LA MESSA DI NOZZE UN SOGNO — LA BELLA MORTE

MILANO Fratelli Treves, Editori

Secondo migliaio.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Tip. Fratelli Treves, 1917.

INDICE.

La messa di nozze:

I. L'arrivo del Senegal Pag. 3

II. Il convegno 62

III. Sul lago 136

IV. Il rito 165

V. L'addio 202

Un sogno 211

La bella morte 271

LA MESSA DI NOZZE.

I. L'arrivo del “Senegal”.

Alle tre, quando la campana annunziò la fine della lezione, il professore Domenico Perez non lasciò liberi, come avrebbe dovuto, i suoi discepoli. Spiegava da due ore un atto dell'«Edipo Re» e non voleva interromperlo. Dominando con la voce ferma e severa i moti d'impazienza della classe, andò avanti per un'altra diecina di minuti, sino alla fine; poi pronunziò la frase sacramentale:

— Basterà per oggi.

Appena uscito nel corridoio, in compagnia degli alunni più diligenti che gli rivolgevano ancora domande intorno alle cose udite, si vide accostare da Baldassarre, il bidello.

— Signor professore, c'è un signore che lo aspetta.

— Chi è?

— Non ha detto il nome.... Dice che è venuto da Firenze apposta per lei.

— Da Firenze?... Dov'è?

— L'ho fatto accomodare nella sala di convegno.... Vi è rimasto un pezzo a dormire, sul divano!... Prima di sonare la campana sono andato ad avvertirlo; allora è sceso giù nel cortile!... Ha un'aria.... una cert'aria....

Perez sorrise vedendo la smorfia con la quale Baldassarre intendeva esprimere l'aria dello sconosciuto, e s'affacciò dal ballatoio. Non distinguendo nessuno in mezzo alla folla degli scolari sciamanti giù per la corte, discese le scale; sull'ultimo ripiano, scorgendo il visitatore che pareva appostato per attenderlo al varco, — una figura alta e smilza, un paio di gambe lunghe chiuse in calzoni strettissimi, una faccia magra tagliata da due baffi chiari uncinati — esclamò:

— Bertini!... Ma come? Sei tu, Lodovico?

— Sono io.

— Senza avvertirmi?... Senza scrivermi una parola?... — soggiunse, buttandogli le braccia al collo e baciandolo con grande effusione sulle due guance. — Non importa; grazie egualmente!... Che piacere!... Sai che non ci vediamo da Valsorrisa?... Quant'è? Due anni!... Quando sei arrivato?

— Da un'ora.

— E sei venuto per me? Che bravo! Andiamo via! Sono libero. Sono tutto per te. Quanto ti tratterrai?

— Riparto stasera.

— Come? — protestò l'altro, fermandosi, tra stupito e crucciato, sul punto di varcare il portone del Liceo. — Ma niente affatto!... Dopo due anni che aspetto questa tua visita, vieni per mezza giornata? Che dico? Per qualche ora appena!

— Non posso fermarmi di più.

— Hai da fare? Che hai da fare? Non ammetto pretesti! Ti sequestro. Almeno sino a domani.

— Ti prego di non insistere. Non posso.

Perez gli fermò addosso lo sguardo. Nel primo momento, nella sorpresa del riconoscimento, non aveva fatto attenzione all'aspetto dell'amico suo; ora, udendo quella risposta proferita brevemente, in tono che non ammetteva replica, e rammentando le parole di Baldassarre sullo strano atteggiamento del visitatore, scorgeva realmente qualche cosa d'insolito in lui. Magrissimo era sempre stato, ma d'una magrezza sana, ossea e nervosa; ora il suo viso lungo ed affilato pareva emaciato come dopo una malattia; le tempie, dove i capelli cominciavano a incanutire, eran solcate da vene inturgidite; gli occhi si volgevano intorno esitanti, inquieti, quasi sospettosi; anche il passo era malfermo.

— Sia come vuoi, — concesse Perez, tenendo temporaneamente per sè quelle osservazioni, ma proponendosi di cogliere o di far nascere più tardi l'occasione di manifestarle. — Vieni a casa mia?

— Per fare?

— Niente! Sono libero, ti ripeto; posso dedicarti tutto il pomeriggio. Dicevo così, nel caso che volessi riposarti. Sei all'albergo?

— No, ho lasciato la valigia alla stazione.

— Dovresti essere stanco; ho sentito che ti sei addormentato, aspettandomi.

— Ora sono riposato.

— Va bene; allora verrai da noi a pranzo stasera: è inteso. La mamma sarà felice di vederti. Per il momento vogliamo andare al caffè?

— Grazie; io non prendo nulla.

— Allora.... — fece Perez, un poco imbarazzato, cercando che cosa potesse piacere all'amico; — allora.... montiamo in carrozza e giriamo un poco in città o in campagna?

Solo quell'offerta riuscì gradita all'invitato.

— Andiamo al mare? — propose.

— Dove tu vuoi!... Vetturino!... — chiamò, fermando con un gesto del braccio una carrozza che passava loro dinanzi in quel momento. — Monta su, caro, ti prego.... Vetturino, alla Gettata!... — Poi, accomodatosi nel suo cantuccio, battendo con la mano sul ginocchio dell'amico, esclamò giocondamente: — E così?

— E così? — ripetè l'altro, come un'eco. Cavata di tasca la borsa del tabacco e cominciando ad arrotolare una sigaretta, soggiunse: — Che fai?... Sei contento?... Lavori?

— Lavoro, sì. E tu?

— A che lavori? — insistè l'interrogato, come se non avesse udito la domanda. — Vuoi? — concluse, offrendogli da fumare.

— Grazie! Ti dirò che sono in un periodo di grande fecondità.

Mentre la carrozza attraversava i quartieri popolari, arrestandosi tratto tratto per l'ingombro dei tram, delle automobili, dei legni, dei carri, dei veicoli d'ogni sorta, Perez cominciò a parlare delle sue occupazioni letterarie. Scrittore di commedie prima che insegnante di lettere greche, egli adempiva con tutta coscienza l'ufficio scolastico; ma più che la cattedra lo attirava il palcoscenico, dove aveva raccolto e raccoglieva ancora i premî più ambiti. Quanti ammiravano in lui l'artista geniale, l'arguto dipintore dei costumi contemporanei, non riuscivano a spiegarsi come egli potesse essere anche un dotto cultore delle classiche discipline; in realtà, il giovane aveva sofferto d'un intimo disagio vivendo con la mente, per ragioni di studio, in tempi tanto remoti e disformi da quello nel quale era nato, del quale osservava, intendeva ed amava i caratteri, nella vita reale; ma il disagio era finito, e le due occupazioni si erano conciliate, perchè l'amore della modernità gli aveva impedito di isterilirsi nel fanatismo del passato e gli aveva fatto ricercare ed intendere nelle antiche letterature solo ciò che vi resta di veramente vivo, di eternamente giovane e fresco. Proprio in quei giorni, dopo una vivace polemica sostenuta con un Tedesco erudito e pedante, egli aveva concepito l'idea d'un saggio intorno alle «Forme letterarie fossili», e nell'esporre all'amico gli argomenti coi quali si accingeva a sostenere la propria tesi, si animava ed accalorava: piccolo, vivacissimo, tutto fuoco, roteava gli occhi e mulinava con le braccia come sostenendo un assalto contro avversarî invisibili, bucava l'aria con l'indice disteso come per trapassare da parte a parte gli autori incriminati.

— Nel mondo della creazione artistica, come nella natura vivente, le specie appariscono, vivono più o meno a lungo e poi dànno luogo ad altre più o meno diverse. Il poema e la tragedia hanno fatto il loro tempo come gl'ittiosauri e i teromorfi; sono finiti con gli elmi e gli scudi, coi manti e le corone: roba da museo. Al giorno d'oggi che i re, quelli che restano, portano il cappello a cencio e le scarpe con le gomme, e i militari si vestono di grigio per non lasciarsi scorgere da lontano, e gli eroi si trovano, quando si trovano, nel corpo dei pompieri o tra i casellanti delle strade ferrate, non vi sono altre forme possibili che il romanzo o la novella e il dramma o la commedia. Il naturalista ricostruisce con senso religioso i formidabili giganti della fauna antica, ma non nutre la folle idea di richiamarli in vita. Io m'inginocchio dinanzi a Sofocle, ma rido di chi presume mettere al mondo nuovi «Edipi». Le commedie nostre saranno benissimo semplici coccodrilli, e se vuoi umilissime lucertole a petto dei colossi antidiluviani; ma la colpa non è nostra se quegli stampi sono andati distrutti.

— E le tue commedie nuove?

— Tre, mio caro; non meno di tre: omne trinum.... E tre casi di adulterio, uno dopo l'altro! I critici e i commissarî dei concorsi governativi mi lapideranno, ma il pubblico verrà a sentire. Non dico ad applaudire. Può darsi benissimo che mi fischi di santa ragione; ma la colpa sarà stata mia, non dell'argomento. Non ne conosco altri che appassionino tanto le platee, perchè nessun altro offre una così intima associazione del comico col drammatico, e se vuoi col tragico, ma nel senso moderno della parola. La nostra civiltà ha preteso disciplinare l'indisciplinabile, quel sentimento che il mito antico, più accorto, aveva simboleggiato in un fanciullo, bendato per giunta, cioè due volte cieco, doppiamente irresponsabile. Il matrimonio, l'unione eterna e indissolubile, è il più bel tentativo di correggere la realtà, di realizzare l'ideale; ma la natura, che noi disconosciamo, si prende giuoco di noi, scombussola i nostri piani, sconvolge la nostra vita. Dico la nostra, e non la loro, della gente coniugata: perchè, sentimentalmente, la situazione è la stessa, sia nelle giuste nozze, sia negli amori liberi. Quante volte hai giurato ad una donna, con tutta la sincerità del cuore, con tutto il convincimento della volontà, che l'ami unicamente, che l'amerai sempre? E quante volte, con quanto dolore, ti sei accorto dell'inganno?

Bertini, rivoltatosi bruscamente, buttò via la sigaretta non ancora finita di fumare; poi, raddrizzatosi sul sedile incrociò le braccia e chinò il capo. Perez, senza aspettare risposta alle domande espresse non tanto per curiosità di sapere quanto per bisogno di affermare, riprese:

— La poesia ha inventato l'anima sorella, l'anima gemella, che andiamo cercando, che presto o tardi incontriamo e che allora ci prende tutti per sè; ma la natura, quando crediamo di esserci assortiti con la creatura predestinata, ce ne sospinge dinanzi, un bel giorno, a nostra insaputa, un'altra che ci piace di più, che ci par fatta per noi meglio dell'altra, che distrugge il prestigio dell'altra, che vogliamo e dobbiamo ottenere, a qualunque costo, a costo di morirne, salvo a ricrederci ancora una volta, quando ci troviamo esposti ad una terza seduzione ancora più forte, o semplicemente diversa. Sai che lo ha detto anche Napoleone: il matrimonio non è istituzione fondata su leggi di natura, e Balzac lo ha scritto in fronte alla sua «Fisiologia». La natura non vuole amori unici ed eterni; esige anzi, per il conseguimento dei suoi fini, il più gran numero di amori. Noi siamo come i germi che essa sparpaglia a milioni di milioni per l'aria, sulla terra, nelle acque, per moltiplicare le probabilità che s'incontrino e si fecondino e si schiudano in nuove forme di vita. Uomini e donne, tutti quanti siamo, nonostante i nostri codici scritti e la nostra morale intima, che altro facciamo, io ti domando, se non cercarci per sedurci, se non sfoggiare ed accrescere le nostre doti per suscitare il più gran numero di desiderî dai quali deriveranno il più gran numero di accostamenti? Perchè mai tu scolpisci le tue statue, ed io scrivo le mie commedie, e il nostro Natali dipinge i suoi quadri, e Luigi Albani compone le sue musiche, se non per abbagliare queste signore con l'aureola della gloria? E queste signore perchè mai passano metà della loro vita dalla sarta e dinanzi allo specchio, se non per fulminarci col fulgore della loro bellezza? In tutti i loro rapporti, in quelli che sembrano più innocenti, uomini e donne non fanno altro che scherzare col fuoco: la fedeltà dei mariti, delle mogli e degli amanti è un miracolo altrettanto grande quanto la preservazione di una santabarbara fra il grandinare delle granate.

— L'albergo di Francia è in questa via?

L'oratore si sentì così bruscamente interrotto nel bel mezzo dell'argomentazione da quella domanda, che per un momento rimase senza parola.

— L'albergo di Francia?... Qui siamo sul corso Vittorio Emanuele; l'albergo di Francia è nella via Cavour.

— Passiamo di là, se non ti dispiace.

— Vetturino, per via Cavour.... Ma sai che sei un bel tipo? — esclamò poi, fra crucciato e sorridente. — Mi fai sgolare senza darmi retta, e non mi narri nulla di te, delle cose tue! Perchè hai trasferito lo studio a Firenze?

— Per finire il monumento a Mazzini: te lo scrissi.

— Un tempo non potevi lavorare fuori della pace di Promonte.... Come sta tua sorella? Il dottore tuo cognato? I tuoi nipotini?

— Stanno bene, grazie.

— Che desiderio di tornare lassù! Bisogna che scriva alla signora Laura. Il tuo monumento, dalle figure che ne ho viste sui fogli illustrati, è una bellezza. So che vi hai lavorato molto; forse troppo? Sei un poco affaticato?

— Un poco.

— Si vede. Te lo volevo dire. Non sei stato sofferente?

— Un poco.

— Perchè non ti riposi? Perchè non ti fermi con noi? Ti prometto di farti divagare. Hai qui tanti ammiratori! E non poche ammiratrici, sai? Ecco l'albergo di Francia. Ferma, vetturino....

— No! no! — protestò vivacemente Bertini, trattenendo col braccio il braccio dell'amico, ed ordinando poi al cocchiere, con voce breve: — Via!

E mentre la carrozza trascorreva dinanzi alla facciata dell'albergo, vi fermò lo sguardo, rivoltandosi a guardarvi anche dopo che l'edificio fu oltrepassato.

Perez era rimasto in silenzio, non comprendendo.

— Se ti decidessi a restare — riprese poi, tanto per dire — non ti consiglierei quest'albergo, nè gli altri del centro. Sono i più frequentati dalla gente danarosa, ma c'è troppo frastuono intorno. Dovresti andare all'«Hôtel Monsalvato», sul Colle d'Elsa, a quattrocento metri sul livello della baraonda cittadina; è un incanto.

— Forse andrò in Val d'Aosta, dai Mauri.

— Ah, i Mauri! Che brava gente! Vi andrò probabilmente anche io, quest'ottobre. Sai che Aurelia è sposa?

Allora il discorso si volse sul tema degli amici comuni. Quantunque neanche ora Bertini fosse molto loquace, Perez non volle sforzarlo con osservazioni che potevano riuscire indiscrete. Serbava inappagata la curiosità di sapere che cosa lo occupasse, perchè mai avesse voluto esaminare la facciata e passare a rassegna le finestre dell'albergo di Francia. E continuò a discorrere per due, evocando i ricordi d'altri tempi; quando, giunta la carrozza sulla Gettata, in faccia al mare, Lodovico lo interruppe ancora una volta:

— Vogliamo passare dal semaforo, se non ti dispiace?

— Non mi dispiace niente affatto. Ma prima di tutto, scusa, che vuoi farvi, al semaforo? Aspetti telegrammi col telegrafo senza fili?

Un ambiguo sorriso, un sorriso veramente strano, increspò le labbra di Lodovico.

— Forse!

— E poi, perchè non l'hai detto prima? Il semaforo non è al mare, è sulla collina di San Rocco.

— Andiamo sulla collina.

— A San Rocco!

La carrozza prese un'altra direzione, e la conversazione dei due amici, o piuttosto il monologo di Perez, anch'esso. Ora lo scrittore dimostrava allo statuario, con un senso di compiacimento, l'enorme sviluppo preso dalla città industre, i quartieri sorti come per incanto sul lido orientale, verso la cinta delle vecchie fortificazioni.

— Guarda quante ville e quanti fumaioli!... Vedi quelle caserme? Sono le case degli operai: il primo tentativo di risolvere seriamente questa parte del gran problema sociale.... Un borgo marinaro sulla riva, un rione industriale dalla parte opposta: in mezzo la città vecchia che si va rinnovando! Vedi quella selva di antenne? È il porto....

— Sapranno al semaforo — domandò a un tratto Bertini — a che ora arriverà il «Senegal»?

— Ma come? — esclamò Perez, con aria di stupore. — Volevi salire fin lassù solo per questo? Ma gli arrivi dei piroscafi sono annunziati alle Messaggerie! C'è di meglio: basta passare dalla Vedetta!... Vetturino, torna indietro. Alla Vedetta marittima.

Ancora una volta la carrozza cambiò rotta. Perez restò un pezzo in silenzio aspettando che il suo compagno dicesse qualche cosa; poi, vedendolo assorto, con lo sguardo vagante per il panorama della città, domandò a bruciapelo:

— Aspetti un amico, con questo «Senegal»?

Lo stesso sorriso, sottile e falso, spuntò sulle labbra dello scultore.

— Sì!

— Chi, se è lecito?

L'interrogato non rispose subito. Mosse il capo con un breve atto d'imbarazzo, lo volse a guardare dietro di sè, esitante e sospettoso; poi, afferrata la mano di Perez, proferì:

— Lo saprai fra poco.... Non mi chieder nulla, per ora....

Il bidello non s'era ingannato: c'era qualcosa di molto strano nell'aspetto di Bertini, un pensiero molesto che corrugava la sua fronte e fermava il suo sguardo, una inquietudine che rendeva nervosi i suoi minimi gesti. Perez rispettò la preghiera; non interrogò, non disse più nulla, mentre la carrozza rotolava sordamente sull'inghiaiato della riviera Margherita, domandando solo a sè stesso da che parte del mondo veniva quel piroscafo, quale persona restituiva in Italia che stesse tanto a cuore a Lodovico. Una donna, probabilmente? La vita intima dello scultore era stata sempre molto mossa: egli aveva nutrito passioni gagliarde e tempestose. Non era più giovane, certo; doveva ormai aver varcato la quarantina. L'aveva varcata senza meno: due anni addietro, a Valsorrisa, non ne aveva annunziato l'arrivo imminente? Ma per una natura appassionata come la sua, non era ancora l'età della rinunzia; era anzi la più pericolosa. Proprio a Valsorrisa, nelle poche settimane che vi avevano trascorse insieme, non si era infiammato per la bella signora Lariani? Poco dopo, nell'autunno, era andato improvvisamente a porre il suo studio a Firenze, per finire — aveva detto — il monumento a Mazzini: verità, o non piuttosto semplice pretesto? Cominciata infatti a Promonte e destinata a Palermo, perchè mai quell'opera doveva esser compiuta proprio in Toscana? Qualche grossa novità era sopravvenuta nella vita dell'artista: nonostante il suo silenzio, Perez ne aveva pur avuto qualche sentore, aveva udito parlare di una signora, una straniera, per la quale l'amico suo doveva aver fatto una nuova passione. Forse costei aveva dovuto lasciarlo, era andata lontano, ed ora tornava a lui? Ma nel suo aspetto, nelle sue parole, non c'era la gioia, se pur trepida e ansiosa, di chi aspetta una persona cara; c'era l'inquietudine, l'ambascia, una specie di paura....

— D'ordinario, i postali dall'Africa arrivano nel pomeriggio?

L'improvvisa domanda distolse Perez dalle sue riflessioni.

— Non lo so, — rispose, comprendendo confusamente che dall'Africa Lodovico non poteva aspettare un'amante. — Ma ti caverai la curiosità fra due minuti. Stiamo per arrivare.

La carrozza si era messa al passo, per la rampa di Bevagna. Lo scultore non levava gli occhi dall'immensa distesa delle acque, liquido smeraldo sotto le balze della costa, d'un azzurro carico come inchiostro più oltre, fino all'estremo orizzonte.

— Ecco la Vedetta.

Scesero entrambi dinanzi al gabbiotto di legno dipinto di verde, con pretese da chiosco orientale. Dall'uscio socchiuso si scorgeva un cannocchiale girevole sopra un treppiedi piantato nel centro del bussolotto. Una tabellina di lavagna, sull'entrata, portava scritto col gesso: «Il piroscafo Senegal arriverà oggi alle ore 17».

Bertini, consultato l'orologio, osservò, come parlando tra sè:

— Dovrebbe essere in vista.

L'uomo di guardia rispose:

— Sissignore. Già si scorge a occhio nudo. Guardi in direzione della punta di Platania.

Lo scultore si accostò alla ringhiera che correva lungo l'orlo della balza e vi si afferrò con tutt'e due le mani sprofondando lo sguardo nella direzione indicata. Perez guardò anch'egli verso quel punto, ma non distinse nulla. Ad occidente era tutto uno sfolgorio d'oro, nel cielo dove il sole rutilava, nel mare dove l'immensa scaglia del suo riflesso si stemperava tremolando.

— Lodovico! — gridò a un tratto Perez, riportando lo sguardo verso il compagno e vedendolo talmente piegato sulla ringhiera, che un altro poco e sarebbe precipitato nell'abisso. — Lodovico, bada!... Non facciamo scherzi!...

L'altro si ritrasse, guardando gli scogli della riva sottoposta, bruni e brulli a fiore delle acque smeraldine.

— Quanto sarà alto?... — disse. — Trenta metri?... Quaranta?... Temi che non sarebbe igienico tuffarsi in mare da qui?...

Senza rilevare la lugubre facezia, Perez rispose con un'altra domanda:

— Dove vuoi andare, ora?

— Vorrei andare al porto, ma non in carrozza. Congeda il vetturino.

— Come ti piace.... Ecco fatto, — soggiunse, dopo aver pagato la corsa. — Andiamo?

Mentre la carrozza se ne tornava in città dalla parte alta, essi discesero la china. Bertini si voltava tratto tratto, guardando il mare della Platania, dove una nubecola di fumo rivelava ormai la corsa del «Senegal». Perez restò ancora un poco senza dir nulla; a un tratto, prendendo il braccio dell'amico, con voce di dolce rimprovero, esclamò, piano:

— Allora, senti, io non crederò più che tu sia venuto per i miei begli occhi!... — E ancora più piano, con tono di affettuosa confidenza: — Chi aspetti?... Che hai?...

Bertini si fermò, si tolse il cappello passandosi la destra sulla fronte, se lo ripose in capo con un gesto brusco, poi disse:

— No, Domenico; non sono venuto per te.... Sono venuto da te perchè non posso sentirmi solo, in quest'ora d'angoscia; perchè ho bisogno di udire una voce fraterna, di appoggiarmi ad un braccio sicuro....

— Eccomi qua!... — esclamò Perez, chinandosi verso di lui, offrendogli il braccio, che egli prese un momento e poi lasciò. — Che posso fare per alleviare la tua pena? Non dirmene nulla, se ti costa....

— Mi costa tacere!... Ho bisogno di gridare!... Perdonami se non ti ho dato retta.... Ma ti ho udito bene, sai! Certe tue proposizioni mi hanno fatto fremere, tanto parevano dette per me: tutto quanto hai enunziato, a proposito dei tuoi lavori, intorno all'amore, al matrimonio, all'adulterio....

Pronunziò questi nomi con voce vibrante, stridente, quasi acre, come se gli scottassero le labbra; poi, dopo una pausa, più tranquillamente, ma anche più dolorosamente:

— No, che non c'è differenza, quando si ama, fra le unioni che il mondo giudica libere, e quelle che sanziona con le sue leggi! Quando pare che nessuna legge ci governi, il cuore impone le sue, e sono le più ferree.... Guarda, — soggiunse sopra un altro tono, esitando, fermandosi, rivoltandosi verso l'amico: — Guarda.... come farò a spiegarti la situazione in cui mi trovo?... C'è una donna che m'appartiene, perchè si è data a me, perchè mi sono dato a lei, perchè ci amiamo, perchè tale è la sua e la mia volontà: va bene?... Ora questa donna, mia da tre anni oramai, il cui possesso io mi sono assicurato con la fedeltà più cieca e l'adorazione più devota, che mi è rimasta anche lei fedele strenuamente, sinceramente; questa donna, oggi, stasera, fra qualche ora mi tradirà. Fra poco, prima di notte, quando sarà giunto il «Senegal», questa donna cadrà fra le braccia di un altro, all'albergo di Francia: capisci? Io sono qui per vedere arrivare questo «Senegal», per passare sotto le finestre di questo albergo dove l'infamia sarà consumata. Nè io, nè tu, nè alcuno può nulla per impedirlo: nulla, capisci? Io posso fare una cosa sola, quella che tu m'hai consigliata: restarmene qui, fino a domani. Questo sì, posso farlo. Posso scendere, anzi, all'albergo di Francia, precisamente; cercare anzi di avere una camera attigua alla loro, passare la notte lì, dietro l'uscio che ci dividerà. Eccolo, quel che posso fare, se tu persisti a trattenermi!

Perez non disse verbo, turbato dall'espressione quasi iraconda con la quale Lodovico aveva proferito le ultime parole. La conferma, improvvisamente ottenuta, delle sue supposizioni intorno alla natura tutta sentimentale delle inquietudini dell'amico non gli procurava il più piccolo compiacimento per la propria perspicacia, tanto il caso si rivelava grave. Molte domande gli salivano alle labbra: «Perchè ti tradisce?... Non t'ama più?... Vi siete lasciati?... Chi arriva col «Senegal»?...» ma l'altro non gli diede il tempo di formularle. Facendoglisi accosto con un nuovo moto di confidenza, riprendendo a parlare con voce ancora grossa, ma più pacata, riprese:

— Capisci ora perchè me ne vado? Capisci che stanotte non posso restar qui, che ho bisogno di sentirmi portar via, non importa dove, col treno più rapido che mi trascini il più lontano possibile? — E ad un moto di Perez, che si era rivoltato per interromperlo: — Che cosa vorresti dirmi? Che debbo rassegnarmi, se non c'è da far nulla? Eh, lo vedi: mi rassegno!... Hai temuto che volessi buttarmi in mare?... Non aver paura!... Non sarei venuto a cercarti, se avessi voluto spiccare il salto!... Non ho armi addosso: prova un po'; non sono venuto per ammazzare nessuno.... Niente ammazzamenti, se anche quella donna fosse mia moglie.... Noi non siamo di quelli che ammazzano, nè le mogli nè le amanti, è vero?... Perchè si ammazzano anche le amanti, è vero? non le sole mogli!... Ah, come hai ben detto che non c'è nessuna differenza, per il sentimento, fra l'unione libera e il matrimonio! Se questa donna fosse mia moglie, io non potrei infrangere il vincolo coniugale in un paese come il nostro che non ammette il divorzio; potrei infrangerlo altrove; ma divorziato o separato, forse che soffrirei più di quanto soffro adesso, per aver perduta la creatura che fu mia, che volevo mia?... Se fosse mia moglie, vedi, e sapessi che oggi, qui, in quest'albergo, ella avesse un convegno con un altro uomo.... se fosse mia moglie, ecco, non potendo assassinare nè lei nè lui, non dovendo ammazzarmi, non volendo chiamare un commissario e due guardie che frenerebbero le risa accertando la mia disgrazia, qual altra cosa potrei fare, se non quella che faccio: spiare l'arrivo dell'uomo che viene a portarmela via, aggirarmi per i luoghi del loro incontro, immaginare, antivedere, non veder altro con gli occhi della mente fuorchè i loro abbracciamenti, e quando l'infamia starà per compiersi fuggire, fuggire, fuggire?...

— No, scusa! — proruppe finalmente Perez, non appena la voce di Bertini perdette qualche cosa della sua veemenza; — scusa, non crederò mai che, marito o amante, un uomo nella tua condizione non possa far altro! Come hai scoperto che sta per tradirti?

— Non l'ho scoperto! Me l'ha detto lei stessa!

— E tu non hai parlato, non hai pregato, non hai ingiunto, non sei riuscito a trattenerla? E chi è costui che viene dagli antipodi a portartela via? Un tuo predecessore, naturalmente? Un primo amante a cui ora ritorna? No?... Ma non l'avrà mica sedotta per lettera o per mezzo degli annunzî economici di qualche giornale! La conosce? Come la conosce?

Lodovico si voltò a guardarlo, con espressione di stupore e d'impazienza, quasi non potendo spiegarsi come mai l'amico non comprendesse.

— È suo marito.

Perez ammutolì. Avrebbe voluto domandare: «Perchè non l'hai detto prima? Perchè non l'hai detto subito? Come potevo sospettarlo, se parlavi della possibilità che fosse tua moglie?...» Gli pareva che il narratore fosse stato reticente, che avesse posto una specie di studio nel mantenere, nel prolungare l'equivoco. Ma non si sentiva di rimproverarlo, vedendolo tanto eccitato, in preda ad un così angoscioso tormento.

— Ah, suo marito!... — ripetè soltanto, sommessamente, meccanicamente, dopo che entrambi ebbero mossi lunghi passi senza dire una sillaba. — E tu non lo conosci? — soggiunse dopo un altro silenzio.

— Non lo conosco, non credetti neppure che esistesse, quando la incontrai. Era un marito così lontano, invisibile, introvabile! Viveva nell'Africa australe, in uno Stato nuovo, mezzo barbaro, quasi selvaggio, lo Stato libero della Stanlesia, dove era andato ad ordinare l'esercito, lasciando quello inglese, a cui prima apparteneva. Mi parve sul principio che un marito di questa fatta fosse un personaggio da pochade, inventato per coonestare una situazione illegale, per attribuire un padre putativo a creature innocenti....

— Vi sono figli?

— Ve ne sono due, ma il più grandicello era ed è in collegio a Calcutta; io ne conobbi uno solo, il piccolino che ella aveva seco.

— A Valsorrisa? — domandò rapidamente Perez, ripensando alla Lariani, che Lodovico aveva corteggiata lassù.

— A Valsorrisa: te ne rammenti?

— E come! La signora Rosanna Lariani?

— Lei.... — confermò il dolente, così piano che Perez comprese piuttosto dal moto del capo che dal suono della parola.

— È dunque lei la straniera di cui mi avevano parlato!... Sarà certamente più conosciuta col nome del marito?...

— Harrington, sì.

— Ma, in verità, allora non mi parve....

— Tu andasti via troppo presto, — riprese il narratore, senza lasciargli esprimere il suo pensiero; — partisti pochi giorni dopo il suo arrivo, non sapesti quel che seppi di lei, da lei stessa. Nessuno la conosceva. Mi narrò la storia complicata del suo matrimonio con questo capitano inglese, diventato di botto colonnello nella Stanlesia, dove ella aveva seguito il padre, ingegnere italiano emigrato anche lui per cercare lavoro nelle miniere di laggiù, ai primi tempi della costituzione di quello Stato.... Nessuno la conosceva a Valsorrisa; nessuno poteva confermare o smentire quella narrazione, il romanzesco episodio del loro incontro sotto la tenda, mentre il padre di lei agonizzava, assassinato da un minatore cinese; il cavalleresco aiuto offertole dal colonnello in quella terribile circostanza, la salvezza che il matrimonio propostole ed accettato era stata per lei, orfana e sola in mezzo ad un mondo ignoto ed ostile. Dovevo credere che ella avesse lasciato questo marito laggiù a causa del clima? Che costui si contentasse di vederla durante i pochi mesi di permesso che quel Governo gli accordava ogni quattro anni?... Chi ha conosciute donne italiane che hanno sposato ufficiali inglesi al servizio della Stanlesia, e che se ne rimangono in Europa, andando e venendo dall'Inghilterra in Italia e dall'Italia in Inghilterra, vagabondando per le stazioni climatiche, senz'altra compagnia tranne quella di un bambino?... Ma sì, ma sì: vi fu un momento in cui credetti di aver da fare con un'avventuriera! Non mi costa dirti la nuda e cruda verità, dopo averla detta tale e quale a lei stessa!... Ella mi diede la prova del mio inganno, ed il rimorso degl'ingiuriosi sospetti cominciò a stringermi a lei. Prima era stato desiderio, appetito, ammirazione professionale per la sua bellezza statuaria. Poi fu stupore e fascino per la singolarità della sua persona morale. Hai mai sognato di trovare una donna a cui poter dire tutto, capace di comprendere tutto, di scusare le tue debolezze, di perdonare i tuoi difetti, di ammettere la fatalità delle tue colpe, di amarti nonostante le tue infamie? Una donna che si mostri a te come tu ti mostri a lei, senza veli, fino all'ultimo fondo del cervello e del cuore? Dev'esser proprio vero che la parola ci fu data per nascondere i nostri pensieri, tante sono le menzogne piccole e grandi che andiamo spacciando, anche quando crediamo di essere più sinceri, per apparire più belli, più leali, più generosi, più amabili. Sì, lo hai detto: noi lavoriamo continuamente all'opera di seduzione; ma non soltanto con gli sforzi dell'ingegno e gli artifizî della toletta; ma anche, e più, con la mascherata del sentimento. Ed hai mai pensato che forse solo gli amanti criminali, le coppie delle prostitute e degli assassini si conoscono quali sono realmente? Noi, nella nostra società timorata e pudibonda, c'incontriamo, ci uniamo, restiamo più o meno a lungo congiunti, e ci lasciamo conoscendoci meno di prima. Nessuno riesce a leggere nell'altro, perchè ciascuno si studia di nascondersi. Quando il grave abito della menzogna ci opprime, quando vorremmo buttarlo via, la paura di scoprirci dinanzi a chi resta protetto, di disarmarci dinanzi a chi resta agguerrito, ci fa sopportare la maschera della finzione, la cappa dell'ipocrisia. Ora, con questa donna, dopo quarant'anni di bugie dette alle altre ed a me stesso, io ho potuto essere finalmente sincero. Più che con lei, con me stesso. Ora, questa volta, la prima volta, ho visto un'anima nuda. E non credere che te ne voglia tessere l'elogio, da innamorato, da cieco. Ho visto le sue bruttezze, sai, e non sono poche. Ma forse ella non ne è responsabile; forse la vita dura, un'esperienza precoce, infinitamente rara alla sua età e nel suo sesso, l'ha fatta così. Non è una scuola di idealità lo spettacolo della lotta per l'esistenza, tra la schiuma della emigrazione europea in Africa, nelle miniere della Stanlesia, con la febbre dell'oro, la follia delle ricchezze, la cecità della fortuna, lo scatenamento di tutti gl'istinti peggiori. Forse ella sarebbe stata un'altra, se non avesse perduto bambina la mamma sua, se il padre non l'avesse condotta seco laggiù, se non fosse vissuta in mezzo ad una natura primitiva e ad una umanità imbestialita, se non avesse dovuto difendersi armata mano contro la concupiscenza di qualcuno, che non potendo comprarla con un pugno di diamanti, tentava di sottoporla per forza di muscoli.... E poi, quand'anche ella portasse dalla nascita i suoi difetti, potrei io esser severo con lei dopo averle rivelato la feccia del mio pensiero e del mio sentimento? Io e tu e tutti quanti siamo, non abbiamo i nostri torti ed i nostri vizî? Una bellezza rara e divina riscatta i suoi: la schiettezza, la sincerità, la semplicità con le quali si è svelata....

La passione vibrava, tremava, fremeva nella voce di Lodovico, lo traeva fuori del filo del ragionamento: nè Perez diceva nulla per rimetterlo in carreggiata, vinto dal calore di quella parola, preso dall'interesse di quella confessione.

— Ma che volevo dirti? — esclamò lo stesso confidente, arrestandosi, come non ritrovandosi più, come sovvenendosi di qualche cosa dimenticata. — Ah, questo: che anche quando l'evidenza mi costrinse ad ammettere l'esistenza del marito, io non lo conobbi, non vidi com'era fatto, lo seppi assente, lontano, in un'altra parte del mondo, dove ella non sarebbe mai più andata, di dove egli forse sarebbe tornato, ma non si sapeva quando, tardi certamente, non prima di tre anni, forse quando l'amor mio per lei sarebbe finito — poichè io le dichiaravo che sarebbe finito! ed ella lo sapeva! come sapeva e dichiarava che sarebbe finito il suo per me! Quando ti dico che abbiamo rinunziato alle finzioni, che abbiamo guardato in faccia la realtà, la più triste, la più dolorosa, la più malvagia! Ma vedi: la verità è salutare. Noi andiamo continuamente giurando che ogni nostro amore è eterno, perchè questo giuramento ci è richiesto, perchè noi stessi crediamo di far bella figura dichiarandoci capaci di amare eternamente. Ma ogni volta che giuri, nello stesso preciso momento che le parole solenni ti escono dalle labbra, sentendo dentro di te che giuri il falso, che prometti l'impossibile, un senso di fastidio, un impeto di ribellione non comincia a menomare l'amor tuo? Con lei, con questa donna, ammettendo entrambi l'amara verità, riconoscendo che l'amor nostro, che ogni amore è mortale, io mi sono sentito invece come dinanzi a una creatura cara i cui giorni sono contati, per la quale daremmo tutto il nostro sangue, alla quale ci afferriamo con l'ardore della disperazione. Ora, vedi, in questa trepidazione dell'anima, in questo terrore di poterla perdere, di doverla perdere, ecco, un bel giorno una lettera dall'Africa annunzia che suo marito s'imbarca, che fra un mese sarà di ritorno con l'altro figlio. Oggi, vedi, egli arriva; ed ella è venuta naturalmente ad incontrarlo, perchè questo è il suo piacere, di lui; perchè questo è il dovere di lei, e perchè io non ho il diritto di impedirlo. Io non posso impedir nulla, perchè una volta, quando si parlò, ipoteticamente, della possibilità che ella fosse libera, le dissi che non l'avrei sposata, ed ella mi fu grata della mia schiettezza. No, ella non può sottrarsi per me a quest'uomo che le ha dato il suo nome, i suoi figli, che le dà l'agiatezza della vita, la sicurezza del domani; ma quando riconosco questa necessità, quando penso che ella doveva pure un giorno o l'altro essermi portata via, allora immagino anche che cosa accadrà di lei, oggi stesso, dal momento che sarà ricongiunta a quell'uomo; e allora, no, non voglio che un altro me la prenda! Che m'importa se è suo marito? Perchè è suo marito non deve farmi nulla che me la porti via?

— Vi sono molti.... — fece per dire Perez; ma l'infervorato gli troncò la frase sulle labbra, riprendendo con nuovo impeto:

— Lo so, lo so, vi sono molti, vi sono tanti che non ne soffrirebbero, che si compiacerebbero anzi pensando: «In fin dei conti, questa donna io stesso l'ho portata via al suo possessore legittimo». Bravo! Lo so! Ma perchè potessi acquetarmi a questo pensiero, come ci acqueta ordinariamente, bisognava averla conosciuta nelle circostanze ordinarie, insieme con l'uomo a cui appartiene. Quando tu t'innamori della donna d'un altro, cominci col vedere costui al suo fianco, lo hai già visto prima d'innamorarti, lo hai udito chiamarla per nome, dirle parole dolci, trattarla come cosa propria: tu non puoi dunque dolerti di questa condizione preesistente, conosciuta ed inevitabile. Puoi soffrire, più tardi, quando quella creatura è tua, perchè non è tutta tua; ma ti rassegni, naturalmente; non ti costa troppo rinunziare al possesso esclusivo, ad un bene impossibile, che immagini soltanto, che non hai provato. E allora il pensiero egoista, il sentimento volgare, il compiacimento del ladro che ride del derubato, ti è di conforto; allora tu pensi che se un altro, esercitando il suo diritto di proprietà, t'impedisce d'avere tutta per te la creatura amata, tu lo punisci, ti vendichi, ingannandolo, portandogli via una parte del suo bene. Ma io, pensa, io non le ho visto mai nessuno d'intorno, non ho neppur creduto sulle prime che fosse d'un altro, e quando l'ho dovuto ammettere, ho saputo che costui era lontano, enormemente, in un paese quasi favoloso, ubi sunt leones. Io non posso persuadermi d'averla portata via a nessuno, se l'ho trovata sola, abbandonata a sè stessa, padrona delle sue mosse, se non ho dovuto nascondermi da nessuno, se ho dovuto trionfare della sua resistenza soltanto. Che ella appartenesse ad un altro, non è stato mai per me un fatto presente, visibile, tangibile: è stata una cosa perduta nel passato e nel futuro, nel tempo lontano del suo matrimonio, quando non la conoscevo ancora, in quello di là da venire della loro riunione. La sola cosa presente, visibile, tangibile, è stato il mio possesso. Io ho avuto questa donna per me, ti dico; tutta, per me solo, due anni; io sono andato a stabilirmi a Firenze per averla accanto, per lavorare a riprodurre la sua forma divina. Attraversavo una crisi terribile, col cuore vuoto ed il cervello esausto; non sapevo fare più nulla, mi sentivo vecchio ed inutile, avevo un cimitero dentro di me e la morte dinanzi. Non credevo mai più di finire il monumento a Mazzini; covavo da anni un germe d'idea per la statua dell'«Azione» senza potergli dare il grado di calore necessario perchè si schiudesse, senza trovare il modello che incarnasse il tipo immaginato. Ella è stata la mia ispirazione, mi ha ridato la fiducia, l'energia, tutta una nuova giovinezza. L'«Azione», è lei; la «Diana» dell'esposizione di Venezia è lei, la «Valchiria» di Monaco è lei, la «Forza» e la «Volontà» del monumento a Bismarck per il concorso internazionale di Amburgo sono lei; tutti questi corpi di donna robusti ed agili, tutte queste membra possenti e delicate, tutte le purezze di queste fronti, tutti gli slanci di questi atteggiamenti sono suoi, di lei. La natura e la vita l'hanno fatta così, nel corpo e nell'anima, forte e soave, superba e gentile; così come l'ho vista, io l'ho riprodotta ed eternata nel marmo e nel bronzo. Queste sono cose visibili e tangibili, che non ammettono dubbie interpretazioni. Questo è il fondamento dei miei diritti su lei e dei suoi su me stesso. Suo marito? Che importa se colui che sta per arrivare è suo marito? Marito, amante, è un altro a cui io non posso disputarla, a cui ella va ad offrirsi. Marito, amante: che cosa significano queste parole? Che valore hanno queste convenzioni? Il marito sono io, sono stato io, quando ho colmato la sua solitudine, quando ho condiviso la sua vita, quando ho palpitato e gioito e sofferto e creato per lei; l'amante, il rivale, il ladro, è lui che viene a rubarmela!...

— Ma lei? — domandò finalmente Perez, che non aveva più tentato di interromperlo, rispettoso della sua ambascia; — ma lei, con che cuore gli va incontro? Se t'ama ancora, se va a lui per semplice dovere, di che ti lagni?

— Ah, sì: di che mi lagno! Se mi ama ancora, dovrebbe bastarmi, non dovrei chieder altro! Perchè indagare quale specie di dovere, quale gradazione di sentimento, quale sfumatura di affetto la lega a lui? È una curiosità indiscreta, va bene? Ma se capisco, se vedo, se sento che egli non esercita un semplice diritto legale, riprendendola; che vanta diritti anche sul cuore di lei?... Quando tu ami le donne d'altri, lo sai che cosa ti induce a sopportare di non averle tutte per te? Oltre all'impossibilità d'evitare il possesso promiscuo, ti piega e ti placa la fiducia che esse ti ispirano, assicurandoti d'amare te soltanto, di provare antipatia, ripugnanza, disprezzo e ribrezzo per l'altro. Molte volte tu hai per l'appunto trionfato perchè hai trovato donne la cui anima è stata offesa, il cui corpo è stato profanato, la cui vita è stata spezzata da mariti brutali, indegni, malvagi. Che sentimento di gelosia puoi tu concepire per opera di costoro, ai quali le creature dolorose si sottopongono perchè non possono fare altrimenti, perchè una stolta legge sancisce l'iniqua necessità? Agguagliate a semplici cose, a proprietà materiali, private dell'esercizio della volontà e della libertà, esse sono sopraffatte nello stato d'inerzia, d'incoscienza, di sorda e cupa e disperata ribellione: tu non puoi provare gelosia, ma ira, sdegno e pietà. Lo so: qualche altra volta ti hanno mentito, giurandoti di amare te soltanto, di restar fredde e insensibili fra le braccia dell'altro; ma non ti sei accorto della menzogna, l'hai creduta perchè ti giovava crederla, e te ne sei compiaciuto e inorgoglito. Io sono dinanzi a una creatura a cui ho chiesto, da cui ho ottenuto sempre e soltanto la verità. Non solamente ella non mi ha detto che detesta suo marito, ma mi ha confessato di amarlo. Di amarlo, ti dico, e non sarai tu quello che ti stupirai perchè ci ama entrambi. Tu sai le complicazioni reali del cuore, così diverse dalla schematica semplicità che gli attribuisce la convenzione, la presunzione, l'ipocrisia. Lo ama, d'un amore senza dubbio diverso dal mio: ma che importa? Che consolazione me ne può venire? Io ho dovuto udire l'elogio di suo marito, per l'affetto profondo che le porta, per le prove che gliene ha date e gliene dà, per la condiscendenza con cui, nonostante il suo orgoglio britannico, ha lasciato che uno dei figli, il più piccolo, sia da lei educato in Italia, all'italiana; per la fedeltà che le serba, laggiù, nella Stanlesia, non ostante la facilità di avere quante donne gli piacerebbero.... Allora, sì, ho pensato che la menzogna ha del buono, che la verità è talvolta insopportabile. Ma ella non è donna da mentire nè da disdirsi. La sua volontà è forte, tenace, ostinata. Come dice ciò che pensa, così fa ciò che vuole. Le ho chiesto almeno una cosa, una sola: di non venire fin qui ad incontrarlo, di aspettarlo a casa, a Firenze. Non potendo impedire che egli ve la raggiungesse, mi sarei rassegnato per forza; all'idea che ella stessa si movesse per andare ad offrirglisi mi ribellavo. Ella ha detto di no, che non può, che ha promesso, che ha fatto così tutte le altre volte, prima di me; che io pretendo troppo, ciò che non può darmi, l'assurdo: ed eccomi qui per assistere al loro incontro, in queste condizioni, con queste certezze: capisci ora, capisci?....

Egli gridò le ultime parole; a un tratto, guardandosi intorno, come uscendo da un sogno, domandò ansiosamente:

— Dove siamo? Che ora è?

Anche Perez volse intorno lo sguardo. Entrambi avevano smarrito la nozione del luogo e del tempo; lo sfondo del paesaggio, giù per il vallone della Marcia, più oltre fino alla riviera delle Palme, era sfilato loro dinanzi senza che lo riconoscessero; ora si ritrovavano nel rione di Mezzo, dove la folla, il movimento della città ricominciavano a circondarli.

— Sono le quattro e un quarto, — disse Perez.

— Le quattro e un quarto!... Via, al porto!... Sarà troppo tardi!...

Perez lo seguì senza dir nulla. Fu sul punto di proporgli di cercare un'altra carrozza, ma poi pensò che avrebbero fatto più presto a piedi, prima di andare alla stazione più vicina. Lodovico, con l'ansia che lo sospingeva, col suo lungo passo, lo sopravvanzava; tratto tratto si rivoltava bensì, ma per domandargli, senza fermarsi: «Dove siamo?... Quanto manca ancora?... A destra o a sinistra?...» E Perez gli dava le indicazioni richieste, affrettandosi anch'egli, quantunque la ragione gli suggerisse di opporsi al disegno dell'appassionato, di trascinarlo altrove per impedirgli di assistere a quell'incontro. Ma la certezza che ogni tentativo sarebbe riuscito vano, che Lodovico sarebbe andato solo se egli avesse rifiutato di accompagnarlo, gli chiudeva la bocca. Un senso di curiosità, anche, il bisogno istintivo di sapere qualche altra cosa, di conoscere altre circostanze dell'avventura, di indagare le intenzioni dell'amico, lo tratteneva. Quali accordi avevano presi gli amanti? Quel marito che veniva dalla Stanlesia in Europa a così rari intervalli, quanto sarebbe rimasto presso la moglie? Presto o tardi non sarebbe ripartito?...

— Torna per sempre? — non potè trattenersi dal domandare, quando il dubbio gli si affacciò.

Parve che la domanda traesse troppo violentemente il cogitabondo dai suoi pensieri e gli riuscisse incomprensibile; perchè, volgendosi di scatto, rispose:

— Chi? — Poi, senza aspettare la spiegazione, riprendendo la via, soggiunse: — Non so. Andrà a Londra.

— Solo, o con lei?

— Non so. A destra?

— A destra. Allora, quando la rivedrai?

— Quando le piacerà. Mi ha imposto di non lasciarmi vedere finchè sarà con lui.

— Ha ragione!

— Di allontanarmi da Firenze, di andarmene a Promonte, dai miei, finchè non mi richiamerà lei stessa.

— È prudenza. E tu cominci a disubbidirle troppo presto, seguendola fin qui!

— No! — replicò con forza. — Questo l'ho ottenuto! Questo l'ho messo come patto!

— Perchè?

— Perchè così! Non si arriva mai?

— Ci siamo.

Oltrepassata la riviera, erano giunti dinanzi al porto, infatti; ma Perez sostò, esitante.

— Bisogna sapere a quale calata dirigerci.

Guardandosi intorno vide un gruppo di scaricatori di carbone, con le labbra rosseggianti e gli occhi lucenti sulle facce da negri.

— Dove si attracca il «Senegal»?

— Al ponte della Boa.

— Grazie!

Ripresero la via, e il ponte apparve, oltre la strada ferrata, sbarrato da una cancellata, ingombro in fondo dalla folla che aspettava l'arrivo del piroscafo. Perez vide che il cancello era chiuso, che un gruppo di tre o quattro persone parlamentavano col doganiere posto a guardia dell'entrata. Lodovico doveva aver veduto anch'egli, perchè affrettò ancora il passo, procedendo verso il cancello che si schiudeva in quel punto.

— Dove va? Non si può!... — disse la guardia, arrestandolo con un gesto della mano, dopo aver lasciato passare gli altri.

— Perchè? Quei signori sono pure entrati!...

— Ha il permesso? Occorre il permesso della Capitaneria.

— Dov'è questa Capitaneria?

Ma un fischio lungo e rauco lo fece rivolgere: la prora del piroscafo spuntava dietro la fila dei legni all'àncora, tutto il corpo della nave si veniva avanzando, a piccolo moto.

— Non siamo più a tempo.... Lasciateci passare.... Che vi fa?

— Non si può.

— Ma lasciateci passare, vi dico!...

Il tono della voce, l'espressione del viso impaurirono Perez. Fece per intervenire, ma già Lodovico, visto un graduato sopraggiungere, gli si accostava dicendo, con altro tono, di preghiera, quasi di supplicazione:

— Senta, brigadiere.... Non abbiamo avuto il tempo di fornirci di permesso.... Aspettiamo persone care.... Ci consenta di entrare....

Il graduato rivolse alla guardia un cenno d'assenso: i due amici penetrarono nel recinto. Per un lungo tratto esso era sgombro; la folla si stringeva in fondo, contro la seconda cancellata. Vi era gente d'ogni grado ed età, signori, popolani, contadini, marinai, donne, vecchi, bambini, facchini coi carretti pronti per lo sbarco dei bagagli, emigranti seduti sulle casse e sui sacchi delle povere masserizie, dame riparate dal sole sotto le cupolette dei variopinti ombrellini. Perez vide Lodovico fermarsi a un tratto, trasalendo.

— Che hai?

— Eccola. Taci.

Seguendo lo sguardo dell'amico egli scorse una signora vestita tutta di bianco, col cappello rosso e l'ombrellino dello stesso colore. Quasi avvertita da un senso magnetico, ella si volse verso i due sopravvenuti, ma non un muscolo del suo viso si contrasse, non il più piccolo moto la tradì. Perez riconobbe subito la figura ammirata a Valsorrisa, due anni addietro: meravigliosamente bella nel corpo e nel viso, alta e flessuosa come Diana, come la Valchiria, con un prezioso volume di bionde chiome lucenti sulla nuca e sulla fronte, dove, come in tutto il viso, il riflesso dell'ala del cappello e dell'ombrellino diffondeva un chiaror caldo di fiamma. Dopo avere rivolto ai due amici lo sguardo inespressivo e quasi cieco con cui si guardano gli sconosciuti, ella si voltò verso una donna che le stava da presso tenendo per mano un bambino: la governante ed il figlio. Chinatasi a dire qualche cosa al fanciullo, si raddrizzò, tornò a rivoltarsi verso il piroscafo. La massa enorme del «Senegal» si avanzava ancora più lentamente, di fianco; si udivano i fischi del comando, si vedeva a prora il gruppo dei marinai pronti alla manovra dell'àncora, dominati dall'ufficiale che faceva cenni verso la plancia. La barca del pilota, con la stessa bandiera azzurra e stellata che sventolava all'albero maestro della nave, la precedeva guidandola; a un nuovo fischio, a un ordine: «Mòlla!» l'àncora si staccò dal fianco possente, scivolò col fragore delle ferree catene, precipitò in mare sollevando una nappa di spuma. Tutt'intorno, dalle murate dei piroscafi attraccati, marinai e passeggeri seguivano curiosamente la manovra; la folla era densa a bordo d'un grosso transatlantico tedesco, il «Braunschweig», che aveva issato la bandiera di partenza, e le cui gru stridevano tirando a bordo balle e bauli, e per le cui scale era un continuo andirivieni. Più fitto ancora era il formicolio a bordo del «Senegal», e dalla riva alla nave, come dalla nave alla riva, gli avidi sguardi degli arrivanti e degli aspettanti si cercavano, si incrociavano, e già qualche fazzoletto sventolava, ai primi riconoscimenti. Con la macchina ormai ferma, per la sola forza acquisita, il «Senegal» si avanzò ancora un poco, girò su sè stesso mentre la barca del pilota portava a terra, alle prese d'ormeggio, le gomene che i marinai vi annodavano; poi gli argani stridettero tesandole, e la nave si dispose lungo la calata. La folla si rimescolò, ciascuno percorse la banchina in su e in giù, cercando di avvicinarsi il più possibile alle persone care, chiamandole per nome, e saluti e notizie brevi cominciarono a scambiarsi. Nei movimenti confusi di quella massa di persone lo sguardo di Lodovico seguiva intento ed ardente la cupoletta dell'ombrellino rosso, ed anche Perez non la perdeva d'occhio, cercando di scoprire in mezzo ai passeggeri affacciati dal ponte della prima classe chi fosse l'aspettato da quella donna. A un tratto l'ombrellino si abbassò e rialzò due o tre volte, come una bandiera, in segno di saluto, e dal piroscafo, dall'angolo della scala, un uomo rispose con un gesto del braccio, ed un giovinetto che gli stava a fianco agitò festosamente il fazzoletto. Perez sentì afferrarsi la mano come dentro una morsa e udì la voce rauca dell'amico esclamare:

— Eccolo.... È lui!

Liberato dalla stretta, egli considerò attentamente quell'uomo. Era alto e robusto, con un petto largo su cui la folta barba castana appena brizzolata si diffondeva a ventaglio; aveva un nobile portamento; tutta la persona rigidamente composta nel costume da viaggio, con la tunica a cintola, i calzoni corti, le gambe strette dalle lunghe uose, rivelava l'abito del comando, la professione marziale. Fermo contro la murata, non si sporgeva, portava soltanto la mano all'orecchio per cogliere le parole che la moglie ed il figlioletto gli rivolgevano dalla riva, e rispondeva con qualche monosillabo, od a brevi cenni del capo e della mano, mentre l'adolescente che era seco, un collegiale di forse dieci anni, gridava saluti e domande al fratellino ed alla madre. Costei, addossata ad una presa d'ormeggio, riparata contro il sole dall'ombrellino appoggiato alla spalla, non si rivoltava, pareva non sospettasse neppure la presenza dei due amici, dell'amante, e Perez era talmente compreso dall'ambascia di quest'ultimo, che temeva di doverla vedere da un momento all'altro prorompere. Con le mascelle contratte, coi pugni chiusi, Lodovico guardava così fiso il nuovo arrivato, che costui avrebbe finito con l'accorgersene; ed ecco: già pareva a Perez che se ne fosse accorto, che volgesse su loro uno sguardo inquieto e sospettoso.

— Moviamoci.... Vieni da questa parte.... — propose all'amico, trascinandolo qualche passo più lontano, guardando qua e là sul ponte del piroscafo, per darsi un contegno, per fingere di cercare qualcuno tra i passeggeri, impaziente di uscire da quella situazione pericolosa; ma a bordo, compiute le operazioni di ormeggio, abbassati i pontili, i viaggiatori che tentavano di scendere erano trattenuti dai marinai di guardia alle scale, per lasciar libero il passo ai facchini. I bagagli avevano la precedenza su gli uomini, e fremiti d'impazienza e sospiri d'ansia passavano tra i circostanti, mentre sfilavano i bauli di tutte le fogge e grandezze, le casse, le valigie, le scatole, i cesti, le cappelliere. Le creature umane anelanti di riabbracciarsi dopo separazioni lunghe e crudeli erano ancora costrette a guardarsi da lontano, a farsi cenno con la mano, a soffocare l'impeto degli affetti; nè tutte le anime erano in festa; si vedevano molti con gli occhi arrossati al pensiero di dover partecipare o ricevere le nuove delle sciagure sopravvenute, dei disinganni patiti nel tempo della solitudine. Un gruppo di donne, anziane, giovani e adolescenti, tutte egualmente vestite di lutto greve, piangevano silenziosamente, evitando di guardarsi, senza guardar neppure verso la nave: certo, essa non recava loro la persona diletta, perduta lontano, di là dai mari, ma fredde e inerti reliquie. A bordo i viaggiatori, affratellati dalla convivenza, si salutavano commossi sul punto di disperdersi per il vasto mondo senza probabilità di mai più rivedersi, e l'enorme casa galleggiante continuava a vuotarsi delle sue masserizie, pareva destinata a spopolarsi, come un luogo infausto, colpito dalla sciagura. Un baule stretto e lungo come un feretro era tratto fuori da due uomini che lo reggevano dai due capi, e Perez sentiva il contagio di quella tristezza diffusa tutt'intorno, del dramma che martoriava il cuore dell'amico suo, che doveva certamente turbare quello della donna; quando a un tratto i suoni fragorosi e giocondi d'una fanfara squillarono: la musica del «Braunschweig», nel punto che l'enorme nave stava per salpare, intonava una marcia militare, quasi a stordire le altre anime più afflitte degli espatrianti che trascinava verso l'ignoto, forse verso la morte, strappandoli ai congiunti lacrimosi sulla riva materna.

— Quando finiranno? — esclamò lo scrittore, irritato da quei suoni, smanioso ormai di andar via; ma Lodovico non rispose. Non rompeva il silenzio dal momento che aveva riconosciuto il marito, e i suoi sguardi non lasciavano la figura di quell'uomo, sempre immobile accanto al figlio, se non per rivolgersi verso il punto dove la fiamma dell'ombrellino rivelava la presenza della donna accanto all'altra creaturina. Ma egli non si esponeva più come prima, si ritraeva anzi, studiava di nascondersi dietro gli altri spettatori; e non già per la prudenza consigliata da Perez, bensì per un improvviso impaccio, per un senso di timidezza e quasi d'umiliazione sorto dapprima confusamente nell'anima sua, poi cresciuto e divenuto insopportabile. Tutti i diritti poc'anzi vantati nel narrare la sua storia, tutte le ragioni addotte per dimostrare all'amico ed a sè stesso che quella donna gli apparteneva, si rivelavano ora arbitrarî e sofistici, si disperdevano dinanzi ad una verità lampante e crudele: egli era un estraneo, un intruso, tra quei coniugi che si ritrovavano, tra quei figli e quei genitori che ricostituivano l'unità della famiglia. Tanto tempo e tanto spazio li avevano divisi, ed ecco: si tendevano le braccia; un istante ancora, ed avrebbero tornato a formare un vivente complesso dal quale egli era escluso. Che stava a far lì? Quella donna non era sua, se ora egli non poteva avanzarsi verso di lei e portarsela via; quell'uomo non era un ladro che gliela involava, se veniva a prendersela alla luce del sole, dinanzi alla folla; il ladro era lui stesso, che doveva trarsi in disparte e farsi piccolo per non lasciarsi scorgere. Egli era un intruso, una spia, un frodolento. Nella mortificazione e nell'avvilimento che occupavano il suo cuore, la stessa memoria del possesso esercitato fino al giorno innanzi si ritraeva in un passato lontano, si annebbiava e attenuava come quella d'una finzione. Il passato, remoto o prossimo, era passato; solo l'ora presente esisteva, e in quell'ora il suo possesso era distrutto.

— Andiamo via!... — suggerì Perez, smanioso. — Fermiamoci alla dogana, fammi il piacere!

— No! — gli rispose con voce dura, che non ammetteva insistenze.

Voleva restare, doveva vedere. Una forza superiore a quella della ragione, una specie di fascino lo inchiodava lì, dietro la siepe degli aspettanti, sollevato sulla punta dei piedi, coi muscoli del collo irrigiditi, tutti i nervi tesi. Più forte del dolore, più forte dell'umiliazione era l'avidità di vedere, la necessità di non perdere un solo particolare di quella scena. Un ferro aguzzo e tagliente gli ricercava le carni, recideva le vive fibre del legame che aveva fatto di lui e di quella donna un corpo solo, un essere solo; ma sul punto di sentirsi mutilato non voleva perdere la coscienza di sè, resisteva alle esortazioni dell'amico come avrebbe respinto un torpente sopra un letto operatorio, per assistere allo scempio.

E già, finito lo sbarco dei bagagli, le guardie lasciavano i loro posti, i primi viaggiatori si affollavano verso le scale non più vietate. Egli vide il marito avanzarsi, ma senza fretta, dando una mano al giovinetto, dividendosi con l'altra la barba sul petto. L'ombrellino rosso si mosse anch'esso, ed egli stesso fece un passo; ma allora, col coraggio della paura, Perez esclamò a voce bassa e concitata:

— Lodovico, ti prego!... Non commettere imprudenze!... Resta lì: siamo già troppo vicini. La governante e il bambino possono riconoscerti.

Obbedì, si fermò, vide a poco a poco diminuire la distanza che separava i due gruppi: la donna col figlio e la familiare avanzarsi in prima linea, sull'orlo della banchina, il padre e l'altro figlio scendere i gradini della scala di bordo e porre il piede a terra. Oltre il gruppo delle donne piangenti, dietro un carro carico di bauli, avvenne finalmente l'incontro. Egli trattenne il respiro, e lo stesso moto del suo cuore parve arrestarsi un istante; ma il sangue gli rifluì rapidamente per tutte le arterie e il petto gli si gonfiò al soffio dell'aria, in un improvviso senso di sollievo, quasi di gioia, di timida e incredula gioia, vedendo che quell'uomo non si stringeva con impeto alla donna sua ritrovata dopo tanto corso di tempo, non l'abbracciava con tutta la forza delle sue braccia nerborute, non restava a guardarla negli occhi per riconoscerne e possederne l'anima; ma le dava due baci sulle due guance, due baci calmi, appena fraterni, quasi distratti, e subito dopo si volgeva, prima ancora di abbracciare il figliuoletto, a cercare i bagagli. Per un momento, a quella vista che aveva temuta atroce e insostenibile, tutta l'oppressura, tutta la mortificazione dell'anima si disperse, tutta la coscienza della sua forza e del suo diritto tornò ad assicurarlo. Quella donna era sua per quel che gli costava di fremiti, di spasimi, di estasi, di pianti; gliel'aveva guadagnata, gliel'aveva meritata il fuoco divampato nel suo cuore, la fiamma dell'estro accesa nel suo pensiero e nella sua fantasia. Ella gli si era accordata perchè si era sentita necessaria a lui, perchè quegli ardori, quelle febbri si erano comunicati a lei, rivelandole tutto un mondo, tutta una vita dei quali non aveva sospettato l'esistenza accanto a quell'uomo freddo e misurato. Un moto d'orgoglio, un senso di trionfo lo animò; ma fu un lampo. Già ella si stringeva all'altro figlio, già i figli si stringevano ai genitori formando un cerchio dal quale la stessa domestica si teneva lontana. Era lì, sotto i suoi occhi, la famiglia riunita, il nucleo umano primordiale, il cardine d'ogni consorzio; e nessuno, e tanto meno lui, poteva penetrare in quella intimità fondata sulla perpetuazione della carne e del sangue.... Allora, mentre Perez non faceva e non diceva più nulla per porre termine a quello spettacolo, egli stesso, afferrato bruscamente un braccio dell'amico e stringendolo forte, esclamò con voce arrochita:

— Via!... Andiamo via!...

Si allontanarono, infatti, facendosi strada tra la folla, schivando i carri, passando accanto a quello dove il marito riconosceva la sua roba, mentre dava ai facchini l'indirizzo dell'albergo di Francia. Quando furono nello spazio libero affrettarono il passo; ma usciti fuori della cancellata e giunti presso la dogana, Lodovico si fermò voltandosi a guardare indietro.

— Che fai lì? — domandò Perez, irritato; — non ne hai abbastanza?

— No: taci; aspetta.

I coniugi, distaccatisi dalla folla, preceduti dal facchino coi bauli, seguiti dalla governante coi figli, si avanzavano: il marito non si appendeva al braccio della moglie, non le dava il braccio; le andava accanto, parlando senza gesti; ella era invece tutta animata, diceva qualcosa con espressione vivace. Vedendoli avvicinarsi, Perez sentì rinascere, con la paura, un senso di ribellione contro l'audace che sfidava il pericolo d'essere riconosciuto e quasi si compiaceva dell'ambascia propria e di quella che infliggeva; e quando la coppia fu giunta al loro fianco, tremò vedendo il marito fermare lo sguardo su Lodovico, quasi leggendogli in faccia il suo secreto, mentre la compagna passava senza neppure guardarli, come non accorgendosi di loro. Per buona sorte il figlio più piccolo, intento a narrare qualche cosa al fratello, non levò gli occhi, distrasse anche l'attenzione della governante rivolgendole una domanda; e solo dopo che la comitiva si fu allontanata avviandosi alla dogana, il trepidante trasse liberamente il respiro.

— Io domando se questa è una cosa ragionevole!... Che gusto tormentarsi così!... Vogliamo ora andar via una buona volta, in nome di Dio?

— No. Aspetta.

Volle ancora indugiarsi, ostinato, inflessibile, sordo; aspettò sinchè la famiglia non riuscì dalla dogana e non ebbe preso posto nell'omnibus dell'albergo, sinchè il pesante carrozzone non si scosse, non si mosse verso la città, non fu scomparso dietro una fila di carri di merci allungati sul binario. Allora soltanto Perez potè finalmente trascinarlo presso una carrozza e spingerlo a prendervi posto.

— Vieni a casa mia.

— Alla stazione! Alla stazione!...

— Ma sì.... Non ti trattengo!... Te ne andrai appena ti sarai rimesso.... Per ora vieni con me.... Sei troppo agitato.... Aspetta di calmarti.... Vieni un istante! — soggiunse, accostando le mani in atto di preghiera.

— Alla stazione! Alla stazione!...

II. Il convegno.

— Castelmaggiore!... A Castelmaggiore!...

Il treno, entrato rapido e strepitoso sotto la tettoia, rallentò improvvisamente la corsa, stridendo per tutte le ferree giunture; la voce del conduttore risonò annunziando il nome della città, e Lodovico Bertini sorse in piedi, nello scompartimento deserto, e si accostò allo sportello. Un facchino, un vecchio a cui la candida barba scendeva fin sul petto del camiciotto di lavoro, lo aperse togliendo di mano al viaggiatore la valigia e la borsa.

— Dove va il signore? All'albergo?

— No; mi fermo qui, al Caffè. Riparto col direttissimo delle 9 e 15; verrete a riprendere il bagaglio qualche minuto prima dell'arrivo del treno.

— Stia tranquillo: alle 9 e 10 sarò da lei.

I viaggiatori in partenza si affollavano dinanzi alle carrozze; gli arrivati facevano ressa all'entrata del ristorante, intorno al bancone con le vivande e le bevande; il carro coi sacchi della posta cigolava sulle tre ruote, spinto a mano da un fattorino che avvertiva di far largo; il capostazione esaminava un foglio alla luce di una delle grandi lampade ad arco. Entrato nella sala, Bertini udì le voci del personale di servizio richiamare al loro posto i partenti, lo sbattere degli sportelli, il fischio della locomotiva; quando sedette dinanzi al tavolino di marmo vide il convoglio sfilare col suo carico di vite, con le sue luci fioche dietro i vetri appannati e le tendine abbassate.

Un cameriere gli si presentò, domandando:

— Comanda?

— Tè e latte, con qualche biscotto.

Quantunque non avesse desinato prima di mettersi per via, sentiva di non poter prendere cibo. Aveva la gola stretta e la testa in fiamme. Dalle grandi arcate aperte sotto la tettoia veniva una brezza frizzante che gli faceva passare qualche brivido per il corpo senza rinfrescargli la fronte. Quando il vassoio con le cogome, il piattello, la chicchera e la salvietta gli fu posto dinanzi, egli non toccò nessuna di quelle cose: trasse dalla tasca interna dell'abito il portafogli e ne cavò la lettera ricevuta due sere innanzi, per espresso. Appena due sere innanzi, dopo un mese e mezzo di silenzio, cinquanta giorni dopo l'arrivo del «Senegal», egli aveva rivisto i caratteri di Rosanna!

Sette settimane erano trascorse senza che ella avesse trovato modo di fargli pervenire una parola, lasciandolo solo col suo dolore, vagante di luogo in luogo, senza casa, senza pace, senza tregua. Fuggito la stessa sera dell'arrivo del piroscafo, non si era sentito capace di ridursi, secondo le prescrizioni di lei, a Promonte, sul lago, presso i parenti. Come portare nella casa paterna l'ambascia che lo struggeva? Come spiegare alla sorella, al cognato, la tempesta scatenatasi nel suo cuore? In quei luoghi dove pure aveva tanto vissuto, dove aveva dato forma alle sue concezioni più vaste, ora sentiva che gli sarebbe mancato il respiro. Che avrebbe fatto, non potendo più lavorare? Che avrebbe detto, non potendo parlare se non di lei?... Alla verde conca del lago meraviglioso, sulle vette dominatrici della terra, adunatrici di nembi, nelle valli inargentate dalle acque spumose, sotto i boschi solenni, egli aveva sognato di tornare; ma con lei, per molto o per poco, pur di farla partecipe di quelle bellezze, pur di associarla ai ricordi della sua prima vita. Ma ella si era negata, adducendo di non poter entrare nella sua casa, di non voler presentarsi ai suoi parenti, a sua sorella, che doveva conoscere o sospettare i loro rapporti, e che l'avrebbe severamente giudicata; e, come sempre, nulla era valso a farla ricredere. Troppo, a quell'ora, gli sarebbe stato grave chiudersi lassù, mentre non solo il suo sogno si disperdeva, ma anch'ella era come perduta per lui; e col bisogno di stordirsi, di evitare quanto potesse rammentargli la sua condizione sciagurata, di fuggire da sè stesso, era andato dove nessuno lo conosceva, dove nessuno gli avrebbe chiesto che cosa lo martoriasse: in Isvizzera, errando per monti e per valli, saltando dai treni sui piroscafi e dai piroscafi sui treni, riparando dalle città rumorose negli alpestri villaggi, tornando dalle alte solitudini alla baraonda dei grandi alberghi e dei «Kursaal», cercando ovunque invano di dimenticare i pensieri molesti e di dissipare le immagini odiose. Disperando di riuscirvi, non sapendo che fare della sua vita, era ridisceso in Italia per ridursi finalmente, secondo il volere di lei, al paese natale, presso i congiunti, sostenuto dalla superstiziosa lusinga che lì, dove ella gli aveva raccomandato di recarsi e promesso di scrivergli, la sua lettera sarebbe arrivata più presto. Ma, sul punto di eseguire i suoi comandamenti, la tentazione di rivederla, non fosse che da lontano, di sfuggita, un istante, passando secretamente da Firenze, si era impadronita del suo spirito e lo aveva soggiogato.

Andato a nascondersi nello studio ancora tutto odorante di lei, tutto pieno dei ricordi di lei, dei fiori secchi, delle trine, dei ventagli, dei ritratti, delle crete dove egli aveva riprodotto la stupenda sua forma, si era tenuto lontano dai ritrovi degli amici e dei conoscenti, aveva poi cominciato ad aggirarsi cautamente intorno ai luoghi dove avrebbe potuto incontrarla: invano. Una notte s'era spinto fin sotto la sua casa, ma il domani all'alba era fuggito ancora una volta, per aver visto e immaginato con gli occhi della mente, dietro quelle finestre chiuse, dietro quei muri ciechi, un altro al suo posto, accanto a lei, carezzare la sua fronte, baciare le sue labbra, vivere la sua vita. Allora, allora soltanto si era rifugiato a Promonte, per rintanarsi nel suo covo come una bestia ferita. Aveva il cuore lacerato e sanguinante. Invano la ragione gli rappresentava che questo era lo scotto inevitabile del bene fruito; invano l'egoismo gli consigliava di aspettare tranquillamente il giorno in cui ella lo avrebbe richiamato. Non era più sicuro di riacquistare la felicità di prima. Quand'anche null'altro dovesse sopravvenire a distruggerla, il ricordo delle pene sofferte l'avrebbe intorbidata. Al pensiero che la creatura amata era stata di un altro, un moto di repugnanza, di repugnanza fisica, lo arretrava. Ma non solamente sentiva che ella era stata contaminata nel corpo, vedeva che anche l'anima sua gli sfuggiva. Per aver lasciato passare tanto tempo senza rammentarglisi, bisognava che un rivolgimento fosse avvenuto nel suo cuore, nella sua vita. Come negare, contro l'evidenza, la forza degli affetti, dei doveri e degli interessi che lo avevano prodotto? L'uomo che le aveva dato il proprio nome, che dedicava alla casa fondata con lei tutte le sue energie, che le assicurava un'esistenza facile e larga, godeva di privilegi indistruttibili; ne godeva il figlio tornato a lei, forse più che l'altro vissuto sempre al suo fianco. Di questa creaturina, del posto che aveva occupato nel cuore della madre, egli era stato geloso. Ora la gelosia impotente lo rodeva, lo umiliava al pensiero che la madre era tutta dei figli, la moglie tutta del marito. Parlandole o scrivendole, egli avrebbe potuto farsi valere, rammentarle le parole dettegli e le prove dategli, contrastarla a tutti coloro che la riprendevano, vincerla ancora una volta; da lontano, costretto al silenzio, doveva incrociare le braccia, abbandonare indifesa la causa dalla quale dipendeva la sua vita. O forse insistere, contraddirla, contrariarla, sarebbe stato inutile, come era stato inutile tutto quanto le aveva detto perchè non andasse incontro al marito, perchè si contentasse di aspettarlo a casa sua. Che cosa era dunque il bene che gli voleva, se non la faceva capace di arrendersi a un suo desiderio, sia pure smodato?... Poi pensava che anch'egli l'aveva ferita, una volta, molto più profondamente, dicendole che, libera, non l'avrebbe sposata; e allora riconosceva che entrambi si erano mantenuti fedeli al proponimento di esser sinceri, di uniformarsi alla realtà esteriore ed intima, alla verità necessaria ed amabile. Ma ora, no; ora non più; ora non riconosceva altra verità fuorchè il suo dolore, altra realtà fuorchè il bisogno di lenirlo; ora non chiedeva, non aspettava, non cercava altro che una menzogna, ma pietosa e salutare. E non ne trovava, e non ne sperava. Ella non gli avrebbe mai scritto, come non gli aveva mai detto: «Amo te solo, odio mio marito». Una simile certezza lo avrebbe forse pacificato, gli avrebbe dato forza per sopportare le separazioni, le contrarietà, la partecipazione di un altro al possesso di quel corpo la cui anima sarebbe stata tutta sua. Egli doveva invece contentarsi di una parte di quella vita, della minor parte. L'avrebbe forse totalmente perduta, se il marito non fosse andato più via. Non era questo il pericolo? Che fare per evitarlo, come riprendersi il suo bene, senza che nessuno, mai più, glielo potesse contendere?...

Talvolta egli avea tentato di reagire contro la passione, di resisterle, di contenerla. Altri amori giudicati necessarî alla sua vita non erano finiti senza che egli ne fosse morto? Prima non si era appagato di ciò che le donne altrui avevano potuto o voluto accordargli? All'idea di prenderne una per sè non si era sempre ribellato? Due o tre volte, bensì, nella prima giovinezza, la tentazione era stata fortissima, avvalorata dai consigli dei parenti, dalle esortazioni della madre; ma non si era sempre vinto, e sua madre non era morta col dolore di lasciarlo solo? La libertà non gli era sembrata un bene tanto grande da potersi pagare con qualche cosa di più penoso ancora che non la solitudine? Nel matrimonio non aveva visto una convenzione micidiale all'amore, e dell'amore non aveva sempre avuto bisogno per le sue ispirazioni d'artista?... Ma il ragionamento, il ricordo della tenacissima opinione di tutta la sua vita restavano inefficaci contro il dolore. Nel suo dolore egli riconosceva ora che il legame indissolubile, sempre evitato come il più grave dei danni, non era un ostacolo alla felicità, se altri ora se ne giovava per distruggere la felicità sua. Quella convenzione giudicata funesta all'amore era il patto che garentiva il possesso. La sua condizione di amante costretto a nascondersi, a fuggire, a cedere il posto usurpato, a vedere un altro occuparlo da padrone legittimo, era sciagurata e intollerabile.

I giorni e le settimane erano passati lenti, eterni, numerati ad uno ad uno, misurati ad ora ad ora, senza che egli sapesse che cosa accadeva della creatura diletta, che cosa potesse fare egli stesso per averne notizie: se tornare a Firenze, se scrivere a qualche amico, se scriverle direttamente, a rischio di tradirla. La paura che il caso l'avesse tradita, che suo marito avesse scoperto il loro secreto, trovando una lettera, udendo qualche parola sfuggita al bambino od ai servi, arrestava il moto del suo cuore; ma quantunque il sospetto non fosse da escludere, qualche altra cosa, una voce interiore, un oscuro presentimento gli diceva che no, che nulla era stato scoperto, che ella era al sicuro, che il suo silenzio dipendeva unicamente dalla sua volontà. Infinitamente più che l'impossibilità di far nulla per avere qualche notizia, per uscire da quell'ansia, lo umiliava, lo mortificava e lo avviliva l'idea che la volontà di lei fosse determinata da ragioni che egli non poteva combattere. Il bisogno di signoreggiare quella vita, di occuparla tutta di sè, di uniformare alla propria volontà quella volontà forte e tenace, alimentava il fuoco della sua passione. Nessun'altra donna lo aveva avvinto con le blandizie, con le lusinghe, con le illusioni, quanto costei con la resistenza e l'ostilità. Tutto quanto aveva fatto, nei primi tempi, per vincerla, era stato invano: ella gli si era accordata, inaspettatamente, quando aveva voluto, quando egli ne aveva perduto la speranza. Nonostante la dedizione, dopo il possesso, con tutte le prove d'amore ottenute, egli aveva più volte sentito di non essere penetrato fino agli ultimi recessi dell'anima sua. Ora che un altro gliela contendeva, ora che egli non poteva vivere senza trionfare di costui, senza saperla sua interamente, perdutamente, come una cosa inerte, come la cera duttile, come la creta malleabile, ora ella si dava tutta a quell'altro, restava lontana, chiusa, inaccessibile. La tentazione di fuggirla, piuttosto che contentarsi del poco che gli avrebbe concesso, si era insinuata allora nel suo pensiero, lo aveva investito e dominato. Non era giustizia, no, che egli spasimasse così, mentre nella nuova vita che ella ora viveva non trovava modo d'infondergli fede, di dargli speranza e coraggio.... Improvvisamente, la sua lettera era giunta, quella lettera sulla quale si era precipitato avidamente, che aveva letta e riletta tanto da poterla ripetere senza dimenticarne una sillaba, e che, nondimeno, ora, nel silenzio della stazione deserta, tornava a rileggere ancora una volta.

La lettera diceva:

«Partirò posdomani, sola, col direttissimo delle 7 e 25 per arrivare a Milano il giorno dopo, alle 7 e 50. Torna domani a Firenze, prenota due cabine dello «Sleeping» facendoti dare due biglietti separati, e mandami il mio. Riparti con l'accelerato delle 6 e 33, scendi alla stazione di Castelmaggiore e aspetta alle 9 e 15 il passaggio del mio treno, dove salirai a raggiungermi. Alla stazione di Milano mi lascerai: mio marito ritorna da Londra».

Tutto era stato puntualmente eseguito. Lasciato immediatamente Promonte, egli era corso a Firenze, all'ufficio della Compagnia dei «Wagons-Lits». Il commesso aveva voluto rilasciare un solo biglietto per le due cabine, non comprendendo come persone che dovevano viaggiare insieme avessero bisogno di biglietti separati; ma poi glieli aveva pur dati, ed egli aveva spedito a Rosanna, in lettera raccomandata, quello che doveva servire per lei. Era partito con l'accelerato delle 6 e 33, aspettava ora il passaggio del direttissimo; ma, rileggendo quella lettera, come quando l'aveva letta la prima volta, tutte queste istruzioni, tutte le circostanze nelle quali le aveva effettuate, sparivano dalla sua memoria: i suoi occhi e il suo pensiero si fermavano sulle parole dell'ultimo rigo: «Mio marito ritorna da Londra». Per tornarne, doveva esservi andato; se ella gli moveva ora incontro, non ve lo aveva accompagnato; era dunque rimasta sola per qualche tempo, poco o molto, non poteva dir quanto, una settimana per lo meno: e di quel tempo di libertà non aveva saputo o voluto profittare per richiamarlo, per rivederlo, dovunque, comunque! Lo richiamava ora, sul punto di andare ancora una volta incontro a quell'uomo, per rivederlo un giorno più presto!...

A un fischio di locomotiva, breve, acuto, lontano, egli si riscosse, si guardò intorno. La stazione era ancora deserta; il padrone del Caffè sonnecchiava dentro un bussolotto illuminato dalla fiamma gialla d'una lampada a gas; il cameriere, dinanzi al banco delle vivande, parlottava con un manovratore. Egli ripiegò la lettera e la richiuse nel portafogli. Si versò un poco di latte e di tè, ne assaggiò un sorso, e ripose la chicchera. L'orologio, sul quadro dell'orario, segnava le otto e un quarto. A quell'ora ella doveva essere già partita, il treno che la portava già correva verso di lui. Un senso di gioia, trepida ma grande, lo invase a quella certezza; egli sentì il suo rancore dissiparsi. All'idea che fra un'ora sarebbe giunta, che l'avrebbe avuta tutta una notte per sè, che avrebbe potuto finalmente sfogare la piena dei sentimenti accumulati nel suo cuore, l'immobilità gli riuscì intollerabile. Chiamato il cameriere e pagatolo, si alzò, uscì fuori della sala, sotto la pensilina. I binarî liberi si dilungavano, convergendo nella lontananza, perdendosi verso le masse scure delle cabine e dei depositi, verso le linee rigide formate dalle colonne delle carrozze e dei carri immobili sotto il fioco lume della luna non ancora al primo quarto. Gli ufficî erano quasi tutti chiusi; solo quelli del capostazione, del telegrafo e dei biglietti proiettavano sul marciapiedi la luce delle loro lampade incappucciate di verde. Due o tre commessi stavano curvi sulle scrivanie, dinanzi a grossi registri ed a fogli di carta stampata; non si udiva altro rumore fuorchè il ticchettare degli apparecchi telegrafici. Chiuse le sale d'aspetto, tranne quella della terza classe, sopra i cui nudi banchi il facchino dalla barba candida ed un suo compagno erano distesi a dormire.

Per ingannare il tempo egli si mise a percorrere la fronte della stazione, da un capo all'altro; poi riattraversò la sala del Caffè ed uscì sul piazzale. Non una carrozza, non un passante, non un rumore. Sulla facciata esteriore dell'edifizio erano aperti l'ufficio del Dazio, dove due impiegati chiacchieravano fumando nelle pipe, e il passaggio d'entrata, col gabbiotto della giornalaia: una vecchietta sonnecchiante in mezzo alla mostra dei fogli illustrati, aperti nelle pagine più vistose, fra le grosse intestazioni dei quotidiani e le copertine dei libercoli pornografici. Le pozzanghere formate dall'acquazzone del pomeriggio rendevano malagevole l'avventurarsi oltre il marciapiedi; rinunziando ad entrare in città, egli cominciò a misurarlo tra i due cancelli che lo chiudevano, come aveva fatto dell'altro. Il tempo scorreva con una lentezza disperante. Passando e ripassando dinanzi al Dazio, i suoi occhi erano attratti dall'orologio i cui indici parevano immobili; per vederli un poco spostati verso l'ora attesa con la febbre nei polsi, egli prometteva a sè stesso di non guardarli troppo spesso; ma poi, quando li fissava dopo aver voltato le spalle più volte, trovava che era trascorso qualche minuto appena. Fermandosi, chiudendo gli occhi, tentava raffigurarsi la donna amata come doveva essere atteggiata in quel momento: raccolta in un angolo della carrozza sussultante nella corsa vertiginosa, sotto la luce della lampada elettrica, col viso ravvolto in un velo, col capo appoggiato alla mano guantata, con gli occhi allo sportello, immobile nella persona, ma con l'anima tesa verso di lui; e allora la tenerezza e il rancore, l'amore e la gelosia, il bisogno di stringersela al cuore e l'impeto di respingerla si avvicendavano tanto tumultuosamente da confondersi in un unico fremito, in uno spasimo solo.

Le nove meno un quarto. Ancora quaranta minuti. La stazione restava deserta: si udiva soltanto qualche fischio rauco, soffocato, di macchine manovranti lontano; qualche passo risonava, ma di persone che uscivano avviandosi alla città. Nessun viaggiatore sarebbe venuto a prendere quel treno della notte? Nessun parente od amico sarebbe sopraggiunto ad aspettare qualcuno?... Alle nove, mancando mezz'ora all'arrivo del treno, egli entrò per vedere se l'ufficio dei biglietti fosse aperto. Era ancora chiuso; il facchino dormiva ancora sulla panca della sala d'aspetto. La vendita sarebbe forse cominciata solo venti minuti prima dell'arrivo del treno?

L'attesa di quegli altri dieci minuti fu eterna. Pareva che il tempo si fosse arrestato, che non potesse più scorrere, che la stazione fosse abbandonata, che la vicina città fosse morta. L'arrivo di due o tre persone, silenziose, senza bagaglio, gli parve un avvenimento, un ritorno alla vita. Ma nessuno sportello si schiudeva ancora, nulla preannunziava la partenza, neanche ora che mancavano venti minuti soltanto, che ne mancavano diciannove. Che cosa avveniva? Quand'anche il treno fosse in ritardo, la vendita dei biglietti non doveva cominciare all'ora regolare? Forse gli orologi esterni anticipavano su quello del capostazione? Per quale incantesimo nessuno appariva? Non era egli in preda ad un incubo? Aveva realmente ricevuto una lettera di lei? Era una cosa reale, quel convegno in treno? Non era una stravaganza, una immaginazione, una irragionevole speranza?... Diciotto minuti soltanto — e gli sportelli restavano ancora sbarrati.... Allora, per uscire da quell'incubo, per udire una voce, per sapere qualcosa, s'avvicinò alla giornalaia.

— Il direttissimo non arriva alle nove e un quarto?

— Alle nove e un quarto, sissignore.

— Ma allora perchè non aprono la biglietteria?

La vecchia inforcò gli occhiali, guardò un suo grosso orologio di acciaio, e disse:

— Ecco: apriranno a momenti.

Ma passò ancora un altro minuto, ne passarono due, senza che gli sportelli si schiudessero. E a un tratto due uomini uscirono dall'interno della stazione, uno dei quali diceva all'altro:

— Non si parte fino a domani.

Egli credè d'aver frainteso. Poi il sangue gli rifluì tutto al cuore e la vista gli si offuscò. Con passo dapprima malfermo, poi precipitato, rientrò sotto la tettoia nel punto che alcuni manovali attraversavano i binarî e gruppi di commessi si formavano dinanzi agli ufficî, scambiando notizie e domande e commenti.

— Al bivio del Saliceto.... La linea è ingombra.... Si appronta il carro-attrezzi.... Una falsa manovra dello scambio.... Il treno merci è rovesciato.... E il direttissimo?

Una fiamma gli salì al viso, il suolo gli mancò sotto i piedi. Corse all'ufficio del capostazione, non lo riconobbe perchè tutti gli usci erano aperti, ormai, e tutte le stanze illuminate; domandò a un uomo seduto dinanzi ad una scrivania:

— Scusi, signore: mi vuol dire che cosa è accaduto?

— Non so precisamente; la linea è ingombra.

Riuscì, trovò finalmente il capo sulla soglia del suo ufficio, intento a rimproverare uno dei suoi dipendenti.

— Non ho bisogno delle vostre osservazioni!... Andate al vostro posto senza tante chiacchiere.... Desidera? — domandò poi, con voce appena meno brusca, al viaggiatore che portava la mano al cappello.

— Vuol favorire di dirmi che cosa è accaduto? Io aspetto il direttissimo delle nove e un quarto....

— La linea è stata ostruita da un treno merci che manovrava al bivio del Saliceto.

— Ma il direttissimo?

— Il direttissimo sarà avvertito e fermato a tempo e luogo....

Poi, voltategli le spalle ed avvicinatosi al telefono, gridò nel portavoce:

— Signor ingegnere?... Sì, la seconda squadra sarà pronta a momenti.... Com'è?... La gru sta in consegna al Movimento.... Prenda le binde da otto tonnellate.... Va bene!... Sissignore: alla cabina numero 8.... Come?... Ha deragliato?... Perdio!... Vengo subito!...

Lasciato l'apparecchio, lanciò un ordine al sottocapo:

— Trattenga l'842 a Santa Rufina, telegrafi che per linea ingombra non lo posso ricevere. Mi mandi subito la seconda squadra.

E s'allontanò rapidamente, scavalcando le linee dei binarî, facendo cenno con tutt'e due le mani di seguirlo agli uomini schierati sul marciapiedi centrale.

Stordito, smarrito, Bertini volse intorno lo sguardo.

Che cosa era avvenuto? Nessuno glielo avrebbe spiegato? Un brivido gli passò per la schiena al pensiero del pericolo che minacciava la creatura diletta, al disastro che forse era già avvenuto. Non era forviato il convoglio che la trasportava? O il treno che facevano fermare a Santa Rufina era il suo?

— Per favore!... Sentite!... — disse ad un guardasala, fermandolo mentre gli passava dinanzi. — Qual è il numero del direttissimo che si aspettava per le nove e un quarto?

— 28.35, signore.

— Siete sicuro che non sia l'842?

— Sicurissimo! L'842 è un misto che dovrebbe arrivare alle 9 e 42, ma che sarà fermato a Santa Rufina.

— E il direttissimo?

— Era già transitato da Santa Rufina quando è sopravvenuto l'accidente al treno merci.

— Ma allora come e dove sarà avvertito del pericolo?

— È stata formata la correntale.

— Come sarebbe a dire?

— Ogni guardiano va al casello vicino trasmettendo al compagno la notizia dell'accidente e l'ordine di disporre i segnali di fermata.

— E quanto occorrerà per liberare la linea?

— Signor mio, chi può dirlo?... Due ore potevano bastare; ma forse non ne basteranno quattro.... Il capotecnico e il capodeposito avevano subito avvertito il Servizio trazione; il signor ingegnere con la prima squadra era subito accorso sopra una macchina, il carro-attrezzi era già pronto; ma quando hanno fatto per attaccarlo alla macchina ha deragliato. Se lo vuol vedere, vada laggiù in fondo, presso il castelletto idraulico, dove c'è quel chiaro.... Lavorano a soccorrere il carro di soccorso!...

E sorrise discretamente, gettando intorno una cauta occhiata, per paura che l'avessero udito.

Bertini corse nella direzione indicata. La fatalità si complicava, una volontà ostile e maligna pareva volesse accumulare gli ostacoli, moltiplicare i pericoli. Alla luce fumosa delle torce a vento si vedeva il carro degli attrezzi pencolare fuori delle rotaie: la piattaforma dalla quale doveva essere spinto nella buona direzione non era stata assicurata, non aveva le rotaie combinanti con quelle del binario, e poco era mancato che la massa pesante non si fosse rovesciata.

— Via le leve! — gridava il capostazione agli uomini intenti alla manovra. — Tofano e Giacomelli, montate su a scaricare le binde.... Quelle da quattro basteranno.... Animo, via!...

Gli uomini si arrampicarono sul carro carico d'ogni sorta d'ordegni e di congegni: argani, morse, chiavi, martelli, mazze, una fucina, ruote di cordami, spessori di legno, torce a vento, fiaccole a petrolio. Sollevata una binda da quattro tonnellate, la passarono oltre il parapetto, porgendola ai compagni.

— A noi, svelti! — ordinò ancora il capo. — Disponetela fra la testata e il traversone.... Più su, più su: all'angolo, ho detto.... Ma qui, perdio, sotto lo spigolo, o parlo turco?... Così!... Forza di braccia!

Le braccia nerborute girarono il manubrio della macchina, dapprima agevolmente, poi, quando essa affrontò il peso del carro, con una tensione violenta, con uno sforzo penoso. Sotto la spinta possente il carro si scosse un poco, si sollevò di qualche centimetro; a un tratto traballò scricchiolando.

— Ferma!

Tolta una fiaccola di mano a un operaio, il capo si cacciò sotto le prime ruote, ne esaminò la posizione; poi percorse tutto il fianco fino a quelle posteriori.

— Un'altra binda qui, al centro del traversone.... — Ma udendo improvvisamente un lontano tintinnare di campanello, si volse a chiamare: — Marziani!... Il capotecnico?...

— Eccomi, signor capo.

— Diriga lei l'operazione. Io vado a ricevere l'accelerato.

Un treno sopravveniva infatti dall'altra parte della linea, dove nessun ostacolo si era frapposto; e Bertini domandava tra sè per quale fatalità l'accidente aveva dovuto prodursi dalla parte di Firenze, nel preciso momento in cui, dopo tanta pena, egli aspettava Rosanna. E in un improvviso ritorno dell'ansia sopita dinanzi allo spettacolo dello sforzo sostenuto dai lavoratori, si volse ad uno degli astanti:

— Il direttissimo è stato fermato?

— Certamente, a quest'ora.... Se no, sarebbe andato a sfondare il treno merci deragliato.

— Come si saprebbe? — domandò ancora, trepidante.

— Eh! Le male nuove le porta il vento.

— A che distanza da qui è il bivio del Saliceto?

— A quattro chilometri e mezzo.

— E Santa Rufina?

— A dodici chilometri.

Restava da sapere in qual punto della via interposta fosse fermato il convoglio. Certo, in aperta campagna, lontano dalle stazioni, senza precise notizie dell'accaduto, del pericolo corso, della durata della sosta. Come far sapere qualche cosa a Rosanna? Come rassicurarla? Egli si struggeva di non poter far nulla, invidiava gli operai sudanti a mettere in piano il carro, si torceva le mani per non poterle adoperare com'essi, per non potersi cacciare sotto le ruote a rimetterle a posto, con la febbre di veder rimossi gli ostacoli, quel primo ostacolo.

Le notizie dell'accidente passavano ora di bocca in bocca, con più precisi particolari: il deviatore della cabina numero quattro, per un falso segnale del manovratore, aveva aperto lo scambio al treno merci mentre la colonna era in moto; l'ago si era spostato fra un'asse e l'altra del primo carro, dando la diramazione sopra il binario per il quale doveva transitare il direttissimo, ostruendo la linea di corsa: l'ingegnere dell'ufficio di trazione, con una squadra di operai raccolta alla prima notizia, era sul posto, ma non poteva far nulla senza gli attrezzi. E dalla stazione, cessato lo squillare del campanello, veniva il rombo del treno accelerato arrivante a tutto vapore, fischiando e stridendo, condannato poi anch'esso a restarsene inerte, ad aspettare la liberazione del binario e l'arrivo del direttissimo. La macchina si staccava e si allontanava; i viaggiatori, avvertiti dell'accaduto, si sparpagliavano in folla sotto la tettoia, entravano nel Caffè, si spingevano verso la piattaforma attratti dal chiarore delle torce, e Bertini vide fra gli altri una coppia di giovani sposi in costume da viaggio, il marito appoggiato al braccio della moglie, stretto a lei, sfiorante con la falda del berretto basco il velo che ella teneva sollevato sulla fronte e che lasciava scoperto un visetto rotondo, grazioso, infantile.

— Largo!... Indietro!... Favoriscano di sgombrare!

Il capo, sopravvenuto, faceva scostare i curiosi con aspra voce di comando; Bertini dovette obbedire in preda ad un nuovo cruccio, quasi ricacciato più lontano da Rosanna, quasi impedito di affrettare con la tensione della volontà e l'impeto del desiderio la liberazione del carro. Sotto la tettoia crocchi di viaggiatori si scambiavano le notizie, commentandole aspramente; alcuni stranieri volgevano intorno sguardi incerti e sospettosi; visi inquieti di donne si vedevano spiare dai finestrini del treno immobile; il Caffè era invaso, tutti i tavolini occupati da gente rumorosa e contrariata; solo i due giovani sposi, l'uomo sempre al braccio della donna, si sorridevano, fermi dinanzi al banco, scegliendo nei quadri mobili delle cartoline illustrate quelle con le vedute di Castelmaggiore: liberato il braccio della moglie, il marito le offriva una penna col serbatoio, ed ella riempiva i cartoncini uno dopo l'altro, curva sopra un angolo del banco, passandoli poi al compagno che vi aggiungeva la propria firma.

Un moto d'irritazione cacciò Bertini lontano dallo spettacolo di quella felicità. Riavvicinandosi alla piattaforma, vide le luci muoversi e una colonna di candido vapore sprigionarsi dal fumaiuolo della macchina, mentre un fischio breve ed acuto lacerava l'aria: il carro, finalmente liberato, era trainato verso il luogo del bisogno. Allora, come trascinato anch'egli da quella forza bruta, come attratto da un potere occulto, s'avviò lungo i binarî deserti diramantisi a ventaglio gli uni dagli altri. Non sapeva fin dove sarebbe andato, ma si sentiva sospinto nella direzione del convoglio immobile in mezzo alla campagna deserta.

Secondo che avanzava, oltre gli edifizî e le cabine e i castelli idraulici, il ventaglio si restringeva, le stecche d'acciaio rientravano una nell'altra, riducendosi al doppio binario di corsa. Fitte siepi lo fiancheggiavano, una bassa e intricata vegetazione di robinie, dalla quale emergevano i fusti frondosi degli eucalitti; tratto tratto un cancelletto vi si apriva, oltre il quale si vedeva la campagna bagnata dal lume della luna vicina al tramonto: un chiarore scialbo ed umido avvolgente i filari dei gelsi e dei salici, qua e là riverberato da pozze d'acqua. Non una bava di vento, non una voce nel silenzio grave dell'alta notte; solo l'arpeggio eolio dei fili telegrafici, in prossimità dei pali risonanti come casse di strumenti armonici. Le rotaie d'acciaio si distendevano rigide e diritte, sempre più lontano; parevano rincorrersi a perdita di vista, verso l'infinito, verso l'inarrivabile. Bertini procedeva per la solitudine, con gli occhi, gli orecchi, tutti i sensi aperti ed intenti a cogliere segni di vita, credendo di udire l'eco dei fischi della locomotiva di soccorso, di scorgere il chiarore delle fiaccole rischiaranti il lavoro dei manovali; ma nulla si scorgeva ancora, nulla si udiva.

La vista della stazione e dei fabbricati che l'attorniavano era anch'essa perduta nella lontananza: solo una punta di vivo fuoco rosseggiava in cima a un disco. Fremente, febbricitante, egli andava, andava, col proposito, col bisogno di raggiungere il bivio del Saliceto, di sapere qualche cosa di preciso; ma più s'inoltrava, più l'inquietudine, l'ansia, la paura gli facevano tremare il cuore. Quantunque la via ferrata fosse una guida infallibile, gli pareva di non poter più trovare quel bivio, d'essersi avviato sopra un altro binario, d'aver lasciato la buona strada. Perduta la nozione del tempo, credeva d'aver percorso chilometri e chilometri, d'essersi dilungato enormemente, d'aver marciato da ore: l'orologio, che aveva dimenticato di rimontare, non andava più. La linea non doveva esser libera, ormai? Il convoglio non stava per sopravvenire, precipitoso, inarrestabile, portandosi via la creatura amata, lasciandolo solo in mezzo alla campagna muta ed oscura? La prudenza consigliava di tornare indietro, di raggiungere la stazione, di aspettare lì, tranquillamente, come gli altri viaggiatori, come i due sposi in viaggio di nozze; ma allora, rivedendo con la mente quella coppia felice, egli sentiva più acuta, più tormentosa, più intollerabile tutta la propria pena. Spasimava da due mesi, dal giorno in cui era giunto l'avviso dell'arrivo del marito, ma non mai come ora. Se per un istante, al pensiero dell'imminente incontro con la diletta, aveva potuto illudersi sperando nel ritorno dei giorni felici, ora, nelle tenebre addensate col tramonto della falce lunare, nel sonno silenzioso della terra, nella solitudine inanimata di quegli ignoti luoghi, l'inganno riusciva evidente. Che vita era questa che lo sbalestrava fuori della sua casa, fuori del suo paese, che lo faceva errare a quell'ora per la campagna, aspettando un treno arrestato da un improvviso pericolo? Superato quello, quali altri, quanti altri sarebbero sorti? Rosanna andava a raggiungere ancora una volta il marito: dove, come, quando, per quanto tempo l'avrebbe rivista? Quell'uomo sarebbe ripartito, forse, ma per ritornare; il tempo della sua lontananza se ne sarebbe volato via, come se n'era volato tant'altro. La serena fiducia, la certezza del possesso assoluto, della comunione perfetta non era possibile senza l'unione che egli aveva dichiarato di non voler contrarre neppure ipoteticamente, e che sempre, prima di quell'amore, aveva giudicata odiosa e repugnante. Allora tutta la sua vita sentimentale, dai primi albori, dagli ingenui amori dell'adolescenza alle fiamme della giovinezza, gli passò per la memoria: quante prove fallaci, quante illusioni perdute, ritrovate, riperdute ancora, fino a quest'ultima! Stanco, vecchio, morto, il suo cuore aveva palpitato ancora una volta grazie alla creatura miracolosa; egli aveva gioito, sofferto, vissuto per lei; comprendeva che dopo di lei non avrebbe potuto più ricominciare, e che, quand'anche, mai più avrebbe trovato un'anima simile a quella; sentiva che tutti questi motivi lo spingevano ad afferrarsi a lei, disperatamente; ed a quell'ora, con quell'ansia nel cuore, ecco, finalmente riconosceva che il legame solenne, sancito, benedetto, era il solo che potesse umanamente garantire il possesso; e nulla gli pareva più desiderabile e degno che prendersi Rosanna, unirsi a lei per la vita e per la morte, dare al mondo lo spettacolo della loro felicità come lo davano quegli sposi in viaggio di nozze, sorridenti della contrarietà sopravvenuta, noncuranti di giungere un poco più presto o un poco più tardi, certi di portare con sè tutto il proprio bene. Perchè non era ella libera? Che cosa occorreva perchè si liberasse?... Allora, come al bagliore di lampi interiori, i recessi più tenebrosi del suo pensiero si illuminavano, quelli dove appariscono le possibilità più chimeriche, dove sorgono le tentazioni inconfessabili....

Un chiarore lontano, incerto, sorto dal fondo della linea, fermò ad un tratto la sua attenzione. Un uomo con una lanterna in mano si veniva avanzando; la lanterna, pendente dal braccio disteso lungo il fianco, lasciava in ombra il viso del sopravveniente, bagnandogli i piedi di luce.

— Venite dal bivio di Saliceto? — domandò Bertini quando colui, un cantoniere, gli giunse dinanzi e alzò la lanterna per guardarlo in faccia.

— Nossignore, vengo dal casello 374.

— Dove è stato fermato il direttissimo?

— Al passaggio a livello del Fossone.

— Quanto manca perchè la linea si sgombri?

— La linea è sgombra; vado a....

— È sgombra?...

Egli non udì altro, voltò le spalle al guardiano, corse verso la stazione, con la folle paura di non giungervi a tempo. Sull'angusto passaggio dove s'era avanzato agevolmente a brevi passi, riusciva malagevole correre; più volte fu sul punto di perdere l'equilibrio, più volte distese le braccia per ripararsi dall'imminente caduta. Con le orecchie fischianti, gli pareva di udire il lontano rombo del treno in moto, si rivoltava un istante a guardare indietro, poi riprendeva la corsa, rassicurato per poco. Al pensiero che la notizia non era ancora giunta alla stazione, moderò l'andatura; riprese a correre col timore che le disposizioni per ricevere il convoglio fossero state trasmesse per telegrafo o per telefono. Una voce, sul punto che passava dinanzi a un casello, gridò:

— Ferma!... Chi è?...

Non rispose, non si fermò, spronato dalla vista del riverbero diffuso lontanamente dai lumi della stazione. Quando vi giunse, trafelato, ansante, il campanello annunziante che il disco era aperto cominciava a squillare; i viaggiatori rimasti a terra riprendevano i loro posti sull'accelerato, si udivano voci di richiamo, gli sportelli sbattere con colpi secchi:

— In vettura!... In vettura!...

Non c'erano più facchini; egli si rivolse al cameriere del Caffè perchè gli portasse le valigie. E finalmente i fanali del treno, i grossi occhi roventi apparvero nella distanza, s'ingrossarono sulla metallica fronte della locomotiva spinta a tutta forza, vomitante dense volute di nero fumo squarciate dal candido vapore del fischio lungo, insistente, interminabile. Figure di uomini e di donne in piedi si profilarono nei vani luminosi delle finestre, nessuno nella carrozza coi letti, tutta chiusa, come deserta. Un dubbio attraversò il pensiero di Bertini: se Rosanna non c'era? Se non era partita, per un contrattempo, per un caso imprevedibile?

— Il signore ha la cabina 7 e 8? — gli domandò il conduttore aiutandolo a montare sul terrazzino.

— Sì. Da che parte?

— Favorisca....

— Avete saputo dell'accidente?

— E come!... Siamo rimasti più di tre ore fermi in aperta campagna!... Ecco la sua cabina. Desidera che le prepari il letto?

Gli rispose di sì dopo un istante di esitazione, pensando che il breve indugio lo avrebbe liberato per sempre da quell'uomo. Cercò di sporgersi da un finestrino per vedere l'ora all'orologio della stazione e regolare il suo: tutti i vetri erano rialzati e fermati.

— L'ora, per piacere?

— È la una meno un quarto.

Già la macchina, dopo la rapida sosta, lanciava un nuovo fischio: la carrozza si scosse, cominciò la corsa. E non appena il conduttore lo lasciò solo, egli aprì l'uscio del gabinetto di toletta. Vedendo apparire una figura maschile, trasalì indietreggiando per istinto; poi riconobbe sè stesso nel giuoco degli specchi. Portò la mano ancora tremante alla maniglia dell'altro uscio, lo aperse. Vide gli occhi di Rosanna cercare i suoi. Era seduta sul lettuccio, col velo rialzato sulla fronte, le mani nude congiunte in grembo. Le cadde in ginocchio dinanzi, le prese le mani, se le strinse al petto. Soffocato dal tempestoso pulsare delle arterie, non potè nel primo istante articolare una parola; poi balbettò:

— Sei tu?... Sei tu?...

— Che è stato? Siamo in ritardo?

— Come?... Non sai?... Quattro ore, quattro ore che aspetto, tremando, fremendo al pensiero del tuo pericolo.... Non ti sei accorta di nulla?... Dormivi?...

— Ho dormito, sì: ero tanto stanca. Ma tra veglia e sonno m'accorgevo che il treno era immobile, udivo rumore di passi, voci di sconosciuti.... Che è stato?

— La linea ingombra, ostruita da un treno merci.... Ma che importa? Tanto meglio, se non hai saputo.... Sei tu? Sei tu? Sei tu?... Lasciati guardare.... Lo sai da quanto tempo non ti vedo?... Che luce fioca mandano queste lampade!... Lo sai da quanto tempo ti aspetto? Lo sai che ti credevo perduta? Lo sai che non ti vo' perdere?

Anch'ella alzò lo sguardo luminoso al grappolo delle lampadine elettriche.

La cabina, con la levigatezza del suo mogano, con la lucentezza dei suoi ottoni, aveva l'aspetto di un mobile, di un grande armadio rotolante. Quantunque nel fracasso della corsa vertiginosa nessuno potesse udire dal prossimo scompartimento, egli abbassò ancora la voce, le domandò quasi all'orecchio:

— Sei tu? E sei mia? Sei mia, di'?...

Rivoltatasi verso di lui, passandogli una mano sulla fronte, ella rispose:

— Non vedi che cosa faccio per te?

Allora tutta la sua passione soffocata, umiliata, disconosciuta, traboccò. Scotendo la testa, con voce amara, egli protestò:

— Che fai? Sei rimasta sola, non so quanto, mentre quell'uomo era a Londra, e mi chiami ora soltanto, ora che vai ad incontrarlo un'altra volta!

Ella non rispose.

— Mentre una sola cosa confortava il mio dolore, l'idea che non fossi libera, che ti torturassi come me per non potermi vedere, per non potermi dir nulla, tu eri padrona di te stessa, e non mi chiamavi, non mi scrivevi!... E ora ti stupisci dei miei dubbî!... Non sai dunque, non capisci, non intuisci quel che ho sofferto, quel che soffro, dal giorno che ti lasciai dinanzi al «Senegal», da quando ti vidi al fianco di quell'uomo, ricongiunta a lui, baciata da lui?

All'evocazione del ricordo, la gioia di averla ritrovata, di sentirsela vicina, cadde repentinamente; il dolore, la gelosia, il corruccio, tutte le immagini esasperanti e tutti i pensieri maligni tornarono a invaderlo.

— Che hai fatto? Dove sei stato? — domandò ella, dolcemente, prendendogli una mano, come per placarlo.

— Non lo so, che cosa ho fatto; non lo so ridire, come ho vissuto. Sono stato a Promonte, ma prima a Firenze, per tentar di vederti.... Rimproverami, anche! — esclamò con più forza, vedendola accigliarsi. — I torti sono miei, anche! Io dovevo starmene tranquillo, dovevo sentirmi sicuro e felice, dopo averti vista laggiù, sulla banchina, tutta occupata di quell'uomo e dei vostri figli, senza un saluto, un cenno, uno sguardo per me; dopo essermi nascosto da voi, da te, come una spia, come un ladro! Non so, non so; senza l'amico che mi stava accanto, non so come, non so dove avrei trovato la forza di padroneggiarmi.

— Era Perez?

Non le rispose a voce, assentì con un breve moto del capo, incalzando:

— Mi passasti accanto, dinanzi al cancello, e non mi guardasti neppure; non t'accorgesti neppure allora di me che fremevo e spasimavo, tutta infervorata non so da che, non so perchè!

— Ti vidi.

— Che gli dicevi?

— Non mi rammento.

— Non ti rammenti! Ma mi rammento io, io che ti vidi sparire in quel carrozzone d'albergo, io che mi sentii a un tratto divenuto estraneo a te, solo, abbandonato, perduto, senza saper che fare della mia vita, con la folle tentazione di seguirti ancora, di raggiungerti per afferrarti e portarti via, sotto i suoi occhi, sotto gli occhi dei tuoi figli, dinanzi a tutti; poi col bisogno di fuggire, di non restare più un solo istante in quei luoghi, quella sera, quella notte, la notte della contaminazione....

Con voce grave, guardandolo negli occhi, ella disse:

— Fosti tu che volesti seguirmi. Non ti pregai di rinunziare a quest'idea? Che vi hai guadagnato?

Egli rispose duramente:

— Avrei sofferto peggio se non vi avessi visti. E mi pento di non aver preso una stanza in quell'albergo! Avrei meglio misurato tutta la tua capacità di fingere!

E lasciò la sua mano, la respinse, si ritrasse.

— Perchè?

Ella era calma, serena, sicura di sè stessa; il tono della sua voce nel muovere la domanda rivelava una curiosità che non teneva molto ad essere appagata.

Egli la guardò un tratto senza dir nulla.

Il convoglio precipitava la sua corsa, si sprofondava nelle tenebre, rombando e strepitando, come quello che lo aveva portato via la notte della contaminazione. Egli non fuggiva questa volta, come allora; si vedeva anzi al fianco la donna che aveva allora lasciata ad un altro; ma il ricordo dell'incubo risorse nella sua memoria. Si rivide con la fronte ardente al gelido vetro, con gli occhi sbarrati nelle tenebre fuggenti, o fisi all'orologio, per calcolare il momento nel quale la coppia sarebbe rimasta sola: «Alle dieci.... o forse alle undici.... fra un'ora.... fra mezz'ora.... Ora!...» Una pesantezza plumbea lo aveva abbattuto sul sedile, moti di nausea gli erano saliti dalle viscere alla gola nei tempestosi scotimenti di quella corsa pazza, traendolo dallo stuporoso assopimento. Poche altre notti erano tanto durate nella sua vita; nessuna luce egli aveva tanto spiata come quella del nuovo giorno, con la quale ella sarebbe finalmente uscita dalle braccia di quell'uomo; ma nè il nuovo giorno, nè i tanti altri che erano seguiti, nè tutti quelli che seguirebbero potevano dissipare interamente l'incubo e ridargli la fede perduta. Ecco: Rosanna era lì, accanto a lui, sola con lui nella carrozza lanciata attraverso lo spazio, ma egli sentiva di non averla per sè.

Ella diceva, tranquillamente:

— Che cosa pretendevi? Volevi che non mi occupassi di mio marito per badare a te? Volevi che mi sottraessi al suo abbraccio, ai suoi baci, che non li ricambiassi? Per qual motivo? Con quale pretesto?

Egli stese le braccia, alzò il viso, proruppe con voce tremante di tenerezza amara, di timido rimprovero, di passione umiliata:

— Perchè sei mia, perchè sei l'amor mio, la donna mia....

— Non è vero.

— Non è vero?

Ella fece per replicare con altrettanta vivacità; poi parve farsi forza, stringendosi una mano nell'altra. Dopo una pausa, tranquillamente, lentamente, spiegò:

— Lo sai, qual'è la verità, e non dovrei aver bisogno di ripeterla, ora. Per il mondo, per la legge, per i miei figli, io sono di mio marito. La fatalità mi ti sospinse dinanzi un giorno, quando ero sola, quando cercavo un amico. Cercavo un amico, ed ho preso un amante.... Ma no, non credere che io vada mendicando attenuanti. Ti avrei preso anche se non fossi stata sola. Mi turbasti troppo, mi piacesti troppo: anche questa è verità. Forse altre avrebbero resistito alla tentazione; io provai, ma non vi riuscii. Pago la mia debolezza, sai! O credi d'essere il solo a soffrire, con la tua gelosia? Io soffro della falsità in cui vivo, delle menzogne che dico, degli inganni che ordisco. Tu ti senti ingannato, ed hai ragione, sì; perchè se ti amassi come nei romanzi o sul teatro, avvelenerei mio marito, piuttosto che sottopormi alle sue carezze! Ti senti ingannato, ne soffri, e nel tuo dolore non pensi all'altro inganno che io infliggo, al tradimento che commetto, infinitamente più grave.

— No, perchè egli non sa. Chi non sa non soffre.

— Hai ragione, perchè io non conto. Che importa se soffro io?

Vi era tanto rimprovero nella calma apparente della sua risposta, che Lodovico chinò la fronte, con l'atteggiamento di chi sente il proprio torto senza potere o volere confessarlo. Dopo un breve silenzio le riprese la mano, appoggiò la fronte sulla sua spalla, mormorando:

— Mi perdoni, Rosanna?

— Di che? — fece ella, scotendo il capo, con un sorriso ironico e indulgente insieme.

— Di che? Di volermi bene?

— Lo capisci, lo sai, lo senti che se dico queste cose, se soffro questi tormenti, è perchè ti voglio bene? — A voce più bassa, ma più fervida, più appassionata, soggiunse: — Te ne voglio più che non credessi, sai! Non te ne ho voluto mai tanto. Ora, ora soltanto conosco e misuro quanto te ne voglio.

Appressatosi a lei, spinto addosso a lei dagli sbattimenti del treno serpeggiante precipitosamente per vie curve, si sentì tutto aderire al suo fianco soave. La cinse con le braccia, le ricercò con la bocca la bocca.

Ella si ritrasse, sciolse il nodo delle mani intrecciatesi alla sua vita:

— No, lasciami.

La sua voce era sommessa e dolce, ma ferma e risoluta. Egli obbedì, tacitamente.

— Tu misuri ora soltanto — riprese ella — il bene che mi vuoi, io misuro ora soltanto la colpa che ho commessa. Quando mi vincesti, quando mi diedi a te, la prima volta, non provai nulla del rimorso che avrebbe dovuto invadermi. Ti rammenti che te lo dissi, ti rammenti, di'?

— Sì.

— Guardai dentro di me, dissi a me stessa: «Ho tradito la fede giurata, sono adultera, adultera ». Ma queste parole non ebbero nulla del loro senso. E non già perchè mi fossi assuefatta all'idea della caduta. Mi conosci. Te lo direi. Mi ero anzi creduta padrona di me stessa, mi pareva moralmente e materialmente impossibile tradire mio marito. Perchè lo avrei tradito? Perchè era lontano? Per appagare un appetito, allora?... Ma quando ti conobbi, quando ti amai, mi parve altrettanto impossibile resistere a questo amore. Tu dubitasti dell'esistenza di mio marito perchè era assente; io me ne dimenticai. Come tu non t'inquietasti al pensiero che un giorno sarebbe tornato, così non vi pensai neanch'io. Noi abbiamo sempre coraggio per affrontare i pericoli lontani. Ora egli è qui. Io sono caduta nelle sue braccia uscendo dalle tue....

Egli domandò furiosamente:

— Di', che ti ha fatto?

Ma senza lasciarle il tempo di rispondere una sillaba, ingiunse con mal contenuta violenza, chiudendole la bocca:

— No! Taci!

Ella rise d'un riso sottile ed ambiguo. Voleva dire che non avrebbe parlato, anche senza il divieto? O che egli stesso, fra poco, avrebbe ripetuta la domanda? O che parlare e tacere era tutt'uno?

— Ora, vedi, — riprese pacatamente, — io so che cosa è il tradimento. Lo so ora, che v'inganno entrambi.

— No! — scattò egli ancora. — Tu non lo inganni, lui!

— No?

— O non lo inganni più, perchè sei tornata a lui e ti sottrai a me, e sei pentita d'esserti data a me; perchè lo ami, o ricominci ad amarlo, mentre non mi ami più, se pure mi amasti mai!

Dapprima ella scosse il capo, poi fece un gesto d'assenso, poi ripetè:

— Non ti amo; non t'ho mai amato. Naturalmente.

— Mi ami? Mi ami ancora? D'amore, ami me solo?

— No.

— Ci ami entrambi? Come puoi amare due uomini a una volta? Ami in lui il tuo protettore, il padre dei tuoi figli? Di quali sofistiche distinzioni sei capace? Parla, rispondi! Che cosa ti sentiresti di fare per provarmi l'amore che dici di portarmi?

— Che cosa vorresti che facessi?

— Lascialo, seguimi, dammi tutta la tua vita!

L'espressione del sentimento pervenuto al parossismo, della necessità intuita negli interminabili giorni vissuti insopportabilmente lontano da lei, riconosciuta un'ora innanzi, al sorgere del mortale pericolo sulla via ignota, in mezzo alle tenebre, gli era salita alle labbra impetuosa, irrefrenabile, irrevocabile. Stretto alle braccia di lei, con gli occhi perduti negli occhi di lei, aspettava ora la parola che avrebbe segnato il suo destino. Con l'animo sospeso, sentì che il treno rallentava, in prossimità di una stazione: attenuandosi il frastuono, arrestandosi la corsa, gli parve che anche quel formidabile ed incosciente congegno partecipasse all'ansiosa sua aspettazione.

Ella indugiava a rispondere. Lo guardava fiso, negli occhi, nell'anima. Mentre le voci dei conduttori annunziavano un nome incomprensibile, disse finalmente, pianissimo, passandosi una mano sulla fronte:

— Vuoi che lo lasci?... Lo vuoi proprio?... Sarebbe molto più facile che tu non creda.

Sulle prime egli non comprese. Poi, come un lampo, un dubbio gli attraversò la mente, il dubbio antico, dei primi giorni: ella non doveva essere unita legalmente a quell'uomo. Tutti i sospetti concepiti due anni innanzi, nell'incontrarla sola, in un albergo di montagna, lo invasero, confusamente; rivide in lei l'avventuriera sospettata, riprovò il moto di diffidenza che lo aveva fatto indietreggiare.

— Come sarebbe a dire? — proferì, dopo una lunga pausa, mentre il suono soffocato della cornetta e il fischio della locomotiva annunziavano la ripresa della corsa.

— Dico che la nostra unione non è indissolubile.

— Non siete maritati?

L'ambiguo sorriso tornò ad incresparle l'angolo della bocca.

— Siamo maritati.

— Allora?

Ella si prese la sinistra nella destra, considerando il cerchietto d'oro dell'anello nuziale lucente nella penombra. Lo fece girare un poco nel dito eburneo, poi lo trasse, lo guardò contro la luce.

— Allora, possiamo divorziare. Quando ti domandai se, libera, mi avresti sposata, ti spiegai che la mia domanda non t'impegnava a nulla, perchè la legge della Stanlesia non ammette il divorzio. Ti nascosi la verità.... quella volta sola!... Nella Stanlesia il divorzio è ammesso; come negli Stati più liberali dell'America del Nord, si può pronunziare per dodici motivi diversi.... Questo anello si può spezzare, io posso tornar libera, sposare chi voglio....

E lo guardò.

Considerando anch'egli il cerchietto d'oro, sentì lo sguardo di lei pesargli addosso. Comprendeva di dover dire, con impeto: «Sì, è ciò che sognavo, è ciò che volevo, è ciò che voglio; la soluzione insperata, la felicità assicurata. Perchè non me lo hai detto prima? Perchè non mi hai risparmiato tante pene?...» Ma una specie di afasia gli impediva di proferir verbo. Sentiva di doverle strappare quell'anello, di dover fare il gesto di buttarlo via; ma una specie di paralisi gli saliva dalla mano al braccio, come un gelo. Il suo lungo dolore degli ultimi mesi, il suo spasimo di un'ora addietro per la campagna oscura e taciturna, la sua decisione d'un istante prima, cadevano, si disperdevano, nel crescere e nell'aggravarsi di un senso di diffidenza ostile. Un dubbio gli balenava nella mente: non aveva ella taciuto finora per calcolo, per esasperarlo, per portarlo al grado della follia...? Lo aveva, ingelosito per ridurlo docile, inerte, pronto ai suoi voleri. Voleva esser sposata. Non gli aveva chiesto una prima volta, come per misurare l'amor suo, se, libera, l'avrebbe sposata? Questo era, evidentemente, il suo scopo! Ed egli che un momento prima si sarebbe legate le mani e i piedi pur di averla tutta e per sempre sua, ora, a un tratto, poichè la proposta veniva da lei, ma non francamente pronunziata, insinuata piuttosto, come una semplice possibilità; ora che ella gli poneva dinanzi, quasi per adescarlo, il cerchietto d'oro lucente, il simbolo della catena, ora egli si ribellava, sentendosi preso come in un tranello. Di no, di no, doveva rispondere di no, spiegando tutto il suo pensiero, poichè si era proposto di dir sempre la verità, poichè l'aveva detta e l'aveva pretesa da lei; ma quando alzò gli occhi, quando si vide guardato negli occhi, gli mancò il coraggio di significare una verità della quale comprendeva la bruttezza.

— Egli consentirebbe? — domandò, per indugiare ancora un poco prima di dire la menzogna.

— Se saprà che ho un amante, domanderà egli stesso il divorzio.

— Perchè non m'hai detto prima che avevamo questa via d'uscita?

Con la fronte e le sopracciglia un poco corrugate nello sforzo di fissare gli occhi negli occhi di lui, ella rispose domandando a sua volta:

— Perchè te lo avrei detto, mentre egli era lontano e tu tranquillo?

— Hai ragione!

— Perchè te lo avrei detto, quando mi dichiaravi che la libertà ti era troppo cara?

— Hai ragione! Ed io sono stato punito di quella risposta! Ma benedico le mie sofferenze perchè mi hanno preparato quest'ora di gioia. Tu spezzerai questo anello, ne porterai un altro, il mio, fino alla morte.

Senza lasciarlo con gli occhi, stringendosi ancora più a lui, ella insistè:

— Vuoi?... Proprio, vuoi?

— Ne dubiti?

— Non lo dici per condiscendenza? Ti senti di legarti per sempre? Sei sincero come le altre volte? Non mi nascondi nulla, in fondo all'anima?

Dopo un istante di lotta interiore, egli confessò:

— Sì, ti ho nascosto qualche cosa.... Non sono stato sincero. Mi è parso.... ho creduto.... non so.... Ti giuro che mi sarebbe sembrato un sogno, se m'avessero detto che potevi ancora liberarti da quell'uomo.... Ma ora.... quando l'hai annunziato tu stessa.... Non so.... il nostro cuore è così complicato....

— È vero. Hai temuto ch'io ti sforzassi?

— No, non questo precisamente. Perchè mi sforzeresti? Tu hai tutto da perdere lasciando tuo marito.... Egli ti ama ragionevolmente, ti lascia sola per anni, ha cieca fiducia in te. Della mia gelosia, delle mie esigenze, sai già qualche cosa.... Egli lavora per te, ti assicura una vita molto più larga che io non potrei.... Ma sì, lasciami dire: bisogna metter nel conto anche questo, se bisogna dir tutto.... Se mi proponi di sciogliere il tuo matrimonio per unirti a me, null'altro può guidarti fuorchè l'amore che mi porti. Ti chiedevo una prova dell'amor tuo: me la dài. Grazie, Rosanna!

Una gran tenerezza gli faceva tremare un poco la voce. Tutti quegli argomenti egli non li aveva cercati, non li aveva accattati come pretesti: erano vere ragioni emerse spontaneamente dal fondo del suo pensiero, come espressioni di verità lampanti. I cattivi sospetti erano stolti. Dopo averlo riconosciuto, dopo aver confessato il moto di diffidenza, si sentiva migliore, degno del suo perdono.

— Rosanna, tu m'hai compreso e perdonato. È vero che mi credi senza che io aggiunga altre parole?

— Sì, ti credo, — proferì ella, gravemente.

Egli si abbandonò. Passata una mano alla sua vita, stringendosi al suo fianco, aderendo a lei, guancia contro guancia, mormorò:

— Rosanna, è detto. Da due mesi, dal giorno che mi annunziasti il suo ritorno, questo è il primo momento che traggo liberamente il respiro. Se mi avessi annunziato prima la possibilità di questa soluzione.... No: non ti rimprovero! Forse avrei tentato di resistere, come ho resistito ora.... Ma non te ne dolere: è una prova; vuol dire che il bisogno di averti tutta per me è tanto forte da trionfare delle mie inveterate consuetudini di vita e di pensiero. Io non volli mai legarmi ad una donna, neanche a te: lo sai, te lo dissi. Ma in questi due mesi di spasimi insopportabili, una rivoluzione è avvenuta nella mia vita; a poco a poco, ogni giorno, ogni ora che passavo lontano da te, sentivo sorgere, ingigantire ed urlare la necessità di farti mia, di farmi tuo, per sempre. Stanotte, qualche ora addietro, quando ti ho aspettata struggendomi di desiderio doloroso, quando ho udito che un pericolo terribile era sorto sulla tua via, compresi che questa vita non è più possibile. Rosanna, la legge sociale e morale vuole che ogni uomo abbia una sua propria donna: io l'ho trasgredita, ma perchè non avevo ancora trovato chi prendermi. È venuta la mia ora, l'ora della crisi, della rinnovazione. Grazie a Dio non è troppo tardi, ma non è neanche presto, e non ho più tempo da perdere. Affretta il giorno della tua liberazione, e di qui ad allora ti giuro che non farò più nulla che ti dispiaccia. Se vuoi che non ti veda più, che non ti scriva più, che sparisca, non mi costerà nulla obbedirti, sorretto dalla divina speranza, dalla certezza beata. Andrò ad aspettarti in capo al mondo, o a Promonte. Ci sposeremo lassù, vedrai finalmente il mio paese, entrerai da padrona nella mia casa; ci sposeremo nella chiesa dove si sposò la mamma mia....

Sentì che ella scoteva la testa. Si volse a guardarla. Ella diceva di no, con una mossa del capo, tacitamente.

— Non a Promonte? In un altro sito?... Dove tu vorrai!

— No.

— Come?... Non vuoi?... Non mi credi?...

— Ti credo, te l'ho già detto. Ma perchè questo matrimonio si sciolga, perchè io torni libera di contrarne un altro con te, c'è ancora una difficoltà.

— Quale?

Ella sorse in piedi. Lungo le strette curve sulle quali il treno volava, la carrozza era scossa, urtata, sbattuta così violentemente, che riusciva molto difficile mantenersi ritti. Afferrata con la sinistra all'orlo della cuccetta superiore, ella distese la destra a cercare qualche cosa in mezzo alle borse ed alle scatole che vi erano sparpagliate.

— Che ti occorre? — domandò egli, sorgendo a sua volta.

— La borsetta a mano.

— Quella di cuoio?

— No, quella di maglia.

— Eccola.

Frugatovi dentro, tra il fazzolettino di pizzo, i guanti, le fialette, il portamonete, ne trasse una lettera, gliela porse senza dir nulla e si lasciò ricadere sul lettuccio.

Egli rimase in piedi, addossato alla parete, per leggere sotto la lampada. La lettera portava un francobollo inglese, con la stampiglia dell'ufficio di Londra; sulla busta, il nome e l'indirizzo di Rosanna, scritti con caratteri grandi, larghi, forti: la scrittura del marito, che egli riconobbe per averla vista sopra un'altra lettera odiosa: quella annunziante il suo ritorno. Il testo, in inglese, diceva:

«Cara Rosanna, mia cara moglie, ti avverto che ripartirò per l'Italia lunedì prossimo e che arriverò a Milano martedì, col treno delle 7 e 55 del mattino. Come mi promettesti, ti aspetto laggiù per tornare insieme con te a casa nostra, dove passeremo gli ultimi giorni prima della cerimonia. Io sono pronto, e non dubito che anche tu abbia tutto preparato. Ho molto piacere che tu abbia scelto un paesetto del lago dove nessun indiscreto ci disturberà; approvo pienamente che i ragazzi siano affidati alla famiglia di tua cugina. Cara moglie mia, a ben presto e per sempre».

Dopo aver letto, egli rilesse ancora, per comprendere, ascrivendo alla sua imperfetta conoscenza della lingua l'oscurità di quelle espressioni.

— Che cosa vuol dire? — le domandò poi, abbassando il foglio, senza tornarle a fianco.

— Non hai capito?

— Io no.... Tranne....

— Tranne?

— Che tu non m'abbia ingannato, assicurandomi che siete legalmente uniti.

— Non ti ho ingannato. Ma ti ho spiegato che ci maritammo con una legge che consente il divorzio, che lo pronunzia molto facilmente, per molti motivi, compreso il consenso reciproco.

— Allora?

— Allora, quella cerimonia i cui effetti si possono annullare con un semplice atto di volontà, quel matrimonio contratto fuori del mondo civile, dinanzi ad un giudice di pace mezzo selvaggio, non ci sembrò la cosa solenne che dovrebbe essere, che è per tutti gli altri. Allora, siccome mio marito è cattolico, e più che cattolico, credente, fu stabilito che avremmo celebrato un giorno il rito religioso in Europa, per santificare la nostra unione, per renderla veramente indissolubile.

— E non ci avete pensato ancora?

— Non ancora.

— E lo celebrerete ora?

— Sì.

— Egli è venuto apposta?

— No. Io stessa gli ho chiesto di effettuare il nostro antico proponimento.

— Tu? Quando? Ora? — pronunziò egli con impeto.

— Ora.

La guardò, poi si guardò intorno, come non sapendo dove fosse, come cercando qualche cosa intorno a sè. Nella corsa sempre più turbinosa, pareva che da un momento all'altro le lucide e fragili pareti della cabina dovessero sfasciarsi, che il pesante carrozzone dovesse forviare e frantumarsi. Ora, sotto una lunga successione di interminabili gallerie, il fracasso era talmente assordante come se intere montagne franassero.

— Tu?... — ripetè l'esterrefatto, pianissimo, quasi in un soffio, chinandosi verso di lei, afferrandola agli omeri, figgendole gli occhi nell'anima, trapassandola con lo sguardo infiammato.

— Sì, io.

— Tu, ora? Dopo aver visto la mia pena al solo pensiero del ritorno di quell'uomo? Quando c'era una via d'uscita da quest'inferno, tu stessa l'hai chiusa? Mi dirai almeno perchè?

E le strinse così forte le mani, che ella disse, con un ritorno dell'ambiguo sorriso:

— Mi fai male, sai!

— Ti spezzo! — scattò egli, esasperato dal suo sorriso, improvvisamente e confusamente sovvenendosi dei suoi lunghi dinieghi, delle sue resistenze, delle sue ostilità, con l'impeto folle di trarne vendetta, d'infrangere le morbide forme di quell'anima dura ed avversa. — Se tu persisti in questo proposito, se non dichiari a quell'uomo che hai mutato idea, ti spezzo, ti uccido piuttosto.

Ella rise più sottilmente ancora, dicendo:

— Via, non esagerare.... Noi non ci amiamo fino al delitto.

Improvvisamente egli la lasciò, le voltò le spalle, mosse un passo, afferrò la maniglia dell'uscio per ripassare nella propria cabina. La voce di lei lo trattenne: la voce non più fredda e incisiva, ma tenera e dolce come nei momenti migliori.

— Sei capace di riconoscere la verità?

— Che cosa vuoi dirmi? — proruppe egli ancora. — Che recito? Che recitiamo entrambi? Che recitano tutti? Che l'amor nostro, che tutto l'amore è una finzione, che tutta la vita è un inganno? Grazie. Lo so.

Ella gli stese le due mani, prese le sue, se lo trasse a fianco.

— Stammi a sentire.... Vienimi qui vicino, così.... Stammi a sentire senza interrompermi.... La vita è quella che è. Così com'è, una logica rigorosa la governa.... Un giorno tu mi dicesti che non mi avresti sposata, e fosti sincero. Zitto, lasciami parlare: non voglio essere interrotta, ti dico!... Fosti sincero, fosti nella logica della situazione d'allora. Io ero sola; nessuno ti dava ombra; perchè avresti menomata la tua libertà?... Sai perchè ti feci quella domanda? Per vedere se avresti mentito. Mentii io stessa, ti nascosi la possibilità di sciogliere il mio matrimonio, per proporti il caso astratto, per leggere nel fondo del tuo pensiero. Una promessa bugiarda mi avrebbe fatto dubitare di tutte le altre tue parole. Fosti sincero, e mi piacesti, e te ne fui grata. Ora dici che mi sposeresti, ora ti duoli perchè voglio escluderne la possibilità, e sei sincero ancora. Con la tua gelosia contro l'uomo che viene a riprendermi, non trovi, non puoi trovare altra uscita fuorchè nel rompere questo legame e nell'accettare di unirti con me. Anche questa è logica, anche ora dici quel che senti, quel che devi sentire: io non dubito delle tue parole. Ma se ciò che ora ti seduce si avverasse, se io fossi tua moglie, sai quale sarebbe la logica della situazione nuova? Quando mio marito non fosse più mio marito, quando non avesse più nessun diritto su me, quando non si frapponesse più fra noi, tu non saresti più geloso di lui, ma probabilmente di altri; e allora ti pentiresti di avere rinunziato alla possibilità di lasciarmi se io ti tradissi, o più semplicemente il giorno in cui l'amor nostro fosse finito; perchè lo sai, è vero? che l'amore, come ogni altra cosa, finisce? Un uomo giunto all'età tua senza avere provato il bisogno di prender moglie, può ridursi a portar via quella d'un altro, ma per pentirsene poi, per accusare di sciocchezza sè stesso e di calcolo quell'altra....

— Che dici? — tentò di interrompere egli, in un impeto di protesta.

— Non io; lo hai già sospettato tu stesso, or ora....

— Non m'hai compreso! Non m'hai perdonato!

— Ma sì, ma sì: ho compreso benissimo. Nulla di più naturale ed umano....

— Ma non sai che un'altra donna, nella tua condizione....

— Lo so: altre donne, nella mia condizione, darebbero qualche anno di vita per la possibilità di unirsi indissolubilmente all'amante. Lo so: vi sono mogli che per raggiungere questo scopo fanno l'impossibile, affrontano lunghi processi, adducono le più tristi e penose menzogne, rinnegano la patria.... E stammi a sentire: finchè non ti avevo incontrato, io mi rallegravo del mio privilegio. Non ammettevo di dover tradire mio marito; ma pensavo pure talvolta, leggendo un romanzo, udendo una musica, ricordando i sogni della prima gioventù, che un giorno avrei potuto essere esposta ad una tentazione irresistibile.... Quel giorno avrei potuto mettere d'accordo il mio cuore e la mia coscienza, con la facilità di ottenere il divorzio dalla legge africana. E se alla nostra unione manca ancora la consacrazione religiosa, dopo tanti anni, ciò non è stato già per la lontananza di mio marito, per i troppo brevi suoi ritorni; ma perchè io stessa ho indugiato pensando che fosse stolto rinunziare alla via d'uscita, nel caso che avessi amato un altro uomo.

— E vi rinunzi ora che mi ami? — disse egli, interrompendola violentemente, torcendole una mano.

Ella rispose, guardandolo in faccia:

— Sì, perchè ti amo.

Per un momento egli rimase attonito, senza fiato, come sospeso in un dubbio oscuro. Ella gli prese la testa fra le mani, gli accostò la bocca alla bocca.

— Perchè t'amo, capisci? mio malgrado, contro ragione, non so come, non so quanto; e perchè questo è il solo modo d'amarti ancora e d'essere amata da te. Tu m'amerai finchè sarò d'un altro: che m'importa del tuo tormento? Finchè sarai geloso, mi amerai, da morirne; il giorno che fossi tua moglie l'amor tuo finirebbe nella sicurezza, nella sazietà. Io sono orgogliosa anche, sai, e non voglio doverti nulla. Anche se fossi povero e mi dessi il solo tuo nome, ti resterei obbligata, e non voglio! Voglio obbligarti io, invece; voglio che tu stesso debba a me qualche cosa, poco o molto, non importa, non foss'altro ciò che l'amor mio è stato finora nella tua vita d'uomo e d'artista.

Allora egli tremò, abbagliato dalla nuova bellezza diffusa nel viso di Rosanna, dalla luce sfolgorante nel suo sguardo, oppresso e come impaurito dall'ebbrezza prodotta dalle parole di lei, dal ritrovare in lei finalmente, dopo i lunghi dubbî e gli sconforti e le disperazioni, la donna amante che gli si era concessa dopo una lunga resistenza, ma senza falsi pudori, senza ipocrisie, senza calcoli, per impeto di simpatia, per forza di desiderio, per slancio di passione; allora, col cuore stretto dalla vergogna per i sospetti concepiti un momento prima, con l'anima chiusa dal dolore nel veder dileguarsi per volere di lei l'insperata possibilità, egli pianse. Non una parola gli uscì dalla gola stretta nello spasmo, dalle labbra bagnate dalle grosse lacrime che gli rigavano il volto.

— Non voglio che tu pianga! — disse ella, accigliandosi, ritraendosi. — Non mi piace il pianto d'un uomo. E poi, di che ti lagni? Hai dimenticato ciò che mi dicesti una volta?

Egli la guardò senza rispondere, senza comprendere. Tante cose le aveva dette! A quale alludeva?

— Non ti rammenti che prevedendo la fine dell'amor nostro, io previdi anche che dopo di te avrei preso necessariamente un altro amante, e poi un terzo, e poi un quarto, e che mi sarei a poco a poco ridotta come le donne che hanno perduto ogni diritto al rispetto?

Il ricordo atroce irruppe nella sua mente. Infatti!... Senza una parola nè un accento di rimprovero, accertando semplicemente una verità patente ed una legge ineluttabile, ella aveva affermato l'impossibilità di fermarsi nella via degli errori; gli aveva riferito il giudizio letto in un libro: «Si trovano donne che non hanno avuto mai amanti, non se ne trovano che ne abbiano avuto uno solo». Atroce, atroce la pena allora sofferta. Ella non gli aveva rimproverato di averla sospinta per la lubrica china, ma egli stesso ne aveva provato un rimorso acutissimo. Una gelosia inaudita, la gelosia contro gli ignoti, ignoti ancora a lei stessa, in braccio ai quali ella sarebbe caduta, lo aveva morso. Per evitare l'estremo avvilimento di quella creatura, per evitare a sè stesso il rimorso intollerabile, per salvare le anime loro, egli le aveva proposto di lasciarsi, piuttosto, in piena passione, di amarsi da lontano, dolorosamente ma puramente, di non amarsi piuttosto in nessun modo, se a questo patto ella si sarebbe sentita sicura da nuove cadute.

— Non ti rammenti che mi offristi di rinunziare a me, per salvarmi?... Te ne rammenti, è vero?... E allora, non ti lagnare! Lasciami stringere a mio marito: è il mezzo di garentirmi contro nuovi pericoli e di vivere solo, eternamente, nella mia memoria.

Egli chinò il capo, chiudendosi la bocca col fazzoletto, per reprimere il nuovo impeto di pianto.

— Non piangere! — ingiunse ella ancora.

— Tu che comprendi tante cose, — le rispose, amaramente, con voce rotta, — non comprendi il mio dolore?... Non comprendi che io darei la vita per averti conosciuta prima, quando nessun'ombra aveva sfiorato questa tua anima, quando nulla avrebbe potuto impedirti di accettare il mio nome?

Ella tacque un poco, a capo chino, con lo sguardo fiso; poi disse, piano:

— Sì, prima.... forse....

— Ed anche ora! — insistè egli, stendendo le braccia, cercando di stringerla a sè, di vincerla con la forza dei muscoli e l'impeto delle parole. — Ed anche ora, Rosanna; se tu vuoi, se credi all'amor mio, se sei capace di leggermi nel cuore, di vedervi la fiamma che lo investe e lo brucia. Se non vuoi che il rimorso avveleni tutta la mia vita, dimmi di sì, dimmi di sì; altrimenti dovrò credere che tu intenda punirmi, giustamente, perchè quando mi proponesti la prima volta l'ipotesi della nostra unione, ricusai di accoglierla. Sii generosa, non mi serbare rancore....

— Non te ne serbo.

— Allora non t'impegnare, Rosanna! Sei ancora in tempo! Non ti chiedo altro che d'aspettare ancora un poco, per rassicurarti, per provarti che non posso mutare, qualunque cosa avvenga; che abbandonarmi a te, riposare in te, darti quanto mi resta di sentimento, di ingegno e di vita, è l'unico mio desiderio, l'ultimo mio bisogno....

Ella scosse il capo, senza rialzarlo.

— No. Mai.

Egli si premè tra le mani la fronte scottante; poi, levatosi, si appressò al finestrino, col petto oppresso, il respiro mozzato dall'aria ormai greve della cabina, avido di ristorarsi al soffio della notte. Restò invaso dallo stupore alzando la tenda: albeggiava, il cielo impallidiva sulla terra ancora avvolta nell'ombra, le masse vegetali si profilavano dense e nere sul lividore dell'orizzonte. Oltre la linea della siepe fuggente e stormente al soffio impetuoso prodotto dalla corsa del treno, i campi rigati dai solchi delle piantagioni, pezzati dalle culture, divisi dai fossi; i casolari vigilati dagli alberi d'alto fusto, nel mezzo dei chiusi, dormivano ancora, parevano abbandonati, deserti, senza forme viventi, senza chiarori alle finestre, senza fumi ai comignoli: solo nelle profondità dello spazio ricominciava la vita col dramma eterno della notte e del giorno, con la tacita pugna della luce e delle tenebre personificata nei miti antichissimi, perpetuantesi nel tempo interminabile. Il convoglio fuggiva verso la notte in fuga, come nella folle intenzione di raggiungerla, e gli occhi del dolente tentavano di rifugiarvisi, gonfî di nuove lacrime dinanzi all'agonia di quella notte d'amore e di dolore.

— È giorno?

La voce di lei, la mano di lei appoggiatasi alla sua spalla lo fecero trasalire.

— Di già!

Poi, scorgendo gli occhi lacrimanti:

— Ancora? — soggiunse, crucciata.

Egli disse, in tono di amara preghiera, scrollando il capo:

— Che ti fa?... Lasciami piangere!

Il suo pianto era queto e dolce, senza singhiozzi. Piangendo le passò un braccio attorno al collo, posò la fronte sulla sua spalla. Sempre tentando d'infrenare l'impeto della commozione, disse:

— Capisco.... capisco.... Forse hai ragione.... forse l'amore finirebbe se ti avessi tutta per me.... Tristo cuore, il nostro.... Tristo amore, che ha bisogno di sentirsi insidiato, di lottare per vivere....

— Tutta la vita è lotta.

— È vero. È vero.

Di momento in momento la luce si diffondeva vittoriosa; il cielo dell'orizzonte già splendeva come un'immensa lastra d'argento tagliata da un fuso di nubi che s'indorava dalla parte del sole imminente. Egli volse lo sguardo da quello spettacolo agli occhi della donna. Anche in lei, anche nell'anima sua, un contrasto di luci e d'ombre, fulgori di bellezze e oscurità profonde. Come giudicarla, se anch'egli aveva il sentimento della propria miseria, se temeva di spingere lo sguardo nelle oscure profondità della propria coscienza?...

— Che ore saranno?... — domandò la sua voce.

Egli trasse l'orologio.

— Sono le sei e dieci.

— Milano è vicina!... Rientra nella tua cabina. Ho bisogno di restar sola.

— Vado. Mi richiamerai?

— Sì.

Le sfiorò la fronte con un bacio lieve, e la lasciò. Ancora il giuoco degli specchi, nel passaggio, lo fece sussultare; poi, aperto il finestrino della sua cabina, si abbandonò sul lettuccio. Con gli occhi alla luce trionfante, abbacinato, cullato dal moto del treno dopo la notte insonne, sentì il suo pensiero annebbiarsi. Era partito la sera precedente? Non era passato un tempo lunghissimo, dal momento che aveva ricevuto la lettera di Rosanna? Quante cose, nel giro di poche ore! L'attesa alla stazione, il pericolo sulla linea ingombra, la corsa lungo il binario.... Ma quanti maggiori mutamenti nelle disposizioni del suo cuore, quanti più gravi avvenimenti nella sua intima vita! Dalla gioia al pensiero di rivederla dopo tanta separazione, al proposito di rimproverarla acremente per il lungo abbandono; dalla paura di perderla spaventosamente in uno scontro di treni, all'ebbrezza di stringersela viva sul vivo cuore; dalla rivelazione della possibilità del divorzio, alla inesorabile deliberazione del ribadimento della catena.... Di un altro! Di un altro! Era d'un altro, restava d'un altro, sarebbe sempre stata d'un altro. Il treno la trasportava con la velocità del vento incontro a quell'uomo, traversava senza fermarsi le stazioni minori, sostava un istante nelle più importanti, riprendeva la sua corsa fatale verso la mèta. Ora non più ostacoli lungo la via ferrata, libera fino all'estremo orizzonte sui pingui campi ridestati dal sole. Così fossero sorti altri ostacoli! Se almeno quel convoglio si fosse infranto contro un altro, se si fosse precipitato in un abisso, se si fosse bruciato tra le fiamme d'un incendio inestinguibile! Null'altro avrebbe potuto impedire che Rosanna raggiungesse suo marito, che rendesse più stretto il nodo coniugale. Meglio la morte, meglio morire schiacciato, arso, annientato con lei, dopo avere intravvisto la possibilità di farla sua!... Ecco, roteanti nella corsa del treno, le case del suburbio milanese; ecco il conduttore apparire sull'uscio: «Siamo a Londra, signore». A Londra? Come mai tanto lontano? Ma via, giù dal letto per entrare nella cabina di lei, a darle l'ultimo bacio. Vuota, la cabina; ella stava fuori, nel corridoio, in piedi dinanzi ad una finestra, fra gli altri viaggiatori pronti a discendere; e non uno sguardo per lui, quasi fosse divenuto un estraneo, quasi non lo avesse mai conosciuto. Non si conoscevano più, come sotto il «Senegal»: ella era d'un altro. Ecco: quell'altro aspettava sotto la tettoia, faceva cenni di saluto alla donna sua; ma allora ella si rivoltava, rientrava un istante nella cabina e traendolo a sè lo baciava sulla bocca....

Il bacio lo destò. Il sogno non era stato tutto ingannatore; ella era china su lui, sorridente, odorante, fresca dopo il lavacro mattutino.

— Lévati, dormiglione: siamo a Milano. Distese le braccia per stringerla a sè, ma ad un tratto udì picchiare. Rialzatasi rapidamente, ella sparì dietro l'uscio del gabinetto.

— Avanti, chi è?

Il conduttore entrò annunziando:

— Siamo arrivati, signore.

— Grazie. Va bene. Pensate alle mie valigie.

Si alzò, si ricompose, uscì nel corridoio. Ella vi era già, gli sorrise, gli stese la mano, come riconoscendolo in quel punto.

— Avete dormito bene, Bertini?... — A voce più bassa soggiunse: — Ti permetto di accompagnarmi.

Egli dubitò di avere udito male. Non gli aveva scritto che alla stazione di Milano doveva lasciarla, che dovevano fingere di non conoscersi? Ma poichè ella si rivoltava, quasi a richiamarlo, ad attirarlo presso di sè, la raggiunse e l'aiutò a discendere.

Un altro treno sopraggiungeva in quel momento, empiva la tettoia di frastuono e di fumo.

— Chiasso? — domandò ella al facchino,

— Chiasso, sissignora.

Ella cercò tra la folla dei viaggiatori attraversanti i binarî, avviantisi alle scale d'uscita.

— Eccolo!... — disse, riconoscendo l'alta figura del marito, intento anch'egli a guardarsi intorno; poi ingiunse: — Seguimi.

Lodovico la seguì macchinalmente. Prima che potesse riflettere, che potesse considerare quale fosse la nuova volontà di lei, la vide scambiare un bacio col consorte e poi rivolgersi verso di lui:

— Francesco, ho il piacere di presentarti il signor Bertini.... un grande scultore italiano.... un mio buon amico, col quale ho fatto insieme il viaggio....

III. Sul lago.

Acque grigie, cielo grigio, veli di nebbie erranti sulle coste dei monti, solitudine e silenzio sulle rive fuggenti dinanzi al battello vibrante e pulsante. Ai rintocchi della campana del timoniere, Perez, ritto a poppa con gli sguardi verso le lontananze vaporose del bacino di Morganella, si rivolse, vide il pontile sporgente dalla sponda sinistra, lesse col cannocchiale il nome scritto sull'arco dell'approdo: «Promonte-Fraida», e andò a cercare la sua valigia, deposta sotto coperta per timore che venisse a piovere. Il «Ticino» era mezzo vuoto, in quella uggiosa mattinata d'autunno; nessun forestiero tra gli scarsi viaggiatori della prima classe; popolata solo la seconda, di paesani: fattori di campagna con sacchi e fagotti, operai con gli strumenti del mestiere, qualche contadina col capo avvolto nel fazzoletto vistoso, due preti che si preparavano a scendere mentre il moto delle ruote si arrestava, per riprendere subito dopo in senso inverso. Sul pontile non c'erano nè viaggiatori nè curiosi: solo due marinai della «Lacustre» pronti ad afferrare le gomene lanciate dai loro compagni di bordo.

Sbarcato con la sua valigia in mano, Perez si guardò intorno, un poco imbarazzato: Lodovico gli aveva scritto che lo avrebbe rilevato all'approdo, e non si vedeva nessuno.

— Non c'è una carrozza? Un omnibus d'albergo? — domandò a uno dei marinai.

— Nossignore. A questa stagione c'è aperto il solo «Grand-Hôtel», alla Fraida; ma l'omnibus scende soltanto alla stazione della ferrovia, a Gozzana.

— Si troverà almeno qualcuno che mi porti la valigia e mi insegni la via?

— Dove va?

— Dal signor Bertini, il cognato del dottor Salfi....

— Ah, bene! — rispose quell'uomo, con espressione di rispetto, udendo pronunziare i due nomi. — Aspetti un momento che il battello sia ripartito: proveremo all'osteria del Morello; e se mai, sono qua io.

Ma quando il «Ticino», liberato dalle gomene, fischiò sul punto di riprendere la corsa, Perez udì il fischio prolungarsi in un tintinnìo di sonagliere. Rivoltatosi, vide un calessino avanzarsi a tutta carriera, arrestarsi di botto dinanzi al pontile: Lodovico lo guidava.

— Manca di funicolari, questa tua Promonte! — gli disse allegramente, caricando la valigia sullo svelto veicolo. — Quando si sta fra le nubi, si fa trovare almeno un ippogrifo!

— Scusami, — rispose l'altro. — Ho calcolato male il tempo. Ti prego di scusarmi.

— Non ti scuso niente affatto: ti ringrazio. Almeno una volta in vita mia avrò potuto pronunziare una parola regale: «Poco mancò non mi toccasse aspettare!...»

Rise della propria facezia; poi, osservando il cavallino fremente per la corsa vertiginosa e carezzandolo sulla groppa in sudore, esclamò:

— Ma guarda questa povera bestiola, come me l'hanno conciata!... Ma che maniera di guidare!... Denunzieremo il signor padrone alla Società zoofila del capoluogo!

Quando ebbe preso posto accanto all'ospite, quando il legnetto s'avviò per la salita, gli mancò il cuore di scherzare. Se non avesse visto l'amico suo da tre anni invece che da tre soli mesi, l'opera del tempo avrebbe spiegato la trasformazione operatasi in lui; il solo dolore dell'anima non poteva averla prodotta. I capelli delle tempie erano quasi tutti incanutiti; sul viso scarnito e soffuso d'un lividore malsano le occhiaie si erano gonfiate d'umore, come negl'infermi di nefrite; i solchi delle rughe erano più profondi, le vene temporali più turgide e serpiginose. Bisognava domandargli: «Soffri? Perchè non ti curi?...» ma le parole gli morivano sulle labbra, per paura di toccare la piaga secreta di quell'anima in pena.

Egli stesso ruppe il silenzio per domandargli:

— Sei partito iersera?

— Iersera.

— Hai fatto colazione?

— Sì, male, a bordo.

— Prenderai qualche cosa arrivando.

— No, grazie; aspetterò il pranzo, oramai.

Il cavallino scodinzolava, dondolava la testa, annitriva, quasi scacciandosi di dosso la stanchezza per vincere l'erta della via tagliata sul vivo e nudo fianco della montagna.

— Che vista!... — esclamò Perez, volgendo lo sguardo al lago, che dall'altezza gradatamente crescente si slargava, svelando tutte le sinuosità delle sue coste, tutte le macchie dei paeselli adagiati sulle rive o inerpicati su per le frastagliate pendici. — Una lastra d'acciaio, — riprese lo spettatore ammirato ed estatico, — in fondo a una conca di lavagna: guarda che stupenda intonazione!... È questo il punto da cui prendesti il bozzetto che mi mandasti dopo la prima rappresentazione del «Fascino»?... Ma nel tuo quadretto c'è il sole, c'è l'azzurro, c'è il verde....

Tacque, per la rinnovata paura di toccare un tasto falso. Dopo un'altra lunga pausa domandò:

— A casa tua stanno tutti bene?

— Bene, grazie.

Come affrontare l'argomento scottante? Come riprendere la conversazione interrotta da tre mesi, all'arrivo del «Senegal», dopo quanto aveva saputo?... Accompagnato l'amico alla stazione, quella sera, con vane parole di esortazione alla calma, con la viva raccomandazione di non lasciarlo almeno senza notizie, non aveva più ricevuto da lui se non qualche cartolina illustrata da diverse città e stazioni climatiche svizzere. Gli aveva scritto egli stesso; ma la sua lettera, diretta alla posta di Lucerna, non doveva, essergli pervenuta, perchè era rimasta senza risposta. Aveva chiesto di lui a sua sorella, a Promonte, ed ella gli aveva fatto sapere che era tornato lassù, con lei, ma in condizioni di salute e di spirito che la impensierivano. Si era proposto di chiedere qualche giorno di licenza per andarlo a trovare, quando una strana lettera gli aveva preannunziato l'imminente scioglimento del dramma. Sulla busta, con l'intestazione del «Grand-Hôtel» di Fraida — una frazione di Promonte, dall'altra parte del lago — la scrittura dell'indirizzo gli era riuscita ignota. Cercata, prima di leggere, la sottoscrizione, il nome di Rosanna Lariani lo aveva stupito. Che mai poteva volere da lui?... Ella gli si rammentava, evocando rapidamente i ricordi di Valsorrisa; poi gli chiedeva senz'altro un favore. Al suo matrimonio, contratto civilmente nella Stanlesia, era mancata — narrava — la benedizione religiosa; un po' tardi, ma in tempo, aveva deciso, d'accordo col marito, di accostarsi all'altare; per evitare l'indiscreta curiosità dei conoscenti, sarebbero andati a sposarsi in un paesetto fuori mano, a Promonte sul Lago, la terra natale del comune amico Bertini; e poichè questi aveva accettato di essere suo testimonio, ella chiedeva a lui stesso se voleva servire da testimonio al marito; in caso affermativo, lo pregava di trovarsi lassù per la mattina del 27 ottobre, alle 7; la cerimonia si sarebbe celebrata, beninteso, con estrema semplicità, senza la minima concessione alle consuetudini mondane, senza nessun altro spettatore fuorchè i due amici testimonî, ai quali era data viva preghiera di astenersi da ogni formalità, di non darsi altro disturbo fuorchè quello di assistere al compimento del rito.... Naturalmente egli aveva risposto accettando, annunziando anche a Lodovico che sarebbe arrivato con la seconda corsa del 26. Nulla gli aveva chiesto di spiegargli, come se avesse compreso ogni cosa; e in verità, quantunque ignorasse quanto era sopravvenuto, aveva intuito la gravità della crisi. Per ribadire l'anello che la legava al marito, bisognava che quella donna volesse sottrarsi all'amante; ma perchè mai, allora, proprio l'amante doveva assistere a quelle nozze? Un secreto accordo era intervenuto fra loro? Ma allora che cosa crucciava, quale pena rodeva l'amico suo?

— Volendo ripartire domani, — gli domandò, per dire qualche cosa, per interrompere il silenzio penoso, — quale corsa mi conviene prendere?

— Quella del pomeriggio. La mattina il battello in discesa passa alle 5; bisognerebbe levarsi alle 3 per giungere in tempo.

— No, non ho furia; preferisco aspettare.

Tacque ancora; poi ridomandò:

— E tu, ti tratterrai un pezzo quassù?... Tornerai a Firenze?... Che cosa ti proponi di fare?

L'interrogato si voltò a guardarlo con espressione di meraviglia.

— Mi tratterrò?... Dove andrò?... Che cosa farò?...

Pareva in preda a un grande stupore, come se le domande fossero troppo bizzarre e stravaganti.

— E tu, lo sai che cosa farai?... Lo sa nessuno, quel che farà?... Conosci qualcuno che faccia ciò che vuole?... Ah, sì!...

Un carro in discesa era apparso da una svoltata e s'avanzava incrociandosi col calessino. L'uomo che lo guidava, un contadino di dubbia età, con le labbra sottili interamente sbarbate, gli occhietti lucenti, il collo avvolto in un fazzoletto, salutò profondamente, cavandosi il berretto.

— Riverisco, signoria!

— Ciao, Pin!... — gli gridò lo scultore, improvvisamente animato, con un sorriso ed un gesto vivace. — Tien duro, Pin!... Non mollare!... Vendiamolo caro, quel seme....

— Stia pur sicuro!... — gridò a sua volta il passante, con un riso sonoro. — A Pinella Scórcola non la fanno mica!...

— Bravo Pinella!...

Ma gettata quella voce d'approvazione all'uomo già lontano, lo sguardo del dolente si spense.

— Quel bruto, sì, fa ciò che vuole; sa quanto deve vendere il suo raccolto, come può frodare il compratore. — Dando un colpo di frusta al cavallo che trasalì e quasi s'impennò all'inusato maltrattamento, soggiunse: — Tu lo sai ciò che vuoi: arrivare presto alla stalla, mangiare il tuo sacco di biada.... Ma io, ma noi....

— È vero! — mormorò Perez, chinando il capo, pensando alla stranezza del caso che lo faceva salire su quell'alpe per assistere alle rinnovate nozze d'un uomo che non conosceva e della donna per cui l'amico suo spasimava.

Ma Lodovico, con voce rauca, strozzata da un colpo di tosse, ribattè:

— È vero, che cosa?... C'è qualche cosa di vero?... C'è qualche cosa di reale?... Io ti domando se questa scena che ci sta dinanzi esiste, se noi che parliamo esistiamo, se l'universo e la vita hanno nulla di consistente.... Divago? Hai paura che mi giri?

— Vedo che soffri.

— Ora? In questo momento? No. Ora non soffro.

Perez tentò di prendergli la mano guantata che stringeva le redini, esclamando:

— Lodovico, lasciami dire....

Ma egli continuò, come se non avesse udito l'interruzione:

— Ora mi par di sognare.... Ti giuro che il solo sentimento ancora vivo in me è lo stupore.... Non mi riconosco, non riconosco niente intorno a me.... Tutto ha un senso nuovo, insolito, impenetrabile.... La memoria m'inganna.... Ho tardato a ordinare che attaccassero perchè non pensavo più che tu dovessi arrivare a quest'ora.... quantunque il motivo del tuo viaggio.... quello, no, non mi fosse uscito di mente!...

Rise d'un riso così doloroso, che Perez ripetè con nuova effusione il gesto, gli strinse con più forza la mano ed espresse finalmente tutta la sua inquieta curiosità domandando, a frasi rotte, per accenni:

— Ma perchè?... Che cosa significa?... Siete d'accordo?... Con quale intenzione?

Abbandonate le redini per rispondere alla stretta della mano amica, Lodovico mormorò, battendo le ciglia sugli occhi stanchi:

— Perchè!... Perchè questa è la logica, dice, della nostra situazione.... Perchè il nodo che la stringe a suo marito è troppo saldo, perchè quell'uomo soffrirebbe troppo nel perderla, perchè i figli non possono essere abbandonati....

— Va bene; ma quale necessità di compiere la nuova cerimonia?...

— Non potendo disfare questo nodo, bisogna, dice, rinsaldarlo. Si sono sentiti, dice, poco maritati dalla legge africana, che consente il divorzio con estrema facilità; vogliono, vuole, una conferma irrevocabile.

— E tu, proprio tu, devi servirle da testimonio?

— Io. E la cerimonia deve celebrarsi proprio qui, nella chiesa del mio paese; e tu, il mio migliore amico, il mio confidente, anche tu devi esser presente.

— Lo so, ma non capisco. Perchè?

— Perchè! Forse perchè io non possa dubitare che il suo proponimento è stato attuato; perchè neanche in sogno io creda più alla possibilità che torni libera.

— Ma dunque.... volevi che divorziasse?

Il dolente strinse anche più forte la mano fraterna.

— Non posso vivere senza di lei.

— Volevi sposarla?... — insistè Perez, stupito.

— Ti pare incredibile? Non te ne sai dare ragione?... Ma capisci ora la parte che questa donna ha presa nella mia vita?... Sì, ho voluto unirla a me, per sempre.... E la perdo, invece, per volontà sua, unicamente. E non posso maledirla.... Tu che studii il cuore umano, studia questo caso: ella mi sfugge perchè mi ama. Questa è, dice, la più gran prova d'amore che m'abbia data. Ascolta, tu che passi come me la vita a cercare immagini di bellezza: io le dissi un giorno, ai primi tempi dell'amor nostro, che bisognava fare una cosa bella di questo nostro amore, che bisognava salvarlo dalla corruzione, dalle volgarità.... Quando mi è parso che la dissoluzione del suo matrimonio e la nostra unione fossero ciò che di meglio potessimo fare per la bellezza dell'esempio che avremmo dato al mondo, ella ha sdegnosamente sorriso, mi ha dimostrato che ci saremmo odiati il domani delle nostre nozze; mentre, dal momento che ci saremo uniformati alla necessità, che avremo sacrificato il nostro piacere al dovere, che avrò assistito alla benedizione del suo anello nuziale, la nostra fiamma purificata arderà più alta, la stessa memoria dell'amor nostro sarà benedetta....

La sua voce si spense in un brivido. Lasciata la mano del compagno, riafferrò le redini, le trasse forte a sè, fece arrestare la bestia e balzò a terra.

— Lodovico! Che fai?

— Nulla: mi muovo.

Perez scese anche lui, gli si pose a fianco, incapace di proferir parola. Sentiva l'inutilità di qualunque commento, l'intimo accordo dei loro giudizî nel riconoscere che quella soluzione era veramente la più degna, la sola degna. Soltanto, mentre egli la considerava teoricamente, da spettatore disinteressato, il cuore dell'amico suo sanguinava. Come confortarlo? Che dirgli?

Il cavallo, nonostante la minor gravezza della soma e la minore pendenza della strada già presso al termine, non aveva modificato l'andatura. Ora il lago era scomparso dietro le spalle dei viandanti; in una insenatura della montagna si scorgeva il paesetto con le sue casette bianche sparse come un gregge intorno ad una massa alta e scura: la chiesa. Fra poche ore, lassù, si sarebbe compiuto il rito. Come avrebbe Lodovico sostenuto la commozione ineffabile, se il solo pensiero di ciò che si preparava lo turbava così? E che cosa sarebbe poi avvenuto dei due amanti? L'intenzione di attingere nella benedizione nuziale nuova forza per resistere alla tentazione e tornare al suo ufficio di moglie e di madre, chiudendo nel cuore la fiamma del sentimento vietato, deponeva senza dubbio in favore di quella donna; ma i migliori proponimenti sarebbero poi valsi contro l'abito contratto, contro la forza dei ricordi? Che ostacolo avrebbe ella potuto trovare nel compimento della cerimonia religiosa al proseguimento dei loro secreti rapporti? Vedendo l'angoscia dell'amico, Perez pensava di confortarlo con questo argomento: «Non ti disperare: costei che ti dà una prova d'amore rifiutando di unirsi a te, ma per restar tua con la memoria, col cuore, tornerà a te, nell'altro modo, quando vorrai....» ma uno scrupolo lo tratteneva, un senso come di pudore all'idea di negare una cosa bella, la saldezza dei buoni propositi di lei, la possibilità che entrambi perseverassero nel sacrifizio.

— Partiranno subito? — domandò tuttavia, per dedurne quando e dove avrebbero potuto rivedersi.

— Subito.... Scenderanno a Gozzana per prendere il treno delle undici e cinque.

— Tornano a Firenze?

— Per prendere i figli. Ripartono per l'Inghilterra.

— Suo marito non torna in Africa?

Lodovico rispose di no con una mossa del capo.

— No? Non vi torna più?

Con uno sforzo su sè stesso, l'interrogato proferì:

— No.... Si è dimesso.... Si stabiliscono a Londra....

A quell'annunzio, improvvisamente, Perez ebbe la piena coscienza del proprio torto. Il sacrifizio era totale, per volontà di lei, evidentemente; ella aveva sentito che non bastava unirsi spiritualmente al marito, ma che doveva restare al suo fianco, materialmente, vigilata dal suo affetto, lontana dalla tentazione. Nulla restava da dire per consolare l'afflitto; nulla, fuorchè lodare la bellezza di quell'anima; ma ogni parola di lode non avrebbe aperto una nuova ferita nell'anima dell'amante?

Procedettero ancora un pezzo in silenzio; poi, alla Croce del Calvario, scoprendosi il panorama della Valsilvana, simile ad uno squarcio enorme nel fianco della terra, con le vene denudate del Borchio e della Marsaglia, Perez sostò un momento, volgendo lo sguardo per il paesaggio.

— E questo «Grand-Hôtel» di Fraida? — domandò all'amico. — Io non me ne rammento.

— Dall'altra parte della montagna, oltre il bosco dei larici.

— La conosco, Fraida; dico che questo albergo due anni addietro non c'era.

— È nuovo, dell'altro anno.

Superato l'ultimo tratto dell'erta, il cavallo s'arrestò al principio d'un viale piano e diritto. Pareva che l'intelligente animale volesse significare: «È ora di risalire». Lodovico, infatti, riprese il proprio posto, seguito dall'amico. Appena sentì le redini in mano al padrone, la bestia ripartì al piccolo trotto, con la testa alta, scodinzolando. In pochi minuti percorse il viale, sino in fondo alla piazza.

La chiesa la dominava, da una specie di alta terrazza alla quale si saliva per una larga gradinata: una chiesa severa come un castello, munita di due campanili che parevano torri, coi muri disadorni anneriti dall'età, umidi e rivestiti di musco alla base. Un poco più in alto della chiesa, di fianco, tra una folta macchia di alberi, un vasto e basso casamento, con una specie di rustico, portico, formato da colonne di mattoni: la vecchia casa dei Bertini. Il cavallo s'avviò lentamente per la ripidissima viottola che portava lassù. Sotto il portico i parenti dell'ospite aspettavano: la sorella, il cognato, i nipoti.

— Benvenuto!... Bentornato fra noi!... — esclamò il dottore, con un sorriso cordiale sulla faccia barbuta, stendendo le braccia nerborute a prendere la valigia, a stringere le due mani dell'ospite. — Da quanto tempo ci aveva promesso questa desideratissima visita!...

— Si vede — soggiunse la sorella, scrollando il capo precocemente bianco di chiome, ma roseo e fresco di carnagione — che il nostro paese non gli piace, e forse neanche la nostra casa!

Perez protestò vivacemente:

— Signora Laura, non mi mortifichi, adesso!... Sarei di difficile contentatura se non giudicassi il paese semplicemente meraviglioso; e quanto alla loro casa, è proprio sicura che sia tutta loro, dopo che io vi sono venuto?

— Questo è anche vero! Ma se non esercitate la vostra parte di proprietà, c'è il caso d'incappare nella prescrizione!

— Eccomi qui ad interromperla!... Come cresce questa gioventù!... — esclamò poi, rivolgendosi ai due adolescenti, posando la mano sulle loro spalle, e fermandosi estatico dinanzi alla piccola Rita. — Ma guardate un poco come ci siamo fatte grandi e belle, zitte zitte, senza dirne nulla allo zio del cuore!... Non te ne rammenti più, dello zio del cuore?... Abbiamo perduto un poco di memoria, intanto che ci siamo fatte signorine?...

La bimba avvampò. Bruna con gli occhi azzurri, il viso magro e allungato dei Bertini, la personcina slanciata, l'espressione dolce e patetica, pareva una figura spiccata da un quadro.

— Se lo zio del cuore vuol vedere la stanza che gli abbiamo preparata....

— Sicuro che voglio vederla! E bada bene che se non è bella come quella dell'altra volta, mi prenderò la tua!

Era ancora la stessa, all'angolo di mezzogiorno e di levante, con le due finestre aperte sulle vedute della valle e del lago: un grosso mazzo di violette, in un vaso di cristallo sulla scrivania, la profumava. Egli vi si trattenne il tempo di disfare la valigia, di mettere in ordine le sue cose e cambiarsi; subito dopo uscì nel salotto in cerca di Lodovico.

— Mio fratello è andato un momento fuori, — gli disse la signora Laura. — Se avete bisogno di qualche cosa....

— Grazie! Di nulla!... Non sarà nello studio?...

— Oh, nello studio!... — esclamò l'interrogata, con espressione di profondo rammarico. — Non vi ha posto piede da che è qui; non ne ha neppure cercato la chiave!

— Non se ne dolga. Lo lasci riposare.

— È quel che ho detto per iscusarlo, a chi si lagna della sua inerzia. Vi ha parlato almeno del monumento sull'Antalba?

— No.

— Vedete?... Il suo nome fu concordemente suggerito da tutti, quando sorse l'idea d'innalzare una grande immagine sacra su quella vetta. Si sono raccolte più di trentamila lire: somma ragguardevole, se pensate che il nostro paese non è ricco, e che, naturalmente, questo denaro dovrà servire alle sole spese vive. Per la scelta del tema si sono interamente affidati alla sua fantasia d'artista; monsignor Garbarini, il nostro vescovo, gli ha fatto sapere che se i fondi disponibili non basteranno allo svolgimento di un'idea grandiosa, supplirà del suo. Ma dopo molte promesse, dopo le calde sollecitazioni rivoltegli da Don Pietro Castelli, il nostro vecchio e buon curato orgoglioso di lui più che un padre del figlio, egli non parla neppure di mettersi al lavoro. Aveva detto che doveva risalire su quel monte, per ispirarsi: dacchè è qui, è uscito oggi la prima volta, per venirvi incontro.

— Ha lavorato tanto, a Firenze....

— Non è il lavoro quello che lo abbatte così; io so di quali sforzi è capace quando ha sereno lo spirito.... Sentite, Perez, giacchè siamo su questo doloroso argomento.... Noi abbiamo aspettato con tanta impazienza questa vostra visita perchè speriamo molto in voi.... Non vedete com'è ridotto il mio povero Lodovico?

— Mi pare un poco sofferente, infatti. Che ha?

— Lo sappiamo, forse?... Mio marito non è riuscito ad osservarlo, non gli ha potuto strappare una sola parola. Dichiara che sta benissimo! E non digerisce, passa le notti insonni....

— Neurastenia, dispepsia nervosa, probabilmente.

— Poterlo credere!... Noi facciamo assegnamento su voi, Perez, che gli siete tanto amico, che avete la sua confidenza.... Con noi è chiuso, irritabile a un grado che non posso dirvi.... Interrogatelo, diteci che ha, che cosa possiamo fare per lui; fate voi stesso qualche cosa per guarirlo, per divagarlo....

— Proverò, signora Laura; ma bisognerebbe aver tempo, e disgraziatamente i giorni della mia licenza sono contati.

— Già, dimenticavo che siete venuto per la cerimonia di domani, non per noi.... Siete molto più amico di quei signori che nostro!

L'espressione di fiduciosa preghiera, di cordiale abbandono che aveva animato il suo viso e la sua voce diede luogo, mentre ella proferiva queste ultime parole, a un senso di riserva, quasi di diffidenza.

— Amico no, davvero!... — protestò Perez.

— No?

— Conobbi la signora a Valsorrisa, due anni addietro, quando passammo la stagione lassù con Lodovico.

— Giovane? Bella? — domandò l'altra, a denti stretti.

— Ma come? Non la conosce?

— Io no.

— Non sono qui col marito, alla Fraida?

— Sì, ho sentito che vi sono tornati da qualche giorno, dopo esservi stati un mese fa, per la richiesta delle pubblicazioni; ma io non li ho visti, nè allora nè ora....

Perez tacque un poco; poi, come spiegando la cosa a sè stesso, riprese:

— Senza dubbio, nella loro condizione particolarissima, hanno bisogno di solitudine, di raccoglimento....

— Senza dubbio! — ripetè la signora Laura. — Nessun indiscreto — soggiunse, sottolineando la parola con l'intonazione della voce e un gesto della mano — li disturberà.

— Però, con loro.... coi parenti di Lodovico....

— Ma già: è quel che si potrebbe pensare, se gli sono tanto amici da scegliere proprio il suo paese per compiervi questa.... — Non pronunziò la parola; dopo una breve reticenza riprese: — Non mancavano certamente siti fuori mano, in Toscana.... se stanno a Firenze....

— Vi sta la signora. Il marito è rimasto finora in Africa, nella Stanlesia.... Suo fratello non le ha narrato?

— Lodovico non è stato mai molto loquace; ora, poi....

Parve che ella volesse aggiungere qualche cosa, ma si rivoltò a un tratto udendo rumore di passi: lo scultore apparve sull'uscio.

— Laura, — disse alla sorella, — non mi riesce di trovar la chiave dello studio. Dove l'avranno cacciata?

— L'ho serbata io. Ti serve?

— Bisognerebbe aprirlo per mettervi un po' d'ordine.

— Subito. Faccio da me, o vieni anche tu?

— No, io resto con Perez.

I due amici uscirono sulla terrazza. Il velo della nebbia si era sollevato un poco; un sole pallido, senza raggi, pendeva sulla cima Antalba.

— Ho sentito del monumento sacro che vogliono innalzare lassù, — disse Perez. — Ti disponi a lavorare?

— Io?... Se mi dài un'idea, se mi spieghi che cosa debbo fare!...

Si appoggiò a una delle colonne, strappò alcune foglie gialle dalla vite che vi si attorcigliava, e soggiunse, pianissimo, come parlando tra sè:

— Domattina verrà qui.

— Ho sentito che tua sorella non la conosce ancora.

— No. Non ha voluto conoscere nessuno dei miei, non ha voluto entrare in questa casa, prima della funzione sacra....

Perez chinò il capo in atto d'approvazione, senza pronunziare le parole di lode che gli venivano alle labbra.

— A proposito!... — esclamò poi, — vorrei dirti una cosa.... La signora Lariani mi scrisse di astenermi dalle solite formalità; ma fiori vorrei pure mandarne.... anche come annunzio che sono arrivato.

Lodovico rispose, con lo stesso tono raccolto:

— Fiori, sì. Li mando anch'io....

— Ne avete sempre tanti, in giardino? Tuo cognato li coltiva con la stessa passione?

— Sempre....

La piccola Rita attraversava in quel momento la terrazza correndo. Visti i due amici, si fermò di botto.

— Rita, — le domandò lo zio, — dov'è tuo padre?

— L'hanno mandato a chiamare da Cecco della Gervasa.... Dice che sta molto male.

— E tu dove vai?

— In giardino, a coglier fiori per la cappella del Redentore.

— Lasciane, dei belli.... Ne ho bisogno.

— Eh!... — rispose la bimba, facendo col braccino un gesto largo. — Prima che li colga tutti!... Ma se vuoi scegliere, perchè non vieni con me?

— Mi pare che la mia nipotina del cuore abbia proprio ragione, — approvò Perez. — Andiamo anche noi.

Si avviarono. Dietro l'edificio principale, oltre la corte interna, dirimpetto ai corpi rustici, il vecchio granaio che lo scultore aveva trasformato e adattato a studio già mostrava il grande uscio e le finestre spalancate. La signora Laura, vedendo passare la piccola brigata, venne innanzi sulla soglia.

— Dove andate?

— In giardino, — rispose Rita.

— Laura, — soggiunse lo scultore, — io e Perez abbiamo bisogno di fiori, per stasera.

— Ma.... — fece ella, esitante, e quasi con un moto di contrarietà. — Domani, veramente, bisognerebbe ornare la cappella, alla Guardiola.

Un lampo passò nello sguardo di Lodovico. Egli rispose, con voce dura:

— Se bisogna ornare la cappella, cercheremo altrove....

— Ma no, ma no.... fa' pure.... ce ne sarà per tutti.... — soggiunse tosto la signora Laura, riguardosa a un tratto, e come pentita delle prime parole; mentre suo fratello, voltatosi verso la bambina, le ingiungeva brevemente:

— Rita, andiamo!

La bimba, quasi comprendendo il secreto dissenso dei parenti, si voltò a guardare la madre coi grandi occhi inquieti, poi si mosse dietro allo zio.

Allora, con voce concitata e dolente, la signora Laura trattenne un istante l'amico.

— Vedete, Perez?... Ha preso fuoco.... Che gli ho detto?

— Sst!... Stia zitta!... Venga, venga con noi.... — E procedendo a brevi passi, in modo da far crescere la distanza dai due che li precedevano, l'ospite riprese: — Scusi, mia buona amica, ma neanche a me sembra che la nostra richiesta le abbia fatto molto piacere....

Vivacemente, schiettamente, ella confessò:

— È vero, sì.... e ve ne chiedo scusa!... Ma che volete!... Se dovessi dirvi che vediamo con molta simpatia questa donna, non sarei punto sincera.

— Mi permette di dirle che ha torto?

— Perchè è venuta qui? Perchè si nasconde da noi? Che cosa significa questo tardivo matrimonio religioso? Che cosa vuole da mio fratello?... No, Perez: bisogna che vi dica tutto, una buona volta.... Io sento che il male di Lodovico viene da lei.

Egli rispose, con voce grave:

— Il male, ma forse anche il bene.

— Come sarebbe a dire?

Erano sulla soglia del giardino, dove lo scultore e la sua nipotina cominciavano ad aggirarsi, chinati sulle aiuole, sui vasi, sulle piccole tettoie che riparavano le piante più delicate dalle intemperie.

— Signora Laura, a una donna d'alti sentimenti come lei si può, si deve anzi dir tutto, affinchè giudichi serenamente.... La signora Lariani è stata una grande passione di Lodovico; non è mancato per lui se, invece di rendere indissolubile il nodo coniugale, ella non lo ha sciolto, chiedendo ed ottenendo il divorzio in Africa per sposare suo fratello. Lei stessa si è opposta a questo disegno; lei stessa, stringendosi al padre dei proprî figli, rende impossibile la pazzia che Lodovico avrebbe commessa a cuor leggero. Non ha voluto lei stessa conoscere nessuno di loro, finchè la benedizione nuziale non avrà cancellato il ricordo del legame colpevole e riscattato l'errore.

— Ah!... — fece la signora Laura, fermandosi e guardando l'ospite con un senso d'immenso stupore.

— Domani, dopo la cerimonia, prima di partire per l'Inghilterra, dove vanno a stabilirsi, verrà qui. Veda lei, nella sua bontà, nella sua giustizia, se merita di essere accolta ostilmente....

IV. Il rito.

Il domani, all'alba, mentre ancora tutta la casa era immersa nel sonno, Perez fu destato dalla cameriera che venne a portargli il caffè. Si levò, si vestì rapidamente, e andò a picchiare all'uscio di Lodovico. Lo trovò seduto alla scrivania, con la testa fra le mani: vedendo il letto non ancora disfatto e le molte carte strappate nel cestino, comprese che aveva passata la notte a scrivere ed a stracciare i suoi scritti.

— Se la cerimonia è per le sette, — gli disse, senza dare a divedere d'essersi accorto di nulla, — non abbiamo molto tempo da perdere.

— Sono pronto.

Uscirono insieme nella corte, montarono sul calessino già attaccato, guidato questa volta dal fattore, che prese la via della Fraida. Non scambiarono una parola durante il breve percorso, sotto il bosco dei larici. La nebbia si era riaddensata, nella notte, ma un vento fresco che cominciava a levarsi la discacciava ora lungo le coste dei monti, la faceva svaporare dalla valle come da una immensa caldaia. Una carrozza a quattro posti stava ferma dinanzi al cancello del «Grand-Hôtel»; gli sposi aspettavano nel salottino del pian terreno rialzato. In un semplicissimo abito da viaggio, di color grigio, senza trine, senza nastri, con una sola spilla al colletto, formata da tre serpentelli annodati in un triplice simbolo di eternità, la signora Lariani, in piedi accanto alla finestra, leggeva un libro che posò sul davanzale per volgersi ai sopravvenuti.

— Grazie dei fiori! — disse, mostrando i mazzi disposti in due grandi vasi sul pianoforte. — Grazie a voi, Perez, d'avere accettato.... — Rivolta al marito, presentò: — Domenico Perez, Francesco; il dotto e l'artista di cui ti ho tanto parlato, che ci fa il piacere di esser tuo testimonio.

Il colonnello Harrington gli strinse la mano, dicendo in un italiano alquanto dentale:

— Le sono molto grato dell'onore che mi fate.

— Lieto e fortunato io stesso....

— Sono le sette precise, — riprese ella, dopo aver guardato l'orologio, e rivolgendosi allo scultore, a cui il colonnello si era avvicinato, salutandolo con molta cordialità. — Non si potrebbe essere più puntuali! Il tempo di prendere una tazza di tè: volete?

— Grazie, no.... — si scusò egli, inchinandosi.

— Allora voi, Perez?

— Volentieri, signora.

— Poco latte o molto?

— Moltissimo.

— Quante altre volte siete venuto quassù? — gli domandò ancora, servendolo.

— Tre o quattro; ma non mi sono bastate. Bisognerebbe viverci tutta la vita.

— Tutta è forse troppo; ma pochi luoghi, veramente, ho visto di una bellezza così perfetta. È vero, Francesco?

— Sicuramente, — confermò l'interrogato, cominciando ad infilarsi i guanti. — Vi sono paesaggi di più maestà, ma nessuno così.... così «graceful».

— Ben detto, — approvò Perez. — La grazia è propriamente la qualità di queste linee.

— «Do you speak english»?

— «Yes, Sir».

— «I am very glad»....

Mentre essi parlavano in inglese, ella s'avvicinò a Bertini, che sfogliava il libretto da lei lasciato sul davanzale della finestra. Era un opuscolo di poche diecine di pagine, legato di tela verde con fregi d'oro; sul frontespizio miniato si leggeva: «Il Matrimonio cristiano, con l'aggiunta della Messa per gli sposi». Ogni pagina, inquadrata di rosso, era divisa in due colonne: una per il testo, l'altra per la traduzione della «Benedictio anuli» e della «Missa pro sponso et sponsa».

— Io non sono dotta come voi, — spiegò ella, con un sorriso di scusa. — Ho bisogno di aiuto per comprendere le formole del rituale.

Egli rispose, senza alzare lo sguardo, continuando a sfogliare macchinalmente le pagine:

— È un latino molto facile.

— Sì, quello della messa comune lo conosco anch'io; ma vi sono parti nuove, in quella che andiamo ad ascoltare.... A questo proposito....

S'interruppe, sollevò le mani, si trasse dal dito l'anello nuziale, e glielo porse.

Egli depose il libro, senza stendere la mano. Il suo sguardo pareva cieco; il viso era livido e inespressivo come una maschera.

— Prendete, custoditelo; tocca a voi consegnarlo al sacerdote.

La mano che egli sollevò lentamente tremava; quando ella vi ebbe deposto il cerchietto d'oro, si abbassò come gravata d'un peso insostenibile.

— «Stanlesia has been founded twenty years ago», — spiegava il colonnello a Perez; — «it is a free State of english speaking people»....

— Se non vi dispiace, — diss'ella, volgendosi dalla loro parte, — continuerete la vostra conversazione in carrozza; ora è tempo d'andare....

Raccolse da una poltrona i guanti e il mantello, che Perez corse a reggerle; poi, preso il libretto della messa nuziale, disse a Bertini che chiudeva con un gesto automatico l'anello nel portamonete:

— Datemi il braccio.

Si avviarono così, a fianco l'uno dell'altra. Ella era, come sempre, perfettamente padrona di sè, sciolta nelle mosse, serena nel viso. Il braccio di lui tremava tanto, il suo passo era così malfermo, che ella sostò un momento, nel giardino.

— La mattinata è fresca. Vi levate mai così presto?

— Talvolta....

Tremava anche la sua voce, pareva che egli non potesse più dominarsi.

Ella si volse a guardare dietro di sè. Perez, rimasto solo mentre il colonnello dava ordini al portinaio ed al cameriere, si avanzava a raggiungerli.

— Quanto tempo è, Perez, — gli domandò, — che assisteste in duello il vostro amico?

— Molti anni, signora; troppi anni!... — Sottolineando con l'espressione della voce e dello sguardo l'esortazione al coraggio che era nell'allusione di lei, soggiunse: — Ti rammenti, Lodovico?

Sopraggiunto il marito, salirono in carrozza: ella prima, additando a Bertini il posto accanto al suo; Perez e il colonnello poi, sedendo sui posti dirimpetto.

Il vento, ringagliardito, aveva squarciato il velo della nebbia; candidi lembi ne rimanevano ancora attaccati alle asperità delle montagne, simili a brandelli d'una gran veste lacerata; fiocchi di vapori s'insinuavano fra i solchi della terra in modo da porne in evidenza tutta la plastica.

— La cima Antalba è quella? — domandò ella, rivolta a Bertini, e additando la vetta più alta della Gobba del Cammello.

— Sì.

— Lassù dovrebbe sorgere il vostro monumento?

Egli rispose con una impercettibile scossa delle spalle. Riprendendo l'animato discorso in inglese col marito, Perez non lasciava con gli occhi l'amico, e il ricordo evocato dalla signora Lariani si precisava ora nella sua memoria. Nella prima gioventù, forse più di venti anni addietro, in seguito a una discussione artistica invelenitasi e degenerata in diverbio, egli aveva assistito Lodovico sul terreno, a Roma. In una simile mattinata autunnale, lungo la via Appia, si era trovato seduto come ora dinanzi al compagno in procinto di battersi; ma il pericolo a cui il giovane andava allora incontro lo aveva reso loquace, ilare, quasi felice, mentre l'uomo maturo pareva ora smarrito all'appressarsi dell'ultimo atto della sua ultima passione.

Salita e girata dalla parte del monte, la carrozza venne ad arrestarsi dinanzi alla porticina destra della chiesa: la sola aperta, delle tre. Le poche persone che stavano giù nella piazza volsero appena il capo: certamente la curiosità di assistere ad una cerimonia nuziale le avrebbe spinte a raggiungere la comitiva; ma nessuno sospettò che a quell'ora, senza apparato, si stesse per celebrare un matrimonio: evidentemente i forestieri accompagnati dal signor Bertini andavano visitando le cose notevoli di Promonte. Dall'interno, il tendone di pelle imbottita che difendeva l'entrata della porticina si sollevò: il vecchio custode apparve, inchinandosi a tutti, salutando con rispettosa cordialità lo scultore.

— Signor Lodovico, suo servo.

Ella domandò entrando:

— Non vi è qui un'opera del signor Bertini?

— Eccola! — rispose il vecchio, additando l'acquasantaio.

Un grande angelo, con le ali raccolte, lo sguardo al cielo, le braccia protese ed arcuate, reggeva con ambe le mani un'anfora antica. Le forme disegnate sotto il peplo leggero erano quelle d'un adolescente, senza sesso, o piuttosto ambiguamente partecipe dei caratteri dei due sessi: un divino ermafrodito, agile e forte come un efebo, coi fianchi e il seno soavi d'una giovinetta canefora, il viso d'una bellezza ideale e propriamente oltreumana.

— Pare un Donatello, — disse il colonnello, rompendo il silenzio.

— Infatti! — rispose Perez, molto stupito d'udire un così sagace giudizio artistico in bocca ad un uomo d'arme piovuto dall'estrema Africa orrenda.

Il vecchio, con voce tremante di orgoglio e di tenerezza insieme, soggiunse:

— Il signor Lodovico aveva appena vent'anni quando la lavorò per la sua chiesa.... Questa è la chiesa del signor Bertini.... Qui son sepolti i suoi nonni, qui si sposarono i suoi genitori, qui fu tenuto a battesimo.... Me ne rammento come fosse ieri, e se ne rammenta Don Pietro.... Lì, dinanzi al fonte.... la sua sorellina e gli altri bambini che reggevano i ceri.... ed era buono anche nelle fasce, il nostro signor Lodovico....

Lo scultore pareva non udisse, considerando il marmo; ma non pareva neanche che vi riconoscesse l'opera propria, tanto il suo sguardo era attonito.

— Ora si aspetta la statua che lavorerà per la cima Antalba.... L'ha promessa a Monsignore!... Chi sa che bellezza....

Perez tagliò corto, osservando:

— Non facciamo aspettare il signor curato.

Per la navata di destra, nella cui penombra splendevano le luci delle lampade votive, la comitiva si avviò alla sacristia. Don Pietro, già vestito del camice e della pianeta, finiva di cingere la stola ed il manipolo: vecchissimo, con una tenue aureola di capelli bianchi intorno alla fronte ed alla nuca che parevano scolpite nell'avorio antico, egli manteneva ancora diritta l'alta persona, e solo le sue mani tremavano un poco. Le distese ai sopravvenuti, chinando la bella testa in atto di saluto, e disse:

— Se gli sposi vogliono udire la lettura del «Contrahant», non resterà poi che apporre la loro firma, con quella dei testimonî, dopo la cerimonia.

Assentendo tutti, prese dalle mani del chierico il foglio e lesse la formula di consentimento dell'autorità ecclesiastica. Poi chiese:

— L'anello?

Ella si volse a Bertini: ma poichè pareva che questi non comprendesse, spiegò:

— Bertini, volete dare l'anello al Reverendo?

Allora soltanto egli trasse il cerchietto d'oro e lo consegnò al sacerdote.

Tutti tornarono in chiesa. Non vi erano se non due donne, due contadine, inginocchiate sotto il pergamo. Gli ori dell'altare rifulgevano alla luce dei ceri che il sacrista veniva accendendo. Due inginocchiatoi stavano disposti sopra un breve tappeto, poco discosti dal primo gradino, per gli sposi; più indietro, due sedie per i testimonî.

Il celebrante salì sull'altare, lentamente, sostando ad ogni gradino. Fece l'atto di genuflettersi, distese le braccia, chinò la fronte e baciò la tovaglia. Poi, ridisceso, si appressò agli sposi. Nel silenzio augusto domandò con voce solenne:

— Voi, Francesco Patrizio Harrington, volete prendere per vostra legittima moglie, secondo il rito di Santa Romana Chiesa, Rosanna Lariani?

Rigidamente composto, come dinanzi ad un capo, come sulla fronte del suo reggimento, l'interrogato si sciolse dall'atteggiamento marziale, s'inchinò e disse con voce vibrante di commozione contenuta:

— Sì.

— E voi, Rosanna Lariani, volete prendere per vostro legittimo marito, secondo il rito di Santa Romana Chiesa, Francesco Patrizio Harrington?

Ella che reggeva con le due mani intrecciate il libretto, a testa china, prosciolse le braccia, rialzò la fronte e rispose fermamente:

— Sì.

Un senso d'indefinibile inquietudine guadagnò l'animo di Perez. Senza volgere il capo egli guardò con la coda dell'occhio alla sua destra. Lodovico, ritto dietro la seggiola, ne aveva strettamente afferrata la spalliera con una mano; l'altra, con la quale reggeva il cappello, era scossa da un tremito violento. Col viso cadaverico, le mascelle contratte, lo sguardo fiso e ardente, era evidente che faceva uno sforzo straordinario per non tradirsi.

Ma già, alzate le braccia paterne, distese le venerabili mani tremolanti, socchiusi i miti occhi, il sacerdote pronunziava con voce ispirata le parole irrevocabili:

— «Ego coniungo vos in matrimonium, in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti».

L'inquietudine, la commozione, il turbamento di Perez, al pensiero della tempesta che imperversava in quel punto nel cuore dell'amico, divennero insostenibili; col bisogno di reagire, di scuotersi, di fare qualche cosa, depose il cappello sulla seggiola e cominciò a cavarsi i guanti.

Ora, risalito sull'altare, il sacerdote iniziava la cerimonia della Benedizione, proferiva le formule alle quali l'accolito dava le dovute risposte.

— «Adiutorum nostrum in nomine Domini».

— «Qui fecit coelum et terram».

— «Domine, exaudi orationem meam».

— «Et clamor meus ad te veniat»....

Quale secreta virtù possedevano le parole antiche, le formule che per secoli e secoli erano state ripetute dalle anime pie, che per secoli e secoli avrebbero echeggiato sotto le vôlte sacre al raccoglimento ed alla penitenza, sopra le culle e sopra le bare? Appartenevano ad una lingua non più parlata dagli uomini, ma eternamente viva, come la più propria espressione della preghiera. E il significato ne era così chiaro, si traduceva così facilmente anche agli ignari:

— «Benedici, Signore, questo anello che noi nel tuo nome benediciamo, affinchè colei che lo porterà, tenendo integra fede al suo sposo, rimanga in pace e nella volontà tua, ed in carità scambievole sempre viva. Per Cristo Signore nostro, Figlio tuo, che teco vive e regna nei secoli dei secoli».

— «Così sia».

Il cerchietto d'oro era stato deposto in un vassoio d'argento. Curvata l'alta persona a prendere l'aspersorio che l'accolito gli porgeva, il sacerdote tracciò con mano non più tremante un segno di croce sul simbolo; poi lo consegnò allo sposo, che lo passò all'anulare sinistro della donna sua.

— «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

— «Così sia».

— «Conferma, Signore, ciò che noi operammo».

— «Dal tempio santo tuo che è in Gerusalemme».

— «Kyrie Eleison»....

Allora accadde una cosa terribile. Come un brivido sonoro, come l'anelito e il gemito d'un'anima ferita e penante echeggiò sotto le vôlte della vecchia chiesa; poi la voce potente dell'organo si affermò, si modulò, si svolse nelle note lunghe e gravi d'un canto solenne. Perez si sentì opprimere il petto e mozzare il fiato e velare lo sguardo da una commozione veemente, che un repentino moto di collera soffocò e poi disperse. Chi aveva ordinata quella musica? Alla cerimonia da celebrare con estrema semplicità, chi aveva aggiunto l'irresistibile prestigio di quel canto d'implorazione, di fede e di speranza? Non bastava il tormento inflitto allo spettatore di quelle nozze; bisognava anche, per colmo di raffinatezza, esasperarlo con la sottile e profonda malìa dei suoni e dei ritmi?... E col cuore tremante di carità impotente, sapendo di non poter far altro che appagare il secreto senso di curiosità sempre vigile nel suo spirito indagatore, egli si volse a guardare l'amico.

Lodovico Bertini era rimasto nello stesso atteggiamento, con la destra alla spalliera, con l'altro braccio pendente lungo il fianco; ma non tremava più, non si stringeva con la forza di prima al sostegno. Pareva che tutte le sue membra rilassate si fossero rapprese in quella positura; soltanto la fronte si era abbassata, e dalle palpebre gonfie le lacrime sgorgavano, solcavano le guancie emaciate, stillavano a terra.

I coniugi gli voltavano le spalle; l'officiante, sull'altare, era intento alla celebrazione del rito: nessuno poteva scorgere il suo pianto. Se anche lo avessero scorto, egli non sarebbe riuscito a frenarlo. Non piangeva da tanto tempo, dalla notte passata in viaggio, sul treno, con lei. Non aveva più pianto, alla stazione di Milano, vedendola andar via con quell'uomo a cui aveva dovuto stringere la mano e rivolgere parole senza nesso nè significato. Non aveva pianto neanche dopo averli riveduti entrambi, alla Fraida, invitato da lei, quando vi erano venuti per le pubblicazioni; dopo averla udita annunziare che, insieme con Perez, egli, egli stesso, sarebbe stato testimonio alle nozze, e che, compiuta la cerimonia e ripresi i figli a Firenze, sarebbero andati a stabilirsi in Inghilterra. Tutte queste cose lo avevano troppo stordito, come colpi di mazza sulla nuca. Le poche parole scambiate da solo a sola con lei, in un momento di libertà, gli avevano dimostrato che nulla gli restava da fare se non obbedirla, fino all'ultimo, covando il suo corruccio, nutrendosi del suo dolore. Durante l'ultima notte aveva vegliato, tentando di significarlo, per lei; cercando parole che non sarebbero più uscite dalla memoria di lei, che le avrebbero eternamente attestato la forza della sua passione, che l'avrebbero implacabilmente accompagnata, come la voce del rimorso, come il rantolo dell'agonia; ma aveva lacerato tutte le sue scritture, non trovando neppur una espressione capace di rendere tutto il suo pensiero, giudicando vana la ricerca, artificioso lo studio, riconoscendo l'inutilità d'ogni tentativo di influire in qualunque modo su quell'anima risoluta ed inflessibile. Era rimasto inchiodato sulla poltrona, innanzi alla scrivania, con le membra di piombo, con gli occhi aridi e bruciati. Aveva trasalito all'arrivo dell'amico, rabbrividito al freddo dell'alba autunnale, tremato entrando nell'albergo, ritrovandosi dinanzi a lei ed all'uomo che gliela portava via senza speranza più di ritorno. Quando ella si era tolto dal dito l'anello nuziale, affidandoglielo, per poco non lo aveva lasciato cadere, ma non già in un impeto di ribellione, bensì dalla violenza dello stordimento. Egli, egli stesso, che aveva voluto spezzare quell'anello e dargliene uno suo, per la vita e per la morte, egli stesso doveva ora custodirlo affinchè un altro lo ripassasse, benedetto, al suo dito, per la vita e per la morte?... Nulla aveva più avuto senso, durante il ritorno a Promonte, in carrozza, in chiesa, dinanzi all'opera giovanile, alla statua scolpita da qualcuno di cui si era rammentato confusamente, come di una conoscenza perduta, come di un morto. Delle parole del custode non aveva compreso altro che l'evocazione dei suoi morti, rivedendo le salme deposte su quel livido marmo, in un tempo lontano, o forse ieri. Nello spirito ottenebrato, nell'anima smarrita, i preparativi della cerimonia, le figure e i gesti e le voci avevano assunto un carattere irreale, come nei sogni. Sì, ella aveva risposto di sì, inevitabilmente, come negli incubi, quando nulla si può fare per impedire che le fatalità si compiano, quando non si può accorrere, quando non si può gridare. E l'anello nuziale che era stato in suo potere era tornato al dito di lei, per mano d'un altro! A un tratto, udendo gli accordi dell'organo, riconoscendo la voce delle vecchie canne armoniose come gole umane, la voce che aveva impetrato requie eterna ai suoi morti, che cantava requie alla sua speranza, il suo pianto troppo a lungo contenuto traboccò.

La voce diceva: «La speranza è morta, la gioia è finita, la stessa tua vita finisce: esala gli ultimi sospiri qui dove traesti i primi vagiti; aspetta di raggiungere colei che lungamente invano sognò di vederti un giorno dinanzi a questo altare, accanto alla tua sposa, di udirti pronunziare la sillaba del consenso, la sillaba che ella stessa disse all'uomo col quale ti generò; paga ora i tuoi errori, sconta la tua gioia effimera e peccaminosa; nascondi lo strazio dell'anima tua all'uomo che offendesti e che riprende i suoi diritti; piangi tutte le tue lacrime perchè il tuo sogno è svanito senza ritorno mai più, china la fronte superba dinanzi alla divina maestà d'una legge che disconoscesti e calpestasti, ai giorni del folle orgoglio, della baldanza cieca....»

Poi il canto solenne e potente del Kyrie si abbassò di tono, si spezzò nelle frasi d'un mottetto accompagnante la recitazione del Pater:

— «Padre nostro che stai nei cieli, santificato il nome tuo, venga a noi il tuo regno, sia la tua volontà»....

Una volontà fatale si compiva, infatti. Contesa da due affetti, quella donna tornava necessariamente al primo. Egli non assisteva semplicemente alla consacrazione di quelle nozze, ma vi contribuiva per una necessità evidente. Ogni atto ed ogni gesto, dinanzi a quell'altare, avevano un significato recondito che egli ora discopriva; rendendo l'anello, egli rendeva al possessore legittimo la donna già stata sua. Colui che l'aveva impalmata e poi perduta, la riotteneva ora da lui. Non era soltanto necessario, ma giusto. Nella vita di quella donna egli era stato un episodio, un'illusione, un errore: errore anch'esso fatale, ma emendabile....

— «Dànne il nostro pane.... non indurne in tentazione»....

La preghiera aveva anch'essa un senso profondo: chiedendo di non esser tentate, le creature umane confessavano tutta la debolezza loro. Ella era caduta, come tante altre; ma per rialzarsi, come poche altre. Ed il Pater noster di quella Benedizione nuziale non si chiudeva come l'ordinario: la voce dell'accolito si sposava a quella del prete, implorando ancora:

— «Liberane dal male».

— «Salva i tuoi servi».

— «In te, mio Dio, speranti».

— «Manda loro. Signore, un santo aiuto».

— «E da Sionne custodiscili».

— «Sii ad essi, Signore, torre di fortezza».

— «Contro la faccia del nemico».

— «Signore, esaudisci la mia prece».

— «E salga a te la voce mia».

— «Il Signore sia con voi».

— «E con lo Spirito tuo».

Il canto tacque, e le labbra del dolente cessarono di tremare e gli occhi di piangere. Tutta la sua attenzione era diretta a comprendere le formule sacre, a non perderne una sillaba sola. Rivolto ancora ai coniugi, il sacerdote ora supplicava:

— «Volgiti in grazia, Signore, sopra questi tuoi servi, ed agli istituti tuoi, coi quali ordinasti la propagazione dell'umano genere, benignamente assisti, affinchè coloro che dall'autorità tua sono congiunti, col tuo ausilio ti servano».

Era giusto che sull'amore fecondo di quegli sposi, di quei genitori, si stendesse la benedizione divina. L'amor suo era stato invece condannato alla sterilità; tutti i suoi amori fuori legge erano stati senza frutto, spasimi vani, adulterazioni dell'ufficio di natura. I suoi occhi inariditi si fermarono sul corpo della donna genuflessa ora dinanzi all'altare, con lo sguardo sulle pagine del libro sacro. Nella positura abbattuta, dietro l'ampio giro della veste cadente, le sue forme parevano scomparse; nè la memoria gliele rappresentava ormai più. Aveva egli premuto quel corpo con le mani tremanti di desiderio, con le labbra ardenti di febbre? A quell'ora lo stesso ricordo del possesso un tempo esercitato era svanito; come non vedeva il corpo di lei, egli non sentiva più il proprio, assiderato, congelato nella rigidità del dolore.

— «Per Cristo Signor nostro. Figlio tuo, che teco vive e regna nei secoli dei secoli».

— «Così sia».

Finita la Benedizione, cominciava ora la Messa.

— «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Mi accosterò all'altare di Dio».

— «A Dio che è letizia della giovinezza mia».

La voce dell'organo accompagnò la recitazione del Salmo; un supplice ardore, uno slancio di tutta l'anima sulle ali della speranza; poi queruli gridi soffocati di dolore e di rimorso, la prostrazione, l'abbattimento; e poi ancora il richiamo potente della fede sicura, squilli di gloria trionfale. «Giudicami, Signore, e scerni la causa mia da quella della gente non santa.... Poichè tu sei, Dio, mia fortezza, come mai m'allontani da te?... Canterò al suono della cetra le vostre lodi, mio Dio; perchè sei triste, anima mia, e perchè mi conturbi? Confida nel Signore, poichè lo loderò ancora come mia salute e mio Dio.... Mi confesso a Dio onnipotente.... Abbia misericordia di voi l'onnipotente Iddio, e perdonàti i vostri peccati vi conduca alla vita eterna.... Dimostrane, Signore, la tua misericordia e concedine la grazia tua salutare»....

Baciato l'altare, il sacerdote recitò una preghiera sommessa; poi, con voce ispirata, disse agli sposi il passo di Tobia:

— «Il Dio d'Israello vi unisca ed egli stesso sia con voi. Fa', o Signore, che da oggi questi due più che prima ti benedicano. Beati coloro che temono il Signore e procedono per le sue vie. Sia gloria al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo».

— «Kyrie eleison».

— «Kyrie eleison».

— «Christe eleison».

— «Christe eleison».

Una gran voce, un coro di voci clamanti percosse l'aria, fece tremare i vetri delle alte finestre. Al più rapido ritmo il penitente sentì slargarsi il petto oppresso, riaffrettarsi il debole polso, un'onda di sangue salirgli al viso ed alla fronte.

— «Esaudiscine, onnipotente e misericordioso Iddio, affinchè ciò che per nostro ufficio è amministrato, dalla tua benedizione sia meglio adempiuto. Per Cristo Signore nostro, Figlio tuo, che teco vive e regna nei secoli dei secoli».

La muta voce dell'anima vinta assentì: «Così sia». La ribellione era vana, la rassegnazione inevitabile. Egli non ne era più avvilito, come una volta. Nelle frasi dell'Epistola agli Efesii, che il sacerdote ora leggeva, lo spirito stanco riconosceva verità necessarie, attuali ed eterne. «Siano le donne soggette ai loro sposi come a Dio, poichè l'uomo è capo della donna....» ed era bastato che quell'uomo si fosse presentato perchè tosto riprendesse la donna sua.... «Uomini, amate le vostre spose....» e colui amava la consorte d'un amore sincero, sicuro, costante, senza convulsioni, senza follie. «Chi ama la sua sposa ama sè stesso.... Perciò l'uomo abbandonerà il padre suo e la madre sua, e si stringerà alla sua sposa, e saranno due in una carne....». L'immagine di quelle due carni aderenti, la visione di quei due corpi accoppiati, la gelosia fisica delle voluttà procurate a quella donna da un altro, ora non lo torturavano più, egli non presumeva più che ella ne fosse stata contaminata.

Il salmo del Graduale e del Tratto risonarono in mezzo a una melodia dolce e lene, ad un fremito d'ale che finì in un clangore di trombe e di tube.

— «La tua sposa sia come una vite abbondante tra le mura della tua casa. Siano i tuoi figli come novelle piante d'olivo nel cerchio della tua mensa. Alleluja! Alleluja! Mandi a voi il Signore aiuto dal suo santuario, e da Sionne vi custodisca. Alleluja! Ecco così sarà benedetto l'uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sionne, e vedrai i beni di Gerusalemme per tutti i giorni della vita tua, e vedrai i figli dei figli tuoi. Pace sopra Israello»....

Le formole sacre si ripetevano, ritornavano più e più volte, integralmente, o appena modificate, quasi perchè s'incidessero profondamente sulle fronti, nei cuori, come un indelebile stampo di fuoco. La Sequentia dell'Evangelo di San Matteo diceva: «In quel tempo si accostarono a Gesù i Farisei tentatori e dissero: È lecito all'uomo abbandonare la donna sua per qualsivoglia cagione? Il quale rispose loro: Non leggeste che chi creò l'uomo in principio li fece maschio e femmina? E disse: Perciò l'uomo abbandonerà il padre e la madre e si stringerà alla sua sposa, e saranno due in una carne. Talmente che non sono due, ma una carne. Ciò dunque che Iddio congiunse, l'uomo non divida».

Era stato il sogno d'un'ora, poter disgiungere quegli sposi, distruggere quella famiglia per crearsene una sulle rovine. Ella aveva avuto ragione di opporsi, di frapporre l'ostacolo insuperabile. Era troppo tardi, oramai, e bisognava passare sopra troppi dolori per giungere ad una gioia dubbiosa e insidiata. Lasciare quella donna al suo destino, andare incontro al proprio, null'altro era possibile. Le vie che essi seguivano si erano incrociate, per poi divergere sempre più, nella vastità del mondo e della vita. Era l'ultim'ora dell'incontro; che cosa sarebbe accaduto di lui, da quell'ora in avanti?

— «In te sperai, Signore; dissi a me stesso: tu sei il mio Dio, nelle tue mani stanno i giorni miei».

Allora, dalle più intime fibre, dalle viscere più profonde, il fremito precorritore dell'ispirazione si propagò per tutto l'essere suo. Mentre il celebrante prendeva dalla patena e sollevava l'ostia, l'opera alla quale egli aveva pensato invano, le immagini da collocare sulla cima Antalba, gli balenarono dinanzi agli occhi della mente; un asceta con la fronte al cielo, una penitente coi ginocchi sulla terra, prossimi e pur separati, concordi ed uniti solo nell'adorazione dell'ignota potenza che governa l'universo. Mentre il sacerdote deponeva l'ostia sul corporale e mesceva il vino e l'acqua nel calice, e l'offeriva, e si chinava davanti all'altare, mentre l'organo distendeva sulla trama dell'Offertorio un tenue ricamo di sospiri melodiosi, le immagini si precisarono: egli vide in sè stesso l'uomo lontano ormai dalle vie del mondo, inaccessibile alle cupidità dei sensi, consunto da un interno ardore; vide in lei la creatura ancora bisognosa di soccorso, ancora genuflessa per implorare aiuto nelle prove della vita.

— «Con spirito d'umiltà ed animo contrito, accogline, Signore, e sia tale il nostro sacrifizio oggi nel tuo cospetto, che piaccia a te, Dio Signore».

Il senso recondito della volontà di lei, nel costringerlo a prender parte a quella cerimonia, si manifestava ora chiaramente: rinunziando entrambi alla gioia contesa, mortificando entrambi la loro passione, entrambi dovevano farne olocausto ai piedi dell'altare, entrambi dovevano attinger forza e trovar pace nel pensiero di Dio.

— «Laverò le mie mani fra gl'innocenti e circonderò il tuo altare, o Signore, per udire la voce delle tue lodi e narrare le universe tue meraviglie».

Ella aveva fatto assegnamento sulla santità del luogo, sulla solennità del rito, per compiere l'opera di persuasione; sulle parole, gli accenti, i gesti del celebrante; sulle melodie e le armonie dell'organo, sulle luci velate filtranti dalle finestre istoriate, sulle faci ardenti dinanzi alle immagini sante.

— «O Signore, amai lo splendore della tua casa e il luogo ove abita la gloria tua. Non fare che si perda con gli empî, Dio, l'anima mia»....

E come un'onda venuta di lontano, sospinta ed incalzata da soffî gagliardi, ingrossata nella corsa rapida e fragorosa; come la piena d'un torrente improvvisamente gonfio dei mille rivoli d'una lunga pioggia dirotta, la memoria della fede nutrita nella remota adolescenza, delle preghiere recitate con cuore sincero, delle paure e delle speranze per la salute dell'anima invasero lo spirito suo. Le parole della Secreta, mormorate dal celebrante a capo chino, non si udirono; ma nelle supplicazioni del Canone, nel pietoso Memento dei vivi e dei morti, nel mistero della Consacrazione e dell'Elevazione, tutto ciò che di più dolente e di più grandioso, di più mortificato e di più trionfale era nell'immortale poesia dei Salmi, toccò una viva fibra del suo cuore, tradusse un pensiero della sua mente. Tutta la sua vita trascorsa, le sue gioie e i suoi dolori, le sue lusinghe e i suoi disinganni, le sue aspettazioni e i suoi rimpianti, gli parvero un punto: nell'estremo tratto di via che ancora gli restava da percorrere vide e sentì che due cose sole poteva e doveva fare: meditare il formidabile enimma del destino umano, significarlo con l'arte sua. Ed era ancora merito di lei: all'inizio dell'amor loro, come nel punto del distacco, ella lo ispirava, gli additava il suo ufficio, gli suggeriva visioni di bellezza e di nobiltà.

— «Preghiamo. Da salutari precetti ammoniti, ed alla divina istituzione uniformati, osiamo dire: Padre nostro che stai nei cieli»....

Ogni parola della reiterata preghiera gli passò nell'anima come un elettuario che irrita al primo contatto la nuda carne della piaga, per diffondere subito dopo un senso di refrigerio. Ma il sacerdote, prima di soggiungere il Libera, rivolto nuovamente agli sposi dal lato dell'Evangelo, implorò con nuovo slancio:

— «Sii propizio, Signore, alle preci nostre; ed a questi tuoi istituti, coi quali ordinasti la propagazione del genere umano, presta la tua benigna assistenza, affinchè quanto da te è congiunto col tuo aiuto sia serbato. O Dio che per virtù della tua potenza dal nulla il tutto creasti; che, ordinati i principî dell'universo, e fatto l'uomo a tua immagine, fondasti l'inseparabile aiuto della donna, in modo che originando il corpo femmineo dalla stessa carne virile, c'insegnasti mai non esser lecito disgiungere ciò che da un sol corpo ti piacque formare; Dio che con tanto eccellente mistero l'amplesso coniugale consacrasti, che nell'alleanza nuziale predesignasti il sacramento di Cristo e della Chiesa; Dio, per cui la donna si unisce all'uomo, e questa società, fin dal principio ordinata, si munì della sola benedizione non cancellata nè per la pena del peccato originale nè per la sentenza del diluvio: volgi lo sguardo sopra questa tua serva che dovendosi unire in coniugale consorzio chiede d'esser munita della tua protezione».

Era la benedizione delle vergini spose proferita altra volta da quelle stesse labbra per le nozze della sorella sua. La sorella era stata ostile a quella creatura, aveva visto in lei la colpevole, la seduttrice, colei che lo aveva indotto in tentazione e trascinato al peccato: non sapeva che il tentatore era stato lui stesso; nella calma imperturbata della sua virtù ignorava e non ammetteva le tempeste che sconvolgono le vite umane.

— «Sia in essa il giogo dell'amore e della pace; fedele e casta si sposi in Gesù Cristo e viva imitatrice delle donne sante. Sia amabile allo sposo suo come Rachele, saggia come Rebecca, longeva e fedele come Sara. Nulla di lei, degli atti di lei, usurpi l'autore della prevaricazione. Sia ferma nella fede e nei comandamenti, stretta ad un solo talamo, fugga i contatti illeciti, munisca la sua debolezza con la forza della disciplina; sia rispettabile per verecondia, venerabile per pudore, erudita nelle dottrine celesti, feconda nella prole, laudabile ed innocente, e giunga al riposo dei beati ed al regno celeste, e vedano entrambi i figli dei figli loro sino alla terza ed alla quarta generazione, e pervengano alla desiderata vecchiezza»....

Era come un lavacro, come una redenzione. L'errore antico doveva esserle rimesso in nome di Colui che difese l'adultera. Si era confessata, infatti, ed era stata assolta, poichè il celebrante, dopo avere recitato il Libera, dopo avere portato il calice alle labbra per bere un sorso del vino mistico, si accingeva a comunicarla.

Chiuso il libro, levata la fronte dalla mano con la quale l'aveva sorretta, ella protendeva ora il capo per ricevere l'ostia che il prete, discesi i gradini dell'altare, e paternamente chinato verso di lei, le offriva mentre l'organo cantava il suo più alato canto.

— «Ecco sia così benedetto ogni uomo che teme il Signore, e tu vedrai i figli dei figli tuoi: pace sopra Israello».

Qualche cosa di quella benedizione, di quella pace piamente invocata, scese su lui; poichè, nel proferire la formula, il sacerdote lo guardò. Egli si sentì leggere nell'anima dallo sguardo limpido e dolce, si sentì compreso e compatito e perdonato dal vecchio prete che lo aveva asperso, bambino, dell'acqua lustrale.

— «Ti preghiamo, onnipotente Iddio, di accompagnare con benigno favore le istituzioni della tua provvidenza, sicchè coloro che unisci in legittima società conservi in lunga pace. Per Cristo Signor nostro, Figlio tuo, che teco vive e regna nei secoli dei secoli».

— «Così sia».

— «Benediciamo il Signore».

Anche la Messa era finita. Restava ancora l'ultima formula. Ancora una volta dirigendo la parola agli sposi, il prete invocò:

— «Il Dio di Abramo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe sia con voi, affinchè vediate i figli dei figli vostri sino alla terza ed alla quarta generazione, e poscia abbiate vita eterna senza fine, con l'aiuto del Signor nostro Gesù Cristo, che insieme col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli».

— «Così sia».

Con parola libera, non più costretta nelle formule liturgiche, il celebrante riprese:

— Sposi cristiani, l'esempio che avete dato accostandovi all'altare, santificando la vostra unione, non resterà infecondo. Così possiate serbare intatto il tesoro della fede e amarvi scambievolmente e vivere nel timore di Dio.

Preso ancora l'aspersorio, li benedisse: «Piaccia a te, Santa Trinità....», poi lesse le parole del Vangelo di San Giovanni: «In principio era il Verbo....».

— Lodovico....

Il suono del suo nome, mormorato da Perez, lo scosse. Voltatosi, vide che la chiesa non era più tutta deserta come prima: alcune donne venute a compiere le consuete devozioni, qualche curioso attratto dal suono dell'organo, erano sparsi qua e là, dinanzi alle cappelle, intorno all'altare maggiore. Ma già tutta la cerimonia era finita: il sacerdote, raccolto il calice, inchinatosi dinanzi all'altare, s'avviava alla sacristia. Perez mosse un passo verso la sposa, stendendole la mano:

— Tutti i miei rallegramenti!

Ella rispose, ricambiando la stretta:

— Grazie, Perez.

Mentre questi rinnovava il gesto col marito, ella offerse la mano al suo testimonio:

— Bertini, grazie.

La sua voce era grave, l'espressione del suo viso serena, la stretta di mano franca e forte come quella d'un amico, d'un buon camerata. Anche il marito strinse cordialmente la mano ai due amici; poi, a un invito del custode, tutti ripassarono nella sacristia.

— Poichè abbiamo dato lettura dell'atto nuziale, — disse Don Pietro, — non resta se non che questi signori lo firmino.

Piegò il foglio in due, per il lungo, e scrisse sul fianco, sillabando le parole che veniva tracciando lentamente:

— I sotto-scritti sposi hanno pre-stato il loro mutuo con-senso dinanzi a me cu-rato, ed ai sotto-scritti testi-monî....

Il marito firmò primo, poi la moglie, poi Perez, da ultimo Bertini.

— Ed ora non occorre altro, — disse Don Pietro, spargendo di sabbia rossa la fresca scrittura. — Il Signore vi abbia nella sua santa custodia. Mille anni felici!

Ella gli baciò la mano, il colonnello gliela strinse, prendendo poi a parte il sacrista ed il custode per distribuire del denaro. Mentre Perez intratteneva la sposa dopo essersi inchinato al sacerdote, questi fermò lo scultore che gli aveva anch'egli baciato la mano.

— Lodovico, figliuolo mio, quando ci darai l'opera promessa?... Guarda che il tempo passa, e che gl'iniziatori sono impazienti di vedere attuato il loro disegno.

— Non so, Padre.... Mi dia ancora qualche tempo.

— Possibile che tu non abbia fatto nulla, sinora?... Neanche un abbozzo?... Un lavoratore instancabile come te!

— Bisogna che m'intenda con lei.... Forse ho trovato qualche cosa.... Quando potrò vederla?

— Quando vorrai. Lo sai che per te qualunque ora è buona.

— Grazie, Padre.... Allora, arrivederla presto.

— Arrivederci presto, figliuolo mio.

V. L'addio.

Sulla spianata, dinanzi alla chiesa, il cocchiere che aspettava il ritorno degli sposi, fumando, spense il sigaro e lo intascò, vedendo uscire la comitiva, la moglie a braccio del marito, i due testimonî ai due lati della coppia; e cavatosi il cappello, già apriva lo sportello della carrozza perchè tutti vi rimontassero, quando la signora gli disse:

— No, non ancora: aspettate.... Sentite, Bertini, — soggiunse rivolta allo scultore, — mio marito ed io saremmo lieti di salutare un momento i vostri parenti....

— Saranno essi lietissimi....

Per il sentiero serpeggiante sul dorso della montagna, chiuso tra bassi muricciuoli dai quali sporgevano le siepi di vitalba, si avviarono tutti alla casa. Il cielo si era ancora più schiarito, le ultime volute dei vapori si diffondevano come chiome disciolte e ondeggianti al vento, canute nella bassa conca del lago, bionde nel sole delle altitudini.

— Vi fermate a lungo? — domandò ella a Perez, col quale procedeva ora avanti.

— Non tanto quanto vorrei. Debbo purtroppo tornare alla scuola.

— Tenete compagnia al vostro amico, — soggiunse; poi, dopo una breve pausa, con voce più bassa ma con più calore d'accento: — Ne ha bisogno.

In fondo al sentiero, tra le sbarre di un cancelletto di legno, si vide una testolina affacciarsi, poi ad un tratto sparire con un breve grido di sorpresa.

— La vostra nipotina? — domandò ella, voltandosi verso Bertini.

— E la mia, del cuore! — rispose Perez.

Ora il cancello si schiudeva, e la bimba, precedendo il babbo, la mamma ed i fratelli, si avanzava con le manine incrociate sul seno per reggere un enorme fascio di fiori e di fronde, una messe tanto copiosa che la vestiva tutta e quasi le nascondeva il visino. Giunta dinanzi alla sposa si fermò, la guardò con gli occhi color di cielo, e disse:

— Signora, la mamma ed io....

Ma già ella si chinava su lei, quasi in ginocchio, tendendole le braccia, attirandola a sè:

— Cara, cara, bimba mia cara....

Fu una cosa difficile raccogliere quei fiori, ricomporli, staccare i gambi delle rose impigliati nelle pieghe della vesticciuola della donatrice. La signora Laura vi diede mano, dicendo in tono d'amabile rimprovero:

— Ma bisognava ripulirli e legarli.... Non si offrono i fiori a questo modo....

— Lasci, lasci!... Sono anzi più belli!

Scambiarono così le prime parole prima della presentazione: poi, quando lo scultore ebbe pronunziato: «Mia sorella....» la signora Laura stese la mano alla visitatrice, dicendo con un sorriso di grande gentilezza e di profonda bontà:

— Sia la benvenuta fra noi. Mi permetta di esprimerle i nostri augurî più sinceri....

— La ringrazio, signora. Creda che sono fra i più graditi.

Compita la presentazione, scambiati gli inchini e le strette di mano, i padroni di casa lasciarono il passo agli ospiti.

— Rita!... — chiamò la straniera, volgendosi alla bambina. — Ti chiami Rita, lo so!... Dammi la tua manina.

La fanciulletta parve tutta orgogliosa di tornare a casa stringendo la destra della sposa, che reggeva con l'altra mano i fiori offerti da lei. Traversata la terrazza, dato uno sguardo al panorama, tutti entrarono nel salotto.

— Bertini, io interpreto il desiderio di mio marito ed esprimo il mio direttamente, chiedendovi di farci vedere il vostro studio.

— Sì, signora! — rispose pronta la minuscola donnina. — Lo zio non vi lavora più dacchè è a Firenze, ma vi sono dentro tante belle cose.... C'è anche la mia statua, di quando ero piccina....

— Ah, sì? — rispose ella sorridendo. — Rappresenterà un angioletto!... Andiamo a vederla.

Lo studio, vastissimo, tutto illuminato da un largo lucernario, ingombro nel mezzo da una forte impalcatura, pieno di gessi, di cere, di crete, con le pareti nascoste da pezzi di scultura antica, da modelli anatomici, da quadri, da bozzetti, da stampe, da stoffe, da armi, aveva un solo angolo ospitale, dietro un paravento: un largo divano basso, qualche sgabello, un tavolino a due palchetti sovraccarico di albi e di libri d'arte. Ma gli ospiti non vi si fermarono; guidati dalle due donne, girarono per lo stanzone, esaminando le opere che vi erano disseminate.

— Questo è il bozzetto dell'acquasantaio?... Questo è il gesso del «Fiore della memoria»?... Il busto del «Leopardi»....

L'amica dell'artista riconosceva ad una ad una tutte le sue opere e le additava al marito, che le considerava da vicino per esaminarne la fattura, e poi se ne discostava per coglierne l'effetto totale.

— E questa statua di quando eri piccina?

— Eccola, signora: venga con me.

In un angolo, sopra un tripode, la statuina di bronzo, alta poco più di un palmo, rappresentava la piccoletta, ritta in piedi, con la testolina piegata, le braccina protese, le manine dischiuse, nell'atto di offrirsi ad una persona diletta.

— Che mossa!... Che vita!... — esclamò Perez. — Se non par che si muova!...

— È la vita fermata nel metallo, — confermò il colonnello.

Ella disse soltanto:

— È molto bella.

— Mi permettete di offrirvela?

— E come, Bertini!... Sono permessi che si accordano molto volentieri.... Ma non vorrei privare i vostri cari....

— No, signora, — soggiunse la sorella, — noi abbiamo la nostra copia, in sala da pranzo.

Il dottore colse l'occasione per proporre:

— Se vogliono gradire una tazza di cioccolata....

— Grazie, dottore; ma abbiamo i minuti contati, e vorremmo ancora vedere tutte queste altre cose belle.

— Prendono il battello delle 10 e 15?

— No, scendiamo a Gozzana, prendiamo il treno delle 11.

— Ma si potrebbe anche fare un'altra cosa, — soggiunse la signora Laura: — far servire qui stesso la cioccolata....

Mentre ella andava a dare gli ordini, la visita continuò. Gli ospiti passarono dinanzi a tutto ciò che restava degli antichi lavori dello scultore, copie od abbozzi. Non vi era frammento che l'amica non riconoscesse.

— Questo è uno studio per la «Giovanna d'Arco»?... La prima idea dell'«Amerigo Vespucci».... Aveste ragione di modificare quelle figure di selvaggi: rammentavano troppo i mori del monumento mediceo di Livorno.

Si aggirò per ogni angolo, vide ogni cosa, rimosse tutti i cavalletti girevoli, lesse tutte le firme dei bozzetti pittorici, tutti i titoli dei libri sul tavolino. Vedendo sopra una mensoletta un calice da fiori, vuoto, disse alla piccola Rita:

— Ma come? Tu lasci senza fiori lo studio dello zio, e ne dài tanti agli estranei?

E mentre la piccina balbettava qualche confusa parola di scusa, ella stessa scelse tre rose dal fascio, una bianca, una gialla ed una rossa, e le dispose nel calice.

— Ricordati che sono senz'acqua, pensa a dar loro nuova vita.

Quando il servizio fu pronto sul tavolino sbarazzato dai libri, la conversazione, divenuta generale, sfiorò molti argomenti: la floricoltura del dottore, il movimento dei forestieri sul lago, le bellezze della natura e dell'arte italiana.

— Ora, — ella disse, levandosi, dando il segno dell'addio, — non bisogna dormire sugli allori, Bertini!

— Glielo dica lei, signora! — soggiunse la sorella. — Forse le sue raccomandazioni riesciranno più efficaci delle nostre.

— Di questo gruppo sacro, sulla cima Antalba, guardate che vogliamo avere presto notizia! Non è possibile che quassù, dinanzi a questo sublime spettacolo, non troviate motivi d'ispirazione.

Erano di nuovo usciti sulla terrazza; dopo una breve sosta, ridiscesero tutti, ospiti e padroni di casa, verso la chiesa. Tutte le nebbie erano ormai disciolte, nel trionfo del sole; solo un ultimo fiocco ne restava, sull'Antalba, piegato dal vento in modo da simulare il fumo d'un vulcano. Pareva veramente che, per un'improvvisa eruzione, dalle viscere del monte esalasse un ardente fiato.

— Meraviglioso! Divino!... — mormorò ella ancora, girando lo sguardo per la conca lacustre, quasi a raccogliere e imprimersi nella mente tutti i particolari di quella visione, come aveva fatto di ogni angolo e di ogni opera dello studio. Poi, rivolta alla padrona di casa: — Signora.... — disse, stendendole la mano.

Si tennero un momento per mano, guardandosi; poi, con moto concorde, si accostarono, si baciarono sulle due guance. Chinatasi sulla piccina, la straniera le prese la testolina fra le mani, la baciò sulla fronte.

— Rammenta tu allo zio che vogliamo vedere altre statue. Digli che ti scolpisca lassù!...

Strinse la mano a lui da ultimo, dopo aver preso congedo da tutti gli altri.

— Fate contenti i vostri cari e i vostri amici!... Avete un dovere, se non dinanzi ad essi, dinanzi all'Arte che aspetta grandi cose da voi.

Egli non potè rispondere; chinò soltanto il capo, per nascondere l'ultima contrazione del viso.

Quando fu in carrozza, dopo che la frusta schioccò e i cavalli si mossero, ella salutò ancora, con la mano, col capo; lanciò ancora un'ultima esortazione:

— Siamo intesi, Bertini!... Al lavoro!... Buon lavoro!...

UN SOGNO.

La prima rappresentazione del «Paradiso terrestre» al Goldoni è rimasta famosa per la tempesta che scatenò in teatro e per le polemiche che accese nella stampa. Dopo lo spettacolo, ad un tavolino del Caffè Francese, intorno a donna Maria di Varga, furono espressi vivacemente e rumorosamente i più disparati giudizî, magnificando alcuni la commedia di Guglielmo Baglioni, altri condannandola, approvandone gli uomini la tesi, scandalizzandosene le signore. Solo Ferdinando Anselmi taceva, volgendosi ad ascoltare gl'interlocutori e le interlocutrici senza far cenno di consenso nè di dissenso; ma poichè egli era il giudice più autorevole, donna Maria gli si rivolse, chiedendogli perentoriamente la sua opinione.

— Se permettete — diss'egli — io vi abbandonerò l'opera d'arte. Dal momento che un autore propone, dibatte e a modo suo risolve una tesi, bisogna considerarlo come un professore, un predicatore, un propagandista, la cui orazione potrà essere, rettoricamente, più o meno smagliante, ma le cui idee, e non già le immagini, importano. Ora Baglioni ha questo merito indiscutibile: di averci posto dinanzi un certo aspetto del problema dell'amore, al quale, pur essendo, o forse appunto per essere di semplicissima ed ovvia osservazione, non si attribuisce ordinariamente la dovuta importanza. Il titolo, che la signora Graziani e il mio amico Mauri particolarmente disapprovano, mi pare invece, scusate, molto graziosamente scelto. Voi sapete come nei miti biblici che sembrano più favolosi i credenti cerchino e trovino il preannunzio delle moderne affermazioni scientifiche: così i sei giorni della creazione sarebbero le epoche geologiche, e la formazione della donna dalla costola di Adamo significherebbe la separazione dei sessi dal primigenio ermafrodito. Ma vi è un punto dove la favola discorda dalla realtà scientificamente accertata e volgarmente osservata: quando narra che Adamo peccò a istigazione d'Eva. Non si trova, invece, nessuna forma di vita sessuata nella quale la femmina compia l'ufficio d'istigatrice: tutte le specie, al contrario, si estinguerebbero se i maschi dovessero aspettare di essere invitati a nozze. Non che invitare, la femmina ha essa bisogno d'essere pregata, corteggiata, sollecitata ed all'occorrenza sopraffatta. L'invenzione del serpente è un omaggio tributato alla realtà; se non che, questo rettile insinuante, il quale non parla e non può parlare per proprio conto, appartenendo ad una specie diversa e disforme, è un personaggio simbolico del quale non si può trovare il preciso equivalente nella commedia umana. Baglioni, in quel Gorli a cui sono toccati i fischi più sonori, ha voluto rappresentare il seduttore disinteressato, per conto altrui, per amore dell'arte: invenzione che poteva farsi accettare se si fosse incarnata in una persona viva. Non neghiamo che il tipo esista; diciamo che Baglioni non lo ha veduto nella vita reale, e per conseguenza non gli ha soffiato nei polmoni quella dell'arte. I serpenti a due zampe, col fiore all'occhiello e il monocolo all'occhiaia, non spingono Eva ad offrire la mela ad Adamo, ma le dimostrano la convenienza di mangiarla insieme con loro. È vero bensì che qualcuno, invece di gustare il frutto proibito, riesce precisamente a farlo offrire ad un altro; ma questo effetto non è mai premeditato; è anzi involontario e sgradito. E se tale fosse stato il caso rappresentato da Baglioni, i suoi amici non avrebbero dovuto durare tanta fatica per difenderlo contro i fischi e le risa degli avversarî. Un moto interiore della sua coscienza od un avvenimento estraneo alla sua volontà poteva benissimo impedire al Gorli di ottenere per sè il premio dell'opera serpentina. Chi di voi rammenta la baronessa di Sclàfani? Il serpente della povera donna Emilia fu un amico di casa, il quale, dopo averla tolta alla quiete, dopo averle messo addosso la febbre della curiosità, del desiderio, del pericolo, si ritrasse, preso a un tratto dallo scrupolo di offendere il marito, di cui era intimissimo....

— Come? Come? — interruppe donna Maria. — Narrate!

— È una storia piuttosto lunga, mia cara amica, e del resto sta scritta in un libro; se volete, domani ve lo porterò. Il fatto è questo: che in tutta la serie degli esseri viventi l'istinto dell'amore, attivo e prepotente nei maschi, è nelle femmine non solamente passivo, ma accompagnato da un istinto tutto contrario, di resistenza, di disamore, che rende perfettamente ragione degli aggettivi qualificativi appioppati a voi donne dal secondo Dumas, quando vi definì creature illogiche, subalterne e malefiche....

Vivaci esclamazioni di protesta provocarono queste parole nelle astanti, specialmente da parte di donna Maria e della signora Graziani, mentre qualcuno degli uomini, prima diffidenti e quasi ostili, le approvavano. Anselmi si strinse nelle spalle, con un muto sorriso, finchè il coro discorde non tacque; allora, con un gesto della mano che invocava silenzio, riprese pacatamente:

— Non nego, non nego che il novantanove per cento delle soddisfazioni nostre, di noi uomini, in amore, dipendano precisamente dalla vittoria riportata sulla vostra passività, sulla vostra apatia, sulla vostra riluttanza, e che se vi trovassimo tutte disposte a seguirci ad un semplice cenno, come quella signorina laggiù — e in così dire additò una vistosa e solitaria cliente seduta a un deserto tavolino dell'elegante Caffè — la mancanza di difficoltà nell'impresa ne scemerebbe l'attrattiva e ne farebbe anche passare la voglia; ma i danni della lotta, anche quando vinciamo, chi li enumera, chi li valuta, chi li somma? Il gatto torna tutto insanguinato dell'amplesso della deliziosa gattina: vi rammentate quello della «Gioia di vivere» di Emilio Zola? Voi non ci graffiate la pelle.... sebbene!... talvolta!... ma lacerate il nostro cuore, mortificate il nostro orgoglio, avvilite la nostra dignità, spremete lacrime amare dai nostri occhi. Abbiamo riso del personaggio di Baglioni, che si ritrae al momento buono per lasciare il posto all'amico; ma non ridono nelle scuderie, al tempo della monta, quando, per evitare che le riluttanti giumente sconcino con un calcio il prezioso purosangue, le fanno prima abboccare con un qualunque ronzino; il quale, se le belle si mostrano disposte a dargli ascolto, è poi tratto da parte e costretto a cedere il posto al nobile e valente stallone....

Un altro coro di scandalizzate proteste coprì la voce dell'oratore; la signora Graziani, con una deliziosa smorfietta tra di disgusto e d'ilarità, lo sfidò:

— Ma insomma, che cosa volete? Si può sapere che mai dovrebbero fare, secondo voi, queste povere donne? Se voi stesso riconoscete che la grande arrendevolezza di quelle signorine vi nausea?

— Precisamente! Nè solo quando è venale, ma anche se disinteressata la pronta dedizione dispiace ed inquieta, come sintomo di anormalità. Una certa resistenza è naturale, necessaria, conveniente; un certo sforzo per vincerla non riesce tutto penoso, perchè sforzo vuol dire esercizio di forza, e la coscienza della forza giova, piace ed esalta. Dirò di più: anche quando la resistenza è invincibile, anche quando l'amante respinto è ridotto alla disperazione, alla pazzia, al suicidio, egli non ha da prendersela se non col destino, o con sè stesso, per essersi innamorato d'una creatura insensibile, d'una bellezza inutile, direbbe Maupassant; ma l'assurdità delle resistenze volute, studiate, prolungate oltre il ragionevole, complicate con gli adescamenti, con le gelosie, con le rivalità, coi falsi pudori, coi mendicati doveri, con tutti i peggiori artifizî della civetteria, quelle sono le più penose e pericolose. Disgraziatamente sono anche le più frequenti. Dico anzi che sono la regola. Ordinariamente, dopo la vittoria, si dimentica quanto il suo conseguimento è costato di supplicazioni, d'implorazioni, di umiliazioni, di amarezze, di torture, di commozioni penose e logoranti, di assurde e ridicole esagerazioni spacciate per ubbriacare e scuotere l'oggetto del nostro desiderio, di tempo e di fiato e di pianto sprecati; ma chi può vantarsi di non esser passato per queste pene e di non aver fatto questo sciupìo? Chi ha trovato una donna, dico una donna e non una mercenaria nè un'ammalata, chi ha trovato una creatura bella d'aspetto e degna nell'anima, capace di arrendersi semplicemente, naturalmente, sottraendosi al tributo di falsità che l'istinto e le tradizioni del suo sesso le impongono, e sottraendo per conseguenza anche noi al tributo di menzogne e di lacrime; una creatura capace di comprendere senza tante storie la sincerità dell'ardore suscitato, col minimo di storie occorrente per infiammarsi o per riscaldarsi a sua volta?

— Io.

Intenti a seguire le argomentazioni del facondo oratore, gli astanti si volsero, un poco stupiti, al suono della nuova voce. Aveva risposto Alberto Mauri.

— Tu? I miei complimenti! Dove l'hai trovata?

— In sogno.

— Volevo ben dire! In sogno, anch'io.

— Ma nessun sogno può paragonarsi al mio.

— Proprio?... Ma proprio?... Narratelo allora! Sentiamo!... — dissero le signore.

— Anselmi — osservò Mauri rivolto a donna Maria — non ha voluto riferirvi la storia della baronessa di Sclàfani come troppo lunga per quest'ora: è il tocco e un quarto, e neppure il mio sogno è breve!

— Il tocco e un quarto!... — esclamarono più voci femminili. — «A casa, a casa....» — intonarono poi, sull'aria della «Cavalleria rusticana».

La comitiva si sciolse; alcuni montarono in legno, altri si congedarono dirigendosi verso il centro della città; donna Maria, la signora Graziani, suo fratello, Anselmi e Mauri si avviarono lentamente verso i quartieri alti.

— Se lo narraste ora, il vostro sogno? — propose la signora di Varga. — Susanna è nottambula come me, e non si dorrà di rincasare mezz'ora più tardi: è vero?

— Mauri! — rispose l'interrogata volgendosi al giovane. — Ve ne preghiamo!...

E per le vie deserte, a tratti avvolte nella penombra, a tratti fortemente rischiarate dalle lampade ancora veglianti nella notte alta, Mauri, in mezzo alle due dame che gli altri cavalieri circondavano dagli altri lati, narrò.

— .... È alquanto difficile significare le impressioni del sogno: voi sapete che si distinguono da quelle della veglia per qualche cosa, appunto, di ambiguo, di indefinibile, di evanescente. Talvolta, è vero, sono d'una vivacità straordinaria, da superare le più gagliarde e profonde della vita reale; ma, subito dopo, al dischiudersi degli occhi, il ricordo se ne attenua e sbiadisce e sfuma. Sogni deliziosi o terribili, tutti ne abbiamo fatti e ne facciamo; ma di quanti serbiamo memoria?...

«Io ero nel più bel paese del mondo, una spiaggia tutta frondosa e fiorita, dinanzi a un mare azzurro aleggiato da tepide brezze, veleggiato da candide ali. Un tempio marmoreo sorgeva dinanzi al mare, ed era dedicato alla Fortuna. Giorno e notte la gente vi traeva da ogni parte, per tentarla, e coloro che la mutevole Dea favoriva ne uscivano carichi d'oro, e quelli che osteggiava si precipitavano, ridotti alla miseria e alla disperazione, da altissime rupi sopra irte scogliere. Il tintinnio dell'oro scandeva le musiche echeggianti sotto le vôlte del tempio; creature di favolosa bellezza vi si aggiravano, affascinanti come sirene. La donna dalla cui vista rimasi abbagliato non era la più desiderata: altre si traevano dietro codazzi di spasimanti; ed io sentivo il bisogno di render conto a me stesso della mia scelta, pensando a quel che ci accade quando siamo dinanzi alla mostra d'un gioielliere. Anche se non abbiamo da comprar nulla, se fantastichiamo che qualcuno, un amico straricco e generoso, o lo stesso mercante, ci offra di portar via un oggetto di nostro gusto, noi non preferiamo il più vistoso, ma il più squisito. Come dire la squisitezza, la leggiadria, la grazia, l'incanto, il fascino di quella creatura? Mai ne avevo vista un'altra altrettanto espressiva. Il fervore della sua intima vita non si rivelava solamente dagli occhi profondi, mutevoli, languidi e sfavillanti, limpidi e tenebrosi, ma da ogni tratto del viso, da ogni atteggiamento della persona. La chioma bionda e ricciuta era tutta ardore, tutta capricci; le guance avvampavano come per baci che invisibili labbra vi stampassero o si sbiancavano come per parole mortali che ella sola udisse; nei fremiti delle sue proprie labbra, delle mobili nari, delle mani nervose, passavano baci, sorrisi, carezze, repulse, disdegni, meraviglie, desideri, cupidigie, tutti i moti d'un'anima sincera, tutti gli atteggiamenti d'una vita intensa. Era straniera, principessa, ricca a milioni; ma non sfoggiava la sua ricchezza: in mezzo a gente che ostentava il lusso più ricercato, era semplice, disadorna, quasi dimessa; ma nella sua semplicità nessuna riusciva altrettanto elegante, d'una eleganza così discreta, istintiva, connaturata, la più rara, la più invidiata, quella che non si acquista.

«Suo marito, gigantesco, soldatesco, poteva esserle padre. Tentava costui assiduamente la fortuna alle tavole del giuoco, con singolare freddezza, con perfetta padronanza di sè stesso; mentre, intorno a lui, non vedevo se non facce pallide o accese, occhi spalancati, avide bocche, mani frementi. Ella non giocava: leggeva, ricamava, passeggiava nei giardini incantati, lungo il placido mare; ed io non sapevo in che modo accostarla per dirle il prodigioso effetto che la sua vista aveva prodotto in me. Mi pareva che tutte le donne prima conosciute nulla m'avessero rivelato del sesso loro, che ella soltanto lo incarnasse, ne possedesse tutti gli attributi, ne potesse rivelare tutto il mistero. E mentre così pensavo, sentivo anche l'impossibilità di giungere a lei, come ad una vetta altissima, inaccessibile. Ci sta ella dinanzi, sul cielo azzurro, tra le nubi, e par quasi che la tocchiamo con la mano, e che uno slancio ce la farà guadagnare; ma se il desiderio ha le ali, le gambe sono di piombo e c'impediscono di muovere un passo. Tale era l'angoscioso sentimento della mia impotenza, mentre volevo compiere eroismi che avrebbero fermato l'attenzione di lei. Improvvisamente le parlai. Che stranezza! aver pensato di gettarmi in mare per trarre un naufrago alla riva, di raggiungere a corsa sfrenata un cavallo impazzato per afferrarlo e domarlo, di meritarmi con qualche impresa similmente ardua e nobile un suo sorriso, ed ottenerlo poi col più semplice e comune dei gesti!...

«Ella che non avevo mai vista nelle sale del giuoco, vi si appressò una volta mentre anch'io mi accingevo ad entrarci. I giocatori che vi s'ingolfavano, impazienti di raggiungere i loro posti, avidi di guadagno, ignoravano o dimenticavano i più elementari doveri di cortesia: si affollavano, si sospingevano, si urtavano, come impazzati: io le cedetti il passo e trattenni coloro che mi stavano dietro, reggendo la bussola. Mi guardò, come stupita dell'atto; sorrise con indicibile grazia, e mormorò nella sua lingua:

«— Molto gentile!

«Tanto tempo addietro, a scuola, io avevo studiato quel nordico idioma, ma per mancanza di esercizio lo avevo quasi del tutto disimparato: ad un tratto l'espressione adatta alla circostanza mi salì alle labbra:

«— Doveroso semplicemente!...

«La rividi a pranzo, alla tavola rotonda.... Come mai nel mio stesso albergo? Non me ne ero accorto prima, o vi si era traslocata quel giorno?... Stava seduta ad una tavola non molto discosta dalla mia, ed io che l'avevo trattata con tanto rispetto dinanzi all'entrata delle sale, con altrettanta indiscrezione fermai allora su lei l'avido sguardo. Non parve che se ne accorgesse. Dopo pranzo, quando il marito l'ebbe lasciata, mi ritrovai accanto a lei nel vestibolo, presso al guardaroba: le chiesi il permesso d'aiutarla a mettersi il mantello, le porsi la borsa ed i guanti.

«— Grazie!... — disse ella. — Siete italiano?

«— Come lo sapete?

«— Non è difficile indovinarlo, al viso, ai modi, all'accento.

«Mai avevo udito voce così musicale, una voce di contralto, grave e dolce, come d'oro. Le sue ultime parole furono dette in francese. Si era accorta di qualche mio errore nel parlare la sua lingua? Voleva rendermi più agevole la conversazione?

«— Venite nelle sale di giuoco? — le domandai, adoperando il francese a mia volta.

«— Non giuoco.

«— Che importa! Vedere gli altri è uno spettacolo.

«— Penoso.

«— Non sempre.

«— E voi, giocate?

«— Talvolta.

«— Che cercate nel giuoco?

«— Il giuoco!

«— Buona fortuna!

«Mi porse la mano soave con moto lento, pieno di grazia; si allontanò con passo lieve; la vidi sparire, svanire, quasi svaporare tra le ombre del giardino.

«Alla tavola verde, fin dal primo colpo, le monete cominciarono ad accumularsi dinanzi a me. Vinsi, vinsi, non so quanto, non so come, con le puntate più rischiose, contro tutte le probabilità. Non le calcolavo, buttavo la posta sopra un numero qualunque, giocando veramente per giuoco, come per conto d'un altro, come se le monete fossero gettoni. Invece di badare ai colpi della fortuna, consideravo coloro che la sfidavano, studiavo le loro espressioni e i loro atteggiamenti: i visi pallidi, smarriti, con gli occhi fuori dell'orbita, degli uomini in disdetta; quelli animosi, ridenti, coi muscoli del viso corsi da lievi tremiti, di coloro che vincevano; le donne più avide, più intente, con moti e scatti nervosi alle perdite; lente e come assorte nei calcoli, ma tuttavia inconsapevoli durante le vincite.... Accumulandosi l'oro e i biglietti di banca dinanzi a me, qualche cosa come ventimila franchi, mi parve di udire la voce di lei che ammonisse: «Ora basta!...»; ma non l'ascoltai, continuai a puntare, con eguale, con maggiore disinvoltura, come ebbro. E cominciai a perdere. La fortuna si era stancata. Non mi arrestai: volli sfidarla. A poco a poco tutta la vincita sfumò, perdetti anche il denaro che avevo portato meco. Quando non ebbi dinanzi altro che due monete d'oro, lasciai il posto, uscii nel giardino. Ella era ancora lì; le andai incontro, col cappello in mano.

«— Avete vinto o perduto?

«Trassi di tasca le due monete e gliele mostrai.

«— È tutta la vostra vincita?

«— È quanto mi rimane, dopo aver vinto ventimila franchi.

«Ella tacque un poco, poi domandò:

«— Che conto fate del denaro?

«Per tutta risposta, con un moto istintivo, con uno scatto improvviso, lanciai le due monete lontano, tanto lontano che non si udì il rumore della caduta.

«Il gesto non la stupì. La notte era divina, senza vento, tutta costellazioni rutilanti come serti di gemme; Venere, perla miracolosa pendente sulla linea dell'orizzonte, rigava il mare del suo riflesso, quasi liquefacendosi. Sentii gonfiarmi il petto da un desiderio di morte.

«— Così getterei la vita per voi, — mormorai, — per vedervi apparire stanotte lassù, in camera mia....

«Non parve offesa nè semplicemente stupita dalle mie parole, come se avessi espresso un sentimento naturale e doveroso, una verità elementare ed ovvia. Se avesse risposto una sillaba, se avesse fatto un cenno, avrei scavalcato la terrazza precipitandomi in mare. Come mi era sembrato di non aver bene conosciuto nessuna donna prima di lei, così mi sembrò in quel momento di non aver mai veramente vissuto: tutta la vita mi parve destituita di valore e di significato senza l'amor suo.

«Il marito sopravvenne: ella mi presentò. Neanch'io mi stupii che ella conoscesse il mio nome. Certamente doveva averlo trovato sulla tabella dei viaggiatori dopo aver saputo il numero della mia camera. Ma io non avevo pensato di fare altrettanto con lei, non sapevo come si chiamasse.... Su, in camera, durante la notte insonne, restai a lungo immobile sopra una poltrona, mi buttai vestito sul letto, tornai a levarmi più volte, sempre con lo sguardo all'uscio, come se da un momento all'altro dovesse schiudersi, come se un'ombra bianca, lieve e silenziosa, dovesse apparirvi. Non apparve, ma la vanità dell'aspettazione non mi deluse, come non mi aveva stancato la sua lunghezza. Tanto avevo disperato, prima di parlarle, tanto mi era sembrata lontana, formidabile, inaccessibile, altrettanto mi sentivo ora animato da luminose speranze.

«Il domani la incontrai nella sala di lettura. Le dissi, come la cosa più semplice del mondo, come la sola cosa che dovessi naturalmente dirle:

«— Perchè non siete venuta?

«Mi guardò senza meraviglia; sorrise appena; rispose con un'altra domanda, socchiudendo gli occhi:

«— Perchè mi avete aspettata?

«Allora parlai. Tutto ciò che avevo sentito per virtù sua, il senso di vanità trovato in tutte le cose e l'ebbrezza di vivere accanto a lei, la moltiplicazione di tutte le mie potenze vitali e la dispersione d'ogni mia volontà, la certezza che mi avesse compreso e il bisogno di annientarmi per provarle la mia sincerità: tutti i contrasti della sfiducia e della fede, delle esaltazioni e degli abbattimenti, tutto le dissi con una eloquenza della quale io stesso ero meravigliato. Mai avevo parlato con tanta facilità, con tanto impeto, con tanto fuoco, nella mia propria lingua; non una parola mi mancava nella straniera, come se qualcuno, un suggeritore invisibile, me le venisse dettando, da un libro.

«— Come volete ch'io creda a questo amore? — domandò ella quando tacqui.

«— Che cosa ve lo impedisce?

«— Mi conoscete da qualche giorno, mi avete parlato due volte appena!

«— Una sarebbe bastata.

«— Non sapete chi sono, donde vengo, dove vado, come penso, quanto valgo. In queste condizioni non è possibile amare: si può desiderare soltanto.

«— Forse che l'amore è una cosa diversa da questo desiderio veemente, cocente, struggente, supplice, disperato, mortale, vitale? Non so chi siete? So che siete la bellezza, la meraviglia, la grazia, la seduzione, l'incanto. Che cosa vorreste che sapessi di più? Il resto che m'importa? Il resto che importa? Non si avvilisce l'amore riducendolo al desiderio, poichè quando il desiderio cessa, resta l'indifferenza o il disgusto.

«Mi parve di aver formulato una di quelle sentenze la cui verità è lampante, inconfutabile, assiomatica; mi stupii meco medesimo di essere così concettoso e persuasivo.

«Ella disse:

«— Tutti i giuochi vi sono familiari, compreso quello delle parole.

«Il richiamo al giuoco mi suggerì un'idea:

«— Volete che ci affidiamo al caso?

«— Come sarebbe a dire?

«Non potei spiegarmi, sopravvenendo gente di sua conoscenza. La invitai per il pomeriggio in una «Tea-room», una sala dove gl'Inglesi prendevano il tè, dinanzi a minuscole tavole, senza far rumore, quasi compiendo un rito.

«— Il caso governa tutta la nostra vita, sempre, anche quando ci crediamo maggiormente padroni di noi stessi. Esso ci ha sospinti alla stessa ora, da luoghi tanto discosti, in quest'angolo del vasto mondo; esso determinerà i nostri futuri rapporti. Pensate ai vostri antichi timori: non dipesero da un concorso di circostanze fortuite? Al convegno dove foste vinta, lo scoppio d'un temporale, l'incontro di un importuno, il malessere d'un parente, l'arrivo d'una notizia, il più piccolo contrattempo vi avrebbe fatto mancare. Se l'uomo che vi sedusse avesse parlato un giorno prima o un giorno dopo, un'ora prima o un'ora dopo, se non avesse toccato un certo tasto, se non avesse preso un certo atteggiamento, se non avesse proferito una certa frase, se non avesse taciuto una certa parola, non vi avrebbe soggiogata. La vostra passione o la vostra saggezza, la vostra sconfitta o la vostra vittoria, tutto il destino della nostra intima vita, tutta la successione dei nostri casi esteriori, sono stati e sono continuamente determinati da avvenimenti minimi, infimi, imprevisti, imprevedibili, indipendenti da noi, prodotti dal giuoco di forze cieche ed inconsapevoli. Oggi, a quest'ora, nè io nè voi possiamo dire che cosa accadrà di noi: tanto è probabile che ci perderemo di vista fra qualche giorno o qualche settimana, senza conoscerci più addentro, dimenticandoci, quanto che ciascuno di noi debba vivere indelebilmente nella memoria e nel cuore dell'altro. Invece di aspettare che il caso compia l'opera sua più o meno lentamente e c'imponga a nostra insaputa la sua risoluzione, vogliamo interrogarlo subito ed uniformarci consapevolmente alla sua risposta?

«— In che modo?

«Trassi di tasca il taccuino, ne strappai due foglietti, scrissi sull'uno: «Partite», sull'altro: «Restate».

«— Ecco: vedete queste due parole su questi due pezzi di carta?

«— Le vedo. E poi?

«— Io arrotolo i cartellini in modo che non si possano distinguere l'uno dall'altro, li getto nel mio cappello, così.... Voi ne prenderete uno: se sarà quello dove si legge «Partite», partirò domani col primo treno, sparirò, non vi rivedrò mai più; se sarà l'altro....

«Ella mi guardò un istante con occhi ingranditi dalla curiosità e dallo stupore; poi scoppiò in una risata, una risata schietta, sonora, squillante, che ci attirò gli sguardi severi degli astanti scandalizzati.

«— Sapete che siete un originale? Nessuno mi crederà, quando narrerò che mi fu fatta una simile proposta!

«— Mai proposta fu più ragionevole. Della stravaganza ha l'apparenza soltanto.

«— Io dovrei esser vostra per aver posto la mano sopra un pezzo di carta piuttosto che sopra un altro? Voi sareste contento di prendere una donna così, come si vince un oggetto alla lotteria?

«— Non come un oggetto!... Siate sincera! Dentro di voi c'è un contrasto di opposti impulsi, di istinti antagonistici: molte voci vi dicono di resistere, ma qualcuna, sia pure una sola, parla pure in favor mio. Se vi fossi odioso, o soltanto indifferente, non sareste, a quest'ora, in questo luogo, con me. Voi mi respingete e mi attirate ad un tempo, volete ascoltarmi e non volete abbandonarvi: non sapete precisamente qual è la vostra volontà. Da questa incertezza il caso vi farà uscire a poco a poco: sarà lui quello che vi agguerrirà contro la tentazione o che se ne renderà complice. Io vi propongo di affrettarne il responso. Se dirà ch'io resti, non dovete far altro se non ascoltare la voce che vi parla per me, che vi dice la forza della vampa suscitata in me, l'intensità della gioia che mi dareste, a cui voi stessa partecipereste....

«— E se sortisse il cartellino con la parola «Partite»? Partireste come promettete, senza far nulla per tentare di rivedermi?

«— Ve lo giuro su quanto ho di più sacro.

«— E volete ch'io creda al desiderio che v'arde? Che cosa è dunque questo vostro incendio, se siete capace di spegnerlo con un atto di volontà?

«— Ma non di volontà! Non mi fraintendete! La mia volontà non è irresoluta come la vostra. La mia volontà, il mio piacere, il mio bisogno sarebbe di prendervi fra le braccia, di stringervi al petto, di portarvi via come una cosa preziosa, un tesoro trafugato, un bene essenziale; ma se, dopo aver tentato tutte le vie del vostro cuore, dopo avere aspettato tutte le occasioni propizie, non riuscissi a commuovervi, dovrei pure necessariamente uniformarmi all'avverso destino. Se sortisse la parola che mi ingiungesse d'andarmene, mi rassegnerei al decreto della sorte, come se le vostre stesse labbra lo avessero proferito.

«Allora fece un gesto col capo che mi parve di consentimento. Le porsi l'urna improvvisata perchè prendesse uno dei cartellini. Distese infatti la mano, ma per respingere il mio braccio.

«— No!

«— Perchè non volete?

«— Avete risposto a tutte le mie obbiezioni, ma ve n'è ancora una che non potete distruggere.

«— Quale?

«— Trovatela!

«La cercai, infatti, ma infruttuosamente. La mia attenzione era incapace di soffermarsi sul quesito, di antivederne tutte le soluzioni possibili. Mi rammentavo di certi tormentosi problemi algebrici studiati a scuola, pensavo al binomio di Newton, sentivo di dover adattare alla circostanza il calcolo delle combinazioni. Tentavo di ragionare: — Il caso, interrogato, potrà rispondere «sì» o «no», mentre ella stessa, in cuor suo, potrà propendere per il «sì» o il «no». Allora possono determinarsi queste combinazioni: ella può dir di «sì» e il caso dire anch'esso di «sì».... o di «no» e il caso di «no».... o di «no».... o di «sì».... o di «no».... — e la mia mente si confondeva in questo giuoco di alterne risposte.

«Quando ebbe goduto un poco del mio imbarazzo ella si alzò, dicendomi:

«— Accompagnatemi a casa: ho molte lettere da scrivere.

«— Non vi rivedrò fino a domani?

«— È molto difficile. Domattina parte mio marito.

«— Allora verrete a pranzo con me?

«— Volentieri, se potessi. Ma nel pomeriggio partirò io stessa.

«— Non è una difficoltà.

«— Ma all'ora del vostro pranzo non sarò più qui!

«— Non importa! Non vi chiedo di rinunziare alla partenza. Mi basta che accettiate l'invito.

«— Se non si tratta d'altro che di accettare!

«— Grazie! Penserò poi io a farvi mantenere l'impegno.

«— Sono molto curiosa di sapere come farete! A che ora, il vostro pranzo?

«— All'ora vostra consueta, naturalmente.

«— Io pranzo alle otto.

«— Resta stabilito per le otto.

«— Benissimo. Sapete che prenderò il lampo delle sei e quindici?

«— Farò tesoro dell'informazione. Alle otto sarete a tavola con me.

«Avevo parlato senza sapere che cosa dicessi, per il bisogno di parlarle, per trattenerla meco, per ottenere da lei qualche cosa, non foss'altro a parole; quando compresi ciò che avevo detto, quando domandai a me stesso come avrei fatto per vincere, una luce m'illuminò. Nelle profondità della coscienza un piano si era disegnato, a mia insaputa, e mi si presentava ora con tutti i particolari. Il treno-lampo delle sei e quindici doveva essere quello di Parigi. Il domani sera, alle cinque e mezzo, salii in camera mia a cambiarmi, m'annodai la cravatta nera al collo, indossai lo «smoking»; alle sei e dieci arrivai alla stazione, senza valigie. Quando ella mi vide entrare nella sala d'aspetto diede in una matta risata.

«— Grazie d'esser venuto a salutarmi! Vi manca un bel mazzo di fiori da offrirmi!...

«— Non avete di che ringraziare. Compio semplicemente il mio dovere. Chi invita deve aspettare i proprî ospiti. I fiori, ch'io sappia, si fanno trovare sulla mensa.

«— Ah! Ah!...

«Tintinnio di campanelli, sbattere d'usci, fischi prolungati: il treno entrò sbuffando sotto la tettoia. Ella si alzò, io presi la sua borsa, le feci strada tra la calca, l'accompagnai fino alla carrozza coi letti, l'aiutai a salire sul terrazzino, porsi il suo minuscolo bagaglio al conduttore.

«— Avete tutto? — le domandai.

«— Tutto, grazie!

«Mentre ella dava a verificare i suoi biglietti, mi volsi intorno. L'uomo che cercavo, in livrea, con un foglio nella sinistra e una matita nella destra, annotava le ordinazioni dei viaggiatori: gli feci cenno d'avvicinarsi, gli dissi rapidamente:

«— Un pranzo riservato, per due, da servirsi dopo Cannes. Avete fiori?

«— Pochi, signore, e non belli.

«— Telegrafate a Nizza per procurarvene. Eccovi del denaro.

«— Benissimo!

«Adempiuta la formalità della verifica, ella si rivoltava in quel punto per dirmi, col più grazioso dei suoi sorrisi e stendendomi la mano:

«— Ancora una volta grazie!... Buona permanenza!...

«Una tromba squillò, la macchina fischiò. Io che ero rimasto dinanzi al terrazzino, col cappello in mano, mi ricopersi, mi afferrai alla colonnina, e montando risolutamente sulla carrozza, corressi:

«— Dite buon viaggio, piuttosto.... Ma l'augurio è soverchio, perchè in vostra compagnia queste ore voleranno deliziosamente.

«La risata alta, argentina, cordiale, riecheggiò mentre il treno si metteva in moto.

«— Ridete, ridete pure. Ora siete in mio potere!

«— Come sarebbe a dire?

«— Ospite in casa mia!

«— Sul treno?

«— Avete accettato, sì o no, di pranzare con me?

«— Ho accettato!

«Non so come passò quella prima ora, non rammento che cosa dicemmo. Vi sono molte altre lacune nel ricordo del mio sogno. Voi sarete anzi stupite ch'io vi riferisca tutti questi discorsi; ma, naturalmente, non garantisco che tali fossero le nostre precise parole; nè, del resto, importa che sieno testuali, se ce n'è il senso.... Rammento benissimo che da quanto ella diceva non traspariva il minimo cruccio; mi pareva anzi piacevolmente stupita e incuriosita dall'avventura. Alla stazione di Nizza m'affacciai al terrazzino: vennero i fiori, rose e garofani meravigliosi; gliene offersi una parte:

«— Permettete? Poichè ne avete espresso il desiderio! Quelli della mensa saranno più tardi al loro posto.

«L'uomo in livrea passava sulla fronte del convoglio gridando:

«— Wagon restaurant!... Wagon restaurant!...

«— Ma è già l'ora di andare a tavola! — osservò la mia ospite.

«— Per gli altri. Voi non avete detto che pranzate alle otto? Alle otto sarete servita.

«— Siete perfetto!

«La parola che definiva lo stato dell'animo mio, la tensione dei miei nervi, l'esasperazione della mia volontà, mi salì alle labbra:

«— Sono pazzo....

«— Allora, diciamo che siete un pazzo perfetto!

«Ci chiamarono nella carrozza da pranzo quando avevo stabilito: allo scoccare delle otto. Quel treno era d'una puntualità cronometrica; tutte le circostanze sulle quali avevo fatto assegnamento si avveravano, con una precisione, con una facilità che mi stupivano, come dovute all'intervento di una forza misteriosamente propizia; il sordo timore d'un contrattempo, la secreta inquietudine per qualche improvvisa difficoltà o pericolo, si disperdevano. La nostra tavola era tutta fiorita; alle altre non c'era più nessuno. Il cameriere ci serviva come un automa, impassibile alle risate della mia compagna. Ella mangiava e rideva. Tra uno scoppio di risa e l'altro, esclamava:

«— Che stravaganza!... Conoscervi da tre giorni, avere accettato un invito a pranzo per la certezza di evitarlo, e trovarmi ora qui, con voi, mentre il treno ci porta via correndo a ragione di ottanta chilometri l'ora!...

«— Avevo ragione di dirvi che avrei vinto?

«— Avete vinto!

«Volevo sorridere di trionfo, ma sospirai di rammarico:

«— E che mi vale?

«— Non siete contento?

«— Io?... — mi corressi; — io sono felice!...

«La sua bellezza sfolgorava. Alla luce delle lampadine incappucciate di rosso, tra le rose, la carnagione del suo viso, delle sue braccia nude velate da una bionda pruina, aveva riflessi di raso vivo. I suoi occhi sfavillavano, accesi dal piacere, dall'ilarità, dalla curiosità. Quella animazione era bene opera mia, ed io dicevo tra me che bisognava essere di molto difficile contentatura per non gustare il singolare incanto, il delizioso turbamento di quell'ora fugace su quel convoglio in fuga. Prima di conoscerla, che cosa non avrei dato per poterla avere con me, da sola a solo, nell'intimità d'una specie di viaggio di nozze? Il cameriere che ci serviva, i viaggiatori che ci avevano visti scendere e risalire da una carrozza all'altra, non dovevano crederci sposi in piena luna di miele? Io non dovevo avere eccitato un senso d'invidia pungente tra gli uomini che ammiravano quella stupenda creatura?... Cinquantacinque franchi e cinquanta centesimi di pranzo, settanta franchi di fiori, venti franchi di mancia: l'illusione di esser parte della sua vita, la realtà di occuparne un'ora, mi venivano ancora a buon mercato.

«Traendo con le labbra di fragola lievi boccate di fumo dalla sigaretta che le avevo offerta, ella discuteva meco, per l'appunto, quanto valga l'amore d'una donna, che cosa metta conto di fare per ottenerlo.

«— Nulla!... — affermava sdegnosamente. — Se fossi uomo non farei nulla.

«— Dovreste distinguere, almeno, fra donna e donna.

«— Sono tutte uguali! Non valgono più di questo.... — e col mignolo scosse la cenere della sigaretta nel calice del vino spumante.

«— Se anch'io dicessi così?

«— Non sareste galante, ma vi stimerei sincero.

«— Ecco, per esempio, — esclamai con finta serietà, — valeva proprio la pena che lasciassi l'albergo, il mio buon letto, per farmi sballottare fino a Marsiglia e tornarmene poi solo, nel cuore della notte, per niente?

«Ella mi guardò con uno strano sorriso, il sorriso della sfinge dopo aver proposto l'enimma. Voleva dire che essendo io causa del mio male, non avevo da prendermela con altri fuorchè con me stesso? Oppure che la mèta del mio viaggio poteva anche essere più lontana ch'io non credessi?...

«Il treno rallentò: era il momento di tornare ai nostri posti. La riaccompagnai sulla carrozza coi letti, schiusi l'uscio della sua cabina, lasciai che ella passasse, m'indugiai un istante per considerare il lettuccio già pronto ad accogliere la bella persona. Ella mi stese la mano dicendomi:

«— Vi ho conosciuto abbastanza per giudicarvi uomo di spirito. Mi resta da sapere se siete gentiluomo.

«— Sentite, — risposi, — se la mia assicurazione non basta a lasciarvi dormire tranquilla, non posso far altro che buttarmi a capo fitto giù nella via....

«E feci il gesto di aprire il finestrino. Ella mi fermò col braccio.

«— Ho visto che siete testardo. Sareste capace di fare ciò che dite. Se v'impegnate ad accettare una proposta, sono sicura che manterrete la parola.

«— Qualunque cosa mi chiediate.

«— Sapete perchè vado a Parigi?

«— No. Probabilmente....

«— Probabilmente?...

«— Per raggiungere un amante.

«— Ora siete maligno. Vado a raggiungere mia sorella, che torna da Bruxelles.

«— Debbo credervi?

«— Ve lo posso provare.

«— Bisognerebbe che vi seguissi sino alla fine del vostro viaggio.

«— Dipende da voi.

«— Non chiedo di meglio.

«— Se mi promettete di ripartire subito, prendendo il treno del sud in coincidenza con quello che avrà trasportato mia sorella, io vi permetterò di accompagnarmi fino a Parigi.

«— Ve lo prometto. A che ora arriva vostra sorella?

«— Non lo so. Troverò al telegrafo sue notizie. Può darsi che venga col treno delle due e quindici: in tal caso lasceremo in deposito i miei bagagli, entreremo in città, mi inviterete a colazione e mi riaccompagnerete poi alla stazione. Ma se arrivasse alle dieci e trenta dovreste ripartire immediatamente, non avremmo altro tempo che di prendere una tazza di latte al «buffet». Vi conviene?

«— È detto che resterò con voi fino all'arrivo di vostra sorella?

«— È detto.

«— Allora, buona notte!

«— Buona notte.

«La lasciai, andai a buttarmi sul mio giaciglio, con una nuova febbre addosso, la febbre dell'aspettazione. Il treno precipitoso mi sembrava troppo lento. A Parigi! A Parigi! Non vi ero stato ancora, avevo sempre rimandato a miglior tempo quel viaggio tanto desiderato, quasi prevedendo di doverlo compiere in circostanze romanzesche, di dover giungere nella metropoli in compagnia d'una straordinaria creatura. A pochi passi da me, dietro alcune pareti di assi, quali pensieri volgeva ella nella mente? Che cosa provava per me? A quali prove mi avrebbe sottoposto? Forse non lo sapeva ella stessa; molto probabilmente riposava, tranquilla, serena, mentre io contavo le ore di quella notte eterna. Come avevo già provato la sensazione fisica dell'inarrivabile, provavo ora quella dell'interminabile: mai più si sarebbe fatto giorno, mai più saremmo giunti.... Un sobbalzare più brusco sugli scambii più frequenti, un fischiare più lungo e rauco, ed eccoci a Parigi. Corsi incontro alla mia compagna; prima d'ogni altra cosa vidi che aveva appuntato al seno i fiori della sera innanzi. All'ufficio telegrafico, quando lesse il foglietto azzurro, un nuovo sorriso, enimmatico come quello rivoltomi sulla soglia della cabina, le sfiorò le labbra.

«— Leggete.

«Lessi. La sorella diceva che le era stato impossibile partire, che sarebbe arrivata il domani alle dieci e trenta. Un lampo di gioia dovette accendermi lo sguardo.

«— Mi avete promesso di restare con me fino all'arrivo di vostra sorella?

«— Ve l'ho promesso.

«— Non mi potete più mandar via fino a domani! A che albergo scendete?

«— Io scendo al «Grand Hôtel», ma siccome vi andrà domani anche mia sorella, non è possibile farmi vedere oggi lì con voi.

«— Dove volete dirigervi allora? — le domandai, per non confessarle che venivo a Parigi la prima volta.

«— Non so.... — rispose, cercando. — Mi conoscono anche al «Bristol».... Ho sentito parlar bene del «Louvre»....

«— Al «Louvre»! — ordinai al facchino che portava il suo piccolo bagaglio. Le chiesi anche la ricevuta dei bauli, li feci ritirare come se fossero miei, e salimmo sopra un omnibus della Compagnia ferroviaria, tutto pieno di gente diretta, come per una tacita intesa, allo stesso albergo: alcuni viaggiatori, sopravvenendo tardi, restarono a terra. Noi vi stemmo pigiati, a disagio, e io domandavo a me stesso il perchè di tanta ressa, che cosa mai veniva a fare tutta quella folla. Le vie e le piazze della metropoli mi passarono dinanzi come dietro la lente d'un cosmorama, come dipinti sopra uno scenario, tanta era la mia inquietudine di non trovare alloggio, di dover cercare un altro albergo, di doverle confessare che non conoscevo la città. Giunti che fummo, domandai al portinaio:

«— Avete posto?

«Bisognava dire: — Dateci due camere — per evitare che ci considerassero come sposi. L'equivoco era tanto naturale, che ci guidarono ad una camera nuziale.

«— Ne abbiamo bisogno di due, — dissi al cameriere.

«— Mi rincresce, — rispose quell'uomo, — ma non abbiamo altro che questo salottino.... — ed in così dire schiuse uno degli usci laterali, mostrandomi una piccola stanza sprovveduta ed incapace d'un letto, addobbata soltanto d'un divano, di qualche poltrona, d'una scrivania e d'una specchiera.

«— Va bene, — dissi, soggiungendo poi, sottovoce, rivolto alla mia compagna: — La camera è vostra, io dormirò su quel divano.

«Ella che durante le trattative era rimasta a guardare tutt'intorno, indifferente, si tolse il cappello quando fummo soli, si tolse i guanti, si acconciò dinanzi allo specchio dell'armadio i capelli. Io trassi dalla sua borsetta il mazzo delle chiavi, dischiusi i suoi bauli e la sua cappelliera, e cominciai a trarne fuori la roba.

«— Vi ringrazio! — esclamò con effusione. — Fare e disfare i bauli è per me lo scotto insopportabile del piacere di viaggiare.

«— Sono qui per risparmiarvi ogni pena.

«Dalle vesti, dalle gonne, dai corpetti esalava un profumo acuto, carnale, inebbriante. La biancheria intima era d'una ricchezza straordinaria, le camicie da notte particolarmente, morbide, seriche, spumose, orlate di trine finissime, infiocchettate d'azzurro e di roseo. Da un involto trassi le pantofole, tutte acciaccate dalla pressione: ridiedi loro la forma perduta perchè fossero pronte ad accogliere i piedi, dei quali ottenni così la misura e quasi sentii il contatto.... Quando ella ebbe tutto ciò che le occorreva, mi disse:

«— Ecco: basta così! Ancora grazie!

«— Di niente! Ora avrete bisogno di cambiarvi, di riposare. Vi lascio; tornerò verso mezzogiorno, per la colazione: volete?

«— A mezzogiorno, benissimo. Arrivederci.

«— Arrivederci!

«Pensavo che un altro sarebbe stato meno riguardoso, non avrebbe insistito per le due camere, non si sarebbe tratto da parte con tanta discrezione; ma sentivo anche di non averne nessun merito, giudicandola semplicemente doverosa, ragionevole e prudente. Tentare di abusare di lei sarebbe stato un errore, oltre che una volgarità: io potevo offenderla ed alienarmela. Dovevo stender le mani per significare che desideravo cogliere il dolce frutto? Ma il mio desiderio non aveva più bisogno di altre espressioni, a quell'ora.... Ed io non volevo strappare il frutto, volevo che cadesse da sè. Con l'idea che quello fosse un viaggio di nozze, provavo l'imbarazzo presentito nell'immaginare di trovarmi con una sposa, avvertivo il pericolo di urtarla con qualche espressione od atteggiamento intempestivamente confidenziale.... Bisognava aspettare. Da un momento all'altro, naturalmente, per un incidente imprevedibile, per una parola, per quell'opera del caso di cui le avevo dimostrato l'importanza, i nostri rapporti si sarebbero mutati nel senso dei mio desiderio.

«Uscii nelle vie. Un sentimento di stupore mi occupava: ero a Parigi, dove avevo tanto sognato di andare, un giorno; e vi ero per un giorno, in sogno — poichè avevo, a tratti, la coscienza di sognare. Allo stupore s'aggiungeva l'imbarazzo, non sapendo da che parte rivolgermi, a qual mèta avviarmi. Ma superiore alla somma dell'imbarazzo e dello stupore era un altro sentimento, esagerato, di sogno: la vergogna di andare attorno, a quell'ora mattutina, con lo «smoking» serotino. Mi pareva che tutti i passanti mi guardassero curiosamente, che gli stessi gendarmi mi tenessero d'occhio, insospettiti. Come avrei fatto se mi avessero fermato e chiesto le mie carte? Ah, ecco: mi sarei fatto condurre all'ambasciata, dove qualcuno, un segretario, un addetto, avrebbe saputo dire chi ero. Passando dinanzi ad un negozio di abiti fatti, vi entrai per comprare un soprabito. Comprai anche una camicia, che indossai, col pretesto di vedere se mi stava bene, perchè quella portata in viaggio era tutta sgualcita; mi annodai al collo un'altra cravatta, di colore, acquistata anch'essa lì per lì. Quando tornai all'albergo con questo nuovo aspetto, ella mi disse in tono di amabile rimprovero:

«— Ah! mi avete dunque ingannata?

«— Come mai?

«— Fingendo di partire improvvisamente, senza bagaglio! Avevate invece spedito le vostre valigie, se ora vi siete cambiato!

«— Ma niente affatto! Queste sono mentite spoglie: osservate!... — ed apersi il soprabito perchè vedesse l'abito nero.

«Rise ancora, mentre le spiegavo come avevo fatto e le chiedevo il permesso di tenere il soprabito in sala da pranzo per non espormi alla curiosità dei commensali con quel ridicolo «smoking» a colazione. Ella era riposata, fresca, smagliante, più vaga, più deliziosa che mai. La colazione fu squisita; dopo uscimmo in carrozza; l'accompagnai in un giro di compere. Che impressione! Io non so se un giorno prenderò moglie; con grande probabilità continuerò ad astenermene; ma se mi accadrà di sposare una creatura diletta, se me la porterò via per il mondo, non credo che potrò provare un senso di gioia così pieno, di così intima felicità come quello che mi occupò. Mi pareva che quella donna fosse mia realmente, che io entrassi con lei in una nuova esistenza. Con che gioia le fiorii di nuove rose fresche il seno! Il tempo era delizioso, il cielo divino, la metropoli tutta fervida di vita. Ne cercavo i luoghi celebri, i monumenti insigni, descritti nei libri, illustrati negli albi; ma non li riconoscevo, o li ritrovavo diversi da quelli che immaginavo: taluni più vasti e solenni, altri al contrario più semplici ed angusti. Quando ella non ebbe da far altro, andammo al museo del Louvre. Che senso di meraviglia durante quella sfilata attraverso le sale meravigliose, specchiate dai pavimenti come da acque di lago, in mezzo alla profusione dei capolavori! Ella se ne rivelava giudice fine e sagace: le tele e le statue dinanzi alle quali si soffermava spiccavano realmente per qualche singolare qualità d'invenzione o di fattura, ed in quella creatura vibrante e fremente l'ammirazione si rivelava con la commozione della voce, con l'umidore degli occhi, con l'imminenza del pianto. Fino a quel momento io avevo apprezzato in lei la bellezza della forma ed il brio dello spirito; fra i miracoli dell'arte, riconoscevo l'acutezza della sua intelligenza, la serietà della sua cultura, la delicatezza dell'anima sua: cose prima intuite, ma ora misurate. E come mi lodavo di essermi frenato, di non averla offesa con qualche brutalità!... Usciti dal museo le offersi il tè. Andammo a prenderlo all'«Hôtel Riche»: mi indicò ella stessa quel sito, oppure mi rammentai che qualcuno me ne aveva parlato.... dove?... quando?... Chi sa!... Venticinque franchi di tè: i prezzi mi sono rimasti nella memoria non solamente per l'altezza straordinaria, ma anche per una sottile inquietudine di restare a corto di quattrini. Partendo per poche ore, non avevo pensato di dover rifornire il portafogli: quelle cinque o seicento lire che conteneva mi erano sembrate più che sufficienti; ma non sarebbero finite presto, spendendo a quel modo? Che importa! Avrei telegrafato, avrei lasciato in pegno le perle del mio sparato. E poi, la squisitezza del godimento era tanta, che nessun'ansia, nessuna paura l'avrebbe mai pagata abbastanza.

«Tornammo a casa al tramonto, mentre sul cielo d'oro si accendevano innumerevoli lune d'argento. Ella montò su in camera, dovendo vestirsi per il pranzo e per il teatro: passando dinanzi ad un ufficio di locazione avevamo prese due poltrone per l'«Opéra». La lasciai salir sola. Se avessi obbedito all'istinto, l'avrei seguita come la sua propria ombra; ma non volevo che le mie assiduità le pesassero, che mi giudicasse importuno ed esigente. Dopo avere sfogliato i giornali nella sala di lettura, salii anch'io, entrai nel salottino, mi disciolsi dinanzi allo specchio la cravatta di colore e riannodai la nera: mi ritrovai subito in tenuta da sera.

«— Siete pronta? — le domandai, dietro l'uscio, dopo avervi discretamente picchiato.

«— Eccomi!

«Era abbagliante di bellezza e d'eleganza, da far gridare, da far morire. Entrò al mio braccio nella sala splendente di luci: tutti gli sguardi si fermarono su noi, su lei. Come s'intitolava, di chi era il melodramma che davano all'«Opéra»? Non rammento altro se non che aveva per argomento una leggenda del nord. Certo io non udii mai una musica così divina. Tutti i sentimenti ai quali ero in preda dal momento che avevo conosciuto la mia compagna fino a quell'ora, la mia meraviglia, il mio desiderio, la mia febbre, la mia esaltazione, erano significati da quei suoni, da quei canti, come se io stesso li avessi espressi dal fondo dell'esser mio, come se fossero esalati dalle mie labbra nei languori dell'estasi, negli ardori della brama. Ella udiva e taceva con me; durante gli intermezzi proferì giudizî, intorno al valore espressivo della musica, ai rapporti fra questa e la poesia, che non si colgono spesso su labbra femminili. Accanto a quella straordinaria creatura, tra la folla festosa della sala fastosa, dinanzi ai vivi quadri che fantastici eroi e bellezze miracolose di ninfe e di amazzoni componevano e scomponevano sulla vasta scena, in mezzo all'oceano di onde sonore dilaganti dall'orchestra potente, un vapore di ebbrezza mi salì al cervello: all'ultima scena, una scena di amore sovrumano e di eroica morte, la tentazione prepotente di stendere la mano, di prendere quella della mia compagna, la mano nervosamente afferrata al bracciuolo della poltrona, di stringerla forte per significare in qualche modo la mia commozione, mi fece sollevare il braccio; ma poi mi contenni. Finito lo spettacolo le proposi di entrare in un Caffè; quando ne uscimmo ella volle tornare a casa a piedi. Pareva che il mio pensiero fosse il suo: prolungare le ore di quella notte. Era ella spinta dallo stesso mio sentimento? Io aspettavo l'avvenimento risolvente, l'incidente decisivo. Un'immagine mi occupava: quella della nave nella cui stiva le mercanzie si accatastano: le botti, le casse, le balle, i cesti; più carico essa riceve, più si immerge, finchè il livello del mare raggiunge il limite estremo segnato da una riga bianca sui fianchi poderosi; ma poichè quel segno è grosso parecchi centimetri, e molte e molte altre tonnellate farebbero abbassare lo scafo di qualche frazione di millimetro appena, così è ancor possibile imbarcare tanta altra roba, e ancora infatti se ne imbarca; non parliamo dei passeggeri col loro bagaglio, perchè essi sono troppo poca cosa a paragone della capacità del battello, e quanti ne arrivano tanti vi salgono; ma ecco che il livello preciso della massima immersione possibile, il livello segnato dalla linea ideale, infinitamente più sottile di un filo di capello, dalla linea matematica, senza spessore apprezzabile dai sensi umani, sta per esser toccato; ed ecco che per conseguenza bisogna andar cauti, perchè ora ogni aggiunta al carico potrebbe determinare il tracollo.... Era un paragone simile a quello del bicchier d'acqua che una semplice goccia fa traboccare; ma non so perchè io mi apprendessi a questo della nave; forse per un'associazione d'immagini, trovandomi in viaggio? Da trenta ore io condividevo la vita di quella donna; avevo percorso con lei tanta strada, avevo trascorso un'intera giornata in sua compagnia, insieme avevamo fatto e visto e detto tante cose; la nostra intimità si era venuta sempre più stringendo ad ogni episodio di quell'avventura. L'ora critica era imminente, ormai, come per la nave sotto carico: quando essa sta per toccare l'ultimo limite del galleggiamento, si può ancora imbarcarvi qualche balla, e poi ancora qualche botte, e poi ancora, qualche barile; ma, a furia di aggiungere altri pesi, anche piccoli, arriva pure un momento in cui questa cosa paradossale è possibile: che un pacco, meno ancora, un plico, meno ancora, una striscia di garza, la manderà a fondo. La mia compagna m'aveva consentito tante cose, da un giorno e mezzo, restando perfettamente padrona di sè; io m'ero astenuto da ogni atto, da ogni discorso che potessero sembrare minimamente aggressivi: una parola, un gesto, uno sguardo me l'avrebbe fatta cadere nelle braccia.... Io prolungavo l'aspettazione per cogliere l'istante propizio: voleva ella forse ritardarlo?

«Ad una cert'ora fu impossibile restare nel Caffè: già i camerieri raccoglievano le seggiole, le disponevano sui tavolini, spargevano segatura di legno sul pavimento, spegnevano una parte delle lampade elettriche. Quando arrivammo all'albergo il portone, naturalmente, era chiuso. Il portiere di notte ci aperse, il cameriere di guardia ci accompagnò fin sull'uscio del salottino, girando la chiavetta della luce. Dischiusi io l'uscio della camera da letto, dicendo alla mia compagna:

«— Vivessi mill'anni, non dimenticherò mai le impressioni che vi debbo.

«— Partirete domani col treno che arriverà da Calais?

«— Il treno arriverà alle dieci e trenta per ripartire alle undici e cinque. Se volete, v'accompagnerò alla stazione; quando andrete incontro a vostra sorella vi lascerò: potrete assicurarvi coi vostri occhi che salirò su quel convoglio.

«— Senza discenderne dall'altra parte?

«— Mi sono comportato in modo da farvi sospettare della mia sincerità?

«— Avete ragione!...

«— Ora siete stanca? Volete andare a dormire?

«— Che ore sono?

«— Le due meno un quarto.

«— È più che tempo!

«— Buona notte! — le augurai, stendendole la mano.

«— Mi rincresce veramente — rispose, ricambiando la mia stretta — che ne dobbiate passare un'altra a disagio.

«— Starò più comodamente su questo divano che non sul treno. Soltanto, se permettete....

«— Dite pure!

«— Vorrei prendere un guanciale dal letto.

«— Ma ve ne prego!

«Entrai in camera, presi il guanciale, tornai ad augurarle:

«— Buona notte!

«— Buona notte!

«E chiusi l'uscio dietro di me. Avrei potuto indugiarmi ancora per dirle: «Non è incredibile questa nostra situazione? Non sarò oggetto di beffe, quando narrerò fino a che segno ho mantenuto la mia parola?...» Ma questi, e simiglianti discorsi, sarebbero stati pretesti evidenti e grossolani: tanto sarebbe valso trasgredire più sostanzialmente la promessa fatta. L'incidente che doveva risolvere quella nostra situazione non si era ancora prodotto, la parola non era stata detta, lo sguardo non era stato scambiato. Il caricamento della nave era cessato alla linea matematica della massima immersione possibile. La porta chiusa dietro di me era come il boccaporto inchiavardato. Non ostante, io restavo nella medesima fiduciosa aspettazione. Non accade tante volte di prendere a bordo qualche collo sopra coperta?...

«Disponendomi a passare la notte su quel divano, vi accomodai il guanciale e andai ad accostare gli scuri della finestra. Dinanzi all'uscio che mi divideva da lei porsi l'orecchio, udii cigolare i gangheri dell'armadio, aprire qualche cassetto, rimuovere le porcellane sul lavabo, versare dell'acqua nella catinella. Senza ragionarvi sopra, per un moto istintivo, attaccai l'occhio al buco della serratura: non vidi altro che un'ombra trascorrere sulla parete: il tappeto attutiva il rumore del passo. Tornato al divano mi tolsi l'eterno «smoking», e ad un tratto pensai d'aver fatto male, la mattina, non comperando, oltre quella da giorno, anche una camicia da notte. Come era possibile riposare con quel colletto, quel petto e quei polsini tanto abbondantemente insaldati che parevano di legno? E allora, con gli occhi della mente e del desiderio, rividi le camicie da notte della mia compagna, quelle camicie nivee, fragranti, carezzose, lievi come di garza.... Tornai ad accostarmi all'uscio: non si udiva più nulla. Picchiai con le nocche delle dita, discretamente.

«— Chi è?

«— Sono io.... vorrei pregarvi....

«— Che dite? Non capisco....

«Un poco più forte, ma non troppo, per paura che qualche vicino udisse, ripresi:

«— Siete a letto?

«— Non si sente!... Aspettate.

«Dopo qualche momento udii risonare la voce più da presso, quasi dietro l'uscio.

«— Che cosa volete?

«— Sentite, vorrei darvi una preghiera.

«— Dite su!

«— Non posso dormire con questa camicia insaldata come una corazza.

«— E che posso farci?

«— Vorreste prestarmi una delle vostre?

«Mi rispose una delle sue risate più sonore, più provocanti, più scandalose, da destare i vicini immersi nel sonno. Concitatamente, ma studiando di frenarmi, insistetti:

«— Che c'è da ridere?... Volete destare tutto l'albergo?... Mi avete compianto perchè mi tocca passare la notte sopra un divano!... Potete contribuire ad alleviare il mio tormento.... Se ci avessi pensato, mi sarei provvisto stamani dal camiciaio, quando comprai quella da giorno.... temete che ve la sciupi, la vostra camicia?

«— Non temo, no!... Ah!... Ah!... Ma non pensate?... Come non pensate?...

«— Che cosa?

«— Quanto sarete buffo!

«— Che ve ne importa, se non mi vedrete?

«— Ah! Ah! Ah!

«— Sono contento di tenervi di buon umore, ma ridete un poco più piano!... Me la date, sì o no?

«— Ma proprio?... Dite proprio sul serio?

«— State pur certa che non sono d'umore da scherzare.

«— Se la volete proprio.... Un momento: aspettate....

«La voce tacque. Tesi l'orecchio: silenzio profondo. Poi un gemito di molle: ella era tornata a letto. Poi la voce risonò ancora una volta, lontana, percorsa ancora da fremiti d'allegria:

«— Venite a prenderla....

Il narratore, che aveva fatto qualche pausa qua e là, nei punti salienti del racconto, per eccitare la curiosità delle uditrici, per accrescere l'effetto delle cose dette, fu a questo punto costretto a tacere dalle esclamazioni delle signore:

— Basta così!... Abbiamo capito!... Vi facciamo grazia del resto!...

— Ma lasciatelo dire!... — intervenne Ferdinando Anselmi. — Egli deve certo soggiungere una cosa essenziale: che nessuna donna di carne e d'ossa gli ha mai fatto provar nulla di minimamente paragonabile a ciò che provò con quella del sogno: è vero?

— È vero.

— Accade sempre così. Disgraziatamente, anche tu dovesti destarti sul più bello, e te ne rimase come un senso di vuoto, come un bisogno di stender la mano per trattenere il fantasma fuggente, come un'angoscia nostalgica ed inconsolabile.

— Qui t'inganni, — rispose Alberto Mauri. — Io mi destai di molto buon animo, il domani, nella camera dell'«Hôtel Riche», a Parigi.

— Come?... Che vuol dire?... Ma dunque?... Ma allora?...

— Così. Vi ho detto che fu un sogno, perchè del sogno ebbe la stranezza, la difformità, l'incredibilità; perchè se vi dicessi che fu realtà, non potrei darvene la prova, nessuna prova, neanche il più piccolo indizio. Di quella donna io non seppi e non so il nome. Il domani della notte nuziale l'accompagnai alla stazione e la lasciai andare incontro alla sorella: da quel momento non l'ho mai più riveduta. Mi chiese di non scriverle, di contentarmi che neanche ella mi scrivesse, di non guastare con parole inutili il ricordo del nostro unico giorno d'amore. Dietro di noi, neanche la più tenue traccia. All'«Hôtel du Louvre», a Parigi, ci chiesero naturalmente i nostri nomi, ma neppur io potrei ritrovarli su quel registro, perchè furono nomi fantastici, inventati da lei, da lei stessa trascritti, e perchè non conosco la sua scrittura. Non solamente agli altri, ma neanche a me stesso io posso più dimostrare che non sognai. Il luogo reale dove la conobbi, dove non sono più tornato, è nella mia memoria trasfigurato: se vi ho parlato di una riva incantata e d'un tempio della Fortuna, è perchè Montecarlo e il Casino, da quell'unica volta che li vidi, hanno perduto i loro contorni reali nei miei ricordi, si sono annebbiati e confusi. Di lei non so più nuova, se vive o se è morta, dov'è, che cosa fa; e se volessi rintracciarla, non saprei da che parte rivolgermi; e se lo sapessi, non ne farei nulla. Col suo fulgore tollerabile, con la sua accessibile e umana divinità, ella mi diede nella vita reale l'impressione del sogno: bene è che resti confusa con le figure del sogno, con le immagini della fantasia, con le incerte creature nate dal desiderio folle e distrutte dal rapace obblio.

LA BELLA MORTE.

I.

Quando il capitano di vascello Ruggero Carleoni, comandante della «Siracusa», ebbe finito di decifrare nella sala del Consiglio della nave il lungo dispaccio del ministro della Marina, chiuse il foglio in uno dei cassetti della scrivania, strappò e stracciò la pagina del taccuino dove aveva trascritto alcuni dei passi più importanti degli ordini telegrafici, e disse a Catenuti, il sott'ufficiale-segretario:

— Chiami subito il comandante in seconda.

A bordo, finite le esercitazioni militari e marinaresche di orario, parte dell'equipaggio lavorava a rimettere in assetto il formidabile strumento di guerra, parte si godeva il riposo che precede l'ora del pasto. Il caporale-portalettere aveva già fatto la prima distribuzione; alcuni marinai, nel ponte di batteria, curvi sulle tavole dei ranci, rispondevano ai loro cari. Barbarini, il secondo, chiacchierava col capitano medico, a poppa, fumando, quando fu avvertito di scendere giù presso il comandante, che lo aspettava d'urgenza.

— Comandante Barbarini, — gli disse Carleoni, rispondendo con un breve cenno del capo e della mano al suo saluto, — siamo al totale di munizioni e di carbone?

— Sì, signor comandante.

— E di viveri?

— Mancheranno una quindicina di giorni alla dotazione normale.

— Si rifornisca nel più breve tempo possibile. Mandi una forte comandata, per affrettare il trasporto e l'imbarco. — Dopo avere alzato gli occhi all'orologio, riprese: — Dia ordine al direttore di macchina che accenda subito i fuochi e sia pronto a partire non più tardi delle cinque. Vi è molta gente a terra?

— Una ventina d'uomini, in permesso ordinario.

— Nessun ufficiale?

— Due guardiamarina e un sottotenente di vascello....

— Chi è?

— Suo figlio.

Carleoni tacque un poco. L'espressione già grave del maschio viso incorniciato dai capelli grigi e dalla barba candida, sulla quale spiccavano i folti baffi ancora del colore dell'oro, divenne severa.

— Scende troppo spesso a terra, quel ragazzo.

— M'aveva chiesto il permesso fino da ieri; non credetti di negarglielo.

— Lei sa che non deve accordargli nessuna preferenza, che è mio vivo desiderio di vederlo trattato come tutti i suoi compagni.

— Non gli ho accordato preferenze, comandante! Mi disse che aveva un impegno; era franco di servizio....

Dopo un'altra pausa Carleoni riprese, rapidamente, quasi per guadagnare il tempo perduto nella parentesi:

— Richiami tutta la gente a bordo. Senta il capitano medico se quei due infermi gravi sono da sbarcare. Avverta le mense che si provvedano di viveri freschi per una settimana, ed anche più.... — Parve cercare nella memoria altre cose; poi, movendo un passo verso il secondo, con voce più riposata, con tono di confidenza amichevole: — Del resto, — soggiunse, — non ho bisogno di spiegarle altro. Lei sa quel che deve fare. Appena la macchina sarà pronta si partirà.... Andiamo al Marocco. Pare che la feccia della popolazione tangerina, in uno scoppio di fanatismo religioso, abbia fatto strage di Europei. Il Consolato italiano sarebbe invaso e saccheggiato.... Ci toccherà probabilmente di menar le mani.... — Si stropicciò le sue, che erano belle e bianche, poi disse: — Mi mandi l'ufficiale di rotta e il commissario.

Alla nuova chiamata, agli ordini impartiti in macchina, alla formazione della comandata per l'imbarco dei viveri, un senso di curiosità cominciò a diffondersi tra l'equipaggio, e crebbe, fino all'inquietudine, quando l'ufficiale di guardia, sulla plancia, dopo avere ordinato al personale di timoneria d'invergare la bandiera di partenza e al capo cannoniere di caricare un pezzo in salva, ordinò:

— A riva il segnale!... Fuoco!...

La bandiera azzurra col dado bianco salì lentamente in cima all'albero; la cannonata rimbombò, ripetuta dall'eco per la cerchia delle colline.

Da una manica a vento emerse la testa affumicata di un fochista, il quale domandò a un gruppo di marinai confabulanti:

— Neh, ched'è?

— Zitto voi! — ingiunse l'ufficiale. — E voialtri, ai vostri posti!

Ma l'agitazione, repressa in quel punto, si diffuse altrove.

— Che è successo?... Una torpediniera nemica?... Compie gli anni il Re.... Un incendio a terra!... Ma che: si parte!... No, è una finta manovra!... È scoppiata la rivoluzione....

Le notizie più stravaganti s'incrociavano, dette sul serio e da burla, credute ingenuamente o accolte con sorrisi d'incredulità. Le risa dei tenenti di vascello scoppiarono sonore quando uno di essi, De Ricci, avendo domandato di che si trattasse al piantone, un Tarantino famoso per la sua stupidaggine, si udì rispondere: — È partorito un principe!

Giù, frattanto, nella sala del Consiglio, accorsi alla chiamata, il commissario Barresi, e Mietti, l'ufficiale di rotta, aspettavano gli ordini del capo. In piedi, presso la scrivania, col cifrario in mano e molte carte dinanzi, Carleoni dettava telegrammi al segretario.

— Eccomi a loro, — esclamò, quando ebbe finito. — Occorre provvedersi di fondi, Barresi, e specialmente di oro. Quanto ne abbiamo in cassa?

— Poche migliaia di lire, comandante: sei o sette. Se vuol sapere con precisione....

— Prepari subito una richiesta di centomila lire d'oro, e si rechi immediatamente alla Banca d'Italia per ritirarle.... Partiamo alle cinque, — riprese, volgendosi all'ufficiale; — partiamo per le coste marocchine.... Mi porti le carte e i portolani per stabilire le rotte.

Su, in coperta, gli ordini s'incrociavano, gruppi di marinai correvano da un capo all'altro, in mezzo al frastuono dei congegni messi in azione. I cannonieri rizzavano le artiglierie, altri uomini le forge, i banchi, tutto ciò che non era fissato alla nave; gli argani cigolavano, a prora, recuperando la catena dell'áncora fino a lasciarla a picco lungo; i fumaioli già eruttavano fumo misto a faville, e il fumo si disegnava nero e denso sulle volute delle nuvole emergenti dal mare di libeccio come foschi vapori di un vasto incendio lontano.

— Il barometro è basso, — fece osservare Barbarini al primo medico; — non avremo una comoda traversata. Dice il comandante se credi di sbarcare i due ammalati?

— Uno soltanto, il timoniere. L'altro va meglio.

Mentre l'infermo, pallido, esangue, era portato su, nella barella, i primi gruppi degli sbarcati ritornavano a bordo; poco dopo giunsero insieme i due guardiamarina. Una barca da nolo portò un altro fattorino del telegrafo con un espresso: un piego del ministero degli Esteri. Barbarini, dopo averlo mandato al comandante, vedendo che il suo figliuolo tardava a tornare, e concependone qualche inquietudine, fece chiamare il sottotenente di vascello Marco Roccaforte.

— Lei è molto amico di Luigi Carleoni: sa dove si potrebbe trovare, a quest'ora?

— Non so, comandante.... Forse.... — Parve che il giovane volesse dire qualche cosa; poi, come non potendo o non volendo spiegarsi, ripetè: — Non so davvero.... Potrei domandarne all'attendente.

— Sì, vada; e lo spedisca a terra, se occorre.

II.

Roccaforte sapeva.

Aveva dapprima intuíto il secreto dell'amico suo, convivendo tutti i giorni e tutte le ore con lui; poi ne aveva ricevuto le confidenze. Più volte, con la reputazione di essere esperto nelle cose del cuore, i suoi amici e camerati gli si erano aperti come ad un confessore; nessuno lo aveva mai tanto turbato quanto Luigi. Effetto, senza dubbio, del gran bene che gli voleva; ma anche un indifferente sarebbe rimasto impressionato dallo spettacolo di quella passione. Innamorato come un fanciullo e come un pazzo, non una volta Luigi gli aveva parlato dell'amor suo senza piangere. Aveva pianto di gioia e di dolore, di tenerezza e di rabbia, di speranza e di disperazione, secondo che il contegno della donna amata, i suoi atteggiamenti e le sue parole erano stati dolci o severi, freddi o incoraggianti. Luccicanti di lacrime e ardenti di febbre, gli occhi del giovane avevano impetrato dal compagno, dal fratello d'armi, consiglio nei dubbî, conforto negli accasciamenti, partecipazione alle esultanze. Gelosie cieche, collere bieche lo avevano róso, vedendo circondata, ammirata, desiderata da altri la prediletta, credendola infinta, giudicandola capace di prendersi giuoco di lui; poi, ad un biglietto cortese, ad un invito, ad un sorriso, il paradiso; poi ancora, all'idea di dover presto o tardi partire, di non poter vivere sempre nel cerchio dell'ombra sua, l'inferno.

Vani i tentativi di moderare quella gran fiamma, inascoltati i consigli, inefficaci i conforti. «Vincerai! Amore a nullo amato amar perdona!...» gli aveva detto, nel vederlo disperato, smarrito, perduto; ma sorrisi amari avevano accolto le assicurazioni. «Fingi d'allontanarti! Ingelosiscila!...» gli aveva suggerito; ma si era sentito rispondere: «Non posso!» E sempre un dubbio ansioso, e sempre un'avida domanda: «Mi ama? Mi ama?... È amore? È capriccio?...»

Come rispondergli? Roccaforte non conosceva quella donna se non dalle stesse confessioni dello spasimante. Sapeva, per averla vista a bordo, durante una festa, che era molto desiderabile: alta, di forme ben modellate, bella nel viso, non della semplice e spesso fredda bellezza che è data dalla perfezione delle linee, ma di quella che consiste nella loro capricciosa vaghezza, nella profondità della loro espressione. Gli era noto ancora che viveva divisa dal marito, che non aveva figli, che possedeva uno spirito molto vivace; ma come giudicarne l'anima? Certo, il suo contegno, la continua vicenda degli allettamenti e delle repulse, poteva giustificare le querele dell'adoratore. Nonostante il fervore dell'adorazione, Luigi l'aveva giudicata tante volte illogica, irragionevole, falsa! Se gli voleva bene davvero, non avrebbe dovuto farlo felice? E se non gliene voleva, non doveva togliergli ogni speranza? Questo diceva la logica, questo voleva la ragione. Sulla ragione e sulla logica, tuttavia, che assegnamento si poteva fare nelle cose del cuore, da parte d'una donna segnatamente? Ma quella vicenda durava da troppo tempo, si prolungava oltre i termini della resistenza che ogni donna, anche libera, anche amante, oppone alle sollecitazioni d'amore. E la sfiducia dell'innamorato, la disperazione di non poter vincere mai poichè non aveva vinto ancora, pareva talvolta tanto fondata, che nessun argomento di speranza restava da opporgli. Era egualmente fondato il sospetto che ella fosse perfida? Che, avendo appagato altre brame, godesse nell'accenderne ancora, freddamente, per soddisfazione di vanità, per compiacimento nel veder soffrire?

Sinceramente, Roccaforte non sapeva che cosa pensare, che cosa augurare all'amico. Forse una grande felicità lo aspettava, ma forse un disinganno atroce. Intanto non era dubbio che per quella donna egli tardava a riprendere il posto del dovere. A quell'ora egli era da lei, o con lei, o in qualunque modo occupato di lei. Bisognava trovarlo, avvertirlo, ingiungergli di accorrere, poichè con tutta probabilità non doveva essersi accorto dei segnali del richiamo.

Come durante altre lunghe soste in altri porti, anche questa volta i due amici avevano affittato insieme un piccolo alloggio in città, il «punto d'appoggio», due camerette dove tenevano gli abiti borghesi, dove ricevevano qualche amico: di lì egli doveva esser passato, lì bisognava cercarlo prima che altrove. All'annunzio della partenza, Roccaforte vi aveva spedito Lisi, il proprio attendente, per far ritirare tutte le cose di loro proprietà e consegnare la chiave al portinaio; ora girava per il ponte di coperta e per quello di batteria in traccia dell'attendente del compagno, ansioso di eseguire l'incarico affidatogli dal comandante in seconda. E appena ebbe scorto il marinaio, sull'uscio del quadrato, lo chiamò, gli fece cenno d'appressarsi.

— Tringale!... Scendi subito a terra! Vai a casa, vai a cercare il tuo padrone!

— Sissignore. Ma se non c'è?

— Se non c'è cercalo altrove. Domandane a Lisi, che è andato da un pezzo laggiù. E non far lo stupido, adesso: tu sai dove trovarlo. Dove ti manda coi libri, coi fiori?

— Sissignore, dalla signora contessa.

— Corri a dirgli che si parte fra un'ora. Digli che torni subito, riconducilo con te: hai capito?

Mentre la barca col marinaio s'allontanava a forza di remi, tornava quella col commissario recante i fondi. Erano le due. Roccaforte aveva esagerato, annunziando che mancava un'ora sola alla partenza; forse non si sarebbe salpato neanche alle cinque; ma il ritardo del compagno lo turbava troppo. Da parecchi giorni, da circa una settimana, Luigi lo impensieriva, non già perchè gli avesse rivelato di attraversare una nuova crisi, di trovarsi ridotto a qualche pericolosa estremità, anzi per non avergli confidato più nulla di nulla. Il preannunzio di una catastrofe non lo avrebbe tanto inquietato quanto quell'insolito silenzio. Perchè l'amico tacesse dopo averlo voluto partecipe di tutta la sua intima vita, qualche cosa di molto grave doveva essere avvenuto o prepararsi. Non taceva soltanto: lo evitava anche, tutto chiuso in sè stesso. Quella nuova condotta, data anche la delicatezza della situazione, era tale che gl'impediva, di prenderlo per la mano e domandargli: «Che cosa avviene?...» Che cosa avveniva, realmente? Egli si perdeva in supposizioni, intuendo un dramma, fremendo all'idea di una tragedia. Quel ragazzo non era capace di ricorrere ai più disperati propositi per sottrarsi a un disinganno, per dare una prova dell'amor suo?... No, via! Esagerazioni! Aveva taciuto non avendo nulla da dire, per non ridire sempre le stesse cose, vergognoso di non aver vinto nè l'amata nè sè stesso. Tardava, ora, a rientrare, per un motivo semplicissimo, forse volgare: perchè non sapeva della partenza, perchè comprava i corpetti dei quali aveva detto che cominciavano a mancargli.... Da un momento all'altro sarebbe sopraggiunto: ecco, non era nella lancia a vapore che tornava alla «Siracusa» fischiando e rimorchiando la bettolina coi sacchi e le botti delle provviste?... Roccaforte corse a prendere il cannocchiale: nella lancia stavano soltanto gli uomini della comandata col guardiamarina che li guidava e il tenente medico che aveva verificato la buona qualità dei viveri.

Pochi minuti dopo sopraggiunse l'altra imbarcazione con Lisi, il suo attendente, che riportava a bordo bauli e cassette e pacchi di libri e di giornali.

— Hai visto il tenente Carleoni?

— Nossignore.

— Non era passato da casa? Non ne domandasti al portinaio?

— Nossignore. Me l'avrebbe detto, se ci fosse stato.

Allora il cuore gli si strinse. Che ne era dell'amico suo, perchè, dopo quattro ore dai segnali, con tanta gente scesa a diffondere la notizia della partenza, nessuno lo avesse visto nè egli facesse saper nulla di sè? A terra tutti dovevano ormai sapere che la «Siracusa» stava per salpare; se egli non accorreva, bisognava credere che non volesse — o non potesse. Che fare? Se neanche l'attendente lo avesse trovato? Andare a cercarlo personalmente, mentre era ancora in tempo?...

— Signor comandante, — disse risolutamente al secondo, che sorvegliava alle gru l'imbarco delle provviste, — il ritardo di Carleoni m'inquieta. Permette che vada a cercarlo io stesso?

— Ha mandato l'attendente?

— Sissignore, ma ho paura che non lo trovi.

Sul viso di Barbarini si lesse una penosa esitazione. Ma prima che ne uscisse, il capo macchinista gli si avvicinò.

— La macchina è pronta. Posso provarla?

— Perbacco! Ha fatto miracoli! — rispose il secondo, guardando l'orologio e sorridendo d'un riso un poco stentato. — Non ha fatto mai così presto!... Ma il comandante ha ordinato oramai che si parta alle cinque. Provi il timone, per ora!...

E rivolto a Roccaforte, dopo aver congedato con un saluto il capo macchinista:

— No, vede: è troppo tardi. Correremmo rischio di perdere anche lei. Speriamo che torni con l'attendente.

Un sott'ufficiale gli si presentò:

— Il signor comandante ha bisogno di parlarle.

Carleoni era ancora alla scrivania, dove aveva studiato le rotte e decifrato l'espresso.

— È il ministro degli Esteri che trasmette istruzioni per gli accordi da prendere con i rappresentanti delle altre nazioni. Mi faccia il piacere di mandare subito al telegrafo questa risposta e questo dispaccio per la mia famiglia. Tutto è in ordine?

— Sono arrivati i viveri. Il commissario è già tornato.

— La gente è rientrata?

— Tutti i marinai sono a bordo; i due guardiamarina anch'essi....

— Mio figlio?

— Ho mandato a chiamarlo.

Il comandante alzò gli occhi all'orologio, senza dir nulla. Dopo un silenzio che al secondo parve molto lungo, proferì:

— Mi avverta, se verrà.... Desidero riceverlo io stesso.

— Vuol passare un guaio! — esclamava tra sè Barbarini, risalendo in coperta. — Bene gli sta!... Questi ragazzi!...

Però, se avesse potuto prevedere un simile abuso, mai più gli avrebbe permesso di scendere. Dall'altra parte, neanche quella partenza a rotta di collo era prevedibile!... Ed egli girava per la tolda, intanto che si alzavano le imbarcazioni, fingendo di ispezionare e di verificare, distribuendo ordini, rimproveri e lodi a destra e a manca, ma per guadagnar tempo, in verità, con l'occhio allo specchio d'acqua fra la nave e la città, aspettando di veder sopraggiungere da un momento all'altro il mancante. Roccaforte guardava anch'egli, dietro il cannocchiale che non aveva più lasciato, e ancora una volta tornò a sperare, scoprendo un'imbarcazione che tornava; poi le braccia gli caddero. L'attendente era solo.

— Non l'hai trovato? Dove sei stato?

— Sono stato all'alloggio; era tutto chiuso, Lisi ha lasciato la chiave....

— Va bene, questo lo so. E poi, dove sei andato?

— Sono stato dalla signora contessa. Era uscita.... Mi dissero d'aver visto il signor tenente in carrozza; ho preso una carrozza anch'io.... Ho chiesto di lui al Campari, al Circolo; ho girato per i Giardini.... — Sottovoce, con aria di mistero, soggiunse: — Il signor tenente aveva affittato un'altra casa, fuori la Barriera alle Colline, una settimana addietro.... Sono stato anche lì, ho bussato quattro o cinque volte, chiamando....

— Non c'era?

— C'era!

— E non l'hai condotto con te?

— M'ha mandato via! M'ha risposto: «Va bene! Ho sentito!...» Gli ho detto che lo aspettavo giù, con la carrozza; m'ha risposto: «Vattene, torna a bordo, sono buono di venire da me!...» Nonostante, ho aspettato un pezzo.... Poi ho avuto paura che si facesse troppo tardi.... Ho lasciato la carrozza al cancello, ne ho presa un'altra....

Ed aperse le braccia.

Barbarini, dall'alto della plancia, vide il gesto. Guardò ancora una volta l'orologio: erano le quattro e quaranta. Volse ancora uno sguardo verso terra. Un'imbarcazione filava verso la nave. Ma era l'ultima rimasta, e riportava il graduato che era andato al telegrafo. Allora il secondo si cacciò con un gesto brusco le mani in tasca e ordinò all'ufficiale di guardia:

— Faccia alzare le scale e rientrare le aste di posta. Faccia battere l'assemblea, prevenendo il commissario.

I comandi risonarono, la tromba squillò. L'equipaggio si raccolse e si schierò tutto in coperta; la voce: «Presente!» si propagò per le file, ripetuta su tutti i toni, con tutti gli accenti, ad ogni nome pronunziato dal commissario, mentre il chiamato gli passava davanti.

In quel punto dalle latebre della nave risonò al portavoce la nuova domanda del capo macchinista:

— Posso provare la macchina?

Barbarini esitava ancora, quando vide il comandante apparire sulla plancia.

— La macchina è pronta?

— Sissignore. Il direttore domanda se può provarla.

— Immediatamente.

Il secondo trasmise l'ordine.

— Ho sentito che si è fatto l'appello, — riprese il capo. — Ci sono tutti?

— Tutti, tranne....

E come Barbarini esitava, imbarazzato, volgendo uno sguardo disperato alla riva, il capo disse, forte, senza guardarlo:

— Il sottotenente di vascello Carleoni non è rientrato?

Non disse: «Mio figlio». E Barbarini rispose, quasi duramente:

— No, comandante.

Domanda e risposta furono scambiate in mezzo a un silenzio profondo; i circostanti restavano immobili, inquieti, intimiditi. A un tratto la sirena squarciò l'aria col suo formidabile strido, un fiato enorme parve esalasse dalle viscere della nave, tutta la sua compagine vibrò, le acque rimosse sfrusciarono al primo giro delle eliche, ribollendo e spandendosi in cerchi di spuma. Lentamente la «Siracusa» si avanzò verso l'àncora. Il rombo della macchina cessò un momento per riprendere subito dopo; ma ora la corazzata indietreggiava, al moto inverso dei propulsori.

Dalle profondità della macchina venne l'annunzio:

— Tutto bene. Siamo pronti.

— Fra dieci minuti la gente al posto di manovra, — ordinò brevemente il capo.

E la notizia si diffuse per tutto l'equipaggio. Il figlio del comandante assente, sul punto d'esser dichiarato disertore! Pochi, i maligni, si compiacevano del caso; la più gran parte dei marinai se ne dolevano, per il rispetto e l'amore che i due Carleoni, comandante e ufficiale, si meritavano.

Cinque minuti prima delle cinque, dopo aver fatto avvertire gli ufficiali che prendessero i loro posti. Barbarini ordinò a quello di guardia:

— Chiami i fischi al centro.

Il primo nostromo diede il segnale, tutti gli altri nocchieri accorsero, e i fischi ordinanti il posto di manovra si levarono, come una scappata di razzi sonori, come i sibili e i gorgheggi d'un'uccelliera. In mezzo a quel concerto la voce dell'uomo di vedetta piovve dall'alto dell'albero:

— Un battello borghese dirige verso il bordo.

Roccaforte lo aveva già avvistato. E finalmente il suo incubo si dissipava, egli traeva ora liberamente il respiro riconoscendo Luigi Carleoni nell'alta figura ritta a poppa della barca che due vogatori facevano volare sulle acque, remando furiosamente, sollevandosi e rovesciandosi sulla panchetta ad ogni colpo di remo. Si vedeva il giovane curvato verso gli uomini, incitarli con energici gesti del braccio, abbassarsi ad afferrare il timone, in prossimità della «Siracusa», per manovrare in modo che il battello restasse coperto dalla poppa della nave; ma allora Roccaforte, coi cenni, gli significò che non sperasse di rientrare inosservato, e perchè non s'arrampicasse da una delle scalette di combattimento, gli gettò una biscaglina.

Quando il giovane apparve dalla murata e la scavalcò, era rosso in viso, confuso ed ansante. Teneva nella sinistra un mazzolino di violette. Dovevano stargli molto a cuore se neanche la ginnastica necessaria per montar su lo aveva deciso a sbarazzarsene. Due file di marinai, con gli ufficiali alla testa, gli si aprivano dinanzi; in fondo stava il comandante, suo padre.

— Venga avanti, — disse questi, con le mani in tasca e guardandolo fiso.

Nascosti i fiori in una delle tasche del cappottino, Luigi Carleoni si avanzò; giunto a qualche passo dal padre si fermò sull'«attenti», portando la destra alla visiera.

— Ha sentito il segnale della partenza?

— Sissignore, — rispose con voce che voleva esser franca e tentando di sostenere il freddo sguardo del capo.

— A che ora l'ha sentito?

— Alle undici e un quarto.

— È stato anche avvertito a voce, mi pare?

— Sissignore.

— A che ora?

— Alle tre.

— Le faccio osservare che sono le cinque passate. Si costituisca agli arresti in attesa di provvedimenti.

E si voltò dall'altra parte.

Gli astanti non fiatavano, come se la punizione fosse piombata su tutti loro. Il giovane rinnovò il saluto alle spalle del padre e corse a prora, al suo posto di manovra.

Tutti i gabbieri erano sul castello, un timoniere stava accanto all'asta della bandieruola, pronto ad ammainarla. L'argano e i verricelli già stridevano e sbuffavano; la tensione della catena dell'áncora, nello sforzo di svellere il ferreo dente dal fondo delle acque, era violento; pareva a tratti, ad uno scatto, che qualche ingranaggio si fosse spezzato; poi lo stridore, il cigolio, i soffî riprendevano, più forti, e la nave s'avanzava di qualche passo.

— L'áncora è a picco! — gridò il secondo, dal castello, rivolto al comandante.

— Viri a lasciare! — rispose la voce del capo.

Altri ordini, brevi, concitati, per recuperare catena; dopo un nuovo sforzo risonò finalmente l'annunzio:

— L'áncora ha lasciato.

Il timoniere, pronto a levar volta alla ságola della bandieruola, guardava il sottotenente di vascello Carleoni, aspettandone, quasi sollecitandone l'ordine; ma il giovane pareva assorto nell'esaminare, oltre la battagliola, l'áncora fangosa pendente lungo il fianco della nave, i cerchi concentrici che gli spruzzi del fango disegnavano cadendo sulle acque morte.

— Carleoni! — chiamò forte e brusco il secondo. — Guardi un po' se il tirante è libero e ben guarnito.

Il giovane, riscuotendosi, incontrò finalmente lo sguardo del timoniere: ad un cenno la bandieruola fu ammainata.

E ancora una volta, all'ordine di: «Avanti, adagissimo» trasmesso in macchina dal comandante, parve che la nave traesse un profondo sospiro, e un fremito passò per le sue commessure, e un sordo fragore di acque sbattute annunziò che le eliche giravano. La «Siracusa» cominciò ad avanzarsi, mettendo la prora, per via di accostate, fra l'estremità della diga ed il Faro. Giunta l'áncora all'occhio, il nuovo comando volò elettricamente dalla plancia alla macchina: — Avanti, adagio!

Già in franchia, la nave procedeva ora verso la lanterna della Vegliaia, lasciandosi sulla sinistra la spianata dei Cavalleggeri: al primo urto del mare libero cominciò a rollare.

— Faccia rotta per 250 alla normale, — ingiunse il comandante all'ufficiale di guardia. Fissato poi lo sguardo all'orizzonte, soggiunse: — Il tempo non mi piace. Mi avvisi, se peggiorasse; mi partecipi subito qualunque novità. Buona guardia!

Sul castello, traversata l'áncora, il secondo disse anch'egli a Luigi Carleoni:

— Avremo mare, stanotte. Badi di far rizzare le áncore come si deve.

— Non dubiti!

E ad un tratto, come preso da una gran fretta ora che il secondo si allontanava dal castello e che il comandante non stava più sulla plancia, il giovane, già assorto e come assonnato, ordinò al primo nocchiere:

— Nostromo, facciamo presto a passare le rizze in catena!

Il lavoro degli uomini non gli parve sollecito abbastanza.

— Su, svelti, — li spronò; — non v'incantate!

Nè l'operazione era ancor finita, che egli gridò verso la plancia, dove Barbarini parlava con l'ufficiale di guardia:

— Le áncore sono rizzate!

— Faccia rompere le righe!

Il giovane corse alla scala. In quel punto il fischio di «Pronti!» echeggiò all'altra estremità della nave; subito dopo si udì la voce dell'ufficiale di guardia ordinare:

— Ammaina bandiera!

Tutta la gente si scoprì, voltando il capo verso la bandiera nazionale che discendeva, distesa e flagellata dal vento, lungo l'asta. Luigi Carleoni, subitamente fermatosi sul boccaporto, restò col berretto in mano più che tutti gli altri, guardando verso la poppa, verso la terra svanente nell'ombra del rapido crepuscolo.

III.

Le precauzioni non erano soverchie. Al largo il mare prendeva di fianco la «Siracusa»; il vento andava sempre più rinfrescando. Sospinti dalla libecciata i nuvoloni si rincorrevano, sovrapponevano i loro enormi profili, addensavano prima dell'ora le tenebre.

Prevedendo che si dovesse fra poco ballare, Roccaforte, direttore di mensa, andò a chiedere consiglio al secondo sull'opportunità di anticipare il pranzo. Barbarini approvò, e il giovane disse al maestro di casa:

— Fra un quarto d'ora farete battere la mensa.

Scese giù in quadrato per cambiarsi, e quando fu pronto picchiò all'uscio della cabina di Luigi.

— Avanti!

L'amico era intento a disfare il mazzolino delle violette ed a riporre i fiori sciolti dentro una busta grande e forte, una busta da fotografi, per ritratti.

— Non vieni a tavola?

— È ora?

I suoni della tromba: «Mensa ufficiali!» risposero per Roccaforte.

— Eccomi!

Cacciò la busta coi fiori sotto il guanciale, e si rivoltò. Ogni traccia dell'imbarazzo e della confusione, cui era stato in preda arrivando a bordo, era sparita. Il suo spirito non pareva più assente come poco innanzi. Sul bellissimo viso fresco e roseo, sulle labbra ornate dei baffetti biondi, negli occhi azzurri sotto il grande arco dei sopraccigli, un sorriso beato, un'espressione d'estatica gioia.

— Marco! Marco! Marco!

Sentendosi afferrato per un braccio così forte da provarne dolore, Roccaforte esclamò:

— Ohè! Che ti piglia?

— Marco, la vita è bella! Sono felice!

Tante volte aveva pronunziato simili parole subito dopo contraddette, che il suo compagno non ne fece caso. Si stupì un poco, ma gradevolmente, nel vedere che la partenza, quella separazione fino a pochi giorni innanzi temuta più che la morte, non contristava per nulla l'innamorato.

— Va bene! I miei complimenti! Ma potevi tornare mezz'ora prima, che diamine!

— Non potevo! Non sai!

Dopo aver lasciato il braccio dell'amico, glieli afferrò tutti e due, con più forza, e mentre i muscoli s'irrigidivano e lo sguardo sfavillava, la voce balbettava:

— Se sapessi! Questa partenza, il mio terrore, senza questa partenza improvvisa spasimerei ancora.... Tutto era stato invano, fino all'ultima ora, fino all'ultimo istante.... M'avrebbero dichiarato disertore? Che importava!... M'importava, sì, per il mio povero babbo; ma mi sarei ucciso. Tanto, non potevo durare più a lungo in quello spasimo.... Non me ne importa di morire, neanche ora, sai!... Venga la morte, ora!... Ma per un'altra ragione: perchè la vita m'ha dato tutto ciò che poteva darmi; perchè nulla, mai, nessun altro giorno simile a questo sorgerà mai più per me....

Un fiume di parole roventi, mal connesse; fremiti nelle mani abbarbicate alle braccia dell'amico, lampi negli occhi gonfî di lacrime.

Roccaforte, con voce d'indulgenza quasi paterna, disse:

— Fanciullo, va'!

In fondo al suo cuore, ma proprio in fondo in fondo, sottile, sordo, indistinto, un senso d'invidia sorgeva, allo spettacolo di quella felicità. Nonostante la fraterna amicizia che lo legava a Luigi, si sentiva un poco umiliato, quasi offeso da quel trionfo. Aveva sempre desiderato all'amico tutte le fortune, sinceramente; riconosceva che l'anima ardente in quel corpo apollineo le meritava; che l'amor suo veemente ed ingenuo doveva essere ripagato, se c'era giustizia; ma sentiva che lo sfoggio della sua gioia era quasi insolente.

— Che abissi, in quel cuore!... — continuava l'estatico. — Ed io ne dubitai!... Perchè non sapevo misurarne la profondità! Perchè non potevo comprenderne le complicazioni.... Sono qui per lei!... Se non avesse voluto, se non m'avesse sospinto!... Non mi credeva, finchè m'ebbe vicino; non credette alla partenza finchè non udì che mi chiamavano.... Dopo avermi sempre respinto mentre le stavo dappresso, ha voluto legarmi a sè per la vita nel punto che la vita ci ha separati.

C'era un ritmo nelle sue parole, una specie di canto nella sua voce. Roccaforte sorrideva tra sè d'un sorriso un poco amaro, ripensando alle ore trascorse nell'ansia, con la paura d'una catastrofe. Ora gli pareva che la sua paura fosse stata fuori d'ogni proposito, sciocca addirittura. Si sentiva un poco ridicolo per aver trepidato, mentre sarebbe stato tanto facile prevedere le ragioni dell'indugio! E il morso della secreta invidia diveniva più acuto; e come Luigi, inesauribile, riprendeva:

— La mia logica e la tua sono bambine presuntuose e ignoranti di fronte al suo sentimento. Volevo che cedesse, se mi amava; che mi respingesse, se non le importava di me. Sai che cosa m'ha risposto, quando le ho proposto il dilemma?

— Andiamo a pranzo, per ora! — lo interruppe quasi bruscamente. — Mi narrerai dopo.

E s'avviò per il corridoio verso la sala della mensa. La nave rollava e beccheggiava fortemente; nella foschia, appena rotta per una breve cerchia dalle luci di bordo, si vedevano le acque avvallarsi e sollevarsi in pieghe larghe che trascorrevano da prora a poppa gonfiandosi e coronandosi di creste di spuma.

— Avremo da stare allegri, doppiato il capo Corso! — esclamò ancora Roccaforte.

Non udendo il passo dell'amico dietro di sè, si fermò, rivoltandosi. Luigi, addossato alla paratia, guardava anch'egli il mare di poppa, fiso, come abbacinato.

— Vieni, o vuoi restar lì?

Dapprima il giovane non rispose, quasi non avesse udito, quasi porgendo l'orecchio a qualche suono lontano; poi disse:

— Il suo dolce paese di Toscana è laggiù, oltre quell'abisso.... Quando la rivedrò?...

Senza risposta, sapendo d'aver fatto a sè stesso la domanda, riprese:

— Senti, Marco.... Sai che penso?... Quando vedi un mare come questo, non pensi alla morte che ci sovrasta?

— Che ti salta, adesso?

— Questa potrebbe essere l'ultima nostra notte.... Ed io....

Si frugò con la destra nel petto, sotto la camicia, e trasse qualche cosa che, a distanza, nell'oscurità, Roccaforte non distinse. Vedutolo chinare il capo per baciare l'oggetto raccolto nel cavo delle due mani, gli si appressò, sentendo sciogliersi il rancore di poco innanzi in un moto di simpatia. Il giovane teneva ancora le labbra religiosamente accostate ad una crocettina d'oro pendente da una sottilissima catenella.

— Se questa dovesse essere l'ultima nostra notte, ho la croce che si è tolta dal seno per me.... Senza questo viatico non avrei trovato la forza di lasciarla.... Ma vorrei ancora.... — A voce più bassa, dopo una pausa, compì il suo pensiero: — Vorrei portarmi la sua immagine e i suoi fiori con me....

— A tavola, matto!

Il pranzo fu servito rapidamente. I più avevano poca voglia di mangiare, col capo aggravato dal forte tangheggiare. Di momento in momento, crescendo la furia del vento, il mare cresceva; si udivano ora le ondate battere con colpi secchi, come d'ariete, contro i fianchi della nave. Roccaforte, assaggiando appena i cibi, vedeva che l'amico suo faceva loro grande onore.

— M'accorgo con piacere che le commozioni non ti tolgono l'appetito.... Su, da bravo: un'altra fetta d'arrosto.

Il giovane sorrise con tutti i trentadue bianchissimi denti. Porgendo l'orecchio alla conversazione impegnatasi a capo della tavola fra il comandante in seconda e gli ufficiali a lui più prossimi, intorno alla missione della «Siracusa», domandò:

— Si va al Marocco?... Si sbarcherà?

— Pare. Non lo sapevi?

— No. Uno scritturale della Capitaneria, al porto, m'accennò.... Non compresi, con l'ansia di arrivare in tempo. Siamo fortunati, Marco! Uno sbarco, le cannonate sul serio, l'occasione di cogliere una fronda d'alloro!... Pensa quanti navigano da tanti anni, stupidamente, senza che un raggio di gloria....

— Ci credi alla gloria, tu?

— Sì, ci credo!... Credo a tante cose, ora; credo a tutte le cose belle, buone, nobili, grandi....

Erano un poco isolati dai compagni, all'estremità della tavola, di là dai posti vuoti degli ufficiali di servizio. Lembi di frasi, nello scroscio del mare, nell'acciottolio delle stoviglie, nel tintinnio dei metalli e dei cristalli, venivano dall'altro capo della mensa: «Una lezione a quei barbari.... Questo tempo ci farà ritardare.... Francesi ed Inglesi saranno già sul posto....»

— Pensa, Marco, — riprese il giovane, — che noi andiamo a far rispettare la nostra bella bandiera, le ragioni della civiltà, i diritti dell'umanità....

— Taratatà! — interruppe Roccaforte, con un sorriso tinto d'ironia. Per un ritorno d'amarezza, per un bisogno di contraddizione, esclamò: — Alla grazia della civiltà imposta con le cannonate!

— Ma se ci aggrediscono, dobbiamo difenderci! — protestò Luigi, fervidamente. — La guerra non è finita, nel mondo, con tutto l'amore che lo governa! La vita non è semplice, il cielo non è sempre d'un colore. Vi sono albe radiose e tramonti insanguinati. Un marinaio dovrebbe sapere che le calme si alternano con le tempeste!

— Ma allora non parlare di civiltà, per l'amor di Dio! Parla dei diritti del più forte, e saremo d'accordo.

— I più forti sono anche i più degni.... o i meno indegni, se preferisci! Pensa alla somma d'ingegno, di studio, d'amore che rappresenta questa nostra bella «Siracusa», la metallica selva delle macchine, dei motori, delle artiglierie! Questa nostra forza che pare bruta ha un'anima, è l'espressione della nostra forza intellettuale e morale.... Se è giunto il momento di adoperarla, adoperiamola, senza iattanza, ma con la coscienza di compiere un dovere.... Se agli occhi della somma Giustizia siamo in errore, il nostro errore ci sarà rimesso, perchè andiamo a pagarlo con la vita.

Ancora una volta le parole dell'inebbriato significavano un pensiero di morte.

— Speriamo, — osservò Roccaforte, — che non abbiano proprio bisogno della nostra, pelle, laggiù. Il marocchino abbonda sul mercato!...

Al bisticcio, Luigi diede in un argentino scroscio di risa. Come dall'esaltazione sentimentale era passato all'entusiasmo eroico, ora passava ad una ilarità schietta, ingenua, quasi infantile. Tutta l'anima sua si rivelava, si abbandonava, nell'incantamento.

— Ma sai che cosa penso? — riprese Roccaforte. — Che tutti questi bei discorsi dovrebbe udirli tuo padre, per rabbonirsi. Aveva una faccia, quando t'ha interrogato e punito!...

— Povero babbo mio! Mi vuol bene, sai! Quanto bene mi vuole! Si crede però in dovere d'esser più severo con me che non con gli altri; ed ha ragione, e gliene sono grato. Ma come fargli comprendere?...

— Bada che qualche cosa deve pur sospettare!

— Già, e perciò è tanto più burbero. Probabilmente crederà che io corra alla perdizione. Non sa, non può sapere, nessuno saprà mai, io non riuscirò mai a significare....

Tacque a un tratto, vedendo un graduato entrare col berretto in mano ed avanzarsi verso il comandante in seconda.

— Avanti, Maroni! — disse Barbarini volgendosi verso il nuovo venuto, e piegando poi il capo a udire qualche cosa che costui, giuntogli vicino, gli diceva all'orecchio.

— Va bene. Va bene.

Posato il tovagliuolo, si alzò, e fece col capo e con la mano un cenno a Carleoni.

Il giovane sorse in piedi e gli si accostò.

— Comandi!

— Favorisca di venire con me.

Anche gli altri si alzarono, tutti andarono a vedere che cosa avveniva.

IV.

Era difficile mantenersi in equilibrio, sulla coperta: il ponte mancava sotto i piedi, e la raffica urlante fra le soprastrutture faceva impeto contro le persone. I due ufficiali, curvi per resistere alla furia del vento, spruzzati dalla spuma che volava per il ponte, si diressero a prora. Giunti in prossimità della plancia, Barbarini disse al subordinato:

— Vada sul castello. Pare che le rizze abbiano ceduto. Se ne assicuri e provveda.

E salì sul palco del comando.

Luigi Carleoni, corso al castello, vi trovò una dozzina di gabbieri già raccolti dal primo nostromo e intenti a rivestirsi dei cappotti impermeabili. Col crescere del mare le áncore avevano cominciato a soffrire, infatti: il comandante, avvertito dall'ufficiale di guardia, aveva lasciato la sua mensa solitaria, e dalla plancia, mandato a chiamare il secondo, aveva impartito le prime disposizioni.

— Passiamo le rizze in cavo al ceppo ed alle marre! — ordinò il giovane, dopo aver indossato anch'egli un impermeabile. — Qua un paranchetto: incocciatelo a quel golfare....

Gli uomini eseguivano gli ordini quando sopravvenne il secondo.

— Ma in che modo furono fissate queste rizze? — osservò con voce irritata. — Mi pare che oggi lei abbia la testa altrove, Carleoni! Eccoci ora costretti a lavorare con questa razza di tempo!

Il rimproverato non rispose, dando mano a snodare le cime.

Di lassù la gravità della procella riusciva più manifesta. La libecciata investiva furiosamente la «Siracusa»: agli assalti degli enormi marosi la sua prora non tagliava più le acque, si abbassava e rialzava, come impennata; poi, ritirandosi il mare e scavandosi dinanzi alla nave, questa pareva scivolare per la liquida china; ma l'orlo della voragine si rialzava, si rigonfiava, si rovesciava sul castello con un crepitio di cristalli infranti, scorrendo sulla coperta, lanciando gli estremi spruzzi fino sulla plancia. Fermo nel centro del castello, con gli occhi al mare ed agli uomini, Barbarini gridava a Carleoni, al sorgere minaccioso d'ogni nuova cresta spumeggiante:

— Attenzione!... Faccia attenzione per la gente!...

— Agguantatevi! — gridava a sua volta il giovane, e l'operazione restava un momento sospesa, i corpi dei marinai si curvavano, sparivano, incappellati dall'ondata, per rialzarsi poco dopo. Allora il lavoro era ripreso con nuova lena. Snodate come lunghe e nere serpi, le rizze in cavo erano passate e ripassate attorno alle áncore, tesate a ferro ed assicurate alle bitte.

— Da bravi, ragazzi! — esclamava Carleoni, incorando i suoi uomini, lavorando con essi. — Fazio, agguántati bene, e passa questa cima sotto la marra....

Egli stesso si sporse fuori bordo per ricevere il cavo che il gabbiere gli tendeva da sotto l'áncora. Con lo zelo di uno che ha qualche cosa da farsi perdonare, diede anche mano a tesare i paranchi, esponendosi più del bisogno, quasi sfidando il pericolo.

Ma di momento in momento il lavoro riusciva più difficile; la furia del mare era spaventosa, sul gran lividore delle acque correvano, come bagliori fosforici, le spume squassate e dissolte in nembi di pulviscolo; la prora s'affondava più basso, le masse d'acqua franavano da più alto. Ora anche dalla plancia venivano i gridi d'avvertimento lanciati col portavoce dall'ufficiale di guardia:

— Attenti a prora!... Attenti a prora!...

La voce del capo echeggiò a un tratto, concitata:

— Cerchi di sollecitare, Barbarini!... Non mi piace di veder lì quella gente!... Faccia sgombrare presto il castello!...

E Barbarini, accostandosi agli uomini, ripetè:

— Su, Carleoni.... Carleoni, dov'è?...

Nel gruppo degli uomini uniformemente incappottati, coi cappucci abbassati, non si riconosceva nessuno.

— Eccomi, comandante....

— Ha sentito?... Si sbrighi!...

— Ancora un momento, e avremo finito.... Animo, figliuoli.... Lavoriamo di lena!... — Sottovoce, ai più vicini, con aria gioconda, soggiunse: — Anche sulla plancia c'è cattivo tempo, stanotte!... Sbrighiamoci, e vi manderò una bottiglia!...

Ma subito dopo, dal portavoce, un grido:

— Statevi in guardia!... Agguantatevi forte, per Dio!

Un colpo di mare formidabile, un'enorme muraglia d'acqua s'innalzò dal tagliamare, rovinò sul castello con l'impeto e lo scroscio d'una valanga. La prora parve inabissata, la nave tagliata a metà. E nel fragore della tempesta il lugubre grido della vedetta piombò dall'alto dell'albero:

— Un uomo in mare!

Risollevandosi la prora si videro sul castello gruppi di marinai carponi, afferrati alle bitte, alle áncore, ai candelieri della battagliola; si udì la voce del comandante in seconda ordinare:

— Tutti via dal castello!... Alla lancia di salvataggio!...

Il rombo della macchina era cessato, come se la nave fosse stata ferita al cuore; dopo un istante riprese, più cupo, più sordo, coperto dall'ululo della sirena. Le eliche battevano le acque in senso inverso per vincere l'abbrivo, per arrestare la corsa, per tornare nel punto del sinistro. Fasci di luce, dai riflettori improvvisamente accesi, ruppero la notte rischiarando l'orrore. Sul ponte luccicante nere ombre correvano, le vedette predesignate salivano a riva, ufficiali e marinai lanciavano oltre il bordo i salvagente. Da poppa era stato gettato anche quello luminoso, e al contatto dell'acqua un anello di fuoco si era acceso e fumigava sulle onde. Senza ordini, al grido tremendo, la guardia di servizio prendeva i posti assegnati, tutti compivano il loro ufficio, addestrati alla lugubre manovra dall'esercizio quotidiano.

Sulla plancia il comandante aveva detto all'ufficiale di guardia:

— Assumo il comando. Chiami la guardia franca.

E giù, nel ponte di batteria, al grido: «Tutti in coperta!» i dormienti si destavano, saltavano dalle brande, si vestivano alla meglio, correvano alle scale.

— Arma la lancia di salvataggio!

Già gli uomini dell'armamento, rivestite le cinture di sughero, si erano raccolti intorno al secondo, e un'altra schiera di animosi gli si offeriva:

— Vogliamo andare!... A noi, comandante!...

— Tocca a noi!... Tocca a noi!...

Barbarini fece cessare la gara, esclamando:

— Vadano i destinati!

Poi chiamò:

— Roccaforte!... Dov'è il sottotenente di vascello Roccaforte?...

Il giovane, cui toccava il pericoloso ufficio di comandare la lancia, era corso a prora appena udito il grido della vedetta, cercando Luigi Carleoni; non trovandolo, si era arrampicato sul castello, vi si manteneva quasi carponi, avvolto fra le spume, per spiare oltre il bordo, con la febbre dell'ansia sul viso. Energici richiami, grida di ammonimento lo scossero:

— Roccaforte!... Signor tenente!... Via di lì!... Chi è quell'uomo lassù?...

Allora discese, corse alla lancia, vi saltò dentro con la cintura non ancora affibbiata, immediatamente seguito da tutti i suoi uomini agili e muti. La leggera imbarcazione restò col suo carico umano sospesa sull'abisso urlante e vorace. Ormai ferma, la nave danzava una più folle danza; il pericolo che il debole guscio fosse sbattuto ed infranto contro il fianco d'acciaio era evidente. Barbarini restava esitante, con lo sguardo fiso e la fronte corrugata.

— La lancia è pronta, — gridò poi, verso il ponte del comando. — Posso ammainarla?

— Ammaina!

Il secondo fece rapidamente interporre i parabordi e ripetè l'ordine. Le pulegge dei paranchi stridettero, la lancia scese lentamente ed egualmente dai due capi. Ma non era giunta a metà della discesa, che ad una rollata più forte imbarcò un torrente d'acqua e die' di cozzo contro la nave con un urto sordo.

— Agguanta a filare! La gente sotto i banchi, e non si muova!

I paranchi non filarono più.

— La lancia è piena d'acqua! Temo abbia avaria!

— La riporti subito a riva!

Ma la voce di Roccaforte gridò dal pensile schifo, con accento di preghiera:

— Comandante Barbarini!... Facciamo un altro tentativo!...

— No! No!... Non possiamo arrischiare altre vite!...

— Se arriviamo a scendere in mare, rispondo io di tutto!...

Barbarini esitò un istante prima di disdire l'ordine, mentre gli uomini aspettavano con le cime in mano; a un tratto, a un'altra rollata, piegandosi la nave sulla dritta, la lancia vi sbattè violentemente con uno schianto, mentre voci paurose gridavano:

— A riva!... Portateci a riva!...

— Alza! — gridò Barbarini, incitando gli uomini con energici gesti. — La lancia a riva!

Tutte le braccia, dalla murata, fecero forza sulle cime, fino a portare i bozzelli dei paranchi a baciare. Gli uomini erano immollati, con gli abiti aderenti alle membra; la frisata dell'imbarcazione era sfasciata.

— La lancia è a riva, avariata! — partecipò Barbarini al capo.

— L'armamento c'è tutto?

— Tutto.

Roccaforte, prima di saltare a bordo, con voce tremante dalla commozione e dal ribrezzo del freddo, perchè era anche lui grondante, esclamò anche una volta a mani giunte:

— Comandante Barbarini! Ancora una prova!...

— Impossibile! Inutile! A quest'ora il disgraziato è stato travolto!

Allora soltanto, mentre gli uomini dell'armamento scendevano sulla nave, accorati, umiliati, mentre ciascuno riprendeva il suo posto di manovra, corse nel silenzio tragico l'ansiosa domanda mormorata di bocca in bocca:

— Chi è?... Ma chi è?...

Al primo annunzio, nello slancio concorde di tutto l'equipaggio, nel bisogno di volgere tutte le forze all'opera di salvezza, nessuno si era indugiato a chiedere il nome, il grado, l'ufficio del naufrago. Ora tutti volevano sapere, ma nessuno era appagato. Solo Roccaforte, coi pugni chiusi, le mascelle contratte, incontrando lo sguardo febbrile del secondo, disse, senza essere interrogato a parole:

— Sì, comandante: è Carleoni....

Barbarini si prese la fronte tra le mani:

— Come dirlo al padre?

Ma già la voce del capo lo chiamava sulla plancia:

— Comandante Barbarini!

Ed egli accorse, e sulle prime non ebbe bisogno di parlare.

— Vede in quali condizioni ci troviamo? — diceva Carleoni, con voce grave. — Siamo nell'impossibilità di far nulla. E quand'anche, crede lei che il disgraziato si sorregga ancora?

— No, comandante.

— Possiamo arrischiare altre vite, senza speranza? Si sente di ritentare la prova?

— È impossibile.

— Non si può far nulla per quell'infelice. Chi è?

All'improvvisa domanda, Barbarini, avvezzo ai pericoli, rotto alle durezze della disciplina, si sentì stringere la gola.

— Non ho potuto assicurarmene.

Vi fu una pausa; poi il comandante riprese:

— Chi era di servizio alle áncore?

— Suo figlio,

— Egli deve sapere chi abbiamo perduto. Dov'è?

— Non so....

— Lei non era sul castello! Non lo ha visto?

— No.

Il padre tacque ancora un momento; di repente, stringendo con tutte e due le mani la battagliola, tendendo il capo ed il corpo, sporgendosi tutto nel vuoto, gridò:

— Gigio!... Gigio!...

Nessuno rispose. Non una voce, sulla nave inerte, in preda alla tempesta e popolata di ombre; solo lo scroscio del mare ed il clamore del vento. Ancora una volta il padre gridò:

— Gigio!...

Poi, lasciata la battagliola, afferrandosi alle spalle del secondo, figgendogli gli occhi negli occhi:

— Lei sa? — esclamò sordamente.

— Ma no, comandante! Le giuro che non so nulla!... Suo figlio sarà sceso giù.... Vado a cercarlo io stesso....

E sentendosi libero dalla stretta scese rapidamente le scale. Appena voltatosi sul ponte, urtò in qualcuno. Era Versigli, il sottotenente di vascello di guardia in coperta.

— Ha fatto fare l'appello?

— Sissignore. Il nostromo dice che manca il sottotenente Carleoni....

— Silenzio!

Ma un urlo rispose dall'alto. Il padre aveva udito. Barbarini risalì sulla plancia. Vide il padre con le braccia in croce sotto il cielo nero. Lo vide calcarsi il berretto con tutt'e due le mani ed afferrare e dare una stratta alla catena della sirena da cui uscì un ruggito terribile. Lo vide ancora manovrare la manovella del telegrafo, gridando nel portavoce:

— Avanti, a piccolo moto!

Poi lo udì gettar l'ordine al timoniere:

— A dritta!

Comprese la manovra. Tutti la compresero, a bordo. Tutti cercarono di guadagnare un posto eminente, gruppi di gente salirono lungo gli alberi e sulle coffe, si arrampicarono sul ponte delle barche, si agguantarono alle gru. Tutti gli occhi sbarrati interrogavano il mare, sul quale i fasci luminosi proiettati dai fari elettrici trascorrevano rapidamente come ventagli di luce, lasciando dietro di sè una notte più nera, mentre la nave girava lentamente, ansando e barcollando, mugghiando ed ululando come un mostro ferito. Sulla plancia, Barbarini, l'ufficiale di rotta, l'ufficiale di guardia, spiavano anch'essi se nei gorghi verdi, se fra le creste bianche sorgesse un corpo, apparisse un viso. Nulla. Non si scorgeva nulla sulle reti di spuma distendentisi e dissolventisi incessantemente: solo la bocca di fiamma del salvagente luminoso ardeva ancora, sballottata dalle onde. Stanchi, inquieti, gli occhi degli ufficiali si volgevano tratto tratto al comandante. Le sue mani erano così strettamente afferrate alla battagliola come se la volessero torcere. Le braccia, il capo, tutto il corpo immobile, irrigidito, quasi inchiodato ed avvitato al palco, non aveva moto, non si scoteva, nel terribile altalenare della nave. Tutta la vita di quell'uomo era negli occhi, aridi, ardenti, spalancati sulle voragini.

— La barra a dritta!... A dritta!... Tutta a dritta!...

La «Siracusa» girò una volta, due volte, tre volte intorno al punto dove si era arrestata. Poi nessuno contò più i giri. A un tratto gli ufficiali che attorniavano il capo videro che le sue mani lasciavano la battagliola, che le sue braccia ricadevano lungo il corpo, che tutta la persona vacillava.

— Comandante!

Lo sorressero prima che stramazzasse. Lo afferrarono per le ascelle, lo sollevarono, lo trasportarono quasi di peso fra le schiere degli uomini taciti e reverenti. Inerte, con la testa rovesciata, gli occhi stravolti, non aveva coscienza. Sul boccaporto si riebbe, si raddrizzò, disse:

— Grazie.... Non ho bisogno.... Barbarini, prenda lei il comando.

Il secondo lo accompagnò fino al suo alloggio, lo adagiò sopra un divano, lo affidò a Catenuti e agli attendenti.

— Grazie!... Non ho bisogno....

L'ufficiale di guardia, rimasto al suo posto, aveva fatto fermare la macchina. Barbarini, risalito sulla plancia, ordinò:

— Avanti, adagio!... Timone a sinistra!

Quantunque la furia del mare non si calmasse, e la speranza fosse vana del tutto e irragionevole ormai, il secondo volle ancora indugiarsi in quelle acque, fece riprendere il giro in senso inverso. E la nave girò ancora, urlando, coi suoi mille occhi aperti, fisi, scrutanti. Più volte, sentendo che il tempo passava, Barbarini fu sul punto di abbandonare la ricerca, di gettare un ordine al timoniere: ma sempre la pietà del padre lo tratteneva. A un tratto, da poppa, una voce rauca ma forte e distinta, la voce del capo, gridò fra gli urli degli elementi:

— Rimetta in rotta!... A tutta forza!... Era la fine, ma bisognava pur finire, troncare la speranza insensata; e toccava al capo ordinare di affrettarsi, per compiere il dovere, per guadagnare le ore perdute. Prima di trasmettere l'ordine, Barbarini, sporgendosi dalla battagliola, chiamò con tutta la sua voce:

— Equipaggio!

Tutti si volsero, tutti accorsero dagli angoli più lontani, tutti stettero a udire che cosa dicesse il comandante in seconda, dall'alto della plancia, col berretto in mano. La voce alta e solenne risonò fra gli schianti del mare e i sibili del vento:

— Equipaggio, scopritevi! Prima di abbandonare queste acque rivolgete un pensiero al compagno che abbiamo perduto.

Tutte le fronti si scopersero e si chinarono, molti ginocchi si piegarono. Si videro mani fare il segno della croce, si udirono i più semplici e rozzi uomini balbettare preghiere e soffocare singhiozzi.

Roccaforte non vedeva più il mare, con gli occhi ciechi dal pianto. Il mare, la nave, gli uomini scomparvero; sorse dinanzi agli occhi dell'anima sua la figura del fratello d'armi, bello, forte, sapiente, innamorato. Tremava ancora l'eco della sua voce e del suo riso, risonavano ancora le sue parole significanti la fede, l'entusiasmo, la carità di patria, la devozione filiale, la gaiezza infantile, l'estasi della passione. E il pensiero della morte, su tutto; il presentimento della morte, quasi la volontà di morire, dopo l'ebbrezza!... Al ricordo, Roccaforte sentì disseccarsi la fonte delle lacrime. No, non bisognava piangerlo. Era morto da marinaio, al posto del dovere, sotto gli occhi del padre, rapito dalla tempesta, nell'ora culminante della gioventù, ardendo d'amore, sognando la gloria, in pieno incanto, prima del risveglio: rara sorte, morte invidiabile. Lo aveva invidiato, sordamente, poche ore innanzi, per la sua fortuna; ma quali disinganni, quali dolori, quali orrori non gli avrebbe serbato la vita? Di questo bisognava invidiarlo: che fosse scomparso nella gran purezza del mare, portandosi via una visione di bellezza ed un senso di felicità!

Dalle viscere della nave venne ancora una volta il sordo rombo della macchina. Repentinamente Roccaforte si scosse, si portò una mano agli occhi, corse alla scala, scese nel quadrato, entrò nella cabina del compagno perduto, si fermò dinanzi alla cuccetta bianca. Il guanciale era ancora spostato, un poco sollevato dal tesoro che il giovane vi aveva nascosto. «E portarmi con me i suoi fiori e la sua immagine!...» Prima di stendere la mano egli esitò un istante, pensando che solo il padre aveva forse diritto di frugare tra quelle reliquie. Ma tosto gli sovvennero le altre parole: «Mio padre non sa, non può sapere; come fargli comprendere?...» E allora trasse risolutamente la busta.

I fiori, un poco gualciti, olezzavano sopra il ritratto, acutamente. Gli occhi dell'immagine erano vivi, sfolgoravano sotto la fronte pura incoronata di fiamme. Le linee delle due bande in cui si spartiva la chioma meravigliosa guizzavano come fiamme ripiegate sulle tempie da un soffio misterioso, parevano i segni visibili di un intimo fuoco. Tutto il viso era meraviglioso di bellezza, di espressione profonda, di vita intensa ed ardente.

Ad un fischio, Roccaforte si riscosse, nascose i fiori ed il ritratto sotto la tunica e risalì rapidamente. Passando dinanzi all'alloggio del padre sostò, ripreso da uno scrupolo.

— Il comandante? — disse al piantone, che stava nell'anticamera, ritto contro l'uscio della sala del Consiglio, con le braccia incrociate sul petto.

Il marinaio scosse il capo ed alzò una mano, facendo i segni della negazione e del silenzio. Sottovoce, da farsi appena udire, rispose:

— È chiuso a chiave.... Non riceve nessuno.... Ha mandato via il medico....

Roccaforte continuò la sua via, salì sulla coperta, si diresse a poppa, si fermò contro il coronamento. La schiuma delle acque ribollenti fra le pale delle eliche si mescolava alla schiuma dei marosi. Il fragore delle acque rimosse dai propulsori cessava a tratti, quando la poppa si sollevava nel movimento di beccheggio e le eliche annaspavano nel vuoto; pareva allora che il polso della nave non battesse più, che il suo respiro fosse mozzato; poi riprendeva, affannoso, come un rantolo. Roccaforte trasse le reliquie e le lanciò nel mare. In quel punto i riflettori si spensero; la notte si chiuse sulla nave fuggente.

FINE.

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