini pel suo squadrone dei Cacciatori d'Italia che si costituisce a Reumelly: è indirizzato al nostro corpo: si consegnano a lui tutti i Francesi che figurano nei nostri quadri. Tra questi infatti ci è della robaccia in tutta l'estensione del termine: tra gli altri il sergente di scuderia che converte la biada dei cavalli in bottiglie d'eccellente Borgogna: i nostri cavalli sono ridotti allo stato di quello dell'Apocalisse. Rimasti tra noi, in famiglia, si respira un po' più liberamente.

Arrivano da Marsiglia un centinaio d'Italiani, che il maggior Pennazzi, aggregherà alla compagnia Egiziana. Arrivano a tempo….. per ritornare con gli altri in Italia! Giungono pure due o tre che son disertati dal Frapolli: ci raccontano come in Lione dei volgari truffatori e dei veri e proprii malandrini da strada disonorino il nome italiano in tal guisa da veder scritto a parole cubitali lungo le vie: Defendue la chémise rouge. Ricomincia un po' di vaiolo! ne è attaccato anche il nostro foriere: morire ora… la sarebbe birbona!..

Garibaldi parte per Bordeaux onde intervenire all'assemblea: lo accompagnano Fontana, Gattorno, Vivaldi Pasqua e Galeazzi. Menotti arrivato al mattino piglia il comando dell'armata dei Vosgi interinalmente: è con lui Bizzoni.

Mi alzo più presto del solito, e vo' dalla bella Marie a bever la goutte —Socci—Mi grida una voce di basso profondo: mi volto e veggo Galliano—Tu qui…. ora?—Vienci prima, se ti riesce!… il sor Bolis mi ha tenuto fin ora in prigione: appena sono stato libero, son venuto qua con dieci uomini.—Ma ora torniamo indietro….—Neanche per sogno io li sò i progetti del generale…. se tu sapessi!….—Che c'è?—C'è… ma per ora non lo dire a nessuno…. c'è, che ora si scende in Nizza, si proclama la repubblica….—Sogni!—Vedrai.—E t'han fatto nulla?—Son capitano—Si bagneranno i galloni?—Lasciami prender l'entrata in campagna.—E a qual corpo ti hanno aggregato?—A qual corpo?!… A dirtela non lo so neppure io.—Tanto meglio….

Una triste notizia; il colonnello Bossi, mentre accingevasi a partire da Chalons è assalito da un trabocco di sangue e cade tra le braccia dell'ufficiale di stato maggiore che lo ha accompagnato alla stazione. Bossi era un vecchio soldato: franco e leale; non troppo ben visto dai proprii dipendenti per la sua rigidezza, ma patriotta di antica tempra e di coraggio prodigioso. Veterano di tutte le campagne d'Italia lasciava colla sua morte un voto molto sensibile nelle file della democrazia militante.

Passeggio svagolato sul Quai: sento fermarmi, mi volto credendo ravvisare un amico e invece vedo un vecchio di fisonomia rispettabile, che porta all'occhiello la fettuccia rossa della legione d'onore. Siete Italiano?…. Mi domanda nel nostro idioma.—Sissignore, rispondo—Volete venire a farvi il ritratto?—Io lo sbircio bene bene, e quasi quasi suppongo che sia un pazzo.—La mia domanda è assai strana, si affretta a soggiungere—ma io sto facendo un' Album dove intendo far collezione de' figurini dei differenti corpi dell'Armata dei Vosgi.—Sicché io dovrei venire?….—A fare da figurino delle Guide.—perché no?!—Borbotto: dopo tutto è bellina! Non potendo farla da eroe sono utile almeno a far da figurino!…. Mezz'ora dopo in eroico atteggiamento sono in posa difaccia a Monsieur Philip che mi parla di Firenze da lui veduta, or sono trent'anni, che mi offre un punch eccellente, e che mi fa vedere un piccolo album tascabile, sul quale en passant per la via, ha schizzato dieci o dodici caricature di Garibaldini tra cui quelle di tre miei amici, ripresi alla perfezione.

Esco dal pittore e vedo davanti al quartier generale: una folla straordinaria di gente: i ragazzi si aggrappano alla cancellata del giardino: i popolani formano dei crocchi: tutti discorrono concitatamente e sgranano certi occhi da non avere invidia con quelli di un bue, nella direzione del palazzo. Che è, che non è? Mille dubbi tenzonano nella mia mente: mi faccio largo tra la calca a forza di urtoni, tratto male le sentinelle che volevano precludermi il passo, e tocco, come si suol dire, il Cielo con un dito, quando posso sbirciare una guida, a cui immediatamente domando: Che è successo di nuovo?—Nulla, sono arrivati due parlamentarii Prussiani…. l'armistizio è stato protratto e vengono a fissare le linee di demarcazione.—Non chiedo altre spiegazioni e vo su nella sala d'ordini: tutti gli ufficiali leggono pacificamente i giornali; qualcuno si scalda al camminetto: ciò non mi produce alcun senso, gli avevo veduti usare in tal modo nelle circostanze supreme, possono fare così anche ora! ragioniamo con alcuni altri coi due bassi ufficiali che hanno accompagnato il colonnello di stato maggiore che fa da parlamentario: con nostra maraviglia li troviamo istruitissimi: ci parlano con rispetto degli Italiani, ci dicono francamente che senza di noi sarebbero andati a Lione, ma ci dichiarano con altrettanta franchezza, che da noi non si aspettavano simile ingratitudine, da noi che eravamo andati a Venezia soltanto per dato e fatto della Prussia. Questa è proprio carina!…. I Francesi ce ne dicono di tutte un po', perchè ci siamo dimenticati di Magenta e di Solferino, non accorrendo come un'uomo solo dall'Alpi a Lilibeo, a dar due botte ai Prussiani: i Prussiani ci gabellano addirittura per ingrati perché abbiam loro strappato uno stendardo a Digione. La morale?…. La morale è questa: Guai a coloro che hanno bisogno di una mano per sollevarsi; fortunati coloro che sanno fare da se: chi fa da se fa per tre, dice un proverbio e i proverbii, a detta di Salomone, sono la sapienza dei popoli.

Dopo un lungo colloquio il parlamentario ritorna verso la Côte d'Or: il popolo lo saluta con fischi. Assai brutta idea si devono aver fatta quei Tedeschi della civiltà Francese; un popolo deve essere feroce nella lotta d'indipendenza, ma dee mai sempre rispettare il diritto delle genti e, cessati i guai, ha da ravvisare un fratello in colui che ridotto macchina nelle mani di un re, può avergli fatto del male.

Ci giungono notizie dì Bordeaux…. e che brutte notizie!…. Le nostre previsioni non sono andate fallite. La Francia accasciata sotto la vigliaccheria, ha mandato al corpo Legislativo l'assemblea più retrograda che immaginar si possa. Lo spirito generoso delle città è stato soffocato dall'alito maligno della reazione provinciale. Niente di strano: tutti in Chalons a mò d'esempio desiderano la pace, riaccetterebbero Napoleone pur di non vedere un Prussiano: il mio amico pittore tratta di buffone Gambetta, il padrone di casa maledice la repubblica perché ha i suoi campi occupati dal nemico: nessuno prenderebbe un fucile per ricacciare gli stranieri oltre Reno…. I popoli hanno il governo che si meritano: in nazioni come la Francia corrotte, son degni presidenti i Thiers, e veri rappresentanti i ruraux di Versailles.

Si leggono i giornali: Garibaldi è stato ricevuto iniquamente nell'Assemblea: gli si è vietato persino di discorrere: una voce sola ha tuonato in mezzo ai codardi in difesa dell'eroe: è la voce generosa che si elevò da Guernesey in favore dei caduti di Mentana, è la voce che ha agitato le fibre della decrepita Europa, e che ha fatto allibire sui troni i regnanti: è la voce di Victor Hugo; fra tanti cialtroni Garibaldi non poteva esser compreso degnamente che dall'autore dei Miserabili.

Il Generale dava le sue dimissioni. Queste notizie finiscono di rovinare il morale dei volontarii. Nessuno presta servigio, tutti vogliono tornare in Italia.

Vedo aux Vendanges de Bourgogne Castellazzo: mi perdoni l'egregio amico, ma lo avevo scambiato per un barocciaio. Ha un cappellaccio di pelo e una casacca pure di pelo. Gli parlo: egli, con quell'abbigliamento, è riuscito a deludere la sorveglianza del nemico ed ha attraversato le file prussiane. Anche lui è sfiduciato e mi dice che in quanto al partire per noi può essere questione di giorni.

Siamo chiamati in quartiere: il nostro tenente dice di averci a fare una importantissima comunicazione e fa leggere al foriere il seguente ordine del giorno:

«Ai bravi dell'Armata dei Vosgi.

Io vi lascio con dolore, miei bravi, e sono costretto a tal separazione da circostanze imperiose.

Ritornando ai vostri focolari raccontate alle vostre famiglie i lavori, le fatiche, i combattimenti che abbiamo sostenuti insieme per la santa causa della repubblica.

Dite loro sopratutto che aveste un capo che vi amava come figli e che andava orgoglioso della vostra bravura.

A rivederci in circostanze migliori.

GIUSEPPE GARIBALDI

Terminata questa lettura, do un'occhiata ai compagni, vedo degli occhi lustri e non posso fare a meno di notare un silenzio molto eloquente: non vi è che dire; i miei compagni sono tutti commossi, quanto lo sono io. Le generose parole dell'eroe sono scese nel cuore di tutti: ci insultino pure i Giuda politici, i prezzolati campioni della Monarchia, ci chiamino vagabondi e gente che non ha nulla da perdere, le nostre fatiche non potevano esser meglio ricompensate, le nostre idee non potevano esser meglio comprese. Una sola parola di elogio sgorgata dalle labbra intemerate di Garibaldi vale di più di tutti i belati della mandra comprata; il nostro non è feticismo, non è un moto idolatra, è la giusta estimazione che gli uomini di cuore devono mai sempre nutrire per coloro che hanno tanta benemerenza verso l'umanità, per coloro la di cui vita è stata sempre un continuo sacrifizio, una continua abnegazione in favore delle magnanime idee.

Si legge anche un ordine del giorno di Bordone; non manca pur questo di generosità, ma quali parole possono fare effetto dopo quelle del Romito di Caprera?

Tornano da Digione alcuni nostri feriti, tra i quali Pianigiani. Non si lagnano del contegno dei Prussiani, e fanno molti elogii di quello del popolo, sempre repubblicano anche in presenza degli invasori. Ci parlano della magnificenza dei funerali del Perla. Un battaglione Prussiano ha reso gli onori militari alla salma: tutta la popolazione è corsa lungo le vie da cui è passato il funebre corteo; la madre del prode maggiore non ha curato i lunghi disagii del viaggio ed è corsa onde essere in tempo a far meno triste l'agonia del figliuolo; essa lo ha accompagnato al sepolcro. Povera donna!.. se tuo figlio è morto gloriosamente, se il di lui nome sarà eternamente celebrato tra quello dei martiri della libertà, tu non cessi di esser madre e hai diritto di piangere: le lacrime delle madri sono la rugiada benefica che fa rinvigorire le magnanime idee. Distruggiamo i tiranni e nessuna avrà da piangere su di un figlio innanzi tempo rubato all'avvenire e alla patria.

È partito per Avignone il terzo degli usseri. Erano buoni figliuoli e durante la campagna hanno fatto un servizio di ferro Li abbiamo accompagnati alla stazione: hanno voluto abbracciarci e ci hanno lasciato gridando: Viva l'Italia, rammentatevi di noi!… Non temete, bravi figliuoli, noi non potremo dimenticarvi: noi vi abbiamo veduto volare intrepidamente di faccia al nemico, noi abbiamo spezzato il poco pane con voi, noi vi si siamo affezionati nelle fatiche, nei disagi che abbiamo sostenuti per la repubblica… certe cose le non si dimenticano mai!

Un'altra bellina!… L'amico Kane si trova senza quattrini e sente tutta la necessità di fare un pranzo lucullesco. Cosa inventa? Va da Monsieur Coq, il nostro cittadino trattore, e a faccia tosta gli annunzia di esser passato ufficiale. Monsieur Coq lo guarda con aria d'ammirazione e gli dà il mi rallegro. Kane gli fa osservare la necessità di dare un banchetto agli amici, e, consenziente il trattore, ordina un lautissimo desinare da pagarsi appena riscossa l'entrata in campagna. Io sono del bel numero uno degli invitati. Il giorno dopo, si hanno da vendere i cavalli di rimonta e, a farlo apposta, tra le povere vittime designate per condurli in giro e per trovar compratori è designato anche l'apocrifo ufficiale. Non senza stiacciare dei moccoli, il disgraziato agguanta le redini di uno dei più sghangherati Bucefali e va cogli altri sotto l'obelisco della Piazza per portarlo all'incanto. Noi cerchiamo in tutti i modi di far prender cappello al nostro amico: ora gli si da la baia, ora si esige che metta al trotto la bestia: sul più bello delle nostre burlette, capita in mezzo a noi, come lo spettro di Banco, il povero Monsieur Coq, vede il preteso ufficiale che fa quel basso servizio, fa un urlaccio e rimane come Don Bartolo: dal canto suo Kane non sa quali pesci si prendere, e ci dà certe occhiate da commuovere i sassi, ma che ci fanno scompisciar dalle risa. Silenzio di un paio di minuti, finalmente l'amico nostro si risolve, empie di chiacchere la testa dell'oste e te lo ingarbuglia in modo tale da persuaderlo a comprare il cavallo e così tra sconto, tra senseria ed altri ammennicoli, chi ha avuto ha avuto e tutti rimangon contenti!

Il comando dell'Armata dei Vosgi è passato nelle mani del vice ammiraglio Penohat. In tempo di rivoluzione niente di strano che un uomo di mare comandi un armata di terra…. eppoi, ce lo han ripetuto, egli viene per scioglierci. Laus Deo: ci leveremo alla fine da questa vita noiosa, di cui le feste improvvisate all' Hotel du Parc, le facili conquiste delle Veneri appassite che passeggiano sui Quais, la maldicenza su tutto e su tutti, compendiano tutte le fasi. Se si restasse un altro mese, ci abbrutiremmo di più degli ubriachi d'assenzio che riscontriamo ogni mattina, quando ci si leva dal letto. Questi ultimi non sono pochi. L'uso dell'assenzio è stata una delle rovine di Francia.

Altri due parlamentari Prussiani! La popolazione s'insospettisce: la strada infaccia al quartiere generale è gremita di gente: si sussurra, si grida: bisogna rinforzare la guardia al cancello. I parlamentari partono quasi subito e la calma si ristabilisce. Alcuni dicono che il nemico concede altri otto giorni d'armistizio, purché sia occupato anche il dipartimento di Saone e Loire… Vedremo!

Vien l'ordine di restituire i nostri cavalli e di portarli al deposito di rimonta a Macon. Buon segno!.. Io sono incaricato della missione, prendo meco dieci uomini e vo per quella direzione. Appena arrivati, sentiamo tutti un gran desiderio di mangiare e di vedere una nuova città. Lasciamo nei vagoni i cavalli, senza curarci di dar loro quel pasto che tanto si anela per noi ed a corsa entriamo in Macon: si questiona col sindaco per aver il biglietto d'alloggio; finalmente ci vien concesso, io vado in casa di una bellissima vedova: mi metto a dormire in uno stanzino accanto alla sua camera; però prima lei chiude l'uscio con doppio giro di chiave; le precauzioni non sono mai troppe! Al mattino ci rammentiamo dei cavalli: si vanno a prendere e ci si monta a pelo per condurli al deposito. Ci riceve un vecchio capitano che ci guarda a squarciasacco, arricciandosi i lunghi mustacchi, e battendo il frustino sugli stivali. Ci ordina di metter le bestie in una vastissima scuderia. Maledizione! Queste hanno tanta fame che si mettono a dar dentate al legno della mangiatoia. Si figurino i lettori quali occhi piantasse nei nostri il capitano! Sbuffò come un istrice, bestemmiò un paio di sacres tonners e poi in tuono burbero ci chiese: Ma da quanto tempo non mangiavano questi cavalli?—Fingi di non capire il francese, mi sussurra un vecchio merlo che ho accanto. Così faccio, non rispondo ad alcuna domanda, il vecchio soldato ci manda al diavolo e noi andiamo a desinare. Il nostro pasto si prolunga tanto, che non solo non possiamo veder la città, ma arriviamo a buco per la partenza del treno.

Appena scesi dalla stazione di Chalons, ci colpisce la vista un insolito brulichio di persone: la vasta piazza dell'obelisco è occupata da capannelli che si agitano, si sbracciano, discorrono ad altissima voce. Domandiamo a qualcuno che cosa è avvenuto: ci si risponde che domani i Prussiani saranno in città. Ci si stringe nelle spalle e si entra nella grande Rue: questa è tanto affollata che bisogna procedervi a forza di spinte; per pervenire alla sottoprefettura ci è necessaria una buona mezzora. Il popolo è più abbattuto che mai: qualcuno si azzarda a proferire a bassa voce la parola tradimento. Pesco altre notizie: oggi scade l'ultima proroga dell'armistizio, nessuno avviso è venuto, niente di più facile che ricomincino l'ostilità. Incontro finalmente il nostro tenente—Stia pronto a partire, mi dice—Verso Chagny?—Nemmen per idea, noi andiamo a Macon—O i Prussiani?—Ci crede anche lei?… Va via il quartiere generale, ecco tutto; in settimana ci danno il congedo, fra quindici giorni siamo in Italia—E si parte?—Domattina alle quattro.—La partenza dello stato maggiore aveva prodotto quel panico da cui era occupata tutta la città.

Vo a casa: per via non posso fare a meno di pensare a tutti gli addii, a tutte le promesse, a tutti i pianti che si faranno nel corso di questa nottata; sento la voluttà di non lasciare nemmeno uno spicchio di cuore in questa graziosa città. Annunzio ai miei ospiti la mia vicina partenza; mi dicono le solite cose e mi offrono da bere; passo in salotto e mi trovo in compagnia con un prete che dice ira di Dio di Vittorio Emanuele perchè ha osato di entrare nell'eterna città: messo a punto, è la prima volta che faccio il realista (che il Cielo me lo perdoni!): nasce un battibecco, i padroni di casa mi fanno il viso dell'arme: mi avveggo che se domani non partissi loro troverebbero qualche pretesto per mettermi gentilmente alla porta. Vo in camera è comincio a fare i fagotti: sento bussare dolcemente alla porta e vedo entrare Maguelonne, un bel tipo provenzale, una delle bonnes della famiglia. È in completo deshabillè le domando cosa desidera—Son venuta ad aiutarvi, mi risponde con una mossa provocante e lanciandomi un'occhiata assassina—Capisco l'antifona, ma mi ha messo tanto malumore la disputa col curato, ma son tanto felice di andarmene che risolvo di far l'indiano per vedere se la appetitosa fanciulla mi si leva d'intorno. E pensare che il mio compagno d'abitazione le he fatto una corte spietata e che dopo un'infinità di salamelecchi non è giunto a ricever da lei che… uno schiaffo. Proprio la fortuna favorisce i poltroni! Prima il solito discorso della mia amante italiana, poi le solite proteste d'affetto ai soldati, mille bei discorsi insomma a' quali rispondo, come le mura testimoni di quel colloquio. Il vecchio Giuseppe Ebreo è un Don Giovanni a paragone mio… in questa sera. Terminato che ho d'accomodar la mia roba, cogli occhi fissi in terra, che alzandoli ho paura di perdere la tramontana, auguro la buona notte all'inaspettata visitatrice. Oh! disillusione!… Essa mi stende graziosamente la mano e con un tuono di voce gentile mi dice: E non avete da dar nulla alla bonne? Alzo gli occhi; la stoccata fa perder la poesia; le do uno scudo che m'esce dal cuore e vo per darle anche un abbraccio… è troppo tardi: lo schiaffo del mio povero compagno riceve una seconda edizione nella mia povera guancia!… vo a letto bestemmiando, mentre sento nella stanza accanto le risate della birichina.

Mi alzo elle quattro: è un buio d'inferno: per rischiararmi la vista prendo due gouttes, poi vo di corsa alla foreria. I nostri sono già in rango: si aspetta mezz'ora, cominciamo a impazientirsi…. dopo un'ora eccoti l'ordine che partiremo alle dieci. Rinunzio a descrìvere la salva d'imprecazioni con cui viene accolto un tale annunzio! Si va al caffè; trovo un campagnolo che mi si appiccica: va a Belfort, suo fratello fa parte di quella eroica guarnigione che sola in tutta la campagna ha capitolato coll'onore dell'armi; sarà morto, sarà ferito il povero diavolo? Il mio nuovo conoscente non ne sa un'acca, ma spera ed è allegro come uno sposo novello; mi invita ad ogni costo a far colazione con lui; la colazione è sì lauta che le trombe chiamano a raccolta e noi non abbiamo ancora finito di trincare. Esco mezzo in bernecche, mi accodo agli altri; appena arrivato sotto la stazione schizzo in un vagone di prima; cinque minuti dopo mi addormento saporitamente per destarmi a Macon.

CAPITOLO XXVIII.

Mi perdonino i lettori, se tanto li ho intrattenuti con certi dettagli di minima importanza e forse tali da raffreddar l'interesse di questa mia narrazione, se pure da qualcuno di facile contentatura ci si può ravvisare dell'interesse: oramai avevo buttato giù queste note e non ho potuto resistere al desiderio di pubblicarle: nella vita oziosa, monotona che siamo, purtroppo, costretti a condurre in Italia, le reminiscenze di un tempo che, se non era bellissimo, ci offriva almeno il destro di poter favellare col cuore sulle labbra e dire cogli amici ad alta voce i propositi ardenti che ci bollivano in seno, senza aver paura dei birri e del procuratore del re, parlano una voce così eloquente al mio cuore, che il più piccolo nonnulla di tale epoca, che in tanta degradazione io veggo passarmi davanti agli occhi della fantasia, caramente diletta come una illusione svanita, o come un sogno perduto, m'ispira un'affezione che non saprei abbastanza spiegare, ed egoista come tutti gli uomini che sono sotto l'impressione di un'affetto dimentico gli altri per non deliziar che me stesso. Fatte alla peggio queste mie scuse, ritorno al racconto che, grazie al cielo, è quasi giunto al suo termine.

Macon è il capoluogo del dipartimento di Sâone et Loire; in tempi di pace è celebre per il buffet della stazione e per le mode originali delle sue donne del popolo; in tempo di guerra noi vi trovammo delle gentilissime signore che rivolgevano ogni cura per alleviare i feriti e per recar conforto ai soldati di passaggio: in tempo d'armistizio, come ci si capitava ora, non rinvenimmo che di bei caffè, delle donne eleganti e un giornale Buonapartista ad oltranza, che ci screditava facendo di noi certe biografie imposibili, piene di una filza di menzogne.

Non sto a dire qual folla di gente invadessero i pacifici uffizi della Mairie, appena noi fummo arrivati. Il Maire protestava sbuffava, sudava: tutti volevano esser serviti alla prima ed egli non serviva nessuno: per temperamento fu deciso di dare solamente i biglietti d'alloggio agli ufficiali: mi fo prestare il berretto al tenente Mussi e in poco tempo non che con uno mi trovo con quattro biglietti in saccoccia. Il primo di questi era per un marchese, il secondo per un droghiere, il terzo per un macchinista della ferrovia. Preferii quest'ultimo: piccato ad osservare, volevo conoscere intimamente i sentimenti del popolo e di più provavo il bisogno di ritemprar la mia anima in una atmosfera serena, in quella calma che sempre si trova nel tugurio del povero, quasi mai nella dorata magione del ricco Nababbo.

Nè mal mi era apposto: una fanciulla dall'aria ingenua, dal vestitino d'indiana mi ricevè con aria franca, poi l'andò a chiamare la mamma: questa era una vecchiarella che si perse in inchini, che mi sgranò in faccia due occhioni grossi come pan tondi quando seppe che io era nato in Italia e che per andare da Macon ai confini d'Italia ci erano più di duecento miglia: le due donne mi prepararono una cameretta pulita, modesta, degna di accogliere una vergine: non so perché, ma quell'aria mi purificava, e non trovavo verso di staccarmi da quelle due donnicciole che parlavano il linguaggio dell'ignoranza, l'unico che si parte veramente dal cuore.

Noi eravamo andati a Macon per disciogliersi; pure ci trattennero due giorni in un ozio increscioso: a romper la monotonia di quelle lunghe ore venne il Journal de Macon. In un articolo pieno di bile la più velenosa, il venduto imbrattator di carte si scagliava su noi in modo veramente indecente. Dopo aver detto ira di Dio di Garibaldi e Gambetta, l'articolista aveva lo spudorato coraggio di chiamarci i cavalieri erranti della repubblica, i fannulloni Italiani che erano andati in Francia a fare i signori, gli spavaldi guerrieri che non avevano mai veduto il fuoco ma, che trattavano il dipartimento di Saône e Loire, come se fosse un paese conquistato.

Mettere una mano in un alveare e scrivere quella robaccia fu la medesima cosa! In poche ore più di trecento Garibaldini corsero all'ufficio del malcapitato giornale: un pagliaccio qualunque, allibito dalla paura, si scusava, si profondeva in mille proteste, dava insomma tal prova di vigliaccheria, che nessuno dei nostri volle sporcarsi le mani col dargliele sul muso.

Il giorno dopo il giornale escì fuori colle due prime colonne in bianco: più sotto vi era una protesta, in cui si dichiarava che la libera stampa deve tacere là dove regna la sciabola. È un fatto: i giornalisti codardi e venduti son come i rospi, bisogna schiacciarli.

Dopo tale incidente cominciava a rinascere in noi il malumore. A che ci trattengono? si cominciava a dire tra noi; forse non è finita la guerra?… Non veggono forse come noi cominciamo a trovarci in una situazione abbastanza anormale?…. E qui gli stessi lamenti, e gli stessi lunghi discorsi, da cui, stringi stringi, non si poteva rilevare che l'immenso desiderio che occupava noi tutti di rivedere al più presto l'Italia.

Alcuni avevano già indossato abiti cittadineschi: non vi erano più appelli, non si salutavano più i superiori; ai caffè erano liti continue e baruffe da dare scandalo alla popolazione: alcuni per distrarsi si affidavano all'opera energica del vieux Mecon e quindi sbornie a cascare su tutta la linea. Era infine una vitaccia inconcludente che ci rovinava la salute e che ci faceva mandare in quel paese da tutti coloro che amano la pace.

Arriva finalmente la legione Ravelli per essere disarmata; lo stesso giorno disarmano noi, promettendoci pel dì dopo due mesi di paga e il congedo. Due mesi di paga e a spese nostre il viaggio!…. E pensare che il soldato avea un franco il giorno!…. La repubblica Francese non fu certamente prodiga con coloro che così prodigalmente avevano esposto la vita per lei.

Pure quella sera fu baldoria: si trattava di tornare in Italia, di riveder la famiglia, gli amici, e non osavamo misurare col pensiero quelle poche ore che ci dividevano dall'istante bramato, tanto era la nostra bramosia d'arrivarvi: mai ho sentito l'amor di patria, come quando ne sono stato lontano: so anche io che l'idea falsa della nazionalità deve o prima o poi cedere in faccia a quella santissima dell'umanità, ma che volete? Noi, che abbiamo avuto la disgrazia di nascere in un periodo di transizione, noi che siamo stati tirati su colle idee vecchie, noi che abbiamo veduto il sacrificio di tanti martiri, che abbiamo assistito alle lotte generose che i giovani più magnanimi hanno intrapreso contro i governi e contro gli eserciti stranieri per raffermare il principio della nazionale unità, non abbiamo potuto non affezzionarci a quella patria che ci hanno insegnato a rispettare più di noi stessi gli scritti di tanti filosofi ed il sangue di tanti eroi. Capisco tutto l'immensa poesia del futuro, mi sento capace di sacrificarmi per la causa della libertà in qualunque luogo la vegga risorgere o la vegga in pericolo, ma a conti fatti se a qualche straniero saltasse il ticchio di voler venire a spadroneggiare di qua dall'Alpi mi sento pure capace d'impugnare un fucile anche colla monarchia e forse collo stesso entusiasmo, con cui lo facemmo nel 1866. Non vi nego che in ciò si possa riscontrare della contradizione, ma a certi sentimenti non si comanda ed il cuore, vero rivoluzionario, non si può piegare alle disquisizioni dei dottrinari, i quali per predicare son usi a dar dei punti a Fra Girolamo, buon'anima sua, per fare sono più impotenti dei poveri Eunuchi.

Furono disarmate le legioni Italiane (mi dimenticavo di dire che era arrivata anche quella del valoroso Tanara) furono disarmati i Franc Tireurs: molti di questi ultimi non volevano depositare le loro armi: gli Spagnoli minacciarono un ammutinamento «con queste armi noi vogliamo passare i Pirenei e mandare a gallina quel buffone che l'Europa ha voluto regalarci per re» tali a un dipresso erano i loro discorsi. E quando, ridotti a buon partito dai consigli dei superiori, si decisero di sciogliersi pacificamente, ci vollero stringer la mano e dicendoci addio aveano le lacrime agli occhi.

Voi ci diceste addio, o giovani generosi che nei giorni del pericolo ci siamo abituati ad amare come fratelli, ma io, e con me tutti i miei compagni d'arme, vi diciamo: a rivederci. La libertà non ha ancora piantato radici nella decrepita Europa, e poco può tardare un nuovo appello che richiami i generosi di qualunque nazione ai santi combattimenti a prò di un'idea. In quel giorno io sono sicuro di rivedervi, io sono sicuro di tornare a divider con voi le lunghe fatiche, i diuturni disagii, forse anche la morte, ne sono sicuro, perchè io vi ho veduti intrepidi difaccia al fuoco dell'inimico, sublimi nei sacrifizii, sempre pari ai principii magnanimi che vi covano in seno. A rivederci adunque, o figli prediletti della libertà, o generosi precursori di quel beato avvenire in cui tutti saremo più che compagni fratelli, in cui non ci saranno le guerre, in cui ogni uomo sarà eguale davanti all'altro uomo. Posando le vostre carabine, tornando alle vostre case, parlate ai fratelli, agli amici le sante parole del vero, dell'eguaglianza, della giustizia: battaglieri in tempo di guerra, siate apostoli in tempo di pace… A rivederci per poco, a rivederci… allorchè tuonerà di nuovo il cannone, allorchè un altro popolo sorga dal fango, dove lo han tenuto i suoi re, ed abbia la forza d'insorgere, nessuno di noi mancherà all'appello glorioso; le file dei soldati della libertà saranno rinforzate dai nuovi campioni, ma io sono sicuro di ritrovarvi al vostro posto, di ristringervi la mano tra il fischiar delle palle è il gemitio dei feriti!.. A rivederci!

Miquelf ci chiama in fretta e furia, ci da i due mesi di paga e ci ordina di partire il giorno dopo col treno delle quattro e quaranta antimeridiane.

Decidiamo di non andare a dormire: vo a casa, faccio alla meglio il mio piccolo involto, bacio tutta la famiglia dei miei ospiti, torno dagli amici, che sono au soleil couchaut, trattoria dove si mangia benissimo, e beviamo un'infinità di bottiglie.

Il primo giorno che arrivammo a Marsiglia avevamo cercato allegria al Dio Bacco: se non altro per debito di riconoscenza, dovevamo offrirgli copiose libazioni anche nelle ultime ore che ci si tratteneva nelle terre di Francia.

A mezzanotte si chiuse la trattoria; girellammo per persi un'oretta nelle deserte vie di Macon: per passare le altre tre, ed essendo abbastanza assonnati, credemmo che non sarebbe stato cosa malfatta sonnecchiare un pochino, ma quasi tutti avevamo detto addio a coloro che ci avevano ospitato; per cui ci riducemmo in dodici nella camera di un nostro amico: la notte antecedente alla mia partenza di Firenze aveva un degno riscontro nell'ultima che passavamo lassù. Quattro saltaron sul letto, gli altri, me compreso, si buttaron per terra facendo un diavoleto indescrivibile. Nessuno potè dormire: tutti ci perdevamo in congetture più o meno umoristiche sulle accoglienze che avremmo avuto in Italia.

Suonarono le tre e ci avviammo alla stazione: si bevve per l'ultima volta una buona bottiglia di vieux Macon e poi ci buttammo nei vagoni a noi destinati.

La macchina fischia: il treno è in movimento: ci spenzoliamo, quantunque sia sempre buio, per dare un ultimo saluto alla città, e non possiamo a meno di ripeter tra noi: Povera Francia! Si cammina, si cammina per tutta la mattinata; traversiamo l'Est della Francia: si arriva alla Savoja: traversiamo i suoi monti, siamo colpiti dall'immensa poesia che fanno piover nel cuore le folte boscaglie, gli scoscesi macigni, il verde cupo degli alberi, tutt'a un tratto intramezzati da estese pianure di neve. La ferrovia va per lungo spazio sul lago di Chautillon: quel lago stretto, monotono, lungo: quella neve, quella solitudine così bella nella sua orridezza ha qualcosa d'imponente: quanto volentieri me ne anderei sul muricciolo di quella chiesetta che sbuca sulla cima del promontorio: La è circondata da pini: una cascata che va a versarsi nel lago scaturisce a pochi passi da lei e di lassù ci deve essere un incantevole colpo d'occhio. Delle mandre di pecore s'inerpicano sui sassi che le fanno ghirlanda: il montanino vi corre per dare un pensiero ai suoi morti e poi ne ritorna cantando le ispirate canzoni che suol dettare ne' vergini cuori la poesia dell'aperta campagna…. ah! come sarei felice di viver lassù, lontano dal rumore del mondo, solo con le mie meditazioni, salutando con un inno il sole che nasce, ritrovando una lacrima, quando la squilla della sera che invita a pregar pei morti ripercotesse quell'aure calme, che t'incitano a esser buono e a sperare.

Mi avveggo che io, fumatore per eccellenza, ho da due ore il sigaro spento e che non ho importunato alcun'amico per avere un fiammifero.

Giungiamo a Chambery; ci tratteniamo alcuni minuti: tanto, perchè le gentili signore della capitale della Savoia ci offrano una refezioncella, a cui facciamo onore con un'appetito invidiabile.

Altre montagne, altri boschi, Montmelian in lontananza, ecco cosa ci offre il breve tragitto che da Chambery ha da farsi per arrivare a Saint Michel. Qui ci si ferma una buona mezz'ora: fa un freddo indiavolato: ci sembra di esser ritornati ai primi giorni della campagna: si monta nel treno Fell, e ci si accinge a traversare le Alpi.

Il passeggio delle Alpi colla ferrovia Fell è una cosa imponente: il pauroso che si affaccia al vagone in tal traversata, son persuaso, che passa un cattivo momento: ma per noi, che tanto poco curiamo i pericoli, vi assicuro che è uno dei più attraenti spettacoli. Trovarsi in cima a burroni tanto scoscesi da perder gli occhi per volerne rintracciare la fine, vedere ogni tanto qualche picco, passare in mezzo a una neve perenne, osservare le centinaia di croci che in ricordo di disgrazie avvenute son seminate lungo la via, ti da un ebbrezza da farti pigliare la vertigine. Ah! potenza del progresso!… Quell'Alpi che Annibale e Napoleone giunsero solamente a valicare con tanta iattura dei suoi, or si sorpassano in poco più di quattro ore, e, quando sarà compiuto il foro del Moncenisio, i cui lavori non possiamo a meno di ammirare anche trasvolando quassù, il più imbecille dei commessi viaggiatori supererà i baluardi della natura, fino ora detti insuperabili, nel medesimo tempo che agli eroi ci voleva per muovere solamente di un passo una balestra o un cannone.

Traversiamo Modane: Modane è un grazioso, bizzarro e pittoresco paesucolo di case di legno, di capanne fatte alla peggio, ove abita la gran quantità degli operai che sono occupati ai lavori della ferrovia. Ci si beve una grappa eccellente: le donne vi posson trovare a qualunque ora un buon bicchiere di latte.

Il nostro guardatreni scende e ne sale uno nuovo, il quale fa presto amicizia con noi: ci dice in buona lingua Italiana che alla mattina ha accompagnato tre ufficiali dello stato maggiore italiano e che uno scese più avanti per studiar quelle posizioni. Gran meraviglia da parte nostra: tre ufficiali di stato maggiore che studiano, ma dunque in Italia voglion morire?!

Vediamo il forte d'Esilles.

—Ora siamo in Italia—Mi dice il guardatreni.

Sento allargarmi il cuore: un senso di dolcezza mi corre di fibra in fibra e ripeto, entusiasta agli amici: Siamo in Italia.

—E ora?—Mi risponde uno in tuono di dubbiosa ansietà.

—E ora che?… Di rimando rispondo.

—Come ci tratteranno i nostri padroni?

Restai pensieroso, ma uno, certamente più giovine e per conseguenza più poeta di me, prese la parola e schiccherò questo bel discorsino. Come vuoi che ci trattino?… Io lassù in Francia ho letto dei giornali e tutti dicevano bene di noi e celebravano le vittorie di Garibaldi: la nostra gloria, assicuratevelo, ha avuto un'eco potente nelle nostre città, quantunque avvilite e prostrate sotto il falso sistema che le corrompe, tenendole schiave: noi non siamo fuggiti: reietti dal governo Francese, pochi, senz'arme abbiamo vinto: i nostri compagni più cari, i giovini in cui l'Italia riponeva ogni sua speranza si son lasciati cadaveri: la morte ha falciato nelle nostre file con più animazione di quella con cui il colono falcia le spiche: poveri siamo partiti, più poveri siamo tornati: abbiamo affrontato fatiche che a narrarle soltanto possono sembrare impossibili, abbiamo fatto sempre il nostro dovere… come vuoi che ci accolga il nostro popolo, come vuoi che ci accolga il nostro governo? Abbiamo forse fatto disonore all'Italia? le glorie della camicia rossa non sono state oscurate: il nostro debito di graditudine verso la Francia è stato pagato; abbiam vinto, abbiam tolto una bandiera al nemico ah! non temete: il governo Italiano non si darà per inteso del nostro arrivo, e non ci farà dei soprusi… è impossibile!… La gloria Italiana si è arricchita di una nuova pagina, e chiunque si sente balzare nel petto un cuore che risponda degnamente a' sentimenti italiani, non potrà che applaudirci.

—Va bene—Gridammo noi tutti solleticati a tale speranza—Va bene—Viva l'Italia!

—Evviva tutti coloro che non son mai mancati al proprio dovere!…

—E che gli avversarii onesti sono in obbligo di rispettare…

—Come farà il governo Italiano!

—Susa!…—Grida in perfetto accento piemontese la guardia della stazione.

—Ci siamo!—Si grida noi tutti, emettendo un sospiro di contentezza.

Scendiamo, anche avanti che il treno si fermi: calpestiamo con compiacenza la terra italiana, le parole semibarbare di due o tre paesani che ci stringono la mano, ci sembrano una musica paradisiaca…

—Facciano il piacere di venire con noi—Mi dice battendomi sulla spalla, un carabiniere.

—E dove si ha andare?…

—Dal sor Delegato…

—Ho capito…

Povero amico!… Come hai speso bene il tuo fiato, quando ci hai voluto convincere sulle buone grazie che il governo Italiano avrebbe usato a nostro riguardo!… Seguitiamo dunque i carabinieri e andiamo dal sor Delegato…

FINE