L’ALCÒVA
D’ACCIAIO

ROMANZO VISSUTO

NONO MIGLIAIO

Illuminare

CASA EDITRICE VITAGLIANO—MILANO

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati. Copyright by C. E. Vitagliano Aprile 1921 15-4-1921-5

Tip.-Lit. A GORLINI—Milano.

INDICE

Pag.

I. L’offensiva dell’amore 5

II. La Dama al Balcone e le serenate massacrate 23

III. La battaglia chimica e gli aloni azzurri 33

IV. Una donna-premio 46

V. Il pazzo 62

VI. Un’esposizione futurista navale 66

VII. La 74 76

VIII. Gli equipaggi della Luna 81

IX. Il Deposito fa schifo 98

X. Vita da cow-boys 107

XI. La marchesa Casati e i balli futuristi 126

XII. Una festa napoleonica 136

XIII. I veleni del Golfo 143

XIV. Una festa petroliniana 162

XV. Cavalleria medioevale e blindate futuriste 170

XVI. Le ville nostalgiche 181

XVII. Duello fra Caviglia e la pioggia 190

XVIII. La Vittoria 212

XIX. La villa devastata 225

XX. Le Forze della gioia, della pietà e della vendetta 237

XXI. Lavami, lavami, o amore 257

XXII. Fiumi, campane, donne e mitragliatrici innamorate 268

XXIII. Massaggio del corpo divino dell’Italia 279

XXIV. Un parto in blindata 288

XXV. Un esercito in trappola 302

XXVI. Pagiolin, colombo viaggiatore 325

XXVII. Un’isola profumata nel fiume puzzolente 346

XXVIII. La più bella notte d’amore 359

XXIX. A mensa col vinto fra i rottami dell’Impero Austroungarico 364

I. L’OFFENSIVA DELL’AMORE

La sera del primo giugno 1918 nella baracca dei bombardieri piantata spavaldamente a sghimbescio sopra una cresta montana di Val d’Astico, si mangiava e beveva allegramente. Le lunghe lunghe forchette rosse del tramonto s’intrecciavano con le nostre, arrotolando gli spaghetti sanguigni e fumanti. Una ventina di ufficiali, tenenti, capitani, colonnello Squilloni giocondo e pettoruto a capo-tavola. Fame da bombardieri dopo una giornata di lavoro duro. Silenzio religioso di bocche che masticano preghiere succolente. Teste chine sui piatti. Ma i più giovani non amano le pause, e vogliono ridere, agire. Sanno la mia fantasia feconda in beffe e mi eccitano con occhiate. C’è troppo silenzio a tavola, e il buon dottore è troppo gravemente assorto nel rito della pasta asciutta.

Con quattro bocconi io placo il mio stomaco poi mi alzo e brandendo una forchettata di spaghetti, dico ad alta voce:

—Per non impantanare la nostra sensibilità, spostamento di due posti a destra, march!

Poi tirando su alla meglio piatti, bicchiere, pane, coltello, spingo brutalmente il mio compagno di destra, che a malincuore cede, tira su tutto anche lui e spinge a destra. I giovani, pronti, eseguiscono l’esercizio, ma il dottore sbuffa, brontola, grida. Lo sollevano di peso. Il piatto di maccheroni gli si rovescia sulla giubba. Crollo di bicchieri Inondazione di vino. Risate, urli, schiamazzo. Tutti spingono il dottore, lo pigiano come l’uva. Schizzano le sue urla.

Dominando il tumulto, io comando:

—Spostamento riuscito! Tutti seduti! Ma guai, guai a chi lascia ancora impantanare la propria sensibilità!... E tu, caro dottore, non dimenticare che la più alta e preziosa delle virtù è l’elasticità. Come potresti, senza elasticità, curare un bubbone, un callo, una sifilide, una otite, o il rammollimento di certi superiori? Con elasticità, abbiamo abbandonato il Carso dopo Caporetto, abbiamo riso mentre il cuore piangeva nella ritirata. Come potremmo, senza elasticità, schiacciare il passatismo austro-ungarico, rinnovare integralmente l’Italia dopo la vittoria? T’impongo, caro dottore, d’interrompere con elasticità futurista la tua spanciata passatista!

Tutti ridono. Il dottore mi guarda spaventato. Minacciandolo burlescamente, impongo:

—Per non impantanare la nostra sensibilità, piatti e bicchieri nelle mani! Giro totale della tavola, in corteo!

Il frastuono diventa infernale. Urti, scossoni, «Basta!» «Finiamola!» pugni, capitomboli, «Ac cidenti!». Vortice rullio e beccheggio. Ma i giovani sono tenaci e con forza imprimono alla ressa un giro tumultuoso intorno alla tavola. Piace molto al colonnello il gioco bizzarro. Soltanto il dottore non si diverte. Dov’è, il dottore? Dov’è? Tutti lo cercano. E’ fuggito sulla terrazza col suo piatto di pasta asciutta.

Fuori, fuori all’assalto! e si finisce il pranzo alla rinfusa, sbandati, con grande scrosciar di risate nella risata fulva del Tramonto, tutto nuvole di cristallo incandescente, bottiglie spumeggianti d’oro, cirri di porcellana viola affastellati, luminoso banchetto aereo sospeso a picco sulla pianura veneta crepuscolare.

I miei amici cantavano intorno al dottore l’inno della burla futurista:

Irò irò irò pic pic
Irò irò irò pac pac
Maa — gaa — laa
Maa — gaa — laa
RANRAN ZAAAF

Uccidevano così le nostalgie.

Alla vigilia di una grande offensiva nemica i combattenti italiani dovevano spesso subire una ben più pericolosa offensiva; l’offensiva dei Ricordi Amorosi. La sentivamo accanirsi sopra di noi e in noi, nel nostro cuore e sulle labbra —quella sera fra gli agili ventagli di piume rosate del cielo e i fiumi interni del nostro sangue felice. Ero seduto col colonnello Squilloni, il capitano Melodia, il tenente Bosca e il mio attendente Ghiandusso, sull’orlo a picco della alta montagna scoscesa.

Muti in ascolto sorseggiavamo la sera dolce fresca mordente come certe bevande arabe impreziosite e profumate di spezie e di fiori. Guardavamo le città dell’immensa pianura veneta. Sentivamo laggiù Milano. A quell’ora la ribollente città lombarda, dopo il lavoro curvo accanito, accendeva tutti i suoi lumi azzurri guardando e bevendo con tutte le sue finestre l’ossessionante linea curva del Fronte.

Le sue 800.000 anime buttavano via sul selciato i corpi affranti gretti e rapaci per salire in alto e vedere, vedere. Su, su, a grandi grappoli colorati, salivano le anime come palloncini sfuggiti alle mani dei bimbi. Finalmente potevano immaginare, forse vedere ciò che i fratelli, i padri, gli sposi, gli amanti facevano, combattevano, soffrivano laggiù.

Io parlavo a Zazà, la mia cagnetta di guerra, fulva grassotta agile e intelligentissima bastarda, nata sul Piave da una foxterrier purissima e da un cane randagio. Una di quelle lunghe tenerissime conversazioni astratte, piene di una filosofia indulgente tra due animali di sesso diverso uno dei quali dimentica volentieri il suo genio per essere semplicemente un cane. Mi sentivo cane per la mia fedeltà generosamente data, prodigata, al nome radioso dell’Italia che dal Cengio vedevamo in tutta la sua bella nudità dormente coricata fra i mari il cui respiro salato ci veniva a quando a quando sulle labbra colla brezza.

I miei amici sgranavano confidenze a mezza voce e ricordi amorosi. Io pensavo al mio probabile passaggio nelle automitragliatrici blindate e sognavo una bella velocissima blindata per inseguire gli austriaci che dovevano fra poco sferrare la loro grande offensiva. Il mio ottimismo era più che mai convinto della vittoria finale. L’idea della morte non preoccupava nessuno.

Il capitano Melodia, viso asciutto e tagliente, occhi furbi, languidi di ricco signore romano, ufficiale di cavalleria, volontariamente passato nei bombardieri per amore del pericolo e per onorare il padre senatore. Anima vivacissima piena di allegre pazzie e di buffonate temerarie. Era celebre per le sue bizzarrie e avventure originali. Afflitto da una blenorragia doveva, prima della guerra entrare all’ospedale o fare istruzione ai suoi soldati. Preferì fare istruzione in Piazza d’armi e comandare il suo squadrone stando seduto in carrozzino con a fianco l’attendente. Brandiva la frusta con la mano destra per dare i comandi mentre guidava il suo cavallo con le briglie nella sinistra. Un’altra volta mandato in servizio di pubblica sicurezza in un villaggio di Romagna si fece passare per principe del sangue, ingravidò la figlia del sindaco e passò in rivista, il giorno dello Statuto, pompieri, società operaie e carabinieri. Ebbe due mesi di fortezza.

Ora Melodia, sentendo parlare di morte, interviene dominando la conversazione:

—In guerra, non ebbi mai la paura di morire. Son sicuro che non l’avrò neanche nella prossima battaglia. Però, la conosco... La provai lontano dal fronte, in condizioni veramente eccezionali. Ero all’ospedale di Torino, un anno fa, per la mia ferita. Già guarito con una voglia pazza di divertirmi e l’impossibilità assoluta di uscire dall’ospedale. Divieti e sentinelle feroci. Pensai per tre giorni al mezzo di fuggire. Al quarto una idea di genio: mi introduco nella camera mortuaria. I piantoni discutono intorno al cadavere enorme di un Alpino che non si poteva fare entrare in una cassa troppo corta. Aiuto anch’io. Tentiamo vanamente. La cassa troppo corta è messa da parte e i piantoni se ne vanno. Intanto io complotto con un mio amico e decido. La notte stessa rientro nella camera mortuaria e mi sdraio nella cassa da morto troppo corta, ma sufficiente per me. Mentre io bestemmio sotto per il rumore, l’amico mi inchioda sopra il coperchio alla meglio, per modo che una lunga fessura mi permetta di respirare. All’alba avvenne ciò che avevo preveduto. I portatori macchinalmente mi sollevarono, mi buttarono con brutalità sul carro. Questo sgangheratissimo e trascinato da due rozze entrò due o tre volte nelle rotaie del tram con degli scossoni da staccarmi le budella. Ad un tratto sento trombettare un automobile con ferocia ingiuriante. Cosa fa il mio cocchiere? Certo dorme. Perchè non si scansa? C’erano anche due autocarri che mi correvano addosso addosso... e urlai urlai dal terrore! Sentivo veramente sentivo il glaciale e lacerante terrore di morire.

Il racconto vissuto del capitano Melodia fu acclamato.

Tutti lo sapevano capace di quello e d’altro. Ma le risate morivano sotto le ampie troppo soavi carezze della notte che dopo l’offensiva dei ricordi amorosi e delle nuvole carnali sferrava una delirante offensiva di stelle negatrici d’ogni eroismo terrestre. Stelle, stelle, stelle, che beffeggiavano con lunghi trilli bianchi la compattezza delle montagne e lo sforzo entusiasta delle cime, e la statura atletica del nostro bel colonnello Squilloni ritto davanti a noi.

Squilloni è un simpaticissimo quarantenne, fiorentino pieno d’ingegno. Maffia del suo capello alpino un po’ piccolo sul viso giocondo fiero. Occhi celesti di sbarazzino senza ironia. Gesti violenti che contrastano col sorriso offerto per piacere a tutti. Comandante energico ma paterno dei bombardieri che lo adorano.

Conosciutissimo nei caffè di Vicenza, di Thiene, di Schio dove passa e ripassa muscoloso pettoruto col suo giardino multicolore di decorazioni, raccogliendo sorrisi speciali di cocottes e contraccambiandoli con risatine subito ricomposte nella fierezza militare.

Bell’uomo che avrebbe tutte le fortune con donne della buona società; forse disilluso, ora amante amato di tutte le prostitute.

Per loro canta accompagnandosi sulla chitarra, seccato se qualcuno canta insieme con lui. Magnifico ufficiale, quattro volte medagliato, ottimo organizzatore di batterie, goliardico e carnascialesco re dei bordelli.

Squilloni si volta e parla con voce importante all’Italia, alle città della pianura, a noi: «Le stelle non mi piacciono e neanche le nuvole rosee che paiono, a voialtri poeti, seni e cosce di donne. Domani si va tutti, figliuoli, a fare un bagno di carne da Madama Rosa».

Il giorno dopo tutti nell’autocarro della spesa, per Campiello e Mosson fino a Thiene, sbattuti dalle risate trionfali del Colonnello Squilloni che ci conduceva verso ciò che chiama l’unico paradiso!

Sforzo del motore nelle salite vruu truu vruu truu. Poi respirazione dilatata in discesa vraaaa svaaaa err tling tlaang.

Polverone. Odore di morte a Campiello. Vi sono trincee colme di cadaveri della prima offensiva austriaca. Qui la nostra difesa fu accanita.

A un chilometro dalla casa ospitale, una automobile militare ci sorpassa, filando a tutta velo cità forse collo stesso obbietivo. La sua sirena si sforza di imitare il raglio d’un asino in amore.

iii ooo iii ooooo

Noi sorpassiamo dei piccoli plotoni di scozzesi in gonnella, rudi gambe e polpacci abbronzati e bitorzoluti. Marciano a passo ritmato più rapido del passo militare alla conquista dei piaceri facili. A frotte veloci meno ordinate, ufficiali e soldati grigioverdi.

Stop. Entriamo nella graziosa villetta. Per ufficiali. Fumo, fumo, fumo. Non si respira, tenenti e capitani in grigio verde tozzi rudi, sporchi polverosissimi, frustino o bastoncino in mano, tintinnio di speroni, nei corridoi da transatlantico.

Le dame sembrano tutte bellissime, delicatissime, troppo fragili. Strane statuette di cristallo, fra i voluminosi rullanti e beccheggianti maschi di guerra in foia.

Il colonnello Squilloni è festeggiatissimo.

—Lei... ho già avuto il piacere di conoscerla. Mi ricordo, nel bordello di Cervignano, offensiva di Maggio.

—Signor colonnello, si ricorda di Madama Rosa a Cormons? Mi disse: Salutami tanto il caro Squilloni!...

Interviene un capitano inglese ubriaco:

—Moi aussi, monsieur le colonnel, je vous ai connu au bordel de Verona.

Squilloni rideva godeva da studente o marinaio l’allegria del bordello, scalo di tutti i cuori naviganti in guerra. Comprensione e cordialità assoluta di popoli e sessi alleati.

Prima saletta: Porta aperta con tenda sulla campagna torrenzialmente inondata di stelle che aspetta gli areoplani. Nel centro la lampada con tendina blu scura proietta un tondo cerchio di luce studiosa e scientifica sul tavolo. Luce d’intenso lavoro spirituale. Luce per progetti d’ingegneria. Sembra un laboratorio preparato per una veglia saggia e feconda. Quale incubo feroce ha scatenato tanti sessi vocianti in questo asilo del pensiero? Tin tin toc ploc di piedi sulla scala di legno. Un grosso tenente di fanteria con ampio ondeggiamento del corpo imbottito e armato spinge su come un pastore la donna scelta pecora fronzoluta mezzo nuda che sembra adornarsi salendo delle foglie verdi e dei papaveri della tappezzeria. Una magrissima biondina che tutti chiamano non si sa perchè pantera, gira coraggiosamente col suo fragile corpo minuto fra le gomitate i fianchi rocciosi e le dure pistole degli ufficiali. Tutti guardano in alto verso il corridoio dove le porte si richiudono ogni tanto su dei chiarori di camere chirurgiche per rapide operazioni. Meccanizzazione dell’amore. Sento la casa vibrare di un meccanico ininterrotto stantuffare d’istinti rudi denudati di ogni civiltà. Instancabili donne-motori.

Uragano di rumori, voci, luci.

Urari-ciacipiera-teloo... Io sono ancora vergine questa sera... Non ci credo... Andiamo a godere biondino... Dove è andato il pancione?...

Viva il nostro colonnello Squilloni! Urla risate applausi, tutti si precipitano verso il divano dove il capitano Melodia che ha indossato una vestaglia gialla finge di sedurre il tenente Bosca e lo tiene fra le braccia. Comincia poi il giuoco tradizionale di spingere a viva forza e trasportare in camera un amico che non si decide, mentre altri catturano una ragazza. I due pigiati a spintoni e a pedate sono insaccati nella porta semi aperta.

—Via, via, presto, forza, dentro! Ti abbiamo scelto la bimba, eccola pronta!

Una milanese pallida, carina, con i capelli corti, neri, ricci e cocciuti pettinati all’indietro, mi bacia. La seguo. Camera piccolissima, letto grande, coperta rossiccia gibbosa, bitorzoluta, tutta sporca di piedi eroici per continuare e imitare forse le Doline del Carso perdute. Ma si ripigliano, si ripiglieranno con la sana virilità della razza che sa prendere bene e tenere sotto le donne e le montagne sue. Plafone ingenuo e primitivo. Odore acuto di Contessa azzurra.

—Come ti chiami?

—Maria.

—Di che parte d’Italia?

—Sono Milanese.

—Anch’io.

—Vieni sarai contento.

E mi abbraccia col   tin tin    glin glin    di troppi braccialetti.

Quando ritorno in sala un mio amico dice a Maria che sono Marinetti. Maria pianta il nuovo cliente viene da me, mi dà un bacio e dice:

—Se avessi saputo che tu eri il celebre futurista ti avrei dato dei baci più raffinati.

—Perchè?

—Perchè ho letto tutti i tuoi libri. Ero abbonata anche a Lacerba.

Esco. Giù, fuori della porta, vedo tre soldati che parlano a una prostituta alla finestra. Si tengono per mano come collegiali, scherzano indecisi, ansiosi. La prostituta è scesa anch’essa. Si avvicina ai soldati. Dà in fretta 5 lire a ognuno di loro poi ripassando di corsa vicino a me seguita dai soldati mi dice:

—Mi facevano pietà.

Mi dirigo verso l’autocarro dicendo a Squilloni:

—Bordello! Ultimo rifugio del cuore!

—Certamente, risponde Squilloni, il bordello è la soluzione sintetica di tutti i problemi dell’Amore. Credo che avrete finalmente sconfitto tutte le offensive delle nostalgie sentimentali.

—No, non ho pensato all’amore. Ho ideato invece l’architettura del mio nuovo libro che sarà meraviglioso, siatene sicuro.

Voglio che questo libro danzi, danzi, danzi vivo e palpitante con ritmo giocondo fra le mani del lettore. Voglio che la sua danza pazza d’amore e di sconfinato eroismo trasformi le mani del lettore in quelle agilissime del giocoliere. Scatterà anch’egli fuor dalla poltrona e ritto si sforzerà di aumentare la sua statura sulla punta dei piedi ballerinamente nell’ebbrezza ascensionale che lo spingerà a gareggiare in temerario equilibrismo col ritmo selvaggio del mio libro. Sarà ebbro di guardarlo in alto quasi in bilico sull’improvviso zampillo di gioia che gli schizzerà dal cuore. A braccia aperte aspetterà che ricada che ricada finalmente.

Ma intendiamoci parlo del lettore geniale, amico d’ogni coraggio spirituale! Con ferocia brutale il mio libro piomberà sul naso del passatista imbelle acidulo e occhialuto che trema sotto i suoi vetri come un microbo sotto il microscopio. Si staccherà da lui per rimbalzargli addosso furente e per schiaffeggiarlo.

Ma con quanta grazia ridente e primaverile si spalancherà sotto gli occhi vivaci del lettore geniale per profumarne l’anima! Vedo allora gli orli bianchi delle mie pagine fremere ammorbidendosi e iridandosi con gli amoerri beati, la metallicità persuasiva e gli invitanti riflessi rosei-azzurri del mare che scivola, scivola, scivola verso la forza tonda e rossa del sole al tramonto. Ecco il mio libro segue i consigli del mare e veleggia bianco per seguire il sole che scivola esso pure gonfiandosi d’orgoglio e di morte giù dal suo morbido letto di tenerezza crepuscolare.

Stracciatelo, bruciatelo pure questo libro mio. Rinascerà perfetto. Se un giorno sarà stanco come credo delle stanze chiuse e meticolose fugga, fugga le inevitabili biblioteche e si slanci aprendo le pagine come ali in cielo. Subito immensificato dal suo ardore si tramuterà in un areoplano simile a quello ricco di raggi che si libra e ronza con garriti e applausi sulla mia testa mentre entro nel forte Corbin di Val D’Astico.

Oggi 11 giugno 1918.

Sono un tenente dei bombardieri che ha fatto il suo dovere. Ma non mi sento degno di te, libro mio preferito. Mentre il mio cuore batte sicuro il mio passo non lo sa cadenzare con eguale sicurezza. Ho il passo indeciso, malfermo ondeggiante, ferito, che ripete sulla terra le punture dilanianti d’una piaga infame e assillante aperta nel mio fianco. Piaga di Caporetto, piaga enorme che sento vivere soffrire, imputridire e che presto bisogna, ad ogni costo bisogna colmare, colmare con un nuovo ultravermiglio generosissimo sangue a fiotti bollenti, a torrenti nel suo centro e sugli orli il cui viola sinistro ricorda le botti sventrate dai fuggiaschi ubriachi, le schifose avvinazzate bombe incendiarie su Cervignano e il putrido violaceo fuggente tramonto del 27 ottobre. Guarire, guarire quella piaga! La guariremo. Già domino il mio passo e lo cadenzo. La grande battaglia è prossima e tutto nel mio corpo s’avventa verso quell’ora decisiva dalla quale nascerà il nuovo passo Italiano, quello d’avant’ieri sul Carso, passo elastico, martellante, padrone delle nobili elegantemente femminili strade italiane.

Mi siedo alla mensa dei gloriosi Gialli del Podgora, 11 fanteria, brigata Casale, nel Forte Corbin. Pranzo giocondo, chiassoso. Circa 30 ufficiali pigiatissimi che divorando rossa pasta asciutta parlano golosamente della prossima inevitabile offensiva austriaca. I gialli del Podgora hanno ornato di fiori gialli la sala. Volete che io parli di voi, cari Gialli, della vostra gloria passata e della prossima, sicura?

Volentieri! Mi abbandono. So che saprete dare col vostro slancio al giallo della smisurata bile italiana lo scoppiarne fragore purpureo della vittoria definitiva!

Si brinda alla gloria di Boccioni, di Sant’Elia e degli altri futuristi, primi fra tutti gl’interventisti italiani.

Declamo parole in libertà che varcano tonando le porte della sala aperte sulla terrazza e si tuffano nell’ampio respiro freschissimo dell’Astico. I rumorismi della battaglia Bulgara cantata da me svegliano certo le batterie austriache di Tonezza e gli applausi che li salutano completano la polifonia di echi delle montagne e l’infinita orchestra volubile dei contro-echi. Usciamo sulla terrazza del forte che sbarra a picco la valle profonda di oltre 1.000 metri. Poi su su per una scala di ferro fra i calcinacci e i rottami delle cupole d’acciaio già disalveolate perchè il forte è già in parte smantellato.

La tenerezza carnale rosea del crepuscolo inonda la vallata, spalma di olii dorati le groppe dure, le gravidanze grottesche, i gomiti ostili, le ondate ribelli e i rigonfiamenti pietrificati delle montagne.

I nostri 75 campagna rispondono rabbiosamente ai forti austriaci di Tonezza...

L’altissima terrazza sembra una passerella di corrazzata che navighi nelle acque seriche, viola azzurre dorate del crepuscolo, entrando in un golfo di sogno fra monti sereni che sognano.

Ecco un nostro 149 del Cengio colpisce un baraccamento austriaco sulla groppa del Cimone. Vi scoppia un’incendio. Lentezza molle disinteressata del suo fumo che sale scapigliandosi e tentacolando con grazia una prima stella.

Braaaaaa... di echi come frane di ghiaia. Un lontano soavissimo ronzio di aeroplano bevuto dagli ultimi rossori del Tramonto. Cip cip cip d’uccelli negli alberi rabbrividenti. Pi, pi... pi... di pulcini e galline sotto la porta del forte.

Il maggiore Sannia m’invita a seguirlo nei sotterranei del forte.

Lunghi corridoi di carcere. Scale a chiocciola fra feritoie di vento azzurro. I nostri passi echeggiano. Pedali d’organo che prolungano cannonate lontane. Una camerata buia con strani movimenti d’alghe marine. Sono soldati che dormono. Altra camerata con respirazioni e puzzi folti, aspri, stipati, selvaggi, ammoniacali. Finalmente un moc colo sospeso lingueggia giallastro e ci guida verso dei pacchi enormi di sonno e di odore di stiva.

—Su, alzati! dice il maggiore scuotendo uno dei dormienti.

E’ un disertore austriaco. Indovino i piccoli occhi celesti nel viso biondiccio. Breve interrogatorio. Appartiene alle truppe d’assalto, parla Italiano, si dice slovacco. Ha lavorato in Italia in una fabbrica di birra.

—Perchè hai disertato?

—Perchè il mio tenente mi ha schiaffeggiato ieri. Ogni sera di pattuglia. Sono stanco.

—L’offensiva austriaca è sicura, non è vero?

—Sì—e anche la data fissata—il 15 giugno alle 2 e mezza dall’Astico al mare, ma l’attacco importante sarà nel centro.

—Ti hanno dato da mangiare e da bere?

—Sì.

Rimontiamo. Sulla terrazza sotto i trilli gioiosi delle prime stelle fra gli immensi ventagli freschi dell’Astico sicuro ritmato come il sangue d’un uomo forte, il maggiore Sannia dice:

—Dato lo stato dei due eserciti è ormai sicuro che il primo dei due che oserà un’offensiva generale e non la vincerà sarà perduto per sempre... Quanto diversi, i nostri disertori! Noi abbiamo avuto nella brigata solo 3 soldati fucilati per diserzione. Uno appena uscito dalla linea fu subito inseguito da una pattuglia ordinata da me e fucilato a tre passi dai reticolati austriaci. Gli tro vai addosso una lettera che spiegava la sua diserzione veramente strana dato il suo ottimo stato di servizio. Scriveva alla moglie: «Non mi farò ammazzare dal dispiacere. Domani mi darò prigioniero agli austriaci. Conserverò così la pellaccia per il dopo-guerra quando verrò a spaccarti il cuore per pagare il tuo tradimento...» Il secondo disertore fu preso dai carabinieri mentre abbandonava la linea. Disse: «Non vado via per paura. Me ne frego degli austriaci. Voglio andare a Trapani a uccidere mio padre che ogni notte va a letto colla mia fidanzata.»

E il maggiore concluse: «Con simili disertori si deve assolutamente vincere la guerra.»

II. LA DAMA AL BALCONE E LE SERENATE MASSACRATE

Il 14 Giugno tutto è pronto. La nostra linea aspetta l’urto con sicurezza. Si parla di nuove batterie austriache non ancora individuate. I pessimisti insistono sulla pericolosa propaganda disfattista che Milano e Torino particolarmente inoculano colla posta ai soldati in linea. Io ho trattenuto tutta la posta delle batterie nella baracca del Gruppo. Credo preferibile distribuire un rancio accurato invece di troppi sentimentalismi postali alla vigilia di una battaglia decisiva. Tutto lo schieramento di batterie che dal forte Corbin lungo Val D’Astico gira la cima Ardé e seguendo la cresta di Sculazzon in Val D’Assa raggiunge gli Inglesi a Cesuna, con le sue 200 bombarde, e le mitragliatrici e i fucili della brigata Casale, è pronto all’urto che si prevede furibondo, decisivo.

Abbiamo bene pranzato nella baracca di legno e lamiera del Gruppo bombardieri, che appoggia le spalle a dei roccioni grigio ferro in forma di piccole torri. Fumiamo serenamente sull’orlo della Vallatella Silà verdissima bacinella quieta, colma di silenzio alpino, sospesa da un lato alle creste del Cengio e dall’altro alla strada che va al forte Corbin. Dolcezza languida, mansueta della sera madreperlacea che cede docilmente all’ombra salente delle valli profonde. Un frastuono ci scuote.

Allegria degli echi turbati da una singolare mandolinata. Sono i miei bombardamenti che vogliono invitare gli austriaci alla prossima danza. Eccoli sotto di noi. I due primi grattano disperatamente due mandolini, due altri li seguono battendo a gomitate e a calci delle latte di benzina. Dietro viene sculettando e sgambettando il violoncellista. Ha per violoncello un lungo attaccapanni di ferro. L’orchestra si ferma per fare agli ufficiali una serenata, sotto la gesticolazione frenetica del più fantastico direttore d’orchestra.

Porta in testa una gamella obliqua, sulle 33, a guisa di berretto inglese. Si è legato sul culo le falde rialzate del cappotto per imitare l’antica foggia militare italiana. Buffonescamente insulta i suonatori cadenzando la melopea con lazzi e pernacchi fragorosi. La tempesta di rumori e di grida sveglia gli accampamenti nella Vallatella Silà.

Applausi. Applausi e ironie volubili degli echi freschi ventilati da morbidi rombi lontani.

L’orchestra si ferma davanti al Comando del Gruppo. Il capitano mi prega di parlare. Si affollano bombardieri, artiglieri e suonatori.

—Cari bombardieri, cari artiglieri e fanti d’Italia, grazie di tutto cuore per la serenata a noi e per i meravigliosi pernacchi scagliati contro gli austriaci! La vostra fragorosa allegria dimostra al cielo, al sole che tramonta e alle stelle, che sapete spavaldamente infischiarvi di tutti i pericoli! Voi avrete appreso dalle molte informazioni che se non è certa è probabile la grande battaglia questa notte alle due e mezza. Io personalmente ci credo. Ad ogni modo ciò non vi preoccupa, come vedo, non può preoccupare nessuno poichè altre informazioni e queste certissime mi hanno convinto come hanno convinto tutti i capi che l’intera linea italiana dall’Astico al mare è pronta, assolutamente pronta non soltanto a resistere a qualsiasi offensiva austriaca, ma anche a rintuzzarla vittoriosamente. Ricordatevi: qualsiasi offensiva, anche strapotente, sarà massacrata. Cadorna non era un generale incapace. Ebbe soltanto il torto di non dimettersi, quando si sentì stanco e logorato. Fu lui che scelse la linea del Piave, ed è una linea forte. Ora è di acciaio. Resisterà. La lotta sarà aspra, e vi saranno momenti gravi, forse delle oscillazioni. In quei momenti, pensate che quella pianura veneta, laggiù, è il letto della nostra sposa unica e divina: l’Italia... il letto delle vostre spose che adorate... Voi, ritti in piedi, custodite la porta, e la scala che gli austriaci vorrebbero assalire! Pensate che cedendo il passo un solo istante voi permettereste vergognosamente a quelle canaglie di entrare in casa vostra, piombare nel vostro letto e possedere le vostre donne. Meglio morire! Sono certo che nessuno di voi vorrà essere un vile idiota e becco contento. Ed ora andate a dormire, sarete svegliati a tempo opportuno!

Giudicai opportuno di svestirmi per riposarmi meglio.

In branda a 6 centimetri dal tenente Bosca. Abbiamo fra di noi come orinali un bossolo da 75 ed una scatola da conserva. Ogni 5 minuti (verifico l’orologio alla mano) la notte silenziosa succhia una nostra granata da 149 uuuussss uuufff. Mi addormento.

Alle 2 e mezza siamo svegliati dal bombardamento.

—Bosca, ci siamo.

Mentre ci vestiamo sentiamo crescere, addensarsi e centuplicarsi i sibili delle granate austriache che fanno, passando sui roccioni e sul tetto di lamiera, l’illusione d’un’enorme corrente d’acqua col loro rumore di seta lacerata. Passano a un metro o due dalla lamiera che vibra e vanno a scoppiare in val Silà.

Bombardamento feroce, pieno, continuo. Abbondanza di munizioni. Gli austriaci credono siano annidate molte batterie in Val Silà.

Siamo tutti in piedi col respiratore inglese bene saldato al viso. Fuori buio. Un vago sentore d’alba verso il Cimone. La vallatella è piena di fragori violenti, irritatissimi, fra le vendette gli squarciamenti e le minacce urlanti degli echi. Controllo tutto, chiamo gli uomini. Sul tetto di lamiera scorre dilatato il fiume dei sibili. Ho l’impressione di essere immerso in quel fiume che cresce. La baracca sembra abbracciata da un’inondazione di sibili. Verifico il respiratore di ogni bombardiere. I gas lagrimogeni cominciano ad agire sui nostri occhi. Bizzarrissima sensazione di piangere senza dolore. Albeggia.

Tutte le nostre batterie rispondono con un fuoco precipitato. Le vampe continue e fitte vestono il Cengio d’un convulso drappeggio di fuoco. Val Silà è piena di fumi bianchi, grigio-perla che si sfilacciano forati dalle vampe delle nostre batterie.

Ecco una sorpresa che ci lascia presto indifferenti: un nuovo tipo di granate austriache che scoppiando lanciano in alto lunghissimi vermi ondulosi e perpendicolari alti 50 e talvolta 100 metri.

Strani vermi di fumo anellato che talvolta non riescono a rizzarsi e allora si sviluppano orizzontalmente scrosciando e borbottando nella vegetazione. Sono granate segnali che servono ad indicare agli osservatori austriaci un punto di caduta invisibile nelle vallate profonde. Le batterie austriache di Campolongo, Luserna, Tonezza, sembrano avere una questione personale con Val Silà. Concentramento di fuoco contro di noi. I telefoni non rispondono più.

Il mio attendente Ghiandusso viene con una catinella piena d’acqua seguito dalla mia cagnetta Zazà. Ghiandusso le impone i soliti esercizi ed eccola seduta sul culo, schiena ritta con un giornale piegato in bocca.

Senza togliermi il respiratore, faccio la mia toilette a dorso nudo nell’acqua diaccia. Non posso lavarmi il viso, e parto col capitano per raggiungere i miei amici in batteria a Sculazzon. Il monte Priaforà fiata vampe. Fiati di fuoco tra le labbra nere, occhiate di fuoco sotto le palpebre nere, stilettate di fuoco dalla pancia nera del monte. BRAA bububu BRAA vuvuvu delle valli. La strada che ci conduce a Forte Corbin è tempestata dalle granate. Nel forte trovo il capitano Melodia, magro, onduloso, allegro e pronto alla beffa. Scendiamo con lui in un sotterraneo che dà al camminamento Cima Ardè.

Il mio capitano si è munito di due lampadine elettriche. Dopo avere seguito per 10 minuti un tortuoso camminamento sotto il cielo sibilante e lampeggiatissimo giungiamo ad un vero pozzo di miniera. Curvi ci inoculiamo in una galleria tutta stillante su un terreno sempre più sdrucciolevole. Il pozzo scende nella spina dorsale di un costone fortificato. Riconosco ormai il cammino che ci deve condurre alla famosa Dama al Balcone. Infatti dieci passi dopo sbocchiamo nel fulgore sfarzoso di centomila feste da ballo riunite. Sono i centomilioni di candele del massimo proiettore che sorveglia le posizioni Austriache in Val D’Astico. Pausa abbacinante. Poi sentiamo la danza furibonda e il ta-ta-ta-ta-tà capriccioso, spietato, ironico e femminile della mitragliatrice Saint-Etienne che, sei metri a destra, sputa come una Andalusa fuoco di passione e garofani rossi dal suo balcone mascherato di fogliami. E’ lei la leggendaria Dama al Balcone della brigata Casale.

Una Saint-Etienne prodigiosa. Si ricorre a lei per la difesa dei punti pericolosi. Non si inceppa mai se è servita e accarezzata dal suo amico mitragliere Buco, un pugliese magrolino, olivastro, dagli occhietti furbi tutti a lampi che si mescolano ai lampi d’una risata bianca continua. Meccanico provetto. Non ha mai bisogno di smontare la sua amante per pulirne il cuore. La domina impugnandone la groppa flessuosa, la pizzica, la solletica. E la Dama elegante in nero si curva giù sugli abissi dove fervono le serenate austriache e sputa, sputa i suoi innumerevoli fiori veementi che uccidono i romantici e audaci suoi serenatori.

Buco mi saluta offrendo la sua risata allegra allo splendore elettrico bianco azzurrino del proiettore. Siamo glorificati, divinizzati dalla versicolore splendida pazzia delle farfalle che si slanciano ebbre d’oro nel gran fascio di luce, cozzano ruzzolano, piroettano contro il grande occhio vetrato divenuto ormai accecante.

La rabbia delle cannonate in rissa con tutti gli echi mugolanti accresce la fantasia e il mistero di questa notte ultra-romantica innamorata di morte e d’ilarità crudele. Tragicamente come uno spettro dalla tonda pancia di metallo in fusione, il proiettore che funziona a distanza esce dalla sua caverna e s’avanza sul binario Decauville fin sull’orlo della roccia a picco, poi retrocede senza rumore e si cela nel buio.

Dal fondo della caverna i foto-elettrici regolano, sulla sfera girevole di un apparecchio i movimenti di spostamento e di accensione. Ma le rotaie sotto il proiettore brillano e si torcono come serpenti fosforescenti e il mio sogno ultra acceso vede realmente camminare un formidabile spettro dalla pancia vetrata tutto convulso nello sforzo di liberarsi dalle farfalle in foia. Si avvicina austero e minaccioso alla troppo civetta Dama mitragliatrice che schiamazza, sbraita sempre più contro i suoi corteggiatori della valle.

La bella Dama d’acciaio respira golosamente l’eccitante miscela degli odori notturni: vaniglia, violette, acacie e menta selvaggia, tutti pepati dall’odore aspro dominatore della balistite.

Sembra ballare pazza di gioia la sua strana danza a schiena curva. Fumano i suoi capelli sciolti. Il mitragliere le stringe i fianchi e l’ombra ingigantita della coppia bizzarra danza proiettata a cento metri davanti a noi sul tondo, enorme cerchio di luce che il fascio luminoso del proiettore stampa sulla nebbia. Vicino, sotto, sopra, intorno, altre ombre strabilianti: le nostre. Labirintica prospettiva fra gli specchi irreali numerosissimi di questa festa da ballo.

Buco mi dice: «Come è bella la mia dama! Elegantissima! Come balla bene! E’ un po’ ca pricciosa e suscettibile, ma non con me. Con me è buona! Mi è stata sempre fedele, mi preferisce a tutti! Mi dà tutto il suo spirito e il suo ingegno... Gode, veramente gode quando io la olio di baci... ha un odio speciale per quella stupida, pettegola che vorrebbe tenerle testa là davanti a noi!».

Sentiamo infatti le numerose pallottole della mitragliatrice austriaca frugare brutalmente a 2 metri sopra le nostre teste nella vegetazione buia.

La Dama al Balcone la deride, la insulta a perdifiato: «Idiooota   ta-ta-ta-ta-ta-ta-    Idiooota ta-ta-ta-ta-ta.»

Rispondono tutti gli echi del muraglione di faccia, ma una gran nebbia ci vieta di vedere malgrado gli sforzi insolenti del proiettore la strada austriaca da dove scendono gli assalitori. Gli echi irritati o sedotti ridono essi pure, conquistati dalla festa da ballo, moltiplicando i loro lunghi

gia-a-a-a-a-a gia-a-a-a-a-a gia-a-a-a-a-a

Sembrano frane di ghiaia o meglio grida di popolo sfamato sotto l’opulenza esplodente di questi palazzi rocciosi. Le stelle altissime palpitano come segnali luminosi di una lontanissima battaglia di pianeti.

No! no! sono le sonagliere di molleggianti equipaggi invitati celesti! Mille, mille bocche ridenti di dame lontanissime affacciate allo Zenit. Si sbracciano, si sbracciano per gettare nella grande festa da ballo perle, perle ossessionanti e tali da mutare presto la danza in una rissa di folgori avvinghiate, che si contendano delle campane montane. Ma le stelle purtroppo sono già ridiventate ciò che sono in realtà: i rubini che ornano i volanti dinamici delle gonne alle divine ballerine che non balleranno purtroppo mai con noi! Saluto Buco, e passo sotto una vôlta fronzuta. Urto nelle spalle di un enorme bombardiere.

Siamo in una delle piazzole della batteria di Melodia. Fooc! srrrrrrrrrrrr. Seguiamo in alto l’ascensione di una bomba da 58. Eccola già in discesa mugolando giù giù nella vallata SCRABRAAANG. Si riprende il camminamento.

III. LA BATTAGLIA CHIMICA E GLI ALONI AZZURRI

Nei prati alti che strapiombano sulla confluenza dell’Astico e dell’Assa, la battaglia si spalanca davanti a noi con un milione di vampe febbrili e dei vasti roteanti volumi d’aria che ci squassano fra la vegetazione torturata e singhiozzante.

A destra scoppia nel folto fogliame nero

SGRAGRANG-GRAANG

una Spraangranata. Il graticcio di verdura che ricopre il camminamento diventa per me un pergolato satanico dai grappoli furibondi. La terra sembra sventrata dagli atletici colpi di reni delle nostre bombarde. Invisibili sotto di noi slanciano a gara con brutalità ubriaca i loro bottiglioni di sciampagna esplosiva in alto, in alto e li guardano ammirati la bocca al cielo, senza curarsi degli immensi tondi maestosi rimbombi che quell’alcool massacrante produce a 600 metri sotto di loro. Ci sdraiamo per riprendere fiato su un declivio mentre la luce torbida dell’alba sbianca la curva dei fumi e svela sui fianchi prativi di Campolongo in faccia a noi i villaggi di Rotzo e di Albaredo. Piccole mandre di casette bianche dal tetto rosso, umili, timide, infantili, estatiche, beate.

Le nostre batterie da 149 tirano accanitamente con sempre nuove rotaie buttate sulla valle contro la Croce di Alenburg. La Croce appare incensata da fumi bianchi, neri; blocchi, cerchi, ovi, losanghe, pacchi di fumo che spacchettano delle stelle violente d’argento votivo.

Più giù 3 case di Rotzo godono d’essere spaccate. Si fumano spensieratamente da sè come pacifiche sigarette. Invitano, implorano o sfidano le granate nostre che le sfondano con voluttà crudelissima. Il villaggio di Rotzo ha delle linee semplici, caste, sante come dipinto da Giotto sotto gli elastici ondulanti arabeschi e guinzagli che gli scaglia forse il genio dinamico plastico di Boccioni. I volumi mostruosi e lenti dei fumi sono assaliti dalle pressioni d’aria formidabile, giganteschi boa di forze torride che li arruffano, impacchettano, globalmente. Salgono i fumi, ma sono ricacciati giù, scopati dalle ventate furenti e rinascono più tenere, più tranquille, più attente, più sottomesse le sette casette di Rotzo. La luce che cresce dà ai tetti il colore del sangue. Sono forse segnate per il macello quelle strane pecorelle? Il campanile è da tempo decapitato. Penso al tragico fermento molecolare di quelle fragili mura che presentono l’urto acuto di diabolico pesce d’acciaio che li sfascerà. Sembrano anche bianche polpe di cadaveri in fondo al mare grigio verde fumoso di quest’alba sottomarina fra gli assalti voraci degli innumerevoli squali esplosivi.

Valli, valloni, valloncelli, burroni, vallette, conche e torrentelli si sono svegliati, gemono, singhiozzano e strillano a perdifiato. Poi una collera li invade e scoppiano ovunque moltiplicando i loro grugniti, rutti, sputacchi, vomiti lugubri. Le valli ampie sono sdegnose nelle loro digestioni sonore e senza fretta ingoiano i pesanti fragori per rivomitarli masticatissimi tra i denti stridenti dei loro echi che brillano e tintinnano di passione.

Sentiamo sotto i piedi risuonare i polmoni, le budella e fino in fondo lo sfintere della montagna dove si sono infilati, asserragliati e stipati infiniti rumori. Alle nostre spalle frana una valanga di echi appassionatissimi. Li distinguo tutti: ovoidali, sferici, serpentini, piramidali, cubici, stracciati, tutti accalcati nella furia goliardica di partecipare alla battaglia. Risse, corse, fughe, salti, capitomboli e coiti forsennati di rumori.

Ormai gli echi si sono fatti esperti, attentissimi, tutti al loro posto come vedette.

SPRANG-SPRANG di cannonata e BRAAAA BRAAAA di echi. Vi sono in alto loggioni di Echi affollatissimi che fischiano. Sono molto più numerosi delle cannonate. Ogni cannonata è aspettata da 10, 20, 30 echi pronti a schiacciarne il fragore sbranarlo, lacerarlo, liquefarlo, spremerlo, allun garlo, spezzettarlo per poi riscagliare tutto con schizzi, sputi, scherzi, rabbuffi e risate, risaaaate, risaaaate infiniiiiiiiiite.

Sento lontanissimo dietro di me rumoreggiare dei colossi che certo buffonescamente calpestano la lamiera del mare Adriatico. Certo le platee della pianura veneta applaudono e ridono. Nel cielo, migliaia di rumori ginnasti dondolano sui trapezi del vento, giuocano e ridono.

Noi non possiamo ridere, colla faccia presa dal respiratore inglese, che ci dà, colle sue tubature, dei profili di originalissimi palombari immersi in un mare di gas asfissianti e lagrimogeni. Ecco la terribile iprite!

Gli ufficiali verificano il respiratore inglese sul viso dei soldati. Hanno tutti il naso prolungato mostruosamente dalla tubatura di caucciù che scende nella gialla musetta. Alcuni sembrano formichieri, altri fanno oscillare dei misteriosi cordoni naso-ombelicali. Una luce di rogo crepita improvvisamente dietro di noi: sono strani viluppi neri di resina e catrame che cuociono e fumano sospesi su cavalletti come porci impalati, spandendo un acre odore-vapore anti-ipritico.

La trincea sembra un laboratorio chimico pieno di scienziati impazziti. Impazziti forse dalle continue nuove miscele sempre più pericolose azzannanti e massacranti che la valle smisurato lambicco fornisce a noi pronti ma un po’ ansanti nel risolvere i problemi di questa così lirica e pur scientifica battaglia chimica: acetilene, solfuro di carbonio, acido solforoso, cloropicrina.

TUM-TUM BROONG

d’un nostro 75 da campagna.

Rispondono gli echi

BRAA

bu-bu-bu-bu-bu-bu vu-vu-vu-vu-vu-vu-vu.

Entrano in scena i grossissimi calibri. Sulle bottiglie, i bottiglioni di esplosivo inebriante crollano ormai i barili giganti. E la frenetica gioventù baldanzosa dei gas a lungo compressi si scatena nella domenica di tutte le libertà omicide. I barili non bastano. Bisogna sventrarsi, pensano i cannoni, e gettare a manate e a palate sulle montagne in giro le nostre lunghissime budella di bronzo. Inghirlandiamone anche le cime che ora tintinnano sotto i primi buffetti dorati del lontanissimo faticoso sole nascente. I rumori salgono, salgono, come spiraliche budella nere a strangolar le cime perchè se mai vi fosse un nostalgico pastore a sognare, possa pensare d’essere immerso a capofitto colle punte dei monti nel più spaventoso inferno di tutte le religioni.

Prendiamo il camminamento e poi la trincea della brigata Casale. Si scende dietro le spalle dei fucilieri che scattano, sparando pim-pam-pam-pam.

Un gruppo di mitragliatrici innaffia giù con un ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta che non cessa, un burrone a 300 metri sotto di noi granulato di piccole forme che salgono. I nastri delle cartucce corrono su a tuffarsi nella macchina sussultante come frettolose di trovarvi il varco e per la canna precipitare con gioia contro i corpi vivi che appetiscono.

Sulle bocche delle mitragliatrici si aprono e chiudono fulmineamente orchidee e giaggioli scarlatti, argentei e dorati. Flora tropicale dalla telegrafica fecondità.

Valle Ghelpa mette 200 metri di vuoto tra noi e la trincea austriaca di Cima Tre Pezzi incoronata di fumi neri zaffiro, smeraldo e celeste verdolino delicatissimo. Svolazza via un fumo elegantissimo a mille pieghe come una veste di Poirée. Sentiamo che la battaglia infuria a destra dove si dice gli inglesi abbiano ceduto. Siamo a Sculazzon fra le mie bombarde con l’amico Mattoli.

Si tira verso destra in un punto della valle ormai trasformato in un vulcano. Il ritmo della fucileria opprime il cuore. Corre voce nella lunga trincea della brigata Casale che gli austriaci hanno conquistato 900 yards agli inglesi con un principio di accerchiamento che avrebbe per obiettivo il Cengio. Tutto il blocco di montagne che s’incunea fra l’Astico e l’Assa è in pericolo. Passano uomini e uomini con cassette di munizioni. Hanno spostato le mitragliatrici verso la destra. I telefoni però funzionano. Ordine di cessare il fuoco delle bombarde. Ma una lieve angoscia ci punge nello straripamento dei fumi che ormai hanno invaso tutto il paesaggio oscurandolo. Siamo ripiombati in una specie di notte caotica fra gli altissimi scossoni dell’aria dove viaggiano come su mille binari paralleli i proiettili dei grossi calibri. Impera ora il 280. Interviene tirannicamente il 305 di tratto in tratto. Questo che scoppia è certo un veliero carico di esplosivi spinto in questo mare di fumi per colmare, incagliandosi, lo stretto che separa gli Austriaci e gli Inglesi.

Oh con quale fierezza italiana io ammiro i buoni fanti della brigata Casale che sparano nella trincea! In uno squarcio di luce ancor torbida una allucinazione o una realtà stranissima assale i miei occhi. Ogni soldato che spara sussultando al suo parapetto ha uno strano alone azzurro-rosso intorno a sè. Sembra un molle globo di nebbia, una ruota di fumo azzurrino. Ne noto tre, quattro, venti, cento. Mi alzo e nell’angosciosa precipitante frenesia della fucileria seguo la trincea. Certo ogni combattente appare ai miei occhi come un nucleo opaco o meglio come il mozzo di quella misteriosa ruota di diafano azzurro. Intuisco così la presenza della vita vissuta che avviluppa ogni combattente nel momento della battaglia.

Sono grovigli di giorni passati, di gioie godute, di dolori sofferti che affettuosamente si arrotondano sull’uomo nel giuoco supremo; quando le forze ostili lo assaltano da ogni parte. Ogni ruota azzurra è diversa dall’altra, non so se per l’età, le condizioni di vita, o la coscienza. Malgrado le ondate sbattenti dei fragori e degli echi polifonici io odo quelle ruote azzurre veramente vive chiamare, gridare, implorare. Voci di donne in lagrime, gridio di bambini al sole e la madre impietrita che singhiozza, e il viso del padre che si scolora leggendo il giornale, e la bocca soavissima fresca che mostra le sue perle più ricca di ogni ricchezza.

Ecco sfioro la schiena d’un forte soldato dal viso cotto dal sole: sono nel suo alone azzurro e tremo come chi entra nella casa dove è morto qualcuno fra pianti disperati. Il soldato che m’è vicino e che spara, spara, affrettando i colpi è forse un marinaio. Chi pensa più alle fischianti pallottole che cinguettano sul capo coi primi passeri indifferenti? Sono preso dalla gioia di scoprire una nuova legge. Ben lontano dai Bergson seduti nelle cretine poltrone universitarie trovo nel momento più pericoloso d’una battaglia la soluzione di molti problemi che i filosofi non potranno mai scoprire nei libri, poichè la vita non si svela che alla vita. Il segreto amplesso del passato e del futuro nella stessa coscienza si rivela a coloro che tutto il passato hanno vissuto, sudato, pianto, baciato, morso e masticato e che vogliono fra le carezze o le gomitate della morte vivere, baciare, masticare e soffrire il loro futuro.

I fanti della brigata Casale mi appaiono come astri nella loro atmosfera gassosa di luce azzurra. Atmosfere ruotanti che si sfrangiano simili a ruote dentate della gran macchina della battaglia. Il mistero mi avvince, la divinazione mi incoraggia. Ogni ruota è formata, tessuta di innumerevoli piccole ruote. Più queste piccole ruote snelle e combacianti sono numerose, più l’alone o ruota globale chiude fortemente il nucleo che è più compatto. Quando è facile decifrare e contare le ruote secondarie che girano sul combattente, questo ha un nucleo più fragile e più scoperto; e la massa di sensibilità vissute, ondeggiando elasticamente e agganciandosi ad altri aloni, lo protegge poco o affatto.

Potenza della nostra razza meravigliosa e della sua sensualità dentata, polputa e coperta di bocche come una piovra! In quelle ruote azzurre vi sono tutte le forze affettive dei congiunti, amici, parenti, figli, madri, amanti e bambini che unite alle forze dei dolori e piaceri passati corazzano i combattenti. Avevo già ammirato la bella qualità d’uomini che distingue la brigata Casale, uomini forti, agili, scattanti, con muscoli visibili, denti e capelli ben piantati. Li ho sentiti i migliori della razza eletta perciò capaci di amare, più amati, più ricordati, più istintivi. Amici del sole e del mare, sanno agire bene senza pensare, hanno quasi tutti oggi un forte alone azzurro d’affetto e di coraggio protettore; vincono, vinceranno, hanno già vinto, ne sono sicuri.

Infatti mentre cresce dovunque la spavalderia gesticolante del sole scopando via con le sue lunghe scope d’acciaio e d’oro flessibilissime le immani matasse di fumi, nebbie, fragori, rumori, io constato che fra questi combattenti dagli aloni azzurri vi sono pochi morti, molti feriti, ma questi raggianti e sicuri d’una prossima più forte salute domani.

Tre ore dopo rientravo al Gruppo. Riordinamento delle linee telefoniche rotte. I guardafili corrono sulla strada. Uno porta l’apparecchio telefonico, l’altro rotoli di filo. Incontro dei porta-ordini in biciclette veloci che ondeggiano su e giù nei vasti buchi scavati dalle granate. Il fuoco austriaco rallenta sempre più. Giungono le ultime granate colleriche disperate. Trovo al Gruppo bombardieri le prime notizie e le voci che corrono false, vere, imprecise. Molti feriti, pochi morti. I nostri muli massacrati. I nostri fanti contrattaccano con gli Inglesi a Cesuna per riprendere i 300 yards perduti. Una baracca nostra vuota in fiamme. Il bombardamento austriaco si accanisce ancora su Campiello. Gli Austriaci hanno preso cima Ekerle agli Inglesi. Molti colpi sono caduti su Piovene e su Schio. L’offensiva austriaca è generale dal Val D’Astico fino al mare; con fluttuazioni la linea nostra resiste poderosamente. Sento nell’aria la sicurezza della vittoria.

Alle 10 il bombardamento che è cominciato alle due e mezza di notte è completamente cessato. Val Silà riprende la sua fresca anima alpina, bacinella di silenzio puerile, tenero, nostalgico. Ma l’in vade un nuovo frastuono veramente inaspettato. E’ il corteo orchestrale di ieri sera che gira spaccando i timpani colla virulenza delle latte percosse, i lazzi, i pernacchi. Hanno aggiunto due chitarre e un clarinetto. Il direttore impazzisce gesticolando di gioia; sembra guidare buffonescamente l’anima ancor commossa della Patria alla fiera finale dove saranno macellate e mangiate dai panciuti e ghiotti cannoni le mandre austriache.

Mi addormento in baracca affranto, soddisfatto. Sonno pesantissimo.

A mezzo giorno due nostre cannonate mi svegliano dandomi l’illusione di Ghiandusso battente alla mia porta. Grido nel sonno «Ava-a-anti». Ho preso due cannonate per un innocuo bussare alla porta, tanto il mio sonno fu profondo.

Tre giorni dopo il generale Monesi in automobile si ferma davanti alle baracche del Gruppo. Entra, allegro. Eccellenti notizie. Con La sicurezza di un generale vittorioso, dopo avermi detto di avere assistito alla serata futurista di Brescia mi parla del piano fallito degli Austriaci che speravano di tagliarci fuori facendo cadere tutto il massiccio nostro (Forte Corbin, Cima Arde, Cesuna) giungendo al Cengio e poi al Pao con un aggiramento. Le nostre posizioni perdute del Tonale sono riconquistate. Asiago, il Grappa sono fermi. Abbiamo perduto una parte del Montello sul quale pesa lo sforzo principale degli Austriaci, che sono però contenuti.

Il generale Monesi parte sotto una pioggia di rotta, mentre si straccia il nebbione agitato e dilaniato dal vento che sale da Val D’Astico inesauribile caldaia di nebbie. I nostri 75 campagna non tacciono mai e i loro proiettili hanno dei rumori di siluri sull’acqua.

Ptoo!... fisssss Pto! Pto! Pto! fiiiiii Ptoo! Ptoo! Ptoo! fiiiii

Il 19 giugno all’alba vedo venirmi incontro Zazà allegra e civettante con in bocca un foglio di carta, seguita dal suo nuovo corteggiatore Ligò cagnolino buffo incrocio di barboncino e di buldog bastardo. Agilissimo con mosse di cavallino, fulvo come Zazà ma frenetico di mosse, musino delicato con una strana punta rosea-nerastra, occhi acquosi-grigi, grazioso, intelligente, vivace, non più giovanissimo. E’ sempre in foia. Assale amorosamente Zazà e le strappa il foglio di carta. Io prendo a volo il foglio e leggo: «Bollettino Diaz—9011 prigionieri austriaci e circa 300 mitragliatrici austriache catturate. Le nostre truppe stanno riconquistando il Montello e ricacciando gli austriaci nel Piave».

Il 21 giugno sera sorveglio e dirigo un lavoro di mine per piantare una nuova baracca. Tre bombardieri intorno al pistoletto conficcato in una piega della roccia. La mazza bene impugnata da braccia rudi gira sulla mia testa scintillando ogni volta rosea in alto negli ultimi raggi obliqui del sole. Il secondo bombardiere ogni tanto spinge il raschietto nel buco per togliere la polvere. Con cura introduco la sabulite, capsula e miccia. Tutti via a 50 metri di distanza. Il bombardiere dà fuoco e fugge

Tum Tum PRAANG

Poi i tonfi toonfi dei blocchi ricadenti. Zazà abbaia e corre mentre un porta-ordini in bicicletta arriva trafelato. Il capitano legge e mi comunica l’ordine di partire per Scandiano e raggiungere le squadriglie di Auto-Mitragliatrici blindate alle quali sono assegnato.

IV. UNA DONNA-PREMIO

Il 22 giugno, partendo da Val Silà a piedi seguito dal mio attendente Ghiandusso, che chiacchiera volubilmente, sento subito rinascere nelle mie gambe l’inebriante elasticissimo passo del Carso. La strada scende fra i grossi calibri Inglesi che gli artiglieri alti, biondi, casco coloniale e braccia nude ripuliscono cantando. Quelle voci aspre un po’ velate di marinai d’oltre Manica contrastano con le morbide ondate profumate del vento estivo che ci viene un po’ stanco dall’immensa pianura veneta giù sotto il Cengio.

La mia cagnetta Zazà sculetta, abbaia e m’invita a correre. Corro con lei fuori dalla strada. La montagna è tutta riplasmata dal bombardamento. Mi fermo e bevo la visione calda e nutriente della Patria coricata immensamente che sembra sollevare con ritmo felice l’ampio petto della pianura tatuato di strade e villoso d’alberi che il sole imbrillanta di un sudore dorato. La città e i villaggi sono i suoi amuleti.

Oggi è il 22 giugno; 22 doppio di 11, mio numero preferito, numero fortunoso che mi lega alle forze favorevoli e all’Italia.

A Campiello fra tre buche profonde di 305, trovo il mio carrozzino con mulo e bagagli. Tutti su con Zazà abbaiante. Ghiandusso dice:

—Guardi quella granata da 280. Non è scoppiata. Dorme nel suo buco come un porcellino. Mi sembra di andare alla fiera.

La strada già rovente è piena di soldati inglesi che corteggiano con omaggi incerti le belle popolane italiane. Ghiandusso sentenzia:

—La guerra è stata fatta per mescià le rasse!

Giungo a S. Orso, Comando della decima armata. Io provo sempre uno schifo istintivo nell’entrare nei comandi. Quasi sempre deprimentissimi ambienti dove regnano due generi di imboscati odiosi: gli sgobboni arrivisti, pavoni e tacchini di Stato Maggiore che antepongono sempre la loro carriera alla Patria e i fiacconi rammolliti che pensano unicamente a migliorare la mensa e allo champagne. Ho inoltre un profondo orrore per i generali che hanno quasi sempre delle civetterie ridicole di vecchie mantenute. Ma Caviglia fa eccezione e il suo ambiente è quasi degno di lui.

Mi riceve affettuosamente e subito mi descrive sul plastico la battaglia del Montello, precisandomi tutti gli errori e tutte le correzioni già suggerite e in parte compiute con successo. Con la sua sorprendente calma ultra-piemontese, alto, freddo, pochi gesti, assoluto equilibrio fisiologico, armato d’un buon senso spoglio di frasi, egli parla del maneggio delle fanterie che non fu lodevole. Disapprova i due attacchi sui fianchi del Montello che furono come era prevedibile massacrati dalle artiglierie nemiche. Bisognava invece sferrare un attacco unico centrale, con 4 reggimenti, dopo avere simulato con un violento bombardamento le due azioni ai fianchi.

Caviglia dice:

—Badoglio ha creato un meraviglioso schieramento di artiglierie... Quando Badoglio ha il tempo di riflettere è un generale capace e potente. Ad ogni modo è il nostro miglior generale.

Caviglia parla poi del Duca D’Aosta che era a Fogliano quando gli austriaci irruppero sulla nostra riva. Fu più volte invitato a ritirarsi, rispose sempre «No, rimango!» Il duca è un uomo coraggioso, freddo, e di gran buon senso. Quando gli sottopongono dei piani militari li esamina bene poi dice spesso: «Non vanno, portatemene degli altri». Riesamina, accetta o rifiuta senza boria, nè presunzione. Ha un ottimo capo di Stato Maggiore: Fabbri. Dall’Astico al mare il morale delle nostre truppe è semplicemente meraviglioso.

—Ho visto i rincalzi assalire gli autocarri partenti per la linea con gioia trionfale. La popolazione del Piave è pure calma, sicura. Durante la battaglia del Montello ho visto i contadini arare la terra, e i bambini in piedi attenti intorno ai 75 campagna controbattuti.

Parto da S. Orso con la convinzione che Cavi glia è veramente il capo predestinato a stringere nel suo congegno volitivo, intuitivo e decisivo tutte le probabilità favorevoli e sfavorevoli, tutti i calcoli, tutte le forze degli uomini, della pioggia, del sole, e del terreno come altrettanti fili convergenti a quella meravigliosa tavola di commutatori elettrici che ha nel cervello. Bisogna che ad ogni costo Caviglia abbia il comando supremo della prossima immancabile battaglia finale.

Schio è tutta sonante di canti al sole, quando vi entro sul mio carrozzino. Non riconosco quasi più la cittadina che sonnecchiava quest’inverno sotto le alte batterie austriache sdegnose. Oggi è veramente fiera d’aver subito i coiti furenti dei 305. Sulla piazza, incontro la fanfara dei primi bersaglieri che tornano dal Piave.

Esplosione lirica del pomeriggio infocato. Passo aggressivo, fucili e tascapani fioriti, tutte le trombe al cielo spinte su dalle rudi facce di cuoio lucenti di sudore. Sopra, squilla il sole come la più bella tromba bersagliera lanciata in alto nel ritmo danzante della marcia.

Vorrei proseguire, ma non posso, tanto la massa irruente di quelle forze guerresche mi s’avventa con prepotenza sul viso, preme su di noi come un Simun di gioia selvaggia. Gridano capriolando davanti ai bersaglieri i monelli in delirio. Le porte delle case, le finestre, i balconi spremono grappoli di donne e bambini scroscianti applausi, fiori sui cani abbaianti. Zazà si slancia, ma la ripiglio a volo, e tenendola fra le gambe guido a destra il mio mulo che dà calci con un’imprevedibile anima poetica.

Mi viene incontro a ondate sbatacchianti, l’anima italiana tempestosissima, irta di belle pazzie, scamiciatissima. Dei bersaglieri riposano la bocca e se l’asciugano mentre gli altri a gote gonfie sembrano dilatare le case con globi violenti di suoni scagliati al cielo. E gli occhi ridono, e tutti ridono. Dietro le prime trombe marziali e cadenzate, saltellano si sganasciano e si divertono altre trombe mattacchione.

Abbiamo vinto, tutto è permesso. Vi sono molte donne a guardarci. Spandono buon odore i bei seni accaldati sotto i capelli pesanti. «Un bacio, via, bella mora, non fa male! Che belle chiappe... Evviva la fila, signor tenente... Vieni giù biondina! Viva i bombardieri!... Viva i bersaglieri!... Viva la fila dei bersaglieri che resiste a tutti i colpi!»

Un bersagliere colossale sembra quasi ingoiare la sua tromba, poi si curva fingendo di cadere a destra, a sinistra buffamente. Ogni tanto uno sgambetto all’amico davanti, una gomitata a sinistra e colla mano destra rema rema accarezzando le facce delle donne. Quella curva lo magnetizza: un pizzicotto. Colla mano sinistra scuote in alto la tromba bavosa mentre la sua mano destra arrotondata sulla bocca prolunga il suono dei pernacchi tumultuosi e dei lunghi uuu... uu-uu-uu- uu-uu-uu prr prr prr prr oooooooo aaaaaa.

Bacia tutte le donne per forza. Queste stizzite ridono, strillano, ruzzolano quasi sotto il peso brutale nello schiamazzo dei bambini e dei cani. Il sole volantista arroventato ritto nel polverone incandescente delle strade celesti, gonfia dall’alto dei gas di gioia insalamandoli nella strada come in un enorme pneumatico torrido.

Il mio carrozzino segue la corrente di quella passione popolare ed ecco a 100 metri da una strada laterale sbocca un battaglione scozzese.

Contrasto prodigioso. Passo lento in cadenza, saggio, ritmato, monotono col dolce ondeggiamento dei gonnellini quadrettati color pinete alpestri, giubba kakì, berretto in forma di barchetta rovesciata sull’orecchio, fasce a mezzo polpaccio fissate da nastro e fiocco rosso. Splendore dei cuoi e degli ottoni. Tutti calmi con l’azzurro mite degli occhi rapito ai cieli di Scozia, tutti obbedienti per sempre al peso del fucile e degli zaini eleganti. Accompagnano la marcia con una melopea che senza urto s’innalza, si spande

o-eee o-eee o-eee hurraaa! o-eee o-eee o-eee hurraaa!

I bersaglieri salutano con tutte le trombe alzate, pigiano donne e bambini sulla sinistra e offrono con un frastuono infernale la destra all’altra razza che passa.

Lenta - grave - forte - solenne. - Uno - due - uno - due, con piccole risatine brevi negli occhi senza voltar la faccia, uno - due, uno - due, venuti da lontano e sicuri della strada futura marciano gli scozzesi. Quando il tenente dà l’ordine, allora soltanto i pifferi nordici spruzzano allegria, e le sacre zampogne incominciano a gonfiare pance e mammelle con gioia comandata fra le braccia degli antichi montanari gonnelluti che le portano maternamente—nazii iii ziii biii biuu.

I bersaglieri suonano il tippereri senza parole   urrara pum - pumb    papapapum - pumb    para pum pum-pumpum.

Rispondono gli Scozzesi

Adioo miabeladioo.

Passa il carreggio Inglese. Lussuoso scintillio di ottoni sui cavalli fortissimi. Zampe ingonnellate di lunghi peli. Il sole sembra ruzzolar giù magnetizzato sui finimenti ghiotti di scintille. In alto sui carri verde scuro pieni di cose ricche inutili i guidatori in kakì faccia rossa polverosa colla pipetta all’angolo della bocca.

Dietro, vengono più grandi, terremotando, gli autocarri inglesi, scatoloni colossali o palchi automobili per assistere ai cortei. Smisuratamente sproporzionatamente. I volantisti, pipino in bocca, faccia rossa polverosissima sembrano arrampicarsi come topi sui volanti.

Questo secondo autocarro è ancor più grande. L’ultimo gareggia con le case. E’ forse una casa di Folkestone col suo giardinetto a guisa di strascico. Portano tutto con loro gli Inglesi. Ogni batta glione trascina una città di case dinamiche riboccanti di spettatori.

Noi italiani combattiamo quasi nudi, ma ognuno ha purtroppo nel cuore un pensile giardino di donne-fiori i cui capelli pesantissimi ci incurvano in avanti sui golfi lunari del pericolo.

L’indomani sera in treno per Verona leggo il trionfale comunicato di Diaz: « Dal Montello al mare, il nemico sconfitto ed incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave ».

Alla stazione di Verona quasi buia mugola asserragliato e ribollente uno dei reparti d’assalto che va a riposo. Odore acre e mordente di belve vittoriose. Ballano nelle corse e nei gesticolamenti i fiocchi dei fez neri tra il vociare turbinoso, le gomitate e gli spintoni. Gli arditi hanno occupato il caffè della stazione. Si intravede un rimescolio di braccia nude stantuffare e rubinettare fiaschi di vino e bicchieri di birra, fra una fantasmagorica agitazione di luci azzurre e di ombre caricaturali. Ogni discussione sembra una rissa. Tutti si pigiano. Fame e sete azzannante e arraffante nel buio. Grandinare di bottiglie, bicchieri. Bestemmie degli ufficiali presi nei vortici della folla grigia-nera che non cede, resiste alle lente sbuffanti locomotive in manovra coi meccanici che si sporgono gridando.

Mi sento chiamare. E’ il colonnello Trivulzio alto montanaro dal viso sessantenne alcoolizzato ma solidissimo, occhi giocondi vivacissimi, pipa in bocca. Ha lasciato il suo reggimento di fanteria per il comando di un reparto d’assalto. Fra le gomitate, gli urli dei suoi fez neri, mi racconta:

—A Meolo, c’era da ridere. Una battaglia di clown e buffi napoletani. Vero bordello pieno di risse di avvinazzati. Ma quanto sangue e quanti morti! Però tutto era allegro. Non ho mai visto tanta confusione. Pensa, una nostra mitragliatrice tirava su una mitragliatrice austriaca che tirava su una nostra mitragliatrice! Una nel culo dell’altra. Tutte e 3 sulla stessa riga. Non si capiva dove era la linea. La linea oscillava continuamente. Alberi spaccati, reticolati che non prevedevamo, tutti i fili telefonici rotti. Ad un tratto, io mi avanzo con una mitragliatrice in una boscaglia e sbocco in un prato. Ma, ta-ta-ta-ta-ta... due, tre mitragliatrici austriache! Ai! ai! indietro, indietro! sono troppi, siamo pochi!

E il colonnello Trivulzio descrive con gesti comici questa subita ritirata buffissima di gente scottata.

—Ci rannicchiamo dietro gli alberi, 50 metri indietro. Tre secondi. Altri fez neri ci arrivano alle spalle come scolari in baldoria. Subito tutti in piedi ci slanciamo nel prato. Che casino! Che casino! Ma vi era una sicurezza straordinaria! Avevamo la vittoria nelle ossa. Avanti, indietro, si perdeva, e riguadagnava. Si perdeva con strafottenza di ricconi alla tavola del giuoco. «Dobbiamo far saltare quei tre cannoni?» mi domanda un caporale. Tutti rispondono: «No, no, no, per carità! Glieli prenderemo, non facciamo saltare nulla. I cannoni sono nostri e torneremo fra mezz’ora a riprenderli.» Eravamo tutti tranquilli come Battisti! Trenta pariglie di cavalli nostri furono prese dagli austriaci e riprese da noi mezz’ora dopo.

Attraverso la calca con Zazà nelle braccia e fuori per Verona buia.

Qualche bettola, a ciglia semichiuse. La sbornia già spinge fuori i gruppi-viluppi, le coppie-canore e gli arditi pugni e pugnali pronti fieri, irritatissimi di non veder davanti a loro la città inginocchiata con tappeti di donne morbide sul selciato, lampade e giardiniere di donne ai balconi. Sotto un portone nero, una zuffa fra carabinieri e arditi. Intervengo poichè un enorme carabiniere ha avvinghiato e porta sotto il braccio poderoso un frenetico magro ardito che batte coi piedi l’aria con ritmo di telegrafia Morse.

—Via, non si trattano così dei soldati vittoriosi.

—Ma, signor tenente, mi ha sferrato un pugno nel naso. Guardi come sanguina.

—Lo lasci andare, è ubriaco. Bisogna concedere una sbornia agli eroi.

—Se lei me lo comanda, signor tenente, lo lascio andare.

Ecco liberata la belva gloriosa nella città buia. Avrò delle noie, ma non importa.

Giro tutta la notte cogli arditi aizzando e mol tiplicando i canti, ebbro non di vino ma di quell’alcool trasfigurante che tutti i filosofi sognano di sciogliere e distruggere nei lambicchi meticolosi e freddi e che si chiama Patriottismo. In questo senso non diverrò mai un antialcoolico.

All’alba nello scompartimento di seconda classe che mi porta a Modena trovo finalmente il Premio che mi offre la Patria.

Un’italiana veramente bella. Bruna, delicata, morbida e flessuosa. Trentenne, con occhi capelli e denti eccezionali.—Ma adagio! Ve la descriverò a poco a poco. Freno tutti i miei slanci compreso quello del mio lirismo descrittivo. La contemplo sommerso nell’ammirazione. Ghiandusso la guarda estatico. Zazà le si accuccia vicino, quasi sulle gambe. Io attacco discorso. Pronto, incalzante, intuitivo. La sento entusiasta della vittoria. Parlo della battaglia. La bella signora ascolta, vive tutti i gesti. Si chiama Rosina Millari di Oderzo. Ricca profuga un po’ sperduta, poichè non ama i parenti che la ospitano. Deve passare la giornata a Modena senza scopo per raggiungere la sera stessa una villa fuori di città. Invito la bella a colazione. Esita. Ma le forze mi sono favorevoli. Non si può veramente rifiutare nulla a un soldato vittorioso. Alla stazione di Modena non si può mangiare. L’affollamento dei soldati ci costringe a uscire al più presto coi bagagli suoi e miei, Ghiandusso-Zazà, tutta una famiglia improvvisata e poco dopo installata all’Albergo d’Italia.

Ho l’anima di un soldato italiano. Sapete cosa significa avere 40 anni, del genio, molto fascino, una potente irradiazione di idee personali nuovissime e sane, regalate al mondo, dei poemi potenti creati, altri da scrivere, e nondimeno volontariamente e con entusiasmo giocare il tutto con disinvoltura per la propria terra e la propria razza in pericolo?

Mi direte che un tenente di più al fronte è poca cosa. Ma questo tenente ha un nome luminoso, una parola eloquente, diventa perciò un esempio, un faro, un richiamo, una bandiera vivente di coraggio e fede per tutti coloro che credono in lui. Ecco ciò che sono. Un accumulatore di energia patriottica, utilissimo e assolutamente disinteressato. Militarizzare così il più ribelle dei temperamenti, disciplinando e strangolando il proprio orgoglio, sempre sull’attenti davanti a dei superiori che non lo sono. Ecco degli eroismi profondi e dolorosissimi che meritano, cari passatisti e care passatiste, dei premi da afferrare con mani rudi e pochi riguardi!

Nella camera dell’Albergo d’Italia io entrai come si entra da un pasticcere quando si è stati privati di zucchero per molto tempo. Parlai d’amore con lirismo variopinto e modulatissimo offrendo tutti i trampolini vellutati alla dedizione della bella donna, ma in realtà io la conquistavo si può dire d’autorità.

Non era una corvée che imponevo ai nervi del la mia amica, li mandavo anzi in licenza sulle spiagge d’un gran mare di voluttà perchè vi guizzasse il suo spirito al quale io superiore cortese insegnavo a nuotare.

La stanza era accesa dai riflessi delle mille bandiere che infuocavano le facciate delle case. Mobili giardini pensili. Rosso che sembra veramente ringiovanito. Il verde vile di Caporetto è diventato un verde Piave, un verde Mare Adriatico, diventerà un verde Isonzo. Il cielo incandescente sembra roteare come un viluppo gesticolante di bersaglieri scamiciati, feroci, urlanti, la bocca piena d’Italianità selvaggia e d’orgoglio, amore - vendetta - rapina - eroismo - maffia.

Mi voltai per seguire la bella mia affaccendata nell’aprire i suoi bagagli. Un morso delicato nella nuca. Poi la svestii. Si lasciò fare languidamente, con tutte le moine che distinguono le amanti venete e il loro chiacchierio di uccellino che maledice la gabbia, implora la libertà e non conosce altro cielo che quello che brilla nell’acqua dello scodellino. La stordii di baci e di carezze infinite. La presi e ripresi con foga, con slancio, delirando. Poi mi fermai. Buttai sul divano l’anima che mi aveva servito fino allora e ne tirai fuori un’altra dalla profondità dei miei nervi.

—Bisogna, pensai, che io valuti con precisione scientifica e occhi di buongustaio il premio offertomi dal destino.

Imposi dolcemente silenzio a Rosina che si ac caniva a dimostrarmi l’imbecillità paurosa di suo marito notaio, pedante germanofilo, disfattista, imboscato malgrado una buona salute e i suoi 25 anni, e le dissi:

—Cara Rosina, sei troppo bella per coprirti con una camicia, toglitela. Voglio analizzare la tua bellezza con cura e prendere delle note.

Salto dal letto prendo il mio libretto di note dispongo bene il corpo nudo e coricato di Rosina:

—Chiudi gli occhi. Bene!... ora aprili!

Occhi meravigliosi. La cornea lievemente azzurrina venulata agli angoli da piccolissime venette sanguigne, nuota in uno strano rosolio dorato. La pupilla è nera cerchiata d’oro scuro...

Rosina è stupita, trattiene la sua allegria mi lancia un’occhiata brillante e maliziosa che si lega bene al sorriso. Ecco il sorriso sboccia, mobile losanga, e fiorisce tondo sui denti piccoli, freschi, bianchi, saporiti. Penso ad una giovanissima Madonna di Raffaello, ma più calda, passionale, dietro i cristalli di una limousine veloce.

Io amo i seni piccoli, vivaci, spiritosi. Questi di Rosina sono invece un po’ grassi e lievemente materni. Ma la bella cupola militare del ventre è perfetta. Sotto l’ombelico una lievissima depressione perpendicolare discende, piccolo sentiero appena marcato e si perde nell’ombra triangolare fra le cosce. Ancora più ammirevoli. Hanno muscoli sodi, mascherati dalla più dolce carne. Bei cuscini soffici e nuovi con ricche molle di muscoli.

Ma Rosina si annoia di tanta estetica scultoria. Nuovi baci, nuove carezze e nuova pausa con relativo chiacchierio sul marito che Rosina critica ora come un vizioso parassita amico delle prostitute.

Il nostro dialogo è interrotto da un balzo di Zazà che vuole accucciarsi fra noi.

La mia cagnetta di guerra non conosce le donne. Ha sempre vissuto in mezzo ai soldati ed è decisamente ostile ai dissolventi profumi carnali. Mi ammonisce abbaiando, richiamandomi all’antica castità. La caccio via, rimbalza su. La mando dall’attendente nel corridoio.

Io sono ormai sufficientemente premiato. Ho centellinato e masticato deliziosamente tutte le ghiottonerie di quel letto imbandito come una tavola di re.

Nell’annotare sul mio libriccino la mollezza soave delle due bende di capelli che coprono le piccole orecchie di Rosina ho sentito gonfiarsi nel mio cuore un oceano di pensieri e ormai il mio spirito vi veleggia sopra, con le sue vele date al tondo soffio delle purezze astratte.

Dico a Rosina concludendo:

—Non ti potrò mai dimenticare, poichè sei veramente la figlia del nostro Piave devoto e della vittoria!

Poi soggiungo:

—E anche la figlia della luna augurale!

Così, sporgendomi al balconcino, salutai la lu na che avevo maledetto il 27 ottobre sul Carso, tutta gialla, allora, insozzata forse a dipingere bandiere austriache.

Un’ora dopo ci accompagnava in carrozza rotolando in alto grassa, bianca e felice la luna enorme. Fresca campagna dilatata dalla gioia della vittoria. Passiamo sulla Secchia, rapita anch’essa di gioia lunare.

—Non cercarmi, non scrivermi, ti scriverò io, mormora Rosina abbracciandomi. Mio marito è geloso, ti ucciderebbe!

Sento che Rosina sta per trasformare suo marito imboscato in un ardito.

—Non venirmi a cercare, ripete Rosina, verrò io a Milano da te.

Non l’ascolto. Penso di dare al mio prossimo poema i ribollimenti e formicolii d’argento della Secchia che scorre dolcemente quasi nel mio cuore. Le vigne alte sospese a braccia spalancate, aggrappate ai gelsi mi danno colle loro grandi ombre nere animate dei consigli energetici. Il vecchio cocchiere porta ora in equilibrio sul cappello a cencio la pletorica luna piena. Vorrei affrettare il passo del cavallo. Sono stanco di voluttà. Le ruote della carrozza svegliano in me il ritmo pneumatico della mia futura blindata, nuova amante per le velocità della prossima vittoria.

V. IL PAZZO

Sono costretto di passare 2 giorni al deposito di Scandiano.

Due giorni di burocrazia militare aereati dalla compagnia del futurista Virgilio Marchi, granatiere valoroso, ora invalido di guerra. E’ riuscito a improvvisare qui una piccola esposizione di quadri futuristi. La visito per consolarmi dell’atmosfera imboscata discutendo sull’equilibrio delle dinamiche architetture ideate da Marchi.

Spacco, sfondo e incendio la tediosa atmosfera di Scandiano con un discorso ai bombardieri e una susseguente discussione sul futurismo col generale Sacchero. Dormo male a Scandiano, assillatissimo dal desiderio di conoscere presto la bella blindata che mi aspetta, le sue forme snelle e il suo cuore carburante. Ma la mia propaganda futurista e quella degli amici Marchi e Francesco Flora sembrano aver già trasformato la piccola città ultra-passatista.

Ne sboccia l’ormai immancabile prodigio. Cosa è questo gridio di folla? Usciamo dalla mensa. Sensazione di sommossa. Tutti corrono. Redarguisco due sergenti che fuggono davanti a un pericolo inspiegabile. Sassate fitte piovono su noi. Risacca di bambini e donne urlanti. Entriamo nella vasta piazza erbosa e vuota davanti al palazzo Estense.

In fondo, vicino alla porta ducale, gesticola un pazzo. Nudo dalla testa calva congestionata ai ginocchi. Ha le fasce alle gambe e le scarpe. Il pazzo, curvo, cerca febbrilmente delle grosse pietre e le scaglia con forza contro la cancellata del palazzo, dove si agitano confusamente ufficiali e soldati.

Divertente e tragico consiglio di guerra sotto il fuoco accelerato del pazzo. La sentinella ha dovuto spostarsi cercando di parare col fucile a baionetta inastata i colpi molto precisi. La folla ondeggia allo sbocco della via Cesare Battisti, con fughe repentine, quando il pazzo si avvicina preceduto dalle sue pietre.

Appare veramente il dominatore di questa piazza lugubre, sonnolenta, austera, troppo saggiamente imboscata lontano dagli aeroplani e dal fronte. Nudità potente, forte torace, maestria di lanciatore di pietre. Il membro pendente fuor dalla nicchia dei peli neri beffeggia spavaldamente le morali freddolose, magnetizzando gli sguardi delle ragazze che strillano paura, orrore, curiosità dietro le grate vezzose delle dita sugli occhi.

Ad un tratto il pazzo si curva, prende una manata di sterco e la mangia avidamente.

Forse per insegnare gli indispensabili sacrifici dello stomaco a coloro che non si contentano di salvare la pelle ma la vogliono anche riccamente nutrire mentre i combattenti bevono e mangiano il ferocissimo fuoco solare delle battaglie.

Il pazzo ha impugnato due grosse pietre e con esse si percuote atrocemente la fronte. Vendicatore selvaggio venuto dalle lontane caverne e dalla amicizia dei mammuth egli vuole dimostrare che nella media saggezza prudente non c’è virtù. L’ora è venuta di sfondare tutti gli scrigni compreso quello della fronte, liberandone le generose pazzie. Sputa ripetutamente il pazzo contro il palazzo ducale, sputa dal fondo della sua violenza barbarica sulla mezza civiltà cauta dei restauratori di palazzi antichi e di viltà moderne. E’ un uomo preistorico che dà meglio di me una lezione di futurismo agli imboscati di Scandiano.

Ecco però i passatisti alla riscossa. Sono numerosi. Li guida il tenente colonnello Tusini, piccola barba quadrata nerissima, quasi finta sul viso bruno, nervoso, collerico. Lo segue un siciliano nerboruto e bruno, il tenente Trafficante. Il pazzo indietreggia tirando sassi. E’ accerchiato. Sente il muro dietro di sè. Ha un minuto di esitazione, che lo perde. Tutti si slanciano su lui, lo afferrano alla vita, lo rovesciano a terra, quasi soffocato. Mi precipito per soccorrerlo, mentre piovono sul suo capo calvo pugni violentissimi, accaniti, esasperati dalla paura.

—Basta! basta! non massacratelo!

Un caporale atletico, impazzito più del pazzo gli imbavaglia con una mano la bocca. Il pazzo tutto insanguinato torce spaventosamente gli occhi senza implorare pietà; mentre un soldato lo strozza quasi col braccio destro e dichiara solennemente:

—E’ così che si tengono i pazzi.

Io gli grido:

—Ma i saggi come voi fanno schifo!

VI. UN’ESPOSIZIONE FUTURISTA NAVALE

La caserma di S. Benigno a Genova ha tutti i difetti delle caserme, ma una qualità eccezionale che la rende forse unica al mondo ed è quella di cavalcare con la sua mole rossa il promontorio montagnoso del Faro. Domino così facendo colazione su una delle terrazze: a sinistra l’anfiteatro di Genova coi suoi vetri in fiamme, tetti d’ardesia verniciati di argento solare, e pensili giardini tropicali. Davanti, il colmo alto mare di cobalto; a destra, le criniere di fumo di Sampierdarena; e sotto, il porto formicolante irto e fumoso.

Mi pare di essere sulla terrazza di un meraviglioso grattacielo italiano. Giù, giù, il porto lavora energicamente per la guerra mondiale. Grande bocca d’Italia aperta ai carboni che cortei di navi le portano sfuggendo ai sottomarini, microbi circolanti nelle vene-arterie del mare.

Uno di questi cortei di navi si abbozza confusamente, sull’arco dell’orizzonte. I carboni ingoiati dai treni corrono facendo correre le forze che nutriranno il fronte congestionato di fuoco. Sotto di me, navi e treni mescolati.

I treni s’intrufolano fra le navi. Simmetrie eleganti disinvolte di rotaie a fasci argentei. Le rotaie luccicano imperative come leggi davanti ai treni lentissimi asmatici, sotto fumi rivoluzionarii. Peso delle chiatte incastrate nell’acqua carbonosa. Sono scaricate da omini microscopici che portano velocemente sulla testa coffe di carbone correndo sull’oscillare elastico delle assi sospese. Andirivieni degli omini fra le chiatte e i cumuli di carbone alti e cosparsi di brilli. Brillano pure i torsi nudi sudati.

In alto il sole comanda, dirige tutto, meccanico sanguigno dalle roteanti braccia d’oro dirigendo le antenne, le gru e gli elevatori elettrici che viaggiano su ponti di ferro pattinando oleosamente e portando a braccio teso mascelle metalliche ghiotte di carbone.

Una dura volontà solidale di guerra fa gonfiare i bicipiti degli elevatori che girano orgogliosamente sui piedi uniti per farsi ammirare come buoni patrioti da tutte le case attentissime dell’anfiteatro-porto.

Ribollimento frenetico d’oro solare fra le navi. Spirali, fantasie, ramificazioni dei fumi bianchi-grigi, perlacei che salutano i lontanissimi combattenti.

Ma insiste la pressione dell’alto mare colmo di cobalto che vuole straripare sull’orlo della diga: cobalto freschissimo che schizza, balza dai moli al mio colletto di mitragliere S. Etienne, e si frange blu sui vetri dell’ultimo piano di S. Benigno. Questi vetri si offrono bersaglio ai cannoni di una possibile squadra nemica.

S’avanza invece e si delinea in alto mare un corteo amico di navi variopinte.

12. No! 22. Altre ancora si sbozzano. Sono 29.

Il sole le vernicia. Balzano, lingueggiano, s’intrecciano le linee colorate dinamiche sui loro scafi alberi e ciminiere. Tutte camuffate. Poichè non possono entrare nel porto già pieno, esse si dispongono in lunga fila parallela alla diga. Lo spettacolo mi gonfia d’entusiasmo. Volo coi miei sguardi che si avventano gioiosi verso le navi. Grido ai miei amici mitraglieri tutti in piedi, tutti presi al collo dal blu inebriante dell’alto mare:

—Ecco la prima grande esposizione futurista! Una sala alta 50 Km. dal pavimento di cobalto. Ventinove giganteschi quadri e complessi plastici colorati in movimento. Guardate! Quella linea rosea sulla prima nave a destra, quella linea slanciata che si arrotonda suggerisce l’idea di una poppa di nave mentre ne copre il ventre in realtà. La vera poppa essendo colorata in turchino, come vedete, vien presa a distanza per il turchino dell’alto mare... Sulla seconda nave l’angolo acuto nero quasi a fior d’acqua suggerisce l’idea di un basso bompresso di piccolo veliero. Queste navi furono camuffate dagli armatori inglesi sui disegni del pittore futurista inglese Newinson allievo e ammiratore di Balla e di Boccioni. Così il genio futurista italiano, imprimendo attraverso le sue esposizioni europee i suoi ritmi dinamici e le sue volanti colorazioni all’ingegno plastico inglese, può vincere la cubatura pesante tedesca e i suoi pericolosi sottomarini. Ogni nave così trasfigurata contiene 4 o 5 illusioni di mezze o piccole navi da trascurare o da sbagliare tirandoci sopra.

I pittori futuristi nei quadri precedenti creavano compenetrazioni e simultaneità di linee e colori nel tempo e nello spazio. Volumi e colori dell’esterno-interno apparente-reale lontano-vicino, colore, peso, odore, rumore da suggerire a noi che li guardavamo.

I pittori futuristi che dipinsero queste grandi navi o complessi plastici-naviganti vogliono anch’essi con le loro linee compenetrate e le loro simultaneità di colore e forma, suggerire ciò che non c’è, nascondere ciò che c’è, traendo in inganno e beffeggiando i sottomarini in agguato! Ah! ah! ridiamo, amici, ridiamo di gioia poichè tutti i simboli si armonizzano e si perfezionano. I sottomarini altro non sono che critici passatisti di questa grande esposizione futurista navigante. Critici pieni di bile compressa e d’invidia, che sognano di uccidere le lampeggianti sfolgoranti creazioni del genio novatore. Inutile spiegare! Il sole è il più sollecito e più eloquente dei conferenzieri e il più chiaro illustratore.

La fila delle navi-quadri s’immobilizza, a 3 Km. da Sampierdarena, nel mare. Andiamo, amici, a vi sitare a nuoto la prima grande esposizione futurista!

Mezz’ora dopo tutti in costume da bagno entravamo in mare allo stabilimento Colombo vera tonnara di donne e bambini. Cento salvagenti verdi, costumi neri, cuffie rosse. Vasto guizzare e anguillare di braccia e gambe. Grassi mappamondi rammolliti. Corrono bambini come piccole stelle di carne. Migliaia di scimmie scimmioni scimmiette. Donne e bambini aggrappati alla corda, sono violentemente strappati dall’ondata schiumante pigiati, spremuti come frutti banani pere o datteri sopra un unico gambo investito dal vento. L’ondata si precipita sui bagnanti come la voluttà si slancia sui nervi. Colle mani pesanti di schiuma, rotola, impasta, strizza, pesta, spalma questa pasta di femmine, d’imbelli e d’imboscati per insegnar loro un po’ di guerra. Tra le potenti dita bianchissime del mare la pasta umana sprizza il suo lievito di paura.

iiiiiiiii      ui      ui
iii
iii
nitriti        gridiii
guaiiiti.

L’umanità subisce il coito delle forze. Ecco, donne e bambine si avanzano con paura-coraggio, frenetica allegria e isterico terrore contro l’urto dell’ondata... Voglio, non voglio, temo, ho paura scappiam, restiamo, pigliamola in faccia. Dio! i ca pelli!... Tutta bagnata!... Che freddo! l’acqua sulle gambe e sul ventre! Mi do a te, mi apro tutta a te, mare rude, potente invadente massiccio, mare sverginatore, uccidimi possiedimi mare guerra, eroismo massacro! Ho paura, mi fai male, sei troppo brutale, mi piaci, ti odio!...

Aiii Aiii Siii Siiii Aaaaaaaaa iiiii

Una mamma va incontro all’ondata portando fra le mani un grosso tondo bambino nudo. Sembra volerlo lanciare con un calcio di foot-ball contro l’irruente alta schiuma, che crolla

Taaaraagiiiiuuu gggiiii uuuu giaaaa.

Disinvolta, quella mamma! Sembra snaturata. Eroica certo e il destino la ricompensa poichè il suo tondo marmocchio ruzzola nell’onda, capriola ed eccolo più sano di prima sulla sabbia. Vorrei l’Italia fosse così disinvolta nel lanciar la sua prole contro il nemico che schiuma di rabbia e d’odio eterno come il mare.

—Amici! grido allora, usciamo da questa coloratissima tavolozza che ha per colori donne e bambini e ondate schiumose!

A nuoto ci lanciamo nel ribollimento argenteo abbagliante verso il pavimento di cobalto della grande esposizione futurista da visitare. Lontano qua e là, a destra, teste nere d’altri visitatori. Bar che nerissime irte di rematori e simili a pettini neri coi denti al cielo. Tentano di criticare, discutere nella pienezza geniale del mare che bolle sicuro di sè. Piove fuoco argenteo vivo di gioia artistica. Ogni onda ha una sua idea in cresta che fiammeggia. Per essere più degno e più intriso d’arte sublime mi arrampico su un trampolino e

Patapluum Plufff giaaaa ggggggggg di schiuma

Nuoto sott’acqua a occhi aperti, vedo in alto una volta incendiata. Scintille di rumori nelle orecchie blublublublu bloblo tlac tloc gott gluglu.

Emergo. Luce anguillante di pittura futurista in ogni onda. Elastici tessuti di riflessi viola gialli, verdi, azzurri. Si prolungano così ramificandosi i sincronismi celesti dei raggi.

Il mare è una tavolozza sovraccarica di colori. Pennello vivente, voglio nuotandovi dentro dipingere anch’io un quadro.

Comincio col nuotare alla rana. Formo così un groviglio duro di linee. Poi a destra, nuoto alla marinara sul fianco come le donne formando una capigliatura di linee molli sfumate. Balzo a sinistra e nuoto over facendo ruotare il braccio sinistro col braccio destro teso in avanti. Dipingo nell’acqua una ruota. Mi slancio con un braccetto vigoroso facendo ruotare alternativamente le due braccia, ma tenendo la testa fuor d’acqua.

Nel mare si dipingono così due ruote davanti alla prima ruota. Tuffo la testa nell’acqua accelerando il doppio movimento alternato delle mie due braccia rotanti. Intuisco con gioia il liquido meccanismo di orologeria colorato che nasce da me.

Vedo accendersi il rosso di quella nave camuffata come un incendio, torcersi quella spirale azzurra intorno alla ciminiera come una molla gigantesca sulla quale una nuvola elasticamente molleggia come un saluto di padre eroico al figlio combattente.

Gioia di rinvigorire il corpo perfezionandone i tessuti, aguzzandone i muscoli, perchè scattino dalla schiena ai piedi come una codata di pesce! Gioia di acquistare la potenza guizzante d’un grande pesce-spada prima di partire per il fronte. Le bocche dei cannoni nemici amano simili pesci temerari. Mi succhio un dito. Sono fresco e saporito. Il pasto dei cannoni, porrebbe essere veramente succulento. Ma la fortuna sorride ai grandi pesci audaci che ora come me si nutrono lo stomaco del buon carbone tot igienico che le navi-quadri- futuristi spargono sul mare.

A grandi bracciate, facciamo il giro solenne dei conoscitori di quadri. Intorno ad ogni nave camuffata coloratissima ride il pavimento liquido moltiplicando la bollente gioielleria dei riflessi. Chi può comperare pescecanescamente l’opera impagabile? Le navi a tinte rosee hanno intorno a loro mille riflessi di carne femminile come migliaia di donne bagnanti che applaudano. Le navi a tinte purpuree e gialle hanno intorno dei riflessi in forma di vetrate insanguinate e rotte e talvolta l’intera cattedrale di Reims sommersa. Il sole stanco di conferenze e proiezioni sulla lavagna del cielo abbandona la sala della grande esposizione. Occhiata d’oro vermiglio, fronte e calvizie di fuoco sereno!

—Somiglia alla tua! mi grida un compagno, nuotando.

Sulla calvizie del sole si posano con ali febbrili di farfalle, due idrovolanti.

Torniamo con un ampio giro che ci conduce verso gli affastellamenti di tettoie e camini e la foresta di fumi Ansaldo. Nuotiamo come squali guidati dalle gigantesche carni sanguinolente che gli alti forni sembrano masticare. Magnetismo delle colate d’acciaio. Il ritmo delle presse e dei magli titanici cadenza le nostre bracciate, mentre la nostra bocca sputa schiuma bianca come i torni sputano limatura argentea.

Entriamo sempre più nell’oceanica sinfonia dei rumori del ferro in rissa col ferro. Attacchi e contrattacchi, boxe. Fierezza dell’acciaio, Cocciutaggine di colossi in fusione. Nell’aggrovigliato paesaggio di rumori ormai quasi buio si accaniscono a quando a quando le immense fruste e i lazos delle fiamme rosse. Fiuto la presenza di mille cannoni antiaerei nuovi sui loro candelieri colla bocca al cielo pronta ai lunghi sputi precisissimi di fuoco zenitale.

Sono nuovi pennelli ultra-dinamici di Balla per ridipingere le nuvole all’aurora. Fiuto le nuove Tanks già costruite con un volantista un cannoniere e un cannone da 37, serrate, armatissime, ultrasintetiche come libri futuristi.

Vedo poi giganteggiare il cannonissimo 381 allungato che dovrà tirare da Venezia a Pola (130 Km.) simbolo perfetto del genio italiano a lunghissima portata.

VII. LA 74

Non conoscete la mia nuova amante? Ve la presenterò. Intendiamoci, quella preferita, che escluderà tutte le altre e sarà forse definitiva.

Non ha un nome, ha un numero e ciò mi piace poichè ogni Rosina è sempre tradita dal ricordo di un’altra Rosina, ogni Maria dal ricordo di un’altra Maria. La mia nuova amante si chiama 74, 7 e 4 fanno 11, il mio numero augurale che mi segue dovunque e mi è più o meno sempre favorevole.

La mia 74 ha una salute di ferro, anzi d’acciaio, una meravigliosa sensibilità, ma blindata. E’ capace d’offendere e d’uccidere. Mentre è assai difficile ferirla mortalmente. La conobbi ieri nel cortile della caserma di S. Benigno. Mi aspettava in riga con le sue sette compagne che le rassomigliano come sorelle. Con delle differenze però importanti. Sono tutte donne autoblindate color verdone scurissimo, tutte armate.

Ma la mia è la più agile di tutte, ha un cuore-motore più forte, e il fuoco delle sue ironie mitragliate non ha debolezze nè distrazioni. Fu la sorte a designarmi come compagno della bella 74. Subito le baciai i fianchi d’acciaio, la grande palpebra metallica e lei mi ringraziò con un mezzo giro della sua cupola ornata d’un fascione tricolore. Volli, allora, penetrare nella sua anima. Tutta affettuosa, la mia 74 mi aprì sportello destro e sportello di sinistra cosicchè occupando il seggiolino della sua volontà e impugnando il volante dei suoi segreti pensieri la slanciai fuori a bella velocità giù per la strada tortuosa che scende al porto di Genova. Sento la gioia gonfiare le arterie della mia 74 che mi porta cantando. Non ha una voce sola, ma un’orchestra di voci bene intonate. Ora godo il languido canto lamentoso del suo cuore-motore che fa da freno in discesa. La sua gioia cresce ed ecco flauti, clariiini, violiiini accompagnano il ritmo delle ruote.

La mia 74 ha forse un difetto; i suoi fianchi sono troppo vasti per poter anguillare e correre senza urtare nelle strade ingombre di Genova. Debbo preoccuparmi anche del suo culo di acciaio veramente poderoso armato di una mitragliatrice a guisa di pungiglione. Con mano molle, ma pronta al volante consiglio i suoi fianchi di non agganciare a destra e a sinistra tram e carrozze.

—Su presto! le grido, ti conduco a Rapallo, a salutare i miei cari e poveri amici mutilati. Vi sarà danza questa sera, belle donne e canti al chiaro di luna sul mare.

Il cuore-motore della mia 74 precipita i suoi battiti e mi risponde come un cavallo con nitriiiti, nitriiiti, nitriiiti.

La sua allegria si manifesta nel mostrarmi tutte le sue virtù. Ecco il ci-ci-cigolio di mille passeri giulivi nelle sue giunture-costole d’acciaio. Sarà bello amarla e stringerla con passione, o meglio viverle nel cuore quando si batte.

Ma sono stanco di goderla dall’interno, voglio vedere le sue forme potenti correre fra le raggere tropicali di questo pomeriggio sulla strada di Varazze.

Lascio il volante al mio volantista Menghini, che avrà pieni poteri in mia assenza sul cuore-motore della mia 74. Ho aperto lo sportello di sinistra. Seduto di fianco sul seggiolino colla schiena presa nella cinghia-spalliera ho le gambe penzoloni fuori a picco sul mare di schiaffi pugni bava e smeraldi vendicatori.

Gioia disinvolta sfrenata di darmi così alla molleggiante velocità com’è una saltatrice sul cavallo nel circo dopo il bel cerchio di carta sfondato. Mi sento preso così a mezzo corpo dall’immensa rabbia amorosa dell’orizzonte marino. La mia gamba destra allungata verso l’invisibile acceleratore della velocità spirituale; la mia gamba sinistra piegata sul predellino fuori.

Sotto di me, le volanti docce di schiume bianchissime e gazose ggggggg. Microscopico stabilimento di bagni che magnetizza i miei muscoli polverosi. Al sole obliquo una cuffia rosso carminio di bagnante. La vedo guizzare nel molle cristallo verde col roseo lampo dei polpacci. Snella agilissima, ma meno snella, meno agile della mia 74. La strada curva è girata, o meglio presa in giro dalla nostra fusione veloce tlantlantrintrrrrr trrrr. Polverone sferico, blocchi di caldo roteanti. Trombe d’aria sbatacchiate fra le facciate delle case sovraccariche di biancherie roventi alate. Ondeggiare frenetico della mia 74 fra le resistenze dei metalli. Anguillare sulle anguille affettuose delle rotaie.

Incrociamo delle automobili festive, veri salami-proiettili. A Varazze, urrah! la mia 74 incontra le sue 7 sorelle e torniamo in squadriglia sferzati dai lunghi raggi del tramonto, in una gara pazza di velocità verso Genova e Rapallo.

Ognuno dei miei 7 compagni auto-mitraglieri pretende che la sua amante blindata sia più veloce della mia. Le 8 donne d’acciaio lanciate gareggiano, gareggiano, gareggiano, precipitando il ritmo dei loro cuori-motori fra i mille ostacoli ganci ombre insidiose, riflessi lunghi e corti, rosse occhiate languide delle bettole e maledette lanterne dei passaggi a livello. Il mare si precipita contro le scogliere sotto la strada, infrangendo con fracasso ogni barriera. Folla urlante di onde-faccie schiumose di sudore rosso per vedere, per vedere la corsa delle blindate impazzite. Entrando in Genova la mia 74 è in testa. Ritmo perfetto, dominatore del cuore-motore obbedientissimo a me. Rallentiamo sotto la curiosità affannosa e ronzante delle lune elettriche. Ma fuori verso Nervi dove il mare sventaglia dolorosamente sulla ghiaia la tosse dei suoi risucchi malati, la gara riprende, le agili donne d’acciaio corrono cantando felici d’essere possedute da maschi e di possedere il lunghissimo tortuoso corpo della strada con lesbica virilità.

La luna piena succosa che si sbuccia dalle nuvole sull’orizzonte marino è il nostro traguardo magnetico.

Le sette blindate che mi seguono tentano ad ogni curva di sorpassarmi. I miei amici ignorano il segreto della mia superiorità. Ognuno maneggia sapientemente la propria amante, ma non ha raggiunto il grado di fusione perfetta che mi lega alla mia 74. Tutti i calcoli meccanici sono cancellati da questo slancio impetuoso che io imprimo ora con la mia volontà al cuore-motore. Correre, correre, correre, accelerando cento altri acceleratori sconosciuti e misteriosi che mi sono nati sotto i piedi, sotto le dita, sul volante e nella mia fronte. Non sento più la pressione invidiosa delle altre sette macchine dietro di me. Sono distanziate. Ecco gli esuberanti volumi di vegetazione di Camogli e in mezzo a loro in fondo alla strada che strapiomba sul mare la luna, la bella luna di carne tiepida e profumata da infilzare. Stop. Ho vinto la gara.

VIII. GLI EQUIPAGGI DELLA LUNA SBARCANO A RAPALLO

Possiamo ormai tutti in squadriglia languidamente rallentare nella grande magia dei profumi notturni, fra le diafane aeree mani lunari che viaggiano nella brezza e supplicano i giardini di bagnarsi nel mare. Quando entriamo nel giardino del Casino delle Delizie, la luna alta armata di tutti i suoi fascini si è già impadronita del golfo meraviglioso.

Dall’alto cassero di madreperla la Luna ha calato la sua lunga scala nell’acqua intenerita. Subito ha messo in mare i suoi canotti bianchi costruiti con la polpa di favolose noci di cocco. Gli equipaggi della luna vengono a terra alzando in cadenza fuor dalle onde i lunghi remi d’argento, perchè ne grondino perle innamorate e sguardi spiralici di bionde bionde che quando dormono guardano ancora coi loro denti di perle. Clic cloc gott gott plic ploc sotto la prua. Languida sonnolenza di acque tessute di corpi in fuga, volubili, che si sciogliono sotto la carezza delle pale scivolanti.

I rematori hanno il corpo nudo plasmato d’ar gento vivo, ma tornito, senza frange, intriso di luce intensa che non abbaglia, anzi seduce gli sguardi. I loro visi sono mandorle d’argento, e vi scorrono sopra gli smeraldi degli occhi che guardano e si celano sotto alghe verdi.

Quando a braccia tese fanno leva sulle pale affondate, i rematori rovesciano le facce bianche sotto una doccia di latte immateriale. Bevono un sorso lungo poi rapidamente insieme si leccano le labbra colla lingua di rubino acceso, serpentello di fuoco sull’argento del viso.

Un’immensa dolcezza preme sulla montagna boscosa che digradando scende sino agli ultimi coni circonflessi di verdura di Portofino, vasca d’angeli. «Venite giù, venite giù, Monti, rocce, terrazze e giardini; nell’acqua tenera abbandonatevi!»

Nell’estasi dilagante, gli equipaggi della Luna intonano un canto grave, pieno di serena malinconia che sale sale sale allargandosi, si ferma lentamente, ricade estenuato. Ma con scatto improvviso, eccolo di nuovo in alto su quella nuvola di tiepida neve abbagliata. La voce trema in un do bianco prolungato con tale soavità da rapire nel sogno i giardini coricati sul mare e soffocare alla gola gli alberi svegliati in una straziante voluttà di piangere. I lunghi canotti della Luna hanno ora tutti i remi alzati, le pale grondanti di perle, ad aspettare che il canto solenne ricada finalmente giù dalle troppo fredde nuvole nel grembo carnale del golfo.

Perversamente il Casino delle Delizie protende le terrazze a scaglioni, le balaustre curve appassionate, gli aloes infilzanti, le rose suicide alle ringhiere e le vetrate spalmate di stelle e levigate dai pianti del mare. Frusciaaare, schiumaaare, tubaaare delle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e come culle rimorchiaaate dai profumi del maaare.

Il Casino delle Delizie offre una magica festa ai suoi invitati. Sotto le quercie e i pini ombrelliferi una orchestrina di nervi e fibre, tremolanti archetti di pudore, clarini di mandre sognate, tamburelli-cuori rapiti al petto delle bambine, chiama gli usignoli a spasso nei dintorni, perchè le armonie non siano troppo flebili.

Ed ecco gli usignoli saltellare fuori dai piccoli tunnel fronzuti e inoculare l’adamantino sangue del loro canto nelle ramificate arterie del silenzio, sotto le palme che spandono l’anima sognante del Nilo. Giungono i primi invitati: ufficiali e soldati mutilati. Il loro incedere ha un ritmo sincopato sulla ghiaia scricchiolante dei viali. Scatti obliqui e cadenze rotte che scuotono l’estasi generale.

Ma sono bene accolti, e piovono i gorgheggi e le fughe a ventaglio di perle sonore fra un diluvio di profumi.

Le ombre della notte e le forze della dolcezza lunare non sdegnano, ma avviluppano con mille carezze e moine questi corpi umani preziosi che l’affamatissima battaglia ha rosicchiato.

Alcuni si affacciano alle terrazze tonde, prue illusorie con alti pennoni e bandiere addormentate. Ben diverse da quelle che aizzavano come mantici il fuoco del sangue nelle risse per l’intervento.

Altri vanno oscillando su passerelle che ricordano i transatlantici. Ogni mutilato insegue, sembra, col suo movimento troncato il membro rapito che certo non dorme in un cimitero del fronte ma vive, trasfigurato, la vita delle carni immateriali nella scìa della luna. O lassù, nell’elastico sorprendente tessuto delle nuvole.

I mutilati sono ricevuti dalle Ombre e dai Profumi che stendono amache penose, divani spirituali, cuscini di sospiri.

Noi soli siamo materiali e pesanti. I nostri applausi di uomini interi stonano coll’imprecisa vellutata cortesia degli usignuoli e delle onde che stendono gementi tappeti d’argento per gli equipaggi della Luna.

Frusciaaare schiumaaare tubaaare di onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e come culle rimorchiaaate dai profumi del maaare.

L’orchestra di nervi e fibre patetiche annuncia l’arrivo scivolante delle dame. Previdente pensiero dei grandi sarti inspirati che hanno fasciato appena di stoffe leggerissime quei mobili corpi femminili, perchè l’aroma della voluttà si spanda in giro inebriando le nari veggenti dei ciechi di guerra.

Gli usignoli supplicano le dame di danzare. So no obbediti. E la musica tutta vortici e pennacchi vaporosi rapina i corpi delle donne. I ciechi le guardano a quando a quando poi godono la Luna. Allora le teste rovesciate all’indietro bevono il bianco fuoco d’amore coi loro tragici occhiali neri. Penso ai risucchi di piacere delle piccole rade buie incappucciate di verdura quando bevono la luna.

Noi facciamo danzare le belle donne ma non le tratteniamo. Anzi imponiamo loro di trascurarci. Tutte a gara sviluppano il flirt semilascivo coi mutilati nelle penombre favorevoli, per le scale coperte e gli spiralici sentieri che sgusciano dall’ombra e s’affacciano sullo splendore del golfo lunare. Coppie strane dove un agile corpo di donna giovane è accarezzato un attimo, ma preferisce accarezzare un corpo maschio infranto che zoppica, ondeggia. Questi tende una mano sola, e non può tender la bocca per baciare.

Il gesto della donna diventa materno per accarezzare un mento d’argento, che la luna subito con dolce meccanico furore salda alla carne. Ride il sangue del mutilato in questa bizzarra officina improvvisata di metalli innamorati e carni che sognano di metallizzarsi. Il torso di quel tenente bersagliere si rizza con forza nella pienezza della sua virilità.

—Non ho più labbra, dice, ma il bacio non è indispensabile in amore! Parlo male ma so cantare, e anche danzare... Che importa se la mia spina dorsale avrà poi bisogno di tre giorni di ossigeno per rimettersi? Ora che gli equipaggi della Luna sono sbarcati bisogna che io balli per dimostrare che si può far all’amore in mille modi sconosciuti. Questi profumi deliranti urlano come l’odore della balistite che mi bruciava sul Carso... Urlano, urlano l’eroismo e l’amore!... Balliamo e cantiamo. Questa è una nuova trincea dove però la nemica non ci fa male anzi ci nutre tutti col suo piacere. Se continua, mi guarirà! Farà, farà anche rinascere le mie labbra! Balliamo cantiamo insieme!

Ognun lo sa e ben ci conoscete
perchè l’allegria con noi portiam.
Un cuore ardente e gioventù abbiam,
un cuore ardente e gioventù,
se pur con le stampelle camminiam.
Chi siete?... Siamo la ganga
perchè amiam le bimbe, il vin
spumante e di Rapallo il mar!

I mutilati cantavano. Frusciaaare schiumaaare tubaaare delle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e rimorchiate dai profumi del mare.

Tre mutilati danzavano, cercando di aggraziare i gesti nascondendo fra i capelli delle dame i visi spaccati o cotti dalle esplosioni. Due altri, in uniforme elegante e accurata, mutilati d’una gamba all’inguine si rizzavano e sulle stampelle tentavano di cadenzare uno strano ritmo di nave rullante. Un alpino mi domanda scusa di passarci davanti danzando, poichè ogni volta la sua manica vuota sfiora il viso della signora seduta accanto a me. Questa è una signora milanese: grandi occhi chiari di bambina e bocca carnosa sempre ridente sotto pesanti capelli biondi che le imperlano la fronte di sudore. E’ buona, intelligente, piena d’imprecise indulgenze e facilità nei suoi flirt svariati. L’amai con passione 5 anni fa; poi la vita ci separò. Siamo molto amici. Le parlo da cuore a cuore e lei mi risponde con assoluta sincerità.

—Io adoro la danza, ma non ho mai avuto tanto piacere come nel danzare con quel tenente bersagliere dalla mascella d’argento. Io non mi capisco troppo: sono una civetta, forse qualcosa di peggio... ma tu mi capisci... Era così felice di stringermi fra le braccia. Siamo stati anche giù nel buio sulla riva. Ha tentato di baciarmi il seno, ho lasciato fare... Quando si è così poco vestite come siamo noi, signore, oggi, è molto facile cadere... Deve essere tanto infelice poveretto!...

... Da quando la guerra era scoppiata
Rapallo in silenzio qui dormiva,
ma tosto che la ganga è arrivata
il silenzio e la quiete qui spariva.
Chi siete?... Siamo la ganga
perchè amiamo i fiori, il cielo
azzurro e di Rapallo il mar.

Sono diventato l’amico d’un capitano alpino mutilato della gamba e coscia destra chiacchierone e gioviale. Questa sera certamente ha dimenticato ciò che ha perduto.

Gli dico che la mia bionda amica ha un capriccio per lui ed egli tendendomi il viso molto vicino mi sussurra con gioia visibile:

—Me ne sono accorto... Mentre eravamo giù insieme vicino all’acqua seduti ho preso la sua mano e l’ho portata sulla mia coscia metallica. Veramente ho notato un piccolo movimento come di scottatura che la sua bella mano ha avuto nel toccarla. Questo m’è capitato altre volte. Inconvenienti del nostro mestiere. Ah! Ah!... Io rimedio subito portando la mano della donna un po’ più su.

E rideva, rideva, con gioia infantile senza rancore per la guerra poichè gli aveva concesso questa notte di delizie. Poi riprese a cantare:

—Forza, orchestra!...

Quando noi passiamo ci guardate
e dite che siam pazzi tutti noi
ma le pazzie nostre perdonate,
perchè siam pazzi sì, ma un poco eroi.
Chi siete?... Siam gli sciancati
Chi siete?... Siam gli avariati,
perchè abbiam fatto
l’Italia,
col sangue nostro e la gioventù.

La mia amica mi prende il braccio e mi sussurra:

—Vieni, andiamo giù.

—Farai soffrire il povero tenente.

—Non preoccuparti; tornerò da lui dopo. Ora voglio stare con te. Tu non sei un mutilato, ma mi fa un po’ paura vederti partire per il fronte. Non c’è più nulla fra di noi, ma io ti voglio sempre bene lo sai. E questa sera ho un desiderio pazzo, pazzo, pazzo che questa benedetta guerra finisca. Hai visto quei poveretti come sono conciati... Tu sai che sono una buona patriota, ma non capisco, non riesco ad ammettere, malgrado tutti i miei sforzi, la necessità di questa eterna, brutale carneficina.

Io chiusi la bocca della mia amica con un lungo bacio. Tanto più utile che prevedevo il lungo suo discorso contro la guerra e preferivo ascoltare quello più eloquente e più patetico che la luna prodigava ai suoi equipaggi lussuosi d’argento vivo remanti nei gorghi di perle:

—Abbandonati, anima,—cantava la Luna—sciogliti, dimentica, acquètati. Ho dei rosolii che dissolvono ogni collera, ogni ferocia; ho dei balsami che addormentano i rancori. Tutte le volte che ho voluto fermare la guerra m’è bastato colmare le trincee col latte benefico della mia luce e subito le sentinelle in vedetta hanno reclinato il capo invaso dal sonno e dal pessimismo tenerissimo, dimenticando le pattuglie nemiche in ag guato. Le mitragliatrici avversarie non hanno avuto più per loro altro interesse che quello di un notturno apparecchio telegrafico o di cani abbaianti. Sono la dispensatrice del nichilismo perfetto, del dissolvimento totale e di tutti i soavi abbandoni alla deriva d’una qualche corrente molle di baci, alcool, pigrizie, o sogni. Io sola vincerò la guerra la notte in cui spegnerò con carezze troppo lente il sangue solare dell’uomo, costringendolo a disprezzare l’ultima attività aggressiva del coito per negare e sognare unicamente.

—Hai sentito, cara Amica, le argomentazioni della luna in favore della pace universale, eterna? Sono subordinate come le tue argomentazioni alla distruzione della vita. Alle origini lontane dell’umanità noi vediamo popoli accaniti offrire agli Dei cadaveri sanguinanti. Poi un Dio ebraico affamato anch’esso di carne umana. La terra nel suo viluppo d’atmosfere contiene delle forze dominatrici, intricatissime e difficilmente decifrabili che noi definiamo con parole inefficaci quali: primavera, gioventù, eroismo, volontà ascensionale delle razze, rivoluzione, curiosità scientifica, slancio del progresso, civiltà, record. Tutte queste Forze indubbiamente telluriche adorano il sangue umano, cioè la lotta, il bisogno di distruggersi vicendevolmente simboleggiato dalle onde schiumose del mare. Queste Forze dominano la maggioranza più viva dell’immenso formicaio umano. Maggioranza d’istinti selvaggi e implacabili, tutti più o meno sanguinarii.

La minoranza meno viva o stanca o vecchia o ferita ha creato le idee pure, i sentimenti puri, le vaste bontà, la soavissima pace, l’amore umano, ed altre astrazioni di dolcezza serena che varcando le montagne aspre dei desideri e le irte foreste delle ambizioni, dovrebbero finalmente pacificare tutte le razze imponendo loro un ritmo morbido come quello di questo golfo innamorato e fedele alla luna. La parte turbolenta e istintiva del formicaio umano è spesso affranta e disillusa del suo andare crudele e sanguinante. Si ferma ed ammira inebriata le soavi pigrizie affettuose che la minoranza saggia ha lanciato in cielo e che ormai navigano anch’esse imperiture sulla curva della Terra. Ma la sosta è breve, le Forze di voluttà aggressiva e di primavera crudele, incalzano di nuovo la maggioranza giovane e virile. Più furibondo che mai il ritmo di distruzione e di morte ricomincia, e se le contese piccole, minute non bastano, si afferrano a volo le vaste astrazioni di bontà e di pace per farne delle bandiere al nuovo massacro. Si scagliano le folle in guerra, massacrando gli uomini, per massacrare la guerra! Altri si slanciano su aeroplani a lungo perfezionati perchè possano varcare tutte le atmosfere e gareggiare con le stelle. Immagina, amica mia, qui in questo golfo quattro o cinque aviatori già pronti sui loro apparecchi dalle eliche rombanti per la grande gara. Immagina il loro dialogo.

—Dobbiamo, dice l’uno, assolutamente a costo della vita salire a 20 km. di altezza, vincere o morire, amici!

Poi a mezza voce al meccanico fedele:

—Hai bucato il serbatoio dell’altro aeroplano?

—Sì, risponde il meccanico con occhiata radiosa. Fra un’ora il vostro concorrente precipiterà in mare.

—Grazie, son sicuro di vincere, gli altri non mi fanno paura.

E così gli aeroplani della grande gara ultra-terrestre si slanciano nel cielo ove ecco appare il Rabbi di Galilea col viso più tragicamente pallido di quello crocifisso sul Golgota. Gli occhi al cielo disperatamente guardano con bontà infinita e tremendo dolore il Padre dei padri, riassunto di forze cosmiche che ha l’implacabile e muto X rosso sul viso di tenebra azzurrina. Il Rabbi piange e dice:

—Padre, tu mi hai trasmesso il germe della divina bontà e dell’assoluto perdono e quello più prezioso ancora dello sconfinato amore, ma essi vogliono soltanto uccidersi o lacerarsi a lungo per meglio assaporare il sangue. E in nome della bontà ritornano al massacro—e non si riposano. La loro forza dà la morte. Il loro amore è sanguinante. Il bimbo nascituro insanguina la madre per scagliarsi verso la vita. La sua vergine sorella sarà domani insanguinata dal maschio che la primavera frusta con le sue belle flessuose verghe di profumi. Padre tu hai creato l’amore: e per l’a more si fanno guerra. Hai dato a loro il sogno della bontà, ma questa scoppia con straripamenti di lave guerriere come un vulcano. Se vuoi che l’amore eterno, puro, e la bontà serena e la pace di cuori intrecciati regnino finalmente, spacca, spacca la terra, distruggila senza pietà!

E il Rabbi alto nel cielo piange, mostrando con le due mani aperte come fiammeggiano le ferite degli uomini. Ma la luna grida al Rabbi con un lungo stridente gocciolìo di cristalli:

—No! no! Non spaccare la terra! E’ mia! la cullerò, l’assopirò, la svenerò deliziosamente. Sarà pallida come me, finalmente pacificata in una vasta, continua voluttà carnale!

Giù intanto sulla riva gli equipaggi della Luna si imbarcavano. I remi riprendevano il loro grave sonnolento fruscia-a-are, fruscia-a-a-are fruscia-a-a-a-are schiumare tubare nelle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e rimorchiate dai profumi del mare.

Sparvero ad uno ad uno ritirando su, su fino al cassero della Luna tutte le scie d’argento, i canotti bianchi, e le vaste reti di profumi pieni di pesci d’oro guizzanti.

La mia amica languiva al mio braccio, io avevo sonno; ma i mutilati riaccendevano con le stampelle alzate l’orchestrina di nervi e fibre che sull’alta terrazza miagolava, strillava, singhiozzava come mille gatti in groviglio d’amore.

Il tenente bersagliere correva dimenandosi e cantando:

—Un valzer pazzo, il più pazzo dei valzer, vogliamo! E’ troppo lento, questo! Sfondiamo il pianoforte!

Con un pugno rovesciò a terra il pianista e si mise a tempestare la tastiera con le mani e coi piedi. Sradicò con un calcio il pedale e si sforzava di scandire un valzer terrificante colpendo, di tanto in tanto i bemolli col suo mento d’argento. Gli ultimi saluti della Luna, ironici, mettevano fra lui e la tastiera una risata candida di fiume africano che cento elefanti bevessero con proboscidi d’argento russanti come canne d’organo.

—Bisogna che la Primavera scoppi nel pianoforte. Mi sento nel sangue, e anche voi, cari mutilati, vi sentite nel sangue una Primavera diabolica, mille primavere equatoriali. L’Africa mi divampa nelle gote e arroventa il mio mento! Se non fosse d’argento sarebbe già liquefatto!

I mutilati intorno danzavano tutti, tutti, alcuni sulle mani e sui piedi come orsi, altri sulle stampelle, altri in bilico su un piede. Altri si rincorrevano come belve nei cespugli.

Fuori sulla terrazza, uno più ebbro degli altri, sull’altalena, abbracciato con una donna seminuda volava volava inargentandosi in alto di luna tra i fogliami. Certo un soprannaturale sciampagna li esaltava. Anche le donne erano impazzite. Una vergine bellissima si spalancò così a pochi metri di distanza, fra due rosai, al desiderio feroce d’un alpino, che, mutilato delle due braccia, realmente le mangiava di baci il viso, imprimendole il suo amore fra le poppe coi colpi reiterati del suo petto.

Un’ora dopo sulla soglia del Casino paradisiaco io gridavo ai miei amici:

—Male molto male! Siamo realmente avvelenati, avvelenati di chiaro di luna. Occorre immediatamente una sana furente bevanda di Velocità. Cento strade succhiate! Andiamo a Chiavari a tutta, tutta, tutta velocità. Sarà meglio di una corsa, un tuffo.

—Ah! ah! gridano tutti, ci sono però i passaggi a livello, carri, carrette, cani e marmocchi.

—Macchè! Tutto dorme ancora, scavalcheremo ogni ostacolo, saremo una ventata di ferro, proiettili, folgori, non lasceremo respirare il pericolo, strozzeremo la morte nel suo letto e capriolandole sopra le pizzicheremo i piedi senza morire!

Tutti in macchina. La mia 74 in testa. Padroneggio elasticamente il volante. La mia 74 ne gode. Corre, corre con lunghi brividi. Ronza il carburatore felice. Le candele sono eccezionalmente pulite. Ritmo perfetto. Martelli deliranti di precisione gioiosa. Sento nel cambio di velocità gli ingranaggi amoreggiare come labbra. Unirsi. Volere. Scorrere. Scattare. Forza vellutata. Velluto in delirio. Dolce aggressività delle ruote. Pneumatici danzanti aerei. Gas addomesticati disciplinatissimi, pronti a tutto, perchè si corra, corra, corra, corra un correre di corrente modulatissima oliata ebra di correre, quasi liquida e pur metallica, leggera e non di meno prensile. Docile alla strada ma come un maschio che imponendo sembra subire il ritmo della femmina beata. E’ beata di ricevermi la strada che si sbianca nei brividi delle prime luci spasimi sotto le ombre massicce delle montagne lungo l’ampio sussurrare del mare pieno di giochi di gatti bianchi che miagolando rincorrono a zampate, spruzzi di baffi rimbalzanti nel refe argenteo rapito alle vele della Luna. Correre, correre tuffandosi nella vegetazione nerissima.

Trapaniamo forse la midolla nera della notte?

Balza fuori la mia macchina. Oliatissima morbida mia carezza nel grembo di questa valle. La luce cresce come se colasse fuori dal mio motore cuore arroventato.

Ecco un altro tuffo nella penultima galleria... Interminabile... Mi pare di essere nel collo ebro, premuto, scoppiante di una smisurata bottiglia d’alcool. Il mio motore tira bene, bene. Esce, esce, escirà, deve escire! Sto sturando la bottiglia della valle lunga e nera con la pressione dei miei pneumatici-pollici che non cedono. Il cavaturaccioli è fortissimo! Forza! forza! Viene. Forza! Ecco!

Scatta in alto, il tappo rosso, Sole! Tutta la campagna colli, valli, mare spumeggia di luce bionda. Corriamo, scorriamo schiumeggiamo anche noi inaffiatissimi di rosso oro vaporante nel buon odore del caucciù che sa di pane caldo. Divino spettacolo allietatore. Il sole che fu un istante il tappo allegro ora diventa l’enorme faccia tonda e gonfia del bevitore. Faccia calda di metallo in fusione con sale, iodio, bromo, congestionata e gioviale.

Il Sole ha un nuvolone nero fumante fra i denti e lascia cadere giù il mare come una colata verde schiumeggiante di bava. Forte riflusso delle sue risate fragorose fra i pomodori degli orti e nel sangue dei nostri cuori che vincono definitivamente in salute i pomi d’oro delle Esperidi idiotissime sconfitte.

IX. IL DEPOSITO FA SCHIFO

Genova è in festa per l’American-day. Suono di trombe, folla, folla, folla. Balconi riboccanti, vasta primavera dilagante di toilettes femminili, scugnizzaglia sospesa sui capitelli.

S’avanzano gli inglesi. Elegantissimi. In testa un giovane tenente dandy con lo stick sotto il braccio. Furoreggia la banda Americana. Come un bambino gioca il capobanda issando in alto il lungo bastone d’argento. Più volte lo fa piroettare e intorno a sè lo mulina come per vestirsi di veloci ruote d’argento. Poi lo punta davanti imitando lo stantuffo. Il sole d’Italia squilla, scatta, rimbalza sulle trombe d’alluminio, si affanna a lucidare e abbellire quel popolo venuto attraverso l’oceano dal lontano pacifismo per fare anch’egli la guerra in nome della libertà minacciata. Il sole polemizza coi pacifisti anch’egli verniciando di giustizia vendicativa la primavera sanguigna dei Cow-boys.

Passano fra le due ali di popolo pigiato, variopinto che schizza bambini tra le maglie dei carabinieri. La strada è vuota.

Sono le Forze invisibili che la mantengono così vuota sotto la pioggia di fiori, fiori e cuori che cadono dai balconi.

Le Forze impongono a tutti un’incosciente ammirazione per le virtù guerriere e per l’eroismo prossimo-sicuro di questi nuovi soldati aggiunti a tanti altri impiegati laggiù al nuovo mestiere indispensabile di cannoneggiare.

Gli americani hanno l’aria di soldati improvvisati. Passo elastico dei pelli rosse. Questi lottarono nel Far-West per la loro libera razza perseguitata. Quelli imitano in Europa la spavalda e scattante agilità cauta, vellutata dei pellirosse fra le liane e nelle alte erbe.

Seguiamo la sfilata degli americani ordinatissimi, visi radiosi. Zampilla dai loro passi un ritmo di Cake-walk. Poichè sono sensibilissimo e il mio cuore subisce i pizzicati della mia immaginazione visionaria, io vedo in sogno le grandi masse americane rimescolate da sentimenti europei nei vasi capaci delle ampie città lontane. Vedo le masse americane canalizzarsi verso i porti, riempire gli enormi trasporti e in questo Waterland che contiene 12.000 soldati, traversare le lunghe monotonie astratte meditanti dell’Atlantico, poi colare come un fiume nelle città italiane e su, su ramificarsi nei budelli delle trincee sotto crollanti soffitti di ferro nella battaglia delle nazioni.

Ho un singhiozzo alla gola nel partecipare lucido e cosciente col mio corpo di soldato e il mio cervello faro onnipresente a questa fusione storica nel crogiuolo europeo.

Nella arena vasta si svolgerà una finta battaglia. Al centro un cinematografista è seduto comodamente come un pascià vicino al suo apparecchio mentre tutti sono in piedi militarmente. Simbolo del falso genio-letterato tipo Romain-Rolland che guarda, controlla e merita una bomba d’areoplano. Un fotografo punta la sua macchina sotto la seta nera lucida come una groppa. Sembra un toro, corna puntate e zampe posteriori aperte. O semplicemente un dannoso o inutile critico di strategia militare.

Una compagnia di allievi caporali italiani entra nell’arena. Allineamento perfetto. Geometria di linee. Tutti i torsi all’indietro come per tirare una fune. Tutti i torsi in avanti come per slanciarsi. Si vede il bianco dei polsini muoversi insieme, a distanza uguali, le braccia remare nell’aria con parallelismo stupendo.

Dieee-tro-front! fulminei, senza oscillazione, torniti. Ripiegamenti sui tacchi a gradi, a gradi, che sembrano arpeggiati e modulati come una risacca dolce sulla ghiaia. Flessuosità del movimento che dà a tutta la compagnia una snellezza precisa di onda.

Zazà, eroica e molto umana, abbaia d’entusiasmo per dimostrare che tutti gli esseri vivi amano i ritmi marziali.

Una risacca d’applausi annuncia gli Americani. Entrano e si dispongono su tutto il diametro dell’arena. Si tolgono la giubba e incominciano una meravigliosa ginnastica con ondulazione di alte erbe sotto il vento e relativi morbidissimi solchi scavati che gradualmente si chiudono.

L’entusiasmo è ancora ufficioso. Il sole esige uno spettacolo di lotta ed ecco pesanti e colossali i nostri artiglieri di montagna al tiro della fune cogli Americani. Primo strappo d’assaggio. Secondo più deciso. Al terzo gli artiglieri d’un colpo sradicano gli americani radicati patriotticamente nel terreno.

Il prorompente grido di Viva l’Italia fa impazzire Zazà che abbaia alla feritoia della mia 74. La finta battaglia incomincia con cannoni da montagna, muli e compagnie di mitragliatrici ci chiudono la strada. Ma la squadriglia passa trionfante senza far male a nessuno sotto i grandi fragori, fragori, rrrombi, rrrombi, rrrombi delle finte cannonate dei forti genovesi.

In alto, il Sole, gattaccio d’angora dal pelo d’oro, si lecca i baffi d’oro pregustando l’immancabile massacro di gran parte di quei giovani muscolosi e sani che sanno ormai anch’essi verniciare i propri istinti sanguinarii con nuovi ideali.

Il 24 luglio la folla genovese si accalca sul piazzale di S. Benigno intorno alla nostra 8ª squadriglia di automitragliatrici blindate. Tutte infiorate. Ogni comandante di squadriglia è ritto in piedi a 3 metri di distanza dalla sua macchina. Sono sta to incaricato dal colonnello di ringraziare con un discorso le signore genovesi che hanno organizzato la festa d’addio colmando di doni soldati e ufficiali partenti per il fronte. Meriggio infuocatissimo. Il porto di Genova è irto di raggi rimbalzanti poichè il sole infierisce sulle masse di carbone, pugnali brillanti.

I ventagli blu dell’alto mare non rinfrescano i nostri visi di bragia. L’esposizione di quadri e complessi plastici futuristi è stata accatastata alla rinfusa nel porto, col groviglio delle sue fasce coloratissime.

Flavia Steno parla in nome delle signore genovesi con sobria eloquenza, ma indugia troppo a descrivere le sofferenze eroiche e gli orrori della guerra che i miei soldati sono contenti di affrontare.

Il sole di lava comunica per invisibili tubature col mio cuore, vasi comunicanti. Il mio entusiasmo sale per raggiungere il livello dell’entusiasmo solare ed insieme porta su la sintesi luminosa dei problemi da risolvere.

Poichè le donne patriottiche d’Italia hanno il difetto di piagnucolare troppo, poichè le altre meno patriottiche si lamentano dei disagi imposti dalla guerra voglio parlare senza diplomazie alle donne Italiane, dimostrando che l’ambiente delle caserme e dei depositi è talmente asfissiante di cretinismo e vigliaccheria da mutare la trincea in paradiso.

Parlo con tono rovente nel silenzio radioso men tre le campane antiche sgonnellano su e giù come donne ubriache sull’altalena.

—Donne d’Italia, voi che sentite fervere nel sangue l’odio per il nemico ereditario da scopar via ad ogni costo, non compiangeteci. Noi, nuovi Italiani, ben più alti sereni eroici dei nostri avi, siamo allenatissimi alle sofferenze eroiche della guerra!... Dopo 20 giorni di vita rattrappita, grigia, strangolata e un po’ pidocchiosa di caserma siamo felici di partire. Compiangiamo gli imboscati che amano il Deposito, poichè noi, nuovi Italiani, dopo 3 anni e mezzo di guerra siamo senza stanchezza e pieni di ottimismo fisiologico e morale. Il Deposito sappiatelo, il Deposito ci fa schifo schifo, schifo!

Rumori, brusio, grande emozione nel gruppo degli ufficiali superiori.

—E voi donne, così dette Italiane, che piagnucolate sulla mancanza dello zucchero, non vi siete mai domandato nella vostra sconfinata cretineria se avete nella zucca il sale sufficiente per vivere? Ricordatevi che noi continuiamo e vinceremo questa guerra difendendo e salvando così non soltanto la libertà di pensiero e lo spirito del mondo, ma anche ogni elasticità e lo chic, al quale tenete tanto, dei vostri vestiti e delle vostre case contro il peso professorale, la goffaggine, la balordaggine grottesca dei tedeschi!... Ma indovino in voi più ghiottoneria che amore d’eleganza, tanto più che scocca l’ora di colazione. Per ringraziarvi dei vo stri fiori, o pseudo-italiane, vi porteremo tornando dopo la vittoria qualcosa che farà tacere finalmente i vostri pianti sulla mancanza di burro... Vi porteremo del buon grasso di cadavere austriaco, per le vostre tartine!... Arrivederci.

Evidentemente un alto e glorioso destino era riservato alla nostra ottava squadriglia. Dopo la grande vittoria del Piave 15 giugno il Comando Supremo preparò con perizia e con metodo l’offensiva generale predisponendo particolarmente le truppe celeri che dovevano fulmineamente lanciarsi nella prima ferita grave del fronte nemico. Le blindate costituivano coi bersaglieri ciclisti e la cavalleria queste truppe celeri, ma le tradizioni militari davano d’altra parte una importanza enorme alla cavalleria e una importanza minima e discutibile alle blindate. Nei circoli militari si negava la resistenza della blindatura non soltanto alle scheggie di granata, ma anche al fuoco delle mitragliatrici. Una volta colpiti i pneumatici cosa poteva fare una autoblindata? Come utilizzarne la velocità in caso di strade rotte e di guadi?

Tutte queste obbiezioni pesavano su noi, mentre le Forze predisponevano tutto in favore della nostra tipica e personale vittoria veloce. Infatti il 25 luglio giunge l’ordine di caricare su un treno tutta l’8.ª squadriglia. Risparmiamo così ogni sciupio alle nostre macchine che simili alle celeri Fiat dei grandi circuiti devono giungere vicino al campo di battaglia in assoluta efficenza. Portata a de stinazione la 8ª squadriglia sarà immediatamente sottoposta a una prova di allenamento in una serie di brevi manovre con cavallerie e bersaglieri ciclisti.

Il 26 luglio io monto col capitano Raby e coi tenenti Bosca, Paccagnella, sulla mia auto-blindata 74 caricata su vagone aperto nella stazione di S. Albania nel porto di Genova. Tutte le auto-blindate caricate sono infioratissime. Folle di donne bambine alle balaustre del passeggiatoio. Piovono fiori. Sventolio di bandiere. Squilli di trombe. Ma non è la solita partenza per il fronte. Ci sentiamo veramente l’anima di meccanici e volantisti intorno ai motori terrestri o aerei destinati a vincere un record pericoloso, decisivo. Quando però la locomotiva fischia e il lungo treno sovraccarico di macchine da guerra irte di mitragliatrici si mette in moto l’infantile, chiassosa, patetica sensibilità popolare della partenza per il fronte accende fulmineamente tutti. In equilibrio fra i 2 taglia-fili della mia 74 io divento in tutto simile ai miei soldati e lancio a gara manate di cuore alle ragazze che sbocciano fitte ai balconi.

Prima fermata lunga a Sampierdarena, sull’alto viadotto ferroviario fra gli applausi delle finestre affollate e dei panni colorati sospesi alle corde. Tocco quasi con la punta delle dita la punta delle dita appassionate di due sorelline che mi mandano baci con nome e indirizzo. Sono brune. Capelli pesanti come i giardini liguri. Occhi che riassumono i languidi spasimi del Mediterraneo notturno. Labbra ardenti come le montagne di Sicilia coronate di boschi incendiati nei tramonti d’agosto. Denti bianchissimi e precisi come le casette strette tutte in fila bianca in fondo alle rade italiane quando si giunge sopra una nave veloce all’alba. Le due sorelle si chiamano Augusta e Vittoria. Mando loro i miei baci, ma vorrei berle poichè le sento fresche, colorate, ardenti e salate come due sorsi del mio Mediterraneo.

La mia anima futurista attraverso mille balzi elastici ha raggiunto la sua più divertente e sana trasfigurazione. E’ diventata l’anima d’una recluta di 20 anni.

X. VITA DA COW-BOYS

—Per Iddio! Aspettare ecco la vera angoscia di questa guerra! Aspettare gli ordini, aspettare le manovre, aspettare l’offensiva. Ora siamo a riposo in una brutta fattoria perduta nell’immensa pianura paludosa... Per quanto tempo? Aspettare non vuol dire riposarsi. Se fossi a Milano o a Roma farei almeno dell’utile propaganda. Qui non si fa nulla. Per fortuna il nostro cuoco è veramente meraviglioso!

Parlo ai miei compagni dell’8ª squadriglia, tra monumentali paste asciutte sanguigne sotto la lampada fumosa assalita da tutte le farfalle di una afosa sera di agosto.

—Io, dice il tenente Volpe, rimpiango la mia caccia e la mia pesca.

Volpe è un ligure magro, asciutto, quarantenne, agente di cambio e viveur, furbissimo, pratico. Ma si sente che al denaro e alle donne preferisce in realtà il piacere originario della sua razza.

—L’ultima mia pesca, che bellezza! Con tre amici in un guscio bene equilibrato. Al largo di Genova calma perfetta... Una luna enorme che sembrava una torta... Otto rematori con dei remi lun ghi, lunghi. Acciughe, acciughe, acciughe; a manate, a palate. Tonnellate di acciughe. La barca era tutta piena di argento. Otto tonnellate, 9 mila lire! Affondavamo quasi sotto il peso. Il bordo sorpassava l’acqua di 10 centimetri. Attenti! non imbarchiamo acqua per carità!... Ma a me piace anche la caccia. Andavo ogni anno sul valico del Turchino. Uccelli d’ogni specie. All’alba si vedevano venir su col vento di tramontana... Sono lenti, sembrano tirare il carretto per superare il valico.—Passano a un metro dalla testa.—Non bisogna tirare quando vengono su. E’ questione di calma: tu li lasci passare, poi ti volti e pam, pam, una botta nel culo. Te li vedi venir giù, a due a due. Se tiri prima che siano passati, quelli che seguono scappano via.

Il tenente Sacco ragazzone forte pieno di orgoglio infantile, figlio di papà. Viene dal corpo degli automobilisti. Vuol passare per un conoscitore di donne. Fiero di aver goduto qualche libertà e qualche cocotte. Attacca ironicamente il tenente Lattes israelita pallido, occhiali, poca salute, intelligente tipo di lavoratore, sensualissimo, goloso, furbo, mellifluo, un po’ strisciante.

—L’amico Lattes, dice Sacco, rimpiange il suo imboscamento di un anno al comando supremo.

—Taci! tu hai fatto la guerra molto meno di me. Ti dai delle arie da viveur per due o tre prostitute dei Portici Po...

—Io non sono stato giolittiano e neutralista come te, e leccapiedi di tutti i professori germanofili. Dove eri nelle giornate di maggio?

—E tu, dove eri?

—Io, risponde Sacco, era ancora un ragazzo, ma almeno mi divertivo con fior di mezzi.

Risata generale. L’espressione fior di mezzi suscita una ilarità irrefrenabile. Il tenente Paccagnella, effettivo, bel ragazzo snello, elegante, viene dal corpo dei mitraglieri, già ferito due volte. Un po’ effeminato nelle mosse. Interrompe annunciando che fra due giorni cominceranno le manovre con la 1ª divisione di cavalleria e i bersaglieri ciclisti per prepararsi alla grande offensiva prossima.

Il capitano Raby a capo-tavola ride ironicamente. Ventisei anni, grassoccio, tende alla pinguedine. Mangia poco ma ne soffre perchè ghiotto. Faccia quadrata, grassa, piccoli occhi; tipo di turco.

Se avesse il fez! Pigro, molle, dorme molto, intelligentissimo, però. Nasconde evidentemente delle riserve di energia preziosa. Ha inventato un motore a scoppio senza cambio molto semplificato. Grande memoria, sa quasi tutto. Crede fermamente nella teosofia, vuole spiegare tutto colla gradazione teosofica delle vite. Ufficiale effettivo di cavalleria. Dice:

—Io non credo assolutamente nella cavalleria come truppa celere, utile. Non credo nelle tanks data la canalizzazione del Veneto. Ho comandato per due anni le autoblindate, a Gorizia e durante la ritirata, e ci credo. Se potremo slanciarci avanti coi bersaglieri ciclisti faremo cose grandi. Tutto al più qualche plotone di cavalleria per collegamento fuori dalle strade. Possono evitare gli accerchiamenti.

Il piccolo Bosca entra nella sala brandendo una bottiglia di moscato.

—Altro che cavalleria! ci vogliono donne, donne per prepararci!

E’ dimagratissimo dagli innumerevoli infortunii sul lavoro erotico. Corpo esile fragilissimo, ma grande forza nervosa e volontà. Intelligente, pratico, attivo, coraggioso e assetato di cocotte.

Il capitano annuncia:

—Domani andremo alla messa di Bevadoro per valutare il bel sesso dei dintorni.

Sigarette e sigari in bocca usciamo tutti nella calda notte d’estate che si sprofonda incalcolabilmente su l’incalcolabilmente vasta pianura. cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra

Polifonia oceanica di rumori, scatti, tonfi. Rane. Rospi. Officina filanda di scricchioliii organizzati cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra.

Tutti i rospi della terra lavorano al tornio 3 miliardi di granate nere per bombardare di nero tradimento-terrore-ironia la troppo bianca lirica spasimante luna fiduciosa che nasce a sinistra. Dietro di noi la fattoria massa nera calda fende col suo tetto-prua il dilagaaante fresco oceano lunare di rumori odori argentei fieri acri.

Sssssssssssssssssiiiiilenzio lunare.

La luna soffia a gote bianche piene nel suo megafono di raso bianco per imporre il ssssssssiiilenzio. Taaaaaci! Vieeeeeni! La notte è attentissima a tutti i rumori. Alziamo la testa e incensiamo colle nostre sigarette la via lattea.

Via lattea, muta rivolta di caratteri tipografici. Polvere di rumori già uditi... pinpinpinpindipingere... punpunpunpungere. Punteggiatura. Ritmo di telegrafo Morse. Stelle parole telegrafate d’amore o di guerra: 200.000 uomini di riserva!... Presto! ad ogni costo! chiudere il varco del fronte... e del cuore che muore!

La notte è attentissima a tutti i rumori. Bau bau bau della passione folle asmatica. Chi è chi è che abbaia? Quel cane o il mio cuore? Irto erotismo che abbaia verso la vulva soave colma di latte tenerezza, la luna. Bau bau. Hoooo pau pau pauraaa di non averti sotto le labbraaaa in questa notte spaventosamente vuotata dalla tua assenzaa.

L’abbaiare del cane sveglia in alto a sinistra la costellazione dello Scorpione, smisurato dinamismo inchiodato. Lo Scorpione spara le sue stelle di punta che sembrano rumori di guerra: pan! in alto. Ta-pum! più giù. Poi pan! Ta-pum! in fondo all’orizzonte.

Ti ti ti ti ti ti ti ti ti d’insetti.

I volumi degli alberi setacci di rumori si sfasciano sotto la pasta dei rumori. Catalogare tuttiiii rumori presto, presto impacchettarli e spedirli a volo ai lontaniiisssimi silenzi affamati di rumori.

Il cielo nero è un orecchio infinito circonvoluto, circoncanalato, contatore di rumori. 3 miliardi, 6 miliardi, 9 miliardi di rumori!

Le acque veggenti copiano, copiano, azzurri copialettere della notte attentissima.

La costellazione dello Scorpione è una muta fucileria di stelle, sparate contro il lontano ma prossimo Sole. Ma se ne infiiiiischia laggiù la locomotiva di quel treno di guerra che corre stringendo nella sua pancia sotto le sue mani di grasso fumo il rovente Sole imbavagliato che urla lunghe griiiida rosse disperatissssssime e trionfali di fuuuuufufuoooocooo.

La chiesa di Bevadoro puzza come una stalla ed è piena di contadine che hanno un odore forte, belle vesti a colori. Alcune zoccolanti. Altre fruscianti in calze di seta e scarpini.

Siamo seduti sul primo banco. Don Luca, prete di Bevadoro, rude sessantenne, abbronzato, ha due piccoli ragazzini di otto anni che servono la messa. Sembrano ammaestrati. Don Luca fa un cenno e il primo ragazzino gli solleva la tonaca nera. Subito l’altro ragazzino tira fuori dalla tasca della sotto-tonaca un vasto fazzoletto giallo e lo pone nelle mani aperte del prete. Queste soffiano tre volte rumorosamente un gran naso rossastro poi si ricongiungono. Il fazzoletto ripreso automaticamente dalle mani alzate del secondo ragazzino sparisce nella tasca. Allora il primo ragazzino lascia ricadere la tonaca. Don Luca comincia:

—Dunque oggi vi parlerò dell’Immacolata Concezione... Taci, Giuseppino, fa silenzio! (rivolgendosi a un moccioso). Come vi dissi nella predica precedente, i profeti avevano annunciato che una vergine di Galilea... Mariettin! sì, sì, te. E’ una vergogna venire in chiesa così scollata per eccitare i soldati! (rivolgendosi a una ragazza che arrossisce, Don Luca scende fra i banchi e le tira l’orlo della camicietta). Sei una sgualdrina! Dunque i profeti avevano annunciato che una vergine di Galilea sarebbe stata scelta come sposa da Giuseppe il falegname, e divenuta madre pur rimanendo immacolata, avrebbe dato la luce al divino bambino Gesù. Ora è in Paradiso. Come la vostra vacca nella stalla è circondata da tante mosche, così la Beata Vergine è circondata da tanti angeli nel paradiso. Tantum eeergooo! Silenzio!... Quest’anno ha tempestato. Non verrò a raccogliere l’uva nelle case. Quelli che vogliono portarmela vengano coi canestri nella canonica. Sacrameeeentuuum!

Don Luca fa poi un primo giro di questua tra i banchi della chiesa. Ma davanti al primo banco tira con ostentazione dal portamonete due soldi e li fa cadere rumorosamente nel piatto.

Fuori, un vecchio contadino che ara un campo mi dice:

—Eravamo 14 uomini in famiglia prima della guerra, e coltivavamo 83 campi. Oggi tutti gli uomini in guerra e poche donne qui.

Poi riprende a pungolare due vacche e 6 buoi aggiogati che tirano l’aratro.

—Valaa Furboon. Haa le vacchee! Rombon canaiaa. Bigioo valaaa. Vaacheee vaacooon ve beee.

Una contadinella quattordicenne ma già forte, muscolosa impugna le stanghe dell’aratro pesando sopra col busto in avanti. E’ graziosa. Con civetteria mi guarda voltando la testa all’indietro. Mette in rilievo le natiche e mostra con scatti abili delle belle gambe nude e rudi cuoiate dal sole. Le domando perchè le due vacche sono aggiogate in testa. Mi risponde:

—Per segnà la strada.

Fffuuu fffuuu fffuuu fffuuu dei fiati bovini

Tlin trac tin tin tliiiin di catene e gioghi.

Sono coricato in un solco; intorno a me corrono, battagliano i tre cani della squadriglia: Zazà, Nick e Kim. Kim è un foxterrier bastardo con muso da levriero dolce, stupido incoscente, ragazzaccio. Vuole fare tutto, andare da per tutto, velocissimo ma senza coraggio. Nick puro Ruffterrier tipo di uomo sanguigno ambizioso e prepotente, avventuroso, rissoso, indipendente. Poche idee. Pochi odii violentissimi. E’ un po’ pazzo. Fa una maffia elegante di balzi arcuati, pomposi, inutili su delle alte erbe imaginarie. Morde tutto. Insegue anitre, oche, galline, mosche e farfalle. Si tuffa in tutte le pozzanghere; poi si ricorda ad un tratto di Zazà e le fa una corte spudorata, brutale. Zazà si dà delle arie di cacciatrice di topi. Scava buchi e fruga in fondo per cercarvi delle talpe, corre velocissima ma si stanca presto. Fa la cura delle erbe. Golosa, intelligentissima e artista.

Quando scoppia una rissa tra il suo adoratore Nick e il grosso bracco della fattoria, Zazà si sdraia per assistere. Spesso abbaia per annunciare a Nick il bracco nemico e aizzarli.

Kim ama anche lui Zazà, si slancia e la rovescia. Zazà rotola sotto, poi scatta e morde Kim che fugge, ritorna. Addosso a Zazà che rotola regolarmente. Nick disprezza Kim. Ma se il bracco assale Kim, Nick con spavalderia di uomo atletico, interviene feroce.

Monotonia, monotonia del sole operaio che cuoce i germi delle viti, sguinzaglia i tafani sulle groppe dei buoi, accende pruriti nella carne di quella contadinella, arroventa il dinamismo giocondo dei tre cani e gonfia il mio petto d’un’ansia soffocante di amore e di guerra. Vita da cow-boy. La nostra fattoria di Barchessa immobile, sola come una nave sul mare infinito delle pianure. Tutto il giorno senza giubba, piedi nudi nei fossi pieni di lucci, anatre, oche. Lucertoliamo al sole.

A schiena nuda sento ramificarsi sulla mia pelle il cervello di Fabre formicolante d’insetti attivissimi in guerra. Intorno, le pianure vastissime, aperte, senza alberi partono a grande velocità lontaaano verso le radici del Grappa che si copre talvolta di nuvole e ribolle di cannonate ovattate. Questo è certo un bombardamento più feroce di tutti i precedenti. Ogni sera il Grappa si incorona di vampe convulse.

All’alba erro nell’immensa pianura semi-allagata.

Nick, Kim, e Zazà mi accompagnano. Sono divertentissimi. Ma Nick sempre più innamorato di Zazà diventa insopportabile. Quel bellissimo cane tutto muscoli scattanti è, come tutti i cani di razza, un mediocre assalitore di femmine. Tenta, tenta, ritenta. Zazà si presta con mille grazie e abilità impudiche. Nick non riesce. Lingua fuori, esasperatissimo, continua anche lontano da Zazà il movimento convulso della schiena. Io lo sollevo ogni tanto per la piccola coda dura come per un manico e lo tuffo nei fossi per rinfrescarlo. C’è invece un altro pretendente di Zazà, sempre in agguato a 50, 100 metri in giro davanti una siepe o nell’erba. Piccolo cagnolino bastardissimo nero con enormi orecchie da vampiro. Ghiandusso che lo ha dichiarato austriaco lo rincorre a pietrate. L’odiato pretendente sparisce ma 5 minuti dopo eccolo a pochi metri incollato a Zazà. Tutti addosso. Guaiti, lacerazione, fuga.

L’altro giorno avevo Zazà al guinzaglio. Sicuro, non sorvegliavo. Ad un tratto doppio peso al guinzaglio. E’ lui, incollatissimo. Devo piantargli il piede sul muso per sturacciolar via la mia cagnetta. Evidentemente il piccolo bastardo è un amatore fulmineo.

Mentre le mie scarpe ruminano, brucano e masticano l’erba rasa, penso che tutti gli erranti pa stori e cow-boys delle pianure americane portano nel loro corpo rimpicciolito dall’opprimente avviluppante Infinito, una minuscola rosicchiante ossessione oscena o una miserabile rapacità finanziaria. Essi non godono come me la vasta fusione dell’idea di spazio e dell’idea di tempo fra il sciiivff sciaaff dei piedi nella terra molle e pantanosa. L’abitudine delle vaste respiranti, dilatate, pianure toglie loro ogni curiosità e ogni amore per i cieli, le nuvole, le stelle e le polifonie degli insetti. Io che noto tutto, valuto, catalogo ogni sensazione letterariamente, mi sento naufragare a poco a poco nell’incoscienza dei pastori erranti.

Ma il capitano Raby mi sorprende in una di queste meditazioni e mi invita ad accompagnarlo a Padova, dove si reca a vedere un suo compagno morente all’ospedale. Ecco la divina velocità, maestra d’ogni energia e d’ogni lirismo, furente inaffiatoio di varietà sorprendenti. Mezz’ora dopo entriamo all’ospedale. Atmosfera tragica e storia ancor più tragica di questo giovanissimo ufficiale di cavalleria che prese la sifilide a Pinerolo, si curò col 606. Apparentemente guarito tornò a Pinerolo, vi prese una blenorragia.

—E’ entrato pochi giorni fa all’ospedale, mi dice il capitano Raby. Ha delle febbri misteriose, dimagra. Avant’ieri l’ho trovato con un braccio al collo. Mi raccontò che nell’agitare il termometro si era rovesciato completamente il pollice contro l’avambraccio.

Entriamo nella sala. Il maggiore medico ci dice in fretta:

—E’ morto stanotte. Ha le ossa disfatte e disgregate dal 606.

Ci avviciniamo al cadavere. Non si può resistere dal fetore. Dal naso esce una materia verdastra e delle grandi bolle che scoppiano emanando un odore di putrefazione avanzata. Il maggiore dice gravemente:

—L’uomo ha trovato due sole medicine: il chinino per la malaria e il mercurio per la sifilide. Gli antichi greci, persiani, indiani, cinesi frizionavano il corpo sifilitico con una pomata mercurale. Abbiamo fatto pochi progressi. I giovani in genere non resistono al 606, le loro ossa sono troppo fragili, si sfasciano, vedete.

26 agosto, sveglia dolorosa alle due del mattino.

Incominceranno all’alba le grandi manovre tra il Bacchiglione e il Brenta per prepararci all’avanzata tra Piave e Tagliamento. Saremo coi bersaglieri ciclisti in testa al primo corpo d’armata d’assalto sotto il comando del generale Grazioli. Ore tre, in macchina. Lotta tra la luna quasi piena che investe gli alberi coricandone le ombre lunghissime e i fanali delle blindate. Queste squassano, sfasciano sventolano le loro ombre nerissime geometriche. La campagna si gonfia di pulsazioni scoppianti di motociclette. Freddo. L’interno delle auto-blindate che diventa un forno al sole è, questa notte, una gelatiera. Un side-car con fanale bianchissimo che ci sorpassa sembra un pezzo di vita intima invernale strappata a un castello da un vento pazzo. Fantastica fuga d’una poltrona con relativo sedentario, le gambe prese nella coperta, davanti al fuoco del camino.

Le truppe si concentrano in un immenso prato di monte Galdella, orlato di squadroni di cavalleria. Si indovinano i cavalli sotto gli alberi. Fiati, fiati di fieno, sterco, piscio, acri ammoniacati mordenti. Agitazioni di groppe e code sventaglianti. Nel buio sfilano le colonne di cavalleria. Ci accodiamo alla terza. Il corpo d’armata d’assalto ha il compito di rastrellare il terreno conquistato da noi e stabilire le prime linee difensive.

Corteo lentissimo. Davanti a noi i cavalleggeri al trotto si fermano e mandano pattuglie in avanscoperta. Ci fermiamo, poi lentamente avanti. Caldo nauseante di olio bruciato nella mia blindata chiusa. Il rumore del motore con nota d’organo ostinata mi dà sonno. Apro lo sportello per non dormire. Una strada di campagna ci beve nel folto dei suoi fogliami. Ingombro di batterie da montagna someggiate con muli. Un reparto d’assalto fez neri. Arditi che sembrano scolaretti in ricreazione. Scapigliamento disciplinato. Si addensano, precipitano la marcia. Passo più che bersaglieresco. Violenti, velocissimi con maffia gloriosa. Penso all’assurdità delle manovre, cretine in tempo di pace poichè comandate da ufficiali invecchiati in caserma e imbelli; cretine in tempo di guerra poichè gli ufficiali che le comandano sono quasi tutti feriti e perciò svogliati dall’assenza del personaggio più importante: il signor Pericolo.

Siamo di punta coi bersaglieri ciclisti in contatto silenzioso col nemico. Un razzo enorme sfascia il suo fuoco nel cielo. Sono gli arditi che indicano al comando il punto estremo conquistato. Giunge a cavallo un maggiore affannato. Con voce rotta dall’emozione dice al generale:

—Vi è un tiro di artiglieria infernale sulla nostra destra. Minaccia di accerchiamento. Bisogna ripiegare. Ritirata.

Le sue parole spaventate (da chi?) e i suoi gesti tragici sono di una comicità sublime in questo silenzio quasi assoluto che trasuda il bisbiglio degli uccelli negli alberi soffocati dal caldo quasi torrido di questa aurora d’agosto. Penso che se i reparti d’assalto colla cavalleria e le blindate s’infischiassero eroicamente di questo tiro d’artiglieria infernale non ci sarebbe proprio bisogno di ritirarsi. Tutto dunque dipende dall’accoglienza che noi faremo al signor Pericolo. Le manovre servono soltanto a stabilire qualche servizio logistico e a distribuire medaglie!

Ore tre del pomeriggio. Riprendo la manovra nella mia blindata tropicale. Innumerevoli errori. Il generale temeva quel punto fosse battuto dall’artiglieria. Non è così. Vi sono solo delle mitragliatrici. Due maggiori dichiarano che le mitraglia trici sono 12. Invece sono due. Constato una volta di più che la nostra razza è legata alla improvvisazione e alla realtà. Non crede negli esami preparatorii, non ama le finte, risolve tutto quando l’esame finale è decisivo.

Vado avanti colla mia blindata e un plotone di cavalleggeri appiedati, baionetta inastata. Mi seguono curvi in fila, defilandosi dietro la mia blindata che rincula con la poppa armata di tre mitragliatrici. In fondo la strada è sbarrata da 2 mitragliatrici coperte di fogliame. Un giudice di campo mi dichiara che non posso fare nulla. Io punto colle due mitragliatrici le due avversarie.

Un capitano dei bersaglieri ciclisti insorge.

—Guardi che le mie due mitragliatrici sono puntate e la strada è sbarrata.

Rispondo:

—Le mie sono puntate e blindate. E’ mezz’ora che io inseguo i suoi bersaglieri. Lei non ha avuto il tempo di fare lavori di sbarramento. Del resto mentre io la mitragliavo i miei uomini hanno tolto tutti gli sbarramenti.

—Non è possibile.

—Il giudice di campo deciderà.

A 50 metri da noi, altro dialogo tra due reparti avversari.

—Lei con le sue mitragliatrici è fuori uso.

—Io considero prigioniera la sua sezione.

—Se vuole, si accomodi, signor capitano!

Mi consolo dell’ironia scoraggiante e del caldo tropicale con l’ammirare una giovine mugnaia in rosa ritta sulla chiusa d’un mulino con un orinale azzurro nella mano destra. Beve estatica il tapaplum tapaplum di 3 cavalieri che galoppano sotto il ta-ta-ta-ta di una mitragliatrice innocua, a salve.

Ssssssssssss della limpida vasta gomma di acqua convessa dell’affioratore. Gonfia gelatina trasparente che contiene tutto il sapore dorato dell’agosto. Cristallo mobile che porta l’immagine precisa della mia blindata.

Rrrrrrr d’areoplano in cielo. Un fascio di sole fuor delle nuvole investe una bandiera azzurra alla finestra d’un cascinale.

Passa un cavaliere con una bandiera rossa e bianca nello stivalone.

Davanti, il prato è una fusione di smeraldi. Quattro bambini pastori. Si chiamano forse Rosa Italia, Ninette France, Nik Wilson, John Bull. Sorvegliano 2 groppe enormi cubiche: un toro cieco che si chiama certamente Berlino, una vacca elegante magrissima che si chiama senza dubbio Vienna.

Mascelle: bruuc bruuc bruucroff bruucroff.

Fiati: fuu fuu.

Code incensieri e code ventagli contro le mosche

Turutuum turutuum di cannonate sul Grappa.

Tuf tuf tuf tuf tuf della mia autoblindata.

Tuf—tuff—tuff della lavandaia che sbatte e sciacqua quei panni forse bende insanguinate nel fosso d’oro blu.

Blu blu blu blu blu di tacchine berlinesi e romantiche.

Plaaff plaaff di sterco di vaaacca vaaacca.

Valaaa bireee vekiii moreee.

Bruuc bruucrof.

Zzzzzzz di mosconi tedeschi che tornano zzzzzz insistono zzzzz pungono metodici, filosofici. I 4 bambini pastori giuocano colla palla di caucciù solare che rimbalza sul prato verde.

John!... Wilson!... France!... Italiaaaa!...!

Da tre giorni l’intiera 8ª squadriglia si esercita al tiro della mitragliatrice. Mentre crediamo poco nella collaborazione della cavalleria in caso di celere offensiva abbiamo grande fiducia nelle nostre auto-blindate. Si lavora energicamente sotto il sole tropicale che trasforma la mia 74 in una vera scatola di cottura.

Ricordo di aver per il primo nella mia Battaglia di Tripoli paragonato la mitragliatrice a una donna seducentissima perfida capricciosa e crudele con la sua lucente cintura di cartucce. Trovo ora che l’immagine è precisa specialmente se si tratta di caratterizzare queste nostre mitragliatrici S. Etienne vendute dalla Francia all’Italia, più parigine e più femminili di ogni altra mitragliatrice, più passionali e più perfide. La mitragliatrice S. Etienne è un’arma perfetta, ma esige cure tali da stancare qualsiasi amante devoto. Sarebbe docile e continua, se ben fissata sul candeliere in terra. Ma soffre di affacciarsi alle finestre troppo strette della blindata. Non ama gli scossoni polverosi del la velocità, esige una oliatura leggerissima, dirò meglio una toilette da Istituto di bellezza. Altrimenti si inceppa, mastica le cartucce invece di spararle e si ingombra lo stomaco colla polvere.

Brutto affare sentirsi accerchiati mentre la S. Etienne ha le bizze. Il mio sergente ha svestito interamente una delle due S. Etienne in cupola. L’aiuto, seconda cameriera affaccendata intorno al corpo della dama che andrà al ballo. Eccola rivestita. Spara; poi di nuovo si inceppa. Il mio sergente bestemmia:

—Accidenti, ora fa la matta! Questa stupida non ama l’olio!

Si soffoca nella mia blindata. Salto fuori per respirare pensando a un’altra donna che fa la matta nella sua ultima lettera. Si chiama Bianca, è bionda, fiorentina, sensuale, sta a Palermo, spera di incontrarmi a Napoli. L’ho amata, ma la sua natura bizzarra piena di svolte misteriose, sincerità e snobismi, calcoli e generosità assolute, mi esaspera specialmente ora in questo periodo della mia vita di guerra, inadatto alle complicazioni e ai diabolismi erotico-sentimentali. Sarei contento di non rivederla più. E’ una mitragliatrice graziosa, precisa, ma turbolenta e piena d’inceppamenti. D’altra parte, come incontrarla ora? Mi scrive una lettera assurda ponendomi l’ultimatum. Vedersi a Napoli o non vedersi più!

Il capitano Raby mi batte sulla spalla con queste parole inaspettate:

—Non posso andare ora in licenza, se vuoi andarci tu, puoi partire fra due ore.

Scatto di gioia e accetto. Questa gioia mi irrita. Sento che il fascino della mitragliatrice lontana mi domina, ma dico con tono strafottente:

—Caro Raby, grazie. Parto perchè non temo le mitragliatrici.

XI. LA MARCHESA CASATI E I BALLI FUTURISTI

In treno riepilogo le cose da sbrigare nella mia licenza: gruppi di giovanissimi futuristi da visitare, propaganda da intensificare, prima rappresentazione dei balli futuristi di Depero ecc. ecc. Dominano nella mia fantasticheria sonnolenta le figure di due donne: Maria, amica affettuosa e intelligente purtroppo influenzata da un marito professore germanofilo. La vedrò a Roma. E Bianca che amo un poco, molto, non so, desidero, odio, strangolerei o trascurerei, vedremo.

Mi ero proposto 4 anni fa di eliminare durante la guerra qualsiasi amore importante. Non tanto per gelosia, quanto per portare al fronte un’anima serena, spensierata e gogliardica. Vi sono riuscito a metà.

Nel compartimento vi sono molte donne. Il mio istinto le valuta. Una è coricabilissima, l’altra è coricabile, la terza è traversabile quando si ha molto freddo e molta noia nei nervi.

Davanti a me, la moglie un po’ volgare, ma bella bionda, sensuale un po’ cocottesca di un vendi tore di formaggi milanese. Seduto vicino, un tenente aviatore romano chiacchierone, gioviale, scherza invita tutti a dividere il suo cestino poi mangia parlando colla signora milanese:

—Stamattina, ho volato su Peschiera. Fui attaccato da un cacciatore austriaco. Subito l’ho contrattaccato, ma non ho potuto sbatterlo giù. Aveva un motore più forte del mio. Nel cielo di Torbole me ne sono venuti due addosso, di cacciatori austriaci. Ho dovuto tagliar la corda. Mi avevano forato le due ali come due setacci. Alle sette ero sulla piazza di Peschiera. Vedevo gli uomini sulla piazza...

—Oh! conosco bene Peschiera! risponde la signora milanese con una assoluta indifferenza per l’eroismo aviatorio. E’ una bella cittadina... Non butti via quel cestino. Servono molto i cestini per spedir la roba. In tempo di guerra tutto è buono...

La mia ironia assapora questo urto violento tra il cretinismo di una donna mediocre e la verbosità di un eroe nato per fare l’impiegato e proiettato in alto nelle battaglie aeree dalla guerra, questa miracolosa trasformatrice di valori umani.

A Bologna cambio treno. Nello scompartimento altro paesaggio umano:

Alla mia destra e davanti a me due commercianti ricchi fornitori di guerra.

Fingendo di sonnecchiare li ascolto.

Quello di faccia calvo, pancione dice:

—Che sole, al lido d’Albaro! Ci si sta bene. Co me a Napoli. Pesce fresco. Abbiamo passato io e mia moglie una giornata divina.

La moglie che gli sta vicino, grassa impellicciata, quarantenne, vecchia luna, approva col vasto seno.

—Se un affare mi va bene, mi prenderò in affitto una villa per l’inverno prossimo. Non capisco come si possa, quando si può, preferire di passare l’inverno nel fetido nebbione milanese. Ora c’è molto lavoro. Io quest’anno per il lavoro non ho fatto la campagna.

Penso che per questi imboscati il fronte temibile è Milano con la nebbia per nemico.

Senza rancore, continuo ad ascoltare.

Il mio vicino di sinistra altro tipo di fornitore di guerra, trentenne, magro, racconta con solennità:

—Siamo stati su, in montagna, sopra Pontedecimo. Una signorina americana colla sua brava licenza di carrozza pubblica ci ha portato dappertutto. Come guidava bene! Abbiamo scovato così su, su, in un piccolo villaggio del burro in quantità! Ne ho un pezzo nella valigia. A proposito, tu non sai che il bel Luigi è morto! Non si sa più nulla di lui. Abbiamo fatto tutto per sapere se era prigioniero. E’ certamente morto. Se avesse voluto! Dopo la prima medaglia ha voluto partire ancora! Già non è stato mai un giovane capace e serio. Faceva il bel giovane. Eleganza e donne! Suo fratello sì, che ha guadagnato dei soldi! Sua sorella è stata veramente fortunata, ha sposato un milionario!

Il primo fornitore risponde malinconicamente come parlando a se stesso:

—Io ho 4 vagoni di caolino fermi a Modane. Dall’Inghilterra! Cosa vuoi, nella mia fabbrica di porcellana tutto carbone, esclusivamente carbone! Noi non abbiamo come voi aria compressa e ventilatori. Per raggiungere certe calorie tutto carbone. Senza di che si cuoce lì bene e male là. Colla porcellana è così!

Il secondo fornitore:

—E’ un anno che io aspetto 80.000 lampadine elettriche dall’Olanda!... Sono 35 anni che lavoro con Bianchi. Ci si sta bene, un personale d’oro.

Mi addormento mescolando nel mio sogno il personale d’oro veramente tutto d’oro massiccio fantasticamente aggredito da 80.000 lampadine elettriche che gli scoppiano sulla testa. Traverso in sogno la fabbrica di porcellana con le pazze calorie equatoriali. Valico montagne di burro e mi sveglio a Roma nell’oro ricco, rovente, dorato di un sole pacifista di burro sontuoso.

Nella folla scorgo il poeta Mario Carli, capitano degli arditi ferito, ora direttore di Roma Futurista. Ecco Balla, veloce, paglietta con nastro a colori dinamici, cravatta di celluloide tricolore.

Abbracci. Entusiasmo. Sopraggiunge un gruppo schiamazzante di giovanissimi futuristi quattordicenni tutti affannati dalla speranza di partire presto volontari, tutti irti d’odio contro le isradicabili spie, il governo languido ecc...

All’Hotel Flora, una lettera di Bianca che mi aspetta a Napoli e una di Maria che mi aspetta a Firenze.

La sera vado dalla Marchesa Casati che desidera essere accompagnata da me alla prima rappresentazione dei balli futuristi di Depero.

La Marchesa Casati è uno dei nostri più originali prodotti nazionali. Questa milanese geniale ha saputo per due anni di seguito battere clamorosamente in eleganza eccentrica e in sbalorditiva creazione di bizzarrie e snobismi tutto ciò che di più originale, elegante, eccentrico snobistico conteneva Parigi.

Essa rimane la prova vivente che l’Italia se vuole può domani vincere anche il primato della moda Parigina. La Marchesa Casati è inoltre appassionata conoscitrice d’arte futurista, la difende e l’impone nella società romana. Sono meriti importanti che io particolarmente apprezzavo mentre l’Italia si valorizzava integralmente al fronte.

Suono al cancello della sua villa in via Piemonte. Il campanello fa subito accendere laggiù in fondo al giardino buio il lampadario della scala esterna. Paaak. Ripercussione magica in un ambiente predisposto agli stupori. La porta s’apre: servo negro bello in frak elegantissimo. Nell’atrio un odore chiesastico. Forse incenso? No. Piante marine. Profumo dolce, acre, selvatico che accentua la bianchezza carnale d’una statua mutilata nella penombra. Sono nella biblioteca a fondo oro vec chio: le lampade non rischiarano che i tappeti. Questi imbavagliano le voci del palazzo. Entra il servo negro. Mi tende un vassoio con due cok-tails. Se fossi vagneriano penserei ai due filtri d’Isotta. Prendo il mio, bevo: cok-tail eccellente, non troppo forte, fantasioso, tonico.

Ho nel sangue un ritmo africano sincopato e la ribalta accecante d’un caffè concerto.

Il negro scompare con l’altro cok-tail, secondo filtro per Lei!

Pausa. L’atmosfera ha delle intenzioni speciali. La turbo camminando su e giù. I miei scarponi enormi con speroni sono felici di stonare fra le delicatezze sornione delle luci striscianti.

Con un lampo-slancio entra Swift il levriere bianco che veloce si corica in tondo nella poltrona bianca, profonda. Ritmo freddo polare di calme astrazioni filosofiche. Swift sembra un cordame bianco per frenare le probabili vele di questa casa che naviga nel sogno.

Swift sembra anche un salvagente bianco.

Una larga cadenza musicale di profumi e fruscii annunzia il terzo ritmo: la bella Marchesa!

Saggia pazzia danzante aerea. La sua mano stesa. La sua voce chiara. Giovialità. Allegrezza d’alba primaverile. La prima impressione di naturalezza infantile centuplica i valori estetici della figura alta, agile, tagliente e pur flessuosa, inguainata e pure libera nel mantello di Paquin crespo di Cina nero con bordo infiorato di oro vecchio.

Non le vedo il viso poichè le lampade illuminano soltanto i tappeti.

La Marchesa apre un poco il mantello per offrire alla luce i suoi pantaloni turchi Calot in broccato oro vecchio orlati di pizzi veneziani. Ripete più volte il gesto di tirar sul seno una fascia d’oro vecchio che conduce giù i miei sguardi agli scarpini turchi oro vecchio con fibbia nera e tacchi alti madreperlacei. Ma le due mani che portano e sembrano rincorrere ciascuna due perle enormi sfiorano la parete e fanno scaturire altre luci da altre lampade cosicchè appare la faccia pallida e felina, una faccia di tigre sbiancata da un chiaro di luna intrepido.

Grandi occhi neri, lenti che fissano un punto poi un altro con le pause di un proiettore. Ricordo il proiettore italiano che dal monte Corada fissava dopo il lungo nostro bombardamento le trincee austriache del Kuk travolte, sfondate, impaurite nell’attesa del nostro assalto. Qui l’assalto è dato dai cavalloni convulsi rossi dei capelli che le incorniciano la faccia.

Ma la Marchesa non vuole dar l’assalto a nessuno. Ride, scherza, parla d’arte e della rappresentazione dei balli futuristi che andremo a vedere. La voce fresca e senza trucchi musicali contrasta col dilagare a ruota, a spirali, a volute degli sguardi muti. Questi sono pure sguardi naturalissimi, non vogliono nulla, nè fingono nulla, ma le occhiaie vaste e fonde contengono una involontaria magia di cerchi azzurri che si svolgono all’infinito.

Certamente quegli sguardi potrebbero essere fatali ad un inesperto navigatore di mari femminili. Essi sprofonderebbero intorno le pareti per creare la penombra verdastra carica d’insetti lussuriosi e veleni profumati delle foreste native. La marchesa è una milanese bella intelligente e immaginosa che ha saputo crearsi un’atmosfera equatoriale, selvaggia, dolce e truce tragicallegrissima. Sudan imbellettato in automobile.

La bocca è bella, prominente, ma poco civile. Mascelle graziose ma forti, da belva onesta. Le dimostro che nessuna donna ha mai avuto una distanza così grande fra le nari apertissime, mobili e le labbra. Risponde con una risatina a scatti, assolutamente inadatta al senso delle parole:

—Conoscete il mio pappagallo dell’equatore che si chiama Bra-cadabrà?

Nell’angolo buio un arabesco bianco, giallo, verde appollaiato stride:

—Bracadabrà, Bracadabrà, Bracadabrà.

Il grido del pappagallo lega i colori delle sue penne al rosso dei capelli della marchesa al nero degli occhi e delle nari, al rosso sangue della bocca e alla cravatta di celluloide bianca, rossa, verde dell’amico Balla che entra cantando:

—Bracadabrà, Bracadabrà.

Prima d’uscire la marchesa s’infila al dito mignolo uno strano anello che bilancia sospeso a tre catenelle un microscopico incensiere con un gra nello d’incenso fumante. Traversiamo una sala popolata da tre assiemi plastici di Boccioni in rissa con dei dinamismi violacei di Russolo e dei cicloni gialli di Balla.

Usciamo. L’automobile è veloce. Roma notturna: ruderi presi a rasoiate bianche dalle lampade elettriche.

La sala del Teatro dei Piccoli contiene molte russe agitate, zazzere pittoriche, occhiali passatisti di professori, signore romane magnetizzate dai titoli e dal cosmopolitismo, futuristi impazienti, veleni critici in bottiglia con la relativa testa da morto sopra, tutto il neutralismo elegante che si infischia della guerra continuando a mendicare un sorriso e un invito dalla principessa tale, dalla duchessa tal altra. Balordaggine snobistica, falsa intellettualità, smorfie pro e contro il futurismo.

Sono seduto fra la marchesa Casati e la principessa di Bassiano, americana gioviale semplice e intelligente.

Il pittore Besnard, illustre passatista, contende alla marchesa Casati una parte della curiosità bisbigliante.

Il quadro dei selvaggi enormi fantocci di legno a colori e forme sintetiche impone il silenzio. Aurora africana con balzi di colori. I mormorii di stupore fanno pensare alla musica degli insetti sulle paludi tropicali. Si soffoca dal caldo. Questo è accentuato da un’enorme selvaggia rossa che s’avanza sulla scena. Ha un petto-ventre quadrato che subitamente spalanca due sportelli e partorisce una piccola marionetta.

I bambini nella sala schiamazzano dalla gioia. Interrogo i figli della signora Giordana. Rispondono con entusiasmo che quelle marionette sono le più belle, le più vere, le più vive. Ora danzano incalzate dalla musica futurista di Malipiero, stramba, rude, originalissima. Il conte di S. Martino che mi stringe la mano calorosamente dichiara ad alta voce:

—Il vostro Depero ha molto ingegno. Non dimenticate, Marinetti, che io sono un futurista della prima ora, non rimorchiato. Ho assistito a tutte le vostre manifestazioni e ho sempre pensato che l’ingegno originale è tutto nel vostro gruppo futurista.

XII. UNA FESTA NAPOLEONICA

La sera dopo sono nel salotto di Donna Maria Mazzoleni. Ho una grande stima e una viva simpatia per questa signora italiana che sa mirabilmente vestire d’ogni grazia e d’ogni eleganza una vita energica attivissima integralmente consacrata al patriottismo concreto e alla pratica filantropia. Spirito largo senza pregiudizi e con spiccate tendenze futuriste, Donna Maria Mazzoleni ha saputo fare del suo salotto il ritrovo delle persone più significative e più originali della capitale: diplomatici, poeti, artisti, musicisti, inventori, principi indiani, celebrità del teatro, inaspettatissimi prodotti umani dell’estremo oriente, ufficiali eroici, vincitori di record mondiali e bellissime signore.

Questa sera non vi trovo che Missiroli, il pallido esitante indeciso ma troppo intelligente farmacista d’ogni ideologia. Spirito tutto a trapani inutili, a spaghetti senza sugo, cuoco accuratissimo di insipide preziosissime salse spirituali. Una di quelle tipiche sibille a rovescio, come io chiamo, i numerosi culturali falsi profeti che sbagliando sempre nelle loro profezie diventano involontariamente degli ottimi indicatori del futuro. Basta credere esattamente al contrario di ciò che profetizzano: si coglie sempre nel segno.

Con mosse untuose da prelato Missiroli cerca d’inocularmi un po’ della sua ammirazione sconfinata per la Germania. Rifiuto brutalmente l’iniezione. Egli colla piacevolezza di un cataplasma mi dichiara:

—Avete torto di parlar male di Benedetto Croce poichè egli è il padre di tutte le vostre libertà futuriste.

Rispondo:

—Ho sempre avuto una profonda pietà per Benedetto Croce, malinconico carabiniere che predica la libertà rivoluzionaria.

Entrano la contessa e il conte Bosdari nostro ambasciatore ad Atene. Spingo a poco a poco la conversazione ad una precisa valutazione della Grecia.

Bosdari dice:

—Il popolo greco è un popolo antiguerresco. Voleva rimanere neutrale. E’ stato strappato alla neutralità da Venizelos. Ora l’esercito greco organizzato per forza dai francesi non vuole assolutamente battersi. Venizelos non ha un vero seguito, nè un vero partito. Non vi sono nazionalisti, nè patrioti in Grecia. Venizelos ha perduto il contatto del suo popolo perchè ha fatto la rivoluzione con le forze degli alleati, cioè con forze forestiere. L’entente devait le laisser pourrir dans sa neutralitè. E’ un popolo incurabilmente neutrale, paci fista, ma non germanofilo. Non ha mai creduto nella potenza della sua Regina tedesca. E’ un’oca. I famosi schiaffi e la famosa pugnalata della Regina al Re sono fiabe. Per molto tempo Venizelos non è riuscito, neanche coi denari, a trovare 50 individui che gridassero: morte a Costantino! Ma i francesi hanno una grande influenza ad Atene, una vera prepotenza, spadroneggiano.

Comprendo che Bosdari si è urtato profondamente con Venizelos. Bosdari ha un fondo d’incurabile germanofilia. Conclude:

—Ho fatto capire a Venizelos che l’unica potenza la cui amicizia può permettere alla Grecia di non essere la misera vassalla dell’Inghilterra e della Francia è l’Italia.

Donna Maria Mazzoleni che sa meglio di Madame di Sevigné dirigere il suo salotto intellettuale con varietà e contrasti interessanti mi prega di declamare le mie parole in libertà « Treno di soldati turchi ammalati ».

Rompo con forza decisiva l’atmosfera di finezze diplomatiche. Vivo successo di declamatore. La conversazione è orientata ormai sulle demolizioni utilissime compiute dal movimento futurista e sulla rivoluzione pittorica creata da noi in tutto il mondo col predominio lirico, plastico del genio nostro. Altri invitati sopravvenuti raccontano le leggendarie cazzottature del teatro Costanzi, le burrascose esposizioni futuriste a New York a S. Francisco. Un attaché a l’ambasciata Cinese spie ga l’influenza decisiva del pittore Boccioni sull’arte dell’estremo oriente. Si parla molto di una grande festa che il conte Primoli darà domani nel suo palazzo napoleonico in onore dei mutilati.

Vi partecipai colla marchesa Casati che mi presentò al famoso Loulou Primoli. Raffinatissimo, colto, intelligente, ma tragicamente passatista figlio di una Bonaparte, maestro d’ogni cortesia e d’ogni bizzarria erotico-sentimentale.

Salgo colla Marchesa per una scaletta piena di fiori e di statuette di Napoleone. Il guardaportone, personaggio dell’impero, saluta tutti e lascia passare tutti.

Siamo in casa del Passato. Passato vinto, indulgentissimo, disilluso e nostalgico. La scala sale girando con grazia e portando faticosamente la sua balaustra carica di stoffe rosso e oro. Infilata di camere rosso-oro. Vere cappelle asfissianti di fiori e di profumi artificiali. Fiori, fiori, falsi e naturali in scatole, scrigni, vasi e vassoi. Ritratti, ritrattini, ninnoli intimi preziosissimi, ricordi, album, fotografie d’ogni dimensione, autografi enormi come di giganti e flebili sbiadite calligrafie di regine morte. Tutte le cose sacre d’una vita sontuosa che preferisce il ricordo alla crudele realtà presente, tutto marcato dall’affetto e dal tempo messo in vetrina spudoratamente, con ostentazione quasi oscena. Ultima offensiva d’un passatismo disarmato che utilizza le sue fragili armi senza grazia alla rinfusa per fermare ad ogni costo il futurismo vittorioso e le sue velocità furenti. Questa sala contiene due pezzi di chiese distrutte, tre portantine pregne di profumi imperiali, due madonne di bronzo decapitate e una grande grata panciuta di vecchio legno dorato tolta dal coro di una chiesa di Siena.

La portantina sussurra che le donne del tempo che fu sapevano meglio amare. Dalla grata panciuta cola come da una chiusa la cadenza morbida d’un canto chiesastico. Ma le due Madonne tendono sinistramente le mani vuote come per ridomandare ai rigattieri ebrei le loro teste probabilmente vendute a parte.

L’odore di muffa aggredisce le nari. Polvere, polvere. Bricabrac di cose vecchie, morte affastellate. Sembra la vendita all’asta di una reggia che l’ultimo erede reale offre per necessità ad un popolo rivoluzionario. Questo però non compera, invade, devasta e brucia. Infatti le stoffe rosse danno l’illusione delle fiamme e i profumi densi si inacidiscono fino all’acredine dell’odore di bruciato e di sangue.

Folla di signore. Dominano le cretine:

—Oh ma chère, chère, chère madame, quelle joie de vous revoir!

Tipica frenesia balorda e grottesca delle signore spalmate di falsa aristocrazia, orgogliose tacchinescamente di trovarsi in un salotto alla moda select unico. Tutte un po’ seccate di trovarsi così numerose. Sarebbero raggianti di potere compiangere molte amiche assenti. Ma non avrebbero allora il piacere di vedere il loro privilegio notato da molte.

La maschera di cera di Napoleone assiste impassibile a questa nuova ritirata di Waterloo.

Tutto in vetrina, anche i gloriosi mutilati da festeggiare. Sono seduti immobili nelle poltrone rosso e oro del grande salone. Visi rudi cotti e riplasmati dalle carezze ferree corrosive delle rose granate. Visi scabri, tipici come il Carso. Pezzi di sole ancora fumanti e vibranti. Ora sono un po’ pacificati, ma vi passa sopra il brivido di una irritazione. Perla il sudore su quella fronte. Sentono il peso insopportabile di quel lusso sfarzoso ammucchiato con boria. Nei loro occhi oscilla l’anima tra le preoccupazioni di denaro e il piacere inusitato dei ricchi omaggi mondani. Intorno accaparranti fastidiosi tutti i brusii mormorii delle donne che vorrebbero essere materne e invece urtano sbadatamente tutti gli spigoli doloranti di quelle sensibilità troncate.

Silenzio! silenzio! Il celebre Battistini canterà una canzone napoletana.

Vola con grazia lentamente poi si slancia patetica in alto la grande voce del cantante meraviglioso, un po’ sciupata, ma piena ancora di magie. Si gonfia, si arrotonda, cerca di spalancare l’angoscia appassionata del golfo di Napoli, rompendo e travolgendo pareti, stoffe, soffitti di oro fuor dal bricabrac passatista, per toccare le vivide, fresche, elettriche stelle d’Italia che brillavano certo nella battaglia su quei soldati come su dinamo instancabili dalle scosse micidiali. Gli applausi e le approvazioni sventagliano mille idiozie ma hanno il rumore della risacca notturna sui Faraglioni tetri, eroici di Capri.

Ora si aggira, in mezzo ai busti, statue, statuette, il Bonaparte padrone di casa e direttore di questo immane esibizionismo d’intimità napoleoniche. Cortesissimo, pieno di grazie delicate, ma tozzo, stanco, grosse spalle finite, tirate giù dall’enorme tight verde-blu scuro e il cravattone quadrettato grigio-perla e blu.

Loulou Primoli ringrazia i suoi invitati con molti sorrisi nella faccia rossa un po’ cotta dai liquori, baffi grigi, gote gonfie, cascanti, occhi scuri sagaci d’antiquario.

Esco colla Marchesa Casati, felice di rivedere all’aperto la mia amica futurista in un’altra serra calda che abbia per soffitto l’arco caldo azzurro del cielo romano.

XIII. I VELENI DEL GOLFO

Sono stanco di artifici e di snobismi esasperati. Bianca mi aspetta a Napoli!

Il giorno dopo alle due del pomeriggio appena entrato nello scompartimento soffocante sono preso da un’ansia inaspettata. Il treno è zeppo. Quasi tutti napoletani. Sono forse le loro voci cadenzate che mi spremono i nervi mutando completamente la mia sensibilità. Il mio cuore raddoppia i suoi battiti. Vorrei aprire la mia giubba grigio-verde per respirare, respirare il grande alito passionale del golfo. Ma è ancor lontano, molto lontano. Perchè non parte il treno? Sono pigiato sul mio sedile, ma non sento più nulla, tutto assorto nella visione interiore bruciante di Bianca. Dunque l’amo pazzamente? Forse. Sono strabiliato dalle bizzarrie della mia anima che porta con se in guerra ridendo e combattendo spensieratamente un amore sepolto, ma vivo ora scattante.

Il treno parte accelerando col suo ritmo il ritmo del mio cuore che s’avventa per frugare nei ricordi, precisare le sensazioni. Completamente isolato nel mio sogno, vedo Bianca, la sento!

Bionda, bionda, gracile, flessuosa con quei suoi occhi pieni d’oro verde, bellissimi occhi che ridono e bruciano sotto la capigliatura di scintille e polvere d’oro. Chissà se mi sarà possibile vederla un po’ a lungo a Napoli? Sua zia bisbetica e provinciale ha una franca antipatia per me. Ma Bianca saprà dovrà superare ogni difficoltà per vedermi!...

La risento nelle mie braccia come la prima volta in casa mia nel mio appartamento di Chiatamone 5 anni fa. Aveva un vestito leggerissimo, sembrava nuda. Io l’ubriacavo di poesia. In un attimo i miei baci travolsero ogni sua volontà. Scapigliata, languida, eccitatissima! Invocava un pettine per ravviarsi i capelli. Ricordo ancora di aver chiamato la mia cameriera Giulia che offrendomi il pettine mi spaventò col suo viso inferocito dalla gelosia.

Andammo a pranzare insieme. Pioveva. Bianca si abbandonava sul mio braccio felice della pioggia che ci isolava dal mondo. La marea d’una passione violenta mi portava sulle vette acute delle fantasie più suicide. Le dicevo:

—La mia vita è lì sulla tua bocca... tutta la vita in un tuo bacio!

Le proposi di partire per Sorrento. Non volle. Ma in carrozzella semi-aperta sentii che ogni sua difesa era vana. Tutte le forze della luce, dei profumi, dei suoni e dei rumori si coalizzano, impongono, esigono che ogni ritardo sia abolito. I baci nostri sono fitti, precipitati, affannosi. Sembrano incalzati dalla pioggia in una elettrica furia di vibrazioni. Scendiamo dalla carrozzella. Nel giar dino le nudità pericolose troppo bianche delle statue sembrano uscite dal coito acre mordente schiaffeggiante di quel mare virile.

Convinco Bianca che docile viene dove voglio. Ansando come un ladro la guido per la mano nel buio della scala, poi nel buio appartamento, piego il suo corpo che trema sul letto nel buio, svestendola febbrilmente con le mie mani convulse che si sbagliano, strappano, strappano le ultime barriere davanti alla piena irruente della mia passione.

Bianca è quasi nuda. Non vuole la luce. Io esigo lo splendore illuminato di quel corpo ed eccolo finalmente tutto da baciare con mille elogi deliranti, carezze che frugano si arrampicano insistono divorano. Velocità d’incendio che nessuno potrà spegnere.

—Stiamo al buio, te ne prego...

Io rifaccio la luce. Ma lei implora:

—No! No! che scandalo! che scandalo! Sei cattivo! Caro, caro, mi piaci tanto! Mi piace il tuo temperamento impetuoso, ma Dio mio! non ti calmi mai! Fermati con questo tuo dinamismo!

Bianca ride.

Io rispondo:

—Dinamismo plastico!

Ridiamo insieme. Risate che sfumano nelle strette feroci dove le nostre anime si spremono.

—Ho paura, dice Bianca, penso che mi farai soffrire, terribilmente soffrire.

Si rituffa nell’incosciente abbandono, soffocan do le sue grida sotto le ondate pesanti del piacere. Poi un tremito convulso l’assale. Mi ricordo che questo tremito non cessava più. Mormorava e implorava:

—Ho freddo, freddo, tanto freddo, riscaldami, amore!

Io la riprendo. Eccola beata, rapita, bambina. La sua anima alla deriva nuota come in una scia di bollore lunare. Con precisione ricordo i suoi piccoli strilli di spavento-pudore mentre girava cercando le sue vesti nella camera, nuda, minacciata dalla luce che io accendevo e spegnevo.

Mangiammo insieme delle frutta nella sala da pranzo, poi la ricondussi in carrozza alla casa della zia, senza pensare che non l’avrei riveduta per un anno. Che schianto! Per un anno la cercai senza ritrovarla, invocando il suo ritorno disperatamente. Il mistero di quella lontananza e di quel silenzio mi tormenta oggi più che mai.

Bianca non seppe non volle spiegarmi nulla, quando la rividi, un anno dopo. Mi parlò di un fidanzato. Compresi che non poteva essere sincera. Certo avrebbe aperto tutto il suo cuore se avesse potuto. Mi disse:

—Ho fretta questa sera. Domani mattina alle 10. Avremo tutta la giornata per noi.

Bianca è un’amante strana. In fondo la credo una innamorata dell’amore. Sensuale e cerebrale. Odia le ore d’amore rubate in fretta alla vita. Le piace organizzare bene le voluttà. Ha un corpo ideale d’amante predisposto a tutte le raffinatezze del piacere. Non lo dimenticherò mai. Ho bisogno di lei. Che occhi mutevoli! Occhi di carnevale! Era felice di questa immagine e l’accoglieva aprendo la sua bocca ardente come per mangiarsela fra i dentini bianchi... Sento, sento che se avessi qui Bianca con le sue labbra che si liquefanno fra le mie la soavità del nostro bacio sarebbe tale da fermare di colpo questo treno.

Dunque, sono innamorato come un pazzo di Bianca. Perchè, perchè non la prendo con me, strappandola alla sua vita ambigua di signorina che ha un amante, ne ebbe forse già due, sotto la sorveglianza balzana di parenti ostili, libera e prigioniera inesplicabilmente?

Bianca è capricciosa. Ogni volta che io ebbi il dono del suo amore la trovai diversa. Ricordo il nostro quarto convegno a Palermo. Sembrava ridiventata pura come una vergine. Per un nulla le vampe al viso. Mille pudori e la lunga difesa di ogni angolo del suo corpo. Poi dopo il primo amplesso riapparve la fragorosa luce dei suoi occhi di carnevale che ridevano offrendo la bocca come un fiume di delizia nel paradiso, la sua bocca nuda, aperta e inquietante. Una strana sensualità quasi oscena nel sorriso di quel viso roseo, ardente fra i capelli biondi, sparpagliamento di scintille sul guanciale.

Ricordo un’altra volta: Bianca benchè legata dalle abitudini signorili e sdegnose della sua vita semi-aristocratica, venne con me felice in un piccolo albergo da marinai piuttosto sporco. Unico albergo che non fosse pieno, in una città marittima. Era elegantissima, nasino al vento, quel nasino all’insù birichino e francese. Volle portare da sola la mia valigia fra i camerieri stupefatti, per dimostrarmi la forza dei suoi muscoli. Le dissi:

—Questa stanza è brutta, ma vale cento paradisi.

Mi rispose spensieratamente:

—Somiglia a una camera d’albergo di Alessandria d’Egitto.

Sapevo che Bianca aveva già molto viaggiato con sua zia in Oriente. Più volte mi aveva parlato di Costantinopoli. Nondimeno la sua allusione ad un albergo simile a quello che ci ospitava mi turbò, quasi mi fece male.

Quel giorno a letto più nitidamente mi si conficcò nel mio spirito questa verità spaventosa! Bianca aveva due anime. Mi offriva la prima ingenua, fresca, fremente, pudica, tutta in lacrime e confusioni soavi; poi al secondo amplesso mi spalancava una seconda anima di lussuria gogliardica, ironica quasi clownesca, un’anima da caffè concerto di secondo ordine. Diceva con mille scatti buffi:

—Mi piacciono, mi piacciono i tuoi baci sulla schiena, ma non li voglio... Per carità non toccarmi il puff... Il mio puff è scemo, resterà scemo, non capisce nulla... In quanto a lei, lei! Elle est très délurée... Lei è pazza, pazza da legare. Colpa tua! Ora è pazza!... Veramente pazza!

Allora Bianca diventava frenetica, moltiplicava i suoi baci e le sue carezze rivelando di tanto in tanto una sapienza sensuale da cortigiana. Diceva con voce puerile:

—Queste sono le rotelle del carrettino!

Poi facendomi ammirare il suo ventre perfetto e, con un dito sull’ombelico, soggiungeva:

—Questa è la piccola buca delle lettere tutte per me.

Su quel vasto letto, in quella brutta camera d’albergo si esercitava la pressione del porto tutto catrame, fumo, carbone, antenne, sole accecante ruvidissimo nelle alberature, polvere salata, scricchiolio di ruote, carri, carrucole, peso dei cavalli monumentali e dei carriaggi sul selciato di bragia, treni di piombo ripiombanti sulle rotaie e odori furenti.

Ero torturato, inquieto. Ma il mio petto si sfasciò dalla delizia quando Bianca mi ridonò la sua prima anima infantile, vergine, con queste parole:

—Ed ora stiamo buoni. Voglio soltanto che tu mi mangi un po’ la boccuccia.

Nello scendere dal treno a Napoli io constatai che una lotta si era scatenata fra il mio cervello volitivo pieno di idee di guerra e di prossima offensiva e il mio cuore tremante, vinto, liquefatto, napoletano. Irritatissimo, sconvolto, con le lagri me in gola, traballavo nella carrozzella traballante pei vicoli notturni.

Napoli nei primi anni di guerra, fu sempre sfacciatamente illuminata negozi e caffè. Ora imitava finalmente le altre città mascherandosi di azzurro per paura di un secondo bombardamento di aeroplani. Per difendersi e nascondersi i napoletani hanno riempito le strade di piccole lune graziose copiate sulla grande loro luna speciale.

Piccole lune da strada! Piccole lune quasi tascabili! Questa arrotonda una fresca volta di grottazzurra di Capri. Vi tremano sotto liquide turchesi e gioielli d’acqua.

In quest’altra piccola luna da strada scintilla il fondo abisso del mare con palombaro e lampadina elettrica fra guizzi fulminei di pesci. Ma la giocondità rossa bianca napoletana schizza fuori dalle botteghe radendo il selciato. Una giocondità tutta a risate represse, occhiate, sghignazzamenti, baci veloci, strette di mani incandescenti, gomitate d’oro, luci schiacciate, spremute fra i battenti delle porte sulle soglie nei buchi del marciapiede.

L’allegria napoletana cede un poco, ma non troppo, alla severità della guerra. E’ ottimista il vasto golfo carnale, indulgente e distratto. Sa che dopo i malefici iettatori aerei con relativo sterco esplodente ritornerà la pace pei soldati vittoriosi carichi di passione da spandere in canti larghi tali da colmare tutti i pozzi del terrore materno.

Così io penso che nel mio cuore la guerra di ferro e fango saprà vincere la dolce e velenosa guerra dell’amore. Molleggia la mia anima in carrozzella per le strade spaccate forse dalla passione. Quanti buchi affettuosi! Il mio spirito virile somiglia al mio cocchiere che tira ferocemente, tira a strappi brutali il cavallo sfiancato fuor dai binari. Ma il cavallo sfiancato come il mio cuore va dove vuole, a destra, a sinistra, resistendo alla mano violentissima che lo strappa. Non m’ispira pietà quel cavallo, tanto è di caucciù indifferente sotto le frustate tremende in testa, atroci.

Il selciato è più che napoletano, svaccato. Il cocchiere accanito sradica fuor dai binari il cavallo, sturacciolando la carrozzella che balza come un fa bemol fuori dalle righe musicali. Arpeggio violento strappato nelle corde tese delle strade notturne, molli di languore erotico, arpe coricate degli abbandoni carnali.

Povera carrozzella dell’amore e del canto nostalgico che con schianti e singhiozzi si strappa dai binari ferrei della vita di guerra.

Il cocchiere bestemmia:

—Accidenti! Fetente!

In realtà dove vanno a finire le ruote del mio cuore, lo sa il Padre Eterno!

Ma i vicoli splendono sgargianti infischiandosi degli areoplani. All’imbocco di questo vicolo il viscido argento profuso dei pesci fuor dalle casseforti sfasciate del mare. Più su, tutti i fatti di san gue dei pomodori e dei cocomeri. Venti passi più innanzi crollati giù e dormenti tre rosei volumi di grassi bambini pneumatici da réclame. A destra in vetrina la morbida materna bontà cedevole delle mozzarelle troppo femminili che godono il proprio fresco immacolato candore.

Bisogna bene passar la sera in un caffè concerto. Non potrò vedere Bianca prima di domani mattina. Nello schiamazzo luminoso della sala Umberto, canta una donna in gonnellino vermiglio, pallido visetto che suda sotto ciocche nerissime, pesanti. Occhiate di liquirizia. La canzone trascina voci e anime di spettatori.

Mamma dice
non devi morir
di malinconia;
c’è il biondino
che ti vuol bene.
Perchè aspettare?
sono sei mesi
che non scrive più
forse è morto.

A tutte le frasi sagge e interessate della madre il ritornello risponde con un’ondata grave, triste, ostinata, religiosa:

Voglio il mio amore
che vive in trincea,
voglio il mio amore
che aspetta e spera.
Voglio il mio amore
che alla sua bella,
che alla sua bella
ritornerà.

Sono preso anch’io dall’ondata e canto con tutto il pubblico come un canotto preso fra i ghiacci veloci di quelle buone bibite napoletane che la mia gola bocca bruciata, beve remando colla lingua. Dormo male con incubi e sobbalzi all’albergo S. Lucia. All’alba di nuovo in carrozza con un mio piano d’uomo geloso e sentimentale.

Sei e mezza. Fa fresco. La mia carrozzella è ferma in agguato. Vedo la porta di Bianca senza pericolo d’essere veduto.

Viene fuori la sferica mammelluta portinaia a vuotare le immondizie nel carretto dello spazzino.

Bianca sta al pianterreno: a tre metri dalla sua finestra una cassetta postale. Due bambini corpicini sparpagliati, gambe nude, passano toccando tutto. Si fermano estatici dinanzi a un fanale dipinto di fresco, verde. Lo toccano. Il portinaio di Bianca viene fuori a sbattere il tappeto dell’entrata, scopa la soglia, lucida gli ottoni della porta.

—Fra cinque minuti mi sporcherò, pensa l’ottone luccicando sotto le mani.

Bianca è in letto, dietro quelle griglie. Respira. La mia forza preme. La sua tentacola nelle coltri del sonno. E’ molto presto. Aspettiamo.

Tre bambine povere vanno a scuola, in nero, un fiocco rosso sui capelli. Si fermano. Si raccontano.

Una bambina dodicenne elegante in azzurro, bionda, precede a passi rapidi concisi di dovere—tac tac tac—la cameriera vecchia, rullante, sbrindellona, ciabatte.

La bambina sbuffa:

—Auf! che tartaruga, la Maria! lo dirò a mammà.

Un bambino di 6 anni fa trascinare il peso delle sue gambe da una giovane cameriera bruna che corre per non perdere l’appuntamento coll’amante. Ogni tanto la cameriera si tira su la giarrettiera.

E’ ancora presto. Molto tempo da aspettare.

Din din din campanello di chiesa. Rrrrrr di automobile catarroso in questa rimessa. Ne esce il meccanico, gabbano grasso, lurido, nerastro. Frescolino venato di tepori. Penso che quella cassetta postale comunica forse col letto di Bianca. Dal letto Bianca può impostare. Se da fuori io imposto una lettera, questa cadrà forse nel suo letto!...

Cip cip cip di uccelli. Un raggio duro lungo di sole si slancia giù dal cornicione di una casa, picchia il selciato e lo apre: calce e oro accecante.

La frusta del mio vetturino oscilla tra il mio naso e le griglie chiuse di Bianca che io fisso.

Il cocchiere gira intorno alla carrozzella, calmando il cavallo impaziente coi suoi: eheee eheee.

La targa di marmo che porta il nome della strada sembra chiudere colla forza di un suggello la via la casa e la vita-amore di Bianca.

Penso che nella penombra calda sudata della sua camera da letto ora entra la cameriera col cioccolatte. Calore, sudore, odore vanigliato acidulo fra i seni di Bianca. Si sente la bocca arida, si ravvia i capelli, domanda:

—La posta.

—Grazie.

Fuori strada in pendenza. Tutte le strade si inchinano sotto il peso del calore per versare gente giù nel Golfo. Strade che si tuffano nell’acqua fresca della sua voce che ricordo:

—Sono piccini, piccini, piccini i miei seni.

Il sole salta a piè pari giù dal cornicione con tutti i suoi pendagli e fiocchi di fuoco pesante. Piomba nella strada precisando burocraticamente le ombre.

Due postini con nella mano alzata un grosso pacco di dolori piaceri angosce. Ciriguée-guée di cancello che s’apre. Peso del sole sulla strada. Peso delle lettere nelle mani dei postini. Cameriere e portinaie corrono intorno ai due postini abbeveratoi che tengono alte chiuse le mani-rubinetti. Tac tac tac pac pac pac di passi.

Aspettiamo ancora, mentre il calore dilata sforza la strada. Attività delle mosche sulla groppa del cavallo, sventagliamento della coda autonoma.

La vita ancora triste tentennante si rinfranca a poco a poco. La strada che era vuota, vergine, sola sonnolenta e floscia, aveva dimenticato i passi umani.

Ora si svincola freme, scatta, si irrigidisce sotto le vite-passi che la pungono di volontà-speranza.

In quella finestra aperta una cameriera scopa, scopa, scopa da circa un’ora. Gran Dio come hanno sporcato la casa: la risporcheranno.

Un operaio porta un water-closet di porcellana al fianco. Una serva porta un pezzo di campagna verde sulla testa. Un altra ha fra le braccia un pezzo di battaglia sanguinosa e un pezzo di delitto rosso in una carta gialla. Un vecchio passa oscillando, calvo, sudato sotto un enorme vaso di palme, Oriente, viaggio.

Ad un tratto il sole mi trapana il cranio con un consiglio!

—Cosa fai, cretino? cosa aspetti? cosa sorvegli? Dà una mancia al portinaio e entra.

Il consiglio è ascoltato.

Alle 5 del pomeriggio io stringevo finalmente fra le braccia una prodigiosa felicità che mi riempiva la gola di dolci singhiozzi. Bianca era mia, mia, assolutamente mia come non era stata mai.

Dopo due ore di amore forsennato, atroce, lacerante, disperato, scendiamo languidi stanchi felici nella strada affocata per portare le nostre ani me al mare che ha i lenti balsami le filosofiche brezze persuasive i lunghi sorrisi d’oro ridente e prezioso. Ondeggiamo nella carrozzella a Mergellina. Sera calda, gonfia di tutti gli odori agrodolci leziosi delle alghe. L’aria ha una tenerezza di carne sana spalmata di salsedine. Il promontorio di Posillipo sembra oscillare sulle sue palafitte di riflessi. Bevo nella bocca molle viva instancabile di Bianca tutto l’ardore contenuto il languore mortale e gli abbandoni del golfo profumato che si sdraia nella notte smisuratamente affettuosa, dove i soffi del vento si sollevano come coltri sudate.

Il mare azzurro tremante sospiroso, lecca la strada con mille appetiti minuti, mille fissità di luci, e mille luci scivolanti affaccendate.

Al largo la lastra del Golfo sembra un viso di donna estenuato, pallidissimo che aspetta, invoca esige, esige, la delizia suprema.

Sono esausto. Parlo a Bianca e il cuore mi crolla giù di rinuncia e sciolgo tutti i nodi della volontà, offro tutto me stesso alla vittoria dell’amore assoluto. Un demonio assurdo mi costringe ad avvilirmi, annientarmi. Forse ho troppo sofferto della pienezza esuberante di forze e della rigidità costrittrice. A Bianca regalo rutta la mia vita, l’amore l’amore!

Sono sincero?

Una voce interna urla: no! Ma è una voce che non riconosco, estranea, troppo simile a quella di quel venditore di cocomeri che vende nella ironia bianca dell’acetilene grandi cuori spaccati e freschi. Inesplicabilmente Bianca rifiuta con tono reciso. Sembra divenuta la mia stessa coscienza energica. Travasamento d’anime. Bianca è il futurista. Io sono il passatista sentimentale dai nervi lacerati che si aggrappa vuole la continuità, l’eternità, l’assoluto del cuore!

Bianca dice:

—Non ci vedremo forse mai più. Io sposerò lui. Vuoi sapere il suo nome? Si chiama Leone Paris, figlio dell’avvocato Paris. Trent’anni. E’ stato il mio primo amante. Tu sei il secondo.

—Perchè ti sei data a lui?

—Era appena arrivato dal Benadir. Dopo molte imprese audaci. Non l’ho mai amato, ma è buono. Era ammalato. I medici non speravano di salvarlo. Sono stata per lui come una sorella. Per me ha voluto guarire. Si è curato con una energia straordinaria. Io seguivo ogni giorno questo suo sforzo verso la vita. Ogni giorno egli esigeva qualcosa di più da me...

—Così senza amore sei stata sua?

—Ho creduto che quell’affetto sarebbe diventato amore. Ciò non avvenne.

—Ed ora?

—Ora egli sa tutto, accetta tutto, sa di te senza sapere il tuo nome. Mi vuole sposare.

—E tu?

—Io sento che quello è il mio destino. Egli mi ama in modo assoluto. Quando gli ho detto che corsi il rischio di avere un bambino da te, mi disse: Perchè non l’hai voluto? Lo avrei fatto mio!...

Bianca è una donna intelligente che ha il culto maniaco delle eleganze morali. Strano tipo di donna involontariamente futurista, essa perfeziona e conserva preziosamente il valore eccezionale, tipico della nostra avventura. Vuole che questa rimanga la meravigliosa avventura della sua vita. Io, invece, sono la preda dell’assurdo.

Ho trovato in Bianca una bella amante ardente lirica, disinteressatissima, generosa e fugace e mi accanisco a volere trasformarla in una moglie!

Con frasi rotte dai singhiozzi parlo, parlo, a Bianca per convincerla, strapparla alla sua decisione. Bianca rifiuta:

—Mi vuoi tutta per te, per sempre. Pazzia! Te ne pentiresti. Non voglio sacrifizi!

Io mi esalto all’idea magnetizzante di averla averla sempre, sempre, tutte le notti della mia vita e mi inebrio del pericolo che vedo nettamente in una sua possibile accettazione.

Non sono sincero. Sono sull’orlo di una spaventosa sincerità.

Bianca mi mormora commossa:

—Credi, credi, ti pentiresti più tardi. Non voglio. Rifiuto. Il tuo temperamento ha un destino tumultuoso, violento irto di contrasti e di fragori che non amo. Tu sai che io sono stanca, stanca della vita. Voglio la calma, il riposo, tutto il ri poso, tutto il riposo pei miei poveri nervi massacrati. Egli è buono, mi ama, mi accetta come sono.

La voce di Bianca mi fa impazzire dando subitamente un sapore diabolico alla sua carne ricordata ai suoi baci alle sue carezze che mi stringono ancora spiralicamente. La guardo e il mio cuore si slancia assetato verso la sua dolcezza. Come vivrò senza la presenza di quel sorriso? Il velluto di quella pelle! Quelle tenere gote tessute di gioia solare! I suoi occhi, come dimenticarli? Sento, sento che quella piccola lingua scorrente sulle labbra arse può dare la felicità.

Affannosa ascensione su, su, di angoscia in angoscia fino al delirante singhiozzo amaro, fino allo straripamento delle lagrime più dolci, nel lago altissimo di quell’amore in cui vorrei annegarmi, annegarmi annegarmi!

Rompere, rompere ad ogni costo gli ultimi nodi della sua volontà! Mi umilierei, mi distruggerei con una gioia infinita. Ormai il mio cervello non sorveglia più il mio cuore. Ho perso ogni controllo. Sono un suicida ebbro di morire.

Bianca rifiuta. Decisione irrevocabile. Il lunatico demonio che s’è impadronito delle nostre forze sentimentali vuole che Bianca rifiuti assurdamente un dono assoluto in nome di alcune vane suscettibilità e inutili fierezze, o semplicemente perchè la logica sia una volta di più bandita dagli affetti umani.

A mezzanotte ci lasciammo con un lunghissimo tenerissimo bacio sulla soglia della casa della zia.

All’alba riparto per Roma e Firenze.

Mi addormentai. Risvegliandomi nella stazione di Roma vidi e sentii il mio cuore come un panno bagnato di lagrime torto fra le mani brutali da una lavandaia sudanese muscolosissima. Cuore gualcito, ma lavato, pulitissimo. Cuore fresco di bucato.

XIV. UNA FESTA PETROLINIANA

All’Hôtel Baglioni di Firenze trovo un telegramma di Maria che rimanda a più tardi il nostro incontro forse fra 15 giorni a Padova. Me ne rallegro e a zonzo cogli amici inasprisco la mia volontà di prossima offensiva al fronte nel tepore vile della città cosmopolita, antiguerresca.

Però Firenze migliora. Gli alberghi di Lung’Arno trasformati in ospedale, sono ridiventati italiani. Da quegli eleganti piccoli giardini invernali la lingua italiana era quasi esclusa. Cubava, rotolava la goffaggine ia - ia - teutonica. Motoreggiavano tutte le rrrrrr snobistiche di Parigi Londra New York. Le bocche Americane mangiavano parole inglesi masticandole meccanicamente con mascelle quadrate d’acciaio. Steli pallidi di Misses piegavano bisbigliando parolette cretine sotto il vento della moda ammirativa, e la borghesia della città seguiva quel ritmo accentuando beceramente i toni e le forme. Oggi vedo ai balconi soleggiati degli alberghi i feriti italiani in camici bianchi e grigi che godono nell’aspettare il colpo di cannone meridiano della colazione, lontano dalle corvées.

Tum Tum... Dilatazione lieta di questo rumore sfaccendato e in vacanza. Subito le campane sbrodolano il loro piombo fuso sull’Arno giallo sporco. L’Arno! lenta corrente di sudiciume dei secoli, patina liquida di tutte le facciate delle case scolorite come vecchi quadri male incorniciati in un cielo da museo.

Inerzia. Atmosfera svogliata. La rompe un groviglio di miagolii di gatti che a gomitoli balzanti si precipitano fra le mie gambe.

Solita caccia quotidiana intorno alle trattorie. La polizia sequestrò ieri venti grossi gatti già pelati e pronti per la padella. I neutralisti bestemmiano contro la guerra che costringe a mangiare in tal guisa. Io compiango con l’anima di Baudelaire i poveri gatti che soli sanno dinamizzare con risse e amori diabolici i pederastici chiari di luna dell’Arno. Le campane di Firenze hanno le monotonie e le insistenze balorde che caratterizzano lo stile di Benedetto Croce e di Romain Rolland. Scodellano in giro suoni, rumori, dondondondondon vecchie idee sciupate, nostalgie e latte e miele sentimentale sull’immane bricabrac di case, chiese polverose affastellate alla rinfusa e scopate tutte sull’altra riva dell’Arno perchè questa sia tutta pulita per i forestieri in estasi, ignoranti, ma compratori. In fondo, verso le Cascine, i camini delle officine fumano, fumano distrattamente con spirali che sciarpe d’ozio oblioso infischiandosi, infischiandosi degli operai che chiamano e della guerra che esige munizioni.

Ma alle due del pomeriggio seguo un fiume di folla che mi conduce al parco di Boboli.

Grande festa patriottica. Nell’anfiteatro sulle gradinate a semicerchio Veneri, Apolli e urne bianchissime spiccano sulle alte muraglie verdi di bossi e lauri.

Agitazione di ventagli, cappelli di paglia, vestiti bianchi e rosa, ombrellini verdi, viola, rossi, sotto il sole ardente impressionista. Una faccia spunta dietro la nicchia di una Venere cantando:

Vorrei essere Tirteo...

E’ quella Venere forse che canta con la mano sul sesso per accentuare il sentimento.

Grande pastorale in costume con coro campestre.

A sinistra nel folto del viale che sale verso il parco alto, molti carabinieri ritti come in agguato sembrano pronti ad acciuffare una massa rossa che canta nel verde, massa troppo rivoluzionaria di coristi camuffati da soldati francesi.

Corteo simbolico. Una Italia in manto rosa con stella sulla testa. Scende cantando:

Maggio sei bello, ma Firenze è assai più bella.

Si slanciano giù furiosamente i teutoni, con pelli di tigre, elmetti alati, tridenti e lance:

Siam i re dei barbari

In mezzo a loro Attila e la Germania in rosso sangue di bue col chiodo in testa.

Risponde l’Italia cantando parole assurde sul tema:

T’amo come il fulgor del creato

Duetto dell’Italia e della Germania.

Vicino a me una bambina dice:

—Guarda che occhiacci fa la Germania!

Si avanza grottesca la Repubblica Francese con fantaccini in pantaloni rossi. Marsigliese.

Segue l’Inghilterra con molti scozzesi. I gonnellini quadrettati divertono le donne che però preferiscono questa carica di bersaglieri piume al vento, e la sciabola sguainata del suo capitano. Questo, rosso apoplettico, ha un diverbio fiero con Attila quasi impaurito.

Scoppia la battaglia. Pastori, pastorelle, soldati francesi inglesi, italiani inseguono verso l’alto parco i teutoni fugati in disordine. Ma un tripode stretto da fucili, baionette e tricolore fuma incenso e promette pace. Si svolge un corteo di vestali subito cancellato da un battaglione americano di cow-boys, e pellirosse marziali. Il popolino toscano non trattiene più la sua gratitudine per l’aiuto americano.

Dopo il corteo delle città invase o irredente U dine, Trento, Trieste, la marcia dell’Aida accompagna l’entrata solenne su cavallo bianco della Pace con un ramo d’olivo in mano.

Il pasticcio frenetico dei simboli e delle musiche d’ogni tempo e d’ogni popolo ingigantisce. L’agitazione delle bandiere e lo svolazzamento dei manti trasformati in scope veloci, mi dà la sensazione d’una tragicomica rivolta di palcoscenici napoletani o d’uno sciopero violento a mezza opera al Teatro San Carlo.

Penso che quel grande futurista che si chiama Petrolini demolitore d’ogni romanticismo ha voluto prendere definitivamente a calci la storia e la vecchia retorica con una sintesi futurista di neutralismo fiorentino, + gentilezza floreale toscana + ossessione della pace + ammirazione servile pei forestieri ricchi, + amore estivo per la campagna + cretinismo congenito degli organizzatori di feste.

Giungo a Milano a mezzanotte. Sciopero di carrozze. Sul piazzale, nella luce azzurra delle lampade velate crocchi di soldati e di prostitute vocianti affaccendate nei contratti erotici. Inquietudine delle notti di guerra in città, tempestate dai galoppi della lussuria e dell’alcool sui letti divorati e vomitati spensieratamente!...

Consegno la mia valigia a uno strano facchino improvvisato. E’ un gobbetto con ambiguità pederastiche e un’inesauribile chiacchera di beghina.

Dice con smorfie e risucchi di saliva pieni di orrore e ripugnanza schifiltosa:

—Dio mio, Dio mio, tutte quelle donnasse! quelle porcasse! Povera Milano! Stanno lì ogni sera... Tutta la notte a fare réclame coi soldati! E’ una indecenza! Povera Milano non si riconosce più...! E i profughi, che disgrassia... Date indumenti, date indumenti! Lo so, lo so, sono povera gente. Ma, date indumenti, date indumenti! Sono restato a piedi io e senza scarpe!

Il gobbetto che mi segue portando la valigia mi racconta che è figlio di un portinaio di Via Cerva. Per colpa dei profughi vive in un ripostiglio, quasi di mendicità; porta gli abiti del padrone di casa. Di notte fa il facchino. Certo ha due, tre altri mestieri meno confessabili. Ad un tratto si ferma con un bizzarrissimo lustrascarpe vestito da sportman stivaloni, berretto e cane lupo a guinzaglio. Il gobbetto mi spiega poi che quel lustrascarpe è spagnuolo e fa l’usuraio dei cantanti in Galleria. Originale flora mostruosa di questa tropicale fermentazione di guerra.

A Milano, confido la mia sicurezza nella vittoria prossima, grandiosa, all’amico Notari, geniale patriota, instancabile, fattivo. Con lui assisto a una assemblea interventista. Piccolo teatro gremito. Sono sul palcoscenico. Il signor Del Crema, viso paonazzo grondante di sudore, spinge affannosamente alla ribalta la sua eloquenza e la sua pancia, botti spaccate che schizzano, tuonano, sputacchiano, inaffiano rosso. I suoi paroloni-piedoni pigiano l’uva dell’assemblea. Come, dove salvarsi? Vedo mani sul viso, parafanghi. Braccia alzate come parafulmini. Tutti i cappelli delle signore abbassati, paralumi. Beato chi aveva davanti un più alto spettatore, paravento. Una donna fuggì, gonna svolazzante, paracadute. Ma urtò contro un uomo pietrificato dal sonno, paracarro!

Vorrei chiacchierare col pittore Rosai. Si è calato giù sotto la ribalta.

Del Crema continua. Pancia, eloquenza non formano più che un unico pallone gonfio, gonfio, gonfio che sta per esplodere:

—Violenza, violenza! violenza! Bisogna colpire, colpire, colpire!

Invisibile, ma pronto Rosai colpisce l’ultima parola in pieno con un potente:

tum—tum

della grancassa. Ilarità fragorosa. Grandine, valanga di risate. Del Crema sembra ferito in pieno nel tamburo della propria pancia.

Io crollo a terra corpo e gambe in convulsione di allegria. Del Crema bestemmia, sbuffa, si arrabbia, non può ripigliare il suo discorso.

Entra nella sala una folla di donne politiche. Acclamazione, vocio. Perchè mai son tutte brutte le donne che frequentano le assemblee? Tutte tragicamente incoricabili, tenaci consigliere di castità.

La loro eloquenza ha lo sviluppo epidemico del colera e della peste. Una donna stridula impreca contro le signore disfattiste e germanofile ma è subito interrotta da un uragano di altre voci stridule e mani fragili unghiute. Cento colli allungati di galline per raggiungere una mano alta piena di grano:

—Fuori i nomi! fuori i nomi! fuori i nomi!

Pollaio esasperato dalla mancanza di galli... I galli imboscati non sono galli.

Torno al fronte pensando senza rancore che gli imboscati sono utili non fosse altro per dar risalto alla bellezza dei combattenti.

Nella tradotta m’addormentai al ritmo di questa canzone che dei fanti in un compartimento vicino trascinavano con voce di sonno alcoolizzato:

Non hai tu un deputato?
Un parente cornuto
che ti venga in aiuto?
Non hai tu un ministro
o qualche altro ruffiano
che ti stenda la mano,
per levarti dal freddo
dal rischio e dal gel?
Se tu sapessi
quanti imboscati
dormono laggiù
di certo la trincea
lasceresti
pel bosco anche tu!

XV. CAVALLERIA MEDIOEVALE E BLINDATE FUTURISTE

Il ritmo del treno non riesce a uguagliare in celerità il battito del desiderio che l’idea dell’offensiva suscita in me. Che cosa si aspetta? Sento il momento venuto. L’ora tipica, unica col suo nodo di forze favorevoli penderà fra poco sul nostro capo. Gli eserciti francesi e inglesi al comando di Foch attaccano violentemente la Germania che cede, poco, ma cede. Il morale delle nostre truppe è forte, sereno, consolidato dalla grande vittoria del 15 giugno e dall’enorme propaganda, metodica, accanita. Bisogna dunque sferrare l’offensiva finale.

Non curandomi dei miei vicini di compartimento io mi tasto il petto, le cosce, le gambe come si palpa una granata prima di introdurla nel cannone. Mi sento bene. Non temo il lieve dolore al ginocchio sinistro che ogni autunno si ricorda di Plava.

Ferito da una grossa scheggia all’inguine, caduto sotto il pietrame e i sacchi a terra della batteria sfasciata, mi rialzai con la faccia bruciata e calandomi i calzoni inzuppati di sangue ammirai lo stra ordinario viola della mia coscia e del mio ginocchio pesto. Ora sono risanati.

Nella fattoria di Barchessa trovo i miei compagni a tavola sotto la lampada pacifica, che mangiano discutendo questioni di servizio e di faticosissime manovre con la cavalleria.

A tavola con noi un simpatico ufficiale di cavalleria: Franci di Pietralunga, raffinato, coraggioso ma sempre velato da una melanconia inspiegabile.

Io tento di concludere la discussione:

—E’ assurdo volere accordare il medio-evo della cavalleria col futurismo delle blindate! Salvo rari momenti la cavalleria è stata sempre fuori di posto in questa guerra. Assurdo l’impiego strategico per divisioni! Duemila cavalli offrono un bersaglio enorme. Se domani avremo da inseguire il nemico basterà un solo suo cannone ben puntato per fermare qualsiasi massa di cavalleria nostra. La cavalleria non può come la fanteria camminare ai fianchi della strada o nascondersi dietro gli argini o nei fossi. Un cavaliere è facilmente individualizzabile su una strada. Se poi il nemico è in rotta completa senza neppure un cannone per proteggere la sua fuga, si presenta il problema della velocità dei cavalli che naturalmente è mediocre a meno di ammazzarli la sera del primo inseguimento.

—La cavalleria, interrompe Raby, è stata nei due primi anni di guerra un bosco elegante. Come cavalleria, bene inteso, poichè appiedata diede in numerevoli eroi a Monfalcone e sull’Isonzo nel corpo dei bombardieri e in quello dei mitraglieri.

Franci scattò:

—Dimenticate le nostre gloriose cariche suicide in retroguardia dopo Caporetto.

—Le ho viste con questi occhi e non le dimentico, disse Raby. Ho visto eroismi sublimi, ma vani. Una sola delle mie blindate dal Tagliamento al Piave serviva più che 4 o 5 squadroni.

—Credi, caro Franci, dico io, le macchine di guerra, cannoni a tiro rapido, mitragliatrici, areoplani e auto-blindate hanno reso assurdo il Don Chisciottismo della cavalleria. E’ il passatismo che si difende. Non vuole morire, ma deve morire. Questa guerra ha esautorato il fucile, immaginiamoci se non esautora il cavallo. Il cavallo è un milionario, nato gran signore per non fare niente. L’altro giorno c’erano lì nei prati 250 cavalli. Bisognava vedere che bersaglio per l’artiglieria! Ora vedi, caro Franci, i comandi supremi della cavalleria italiana che erano tutti più o meno dei germanofili, sicuri che la loro cara Germania conservatrice e militarista avrebbe certamente vinto, sono oggi agitati, sbalorditi dalla piega degli avvenimenti. Vedendo crollare la Germania sognano archi di trionfo per il ritorno dell’esercito e vogliono ad ogni costo coprirsi di qualche prestigio.

Non disprezzano più le macchine veloci. Molti sono felici di pedalare. Gli squadroni sono pieni di biciclette e motociclette. Gli speroni si impi gliano nei raggi di bicicletta, poco importa. Ora vogliono arrampicarsi sulle nostre auto-blindate. Hanno incorporato nella divisione di cavalleria biciclette, motociclette e auto-blindate. Ci metterebbero sopra, se potessero, soltanto ufficiali di cavalleria. Lascerebbero volentieri i cavalli nei depositi purchè si dica che la divisione di cavalleria ha forzato, sfondato, inseguito, accerchiato il nemico. Dimenticano che ciò non è facile senza ruote, stantuffi, pneumatici e benzina. Mi dispiace, caro Franci, di dichiararti che il bel cavaliere elegante e romantico non ha più ragione d’essere fuori degli album delle signorine. Finite le lance con banderuola blu! Oggi ci vogliono le nostre mitraglianti auto-blindate in velocità. Se lo Stato Maggiore italiano avesse avuto al principio della guerra questo senso pratico di adattamento agli uomini e alle cose e si fosse liberato dal concetto teutonico stupidamente importato con relativa meccanizzazione di tutti gli organi, avremmo forse evitato Caporetto. Ne risultò una continua falsa valutazione della responsabilità e un assurdo particolarismo burocratico. Tutto si riduceva a queste frasi lanciate da comando a comando:

«Non mi faccia difficoltà—Si arrangi—Ricevuto l’ordine aspettare il contrordine—Dare assicurazione».

Nulla di più assurdo della concezione aprioristica professionale, tedesca, secondo la quale il nemico deve prendere una tale o tal’altra decisione solo perchè questa si presenta come la più logica. Questa concezione elimina l’enorme valore guerresco dello spirito creatore. In una razza come la nostra, carica d’individui geniali, ingabbiare così burocraticamente lo spirito improvvisatore è stato un delitto. Abbiamo inoltre disprezzato per molto tempo il fattore umano nelle truppe logorando così, avvilendo, e anemizzando i reparti. La Germania ci aveva regalato la stupida teoria delle formazioni ammassate che conducono ad attacchi frontali con forze sempre insufficenti, urti ripetuti digradanti per intensità e senza veri effetti.

La battaglia moderna invece si riduce quasi sempre a una lotta sui fianchi. Vince colui che dispone di una riserva potente, pronta, non nelle lontane retrovie dietro il fronte, ma nelle retrovie immediate di una delle due ali. Questa riserva non deve esservi condotta nel momento grave della battaglia, ma molto tempo prima. Lo Stato Maggiore tedesco nella battaglia della Marna, settembre 1914, non ragionò così e fu sconfitto. Il centro del fronte ha pure bisogno di riserve, ma la massa delle riserve non deve mai essere disposta dietro il centro fintantochè esiste una possibilità di accerchiamento. In settembre-ottobre 1914 in Fiandra l’esercito tedesco tentò di avviluppare l’esercito francese. Questo comprendendo il pericolo allungò il suo fronte. L’esercito tedesco allungò ancora di più il suo, e la doppia corsa per avvilupparsi l’un l’altro il fianco finì al mare.

Questi concetti in parte anteriori alla guerra hanno assunto un valore speciale data la possibilità attuale di velocizzare il trasporto di truppe, il vettovagliamento, e il munizionamento.

Nella guerra futura però non si potranno equipaggiare milioni di uomini. Vi saranno piccoli eserciti di 100 mila uomini agguerriti e scelti, in azione dinamica davanti alla nazione che tutta lavorerà a produrre per loro.

Questi piccoli eserciti saranno costituiti di truppe celeri e specialmente di artiglieria d’assalto cioè tanks terrestri e tanks anfibie che colla solita striscia scabra o ventre di bruco supereranno boschi, colline, fiumi sorprendendo il nemico. Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.

Grideremo allora: «Finiamola coi vecchi esplosivi! Noi non sappiamo che fare, ormai, della ribellione dei gas imprigionati che sussultano rabbiosamente sotto i pesanti ginocchi dell’atmosfera!»

Vedo in sogno, sul confine di due popoli avanzarsi, dalle due parti, rotolando sui binari le enormi macchine pneumatiche—elefanti d’acciaio irti di proboscidi scintillanti puntate sul nemico.

Quei mostri bevitori d’aria sono guidati facil mente da macchinisti appollaiati su in alto, come cornacs, nelle loro cabine tutte a vetri. Le loro piccole figure sono arrotondate da una specie di scafandro che serve loro a fabbricare tutto l’ossigeno necessario per la respirazione.

La potenzialità elettrica cosciente e raffinata di quegli uomini, sa utilizzare l’amicizia e la forza dei temporali, per vincere la stanchezza e il sonno.

Ad un tratto il più agile dei due eserciti ha bruscamente rarefatta l’atmosfera del suo avversario mediante la violenta aspirazione delle sue mille macchine pneumatiche.

Queste filano via, subito dopo, a destra e a sinistra, sui loro binari, per lasciar posto a delle locomotive armate di batterie elettriche. Eccole puntate come cannoni verso il confine. Degli uomini, ossia dei domatori di forze primordiali, regolano il tiro di quelle batterie che lanciano fra le dighe di un nuovo cielo irrespirabile e vuotato d’ogni materia, grandi grovigli di fulmini irritati.

Li vedete voltolarsi nell’azzurro, codesti nodi convulsivi di serpenti tonanti? Strangolano gli innumerevoli fumaiuoli branditi delle città operaie; infrangono le mascelle aperte dei porti; schiaffeggiano le cime bianche delle montagne, e spazzano il mare color di bile, il mare urlante, che s’incava e si rizza follemente per atterrare le città marittime. Venti esplosioni elettriche nel cielo, smisurato tubo di vetro pneumaticamente vuoto, hanno riassunti gli spasimi coraggiosi di due popoli rivali, coll’ampiezza e lo splendore delle formidabili scariche elettriche interplanetari.—

Il mio sogno di guerra suscitò un uragano di applausi. Intervenne pacatamente Raby:

—Oggi la nostra cavalleria medioevale può avere un impiego tattico. Ad ogni corpo d’armata uno squadrone per il servizio di arginamento nelle retrovie e per impedire alla fanteria di cedere. La cavalleria può servire, data la forza di coesione disciplinata che la caratterizza. Credo anche a dei colpi di mano isolati con plotoni lanciati che appiedandosi combattono coi ciclisti. I plotoni di cavalleria sono adatti al collegamento dei corpi d’armata. Nella fitta rete stradale rotta da canali e fossi del Veneto una divisione di cavalleria in massa diventa un elegante suicidio.

—D’altronde, concludo io, nulla di più assurdo che polemizzare contro la cavalleria oggi. E’ tardi per perfezionare. L’offensiva è ormai cotta a puntino, bisogna servirla in tavola. Sono convinto che è imminente.

—Macchè, macchè! gridano tutti, sei un illuso. Preparati a rimanere tutto l’inverno in questa palude.

—Scommetto ciò che volete... scommetto con te Raby che il 27 ottobre prossimo, anniversario di Caporetto, noi sferreremo una offensiva generale, formidabile. Sarà decisiva e vittoriosa. In novembre la guerra è finita.

Grida, fischi, schiamazzo.

—Scommetto una succolenta cena con donne eleganti al Cova di Milano.

—Accetto! risponde il capitano Raby, mi preparo alla tua bella cena con digiuno e castità.

Volpe si avvicina e sotto voce:

—Forse hai ragione. Mando subito un telegramma al mio agente di cambio a Genova. E’ il momento di comprare.

L’indomani sera ero invitato a pranzo dal generale Filippini comandante la prima divisione di cavalleria. Speravo di apprendere qualcosa di preciso, ma in realtà ero già convinto da una voce intima che non ammetteva discussione.

A tavola sono seduto in faccia al generale Grazioli comandante il corpo d’armata d’assalto. Ha sul petto un giardino multicolore di medaglie. Alto, elegante, viso lungo intelligente addolcito come da una sensualità soddisfatta, bell’uomo quarantenne d’aspetto giovanile.

Parlo a Grazioli degli arditi, esponendogli le loro inquietudini, la loro aspirazione sempre contrariata verso dei privilegi ai quali essi hanno diritto. Morale altissimo. Ma soffrono di non essere nettamente distinti dalla fanteria. Vogliono una disciplina elastica, un riposo assoluto quando sono nelle retrovie. Rifiutano le marce, le esercitazioni quotidiane e le corvées. Esigono di essere portati in autocarro sulla linea del fuoco. Concludo:

—Sono dei cavalli da corsa, che non vogliono prepararsi alla corsa fra le stanghe di una carrozzella.

Il generale Grazioli e il generale Filippini sorridono, e con tono militare mi espongono la loro volontà di disciplinare ad ogni costo gli arditi.

—Pensate, mi dice Grazioli, 200 arditi di Reggio Emilia sbandati dopo Caporetto, venuti dagli ospedali hanno lanciato alcuni mesi fa delle bombe in una stazione e l’hanno saccheggiata. Sentendosi troppo pigiati sul treno che li portava si sono arrampicati sul tetto dei vagoni. Viaggiarono così 50 Km. Si dovette fermare il treno prima di un tunnel per non massacrarli. Io credo che gli arditi vanno trattati come fanteria scelta. Tanto più che molti degli arditi attuali non sono mai stati al fuoco! Disciplina, disciplina, questa è la migliore garanzia del loro massimo rendimento nella offensiva futura.

—Quando, generale?

—Diaz è tornato da Parigi, dice Grazioli, senza avere ottenuto i 300 mila americani richiesti. Clemenceau Foch e Loyd George hanno risposto che per ora non era il caso d’impegnare nuove forze sul fronte italiano. Noi non abbiamo molti uomini, oggi. Il ministero d’altra parte esita a decretare l’operazione obbligatoria per gli erniosi, che ci darebbe cento mila uomini di più in un mese. La Francia à ottenuto così 350.000 uomini!

—Eppure, generale, questo è il momento di attaccare l’Austria.

—Vede, risponde Grazioli, se si potesse essere sicuri che la guerra finisse prima dell’inverno, noi potremmo impegnare tutto il nostro esercito in una offensiva finale conservando come riserva la sola classe del ’900. Cioè giuocare tutte le nostre carte. Ma se la guerra dovesse durare come è probabile, ancora un paio d’anni, la partita si convertirebbe in un fallimento.

—Ma, generale, chi non risica, non rosica!

Tornando alla fattoria di Barchessa, sono più che mai convinto che sferreranno la grande offensiva il 27 ottobre. Penso che dei generali di alto valore, come Grazioli, sono purtroppo isolati e resi insensibili da ciò che chiamo guerrismo o mestiere della guerra. Monotona abitudine del fronte da tenere senza colpi audaci, senza carte giuocate, nella speranza che la guerra finisca lentamente da sè. La guerra, invece, è l’unica cosa al mondo che non ammetta l’abitudine. Bisogna giocarla. Chi vince vince, chi perde perde, e buona notte, non ne parliamo più!

XVI. LE VILLE NOSTALGICHE

Sulla strada Ferrara - Padova le nostalgiche ville venete nascondono la faccia nel fresco dei loro parchi tenebrosi voltando la schiena impaurita alla furente trepidante azzannante velocità degli automobili di guerra.

La villa De-Concilis ha tutte le eleganze settecentesche in questo atteggiamento tremante di bella coricata, un po’ sotto la strada, con la faccia tuffata nella tenerezza avviluppante del suo giardino intenso, pieno di passioni verdi-rossastre violacee che l’autunno punge di acredini tragiche. Teme nella schiena il rombo precipitoso e i blocchi sconquassati del rumore e i rotolanti globi del polverone solare.

Un brivido passa sull’acqua patetica delle vasche cosparsa di foglie che sembrano le bucce di molli cuori femminili trascinati via pei piccoli canali dalla corrente delle lagrime. Brividi, sospiri, febbrili contatti di foglie come di mani leggere in amore... Ma non è la solita brezza che anima il bosco sentimentale. L’atmosfera è turbata. Il silenzio non sa dove rifugiarsi poichè tremendi scossoni d’aria valangano giù dalla strada.

Sono, per un giorno, ospite della marchesa De Concilis buona e indulgente amica della mia amica Maria Baldini. Questa abita con suo marito in una villa vicina e verrà fra poco.

L’aspettiamo in giardino. La marchesa De Concilis elegantemente vestita di nero, seducente col suo languore carnoso e le sue curve delicate che non guastano la linea generale. Corto-vestita, nella sedia a dondolo, mostra per indolenza il polpaccio tornito che dalla caviglia affusolata e spiritosa sale sensualizzandosi con promesse-offerte di morbide-sode cosce affettuose. Intuisco e fiuto la forza sana del dorso quasi groppa di bella fattrice resistente.

Il viso pallido, d’un pallore giovane ma intriso di piacere. Gli occhi neri un po’ grossi di bel gatto angora che finge di sognare pur sorvegliando il canestro dei pesci. Deve essere ghiotta, tutta consacrata ai piaceri della tavola dopo una rinunzia semi-forzata quasi totale agli adulterii aspri turbolenti che bruciano. Il corpo s’appesantisce. Forse lo stomaco è un po’ stanco d’avere goduto tanti pranzi saporosi.

Ora, dopo la lauta colazione, la bellezza della marchesa è più languida.

Il viso vorrebbe disfarsi nella pace buia fresca del sonno.

Le guance di pesca succosa prendono nel sorriso accogliente ombre sfumate di placido ardore. Il sorriso si scioglie in tenerezza digestiva distratta mente erotica e materna. Ha il braccio sinistro abbandonato sui fianchi di sua figlia Gisella dodicenne, vivo ritratto suo più colorito, più ardente con languori irrequieti. Quella fresca miniatura lega la figura della marchesa al corpo del marchese De Concilis che continua virilmente le curve della moglie nelle sue guance un po’ flosce di seduttore maturo sensuale pigro e raffinato. Il marchese musicista mi parla d’una sua opera inedita, che darebbe se fosse energico, se non ci fosse la guerra, e se il bosco non avesse tante ombre snervanti.

Con le mani irrequiete la piccola Gisella abbottona e sbottona la fondina del mio revolver voltando i grandi occhi neri indagatori verso la strada ad ogni urlo di automobile che s’avvicina prima flautato quiii, quiii, quiiiiii implorante, esasperato demente... Eccolo. Eccolo. La macchina rapida invoca minaccia esige un varco, un varco ad ogni costo, presto; perchè il delirante spasimo della velocità guerresca non sia rallentato...

Con arrogante slancio danze baldanze da spaccamonti viene una seconda automobile. Tremano le foglie. Rompe l’aria una terza macchina. Petulante schiamazzare di fischi. Passano così, incalzandosi infilzandosi forse laggiù, 6 automobili diaboliche spazzole sulla stoffa della polvere arroventata. Il parco assalito geme e Gisella trema:

—Mi porti con lei in blindata. Sa, non ho paura.

—Povera piccola, mormora sonnecchiando la mamma; non ha più i suoi amici per giuocare. Ormai è grandicella, disprezza le bambole e si fa far la corte dagli ufficiali... Ma è piena di saggezza. Fa da sè il suo letto ogni mattina. Sa, Signor Marinetti, non abbiamo più quella brava cameriera. Siamo privi d’ogni comodità: niente burro e niente zucchero...

—Io non mi curo del burro, interrompe Gisella, nè dello zucchero! Voglio andare in blindata, alla battaglia, con Lei. Mi porti in blindata.

Sento che la tragedia del burro e dello zucchero opprime l’anima zuccherina e burrosa di tante belle dame veneziane come la marchesa De Concilis costretta a consumare ora tutte le riserve d’adipe nutritissimo delle floride braccia mammelle e cosce.

Il marchese si allontana con Gisella. Subito la Marchesa si sveglia per interrogarmi sulla nostra amica Maria che ritarda.

—Strana, la vostra passione! Maria è intelligente, anzi geniale, adorabile. Ma quel suo neutralismo è assurdo. Non capisco come possiate andare d’accordo voi due...

—Non è neutralista Maria!... Ma ama di contraddirmi, bizzarria e capricci... E’ anche influenzata da quello stupido marito odioso pedante vero professore di tedesco.

—Alle tre, mi mormora la marchesa, noi andiamo in automobile a Padova. Parte con me an che Gisella. Resterete solo con Maria tutto il pomeriggio. Sono o non sono una buona amica?

—Una amica eccezionale, unica! Vorrei ricambiarvi il favore. Non avete bisogno d’un confidente segreto?

—Oh no! sospira la marchesa abbandonandosi sulla sedia a dondolo. Per me, ogni poesia è finita.

La sua anima è già ripresa dall’incubo doloroso: zucchero, burro, burro, zucchero!

—Ecco Maria!

Saluti, baci, abbracci, chiaccherio.

—Ti lascio con Marinetti. Noi andiamo a Padova, torneremo presto.

Rimango solo con la mia amica ansante, febbrile. Ha dovuto fare in fretta, inventare mille bugie per liberarsi dal pedantissimo e professorale marito e dai suoi lunghi piagnistei sulla guerra. Maria Baldini è un bel tipo di falsa magra milanese fine nervosa pungente e smorfiosa. Viso asciutto, occhi azzurri vivissimi. Ma i fianchi rivelano una mollezza passionale e la bocca una praticità volitiva.

La villa è assolutamente deserta. Il giardiniere è in fondo al bosco. Nella camera da letto della marchesa, colla mia disinvoltura di guerra io abbraccio e svesto Maria.

E’ convulsa di desiderio, scossa da brividi felici, allegrissima, pur dichiarandomi insistentemente che è stanca di vivere.

—Credimi, credimi, sono stanca, stanca! (poi tra due baci lunghi avviticchiati). Neanche il mio piccolo Adolfo adorato mi attacca alla vita!... Tu solo, tu solo dài un sapore alla vita! Ma la vita con mio marito è insopportabile. Figurati, è diventato ardente, ora! Che orrore! Una volta almeno passava le giornate al Pedrocchi coi suoi amici germanofili... Sai, tutti contro la guerra quei professori!... Anch’io sono contro la guerra. Se non ci fosse la guerra saresti sempre con me a Padova. Invece, ora mi devo sorbire mio marito! Gliene faccio di tutti i colori. Certamente il mio contegno deve esasperarlo. Scenate terribili. E’ così pesante, minuzioso, meschino! Osservazioni miserabili su ogni cosa! E avaro, avaro, sino alla pazzia. Noi stiamo bene, lo sai. Ebbene, se la piglia colla guerra e mi rifiuta tutto. Bisogna che io gli dica: «Ma guarda il tuo vestito. Un professore non deve avere le scarpe rotte. Quando ti decidi a comprarne un paio? Risponde che costano caro. Poi fa le smorfie amorose. Dio, che schifo! Quando non posso proprio rifiutarmi gli dico: «Spicciati!» Oppure: «Dal momento che la cosa mi annoia voglio essere pagata per le mie prestazioni. Ti faccio un prezzo ridotto: 500 lire».

Maria ride, si agita, coricata sul letto, gesticola colle belle gambe nude tornite che lancia freneticamente da tutte le parti. E’ un temperamento isterico di bambina viziata, tutta bizzarrie, capricci, scatti nervosi incomprensibili e assurdità assolutamente pazze. Mi dice:

—Ti ho scritto ieri una lunga lettera, per finire tutto fra noi.

—Perchè?... Non capisco.

—Ho stracciato la lettera; non pensarci... Quando mio marito non sa cosa fare mi parla male del futurismo. Non sa nulla, ma ti odia. Crede che ci sia un semplice flirt fra di noi. Cioè, non vuole sapere. Ha il terrore di sapere. Scherza ironicamente su me e su te. Che pachiderma! Talvolta mi guarda negli occhi, paurosamente. Forse vede spuntare nel mio sguardo la possibilità d’una confessione e cambia discorso! Sa che sono capace di questi colpi di testa. L’altra mattina disapprovava la scelta del collegio per Adolfo. Lo trova costoso. In realtà è un collegio per bambini snob, con dei sistemi di educazione troppo chic, un collegio come direi puf puf... puf. Insisteva. Mi sono seccata, gli sono saltata addosso e craac colle due mani gli ho graffiato le guance. Tutto insanguinato! ah! ah! ah! Che ridere! Lui, il professore, così preoccupato della sua pelle. Subito panni freddi, compresse gelate!... Dopo le mie sfuriate però si calma, non mi secca più. E’ un uomo lento, ha bisogno di essere trattato male... Anche tu hai bisogno di essere trattato male. Se ti dicessi per esempio che io desidero la sconfitta dell’Italia cosa mi faresti?

Io la prendo, la stringo, la bacio, la stritolo. Implora pietà. Si abbandona all’amplesso e mi grida nello spasimo!

—Caro! Caro! Sarò buona! Sarò docile! Farò tutto quello che vuoi! Ho scherzato. Penso tutto ciò che vuoi. Amore! Amore!.... Amore! Viva la Guerra! Viva la guerraaa! Viva la guerraaaa!...

Quell’ora d’amore è stata così assorbente e intensa che non ci siamo accorti dell’uragano.

Fuori con Maria Baldini godo il crepuscolo limpido gioioso sulla campagna fresca e soddisfatta. Ogni verde di pianta e d’erba ha il suo tono preciso. A sinistra le voluttà dilatate brillanti dei giardini sotto le manate di viola porpora e d’oro che l’autunno il vento e il sole al tramonto rimescolano buffamente. A destra il canale Battaglia con un ritmo lento d’acqua verde ammonisce ironicamente la veemenza delle automobili militari e degli autocarri che si incrociano sulla strada come vampe di grossi calibri. Con ritmo lento il canale Battaglia ci accompagna sino al ponte. Un carabiniere. Tre carabinieri. Altri carabinieri qua e là vigilano quella villa dove abita il generale Diaz. La placida Villa Bondi dell’Orologio, facciata a colonnine, architettura piena di grazia e moine, parco folto e invitante all’amore, contiene il pensiero ordinato della nostra guerra mentre il canale Battaglia ha il ritmo sicuro della Nazione e la strada scaglia automobili, autocarri e motociclette verso il ponte, sotto un Caproni maestoso inghirlandato dal volo capriccioso di tre caccia.

Sento l’offensiva prossima. In Albania e in Macedonia gli Austriaci avevano 4 divisioni contro 2 e mezza dell’Intesa. Ora ne hanno 6 poichè ne hanno ritirato 2 dalla Romania. Non potendo fa cilmente fermarsi sulla linea di Nisch gli austriaci debbono formare una linea salda sul Danubio. Questa linea esige 20 divisioni per lo meno.

Stanno racimolandone 6 in Ucraina e ne ritirano 8 dal fronte Italiano. Fra pochi giorni vi saranno dunque circa 50 divisioni Austriache contro le nostre 50 divisioni.

XVII. DUELLO FRA CAVIGLIA E LA PIOGGIA

—Su, Ghiandusso, non fare l’imbecille. Sei ubriaco da far schifo. Non ho bisogno di te in questo momento; farò io.

Ghiandusso si allontana barcollando, col sergente Locatelli. Hanno bevuto in due un’intera bottiglia di grappa rubata alla padrona della fattoria. La certezza dell’offensiva, la speranza di rivedere la sua bella terra friulana hanno sconvolto dalla gioia Ghiandusso. Ho dovuto fare la mia cassetta da me ed ora sto disponendo con cura i petardi nell’interno della mia 74, illuminato di luce elettrica.

Massimo ordine e massima comodità. Tutti i nastri di cartucce lucenti e precisi. Tutte le pistole di riserva per gli uomini e per me. Tutti i petardi. Passato il Piave, ci lanceremo alla punta estrema dell’esercito col pericolo di essere accerchiati e di cadere in imboscate. Se le mitragliatrici si incepperanno ce la caveremo coi petardi. Siano molti e tutti a posto. Ho concesso poco spazio al vestiario e alle vettovaglie. Non avremo tempo di cambiarci e le nostre bocche si arrangeranno alla meglio. Poche scatole di marmellata, ecco tutto. L’interno della mia blindata 74 mi appare lucente, ricco di riflessi dorati, modernissimo come l’interno d’una alcova per piaceri sani, giocondi e felici. Alcova d’acciaio per grandi amori futuristi.

Alba augurale del 15 ottobre. Partiamo dalla fattoria Barchessa. La nostra colonna di blindate e autocarri si ferma a Dolo. Locatelli calmo dorme in fondo dietro di me. Ghiandusso chiacchiera come una grondaia. Il vino e i liquori gli fanno male. Ha un piccolo viso raggomitolato, verdastro e gli occhi tristi.

Piove. Il cielo è una lugubre inondazione nella quale sembrano beccheggiare i barconi che passano alti sui vagoni interminabilmente. Un motociclista arriva con scoppi, balzi e scia schizzante. Si ferma per domandare la strada. Col suo gabbano grondante, sembra un palombaro. Dice:

—A Milano i neutralisti e i preti hanno cercato di fare la rivoluzione con un allarme di campane in piena notte annunciando l’armistizio e la pace. Speravano di salvare l’Austria. Non la salveranno. Ora tutto è a posto. A Mestre ci sono 86 milioni di cartucce per fucili e mitragliatrici.

Alle 5 del mattino sotto la pioggia torrenziale, alt a Sanbuchè. Secondo alt a Zero Bianco. Ripartiamo colla brigata Lupi di Toscana. Gli ufficiali raccontano: «Uno dei nostri soldati fu fatto prigioniero dagli austriaci. Cinque giorni dopo abbiamo visto arrivar giù sul Brenta una zattera con sopra un cadavere: era il prigioniero inchiodato. In chiodato vivo, lo si capiva, poichè la faccia aveva le contrazioni tipiche degli annegati. Sul ventre una tela portava scritte queste parole: « Vi rendiamo il vostro lupo ». E gli ufficiali concludono salutandoci: «Quelle vigliacche carogne la pagheranno!».

E vanno coi loro fanti che ridono sotto la pioggia. Il nostro fante è affiatato colla pioggia, glorioso impasto di grigio-verde bagnato bestemmie cicche, peli di barba, pidocchi, capelli polverosi, sguardi di buon cane, risata furba, verruche, sudore, fango, l’innamorata e piccirilli, signor tenente, l’ultima m’è nata... tengo la fotografia... e la pagnotta.

Filiamo avanti coi bersaglieri ciclisti. Sembrano scolari in vacanza, benchè pedalino in ordine perfetto. Correndo nella penombra dei villaggi chiudono fra due file di ruote veloci polli, anatre, oche. Il ciclista in testa le arrota, quello che segue si china e con la mano destra pesca la preda morta. Se il secondo non l’acchiappa, il terzo, il quarto, sempre con gesto distratto, ma rapidamente, la ghermisce e via, via così, con polli, anatre e oche che spariscono nel tascapane.

Il 24 ottobre arriviamo a Paese. Villaggio banale con alto campanile, osservatorio incolume sulla strada, la piazza e le case imbottite e rigurgitanti di truppe. Colloco la mia branda in una stanzuccia che ha nel centro dell’impiantito un gran buco e ne salgono nitriti impazienti di cavalli, fiati caldi che aggravano la temperatura di densa angoscia. Piove. Atmosfera d’uragano prossimo, lontano, errante. I cani soffiano e s’agitano nervosamente nel sonno. Tutte le forze del cielo e della terra sono tese. Nuove forze si aggiungono a quelle già concentrate. Rrrrrr di autocarri innumerevoli. Tatatata di motociclette. Crrrrrr sssssss di carreggio e truppe in marcia. Questa è veramente una notte che cammina.

La notte cammina con le sue migliaia, migliaia e migliaia di ruote, gomme, zoccoli, scarpe. La terra è pigiata, masticata dalle masse di volontà umane tutte personali, originalissime e pur guidate dai fili collegati alla centrale elettrica di un pensiero unico. Ho saputo che Caviglia ha il comando dell’8ª armata, forte imbrigliatore elettrico che guiderà gli italiani elettrizzati d’odio-vendetta-patriottismo al di là del Piave. Ho fiducia.

Rrrrr, di autocarri. Tatatata di motociclette. Crrrr sss di carreggio e truppe in marcia.

Si distingue ora fra questi rumori ormai diventati il tessuto stesso dell’atmosfera, un bombardamento continuo lontano. L’offensiva è già cominciata sul Grappa. Va bene, ma trova una resistenza strana. Tutti parlano dei segni evidenti di sfasciamento nell’interno dell’Austria, ma l’esercito è più che mai in piedi: costruzione antica, cementata da una disciplina feroce. Disciplina divinizzata. La disciplina per gli Austriaci è una religione. Ufficiali e comandi formano una casta sacra di sacerdoti della guerra. I soldati non si battono per l’Austria, ma per l’Imperatore capo dell’esercito, e si fanno ammazzare per la Dea Disciplina.

All’alba il fragore del bombardamento lontano cresce. La battaglia sul Grappa infuria. Mi alzo e guardo il cielo come si squadra un manometro. Non piove ma ha piovuto e ripioverà. Le nuvole imperano, dispongono, minacciano. Il Piave è già pieno e quegli otri di pioggia sospesi sul destino dell’Italia diventano tragici. Il capitano Raby mi ordina di recarmi da Caviglia perchè io possa ottenere ciò che noi desideriamo ansiosamente: passare il Piave in testa alla cavalleria.

Il capitano Raby è turbato. Stanotte al comando della divisione di cavalleria che ha per ufficio un autocarro fra le case bombardate Raby ha avuto come risposta alla sua domanda di ordini: «I ponti non portano che 30 quintali. Lei, capitano, tenga ferma la sua squadriglia, e m’incolonni il carreggio della divisione.»

Strabiliante, imbecille, disonorante. Parto subito. Le strade ingombre mi ritardano. Giungo verso le 6 alla villetta del comando dell’8ª armata.

Viavai di ufficiali, precisi, che in silenzio entrano, escono. Questo a cavallo. Quello in motocicletta. Altri in biciclette sguinzagliate a ventaglio. Pure a ventaglio si sentono partire le forze della volontà centrale per i fasci di fili telefonici meticolosamente sorvegliati e controllati dai guardafili che corrono per la campagna. Quando entro nel giardino della villa il cielo è tutto sgombro, limpido, fresco, propizio. Ma quella nuvolaglia, che copre il ribollimento di cannonate tuun tuun tuun tuun tuun sul Grappa a destra, non è fumo come speravo. Ecco si stacca dal Grappa, annerendosi, invadendo di nuovo il cielo con un programma di pioggia per questa notte. Ma c’è del vento nell’alto. Un vento patriottico che combatte le nuvole e forse le vincerà. Il cielo mutevole addensa le nuvole e poi le soffia via intenerendosi al tramonto sulla divina bellezza d’Italia in pericolo.

Giunge un motociclista grondante, infangatissimo. Riconosco un amico, tenente di collegamento. Viene dal Grappa. Mi racconta la mischia vittoriosa, accanitissima in una nebbia fitta. Dice che il comandante del 9º reparto d’assalto, maggiore Messe, ha fatto cose fantastiche.

—Una nebbia che forse non si è mai vista neanche a Londra. Brutta lotta, quasi nel buio. Giorno e notte... tatatatatata. Si sentivano le mitragliatrici da tutte le parti... Gli arditi gridavano: Messe! Messe! Messe! Di qua, signor maggiore! Fiamme nere, a me! Giù, giù, con le bombe! Poi, via! Al galoppo, nella nebbia... Mettete le maschere, le maschere! tutti, le maschere! No! no! Nooo! è nebbia. Ad un tratto la nebbia si squarcia. Presto qui, una mitragliatrice! Una mitrigliatriiiiice! E un ardito arriva portandola sulle spalle... Ecco ecco, signor maggiore! L’ardito ansimante si butta colla pancia nel fango, e sopra la sua schiena la macchina rabbiosa sobbalza sparando. Tttatatatata. Gira, gira, a ventaglio. Gli austriaci cadevano, ma che noia quella nebbia, e che paura di colpire i nostri! Ad un tratto il tenente De Giovanni, un colosso, appare su un cocuzzolo a destra. La nebbia era diminuita e si vedeva le pallottole delle mitragliatrici austriache che facevano la barba al cocuzzolo... Aaaaaaaa! Il tenente De Giovanni cade fulminato. Quattro arditi si slanciano per portarlo giù. Tre sono uccisi. Il terzo vicino a me sputa un groomf! e cade. Tre li rimpiazzano. In quell’istante il reparto del maggiore Messe era come ingabbiato in un doppio fuoco di artiglieria. Fuoco di sbarramento sulle prime linee, fuoco di sbarramento dietro di noi. Accidenti! siamo ingabbiati. Tutti gridano: Messe! Messe! Messe! Il maggiore è dappertutto. Corre, si slancia, rianima, controlla ogni faccia nella nebbia fitta. Grida: qui, qui la mitragliatrice, non là! Non sparate lì, sono dei nostri! Sono dei nostri! Arruffio, confusione, velocità in tutti i sensi. Il reparto sembra diventato un corpo con mille braccia, mani, dita fra le matasse e i gomitoli di nebbia. Uomini ora appiattati, ora balzanti per riformar la linea, riconoscersi, strangolare i nuclei di nemici invadenti. Sopra di noi passavano dei veloci scenari di nebbia fittissima che svelavano nascondevano Grappa, Asolone, Col Moschin...

«Cretino!... non sparare! sono i nostri...!» «Lo so» risponde un tenente, «Signor maggiore, guardi sulla quota 3.000. E’ perduta»; poi grida «Aaaaiiii...» e cade con la coscia gonfiata come un pneumatico rosso da una palla esplosiva. Tatatatatata due arditi, la faccia nel fango, sussultano sotto due mitragliatrici ben puntate. Si sente, si capisce che gli austriaci sono lì che salgono. Ma non si vede a 20, a 10, a 3 metri. «Accidenti, urla Messe! Non sono Austriaci, sono i nostri! Cessate il fuoco!... I petardi! i petardi! qua i petardi! Tutti curvi col petardo nel pugno! Senza copiglia! Tenetelo alto! Non inciampate! Venite con me! Avanti! Ecco, quelle ombre sono assolutamente austriaci! Aspettate a tirare! A 30 metri! Aspettate! Gggiù! Patatamm traaac paaam paaaam.

«Messe non ha più petardi. Ora spara col moschetto. Un ardito vicino gli dà i caricatori notando i colpi precisi del maggiore: uno, due, tre quattro, cinque. Messe riceve, carica, spara, accoppa, puntando sul costone a 30 metri. Poi nebbia, nebbia, nebbia, geometria di forme nella nebbia. Non ci si vide più. Ma gli austriaci erano ributtati nella vallata».

Il tenente di collegamento ha narrato con un entusiasmo affannato mentre aspetta l’ordine di entrare da Caviglia. Si forma un crocchio di ufficiali. Tutti parlano di sua santità il Piave che dirige la battaglia. Il fiume è il polso del nostro destino. Il cannoneggiamento sul Grappa è accanitissimo. Ma la sicurezza regna intorno all’anima potente, fredda di Caviglia che si sente lì nella ca mera vicina. Il generale mi accoglie col suo sorriso bonario e passeggiando ascolta la mia richiesta poi dice con calma: «E’ naturale, le blindate in testa alla cavalleria, appena passato il Piave per l’inseguimento. Provvederò».

Segue un silenzio, dopo di che Caviglia la cui statura sembra altissima dominatrice come le cime gelate radiose e serene soggiunge:

—Tutti devono avere la mia sicurezza e il mio ottimismo. Il Piave non accenna a dimagrare. Mantiene da 24 ore la velocità di 2 metri e 50. Questo esclude passerelle e ponti... Ho consultato tutti i grafici del Piave, e mi sono detto: Da che mondo è mondo le piene del Piave in autunno non hanno mai durato più di 3 giorni. E’ mai possibile che proprio oggi, quando si gioca tutto l’avvenire dell’Italia, il Piave faccia lo scherzo di ingrossare oltre misura? Sento che ciò non è possibile. Ne sono sicuro. Gli austriaci d’altra parte offrono una resistenza formidabile sul Grappa. Vuol dire che non hanno capito il mio piano. Più resistono sul Grappa e meglio li prenderò tutti in trappola!

Fuori ritrovai il centro del cielo pulito benchè minacciato a destra dalla nuvolaglia.

Cielo di carta patinata lievemente azzurrina con sfumature e velature dorate. Orgogliosamente vi si slancia una squadriglia di aeroplani italiani. Sembra un forte, intenso e fortunoso sette di quadri che elastico viaggi verso l’asse di cuori rosso del Sole al tramonto. Si gioca volubilmente così nel cielo fra le mani disinvolte del vento la suprema partita dell’Italia. Spumeggiano d’oro tre nuvoloni ritti, perpendicolari, bottiglie di cosmico sciampagna già sturate che non potranno innaffiare che la vittoria nostra. Nelle mani folleggianti del vento italiano l’areoplanico sette di quadri vibra nero veloce preciso, geometrico.

Mangerà, deve mangiare il ricco asso di cuori. Sole al tramonto! Partita emozionante. Mille mille e mille facce al cielo. Altri areoplani Italiani fanno intorno ai giocatori maffie di valzer, moine e capriole, pattinano sul cielo levigatissimo, si preparano a beffeggiare, come usano, in tondo, la loro probabile vittima nemica.

Nel raggiungere a tutta velocità la mia squadriglia penso che l’audace volontà di vincere è una forza che si proietta fuori dai muscoli con slanci e potenza enormi. Ogni soldato oggi è carico di questa volontà, cosicchè si proietteranno questa notte e domani fuor da due o trecentomila corpi umani, più di trecentomila volontà capaci di plasmare, scopare, trasformare nuvole fiumi e masse nemiche. Queste volontà per raggiungere il loro slancio massimo non devono essere troppo fiduciose nè spavalde. Occorre una preparazione sommaria, poichè le lunghe preparazioni meticolose diventano in certo modo una poltrona profonda offerta alla Fortuna. Poltrona che la Fortuna brutalmente rifiuta.

Dopo pochi chilometri il cielo si è richiuso. Que sta tragica realtà mi afferra alla gola. Penso alla calma meravigliosa di Caviglia e al suo piano che intuisco. Dopo aver gettato tutti i ponti, circa 70, lanciare 22 divisioni contro Vittorio Veneto, aprendosi poi a ventaglio a destra per far cadere tutta la difesa austriaca del Piave, e a sinistra per accerchiare il Grappa. Piano degno d’un uomo di genio, assolutamente originale poichè esclude imprevedutamente il vecchio piano tanto discusso e quasi irrealizzabile di sfondare il Grappa per poi traversare il Piave. Caviglia pensò: nè a sinistra, nè a destra; ma al centro dopo aver fatto una forte azione dimostrativa sul Grappa.

Il piano però esige la collaborazione del fiume, e purtroppo questo cielo nero è inesauribile. Sento la materia del mio cuore trasformarsi, metalizzarsi, in un ottimismo d’acciaio. Sopra vi oscilla la vecchia sensibilità lirica un po’ femminile troppo vibrante. La riconosco con dispetto nel commuovermi quasi alle lagrime al pensiero della straordinaria vittoria che potrebbe sfuggirci, mentre guardo un fox-terrier devotamente affannato dietro al cavallo del suo padrone capitano.

La mia squadriglia è ferma al bivio Povegliano-Nervesa. Al lume di una lanterna davanti ai soldati riuniti leggo l’ordine del giorno di Caviglia:

«Ai comandanti di corpo d’armata, agli ufficiali, alle truppe tutte dell’armata, sento il dovere di chiedere di mantenere il loro animo all’altezza della situazione.

«Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria. La storia dell’Italia futura, forse per un secolo, dipenderà dalla fermezza e dal fervore di cui saranno capaci nelle prossime 24 ore gli animi nostri.

«L’ora delle supreme decisioni si approssima. Se noi avremo saputo mantenerci all’altezza di quest’ora, la fortuna e la gloria d’Italia saranno assicurati.

«E’ necessario che stanotte tutti i ponti siano novamente gettati. E’ necessario che il maggior numero possibile di unità passino sulla sponda sinistra del fiume. E’ necessario infine che le truppe che si trovano oltre Piave, attacchino violentemente, tendano con ogni ardore al raggiungimento degli obbiettivi prefissi.

«E’ l’Italia che l’ordina. Noi dobbiamo ubbidire.»

I soldati non applaudono. Rimangono seri, ma ansiosissimi. Che cosa si aspetta? Sappiamo che dovremo passare il Piave alle Grave di Papadopoli. Perchè dunque rimanere vicino a Nervesa? La pioggia è cessata. Il vento il divino vento favorevole sale con sbuffi impetuosi impacchettando le nuvole e cacciandole alla rinfusa verso il mare. Vento benedetto che noi salutiamo con baci e deliziosi tremiti nella gola!

Pronto e sagace, il sole lancia raggi dovunque, moltiplicando gli specchi rossi dei vetri, rimbal zando biondo sui volumi della vegetazione, preoccupatissimo di rischiarare tutto, pulire e ripulire ogni cosa. Non si deve forse tutti marciare al più presto, con ordine aggressivo? Sole affaccendato che vuole liberare le ruote dei cannoni dal fango, oliare le mitragliatrici e i fucili, trasformarsi in benzina nei carburatori, cuori bollenti aggiunti agli altri bollentissimi.

Più della metà dei ponti buttati questa notte resistono. Quelli delle Grave di Papadopoli cioè i nostri sono stati travolti. Ma questa sera saranno in piedi. Ce lo annunciano con occhi giocondi soddisfatti e fieri i pontieri che ritornano dal Piave. Pontieri colossi che i gabbani antipritici blu rendono quasi monumentali. Camminano oscillando, come marinai disabituati dalla terra ferma. Hanno sotto il braccio la pagnotta spaccata, masticano avidamente e gli occhi ridono con orgoglio ingenuo infantile. Tutti li circondano. Sembrano corridori dopo una gara difficile vinta. Passo pesante. Portano il peso dell’immane sforzo compiuto nel buio gelato crivellato dalle mitragliatrici, fra i lacci, le tenaglie della corrente lugubre che voleva scardinare, strappare, sbottigliare i pali, travolgere le botti.

—Le barche, dice uno, ballavano come scodelle nelle mani di un ubriaco. Il Piave era ubriaco, pazzo, questa notte. Ma ora è vinto; cede. Abbiamo lavorato bene, questa notte. Tutto passa da vanti a Nervesa. Al ponte della Priula, quelle carogne resistono.

E i pontieri si allontanano trascinando i piedoni mostruosi.

Il cannoneggiamento è un rombo continuo. E noi che facciamo? Con questa tortura lacerante dolce, amara, nella gola, ci sentiamo simili ai mendicanti invernali ai vetri di una ricca trattoria quando all’ora del pranzo fervono tintinnano le gioconde stoviglie e filano i piatti fumanti. Fossimo sulla tavola anche noi! Anche come cibi esplosivi fra le mani dell’ultimo cameriere! O in cucina nella vampa dei fornelli! S’avanza una prima colonna di prigionieri austriaci. Poi tre feriti nostri. Uno di loro, ardito, napoletano, fatto prigioniero riuscì a liberarsi. Racconta in napoletano la mischia clownesca, grottesca, a cazzotti, calci, lazzi, burle.

—Sono passato sulla prima passerella. Poi fra le erbacce nel fango sono scivolato in un buco!... Bombe a mano da tutte le parti. Strisciavo. Ho perso il pugnale. In tre mi hanno preso alle spalle. Io gridavo: fetenti! fetenti! fetenti! Mentre mi portavano via. Attraverso la pioggia i proiettili dei nostri 75 fischiavano come i siluri nel golfo di Napoli: Ptoo! fiiiisc... Pto! Pto! Pto! fiiii. D’un colpo un mio compagno di Napoli ha tirato un petardo in mezzo a noi. Le carogne che mi tenevano sono morte, io ferito alla faccia. Non è grave. Mi sembrava di essere a Santa Lucia quando le femmine fanno le liti e ci sono li fuochi artificiali.

I nostri Draken-ballon si sono spostati. Si annoiavano nella camera della Patria. Ora splendono e parlano in alto come enormi pappagalli gialli nel sole sulla finestra aperta del Piave.

Piomba l’ordine di partire per le Grave di Papadopoli. In tre minuti tutto a posto, tutto in ordine. Sentiamo la gioia liquida circolare nelle vene.

Ma la lentezza sulle strade ingombre di soldati in marcia ci esaspera. Stare al volante colla cura dovuta al motore e alla strada e sentire in sè mille anime sconosciute svincolarsi, premere fra le coste del petto per slanciarsi in avanti! Cala la notte sotto un cielo limpido, ma gelato. Ad ogni chilometro, alt, ingombro. Scendiamo e mentre le mani nostre tese sul fuoco si slegano, sentiamo premere sulle nostre schiene un alito misterioso e rovente, l’alito fortunoso della Patria che ci spinge con milioni di volontà italiane al di là del fiume. Sono volontà Italiane che da tutti i punti della penisola si slanciano affollandosi ed ora cantano, urlano nelle boscaglie fluviali. Sono anch’esse ansiose di varcare le acque. L’alito possente della Patria tessuto di milioni di anime lontane venute dalla Sardegna, dalla Sicilia, dall’Egitto, dall’Argentina, dal Brasile rinvigorisce ora le mitragliatrici che sul greto si moltiplicano intrecciando i loro brillanti arpeggi ta ta ta ta ta ta. Rimbalzante fluidissima scorrevolezza di centomila pianoforti sotto dita di pianisti, forse quei pia nisti italiani cinquantenni che a Rio Janeiro o a Buenos-Aires suonano, suonano in concerti patriottici con passione e genio, facendo sparare mille armonie come noi spariamo contro la riva nemica (pianoforte da sfondare!) di questo Piave che si dà delle arie di Fiume Americano.

Il comando della cavalleria ha deciso di non lasciarci in testa. Ce ne accorgiamo da molti ordini e contrordini. Si dice che i primi ponti sono deboli, non sopporteranno il peso delle blindate. Vado ad accertarmene col capitano Raby a piedi, curvi nell’intrico fangoso delle erbe. L’alba, pallida e fredda, si spacca qua e là in blocchi rosei d’aurora come colpita dal cannoneggiamento della 3ª armata che alla nostra destra incomincia a buttare i suoi ponti. Il fiume ha qui circa tre chilometri di larghezza. Noi dobbiamo seguire però un nastro tortuoso di strada per traversarlo. Circa 8 chilometri di ghiaia, guadi a fondo solido e ponti. Il Piave sembra qui un immenso estuario.

Tenendoci curvi poichè il fogliame delle piante è su di noi falciato dalle pallottole, interroghiamo un sergente del genio che nell’acqua regola gli Issaa-ooh! Issaa-ooh! dei pontieri intorno alla capra.

Tata tuum tata tuum di cannonate.

Scraabraaaang di bombarde.

Ta ta ta ta ta ta di mitragliatrici.

Iauu iau iau di schegge lontane e di pallottole.

Issaa-ooh! Issaa-ooh!

Passa un farfallone d’acciaio da mezzo chilo a venti centimetri dal mio naso.

Visitiamo, palpiamo il ponte che lega il primo guado colla prima isola boschiva e pantanosa. Sotto fruscia, stride incalza e galoppa l’acqua fulgente. I languidi ruscelli pacifici e melodici sono diventati corde metalliche violente per legare, strappare i piedi dei ponti.

Issaa-ooh! Issaa-ooh! Ultime ostilità del fiume che vuole colle trecce tumultuose delle sue acque trattenere i passi audaci dell’Amante che scavalca il suo letto.

Il sergente del genio intelligente, afferma che il ponte è solido. Una granata approva con scoppio brutale, schiamazzante.

Il ponte scricchiola, geeeme piegando le sue tavole sotto il peso della mia 74. Siamo tutti appiedati, mentre il mio volantista guida con cautela.

Ora grave. A destra a sinistra a cinquanta cento metri Biii... Graang! Biiiii Graang-graang! vvv. Ho avuto stanotte un presentimento di morte.

Nel buio con calma ho regalata la mia vita di grande poeta a questa divina parola: Italia, che merita oggi la vita di mille mille poeti altissimi. Ora ricordo la formola di equitazione: per saltare un ostacolo a cavallo bisogna gettare il cuore al di là dell’ostacolo. D’un colpo, lancio il mio cuore sulla altra riva.

Subito vedo in sogno la Fortuna inclinare sempre più il piano da Padova al Montello perchè le masse di forze italiane scorrano giù nel Piave e si rovescino sull’altra riva schiacciandola.

Raby da due giorni liberato dal suo guscio molle di placidità orientale si è rivelato un comandante energico, espertissimo, tenace. Dopo ogni ponte, il guado è un problema da risolvere.

Questi primi guadi del Piave sono facili e si corre poi, per dei tratti, con prudenza su un ponte, indi cento sforzi nell’acqua, poi di nuovo via correndo tutti intorno alla blindata giocondi come per un parto riuscito. Davanti a noi nelle isole tutte a ciuffi di piante fluviali si sparpaglia la fucileria. La retroguardia austriaca snidata come una abbondante selvaggina che non voglia abbandonare i suoi covi. Ecco la riva! L’altra riva del Piave tanto sognata, desiderata, invocata, abbracciata dalle nostre anime! Alla mia destra due trincee ci bersagliano. Voluit, voluit, di pallottole sul capo. Graang! Questa pallottola si è schiacciata sulla blindata. Primo collaudo. La blindatura Ansaldo tanto discussa resiste.

A destra passano con noi i bersaglieri ciclisti del colonnello De-Ambrosis. Sparano con la bicicletta appoggiata al fianco e cantano: Addio mia bella addio... Nostalgia dinamica e marziale di quella, canzone trascinata ma che trascina, svolazzante e smarrita, ma imperiosa. Strana miscela di sentimentalismo e di audacia virile. Zaino di melanconia che il soldato meridionale porta con disin voltura spensierata in marcia verso il pericolo ignoto. Il ricordo della donna pungola le nuove audacie.

Cos’è questo vocio lamentoso che si trascina vicino alla trincea ora deserta?...

Braccia alzate! Donne e bambini! Sono italiani di Campodolcino. Arruffio di gesti e camiciole femminili intorno ad una colonna di prigionieri. Sporchi, in brandelli, col berretto a tre bottoni. Questo porta lo stemma imperiale. Gioia acuta di calcare la trincea vuotata.

Abbiamo passato il Piave. La prima blindata corre sulla strada di Campodolcino.

Fo fo fo fo fo dei nostri 260 che passano nell’aria.

A destra lontano, verso Vittorio Veneto infuria la battaglia. Giunge l’ordine di inseguire e travolgere la retroguardia che si sta trincerando a Bibano di Sotto. Alt, colazione sommaria. La terra già cotta dal sole è piena di cadaveri che puzzano.

—Austria official, dice un prigioniero; Austria comanda, io non volere tirare.

I suoi occhi implorano. Dividiamo un pollo con lui, e restiamo quasi senza, noi, poichè, bisogna farne parte a due macilenti borghesi italiani.

—Avevo un fratello nelle munizioni a Milano; l’altro sul Piave nell’artiglieria da campagna. Uno fabbricava i proiettili, l’altro me li lanciava ed io li ricevevo!

Sintesi della guerra sul Piave.

Presto, in macchina, e avanti! Cimadolcino è tutta bombardata, deserta. Un plotone di cavalleria che l’attraversa con noi unisce i suoi nitriti e lo scalpitare degli zoccoli ai rombi dei motori e allo stridore delle blindature. Polifonia che fa vibrare le case in rovina tutte smobiliate, squartate, slabbrate, disossate. Gli austriaci hanno portato via tutte le travi. Fortunatamente i muli di queste salmerie di bersaglieri sono carichi di legna. Strappiamo qua e là dei cartelli: Nach Fezzo, Nach Cimetta, Nach Codognè. Il nostro entusiasmo pieno di scatti, si irrita di non essere ancora in testa a tutti. Sulla strada procediamo tra bersaglieri ciclisti che corrono corrono rischiando d’essere arrotati ogni momento. Abbiamo alla destra un battaglione di scozzesi con le cucine fumanti, a sinistra una batteria da 75 italiana. Accanitamente vogliamo sprizzar fuori dalla calca. Arruffio, gesticolazione, bestemmie di conducenti. Largo! Largo! Largo! Piega a destra, cretino! C’è posto, lasciami passare! Non si può! Voglio passare, per Dio! Ti sbatto nel fosso!

Nitriti di cavalli, groppe che fumano sudatissime, ottoni brillanti delle bardature inglesi. Il sole fa divampare le facce che rosse si mescolano alle bandiere agitate dai borghesi. Due, tre bandiere, una folla di bandiere sventola su questa bassa terrazza. Le donne si piegano giù dai balconcini, visi convulsi in lagrime. Parlano, parlano, chiamano, consigliano. Fanno gesti convulsi verso quella linea di olmi in fondo a quel campo dove ecco pam, pam, pam scoppia la fucileria.

Il capitano Raby bestemmia nella vetturetta:

—Fuori, fuori di qui, per Dio! Non curarti dei parafanghi, spacca, e fuori!

Sobbalzi, urtoni. Un mulo cade. Un ciclista nel fosso. Sfondiamo una cucina scozzese. Ne schizzan fuori brodo e vapore sulla groppa di un mulo che calcia. Gli scozzesi ridono, ma noi siamo liberi. A grande velocità, le blindate, a 300 metri l’una dall’altra. Tutto a posto, eccettuato un parafango rotto. Il mio motore va bene. Flauteggia: Tuuuvvv, Tuuuvvv, Tuuuvvv.

Villaggi deserti. Abbandono. Desolazione. Gli Austriaci si sono squagliati. Sorpassiamo una pattuglia di cavalleria. Il tenente mi dice:

—La linea Austriaca è al di là di Bibano di Sotto, 2 chilometri davanti a Sacile.

A destra e a sinistra i campi hanno innumerevoli buchi; sembrano aver subito dal bombardamento nostro una preparazione ad una fitta piantagione d’alberi. I cadaveri qua e là dormono come strani giardinieri stanchi dall’eccessivo zappare. E’ quasi buio sotto il cielo rannuvolato quando giungiamo alle prime case di Bibano di Sotto. Rovine. Silenzio assoluto. Malgrado gli ordini severi io ho tenuto sempre lo sportello sinistro della blindata aperto, la gamba penzoloni fuori, appoggiata sul predellino. Ho in mano il revolver, ma lo stringo macchinalmente tanto l’atmosfera di questo Piave vittoriosamente varcato è piena di fortuna strafottente.

Perchè abbaia tanto la mia Zazà col muso fuori dal finestrino? E’ una cagnetta intelligente, intuitiva, talvolta profetica. Le bestie sono spesso in contatto colle forze più di noi. Ma io non ascolto Zazà. Ho fame e so che a Bibano ci fermeremo per aspettare l’autocarro dei viveri.

Ta ta ta ta ta ta. Scossa. Stupore. Siamo caduti in un agguato. Però, niente paura. Da due finestre della piazza vampano e sparano due mitragliatrici austriache. Non c’è tempo nè modo di rispondere efficacemente colle nostre mitragliatrici. Mentre il sergente Locatelli ne punta una in cupola, noi ci slanciamo fuori. Moschetti, pistole e tascapane pieno di petardi. «Lì! Lì! quella finestra a pian terreno!» urla Ghiandusso. Io la punto col moschetto e sparo. I miei amici fanno altrettanto. Cinque minuti di fucileria a 20 metri dalla finestra. Noi riparati dietro un enorme autocarro austriaco rovesciato. La finestra si spegne e tace. Ci precipitiamo dentro. Tre sloveni che alzano le braccia e 2 bosniaci feriti. Trasciniamo fuori il tutto e li consegnamo ai bersaglieri ciclisti che sopraggiungono. Alt. Riposo. Abbiamo un solo ferito. Autocarro dei viveri. Mangiamo.

XVIII. LA VITTORIA

—Chi vuol venire con me in esplorazione notturna?» domanda il capitano Raby.

—Pronti! Seconda sezione!—rispondiamo io e il tenente Bosca.

Il capitano sale nella blindata di Bosca e parte. Io perdo un minuto a bere un po’ di caffè che mi versa il cuoco Caroli dall’alto dell’autocarro dei viveri. Poi in macchina. Il motore non prende. Parto con un piccolo ritardo. Ma ho lo stomaco a posto. Ho messo al volante Fatutto. Eccellente meccanico e volantista, ma cade dal sonno. Sono ormai tre notti che non si dorme. Corriamo. Comprendo che il pericolo questa notte è eccezionale, poichè di pattuglia ci si va a piedi e non a tutta velocità senza lumi sugli arabeschi di una strada sconosciuta. Questa è certamente la prima esplorazione di blindate in pattuglia notturna. Sbarro gli occhi sul nastro perlaceo della strada crepuscolare che l’ombra degli alberi sfrangia deforma e corrompe. Ad un tratto non vedo più la macchia nera della blindata che mi precede. Sono le nove. La strada gira ad arco. Il volantista non lo prevede, ed ecco a destra giù la mia mac china piega. Accidenti! Sempre più nel fosso giù, giù. Rovesciamo! Catastrofe! Griiing, Griiing, griiing craacraaac di rami. Plaaaf di fango.

La mia 74 si è coricata nel fosso. Non è profondo per fortuna. Saremmo ridotti in marmellata! Benchè imbottite di cartucce, cassette, mitragliatrici e spigoli d’ogni genere, le blindate nel rovesciarsi salvano spesso ciò che contengono.

Con voce fredda tagliente raccomando la calma perchè gli uomini uscendo salvino se si può l’ordine interno. Vana illusione. Tutti i nastri di cartucce, casse, cassette sono crollati. Una lacerazione non profonda sul cranio. Il mitragliere Salis ha la faccia insanguinata. Ferite non gravi. Ci penseremo dopo. Si tratta di rimettere sulle ruote la 74. Spero, spero, spero che il motore non abbia danni seri. Buio. Lancio un uomo sulla strada per avvertire la blindata di Bosca. Certo si sarà accorta di non essere più seguita e si ferma. I miei uomini intanto svegliano le poche case abitate di Bibano. Candele accese alle finestre. Le donne sono le più leste. Una contadina arriva correndo. Interroga, colla voce rotta d’angoscia. Ho acceso una torcia: la contadina è giovane, bella ma d’un pallore affamato. Le regalo una scatola di conserva.

—Va subito a chiamare tuo padre, tuo fratello, tutti gli uomini. Ho bisogno di leve, rami di albero; niente zappe. Le abbiamo!

Accendiamo altre torce senza curarci della fucileria austriaca che brontola sulla destra, molto lontano. Sono senza dubbio le retroguardie austriache che cedono alla terza armata sul Piave verso Fagarè. Tutti al lavoro. Bisogna scavare l’orlo della strada per sollevare la blindata su terreno piano. Zin-zin-zin di zappe febbrili accanite. In un’ora tutto deve essere finito. Menghini visita il motore e grida dalla gioia:

—E’ sano, è sano, è completamente sano!

Arriva il capitano, bestemmia contro Fatutto che certo dormiva al volante. Poi distribuisce il lavoro zappando anche lui.

Contadini e contadine con leve e rami d’alberi.

Io riordino il materiale sparso. Sulla destra la fucileria austriaca rumoreggia. Spengiamo due torce. Si lavora quasi a lume di naso. Con le leve e colle binde la mia 74 si solleva lentamente. E’ tutta fangosa, ma intatta. Mi ricordo finalmente della mia ferita. Fasciato, ho l’aria di avere una infiammazione ai denti. Non posso sopportare l’elmetto. Tutti dicono: Se tu avessi avuto l’elmetto sarebbe stato meglio.

—Tutto a posto?

—Tutto a posto.

All’improvviso la blindata del tenente Cenami che mi segue a 100 metri di distanza s’incendia. Alt. Il suo motore è in fiamme. Subito, tutti allo spegnimento. Sbatacchiamento arruffio, di panni, braccia, coperte, mani che lavorano sul fuoco che guizza, si scatena, si rizza, agonizza, divampa, sparisce, torna, scoppia, lingueggia su tutti i punti. Soffocato non muore; rosso, viola, blu rinasce. Accidenti! non gettate terra sul motore! Iratissimo il capitano, perde la calma. L’attendente di Bosca un pugliese forte e audace che si chiama Siciliano e sembra un vero Arabo si è coricato sotto il motore. Il fuoco è domato.

Sembra il destino di questa pattuglia di blindate di avanzare con fragori e incendi. Certo, gli austriaci ci hanno scorto. Rallentiamo. Devono essere molto vicino. Una luce. Si veglia in quella fattoria. Una contadina quarantenne gioviale dice:

—Mezz’ora fa sono passati due battaglioni austriaci! La loro trincea è a 500 metri.

Si spegne tutto, aspettando le altre blindate. Nel buio la donna parla:

—Non ho nulla da darvi, cari figlioli di Dio. Niente vino, niente polenta. Hanno portato via tutto. Ieri qui, c’è stato una grande confusione. Due divisioni boeme si sono ammutinate. Lì fuori, andate a vedere, sotto gli alberi ci sono due boemi impiccati.

Fuori, con un cerino acceso, scopriamo i due corpi sospesi. Tipico arricciamento delle braccia sotto la corda rallentata un poco. Uno ha la testa volta all’insù verso il fogliame e gli occhi aperti ma senza la solita ferocia spaventata. Sembrano guardare distrattamente degli uccelli. I due impiccati portano sul petto una tabella che denuncia in tedesco il loro tradimento. Rientriamo.

—I germanici sono i più prepotenti, continua la donna nel buio. Quando un germanico dà un ceffone a un debole se questo lo riceve senza renderlo ne riceverà due, tre, quattro, senza fine. Se invece questo risponde con due ceffoni al primo, il germanico li piglia e se ne va. Il Germanico non rispetta che la forza violenta. Molti prigionieri nostri fuggivano dai germanici per farsi fare prigionieri dagli austriaci. Gli ungheresi sono però i più crudeli. In fondo, tutti predoni e briganti. Un esercito di ladri. Hanno portato via tutto, tutto!

Quando ripartiamo fa ancora buio. Lentamente, cercando di diminuire il rumore dei motori. Ma gli austriaci vegliano e subito la fucileria scoppia. Siamo bersagliati da una casa, tutta vampe nelle sue finestre e nel folto del suo giardino. La mia blindata risponde per la prima colla mitragliatrice in cupola:

—Con calma, adagio! Locatelli, punta bene una delle finestre.

Ta ta ta ta ta ta     ta ta ta ta ta ta     ta ta ta ta ta.

—Hanno un cannoncino! Punta bene, Locatelli! Guarda la strada. Fatutto! Come va il motore?

—Bene, signor Tenente.

A sessanta metri dalla casa. La blindata di Bosca, venti metri dietro la mia, spara anch’essa con due mitragliatrici. Ciò mi dispiace perchè siamo troppo vicini, e offriamo un grande bersaglio. Le nostre tre mitragliatrici funzionano puntate su 3 finestre diverse che agonizzano. Ammutolite.

Gli austriaci sparano ancora dal folto del giardino.

Raby grida:

—Giù tutti! Cessate il fuoco! Coi moschetti! Prendi i petardi! Tutti insieme dentro il giardino!

Mi slancio. Nello scavalcare il muricciolo sento bestemmiare Siciliano che tempesta col calcio del moschetto due austriaci in un boschetto. Si arrendono. Siciliano viene avanti spingendoli a pugni e a calci.

—Ne ho acciuffati due. Gli altri si sono squagliati.

Nella cucina bolle un infernale cazzottio fra le ombre nere e le boccacce rosse del focolare. Fragore di pentole. Una trentina di prigionieri con una mitragliatrice. Entrano nel giardino pattuglie d’arditi fez neri, scamiciati, con altri prigionieri.

Incolonniamo le prede e le rimandiamo indietro. Intanto la fucileria si accende a ventaglio colle prime luci dell’alba che scioglie gli incubi dei prati.

Partiamo veloci, lasciando sulla sinistra un battaglione di fanteria che conquista un grande prato in fondo al quale una cortina d’alberi sputa maledettamente pallottole. E’ l’ala dell’esercito austriaco che si ripiega per difendere Vittorio Veneto. Accanita. Ora si aggiungono tre mitragliatrici che rallentano l’avanzata della nostra fanteria. Noi fi liamo sulla strada, per girare al largo di questa estrema difesa, e giungere in Vittorio Veneto.

Due ore dopo vi entriamo con venti autocarri rigurgitanti di arditi fez neri. Impetuoso scamiciamento, fucili branditi da braccia pazze, bocche squarciate dal canto, lazzi feroci di gioia barbarica nel polverone incandescente, fiocchi neri al vento, bandiere nere che spazzano gli alberi sotto il sole che pomposamente si spacca in cannonate arroventando l’aria. Beviamo nella corsa un simun africano saporito di allegria infantile. La polvere calda sulle labbra è lo zucchero della vittoria. Rimbalzano in aria i cuori nostri gareggiando in splendore, furore e rotondità trionfali con le nuvole tronfie e ricche d’oro che vorrebbero certo metallizzarsi per combattere anch’esse e schiacciare il nemico. Belle nuvole di Vittorio Veneto, gonfiate da tutti gli aliti italiani dove eravate, donde venute? Vi lodo di aver perduto nel vento le belle curve flessuose femminili per assumere soltanto le forme aggressive impennate e gli spigoli infilzanti!

Questa nuvola a destra soffia getti di lava d’oro fra i suoi mille baffi accecanti, il suo irto pelame variegato e la sua coda altissima di tigre d’argento. Altre nuvole come spazzole di bragia rigovernano accanitamente quel nuvolone-cavallo dalle troppe zampe correnti come i primi cavalli dinamici dei pittori futuristi. Un’altra nuvoletta agile di nickel fila, fila verso il mare come una torpediniera grondante di liquido azzurro per raggiungere forse la squadra italiana. Sul mare, sul mare, certo, anche sul mare, ora l’Italia vince. Ma sulla testa un’altra bella nuvola di vittoria. Mi sporgo fuori dalla blindata per ammirarla. E’ un cerchio, un grande cerchio d’oro massiccio dipinto di rozzi pomi vermigli. Degna corona del vincitore Caviglia che, scopati i vecchi piani strategici, seppe mediante le sue spie volanti in aeroplano sui notturni accampamenti, scoprire il punto debole del nemico e colpirlo nell’immenso scacchiere, mortalmente. L’esercito Austriaco ferito nella saldatura delle due sue armate del Grappa e del Piave, cade a pezzi. Pezzi potenti, armatissimi, ancora disciplinati, che cercano di sfuggire agli inevitabili accerchiamenti.

Nella città di Vittorio Veneto c’è festa e battaglia. Canti di gioia, fucileria rabbiosa, facce in lagrime, pioggia di fiori, inseguimenti al galoppo nei giardini e su per le scale, pugilati e strangolamenti di difensori nei fossati. La città ci riceve a finestre spalancate. Quel balcone rigurgita di donne. Le grida prolungano le capigliature. Capriole di scugnizzi nel fango, fra le pazze motociclette che scimmiottano aizzano le mitragliatrici.

Grondano le facce degli arditi che s’arrampicano sulle terrazze. E anche sui tegoli rossi dei tetti. Colle corde tirano su una mitragliatrice. Puntata. Contro quel quartiere laggiù dove i bosniaci resistono. Entro in una vasta piazza colla mia 74. Tutte le donne scarmigliate intorno alle ruote. «Accidenti alle donne! Via! Via! Sarete colpite!» Ma poco importa! Se ne infischia questa giovane che spara col moschetto da un portone contro il fondo del cortile.

Spara, poi si slancia dentro. Tumulto grigio verde. Braccia nude e capelli al vento. La gioconda chiacchiera veneta pettegola colla mia mitragliatrice che bersaglia un caseggiato zeppo di bosniaci e prostitute austriache. Vittorio Veneto ne conteneva circa un migliaio, di quelle donne d’ogni classe camuffate da Crocerossine, felici di servire a tutti gli usi e istinti dell’esercito austriaco pur di mangiare, ciò che era diventato difficile in Austria. Avevano collaborato coi soldati nelle ciniche requisizioni ed erano odiatissime.

«Quelle vacche, quelle vacche! bisogna massacrarle! Mi dia un fucile per carità, signor tenente, mi dia un fucile! Ci vado io e le sgozzo, le sgozzo!»

—Perchè un borghese spari così sui soldati, bisogna che sia inferocito dalla vendetta! sentenzia Ghiandusso.

Altre donne accorrono, mi baciano le mani, mi stringono i fianchi, tentano di portarmi via il revolver. Delle bionde sedicenni gracili e gentili sembrano forsennate.

La Vendetta, Forza gigantesca irta di baionette, pugnali, spilloni, unghie di donne, rotola nell’aria tiepida profumata dei giardini.

La Vendetta, Forza elementare cocciuta sintetica, nutrita da milioni di rancori covati. Il padre maltrattato e schiaffeggiato. La sorella incinta buttata giù dal letto per rubarne le lenzuola. Il vecchio beffeggiato. La vacca, l’unica vacca rimasta per il latte ai bambini, rubata. Il colonnello austriaco che baciò per forza mia sorella! Bisognava cedere e subire quel corpo schifoso perchè la mamma non morisse di fame. E i buoi, il rame, la biancheria, tutto rubato. I mobili, tutti portati via da quei ladri, ladri, ladri! La Vendetta rotola nel cielo con i volumi mostruosi di quelle nuvole irte di raggi acutissimi brucianti, che penetrano nelle ossa, facendone sprizzare lagrime di fuoco.

Ricordo, ricordo che in me, nei miei soldati e in tutte le facce nere polverose degli arditi la Vendetta penetrava, imbeveva di sè ogni fibra, scatenava i muscoli, unghiava le labbra, gli occhi le orecchie.

Vento caldo di ferocia era l’alito diabolico di questa divinità tremenda: la Vendetta! Vendicare un anno di soprusi, saccheggi, prepotenze e crudeltà! E quei famosi bollettini spavaldi e imbecilli dello Stato Maggiore germanico dopo Caporetto! Come dimenticarli? Sentivo, sentivo, in me gli insulti atroci alla mia razza bella, intelligente, lirica, geniale, pronta a tutte le generosità, bontà, cortesie, e così mal ripagata da quei bruti smargiassi! Bruciano, bruciano ancora le ingiurie di quella soldatesca ingorda e balorda. In nome di quale giustizia mille volte più che divina posso io dimenticare? Io non sono San Francesco. Sono un futurista italiano, più umano d’ogni essere umano, e civilizzatissimo. Ma la bestia immonda, merita la lezione, una spaventosa definitiva lezione. Nel cielo di Vittorio Veneto rotola la Vendetta coi suoi abbacinanti volumi di nuvole tonde irte di raggi acutissimi. Viaggia con lei un’altra Forza vestita di sciarpe eleganti di nuvole rosee che schioccano ed è la divina Allegria italianissima, con morbide frange di dolcezza. Questa spensierata vorrebbe avvolgere rinfrescare l’impetuoso corpo aereo tropicale della Vendetta. Con mille moine delle sue carezze e sorrisi, frange di piume volubili, la Forza dell’Allegria spruzza di rosa le ombrie tiepide dei giardini, risveglia i sapori delle frutta autunnali e cuoce i profumi dei nascituri fiori primaverili che le fanciulle porteranno nei capelli obliosi, coi fidanzati, quando la guerra sarà dimenticata e il nemico perdonato poichè vinto. Ma la Vendetta urge, preme dall’alto, urlando con le mille bocche delle donne:

—Massacrarle, massacrarle bisogna! Quelle puttane!... Erano tutte d’accordo con loro! D’accordo con quelle canaglie! Volevano che andassimo a letto col colonnello! Dov’è il colonnello? dov’è il colonnello Sweiger? Se lo trovo, gli mangio il cuore! Sì, signor Tenente, glielo mangio io!

Intanto si sentiva dovunque come la respirazione vasta di un mare, ed era la respirazione della Vittoria che invadeva le strade colmando ogni essere vivo, uomo, donna, fanciulli, altrettanti vasi capaci straripanti in lagrime e risate di gioia. Tutti vi si abbandonavano, tutti. Ma per brevi istanti, poichè la Forza della Vendetta ritorna, implacabile, affamata! La vedo, la sento piombare in un gorgo di donne con un grido, una parola. Il gorgo diventa frenetico. A calci a pugni le false crocerossine Austriache sono trascinate in mezzo alla piazza.

Sinistro tafferuglio. Le donne vogliono strappare agli arditi la preda. Un colosso bosniaco crolla, la faccia revolverata: orrenda spugna rossa.

La fucileria cede, cede alla periferia della città. I comandi prendono il sopravvento. Io libero i bosniaci prigionieri, faccio sgombrare la piazza e di nuovo in blindata per le strade della città. Continua nel mio cuore il tumulto d’una rissa dolorosa fra due mie anime.

L’anima umana sensibile e visionaria che tutto comprende, prevede immagina, perdona, riassume in uno spasimo d’angoscia tutti i dolori dei vinti, discernendo fra le colpe dei capi e le brutalità meccaniche dei greggi, lotta ora furiosamente contro la seconda Anima selvaggia sanguigna, negra sorella della ferocia generale, e legata alla massacrante Vendetta aerea. Questa non è ancora sazia!

Giù nel quartiere di Serravalle vociare e confusione. Gli arditi si precipitano in un portone. Li raggiungiamo troppo tardi.

Quando entro tre bosniaci sono a terra sventrati. Non mi pento d’essere arrivato in ritardo poichè vedo nello loro tre mani destre tre enormi mazze ferrate.

—Buon giorno, Marinetti, mi dice il colonnello Trivulzio, con la pipa in bocca. Non compiangete quelle belve e guardate!

Lo seguo in un camerone dove contro il muro sono attaccate in bell’ordine migliaia e migliaia di mazze ferrate.

—Vi sono altre tre camere piene come questa. Basta per ora. Usciamo! V’invito a colazione. Prenderemo il caffè in una strana famiglia mezzo austriaca, tutta smorfie e baci per noi. Divertentissimo. Venite.

XIX. LA VILLA DEVASTATA

A tavola i bollettini di guerra stupefacenti e i giornali colmi di vittorie passano di mano in mano sulla pasta asciutta. L’appetito lotta col cuore ebbro che sotto i tonfi delle notizie gioiose vorrebbe schizzare lagrime e singhiozzi felici. Cinquantamila prigionieri, 300 cannoni. Il colonnello Trivulzio annunzia:

—L’intero sistema difensivo del Grappa è caduto nelle nostre mani!

Uragano d’applausi. Un bersagliere ciclista scaraventa dalla gioia tutta la sua pastasciutta fumante in faccia del suo compagno. Questo ridendo calmo sornione, ingolla due bicchieroni di vino, poi ne riempie un terzo e pluff! doccia di rosso il suo assalitore.

—Io non mangio più, non ho più fame, dice Trivulzio; sono pieno come un otre di gioia pesante... Ho avuto le due gioie sognate! Prima: vendicare Caporetto. Seconda: finire malgrado la mia età la guerra, godendo la vittoria con l’animo d’un giovane! Andiamo a prendere il caffè al primo piano. Fra mezz’ora ordine di partenza.

Tutti in fila entriamo dalla signora Lucatich. Un tenente, bersagliere ciclista, ha portato con sè un piatto di carne che divora camminando. La padrona di casa, donnone biondastro, dal corpo liquefatto, straripante, ossequia in buon italiano. Ci presenta sua figlia, magrolina, bionda, slavata. Parla anch’essa molto bene in italiano correggendo così il carattere tedesco dell’interno: quattro oleografie di Siglinde, Sigmund, Sigfrid e Drago, Ondine ecc., a tinte rosse, azzurre, verdi, violente, stonate, antipatiche.

La signora Lucatich che versa in giro il caffè, ci minaccia colle sbrodolanti mammelle. Poi apre il pianoforte a coda. Subito un capitano dei bersaglieri s’impadronisce della tastiera come il canto si impadronisce della marina napoletana. Nerissima capigliatura impennata, pizzo nero, faccia di bersagliere di Lamarmora in una stampa del ’48. Il capitano canta: Me ne vogl’ì in America...

Il lamento nostalgico, patetico, lacerato della sua bella voce meridionale dilaga. Naufragano un istante le anime nostre irte e gli angoli duri dei nostri temperamenti.

Nella melodia soave, ironica, carezzevole, la voce si sviluppa delicatamente sale e s’intenerisce morendo, poi con vellutate violenze si scaglia in ondate impetuose su, su fino a delle note fulve, calde, sorridenti. L’eleganza imperiosa e maschia della voce domina, determina e precisa la passione. L’immaginazione nostra evoca il golfo napoletano nella sua carnalità lunare che comple tando la facile melodia forma un alto elastico vivo capolavoro del genio italiano.

Ma uno grida:

—Basta col sentimento! Suonami una cosa allegrissima pazza.

La signora Lucatich si avvicina al piano forte, vorrebbe consigliare. Il capitano scatena l’introduzione del Barbiere di Siviglia. Gioia generale. Io spacco una sedia, rovesciandomi indietro di scatto. Tutti in piedi, giro tondo intorno alla tavola. Pigliamo nel vortice la cameriera che abbracciata, palpata e rischizzante di braccia in braccia, mi mormora accennando alla padrona:

—Se la intendeva cogli austriaci!

Ma un accordo funereo e grave mi attira al pianoforte.

—Che cosa suona, signorina?

—Beethoven... Beethoven è più grande di Rossini.

Un urlo selvaggio.

—Ma cosa ne sa lei? Cosa ne sa lei? Rossini è smisurato! Abbasso Beethoven! Beethoven è morto quattro anni fa! Rinascerà se vorremo fra quindici giorni. Ora è ancora sepolto e Wagner pure con suo fratello Von Kluk, suo cugino Hindenburg e Ludendorf cretino quanto quel Sigfrid che è sulla parete. E lei, signorina, si convinca che l’Austria è morta e che non si festeggiano gli Italiani suonando Beethoven. Con tutto il rispetto che ho sempre dato al bel sesso, le dichiaro che lei è una cre tina! Noi italiani di Vittorio Veneto possiamo finalmente strafotterci di Sigmund di Sigfrid e anche del Drago germanico! Così!

Strappai quattro quadri e sfondandoli a pedate li infilai sulla testa a quattro amici. Poi tutti giù per la scala dirigendo l’orchestra e cantando il «buona sera... buona sera...» del Barbiere di Siviglia.

L’ordine di partenza non venne. Il colonnello Trivulzio dovette sedare energicamente un principio di tumulto fra gli arditi che accalcati nelle strette gole di Serravalle erano impazienti di partire, battersi, inseguire. Gridavano al tradimento, si dichiaravano sacrificati ad altri reparti privilegiati.

Rimasi solo coll’amico capitano Franci di Pietralunga, incontrato la mattina e di cui constatavo una volta di più lo strano mutismo e l’ancor più strana melanconia. Lo strinsi di domande:

—Tu non sai, mi rispose dopo un po’ d’esitazione; la mia vita passata... Dolley è partita; sparita non si sa dove!... Qui a un chilometro da Vittorio c’è la nostra villa... Vi abbiamo vissuto tre anni, felici, felici d’amore, come in paradiso. La villa deve essere tutta devastata. Vorrei andare a vederla; ma non solo. Sono troppo triste. Vuoi accompagnarmi? In mezz’ora andiamo e torniamo.

La cosa non mi sorrideva, ma vidi due lagrime negli occhi di Franci e accettai.

C’informiamo. Siamo in libertà sino alle nove di sera. Via, a passo rapido, quasi di corsa.

—Questo sentiero è più breve, dice Franci. Quante volte l’ho percorso con lei... Ora è tutto allagato, ci infangheremo. Mi secca per te.

—Non importa, avanti, presto!... Dimmi, Franci, raccontami, quando ti lasciò?

—Dopo Caporetto è andata a Firenze. Mi ha scritto una lettera, l’ultima sua lettera, poi più nulla, nulla, nulla. Ho interrogato tutti i suoi parenti quando fui in licenza. Mi risposero vagamente che era partita per Londra. Ti ricordi l’ultima volta che sei venuto a trovarci? Avete parlato di Londra insieme tutto il tempo! Ecco la villa... Eccola!

Attraversiamo dei vigneti sconvolti e pestati dalle cannonate. Tra gli alberi, la facciata della villetta elegante appare quasi intatta, bianca, colle sue finestre aperte che bevono golosamente i raggi obliqui scarlatti del sole. Il muro del giardino è qua o là affumicato da cucine di soldati scomparse.

—Qui, mi hanno detto, sono stati accampati molto tempo i bosniaci.

I due battenti del cancello, scardinati, crollati l’uno sull’altro, pendono obliqui in fuori. Entriamo da una breccia del muro. Penombra verde, appestata da un odore acido e dolciastro di sterco, piscio di cavalli, legno bruciato. Franci mi prende la mano e me la stringe forte. Lo guardo: ha gli occhi gonfi di lagrime, ma si irrigidisce. Buchi di cannonate, gomitoli di sterpi, liane, rovi. Rotaie profonde di autocarri, matasse di reticolato e immondizie. La villa è realmente quasi intatta. Ha una ferita leggera di granata. Ne palpo le schegge cadute a terra. Il muro ha resistito. La porta è ingombra di rottami. Saltiamo dentro dalla finestra.

—Questa è la camera da letto, dice Franci, aggrappandosi a una poltrona.

Io avanzo nella penombra esplorando. Nel centro, quelle canaglie di bosniaci hanno fatto un fuoco con tutti i libri della libreria. Odore di cuoio cotto e di cavolo marcio: nauseante.

—Anche lì hanno acceso il fuoco, nel mezzo del tappeto persiano. Questa macchia sembra sangue, forse è vino. In cantina v’era molto champagne. L’impiantito è sfondato. Qui hanno vomitato sul letto! Porci! E’ un vero lago di fango, vino. Dio che orrore! Una vera cloaca!... Strano! Hanno rispettato l’armonium!

Mentre io esploro così ad alta voce questo luogo divenuto infame, Franci ha trovato in un armadio una piccola lampada a petrolio.

—Bizzarrie dei saccheggi! Come diavolo non hanno scovato questa lampada! dice Franci e l’accende.

Io apro l’armonium e appoggio le mani sulla tastiera provando il pedale. L’accordo funebre, tremante, lento, sfinito sale inondando il silenzio d’una amarezza disperata. Al terzo accordo mi fermo, poichè sento il mio amico singhiozzare dietro di me. Vado a sedermi vicino a lui e gli batto sulla spalla per confortarlo:

—Su coraggio, devi dimenticare, vieni via è meglio per te.

—Non posso dimenticarla, non posso. Vedi, malgrado il fetore, l’orrore di questa camera, io la sento qui, lì dietro. Dolley è nella villa! Verrà, verrà! Viene! Ecco il suo passo leggero, scivola con quelle piccole babbucce comprate insieme a Costantinopoli. Aveva una vestaglia di seta grigio-perla e le babbucce con tante perline... La sento. La vedo quasi. Se mi fermassi qui tutta la notte mi apparirebbe. Ne sono sicuro! Oh come piangerebbe a vedere tutti i suoi cari volumi bruciati! Lei così intelligente, fine! Ah! quei suoi profondi occhi! Talvolta... un po’ pazzi! Avevano d’un tratto dei riflessi duri. Un attimo. Ma l’azzurro si bagnava subito e ridevano, ridevano. Eppure mi amava, mi amava! Ha fatto mille pazzie per venirmi a trovare al fronte. Che lacerazione, i nostri distacchi! Ed ora finito, finito, per sempre finito! Dov’è dove è andata! Dove? Dove? Dove? Almeno sapere! Sapere qualche cosa. Chi ama? Con chi è?

La lampada si affievoliva, ma Franci non voleva alzarsi. Bruscamente preso dall’irruenza dei singhiozzi si mise a graffiarsi le mani con ferocia. La fatica di questi giorni di battaglia e il dolore scoppiato frustavano i nervi di quel povero corpo dilaniato. Non badai alle sue mani che annaspavano nell’aria. Afferrarono il tavolino che reggeva la lampada. Questa crollò, divampando. Il fuoco scivola col petrolio incendiando un ammasso di stracci. Il fuoco corre, si arrampica crepitando. Franci resta immobile, seduto. Io rimango pure immobile, seduto. Quando fu certo che il fuoco non si sarebbe più spento Franci mi disse:

—Ora andiamo!

Gli strinsi la mano e lo seguii dicendo:

—Sono d’accordo coi bosniaci e con te.

Annotta. Appena scavalcato il muricciolo vediamo un ufficiale a cavallo sul sentiero buio.

—Lo conosci? mi dice Franci.

—No. Ad ogni modo ci ha visti uscire dalla villa. Questo è seccante.

Noi fermi sull’attenti. E’ un generale. Dall’alto del suo cavallo ci interroga con furia brutale:

—Cosa facevano là dentro? Perchè si sono allontanati dai loro reparti? Non è il momento di curiosare nelle ville! Ignorano certamente il loro dovere di ufficiali! Se tutti gli ufficiali fanno come loro si perdono le battaglie! Vadano! Vadano! Vadano per Dio! Vadano presto ai loro accampamenti!

E il generale si allontanò dopo questa valanga di parole che non mi aveva concesso la minima risposta. Io rido fragorosamente. Franci irritato si meraviglia della serenità colla quale ho ascoltato quell’alto berretto insolente e maleducato.

—Evidentemente, caro Franci, tu ignori la meravigliosa teoria del giaguaro inventata da me. Tutti l’applicano efficacemente. La mia teoria del giaguaro è ormai popolare. Ti potrà essere utile. Te la spiego in due parole. Ogni volta che ti capita addosso uno di codesti burbanzosi superiori nevrastenici e rabbiosi, guardati bene dall’ascoltare le insolenze, minacce e bestiali interrogazioni sue. Fermo sull’attenti, osserva scientificamente il suo grugno inferocito e cerca di catalogare la belva fra le belve più pericolose di un serraglio. Silenziosamente o rivolgi a te stesso un discorso di questo genere: Bene! bene! Una vera fortuna, potere ammirare da vicino e senza gabbia il celebre Giaguaro del Bengala! Ah! non sapevo, questo giaguaro divora dunque diciotto ufficiali al giorno e sessantacinque soldati. Si nutre così in tempo di guerra. Dorme poco. Tre ore gli bastano per digerire tanta carne umana. In tempo di pace, mangia a colazione i suoi tre figli, sua zia, e anche sua moglie. Ma questa è assolutamente indigesta! Non la mastica mai abbastanza, cosicchè le ossa non assimilate della moglie gli schizzano fuori dalla fronte. Vedo, vedo, ciò gli serve d’altronde a tener su il berretto. Caro Franci, se applicherai sistematicamente la mia teoria del giaguaro, non ti farai mai del cattivo sangue.

Alle nove di sera si parte da Vittorio Veneto. Il comando non ha preveduto l’allagamento di una strada di campagna e c’incolonniamo, cavalleria e blindate, in un vero pantano. Nel buio ad un bivio, mi sento chiamare. Sporgendomi dalla mia blindata riconosco Franci a cavallo in testa al suo squadrone. Alto, elegante, muscoloso. Indovino più che vedo nel buio la sua faccia volta in alto che forse cerca fra le stelle quelle perdute per sempre.

—Buona sera, Marinetti! La strada che prendiamo rasenta la villetta.

Ci avviammo, ma dopo un chilometro eravamo impantanati fra filari di vigneti, rovine di case e campi allagati. Tutti i cavalieri appiedati, guidando per mano i cavalli che affondavano continuamente nella pece saponacea del terreno. Urti e scossoni infiniti, bestemmie, comandi non ascoltati, ingiurie, gomitate, calci di muli. Un cavallo s’impenna e resta preso colle zampe in un reticolato. Un mulo non si districa più dai filari. Un altro è crollato giù nel fosso profondo. Beve. Si gonfia d’acqua. Una corda! Occorrono delle corde per tirarlo fuori! Io supplico il capitano Raby di fermare la nostra squadriglia. Le ruote della mia blindata sono incastrate nella mota.

Rrrrrr di motore, tin zin zan zang di casse di cotture.... «Accidenti, fetente, mascalzone! Metti una corda sotto la pancia al mulo! Chi è quel porco che ci ha cacciati in quest’inferno? Sarà una carogna imboscata!».

Giù bestemmie nel flic-flac delle pozzanghere. Tutto si pigia, si urta, urla, capitombola e ingiuria nella notte buia che vuol perfezionare l’impantanamento con una sua pioggerella lenta lenta. S’inzuppa così di lagrime nere la villa piena di fascino tragico. Questo pantano forse non è che povera carne tumefatta intorno a quella ferita dolorante. Le blindate sono ferme, invischiate. A cento metri il lume di una fattoria. La svegliamo con grandi urli. Nell’impossibilità assoluta di ricevere e domandare ordini, il capitano decide di aspettare l’alba. I miei amici, temendo i pidocchi, dormono in blindata.

Io sono affranto e sfidando gli insetti accetto una strana ospitalità nel granaio della fattoria trasformato in dormitorio. Sembra quasi la camera nuziale di un sultano. Diciannove materassi occupano tutto l’impiantito. Sui diciotto occupati, diciotto donne, d’ogni età e d’ogni calibro. Nella penombra le vocine giovanili mi invitano.

—C’è un letto, uno solo, un materasso per lei, tenente! Siamo in diciotto donne; se non ha paura, venga pure!

Mi coricai. Ricominciava l’impantanamento, ma questo allegrissimo. Nessuno poteva dormire. Troppe pulci. Chiamiamole pulci! Troppi aliti. Non tutti primaverili! E c’erano i buoni profumi della carne giovane, ma anche alcuni puzzi che mi pugnalavano le nari di tanto in tanto. Molta allegria e i rubinetti della chiacchiera veneta tutti aperti. Una mi raccontava naso a naso tutte le canagliate austriache senza dimenticarne una. Forse mi addormentai per mezz’ora, due o tre volte. Mi scoteva, dovevo ascoltarla. Alla mia destra c’era una bella ragazzotta alquanto polputa. Indago. Esploro, ride. Incomincia il gioco del solletico. Nel buio le donne anziane sbuffano, discutono, complottano contro di me; ma le giovani mi difendono. Se qualcuna si ribella, le altre in coro: «Lascialo fare, lascialo fare, siamo tutti italiani! Evviva l’Italia!». Ad un tratto tre moraliste si slanciano su di me e tra il serio e il buffo mi tirano per le gambe. Tentano d’imbavagliarmi con un cuscino. Sarei disposto a far la fine di Desdemona, ma puzza troppo il cuscino. Mi libero con un pugno che disgraziatamente finisce in un occhio a un marmocchio.

Uhèèè! Uhèèè!

XX. LE FORZE DELLA GIOIA, DELLA PIETÀ E DELLA VENDETTA

Balzo in piedi, sveglio i compagni che dormono ognuno sul suo volante e subito con sforzo nel rombo bronchiale catarroso dei motori inferociti ci svincoliamo dal pantano. Via, via a grande velocità verso Polcenigo. La cavalleria non potrà così presto disimpegnarsi. Saremo soli, primi, anzi primissimi, nell’inseguimento dell’ala sinistra austriaca che si ripiega sul Tagliamento.

Menghini è al volante: muscoloso, ventenne, veneto begli occhi scuri intelligenti, faccia entusiasta di bambinone innamorato della vita. Adora le donne e il vino senza cedere loro nulla d’importante. Scherza sempre ma ripiglia a volo la sua allegria e le sue burle spensierate per identificarsi col volante e col motore, fusione perfetta. Mi piace perchè armato d’istinti sicurissimi. Guida come si nuota, coi suoi nervi ramificati e vibranti su tutta la superficie della macchina. Sa che la corazza della ruota di destra passerà esattamente a due centimetri da quel carro.

Menghini questa mattina è loquacissimo; la gioia della vittoria gonfia di calore inebriante il suo cor po giovanile. Lo ascolterei volentieri, ma temo gli straripamenti della sua immaginazione. Dobbiamo combattere ancora. Perciò calma e poche parole. Seduto alla sua sinistra, colla schiena presa nella cinghia-spalliera, mi sporgo di tanto in tanto dallo sportello di sinistra aperto per spiare l’alba che s’affretta.

Si leva il vento, non piove più.

Sprizzano qua e là le prime luci bianche quasi rosee, vorrebbero essere rosse, come le risatine frenate d’una educanda che indovina nel discorso severo della suora notturna l’immancabile annuncio del perdono e della dorata ricreazione ventosa. Vaste, morbide, fresche letizie di luci sugli orti e sui prati come guance d’angeli in Paradiso sognate dai dannati sotto i trapani dell’inferno.

Tengo la gamba destra allungata sull’invisibile acceleratore delle velocità spirituali, la gamba sinistra fuori dallo sportello di sinistra, piegata sul predellino.

I bersaglieri ciclisti del colonnello De Ambrosis ci raggiungono pedalando a destra e a sinistra.

Il cielo lavato sembra abbia pareti di maiolica. Il vento con gomitate e rabbuffi spazza via all’orizzonte l’ultima nuvola rossa-nera-avvinazzata poi passando leviga la vallata davanti a noi, purissima conca di smalto verde. Vasca tiepida per raffinatissimi piaceri di carni ignude.

Una voce di donna sale da un prato e dondola sopra di noi, morbida amaca. A sinistra rombi di cannonate lanciate a cavallo dei lontani monti trentini. A destra il profilo di una collina intrisa di sole s’immerletta di cavalleria.

Lentezza ieratica, estetismo professorale, solennità assurda di quel corteo medioevale che sembra cerchi dei castelli antichi. Uno svolto della strada mi permette di riconoscere il primo squadrone che scende seguendo la cresta di una seconda collina, in un quadro di Carpaccio. Rasenteremo fra poco il primo plotone. Ecco Franci! O almeno mi pare. Sì, è lui! Profilo elegante di bel cavaliere sul suo alto, magro irlandese da guerra. Ha la testa piegata indietro. Guarda il cielo. Offre, forse, la faccia disperata a una possibile palla pacificatrice. Sparisce. Quel corteo medioevale di cavalieri persiste nella mia mente come un gran fregio scultoreo sul frontone di un tempio, s’impolvera come un quadro nella penombra di un museo poi crolla al rombo della mia macchina futurista.

Ridono le cento e cento ruote veloci dei bersaglieri ciclisti. Grandi domeniche sportive delle democrazie, scodellate fuori dalla città in ciclismi violenti accaniti nutriti di polvere-sudore! Gioia popolare dell’aria aperta e dei polveroni solari fuori dalle città-prigioni-officine-caserme, lanciata ora verso litri di vino rosso da spaccare sulla testa del Cecchino bettoliere sotto pergole di granate esplodenti!

Furia schiamazzante di contadini romagnoli in biciclette all’assalto del prete pidocchio nero insradi cabile da sradicare dal materasso delle città! Le osterie che sventagliavano nei crepuscoli le canzoni lunghissime trascinate, ubriache e ubriacanti di malinconia, sono spente. Questa più grande, un tempo affollatissima, porta come insegna il motto Invidia e crepa. Ha perduto il ritmo ansante del gioco della morra.

Cinq du sett vott tri

Ma si consola col: «Primo pezzo! fuoc!» della batteria che spara nel suo orto scaraventando a 6 mila metri zuffe di acciaio avvinazzato.

Il polverone è un eccitante lirico. I rasoi del vento gelato mi fanno la barba. La mia blindata canta i record mondiali dei motori + il lavoro di mille operai + ingegneri e ufficiali improvvisatori geniali + Perrone Ansaldo e Fiat in lotta + la gloria di Nazzaro velocità onnipresente + superiorità del genio italiano + praticità italiana + futurismo italiano.

—Ho verificato tutto, mi dice il sergente Locatelli dietro di me. Gli scaffali-nastri in ordine, sembrano una libreria. Nastri lucenti cassette di petardi tutto a posto. La cupola girevole funziona bene. Non un centimetro di spazio perduto. Il telo-tenda cinghiato nel fortino di poppa non ingombra.

Voltato a metà, controllo nastri, serbatoio, caricatori, ogni cosa amata, ogni cosa preziosa con l’affetto che mi lega a questa stupenda e veloce alcova d’acciaio.

—Guardi! mi dice Menghini.

Attraverso l’occhio orizzontale della macchina sotto la palpebra metallica un po’ alzata vedo sventolare sul cofano, a prua, il gagliardetto triangolare tricolore e il suo motto d’oro « Vincere o morire » scintillante nel primo raggio di sole. Zazà che dormiva in uno scaffale-nastri si sveglia.

Sporgendomi dallo sportello di sinistra guardo dietro di me la sua piccola testa intelligente che abbaia bevendo il verde-roseo vento della corsa nell’aurora. Ghiandusso in piedi sul serbatoio di benzina ha cacciato la testa nella botola osservatorio della cupola e grida:

—Come è bella l’Italia, signor tenente!

—E’ la prima volta che la vedi?

— Sì, signor tenente.

Valli, vallate, campi arati e praterie, tutto intorno a noi si imbeve di sole con una avidità verginale, s’imbeve d’un ardore italiano che certo sembra nuovo alla carne dell’uomo piena di tenebre schiave e alla fibra dei vegetali che non amano dare succhi allo straniero.

—Ascolti il motore come va bene, dice Menghini.

Rumore puro ritmato perfetto. E’ quasi un canto. Languido, languido vellutato, un po’ lamentoso per estrema dolcezza, quando il motore fa da freno in discesa. Ora si sale. Ne gioisce il motore e al suo rumore aggiunge flauti, clariiini, violiiini. Poi nitriiiti, nitriiiti di tutti i cavalli scalpitanti che contiene. L’armonia si completa col cigolio di tutte le costole d’acciaio. Vibrano, le giunture metalliche. Pare sul rrrrombo del motore il festante cicicicigolio di mille passeri giulivi che la blindatura imprigioni come una gabbia volante. Quei passeri d’acciaio vogliono gareggiare coi passeri sbarazzini che godono il verde della campagna intorno! Eppure ora non decifro più le origini di questo rumore confuso che certo ha per base il rumore del motore, tanto si è arricchito d’altri suoni ed è divenuto umano. Ampio rumore febbrile, dilagante, flebile e aspro che ora s’avventa, c’investe come una ondata.

—Polcenigo! grida Ghiandusso... tutti i borghesi corrono nella campagna, verso di noi! Donne, bambini... Quante donne!

Vivaaaa! Italiaaaaaa! Vivaaaaa!

Aaaaaaa!

Sento un tuffo di gioia brutale nel cuore che mi rimbalza in gola. Via, fèrmati, cuore mio, se non sei un cuore di donna! Il cuore sotto la morsa della volontà cede ma subito piange silenziosamente, quasi muore in un vasto lago di pianto.

Come frenare questa gioia cara tiepida soave che mi punge gli occhi? Gioia intrisa di pietà e di angoscia!

Vivaaaaaa! Italiaaaaa!

—Attento, Menghini, sorveglia la strada, non arrotare i bambini, per carità!

Ad ogni angolo di villaggio una folla colorata rorida di allegria solare. Braccia nude al cielo, fazzo letti al vento della corsa e fiori che sfiorano la blindata. Polcenigo, Castello d’Aviano e Villetta sono preziose miniature di villaggi disposti sopra una serie di colline verdi, basse, flessuose. La strada che li attraversa tutti va su e giù con grazia disinvolta, curve molli persuasive seguendo le ondulazioni musicali del paesaggio. La strada bianca ondeggia e freme come un immenso albero caduto sotto il peso dei suoi villaggi appollaiati a destra e a sinistra sui rami.

Vivaaa! Italiaaaaaa!

Siamo i primi italiani che liberano Villetta. La sorpresa è grande. La notizia rimbalza di casolare in casolare lontano lontano chilometri e chilometri collo scatto lungo infilzante dei primi raggi di questo sole. Corrono a perdifiato contadini e contadine. Mille grida tra i fienili e abbaiare di cani furenti come per una caccia. Corrono le vecchie. Quel mendicante con stampelle sembra un pellicano veloce. Pietà, pietà per quella vecchia trascinata a forza come un sacco dalla figlia scarmigliata che urla. Finestre sbatacchiate. Sono loro! Sono gli italiani! E giù per le scale. Ruzzoloni e ressa sulla soglia.

Vivaaa! Italiaaa! Benedeeeetti!

Dobbiamo rallentare. Tutta la popolazione è addosso. Passione passione che ci soffia sul viso come un forno acceso. Siepe di contadine, intrico di braccia alzate, mani striscianti sulla blindata e unghie che la graffiano con delirio affettuoso.

Bevo questo entusiasmo tragico e selvaggio. Cuore mio, fèrmati, se non sei un cuore di donna!

Io grido, forzando la voce per dominare il fragore:

—Grazie, grazie! Viva l’Italia! Abbiamo fretta, lasciateci passare!

Ma la messe gioconda di braccia e facce impetuose non cede, s’infittisce, vorrebbe fermarci, abbracciare, strangolare d’amore la blindata. I miei occhi pieni di lagrime che non riesco a domare ammirano per la prima volta il fantastico Giardino delle Gioie. Tutte le gioie della Terra e del Paradiso: Gioia di quella faccia di vecchio con le sue rughe finalmente distese, riposate stirate come dal massaggio di una contentezza assoluta. Gioia di quegli occhi verdi di bambina sedicenne che beve, beve colla bocca e sui denti brillanti la pioggia continua delle lagrime. Gioia della madre che mescola il suo pianto al pianto del suo pupo rosso. Anch’esso sgrana gli occhi davanti al dolce sovrumano, sognato nella culla della fame invernale. Gioia di quella faccia maschia che si apre ancora tutta tôrta, spremuta dalle mani dell’accanita nera Lavandaia! E i cani ispirati che si arrampicano a leccarmi le mani. Zazà si slancia con invidia e li morde. E quel vecchio dal viso come venuto di lontano, dissepolto. Mi guarda dal fondo nebbioso del suo anno di dolore che attendeva. Ha le spalle affrante cadute giù, le braccia aperte come le ma donne, le mani morte sorto il peso della gioia di piombo!

Cristo, Rabbi vestito di miracoli e di pazzia benefica, Tu che hai mutato in vino l’acqua delle giarre e moltiplicato i pani e i pesci nel convito dell’amico tuo, Cristo, Cristo, tu che hai bevuto a larghi sorsi la gratitudine delle folli guarite, guarda guarda il giardino stupendo delle Gioie sovrumane che abbiamo creato! Certo tu c’invidii, noi liberatori di città! Devi, devi invidiarci! Sento che devi invidiarci!

Hai mai veduto simile fioritura di gioia?

Non l’acqua, ma il fiele, il fango e la bile avevamo, e tutto mutiamo in roseti! Per noi, con noi, il Sole liquefa i suoi raggi in sovrabbondanti capigliature di liquido fuoco sulle campagne beate. Tonde reti di raggi. Guizzano, si slanciano, mille corridori felici: corrono, corrono incontro a noi, Erba felice che si mescola di gioia ai capelli ricciuti dei bimbi nei capitomboli d’oro. Capelli foglie mani palpebre di gioia! Agili arbusti vibranti come quella bambina pazza di gioia alla terrazza. E ciglia lunghe imbrillantate dalla linfa d’amore che sale dal centro della terra a dissetare le città arse dal Dolore:

—Largo, largo, vi prego lasciateci passare, lasciateci passare, abbiamo fretta di prendere quelle canaglie!

—Sì, sì signor tenente, ma vi potete fermare.

Si sono trincerati sull’altra sponda del Cellina. Sono partiti di qui ieri sera... Sono sul Cellina, li ha visti mio marito.

Menghini fa rombare il motore e si apre un varco. Via, via a tutta velocità fra le penne di gallo e le facce scintillanti di sudore dei bersaglieri ciclisti che ci hanno raggiunto. Rrrrombi, rrrombi burbanzosi dei motori fra il zin zin zin zin delle biciclette tascapani e baionette sbatacchiate.

—Massacrateli, massacrateli tutti, grida una donna coi pugni tesi.

—Vivaaaaaa Italiaaaa!

Fuori dal paese sui globi rotolanti del polverone dorato una visione ci magnetizza. E’ una chiesuola, un’umile chiesuola sopra un poggio che domina la strada, ma è bagnata d’una luce spiritica estatica, lunare e solare insieme, una luce d’eclisse o di terremoto. Realmente vediamo, vediamo realmente la chiesuola presentare le armi con tutte le croci e tutte le lapidi del suo piccolo cimitero arrampicate in fila lungo il muricciolo, metalli arruginiti e marmi antichi, così raggianti di gioia al sole da sembrare nuovi e un po’ ebbri di sfarzosa novità!

Aviano ci ha sentiti venire e prima ancora di scorgere laggiù il profilo del campanile e delle case sghimbesce vediamo la strada coprirsi del suo popolo accorrente.

—Benedeeeetti! Benedeeeetti gl’Italiaaaani! gl’Italiaaaani!

Entriamo nel paese in un frastuono assordante quasi sospesi sulle ondate del popolo. Il capitano Raby mi sorpassa facendosi largo colla sua vetturetta e col braccio alzato ordina di fermarci. Rifornirsi di benzina e ripulire i motori. Io scendo. Preso, trascinato via dalla folla agitata affannosa che non dà tregua, insiste, vuole, interroga, racconta, racconta, racconta. Le donne mi opprimono.

—Hanno portato via tutto tutto, tutto! Le campane! anche i parafulmini! e dicevano: Abbiamo comprato tutto il Friuli e tutto il Veneto dai vostri Generali. Non vi lasceremo che gli occhi per piangere... Oh! gli ultimi 3 giorni, signor tenente, che strazio!... Gli ufficiali hanno ordinato ai soldati di portare via tutto. Requisizioni di giorno e di notte. Sì, anche la notte. Hanno puntato la baionetta sul cuore di mia mamma! Hanno preso tutto rame, bestiame, grano, urlavano: O ghent o caput! o denaro o morte! Muss, muss vuol dire: per forza! Noi li chiamiamo muss quelle canaglie... Se sapesse! un anno, un anno... Fingere ogni giorno, per non morire! Ma dentro c’era l’odio, quanto odio, signor tenente! Il prete è stato buono con noi. Aveva molto coraggio. Io gli dicevo in confessione: Sono colpevole di avere molto odiato. E lui: «Chi hai odiato?» Rispondevo: «Gli austriaci» «Oh allora» mi diceva don Luigi, «allora è inutile che continui la confessione, sei perdonata di tutti gli altri peccati...» Quelle canaglie volevano prendere le ragazze. Hanno tentato, i primi giorni. Un pomeriggio i prati tutti intorno erano pieni di urli di donne violentate!

—Sì al sole, al sole, ho visto io, dice un vecchio balbettante.—Uno teneva le gambe aperte della ragazza e l’altro si metteva sopra. Ma mia figlia non l’hanno toccata. Ringrazio la Madonna. Gli ha strappato coi denti un baffo, a quel porco che l’abbracciava... Per un mese il colonnello mi ha rifiutato la sporca razione di grano e di pane nero!

—Sono io, io che gli ho portato via il baffo coi denti! Erano tanto brutti, tutti. Colle lenzuola rubate facevano vestiti bianchi per ufficiali... Colle lenzuola di grossa tela ruvida facevano le scarpe! Sembravano Arlecchini! E le donne, le loro donne, li aiutavano nelle requisizioni. Tutte puttane con la fascia d’infermiera. Ce ne sono ancora tre!

—No, sono sei, bisogna massacrarle! Le pianterò gli spilloni negli occhi. Dicono che sono triestine, ma sono slave o austriache, bestiacce!

E’ una forte friulana bruna che parla così, grandi occhi azzurri nel viso sensuale infuocato dall’ira. Mi tira per il braccio. Sono in un fiume di popolo esasperato, pieno di rancori che scoppiano in moralismi esagerati. Intuisco anche basse invidie camuffate di patriottismo e sento l’urgenza d’incivilire, frenare questa massa pericolosa.

—Ecco la casa di una di quelle puttane!

Mi volto di scatto e con un gesto rude impongo alla folla delle donne di fermarsi. Riesco a contenerle sulla soglia ed entro col tenente Cenami chiudendo dietro di me la porta.

Al primo piano in un cucinone pulito troviamo una slava piangente impaurita che si precipita ai miei piedi. La rialzo e battendole sulla spalla dolcemente la tranquillizzo. Viso banale, pallidissimo, piccoli occhi celesti e capelli biondo sporco, tirati sulla nuca. E’ di Lubiana. Ha una camicetta di velluto a righe gialle e nere, grembiule nero e gonna verde. Mi racconta in cattivo italiano che è stata dimenticata ad Aviano dal fidanzato ufficiale austriaco.

Le domando che cosa succeda a Lubiana. Mi risponde che a Lubiana si odiano gli Ungheresi, ma non si amano neanche i Serbi.

Nel cucinone entra un’altra donna che spiava dalla camera vicina. Si precipita anch’essa a baciarmi le mani, in ginocchio. E’ una falsa magra, agile, audace, bocca carnosa, bellissimi denti, grandi occhi neri lucenti. Corpo senza pudore, sessualità insolente, il caratteristico marchio del bordello, malgrado l’accuratezza seria del vestito.

—Io sono friulana, signor tenente, sono italiana. Nel paese dicono che sono slava, non è vero. Mio nonno era di Aviano. Ho ospitato questa povera diavola, per carità.

—Non è vero, non è vero, urla la folla nella strada. Non ascolti, signor tenente. Sono puttane, tutte e due! Bisogna massacrarle, sventrarle!

—Non credo che tu sia friulana. Tu sei senza dubbio o ungherese o austriaca. Parli troppo male l’italiano. Ad ogni modo niente paura, noi non siamo dei barbari come i tuoi fratelli.

Esco sul balconcino e mi sporgo verso la folla che ormai è diventata enorme. Tutti urlano, gridano, agitano le braccia, tendono i pugni, si mordono le dita. Risento e rivedo nel cielo sfolgorante le tonde forme di nuvole d’oro massiccio irte di raggi della spaventosa Forza cosmica, la Vendetta.

—No! no! italiani, non gridate morte! La morte ha già lavorato abbastanza! Gridate Vittoria! Non è degno di un popolo civile come il nostro, il massacrare delle donne!

—Non sono donne; puttane, puttane, puttane! A morte! Morte! urla la folla.—Sono venute con gli austriaci a rubare tutto nelle case nostre. Facevano la spia! Spie! Ci hanno sputato sul viso, hanno sputato sul nome d’Italia!

—Lo so, lo so. Sono convinto che sono delle luride prostitute. Siete italiani e perciò non potete mentire! Ma come italiani non saprete certo colpire dei vinti. Sono femmine cioè deboli e senza difesa! Noi ufficiali italiani, non rubiamo il mestiere agli austriaci. Queste due austriache scontano oggi le loro colpe nel vedere la nostra bandiera sventolare su Aviano e nell’apprendere da me, da questa bocca e da questi polmoni, l’irrimediabile sconfitta dell’Austria. L’esercito dei loro fratelli, padri, sposi o amanti è stato da noi sconfitto per sempre. Italiani! Noi ufficiali che abbiamo avuto l’onore di entrare per primi in Aviano, vi ordiniamo di non toccare un solo capello di queste due donne. Andate, e festeggiate con canti di gioia la liberazione di Aviano.

Un urlo feroce salutò il mio discorso. Ma gli applausi scroscianti dei bersaglieri ciclisti e dei miei soldati si propagarono, e lentamente, con gesti minacciosi e borbottamenti, la folla si staccò ringhiando, dalla piccola casa mentre io consegnavo le due donne atterrite e spettrali a due bersaglieri ciclisti nerboruti.

—Conducetele indietro con gli altri prigionieri austriaci. Se la folla le tocca, io vi denuncio al Tribunale di guerra. Capito?

Quel salvataggio mi costò un cicchetto dal mio capitano che mi cercava.

—Vieni con me.

Partiamo in bicicletta. Il capitano mi annuncia che la 12ª squadriglia è stata massacrata a cannonate a 3 chilometri da qui, nella brughiera di Santa Foca. L’angoscia accelera la nostra corsa. Vasta pianura sconfinata, senza alberi. Desolatissimo paesaggio spagnuolo. Quando giungiamo a S. Foca non troviamo nessuno da soccorrere. I contadini stanno seppellendo i cadaveri in tre vaste fosse. I feriti sono già stati trasportati in autocarro. Oltrepassiamo un sipario di alberelli fronzuti e vediamo le tre blindate piegate sul fianco destro sull’orlo destro della strada, in fila, a 20 metri l’una dall’altra. Tutte e tre sventrate. La terza incendiata. Ha dei colori rossicci e canarino. Il cofano sembra masticato da mascelle titaniche. Fu ma ancora. Odore di panno cotto nell’olio e di carne arrostita. Comprendiamo l’errore del comandante che in un terreno scoperto non ha distanziato le blindate in marcia offrendo così un facile bersaglio al fuoco d’infilata dei cannoni mascherati dal sipario d’alberi di Santa Foca.

Nulla da fare. Uno sguardo affettuoso alle fosse, e raggiungiamo pedalando l’8ª squadriglia sull’ultimo tronco di strada che scende nella ghiaia del Cellina.

Letto smisurato di fiume torrentizio con tre filoni d’acqua. Non siamo più in Italia, neanche in Spagna, forse in America. Desolazione, monotonia di linee tristi. Dune africane. Alla nostra destra gli alti pali telegrafici, soli segni di civiltà, misurano con precisione nel deserto del letto asciutto le distanze nebbiose. La loro geometria metallica da disegno d’ingegneria taglia le piumose sofficità delle lontananze grige, affamatissime di sprofondarsi ancor più lontano, calamitando i nostri pensieri e i nostri sguardi. Non scorgo nulla sull’altra riva.

Sulla nostra appare l’automobile del Conte di Torino comandante della cavalleria. Snellezza elegante aristocratica. Dentoni gialli di vecchio cavallo di razza, sorriso ironico nelle gote di viveur.

—E’ impossibile, capitano. Vede? il mio autocarro arenato. Se non passano gli autocarri vuoti come vuol fare lei a passare con le blindate?

Noi passeremo lo stesso, lo sento. Il Conte di Torino non ha la mia sensibilità divinatrice. Questa guerra cominciata col lento rosicchiare d’un terreno conquistato a palmo a palmo tenendo ogni metro con la lunghezza di un cadavere, deve finire per un prevedibile capriccio delle Forze in una velocità aggressiva di 10 giorni. Le Forze della Fortuna amano sorprendere, rovesciare tutte le previsioni, distruggendo ogni logica. Bisogna come me dare una fede ottimistica illimitata e un credito assoluto alla Fortuna. Questa vuole ad un tratto avere tutto l’infinito da respirare, per riempire tutto di prodigio.

Davanti a questo guado che non può fermarci sento la Fortuna in alto respirare, respirare a pieni polmoni. Vuole la Fortuna divertirsi con una generosità di doni sempre più stupefacente.

Se l’Italia si è insanguinata la bocca e i denti nell’addentare il Carso, dura pagnotta, ora riceverà nella bocca aperta tutti i pani enormi e bianchi e divini del suo sogno. Cuore mio, apriti, apriti per ricevere la smisurata gioia.

Lo potrai?

—Ci sono! ci sono! Trincerati sulla cresta! mi dice un tenente dei bersaglieri ciclisti che iniziano il passaggio del primo filone d’acqua.

Molti bersaglieri muscolosamente portano in alto, sulla testa, la bicicletta. Alla nostra sinistra il ponte della ferrovia è spaccato in due pezzi crollati giù neri nel secondo filo d’acqua azzurro. Il primo guado è difficile. Ho l’acqua alla pancia mentre spingo il culo della mia blindata che si siede ogni tanto, ringhia con tutta la rabbia del motore, si disimpantana per sei metri, poi di nuovo si siede. Ma la liberiamo. Salto dentro e si corre per un chilometro serpeggiante di strada sabbiosa nel letto infinito del Cellina.

Ogni blindata coi suoi uomini che la reggono nello sforzo, coll’acqua ai ginocchi o alla pancia, col viso grondante sudore e i piedi gelati. A destra e a sinistra due lunghi cortei di bersaglieri ciclisti in fila indiana. Strani arabeschi molli formati di innumerevoli ruote e arruffii di penne di gallo sul letto ghiaioso grigiastro del fiume. Quei due lunghi formicolii di bersaglieri evocano l’esercito di Napoleone sul letto gelato della Beresina nelle celebri stampe.

Top, top, top, top. Il crik! No! no! la binda! Presto un pezzo di legno. Ora colla corda, un nodo forte. Issaaa oooh. Issaaa oooh! State dietro alla macchina. Forza alla corda! Tien fermo il legno sotto la binda! Imballa il motore, per Dio, imballa! Rrrr forza! Rrrrrrr Fooorza! Personalità del motore, umano, patriottico che vuole, vuole vincere la resistenza aggrapparsi, sollevarsi fuori dalle rotaie di fango saponaceo. Il motore suda sbuffa. Fumo acre del suo sudore. Rrrrr Rrrrrrr.

Fra le gambe gelate il morbido serico sssss frusciare dell’acqua coi glugluglu got gatt glan.

—Un badile! No! no! la pala! Togli le pietre dal parafango sotto la ruota! Rrrrr! Accidenti non vuol venire! Su forza, un gran sforzo insieme!

Subitamente pam pam pam scoppia la fucileria sulla cresta a 300 metri. I primi bersaglieri sono già appiattati e sparano dietro le loro biciclette coricate mentre i due cortei d’altri elmetti piumati e biciclette continuano con calma a passare.

—Forza, ragazzi! Forza che andiamo su a mitragliarli. Niente paura. Tirano male, troppo alto!

Le trecce dell’acqua sembrano cavi metallici. Strappano le mie gambe gelate. Sento sulle ginocchia le zampine tremanti gelatissime della mia Zazà che ritta mi implora di prenderla in braccio. Me la metto come un pacco sotto il braccio sinistro meentre la mia blindata con un gran colpo di reni balza rrrrombando, rrrrombando fuori dall’acqua. Tutta fangosa; ma la cupola porta superbamente il fascione tricolore coi lunghi becchi irritati delle due mitragliatrici che si muovono a fiutare il nemico.

—Tutti in macchina presto! e pronti a sparare!

A 100 metri la mia prima mitragliatrice spara, screstando colle sue pallottole l’orlo della trincea in collina, tutta vampe, scoppi e pennacchietti di polvere e fumo. A destra al di là degli Austriaci un grande aaaaa! Sono i bersaglieri che li prendono alle spalle. Mi volto di scatto e fermo Locatelli che spara. Ta ta ta ta ta ta.—Feeerma!—Gli echi ampi e golosi del letto smisurato giocano a palla volubilmente col rumore della fucileria che ingoiano e sputano liquefacendo gli ultimi pim pam pam pac pam. Una colonna di prigionieri scende incontro a noi e ritraversa il fiume. La salutiamo in coro con un ilare: Austria caput, Austria caput! Poi ci slanciamo sulla strada. A una svolta da una parte e dall’altra della strada due grandi roghi di fieno incendiato con spirali altissime di scintille salgono su, su ad arrostire le nuvole rosse scorticate vive come agnelli, infilzate dai lunghissimi schidoni del zingaresco sole al tramonto.

—Via, via Menghini, dentro, tra le fiamme!

XXI. LAVAMI! LAVAMI, O AMORE!

Entriamo in Maniago sotto un arco di fiamme. Tutte le facce ne sono riverberate.

Vivaaaaa Italiaaaaaa!

A Maniago passeremo la notte.

Chiaccherio, saluti, abbracci, fiori. Tutte le famiglie vogliono ospitarci. Pranzeremo in casa del Sindaco. Poi finiremo la serata in un’altra famiglia piena di ragazze vispe e loquaci d’una giocondità affettuosa avviticchiante.

Si mangia bene, dal Sindaco. Patriota intelligente, forte, solenne, sessantenne. Faccia italiana con baffoni grigi, occhi neri. La sua bella figliola agile moretta occhi furbi vivacissimi collaborò col padre sindaco, per difendere il popolo, nutrirlo, incoraggiarlo. Dirigeva La casa, turlupinando i comandi austriaci. Dopo pranzo si gioca a tombola. La figlia si chiama Assunta Siega Riz. Mi racconta colla melodiosa verbosità friulana le mille astuzie e gli sforzi muscolari per sotterrare, nascondere in campagna e nelle grotte ogni cosa preziosa. Ha salvato quasi tutto. Aiutava le famiglie amiche a murare le porte delle cantine e delle stalle e a rientrarvi o gni tanto per nutrire alla meglio asini e buoi. Acrobatismi pericolosi, prima colle gambe nude fino alla pancia, poi le spalle e finalmente la testa.

Assunta Riz racconta:

—Malgrado le requisizioni feroci, io ero stranamente contenta, in questi ultimi giorni. Vedevo gli ufficiali austriaci salire sul campanile e restarvi delle lunghe ore a spiare l’orizzonte. Quando il generale Boroevic partì fui sicura della vittoria. Ma l’anno passato dopo Caporetto, che orrore! I germanici imposero a tutti i bambini dai 6 ai 10 anni di andare ogni giorno a fare la ginnastica in una palestra! Bella idea, una ginnastica obbligatoria per bambini affamati! Ma c’è di più. Tutte le donne furono costrette a cantare in una messa solenne in onore della imperatrice Zita! Volevano imporre ai preti di cantare una messa perchè Dio aveva liberato questa terra dagli italiani! I preti rifiutarono e furono tutti internati. Alcuni spogliati e denudati dovettero pulire le scarpe agli ufficiali! I bosniaci erano gli esecutori di queste canagliate. Poi vennero gli austriaci. Banda di ladri e di speculatori militarizzati. E che ubriaconi, tutti! Ho visto io sei soldati annegati nel vino di una cantina inondata. Sventravano le botti a baionettate. Facevano carezze ai bambini per strappare il segreto dei nascondigli. Ma i nostri bambini fuggivano gridando come gatti. Che differenza fra la ritirata di Caporetto e quella degli Austriaci! Gli Italiani se ne sono andati buttando via tutto come gran signori, mentre gli Austriaci hanno rubato tutto, partendo, come ladri e pezzenti!

—Oh gli ufficiali si trattavano bene! I bosniaci, da veri bestioni, erano i più sacrificati e pativano la fame. Facevano una polenta coi bachi da seta. Un giorno divorarono tutte le candele di una chiesa!

—Io ho fatto il mio dovere. Ho nascosto tutto ed ho aiutato tutti a nascondere. Il nostro buon parroco aveva dato un’eccellente parola d’ordine: Obbedite, odiate, nascondete. Potevano ben venire con le calamite a frugare per scoprire il rame sepolto! Che ridere alla messa cantata in onore di Re Carlo! Gli ufficiali avevano uniformi bianche fatte di lenzuola rubate. L’altare era ornato di frasche verdi. Verde pure la croce tutta costruita di frasche. In giro, le truppe vestite di bianco. Nel centro, intorno all’altare, le nostre coperte da letto rosse. Noi ridevamo, durante la messa, ci pareva di essere in un’immensa bandiera tricolore. Ad un tratto un rumore nell’aria: tre areoplani italiani tricolori! Che spettacolo. Gli ufficiali austriaci hanno una grande paura degli aeroplani nostri. Gridavano fuggendo: «Come! come! tutto organizzato! Questo è tradimento!»

Mentre Assunta parla esaltandosi, le bottiglie sante dissepolte sparano e spumeggiano. Tutti bevono dimenticando gli austriaci. Un rettangolo sul muro meno polveroso ricorda un divano rubato. Io bevo poco. Ghiandusso oscilla beato. Devo qua si sostenerlo quando andiamo a finire la serata in casa della famiglia Martini.

Tutta illuminata in fondo a quell’orto buio. Vi bollono le danze con grida, canti e bicchieri rotti. I miei compagni mi hanno preceduto con gli ufficiali bersaglieri. Tutta la casa è invasa dalla nostra forza vittoriosa. La razza ha urgente bisogno di riprendere contatto con la razza. Aderire, aderire l’uno all’altra. Il giardino è pieno di bisbigli. Amplessi nel buio. Ogni amplesso è un punto chirurgico dato con frenesia per saldare le labbra dell’immensa ferita. Ah! ah! Bisogna che presto questo punto della carne della Patria si ricongiunga con quest’altro punto corrispondente della stessa carne. Io balzo su una tavola perchè l’eloquenza illumini acceleri perfezioni la grande voluttà.

—Quante belle donne in questa casa! quante belle Italiane! Siamo pazzi d’amore per voi! La nostra forza virile e i nostri baci sono tutti per voi! O bellezze italiane, labbra della ferita aperta che dobbiamo chiudere a forza di baci! La vecchia morale è morta! I preti hanno sempre torto poichè sono amici degli Austriaci! Il prete di Maniago è un buon italiano, lo so, egli vi perdonerà al confessionale. Ogni bacio che darete questa sera a un italiano vi procurerà un secolo di gioia, di più, in Paradiso! Amen.

Intorno a me dieci tappi di bottiglie di vino spumante trattenuti coi pollici saltano salutando il mio «Amen» con un incrocio di getti rossi biondi.

Innaffiano anche il soffitto docciando le capigliature delle ragazze che ridono pizzicate sprizzando fra le braccia grigio-verdi. Arterie e cuori che schizzano entusiasmo. Bottiglie vive, che gareggiano in scoppi di tappi scappanti. Il vino occhieggia con brilli strani nei bicchieri.

Finalmente ecco la notte delle notti, la notte che mantiene tutte le promesse di mille giorni neri e non può finire, e continuerà in mille altre notti di gioia spensierata! Tutti i cataplasmi sono strappati dal petto. Abbasso la morale e il pudore! Le donne mature sono più allegre delle giovani. I vecchi fanno il girotondo intorno a un fiasco vuoto. Sopraggiunge il farmacista, un mattacchione dal naso adunco, che canta con voce tenorile. Ha in mano una bottiglia.

—Non toccate, è veleno, tutto per me!

E beve a garganella. La nonna panciona e mammelluta gioviale e molle di ricordi amorosi presiede alla distribuzione della gioia. In cantina, sì, in cantina esige che il suo seggiolone sia trasportato.

A forza di braccia, si deve portare anche lei e introdurla in cantina per una breccia poichè la porta è ancora murata. La nonna ride con solennità. Le pare di essere un generale ferito che rimane sul campo di battaglia a comandare l’artiglieria delle bottiglie. Sessantenne e cogli occhi neri sempre un po’ brilli. Alla sua età passare un anno intero asciutto! Finalmente! Il barcone troppo a lungo in secco potrà navigare in un oceano di ebrietà.

Ora insediata nel suo seggiolone tiene le cosce larghe perchè la pancia non le mandi in bocca le mammelle. Queste non di meno formano una tavola orizzontale, e vien voglia di deporvi le bottiglie che ella aspetta con le mani aperte. Le palpa, le osserva. Questa è piena di fantasia, bottiglia generosa e senza perfidia. Quest’altra sbarazzina, ma affettuosa, è la bambina preferita. «Non lasciatele cascare, per carità». E le segue con sguardo materno quando spariscono portate a braccia su per la scala.

Sopra, nel cucinone, il nonno, a capotavola fra un esercito di bicchieri. Penso a un ammiraglio sulla tolda. E’ tutto rosso, e il vino già bevuto ride nei piccoli occhi tutti scintille come alle fessure di una botte. Ha bevuto, beve, vuol bere ancora, con l’ansia di chi non ha mai bevuto. La forza del vino sale, sale a dilatargli il petto come la sua prateria ripresa agli Austriaci. La forza del vino drappeggia di luce e popola rumorosamente nel suo cervello le lontane belle città italiane, piazze, fontane, caserme e trattorie che aveva ubriacato di mille pazzie quando era soldato, anche lui, a far la guerra. Poi con Garibaldi; e la camicia del condottiero gli sventola rossa nel sogno tra le vampe rosse del vino.

—Mi sento, dice il nonno quasi ebbro, mi sento la Primavera e la Gioventù nelle vene. Sento mille servitori pronti ad aprire, aprire tutte le sale nella mia testa, nel mio ventre e tanti giardini pro fumati che scrollano via l’inverno e mutano mille vesti verdi e azzurre. Strani questi giardini! Provano e riprovano delle vesti di lusso di mille colori. Certo per una Domenica in Paradiso! Ma la Domenica è venuta, e sono in Paradiso! Debbo ballare, anch’io debbo ballare, ballare! Ma non si può ballare con una pancia come la mia. Questo anno di digiuno, non l’ha quasi intaccata! Quando vennero gli Austriaci, io dissi ai miei figlioli: «Ora ci sarà la fame. Ma niente paura! La nonna ed io abbiamo addosso delle abbondanti riserve di lardo. Non morremo nè dimagreremo. In quanto a voi, provvederò io e vi sfamerò colla mia carne, facendo il conte Ugolino a rovescio!»

Ride il nonno annusando come un bracco il buon odore di fritto che cuoce nel camino accanto alla polenta che si muove gialla monumentale nel pentolone.

—Sembra la pancia della comare Maria. Ora partorirà un nuovo figlio alla Patria! Un figlio di polenta! Sarà un imboscato!

Intanto i soldati scuotono e pigiano la danza come l’uva. Ne sprizzi se Dio vuole altro vino!

Le ragazze hanno consegnato le belle poppe ai soldati che le palleggiano, fra le braccia, ballando. Ormai si abbandonano nella danza con ritmo oblioso d’onde felici che ritornano e battono languidamente contro roccioni amici.

Questi cominciano a subire il vino e si muovono con cautela per paura di ruzzolare. I meno brilli scompaiono nel corridoio. Andirivieni, miscele, bisticci, risate, risatine, risatone, pizzicati, trilli e capitomboli, sganasciamenti nel buio.

Ressa, ressa, poichè si gioca a rimpiattino. «Nascondi tu che nascondo io!» «Non pizzicarmi così, mi fai male!» «Dammi la bocca!» «Scopri questo che ti svelerò il meglio!» «Ti dico di no, di no, ma il sì mi brilla negli occhi, lo vedi. Qui, qui è più buio».

Un contadino, quarantenne, scherza, balla con Ghiandusso. Questo si libera ogni tanto dalla stretta e lo scaraventa a terra per celia. La moglie dell’uomo interviene. Ghiandusso abbraccia la moglie, poi le versa un bicchiere di vino nel seno.

—Ma sì, ma sì! dice il marito: ti permetto di baciarla, non sono geloso. La gelosia non esiste fra Italiani! Avete capito?... La gelosiiia non esiste fra italiani! Mia moglie è tua, anzi nostra! Piace a lei, piace a me! Baciala. Sono forse becco, io? Macchè! Eravamo tutti becchi! Ora siamo tutti amanti fortunati! Balliamo tutti, stretti, stretti, stretti!

Dietro ad ogni porta nella penombra, tumultuava l’amore. Così si ricongiungono con ardore bruciante sublime e divino le carni della Patria!

Avevo ballato anch’io con una bella ragazza gracile, il cui pallore e gli occhi neri, grandi un po’ febbrili sotto il peso della capigliatura castana, mi piacevano. La ritrovai nella baraonda verso l’una di notte. Mi stringe la mano dicendomi: «Vieni con me». La seguo nel corridoio su per una scaletta fino al terzo piano dentro la sua camera da letto. Ansante, ma con movimenti decisi, come seguendo una sua volontà irremovibile, chiude dietro di me la porta a chiave. Ci si vede poco.

Intuisco e fiuto il letto fra le luci palpitanti del lumicino ad olio di una Madonna rosea-blu.

—Mi chiamo Graziella, mi piaci, baciami. Baciami tanto, tanto, tanto! Ho sentito tanto parlare di te, sai! Da una mia amica che sta a Roma. Sei un grande poeta, un uomo celebre! Come farò io a piacerti?

Poi buttandomi le braccia al collo mi strinse forte e subito il suo pianto si ruppe con singhiozzi laceranti, dolorosi, atroci che non finivano più.

—Vieni! mi sussurrò, e mi guidò per la mano verso il letto, nel buio.

—Sono pura, sai, pura, come la mamma mi ha fatta. Ma una di quelle canaglie...

Non potè continuare tanto i singhiozzi la soffocavano:

—Ma una di quelle canaglie ha tentato una notte di prendermi. Era alloggiato in casa! S’era nascosto nel vano della finestra. Entrai in camera senza accorgermi di nulla e mi svestii. Quando fui in camicia quel porco mi venne addosso. Non è riuscito a prendermi, no! Ma mi ha sporcata, sporcata, sporcata!... Io gli ho addentato la guancia! Allora si è fermato. Sanguinava. Bestemmiò in tedesco e mi diede un pugno tremendo, qui. Guarda!

Graziella si scoprì il seno, singhiozzando.

Io non vidi bene, ma sentii sotto le dita una tumefazione sul bel seno eretto morbido e ben tornito.

—Vieni, amore! Sono tua! Lavami, lavami, con tutti i tuoi baci! Lavami tutta! Voglio che tu mi lavi tutta con la tua cara bocca italiana!

Si svestì tutta, mi prese fra le braccia senza ritrosie.

Non aveva nessuna gradazione nell’offerta della sua nudità. Una volontà cocciuta governava la sua passione d’amore purificatore.

—Sono tutta per te! Se ti piace... Ho deciso così, in quella notte infame. Giurai alla Madonna che mi sarei data al primo Italiano vincitore che mi fosse piaciuto.

Senza fine la baciai, la baciai, mentre Graziella implorava come in sogno con una voce monotona quasi meccanica piangendo felice.

—Lavami, lavami, lavami, amore, lavami!

La camera si gonfiò di delirio e di fantasia. Navigava in cielo, forse rapita dalla corrente della via Lattea. Notte illimitata, ebbra di sublime. Notte fuori dallo spazio e dal tempo.

Il corpo di Graziella era morbido, elegante, snello, e rovente. Vibrava graziosamente sotto le carezze, moltiplicando i suoi profumi di terra felice d’essere riconquistata. Era veramente il dono della Vittoria.

Non avevo amore per Graziella, ma una frenesia di spirito e di nervi travolgente, tenerissima.

Mi accinsi alle più meravigliose voluttà con tutte le delicatezze e insieme uno strano impeto brutale e anche un allucinante slancio artistico fatto di preziosità stilistiche e di cadenze musicali.

—Lavami, lavami, amore!

Fui un fabbro impazzito e un maniaco cesellatore. Ero fuori d’ogni legge sociale umana o divina come un gallo contento con la gallina ideale del pollaio mio.

XXII. FIUMI, CAMPANE, DONNE E MITRAGLIATRICI INNAMORATE

—Ricordati, Ghiandusso, che l’interno della 74 deve essere pulito, scintillante, in ordine come il letto di una sposa.

—Guardi, signor tenente, sembra proprio il letto d’una sposa... ma la sposa non c’è!

—La sposa ci sarà, presto... E la vedrai dentro coricata, nuda, più bella di tutte le donne del mondo!

Ghiandusso sorride senza comprendere la mia frase sibillina, poi con voce materna:

—Per ora ho coricato dentro la Zazà che ha tanto freddo colla sua pancia grossa, grossa. Guardi come dorme sotto le coperte.

Alle sette, partenza in un brusio di voci contradittorie. Si dice che gli Austriaci giunti la sera prima sul torrente Arzino hanno durante la notte precipitosamente fatto marcia indietro per trincerarsi sul Meduna. Sono dunque a pochi chilometri! Tanto meglio! Tanto meglio! Li mitraglieremo sul Meduna. I nostri motori gareggiano coi pedali sportivi dei bersaglieri ciclisti sulla strada bianca che attraversa la brughiera deserta. Il sole che sale dietro noi ci imbriglia coi suoi raggi rossi. Il capitano Raby, esperto comandante di blindate, ha dato ordine di mantenere le dovute distanze fra le blindate. In terreno scoperto bisogna evitare di offrire un grosso bersaglio ad un possibile agguato di artiglieria. Da conoscitore di forze, quale io sono, penso che spesso gravissimi pericoli s’imboscano nelle ore di più spensierata sicurezza. Faccio chiudere sportelli e feritoie malgrado il caldo crescente per abituare gli uomini a sopportarlo in un eventuale combattimento. Mi volto per controllare attentamente la disposizione degli uomini, delle munizioni, la scorrevolezza della cupola girante. Menghini, al volante, attira la mia attenzione attraverso l’occhio orizzontale della blindata sotto la palpebra metallica alzata.

—Guardi, signor tenente, in fondo alla strada bianca, a un chilometro, il Meduna. C’è una folla. Donne, donne, una quantità di donne e bambini. Gli austriaci se la sono svignata.

Vocio confuso che cresce, cresce, cresce. Laggiù una marea bianca, rosea, rossa di donne vocianti che si accalcano. A destra, a sinistra ne giungono altre. Sentiamo che a 20, 30 chilometri in giro i casolari si sono vuotati. Le grida diventano fragorose nello spiralico polverone aizzato dalle gonne che spazzano la strada e dalle braccia che agitano fogliami. Entusiasmo sanguigno, allegrissimo, esasperato che suona sul metallo della blindata, penetra come un vino gazoso dalle feritoie. Apro lo sportello e cogli uomini a terra, presi nella risacca impetuosa della folla, spingiamo la blindata nell’acqua diaccia che corre distratta.

Vivaaaaaaa! Vivaaaaaaa! Vivaaaaaaaa!

Il sole partecipa come un baldanzoso burbero benefico alla festa clamorosa. Con una folle raggera di frecce aguzze affilatissime il sole accende le mille vesti colorate e i visi di rosso sudore lucente delle friulane e il drappeggio azzurro delle gonne nel gorgogliare dell’acqua corrente. Le popolane si alzano le gonne e le agganciano alla cintura. Godono i polpacci agili nella gelateria dell’acqua che moltiplica i suoi ssssss gggggg got got glu glu glu glu flav got ssss gggg flic flacpluf pluf plaf imitando e riassumendo rumori, suoni di bottiglie, sorgenti, cascate, arpeggi, camini invernali e il bisbigliar degli innamorati sotto le frasche ventose. Il guado è meno praticabile dei precedenti. La mia 74 s’immerge, quasi naviga. Abbiamo fasciato il motore. Ma il sole propaga su di noi una così maestosa ascensione di raggi sulla nostra testa con un così trepidante ardore sulle spalle, che le forze sono centuplicate. Molte donne speravano di salvare le loro gonne di lusso e le hanno su, su arrotolate come sipari di teatrini burattinai sulle ginocchia e sulla pancia. Ammiro i muscoli tesi sotto la carne rosea delle forti cosce di quelle che tirano la corda. Altre sono proiettate in avanti con sforzo atletico tirando con noi i pa rafanghi. E le bambine fragili hanno l’acqua al petto. La corda danza ad ogni impeto del motore che rrrrrruggendo, rrrrrrrrruggendo vuole disincagliarsi. Zazà guaisce, abbaia nuotando come un bariletto nell’acqua gelata perfida e cattiva che tira a sinistra. I bersaglieri che guadano in fila a destra e a sinistra depongono le biciclette e corrono ad aiutarci. Gioia gogliardica nello sventolio delle penne di gallo sugli elmetti tintinnanti contro i fucili i tascapani, fra il chiaccherio affannoso e le risate dell’acqua più donna delle donne che beffeggia e spumeggia perle, gorgheggi, zampilli in bocca e fra i capelli sciolti sulle natiche fuggenti fra i pizzicotti bersagliereschi.

—Tutti insieme, un ultimo sforzo! urlo io comandando la manovra con l’acqua alla pancia.

—Issaaa-ooh! Issaaa-ooh! Menghini, imballa il motore! Imballa! Imballa, per Dio!

Tre bambine capitombolano nell’acqua. La più piccola, dodicenne, scivola via travolta; ma un bersagliere si slancia e con una zampata la ripiglia e la solleva pel culo! E’ fuori sul greto: piange, ride, tra le pedate delle donne e dei soldati che su, su tirano finalmente fuori la mia 74. Vivaaaa! Vivaaaa!

Le rudi friulane ignorano la stanchezza; sono oramai centinaia, centinaia intorno alle blindate nere che guadano. Il sole, immaginoso pittore, si diverte a raddoppiare il rosso, il verde, il viola, lo scarlatto, il giallo canarino di quelle donne agili, rozze, quasi selvagge figlie del Meduna, sorelle di quelle acque selvagge e capricciose; ma felici di tradirle per salvare i forti motori metallici, aggressivi che le hanno innamorate. Strepitano di rabbia maschia i motori col tempestoso martellare degli stantuffi e gli scoppi dei brrronchi e il catarro prrrorompente in vapore, irritatissimi di dovere a delle donne e alle loro fragili liquide braccia, la liberazione. Comprendono a mala pena, i motori, che mitraglieri e bersaglieri non bastano; occorrono donne astute per vincere le astuzie femminili della ghiaia, maledetta donna femmina femminile che minaccia ogni slancio maschio rigido e veloce.

Il sole ha genialmente composto il quadro. Sulla lunga fascia azzurra d’acqua che lo attraversa orizzontalmente sei blindate nere, ognuna con la sua ghirlanda convulsa di donne colorate. Tra blindata e blindata perpendicolarmente sei arabeschi lunghi di biciclette, penne di gallo e fucili arruffati simili a lunghi reticolati in moto. La simmetria è rotta, nell’alto del quadro a destra, dalla vetturetta del capitano Raby, strano canotto nell’acqua verde.

A sinistra nel basso del quadro l’ultima blindata sembra un sottomarino emerso col suo chiosco-torretta. Vicino a questo un autocarro sembra un veliero capovolto.

Il quadro è anche sonoro poichè ecco la sua polifonia tocca l’apice di tutti gli acuti in un Vivaaaaaaaaaaaaaa!

Poi silenzio. Pochi minuti, le friulane, sedute sulla riva conquistata, si riposano contemplando. Appena la gioia pazza è sedata, di nuovo in macchina verso un suono strano gemente, umano e non umano, profondo e aereo, inesplicabile, venuto di lontano di sotto terra o dal cielo, il suono mi fruga nel petto, cerca, cerca, trova e mi pugnala il cuore di una dolcezza straziante acutissima... Sole! sole!

Sole! Sole! Sole! che galoppi nell’incalcolabilmente vasto e desolato letto del Meduna, gridami, spiegami, quale nuova polpa di gioia hai preparato davanti a noi, dietro l’altissima muraglia fulgente del cielo tuo?

Il mio motore si slancia. Sapere, sapere, vedere, conoscere. Abbiamo terrore di te, nuova Gioia! Vorremmo fuggirti, eppure già ti beviamo con le nostre orecchie assetate, liquida delizia sonora!

—Oh! nulla, nulla, o almeno poca cosa! mormora il cuore. E’ una piccola campana italiana che piange e ci saluta... umile dono della bella Italia liberata ai suoi liberatori!

La vediamo. E’ una piccola campana da campaniletto di cappella boschiva. La dondola fra le mani con fatica una esile vecchia tutta bianca, vestita di nero. La piccola campana è tutta sporca di terra poichè fu dissotterrata, un’ora fa, da quelle stesse mani rugose. Sembra un vaso di fiori capovolto, ma ne fioriscono, fioriscono, tante piccole rose di suoni, piccole rose di tenerezza, invisibili ma penetranti e che si spandono: profumo di suono dell’azzurro inebriato. Ansimando, la mia macchina si ferma davanti alla vecchia, senza che Menghini al volante lo abbia voluto. Motore magnetizzato! A destra e a sinistra si svegliano timidamente piangendo altre campane, soavi, languide tremanti e sfinite dalla dolcezza. Accorrono, s’affrettano. Laggiù sotto quei castagni, la sento venire! La vedo! Questa è più grande ed è infilata in un ramo che due donne vestite d’azzurro portano, incespicando nelle zolle.

Din din daaan daaan din dan din dan. Intanto la vecchia dondola dondola la sua piccola campana. Ha un suono più limpido, più liquido, trasparente di cristallo e d’acqua.

Forse il metallo non fa che continuare il flebile tinnire delle lagrime che beve. Piange la vecchia dondolando la sua campana. Quasi cade, per stanchezza, trascinata giù dal peso ondeggiante e i capelli bianchi le coprono il viso pacificato. Non ci guarda. China sorveglia meravigliata i bei suoni melodiosi che le gocciano dal cuore. E’ lei, lei la prima, con la prima campana! Certo è fiera di sentire e vedere che tante tante compagne vengono da tutti i punti dell’orizzonte ruzzolando giù dalle colline e sgorgando dalle valli per suonare, e suo nare, suonare senza fine e lagrimare, come le nuvole d’autunno che hanno troppo bevuto, come gli occhi che hanno troppo aspettato.

Din dan, din dan dan dan din din.

Tutte le campane sono ormai salvate. Questa più grande comincia con rintocchi lenti, quasi paurosi spandendo un tremolio sonoro; ma presto si fa animo. Dan! Certo quasi non crede alla realtà prodigiosa. E’ stata nascosta un anno sotto terra in fondo all’orto del prete con tre botti di buon vino spumante da quella furbacchiona della perpetua. Le pioggie hanno fatto trasudare le botti e la campana si è consolata, così, nelle buie notti opache, sotto terra. Ora è un po’ ebbra, le trema la voce.

E’ tutta abbagliata dal gran sole. Un’ora fa, un’ora fa con zappe e mani unghiute l’hanno dissepolta. Su, presto, ragazzi, forza! Tira su, tira, tira! E’ fuori, santa Madonna! Prendi la corda! Giovannino, monta sull’albero! A quel ramo grosso! Presto, fa presto, vengono gli italiani! Sono al fiume. No, no eccoli, eccoli, vengono in automobile, senti il rumore della macchina! Attacca, attacca forte!

Certo, si sentivano rombare i motori nostri e lo spavento di non essere in tempo affannava il ragazzino che con tutta la forza delle mani deboli stringeva i nodi. «Suona, suona, suona, per la Madonna!» gridavano sotto l’albero. E il ragazzino non riusciva, si disperava, quasi piangeva. Ma ad un tratto lanciandosi giù si appese colle mani al batacchio come un appiccato ed ora, su e giù, su e giù, buttando in alto le gambe; e le mani gli sanguinano lacerate, e finalmente suona, suona, suona.

Dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan. Il parroco è sotto, pallido, con braccia cadute, le mani aperte la veste tutta infangata. Ci guarda con gli occhi fissi, inebetiti. Parroco sì, prete sì, ma Italiano. Un altro prete viene laggiù col pasto che crolla. Ogni tanto si ferma a riprendere fiato. Pietro, il suo campanaro trascina una grossa campana che tintinna sui ciottoli.

Sono vecchissimi tutti e due. Le donne vorrebbero aiutarlo, ma si rifiuta il campanaro e tra la folla che si apre vuol trascinarla lui, portarla lui fin sotto le ruote della blindata. Nell’ultimo sforzo alza la testa, mi guarda trasognato, poi cade bocconi e il cuore gli si spezza in singhiozzi atroci.

Dan dan dan dan dan dan dan.

Allora il vecchio prete si fa largo e alzando la mano che trema dice:

—Signor tenente, l’altra, la bella, la grande campana, non l’abbiamo potuta portare... Non è sotterrata, ma è così a fior di terra, davanti alla nostra chiesa. Su quella collina... vede? Non può vedere, ma la vedrà... Un anno fa il colonnello austriaco, quella canaglia, che Dio non gli perdoni, è venuto a prendermela coi soldati. Prima ho supplicato, poi ho detto a quelle anime dannate che non potevo, non potevo dargli la mia campana. Allora i soldati hanno sfondato la porta della chiesa e sono saliti sul campanile. Subito io chiamo tutti i contadini e le contadine, e tutti in ginocchio, e io gridavo; ho poca voce, signor tenente ma gridavo: «Se Dio c’è ancora sull’Italia, Dio non può permettere che la campana sia strappata! Non sarà, non sarà, non sarà strappata!» Urlavo, urlavo: «Non sarà, non sarà strappata!» Che brutto momento, signor tenente! I soldati ridevano e sghignazzavano dall’alto del campanile. Li vedo ancora che gridano in tedesco ai contadini di scansarsi. Tutti piangevano. Hanno rotto il muro, quelle canaglie, per staccarla. Poi giù, l’hanno buttata.... Che urlo e che fragore! La grande mia campana è caduta giù, ma era tanto pesante e c’era stata tanta pioggia, ed è entrata, entrata, dentro dentro nella terra. Non si vede quasi più. Ma ora viene il bello, signor tenente; e rido ora come allora non piangevo più. Gli austriaci coi buoi con le corde, con le leve, coi cavalli, cogli asini—ci avrebbero messo sotto anche tutti i porci delle famiglie loro che son porci—hanno tirato, tirato la mia campana per un giorno e una notte! Ma la mia campana non si è mossa più. Questa è l’altra, la più piccola. Gennaro falla sonare. Su, forza, ti aiuto io.

Intanto un bambino s’avanza verso di noi tirando colle due corde sulle spalle e intorno alle braccia un asinello e una vacca magrissimi. Vissero un anno murate vive, quelle due bestie, in una specie di nicchia, nutrite da quel bambino che penetrava di tanto in tanto per un buco. Non stanno troppo male. Guardano attonite la campagna e soffiano. Mentre un contadino attacca al loro collo due campanacci pesanti. Vorrei implorare pietà per l’asinello che certo non reggerà allo sforzo. Ma chi mai può sentire la stanchezza, ora? E le due povere bestie vengono avanti suonando suonando:

Dan - dan - dan - dan - dan - dan.

La polifonia delle campane che si moltiplicano prodigiosamente cresce, si gonfia fondendo insieme tutte le stranezze e tutti i languori nostalgici di quei suoni patetici.

Non sono più campane poichè sepolte, strappate dai loro campanili e vaganti nella campagna. Riscossa tragica della gioia generale. Esprimono col loro suono ogni brivido, ogni singhiozzo, ogni tormento, ogni angoscia tipica d’infiniti corpi umani contorti da spasimi diversi d’attesa, dolore, tortura disperazione speranza felicità.

XXIII. MASSAGGIO DEL CORPO DIVINO DELL’ITALIA

—In macchina, in macchina! grido ai miei soldati. Al volante, Menghini!

Guardo energicamente negli occhi bagnati di lacrime dei miei soldati. Hanno capito. Hanno capito. Poi ammonisco rudemente il mio cuore: «Hai avuto ragione di piangere, cuore mio, ma ormai sei inzuppato di lagrime come un fazzoletto d’addio. Basta! Non piangere più! Oggi è giorno di guerra! Abbiamo vinto, bisogna stravincere! Hai abbastanza subìto l’incantesimo sonoro. Non sono campane! Strappate dai campanili, sotterrate con furia gelosa, esse rinascano mutate! Sono i bronzi melodiosi del genio Italiano che non poteva subire manipolazione straniera. Conservarono sotterra il timbro profondo e l’ampia virtù suggestiva. E’ il genio della nostra razza che risuona ancora intorno a noi. E’ la forza creatrice italiana colla sua commovente elasticità di balzi armoniosi, le sue arrampicanti fioriture di note che sanno l’ampio anfiteatro di echi carnali del golfo di Napoli, e le cadenze flessuose delle colline toscane, e i burroni muggenti d’organo dei valloni a bruzzesi. Non piangere! Canta, o mio cuore! Canta, batti, romba rotolando tutte le erre d’una furente velocità.

«Senza nostalgia, senza languori, senza abbandoni mistici, lontano dalle Madonne e dai campanili! Ricordati che nelle città, altre campane prostitute vorrebbero aizzare con falsi annunzi di pace prematura gl’interni salvatori dell’Austria passatista! Sia il tuo canto un martellare, preciso, rettilineo che scalando il cielo, su, su, colpisca le vetrate delle chiese perchè il cristallo infranto si sganasci anch’esso annunciando la nostra vittoria! Su, slanciati, mio cuore motore, su questa bella strada che taglia le più ricche, eleganti variopinte campagne della terra! Sono i capelli sparsi dell’Italia Divina! Noi ne conquistiamo il seno, le belle spalle, su su, verso le due braccia tornite, tanto tempo incatenate e la mano sinistra inanellata di mare: Trieste!... e la mano destra più rude e muscolosa: Trentino!»

O Italia, o femmina bellissima viva - morta - rinata, saggia - pazza, cento volte ferita e pur tutta risanata, Italia dalle mille prostituzioni subìte e dalle mille verginità stuprate ma rifiorite con più fascino di verde pensoso e di ombrie pudiche. Sono io, io il futurista che primo ti libero il petto baciandolo col mio delirante amore!

Cosmica fusione del mio corpo col tuo! Ti sento, ti sento, ti sento! Ti prrrrendo, ti prrrrrendo, ti prrrrrrrrendo! Sei grande, grande, lo so, e non ti posso tutta contemplare!

Eppure, senza sognare senza perdere la ragione, t’immagino tutta, ti vedo! Questa rosea carta geografica, che ho fra le mani, vibra, vibra, mentre io corro nella mia blindata. Vibra l’elegante forma rosea sulla carta! Non è più carta, diventa carnosa! Freme, respira, palpita e spalanca sempre più le braccia nella crescente e trasfigurante velocità del mio motore in sogno! L’impeto virilissimo di questo mio motore che è insieme cuore, sesso, genio ispirato e volontà artistica, entra in te, con rude delizia per te, per me, lo sento! Sono lo strapotente genio—sesso futurista della razza tua, il tuo maschio prediletto che ti ridà penetrandoti la rifecondante vibrazione!

Ah! se potessi avvilupparti tutta in un unico immenso bacio, sintesi ultima di tutti i baci che la tua bellezza florida ha suscitato nei padri, dei padri nostri e in quelli morti per te e nei 500 mila eroi dell’Isonzo, del Carso, del Piave.

Non sono pazzo! Nè allucinato! Creo, creo il tuo fantasma, la tua statua che non è di bronzo, nè di terra, ma umana, viva, di carne. E’ forse un pazzo, lo scultore geniale? Tale io sono, ispiratissimo, ma con lucido controllo tenace e sapienza di mezzi! Con questo bollore di sangue che ridipinse il mondo, con questa respirante carta geografica, e con una piccola lettera d’amore bagnata di sudore sotto la mia giubba, e forse di lagrime, poi chè è la lettera di un’amante ideale, una italiana, che mi scrive il suo pazzo desiderio di cancellare Caporetto!... Con questo, con questo, io compio il miracolo!...

Sì, sì, Italia! Ho sotto la giubba una lettera d’amore! E’ lei che mi scrive! Una Italiana! Bellissima! Non la ricordi? E’ tua figlia. Ti somiglia. I suoi capelli hanno la morbida serica fluidità dei tuoi boschi. Pensa al più sognante declivio della tua più languida collina e ti sarà facile immaginare quelle guance tenere sensuali calde di pesca e magnolia. Soltanto certe curve dei tuoi fiumi ricordano un poco l’invito sinuoso delle sue labbra! La sua voce evoca il canto delle onde notturne nello stretto di Messina udito da un areoplano volante a 1000 metri. Lenti archetti di dolore su violoncello d’oro giocondo. Glauche chitarre di roccia con lunghi accordi d’acque che s’infrangono. Arpe elastiche di vento con pizzicati di lampi allegrissimi. E piangenti clarini smarriti in meandri di pazzie colorate.

Lei! Lei! Se cammina, ondeggia come un fumo lieve innamorato del cielo.

E’ tua figlia, o Italia! Le parole carezzevoli della letterina sua tremano sul mio petto, insorgono, susurrano, suonano. Sono le sue tenerezze che odo, ma anche le tue, le tue! Sei tu che rispondi ai miei baci, tu, Italia, che mi gridi con le sue parole: Amore, amore, amore!

La mia passione parla così nella velocità amoro sa della mia blindata 74 che attraversa correndo i villaggi e le loro schiumanti ondate di grida, braccia, fiori, campane agitate.

—Vivaaaaaaa! Vivaaaaaaa! Dan dan dan.

Ti prendo, ti prendo, ti prendo, Italia! E sono geloso di te, geloso! Tutti ti amano, tutti ti amano, tutti ti vogliono! Io ti voglio per me! I miei soldati hanno strani visi pieghettati arsi da un forsennato desiderio di te! Sento l’acciaio di queste pareti bruciare di voluttà per te! L’occhio orizzontale di questa mia 74 d’acciaio già si muta nel delirio in una calda bocca dalle potenti labbra affamate di te! Stride e strilla tutta la mia blindata! Ha un tono quasi brutale! Non sa più contenere la sua follia per te!

—Sono io, son io che ti bacio! urrrla la mia blindata 74—Sono io che ti bacio! Io sono la bocca d’acciaio veloce che scivola sulle morbide colline del tuo seno, sulle ben tornite montagne delle tue spalle, baciandoti tutta, avidamente, con lussuria! Sono io che ti bevo e mangio tutta di baci minutissimi rapidissimi, Italia mia, donna-terra saporita, madre-amante, sorella-figlia, maestra d’ogni progresso e perfezione, poliamorosa - incestuosa, santa - infernale - divina!

In sogno ho ascoltato queste stridenti parole d’amore della mia blindata. Ma bruscamente morso dalla gelosia urlo:

—Via! Basta! non facciamo scherzi! Non ti permetto queste libertà! E’ mia, è mia, compren di? E’ tutta mia, l’Italia bella! E’ da tempo, da tempo, da tempo che l’amo, d’un amore preciso - confuso, eterno - istantaneo! Profondo amore spiritualissimo, religioso! Un amore in ginocchio, prosternato e insieme un amore sensuale tutto morsi, baci graffi carezze rudi! Un amore che s’infittisce e s’insuccolenta, ghiotto, ghiotto nell’Italianissimo sugo d’un buon piatto di spaghetti alle vongole napoletano! Tu non sai cosa vuol dire assaporare con mille labbra l’Italia nel giallo risotto alla Milanese e nel polisaporico minestrone! Dopo lungo girovagare di lingua e di palato fra le plagiarie insipide culinarie estere, godere un piatto italiano! Ah, ah! Questo è un amore senza confine ed ha le smisurate minuziose e chilometriche voluttà del sole quando in Agosto possiede la Terra!...

Ed anche la girante oleosa carezza d’un battello a vapore che beatamente prende in giro colla sua scia l’isola di Capri, mammella della Terra, emersa dalla tenerezza lunare come da una serica camicia ideale!

Non bisticciamoci, mia cara 74! Non sei una bocca! Tu sei l’alcova d’acciaio veloce, creata per ricevere il corpo nudo della mia Italia nuda, che ora, con grazia, per i graziosissimi piedi trascino dentro, dentro, dentro di te! E’ già dentro, e fra le mie braccia!

I villaggi salutano il mio amore irruente, eloquente, e vittorioso.

—Vivaaaa! Vivaaaa! l’Italiaaaa! Dan dan dan. Han ragione quei villaggi di acclamare, elogiare la mia amante divina! Tanto bella così, assopita! Ma un po’ stanca per i troppi baci e le carezze accanite! Giovane, fresca, come prima della schiavitù. Languidamente ha concesso il suo corpo al massaggio sapiente della nostra offensiva. Abbiamo subito ottenuto la rimozione delle piccole rughe che deturpavano i suoi fianchi. Le nostre ruote ora premono come pollici veloci sulla sua pelle ancora un po’ insensibilizzata da un anno di nefasta cocaina. Il massaggio fu in un primo tempo feroce. A cannonate, sì, a cannonate praticammo nella palpebra destra istriana il taglio d’una piega sovrabbondante di tessuto, poi ricucimmo i margini della ferita con punti fitti e sottilissimi di spie.

L’Italia porterà gli occhiali affumicati per qualche anno, poi la cicatrice rossastra sopra e sotto la palpebra sparirà. Per affrettare, un colpo di pastello e di legislazione geniale. Intorno alla bocca che ha nome Piave vi fu gran fervore di lavoro. Con un bombardamento sul labbro superiore, Caviglia massaggiatore esperto, incise e asportò triangoli di tessuto carnoso nel punto di congiunzione tra il labbro e il naso: Vittorio Veneto. Questo massaggio non soltanto restaurò, ma abbellì. Fu così aumentata la potenza espressiva della bocca Piave.

Tirammo a pulimento e riducemmo a forma rettilinea colline rincagnate. Colle mitragliatrici, fra poco, faremo abbondanti iniezioni per correggere le depressioni della linea frontale. Il piombo iniettato si trasformerà in tessuto connettivo. Livelleremo gli incavi e le depressioni morali del bel collo pieno di volontà. Tramuteremo il mento, un po’ molle, in mento pronunciato, volitivo audace insieme e piacevole. Ora la squadra ci aiuta cannoneggiando incisioni nelle regioni capellute sopra gli orecchi - golfi Adriatici.

Presto, presto, si spianino a cannonate le rughe frontali scavate dal dolore. Un colpo di lancetta qui, uno strofinamento di ruote là, e sarà compiuto il perfezionamento dei suoi connotati femminili. Voglio ridare al viso della mia Italia la tinta dei cieli di Sicilia. Già mi scivolano fra le mani gli aliti africani usi a fasciare i fianchi dell’Etna. Ho anche a mia disposizione questo morbido cielo, panno impregnato di soavità misteriose... Non sono forse io il padrone assoluto di questo universo diventato per me un prodigioso Istituto di bellezza? A 50 o 60 chilometri sulla mia destra posso prendere il mare, morbidissima spugna azzurra inzuppata di lozioni orientali. Ecco col mare-spugna azzurro cancello le lividure e le arsure del viso dell’Italia che riprende la freschezza saporosa della gioventù. Poi l’accarezzo con questo cielo di panno imbevuto d’Oriente illanguidito. Il viso si assopisce.

—Menghini, come va il motore?

—Senta, signor tenente; canta come un flauto. Tuvvvvvvvv Tuvvvvvv vrrrrrr vrrrrrrr.

Il motore aveva come me sete, sete, dopo tanta passione bruciante.

Fiuto la maestosa, freschissima bevanda saporosa d’azzurro: il Tagliamento! Se il ponte del Torrente Arzino è ancora in piedi saremo presto al Tagliamento. Presto, giù per le discese a zig-zag e nelle grandi S temerarie della strada, correva la mia 74 girando intorno alle colline sempre più aspre e rocciose che prendevano arie di montagne imprevedute con roccioni strapiombanti, svolte, svolte, e svolte.

Ad una spasmodica velocità, come il sangue corre nelle vene, correvamo nelle vene dell’Italia, su e giù per i suoi muscoli saldi. Era fuori di noi l’Italia, ed era anche nella blindata, addormentata fra le mie braccia, col suo placido respiro melodioso. Tuvvvvv Tuvvvv....

XXIV. UN PARTO IN BLINDATA

In volata coi bersaglieri ciclisti che corrono a destra e a sinistra delle blindate sentiamo tutti che s’avvicina per noi l’ora di un urto violentissimo col nemico. Sentiamo che sull’Arzino e sul Tagliamento gli Austriaci ci sbarreranno la strada di Stazione per la Carnia, tentando così di impedire la cattura d’un’armata di circa 50.000 uomini e relativo carreggio cavalli e bestiame in marcia da Gemona verso il corridoio di Chiusaforte e Tarvis.

La partita è magnifica. Una frenetica passione sportiva ci invade. Il record da vincere è allettante. Siamo pronti a qualsiasi combattimento, ma preoccupati sopratutto di velocità. Evitare ad ogni costo qualsiasi fermata. I bersaglieri ciclisti vogliono quanto noi giungere ad ogni costo prima che i ponti siano fatti saltare. Non ci curiamo più delle spalancate acclamazioni di popolo accalcato nei villaggi.

—Vivaaaaaaa! Dan dan dan.

Abbiamo altro da fare che intenerirci. Il colonnello De Ambrosis che comanda l’intera colonna è in testa con la sua motocicletta, e dietro con noi i bersaglieri ciclisti tuffano in avanti sul manubrio le loro facce arroventate che brillano di sudore fra i globi rotolanti del polverone.

Per la strada che su e giù serpeggia fra colline boscose, roccioni e montagne formiamo uno strano treno impazzito in fiamme, che disprezzò i binari e i tunnel per sfrenato amore d’ogni bella curva italiana.

Siamo anche divenuti una fantastica macchina dell’anno 3000 composta d’un serpeggiante tubo mostruoso, forato da mille bocche fumanti e corrente sopra la sua infinita orologeria di ruote.

—Il Tagliamento! Il Tagliamento! Il Tagliamento!

Potente nome italiano ultra magnetico, tante volte bevuto in sogno dopo Caporetto. Ne vedo scintillare i nastri argentei nell’occhio orizzontale della blindata. Danzano quei nastri, diventano lettere d’argento svolazzanti, le lettere stesse di questa parola forte e sonora: Tagliamento.

Ad uno svolto rallentante cento voci di donna:

—Il ponte è rotto! il ponte è rotto! Gli Austriaci! Viva l’Italiaaa!

Tre secondi dopo Dzing dzaang dzing, la mia blindata suona sotto le prime pallottole. Mi volto per verificare la chiusura delle feritoie. I miei mitraglieri puntano con due mitragliatrici in cupola. Do l’ordine a Menghini di mettere il motore in seconda e di avanzare lentamente.

A destra e a sinistra i ciclisti sono tutti calati giù nei fossi, e riparandosi dietro le biciclette e i paracarri rispondono con una fucileria violenta alle mitragliatrici austriache. Siamo sulla curva della strada, fra le case di Flagonia spaziate sulla riva dell’Arzino. Il ponte è saltato. Ne vedo i due segmenti crollati giù nell’acqua fresca, argentea, azzurra, placida, che scorre col suo mormorio pacifico.

gggggg ssssss gggggg.

Breve pausa di silenzio. Feroci grandinano tempestano le mitragliatrici austriache. Due, quattro, sei. Sono almeno sei. Ci bersagliano dall’altra riva, che è montagnosa e ci domina.

ta-ta-ta-tatatatata tatatatata

giaaaaa giaaa giaaaa di echi

pic pac pam pam paac

giaaaa vuluit vrit vrit.

Il colonnello De Ambrosis ritto accanto alla sua motocicletta; bell’uomo forte, muscoloso, testa rude, con una serra multicolore di medaglie sul petto, alza il braccio sventolando la mano.

I suoi bersaglieri hanno capito. Agilmente si squagliano giù dalla strada per le scarpate cosicchè avanziamo soli noi sulla riva dell’Arzino. Autoblindate tutte chiuse ognuna con le due mitragliatrici che sputano fuoco rabbioso fuor dalla cupola fasciata di bianco, rosso, e verde.

Siamo sei piccoli forti neri d’acciaio, con vibranti, rombanti bronchi metallici e catarro inesauribile. La mia 74 è giunta davanti al ponte crollato. Vedo a cento metri sulla destra e sulla sinistra del ponte ricomparire i bersaglieri ciclisti che guadano in ordine sparso l’Arzino. Ognuno corre colla sua bicicletta a mano, per dieci, venti metri, poi si appiatta dietro un masso, nell’acqua e fa fuoco. Stupidamente le mitragliatrici austriache non si curano di loro, accanendosi tutte contro di noi, con ruvidissimi sventagliamenti e feroci spazzolate di proiettili sulle nostre blindature che tintinnano. Miagolii delle giunture. Nitriti dei parafanghi colpiti.

Infernale strimpellamento di note chiare, argentine. Questa, nota, però, sorda, si spacca. Ho la sensazione di essere in un enorme tamburo sudanese martellato da un magdi che chiami a raccolta cento tribù per una guerra sacra.

Ghiandusso mi porge gli occhiali d’acciaio paraschegge. Ma io li do a Menghini. Preferisco comandare cogli occhi nudi fissi nel grande occhio orizzontale della blindata. Vedo e controllo tutto. La strada intorno schizza polvere sotto la grandinata di ferro che prende di mira la mia 74.

Mi sembra di essere l’impiantito di una platea durante un veglione. Ho come una pressione di acqua sul capo. Sono forse in fondo al mare, palombaro preso a codate da squali di bronzo? Però, dentro, tutto procede con ordine perfetto. La mia mitragliatrice di cupola spara rubinettando i suoi bossoli vuoti contro il mio gomito destro. I nastri si seguono filando nelle mani sollevate di Ghiandusso. Ad un tratto, una mitragliatrice s’in ceppa. Ripiglia. Poi, secondo inceppamento. Le mie due mitragliatrici tacciono. Approfitto della sosta per salire in cupola. Caccio la testa nella botola-osservatorio.

Dietro le case di Flagonia una folla di popolo segue coraggiosamente allo scoperto le sorti della lotta. Più lontano, sul bianco della strada, un galoppo di cavalli nel polverone dorato. E’ la nostra batteria a cavallo che giunge.

Danza di corpi grigio-verdi su groppe tumultuose, criniere al vento, scintillii e grondare di luce sulle ruote-raggiere. Con rapida manovra si ferma. Il primo cannone ha già puntato la sua volata lucente contro gli austriaci. Tutti gli uomini a terra dietro l’affusto.

Sulle pariglie che ripartono il polverone s’innalza spiraleggiando, sino al sole che certamente comanda in persona la batteria. La sua tonda faccia di metallo in fusione tutta divorata dalla sua stessa bocca urla:

—Fooc!

Squarcia di vampa rossa-blu fra le case.

Spraang spraaang di granate sulle creste verdi. Un secondo pezzo è puntato. Le mie due mitragliatrici riprendono il loro ritmo di laminatoio. Tatatatatatatatatata.

—Fermate il fuoco!

Mi volto e fermo i miei mitraglieri, mentre nell’occhio orizzontale della blindata vedo uno spettacolo inatteso: Bianche sbocciano 2, 3, 4, 5, 6 bandiere nel verde dei boschi alti occupati dagli Austriaci. Il sole completa il tricolore. Mentre il nostro fuoco a malincuore rallenta e si spegne vedo fra i paracarri della strada sull’altra riva un tenente ungherese che s’avanza seguito da un trombettiere. Questo si ferma e voltato verso di noi, suona male tre lunghe note fesse. Dietro la tromba che scintilla un bandierone grottesco, lenzuolo bianco un po’ sporco attaccato a un lungo ramo, è portato da un caporal maggiore mingherlino in uniforme verde, che regge male il peso.

Noi ridiamo in blindata. Breve silenzio morbidamente spazzato dal fruscio delle acque. Ghiandusso grida:

—Signor tenente, la Zazà partorisce!

Emozione travolgente. Vocio e tumulto all’interno. Feritoie e sportello, tutto è aperto. Ed ecco fra le coperte, che Ghiandusso solleva maternamente, la mia piccola Zazà coricata sul dorso tutta tremante, cogli occhietti neri pieni di implorazioni, colla lingua fuori, palpita affannosamente. Tra le gambe aperte della povera bestia un grappoletto nero viscido si agita. Bosca che è entrato nella blindata vicino a me, dichiara con autorità:

—Lasciami fare: io me ne intendo.

Si rimbocca le maniche e lentamente, con maestria, afferra bene il grappolo vivo tirando fuori così a poco, a poco una piccola forma lurida, nera, molle, scivolosa di cagnolino che sembra fatto di liquerizia.

—Già morto! dice Bosca.

—E’ naturale! sentenzia Ghiandusso. Un padre austriaco non può mettere al mondo che dei cadaveri!

Poi accarezzando la testa dolorante della Zazà che trema a zampe aperte, come se volesse partorire ancora:

—Imparerai, puttanella, a far l’amore col nemico!

Fuori nella vampa del sole meridiano urla, schiamazza gesticola tutto il popolo di Flagonia. Tre donne mi si avventano contro:

—Signor tenente, non creda a quelle canaglie!

Intanto il tenente ungherese col trombettiere, il caporal maggiore e relativo bandierone di tela sporca, si sono arrampicati su per i rottami del ponte ed hanno raggiunto la nostra riva.

Il colonnello De Ambrosis e il capitano Raby bendano il tenente parlamentare e lo fanno salire nella nostra vetturetta. Il capitano Raby che prende il volante mi dice:

—E’ un trucco! Pretendono che l’armistizio sia già firmato. Io non ci credo! Vogliono guadagnar tempo e sfuggirci dalle mani. D’altra parte, capirai, De Ambrosis vuole rispettare le norme internazionali. Vado col parlamentare al Comando.

Mentre Raby fila in vetturetta, un borghese di Flagonia si precipita ai miei piedi:

—Le do mille franchi, signor tenente, mille franchi, se mi lascia ammazzare quel porco!

Io lo calmo con un gesto. Soldati, mitraglieri e bersaglieri si accalcano.

Sull’altra riva s’avanza un corteo pomposo, formato da un maggiore dagli ussari ungheresi, tre trombettieri e tre ussari tutti a cavallo. Le tre trombe marzialmente alzate a bere il sole, stonano 6 note sbilenche derise dagli sghignazzamenti meridionali degli echi e dalle furbe risatine gazose dell’acqua dell’Arzino. Scoppia intorno a me una fucileria di pernacchi napoletani.

Giunto in faccia a noi, sull’altra riva, il maggiore scende da cavallo, e inizia una serie di buffi equilibrismi giù per il segmento crollato del ponte, poi su, in bilico, lungo il parapetto dell’altro segmento. Appare sull’orlo della muratura. Si sforza di scavare col piede una base piana, poi rimane curvo protendendo la faccia magra, nervosa, verdastra, astuta, e appoggiandosi colle due mani sul bastone. Un vuoto di 20 metri lo separa da noi.

Un bersagliere napoletano grida:

—Bisogna buttarlo cape ’e sotto e piedi in cielo!

Il maggiore con cattiva pronuncia francese dice:

—Je suis herr major Paxis de Pakos... L’armistice a été déjà signé! J’ai reçu l’ordre par telephone.

Menghini che ha un’irrefrenabile allegria infantile trasforma le parole herr major in armaiol, e attacca il ritornello.

—E’ venuto l’armaiol, è venuto l’armaiol! Pa xis de Pakos! Ah! Ah! Questo è infatti la pace delle pacche!

Lo faccio tacere e rispondo all’ungherese:

—Non crediamo ai vostri trucchi... Comprenez-vous l’Italien? L’armistice n’a pas encore été signé.

—Je vous donne ma parole.

—Vous n’avez jamais eu de parole! Ces drapeaux blancs sont un traquenard pour sauver le corps d’armée de Gemona. Mais nous vous prendrons tous comme dans une souricière.

Sull’altra riva appare un automobile. Ne scende un ufficiale di stato maggiore austriaco con pentolino celeste, che si accinge alle ormai aspettatissime e divertenti discese e salite in equilibrio sui segmenti crollati del ponte. Questo secondo ufficiale è molto vecchio e un po’ frollo. Incespica, ruzzola, si rialza, afferra le mosche per non cadere. Tutta la nostra riva crepita di risate e pernacchi.

Il vecchio ufficiale ha il viso congestionato, ansa, s’aggrappa, bestemmia in tedesco, perde il pentolino che ruzzola celeste nell’acqua blu. L’ilarità raddoppia nelle gallerie e anche in piccionaia sui tetti delle case di Flagonia, dove donne e bambini applaudono e fischiano. Ogni atmosfera di guerra è scomparsa: siamo veramente in un circo equestre.

Il maggiore Paxis de Pakos guarda anche lui i buffi esercizi del suo collega e quando questo si è rimesso sul capo il pentolino celeste grondante, frena a mala pena una risata.

Tutti i soldati urlano: «Austria caput, Austria caput! Austria caput!»

Il maggiore ungherese ne è convinto quanto noi, e il suo viso assume un’aria umile e melliflua nell’indicarmi con la mano una nostra motocicletta:

—Zer gutt... Bonne, cette machine!

—Tout ce que fait l’Italie, rispondo io con tutti i polmoni, est excellent! Nous autres Italiens nous faisons la guerre et les machines mieux que les autres! Aves-vous compris?

La nostra irritazione sale, con la notte gelata, verso le prime stelle che ironiche deridono la leggendaria buona fede credenzona italiana. Bestemmiando, bersaglieri e mitraglieri accendono i fuochi sulle due rive, a destra e a sinistra degli ungheresi che accendono anch’essi dei fuocherelli timidi. Il freddo notturno aumenta. Un bersagliere, tendendo il pugno, grida:

—Se, come è certo, si tratta di un semplice trucco, le sgozzo io quelle carogne!

Ma il colonnello De Ambrosis ha dato ordini severissimi: Non saranno toccati ma fatti prigionieri, appena saremo convinti della loro malafede. Ormai la vittoria è certa, completa, assoluta. Concederemo loro al massimo un’abbondante dose di calci nel sedere.

Nel cucinone di un casolare mi corico nel fieno fra Volpe e Lattes. Al centro un grande fuoco, con lingue smisurate e roteanti criniere di scintille. Lo circondano le corpulenze nere di bersaglieri e mitraglieri accoccolati, seduti o in piedi. Alcuni pietrificati dal sonno. Tortuosi sforzi di gambe gonfie di stanchezza che cercano di allungarsi.

Un bersagliere dorme con la testa fra le braccia incrociate sulla spalliera della seggiola. Non si sveglia benchè il suo polpaccio-gambale fumi abbrustolito dalle fiamme e i suoi scarponi siano cotti.

Facce di terracotta sull’ardore della vampa. Vetrificazione di occhi ebbri di fatica che si tuffano nell’al di là divino della pace prossima imminente. Facce rovesciate all’indietro come di nuotatori che facciano il morto nella corrente felice, sicura della vittoria.

Bosca entra:

—Bisogna assolutamente vegliare, Marinetti! Raccontaci una tua avventura originale, ma veramente originale!

—Preferisco raccontarvi un’avventura del mio amico Fiordalisi. Un bel tipo, Fiordalisi! Sempre allegro. Sottotenente effettivo, venuto della bassa forza. Ha ricevuto al primo passaggio dell’Isonzo a Plava nel 1915 una palla che gli ha attraversato il collo e spaccato la mascella. Ha sul labbro inferiore una grossa, tonda protuberanza che gli permette, dice lui, di baciar meglio le donne. In realtà le bacia con la sua ferita. Sensazione interessante per una donna patriota e sensuale. Quella biz zarra protuberanza gli serve a trasformare la sua bocca in una vera orchestra. Imita a meraviglia animali, insetti, fucileria, bombardamento. Un vero numero da caffè concerto e un ottimo declamatore di parole in libertà! Suo padre, colonnello dei carabinieri, si distinse nella lotta contro i briganti e specialmente contro Musolino. Forte razza avventurosa; ma il figlio supera il padre. Dai venti ai ventiquattro anni ha girato tutto il mondo con suo fratello, facendo mille mestieri; dal decoratore in cemento al dilettante questurino. Rimase mezzo morto per tre giorni a Odessa dopo una terribile bastonatura. E’ un attaccabrighe simpaticissimo. Anche un magnifico narratore. Peccato che non sia qui: ve la racconterebbe stupendamente la sua buffa avventura in Russia! Dunque Fiordalisi era l’amante fortunato di una bella signora russa che lo riceveva ogni notte nella sua casa di campagna a parecchi chilometri dalla città. Una strana casa di campagna, enorme, con innumerevoli camere e corridoi pieni di mobili d’ogni specie e d’ogni stile senza ragione estetica, nè utilità apparente. Date le continue assenze del marito panciuto e ubriacone, Fiordalisi ci passava anche le giornate bighellonando e curiosando di camera in camera, perdendosi talvolta nel labirinto dei corridoi senza spiegarsi perchè i numerosi amici che venivano a trovare la signora si accalcassero sempre nella camera da letto, unica camera abitata e dotata di illuminazione. Una notte, poco prima dell’alba vocio e trambusto nel cortile:

«—Mon mari!... Mon mari! grida la signora, cache-toi! vite!

«Fiordalisi nudo non trova nella camera che una tenda troppo corta e si nasconde dietro di essa. Il marito entra sbuffando, spingendo avanti con passi rapidi il suo gran ventre, come una prua, apre un baule come per scegliere delle armi, discute violentemente colla moglie, la respinge con un pugno e si mette a frugare nella camera. Poi si ferma, sembra convinto, si sdraia in una poltrona e accende un sigaro. Fiordalisi sospeso sulla punta dei piedi per nascondersi meglio sotto la tenda troppo corta, era anche disposto a rimanere così tutta la notte. Disgraziatamente la donna sapendo l’amante in quella dura condizione e vedendo il marito sprofondato in poltrona, comincia a seccare quest’ultimo per indurlo a mettersi a letto. Il marito rifiuta, discute, poi d’un tratto insospettito ricomincia a frugare. Fiordalisi scoperto si slancia nel corridoio. Terribile inseguimento tragicomico e pericoloso per le stanze buie. Il marito era armato di una vecchia scimitarra che completava operettisticamente lo strano palamidone imbottito che gli serviva di giacca e cappotto. Ad ogni svolta Fiordalisi caccia contro la pancia dell’inseguitore un mobile preso a caso con relativi ninnoli, cristalli, vasi e vasetti crollanti. Corsa di ostacoli con frastuono infernale. Dietro al marito ansava la mo glie scarmigliata, in camicia, con pianti, singhiozzi e braccia in convulsione. Fiordalisi, però, ricorda che quelle manifestazioni, pur nell’ansia della fuga gli apparivano strane, poco sincere, certo affettate. Ma la scimitarra minaccia ed egli fugge, fugge con salti acrobatici.

«—Avevo, dice Fiordalisi, una stanza di vantaggio.

«Stamattina, inseguendo gli austriaci, ho pensato che essi hanno una stanza di vantaggio e mi è venuta in mente l’avventura di Fiordalisi. Bisogna domani costringerli a saltare dalla finestra. Fece così Fiordalisi quando si vide perduto e cadde per fortuna su un pergolato. Era nudo, si scorticò tutto il corpo e rimase quasi infilzato. Ma dopo un attimo, alzò la testa e vide con sbalordimento alla finestra il marito, che guardandolo con faccia rasserenata e gioviale sentenziava:

«—Ces amoureux sont de vrais sauvages! Pas civilisés du tout! De véritable cannibales. Si je continue a me souler chaque soir, ils finiront par me manger toute ma femme! Ah! ah!...

«Fiordalisi si lasciò scivolar giù dal pergolato. Trovò in una stalla un palamidone del genere di quello del marito, imbottito e sudicio come quello, e se la svignò. Questa è una storia simbolica, amici. Accidenti ai ritardi! Appena il capitano tornerà, bisogna subito saltare addosso agli austriaci prima che se la svignino come Fiordalisi!»

XXV. UN ESERCITO IN TRAPPOLA

Il capitano Raby è tornato irritatissimo. Alla Divisione non si parla affatto di armistizio; ordine di continuare l’inseguimento senza tregua. Col tenente Bosca e il capitano, al lume delle torce nell’acqua gelatissima, cerchiamo un guado praticabile. Il letto dell’Arzino è pieno di bombe a mano, migliaia e migliaia buttate via dai reparti austriaci fuggenti. Prima di spingere le blindate nell’acqua bisogna fare una scarpata nella riva opposta che è scoscesa. Tutti all’opera con zappe e badili. Notte accanita, ma faticosissima al lume incerto delle torce, rallegrata soltanto da una gara esilarante di bestemmie formidabili contro la slealtà austriaca e la dabbenaggine italiana poichè di giorno si lavora meglio e si fa presto. Ai primissimi pallori del cielo siamo tutti tesi sulle corde. Sentiamo che laggiù un giorno eletto stira le lunghe braccia di luce, un giorno che incoronerà tutti gli eroismi. La corrente è forte, ma i motori moltiplicano i poderosi colpi di reni e le ruote non si incagliano. Tutto procede con precisione miracolosa. Nell’uscire dall’acqua sento piangere Zazà nella blindata, mi volto temendo che la povera bestiola si slanci fuori, inciampo e cado sul naso. La mia mano ha afferrato una strana forma morbida e villosa che stupisce il mio tatto. La stringo e rimettendomi in piedi la osservo.

Il sole si spacca all’orizzonte come un uovo di prestigiatore giapponese e subito la brezza con dita agilissime ne fa scorrere fuori cento nastri di seta rosei - rossi - verdi - viola - argentei- bianchissimi che salgono verso lo zenit impadiglionando il paesaggio. La magia di quest’aurora mi preoccupa. Temo una allucinazione dei miei occhi che fissano attentamente la strana erba molliccia che ho fra le mani. Ha un colore quasi dorato. Non è un vegetale. E’ una cosa umana, quasi viva. Orrore! Ho realmente dei capelli fra le mani. Una intera capigliatura di donna, strappata, certamente strappata! Questo è il cuoio capelluto, un po’ di cuoio capelluto, insanguinato!

—Amici! Amici! Guardate l’infamia commessa da quei bruti! Certo dei Croati! Nel fango della riva vi deve essere anche la testa della povera donna italiana che ha pagato così gli sputi e i morsi coi quali si sarà rifiutata alle voglie di uno di quei porci! Soldati! mitraglieri! e voi bersaglieri ciclisti! Sia bandita per oggi ancora ogni bontà umanitaria! Ogni capello strappato di questa donna italiana sia ferocemente pagato! pagato! Avanti! in macchina, contro le carogne!

Cara! cara! cara! Questa dolce parola italiana mi sale naturalmente alle labbra nel bere il respiro amoroso della campagna riposseduta. Ebbrezza di godere sempre meglio il corpo dell’Italia, molleggiando sulle tarantelle gli strambotti i mottetti i crescendo e le cadenze ampie della mia blindata sempre più musicale. Godo la grande musica della velocità col suo intreccio armonioso di ritmi insolenti, dolci, caparbi cocciuti infantili casti e lussuriosi mentre assaporo con fame crescente la buona marmellata che estraggo dal barattolo colla punta del mio pugnale.

Ad ogni svolto della strada ci assale un vocio di popolo festante. Questo però è più violento dei precedenti. Inneggia all’Italia strepitando, ma vi scorgo molte braccia tese col pugno chiuso verso quelle pattuglie austriache che laggiù sotto gli alberi bersagliano la mia blindatura d’una raffica tintinnante di pallottole. Entriamo nella vera rivolta della Carnia che già povera fu tutta derubata, spogliata, dissanguata dagli austriaci in ritirata. Mille sentimenti e sensazioni si incrociano contemporaneamente nella mia coscienza.

Sono motivi spirituali e materiali che sorpassano nelle loro combinazioni ogni polifonia vagneriana, raggiungono un’eccezionale simultaneità futurista.

Sento simultaneamente:

1.—Gli arpeggi delle pallottole sulla blindatura sonante.

2.—La gioia di assaporare una buona marmellata, pescandola col pugnale nel barattolo.

3.—I singhiozzi repressi che mi strappa questa radiosa Italia calpestata.

4.—La gioia della vittoria che dal mio cuore rimbalza negli occhi pieni di lagrime dei popolani che ci salutano al passaggio.

5.—I tonfi d’amore fraterno che il loro vocio angosciato fa nel mio sangue.

6.—L’odio-vendetta della mia mano sinistra che impugna il revolver.

7.—La strada che i miei occhi d’automobilista studiano minutamente.

8.—Tutti i rumori del motore che martella preciso, felice.

9.—Il volante nelle mani di Menghini.

10.—Il gelo delle mie gambe inzuppate dall’ultimo guado.

11.—La febbre assolutamente sportiva di giungere prima degli altri italiani e prima che gli austriaci se la svignino. Record!

A Trasadis riceviamo, Bosca ed io, l’ordine di lanciarci soli alla massima velocità verso Tolmezzo prima che il ponte sul Tagliamento sia fatto saltare. La piazza di Alesso è tutta ingombra di bersaglieri ciclisti. Sono uomini e biciclette tutti sdraiati a terra affranti, sfiniti dalla corsa sovramuscolare. Vorrei elogiare cantare i battiti burrascosi di quei cuori giovanili, l’ansare di quei polmoni, il respiro di quelle bocche bruciate e nutrite di polvere e il sudore grondante di quelle facce smaniose. Ci guardano con invidia, quasi con ira. Il colonnello De Ambrosis con lo sguardo malinconico, e la voce dura ci grida:

—Una sezione di blindate, soltanto, a tutta velocità!

Vedo molti bersaglieri ciclisti, mordersi a sangue le dita. Speravano di vincere la gara. Altri avranno la preda, magnifica. Alcuni si alzano. Un tenente bersagliere parla concitatamente a De Ambrosis. I suoi occhi implorano, e mentre con elastico colpo di reni la mia blindata riparte, vedo il tenente bersagliere slanciarsi fra le biciclette e urlare:

—Primo plotone; con me, via!

Tremenda festa di muscoli esasperati dalla gioia per l’ultimo sforzo degli sforzi al di là di ogni forza umana. Durante i primi minuti i bersaglieri ciclisti a destra e a sinistra tengono testa alla mia velocità. Ma la strada si precipita giù e la vediamo a 100 metri inerpicarsi polverosa nel sole. I ciclisti sono diventati proiettili. Debbono con lo slancio di una valanga acquistare nelle discese l’impeto per aggredire le salite. Piombano infatti giù quasi rischizzando poi scopati su da quella riserva di velocità. Tutti su... su... su... ci siamo! E le facce roventi dei bersaglieri si placano bevendo a larghi sorsi il vento inebriante della nuova discesa.

Divina strada che scende con molle arabesco, si tuffa nel verde, inoculandosi!

Siamo il sangue tonante rivoluzionario e sporti vo d’Italia, che scorre scorre giù nelle intricatissime arterie della montagna Carnica!

—Somplago! Somplago! grida Menghini. Conosco quel paese!

Menghini è raggiante. Le sue mani al volante sono contratte dall’emozione.

—Fa attenzione, Menghini! C’è benzina? Per carità, non possiamo più permetterci delle fermate. Via, via!

Entriamo in Somplago come una pugnalata di velocità. Il paesello è come spento, chiuso inchiavardato dal terrore, e cacciato sotto delle coltri di pericolo e di morte. Presto, presto, correre, correre virare, scansare. Quel carretto abbandonato! Quel pietrone! Quel cumulo di ghiaia! Gli ostacoli sono innumerevoli. Agilità anguillesca della mia blindata 74 che sfiora tutto senza agganciare. Io prego, supplico, imploro il motore perchè collabori senza posa. Basterebbe un po’ di grasso e un po’ di polvere di più! Ma il motore è fedele, pronto, obbediente e la sua quarta velocità è veramente alata, aerea, come se il vento prestasse alle ruote infiniti trampolini imbottiti di nuvole. Le 4 gomme sono sane, con gonfiezza utile, ma il loro ardore equatoriale s’è liberato qua e là della tela che a brandelli rumoreggia lugubremente contro i parafanghi. Rumore minaccioso poichè i brandelli delle gomme di dietro sbattono e sbandierano convulsivamente. La mia 74 sembra una donna che corra nella sua vestaglia svolazzante.

Due uomini gesticolanti sulla strada a 100 metri, non si scansano. Rallentiamo.

Sono due tenenti alpini, due di quei numerosi italiani sfuggiti alla cattura nella rotta di Caporetto e che vissero nelle caverne di queste montagne come belve e come briganti in guerriglia.

—Presto! mi gridano. Il ponte è in piedi ma lo faranno saltare fra pochi minuti! E’ già minato! A Tolmezzo ci sono due battaglioni austriaci che prendono il caffè.

—Lo berremo noi! risponde Menghini. Qui sono in casa mia, conosco anche i ciottoli.

Come un vincitore di circuiti, magistralmente Menghini prende le svolte pericolose senza rallentare. Le aggredisce con delle girate di volante audacissime, che si immensificano nel mio sogno come quelle dei volantisti celesti nel guidare i pianeti alle svolte immense e sfolgoranti della via Lattea. Non ha forse l’ampiezza maestosa della Via Lattea questo letto del Tagliamento che svolge davanti a noi i suoi meandri d’argento vivo, e le ramificazioni cerebrali dei suoi filoni azzurri-verdi? Correre, correre, correre! Gioia di correre come ragazzi su questo alto, spettacoloso balcone che la strada prolunga strapiombando a 50 m. d’altezza sul letto piatto immenso e le sue lunghe acque verdi coricate e i solchi caldi delle acque fuggite.

Occhieggiano le acque sonnolente e camminano come in sogno placidamente, mentre l’ansia esaspera, accende morde le mie ruote assetate di pol vere, morde morde di rabbia bruciante la gomma arroventata, stringe strozza la collera dei gas irti dal desiderio. La strada tortuosa dinoccolata, fa 2 o 3 moine coi suoi ventagli di polvere accecante e ci svela finalmente il ponte di Tolmezzo. Menghini urla, urla:

—Il ponte è in piedi! Il ponte è in piedi! Il ponte è in piedi!

Sembra quasi impazzito. Le sue mani scuotono rabbiosamente il volante come per sradicarlo. L’afferro per il braccio, rudemente:

—Menghini! Menghini! Calmati! Non perdere la testa. Il momento è grave. Il ponte è minato. Bisogna traversarlo nel minor tempo possibile. Ti senti sicuro del motore?

—Sì, signor tenente.

Siamo a 100 metri dal ponte che slancia elegantemente le sue arcate attraverso il fiume. I miei occhi distinguono perfettamente dei grovigli di fili lungo il parapetto e delle botti legate sui capitelli dei piloni. Ma la grazia italiana di quegli archi, che non possono tradire noi italiani, mi riempie di ottimismo. Con un atto di fede potente entriamo sul ponte. Menghini dà tutta la benzina. Apro completamente l’occhio orizzontale di prua alzando la palpebra metallica. A destra, giù, nel letto del fiume, fra le erbacce, dei cappottoni grigi che fuggono.

Il meriggio ci soffia in faccia un vento infuocato e insieme un urlio delirante. Sono i nostri sol dati di Carnia scesi giù dal loro nascondiglio montano. Lunghe barbacce, vestiti a brandelli, ceffi di briganti. Quasi tutti armati. Mi fermo in mezzo a loro, a 50 metri al di là del ponte.

—Viva l’Italia! Signor tenente, ci sono molti austriaci sotto quelle tettoie! Ma i due reggimenti e il comando debbono essere in Amaro a quest’ora. Se fa presto li raggiungerà sulla strada.

Intanto il mio sergente fa funzionare una mitragliatrice di cupola contro le tettoie in fondo al prato a destra della strada. Gli austriaci rispondono con qualche fucilata poi si vedono fuggire verso il greto del fiume.

—Signor tenente, veniamo con lei ad Amaro!

—No, amici! Alcuni vadano alla caccia di quelle canaglie. Se si rivoltano io li mitraglio da qui. Voialtri, una ventina bastano, restate alla guardia del ponte.

Tutta Tolmezzo si svegliava. Gridio confuso, infiniti richiami, porte sbattute. I balconi traboccano di donne e bambini. Sembra un popolo che si dissotterra. Prati e praterie trasudano popolo.

Gli spavaldi e briganteschi soldati di Carnia improvvisano una violenta fucileria al cielo per festeggiarmi. Le donne accarezzano, abbracciano la mia 74. Sono accecate dalla gioia.

—Viva il nostro liberatore! Viva il liberatore di Tolmezzo! Viva l’Italia! Veniamo con lei ad Amaro! Gli Austriaci sono partiti 2 ore fa! Hanno detto che si sarebbero trincerati ad Amaro!...

A pochi metri scoppia un tumulto inesplicabile intorno a tre donne vestite di bianco.

Crollano ai miei piedi abbracciandomi le ginocchia.

—Signor tenente, ci salvi, ci salvi! Lei lo può dire, non siamo slave, non siamo austriache, siamo triestine! Quante sofferenze! Tutto un anno di torture!

Non ho tempo da perdere. Salto in macchina e mi apro la strada con la mia blindata nella folla vorticosa.

—Largo, largo, ci lascino passare!

Una vecchia è caduta davanti a noi e Menghini deve con scatto pronto virare per non arrotarla. Poi via per la strada d’Amaro sotto le alte, voluminose forze concentrate del Monte Festa. A un chilometro piombiamo su una colonna di carreggio.

—Giù Ghiandusso con me! Prendi due bombe e revolver. Tu, Locatelli, pronto alla mitragliatrice!

Poi di corsa con Ghiandusso verso il sergente ungherese che segue l’ultimo carro.

—Tutti giù! Arrendetevi! Volta i cavalli e indietro!

Il sergente, esita un attimo poi cede. Tutti gli uomini del carreggio sono disarmati.

—Indietro! grido. Via! Troverete a Tolmezzo la colonna di prigionieri.

Faccio fiutare al sergente il mio revolver e la mia bomba a mano, poi salto in blindata. Ho il cor po quasi tutto fuori dallo sportello aperto, il revolver in pugno. La strada sale e scende. Le prime case di Amaro. Sorpresa: una mitragliatrice spara da un bosco alto sulla destra! Contro chi spara, quella mitragliatrice austriaca? Non è austriaca. Vedo correr giù gli ormai famigliari nostri nomadi di Carnia. Urlano:

—Amaro è piena di austriaci, sono più di quattromila! Veniamo con voi! Abbiamo una mitragliatrice sulla montagna. Ora la portano giù!

Sulla prima piazzetta la mia blindata si ferma presa da una folla irruente. Non si muove più, come una nave stretta dai ghiacci. L’immagine mi è suggerita dalle enormi masse di crisantemi che le donne portano fra le braccia. Bocche squarciate dalla ressa delle parole. Bocche che balbettano incretinite. Mani che graffiano macchinalmente le vesti, mani alzate di vecchi che mi benedicono. Torrente di folla gioiosa che si gonfia fra le casette fragili. Sembrano beccheggiare le casette tanto pesano a prua e a poppa i balconi sovraccarichi di edera umana.

Verso il Sole, punto matematico del problema di guerra risolto, salgono le spirali delle respirazioni sibilanti e della polvere dorata. Salgono i coni dell’entusiasmo lanciati su steli invisibili dai nostri cuori fontanieri. Cozzano insieme le sfere volanti delle voci e i triangoli dei gridi fra le geometrie ubriache dei tetti che si sfasciano dalla gioia.

Un uomo cinquantenne dal viso rossastro, baf futo mi abbraccia per forza spiaccicandomi sulla bocca un bacio che non riesco a scansare. Dice con voce rotta:

—Ero alla finestra... quando ad un tratto ho visto arrivare la sua macchina sulla strada. Sono caduto in ginocchio, ho alzato le mani al cielo e ho gridato: L’Italia è qui! L’Italia è qui, Dio cane!

Cammino a fianco della blindata che avanza lentamente verso la piazza principale. Ho il revolver nella mano sinistra; e la mano destra nel tascapane pieno di bombe.

—Grazie, grazie, ma fate largo, largo!

Le donne non ascoltano e rovesciano fasci e fasci di crisantemi sulle ruote, sul motore.

—Basta! basta! Questi sono fiori di morte. Oggi è giorno di vita. Scansatevi, allontanatevi!

Confusione indescrivibile, rimescolio di pentola bollente. A pugni apro un varco alla mia blindata che si ferma nella piazza centrale.

—Là, a quel primo piano hanno preparato la mensa degli ufficiali, mi dice un borghese. Vi si affaccia un maggiore ungherese, strepitando giù ordini incomprensibili.

—Locatelli, punta quella finestra, fuoco!

Ta ta ta ta ta gring grang di vetri rotti crollanti.

—Vieni con me, Ghiandusso! Guardami le spalle! E tu, Locatelli, fa fuoco contro quelle finestre.

Mi slancio verso la porta dalla quale escono in tumulto molti ufficiali.

—Giù le armi, arrendetevi!

Il primo, un tenente, è agile, muscoloso, ma pallidissimo. Gli strappo la baionetta-pugnale dalla guaina che porta al fianco. Al secondo che si avanza minaccioso scarico un tremendo pugno nello stomaco. Lo prendo per il colletto colla mano sinistra, mentre la mia destra strappa la baionetta-pugnale che nel gesto dal basso in alto sfiora la sua bocca che trema. Potrebbero sgozzarci. Siamo 14 uomini con 6 mitragliatrici in mezzo a 4 mila nemici con circa 50 mitragliatrici. Ma le nostre Autoblindate terrorizzano. Portiamo sul viso la schiacciante spavalderia della vittoria e i nostri occhi sono degli invincibili proiettori di forze.

Il mio compagno tenente Bosca con la sua blindata va in fondo al paese. Rimango solo fra il tumulto degli ufficiali che non vogliono lasciarsi disarmare. Il colonnello ungherese discute con un maggiore austriaco. Balzo fra di loro. Tolgo la baionetta-pugnale al maggiore e il revolver al colonnello. Rimangono impietriti.

—Via le donne, per Dio!... Menghini, Locatelli, Ghiandusso, cosa fate? Basta coi fiori e con le donne!... Salis, gira intorno alla blindata, sorveglia le gomme, e scarta le donne!... Locatelli! Gira la torretta, punta le due mitragliatrici di cupola verso l’ingresso del paese! Ghiandusso, va su a quel primo piano, apri tutte le porte, fruga bene e caccia giù tutti gli ufficiali che troverai!

Poi mi rivolgo ai soldati carnici.

—Su, disarmate quegli uomini!... Le armi a de stra! Gli uomini a sinistra!... Se quelle carogne si muovono, sparate!

Il colonnello ungherese disarmato, si presenta a me, con solennità. Atletico, sessantenne, enormi baffi uncinanti.

—Prego, signor tenente... dove è il vostro colonnello?

—Qui sono io l’unico comandante italiano. Non fatemi perdere del tempo. Siete sconfitti. Arrendetevi senza tante chiacchere. Siamo seguiti da grandi forze che saranno qui fra pochi minuti. Altre blindate, cavalleria e bersaglieri ciclisti.

—Prego, prego. Io credo che ora è firmato armistizio.

—Non credo alle vostre parole. L’armistizio non è firmato. Ho l’ordine di farvi tutti prigionieri.

Interviene il maggiore, grassoccio, gesti melliflui, fronte bassa, viso porcino.

—Je vous prie, monsieur le lieutenent.

—Ne m’embetez pas! Vous êtes des voleurs, des canailles, des cochons! Si je vous abandonnais à la population de Amaro, vous seriez tous égorgés! Vous leurs avez tout volé! Quand on n’a pas d’argent, on ne fait pas la guerre! Vous avez compris? Quand on n’a pas d’argent, on ne fait pas la guerre!

Una donna mi tira per la giubba urlandomi freneticamente sulla mano che bacia:

—Coppèli, Coppèli! Signor Tenente, mi lasci uccidere quella canaglia del colonnello! stupratore! Mia figlia, mia figlia!

Io scarto la donna e col dito nel naso al colonnello:

—Vous êtes un lâche, un bandit, vous aussi, monsieur le major! Vous ne savez que mentir et voler! Vos faux parlementaires nous ont couté 30 bersaglieri! Vite, finissez! Tout le monde doit être désarmé, dans une demi-heure.

Ma sento che nell’allontanarsi col maggiore il colonnello pronuncia la parola « téléphone ».

—Signor tenente, mi dice un borghese, ora il colonnello va su nella camera della gendarmeria a telefonare a Stazione per la Carnia. Là a quel primo piano.

—Fatutto, prendi il moschetto, baionetta innestata. Sali e taglia il telefono!

Fatutto sale per la scala di legno. Ma in alto vi sono degli ufficiali che discutono impedendogli di passare. In quattro balzi raggiungo Fatutto spingendo tutti dentro a pugni.

Il colonnello col microfono all’orecchio mi volta la schiena seduto. Lo strappo indietro prendendolo alle spalle. Rompo il filo e consegno l’apparecchio al borghese che mi aveva seguito.

—Te lo regalo, via! E voialtri, tutti, giù, fuori!

In fondo alla camera vi sono due ungheresi sdraiati su due brande.

—Anche voi, veri o finti malati, vi farete curare all’Ospedale di Tolmezzo!

Quando ridiscendo giù, spingendo davanti a me gli ufficiali austriaci, la situazione in piazza è peggiorata. Arruffio di gesti e troppe voci tedesche altisonanti. Ghiandusso che avevo sguinzagliato nei vicoli mi dice:

—Signor tenente, in fondo al vicolo, in un gran cortile, più di mille uomini prendono il rancio. Non vogliono lasciarsi disarmare.

—Vedremo. Menghini, vieni avanti colla macchina. Locatelli, punta in fondo a quella via. Supplemento di fuoco. Tira in alto.

Ta ta ta ta ta ta ta.

—Basta! Basta! Voialtri continuate a disarmare, presto! Armi a destra, uomini a sinistra! Dell’ordine, per Dio, dell’orrrdine! Ghiandusso, prendi il tascapane coi petardi, e vieni.

In fondo alla viuzza sporgendoci su un muricciolo basso, vedo a venti metri sotto, in un immenso cortile un migliaio di bosniaci. Confusione intorno alle marmitte. Grida di ufficiali, ordini incomprensibili. Alcuni caricano i fucili. Io grido con voce tonante:

—Arrendetevi!

Silenzio. Centinaia di facce attonite che mi guardano. Pochi alzano le braccia. Ghiandusso dietro di me scaraventa una bomba nel mezzo del cortile.

Sgraa—graaang.

Una ventina di feriti, nessun morto, tutte le braccia si sono alzate con un lungo ruggito di belva.

—Aprite la porta, e fuori tutti!

I soldati carnici accorrono per questo nuovo disarmo. Ma un colpo di revolver vicinissimo mi fa voltare.

Ghiandusso ha sparato nella spalla del colonnello che non voleva mollare le briglie dei suoi due magnifici cavalli. Meravigliosa razza di quei due animali da guerra che scalpitano orgogliosamente cercando di strappare le briglie dalle mani di Ghiandusso.

Davanti alle scuole, Bosca mi dice:

—Non possiamo fermarci. Bisogna giungere al più presto a Stazione per la Carnia.

Giungono a tutta velocità le due blindate di Volpe e Sacco. Da un prato basso salgono vociando uomini disarmati.

—Praga! Praga! Boemia libera! Austria caput! Viva l’Italia!

In segno di devozione si strappano dal berretto i due bottoni di metallo e lo stemma imperiale.

Fuori di Amaro la strada corre dominando i prati e le boscaglie che costeggiano il torrente Fella. Siamo 4 blindate lanciate a tutta velocità. Ci raggiunge il capitano Raby che nella sua vetturetta scoperta e senza blindatura si mette alla testa della squadriglia. Appare spavaldamente intrepido e strafottente accanto al suo volantista. Tiene fra le mani, sulle ginocchia una gabbia di colombi viaggiatori.

Davanti a noi, a un chilometro, il ponte di Stazione per la Carnia. E’ certamente minato ma ce ne infischiamo. Dalle boscaglie dell’altra riva partono dei colpi di fucileria, sparsi, poi più fitti. Una, due mitragliatrici ci bersagliano. Entriamo sul ponte distanziandoci. Davanti alle case di Stazione per la Carnia sbuffano due locomotive. Si scorgono due treni interminabili, sovraccarichi. Tutto il bottino carnico di una armata di ladri. Una gioia acuta ci trafigge le carni, le lacera, quasi vorrebbe sventolare i brandelli della nostra carne patetica. Alt sul ponte. Puntiamo le nostre mitragliatrici giù contro le boscaglie che nascondono le mitragliatrici austriache.

Ta ta ta ta ta    giaaaa    ta ta ta ta ta    giaaaa.

Sono bosniaci cocciuti non ancora convinti dell’irrimediabile sconfitta. Spariamo avanzando lentamente. Ad un tratto le due locomotive si mettono in moto.

Ta ta ta ta ta     giaaaaa

giaaa giaaaa giaaaaa giaaaaaa

Ridono gli echi della valle. Ridono, ridono al vedere i piccoli macchinisti neri precipitarsi giù dalle due locomotive e nascondersi sotto le ruote.

Quando sbocchiamo fuori dal ponte fra le case di Stazione per la Carnia, il lato destro delle nostre blindate suona sotto una rude raffica di pallottole strimpellanti. E’ una mitragliatrice austriaca vicinissima, nascosta fra le erbacce. Le nostre rispondono ferocemente tempestando il greto.

Ta ta ta ta ta     ta ta ta ta ta     ta ta ta ta ta

Giaaaa     giaaaaa     giaaaaaa

Ridono, ridono, giocano, strillano e beffeggiano gli echi della valle in coro. Ridono di gioia sotto il sole, cerchio radioso che le nuvole bambine fanno correre a colpi di raggi nelle liete praterie azzurre del cielo.

Ta ta ta ta ta     ta ta ta ta ta     ta ta ta ta ta ta

Giaaa     giaaaaa     giaaaaaaaa

Ridono gli echi della valle nel vederci tutti scendere dalla blindata e correre come ragazzi prendendo a calci, a pugni, a schiaffi i bosniaci, bestioni che non vogliono mollare le loro mitragliatrici. Si arrendono come cani ringhiosi o meglio come professori passatisti idioti che cedono a malincuore i vecchi dizionari della gloria austriaca tramontata sotto i nostri calci futuristi.

Davanti a me sulla strada la vetturetta di Raby si ferma. Il capitano, dritto in piedi:

—Arrendetevi!

Si sente un vasto e profondo scalpiccio. La mia blindata corre per venti metri e posso contemplare la testa del grande Corpo d’Armata che s’avanza lentamente verso di noi.

Precedono a piedi, funerei, i generali di brigata, i colonnelli e i maggiori. Unico spavaldo un colonnello grassoccio, mani sui fianchi, gomiti in fuori, testa alta. Ondeggia sopra, avviluppante, l’immenso puzzo nauseoso acido e dolciastro degli eserciti austriaci. Puzzo di fogna, stiva, iodio, sudiciume, orina fermentata, latrine, becchi, e serraglio. Raby in piedi grida:

—Siete tutti prigionieri!

Ma gli ufficiali austriaci e ungheresi discutono fra di loro animatamente. Corriamo col revolver in pugno.

—Monsieur le capitaine, dice un generale alto, secco, magro, dal viso pallidissimo solcato da due lente lagrime. Nous avons le droit de passer et de continuer la route vers Chiusaforte. L’Armistice est signé.

—L’armistice n’est pas signé! risponde Raby con voce dura. Rendez-vous avec toutes vos troupes! Vos deux trains ne partiront pas!

—Pardon, monsieur le capitaine, il faut que je demande des ordres au commandant de notre corps d’armée.

—Quelle chance! grida Raby. Nous ferons prisonnier aussi le Commandant de Corps d’Armée!

Intanto la colonna giallo-verdastra puzzolente delle truppe austriache appoggiava sulla sinistra della strada per lasciar passare una automobile piena di ufficiali. Fra questi, il generale comandante del Corpo d’Armata, muscoloso e panciuto. La faccia tonda naturalmente olivastra era terrea, con una febbrilità di palpebre e d’occhi un po’ smarriti che rivelavano il crollo di un’anima militare.

—Ho l’ordine, signor generale, dice il capitano Raby, di fermare qui il vostro corpo d’armata. Siete tutti prigionieri. Quando avrò dato i miei ordini voi verrete con me in questa automobile al comando della prima Divisione di Cavalleria.

Venivano intanto dalla strada di Chiusaforte, in bande fitte, i prigionieri italiani che si erano liberati quando l’annunzio del crollo del Grappa aveva segnato il primo sgretolarsi dell’impero. Uno di questi prigionieri più affranto degli altri oscilla tragicamente a tre passi da me poi si abbatte sul naso, svenuto dalla stanchezza e dalla fame. Menghini si slancia e inginocchiato scuote quel povero corpo svenuto urlando:

—Guardate! Guardate come hanno conciato i nostri fratelli! Ecco! Ecco cosa hanno fatto della carne nostra!

Si alza furente; poi come preso dal delirio, tendendo i pugni ai prigionieri austriaci si scaglia e percuote nella faccia un maggiore austriaco. Questo non comprende, bestemmia, vuole difendersi, ma Menghini lo atterra mordendogli le braccia. Il groviglio rotea, strilla, contro la blindata dove la mia Zazà abbaia impaurita. Sopraggiungono i primi bersaglieri ciclisti a tutta velocità agitando gli elmetti piumati.

Scompiglio e marea fragorosa. Gli austriaci si sparpagliano. Zuffe, corpi che rotolano. Cacofonia di cento lingue diverse: italiana, tedesca, slovena, boema, russa, ungherese, ecc. Mi slancio col revolver in pugno fra quell’abbaiare di cani e riesco a fermare i nostri mitraglieri e bersaglieri inferociti.

Un motociclista infila come un proiettile il ponte e si ferma in mezzo a noi gridando:

—La Viribus Unitis è saltata!

Scoppio di urrà frenetici. Il mio cuore si rifiuta di accogliere questa gioia massacrante. Non è preparato a questo galoppo furente di notizie giganti. Faticosamente, dolorosamente, il mio cuore ingoia godendo ma sofffrendo come una gola lacerata. Sento gonfiarsi nel cielo un altro blocco di Felicità sovrumana. Blocco rotolante che precipita giù sui declivi delle nuvole per colpirmi in pieno petto. Ha un rumore battente come di mitragliatrice, ma allegro, allegro. Non è il ta ta ta ta micidiale, ma il top top top top delle grandi ispirate velocità. E’ una seconda motocicletta. La guida un sergente bersagliere, che rallenta, agitando col braccio sinistro il suo fez rosso, gli occhi schizzati fuori dall’entusiasmo:

—I nostri sono entrati a Trieste e a Trento!

Un impeto selvaggio mi scuote. Mi slancio, lo afferro pel braccio, e lo tengo fermo. Si ribella, quasi cade. Cado quasi con lui e la sua motocicletta.

—Se menti, ti brucio le cervella! gli urlo. Dimmi! Spiegami! Giurami! Che è vera, sicura, la notizia!

—Lo giuro, me lo ha ripetuto tre volte il generale in persona!

—Giura!

—Giuro.

—Su tua madre!

—Su mia madre.

—Aaaah! aaaaah!

Mi comprimo colle due mani il cuore che si gonfia, si gonfia dilatando, spaccando, le sue pareti che sono ora quelle enormi montagne, mentre la mia bocca spalancata beve, con trionfale voluttà lo smisurato fetore dei prigionieri austriaci, tutta l’infinita anima fetente dell’impero nemico sconfitto.

Ho uno strano viso feroce, violento, aggressivo ma i miei occhi sono pieni di lagrime di gioia. Le povere contadine sfinite di fame stanchezza che s’avanzano piegate sotto la gerla lungo il treno pieno del loro bestiame rubato, mi commuovono fino al singhiozzo e insieme arricchiscono le mie mani di artigli vendicativi. Vorrei baciare sul viso quelle povere vecchie italiane e poi stemperarmi sul pane le lagrime del generale austriaco vinto. Primitività stramba del mio temperamento vergine, selvaggio, schietto, elastico, pieno di barbarie crudele e di profonda umanità civilizzata. Temperamento che s’avventa, colpisce ma subito comprende perdona tutto, con alta bontà indulgente e serena.

XXVI. PAGIOLIN, COLOMBO VIAGGIATORE

Il disarmo incominciò. A sinistra si accatastavano i fucili, a destra le mitragliatrici. Nel centro i prigionieri austriaci abbrutiti, dondolanti nei loro cappottoni giallo-sporchi procedevano ordinandosi fra la spavalda e muscolosa giocondità dei bersaglieri ciclisti.

I prigionieri istintivamente ricercavano la loro antica disciplina, aspettando i comandi dei loro ufficiali che vinti conservavano ancora tutta la loro autorità tanto era ferrea la compagine del potente esercito che avevamo sfasciato.

Subito gli ufficiali austriaci trasmisero coi loro urli aspri di sciacalli l’ordine d’incanalarsi lungo le nostre automitragliatrici blindate e di infilare il ponte sul Fella per Amaro-Tolmezzo. Ma sopraggiungevano continuamente incontro a loro bersaglieri ciclisti a tutta velocità. Si vedevano girare laggiù sulla strada curva correndo verso di noi, e altri, altri ancora, lanciati come frecce alate di penne di gallo. La colonna dovette fermarsi. Un minuto di confusione: poi tre bersaglieri, abbandonando le biciclette, saltarono in sella su dei cavalli catturati, potenti bestie tutte ad archi di muscoli scattanti, e domandoli fra le forti ginocchia presero la testa e il comando della prima colonna marciante. Il primo, un siciliano dal viso rossastro polveroso di scugnizzo con occhiacci neri sotto il fez rosso moschetto ad armacollo. Sul suo grande cavallo bestemmiava: Accidenti! Cavallo irlandese e ungherese io non so! Ma i miei muscoli sono siciliani!

Anche i nostri soldati nomadi di Carnia comandavano colonne di prigionieri. Erano laceri e sporchi, ma tutti montavano senza sella cavalli stupendi.

Uno aveva una specie di turbante azzurro in testa e un grosso zaino da turista sulla schiena. Sembrava un generale turco. Sul fianco della strada le nostre blindate dominavano con le loro 18 mitragliatrici puntate tutta la divisione austriaca che si avanzava. Sss sss lento monotono stropiccìo di piedi stanchi. Zin zin tric gring zin di fucili che cadevano sulla catasta. «Fetente, vattenne, cammina! A cauci te faccio camminà, porcaccione!»

Cinquanta metri più giù davanti al Municipio nelle due automobili del comandante del Corpo d’Armata austriaco e del suo Stato Maggiore, gli ufficiali prigionieri seduti immobili guardavano con occhi che certo non vedevano. Intorno, i miei mitraglieri con moschetto e baionetta innestata montavano la guardia con facce ingenue di bambini intorno ad una enorme torta natalizia.

—Vuole che le faccia la barba? mi domanda un prigioniero in italiano, bruno, magrissimo e baffuto.

—Sì, ma a tutta velocità!

—Sarà servito. Sono napoletano, e primo parrucchiere. Sono anarchico, ma amo l’Italia.

—Non tagliarmi la faccia, perchè sono più rivoluzionario di te!

In un attimo, miracolosamente, la cassetta che egli portava sulle spalle partorì sapone, pennello, salviette e boccetta da profumo. Seduto su una mitragliatrice austriaca, constatai l’arte delicatissima di quella mano italiana.

—Che «salone» originale! disse il barbiere; è decorato a destra e a sinistra con montagne azzurre e ha un plafone che sembra il cielo di Napoli!

Quando ebbe finito, lo salutai con queste parole:

—Ora che da barbieri futuristi abbiamo rasoiate via la testa all’impero austro-ungarico, ti potrai permettere il lusso di fare la barba anarchicamente agli italiani.

—Contropelo?

—Sì, contropelo. Non dimenticare però di sciacquar loro il viso con l’acqua melodiosa del golfo di Napoli!

Il capitano Raby, che distribuisce ordini a destra e a sinistra, mi chiama.

—Marinetti! Marinetti! Siamo noi! Siamo noi che abbiamo catturato l’intero Corpo d’Armata! E’ una gloria nostra! E’ la gloria dell’ottava squa driglia! Vieni, vieni, ora mando il colombigramma al Comando Supremo!».

Seguiamo per alcuni metri il binario lungo il treno. Cataste di cucine da campo, mitragliatrici, fucili, stracci, paglia, sterco, carogne di cavalli. Nel fetore qua e là come cani randagi, delle montanare con gerla, sacchi e lanterne. Sono venute qui a frotte per riprendere la loro roba. Sono paurose. Ma si fanno audaci. Il loro numero aumenta. I vagoni saccheggiati, sventrati, bollono confusamente perdendo le budella.

Entro con Raby in un vicoletto. Fra due casupole troviamo la vetturetta. Sul sedile, una gabbia di legno bianco contiene i quattro colombi viaggiatori, che tubano.

Il sole tiepido di questo pomeriggio alleggerito da una brezza indolente e soddisfatta inebria i quattro colombi. Due, candidi. Uno col collo sfumato azzurro-viola. Il quarto brizzolato. Ma tutti avevano il caratteristico soprabecco bianco imbottito dei colombi viaggiatori.

Vuruvuru curru guruu guruu guruu.

Certo godevano i sottilissimi profumi muschiati e il gorgoglio di quel ruscello, ma non si illudevano. Sapevano certo di essere lontani dalla bella colombaia di Abano con le sue ampie scodelle piene di miglio e granoturco e i cestini per le covate, elegantemente sospesi e bene spaziati.

Questa è una terra diversa, rude e selvaggia e rimbombante di fragori più forti che le tempeste del cielo. Alzarono tutti e quattro il becco guardandoci con gli occhietti umani cerchiati di rosa.

—Raby, sono pronti! Guarda, hanno tutti capito! Vogliono tutti essere scelti. Quello lì si chiama Bianchetto. Quello Lulù. Ecco Pagiolin! Scegli Pagiolin! E’ il più forte, il più intelligente.

Pagiolin si lasciò prendere, felice, con un vuruuuuu vuruuuuu vuruuuuu melodiosissimo, di mano bagnata che freghi un giunco. Tre battevano la testa contro il legno della gabbia con furia invidiosa. Ma Pagiolin era veramente degno della nostra scelta.

Coricato nella mano aperta di Raby, bianco, snello, vivacissimo, ringraziava coi dolci occhietti umani cerchiati di rosa e offriva con languore femminile quasi impudico le zampette rossicce semivestite di soffici calzoncini di piume.

Un dischetto d’alluminio col numero 11 matricola e il numero 22 colombaia brillava sulla zampetta sinistra. Lo presi nelle due mani anch’io, e una tenerezza acuta, dolce, amara, mi portava quasi le lacrime agli occhi nel sentire battere con ritmo rapido quel piccolissimo cuore di bell’uccello veneto già ebbro di portare per le vie del cielo la grande parola Vittoria.

Raby scrisse su un foglietto:

« Truppe celeri, Stazione per la Carnia, 8ª squadriglia autoblindate hanno occupato stazione. Fermato e catturato due treni, truppe e comando 34ª divisione austriaca.—Immenso bottino e comandante Corpo d’Armata austriaco prigioniero.

Capitano Raby».

Il capitano introdusse il piccolo foglio in un tubetto di mezzo centimetro di diametro, lo chiuse introdusse il tubetto in un altro munito di due branchette di alluminio. Pagiolin si lascia torcere le due branchette che ecco stringono la sua zampetta destra.

—Guarda... mi dice Raby, i muscoli forti delle ali. Con qualsiasi vento, 60 chilometri all’ora! Il dischetto bilancia bene il peso del tubetto!

Facciamo largo intorno a Raby che con forza slancia in alto il colombo.

—Viva Pagioliiiin! Addio Pagioliiiin!

Ma Pagiolin non s’innalza molto. Dà qualche colpo d’ala e si posa sopra un tetto. Bianco, saltella sulle tegole rosse girando la testa. Momento d’ansia, doloroso.

—Cosa fai, Pagiolin? Cosa fai? Cosa fai?

Accorrono i soldati con applausi, saluti consigli... Pagiolin leva il becco al cielo. Dieci secondi gli sono bastati a fiutare le correnti aeree. Con uno slancio improvviso si proietta in alto obliquamente. Sale, sale, sale, piccolissimo arruffio bianco, fiocco di neve nell’azzurro. Ora si libra a picco sul torrente Fella. Punta su Amaro, scompare.

Ma un altro invisibile colombo viaggiatore che batteva le ali nella gabbia del mio torace l’ha se guito con eguale velocità. Ora vola con lui fra due grandi cirri bianchi accecanti. Pagiolin non ama le nuvole. Hanno un insidioso monotono odore d’acqua schiava. Tutte quelle gocce condensate lo bagnano pericolosamente. Teme di appesantire le proprie ali, e non ha sete. Le nuvole gli ricordano quella brutta macchina moto-aratrice che gli appesta spesso la colombaia di Abano coi suoi sbuffi di vapore acqueo...

Senza contare i maledetti scherzi che fanno i raggi del sole nelle matasse delle nuvole! Sembrano forbicioni d’oro, brutti come quelli del giardiniere che tagliano i bei rami d’acacia fiorita sulla colombaia! Ogni volta che il giardiniere s’avvicinava con quel brutto ordigno la bella Vluruuum s’immalinconiva non tubava più. Pagiolin pensa a Vluruuum... Tra due ore! due ore e mezzo al massimo, quanti baci piccoli, piccoli, minuti, minuti e quanti smorfiosi strofinamenti di collo per togliersi l’un l’altro amorosamente gl’insettucci! E quante ciarle! Trionfo! Pagiolin potrà raccontare! Tutti gli amici della colombaia a becco aperto dimenticheranno le voluminooose, voluttuooose, vorticooose gare del loooro tubare. Anche i conigli, quei vili imboscati col loro culo a molla di lepri degenerate, abbasseranno le foglie candide dei loro orecchi tremando e ammirando.

Ma Pagiolin accelerando i suoi colpi d’ala si tuffa nell’ultimo globo d’argento filigranato del cirro. Non finisce mai, per Dio!... Gioia! Gioia! Finalmente può patinare col petto sull’azzurro levigato, invitante. Più nulla intorno. Può respirare e godere. Pagiolin punta il suo volo contro il Sole, favoloso colombo di fuoco, dal becco aperto nell’arruffio splendido delle sue smisurate penne d’oro. Gli rammenta Krukrù, colombo dell’equatore che aveva pure le penne a spirali, ma bianche. Morì un anno fa in colombaia il povero amico! Pagiolin gli voleva bene e l’inverno molte volte aveva lisciato e riscaldato col becco le povere penne freddolose. Nella luce sembravano d’argento.

Il Sole è però un colombo enorme le cui penne spiraliche d’oro potrebbero covare una montagna! Come risplendono, lunghe, lunghe! Bisogna salire, salire, salire ancora! Voglio vederle bene, vicino, vicino, sempre più vicino! Per sentire il loro rumore! Devono fare un delizioso rumore d’acqua nell’accarezzare quel nuvolone a destra. Oh! che brutto nuvolone! Sembra il fantoccio di stoppa di Peppino il figlio del giardiniere!

Volerò ancor più su. Ma cosa hanno mai le mie ali? Rabbia! Ho troppo caldo sotto le ali. Sono tutto bagnato. Su, su con forza! Ecco! Ecco il suono che volevo udire! E’ il sole che tuba. Che piacere sentirlo! Le sue lunghe penne spandono ora una dolcissima voluttà mescolata di rumori serici e liquidi che grondano l’uno sull’altro e si intrecciano con mille spasimi acuti.

—Oh! me ne intendo, me ne intendo, grida Pagiolin; io che sono il miglior cantore della co lombaia. Col mio canto ho innamorato di me la bella Vluruuum. Che ridere! Bianchetto e Lulù non sanno cantare come me... Lo ha detto la moglie del colonnello, quella bella signora vestita di colori rumori fruscianti. E’ vestita anche lei di penne, ma morbide, morbide che il giardiniere chiama seta, velluto, pelliccia... Nel muoversi intorno alla colombaia la signora batteva le mani con gioia dicendo: «Pagiolin, Pagiolin, tu sei il primo cantore!» e mi regalò un miglio speciale! La sua veste di seta e velluto cantava come me e come il Sole. Il Sole però tuba più forte di noi!

Nell’entusiasmo Pagiolin raddoppiò il battito già celere delle sue ali, entrando nella polifonia solare. Strimpellavano con gesti immensamente circolari i Venti sui mille raggi del Sole come su corde tese incendiate dal lirismo.

Certo la vittoria aveva commosso il Sole! Il Sole, grande occhio attento di arpeggiatore seguiva sulle lunghe sue corde tese i galoppanti accordi i maliziosi pizzicati e le molli frange di vibrazioni sbocciate nel cielo. Il Sole si moltiplicava nell’ampio cielo orchestrale. Volubilmente si innalzavano delle nuvole, tortili come canne d’organo e mantici profondi nei quali il Sole comprimeva a forza di pedale i Venti globulosi. Questi diventavano soffii melodici e salivano salivano ad inaffiar di fantasia le infinite orecchie attente, invisibili, delle invisibili stelle. Il calore dei suoni era tale che le nuvolose canne d’organo s’incendiavano al passaggio d’ogni nota fondendosi qua e là per eccessiva ebrietà. Sopraggiunsero volando sciami di nuvolette rosse, snelle piene di trilli, rimbalzelli, giuochi, scherzi, schianti di cristalli coralli trallalera tralla la, come aeree serenate di chitarre, mandolini e spumanti bottiglie trallalera tralla là.

Milioni di bottiglie del più spumante Asti sonoro schizzavano, decapitate ma allegrissime sulla tavola imbandita del cielo, fra le ondate orchestrali dei raggi, lunghi archetti d’oro che spremevano giù nelle profonde cavate il terrificante cuore dolcissimo di Dio.

—Dio! Dio! Dio! Dio! gridava Pagiolin. Dio è luce! Dio è musica! Dio è profumo! Sono a mille metri a picco su quella vasta ferita terrestre. Cosa è mai? Cosa è mai? Certo le folgori hanno squarciato così la terra! I fulmini nemici del Sole! Ma il Sole oggi stravince. Sono l’amico del Sole! Ma più in alto del Sole c’è Dio, ed io voglio navigare nel suo respiro sublime!

Con allegria pazza due volte, tre volte, quattro volte Pagiolin capriolò abbandonando le ali come un nuotatore nell’onda e nella schiuma del canto. Poi giù a capo fitto nel suono più denso. Le sue ali sfioravano le lunghe corde d’oro tese dai raggi solari. Ruzzolò giù. Era troppo ebbro e il sudore gli scorreva sugli attacchi delle ali.

—Come mai ho dimenticato la mia santa missione? Mezz’ora perduta! Impenitente bambino che sono! Ma il tubetto è ben saldo e anche il di schetto. Giù! Giù! Bisogna scendere, scendere. Che fresco! Che fresco!

Per alcuni minuti Pagiolin seguì una impetuosa corrente gelatissima, che con ritmo uguale lo trascinava. Ora rideva della sua paura di poc’anzi. Ad ali aperte filava con crescente velocità cercando a destra e a sinistra col becco la decifrabile varietà degli odori.

—Questo è odor di menta selvaggia. Questo è il timo asprigno. Oh! che buon odore di resina. Saporito, questo viluppo di moscerini agonizzanti! Mangiamo. Bisogna pur rinfrancarsi lo stomaco, in viaggio.

Ad un tratto la corrente gelata modificò il suo ritmo equilibrato! Ora tumultua, schizza, cicloneggia, spalanca dei buchi come botole traditrici. Pagiolin riprende a volare con tutta la forza delle sue ali. Sente una pressione contraria. Vento duro a scatti che lo soffoca. Deve più volte chiudere il becco. «Accidenti! Ho perduto quel branco volante di moscerini saporitissimi!».

La corrente contraria che s’insinua nell’immensa corrente gelata che egli segue lo assale con tanti odori salati, diversi per forma e intensità. Ovuli giranti di odori amarissimi. Un odore oblungo e trasparente di iodio. Un gomitolo irto di ammoniaca. Un blocco massiccio di bromo. E miliardi di aghi di sale luccicante e buoni da ingoiare. La salubre spruzzaglia delle onde del mare, laggiù, alla foce del Tagliamento.

Pagiolin non esita più. A destra, a destra, con raddoppiata frenesia di ali, vince rimbalzato, rimbalzante, vince travolto e resistente, la grande corrente gelata. Questa decresce sugli orli, cede, cede. Pagiolin è fuori. Schizzando via si slancia in una atmosfera quieta come una morbida amaca smisurata. L’aria è dolce come il respiro di Vluuruuum quando gli dorme vicino, col suo vuuruuuum, vuuruuum... Pagiolin vuole riguadagnare il tempo perduto. Egli sa che l’aria stagna queta e senza bizzarrie di correnti sopra i boschi, poichè i fogliami pompano i capricci dell’aria. Sente a destra l’odore acido bruciaticcio delle brughiere e piega a sinistra abbassandosi. Non vuole stancarsi a lottare con quelle insensate cavallerie di venti che devastano le brughiere.

A sinistra giù giù, ecco dove bisogna volare! Su quei fogliami dove l’aria è immobile e più giù ancora su quegli orti dove l’aria è un letto di piume. Quel fresco odore di insalata e i filamenti di profumo di quel giardino pieno di rose, e quel rimescolio d’odori cotti che con rumore di stoviglie grasse sale da quel villaggio. Non è sgradevole quella acredine di fieno, anzi eccitante! Pagiolin la beve, a becco aperto, nel rasentare a precipitosa velocità i ciuffi d’erba che ornano un nero campanile. Fuori dalla gonna sventolante della prima campana calcia un tumulto di bronzo acciabattante, che spaventa Pagiolin. Spavento misto di curiosità. Ecco un altro campanile. Via, via, via, con folle en tusiasmo Pagiolin lo aggredisce quasi si schiaccia sopra. Affascinante batacchio. Gamba perduta di danzatrice pazza. Battito diventato proiettile fuor dal cuore sonante.

Pagiolin è troppo ebbro. S’irrita, smania di non poter riprendere la sua calma precisa di volatore lampo.

—Mi hanno chiamato colombo-lampo! Sei un treno lampo, diceva la moglie del colonnello. Presto li rivedrò, i treni, e li sorpasserò!.

Un’altra corrente pure gelata taglia purtroppo la strada a Pagiolin. Ma, furbo, sente che è meno alta della prima e su, su, Pagiolin la scavalca con disinvoltura per ripiombare due minuti dopo nella quiete solenne dell’atmosfera. In realtà è una quiete compressa tra pericolose agitazioni. Pagiolin ricorda, prevede, intuisce che altre correnti gelatissime lo aspettano. Non vuole perder tempo in continue scalate: decide di salire a duemila metri per poi dare la sua massima velocità senza scosse, deviazioni, nè saliscendi. Si sente bene. I muscoli delle sue ali hanno un ritmo forte, uguale, scattante e i suoi nervi ripercuotono fino all’orlo estremo delle penne la sua precisa volontà timoniera. Nel salire Pagiolin che non conosce indecisioni nota distrattamente che l’atmosfera si condensa invece di alleggerirsi. Una lieve nebbia senza importanza, pensa, sarà presto attraversata. Sale, sale per un quarto d’ora. La sua velocità è grande e il suo umore sereno, ma l’oscurarsi dell’aria lo incomin cia a preoccupare. Dove mai è andato il sole? Ah! vedo, là a sinistra! Come è scialbo! Sembra quel focherello di legna verde che i soldati accendevano d’inverno a tre metri dalla colombaia, a forza di polmoni, soffiando lagrimando e bestemmiando.

—Accidenti! grida Pagiolin, il Sole si è spento! Lo prevedevo. A furia di coprirmelo con tutta questa nebbiaccia l’hanno soffocato! Nebbiaccia infame!... Macchè nebbia! Sono in un nuvolone di pioggia!

Pagiolin scivola giù dieci metri poi risale nel grigio e nel nero. Accelera i colpi d’ala. Ad un tratto sente sotto di sè un gorgo che lo pompa, e da destra a sinistra, sente cento mille mille mille zanne di pioggia e un mitragliamento di grandine. Pagiolin non perde la calma. Fiuta, e decide di salire ancora. Una battaglia ferocissima di vento lo fa traballare. Uno, due, tre capriole vertiginose, poi Pagiolin si tuffa nel vento più potente che ha vinto gli altri venti, imponendo il suo ritmo di smisurato serpente fluido fra cento serpentelli rischizzati via e sgominati.

Non è il caso di lottare. Pagiolin si abbandona colle ali chiuse come un proiettile, in questo vento che irrigidisce la sua corrente. Profondissima volata di un cannone senza pareti che spara continuamente.

Fu così che Pagiolin proiettile vivo fu lanciato in mezz’ora nel cielo di Venezia. Grigio, ombra carbonosa e spaccamenti sulfurei di cielo, e lun ghissime colonne isteriche di fuoco che salgono, scendono solcano e subitamente crollano sull’invisibile calma del mare. Ad ogni minuto, Pagiolin che ha tenuto fino ad ora le ali chiuse, tenta gli spessori del vento con una cauta mossa dell’ala destra. A poco a poco, gli spessori rallentano la stretta. Si slabbrano davanti dei piccoli varchi di azzurro. Pagiolin vorrebbe raggiungere il sereno, ma teme di smarrirsi sul mare. E’ tardi! E’ tardi!

A mille metri, in alto, davanti a sè, Pagiolin vede una macchia nera che gli viene incontro rapidamente. Ingigantisce, ingigantisce. Non è un nuvolone, non è uno spessore d’aria. Sembra quella strana costruzione di originalissima colombaia di tela su palafitte piena di uomini nudi che egli aveva ammirato in un’alba famosa sulla costa di Pola dove aveva viaggiato nascosto e talvolta al balcone della tasca d’una spia italiana! Ma come diavolo ora volava quella strana colombaia di tela? Pagiolin la osserva a cento metri su di sè. Non è una colombaia di tela! E’ una di quelle gigantesche aquile di ferro e tela tante volte contemplate ad Abano quando si slanciavano in alto, portando uomini imbottiti di penne che poi lasciavano cadere degli sterchi neri scoppianti.

Pagiolin ha molto meditato, e finalmente compreso la bontà di quelle aquile benigne che non uccidevano i colombi, ma uccidevano per amor di libertà aerea, quelle brutte gabbie d’uomini che sono le città.

Ora egli sente che quest’aquila di ferro e tela che vola lassù ha forse bisogno di lui. Strani questi uccelli, pensa Pagiolin, hanno ali larghe dieci metri, ma non hanno il fiuto decifratore di odori contradditorii. Non possono distinguere l’odore che rivela la curva di una costa a duemila metri di distanza, dall’odore che indica lo spessore di un vento e tante altre cose che egli sa. La loro ampiezza d’ali esaspera la superbia dei venti che se le abbrancano, le squartano. Sono aquile bonaccione e i venti sono pessimi. Non possono quelle aquile di ferro e tela diventare come lui docili proiettili, schizzar fuori dalle mani dei venti se per caso distratti rallentano la stretta.

Pagiolin accelerando convulsivamente il battito delle sue ali si slancia e sfiora con ghirlande di volo la grande aquila nera, che ora barcolla, mostruosamente fra gli spintoni e le zampate dei venti. Ha le due ali lacerate tutte a brandelli fumosi, come la baracca incendiata che bruciò tutta la notte vicino alla colombaia di Abano. L’aquila di ferro e tela arranca e si sforza di equilibrarsi con disperati colpi di reni. Sembra perduta. Gli uomini che porta sul dorso sono affaccendati nell’accarezzare il suo cuore di gas esplosivi. Cuore frenetico che a furia di battere ora s’infiamma di viola e blu. Cuore virulento che ha forato la carne e le ossa della schiena e schizza fuori, vampe e fruste di scintille.

Come soccorrerla? Fra poco certamente il cuore appiccherà il fuoco alle ali.

Pagiolin vola a destra, a sinistra, sotto, sopra pazzamente sfiorando gli uomini che lavorano, intrico nero di braccia sul dorso sobbalzante. «Mi vedranno! Finiranno col vedermi! Se la bufera non sbraitasse tanto forte, gemerei, griderei nelle orecchie di quegli uomini. Non mi sentono, ma mi vedranno! Gioia! gioia! gioia!!! Mi vedono, sento che mi vedono! Ora mi seguiranno. Io so il varco. Di quì, di quì, venite!». Pagiolin si precipita contento di sentire dietro di sè la grande aquila ferita col suo cuore in fiamme: «Viene, viene dietro di me! Ecco il varco, giù giù! Con me, a capofitto!» Fuori dalle tenaglie del vento e dal nebbione! Fumo grigio-perla, azzurro, azzurro, azzurro. A sinistra, l’immensa pelle fremente del mare in allegria dorata sotto le lunghissime dita del sole tramontante che gioviale si diverte a farle un innumerevole solletico.

A destra, la generosità sparpagliata d’acque verdi azzurre che il Piave regala al mare. Giù, scendiamo. Pagiolin si volta di distanza in distanza per constatare che la grande aquila ormai equilibrata ha ripreso il battito regolare del suo cuore con le sue due ali eroiche, torce spente con lunghissime scie di fumo.

Come un cane fedele guida un cieco, Pagiolin ha guidato l’aquila di ferro e tela accecata dalla bu fera. Ora volano insieme a trecento metri sopra i lavori febbrili d’un ponte ferroviario sul Piave. Pagiolin vede le grandi gabbie di ferro che partoriranno i pilastri. S’accendono le lunghe lame azzurro-violette dei proiettori che tagliano geometricamente la notte. Sembrano raggi solari nelle vetrate di una cattedrale rovesciata.

Pagiolin sa le insidie delle luci e crede soltanto agli odori. Vede le forme agili dei lavoratori bollire in oro caldo sui due bracci di ferro tesi del ponte rotto. Ma preferisce studiare gli odori di sterco e di legno bruciato che salgono da quel vasto braciere formato da mille fuochi, ognuno orlato di facce e mani di terracotta. Accampamento di prigionieri. L’aria s’imbruna rapidamente. Presto, presto, poichè la notte sarà molto gelata. Un altro accampamento, più fitto, di fuochi. Ogni metro un fuoco fra le rovine caricaturali delle case sventrate. Pagiolin ha capito. Piega a sinistra moltiplicando la sua attenzione perchè ogni battito delle sue ali sia efficace. E’ gonfio di gioia. Porta l’annunzio della vittoria totale dell’Italia e insieme l’onore d’aver salvato una grande aquila di ferro e tela.

Quei fuochi, quei piccoli fuochi, diversi da ogni altro fuoco! Pagiolin li riconosce. Sono le lanterne cieche dei carabinieri che vegliano al controllo di Abano. Secondo controllo. Altre lanterne cieche con piccoli annaffiatoi di luce gialla. Finalmente il Comando Supremo. L’immensa casa è illuminatissima. Trecento occhi di bragia. L’officina centrale della guerra lavora. Sembra a Pagiolin la colombaia incendiata che aveva abbandonata un anno prima a Udine, quando c’era tanta confusione di Comandi, e non c’era mezzo di fare un volo utile. Ora tutto procede bene. Una folata di odori fedeli affettuosi lo investe. Il suo odore, l’odore di Vluuruuum! Divina miscela di odori zuccherini, freschi-caldi, quasi una polvere di pelurie odorose e di sterchi cotti dal sole e volatilizzati. Una emozione spasmodica spreme il cuore di Pagiolin mentre spalanca il becco per bere a larghi sorsi i moscerini saporiti che salgono dalle gore predilette. Guarda, guarda e vede un’ombra nera muscolosa in una finestra accesa. La quadratura di spalle rudi e maschie del capo di tutti gli uomini che il giardiniere chiama: Badoglio. Pagiolin lo ammira chino su una grande carta rossa, blu, rosa, illuminata. Sopra quella carta misteriosa vi sono delle forme simili a quelle che fanno gli sterchi di Pagiolin cadendo sull’impiantito della colombaia, quando appollaiato in alto gode il tepido rosmarinato pomeriggio, liberandosi il ventre dal peso soverchio.

Al di là del palazzo del Comando, Pagiolin per gioia e per dovere, fece strepitare le sue ali. Tutti dovevano vederlo, applaudirlo. E’ lui! E’ lui che porta l’annunzio celeste! E’ lui il colombo fortunato fra tutti i colombi! Ha osato, lottato, conosciuto, vinto tutto. Sa tutto. Potrà raccontare tutto! E si precipita giù nel profumo dei profumi adorati della sua colombaia.

Grande frullo frullo frullo d’ali. Rimescolio, balzi e traslochi di pennuti. Si sveglia la bella Vluuruuum e si slancia al cancelletto. Tra i fili metallici, i due beccucci innamorati si incontrano, si sfiorano, sfiorano, sfiorano, sfiorano. Pagiolin è un maschio fiero, quasi un veterano del cielo. Pochi baci gli bastano, e tendendo il becco tuba, tuba, tuba, tuba, con eloquenza morbida, gorgogliante, vellutata, rumorosa, ruvida, voluttuoosa, vorticoosa e insieme rorida di lagrimette eroiche felici.

—O mia Vluuruuuum faremo all’amore stanotte. Prima ti debbo raccontare. In quanto a voialtri, ali rammollite, imboscati senza fiato nè fiuto nè frullo, finite il vostro strepito! Voglio il silenzio. Un silenzio assoluto. Ho visto, ho visto grandi cose. Ho visto i grandi italiani come gattacci imprigionare in una trappola di montagne mille le mille e mille e mille e cento volte mille brutti topacci austriaci che avevano rubato tutto il formaggio...

Ma la stanchezza lo vinse. Quando, dieci minuti dopo, una mano venne ad accarezzarlo e tirandolo fuori dalla colombaia lo rivoltò, lo rovesciò per liberare la sua zampetta destra dal tubetto pieno di vittoria, Pagiolin sonnecchiava.

Non fece all’amore quella notte, era troppo stanco; e la sua fedele Vluuruuuum si accontentò di vegliare il suo sonno quieto, ma di quando in quando scosso da un sogno convulso e angoscioso. Pagiolin sognava la tragedia della grande aquila di ferro e tela salvata dalla ferocia dei venti.

XXVII. UN’ISOLA PROFUMATA NEL FIUME PUZZOLENTE.

Il quattro novembre al tramonto, sulla strada di Chiusaforte, nella mia blindata ferma prua che divideva il nerastro filosofico puzzolente fiume di prigionieri austriaci.

Vinto il nemico tanto giustamente odiato, mi sento vuoto vuoto e disoccupato e m’addormento sul volante, straricco di vittoria, fra un’immensa straccioneria di eserciti disfatti. Beato. Con lagrime dolcissime fra le ciglia. La mia fame sognò un’elegantissima tovaglia, infinita serica fuga di morbidi perlacei riflessi che fluttuavano. Ed era, uscito fuor dalla passione del tramonto e dai suoi laminatoi, il mare siciliano metallo lucidissimo che cullava elasticamente undici vulcani-isole dal fumo distratto. Sognavo.

Presto dentro più presto più dentro un’acuta parola girante: Vittorrrria, mi trapanò il cranio e via pel cielo volando scavalcò il mare e rimbombò nei capaci polmoni ovoidali dello Stromboli Stromboli Stromboli. Sognavo.

Una gioia bollente fece saltare il tappo di lava del secondo vulcano. Schizzò altissimo il suo getto di fuoco spumante. Il terzo vulcano sputò obliquamente sul mare cento luminarie di bragia a ventaglio, mille regate di diavoli, e ripescò tutte le sirene morte, galvanizzandole. Eccole, guizzano, occhieggiano, baciano, uccidono. Altalena di buio luce... buio... luce... Chi è che urrrla? Perchè piaaaaangi così?

Vulcani alcoolizzati o gigantesche bottiglie di delirio?

Il quarto vulcano sturato schizzò risate d’oro, smorfie di porpora e spiralici lunghissimi ironici smeraldi. Il quinto vulcano pareva una rosea spremuta di belle donne nude e di immense arance cigliate che guardavano. Sognavo.

Tutti quei vulcani—isole—bottiglie—cuori spararono il loro fuoco d’allegria furente con ampio frastuono di tappi e rintocchi contro il sole pallido sordo astemio morente che annega.

L’undecimo vulcano lanciò allora la sua colonna di fiamma a ventidue chilometri di altezza. Quando quando... quando vi giunse, piegò il suo pennacchio vermiglio e questo fece il giro della terra e lo seguivo in sogno mentre velava e svelava quelle tonde natiche veloci tatuate di continenti e mari.

Mi sveglio di soprassalto.

—Chi mi graffia il viso? Chi, chi?

Ghiandusso che montava la guardia in torno alla mia blindata si avvicina:

—Signor tenente, nessuno, nessuno. Lei ha fatto un brutto sogno.

—Anzi un sogno bellissimo! Ma ad un tratto mi sono sentito graffiare il viso. Ho dormito molto?

—Due ore, signor tenente, sono già passati diecimila prigionieri austriaci, tre brigate... La Zazà ha morsicato la gamba di un colonnello ungherese. Ora dorme dietro di lei. L’ho messa dentro perchè mordeva le gambe ai prigionieri. E’ diventata un po’ cattiva dopo il parto. Sa, signor tenente, come discutono fra di loro il cane tedesco e il cane italiano? Il cane italiano domanda: «Cosa hai in bocca?». Il cane tedesco: «Flaaaasc». Per pronunciare questa parola spalanca la bocca e lascia cadere la carne. Il cane italiano si precipita e abbranca la carne. Allora il cane tedesco: «Cosa hai in bocca?». Il cane italiano risponde coi denti stretti sulla carne che non molla: «Carrrrrrne!»

—Non è così, Ghiandusso, credo che il cane italiano tenga i denti stretti per respirare il meno possibile il puzzo terribile del cane tedesco.

Fuori: un tramonto di nuvole vermiglie lacerate come pezzi enormi e brandelli di carne macellata. A destra e a sinistra della mia blindata, che teneva il centro della strada, il fiume monotono, grigio, giallo-sporco e verde verminoso dei prigionieri spandeva un puzzo mordente esasperante fatto di mille puzzi diversi ugualmente nauseanti e insopportabili.

Visi scialbi, gualciti, spremuti con piccoli occhi celesti smarriti. Facce gonfie come nutrite di fango con gote cascanti. Facce plasmate di bile. Baffi gialli che schizzano fuori dai visi scheletrici. Bestiame umano masticato dall’uragano. Occhi vitrei che fissano senza vedere. Lerciume ondeggiante di cappottoni curvi come verniciati di sterco e piscio. Sembra veramente un fantastico fiume di putredine, spessa quasi solida, oppresso da un affastellamento di stracci luridi, e misteriosamente spinto da un’invisibile corrente che lo conduce verso lo spiraglio-gorgo di una cloaca capace.

Vi sarà poi in Italia una cloaca adatta a ricevere quel triste fiume? Il sole rosso lancia dalle brecce delle nuvole brandelli di carne su quel bollore di schiene.

Per un istante mi sforzo di distinguere con nari eroiche gli odori. Cavolo fradicio, piaga putrefatta, alga morta, piedi sporchi, vello di montone, piscio di gatto, cancrena polmonare, muffa, sterco, orina, vecchie bende insanguinate, ghetto, stiva, caserma.

Ma rissano fra di loro quei puzzi. Ora gli sterpi, i rovi e le baionette degli odori ammoniacali infilzano, lacerano, e squartano dei vasti flaccidi tondi puzzi zuccherini, simili a pance di carogne galleggianti. Sopra di loro grandinano lunghi odori proiettili che colpiscono direttamente lo stomaco e lo rovesciano. Poi domina una languida risacca di odori dolciastri che colmano ogni poro della pelle di nausea funerea e di morte. Ricordo involontariamente il puzzo tipico di cadavere-sterco-fango del le trincee della Vertoiba. Ma questo che ora mi invade è un ben più terribile puzzo impregnato di morte, ma vivo, attivo, insinuantissimo. Vuole dominare, inondare di se la profonda valle del Fella e soffocare le fresche respirazioni verdi, sane del Tagliamento.

Povere valli prostituite! Tutte le innumerevoli bocche vegetali use a fiatare nel tramonto profumi di timo e menta selvaggia sono imbavagliate! Tutti i pini coi loro incensieri di resina naufragano asfissiati nella marea di torridi puzzi avviticchianti feroci, granulosi che agganciandosi e spumando salgono, salgono ad insozzare le cime! Queste esasperate dall’orrore sembrano centuplicare la loro splendida bellezza di smisurati corpi, vivi, nudi, rosati dal sole. Non ammettono, rifiutano il tragico fiume d’immondizie umane che assale i loro fianchi. Emergono cime nevose, tornite, gonfie di salute e desiderio come belle poppe di donna con in alto il bottone di rosa montana del capezzolo offerto ad un vento maschio selvaggio tutto muscoli in velocità.

Ma questo non viene ancora.

Agli innumerevoli puzzi catalogati si aggiunge quello irto d’aghi dei pidocchi. La pelle del cielo bianca si contrae schifiltosamente con un primo prurito di stelle.

Potrò io difendermi nella mia blindata immersa come un’isola nel fiume di corpi e odori saturi di morte?

Scivolando dentro per le feritoie, penetrano gli abiti. Il grigio-verde della mia giubba ne è già inzuppato. Salgono nelle mie nari ad avvelenarmi il sangue e ad offuscarmi il cervello: le belle parole della vittoria si smembrano in un’atmosfera cerebrale d’incubo. I miei pensieri hanno il viscido colore giallo sporco-nerastro di quei cappottoni curvi che passano, passano senza fine. Ventimila prigionieri sono già passati. Ne passeranno altri trentamila. Penso che lo smisurato cadavere dell’Austria spiaghi fuori dalla sua pancia sfondata un gigantesco e terrifico budellame che per la valle della Carnia inonderà la divina penisola nostra.

Il mio cervello allucinato non riconosce più il bel sole italiano della vittoria, volante corridore nella ruota d’oro che formano le sue gambe accese moltiplicate dalla velocità!

Vedo laggiù sul Tagliamento un sole straniero e odioso: brutta faccia tonda alcolizzata e smargiassa che nei dentoni d’oro falso prominenti, e i labbroni tabaccosi, si sforza di riassumere tutta l’insolenza l’infatuazione, la megalomania, l’impudenza sanguinaria e il guittismo balordo dell’impero austro-ungarico defunto.

Quel sole ha posato le sue mani molli, effeminate, piene di anelli rubati, su quell’isoletta del Tagliamento. Strana isoletta camuffata. Con le lussureggianti ondulazioni della sua capigliatura di vigne arricciate, pettinate, impomatate disposte con troppa cura in piani successivi, come una par rucca dai mille brilli grigi-azzurri-argentei, e piccoli infiniti rubacuori. Quella isoletta riassume tutta la grazia vana e passatista di Vienna.

Il mio spirito, affondando nelle allucinazioni fra le due colate di corpi e puzzi avvelenanti, teme la pazzia. Dove sono i Venti italiani e le loro furenti scope salutari? Un dolce fiato inodoro mi risponde. Sento che un Vento italiano si è insinuato nella valle. Ecco addenta il piedestallo di nuvole color sterco insanguinato del sole! Si slancia lassù, in quella pineta. Gli scatti e le cadenze flessuose del suo corpo che si scrolla nella sua giacca attillata di nuvolette rosa rivelano la sua nobile gioventù. Ora s’affretta a rimescolare quei fogliami. Li scuote brutalmente per liberarli, dai puzzi vischiosi e con un gesto vasto fa sbattere, sbattere tutte le finestre di Stazione per la Carnia. Poi parla, parla, ingiuria, fischia, sputa. Ritto in piedi, impreca contro il cielo e chiama alla riscossa tutti i Veneti fratelli. Meraviglioso Vento-oratore!

—Dove siete, infingardi? Venite! Venite!

Agitando il suo corpo che si frangia di rabbia e i suoi capelli tentacolari, il Vento parla con voce tonante alle lontane tribune delle prime stelle e si sgola per insolentire la pigrizia paurosa. Il Vento scande scande scande ogni sillaba con violenti colpi di pugno sui tetti delle case come su un pulpito. Ad un tratto si slancia contro il sole e lo rovescia giù dal suo trono di nuvole. A calci a pedate, correndo e remando nel cielo il Vento sco pa, azzanna, impacchetta, ammucchia, scaccia, insacca, calpesta le matasse di odori in rissa che rischizzano, s’arrampicano, si rintanano nelle vallate e nei burroni. Intanto con un vasto muggito che cresce, cresce, cresce e scoppia accorrono giù dai monti e dalle fonde valli altri Venti alla riscossa.

Questo sospira sospira sospira e fischia nella stretta di due roccioni per passare ad ogni costo. E’ troppo voluminoso: porta addosso una girandola di enormi polmoni gonfi d’ira compressa. Si accanisce e fiiiiischia. Sospira sospira sospira poi con uno schiaaanto d’alberi e fogliame precipita inondando di sè a ventaglio tutta la vallata. Sotto, il tetro fiume di prigionieri increspa paurosamente la sua superficie di cappotti e berretti fuligginosi. Io rialzo la testa dal volante e fiato fiato finalmente. I Venti giungono in ritardo, ma la loro fretta è vertiginosa. Pulire, pulire, pulire tutto, scuotere, sconvolgere, disinfettare. Ma non basta. Occorre inebriare al più presto la vallata di mille profumi perchè la mia blindata 74 diventi un’isola profumata sul fiume lurido dei prigionieri.

Un Vento gagliardo è lassù in cima alla montagna che chiama chiama con spiraliche sciarpe di mani altri Venti che lontano gonfiano a gara le loro pance, otri, e zampogna melodiose di tutti i profumi di rose, viole, acace, ginestre, gardenie, caprifoglio italiani, rapiti ai giardini pensili sul mare di Liguria.

Altri insaccano i voluttuosi profumi di tiglio dei sobborghi di Milano. Dovunque ferve il lavoro. Via, non perdere tempo, gonfia quell’otre di tutti gli odori salati, salubri, verde-azzurri di questo piccolo golfo di Zoagli! Tu, riempi fino all’orlo, tieni ben chiuso, porta in alto e su a tutta velocità corri a profumare la Carnia appestata!

Tre Venti smaniano, intanto, nello stretto di Messina. Sono forti e le loro invisibili propaggini muscolose sono capaci in pochi minuti di rianimare di fresco aereo velluto l’intera Sicilia carbonizzata dall’ardore d’agosto.

Ora in fondo a questo corridoio marino, i tre Venti affondano le dita nel mare e tutte grondanti le fanno scorrere, scorrere, sui giardini di Messina e su quelli odorosissimi di Siracusa perchè siano impregnate del profumo lieve danzante punzecchiante dolcissimo dei limoni, degli aranci e dei mandarini. Quei tre Venti siciliani passano nelle alte vigne fronzolute di Capri inebriandosi di fantasia rossa, poi sul promontorio polposo di Posillipo per aggiungere negli otri, pance e zampogne loro, delle erranti svenevoli mandolinate. Via a galoppo, su, su, a 70 Km. all’ora, saltando a piè pari la schiena dell’Appennino, aromatizzandosi i piedi pattinatori sulle pinete resinose, s’avventano sopra il Veneto e piombano nella valle della Fella. Ma l’Italia è vasta e tutti i vegetali d’ogni provincia vicina e lontana debbono dare il loro contributo.

Nell’oasi di Tripoli sonnolenta si alza con fatica un Simun assopito. Forte Vento africano non servo, ma innamorato dell’Italia. E’ stanco di due lunghi viaggi nel deserto, ma una tromba bersaglieresca l’ha svegliato questa mattina. Sa, il Simun, che negli orti ombrosi e nei prati di orzo erba medica e lattuga, che egli ha sempre rispettato, dormono dei profumi biondi, pepati e zuccherini che l’Europa non ha. Sa il Simun che le ombrie sui pozzi orlati d’asinelli, hanno dei tiepidi profumi vanigliati che l’Europa non ha.

Si scuote, e d’un balzo in piedi, vibrante burbero benefico invita piante erbe tronchi e fogliami, a spremersi d’ogni essenza. Tutta l’oasi è in tumulto. I cammelli rallentano il loro ruminare e il loro gorgogliare catarroso di grondaia, sussultano, tremano. Il cammelliere dritto alzando le braccia implora pace dal Vento che giocondamente gonfia il suo barracano come una vela, e in testa il burnus come il fiocco sul bompresso.

Ma il Simun non è contento di questi casti profumi rapiti alla capigliatura dell’oasi. Non è forse l’imperatore assoluto dell’Africa? Con un salto di montagna terremotata, rosso irto accecante scavalca la grande Sirte e in Cirenaica lungamente strofina il suo corpo ossuto e scricchiolante d’ascaro immenso in altre oasi più fitte più umide più fertili. Il Nilo l’attira con la sua vasta coltura di profumi oliati e fermentati in verdi ombre sotto soffitti spessi di banani, e pieni di gaggie. Percorre tutto il Nilo riempiendo di profumi i tre mila otri che suonano fragorosamente sulle sue spalle scattanti. Entra nel lugubre caldo foltore d’oro torrido intrecciatissimo e compresso della sua Abissinia amata. Sono mesi e mesi che non piove, e la mirra balsamica suda fuor dalla corteccia un umore inebriante e languidissimo. Questo, questo ci vuole, pensa il Simun, perchè la prima notte dei vincitori Italiani in Carnia sia simile alle notti di Allah! Subito vuota alcuni otri di profumi mediocri e con fiati lunghi accarezzando per un’ora trecento mila arbusti di mirra balsamica accumula e costringe in mille trecce strette le ondulanti capigliature del profumo assolvente.

Il Simun non è sazio ancora. Scavalca il mar Rosso e raggiunge un altipiano d’Asia dove brucano in pace cento mandre di cervi muschiati. Con boati di gioia sradicante il Simun li assale. Crollo schianto e sfasciamento di quei boschi di corna. Il Simun li caccia alla rinfusa in una valle, poi sopra, come in un tino coi vasti piedi chilometrici, li vendemmia.

Dagli addomi schiacciati schizza lo strano burro rosso-bruno. Ride, ride, il Simun, nella carneficina poichè sa la potenza quasi indistruttibile di questo profumo divino. Un granello solo basterà a inebriare 2 milioni di metri cubi d’atmosfera notturna!

Stracarico di profumi asiatici e africani, il Simun ritorna. In alto, in alto vola sopra il mare perchè i potenti spruzzatori salati dalle onde non deformino le essenze purissime che egli porta rinchiuse nei suoi polmoni, otri pance e zampogne. La sua velocità supera quella d’ogni altro Vento, tanto l’orgoglio d’essere il primo profumatore dell’Italia vittoriosa lo esalta.

Nella mia blindata lo sento venire. Tutti i Venti italiani che hanno sparso già con armoniosa delicatezza centomila profumi italiani sui declivi e sui boschi e nei burroni e nelle viuzze dei villaggi e in ogni casa come un vaso, sanno che un prodigioso Vento sconosciuto sta per giungere con nuove ricchezze delizianti. Si aggirano i Venti italiani perfezionando la disposizione dei profumi, e quelli tondi come ovi, e quelli in forma di amaca e quelli che gemono di dolcezza come divani innamorati, e quelli che saltano come ginnasti su trapezi volanti, e le bisce i mazzi le capigliature i drappeggi di profumo.

Due venti si sono inerpicati e sospesi alle costellazioni, e spalmano così di essenze l’intera volta stellare perchè il palazzo della notte sia tutto profumato e nel centro sia profumatissima la mia blindata: camera nuziale. I Venti italiani sono perplessi poichè il gran mago dei profumi tarda. Lui, lui solo potrà idealizzare con essenze speciali le acque del Fella che languide e melodiose si preparano a diventare il bagno della divina bella notturna. L’aria trema febbrile, sinuosa spasi mante con lunghi bisbigli. I Venti sono ammutoliti immobili. Aspettano.

Undici minuti d’attesa angosciosa... Poi un fragor di cannonate che schiantino schiantino cento città di bronzo cristallo e colonne di giada.

Valanga giù dal cielo quasi a picco il Simun e riempie la valle della Fella d’un traballio innumerevole d’otri squassati - duri - molli - rigidi - negri - luminosi soffici dentati come crani di poeti cozzanti nelle ampie saccocce volanti di Dio.

XXVIII. LA PIU’ BELLA NOTTE D’AMORE

Il Simun colmò la valle di profumi e volò via.

Le acque del Fella si offuscarono un attimo, poi rischiarandosi come lunghe vasche tranquille cullarono di nuovo le stelle.

Allora la mia voce rotta da singhiozzi cantò:

—Vieeeeni! Vieeeeni! Italia mia! Vieeeeni Amooore! Italia, forma perfetta, ardore sovrumano, voluttà grazia, eleganza, poesia, incendiante passione, ventaglio piumato di sguardi e carezze, sintesi di tutti gli ideali arabeschi del canto, riassunto d’ogni dolcezza femminile, madre - sorella - amante - figlia, tenerezza sommergente, snello ottimismo audace, cascata di luce, rada beata sulle coste del Paradiso, ideale corpo plasmato di nuvole onde spume sogni, forza che si frange in soavità fragilità per rinascere più forte.

Vieeeni, tutti i tuoi nervi tutti i tuoi muscoli pronti sotto la tua pelle bianca, rosea che odora di caprifoglio, ciclami, gaggie! Pelle divina dell’Italia lambita dai mari di seta e sospiri! Ramificazioni di vigne e di vene che sono bizzarre fontane di fantasia!

Italia, sei la più bella! Tutti lo sanno, e ti invi diano. Molti ti odiano, ma tu non li temi e verrai lo sento in questa mia alcova d’acciaio profumata ma insidiata da una doppia corrente di luride forze nere, puzzolenti e bieche. Queste non potranno mai sommergere la mia isoletta, poichè è sradicata, galleggia, su tutte le navigazioni e tutte le velocità. Quando tu sarai qui dentro, nelle mie braccia, potrai abbandonare i tuoi capelli ai forti dinamici Venti italiani che te li profumeranno delicatamente. E tu godraai fra le mie braccia la mia passione fatta di mille passioni. Vieni!... Vieeeeni! Vieeeeni!

La mia preghiera è esaudita. Mentre visito con lo sguardo zelante l’interno della piccola alcova d’acciaio sento la tiepida passione lattea del suo corpo. Ecco il suo profumo di caprifoglio, ciclami, gaggie! Ecco sulla feritoia aperta, la luna... Non è la luna! E’ il suo ventre bianco, liscio di verginità incorruttibile, eppure così sensuale.

—Vieeeeni! Vieeeeni! Amoooore! Scendi, entra!

Così l’Italia, amore fatto di mille amori, entrò abbandonandosi con morbidi scatti fra le mie braccia. La prendo, la stringo e i miei baci affannosi la svestono per meglio goderla. Urlo di tutti i miei pori felici. Esitazione, terrore delle mie labbra che non possono, non potranno forse inebriare tutta, tutta la sua carne e raggiungere tutte le sue fibre e in fondo in fondo cogliere il fiore dello spasimo assoluto.

Ma il mio cuore vampante centuplica battendo le sue furenti calorie per incendiare tutto in me, muscoli, vene, nervi, tendini, fibre, visceri, pensieri, sogni e meati capillari. Bruciare, bruciare, ardere, arroventarmi liquefarmi in un lago torrente mare Oceano di lava appassionata! Cingerla così del mio conflagrante amore liquefatto!

Sì, sì, diventerò un oceano di lava, più vasto e più cocente degli oceani di fuoco rabbioso che l’Etna e il Vesuvio mal contengono sotto montagne pesanti! Il mio oceano d’amore fumante sarà libero, libero, libero! Ogni capriccio sarà concesso! Ogni sanguinaria carezza potrà sollazzarsi in libertà! Torrido, torrido per te o Italia! Ma quell’oceano di lava prodigiosamente sotto i ventagli della mia poesia si addolcirà trasformandosi in un purissimo mare ingenuo tutto imperlato di tenerezza e gratitudine lagrimanti.

—Sei felice, sei felice?... Guarda, ho sospeso la tua veste di trasparenze fluviali sul rullo dei nastri di cartucce perchè veli di mansuetudine la volontà di luce tagliente della lampadina elettrica. La notte sarà fredda: ho posto nel cruscotto un elmetto austriaco pieno di bragia. L’ardore della bella vittoria tua riscalderà i tuoi piedini che gareggiando in corsa con le code delle comete si sono un poco gelati. Ho fatto puntare le due mitragliatrici della cupola contro le ultime stelle dell’ironia e del pessimismo. Ma sdraiati! Sdraiati! Sdraiati, e riposa in pace. Ho steso sotto i tuoi bei fian chi tre pellicce di generali austriaci. A destra e a sinistra potrai scegliere in quegli scaffali pieni di nastri di destini la più bella fra le molte collane e cinture di cartucce che nelle tue dita si trasformano in preziosi ori - argenti - smalti cesellati. Vengono dalla fabbrica francese di Saint-Etienne. Furono foggiati per adornare la morte dei tuoi nemici, ma le tue dita più sapienti delle onde dell’oceano Indiano riceselleranno quei nastri di cartucce trasformandoli in monili per la tua bellezza in amore... Ti piacciono, ti piacciono i miei baci, lo sento! Vieni! Vieni! Vieni! Entrami nel cuore, o Italia! Godi, godi, godi, amore mio. Sento l’anima tua più intima che dal fondo mi chiama, vuole tendermi le braccia, ma non può, è troppo giù giù, nello imperscrutabile mistero degli amori sovrumani. Dal fondo la tua anima implora una stretta, una piccola stretta delle mie mani! Mi tuffo, affondo nella tua carne per toccarle, toccarle quelle tue piccole mani bianche, tremanti! Ti tendo le mie! Sono vicine, vicine alle tue. Un torrente di baci ancora ancora! Perchè più non vi sia ostacolo al mio slancio. Ora quasi le tocco, le piccole mani della tua anima... le tocco... le ho toccate. Un attimo, ancora ancora! Un altra stretta... Felicità, felicità, felicità!... Ogni segreto rivelato. So finalmente perchè ti ho tanto amata! So perchè si può morire, e rimorire e rimorire cento, mille, un milione di volte per te!

Ora dorme fra le mie braccia la bella innamo rata col suo sorriso di rosa bianca che tremi estatica tra brezza e raggi all’alba nei giardini. Nel cruscotto sotto i suoi piedini bianchi, langue e agonizza la bragia rossa di crudeltà guerresca nell’elmetto austriaco.

Sull’Italia e su me riposanti veglia la dura volontà futurista della lampadina elettrica. E’ irritata di sentirsi avvolta nella veste di notturne trasparenze obliose.

Fuori scorre il fiume monotono di bestiami sanguinari balordi e cocciuti, ormai vinti e domati con la loro anima puzzolente in dissoluzione. Anima che vorrebbe ancora ammorbare con lingue vendicative l’indulgente e generosa respirazione umana del nostro divino amore nella nostra alcova di acciaio. Ma quell’anima irta di mille tanfi bestiali non penetra più...

In alto sui monti vegliano i Venti, i grandi Venti italiani strapotenti e profumanti distributori di Libertà spirituale, fantasie interplanetarie e assoluta bontà umana.

XXIX. A MENSA COL VINTO FRA I ROTTAMI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO

Don Jacopo, parroco di Resiutta, è un simpatico e fervido patriota italiano. E’ stato felice di accogliere nella sua casa parrocchiale il comando dell’8. squadriglia cosicchè impiantiamo la mensa nel vasto cucinone affumicato le cui finestre sono aperte sulle strada di Chiusaforte gibbosamente ingombra dei rottami della ritirata austriaca.

Volpe dopo aver spedito mediante un motociclista un ordine bancario da telegrafare in Borsa a Genova mi fa ammirare i magnifici porcelli e le oche catturate che si sbattono e rumoreggiano nella navicella di un draken-ballon austriaco custodito da Ghiandusso. Ha trovato anche farina e zucchero e molte casse di sigarette ungheresi.

Ogni mio soldato ne fuma tre alla volta, tre piccole torce di gioia al balcone della bocca.

Il prete, alto segaligno, faccia di montanaro ossuta, occhi celesti vivacissimi, forti mascelle da mangiatore e piede veloce, si affaccenda dalla cucina alla sua vigna che egli proclama la prima vigna d’Italia. Da Resiutta a Vienna non si trova più una vigna. E’ indubbiamente una vigna straordina riamente fertile, piena di nascondigli, forse di sotterranei, poichè il prete ricompare ogni tanto con qualcosa di nuovo fra le braccia a maniche rimboccate: pentole, cassette, sacchi, sacchetti, salami, ecc. La sua serva Maria, grassa, quarantenne, dal viso roseo primaverile e dagli occhietti furbissimi neri un po’ avari, brontola; ma ogni volta che nel cucinone entra un nerboruto bersagliere ciclista col ruvido viso patinato di polvere-sudore, quegli occhi brillano stranamente inumiditi. Non so se per insoddisfatta sensualità o per patriottismo commosso. Il mio ottimismo riassume tutto in questa frase:

—Maria, sono belli i soldati d’Italia!

Maria ride e corre su al piano superiore per la scala di legno, chiamata da una voce femminile piacevole malgrado il suo accento straniero.

—Maria, Maria, preego preego un momento.

Don Jacopo che entra mi spiega l’enigma:

—Volevo precisamente parlarle, signor tenente, la prego anzi di fare le mie scuse al signor capitano comandante la squadriglia. Mi sono permesso di ricoverare al primo piano un colonnello austriaco ammalatissimo. Colonnello della Croce Rossa. Non è un combattente. Oh! una persona assolutamente compita, certo un brav’uomo. Deve avere 55 anni circa, ma ne dimostra 70, tanto è sfinito dalla stanchezza. Stanotte aveva 40 gradi di febbre. Ora sta un po’ meglio. Ha voluto confessarsi appena fu ricoverato. Ha con sè una bellis sima signora che pare sia sua nipote. Pure della Croce Rossa.

—Ah reverendo! Lei ha fatto molto bene. Approvo la sua opera di carità. Gli Austriaci sono stravinti. Non è più il caso di preoccuparci di spionaggio.

—La signorina mi ha domandato, implorando, una tazza di caffè per il conte. Poichè è conte, il colonnello, e appartiene all’alta aristocrazia viennese.

Io chiamo il mio attendente:

—Ghiandusso, porterai tu stesso un buon caffè al colonnello austriaco. Fallo parlare, cerca di sapere esattamente chi è.

Poi vado a raggiungere il capitano Raby sulla strada e lentamente trascinati dalla curiosità ci inoltriamo fra gli avanzi dell’esercito austriaco, come due compratori in uno smisurato negozio di antiquario. Non compreremo nulla. Tutto questo tragico bricabrac è stato già da noi pagato coi 500 mila morti eroici dell’Isonzo, del Grappa, del Piave.

Davanti a noi sulla strada incassata tra le alte montagne e che corre col torrente Fella fino a Chiusaforte e a Tarvis, è tutto un tumulto pietrificato di carri sbilenchi, affusti di cannoni, cucine da campo, fucili, draken-ballon, carrette, mitragliatrici, ruote, carogne di cavalli, masse luride di cappotti infangati, stracci, stracci, stracci, vagoni rovesciati, auto-carri ruote all’aria e motore nel fosso, sterco. Immane lerciume che incensa l’azzurro con lugubri zaffate di puzzi di stiva grasso iodio sangue corrotto ammoniaca e pidocchi.

Questi rottami dell’impero austro-ungarico sfasciato evocano in me l’immagine di un triste, polveroso, sconfinato magazzino di roba vecchia. Sembra anche un interminabile villaggio di cenciaiuoli.

Ad uno svolto della strada un vagone appare goffamente impennato su tre carri sfasciati. Sembra volerli assalire e fecondare con un ultimo colpo di groppa taurina. Fetore rivoltante. Sotto imputridiscono tre carogne di buoi.

Mentre ci scostiamo, un lungo disperatissimo niiiiiitrito lacera l’aria tiepida di questo pomeriggio autunnale che la corrente gelata del Fella invernalizza a quando a quando un poco.

—Un cavallo agonizzante! dico a Raby.

Il nitrito si rinnova più straziante e lugubre per modo che intorno a noi la vasta marea di questi enormi rottami di guerra ci appare ad un tratto come una spaventosa agonia di carovana assalita, accecata da una bufera satanica in fondo a una gola maledetta. Ci avviciniamo al punto da cui parte il nitrito. Eccolo. In fondo a quel fossato, in quel marciume verde d’acqua e fango un gran cavallo ungherese rovesciato allunga enormemente il collo sforzandosi di far leva per sollevarsi. Ma il sangue e la vita gli colano, e anche l’intestino, fuor dallo addome tagliato. Ha le 4 zampe impigliate fra le cinghie e le ruote di un cannone. Evidentemente degli austriaci affamati non hanno perso tempo ad accopparlo. Hanno strappato un pezzo di carne poi chiusi nell’incubo cieco e sordo della fuga-fame sono ripartiti senza ascoltare il nitrito disperato della bestia. Ma il cavallo con un lungo tremito febbrile riapre le froge arricciate e masticando il fango coi dentoni trascina trascina un nuovo niiiiitrito.

Non resisto allo strazio, punto il mio revolver sulla tempia e con tre colpi pacifico la povera bestia, per sempre. In alto il sole sta per celarsi dietro le altissime montagne, ma prima allunga un suo meraviglioso sguardo biondo-azzurro-dorato sulla strada che si svolge interminabilmente ingombra di rottami guerreschi affastellati.

Il sole, straricco antiquario, vuole prima di coricarsi rivalutare col suo sguardo minuzioso e penetrante di conoscitore tutti i frammenti d’un impero che la Morte gli regala e che ricatalogherà, coi tanti rottami di tanti imperi già immagazzinati.

Alle sette il pranzo è pronto e la mensa sorride alla nostra fame di vincitori nel cucinone odoroso di maiale ben condito. La sera è fresca e si chiude volentieri le finestre contro la risacca sinistra di puzzi ammoniacali. Nel vapore stuzzicante di un monumentale minestrone io dico a Raby e a Volpe:

—Si mangerà bene e si berrà meglio, ma mancano le donne ai vincitori! E dire che ce ne è una bellissima al primo piano. Io propongo che la gene rosità ultra-civile italianissima del nostro capitano inviti a tavola il conte Funk e la sua bella Rose Barn.

Approvato con entusiasmo. Ma il colonnello che ora sta meglio, rifiuta commosso l’invito inaspettato. Teme di disturbare e manda a ringraziare. Ghiandusso torna su con ordini precisi poi ridiscende e dalla porta spalancata entra esitando con cento inchini il vecchio ufficiale dal viso pallidissimo ormai tutto naso per l’eccessiva magrezza, calvo, gli occhi grigi, acquosi e tremolanti. Un’indistruttibile aria signorile d’alto comando malgrado l’uniforme bigia sciupata, e la schiena curva. Ma dietro splende magnetico un affascinante sorriso femminile.

Rose Barn è alta, snella, bruna, grandi occhi vivi, neri, lucentissimi che col tipico pallore verdino della pelle e l’elastica snodatura dei fianchi felini, rivelano quella razza interessante e tipica di ebree viennesi, crepitante perfida e seducente fusione dei sangui rumeni, boemi e austriaci.

Bellezza meridionale sì, ma senza l’affettuosità mediterranea, con sensualità raffinate dal calcolo e lussuria prodigata fuori d’ogni legge di pudore, nel bisogno di domare prontamente i maschi e sfruttarli. Donna da prendere in velocità per gustarne i mille sapori in fretta prima di scoprire la inevitabile prostituta che è celata appena dalle moine infantili, e da una maschera di verginità.

Raby, Volpe ed io guardiamo la donna valu tandola e quasi pregustandola, mentre il conte Funk rinnova i suoi inchini, ossequi, esitazioni.

—Preeego, signor capitano, non posso accettare. Non vorrei che lei avesse delle noie coi suoi superiori. Sono troppo gentili, loro. Non credevo ufficiali italiani così gentili e pieni di bontà.

Il conte non vuole sedersi, si fa quasi spingere da Ghiandusso verso la sedia. Ma la sua bella amica ha già accettato e finiscono per sedersi tutti e due davanti a me, un po’ distanti dalla tavola.

— Merci, merci! dice Rose Barn; Monsieur le curé nous a déjà donné a manger. Nous accepterons seulement une tasse de café. Io parlo un po’ italiano, male, molto male. Il conte parla bene come tutti gli alti ufficiali austriaci. Alla corte di Vienna si parlava molto l’italiano, specialmente ora con l’attuale imperatrice.

—Si parlava e si odiava l’italiano, dico io.

— Autrefois, monsieur le lieutenant! Oggi non si odia più. Tutto è finito per noi, dice Rose Barn.

E il colonnello aggiunge:

—Con loro, signori ufficiali, posso dire tutto. Io ho cominciato la guerra con grande entusiasmo. Comandavo uno squadrone di cavalleria al fronte russo, ma contro gli italiani non ho combattuto. Ho avuto per molto tempo il comando di una colonia agricola a Oppacchiasella. Conosco bene quei posti. Ho una proprietà vicino a Gorizia, venivo spesso in Italia. Non ho mai odiato gli italiani. La guerra è la guerra!

Il capitano Raby, dopo aver assaporato l’ultima cucchiaiata del suo minestrone, dice con lentezza piemontese:

—Non so se ci avete gratificato con molte cannonate sul Carso. Ad ogni modo io desidero ringraziarvi con un pezzo di maiale ben cucinato.

—Grazie, grazie, dice il conte Funk, troppo gentili. Non sapevo, non sapevo, veramente, in Austria non si sa quanto gli ufficiali italiani siano cortesi, umani, buoni.

—Non tutti, interrompe Rose Barn, non tutti... Ah! gli ufficiali dei bersaglieri ciclisti. Comme il sont durs, durs, durs!... Dieu! qu’ils sont durs!

Pienamente rinfrancata e sicura ormai delle sue labbra sorridenti e delle sue occhiate precise, la bella ebrea viennese racconta come furono catturati nella confusione del disarmo a Stazione per la Carnia. Il conte Funk aveva molti bagagli, probabilmente molti anche lei. Sento in Rose Barn la donna sempre armata di eleganza e che ad ogni costo ricostruisce le sue armi di seduzione. Essa racconta che gli ufficiali bersaglieri brutalmente spinsero lei e il colonnello lontano dal carro dei bagagli ormai perduti per sempre. Rose Barn è stupita di non aver potuto sedurre coi suoi sguardi quei vincitori violenti.

—J’ai embrassé plusieurs fois leurs mains comme une mendiante, comme une mendiante! Mais ils me criaient: Viaaaa! Va viaa! Va via! Comme ils sont durs! comme ils sont durs!

Una nostra risata fragorosa accoglie questa descrizione dei forti, impetuosi soldati italiani colla loro pratica intelligenza decisa, rozza e senza smorfie.

—Vedete, signor conte: questo contrasto tra i bersaglieri ciclisti che giustamente sbrigarono le cose con voi, e noi altri che a vittoria compiuta siamo lieti d’invitarvi a pranzo, è tipicamente unicamente italiano. La nostra razza è superiore a tutte le altre razze perchè sa capire, dosare tutto nel tempo e nello spazio. La razza tedesca, gonfia di prodotti inutilizzabili da spargere sul mondo e ubriacata da una spaventosa preparazione militare meticolosissima, ha con una assoluta mancanza d’elasticità spirituale dimenticato che la forza pur dominando nel mondo deve fare i conti sempre con lo spirito. Voi avete misurato a cifre le nostre forze, ignorando forse, per il cretinismo dei vostri informatori, che il popolo italiano ha una grande anima potentissima, geniale, ricca di tutte le possibilità improvvisatrici. Questa anima dormiva e voi che contavate solamente il numero dei nostri cannoni, ci avete in blocco disprezzati, considerati come quantità trascurabile. L’Italia, avete pensato, marcerà con noi, obbedendo a noi. Se non marcerà con noi resterà neutrale. Ma l’anima italiana che aveva contato e ricontato tutte le offese i soprusi e i disprezzi, pur avendo mille ragioni per non battersi (triplicismo, propaganda pacifista, assoluta impreparazione ecc.) è scattata nel momento più pericoloso, sicura d’improvvisare ciò che non aveva preparato, e d’imparare la guerra facendola e vincendola. Ciò che avete fatto nel Belgio, i vostri siluramenti di navi inermi, il pericolo dell’egemonia tedesca che non ha e non può avere nessuna ragione d’essere mai, il desiderio rivoluzionario di noi futuristi italiani che volevamo ripulire l’Italia di tutto ciò che vi è di vecchio e specialmente del papato, scopatura che non si poteva fare con un impero Austro-Ungarico in piedi ecc. ecc... Ecco infinite ragioni per le quali siamo entrati in guerra, ma certo in tutti gli Italiani, dal più umile fante al Comandante Supremo, c’era un’altra ragione potente!

«Volevamo dare con una lezione violenta a voi cocciuti professori medioevali d’arte guerresca, un brillante spettacolo d’Italianità, che significa fulminea genialità improvvisatrice, eroismo senza educazione guerresca, massima elasticità nel passare dalla violenza utile ad una assoluta bontà coi vinti e i disarmati. Ricordatevi che in questa guerra ogni pattuglia italiana aveva almeno uno scopritore di terre, un meccanico inventore, un poeta e un padre affettuoso.

«Volete conoscere il piano vittorioso del generale Caviglia? Eccolo:

«Dopo un’intensissima azione dimostrativa sul Grappa, per attirarvi il nemico, sfondare con 21 divisioni, separando la massa austriaca del Trenti no da quella del Piave, e, con azione avvolgente, provocare la caduta dell’intera fronte montana.

«La più settentrionale delle armate austriache, la sesta, aveva per linea di rifornimento Vittorio-Conegliano-Sacile. Bisognava dunque conquistare Vittorio Veneto tagliando questa linea. Poi, puntare con azione avvolgente su Feltre, cioè sul tergo del Grappa, facendolo cadere per manovra.

«Subito dopo, raggiungere la convalle bellunese, puntando per le vie del Cadore e dell’Agordino.

«Gli ordini di concentramento di forze diramati il 25 settembre ebbero principio di esecuzione il 26.

«Tra il 26 settembre e il 10 ottobre, 21 divisioni, 800 pezzi di medio e grosso calibro, 800 pezzi di piccolo calibro e 500 bombarde, si schierano sulla nuova fronte. Quattrocento pezzi tolti da altri settori sono trasportati sulla fronte del Grappa.

«Intanto 20 equipaggi da ponte, 4500 metri di passerella tubolare, 4500 metri di ponte, sono preparati. In complesso, contro le 63 divisioni e mezza austriache e i loro duemila pezzi, noi abbiamo schierato 54 divisioni e 4750 pezzi.

«Il nostro fuoco d’artiglieria s’iniziò fra Brenta e Piave alle ore tre del 24 ottobre. Alle ore 7 e 15 balzano le fanterie sul Grappa. Il 26 ottobre la resistenza sul Grappa è più che mai accanita. Sette divisioni italiane contro nove nemiche.

«La sera del 26, si gettano i ponti sul Piave. Sono travolti. Altri ponti sono gettati nella notte del 28.

«La mattina del 28, il 17.º corpo comincia a passare a Salettuol e l’8ª armata comincia a passare fra Pederobba e Falzè.

«Nelle prime ore del 29, l’ottavo corpo, sui ponti della Priula, passa e prende Susegana; il 17º corpo entra in Conegliano; una colonna di lancieri e di bersaglieri ciclisti entra in Vittorio Veneto. Il 30 ottobre, crolla il Grappa.

«La disfatta degli austriaci, iniziatasi il 28, resa inevitabile il 29, si conclude il 30 con la catastrofe.»

— Vous avez raison! Vous avez raison! interrompe il colonnello agitando le mani timide e tremanti. J’ai toujours pensé que le peuple Italien est un grand peuple.

— Et quels soldats magnifiques! aggiunge Rose Barn moltiplicando i suoi sguardi voluttuosi al capitano che la guarda con insistenza.

Mentre fissa il capitano, Rose Barn distrattamente urta col piedino il mio piede sinistro. Il mio scarpone d’alpino non vieta il passaggio dell’elettrica vibrazione. Rose Barn mi piace molto. Sono abituato a non lasciarmi sfuggire questi eleganti animali femminili che prediligono gli assaltatori audaci, e pur partendo sempre con un programma astuto nel cervello, non si rifiutano certi amplessi spensierati volanti e disinteressati.

Sarei contentissimo di passare una notte con Rose Barn, anche se la notte precedente fosse stata passata da lei con l’amico Raby. In guerra bisogna marciare e non marcire. Nondimeno più d’ogni desiderio carnale urge in me un imperioso orgoglio italiano che vuole manifestare nettamente la sua nativa squisitezza spirituale. Prendo dunque la parola, con tono energico e guardando negli occhi senza ironia il colonnello che ora sorbisce con delizia il nostro caffè:

—Vede, signor colonnello, noi siamo qui vincitori e siamo anche i vostri padroni. Malgrado le finestre chiuse entra l’odore pestilenziale della vostra gigantesca disfatta. Io vi parlo con sincerità assoluta. Vedo che siete intelligente, preciserò il mio pensiero. La signorina Rose Barn seduta vicino a me non è certo vostra moglie. Credo sia la vostra amante. La chiamate vostra nipote, poco importa. Ad ogni modo è bellissima. Piace molto a me e piace ancor più al comandante l’ottava squadriglia che ha catturato tutto il vostro corpo d’armata. Ve lo ripeto. Mi piace molto.

Il conte Funk, colonnello austriaco, mi guarda con occhi spaventati e un sorriso stiracchiato:

—Vous voulez rire, vous voulez rire, monsieur le lieutenant!

—No, no, signor colonnello, non rido. La signorina Rose Barn che è una involontaria affascinatrice, non certo per tradire voi, anzi per ottenervi maggiori gentilezze nostre, ci promette con gli occhi (e certo manterrebbe!) delle notti d’amore straordinarie.

—Oh monsieur le lieutenant, vous voulez rire, vous voulez rire!

—Non rido, insisto su queste notti d’amore, che io intuisco veramente degne di noi vincitori.

Pausa avvocatesca. Poi un sorriso a Rose Barn che tiene gli occhi abbassati come una educanda felice e turbata:

—Sarebbero notti degne di noi vincitori se.... se... se non fossimo degli Italiani. Degli ufficiali austriaci che fossero questa sera nelle nostre condizioni, non mancherebbero di costringere la bella preda femminile tipo Rose Barn anche a viva forza, a ingoiarsi una purga di baci bavosi di vecchi generali e giovani ufficiali. Ma noi che siamo Italiani, signor colonnello, vi offriamo da pranzo e dopo l’eccellente caffè che avete sorbito non vi togliamo la vostra meravigliosa donna. E’ bellissima, ve lo ripeto, ma io ho goduto la notte passata nelle braccia di una donna divina, unica, che si chiama l’Italia!

Poi rivolgendomi con sorriso ironico, mellifluo a Rose Barn:

—I vostri baci che devono senza dubbio essere sapientissimi, mi sembrerebbero inevitabilmente insipidi quanto quelli di una prostituta. Voi, non lo siete. Coi vostri occhi pieni di capricci e fantasie dovete certamente desiderare un maschio come me, se non fosse altro insolito, che vi parla come mai certamente un maschio vi ha parlato. Ebbene, no! cara Rose Barn, io vincitore italiano non vi prenderò, pur potendovi prendere, pur sapendo che vi farei piacere. Prego anzi l’amico Raby di rinunciare anche lui alla bella notte sicura. E lei, caro colonnello, gradisca l’ospitalità di questa parrocchia italiana che le offre un prete poco austrofilo, e dorma questa notte in pace senza che la gelosia aumenti i gradi della sua febbre. Però io propongo ora una breve passeggiata per digerire il nostro pranzo. Vuole, signora, e lei, colonnello, venire con noi a fumare una buona sigaretta Macedonia? Prego anche lei! Sono migliori, sono migliori delle sigarette ungheresi. Così potremo fumando non asfissiarci nel passeggiare fra i rottami dell’impero austro-ungarico... ma dove sono i nostri cani! Nick, Kim, Zazà? Venite, esperti puzzicoltori! Tu Zazà in testa. Guidaci fra tanti affastellamenti di luridume insanguinato. Coi tuoi bau! bau! variati ci descriverai il tuo paesaggio d’odori.

Correvano danzavano e capriolavano Nick e Kim intorno, sopra, sotto Zazà abbaiando. Gli echi della valle stretta moltiplicavano i

bu baa baubau baubaubau.

—Vede, signora, i soliti puzzi monotoni di stiva, latrina, iodio, pidocchi

baubaubaubaubauabaubaubaubau.

Ora Zazà ha scoperto e ci spiega nel suo linguaggio che io comprendo i fetidissimi puzzi che sta decifrando col naso: puzzo d’imperatore, puzzo di caserma, puzzo di prete sudicio, puzzo di carcere, puzzo di medioevo, puzzo di passatismo!

Ridevano le buone, umane, civili stelle italiane arricciando le schifiltose nari d’oro.

COMANDO SUPREMO

4 novembre, ore 12.

La guerra contro l’Austria Ungheria che, sotto l’alta guida di S. M. il Re Duce Supremo, l’Esercito italiano inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, E’ VINTA.

La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco-slovacca ed un reggimento americano contro 73 divisioni austro-ungariche, è finita.

La fulminea arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della Settima Armata e ad oriente da quelle della Prima, Sesta e Quarta, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria.

Dal Brenta al Torre, l’irresistibile slancio della Dodicesima, dell’Ottava, della Decima Armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.

Nella pianura S. A. R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta Terza Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute.

L’Esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subìto perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento: ha perdute quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressochè per intero i suoi magazzini e i depositi; ha lasciato finora nelle nostre mani circa 300.000 prigionieri con interi stati maggiori e non meno di 5000 cannoni.

I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.

Firmato: DIAZ.

Le automitragliatrici della colonna (VIII Squadriglia) catturato un comandante di Corpo d’Armata, mitragliato e arrestato un treno in movimento verso Pontebba, entrarono a Chiusaporte.

(Diario Ufficiale della nostra ultima offensiva),

FINE.

Opere di F. T. MARINETTI

LA CONQUETE DES ÉTOILES, poème épique, 3 e édition. Éditions de la «Plume», Paris 3 fr. 50

DESTRUCTION, poèmes. Léon Vanir, éditeur, Paris 3 fr. 50

LA MOMIE SANGLANTE, poème dramatique. Edizioni del «Verde e Azzurro», Milano 2 fr. 50

D’ANNUNZIO INTIME, 4 e édition. Edizioni del «Verde e Azzurro», Milano 2 fr. 50

LE ROI BOMBANCE, tragédie satirique, 3 e édition. Editions du «Mercure de France», Paris 3 fr. 50

LA VILLE CHARNELLE, 4 e édition. E. Sansot et C., éditeurs, Paris 3 fr. 50

LES DIEUX S’EN VONT, D’ANNUNZIO RESTE, 11 e édition. E. Sansot et C., éditeurs, Paris 3 fr. 50

LE CONQUETE DES ÉTOILES, 4 e édition, suivie des jugements de la presse internationale. E. Sansot et C., édit., Paris 3 fr. 50

POUPÉES ÉLECTRIQUES, drame en trois acte en prose, avec une préface sur le futurisme. E. Sansot et C., édit., Paris 3 fr. 50

ENQUETE INTERNATIONALE SUR LE VERS LIBRE, précédée du premier Manifeste futuriste, (8 e mille). Édit., de «Poesia» 3 fr. 50

MAFARKA LE FUTURISTE, roman africain (21 e mille). E. Sansot et C., éditeurs, Paris 3 fr. 50

MAFARKA IL FUTURISTA, romanzo, tradotto da Decio Cinti (Processato e condannato. Due mesi e mezzo di prigione all’autore). Edizioni Futuriste di «Poesia» Sequestrato

DISTRUZIONE, poema, tradotto in versi liberi col Primo processo di «Mafarka il Futurista» (Edizione di «Poesia») Esaurito

RE BALDORIA, traduzione del Roi Bombance Editori Fratelli Treves, Milano.

LE FUTURISME, Théories et Mouvement. 12 e mille E. Sansot et C., éditeurs, Paris 3 fr. 50

LA BATAILLE DE TRIPOLI, récit futuriste de la journée du 26 ottobre 1911 . Edizioni Futuriste di «Poesia» 1 fr. 50

LA BATTAGLIA DI TRIPOLI, vissuta e cantata da F. T. Marinetti. Edizioni Futuriste di «Poesia» L. 2,—

LE MONOPLAN DU PAPE, roman prophétique en vers libres. E. Sansot et C., éditeurs, Paris 3 fr. 50

ZANG-TUMB-TUMB. (Assedio di Adrianopoli) Parole in libertà. Edizioni Futuriste di «Poesia» L. 3,—

GUERRA, SOLA IGIENE DEL MONDO. Edizioni Futuriste di «Poesia» L. 2,—

L’AEROPLANO DEL PAPA, romanzo profetico in versi liberi, traduzione del Monoplan du Pape . Edizioni Futuriste di «Poesia» L. 3,50

EL FUTURISMO, traducciòn de German Gomez de la Mata y N. Hernandez Luquero. F. Sempere y C., editores, Valencia 4 reales

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